Haou-Nebout. I popoli del mare

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Haou-Nebout. I popoli del mare

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Widmer Berni

Antonella Chiappelli

Haou-Nebout I POPOLI DEL MARE

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Widmer Berni e Antonella Chiappelli Haou-Nebout I Popoli del Mare progetto grafico: studio GI&I

in copertina: La carta di Piri Reis

TUTTI I DIRITTI RISERVATI

© 2008, Edizioni Pendragon Via Albiroli, 10 – 40126 Bologna www.pendragon.it È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico, non autorizzata.

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Indice

Premessa

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Introduzione

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Capitolo I IL NEOLITICO 1.1. 1.2. 1.3. 1.4. 1.5. 1.6. 1.7. 1.8.

Gli Indoeuropei Dal Mesolitico al Neolitico Il Natufiano Recenti acquisizioni e conclusioni sulla diffusione del primo Neolitico La diffusione del Neolitico Il Neolitico in Italia La civiltà megalitica atlantica Gli incredibili monumenti delle Orcadi Teorie e verità La civiltà della Dea Madre e il suo linguaggio

13 17 33 36 40 44 47 52 54 57

Capitolo II L’ETÀ DEL BRONZO 2.1. 2.2. 2.3. 2.4. 2.5. 2.6. 2.7. 2.8. 2.9. 2.10. 2.11. 2.12. 2.13. 2.14. 2.15.

L’Età del Bronzo (Età dello Stagno) I Pelasgi Analisi sull’origine dei popoli anatolici, diffusione luvia La cultura di Hatti I Mitanni Gli Ittiti L’Egitto Achei-Micenei Achei e Troiani I Nove Archi Significato del termine “Haou-Nebout” Il Grande Verde Testi universalisti Testi religiosi Gli Haou-Nebout dei confini marittimi dell’Asia (i Paesi stranieri nordici) Rekmire 5

63 64 70 74 80 85 87 91 100 104 107 110 112 119 124 127

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2.16. Keftiou e le isole del Cuore del Grande Verde 2.17. Conclusioni

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Capitolo III L’ETÀ DEL FERRO 3.1. 3.2. 3.3. 3.4. 3.5. 3.6.

Sintesi degli avvenimenti della fine dell’Età del Bronzo Probabili cause delle migrazioni dei Popoli del Mare L’alba dell’Età del Ferro (1220 a.C. ca.) Il ritorno degli Eraclidi La distruzione di Pilo Testimonianze omeriche della presenza di elementi dorici in epoca micenea 3.7. Percorsi dei Pelasgi e dei Popoli del Mare in Mediterraneo 3.8. Haou-Nebout, ultimo atto 3.9. I Filistei 3.10. L’ambigua cultura filistea Il Tiranno, il Signore 3.11. Distribuzione dei Popoli del Mare sulle aree costiere mediorientali (il viaggio di Wen Amon) Traci, Frigi, Dacomesi, Sciti

157 159 163 173 175 180 181 185 196 203 206 207 221

Capitolo IV FRA MITO E STORIA 4.1. 4.2. 4.3. 4.4. 4.5.

4.6. 4.7. 4.8. 4.9. 4.10. 4.11. 4.12. 4.13.

Tartesso – la Tarshish biblica Oceano Gli Iperborei Tilak Sardi e Tirseni L’immagine del dio Seth Le rotte dello stagno e dell’ambra Dionigi di Alicarnasso L’impronta pelasgico-iperborea sulla fondazione di Roma Ancora sui Popoli del Mare, Weshesh e Danuna Gli Ioni Hiram, Tiro e la Bibbia e altri dinasti fenici Un’eredità dell’Haou-Nebout: l’arte orientalizzante “Ora maritima” – Le coste del mare – Il Periplo nascosto L’incerta origine degli Ebrei

231 235 243 250 256 256 273 276 293 295 299 301 304 305 311

Capitolo V CONCLUSIONI

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BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO

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Premessa

Enigmatica ed insoluta, la nascita della civiltà dell’uomo ha da sempre esercitato su di noi un fascino profondo ed una prorompente curiosità difficile da appagare. Spinti dal desiderio di conoscenza, la nostra ricerca personale si è sviluppata come un’indagine a partire dai lampi intuitivi di ricercatori appassionati ma dilettanti. Tale è quindi il contenuto di quest’opera. Un superficiale excursus dal 10000 al 1000 a.C., nel tentativo di una più uniforme visione delle problematiche che si presentano dal Neolitico all’Età del Ferro, alla luce di ciò che ci ha spinto ad intraprendere questo studio: il significato del termine “Haou-Nebout” con cui gli Egizi identificavano un misterioso universo di isole densamente popolate proiettate nel cuore dell’Oceano. L’indagine può quindi risultare carente sotto più punti di vista ma, considerata l’enorme massa di elementi che rientrerebbero in un arco temporale di 9000 anni di storia, si è resa indispensabile una semplificazione fatta spesso di soli accenni. Molte problematiche, anche se di tutto rilievo, sono state completamente ignorate per non permettere distrazioni eccessive dalla pista seguita, un iter che ci ha portato a ricostruire su basi storiche che riteniamo solide una nuova visione della preistoria dell’uomo.

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Introduzione

All’inizio del III millennio dell’Era di Cristo, l’uomo è costretto dalla scienza a frenare la propria presunzione e superbia di conoscere i fondamenti della civiltà. La rivoluzione del radiocarbonio associato alla cronodendrologia ha definitivamente fatto crollare il paradigma sul quale per generazioni abbiamo riposto la più completa fiducia: la “teoria diffusionista”, cioè la teoria che vedeva la nostra civiltà come un’espansione di quella del vicino Oriente e di quella egea. Già nel 1979 Colin Renfrew era costretto ad ammettere la precarietà dei fondamenti del nostro sapere. Così scriveva nella sua introduzione a L’Europa della preistoria: Attualmente lo studio della preistoria è in crisi, poiché gli archeologi di tutto il mondo hanno capito che la maggior parte della preistoria scritta nei libri esistenti non è più adeguata, quando non è semplicemente sbagliata. Era naturalmente logico attendersi che vi fosse qualche errore, perché la scoperta di materiali nuovi, dovuta al progredire della ricerca archeologica, conduce inevitabilmente a conclusioni nuove. Ma ciò che ha creato un’impressione considerevolmente maggiore e che era del tutto imprevedibile fino a pochi anni fa, è stata la constatazione che la preistoria che abbiamo studiato è basata su alcuni presupposti che non possono più essere considerati validi. […] Per fare un esempio, molti di noi erano convinti che le piramidi d’Egitto fossero i più antichi monumenti del mondo costruiti in pietra, e che i primi templi fossero stati innalzati dall’uomo nel Vicino Oriente, nella fertile regione mesopotamica. Si riteneva anche che là, nella culla delle più antiche civiltà, fosse stata inventata la metallurgia e che, successivamente, le tecnologie per la lavorazione del rame e del bronzo, dell’architettura monumentale e altre ancora, fossero state acquisite dalle popolazioni più arretrate delle aree circostanti, per diffondersi poi a gran parte dell’Europa e al resto del mondo antico. I primi monumenti preistorici dell’Europa occidentale, le tombe megalitiche con le loro pietre colossali, costituirebbero una prova straordinaria di una tale diffusione di idee. Analogamente, in Inghilterra, siamo stati indotti a ritenere che la ricchezza della nostra Età del Bronzo antico e la sofisticata realizzazione di Stonehenge riflettessero allo stesso modo un’ispirazione proveniente dal più progredito mondo della Grecia micenea. Fu quindi un’enorme sorpresa quando ci si rese conto che tutta questa costruzione era errata. Le tombe a camera megalitiche dell’Europa occidentale sono ora considerate più antiche delle piramidi e

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sono questi, in effetti, i più antichi monumenti in pietra del mondo, sì che una loro origine nella regione mediterranea orientale è ormai improponibile. Gli imponenti templi di Malta precedono le analoghe costruzioni in pietra del Vicino Oriente. […] Sembra, inoltre, che in Inghilterra Stonehenge fosse completato e la ricca Età del Bronzo locale fosse ben attestata, prima che in Grecia avesse inizio la civiltà micenea. In effetti, Stonehenge, struttura straordinaria ed enigmatica, può a buon diritto essere considerato il più antico osservatorio astronomico del mondo. E così, ogni assunto della visione tradizionale della preistoria viene contraddetto1.

Riferendosi agli ultimi sviluppi nel processo di datazione al radiocarbonio e al nuovo scenario che necessariamente appare, Renfrew continua: Se questo nuovo sviluppo è fonte di eccitazione nella preistoria europea, le sue implicazioni vanno persino ben al di là della rivalutazione delle origini delle tombe megalitiche europee, o del mutamento nel quadro delle relazioni tra Europa preistorica e Oriente antico. Poiché, infatti, se i procedimenti e i presupposti usati per ricostruire questo unico, ancorché importante, pezzo di preistoria sono errati, lo sono in generale nella ricostruzione della preistoria di tutti i luoghi e di tutti i tempi2.

Si rende quindi prioritaria una difficile purificazione intellettuale da quelle idee false e bugiarde che hanno popolato le nostre visioni sulla nascita e lo sviluppo della civiltà. È necessario ammettere di non sapere nulla di ciò che riguarda l’origine dei popoli e della loro storia fino a quando i Greci non inizieranno a scriverla; ma anche i Greci sono un popolo dalle sconsolanti origini sconosciute e irrisolte. Come ci conferma l’autorevole studioso anglosassone Lord William Taylour ne I Micenei: “Fatto sta che fino ad oggi non abbiamo alcuna certezza circa il luogo di provenienza dei Greci né sulla via da loro seguita per penetrare nel paese, e neppure sappiamo se siano venuti per mare o per terra”3. La desolazione del quadro diventa completa allorquando tutte le teorie sull’origine degli Indoeuropei (baltica, danubiana, transcaucasica, kurganica, anatolica) non riescono minimamente a soddisfare il contesto sia storico che archeologico. Troppe teorie si sono sovrapposte, ma nessuna di queste possiede il seme della verità poiché vi è stato un errore fondamentale di approccio alle problematiche e una perversa necessità di far rientrare all’interno di un erroneo paradigma elementi che non vi potevano essere contenuti. Ciò ha impedito di notare le macroscopiche contraddizioni che la scienza ha impietosamente affermato. Siamo convinti che i segreti che ancora non conosciamo siano inevitabilmente celati fra le pagine della nostra stessa storia, nascosti fra le righe di chi con errato atteggiamento “livellatore” ha sempre cercato di far rientrare, grazie ad ampie 10

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e colte discussioni, all’interno dello schema oggi crollato elementi assolutamente disarmonici. Alle soglie del cambiamento di un’era è necessaria una nuova consapevolezza. Da dove giunsero i Minoici, i Troiani, i Micenei ed ancora gli Etruschi e tutti i popoli italici preromani, donde arrivarono i Filistei, i Frigi, gli Indoiranici e gli Ario-vedici o gli stessi Egizi? La storia dell’uomo dalla fine della glaciazione al 1000 a.C. appare come un mosaico irrimediabilmente crollato dove la ricostruzione storiografica solo a piccoli tratti riesce a mostrarci il vero volto del nostro passato. Tenteremo quindi, seppur non specialisti del settore, di analizzare i vari contesti cercando di evidenziarne le contraddizioni e riconsiderare criticamente elementi e fatti dimenticati e sepolti da convinzioni erronee e infine formulare nuovi interrogativi. Tanti sono i pregiudizi da eliminare ma uno lo riteniamo fondamentale: riguarda la capacità di navigazione dell’uomo della preistoria; la nostra indagine ci porta a conferire al mare e ai suoi popoli un ruolo da protagonisti nella nascita della civiltà. Al crollo della teoria basata sull’idea di un’unica civiltà la cui culla fosse localizzata in Egitto, in Mesopotamia o nell’Egeo (teoria della diffusione da Oriente, ossia diffusionista) è seguita una forte reazione antidiffusionista che non ha però generato soluzioni. Lo sviluppo della rivoluzione neolitica mostra lati oscuri e non esaurientemente chiariti. Il sorgere come d’improvviso del megalitismo atlantico su spazi costieri immensi, nonché l’enigma dell’origine dei popoli fautori del progresso umano come Egizi, Sumeri, Fenici, Troiani, Greci, Etruschi ecc. non può che farci fortemente sospettare un nodo focale erroneo d’impostazione delle problematiche. Com’è possibile che si sia così smarrita la memoria sulla patria d’origine degli Indoeuropei, pur possedendone l’ancestrale letteratura? Vanno inoltre considerate nuove acquisizioni che sembrano presentare prove scientificamente valide ed accettabili; è il caso per es. della relazione presentata dal Prof. Robert Schoch sull’erosione causata dall’acqua che presenta la sfinge di Giza, riportando il monumento ad un passato ben più remoto di quello che l’archeologia, in mancanza di prove scientificamente probanti ma giovandosi solo di criteri di tipo indiretto e suppositivo, ha da sempre attribuito a Khefren, faraone della IV dinastia. Molti sono gli scrittori che come C. Hapgood, G. Hancock ed altri hanno contribuito ad evidenziare situazioni inspiegate4, apparentemente paradossali secondo il paradigma in cui ci era sempre stato detto di credere5: un esempio plateale è rappresentato dalla carta di Piri Reis, da cui emerge un lungo elenco di elementi che ci configurano una storia che ancora non conosciamo e che pervadono trasversalmente l’intera civiltà e i suoi popoli anche quando è l’Oceano a dividerli, come un unico cordone ombelicale che collega e nutre ogni cultura. Nella necessità di riflettere e di approfondire momenti cruciali del percorso dell’uomo abbiamo riscontrato che una serie di fondamentali docu11

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menti egizi soffrono di una paradossale ed errata interpretazione. La nostra conoscenza risulta così privata di una preziosa fondamentale eredità. L’Egitto ci fa dono della memoria di un luogo che può svelare l’origine dei popoli. Proiettato all’estremo orizzonte marino nord-occidentale, in alcuni documenti rappresenterebbe il centro assoluto della concezione geografica egizia. Il termine con cui lo definiscono e che risuona ovunque in Egitto sin dai primordi della sua storia è “Haou-Nebout”. È il luogo di origine dei Popoli del Mare.

NOTE ALL’INTRODUZIONE 1 2 3 4

5

C. Renfrew, L’Europa della preistoria, Laterza, 1996, Bari, Introduzione, pp. 3-4. Ibidem, p. 5. W. Taylour, I Micenei, Giunti, 1987, Firenze, p. 28. The Ancient Sea Kings di C. Hapgood, che contiene l’enigma della carta di Piri Reis. Oggi non è più possibile sostenere la tesi che Egizi ed altri antichi popoli non fossero a conoscenza dei fenomeni precessionali.

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CAPITOLO I

Il Neolitico

1.1. Gli Indoeuropei Ci fu un tempo in cui gli antenati della maggior parte dei popoli d’Europa e di alcuni dell’Asia furono un unico popolo che abitava un’unica Patria. Questa è la realtà assoluta che la linguistica ci ha rivelato attraverso i suoi metodi specifici e scientifici. Si trattò di un tale successo che nel XIX sec. sollevò enormi entusiasmi: la linguistica sembrava indicare agli storici la via da seguire. Da dove venivano questi popoli? Anzi, da dove veniamo? Quali sono le nostre vere radici? Qual è la nostra patria ancestrale? Sono queste le inevitabili domande a cui non è stata data ancora risposta soddisfacente. Nonostante la complementarietà, l’archeologia e la linguistica sembrano spesso parlare linguaggi diversi. Nonostante la loro realtà storica indiscutibile, gli Indoeuropei sembrano essere più una leggenda, un mito, per l’archeologia. Le volatili teorie sulla loro origine sembrerebbero proporre le stesse caratteristiche migratorie del popolo indoeuropeo: dalle teorie baltiche dell’Ottocento si è passati all’area danubiana, quindi alle steppe del Sud della Russia (M. Gimbutas) per poi migrare nuovamente verso l’Anatolia. Così come la collocazione geografica, anche l’Era in cui avvenne la prima indoeuropeizzazione ha subito una costante revisione in direzione di una sempre più precoce datazione, sino alle ultime teorie del Prof. Renfrew che identifica la nascita della civiltà indoeuropea con lo sviluppo della civiltà neolitica anatolica nel 7500 a.C. Le idee di Renfrew contrastano con il modello proposto da M. Gimbutas che, nonostante le opposizioni per la mancanza di riscontri archeologici, ha esercitato in questi ultimi decenni un ruolo decisamente da protagonista. La studiosa teorizzava “un’antica Europa” prima del 4500 a.C. non indoeuropea, legata al culto della Dea Madre, con gli aspetti di una civiltà agricola sedentaria e pacifica. Invasori provenienti dall’area ucraina (area dei Kurgan) in tre ondate successive tra il 4500 e il 2500 a.C. avrebbero determinato la fine di quest’epoca aurea, con l’introduzione di una realtà patriarcale, nomado-pastorale e bellicosa. La totale mancanza di riscontri archeologici probanti su questo territorio e la presenza in Anatolia di elementi come la svastica o altre simbologie indoeuropee in epoche molto più antiche sarebbero sufficienti, a nostro giudizio, a togliere in un sol colpo di mezzo teorie che tanto hanno contribuito ad allontanarci dalla verità. Tali teorie risultano inconsistenti sul piano archeologico, contraddittorie su quello teorico. Appare d’altronde desolante anche il commento di 13

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Renfrew che così inizia il capitolo dedicato al problema dell’area d’origine degli Indoeuropei nel suo libro Archeologia e linguaggio: È giunto ora il momento di chiedersi, in maniera più approfondita, se i vari tentativi fin qui intrapresi di localizzare una “patria” originaria dei Protoindoeuropei abbiano avuto una base molto solida. Ho già fatto capire che, secondo il mio punto di vista, ciò non è avvenuto. Anche se vi sono molte buone idee e molte osservazioni rilevanti in quanto è stato scritto in proposito, ritengo che non sia ancora stata avanzata alcuna teoria coerente e plausibile1.

Anche le teorie di Renfrew, che propongono di individuare nella civiltà anatolica neolitica dell’VIII millennio di Çatal Höyük l’origine della civiltà indoeuropea, così come vengono formulate trovano però giustamente forti opposizioni, come vedremo anche in seguito, pur rappresentando un notevole passo avanti nella comprensione di una problematica tanto fondamentale. Ricordiamo a questo punto che i popoli indoeuropei si trovano fin dagli albori della storia ad occupare quasi tutta l’Europa, l’Asia minore, il Medio Oriente, buona parte dell’India e qualche altra enclave asiatica. Poiché decisamente è impossibile che siano autoctoni, il problema non può che ruotare intorno all’individuazione del luogo d’origine, ai momenti in cui avvenne la loro espansione (migrazione) e infine come quest’ultima ebbe luogo. I linguisti (indoeuropeisti) sono in grado di stabilire quali lingue sono indoeuropee e quali no mediante un metodo definito comparativo. La parentela genetica fra le lingue indoeuropee consiste nel fatto che tutte sono trasformazioni nel tempo di una lingua più antica: l’esempio del rapporto tra il latino e le lingue romanze chiarisce bene questo legame. È evidente il concetto che la propagazione di cellule indoeuropee da un nucleo primitivo si espanderebbe necessariamente come un’onda lenta che richiederebbe una connessione diretta e graduale, da gruppo a gruppo, con zone di transizione tra l’uno e l’altro idioma indoeuropeo. La maggior prossimità linguistica si determinerebbe fra le lingue geograficamente più vicine, e la maggior lontananza tra quelle fisicamente più lontane. La mappa delle lingue indoeuropee è ben lontana dal soddisfare questo scontato teorema. La realtà è che le lingue più vicine sono spesso geograficamente agli antipodi. Le lingue anatoliche che dovrebbero essere contigue a quelle iraniche appaiono come separate da un baratro linguistico. Non esiste area di transizione. Il grado di prossimità tra il greco classico e il sanscrito nell’insieme delle lingue indoeuropee è tra i più stretti. Il greco inoltre ha strette relazioni con l’indo-iranico mentre mostra scarsa affinità con gli idiomi d’Europa, fatto che conficca una dolente spina nella teoria delle loro origini illirico-balcaniche. Ne risulta un processo di indoeuropeizzazione intricato e stratificato, frutto 14

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del susseguirsi di avvenimenti in varie epoche, cioè di diverse migrazioni, dal momento che la diffusione stessa di queste lingue in tutta l’Eurasia a partire da un’area primitiva richiede inevitabili e consistenti movimenti di popolazione. Gli Indoeuropei non costituiscono una razza ma una civiltà, un insieme di culture. Molti popoli compongono questo insieme, con caratteri etnici diversissimi, che svelano un incontro e una fusione che risale alla più remota e tenebrosa notte dei tempi. È difficile definire quando avvenne la prima immigrazione poiché questo primo substrato linguistico ci è del tutto sconosciuto; quelle che noi conosciamo, le lingue indoeuropee storiche, derivano principalmente dalla parlata degli invasori più recenti, per cui si definiscono comunque indoeuropee sia la lingua attestata nel 3000 a.C., sia quella del 2000 a.C. e del 1000 a.C.: si tratta quindi di vari stadi successivi. La linguistica è in condizione di affermare che in Europa visse una serie di popoli indoeuropei che non sono quelli che emergono in epoca storica come gli occupanti di queste regioni, e tra le lingue storiche normalmente ritenute tali non ce n’è nessuna che derivi direttamente dai primi episodi di penetrazione. Residui linguistici anteriori alle invasioni storiche sono conservati nella toponomastica e nell’idronimia (nomi dei fiumi), ma la maggior parte degli esperti è convinta dell’indoeuropeità di tali fossili linguistici. È inoltre possibile che alcune delle lingue normalmente ritenute preindoeuropee siano in realtà indoeuropee. Le lingue parlate da Etruschi, Pelasgi, Cari, Lelegi, Tartessi, di solito considerate aree sopravvissute, quindi preindoeuropee, potrebbero in realtà derivare da quel prototipo più arcaico, talmente antico da fuoriuscire dagli schemi morfologici utilizzati nello studio classificativo delle lingue della famiglia indoeuropea. Un tale approccio risulterebbe quindi inapplicabile a queste lingue. Non c’è dubbio che la carenza di testi, come anche nel caso della lingua etrusca (problema della ripetitività delle iscrizioni), non aiuta certo gli esperti; è in questo momento all’esame degli studiosi uno dei testi etruschi più lunghi conosciuti, da cui non possiamo che augurarci di acquisire nuovi lumi. Sono esistiti veramente un’Europa o un mondo preindoeuropeo in antitesi a quello patriarcale guerriero che seguirà? Una volta adottato un paradigma con un certo approccio alle problematiche, non è certo indolore mutarlo, soprattutto se annoso. Le lingue antiche ben conservate su cui si sono fondati gli studi classici che hanno portato ad evidenziare la comune origine indoeuropea sono il sanscrito, il greco, il latino, il baltico, lo slavo e le lingue germaniche antiche come il gotico, il runico, ecc. Le lingue indoeuropee più antiche giunte sino a noi sono però quelle anatoliche, cioè l’ittita e le precedenti lingue luvie, i più antichi esempi di scrittura indoeuropea pervenutaci. È questo il limite oltre il quale si procede per ipotesi non comprovate da riscontri archeologici. Inizia quindi una ricerca non più linguistica, come 15

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quella di Renfrew che riporta al VII millennio a.C. la matrice indoeuropea. In questa fase di superamento dell’aspetto puramente linguistico si oltrepassa il limite del concetto stesso di “indoeuropeo”. Sono solide e valide le argomentazioni di Renfrew sulla possibile paternità indoeuropea delle culture anatoliche del VII millennio, ma l’Anatolia non riesce assolutamente a soddisfare le necessità di “nucleo primitivo di irradiazione”. In effetti l’archeologo James Mellaart, scopritore di queste culture, testimonia con prove archeologiche certe che questo popolo dalla complessa ed evoluta cultura neolitica giunse in Anatolia non si sa da dove verso il 7800 a.C. Penetrando nella problematica delle più antiche culture neolitiche, all’indoeuropeità si sovrappone e si collega quindi il mistero della nascita del Neolitico. Come verificheremo il Neolitico presenta una nascita e una diffusione enigmatica che l’archeologia non è in grado di chiarire in modo soddisfacente. Il Neolitico e il Calcolitico non hanno lasciato sufficienti tracce linguistiche che possano essere individuate. È necessario attendere il 3000 a.C. o poco prima perché si delinei linguisticamente un panorama di certezze. Compare infatti per la prima volta accanto al sumero e all’egizio il semita, individuato nella lingua accadica, mentre l’indoeuropeo con la lingua luvia farebbe la sua prima comparsa con le popolazioni dell’area egeo-anatolica, anche se dovremo attendere il II millennio per una conferma testimoniata. L’esplosione di queste culture traccia un solco indelebile nella storia umana ma la loro provenienza è del tutto ignota. Nei confronti delle popolazioni calcolitiche che vivevano nelle aree poi colonizzate, questi nuovi popoli rappresentano un salto evolutivo enorme. Siamo quindi al cospetto di fenomeni migratori di cui però non siamo in grado di cogliere il punto o i punti di partenza. Nel corso del tempo la stessa problematica puntualmente si ripresenta. Numerosi popoli verso il 1700 a.C. esordiscono da dominatori sulla scena storica: Mitanni, Micenei, Ittiti, Hyksos, ecc., armati di nuove conoscenze e soprattutto caratterizzati da idiomi sicuramente indoeuropei. L’indo-iranico parlato dai Mitanni risulta però nel contesto delle lingue indoeuropee estremamente evoluto e sofisticato e, nei confronti delle lingue anatoliche luvie, molto distante ed ovviamente più recente. In altri termini, non è possibile farlo derivare da quel substrato luvio come dovremmo aspettarci se considerassimo l’Anatolia la patria originaria degli Indoeuropei. Il serbatoio dei popoli ariani non si esaurisce ancora: verso il 1200 a.C. una nuova ondata di genti indoeuropee per lo più sconosciute in precedenza minaccerà e si impossesserà del Mediterraneo e oltre. Un capitolo di storia spesso intitolato “le migrazioni dei popoli”. Gli invasori sono denominati dagli Egizi “Haou-Nebout”, i “Popoli del Mare”: una decina di nomi tra cui spiccano Filistei, Etruschi, Sardi, Siculi e genti greche. A quest’ondata che investì l’Egitto corrisponde cronologicamente la comparsa 16

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di altri eminenti Indoeuropei, come i Dori e i Frigi. La portata di questi fatti è tale che la storiografia la contrassegna con la fine dell’Età del Bronzo e l’inizio del Ferro. Questa patria indoeuropea millenaria che a tratti partorisce popoli in grado di affermarsi per la loro sofisticata ed evoluta cultura appare storicamente identificabile come “una rupe errante nel mare”.

1.2. Dal Mesolitico al Neolitico Dodicimila anni fa circa, vennero completamente sovvertite le condizioni climatiche caratteristiche dell’ultima glaciazione. Si trattò di uno sconvolgimento totale del pianeta che portò alla scomparsa di numerose razze animali. La gigantesca massa d’acqua che era stata intrappolata nell’ultima glaciazione iniziò ad invadere i territori e sommergerli progressivamente. In quel tempo la Manica non si era ancora formata – era infatti completamente scoperta la piattaforma continentale su cui riposano le isole britanniche – il Golfo Persico era un mare chiuso, l’Australia era collegata alla Nuova Guinea, il Sahara era verde e popolato, anche l’immagine dell’Italia stessa era molto diversa, ma non intendiamo addentrarci in questi particolari. È opportuno sottolineare quel processo terminato solo verso il 5000 a.C. di inesorabile, progressiva sommersione di milioni di kmq di territori costieri, un fattore determinante nelle scelte dei popoli nonché un elemento sfavorevole che altera profondamente l’analisi e la cronologia degli insediamenti. L’uomo paleolitico che per migliaia di anni aveva vissuto da raccoglitore e cacciatore di grossa selvaggina (orsi, bisonti, mammut), abituato alle migrazioni dietro i branchi selvaggi, superò il rischio dell’estinzione ma dovette improvvisamente cambiare le proprie abitudini; l’adattamento risultò per lo meno drammatico. È scandito in questo momento il difficile passaggio dal Paleolitico al Mesolitico. Dalle maestose rappresentazioni magico-celebrative delle grotte di Altamira, il grande cacciatore sprofonda in una buia era di carestia, dove spesso deve accontentarsi di cibarsi di ciò che raccoglie e di piccole prede come lepri, anatre, compresi topi e insetti che certo non facevano parte delle abitudini alimentari dei cacciatori paleolitici. Molti trovarono la sopravvivenza sul mare e i pasti mediterranei si svolgevano in caverne dove la monotonia alimentare si evidenziava in enormi cataste di conchiglie vuote. Una profonda trasformazione della struttura sociale si rese indispensabile. Per la scomparsa delle grandi prede in grado di nutrire un numero rilevante di individui, si verificò infatti la scissione dei clan in nuclei famigliari che non superavano le trenta persone. Quando non vi era l’opportunità di utilizzare caverne adeguate, i Mesolitici si costruivano dei ripari lungo fiumi, laghi o paludi sfruttando le naturali buche del terreno di cui rinforzavano le pareti con pietre a secco, e con pali sommari creavano una struttura circolare ricoperta di rami. 17

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L’arma più evoluta era l’arco e le punte utilizzate, definite microliti trapezoidali e triangolari, sono dei veri e propri marker di questa cultura. In alcune aree, la presenza di prede di taglia rilevante faceva proseguire con i dovuti adattamenti tradizioni paleolitiche (Epipaleolitico) ma risulta costante la crisi materiale e spirituale. È su questo scenario di generale decadenza e impoverimento (anche l’arte espressa nei graffiti di questo periodo si fa incerta e rozza) che interviene quella che è stata definita la più incredibile rivoluzione della storia dell’uomo: la rivoluzione neolitica. Il termine “rivoluzione” risulta decisamente appropriato anche perché sostanzialmente non possediamo testimonianze di una lunga fase pre-neolitica come sarebbe logico aspettarsi ma, come appureremo, il Neolitico si dimostra già completamente acquisito ed in netta frattura col substrato mesolitico che viene chiamato dagli specialisti “Natufiano”. Più o meno improvvisamente, senza che l’archeologia abbia mai rivelato siti dove si potessero evidenziare fasi evolutive di transizione, nascono villaggi con capanne intonacate d’argilla, ma quello che è incredibile è che all’interno dei recinti dei villaggi vi sono prima pecore, capre poi maiali e bovini e non manca il cane da guardia già presente anche negli insediamenti mesolitici. L’agricoltura è già matura: si coltivano fra i cereali l’orzo e il frumento, con tre varietà di grano e una di orzo. Fagioli, lenticchie, piselli e altre leguminose restituiscono l’azoto ai terreni là dove le colture cerealicole li avevano depauperati. Certamente il passaggio ad un’economia di produzione rappresenta un passo fatale dell’uomo nei confronti dell’ambiente: da quel momento egli cessa di essere inserito armonicamente nelle catene biologiche naturali ed inizia un processo di alterazione e di frattura dell’ecosistema, processo del quale viviamo tuttora le conseguenze. Fino all’esplosione neolitica l’uomo aveva vissuto una dimensione animistica immerso in una realtà vibrazionale dove tutto era vivo e possedeva uno spirito. La vita quotidiana dipendeva da percezioni sottili e le azioni si svolgevano come in un rituale, nel tentativo perpetuo di placare e scongiurare le forze della natura. Inserito quindi armoniosamente nell’ambiente, evitava accuratamente di scompaginare l’ordine della natura, si scusava con gli spiriti delle prede di caccia, non abbatteva alberi per guadagnare terreno ed era completamente estraneo all’idea della proprietà terriera e di un’economia produttiva. Ben diversa è la quotidianità all’interno dei villaggi neolitici in cui fervono le attività: le donne iniziano a tessere su rudimentali telai, gli uomini, con asce di “pietra levigata” tipiche di questa età, abbattono gli alberi e creano terreno fertile, utilizzano utensili decisamente variegati, come falci di selce con manico d’osso, zagaglie con affilate punte d’osso, zappe per la semina: anche se diversi strumenti litici erano già utilizzati in precedenza la finalizzazione cambia radicalmente. Si sviluppa e si perfeziona la consuetudine di impastare e modellare l’argilla; il pane inizia a gonfiarsi 18

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nei forni e negli otri ribolle il succo dell’uva, che dal Neolitico diverrà elemento essenziale di ogni cerimonia magico-religiosa. Questo improvviso apparente dominio sulla natura ci appare ancor più incredibile in Europa dal momento che qui mancavano i prototipi dei cereali coltivati nel Neolitico; anche le pecore e le capre, nettamente predominanti nei primi greggi allevati, non avevano predecessori selvatici in Europa e vi furono introdotte in forma già addomesticata2. Dove improvvisamente si sarebbe concretizzato questo miracolo? Il fenomeno neolitico appare realizzarsi prima in un’area del Medioriente che abbraccia sia le coste libano-palestinesi che l’Alta Mesopotamia, per manifestarsi in seguito in Anatolia e solo verso il VI millennio appariranno i primi insediamenti europei in Grecia e Bulgaria. Se la datazione al radiocarbonio ci porta al VI millennio a.C. per i primi insediamenti dei Balcani del Sud e della Grecia, le prime testimonianze dell’area siro-palestinese ci fanno sprofondare oltre il 9000 a.C. dove incontriamo il mitico sito di Gerico. È fondamentale sottolineare come il processo neolitico si dimostri sempre importato dall’esterno e mai in relazione di diffusione da siti contigui più arcaici. Ad esempio, la cultura neolitica anatolica non proviene da quella palestinese-siriana, né quella greca proviene da quella anatolica. Dal momento che i prototipi animali e cereali tipici del Neolitico si trovavano allo stato selvatico in un’area che comprendeva la cosiddetta “Mezzaluna fertile” fino alla Palestina e, poiché in grotte di queste zone, come nel caso di Shanidar, alcuni studiosi credevano di rilevare tracce di un iniziale tentativo di domesticazione espresso dai ritrovamenti stratificati di resti ossei di pecore o capre, con prevalenza di giovani maschi di un anno (fatto che esprimerebbe un tentativo di selezione), gli storici hanno per molto tempo dogmatizzato (Ex Oriente Lux) che fosse questo il centro di irradiazione del processo neolitico. Si sarebbe trattato di un’improvvisa e rapida evoluzione dei Mesolitici indotta da una diminuzione delle risorse a seguito degli spaventosi fenomeni ecologici della fine dell’Era glaciale. Il Neolitico si sarebbe poi diffuso in Anatolia e successivamente nell’area greco-balcanica. La speranza di assegnare maggiori testimonianze archeologiche a quest’ipotesi è però sempre stata disillusa dai riscontri dell’archeologia. Una raggelante, laconica affermazione, che preferiamo riportare direttamente da uno dei tanti testi disponibili, si abbatte su questa interpretazione svuotandola di contenuto. Da La preistoria del mondo, una nuova prospettiva di Graham Clark: Nel Levante non è stata trovata alcuna valida testimonianza dell’allevamento di quel bestiame che fu in seguito alla base dell’economia agricola, cioè i bovini, i suini, gli ovini, fino alla comparsa della ceramica a metà del V millennio a.C., dopo quella che sembra una netta frattura nella documentazione archeologica. D’altra parte i resti di cibo vegetale ci consentono di trarre qualche conclusione sui mutamenti

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morfologici che si verificarono nel corso della domesticazione. Nei due livelli di Gerico si rinvennero tracce di frumento (Triticum dicoccum) certamente domesticato e di orzo distico (Hordeum distichum), e nel livello B inoltre tracce di frumento monococco (T. monococcum) e di legumi (piselli, lenticchie e fave) pure domesticati. Anche i materiali provenienti da Beidha dimostrano l’esistenza di leguminose e di frumento di cocco domesticato; ma in questo caso l’orzo, che è il cereale più comune, non presenta ancora chiare differenze morfologiche rispetto alla forma selvatica. Il rinvenimento di erbe selvatiche e di un grande canestro di pistacchi (Pistacia atlantica), che rappresentavano un’importante fonte di olio nella alimentazione, contribuisce a completare il quadro3.

Tav. 1: La Mezzaluna fertile. Area dove spontaneamente crescevano i prototipi di cereali selvatici utilizzati dall’agricoltura neolitica.

Come può essere possibile? L’archeologia non è mai stata in grado di documentarci siti umani in cui si evidenziasse una fase intermedia di transizione verso il Neolitico. Certamente nessuno ritiene che possano essere sufficienti i ritrovamenti tipo Shanidar, dove è possibile solo evidenziare che i Mesolitici si cibavano prevalentemente di giovani esemplari la cui cattura risultava più semplice degli animali adulti per poter affermare l’innesco dell’evoluzione. La questione appare ancora più inquietante ben conoscendo il fatto che negli animali intervengono modificazioni ossee. È una diversa morfologia che consente di riconoscere l’avvenuta domesticazione. Tali 20

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modificazioni ossee, naturalmente, possono intervenire solo dopo lunghi, lunghissimi periodi di transizione verso l’addomesticamento, una sorta di periodo di gestazione secolare. Ma queste fasi sono assolutamente di problematica individuazione archeologica. La stessa cosa avviene per i vegetali, i cereali e i legumi, dove oltre che di modificazione morfologica si parla di mutazione genetica. Non ci si trova di fronte ad una sorta di era di transizione come sarebbe giusto aspettarsi, ma i traguardi delle coltivazioni e dell’allevamento sembrano già raggiunti sin dal primo apparire dell’uomo neolitico. In nessun luogo risultano concreti elementi che svelino fasi proto-neolitiche. Riportiamo a questo proposito l’affermazione del noto studioso Leonard Woolley nel suo Medio Oriente: L’introduzione dell’agricoltura segnò una delle più grandi rivoluzioni nella storia dell’uomo. Inevitabilmente essa ha lasciato pochi monumenti, e noi non sappiamo, e forse non sapremo mai, dove e quando per la prima volta gli uomini fecero crescere il grano e si nutrirono di pane4.

Il salto evolutivo più grandioso che l’umanità ha dimostrato ci lascia nel buio più totale rispetto a come, dove e quando si sia attuato questo miracolo mentre gli storici da sempre minimizzano e risolvono in poche righe ciò che risulta un nodo cruciale del processo evolutivo. Tra i siti antichi che l’archeologia ci ha restituito, Gerico riveste un’enorme importanza. Una sorta di avamposto temporale del processo neolitico, e che razza di avamposto! L’imponenza e la potenza delle sue fortificazioni sono al di fuori del tempo: ci troviamo nel IX millennio a.C. ca., dovranno passare secoli e secoli prima di ritrovare una tale scienza delle costruzioni. Gerico è sempre stata considerata come un “processo di cultura sterile”, sorta solamente per una serie di particolari influenze dovute alla peculiarità del luogo. Questo miracoloso insediamento fortificato che poteva contenere oltre 2000 persone, non avrebbe determinato però, come succede sempre in caso di “vera cultura” o “vera civiltà”, un propagarsi inevitabile di questa. L’elemento innescante questo enorme salto evolutivo consisterebbe semplicemente nel fatto che Gerico, nella fossa del Giordano, avrebbe rappresentato l’unico lembo di terra fertile particolarmente esposto ad attacchi di predoni, per difendersi dai quali fu costruita una muraglia di pietra che ancora oggi risulta di oltre 1,5 km di circonferenza e 3,60 m di altezza, con una torre (ad ovest) alta 9 m munita di una scala interna di 22 gradini e un fossato esterno largo 8 m, tagliato nella roccia per un’altezza di 2,70 m (la città occupava, nel suo complesso, una superficie di 4 ettari). Le misure di una simile opera non possono che significare un formidabile impiego di mano d’opera. Almeno 2000 persone potevano essere ospitate all’interno, mentre all’e21

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sterno fiorivano l’allevamento e l’agricoltura fornita di un sistema di irrigazione. Un abisso separa quindi questa realtà da quella delle caverne e dei campi base che è possibile osservare con prove stratigrafiche un po’ dovunque e che appartengono a quella cultura del Mesolitico natufiano dove sono invece appena percepibili iniziali progressi verso il processo neolitico. Abbiamo di fronte il “Super Neolitico” di Gerico, la cui spiritualità si esprime con la particolare forma religiosa di celebrare gli antenati modellando della creta su teschi umani, con il risultato di un’incredibile verosimiglianza.

Tav. 2: Sezione delle fortificazioni di Gerico, le cui dimensioni difficilmente non possono farci pensare alla nascita dell’edilizia.

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Noi riteniamo che le testimonianze e le prove sicure in mano all’archeologia e alla storia siano sufficienti per una ricostruzione logica e coerente dei fatti, senza dovere incorrere in teorie improbabili come quella del “progresso sterile” e dell’“adattamento alle circostanze” applicata a Gerico. L’insostenibilità di tale teoria fondata su circostanze tutt’altro che eccezionali, bensì banalmente ricorrenti, aprirebbe una voragine ottenebrante nel nostro sapere; alla domanda “chi costruì l’enorme fortezza”, seguirebbe un vuoto inquietante. Nella considerazione dei fatti archeologici, troppo spesso siamo costretti a ricorrere a termini come “miracolo” o ad applicare teorie su misura che non possiamo applicare altrove. Non crediamo ai miracoli (almeno in questo caso) e ancor più sappiamo che quando l’uomo non sa risolvere un problema enuncia teoremi che anche se erronei possono, soprattutto se intelligentemente formulati, rappresentare un ostacolo alla comprensione della verità. Altre volte, la stessa questione viene livellata o minimizzata, per non dire sepolta. Riportiamo a questo proposito le affermazioni di Mario Liverani dal suo L’Antico Oriente: Opere di difesa (Gerico è solo un caso fra altri5) sono certamente il frutto del lavoro coordinato di tutte le forze lavorative della comunità locale, ma ciò non basta né per postulare un potere politico centrale in grado di mobilitare queste forze né per affermare un carattere urbano. I paralleli etnografici mostrano come opere di simile impegno possano essere eseguite anche da comunità a struttura paritetica e con modesta emergenza di un coordinamento “politico”6.

La nostra interpretazione vuole basarsi sulla realtà e le prove concrete, e la realtà afferma che a Gerico dopo il 9000 a.C. ca. il Neolitico era più che presente con tutte le sue caratteristiche, ma risulta inevitabile polemizzare con il giudizio riportato dalla citazione, poiché è fin troppo evidente l’esigenza di una solida autorità e di una gerarchia bene organizzata per portare a termine tali costruzioni. Siamo profondamente convinti che di eccezionale in questa situazione ci sia solo il popolo di Gerico, un popolo profondamente nuovo, distante anni luce dai natufiani che riscontriamo nei livelli precedenti all’innesco del fenomeno neolitico. Scriveva Fernand Braudel: Non è tutto chiaro nella storia di questo sito eccezionale, che recentemente ha rivoluzionato tante vecchie idee. Nessuno in effetti poteva immaginare che all’alba della Preistoria esistesse una città di più di duemila abitanti. […] Si circonda di prodigiosi fossati e fortificazioni (tra cui una grande torre), possiede cisterne, silos per cereali, ossia i segni di un’evidente coesione urbana7.

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Da dove arrivassero le nuove genti neolitiche è un quesito che diventerà sempre più ricorrente. Sino ad ora nessuna indicazione degna di nota ci appare per cui è della massima importanza non escludere alcuna possibilità, compresa quella che potrebbe sembrare la meno credibile, e cioè la via del mare. Seguirà nei secoli successivi una multicentrica comparsa di genti neolitiche dalle diverse culture che dimostrano un unico credo religioso, palesemente partecipi di una civiltà dall’identità “unica” posta sotto il culto della Dea Madre. Ancor più incredibilmente monomorfico è lo stile delle immagini plastiche che la rappresentano, tutto questo anche quando il paragone è effettuato a migliaia di chilometri di distanza e in assenza di una diffusione per continuità del fenomeno neolitico; la struttura sociale familiare dimostra un’impronta matriarcale che durerà millenni e le cui ultime eco risuoneranno fra gli Etruschi, i Troiani e i Frigi. Alla luce delle prove archeologiche, la seconda area coinvolta è l’Anatolia con evidenze di ampia penetrazione di nuove genti dopo un primo insediamento di tipo pedemontano subcostiero dell’area cilicia. La civiltà anatolica neolitica, di cui abbiamo tante testimonianze archeologiche, non presenta evidenze di diffusione dall’area siro-palestinese (Gerico è stato considerato un fenomeno sterile!) e rappresenta quindi un ulteriore quesito. Si tratta pertanto di popoli diversi ma che presentano entrambi una piena conoscenza delle tecniche di produzione. Mentre ci appare insostenibile l’ipotesi che questa sia la patria originale degli Indoeuropei, siamo ovviamente d’accordo con il Prof. Renfrew che per primo ha proposto la natura indoeuropea delle culture neolitiche dell’VIII e VII millennio in Anatolia, ovviamente comprendendo Çatal Höyük, la più antica città di cui ci sia rimasta testimonianza. Fu Mellaart che, nel tentativo di scoprire l’origine di quei misteriosi Popoli del Mare che nel XII sec. a.C. avevano invaso il Mediterraneo, trovò invece centinaia di siti risalenti al Neolitico, dal 7500 al 6300 a.C., e al Calcolitico8, dal 6300 al 4000 a.C. Çatal Höyük e Hacılar nella grande pianura di Konya sono indubbiamente i siti più rappresentativi per il loro ragguardevole stato di conservazione. Proprio da Mellaart apprendiamo che i portatori di questa cultura non erano certo indigeni. Riportiamo le sue parole in cui si dimostra il giungere di una nuova razza sul substrato natufiano: Tale diversità razziale deve aver fortemente contribuito alla straordinaria vitalità della gente di Çatal Höyük, la cui statura media era alta: 170 cm per gli uomini, 156 cm per le donne, maggiore della statura media dei Natufiani. Anche la durata probabile della vita era maggiore: 34,3 anni per i maschi, 29,8 per le femmine. Il tasso di fertilità era elevato: la media era di 4,2 figli per donna; con un tasso di mortalità infantile dell’1,8% si sarebbe dovuto verificare un aumento continuo del-

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la popolazione. In realtà ci deve essere stata una corrente migratoria costante, che spiegherebbe il rapido diffondersi della cultura neolitica nell’Anatolia meridionale ed occidentale, in quanto gli emigranti portavano con sé la loro tecnologia, la loro arte, la loro lingua e le loro credenze9.

Poco più avanti, una successiva affermazione ribadisce lo stesso concetto riferendosi al periodo dal 6300 al 5650 (I periodo del Calcolitico) che mostra distruzioni e riedificazioni: Nonostante gli sconvolgimenti avvenuti a Hacılar e a Çatal Höyük non esistono prove che facciano pensare che la nuova cultura venisse introdotta dal di fuori; al contrario tutti gli indizi additano una forte continuità di tradizione, con sviluppi locali di vari gradi10.

Questo per chiarire che non vi erano certo scambi culturali con genti estranee più o meno ostili, perciò le distruzioni dei secoli successivi dovettero essere causate da genti dagli stessi usi e costumi. Dunque una nuova razza, un nuovo popolo portatore di una civiltà sconosciuta, emigrato chissà da dove si era ampiamente insediato in Anatolia edificando la prima città del mondo con più di 1000 case a due piani con una struttura simile a quella di un enorme pueblo e dove tessuti, recipienti di legno, vasi di creta, specchi d’ossidiana, dipinti su pareti intonacate in particolarissimi santuari appaiono in assoluto per la prima volta. Le case erano edificate con mattoni di fango e paglia ben modellati, essiccati al sole, ed i muri erano sostenuti da una intelaiatura reticolare le cui travi lignee perfettamente squadrate determinavano resistenza ed elasticità della struttura che gli esperti hanno riconosciuto garantire una notevole capacità antisismica e dovevano provenire da zone boschive piuttosto lontane dalla grande distesa anatolica. Si trattava quindi di un popolo che nel luogo d’origine doveva aver usufruito di una grande quantità di legname, il cui ruolo primario è sottolineato da Mellaart anche nei confronti della ceramica. Tutte le superfici sia interne che esterne erano regolarmente intonacate ogni anno con un denso strato di argilla bianca. Mellaart in alcuni casi è arrivato a contare 120 strati di intonaco11 sovrapposto a testimoniare della resistenza della struttura. L’agglomerato urbano si presentava senza strade, con la possibilità di accedere all’interno solo attraverso aperture dal tetto che servivano anche da sfogo per i fumi, l’interno del grande pueblo era una struttura labirintica e la complessa ideazione e l’altissimo livello artigianale espresso non può che essere il brillante risultato frutto di un lungo percorso evolutivo sconosciuto. Gli abitanti portavano abiti di cui sono rimasti frammenti con tracce di colore ed erano decorati con globi e cilindretti di rame e di piombo di cui si sono trovate le scorie di fusione, cosa che dovrebbe rivoluzionare le date fissate per l’inizio del Calcolitico. 25

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Ad Hacılar appaiono i primi vasi dipinti. A Çayönü due strutture con la cosiddetta pianta a griglia presentano una sorta di sistema di aria condizionata, con condutture poste in file parallele sotto i pavimenti. Probabilmente esse facilitavano la circolazione di aria fresca, impedivano il ristagno dell’umidità nelle strutture durante l’inverno e la formazione di muffa nel grano immagazzinato. Ed è sempre a Çayönü che troviamo un edificio che ci riporta a Gerico, il cosiddetto “edificio dei teschi”, che custodiva in due delle sue tre stanze oltre 90 crani misteriosamente in parte carbonizzati. Usato per cerimonie, è uno dei più antichi edifici pubblici riportati alla luce. Nella camera grande vi è un masso di una tonnellata ben lucidato che ha rivelato la presenza di sangue umano, di uro e di pecora. Esistono inoltre testimonianze del primo processo di metallurgia in assoluto del piombo e del rame, sia allo stato nativo sia ricavato per fusione, per la creazione di piccoli strumenti o forse per uso decorativo. Tutto questo ci appare quindi come d’improvviso, ma non fu certo creato nel corso di un’unica notte. Rappresenta al contrario il culmine di un processo necessariamente antichissimo come quello che portò a cambiamenti morfologici ossei negli animali addomesticati, che dovrebbe essere collocato nel Paleolitico superiore, iniziato circa 35000 anni fa con l’apparizione dell’homo sapiens sapiens. Due sono le evidenze di diffusione, una riguarda quella dei Neolitici che moltiplicandosi lentamente si insediano sul territorio, l’altra è un flusso derivante da quella origine oscura che continuerà per millenni a riversare popoli e genti sino all’ultima grande migrazione del XII sec. a.C. Ed è proprio questo secondo flusso, quello dall’origine, che ci appare ad ogni nuova ondata portatore di nuove e vincenti tecnologie. I rapporti tra Neolitici e Mesolitici-Natufiani sono difficili da determinarsi. Non è possibile valutare quanto abbiano potuto usufruire i più primitivi raccoglitori-cacciatori natufiani del dilagare della civiltà neolitica. Probabilmente, nel caso della Palestina e di Gerico, l’esiguità di territori fertili sottoposti ad una pressante concorrenza bellicosa rese necessarie quelle mastodontiche fortificazioni che non troviamo in Anatolia, non perché le genti di Çatal Höyük o Hacılar non fossero in grado di costruirle, ma forse perché non ve ne fu la necessità nonostante la “particolarità” del luogo. Si trovava infatti Çatal Höyük lungo un fiume che solcava una fertilissima pianura ricoperta alcuni millenni prima da un gigantesco lago salato. Un’oasi di fertilità che ci costringerebbe ad una lunga nota per il numero incredibile di prodotti coltivati e per l’allevamento, con pascoli abbondanti e campi da frumento; a sud le boscose montagne del Tauro fornivano legna in quantità ed era il territorio del leopardo dell’Anatolia, di orsi, daini rossi e caprioli; a nord, le aree paludose erano frequentate da onagri, gazzelle, leoni, non mancavano gli uri che venivano cacciati con accanimento, si spremeva l’olio e probabilmente si produceva birra. 26

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Tav. 3: Çatal Höyük Sopra: Çatal Höyük. Ricostruzione grafica di una sezione di scavo che evidenzia la mancanza di strade. La comunicazione doveva avvenire come nei pueblo degli Indiani d’America attraverso i tetti terrazzati e comunicanti attraverso scale. Sotto: Interno di uno dei cosiddetti santuari di Çatal Höyük dove si distinguono varie teste di toro e una figura femminile in atteggiamento partoriente. Gli archeologi trovano i defunti sepolti al di sotto degli stessi giacigli. La sacralità si estendeva così in ogni ambiente.

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Lo studio delle alterazioni dentarie della popolazione di Çatal Höyük ha dimostrato che sicuramente usufruivano della dieta migliore e più variegata fra tutti i siti neolitici dell’epoca. Ancor più stupefacente è l’affermazione a cui Braudel è costretto: “Ma la più importante fonte di risorse della città è probabilmente il commercio, non dobbiamo dimenticarlo”12. Riportiamo il parere anche di un altro esperto, Johannes Lehman dalla sua opera Gli Ittiti: Altro fatto sorprendente è che gli abitanti di Çatal Höyük vivessero in un mondo di cose non originarie della pianura di Konya. Tra le premesse delle loro capacità artigianali andava necessariamente annoverato un vasto commercio. Infatti, il legno da costruzione, come quercia e ginepro, non cresceva nella pianura ma bisognava importarlo dalle montagne. Il legno di abete veniva certo dal Tauro, l’alabastro dalla zona di Kayseri, il marmo dall’Anatolia occidentale. Bisognava insomma importare di lontano ogni singola pietra per poter fabbricare utensili, a cominciare dalla selce da trasformare in lame. Non sappiamo invece di dove venissero agata e apatite, che sono cristalli di rocca. Il commercio con le popolazioni mediterranee è comunque testimoniato dai resti di certi tipi di gasteropodi13.

È possibile infatti tracciare un’ipotetica rete di itinerari commerciali che necessariamente dovevano collegare Çatal Höyük a tutti gli insediamenti satelliti della grande pianura di Konya e molto oltre. Non mancano infatti conchiglie mediterranee di vario tipo, alcune arrivano addirittura dal mar Rosso, il piombo sicuramente da miniere delle “Porte della Cilicia”, e altri tipi di pietra dall’Anatolia centrale. Tutto questo consente un’affermazione importante che preferiamo riportare. Da Mellaart: “Il quadro generale è quello di un sistema commerciale altamente organizzato, nel quale le distanze ed i costi non sembravano costituire ostacolo”14. Stupefacente ci appare il percorso dell’ossidiana (carta Liverani). Sono infatti riconoscibili con esami di laboratorio i siti di origine15 del materiale vetroso-vulcanico reperito nei vari scavi archeologici. In una fase precoce come quella configurataci dall’archeologia, il meccanismo di diffusione (cioè il baratto) di un qualsiasi materiale di pregio avrebbe dovuto essere del tipo “di villaggio in villaggio” con un movimento lento e casuale, quindi con ritrovamenti progressivamente decrescenti allontanandosi dal centro di produzione, ma Liverani nega questo assunto: Questo scenario non sembra oggi sostenibile, sia perché la diffusione da centri concorrenziali (com’è il caso dell’ossidiana), non è affatto del tipo ad alone progressivamente sfumato, ma mostra invece direttrici preferenziali; sia perché le concentrazioni non sono inversamente proporzionali alla distanza dal luogo di origine16.

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Tav. 4: Vie preferenziali della circolazione dell’ossidiana.

Appaiono quindi commerci indirizzati lungo itinerari precisi su di un territorio enorme, che accanto alla rivoluzione agricola ci dimostrano una rivoluzione nella circolazione dei beni e, al di là del problema se fossero esportazioni come i più propendono o importazioni, è fondamentale sottolineare che stiamo parlando di un sistema commerciale che presuppone una organizzazione politico-economica che solo l’urbanizzazione potrà produrre. I Neolitici appaiono sfruttare meccanismi propri di una realtà urbana che cronologicamente non gli apparterrebbe (altro miracolo). Non possiamo non accennare a questo punto al primo dipinto paesaggistico che la storia ci consegna con una città e due vulcani in eruzione sullo sfondo (vedi tav. 5). Mellart crede di riconoscere Çatal Höyük nel dipinto mentre assiste all’eruzione vulcanica dell’Hasan Dag˘, probabilmente ancora attivo a quei tempi, che si trova all’estremità orientale della piana di Konya ma rimaniamo perplessi nel notare che appaiono strette vie rettilinee a suddividere gli abitati. Inoltre riteniamo che l’artista abbia voluto trasmetterci una prossimità dell’abitato al vulcano tale da essere direttamente interessato dall’eruzione mentre l’Hasan Dag˘ è difficilmente visibile da Çatal Höyük, anche in condizioni di grande limpidezza. Al di là dello stupore di un’immagine che potrebbe raffigurare una vera pagina di storia del popolo di Çatal Höyük, c’è la perplessità di riconoscere uno schema urbanistico sbalorditivo, inesistente a quei tempi ma che era stato reale forse nel passato. Quale città dalla pianificazione urbana quasi ippodamea, forse distrutta da un’eruzione, è immortalata dall’artista? La fortezza di Gerico, l’enorme pueblo di Çatal Höyük, le complesse costruzioni a griglia di Çayönü ed ora questa enigmatica raffigurazione urbanistica avveniristica ci inducono a pensare che i Neolitici avessero a dispo29

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sizione ben più che una soluzione, e potessero in qualche modo usufruire di una vasta conoscenza, con opzioni di grande adattabilità alle situazioni. La struttura di protezione di Çatal Höyük, determinata dalla continuità ininterrotta delle mura esterne, e l’ingresso dai tetti a mezzo di scalette, lasciano intuire esigenze di difesa modesta. Quindi o ci fu integrazione con gli indigeni, o come noi propendiamo a causa della natura bellicosa dei Neolitici, i Mesolitici potevano essere considerati ad un livello di pericolosità simile a quello del mondo animale e trattati di conseguenza. La realtà dei raccoglitori-cacciatori determinava la necessità di un ampio territorio per soddisfare le esigenze alimentari di un nucleo familiare, e per ovvie ragioni non si sono mai trovati insediamenti cospicui e numerosi. Sappiamo comunque che non vi fu completa estinzione, ma alla fine un’integrazione. È anche probabile che il loro destino sia stato meno infausto di quello degli Indiani d’America.

Tav. 5: Affresco murale scoperto da J. Mellaart a Çatal Höyük. È impossibile accettare la tesi che la città rappresentata sia Çatal Höyük. In quello che viene considerato il primo “paesaggio” della storia, l’artista infatti ritrae il nucleo cittadino con vie di comunicazione rettilinee che s’incontrano ad angolo retto, dove i complessi abitativi mostrano chiaramente un cortile o un megaron centrale, ben diverse dalla città pueblo di Çatal Höyük che non possedeva strade.

Il desiderio di concedere ai Natufiani la tendenza ad orientarsi verso il Neolitico per l’abbondante consumo di cereali è sempre stato molto forte, ma la realtà mostra un tale salto di qualità da farci pensare a fasi evolutive intermedie mancanti misurabili in millenni, non certo in secoli. Il mondo natufiano selvatico e indisciplinato era distante migliaia d’anni da quello che Braudel ci descrive così: Ma ciò che mi affascina di questi primi microcosmi, e in particolare a Çatal Höyük, è il fatto che la loro evoluzione arriva già ad una fase chiaramente urbana: non sono, come è stato detto, solamente enormi

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villaggi nati esclusivamente dall’agricoltura, dall’allevamento e dalla sedentarizzazione. Vi si profila una divisione interna del lavoro, ed è confermata la presenza di un commercio con regioni lontane, a mio avviso decisivo, per non parlare dell’organizzazione sociale rappresentata da qualsiasi genere di vita religiosa che segue riti rigorosi: ogni santuario di Çatal Höyük è il centro di un determinato quartiere17.

È venuto ora il momento di fissare un punto fondamentale dove il giudizio della scienza ufficiale appare non chiaro: questa straordinaria evoluzione (il Neolitico) è dovuta senza dubbio al cambiamento del clima, al fatto che la terra si va progressivamente riscaldando dalla fine dell’ultimo periodo glaciale18. Il Paleolitico, interrotto dopo 35000 anni da un’apocalisse la cui causa non sappiamo ancora bene determinare, avrebbe generato attorno al 10000 a.C. pressoché simultaneamente sia il Mesolitico che il Neolitico. Il Mesolitico appare in naturale continuità con il decadimento Paleolitico. Il Neolitico appare al contrario isolato e distanziato da un’evoluzione incomprensibile. Se il Paleolitico ha generato il Mesolitico, cosa ha generato il Neolitico? È in questa incognita il segreto della nostra civiltà. Ma se il Mesolitico rappresenta una situazione di decadimento involutivo rispetto al Paleolitico, tale deve essere anche il rapporto tra il Neolitico e l’incognita che lo ha generato. È infatti banale affermare che se una civiltà è colpita da eventi catastrofici tali da causare la scomparsa di centinaia di specie animali e determinare profonde modificazioni ambientali obbligando a migrazioni, questo necessariamente implichi una recessione economica e tecnologica, in cui difficilmente è possibile conservare integra la conoscenza e certo non è possibile aumentarla. Vedremo anche in seguito come un contesto di impoverimento totale delle risorse e di carestia non possa indurre un fenomeno evolutivo come il Neolitico a partire dal substrato mesolitico-natufiano. I Natufiani, incapaci di accumulare e conservare risorse, erano costretti ad un costante movimento una volta impoveritosi il territorio delle risorse che sfruttavano come cacciatori-raccoglitori. Viceversa dimostravano una tendenza alla sedentarietà in grotte localizzate in luoghi dove c’era abbondanza di cibo facilmente reperibile e consumabile, come dimostrano gli enormi cumuli di lumache e conchiglie delle aree costiere e palustri. I Mesolitici-natufiani piombarono in una situazione talmente grave che è molto difficile pensare ad un qualsiasi cibo che essi potessero disdegnare, con un necessario aumento di variabilità ed una estensione ad alimenti in precedenza scarsamente considerati. Non dobbiamo dimenticare che l’uomo paleolitico viveva seguendo i grandi branchi di mammiferi, compresi i mammut, che certo lasciavano margini ben più ampi di sopravvivenza in un armonico rapporto con l’ecosistema che però venne inesorabilmente spezzato dalla catastrofica fine della glaciazione. Come quindi poteva nascere in questo scenario il Neoli31

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tico che ci stupisce non per la variabilità dell’alimentazione, bensì per il contrario, poiché si basava pressoché esclusivamente sui cereali coltivati e gli animali allevati? È inoltre d’obbligo riflettere su come i Neolitici potessero percorrere enormi distanze lungo territori sconosciuti infestati da ogni tipo di belve feroci, o attraversare le immense foreste che ricoprivano i territori della post-glaciazione, o valicare catene montuose senza conoscerne i passi. Come potevano conoscere la direzione? La via di terra era praticamente impossibile in quel mondo così ostile e incognito. Non esistono i sentieri di questa migrazione, neppure la minima traccia. Ma la possibilità di non lasciare traccia esiste: è il mare. Certamente non siamo in grado di esprimere nessuna supposizione sull’iter di penetrazione, ma ci sentiamo di segnalare alcuni punti geografici fondamentali e cioè le “Porte della Cilicia” e l’area di Mersin che ha connessioni dirette con la Siria-Palestina e attraverso quest’ultima con l’Alta Mesopotamia. Successivamente, nel pieno Neolitico, possiamo riferire che le zone maggiormente popolate sono tutta l’area costiera della Siria, del Libano con il sito di Biblos, la valle della Beqaa, la Palestina con Gerico, e infine l’Alta Siria, cioè il medio Eufrate. La propagazione all’entroterra avviene sempre percorrendo i grandi bacini fluviali. Delle culture dell’Alta Mesopotamia che nacquero verso il 5500 a.C., ricorderemo quella ceramica di Halaf dotata di forte penetrazione e forza espansiva che presentava caratteristiche costruzioni a tholos precedute da un lungo ambiente rettangolare. Riferisce sempre Liverani: “Si pensa che l’origine della cultura di Halaf debba apporti rilevanti a genti montane scese nella pianura per trovarvi più ampi spazi coltivabili e pascoli”19. Ad allontanare inoltre l’Oriente e le pianure mesopotamiche come centro d’irradiazione della cultura neolitica, vi è il fatto che l’allevamento di bovini, che a Çatal Höyük rappresentano incredibilmente il 90% del consumo di carne, pure presente in siti della Grecia o dei Balcani in data anteriore al 6000 a.C., si riscontra in Mesopotamia solamente dopo il 5000 a.C. Il toro riveste un’importanza particolare, ed è sempre presente nei numerosi santuari di Çatal Höyük. Tra affreschi inquietanti di avvoltoi, a volte sembra partorito come protome cornuta direttamente dalla raffigurazione della Dea Madre. Questa “religione del toro” appare per la prima volta a Çatal Höyük associata ad un Dio antropomorfo e sembra precedere la diffusione nell’Età del Bronzo di divinità come il Dio delle tempeste ittita, il Baal fenicio, quello di Ugarit, lo Zeus di Dodona di cui il toro ci appare come l’ipostasi che ne simboleggia la forza generatrice, la violenza della tempesta, il valore guerriero. Un rituale che passando attraverso la Creta minoica giunge sino all’Iberia, la quale conserva ancora oggi evidenti tracce di riti cerimoniali tanto arcaici.

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Il Natufiano La civiltà natufiana si è estesa in quasi tutto il Levante, dall’Eufrate al Sinai, tra il 12500 e il 10000 a.C. Il Natufiano è da tempo considerato come l’epoca cerniera durante la quale si sarebbe preparata la neolitizzazione, tradizionalmente intesa come il processo nel corso del quale le comunità umane sono passate dalla predazione alla produzione di sussistenza. Negli anni ’30 si attribuiva ad esso anche un ricorso precoce e diretto all’agricoltura. […] Da allora le ricerche si sono intensificate. Gruppi di ricercatori di ogni paese hanno moltiplicato gli scavi e confrontato i risultati. Si sono affinate le ricerche condotte sulle suppellettili mentre iniziano a comparire i risultati di quelle sui resti paleobotanici. Ciò che ne consegue è un quadro del Natufiano assai più contrastato rispetto a quanto appariva soltanto dieci anni fa. In primo luogo, per quanto riguarda il piano culturale, le notizie riportate sulla cultura natufiana si concentrano in un primo tempo su una zona ristretta del solo Levante sud (Monte Carmelo e fosso del Giordano) inclusa nell’attuale Israele; tale cultura è sembrata qui presentare un insieme definito di caratteri regolarmente associati. Gli abitati portati alla luce sono costruiti all’aperto e raggruppati, e queste caratteristiche definiscono i “villaggi”: le case sono interrate per metà in fosse rotonde a parete rinforzata da pietre secche; vi si trovano uno o due focolari e tracce di pali di legno concentrici che attestano (a Mallaha) la preparazione di vere e proprie robuste strutture per sostenere il tetto. Nell’attrezzatura litica, i microliti geometrici, in forte contrasto con i trapezi o i triangoli del Kebariano geometrico, hanno ormai la forma di segmenti di cerchio anche se continuano ad armare degli strumenti composti per la caccia o per la pesca. Un’importante oggettistica pesante (profondi mortai, pestelli e talvolta mole) era destinata a macinare e a triturare. Esiste soprattutto una straordinaria industria dell’osso (ami, punte da getto dentate o non dentate, corpi d’utensili composti, strumenti da taglio o perforazione diversi…) che può essere paragonata, per la sua notevole elaborazione, solamente a quella del Magdaleniano d’Europa. Sepolture semplici o collettive, primarie o secondarie, sono interrate sotto le abitazioni o raggruppate al di fuori di esse, in veri e propri cimiteri. Il cane, unico animale già addomesticato, accompagna talvolta il suo padrone nella tomba, a Mallaha e a Hayonim, lasciando intravedere per la prima volta delle inumazioni accompagnate da pratiche sacrificali. D’altra parte, alcune sepolture hanno rivelato la presenza di molte “parures” di conchiglie (soprattutto di dentali) e di osso. Appaiono anche, alla fine del Natufiano, delle “parures” di pietre levigate in cui la tecnica della levigazione per abrasione,

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che per lungo tempo è stata considerata una caratteristica del Neolitico, fa una precoce apparizione. Oggi, infine, siamo in possesso di una produzione di oggetti, sia schematici che naturalistici, di osso o di pietra, comunque essenzialmente zoomorfi; tali oggetti rappresentano piccoli erbivori, cervidi o gazzelle, e assai raramente delle forme umane comunque sommarie e asessuate. Sebbene le case, così raggruppate, non sembra fossero molto numerose (5 o 6 al massimo, secondo François Valla), la solidità della loro costruzione concorre, insieme agli oggetti pesanti e all’abbondanza delle tombe, a suggerire la presenza di insediamenti a occupazione permanente, altrimenti detti stanziali, malgrado l’assenza di ogni sorta di produzione di sussistenza. D’altra parte, per quanto riguarda il corso dei 2500 anni di durata del Natufiano, era stata ben presto notata un’evoluzione netta di questa cultura nel senso di una semplificazione, se non addirittura della cancellazione progressiva, dei suoi elementi più sofisticati: ciò riguarda sia il sistema di ritocco dei microliti che l’impoverimento dell’industria dell’osso, che perde i suoi utensili più complessi, e la quasi sparizione dell’arte dell’oggettistica. Questa evoluzione è stata confermata dai recenti studi riguardanti l’area mediterranea del Levante sud. Più precisamente, l’estensione delle ricerche al Negev ha mostrato che tali studi potevano rivestire in Giordania e nel Levante nord un significato comparabile, e potevano suggerire l’estensione a tutto il Levante di una cultura unica. […] Il modello del villaggio natufiano stanziale rimane da riservare agli ambienti ricchi, regioni costiere e rive di fiumi o laghi, dove l’appoggio permanente delle risorse acquatiche (pesce, conchiglie, selvaggine d’acqua ecc.), sempre ben testimoniate dai resti della fauna, facilitava d’altronde un’occupazione stabile del territorio. L’economia natufiana nel suo insieme è stata definita come una predazione a “largo spettro”, vale a dire molto eclettica e in grado di sfruttare un insieme vario di risorse alimentari selvatiche. I casi di stanzialità risultano del resto condizionati da questa varietà, con la presenza di risorse sufficientemente ripartite nell’arco dell’anno, tanto da rendere inutili spedizioni alla ricerca di alimenti in luoghi troppo lontani. Questo modello, all’inizio molto teorico, sembra consolidarsi col progredire degli scavi. Tuttavia, c’è un punto molto importante sul quale le nostre concezioni si modificano: è quello delle “preferenze culturali” che, al di fuori di questo eclettismo, avevamo creduto di ravvisare, per quel che riguarda gli animali, a vantaggio della caccia alla gazzella, e per quel che riguarda invece le piante raccolte, a vantaggio dei cereali. Infatti, se vi sono sempre gazzelle nei resti della fauna, è perché la gazzella è onnipresente nel Levante. È tuttavia sufficiente che essa sia un po’ meno abbondante di altra selvaggina, perché quest’ultima predomini effettivamente nei resti alimentari (come accade con la capra a Beidha, e con gli

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uccelli a Hayonim). Non c’è dunque alcun “filtro culturale” (Donald Hanry) in favore della gazzella, così come non ci sono tentativi di domesticazione di questo animale, tentativi che si era creduto poter dedurre, senza altra prova, da questa preferenza. Il caso dei cereali è ancora più eloquente. Ad Abu Hureyra, fra gli 11000 e i 10000 anni a.C., i Natufiani si dedicavano intensamente alla raccolta dei cereali selvatici. Tuttavia, al termine dell’occupazione di questa area, come nel Natufiano finale di Mureybet, queste piante diventano rare ed altre specie (poligono, astragalo) vengono coltivate in massa a fini nutritivi. Una fase di inaridimento climatico, riscontrato in tutto il Levante, ha modificato l’ambiente, per un certo periodo, dopo il 9200 a.C. La dieta, dunque, varia a seconda di ciò che la natura offre. Si è “raccoglitori di cereali” finché questi abbondano nei pressi del villaggio. Non vi è ancora nessun fenomeno di specializzazione deliberata. Come corollario, l’analisi microscopica delle tracce di utilizzo su delle lame o lamelle lucide, ha dimostrato che esse sono servite, secondo i luoghi, sia alla mietitura dei cereali selvatici, sia ad altri generi di raccolto (giunchi, canne, ecc…) senza alcuna finalità alimentare. La funzione precisa di tali strumenti, così come la loro quantità relativa rispetto agli altri utensili, può infatti variare a seconda dei luoghi. Non si può concludere nulla senza un’analisi approfondita svolta caso per caso. La raccolta dei cereali selvatici non appare più dunque come un carattere generale, né particolarmente frequente, dell’economia del Natufiano. I limiti di questa cultura hanno d’altronde ampiamente superato l’area naturale di diffusione di queste piante, visto che oggi troviamo il Natufiano nelle oasi del deserto troppo secche e nella zona nordmediterranea troppo umida, per la crescita spontanea dei cereali. In altre parole, se si considerano “culturali” non l’insieme dei comportamenti adattivi di un gruppo umano di fronte al proprio ambiente particolare, ma solo quelli che dipendono da un sapere socialmente trasmissibile e relativamente indipendente dai rischi ecologici (l’“ambiente interno” di André Leroi-Gourhan), emerge che la raccolta dei cereali non fa parte della “cultura” natufiana. I modi di vivere sono diversi, così come le specie consumate. Fra queste figurano quelle che saranno trasformate in domestiche ma non più, e a volte molto meno, di altre che non lo saranno. Non si può attribuire ai Natufiani la prescienza delle scelte future così come non ci deve confondere l’effettiva presenza di tutti gli utensili “tipicamente agricoli” che utilizzeranno più tardi gli abitanti dei villaggi del Neolitico: falci, attrezzatura da macina ed anche, a Mureybet natufiano, accette di selce tagliate quasi identiche a quelle che saranno, 2000 o 3000 anni più tardi, le zappe dell’area irachena d’Hassuna, e quelle della civiltà mesopotamica d’“Obeid”. […] In ogni caso ricordiamo che 25000 o 30000 anni fa, molto prima,

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dunque, del Natufiano, esistevano già nel Gavettiano e nel Pavloviano dell’Europa centrale, contemporanei dell’Aurignaziano del Levante, gruppi di abitazioni stanziali notevolmente ben costruite, a volte accompagnate da sepolture collettive o individuali dove, tuttavia, non si è verificato nessun processo di neolitizzazione. La tendenza umana al raggruppamento è generale ed appartiene alla nostra specie. Il Vicino Oriente non svolge affatto un ruolo da precursore in questa evoluzione planetaria. Rispetto all’Europa centrale, si tratta tutt’al più di un raggiungimento. La dinamica particolare che ha fatto dei villaggi del Levante, e solamente di quelli, il ruolo privilegiato della prima rivoluzione neolitica resta dunque da chiarire. L’analisi precisa dei diversi cambiamenti che la costituiscono e la loro esatta collocazione nel tempo è dunque il primo compito che si impone. Da J. Cauvin, Nascita delle divinità e nascita dell’agricoltura, la rivoluzione dei simboli nel Neolitico20.

1.3. Recenti acquisizioni e conclusioni sulla diffusione del primo Neolitico Negli ultimi anni sono stati scavati e studiati diversi precocissimi siti datati attorno al 9000 a.C. Nell’oasi di Damasco l’importantissimo sito di Aswad21 mostra netta evidenza di grano domestico in un’area dove risultava del tutto assente quello selvatico. La stessa situazione viene evidenziata dai botanici per leguminose, piselli e lenticchie, tutti assenti in precedenza in questo tipo di biotopo. Altri scavi sono stati eseguiti a Netiv Hagdud, nella bassa valle del Giordano, anch’esso del 9000 a.C. e a Mureybet, nel medio Eufrate, un sito mesolitico poi neolitico, quindi abbandonato e rioccupato dai Natufiani mesolitici. Per la necessità di dare una risposta logica al problema della diffusione del Neolitico, nella perplessità dell’abisso che separa i Natufiani dai Neolitici, gli studiosi hanno cercato con una fittizia e artificiosa classificazione di ridurre questa enorme distanza. Sono stati quindi escogitati i khiamiani22, una varietà di natufiani che possiede la caratteristica di produrre una particolare punta di freccia con tacche laterali (punta di El khiam) e declassati i primi Neolitici attorno al 9000 a.C. poiché non era stata ritrovata ceramica in questa primissima fase, creando il PPN (Pre-Pottery Neolithic) o “Neolitico pre-ceramico” a sua volta suddiviso in “antico” (PPNA), “medio” (PPNB) e “recente” (PPNC). Tutto questo nell’illusorio tentativo di 36

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poter affermare una sorta di continuità fra khiamiano e PPN, ma è proprio fra gli stessi propugnatori di questa classificazione che apprendiamo, con grande onestà intellettuale, la conferma della realtà. Dall’opera di Jacques Cauvin, Nascita delle divinità e nascita dell’agricoltura, la rivoluzione dei simboli nel Neolitico: In virtù del solo studio morfologico dei chicchi, era dunque già possibile concludere che al limitare del IX millennio la coltura del grano era nota nella regione di Damasco, quella del grano e dell’orzo a Gerico. Era invece difficile accettare l’idea di una vera e propria “economia agricola” in cui lo sfruttamento si estendesse a tutta una lista supplementare di piante coltivate non necessariamente “domestiche” ma che non hanno nulla a che fare, se si prescinde dall’intervento umano, con i precisi contesti ecologici in cui le si trova. Parlare di “economia agricola” significa far riferimento a una situazione in cui le colture alimentari giocavano già un ruolo maggiore nel sistema di sopravvivenza delle popolazioni. L’importanza quantitativa, percepibile archeologicamente, delle specie coltivate, domestiche e non, esprime proprio ciò. In altre parole, non si era più alle primissime esperienze. Si tratta di comunità contadine che hanno pienamente superato la soglia della neolitizzazione economica. Se non si percepisce alcun emergere progressivo di questo nuovo stato nell’oasi di Damasco né nella valle del Giordano, è perché gli occupanti del suolo erano in questi casi, come si è visto, dei nuovi arrivati. È già sottolineato che i cacciatori-raccoglitori natufiani e khiamiani del Giordano costruivano volentieri i loro villaggi sulle colline dominanti la valle, mentre i loro successori sultaniani (viene chiamata sultaniana la popolazione di Gerico, da Tell es-Sultan)23 sono discesi nella pianura alluvionale. Delle prime messe a coltura sporadiche e limitate, prive di una netta incidenza sull’economia dei gruppi, hanno potuto essere praticate su terreni molto diversi ma necessariamente a diretto contatto con le specie selvatiche seminate: queste, in particolare i cereali, crescono oggi spontaneamente, per ragioni di piovosità, solo a delle altitudini sensibilmente superiori a quelle delle basse terre della regione di Damasco e del corridoio del Giordano. In compenso, promuovere queste specie a rango di risorse di base in un’economia di produzione richiedeva anche la scelta del terreno più propizio al loro sviluppo artificiale: i terreni profondi delle paludi alluvionali sono stati preferiti a quelli, più in pendenza e poveri di humus, dei rilievi circostanti. La scelta delle nuove risorse ha dunque comportato, dagli inizi dell’economia agricola, una scelta non meno evidente di nuovi ambiti di vita con l’esclusione di quei casi, come Mureybet, in cui questo insediamento favorevole era in qualche modo ereditato dai cacciatori-raccoglitori preesistenti. Questi trasferimenti geografici dei villaggi, foss’anche a poca distanza, non possono essere stati motivati che dalla stessa invenzione agri-

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cola. Per apprezzare la qualità della terra bisogna già essere agricoltori… come dire che non assistiamo per nulla, ad Aswad e a Netiv Hagdud, a una “invenzione” dell’agricoltura. Come ogni creazione e ogni vero inizio, questa invenzione non è granché accessibile ai nostri attuali strumenti di analisi. Vengono percepite soltanto le sue conseguenze, a uno stadio in cui il fenomeno, sufficientemente consolidato, ha già ampiamente rimaneggiato la massa di informazioni valutabili di cui possiamo disporre, in quanto il modo di vita stesso è già sconvolto. Ancora non molto tempo fa, l’apparizione, all’inizio del IX millennio, ancora molto irregolare e sporadica, di specie domestiche sembrava designare e insieme datare questo primo emergere delle pratiche agricole, visto che il loro effetto sulla morfologia delle piante era considerato come quasi immediato. Oggi tutto fa pensare che queste nuove specie furono il risultato di un processo secondario e molto più lungo, sottomesso all’aleatorietà dei risultati delle tecniche di semina e di raccolta24.

Anche la supposizione che le cause climatiche fonte di eccessivo depauperamento delle risorse naturali-alimentari avessero determinato il passaggio all’agricoltura dei natufiani è del tutto smentita. Ancora da Cauvin: Il passaggio all’agricoltura non corrisponde, ai suoi esordi, ad una situazione di penuria. […]. Si è visto che l’idea secondo la quale tutti i villaggi natufiani abbiano avuto i cereali come risorsa essenziale e preferita ad altre, è ben lungi dalla realtà. Le strategie di predazione per la sopravvivenza di questa epoca, flessibili e polivalenti, potevano adeguarsi ad ambienti differenti sia all’interno che già all’esterno della zona dei cereali selvatici. […] Il mutamento delle strategie di sussistenza è totale. Esso è stato identificato sia dai botanici che dagli zoologi. L’agricoltura e la caccia specializzata non si sviluppano in un contesto di depauperamento né di esaurimento delle risorse grezze sfruttate fino allora. Ma attraverso un dispositivo tecno-economico nuovo che viene indirizzato su delle specie particolari scelte dall’uomo. Ciò che colpisce, di fatto, non è tanto l’insieme dei vegetali e degli animali effettivamente consumati, quanto la lista di quelli che lo erano poco prima e non lo sono quasi più25.

Una domanda è d’obbligo: perché il Neolitico ha scelto la “Mezzaluna fertile”? Ebbene, se un popolo a conoscenza dei segreti dell’agricoltura avesse avuto l’intero bacino mediterraneo a disposizione per scegliere il luogo più adatto dove coltivare e allevare, avrebbe sicuramente scelto quest’area. È in questa regione che, allo stato selvatico, abbondavano un gran numero di specie erbacee e leguminose produttrici di semi commestibili, tra 38

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le quali anche le progenitrici di quelle coltivate. Quindi oltre alla situazione climatica ideale, la presenza di numerosi bacini fluviali collegati, e la notevolissima biodiversità, questo territorio offriva, a chi ne aveva la conoscenza, un numero straordinario di piante adatte alla domesticazione. Ma, a quanto pare, non era di esperimenti di domesticazione di cui avevano desiderio o necessità i primi Neolitici poiché costoro iniziarono direttamente nelle pianure la coltivazione di orzo e farro, che risultano essere ancora oggi tra i cereali più produttivi ed a più alto valore nutrizionale. E ciò fra una scelta di 23 tipi selvatici produttori di semi commestibili che da secoli venivano raccolti dai Mesolitici-natufiani. Il cambiamento fondamentale espresso dall’insediamento nelle pianure e dai tipi di cereali coltivati ab initio suggerisce una completa conoscenza da parte di queste genti delle problematiche della vita fondata sull’economia agricolo-pastorale. È quindi assolutamente insostenibile che i Mesolitici-natufiani, indotti da una diminuzione delle risorse, siano approdati ad un Neolitico maturo, intraprendendo difficili tentativi di domesticazione, come sarebbe risultato ovvio, sulle stesse colline dove crescevano selvatici i cereali, poiché questa fase non è mai stata testimoniata. Dall’esplorazione di un sempre maggior numero di siti apprendiamo che il culto degli antenati, il “culto dei crani” ritrovato per la prima volta a Gerico è in realtà diffuso un po’ dovunque, dal Neolitico più precoce a tutto il VII millennio: in Fenicia (Biblos), in Anatolia e anche nella cultura di Halaf. Questi crani, separati dal corpo mesi dopo il decesso, vengono ritrovati in ambienti che appaiono a volte familiari ma più spesso la collocazione sopra dei supporti e la sistemazione di un numero a volte elevato (più di 70) in ambienti con monoliti o primitivi altari li rende veri e propri santuari. Non possiamo trattenerci dall’elencare alcune incredibili particolarità dei grandi edifici rettangolari ad un’unica sala scoperti a Çayönü (7250-6000 a.C.), dove, oltre alle dimensioni, è stupefacente la cura degli allestimenti: il pavimento evoca un effetto ottico definito “a mosaico”, dovuto all’alternato strato di calce e di pietra; la sala è circondata da grandi lastre orizzontali, una delle quali con il rilievo di una testa umana; sotto il pavimento sono stati ritrovati i resti di più di 400 individui inumati; a Nevali Çori (8000 a.C. ca.), oltre alle caratteristiche lastre che ricoprono le piccole celle dei crani, il pavimento reca al centro una stele schematicamente antropomorfa. Come potrebbe non trattarsi di pubblici luoghi di culto? Non è superfluo ricordare che per moltissimo tempo si è pensato che gli edifici pubblici non potessero essere precedenti alla rivoluzione urbana, anzi, che per definirsi città un nucleo abitato necessita di un tempio e di un palazzo. Questa tradizione fondata su un rito tanto spettacolare prosegue nei santuari di Çatal Höyük con la loro eccezionale ricchezza decorativa. La presenza di un così elevato numero di templi nella prima città della storia a noi conosciuta, li fa definire “domestici” dagli studiosi che 39

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non possono accettare l’idea di un’intera classe sacerdotale dominante a Çatal Höyük. Oltre ad un numero sempre maggiore di figurine in pietra e terracotta con rappresentazioni per lo più della Dea Madre che si trova anche assisa sul trono con leopardi ai lati, appaiono sconcertanti maschere di pietra con tracce di pittura a disegno radiale. Pesanti per essere indossate, non possono che riportarci a quel contesto di cerimoniale d’origine, probabile predecessore del più tardivo “teatro sacro” mediterraneo.

1.4. La diffusione del Neolitico La diffusione del Neolitico avviene incontrovertibilmente per mare, ma non si tratta di una colonizzazione dei Neolitici siro-palestinesi o anatolici. La loro provenienza è ignota. Gli studiosi non vedono però quale potrebbe essere una diversa origine. Da Dove nacque la civiltà di Mellaart: “Intorno al 7000 a.C. animali completamente addomesticati come bovini, pecore, capre, maiali e cani arrivavano per mare a Cnosso, nell’isola di Creta (dove non erano indigeni), quasi certamente dall’Anatolia”26. Questa diffusione coinvolge inizialmente l’Egeo, e la più antica ceramica della Grecia proviene dalla località di Sesklo, Argissa, Otzaki in Tessaglia, da Lerna nel Peloponneso, o da Cnosso a Creta. Tutte in zone prossime al mare. La prima espansione al di là di questa area iniziale ha luogo durante il V millennio interessando due diverse aree geografiche: una riguarda la penetrazione lungo il Danubio e le pianure a loess dell’Europa centrale, attraverso una serie di siti intermedi come quello macedone di Nea Nikomedia (6000 a.C.) e quello di Karanovo in Bulgaria (4800 a.C.); più tardi la riscontriamo dirigersi attraverso o lungo le coste del Mar Nero verso l’Ucraina dove si svilupperà la cultura chiamata dei kurgan. Queste aree che nel passato sono state da molti ritenute la culla degli Indoeuropei, non sarebbero altro che una seconda patria di evolute culture neolitiche, allo stesso modo che è stato evidenziato per l’Anatolia. Ma questioni enigmatiche tormentano gli archeologi perché, come sarebbe a questo punto ovvio aspettarsi, le culture balcaniche dovrebbero presentare evidenti legami di continuità con la cultura anatolica mentre queste in realtà sembrano nuovamente sorgere dal nulla. Leggiamo ancora da Cauvin: Ci sono però tutti gli altri casi meno limpidi: in primo luogo quelli in cui, in particolare nei Balcani, una cultura neolitica completamente nuova sorge in evidente rottura con la condizione dei cacciatori-raccoglitori locali, ma senza che la sua specifica origine ne sia identificabile sotto il profilo culturale. Soltanto le specie domestiche e la posizione geografica della regione sostengono allora la causa dell’origine vicino

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orientale. Per alcuni autori sarebbe sufficiente invocare la circolazione delle idee senza spostamento delle persone stesse o tutt’al più degli scambi commerciali, per spiegare le influenze ricevute dal Vicino Oriente, su un fondo di creazioni indigene. Anche per quel che riguarda la corrente danubiana, di cui si può facilmente ricostruire l’itinerario dalle pianure ungheresi alla Francia, questo lavoro è molto meno facile per la prima parte del “tragitto”, tra l’Anatolia e il centro dell’Europa. La cultura della ceramica lineare sembra derivare, per trasformazioni successive, dal Neolitico antico della Grecia del Nord; tuttavia, quest’ultimo era sorto in Tessaglia “tutto armato”, certamente in totale rottura con il fondo mesolitico, ma senza che alcun riferimento preciso, né nell’architettura né nelle industrie, sottolineasse i contatti con il Vicino Oriente, nondimeno considerato con convinzione come la sua fonte, tenuto conto sia delle specie domestiche presenti che del carattere evidentemente alloctono di questa nuova cultura27.

Il tentativo di chiarire questa situazione evocando una “circolazione delle idee” non convince neppure lo stesso Cauvin che lo definisce successivamente “mancante di spessore e di concretezza”e sottolinea il buio in cui navigano gli studiosi. Una nuova espansione colonizzatrice comprende ampi tratti di zone costiere discontinue di tutto il bacino del Mediterraneo, isole comprese. Tutto questo non è certo possibile pensarlo come derivato da espansioni marittime dei modesti insediamenti siriani o tanto meno anatolici. Un tipo unico di ceramica che recava decorazioni di impronte di conchiglie di cardio, caratteristica già però nota e tipica dei livelli più antichi di Mersin in Cilicia e della costa siriana, si diffonde più o meno improvvisamente. Riferisce Clark: La distribuzione di questa ceramica nel Mediterraneo è rigorosamente costiera: si trova sulle isole di Leucade e Corfù; sulla costa iugoslava e sulla costa adriatica dell’Italia comprese le isole Tremiti, a Malta, in Sicilia, all’Elba e in Sardegna; sulle coste della Liguria; nelle province francesi della lingua d’Oc e della Provenza; sulla costa orientale e sudorientale della Spagna e sulla costa meridionale del Portogallo. Le impressioni, che potevano essere fatte con stampi dentellati e altri oggetti o con conchiglie di cardium, erano di solito ordinate in linee orizzontali o verticali, a zigzag o a festoni28.

L’idea che questa diffusione marittima per tutto il Mediterraneo sino alla Spagna e al Portogallo fosse partita dall’area mediorientale (teoria diffusionista) è difficilmente sostenibile e lascia un vuoto riconosciuto dagli studiosi. Siamo comunque di fronte al fenomeno assoluto di una navigazione in grado di colonizzare enormi spazi solcando un mare da sempre temuto dai naviganti, quindi organizzare trasporti di numerose 41

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persone e ingombranti animali domestici e tutto il necessario per sfidare l’ignoto di un viaggio senza ritorno. Incredibile ma vero. Non poteva certo trattarsi di qualsivoglia zattera su cui qualche pazzo temerario decideva di compiere la prima gita in barca della storia. Quale incongruenza è possibile quindi dimostrare se è necessario attendere i Minoico-Micenei o i Fenici nei nostri testi di storia per sentire parlare di popoli navigatori. I Neolitici nell’evidenza dei fatti sono il primo popolo del mare della storia. Certamente ben altre dovevano essere le condizioni in cui intere popolazioni con tutti i loro averi si distribuirono su di uno spazio geografico tanto vasto e determinarono lo sviluppo della civiltà sul substrato anche qui mesolitico che ben conosciamo. Certo non potevano originare da pochi insediamenti siriani. Anche considerando il possibile fenomeno di acculturazione degli elementi indigeni e di un’ovvia propagazione della conoscenza che permetteva l’allevamento del bestiame e una agricoltura rivoluzionaria, siamo costretti a riconoscere una sorta di tabù della storia nel considerare una così incredibile capacità di navigazione che ha implicato un’enorme numero di imbarcazioni in grado di trasportare uomini, ingombrante bestiame, cibo, utensili e zavorre d’ogni genere. Non è improbabile ipotizzare che proprio nella navigazione i Neolitici esprimessero il vertice della loro conoscenza già così sorprendente nei suoi tratti conosciuti. Ma parlare di tabù e di grandi navigatori neolitici, al loro stesso apparire, potrebbe sembrare azzardato se la storia e l’archeologia non avessero deciso di darcene una prova del tutto eccezionale. Stiamo parlando del passaggio di Neolitici a Cipro nel 9000 a.C., data che appartiene alla fase più antica del Neolitico preceramico siro-palestinese, confermato dal ritrovamento al di sotto di una volta rocciosa ad Akrotiri-Acotokremnos di manufatti in selce piuttosto rozzi e resti ossei di cibo. L’isola era in precedenza completamente disabitata, a Cipro non vi erano Paleolitici o Mesolitici. Quindi come giustificare questa presenza su di un’isola che nel punto più vicino dista oltre 100 km dalla costa? Non ci rimane che ascoltare la risposta degli specialisti: È possibile che nell’isola si siano verificate altre occupazioni dello stesso genere ma, così come è stato detto a proposito del primo popolamento della Corsica, ci si domanda se non si sia trattato più di naufraghi che di colonizzatori. È in ogni caso impossibile sapere da dove venissero questi uomini29.

Non abbiamo parole per commentare affermazioni che non fanno altro che ammantare di nebbia la consapevolezza sulla nostra origine. Nonostante questa incredula considerazione, per gli studiosi si è comunque creata quella che loro stessi definiscono “la questione Cipro”, e questo non solo per i fatti capitali di cui abbiamo appena parlato. L’archeologo Jean 42

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Guilaine scopre infatti, in un sito del litorale chiamato Shillourokambos, datato 7800-7600 a.C. circa (fine PPNB medio), grandissimi recinti curvilinei formati da robuste palizzate interrate. È certo che questi spazi siano stati utilizzati solo per tenervi mandrie di bestiame, ovi-caprini e suini, ma ciò che ne fa un mistero sono i bovini. Non esistevano sull’isola, anzi questi stessi successivamente si estinsero e sino all’Età del Bronzo non ricomparvero più a Cipro. Potevano essere arrivati, come afferma Guilaine, solo in forma domestica. Ma da dove venivano, dal momento che dovremo attendere secoli prima di scoprire il bue domestico altrove? Lasciamo ovviamente rispondere lo studioso Cauvin: Questi colonizzatori neolitici potevano venire soltanto dal Vicino Oriente, ma assolutamente nulla della loro cultura ricordava minimamente una tradizione culturale del PPNB levantino. […] A Shillourokambos non si riscontra la presenza delle case a pianta rettangolare del PPNB continentale. Coloro che arrivano per primi sembrano in un primo momento più attenti a mettere al riparo le loro bestie, che a dotare di un alloggio le persone. Si tratta di allevatori che hanno dovuto portare dal continente almeno gli elementi riproduttori del loro bestiame, avendo perciò avuto bisogno di mezzi di navigazione relativamente pesanti: i buoi, anche quando giovani, sono più ingombranti rispetto ad appartenenti ad altre specie. […] Se appare concepibile che delle popolazioni neolitiche con il problema dell’esodo abbiano affrontato il mare per raggiungere l’isola scorta da lontano, non si può escludere l’ipotesi per cui si sia trattato di una sorta di “nomadismo imbarcato”, recante con sé dei tratti che sembrano originari della Siria interna piuttosto che degli insediamenti sedentari costieri. Rimane un problema di ordine cronologico: né l’occupazione della costa fenicia, né l’allevamento del bue o del maiale appaiono oggi, sul continente, come anteriori al PPNB recente o finale. Ora, le bestie d’allevamento cipriote non possono, in assenza di ceppi selvatici locali, essere state addomesticate sul posto. Se l’occupazione dell’isola è certamente frutto del prolungamento sul mare del fenomeno migratorio già analizzato e se il bue importato era domestico, risulta assai difficile, allo stato attuale delle nostre conoscenze, collocare tutto ciò prima del PPNB recente, cioè prima del 7500 a.C. Si sarebbe dunque tentati di ricusare come troppo antica una parte delle datazioni C14 di Shillourokambos. […] La rarefazione, o addirittura l’assenza totale di riferimenti stilistici che segnalino, a livello degli artefatti, l’area d’origine dei popoli migranti, hanno già così spesso posto in imbarazzo i ricercatori che si so-

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spetta la presenza di qualche lacuna teorica nella maniera stessa di porre i problemi30.

Il peso di queste affermazioni, pur inducendo una deprimente sensazione nell’avvertire la necessità di una “domesticazione delle date” per sostenere posizioni divenute insostenibili, mette a nudo il “nocciolo della questione”. Ecco attraverso parole non nostre la spiegazione del mistero che circonda le manifestazioni del Neolitico dovunque esso appare. L’enigma è celato da una lacuna teorica nella maniera stessa di porre il problema. A completare il mistero di Cipro contribuiscono le incredibili fortificazioni dopo un primo momento in cui tutto l’interesse è dedicato al bestiame (fonte di vita, benessere e potere). Gli insediamenti sono arroccati in zone quasi inaccessibili e ancor più fortificate con muraglie di 4 m di larghezza. Ma non si tratta nemmeno di una semplice muraglia, poiché a Khirokitia, vero e proprio sperone sbarrato, l’accesso al luogo era stato ideato come uno stretto passaggio zigzagante attraverso alte e spesse mura. Un complesso dispositivo architettonico difensivo facile da vigilare, quasi impossibile da attraversare. Ma chi temevano tanto? Il pericolo non poteva che arrivare dal mare. È veramente difficile a questo punto non abbandonarsi a una serie di riflessioni, ma riteniamo preferibile proseguire nell’analisi storica che sembra da sola sufficiente ad illuminare. Ci limiteremo a ricordare che dopo migliaia d’anni, quando nasceranno i primi “potenti” che la storia ricorda, costoro saranno talassocrati poiché il vero potere non può che esprimersi in un modo: la sovranità sui mari.

1.5. Il Neolitico in Italia In Italia il panorama appare particolarmente evidente: i Mesolitici con i caratteristici manufatti microlitici trapezoidali sono ben uniformemente diffusi in Italia settentrionale, in parti dell’Italia centrale, sembrano assenti nel meridione. È un fatto che tra il VI e il V millennio l’economia agropastorale si afferma lungo le coste dell’Italia meridionale, nella Sicilia e nelle isole minori; la Sardegna correlata alla Corsica e alle aree costiere tirreniche rappresenta una delle più antiche neolitizzazioni occidentali. Riferiscono Alessandro Guidi e Marcello Piperno, cattedratici di Verona e Napoli, archeologi e paletnologi, dalla loro opera Italia preistorica: Il fenomeno neolitico si presenta attualmente in queste aree come già maturo, completo, in gran parte stabilizzato nelle sue caratterizzazioni principali. Gli indicatori archeologici più salienti (agricoltura, allevamento, produzione ceramica), compaiono almeno nel sud-est della penisola, contemporaneamente e senza apparenti sfasamenti31.

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Il nord verrà colonizzato solo dopo vari secoli in cui la condizione neolitico-ceramica era già ampiamente affermata nel sud della penisola, soprattutto nelle Puglie, sia sullo Ionio che risalendo la costa adriatica. Sono già presenti nel 6000 a.C. villaggi trincerati con allevamento sia di bovini che di ovini ricordando che questi ultimi erano assenti a livello selvatico in Europa. Il versante tirrenico presenta ceramica impressa lungo la costa toscana e nelle isole, soprattutto a Pianosa, l’Elba e il Giglio. Cospicui insediamenti sono rilevabili dall’Arno al Tevere32 lungo la fascia costiera e anche subcostiera, con accenni di penetrazione all’interno. Anche sulle coste della Sicilia approdano genti nuove venute da lidi lontani, apportatrici di una civiltà ampiamente superiore a quella delle popolazioni che in precedenza avevano abitato l’isola. È quindi da escludere la possibilità di una penetrazione dal Nord o tantomeno di una trasformazione mesolitica-neolitica, ma è ben evidenziata la via marittima attraverso la quale giunse il nuovo popolo. Sebbene si trattasse di un unico popolo con un unico credo religioso, con la stessa ceramica e la stessa identica cultura, certo non poteva trattarsi né di danubiani, né di kurganici dell’Ucraina, né di anatolici o siriani, tutti impegnati nella difficile penetrazione territoriale. Per quale motivo queste genti, una volta giunte in spazi enormi e fertili che iniziavano a dominare, avrebbero dovuto affidare ancora all’ignoto i loro destini? Dove localizzare allora il serbatoio di questi popoli giunti dal mare che differiscono chiaramente dagli altri neolitici del Mediterraneo? Questa seconda diffusione sembra derivare sempre dalla Madrepatria e dal mare. Guidi e Piperno riferiscono: Questo addensarsi lungo le coste potrebbe essere messo in relazione con i molteplici rapporti sicuramente intercorsi tra la regione toscolaziale, le isole dell’arcipelago toscano, la Sardegna e la Corsica. Tra gli elementi più importanti a favore di tale ipotesi sono le concentrazioni di ossidiana lungo il cordone di dune tra Pisa e Livorno e nel livornese; si tratta di varie centinaia di manufatti, tra cui trapezi, punte a doppio dorso e troncature che risalgono ad un momento antico del Neolitico. Oltre alle ossidiane di Lipari e Palmarola, ve ne sono anche del monte Arci in Sardegna; assieme ad elementi della ceramica (che nell’area toscana è tipologicamente simile a quelle sarde e corse), questo dato confermerebbe l’ipotesi di una rotta marittima Sardegna-Corsica, Arcipelago toscano-costa tirrenica33.

Questa evidenza di rotte consuete e consolidate potrebbe peraltro non essere confinata a quest’area geografica, ma estendersi all’intero Mediterraneo. Inizia a svelarsi un’organizzazione a livello commercialemarittimo completamente oscurata dal pregiudizio storico di una navigazione in mare aperto molto più tardiva. Sulle rive del Mediterraneo le più antiche culture neolitiche presentano più che una stretta somiglianza fra loro. Sono infatti tutte caratterizzate da una ceramica gros45

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solana decorata pesantemente con incisioni e impressioni nell’argilla, eseguite prima della cottura eseguite con il bordo di conchiglie (ceramica cardiale). I motivi decorativi si ripetono ovunque, identici. Tutto il popolo della ceramica impressa utilizzava grotte per le sepolture collettive sin dal 5500 a.C. Un’unica identità culturale, come abbiamo più volte sottolineato, che va allargata ovunque il Neolitico si manifesti. Ci troviamo quindi di fronte ad un panorama della colonizzazione neolitica che mostra inequivocabilmente tanti e diversi popoli con culture ben differenziate fra loro ma che non possono che provenire da un’unica civiltà, quella stessa da cui provengono anche gli Indoeuropei. Anche i danubiani, fedeli al culto della Dea Madre, possiedono una società di tipo matriarcale e, come se non avessero mai perso il contatto originario con il mare, continuarono a importare conchiglie mediterranee di tipo Spondylus per ornamento personale. Dovunque si insediarono, lungo tutto il Danubio sino alla Renania ed alla Francia, la presenza di Spondylus dimostra un unico sistema di ridistribuzione (per non parlare di linee commerciali ridistributive di materiali particolari) a partire dall’area greco-balcanica. Stampi d’argilla provenienti da Nea Nikomedia sono simili a quelli in pietra della Tessaglia e a quelli ritrovati a Çatal Höyük, nonché a quelli danubiani della valle del fiume Morava. Alcune figurine trovate a Nea Nikomedia dai particolari occhi a chicco di caffè hanno paralleli che arrivano sino ai monti Zagros. In Italia, e più precisamente in Liguria, caratteristici vasetti detti “a pipa” ed altri vasi a bocca quadrata sono i medesimi utilizzati lungo il corso del Danubio; i vasi abruzzesi della cultura di Ripoli, così vivaci per forme e decorazioni, giunsero in Liguria grazie a pacifici scambi culturali. Ma chi portò i loro vasi in Liguria se quelli di Ripoli erano sedentari contadini? Come interpretare quindi questo fiorire di usi e costumi sulla base di un medesimo substrato culturale? È lecito chiedersi se tutte le genti neolitiche non siano derivate da un medesimo ceppo linguistico prodotto da una cultura evoluta, che a seguito degli sconvolgimenti ecologici della fine del Wurmiano abbia intrapreso attraverso il mare un’intensa attività migratoria. La relazione che si presenta fra l’interminabile Paleolitico, la brevissima parentesi mesolitico-natufiana (in alcuni casi solo un millennio o poco più) e l’esplosione della Rivoluzione neolitica fa nascere spontaneamente degli interrogativi ma anche alcune certezze. È una certezza che l’archeologia non abbia risolto il problema poiché non ha ancora scoperto dove e quando realmente il Neolitico sia nato. I primi siti come Gerico, Aswad, ecc. ci insegnano che l’alba neolitica è pienamente in possesso dei cardini dell’economia produttiva e vanta costruzioni sulla cui realizzazione si dissente tutt’ora. È una certezza che la Rivoluzione non poteva derivare dal substrato mesolitico-natufiano, così distante da un concetto di vita fondato sulla proprietà privata come evidenzia il Neolitico. 46

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È una certezza che il Neolitico si propagò attraverso il mare. È una certezza che la diffusione neolitica non sia avvenuta per continuità ma si tratta di tante culture diverse e all’ombra di un’unica civiltà: quella della Dea Madre. Se quindi il primo evidenziarsi di questa civiltà adulta ci appare in Medio Oriente e nel Mediterraneo, ben lontano da questi luoghi ci condurrà un nuovo mistero: la civiltà megalitica atlantica.

1.6. La civiltà megalitica atlantica Allo stato attuale delle conoscenze nessuna teoria, tantomeno quella “diffusionista”, è in grado di spiegare la genesi di questo fenomeno che interessa la costa atlantica di Marocco, Spagna, Portogallo, Francia, Irlanda e Inghilterra sino alle isole Orcadi e ai paesi scandinavi. Certamente per motivi di spazio non potremo esaminare questa civiltà nei dettagli, descrivendo luoghi come Stonehenge, Avebury o Carnac, su cui sono stati scritti fiumi di parole, ma ci limiteremo a delinearne gli elementi essenziali che saranno strumenti di comprensione del ripetersi degli enigmi generati dal Neolitico e quindi del ricongiungersi ad un’unica origine delle problematiche. Questo importante capitolo della vicenda umana è stato recentemente indagato da un non specialista del settore, il professore di astrofisica Vittorio Castellani, con cui condividiamo diversi punti di vista. Da una sua recente pubblicazione, Quando il mare sommerse l’Europa, riportiamo il seguente brano: Anticipando quanto discuteremo in dettaglio descrivendo l’evoluzione della cultura megalitica, diciamo subito che vi sono evidenze costanti e convincenti che mostrano come questa cultura si sia diffusa a partire delle rive dell’Atlantico (Portogallo, Spagna, Bretagna) a coprire lentamente buona parte del continente europeo, e non solo quello. Nel 1961 W. Muller, discutendo questo scenario, trova un’immagine per molti versi stimolante e sorprendente. Secondo Muller, attorno al 5000 a.C. “appare con sorprendente rapidità in tutta l’Europa atlantica una umanità che conosce l’agricoltura, la ceramica, la pulitura della pietra e l’architettura, che sa smuovere grandi blocchi e prende nome proprio da tale tecnica di costruzione… Pare come se un’ondata di genti provenienti dal mare avesse inondato i bordi oceanici del mondo culturale europeo. E poiché non è possibile che i Megalitici siano sorti dal fondo dell’oceano Atlantico, rimane per il momento senza risposta il problema della loro origine34.

Possiamo quindi fissare il primo elemento fondamentale, e cioè che la diffusione di questa civiltà avvenne obbligatoriamente attraverso il mare. 47

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Questo primo punto è universalmente accettato. Da Clark: L’esistenza di tombe collettive, per lo più di costruzione megalitica, su una così vasta estensione dell’area costiera atlantica è stata spesso attribuita esclusivamente a un movimento di diffusione per via marittima35.

Da Braudel: […] si giunge inevitabilmente a una conclusione: La diffusione è avvenuta grazie ai viaggi per mare. Questi monumenti sono situati prima di tutto in zone litorali, e specialmente nelle isole: Malta, Sardegna, Baleari, Inghilterra, Irlanda, Seeland (l’isola danese in cui sono stati censiti più di 3500 monumenti di questo genere), o sulle coste dell’Africa settentrionale, in Provenza, Spagna, Bretagna. In Bretagna, dove sono numerosissimi, sarebbero il risultato […] di viaggi verso l’oro dell’Irlanda e lo stagno della Cornovaglia, la penisola che funge da scalo indispensabile. La zona toccata da questo fenomeno nel Mediterraneo, ricorda quella, molto più limitata e antica (precedente di circa due millenni), della ceramica cardiale. Questa civiltà delle pietre colossali si è propagata, con ogni evidenza, attraverso le infinite rotte del mare e non, come si credeva fino a ieri, a seguito delle conquiste delle popolazioni di cavalieri36.

Il secondo elemento fondamentale consiste nell’evidenza di un potere politico ed economico asservito ad una scienza, cioè l’astronomia. Così necessariamente doveva essere per ideare e mettere in atto, a prezzo di un’enorme forza lavoro, questi straordinari siti come Carnac, Kermario, New Grange, Stonehenge e altri dove da un circolo principale (Cromlech in bretone o Henge in inglese) si dipartono ancora oggi allineamenti dalle chiare connessioni astronomiche di più di 1000 menhir. Questi indubbi orientamenti dei megaliti con i punti solstiziali ed equinoziali ne fanno dei giganteschi orologi-calendari a cielo aperto ma la sensazione è quella di trovarsi di fronte ad uno sbalorditivo congegno di unione cielo-terra ben più complesso, di cui la nostra ignoranza ci lascia intuire solo le funzioni più elementari e macroscopiche. Perché questa ossessiva priorità di calcolare il tempo e di fissare nella volta del cielo il percorso dei pianeti e degli astri? Quale potrebbe essere l’interesse di una iniziale cultura neolitica per l’astronomia se non quello di conoscere il tempo della semina e della raccolta, che peraltro conoscevano già perfettamente? Ma da dove venivano se i siti più antichi sono proprio quelli della costa atlantica (5700 a.C.) in Francia e di Milares in Spagna? Di certo non furono quei danubiani che una volta raggiunto il centro d’Europa iniziarono solo nel 2000 a.C. una migrazione centrifuga raggiungendo le coste atlantiche. Furono i Celti, almeno in parte, gli eredi della cultura megalitica. Ne riceviamo testi48

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monianza dalla tradizione celtico-druidica che appare ricevere in linea diretta i crismi della religione stellare delle grandi pietre. L’immagine della casta druidica che riceviamo dalle descrizioni di Cesare nel De bello gallico è quella di un’istituzione politico-religiosa ampiamente dominante il substrato sociale: sono quindi amministratori sia della giustizia che del culto. Quest’ultimo si presenta a carattere iniziatico e ne conosciamo l’insegnamento sull’immortalità dell’anima e la trasmigrazione della stessa. Una classe sacerdotale dominante, che non può non richiamare alla mente la più alta casta dell’India vedica, quella dei bramini, ma anche quella dei primi re Dori spartani amministratori del culto, e così via nella storia futura giungendo all’imperatore romano che è anche “Pontefice Massimo”. Allo stesso modo, andando a ritroso nel tempo, non può non farci pensare a quella casta sacerdotale, prima supposta poi ritenuta impossibile, dei numerosi santuari di Çatal Höyük. Le diverse migliaia di dolmen a corridoio e a galleria coperta testimoniano un terzo elemento caratterizzante: il culto degli antenati. I più antichi, in Francia occidentale ed in Portogallo, risalgono alla metà del VI millennio e poiché siamo in tema di parallelismi, la forma dei dolmen ci ricorda molto le sepolture che avevamo visto appartenere alla cultura di Halaf. Pur senza l’intenzione di addentrarci nelle incredibili soluzioni tecniche, per lo più a noi oscure, che hanno permesso di erigere costruzioni tanto enigmatiche, non è possibile ignorare che esperti (prove alla mano) hanno dichiarato necessarie dai 18 ai 30 milioni di ore lavorative per erigere opere come Stonehenge o il grande tumulo di Silbury Hill. È scontato quindi che le migliaia di persone permanentemente addette ai lavori e suddivise in manovalanza specializzata partecipassero ad un contesto sociale che esprimeva attraverso le sue gerarchie il più completo controllo sulle proprie risorse produttive, creando prosperità. Per i grandi monumenti è infatti necessario o un potere politico centralizzato oppure, come riteniamo sia stato, appare per la prima volta un sistema che è stato definito come consorzio di comunità ma che, in seguito, nelle successive ondate migratorie indoeuropee evidenzieremo meglio come un sistema di confederazioni, una sorta di federalismo. L’odierna capacità d’indagare ci permette di evidenziare tali legami commerciali lungo tutto il versante atlantico tanto da indurre gli studiosi a utilizzare il termine di “koinè atlantica” includendo, accanto alla cultura materiale, fenomeni più profondi quali una comune visione ideologica, religiosa, spirituale. Qual è l’impronta primigenia di una struttura sociale così perfettamente organizzata che crea santuari di una religione stellare a cui si accede lungo chilometrici viali di menhir a grandezza scalare e innalza monoliti che raggiungono le 350 tonnellate? Da dove scaturiva la loro conoscenza? Sappiamo che arrivavano dal mare… E sempre attraverso il mare si diffusero ulteriormente, sino alla Dani49

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marca e alle coste della Svezia. Ma nuovamente da Clark: “Il gran numero delle tombe megalitiche della Scandinavia meridionale e delle regioni adiacenti della pianura nordeuropea costituisce un altro enigma. […]. È più plausibile avanzare l’ipotesi di stimoli portati forse accidentalmente da pescatori che esploravano le rotte della Manica”37. Quindi ancora enigmi e naufragi accidentali a far luce sulla scena che possiamo magicamente trasferire in Mediterraneo. Ne è testimonianza la ricchezza straordinaria e la raffinatezza del megalitismo dei santuari maltesi. L’idea che i Megalitici dell’isola di Malta come proposto da alcuni siano arrivati dalla Sicilia è da escludersi, dal momento che un simile fenomeno non si sviluppò mai ampiamente in Sicilia verso il 5000 a.C. Sembrerebbe trattarsi di un nucleo migratorio non troppo numeroso e ovviamente estraneo all’area geografica che abbia preferito un insediamento limitato ma facilmente controllabile e sicuro, e che in seguito abbia influenzato tutt’al più l’area pugliese. La cultura misteriosa di Malta giunse dal mare38 e scelse un cruciale punto intermedio nella rotta fra la costa siro-palestinese e la Spagna o l’estremità occidentale del Mediterraneo. In epoca storica, i Fenici percorrevano ancora la stessa rotta. Non a caso Malta è localizzata dove il Mediterraneo è più stretto. Ecco cosa affermava Diodoro Siculo a proposito della sua funzione di scalo intermedio, emporio del centro del Mediterraneo: “L’isola è stata colonizzata dai Fenici che estendendo il loro commercio fino all’Oceano occidentale si sono impadroniti di questo rifugio, situato in pieno mare e provvisto di porti buoni”39. Riteniamo pertanto che Malta, le cui raffinate rappresentazioni della Dea Madre ricordano quelle anatoliche, mentre altre figure evocano quelle di area greco-balcanica, fosse al centro di un attivo sistema di scambi. Dice Braudel: Purtroppo ogni studio del megalitismo che non sia mosso dalla passione dà l’impressione di un sogno perduto, di un problema di cui non si troverà mai la soluzione. È un peccato, anche perché l’intera area mediterranea viene coinvolta in un vasto fenomeno le cui analogie, da una zona all’altra, sono incontestabili, e che suggerisce una certa unità di traffici. Ma i dati del problema non sono chiari. Si tratta di un unico problema?40

È impossibile non accennare alle tombe dei giganti e al megalitismo sardo che per noi riveste un interesse particolare, per cui torneremo anche in seguito sull’affascinante problema della oscura origine della Sardegna nuragica. Le misteriose tombe della cultura di Ozieri (IV millennio), la prima identificabile dell’isola, ci offrono evidenze di primissimo piano. 50

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Da Braudel: Nelle tombe di Ozieri sono stati ritrovati oggetti di rame probabilmente importati, e l’analisi del metallo li attribuisce alla Spagna, alla Francia meridionale ma anche all’Irlanda. In quest’isola mineraria la lavorazione locale in seguito ha rapidamente assunto un’importanza notevole41. […] Tutto sembra collegare queste tombe a una cultura orientale: teste di toro scolpite sulle pareti rocciose, idoli di tipo cicladico, disegni a spirale (a Pimenteli), che sono un emblema della fertilità largamente diffuso nell’Oriente mediterraneo, da Sumer fino a Troia, Micene e la Siria. Ma vi si mescola un’influenza occidentale, in particolare proveniente dalla Francia del Sud, e alcuni oggetti importati dimostrano l’esistenza di contatti con la Sicilia e con le isole britanniche, forse con l’Irlanda. Qualche tempo dopo compaiono quasi contemporaneamente le tombe a dolmen (che più tardi diventeranno grandi tombe collettive dette “tombe dei giganti”), e poi i primi villaggi a nuraghi […], all’interno producono una specie di tholos, con volta in aggetto dalla pendenza più o meno accentata42.

Può essere interessante ricordare che prima della possibilità di datazione con C14, oggi ulteriormente confermata dalla cronodendrologia, si facevano derivare la civiltà megalitica atlantica e quella maltese da quella micenea, collocandole attorno al 1500 a.C. cioè ben 3000 anni dopo il suo nascere. Tutto ciò sia per l’aspetto megalitico delle costruzioni e dei grandi tumuli con interno a tholos, sia per il motivo decorativo della spirale che, peraltro, è un evidente elemento di collegamento non solo fra Micene, Hal Tarxien o New Grange ma si ritrova anche nelle tradizioni del Neolitico medio italiano (compresa la Liguria) e nell’intera area greco-balcanica. È evidente che la progressione della civiltà, che si era sempre ritenuta fluire da Est a Ovest, cambia completamente direzione dopo la rivoluzione del radiocarbonio. Questo però non ha ancora formalmente rivoluzionato la storiografia come sarebbe necessario e come d’altronde imporrebbe anche il riconoscimento della esclusiva diffusione marittima anche in zone e isole estreme della cultura megalitica.

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Gli incredibili monumenti delle Orcadi Le tombe megalitiche compaiono molto più a nord, in remote isole e lungo le coste della Scozia separate da acque infide e difficilmente navigabili. Nelle Orcadi troviamo un interessante parallelismo con quanto è accaduto a Malta, per quanto i concetti megalitici fondamentali possano essere stati importati da fuori. […] Queste isole sono prive di alberi e pianeggianti, per cui certamente attrassero gli antichi coloni col loro bestiame; essi abbandonarono la difficile impresa di sgombrare il terreno dal suo denso manto forestale. Sulla punta lontana di queste remotissime isole sorgono tombe costruite secondo progetti ambiziosi, tali da richiedere molti anni di lavoro da parte delle comunità preistoriche. Particolarmente istruttiva è la visita a Rousay, piccola striscia di terreno collinoso a nord dell’isola maggiore. Sulla costa meridionale si trovano quattro tombe principali distanti circa un miglio l’una dall’altra. In primo luogo viene la caratteristica tomba “a due piani” di Taversoe Tuick, con due camere, una sopra l’altra, e con due passaggi che conducono in direzioni opposte. Poco più giù, lungo la costa, vi è l’enorme cumulo di pietre di Midhowe, appartenente ad un tipo del tutto diverso da quello della tomba a camera con passaggio. Esso è il maggiore fra i cumuli del posto, appartenenti ad una variante locale detta “a comparti”, formata da una lunga galleria suddivisa in “comparti” da coppie di lastre verticali, disposte su entrambe le pareti; in questi comparti le salme venivano deposte su ripiani di pietra a poca distanza dal suolo. A Rousay vi sono almeno altri sette cumuli a comparti, mentre altri due o tre esemplari si trovano su altre isole, per cui si può immaginare che le comunità locali si facessero un punto di onore nel progettare un proprio tipo di tomba megalitica. Altrove, nella principale delle Orcadi, i costruttori in pietra erano inclini a compiere grandi lavori secondo uno stile monumentale più ortodosso. Insieme a Gavrinis e a New Grange, il cumulo di Maes Howe è una delle più imponenti vestigia della preistoria europea; al pari dei primi due, anche questo si trova in una zona gremita di monumenti risalenti a varie epoche, che si estende lungo le rive del pittoresco laghetto interno di Stennes. Ma da Gavrinis e da New Grange differisce per il genere di materiale impiegato nella costruzione. Le lastre di arenaria, lunghe, piatte e sottili, sono sovrapposte in modo regolare, formando un soffitto a mensole, geometricamente preciso, di forma quadrata. Sicuramente la caratteristica più impressionante in questa tomba è data dal fatto che le pareti laterali, il tetto ed il pavimento del corridoio di transito sono formati da quattro lastre, ciascuna lunga circa venti piedi. Il trasporto e l’erezione di pietre come queste porterebbe difficoltà ai più poderosi dispositivi tecnici moderni. La precisione di

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Maes Howe, la levigatezza e la continuità delle pareti del corridoio e le lastre rettangolari che formano la camera conferiscono alla tomba un aspetto incredibilmente moderno, quasi come se fosse stata progettata da un architetto dei nostri giorni. Il popolo di Maes Howe non ci ha lasciato alcun segno di arti figurative, anche se gli scorridori vichinghi, che forzarono la tomba quasi quattromila anni dopo, vi hanno profuso a piene mani ogni sorta di graffiti in forma di iscrizioni runiche e piccoli disegni incisi. Nell’isoletta di Papa Westray, ad una quarantina di miglia da Maes Howe, vi è un altro monumento altrettanto imponente e che deve aver richiesto uno sforzo costruttivo altrettanto grande, improntato però ad uno stile tombale ulteriormente diverso. A quale altra conclusione potremmo giungere se non a quella che, cinquemila anni or sono, in queste remote isole scozzesi era all’opera una popolazione fortemente organizzata, posseduta da una concezione religiosa esprimentesi in molte forme differenti? Gavrinis, New Grange e Maes Howe ci danno la prova, per noi ispiratrice di timore reverenziale, dell’esistenza di una durevole tradizione improntata alla costruzione di monumenti, composti di grandi pietre, eretti molti secoli prima dei più antichi megaliti di Stonehenge. Questi monumenti appartengono ad uno sviluppo ideativo ed artistico di somma importanza per il passato dell’Europa, e tuttavia assai imperfettamente compreso tanto che la ricerca di questi ultimi tempi ha completamente sovvertito anni ed anni di erudite ipotesi sulle origini e gli influssi dei suoi vari stili. Non è più possibile ragionare secondo i termini del vecchio modello diffusionistico, con la “Dea Madre” che percorre un semplice cammino lungo il Mediterraneo per poi risalire le coste dell’Atlantico. […] L’attuale consapevolezza del fatto che il capolavoro architettonico di New Grange è stato composto pressappoco al tempo in cui in Egitto sorgevano le piramidi, dovrebbe bandire per sempre dalla nostra mente la concezione dei “barbari” che vivono all’ombra delle innovazioni provenienti dall’Oriente. I nostri barbari possedevano un cervello e idee straordinariamente originali. Verso il 3500 a.C., in tutta la Bretagna era in pieno fiore una vigorosa e ben distinta cultura. Ma questo com’era potuto accadere? Da E. Hadingham, I misteri dell’antica Britannia43.

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Noi crediamo ad un’unica matrice del fenomeno megalitico diffuso non solo in Atlantico e nel Mediterraneo ma anche oltre. L’ipotesi proposta da alcuni storici di comunità indipendenti dotate di una certa peculiarità come Malta e le Orcadi, è a nostro giudizio insostenibile: si tratta al contrario di cellule di un solo organismo che una volta distaccatesi dalla madre sono cresciute influenzate dalla natura dei luoghi. Ne è un esempio Malta, così multiforme ed arricchita da elementi di raffinata cultura, grazie alla sua posizione di crocevia di evidenti e consistenti traffici marini. Ma qualcosa non torna poiché questa diffusione su enormi spazi marini non dimostra alcuna evidenza del centro di irradiazione primario.

1.7. Teorie e verità Da quando è nata la consapevolezza dell’indoeuropeismo si sono susseguite teorie che hanno sempre dovuto cedere il passo alle certezze archeologiche e ai fatti evidenti. Così si può ben immaginare il cataclisma provocato dalla scoperta nel 1915 della lingua ittita che risultava essere la più antica lingua indoeuropea in un momento in cui erano in auge le teorie danubiane con l’equivalenza di indoeuropeo = biondo dolicocefalo dagli occhi azzurri. È superfluo parlare dello scetticismo che accolse una realtà in grado di corrodere una convinzione tanto radicata. Ancora dieci anni dopo si cercava di attenuare l’entità della scoperta applicando alla lingua ittita “influenze indoeuropee” mentre, a dispetto di ciò, si scoprirono tre nuove lingue, il luvio, il palaico e l’hati: le prime due sicuramente indoeuropee, mentre l’hati veniva considerata preindoeuropea. È del 1960 la teoria considerata classica di Gordon Childe e poi di Marija Gimbutas sull’espansione dell’indoeuropeo verso l’Asia e l’Europa occidentale durante il V millennio a.C., a partire della cultura dei Kurgan (cultura dei tumuli) delle steppe del Volga e del Don come nucleo di irradiazione primario. Nonostante i consensi riscossi per più di vent’anni, potremmo elencare una serie infinita di obiezioni a tale teoria, sollevate d’altronde già dai linguisti stessi che ne erano all’inizio i più entusiasti. Ma, macroscopicamente, non si può sostenere ad esempio che la cultura kurganica possa essersi diffusa in tutto il Mediterraneo, dal momento che i kurganici dovevano essere tutto tranne che grandi navigatori. Più recentemente, in funzione dei rapporti rilevati dai linguisti fra l’indoeuropeo, il semitico e il cartvelico, i russi Gamkrelidze e Ivanov cercarono un’area di possibile contatto fra i popoli, identificandola con la zona a Sud del Caucaso fino all’Alta Mesopotamia. Si consideravano quindi le culture danubiana e kurganica una seconda patria degli Indoeuropei. Un unico problema: non esiste in questi luoghi nulla che archeologicamente giustifichi la presenza indoeuropea. Nel 1987 Renfrew, con l’ausilio della biologia molecolare, della linguistica e delle più recenti acquisizioni archeologiche propose di individuare 54

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nell’area anatolica di Çatal Höyük e Hacılar la culla degli Indoeuropei; questi, responsabili anche dello sviluppo dell’agricoltura, avrebbero successivamente esportato in Europa e nel Mediterraneo la Rivoluzione neolitica. Come già affermato, la teoria di Renfrew però soddisfa solo in parte poiché l’Anatolia non riesce a reggere le esigenze di “nucleo primitivo dell’espansione indoeuropea”. Così come esposta, tale teoria viene infatti giustamente fortemente criticata e fatta apparire in realtà solo come un’ipotesi speculativa pressoché inaccettabile dagli studiosi dal momento che esiste un abisso linguistico tra il gruppo indoeuropeo anatolico e le lingue indoiraniche. In verità una vera diffusione è riscontrabile nel Neolitico solo per la corrente danubiana, che ad ogni generazione si allontanava di 20 km fondando un nuovo villaggio. La teoria di Renfrew ha comunque il merito di far sprofondare l’origine indoeuropea all’VIII millennio a.C. Non è irrazionale supporre che i primi Neolitici, portatori di civiltà, possedessero fra le caratteristiche superiori che li contraddistingueva una lingua evoluta. È in questa formula di cui il linguaggio rappresenta il catalizzatore che sentiamo di riconoscere la potenza diffusiva e dominatrice di questo misterioso e rivoluzionario evento. Poiché dagli argomenti trattati traspare chiaramente che l’impoverimento delle risorse naturali non determinò un impulso verso un’economia produttiva, bensì fece sprofondare il Paleolitico in una situazione di avvilente declino, si potrebbe formulare l’ipotesi di una civiltà superiore insorta in un’unica area circoscritta che abbia dovuto sopportare le stesse, se non peggiori, conseguenze negative. Dietro alla comparsa del Neolitico potrebbe celarsi questo tipo di fenomeno, nel manifestarsi cioè di una situazione assimilabile a quella di due mondi comunicanti. Il primo è il Mediterraneo, ricevente un flusso che procede ad ampie poussées in corrispondenza delle grandi migrazioni che termineranno al nascere dell’Età del Ferro. L’altro è oscuro, sconosciuto, dove la civiltà che lo popola è già evidentemente differenziata e complessa e si manifesta, una volta entrata nel bacino ricevente, nel fenomeno Neolitico multiforme che ben conosciamo. Ma, se così fosse, l’espansione neolitica intervenuta su aree enormi così poco densamente abitate dai Mesolitici (o Epipaleolitici) sarebbe responsabile pressoché interamente della nostra civiltà, ed anche il termine “indoeuropeo” sarebbe in questo caso scorretto ad uno stadio di protolingua. Riteniamo pertanto entusiasmante la teoria di Vladislav M. Ilicˇ-Svitycˇ riproposta con autorità nel 1991 da Renfrew. Tenendo in considerazione le affinità che i linguisti sovietici (anche altri come C. Gordon, che fu quasi un profeta inascoltato) avevano spesso evidenziato fra lingue indoeuropee, semitiche e altre ancora, egli sostiene che una protolingua definita “nostratica” sarebbe all’origine delle famiglie indoeuropea, semitico-camitica, elamitico-dravidica, uralo-altaica, cioè della pressoché totalità delle lingue d’Europa, Asia e Nord Africa. 55

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Indoeuropei e Semiti discenderebbero quindi da un unico progenitore. Se solo pensiamo per un attimo alla storia di quest’ultimo secolo ed al falso ideologico di cui tutti siamo stati involontariamente partecipi, il termine “rivoluzionario” riferito a queste acquisizioni non può che essere considerato adeguato. Tutto ciò inoltre non fa che richiamarci alla memoria il passo biblico in cui dopo il diluvio i figli di Noè, Sem, Cam e Iafet s’incamminarono a ripopolare la terra. La verità non può non legarsi alle fondamentali acquisizioni della linguistica che ipotizzano un’unica comune origine. Se nessuna teoria ha dato esiti soddisfacenti, l’unica spiegazione possibile è che la patria dei Neolitici, degli Indoeuropei e della civiltà sia ancora da scoprire. Solo questo può dare ragione del fatto che culture pienamente neolitiche ed evolute emergano dal nulla: una fucina che sfornerà popoli sconosciuti sino all’inizio dell’Era del Ferro. È difficile non collegare la causa delle migrazioni neolitiche agli sconvolgimenti climatico-ecologici del 9500 a.C. ca. che portarono alla fine dell’ultima glaciazione. I colonizzatori si sarebbero distribuiti ampiamente nel Mediterraneo e sul territorio europeo, costituendo il substrato su cui le successive ondate migratorie si fusero, si sovrapposero, o vennero assorbite. Potrebbe essere ipotizzabile che una progressiva riduzione dei territori abitabili e delle risorse abbia innescato un fenomeno migratorio di colonizzazione verso territori sconosciuti e popolati da Mesolitici. Questo processo sembrerebbe essersi manifestato in modo inarrestabile per millenni, dovuto anche sicuramente all’incessante innalzamento del livello del mare prodottosi sino al V millennio. Nel frattempo, intensificandosi le ondate migratorie, aumentano anche bellicosità e aggressività. Si è stati per molto tempo convinti che i più antichi abitanti dell’Europa neolitica non vivessero in luoghi elevati fortificati e di difficile accesso, come di regola avrebbero fatto più tardi coloro che definiamo Indoeuropei ma, privi di vere difese, gli insediamenti si distinguessero per la bellezza dei luoghi con abbondanza d’acqua. Si era infatti arbitrariamente creata la tesi di un’Europa preindoeuropea le cui genti neolitiche di indole pacifica avessero poi subito le bellicose invasioni indoeuropee. Ciò è smentito dal fatto che in altre aree sin dal più remoto Neolitico si costruissero formidabili difese e fortificazioni. L’archeologia in seguito non farà altro che rivelarci sepolture principesche dov’è costantemente sottolineato l’aspetto del grande guerriero, con splendidi corredi funebri e magnifiche armi. Dall’India vedica ai poemi omerici e attraverso l’epica celtica siamo testimoni dell’emergere di una società impregnata di valori come il coraggio e l’audacia, la forza e le armi e dove l’eroismo e l’onore creano prestigio ed elevazione nella società. Altre catastrofi ambientali probabilmente contribuirono a creare un quadro migratorio destinato a concludersi solo nel XII sec. a.C., dopo di che, la ricostruzione storica non presenta più misteriosi popoli dalle ori56

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gini sconosciute. Se esiste un’ovvia difficoltà nel precisare una datazione dei primi movimenti migratori, i successivi cominciano a perdere i loro contorni sfumati per giungere più nitidi alla comparsa verso il 1700 a.C. di Ittiti, Indo-iranici, Indo-arii, Micenei, ecc., tutti Indoeuropei, e infine all’ultimo grande momento della storia delle migrazioni dei popoli, la fine dell’Età del Bronzo e l’inizio di quella del Ferro, contrassegnata dalla grande invasione dei Popoli del Mare; un’epoca che può restituirci un tale numero di informazioni da non rendere ammissibile alcun postulato teorico se non suffragato da testimonianze archeologiche certe ed in armonia con le tradizioni. Nessuno dei popoli così fortemente caratterizzati e tanto tecnologicamente evoluti come gli Indo-iranici, i Frigi, i Micenei, gli stessi Greci ecc. è risultato rintracciabile in un’area dove fosse possibile testimoniare di elementi di tali culture e supporne la possibile origine. Tanta raffinata civiltà non può derivare da luoghi privi di testimonianze come le steppe kurganiche.

1.8. La civiltà della Dea Madre e il suo linguaggio La teoria dei linguisti che presuppongono un’unica protolingua madre definita “nostratica” può trovare tuttora un’ampia conferma e testimonianza. Esiste ancora questo linguaggio unico e viene utilizzato da migliaia di anni pressoché inalterato nella tessitura dei celebri kilim anatolici. Il miracolo di questa conservazione è da attribuirsi al particolare isolamento in cui per millenni hanno vissuto le tribù nomadi dell’Anatolia che altresì hanno tramandato da madre in figlia questo linguaggio simbolico inalterato per centinaia di generazioni. Una ricerca retrograda degli archetipi di questo linguaggio ci riporta infatti agli affreschi di Çatal Höyük che appaiono dei perfetti antecedenti iconografici. Si tratta di forme geometriche stilizzate e complesse, forme astratte identiche a quelle ancora oggi espresse nei kilim moderni. Oltre alla fondamentale raffigurazione della Dea Madre che può assumere forme diverse (a Çatal Höyük è rappresentata al centro di due avvoltoi) sono sempre presenti elementi come la doppia scure (bipenne) e il doppio triangolo; consueti sono anche motivi a stella con sei punte, la stella dei nomadi (ma anche la stella di David e sigillo di Salomone), stilizzazioni di mani aperte nonché affascinanti e complesse raffigurazioni che incorporano tutti gli elementi a cui abbiamo accennato, realizzando mirabili composizioni geometriche. Ora non vi è dubbio che gli stessi elementi figurativi siano altresì presenti nella tradizione berbera nordafricana, ma possono ritrovarsi finanche ai confini del Taklamakan, in territorio cinese e sui monti Altai. Come spiegare questa universalità di linguaggio? 57

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L’idea che questi elementi figurativi archetipici siano frutto dell’inconscio collettivo dei popoli neolitici come è stato proposto ci pare una tale ingenuità che non vogliamo commentare. Non può trattarsi al contrario che di un’unica eredità culturale diffusasi successivamente su territori enormi, come del resto fu enormemente estesa la colonizzazione neolitica, conservatasi miracolosamente per un processo di trasmissione da madre a figlia, che, custodi dell’identità e del clan, gelosamente la tramandarono intatta nei millenni senza alterarne gli archetipi. Molti sono i quesiti ancora insoluti, ma una riflessione sorge spontanea: se questi motivi figurativi sono sempre stati tramandati da nomadi, perché troviamo in quella che va considerata la prima città della storia i loro archetipi iconografici? Da questa osservazione scaturisce un’antinomia difficile da sanare. I nomadi sarebbero solo un tramite, solo coloro che hanno permesso che questo linguaggio giungesse sino a noi. La cultura nomadica avrebbe quindi solo ereditato questo patrimonio? L’archeologia linguistica, dimostrando che la civiltà indoeuropea era agricola oltre che pastorale, ci porta nette indicazioni a favore di una società che non viveva in condizioni di nomadismo. In tutti gli idiomi più antichi della famiglia esistono termini come casa, villaggio e cittadella fortificata, mentre non esistono indizi a favore del nomadismo. Dall’incontro con un esperto44 di tappeti anatolici e caucasici, nonché del linguaggio della Dea Madre che vi è espresso, apprendiamo che molte rappresentazioni raffigurano costellazioni, mappe stellari quindi della trama e dell’ordito che potevano aver guidato intere generazioni di popoli, un codice difficile da decodificare ma che miracolosamente è sopravvissuto. Anche se non è possibile affermare che i primi Neolitici utilizzassero un unico linguaggio, riteniamo che il loro patrimonio simbolico non possa che derivare da un solo progenitore, il nostratico. Questa complessità delle raffigurazioni geometriche prevede una altrettanto complicata conoscenza aritmetico-geometrica che da sempre ha lasciato senza risposte coloro che ritenevano di incontrare un linguaggio primitivo, mentre la sterminata simbologia dedicata, oltre che alla Dea Madre, alla vita quotidiana e ai rapporti sociali, dimostra l’eccezionale livello della civiltà che l’ha generata.

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Tav. 6: Affreschi parietali di Çatal Höyük i cui stilemi sono comparati alle figure riportate sui kilim anatolici.

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NOTE AL CAPITOLO I

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C. Renfrew, Archeologia e linguaggio, Laterza, 1999, Bari, p. 89. Vedi S. Piggott, Europa antica, dagli inizi dell’agricoltura all’antichità classica, Einaudi, 1976, Torino, illustrazione p. 42 “Area di diffusione di: a, capra selvatica; b, pecora; c, maiale; d, bovini”. G. Clark, La preistoria del mondo, una nuova prospettiva, Garzanti, 1986, Milano, p. 82. L. Woolley, Medio Oriente, Il Saggiatore, 1961, Milano, p. 10. Altri? Quali altri? Non sono mai stati trovati siti paragonabili in una simile situazione spazio-temporale, Gerico è considerata unica. M. Liverani, Antico Oriente, Storia società economia, Laterza, 1999, Bari, p. 77. F. Braudel, Memorie del Mediterraneo, Mondolibri, 1998, Milano, pp. 64-65. Calcolitico: da calcos, rame; litos, pietra, epoca della pietra in cui si diffuse l’uso della lama. J. Mellaart, Dove nacque la civiltà, Newton Compton, 1981, Roma, p. 18. Ibidem, p. 28. Gli strati di intonaco che sono stati testati al radiocarbonio risultano sovrapposti di anno in anno. F. Braudel, cit., p. 67. J. Lehman, Gli Ittiti, Garzanti, 1997, Milano, pp. 123, 124. J. Mellaart, cit., p. 22. L’ossidiana proviene da alcuni siti dell’Anatolia, dell’Armenia e dall’isola di Melo. M. Liverani, cit., p. 81. F. Braudel, cit., p. 69. P. Demargne, Arte Egea, Biblioteca Universale Rizzoli, 1988, Milano, p. 26. M. Liverani, cit., p. 88. J. Cauvin, Nascita delle divinità e nascita dell’agricoltura, La rivoluzione dei simboli nel Neolitico, Jaca Book, 1997, Milano, pp. 29-36. “Gli Aswadiani furono i primi occupanti di tali terreni: d’altra parte essi vi arrivarono, forse dal vicino Anti-Libano, già muniti di sementi, visto che conoscevano senza alcun dubbio la pratica dell’agricoltura sin dall’inizio del loro insediamento. Non è dunque nell’oasi stessa che essi avevano effettuato i loro primi tentativi agricoli”, ibidem, p. 74. “L’episodio, designato con il nome di khiamiano, che si inserisce fra il 10000 e il 9000 a.C., sembra segnare a prima vista una semplice transizione tra il Natufiano e l’orizzonte cronologico seguente, indicato nel Levante con la sigla PPNA (Pre-pottery Neolithic A). Tuttavia esso resta forse assai più vicino, per quel che riguarda la cultura materiale, al periodo precedente rispetto a quello successivo: inizialmente, è stata solo l’apparizione delle prime punte di frecce, di tipo a tacche laterali detto “punta di El Khiam”, dall’omonimo giacimento palestinese, che ha dato origine all’appellativo generico di “khiamiano” per designare tutti i siti contenenti queste punte”, ibidem, p. 37.

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La parentesi viene inserita nella citazione al fine di un chiarimento immediato. J. Cauvin, cit., pp. 84-85. Ibidem, pp. 87-89. J. Mellaart, cit., p. 27. J. Cauvin, cit., p. 193. G. Clark, cit., p. 175. J. Cauvin, cit., p. 225. Ibidem, pp. 229-230-231. A. Guidi e M. Piperno (a cura di), Italia preistorica, Laterza, 1993, Bari, p. 334. Se ci si stupisce per le trapanazioni del cranio dell’Egitto faraonico, ci si dovrà sbalordire per la scienza medica neolitica di 2000 anni precedente poiché è provato che nel Lazio un cranio presenta i chiari segni di una trapanazione con i bordi da cui risultava una sopravvivenza anche se breve del paziente. A. Guidi e M. Piperno, cit., p. 311. V. Castellani, Quando il mare sommerse l’Europa, Ananke, 1999, Torino, p. 41. G. Clark, cit., p. 182. F. Braudel, cit., p. 119. G. Clark, cit., p. 184. Gli scavi effettuati nei più antichi insediamenti maltesi risalenti al 5300 a.C., secondo le più recenti analisi al radiocarbonio, rivelano la presenza non attestata in precedenza nell’isola di vegetali: grano, orzo, lenticchie e numerose specie di ovini, caprini, suini e bovini domestici. Diodoro Siculo, Biblioteca storica, Libro V, 12. F. Braudel, cit., p. 117. Ibidem, p. 123. Ibidem, pp. 122-123. E. Hadingham, I misteri dell’antica Britannia, Fratelli Melita, 1988, Roma, pp. 2732. Si tratta di Ayhan Begˇendi, esperto turco di simbologie espresse nei tappeti e nei kilim anatolici e caucasici, di arte tessile in genere, nonché etno-gallerista.

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CAPITOLO II

CAPITO

L’Età del Bronzo

Il ne

2.1. L’Età del Bronzo (Età dello Stagno)

1.1. G

Un panorama di diffusione, come quello evidenziato nel capitolo precedente, in tutta l’area mediterranea e levantina, nonché la provata provenienza di popolazioni italiche dall’area sud-iberica non fanno che aumentare le perplessità degli storici legati alla teoria diffusionista dall’Oriente. In un lento ma costante progresso della vita materiale e spirituale cresce dovunque il numero degli abitanti e con essi le necessità e le esigenze, senza che tuttavia il quadro di insieme subisca rilevanti mutamenti. Anche la distruzione di centri come Hacılar e altri mostra ricostruzioni in sintonia con la precedente cultura, senza lasciare emergere nuove popolazioni. Tra il 3500 e il 3200 a.C. assistiamo improvvisamente al processo di urbanizzazione della Mesopotamia meridionale e alla comparsa dei primi documenti scritti provenienti da Uruk, la più antica città della civiltà dei Sumeri, pur nella totale ignoranza rispetto all’origine di questo popolo. Ma questo è anche il momento legato alla nascita dell’Egitto predinastico e all’arrivo di nuove popolazioni in ambiente egeo, a cui seguirà la civiltà minoica. Sarà di questi misteriosi naviganti che recavano un’innovazione carica di infinite conseguenze, la conoscenza dei metalli, che cercheremo di seguire le tracce. I Greci che conservavano un barlume di memoria di tali antichissime migrazioni davano loro il nome di Pelasgi. La loro comparsa nel Mare Egeo determinò la fine dell’Età della Pietra e del Rame, il Calcolitico e l’inizio dell’Età del Bronzo suddivisa in Elladico antico, medio e tardo. A Creta, dove, come in tutto l’Egeo la frattura col Neolitico è evidenziata da radicali mutamenti negli stili e nelle forme ceramiche, questa suddivisione corrisponde a Minoico antico, medio e tardo. Per la presenza di numerose tombe circolari che s’incontravano nella regione libica, l’archeologo che ha effettuato gli scavi a Creta si convinse che si trattava di profughi in fuga dopo gli sconvolgimenti determinati dall’unificazione dell’Alto e Basso Egitto da parte di Menes attorno al 3000 a.C. Provenienti da un indefinibile “pelago”, i Pelasgi hanno lasciato tracce ciclopiche anche al di fuori dell’Egeo, intervenendo attivamente nella colonizzazione della penisola italiana come dimostra la tradizione storica. Un popolo mitico, leggendario, rimasto sempre avvolto nel mistero di un’origine mai storicamente inquadrata e chiarita, una sorta di ombra per l’archeologia. È successo perfino che molti siti riferibili dalla tradizione ai Pelasgi siano letteralmente scomparsi dalle carte archeologiche in quanto ora attribuiti erroneamente ai primi secoli di Roma (VI-V sec. a.C.), nonostante il fatto che mai i Romani si espressero architettonicamente con le 63

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soluzioni ciclopiche (megalitiche) ad incastro poligonale utilizzate dai Pelasgi. Non a caso queste mura ciclopiche tuttora presenti in molti siti del Lazio e dell’Umbria sono misconosciute a dispetto della loro grandiosità, paragonabile solo con quelle ciclopiche di Micene e Tirinto attribuite, sempre dall’antica tradizione, ai Pelasgi. L’arte espressa nel III millennio dalle popolazioni egeo-pelasgiche lascia stupefatti per l’incredibile modernità concettuale. Molto nota è la pala del III millennio (Tav. 7) dove accanto ad una nave di grandi dimensioni sono presenti elementi decorativi a spirale che ci riportano alla civiltà megalitica atlantica. Una simbologia che troveremo anche fra i primi Minoici e che proseguirà nel tempo passando poi ai Celti, sino ai Vichinghi.

2.2. I Pelasgi La storia ci insegna che civiltà come quelle precolombiane si sono sviluppate senza la tecnologia dei metalli, rimanendo confinate a quella litica; il passaggio da una fase litica a quella dei metalli, bronzo compreso, non dà certo nessuna garanzia di civiltà, tanto che in piena Età del Bron-

Tav. 7: Sopra e a fianco: III millennio a.C., cultura cicladica. Opere delle più antiche popolazioni pelasgiche insediatesi nelle Cicladi. Le spirali e la nave rappresentate sono le stesse della civiltà megalitica atlantica.

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zo in Europa la civiltà si era sviluppata solo nella regione egea, nonostante la scarsità di metalli di quest’area. È proprio sulla nascita dell’Età del Bronzo che si cela l’ennesimo enigma. È necessario chiarire che lo stagno fonde a soli 228˚C e che quindi, se fosse stato presente nelle aree dove si era sviluppato il calcolitico, il bronzo sarebbe stato prodotto. È stata la pressoché totale assenza dello stagno nel Mediterraneo a trattenere e rallentare l’esplosione dell’Età del Bronzo. Come è stato possibile che questa tecnologia si sviluppasse in un’area dove lo stagno era assente? I Pelasgi ne possedevano il segreto e la tecnologia necessaria. Ascoltiamo cosa ci raccontano i testi a proposito, da Clark: La scarsità di oggetti di metallo nel periodo I di quella che si usa per convenzione indicare come l’Età del Bronzo antica in Grecia, a Creta e nelle Cicladi è stata spesso contrapposta alla relativa abbondanza di tali oggetti nella Troade, a Lemno e a Lesbo. Troia I e II, Poliochni e Thermi, i centri principali di questi territori, produssero ognuno dei fabbri specializzati, i quali non solo fondevano il minerale cuprifero e ne facevano asce piatte, scalpelli e pugnali a codolo con nervature centrali ben marcate, ma sapevano già aggiungere altri metalli per ottenere leghe più robuste. È inoltre evidente che sapevano come procurarsi lo stagno. Qualunque fosse la fonte da cui traevano le loro risorse di metalli – non abbiamo infatti una conoscenza precisa della provenienza dello stagno usato nel mondo egeo – è certo che questo metallo era raro e si poteva ottenerlo solo attraverso un’efficiente rete di scambi. L’attività di questa rete di scambi, che procurava anche altri materiali fra cui oro, argento, lapislazzuli e manufatti già lavorati, associandosi a un considerevole progresso nella specializzazione artigiana, documentato dagli squisiti gioielli, dalle coppe d’argento e dall’introduzione del tornio, avvenuta prima della fine di quel periodo, si accompagnava con l’insorgere di una nuova classe che si distingueva dalle varie categorie di artigiani sia per il grado che per le funzioni sociali1.

Quindi ecco apparire una nuova migrazione da una patria sconosciuta ma dove certamente era in atto un’evoluzione tecnologica di livello assolutamente primario. Etimologicamente, il termine pelasgicos deriva da pelagos e il pelagos è il mare nella sua accezione più remota e lontana. È alquanto interessante notare che in greco moderno la forma verbale riflessiva pelagonomai significa “perdersi nel caos”, cosa che peraltro si conserva nella forma verbale italiana “impelagarsi”. Anche da una speculazione così semplice e banale si evincono due elementi fondamentali: il primo è il concetto di una provenienza estremamente remota dal mare, il secondo che in questo luogo di provenienza doveva essersi scatenato qualcosa di tale portata da giustificare quel “cadere nel caos” che acquisisce la forma verbale riflessiva ancora oggi utilizzata. 65

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Non abbiamo notizie sulla provenienza dei Pelasgi, i Greci stessi che ce ne tramandano il ricordo sono incerti se considerarli della loro stessa famiglia; possediamo quindi solo tessere di un mosaico difficile da ricostruire. Venivano considerati come dei nomadi del mare. Secondo Omero alla guerra di Troia c’erano guerrieri Pelasgi da entrambe le parti. Provenivano dalla “pelasgica Argo” alcuni fra i Greci, mentre da Larissa arrivavano i guerrieri di Ippotoo il pelasgico. Anche le più antiche mura di Atene erano definite pelasgiche così come molti autori, compreso Omero, definivano pelasgico il grande e più antico oracolo di Zeus a Dodona in Epiro il cui santuario, il più arcaico di tutta la Grecia, manterrà perenne nei secoli il proprio carisma. Anche in Italia lasciarono evidenti ed importanti impronte del loro passaggio: come ad Otranto, il cui lungomare si chiama ancora oggi “Rive dei Pelasgi”. Sono naturalmente i due primi storici Erodoto e Tucidide che tratteggiano un quadro più completo. Erodoto associava ai Pelasgi, oltre ad Atene e Dodona, la costa del Peloponneso e dell’Egeo nordoccidentale, le isole Samotracia e Lemno. Sarà opportuno sottolineare che proprio a Lemno è stata ritrovata una stele che si può considerare un documento eccezionale, con una lingua sconosciuta ma che risulta molto simile alla lingua degli Etruschi, considerati essi stessi Pelasgi da molti autori. Dionigi di Alicarnasso sosteneva che i Pelasgi fossero gli antenati dei Greci che per primi avevano popolato l’Egeo e l’Arcadia, e dello stesso parere erano gli storici romani più importanti. Premesso che i Greci consideravano se stessi divisi in tre stirpi, Ioni, Achei (o Eoli, o Micenei2) e Dori, Erodoto afferma che i Pelasgi, pur avendo vissuto in tutta la Grecia, erano gli antenati soltanto degli Ioni. Anche Tucidide fornisce un quadro assai simile:

Tav. 8: Arte cicladica, III millennio. Si tratta delle opere che maggiormente hanno influenzato gli artisti moderni. La loro bellezza essenziale esalta sia la concettualità che la sensibilità artistica.

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Sembra chiaro che quella che ora è chiamata Grecia non fosse in antico stabilmente abitata, ma prima avvenissero migrazioni e facilmente i singoli gruppi lasciassero la propria terra, costretti di volta in volta da gruppi più numerosi. […] Furono le singole genti, per lo più i Pelasgi a dare al paese di volta in volta i loro nomi3.

Sono tutt’oggi presenti e numerosi questi toponimi che i Pelasgi e altre genti che noi consideriamo pelasgiche come i Lelegi, i Cari, i Tirseni apposero al paese. Si tratta quindi della più antica traccia linguistica conosciuta prima dei Greci. Questa lingua si è rivelata sorprendentemente essere il luvio, cioè la più antica lingua anatolica, precedente l’ittita con cui è imparentata, quindi la più antica lingua indoeuropea conosciuta. Possiamo semplificare con un esempio: il monte sacro ai Greci in Delfi è il Parnassos ma la parola parnassos in greco è priva di significato, mentre in luvio parna è la casa o il tempio e assos significa luogo, quindi parnassos significa “luogo del tempio”. A Creta i Minoici possedevano una scrittura chiamata lineare A; sopraggiunti i Micenei essi ne derivarono un tipo di scrittura detto lineare B. Quest’ultima fu con successo e con scalpore decifrata nel 1952 da Michael Ventris ed oggi sappiamo che il lineare B non è altro che una forma particolarmente arcaica del greco. Applicando i valori fonetici del lineare B a quelli del lineare A, un altro grande studioso, Leonard R. Palmer, ha scoperto importanti parallelismi morfologici con il luvio. Grazie ad ulteriori prove come quelle prodotte da Furumark, la maggior parte degli studiosi ritiene che la lingua minoica sia il luvio. Charles Dufay, dopo aver asserito che il minoico è una lingua luvia dice: Palmer ce ne ha dato varie dimostrazioni. Ne aggiungeremo un’altra che dobbiamo al Furumark, il quale ha esaminato il nome della Dea cretese Dictinna, o Dictynna. Il significato di questo nome, che deriva ovviamente da quello del monte Dicte (o Dicta), ove la Dea in parola aveva un celebre santuario è facilmente intuibile o, per dir così, trasparente: “quella di Dicte”. Ma in quale lingua, si è chiesto allora Furumark, i nomi che derivano da nomi di luogo, o nomi topologici, si costruiscono mediante un suffisso inna, o ynna e affini? La risposta è una sola: il luvio. Sicché, come dice Palmer, “il popolo che coniò questo nome dal nome del sacro monte di Dicte poteva soltanto essere quello la cui lingua possedeva questa risorsa morfologica; in altre parole era il luvio4.

È necessario ora focalizzare la grande area geografica esposta alla “luvianizzazione” ed in che modo essa si sia espansa una volta chiarito che furono i Pelasgi, come racconta Tucidide, a dare i nomi al paese. Delle due sponde dell’Egeo quella più appetibile era sicuramente quella turca che apre le strade dell’Anatolia. Infatti tutti i toponimi in –nthos (come Co67

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rinthos) e in –assos (come Assos, Cnossos, Thermessos) che sono ampiamente rappresentati sia in Grecia che a Creta, sono altrettanto presenti su tutta quell’area della Turchia che gravita sull’Egeo e sono di origine luvia. Al contrario di quello che avviene in Grecia questi toponimi non sono di sostrato ma fanno parte della normale etimologia luvia o ittita. Sarà molto interessante conoscere a questo punto alcune intuizioni risalenti al XIX sec.: Per quanto riguarda la Grecia, tale toponomastica si ritrova sia a Creta che nell’Egeo e nella Grecia continentale. Già nel XIX sec., però, H. Kiepert, specialista in geografia dell’antichità, notò che i suffissi –nth e –(s)s avevano un equivalente quasi identico in toponimi dell’Asia minore: Alabanda, Kalynda, Arykanda, Telanissos, Lirnessos. Su questa base linguistica, P. Kretschmer, verso la fine del secolo elaborò una teoria che godette dell’assenso generale. Secondo il linguista austriaco, sarebbe esistito un solo sostrato pregreco, identico a quello dell’Asia minore, del quale non sarebbe altro che un prolungamento. Altri studiosi ampliarono la zona di estensione di questo sostrato, fino a far abbracciare ad essa tutto il bacino del Mediterraneo, dalla penisola Iberica al Golfo Persico. Per questo, in mancanza di un nome più adatto, fu chiamato sostrato mediterraneo. Di esso sarebbero sopravvissute delle piccole isole, in particolare il basco, l’etrusco e le lingue caucasiche. Per alcuni si sarebbe esteso ancora più a Est, fino ad arrivare in India dove le lingue dravidiche sarebbero le attuali sopravvissute. […] Uno dei dati che sono stati addotti è il nome Iberia, Iberi, presente sia in Spagna che nel Caucaso. Così come il nome del fiume Ebro (Iber), sicuramente in rapporto con i precedenti che ha equivalenti in Serbia (Ibar) e Bulgaria (Ibùr). […] Georgiev chiamò “Pelasgico” il popolo indoeuropeo responsabile di questo sostrato, adottando uno dei nomi che i Greci davano ai primitivi abitanti dell’Ellade. Seguendo la proposta di Budimir, però, pensava che il termine fosse una forma alterata per etimologia popolare partendo da pelagos “mare”. La sua forma originaria doveva conservarsi in pelastikos, parola che alcuni scoliasti trasmettono come il nome che si dava ai contadini dell’Attica. Per questo riteneva che la forma antica dovesse essere pelastas, palastas o palaistas, mettendo così in relazione questo nome con Palestina e Filistei5.

Queste conclusioni risulteranno di estrema rilevanza tanto più che l’equazione pelagos-pelasgikos-pelastikos (filisteo o palestinese) ci fornirà la chiave di interpretazione dell’ultima grande migrazione indoeuropea del 1200 a.C. dove i Filistei appaiono i più potenti insieme agli Achei ed a capo della confederazione dei numerosi e misteriosi “Popoli del Mare” che sovvertiranno di colpo l’intero assetto del Mediterraneo, causando la fine dell’Età del Bronzo.

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È difficile non cedere ad una digressione sulla lingua etrusca anche se la storia di questo popolo sembra riguardare l’Età del Ferro. Ma l’origine pelasgica degli Etruschi, come ci racconta tutta una tradizione a cominciare da Erodoto, l’inevitabile accostamento all’iscrizione “tirrenica” dell’isola di Lemnos e le più recenti acquisizioni degli studiosi possono fornire nuovi elementi per la comprensione dell’enigmatica presenza dei nostri antenati Etruschi. Quella parte del mondo accademico che considerava l’etrusco non indoeuropeo è destinata a ravvedersi totalmente. Non possiamo infatti che condividere le affermazioni di Alessandro Morandi che inizia la premessa al suo Nuovi lineamenti di lingua etrusca con queste stesse parole: “La lingua etrusca è di origine indoeuropea: è il concetto basilare di quest’opera”6. La comparazione linguistica con elementi greco-micenei, ittiti, latini, umbro-sabellici ecc. ha fornito materiale sufficiente ad offrire evidenze considerate inoppugnabili, ma non è tutto; direttamente da Morandi: Gli esempi di corrispondenze rilevati inducono dunque a ricercare, con il sussidio di confronti a livello indoeuropeo, altri possibili contatti, oltre a quelli osservati nel passato fra ambiente etrusco e ambiente greco, contatti che andrebbero riproposti con gli opportuni aggiornamenti. In tal senso andrebbe rianalizzata anche l’iscrizione “tirrenica” di Lemnos – qui non trattata – che si situa geograficamente in piena area greca e che studi del passato, ma anche di tempi recenti, inseriscono nella problematica dei Pelasgi. Certo, l’iscrizione di Lemnos è difficilmente rapportabile a dialetti greci conosciuti; tuttavia la forma onomastica e le desinenze dei casi fanno pensare a un’indubbia indoeuropeità, anche se confinabile in una regione periferica all’ambiente che qui interessa, e forse assimilabile alle lingue di genti frige e microasiatiche in genere. Il recente studio monografico del Briquel sui Pelasgi e su Lemnos ha fornito precisazioni di notevole portata; da quest’opera si ricavano dati che dovrebbero sgomberare il campo dalla tesi preconcetta che il mito pelasgico – della immigrazione, cioè, in Italia di genti dall’Egeo e dalla Tessaglia – sia sorto in Grecia e ripreso in Italia per pura speculazione erudita, confine eminentemente politico-nazionalistico, quale poteva essere la nobilitazione delle genti etrusche nei confronti dei Romani e di altri popoli. Ma la storicità dei Pelasgi – o di genti denominate in tal modo da storiografi più tardi – e di una loro immigrazione in Italia, è dimostrato proprio dal fatto linguistico, testimoniato nella sopra richiamata stele di Lemnos e in altri frammenti: nell’isola dell’Egeo settentrionale, ancora nel VI sec. a.C., si parlava una lingua del tutto simile a quella etrusca. Se speculazione erudita vi fu, questa, da parte ellenica, tendeva dunque a spiegare e a spiegarsi le sconcertanti corrispondenze tra mondo egeo e mondo etrusco sul piano linguistico, ma verosimilmen-

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te anche su quello culturale, visti i rapporti rilevabili tra villanoviano (cultura etrusca) e culture del Ferro in Grecia. Di queste remote relazioni egeo-pelasgiche anche gli Etruschi avevano piena cognizione se, nei secoli VI e V a.C., erano diffuse in Etruria forme onomastiche quali Lemnite, Lemnie, Kraikalus, che rimandano all’ambiente greco dell’Egeo settentrionale7.

Delle altre popolazioni a cui abbiamo già accennato presenti nell’area egea, i Cari, che vengono ricordati da Tucidide anche come “marinai di Minosse”, occuparono solo più tardi la costa asiatica dando il nome a quella regione. Essi si ritenevano fratelli dei Lidi ed Erodoto ci conferma l’origine lidia dei Tirseni (o Tirreni, Tyrsenoi): ebbene, c’è una pressoché unanimità di giudizio da parte dei linguisti che riconoscono il cario e il lidio far parte delle lingue di ceppo luvico. Tutto ciò riesce quindi a delineare un quadro piuttosto omogeneo e chiaro di appartenenza alla grande nazione pelasgica in cui si parlavano diverse forme di luvio. I Pelasgi inoltre venivano distinti, come racconta Erodoto, a Creta dagli Eteocretesi che risulterebbero essere i diretti discendenti della prima colonizzazione neolitica. Sarà questa cultura pelasgica a creare le prime cittadelle fortificate: il megaron diventerà un elemento costante dell’architettura diffuso da Troia e Cnosso a Beycesultan e si svilupperà la produzione di una particolare ceramica con disegni a spirali e meandri.

2.3. Analisi sull’origine dei popoli anatolici, diffusione luvia Si rende per noi necessaria un’analisi storico-archeologica su diversi problemi tra cui la già decaduta teoria di un’invasione dell’Egeo da parte di popolazioni anatoliche e l’origine degli Ittiti, erroneamente considerati per lungo tempo come i primi Indoeuropei a sovrapporsi su di un substrato anatolico preindoeuropeo. La costante e testarda propensione che la civiltà fosse necessariamente prima anatolica che egea in una scontata espansione della teoria diffusionistica, e inoltre la non chiarezza cronologica risultante da certi siti anatolici come Beycesultan avevano indotto a considerarne l’architettura a megaron del palazzo il nucleo originario di tutta la civiltà minoico-cicladica e di quella di Troia. L’impossibilità di individuare un’area d’origine delle popolazioni pelasgiche, poiché nessun luogo presentava le caratteristiche necessarie ad ospitare un tale nucleo di rivoluzionaria espansione (problema che puntualmente si ripresenterà con i Micenei e poi con i Dori) ha indotto gli storici prima a collocarne l’origine in qualche punto indefinito dell’Oriente, poi a Beycesultan per un’errata datazione fatta con il C14. Più precise e corrette valutazioni cronologiche hanno restituito ai siti di Creta, Troia ed altri insulari egei come Poliochni a Lemno, una palese maggior antichità riportando il problema dell’origine pelasgica a galleggiare nel vuoto. 70

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Cercheremo di aprire uno spiraglio attraverso la logica. Sappiamo innanzitutto che i primi siti dove appare questa cultura che doveva parlare il luvio e possedere il segreto della metallurgia si localizzano sulle isole dell’Egeo. La civiltà viene dal mare e prima di toccare le coste anatoliche e quindi di assistere alla fondazione di Troia I nel 3000-2900 a.C. sono più che ben documentati i siti pelasgi delle Cicladi o quello di Poliochni a Lemno, dove la presenza del megaron non lascia spazio ad alcun dubbio. Mellaart, oltre che dissipare dubbi, ci regala anche delle immagini: Il sito più importante, che ha fornito resti imponenti dell’AB 1, era presentato dall’insediamento anatolico di Poliochni, sull’isola di Lemno sul mare Egeo, che venne riportato alla luce da una spedizione italiana negli anni Trenta e sul quale, dopo controlli stratigrafici, fu pubblicata una relazione da Bernabò Brea. Poliochni fu fondata durante l’AB 1 ed era molto più antica di Troia. La città, lunga circa 250 metri, era circondata da un muro di fortificazione in pietra con torri che fiancheggiavano una stretta porta. Proprio dentro la porta v’erano due edifici pubblici, un granaio lungo e stretto ed un grande edificio aperto con due ordini di banchi su uno dei lati lunghi. Le case erano del tipo detto megaron, cioè edifici lunghi con un atrio e un portico sul lato corto attraverso cui si entrava, ai quali potevano essere aggiunte altre stanze sussidiarie. Col trascorrere del tempo Poliochni si allargò al di fuori delle mura originarie della città, e all’inizio dell’AB 2 vennero costruite nuove fortificazioni provviste di porte e di formidabili contrafforti. Nell’AB 3 appare evidente un sistema di pianificazione della città con strade principali e strade secondarie diramatesi dalle prime pressappoco ad angolo retto, in modo da formare una griglia. Ciascun blocco di case possedeva almeno un megaron, talvolta due, con cortili chiusi e almeno una fila di stanze sussidiarie sul lato lungo dell’edificio. Sono state rinvenute due piccole piazze cittadine, in ciascuna delle quali v’era un pozzo, una piazza aveva un megaron a se stante, con una stanza senza porta nella quale furono trovati due corpi, forse conseguenza di un disastro, apparentemente un terremoto, che sopraffece la città. Si è supposto che questo megaron, data la sua posizione centrale, sia stato un edificio pubblico, forse un tribunale con la prigione alla porta accanto8.

Né in quest’epoca né in quelle successive vi saranno evidenze di elementi culturali importati dall’Europa (le coste nord dell’Egeo, Macedonia e Tracia entreranno solo assai tardi nel movimento della civiltà egea) né tanto meno risultano segni di una penetrazione dei “Kurgan” nell’Anatolia nordoccidentale. Nella fase successiva, questa civiltà che troverà in Troia un crocevia fondamentale di commerci, come sarà un giorno la città di Costantinopoli, si irradierà straordinariamente in tutte le direzioni raggiungendo un 71

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primato indiscusso nella lavorazione dei metalli. Questa diffusione ad opera di un popolo “migrante” propagherà la sua civiltà urbana e raffinata anche al di là del Mediterraneo orientale con tracce che arriveranno alle coste provenzali e alle Baleari. Prima di lasciare parlare l’archeologo James Macqueen che ci illustrerà la diffusione in Anatolia del popolo il cui linguaggio indoeuropeo è il primo intelligibile della storia, è necessario ricordare la già sottolineata bellicosità e litigiosità come una caratteristica costante degli Indoeuropei, anzi, popoli che parlano due dialetti della stessa lingua si mostreranno, al loro apparire sulla scena storica, come acerrimi nemici apparentemente a causa di antichissime faide. Ciò è testimoniato dall’odio di certe genti italiche per i Latini9 o dall’antagonismo fra Dori e Ioni che sfocerà nella guerra fra Sparta ed Atene e per finire dalla evidente competizione fra clan dello stesso popolo come tra i turbolenti Sardi. Vi furono diverse migrazioni: costretti ad abbandonare i propri territori affrontando un esodo senza ritorno, molti di questi navigatori cercavano territori da conquistare. Chi per dignità e valore non sentiva di essere secondo a nessuno non poteva che trovarsi in una situazione ideale per costruire il proprio potere. Questo è testimoniato sia dalle imponenti difese dovunque evidenti ma ancor più dalle distruzioni senza l’indizio di nuovi arrivati e quindi tracce di culture estranee. Ciò può spiegare quell’insolito fatto per lo più incompreso per cui alcuni Indoeuropei, contrariamente ai loro costumi, assumevano il nome della terra in cui si insediavano, come fu per la gente di Hatti, di Pala, di Luvia, invece di imporre quello della propria tribù. È il caso anche degli Ittiti, i quali presero questo nome derivandolo dalla cultura di Hatti a loro precedente e sul cui regno si insediarono. La visione di certi territori doveva apparire come l’Eldorado a coloro che erano arrivati spinti da motivi che non lasciavano spazio a nessuna alternativa e signori dell’Eldorado sognavano di diventare. Certo le genti più pacifiche cercavano nuovi e vergini territori dove iniziare la lenta e dura trasformazione dell’ambiente mentre altre preferirono decisamente la spada alla zappa. Leggiamo ora da Macqueen: Si può a grandi linee tracciare il progresso dei nuovi arrivati, una volta giunti in Anatolia. Inizialmente si accontentarono di cementare la prosperità del Nord-Ovest lungo le linee di comunicazione locali, ma dal 2600 a.C. circa si erano spinti tanto all’interno da raggiungere Beycesultan saccheggiando il livello XIIIa, ed introducendo una cultura del tipo Troia I. La distruzione di Troia I seguita da quella di Troia IIa, dimostrava soltanto un temporaneo regresso, ed in breve, dopo il 2500 a.C., i troiani erano abbastanza sicuri e prosperi da stabilire relazioni commerciali con paesi lontani. Si può constatare un rapporto con la Cilicia, probabilmente via mare, nell’introduzione del tornio da vasaio nel Nord-Ovest, durante la fase IIb, e, se accettiamo le testimonianze

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di Dorak10, le relazioni con l’Egitto erano abbastanza comuni per lo scambio di doni diplomatici. Verso il 2400 a.C. l’attrazione della Cilicia si dimostrò talmente forte da essere largamente “accettata” dagli anatolici Nord-occidentali (non proprio “troiani”: queste culture non sono affatto identiche); la Cilicia si dimostrò tanto più conveniente come centro commerciale, che il Nord-Ovest, come è evidente in Troia IId-g, iniziò a perdere importanza. Nel frattempo essa continuava a prosperare e la sua influenza si diffondeva attraverso i passi del Tauro, avanzando nelle parti meridionali e sub-meridionali dell’altopiano dove questo è evidente nelle forme della ceramica a Beycesultan (livello XIII). Ma la popolazione di Troia II essendo ostacolata la sua espansione marittima, iniziò ad espandersi nuovamente all’interno del territorio, e verso il 2300 a.C. aveva raggiunto e distrutto Beycesultan spingendosi attraverso la pianura di Konya sino alle colline ai piedi del Tauro. Ad ogni modo il risultato totale di queste conquiste fu disastroso. Troia stessa non poté trarne vantaggio, perché nel 2200 fu distrutta dal fuoco, apparentemente senza la responsabilità di alcun nemico esterno. Si ha l’impressione globale di un serio declino della cultura materiale11.

Molti storici evidenziavano una frattura culturale fra l’Elladico antico e quello medio, fatto non osservatosi fra Minoico antico e medio, dove viene apprezzata una maggiore continuità. Per molto tempo gli storici avevano ipotizzato in questo momento storico l’arrivo di Indoeuropei bellicosi, cioè gli antenati dei Greci. Ciò non appare essere la realtà storica, infatti i nuovi arrivati hanno gli stessi fondamenti culturali, come quello dell’utilizzo del megaron, pur importando innovazioni come la ceramica minia. Si esprime così un’armonia fra la diffusione linguistica definita “luvianizzazione” e l’analisi storico-archeologica: il luvio si diffuse in Anatolia partendo prima dalle isole dell’Egeo, poi dalla base strategica di Troia, con l’evidente coinvolgimento dell’intera area della Cilicia che manteneva con Troia evidenti contatti via mare. Sono di Troia II i gioielli trovati da Schliemann e da lui stesso attribuiti a Priamo con un errore di circa 1500 anni, ma a Troia I sono già presenti ben più importanti fusioni in bronzo che rivelano la presenza dello stagno e quindi la capacità di accesso ad una fonte del tutto sconosciuta del preziosissimo elemento. La risposta a questo quesito fondamentale trova un vuoto sconcertante anche nelle parole di un grande dell’archeologia come Mellaart, il quale, parlando della fonte dello stagno utilizzato a Troia I asserisce: “Secondo il parere di molti studiosi, poteva essere situata in Europa, forse in Iugoslavia o ancor più lontano, in Boemia”12. Si tratta ovviamente di congetture senza alcun riferimento archeologico. Lo stagno è un’incognita costante per tutta l’epoca del Bronzo perché mai nell’area mediterranea o mediorientale si trovarono quantità di stagno tali da giustificare il quantitativo di bronzo prodotto durante l’intera era. 73

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Esistono altresì testimonianze che nei luoghi dove fu ritrovato iniziò un frenetico e capillare sfruttamento delle risorse, che rappresentano tuttavia una bassissima percentuale del quantitativo effettivamente utilizzato. Successivamente, sorprendentemente, sarà indicata la Cornovaglia come il più probabile centro di diffusione dello stagno in Occidente. La storia sembra voler considerare i Micenei come i più arditi navigatori e quindi gli unici in grado di superare le Colonne d’Ercole, forse raggiungere la Cornovaglia ed instaurare una necessaria e funzionale linea commerciale. Utilizzavano i Pelasgi la stessa rotta? L’indicazione del superamento delle Colonne d’Ercole entrando nel Grande Mare, che per gli antichi era circondato dal fiume Oceano, è molto forte, mentre appare improbabile ai più una diffusione dello stagno per via terrestre proveniente dalle stesse regioni.

2.4. La cultura di Hatti Rientriamo ora in Anatolia dov’è facile seguire la diffusione luvia identificata dal megaron e naturalmente da altre caratteristiche come la ceramica ed altro di cui daremo solo degli accenni. Ad Alaça Höyük, sito nei pressi di Ankara ma a contatto con più antichi insediamenti della costa del Mar Nero, vengono trovate, in tombe principesche, mirabili fusioni in bronzo con alto contenuto di stagno, prodotte con la tecnica della “fusione a cera persa” mai riscontrata prima, tanto meno in Mesopotamia. Per quanto sia possibile in senso teorico, vista la carenza di elementi di giudizio, supporre che la lingua hatti non sia indoeuropea, ciò non tiene palesemente conto delle simbologie che ripetutamente fornisce questa cultura, anzi per lo più appare che simboli come la svastica ed altri tipicamente indoeuropei si diffondano ubiquitariamente proprio dove questa stessa cultura si afferma. È in questo caso quindi un errore di approccio al problema il voler necessariamente creare una netta separazione fra Indoeuropei e preindoeuropei, mentre esistono un legame e una continuità manifesta. Questi antichi principi che recavano svastiche sui loro stendardi presiedevano probabilmente la città santa di Arinna, Dea solare moglie del Dio delle tempeste di Hatti13, capitale del regno che sarà poi degli Ittiti. Questa cultura si estese all’Anatolia e lasciò tracce particolarmente evidenti in Cappadocia a Kültepe, l’antica Kanesh. Questa diventerà una località chiave d’incontro tra Luvi ed Assiri, i quali dopo il tramonto di Ur avevano esteso un’efficace rete commerciale sino a creare in Anatolia delle “colonie commerciali” (Karum) con base principale a Kanesh. Gli Assiri, che utilizzavano il cuneiforme, ci hanno lasciato numerose testimonianze ricche in senso onomastico14 e ciò fornisce un’ulteriore inconfutabile prova dell’elevata proporzione numerica degli Indoeuropei in Anatolia centrale in un’era, il 1850 a.C. circa, in cui gli Ittiti dovevano ancora entrare in scena. Dal punto di vista archeologico, oltre al solito megaron, è fa74

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cile osservare nell’area di Kanesh ceramica del tutto corrispondente a quella rinvenuta in Cilicia della cosiddetta fase troiana. Leggiamo ancora da Macqueen: Per parecchie centinaia di anni Kanesh ebbe un ruolo egemone nelle vicende centro-anatoliche, ma poco dopo il 1800 i re di Kussara, una città alla periferia nord-orientale di quest’area, iniziarono ad estendere la loro influenza verso Ovest. Kanesh ed altre città centrali furono conquistate e Kussara, alla fine, riuscì a succedere nella posizione di dominio. Un centinaio di anni dopo, […], dei signori che dovevano essere in qualche modo in relazione con Kussara stabilirono a Hattusas la loro capitale, e da allora il loro linguaggio divenne in modo riconoscibile una forma ittita, lievemente arcaica15.

Si è quindi giunti alla differenziazione della lingua ittita da quel substrato linguistico, che sarebbe opportuno definire “proto-luvio”, per l’epoca che riguarda le fasi iniziali della migrazione e della penetrazione territoriale. Successivamente, com’è giusto attendersi, nello scorrere di molti secoli avverrà la differenziazione nei vari dialetti luvi compreso l’ittita arcaico che però presenta caratteristiche nuove e innovative. Il luvio rimarrà successivamente, al tempo degli Ittiti, la lingua ufficiale di un potente regno localizzato su gran parte dell’area dell’Anatolia che guarda l’Egeo: il regno di Arsawa. Ma ci preme ancora una volta sottolineare che il fenomeno ittita nasce ed emerge dal substrato proto-luvio, quindi pelasgico, di cui abbiamo ben evidenziato la diffusione. È quindi decisamente giunto il momento di accantonare completamente la falsa teoria ancora tanto diffusa dell’invasione anatolica degli Ittiti provenienti dal Caucaso, ostentata nel tentativo di armonizzare i fatti con le teorie kurganiche e caucasiche. È questo il caso in cui, piuttosto che ammettere i limiti della propria conoscenza, si è prodotta artificialmente una teoria che con tutta probabilità richiederà molto tempo prima di essere completamente cancellata dai testi. Certo non tutti gli storici sono stati avvinti dalle spire di un conformismo ortodosso troppe volte erroneo. Uno di questi è Macqueen, che lo chiarisce con evidenza: Il periodo immediatamente successivo, dal 1940 al 1780 circa, è ampiamente indicato dai documenti dei mercanti-coloni assiri. Tali documenti contengono frequentemente nomi di indigeni anatolici, e per molti anni si sono intensamente studiati con la prospettiva di rintracciare le lingue parlate in quell’epoca. Inizialmente gli studiosi erano inclini al parere che fosse possibile trovare soltanto pochi nomi con etimologia indoeuropea e che nessuno di essi fosse ittita senza possibilità di errore. Ciò fece nascere l’idea che nel periodo conosciuto come Karum II, verso il 1840, fosse in realtà un’indicazione del loro arrivo. Si tracciò una linea di distruzioni dal

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Caucaso all’Anatolia centrale, circa nello stesso periodo e la si fece combaciare con l’itinerario percorso dagli Ittiti dalle steppe della Russia meridionale. Ci sono molte obiezioni contro questa ricostruzione. La prima, ed anche la più importante, è che lo studio successivo dei nomi propri sui documenti assiri ha dimostrato che i nomi indoeuropei sono molto più numerosi di quanto fosse stato inizialmente supposto, e che molti di essi, tra cui la maggior parte di nomi di signori locali possono essere considerati “proto-ittiti”. In secondo luogo, molti archeologi negano una frattura essenziale nelle testimonianze archeologiche della Georgia e di altre zone attraverso le quali dovettero passare le pretese invasioni ittite. Come terza obiezione, la relazione linguistica tra ittita e luvico sembra troppo stretta perché si possa supporre che gli Ittiti entrassero in Anatolia per strade così diverse. La distruzione di Karum II non può essere accettata come segno del loro arrivo; al contrario sembra che a quell’epoca essi avessero già consolidato una posizione di potere, ed è ora possibile osservare che le prove linguistiche concordano con l’affermazione che l’Anatolia centrale era fondamentalmente ittita nel periodo coloniale, come gli archeologi hanno da tempo posto in rilievo16.

Non è superfluo ribadire che le teorie kurganiche e poi caucasiche sulla patria d’origine degli Indoeuropei si fondano su questa falsa ricostruzione storica, mentre tali acquisizioni non fanno che riportarci al vero quesito originale e cioè quello dell’origine del popolo che arrivò dal mare, che parlava il proto-luvio e che i Greci chiamavano Pelasgi, Cari, Lelegi, Tirseni. Anche Liverani, in una sua ampia analisi, è costretto a parlare di “marchiano equivoco” a proposito dell’impossibile sede primitiva kurganica: Per alcune poi delle caratteristiche della cultura hittita che vengono più o meno esplicitamente ricollegate ad un’eredità “indoeuropea”, si tratta certamente di un ulteriore e più marchiano equivoco. Posto che i gruppi linguisticamente indoeuropei siano derivati (scegliendo la soluzione più “bassa”, che comporta un più vitale mantenimento delle tradizioni di provenienza) dalla cultura “kurgan IV” della Russia meridionale alla fine del III millennio, ebbene questa cultura appartiene a pastori e guerrieri del livello calcolitico, che non conoscono né città né formazioni statali del tipo di quelle vicino-orientali, che hanno un modo di produzione (e dunque un sistema di trasmissione ereditaria) assai meno complesso di quello che troviamo in Anatolia come esito di uno sviluppo millenario. Come è possibile attribuire a questi Indoeuropei un particolare senso storiografico? […] Le guerre del Medio Bronzo siro-anatolico si combattono in contesti statali e tecnologici che non esistono certo nella “sede primitiva” dei popoli indoeuropei17.

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Tav. 9: Svastiche. Sopra: Vaso in terracotta proveniente da Hacillar. È questa una prova rilevante a sostegno della tesi di Renfrew sulla matrice indoeuropea della cultura anatolica di Hacillar e Çatal Höyük. A sinistra: Cultura di Hatti. Le svastiche nel caso del vaso in oro qui raffigurato e dell’ornamento in bronzo definito “stendardo” sono i simboli più rappresentati di questa cultura che senza motivazioni sostanziali è a tutt’oggi considerata dai più preindoeuropea, con grande sofferenza del processo storiografico.

È questa un’ulteriore conferma della radice pelasgica, poiché l’ittita, benché mostri una chiara autonomia linguistica, è inserito nel gruppo delle lingue anatoliche assieme al luvio. L’autorità e la diretta ascendenza che venivano riconosciute alle forme luvie precedenti l’ittita sono comprovate dal fatto che nella liturgia ittita veniva utilizzata la lingua degli Hatti, esattamente come succedeva a noi con il latino che per tanto tempo è rimasta la lingua ufficiale della liturgia. È del tutto da escludere che un popolo per officiare il proprio credo religioso adotti una lingua ed una terminologia estranee alla propria base culturale. Ecco quindi una possibile soluzione al fatto incompreso per cui gli Ittiti presero il nome della precedente cultura di Hatti, il cui altissimo livello è testimoniato dalle sepolture di Alaça Höyük prestigiose e regali, a dispetto degli usi indoeuropei che imponevano il proprio nome alle nuove terre conquistate. 77

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Tav. 10: Ecco come si sarebbe irradiata la migrazione indoeuropea dall’Ucraina secondo il modello proposto dalla Gimbutas. La civiltà dei Kurgan sarebbe la patria dai caratteri rozzi e nomadi delle raffinate culture indoeuropee come quella dei Greci, dei Frigi e degli Indo-iranici, i quali però non mostrano nessuna sede intermedia dove avrebbero maturato la loro cultura squisitamente cittadina e spesso legata indissolubilmente al mare.

Fra quegli stessi naviganti che probabilmente parlavano diverse forme dialettali di luvio e che si riversarono ad ondate nell’Egeo da prima del 3000 a.C. invadendo e penetrando l’Anatolia, emergono dalla tradizione personaggi dai connotati divini che trovarono a Creta il luogo ideale per esprimere il massimo della loro potenza, manifesta nella talassocrazia assoluta di Minosse, figlio di Zeus e di Europa. Erodoto narra che i Cari erano i marinai della flotta di Minosse. Europa, oltre al saggio legislatore di Creta aveva generato da Zeus anche Sarpedonte, divenuto re di Licia e Radamanto, che regnava sulle isole dei Beati, isole che sono sempre state avvolte da un’aura mitica, poste geograficamente dagli antichi all’estremo Occidente, come accadeva per altre isole dagli stessi connotati mitici. Le Cicladi, inizialmente così fiorenti, furono lentamente piegate dalla potenza emergente di Creta e l’ultima fu l’isola di Melo che con la sua ossidiana svolgeva fin dal primo Neolitico una frenetica attività commerciale. Il Minoico antico è molto scarsamente conosciuto dal punto di vista archeologico. Attorno al 2400-2300 a.C., nuove ondate lasciarono ovunque distruzioni, compresa quella di Troia II ma, come chiarito in precedenza, determi78

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narono la diffusione del luvio in Anatolia. Il bronzo e soprattutto lo stagno divennero un monopolio cretese che si perpetuerà nei secoli, mentre le navi minoiche solcheranno i mari in ogni direzione diffondendo ovunque i loro prodotti praticamente senza concorrenza ma, ancor più, esporteranno tecnica, nuovi costumi e nuovi gusti. Questo processo toccò il suo culmine con la costruzione dei primi palazzi di Cnosso, Festo e Mallia verso il 1900 a.C. Si trattava di grandi insiemi architettonici che raggruppavano costruzioni con finalità diverse situati nelle piane fertili: la potenza assoluta nel controllo sui mari era ostentata dalla mancanza di fortificazioni sull’isola a difesa dei palazzi. Non esisteva in tutto il Mediterraneo una potenza navale in grado di competere né di minacciare Creta, ma nel 1750 a.C. circa la distruzione totale si abbatté sui palazzi. Quello che viene definito il Minoico medio terminò con una catastrofe che certo non appare causata dalla natura. Di fronte però all’evidenza che nessun popolo asiatico aveva a quei tempi una flotta in grado di conquistare il dominio sui mari, gli storici hanno scartato l’ipotesi di un’invasione, ritenendo più probabile una rivoluzione interna. Siamo molto scettici di fronte a questo tipo di ipotesi, in quanto pur conoscendo gli aspetti spietati delle guerre civili, queste non conducono mai a distruzioni totali come invece chiaramente si dimostra in questa circostanza, né sembra un caso di guerra fra città o fazioni poiché nessuna di queste ci appare prevalere, salvarsi o sopravvivere. Più di 50 anni di assestamento e di stasi furono necessarie ai Minoici per risollevarsi da ciò che quella tremenda forza d’urto aveva generato. Creta trasformata in una tabula rasa potrebbe, secondo il nostro giudizio, essere stata investita e distrutta da una grandiosa azione piratesca di razzia. Chi fu quindi responsabile della fine di un’epoca? Chi proveniva dal mare con una forza inarrestabile, da quale regione incognita? Non siamo in grado di fare supposizioni, possiamo però sottolineare nuove presenze emergenti in aree geografiche che ben conosciamo: dalle coste dell’Est della Cilicia all’area di Mersin, sino alle coste della Siria e della Palestina, un’area di approdo ideale sia per l’ingresso in Anatolia attraverso le “Porte della Cilicia” sia per l’invasione dei territori dell’Alta Mesopotamia, facili da raggiungere lungo quegli stessi fiumi che anche nel Neolitico avevano rappresentato la più naturale via di penetrazione territoriale. In queste regioni è infatti possibile apprezzare un drastico cambiamento, con la presenza di nuovi popoli indoeuropei all’indomani delle distruzioni di Creta. Nuove e bellicose etnie indoeuropee si stanziano sulle coste asiatiche, affermandosi successivamente come stati potenti come quello dei Mitanni. Da dove provenivano?

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2.5. I Mitanni La situazione politico-culturale siro-palestinese prima del 1750 ci viene descritta dai testi egizi della XII dinastia come costituita da nomadi e seminomadi prevalentemente Hurriti, la cui lingua apparentemente non indoeuropea né semitica mostra sorprendenti caratteristiche simili al basco (sistema ergativo). Si trattava di una costellazione di piccoli agglomerati fortificati, governati più da capi tribù che da capi di città-stato. Durante la XIII dinastia vi è un incremento di questi piccoli staterelli che verso Sud sono amorrei semiti. Una trasformazione completa investe quest’ampia regione, non attraverso nuovi popoli colonizzatori quantitativamente molto più numerosi, ma tramite caste aristocratiche militari che possiedono lo strapotere di una terrificante macchina bellica mai vista prima: il carro da combattimento trainato da cavalli, anche questi apparentemente sconosciuti in precedenza. Grazie a questa nuova tecnica di guerra riusciranno a dominare le altre popolazioni e a fondare o mettersi a capo di vari imperi. Il più importante tra questi è sicuramente il regno dei Mitanni che raggiunse un tale potere da soverchiare l’impero ittita diventando il più importante interlocutore dell’Egitto durante l’epoca Amariniana. Gli Hurriti che popolavano buona parte dell’emergente regno mitannico furono quindi presumibilmente assoggettati da un numero limitato di aristocratici guerrieri indoeuropei, che però lasciarono tracce linguistiche evidenti sia nei nomi dei principi e dell’aristocrazia che nel trattato di Kikulli, Hurrita del regno dei Mitanni. Trattasi di un importantissimo testo di ippologia che conferisce ai Mitanni il primato assoluto su questo argomento e nel quale vengono utilizzati termini ed espressioni indoiranici molto simili alla lingua sanscrita, utilizzati anche fra gli Ittiti (ad esempio l’espressione in lingua indoiranica nawartanni wasannasya che significa “per nove giri del percorso” che in sanscrito diventa navartane vasanasya). Ecco cosa pensa Renfrew della sovrapposizione indoeuropea mitannica sul substrato hurrita: Se seguiamo l’argomentazione ampiamente sviluppata dagli studiosi, gli Hurriti del paese dei Mitanni dovevano già essere stati in stretto contatto con i gruppi che parlavano la lingua da cui sono stati tratti questi vari termini. In verità alcuni scrittori giungono fino a proporre che gli Hurriti siano stati assoggettati da un gruppo che parlava quella lingua. Una tale tesi dovrebbe spiegare i nomi dei re. E se si segue l’ipotesi che questa nuova classe dirigente concluse la sua conquista grazie all’uso del carro da guerra, che era allora un’innovazione recentissima, non sorprende come alcuni dei loro termini per l’addestramento dei cavalli ricorressero in una tavoletta scritta per i regnanti Ittiti da un Hurrita del paese dei Mitanni. Forse questa ipotesi è fin troppo facile ed

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è certamente fondata su un gruppo molto ristretto di parole, ma ogni indizio che possa dare prova di un’altra lingua indoeuropea molto arcaica, attualmente risalente al 1400 a.C., è importante18.

Il regno dei Mitanni si attesterà saldamente dalla regione costiera della Siria all’Alta Mesopotamia. Il linguaggio definito indo-iranico di questo popolo appare per la prima volta nella storia: si tratta di una lingua decisamente lontana e distinta dal gruppo anatolico luvio, considerata più recente linguisticamente e strettamente imparentata alla lingua ario-vedica di cui condivide anche le divinità. Ma una più ampia area geografica sembra risentire dell’apporto di questi potenti guerrieri. È un fatto altamente significativo che questa aristocrazia guerriera indoeuropea si troverà anche a capo dei Cassiti (popolo della zona montagnosa a Ovest della Mesopotamia) i quali invasero Babilonia introducendovi il carro da guerra. E fu questa sempre l’arma vincente di una popolazione eterogenea ma con a capo misteriosi principi indoeuropei che nel 1730 ca. invasero l’Egitto partendo sempre dall’area siro-palestinese: gli Hyksos, definiti dagli Egizi i “principi dei paesi stranieri”. Il terrore suscitato dalla macchina bellica improntata sul carro da battaglia aprì completamente le porte dell’Egitto agli invasori che per più di 250 anni dominarono il paese dalle basi del Nord, sul delta, sostituendosi ai dinasti egizi. Anche gli Ittiti s’impossessarono in breve dei cavalli e combatteranno allo stesso modo, come sarà anche per i Micenei che sembrano ritardare, anche se di poco, la loro comparsa rispetto all’epoca dei fatti narrati che si svolgono attorno al 1700 a.C. Gli Ittiti sembrano derivare dai Mitanni la loro forte cavalleria militare, come è testimoniato dal loro uso del linguaggio tecnico del Trattato di Kikulli. Ritornando ai Mitanni, la proposta teoria che li rende originari delle montagne dell’Armenia ci lascia del tutto increduli. Non riusciamo neppure ad immaginare come la Patria della lingua indo-iranica e ario-vedica, vista la loro estrema affinità, sia da localizzarsi fra qualche anfratto delle montagne armene, certo il luogo meno indicato per la concezione e l’utilizzazione del carro da combattimento che richiede ampie pianure dove mettere in atto la capacità di penetrazione e di sfondamento delle linee nemiche. Siamo di fronte alla comparsa di popoli nuovi ed emancipatissimi di cui è impossibile stabilire la provenienza, che manifestano un livello tecnologico tale da obbligarci a pensare ad un luogo d’origine diffusamente civilizzato e nel contempo già molto eterogeneo nella composizione della popolazione. Se verso il 3000 a.C. giunsero invasioni caratterizzate da aspetti linguistici che possono essere inquadrati in seno al luvio, e verso il 2000 a.C. molti storici credono di distinguere i primi elementi indoeuropei pregreci, dopo il 1700 nuovi invasori avevano già subito quella differenziazione linguistica nella forma arcaica del greco dei Micenei (Achei), in quella de81

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finita indo-iranica dei Mitanni, quella vedica degli Aryas e in quella degli Hyksos che riteniamo molto simile al miceneo e quindi al greco. L’iranico e l’ario-vedico derivano da un unico precursore. La loro separazione è considerata dai linguisti di poco precedente alla loro comparsa. È quindi nel centro di origine che avevano condiviso questa prima fase e la separazione deve considerarsi, come asseriscono i linguisti, di poco precedente alla loro localizzazione nelle sedi storiche tutt’altro che prossime. Va inoltre ricordato che si definisce indo-iranico il linguaggio dei Mitanni non perché esista la benché minima prova di un’origine iranica di questo popolo bensì perché fu questa la lingua che si diffuse a partire da un’area molto più prossima al Mediterraneo, cioè proprio quella zona che sembra la naturale porta d’ingresso dell’Alta Mesopotamia per chi giunga dal mare. In India le invasioni ario-vediche si sovrapposero alle popolazioni di lingua dravidica grazie al carro da battaglia; anche le divinità del pantheon indiano sono le stesse dei Mitanni e si chiamano allo stesso modo: Indra, Varuna, Mitra. Certo non è possibile individuare alcun luogo, prima del sopraggiungere di questi popoli che compirono imprese straordinarie alla conquista di un continente, che possa farci pensare a quell’area nucleare dove furono concepiti i Veda. È opportuno ricordare che il vedico (diventerà in seguito sanscrito) è molto affine al greco. Le più antiche tombe micenee mostrano il sacrificio del cavallo come le prime documentate sepolture vediche. Ma qual è la patria dei Greci? Come si può conciliare una più che sicura origine comune localizzando in Armenia la patria degli Indo-iranici e nei Balcani quella dei Greci? Se linguisticamente l’affinità è massima fra indo-iranico e sanscrito, e fra sanscrito e greco, è obbligatorio individuare un luogo, che certo non può trovarsi fra quelli nominati, in cui questi popoli siano cresciuti e sviluppati a diretto contatto. Questa coabitazione nella Madrepatria comune è scientificamente provata dalla linguistica, ma mentre gli Indo-iranici la lasciarono nel 1750 a.C. ca., i Greci, i Dori l’abbandonarono solo successivamente. Comparvero infatti solo nel 1200 a.C. e le tribù doriche si presentavano con forme dialettali già delineate; non possediamo il dorico comune che doveva essere stato utilizzato nei secoli precedenti nella patria originaria, un luogo che, se non abbiamo ancora scoperto, potrebbe non esistere più. Queste semplici considerazioni sono da sole in grado di far percepire quanto erronea sia stata l’impostazione del problema e quanto appariscente sia l’incompatibilità tra la verità ancora da ricercare e teoremi ormai vuoti. Gli Hurriti, gli Ittiti e i Cassiti vengono talvolta definiti “popoli dei monti” e mai definizione giunse più inopportuna o, tutt’al più, potrebbe esse valida prima della comparsa di questa casta guerriera chiamata dagli Egizi “Maryannu”, che determinò un radicale cambiamento della civiltà sia in Anatolia che in Mesopotamia e guidò anche la eterogenea popolazione 82

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degli Hyksos alla conquista dell’Egitto. Dai privilegi di questa ristretta classe nobile emerge una dimensione di appartenenza ad una vera e propria “élite esclusiva”. Questa consapevolezza sarà un fenomeno trasversale che supererà ogni aspetto etnico-culturale e nazionalista. Molto maggiore che in precedenza sarà il distacco fra le classi sociali ed emergeranno vere e proprie regge collegate da una rete di comunicazione particolarmente articolata ed efficiente. Mentre fino ad allora i rapporti fra le genti avevano avuto esclusivamente la “forza” come ago della bilancia, vediamo nascere un vero e proprio codice di diritto internazionale. Tutto ciò sancito da un sistema di veri e propri trattati giuridici con lo sviluppo della diplomazia nonché la presenza di ambasciatori che recheranno scambi di doni ai nuovi palazzi reali e frequenti saranno i matrimoni fra i membri delle case regnanti. Nella realizzazione di un tale nuovo mondo la definizione “popoli dei monti” ci appare una distonia fragorosa. Del tutto estranei alla situazione culturale e sociale precedente, gli Indo-iranici certamente provenivano dall’esterno e ancora, come più volte è capitato sin dall’esordio delle vicende di cui narriamo, ci appaiono del tutto possessori di una cultura più che matura e articolata di cui non possiamo individuare il luogo di formazione e sviluppo. Quasi a voler rincarare la dose, dai documenti scoperti nella città mitannica di Nuzi in Siria ci appare un tessuto sociale vecchio e deteriorato, con diffusi fenomeni di disgregazione a tutti i livelli: famiglia, proprietà, lavoro. Nello strato sociale dei piccoli proprietari terrieri dilaga l’indebitamento che conduce attraverso una ragnatela di passaggi giuridici, ratificati nei trattati, a fenomeni di prestiti e indennità e forse di usura a cui spesso segue la rovina dei piccoli proprietari. Dov’era nata e si era sviluppata questa civiltà, la cui struttura giuridica decadente non può certo che farci immaginare un lungo percorso, di cui ci sfuggono i fondamenti? La dignità regale che necessariamente doveva provenire dalla nobiltà della stirpe fece sì che i faraoni considerassero degne di loro le principesse delle famiglie regnanti mitanni. I due Stati dopo una prima fase di contrapposizione di forza mantennero relazioni diplomatiche costanti ed i faraoni più volte presero in sposa le nobili fanciulle di quella schiatta19. La convinzione dei faraoni di avere un’origine divina, tanto da praticare matrimoni incestuosi al fine di conservare il prezioso patrimonio genetico, male si concilia col sorgere ed emergere del regno mitannico da un oscuro popolo dei monti dell’Armenia, ai primi passi nella creazione di un nuovo modello sociale. Prendendo in prestito da Esiodo, il regno dei Mitanni ci appare come “la nascita di un pargolo dalle tempie grigie”. Dove quindi collocare l’origine dell’antica stirpe indo-iranica così rivoluzionaria ed innovativa? Siamo costretti ad ipotizzare un luogo di provenienza la cui cultura e conoscenza dovevano esprimersi ad altissimi livelli e l’amministrazione era affidata ad antiche e nobili famiglie, che guidavano su ampie pianure cocchi da battaglia. Non esiste un luogo come questo né fra le montagne dell’Armenia né fra quelle dell’Iran o del Caucaso né altrove. 83

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L’archivio di Tell-elAmarna ha restituito materiale che riguarda gli affari esteri del regno di Amenophi IV dal 1370 al 1340 a.C. Sulle oltre 300 tavolette iscritte, escludendo i nomi propri egizi ritroviamo una sessantina di nomi di cui una trentina sono semiti, una ventina indoeuropei ed una decina vari. Sono però gli Indoeuropei a ricoprire le cariche più alte, mentre sembrano diminuire fino a scomparire discendendo la scala sociale. Molti di loro si trovano infatti ai vertici del potere di numerose città-Stato cananee oltre che dell’area mitannica e del nord della Siria. I loro nomi risultano totalmente simili a quelli che ci ha restituito l’epica indo-aria del Mahabarata e altre opere. Un esempio su tutti: il re della città biblica di Hakshaf nella piana di Acco è “Indrautas”, cioè “sostenuto da Indra”, la bellicosa divinità al vertice del panteon ario-vedico. È il Dio della tempesta che governa l’Olimpo di questi popoli. Molte sono le immagini e i nomi del Dio i cui attributi sono gli stessi del Dio pelasgico di Dodona. Le antiche genti avevano una consapevolezza sincretista che non è rapportabile all’immagine frammentaria del politeismo che abbiamo sempre ricevuto dall’emergere di uno stragrande numero di divinità. Frammentazione e confusione sono solo il frutto della nostra ignoranza. Oltre alla linguistica, anche l’analisi delle varie teogonie ci apre ad un’unica visione che collega popoli molto distanti fra loro: proprio come il greco Esiodo ci racconta della nascita di Zeus attraverso l’elaborato mito che narra il passaggio da Urano a Cronos e quindi a Zeus, così è raccontato il mito di Anu, Kumarbi e Teshub, il Dio della tempesta generato come Zeus da Crono-Kumarbi che strappa i genitali di Anu-Urano. Da questi genitali sarà generato il Dio della tempesta che quindi non è che un Dio unico sia per gli Hurriti che per i Greci non ancora entrati in scena. La stessa strabiliante affinità si ritrova, presso i “popoli dei monti” e gli Egizi, per quanto riguarda il mito della morte e resurrezione di Osiride. Si configura quindi una religione dove riescono a trovare posto antiche credenze indigene, nuove divinità indo-iraniche, anatoliche, mesopotamiche e fino anche egizie, tanto da esprimere quello che è stato definito un “federalismo spirituale”. Ci si chiede allora quale sia la madre di questo federalismo, che durante il periodo in cui predominarono gli Ittiti fece sì che ogni divinità conservasse la sua perfetta identità di culto e di clero con le sue regole sacerdotali sino al mantenimento della lingua di origine dei rituali. In un simile contesto, non si sarebbero mai sviluppate guerre religiose. Da dove proviene questo sincretismo? In quale ancestrale fucina si era prodotta quella consapevolezza che quando scemerà porterà all’odio e all’estremismo religioso che ben conosciamo, un male sconosciuto al momento storico di cui narriamo?

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Gli Ittiti La tradizione ittita considera Labarna il fondatore dell’antico regno che i più datano dal 1750 al 1600 a.C. in cui si consolidò il potere in Anatolia. Il nuovo regno vide l’intervento ittita in politica internazionale con i rapporti che ben conosciamo con gli altri Stati la cui classe dirigente era altrettanto indoeuropea (Mitanni, Cassiti, Hyksos), lo scontro con l’Egitto di Ramesse II ed infine il crollo a seguito delle migrazioni dei Popoli del Mare. Gli storici riconoscono inoltre un’età neo-ittita all’indomani del crollo dell’impero ritenendola un’eredità postuma di questa. Noi non ci troviamo in accordo con questa interpretazione che verrà successivamente discussa. Sabatino Moscati ci offre una pagina chiarificatrice sugli aspetti tipicamente indoeuropei del pensiero ittita che viene giustamente avvicinato al mondo celtico e a tutti quei popoli dove il re, lungi dall’essere divinizzato, rappresenta solo il primum inter pares: La spinta militare oltre i confini anatolici ha il suo primo episodio sotto il successore di Labarna, Khattushili I. Un’iscrizione recentemente pubblicata elenca le sue imprese fino ad Aleppo: la via è aperta, la direttrice indicata. Sul fronte interno, la corte gli è ostile, ed egli deve ricorrere alla sostituzione del successore designato: fatti non significativi di per sé, ma che divengono notevolissimi per essersi concretizzati in un documento del sovrano, il cosiddetto “testamento”, che degli eventi espone le cause, le circostanze e gli effetti. E dunque s’ha qui il primo profilarsi di quella capacità di pensare e di scrivere storicamente, che più chiara vedremo tra poco in atto presso gli Ittiti. Di più: nel dialogo da pari a pari con i nobili traspare la condizione tipica della monarchia, inusitata fino ad ora in Oriente; e nel vigore immediato e spontaneo della narrazione si definisce uno stile letterario altrettanto nuovo e significativo. Dice dunque il gran re Khattushili all’assemblea dei nobili e dei dignitari: Ecco, io mi sono ammalato. Io vi avevo presentato il giovane Labarna come colui che dovrà sedere sul trono; io, il re, l’ho chiamato mio figlio, l’ho abbracciato, l’ho esaltato, mi son curato senza posa di lui. Egli, tuttavia, si è mostrato un giovane indegno a guardarsi: non ha versato lagrime, non ha mostrato compassione, è freddo e senza cuore. Allora io, il re, l’ho chiamato e l’ho fatto venire al mio capezzale. Dunque, non si può più continuare a tenere un nipote per figlio! Alle parole del re non ha dato ascolto: ma a quelle di sua madre ha dato ben ascolto, quel serpente! Fratelli e sorelle gli riportavano male parole: e quelle le ascoltava! Ma io, il re, l’ho sa-

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puto; ed allora ho contrapposto la lotta alla lotta. Ora basta! Egli non è più figlio. Allora sua madre ha muggito come un bue: “Hanno lacerato il grembo nella mia carne viva! Lo hanno annientato, e tu lo ucciderai!”. Ma io, il re, gli ho forse fatto qualcosa di male? Non l’ho forse fatto sacerdote? Sempre l’ho onorato, pensando al suo bene. Egli però non ha mai seguito con amore la volontà del re. Come potrebbe, procedendo secondo il suo volere, portar amore a Khattusha?… ecco, Murshili è ora mio figlio! Lui dovete riconoscere, lui porre sul trono. A lui la divinità ha posto ricchi doni nel cuore. Nell’ora della guerra o dell’insurrezione, siate al suo fianco, o miei servitori, e voi, o capi dei cittadini!… finora, nessuno (della mia famiglia) ha obbedito alla mia volontà. Ma tu, o Murshili, tu sei mio figlio, obbedisci! Segui le parole di tuo padre! Qual altro sovrano orientale, tra quelli finora noti, si raccomanderebbe in tali termini? Quale confesserebbe così apertamente l’insubordinazione dei familiari? Il re ittita, dunque, è un primo fra i pari, o comunque un capo i cui poteri sono in qualche modo condizionati dall’assemblea dei nobili. Né dio come in Egitto, né rappresentante del dio come in Mesopotamia, egli ha più del capo germanico medioevale che del sovrano d’Oriente. Del pari in modo diverso si definisce la concezione del dominio politico: né la monarchia universale mesopotamica, né la colonizzazione egiziana. Gli Ittiti stringono trattati con i popoli vinti, ed attraverso questa forma politica li legano a sé. Si determina così la risultante di un altro aspetto caratteristico del pensiero ittita, la sua attitudine al diritto internazionale; ed il feudalesimo interno si trasporta sul piano esterno, in una sorta di federalismo che ne ripete parzialmente i caratteri. (S. Moscati, Antichi imperi d’Oriente, Newton Compton, 1979, Roma, pp. 162-164)

Risulta quindi evidente che genti indoeuropee decisamente caratterizzate fin dalla loro comparsa sulla scena, forti di rivoluzionarie ed imbattibili armi e tecnologie, si assimileranno nei secoli al substrato tipicamente orientale. Il re Telepinu all’inizio del XV sec. riformò le istituzioni ed introdusse il principio della successione ereditaria al trono limitando fortemente il potere dell’assemblea allontanandosi definitivamente dalla propria radice culturale indoeuropea. Un passo intrapreso dagli Ittiti anche con l’accettazione del cuneiforme, così già diffuso in Anatolia dagli Assiri, e l’abbandono dell’ittita geroglifico.

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2.6. L’Egitto Pur non desiderando entrare in merito ad una discussione oggi così aperta e dibattuta, per ciò che riguarda l’Egitto, forti di ciò che ci insegnano la logica e la scienza, ci sentiamo di asserire con sicurezza che la grandiosità delle piramidi è direttamente proporzionale al debito che le stesse hanno con il passato e con la civiltà che ne ha consentito la costruzione, ancora oggi carica di enigmi insoluti, trovandosi immersa secondo le cronologie correnti in una dimensione culturale neolitica che certo non poteva generarle. Rivolgeremo quindi i nostri interessi solo in particolari direzioni, una delle quali ci porta ad altre piramidi, quelle della V dinastia: saranno i loro testi sconcertanti per spiritualità ed elevazione, i testi di Unas e Teti, che analizzeremo per primi. Nelle lunghe formule magiche che devono garantire al faraone Unas l’eternità in forma di stella, sono già racchiusi i semi della teogonia menfitica e tebana; considerati da tutti gli studiosi molto più antichi dei tempi che ce li hanno consegnati, sprofondano anch’essi nel vuoto dell’origine. I glifi che rappresentavano figure umane vennero graffiati e cancellati per evitare che il potere evocatore del testo li richiamasse in vita come demoni. Ogni parola è concepita come potenza creatrice. Vere e proprie formule di conoscenza necessarie al viaggio spirituale delle anime verso la luce imperitura, fulcro astrale dove tutto si crea, dove si vivrà la vita e non si morirà la morte: la resurrezione! E per giungere così in alto è necessario vivere secondo Maat: verità e giustizia, e a guidare deve essere l’anima vibrante e tesa alla ricerca di una diversa percezione, fruizione del creato permeato da un flusso eterno di mutamento. Attraverso la percezione intuitiva, come accedendo ad un nuovo stato di coscienza, si manifesta e si svela la “Azione Divina”, si entra in comunione con la potenza vitale che si esprime con il “Verbo”. Il primordiale fertile seme di una spiritualità così profonda era stato seminato e coltivato in un passato estremamente remoto, di molto precedente all’unificazione di Menes attorno al 3200 a.C. Un tempo in cui non esisteva la dicotomia fra scienza e religione ma vigeva la “scienza sacra” il cui compito fondamentale era la ricerca dell’armonia assoluta fra l’alto e il basso, fra il cielo e la terra: fu così che l’Egitto venne creato a immagine del cielo. Un simile patrimonio spirituale di tutta l’umanità può aiutarci a chiarire il mistero della nostra origine. Una regione oscura, un’area geografica sconosciuta ma in riva al mare potrebbe aver generato la civiltà da cui proveniamo ed è in questi sacri testi che un luogo ancestrale viene per la prima volta nominato: è l’HaouNebout, un luogo ai confini nord-occidentali del mondo. In Egitto come in tutta l’antichità era universalmente accettato il concetto che al di là delle Colonne d’Ercole si estendesse un unico vastissimo mare che circondava la terra, a sua volta delimitato dallo scorrere del fiume Oceano (il Sin-wur, letteralmente il “Grande Circolo”) come circolare 87

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era il Fiume Oceano. Nel mito era il Fiume Oceano ad aver generato tutte le acque terrestri. Anche nei poemi omerici Oceano è il fiume che scorre nel Grande Mare, tuttavia ben distinto da esso, la sua profonda corrente scorre con grande forza ma silenziosamente (concetti peraltro presenti nei Veda). È quindi fondamentale l’equivalenza fra il fiume Oceano che scorre nel Grande Mare e il Sin-wur che scorre nel Wad-wur, cioè il “Grande Verde”, espressione che gli Egizi adottavano per mare-oceano, quell’unica entità di cui fa parte l’intero mondo marino. Per gli Egizi il mondo terreno era un riflesso del cielo ed il Sin-wur aveva un corrispondente celeste nel grande circuito solare percorso da Ra. Riportiamo un brano estratto dai testi delle piramidi, si tratta di un gioco di parole apparentemente enigmatiche rivolte ad Osiride:

Tav. 11: Il mondo di Ecateo di Abdera. Si tratta di un modello condiviso pressoché in tutto il mondo antico. L’orbe terrestre era delimitata dal fiume Oceano. Lo conferma Liverani parlando dei confini del mondo: “Altrettanto diffusa è la convinzione che la terra termini al circuito dell’Oceano. Amenophi II dichiara esemplarmente: Egli (il dio Ammone) mi ha affidato ciò che è con lui, ciò che l’occhio del suo ureo illumina, tutte le terre, tutti i paesi, ogni circuito, il Grande Circuito (l’Oceano). L’Oceano, per il suo stesso nome di ‘Grande Circuito’, esercita riguardo al perimetro il ruolo esercitato dal sole riguardo al diametro. […]. In Siria-Palestina l’idea di un circuito oceanico (o piuttosto di un doppio corso d’acqua circolare) è attestato a livello mitico”. (M. Liverani, Guerra e diplomazia nell’Antico Oriente, Laterza, 1994, Bari, pp. 45-46). Come si evidenzia nella figura, gli abitanti delle estremità dell’Ecumene terrestre sono gli Iperborei a Nord e gli Etiopi a Sud. Entrambi questi mitici popoli si caratterizzavano per bellezza, religiosità e longevità e venivano considerati particolarmente nobili e amati dagli Dèi.

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Ecco, tu sei verde e grande nel tuo nome di Grande Verde (Wad-wur). Ecco, tu sei grande e rotondo come il Grande Circolo (Sin-wur). Ecco, tu sei ricurvo e rotondo come il circolo che percorre gli Haou-Nebout20.

Per quanto possa apparire piuttosto oscuro, in questo testo risalente almeno al IV millennio a.C. esiste la conoscenza apparentemente incomprensibile di quelle che in seguito vedremo essere isole proiettate ad Occidente, in un remoto orizzonte marino oceanico lambite o inserite nella corrente del Sin-wur, il fiume Oceano, come sottintende anche la traduzione “circolo che percorre gli Haou-Nebout”. L’immagine di un fiume che scorre nell’Oceano potrebbe, a giudizio di alcuni, suggestivamente riferirsi alla corrente del golfo dispensatrice di calore e di vita che solca l’Atlantico come un più che distinguibile fiume. Per una più facile comprensione riportiamo da Ecateo di Abdera la raffigurazione geografica del mondo (tav. 11). La convinzione egizia è universalmente sancita, come dimostrano la “lista dei popoli” di Edfu e moltissimi altri documenti che identificano l’Haou-Nebout con le isole del centro del Grande Mare (Grande Verde) e le terre del Nord vivificate dall’acqua delle correnti. Altri riferimenti e citazioni sono onnipresenti in Egitto dai tempi predinastici a Tuthmosis III, da Thutankamon a Ramesse III e più tardi nelle iscrizioni del tempio di Phile dove si legge del grande mare circolare che porta agli Haou-Nebout. Questo termine si lega anche al nome di Cheope. Dal suo tempio funerario un grande blocco porta scolpiti tre tori che si susseguono sui quali troviamo tre iscrizioni (A, B e C): Il primo (A) s’intitola “Cheope è potente”, il secondo (B) “Colui che percorre l’Haou-Nebout (ciò che è dietro i Nebout21) per il doppio Horus d’oro”, l’ultimo (C) “Colui che ricomincia (a percorrere?) ciò che è dietro le pianure per Cheope”22.

Bassorilievo dal tempio funerario di Cheope.

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Le genti Haou-Nebout saranno celebri in Egitto come importatori di pietre preziose e metalli, particolarmente celebrata sarà una principesca ambasceria che analizzeremo più avanti, giunta ai tempi di Tuthmosis III e le cui immagini sono immortalate nella tomba di Rekmire, gran visir addetto al cerimoniale del più grande dei faraoni. Il rapporto degli Egizi con l’Haou-Nebout risulta particolarmente delicato e complesso nella fase predinastica e antica, seguono poi secolari rapporti commerciali e di squisita diplomazia finché nel 1250 a.C. ai tempi di Mereptha, figlio di Ramesse II questi popoli rappresentarono la peggiore minaccia che l’Egitto abbia mai sopportato dal tempo del dominio degli Hyksos, con il grande tentativo d’invasione ai tempi di Ramesse III, nel 1150 a.C. circa. Saranno i popoli dell’Haou-Nebout gli invasori, ma rimarranno celebri nella storia come i “Popoli del Mare”, definizione di Gaston Maspero che sintetizzava una seconda espressione con cui gli Egizi li conoscevano ed identificavano: “Coloro che vivono nelle isole del centro (o del cuore) del Grande Verde”. Ma alla domanda chi sono gli Haou-Nebout, la storia ci riserva una risposta sconcertante, poiché saranno i mercenari greci in servizio in Egitto verso l’VIII-VII secolo a venire usualmente così appellati e la conferma di ciò risiede nella famosa “Stele di Rosetta” di epoca tolemaica, dove il termine Haou-Nebout viene tradotto con “hellenikos”. Fu automatico, una volta legato il termine ai Greci, creare l’equivalenza “isole dell’Haou-Nebout” uguale “isole della Grecia”. È doveroso testimoniare che in nessun testo storiografico da noi consultato la problematica sull’origine del termine “Haou-Nebout” è mai stata tenuta nella giusta considerazione, se non del tutto ignorata. Riportiamo un estratto del saggio di Santo Mazzarino, Fra oriente e occidente, il quale senza ricercare l’origine del termine dà per scontata l’identificazione con i Greci presenti in Egitto nel VII sec. e nel tentativo di sondare quando nel passato gli stessi si fossero avviati verso un sentimento di coscienza nazionale dice: Se vogliamo avere un’idea del modo in cui si formò questa “coscienza nazionale” (e bisogna comunque tener presente che questa formula è solo approssimativa), si pensi alle condizioni in cui si trovavano per esempio i mercenari greci in Egitto: come gli Egiziani attentamente distinguevano sé da questi alloglossi23 (sì che gli alloglossi combattevano in formazioni speciali sotto un proprio comandante), così i Greci dovettero abituarsi a contrapporsi – essi, gli Haunebout – agli Egiziani. Tutto ciò fu quanto mai chiaro quando divenne faraone Amasi, ossia (se ci è lecita questa congettura) quell’Amasi che, prima di divenire faraone, era stato comandante delle truppe egizie vere e proprie, mentre un altro generale era comandante delle truppe di alloglossi, e fra esse (naturalmente) degli Haunebout o Greci. In connessione con i conflitti fra Egiziani e Cirenei, Amasi fu elevato al trono dal partito “nazionalista” egiziano; dai documenti egiziani appare chiaro come allora fosse

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viva, nell’ambiente egizio, l’opposizione tra indigeni e Haunebout; e tuttavia Amasi finì coll’adottare – proprio lui – una più o meno cosciente politica di simpatia e comprensione pei Greci24.

Anche Sergio Pernigotti, senza approfondire l’origine del termine, asserisce a proposito delle stesse questioni: “L’altro termine Haunebout è in quest’epoca specifico per ‘Greci’ e non può che riferirsi a loro”25. Si apre quindi l’ennesimo quesito e questa volta riguarda l’origine dei Greci. La questione macroscopica che si pone di fronte a questa realtà è la seguente: dato che i Greci appaiono con i Micenei (Achei) verso il 1700 a.C. circa, com’è possibile che gli Egizi conoscessero il termine “Haou-Nebout”, che equivarrebbe a Greci, prima del 3000 a.C.? Ma da quanto tempo esiste la genia dei Greci? I testi egizi sembrano non essere stati compresi. Che i Greci fossero universalmente considerati Haou-Nebout nell’Egitto del VI-V sec. a.C. è una realtà che non possiamo mettere in dubbio, ma più che dubbia, anzi inaccettabile è la traduzione di “isole Haou-Nebout” con “isole greche”, poiché la conoscenza di questi luoghi misteriosi è presente in Egitto dagli albori della sua storia, millenni prima della comparsa dei Greci sulla scena; inoltre, come vedremo successivamente, i testi non dimostrano mai la possibilità di localizzare le isole Haou-Nebout nell’Egeo.

2.7. Achei-Micenei Da Erodoto: A quanto ci risulta, il popolo greco, da quando si venne costituendo, sempre e costantemente, usa la stessa lingua. Staccatosi, debole ancora, dal ceppo pelasgico, partendo da umili origini, si venne ampliando fino all’agglomerato attuale di popoli, essendosi ad esso accostate di preferenza, molte popolazioni pelasgiche e numerosi altri Barbari. In confronto a questo, dunque, mi pare che nessun altro popolo di Pelasgi essendo barbaro abbia fatto mai così vasti progressi26.

Dal 1956, quando Michael Ventris e John Chadwick decifrarono la lineare B, sappiamo con assoluta certezza che i Micenei (ma sarebbe più opportuno chiamarli Achei), erano Greci che parlavano una forma arcaica del greco27 che tanti di noi hanno studiato sui banchi di scuola. Esiste la possibilità, in base ad una serie di cronologie dichiarate come supposte ed incerte, che l’aristocrazia guerriera tipica dei Micenei, contraddistinta dall’uso del carro da battaglia, sia giunta sulla scena della storia contemporaneamente o poco dopo la manifesta presenza delle caste guerriere indoiraniche dei Mitanni e soprattutto degli Hyksos invasori dell’Egitto. Questi 91

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ultimi mostreranno con i Micenei diverse affinità ed interverranno con un vero e proprio innesto nel substrato greco del Medioevo elladico. Quello che è certo è che i Micenei furono fra i più grandi navigatori che la storia ricordi. Ne danno testimonianza i resti ceramici disseminati in tutto il Mediterraneo ed anche oltre, in Atlantico; ricordiamo a questo proposito l’erronea e vetusta interpretazione, perdurata sino agli anni Cinquanta, per cui si faceva derivare dagli stessi Micenei la civiltà megalitica atlantica. Da I Micenei di Taylour: Le origini della lingua greca si possono quindi far risalire con una certa sicurezza fino al XIV secolo, e poiché le testimonianze archeologiche non mostrano alcuna netta differenziazione culturale fino al XIX secolo, si ammette generalmente che a partire da tale epoca una popolazione di lingua indoeuropea cominciasse a infiltrarsi in Grecia. Ma il problema dell’origine di questo popolo rimane irrisolto. Si sostengono attualmente due ipotesi: l’una ritiene che esso sia venuto dal Nord attraverso i Balcani (ma in questo caso non ha lasciato tracce del suo passaggio, e gli elementi nordici della sua cultura sono trascurabili); l’altra, più plausibile, lo fa provenire dall’Oriente e, attraverso l’altipiano dell’Anatolia settentrionale, arrivare a Troia. Nell’Iran nord-orientale si conosce in effetti una ceramica grigia che presenta qualche affinità con la ceramica minea28. Gli invasori introdussero un nuovo strumento di guerra, il cavallo, che rappresentò indubbiamente un fattore decisivo per la loro conquista. Il primo ritrovamento di ossa di cavallo ha luogo a Troia VI insieme con ceramica minea, ed è probabile che l’ondata di invasori giunta in Grecia abbia portato il cavallo anche in questa regione. Si sostiene tuttavia che il transito di quest’animale attraverso i difficili passi tra Europa e Asia sarebbe stato, se non impossibile, certamente pericoloso, e perciò si è pensato ad un’altra rotta continentale attraverso il Caucaso e la costa settentrionale del Mar Nero. Fatto sta che fino ad oggi non abbiamo alcuna certezza circa il luogo di provenienza dei Greci né sulla via da loro seguita per penetrare nel paese, e neppure sappiamo se siano venuti per mare o per terra29.

Nonostante la prerogativa di superlativi navigatori per i Greci, rileviamo quanto la teoria diffusionista di “Ex Oriente Lux” riesca a contaminare anche il pensiero di Taylour, che però non può trattenersi dal considerare la stessa decisamente improbabile, considerando pressoché impossibile il fatto che il cavallo abbia raggiunto l’Egeo dalle steppe asiatiche. Gli Indo-iranici e i Micenei possedevano l’esclusiva del cavallo e del carro da battaglia. Il cavallo, come rivela un documento di Ugarit, era considerato un bene preziosissimo, tanto che una coppia di cavalli venne acquistata dal re della città per una cifra favolosa e pagata con molti chili di stagno. Un prezzo così esorbitante poteva essere pagato solo per merce intro92

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vabile in loco, una rarità importata e resa ancor più preziosa dalla conoscenza dell’allevamento e dell’uso a scopo bellico. In un altro documento si scongiura il re di Mari di non salire su un cavallo alla maniera dei Barbari. È un fatto che trent’anni dopo la distruzione di Creta (1750 a.C.), un tempo necessario a sviluppare mandrie da poche coppie importate, guerrieri appartenenti a nobili caste di Indoeuropei, gli Hyksos, invasero l’Egitto conquistandolo. In tempi precedenti erano stati utilizzati solo carri a quattro ruote piene trainati da onagri, mentre l’origine del carro leggero a due ruote a raggi con il cavallo addestrato al combattimento ed alla manovra di gruppo è decisamente indo-iranica e si deve esattamente ai Mitanni, come testimonia il trattato di Kikulli30. Per i Micenei l’uso del carro da combattimento appare come elemento già acquisito e testimoniato all’alba della loro storia, ma in verità ben poco si adatta al territorio che loro stessi abitavano, con così poche e limitate pianure: ci appare quindi come il retaggio di un passato a noi sconosciuto. Da Taylour: Quando i Micenei compaiono per la prima volta sulla scena, all’inizio del XVI secolo, i ritrovamenti delle tombe a fossa mostrano che la loro cultura era già ricca e complessa. Essa presenta segni evidenti di numerosi e svariati contatti con il mondo esterno: l’ambra proveniente dal Nord, l’avorio della Siria, l’oro presumibilmente dall’Egitto…31.

Ed anche del tutto diversi i Micenei appaiono dai Minoici. Dolicocefali e glabri i Minoici, brachicefali e barbuti i Micenei i quali, celebri per le loro armature, venivano definiti uomini di bronzo e utilizzarono le ciclopiche fortificazioni che ben conosciamo di Micene e Tirinto, quasi del tutto assenti nella Creta minoica. Certo la cultura minoica esercitò un fascino notevole su coloro che preferiremmo chiamare Achei ma la straordinaria ricchezza e la grande raffinatezza dei reperti rinvenuti da Heinrich Schliemann a Micene, maschere d’oro, gioielli, spade decorate in oro e argento e impugnature d’avorio, vasi e diademi preziosi, sono ben poco confrontabili con l’artigianato minoico. Le mura ciclopiche che circondavano la cittadella custodivano il potere del “wanax”, principe guerriero che viveva all’interno di ambienti che avevano come elemento costante il megaron. Le tombe circolari a cupola minoiche di Creta che Evans aveva notato essere del tutto simili a quelle disseminate in Libia, tanto da formulare l’ipotesi che i Minoici fossero arrivati profughi dall’Egitto dopo l’unificazione di Menes nel 3000 a.C. ca. si trasformano in quelle monumentali tombe a tholos che ci sono note come il “tesoro di Atreo” o quello dei Minii ad Orcomenos ecc. Questa potenza e ricchezza già esplosa dopo il 1650 a.C. fu il frutto di un’egemonia non certo di spazi terrestri ma di un’unità di spazi marittimi che ebbe nell’Egeo il suo luogo centrale. 93

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Pirati, predatori e razziatori prima ancora che mercanti, ma in ogni caso superbi navigatori, possedevano come ci insegna Omero un sistema di tipo federalista con a capo Micene. Seconda per importanza era Pilo, la città di Nestore, mentre Atene rivestiva solo un ruolo gregario: tutto ciò è chiaramente deducibile dal catalogo delle navi nell’Iliade. Possediamo sufficienti indizi per ritenere che esistesse un certo grado di parentela tra Micenei e i nobili Indoeuropei che alla guida degli Hyksos erano penetrati in Egitto conquistandolo verso il 1720 a.C. con al seguito una massa molto eterogenea. È stato proposto da più parti che anche gli Ebrei fossero penetrati in Egitto nello stesso momento. Fu il delta naturalmente ad essere invaso per primo e la XIV dinastia (secondo la lista di Manetone) mostra una frammentazione del potere politico centrale con presenza di dinasti sia egizi che hyksos, i quali saranno però gli unici detentori del potere durante la XV dinastia. La dinastia dei grandi re Hyksos (1674-1567 a.C.) dominava tutta una serie di vassalli e tutto fa apparire che il loro comportamento s’accordasse completamente con i costumi egizi, le leggi, i fondamenti teorici della monarchia. È certo che durante il regno di Khyan l’influenza politica ed economica degli Hyksos sull’Egitto e sulle regioni cananee diventò decisamente più marcata. Essi ricevevano tributi e mantenevano relazioni commerciali sia con Minoici che Babilonesi e manufatti egizi che recano il nome di Khyan sono stati ritrovati a Babilonia, a Knosso e a Hattusas. Agli Hyksos sono inoltre attribuite nuove tecniche di fortificazione che prevedevano un muro inclinato esterno atto ad evitare l’uso degli arieti, evidentemente in auge all’epoca, esattamente come pos-

Tav. 12: Il cavallo sbarca per la prima volta a Creta. L’immagine tratta dal testo I primi Europei, a cui hanno contribuito diversi studiosi, viene così commentata da Celestina Milani: “Impronta di un sigillo che documenta l’arrivo del cavallo a Creta. Il cavallo era sconosciuto a Creta fino al XVI sec. a.C. Venne introdotto in Egitto al tempo della calata degli Hyksos, e quasi nello stesso periodo a Cipro e a Creta”.

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siamo ammirarne ancora oggi ad Hattusas, a testimoniarne così l’origine indoeuropea. I documenti relativi a questo periodo sono molto rari poiché subirono, alla restaurazione del potere egizio tebano da parte di Amosis, considerato il fondatore della XVIII dinastia32, quel fenomeno diffuso anche in seguito della damnatio memoriae, tanto che per sapere qualcosa sull’argomento ci si deve rifare allo storico Giuseppe Flavio. Leggiamo da La civiltà egizia di Alan Gardiner: A proposito di questi stranieri lo storico ebreo Giuseppe Flavio nella sua polemica Contro Apione afferma di citare le parole autentiche di Manetone: Tutimaios durante il suo regno, per cause a me ignote l’ira del Signore si abbatté su di noi; e all’improvviso dalle regioni dell’Oriente un’oscura razza d’invasori si mise in marcia contro il nostro paese sicura della vittoria. Con la sola forza numerica e senza colpo ferire s’impadronirono facilmente delle nostre terre; e avendo sopraffatto i reggitori del paese bruciarono spietatamente le nostre città, rasero al suolo i templi degli Dei e rivolsero la loro crudeltà contro gli abitanti massacrandone alcuni, riducendo in schiavitù le mogli e i figli di altri. Finalmente elessero re uno dei loro di nome Salitis. Egli pose la sua capitale a Menfi, esigendo tributi dall’Alto e dal Basso Egitto e sempre lasciando dietro di sé guarnigioni nei posti più favorevoli… nel nome Sethroita trovò una città in ottima posizione a Est del Nilo, sul ramo di Bubasti chiamata Avari da un’antica tradizione religiosa. Egli la ricostruì e la fortificò con mura imponenti. […] La loro razza, nel suo complesso, era chiamata degli Hyksos, vale a dire “re pastori”, infatti nel linguaggio sacro hyk significa “re”, e, in linguaggio popolare sos vuol dire “pastore”. Giuseppe Flavio prosegue dando una diversa interpretazione del nome di hyksos derivata da un altro manoscritto, secondo la quale esso significherebbe “prigionieri pastori”, dall’egizio hyk “prigioniero”. È questa l’etimologia che preferisce, ritenendo, come molti egittologi, che la storia biblica del soggiorno degli Ebrei in Egitto e dell’esodo successivo traesse origine dall’occupazione degli Hyksos e dalla loro successiva cacciata. In effetti, benché entrambe le etimologie abbiano fondate basi linguistiche, né l’una né l’altra è quella esatta. Il termine hyksos deriva senza dubbio dall’espressione hik-khase, “capo tribù di un paese collinare straniero”, che dal Medio Regno in poi venne usata per indicare gli sceicchi beduini33.

Quindi prima re poi pastori prigionieri, quindi capi tribù di paesi stranieri per terminare beduini. A noi pare che la confusione e l’incertezza contraddittoria già espresse da Flavio non trovino una risposta esauriente nemmeno nell’ipotesi sostenuta da Gardiner. Si trattava in realtà di principi indoeuropei alla guida di una folla, probabilmente anche di pastori, in gran parte semiti e hurriti. 95

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Non è una nuova teoria quella che proponiamo ma un semplice sottolineare aspetti linguistici che hanno per noi una notevole capacità di seduzione, nel tentativo di chiarire l’origine di coloro che gli Egizi per certo chiamavano “principi dei paesi stranieri”. In miceneo cavallo si dice “hykwos” e “hykwia” il carro da battaglia. Era il cavallo l’elemento fino ad allora sconosciuto anche in Egitto e causa stessa della sua rovina. Riteniamo pertanto sostenibile l’indicazione che il termine “Hyksos” possa inquadrarsi se non nel miceneo quanto meno in una lingua dell’area del greco, anche alla luce di tutta una tradizione mai ben compresa che testimonia una sorta di colonizzazione hyksos-egizia dei territori che saranno poi greci, eventi che celebreranno anche i grandi tragici. 6 km a sud-ovest di Gaza, sulla strada per Avaris sono inoltre state trovate sepolture Hyksos con il sacrificio del cavallo, del tutto simili a quelle micenee e ario-vediche. Gli Achei-Micenei vivevano in un territorio ampiamente e diffusamente popolato da genti pelasgiche che parlavano lingue luvie sulle quali si operò un’importante trasformazione. Un’ampia tradizione a cominciare da Erodoto ed evidenziata nelle tragedie di Eschilo ed Euripide, sostiene che la conversione ad una maggiore grecità della popolazione pelasgica si produsse con l’invasione di Danao proveniente dall’Egitto verso la metà del II millennio a.C. Da Taylour: Narra la leggenda che Danao venne dall’Egitto e si stabilì in Argolide divenendone il re. Non era egiziano ma di origine greca, forse addirittura divina. Per parte di madre può darsi che fosse imparentato con la famiglia reale degli Hyksos, che in quello stesso periodo vennero cacciati dall’Egitto34.

Moltissimi sono i riferimenti della tradizione che manifestano una completa adesione a questa vicenda, resa ancor più credibile dalla evidente somiglianza di manufatti egei del medio Elladico e quelli egizi del periodo Hyksos e dell’inizio della XVIII dinastia. Inoltre gli Hyksos veneravano Seth (Sutekh) signore dei deserti, dei vulcani e del mare, l’analogo di Poseidone35, come afferma anche Plutarco, ed è Poseidone la principale divinità delgi Achei-Micenei. È infatti il nome di questo Dio che ricorre più frequentemente nelle tavolette di lineare B, non potrebbe essere altrimenti per questi grandi navigatori che nel mare avevano il centro del loro potere, come era stato per i Minoici prima di loro. C’è un particolare non privo di fascino a proposito dell’identità Seth-Poseidone: a Seth deve infatti collegarsi il cavallo, dal momento che furono gli Hyksos ad introdurlo in Egitto per la prima volta ed è proprio Poseidone a fregiarsi del titolo di Hippios, vantandosi di aver creato il cavallo ed averne istituito l’uso e la corsa con i cocchi. Certo una cosa insolita per un Dio del mare. 96

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Una perfetta identità è espressa anche con Baal, massima divinità del panteon siro-palestinese, tanto da essere nominato Baal-Sutekh. Seth viene raffigurato sia nei Testi delle Piramidi che nel Papiro Chester Beatty che descrive il mitico scontro con Horus sulla prua di una nave. La drammatica sfida si consumerà in un luogo di cui dovremo molto interessarci: le isole del Centro del Grande Verde che fanno parte dell’Haou-Nebout. Sono inoltre molte le caratteristiche di Seth (Sutekh) che lo assimilano al Dio delle tempeste e allo stesso Yahweh ebraico, ricordando che il deserto è “come un mare in cui non si affonda il remo” di cui si deve temere la forza distruttrice e dove l’orientamento e la vita dipendono sempre dalla conoscenza della volta del cielo. Successivamente per i Greci sarà sempre Poseidone a causare terremoti, maremoti e devastazioni percuotendo il suolo o il mare col suo caratteristico tridente, mentre nel periodo ellenistico il termine Seth, degradato ad entità con valenza pressoché negativa, verrà tradotto con Tifone. Anche per Sergio Donadoni Seth (Sutekh) non è altro che un’immagine del Dio della tempesta che ben conosciamo: È superfluo, credo, insistere sulle conseguenze dell’ingresso e dello stanziamento in Egitto di gente dall’Asia e delle loro divinità determinate dalla dominazione Hyksos nel Delta, dove la capitale, Avari, aveva come divinità ufficiale Baal, Baal-Sutekh, un Dio della tempesta, recuperato poi al Panteon egiziano come Seth, un Dio “sospetto” già nella mitologia “osiriaca” egiziana che l’aveva “confinato” a regnare fuori del territorio dell’Egitto, nei paesi stranieri36.

Quindi, com’era accaduto con i Neolitici, che praticavano dovunque, come fosse generato da un’unica fonte, il credo e il culto della Dea Madre, ecco intervenire dai Pelasgi in avanti una trasformazione radicale del credo religioso, testimoniata da un continuo entrare in scena di genti nuove che identificano nel Dio della tempesta la suprema divinità. Alla domanda dove ciò abbia avuto luogo, la storia non dà alcuna risposta. Ritornando al filo conduttore dei nostri discorsi, questa identità di fondamenti permise un’interazione con gli Achei-Micenei senza un’apparente soluzione di continuità, tanto che è Perseo discendente di Danao il fondatore di Micene, secondo la tradizione confermata anche da Pausania. Apparentemente quindi i nuovi arrivati egizio-hyksos non avevano nulla di diverso dagli altri principi achei-micenei, precisando che ai tempi della fondazione di Micene gli stessi navigavano già in lungo e in largo per il Mediterraneo, mentre Pilo e Iolkos erano già centri fiorenti di queste culture. Assistiamo quindi probabilmente ad una naturale fusione fra elemento acheo-miceneo preesistente e innesto egizio-hyksos che rese possibile la sottomissione pressoché globale del substrato pelasgico. Ciò è affermato, oltre che da Erodoto, anche da Euripide, pressoché contemporaneo, in un’opera perduta ma i cui frammenti sono riportati da Strabone: 97

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“Danao, padre di cinquanta figlie, giunto ad Argo prese dimora nella città di Inaco e in tutta la Grecia (Hellas) stabilì la legge che tutte le genti che sino allora si erano chiamati Pelasgi assumessero il nome di Danai”37. La tradizione conferma inoltre che furono le cinquanta figlie di Danao, le “Danaidi egizie” ad insegnare alle donne pelasgiche il culto degli Dei ed a svelare i misteri delle Tesmoforie: i misteri di Demetra. La veridicità della storia di Danao potrebbe trovare una conferma in Erodoto. Egli narra infatti di una donazione fatta dal faraone Amasi (570-526 a.C.) che intratteneva buone relazioni con gli Elleni, al tempio di Lindos a Rodi perché fondato dalle Danaidi in fuga dall’Egitto. Di tale offerta votiva possediamo tuttora il ricordo in una iscrizione nota come “Cronaca di Lindos” o “Stele di Amasi”. Anche gli Ateniesi erano ritenuti Pelasgi agli albori della loro storia e cambiarono nome quando sopraggiunse Cecrope che, secondo la tradizione, proveniva dall’Egitto. Da Erodoto: “Gli abitanti dell’Attica, al tempo in cui i Pelasgi occupavano il paese che ora si chiama Ellade, erano Pelasgi e si chiamavano Cranai, poi, sotto il re Cecrope furono chiamati Cecropidi; quando il potere fu assunto da Eretteo, cambiarono il nome in quello di Ateniesi; e quando Ione, figlio di Xuto fu loro capitano, presero da lui il nome di Ioni”38. Non tutti i Pelasgi si assoggettarono e furono disponibili ad accettare una fusione-evoluzione con la ricostituzione di una nuova identità in cui a posteriori riconosceremo le caratteristiche classiche dei Greci. Erodoto sostiene che ai suoi tempi esistevano ancora due città sull’Ellesponto in cui si parlava pelasgico, che considerava non una lingua greca. La diversità linguistica fra acheo-miceneo e luvio sembrerebbe tale da non creare un’incomprensione fra i due idiomi, lo dimostra Omero che più volte ci fa intendere che fra Achei e Troiani era possibile un dialogo comprensibile che non richiedeva interpreti39. Certamente dovevano risultare altrettanto comprensibili l’acheo-miceneo alle lingue greche classiche, cioè ionico e dorico, mentre diventava per queste ultime troppo ampio il divario con le lingue luvie-pelasgiche che da Erodoto in avanti saranno considerate lingue non greche. Come già visto i Pelasgi appaiono più volte anche nell’Illiade di Omero e diventeranno col passare del tempo un sinonimo di atavicità. Alla colonizzazione di Danao, grande legislatore e apportatore di nuove tecniche di irrigazione, nonché distributore di terre e fondatore della casta da cui discenderà Perseo, s’aggiunge quella di Cadmo dall’area siropalestinese40: egli è il fondatore di Tebe che si definisce per l’appunto “cadmea” e fu il primo a portare le lettere fenicie in Grecia41. Anche la sua origine è verosimilmente da collocarsi fra le nobili famiglie giunte nell’area siro-palestinese, i cui valorosi guerrieri sui carri da guerra erano chiamati dagli Egizi “Maryannu”. Le ideologie sulla purezza razziale che certo non possono considerarsi scomparse, poiché manca una reale revisione storica che dia soddisfazio98

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ne ai mille interrogativi insoluti della nostra civiltà, hanno decisamente peccato di presunzione credendo di avere inquadrato e ricostruito l’effettivo processo storico. È stato infatti a lungo ritenuto addirittura “indegno” del massimo tragico dell’antichità, Eschilo, aver trattato in un’ampia trilogia avvenimenti in cui degli Egizi avevano il sopravvento sui Greci e s’insediavano nel Peloponneso. Che Perseo uccisore di Medusa, eroe luminoso fondatore di Micene e della più nobile stirpe fra tutti i Greci, vantasse incerte origine africane diventava una faccenda da oscurare, più che minimizzare. I fatti dimostrano in realtà che la nobiltà di questi personaggi era universalmente riconosciuta e li collocava ai vertici del potere; in un ambiente che non doveva certo considerarli estranei e forestieri ci appaiono anzi più dei nobili valorosi al rientro in Patria dopo una lunga odissea avventurosa. La trama tissutale della società e lo spirito di libertà dei Greci non avrebbe certo permesso ad uno straniero di insediarsi ai vertici di una indiscussa regalità: lo dimostrano le guerre persiane. Se i nobili progenitori provenivano dall’Egitto, è lungo l’elenco di eminenti Greci che in seguito vi soggiornarono. Diodoro Siculo così narra: I sacerdoti degli Egiziani, sulla base delle registrazioni contenute nei libri sacri, narrano che presso di loro in antico giunsero Orfeo, Museo, Melampo e Dedalo, inoltre il poeta Omero e Licurgo di Sparta, ed ancora Solone e il filosofo Platone di Atene, e che vennero anche Pitagora di Samo ed il matematico Eudosso, ed ancora Democrito di Abdera ed Enopide di Chio. […] Orfeo, infatti trasse da qui la maggior parte dei riti iniziatici, quelli orgiastici concernenti il suo vagabondaggio e le favole relative all’Ade. Il rito iniziatico di Osiride, infatti, è il medesimo di quello di Dioniso, quello di Iside è perfettamente uguale a quello di Demetra, mentre solo i nomi sono cambiati; le pene per gli empi nell’Ade ed i Prati dei Pii e le concezioni fantastiche, frutto di immaginazione, da molti seguite vennero importate a imitazione di quanto succede nei funerali in Egitto. Infatti, Ermes Psicopompo, secondo l’antica usanza egiziana, condotto il corpo di Api fino ad un certo punto, lo consegna ad un tale che porta la protome di Cerbero42. Poiché Orfeo introdusse questo costume presso i Greci, Omero scrisse nel suo poema: “Ermes Cillenio chiamava le anime dei pretendenti, ed aveva nelle mani una verga”. E ancora poco dopo dice: “Andavano verso le correnti dell’Oceano ed alla Roccia Bianca, verso le porte del Sole e la terra dei Sogni; poi giunsero al Prato dell’Asfodelo, dove abitavano le anime, le ombre dei morti”43.

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[…] Affermano che Melampo trasferì dall’Egitto i riti che i Greci pensano vengano celebrati per Dioniso, ed i miti che si raccontano su Crono e sulla Titanomachia e, insomma, la storia delle avventure degli dèi. Dicono che Dedalo imitò fedelmente l’intreccio del labirinto che ancora oggi esiste, edificato da Mendes, come qualcuno afferma, o, come dicono altri dal re Marros, molti anni prima del regno di Minosse. E le proporzioni delle antiche statue egiziane sono le stesse di quelle realizzate da Dedalo presso i Greci. Del bellissimo Propileo del santuario di Efesto a Menfi fu architetto Dedalo, che viene ammirato per esso ed ottenne di porre una statua lignea nel suddetto santuario, lavorata con le sue mani; infine, poiché fu ritenuto degno di grande celebrità per il suo ingegno, ed aveva inventato molte cose, ricevette onori pari a quelli concessi agli dèi. Infatti, su una delle isole prospicienti Menfi, ancora oggi c’è un santuario di Dedalo, che è onorato dagli abitanti del posto. […] 1. Anche Licurgo e Platone – essi aggiungono – introdussero molte usanze egiziane nelle loro legislazioni. 2. Pitagora apprese dagli Egiziani la teologia e le teorie concernenti la geometria e i numeri ed ancora la trasmigrazione dell’anima in ogni essere vivente. 3. Reputano che anche Democrito abbia passato cinque anni presso di loro ed abbia acquisito molte conoscenze nel campo dell’astrologia44.

L’elenco prosegue ma ci sembra più che sufficiente. Esiste una tale consapevolezza di condividere una realtà mitico-religiosa complessa ed articolata, che i più nobili fra i Greci varcavano la soglia dei templi egizi consci di inoltrarsi nel sacro luogo in cui si conservavano i dettami della Scienza Sacra e dove recuperavano informazioni smarrite di una sacralità appartenente ad un unico comune patrimonio. Dove si fossero realizzati i presupposti di questa identità ancora nessuno lo ha svelato.

2.8. Achei e Troiani All’epoca della guerra di Troia solo le coste orientali della Grecia, la penisola e le isole erano considerate elleniche. L’appellativo “Acheo” (Akhaiwos-Akhaiawa) è di formazione pelasgica quindi pre-ellenica e designa genti guerriere. Costoro a dispetto delle teorie proposte, non mostrano la benché minima prova di un attraversamento del territorio né anatolico né balcanico e vale la pena ricordare che ancora in epoca classica i Greci consideravano brevi le distanze su mare, lunghissime, quasi inaffrontabili quelle su terra. Il mondo dei miti e delle leggende dei greci è infestato infatti di mostri e di belve sanguinarie contro cui a volte anche 100

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gli eroi soccombono. Al di fuori delle infinite e sicure vie marine, anche i contatti fra le maggiori città greche risultavano perigliosi. Una serie lunghissima di predatori aumentata dalla fantasia nei racconti popolari di mostri sovrannaturali, alimentava il panico e la diffidenza ad attraversare luoghi sconosciuti. Era necessario essere eroi o semidei per affrontare i rischi di lunghe spedizioni verso terre incognite, come dimostrano l’epica degli Argonauti, di Omero ecc. Gli Achei erano organizzati in un sistema feudale suddiviso in quattro classi; dominante era la casta dei guerrieri che le sepolture hanno rivelato utilizzare corazze di bronzo che ricoprivano tutto il corpo. Armati di ascia da combattimento, spade lunghe, lance a ghiera, dimostravano una elevata industria metallurgica con leghe complesse; il legame profondo con il cavallo è dimostrato dal fatto che quest’ultimo era inumato insieme al proprietario in enormi tombe a tumulo come a Maratona, che certo non possono non ricordarci le più arcaiche sepolture ario-vediche dei conquistatori dell’India. Al sopraggiungere di questi conquistatori le popolazioni pelasgico-lelegiche che occupavano gli stessi territori marittimi furono costrette a sottomettersi o a fuggire. Non cercarono rifugio nell’entroterra ma da Popoli del Mare quali erano si diffusero sulle coste dell’odierna Turchia e verranno successivamente riconosciuti col termine generico di Ioni (Iunan, Iawan). Erodoto afferma infatti che i Pelasgi erano gli antenati degli Ioni ma non dei Dori. Successivamente, in epoca storica, lungo le coste asiatiche e sulle isole vicine troveremo Lidi, Cari, Lici alleati dei Troiani nelle vicende narrate da Omero. Ma, ciò che non può non sorprendere nella leggendaria scorreria degli Achei sulle coste dell’Asia è il fatto che in questi luoghi si trovano usanze e religioni del tutto simili alla loro e tutto ciò, testimoniato sempre da Omero, si completa nella evidente vicendevole comprensione del linguaggio che non richiedeva interpreti. L’apparenza quindi è quella di una scena in cui i protagonisti sembrano decisamente legati da un nesso comune alla base, una sorta di vero grado di parentela confermato a livello archeologico anche dallo stesso tipo di ceramica detta Minia che veniva prodotta sia a Troia (1900-1350 a.C. circa) che nelle città della Grecia, peraltro fortificate e difese in modo del tutto simile45. Non è di certo azzardata l’affermazione che gli Achei-Micenei sentivano di appartenere alla stessa civiltà dei Troiani e dei loro alleati. Questa ampia affinità sarà ancora più evidente nei tempi storici successivi al sopraggiungere dell’ultima migrazione, quella dei Dori, che mostreranno evidentissime similitudini con le culture di Lidia, Caria, Licia, Panfilia ecc… considerandosi parte di un’unica famiglia. Con l’invasione dei Dori nel 1200 a.C. ca. e il crollo della potenza achea-micenea il mondo greco si dividerà in due grandi gruppi: i Dori, entrati per ultimi sulla scena, e gli Ioni che quindi comprendono tutte le popolazioni e le genti dell’Ellade, in continuità con l’iniziale linea pelasgica. 101

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Avrà così termine un ciclo storico che vedrà gli Achei-Micenei confinati ad un epoca eroico-leggendaria mentre Ioni e Dori si avvieranno a quella che consideriamo prettamente era storica. Gli Arcadi preservarono molti elementi di cultura acheo-micenea sino alla inoltrata Età del Ferro. Certamente è sufficiente un’analisi macroscopica per evidenziare che le grandi avventure dell’epica greca che riguarda l’età micenea (Odissea, Argonautiche ecc.) percorrono sul mare e non certo su terra le enormi distanze che ci lasciano confusi e strabiliati. Il mare è divino e la madre del grande Achille è la Dea marina Teti, una delle Nereidi46. Il legame fra la civiltà acheo-micenea e quella megaliticoatlantica è fortissimo e ci riconduce all’Oceano. Per quanto tempo abbiamo pensato che proprio le splendide tombe a tholos micenee fossero il punto di partenza dell’architettura megalitica, come uno stimolo diffusivo giunto in Spagna e dilagato sino all’Irlanda, alla Danimarca e alle più sperdute isole del Nord? Perché i Micenei consideravano l’ambra, così ben testimoniata nelle tombe più antiche, più preziosa dell’oro? Perché è presente in grande quantità solo nelle più arcaiche tombe a fossa e praticamente scompare successivamente? Si trattava quindi di un bene non più raggiungibile e probabilmente i preziosi reperimenti dovevano essere appartenuti ai primi colonizzatori micenei provenienti da una sconosciuta patria. L’ambra proviene dallo Jutland non è certo un bene mediterraneo né orientale47. Una tazza d’oro trovata in Cornovaglia è identica ad altre micenee, come micenea appare la spada incisa su uno dei triliti di Stonehenge. Gran parte dello stagno utilizzato in Egeo proviene dalla Cornovaglia. Da Europa antica di Stuart Piggott: Le tombe della cultura britannica del Wessex contengono ricchissime offerte come tazze d’oro o ambra; pugnali di bronzo dall’elsa in oro; vezzi di ceramica orientale importata; e scettri o mazze di pietra lavorata, oro e giaietto. In Bretagna l’arredamento delle tombe dei guerrieri richiama quello delle tombe a pozzo per l’eccessiva profusione di armi, in questo caso pugnali di bronzo: non è raro che ve ne siano fino a sei o sette per una sola tomba, generalmente con una coppia di lame di ascia in bronzo, pietre per affilare cerimoniali, e frecce con punte di selce finemente lavorate. “Sono senz’altro le tombe singole di re e grandi personaggi, sepolti per un notevole lasso di tempo, e in periodo di pace”, scriveva William Stukeley nel diciottesimo secolo a proposito dei tumuli della pianura di Salisbury, e aveva ragione48.

Sino al momento in cui abbiamo pensato che dall’Egeo si fosse espansa la civiltà, tutto ciò poteva avere un senso logico ma oggi ben sappiamo che Stonehenge era già terminata quando la civiltà acheo-micenea non era ancora nata. Né d’altronde possediamo indizi o prove evidenti di una terra di origine degli Achei-Micenei, se non quegli stessi elementi per cui 102

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in modo erroneo erano considerati i diffusori della civiltà megalitica. Non è difficile allora chiedersi se la terra d’origine, peraltro ignota, della civiltà megalitica e degli Achei-Micenei non fosse la stessa. Ecco cosa ne pensa Piggott, dopo aver fornito un lungo elenco di riscontri archeologici di apparente paternità micenea nel Nord Europa, dall’Irlanda al Baltico: Ho detto più sopra che il mondo dell’Europa barbarica del secondo millennio fu essenzialmente il mondo dell’Iliade e dell’Odissea – e, aggiungerei, degli Argonauti – proprio come, nel successivo primo millennio, diviene, con ogni evidenza, il mondo degli eroi dei vecchi racconti irlandesi del ciclo di Ulster. Certo il mondo anatolico ed egeo di Omero ha le sue città cinte di mura e i suoi palazzi in concio di contro ai villaggi cinti da palizzate e costruiti in legno delle terre boscose a nord delle Alpi, e, certo, la spedizione alla Colchide fu forse di dimensioni superiori a quella organizzata nel Wessex o alla foce dell’Elba; tuttavia gli eroi dei racconti, nonostante tutta l’arte del poeta, appartengono sempre a un mondo estraneo, primitivo e barbarico. Forse non si presta sufficiente attenzione ai caratteri che il mondo omerico condivide con quello degli eroi irlandesi; di Beowulf o delle saghe, e che devono essere stati comuni alla letteratura orale di tutta l’antica Europa barbarica. “I più nobili si comportano come selvaggi in battaglia” emotivamente instabili, “i più grandi guerrieri piangevano abbondantemente pubblicamente”, andare a caccia di donne, è “un obbiettivo confessato e un premio riconosciuto della guerra” così come lo sono il saccheggio delle città e l’uccisione o la riduzione in schiavitù di uomini e bambini, e la costrizione delle donne al concubinaggio. “La pirateria, le scorrerie in piena libertà in cerca di bottino, umano e d’altro genere, fanno parte di un commercio onorevole” (come riteneva Tucidide), e “lo spergiuro e il furto coronati da successo sono ammirati”. Agamennone sistematicamente spoglia le sue vittime delle loro armi mentre abbatte brutalmente al suolo, con la stessa indifferenza con la quale il leggendario eroe indiano combatteva con un viso pallido che mordeva la polvere; a dire il vero, l’atmosfera dell’Iliade è spesso tristemente simile a quella di un Western: o forse, si potrebbe dire, di un nord-Western europeo49.

È a questo punto che si rende necessario un approfondimento del termine “Haou-Nebout”, fondamentale per la comprensione delle problematiche sin qui affrontate. L’Egitto, scrigno della conoscenza, è in grado di svelarci segreti sorprendenti, tanto più che se stiamo ricercando la Madre della civiltà, l’Egitto stesso non può che esserne una sua luminosa emanazione. È da questa indagine eseguita prevalentemente sul testo Les Haou-Nebout del 1947 (prima parte) e 1949 (seguito) di Jean Vercoutter, a tutt’oggi considerato fondamentale, che apprendiamo ciò che segue. Il termine “Haou-Nebout” ha per tutta la storia dell’Egitto, dalla fase 103

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predinastica all’epoca romana, una diffusione straordinaria. Ma ciò che colpisce è l’estrema antichità dell’espressione. Così afferma Vercoutter: “Come abbiamo avuto occasione di dimostrare numerose volte, l’espressione Haou-Nebout è molto antica. Verosimilmente era conosciuta nel periodo Predinastico e comunque esisteva all’inizio dell’Antico Regno”50. Haou-Nebout non è solo un termine geografico ma anche etnico, infatti come sappiamo indica i Popoli del Mare che invaderanno l’Egitto al tempo di Mereptah e Ramesse III (1200-1100 a.C. ca). Questo termine si ritrova costantemente nei massimi documenti ufficiali egizi, nei testi universalisti, geografici e religiosi, è citato nello stesso rituale faraonico come si riscontra per la festa Sed e rappresenta per millenni il primo nome della lista dei Nove Archi. Vedremo dall’analisi di una piccola parte dell’enorme mole di documenti a disposizione come l’Haou-Nebout fosse considerato dagli Egizi uno spazio di enormi dimensioni collocato agli estremi confini nord-occidentali del mondo: ne facevano parte “le Isole del centro del Grande Verde”51, cioè il mare Oceano ed un numero imprecisabile ma rilevante di popoli nordici su altre isole chiamati generalmente “i paesi nordici”. Spazi che si estendevano lungo quello che gli antichi consideravano il limite dell’universo terrestre, cioè il Sin-wur.

“[…] Haou-Nebout, ciò si riferisce alle isole del centro del Grande Verde e ai numerosissimi paesi nordici”52. “[…] i paesi che vennero dalle loro terre nelle isole che si trovano in mezzo al Grande Verde”53. “Ho legato in fasci i Nove Archi, le isole che sono in mezzo al mare Oceano, gli Haou-Nebout, i paesi stranieri ribelli”54.

2.9. I Nove Archi In ogni testo o iscrizione che canti le lodi del faraone, di cui l’Egitto è così copioso, è quasi di rigore che appaia l’augurio che il faraone tenga sotto i suoi piedi i Nove Archi. Sebbene molto frequentemente vengano interpretati come i popoli vinti o assoggettati all’Egitto, i Nove Archi sono in realtà le nove razze che rappresentano per gli Egizi l’intero genere umano. Questa fondamentale concezione risale al periodo più antico della storia dell’Egitto poiché è già presente scolpita su di un masso di epoca predinastica a Ieracompolis, la si ritrova incisa sotto la pianta dei piedi della statua del faraone Gioser, III dinastia, costruttore della prima piramide a 104

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gradoni di Saqqara ed è inoltre menzionata frequentemente nei Testi delle Piramidi. Citiamo da Vercoutter: Sembra che a quell’epoca gli archi designassero l’universo umano sottomesso al re in opposizione all’universo divino, come testimoniano i Testi delle Piramidi al § 202b: “Possa tu fare (in modo) che questo Ounas governi i Nove [Archi] e che provveda con le offerte ai Nove dei (l’Enneade)”. […] È per errore che a partire del Nuovo Impero i Nove Archi vengono concepiti come paesi stranieri. Inizialmente, sembra che si trattasse dei popoli assoggettati, abitanti o no della valle del Nilo, e governati dal faraone. Siamo costretti, infatti, per spiegare la concezione degli “archi” a fare intervenire la nozione di razza55.

Il brano dei Testi delle Piramidi ci ricorda nuovamente e in modo conclamato la regola che ben conosciamo: “così in alto così in basso”. Come in cielo governano i Nove Dei cioè l’Enneade, così in terra nove sono i popoli che dominano o da dominare. Il primo dei Nove Dei è Ptah, padre degli Dei dell’Enneade e creatore del genere umano, i primi della lista dei Nove Archi sono gli Haou-Nebout. La corrispondenza con Ptah ci sottolinea l’incredibile rilevanza che gli Egizi dovevano attribuire a coloro che necessariamente e obbligatoriamente rappresentavano il primo popolo della lista dei Nove Archi, a rappresentazione del genere umano. Quale ruolo avevano ricoperto gli Haou-Nebout nelle sfere ancestrali della conoscenza egizia e per quale similitudine e corrispondenza semantica gli Egizi li assimilavano a Ptah, padre degli Dei e creatore del genere umano?

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“Haou-Nebout, Shat, Ta-Shemâ (Alto Egitto), Sekhet-Iam (Oasi), TaMehou (Basso Egitto), Pedjtiou-Shou, Tehenou (Libia), Iountiou-Seti (Nubia), Mentiou-nou-Setet (Asia)”. I Testi delle Piramidi e l’Antico Impero non hanno lasciato liste dettagliate. Dalla fine del Medio Impero alla XIX dinastia possediamo numerose liste. Così commenta Vercoutter: “L’ordine in cui appaiono questi nomi non è certo casuale: quest’ordine non solo è stabilito in quattro tombe ma lo si ritrova anche in altre epoche”56. Come potevano le piccole isole della Grecia e i Greci stessi con cui gli 105

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storici identificano gli Haou-Nebout ricoprire un ruolo simile nella conoscenza egizia, quando appariranno solo nel XVI sec.? È stupefacente che nella compilazione di un testo ufficiale fondamentale, rappresentato sulle immagini stesse dei faraoni, gli Egizi non abbiano posto l’Alto e il Basso Egitto al primo e al secondo posto bensì abbiano riservato a se stessi il terzo e il quinto elevando gli Haou-Nebout al primo, mantenendo tale ordine sino alla XIX dinastia. Da questo momento e durante l’epoca tolemaica l’Alto e il Basso Egitto diverranno i primi della lista. Daremo successivamente chiarimenti su questo importantissimo cambiamento, che verrà a cadere esattamente all’indomani della grande invasione dei Popoli del Mare: l’ultima invasione Haou-Nebout. “Ti porta i Nove Archi Haou-Nebout, ciò si riferisce alle isole del mare e ai numerosissimi paesi nordici che vivono (dell’acqua) delle correnti”57. Alla radice della famiglia umana l’Haou-Nebout sembrerebbe ricoprire un ruolo fondamentale. È da questo luogo perduto alla nostra conoscenza che dunque sarebbero partite le migrazioni e le successive colonizzazioni determinando così il concetto di nove popoli da cui discenderanno tutte le genti? Questo è ciò che lascia supporre tale concezione egizia, già manifesta in tempi predinastici. Cercheremo seguendo il testo di assicurarci i fondamenti di ciò che gli Egizi ripetevano insistentemente nei più importanti documenti ufficiali sottolineando come negli anni Quaranta Vercoutter filtrasse tutto il materiale a sua conoscenza, cercando di farlo rientrare all’interno del paradigma oggi crollato per cui tutta la civiltà non poteva che derivare o dall’Asia o dalla Grecia. Il problema per Vercoutter era quello di sanare e conciliare l’uso predinastico del termine Haou-Nebout, che poi preferì definire vago ed incerto, con il fatto assodato per cui con questo nome gli Egizi designavano in tempi molto più recenti (VI-V sec. a.C.) i Greci58. L’evidenza della problematica può divenire ulteriormente più esplicita nel brano estratto dal testo di Alessandra Nibbi The Sea Peoples and Egypt che riassume il pensiero corrente degli studiosi: Il nostro più grande debito va rivolto a Vercoutter che studiò questa intera questione in profondità, disponendo questo problema nella giusta situazione a cui appartiene: nel contenuto dei testi egizi e nel loro uso di questo nome. Egli ci ha dato un lavoro modello al quale possiamo sempre essere in grado di riferirci con profitto. Il problema dell’identificazione degli Haou-Nebout è stato offuscato dalla tarda traduzione di questo termine come “Greci”, ma pur anche nella disponibilità ad un cambiamento nell’applicazione di questo termine in senso geografico, il problema è rimasto oscuro e senza speranza ad ogni livello59.

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È tuttavia lo stesso Vercoutter che riconosce delle contraddizioni grossolane nell’identificare l’Haou-Nebout con le isole del mare Egeo in un’epoca così remota. Ecco alcune sue speculazioni: […] se gli Egizi hanno designato con un unico termine Haou-Nebout, i Greci e i Minoici, due razze così diverse per i costumi, l’aspetto esteriore, il linguaggio e che, di fatto, non avevano in comune che l’habitat, è perché il termine Haou-Nebout designava appunto questo habitat che gli Egizi erano in grado di situare in modo sufficientemente esatto per sapere che i Greci abitavano le stesse isole un tempo occupate dai Minoici e non da altri. Ora, nessuno fra gli esempi antichi del termine che abbiamo potuto raccogliere rientra in un contesto sufficientemente chiaro per poter affermare che Haou-Nebout designa proprio le isole del mar Egeo o i suoi abitanti60.

Altrove afferma: “È d’uopo quindi per noi cercare nei documenti più antichi una spiegazione più soddisfacente di quella di “abitanti delle isole del mare Egeo”61. Mai in nessun documento è possibile quindi riferire il termine HaouNebout alle isole della Grecia, almeno sino all’epoca saitica e tolemaica. E se gli Egizi esprimessero invece con questo termine il luogo ancestrale di provenienza, quella patria d’origine dei Greci e dei Minoici che ancora non conosciamo?

2.10. Significato del termine “Haou-Nebout” Haou-Nebout significa: ciò che sta aldilà del (o dietro al) Nebout, ciò che sta attorno al Nebout. Sono quasi centocinquanta le varianti ortografiche di questo termine che gli Egizi consideravano composto di due elementi distinti: il primo elemento, Haou è un maschile plurale, il secondo elemento, Nebout termina con una “t” come un femminile. Con l’accostamento dei determinativi ha significato sia geografico: i paesi Haou-Nebout, sia etnico: le genti Haou-Nebout. In un numero inferiore di casi e solo nel periodo antico come nei Testi delle Piramidi, il termine Nebout è utilizzato isolatamente. I primi egittologi tradussero “Haou-Nebout” con “tutti i Settentrionali”, poiché l’elemento Haou era utilizzato per segnalare il Nord in contrapposizione all’elemento che rappresenta il Sud e l’elemento Nebout identificava il plurale dell’aggettivo Nbw “tutti”; altri consideravano l’elemento Haou un aggettivo, traducendo “coloro che sono dietro al Nebout”, ma Gardiner rilevò che con maggior precisione il termine implica sempre la nozione di “circondare”, “essere attorno” da cui la traduzione “ciò (o coloro) che si trova attorno al Nebout”. 107

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Alcuni autori considerano la variante ortografica di Nebout col significato di “palude” o “acquitrino”, mentre Sethe vedeva nel termine “nebout” un sostantivo del verbo Nbw “nuotare”, che quindi andrebbe a designare la perifrasi di “isole che sembrano nuotare (o galleggiare) sull’acqua”. Vi sono inoltre evidenze che fanno assimilare al termine nebout il termine variante di che ha significato di “confini estremi del mondo” e molti sono gli esempi che abbiamo a disposizione. Vercoutter infine ci dice che i due elementi haou e nebout sono presenti all’interno della parola utilizzata per indicare una vasta regione circoscritta naturalmente da un unico fiume62. Con Haou-Nebout si indicherebbero quindi dei territori, sostanzialmente isole che si trovano al di là di una vasta area paludosa con una forte indicazione geografica di settentrionalità e lontananza estrema. Il termine isolato nebout viene sempre utilizzato durante l’antico regno per designare le regioni estreme della terra proiettate nell’orizzonte marino, dove però vivono le “genti del Nebout” che, come recita un testo dei Sarcofagi, portano in Egitto amuleti e pietre preziose e sono descritti come particolarmente vigorosi. Così recita uno dei capitoli del Libro dei Morti: “Sono il loro maestro, sono il loro toro (il loro procreatore), sono più forte degli abitanti dei Nebout”63. Il Nebout terrestre possiede secondo la regola ermetica un corrispondente celeste. Così recita un brano dai testi dei Sarcofagi: “Percorro il dolce orizzonte, vengo, esco verso la barca che porta i beni della Grande Dea, sono riunito al sole nei Nebout del cielo”64. Gli Egizi inoltre indicano il Nebout come una regione dell’altro mondo, un mondo infernale a cui si accede sempre in barca, come racconta il libro di “Ciò che esiste nel Duat”, corrispondente all’Ade dei Greci. Un aspetto che approfondiremo meglio tempo debito. Vercoutter era giustamente scettico riguardo la possibilità che tale espressione in epoca predinastica potesse realmente indicare le isole della Grecia. Ma dove è possibile localizzare l’Haou-Nebout? Vercoutter dubita dell’esistenza di questa sconosciuta entità, tanta è secondo lui la vaghezza espressa dagli Egizi nella fase più antica della loro storia: “Vedremo che il termine viene sempre impiegato in testi molto generici, a volte mitici, e mai in un contesto preciso che tratta di rapporti buoni o cattivi, fra l’Egitto e i popoli che lo circondavano”65. Gli Egizi ne danno però ripetutamente una evidente anche se sorprendente collocazione in associazione al Sin-wur: il limite estremo del mon108

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do circondato dall’Oceano. Anche Vercoutter deve ammetterlo quando analizza il passo 629 dei Testi delle Piramidi e dice riferendosi ai tre elementi che compongono il termine “nebout”: “[…] designavano una forma geografica suscettibile ad essere circondata o contornata dall’acqua dell’oceano universale”66. E subito dopo: “Ora, la frase che precede quella che stiamo studiando, in questo stesso paragrafo 629 delle Piramidi, parla del Sin-wur, questo termine designa l’oceano mitico”67. Il Sin-wur rappresenta senza dubbio per gli Egizi l’oceano inteso come circolo d’acqua che delimita e circonda il mondo68, ma Vercoutter parte dal presupposto che gli Egizi non possano conoscere altro che il Mediterraneo e il mar Rosso e che i riferimenti all’Oceano siano solo concezioni mitiche e oscure, quindi da non considerarsi reali e risolve dicendo: Così, delle tre frasi che compongono il paragrafo 629, due, quelle che impiegano l’espressione Sin-wur e circolo che circonda l’Haou-Nebout si riferiscono, senza minimamente forzare il testo non a delle regioni geograficamente determinate ma a degli spazi celesti o mitici mentre la terza non ha certamente un senso geografico. Allora perché volerle integrare nello spazio terrestre?69.

Noi ci sentiamo di sostenere che i costruttori delle piramidi possedessero cognizioni geografiche più ampie di quello che si è sempre ritenuto o tali in ogni caso da conoscere bene il limite ad Ovest del continente africano e quindi l’oceano Atlantico che, come abbiamo già visto, consideravano come un unico grande mare che circondava le terre emerse. Vercoutter fa però precipitare nel vago e nell’oscurità dell’incomprensione il termine “Haou-Nebout” come luogo geografico per i primi duemila anni della storia egizia, quando poi lo stesso termine designerà improvvisamente una serie di popoli invasori che rappresenteranno la minaccia più grande nella storia dell’Egitto dopo l’invasione degli Hyksos. Come può un luogo inesistente procreare tante genti? Com’è possibile quindi evitare di integrarlo in uno spazio terrestre? Anche Vercoutter si sentì però obbligato ad indicare un possibile riferimento geografico reale. Nonostante le sue stesse affermazioni, sorprendentemente, non considerando l’estrema posizione di lontananza ripetutamente espressa nei testi egizi, propose di identificare il Nebout con il delta paludoso del Nilo. Purtroppo si tratta di un’ipotesi ancora condivisa dagli studiosi che si riferiscono a Vercoutter come al maggior conoscitore ed esperto di tali problematiche. Riteneva pertanto che il termine “Haou-Nebout” avesse subito diverse variazioni di senso nel trascorrere dei millenni.

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2.11. Il Grande Verde Un testo mutilo della XII dinastia così afferma: “[…] il Grande Verde (cioè il mare) dei Neb(ou)tiou”70. Di quest’unico mare71 che gli Egizi chiamavano il “Grande Verde” faceva parte anche il Mediterraneo, come è in effetti: il Grande Verde rappresentava il mare Oceano, il mare universale che nella sua ampia accezione comprendeva l’acqua anche di tutti i fiumi. Troppo spesso rimaniamo legati ad una convenzione e successiva forma mentis per cui esistono tre oceani e svariati mari tra cui il Mediterraneo. È in realtà perfettamente comprensibile che gli Egizi, non imponendosi convenzioni che abbiamo considerato pratiche e necessarie, considerassero e descrivessero l’Oceano e il Mediterraneo come un unico mare: il Grande Verde i cui limiti estremi erano delimitati dal Sin-wur, il Grande Circolo, il fiume Oceano. Vi sono ripetute prove che gli Egizi utilizzassero l’espressione “Grande Verde” anche riferendosi al mar Rosso nello stesso modo in cui i Greci, molto più tardi, consideravano il mar Nero essere un recesso dell’oceano72. Va inoltre considerato che nessuno studioso riconosce che l’espressione “Grande Verde” possa elettivamente significare il Mediterraneo73, né che l’espressione “le isole nel mezzo del Grande Verde”, con cui si identificherà il luogo di origine dei Popoli del Mare, si possa adattare alle piccole isole greche; trovandosi queste nel chiuso mare Egeo, certo non possono essere definite “al centro del Grande Mare” e ciò soprattutto dal punto di vista geografico dell’Egitto. Testimonia la studiosa Nibbi: “L’espressione egizia ‘Grande Verde’ è tradizionalmente equiparata con ‘oceano’ e ‘mare’”74. Anche G. Maspero si dimostrava contrario all’idea di identificare le isole del centro del Grande Verde con le isole della Grecia, che aveva proposto di identificare con un’espressione presente sia negli Annali che nella Stele Poetica di Tutmosis III: le “isole degli Outentiou” (Wtntyw). Maspero proponeva di tradurla con “le isole del Mediterraneo occidentale” o “le isole Ionie” poiché vedeva nel termine outentiou una forma del termine danuna o danai75. Il Grande Verde viene tradotto anche da George Reisner e da Gardiner come “oceano” ma, come dimostra il seguente documento, vi si innesta l’anomalia già sottolineata:

LXIX. “Ho legato in fasci i Nove Archi, le isole che sono nel cuore del mare (il Grande Verde)76, gli Haou-Nebout e i paesi stranieri ribelli”. Reisner traduce questo passaggio “The islands in the midst of the 110

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ocean, the Greek islands, the rebellious foreign lands”, e Gardiner conferma questa traduzione77. L’incongruenza di questa traduzione in cui il termine Haou-Nebout viene tradotto con “le isole greche” crea una dissonanza che non vogliamo commentare. La convinzione egizia era che le isole Haou-Nebout si trovassero in mezzo all’Oceano, ai limiti estremi del mondo circoscritto dal Sin-wur (il Grande Circolo) il quale appare percorrere le stesse isole poiché in molti documenti sono descritte come immerse nel flusso circolare del Sin-wur. Dai Testi delle Piramidi

XXVII. “Tu circondi ogni cosa nel tuo braccio nel tuo nome di circolo che percorre gli Haou-Nebout”78. In un altro testo saitico che si rifà ad un testo dell’Antico Regno rivolto ad Osiride viene detto: “Osiride, egli è grande, egli è grosso, egli è forte, egli è potente nella (o per la) acqua del Cerchio. Egli circola più di ogni altro Dio vivente, (e) certo tutti i loro beni li ha circondati per lui (poiché) ad egli è stato donato di percorrere il Circolo degli Haou-Nebout”79. Questo tipo di formula che viene ripetuta con frequenza indica l’estremo e più remoto confine del mondo. Anche la studiosa Nibbi conferma tutto ciò: “La maggior parte dei testi che si riferiscono al Nebout suggerisce che essi rappresentino i più lontani luoghi della terra”80. Commentando l’inno di Ramesse III ad Amon prosegue: “‘La paura di lui è in tutte le terre e le pianure perché è Amon che ha creato l’Haou-Nebout. Il suo terrore si è localizzato nel Grande Circolo poiché è Amon che circonda i Nove Archi’. Prendendo in considerazione tutti i passaggi in cui possiamo trovare riferimenti all’Haou-Nebout, la loro più stretta associazione è con il Sin-Wur ‘il Grande Circolo’”81. È di Tuthmosis I un documento che non lascia spazio a dubbi sulla presenza di isole dislocate lungo il Sin-Wur. Segue il commento di Vercoutter:

“Le isole del Grande Circolo sono a lui sottomesse (Horus), e la terra tutta intera è sotto i suoi piedi”. Wainwright ha incluso questo testo fra i documenti che si riferiscono, a suo parere, ai “Popoli del Mare”, ma ci riesce difficile condivider-

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ne il punto di vista. […] È praticamente impossibile sapere se le “isole del Grande Circolo” designano una regione determinata o, al contrario, un insieme geografico molto vasto e indeterminato. Si credeva che sn wr, indipendentemente dal suo senso iniziale di Oceano che, secondo la cosmografia egizia, circondava il mondo nel suo insieme, potesse esser stato usato anche per designare dei mari ben definiti. In questo caso, le isole del sn wr avrebbero potuto al massimo designare una regione determinata, ma, da una parte non è certo che sn wr abbia mai designato un mare in particolare, e dall’altra, il parallelismo stesso con l’espressione “la terra tutta intera” rende molto più probabile l’identificazione del Grande Circolo del nostro testo con l’Oceano universale. Pensiamo che l’interpretazione di Wainwright sia ancor meno giustificata visto che non solo non è mai stata data prova decisiva di un uso ristretto dell’espressione sn wr per designare un mare determinato, ma anche perché, come sottolineato da Gauthier, nelle enumerazioni questo termine viene sempre differenziato da Wd-wr (il Grande Verde o anche il Verdissimo). È quindi impossibile che l’espressione iww sn wr (isole del Grande Circolo), anche riconoscendogli un senso geografico preciso, possa designare le stesse isole definite dall’espressione Iww hry(w)-ib Wd-wr (Isole del centro del Grande Verde)82.

Le affermazioni degli Egizi rendono sempre più arduo non volere integrare in uno spazio terrestre le isole ed i popoli di cui presto faremo la conoscenza. È nel “mezzo del Grande Verde”, racconta il papiro Chester Beatty, che avvenne il mitico scontro fra Horus e Seth. Un legame veramente profondo e sconosciuto fra l’Egitto con il suo mito fondamentale e il “cuore83 del ‘Grande Verde’” che sappiamo essere parte dell’Haou-Nebout. Dagli Hyksos ai Popoli del Mare, sarà sempre Seth Baal la suprema divinità dei numerosi paesi stranieri84 ed identificata con il medesimo glifo determinativo. Viene spontaneo associare il concetto di “nebout”, localizzato nelle più remote distese marine, a quello di “pelagos” e quindi ai Pelasgi ed infine ai Pelasti (Filistei) che provenienti dall’Haou-Nebout invaderanno il Mediterraneo nel 1200 a.C. È una realtà che la presenza del termine Haou-Nebout sia fragorosa in tutto l’Egitto e Vercoutter è perfettamente esauriente nel rivelarci le enormi dimensioni spaziali in cui gli Egizi proiettavano l’immagine che possedevano dell’Haou-Nebout.

2.12. Testi universalisti Il più antico testo universalista che possediamo proviene dal tempio funerario di Sahure durante l’Antico Regno; risultano poi consueti a partire della XII dinastia. Vercoutter afferma che nel Medio Regno e durante 112

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Tav. 13a: In questa processione di personaggi, da considerarsi come geni propizi, il terzo rappresenta il Grande Verde, il Wad-wur.

Tav. 13b: Raffigurazione dei Nove Archi collegata a nove personaggi. Questa serie come molti altri documenti egizi va letta da destra a sinistra. Come si può osservare si tratta della serie tradizionale con gli Haou-Nebout in testa. Nomi dei popoli da destra a sinistra: Haou-Nebout, Shat, Ta-Shemâ (Alto Egitto), Sekhet-Iam (Oasi), Ta-Mehou (Basso Egitto), Pedjtiou-Shou, Tehenou (Libia), Iountiou-Seti (Nubia), Mentiounou-Setet (Asia).

tutto il resto della storia egizia l’espressione “Haou-Nebout” viene impiegata tradizionalmente nelle formule universaliste che rimangono inalterate nel tempo, quindi non se ne può trarre alcuna informazione sull’evoluzione del significato85. Da J. Vercoutter: Si notano frequentemente nei templi iscrizioni che assicurano che il re, o il Dio, possiede tutti i paesi stranieri. Fra queste formule, fastidiose per la loro frequenza, se ne trova una che afferma che: “Tutte le pianure, tutte le montagne e gli Haou-Nebout sono sotto i piedi del re (o del Dio). Questi testi costituiscono una categoria molto specifica che può essere studiata separatamente.

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Alcuni, del tipo A (doc. XIII a XIX), mettono in parallelo i termini (“tutte le pianure, tutte le montagne, tutti gli Haou-Nebout”), altri, del tipo B (doc. XX a XXVI), enumerano congiuntamente i Pat, i Rekhyt, gli Henmemet e gli Haou-Nebout. Gli esempi di queste formule sono innumerevoli e non pretendiamo di averli esauriti. Enumerarli tutti sarebbe inutile poiché si ripetono esattamente86.

FORMULE DI TIPO A Un esempio da Karnak: XVII.

a) Tutti [i paesi] lontani, gli Haou-Nebout sono ai piedi di questo Dio buono. b) Tutte le pianure, tutte le montagne, gli Haou-Nebout sono ecc. c) Tutte le pianure, tutte le montagne, tutti gli Haou-Nebout sono ecc.87

Commenta sempre Vercoutter: Uno dei testi più caratteristici di questa categoria è anche uno dei più antichi. È scolpito da una parte e dall’altra delle rampe di accesso alla cappella di Sesostris I a Karnak, ricostituita da M. Chevrier; leggiamo: “Formula da recitare: ti porto tutti i buoni cibi, tutte le buone e numerose offerte, alimenti e tutti i buoni prodotti che sono in Alto Egitto e che sono in Basso Egitto. Ogni vita, stabilità, forza, ogni salute, ogni gioia, tutte le montagne, gli Haou-Nebout, tutte le pianure (var. le pianure di tutti i Fenkhou) sono ai piedi di Amon, ecc.”. Così come il documento XI b, questo testo veniva recitato in alcune occasioni che, giudicando dal carattere stesso della cappella di Karnak, erano legate alla festa Sed, vale a dire a cerimonie che avevano un rapporto con il rito reale. Così, fin dall’inizio del Medio Impero, il Testo Universalista A ha già un marcato carattere tradizionale. Notiamo ugualmente che introduce una lista dei nomi del Sud e del Nord che si trovava scolpita sui lati del piccolo tempio. L’espressione Haou-Nebout viene ripetuta nei quattro elementi del documento, da una parte e dall’altra di ognuna delle rampe di accesso. Questo testo si ritrova sotto forme più o meno sviluppate in numerosi luoghi. A Karnak, nel tempio di Amenophi II, situato fra il IX e il X pilone, è scolpito su dei pilastri quadrati sotto alcune scene raffiguranti il re in adorazione di diverse divinità. Su ogni pilastro, questo testo è

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preceduto da una frase che dimostra che l’insieme del monumento ha avuto un ruolo nella festa Sed88.

La formula che più volte si ripete su numerosi monumenti e sul padiglione dove si celebra il rituale faraonico della festa Sed può essere condensata in una sola frase del tipo: XV. “Tutta la vita, la stabilità, la forza, tutta la salute, tutta la gioia, tutte le pianure, tutte le montagne e gli Haou-Nebout sono ai piedi di questa Dea (o di questo Dio) buona che tutti i Rekhyt adorano per vivere”89. Un diverso esempio è quello che segue ed accompagna una scena di purificazione del faraone Tuthmosis III:

LII.

“Formula da dirsi da parte del Behedite, maestro del Cielo: il re Menkheperre, il figlio di Amon, il suo caro, è puro. Io faccio sì che (tu) rinnovi milioni di feste Sed sul trono dell’Horus dei viventi, che tu sia felice con il tuo Ka, che tu conduca gli abitanti delle pianure, che gli abitanti delle montagne ti servano e che tu governi le rive Haou-Nebout. (Io faccio sì che) tu possa adempiere a milioni di feste Sed”90. Il ripetersi costante ed incessante di queste formule inviolabili percorre i templi e la sacralità dell’Egitto sino dalla più remota antichità, pervadendoli in modo tanto continuo e capillare da farci ben comprendere quanto tale visione del mondo fosse radicata fra gli Egizi ed esprimesse una concezione dalla precisa definizione, condivisa da tutta la società egizia non come un’astrazione intellettuale ma come una realtà storica, con un ruolo fondamentale sia nella vita politica che in quella sociale ed economica. La concezione dell’universo degli Egizi dominava il loro stesso pensiero, le loro azioni e i loro atteggiamenti. I Testi universalisti di tipo A definiscono ciò che del mondo è possibile sottomettere. Il potere di un re può dominare le pianure, le montagne e l’Haou-Nebout. Ciò che segnalano queste formule ripetitive è la dimensione spaziale enorme in cui l’Haou-Nebout viene proiettato. Se l’universo terrestre si divide in tre elementi, l’Haou-Nebout che rappresenta il terzo non può che ricoprire grandissime porzioni in un’area, una regione, collocata agli estremi confini nord-occidentali del mondo. Un remoto ma va115

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stissimo spazio marino abitato da numerosi popoli, come poi apprenderemo. Del tempo di Ramesse II: XVIII. “…b) Tutte le pianure, tutte le montagne, gli Haou-Nebout dei paesi dei confini […]”91. Una variante di queste formule ci appare quella di Ramesse III a Medinet-Habu dove possiamo leggere: XIX.

d) Tutte le pianure (degli) Haou-Nebout, i paesi stranieri del mare […] sono ecc. e) Tutte le pianure (del) paese straniero (del) Grande Circolo (e del) Grande Circuito sono sotto i piedi di questo Dio buono, il grande principe d’Egitto92. Si tratterebbe quindi di isole tanto vaste e ampie da includere numerose pianure? Di eccezionale importanza, sempre a Medinet Habu, è il documento in cui troviamo le pianure e le montagne ma in luogo del termine Haou-Nebout appare una ben più dettagliata panoramica di ciò che per gli Egizi rappresentava questa remota regione:

“Tutte le pianure, tutte le montagne, il Grande Cerchio e il Grande Circolo, le isole che sono nel mezzo del Grande Verde, sono sotto i piedi di questo Dio buono (il re)”93. In queste formule è ratificata la posizione in un qual senso continentale degli Haou-Nebout, i Popoli del Mare, coloro che vivono sia nelle isole del centro del mare (Grande Verde) che in altre isole a stretto contatto col Grande Circolo, il Sin-wur, i confini del mondo, il fiume Oceano.

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FORMULE DI TIPO B Afferma Vercoutter: Nella formula B, il termine è riferito con evidenza in senso etnico e designa una razza umana. Il fatto che sia allora messo in parallelo con i Pat, i Rekhyt, gli Henmemet, prova l’estrema antichità del termine e rende difficile la sua interpretazione. […] Tutto si svolge come se gli Haou-Nebout fossero stati, in una determinata epoca, una delle razze sottomesse al re, senza che alcuna indicazione sia data da parte di questi testi sulla natura di questa razza. Tutt’al più si può intuire che questi nomi si siano mantenuti per un tradizionalismo religioso. Il fatto che Haou-Nebout sia alle volte qualificato dall’aggettivo “tutti” (come nel caso di “tutti gli Haou-Nebout”94), potrebbe spiegarsi col fatto che l’espressione è considerata sia come un nome geografico sia come un collettivo; in ogni caso, la presenza di questo aggettivo rinforza il carattere generale, universale del termine e rende improbabile un senso limitato ad un solo popolo95.

Stereotipo formula tipo B:

“Tutti i Pat, tutti i Rekhyt, tutti gli Haou-Nebout, tutti gli Henmemet sono ai piedi di questo dio buono”. Questo tipo di formula appare come un retaggio di tempi remotissimi. Nella formula di tipo B “i Pat, i Rekhyt, gli Henmemet e gli Haou-Nebout…” rappresenterebbero l’universo umano. Ma nell’evidenza deve trattarsi di un universo umano molto remoto poiché, a parte gli Haou-Nebout, le altre tre razze sembrano dissolte nel mito già dall’inizio della storia egizia. Ci appare logico pensare che questa formula sia più antica e preceda quella dei Nove Archi che, Haou-Nebout in testa, elenca popoli che vivevano negli stessi tempi in cui i monumenti e i testi furono redatti, mentre i Pat, i Rekhyt e gli Henmemet fanno parte della fase più arcaica e in diretta continuità con i mitici antenati appartenenti allo Zep Tepi o “primo tempo”. I Pat o anche Iry Pat, letteralmente “i discendenti di Pat”, erano l’élite nobiliare che circondava il faraone, anzi, nel giorno dell’incoronazione venivano ricevuti da questi come se fossero appartenenti alla stessa famiglia. Il più celebre è sicuramente Imothep, il genio costruttore della grande piramide di Saqqara, poi divinizzato. Durante l’antico regno alcune spose reali possedevano tale titolo e quasi tutte le alte cariche dello stato provenivano dalla stessa élite. Non era però un’esclusiva, infatti disponiamo di testimonianze epigrafiche in cui si afferma che il defunto aveva raggiunto importanti funzioni di dignitario nonostante non appartenesse a tale nobile schiatta. Ciò 117

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depone quindi a favore di un legame di sangue e discendenza per coloro che hanno rappresentato l’aristocrazia nei primi secoli dell’era faraonica. Non sappiamo quasi nulla sui Rekhyt, che vengono spesso nominati come “oranti il Dio buono”96. Il glifo prende un significato generico di “etnico” nel senso che quando lo troviamo accanto a dei nomi propri sta ad indicare che si tratta di popoli. Il termine “Rekhyt” è testimoniato essere predinastico. Gli Henmemet (“gli scintillanti”, “i ricolmi di luce”) parteciparono alla creazione delle dottrine teologiche eliopolitane, fondate sulla potenza creatrice della luce impersonificata da Ra, accanto ai saggi sacerdoti di Elipoli. Alcuni sostengono che furono questi a insegnare ai saggi Egizi la matematica, la geometria, la fisica e l’astronomia. Sono spesso nominati a riguardo del viaggio stellare sulla barca dei milioni di anni: seguono Ra, la luce, nel suo viaggio fra le stelle. Gli Henmemet sono citati frequentemente nei Testi delle Piramidi e la traduzione letterale di questo termine è “la gente solare”. Dice di loro Donadoni: “La ‘gente solare’: è un termine che in seguito significa semplicemente ‘gente’, ma in origine allude ad un gruppo di persone residenti in cielo: sono probabilmente i morti che là hanno sede”97. Gli Henmemet sono identificati anche con “la gente del dio Atum”. Ci si riferisce però ad un popolo le cui radici storiche sembrano sprofondare in un tempo a noi del tutto ignoto. Anche Wallis Budge nel suo dizionario traduceva il termine con “uomini e donne di un’età passata”. Nei Testi delle Piramidi risultano spesso associati sia alla “ventosa via d’acqua” che corrisponderebbe alla via Lattea, sia alle stelle imperiture che notoriamente si trovano al Polo Nord celeste. Riferendosi ad entrambe le formule universaliste, Vercoutter prosegue: In nessun caso, possono ammettere una traduzione così precisa come quella di Egei o abitanti delle isole del Mediterraneo. Le frasi del tipo: tutte le pianure, tutte le montagne e gli Haou-Nebout sono sotto i piedi del Dio buono e del tipo tutti i Pat, tutti i Rekhyt, tutti gli Haou-Nebout, tutti gli Henmemet sono sotto i piedi del Dio buono intendono chiaramente designare l’universo terrestre e umano. Volervi fare entrare gli Egei sarebbe un non-senso. Tutto ciò che questi testi permettono di concludere è che gli Haou-Nebout vi erano considerati sia come uno spazio geografico molto vasto, sia come una razza o un insieme di razze che, antichissime, hanno fatto parte dell’orizzonte politico egizio98.

Le parole di Vercoutter sono gonfie di significato: l’Haou-Nebout è uno spazio molto vasto abitato da un’insieme di razze con cui gli Egizi ebbero rapporti fondamentali, poiché fondamentale appaiono la diffusione ed il ruolo di questo termine che dagli albori percorre l’intero arco della civiltà egizia. 118

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2.13. Testi religiosi Leggiamo ancora Vercoutter: I testi religiosi dove appare l’espressione Haou-Nebout sono preziosi per la loro antichità e il loro tradizionalismo; si possono distinguere due categorie di documenti: quelli tratti dai testi funerari e quelli tratti dagli inni a diversi Dei. […] Testi funerari. – È possibile che dal primo periodo intermedio, i Testi delle Piramidi che fanno menzione del “Circolo che gira intorno ai Nebout” siano stati interpretati come “il Circolo degli Haou-Nebout”. […] Versione dei paragrafi 629 e 847 dei Testi delle Piramidi che risalgono alla XI dinastia: XXVII.

“Vedi tu sei circolare in veste di Circolo degli Haou-Nebout”. Un testo del Medio Impero sembrerebbe dover essere interpretato allo stesso modo: “Grande è la tua potenza magica, immensa la tua forza”. XXVIII.

“Tu hai circondato per [te] tutti gli Dei con tutti i loro beni nel tuo nome di Circolo degli Haou-Nebout”. […] È così che un passaggio dei Testi dei Sarcofagi dichiara: XXX.

“Questi venti ti sono donati da questi giovani, è il vento del nord che percorre gli Haou-Nebout, estendendo le braccia fino alle estremità del doppio paese (l’Egitto)”. Il termine Haou-Nebout è qui definito dallo stesso testo che fa venire il vento del Nord dalle estremità settentrionali del mondo99.

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Si tratta palesemente di un concetto che si ritrova nella cultura grecoromana espresso nel termine “iperborei”, cioè settentrionali per eccellenza, coloro che vivono al di là di Borea, il vento del Nord. Amenophi I: XXXII.

(Possa tu fuoriuscire dalle braccia di tuo padre Osiride e farne la tua vita), possa tu prosperare attraverso di lui, attraverso la gradevole libagione che viene da tuo padre Osiride, dal lato orientale del Mare che percorre il circolo degli Haou-Nebout. Possa tu vivere dei venti dell’Est che provengono dal lato orientale del Grande Verde100.

Osiride Kenti-Amenti, “signore degli occidentali” cioè dei morti, governa su un regno che inizia dove il sole, tramontando all’estremo Occidente, entra nel Duat, l’aldilà; ma sorprendentemente questa estrema regione non risulta un deserto d’acqua come ci aspetteremmo, poichè si afferma che dal lato orientale del mare che percorre il circolo degli Haou-Nebout provengono libagioni. Le raccolte di testi egizi non possono non riportare inni famosi come quello del Papiro Chester dedicato ad Amon o altri celebri brani dedicati ad Aton di Amenophi IV, il faraone eretico, ma sia nell’ortodossia che nell’eresia le isole del Grande Verde e l’Haou-Nebout rimangono una realtà costante. Queste espressioni rivestono (come sempre) un ruolo principe anche nel contesto di inni religiosi che naturalmente esprimono concetti cosmogonici e universali, un ruolo quindi inaccettabile per le piccole isole egee. Chiunque legga questi inni non può che rilevare il macroscopico nonsenso della traduzione “Haou-Nebout” con “isole dell’Egeo”. Questo nonsenso ha probabilmente creato una sorta di imbarazzo generalizzato, tanto che la traduzione del termine “Haou-Nebout” viene spesso fornita solo in nota come “isole dell’Egeo”, citando spesso come fonte proprio Vercoutter che certo non concordava con una tale interpretazione. Ne nasce quindi una situazione oscura, non intelligibile per un normale lettore, mentre gli specialisti hanno evidentemente accettato una situazione che decisamente ci appare un intollerabile e vizioso “corto circuito”. Non esiste la benché minima possibilità che le piccole isole della Grecia rivestano un ruolo così fondamentale. Inni. – Gli Haou-Nebout appaiono assai frequentemente anche negli inni religiosi. Accade che questi testi non facciano altro che ripren-

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dere, sviluppando o meno, frasi di tipo universalista. È così che un inno a Osiride della XVIII dinastia scrive: XXXVI.

“Cielo e terra sono sotto i suoi ordini, egli comanda agli uomini, Rekhyt, Pat e Henmemet, l’Egitto, l’Haou-Nebout e il circolo di Aton sono sotto le sue direttive”. […] La formula universalista A enumera “pianure, montagne, Haou-Nebout”. Questi sono quindi indispensabili alla composizione del mondo, visto che, per essere universale, il potere regale deve estendersi fino a loro. Questo fatto spiega senz’altro perché gli inni che evocano la creazione del mondo menzionino gli Haou-Nebout. Così, un inno ad Amon (Ramsete II) dichiara: “La sua gloria percorre terra e cielo, poiché è Amon che ha creato l’eternità. Gli stranieri occidentali giubilano poiché è Amon che ha fatto la Libia”. XL.

“Il timore di lui è in tutti i paesi (o le pianure) poiché è Amon che ha fatto gli Haou-Nebout. Il terrore di lui è situato nel Grande Cerchio del Grande Circuito, poiché è Amon che ricopre i 9 archi. I meridionali sono massacrati, i settentrionali abbattuti, poiché è Amon che ha fatto ogni paese e creato ogni cosa”. […] Un altro inno ad Amon della fine della XIX dinastia riprende lo stesso tema sviluppandolo: “Lode a te Amon… che ha parlato con la sua bocca e furono creati gli uomini (egizi?), gli Dei, il grande e il piccolo bestiame tutto quanto così come tutto ciò che vola e che si appoggia”. XLI.

“Hai creato le rive degli Haou-Nebout, che si sono installati con le loro città (così come) le praterie fertili che feconda il Noun per portare dei frutti e ogni cosa buona senza limite al fine di nutrire i viventi”.

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Alla creazione per parola del Dio del mondo umano, divino e animale dell’Egitto, sembra aggiungersi la creazione del resto dell’universo, in modo tale che Haou-Nebout potrebbe qui designare soltanto gli stranieri, come nei documenti XXXVI, XXXVIII e XXXIX101.

Il brano XLI menziona il Noun, che Vercoutter chiama “l’Oceano universale”. Nei miti cosmogonici delle maggiori civiltà esiste all’inizio della creazione un elemento, un pianeta da cui avrà origine la terra, completamente ricoperto d’acqua. Così inizia la Genesi102, con un gorgo oceanico il cui nome diventava Noun per gli Egizi e Tiamat per i Sumeri. È il Noun103 stesso a fertilizzare e fecondare le pianure Haou-Nebout che diventano abbondanti di messi e frutti, una terra di paradiso nel profondo del mare dove prosperano città. Gli inni che evocano la creazione del mondo ci ripropongono quindi gli stessi concetti emersi dai Testi universalisti e da quello dei Nove Archi: la presenza Haou-Nebout all’origine del genere umano. Vercoutter non può che asserire: “Sembra comunque che gli inni conferiscano all’espressione Haou-Nebout una sfumatura del significato assai vicina al nostro termine ‘stranieri’, o per lo meno che l’impieghino indubbiamente come perifrasi, per designare gli abitanti del mondo esterno all’Egitto”104. Riportiamo altri brani di Vercoutter che riguardano sempre gli inni; il seguente, dell’età di Amenophi IV e dedicato ad Amon recita: “Il tuo nome è elevato e potente e forte, il Grande Circolo e il Grande Cerchio sono (ricurvi) sotto il timore che tu ispiri,

il tuo […?…] è pesante quando raggiunge (?) la terra, nelle isole che sono in mezzo al Grande Verde”105. E ancora: “È così che in una tomba della XI dinastia, un testo che potrebbe essere un inno accompagna la raffigurazione di una festa in onore della Dea Hathor. Fra i resti del testo si legge la frase: XLII.

‘La tua potenza ha raggiunto gli Haou-Nebout’. […] Questo testo attribuirebbe dunque a questa Dea una certa autorità sugli Haou-Nebout106”. In questi brani la posizione geografica dell’Haou-Nebout è in modo manifesto collocata agli estremi limiti percorribili della terra. 122

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Vercoutter termina la sua raccolta con altri testi definiti di carattere geografico, e titoli onorifici. Non intendiamo insistere su una mole veramente ragguardevole dei documenti raccolti da Vercoutter, per cui ne daremo solo accenni ricordando però che egli ci riporta prove concrete che il termine Haou-Nebout facesse parte integrante di numerose formule rituali proferite nella cerimonia stessa d’insediamento del faraone. Non si può inoltre tralasciare il fatto che i Testi dei Sarcofagi ci forniscono prove di un’importazione di pietre preziose e talismani dall’HaouNebout: […] dai Testi dei Sarcofagi leggiamo: XXXI.

“A lui sono portati: l’oro delle montagne, la pietra-anou della Terra del Dio, le pietre degli Haou-Nebout, dai Capi (?) (o il Grande?)…”107. C.

“Non sono certo un amuleto ouadj che si possa respingere. Sono un amuleto ouadj che viene dalle ‘Genti dei Nebout’ (o dal paese del Nebout)”108.

Ma ecco un fondamentale cambiamento: l’Haou-Nebout che era stato relegato da Vercoutter ai confini del mito, in un luogo che perdeva i suoi lineamenti geografici concreti precipitando nel “vago”, dall’invasione degli Hyksos, e soprattutto a cominciare dalla XVIII dinastia, sembra mutare il proprio spazio di collocazione geografica andando a situarsi sulle rive asiatiche della Palestina e della Siria. Inoltre l’atteggiamento degli Egizi nei confronti degli Haou-Nebout cambia radicalmente. È un fatto che gli Egizi si riferiscano alle “rive degli Haou-Nebout” come ad un luogo popolato da nemici. Vercoutter sembra tirare un respiro di sollievo nel poter indicare la collocazione asiatica dell’Haou-Nebout, confortato com’è dalla chiarezza indiscutibile dei testi egizi. Ma noi sappiamo bene che i luoghi geografici non si spostano mentre è appurato che l’Haou-Nebout è uno spazio dove vivono molti popoli se non addirittura diverse razze. Alcuni di questi popoli hanno lasciato le isole in mezzo al Grande Verde e quelle del Grande Circuito (i paesi nordici) e sono andati a stabilirsi sulle rive asiatiche della Siria-Palestina che diventeranno “le rive HaouNebout dei confini dell’Asia”. Tutto ciò risulta particolarmente esplicito in alcuni documenti in cui si fa contemporaneamente riferimento sia alle 123

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isole in mezzo al Grande Verde sia alla dislocazione asiatica di alcune popolazioni Haou-Nebout109. Non può che essere affascinante per noi a questo punto andare a svelare quali popoli delle coste dell’Asia gli Egizi considerassero Haou-Nebout.

2.14. Gli Haou-Nebout dei confini marittimi dell’Asia (i Paesi stranieri nordici) Siamo profondamente convinti che i testi a seguire testimonino una grande migrazione dall’Haou-Nebout; un’invasione mediterranea che da sempre sembra trovare il suo migliore approdo sulle stesse coste che avevamo visto interessate sin dal sorgere del primo Neolitico: la costa Siropalestinese. Dice Vercoutter: “È fuori dubbio che la XVIII dinastia considerasse gli Haou-Nebout come degli asiatici o più esattamente, come un insieme di popoli abitanti l’Asia”110. E ancora: “L’inno trionfale di Tuthmosis III, li associa ai Mitanni dell’Alto Eufrate e, come nella stele di Gebel Barkal111, peraltro contemporanea, li distingue dalle ‘isole che sono nel cuore del mare’”112. Un testo di Ramesse II nel tempio di Luxor riporta le frasi seguenti: XXIII. a) Tutti i Pat, tutti i Rekhyt, tutti gli Haou-Nebout sono ai piedi di questo Dio buono, l’Horus amato da Maat. b) Tutte [le pianure], tutte le montagne, il Grande Cerchio, il Grande Circuito, il Grande Verde… i Nubiani e i Fenici che ignorano l’Egitto sono ai piedi di ecc. c) Tutte le pianure lontane, tutte le pianure dei Fenici, tutti gli HaouNebout dei confini dell’Asia sono ai piedi di questo Dio buono che tutti i Rekhyt [adorano] per vivere. d) Tutti i Pat, tutti i Rekhyt, tutti gli Haou-Nebout, (tutti) gli Henmemet [sono ai piedi di questo Dio] che tutti i Rekhyt adorano per vivere ogni giorno113.

Anche a Medinet-Habu, III nel documento XIX, Ramesse distingue gli Haou-Nebout del Grande Verde definendoli formalmente anche “coloro che sono nelle loro isole”114 da quelli del Retenou superiore e inferiore, cioè la regione siriana: XIX. c) Tutte le pianure (degli) Haou-Nebout, il Retenou superiore e il Retenou inferiore sono, ecc.

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d) Tutte le pianure (degli) Haou-Nebout, i paesi stranieri del Grande Verde sono, ecc. e) Tutte le pianure (del) paese straniero (del) Grande Circolo (e del) Grande Circuito sono sotto i piedi di questo Dio buono, il grande principe d’Egitto. f) Tutte le pianure, tutte le montagne (dei) Mentiou d’Asia, sono, ecc.”115.

Risulta quindi evidente da diversi fondamentali documenti che gli Egizi differenziavano gli Haou-Nebout delle isole da quelli dell’Asia. Esistono quindi in primo luogo gli Haou-Nebout delle isole dei confini del mondo, e solo in un secondo tempo, ben più lontano, appaiono gli Haou-Nebout delle coste dell’Asia; genericamente per entrambi viene utilizzata l’espressione “i paesi stranieri nordici”. È durante l’era di Tuthmosis III che l’esigenza di differenziare il duplice insediamento degli Haou-Nebout renderà consueta l’espressione di “isole che sono in mezzo al Grande Verde” così da non confonderli con coloro che hanno colonizzato l’Asia. Un’iscrizione della XVIII dinastia, ma usurpata da Ramesse II, incisa alla base di un colosso, riporta un elenco di popoli vinti e Vercoutter la commenta chiarendo “Tutti i paesi segreti dei Fenici dei confini dell’Asia (sono sotto i piedi di questo Dio buono) che schiaccia Koush (Nubia), che colpisce le genti di Naharina (Mesopotamia) […]”. XXIV. “Tutti i paesi segreti Iountiou-Seti (Nubiani) e del Khent-Hen-nefer (Sudan). Tutti i Pat, tutti i Rekhyt, tutti gli Henmemet, tutti gli Haou-Nebout, tutti i Cerchi, il Grande Circolo sono ai piedi di questo Dio buono che tutti gli Dei amano, che tutti i Rekhyt adorano per vivere ogni giorno secondo l’ordine di Amon-Re”. L’universo è dunque definito, da un lato, dalle estremità Nord e Sud del mondo, e dall’altro dalla enumerazione dei popoli o razze che lo abitano: Pat, Rekhyt, Henmemet, Haou-Nebout, ai quali sono stati aggiunti tutti quelli del Circolo e il Grande Circuito (perifrasi per designare i limiti estremi del mondo). Questo documento ci mostra ugualmente che il termine “Fenici”, “Fnhw”, all’interno dell’espressione Fnhw phww Stt (i Fenici dei confini dell’Asia) che designa gli abitanti del Nord, è praticamente sinonimo dell’espressione Haou-Nebout, come ci si può rendere conto nel comparare i documenti XXIII e XXIV116.

Se in un primo momento gli Egizi si riferiscono ad una serie di popoli senza specificarne la singola identità, ai tempi di Tuthmosis III la definizione si fa molto più precisa. Ebbene non esistono dubbi a riguardo, gli Egizi consideravano HaouNebout dell’Asia i Mitanni nonché i principi del Retenou (come dimostra il documento precedente di Ramesse III, circa 1180 a.C.) e il termine per 125

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indicare i Fenici pare un sinonimo di “Haou-Nebout”. Sembra infatti che il termine fnhw sia stato inizialmente utilizzato in questa epoca per indicare gli abili carpentieri delle coste asiatiche. Appare piuttosto incredibile che in nessun testo da noi consultato sia mai stata presa in considerazione una possibile origine Haou-Nebout dei Mitanni, e nonostante il fatto che il loro regno si fosse espanso solo in un secondo momento all’Alta Mesopotamia dalle aree più costiere, è sempre stata considerata solo l’origine armena che, come già visto, appare più impossibile che improbabile. Ma questo non è tutto, non sappiamo forse che gli Egizi consideravano gli Haou-Nebout che avevano invaso l’Asia come un gruppo di popoli? Ebbene, gli Egizi ci forniscono il seguente elenco preceduto dal termine “Haou-Nebout”. Questo documento è riportato in una tomba tebana della XVIII dinastia dove sono elencati i popoli e il loro apporto di tributi, da Vercoutter: […] Tutto si svolge come se Haou-Nebout fosse qui un termine generale, che designa, se non la totalità dei barbari non-Egizi, tutt’al più i nemici della regione nord-est dell’Egitto, poiché la frase in cui viene usato funge da introduzione all’apporto di tributi asiatici da popoli diversi quanto i Keftiou, gli Ittiti, i Mitanni, gli abitanti di Tounip e di Kadesh117.

È il primo profeta di Amon Menkeperreseneb che ci fa dono di questo documento unico per importanza: ciò che getta nella confusione Vercoutter è per noi elemento chiarificatore. Certo si tratta di popoli molto diversi, come egli sottolinea con stupore, ma non sappiamo forse che gli Egizi consideravano le isole Haou-Nebout come abitate da popoli diversi se non addirittura da diverse razze? I primi non a caso sono i Keftiou cioè i Minoici, che parlavano luvio ed appartenevano alla famiglia dei Pelasgi, cioè Popoli del Mare. I Mitanni e i principi di Tounip e Kadesh fanno invece parte della famiglia indoeuropea di principi guerrieri tra cui gli Hyksos che, come abbiamo verificato, condividevano con i Greci Micenei importanti relazioni. Inoltre la lingua greca e quella iranica risultano estremamente prossime. La presenza degli Ittiti in questo contesto deve farci sospettare un’intrusione di questi Indoeuropei anche nella presa di potere degli Ittiti in Anatolia, che come ben sappiamo utilizzarono il carro da battaglia per fondare118 e ampliare il proprio dominio in un momento storico, il 1700 a.C. ca., che vede nascere e organizzarsi un nuovo panorama di stati e poteri grazie proprio a questa élite guerriera. Una fase storica di tale rinnovamento da poter essere paragonata alla fine di un’era. La stessa cosa succederà, solo in forma più violenta, 500 anni dopo quando l’ultima migrazione Haou-Nebout causerà la fine dell’Era del Bronzo, grazie anche al ferro di cui i Popoli del Mare avevano l’esclusiva, come dimostre126

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remo in seguito. In due gigantesche ondate, sconosciuti e numerosi popoli i cui idiomi per lo più risultano far parte della famiglia greca si riverseranno nel Mediterraneo scompaginando l’assetto politico-sociale. L’origine di tanti popoli priva di una risposta storiografica, ma che sappiamo appartenere a un’unica radice perché Indoeuropei, ha a che fare con l’Haou-Nebout, uno spazio di enormi dimensioni immerso nel Grande Verde, l’oceano. Se come sembrano confermare gli Egizi è l’Haou-Nebout l’origine di quella casta aristocratica indoeuropea, ne deriva che proprio nelle vaste pianure, così spesso citate nelle iscrizioni, doveva essere stato concepito il carro da battaglia. Arma di un’élite urbana, certo non un veicolo di nomadi, fu ideato per il dominio delle pianure Haou-Nebout. I popoli delle isole del Grande Verde, al di là della fondamentale considerazione di genti di mare e grandi navigatori, possedevano quindi vaste pianure atte ad un ampio sfruttamento agricolo, con tutto ciò che ne consegue.

2.15. Rekmire Nella confusione che da sempre alberga fra questi termini, diversi studiosi fra i quali Vercoutter ritengono, ma la questione è stata sempre molto dibattuta, di identificare Keftiou e Isi rispettivamente con Creta e Cipro. Nonostante il decennale disaccordo fra i maggiori egittologi e le stesse affermazioni di Vercoutter che riteneva che la documentazione epigrafica non permettesse di stabilire l’equivalenza Keftiou-Creta 119, sorprendentemente tale corrispondenza la si trova ubiquitariamente diffusa nelle odierne pubblicazioni. Cercheremo maggiore chiarezza sulla problematica anche se l’unico dato che sembra storicamente accertato riguarda l’identificazione dei Minoici con Keftiou, mentre i Micenei erano con molta probabilità indicati come “Tanaiou” o “Danaiou”, ovvero “Danai”. È un grande contemporaneo dell’egittologia, Donadoni, che ci porta a conoscenza di un documento unico apparentemente risolutivo sulla questione. In questo testo del 1400 a.C. circa si dimostrerebbe inequivocabilmente l’ottima conoscenza che gli Egizi possedevano dei territori egei e l’impossibilità che ne deriva di confonderli con le isole del Grande Verde e l’Haou-Nebout. Ora, fra gli zoccoli recuperati dal tempio di Amenophi III, sei sono settentrionali – e fra questi uno comporta una lista di nomi apparentemente senza paralleli. Come titolo, con funzione generale riassuntiva sottolineata dalla scrittura in direzione opposta a quella degli altri nomi, ci sono Keftiou e un non identificato120 T3-n3-y-w (Tanaiou) […], da cui (da altra fonte) sappiamo che giungevano in Egitto oggetti lavorati “secondo la

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tecnica di Keftiou”. Dalla parte opposta, sono ancora mantenuti dodici nomi, dei quali Edel ha stabilito che trascrivono Amnisos (il porto di Creta secondo Strabone), Phaistòs (b3-ij-si-tj-ij), Kydonìa (Ku-tuna-ia), Mykéne (Mu-k-a-n), un ignoto Dq3s, Messenìa (M-i-d3-n-j3), Nauplìa (Nu-pl-i-ia), Kythera (Ku-t-i-r-a), Wìlios (W-i-l-i-ja), Cnossòs (Ku-n-w-s3), di nuovo Amnisos e Lyktos (Li-k-t). Questa lista, insomma, datata attorno al 1400, ci offre una serie di nomi egei, tanto cretesi che micenei121.

Per quanto unico come documento, siamo di fronte ad una verità tangibile e lo stesso Donadoni conferma che il testo: Sottintende davvero esperienze dirette, pratiche di navigazione – di portolani (si direbbe). In questo caso siamo davanti a un quadro ricco di precisione, non a un esercizio di mitologia regale. E per essere davvero preciso e non mito, questo quadro deve essere dotato di un contenuto. Il sapere che gli Egiziani sapevano degli Egei e gli Egei degli Egiziani non porta molto oltre la formulazione del dato di fatto. Ma qui, in questa cornice, si può situare la realtà concreta di uno scambio di merci, e dietro le merci, di esperienza122.

Se la conoscenza dell’Egeo ai tempi di Amenophi III e prima non fosse stata profonda e consolidata, come potremmo spiegarci la presenza antichissima di reperti minoici e poi micenei come il vaso di Kamares trovato addirittura ad Assuan? Si può quindi affermare con sicurezza che i Minoici erano identificati come Keftiou, mentre gli Achei-Micenei lo erano come Tanaiou, cioè Danai (l’interscambiabilità di “T” e “D” è consueta e provata, quindi Tanaiou uguale Danaiou). Ma con altrettanta certezza questo documento non ci fornisce la prova per cui sia possibile affermare che Keftiou sia Creta, dal momento che i termini “Keftiou” e “Tanaiou” sono usati come etnici. La risposta all’importante quesito se Keftiou sia o non sia Creta la troveremo soffermandoci ad esaminare ciò che Rekmire, il visir del più grande dei faraoni, Tuthmosis III, immortalò nella propria tomba, considerandolo evidentemente l’evento culminante della sua vita accanto al grande faraone. Sulle pareti della tomba del gran cerimoniere di corte sono rappresentati in quattro registri geograficamente orientati (Nord, Sud, Est, Ovest) le offerte all’Egitto dei popoli delle estremità della terra. Grande rilievo è concesso ai popoli provenienti da Ovest; si tratta dell’arrivo in Egitto dei “principi della terra di Keftiou delle isole che sono in mezzo al Grande Verde”.

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Tav. 14: Dipinti parietali dalla tomba di Rekmire primo visir di Tuthmosis III e Amenophi II. Sono raffigurati i principi del paese Keftiou, delle isole che sono in mezzo al mare (il Grande Verde). Insieme alle zanne d’avorio, alle pietre preziose, al vasellame d’oro incredibilmente cesellato e smaltato, sono presenti i pani di rame a forma di pelle di bue (ox lingots) trovati successivamente in varie zone del Mediterraneo come a Cipro, sulle coste turche, su quelle siro-palestinesi e in Sardegna; questi recano brevi iscrizioni in lineare A, che come ben sappiamo, era la scrittura minoica.

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“Venire in pace, da parte dei principi del paese Keftiou delle isole che sono in mezzo al mare (il Grande Verde)123, inchinandosi e chinando il capo, per via della potenza di Sua Maestà Tuthmosis III. Quando hanno udito (parlare) delle sue vittorie su tutti i paesi stranieri. Portano i loro doni sulla schiena, al fine di ottenere il soffio di vita, desiderosi di essere sottomessi alla Sua Maestà, affinché la sua potenza li protegga”. [N.B. – sui doni recati si legge: “argento” (due volte, su dei lingotti rettangolari e su delle anelle); “lapislazzuli” (su una cesta piena di pietre). Infine il materiale dei vasi rappresentati è talvolta precisato dai termini “oro”, “argento”, “rame nero”]124. È naturalmente scontato che tutti i testi da noi consultati riferiscano all’unanimità dell’ambasceria di principi cretesi e di genti egee che recano doni preziosi. In quel tempo, come riporta Taylour, i Micenei avrebbero già dovuto essersi sostituiti ai Minoici a Creta, ma di certo non sono i Micenei ad essere riprodotti sulle pareti della tomba di Rekmire, ed anche i Minoici sembra che avessero sviluppato la particolare moda di indossare una gonna lunga. I testi sottolineano del diverso atteggiamento dei Keftiou che hanno solo “sentito parlare” delle vittorie di Sua Maestà mentre i popoli che portano le loro offerte hanno invece assistito ai trionfi di Tuthmosis III su questi paesi. Sono principi Haou-Nebout del Grande Verde quelli rappresentati, la cui fisiognomica, le vesti e gli elementi decorativi non ci riconducono a nessun popolo conosciuto nonostante sia stata spesso utilizzata l’espressione “quasi Minoici” (Furumark-Vercoutter). Ma ancor più indefinibili appaiono i meravigliosi vasi d’oro e d’argento di forme diverse cui seguono gioielli, lingotti di rame (di stagno?), fili di perle (perle d’ambra?), una zanna di elefante, tessuti e altri oggetti di difficile interpretazione. È difficile trovare le parole per esprimere qualcosa che sembra trovarsi completamente fuori dal tempo. Le forme pompose dei vasi cesellati raffinatamente in oro e argento e ornati di smalti variopinti che abbiamo di fronte non possono che farci pensare a modelli estremamente evoluti, che deviano assolutamente dalle forme fondamentali legate all’epoca di Tuthmosis III (1470-1430 a.C.) e meglio troverebbero nel tardo periodo ellenistico la loro collocazione temporale. Siamo di fronte a qualcosa che non dovrebbe esistere, anche se una 130

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Tav. 15: Scelta di vasi di varie tipologie portati in dono dalle isole del Grande Verde, tratti dalle tombe di alti dignitari della XVIII dinastia.

traccia di questa oreficeria e toreutica sublime potrebbe intravedersi nei celebri vasi minoici di Kamares, che in questo caso scadrebbero ad un ruolo di semplici copie. Dice Taylour a questo proposito, risolvendo frettolosamente la questione: “La ricchezza e la varietà degli oggetti illustrati nelle tombe egizie è in netto contrasto con ciò che di fatto è giunto fino a noi; i tessuti naturalmente non si sono conservati, gli oggetti preziosi e quelli di metallo sono stati da lungo tempo asportati e fusi”125. Mentre Donadoni ci sottolinea la distonia: “Le scene delle tombe tebane che celebrano questo muoversi di cose come ‘apporti’ degli stranieri ci mostrano la gente di Keftiou e quella delle ‘isole in mezzo al Mare’ che portano i loro prodotti: e a proposito di queste scene si è anche discusso di quanto molti di questi prodotti siano egei, o non piuttosto siriani”126. Il carisma emanato dalle eleganti e raffinate figure sembra possedere il 131

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fascino sia degli Egizi che dei Minoici, ma non è un popolo conosciuto quello che ci sta di fronte. Necessariamente un paese dove le pietre e i metalli preziosi sembrano essere abbondantissimi e la loro metallurgia sublime, un luogo dove avrebbero potuto vivere elefanti ed altri animali esotici, a giudicare dalla zanna e da alcuni dei kilt di pelle maculata: così si presenta il paese dell’Haou-Nebout. L’identificazione tra “isole che stanno nel mezzo del grande mare” e “le isole egee e le coste circostanti” è impossibile, anche in senso figurativo, poiché ai tempi di Tuthmosis III i Micenei già dominavano quel territorio mentre di certo non sono le caratteristiche raffigurazioni dei barbuti guerrieri ricoperti di bronzo quelle immortalate da Rekmire. Inoltre, una visita micenea in Egitto non doveva rappresentare nulla di eccezionale dal momento che esistevano vie e relazioni commerciali consuete, comprovate da abbondantissimi rinvenimenti di ceramica egea. Come testimonia Taylour: “I rapporti con l’Egitto furono intensi durante il Tardo Elladico I e II e parecchi vasi appartenenti a questo periodo sono stati rinvenuti in tombe egizie. Si tratta per lo più di vasi del tipo alabastron”127. Quindi si trattò di immortalare un evento ben più eccezionale che non la visita dei vicini Egei, l’esclusivo omaggio tributato dai principi HaouNebout delle lontane Isole del Grande Verde era stato giudicato come l’evento cerimoniale più rilevante. L’idea che Keftiou fosse da localizzarsi in uno spazio ben più remoto di quello in cui geograficamente si trova l’isola di Creta impregna anche il pensiero e la visione di Donadoni: C’è un lungo periodo in cui all’estremo orizzonte marino è Keftiou, paese verso il quale o dal quale si viaggia con navi speciali, che da quello prendono nome (come altre prendono il nome dal porto tipico della Siria, Bilblo), ma con il quale si hanno scambi che non sono solo di merci ma di cultura, del quale c’è chi conosce la lingua e ha esperienza di una letteratura tecnica – la magica o medica (ciò che altri, poi, faranno in Egitto in rapporto col mondo siriaco). Paese con il quale si han rapporti ufficiale, scambi di doni testimoniati da figurazioni per parte egiziana […]128.

Come è stato possibile identificare Keftiou con Creta? Keftiou era nominata insieme alle isole del centro del Grande Verde, che sono state confuse e scambiate con le isole dell’Egeo, per cui l’isola che con evidenza primeggiava fra queste non poteva che essere Creta. Per favorire questa ipotesi si è persino ricorsi a deformazioni dei testi egizi. Ecco cosa riferisce Vercoutter a proposito della traduzione del testo fondamentale della tomba di Rekmire: Il passaggio essenziale è la frase iniziale del documento 9b. Abbia-

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mo adottato la traduzione “Principi del paese Keftiou e delle Isole del Mare”, separando i due termini con la congiunzione di coordinazione “e”. La traduzione “principi del paese Keftiou delle Isole del Mare”, in cui “Isole del Mare” è un genitivo diretto che qualifica Kftìw, è grammaticalmente irreprensibile, ma deve essere scartata per via del contesto129.

Ma quale contesto? Il contesto è molto semplice, l’importanza di Keftiou superava di gran lunga per carisma e potenza qualsiasi altro centro marittimo e questo ruolo non poteva che essere ricoperto da Creta. Inoltre non è mai esistita storicamente un’unica entità che comprendesse Creta e le isole dell’Egeo, quindi si rendeva necessaria una separazione delle due realtà. Inoltre se fosse valida la tesi ufficialmente accettata ci dovremmo aspettare di vedere rappresentate due diverse tipologie umane, mentre ne è stata raffigurata una sola. Quando si riferiscono a Keftiou gli Egizi indicano un paese situato ad Occidente e ai confini estremi del mondo conosciuto, cosa che non si accorda mai con l’immagine di Creta o dell’Egeo ma rientra nell’orizzonte dell’Haou-Nebout, dove le isole e il Grande Verde non rappresentano neppure il limite ultimo delle conoscenze geografiche egizie poiché essi stessi riferiscono che al di là di queste, a settentrione esistono i numerosi paesi stranieri del Nord. Ora, se l’espressione corretta che si trova nella tomba di Rekmire è “i principi di Keftiou delle Isole che sono in mezzo al Grande Verde” ci è permesso pensare che Keftiou per dimensioni e potenza primeggiasse fra le stesse isole dell’Haou-Nebout. Ma se va relegata necessariamente nel lontano orizzonte oceanico Haou-Nebout, con quale nome indicavano Creta gli Egizi? È indubbio che la posizione di Creta a nord-ovest dell’Egitto abbia facilitato la confusione ma la localizzazione di Keftiou agli estremi universali e la necessità di utilizzare speciali imbarcazioni per raggiungerla non si concilia con Creta, che dista poche ore di navigazione (almeno in certi periodi dell’anno) dalle coste africane. Attribuire agli Egizi conoscenze geografiche e un orizzonte così limitato si infrange contro ogni aspetto del loro sapere. Inoltre è sufficiente pensare al rapporto degli Egizi con gli Ittiti che, pur trovandosi sulla sponda opposta del Mediterraneo, certo non erano mai stati considerati abitanti dei confini del mondo! Come poteva quindi esserlo Creta? Anche il mondo omerico descrive una riposante e facile traversata da Creta al Nilo, sfruttando anche in lunghi periodi dell’anno venti favorevoli e soprattutto costanti (venti Etesii): tutt’altro che un viaggio in remoti e sperduti mari quindi ma l’ostinazione già provata e testimoniata nel misconoscere la capacità di una navigazione nell’antichità, ha impedito di comprendere la verità rispetto alla conoscenza egizia del mondo. Citiamo dall’Odissea di Omero a testimonianza di ciò che affermiamo: 133

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Salpati dall’ampia Creta nel settimo, navigavamo con fresco vento di Borea propizio, senza fatica come secondo corrente, e non mi subì alcun danno nessuna nave, ma noi incoluni e spensierati stavamo in riposo: a guidarle c’erano il vento e i piloti. Nel quinto giorno arrivammo al Nilo che ha bella corrente, e nel fiume ancorai le navi ben equilibrate130.

Ma se Keftiou non è Creta, deve esistere la possibilità di un altro termine con cui l’isola mediterranea viene indicata nei testi egizi. Ebbene, questo termine non solo esiste, ma è decisamente più appropriato per quella che abbiamo sempre conosciuto come l’isola di Minosse: il nome è Menous. Ricordiamo che solo per una convenzione utilizziamo la vocale “e”, per cui bene potremmo dire “Minous”. È Minous-Creta che, colonizzata e popolata dai Keftiou, è riportata nelle varie liste dei popoli associata e preceduta da Keftiou. Ne diamo un esempio: 12 “[Haou-Nebout, Shat], Alto Egitto, Sekhly-Am, Basso Egitto, Pedjtiou-Shou, Tehenou, Iountiou di Nubia, Mentiou dell’Asia, Naharina (Mitanni), Keftiou, Menous, Retenu Superiore (Siria del Nord), [Retenu Inferiore]”.

Come si può vedere, questo documento incomincia con il nome dei Nove Archi, seguito da cinque nomi di popoli nordici: Mitanni (Naharina), Keftiou, Menous e le due parti della Siria (Retenu Superiore e Inferiore)131. Non c’è dubbio che la definizione “isola di Minous” chiarirebbe magnificamente sanando la problematica dei numerosi “Minosse” riportati dalla tradizione, tanto da far sostenere che doveva trattarsi di un titolo, come quello egizio di faraone. Ben più realistico ci appare che fosse chiamata “l’isola di Minous”. Esiste un documento che riteniamo pressoché risolutivo, al di là delle liste citate. Nella tomba di Amenemheb, un personaggio della nobiltà militare della XVIII dinastia, il testo che accompagna la raffigurazione dei tributi cita: “i re del paese Keftiou e di Menous”132. Era Keftiou che dominava i mari e Minous-Creta era la sua base mediterranea. Non siamo certo i primi a credere che questo sia il vero nome di Creta! Albright aveva già proposto tale identità, giudicata fra l’altro “ingegnosa” da Vercoutter, ma l’importanza maggiore di Keftiou rispetto ai riferimenti di Minous non poteva che essere applicata all’isola più importante del Mediterraneo, cioè Creta, e Minous venne considerata una regione della Cilicia, più precisamente Mallos. Fu così che la giusta intuizione di Albright cadde inesorabilmente nel vuoto.

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In alcuni elenchi di paesi stranieri Minous risulta associata anche a Isy e scompare dai testi poco dopo la scomparsa di Keftiou. Possediamo solo una raffigurazione di un abitante del paese Menous, proveniente dalla tomba tebana di Kenamon della XIII dinastia. Così commenta Vercoutter, naturalmente contrario alla visione di Albright: “Questa rappresentazione gli conferisce alcuni tratti propri agli Egei (pigmentazione della pelle, pettinatura) e ciò sembra appoggiare l’ipotesi di Albright”133. E altrove: “Riassumendo, nel contesto puramente fonetico il suggerimento di Albright è certamente valido e l’egizio Mnws (Menous) potrebbe riflettere il nome di Minos. Non resta che esaminare se i contesti dei documenti presi in esame permettano di accettare questa identità. I testi non permettono di precisare la localizzazione del paese Menous”134. Come afferma Vercoutter, Keftiou è già conosciuta durante il Primo Periodo Intermediario se non nell’Antico Regno, mentre Menous è presente in un testo letterario del Medio Regno. Entrambe vanno considerate come vaste regioni o interi paesi e non come città o porti. Il termine “Menous” è presente quindi in un’epoca che è decisamente più consona alla fase minoica dei primi palazzi. I Minoici partecipavano insieme ai Keftiou e agli Haou-Nebout del Retenou (Siria) a commerci di beni preziosi nel Mediterraneo, come suggerisce la seguente iscrizione di Amenophi II: “[…] adorare il re del Doppio Paese…. [dai principi di tutti i paesi]; portano il loro tributo che consiste in [argento, oro, lapislazzuli], turchese, [bronzo], piombo, olio, vino, vestiario, bestiame e mirra; implorano… la pace di Sua Maestà in modo che gli venga dato il soffio di vita per le loro narici. Tutti i principi del Retenou superiore, tutti i principi del Retenou inferiore, di Keftiou, di Menous e di tutti i paesi stranieri nella loro totalità; dicono: “Come è grande la Tua potenza…” 135.

L’incertezza e il dubbio di coloro che affrontarono questi enigmatici termini ed espressioni si scontra decisamente con l’atteggiamento degli autori contemporanei che apparentemente danno per scontato ciò che così non appariva ai grandi luminari del passato, compreso Vercoutter. Lo dimostra il brano seguente dove Vercoutter prende in considerazione l’espressione “isole del Grande Verde” e riferisce il parere di Arne Furumark: A. Furumark, infine, si rifiuta di vedervi delle isole mediterranee, l’espressione, per lui, non designerebbe un paese determinato, ma si riferirebbe a “qualcosa di vagamente conosciuto e di più o meno al di fuori della zona d’influenza egizia”. Ma questo punto di vista ci sembra poco sostenibile; infatti, non soltanto a Medinet-Habu l’espressione designa il punto di partenza dei tributi dei Popoli del Mare, e quindi

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una regione geografica precisa, ma questo significato era già attestato sotto Ramesse II, come provano la stele di Tanis e, sotto lo stesso faraone, la lista dei paesi minerari produttori di pietre e metalli preziosi, che enumera fra questi le “Isole che sono in mezzo”. Non v’è quindi alcun dubbio che la frase Iww-hryw-ib-Wd-Wr (Isole che sono in mezzo o nel cuore del Grande Verde) designasse nella mente degli scribi egizi proprio una realtà geografica. Ma cosa rappresenta esattamente quest’espressione?136

Tav. 16: Dalla tomba di Rekmire. I doni di Keftiou delle isole del Grande Verde.

2.16. Keftiou e le isole del Cuore del Grande Verde Per ciò che riguarda il significato del termine “Keftiou”, Vercoutter è convinto che sia un termine geografico non egizio con cui gli abitanti di Keftiou chiamavano il loro stesso paese. Rifiuta quindi che si tratti di una perifrasi con cui molto spesso erano indicati i paesi stranieri. Ammettendo questa seconda possibilità, l’analisi del termine si allinea tuttavia esattamente al significato del termine “Haou-Nebout”. “Kef” significherebbe infatti “parte posteriore”, “retro” e “Keftiou” designerebbe “il paese che sta dietro”. Vercoutter riporta la seguente traduzione di Hall: “The country at the back of the Very Green”. Analizzeremo ora gli elementi essenziali che definiscono Keftiou, un luogo magico da cui provengono meraviglie. È Keftiou che primeggia nell’Haou-Nebout e che ha con l’Egitto legami sorprendenti. I documenti la mettono sullo stesso piano dei grandi Stati. Così afferma Vercoutter: In compenso, (i documenti) possono illuminarci fino ad un certo punto sulla natura stessa del paese e, in senso più ampio, sulla regione

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del globo in cui potrebbe situarsi. Keftiou deve quindi essere considerata come regione naturale, o come civilizzazione, importante e caratteristica quanto quelle del Mitanni e della Mesopotamia, e, se la nostra analisi della documentazione è esatta, questa civilizzazione o questa regione si situerebbe nel lontano Ovest. La documentazione non permette interpretazione più precisa137.

Il testo seguente è stato redatto tra il 2200 e il 2000 a.C. ca., a testimonianza dell’antichità del termine: “Certo, non si scende più verso Biblos oggi, cosa faremo per i pini destinati alle nostre mummie, grazie all’importazione dei quali i preti vengono sotterrati, e con l’olio dei quali vengono imbalsamati [i re] lontano quanto lo è il paese Keftiou”. […] Il termine Keftiou è stato qui impiegato chiaramente per designare, nella mente del redattore, l’estremo punto raggiunto dall’influenza egizia. Occorre quindi ammettere che gli scribi egizi, dalla VIII alla X dinastia, conoscevano l’esistenza del paese Keftiou. Lo consideravano molto distante, ma comunque sotto l’influenza egizia visto che i re di questo paese si facevano, a loro dire, imbalsamare e che l’imbalsamazione è una tecnica puramente egizia. […] Notiamo infine che lo scriba menziona soltanto l’imbalsamazione dei preti e dei re, ciò ci fa risalire a un’epoca in cui la tecnica di mummificazione era ancora poco diffusa in Egitto e conferma la data antica del manoscritto archetipo138.

Si tratta di un brano che evidenzia il fatto che con Biblos si tenevano rapporti commerciali consueti in tempi remoti, in opposizione alla lontananza estrema del paese di Keftiou che, considerata la distanza dall’Egitto, non poteva certo essere Creta, dove non possediamo esempi di mummie o di pratiche di mummificazione. La mummificazione riservata esclusivamente al clero religioso e ai faraoni risulta appannaggio solo delle prime dinastie dell’Antico Regno, il che fa sprofondare la conoscenza di Keftiou in un’era incompatibile con la civilizzazione di Creta, dove solo verso il 1900 a.C. si avvierà la costruzione dei primi palazzi. Questa celebre lamentazione sulla decadenza dell’Egitto del Primo Periodo Intermediario viene così commentata da Donadoni: “Come segno della miseria dei tempi si ricorda l’interruzione di importazione da Keftiou, e si ricordano i costumi funerari comuni ai due paesi”139. È quindi possibile individuare nell’Antico Regno una fase in cui i rapporti fra i due paesi risultavano consueti e non si trattava solo di scambi commerciali ma venivano condivisi particolari rituali come l’imbalsamazione. Risulta difficile preconizzare che rapporti commerciali con un paese considerato geograficamente “lontanissimo” non avessero richiesto una consolidata attività marinaresca da parte di Keftiou; per raggiungere 137

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lidi tanto lontani dove imporre i propri monopoli era necessaria un’organizzazione statale economico-sociale la cui formazione doveva aver richiesto diversi secoli per affermarsi. Sono dell’era tuthmoside le prove della collocazione geografica di Keftiou. Il seguente brano è tratto dalla celebre Stele Poetica di Tuthmosis III dove vengono enumerati i paesi che si trovano ai quattro punti cardinali, ed è ovviamente commentato da Vercoutter: “Ho fatto sì che tu calpestassi i paesi dell’Ovest, Keftiou e Isy che sono sotto [il tuo] timore. Ho fatto sì che vedessero la tua maestà, come un giovane toro dal cuore fermo e dalle corna affilate, che non si può attaccare”. […] Se quindi l’autore del poema non ha commesso errori, avrebbe enumerato qui il lontano Ovest, i confini occidentali del mondo conosciuto dagli Egizi. Ma in questo caso, affiora la questione dell’identificazione di Isy. Questo termine, come viene ancora ammesso in generale, designa Cipro, l’affermazione del poeta sembra a prima vista erronea. Cipro è situata al Nord-Est dell’Egitto, non all’Ovest. Si dovrebbe quindi ammettere, insieme a Bossert, che Isy designa un paese dell’Asia occidentale e nulla impedirebbe anche in questo caso, la localizzazione di Keftiou a Creta; ma forse non è indispensabile ragionare con tale rigore. Gli Egizi non sembrano essersi orientati con la nostra precisione140.

Al di là dell’ammirazione che sentiamo per Vercoutter e la sua enorme opera, non possiamo che riconoscere come inefficace la contestazione sulla presunta erronea posizione geografica di Cipro, la quale certo non sarebbe mai stata posta a Ovest dagli Egizi. Non casualmente esiste anche un altro termine con cui conosciamo Cipro con certezza: questo termine è “Alasia”. Quindi ancor più palesemente ci appare erronea l’identificazione di Keftiou e Isy con Creta e Cipro. La perfezione degli allineamenti geografici non solo delle piramidi ma di tutti i maggiori monumenti che l’Egitto ci ha lasciato contrasta decisamente con la visione proposta da Vercoutter di una tale mancanza di precisione. Keftiou è posta all’estremo Occidente marino e non abbiamo elementi per confutare ciò che gli Egizi affermano con tanta sicurezza. Come anticipato da Donadoni, sono inoltre necessarie delle navi speciali per raggiungerla, navi che non temono le lunghe distanze ed il mare aperto; tali navi sono ben conosciute nei testi, le cosiddette “navi speciali di Keftiou”. Possediamo documenti dell’arsenale navale di Menfi che ci testimoniano di tre navi keftiou in riparazione nei cantieri navali. Vi sono inoltre molti documenti simili al testo della tomba di Rekmire che parlano dell’importazione di oro, argento, lapislazzuli141 e pietre semipreziose fra le quali una pietra sconosciuta, probabilmente l’ambra. Keftiou non è solo un importatore ma fa parte (soprattutto durante la XVIII e XIX di138

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nastia) degli elenchi dei “paesi minerari” da cui provengono i beni preziosi del Tesoro di Stato, paesi produttori di materie prime che dispongono di giacimenti e miniere, come anche Vercoutter sottolinea in più occasioni. In questi elenchi sono citate anche le isole del Grande Verde. Certamente nulla di tutto ciò può adattarsi a Creta o alle isole egee che non possiedono preziosi e metalli né alcun elemento che caratterizza Keftiou. […] il documento 10 ci costringe a considerare il “Keftiou” come un paese ricco di materie preziose, perché possedeva delle miniere, che servì da intermediario fra le regioni minerarie e l’Egitto, e ancora che ebbe numerosi e abili artigiani metallurgici – il testo sembra riguardare sia i prodotti metallurgici finiti che la materia prima142.

La lista dei paesi minerari che si trova nel tempio di Luxor intende elencare la totalità della produzione mineraria (metalli e preziosi) del mondo; ciò viene asserito in un preambolo del documento. È indicativo il fatto che oltre a Keftiou e Isy sia presente anche Alasia-Cipro poiché ricchissima di rame mentre giustamente non è nominata Minous-Creta che non possiede ricchezze minerarie di alcun genere. I paesi enumerati in questa lista sono ripartiti in due regioni, il Nord e il Sud dell’universo. Al Sud sono meticolosamente elencate le aree minerarie del deserto arabico e delle oasi libiche, tanto che Max Müller considerava questo documento molto rigoroso per la localizzazione geografica dei siti minerari. Per l’emisfero Nord, oltre a Keftiou e le isole del centro del Grande Verde sono menzionati anche “i confini marittimi del mondo”. Esistono poi alcuni documenti che indicano chiaramente che da Keftiou proveniva una pietra particolare, un’esclusiva di questo paese chiamata “memno”, che probabilmente si può identificare con l’ambra. Così si esprime Vercoutter: La menzione di oro, argento e lapislazzuli non può quindi fornire nessuna indicazione sulla localizzazione del paese Keftiou; permette però di ammettere, da una parte che questo paese era ricco in materie prime, dall’altra che disponeva di artigiani abili a trasformarle in oggetti costosi; ciò è confermato dal fatto che i prodotti di fattura Keftiou si ritrovano in Siria del Nord così come a Mari. Per di più la presenza di oro e soprattutto di argento in lingotti incita a considerare il paese Keftiou come intermediario fra uno o più paesi produttori di questi metalli e l’Egitto. La menzione del paese Keftiou fra i paesi minerari è di un’altra portata. Indica che l’Egitto faceva venire, o andava a prendere una determinata pietra dal paese Keftiou143.

Concludiamo l’argomento minerario ricordando che il lapislazzulo 139

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proviene solo dall’Afghanistan, per cui gli storici hanno sempre dovuto ammettere questa provenienza, anche per i più antichi ritrovamenti di tale pietra tanto apprezzata in Egitto. Questa ipotesi risulterebbe fragile in tempi tanto arcaici, viste le distanza enormi, e nessun documento minerario fa sospettare questa origine, mentre Keftiou e le isole sono le esportatrici di questa semipreziosa come più volte i testi menzionano. Sarebbe decisamente interessante, con opportuni esami di laboratorio, verificare se i lapislazzuli risultassero incompatibili con la provenienza asiatica. Un interessantissimo documento mostra che gli Egizi facevano pratica di lingua straniera: per esercizio si scrivono nomi keftiou. Sentiamo il commento di Donadoni: Non vorrei aver l’aria di svalutare le testimonianze e i dati archeologici – ma vorrei sottolineare che alcune testimonianze letterarie finiscono per dare un senso più ricco di risonanze e – forse – di precisione. Così, è nota la tabella in cui, per esercizio, si “fanno nomi Keftiou”: questo singolare esercizio scolastico dell’inizio della XVIII dinastia va inquadrato nell’ambito di un’attiva presa di possesso della realtà del mondo anche non finitimo da parte di un Egitto che inizia la sua carriera imperiale, e che non pone limiti alle sue potenziali zone d’influenza144.

Ai tempi di Tuthmosis III esistevano anche cariche del tipo: supervisore del Grande Verde fiduciario del faraone per le merci e i tributi dei paesi Haou-Nebout e dei paesi stranieri del Nord. Il comandante Toth, sempre durante il regno di Tuthmosis III si fregiava dei seguenti titoli: “Sovrintendente dei paesi stranieri”, “colui che segue il re in ogni paese straniero”, “il comandante dell’esercito”, “il sovrintendente dei paesi del Nord” o meglio “il fiduciario del re per tutti i paesi stranieri e per le isole che sono nel mezzo del Grande Verde” (Sethe: Urk. IV, 999-1002)145. Una coppa d’oro conservata al Louvre riporta il seguente testo: 31 “Dato in ricompensa dal re Tuthmosis III al conte, principe, padre divino, amato dal Dio” […] “confidente del re per tutti i paesi stranieri e le isole che sono in mezzo al Grande Verde, colui che riempie i magazzini di lapislazzuli e d’argento (il generale, apprezzato dal Dio virtuoso, il cui Ka agisce per il maestro del Doppio Paese [l’Egitto], lo scriba reale Djehouty)146.

Vercoutter così commenta riferendosi anche ai testi di Rekmire: Nei due casi, lo vediamo, Keftiou e isole del mezzo del Grande Verde devono essere considerati, se non in modo identico, perlomeno come vicini o della medesima razza e la raffigurazione dei personaggi, di cui

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questo documento costituisce la leggenda esplicativa, conferma una tale interpretazione. Si nota ugualmente che fra i doni recati figurano l’argento e il lapislazzulo, menzionati anche fra le materie preziose che Djehouty, il quale afferma di aver esercitato un certo controllo sulle isole, fornisce ai magazzini reali147.

Vercoutter ci parla dell’epoca amarniana e dei contatti con le isole: “Le isole che sono nel mezzo del Grande Verde” e i loro abitanti sono quindi o vicini o imparentati con la popolazione del paese Keftiou. Comunque, non si confondono con quest’ultima, come prova il poema trionfale di Tuthmosis che cita Keftiou e le isole in due strofe distinte. Le conclusioni che abbiamo dedotto dal documento 9b (si intende il documento di Rekmire citato a p. 126) per il paese Keftiou valgono anche per “le isole”: senza essere militarmente sconfitti dal faraone, gli abitanti di questa regione cercano la sua protezione, sia perché temono la potenza della flotta egizia, sia perché cercano di conservare l’accesso alle vie commerciali asiatiche. A partire da Amenophi IV, i documenti che menzionano le isole del mezzo del Grande Verde diventano, fino a un certo punto, più precisi. È così che in occasione di una delle periodiche cerimonie dell’apporto del tributo straniero, che ebbe luogo nell’anno 12, il giorno 8 del secondo mese di Peret (circa 1380), sono giunti alcuni abitanti delle isole del mezzo del Grande Verde, non a rendere omaggio al re, ma a portargli dei doni di loro spontanea volontà, così sembra: 36 “L’anno 12, il 2° mese di Peret, l’ 8° giorno, del re Amenophi (IV) …, il re dell’Alto e del Basso Egitto, Amenophi […] fece la sua apparizione sul grande palanchino di argento per ricevere il tributo di Kharou (Siria), di Koush (Nubia), dei paesi occidentali, orientali e di tutti i paesi stranieri messi insieme. – Le isole del mezzo del Grande Verde portarono dei doni al re che era sul grande trono di Akhet-Aton, per ricevere i tributi di tutti i paesi stranieri e per dargli il soffio di vita”. […] Possiamo vedere, così inteso – e risulta difficile interpretarlo diversamente – che questo documento sembra fornire una precisa informazione: in occasione dell’apporto del tributo dei paesi stranieri sottomessi all’Egitto, che ebbe luogo nell’anno 12 del regno di Amenophi IV, alcuni abitanti delle “isole del mezzo del Grande Verde” si sono presentati al re per portargli dei doni. Il fatto che le isole vengano tenute a parte nell’enumerazione universalista abituale: Nord (Siria), Sud (Nubia), Ovest, Est e tutti gli altri paesi stranieri, potrebbe indicare che i loro doni non vengono considerati come tributo obbligatorio, ma come dono gratuito; e si pensa subito al testo di Rekmire (9b e 33) in cui, in un’analoga occasione, i capi di Keftiou e delle isole del mezzo del Grande Verde vengono a portare dei doni per ottenere, abbiamo supposto, la protezione egizia in Asia, protezione sicuramente indispensabile per i loro commerci. L’unica differenza,

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fra l’altro rivelatrice, è che sotto Amenophi IV i Keftiou non sono più presenti e che soltanto gli abitanti delle isole vengono a sollecitare l’appoggio del faraone148.

Il momento culminante dei rapporti è rappresentato nella tomba di Rekmire dall’arrivo dei principi di Keftiou, i quali avanzavano una richiesta ben precisa. Intendevano ingraziarsi il faraone con doni meravigliosi per ottenere il consenso per commerciare liberamente con gli Haou-Nebout dell’Asia, loro, principi dello stesso Haou-Nebout. Da alcune testimonianze epigrafiche risulta che sotto il regno di Amosi, fondatore della XVIII dinastia, se non addirittura prima, venivano importate e comunemente utilizzate le “fave di Keftiou”. Ciò fa ammettere che Keftiou era ben conosciuta durante il periodo Hyksos. Al tempo di Tuthmosis IV e del suo successore, l’Egitto continuava a importare da Keftiou sostanze particolari: vasi dal misterioso contenuto, probabilmente una pasta o unguenti medicinali. Ma al di là di traffici marittimi e commerciali in certi periodi decisamente intensi e consueti e dell’eccezionale visita dei principi di Keftiou, esiste un legame ben più profondo che non abbiamo ancora affrontato fra Egitto e il mondo Haou-Nebout a cui Keftiou appartiene. Non solo ci viene rivelato che a Keftiou si utilizza l’imbalsamazione, ma certe tecniche e alcuni elementi come balsami o altro sembrano provenire direttamente dal paese nel cuore del Grande Verde, contrariamente alla convinzione diffusa che l’imbalsamazione, o per lo meno una certa procedura tecnica, fosse esclusiva egizia. Ricette medicamentose ed anche formule magiche149 provengono da Keftiou e non può che apparirci insolito e non facilmente spiegabile un prestito in un campo in cui gli Egizi sono sempre stati i grandi maestri. Un testo medico riporta esorcismi in lingue keftiou e Donadoni così commenta: “Il testo è interessante per mostrare come gli Egiziani abbiano accettato e cercato aiuto in un campo che tradizionalmente era il loro – quello della medicina – da questo altro ambiente; e che tanto ne siano esperti da poterne trascrivere la lingua (e capirla, come mostra l’uso di determinativi, che possono essere messi solo se si capisce che cosa la parola significhi)”150. Ma la questione non si esaurisce qui. Altri documenti aprono ulteriori interrogativi. Da una stele di Sesostri I (XII dinastia) di cui va sottolineata la datazione arcaica, 2000 a.C. circa, leggiamo: “Profeta, Capo dei segreti della casa di vita, Kha di Nubia, Intendente della grande sala (palazzo), prete di Horus Kefti”151. Dalle Avventure di Sinouhé a conclusione di un’enumerazione di divinità si legge: “e gli Dèi signori (maestri) dell’Egitto e delle isole del Grande Verde”152.

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Esiste quindi un Horus di Keftiou (Horus-Kefti) e gli Dei dell’Egitto si dichiarano essere signori (maestri) delle isole del Grande Verde, che costituiscono anche lo scenario del mitico scontro fra Seth e Horus: uno scontro navale. La Stele di Naucrati di Nectanebo definisce Neith Signora del Grande Verde. Osiride percorre il circolo degli Haou-Nebout e Amon-Ra lo racchiude. Le isole del Grande Circolo sono sottomesse a Horus. È Seth raffigurato sulla prua di una nave, il Dio principe dell’Haou-Nebout: lo era stato degli Hyksos e lo sarà dei Popoli del Mare, stranieri invasori dell’Egitto al tempo di Ramesse III, ma come ben sappiamo era onorato da nomi di grandi faraoni come Sethi I e compare nel panteon egizio dagli albori della sua storia. Inoltre, nella tavola in cui si fanno i “nomi keftiou”153 precedentemente citata da Donadoni notiamo che sono presenti nomi apparentemente egizi come “Sennefer” o “Senked”. Esiste quindi una profonda, lontana, mitica compenetrazione fra la cultura egizia e quella di questo mondo situato alle estremità marine nord-occidentali, reali motivi per pensare ad un’originaria unica cultura. Esistono sorprendenti documenti rivelatori per ciò che riguarda il concetto di “centro geografico assoluto” nel pensiero egizio. Donadoni afferma che i rapporti con le isole del Grande Verde durante il regno di Amenophi IV erano decisamente frequenti, e così prosegue: Nel suo dodicesimo anno di regno (1380 a.C.) le “Isole” portano doni; ed il loro nome si aggiunge a quelli dei popoli Sud, del Nord, dell’Ovest, dell’Est. Tale posizione, a chiusura delle enumerazioni, diviene tradizionale: così nell’inno ad Aton il mondo che venera il Dio è fatto di Nord, Sud, Est, Ovest, e “Isole in mezzo al mare”; così in due stele di Ramesse II (Ismailya, Tebe) si hanno Siriani, Nubiani, Libici, Beduini, e “Isole in mezzo al mare” nell’una – e Nord, Sud, Ovest, Est e “Isole in mezzo al mare” nell’altra. Più che da situazioni geografiche o storiche credo che questa particolare posizione in aggiunta agli elenchi delle quattro direzioni del mondo, sancita dalla mitologia politica universalistica dei faraoni, derivi semplicemente dal fatto che dopo i quattro punti cardinali si aggiunge “quello che è in mezzo” – e le isole sono “in mezzo” (al mare) nella loro stessa denominazione154.

Donadoni appare riluttante a conferire alle isole del Grande Verde quella posizione centrale e universale che gli Egizi gli attribuiscono in una formula che risulta tradizionale, come dall’esempio che segue proveniente da Tebe, riferito da Vercoutter: D’altronde, sembra che le isole del centro del Grande Verde abbiano intrattenuto frequenti rapporti con l’Egitto in epoca amarniana, ciò

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spiegherebbe la menzione speciale riservata a queste nell’enumerazione del mondo governato dal Dio Aton. Così, in un inno a questo Dio possiamo leggere: “Il sud, come il nord, l’ovest (e) l’est, (così come) le isole che sono al centro del Grande Verde, sono in gioia a causa del suo ka”. Possiamo vedere che questa concezione del mondo implica che gli Egizi considerassero le isole del centro del Grande Verde come un’ampia parte dell’universo155.

Alla meraviglia della rivelazione si aggiunge un certo sgomento poiché nulla di tutto ciò appare nei normali testi dedicati all’Egitto ed al suo antico sapere. Per la sapienza e la conoscenza egizia il “centro del mondo”, l’ombelico della terra, non erano né le piramidi, né il Nilo, né Tebe, né Menfi, né tantomeno Creta, bensì le “isole Haou-Nebout” nel cuore del Grande Verde, e Keftiou per molto tempo vi primeggiò. Al tempo di Tuthmosis III forse la potenza di Keftiou si avviava al declino. Intendeva mantenere rapporti commerciali con gli Haou-Nebout delle rive dell’Asia e cioè i Mitanni, i principi del Retenou, e i Fenchou ma le conquiste di Tuthmosis III e le sue vittorie sugli Haou-Nebout dell’Asia avevano richiesto un nullaosta ufficiale. I popoli della famiglia indoeuropea, che come visto s’impossessarono dei vari regni asiatici compresa Babilonia con i Cassiti, vengono sempre definiti dagli Egizi come “paesi stranieri del Nord”, considerando cioè la loro provenienza e non la collocazione geografica ricoperta nel momento in cui avvenivano i fatti. La questione è evidente e testimoniata in molti documenti: esiste una perfetta sinonimia e correlazione tra le espressioni “Haou-Nebout delle isole del Grande Verde” e “i paesi nordici che sono nelle loro isole” e ancora “Haou-Nebout delle rive dell’Asia” con l’espressione “i paesi nordici delle rive dell’Asia” (variante: dei confini dell’Asia). Prima di Rekmire, nel lungo regno di Tuthmosis III Ouser-Amon ricoprì la carica di gran visir e ciò avvenne prima della campagna contro i Mitanni. Anch’egli, come il suo successore, rappresenta nella sua tomba il tributo dei paesi stranieri: in questo caso non si tratta di principi delle isole del Grande Verde ma degli Haou-Nebout stanziati sulle rive asiatiche che portano doni e tributi provenienti anche dalle isole. “Ricevere il tributo che la potenza di Sua Maestà ha riportato dai paesi stranieri nordici dei confini dell’Asia e delle isole che sono in mezzo al mare, dal principe, il conte, ecc. Ouseramon”156. Gli Haou-Nebout sono quindi individuati come “i paesi nordici dei confini dell’Asia” e le raffigurazioni mostrano ovviamente una tipologia 144

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etnica tipica delle rive asiatiche: gli Haou-Nebout si sono trasformati in Siriani, Mitanni, ecc. che commerciano con gli Haou-Nebout delle isole. È così che vengono stilati elenchi di paesi nordici che si trovano tutt’altro che al Nord geografico rispetto all’Egitto. Tutto ciò è stato terribilmente confuso da Vercoutter prima e da tutti gli altri poi ritenendo che per “paesi stranieri del Nord” si indicasse solo l’area siriana e che le concezioni nell’orientamento geografico degli Egizi fossero ridicolmente erronee o confuse (come peraltro abbiamo già constatato riguardo a Isy-Cipro). Dai tempi degli Hyksos l’area siro-palestinese si trovava saldamente in mano ai principi indoeuropei. Sarà contro costoro, i paesi stranieri del Nord dei confini dell’Asia157, che sia Tuthmosis III che Ramesse II condurranno vittoriosamente le loro campagne asiatiche. Ecco come si spiega il vanto di Tuthmosis dopo la campagna d’Asia, del tutto terrestre, in cui afferma di aver legato in fasci i Nove Archi Haou-Nebout. Ramesse II afferma che il suo prestigio ha superato l’Oceano: “Ramesse II, il suo prestigio ha attraversato il Grande Verde, le Isole del mezzo sono sotto il suo timore e vengono a lui con i doni dei loro capi [poiché la paura che egli ispira] governa i loro cuori”158. Le vittorie sui paesi nordici dei confini dell’Asia si ripercuotevano negativamente sulle “isole”, come chiaramente dimostra il testo. L’epoca ramesside inaugura rapporti completamente diversi: inizia così il terzo capitolo di Vercoutter che introduce i rapporti delle isole con l’Egitto in questa epoca: L’espressione “Isole che sono in mezzo al Grande Verde” designa, in epoca ramesside, il paese d’origine dei “Popoli del Mare”, come dimostrano i testi del tempio di Medinet-Habu che dichiarano: “Gli stranieri nordici che erano nelle loro isole”, e con maggior precisione: “Quanto agli stranieri che erano venuti dal loro paese, nelle isole che sono in mezzo al mare…”159.

Parlando di Ramesse II dobbiamo menzionare l’apparente repentino declino di Keftiou, anche lei destinata a perdere il suo splendore. Il termine scompare nei testi di quest’epoca mentre si continuano a citare le isole, che sembrano svolgere lo stesso ruolo esercitato precedentemente da Keftiou. Lo testimonia Vercoutter sottolineando un particolare significativo oltre che “divertente”: Le “isole” occupano un tale spazio nella politica estera egizia a partire da quest’epoca che la lunga espressione: “isole che sono nel cuore del Grande Verde” viene abbreviata, inizialmente con “isole” del mezzo”, poi, semplicemente, a partire dalla XX dinastia, con “isole”, così

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come si diceva “isole” in Francia nel XVIII secolo per indicare le isole dell’America. […] I testi universalisti, nella stessa epoca, usano volentieri il termine “isole del mezzo del Mare” per vantare l’estensione del potere regale o divino160.

Un problema affiora palesemente: tutti sono d’accordo nel riconoscere che dopo Amenophi III cioè verso il 1370 a.C., Keftiou non viene più citata ma ciò che indicherebbe il definitivo tramonto della potenza secolare di Keftiou non si adatta per nulla alla floridissima Creta micenea di quel periodo, che continuerà apparentemente più ricca che mai sino all’invasione dorica nel 1150 ca. Come appianare quindi la questione? È possibile che il declino di Keftiou abbia lasciato i Minoici, che rappresentavano la loro più importante base nel Mediterraneo, privi di quel sostegno fondamentale che la Madrepatria gli procurava e Creta-Minous fu preda degli agguerriti Achei-Micenei. Riportiamo questa lapidaria testimonianza di Giovanni Garbini sui Minoici: Nessun archeologo ci sa dire chi fossero effettivamente i “Minoici” che vivevano all’esterno dei palazzi e nei palazzi stessi, né da dove traessero gli spunti per la loro cultura, che non a caso si sviluppò in concomitanza con l’arrivo delle genti di lingua indoeuropea nel bacino orientale del Mediterraneo, né infine perché e come si verificò il brusco passaggio tra i primi e i secondi palazzi161.

Le radici della cultura di Creta-Minous provenivano da Keftiou ed il destino dei Minoici appare totalmente legato al tramonto di Keftiou. Dal 1100 a.C., dopo l’invasione dei Popoli del Mare, anche la citazione di “isole del centro del Grande Verde” scompare dai testi, mentre il termine Haou trova ancora spazio, ma solo come ripetizione di formule arcaiche come quella dei Nove Archi. Alcuni personaggi sono però citati come residenti dell’area siro-palestinese, riferendosi anche a Keftiou. Riportiamo un affascinante testo del 1100 a.C. ca. dove i personaggi keftiou citati hanno inspiegabilmente ricoperto la carica di “signori” di un importante nomos egizio. Si tratta di una commovente iscrizione funeraria dov’è decisamente vivo il ricordo della terra d’origine. È da poco che quel mondo forse è scomparso e viene da loro proiettato in cielo: “(Essi sono i signori del nomo Busiride), sono del Paese il cui nome è Peb, nelle terre settentrionali del Dio, la loro città è il Paese Keftiou, appaiono nelle isole del cielo, nel mare, il nord gli appartiene, l’orizzonte settentrionale è il loro paese”162. L’orizzonte settentrionale, i numerosi paesi nordici, le isole e le pianure dei paesi del Grande Circuito: verrebbe quasi spontaneo chiamarli Iperborei, senza dimenticare che i primi egittologi traducevano il termine “Haou-Nebout” con “tutti i Settentrionali”. Questa è l’immagine che gli Egizi ripetutamente ci dipingono: uno spazio enorme oltre Keftiou e le 146

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Isole del centro del Grande Verde, che si proietta verso l’estremo Nord in un lungo percorso, popolato da genti diverse. Perché il termine “Haou-Nebout” o “isole del centro del Grande Verde” si sarebbe estinto dopo l’esodo dei Popoli del Mare nei testi egizi, se avesse effettivamente significato “isole egee”? Ricordiamo a questo proposito che i rapporti con gli Elleni andarono decisamente intensificandosi tanto che ai tempi di Amasi vi erano cospicue milizie e residenti ellenici e ancor più non possiamo dimenticare i dodici faraoni tolemaici, che erano purissimi Greci. Quindi, come spiegare il fatto che con le isole del centro del Grande Verde e l’Haou-Nebout non esistessero più rapporti in tempi tanto ellenici? Come potrebbe una data tanto remota, attorno al 1150 a.C., rappresentare la fine delle isole greche che nei secoli successivi riporteranno tanti successi?

2.17. Conclusioni Abbiamo a disposizione a questo punto sufficienti elementi per redigere un quadro riassuntivo di un mondo sconosciuto in cui Keftiou, che primeggia fra le isole del Grande verde, è considerata dagli Egizi alla stregua delle grandi nazioni come gli Ittiti, i Mitanni o i Babilonesi163. È comunque evidente e costante nei testi la convinzione di uno spazio enorme popolato da molti popoli, se non da razze diverse. È quindi in una altrettanto enorme prospettiva che dobbiamo considerare il Nebout. Come abbiamo visto si tratta di una sorta di palude con isole che appaiono galleggiarvi, percorso da un circolo e probabilmente da canali forse in parte navigabili ma che potevano rappresentare una trappola labirintica per le dimensioni che chiaramente i testi egizi lasciano intuire. Cosa geologicamente avrebbe potuto dar luogo ad un’enorme area paludosa? Uno sprofondamento improvviso di terre o l’innalzamento del livello del mare a seguito di grandi cataclismi può certamente essere la soluzione più probabile. Al di là del Nebout vi sono le isole che per loro definizione sono considerate al centro del mare Oceano, il Grande Verde, ma incredibilmente centro universale anche nella concezione geografica egizia. Keftiou che troneggia fra le isole è posta con Isy nella fondamentale stele poetica di Tuthmosis III all’estremo Occidente dell’ecumene terrestre. I testi egizi risalenti a prima del 2000 a.C. lasciano intendere rapporti con l’Egitto che risalgono all’Antico Regno e testimoniano della grandezza di questa potenza che condivide con l’Egitto culti e rituali, compresa l’imbalsamazione dei re e dei preti. Un’epoca in cui Menous-Creta ancora non aveva visto sorgere i suoi primi palazzi. A Nord numerosi paesi stranieri si estendono su di uno sconfinato uni147

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verso marino che gli Egizi pongono direttamente a contatto col Sin-wur, il fiume Oceano. Gli Egizi parlano chiaramente di isole nonché di ampie pianure che fanno parte dei paesi del Grande Circuito o Grande Circolo e vengono chiamati comunemente dagli Egizi “i paesi stranieri nordici”. Di certo, per quanto risulti impossibile cercare di stabilire quali aree e spazi geografici abbia in effetti ricoperto, l’Haou-Nebout doveva comunque trovarsi in una posizione che ci porta a domandarci se e quali rapporti potevano esserci stati con la civiltà megalitica atlantica, la cui genesi si compie attraverso l’oceano. Non sono ipotetiche supposizioni che dai paesi nordici dell’HaouNebout si sia dipartita una migrazione collocabile attorno al 1750 a.C., la cui diffusione comprende per gli Egizi le rive asiatiche e oltre. L’identificazione di questi popoli coi Mitanni, gli Ittiti e i vari principi di natura sempre “indoeuropea” come quelli di Tounip e Kadesh è accertata dai documenti. Anche gli Hyksos però portavano la stessa matrice e così pure gli Ario-vedici, così stretti parenti dei Mitanni che conquistarono prima l’Iran, che significa terra degli Arias, poi l’India. Verosimilmente si trattava un numero limitato di individui con la capacità di mobilitare e guidare moltitudini grazie a nuove tecnologie, nuove armi, nuove idee. La civiltà Haou-Nebout, radice dell’intera umanità, la cui eterogeneità sprofonda nella notte dei tempi, si dimostra maestra in arti che gli Egizi hanno sempre insegnato. Sono gli stessi Dei dell’Egitto che governano l’Haou-Nebout, vige lo stesso credo nell’aldilà e vi si pratica l’imbalsamazione. Il mito stesso trova la sua scena fra le isole del Grande Verde. Il termine “Haou-Nebout” è fondamento delle formule proferite nelle somme cerimonie egizie, come quella d’insediamento al trono del faraone e della festa Sed. Gli inni cosmogonici celebrano l’Haou-Nebout. Loro è anche la maggior ricchezza materiale, poiché è sempre dalle isole che con navi speciali provengono metalli, pietre preziose, avorio di elefante e strane materie come forse l’ambra e la pasta vitrea (un documento lo fa fortemente sospettare). Le loro migrazioni e la loro diffusione sono tali che talvolta il termine sembra abbracciare l’intero genere umano, come annota Vercoutter stupito. Una vera oceanica fucina di popoli caratterizzati inequivocabilmente dal marchio di “indoeuropeo”. Ma il termine “indoeuropeo” esprimerebbe in realtà solo un segmento temporale di questa civiltà da cui provengono anche le lingue pelasgiche luvie. L’Haou-Nebout fa intimamente parte dei fondamenti della civiltà egizia ed esprime in modo clamoroso in tutti i suoi aspetti un archetipo che sarà celebrato sino alla fine dei suoi giorni. Vi è infine una costante che emerge nei secoli con una cadenza ripetitiva, è la collera del Dio: la catastrofe, il terrore e la paura risuonano nell’Haou-Nebout e lungo il Grande Circolo. Tra queste formule che rendono così consueti gli eventi catastrofici naturali nell’Haou-Nebout, ne abbiamo una della XVIII dinastia scolpita a 148

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Karnak che si distingue dalle altre. Vi sono raffigurati una serie di prigionieri definiti come “vili capi Haou-Nebout”, chiaramente asiatici sia per i tratti fisiognomici che per le vesti, i quali riferiscono che le estremità della terra sono percorse dal terrore e dalla catastrofe. Pur passando ora ad altri fatti, saremo costretti a riprendere l’argomento poiché all’unanimità gli studiosi identificano Keftiou con la Kaftor biblica, e ciò fornirà ulteriori motivi di discussione argomentando sull’origine dei Filistei. Vercoutter, dopo aver ammesso tale equivalenza, afferma che il termine “kaptara” ne è l’equivalente semitico ed appare su di una tavoletta di Assur copia di un testo geografico risalente a Sargon. Ne risulta che il motto “kaptara” era già impiegato in Asia verso il 2200 a.C. L’aggettivo “kaptaritum” appare poi negli archivi economici di Mari, contemporanea di Hammurabi, verso il 1800 a.C., ed il motto “Kftr” è segnalato ad Ugarit nel il XV secolo. Il commento di Vercoutter: In ogni caso, s’impone un fatto: la grande antichità del termine, in Egitto così come in tutta la zona asiatica. La sua esistenza sin dall’inizio del secondo millennio è incontestabile. Questo fatto è importante per chi cerca di porre correttamente, e se possibile, di risolvere il problema della localizzazione del paese Keftiou. Dal momento in cui il nome appare simultaneamente nelle due grandi zone di civilizzazione del Vicino Oriente, quella mesopotamica e quella egizia, deve a sua volta rappresentare un centro di cultura già molto evoluto alla fine del terzo o all’inizio del secondo millennio164.

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NOTE AL CAPITOLO II

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G. Clark, La preistoria del mondo, una nuova prospettiva, cit., p. 209. Il termine miceneo indica impropriamente il popolo degli achei. Nella guerra di Troia Omero ci parla ovviamente solo di Achei, Danai e Argivi, ed il termine miceneo nacque dopo la scoperta di Schliemann della città di Micene che si trovava a capo della confederazione achea. Tucidide, La guerra del Peloponneso, Mondadori, 1989, Milano, p. 3. C. Dufay, La civiltà Minoico-Cretese, Libritalia, 1996, Perugia, pp. 286, 287. F. Villar, Gli Indoeuropei e le origini dell’Europa, Lingua e storia, il Mulino, 1997, Bologna, pp. 551-554. A. Morandi, Nuovi lineamenti di lingua etrusca, Erre emme, 1991, Roma, p. 7. Ibidem, pp. 21-22. J. Mellaart, Dove nacque la civiltà, cit., pp. 42-43. Annibale fece molto leva su questi antichi sentimenti di ostilità per i Latini da parte degli Italici. Dorak, sito dell’odierna Turchia nordoccidentale situato vicino al lago Apolyont, da dove sembra provenire un rivestimento in oro con il cartiglio del faraone Sahure della V dinastia (circa 2475 a.C.). J.G. Macqueen, Gli Ittiti. Un impero sugli altipiani nel cuore dell’Oriente antico, una grande civiltà indoeuropea, Newton Compton, 1978, Roma, pp. 29-30. J. Mellaart, cit., p. 46. Hatti, città capitale del regno omonimo di cui fa parte la cultura di Alaça Höyük, prenderà il nome di Hattusas sotto gli Ittiti. “L’attuale conoscenza degli avvenimenti storici va attribuita al fatto che diversi centri dell’Asia Minore adottarono la scrittura cuneiforme babilonese: numerosi testi cuneiformi su tavolette d’argilla, redatti in assiro antico, sono stati portati alla luce durante gli scavi di Kültepe, Alis¸ar e Bog˘azköy, in quella che più tardi sarà la Cappadocia greco-romana. Si tratta per lo più di documenti di carattere economico provenienti da insediamenti di commercianti assiri in quasi tutto il sud-est e il centro dell’Anatolia, e che erano raggruppati in colonie commerciali (karum), e in colonie di forestieri (wabartum) che avevano per sede centrale il karum di Kanis (nota dell’autore: o Kanesh), l’attuale sito di Kültepe nelle vicinanze di Cesarea, e che dipendevano giuridicamente dalla loro metropoli, Assur sul Tigri. Geograficamente si estendevano dalla regione del Gran Lago Salato in Anatolia centrale fino al corso superiore del Tigri da una parte, e dai confini della Siria settentrionale e della Cilicia fino al delta dell’Halys, l’attuale Kızılırmak, dall’altra, cioè fino alla costa del Mar Nero. In questa regione si trovava, come si è appreso di recente, la città di Zalpa, il cui ruolo non fu privo d’importanza, tanto all’epoca delle colonie assire quanto durante la primitiva storia ittita, come si vedrà fra poco. L’esistenza di una tale colonia commerciale sulla costa meridionale del Ponto Eusino e la circolazione dei beni culturali, materiali e spirituali che implicò, non dovrebbero essere sottovalutati, e si può ben scorgervi il centro di un irradiamento culturale che

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stimolò la civiltà dei paesi posti più lontano verso Ovest o verso Est, e forse anche a Nord, che per altro vegetavano in condizione di vita preistorica”. Da K. Bittel, Gli Ittiti, Rizzoli, 1983, Milano, pp. 53-54. J.G. Macqueen, cit., pp. 34-35. Ibidem, pp. 31-32. M. Liverani, Antico Oriente, Storia società economia, cit., pp. 443-444. C. Renfrew, Archeologia e linguaggio, cit., pp. 87-88. “La dinastia dei Mitanni e quella egiziana dei Tuthmosidi (ove all’ardore guerresco subentra un indirizzo più pacifico) si imparentano tra di loro, e stabiliscono una procedura di scambi di doni, di ambasciatori, di lettere. I matrimoni sono unidirezionali: una figlia di Artatama I va in sposa a Tuthmosis IV, una figlia di Shuttarna II va in sposa ad Amenophi III, una figlia di Tushratta va in sposa ad Amenophi IV.”, M. Liverani, cit., p. 484. Da S. Donadoni, I testi religiosi egizi, Garzanti, 1997, Milano. Vercoutter sostiene che più precisamente la traduzione sarebbe: “Colui che percorre le rive che sono dietro (o al di là) dei Nebout”. Il significato del termine “Haou-Nebout” verrà esaminato in un successivo capitolo. J. Vercoutter, L’Egypte et le monde égéen préhellénique, Institut Français d’Archéologie Orientale, Bibliothèque d’étude 22, Imprimerie de l’Institut Français d’Archéologie Orientale, 1956, Cairo, p. 27. Nota dell’autore: Gli Egizi considerano alloglossi tutti coloro che non parlano l’egizio. S. Mazzarino, Fra oriente e occidente, Rizzoli, 1989, Milano, p. 96. S. Pernigotti, I Greci nell’Egitto della XXVI Dinastia, La Mandragora, 1999, Imola, p. 43. Erodoto, Le storie, I, 58. Pur essendo impossibile garantire che l’acheo-miceneo sia il diretto progenitore delle varie forme dialettali greche emergenti alla fine dell’Era del Bronzo, è perlomeno necessario ammettere l’esistenza di una precedente koinè da collocarsi nel II-III millennio a.C., in cui accanto all’acheo-miceneo dovevano sussistere le forme proto-arcadiche, proto-ioniche e proto-eoliche antenate dei dialetti greci di epoca storica. La ceramica minea o minia era largamente diffusa già nel XIX secolo in tutta l’area che bene abbiamo inquadrato riguardante la diffusione delle popolazioni luvie, sia in Egeo che nel versante egeo dell’Anatolia. W. Taylour, I Micenei, cit., p. 28. “Se accettiamo la documentazione, costituita dalla mezza dozzina circa di parole speciali in questo trattato di ippologia e dai nomi indoeuropei dei re Mitanni nelle lettere di Amarna, possiamo trarre alcune significative ipotesi storiche, poiché gli studiosi sono concordi nel ritenere che linguisticamente queste parole somigliano alle lingue indoiraniche piuttosto che all’hittita stesso – vale a dire al sanscrito vedico dei Rigveda dell’India settentrionale, o all’antico persiano dell’Avesta dell’Iran occidentale – ma le tavolette di Boghazkoy sono di molti secoli più antiche di ogni diretta documentazione di queste”, C. Renfrew, cit., pp. 87-88.

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W. Taylour, cit., p. 187. Si ritiene del tutto fittizia la XVI dinastia e frammentata come la XIV la XVII. A.H. Gardiner, La civiltà egizia, Einaudi, 1998, Torino, pp. 144-145. Lord W. Taylour, cit., p. 187. Può essere interessante ricordare che secondo il mito sumero fu Ea-Enki il Dio che svelò al Noè sumero il segreto di come sopravvivere al diluvio ed anche EaEnki viene considerato corrispondente a Poseidone. S. Donadoni, L’uomo egiziano, Laterza, 1996, Roma-Bari, p. 248. Euripide, Archelao (perduta), frammento citato da Strabone in Geografia, Libro V 2.4. Erodoto, Le storie, Libro VIII, 44. Si tratterebbe della stessa distanza linguistica esistente fra la lineare A e la lineare B. È improprio per questi tempi considerarla Fenicia, i Fenici emergeranno infatti alcuni secoli più tardi. Erodoto, Le storie, Libro V, 58. Thoth consegna il defunto ad Anubi, che però aveva testa di sciacallo. Omero, Odissea, XXIV, 11-14. Diodoro Siculo, Biblioteca storica, Libro I, 96-98. A Troia VII viene alla luce ceramica micenea che rivela stretti contatti tra le due culture. Teti, la madre di Achille, non va confusa con l’omonima moglie di Oceano e madre di tutti i viventi nella cosmologia omerica. L’ipotizzata via commerciale terrestre dell’ambra che dalla Danimarca avrebbe avuto come punto d’arrivo l’Adriatico è per noi del tutto improponibile. S. Piggott, Europa antica, dagli inizi dell’agricoltura all’antichità classica, cit., pp. 132-133. Ibidem, pp. 145-146. J. Vercoutter, Les Haou-Nebout (suite), «Bulletin de l’Institut Français d’Archeologie Orientale» BIFAO 48, 1949, p. 189. “L’espressione egizia ‘Wad-Wur’, ‘Grande Verde’ è tradizionalmente stata equiparata con ‘oceano’ e ‘mare’”, A. Nibbi, The Sea Peoples: A Re-examination of the Egyptian Sources, Church Army Press And Supplies, 1972, Oxford, p. 13. Reisner traduce il passaggio “isole che sono in mezzo al Grande Verde” con “le isole nel mezzo dell’oceano” e A.H. Gardiner conferma questa traduzione, vedi Vercoutter, BIFAO 48, cit., nota 99, p. 173. Dopo il tempo degli Hyksos subentrò un altro termine più generico di origine semitica, yam, per indicare sempre il mare. W. Helck, Die Beziehungen Agyptens und Vorderasiens zur Agais…, che traduce yam con “Meer” e “Grande Verde” con “Ozean”, in D. Musti, Le origini dei Greci, Dori e mondo egeo, Laterza, 1991, Bari, p. 246. J. Vercoutter, BIFAO 48, cit., p. 125. W.F. Edgerton, J.A. Wilson, Historical Records of Ramses III, The Texts in Medinet Habu, Volume I, The University of Chicago Press, 1936, Chicago, Plate 42, p. 42.

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Dalla stele di Gebel Barkal di Tuthmosis III. Il termine “Grande Verde” (Wadwur) viene tradotto con “Oceano” secondo la versione di Gardiner. J. Vercoutter, BIFAO 48, cit., p. 109. Ibidem, p. 111. Ibidem, p. 125. Come sulla Stele di Rosetta, di epoca tolemaica dove il termine “Haou-Nebout” viene tradotto con “Hellenicos”. A. Nibbi, cit., p. 51. J. Vercoutter, Les Haou-Nebout, «Bulletin de l’Institut Français d’Archéologie Orientale» BIFAO 46, 1947, p. 136. Id., BIFAO 48, cit., p. 190. Id., BIFAO 46, cit., p. 133. Ibidem, p. 155. Ibidem, p. 148. Ibidem, p. 137. Vercoutter designa con “corbeilles” i tre elementi che compongono il termine Nebout: “Il faut donc admettre que le mot nbwt désigne bien les ‘corbeilles’ et qu’à l’époque où fut composé le passage des Textes des Pyramides qui nous occupe, ces ‘corbeilles’ désignaient une forme géographique susceptible d’être entourée ou environnée par l’eau de l’océan universel”, Ibidem, p. 145. Ibidem, p. 146. Ibidem, p. 144, “Sin-Wur: l’océan (qui entourait le monde)”. Ibidem, p. 146. J. Vercoutter, BIFAO 46, cit., p. 150. Gli Egizi adottarono successivamente all’invasione Hyksos anche il termine semitico jam che significa genericamente “mare”. Il concetto del mare Oceano era ancora presente ai tempi di Colombo, che infatti acquisì per la scoperta del nuovo mondo il titolo di Ammiraglio del mare Oceano. Nel viaggio di Wen-Amon il Mediterraneo è definito “mare di Karu”, termine con cui si intende il mare antistante alla regione siriana. A. Nibbi, cit., p. 13. J. Vercoutter, BIFAO 46, cit., pp. 8-9. L’espressione fra parentesi è aggiunta dall’autore per scrupolo di chiarezza. “‘J’ai bottelé les Neuf-Arcs, les Îles qui sont au coeur de la mer, les Haou-Nebout et les pays étrangers rebelles’. Reisner traduit ce passage ‘The islands in the midst of the Ocean, the Greek islands, the rebellious foreign lands’, et A.H. Gardiner confirme cette traduction”, J. Vercoutter, BIFAO 48, cit., p. 173. Ibidem, p. 142. Ibidem, p. 143. A. Nibbi, cit., p. 54. Ibidem. J. Vercoutter, BIFAO 46, cit., pp. 128-129. Gli Egizi utilizzano il geroglifico “cuore” per esprimere il centro. Breasted e altri traducono l’espressione egizia “i paesi stranieri” con “foreign hill countries”.

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J. Vercoutter, BIFAO 48, cit., p. 192. Ibidem, p. 129. Ibidem, p. 132. Ibidem, pp. 129-130. Ibidem, p. 132. Ibidem, p. 157. Ibidem, p. 133. Ibidem, p. 134. Ibidem, p. 144. L’annotazione fra parentesi è aggiunta dall’autore. J. Vercoutter, cit., p. 140. Per alcuni autori gli Egizi stessi sarebbero da identificarsi con i Rekhyt. S. Donadoni, cit., p. 12. J. Vercoutter, BIFAO 48, cit., p. 141. Ibidem, pp. 142-143. Ibidem, p. 145. Documenti in cui gli Haou-Nebout appaiono genericamente come totalità dei popoli stranieri. Da J. Vercoutter, BIFAO 48, cit., pp. 147-150. Bibbia, Genesi I, Creazione “Nel principio Dio creò il cielo e la terra. Ma la terra era deserta e disadorna e v’era tenebra sulla superficie dell’oceano e lo spirito di Dio era sulla superficie delle acque”. Nel tempio di Edfu il dio Horakhty così parla al re: “Ho fatto sì che la tua frontiera vada fin dove […] va nel Noun, e che il timore che si ha di te percorra le isole che sono nel mezzo del Grande Verde e i paesi degli Haou-Nebout”, J. Vercoutter, BIFAO 48, cit., p. 148. Ibidem, p. 153. Ibidem, p. 145. Ibidem, pp. 147-150. Ibidem, p. 144. J. Vercoutter, BIFAO 46, cit., p. 147. Ci stupisce che Vercoutter, pur evidenziando come il termine “Haou-Nebout” venisse utilizzato come etnico e non geografico dai testi egizi, non abbia compreso profondamente una questione che appare evidente, ma non possiamo dimenticare il vizio di mente delle teorie diffusioniste in auge ai tempi di Vercoutter. J. Vercoutter, BIFAO 48, cit., p. 193. Dalla stele di Gebel Barkal : “Ho legato in fasci i Nove Archi, le Isole che sono in mezzo al Grande Verde, gli Haou-Nebout, i ribelli paesi stranieri” in A. Nibbi, cit., p. 56. J. Vercoutter, BIFAO 48, cit., p. 174. Ibidem, p. 137. Ibidem, p. 32. Ibidem, p. 134. Ibidem, p. 138. Ibidem, p. 164.

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Possediamo documenti che indicano l’uso dei carri da battaglia già nella fase iniziale della loro presa di potere sulla cultura di Hatti. Vercoutter nell’affrontare il capitolo “Il problema Keftiou” nel suo Gli Egei III (p. 369) riporta schematicamente le ipotesi proposte dai maggiori esperti: “È stato proposto di identificare Keftiou come: a. Creta solamente (A.H. Gardiner, II. Gauthier). b. La Cilicia (G.A. Wainwright, A. Furumark). c. Creta e la Cilicia (A. Evans, J.D.S. Pendlebury, Hall). d. Una parte della Siria settentrionale (Cl. F.A. Schaeffer, Welker, L. Christophe)”. Sebbene Donadoni affermi di non identificare il termine “tanayou”, la maggior parte degli studiosi lo identifica con il termine “danaiou” o “dani”, identità che peraltro ammette anche Donadoni nel prosieguo del suo stesso testo. D. Musti, Le origini dei Greci, Dori e mondo egeo, cit., p. 210. Ibidem, pp. 210-211. Nota dell’autore. J. Vercoutter, BIFAO 48, cit., p. 57. W. Taylour, I Micenei, cit., p. 177. S. Donadoni in D. Musti, cit., p. 211. W. Taylour, cit., p. 177. S. Donadoni in D. Musti, cit., p. 216. J. Vercoutter, BIFAO 48, cit., p. 57. Omero, Odissea, XIV, 252-259. J. Vercoutter, BIFAO 48, cit., p. 72. Ibidem, p. 191. Ibidem, p. 178. Ibidem, p. 177. Ibidem, pp. 162-163. Ibidem, p. 126. Ibidem, p. 82. Ibidem, pp. 43-45. S. Donadoni in D. Musti, cit., p. 213. J. Vercoutter, BIFAO 48, cit., pp. 51-52. Attualmente il luogo d’origine dei lapislazzuli risulta essere solo l’Afghanistan, fatto decisamente contrastante con l’affermazione più volte ripetuta nei testi egizi di una provenienza dalle isole del Grande Verde. J. Vercoutter, BIFAO 48, cit., p. 67. Ibidem, pp. 120-121. S. Donadoni in D. Musti, cit., p. 212. A. Nibbi, cit., p. 16. J. Vercoutter, cit., p. 129. Ibidem, p. 134. Ibidem, pp. 134-135. “Incantesimo per la malattia Tanet-Amou (lett. ‘quella dell’Asia’ = l’Asiatica). È (lett. Che consiste in) ciò che dicono, in questo caso (lett. per questo) i (gli abi-

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tanti del) Keftiou: S-n-t-k-p-p-w-y-i-i-m-n-t-r-k-k-r (vocalizzato: Sa-an-ta-ka’pa (?)-pi-wa-ya-‘a-ya-ma(i, u)-a (i, u) n-ta-ra-ku-ka-ra. (Questo incantesimo viene recitato insieme all’utilizzo di diversi medicinali)”, Ibidem, p. 83. S. Donadoni, Egei ed Egiziani, in D. Musti, cit., p. 213. J. Vercoutter, cit., p. 38. Ibidem, p. 127. Da J. Vercoutter, cit., p. 45: “Recto: Fare nomi del Paese Keftiou: (a) ‘Ikst (‘I-kasa(i-u)-ta) (b) ‘Ishr (‘I-sa(i-u)-ha-ra) (c) .iknn (akn-nu) (d) Nsy (Na-su-ya) (e) ‘Iksir (‘I-ka-sa) (f ) Bndbr (B(i)n-da(i,u)bi-ra) (g) ‘Idn (‘I-di-na(i)?) (h) Pnwt (Pina-ru-ti) (i) Rs (Rus-sa) (j) Sennefer (egizio) (k) Senked (egizio) (l) Sennefer (egizio) (m) Souemresou (egizio). Verso: (n) Rwnt (Bu-w-an(in,un)ta) (o) M(?) ddm (Mi-da-da-me (mi,mu)) (p) Semdety (egizio)”. Notiamo inoltre che alcuni di questi nomi presentano la radice -iks che non può non ricordare il termine “hyksos”. S. Donadoni in D. Musti, cit., p. 214. J. Vercoutter, cit., p. 136. Ibidem, p. 130. Nell’espressione “i paesi stranieri del Nord dei confini dell’Asia” sono evidentemente i confini dell’Asia ad avere l’indicazione geografica. J. Vercoutter, cit., p. 139. Ibidem, p. 125. Ibidem, pp. 138-139, 146. G. Garbini, I Filistei, gli antagonisti di Israele, Rusconi, 1997, Milano, p. 49. J. Vercoutter, cit., p. 98. Da J. Vercoutter: “Il paese Keftiou è considerato dagli Egizi come una grande area di civilizzazione, allo stesso livello dei Mitanni, dei paesi Hittiti e della Mesopotamia”, cit., p. 119. Ibidem, p. 114.

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CAPITOLO III

L’Età del Ferro

3.1. Sintesi degli avvenimenti della fine dell’Età del Bronzo Dai tempi delle conquiste di Tuthmosis III l’Egitto viene riconosciuto come “primum inter pares” dalle grandi potenze mediterranee. Gli Achei-Micenei, verso il 1450 a.C., subentrarono ai Minoici, la cui potenza era sopravvissuta alla colossale esplosione del vulcano dell’isola di Thera (Santorini) e si impadronirono di Creta1 ponendo fine al secondo periodo palazziale risorto nel 1700 a.C. ca. A Cnosso, l’unica a non essere distrutta, si insedierà un sovrano miceneo (Wanax) che dominerà su tutta l’isola, i cui centri maggiori vengono ricostruiti e fortificati. Creta diviene quindi uno dei potenti regni micenei come Pilo, Micene, Tebe, Orcomeno dove si utilizza come scrittura la lineare B. Chiamati Akhiyawa dagli Ittiti, condividevano il potere sulle coste egee dell’Anatolia con popolazioni di origine pelasgica come i Lici o i Troiani stessi e con il più meridionale stato luvio di Arsawa e di Cilicia. Il regno luvio di Arsawa spesso in lotta con gli Ittiti entrò a far parte di quei regni che tenevano relazioni di corrispondenza con l’Egitto di Amenophi IV (Eknaton l’eretico). Gli Ittiti, che con l’incursione contro Babilonia nel 1595 a.C. avevano dato la possibilità ai Cassiti2 di stabilirsi definitivamente nella Bassa Mesopotamia, videro ridurre molto la loro potenza nel lungo conflitto contro il regno mitannico e nel 1500 a.C. erano solo un piccolo staterello anatolico. L’alleanza con Tuthmosis III contro i Mitanni e successivamente l’ascesa del re Shuppiluliumash ne rigenerò la potenza, rifondando quello che è conosciuto come Nuovo Impero ittita. L’area costiera cananea Siropalestinese ed Amurru erano sotto l’influenza egizia e mitannica con varie città-stato ricche per i loro commerci. Di questo contesto faceva parte anche l’isola di Cipro, sempre molto attiva e recettiva. La fine di Amenophi IV e del periodo amarniano è caratterizzata non solo dal crollo del dominio egizio in Siria e gran parte della Palestina, ma anche dagli attacchi degli Ittiti che non rinunciavano alle velleità espansionistiche nel sud-est e dalla crescente potenza assira. A farne le spese fu il regno dei Mitanni, invaso anche da tribù aramee. Amurru, Ugarit, Qadesh, Karchemish, divennero di fatto vassalle ittite. Lo sfacelo del regno Mitanni pose le basi per uno degli scontri più celebrati dell’antichità, quello fra gli Ittiti e gli Egizi. A Qadesh sull’Oronte, attorno al 1300 a.C., si combatté la gloriosa battaglia campale fra Ramesse II e Muwatallish. La prepotente velleità di Ramesse II subì decisamente un secco arresto 157

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e si giunse al trattato di pace e di amicizia, con Ramesse II che prese in sposa la figlia del re Khattushili succeduto a Muwatallish. Tutto ciò sarebbe stato inaccettabile nell’ottica dei faraoni della XVIII dinastia. Focalizzare il quadro che si delinea a questo punto è essenziale. L’Egitto è una nazione potente e inattaccabile. L’impero ittita sembra essere al suo apogeo. Gli Assiri non sono in grado di creare nessuna seria minaccia. Gli Achei-Micenei rimangono completi padroni sul mar Egeo ed i loro territori non soffrono alcuna minaccia sino alla decennale impresa di assedio dell’antichissima pelasgica Troia, l’unica città in posizione strategica fondamentale sfuggita al potere dei Micenei, che dai tempi della conquista di Creta dovevano sentirsi padroni assoluti dell’area egea. Il carisma pelasgico della più antica città dell’Egeo esprimeva un valore simbolico particolare per tutte le popolazioni che vantavano le stesse origini come i Lici, Lidi, Cari, ecc. ma accanto a questo bisogna certamente considerare il ruolo di punto nodale per i commerci sul mar Nero che la città rivestiva: certamente uno dei motivi reali per cui fu combattuta la guerra omerica. Neppure gli Ittiti sembrano aver mai insidiato seriamente la regione egea. I vari e frequenti conflitti con i paesi luvi costieri non furono mai risolutivi e traspare una scomoda e mal sopportata relazione di vicinanza. Le fiorenti città-stato della regione siro-palestinese erano sotto l’influenza degli Ittiti a nord di Qadesh e degli Egizi a sud. Una situazione quindi apparentemente stabile nei suoi elementi fondamentali. Una civiltà di tipo palaziale è la caratteristica, Egitto escluso, del mondo che si affaccia sul Mediterraneo, diretta conseguenza ed emanazione dell’arrivo delle nobili caste di guerrieri indoeuropei che verso il 1750 a.C., portatori di nuove armi, del cavallo e di una nuova cultura, avevano cambiato la realtà del mondo anche ben oltre il Mediterraneo. Questo equilibrio di forze e di potenze che avrebbe potuto reggersi per molto tempo, forse secoli, sarà però drammaticamente interrotto da una tempesta devastatrice tale per cui la storiografia considera i successivi tre secoli una buia era, dove particolarmente ardua diventa la ricostruzione storica. Solo l’Egitto si salverà dall’invasione, ma lo farà a caro prezzo, tanto da meritarsi il sarcastico appellativo degli Assiri: “la canna spezzata”. La tempesta arriva dal mare e dai suoi popoli, come ci raccontano gli Egizi. Arrivano dalle isole del Grande Verde. Sono i numerosi popoli dell’Haou-Nebout. Oltre al loro numero che ci appare sterminato possiedono il segreto del ferro con cui frantumeranno il bronzo e la sua stessa era. La Bibbia troverà un’espressione evocatrice per questi invasori: “la foresta dei popoli”. L’invasione, che avverrà in due tempi a circa una quarantina d’anni di distanza (prima sotto Mereptah poi sotto Ramesse III), è preceduta da sintomi prodromici che sarà opportuno analizzare attentamente. 158

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Tav. 17: Panorama delle potenze del Mediterraneo orientale prima dell’invasione dei Popoli del Mare come ci viene presentato nel testo Mediterranean Peoples in Transition pubblicato in onore del Prof. Trude Dothan. Nonostante i dubbi sempre espressi dagli studiosi che affrontarono direttamente il problema, Creta è normalmente identificata come Keftiou. Si tratta però di un’identità del tutto ingiustificata e in contrapposizione con una serie di elementi, come la ricchezza di Metalli preziosi a Keftiou rispetto alla loro totale mancanza a Creta. Ad escludere Creta dovrebbe essere del tutto sufficiente la considerazione della posizione geografica così spesso riportata nei testi: il paese Keftiou fa parte di un mondo marino lontanissimo, all’estremo Occidente dove si localizzano le isole del centro del Grande Verde.

3.2. Probabili cause delle migrazioni dei Popoli del Mare I testi ramessidi, probabilmente a partire dal regno di Ramesse II e sicuramente sotto Ramesse III, fanno quindi delle “isole che sono in mezzo al mare” il luogo d’origine dei “Popoli del Mare”. Questo paese, situato all’estremo nord del mondo, non si confonde né con il paese Keftiou né con Cipro. Il problema consiste quindi nel localizzare il paese d’origine reale dei cinque tributi nominatamente indicati dai testi egizi come provenienti dalle “Isole del mezzo del mare”. Allo stato attuale delle nostre conoscenze, questo habitat risulta difficile da determinare3.

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Ciò che rese inevitabile una migrazione non di tribù ma di ben nove popoli, come testimoniato dagli Egizi, va ricercato in importanti mutazioni climatiche o disastri ecologici planetari, ed è questo il quadro che viene a dipingersi osservando la scena al tempo di Mereptah, succeduto a Ramesse II, poco prima del sopraggiungere della prima ondata di invasione. L’impero ittita appare colpito da un’improvvisa quanto grave carestia. La richiesta di aiuti e di grano giunge all’Egitto con toni decisamente drammatici, che ne fanno una questione di vita o di morte. La stessa richiesta viene inoltrata dall’ultimo re ittita Shuppilulyumash II alla città di Ugarit che nello strato archeologico corrispondente appare sconvolta anch’essa da terremoti di una violenza eccezionale. Numerosi centri dell’Egeo, Micene compresa, sono colpiti da forti movimenti tellurici che provocano distruzioni e crolli anche delle costruzioni ciclopiche. Molti centri non furono più né abitati né ricostruiti, con un calo demografico spaventoso. Gli studiosi confermano che la società venne decimata. Sopravvivono solo i centri maggiori che mostrano opere di restauro e consolidamento e talvolta incremento delle fortificazioni. Anche Troia è distrutta e presenta segni di crolli dovuti a movimenti tellurici eccezionali. Nella sua accurata analisi archeologica sulla caduta dei palazzi micenei, Killian definisce indiscutibilmente la seguente consecutio temporum: il Tardo Elladico III A (TE III A) segnò il culmine dell’età palaziale, il TE III B fu segnato ovunque in Grecia da calamità e disastri. Killian afferma con sicurezza trattarsi di una catastrofe naturale. Numerosissimi siti non vennero più riedificati e si riscontra ovunque una nettissima riduzione demografica desunta dalla rarità delle sepolture. Killian allarga questo evento funesto anche a Troia VI, alla cui distruzione seguirà la riedificazione della Troia omerica, cioè Troia VII4. Si tratta quindi del riscontro di un evento terrificante la cui vera portata non è difficile determinare se teniamo conto dei documenti che riferiscono dell’estremo allarme e pericolo manifestati dalle richieste di aiuto dal regno Ittita e dai paesi vicini verso l’Egitto, risparmiato almeno in parte dall’evento naturale. In Argolide l’86% degli abitati è abbandonato. Nel TE III C molti abitanti dei centri minori distrutti affluiscono nei centri principali come Micene e Tirinto, che riparano e ampliano le fortificazioni. Il TE III C segnerà però il termine ultimo del potere di coloro che chiamiamo Micenei: la presenza di numerose punte di freccia accanto ad evidenze di incendi cui segue l’abbandono delle rocche principali sono per Killian segni evidenti di eventi bellici, interpretati naturalmente col sopraggiungere dei Dori. Se l’Egitto appare risparmiato, la Libia sembra colpita da una repentina e disastrosa desertificazione. I climatologi riferiscono l’innescarsi di una anomalia climatica nel Mediterraneo, le cui influenze permarranno per circa tre secoli contraddistinti da siccità e carestia. Ulteriore affascinante conferma di una catastrofe ambientale potrebbe essere indicata nel celebre racconto biblico delle piaghe inviate all’Egitto su ri160

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chiesta di Mosè, dal momento che per i più è proprio Mereptah il faraone dell’esodo5. In un recente studio americano da cui è stato realizzato anche un interessante documentario televisivo apprendiamo infatti che le sette piaghe sono interpretabili come eventi concatenati che originarono da un’unica causa innescante; uno sconvolgimento che portò il mare a penetrare profondamente lungo il corso del Nilo tanto da cambiarne il senso della corrente. L’eutrofizzazione successiva e la moria dei pesci portò con l’impaludimento alla proliferazione delle rane che invasero le stesse città, mentre le successive piaghe sono state identificate anche microbiologicamente e sono risultate essere episodi infettivi di grande contagiosità, molto probabili a seguito di inondazioni di tipo ciclonico in un clima come quello egizio. Un corpo celeste che in rotta di collisione terrestre sia entrato nell’orbita terrestre e successivamente sia precipitato in mare potrebbe ovviamente spiegare sia la pioggia di fuoco che l’onda anomala marina, causa dell’inversione della corrente del Nilo. È evidente inoltre che si trattava di un avvenimento del tutto sconosciuto, forse mai osservato prima dagli Egizi che tanto controllavano il fiume e le sue periodiche inondazioni. Qualcosa di assolutamente eccezionale che certo non aveva avuto il suo epicentro in Egitto, né qui si erano mostrati gli effetti più catastrofici che, altrove, dovevano essersi scatenati come una sorta di fine del mondo o diluvio universale. La paura di lui è in tutte le terre e su tutte le pianure perché è Amon che ha creato l’Haou-Nebout. Il suo terrore si è localizzato nel Grande Circolo, poiché è Amon che circonda i Nove Archi 6.

Non solo negli inni come questo dedicato da Ramesse III ad Amon permane la testimonianza della tragedia. I testi di Medinet Habu, pur essendo mutili, sono molto meno aspecifici e testimoniano che l’Haou-Nebout e i Popoli del Mare sono stati colpiti dalla potenza di Amon-Ra per opera della Dea Sekhmet che ne possiede la potenza distruttiva ed è colei che ne scaglia le folgori. Ecco ciò che si legge sulle mura del tempio: Il grande calore di Sekhmet si è mischiato con quello dei loro focolari, cosicché le loro ossa s’incendiano all’interno dei loro corpi. La meteora (the Shooting Star) fu terrificante per come li perseguitò mentre la terra (d’Egitto) era serena7.

A tratti i testi di Medinet Habu sono del tutto espliciti: Così per i paesi stranieri […], distruzione alle loro città, furono devastate in un solo attimo, i loro alberi e le loro genti sono diventati cenere. Essi presero consiglio dai loro cuori: verso quale luogo andremo? I loro capi vennero […] (con) i loro beni e i loro figli sulla schiena in Egitto 8.

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Si afferma inoltre in numerosi passaggi di oscillazioni e movimenti tellurici, nonché di una gigantesca ondata di marea che aveva spazzato via le città ed i villaggi. È Amon-Ra che parla a Ramesse III affermando che mentre l’Egitto è risparmiato dal suo benefico abbraccio, “l’Oceano ed il Grande Circolo sono sconvolti dall’oscillazione e dall’ondeggiamento” e così prosegue: Ti diedi la mia spada per distruggere i Nove Archi e misi per Te tutti i paesi sotto i Tuoi piedi. Feci in modo che essi vedessero la Tua maestosità come forza del Nun quando distrusse e cancellò le loro città e i loro villaggi con un’onda d’acqua9.

I Popoli del Mare sono i sopravvissuti ad un gigantesco tsunami espresso dalla forza del Nun, la forza cosmica dell’oceano che distrugge e dà vita. Questo è ciò che gli Egizi chiaramente testimoniano nel “tempio dei milioni di anni” di Medinet Habu e che trova conferma nella Bibbia. Al nostro esame i testi di Medinet Habu appaiono quindi assolutamente illuminanti ed esprimono una sequenza del tutto logica, a cominciare dalla caduta di ciò che William F. Edgerton e John A. Wilson tradussero come “Shooting Star”(meteorite), fino allo tsunami, gigantesca onda di marea che segue necessariamente la caduta in oceano di un astro del cielo. I sopravvissuti di questo catastrofico evento furono in seguito stremati da scosse telluriche ed eruzioni vulcaniche che trovano conferma nei testi di Medinet Habu, in cui si afferma che “le isole non avevano riposo”. Rimane evidente il fatto che i popoli dell’Haou-Nebout giunsero alla conclusione che non era più possibile vivere nelle loro isole minacciate con grande probabilità da un’inesorabile progressivo inabissamento e prepararono con cura ciò di cui avevano necessità: una flotta sterminata. Anche la Bibbia è molto esplicativa, poiché definisce i Filistei (uno dei nove Popoli del Mare) come “i sopravvissuti delle isole”. Collegando liberamente elementi contestuali e mitici non vi è alcun dubbio che in noi abbia suscitato un’emozione particolare la lettura di Ovidio riguardante l’evento astronomico della caduta di un astro dal cielo: è Fetonte che prima di precipitare in oceano Atlantico, dove si getta il fiume Eridanio, incendia e desertifica al suo passaggio intere regioni della terra, vaporizzandone i fiumi e cambiando fatalmente e drammaticamente il paesaggio. Ma al di là di ciò che non è possibile stabilire con certezza, rimane un fatto concreto e cioè una migrazione di proporzioni tali da impedire alla storia di fornirci dei paragoni adeguati. Gli eventi climatico-ambientali portarono a due reazioni: la prima, pressoché immediata, di una migrazione con intento predatorio dovuta alla perdita improvvisa di ogni bene; la seconda, ritardata, si delinea al contrario come un piano di invasione accuratamente ideato e progettato nelle isole dell’Haou-Nebout, messo in atto con una perfetta conoscenza del Mediterraneo e dei suoi paesi. Questo piano si dimostrò capace infatti di 162

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collegamenti su distanze enormi, tali da permettere un attacco praticamente simultaneo all’Egitto di Ramesse III, sia da terra che dal mare. Donadoni stesso, nella sua profonda conoscenza, mostra acute intuizioni ponendosi una domanda che nasconde una fondamentale rivelazione: Questo mondo di mercanti e un po’ di pirati “complotta”, per dirla con Ramesse III, verso il 1200, per assalire l’Egitto, fornendo le basi di partenza a una coalizione di popoli che cala per mare verso le foci del Nilo per infrangersi là contro le difese Egiziane. Con questo scontro, le “Isole” scompaiono dall’orizzonte dell’Egitto: i singoli popoli della coalizione ricompaiono nominati in altri e separati contesti – ma la realtà collettiva (e perciò culturale) delle “isole” non c’è più, il termine passa al bagaglio della geografia celebrativa e antiquaria. Esistono ancora quelle isole? Sono diventate altre?10

La verità è veramente celata fra le righe della storia che già possediamo! Di certo è difficile non tenere conto di innumerevoli storici classici fra cui alcuni considerati attendibilissimi, come Strabone, che testimoniavano di enigmatiche isole. Una di queste, grande quanto la Sicilia, era posta da Stradone al nord della Spagna, al di là dello stretto di Gibilterra ancora in epoca ellenistica.

3.3. L’alba dell’Età del Ferro (1220 a.C. ca.) Alla morte di Ramesse II era salito al trono suo figlio Mereptah, quando nel quinto anno del suo regno (1220 a.C.), da Occidente, i Libici insieme ad altre genti sconosciute chiamati Meshwesh, che risultano dai testi egizi un popolo che vive a Ovest di questi con molte affinità con i futuri Berberi, dilagano oltre i confini dell’Egitto. Un panico profondo si diffonde in Egitto sino ai suoi luoghi più remoti: il re dei Libici Meriye guida una coalizione con un’enorme potenza d’aggressione poiché ben cinque Popoli del Mare ne fanno parte: Sherden e Lika (già conosciuti), Ekwesh, Shekelesh e Tursha. Sono gli abitanti delle isole del centro del Grande Verde, i popoli stranieri dell’Haou-Nebout. Ma, come li definisce Gardiner, non sono altro che “precursori” del grande movimento migratorio che investirà tutto il Mediterraneo ed oltre nel 1185 a.C. ca. A cominciare dal re libico, gli invasori portavano con sé l’intera famiglia, il bestiame ed ogni genere di bene, a dimostrare inequivocabilmente che la massiva invasione aveva il preciso scopo e la necessità di trovare nuovi insediamenti. Non possono esservi dubbi sul motivo che spinse questi popoli verso il fertile Egitto. Della grande iscrizione di Karnak che celebra la vittoria di 163

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Mereptah molto è andato perduto, ma ciò che resta è del più grande interesse e Gardiner lo testimonia: Questa volta non si era trattato di una semplice scorreria di predoni, ma di una invasione vera e propria alla ricerca di nuovi territori in cui stabilirsi. Maraye e i suoi alleati avevano condotto con sé le mogli e i figli, il bestiame e un’enorme quantità di armi e utensili, che furono catturati dal nemico. Ma era stato il bisogno a spingerli in questa avventura; per citare le parole esatte dal testo di Karnak, essi passavano la giornata a vagare per il paese e a combattere per riempirsi ogni giorno la pancia; erano venuti nella terra d’Egitto a cercare cibo per le loro bocche. Fu questo il giudizio di Mereptah sui Libi quando seppe della più grande invasione che gli preparavano11.

Dall’opera fondamentale di James Henry Breasted, Ancient Records of Egypt, troviamo inoltre quanto segue, sono i Libici che parlano: “Il fuoco ci ha penetrati, il nostro seme non esiste più”. Ed ancora riferendosi ai Meshwesh viene affermato: “Le loro città sono state ridotte in cenere, devastate, desolate, il loro seme non esiste più”. Inoltre più volte nell’iscrizione si accenna al loro stato d’animo come a coloro che, disperati, accecati dalla fame e dalla sete, non hanno più nulla da perdere. Ne risulta che non solo la Libia aveva subito un improvviso e repentino processo di desertificazione, ma che un tale disastro ambientale si era verificato anche più a ovest, nel territorio dei Meshwesh. Purtroppo si tratta di un’area che non conosciamo, poiché l’archeologia è sempre stata povera di ricerche in queste regioni, ma che a quanto pare doveva essere un regno dall’elevato livello culturale se consideriamo il grado di nobiltà attribuito dagli Egizi a questa schiatta: sia perché Ramesse III si fregerà del titolo di “Principe dei Meshwesh” ma, ancor più, perché in seguito i principi Meshwesh si integreranno prima nell’aristocrazia egizia, poi diverranno addirittura faraoni con Sheshonk, fondando la XXII dinastia che conta ben nove faraoni. Gardiner inoltre si mostra in accordo sulla possibilità che il catastrofico fenomeno ambientale si fosse originato e scatenato in un’area geografica localizzabile molto più ad Occidente: L’attacco era partito di molto lontano dalla Cirenaica, o forse da paesi ancor più ad Occidente, perché la prima mossa di Maraye fu quella di calare sul Tjehnu12 e occuparlo. Poco prima gli invasori avevano saccheggiato le fortezze di confine e alcuni di loro erano penetrati anche nell’oasi di Farafra. Il grande fiume, o braccio canopico del Nilo, segnava comunque il limite della loro avanzata e a suo tempo la battaglia decisiva avvenne probabilmente in una località non identificata, detta Pi-yer, senza dubbio all’interno del Delta13.

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I testi mutili riferiscono che la battaglia durò sei ore, dopodiché i dati che rimangono parlano di seimila Libici uccisi e di oltre novemila prigionieri, riferendo di perdite non numerose inflitte direttamente ai Popoli del Mare, i quali a nostro parere non entrarono in uno scontro conclamato con gli Egizi, ma si limitarono ad appoggiare le operazioni terrestri capeggiati da Maraye: Il vile capo dei Libici che fuggì col favore delle tenebre, solo, senza nemmeno una piuma sul capo, a piedi nudi, dopo che le sue mogli erano state fatte prigioniere davanti ai suoi occhi, le vettovaglie catturate, senza più acqua nel suo otre per sostentarsi; il volto dei suoi fratelli è feroce di ucciderlo, i suoi condottieri combattono l’un l’altro, le loro tende bruciano e sono ridotte in cenere14.

Sono questi i fatti su cui è necessario ragionare, poiché suscitano interrogativi macroscopici. L’erronea interpretazione dei Popoli del Mare come popoli che abitano e vivono all’interno o ai margini della regione egea crea una prima difficoltà, insormontabile e insanabile per gli studiosi. Ne era perfettamente consapevole un grande dell’archeologia, l’egittologo William Matthew Flinders Petrie, già un secolo fa: Nella sua A History of Egypt del 1905, W.M. Flinders Petrie mostrò anche una mirabile cautela nell’analisi del problema. Egli è il primo a fare il punto sottolineando che dai documenti del tempo di Mereptah i Libici si sono mostrati essere “lontani dalla barbarie” avendo abbondanza di armi di bronzo e di ogni articolo in argento, per non dire nulla del bestiame da loro stessi catturato. Egli non condivise il comune punto di vista del suo tempo: “…noi non possiamo presumere un’alleanza dei popoli delle opposte rive del Mediterraneo, a meno che qualcosa di molto evidente e inattaccabile possa essere portato come prova”15.

Pur lasciando un vuoto interpretativo, rinviando la possibile conoscenza dei problemi ad un futuro da determinarsi, è dello stesso parere l’autore di una ben più recente opera sui Popoli del Mare, Nancy K. Sanders che scrive nel 1978: I più ampi problemi storici e archeologici concernenti la guerra libica di Mereptah devono essere lasciati da parte ancora a lungo. Da qualsiasi luogo essi giunsero, questi alleati degli Africani, Libici e Meshwesh erano tutti dei “paesi stranieri del Nord” agli occhi egiziani. È un’interessante quesito come essi potessero essere così bene informati su cosa stava avvenendo al di là della linea costiera meridionale del Mediterraneo. Un’alleanza fra le tribù della Libia e gli abitanti delle isole del Nord16 e dell’Anatolia è per questo aspetto sorprendente17.

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Nessuno storico è mai riuscito a conciliare l’ipotesi di una coalizione fra popoli delle isole egee e Libici. L’attacco proviene come ben sappiamo da Occidente, ed è a Occidente che va localizzata la patria dei Popoli del Mare: l’Haou-Nebout. Prima di analizzare uno ad uno i cinque popoli del Grande Verde, è indispensabile chiarire che questi popoli non vivono e non provengono dai luoghi che occuperanno in seguito storicamente – ad esempio gli Shekelesh o Siculi non provengono dalla Sicilia ma vi si insedieranno solo successivamente, determinando il nome che ancora l’isola porta – poiché ad onta di coloro che nell’incomprensione o nella totale distorsione degli eventi hanno cercato di minimizzare il ruolo dei Popoli del Mare, all’indomani dei fatti narrati, questi stessi popoli daranno il nome alle terre e ai paesi che colonizzeranno, un nome che ancora oggi utilizziamo. Accetteremo la comune traduzione dei maggiori egittologi (espressa sempre con qualche riserva) come Gardiner o Breasted, o di altri che hanno approfondito il problema come Gerald Averay Wainwright.

Achei

Akawasha Aqayawas Eqwesh

Sardi*

Sharadash Sherden (Shardana)

Siculi

Shekelesh Shakalus

Lici Etruschi

Luka Lika

Ahhiyawa

Achaioi

Sikeloi Lukka

Turush

Lykyan Tyrsenoi Tyrrenoi

Teresh Tursha

* Considerando che gli Egizi utilizzavano esclusivamente consonanti, il termine risulta nei testi come SRDN, oggi più simile ad una targa automobilistica ma comunque facilmente intuibile.

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Gli Achei sono i più numerosi fra gli alleati dei Libici. Ma di quali Achei si tratta? I Lici erano già conosciuti come popolo pelasgico ed in parte erano sicuramente già stabiliti sulle coste egee dell’Anatolia: le loro incursioni marine da temibili pirati sono testimoniate da una lettera trovata in Egitto a Tell El Amarna, dove il re di Alasya-Cipro lamenta frequenti incursioni dei “lupi” del mare. Avevano inoltre partecipato a fianco degli Ittiti alla battaglia di Kadesh e si erano battuti a fianco dei Troiani nella guerra omerica. Gli Shekelesh appaiono per la prima volta, come avviene per i Tursha, clamorosamente identificati anche da Wainwright con i Tyrsenoi o Tirreni o Etruschi. Siamo ancora lontani dall’epoca in cui li vedremo insediati in quella che sarà la loro sede storica. I Sardi, dai tempi di Ramesse II erano conosciuti come pirati temibilissimi, ce lo conferma Gardiner parlando di Ramesse II: Proprio agli inizi del regno e per la prima volta in testi egizi, troviamo un accenno agli Sherden, pirati che più tardi diedero il nome alla Sardegna, ma che in quell’epoca è probabile abitassero in tutt’altra parte del Mediterraneo. Una stele proveniente da Tanis dice ch’erano giunti “dal mare aperto con le loro navi da guerra e che nessuno era stato in grado di fronteggiarli”. Ci fu probabilmente una battaglia navale in qualche luogo presso le foci del Nilo, perché di lì a poco si vedono fra le guardie del corpo del faraone molti prigionieri della loro razza, riconoscibili per gli elmi sormontati da corna, gli scudi rotondi e le grandi spade con le quali sono raffigurati in atto di uccidere i nemici Ittiti. Poco più di un secolo dopo si trovano molti Sherden che coltivano campicelli di loro proprietà, certo avuti come ricompensa dei servizi militari18.

Possediamo diverse raffigurazioni in cui gli Sherden ricoprono sorprendentemente il ruolo di guardie personali del faraone. Fra queste ne possediamo una in cui fra i capitani della guardia appaiono, oltre agli Sherden, anche alcuni Filistei, popolo che guiderà la seconda invasione dei Popoli del Mare. È indubbiamente enigmatico che degli stranieri ricoprissero una carica tanto delicata, ma non abbiamo riscontrato nessun commento a proposito. Altri documenti chiariscono e ribadiscono l’origine dei Sardi; vengono però tacciati di un’artificiosa e astratta collocazione geografica. Si trova all’epoca di Tuthmosis III e di Akenathon “il mare” e “le isole che sono in mezzo al mare” citate dopo un’evocazione dei quattro punti cardinali, come se esse rappresentassero una specie di quinto punto cardinale che sarebbe il “centro”. Ora, almeno uno dei Popoli del

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Mare, quello degli Sherden, appare in un contesto che sembra trasporlo in questa geografia astratta. La Stele degli Sherden che data dal regno di Ramesse II menziona in effetti questo popolo dopo i quattro punti cardinali, come se esso prendesse qui il posto occupato dal mare in altre enumerazioni. D’altra parte, in epoca ramesside il mare appare sotto i tratti di una divinità rapace e minacciosa dalla quale può sorgere un pericolo in ogni momento19.

Erano audaci guerrieri Haou-Nebout del Grande Verde coloro che si stabilirono in Sardegna, sovrapponendosi alla civiltà nuragica che da secoli popolava l’isola. Non è certo impossibile che essi già da tempo avessero delle basi in Sardegna, ma non riuscendo a spiegare in che modo potessero essere alleati sia dei Libi che dei popoli egeo-anatolici, gli storici ritengono che provenissero da altre aree del Mediterraneo. La convinzione erronea che i Popoli del Mare provenissero necessariamente da un’area territoriale che avesse come fulcro le isole egee, ha sempre impedito di vedere la reale portata di queste invasioni-migrazioni, si è sempre pensato a una coalizione di bande piratesche o poco più. D’altronde, in questi territori non potevano certo vivere popoli numerosi sia per un problema di spazio geografico, sia perché di questi popoli non si è mai rilevata alcuna traccia, né alcun testo vi ha mai fatto riferimento. Non va inoltre dimenticato che il mondo egeo e Creta stessa saranno sconvolti di lì a poco dalla catastrofe dove, al ruolo di primo piano dei Popoli del Mare, si sovrappone la migrazione dorica, tramandataci dai Greci come “il ritorno degli Eraclidi”20. I Dori erano guidati infatti dai discendenti dell’eroe e vantavano diritti su molti regni micenei precedentemente conquistati da Eracle. Siamo giunti ad un punto nodale del flusso della nostra civiltà. Ebbene, mai errore d’interpretazione fu più clamoroso e pernicioso della convinzione che i Dori provenissero dall’interno e dal Nord della Grecia, e ciò in assenza assoluta del benché minimo riscontro archeologico o di altre prove se non la concretezza di una tradizione univoca che raccontava che i Dori invasero la Grecia calando da Nord. Il concetto che assimilava i Dori a robusti montanari dell’Epiro, della Macedonia o di qualche altra area maledettamente nascosta, introvabile dell’area balcanica, ha inquinato le nostre menti inesorabilmente anche di fronte ad evidenze che non lasciano spazio ad alcun dubbio sulla loro eminente natura di Popolo del Mare, come quella di tutti i Greci a cominciare dai progenitori pelasgi. Chi erano i Dori? Montanari o marinai? Ognuno di noi conosce bene la diffidenza dimostrata storicamente dalle popolazioni di montagna nei confronti del mare: un montanaro non si improvvisa marinaio, teme ed evita il mare. Se osserviamo l’area di diffusione dei Dori e dei loro centri urbani, evidenziamo l’esclusiva e strategica collocazione a dominio del mar Egeo, 168

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Creta compresa. Come per i Minoici, i Micenei e gli altri Greci aspiravano alla talassocrazia. È così che inizia un capitolo di La Grecia delle origini di Oswyn Murray: Come intuirono già filosofi conservatori quali Platone ed Aristotele, uno dei fattori di maggior rilievo che condussero al rinnovamento nella Grecia primitiva fu un agente naturale: il mare, che dovette essere un invito costante al contatto e al commercio con altri popoli. Il mondo greco che si costituì dopo le migrazioni del Medioevo fu ben presto piuttosto un’unità di spazi marittimi che di spazi terrestri ed ebbe il suo centro nell’Egeo21.

Esiste però quasi un senso di ribellione dentro di noi, forse effetto del lungo stato di intossicazione mentale, quasi fosse necessaria una prova schiacciante, qualcosa come una testimonianza diretta. Come è possibile, se i Dori provenivano effettivamente dall’orizzonte marino, che la tradizione scritta, come esiste di questi Greci, ci abbia lasciato ineluttabilmente orfani di questa verità? Ebbene, fortunatamente non è così, al contrario, nessuna prova in questo senso può essere più eloquente e clamorosa. Come è possibile constatare in Pausania e altri autori, gli alberi genealogici dei re delle più importanti città doriche hanno un unico capostipite. Questo capostipite universale è: OCEANO. È inoltre una luminosa rivelazione ciò che è stata considerata un’affermazione oscura e criptica. È Omero che nell’Iliade, per ben due volte, lo afferma: …l’acqua corrente del fiume Oceano, che, pure, a noi tutti è padre comune. Da Oceano padre dei numi e da Teti madre di questi22.

Di certo nessun transcaucasico o balcanico o montanaro avrebbe potuto collocare nell’Oceano la consapevolezza della propria origine. Nel tentativo di restituire quindi la dignità che ai Dori compete, considerare la possibilità di identificarli con quegli Akaiawa che rappresentano il più numeroso dei cinque Popoli del Mare non ci appare troppo azzardato. Gli storici che hanno sempre rilevato la sovrapponibilità fra invasioni dei Popoli del Mare e invasioni doriche, hanno ritenuto separate queste due entità, mentre può esistere una perfetta identità. L’annosa problematica mai risolta dagli storici se fossero stati i Dori o i Popoli del Mare i fautori della distruzione della cultura micenea verrebbe così armonicamente risolta. Che per gli Egizi non fosse possibile distinguere i Dori dagli Achei-Micenei è più che logico e plausibile, basti ricordare che gli Eraclidi alla guida dei Dori erano Achei-Micenei loro stessi. Inoltre, il fatto che non com169

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paia il termine “Dori” nei testi egizi non rappresenta un ostacolo, dal momento che Erodoto (1,56) asserisce che i Dori assunsero questo nome solo quando giunsero nel Peloponneso. Furono i nipoti di coloro che combatterono la guerra di Troia, ultima eroica vicenda dell’epopea micenea, a subire l’invasione delle tribù doriche, la quale sembra essersi svolta con una certa gradualità. Le istituzioni doriche sono una realtà completamente antinomica se confrontate alla dispotica struttura palaziale micenea. Non è difficile supporre che gli invasori fossero stati ben accetti dagli strati sociali maggiormente sottoposti alla pressione fiscale del palazzo, poiché la tradizione non li dipinge come veri distruttori. Gli storici e gli archeologi hanno sempre ricercato inutilmente i segni di un’invasione anche culturale, mentre i Dori sembrano inafferrabili in questo senso. Si trattava a nostro giudizio solo di una forma di cultura che si sovrapponeva ad un aspetto più arcaico della stessa cultura (greca): i Dori parlavano un dialetto intelligibile per gli altri Greci, quindi la loro origine etnica risulta saldamente ancorata a quella acheo-micenea. L’identità e la continuità fra Achei Micenei e Dori è evidenziata anche dal fatto che la figura di Eracle diventa l’eroe dorico per eccellenza. Domenico Musti lo testimonia per un’età storica già avanzata: Intanto si verifica che, rispetto ai predecessori Achei, i Dori, in età storica avanzata, sono rappresentati, o anche si rappresentano, in un rapporto di continuità per molti aspetti. Si ha l’impressione, in determinate situazioni (per esempio la Sicione di Clistene), che la cultura dell’aristocrazia dorica sia cultura non meno achea di quella a cui si richiamano gli avversari delle tradizioni aristocratiche doriche23.

Sono i pronipoti di Eracle a guidare i Dori del re Egimio ma, al contrario di ciò che ci si potrebbe aspettare, Eracle è patrimonio di tutti i Greci e venerato anche da coloro che subiscono la forza degli Eraclidi. Il brano che segue, tratto dal Dizionario delle mitologie e delle religioni, lo testimonia: Rimane da dire l’essenziale: Eracle è il più popolare di tutti gli eroi greci – come attesta la frequenza delle sue apparizioni sulla scena comica – e il solo che i Greci venerino. Inoltre, non appartiene ad alcuna città specifica ma all’intera Grecia, che egli, nella sua attività senza tregua, ha percorso in lungo e in largo al punto che in più di una città gli eroi nazionali gli cedono il passo: perfino gli Ateniesi, così attenti alla loro singolarità, erano arrivati a consacrargli un numero maggiore di santuari che non all’ateniese Teseo (cfr. Euripide, Eracle, 1324-1333 e Plutarco, Teseo, 35, 2); ma c’è di più: gli stessi Ateniesi si vantavano di aver superato gli altri Greci onorando Eracle come un Dio (Diodoro IV, 39, 1)24.

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Inoltre, come andremo ad analizzare in seguito, Eracle appare come la figura emergente e più celebrata proprio dai Popoli del Mare. Al momento sia sufficiente ricordare che alcune delle fatiche di Ercole sono vissute oltre i limiti che lui stesso stabilisce con le celebri “colonne”. La scena si svolge in Oceano, in misteriose isole dove appare, come nel caso delle Esperidi, che l’oro cresca come pomi sulle piante. Si dimostra quindi identità culturale, come nel mito di Ercole, ma al tempo stesso è palese anche un distacco profondo. I Micenei, che si erano distaccati dalla comune Madrepatria diversi secoli prima dei Dori, avevano infatti mantenuto una forma di linguaggio più arcaico, come rivelato dal lineare B. I Dori dimostrano di possedere un linguaggio ad uno stadio decisamente più avanzato e si sono evoluti verso una società completamente nuova che senza quegli aspetti gerarchizzati e centralizzati, possiede già il seme di ciò che il mondo greco produrrà come miracolosamente. Elementi culturali collegati all’arrivo dei Dori sono lo stile geometrico nella ceramica, l’uso dell’incenerazione e l’uso del ferro, su cui in seguito torneremo. In luogo dei complessi palaziali emergono le poleis che si alleano in federazioni pronte a combattere anche fra loro, e Creta entra a far parte completamente del mondo ellenico, ma perde ogni forma di unità politica ed economica. Anche il confronto fra Wanax miceneo e Basileus, sia esso dorico o ionico, è lampante. Il primo ha infatti un fondamentale controllo sull’economia fondato su una solida amministrazione gerarchizzata. Questo concetto di strapotere regio è del tutto superato poiché nessun Basileus possiede un’amministrazione, bensì troviamo un consiglio del popolo e un’assemblea che in misura variabile ne limita i poteri. In nessun centro miceneo è attestato nulla di simile: si è dunque già compiuto quel grande passo che porterà alla democrazia. È ormai al tramonto l’era in cui abbiamo visto dominare le caste di principi guerrieri, giunti sulla scena verso il 1750 a.C. circa. È possibile supporre che questa trasformazione della società, che potrebbe aver implicato una vera e propria rivoluzione, sia stata vissuta nella patria d’origine di tutta la genia dei Greci, cioè nell’Haou-Nebout.

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Tav. 18: Anatolia Occidentale nel Tardo Bronzo.

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3.4. Il ritorno degli Eraclidi È il figlio di Eracle, Illo, a guidare il ritorno dei Dori. Era stato infatti adottato come figlio da Egimio, re dei Dori. Non fu però un facile ritorno; dopo aver combattuto contro Euristeo (alle cui dipendenze Ercole aveva compiuto le celebri fatiche) ed averlo ucciso, invase e conquistò il Peloponneso. Dopo un anno però una pestilenza si abbatté su tutta la regione e l’oracolo sentenziò che la colpa era degli Eraclidi e li obbligò a ritirarsi a Maratona (Tricorito). Illo, per non offendere gli dèi, consultò l’oracolo di Delfi che intimò agli Eraclidi di invadere il Peloponneso solo alla “terza messe”. Interpretando l’oracolo, “al terzo anno” Illo invase nuovamente il Peloponneso, fu però ucciso in duello dal re di Tegea. Gli altri Eraclidi richiesero spiegazioni all’oracolo che solo allora svelò che si trattava della terza generazione e non del terzo raccolto. Temeno, alla terza generazione dopo Illo, conquisterà il Peloponneso definitivamente grazie ad una potente flotta (è evidente che non è certo la tradizione a dissociare i Dori dal mare e dall’uso delle navi). Tisameno, figlio di Oreste, figlio di Agamennone, re di Micene, verrà sconfitto ed ucciso dai Dori di Temeno. Solo l’Arcadia e l’Acaia dove si rifugiarono gli Achei in fuga fu risparmiata dalla bellicosità dei Dori. Tucidide calcola ottanta anni dopo la guerra di Troia ed Erodoto afferma che ciò avveniva cento anni dopo il primo tentativo di Illo. la cui comparsa va quindi collocata attorno al 1210 a.C., con una cronologia decisamente sovrapponibile alla prima ondata dei Popoli del Mare. Per molti autori classici25 Illo era vissuto una generazione prima della guerra di Troia, unanimamente collocata in Troia VII. La permanenza in Epiro favorì lo stanziamento di una parte dei Dori in Illiria: gli Illei illirici, di cui Illo era naturalmente l’eponimo. Ne risultò che il dialetto parlato nell’area nord-occidentale della Grecia risultasse pressoché identico al dorico. Le piccole divergenze sono ritenute dai linguisti decisamente recenti26. I Dori vengono tradizionalmente suddivisi in Illei, da Illo figlio di Eracle, Dimani, gli invasori, e Panfili, cioè gli uomini di tutte le tribù. Riportiamo il commento di Pierre Carlier a seguito della discussione indotta dalla tesi di John Chadwick che nega l’invasione dorica: La storiografia greca, a partire da Eforo, insiste sulla frattura che il “ritorno degli Eraclidi” introduce nella storia del mondo greco. Per Eforo, il “ritorno degli Eraclidi” segna la fine dei tempi eroici e l’inizio dei tempi storici. Non si tratta, sembra, di una concezione nuova del IV secolo. Quasi tutte le tradizioni locali, tanto nelle città ioniche o eoliche quanto nelle città doriche, insistono sui rivolgimenti legati a questo “ritorno degli Eraclidi”, e si può affermare che le grandi linee di queste tradizioni sono antiche poiché diversi poeti dell’epoca arcaica – Tieteo, Alceo e Mimnermo specialmente – vi fanno allusione. La maggior parte delle tradizioni locali presenta lo stesso schema:

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a) Fino alla guerra di Troia, e ancora qualche tempo dopo questa guerra, il potere appartiene alle dinastie eroiche. b) Durante le quattro generazioni che seguono alla guerra di Troia si producono numerose migrazioni. Il “ritorno degli Eraclidi” alla testa dei Dori non è la prima tra esse, ma è quella che provoca per le sue conseguenze i più grandi rivolgimenti. I Dori venuti dall’Epiro e dalla Doride hanno conquistato l’Argolide, la Messenia e la Laconia; gli Achei, cacciati da queste zone del Peloponneso, si sono installati in Egialo, da dove hanno cacciato gli Ioni, che si sono rifugiati ad Atene prima di stabilirsi sulla costa anatolica. Queste migrazioni di popoli sono ovunque guidate da dinastie nuove, e da dinastie estranee ai popoli migranti. Gli Eraclidi non sono Dori, i Neleidi originari di Pilo non sono Ioni, i Pentilidi che guidano la conquista dell’Eolide non sono Eoli. Anche quando non si ha migrazione, si ha spesso cambiamento di dinastia. Nella tradizione ateniese, che sottolinea l’autoctonia degli Ateniesi, i re Teseidi si mostrano incapaci di far fronte ai Dori, e sono i Neleidi Melanto e Codro ad accedere alla regalità. La tradizione arcaica è la sola che non menziona né movimenti di popolazione, né cambiamenti di dinastia. c) Terminata questa fase di rivolgimenti, le stesse dinastie regnano fino al loro rovesciamento in epoca arcaica. Benché tutte le dinastie discendano da qualche eroe acheo – Agamennone ed Edipo in certi casi, Neleo per quasi tutti gli Ioni, Eracle per quasi tutti i Dori – conviene sottolineare che lo schema comune alla maggior parte delle tradizioni locali insiste sulla frattura con il mondo eroico. Si trova in queste tradizioni il sentimento profondo di decadenza che appare in Esiodo quando egli oppone la “razza degli eroi” alla “razza del ferro”. Questa acuta coscienza di una frattura tra i “tempi eroici” e i “tempi storici” non è tuttavia sufficiente a spiegare le tradizioni sulle migrazioni. Forti ragioni di propaganda avrebbero probabilmente spinto molti popoli a proclamarsi autoctoni e molte dinastie a pretendersi nate da eroi locali, se tali pretese fossero state possibili. Le tradizioni sulle migrazioni si spiegano probabilmente in parte col ricordo, pur se deformato, di migrazioni reali. Le tradizioni sulle migrazioni ioniche ed eoliche sono confermate nell’essenziale dai dati archeologici. Pare relativamente poco verosimile che la tradizione sul “ritorno degli Eraclidi” e la migrazione dorica, strettamente legata alle migrazioni eoliche e ioniche, sia la sola ad essere pura invenzione27.

Alla tradizionale suddivisione dei linguaggi in eolico-ionico-dorico, i moderni hanno oggi aggiunto l’arcadico-cipriota che manterrebbe maggiori connessioni con il miceneo per la diaspora dei superstiti verso l’aspra regione greca e la lontana Cipro. 174

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I dialetti greci, anche nelle loro forme più arcaiche, sono però molto distanti dal miceneo che, nonostante sia connesso con la fase pre-dorica, risulta dialettalmente come estraneo al dorico. Pur essendo impossibile che l’acheo-miceneo sia il diretto progenitore delle varie forme dialettali emergenti dopo gli avvenimenti del 1200, è necessario ammettere l’esistenza di una precedente koinè da collocarsi nel III-II millennio in cui, accanto al miceneo, dovevano sussistere le forme proto-arcadiche, proto-ioniche e proto-eoliche antenate dei dialetti greci in epoca storica. Il miceneo non ha prodotto i dialetti dorici, eolici e ionici, ma gli antenati di questi hanno condiviso un secolare passato nella patria comune.

3.5. La distruzione di Pilo Siamo giunti al tramonto dei tempi eroici perché gli Eraclidi non sono più ammantati di un’aura leggendaria. I Dori, secondo una tradizione univoca, rappresentano una realtà storica incontestabile, che ebbe un fondamentale impatto sulla lingua, la cultura, le istituzioni. La tradizione letteraria greca che seguirà lo dimostra in modo eclatante. Ci troviamo così di fronte a un popolo che nasce in seno ad un’antica civiltà di cui i Micenei rappresentano il retroterra ma che non ha storicamente nessuna localizzazione, se non teorie che si contraddicono fra loro. Nell’incomprensione delle problematiche abbiamo assistito anche recentemente all’emergere di nuove teorie rivoluzionarie come quella di John Chadwick o quella di Louis Godart che non fanno che alimentare il caos con la loro intelligente stesura. Si è giunti così persino a negare le invasioni doriche in un caso o a stravolgere le cronologie nell’altro. Riportiamo in nota la tesi di Chadwick e quella di Godart nonché alcune ovvie critiche a queste teorie che giungono a negare delle realtà storiche ineccepibili28. Queste teorie nascono naturalmente poiché il livello di civiltà prodotto dagli invasori è tale che la totale mancanza di prove archeologiche della presenza di una cultura greca nel Nord della Grecia o nei Balcani ha sempre lasciato sbigottiti e senza parole. Inoltre nessuno è disposto a credere che qualcosa possa emergere in futuro da questi luoghi. Per colmare questo vuoto è necessaria una dolorosa autocritica su ciò che riguarda la nefasta erronea interpretazione dei Dori come rozze tribù montanare. È in realtà iniziato il più grande esodo della storia, che culminerà dopo quaranta-cinquant’anni sotto il regno di Ramesse III quando ci troveremo di colpo di fronte ad un mondo totalmente cambiato. Va tenuta in considerazione inoltre la pressoché totale mancanza di documenti e fonti a riguardo dei Popoli del Mare se si eccettuano gli Egizi. Poiché il raggio d’azione dei Popoli del Mare abbraccia buona parte dell’area mediterranea e oltre, potrebbe essere avanzata l’ipotesi che non tutti i popoli invasori si 175

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fossero diretti anche in Egitto. Quindi le fonti egizie potrebbero rappresentare un quadro incompleto di un più ampio evento. Ma trascurando ipotesi difficili da verificare è realtà certa che da questa epoca in avanti l’area egea presenta un eterogeneo e sorprendente gruppo di dialetti oltre al dorico, a sua volta riscontrato solo in forme dialettali interdipendenti fra loro. Manca in realtà anche il dorico originario, definito dagli studiosi chimerico: è una tappa rimasta confinata nel passato dell’Haou-Nebout. Dice Pierre Leveque a proposito della diffusione dei diversi idiomi dialettali: “Questa lucidità stessa delle distinzioni tra idiomi prova chiaramente che qui si ha a che fare con la realtà dei movimenti dei popoli e non con un immaginario di epoca posteriore”29. Non vi sono dubbi, i Dori sono il gruppo più compatto ed evidentemente numeroso legato ad un sistema confederativo, ma nel panorama dei tempi che seguono emergono anche altri dialetti greci rappresentati da una ragguardevole consistenza numerica di individui. Inoltrandoci nella problematica linguistica, riscopriremo gli stessi nodi che abbiamo affrontato nell’introduzione a proposito delle lingue indoeuropee. Il quadro territoriale come si configura è rappresentato da un pressoché totale disordine linguistico che non riconosce alcuna regola di continuità (ad esempio dialetto arcadico-cipriota). Tutto ciò avviene necessariamente in caso di migrazione di un intero popolo che si stabilisce nella nuova sede senza ricreare quegli stessi rapporti di continuità o lontananza che nella Madrepatria avevano determinato le maggiori affinità o diversità dialettali. Ciò che si apprezza è una caotica mescolanza dove la ridistribuzione territoriale ha seguito ben altri impulsi che non le affinità dialettali. Per banalizzare, se gli italiani emigrassero in toto in un’altra terra sarebbe impossibile ritrovare la stessa continuità dialettale, i calabresi potrebbero trovarsi vicino ai veneti e i napoletani ai piemontesi. La situazione dei rapporti non sarebbe semplicissima e renderebbe necessario un lungo periodo di adattamento con evidenti tensioni. Questo è ciò che con estrema chiarezza traspare dal panorama dialettale del mondo ellenico. Come già accennato, i Dori che si stabilirono almeno inizialmente in Epiro non condussero subito un’invasione trionfale ma, dopo un primo tentativo che pare sortì un insuccesso, attesero decenni, per cui la loro colonizzazione territoriale si avvicina temporalmente alle successive ondate dei Popoli del Mare del tempo di Ramesse III, creando da sempre un irrisolvibile problema su chi sia stato veramente responsabile delle numerose distruzioni di centri e città (come vedremo in seguito molti elementi di tipo greco sono presenti fra i popoli della seconda ondata come i Dani, i Teucri e gli stessi Filistei). Il pensiero degli esperti può essere riassunto nelle seguenti contraddittorie affermazioni di Anna Sacconi, da cui però emerge evidente l’esigenza di uno stretto legame delle problematiche: 176

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La fine del XIII sec. a.C. è caratterizzata, nel Mediterraneo orientale, da una serie di avvenimenti che sconvolgono profondamente il quadro politico dell’Egitto, della costa siro-palestinese e dell’Anatolia. In tale periodo, le minacce che le tribù chiamate nei documenti egiziani “Popoli del Mare” e provenienti da varie zone dell’Europa centrale30 e delle coste del Mediterraneo, fecero pesare sull’Egitto, sulla costa siro-palestinese, sull’Anatolia e su Cipro non poterono non avere ripercussioni profonde anche sulla Grecia: non è un caso che in tale epoca, attorno al 1200 a.C., caddero i regni micenei del continente greco31.

Di queste distruzioni una, attribuita dai più ai Dori, riveste capitale importanza per l’archivio che ci è giunto. Si tratta dell’archivio di Pilo in Messenia che giudicando dal catalogo delle navi dell’Iliade rappresentava a quei tempi la seconda forza navale dopo Micene, ed era guidata dal celebre Nestore. Verso il 1200 a.C. questo potente regno miceneo sarà distrutto totalmente e mai ricostruito. È un miracolo che il fuoco giunto sino all’archivio abbia permesso alle tavolette di creta, cuocendole, di arrivare sino a noi in condizioni di perfetta leggibilità. Oltre a svelare una macchina burocratica dello Stato che registra tutto ciò che riguarda i beni dello Wanax con una precisione ossessiva, sono registrati gli ultimi giorni di Pilo e l’angoscia di un imminente pericolo. Pilo è il primo dei regni micenei a cadere, Creta e Micene saranno distrutte dopo una cinquantina d’anni. Le preziose tavolette conservate grazie all’incendio che ha improvvisamente spezzato il meccanismo di registrazione degli apparati dello Stato (sono state trovate tavolette non completate) ci svelano una situazione di tale emergenza da rendersi indispensabile la requisizione del bronzo dei templi per la fabbricazione di armi, mentre si preparano sacrifici straordinari. È evidente una grande penuria di metalli, poiché in altre tavolette si asserisce che solo un terzo dei duecentosettanta frabbri-bronzieri presenti nel territorio della Messenia è fornito di bronzo e in grado di produrre armi. Dal momento che sappiamo bene che le materie prime come rame e stagno dovevano essere necessariamente importate, risulta evidente la completa interruzione delle rotte commerciali marittime. Più interessanti ancora sono delle tavolette chiamate O-ka (contingente militare) che rivelano da dove proviene il pericolo. Esse dimostrano che l’estrema gravità della situazione perdurò al punto tale da essere completamente registrata dalla scrupolosa burocrazia micenea che adottò delle contromisure nel tentativo di contenerla. Non si trattò quindi di un pericolo improvviso ma di una terribile preannunciata minaccia, che quando si scatenò pose fine al regno di Pilo nonostante le estreme misure di difesa adottate. Ce ne parla Sacconi: Una serie di cinque testi di Pilo, le tavolette An 657, 519, 654, 656, 661, tratta della dislocazione, lungo tutta la costa del regno di Pilo, di dieci contingenti di guardie costiere.

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[…] È fuori di dubbio che questi documenti siano da collegare con la situazione d’emergenza vissuta dal regno di Pilo nell’epoca in cui questi testi furono redatti. In relazione a tale situazione d’emergenza si possono fare a partire da questi testi, le seguenti considerazioni: 1) dall’intestazione di tale serie di tavolette costituite dall’espressione (di An 657.1)32: “così i sorveglianti difendono le regioni costiere”, appare che il palazzo aveva disposto una serie di osservatori lungo il litorale messenico per sorvegliare eventuali spostamenti di personale e di truppe nemiche; 2) dall’esame dei toponimi che appaiono indicati in questa serie di testi appare che tali osservatori sono stati disposti lungo tutti i ca. 150 km della costa del regno di Pilo; 3) dall’esame numerico dei dieci contingenti di guardie costiere (le dieci O-ka sono composte da dieci comandanti, uno per ogni O-ka, un certo numero di ufficiali – in tutto 48 –, alcuni gruppi di soldati – non meno di 780 uomini – e undici e-qe-ta cioè gr. Hepetes plur. hepetai, che dovevano essere degli ufficiali di collegamento tra le guardie costiere e il palazzo). […] Per concludere, lungo le coste della Messenia, gruppi di osservatori così organizzati, non dovevano far parte della normalità33.

Gli elementi desumibili dai testi di Pilo chiariscono incontestabilmente che il nemico proveniva dal mare: di chi si trattava quindi? Poiché la maggior parte degli studiosi, anche per ciò che riferisce la tradizione, ritiene che Pilo sia stata distrutta dai Dori, risulta evidente che questi dovevano possedere una flotta potente e che attaccavano dal mare sin dal loro primo apparire (altro che montanari!). L’allarme improvviso a cui fu sottoposto tutto il mondo miceneo è testimoniato anche dalla costruzione di un forte bastione difensivo sullo stretto di Corinto. Altri pensano che le distruzioni siano da attribuirsi alla seconda ondata dei Popoli del Mare che dopo circa cinquant’anni dilagheranno pressoché dovunque, ma questi fatti dovrebbero essere successivi anche se di poco34. Si aggiunge quindi un importante elemento sia archeologico che testuale la cui ineccepibile rilevanza consolida definitivamente il legame fra Dori, Greci e il mare, elemento in cui si esprimeva e si esprimerà il loro potere. Ricordiamo ancora una volta che i Greci in epoca classica consideravano lunghe e perigliose le distanze su terra, brevi e sicure quelle su mare. I secoli che seguiranno questi avvenimenti sono considerati come un’era buia ma non potrebbe essere altrimenti. Sarebbe imprudente preconizzare che i tempi di assestamento di un fenomeno migratorio che causò la fine dell’Era del Bronzo, non fossero proporzionali all’entità della migrazione stessa, cioè grandiosi. La tradizione e Tucidide stesso lo con178

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fermano con determinata e assoluta convinzione. Un inevitabile innescarsi di reazioni a catena che solo dopo due secoli lascerà una visione più nitida del nuovo panorama di forze. Per fornire un esempio, gli Etruschi impiegheranno molto tempo a trovare la loro definitiva seconda patria dopo un primo apparente insediamento in Asia minore (sia a Tarsos in Cilicia che a Lesbo). Oltre alla loro tradizionale origine pelasgica, Erodoto li faceva provenire dalla Lidia e molti scrittori classici fra i quali Virgilio avvicinavano fortemente gli Etruschi ai Troiani. Noi siamo convinti di questa affinità e la somma scienza etrusca di connettere il terreno col divino gli riconosceva quella particolare nobile atavicità che contraddistingueva le più antiche famiglie pelasgiche. I documenti romani che riguardano i più remoti costumi etruschi sono tutti concordi nell’affermare che esercitavano la pirateria come attività principale, considerandola addirittura onorevole se non lodevole. Questo li fa decisamente assimilare ai Greci come ci testimonia Tucidide: Poiché in antico, i Greci e i barbari abitanti le regioni costiere del continente e quelli che erano nelle isole, quando cominciarono a intensificarsi i traffici per mare si volsero alla pirateria. Li guidavano uomini molto decisi, tutti intenti a procurare guadagni per sé e cibo per la folla imbelle; piombando d’improvviso sulle città indifese, perché senza mura, e sulle popolazioni disperse in villaggi, le saccheggiavano e traevano di qui la maggior parte dei mezzi per vivere. Né un tal genere di attività aveva alcunché di vergognoso a quei tempi, anzi arrecava piuttosto una certa gloria. Ce ne danno una prova alcune popolazioni del continente, che ancora oggi si ascrivono a vanto di esercitare la pirateria con destrezza e anche gli antichi poeti i quali, dovunque approdino i loro eroi, fanno loro rivolgere sempre la stessa domanda: siete pirati? Senza che coloro che vengono interpellati respingano come indegna tale supposta occupazione, né coloro che rivolgono la domanda abbiano l’aria di considerarla offensiva e vergognosa. Anche sul continente si praticava la pirateria, e ancora oggi in molte regioni della Grecia si vive alla maniera antica; ad esempio, presso i Locri Ozolii, gli Etoli, gli Acarnani e la regione circostante. L’abitudine di questi abitanti del continente di portar armi addosso è rimasta dall’uso antico della pirateria35.

È affascinante sottolineare che indirettamente Tucidide asserisce che gli abitanti della Grecia continentale prima di popolarla erano anch’essi pirati, cioè Popoli del Mare, e anche dopo secoli ostentavano con fierezza quegli atteggiamenti e costumi forgiati sul mare. Anche nel poema omerico si chiede ad Ulisse se sia un pirata di Creta, escludendo qualsiasi senso dispregiativo del termine. È evidente che un periodo assai lungo di instabilità e fermento continuo seguì l’invasione 179

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dei Popoli del Mare, che fedeli alla loro natura per mare esercitavano il loro predominio.

3.6. Testimonianze omeriche della presenza di elementi dorici in epoca micenea È certo possibile rispondere anche in altro modo a chi nega l’invasione dorica come Chadwick. È evidente che la teoria dell’eminente studioso negherebbe la presenza in epoca micenea dei Dori e delle istituzioni doriche come la suddivisione in tre tribù. Esistono al contrario varie testimonianze che i Dori in quest’epoca erano già un popolo differenziato tradizionalmente in tre tribù. Risulta inoltre evidente che alcuni di loro solcavano i mari, compreso il Mediterraneo, prima della migrazione definitiva. Lo testimonia Omero nell’Odissea quando elenca le lingue parlate a Creta: acheo, eteocretese, cidonio, dorico e pelasgico. Non solo: anche nel catalogo delle navi dell’Iliade esiste una chiara testimonianza che Rodi con Tlepolemo e l’isola di Cos con altri Eraclidi erano già state dorizzate in epoca micenea. Leggiamo da Musti: Abbiamo il passo su Tlepolemo del Catalogo delle navi (Iliade II 653 sgg.), che allude a tipiche istituzioni doriche, come le tre tribù, cioè allude ai Dori senza nominarli; perciò una specifica tradizione rodiese, che, attraverso Tlepolemo, fa anacronisticamente rimontare i tratti dorici fino all’epoca micenea (il poeta adotta insomma una soluzione intermedia, una soluzione di moderato e complesso anacronismo, che rende omaggio alla condizione culturale di Rodi nella sua epoca, senza strafare, per quanto riguarda il nome dei Dori). Analogamente, il poeta di Odissea XIX 177 tiene conto, nominando i Dori, della loro presenza nell’isola al suo tempo (nel VII secolo) e in ciò commette con ogni probabilità un anacronismo del tipo (anche se un po’ più forte) di quello commesso dal Catalogo. […] In realtà la struttura dei vv. 676-680 del Catalogo delle navi pone seriamente il problema di una possibile affinità di atteggiamento del Catalogo nei confronti delle origini di Rodi e di Cos. Come abbiamo già detto, Tlepolemo, a una lettura del testo priva di preconcetti, appare, per tutto ciò che lo connota, un dorico ante litteram. Questo significa che il poeta di questi versi del Catalogo cerca di mettere d’accordo, con un complesso anacronismo, la realtà dorica dell’isola ai suoi tempi (che fa trapelare attraverso le sole connotazioni) con la definizione (e denotazione) cronologica adeguata alla cronologia predorica della guerra troiana36.

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Giudicare come un “complesso anacronismo” la realtà che riguarda l’originaria colonizzazione dorica in epoca micenea delle isole di Rodi e di Cos rappresenta un’invenzione ingiustificabile che dimostra quanto si diventi inesorabilmente asserviti anche ad un paradigma dalle fondamenta di sabbia. Innanzitutto sarebbe incomprensibile una tale invenzione omerica, che non potrebbe avere nessun tipo di giustificazione, anzi, avrebbe inesorabilmente inficiato l’intero Catalogo delle navi. Ma contrastare le affermazioni omeriche era uno stato di necessità dal momento che invalidavano il teorema per cui Dori era sinonimo di montanari. L’occupazione di isole in tempi tanto precoci avrebbe messo drammaticamente in crisi tale paradigma indiscusso. Molto più plausibile è al contrario la possibilità che alcuni nuclei dorici fossero presenti sulla scena egea prima del ritorno degli Eraclidi e che rispettassero istituzioni già pienamente doriche in epoca micenea, con ciò che ne consegue.

3.7. Percorsi dei Pelasgi e dei Popoli del Mare in Mediterraneo Per tentare di seguire meglio il percorso dei Popoli del Mare e soprattutto dei Dori che prima di invadere l’Ellade sembrano stazionare in Epiro, è necessario tornare all’invasione dell’Egitto di Mereptah dove emerge chiaramente che il numero dei Popoli del Mare uccisi o presi prigionieri risulta decisamente basso. Per questo motivo è opportuno ritenere che si limitarono ad appoggiare l’attacco di Maraye, senza esporsi direttamente. Non dimentichiamo che si trattava di interi popoli che successivamente abiteranno estese regioni conferendogli il nome. La chiave di comprensione dei successivi iter migratori e degli avvenimenti a seguire potrebbe essere rivelata da alcuni elementi: il comportamento migratorio degli Shekelesh nelle indicazioni fornite dagli storici Dionigi di Alicarnasso, Tucidide e Stefano Bizantino, le testimonianze archeologiche che hanno lasciato sul territorio, le tipiche lunghe spade utilizzate sia da Dori che dagli altri Popoli del Mare. Si tratta di particolari spade che non risultano nel mondo miceneo, ma gli studiosi sono concordi nel riconoscerle sia come importate dai Dori sia come utilizzate dai Popoli del Mare. Sono conosciute come le “spade terribili”, o Griffzungenschwerter (lett. “spade con impugnatura a lingua d’oca”). La diffusione di queste “spade terribili” si concentra successivamente in tutte le regioni che saranno doriche e lungo il raggio d’azione dei Popoli del Mare nel Mediterraneo orientale. Questo naturalmente non fa altro che avvalorare la nostra ipotesi di identità fra Dori e Popoli del Mare. Stefan Hiller ci parla del percorso delle spade terribili: Come ha osservato tra gli altri N. Hammond, i Griffzungenschwerter – nelle loro varianti più antiche dei tipi Catling I e IIa – sono in larga mi-

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sura assenti dall’area tessalica e centro-greca, come pure dal territorio della Macedonia, che confina a Nord con quest’area. Ciò dimostra che questo tipo di spada è penetrato nell’Egeo per il tramite della costa adriatica, dell’Epiro e delle isole dello Ionio37.

Siamo di fronte ad un’indicazione importantissima: queste spade giungono attraverso il mare Adriatico in Epiro, esattamente come riteniamo sia successo per i Dori. Lo stesso percorso sembra essere compiuto anche da altri Popoli del Mare e da genti pelasgiche. La tradizione e Tucidide ci raccontano infatti che gli Shekelesh o Sikeloi raggiunsero la Sicilia, a cui diedero il nome, discendendo dalla penisola italiana. Secondo la tradizione i Siculi sarebbero stati presenti in Italia anche prima dell’invasione dei Popoli del Mare. Dagli storici viene indicata la possibilità di un loro ingresso nella penisola dal medio Adriatico. La tradizione non è univoca a riguardo del momento in cui calarono in Sicilia, che risultava popolata da Sicani di origine iberica. Tucidide38 dice infatti che ciò avvenne 300 anni prima che i Greci sopraggiungessero sull’isola collocando l’evento dopo l’invasione dei Popoli del Mare verso il 1033 a.C. ca., mentre una più ampia tradizione riportava questi fatti alla terza generazione che aveva preceduto la guerra di Troia. Ciò che traspare in Sicilia verso la metà del XIII sec. ci indica chiaramente massive invasioni che costrinsero ad un profondo mutamento degli insediamenti costieri che, fiorenti fino a quest’epoca travagliata, scomparvero come d’improvviso. Dopo aver abbandonato le coste, queste popolazioni trovarono rifugio in aspre e impervie zone dell’entroterra. Il più importante di questi grossi agglomerati è rappresentato da Pantalica, luogo scelto per rispondere ad evidenti esigenze di difesa. In un panorama di incredibile potenza suggestiva questo insediamento è protetto da baratri lungo le cui pareti impervie ancora oggi ammiriamo non senza brividi le brulicanti “grotticelle mortuarie” scavate nella roccia. La posizione di Pantalica, così impervia e disagevole, lontana da aree facilmente coltivabili, ci costringe a pensare ad uno stato di guerra o comunque ad una condizione di estremo pericolo per la sopravvivenza di queste genti. Fino a questo momento, trecento anni prima che vi giungessero i Greci, la Sicilia, priva di risorse minerarie, era stata considerata molto meno interessante delle piccole Eolie. Vi sono elementi sufficienti quindi per ritenere possibile che almeno due dei Popoli del Mare si siano diretti verso il basso Adriatico, anche se le distruzioni che riguardano la Sicilia sembrano essere di poco antecedenti, nel qual caso l’isola potrebbe essere stata la prima a subire la forza dei Popoli del Mare che provenivano in massa da Occidente. La scelta da parte dei Dori poteva essere dettata dal fatto che l’Epiro, pur essendo a ridosso dell’area d’influenza micenea, risultava privo di seri ostacoli difensivi e scarsamente popolato, anzi la presenza dell’antichissi182

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mo santuario pelasgico di Dodona affrancava quell’area e la rendeva una base sicura. Ciò che gli archeologi affermano a riguardo delle “spade terribili” è in armonia con la tradizione che appunto narra della discesa dei Dori dal Nord, dall’Epiro. Dionigi di Alicarnasso ci dà piena conferma di un’ampia penetrazione dell’Adriatico anche da parte di Pelasgi dopo un preliminare stazionamento in Epiro, in epoche decisamente prossime alla prima migrazione dei Popoli del Mare, nonostante esista un’estrema difficoltà a stabilire una cronologia affidabile. Erano stati indotti a lasciare la Grecia, dove si erano da tempo stabiliti, da nuove ondate di popoli che saranno poi identificati come genti greche. Ecco cosa ci riporta Dionigi di Alicarnasso, che riteneva giustamente gli Etruschi di origine pelasgica, di queste primissime frequentazioni dell’alto Adriatico: I Pelasgi… lasciarono la regione [cioè l’area di Dodona in Epiro] accogliendo l’ordine dell’oracolo di navigare alla volta dell’Italia, che allora si chiamava Saturnia. Allestirono numerose navi e si diressero verso lo Ionio, mettendo cura di raggiungere le regioni più prossime dell’Italia, ma, a causa dei venti meridionali e della scarsa conoscenza dei luoghi, essi furono portati oltre e ormeggiarono presso una delle foci del fiume Po, di nome Spina. Qui lasciarono la flotta e la parte della gente che era meno in grado di sostenere gravi sforzi fisici, lasciando un presidio sulle navi, per garantirsi una possibilità di fuga nel caso che l’impresa non fosse loro riuscita. Quelli che erano rimasti nella regione di Spina circondarono l’accampamento con una cinta e rifornirono le navi di vettovagliamenti. Quando parve loro che le faccende si mettessero bene, fondarono una città che aveva lo stesso nome della foce del fiume39.

Non è difficile intuire che dopo aver seguito un piano di invasione come popoli coalizzati, la stessa coalizione fosse destinata a sciogliersi, mentre i popoli si trovavano nella difficile e contraddittoria scelta di una regione dove stabilirsi in sede definitiva. Nulla da meravigliarsi quindi dei tentativi che richiesero tempi lunghi, come nel caso dei Dori, per la presenza della forte opposizione micenea, o lunghe peregrinazioni come quelle dei Siculi, che discesero tutta la penisola, o gli Etruschi, che forse soggiornarono a Lesbo e in Lidia prima di approdare in Italia. Dionigi di Alicarnasso ci riporta anche il pensiero di Ellanico di Lesbo che riteneva i Tirreni della famiglia pelasgica: Ellanico di Lesbo dice che i Tirreni prima si chiamavano Pelasgi e che presero il nome che ora hanno dopo essersi stanziati in Italia. Egli fa… questo discorso: “Frastore fu figlio di Pelasgo, loro re, e di Menippe, figlia di Peneo; figlio di Frastore fu Amintore, di Amintore fu Teuta-

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mide, di Teutamide fu Nanas. Durante il regno di quest’ultimo, i Pelasgi furono scacciati dal loro paese dai Greci e, lasciate le loro navi presso il fiume Spinete, nel golfo adriatico, presero Cortona, una città dell’interno, e partiti di lì, occuparono quella che noi ora chiamiamo Tirrenia40.

Successivamente allo sbarco in Adriatico, sarebbe stata seguita la via di penetrazione che segue il corso del fiume Savio in continuità con la valle del Tevere al fine di raggiungere il Tirreno. Esiste un’ulteriore affascinante testimonianza riportata da Stefano Bizantino il quale, parlando a proposito delle origini delle genti della Sicilia, afferma che dèi naviganti si diressero all’oracolo di Dodona in Epiro per consultarlo a proposito della importante questione sui nuovi territori dove insediarsi. Eccezionalmente egli identifica l’origine di questo “ethnos” siculo dei Galeoti con i leggendari Iperborei, cioè coloro che vivono negli estremi settentrionali del mondo, oltre il freddo vento di Borea. Questa testimonianza che riguarda i mitici Iperborei verrà approfondita in un capitolo successivo; è comunque fondamentale sottolineare che testimonianze da diverse fonti pongono il santuario pelasgico di Dodona come tappa fondamentale di questi popoli, che mostrano quindi di possedere lo stesso background culturale che si appaleserà anche nel comune culto di Eracle. Da Bizantino: Galeotai. Ethnos della Sicilia… da Galeote figlio di Apelle e di Temistò, figlia di Zabio re degli Iperborei… Si racconta che Galeote e [suo fratello] Telmesso vennero dal paese degli Iperborei. Il dio di Dodona vaticinò loro di navigare l’uno verso l’Oriente, l’altro verso l’Occidente e di innalzare un altare là dove un’aquila avrebbe rubato, mentre sacrificavano, le ossa delle vittime. Galeote giunse così in Sicilia e Telmesso in Caria…41

Ecco ciò che pensa il Garbini di questi fenomeni migratori: L’arrivo dei “Pelasgi” alle foci del Po è un fenomeno che trova il suo esatto parallelo nell’arrivo dei Sardi sulla costa sud-occidentale della Sardegna e in quello di Filistei, Teucri e Sardi in Palestina. Che in Sardegna siano giunti dei Sardi lo deduciamo dal nome stesso dell’isola; quali erano i gruppi sbarcati presso Spina non è troppo difficile da indovinare, dal momento che nella zona si trova un toponimo che con ogni probabilità risale ai Filistei e che secondo Dionigi i Siculi attraversano tutta la penisola italiana prima di stabilirsi in Sicilia. Filistei e Siculi, dunque, ma quasi certamente anche Achei: la forte connotazione greca dei Pelasgi, e in particolare la loro origine peloponnesiaca sottolineata da Dionigi, che cita specificamente la città di Argo (I, 17), e le tradizioni relative all’argivo Diomede, che dopo la guerra di Troia fondò appunto Spina e Adria, testimoniano il persistere di una tradizione che solo superficialmente può ve-

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nire considerata tarda, mentre ha i suoi presupposti nella situazione storica determinatasi nel XIII sec. a.C. (non dimentichiamo gli Achei che combatterono al fianco dei Libi contro il faraone Mereptah)42.

3.8. Haou-Nebout, ultimo atto Da Vercoutter: L’espressione “isole che sono nel centro del Grande Verde” designa in epoca ramesside il paese d’origine dei “Popoli del Mare” come dimostrano i testi del tempio di Medinet-Habu che dichiarano: “Gli stranieri nordici che erano nelle loro isole” e con maggior precisione: “Quanto agli stranieri venuti dal loro paese, nelle isole che sono nel centro del mare…”43.

Così è scritto a Medinet Habu: Non vi erano stati ribelli in precedenza nelle terre lontane (le isole dell’Haou-Nebout); non erano stati visti sino ai tempi dei re; […]. I loro cuori e le loro gambe se ne andarono dalle loro terre, i loro luoghi cambiavano di posto, non stavano fermi e tutte le loro membra venivano spronate come se un pungolo fosse stato dietro di loro44.

Siamo giunti all’ultimo atto delle isole del Grande Verde e dell’HaouNebout. La migrazione totale e definitiva è stata accuratamente predisposta e attende quel segnale che i popoli sanno giungerà irrimediabilmente. I testi egizi utilizzano, applicati alle “isole”, termini che significano movimento, oscillazione. “Le isole non avevano più riposo” viene affermato nel tempio di Medinet Habu. È difficile non desumere da queste espressioni che continui movimenti tellurici tormentassero le isole Haou-Nebout, le quali caddero repentinamente nel caos. Al termine di questa massiva ondata d’invasione-migrazione l’HaouNebout e le isole del Grande Verde, come abbiamo già visto dall’estratto di Donadoni (cfr. infra, p. 161) scompariranno dall’orizzonte egizio, non se ne parlerà più, e gli stessi termini non verranno più utilizzati se non in formule che vengono ricopiate dai testi più antichi, entrando quindi a far parte esclusivamente di un vocabolario antiquario. Gli Haou-Nebout, che conoscevano perfettamente il Mediterraneo e i regni che lo popolavano, concepirono un accurato disegno d’invasione e progettarono nei particolari una manovra a tenaglia per schiacciare l’Egitto, ultimo baluardo di un mondo mediterraneo spazzato via dalla furia dei Popoli del Mare. Ma non si tratta di una furia cieca, rozza e barbara, 185

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poiché nuove armi e nuove tecnologie vengono utilizzate, come nel caso del ferro, e l’isolamento a cui successivamente sarà costretto manterrà l’Egitto in una anacronistica Età del Bronzo mentre il resto del Mediterraneo sarà animato da fermenti evolutivi che apriranno la via verso una nuova era. Il mondo austero e severo dei principi guerrieri all’apice di una piramide di tipo quasi feudale che ha caratterizzato più di cinque secoli di storia viene irrimediabilmente cancellato e sostituito da confederazioni di libere poleis. È opportuno sottolineare più volte come tutti questi Popoli del Mare possiedano profondamente questo atteggiamento di tipo “federalista”. Dalla Pentapoli filistea alla Dodecapoli etrusca attraverso la confederazione delle città lice, alle varie poleis greche e alle confederazioni sarde, si tratta di un modello non certo casuale che dall’Haou-Nebout si propagherà mutando definitivamente il corso della storia. Gli Egizi, testimoni della forza devastante che dovunque si è abbattuta, ci lasciano a eterna memoria le immagini e le iscrizioni del tempio di Medinet Habu: I paesi stranieri ordirono un complotto nelle loro isole. La guerra si diffuse contemporaneamente in tutti i paesi e li sconvolse45, e nessuno poté resistere alle loro armi, a incominciare dal Khatti, Kode, Karkamis, Arzawa e Alasiya… Un attendamento fu posto in una località di Amor ed essi devastarono e spopolarono quel paese come se non fosse mai esistito. Essi avanzarono verso l’Egitto con le fiamme davanti a sé. La loro confederazione era formata dai Peleset, Tjekker, Shekelesh, Danu e Weshesh, ed essi s’impossessarono dei paesi di tutto l’orbe terrestre, con cuore risoluto e fiducioso: “il nostro piano è compiuto!”46.

Gli Egizi non lasciano dubbi: è nelle isole che è stata ideata e progettata l’invasione, un disegno attentamente studiato e valutato nella perfetta conoscenza sia della geografia dei luoghi che delle forze in campo. Siamo quasi increduli per l’immaginario che si dischiude: chissà in quale reggia delle isole si sarà tenuto quel massimo vertice militare che diede il via ad un’operazione tanto grandiosa da non avere paragoni storici possibili? Tutto viene travolto dalle loro armi, invincibili in quanto appartengono già alla successiva Età del Ferro, ma anche quelle di bronzo presentano una netta evoluzione, come visto a proposito delle “spade terribili”. Mentre l’Egeo e Creta venivano conquistati dai Dori, il potente regno ittita (Khatti) era spazzato via, così come il regno luvio di Arsawa, la Cilicia (Kode), Cipro e la Siria con molte delle sue importanti città-stato come Karkemish. I popoli del Mare raggiunsero così la costa palestinese, quella terra di Diahi molto prossima all’Egitto dove avverrà la grande battaglia 186

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terrestre. Più importante e risolutiva, sarà però quella navale che si combatterà addirittura all’interno delle bocche del Nilo. Dai testi, gli scontri appaiono come due momenti pressoché simultanei. Gli Egizi affermano che i Popoli del Mare si erano impossessati di tutti i paesi dell’orbe terrestre e che il loro piano sembrava essere giunto a compimento. Per rendere universale questo dominio era necessario affrontare anche l’Egitto, il più potente regno del mondo mediterraneo, ed incredibilmente ne seguirono un piano di guerra ed un disegno d’invasione progettato con un doppio attacco che probabilmente fallì solo per l’eccessiva convinzione di una già certa vittoria: “Misero le mani sui paesi per tutto il giro della terra, e i loro cuori erano sicuri e fiduciosi: ‘I nostri piani avranno successo!’”47. A differenza degli Hyksos che più di cinquecento anni prima strariparono nel Delta, Ramesse III riuscì ad arginare l’avanzata terrestre ed a cogliere una fulgida vittoria navale all’interno delle bocche del Nilo. Le navi nemiche, o perché attirate ad arte con qualche manovra strategica, o perché fiduciose di possedere una supremazia assoluta, penetrarono un braccio del grande fiume limitando immediatamente la propria capacità di manovra, trovandosi in molti su imbarcazioni pesanti. A tutto ciò si aggiunse la strategia di Ramesse III, che aveva disposto numerosi arcieri sulle rive a tempestare di dardi le navi nemiche arpionate da altrettante funi immobilizzanti. Un nugolo di piccole ma manovrabilissime imbarcazioni egizie ebbe decisamente la meglio, come si apprezza nell’incredibile raffigurazione del tempio di Medinet Habu i cui testi recitano: Gli stranieri che venivano dal loro paese e dalle isole del centro del Grande Verde mentre avanzavano verso l’Egitto e i loro cuori confidavano nella forza delle loro mani, una trappola fu preparata per loro, per catturarli. Coloro che entrarono nelle bocche del Nilo furono presi48.

E ancora: Certo, gli stranieri dei paesi del Nord, che provenivano dalle loro isole tremavano nei loro corpi. Allorquando costoro penetrarono nei canali delle bocche del Nilo (le loro armi furono disperse nel mare)49.

È giusto ricordare che questa, che non fu certo la prima battaglia navale della storia, sarà come tutte le altre completamente dimenticata. Tucidide affermava infatti che la prima battaglia navale della storia era stata combattuta fra i Corinzi e quelli di Corcira nel 680 a.C. ca., testimoniando come e quanto l’uomo sia condannato a smarrire il ricordo delle proprie vicende, affondando invece nella presunzione di sapere e conoscere. È peraltro certo che se il tempio di Medinet Habu non si fosse conservato meglio degli altri e miracolosamente non possedessimo il Papiro Harris, con 187

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tutta probabilità saremmo più che convinti e fedeli a ciò che Tucidide affermava senza esitazione. Sono sei i Popoli del Mare sopraggiunti sulla scena al tempo di Ramesse III, di cui tre completamente sconosciuti: 1 - Sherden 2 - Shekelesh 3 - Danuna 4 - Tjekker 5 - Peleset 6 - Weshesh

Shardana Shikelau Denien Sakar Paleset Weshesh

Sardi Siculi Dani-Danai Teucri Filistei Ittiti?

Tjekker, Peleset e Weshesh risultano completamente sconosciuti e apparentemente generati dal nulla. Riteniamo ora opportuno che sia l’autorevole Gardiner a fornirci il quadro della situazione, che rispecchia la visione di gran parte degli storici: L’attacco principale, datato dell’anno 8, fu sferrato contemporaneamente per terra e per mare. Tra le forze nemiche si trovavano di nuovo gli Sherden, e anche questa volta vi sono immagini di guerrieri della stessa razza che combattono sia al fianco degli Egizi che contro di loro. L’impero ittita, già da tempo moribondo50, fu cancellato, e con esso gli alleati dell’Anatolia che avevano partecipato alla battaglia di Qadesh. Dei nemici di Mereptah, forse solo gli Shekelesh presero parte alla nuova guerra; un’altra tribù, detta dei Weshesh, non è per noi che un nome. Di grande interesse, sia per i grecisti che per gli studiosi di storia orientale, sono tre popoli che compaiono qui per la prima volta, per quanto ci sia forse nelle lettere di El-Amarna un riferimento ai Danu, o Danuna, certo i Danai dell’Iliade. Assai più importanti sono comunque i Peleset e i Tjekker, perché la loro incursione in Palestina fu almeno in parte vittoriosa ed ebbe carattere permanente. In un racconto che risale a circa un secolo dopo, i Tjekker figurano come pirati che occupavano il porto di Dor, ma non si sa altro su di loro, né sulle origini del nome che portavano. I Peleset per contro sono i Filistei che diedero il nome alla Palestina, avversari degli Ebrei e alternativamente conquistati e conquistatori, e il cui nome ha ingiustamente assunto un significato spregiativo nel linguaggio moderno. Secondo la tradizione, venivano da Caftor o Creta, ma quest’isola fu forse solo una tappa nel loro movimento migratorio. Nei rilievi di Medinet Habu, sia loro che i Tjekker hanno in testa acconciature di piume e portano scudi rotondi. L’umiliante sconfitta degli aggressori è stupendamente rappresentata nei bassorilievi, e in particolare la battaglia navale è un pezzo unico nell’arte egizia. (Tav. 19) […]

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L’artista è riuscito a rappresentare in una composizione unitaria le varie fasi del combattimento. Per prima cosa si vedono i soldati egizi che attaccano impavidi dal ponte delle navi; di fronte a loro, sopra un vascello nemico immobilizzato con rampini, regna la più tremenda confusione: due guerrieri stanno cadendo in acqua, mentre un terzo guarda verso la riva quasi sperando nella pietà del faraone. Ma un altro vascello è colpito da una pioggia di dardi lanciati dalla sponda. Ora la flotta egizia è sulla via del ritorno, recando a bordo numerosi prigionieri legati e impotenti; uno di loro, che tenta la fuga, è afferrato da un soldato egizio sulla riva. Risalendo il fiume la flotta incontra un vascello capovolto, con l’intero equipaggio caduto in acqua. La disfatta dell’invasore è completa; sono bastate nove navi a rappresentare l’avvenimento, e non resta che narrare la presentazione dei prigionieri ad Amon-Re e gli altri particolari del trionfo51.

Una riflessione è indispensabile: la forza d’urto dei Popoli del Mare è inarrestabile, le loro armi sconosciute, il loro numero incalcolabile. Popoli completamente ignoti come i Filistei esordiscono potentissimi, alla guida della confederazione. Come è possibile pensare che le isole dell’Egeo, anche comprendendo Creta e i dintorni asiatici o l’entroterra della Grecia, avessero potuto scatenare un tale spropositato evento? Non possiamo certo dimenticare che tempo prima tutti i più grandi potentati micenei, compresa Creta con Idomeneo, non erano riusciti in dieci anni a piegare la resistenza di una sola città se non con l’astuzia di Ulisse. Come avrebbe potuto d’improvviso l’Egeo generare, in continuazione, popoli di cui non s’era mai sentito parlare prima? Non erano certo bande piratesche, anche se numerose e ben organizzate, che potevano travolgere uno stato solido ed agguerrito come quello ittita, quello di Arsawa o le città-Stato millenarie dell’intera costa del Mediterraneo orientale, spopolare intere regioni ed attaccare, fiduciosi della vittoria, il più potente degli Stati. Puntualmente invece i riscontri archeologici confermano questa scia di distruzione mentre gli storici, evidentemente interessati a minimizzare il fenomeno dei Popoli del Mare, parlano di crisi politico-sociali con rivolte interne e disgregazione dello Stato. È questa la teoria di Gardiner a proposito degli Ittiti, tuttavia non sostenuta di certo da prove concrete, né si può pretendere che fenomeni di crisi interna siano dilagati ovunque. Certamente quella stessa catastrofe che aveva colpito l’Haou-Nebout aveva devastato anche l’Anatolia, decimato la popolazione dell’area egeomicenea e lasciato chiari segni archeologici in gran parte dei grandi centri come Ugarit. Gli eserciti ittiti di Arzawa, Karkemish, ecc., per quanto affamati e ridotti nei ranghi dovevano però sempre rappresentare una soverchiante macchina bellica la cui forza non poteva essere annientata da bande di pirati e razziatori. 189

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È necessario liberarci dai pregiudizi e considerare la realtà che, più che suggerire, impone una nuova visione: si trattava di nuovi interi popoli che con le famiglie e tutti i loro beni cercavano, a spese della civiltà mediterranea, di insediarsi in una nuova patria. Guy Bunnens relaziona sui Popoli del Mare all’importante convegno internazionale di specialisti sul tema “Dori e mondo egeo”.

Tav. 19: Dalle mura esterne del tempio di Ramesse III a Medinet Habu, bassorilievo della celebre battaglia contro i Popoli del Mare. I navigli dei Popoli del Mare hanno caratteristiche decisamente diverse da quelle egizie. Come è possibile apprezzare nell’ingrandimento, l’imbarcazione mostra decisamente similitudini con i più antichi esempi di vascelli nordici e vichinghi denominati drakkar. Sia i Filistei dal copricapo piumato che gli Shardana che indossano un elmo cornuto si difendono dalle frecce egizie con lunghe spade terribili e scudi rotondi.

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Ecco cosa afferma: Sotto Ramesse III, la situazione offre tutto un altro aspetto. Non si tratta più di gruppi di avventurieri il cui eccesso di vitalità sia sfruttato da un re ambizioso, ma di popoli che congiungono le loro forze per assicurare il successo di un movimento che assomiglia di più a una migrazione. L’aspetto migratorio della loro impresa sembra stabilito dai rilievi di Medinet Habu, dove si vedono dei carri, tirati da quattro buoi, portare donne e bambini. I pareri sono certo discordi sul senso che conviene dare a questa scena. Alcuni vedono qui solo dei prigionieri presi nelle regioni di Siria, attraversate dai Popoli del Mare, ma una simile interpretazione mi sembra ipercritica. Perché i Popoli del Mare si sarebbero ingombrati di bambini? Perché avrebbero scelto questo mezzo di trasporto lento e poco maneggevole che sono i carri e i buoi, se non per trasportare i loro beni, eventualmente aumentati dal bottino fatto per strada, e la loro famiglia? La loro avanzata sembra seguire un piano prestabilito. Essi hanno in effetti costituito due formazioni coordinate, una sul mare, l’altra per terra. Hanno inoltre stabilito un campo in Amurru, a partire dal quale hanno preparato il seguito delle loro operazioni. Il punto di partenza sembra essere l’Asia Minore, a giudicare non solo dall’origine che suggeriscono il loro nomi, ma anche dai paesi che essi minacciano: lo Hatti, Qode, Karkemish, l’Arzawa e Alashiya. L’ordine di successione di questi nomi – se sono correttamente identificati – permette di riconoscere due gruppi, uno, Hatti, Qode e Karkemish, che rivela una successione da nord-ovest verso sud-est nell’entroterra, l’altro, Arzawa e Alashiya, diretto in una direzione analoga – l’Arzawa è ad ovest dello Hatti – , ma lungo le coste, se Alashiya è davvero Cipro. Potrebbe essere che queste due serie indichino gli itinerari seguiti dai due gruppi e che il campo di Amurru sia il punto in cui essi hanno operato il loro congiungimento, se una tale ipotesi non rischiasse di sollecitare troppo il testo. Il secondo assalto dei Popoli del Mare contro l’Egitto prende dunque l’andamento di un vero tentativo di invasione. Un tale movimento, per la sua apparente ampiezza, costituisce sicuramente una minaccia più seria per l’equilibrio del mondo orientale dall’attacco lanciato dalla Libia sotto il regno di Mereptah. Quali ne sono le cause e le conseguenze? Gli si possono attribuire le distruzioni che contrassegnano la fine dell’Età del Bronzo? Per tentare di fornire una risposta a queste domande, bisogna ricollocare le invasioni dei Popoli del Mare nel loro contesto storico. L’Asia occidentale conosce uno stato di equilibrio politico da quando Suppiluliuma, all’inizio del XIV secolo, ha esteso l’egemonia ittita sul nord della Siria, limitando le ambizioni egiziane alle regioni meridionali. Dopo diversi scontri tra le due potenze. Questo stato di equilibrio è stato consacrato dal celebre trattato egiziano-ittito, che Ra-

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messe II e Hattusili hanno concluso nel primo terzo del XIII secolo. Verso est il regno dei Mitanni, progressivamente rosicchiato dagli Ittiti, s’è trovato sostituito dagli Assiri, mentre nella stessa Mesopotamia gli Assiri e i Babilonesi perseguivano una coesistenza il più spesso pacifica. Ad ovest, tutto porta a credere che uno o più regni di analoga concezione si dividessero il mondo miceneo. La conseguenza di questa situazione è che, a dispetto delle fluttuazioni di certe zone di influenza, nessun vuoto politico si è verificato nella regione per un periodo di circa due secoli. Gli Stati sono stati in grado di controllare efficacemente l’insieme dei territori situati tra il mar Ionio e l’Elam, e di tenerne separati o, almeno, di disciplinare i gruppi umani, nomadi e semi-nomadi, che non partecipavano di questa organizzazione statale e urbana. Il vuoto che avrebbe potuto lasciare lo sprofondamento dei Mitanni, per esempio, si è trovato immediatamente colmato dall’intervento assiro. Nessuna posizione-chiave si trovava alla portata di elementi non organizzati52.

È decisamente grave la responsabilità di chi ha ritenuto e contribuito a minimizzare gli eventi di cui i Popoli del Mare sono gli evidenti assoluti protagonisti, credendoli bande piratesche o poco più, dalle oscure origini forse egee, forse balcaniche, forse anatoliche. La pirateria è un fenomeno che segue il grande evento migratorio e i Popoli del Mare di certo possedevano non solo la superiorità sul mare, come evidenziano le distruzioni di un gran numero di città fortificatissime, tutt’altro che costiere come Hattusas al centro dell’Anatolia o Karkemish in Siria o Ugarit, il cui sito abitato dal più lontano Neolitico sarà abbandonato per oltre 400 anni. Si dimostra quindi inequivocabilmente sia la capacità di penetrazione territoriale che il possesso delle tecnologie necessarie ad esprimere l’enorme forza d’urto indispensabile ad abbattere fortificazioni eccezionali. È indicativo ricordare che Mellaart, che scoprì Çatal Höyük, cercava proprio i Filistei, convinto che certo quel popolo, quella cultura, dovessero clamorosamente riemergere in qualche luogo non lontano dall’influenza egea: ciò non solo non si è mai verificato, ma anche la possibilità che possa essersi verificato in futuro è un’eventualità a cui nessuno oggi è disposto a credere. Fortunatamente possediamo anche sufficienti testimonianze extraegizie che confermano i testi di Medinet Habu. È sempre Bunnens che relaziona sui Popoli del Mare: Una serie di documenti, infine, fanno allusione a una minaccia militare. In una lettera indirizzata ad Ammu-rapi, molto probabilmente il re di Alashiya, consiglia al suo corrispondente di fortificarsi all’interno delle sue città, per resistere a un nemico che potrebbe arrivare dal

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Tav. 20: Le poderose mura oblique di Hattusha. Tale particolarità rendeva agli assedianti del tutto inutile l’utilizzo di arieti. Questa tecnica fu introdotta dagli Hyksos in Egitto. Le gigantesche difese al centro dell’Anatolia, così distanti dal mare, non furono però sufficienti a frenare la spaventosa ondata dei Popoli del Mare, come descritto a Medinet Habu.

mare. In un’altra lettera proveniente dallo stesso deposito di archivi, un alto dignitario di Alashiya segnala a un re anonimo di Ugarit, nel quale si può vedere Ammu-rapi, che venti bastimenti nemici avvistati in una regione qualificata come montagnosa, sono scomparsi. Infine, una lettera inviata da un re di Ugarit, verosimilmente Ammu-rapi, informa il re di Alashiya delle distruzioni operate sul territorio di Ugarit da uno sbarco nemico, mentre l’armata di Ugarit si trovava in Hatti, e la sua flotta, apparentemente, nel paese di Lukka. Se tutti questi testi si riferiscono proprio agli stessi avvenimenti, sembra che una minaccia venga da Ovest per mare – Alashiya (Cipro) è un avamposto – e che lo Hatti stesso debba difendersi. Questo indubbiamente non senza rapporto con la guerra condotta da Suppiluliuma II contro una flotta di Alashiya. La minaccia è sentita come seria da altre potenze siriane, poiché un alto dignitario di Amurru scrive al re di Ugarit per chiedergli informazioni sull’avanzata nemica e per fargli sapere che il re di Amurru mette la propria flotta a disposizione di Ugarit. Una tale situazione corrisponde abbastanza bene a ciò che l’iscrizione dell’ottavo anno di Ramesse III consente di immaginare. Si tratta degli stessi avvenimenti? Non lo si può affermare, ma è molto allettante, e anche ragionevole, crederlo53.

Un ulteriore documento di Ugarit che riguarda il rapporto spedito al re dal generale dell’armata a difesa delle coste tra Ugarit e Amurru fa sospet193

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tare lo storico Louis Godart di aspetti di collaborazionismo con i Popoli del Mare, sottolineando aspetti che riteniamo più che probabili. Scrive Godart, dopo aver esaminato i documenti riferiti in precedenza da Bunnens: Da questa massa di dati e dalla loro complessità un fatto almeno sembra emergere: l’invasione dei Popoli del Mare ha creato in tutto il Vicino Oriente una situazione di caos tale da sconvolgere il gioco delle alleanze e dei rapporti tra gli stati della regione. All’interno degli stessi paesi – e questo emerge chiaramente dalla situazione ugaritica – vi sono persone che sembrano aver patteggiato con i Popoli del Mare e altre che si sono opposte all’invasore. I “collaborazionisti” erano all’ordine del giorno in quegli anni difficili ed è facile immaginare che quanti erano insoddisfatti del regime palaziale si siano lasciati coinvolgere nell’avventura54.

È impossibile non valutare l’imponenza dei fatti che hanno coinvolto l’intera civiltà mediterranea, poi completamente ridisegnata. Sarà anche una profonda rivoluzione di contenuti, col nuovo mondo nascerà l’alfabeto che utilizziamo e che permetterà l’accesso alla scrittura facendo crollare il mondo degli scribi così esclusivo ed elitario. È un intero sistema che si dissolve, è iniziata l’ultima era dell’uomo: quella del Ferro. Dal tempio di Medinet Habu: “Ho spinto i malfattori nel loro paese, ho massacrato i Denen (Danuna) che venivano dalle loro isole”55. Si legge nel Papiro Harris: I Sardi e i Weshesh del mare fu come se non esistessero, catturati tutti insieme e condotti prigionieri in Egitto, come la sabbia della spiaggia. Io li ho insediati in fortezze, legati al mio nome. Le loro classi militari erano numerose come centinaia di migliaia. Io ho assegnato a tutti loro razioni con vestiario e provvigioni dai magazzini e dai granai per ogni anno56.

Ramesse III afferma quindi di aver massacrato i Dani e arruolato nel proprio esercito numerosissimi Sardi e Weshesh; alcuni anni dopo condurrà un’ulteriore campagna vittoriosa nella terra di Canaan. Le vittorie di Ramesse III sono indiscutibili ma la realtà come si mostra all’indomani di questi avvenimenti è decisamente diversa. Tutt’altro che distrutti e annullati per sempre, come apparirebbe dai testi trionfalistici di Medinet Habu, i Filistei e gli altri Popoli del Mare rinunciarono all’Egitto ma non ai suoi possedimenti al di là del Sinai, sulle cui rive costiere trovarono una base stabile ripopolando quelle città come Ascalon che erano state distrutte 194

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da Mereptah e altre che con tutta probabilità erano state spopolate da loro stessi quando, bellicosi, erano calati verso l’Egitto. È comunque molto probabile che Ramesse III abbia permesso tale insediamento anche a causa dell’effettivo spopolamento di tali regioni. Nascerà la pentapoli filistea. Più a Nord troveremo altri Popoli del Mare insediati su quella costa che solo da questo momento diventerà la Fenicia come l’abbiamo sempre intesa. Possediamo due documenti che lo accertano con sicurezza: l’Onomastico di Amenemope e il Papiro di Wenamon. Sarà l’Egitto, al contrario, che rimarrà isolato in un mondo in rapida trasformazione ed evoluzione. È iniziata una parabola discendente che solo col faraone Sheshonk sarà interrotta brevemente. Questo faraone sorprendentemente appartenente alla famiglia di principi Meshwesh, alleati dei Popoli del Mare a cui abbiamo già accennato, fondatrice della XX dinastia con nove faraoni, invase la Palestina per l’ultima volta nella storia dell’Egitto.

Tav. 21: Sopra: Rilievi di Medinet Habu. Un gruppo di Filistei prigionieri di Ramesse III. Sotto: Sequenza dei vari dignitari o comandanti presi prigionieri dopo la battaglia navale e terrestre. Il primo di questi è sicuramente identificato come un Ittita, seguono un Amorrita, un Tjekker, uno Shardana; il quinto personaggio presenta un nome parzialmente cancellato che inizia con “Sh”, si presuppone quindi che possa trattarsi di uno Shekelesh, anche se altri autori ammettono la possibilità che possa trattarsi di uno Shasu, cioè un Beduino; il sesto rappresenta un Teresh. Cancellata una figura presumibilmente Peleset.

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È superfluo sottolineare il sommo livello di nobiltà concesso dall’Egitto a questi principi che salirono al trono dall’interno del sistema egizio senza essersi imposti con la forza. Evidentemente l’Egitto riteneva che costoro possedessero i requisiti per assumere ciò che consideravano un ruolo divino. Neppure l’Egitto riuscì quindi a sottrarsi al destino riservato al resto del Mediterraneo. Nei testi tolemaici, veri conservatori e perpetuatori di arcaismi, risuonano le ultime eco di un mondo che entrerà nel mito. Testimoniano dell’ira divina che lo ha cancellato con iscrizioni come quelle di Edfu: “Il terrore che tu ispiri è nelle isole del Grande Verde” e ancora: “Ho fatto sì che la tua frontiera giunga sin dove […] va nel Noun, e che il timore che si ha di te percorra le isole che sono nel mezzo del Grande Verde e i paesi degli HaouNebout”57.

3.9. I Filistei È un dovere affermare che ciò che conosciamo sui Filistei, è in gran parte dovuto alla splendida ricerca del professor Garbini, ordinario di filologia semitica dell’Università La Sapienza di Roma, pubblicata nel 1997 e intitolata, naturalmente, I Filistei. Egli riesce a rendere nitido un quadro da sempre oscurato da pregiudizi e scarsa conoscenza: il ruolo e la statura di questo popolo ne escono completamente ridimensionati. Andremo quindi a ripercorrere, soprattutto attraverso le sue parole, le gesta di questo popolo che esercitò un’influenza fondamentale, ben oltre quel ruolo stereotipo di nemici per eccellenza del popolo ebraico. È la Bibbia ovviamente la fonte principale delle notizie sui Filistei ma è necessario ricordare l’equivalenza accettata pressoché da tutti gli studiosi dei termini “Keftiou-Kaftor” che ricorrentemente compare come luogo legato alla provenienza dei Filistei. Il primo brano analizzato è il passo più antico, quello del profeta Amos (9,7) dell’VIII secolo a.C.: “Non ho forse fatto uscire Israele dalla terra d’Egitto, i Filistei da Kaftor e gli Aramei da Qir?”58. Inevitabilmente Garbini accetta di identificare Keftiou-Kaftor con Creta, ma naturalmente i problemi insorgono subito numerosi59. Egli ci conferma che l’unico documento probante l’equivalenza Keftiou-Creta si ritrovi nei resti del tempio di Amenophi III precedentemente analizzato (cfr. infra, nota 119, p. 153) che riporta nomi di città Keftiou e Tanaiou, ribadendo semplicemente il fatto che gli Egizi definivano Keftiou i Minoici e Tanaiou (o Danaiou) i Micenei. L’incertezza e l’insofferenza prodotte dalla mancanza di convinzione per questa tesi, nonché il vuoto assoluto della benché minima testimonianza archeologica che potesse far prospettare un insediamento cretese dei Filistei, ha prodotto teorie giudicate anche da Garbini impossibili, come quella di una loro provenienza illirica. 196

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Riprendiamo ora i brani biblici dopo questo primo passo di Amos, è naturalmente Garbini a parlarcene: Sostanzialmente analogo, ma più sfumato è quanto riporta il testo di Geremia sulle origini filistee; il testo ebraico attuale parla di “Filistei, i superstiti dell’isola di Kaftor” (47,4), mentre quello greco (29,4) recita “i superstiti delle isole”; poiché è una variante del testo ebraico, documentata in uno dei manoscritti di Qumran, reca “superstiti delle

Tav. 22: Rilievi di Medinet Habu. Ramesse III tiene in suo potere i Filistei.

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isole di Kaftor” (come le versioni aramaiche della Bibbia), sul piano filologico bisogna concludere che il testo originale con molta probabilità parlava di “isole” ma non di “Kaftor”, che sembra essere un’aggiunta posteriore61.

“I sopravvissuti delle isole”, è quindi questa la clamorosa conferma biblica che lascia ben comprendere l’entità del disastro che i testi egizi raccontano essersi abbattuto sull’Haou-Nebout. Mentre Creta dallo stanziamento dei Micenei aveva in questi ultimi secoli goduto di un’ottima salute, che si interromperà solo con la sovrapposizione dorica, la Bibbia ci conferma in modo del tutto esplicito dei disastri delle isole Haou-Nebout. Come sottolineano i testi egizi, i loro popoli erano stati costretti all’esodo ed erano i “sopravvissuti” di una sequenza di avvenimenti scientificamente inoppugnabili, a cominciare dalla caduta di un terrificante meteorite per terminare con una inondazione tipo tsunami, che come sappiamo è un evento inevitabile e particolarmente devastante che segue obbligatoriamente la caduta di un corpo celeste in mare. Riprendiamo l’analisi di Garbini: Da questi testi poetici più antichi dipende l’affermazione di Deuteronomio 2,23 secondo cui la regione da Gaza verso Oriente era stata conquistata dai “Kaftoriti usciti da Kaftor”; dato che l’area in questione era abitata dai Filistei, non v’è dubbio che a questi ci si volesse riferire, con l’aggiunta dell’indicazione della loro provenienza; bisogna comunque notare l’appellativo di Kaftoriti usato per il più comune Filistei. I testi finora esaminati sono concordi nel porre le origini filistee nelle isole dell’Egeo e in particolare a Creta. Una voce discorde è quella che si trova nel passo della Genesi (10,14), dove vengono elencati i discendenti di Noè: un testo famoso noto anche come Tavola dei popoli, poiché enumera e classifica tutte le popolazioni che erano note agli Ebrei. Nei versetti 13 e 14 leggiamo: “Egitto generò Ludi, Anami, Libi, Naftuhi, Patrusi, Kasluhi (da cui uscirono i Filistei) e Kaftoriti”. Come appare evidente, ci troviamo dinanzi a un testo molto particolare, rimasto finora in gran parte incomprensibile per l’impossibilità di identificare diversi nomi che vi ricorrono, e che comunque nega un rapporto diretto tra i Filistei e Creta, pur ponendoli vicini; singolare appare anche il rapporto di dipendenza a livello di genealogia storica di Creta e dei Filistei con l’Egitto. Vale la pena di soffermarsi su questo passo biblico che si pone in contrasto con tutti gli altri. Innanzitutto va rilevato il fatto che gli Ebrei, pur essendo ben consapevoli dell’origine non semitica dei Filistei (Allophyloi) e della loro affinità con le genti egee, non hanno posto questi tra i discendenti di Iafet, come gli abitanti della Grecia, dell’Anatolia, di Cipro e di Rodi (si vedano i versetti 2-5 dello stesso capitolo), ma li hanno messi in rapporto con l’Egitto, figlio di Cam. […]

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Secondo una prassi molto diffusa tra gli studiosi del mondo biblico, che non vogliono vedere contraddizioni all’interno della Bibbia, si afferma spesso che la frase “da cui uscirono i Filistei” rappresenta una glossa secondaria che per un errore materiale dei copisti del testo sarebbe andata a finire dopo “Kasluhi” anziché dopo Kaftor. Si tratta tuttavia di un’affermazione completamente ingiustificata, sia perché non è sostenuta da alcuna prova, sia perché il testo della Genesi non parla di Kaftor bensì di “Kaftoriti”, dai quali non potevano “uscire” i Filistei. È dunque evidente che ci troviamo di fronte a una tradizione che operava una distinzione fra i Filistei e i Kaftoriti; e poiché questi ultimi non possono essere altri che gli abitanti di Kaftor, cioè i Cretesi, dobbiamo prendere atto che secondo l’autore della Genesi i Filistei provenivano non da Creta bensì da un altro luogo, Kasluh (che la forma ebraica kasluhim, i “Kasluhi”, indicasse una località nonostante sembri un etnonimo è rivelato dal fatto che il testo ebraico indica con un avverbio di luogo “là” e non con un pronome personale la provenienza dei Filistei). […] La specificità dell’informazione trasmessa costituisce peraltro, di per sé, un indizio di autenticità, sì che non è illegittimo se per caso l’affermazione della Genesi non costituisca una precisazione anziché un’alternativa a quanto si dichiara in altri passi biblici. […] Il forte legame culturale con Creta62, che vedremo in seguito suggestivamente confermato anche dalla Bibbia, lascia tuttavia supporre un radicamento dei Filistei in tale isola difficilmente compatibile con una permanenza provvisoria di pochi decenni. […] Ci si potrebbe chiedere, a questo punto, come mai gli archeologi non abbiano trovato a Creta tracce dell’antica presenza filistea63.

Garbini non trova una risposta per Kasluhi. Non riesce a trovare nessun’isola egea che riesca ad adattarsi alla situazione. L’unica cosa emergente dalla sua analisi è un vago richiamo alla città Kas dei Lici. Né può soddisfarlo la totale mancanza di elementi di cultura filistea a Creta erroneamente identificata con Kaftor. Archeologicamente non è possibile ammettere neppure un passaggio breve e transitorio dei potenti invasori. Il forte legame dei Filistei con Keftiou cozza e s’infrange contro l’assoluto silenzio archeologico espresso dall’isola di Creta-Minous. È possibile che Kasluhi fosse un’isola del Grande Verde prossima a Keftiou e probabilmente sottomessa a questa prima del suo declino avvenuto verso il 1380 a.C. Che Keftiou possa essere stato un regno comprendente diverse isole tra cui Kasluhi è peraltro un’ipotesi del tutto plausibile. Ecco quindi, dopo Keftiou e Isy, il nome di una terza isola che fa parte delle isole del Grande Verde, ed è la Bibbia a consegnarcelo. Un recupero in realtà fortunoso dal momento che tutte le Bibbie in circolazione sono state corrette inopportunamente, per cui leggiamo che i Filistei fuoriuscirono da Kaftor e non da Kasluhi. Inoltre il testo della Ge199

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nesi, in origine, non parla di Kaftor bensì di Kaftoriti da cui non potevano uscire i Filistei (com’è sottolineato da Garbini nel suo testo I Filistei). La totale mancanza di notorietà rendeva Kasluhi un luogo, anzi un’isola, non chiaramente identificabile, mentre il ricordo della potenza di Keftiou-Kaftor era ben presente nei più antichi narratori biblici, per cui riteniamo che Kaftor indicasse molto meglio il luogo di provenienza; inoltre il termine ‘Kaftoriti’ potrebbe abbracciare anche altri Popoli del Mare disseminati sulla costa siro-palestinese; in questi termini l’ambiguità del testo sacro potrebbe avere una risoluzione plausibile. È venuto il momento di affrontare un altro “nodo” che ci ha impedito la comprensione degli eventi, cioè l’erronea convinzione, basata su di un unico documento, che fossero stati gli Ittiti i primi a possedere il segreto del ferro. Esaminando questo documento che riguarda la risposta del re ittita ad una richiesta di spade di ferro da parte di un sovrano straniero alleato, ci si rende conto dell’esatto contrario. Il re ittita risponde infatti di non avere disponibilità e di poter inviare solo una lama di pugnale. Gli Ittiti non solo non possiedono queste armi ma non è neppure possibile loro procurarsene, tanto meno produrne. Nell’evidenza tali armi sono in possesso di genti che non intrattengono con gli Ittiti relazioni e scambi commerciali, anzi, proprio a causa di ciò, sarebbe possibile sostenere l’ostilità nei confronti degli Ittiti di coloro che ne detenevano il monopolio. Lo stesso parere è espresso da Macqueen ne Gli Ittiti: Forse questo è il momento adatto per citare parecchie idee errate circa la natura della potenza ittita. La prima è che gli Ittiti dovessero la posizione di dominio al monopolio della produzione di un’arma segreta chiamata ferro: non esiste prova di ciò, per quanto io ne sappia64.

Eliminato quest’ostacolo, vera e propria superstizione maligna in cui abbiamo tanto indugiato, sono due gli elementi fondamentali che emergono, assolutamente degni di fede: il primo è l’uniformità e l’unanimità con cui la tradizione asserisce che furono i Dori a portare il ferro; la seconda è un’inconfutabile brano della Bibbia che asserisce che erano i Filistei a possederne il segreto e promulgavano leggi al fine di proteggere questo fondamentale esclusivo monopolio. È del tutto esauriente la relazione di Garbini sullo strapotere bellico dei Filistei basato sul possesso del ferro. Dal punto di vista militare, fu tuttavia il carro da guerra la più importante acquisizione dei Filistei in Palestina. Resi ancor più temibili dagli accessori di ferro che essi vi introdussero e che non siamo in grado di conoscere con esattezza, i carri costituivano il punto di forza delle truppe filistee, che con loro dominavano totalmente gli avversari. Doveva trattarsi, specie per i male equipaggiati Israeliti, di un’arma ben

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terribile, se al tempo di Saul quelli che dovevano essere poche decine di carri apparvero a costoro come se fossero trentamila (1 Samuele 13,5) e se nell’insperata vittoria ottenuta presso Medio contro quelli che furono ricordati come novecento carri (Giudici 4,13; ma erano naturalmente molti di meno) fu visto il diretto intervento di Dio, che fece straripare un torrente rendendo così impossibili le manovre dei carri stessi (Giudici 5,21). Resta sottinteso che l’impiego dei carri era limitato alle zone pianeggianti; la qual cosa spiega agevolmente come mai i Filistei restarono sempre padroni della pianura costiera palestinese. Carri da guerra e arcieri garantirono ai Filistei un lungo dominio sulla Palestina; ma non dobbiamo dimenticare che, in precedenza, i Popoli del Mare erano passati come un turbine devastatore su molte regioni del bacino orientale del Mediterraneo, abbattendo ogni resistenza: essi possedevano dunque un’assoluta superiorità militare, anche nei confronti di eserciti ben agguerriti come quello ittita e quelli delle città greche e anatoliche. Le cause di tale superiorità saranno state certamente molteplici (come lo furono quelle che tanti secoli dopo videro negli stessi luoghi le travolgenti vittorie degli eserciti arabi dei primi califfi e ancora più tardi quelle del nuovo Israele), ma certo non ultima fra esse fu il possesso delle nuove armi di ferro, ben più micidiali delle tradizionali armi di bronzo. Il 1200 a.C. segna convenzionalmente per gli archeologi il passaggio dall’Età del Bronzo a quella del Ferro: questo metallo, che non era certo sconosciuto in precedenza e che del resto non si diffuse all’improvviso, fu introdotto da qualcuno nel Vicino Oriente in quel periodo. Che i portatori del ferro fossero appunto i Popoli del Mare viene implicitamente affermato, ancora una volta dalla Bibbia in un passo che si riferisce al tempo di Saul (cioè al X sec. a.C.): “In tutta la terra di Israele non si trovava un fabbro, perché, dicevano i Filistei, gli Ebrei non si fabbricassero spada o lancia; tutti gli Israeliti dovevano recarsi dai Filistei per affilare chi l’aratro o l’ascia o la zappa o la falce” (1 Samuele 13, 19-21). A parte alcune difficoltà linguistiche riguardanti il nome degli attrezzi agricoli e i prezzi della loro affilatura, da questo passo appare chiaro che i Filistei esercitavano il monopolio sulla vendita e la manutenzione degli attrezzi agricoli di ferro: se gli Ebrei non erano in grado di fare il filo a una zappa, è chiaro che non erano tecnicamente capaci di lavorare il ferro per ottenere armi; e che di ferro si trattasse lo dimostra il fatto che, come ora vedremo, proprio la spada e la lancia di ferro erano le più tipiche armi filistee. Soli possessori delle nuove potenti armi, i Filistei potevano facilmente dominare il Paese; ed è proprio la mancanza del ferro da parte degli Israeliti che viene sottolineata nel Cantico di Debora (Giudici 5), il quale celebra la già ricordata vittoria sui carri filistei e su cui torneremo diffusamente in seguito65.

I primi esemplari di questo metallo furono rinvenuti nell’area di insediamento filisteo oggi chiamato Beth-Shean, Tel Gemme, ecc. ed appartengono al 1000 a.C. o poco prima. In Geremia 15,12 si parla di “ferro di settentrione 201

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che nulla può spezzare”; e si asserisce che il costo pagato al fabbro filisteo per affilare una scure equivaleva ad 1/3 di siclo, ovvero il valore di una pecora. È quindi possibile affermare che il ferro era monopolio sia dei Filistei che dei Dori: entrambi eminenti esponenti dei Popoli del Mare. Grazie a ciò i Filistei mantennero un completo dominio su quella regione che ancora oggi chiamiamo Palestina (da Peleset) e ciò proseguì per un tempo difficile da determinarsi. È probabile che la famosa pagina biblica in cui Davide impossessatosi delle armi di ferro di Goliath, con la spada recide il capo del gigante, voglia simbolicamente svelarci la fine del monopolio filisteo; ciò prelude in effetti a vittorie militari sui Filistei che in precedenza apparivano impensabili per i male armati Israeliti. I Filistei possedevano inoltre una sorta di ordine militare, un vero e proprio corpo speciale, armato pesantemente, chiamato “i figli di Anat”, divinità identificata come l’equivalente di Atena (ma anche la Neith egizia) e della Minerva etrusco-latina. Tra le assolute prime testimonianze della scrittura che definiamo fenicia esistono una ventina di punte di lancia con iscrizioni brevi del tipo “sono la lancia di Ittobaal”: una di queste pare riferirsi a quest’ordine guerriero. Oggi è possibile affermare con certezza che i Filistei parlassero una lingua indoeuropea strettamente imparentata al Greco. Ciò è una certezza assoluta da quando i linguisti hanno potuto esaminare alcune righe di Tell Miqne. Il credo religioso filisteo si rivolgeva a divinità equivalenti sia al mondo greco che a quello definito semita, nonché a quello egizio, sottolineando quel concetto di assoluto sincretismo religioso percepito da tutti i popoli per cui non era importante il nome della divinità, bensì gli attributi sempre espressi di questa. È certo che il credo filisteo si fondasse su una triade divina con una presenza femminile che ereditava gli aspetti cultuali direttamente dalla Dea Madre, mentre Dagon, la divinità principale, equiparato ad Apollo da Giuseppe Flavio, percorre come Osiride la via dell’aldilà per poi sperimentare la resurrezione. Ciò è condiviso da molte divinità semitiche come ad esempio il Melkart di Tiro, anzi, ogni città semita ne adorava un alterego che aveva conosciuto la stessa esperienza di morte e resurrezione. Questa trinità è completata dalla figura tipica di Baal, che ad Ekron (identificata con Tell Miqne, una delle cinque città della pentapoli filistea) acquisisce il nome di Baal-Zebul che significherebbe “il signore della dimora”, cioè l’aldilà. L’odio dello yahwismo nei confronti della religione filistea lo fece divenire il noto Belzebù. Gli Ebrei per molto tempo soffrirono la sudditanza non solo della forza delle armi dei Filistei ma, incredibilmente, anche dei loro poteri riguardo al soprannaturale. Le arti magico-divinatorie possedute dai sacerdoti di Dagon e Baal-Zebul esercitarono un potere enorme sugli Ebrei se la Bibbia ci racconta che lo stesso re del regno di Giuda mandò a richiedere responsi oracolari alle divinità filistee. Prima dell’affermazione dello yahwi202

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smo, la magia filistea aveva profondamente invaso la prassi religiosa israelita. Anche Garbini afferma: Poiché è da supporre che ogni gruppo etnico e sociale abbia posseduto una propria tradizione per le pratiche divinatorie, la fama particolare che i Filistei avevano in questo settore ci obbliga ad ammettere che le loro tecniche mantiche fossero diverse da quelle diffuse presso i Cananei e venissero ritenute particolarmente efficaci. Da quanto ora si dirà appare chiaro che tali tecniche furono ben presto adottate anche dagli Israeliti e forse anche dai Fenici66.

La fama che circonda i Filistei li fa decisamente assimilare ad un altro dei Popoli del Mare che eccelleva nella magia e nella teurgia: i Tursha, gli Etruschi. Non va dimenticato che dalla fondazione di Roma a quando rimasero in vita, le ultime famiglie etrusche furono le sole a Roma a stabilire le leggi e i rituali del culto osservati con assoluto rispetto ed estremo rigore. Anche l’arcano mondo etrusco in cui la figura dell’Aruspice troneggiava sulla figura stessa del Lucumone, derivava insieme alla superba arte divinatoria filistea dall’Haou-Nebout, dalle isole del Grande Verde.

3.10. L’ambigua cultura filistea Alcuni ritengono Dagon un’antica divinità semita ma non possono portarne prove concrete, altri che invece fu introdotta per la prima volta dai Filistei, come anche noi riteniamo. Alcuni classici affermavano che Dagon era l’equivalente dello Zeus nato a Creta, lo Zeus Kretagenes, divinità dei Keftiou, oggetto di culti misteriosi nelle grotte del Monte Ida, dotato della peculiarità di essere un Dio che muore. Altre caratteristiche lo rendevano del tutto sovrapponibile al Dio della tempesta diffuso in oriente. Nel delineare la figura del Dio Dagon, fondamentale elemento di certezza ci è conferito da Flavio che lo identifica con Apollo, creando un legame culturale con i Greci che si affianca alla già esplicita prova del linguaggio filisteo strettamente imparentato al greco. Erodoto presenta un elemento saliente quando sostiene che il tempio più famoso di Afrodite nel Mediterraneo, a Pafo nell’isola di Cipro, era stato fondato dai Filistei di Ascalona, dove peraltro si ergeva il più antico tempio dedicato ad Afrodite Urania; gli stessi avrebbero inoltre fondato l’altrettanto famoso tempio, sempre a lei dedicato, sull’isola di Citera di fronte al Peloponneso67. Due posizioni particolarmente strategiche per traffici e commerci che conferirono la massima notorietà ai due santuari, i quali divennero in seguito patrimonio di tutto il mondo greco, antesignani di quei templi dedicati ad Ercole-Melkart con cui i Fenici punteggiarono tutto il Mediterraneo. Si tratta di notizie importanti che fanno comprendere di quale libertà di movimento e di insediamento godevano i Filistei, un dominio 203

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marittimo implicante una condizione di potere consolidato e in grado di realizzare grandi opere anche molto lontane geograficamente dal loro insediamento palestinese. Se però si dimostra un legame profondo ed enigmatico con la cultura greca, ancor più misteriosa appare l’incontestabile presenza di iconografia egizia diffusamente emergente dalla sfera religiosa filistea. Il repertorio figurativo che appare sin dalla fine del II millennio, quindi dagli albori della individuazione dei Filistei in Palestina, è estremamente indicativo di un identico credo religioso nell’aldilà e nello stesso concetto di vita e resurrezione che ben conosciamo del mondo egizio: scarabei, dischi solari alati, sfingi, il simbolo ank, falchi, serpenti (ureus), scimmie e figure di divinità e personaggi completamente sovrapponibili alle immagini egizie, per terminare con i sarcofagi antropomorfi di terracotta dove la figura è rappresentata nell’identica postura di quella egizia. Il commento a questi eccezionali elementi che svelano l’identità di culto di questi due popoli, considerati entrambi camitici dalla Genesi, è sempre stato esageratamente superficiale e fuorviante. L’idea proposta dai più, che i Filistei abbiano derivato le loro concezioni escatologiche dal contatto con l’Egitto durante l’invasione di Ramesse III, è del tutto improponibile. Non esiste esempio storico in cui due nemici che si affrontano in battaglia siano poi disposti a modificare qualcosa del proprio mondo religioso. L’attrazione esercitata dalla conoscenza oracolare in cui cadde lo stesso re di Giudea non può che rivelarci la radicata e atavica conoscenza filistea delle pratiche divinatorie ed esclude a nostro giudizio la possibilità di una contaminazione tanto profonda causata dal semplice contatto con un Paese nemico straniero, come appare essere in questo caso l’Egitto. Neppure l’essersi insediati su di un territorio precedentemente soggetto all’influenza egizia può giustificare l’assimilazione di pratiche religiose così strutturate in tempi tanto brevi. Non dimentichiamo inoltre che si tratta di un popolo arrogante e bellicoso tanto da indurre, come sostiene Garbini, altri Popoli del Mare come i Dani e i Tjekker ad allearsi e ad entrare nel contesto delle tribù d’Israele, tradizionali nemici dei Filistei68. Si trattava quindi di un popolo che spietatamente ricercava un’affermazione assoluta. Com’è quindi possibile sostenere che i Filistei adottassero culti egittizzanti o che gli stessi fossero tanto influenzati dal cocente breve contatto con l’Egitto di Ramesse III? È dall’Haou-Nebout, patria originaria, che i Filistei traggono gli elementi della loro cultura. Ciò non può stupirci poiché, come sappiamo, questo è il luogo dove si svolge la stessa scena del mito egizio e dove dominano gli stessi Dei dell’Egitto, vi si pratica l’imbalsamazione, l’arte magica e quella medica: è il regno di Seth. L’unico elemento a favore dell’origine egea dei Filistei è da sempre stato l’utilizzo di ceramica classificata come monocroma di tipo miceneo. Va però sottolineato che la ceramica micenea presente nella regione siro-palestinese precedente all’invasione dei Popoli del Mare è definita di tipo 204

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tardo miceneo III B e che questo tipo di ceramica, tipica del XIII sec., scomparve completamente dopo le estese distruzioni provocate dal passaggio quasi desertificante dei Popoli del Mare. Successivamente si propaga un tipo di ceramica che gli esperti definiscono come tardo micenea III C, meglio conosciuta come ceramica monocroma. Ne risulta però che questo tipo non proviene più dai commerci micenei, completamente interrotti; le analisi di laboratorio svelano che l’argilla utilizzata è sempre di origine locale, comprovando che questo tipo di ceramica semplice e monocroma è utilizzata abitualmente dai diversi Popoli del Mare stanziati nella regione. Inoltre questi reperti s’incontrano comunemente ben oltre l’area d’influenza filistea e quella siro-palestinese, come dimostrano i ritrovamenti anche di Cipro. Archeologicamente assodato, il legame diretto fra ceramica monocroma e Popoli del Mare, la sua provata ampia diffusione in tutto il Mediterraneo orientale evidenzia una nettissima uniformità culturale dei popoli del Grande Verde. La particolarità più rilevante della società filistea è il sistema federalista formato da cinque città che già possedevano quelle caratteristiche tanto celebrate nelle poleis greche. Si trattava in realtà di un modello esportato dall’Haou-Nebout e patrimonio di tutti i Popoli del Mare. Bene lo aveva intuito un profondo studioso come Mazzarino il quale, analizzando l’origine della polis, afferma: Le “migrazioni dei popoli” del XII sec. a.C. diedero luogo ad un “atomismo” cittadino in alcune aree, prevalentemente nelle aree marinare. Questo processo è chiaro nel mondo orientale; meno chiaro nel mondo greco, ché sull’organizzazione statale di epoca micenea, e sulla connessione fra la Grecia e le migrazioni dei popoli, noi sappiamo assai poco. Tuttavia una cosa si può dire con certezza: anche nel mondo greco si compì un processo analogo, anche qui più o meno connesso con le migrazioni dei popoli. Le quali, per ciò che riguarda il mondo greco, si incontrano almeno con un fenomeno sicuramente attestato per il XII sec.: il fenomeno della migrazione ionica ed eolica e dorica in terra d’Anatolia – anche queste connesse con la precedente migrazione “achchijava”. […] Solo con l’epoca della migrazione dei popoli fu più evidente una tendenza verso quello che dicemmo “atomismo cittadino” nell’area coloniale anatolica: gli stanziamenti cittadini che già esistevano (p. es. Mileto) si svolsero ora più autonomi e liberi, diventarono città-Stati; lo stesso avvenne nella madrepatria. Il fenomeno si inquadrò negli analoghi processi che diedero luogo alla formazione delle città-Stato nelle aree “ittito-geroglifica”, fenicia, filistea; che se vorremo tentare un confronto più preciso, dovremo, se mai, cercarlo nelle città filistee: anch’esse – come le ioniche – sorte dalla migrazione compiuta ai primi del XII sec.69.

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Un’ampia serie di prove e certezze rende necessario ammettere che fra i Popoli del Mare, e quindi nell’Haou-Nebout, fossero consueti i sacrifici umani. È indubbio che non solo i Filistei e i Fenici ma anche i Greci in tempi remoti praticassero sacrifici umani, evidenziando un costume diffuso perpetuato successivamente solo dai Cartaginesi, che per questo divennero invisi a tutta la civiltà mediterranea70. È anzi possibile sostenere la tesi che lo yahweismo sia nato proprio in risposta alle pratiche filistee comprendenti i sacrifici di bambini che avevano decisamente contaminato la ritualità giudaica. Anche l’uso della cremazione totalmente inesistente in precedenza fu adottato nell’area siro-palestinese semitica solamente dopo le invasioni dei Popoli del Mare. Garbini sottolinea come la venerazione del fuoco sia un uso prettamente indoeuropeo ed annota la perfetta somiglianza delle anfore contenenti i resti della cremazione trovate in Palestina con quelle scoperte nella Sicilia meridionale attribuite agli Shekelesh.

Il Tiranno, il Signore Il termine Basileus è probabilmente da identificarsi, nel più arcaico mondo acheo-miceneo, nel termine Qasireus, che rivestiva un ruolo di potere limitato dipendente dallo Wanax e che in frigio risulta essere l’equivalente di Tarwanas, a sua volta rapportato al Tyrannos greco. La serie è completata dal termine etrusco Turan traducibile con “la signora”, termine con cui i Tirseni indicavano la dea corrispondente ad Afrodite. È evidente quindi la sequenza Wanax-Tarwanas-Tyrannos-Turan. Ora, il termine filisteo per indicare “il Signore” è Seren e poiché sono dimostrate nelle lingue anatoliche l’interscambiabilità fra -T ed -S è possibile il rapporto tra Turan e Seren (non va dimenticato che la struttura di queste lingue è esclusivamente consonantica). La radice ser- o sar- in anatolico ha significato di “superiore”, come ad esempio in lidio il termine Serlis significa “autorità”. È inoltre presente anche nel già conosciuto termine Macomsisa, “luogo del Signore” e si evidenzia nel nome del principe filisteo Sisara alla guida di quei Popoli del Mare provenienti dalla “foresta dei popoli”, contro cui gli Ebrei si scontrarono presso il fiume Kishon nella valle di Iezreeel al tempo dei giudici. Garbini afferma però che il termine Sisara è di origine cretese (Jasasara) e che si ritrova anche nel nome della Dea Saisara della sfera eleusina. Afferma Garbini a questo proposito: Un’ultima osservazione: se la parola seren è costituita, come

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3.11. Distribuzione dei Popoli del Mare sulle aree costiere mediorientali (il viaggio di Wen Amon) Un documento del tutto eccezionale che riguarda l’inizio del XIV sec. è in grado di svelarci un interessante panorama della situazione costiera mediorientale con ricchezza di particolari. Si tratta del resoconto del viaggio pieno di inconvenienti di Wen Amon, inviato a Biblos dal sommo sacerdote tebano di Amon Ra a procurarsi il legname per costruire una nuova cerimoniale “barca divina”. L’Egitto però non sembra più la potenza di un tempo. Provvisto delle credenziali necessarie, Wen Amon deve imbarcarsi su un legno siriano. È costretto ad una sosta nel porto di Dor, che appare completamente sotto il dominio di uno dei Popoli del Mare, i Tjekker, e solo dopo più di quattro mesi raggiunge Biblos, ma deve trascorrere una sorta di quarantena in porto in qualità di personaggio non gradito. Solo dopo un mese, per intercessione, viene introdotto al cospetto del principe di Biblos, Sakar Baal (ma tradotto anche Tjekker Baal). Presentate le proprie credenziali avanza le sue richieste di legname adducendo che lo

abbiamo suggerito, su una radice sar- o ser- è possibile che ad essa sia in qualche modo collegata anche la cretese (j)asasara-, Sisara, che presenta un significato analogo e, apparentemente, la stessa radice sar-. Ciò comporterebbe tuttavia che anche il cretese della lineare A fosse una lingua indoeuropea, contrariamente a quanto generalmente si pensa. È però meglio fermarsi qui71. Anche il suffisso -en riveste però grande interesse, poiché denota nelle lingue anatoliche sempre lo stesso concetto di autorità politica. Lo dimostrano il termine frigio Balen che identifica il re, che in licio diventa Essen mentre Palen è il capo. Risulta quindi che l’unione della radice ser- o sar- al suffisso -en determina il Signore filisteo. Agli elementi riportati da Garbini a proposito della radice -sar che corrisponderebbe all’odierno termine sire o all’anglosassone sir e, a dispetto della nostra ignoranza in materia, riportiamo anche il termine Sargon che storicamente compare coi Sumeri. Potrebbe quindi il termine sar essere il relitto di un’ancestrale lingua comune? Il nostratico? Anche gli Egizi infatti possiedono il termine geroglifico sar con cui identificano anche la stella Aldebaran (Alfa del toro, Iadi). Il significato egizio di sar dal dizionario dei Testi dei Sarcofagi risulta quello di “far ascendere”, mentre nel dizionario redatto dallo studioso Wallis-Budge “portar su (nel cielo)”.

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stesso avevano fatto gli antenati del principe e che ciò rappresentava una tradizione. Sakar Baal si dimostra disponibile ma esige un cospicuo pagamento. Pur appellandosi anche ai vincoli religiosi da sempre intercorsi fra le due città, lo stupito Wen Amon rimane a mani vuote. Ammette poi di non poter pagare in ogni caso, poiché nel porto è stato derubato, ma il principe non fa che replicare dicendo di farsi spedire dell’altro denaro. Una richiesta di beni viene quindi inviata in Egitto mentre si prepara il legname. Il pagamento arriva dopo alcune settimane e tutto sembra andare per il meglio quando una flottiglia di Tjekker si presenta in porto a Biblos e, in un incontro con Sakar Baal, pone il veto sull’operazione del legname. Il principe di Biblos, appare più che influenzato, obbligato dai Tjekker. Il legname non viene più consegnato e Wen Amon, quasi costretto alla fuga, è lasciato alla mercé dei Popoli del Mare ai quali riesce a sfuggire a stento e rientra in Egitto dopo che una tempesta lo fa approdare a Cipro. La storia di Wen Amon sancisce chiaramente la decadenza di un Egitto che appare sia privo di mezzi che incapace di incutere timore72. Sembra essere giunta a termine quell’era in cui il solo proferire il nome divino di Amon Ra era in grado di subordinare qualsiasi potente di quella regione. Dov’è finito il prestigio e il carisma del potentissimo Egitto? Qualcosa è profondamente cambiato nella mentalità di questi popoli, il faraone non rappresenta più un Dio. Appare inoltre inosservata la questione che riguarda il nome di Tjekker Baal o Sakar Baal (o Seker Baal) che Garbini ci insegna trattarsi di un perfetto sinonimo73. Che il re di Biblos portasse il nome dei Tjekker, unito a quello di Baal, e che si mostrasse così sottomesso a costoro, non può che indicare la stretta parentela che doveva intercorrere tra di loro. I Popoli del Mare dominavano tutta la fascia costiera mediorientale poiché oltre ai Filistei e ai Tjekker74, più a nord sono attestate le presenze di Sherden nonché dei Danuna, o Dani, a cui si deve la fondazione nell’odierna Turchia della città di Adana (luogo dei Dani). Ciò è attestato dall’Onomastico di Amenemope. Dal territorio della Cilicia al Sinai, l’intera area costiera mediorientale era quindi completamente alla mercé dei Popoli del Mare che stabilirono un nuovo corso della storia. Prima della sovrapposizione violenta dei Popoli del Mare, Tiro era solo una modesta gregaria delle più importanti città cananee, Biblos e Sidone che, prima della loro parziale o totale distruzione al passaggio dei Popoli del Mare, avevano esercitato con l’Egitto un fruttuoso commercio dei famosi cedri del Libano, ma si trattava di una navigazione costiera che utilizzava soprattutto grandi zattere, una realtà da secoli tradizionale. Durante l’era che precede l’avvento dei Popoli del Mare, solo i Micenei utilizzavano imbarcazioni con chiglia profonda, adatte quindi alla navigazione in alto mare, eccetto naturalmente le navi di Keftiou il cui arrivo o partenza doveva sempre risuonare come un avvenimento più che memorabile. 208

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Ciò al fine di chiarire che coloro che chiamiamo Fenici, sino all’inserimento dei Popoli del Mare non possedevano ancora nessuna delle qualità di audacissimi navigatori per come li conosceremo in seguito. È solo da questo momento che la storia può parlare di Fenici, cioè “i Rossi”, anche se, più che per la porpora notoriamente utilizzata di cui però non possedevano l’esclusiva, pensiamo che questi navigatori provenienti dalle numerose isole nordiche dell’Haou-Nebout fossero così appellati per il colore fulvo dei capelli, come è risultato dai resti umani trovati nella necropoli reale di Sidone. Non ci sono notizie precise che riguardino l’eventuale distruzione di Tiro, ma è presumibile che fosse stata almeno parzialmente devastata nella fase in cui i Popoli del Mare si apprestavano ad invadere l’Egitto via terra, spopolando intere regioni. È comunque certo che quella che diventerà la regina delle città fenice non si ergeva ancora come un’antica Hong Kong o Manhattan, sull’isola rocciosa prospiciente la costa. Ritenuta inespugnabile dagli antichi si dovette legiferare al fine di limitare l’altezza sempre più ardita dei suoi edifici75. Come altri autori, è dello stesso ordine di idee un’autorità in materia, il curatore del museo archeologico di Beirut, Dimitri Baramki, il cui parere ci viene riportato nel libro L’avventura dei Fenici di Gerhard Herm: I protofenici cananei, disse, erano un popolo dotato di tutte le qualità necessarie a una conquista marinara e commerciale del Mediterraneo. Erano buoni mercanti e discreti organizzatori, possedevano la temerarietà degli antenati beduini e disponevano anche – cosa da non trascurare – di un’insolita forza religiosa; una cosa però mancava loro totalmente – e qui Dimitri Baramki alzò l’indice: quel fondo di sapere nautico e tecnico senza il quale non è possibile la navigazione d’alto mare. Ne disponevano invece – l’indice si tese in avanti – i misteriosi invasori che aggredirono verso il 1200 a.C. i paesi del Vicino Oriente: i Popoli del Mare. Arrivò quindi il nocciolo del ragionamento di Baramki. Poiché proprio nell’XI sec. a.C. ebbe luogo quello spettacolare trapasso dal quale i navigatori costieri cananei uscirono dominatori d’alto mare, la conclusione è logica: i Popoli del Mare, devastatori di parti del Libano, si associarono in seguito ai Cananei per lasciarsene, infine, assorbire. Dal processo di fusione, nel quale i primi portarono le loro capacità marinaresche, sorse la nazione fenicia, o “razza” fenicia, per usare l’espressione di Baramki. Lo testimonia anche il fatto – aggiunse – che, da quel secolo in avanti, nelle letterature dei Paesi vicini si parla sempre meno delle singole città libanesi, e s’intende invece, con Tiri o Sidonei, un gruppo ben delineato e conchiuso: appunto i Fenici. La tesi baramkiana propone una spiegazione sorprendentemente semplice per un processo apparentemente misterioso.

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I Cananei non si sono evoluti da navigatori costieri a navigatori d’alto bordo per loro capacità intrinseche, ma sono stati messi in condizione di uscire dalle loro riserve per cimentarsi in altre maggiori, solo dal contatto con gli invasori stranieri76.

Il cambiamento è profondo e va oltre. È con questi innesti provenienti dalle isole del Grande Verde e dai paesi nordici che s’innesca quella rivoluzione che condurrà all’alfabeto: una profonda trasformazione sconvolse quel mondo che aveva a cardine della società gli scribi, veri sacerdoti notai la cui casta rappresentava il meccanismo fondamentale del potere. Riteniamo improbabile l’interpretazione che vede maturare improvvisamente in qualche città fenicia, da parte di qualche scriba, il nuovo rivoluzionario alfabeto così accessibile. Il cuneiforme richiedeva lunghi anni di studi e di sacrifici ma il traguardo era un ruolo di grande prestigio. Quale scriba avrebbe mai divulgato ciò che avrebbe rappresentato la rovina della propria casta e l’annullamento dei propri privilegi? Riteniamo piut-

Tav. 23: Questa tavola tratta da L’antico Egitto di Ippolito Rossellini mostra cinque stranieri dalla fisionomia ben definita. Al centro c’è un africano proveniente dal Sud, in basso a sinistra è rappresentato un libico Tjennu o Lebu di cui subito notiamo la carnagione chiara e gli occhi azzurri mentre gli altri tre personaggi sono definiti geneticamente come asiatici. Due di questi mostrano occhi azzurri e barba rossiccia: sono coloro che spesso vengono definiti popoli nordici; per gli Egizi la loro provenienza è l’Haou-Nebout.

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tosto che l’alfabeto sia giunto dall’esterno, d’improvviso, come fu improvvisa la migrazione dei Popoli del Mare che distrusse l’intero sistema vigente. Ce ne dà prove sostanziali Garbini che individua iscrizioni filistee talmente precoci da considerarle le prime forme di scrittura77. I primi segni alfabetici scoperti a Biblos inoltre non derivano dal cuneiforme utilizzato in Mesopotamia, né può l’alfabeto fenicio essere messo in rapporto con le trenta lettere consonantiche ugaritiche, sempre cuneiformi ma, piuttosto incredibilmente, gli esperti affermano che è necessario rifarsi ai geroglifici egizi come base di derivazione78. Non tutti gli autori antichi riconoscevano la paternità dell’alfabeto ai Fenici, alcuni lo attribuivano ai Siri di Palestina, un termine utilizzato per indicare i Filistei, come succede anche in Erodoto. Se siano stati i Filistei o i Rossi dei paesi nordici coloro che diedero origine all’alfabeto e posero le basi del cambiamento diventa un problema di secondaria importanza, poiché entrambi facevano parte di quell’élite emergente che gli Egizi identificavano nell’Haou-Nebout. È del tutto inammissibile che i Fenici provenissero dal deserto arabico o dagli aridi entroterra mediorientali, essi rimasero padroni di una sottile linea di territorio costiero. Anche i Filistei si erano dimostrati dominatori del mare, ma solo di una limitata area costiera pianeggiante, dove appunto esercitavano la supremazia grazie ai carri da battaglia. Erano gente di mare e di pianura, una caratteristica evidenziata anche dai Micenei che certo avevano ben esigui spazi dove utilizzare i loro carri. Erodoto, Strabone, Plinio e Giustino affermano che i Fenici non erano autoctoni di quella regione in precedenza chiamata terra di Canaan; Giustino scrive che giunsero “ad Syriam stagnum” dopo aver abbandonato la patria a causa di terremoti. Depositari di rotte ignote per l’Occidente ancora in piena età romana, i Fenici, arditi commercianti e pirati, crearono empori in tutto il Mediterraneo e oltre nei VIII, VII e VI secc. con Tiro come loro città più potente. Tiro, Sidone e Biblos prima del 1200 a.C. vanno considerate cananee ed appartenenti ad un sistema politico-sociale che sarà completamente rivoluzionato dall’inserimento dei popoli provenienti dall’Haou-Nebout. Il termine “fenchou”, come si ricorderà, era comunque apparso in precedenza nei testi egizi e si era rivelato un sinonimo di popoli di provenienza Haou-Nebout. Venivano infatti così indicati gli abitanti di quelle coste dediti alla navigazione e alla costruzione di vascelli. La cultura fenicia avvierà da questa epoca una lenta ma continua colonizzazione le cui tappe perfettamente documentate testimoniano del X sec. per Cipro e del IX e VIII sec. per Cartagine e la Sardegna, nonché per il resto del Mediterraneo. Ma l’espansione fenicia così pianificata, a cui tutti storicamente fanno fede, non spiega agli studiosi l’età di fondazione delle città di Cadice in Andalusia e di Lixus sulle coste del Marocco che la tradizione, unanime, colloca nel 1100 a.C., attribuendole ai Tiri. Ciò ha creato da sempre un profondo malessere negli storici giustificato dal fatto che l’archeologia as211

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sicura che i Fenici misero piede alla vicina Cipro solo nel 900 a.C. Chi erano quindi coloro che gli antichi chiamavano Tiri? Lasciamo che siano gli storici a riferire sulla situazione e la cronologia: Tra i problemi che crucciano maggiormente gli storici, quello della datazione degli insediamenti è particolarmente ricorrente. Quando la documentazione archeologica (costituita perlopiù da vasi) consente di proporre una data, ecco che questa è sovente diversa da quella fornita dalle fonti letterarie. È il caso, in particolare, di tre insediamenti fenici: Lixus, Cadice, Utica sono datati, in base ai testi, alla fine del XII sec., mentre gli indizi archeologici raccolti non risalgono oltre il VII sec.. Sarebbe anche il caso, almeno a prima vista, di Cartagine, la cui data di fondazione (l’814 a.C.) non è ancora stata completamente verificata, benché, nel caso particolare, il divario tra dati letterari e dati archeologici si sia in questo caso considerevolmente ridotto, sulla scorta delle scoperte più recenti e relative analisi. Lixus e Utica sono ritenuti i più antichi insediamenti fenici d’Africa. Ma l’origine fenicia di Lisso non viene indicata esplicitamente. Plinio il Vecchio (Storia naturale, 19.63) si limita a dire che il suo tempio di Eracle è più antico di quello di Cadice, il che autorizza a concludere che Lixus sia più antica. Per quanto riguarda Utica, secondo Velleio Patercolo (Storia romana, 1.2.3) venne fondata dopo Cadice. I dati cronologici di questi siti sono oggetto di numerose discussioni in quanto Velleio Patercolo data la fondazione di Cadice circa ottant’anni dopo la guerra di Troia, facendo riferimento – come per la Cartagine di Cipro, la cui fondazione fa risalire a una generazione prima della guerra di Troia – a un avvenimento leggendario che molti erano incapaci di collocare precisamente nel tempo. Questa cifra non sembra potersi spiegare in base a un calcolo di generazioni. Dal canto suo, Strabone (Geografia, 1.3.2; 3.2.14) data vagamente le fondazioni fenice in Spagna (senza nominarle) poco dopo la guerra di Troia (vedi anche Pomponio Mela, Corografia, 3.6) e “prima dell’epoca di Omero”. Appare dunque chiaro che gli antichi ricordavano soltanto un ordine e distinguevano gli avvenimenti che potevano localizzare nel tempo da quelli che erano incapaci di datare, per cui “prima di Omero”, per esempio, significa prima di qualsiasi letteratura e di qualsiasi trasmissione dell’informazione. Alcuni autori antichi avanzano date precise per la guerra di Troia: 1334 a.C. per Duride di Samo; 1209 per l’autore del Marmo pario; 1184 per Eratostene. Occorre però prendere queste date con prudenza, in quanto fondate su calcoli artificiosi di cui ignoriamo i meccanismi precisi. A titolo di confronto, ricordiamo che la data archeologica della distruzione di Troia (se la Troia VII degli archeologi americani è la Troia omerica) si colloca intorno al 1250 per alcuni e al 1200 per altri. Si può dunque constatare una vaga corrispondenza, ma nulla di più.

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Si perviene a una datazione precisa di Utica ricordando che la fondazione della città è talvolta collocata 287 anni prima di quella di Cartagine (Pseudo-Aristotele, Storie meravigliose, 134), il che corrisponde al 1101 a.C. se si adotta l’814 per la fondazione di Cartagine. Dal canto suo, Plinio afferma (Storia naturale, 16.40) che, al momento in cui scrive, Utica esisteva da 1178 anni. Poiché sappiamo che Plinio dedicò la Storia naturale a Tito nel 77 d.C., possiamo ritenere che la sua datazione corrisponde a quella avanzata dallo Pseudo-Aristotele, secondo il quale questa informazione proviene dalle Storie fenicie, e rientra pertanto nel sistema cronologico di Timeo di Tauromenio, che propone la data dell’814. Restano però da spiegarsi i 287 anni, per i quali si potrebbe pensare a otto generazioni di trentacinque anni prima che Pigmalione diventasse re di Tiro, visto che la fondazione di Cartagine avrebbe avuto luogo durante il suo regno. Si nota dunque una certa coerenza tra tutti questi dati: distruzione di Troia intorno al 1200/1180 (per gli antichi); prime fondazioni fenicie intorno al 1100. Tuttavia, per questo periodo non si può andare troppo per il sottile per quanto riguarda i dati cronologici. Per dare un senso storico a queste datazioni “alte” di Lixus e Utica, occorre rapportarsi agli avvenimenti dell’epoca. Appare piuttosto chiaramente che gli antichi, in particolare a partire dall’epoca ellenistica, integravano la “prima” espansione fenicia col fenomeno storico detto “ritorno degli Eraclidi”, a sua volta datato ottant’anni dopo la presa di Troia. Questo “ritorno” era per i Greci il simbolo di una nuova partenza della storia della Grecia, contrassegnata dall’arrivo dei guerrieri che avevano combattuto a Troia e che, analogamente all’Odissea omerica, avevano impiegato molto tempo per rientrare nel proprio paese79.

Come gli autori sopra sottolineano, esiste nella tradizione un legame che sfugge agli storici fra la prima espansione dei Fenici e il ritorno degli Eraclidi. Questi avvenimenti coincidono nei tempi con la fondazione sulle coste atlantiche di Lixus e Cadice, dove i più antichi templi conosciuti dedicati ad Ercole avvalorano la tesi di una fondazione da parte di genti che consideravano Eracle la loro guida spirituale. Così era per i Dori, come per quei Popoli del Mare che insediatisi nell’antica terra di Canaan furono chiamati Tiri dagli antichi e Fenici da noi oggi: Eracle Melkart80 è il supremo Dio di Tiro. La fondazione di Utica risultava quindi una tappa intermedia del viaggio che portava oltre le Colonne d’Ercole. Certamente non siamo i soli ad osservarlo: Si osserverà, per concludere su questo punto, il significato che Strabone (Geografia, 1.3.2) conferisce agli insediamenti della “Libia” (Maghreb orientale e Libia attuale), dicendo che si trovano a “metà strada” tra la Fenicia e lo stretto di Gibilterra. Strabone sottintende

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dunque un ruolo di collegamento marittimo per tappe. E in questa prospettiva si resta stupiti, al di là delle effettive date di fondazione, dell’organizzazione fenicia: con Utica che funge da tappa per Cadice, e poi Cartagine81.

Di certo non si può che rimanere “stupiti” di queste fondazioni lungo un percorso che porta inevitabilmente all’Oceano, a detta di Omero “padre di tutti noi”. Ecco dunque svelarsi la rotta segreta dei Fenici verso Occidente. All’indomani del consolidamento dei loro insediamenti nella terra di Canaan, questi Popoli del Mare sentirono l’inevitabile necessità di stabilire un percorso che da Tiro li portasse attraverso la tappa di Utica verso Cadice e Lixus, città che potremmo anche definire eraclidi. Esisteva però un’altra potenza già da tempo sulla scena, la città atlantica di Tartesso alla foce del Guadalquivir, una città i cui contorni sono sempre sfumati nel mito ma della cui concreta realtà storica nessuno dubita più. Tartesso era in grado di mantenere contatti attraverso rotte sempre più segrete con ciò che restava dell’Haou-Nebout, come si dimostrerà dai beni di lusso tipici delle isole del Grande Verde che verranno importati ai tempi di Salomone. Garbini afferma con argomenti decisamente convincenti che le prime frequentazioni in Mediterraneo attribuite ai Fenici sono in realtà sicuramente filistee. Egli sostiene che attorno al 1000 a.C. i Filistei e non i Fenici erano approdati in Sardegna alla ricerca del ferro. Uno di questi siti, Macompsisa (luogo del signore)82, odierna Macomer, rivestiva un’importanza particolare dal momento che si tratta di un’area dell’entroterra sardo mai raggiunto dai Fenici che si limitarono ad insediamenti esclusivamente costieri. La funzione di un centro commerciale nella zona di Macomer, che aveva nel porto di Bosa il suo naturale complemento non è difficile da individuare quando si tenga presente che in questa parte della Sardegna esistevano nell’antichità miniere di ferro. Ciò è rivelato dalla toponomastica, non soltanto nel chiaro nome di Monteferro ma anche in quello della cittadina di Bortigali formato su un’antica radice mediterranea (così viene convenzionalmente definito lo strato linguistico che non è né indoeuropeo né semitico) la quale significa “ferro” e si ritrova anche nel toponimo francese Bordeaux (Burdigala in latino); in semitico la parola si ritrova come parzil e barzel. Era dunque la ricerca del ferro che portava i Filistei in Sardegna, quel ferro che consentiva la loro supremazia militare in Palestina. Raccolto nella zona di Macomer, il minerale (ed altre eventuali merci) veniva imbarcato a Bosa, il sito portuale sul fiume Temo che sfocia sulla costa occidentale; anche qui è stata ritrovata una possibile traccia della presenza filistea, se è abbastanza antica l’iscrizione fenicia estremamente frammentaria che si è trovata

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ed è successivamente andata perduta. Che la zona di Bosa rivestisse una particolare importanza commerciale anche alcuni secoli più tardi è dimostrato dalla presenza, su un colle non lontano dalla città, del toponimo Magomadas, un “Mercato nuovo” stabilito verosimilmente da Cartagine non prima del V sec. a.C. A questa gente filistea approdata in Sardegna prima dei Fenici si deve l’origine degli influssi orientali che caratterizzano inequivocabilmente alcuni esemplari dei tipici bronzetti nuragici prodotti nella Nurra a partire dal IX sec. a.C.83.

La presenza filistea in Sardegna è stata definitivamente provata dal ritrovamento nel 1997 a Neapolis di un sarcofago antropomorfo di terracotta esattamente come quelli di Beth-Shean, che contenevano le spoglie dei Filistei di alto rango. Garbini afferma inoltre che anche il toponimo sardo “Gadara” è squisitamente filisteo derivando dalla radice -GDR “muro”, e si ritroverebbe nell’importante sito filisteo di Tell-Qasile. Numerosi sono i toponimi che con la stessa radice accompagnano l’espansione filistea nella terra di Canaan. La zona in cui è collocata Gadara è stata abitata fin da tempi molto antichi. Qui si trova, qualche chilometro a sud di Orosei, il villaggio nuragico di Serra Orrios, caratterizzato dalla presenza di due piccoli templi del tipo a megaron (pianta rettangolare allungata con ingresso sul lato corto preceduto da vestibolo), databili tra la fine del II e l’inizio del I millennio a.C. Nella stessa area è stata trovata ceramica micenea nonché lingotti di rame dalla caratteristica forma a pelle di bue. Per una valutazione storica di questi dati va tenuta presente la cronologia. Scrive Fulvia Lo Schiavo: “Fra la fine del Bronzo e l’inizio dell’Età del Ferro, nella Sardegna nuragica si verifica una ‘rivoluzione’”; essa si colloca, in termini di cronologia assoluta, nel X secolo a.C., visto che la data convenzionale che per la Sardegna e l’Italia segna il passaggio dall’Età del Bronzo a quella del Ferro è il 900 a.C. Come non mettere in rapporto questa “rivoluzione” con la presenza dei Filistei, con i loro toponimi fenici? Come si è visto nel capitolo precedente, il nome “Gadara” accompagna l’espansione filistea in Palestina: dopo quanto abbiamo detto, non ci meravigliamo di ritrovarlo anche in Sardegna. A Macompsisa i Filistei avevano creato una specie di avamposto commerciale per approvvigionarsi del ferro; a Gadara fondarono invece un insediamento vero e proprio (un villaggio nuragico difeso da mura?), ma anche questo con finalità commerciali: la zona è infatti ricca di minerali, piombo e zinco. […] Messa da parte l’improbabile ipotesi di una forte presenza cipriota in Sardegna84, resta il quadro dell’arrivo dei Sardi micenei intorno al 1200 a.C., i quali furono l’elemento propulsore della cultura nuragica

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della fase del Bronzo Recente (circa 1300-1150 a.C.). Quando poco più tardi giunsero i Filistei che andavano alla ricerca dei metalli, è probabile che antichi legami venissero riannodati mentre la società locale riceveva ulteriori stimoli85.

Gli studi di Garbini sono di capitale importanza tanto da riconfigurare l’intero orizzonte in quanto propongono un quadro della situazione come mai era stato prima rappresentato. Attingiamo direttamente dalla sua opera I Filistei: Lo sfruttamento delle miniere dell’Etruria e del Lazio È nota l’importanza che i giacimenti minerari delle Colline Metallifere toscane e dei Monti della Tolfa laziali hanno avuto per lo sviluppo economico e sociale della civiltà etrusca nella prima metà del I millennio a.C. Si potrebbe pertanto pensare che le coste del Lazio e della Toscana siano state oggetto privilegiato della frequentazione commerciale micenea già nel XIV e XIII sec. a.C. ma ciò non si è verificato: le leggende posteriori relative a personaggi greci giunti sulle coste tirreniche sono molte, le dirette testimonianze archeologiche sono nulle. Con la ripresa dei traffici nel Mediterraneo, sullo scorcio del II millennio a.C., avremmo dovuto trovare qui mercanti levantini, filistei o magari ciprioti, che andavano alla ricerca dei metalli: ma anche di costoro non vi è traccia. Se i Filistei dalla Palestina andavano a cercare il ferro in Sardegna, tralasciando la Toscana, la spiegazione è una sola: i Filistei, come prima di loro i Micenei, semplicemente ignoravano l’esistenza delle miniere toscane e laziali. L’aspetto più interessante della questione è che tali miniere erano ignote anche agli stessi abitanti del posto. La civiltà etrusca (nel gergo archeologico definita nelle sue fasi iniziali come protovillanoviana e villanoviana) incomincia a definirsi già nel XII sec. a.C. ma assume i suoi caratteri definitivi solo nel IX, quando i cosiddetti Villanoviani si scoprono ricchi di miniere e, abbandonati i loro villaggi nell’Italia centrale, danno vita ai primi nuclei delle loro città costiere. L’anno 900 a.C. segna convenzionalmente l’inizio dell’Età del Ferro in Italia e contemporaneamente della civiltà etrusca, che con il passaggio dal protovillanoviano al villanoviano subisce, stando almeno alle teorie più aggiornate, un processo di profonda trasformazione. Può essere interessante chiedersi come mai i Protovillanoviani, dopo aver dormito per diversi secoli sopra le loro ignorate ricchezze, si siano improvvisamente risvegliati Villanoviani, abili scopritori e sfruttatori dei metalli, grazie ai quali furono poi ben presto in grado di conquistare militarmente buona parte dell’Italia. Una prima parziale risposta a questa domanda ce la fornisce l’archeologia. A partire dal IX secolo a.C. nelle tombe etrusche più ricche si trovano oggetti votivi in metallo (bronzo), e in particolare mo-

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dellini di navi sarde deposti accanto ai cadaveri di donne di alto rango: si trattava evidentemente delle spose di origine sarda di signorotti locali, i quali avevano sancito con un matrimonio accordi politici ed economici con la classe dirigente dell’isola. A questo punto la situazione comincia a chiarirsi: non sappiamo naturalmente come gli Etruschi scoprirono l’esistenza delle miniere e il modo di sfruttarle, certo è che, appena saputo della scoperta, dalla Sardegna arrivò qualcuno, naturalmente con una nave, che in qualche modo voleva partecipare all’impresa; ed è difficile pensare che in tutto ciò i Filistei di Gadara non avessero alcuna parte. È probabile che all’inizio (nel IX secolo) vi fosse un accordo a tre, tra Etruschi, Sardi e Filistei: un accordo che prevedeva l’interdizione del Tirreno a tutti gli estranei, vale a dire ai Greci (quelli dell’Eubea erano particolarmente attivi in questo periodo) e agli orientali, fra i quali primeggiavano allora, per l’attività in Occidente, gli Aramei di Damasco. È un fatto che sulle coste tirreniche dell’Italia centrale fino all’inizio dell’VIII sec. a.C. non c’è traccia né di Greci, né di Aramei né di Fenici. Intorno al 775 a.C. qualcosa cambiò: gli Etruschi aprirono un porto franco nell’isola di Pitecusa (l’attuale Ischia), che si trovava all’altezza del loro confine meridionale, dove si concentrarono i mercanti (greci, aramei e fenici) che volevano scambiare le loro merci con quelle degli Etruschi; qui non troviamo Filistei, i quali in quello stesso periodo si ritirano dalla Sardegna settentrionale, alcuni per fondare Tharros, altri alla volta di una destinazione ignota. Nel gioco politico a tre, qualcosa andò male per i Filistei, che a questo punto escono di scena, lasciando agli Etruschi il predominio del Tirreno dove in precedenza essi si muovevano liberamente. Nacque così quella “talassocrazia” etrusca testimoniataci da Tito Livio quando scrive: “La potenza degli Etruschi, prima del dominio romano, si estendeva largamente sulla terra e sul mare: quanto essi siano stati potenti lo dimostrano i nomi del mare superiore e di quello inferiore, dai quali l’Italia è circondata come un’isola, dato che le genti italiche il primo lo hanno chiamato mare Etrusco, dal nome comune del popolo, e il secondo mare Adriatico, dal nome della colonia etrusca di Adria; i Greci chiamano quei mari Tirreno e Adriatico” (V, 33,7). In conclusione, possiamo sintetizzare la presenza filistea nel Tirreno in questo modo: giunti in Sardegna intorno al 1000 a.C. per ottenere il ferro e altri metalli, i Filistei fondano centri a Bosa, Macompsisa e Gadara, contribuendo allo sviluppo economico e sociale dell’isola; il Tirreno è percorso da navi filistee e sarde, che a un certo punto creano un circuito commerciale che include anche l’Etruria marittima. Il rafforzamento dei legami sardo-etruschi, specialmente in funzione anti-orientale, sfocia da un lato nell’allontanamento dei Filistei dai centri minerari, dall’altro nella creazione di un porto franco a Pitecusa, dove i Filistei sono assenti. E forse in questo quadro, dominato dall’espansione etru-

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sca, si inserisce anche il venir meno dell’elemento filisteo nell’Adriatico settentrionale, sopraffatto o assimilato da quello etrusco86.

Un breve commento a proposito dei metalli: la necessità evidenziata di reperire ferro poteva dipendere dalla scarsa quantità dello stagno reperibile in Mediterraneo; non è da escludersi la possibilità che l’interruzione delle rotte atlantiche dello stagno avessero determinato una scarsa quantità di bronzo sul mercato con un ovvio aumento di prezzo. Garbini afferma poi che la fondazione di Cadice in Atlantico sia da attribuirsi ai Filistei e non ai Tiri. Oltre al termine prettamente filisteo, come visto in precedenza a proposito di Gadara87, tra i pochi reperti arcaici provenienti dalla città andalusa troviamo uno scarabeo dell’VIII sec. a.C. riconducibile ai Filistei e non ai Fenici. La tradizione che attribuiva ai Tiri la fondazione di Cadice non era peraltro univoca. Posidonio affermava che si trattava di “menzogne fenice” e Garbini sostiene la sua ipotesi basandosi sul fatto che Cadice non poteva essere fondata prima di Cartagine, risalente all’874 a.C., anche per la mancanza di tracce archeologiche tirie precedenti l’VIII sec. a.C. Così conclude Garbini il capitolo dedicato alla fondazione di Cadice: È possibile che, come abbiamo accennato, solo l’espansione imperialista di Cartagine abbia sottratto ai Filistei il controllo di Cadice, come è possibile pure che qui sia giunta una colonia tiria, tra la fine dell’VIII e l’inizio del VII sec. a.C., la quale a un certo punto fece scomparire del tutto l’elemento filisteo della città con la sua cultura. Cadice subì dunque la stessa sorte di Tharros, presentandosi ai Greci, e quindi agli studiosi moderni, come una città tipicamente fenicia, “tiria”, anche se Posidonio non era d’accordo. Estesa e intensa, ma relativamente breve, fu dunque l’avventura mediterranea dei Filistei che abbiamo cercato di tratteggiare nelle pagine precedenti, senza nasconderci quanto di ipotetico in essa vi sia, dapprima come profughi nel delta padano, poi come colonizzatori e mercanti a Cipro, in Grecia, ad Ascoli88, in Sardegna e in Spagna, il loro destino fu quello di scomparire assimilati, o dalle popolazioni locali o dai coloni Fenici. Ma per circa due secoli il Mediterraneo fu probabilmente un mare in gran parte filisteo89.

Il dominio dei Popoli del Mare era quindi totale all’interno del bacino del Mediterraneo, eccetto che per l’Egitto decisamente isolato. Pelasgi e Popoli del Mare transitarono in Epiro per affidarsi al vaticinio dell’Oracolo di Dodona sulla difficile scelta di una nuova patria. Giochi politici e alleanze trasversali come fra Sardi, Etruschi e Filistei, impossibili da preconizzare senza il retroterra che ben conosciamo, dominavano quindi la scena dei nostri mari. Provenienti dall’Oceano e diretti alla colonizzazione 218

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del bacino Mediterraneo, a fini strategici dovevano assicurarsi dei capisaldi all’imbocco dello stretto di Gibilterra. Furono così fondate Lixus e Cadice. La questione se siano stati Filistei o Tiri diventa non fondamentale, poiché comunque si trattava di Popoli del Mare, di Pelasgi, che si identificavano nel culto di Eracle. Nei secoli in cui Cadice coniò monete, sino alla piena età romana, Eracle rappresentò l’esclusiva immagine riportata. Anche Mazzarino (pienamente d’accordo con Pareti) riteneva che la frequentazione fenicia della Sardegna non fosse anteriore al VII sec. a.C. L’antichissima iscrizione di Nora, che non può essere attribuita ad un’epoca posteriore al IX sec. a.C., è da sempre e dai più considerata uno degli elementi fondamentali a riprova delle precocissime frequentazione della Sardegna da parte dei Fenici. Lasciamo che il fascino dell’iscrizione sia svelato direttamente da Mazzarino: Guardiamo all’iscrizione di Nora, vi troviamo la formula b-Trshsh, “in Tarshish”. Se ne è dedotto che Tarshish è nome fenicio, dato dai coloni “tiri” così a Tarshish di Spagna come a Nora medesima. Ma è deduzione tanto ingegnosa quanto discutibile. Di Tarshish possiamo dare, per lo meno con lo stesso diritto, un’etimologia mediterranea o addirittura “tirsenica”, come quella di recente accolta dal Littmann. In ogni caso: la formula b-Trshsh nell’iscrizione di Nora si può spiegare in due modi: (1) o essa si riferisce a Tarshish di Spagna; (2) o essa indica Nora medesima. Di queste due ipotesi, la seconda, dato il contesto dell’iscrizione, è infinitamente più probabile: ma la circostanza che Nora sia designata come Tarshish può semplicemente spiegarsi pensando che i coloni di Nora provenissero da Tartesso di Spagna. E questa è, in vero, la spiegazione più naturale. In ogni indagine sull’antica colonizzazione fenicia, dobbiamo partire dal presupposto che una tradizione fenicia scritta esisteva già dal XII sec. a cui dobbiamo far rimontare gli Annali di Tiro: il popolo che inventò l’alfabeto ed ebbe Sanchunjathon, era anche un popolo che registrava i suoi annali. Questa tradizione fenicia non è del tutto muta per noi: attraverso Timeo e Menandro efesio, ce ne son pervenute tracce manifeste. Ora, cosa sapeva la tradizione timaica intorno a Nora? Essa sapeva che Norax, il mitico fondatore, era venuto ab usque Tartesso Hispaniae: dove Norax, è, sì, nome di mitico eponimo, ma l’origine da Tartesso non può rigettarsi con leggerezza. A questo punto, la formula bTrshsh si colora di nuova luce: Nora ha nome Tarshish, allo stesso modo in cui Cartagine di Ilercavonia e poi Cartagena a Tarseion hanno nome da Cartagine medesima; allo stesso modo in cui Nasso siciliana ha nome da Nasso legata a Calcide fondatrice, ed Euboia tunisina ai coloni eubeesi, e via dicendo.

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In conclusione: da una parte l’iscrizione arcaica di Nora, dall’altra la tradizione timaica confermano che Nora è fondazione tartessia. Confermano che in Sardegna i coloni fenici non vennero dalla madrepatria direttamente – sì invece dai loro nuovi stanziamenti in Ispagna90.

Dalla più antica ed enigmatica iscrizione della Sardegna ecco quindi dischiudersi un nuovo capitolo che riguarda la leggendaria, ricchissima città atlantica dell’Andalusia, Tartesso, conosciuta dalla Bibbia come Tarshish, termine che molto acutamente Mazzarino avvicina a quello di uno dei Popoli del Mare: i Tursha, meglio conosciuti come Tirseni o Etruschi. È da Nora che proviene anche la più antica menzione del termine “Sardegna” databile al IX sec. a.C. nella forma SRDN, quella stessa utilizzata dagli Egizi per identificare gli Sherden o Shardana.

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Traci, Frigi, Dacomesi, Sciti All’indomani dei fatti descritti nel tempio di Medinet Habu troviamo che il potere in Anatolia è passato ai Frigi. Gli Ittiti, completamente travolti, risorgeranno solamente in piccoli regni confinati alle estremità orientali di quello che era stato il grande e potente regno ittita. Di questo popolo che fra i primi venne riconosciuto come sicuramente indoeuropeo viene indicato come possibile luogo d’origine l’area tracomacedone. Ciò naturalmente in mancanza di un qualsiasi riscontro o prova archeologica, né ci era mai pervenuta prima di allora nessuna notizia o testimonianza della loro presenza in una qualche sede o regione. Grazie alle più recenti indagini i linguisti ritengono di poter affermare l’individualità della lingua frigia all’interno della famiglia indoeuropea, affrancandola da quell’origine tracia sostenuta in precedenza. È indubbiamente probabile che le popolazioni Gaska, tradizionalmente nemiche degli Ittiti, abbiano volentieri contribuito alla loro rovina, ma è ineccepibile che i Frigi rappresentino una realtà fantasma, poiché nulla della loro caratteristica cultura è mai apparso in nessun luogo a noi noto prima del loro arrivo in Anatolia. Ma la cultura frigia è troppo raffinata e complessa per non affondare radici più che secolari e non provenire da una patria originaria necessariamente fonte di grande civiltà. I Frigi erano valenti architetti che costruivano ricche case con frontone triangolare, ne rivestivano la facciata con eleganti piastrelle di terracotta decorate con motivi diversi tra cui grifoni, cavalli e alberi della vita e naturalmente svastiche. Gli interni erano splendidamente arredati con mobili di legno intarsiati ed arricchiti dalla presenza dell’avorio. Erano esperti inoltre dell’arte del vetro e pare siano i primi ideatori del mosaico. Non conosciamo allo stato attuale mosaici più antichi di quelli frigi (al centro del pavimento del palazzo di Gordion troviamo una stella a sei punte). È a questo popolo che si deve inoltre l’invenzione del ricamo d’oro sulle vesti (definito dai romani frigianus) nonché una serie di strumenti musicali fra cui il flauto che ne rivela la sensibile anima artistica. È inoltre considerato un popolo particolarmente avvezzo all’allevamento e all’ammaestramento dei cavalli. Il nome greco del carro da guerra deriva da un termine frigio, sottolineando l’importanza che questa tecnica di battaglia aveva per i Frigi. Il loro sovrano è chiamato Tarwanas, che include chiaramente il termine wanax utilizzato dai Micenei. Ci sono quindi elementi, insieme alle evidenti similitudini nel campo dell’arte, che portano a considerare Greci e Frigi appartenenti ad un’unica koinè culturale. Poche sono le iscrizioni frige conosciute e queste utilizzano un alfabeto molto simile al greco, con cui condivide diverse analogie lessicali. Kubila, principale

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divinità con gli attributi della Dea Madre è l’equivalente della Kubaba dei Luvi, la Kybeda dei Lidi e la Cibele dei Greci. L’elemento divino maschile era rappresentato da Mazeus, dio del firmamento. Il vuoto della loro origine e la loro sicura comparsa nello stesso momento storico delle invasioni dei Popoli del Mare ci rende sicuri della loro comune radice, come quella di tutti coloro che consideriamo Indoeuropei. Le fonti egizie non possono essere onnicomprensive e l’Anatolia non ci restituisce documenti specifici, eppure, all’indomani della distruzione del regno ittita da parte dei Popoli del Mare, troviamo i Frigi padroni della scena. La storia definisce trace anche le popolazioni che abitavano queste regioni durante l’Età del Bronzo, ma queste genti hanno ben poco in comune con la cultura tracia che condivideva con i Greci le stesse divinità, anzi, alcune di queste come Dioniso e Orfeo provenivano dalla Tracia stessa. Anche Apollo era particolarmente venerato tanto che ad Apollonia, l’odierna Sozopol sul Mar Nero, una sua scultura bronzea di 19,20 metri di altezza, opera dello scultore del V sec. Calamide, rappresentava una delle più famose immagini sacre dell’antichità. Anche gli Sciti appartengono in realtà, almeno nella fase più antica, alla medesima cultura. Anche se il loro linguaggio sembrerebbe di ceppo indo-iranico la tradizione afferma che erano guidati da Eraclidi. Il salto di qualità dell’Era del Ferro è evidente. A conferma di ciò riportiamo il parere di Heinz Siegert nel suo I Traci: Nel II millennio a.C. gli abitanti della Tracia antica si trovavano a un livello di civiltà relativamente basso. Dell’antica cultura agricola non era rimasto molto: l’uomo si contentava di quanto aveva e, praticando caccia e pesca, trovava nei boschi e nelle acque più di quanto gli abbisognasse. […] I Traci dell’antichità classica compaiono tuttavia sulla scena storica dei Balcani solo con l’avvento del ferro60.

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NOTE AL CAPITOLO III

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Nei testi egizi, il termine “keftiou” con cui si identificavano i Minoici appare per l’ultima volta sotto il regno di Amenophi III. I Micenei vengono apparentemente indicati con l’espressione “popolo del Grande Verde”. Anche i Cassiti appartengono agli Indo-europei almeno per quello che riguarda la loro classe dominante. J. Vercoutter, BIFAO 48, cit., p. 146. Così riferisce Killian delle distruzioni del TE III B: “Le grandi catastrofi, certo almeno quelle di Pilo, Menelaion, Micene, Tirinto, Midea, Proph, Elias e Troia, sono dovute ad un evento naturale e non ad un diretto intervento umano. Nell’Argolide l’alterazione geologica sulla costa di Tirinto, un nuovo sedimento di Loess di un metro e cinquanta sembra indicare ulteriori modificazioni naturali.”, in D. Musti, Le origini dei Greci, Dori e mondo egeo, cit., p. 75. Per altri queste vicende andrebbero collocate nel regno di Ramesse II. A. Nibbi, The Sea Peoples: A Re-examination of the Egyptian Sources, cit., p. 54. W.F. Edgerton, J.A. Wilson, Historical Records of Ramses III, The Texts in Medinet Habu, cit., p. 80. Ibidem, pp. 57-58. Ibidem, p. 112. S. Donadoni in D. Musti, cit., pp. 216-217. A.H. Gardiner, La civiltà egizia, cit., p. 246. Area geografica libica a contatto con i territori dell’Egitto. A.H. Gardiner, cit., p. 246. Ibidem, p. 247. A. Nibbi, cit., p. 7. Isole egee. N.K. Sanders, The Sea Peoples, Warriors of the ancient Mediterranean 12501150 BC, Thames and Hudson, 1978, London, p. 114. A.H. Gardiner, cit., pp. 235-236. G. Bunnens, I Filistei e le invasioni dei Popoli del Mare, in D. Musti, cit., p. 228. Ne approfittiamo a questo punto della nostra esposizione per riportare un brano dell’archeologo Stefan Hiller che, presentandoci questo periodo storico, riassume sinteticamente le problematiche come vengono impostate dai più: “In età storica i Dori occupavano vaste zone della Grecia meridionale, come anche un certo numero di isole dell’Egeo meridionale. Non si può seriamente dubitare che essi vi siano immigrati da un’altra parte della Grecia. La ‘migrazione dorica’ rappresenta quindi una realtà storica. Quand’anche, come talora accade, non si voglia prestar fede a una copiosa tradizione orale e letteraria, si è però obbligati a riconoscere che la situazione linguistica nella Grecia storica presuppone necessariamente una simile migrazione. L’affinità del dialetto arcadico con quello cipriota si può spiegare soltanto presupponendo una lunga evoluzione comune, che a sua volta può avere la sua origine solo da uno stretto rapporto geografico. L’originaria diffusione di un idioma ‘acheo’ – base co-

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mune dell’arcadico e del cipriota – nell’intero Peloponneso è suggerita non solo dai reperti linguistici achei nelle parti della penisola che sarà in seguito di lingua dorica o greco-nordoccidentale, ma anche dai testi micenei di Pilo e Micene. Inoltre, una vasta migrazione di genti achee, probabilmente peloponnesiache, verso Cipro alla fine dell’Età del Bronzo non solo corrisponde a una tradizione storico-mitica, ma può essere anche documentata archeologicamente. Dunque non può essere messa in dubbio un’immigrazione di Dori nel Peloponneso in età post-achea. Stando alla tradizione mitologico-letteraria, l’occupazione dorica ovvero, come viene anche chiamata, il ‘ritorno degli Eraclidi’, ebbe come punto di partenza la Grecia settentrionale o nord-occidentale e si verificò alla fine dell’Età del Bronzo, e precisamente 100 anni dopo un primo fallito tentativo di conquista del Peloponneso da parte di Illo, figlio di Eracle, ovvero 80 anni dopo la guerra di Troia. Se partiamo dalla data di Eratostene per la guerra di Troia, dunque circa il 1190, la tentata invasione di Illo risulta datata al 1210 circa, e il riuscito ritorno degli Eraclidi al 1100 circa a.C. […] Per quanto riguarda l’epoca della migrazione dorica, essa non può venir fissata anteriormente alla distruzione dei palazzi micenei, con i loro testi redatti in un dialetto non dorico; dunque va datata al più presto intorno al 1200 a.C. D’altro canto, essa è sicuramente anteriore all’instaurarsi della tradizione scritta nel tardo VIII secolo. Così, vista nel suo complesso, si conferma la tradizione di una migrazione dorica che prese le mosse dalla Grecia nord-occidentale e che cade all’incirca nel periodo di transizione dalla tarda Età del Bronzo alla prima Età del Ferro. Malgrado lo stato di fatto sia a mio avviso in buona misura acclarato, questa tradizione è stata ripetutamente messa in dubbio. Le motivazioni sono in primo luogo di natura archeologica. Finora non si è riusciti a identificare archeologicamente i Dori. Dal punto di vista archeologico essi assomigliano piuttosto a un fantasma, che noi colleghiamo a una serie di fenomeni, senza però che lo possiamo afferrare in concreto al momento della sua comparsa; benché siano evidenti le conseguenze della sua esistenza, ci mancano per così dire le orme, le impronte digitali conclusive della sua origine e della sua comparsa. Quando e in quali circostanze si compì la venuta dei Dori? La teoria, a suo tempo sostenuta da K.O. Müller e da H. Schliemann, secondo cui la distruzione delle poderose rocche micenee era opera dei Dori invasori, offriva quanto meno un appiglio negativo per la loro invasione, e insieme una spiegazione plausibile del tramonto dell’epoca micenea. Tuttavia questa tesi si è rivelata sempre più difficile e improbabile. Non è dato riconoscere una frattura culturale immediata. A parte le suddette distruzioni, la civiltà micenea perdura ancora per un buon secolo, e la vita nel XII secolo segue in gran parte il suo corso normale. Così pure, si è pensato ai Popoli del Nord e del Mare menzionati nelle fonti egiziane e si è tentato di attribuir loro la distruzione delle rocche micenee, ma senza prove convincenti. Poiché anche per questi Popoli del Mare mancano nell’area egea sicure testi-

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monianze archeologiche, noi continuiamo a trovarci di fronte a una distruzione senza autori documentabili”, S. Hiller in D. Musti, cit., pp. 135-137. O. Murray, La Grecia delle origini, Il Mulino, 1984, Bologna, p. 77. Omero, L’Iliade, XIV, 246; XIV, 201. D. Musti, cit., p. 49. Y. Bonnefoy, Dizionario delle mitologie e delle religioni, vol. 1, BUR Rizzoli, 1989, Milano, p. 583. Pausania, VIII, 5,3; Diodoro Siculo, IV, 57,2-58,4; Apollodoro, Bibl. St. II, 8,1-2. G.A. Lehmann, cit. da S. Hiller Cultura dorica nella tarda età del Bronzo? in D. Musti, cit., p. 151: “Gli Illei che compaiono come strato dominante delle regioni formanti il nucleo del Peloponneso greco-arcaico (Argolide, Corinzia, Laconia e Messenia) dopo la crisi della civiltà dei palazzi micenei si possono difficilmente distinguere dagli Illei illirico-balcanici”. P. Carlier, Regalità micenee e regalità doriche, in D. Musti, cit., pp. 332-333. A seguito dell’opinione di Risch che credeva di aver trovato (linguisticamente) tracce sia pur rare e incerte di un dialetto oltre al miceneo classico nei testi di lineare B, Chadwick propose di identificare i Dori come il substrato di un mondo miceneo che manteneva un linguaggio conservativo solo per ciò che riguardava il palazzo vero e proprio. Lasciamo rispondere l’archeologo Pierre Leveque che parla ad un simposio sull’argomento e dove Chadwick ha caldeggiato le sue teorie: “Nei nostri lavori è emersa anche una seconda problematica, più rivolta alla Grecia del primo millennio, geometrico o arcaico, epoca in cui i Dori rappresentano una realtà storica incontestabile, e che esercita egualmente nell’immaginario un ruolo molto più importante di quanto un tempo si sia detto. Questa realtà è già avvertibile nei dialetti, sulla genesi dei quali abbiamo ascoltato due esposizioni di cui occorre affermare nettamente che sono contraddittorie. Io non ho alcuna competenza in materia e mi accontenterò dunque di dire che la teoria rivoluzionaria di J. Chadwick solleva tante obiezioni. È penetrata da tante brecce colmate di volta in volta dalla sottigliezza del suo autore, che essa pare allo storico priva di verosimiglianza. Del resto, molte soluzioni sono possibili in questa vasta combinazione dei dialetti greci. P.G. van Soesbergen ha appena mostrato sorprendentemente che non si è affatto costretti ad accettare l’ipotesi di E. Risch che serve da base a J. Chadwick, ossia che nelle tavolette si distingue accanto al ‘miceneo normale’ un ‘miceneo speciale’: ipotesi sulla quale J. Chadwick ha voluto puntellare la sua strana proposta che il ‘miceneo speciale’ sarebbe il dorico e che i Dori costituirebbero il popolo dei regni micenei”, P. Leveque in D. Musti, cit., p. 410. Godart, invece, si convince addirittura che la caduta della Creta micenea coincida con la scomparsa di Keftiou attorno al 1370 a.C. e che l’unica ipotesi plausibile della caduta di Cnosso micenea sia dovuta all’attacco di altri Micenei provenienti dal continenti. La pressoché totalità degli studiosi rifiuta giustamente queste cronologie, preferiamo comunque riportare un brano di Godart che servirà a rendere l’idea del labirinto senza uscita in cui si cade una volta che si sia accettata l’erronea equivalenza Keftiou-Creta e Micenei-abitanti del-

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le isole del Grande Verde: “Intanto, dopo la morte di Amenophis III (1372/1370 a.C.), Creta scompare improvvisamente dai testi egiziani mentre l’Egitto continua ad avere relazioni commerciali regolari cogli altri popoli egei, gli abitanti delle isole in mezzo al Grande Verde, che Vercoutter identifica, in modo convincente, con i Micenei del continente. Questi ultimi continuano a portare in Egitto gli stessi prodotti che portavano una volta i Cretesi, e le relazioni tra l’Egitto e i Micenei sono senz’altro pacifiche. Ciò dimostra, a mio parere, che l’attitudine degli Egiziani verso i popoli egei non è cambiata dopo la morte di Amenophis III, ma che è piuttosto a causa di avvenimenti verificatisi a Creta intorno a quel periodo che l’isola di Minosse è improvvisamente scomparsa dalle fonti scritte egiziane e quindi dalle grandi rotte commerciali che portavano alla foce del Nilo. Il quadro storico che si sta delineando appare quindi abbastanza chiaro: tra il 1589 e il 1372/1370 a.C. (morte di Amenophis III), prima Creta, poi Creta alleata ai ‘Popoli in mezzo al Grande Verde’ ovvero ai Micenei del continente, è l’interlocutrice privilegiata degli Egiziani. La potenza della flotta cretese e il ruolo di intermediari tra la costa siro-palestinese e l’Egitto assolto dai mercanti Keftiou consentono ai Cretesi di portare verso la terra del Faraone, oltre ai prodotti dal loro artigianato, anche le materie prime provenienti dall’Oriente. Poi, intorno al 1372/1370 a.C., Creta scompare dalle fonti scritte egiziane mentre l’Egitto continua a mantenere gli stessi rapporti di amichevole collaborazione coi Micenei del continente. È difficile non identificare questa soluzione di continuità dei rapporti tra Creta e l’Egitto con l’avvenimento che, per eccellenza, ha contribuito a modificare i rapporti di forza nell’Egeo nel II millenio a.C., vale a dire la caduta della Cnosso micenea. […] Vedo quindi una sola ipotesi plausibile per spiegare la caduta della Cnosso micenea nel TM III A 2: il regno è stato abbattuto da altri Micenei provenienti dal continente”, L. Godart, in D. Musti, cit., pp. 180-184. D. Musti, cit., p. 408. L’identificazione dei Popoli del Mare con tribù provenienti dall’Europa centrale è un’antinomia che si commenta da sola. A. Sacconi in D. Musti, cit., p. 117. Non è riportato il testo miceneo e greco. A. Sacconi in D. Musti, cit., pp. 129-130. Non è neppure possibile escludere che i Dori abbiano approfittato di un indebolimento del potere miceneo per la presenza della seconda ondata dei Popoli del Mare. Tucidide, La guerra nel Peloponneso, cit., p. 6. D. Musti, cit., pp. 56-58. Ibidem, pp. 138-139. Tucidide nel Libro VI della Guerra nel Peloponneso fa un breve riepilogo della storia della Sicilia: “Ecco come fu un tempo abitata e quanti furono nel complesso i popoli che l’occuparono, si dice che i più antichi siano stati i Ciclopi e i Lestrigoni che abitarono una parte dell’isola: io non potrei dire di che razza fossero, donde venuti e dove siano andati a finire; ci si deve accontentare di

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quello che hanno cantato i poeti e di quello che comunque si sa di quei popoli. Dopo di essi, pare che per primi vi si siano stanziati i Sicani; anzi, a quanto essi affermano, avrebbero preceduto addirittura i Ciclopi e i Lestrigoni, poiché si dicono nati sul luogo; invece la verità assodata è che i Sicani erano degli Iberi, scacciati ad opera dei Liguri dalle rive del fiume Sicano, che si trova appunto in Iberia. Dal loro nome l’isola fu chiamata Sicania, mentre prima era Trinacria; e anche ora essi vi abitano nella parte occidentale. Espugnata che fu Ilio, alcuni dei Troiani sfuggiti agli Achei approdarono con le loro imbarcazioni in Sicilia, ove si stabilirono ai confini dei Sicani; e tutti insieme ebbero il nome di Elimi; Erice e Segesta furono le loro città. Ad essi si aggiunsero e con loro abitarono alcuni dei Focesi che, al ritorno da Troia, erano stati dalla tempesta sbattuti prima in Libia e di là poi in Sicilia. Dall’Italia, dove abitavano, i Siculi, che fuggivano gli Opici, passarono in Sicilia su delle zattere, come si può pensare e come anche si racconta, attraversando lo stretto dopo avere aspettato che il vento fosse propizio; o forse impiegarono qualche altro mezzo di navigazione. Di Siculi ce n’è ancora in Italia, anzi la regione fu appunto chiamata Italia da Italo, un re dei Siculi che aveva questo nome. Passati dunque in Sicilia in gran numero, vinsero in battaglia i Sicani che confinarono nelle regioni meridionali e occidentali e fecero sì che l’isola da Sicania si chiamasse Sicilia. Compiuto il passaggio, occuparono e abitarono le zone più fertili del paese, circa 300 anni prima che vi ponessero piede i Greci: e ancora adesso essi si trovano al centro e al nord dell’isola. Anche i Fenici abitavano qua e là per tutta la Sicilia, dopo avere occupato i promontori sul mare e le isolette vicine alle coste, per facilitare i rapporti commerciali con i Siculi”. Cit., pp. 408-409. Dionigi di Alicarnasso, Storia di Roma arcaica, Libro I, 18. Dionigi di Alicarnasso in V.M. Manfredi, Mare greco, Mondadori, 2001, Milano, pp. 98-99. Stefano Bizantino, in V.M. Manfredi, cit., p. 187. G. Garbini, I Filistei. Gli antagonisti di Israele, cit., p. 102. J. Vercoutter, BIFAO 48, cit., p. 125. W.F. Edgerton, J.A. Wilson, Historical Records of Ramses III, cit., Plates 85-86, p. 89. Benché sia stata adottata la classica traduzione di Gardiner, dall’esame dell’originale traduzione di Edgerton e Wilson esistono dubbi su una non corretta interpretazione che si presenta comunque come una traduzione non letterale. Dice il testo: “Removed and scattered in the fray were the lands at one time”. Una nota del testo a proposito del termine tradotto con “removed” (tfy in egizio) ci dice che l’idea primaria del termine tfy non è “saltare” (to leap) ma “to move away, to remove”, “it involves sudden or violent motion”. Va tenuto presente che gli aspetti catastrofici che avevano colpito l’Haou-Nebout su cui così tanto insistono gli Egizi non sono mai stati tenuti in considerazione dagli storici e da chi ha esaminato i testi, dal momento che i riferimenti di una tale catastrofe non avevano mai avuto rilevanza nel mondo delle isole egee. Noi riteniamo possibile quindi una diversa interpretazione che potrebbe essere la seguente: “I paesi che erano stati scossi con violenza si gettarono di colpo nella lotta”. Traduzione di A.H. Gardiner in La civiltà egizia, cit., p. 259.

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Traduzione di G. Garbini in I Filistei, cit., p. 17. J. Vercoutter, BIFAO 48, cit., p. 141. Ibidem, p. 142. L’idea che il regno ittita fosse “moribondo” è generalmente diffusa tra gli storici, a seguito dei documenti dove si fanno urgenti richieste di grano a causa dell’improvvisa catastrofe-carestia che abbiamo analizzato e che risulta un fenomeno globale dove solo l’Egitto sembra essere risparmiato. A.H. Gardiner, cit., pp. 258-260. G. Bunnens, in D. Musti, cit., pp. 236-237. Ibidem, pp. 239-240. L. Godart, L’invenzione della scrittura, Einaudi, 1992, Torino, p. 260. J. Vercoutter, cit., p. 143. Papiro Harris in G. Garbini, cit., p. 51. J. Vercoutter, cit., p. 148. Bibbia, Antico Testamento, Amos 9,7. Inoltre, a complicare le questioni vi è la traduzione biblica greca del passo di Amos che al posto di Kaftor traduce Cappadocia. Solo Wainwright fra gli studiosi sostenne la tesi di Kaftor localizzata in Cappadocia, in base soprattutto all’inconsistenza dei testi egizi a favore del paradigma che vedeva le isole del Grande Verde diventare le isole della Grecia e naturalmente Keftiou diventare Creta. Anche Garbini lo conferma: “Purtroppo, il manifesto errore di un traduttore biblico ha trovato largo seguito anche fra gli studiosi moderni. L’inopinata comparsa della Cappadocia accanto a Creta ha creato non poche difficoltà agli orientalisti, che si sono visti mettere seriamente in discussione anche la pacifica identificazione con Creta di Kaftor-Keftiou delle fonti orientali extrabibliche. I testi egizi, infatti, pur lasciando intendere come è assai probabile l’identificazione di Keftiou con l’isola mediterranea, non presentavano elementi tali da offrire un’assoluta sicurezza o da far escludere la possibilità di una sua localizzazione nella penisola anatolica”, G. Garbini, cit., p. 39. Anche a nostro parere si trattò di un errore del traduttore, poiché di certo, al tempo in cui scriveva, il termine “Kaftor” doveva già rappresentare un luogo completamente dimenticato. H. Siegert, I Traci, Garzanti, 1983, Milano, pp. 51-55. G. Garbiri, cit., p. 42. Garbini intende Keftiou, ovviamente. G. Garbini, cit., pp. 43, 44, 49. J.G. Macqueen, Gli Ittiti, Un impero sugli altipiani nel cuore dell’Oriente antico, una grande civiltà indoeuropea, cit., pp. 55-56. In aggiunta a ciò che è stato riportato nel testo, alleghiamo la nota inserita dall’autore: “L’idea di un monopolio ittita del ferro deriva da una interpretazione infondata di un documento ittita (Kbo I, 14) che parla di una richiesta di ferro da parte di un sovrano straniero. Per dettagli sul testo vedi A. Goetze, Kizzuwatna and the Problem of Hittite Geography (1940), pp. 27-33”. G. Garbini, cit., pp. 91-92. Ibidem, p. 216.

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Due iscrizioni dedicate ad Astarte Filistea Afrodite Urania sono state inoltre rinvenute a Delo e datano al 100 a.C. ca. Sull’inserimento di Popoli del Mare fra le tribù d’Israele vedi anche ultra, capitolo IV, L’incerta origine degli Ebrei. S. Mazzarino, Fra oriente e occidente, cit., pp. 203-204. La Bibbia in diversi passi afferma che il sacrificio di bambini è ancora un’usanza dei “popoli” che vivono nel Paese. G. Garbini, cit., p. 241. “Il racconto di Wen Amon illustra il crollo del prestigio egiziano; anche a Biblos, da sempre egiziana, l’emissario reale fu accolto con scherno e insolenza arrogante”, J. Bright, Storia dell’antica Israele, Newton Compton, 2002, Roma, p. 193. G. Garbini, cit., p. 64. Ricordiamo che il termine Tjekker è stato messo in relazione e da alcuni identificato col termine Teucri. Teucro, l’eponimo, è il leggendario fondatore di Salamina a Cipro. Sono per altro evidenti e testimoniate sull’isola notevoli tracce archeologiche dell’insediamento di Popoli del Mare. Esiste una notizia riportata da Pompeo Trogo (Giustino) in cui si afferma che gli Ascaloniti distrussero Sidone e che i superstiti fondarono Tiro 240 anni prima che si erigesse il tempio di Salomone. Come G. Garbini anche S. Mazzarino crede degno di fede questo fatto e considera che con tutta probabilità dovessero essere stati i Filistei che, insediatisi sulle rovine di Ascalon, distrutta anni prima da Mereptah, avessero prodotto tali distruzioni nella terra di Canaan. G. Herm, L’avventura dei Fenici, Garzanti, 1989, Milano, pp. 55-56. “A Qubur el-Walayda, una località palestinese a sud di Gaza e quindi in zona tipicamente filistea, è stato trovato un ostrakon in lingua fenicia (una brevissima iscrizione contenente nomi propri) che presenta due strane particolarità: la direzione della scrittura va da sinistra a destra (anziché da destra a sinistra, come avviene di regola nelle scritture semitiche) mentre i segni presentano tutti una struttura verticale; il che significa che alcuni di essi, come l’alef, la yod e la shin, risultano ruotati di 90 gradi, con la conseguenza che l’alef e la shin appaiono identici ad alfa e sigma greci. Dato che questa epigrafe filistea sembra doversi datare intorno all’XI-X secolo a.C. non si può parlare di un antecedente diretto della scrittura greca, la quale peraltro, almeno in alcuni documenti più antichi, sembra più affine a quella fenicia classica che a quella filistea di Qubur el-Walayda; l’impressionante somiglianza di quest’ultima con la scrittura greca, sia nella forma dei segni sia nella direzione della scrittura, non può non far pensare a una qualche influenza filistea nel lungo e complesso processo che portò alla definizione dell’alfabeto greco. Un’influenza che potrebbe essere stata determinante se si rivelasse esatta l’ipotesi che vede in un altro ostrakon filisteo (quello di Izbet Sarta di cui tratteremo a suo luogo) l’impiego di segni consonantici fenici per esprimere le vocali; se ciò fosse vero, spetterebbe ai Filistei e non più ai Greci il merito di aver genialmente trasformato la scrittura consonantica fenicia in una scrittura pienamente alfabetica, con la notazione sistematica delle vocali”, G. Garbini, cit., pp. 110-111.

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L’alfabeto e il geroglifico avrebbero quindi un’unica patria d’origine? M. Gras, P. Rouillard, J. Teixidor, L’universo fenicio, Einaudi, 2000, Torino, pp. 57-60. Per questioni puramente linguistiche di interposizione consonantica, il termine “melkart” appare ai linguisti molto più simile al termine “eracle” di quello che appare ai profani. M. Gras, P. Rouillard, J. Teixidor, cit., p. 61. Macom-Sisa; Sisa; Sisara; Sar. cfr. scheda Il Tiranno e il Signore, infra, p. 206. G. Garbini, cit., pp. 114-115. È stata avanzata l’ipotesi di un forte interessamento della Sardegna da parte di genti cipriote. Cipro in effetti si è sempre manifestata altamente ricettiva nei confronti dei popoli che l’hanno invasa nei secoli e da sempre ha avuto la funzione di base per un’espansione nel Mediterraneo. Era quindi sempre stato un crocevia di genti diverse mano a mano popolato da genti sempre più intraprendenti dei ciprioti stessi. G. Garbini, cit., pp. 115-119. Ibidem, pp. 121-123. Si tratta del toponomastico Gadir (GDR) che con l’articolo diventa Ha-Gadir. Garbini sostiene che anche la città di Ascoli Piceno sia una fondazione filistea anche per la sovrapponibilità del termine “Ascalon” eminentemente filisteo. G. Garbini, cit., p. 126. S. Mazzarino, cit., p. 306.

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CAPITOLO IV

Fra mito e storia

4.1. Tartesso – la Tarshish biblica Della storia millenaria dell’Haou-Nebout, così costellata da momenti in cui la furia del Dio si abbatté catastrofica, è possibile determinare quindi le ultime fasi. Una inattesa violenta catastrofe si scatenò nei primi anni del regno di Mereptah e i successivi decenni dovettero soffrire di una instabilità che sfociò nella grande ed ultima migrazione. La sequenza concatenata di eventi catastrofici descritta a Medinet Habu – caduta di un terrificante meteorite in Atlantico cui erano seguiti un gigantesco tsunami e devastanti terremoti – non sarebbe però stata sufficiente a causare un esodo di massa se non fosse intervenuto un progressivo inabissarsi delle isole. Di certo i popoli non ritennero di poter rimanere ancora, si compì così la più grande migrazione della storia. Scomparvero per sempre le isole o come appare più probabile furono solo abbandonate e alcune sopravvissero fino all’epoca ellenistica così ricca di testimonianze di fantomatiche isole in Atlantico? È difficile credere che siano state abbandonate anche quelle preziose aree minerarie che non si fossero inabissate. Ciò che restava dell’Haou-Nebout a nostro parere non fu completamente abbandonato ma lo sfruttamento soprattutto minerario continuò per secoli e la città biblica di Tarshish-Tartesso con tutta probabilità usufruiva proprio di queste ricchezze. La condizione di estrema precarietà in cui si trovavano queste terre richiese che il reale centro commerciale e di raccolta si trasferisse sulla terraferma ed evidentemente Tartesso possedeva i requisiti necessari. La Bibbia lo testimonia nel Salmo 72 di Salomone in cui il re di Tarshish è definito “re anche delle isole”1. È Tarshish che contribuisce ad arricchire il regno di Salomone, come emerge dal celebre brano di Ezechiele e naturalmente le ricchezze di Tarshish sono minerarie come quelle dell’Haou-Nebout: Tarshish negoziava con te per l’abbondanza di ogni bene e in cambio di argento, oro, stagno e piombo diffondevano i tuoi prodotti. […] Le navi di Tarshish erano alle tue dipendenze per la tua merce. Ti sei riempita e ingrandita molto nel cuore del mare2.

Come in precedenza vi erano le navi speciali di Keftiou, ora sono le navi speciali di Tarshish a solcare i mari dei confini del mondo, partendo ogni tre anni dalla città di Tiro grazie al sodalizio di Salomone con il re Hiram il 231

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rosso. La Bibbia testimonia quindi che i Fenici, in un’epoca in cui non avevano basi in Mediterraneo, anzi ancora non avevano messo piede neppure a Cipro, possedevano invece navi di alto bordo e la conoscenza delle rotte per raggiungere la regione tartessica. La Bibbia compie un passo ulteriore e straordinario quando nel Libro di Isaia afferma che “la città di Tiro è figlia di Tarshish” (Isaia 23, 10). È superfluo ricordare che questa città che dovrebbe trovarsi sepolta in un punto ancora non determinato dell’ampio e paludoso estuario del Guadalquivir3 è sempre stata avvolta dal mistero di come una così potente città sorgesse nell’Atlantico, quali fossero i suoi domini, quali le sue ri-

Tav. 24: Sopra: La dama di Elche, detta anche Nostra Signora di Tartesso. L’enigmatica straordinaria bellezza di questa figura altresì ricoperta da enormi gioielli definiti orientalizzanti appare estranea alle culture che conosciamo. La celebrata ricchezza del regno tartessico è però confermata dal ritrovamento del tesoro del Carambolo e dei suoi favolosi gioielli dalle dimensioni inconsuete. Pagina a fianco: Magnifico pettorale in oro a forma di pelle di bue (ox lingots) dal tesoro di Carambolo.

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sorse. La maggioranza degli studiosi riconosce comunque la storicità di Tarshish-Tartesso di cui possediamo anche frammenti linguistici. Alla civiltà turdetana o turdula (tartessa) che vantava una millenaria atavicità apparterrebbe il tesoro del Carambolo e quella favolosa, stupefacente scultura conosciuta come “La dama di Elche”. È opportuno analizzare le fonti bibliche che narrano delle merci importate in Israele poiché esprimono un cambiamento non facilmente comprensibile e che ha generato dubbi sulla collocazione geografica di Tartesso. Leggiamo dal Primo Libro dei Re: “La flotta del re con quella di Hiram andava una volta ogni tre anni a Tarshish, donde riportava oro, argento, denti di elefante, scimmie e pavoni”4. Anche nel Secondo Libro dei Paralipomeni si legge: “Dell’argento non si faceva alcun conto a quel tempo, perché le navi del re andavano ogni tre anni coi servi di Hiram a Tarshish, e di là portavano oro, argento, avorio, scimmie e pavoni”5. Gli avvenimenti di cui ci riferisce la Bibbia riguardano un’epoca di poco posteriore al 1000 a.C., in cui avvenne il sodalizio fra Salomone e Hiram, signore di Tiro. Ad epoca più tarda di circa tre secoli si riferiscono altri brani come quello del Libro di Ezechiele: “Tarshish commerciava con te (Tiro) con ogni sorta di prodotti, pagava le tue mercanzie con argento, ferro, stagno e piombo”6. L’argento di cui, come sottolineato nel testo del Secondo Libro dei Paralipomeni, non si faceva alcun conto in quei tempi, appare essere il bene più prezioso con cui ora Tarshish esegue i suoi pagamenti. Questo contrasto è apparso pressoché insanabile ad alcuni studiosi che hanno avanzato la teorica possibilità che esistessero due città di nome Tartesso. Oro, preziosi, avorio, scimmie e piume di uccelli: l’ambiente in cui ci 233

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proietta questa serie di prodotti citati e riconfermati dalla Bibbia, e che rispecchia il commercio del X e del IX sec. a.C., è uno spazio decisamente esotico tanto che, per certi autori, si adatterebbe meglio a certe aree tropicali o subtropicali dell’Africa o dell’estremo Oriente. Si tratta indubbiamente di merci preziose tipiche dell’Haou-Nebout. L’argento, che rappresenta la ricchezza maggiore come oggi ben sappiamo dell’area tartesside (Andalusia), non è neppure tenuto in considerazione in queste prime fasi del I millennio a.C. e si raccontano storie del tipo che la popolazione tartessa utilizzi comunemente piatti e bicchieri d’argento che se ne possano reperire tali quantità che i Tiri sostituiscono le ancore di piombo con altre d’argento. È un fatto che dal VII-VI sec. la Bibbia parlerà solo ed esclusivamente del commercio delle ricchezze tipiche dell’area iberica con l’aggiunta dello stagno della Cornovaglia (argento, piombo, stagno, ferro). Noi riteniamo che questo tipo di passaggio da merci preziose ad altre decisamente inferiori possa significare il termine ultimo dello sfruttamento delle isole dell’Haou-Nebout. Le miniere con tutta probabilità continuarono ad essere sfruttate sino all’ultimo, finché tutto scomparve per sempre. I segreti dei tartessi sulla navigazione attraverso il paludoso labirinto del Nebout, per giungere alle isole da sempre ricche dei prodotti menzionati, forse decaddero definitivamente, anzi potrebbe proprio essere stata questa perdita a rendere Tartesso solo una scomoda antagonista di Cartagine e quindi potenzialmente eliminabile. Si ritiene generalmente che Tartesso fu distrutta nel V sec. da Cartagine e che quest’ultima pose il divieto di navigazione a qualsiasi altro paese al di là delle Colonne d’Ercole. Ciò non poteva che servire ad assicurarsi l’assoluto controllo su di un’area che forse ancora in tempi ellenistici poteva continuare a dar frutti. Come racconta Erodoto, anche i Greci avevano avuto a che fare con Tartesso. I Sami, per primi, vi giunsero quasi per caso spinti da una tempesta e scopertane la ricchezza commerciale ne derivarono immensi e proverbiali guadagni. Poi i Focei, in fuga dai Persiani, navigarono sino a Tartesso, dove regnava da ottant’anni Argantonio, il quale gli offrì di stabilirsi nel territorio tartessico. Poiché rifiutarono desiderosi di tornare in patria, li rifornì dell’argento necessario a ricostruire delle possenti mura cittadine. È indubbio che con la caduta di Tartesso scomparve anche la conoscenza dell’Atlantico da parte dei Greci; cala per loro il sipario sullo spazio oltre le Colonne d’Ercole. In un frammentario testo attribuito a Pseudo-Aristotele considerato del IV sec. si legge: Dicono che nel mare al di là delle Colonne d’Ercole, a molti giorni di navigazione, i Cartaginesi abbiano scoperto un’isola abitata che possiede ogni specie di vegetazione, fiumi navigabili e una meravigliosa varietà di altre risorse. Quando i Cartaginesi, attratti dalle ricchezze del-

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l’isola, cominciarono a trasferircisi, Cartagine deliberò che fossero messi a morte tutti coloro che l’avevano potuta vedere, in modo che non se ne facesse più parola, evitando così emigrazioni di massa che avrebbero indebolito il potere e la prosperità di Cartagine7.

Queste notizie sono confermate anche da Diodoro Siculo nella sua Biblioteca storica: I Fenici, poi, esplorando la costa oltre le Colonne per le ragioni che abbiamo enumerato, mentre navigavano lungo la costa della Libia furono spinti dai forti venti a grande distanza nell’Oceano. E dopo essere stati trascinati dalla tempesta per molti giorni, essi scesero a riva sull’isola di cui abbiamo parlato più sopra, e quando ne ebbero visto la felicità e la bellezza, la resero nota a tutti gli uomini. Perciò i Tirreni, al tempo in cui erano padroni del mare, proposero di inviarvi una colonia: ma i Cartaginesi lo impedirono, in parte perché temevano che molti abitanti di Cartagine si trasferissero colà per l’eccellenza dell’isola, in parte per tenere quel luogo come rifugio in caso di un imprevedibile rivolgimento della fortuna, se mai un grande disastro colpisse Cartagine8.

Le Colonne d’Ercole separarono quindi ad un certo punto il mondo interno mediterraneo da quello oceanico esterno. Nel pensiero greco classico rappresenteranno un limite inviolabile ed interdetto. È indubbio che fonte di dissuasione erano racconti apparentemente fantasiosi, per lo più riferiti dai Cartaginesi, che popolavano lo sterminato Oceano di mostri e di pericoli ma, filtrando ciò che è evidentemente fantastico, viene a delinearsi ripetutamente una sorprendente immagine già conosciuta.

4.2. Oceano L’Oceano invoco, padre imperituro, eterno, // origine degli immortali dèi, e degli uomini mortali, // che cinge intorno tutta la terra in cerchio9.

Traspare con evidenza dallo studio dei classici che l’Oceano non è visto dai Greci come quell’immensa distesa azzurra o verde con acque limpide e profonde, bensì è considerato nebbioso, melmoso e torbido. Vi si manifesta una sorta di caos degli elementi che producono un incomprensibile disordine. Da Dove finisce il mondo di James S. Romm: “In merito alla scarsa profondità e all’aspetto torbido delle acque di Oceano, sono numerosi gli scrittori antichi che da Platone a Plutarco vi fanno riferimento”10. Il pensiero dei Greci si dimostra unanime e vi corrisponde un’unica vi235

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sione, confermata anche dallo stesso Aristotele che nei Meteorologica afferma che il mare oltre le Colonne d’Ercole è poco profondo a causa del fango ma non ventoso, perché si trova in un avvallamento e gli stessi concetti e le stesse immagini sono espresse anche dal poeta Pindaro. Possediamo anche testimonianze dirette: Annone verso Sud e Imilcone a Nord, entrambi Cartaginesi, esplorarono l’Oceano. Si trattava di imprese molto celebrate dai Cartaginesi. Da un documento (codice 398 di Heidelberg) sappiamo che Annone aveva il compito di fondare nuove città libofenice. La sua spedizione oceanica risulta strepitosa per il lungo percorso a sud delle coste africane, per il naviglio che contava ben sessanta penteconteri e per la moltitudine di individui, riportati in numero di 30000. Nel lungo periplo Annone indicava la presenza di una grande isola con al centro una grande palude e una seconda che presentava chiari elementi vulcanici. Ancor più interessante appare il viaggio di Imilcone che giunse sicuramente in Irlanda chiamata Ibernia e alle coste della Cornovaglia, al fine di collegare Cartagine con le aree produttrici di stagno (le isole Cassideridi). Avieno ci riferisce direttamente dal diario di viaggio di Imilcone: Imilco, il Cartaginese che riferiva di aver fatto egli stesso il viaggio, affermava che questa distanza non può essere colmata in meno di quattro mesi. Non c’è brezza a portare avanti lo scafo, e un lento e pesante fluire di torbida acqua rallenta il cammino. Egli aggiunge che una massa di alghe portata dalle onde alta come una siepe, intralcia la prua. Talvolta invece, racconta che il mare è così poco profondo che il suo fondale è a malapena coperto dalle acque. […] Una scura nebbia ammantava l’aria come in una specie di velo; le nuvole occultavano sempre la vista del mare e questa oscura cortina non si sollevava neanche durante il giorno11.

Dopo di lui Pitea di Marsiglia giunse sino alle isole britanniche se non addirittura in Scandinavia o in Islanda (Thule?) lasciandoci questa descrizione definita bizzarra dell’estremo Nord dell’Oceano. Dal suo diario intitolato Sull’Oceano: Per queste regioni non si poteva parlare di terra come tale, o di mare, o di aria, ma di una specie di mescolanza di tutte queste insieme, simile ad un polmone di mare12 in cui si vedono in sospensione terra, acqua e ogni altra cosa. Questa sostanza è come una fusione di tutte le altre e non ci si può né camminare sopra né navigare13.

Cosa incontrarono quindi Imilcone e Pitea? Una caotica mescolanza di elementi, terra, aria, acqua, fuoco da rendere indefinibile il tutto e, immersa a sua volta nelle nebbie, una melma gelatinosa che impedisce la navigazione e non consente di camminarvici sopra. 236

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È nostra convinzione che questi esploratori incontrarono il Nebout, o ciò che ancora ne residuava. È difficile non associare a queste immagini la stessa essenza paludosa e l’aspetto di isole che appaiono galleggiare sull’acqua che ci riportano gli studi del termine “nebout”. Anche nel mondo romano è presente l’eco del Nebout. Tacito fornisce un contributo parlandoci delle popolazioni più settentrionali fra i Germani e dichiara: Al di là di essi c’è un altro mare, stagnante e quasi immobile, che cinge e chiude la terra: lo si crede perché l’estremo rifulgere della luce del sole al tramonto dura fino all’alba, in un chiarore tale da offuscare le stelle; la credenza popolare aggiunge che, al sorgere del sole, si ode un suono e si vedono le forme dei suoi cavalli e i raggi attorno al suo capo. Soltanto fin là, e questo è vero, si estende il mondo14.

Di ben altra consistenza appare ora il legame fra Oceano e Haou-Nebout, così sostenuta sia dalla costante convinzione del pensiero greco e latino, sia dalle testimonianze dei primi navigatori ufficiali che la storia ci consegna e le cui gesta erano state ritenute reali dal mondo greco e romano e comprovate da fatti concreti. Naturalmente gli storici, pur ammettendo la veridicità di queste esplorazioni, hanno sempre deriso certi racconti sull’impraticabilità dell’Oceano né vi hanno mai collegato il concetto di “nebout”. Eppure, anche la presenza di mostri marini nei racconti dei primi esploratori non dovrebbe far troppo sorridere dal momento che fino a qualche tempo fa il Golfo di Biscaglia era la meta prediletta di enormi cetacei, secolare fonte alimentare per le popolazioni della regione. Il Nebout sembrerebbe quindi ancora presente come impraticabile palude marina alla fine del V sec. a.C. Una speculazione sul mito può interessarci: se come affermato nell’Iliade e altrove è Oceano il padre degli Dèi, dovrebbe per i Greci rappresentare, in senso strettamente temporale, il mondo divino precedente a quello “olimpico”. Oceano sarebbe quindi depositario del caos prima dell’avvento di questa era e rappresenterebbe quel passato oramai perduto ed interdetto. L’isola di Thule, “l’ultima Thule” di Virgilio, appare come un residuo di questo “primo tempo”. Descritta da Pitea nel suo purtroppo perduto Intorno all’Oceano, rappresentava il limite estremo del mondo. Gli eruditi del tempo si divisero sulle questioni esposte da Pitea ma autorevoli geografi e matematici come Eratostene ed Ipparco consideravano veritiere le osservazioni astronomiche ed il racconto, difficilmente credibile a quei tempi, sulle caratteristiche delle regioni polari, dove si vivono sei mesi di luce e sei mesi di buio. Vissuto all’epoca di Alessandro Magno, Pitea creò con l’identificazione dell’isola di Thule una discussione che non si è ancora conclusa, anche se l’Islanda è spesso apparsa essere la più credibile e probabile candidata. Sono molti e autorevoli gli scrittori classici che ci 237

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hanno lasciato brani che riguardano Thule e le osservazioni di Pitea, come Plinio il Vecchio nelle Storie naturali, dove si dimostra che il comportamento della luce nelle regioni polari era un’acquisizione scientifica già accettata e comprovata a livello teorico in epoca alessandrina. Da Plinio: Così succede che per l’accrescimento variabile delle giornate, a Meroe il giorno più lungo comprende dodici ore equinoziali e 8/9 d’ora, ma ad Alessandria quattordici ore, in Italia quindici, diciassette in Britannia, dove le chiare notti estive garantiscono senza incertezze quello che la scienza del resto impone di credere, e cioè che nei giorni del solstizio estivo, quando il sole si accosta di più al Polo e la luce fa un giro più stretto, le terre soggiacenti hanno giorni ininterrotti di sei mesi, e altrettanto lunghe notti, quando il sole si è ritirato in direzione opposta, verso il solstizio d’inverno. Pitea di Marsiglia scrive che questo accade nell’isola di Thule che dista dalla Britannia sei giorni di navigazione verso Nord; ma certuni lo attestano per Mona, distante circa duecento miglia dalla città britannica di Camaloduno15.

Anche Tacito ci testimonia della conoscenza e dell’avvistamento della mitica Thule nella sua opera dedicata alla conquista della Britannia da parte del genero Agricola: La flotta romana, che allora per la prima volta circumnavigò queste coste nell’estremo mare ha confermato che la Britannia è un’isola e contemporaneamente ha scoperto e sottomesso isole fino allora sconosciute chiamate Orcadi. Fu avvistata anche Thule, ma gli ordini erano di non procedere oltre, perché si avvicinava l’inverno. […] Quel mare stagnante faticoso per i rematori, a quanto si dice non è neppure agitato dai venti, come avviene per gli altri: credo che ciò si debba alla scarsezza di terre e di monti, causa e ragione prima delle tempeste, e perché una massa d’acqua sconfinata e profonda offre maggiore resistenza16.

Pur sostanzialmente interessati ad aspetti più prettamente storiografici che mitici, non possiamo dimenticare che prima del regno olimpico di Zeus la tradizione inequivocabilmente stabilisce un’Età dell’Oro governata da Cronos, il Saturno dei Romani. Dove si era vissuta la più felice Era dell’Uomo, bruscamente interrotta dall’azione di uno Zeus che possiede tutte le caratteristiche di Dio della tempesta? Diventa estremamente significativo il fatto che il Nord dell’Oceano Atlantico venisse chiamato il mare Cronio poiché era questo Oceano il dominio di Cronos stesso. La concreta possibilità che il dorato regno di Cronos vada localizzato in 238

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un’era conclusasi tragicamente è anche suggerita dal fatto che Cronos impera sui Campi Elisi. Questa felice Era primordiale il cui ritorno era auspicato anche da Virgilio era stata soppiantata dal fragore delle tempeste di Zeus, scardinata dai movimenti tellurici causati da Poseidone17 ed infine sprofondata nel mondo nebbioso di Ade, il terzo dei figli ribelli di Cronos. Nei grandi poemi epici Ulisse, per raggiungere l’Ade, percorre verso l’estremo Nord la corrente del fiume Oceano ma anche gli Argonauti solcano la Cronide, il mare Oceano settentrionale. Sempre da Plinio viene questa importante affermazione: “A una giornata di navigazione da Thule c’è il mare solidificato che taluni chiamano Cronio”18. Da un testo molto particolare, Il volto della luna di Plutarco, possiamo ricevere una serie di indicazioni che (naturalmente) sono sempre apparse sconclusionate. Plutarco è però profondamente colto ed iniziato. Nato in Beozia da un’importante famiglia studiò ad Atene, poi gli incarichi politici lo condussero a Roma dove fu introdotto negli ambienti della corte imperiale. Nella sua vita ricoprì anche la carica di Sommo Sacerdote a Delfi. Estremamente note sono le sue Vite parallele. Dall’ Introduzione al testo Il volto della luna di Dario Del Corno: Come sempre in Plutarco, il discorso è composito: mitologico ma scientifico, geografico e geometrico, letterario e filosofico. E soprattutto sarà in questo testo che ritroveremo tracce preziose, e altrimenti occultate nella tradizione greca, del regno di Crono, di quel sovrano dell’Età dell’oro, precedente a Zeus, al quale sono connessi i misteri ultimi del mondo, poiché soltanto Crono del mondo stesso “conosce le misure”19.

Da Il volto della luna (a parlare è un cartaginese che ha ascoltato una storia che si riferisce ai tempi di Eracle): […] lungi nel mare giace un’isola, Ogigia20, a cinque giorni di navigazione dalla Britannia in direzione Occidente. Più in là si trovano altre isole, equidistanti tra loro e da questa, di fatto in linea col tramonto estivo. In una di queste secondo il racconto degli indigeni si trova Crono imprigionato da Zeus e accanto a lui risiede l’antico Briareo, guardiano delle isole e del mare chiamato Cronio. Il grande continente che circonda l’Oceano dista da Ogigia qualcosa come 5000 stadi, un po’ meno dalle altre isole; vi si giunge navigando a remi con una traversata resa lenta dal fango scaricato dai fiumi. Questi sgorgano dalla massa continentale e con le loro alluvioni riempiono a tal punto il mare di terriccio da aver fatto credere che fosse ghiacciato. La costa del continente è abitata da Greci lungo le rive di un golfo che è grande almeno quanto la Meotide e sbocca in mare aperto pressappoco alla stessa latitudine dello sbocco del Caspio. Essi considerano e chiamano se stessi “con-

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tinentali” mentre danno agli abitanti di queste nostre terre, circondate completamente dal mare, il nome di “isolani”. Sono convinti che con il popolo di Crono si mescolarono in prosieguo i compagni di Eracle: rimasti indietro, questi riaccesero per così dire a forte e vigorosa fiamma la scintilla greca, che si andava ormai spegnendo sopraffatta dalla lingua, dai costumi e dal modo di vita dei barbari; ecco dunque la ragione per cui Eracle vi gode degli onori supremi, seguito appena da Crono. Quando ogni trent’anni entra nella costellazione del Toro l’astro di Crono, che noi chiamiamo Fenonte e loro – a quanto mi disse – Nitturo, essi preparano con largo anticipo un sacrificio e una missione sul mare. Estraggono con molte navi, cariche di abbondante servitù e delle provviste che sono necessarie per affrontare a remi una simile traversata e per sopravvivere a lungo in terra straniera. Una volta salpati i messi vanno incontro, com’è naturale, a destini diversi. Quanti scampano al mare approdano anzitutto alle isole esterne, abitate da Greci, e lì hanno modo di osservare il sole su un arco di trenta giorni scomparire alla vista per meno di un’ora-notte, anche se con tenebra breve, mentre un crepuscolo balugina a Occidente. Sostano novanta giorni, fatti oggetto di onori e attenzioni, considerati e trattati come santi; poi i venti li tragittano alla meta. Nessun altro se non loro e quelli che vi furono mandati prima di loro abita il luogo. Quanti in comunità servirono il Dio per tre decadi hanno bensì il diritto di rimpatriare, ma la maggior parte senz’altro preferisce insediarsi lì – chi spinto dall’abitudine, chi perché senza difficoltà e sforzo vi si può trovare abbondanza d’ogni cosa e vi si può trascorrere la vita tra sacrifici e feste o intenti in perenni conversazioni alla ricerca del sapere: meravigliose sono infatti la natura dell’isola e la dolcezza del suo clima. La divinità stessa ne trattiene alcuni che già meditano di partire; e non solo si manifesta a loro come ad intimi amici in sogno e con presagi: molti anche realmente si imbattono nell’apparizione o nella voce di demoni. Crono dorme rinchiuso in una caverna profonda dentro una roccia color dell’oro. Il sonno è il carcere escogitato da Zeus per lui, e mentre uccelli scendono in volo sulla cima della roccia per recargli ambrosia, l’isola intera è pervasa da un profumo che si spande di lì come da una fonte. I demoni assistono e servono Crono dopo essergli stati compagni nel tempo in cui fu re degli Dèi e degli uomini. Dotati di virtù profetiche, essi traggono da se stessi innumerevoli vaticini; ma quelli più gravi e sulle questioni più gravi scendono ad annunciarli come sogni di Crono: poiché ciò che Zeus premedita Crono vede in sogno, e le passioni titaniche e i moti dell’anima si manifestano in lui come una tesa rigidezza prima che il sonno gli restituisca il riposo e finché il suo carattere regale e divino non riemerga puro e incorrotto. “Qui dunque lo straniero giunse, come egli stesso raccontava. Servì il Dio ed ebbe modo di impadronirsi dell’astronomia facendo i progressi tipici di chi pratica la geometria, mentre acquisì il resto della filosofia approfondendo lo studio della natura.

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Preso da uno struggente desiderio di vedere coi propri occhi la Grande Isola (questo è a quanto pare il nome che danno alla nostra parte del mondo), quando alla scadenza dei trent’anni giunsero dalla sua terra d’origine i successori egli salutò gli amici e salpò: portava con sé un bagaglio modesto ma un abbondante viatico contenuto in coppe d’oro. Ebbe avventure e conobbe uomini d’ogni genere, studiò testi sacri e si fece iniziare a tutti i misteri. Ma un solo giorno non basterebbe a riferire i ricordi che egli molto fedelmente e in dettaglio ci narrò: vi prego quindi di accontentarvi della parte attinente alla nostra discussione odierna. Soggiornò assai a lungo a Cartagine, dato che nel nostro paese Crono gode di un culto speciale, ed anche ritrovò alcune pergamene sacre trafugate segretamente dalla prima città al momento della sua caduta e rimaste a lungo sepolte nel terreno all’insaputa di tutti. Mi ripeteva che tra gli Dèi visibili occorre venerare soprattutto la luna: me lo raccomandava caldamente perché essa, attigua ai prati di Ade, è signora della vita e della morte21.

Il prezioso testo del De Facie che ha avuto in Keplero il suo primo favorevole commentatore moderno ha sempre lasciato attoniti e stupiti: la posizione estremamente nordica in Oceano in cui vengono localizzate le “isole esterne” abitate dai Greci era sempre rimasta una stranezza su cui non valeva la pena di insistere, considerandolo un brano di letteratura fantastica, dimenticando tuttavia di chiarire il perché nell’epica greca le gesta degli eroi più luminosi come Eracle, gli Argonauti e Odisseo, si compiano nell’immensità del mare Oceano (ogni lettore potrà poi trarre le conclusioni che ritiene opportune per ciò che riguarda la situazione geografica in cui molti hanno riconosciuto le terre atlantiche del Nord America). Noi sosteniamo che Omero fosse depositario del patrimonio culturale di navigatori oceanici che spingevano le loro rotte all’estremo Nord dell’Atlantico e numerose sono le prove che possiamo trarre dall’Odissea. Sappiamo bene come tutti i tentativi di trasposizione geografica nel Mediterraneo del periplo di Ulisse non abbiamo mai soddisfatto nessuno: alcuni toponimi mediterranei sembrano mescolati ad altri sconosciuti e proiettati oltre le Colonne d’Ercole. Ogigia, l’isola di Calipso, viene localizzata da Plutarco in Atlantico, a cinque giorni di navigazione a ovest della Britannia. Nel V canto dell’Odissea, Ulisse prigioniero di Calipso nell’isola Ogigia, afferma: Contro mia voglia Zeus m’ingiunse che qui io venissi: e chi volentieri percorrerebbe tanta acqua salmastra che non ha fine? Nessuna città di mortali è vicina che dedichino agli dèi sacri riti e scelte ecatombi.

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Ancora in navigazione, dopo aver lasciato Ogigia: E seduto al timone egli guidava con arte né sulle palpebre il sonno scendeva a lui ch’alle Pleiadi era intento con gli occhi, a Boote che tardi tramonta e all’Orsa, che chiamano anche col nome di Carro, che ruota sempre in un luogo e guarda Orione paurosa ed è la sola a restar dai lavacri d’Oceano immune; detto gli aveva infatti Calipso la splendida dea di percorrere il mare tenendola a mano sinistra. Navigò diciassette giorni il mar traversando, nel diciottesimo i monti ombrosi furono in vista della terra Feacia dov’essa era a lui più vicina: gli apparve in forma di scudo sul mare caliginoso22.

Anche l’Odissea parla di una sconfinata area di acqua salmastra. Si tratta di un’indicazione nitidissima che ribadisce le caratteristiche del mare Cronio. Tacito afferma che alcuni Germani riferivano che dopo Eracle anche Ulisse era giunto sino al punto in cui il Reno sfocia nel mare del Nord e che vi aveva fondato una città, Asciburgio. Anche le rupi erranti da cui Ulisse viene messo in guardia difficilmente possono evocare qualcosa di diverso dagli iceberg, ed anche il mare è descritto frequentemente nebbioso e la brina mattutina è gelata, fenomeni inadattabili al mare greco, così come i pesanti indumenti descritti dal poeta appaiono esagerati nel clima mite mediterraneo. Esistono poi, descritti da Omero, fenomeni che possono realizzarsi solo a latitudini estremamente nordiche come nei pressi del circolo polare artico: il sole che durante una battaglia non tramonta e due mezzodì consecutivi che permettono ai Greci di ricevere soccorso e vincere lo scontro. Si manifesta quindi il fenomeno che si verifica in località nordiche come l’Islanda e la Norvegia, il sole di mezzanotte. Un altro evento tipico è quello delle aurore che, lunghissime, a certe latitudini nordiche creano spettacoli di luce unici: al polo, per numerosi giorni l’aurora compie un giro completo della linea dell’orizzonte, questo fenomeno potrebbe essere stato colto da Omero che poeticamente definisce questo spettacolo le “danze dell’aurora”. Plutarco nel De Facie non lascia spazio a dubbi sui fenomeni che si osservavano sulle isole dei Greci: il sole per trenta giorni all’anno non scende se non per un’ora al di sotto dell’orizzonte. Si tratta di un’indicazione assolutamente precisa della collocazione estremamente nordica di queste isole e giustamente gli abitanti sarebbero individuati come “i settentrionali”. Eracle, nel De Facie, ha inoltre dei compagni che si mescolano al popolo di Cronos: è difficile non pensare ai Dori ed agli Eraclidi, ma il ricor242

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do di questi popoli che avevano vissuto l’aurea Era di Cronos riaffiora anche nel mito e nella perfezione degli Iperborei. Coloro che vivono oltre Borea, il vento di settentrione, sono quindi sinonimo di settentrionali estremi, un identico significato insito nel termine Haou-Nebout.

4.3. Gli Iperborei Ecateo di Mileto prima ed Ecateo di Abdera poi collocavano questo popolo all’estremità settentrionale dell’Ecumene e quest’ultimo affermava che vivevano in un’isola non inferiore alla Sicilia23 che alcuni autori identificano con la Thule di Pitea, anche se altri consideravano la Gran Bretagna e la Scandinavia terra degli Iperborei. Sono molti gli scrittori che ne parlano, da Erodoto sino agli autori della piena età imperiale come Plinio e Pomponio Mela, tutti attestano la rilevanza del mito-leggenda degli Iperborei anche in epoca romana. È Plinio il Vecchio a riportarcene una riassuntiva testimonianza: Poi ci sono i monti Rifei e la regione chiamata Pterophoros per la frequente caduta di neve, a somiglianza di piume, una parte del mondo condannata dalla natura ed immersa in una densa oscurità, occupata solo dall’azione del gelo e dai freddi ricettacoli dell’Aquilone. Dietro quelle montagne e al di là dell’Aquilone, un popolo fortunato (se crediamo), che chiamarono Iperborei, vive fino a vecchiaia famoso per leggendari portenti. Si crede che in quel luogo siano i cardini del mondo e gli estremi limiti delle rivoluzioni delle stelle, con sei mesi di chiaro e un solo giorno senza sole, non, come dissero gli inesperti, dall’equinozio di primavera fino all’autunno: per essi il sole sorge una volta all’anno, nel solstizio d’estate, e tramonta una volta, nel solstizio d’inverno. È una regione luminosa con clima mite, priva di ogni nocivo flagello. Hanno per case selve e boschi, venerano gli dèi profondamente e collettivamente, la discordia e ogni malattia sono loro sconosciute. Non vi è morte, se non per sazietà di vita, dopo i banchetti e nella vecchiaia colma di conforto; si gettano in mare da una rupe: questo tipo di sepoltura è il più felice […]. Non si può dubitare di quel popolo: tanti autori tramandano che essi sono soliti inviare a Delo, ad Apollo, da loro venerato soprattutti, le primizie delle messi. Alcune fanciulle venerate per alcuni anni dall’ospitalità dei popoli le portavano [in quell’isola], finché, essendo stato violato il patto, [gli Iperborei] decisero di deporre le offerte sacre alle frontiere degli abitanti più vicini, e che questi le passassero ai loro vicini, e così fino a Delo24.

Gli Iperborei condividono quindi con i Greci il culto di Apollo, che secondo la tradizione era nato dall’Iperborea Latona, sull’isola di Delo, che 243

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insieme a Delfi rappresentavano i più antichi centri di culto greci. Nel santuario di Delo erano vissute agli albori della sua storia delle sacerdotesse, vergini Iperboree, e per molto tempo gli Iperborei avevano inviato doni al santuario di Apollo, il quale gradiva passare molto tempo in loro compagnia. Delo, racconta la tradizione, era uno scoglio errante che si era fermato per fare partorire Latona, perseguitata da Era, che naturalmente non sopportava i tradimenti e gli amori furtivi di Zeus. Latona, che partorì anche Minerva, gemella di Apollo, aveva percorso il suo viaggio attraversando anche il paese degli Iperborei dove era nata, accompagnata da “Lupe”, o “Licie”, ed ella stessa ne aveva assunto le sembianze. Per questo Apollo era definito “likeyos” o “likyos”, ed il significato è per l’appunto “Apollo dei Lupi” o “Apollo dei Lici”. I Lici erano una delle popolazioni pelasgiche la cui lingua fa parte delle lingue anatoliche, ma ha anche legami con la famiglia greca, forse provenienti da un’area nordica prossima alle isole abitate dai Greci. Apollo Likeyos aveva il compito di portare a Delfi la giustizia, l’arte poetica e quella divinatoria. Ma il Dio sembra preferire la compagnia degli Iperborei tanto che a Delfi dovevano protestare la sua assenza. Strabone, a proposito degli antichi Greci racconta che erano stati costretti da un diluvio ad abbandonare la loro patria e che prima di Delfi avevano fondato la città di Likoreia, alle pendici del monte Parnassos, al seguito di lupi ululanti, che per l’appunto è il significato del nome “Likoreia”. Inoltre Pausania afferma: “Dicono che il più antico tempio di Apollo fu fatto di Alloro di Tempe; il tempio potrebbe avere avuto l’aspetto di una capanna. Gli abitanti di Delfi affermano che il secondo fu costruito dalle api con cera ed ali; e raccontano che quello fu inviato agli Iperborei da Apollo”25. Anche Erodoto racconta delle offerte recate dagli Iperborei a Delo: 32. […] Ma è da Esiodo26 che sono nominati gli Iperborei; come pure da Omero, negli Epigoni, se pure in verità è Omero che ha composto questo poema. 33. Però, quelli che, a loro riguardo, tramandano di gran lunga le più numerose notizie sono gli abitanti di Delo, i quali raccontano che offerte sacre, avviluppate in paglia di grano, portate dagli Iperborei giungono tra gli Sciti; a cominciare da questo paese, ogni popolo, ricevendole dal popolo vicino, le porta verso occidente il più lontano possibile, fino alle rive dell’Adriatico. Di qui, avviate verso mezzogiorno le accolgono, primi fra i Greci, quelli di Dodona; dal paese di costoro le offerte scendono verso il Golfo Maliaco e passano nell’Eubea dove, da una città all’altra, si fanno giungere a Caristo. Dopo questa città, lasciano da parte Andro, poiché sono gli abitanti di Caristo che le portano a Teno e quelli di Teno le accompagnano a Delo. In questo modo, dicono, le sacre offerte arrivano a Delo; ma la pri-

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ma volta gli Iperborei avevano mandato a portarle due fanciulle, cui i Deli danno i nomi di Iperoche e Laodice. Insieme con queste, per ragioni di sicurezza, gli Iperborei avevano mandato, come accompagnatori, cinque dei loro cittadini, quelli che ora vengono chiamati “perferei” e ricevono in Delo grandi onori. Siccome, però, questi inviati non volevano più ritornare al loro paese, gli Iperborei, ritenendo intollerabile che dovesse sempre loro capitare di non vedere più di ritorno quelli che inviavano, da quel momento avrebbero portato, dicono, ai propri confini le offerte sacre avvolte in paglia di grano, e raccomandato ai loro vicini di farle inoltrare dal loro, nel paese d’un altro popolo. In questo modo, dicono, passando di mano in mano giungono a Delo. Io so per conoscenza diretta che c’è quest’altro costume che si può raffrontare con tale modo di presentare le offerte: le donne di Tracia e di Peonia, quando offrono un sacrificio in onore di Artemide Regina, non tengono tra le mani le sacre offerte se non hanno anche della paglia di grano. E che queste donne abbiano l’abitudine di fare così lo so di sicuro. 34. In onore di queste vergini che, venute dagli Iperborei, hanno finito la loro vita a Delo, si tagliano i capelli sia le fanciulle sia i giovani: le fanciulle, prima delle nozze, si recidono un ricciolo e, avvolto intorno a un fuso, lo depongono sulla tomba delle due vergini (la tomba si trova all’interno del recinto sacro ad Artemide, a mano sinistra di chi entra e vi è anche spuntato un olivo); i giovani di Delo avvolgono dei loro capelli intorno a un ciuffo d’erba verde e lo depongono anch’essi sopra la tomba. 35. Questo è l’onore che ricevono quelle vergini dagli abitanti di Delo. Gli stessi Deli, però, raccontano che, prima ancora di Iperoche e di Laodice, erano giunte a Delo, passando attraverso gli stessi popoli di cui s’è parlato, anche Arge e Opi, vergini provenienti dagli Iperborei. Sennonché, mentre Iperoche e Laodice erano venute a portare a Ilitia il tributo che gli Iperborei s’erano imposto in riconoscenza per il parto27 agevolato, Arge e Opi erano giunte in compagnia con le stesse Dee28. Dicono, poi, che altre testimonianze di onore vengono tributate ad Arge e Opi da quelli di Delo: infatti, le donne fanno per esse delle collette invocandone i nomi nell’inno che per loro ha composto Oleno, di Licia. Dai Deli avrebbero ricevuto gli isolani e gli Ioni l’uso di inneggiare a Opi e ad Arge, chiamandole per nome e facendo collette (poiché questo Oleno, venuto dalla Licia, compose anche gli altri antichi inni che vengono cantati in Delo), e quando le cosce delle vittime vengono bruciate sull’altare, la cenere che ne deriva viene tutta adoperata per spargerla sulla tomba di Opi e di Arge: la quale si trova dietro il recinto sacro ad

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Artemide, volta verso l’aurora, molto vicina alla sala da convitto29 di quelli di Ceo30.

Le indicazioni precise di Erodoto nel collocare topograficamente le tombe delle sacerdotesse Iperboree e le tradizioni legate ai giovani Deli ci suggeriscono un panorama tutt’altro che leggendario, benché le loro vicende sfumino in un’aura mitica. Inoltre a Delo iscrizioni del III sec. menzionavano i doni degli Iperborei e c’è naturalmente chi ha proposto che l’ambra fosse il prezioso dono della terra iperborea. Esiste quindi un profondo fondamento iperboreo nell’antichissimo culto delfico di Apollo. Sentiamo il dovere di riportare un brano di Diodoro Siculo sugli Iperborei: 1. Per quanto ci riguarda, dal momento che abbiamo considerato le contrade dell’Asia situate a settentrione, pensiamo che non sia fuori luogo discutere dei racconti mitici sugli Iperborei. Infatti, tra quanti hanno scritto le antiche mitologie, Ecateo ed alcuni altri affermano che nelle contrade antistanti la Celtica, nell’Oceano, c’è un’isola non più piccola della Sicilia; essa si trova a settentrione (alla lettera “sotto la costellazione dell’Orsa”)31, ed è abitata da quelli che hanno nome Iperborei, per il fatto che stanno oltre la zona da dove soffia borea. Essa è fertile e produce ogni genere di frutti, ed ancora, si distingue per la mitezza del clima, e dà due raccolti all’anno. 2. I miti raccontano che vi è nata Latona, e perciò Apollo viene onorato presso di loro più degli altri Dei. Essi sono come dei sacerdoti di Apollo per il fatto che a questo Dio ogni giorno inneggiano in continuazione con canti e lo onorano in modo particolare. C’è anche, sull’isola, un recinto consacrato ad Apollo, magnifico, ed un tempio notevole, adorno di molte offerte votive e di forma sferica. 3. C’è anche una città sacra a questo Dio, e la maggior parte dei suoi abitanti sono suonatori di cetra, e suonando di continuo la cetra nel tempio intonano canti al Dio, esaltando le sue imprese. 4. Gli Iperborei hanno una lingua propria, e una grandissima familiarità con i Greci, e soprattutto con gli Ateniesi e i Deli, che hanno ereditato questa benevolenza da tempi antichi. E i miti raccontano che alcuni dei Greci giunsero tra gli Iperborei e lasciarono offerte votive preziose con iscrizioni in caratteri greci. 5. E nello stesso modo, arrivato anticamente in Grecia dal paese degli Iperborei, Abarin rinnovò la benevolenza verso i Deli e i vincoli di parentela con essi; affermano anche che la luna da quest’isola sembra assai poco lontana dalla terra e con certe prominenze visibili, simili a quelle terrestri. 6. Si dice anche che il Dio arrivi sull’isola ogni diciannove anni, periodo nel quale si completa il ritorno periodico degli astri nella medesima posizione nel cielo. E per questo il periodo dei diciannove anni riceve dai Greci il nome di “anno di Metone”32. Nel corso di questa comparsa, il Dio suo-

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na la cetra e danza di continuo la notte, dall’equinozio di primavera fino al sorgere delle Pleiadi, esprimendo gioia per i propri successi. Regnano su questa città e sovrintendono al recinto sacro quelli che hanno nome di Boreadi, i quali sono discendenti di Borea, e si succedono di volta in volta in queste cariche sempre nell’ambito della famiglia33.

Sono molti coloro che hanno indicato in Stonehenge il tempio circolare visitato da Apollo sull’isola iperborea. Ciò potrebbe essere sostenuto dal fatto che Stonehenge presenta perfetti allineamenti per l’osservazione del moto lunare rispetto al sole, che ogni 19 anni si ripresenta nella medesima posizione.

Tav. 25: Sopra: Il carro solare di Trundholm (Danimarca) attribuito all’Età del Bronzo. Il mito di Apollo iperboreo sembra essere confermato dal culto solare di questi popoli nordici che mostrano durante l’Età del Bronzo molteplici analogie con il mondo egeo. A fianco: Imbarcazione di grandi dimensioni incisa su di una lama di spada da Kalundborg (Danimarca), metà del II millennio a.C.

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Altri particolari sui costumi di Delfi e delle sue profetesse li testimonia lo studioso Marco Baistrocchi: A Delfi, infatti, le tre sorelle fatali, le Trie, erano note come Api e solo se alimentate con il miele, nutrimento divino, erano in grado di profetare veritieramente. Il miele era associato all’infanzia, all’allattamento, alla profezia e, come nutrimento in grado di assicurare la resurrezione, anche ai morti: in una parola al mondo primordiale boreale. Il colore e la trasparenza del miele, oltre che all’oro, lo ricollegava soprattutto all’ambra, materie d’altronde che venivano deposte entrambe nelle tombe per assicurare una nuova vita al defunto. L’ambra, secondo il mito, proveniva dal fiume Eridano che si trovava nel nordico paese degli Iperborei, che Apollo visitava durante i mesi invernali quando abbandonava Delfi34.

Nei secoli successivi gli Iperborei vennero identificati dai Greci con i Celti che abitavano il centro dell’Europa, anzi, Eraclide Pontico attribuiva il sacco di Roma da parte dei Galli ad un esercito di Iperborei. Apollodoro, raccontandoci delle fatiche di Ercole nella sua Biblioteca storica, afferma che le Esperidi (poste da Esiodo oltre la corrente del fiume Oceano) si trovavano nel regno degli Iperborei. Inoltre, come già visto, agli Iperborei appartenevano personaggi che diedero vita all’ethnos siciliano dei Galeoti e contribuirono con Aristeo anche alla colonizzazione della Sardegna. Costui, dotato di conoscenza prodigiosa, aveva sposato una figlia del mitico Cadmo fondatore di Tebe. Pausania dice che un tempio di Sparta dedicato a Core Sotera sarebbe stato edificato dall’iperboreo Abari, leggendario vate e taumaturgo connesso con Apollo. Ciò che fra Greci e Romani era diventato mito aveva avuto origine nell’antichissimo racconto pelasgico della creazione con cui non a caso l’opera di Graves, I miti greci, ha inizio. Sono i Pelasgi i propulsori del mito di Borea. La creazione si realizza dall’incontro di due principi cosmici: Eurinome, figlia dell’Oceano, Dea di tutte le cose ed emersa dal caos, si accoppia col serpente Ofione che appare portato dal fecondatore vento del nord Borea. È da questa unione che scaturisce il creato compreso Pelasgo, il primo uomo. Si tratta di un mito dove Eurinome ed Ofione risultano i predecessori divini di Cronos e Rea. Dalle Argonautiche di Apollonio Rodio, è Orfeo stesso a cantarne il mito: Ma Orfeo sollevò nella sinistra la cetra e diede inizio al suo canto. Cantava come la terra e il cielo e il mare, che un tempo erano fusi insieme in un’unica forma, furono gli uni divisi dagli altri a motivo della funesta discordia, come nel cielo le stelle, e il percorso della luna e del sole, abbiano un segno sempre fissato, e come sorsero i monti e come nacquero i fiumi sonori, assieme alle Ninfe, e gli animali. Cantava come

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all’inizio Ofione ed Eurinome, figlia d’Oceano, ebbero la signoria dell’Olimpo nevoso, e come, vinti dalla violenza, cedettero il proprio potere Eurinome a Rea e a Crono Ofione, e precipitarono dentro le acque d’Oceano, e quelli regnarono sopra i beati Titani, finché Zeus ancora fanciullo, avendo dentro di sé pensieri infantili, abitava la grotta Dittea, e i Ciclopi, nati dal suolo, non gli avevano dato la forza del tuono, del lampo, del fulmine, che sono la gloria di Zeus. Disse, e poi fermò insieme la cetra e la voce divina, ma quand’ebbe finito, ancora gli eroi allungavano il collo, e restavano immobili, tendendo le orecchie all’incanto, tale malia il poeta aveva lasciato dentro di loro35.

Così commenta Baistrocchi nell’opera Arcana Urbis: Da una parte infatti si riconosce il principio maschile, rappresentato dal vento fecondatore del settentrione, Borea (cfr. Plinio, N.H., IV, 35; VIII, 67; Omero, Il., XX, 223) o dal serpente o drago Ofione che, con ogni verosimiglianza, costituisce l’espressione mitica della Costellazione settentrionale del Dragone, Costellazione che, come noto, si trova tra le due Orse boreali; dall’altra s’individua il principio femminile della fertilità impersonato da Eurinome (“vagante in ampi spazi”)36.

Ofione o Borea, come ci insegna Robert Graves, va identificato col serpente demiurgo del mito ebraico ed egizio ed i Pelasgi pretendevano di essere nati dai denti di Ofione. Anche il mito orfico della creazione ricalca lo stesso modello. La valenza pelasgico-iperborea è inoltre testimoniata dal fatto che l’Orsa Maggiore era nota nell’antichità come la costellazione arcadica (Virgilio pone una pelle d’orsa nella dimora dell’arcade Evandro) e molti miti dell’Arcadia sono connessi con le costellazioni boreali delle due Orse. Nicandro di Colofone definiva l’Orsa Minore “l’Orsa dotata di ombelico” ed Esichio “l’Orsa che porta l’ombelico” aggiungendo che “si muove intorno al centro del polo boreale”. Il mito omerico e orfico della creazione è una leggera variante di quello pelasgico poiché Teti, dea del mare, prende il posto di Eurinome e Oceano quello di Ofione. Da I miti greci di Graves: “Certuni dicono che tutti gli Dèi e tutte le creature viventi nacquero dal fiume Oceano che scorre attorno al mondo, e che Teti fu la madre di tutti i suoi figli”37. Gli studiosi affermano che Eurinome appartiene ad un’era in cui il matriarcato era fondamento della società, eredità ed emanazione del tempo della Dea Madre. Gli Haou-Nebout, i Pelasgi, gli Iperborei, coloro che vivono nell’estremità settentrionale, sarebbero in realtà gli antenati comuni dei Greci e di tutti i popoli linguisticamente affini. Il De Facie pone le loro isole in un’area oceanica settentrionale estrema dove si manifestano fenomeni meteorologici esclusivi delle zone circumpolari. Si può ora palesare un’evidente associazione: se i popoli di lingua gre249

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ca avevano un’origine così nordica, per il popolo ario-vedico, che con i Greci dimostrava la massima affinità linguistica, una domanda diventa lecita e doverosa: esiste nella letteratura più antica degli Indoeuropei, cioè quella vedica, il ricordo di una patria ancestrale posta agli estremi settentrionali dell’Ecumene?

4.4. Tilak Nel 1893 il sapiente bramino Bâl Gangâdhar Tilak pubblicava un’opera che precorreva di un secolo le acquisizioni fondamentali dell’archeoastronomia. Nella sua prima pubblicazione, intitolata Orione o Ricerche sull’antichità dei Veda, dimostrava con certezza che i riferimenti astronomici contenuti nei brani più antichi dei Rig-veda e degli inni vedici indicavano che nell’equinozio di primavera il sole sorgeva davanti alla costellazione di Mriga, cioè Orione, e che ciò poteva avvenire per il moto precessionale terrestre solo attorno al 4500 a.C. Stabilì inoltre che le più recenti composizioni dei Brahmana contenevano evidenti indicazioni che localizzavano invece le Pleiadi o Krittika nel giorno equinoziale, spostando la data di composizione dei Brahmana al 2500 a.C. ca.38. In quest’epoca il linguaggio espresso nei Rig-Veda era già divenuto scarsamente intellegibile ai produttori dei Brahmana. Nel successivo L’origine artica dei Veda, Tilak superava queste sue già fondamentali e rivoluzionarie affermazioni asserendo che nei più antichi libri della razza ariana, i Veda e l’Avesta degli Indo-iranici, esistono le prove che la più antica dimora degli Indoeuropei si localizzasse in un luogo in prossimità del circolo polare artico. Le prove a riguardo di questa tesi tengono conto delle affermazioni degli antichi testi che indicano esplicitamente fenomeni di natura meteorologica riscontrabili esclusivamente in prossimità del polo. La caratteristica polare più eclatante è il sole che sorge a Sud una sola volta all’anno che risulta quindi formato da un giorno di sei mesi e da una notte altrettanto lunga. Un’unica alba ed un unico tramonto le cui luci crepuscolari si prolungano per sessanta giorni emanando spettacoli luminosi la cui fonte percorre circolarmente l’orizzonte, come del resto si comporta per l’osservatore la volta del cielo settentrionale. Le stelle non sorgono e non scompaiono mai, ma le costellazioni ruotano su piani orizzontali compiendo un giro di 24 ore. Le costellazioni dello zodiaco scorrono quindi circolarmente. Così nelle zone circumpolari solo alcune stelle muovendosi su piani obliqui scendono sotto l’orizzonte, mentre altre rimangono sempre al di sopra di questo. L’anno è diviso in tre parti, una lunga notte a partire dall’equinozio d’inverno, poi un periodo di alternanza di notti e giorni sempre più lun250

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ghi, sino al solstizio d’estate in cui il giorno è continuo. Le luci dell’aurora diminuiscono proporzionalmente anche nella loro spettacolarità, allontanandosi dal polo. Si tratta quindi di peculiarità su cui non è possibile equivocare e Tilak sostiene che l’intera letteratura vedica e post-vedica sia disseminata di tali concezioni in forma così persistente da doverlo ritenere il risultato dell’osservazione diretta dei fenomeni. Dice Tilak: Nel Rig-Veda I-24, 10, della costellazione dell’Ursa Maior, o Rikshah, si dice che è posta in alto (uchhach), e siccome ciò non si può riferire se non all’altezza della costellazione, ne consegue che questa doveva trovarsi sul capo di chi osserva, fatto possibile solo nelle regioni circumpolari. […] L’idea che il giorno e la notte degli Dèi siano ciascuno della durata di sei mesi è così vastamente sparsa nella letteratura indù che noi la esamineremo a fondo, e perciò inizieremo con la letteratura post-vedica e risaliremo ai libri più antichi. Si trova non solo nei Purana ma anche nelle opere astronomiche, e siccome queste ultime ne trattano in modo più preciso, inizieremo dai più recenti: i Siddhanta. Il monte Meru è il polo Nord terrestre dei nostri astronomi ed il Surya-Siddhanta XII-67 dice: “Al Meru, gli Dèi contemplano il Sole dopo che sorge una sola volta durante la metà della sua rivoluzione, che inizia nella costellazione di Aries”. Ora, secondo i Purana, il Meru è la Patria o la dimora di tutti gli Dèi, e ciò che è detto intorno alla notte ed al giorno, lunghi metà anno, è allora facilmente e naturalmente spiegabile e tutti gli astronomi e profeti hanno accettato l’esattezza di questa spiegazione. Il giorno degli Dèi corrisponde al passaggio del Sole dall’equinozio di primavera a quello dell’autunno, quando il Sole è visibile al polo Nord o Meru; la notte corrisponde al passaggio del Sole nell’emisfero Sud, dall’equinozio di autunno a quello di primavera39.

Anche nel poema epico del Mahabharata Arjuna si reca al monte Meru: Citeremo poi il Mahabharata, che dà una descrizione talmente chiara del monte Meru, il Signore delle Montagne, che non lascia dubbi che sia il polo Nord, o che possegga le caratteristiche polari. Nei capitoli 163 e 164 del Vanaparvan, la visita di Arjuna al monte è descritta con dettagli significativi e vi è detto: “Al Meru il Sole e la Luna si volgono in giro da sinistra a destra (pradakshinam) ogni giorno e così fanno tutte le stelle”. Più avanti lo scrittore ci informa: “La montagna, per il suo splendore, vince l’oscurità della notte in modo tale che la notte può essere distinta appena dal giorno”. E pochi versi più oltre troviamo: “il giorno e la notte sono uguali ad un anno per coloro che risiedono in quel luogo”. Queste citazioni sono pienamente sufficienti a convincere

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chicchessia che a quel tempo, quando fu composta la grande epopea epica, gli scrittori dell’India possedevano una conoscenza precisa delle caratteristiche meteorologiche ed astronomiche del polo Nord, e possiamo supporre che tale conoscenza non sia stata acquisita solo da calcoli matematici40.

Identiche affermazioni si trovano anche nei libri sacri di un popolo dalla genealogia indo-iranica, i Parsi, vi si può infatti leggere: “Essi considerano come un giorno quello che è un anno”. Ma è preferibile attingere direttamente da Tilak: Ahura Mazda avverte Yima, il primo antichissimo re degli uomini, dell’approssimarsi di un rigidissimo inverno, che distruggerà ogni creatura vivente e ricoprirà la terra con una spessa coltre di ghiaccio, e consiglia Yima di costruire un vara (o recinto), per conservare i semi di ogni specie di animali e piante. Si afferma che il loro incontro abbia avuto luogo nell’Airyana Vaejo, o paradiso degli Iranici. Il vara, o recinto, consigliato da Ahura Mazda, viene preparato, secondo l’accordo, e Yima chiede ad Ahura Mazda: “O tu, che hai fatto il mondo materiale, o solo Santo! Quale luce rischiarerà il vara che Yima ha fatto?”. Ahura Mazda risponde: “Ci sono luci increate e luci create. Le stelle, la Luna, il Sole solamente una volta (all’anno) sorgono e tramontano e un anno sembra solamente un giorno”. Ho riportato la versione di Darmesteter, ma quella dello Spiegel è sostanzialmente la stessa. Il passo è importante per diverse considerazioni. Anzitutto, ci dice che l’Airyana Vaejo, o patria originaria degli Iranici, sia stato un luogo reso inabitabile da una glaciazione; in secondo luogo, che in tale patria originaria il Sole sorgeva e tramontava solamente una volta all’anno e che tale anno era come un giorno per gli abitanti di quel luogo. L’importanza di questo passo, per quel che concerne la glaciazione, verrà discussa dopo41.

Tilak si sofferma inoltre a considerare le aurore dal momento che Ushas, la Dea dell’alba, viene ricordata più di trecento volte nei Rig-Veda e celebrata sia al singolare che al plurale con insolita abbondanza di particolari, ma soprattutto viene indicato come nei tempi antichi si trattasse di un fenomeno che si prolungava per diversi giorni. Dedicato all’importante Dea Ushas, dal 7° Mandala del Rig-Veda: “Invero, quei giorni molti erano prima del sorgere del sole dai quali, come verso un amante, muovendosi, o Aurora, eri vista non come (donna) che si allontana”42. Inoltre sia il Rig-Veda che il Taittirya Samhita descrivono un’alba lunga e continua divisa in trenta giorni la cui luce ruota sul piano dell’orizzonte. 252

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Ecco le conclusioni di Tilak: 1) L’aurora nel Rig-Veda era tanto estesa nel tempo, che passavano parecchi giorni tra l’apparire della prima luce sull’orizzonte ed il sorgere del Sole, che la seguiva (VII-76,3); come è descritto in II-28,9, molte albe sorgevano una dopo l’altra prima di trapassare nel sorgere del Sole. 2) L’aurora era cantata al plurale non a titolo onorifico, né come eponima delle albe consecutive dell’anno, ma perché il plurale corrispondeva alle 30 parti (I-123,8; VI-59,6; T.S. IV-3,11,6). 3) Numerose albe “vivevano nello stesso luogo, agendo in armonia e mai litigando tra loro” (IV-51,7-9; VII-76,5; A.V. VII-22,2). 4) Le 30 parti dell’alba erano continue e inseparabili e formavano: “una stretta ed unica schiera” o “un gruppo di albe” (I-152,4; T.Br. II5,6,5; A.V. VIII-22,2). 5) Queste 30 albe, o 30 parti di una stessa alba, si volgevano intorno, roteando come una ruota, raggiungendo la stessa meta ogni giorno, ciascun’alba, o una sua parte, seguendo il corso assegnatole (I-123,8,9; III-61,3; T.S. IV-3,11,6). Queste caratteristiche, è inutile ormai ripeterlo, sono peculiari solamente dell’alba al polo Nord. Specialmente l’ultima o quinta si rinviene solo nelle terre presso il polo Nord, non ovunque nelle regioni artiche. Possiamo, dunque, concludere con sicurezza che le dee vediche dell’Alba sono, in origine, polari. Ma urge dire che, mentre l’alba polare dura da 45 a 60 giorni, le Albe vediche durano solamente 30 parti di un lungo giorno43.

Le esaurienti ed inconfutabili prove riportate da Tilak vengono approfondite ed estese in modo tanto erudito all’intera mitologia dell’antichissima India, ed esula dalle nostre possibilità riportare le ulteriori amplissime indicazioni di ciò che peraltro riteniamo essere già sufficientemente chiarito. Tilak riteneva a ragione che la vita era stata possibile a tali latitudini grazie ad un “optimum climatico” che per un lungo periodo aveva interessato queste regioni nordiche le quali, non di meno, usufruivano dei benefici della corrente del Golfo. Anche oggi, è opportuno ricordare, non si raggiungono in molte regioni dell’Islanda temperature invernali così basse come a Berlino ed indubbiamente non ci troviamo in una fase di optimum climatico. È stata recentemente analizzata l’enigmatica scomparsa dalla Groenlandia dei Vichinghi che vi si erano stabilizzati attorno all’anno 1000 d.C. con tanto di diocesi vescovile durante un periodo climatico favorevole. Dopo quattro secoli di vita sedentaria dedita all’allevamento scomparvero improvvisamente. Le conclusioni di questi recenti studi sono però perentorie: fu il raffreddamento del clima a colpirli improvvisamente, chiusi da una morsa di ghiaccio aspettarono inutilmente un cambiamento climatico, ma il freddo perdurò rigidissimo causandone la completa estinzione. 253

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Tav. 26: L’espansione dei Vichinghi. Questa immagine dell’espansione vichinga verso il 1000 d.C. potrebbe risultare idonea a rappresentare quelli che furono i movimenti migratori dei Popoli del Mare, loro illustri antenati, dotati all’incirca della stessa tecnologia 2000 anni prima.

È ipotizzato che nei secoli attorno al 1000 la temperatura della Groenlandia fosse salita di 1,5-2 C° mentre si ritiene che durante l’optimum climatico a seguito della fine dell’Era Glaciale la temperatura si fosse alzata di ben 4 C° in queste fredde latitudini, causando una contrazione dei ghiacci polari che perdurò sino al 2000 a.C. ca. 254

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Non è forse fondamentale l’ammissione dell’Avesta sulla patria originaria degli Iranici che viene desertificata dal sopraggiungere di una glaciazione? Tilak pensava di sì e la riteneva la causa delle grandi migrazioni. I Paesi nordici, i Settentrionali, gli Iperborei, gli Haou-Nebout o coloro che conosciamo come Indoeuropei in realtà soffrirono molte migrazioni nei millenni. L’Egitto ci conferma con insistenza dell’abbattersi della collera del Dio sulle isole del Grande Verde e nei numerosi Paesi nordici del Grande Circolo. Anche Hermann G. Jacobi, insigne studioso di letteratura ario-vedica, suggerì che in uno degli inni del Rig-Veda fosse espressa una disposizione stellare nel solstizio d’inverno tale da riferirsi ad un’epoca che poteva essere compresa solo tra il 4500 e il 2000 a.C. ma, sfortunatamente, il suo più famoso collega di studi Max Müller preferì date arbitrarie successive per l’invasione aria fissata fra il 1500 e il 1200 a.C., fornendo così l’esempio di una grande autorità in materia che stabilì capisaldi fittizi dettati dal pensiero del tempo che tuttora resistono a dispetto della loro fragilità. L’origine iperborea della cultura vedica è comunque un fatto rilevato e sottolineato da moltissimi studiosi ed intellettuali del secolo scorso. Un esempio per tutti è fornito da René Guénon; nel suo Simboli della scienza sacra si afferma infatti che nella letteratura vedica il centro originario spirituale è chiamato “varahi” o “terra del cinghiale”. La radice sanscrita -var ha come equivalente nelle lingue nordiche la radice -bor, per cui “varahi” equivale a “borea”, la terra del Settentrione. In lingua anglosassone “boar” significa infatti cinghiale. Il cinghiale rappresentava la costellazione divenuta poi l’Orsa Maggiore.

Tav. 27: Il celebre calderone rinvenuto nella torbiera di Gundestrup in Danimarca attribuito all’Età del Bronzo. Tra i particolari di questa splendida opera si evidenzia (nel riquadro più piccolo) una figura che ha sempre sollevato curiosità per l’evidente posizione logica che intrattiene. Nel riquadro grande una figura con elmo e corna molto simili a quelli raffigurati a Medinet Habu.

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Il mondo vedico dell’India trova inoltre consistenti punti di congiunzione con la tradizione celtica. La casta dei Brahmani e dei guerrieri Kshatriya mostra un’esatta corrispondenza con quella dei druidi e dei cavalieri rappresentati simbolicamente dal cinghiale e dall’orso.

L’immagine del dio Seth L’enigmatica immagine del dio Seth, divinità che appare in Egitto già dalla prima dinastia, adorato come suprema divinità dai “principi dei paesi stranieri”, cioè dagli Hyksos, ed in seguito dai Popoli del Mare, è rappresentata dagli Egizi sotto le sembianze di un animale in realtà pressoché sconosciuto. Inoltre a partire dai Testi delle Piramidi Seth, a cui viene attribuita una capigliatura rossa, è affiancato dal glifo della nave. Sotto il regno di Ramesse II, nella Stele dei 400 anni, viene rappresentato come Baal con testa umana, porta il simbolo dell’Ankh ed è vestito allo stesso modo di Peleset e Sherden, ma l’immagine consueta di Seth è quella di un animale di cui pochi conoscono il nome. I testi per lo più sorvolano sulla questione affibbiando tradizionalmente al dio Seth l’identità di un asino. Ma si tratta di un falso clamorosamente passato sotto silenzio. Sino alla fine dell’Ottocento gli studiosi inutilmente cercarono di dare un’identità allo strano animale che, del tutto sconosciuto, fu scoperto per la prima volta nel 1901 e venne chiamato okapi. Si trattava di una rarità appartenente alla famiglia delle giraffe. L’habitat di questo insolito animale si trova nelle profondità delle foreste congolesi, ben al di sotto dell’equatore, sappiamo inoltre con sicurezza che mai l’okapi raggiunse zone prossime all’Egitto né è risaputo che gli Egizi siano penetrati così profondamente nel territorio africano, che risulta estremamente difficoltoso e con enormi disagi da superare. Tutto ciò rappresenta un enigma da chiarire poiché la presenza dell’immagine di Seth durante la I dinastia impone di escludere assolutamente, in una fase tanto arcaica della storia egizia, la possibilità di un contatto tra Egizi e okapi del Congo. Quando e dove gli Egizi si trovarono quindi a contatto con l’okapi? Che gli Egizi riconoscano in Seth la suprema divinità dei Popoli del Mare lascia spazio a pochi dubbi sulla presenza dell’okapi nelle isole dell’Haou-Nebout e pone quindi i presupposti per supporre che le genti camitiche provenissero dall’Haou-Nebout visto che camitico è definito dalla Bibbia il popolo dei Filistei.

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Il potere degli dèi Egizi pervade e domina, come ben sappiamo, l’Haou-Nebout e il Grande Verde, lo testimonia anche la profonda compenetrazione dell’arte filistea con elementi tipicamente egizi. Siamo veramente disposti a credere che la realtà e la spiritualità filistea potesse essere tanto influenzata dal contatto avuto con gli Egizi durante l’attacco a Ramesse III? Non esistono i presupposti per innesti culturali così importanti in un lasso di tempo così limitato. La realtà indica che nell’Haou-Nebout il popolo camitico dei Filistei affondava le radici della propria conoscenza sicuramente millenaria e suggerisce un’unica

Tav. 28: Questa scultura dell’epoca di Ramesse III mostra un’immagine molto ben conservata del dio Seth. Le caratteristiche decisamente realistiche di questa splendida opera permettono di escludere che si tratti dell’immagine di un asino. L’identificazione corretta è con un animale decisamente raro appartenente alla stessa razza delle giraffe: l’“okapi” (vedi fig. in basso a destra). Come potevano conoscerlo gli Egizi decisamente estranei all’habitat di questo animale, e perché rappresentava il dio supremo dei Popoli del Mare?

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comune origine con gli Egizi da quella che doveva essere la terra dell’okapi. La possibilità che gli Egizi fossero giunti dal mare in epoca predinastica potrebbe efficacemente essere testimoniata dall’enigmatica nave ai piedi della piramide di Cheope, che risulta essere più antica di circa 500 anni rispetto all’epoca di Cheope, quindi dell’inizio del periodo predinastico. Un tipo di nave che, come altre recentemente scoperte, appare tutt’altro che indicata per la navigazione nilotica mentre dimostra una notevolissima arte di carpenteria navale del tutto inspiegabile. L’esame al radiocarbonio del legno della nave ha permesso una datazione piuttosto precisa risalente al 3300 a.C. ca. Venne ritrovata nel 1954 in una fossa ricoperta da una serie di megaliti dal peso medio di 16 tonnellate ciascuno. Completamente smontata in 1224 pezzi e ordinata in 13 strati, appariva come una scatola di montaggio che però richiese quasi vent’anni per il restauro e la ricostruzione. La lunghezza di questo vascello era di 43,4 metri e la larghezza massima al centro di 5,6 metri. Lo scafo risultava assemblato grazie ad incastri e soprattutto complesse legature passanti all’interno del fasciame. Il ponte risultava in parte cabinato. Si tratta di uno scafo dalla prua molto alta, non dissimile per dimensioni da quelli utilizzati migliaia di anni dopo dalle genti vichinghe per navigare in Atlantico. Al di là di ipotesi tanto suggestive si tratta comunque di un’imbarcazione d’alto mare con un’ottima linea idrodinamica che presenta un’arte di carpenteria navale talmente ricca di innumerevoli soluzioni tecniche avanzate da presupporre una secolare tradizione nautica. La cronologia la pone all’alba della storia egizia e costringe a rivedere le convinzioni correnti sulla nascita di questa civiltà che sembra essere approdata al Nilo con secolari esperienze di navigazione, una dimestichezza con il mare da sempre pressoché ignorata dagli studiosi. Analizzando inoltre reperti di epoca predinastica, le opere più rilevanti giunte sino a noi ci presentano imbarcazioni di grandi dimensioni.

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4.5. Sardi e Tirseni De Palma, docente di Etruscologia, riassume brevemente i momenti salienti della civiltà sarda: La cultura di Arzachena o di Li Muri, o còrso-gallurese, coeva di quella di Ozieri, ma circoscritta all’angolo nord-orientale della Sardegna e alla Corsica meridionale, presenta pure nell’architettura funeraria (circoli di pietra con cista litica al centro) confronti con l’area cicladica, e con l’isola di Leuca nello Ionio. Questi rapporti con l’Oriente, documentati fittamente già a partire dal III millennio, devono porsi in relazione con l’esistenza in Sardegna di minerali di rame in superficie, e quindi facilmente sfruttabili, come la calcopirite di Fonte Raminosa presso Aritzo nel Gennargentu. Cercatori di metalli sono documentati per quest’epoca anche all’isola d’Elba (grotta di San Giuseppe presso Rio Marina) dove pure erano sfruttati minerali di rame, e senza dubbio essi venivano dal Mediterraneo orientale, dove civiltà molto evolute e ad organizzazione statale accentrata, esigevano il metallo in aggiunta a quello già estratto dalle miniere dell’isola di Cipro, che proprio da esso aveva ricevuto il nome greco. Anche lo stagno, scarsamente presente nel Mediterraneo orientale e in quello centrale (Sardegna ed Etruria marittima), cominciava ad essere richiesto per la lega col rame che dava il bronzo, più duro del rame puro. La fonte principale di rifornimento della cassiterite (biossido di stagno) erano la Cornovaglia e altre regioni atlantiche, e la Sardegna era una tappa importante sulla rotta marittima che collegava la via fluviale della Senna e del Rodano con l’Oriente. Il ritrovamento nel ripostiglio di Forraxi Nioi di dieci chilogrammi di cassiterite purissima di provenienza atlantica ne è una conferma. La civiltà nuragica, che si apre con il XVIII sec. a.C. con i primi nuraghi a corridoio, è senza dubbio una civiltà composita, ricca di elementi indigeni e originali, ma strettamente collegata da un lato all’architettura megalitica atlantica e iberica, dall’altra alla tecnica della copertura dei vani interni circolari a mezzo di anelli circolari aggettanti formanti una falsa cupola. Ne vediamo gli esempi più antichi nelle tholoi della Messarà, ma anche nella necropoli di Arkhanes a sud di Knossòs, di recente venuta alla luce, quindi nei sepolcri monumentali micenei e nelle costruzioni nuragiche sarde, di quelli coeve. La presenza di elementi orientali in Sardegna già nel Nuragico antico è documentata con tutta evidenza dai ritrovamenti, infittitisi negli ultimi anni, di lingotti di rame a forma di pelle di bue, di una forma cioè tipica dell’area cipriota ed egea. Alcuni di questi lingotti sono incisi con segni in sillabico minoico (lineare A) o cipriota, ciò che indica al di fuori di ogni dubbio la presenza in Sardegna, già a partire dal XVI sec. a.C.,

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di metallurghi probabilmente ciprioti, che operavano nell’isola col beneplacito dei signori locali (i quali probabilmente ne ottenevano vantaggi economici) fabbricando lingotti, cioè mezzi di scambio premonetali, uguali a quelli che sono stati ritrovati a Cipro, nel relitto miceneo di Capo Gelidonya in Turchia, e ultimamente anche al largo di Haifa (Israele). Qui sono stati ripescati in mare un lingotto di rame a forma di pelle di bue del peso di 16,5 kg e vari lingotti di stagno del peso di 4 kg ciascuno e di forme irregolari, recanti segni in sillabico cipro-minoico. Dobbiamo immaginare una vasta corrente di traffici che prendeva le mosse dai due poli opposti dell’Atlantico (Cornovaglia, Irlanda, Bretagna e isole Cassiteridi al largo della foce della Loira) e del Mediterraneo orientale (Cipro, Siria, Egitto), che aveva per oggetto i metalli (rame e stagno soprattutto) utilizzati sia per la fabbricazione di armi, utensili e oggetti d’ornamento, sia come mezzo di scambio per ottenere altre merci, tra le quali la più preziosa è sempre costituita dagli schiavi, che erano il fondamento dell’economia di Stati come l’antico Egitto, Sumer e Babilonia, come lo saranno poi delle città-Stato greche ed etrusche, e della stessa Roma. La civiltà nuragica fiorisce dunque su un sostrato indigeno di civiltà evoluta e già millenaria, e da età antichissime in rapporto con l’Oriente mediterraneo. […] Il periodo di massima fioritura della civiltà nuragica (XII secolo), e di massima attività mineraria e metallurgica nell’isola, sembra coincidere con l’attività dei “Popoli del Nord, del Mare e delle isole” documentata dai testi e dalla iconografia egizi, oltre che dalle tavolette ittite e ugaritiche del XIII e XII secolo. Esso parrebbe così collegarsi in qualche modo alla presenza degli Shardana o Sherden delle fonti egizie sulle coste del Mediterraneo e sul Delta del Nilo44.

De Palma segnala tre momenti essenziali nella storia della Sardegna: 3000, 1700 e 1200 a.C. Si tratta di datazioni che conosciamo come tappe fondamentali dell’umanità. I popoli che colonizzarono la Sardegna presentavano nel IV-III millennio evidenti similitudini con le popolazioni pelasgiche e dell’Atlantico megalitico. Nel 1700 a.C., una nuova cultura sommerge la Sardegna megalitica, si tratta dei costruttori di nuraghi. La migrazione nuragica attraverso il mare potrebbe essere inquadrata nei grandi movimenti che portarono nel 1700 a.C. ca. all’intrusione nel Mediterraneo orientale di un’ondata di genti indoeuropee. Fra questi, le maggiori affinità risulterebbero con gli Achei-Micenei. I complessi nuragici più antichi sorsero nella Sardegna meridionale per diffondersi poi al centro, raggiungendo solo parzialmente il nord, mentre non ne troviamo in Corsica. Analoghe costruzioni possono considerarsi sia i trulli pugliesi che le talaioz che si trovano alle Baleari mentre non si trovano in Spagna, escludendone quindi l’origine iberica. La tecnica della tholos nuragica risulta estremamente simile a quella micenea, per cui si è sempre parlato di in260

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flussi micenei incombenti sull’architettura nuragica dimenticando che la cronologia deporrebbe per una precedenza dei monumenti sardi. Sono testimoniati gli scambi con Keftiou che marcava i propri ox lingots utilizzando la lineare A. Risultano inoltre accertate rotte marine di collegamento che vanno dal nord Atlantico al Mediterraneo orientale. Nel 1150 a.C. ca. giunge l’aristocrazia degli Shardana. Conosciuti già ai tempi di Ramesse II, che li aveva anche incorporati fra i suoi ranghi nella battaglia di Qadesh, gli Shardana vengono descritti come “provenienti dal mare più remoto”; espressione equivalente di genti pelasgiche. Questi si sovrapposero violentemente alla cultura nuragica verso l’XI sec. a.C. Gli studiosi ammettono infatti pressoché all’unanimità che in quest’epoca venne condotta una sistematica demolizione, anche se parziale, della quasi totalità dei castelli nuragici che non vennero più utilizzati come tali. Il termine “sardo-nuragico” risulterebbe quindi alquanto improprio. I bronzi tanto ammirati dei terribili guerrieri Shardana rappresentano infatti coloro che distrussero la civiltà nuragica. Geneticamente non risulterebbero legami tra gli odierni Sardi e l’antica popolazione nuragica: gli odierni abitanti dell’isola sono discendenti del popolo Shardana. Gli studiosi che si interrogano sul possibile paese d’origine degli Shardana brancolano nel buio come per tutti i numerosi Popoli del Mare. Oltre alle ovvie Creta, Cipro e le isole egee in generale, sono state proposte anche l’Anatolia da diversi autori tra cui Garbini, la Siria da Sanders, l’Illiria da Lehmann, il Caucaso da Giorgi Leon Kavtaradze, la Bulgaria da Dimitrina Mitova Djonova e infine vaghe zone dell’Europa centrale e coste del Mediterraneo dalla Sacconi. È indubbio che ci risulta difficile comprendere come tribù dell’Europa centrale possano essere stati definiti “Popoli del Mare” dagli Egizi. Pausania, nel decimo libro della descrizione geografica della Grecia, riassume in una digressione pressoché tutte le notizie riportate da altri autori sulla Sardegna. Cinque fasi essenziali della colonizzazione della Sardegna si susseguono organicamente nel racconto: 1) I “Libues”, o Libici, termine che peraltro molti autori fanno equivalere al termine “Ligues” cioè i Liguri, sono i primi a colonizzarla ma né loro né gli indigeni costruiscono città. Cambiano però il nome da Ichnussa in Sardò dal nome di Sardo, figlio di Eracle chiamato Maceride tra Libi ed Egizi. 2) Aristeo iperboreo, figlio di Apollo e sposo di una delle figlie del mitico fondatore di Tebe Cadmo giunge al Golfo di Cagliari e vi si stabilisce insieme all’altrettanto mitico Dedalo in fuga dalla Sicilia dov’era stato inseguito da Minosse. La figura di Aristeo è pari a quella di un benefattore semidivino dotato di una conoscenza speciale e prodigiosa nel campo dell’agricoltura e dell’allevamento, un promotore di nuove tecniche come l’apicoltura e l’estrazione dell’olio dall’ulivo nonché inventore di utensili. 261

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3) Segue la colonizzazione tartessica di Norax, eponimo della città di Nora, di cui abbiamo già esaminato l’importante stele. Siamo in un periodo precedente alla fondazione di Cadice. 4) Fu poi la volta di Iolao che, alla guida dei numerosi figli di Eracle, colonizzò l’isola seguito anche da Tebani, Locresi, Etoli e altri. Sarà chiamato poi “Iolao padre” dagli Iolei che mantennero per molte generazioni grandi poteri. 5) Ultimi giunsero gli esuli di Troia, gli Iliei, i quali si mischiarono con i Greci. Segue a questa ultima fase un attacco in forze dei Libi all’isola che fa gran strage di Greci e costringe gli Iliei a nascondersi nell’interno dell’isola. La vicinanza culturale tra Tirseni e Sardi è indubbia e ulteriormente sottolineata dai vincoli della parentela eraclide che li accomuna. Erodoto narra infatti che Tirreno, l’eponimo del mare, proveniva dalla famiglia reale eraclide dei re di Lidia allontanatosi dalla patria a causa di una carestia, mentre Strabone riporta la notizia che Iolao colonizzò la Sardegna portandosi dietro alcuni figli di Eracle. I Tirseni, così a stretto contatto con l’altro popolo pelasgico degli Shardana, condividevano talmente una simile cultura che Massimo Pittau li considera un unico popolo, almeno per queste prime fasi. Lo testimonierebbero le piccole navi votive di bronzo sarde che si ritrovano nelle più antiche sepolture etrusche.

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Qui e pag. precedente Tav. 29: La “nave di Cheope” ritrovata ai piedi della grande piramide di Gaza risulta appartenere, grazie agli esami al radiocarbonio, al 3300 a.C. Le dimensioni di 43,4 m. di lunghezza e 5,6 m. di larghezza insieme alle adeguate sorprendenti soluzioni termiche ne fanno un vascello straordinario in grado di solcare anche l’Oceano. Gli Egizi dovevano inoltre conferirgli un significato prioritario per la scelta del luogo dove fu sepolta e ritrovata. Poteva forse trattarsi delle imbarcazioni che utilizzarono coloro che giunsero in Egitto in fase predinastica e diedero quindi inizio alla civiltà egizia?

Recenti studi avrebbero dimostrato anche a livello immuno-ematologico un grado di affinità tra Sardi ed Etruschi. Tutto tende a farci pensare ad una consanguineità per matrimoni aristocratici nel comune interesse dello sfruttamento dei giacimenti metalliferi, ma potrebbe trattarsi di legami ancora più atavici. Tra i più arcaici ed importanti ritrovamenti di coloro che gli storici considerano Etruschi, o meglio proto-Etruschi, la scoperta delle tombe principesche di Verucchio nei pressi della Repubblica di San Marino, datate al IX sec. a.C., riveste un carattere eccezionale. Che si trattasse di Popoli del Mare, di nordici Pelasgi provenienti dalle regioni più remote dell’Haou-Nebout è comprovato dal ritrovamento di un incredibile patrimonio di ambra baltica, nonché di una serie di suppellettili e di stupendi manufatti in legno, compreso un trono, il cui stile depone per un’origine settentrionale. La presenza di questi ritrovamenti coincide cronologicamente nella pianura padana con quella che definiamo “cultura villanoviana” dalle caratteristiche sia nordiche che guerriere; si trattava probabilmente di Popoli del Mare che ancora non manifestavano quell’elevato livello espresso poi dalla cultura etrusca; fungeranno da substrato su cui si impianterà l’aristocrazia dei Tirseni dopo un primo lungo periodo di probabili vagabondaggi e provvisori stazionamenti nell’Egeo e sulle coste di Lidia e di Licia. La comparsa della cultura villanoviana (termine improprio derivante esclusivamente dalla cittadina di Villanova dove furono scoperte le prime tracce di questa cultura) si presenta sulla scena dell’Italia centrale con una frattura più che evidente rispetto agli abitanti della fine dell’Era del Bronzo che però gli studiosi, nel tentativo di legarli culturalmente ai nuovi arrivati, hanno impropriamente definiti “Protovillanoviani”. Sono però sufficienti poche righe riportate dal testo La cultura villanoviana di Gilda Bortoloni per eliminare qualsiasi dubbio al proposito. Leggiamo dal quarto capitolo intitolato “La rivoluzione villanoviana”: 263

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L’apparizione della civiltà villanoviana all’inizio dell’ultimo millennio a.C. rappresenta senza dubbio una novità socio-culturale esplosiva rispetto alle manifestazioni culturali della stessa Etruria – “protovillanoviana” – e alle culture dell’Italia che si erano venute definendo precedentemente (cultura laziale, paleoveneta, picena ecc.). Il carattere innovatore e la sua diffusione dai centri costieri ha fatto pensare addirittura (Hencken, Sundwall) all’arrivo di un nuovo popolo del Mare: ma, oltre all’assenza di analogia con aspetti culturali della loro supposta patria di origine nel Mediterraneo, molti, nonostante le accennate novità, appaiono i caratteri che legano la cultura “protovillanoviana” dell’Etruria proprio alla cultura villanoviana. Gli Etruschi stessi facevano risalire l’origine della nazione etrusca a una data corrispondente all’XI o al X secolo a.C.: Varrone (in Censorino, De die natali, 17, 5-6 e in Servio, Ad Aen., VIII, 526) riferisce che nei libri rituales risultava che la durata del nomen etrusco non avrebbe superato i dieci secoli; Servio ancora ricorda (Ad ecl., IX, 46) che secondo Augusto, gli aruspici ritenevano che nel periodo del suo impero sarebbe iniziato il decimo secolo, quello della fine del popolo etrusco45.

La mancanza in Mediterraneo di una possibile patria d’origine dei Villanoviani nonché una modesta serie di analogie culturali con i cosiddetti Protovillanoviani favorì un’ottica diversa da parte degli studiosi. I Villanoviani sono portatori di cambiamenti radicali di usi e costumi. Fondamentali novità sono: il rito della cremazione dei morti e l’uso di cinerari per i personaggi di rilievo dalla tipica forma a vaso biconico, o a capanna, su cui spesso spiccano decorazioni a svastica, l’uso e l’utilizzo del ferro nonché la presenza di ambra, che si evidenzia nonostante la relativa povertà di queste sepolture. La necropoli di Poggio La Pozza, ci restituisce il maggior numero di queste sepolture, alcune delle quali attribuite a personaggi eminenti, con ricchi corredi di bronzo, ambra e osso. Le prime sepolture sono da riferirsi al XII sec. e anche queste hanno restituito elementi di ambra del tipo “tesoro di Tirinto” con evidenti analogie con i Micenei. Prosegue la Bartoloni, sottolineando che i Villanoviani dimostrano di appartenere ad un preciso, anche se poco compreso, contesto storico e culturale: Nel XIII-XII sec. le stesse fogge di spade, pugnali, spilloni, fibule, ecc., si ritrovano dall’Egeo al Mare del Nord, dalla Sicilia alla Scandinavia. Questa koinè metallurgica è stata ovviamente spiegata con un ampliamento della sfera d’azione delle singole officine e quindi dei mercati, dovuto secondo alcuni studiosi a un aumentato potere d’acquisto e più specificatamente all’accumularsi di ricchezza nelle mani di determinate persone46.

Noi riteniamo del tutto insufficiente la tesi per cui questo tipo di fenomeno possa essere dipeso dal monopolio di pochi. Siamo di fronte al contrario all’evidenza di un popolo migrato da un luogo che la maggior parte 264

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degli indizi indica nel mondo nordico e atlantico. Che si trattasse inoltre di abili navigatori il cui prestigio era affidato al mare lo dimostra lo studio dell’iconografia navale di Giulia Pettena nel suo Gli Etruschi e il mare: Già da un’analisi preliminare delle attestazioni è risultato evidente come i periodi più ricchi di documentazione iconografica fossero le epoche più antiche, il villanoviano e l’orientalizzante (approssimativamente dal 900 al 550 a.C.), e per certi versi questo dato è già di per sé molto importante, visto che si tratta dei periodo di formazione della civiltà etrusca. Nei periodi successivi le riproduzioni di navi sono molto più rare e comunque meno significative, forse perché le attività legate alla navigazione non avevano più grande rilevanza e conferivano minor prestigio personale, e dunque gli oggetti che la riguardavano erano anche meno presenti nei ricchi corredi e nelle sepolture. […] A partire dal villanoviano, periodo che corrisponde alla fase di formazione di culture regionali ben definite in tutta la penisola, cominciano poi ad essere prodotti in Etruria dei veri e propri modelli di imbarcazioni, riproduzioni miniaturistiche, simboliche e allusive di un oggetto reale (così come le molte altre presenti nei corredi funerari dell’epoca), che sono gli unici documenti diretti che alludano esplicitamente ad attività di navigazione in epoca così antica. […] Durante la fase della cultura etrusca successiva al periodo villanoviano, detta “orientalizzante” (720/700-580/550 a.C. circa), alle riproduzioni plastiche si affiancano le raffigurazioni disegnative le quali, se per certi versi permettevano all’artista di indicare più dettagli, non ci restituiscono invece una visione completa dell’oggetto proprio per la loro natura “bidimensionale”. […] Nelle epoche successive all’orientalizzante, le riproduzioni plastiche diminuiscono fino quasi a scomparire e le raffigurazioni in piano (tranne che nella ricca classe delle urne volterrane di età ellenistica) sono rare e sporadiche, speso influenzate dai modelli greci, e si trovano per lo più in contesti iconografici legati a racconti epici o mitici. […] Gli oggetti che sembrano dunque più utili per ricostruire l’aspetto delle imbarcazioni nella fase culturale più antica della storia etrusca, il villanoviano, sono i numerosi modelli di terracotta che gli Etruschi stessi usavano deporre nei corredi tombali dei loro defunti. Questa usanza era diffusa soprattutto nei centri meridionali costieri e in prossimità delle direttrici fluviali, e si rifaceva ai costumi del tempo secondo i quali il corredo tombale era costituito da oggetti che rappresentavano in miniatura le attività in cui il defunto si era distinto in vita: vista la grande quantità di modellini ritrovati nelle tombe di epoca villanoviana, si

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può affermare che le attività legate alla navigazione dovevano essere abbastanza diffuse, e comunque motivo di prestigio per i signori del tempo. Come è noto infatti, le tombe che vengono ritrovate sono normalmente riferibili a persone di un certo rango, perché soltanto a queste veniva data una sepoltura che aveva rituali e attenzioni particolari ed era accompagnata da corredi con oggetti simbolici di valore47.

L’attenzione dei nobili Tirseni si polarizzerà sulle aree geografiche interessate dalla presenza villanoviana una volta assodata la presenza del ferro in Toscana e all’Isola d’Elba: fonte di ricchezza enorme e reale motivo della potenza etrusca nei secoli che seguiranno. I Tirseni avevano l’indubbio vantaggio di conoscere bene la popolazione della Sardegna, nonché le genti pelasgiche che popolavano l’Italia centrale, trovavano quindi in quell’area di mare una cultura decisamente affine, come dimostrano l’archeologia e la tradizione. I linguisti hanno sottolineato diverse analogie fra Lidio e Sardo.

Tav. 30: Stele di Lemno. Diversi studiosi hanno supposto un passaggio o una permanenza dei Tirseni nell’isola di Lemno, fatto peraltro testimoniato da molti autori classici.

Va ricordato inoltre che Sardi è la capitale della Lidia e numerose sono le connessioni toponomastiche con la Sardegna in virtù della comune origine “indoeuropea”, circostanza che comporta un identico punto di vista anche per i Tirseni. Ciò crea un ulteriore intreccio difficile da dipanare tra Sardi e Tirseni. Questi elementi fanno sostenere forse eccessivamente a Pittau l’identità dei due popoli in tempi remoti. Il ben noto sistema confe266

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derativo che li accomuna è invece una omogenea realtà applicabile a tutti i Popoli del Mare: Greci, Filistei ecc. Il Sardus Pater, capostipite divinizzato dei Sardi, veniva talvolta raffigurato con un copricapo piumato che ricorda quello dei Filistei. La personalità del Sardus Pater è stata assimilata al Dio filisteo Dagon come allo Zeus Kretagens di Creta: sono dèi mortali che sperimentano una rinascita. Pausania riferisce che una statua di bronzo del dio eponimo dei Sardi era stata donata al santuario di Delfi evidenziando una loro frequentazione del luogo sacro, ma altrettanta devozione al santuario era espressa anche dai Lidi e dagli Etruschi. È inoltre attestato l’uso fra i Greci (Corinto) e i Filistei della prostituzione sacra nonché delle pratiche oracolari. Presente in Sardegna in grande quantità è anche materiale egizio o egittizzante, anzi è possibile affermare che dell’intero bacino Mediterraneo, la Sardegna è il luogo dove più abbondano questi reperti. Migliaia di scarabei e di altri amuleti nonché sculture di sfingi e divinità egizie creano la stessa problematica scaturita dall’abnorme presenza di divino egizio nel mondo filisteo. È infatti più che attestato il culto di Osiride, Iside e Horus. Sardi ed Etruschi come gli Egizi utilizzavano navicelle funerarie e disegnavano “porte dell’aldilà” nelle loro tombe dove deponevano il defunto con i piedi rivolti verso l’uscita, pratica comune anche ai Greci in quest’era remota. Non si può inoltre dimenticare che in Sardegna sono stati rinvenuti numerosi ox lingots, esattamente identici a quelli raffigurati nella tomba di Rekmire portati in dono dai principi del Grande Verde. La presenza di segni sillabici lineare A sui lingotti sardi certifica che si trattava di un monopolio di Keftiou. Ox lingots identici sono stati ritrovati a Cipro, luogo particolarmente frequentato da tutti i Popoli del Mare, ed ancora fanno parte dell’incredibile carico affondato della nave di Capo Gelidonya (odierna Turchia) nell’XI-XII sec. a.C. Proveniente con tutta probabilità dall’Haou-Nebout con un carico ricchissimo dove compaiono ambra, avorio, metalli preziosi e lingotti di stagno, quest’importantissimo relitto è affondato anche nel mistero di una desolante assenza di risposte riguardo alla sua provenienza, poiché gli storici non conoscono un luogo dove fosse possibile reperire l’insieme del prezioso carico. Sono Keftiou e le isole il luogo da cui provengono questi beni preziosi, le testimonianze egizie sono esplicite. Anche a Cipro, grande crocevia e luogo di insediamento dei Popoli del Mare, sono venuti alla luce bronzetti di guerrieri con caratteristiche nuragiche (copricapi con le corna soprattutto), nonché uno molto famoso chiamato, secondo noi a torto, “il dio di Enkomi”. Pur avvicinandosi per la presenza dell’elmo con corna alla cultura nuragica, questo prezioso reperto dell’XI sec. a nostro giudizio rappresenta un guerriero dei Paesi stranieri nordici. È evidentissima la similitudine con i copricapi di alcuni dei Popoli del Mare raffigurati nel tempio di Medinet Habu, ma la qualità della fusione ci permette di ammirare a pieno ciò che nei rilievi egizi è solo stilizzato. L’aspetto è quello di un vero protovichingo che, nel caldo clima mediterraneo, spoglio delle vesti, mantiene il solo pesante elmo. 267

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Nei rilievi di Medinet Habu i popoli Haou-Nebout che sferrarono l’attacco navale all’Egitto utilizzavano un tipo di imbarcazione decisamente accostabile alle più primitive forme di drakar con cui i Vichinghi solcavano il mare ed ebbero l’ardire di invadere il Mediterraneo in pieno Medioevo, quando non si sospettava nemmeno dell’esistenza del popolo nordico. Nella battaglia navale di Medinet Habu vengono raffigurati probabilmente per praticità solo due dei Popoli del Mare, presumibilmente i più numerosi sulla scena del conflitto. Riconoscibili dai copricapi si tratta di Filistei e Sardi. Quello indossato dai Filistei è definito “corona piumata” (federkronen) mentre i Sardi portano un elmo cornuto che negli alti ufficiali è sormontato da un globo. È anche possibile però che questi fossero comuni anche ad altri Popoli del Mare, come i Lici, dal momento che Erodoto affermava che indossavano copricapi piumati e nulla ci vieta di pensare che anche i Dani indossassero un elmo cornuto come attestato per i Sardi. Va ricordato però che i bronzetti dei guerrieri nuragici, per quanto mostrino quasi sempre elmi con applicazioni di corna, spesso molto lunghe, non hanno mai restituito una tipologia identica a quella forgiata a Cipro dai Popoli del Mare che ricorda molto di più il classico copricapo vichingo. Tornando ai Tirseni, un fatto va particolarmente sottolineato: la fama di talassocrati dei Tirseni così storicamente diffusa nella tradizione sprofonda in un’era apparentemente troppo lontana e remota rispetto al fiorire della civiltà etrusca propriamente detta in Toscana nel IX-VIII sec.48. I Tirseni erano cioè famosi quando l’Etruria non esisteva ancora. C’è una discrepanza temporale che ha fatto fortemente dubitare alcuni storici sulla loro fama di dominatori del mare Mediterraneo occidentale. Come potevano i Tirseni, gli Etruschi, essersi creati una tale reputazione se si trattava di una nuova nazione ai primi passi? Certo i Tirseni avevano ben altra atavica fama, tanto che Esiodo nella Teogonia li poneva nelle “isole sacre”, cioè quelle isole poste all’estremo Occidente del mondo come lo erano anche le così dette “isole felici” o “fortunate” o “beate”. L’immagine di queste mitiche isole era diffusa nell’intera collettività degli antichi; Esiodo, che ne possedeva la preziosa memoria, ci consegna un passo che conferma ciò che abbiamo appreso dai testi egizi: “Agrio e Latino […] i quali molto lontano, in fondo alle ‘isole sacre’, regnarono su tutti gli incliti Tirseni”49. Agrio e Latino erano sorprendentemente i figli che Ulisse aveva avuto da Circe. Diventando re dei Tirseni e di isole estreme, come dimostra il brano di Esiodo, stabiliscono un legame di parentela tra Tirseni e Greci sempre culturalmente sfuggente. Tra le più antiche citazioni sugli illustri Tirseni possediamo anche quella dello Pseudo-Omero dell’Inno a Bacco dove rivestono il mitico ruolo di rapitori del dio con l’intenzione di portarlo a Cipro o in Egitto o tra gli Iperborei e chiederne un riscatto ai genitori. Bacco, legato all’albero maestro grazie a dei prodigi che trasformano i lacci in viticci di edera e fiori, riesce a riprendere la libertà sotto l’aspetto di un feroce leone, mentre i 268

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Tirseni sono trasformati in delfini. Il culto di Bacco era decisamente presente nel mondo tirrenico e nuragico tanto che sino a una cinquantina di anni fa, ogniqualvolta in Sardegna si piantava una nuova vigna, vi era l’usanza che i parenti e gli amici legassero il proprietario con tralci di vite e rami fioriti mentre veniva sottoposto a scherzi che non risparmiavano le zone genitali, finché la moglie non riscattava il marito con l’intervento di ricche libagioni. Inoltre il fiume principale della Sardegna era il Tyrsos, che ci riporta sia al termine “tirseno” sia a “thyrsos”, termine con cui si identifica il bastone di Bacco e delle Baccanti. La proiezione di Esiodo che geograficamente vede i Tirseni originare dalle “isole sacre”, nonché la loro presenza nel mito, certo non può adattarsi all’immagine di un popolo che iniziasse la propria storia nel 949 a.C., data che fisserebbe la prima comparsa dei Tirseni in Etruria. La talassocrazia etrusca era invece così manifesta e universalmente riportata dalla tradizione che Tzetzes, benché scrittore bizantino del XII sec. d.C., possedeva ancora fonti, poi andate perdute, che definivano le Baleari presso la “Tirsenia”, uniformando quindi anche il mare sardo sotto lo stesso dominio. Anche la rotta per le estreme regioni iperboree era aperta ai Tirseni, come recita Pseudo-Omero. Dovevano aver rivestito quindi un ruolo decisamente prioritario in questo passato andato per noi quasi perduto. Dionigi di Alicarnasso ci presenta notizie e dati di assoluto rilievo. Proiettando la genesi di questo popolo di discendenza divina in epoca mitica, afferma che Tirreno, fratello di Lidio eponimo dei Lidi, appartiene alla quinta generazione iniziata dall’unione di Zeus, dio della tempesta, con la stessa Gea. Si tratta quindi di risalire a tempi ben lontani da quelli di cui parla Erodoto, che colloca l’origine dei Tirseni dal regno di Lidia in epoca che non poteva precedere il 1100 a.C. ca., mentre la potenza navale tirsena aveva a quei tempi già fama di talassocrazia indiscussa ed interagiva con il mito stesso. È difficile accettare il racconto di Erodoto dove si affermava che Tirreno, di famiglia reale lidia eraclide, era stato l’eponimo del mare Tirreno, poiché si trattava di un pronipote della genia a cui appartenevano sia i Lidi che i Tirseni, che vantavano una storia secolare e unici progenitori. Ciò non toglie che il racconto di Erodoto possa essere vero. Vista la medesima discendenza non appare affatto improbabile che ad un principe lidio venisse dato un nome come “Tirreno” e che questi, costretto alla migrazione dalla carestia, abbia pensato di raggiungere quegli spazi marini dominati dai cugini Tirseni. Anche Dionigi di Alicarnasso poneva seri dubbi sulla questione50. La presenza tirsena nell’Egeo è attestata archeologicamente dall’iscrizione dell’isola di Lemno, ma è sempre stata considerata una testimonianza isolata, quasi insufficiente, di una loro stabilizzazione in questo ambiente, dimenticando ciò che Porfirio riportava di Pitagora e del padre Mnesarco: 269

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Tav. 31: Il dio di Enkomi. Così è identificato questo notevole bronzo cipriota da localizzarsi verso il 1100 a.C. ca. Subito dopo la diffusione dei Popoli del Mare nel Mediterraneo, Cipro mostra chiare tracce dei loro insediamenti dove si riscontra la tipica ceramica monocroma nonché la presenza delle celebri “spade terribili”. L’interpretazione divina di questo personaggio che reca un elmo decisamente di tipo vichingo è del tutto arbitraria e insostenibile. Che si tratti di un guerriero è anche dimostrato dal secondo bronzo rappresentato (fig. a destra) che sebbene inferiore come qualità presenta lo stesso tipo di copricapo.

Neante riporta l’opinione di altri autori, i quali affermano che Pitagora sia stato figlio di uno dei Tirreni che fondarono una colonia a Lemno, da dove in seguito si sarebbe trasferito a Samo, per curare i suoi traffici, per poi divenirne cittadino. […] considerato che Antonio Diogene nelle sue Meraviglie incredibili al di là di Thule51 ha esposto con cura le vicende del filosofo, mi sono persuaso di non tralasciare il suo racconto. Egli afferma che Mnesarco sia stato Tirreno di nascita, di quelli che colonizzarono Lemno, Imbro e Sciro, e che, partito da quei luoghi, avrebbe visitato molte città e molti paesi…52.

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Non si tratta quindi di vaghe informazioni ma di una precisa testimonianza condivisa anche da Plutarco e comprovata dall’iscrizione tirsenica di Lemno. L’antagonismo espresso nei secoli successivi nei confronti dei Greci, che sfocerà in accanite battaglie navali per il dominio del Mediterraneo occidentale, ci suggerisce che l’ambiente egeo doveva essere risultato troppo stretto per i due contendenti. Si sono riscontrate molte affinità linguistiche tra il lidio, l’etrusco e il sardo. Pittau è infatti pienamente convinto dell’estrema affinità di questi popoli numerosissimi, visto che Lidi, Lici, Cari e Misi sono considerati legati da vincoli di stretta parentela. In questo contesto già ampio potrebbero inserirsi anche i Frigi, la grande nazione dei Traci e gli Sciti, poiché anche questi ultimi erano guidati da Eraclidi. Ecco perché l’oro prodotto dagli Sciti, che erano stati confusi con dei barbari allevatori nomadi, ha causato tanto stupore per le raffinatissime creazioni, massime espressioni di toreutica antica; ciò ha valore anche per i Traci che condividevano nelle prime fasi una medesima cultura. Non c’è dubbio che i secoli e le steppe seppero cancellare molte delle primitive raffinate esigenze di questi popoli. Ne risulta un contesto di popoli nuovi emergenti all’alba dell’Era del Ferro e non può non risuonare il termine biblico riferito al luogo d’insediamento dei Popoli del Mare in Palestina: “La foresta dei popoli”, tale doveva presentarsi l’estrema eterogeneità delle forze che gli Israeliti si trovarono di fronte in un unico esercito. I Lidi, i Frigi, gli Etruschi ecc. si presentano sulla scena della storia come partecipanti ad una nuova evolutissima civiltà: sin dalla loro comparsa ricchi, raffinati e potenti. Erodoto, fertile di memorie, ci tramanda una storia apparentemente infantile e divertente ma indicativa: il faraone Psammetico, preso dal desiderio di conoscere quale tra le lingue fosse in assoluto la più antica, decise di affidare la risposta ad una sorta di empirico esperimento. Stabilì che due neonati venissero cresciuti sino all’età in cui fossero in grado di proferire parola nel divieto assoluto di ascoltare un qualsiasi tipo di linguaggio. Le prime parole pronunciate da uno dei bambini avrebbe svelato il linguaggio primordiale. Un bel giorno i bambini affamati piangevano ed uno di loro pronunciò la parola “becos”. Poiché “becos” in frigio significa pane, il faraone ne dedusse che erano i Frigi a possedere la lingua più antica di tutte. Se questa ingenua conclusione ha sempre lasciato insoddisfatti coloro che pensavano alla nascita dei Frigi dopo millenni di civiltà egizia, pienamente soddisfatto fu invece il faraone che evidentemente riconosceva ai Frigi la possibilità di un tale retaggio. Inoltre la tradizione narra che Enea in fuga da Troia lasciò re in Frigia il figlio Ascanio53, creando un legame e un vincolo basilare tra la cultura troiana e quella frigia. Lo stesso concetto di atavicità è applicabile anche ai nuragici che si presentano come grandi esperti della fusione del bronzo sin dalla loro pri271

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ma comparsa in una Sardegna poverissima di rame e pressoché priva di stagno. Dove avevano tratto questa profonda conoscenza? La cultura nuragica chiamava l’isola “Ichnusa”, con un termine che indicava cioè una suola di scarpa, manifestando già la chiarezza geografica che avevano dell’isola, implicante il possesso di mappe ben dettagliate. I Sardi lasciano intravedere inoltre rapporti arcaicissimi addirittura con la mitica Creta di Minosse ed il mostro di bronzo “Talo”54 che vigilava l’isola circumnavigandola per tre volte al giorno. Lo testimonia Simonide di Ceo il quale ci riporta che l’espressione “riso sardonico” o “sardiano” (presente anche nell’Odissea dove il divo Ulisse ride di riso sardiano) deriverebbe dalla smorfia di dolore degli Shardana che, nel tentativo di sbarcare a Creta, cadevano nel mortale e rovente abbraccio del suo custode Talo. È inoltre significativo nella Creta minoica l’uso tra Sardi, Etruschi e Lidi dell’ascia bipenne o labris, nonché l’utilizzo della tholos nelle costruzioni monumentali. Il culto del toro cretese è avvicinabile a quello del toro solare, ampiamente attestato nella Sardegna nuragica, e sottolineiamo infine il ruolo privilegiato che la donna possedeva in tutte queste società. Uno dei maggiori documenti epigrafici della civiltà etrusca è rappresentato dalle lamine d’oro bilingui di Pyrgi. È il fenicio la lingua utilizzata oltre naturalmente all’etrusco. Perché questa scelta? Perché il primo dei due santuari di Pyrgi era dedicato ad Astarte, chiamata Uni dagli Etruschi, ed il secondo aveva sul frontone un ciclo statuario che rappresentava l’epica micenea dei “sette contro Tebe”? Se per Esiodo e Omero i Tirseni erano già famosi talassocrati e per i Latini erano grandi sacerdoti del culto, quale necessità potevano avere di mutuare un mito da genti a loro estranee come i Micenei o scegliere di erigere templi a dee fenice? La commistione nel mito di Fenici, Tirseni, Frigi e Greci ha sempre infastidito gli studiosi che non hanno mai compreso il perché o la necessità di queste arcaiche presenze giudicate per lo più come intrusioni bizzarre. Gli Etruschi dovevano aver condiviso la stessa koinè culturale e lo stesso credo religioso in una fase ben più antica della datazione attorno al 900 a.C. fissata per la loro colonizzazione in Etruria. È piuttosto paradossale che proprio Etruschi e Filistei che eccellono in teologia, teurgia e mantica siano coloro che solo tardivamente approdino a culti mutuati dall’esterno se non addirittura da rivali come erano stati gli Egizi per i Filistei. Si pretende e sostiene che gli Etruschi avrebbero assimilato il divino dal mondo greco quando questo produsse la colonizzazione verso la Sicilia e la penisola italiana nell’VIII sec. a.C.: un vero affronto per questo antichissimo popolo pelasgico che trasmise a Roma la conoscenza misterica e il fondamentale possesso dei Libri, da quelli Sibillini agli Acherontici, che dettarono i rituali dei momenti più significativi della storia di Roma, a cominciare dal rito di fondazione che Dumezil assimila all’antico rituale vedico con il quale veniva delimitato l’altare del “fuoco sacrificale”, individuandone la comune origine indoeuropea. Quello stesso fuoco diventerà Estia per i Greci e Vesta per i Romani. 272

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Le rotte dello stagno e dell’ambra “Un’altra connessione della Sardegna con l’Iberia e, più di preciso, col favoloso regno di Tartesso, la terra dell’argento, viene accennata sia da Pausania sia da Solino, quando parlano del mitico Norake, venuto dall’Iberia e precisamente da Tartesso e fondatore della città sarda di Nora (§§ 47, 50). Quella notizia avrà un qualche fondamento di verità, perché è stata confermata da reperti archeologici rinvenuti nel territorio della attuale Huelva e cioè proprio nella zona di quel favoloso regno, reperti che già da tempo sono stati accostati ad altri del tutto simili rinvenuti in siti nuragici della Sardegna. Infine c’è un’altra notizia che lascia intravedere che i Tirreni/Sardiani non solamente navigavano oltre le Colonne d’Ercole, fino al regno di Tartesso, ma addirittura affrontavano anche l’aperto Oceano Atlantico: Diodoro Siculo dice che i Tirreni avrebbero avuto l’intenzione di mandare una loro colonia in un’isola dell’Atlantico – probabilmente Madera – ma che furono contrastati in questo progetto dai Cartaginesi. Avremo modo di ritornare più a lungo su questa interessante notizia in seguito. Da quali prospettive ed esigenze saranno stati mossi i Tirreni della Sardegna o Sardi/Nuragici quando sbarcavano sulle coste dell’Iberia, raggiungevano le Colonne d’Ercole e addirittura navigavano nell’Oceano Atlantico? Non ci sono molte possibilità di dubbio nel dare una risposta a questa domanda: essi saranno stati mossi dalla ‘febbre dei minerali’, quella stessa che, assieme con altri motivi già visti in precedenza, aveva spinto i loro antenati Lidi a trasferirsi dall’Asia Minore in Sardegna, quella stessa che aveva spinto altri popoli, come i Fenici ed i Greci, a muoversi dalle loro sedi del Mediterraneo orientale verso il Far West del Mediterraneo centrale ed occidentale. La ‘febbre dei minerali’, diciamo, e soprattutto la ‘febbre dello stagno’. Si deve considerare che nel Mediterraneo centrale siamo ormai in piena Età del Bronzo e si deve ricordare che i Sardi/Nuragici, mossi anch’essi, come i loro antenati Lidi, dalla ‘vocazione metallurgica’, si erano già rivelati abilissimi lavoratori di questo metallo. Sta di fatto, però, che dei metalli che entrano nella composizione del bronzo, il rame si trovava in Sardegna in non molti né ricchi giacimenti, i quali d’altra parte saranno entrati presto in crisi di esaurimento; lo stagno si trovava nell’isola in scarsissima quantità. Si imponeva dunque ai Sardi/Nuragici, rappresentanti di una civiltà ormai avanzata che faceva larghissimo uso del bronzo, per le armi, per gli strumenti da lavoro, per il vasellame, per gli ex-voto da offrire agli dèi, la necessità di attingere alle fonti di quel metallo prezioso che era lo stagno, che arrivava nel Mediterraneo dalle lontane isole Cassiteridi e dalla Britan-

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nia, attraverso appunto le Colonne d’Ercole e probabilmente con la mediazione dei Tartessi. Ma non solo all’incetta dello stagno si muovevano oltre le Colonne d’Ercole i Sardi/Nuragici, i Fenici ed i Greci, bensì anche di un altro minerale che arrivava dai paesi dell’Europa settentrionale e che nei tempi antichi era particolarmente apprezzato per i gioielli, l’ambra. Ecco dunque trovata la prima e principale causa della presenza dei Tirreni della Sardegna nell’area delle Colonne d’Ercole, dove avevano puntato la loro attenzione e le loro aspirazioni anche i Fenici e i Greci. D’altra parte si deve considerare che le basi di partenza per le spedizioni commerciali dei Sardi/Nuragici dietro la rotta atlantica dello stagno e dell’ambra erano molto più vicine di quelle iniziali dei Fenici e dei Greci, per cui è legittimo pensare che in un primo tempo i Sardi/Nuragici appunto abbiano perfino conquistato ed imposto un certo ‘monopolio’ dello stagno e dell’ambra rispetto agli altri popoli del Mediterraneo. La rotta marittima dello stagno e dell’ambra dalle Colonne d’Ercole all’Oriente, che prevedeva la mediazione dei Sardi/Nuragici nel commercio e nel monopolio di questi due minerali, è quella medesima ‘rotta transmediterranea’ che Plinio ci ha indicato, sia pure in direzione opposta: Gades (Cadice) nell’Iberia, Caralis (Cagliari) in Sardegna, Capo Lilibeo in Sicilia, Capo Tenaro nel Peloponneso, isole di Cipro, Myriandro nella Siria. La mediazione dei Sardi/Nuragici nel commercio e nel monopolio dello stagno e dell’ambra valeva a maggior ragione per l’altro itinerario, quello che lo stagno della Britannia e l’ambra del Baltico seguivano attraverso la Gallia, lungo la via fluviale che risaliva la Senna e, dopo un breve percorso a dorso di animali, discendeva il Rodano fino al Golfo del Leone. […] In conseguenza di tutto ciò, è lecito trarre la seguente logica conclusione. La maggiore vicinanza della Sardegna alle fonti di estrazione e di commercio dello stagno e dell’ambra ed inoltre un certo monopolio che i Sardi/Nuragici avranno esercitato su quei preziosi minerali, sono due fattori che possono spiegare un fatto altrimenti inspiegabile: i Sardi/Nuragici hanno creato ed espresso una forma di civiltà tanto avanzata in fatto di prodotti architettonici, artistici, industriali e commerciali, che si deve postulare alla sua base una notevole ricchezza di carattere economico. E certamente questa notevole ricchezza trovava la sua fonte prima nella lavorazione e nella esportazione del bronzo e dell’ambra e nel commercio dei loro manufatti. In linea generale si intravede abbastanza chiaramente che le fonti delle materie prime che sostenevano l’attività metallurgica e quella

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commerciale dei Sardi/Nuragici – piombo, argento, rame, stagno, zinco, ferro – e la conseguente loro notevole ricchezza economica, erano in primo luogo i giacimenti minerari della Sardegna stessa, in secondo luogo quelli delle vicine Iberia ed Etruria, […], in terzo luogo erano quelli delle lontane Cassiteridi, Britannia e terre del Nord”55. I Sardi, i Micenei, i Pelasgi delle tombe nei pressi della Repubblica di San Marino, i Villanoviani nonché gli Etruschi possedevano quindi il segreto dell’origine dell’ambra. La quantità dei reperti nei casi delle più antiche tombe a fossa micenee o in quelle pelasgico-etrusche di San Marino è tale, che risulta difficile non preconizzare che queste genti provenissero direttamente dai luoghi d’origine del prezioso elemento considerato magico e dotato di poteri curativi56.

Tav. 32: Distribuzione dell’ambra dal VII al VI sec. a.C. Tale distribuzione rende decisamente arduo sostenere che l’ambra, attraverso l’Europa centrale, sia giunta alle foci del Po percorrendo una consolidata via commerciale.

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4.6. Dionigi di Alicarnasso Dionigi di Alicarnasso nella Storia di Roma arcaica affronta le problematiche delle prime colonizzazioni della penisola su cui sorgerà la potenza di Roma. Egli afferma che i primi coloni, gli Aborigeni, erano genti nomadi del mare, Lelegi che come ricordiamo facevano anche parte delle primitive colonizzazioni pelasgiche del mare Egeo in epoche remotissime. Il ricercato termine Aberrigines, tradotto “aborigeni” possederebbe un intrinseco profondo significato: si tratterebbe di genti costrette ad allontanarsi dai luoghi d’origine. Riportiamo per correttezza la nota esplicativa di questo termine direttamente dalla traduzione a cura di Floriana Cantarelli: “Aberrigines deriva da ab-erro che significa errare lungi da un luogo, allontanarsi. La forma di questo nome era una creazione erudita per giustificare il carattere nomade di questi gruppi”57. Altri autori antichi li collegavano ai Pelasgi che avevano colonizzato l’Arcadia e ritenevano che il termine significasse “ab origo”, cioè “dall’origine”, considerandoli i più antichi popoli dell’Italia. È però di Licofrone (1253) l’affermazione più interessante che fa derivare il termine da “a-boreigonoi”, cioè “uomini boreali”, “uomini del nord”. I cosiddetti Aborigeni non trovarono però il territorio completamente disabitato ma lo condivisero con gli Umbri, di cui Dionigi non riesce ad indicare la provenienza, e con i Liguri, che notoriamente popolavano anche una parte dell’Iberia e con tutta probabilità di là provenivano. I Liguri o Ligues sono stati spesso associati ai Libues, cioè i Libi, e qualcuno ne ha proposto la comune identità. Il termine ligustinum con cui si identificava il mare ligure lo si ritrova anche nell’area atlantica della Spagna. Nel passato alcuni studiosi ritenevano che i Ligues o Libues si fossero diffusi in tutti il Mediterraneo orientale con uno sviluppo massimo durante l’Età del Bronzo. Così affermava di loro Diodoro Siculo: Sono coraggiosi e nobili non soltanto in guerra, ma anche in quelle circostanze della vita che comportano terribili difficoltà. Commerciando, infatti, navigano per il mare di Sardegna e per quello di Libia, buttandosi prontamente in pericoli a difesa dai quali non esiste aiuto; infatti, nonstante usino navi più modeste delle zattere ed un equipaggiamento di pochissima utilità, affrontano in modo stupefacente le condizioni più spaventose provocate dalle tempeste58.

Dell’origine degli Umbri ben poco sappiamo, ma Plinio il Vecchio affermava che gli Umbri erano la più antica stirpe italica e che il termine “ombrios” significherebbe “i sopravvissuti delle piogge” con riferimento ad un diluvio di tipo biblico59. Plinio ci fornisce inoltre la data di fondazione della città umbra di Amelia, 1134 a.C. e sappiamo che Sarsina nell’alto corso del Savio era a capo di una confederazione umbra. La radice indoeuropea di questo nome è “ombh”, la stessa della tribù 276

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germanica degli Ambroni, che furono sconfitti coi Teutoni da Caio Mario nel 102 a.C. I termini “umbelicos” e “umbo” (umbone, rilievo centrale dello scudo) hanno la stessa origine, da cui la traduzione di “Umbri” come “uomini dell’ombelico”. Vivevano nella regione fra il fiume Ambra e Ombrone. Per quanto risulti difficile, nel racconto di Dionigi, puntualizzare l’aspetto cronologico delle vicende, non v’è alcun dubbio che egli comunque riesca a fornirci un quadro della situazione decisamente sovrapponibile alla ricostruzione storica che presentiamo. Egli prosegue narrando infatti di diverse ondate di colonizzatori Pelasgi. L’origine attribuita ai Pelasgi è della massima rilevanza poiché divina. Pelasgo, l’eponimo di questa stirpe, è infatti figlio di Niobe, nientemeno che la prima donna mortale da cui Zeus, dio delle tempeste, ebbe prole. Fu Enotro discendente di Pelasgo che giunse in quella terra che veniva chiamata Saturnia (ricordiamo che Saturno è l’omonimo latino di Cronos) diciassette generazioni prima della guerra di Troia, proveniente dall’Arcadia colonizzata già da diverse generazioni. Enotro trovò la regione adatta per grandi tratti alla pastorizia e per molti altri allo sfruttamento agricolo; si trattava per lo più di terra disabitata e anche quella abitata era poco popolosa. Iniziò a cacciare i Barbari da alcune parti del territorio e fondò delle piccole città contigue le une alle altre sui monti, così come avveniva anticamente nella disposizione degli abiti. Tutta la regione occupata, che era molto grande si chiamò Enotria, e così pure gli abitanti dominati dagli Enotri assunsero questa denominazione60.

Si realizzò quindi un lungo periodo in cui i primi Aborigeni e i Pelasgi fondarono molte città e Dionigi ne elenca e descrive una decina ancora presenti ai suoi tempi ad uno o due giorni di cammino da Roma, asserisce anche che a Tiora esisteva un importante oracolo di Ares, molto antico, le cui caratteristiche erano, secondo quanto narra la tradizione, assai prossime a quelle che secondo le trattazioni mitiche aveva un tempo l’oracolo di Dodona. In vari punti del Lazio e dell’Umbria si ergono ancora mura ciclopiche con giganteschi massi poligonali che dovevano racchiudere i centri urbani pelasgi. Riteniamo che la datazione attribuita al V-VI sec. delle numerose mura poligonali del Lazio e dell’Umbria, denominate peraltro tradizionalmente come pelasgiche, ci privi di un patrimonio eccezionale (vista la conservazione di siti come Norba, che presenta nell’importante cinta muraria una porta di tipo troiano pressoché intatta descritta nell’Iliade: “le porte Scee” dove si combatterono gli scontri più ardui). Osservando queste opere notiamo con meraviglia che massi giganteschi sono posizionati talvolta in posizione elevata aumentando molto i disagi della collocazione a diversi metri di altezza. Un problema brillantemente risolto, come ci riferisce lo studioso Franco Della Rosa: 277

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Tav. 33: Mura ciclopiche di Amelia (TR).

Assai significativa è la sperimentazione effettuata dal Prof. Mario Pincherle su due modelli di mura, uno a pietre squadrate poste in filari orizzontali ordinati e l’altro a pietre di forma poligonale disposte come le antiche ad incastro disordinato. Oggetto della prova fu la verifica di resistenza della struttura all’effetto simulato di un terremoto dopo aver posto i due modelli su di un piano “scuotitore” elettromagnetico. Con il graduale aumento delle sollecitazioni il primo muro, come riferisce il professore, crollò miseramente mentre il secondo rimase intatto dimostrando un’alta resistenza. L’osservazione portò anche a dimostrare che la pezzatura dei blocchi più grandi e quindi pesanti, posti in alto (ma non sempre), fu determinante per la stabilità del muro e ciò per un motivo definito dalla Scienza delle Costruzioni sotto le “leggi” della iperstaticità e pre-compressione. Il fatto, per facilitarne la comprensione, può essere esemplificato con un banale esempio. Il muro a blocchi squadrati si comporta come una sedia a tre gambe che crolla appena se ne perde una mentre il muro poligonale rappresenta una strana sedia a molte gambe che resiste fintanto ne conserva almeno tre, sempre che non esista malta di legatura e i blocchi restino indipendenti tra di loro61.

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Tav. 34 e 35: Mura ciclopiche di Norba (FR).

Si tratta quindi di una tecnologia antisismica estremamente evoluta, testimoniata anche dal fatto che tuttora ampi tratti di mura sono intatte. Sono il prodotto di un popolo sottoposto dalla natura del luogo d’origine 279

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Tav. 36: Mura ciclopiche di Alatri (FR).

a escogitare strutture architettoniche dispendiosissime e forza lavoro superspecializzata. Né gli Etruschi, né i Greci o i Romani utilizzarono mai soluzioni megalitiche di questa portata, che hanno invece analogie spesso geograficamente lontanissime come con le mirabili fortezza peruviane precolombiane, a cui però gli storici per lo più non hanno concesso la dovuta attenzione. Questi luoghi vengono più considerati dagli appassionati di misteri e di argomenti insolubili che non da storici e archeologi che sembrano brancolare nel buio della nostra più arcaica origine. Più realisticamente queste formidabili fortificazioni sono dello stesso tipo di quelle riscontrabili a Micene e a Tirinto, anch’esse non a caso definite dai Greci classici sia ciclopiche che pelasgiche. Riprendendo il corso narrativo di Dionigi di Alicarnasso apprendiamo che dopo molte generazioni in cui i Pelasgi si erano diffusi nell’Egeo62 ed avevano occupato anche la Tessaglia, furono attaccati duramente e costretti ad un’ennesima diaspora da nuove ondate di popoli provenienti dal mare: 1. Ma nella sesta generazione furono a loro volta cacciati dalla Tessaglia da Cureti e Lelegi, popolazioni che ora si chiamano Etoli e Locresi, e da molti altri che vivono nella zona del Parnaso; alla guida dei loro nemici vi era Deucalione, figlio di Prometeo e di Climene, la figlia dell’Oceano. I Pelasgi si dispersero nella fuga: alcuni raggiunsero Creta, mentre altri si impadronirono di qualcuna delle isole Cicladi. Alcuni si

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stabilirono nel territorio chiamato Estieotide, presso l’Olimpo e la città di Ossa, altri invece si portarono nella Beozia, la Focide e l’Eubea. Coloro che si erano diretti verso l’Asia occuparono molto i territori lungo la costa dell’Elesponto, così pure molte isole prospicenti la costa, tra cui l’attuale isola di Lesbo, fondendosi con coloro che erano stati inviati dalla Grecia a fondare la prima colonia sotto la guida di Macaro, figlio di Crinaco. 2. La maggior parte di essi trovò rifugio nell’interno presso gli abitanti di Dodona, loro consanguinei, contro i quali come abitatori di una città santa nessuno avrebbe pensato di muovere guerra. In questa città essi si fermarono per un tempo ragionevole, ma quando si avvidero di essere dannosi per gli abitanti di Dodona, in quanto la terra non era in grado di nutrire tutti quanti, lasciarono la regione accogliendo l’ordine dell’oracolo di navigare alla volta dell’Italia che allora si chiamava Saturnia63.

Stiamo parlando degli stessi Pelasgi a volte considerati Tirreni che, allestita una ingente flotta, approdarono a Spina, alle foci del fiume Po. Attraversando l’Appennino, trovandosi in contrasto con gli Umbri, decisero di dirigersi verso il territorio degli Aborigeni (area tosco-laziale) i quali, dopo un primo momento di diffidenza, decisero di accettarli in seno alla propria comunità. Dionigi afferma che ciò fu possibile solo per motivi di antica parentela e consanguineità tra questi popoli. Fu inoltre reso noto agli Aborigeni il responso oracolare che si realizzava per l’appunto all’interno del loro territorio e di buon grado, anche per questo motivo, accettarono di unirsi ai Pelasgi. Ciò naturalmente conforta l’immagine di devozione che anche gli Aborigeni lelego-pelasgi conferivano al medesimo oracolo, manifestando quindi elementi di una stessa cultura di base. L’oracolo gli aveva imposto di cercare un luogo particolare, una palude con un’isola galleggiante. […] I Pelasgi, che nel frattempo si trovavano presso Cotilia, città degli Aborigeni, e cercavano di porre l’accampamento vicino alla palude sacra, non appena vennero a sapere dell’isoletta che galleggiava nella palude e conobbero da alcuni prigionieri che avevano catturato nei campi il nome della regione, compresero che aveva avuto finalmente compimento il vaticinio dell’oracolo. 3. Il contenuto dell’oracolo infatti che essi avevano ricevuto a Dodona (che L. Mallio, uomo non oscuro, dice di aver visto personalmente inciso con caratteri antichi su un tripode di Zeus) suona così: affrettatevi a raggiungere la terra dei Siculi Saturnia, la città degli Aborigeni Cotile, là ove un’isola ondeggia; fondetevi con quelle popolazioni e inviate un uomo.

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20. 1. Agli Aborigeni che avanzavano con un grosso esercito si fecero incontro i Pelasgi, levando ramoscelli di ulivo e senza armi per spiegare le loro vicissitudini e per chiedere di essere accolti amichevolmente a vivere con loro. Essi – garantivano – non avrebbero arrecato difficoltà, poiché il dio stesso li aveva guidati proprio in quella particolare regione e spiegarono il contenuto dell’oracolo ricevuto. 2. Agli Aborigeni, d’altro canto, parve opportuno accogliere l’ordine dell’oracolo e accettare l’alleanza greca, in considerazione anche dei contrasti che avevano con i barbari e della guerra contro i Siculi, che li logorava. Gli Aborigeni strinsero dunque accordi con i Pelasgi e concessero loro i territori, in gran parte paludosi, ripartendoli nell’area circostante il luogo sacro; questa zona, con antica forma dialettale, si chiama ora Velia64.

Il perché i Pelasgi prediligessero aree paludose e vasti acquitrini è spiegabile solo con la loro origine di abitanti del Nebout. I Pelasgi assieme agli Aborigeni dovettero però contendersi il territorio con i Siculi di origine ignota, che gli storici affermavano essere il primo popolo colonizzatore del Lazio. Secondo Dionigi di Alicarnasso, che riportava la cronologia di Ellanico, i Siculi furono costretti a lasciare l’Italia tre generazioni prima della guerra di Troia. La tradizione non è però unanime, infatti Tucidide posticipava questi fatti alla guerra di Troia. Non è impossibile che ci siano stati due movimenti migratori distinti. Ne fecero comunque le spese i Sicani di origine iberica che poco tempo prima si erano stabiliti in Sicilia, chiamata in precedenza Trinacria. Non è chiaro da ciò che riporta Dionigi se i Siculi venissero considerati discendenti degli Enotri Itali (visto che da Italo successore di Enotro venne il nome Italia) oppure se come Liguri e Sicani avessero un’origine definita “iberica”. I tempi di queste migrazioni, che a loro volta ne causarono altre, appaiono coincidere o precedere di poco (dai nostri calcoli solo una generazione) la prima invasione dei Popoli del Mare dove preponderanti erano le forze degli Achei (Akawash), termine che raggruppava oltre ai Dori tutte le genti greche che in quel periodo comparvero nell’area egea. Sappiamo infatti che non è solo il dorico a fare la comparsa sulla scena ma sono vari i dialetti greci che emergono in questa fase. Forme dialettali molto simili fra loro che presentavano invece un ampio distacco dalla lingua micenea, loro arcaica antenata. Dionigi afferma che al successo dei Pelasgi che si erano impossessati di vasti e fertili territori seguì però un periodo di spaventosa carestia e siccità che li obbligò ad ulteriori migrazioni. Un evento non specificato da Dionigi aveva causato l’inizio di un periodo di siccità tale da prosciugare le fonti, e pochi erano i corsi d’acqua che si erano mantenuti vivi, i frutti cadevano senza maturare dagli alberi e i semi non germogliavano, non vi era erba per il bestiame. Lasciamo proseguire Dionigi: 282

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Sorte corrispondente colpiva la riproduzione del bestiame e i parti delle donne; numerosi casi di aborto, di decessi post-natali e peri-natali, che risultavano fatali alla madre stessa. Quanti sfuggivano i pericoli del parto risultavano poi deformi o affetti da qualunque altra malformazione che ne rendeva inutile l’allevamento. La parte restante della popolazione in età adulta era soggetta ad una quantità di malattie e decessi decisamente sopra il normale65.

Questi fatti accadevano tra la prima e la seconda generazione prima della guerra di Troia, con una coincidenza cronologica quasi assoluta con i disastri ecologici che riguardano la desertificazione della Libia menzionati dai testi di Mereptah, nonché le piaghe bibliche dell’epoca di Mosé che sono dai più riferite all’epoca di questo faraone. È a questo punto che nel racconto di Dionigi intervengono sulla scena i Tirseni, i Tursha dei testi egizi. Continua Dionigi: Si verificarono delle emigrazioni senza alcun piano preordinato, ma come se la gente fosse incalzata dal pungolo del dio e dal suo sacro furore […]. Così dunque si verificarono numerose migrazioni e la stirpe dei Pelasgi si disperse in più regioni. I Pelasgi erano divenuti migliori di molti popoli nel fare la guerra perché, vivendo tra genti bellicose, erano abituati ad imprese rischiose ed ancor più essi erano esperti nella navigazione per aver vissuto con i Tirseni. La necessità che nelle incertezze della vita è fattore sufficiente per ispirare coraggio fu loro guida e maestra in ogni frangente, per cui essi prevalevano senza difficoltà in qualunque territorio andassero. Dal resto degli uomini essi venivano denominati Tirreni o Pelasgi, col nome del territorio da cui erano migrati e in ricordo della loro stirpe. Questo lo dico perché nessuno si meravigli quando sente da poeti o storici la denominazione di Pelasgi e Tirreni e si domandi la ragione della doppia denominazione. 3. Tucidide fa un esplicito riferimento ad essi, parlando di Acte in Tracia e degli abitanti di queste città che sono bilingui; riguardo al popolo dei Pelasgi dice testualmente: “In questa popolazione vi è una componente calcidese, ma la maggior parte è costituita dai Pelasgi, discendenti di quei Tirreni che abitarono un tempo Lemno ed Atene”. 4. Sofocle nel suo dramma Inaco ha scritto questi anapesti che vengono recitati dal coro: Fluttuante Inaco, figlio del padre delle fonti, dell’Oceano, grandemente signoreggi le terre d’Argo e i colli di Hera e i Tirreni Pelasgi. 5. In quel tempo infatti il nome di Tirrenia risuonava per la Grecia e tutta l’Italia occidentale, tolte via le denominazioni delle singole popolazioni, assunse quell’appellativo, il che si è verificato anche in molte

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parti della Grecia ed in particolare in quella che oggi si chiama Peloponneso; da uno dei popoli che vi abitavano, l’Acheo, si chiamò infatti Acaia tutta la penisola, nella quale vi era anche una componente arcade, ionica e molte altre stirpi66.

È così, quasi d’improvviso, che Dionigi scandisce i tempi del cambiamento epocale. I Tirseni mai apparsi prima sono padroni del Mediterraneo e molti luoghi stanno per cambiare nome, si definisce un nuovo panorama di genti e di stati. Gli Achei-Micenei, cacciati dai loro luoghi di potere dai nuovi arrivati, devono ritirarsi in una terra aspra che si chiamerà Acaia, dove naturalmente si parlerà il linguaggio più arcaico della Grecia. Una parte di loro si diresse però a Cipro. Sono gli unici luoghi dove si utilizza in tempi classici il dialetto più arcaico fra i Greci: l’arcadico cipriota. Saranno gli stessi Tirseni ad occupare i siti pelasgici dell’area che da loro per l’appunto si chiamerà Tirrenia, ma la loro talassocrazia si estendeva su di uno spazio marittimo che andava dalle Baleari alla Grecia. Dionigi non crede alla storia di Erodoto a riguardo della colonizzazione di Tirseno dalla Lidia, sostiene infatti che Xanto di Sardi, che scrisse la storia di Lidia e a cui concede massima affidabilità, non accenna assolutamente a questa questione, propende invece per un maggior grado di parentela dei Tirseni con gli Aborigeni ed i Pelasgi, come d’altronde riteniamo sia giusto. Dominatori del mare i Tirseni con tutta probabilità vissero per due secoli da nomadi del mare, con basi in Egeo e in chissà quanti altri luoghi finché l’Etruria non si palesò fra le terre più prospere del Mediterraneo per la scoperta dei più ricchi giacimenti di ferro dell’antichità. Fu quindi questo il motivo precipuo che ne causò l’aggregazione, il polo magnetico che fece abbandonare all’aristocrazia tirsena l’azzurro Egeo a favore della terra che da loro si chiamerà Etruria. Pelasgi e Tirseni appaiono vincolati da un’affinità elevatissima sia in Dionigi che in tutti gli storici che trattano il problema. Spesso quindi, come già assodato, esiste perfetta sovrapposizione, ma Dionigi non ne è convinto, poiché a quanto gli risulta il loro linguaggio non era il medesimo. Riconosce altresì l’origine arcaicissima di questo popolo e afferma: Ora, con denominazione poco chiara li chiamano 67 Tusci, in quanto più arcaicamente, con maggior proprietà (come invero facevano anche i Greci), li chiamavano thyoskoi (cioè sacerdoti) per la loro grande pratica di cerimonie relative ai culti divini, in cui eccellevano sugli altri popoli. Essi in realtà danno a se stessi una propria denominazione, derivata dal nome di un certo Rasenna, che era stato uno dei loro capi68.

È a nostro giudizio possibile che il rapporto intercorso tra Pelasgi e Tirseni non sia dissimile da quello espresso da Erodoto esistente fra Greci e 284

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Pelasgi, in un brano poco messo in risalto nei libri di testo che affrontano il problema dell’origine dei Greci. A quanto ci risulta, il popolo greco, da quando si venne costituendo, sempre e costantemente, usa la stessa lingua. Staccatosi, debole ancora, dal ceppo pelasgico, partendo da umili origini, si venne ampliando fino all’agglomerato attuale di popoli, essendosi ad esso accostate di preferenza, molte popolazioni pelasgiche e numerosi altri Barbari. In confronto a questo, dunque, mi pare che nessun altro popolo di Pelasgi essendo barbaro abbia fatto mai così vasti progressi69.

Dionigi ricorda poi che una parte degli Umbri si sarebbe unita ad Aborigeni e Pelasgi emigrando a sud nella valle del Tevere e acquisendo il nome di Sabini. Furono Sabini alcuni fra i primi re di Roma come Tito Tazio, Numa Pompilio, forse Tullo Ostilio e Anco Marzio e certamente di origine sabina fu la famiglia dei Flavi. Introdussero a Roma l’uso del prenomen. Anche altri Arcadi erano giunti in Italia sessant’anni prima della guerra di Troia, e tra questi vi era Evandro, padre di Lavinia. Costoro si stabilirono su di un colle in prossimità del Tevere che sarà chiamato Palatino e furono i primi a erigere capanne nel luogo che sarà poi scelto per la fondazione di Roma. Il colle, pressoché circondato a quei tempi da acquitrini, presentava l’immagine di un’isola galleggiante sulle acque. Lo storico riferisce poi che anche Eracle nello stesso periodo aveva calpestato il suolo italiano ma l’approccio di Dionigi nei confronti dell’eroe è insolitamente realistico: egli infatti va oltre la favola che circonda il mito, lo sfronda ed afferma che Eracle vi era giunto alla guida di un potente esercito “dopo aver conquistato l’Iberia e tutte le terre che si estendono fino a dove tramonta il sole”70. Dopo aver accennato alla versione leggendaria del mito che si tramanda su Eracle, Dionigi infatti afferma: 41.1. La versione più autentica, tenuta presente da molti che hanno narrato le imprese del dio con un taglio storico, è invece questa: Eracle, divenuto il più possente guerriero del suo tempo, alla testa di un grosso esercito, percorse tutta quanta la terra circondata dall’Oceano, liquidando le signorie che riuscissero gravose e tiranniche per i sudditi e le città che provocassero e danneggiassero i vicini o bande che si comportassero come selvaggi ricorrendo persino alla eliminazione degli stranieri in spregio alle leggi. Al loro posto egli istituì monarchie rispettose delle leggi, governi basati su saggi ordinamenti e usanze ispirate a criteri di umanità e di tolleranza per le esigenze di una vita comunitaria. Inoltre, egli fece convivere Greci e Barbari, abitanti dell’interno e abitanti dei litorali: genti che fino a quel momento erano state asociali

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e sleali nei rapporti reciproci. Fondò città in terre desertiche e corresse il corso dei fiumi che prima inondavano le pianure, tracciò percorsi attraverso montagne impraticabili ed altre opere attuò, affinché tutta la terra ed il mare offrissero a tutti uguali opportunità di utilizzazione. 2. In Italia Eracle non era giunto a titolo di spedizione individuale, né, tanto meno, conducendo una mandria di buoi (questa regione non si trova infatti sul percorso di chi dall’Iberia è diretto ad Argo e logicamente egli non sarebbe stato fatto segno di onori di tale portata solo per averla attraversata), ma era invece alla guida di un grosso esercito per asservire e comandare le genti che la occupavano, dopo che già si era impadronito dell’Iberia. Qui egli fu costretto ad impiegare parecchio tempo, sia per l’assenza della sua flotta, trattenuta dal maltempo invernale, sia perché non tutte le genti che dominavano l’Italia si sottomettevano a lui di buon grado71.

Eracle, l’eroe poi il semidio, compie le sue imprese in entrambi i mondi, quello mediterraneo e quello oceanico che, ritenuto purtroppo fantastico dagli storici, aveva al contrario una realtà inoppugnabile nell’HaouNebout, quella “foresta dei popoli” abitata anche dai Dori la cui stirpe fu rinvigorita da Eracle (Plutarco, De Facie). Egli con un esercito dotato di una potente flotta invase l’Iberia72 e dopo averla conquistata giunse in Italia dove fondò anche Ercolano e venne in seguito raggiunto dalla flotta. Una sorta quindi di “eroe dei due mondi” delle cui imprese atlantiche ci sono rimaste solo le favole come quella dei pomi d’oro delle Esperidi, proprio perché di lì a poco l’Haou-Nebout verrà prima abbandonato poi scomparirà per sempre tra i flutti del mare Oceano. La memoria sarà naufraga nel tempo ed imprigionata nella favola del mito. Come già ricordato, per questo mondo scomparso sarà adottata in seguito una terminologia che utilizza espressioni come le “isole beate”, “isole felici”, “isole fortunate”, “isole dei morti”. Relegate dagli storici ad elementi di pura favola e finzione piuttosto che a giusto ruolo di mito sempre poggiante su una base di verità, non si è neppure troppo tenuto conto di ciò che riportavano storici attendibili come Strabone. Egli, che nella sua geografia è infallibile nel definire le distanze delle città iberiche collocandole perfettamente dove ne rileviamo oggi i siti archeologici, testimoniava di un’isola grande almeno quanto la Sicilia localizzata a Nord della Spagna ancora in epoca romana. Narra sempre Dionigi di Alicarnasso che Eracle in Italia ebbe due figli: Pallante da Lavinia, figlia di Evandro, e Latino, da una fanciulla iperborea. È questa la seconda indicazione di elementi iperborei dopo i Galeoti in Sicilia. Latino diventò re degli Aborigeni che cambiarono il loro nome in Latini (altri lo definivano di stirpe enotria) e, alla sua morte, Enea, in fuga da Troia, si impadronirà del trono dopo aver vinto la resistenza dei Rutuli. 286

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Dionigi afferma che anticamente quelle regioni, prima del regno di Zeus, sarebbero state sotto la sovranità di Cronos: Si dice anche che gli antichi praticassero sacrifici umani a Cronos, come a Cartagine, sino a che essa esisté e, come avviene tuttora presso i Celti e presso altri popoli d’Occidente; Eracle volendo far cessare l’usanza di tale sacrificio, innalzò un altare sul colle Saturnia e fece sacrificare vittime pure con puro fuoco. Si dice anche che per non turbare quelle genti, quasi la cessazione del sacrificio costituisse violazione delle loro tradizioni, egli insegnasse agli abitanti a mitigare l’ira del dio gettando nelle acque del Tevere, in luogo di uomini immobilizzati e legati mani e piedi, dei simulacri che dovevano essere vestiti allo stesso modo. Essi avrebbero in tal modo sradicato nelle loro coscienze quel tanto di superstizione che allora vi allignava, serbando nel contempo un ricordo visibile dell’antico sacrificio. I Romani hanno conservato tale usanza sino ai miei tempi, rinnovandola ogni anno, poco dopo l’equinozio di primavera, nel mese di maggio, alle cosi dette Idi, giorno che per essi corrisponde alla metà del mese. In questo giorno i cosiddetti pontifices (i sacerdoti di grado più elevato), adempiuti i sacrifici prescritti e con essi le vergini che custodiscono il fuoco perenne, i pretori ed altri cittadini che godono della prerogativa di presenziare alle cerimonie sacre, gettano dal ponte sacro nel corso del Tevere trenta simulacri acconciati in forma umana, chiamati argeioi73.

La figura di Eracle, strenuo avversario dell’ingiustizia e della tirannide e che inoltre aveva abolito il sacrificio umano, assurge a ruolo di sacro legislatore che istituisce rituali perpetrati nei cerimoniali religiosi anche della romanità. L’aura luminosa di un tale eroe non trova paragoni anche se è spontaneo pensare al tentativo di emulazione di Alessandro Magno, il quale non a caso si faceva raffigurare sulle monete come Eracle che porta sul capo il leonté. Possediamo infine un’ulteriore preziosa testimonianza a proposito della funzione delle famose Colonne d’Ercole. È da Pindaro che Károly Kerényi trae le seguenti affermazioni: “Dirimpetto, sulla costa iberica lontana, sta Cadice. Fu qui che Eracle eresse le Colonne con la scritta che da Gades non c’era alcun passaggio verso ovest”74. La rotta verso ovest dal porto di Cadice doveva essere stata abituale ma probabilmente già al tempo di Ercole era diventata impraticabile mentre percorribili rimanevano con tutta probabilità le rotte più nordiche che l’eroe stesso aveva percorso sino agli Iperborei, donde aveva riportato l’olivo selvatico con cui si coronavano i vincitori dei giochi di Olimpia. L’idea che le Colonne d’Ercole rappresentassero quindi il limite estremo del mondo conosciuto va rivista totalmente. Lo stretto di Gibilterra e Cadice stessa, 287

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dove erano state poste le Colonne, rappresentavano solo la tappa intermedia per raggiungere direttamente con rotte verso ovest il mondo dell’Haou-Nebout, le isole del centro del Grande Verde, ma qualcosa stava già evidentemente cambiando. Un’ultima osservazione: Eracle, nel suo periplo atlantico visita anche il fiume Eridano; ora, noi sappiamo che un astro del cielo chiamato dai Greci Fetonte cadde devastando intere regioni terrestri proprio in nord Atlantico, allo sbocco del fiume Eridano. Si trattava dell’ultima catastrofe, diluvio di cui i Greci possedevano memoria dopo quello di Deucalione ed altri ancora più remoti che chiamavano “diluvio pelasgico” e “ogigio”. Quindi la caduta dell’astro Fetonte (ma potremmo ben definirlo come nei testi di Medinet Habu “the shooting star”) potrebbe essere collocata cronologicamente nell’arco di pochi decenni dopo la morte dell’eroe, poiché alla comparsa dei Dori sulla scena egea dopo tre generazioni i Greci consideravano già mitico l’Eridano, termine che poi verrà utilizzato per indicare il Po per l’uso frequente che avevano i Greci di riconferire gli stessi nomi della patria originaria alle nuove colonie. È alquanto difficile conciliare ciò che gli antichi affermavano dell’Eridano con il fiume padano. Riferisce Baistrocchi: Ma la fonte più arcaica è indubbiamente Esiodo, che nel suo racconto mitologico lo ritiene figlio di Oceano e Teti (Teog., 337-338). In un passo solitamente trascurato, ma accolto da Merkelbach e West nei loro Fragmenta Hesiodea (rf. 150), Esiodo narra che i Boreali inseguono le Arpie dall’estremo sud all’estremo nord fino alle “genti degli Iperborei valenti a cavallo, che la Terra nutrice dai molti pascoli aveva generato molto numerosi, lungi presso le correnti precipitose dell’Eridano dal letto profondo”. Esiodo è quindi l’autore più antico che collega esplicitamente gli Iperborei con l’ambra e con l’Eridano. Anche Erodoto (III, 165) riferisce la tradizione, senza peraltro prestarvi molta fede, secondo la quale l’Eridano sbocca nel mare boreale da cui proveniva l’ambra: analogo atteggiamento ritroviamo nel confuso racconto di Apollonio Rodio (IV, 611 ss.): “queste (le gocce d’ambra) sono le lacrime del figlio di Latona Apollo, trasportate dai gorghi, lacrime che infinite versava in quel tempo in cui raggiunse la sacra schiatta degli Iperborei”. Secondo Eschilo invece (v. Plinio, N.H., XXXVI, 11 [2], 31-32), il mitico fiume avrebbe dovuto essere identificato con il Rodano o trovarsi ai confini orientali del mondo, ai piedi del Caucaso: il grande tragico greco sembra peraltro rifarsi a fonti diverse, perché nel Prometeo incantato (fr. 327 M.) indica ad Eracle il cammino che dal Caucaso dovrebbe condurlo al giardino delle Esperidi, che si trova verso il nord, ed aggiungere che l’Istro nasce nell’estremo nord-est della terra, nel mondo degli Iperborei (fr. 330). Anche Ferecide di Atene, a cui si attribuisce erroneamente l’origine dell’omologazione tra l’Eridano e il Po, poneva il “giardino delle mele d’oro” nell’Oceano, presso Atlante, identificazione questa

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adombrata con maggiore precisione dallo pseudo-Apollodoro (Bibl., II, 113): “Le mele d’oro non erano come dissero alcuni, in Libia, ma presso Atlante, nel Paese degli Iperborei”75.

La difficoltà di sincronizzare i fatti narrati da Dionigi di Alicarnasso è dovuta soprattutto alla incertezza della datazione attribuita alla guerra di Troia che i più riportano al 1180-70 a.C. Dionigi non accenna ai Dori essendo interessato solo a narrare della storia preromana, tuttavia, non rimangono dubbi sul fatto che testimonia che dai tempi più remoti sino all’era dei Tirseni sono esclusivamente ondate di popolazioni pelasgiche a colonizzare il suolo italiano e gli autori classici più eminenti li consideravano antichissimi Greci. Il resoconto di ciò che tramanda Dionigi di Alicarnasso riguarda l’Età del Bronzo e quella iniziale del Ferro. Se esistono difficoltà per assegnare ai fatti una cronologia certa non sussistono sul fatto che Dionigi interpreta come pelasgica la totalità dei movimenti migratori. Dalle popolazioni che archeologicamente sono state localizzate in Italia durante l’Età del Bronzo emerge un fenomeno molto discusso in passato e attualmente insoluto: gli insediamenti dei Terramaricoli diffusi nella pianura padana e nel nord dell’Italia. Trattasi di una popolazione indoeuropea di ignota origine con un’ottima conoscenza del bronzo e della metallurgia, che durante il Bronzo antico si diffuse sul territorio e prosperò per secoli fino alla fine della stessa Era. Ciò che fa di loro un caso unico nella storia è la soluzione che per secoli utilizzarono come modulo abitativo: immense piattaforme trapezoidali di legno che raggiungevano anche 20 ettari di superficie, sorrette da un complicato sistema di pilastri su cui erano ordinate schiere di locali abitativi di circa 40 mq. Le terramare, così sono state definite, possedevano poi un’ingegnosa tecnica idraulica che circondava con un corso d’acqua l’intero villaggio, protetto da un alto argine rinforzato con gabbie di tronchi ripieni di argilla dalla parte interna del corso d’acqua deviato. Quattro ponti superavano il fossato e proseguivano nelle due vie principali che dividevano l’abitato in quattro quartieri a loro volta suddivisi da vicoli paralleli. I rifiuti che venivano gettati sotto la piattaforma determinarono enormi accumuli che furono recentemente utilizzati dai contadini come concime, le “terre marne” o “terre grasse”. Dal XVII sec. si distribuirono con densità assai rilevante dai Colli Euganei al Piemonte, scegliendo le zone perilacustri e umide e mantennero per secoli una continuità sorprendente ed un aspetto unitario che evidenzia un complesso ed articolato sistema socioeconomico. Riportiamo il parere di Andrea Cardarelli, direttore del Museo Civico Archeologico ed Etnologico di Modena: Fra il XVII sec. e l’inizio del XII sec. a.C. la grande pianura emiliana ospitò una delle civiltà più ricche ed importanti dell’intero continente europeo. Pur non avendo ancora elaborato un sistema di scrittura il po-

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polo delle terramare aveva però sviluppato un evoluto sistema economico e sociale; nel corso di alcuni secoli colonizzò la grande pianura del Po modificandone sensibilmente il paesaggio e costruì una serie innumerevole di villaggi estesi fino a 20 ettari, con imponenti difese artificiali e un impianto preordinato e regolare dello spazio abitativo. Un’agricoltura e un allevamento piuttosto evoluti permettevano un buon livello di vita, tanto che nelle terramare poterono svilupparsi forme di artigianato specializzato, come la metallurgia che hanno lasciato prodotti di grande significato storico e archeologico di cui possono vantarsi molti nostri musei76.

Siamo quindi di fronte ad un evento di estrema rilevanza anche nel panorama dell’intera civiltà europea, sulla cui origine gli storici non esprimono neppure un’ipotesi. Queste immense e un po’ dimenticate opere di una cultura sconosciuta, destarono da sempre stupore e mistero; così scriveva Marino Corona in un capitolo intitolato “Enigmi e problemi delle terramare” nel suo libro Le civiltà preistoriche in Italia: Gli studiosi che per primi si trovarono di fronte ai resti delle terremare e poterono ricostruirne il primitivo aspetto, furono scossi soprattutto da un giustificato interrogativo: perché mai queste antiche genti costruivano dei villaggi sopraelevati su di un terreno asciutto? La somiglianza delle terremare con le palafitte saltava immediatamente agli occhi; ma se queste ultime trovavano la loro ragion d’essere proprio nella natura acquatica o paludosa del suolo, le prime non offrivano nessuna giustificazione che potesse spiegare la profusione di tante energie per costruire un villaggio su di un alto tavolato di legno, anziché su di un suolo adatto ed ospitale, quale era ad esempio quello dell’Emilia-Romagna. Il fatto che il villaggio sopraelevato fosse più facilmente difendibile, costituisce un’osservazione solo in parte accettabile. Infatti pochi nemici armati di frecce infuocate potevano facilmente tramutare in un enorme falò l’ampia terramare, rendendola in tal modo una trappola mortale per tutti i suoi abitanti. Non solo: sono anche stati rinvenuti i resti di alcune terremare situate sulle pendici delle montagne, in prossimità di dirupi scoscesi. Gli studiosi non hanno potuto fare a meno di notare che sarebbe stato estremamente più facile e sicuro, per questi terramaricoli, arroccarsi sul dirupo, fortificando i fianchi del villaggio che non erano protetti dal dislivello. Macché, fedeli al loro uso, queste popolazioni hanno costruito anche lassù il loro bel tavolato trapezoidale, secondo tutte le regole delle terremare, trasportandovi i grossi tronchi d’albero con enorme sciupio di fatica e di tempo e infischiandosene di qualsiasi altra forma di fortificazione. A questo punto fu chiaro che un antico costume spingeva queste genti a costruire in simile modo i loro villaggi, quale che fosse la natura

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del suolo e la situazione del territorio che andavano ad abitare. Opposti pareri quindi si intrecciarono, e sul passato dei terramaricoli nacquero svariate ipotesi. Vi fu chi, come il De Sanctis, sostenne che i terramaricoli non erano altro che dei palafitticoli migrati in regioni asciutte dove, spinti, si direbbe, da una sorta di assurda coazione a ripetere, avrebbero continuato a costruire villaggi simili alle originarie palafitte, nonostante non vi fosse più nessuna ragione per farlo. Altri, come ad esempio il Radmilli, sostengono che in origine i terramaricoli costruivano normalissimi villaggi al suolo; ma che andarono a vivere sulle terremare soltanto in seguito ad un peggioramento del clima, che avrebbe favorito tutta una serie di inondazioni nel territorio da essi abitato. Di queste ipotetiche inondazioni non ci è giunta però alcun’altra notizia77.

I Terramaricoli scomparvero dalla scena piuttosto improvvisamente, nell’era di passaggio fra Bronzo e Ferro. Sono due gli elementi che possono aver concorso al loro declino: il cambiamento del clima, comprovato da un evidente brusco abbassamento delle temperature a cui seguì una manifesta crisi ecologica, e il sopraggiungere della cultura inopportunamente chiamata villanoviana che, guerriera come era, ben poteva aver causato la rovina delle smisurate terramare che avevano nella facile infiammabilità il loro punto debole. Secondo i linguisti i Terramaricoli erano genti indoeuropee che utilizzavano l’incinerazione e deponevano le ceneri in urne di terracotta, uso che sarà diffuso anche ai Villanoviani e ai primi momenti della successiva civiltà etrusca e che si riallaccia alla comparsa nell’Europa centrale della civiltà dei “campi di urne”. Un rigido rituale indoeuropeo diffuso quindi fra i Dori, i Celti, i Germani e gli Slavi, tutti linguisticamente imparentati. Le affermazioni di Dionigi di Alicarnasso sull’origine pelasgica delle genti italiche e le incredibili realizzazioni dei Terramaricoli, che non possono non essere stati concepiti che in ambienti paludosi, suggeriscono che tale ambiente possa ricollegarsi al Nebout. Costoro avrebbero potuto appartenere alla prima ondata migratoria indoeuropea di cui facevano parte anche le prime popolazioni greche nonché gli Ittiti, i Mitanni, ecc., popoli che gli Egizi asserivano provenire dall’Haou-Nebout. Altri HaouNebout, come i Keftiou minoici, erano già da tempo sulla scena del Mediterraneo ma la linguistica non ne aveva ancora afferrato la medesima origine, ritenendo i Minoici preindoeuropei. Si trattava al contrario solo di una maggior frattura all’interno di uno stesso ceppo linguistico che aveva prodotto il luvio prima degli idiomi riconosciuti come indoeuropei. La seconda ondata migratoria indoeuropea aveva portato a quel ricco panorama di idiomi rappresentato dagli Italici e Protolatini giunti sulla scena italiana all’inizio dell’Età del Ferro. Questi popoli mostrarono dall’inizio una completa differenziazione sia linguistica che di costumi, provenivano quindi da una patria dove molti secoli prima si era attuata la separazione ed è semplice dimostrarlo con un esempio. I Latini usavano per la 291

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parola “fuoco” il termine ignis in accordo con Indo-arii e Lituani, mentre gli Italici utilizzavano il termine pur comune al greco, all’armeno e al germanico. Molti elementi lessicali ci dicono sostanzialmente che la differenziazione delle lingue indoeuropee era avvenuta quando popolazioni come i Latini, i Greci, i Germani, i Celti e gli Indo-arii erano a stretto contatto nella comune sede di origine. Da Massimo Pallottino: Ciò che interessa soprattutto sottolineare, in questo quadro di considerazioni generali, è il fatto che la sostanziale strutturazione etnica dell’Italia antica avviene più o meno contemporaneamente all’inizio del I millennio a.C., nell’ambito storico-culturale che immediatamente precede e accompagna l’inizio dell’Età del Ferro. […] Quel che è più probabile è che la via marittima medio-adriatica sia stata il tramite della penetrazione della seconda grande ondata linguistica, quella osco-umbra o “italica-orientale” o come altri preferiscono, “italica” tout court, la cui diffusione verso l’occidente tirrenico e verso l’Italia meridionale è ancora pienamente in atto in età storica come vedremo.

Riferendosi a ciò che riporta la tradizione Pallottino afferma: Per gli antichi il concetto di origine si identifica con avvenimenti precisi e personalizzati. Furono immaginate generalmente immigrazioni in Italia dal mare, modellate in qualche modo sullo schema delle colonizzazioni greche storiche, ma riferite ad un’età eroica e attribuite a popoli diversi moventi da Oriente verso Occidente come gli Arcadi, i Pelasgi, gli Achei, i Troiani, i Lidi, i Cretesi, gli Iapigi e ad eroi incivilitori e fondatori di città quali Enotro, Peucezio, Eracle, Minosse, Ulisse, Diomede, Enea, Antenore, Tirreno e così via. Salvo che per alcuni episodi più antichi (arrivo degli Arcadi con Enotro) la maggior parte di questi avvenimenti era collocata intorno ai tempi della guerra di Troia. L’occupazione delle nuove terre era configurata talvolta nel racconto dell’eroe straniero che, dapprima in lotta con le popolazioni indigene, poi finirà con lo sposare la figlia del loro re ed ereditarne il dominio: è il caso di Diomede in Puglia dove era re Dauno e di Enea nel Lazio dove era re Latino. Si ammetteva in sostanza la esistenza di autoctoni e di nuovi arrivati, dalla cui fusione erano destinate a nascere le stirpi storiche78.

Le più importanti lingue italiche erano l’osco, l’umbro, il piceno, il venetico, il messapico, il siculo oltre all’etrusco e al latino considerate a sé. Parlare però di lingue italiche rispecchia un aspetto geografico-politico più che linguistico. Trattasi infatti di un insieme di lingue autonome che 292

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come l’osco e l’umbro evidenziano rapporti con aree estranee alla penisola e che pur avvicinandosi entrambe al celtico e al greco, risultano due idiomi autonomi che non hanno in comune un’ascendenza diretta. Una costellazione di genti indoeuropee transmarine che dilatano il fenomeno migratorio descritto nel tempio di Medinet Habu.

4.7. L’impronta pelasgico-iperborea sulla fondazione di Roma Il legame tra Troiani di origine pelasgica e la fondazione di Roma cantata da Virgilio era considerato dai Romani non un’ipotesi leggendaria ma un fatto reale, e questa origine era ribadita anche in periodi in cui l’Anatolia rappresentava solo un’oscura e marginale area del Mediterraneo e dei domini romani. Apollo era stato protettore dei Troiani prima di diventarlo dei Romani e la stessa cosa avviene per Saturno-Cronos, primo nume dell’Età dell’Oro. Insieme ai Troiani, contribuirono pertanto alla fondazione di Roma, secondo convergenti tradizioni, gli Arcadi e gli ultimi Pelasgi che si erano fusi con gli Aborigeni. I Sabini (che si erano costituiti dall’unione di Umbri e Pelasgi) vi si unirono poco tempo dopo. Fu il Palatino ad essere scelto da Romolo, che Dionigi di Alicarnasso affermava essere il 17° discendente di Enea, per il rito di fondazione. In quell’epoca non era che un colle nei pressi del Tevere circondato da acquitrini e paludi. Roma non si costituì come un crescente agglomerato di capanne che acquisiva potere e velleità, ma con un preciso rituale di fondazione che Dionigi di Alicarnasso definisce “antico etrusco”. Con un toro all’esterno che rappresenta la forza ed una vacca all’interno simbolo di fertilità, venne tracciato il sulcus primigenius (che Dionigi dice essere quadrato, altri circolare) in senso antiorario. Il vomere di bronzo veniva sollevato in corrispondenza delle porte e quindi riposizionato. Il mundus, cavità nella terra in cui dovevano essere sigillate per sempre tutte le migliori offerte, rappresentava il punto centrale all’interno del sulcus primigenius che doveva difendere magicamente la città79. Al centro, in prossimità o al di sopra del mundus, veniva quindi collocato il sacro fuoco di Vesta, l’Estia dei Greci il cui focolare rotondo si trovava al centro del megaron quadrangolare dei Micenei. Virgilio racconta che tale sacro fuoco era addirittura stato affidato da Ettore ad Enea. Anche se appare piuttosto inverosimile, ciò va ad inquadrarsi in un contesto di arcaiche tradizioni indoeuropee: il Ver sacrum. Si affidava infatti ai personaggi più eminenti che partivano per fondare colonie il fuoco sacro, elemento indispensabile alla fondazione, usanza portata avanti quindi sia dai Pelasgi che dai Troiani. Come nella dottrina pitagorica del fuoco celeste al centro dell’universo, così il sacro fuoco del focolare comune esprimeva connessioni fra l’Alto e il Basso; Estia-Vesta erano le custodi del fuoco cosmico che rappresentava quindi il centro della casa, della città e dell’universo. 293

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Baistrocchi, nel suo affascinante studio Arcana Urbis, considerazioni su alcuni rituali arcaici di Roma, afferma: La collina del Palatino ha la forma caratteristica di un grosso dado, di pianta trapezoidale, con le sponde quasi a picco: non è certo il più grande, né il più elevato dei colli di Roma, ma è quello che si caratterizza come il più isolato di tutti ed in posizione centrale e prossimo al Tevere. Tale carattere “centrale”, “onfalico”, o, per meglio dire, “polare”, traspare, oltre che dalla posizione geografica, anche dallo stesso nome del colle e, se si riverbera in modo incerto e contraddittorio nelle tradizioni più arcaiche dell’Urbe, ciò è probabilmente da attribuirsi al tentato trasferimento, avviato già in epoca assai antica, del baricentro sacrale dal Palatino al Campidoglio. Dalle radici pal, pol deriva infatti l’idea del gettare, lanciare e quindi dell’asta e del fulmine, ma anche quella della cosa rotonda e, più in generale, quella del movimento circolare, da cui polos e polus. Il Palatino quindi, secondo gli antichi, evocava l’idea di una rocca sacrale, segreta e indistruttibile, il pernio misterioso intorno a cui si articolava la corona degli altri sei colli dell’Urbe ed il riflesso ombelicale terrestre del Polo e degli altri “colli” siderei dell’Orsa minore. A tale ordine di idee sembra alludere Virgilio, sia pure in forma quanto mai enigmatica, nel libro VI dell’Eneide, quando parla della fondazione di Roma ad Augusto che, dal centro immobile del colle polare, avrebbe restaurato l’aureo regno primordiale di Saturno perfino tra le lontane popolazioni dell’Impero e, nel libro VIII, quando si sofferma, quasi di sfuggita, sulla pelle dell’orsa su cui era seduto Enea nella capanna di Evandro. Se così fosse, tale duplice accostamento non sarebbe affatto casuale, ma mirerebbe, anzi, ad evocare ed a rinviare all’archetipo celeste, all’Ombelico dell’Universo, alla Polare, centro dei centri, intorno alla quale gira il firmamento. Da quanto si è detto non dovrebbe quindi sorprendere che i tre popoli indoeuropei, i Pelasgi, gli Arcadi e gli Aborigeni, a cui sono intimamente connesse le origini di Roma, fossero stati direttamente associati dalla tradizione, ed in modo più o meno trasparente, ai popoli dell’estremo Settentrione, e, più in particolare, al mondo mitico boreale. Una serie di indicazioni poi ci riconduce persino al leggendario popolo degli Iperborei. Tra le varie spiegazioni che gli antichi cercavano di dare circa il nome del Palatino, o meglio, del Palatium, un certo numero di autori lo fa derivare da Pallanzia, la figlia di Evandro, deflorata da Ercole e sepolta su quel colle; secondo un’altra versione, invece, Pallanzia sarebbe stata la figlia di Iperboreo e moglie di Latino. Eraclide Pontico giunse perfino ad affermare che la stessa Roma fosse stata assediata ad espugnata dagli Iperborei. Ma è, a ben vedere, la stessa leggenda delle origini dell’Urbe ad evo-

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care il mitico mondo boreale. Secondo una versione della leggenda, riportata da Aristotele, nell’abbandonare la sua patria d’origine, l’isola primordiale degli Iperborei, Latona avrebbe assunto la forma di una lupa (St. an., 580 a) e, dopo un penoso vagabondare per l’Ellade, inseguita da Pitone e dall’ira di Giunone, avrebbe trovato ospitalità per la nascita dei divini gemelli soltanto a Delo, l’isola che allora vagava ancora per il vasto mare. Come non riconoscere, sia pure in modo assai più frammentario ed oscuro, il medesimo archetipo mitico delle origini dei divini gemelli? La “città bianca”, Alba Longa, la vergine Rea Silvia posseduta dal Dio, l’ostilità di Amulio, l’abbandono dei gemelli alle onde del Tevere, l’arresto del fatidico canestro, infima isola galleggiante arrestatasi ai piedi del Palatino, l’allattamento della lupa, sono infatti tutti elementi che nel porre in risalto la sacralità polare della collina-isola, circondata dai flutti dell’Oceano primordiale, non possono non evocare, sia pure in modo confuso, il mito boreale delle origini80.

L’idea che il patrimonio culturale dei Latini e dei Romani sia da attribuirsi ad una tardiva assimilazione da contatti con genti etrusche e greche è insostenibile. Le popolazioni stanziate sul Palatino dimostravano infatti un’organica conoscenza dei fondamenti religiosi e dei costumi che derivavano dal comune retaggio protostorico indoeuropeo81. Dumézil e altri studiosi hanno sottolineato più volte le analogie delle più arcaiche tradizioni di Roma con gli usi rituali delle popolazioni vediche e avestiche, frutto della comune matrice indoeuropea82. Da La religione arcaica di Roma di Georges Dumézil: Il quadro ora tracciato dalla religione romana basta a chiarire che essa non è debitrice dell’Etruria nella misura solitamente accettata: quando i Romani, i Latini, si stabilirono nelle loro sedi, possedevano un sistema di credenze e di riti ben strutturato, ereditato dal loro passato indoeuropeo. L’apporto etrusco, per quanto lo si supponga precoce, importante, ripetuto, se non continuo, si limitò ad arricchire quella struttura senza mutarla radicalmente83.

4.8. Ancora sui Popoli del Mare, Weshesh e Danuna Nella raffigurazione di Medinet Habu che mostra una serie di sei personaggi inginocchiati e che rappresentano i vari capi dei Popoli del Mare, con esclusione dei Filistei e dei Dani non conservatisi, inaspettatamente troviamo primo della serie quello che da tutti gli esperti è riconosciuto come un Ittita. Ebbene, gli Ittiti non sono nominati tra i popoli invasori dell’Egitto di Ramesse III. Gli Ittiti, come ben sappiamo, presero questo 295

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Tav. 37: Sculture del Lazio preromano. Il ritrovamento di queste eccezionali sculture è in grado di sovvertire l’idea di un mondo preromano pastorale e agricolo. Nessun testo storico ha mai celebrato abbastanza la raffinata e sofisticata cultura delle genti latine per come traspare da queste ricchissime figure muliebri. Le complicate e artificiose acconciature e le straordinarie dimensioni dei gioielli di stile orientalizzante sfoggiati meglio si adattano allo splendore di una dama tartessa che non al contesto dove si sviluppa la civiltà romana, di cui conosciamo l’austerità e la severità degli antichi costumi. La dea rappresentata nella fig. in alto a destra possiede attributi ed elementi decorativi tali da indurre gli specialisti a identificarla con una delle massime divinità del Pantheon troiano.

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nome dalla cultura di Hatti che li aveva preceduti mentre non conosciamo come fossero identificati prima della loro penetrazione in Anatolia. Garbini propone un’ipotesi assolutamente da non sottovalutare. Egli ritiene infatti che genti ittite fossero presenti tra i Popoli del Mare, da identificarsi con i Weshesh. A sostegno di ciò sarebbero la verificata presenza ittita in territorio siro-palestinese, la frequenza con cui vengono nominati nella Bibbia nonché alcuni elementi di riscontro linguistico. È forse possibile che una parte della popolazione che chiamiamo ittita fosse rimasta nella patria ancestrale sino all’invasione dei tempi di Ramesse III? Noi crediamo che ciò sia stato molto probabile. C’è un motivo che possiamo portare a favore di questa ipotesi. Dopo il terribile e catastrofico passaggio dei Popoli del Mare, in Anatolia centrale, con la distruzione della fortificatissima Hattusas, scompare il potere ittita che sarà sostituito da quello dei Frigi. Nascono però dopo quest’epoca così travagliata i regni neo-ittiti, tradizionalmente considerati i residui del grande impero distrutto. Ma non si sviluppano nel cuore dell’Anatolia ittita. A sudest dell’Anatolia, in un’area che in precedenza era stata sotto il dominio mitannico, piccoli potentati che con sicurezza definiamo ittiti (neo-ittiti) appaiono assieme ai Danuna o Dani in un’area territoriale controllata dai Popoli del Mare. Ora, molto sorprendentemente, questi neo-Ittiti non utilizzano il linguaggio ittita allora corrente né tanto meno usano il cuneiforme che era stato acquisito dopo i contatti con le colonie assire stanziate nella regione di Kanesh (Cappadocia, Anatolia Centrale) diversi secoli prima. Solo durante l’Antico Impero gli Ittiti avevano utilizzato un’altra forma di scrittura: l’ittita geroglifico simile ed imparentato al luvio geroglifico (tracce di una scrittura geroglifica erano presenti anche a Creta prima dell’introduzione della lineare A). Già da diversi secoli si utilizzava quindi il cuneiforme ed era stata abbandonata la forma geroglifica, quando improvvisamente ritroviamo nei regni neo-ittiti l’uso di un linguaggio arcaico e obsoleto; come se gli italiani d’America si trovassero inaspettatamente di fronte a nuovi immigrati che parlano latino ed hanno scarsa comprensione dell’italiano. Come è possibile giustificare il ritorno dell’ittita geroglifico? Si tratta di un vero e proprio salto all’indietro di secoli nel tempo. È possibile a questo punto ipotizzare che un nucleo di genti ittite rimasto per secoli nella madrepatria Haou-Nebout avesse mantenuto quasi inalterato il linguaggio comune originario, a differenza di coloro che penetrando in Anatolia secoli prima erano entrati in un più ampio contesto di popoli che utilizzava il cuneiforme accadico come lingua franca, modificando i propri usi. Il documento più importante dei regni neo-ittiti è stato scoperto a Karatepe, Cilicia, si tratta di un lungo testo bilingue redatto sia in ittita geroglifico che in fenicio e narra le vicende del re Azitawadda; vale la pena di esaminarlo attentamente:

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Io sono Azitawadda, servo di Baal, che Aurik, re del Danuna, ha reso potente. Baal mi ha fatto per i Danuna padre e madre. Io ho risollevato i Danuna. Io ho ampliato il territorio della pianura di Adana dall’Oriente all’Occidente. Ai miei giorni vi è stata per i Danuna ogni sorta di bene. Abbondanza e ricchezza. Io ho riempito i magazzini di Par, ho aggiunto cavallo a cavallo, scudo a scudo, esercito ad esercito, grazie a Baal ed agli dèi. Io ho abbattuto i prepotenti, ho distrutto il male che v’era nel Paese, ho eretto nel bene la mia casata di signore e del bene ho fatto al mio lignaggio. Mi sono seduto sul trono di mio padre ed ho fatto pace con tutti i re: tutti i re mi hanno trattato da padre per la mia giustizia, per la mia saggezza e per la bontà del mio cuore…84

Accanto ad un antiquato linguaggio definito da alcuni (Mellaart) neo-luvio, tanto sembra assimilabile all’antico linguaggio dell’Anatolia, ecco però il fenicio che rappresenta l’elemento innovatore di un mondo che ha definitivamente consegnato al passato il cuneiforme e gli aspetti feudali della società che aveva negli scribi i cardini fondamentali dell’apparato statale. Come spiegare quindi l’arcaismo accanto all’innovazione? Il re neo-ittita si sente e si comporta come vassallo dei più potenti Dani che hanno in Adana il centro del loro potere. Dani che certo non possiamo troppo differenziare dagli stessi Danai menzionati da Omero e che vanno considerati quindi dei Greci. Il re di Adana Awarkus apparteneva infatti alla dinastia dei Mopsidi e Mopso, il capostipite, è noto nel mito greco come un eroe che aveva compiuto audaci imprese in Asia Minore. È difficile quindi non domandarsi, consapevoli dell’origine nordica ed atlantica delle popolazioni greche, se i Dani della Danimarca non fossero stati membri di un’unica famiglia con i “Danai dalle navi veloci” omerici. Inoltre, la sorprendente Età del Bronzo nordica presenta vistose e indiscutibili analogie culturali con la civiltà marinara e guerriera dei Micenei. Numerose raffigurazioni di navi che presentano incredibili analogie con soggetti cicladici risalenti sino al III millennio dimostrano che anche se non potevano usufruire della velatura, quando il vento si presentava contrario, affidavano ai numerosi remi le distanze sconfinate da percorrere. Paralleli mitologici sono più che possibili e stranamente sono raffigurati due Eracle con tanto di clava a guardia del blasone sulla bandiera della Danimarca: veramente una strana coincidenza. Riteniamo possibile inoltre che fossero Dani oltre che Shardana i Popoli del Mare raffigurati con elmi e corna nei bassorilievi di Medinet Habu le cui imbarcazioni trovano elementi di paragone soprattutto con i più primitivi Drakkar Vichinghi e Danesi e lo straordinario bronzo di Enkomi è una testimonianza da non dimenticare. I Dani, che come gli Ittiti seicento anni prima avevano in una prima fase colonizzato la Cilicia, non riuscirono ad ampliare il loro potere in Anatolia dove si insediarono i Frigi, anzi dovettero soccombere davanti alla crescente forza assira che si abbatté rovinosamente anche sui Filistei. 298

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4.9. Gli Ioni Jauna in cario, javan o jaman in semita, jaunà in persiano, in greco il termine più arcaico doveva essere Iaoneq a cui seguirono le forme abbreviate di Ivoneq e Ia(F)oneq. È questo il termine con cui i Greci erano identificati dalle popolazioni asiatiche, un termine che ancora oggi non è del tutto desueto se consideriamo che l’odierna lingua turca chiama la Grecia Yunanistan. Gli Assiri identificavano così le popolazioni costiere della Siria e della Cilicia anche se eminentemente Javan erano considerati gli abitanti di Cipro. E sempre questo è il termine biblico con cui viene identificato nella Tavola dei Popoli della Genesi il progenitore Javan. La fondamentale Tavola dei Popoli ci riporta le conoscenze ebraico-fenicie riferibili all’VIII-VII sec. a.C. Mazzarino aveva preso in esame la questione ed affermava: Dice la “tavola”: “figli di Japhet furono Gomer, Magog, Madai, Javan, Tubal, Mosok e Tirash;… figli di Javan: Elîsha e Tarshish, Kittim e Dodanim”. Checché si pensi di Magog, gli altri popoli “giafettici” sono di facile identificazione: sono Cimmeri, Medi, Greci, Tibareni, Frigi, Etruschi (Tirreni)…85

Di grande interesse è il brano che riguarda i figli di Javan: Elîsha, Tarshish, Kittim e Dodanim. Mazzarino d’accordo con il Meyer propone di identificare Elîsha con il nome presemitico dell’area costiera africana del Nord-Ovest, tant’è che la stessa mitica regina Didone era chiamata anche Elissa. Tarshish è naturalmente Tartesso mentre altrettanto certe sarebbero le identificazioni di Kittim con Cipro e Dodanim con Rodi. Mazzarino con una certa perplessità afferma: Quando leggiamo “Tarshish figlio di Javan”, ragioniamo con le nostre categorie scientifiche, e pensiamo che piuttosto Tarschish, vale a dire la zona tartessia, doveva esser considerata iberica, non greca, essendo i Greci dei semplici coloni; così pure, la nostra interpretazione di “Elîsha figlio di Javan”, pur se si accolga l’equazione “Elîsha = area tunisina in genere” sembrerà a prima vista strana a un moderno; noi moderni ci si attenderebbe che la tavola considerasse Elîsha come terra di Berberi, non già di Greci. Eppure, proprio queste che apparentemente sembrano stranezze sono la conferma che in siffatta ricerca occorre adeguarsi ai documenti, e al loro tempo, e al loro modo di pensare e di esprimersi; e che agli antichi bisogna avvicinarsi con la coscienza della nostra lontananza e della nostra ignoranza – non già con la presunzione, che fu

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propria del secolo scorso (e non poteva non essere, giacché quel grande secolo scopriva, quasi, la storia), di aver già sistematicamente inquadrato e ricostruito e saputo l’effettivo processo storico. Riesaminiamo in concreto il caso di “Elîsha figlio di Javan”. A noi moderni, con la nostra presunzione di aver “sistemato” la storia greca, potrà sembrar paradossale questa formula fenicia; ché solo Cirene vediamo in “Libia”, e le città che ne furono figlie; ma questa “sistemazione” è anche riduzione semplicistica di quello che dovette essere il concreto travaglio storico della colonizzazione greca in territorio libico86.

Quale significato dare quindi alla Tavola della Genesi che ci trasferisce la conoscenza ebraico-fenicia dell’VIII-VII sec. a.C. a riguardo dei Greci? Com’è possibile che Tarshish sia greca quanto le tribù berbere nordafricane e che Tiro sia chiamata figlia di Tarshish? Legami di evidente parentela si erano però già ampiamente verificati nella Saga di Cadmo, il fondatore di Tebe e portatore dell’alfabeto proveniente dalla Fenicia. La Bibbia affermerebbe quindi che il fenicio, cioè il rosso Cadmo avrebbe avuto con i biondi Greci un necessario certo grado di parentela e Tarshish doveva aver rappresentato una tappa intermedia per queste genti. La Bibbia potrebbe raccontarci le tappe della colonizzazione dopo che i Greci lasciarono la patria ancestrale. La loro intenzione di penetrare in Mediterraneo prevedeva di rendere sicure le sponde con insediamenti su entrambe le rive a dominio dello Stretto di Gibilterra; successivamente, entrati in pieno Mediterraneo con altri Popoli del Mare, trovarono nelle isole di Cipro e Rodi i primi fondamentali insediamenti. Forse gli antichi fondatori di Tartesso erano loro stessi di sangue greco come pure Greci, almeno in parte, avevano colonizzato il territorio che sarà dei Berberi. Così sembra risponderci la Bibbia. Va ricordato a tal proposito che il re Argantonio di Tartesso aveva invitato quelli di Focea a stabilirsi nel suo stesso paese quando questi ultimi erano stati costretti ad abbandonare la loro città. Questo potrebbe ben sostenere che una tale proposta si potesse basare su antichi legami di parentela. Ecco quindi Tarshish che, figlia di Javan e madre di Tiro, si rivela un nodo fondamentale di quel legame sempre intercorso tra Greci e Fenici che però gli storici non hanno mai chiarito e compreso. A conclusione di questo breve capitolo ricordiamo che la Tavola dei Popoli della Genesi pone i Filistei come gli Egizi fra le discendenze di Cam e così pure Kaftor e Kashlui, che come sappiamo generò i Filistei.

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4.10. Hiram, Tiro e la Bibbia e altri dinasti fenici Fu Hiram che fece di Tiro un’imprendibile roccaforte circondata dal mare e leader indiscussa fra tutte le città fenice, comprese le più antiche Sidone e Biblos. Anzi, esistono testimonianze che affermano che dopo le distruzioni dei Popoli del Mare furono una parte dei superstiti di Sidone a

Tav. 38: Profilo licio. L’immagine di questo elegante e raffinato personaggio proviene da una tomba licia del VI sec. L’estrema cura della barba e del taglio dei capelli, la ricercatezza del copricapo e la serenità dello sguardo lo rendono espressione di un notevole benessere economico e di una società dalla profonda educazione estetica. In questo splendido volto dal profilo greco è altresì sorprendente la somiglianza non casuale con il popolo etrusco; è già stata avanzata anche l’ipotesi che con Tirreno, oltre ai Lidi fosse presente una nutrita schiera di Lici. Per gli Egizi si trattava comunque sempre di Popoli del Mare.

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contribuire alla creazione di Tiro oltre probabilmente agli stessi abitanti del sito (cananeo) costiero risalente ad epoca neolitica. Le meraviglie architettoniche della città lasciavano stupefatti i contemporanei e Salomone, che aspirava alla gloria per sé ed il proprio popolo, chiese ad Hiram di fornirgli gli architetti e le manovalanze per la costruzione del grande tempio di Gerusalemme di cui il Muro del Pianto ancora oggi testimonia la grandiosità. Era il popolo dei Tiri che possedeva la conoscenza di un’architettura fondata su dettami considerati divini. Ma il sodalizio fra Hiram e Salomone non si fermò alla costruzione del tempio del dio di Israele ed al commercio con Tarshish grazie alle famose “navi speciali”. La necessità di formare uno Stato forte richiedeva un’espansione della tecnologia metallurgica che come sappiamo era stata vietata agli Israeliti per tutto il tempo in cui i Filistei avevano dominato. Ciò che crearono i Tiri non può che lasciare stupefatti, costruirono infatti un vero e proprio enorme stabilimento metallurgico per lo più sotterraneo in un’area desertica del Sinai chiamata Ezion Gheber, dove venti violentissimi e pressoché costanti spazzavano l’inospitale deserto. Queste fornaci sotterranee utilizzavano prese d’aria esterne che, sfruttando la forza e la potenza di questi terribili venti, permettevano di raggiungere temperature di fusione eccezionalmente elevate, creando un’industria di tale capacità, ed efficienza da generare stupore anche negli odierni ricercatori di energia alternativa e pulita. Il principio dell’energia eolica utilizzato dai Tiri di Hiram per alimentare i forni di fusione la dice lunga sul livello di tecnologia messa in atto da questa classe dirigente di Tiri, la cui cerchia aristocratica limitata si serviva dei Popoli del Mare per conservare il proprio potere, come emerge dal racconto di Wen-Amon. Che si sia trattato di un fenomeno simile a quello precedentemente osservato a proposito dei Mitanni, dove un esiguo numero di Indoeuropei fungeva da leadership87 di una popolazione prevalentemente hurrita, lo fanno chiaramente comprendere anche le prime iscrizioni che possediamo dai sarcofagi dei nuovi dinasti di Biblos nell’XI-X sec. a.C. Nell’iscrizione del sarcofago del re di Biblos Ahirom del 1000 a.C. e di un suo probabile successore Yehimilk si avverte un profondo disagio di precarietà e la necessità di affermare la legittimità della propria dinastia. Quella di Ahirom rappresenta la più antica iscrizione che per la prima volta ci ha consegnato l’alfabeto fenicio completo, eccetto due lettere. Sarcofago che ha fatto Itthobaal, figlio di Ahirom, re di Biblo, per suo padre Ahirom, quando l’ha messo nella tomba: se un re tra i re, un governatore tra i governatori, o un comandante militare arriva a Biblo e apre questo sarcofago, che lo scettro del suo potere sia spezzato, che il suo trono regale sia rovesciato e, per quanto riguarda Biblo, che la pace scompaia; quanto a lui, che la sua iscrizione sia completamente cancellata da Biblo 88.

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Si teme in questo primo caso la profanazione da parte di un altro re o governatore o militare e si prega per il rispetto del proprio sepolcro come se non possedesse le caratteristiche di una forte regalità. Iscrizione di Yehimilk: Tempio che ricostruì Yehimilk, re di Biblo; egli, infatti, restaurò tutte le rovine dei templi degli dèi. Che Baalshamim, la Signora di Biblo e l’assemblea degli dèi santi di Biblo prolunghino i giorni di Yehimilk e i suoi anni [di regno] su Biblo perché [egli è] un re legittimo e un re giusto agli occhi degli dèi santi di Biblo89.

Nella seconda iscrizione non si cita il padre di Yehimilk come sarebbe consuetudine, quasi fosse sconosciuta tale paternità o di umili origini, mentre il sovrano tenta di affermare la propria legittimità. Si trattava di principi le cui origini dovevano essere estranee alla popolazione cananea e non a caso la loro regalità trovava un valido appoggio nei rapporti che il successore di Yehimilk realizzò con l’Egitto dei faraoni Meshwesh. Lo dimostra la statua del faraone Sheshonk offerta al Tempio di Biblos sulla quale fece iscrivere il proprio nome accanto al cartiglio del faraone. Il rapporto con questi Meshwesh diventa ancora più particolare dal momento che oltre alla diffusione di reperti con i cartigli di diversi dinasti, che risultano abbondanti fino alla Spagna, i Fenici ancora nel VII sec. continuavano ad incidere sui monumenti gli stessi nomi dei faraoni Meshwesh (Ocelot, Sheshonk, Takelot). Si doveva trattare quindi di un numero limitato di individui che si era inserito in un contesto culturale evoluto tanto che certe tradizioni tipicamente fenice, come quella del sacrificio umano, non furono mai messe in atto in Fenicia come invece avvenne a Cartagine, che va quindi considerata la città fenicia per eccellenza, nella quale si osservava il culto di Cronos a cui si sacrificavano bambini. Da nessun documento del XIII o XIV sec. proveniente da Ugarit o dalle città di Biblos e Sidone risulta menzione di simili pratiche, che invece vennero introdotte al sopraggiungere dei Popoli del Mare sebbene alcuni di questi, come i Greci, si fossero già dimostrati propensi ad abbandonarle. Dionigi di Alicarnasso affermava: “Si dice che gli Antichi sacrificavano a Cronos nel modo in cui si faceva a Cartagine sinché la città sopravvisse”90. La città di Didone attingeva i propri riti sacrificali dall’Era di Cronos mentre la multietnica Fenicia li aveva presto abbandonati, anzi, non li aveva accettati. Porfirio afferma (De Abstinentia 2-27-2) che quando a Tiro non si praticavano più sacrifici umani, a Cartagine erano ancora in auge e tutti vi partecipavano, e che solo in caso di grandi calamità o situazioni di estremo pericolo i Fenici sceglievano una vittima fra le persone care e la sacrificavano offrendola a Cronos. 303

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Nell’Haou-Nebout si erano quindi praticati abitualmente sacrifici umani e anche i Greci ne erano perfettamente consapevoli91.

4.11. Un’eredità dell’Haou-Nebout: l’arte orientalizzante Un’ulteriore elemento viene ad aggiungersi come fattore trasversale legante le culture di provenienza Haou-Nebout. Si tratta di quel grandioso fenomeno incompreso definito “arte orientalizzante”. L’archeologia dimostra che l’intero Mediterraneo e oltre risulta disseminato da ritrovamenti di innumerevoli oggetti per lo più forgiati con metalli nobili le cui forme, lo stile, nonché le tecniche presentano una sfuggente componente esotica definita dagli studiosi come influenza orientale. Si tratta per lo più di sontuosi gioielli che ci colpiscono per la ricchezza decorativa, che utilizza spesso tecniche diverse su di un unico oggetto. Vi è riportata un’iconografia fantastica dove predominano sfingi, scarabei, grifoni, tori alati, pantere, aquile leonine, serpenti ed altro; il tutto armonicamente composto e contornato da volute e spirali di palmette, rosette e motivi intrecciati. Si tratta quindi di un’iconografia che ci ricorda sia quella egizia che quella assira o siriana o siro-palestinese. Le tecniche prevalenti sono la lavorazione a sbalzo, la filigrana e la granulazione per l’oro, mentre il bronzo rappresentato da tipici calderoni viene più martellato che fuso e quindi decorato a sbalzo. Esistono però, oltre alla produzione in metallo, anche avori, ambre e oggetti particolarissimi come le uova di struzzo e le conchiglie, soprattutto tridacne. Queste ultime presentano fastose decorazioni incise sempre in stile orientalizzante e provengono, una cinquantina in tutto, dall’area egea, dalla Siria e dall’Etruria. Le uova di struzzo, spesso tagliate a farne coppe provengono da Cipro, dalla Grecia, dall’area tartessica e soprattutto dall’Etruria, di cui quattro dalla Tomba di Iside a Vulci. Che attrazione particolare potessero avere queste uova di struzzo per gli Etruschi nessun archeologo è stato finora in grado di chiarirlo. La datazione di questi materiali è ancora molto incerta e benché la corrente orientalizzante cronologicamente accompagni l’espansione e la colonizzazione greca e fenicia, non è certo possibile collegarle la diffusione di questo vistoso fenomeno. È completamente erronea l’idea che questo patrimonio fosse frutto di un’esportazione fenicia o l’opera di qualche artista girovago proveniente da Tiro come era stato da alcuni proposto. Già Garbini aveva escluso questa ipotesi considerando che se si trattava di esportazione, solo i Filistei avrebbero potuto esserne gli artefici in secoli in cui le testimonianze archeologiche di una frequentazione fenicia erano del tutto assenti. Inoltre, contrariamente a ciò che si può pensare, l’area fenicia ha restituito decisamente una scarsa documentazione a riguardo (mentre Cipro ci ha lasciato numerose testimonianze). 304

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Questa multicentrica comparsa di raffinatissime creazioni di arte orafa si evidenzia in Occidente sia in Italia, soprattutto tra Sardi ed Etruschi, sia in Spagna, nell’area andalusa denominata tartessica. In queste regioni occidentali questi oggetti fanno esclusivamente parte dei corredi funerari principeschi e non si ritrovano in altro contesto. Se tra questi popoli venivano considerati esclusivo appannaggio dei ranghi più aristocratici, tra i Greci si ritrovano solamente come doni votivi nei santuari: Dodona, Delfi, Olimpia, ecc. Questi oggetti artisticamente pressoché unici che ci hanno restituito le tombe principesche provengono infatti da siti “indigeni”. In Sardegna non si rinvengono nei centri della colonizzazione fenicia come Tarros e Sulcis, e succede la stessa cosa in Spagna, dove questi ritrovamenti appaiono anteriori alla colonizzazione fenicia. È la religione Haou-Nebout che si esprime nell’arte orientalizzante e fruitori di quest’arte sublime sono le famiglie aristocratiche degli stessi popoli che provengono dal Grande Verde. Tale arte adorna o le sepolture principesche e reali o, ancor più, è dedicata esclusivamente agli dèi.

4.12. “Ora maritima” – Le coste del mare – Il Periplo nascosto Rufio Festo Avieno, nato attorno al 300 d.C., è l’oscuro autore di un poemetto in versi dedicato al figlio o al nipote che ostinatamente gli chiede notizie sui luoghi più remoti delle coste lontane dalla romana civiltà. Modesto versificatore, aveva ricoperto la carica di proconsole d’Africa. Nel suo Ora maritima, cioè “Le coste del mare”, che certo non ha mai suscitato interesse per le sue povere qualità letterarie, è contenuto però vario materiale stratificato di epoche diverse ma potenzialmente molto arcaico, compreso il racconto di Imilcone cartaginese che abbiamo già citato ed una fonte principale riconosciuta dagli esperti come uno scritto greco massaliota redatto in forma di periplo nel VI sec. a.C. Ecco cosa afferma Luca Antonelli nel suo Il Periplo nascosto, dedicato all’opera di Avieno e che ha in Tartesso e in uno sconosciuto panorama atlantico il centro della sua descrizione: Da questa fonte egli attinse la maggior parte delle sue informazioni, che poi inserì nell’ambito di una cornice letteraria, concepita secondo canoni compositivi ben distanti dall’originaria struttura narrativa, ormai irrimediabilmente sepolta sotto il peso di una versificazione fastosa ed altisonante. Massalia92, che nel corso del VI sec. fu protagonista dell’intensa stagione di traffici greci in direzione del mercato iberico di Tartesso e da cui, sul finire del IV sec., prese il via l’avventurosa navigazione di Pitea nei mari del Nord, dovette dunque svolgere un ruolo fondamentale nell’elaborazione e nella conservazione di un vasto patrimonio di tradizio-

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ni concernenti la rotta verso l’Oceano. Dell’Ora maritima come fonte storica di primaria importanza, non potrà quindi non avvalersi la ricerca futura nell’ottica di raggiungere una miglior comprensione della dinamica commerciale della maggiore tra le colonie focee d’Occidente93.

Si rende necessario riportare alcuni brani dell’opera di Avieno (citato da Antonelli per intero), tenendo presente che dopo un accenno allo stretto di Gibilterra dal verso 90 inizia il racconto del Periplo, descritto però in senso contrario, cioè come un viaggio di ritorno, iniziando dal promontorio Estrimnide, che per Antonelli corrisponderebbe al Finisterre bretone piuttosto che allo sperone settentrionale della Galizia: (80) L’immensa estensione delle terre giace circondata dall’onda marina. Ma nel punto in cui le acque profonde, dall’Oceano, vi si insinuano, affinché i flutti del nostro mare si distendano in lontananza, lì è il golfo Atlantico. Lì la città di Gadir, un tempo chiamata Tartesso. Lì le colonne del tenace Ercole, Abila e Calpe, l’una sulla sponda sinistra dello stretto, l’altra vicina alla Libia: strepitano per la violenza del vento di Settentrione, ma mantengono con saldezza il loro posto. (90) Si eleva qui lo sperone di un promontorio che, anticamente, veniva chiamato Estrimnide: l’imponente mole rocciosa è tutta volta in direzione del tiepido Noto. Ai piedi di questo sperone si apre un golfo che gli abitanti definiscono Estrimnico: nell’ambito di questo si trovano le isole Estrimnidi, che giacciono sparse fra le acque e sono ricche di stagno e piombo. Le genti di qui hanno forza enorme, sono d’animo fiero e di instancabile industriosità; senza sosta si dedicano tutti al commercio. Con le loro imbarcazioni solcano in lungo e in largo i flutti tempestosi e i gorghi dell’Oceano abitato da mostri. Non con il legno di pino, tuttavia, costituiscono le carene, né incurvando l’abete, così come è uso: quasi per miracolo, essi allestiscono le barche cucendo insieme le pelli e dunque col cuoio attraversano spesso i vasti spazi marini. (108) Da qui fino all’isola Sacra – così era chiamata dagli antichi – la navigazione è di due giorni. Tra le onde essa estende i suoi ampi territori, estesamente abitati dal popolo degli Ierni. Vicino ad essa si trova l’isola degli Albioni. (113) Era abitudine dei Tartessi spingersi a commerciare sino ai confini con gli Estrimnidi. Raggiungevano queste acque anche i coloni di Cartagine e le genti che abitavano nei pressi delle Colonne d’Ercole. Il cartaginese Imilcone, che asserisce di aver compiuto l’impresa di persona, sostiene che a stento la traversata si può compiere in quattro mesi: non un alito di vento, infatti, sospinge la barca, e lo specchio dell’acqua pigra resta immobile. Aggiunge inoltre che affiora in superficie una moltitudine d’alghe, che spesso trattiene la chiglia come un cespuglio; scarsa, secondo lui, è la profondità del mare,

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tanto che l’acqua arriva a malapena a coprire il fondale; mostri marini si aggirano sempre qua e là, nuotando fra le navi che si trascinano con faticosa lentezza. (129) Se poi qualcuno, dalle isole Estrimnidi, ha il coraggio di spingere la barca tra i flutti, per dove il cielo si fa gelato a motivo dell’asse della figlia di Licaone94, giunge nella terra dei Liguri: essa è completamente priva di abitanti, poiché da lungo tempo si è spopolata per mano dei Celti e per le continue guerre. Spesso la sorte di alcuni è influenzata da un oscuro volere del destino: così i Liguri, cacciati, si stabilirono negli attuali territori, irti di boscaglie, dove il suolo è ovunque pietroso, aspri sono i rilievi e le vette dei monti si protendono al cielo. Queste genti fuggiasche trascorsero lungo tempo fra le gole rocciose, lontane dai flutti: vivevano nel terrore del mare, per l’antico pericolo. Poi, la loro situazione di sicura tranquillità ne accrebbe l’audacia e li persuase a scendere dalle alte dimore, per insediarsi nei pressi della costa. (146) A partire dai luoghi che ho descritto in precedenza la distesa del mare si apre in un grande golfo, sino ad Ofiussa. Dalle sponde di questa fino al mare interno, detto Sardo, lì dove ho accennato che le acque si insinuano nella terra, la via del ritorno richiede sette giorni. (152) D’altra parte le coste di Ofiussa sono così estese quanto tu sai che è vasta l’isola di Pelope, in Grecia. In un primo momento veniva chiamata Estrimnide, perché il territorio era popolato dagli Estrimnidi; in seguito una moltitudine di serpenti scacciò gli abitanti, dando il proprio nome alle terre ormai deserte. (158) Si slancia poi tra i flutti il capo di Venere: il mare abbraccia qui due isole, troppo piccole per essere abitate. Si erge quindi il promontorio Arvio, che si estende in direzione settentrionale. Da qui sino alle colonne dell’infaticabile Ercole le navi impiegano cinque giorni. (164) Si incontra quindi un’isola in alto mare, ricca di vegetazione e consacrata a Saturno: così grande è in essa la forza della natura, che se qualche navigante vi si avvicina, subito le acque che la circondano cominciano ad agitarsi e la terra trema, scossa dal profondo, mentre il resto del mare rimane quieto come uno stagno. (171) Un altro capo si protende verso le sponde di Ofiussa: dal promontorio Arvio sino a questi luoghi la navigazione dura due giorni95.

Il racconto di Avieno si prolunga molto descrivendo altri promontori, altre isole, golfi e paludi la cui collocazione geografica è stata da sempre considerata molto problematica. Si tratta di descrizioni di una realtà ben diversa da quella osservabile oggi. Antonelli nella sua opera di indagine e di lettura stratigrafica del testo individua elementi arcaici che emergono evidenti. Fa notare che l’espressione in Ora 84 “Sinus Atlanticus”, cioè golfo atlantico, pressoché sconosciuta in altri autori classici, risulterebbe più arcaica del generico Oceano o mare Atlantico, com’era definito lo spa307

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zio marino al di là delle colonne, che certo ci rimanda ad un’immensa distesa più che a un circoscritto golfo. Si tratta di un’immagine estranea alla visione geografica che storicamente possediamo. Viene la volta delle isole Estrimnidi che alcuni identificano con le altrettanto misteriose Cassiteridi: di certo non hanno possibilità di collocazione anche se distano due giorni di navigazione dall’isola sacra popolata dagli Ierni, che sarebbe da identificarsi con l’Irlanda. L’isola degli Albioni verrebbe identificata con l’Inghilterra. Le notizie sui commerci di stagno dei Tartessi con queste isole appaiono altresì particolarmente arcaiche e desunte direttamente dagli stessi tartessi. L’indicazione inoltre sulla modalità delle imbarcazioni degli abitanti delle Estrimnidi, che potrebbe a prima vista apparire insignificante e poco credibile, acquisisce un’estrema rilevanza in considerazione dei chiarimenti forniti da Strabone96. Egli infatti afferma che questi natanti realizzati con uno scheletro di legno e rivestiti in cuoio sono utilizzati specificamente per le regioni paludose. Sarebbe dunque possibile ipotizzare, se i parametri di Avieno sono corretti, la presenza del Nebout a pochi giorni di navigazione dall’Irlanda. È inoltre significativo che queste imbarcazioni risultano essersi diffuse già in epoca arcaica anche nella stessa Marsiglia, dove si è rinvenuto un relitto dalle stesse caratteristiche databile al VI sec. a.C. Tutto ciò testimonia che gli scritti di Avieno si fondavano su fonti reali e molto vicine agli ambienti descritti a cui l’autore, anche per sua stessa ammissione, aveva potuto accedere grazie alla sua carica di proconsole d’Africa. L’indagine su Ora maritima riporta alla luce non una mediocre favola in versi, come dai più era stata considerata l’opera di Avieno ma, come afferma lo stesso Antonelli, “un patrimonio di nozioni per altri versi ignoto alla letteratura antica”. Viene poi inaspettata, dopo le vicende che avevamo già incontrato di Imilcone e che saranno riprese in seguito, la localizzazione estremamente nordica dei Liguri. Ecco cosa ne dice Antonelli: La terra dei Liguri andrebbe localizzata sulle sponde del mare del Nord (ossia in direzione dell’asse di Callisto, trasformata nella costellazione dell’Orsa maggiore), forse nello Jutland. Di un arcaico stanziamento dei Liguri in questa regione nordica sarebbe prova un passo di Plutarco (Mar. 19): protagonisti dell’invasione barbara che, alla fine del II sec. a.C., fu arginata dall’impresa di Mario, secondo il biografo sarebbero stati i Cimbri, Teutoni ed Ambroni. Le prime due genti erano di provenienza nordica e di lingua celtica: dalla medesima area geografica giungeva probabilmente anche la terza che, a dire di Plutarco, era in realtà di stirpe ligure. Nella regione dello Jutland, donde provenivano forse i Cimbri, continuavano perciò ad esistere tribù che conservavano memoria della loro appartenenza al ceppo ligure97.

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Anche a proposito dei Liguri non si tratta quindi di un caso isolato, ma l’indicazione avienea trova corpo in un autore ragguardevole come Plutarco. La proposta identificazione dello Jutland per queste terre appare però azzardata. L’impressione non può che essere quella di una posizione a nord delle Estrimnidi che avevamo collocato in Atlantico, a due giorni di navigazione dall’isola sacra – l’Irlanda. Un riferimento ai Liguri è riportato anche più avanti da Avieno che riferisce del lago Ligustino nei pressi di Tartesso ed anche questa notizia risulterebbe confermata dallo storico Stefano Bizantino, che attesta l’esistenza di una città di Liguri di nome Ligustina nelle vicinanze di Tartesso. Appartiene al nucleo più arcaico la parte che inizia col verso 158 dove compare Ofiussa che, grande come il Peloponneso, si estende al di là del grande golfo, che lo studioso identifica con quello di Biscaglia. Ofiussa si presenta come un toponimo tipico del mondo greco arcaico: vedi Pitecussa, Ichnusa, ecc. Si giunge poi all’enigmatica isola di Saturno che (non stranamente) presenta fenomeni vulcanici e tellurici pressoché costanti anche se attenuati, che si evidenziano ai naviganti solo quando giungono piuttosto vicini alla precaria isola. Un quadro che oltre ad evocare i disastri descritti dagli Egizi a riguardo dell’Haou-Nebout ci sottolinea che il regno di Cronos-Saturno si trova nell’Oceano Atlantico. Dal punto da cui abbiamo interrotto il racconto, Avieno prosegue con una dettagliata descrizione del territorio tartessico per giungere poi alla vasta palude Etrefea (Erebea) ricoperta di nebbia, in prossimità della quale Avieno descrive un santuario dedicato a divinità infernali. Il termine Etrefea-Erebea è stato accostato all’Erebo sede del regno dei morti, sinonimo dell’omerica “Casa dell’Ade”. Antonelli così commenta: La descrizione di Avieno sembra qui conservare eco confusa di un’arcaica localizzazione nell’ambito del territorio tartessico di una sede del regno dei morti. La fitta nebbia che avvolge il suolo e non lascia mai intravedere il sole agli sventurati abitanti, in particolare, richiama alla mente i versi dell’Odissea (11,13-19) sui mitici Cimmeri stanziati ai bordi dell’Erebo. L’ipotesi trova conferma nell’attestazione di Strabone (3, 2,12 149) e di uno scoliasta alle Rane di Aristofane […]. La zona descritta è quella dell’estuario dell’Odiel e del Rio Tinto a sud di Huelva. La presenza di un santuario sotterraneo dedicato a divinità infernali rafforza l’impressione che il testo avieneo attesti una localizzazione in situ di un accesso agli Inferi. L’accoppiamento fra un santuario infernale (dedicato alla divinità Phosphoros) e un’area paludosa si verifica anche nella limitrofa zona alle foci del Guadalquivir: vedi Strabone 3, 1, 9. 140. […] L’associazione tra Erebo e regione tartessica sembra confermata da uno scoliasta all’Iliade (8,479 Dindorf) che racconta di Zeus, il quale,

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sconfitti i giganti presso Tartesso, li avrebbe rinchiusi nell’Erebo situato evidentemente in quei paraggi98.

Sono innumerevoli gli elementi che Avieno ci fornisce tanto da dover, per ovvie ragioni, escluderne una gran parte, anche se di indubbio fascino e interesse. Inseriamo un ultimo brano in cui Avieno, accennando ad Imilcone, parla di Oceano, ma con una specificità da sottolineare che rischiava di andare perduta nel processo di traduzione. I versi di Avieno proseguono dopo l’affermazione che anche lo Stretto di Gibilterra si presentava con fondali bassi e fangosi: (375) Oltre queste Colonne, dal lato europeo, i coloni di Cartagine possedevano un tempo villaggi e città: essi avevano l’abitudine di costruire barche con la carena particolarmente piatta, per poter così attraversare anche i fondali meno profondi. (380) Più oltre, in direzione delle regioni occidentali, a partire dalle Colonne, narra Imilcone che i flutti si agitino a perdita d’occhio, in una sconfinata distesa d’acqua marina. Nessuno ha solcato queste rotte, nessuno ha osato spingere la nave in questi mari, poiché al largo non c’è vento: nemmeno un alito sospinge la poppa. Da qui in poi, la foschia si appoggia come un velo sull’aria, la nebbia nasconde sempre i flutti e le tenebre persistono anche durante il giorno. (390) Questo è l’Oceano, che latra intorno alle sconfinate estensioni della terra, questo è il mare più vasto. Qui il vortice che da ogni parte abbraccia le coste, qui la riserva delle acque interne, il padre del nostro mare, poiché dall’esterno sconvolge quasi ogni golfo: la potenza del suo abisso si insinua nelle nostre terre. (396) Voglio parlarti, però, delle sue quattro parti più estese. La prima propaggine che penetra nella terra è il flutto occidentale, detto anche mare Atlantico; ci sono poi le acque ircane, il mar Caspio; il recesso del golfo Persico, che si insinua fra gli Indiani e l’abisso arabico, riscaldato dal soffio del tiepido Noto. (404) Enorme è la distesa dei suoi flutti che avanzano con ampiezza, senza che si possa determinarne i confini. Ma la profondità di queste acque è così modesta che a stento il mare è in grado di coprire la sabbia dei fondali. Uno spesso strato d’alghe affiora in superficie, impedendo così il riflusso delle onde. Mostri d’ogni genere infestano lo spazio marino, in cui si diffonde il terrore per la presenza delle belve. Tutto ciò il punico Imilcone riferiva di averlo visto e sperimentato nell’Oceano. E tale è il racconto che, attinto dagli antichi annali cartaginesi, io ti ho consegnato99.

Il brano potrebbe non richiedere commenti particolari se non che, per ben due volte, Avieno non utilizza i termini aspecifici presentati dalla traduzione per indicare la profonda estensione di questo Oceano, 310

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bensì adotta il ben più indicativo termine pelagus. Così quando Imilcone dice che i flutti si agitano a perdita d’occhio in una “sconfinata distesa di acqua marina” in realtà l’autore utilizza il termine pelagus, e lo stesso accade poco dopo nel verso: mostri di ogni genere infestano lo “spazio marino”. Anche se il termine nella letteratura non è associato esclusivamente all’Atlantico, si tratta di un legame inscindibile, come testimonia anche un prezioso frammento di Stesicoro. Il poeta descrive un’isola dedicata al fratello Minosse Sarpedone e la localizza nel Pelago atlantico (en to atlantiko pelagei).

4.13. L’incerta origine degli Ebrei Se la storia del popolo ebreo inizia biblicamente con le vicende di Abramo, gli storici, nonostante una serie di riserve, considerano il termine egizio abiru o apiru il corrispondente più probabile e più antico con cui identificare il popolo ebreo. Per lo più si è d’accordo rispetto al trasferire attorno al XVIII sec. a.C. le vicende bibliche di Abramo e dei suoi diretti discendenti, nella fase storica in cui emergono nuove genti indoeuropee definite Haou-Nebout dagli Egizi, che instaureranno un nuovo equilibrio di forze ed un nuovo ordine sociale stabilito da un complesso codice civile e legale. Sono i Mitanni a ricoprire un ruolo centrale in questa nuova configurazione politica e ad intrattenere con gli Egizi rapporti privilegiati anche per la stretta vicinanza. Il termine abiru, riferito anche da fonti extra-egizie, non configura uno stato ed un popolo vero e proprio, ma vari nuclei consistenti di individui con una indefinita collocazione mediorientale; nel periodo amarniano di Amenophi IV, Eknaton l’eretico, erano diventati però una consistente minaccia. A nostro giudizio la più probabile interpretazione sulla questione è proposta da Flavio Barbiero nel suo La Bibbia senza segreti: Il termine apiru è composto da due parole, di cui quella base significa “forestiero”, mentre l’altra è attributo esplicativo di significato oscuro. Un’ipotesi suggestiva, che risolverebbe in modo soddisfacente il problema, è che il termine designasse gli ostaggi provenienti da potentati indipendenti (e cioè stranieri), con i quali si erano conclusi patti di alleanza o non belligeranza, per distinguerli dagli ostaggi forniti da principi vassalli. Ostaggi “forestieri” che venivano forniti di servi e armati e godevano indubbiamente di un regime di semilibertà e di considerazione superiore a quello dei normali ostaggi “domestici”. Essi continuavano a mantenere rapporti con la madrepatria e la loro condizione all’interno del Paese ospitante risentiva ovviamente dei reciproci rapporti fra le due potenze contraenti, ed evolveva nel tempo a seconda di quelli. Questo spiega come, volta a volta, gli apiru compaiono nelle cronache storiche con caratteristiche sempre diverse. Ricchi,

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numerosi, potenti, è facile immaginare che questi apiru potessero diventare fonte di problemi, soprattutto in caso di mutati rapporti di forza fra i due contraenti, in quanto potevano essere utilizzati dall’antica madrepatria per creare difficoltà e disordini all’interno del Paese ospitante. Ai tempi della dinastia XVIII gli apiru presenti nell’ambito dell’impero egizio potevano avere due origini: o dall’impero ittita oppure da quello mitanni. Entrambi, infatti, erano alleati dell’Egitto e dovevano aver fornito ostaggi in garanzia del rispetto delle clausole di non belligeranza100.

Abramo sarebbe stato un principe Apiru di probabile origine mitannica. Le indicazioni a favore di questa tesi sono numerose e consistenti. La visione ottocentesca di Abramo pastore nomade va completamente rivista da una corretta lettura della Bibbia che risulta in grado di risolvere inequivocabilmente la questione. Con il nipote, Lot lasciò la città di Harran sotto egemonia mitannica nel XVIII-XVII sec. Certo non si trattava di poveri pastori. Leggiamo la Bibbia: Abram era molto ricco di bestiame, di argento e di oro […]. Anche a Lot, che viaggiava con Abram appartenevano greggi, armenti e attendamenti ed il territorio non bastava ad una loro abitazione comune perché avevano beni troppo grandi per poter abitare insieme. […]. E Lot scelse per sé tutta la valle del Giordano e trasportò le tende verso oriente. Così si separarono l’uno dall’altro. Abram risiedette nel paese di Canaan e Lot risiedette nelle città della valle e acquistò il diritto di pascolare vicino a Sodoma101.

Lot si era stabilito in città ed Abramo risiedeva a Canaan ed è improbabile che un’umile tenda fosse il suo alloggio. A seguito di dure lotte tra i potentati della regione che videro cinque re lottare con altri quattro, Sodoma e Gomorra ebbero la peggio e fra i prigionieri deportati vi era anche Lot. Quando Abram seppe che suo fratello era stato condotto via prigioniero, mobilitò i suoi mercenari, servi nati nella sua casa, in numero di 318, e intraprese l’inseguimento fino a Dan; poi, divise le schiere contro di essi, di notte, lui con i suoi servi li sbaragliò e proseguì l’inseguimento fino a Coba, a settentrione di Damasco: ricuperò così tutta la roba ed anche Lot, suo fratello, e i suoi beni, con le donne e il rimanente personale. Il re di Sodoma gli uscì incontro, dopo il suo ritorno dalla sconfitta di Chedorlàomer e dei re che erano con lui, nella valle di Save, detta pure la valle del re.

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Intanto Melchisedek, re di Salem, fece portare pane e vino. Era sacerdote di Dio altissimo, e benedisse Abram dicendo: “Sia benedetto Abram dal Dio altissimo, Creatore del cielo e della terra! E benedetto sia il Dio altissimo, che ti ha dato nelle mani i tuoi nemici!”102.

Abramo riesce in poco tempo a radunare 318 uomini in arme, il che ci fa pensare a un nucleo di circa 2000 persone accanto al Patriarca che riceve l’omaggio e il plauso dei re di Sodoma e Salem. In un passo seguente, alla morte di Sara ad Hebron dove si erano stabiliti, ritroviamo Abramo in un territorio popolato da una comunità ittita insorta probabilmente con le stesse modalità dello scambio di ostaggi. Poi Abramo si alzò dalla presenza del suo morto e disse agli Ittiti: “Io sono forestiero e residente tra voi. Datemi la proprietà di un sepolcro, sotto la vostra autorità, sicché io possa portar via il mio morto e seppellirlo”. Gli Ittiti risposero ad Abramo: “Prego! Ascolta noi, o signore! Tu sei un principe eccelso in mezzo a noi! Nel migliore dei nostri sepolcri seppellisci il tuo morto. Nessuno di noi ti proibirà di seppellire il tuo morto nel proprio sepolcro”103.

Abramo è quindi considerato come un principe di grande lignaggio e una serie di elementi e circostanze della sua vita apparentemente insoliti trovano una collocazione all’interno del complesso ed articolato sistema legislativo emerso dai codici di Nuzi, città urrita dei Mitanni. Ci riporta alcuni esempi John Bright nel suo Storia dell’antico Israele, dopo aver affermato che “i testi di Nuzi gettano luce su buona parte di brani altrimenti confusi”, a riguardo delle usanze patriarcali descritte nella Bibbia: Ad esempio, la paura di Abramo (Genesi 15, 1-4) che il servo Eliezer diventi suo erede diventa comprensibile alla luce dell’adozione degli schiavi praticata a Nuzi. Le coppie senza prole adottavano un figlio che li avrebbe serviti durante la loro vita e avrebbe ereditato alla loro morte; se fosse nato un figlio naturale, quello adottato avrebbe conservato il suo diritto a ereditare. Ancora, il caso di Sara che dà la sua schiava Agar ad Abramo come concubina (16, 1-4), dal momento che il contratto matrimoniale di Nuzi imponeva alla moglie infertile di fornire al marito una sostituta. Se da questa unione fosse nato un figlio, era proibito allontanare la moglie schiava e il suo bambino, il che spiega la riluttanza di Abramo a mandar via Agar e Ismaele (21, 10). Nel caso delle storie di Labano e Giacobbe, i testi di Nuzi sono chiarificatori. L’adozione di Giacobbe da parte di Labano (Genesi 31, 43), la condizione impostagli di non prendere altre mogli se non tra le figlie di Labano (31, 50), il risentimento di Lia e Rachele nei confronti di Labano (31, 14 sgg.) e infine il furto dei beni di Labano messo in atto da Rachele, sono tutte usanze nuziane. E altre se ne potrebbero aggiungere104.

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Possediamo quindi un quadro complessivo che si distacca totalmente da quella immagine di pastore nomade che la tradizione più recente aveva con superficialità disegnato. Dei diretti discendenti di Abramo, Bright ci riporta che il termine Yakubel, cioè Giacobbe, è citato tra i nomi hyksos e ciò non fa che confortare la nota tesi di un ingresso in Egitto da parte degli Ebrei al tempo degli Hyksos, mentre Esaù è descritto dalla Bibbia come rosso di capelli, un indubbia caratteristica nordica e indoeuropea. Se esiste un legame di parentela fra Ebrei e Hyksos si potrebbe ammettere un legame anche con il popolo greco, in considerazione del contributo portato da Danao alla realizzazione di una nuova grecità. A favore di una tale visione esiste un passo biblico molto affascinante. Nel libro dei Maccabei è riportato il carteggio fra il re di Sparta e il gran sacerdote Unias e la risposta inviata dal successore di quest’ultimo Gionata. Dal libro dei Maccabei: Areo, re degli Spartani, a Onia, gran sacerdote, salute! Si è trovato in uno scritto riguardante gli Spartani e i Giudei, che sono fratelli e che sono della stirpe di Abramo. Ordunque, dal momento che noi abbiamo appreso ciò, farete bene a scriverci riguardo alla vostra prosperità. Da parte nostra, noi vi scriviamo: “Il vostro bestiame e le vostre sostanze sono nostri e i nostri sono vostri” ordiniamo perciò che di queste cose vi sia data notizia. Gionata, sommo sacerdote, il senato della nazione, i sacerdoti e il resto del popolo dei Giudei agli Spartani, loro fratelli, salute! Già nel tempo passato fu inviata al sommo sacerdote Onia una lettera da parte di Areo, vostro re, nella quale si diceva che siete nostri fratelli, come risulta dalla copia allegata. Onia ricevette con onore l’uomo che gli era stato inviato e accettò la lettera, nella quale si parlava chiaramente di alleanza e di amicizia. Noi, dunque, pur non avendone bisogno poiché abbiamo per nostra consolazione i libri santi che sono nelle nostre mani, abbiamo provato ad inviarvi alcuni per rinnovare la nostra fratellanza e amicizia con voi, in modo da non divenirvi estranei105.

Si tratta decisamente di un documento eccezionale che apre un varco alla comprensione dei rapporti tra popoli, mai considerati come provenienti da un’unica origine. La famiglia di Abramo è la chiave di comprensione di questo cruciale passo biblico che suggella in maniera inoppugnabile la fratellanza tra i due popoli. Riteniamo che tale profondo legame sia da ricercarsi tra le schiere dei nobili guerrieri indoeuropei e che pur caratterizzandosi successivamente come guide e promotori dei grandi stati dovevano sicuramente essere consapevoli di appartenere ad un’unica radice. A quest’unica radice apparterrebbe anche Abramo. La Bibbia asserisce che il paese d’origine della famiglia di Abramo si 314

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trovava a Ur dei Caldei. L’interpretazione classica di questo brano identifica Ur dei Caldei con la città sumera di Ur, ma Barbiero pone seri dubbi sulla questione. Fa giustamente notare che la Bibbia indica una regione e non una città, inoltre l’Ur sumera era stata distrutta verso la fine del III millennio e probabilmente del tutto dimenticata all’epoca di Abramo, collocabile tra il XVII e XV sec. a.C. Ur dei Caldei potrebbe indicare una regione dell’Urartu meridionale e sempre Barbiero ci ricorda che Senofonte, nella Anabasi, testimonia di una popolazione denominata Caldei proprio nella stessa area identificabile con la zona di Diyarbakır nel Kurdistan turco. È poi nota a tutti in tale regione la città di Urfa, famosa per essere la città di origine di Abramo. In Genesi 24, 10 si ha poi un’indicazione alquanto precisa. Abramo indica come sua terra natale la regione di Aram Naharayim e precisamente la città di Nahor. Tale regione, la Naharina degli Egizi, corrisponde infatti all’area dell’Alta Mesopotamia governata dai Mitanni. Ci sentiamo pertanto di aderire alla tesi di Barbiero con entusiasmo e alla cui lettura rimandiamo per eventuali approfondimenti. Sansone, l’eroe della tribù di Dan, porta un nome non israelita che risulta sinonimo di “solare” e “sole” e dal momento che il nome possiede un legame con la fede religiosa si può presumere che i suoi genitori adorassero il “sole”. Sansone vuole poi in sposa una Filistea; egli intrattiene rapporti stretti con questo popolo ma la loro arroganza lo offende. Le gesta di Sansone sono tutt’altro che consuete per la carica di giudice di Israele che ricopre e meglio si adatterebbero ad un eroe della Grecia. Non a caso la storia di Sansone e Dalila possiede un equivalente nel mito greco che ci racconta di Scilla che taglia i capelli al re Niso per la salvezza della città. Inoltre i Dani o Danuna di cui abbiamo esaminato la stele bilingue nella persona di Azitawadda affermavano di appartenere alla casa di Mopso, noto eroe dell’epica greca che conosceva il linguaggio degli uccelli e aveva fondato appunto una dinastia in Cilicia. Garbini riferisce che nel V sec. d.C. nella cattedrale di Mopsuestia (casa di Mopso) in Cilicia erano raffigurati a mosaico gli episodi più celebri della storia di Sansone e Garbini sostiene che così fu per la convinzione che la tribù di Dan appartenesse alla loro stessa stirpe. Dello stesso parere sono anche le massime autorità in materia: i coniugi Dothan. Fu solo dopo la morte di Sansone a Gaza che i Daniti cambiarono completamente il loro modo di vivere. Abbandonando i loro dissidi con i precedenti vicini, i Filistei, iniziarono una comune migrazione “ponendo i loro piccoli, il bestiame e i loro beni alla loro testa” (Giudici 18, 21) in un modo da ricordare molto da vicino il percorso via terra dei Popoli del Mare dipinto a Medinet Habu. Lontano, nel nord, stabilirono una nuova enclave dove in precedenza si trovava la città cananea di Laish che ribattezzarono Dan.

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La Bibbia omette di riportare un’estesa genealogia della tribù di Dan, e questo potrebbe segnare un punto a favore della loro origine forestiera. Yadin suppose che l’ostilità di Sansone nei confronti dei Filistei fosse diretta solo contro il crescente potere tirannico dei signori filistei, a cui il suo stesso popolo potrebbe essere stato intimamente connesso. Se così è, la sola distinzione dai tradizionali nemici di Israele sembrerebbe il loro conclusivo abbandono delle tradizioni egee per diventare loro stessi Israeliti. Questa finale commistione e assimilazione di culture in Canaan è precisamente quello che i nostri scavi archeologici hanno confermato106.

La prepotenza e le mire espansionistiche filistee erano tali da non risparmiare neppure coloro che poco prima gli erano stati alleati. Afferma Garbini: […] dopo il loro insediamento in Palestina i Popoli del Mare incominciarono a estendere il loro dominio: dapprima pacificamente, insediandosi in zone disabitate o quasi, ma poi, col venir meno del controllo egiziano verso la fine del XII secolo a.C., attuando una politica di conquista militare, di cui furono protagonisti i Filistei e vittime in primo luogo le altre genti egeo-anatoliche, le sole, peraltro, che fossero in grado di opporre una resistenza militare. È forse questa politica di aggressione messa in atto dai Filistei una delle principali cause che favorirono la relativamente rapida assimilazione etnica delle altre genti egeo-anatoliche (Teucri, Sardi, Danai, “Ittiti”) da parte dell’elemento locale cananeo e israelitico: per molti Teucri, Danai e Sardi attaccati dai Filistei l’amicizia con le tribù di Israele rappresentò la salvezza107.

Garbini asserisce con sicurezza che Tjekker, Dani, Popoli del Mare, entrarono a far parte delle tribù di Israele con i nomi di Issakar e Dan mentre gli Sherden sarebbero stati incorporati nella tribù di Zebulon: […] Issacar e Aser sono praticamente dei sinonimi: Aser è il nome della regione, che sappiamo abitata dai Teucri; Issacar sarà la forma ebraica del nome che gli Egiziani scrivevano Tjkr (Tjekker) e che noi abbiamo reso con “Teucri”. […] come dal nome di popolo Danuna (i nostri Danai) è stato formato il nome della città di A-dana (che sarà da intendere come “luogo dei Danai”), così da una forma Sakar “Teucri” è stato formato il nome di luogo I-sakar (diventato Yissakar per esigenze fonetiche ebraiche) “luogo dei Teucri”. (Detto incidentalmente, se la nostra spiegazione è esatta cade definitivamente l’identificazione dei Tjekker con i Siculi). In definitiva, pur con qualche incertezza, si può affermare che anche la Bibbia testimonia la presenza di Teucri nella Palestina settentrio-

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nale; anzi, in maniera ancor più massiccia che per i Sardi, li considera incorporati nelle tribù ebraiche. […] Nel caso dei Danai diventati tribù di Dan, è la Bibbia stessa che ci fornisce i dati necessari per l’identificazione, oltre alla ovvia identità dei nomi Dan-Danyan-Danuna-Danaoi testimoniati dalle diverse tradizioni linguistiche (anche qui la -n finale di Danyan e Danuna è un suffisso). Nel più antico testo biblico, il già ricordato Cantico di Debora (Giudici 5), si dice che la tribù di Dan non prese parte alla battaglia di alcuni gruppi di Israeliti contro i discendenti dei Popoli del Mare perché “Dan dimora sulle navi” (versetto 17). Si tratta di una situazione piuttosto singolare per una gente che si vorrebbe di origine semitica seminomade; la curiosa espressione non può tuttavia essere disgiunta da una frase che si legge in una lettera che un re ittita scrisse (in babilonese) al re di Ugarit poco prima dell’irruzione dei Popoli del Mare: “…i Siculi (Shikalayau) che abitano sulle navi” (RS 34.129). questi dati rivelano che esistevano gruppi di Popoli del Mare che vivevano usualmente sulle loro navi e che tale abitudine si era conservata abbastanza a lungo da essere recepita anche dalla tradizione ebraica. Ciò non significa che i Danai dimorassero sulle navi ancora al tempo in cui fu composto il Cantico di Debora o eventualmente al tempo della battaglia: la frase del componimento ebraico ha un sapore ironico, come il suo contesto, e vuole alludere, probabilmente, soltanto all’origine di Dan. Che tale origine fosse diversa da quella delle tribù genuinamente israelitiche viene del resto confermato dalla frase attribuita a Giacobbe in quella sorta di oracoli che dedicò ai suoi figli: “Dan giudicherà il suo popolo come una delle tribù di Israele” (Genesi 49, 16), dove insieme al gioco di parole sul nome Dan (che in ebraico significa “giudice”) va rilevata l’equiparazione alle altre tribù108.

L’archeologo Ivan Jadin, i coniugi Trude e Moshe Dothan ed infine Garbini, i maggiori esperti della questione, ci sottolineano brani biblici che forniscono indicazioni definite esaurienti a favore di un’unica identità fra i Dani, i Popoli del Mare e la tribù di Dan. In Genesi 49, 16 si afferma: “Dan giudica il suo popolo come una delle tribù di Israele” presupponendo che in precedenza così non fosse stato. Nel Cantico di Debora (Giudici 5) la profetessa rimprovera alla tribù di Dan di non aver partecipato alla battaglia contro Sisara e domanda in aspro tono: e Dan perché continua a vivere sulle navi? È una frase che non lascia dubbi: la tribù di Dan va identificata con i Dani.

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Tav. 39: Israele ai tempi dell’Antico Testamento.

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In altre traduzioni il testo è tradotto con “il re di Tarshish e le isole offrano i loro doni”, ma ciò non altera il rapporto tra Tarshish e le isole stesse. Bibbia, Ezechiele 27. In quest’area chiamata Las Marismas gli scavi archeologici avevano individuato tracce evidenti di strutture architettoniche di rilievo e tra i ritrovamenti possediamo un anello d’argento che reca incisa un’iscrizione tartessa. Le ricerche vennero abbandonate dopo poco tempo per le infiltrazioni di fango che rendevano impossibile il proseguire dei sondaggi. Bibbia, Primo Libro dei Re. Bibbia, Secondo Libro dei Paralipomeni. Bibbia, Ezechiele. Testo anonimo in J.S. Romm, Dove finisce il mondo, Jouvence, 1999, Roma, p. 141. Diodoro Siculo, Biblioteca storica, cit., 44, V, 20. Inno orfico, LXXXIII, 1 ss., da A. Seppilli, Sacralità dell’acqua e sacrilegio dei ponti, Sellerio, 1977, Palermo, pp. 110 ss., in M. Baistrocchi, Arcana Urbis, considerazioni su alcuni rituali arcaici di Roma, ECIG, 1987, Genova, pp. 102-103: “L’archetipo della terra, isola o montagna primordiale circondata dai flutti, è assai diffuso presso tutte le civiltà primarie e, in particolare, nel mondo indoeuropeo. Al monte Meru degli Indù, all’Alborj dei Persiani, all’Olimpo dei Greci, corrisponde, presso i Romani, con le medesime connotazioni polari, il Palatino […] Il Palatino in epoca arcaica era quasi totalmente circondato da paludi acquitrinose”. J.S. Romm, cit., p. 27. Ibidem, p. 27. È un autore del IV sec. d.C., Avieno, che ci riporta la versione direttamente dal diario di viaggio dell’esploratore Imilcone. Egli si proponeva col suo Ora Maritima di istruire nella geografia il nipote Probo. Nelle Naturalis Historiae di Plinio, il Pulmo marinus indica la medusa. J.S. Romm, cit., p. 28. Tacito, Germania 45, in M. Menghi, L’utopia degli Iperborei, Iperborea, 1998, Milano, p. 92. Plinio, Naturalis historiae, Libro II, 186, 187. Tacito, Agricola X, in M. Menghi, cit., pp. 97-98. Poseidone: colui che percuote la terra col suo tridente causando terremoti e maremoti. Plinio, cit., Libro IV, 104. D. Del Corno, in Plutarco, Il volto della luna, Adelphi, 1991, Milano. Cit. omerica. Ogigia è l’isola localizzata nel mare più remoto dove Ulisse cade prigioniero di Calipso. Plutarco, cit., pp. 103-106. Omero, Odissea V, 99-102, 270-281. Ecateo di Abdera parlava di un’isola abitata da Iperborei chiamata Elixoia, a occidente delle terre popolate dai Celti, grande quanto la Sicilia.

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Plinio Il Vecchio, in M. Menghi, cit., pp. 35-37. Pausania, Periegesi, 10.5.9-13. Cioè sono i poeti che ne parlano e, quindi, poco degni di fede. Non sappiamo che cosa ne dicesse Esiodo, perché nei versi che si sono conservati non si fa menzione degli Iperborei. Gli Epigoni, di cui si parla subito dopo, era un poema, probabilmente posteriore a Omero, in cui venivano cantati i “successori” dei sette principi che mossero contro Tebe e che, per riavere i cadaveri, dieci anni dopo rinnovarono la guerra. Il parto di Latona, che Ilitia, dea delle partorienti, avrebbe facilitato, alleviandone i dolori. Cioè Latona, giunta a Delo per partorirvi e Ilitia stessa, che veniva dagli Iperborei per assisterla. Cioè la sala dove si radunavano a banchetto quegli isolani, quando venivano a celebrare le grandi solennità: pare che tutti gli Stati ionici possedessero a Delo un edificio speciale per proprio uso. Erodoto, Le storie, Libro IV, 32-35. Alla lettera, “Sotto la costellazione dell’Orsa”, N.d.A. Del cosiddetto “ciclo di Metone” Diodoro parla più diffusamente in XII 36. Esso venne introdotto ad Atene nel 432 a.C., per conciliare anno lunare ed anno civile, (Erodoto, I, 32, 3; II, 4, 1) dall’astronomo ateniese Metone, con sette intercalazioni nel giro di 19 anni. Diodoro Siculo, cit., Libro II, 47. M. Baistrocchi, cit., p. 164. Apollonio Rodio, Le Argonautiche, Libro I, 495-515. M. Baistrocchi, cit., p. 86. R. Graves, I miti greci, Longanesi, 1998, Milano, p. 24. Attorno al 3000 a.C. era Alfa Draconis (Thuban) e non Alfa Polaris la stella che indicava il Nord celeste ed anche le sette principali stelle dell’Orsa, considerate nella letteratura vedica come i sette veggenti, si trovavano nei pressi del polo celeste mentre l’ottavo era rappresentato da Alfa Draconis localizzata al di sopra del monte Meru, polo Nord celeste. Bâl Gangâdhar Tilak, La dimora artica nei Veda, ECIG, 1994, Genova, p. 68. Ibidem, pp. 69-70. Ibidem, pp. 71-72. Ibidem, p. 82. Ibidem, p. 95. C. De Palma, Sardegna ed Etruria, in «Archeologia Viva», anno V, marzo 1986, pp. 35-39. G. Bartoloni, La cultura villanoviana all’inizio della storia etrusca, Carocci, 2002, Roma, p. 97. Ibidem, p. 81. G. Pettena, Gli Etruschi e il mare, Ananke, 2002, Torino, pp. 45, 47, 49. Possediamo anche la testimonianza dello storico Eforo il quale affermava che prima dell’VIII sec. a.C. i Greci non avevano osato fondare colonie in Sicilia e in Italia per timore dei fortissimi pirati tirseni.

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Esiodo, Teogonia, 1013-1016. Dice Dionigi di Alicarnasso: “Xanto di Lidia, che nella storia antica era versato quant’altri mai e che, per quanto riguarda la storia della sua patria, può essere considerato storico molto solido e non inferiore a nessuno, in nessun punto della sua opera parla di Tirreno come di un signore dei Lidi, e non sa di una colonizzazione di Meoni che avrebbero occupato l’Italia, non fa neppure alcuna menzione della Tirrenia quale colonia dei Lidi, pur avendo annotato tanti altri dati di minor rilievo”, Storia di Roma arcaica (I, 28), cit., p. 61. Opera di cui ci sono pervenuti solo pochi frammenti. Pitagora, Versi aurei seguiti dalle vite di Pitagora di Porfirio e Fozio, da testi pitagorici e da lettere di donne pitagoriche, Mimesis, 1996, Milano, pp. 63, 67. Dionigi di Alicarnasso, cit., I, 54. Nell’epica degli Argonauti è Medea che riesce a disattivare il mostro Talo facendogli fuoriuscire un liquido che risultava vitale per la sua attività di guardiano. M. Pittau, Origine e parentela dei Sardi e degli Etruschi, Carlo Delfino, 1995, Sassari, pp. 157-160. Lo stagno e l’ambra provenivano dalle stesse regioni e dovevano percorrere la stessa rotta per giungere in Mediterraneo. Il mito racconta che furono le sorelle di Fetonte, le Eliadi, che piangendone la disastrosa caduta là dove l’Eridano si gettava nell’Oceano si trasformarono in pioppi e le loro lacrime in ambra. Successivamente, con il termine Eridano si indicò il fiume Po, per il solito costume di riutilizzare i nomi di epoche precedenti. A questo punto gli storici hanno proposto che il Po-Eridano ed il suo sbocco in Adriatico rappresentassero la meta di una via commerciale che dal Baltico si sarebbe snodata seguendo per lo più bacini fluviali per tutta l’Europa centrale giungendo infine al Po e quindi all’Adriatico come ultima tappa. Si giustificava così l’abbondante e copioso ritrovamento di manufatti in ambra non solo nella penisola ma bensì in tutto il Mediterraneo, compresi gli importanti ritrovamenti delle più antiche tombe a fossa dei Micenei che tanto preziosa consideravano questa resina fossile. La possibilità che questa sia stata la fonte millenaria dell’ambra che l’archeologia mediterranea ci ha restituito non trova riscontri archeologici né prove di alcuna natura. Un tentativo di ipotesi ben congegnata per dare risposta ad interrogativi pressanti trasformatosi in un postulato ubiquitariamente accettato. Tale percorso via terra doveva essersi reso praticabile solo in epoca romana. Ora, se fosse veramente stata attiva questa via commerciale, alla comparsa del ferro in Mediterraneo attraverso lo stesso percorso, il ferro avrebbe dovuto diffondersi alle culture dell’Europa Centrale con altrettanta rapidità, considerando l’importanza rivoluzionaria del nuovo metallo, mentre la realtà ci dimostra che almeno tre secoli dovranno attendere questi popoli per evolvere verso l’Era del Ferro. Dionigi di Alicarnasso, Storia di Roma arcaica, a cura di F. Cantarelli, cit., nota n. 3, p. 12. Diodoro Siculo, Biblioteca Storica, cit., Libro V 39, 8. Plinio, Naturalis historiae, cit., pp. 113, 114. Plinio riferisce inoltre che trecento cittadelle umbre fortificate furono sconfitte dagli Etruschi.

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Dionigi di Alicarnasso, cit., I, 12, p. 43. F. Della Rosa, Murature in opera poligonale, Opus antiquum, Gruppo Ricerca Fotografica, 2002, Viterbo, p. 14. Dionigi ricorda che vi era stata una spedizione per impossessarsi di nuovi territori da parte di Acheo, Ftio e Pelasgo, che erano figli di Larissa e Poseidone. Sono coloro che diedero il nome alle tre regioni Acaia, Ftiotide e Pelasgiotide. È chiaro che questo Pelasgo non è altro che un omonimo discendente dell’eponimo. È quindi decisamente erroneo considerare la Pelasgiotide, come spesso avviene, l’area di provenienza dei Pelasgi; se mai va considerata una loro seconda patria. Dionigi di Alicarnasso, cit., 1-18 I II, 51. Ibidem, pp. 52-53. Ibidem, 1-23, p. 57. Ibidem, I-25, p. 59. I Romani. Dionigi di Alicarnasso, cit., I, 30, p. 64. Erodoto, Le storie, Libro I, 58. Dionigi di Alicarnasso, cit., I, 34, p. 68. Ibidem, I, 41, p. 76. Eracle doveva aver soggiogato anche le sponde africane dello Stretto di Gibilterra. Lo testimoniano sia il più antico tempio di Lixus sulle coste del Marocco dedicato all’eroe, che un enorme enigmatico tumulo megalitico circondato da ben 167 menhir sulle colline nei pressi di Tangeri, ritenuto la tomba del gigante Anteo ucciso da Ercole. Plutarco raccontava nelle sue Vite parallele che nel I sec. a.C. il generale romano Sertorio profanò il sepolcro e vi trovò i resti di un gigante. Dionigi di Alicarnasso, cit., I, 38. K. Kerényi, Gli eroi della Grecia, Il Saggiatore, 1995, Milano, p. 167. M. Baistrocchi, cit., pp. 178-179. Dal sito internet del Museo Civico Archeologico ed Etnologico di Modena. M. Corona, Le civiltà preistoriche in Italia, Libritalia, 1996, Perugia, pp. 151152. M. Pallottino, Storia della prima Italia, Rusconi, 1984, Milano, pp. 63, 54, 37. Questa magica difesa doveva essere interrotta per espugnare la città. Anche per Troia fu necessaria la distruzione della soglia superiore delle Porte Scee per annullare il magico cerchio protettivo. M. Baistrocchi, cit., pp. 95-96. Si potrebbe andare anche oltre visto che le più arcaiche capanne del Palatino possedevano al centro un’apertura da cui fuoriusciva il fumo, rivolta verso la stella polare così come lo era nella iurta, la tenda dei nomadi dell’Asia centrale. Ad esempio, i colli di Roma sono sette in relazione alle sette stelle dell’Orsa, come in India ci sono i sette grandi Rishis, autori dei Veda. Nel mito, sette volte volarono i cigni attorno a Delo prima che Latona partorisse i divini gemelli, ecc. G. Dumézil, La religione romana arcaica, BUR, 2001, Milano, p. 531. Da S. Moscati, Antichi imperi d’Oriente, Newton Compton, 1997, Roma, p. 167.

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S. Mazzarino, Fra oriente e occidente, cit., p. 114. Ibidem, p. 116. Anche per gli Hyksos avevamo osservato lo stesso fenomeno in cui la classe dirigente era sicuramente indoeuropea, al comando di una massa eterogenea. M. Gras, P. Rouillard, J. Teixidor, L’universo fenicio, cit., pp. 35-36. Ibidem. Dionigi Di Alicarnasso, cit., I, 38. Noto a tutti è il sacrificio di Ifigenia. Massalia era stata fondata da coloni provenienti dalla città di Focea sulla costa egea dell’odierna Turchia. L. Antonelli, Il Periplo nascosto, Esedra, 1998, Padova, p. 10. Callisto era la figlia di Licaone e si identificava con Callisto la costellazione boreale dell’Orsa maggiore. L. Antonelli, cit., pp. 117-123. Strabone, Geografia 3, 3, 7, 155. L. Antonelli, cit., p. 158. Ibidem, pp. 164-165. Ibidem, pp. 133-135. F. Barbiero, La Bibbia senza segreti, Rusconi, 1988, Milano, pp. 58-59. Bibbia, Genesi 13. Bibbia, Genesi 14. Bibbia, Genesi 23 J. Bright, Storia dell’antico Israele, Newton Compton, 2002, Roma, pp. 95-96. Bibbia, I Maccabei, 12 T. Dothan, M. Dothan, People of the Sea, The Search for Philistines, Macmillan, 1992, New York, p. 218. G. Garbini, I Filistei. Gli antagonisti di Israele, cit., p. 79. Ibidem, pp. 64, 66.

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CAPITOLO V

Conclusioni

Il Neolitico va ancora considerato come diretta emanazione dell’Epipaleolitico-Mesolitico o sono presenti sufficienti indicazioni da avanzare l’ipotesi che prima della fine della glaciazione, in un’era anteriore al 10000 a.C., si fosse già realizzata, in un’area circoscritta e circondata dal mare, un’evoluzione pienamente neolitica? In luogo di una lunga era di transizione di cui non possediamo neppure i frammenti esplodono verso il 9000 a.C., in uno scenario di decadimento paleolitico, una agricoltura matura, l’allevamento, complesse tecniche di costruzione, un’evoluta scienza astronomica e una navigazione in grado di trasportare via mare ingenti carichi. Nel 9000 a.C. ca. l’uomo neolitico era già approdato in una Cipro in precedenza disabitata. Non è più possibile accettare l’idea di un repentino passaggio al Neolitico dal sostrato natufiano distante millenni di evoluzione, né tantomeno questo incredibile salto di qualità può essere indotto da una drastica diminuzione generale delle risorse. Non possediamo né testimonianze né prove archeologiche che attestino l’evoluzione e la trasformazione di una popolazione natufiana in neolitica. I tempi e le tappe necessariamente lunghissime che potevano portare i Natufiani alla rivoluzione neolitica non sono mai comparse agli occhi dei ricercatori, che anzi sottolineano come dai siti neolitici più precoci del X millennio a.C. si dimostri una piena e matura conoscenza delle tecniche dell’agricoltura. Quale luogo è in grado di supportare l’ipotesi della nascita del Neolitico? Dove si era svolta quella incredibile e polimorfa crescita di un popolo innovatore come quello di Çatal Höyük che utilizzava metodi costruttivi antisismici straordinari? Un popolo che però nei millenni di permanenza anatolica non dimostrò in pratica nessun concreto risultato evolutivo, l’Anatolia sembra più fermare che incrementare il progresso dimostrato da questo popolo alla sua comparsa. Esiste la possibilità teorica che la patria di origine dei proto-Indoeuropei sia la stessa oscura madre del Neolitico? È archeologicamente attestata la frattura fra Neolitici-Anatolici e substrato natufiano così come accade per i precocissimi siti siro-palestinesi che toccano il IX millennio a.C. I Sultaniani e i colonizzatori dell’oasi di Damasco, da dove arrivarono? Chi afferma che di diluvi ce ne sono stati tanti dice la verità ed è per questo necessario stabilire un ordine di grandezza. A quale catastrofe ecologica degli ultimi 100000 anni di storia umana e terrestre assegnare un indiscutibile primato risulta piuttosto semplice. L’uomo paleolitico infatti, 325

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dopo circa 90000 anni di tranquillo tran tran, viene interrotto bruscamente da un tale cataclisma da rischiare l’estinzione, come avvenne per lo più per i mammiferi di grossa taglia, fonte di cibo primaria dei paleolitici che degradarono nel Mesolitico. Una breve parentesi, dal momento che dopo pochi secoli apparvero i rivoluzionari neolitici, un arco di tempo insufficiente a giustificare l’enorme cambiamento e la mole di acquisizioni in un’era in cui si appalesano un decadimento generale e una assoluta riduzione delle risorse. Se quindi il Paleolitico aveva generato il Mesolitico, che cosa aveva prodotto il fenomeno Neolitico? Riteniamo che non vi siano più dubbi: si trattava di una civiltà neolitica avanzata che aveva già ottenuto i traguardi fondamentali di un’economia produttiva ed era in grado di raggiungere luoghi remoti grazie a un’evoluta tecnica di navigazione. Le rivoluzionarie acquisizioni della linguistica si trovano in perfetta armonia con tale ipotesi. L’idea di un’unica lingua madre è infatti inscindibile da quella di un’unica civiltà genitrice che temporalmente va collocata prima degli sconvolgimenti planetari del 10000 a.C. circa. Non si tratta di fantasticare su civiltà dai templi d’oro e macchine volanti, ma di un’entità la cui immagine è riflessa negli insediamenti della colonizzazione neolitica. Come raccontato nei miti di ogni Paese, l’uomo sopravvisse al grande diluvio grazie alle imbarcazioni e attraverso il mare si dispersero i sopravvissuti. L’idea che in una fase di grave ed estrema carenza energetica, a seguito di tremendi mutamenti climatici, sia stato possibile un enorme salto evolutivo, risulta erronea e irrazionale: si tratta di valutare l’evento in senso inversamente proporzionale. La giusta domanda da porsi è quanto sia regredita in tali condizioni la civiltà neolitica prediluviana. La diaspora a cui furono costrette le genti portò sicuramente a una frammentazione della conoscenza, ma l’acquisizione delle tecniche di coltivazione dei cereali era un fondamento di questa società che aveva iniziato chissà quando un processo inarrestabile di dominio sulla natura. È molto più semplice chiarire come alcune comunità neolitiche abbiano prodotto architetture apparentemente fuori dal tempo senza dover scomodare entità marziane. Alcuni di questi gruppi avevano fra loro persone di conoscenza che produssero le meraviglie architettoniche di cui conserviamo le vestigia ma, malauguratamente, anche in seguito il sapere già frammentato andò ulteriormente sprecato e disperso da una nuclearizzazione iniziale disarticolata. La propagazione dell’uomo in regioni insulari del globo già in epoche remotissime come il Magdaleniano, ci costringe a prendere atto di una navigazione che precede di millenni l’insorgere del Neolitico. La propensione dell’uomo a spostarsi sull’acqua piuttosto che attraverso la terraferma è evidente, da quando scoprì di poter galleggiare fino all’epoca dei Greci. Finché i Romani non costruirono quella rete viaria che concesse loro l’Impero, e i trionfi dei condottieri non iniziarono a mietere decine di migliaia di vittime fra le belve feroci, stabilendo i presupposti dell’estinzione di numerosissimi predatori, i territori sconosciuti erano considerati quasi im326

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praticabili per i viaggiatori. La mancanza di sentieri o l’impossibilità di prevenire ostacoli spesso insormontabili rendevano tali viaggiatori facili vittime dei numerosi grossi predatori, che certo a quei tempi non avevano ancora alcun timore dell’uomo. Tale handicap diminuì sicuramente quando l’uomo addomesticò il cavallo e iniziò a montarlo, ma tale utilizzo dell’animale risulta certo solo dopo l’avvento dei Dori, cioè verso il 1100 a.C. circa. Comparso sulla scena mediterranea verso il 1750 a.C., era stato utilizzato infatti solo per trainare i cocchi da battaglia, mentre non risulta che fosse montato a sella. Le testimonianze archeologiche che riguardano i natanti, data la deteriorabilità del legname, sono da considerarsi del tutto eccezionali oltre la soglia del I millennio a.C. Non possiamo quindi attenderci di trovare reperti risalenti al V-VI-VII millennio a.C., anche se a quei tempi le imbarcazioni fossero state numerose come oggi lo sono le automobili. Certo, se non fosse stato per gli affreschi che Thera ha restituito, non avremmo mai supposto tanta raffinata conoscenza nautica, neppure nella talassocrazia minoica, così come non possiamo affidarci alla scarsa iconografia navale pervenutaci per giudicare un popolo di mare come i Micenei. Dovrebbero pertanto lasciare sbalorditi le imbarcazioni datate al radiocarbonio al 3400 a.C., come quella trovata davanti alla piramide di Cheope. Un’imbarcazione che, per la difficoltà tecnica della realizzazione e le alte risoluzioni adottate, dimostra inequivocabilmente non di essere un inizio, bensì il punto di arrivo di una tecnologia che aveva già percorso un’esperienza millenaria. Se è alquanto improbabile reperire testimonianze dirette della navigazione in fasi remote del Neolitico, risulta semplice dedurle per via indiretta, così com’è inevitabile ammettere la diffusione del Megalitismo atlantico attraverso la via marina anche in mancanza di resti di imbarcazioni che lo testimonino. Se è grazie alla cronologia megalitica che viene scardinato il dogma dell’“Ex Oriente Lux”, è però dalla nascita del Neolitico che deve nascere una nuova ricostruzione storica. Le tappe fondamentali della neolitizzazione risultano interdipendenti e non generatesi in un habitat noto. Le colonizzazioni procedono per salti evolutivi discontinui, mostrando tali accelerazioni che non trovano razionalmente giustificazione per l’esiguo lasso temporale che le distanzia e che non può permettere la totale carenza di fasi di transizione. Ci si trova quindi nella costante problematica di un’origine enigmatica: un nucleo propagatore di genti dotate delle migliori tecnologie neolitiche che si disseminarono nei territori, adattandosi agli ambienti spesso occupati da mesolitici, trasformandosi così stabilmente negli autoctoni dei luoghi. La neolitizzazione è un processo di colonizzazione marittima. I primi siti in assoluto appartengono alla fascia costiera siro-palestinese, la cultura anatolica di Çatal Höyük ha lasciato tracce di insediamenti pedemontani sulla costa della Cilicia prima di progredire in Anatolia e iniziare una fortunata fase millenaria. Cipro era stata già visita327

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ta verso il 9000 a.C. e Creta sarà stabilmente popolata verso il 7000, così come sono costieri i primi insediamenti della cultura greco-balcanica, anche i Danubiani che raggiunsero lentamente il centro dell’Europa iniziarono la colonizzazione a partire dalla foce del Mar Nero; il Neolitico si diffonde infine dal mare a tutto il resto del Mediterraneo occidentale, isole e coste per prime. L’ossidiana, l’elemento più prezioso della fase neolitica, ebbe come centro di produzione e smistamento l’isola di Melo, che ne produsse per millenni raggiungendo luoghi distanti migliaia di chilometri. Dal Mediterraneo inizia quindi un fenomeno inarrestabile di propagazione che trova nel corso dei fiumi le strade più semplici da percorrere, si raggiunse così ad esempio l’alta Mesopotamia e si aprirono le porte d’Oriente. È dimostrato che anche la cultura di Çatal Höyük si espanse ad Oriente, con archetipi che si riscontrano oltre l’Iran. Le neolitizzazione procede poi con un processo di lenta ma inesorabile dilatazione sul territorio asiatico ed europeo. Nessuna cultura mesolitica è mai approdata singolarmente alla fase neolitica, anche quando tale fase perdurò per diversi millenni. Le vicende umane emergeranno dal buio di un’era senza testimonianze epigrafiche solo alla comparsa di civiltà come quella egizia. Possono tali testimonianze fornirci prove o indizi sulle origini della civiltà umana? Riteniamo che l’Egitto conservi il sapere dell’intera umanità e possieda la chiave di tale conoscenza. Non si tratta però di andare alla ricerca di un testo speciale che racconti l’origine dei popoli e le tappe dei loro movimenti. Non serve scoprire niente di nuovo. Chiunque abbia visitato questo Paese sa quanto smisurata sia la serie di testi geroglifici, così copiosi anche negli angoli più sperduti. Sappiamo inoltre che molti rappresentano formule ripetute quasi all’infinito, tali da rivestire una funzione pressoché decorativa per lo studioso, una sorta di cornice al testo che a causa dei suoi aspetti instancabilmente ripetuti, durante la pressoché totalità delle dinastie faraoniche, risulta decisamente insignificante e relegata nell’oscurità. Questi ossessivi stereotipi, per quanto a tratti oscuri e misteriosi, vanno però considerati come elementi universali, vere chiavi di volta della visione del mondo degli Egizi e della struttura essenziale del loro sapere. La continuità nei millenni è assoluta e impressionante. Comprendere il significato di tali formule risulta quindi indispensabile per chi desideri penetrare l’origine della sapienza egizia. È l’Haou-Nebout a emergere come protagonista assoluto dai testi a carattere universalista, dagli Inni cosmogonici, da quelli religiosi e dalle formule che accompagnano i riti pubblici e privati del faraone stesso. Secondo gli Egizi questo luogo misterioso assurge a ruolo di ancestrale progenitore dell’intera umanità. Gli Inni cosmogonici celebrano l’Haou-Nebout come elemento imprescindibile della creazione stessa. Il motivo per cui gli Egizi considerassero un obbligo porre gli Haou-Nebout al primo posto dei Nove Archi, a rappresentazione dell’intera umanità, non sembra essere stato una priorità per gli studiosi. La documentazione è assolutamente esaustiva, fin troppo copio328

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sa. L’antichità del termine, che potrebbe collocarsi ben più indietro nel tempo del IV millennio in cui ne troviamo testimonianza, sprofonda l’Haou-Nebout nel lontano Neolitico. Tanto celebrato, per quanto distante e remoto nella sua collocazione geografica nordica e occidentale, l’Haou-Nebout cosa aveva condiviso con la storia dell’Egitto predinastico? Tra le sorprendenti rivelazioni del sapere egizio emerge che questo luogo remoto incredibilmente ricopre il ruolo di centro universale nella loro concezione geografica. Esiste il Sud, il Nord, l’Est, l’Ovest ed il centro occupato dalle isole del Grande Verde. Che significato attribuire a tale concezione? Come poteva essere così riverito un luogo tanto distante da un Egitto che compie i primi passi e a cui non sono attribuite grandi capacità di navigazione? Per gli Egizi si trattava però di tutt’altro che i primi passi, vantavano una storia millenaria in cui erano stati governati e guidati da una schiera di saggi chiamati Shem Suhor, i seguaci di Horus. Ma ciò che non trova riscontri archeologici è destinato alla valenza di una favola, anche a dispetto di elementi quali la pietra di Palermo o il Papiro di Torino e anche della scottante presenza di grandi imbarcazioni, certo più oceaniche che nilotiche, come quella di Cheope e altre che dati certi pongono verso il 3400 a.C. Remota ed estrema regione marina, la storia dell’Haou-Nebout ricopre valenze diverse nell’arco dei millenni della storia egizia. Nella fase più antica il termine Haou-Nebout è espresso con formule archetipe dall’aura mitico-ancestrale ripetute con ossessione che lasciano ipotizzare contatti remotissimi, dove l’Haou-Nebout svolgeva un ruolo centrale. Ciò esprime quindi la possibilità di una civiltà madre che affondi nel più lontano Neolitico il suo primum movens. Tale immagine iconografica, geograficamente remota, cambia completamente durante il secondo periodo intermedio, poiché dalla XVIII dinastia l’Haou-Nebout diventa un luogo più che reale. Dall’estremo Occidente avviene infatti la colonizzazione delle coste asiatiche, per cui gli Egizi raccontano dei popoli Haou-Nebout delle rive dell’Asia e ne parlano come di nemici. Viene quindi coniata una nuova espressione per indicare la remota patria oceanica: le isole del Cuore del Grande Verde. Quest’ultima fase avrà il suo apice con la grande trasmigrazione dell’epoca di Ramesse III, che pose fine all’Età del Bronzo. Sono i Popoli del Mare, provenienti dal pelago atlantico, i popoli pelasgici, iperborei. Sono giunti dai confini occidentali del mondo, lungo il corso della corrente vitale del fiume Oceano che difficilmente non può non richiamare il flusso che solca l’Atlantico sino alle coste della Norvegia e oltre, chiamata “Corrente del Golfo”. In queste regioni è infatti possibile apprezzare visivamente questa silenziosa corrente blu scorrere come un fiume tra le acque grigie del mare del Nord. L’Haou-Nebout stesso è percorso da questo “circolo che lo circonda”, risulta quindi ipotizzabile che queste isole indeterminabili per numero e dimensioni fossero percorse dalla Corrente del Golfo apportatore di vita. Gli Egizi affermano che le isole traevano la loro linfa vitale dallo scorrere delle correnti. Dal centro del 329

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Grande Verde ad un estremo orizzonte nordico, che il sapiente Tilak prolunga oltre il limite del circolo polare artico, le “isole” dalla evidente natura vulcanica, come ci dimostrerebbero ancora le isole di Capo Verde, le Canarie, le Azzorre e naturalmente l’Islanda, usufruivano sia della mitigante natura vulcanica che dei benefici altrettanto importanti della Corrente del Golfo. Dipinto dagli Egizi come un paese favoloso per le ricchezze minerarie, l’abbondante presenza di avorio e zanne suggerisce la presenza di elefanti e quindi un habitat idoneo, peraltro confermato dall’abbondanza di uccelli esotici le cui piume preziose erano sia fonte di commercio che di quotidiana utilità, come testimoniato dai copricapi filistei: una corona di piume (la federkronen) che non ha per gli storici nessun esempio paragonabile in Mediterraneo. Le condizioni climatiche caldo-umide delle isole del centro del Grande Verde con fauna e flora tropicali, dove più facilmente potremmo collocare i Filistei dalle corone piumate, dovevano necessariamente cambiare procedendo verso Nord per giungere agli estremi confini polari di cui i popoli vedici e i Greci possedevano un ricordo indelebile, impresso nella loro epica. Non è azzardato affermare che gli Egizi esprimessero nei confronti dell’Haou-Nebout, che ritenevano abitato da molti popoli se non da diverse razze, una valenza continentale. Uno spazio però sottoposto alla terrificante collera del dio che ciclicamente si abbatte sulle isole. Gli Egizi testimoniano che a governare l’Haou-Nebout sono gli stessi dèi dell’Egitto. Qui si inscena la mitica battaglia tra Horus e Seth, che dopo la sconfitta sarà costretto a confinarvi il proprio potere. Seth, Poseidone, Baal, il Dio della tempesta, la sua ipostasi è l’okapi: una vera rarità della fauna centro-africana, che non era stata diffusa neppure in tempi remoti ad aree prossime all’Egitto. L’immagine del dio proveniva dall’Haou-Nebout, dove consueta doveva essere la presenza dello strano animale. È dall’Haou-Nebout che sono giunte tutte le genti che consideriamo indoeuropee, ma esiste di fatto una realtà espressa nei documenti egizi che allarga all’intera civiltà dell’uomo una stessa unica origine. Da questi spazi scomparsi provenivano popoli estremamente diversi tra loro, a dimostrare una promiscuità tra i diversi individui innescatasi in tempi remotissimi. Riteniamo che l’origine dei progenitori Indoeuropei e dei portatori della civiltà neolitica sia del tutto sovrapponibile. La definizione “indoeuropei” risulterebbe impropria se intesa come portatori del germe dell’intera civiltà. È evidente una grande eterogeneità della popolazione sin dalle prime fasi della neolitizzazione, che risulterebbe quindi la prima diffusione migratoria di genti provenienti da una civiltà già millenaria ed etnicamente composita. Solo così è possibile spiegare i misteri che circondano le creazioni così sorprendentemente lontane dallo scenario mesolitico, come dimostrano le complesse acquisizioni astronomiche emergenti dai siti neolitici. Una realtà incancellabile. 330

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È difficile non riflettere sul fatto che i primi coloni americani portarono dall’Europa la stessa economia fatta di cereali e ovini nata miracolosamente 11000 anni prima nella Mezzaluna fertile. A tutt’oggi non si sono fatti che piccolissimi passi nel tentativo di allargare il numero di animali domestici (sono tantissimi i tentativi anche recenti risultati inutili). Fondamentalmente possediamo lo stesso tipo di allevamento di 10000 anni fa, la cui origine doveva affondare in un passato ben più remoto di quello che abbiamo sempre considerato. Quando si era formato il Nebout? Una smisurata, incommensurabile palude oceanica come ci viene presentata dalla letteratura egizia non poteva che essere il frutto di sommersioni di milioni di km2. Le testimonianze archeologiche affermano che prima del 3000 a.C. l’Haou-Nebout era per i proto egizi un’entità remota sia nello spazio che nel tempo. Nei millenni precedenti tale epoca, come verso il 7000 a.C., sono segnalati numerosi cataclismi, ma nessuno di questi possiede la portata degli eventi che verso il 10000 a.C. cambiarono completamente l’aspetto della terra. Secondo un’opinione condivisa dagli scienziati, il livello dei mari prima del 10000 a.C. era da un minimo di 100 a un massimo di 200 m. più basso dell’attuale, con le enormi conseguenze che conosciamo. È quindi possibile ipotizzare che queste fossero le condizioni necessarie per realizzare un’anomalia come quella del Nebout. Molti scienziati non ritengono compatibile la possibilità che siano esistite ampie estensioni di territori scomparsi sotto i flutti, ma esistono anche pareri contrari, sostenuti da innumerevoli testimonianze. Inoltre, la grande frattura del globo che chiamiamo dorsale oceanica medio-atlantica, in un momento in cui venivano ridisegnate le immagini dei continenti, avrebbe potuto inghiottire interi stati. È poi assodato che la Gran Bretagna e le regioni scandinave risentano di un clima così favorevole grazie alla Corrente del Golfo che ne impedisce la glaciazione. Non è perciò necessario essere degli esperti per ipotizzare che in età glaciale esistesse un ostacolo al flusso del caldo fiume oceanico e non poteva trattarsi che di smisurati territori, a loro volta beneficiari della Corrente. Lo sprofondamento di questi territori dislocati lungo la dorsale medio-atlantica avrebbe potuto generare un’enorme palude oceanica, di cui il Mar dei Sargassi potrebbe forse rappresentare una residua emanazione. Se si accetta una tale ipotesi, il Nebout rimase per millenni una traccia indelebile del cataclisma, e ciò che vi stava attorno, cioè le isole del Grande Verde e i cosiddetti Paesi nordici, dovevano rappresentare i residui, sotto forma di isole, di una ben più ampia regione terrestre. Queste stesse isole, l’intero Haou-Nebout, subirà poi ulteriori trasformazioni sino alla completa scomparsa. Nel 1200 a.C. fu abbandonato dai numerosi Popoli del Mare, realizzando la più grande migrazione della storia dell’uomo, mentre alcune isole terminarono di inabissarsi forse addirittura in epoca ellenisti331

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ca, viste le numerose testimonianze di storici irreprensibili sulla presenza di isole in Atlantico, in zone di mare aperto. La posizione ricoperta nei Nove Archi, la rilevanza conferitagli dagli Inni cosmogonici, dai testi universalisti e da quelli religiosi creano presupposti sufficienti per affermare che gli Egizi consideravano l’Haou-Nebout alla radice della civiltà e della proliferazione dei popoli. Se il compito dello storico è quello di avanzare ipotesi anche in mancanza della possibilità di riscontri sufficienti, la tesi che prima della genesi del Nebout, in tale sterminata area oceanica e iperborea, si fosse realizzata una civiltà neolitica evoluta e isolata al centro di un mondo paleolitico, risulterebbe non solo affascinante e audace, ma troverebbe il conforto delle acquisizioni della linguistica sull’origine unica delle civiltà. Perché poi gli Egizi consideravano il Nebout un vero e proprio mondo infernale? Come si è generata una tale concezione? Come collocare questo elemento, già presente agli albori della civiltà egizia con tale significato ultraterreno? Uno dei più affascinanti testi magico-religiosi è indubbiamente “Ciò che esiste nel Duat”. Il Duat rappresenta l’Ade, l’aldilà ma anche il luogo percorso dal sole dopo il tramonto. Possiede quindi una posizione estremamente occidentale e naturalmente esisteva un corrispondente celeste del Duat. Così dal libro di ciò che esiste nel Duat iscritto nelle tombe dei faraoni si legge: Nel Libro di ciò che c’è nell’Ade, alla sesta ora leggiamo le seguenti frasi: “Quando questo grande dio arriva in pace nelle profondità delle acque del Nebout del Mondo infernale”. Poi ancora, sempre nella medesima divisione del mondo funerario troviamo: Formula da dirsi dalla Maestà di questo grande dio a questi dèi: “Oh dèi che presiedete il Mondo infernale e che siete dietro il Nebout degli abitanti del Mondo infernale”. Infine leggiamo sempre nella tomba di Amenophi II: “Le loro offerte (degli dèi del Duat) sono create per loro per ordine di questo grande dio: “Profonda è l’acqua del Nebout degli abitanti del Mondo infernale” (tale è) il nome di questa regione. È la strada della nave di Re”1.

Lo stesso concetto di luogo ultraterreno a cui però si accede in barca (e quindi sempre legato all’acqua) è espresso nei Testi delle Piramidi, nei Testi dei Sarcofagi, nei Libri funerari reali e nel Libro dei Morti da cui viene il seguente passo in cui si accenna a luoghi a nord del Nebout: “Non c’è male per me al nord dei Nebout”2. 332

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Così si esprime Vercoutter: Nei Testi delle Piramidi, così come nei Testi dei Sarcofaghi e nei libri funerari posteriori esse3 sono legate al grande fiume che percorre il mondo infernale. […] Si impone un’ulteriore constatazione: i nebout tendono a situarsi ai confini nord del mondo così come lo concepivano gli Egizi, visto che li si trova in opposizione con la Nubia. Infine, la rarità del termine e del suo uso, per così dire tradizionale, per designare regioni molto lontane, indica che si tratta di una forma geografica rara, forse anche scomparsa4.

Non possono esserci dubbi: si doveva essere consumata una catastrofe biblica inenarrabile per indurre gli Egizi ad una tale visione del centro dell’Oceano occidentale. Gli Egizi certo non erano gli unici a parlare del Nebout, lo testimonia l’intera tradizione letteraria dei Greci, considerati Haou-Nebout per eccellenza nel periodo saitico e tolemaico. Per i Greci il Nebout è contenuto nel concetto di “pelago” a cui si unisce quello di “caos”. Neppure Aristotele che aveva reso una favola il racconto di Platone si allontanava da quest’immagine, anzi, la conferma anch’egli, insieme con la maggior parte degli autori classici; l’Oceano o almeno una parte di questo è melmoso e paludoso e non praticabile alle navi; Pitea, Annone ed altri ne sono i testimoni oculari. Nel Nebout, insieme ad intere popolazioni erano sprofondate millenarie esperienze ed acquisizioni umane. La dispersione e la frammentazione del sapere fu inevitabile e la sopravvivenza fu favorita con tutta probabilità dalla navigazione che doveva caratterizzare questa civiltà. Popoli e razze diverse che condividevano le stesse idee e lo stesso scire, come dimostrano gli archetipi comuni che confluiscono nel credo della Dea Madre. La grande variegata molteplicità culturale è costantemente confermata ogniqualvolta compaiono nuovi colonizzatori nel Mediterraneo. L’evento che creò il Nebout mise in serio pericolo la sopravvivenza dell’umanità e, come viene raccontato dalla Bibbia e pressoché da tutti i miti, questa si salvò grazie alla navigazione che la civiltà Neolitica cui apparteneva aveva ampiamente sviluppato. Il cambiamento dell’asse terrestre aveva anche modificato la volta del cielo, per cui non era più possibile orientarsi come in precedenza. L’impossibilità di riconoscere rotte e la scomparsa di intere regioni causarono una diaspora che portò all’interno del Mediterraneo queste genti, che per le loro attitudini potremmo già ben definire pelasgiche. L’impoverimento del loro bagaglio tecnologico-culturale, inevitabile risultato di una tale catastrofe, riportò i colonizzatori mediterranei ad uno stadio di Neolitico primitivo, ma che manteneva solidamente i fondamenti di un’economia di produzione e non solo. La storia del primo Neolitico è colma di ectopiche soluzioni tecnologiche, impensabili per individui che compivano i primi passi ver333

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so un tale rivoluzionario evento. Gerico, Çaionü, Kiro Kitia e altri siti lo dimostrano inequivocabilmente. L’eterogenea e composita società HaouNebout scelse il Mediterraneo orientale come seconda patria. Perché questa scelta? Indubbiamente nell’area fertile siro-palestinese crescevano le varietà selvatiche dei cereali utilizzati nelle prime coltivazioni, quindi un prezioso serbatoio da cui attingere. Il pianeta era stato talmente scosso da quello che possiamo a ragione chiamare “diluvio universale” che molte regioni del globo dovevano presentarsi terrificanti per i navigatori. La Sicilia ad esempio, con il gigantesco cono vulcanico dell’Etna in eruzione all’ennesima potenza, doveva apparire anche da molto lontano come l’anticamera dell’inferno. Non vi è molto da stupirsi se fra aree desertificate e allagate, movimenti tellurici ed esplosioni vulcaniche, trovarono nelle oasi del Medioriente le condizioni migliori per insediarsi. Si trattava peraltro di territori scarsissimamente abitati da poveri e indifesi Mesolitici, che la scienza chiamerà Natufiani, costretti a vivere predando il territorio in gruppi familiari di una trentina di individui al massimo. La scomparsa di molte razze di mammiferi e il generale impoverimento delle risorse non permetteva più di vivere in gruppi numerosi. Il tentativo di creare un anello di collegamento tra Mesolitico e Neolitico con la cultura natufiana è decisamente crollato. La speranza di evidenziare in questi Mesolitici evidenti passi verso un’economia produttiva grazie a scavi e ricerche ampiamente condotte è stata puntualmente disillusa. Il responso è irrevocabile: i Natufiani non hanno mai intrapreso il minimo passo orientato verso l’agricoltura e una società neolitica. Le prime ondate, verso il 9500 a.C., fondarono colonie sulle coste siro-palestinesi o poco distanti da queste, in vere e proprie oasi come Gerico, Damasco, Ras Shammara ecc., spesso già abitate da Mesolitici attratti dalla natura fertile di questi luoghi. Il cambiamento fu drastico e rivoluzionario: una plateale conoscenza matura in luogo di una lunghissima e stentata fase di transizione. La notevole eterogeneità delle culture neolitiche disarma gli storici anche per il monomorfismo religioso espresso dal linguaggio universale della Dea madre. L’iconografia confluisce in unico credo: sia nelle arti maggiori che nelle espressioni del quotidiano come la tessitura, si rivelano un’unica origine e patrimonio simbolico cui è possibile far corrispondere il linguaggio originario definito “nostratico” dai linguisti che, certo, non può essere frutto del caso né di un inconscio collettivo animatosi d’improvviso. Si sottolinea quindi il polimorfismo di un’unica civiltà madre, espressione di una civiltà complessa, forse millenaria, sopravvissuta al rischio dell’estinzione ma regredita e frammentata. Come isolati frammenti di una cultura superiore appaiono infatti le creazioni neolitiche, che dimostrano la conoscenza perfetta di meccanismi che avrebbero richiesto lunghissime fasi intermedie di assimilazione. La presenza poi di animali domestici come pecore e capre in epoca tanto remota lascia stupefatti: il passaggio dalla varietà selvatica a quella domestica prevede un lunghissimo cammino 334

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evolutivo che non è stato possibile dimostrare. Vogliamo banalizzare con un esempio: l’uomo lentamente sta perdendo il dente del giudizio, oggi molti sono inclusi. Qualcosa del passato che un giorno perderemo definitivamente. Ma quanto è lontano quel giorno? Secoli. Ora, quanti millenni servono per creare stabilmente mutazioni muscolo-scheletriche rilevanti come ad esempio un diverso numero di costole? Assegnare ai Mesolitici la possibilità di un cambiamento così abissale in tempi tanto brevi risulterebbe come tentare di riversare il mare in una buca. Anche gli esami condotti sui resti scheletrici indicano la completa diversità dei nuovi arrivati, che portarono con loro sementi già geneticamente modificate e animali la cui evoluzione morfologica domestica si era già conclusa. Riassumendo brevemente, il quadro che l’archeologia ci restituisce è il seguente: – 9500 a.C. ca. Presenza di agricoltori lungo le zone costiere e subcostiere dell’area siro-palestinese. – 9000 a.C. La colonizzazione procede velocemente attraverso i bacini fluviali verso l’Alta Mesopotamia (Kurdistan, Çaionü). Numerosi insediamenti in quella che si definisce Mezzaluna fertile. Presenza di Neolitici a Cipro. – 8000 a.C. A Gerico si costruiscono fortificazioni straordinarie. – 7800 a.C. Dopo alcuni insediamenti pedemontani sulle coste della Cilicia, una nuova popolazione entra in Anatolia e crea Çatal Höyük, la prima città della storia con più di 5000 abitanti. Si tratta di un popolo che reca con sé un bagaglio tecnologico immenso, non riconducibile alle precedenti esperienze siro-palestinesi. A Cipro vengono costruiti enormi recinti per animali domestici, soprattutto bovini. – 7000-6000 a.C. Dopo il 7000 i bovini approdano anche a Creta e si sviluppano siti neolitici costieri e subcostieri in Grecia. Vengono colonizzati i Balcani e l’area del Mar Nero. È evidenziato un progressivo avanzamento lungo i bacini fluviali. Il Danubio sarà percorso a ritroso sino alle grandi pianure centrali europee. Il susseguirsi di questi eventi potrebbe anche apparire come la naturale diffusione della rivoluzione neolitica ormai esplosa, ma così non è. La cultura anatolica non deriva infatti da quella siro-palestinese, ma possiede decisamente nuovi caratteri e acquisizioni. Lo stesso vale per i Balcani, dove ci si aspetterebbe una diffusione per contiguità dall’Anatolia, ma così non è. Nulla a che vedere con le precedenti culture. Sebbene sotto l’egida della Dea Madre, i balcanici non provenivano e non avevano condiviso le esperienze né dell’Anatolia, né tanto meno della Mezzaluna fertile. Siro-palestinesi, anatolici, balcanici: tre diversi gruppi, ma forse un’unica origine. I primi colonizzarono velocemente i bacini fluviali dell’Alta Mesopotamia e l’entroterra siro-palestinese. Infatti è dimostrato che le culture mesopotamiche (Al Ubaid, Tel Alaf) cronologicamente successive discesero dal Kurdistan. 335

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Gli anatolici si diffusero verso l’Iran e l’Afghanistan: sono infatti testimoniati in queste regioni siti del tipo Çatal Höyük datati al VI-V millennio. I balcanici popolavano ampiamente i bacini fluviali e iniziavano un lento ma progressivo cammino verso il centro dell’Europa, come i danubiani che a ogni generazione avanzavano di 20 km costruendo un nuovo villaggio. – 6000 a.C. In un lasso di tempo relativamente breve, l’archeologia testimonia di un’intensa colonizzazione neolitica dell’intero bacino mediterraneo occidentale. Le localizzazioni sono eminentemente costiere, come per l’Italia, che vede giungere prima nel Sud e nelle isole genti del tutto organizzate per un’economia basata sull’agricoltura e l’allevamento. In Europa, non possiamo dimenticarlo, non vivevano allo stato selvatico i prototipi animali utilizzati dalle prime ondate neolitiche. Macroscopicamente, si tratta di un fenomeno migratorio marino di tale enorme portata da escludere a priori la possibilità che il punto di partenza fosse una delle tre aree geografiche sopra citate, le cui genti avevano preso tutt’altre direzioni. L’archeologia conferma la mancanza di legami anche se l’ipotesi ovviamente da sempre avanzata è quella di un’indefinibile origine orientale (Ex Oriente Lux). Questi popoli che giunsero dal mare dimenticarono, allontanandosi dalle coste, gli antichi costumi marittimi. Alcuni fra questi divennero nomadi, ma le tende erano annodate con nodi da marinaio e posizionate con allineamenti stellari, eredità di una precedente conoscenza astronomica indispensabile alla navigazione, ma nondimeno nelle steppe e nei deserti. L’antico legame col mare lo manifestavano anche i danubiani, che non rinunciavano a indossare collane di conchiglie marine (Spondilus), neppure quando da molti secoli vivevano al centro dell’Europa. Conclusasi la colonizzazione mediterranea, le genti progredirono all’interno dei continenti, diventando quelle popolazioni autoctone su cui interverranno, molto più tardi, le successive migrazioni verso il 3300 a.C. Per quanto riguarda il linguaggio, non possiamo che ipotizzare, partendo dal fondamento linguistico di un’unica lingua madre, che sarebbe stata però utilizzata in un periodo molto più remoto (14000 a.C. circa). Si potrebbe quindi assegnare alla diversità culturale un’altrettanto sviluppata evoluzione linguistica, la cui comune radice doveva essere ben identificabile, come dimostrano gli archetipi comuni. Nessuna affermazione è possibile, ma necessariamente si stavano formando le condizioni per lo sviluppo di quelle che saranno le fondamentali famiglie linguistiche, che riusciamo a riconoscere distintamente solo dopo il 3000 a.C.: l’indoeuropeo, il semita, il sumero, le lingue cartveliche, elamitico-dravidiche ecc. L’insorgere della civiltà megalitica sposta inequivocabilmente il baricentro verso l’Atlantico. Ex Occidente Lux, testimoniano le grandi pietre che raggiungono isole estreme in mari estremi. Estremi per il mondo mediterraneo ma sem336

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plice periferia dell’Haou-Nebout che dalle isole del centro del Grande Verde si estendeva ai confini polari. La dislocazione costiera del Megalitico senza un centro diffusore evidente di questo grandioso fenomeno rende irrisolvibile la questione dell’origine se non si accetta la realtà delle “isole”. Ci si potrebbe porre la domanda del perché se il Neolitico proviene dall’Occidente atlantico non si è manifestato per primo sulle aree costiere che lo bagnano ma, per la risposta, è sufficiente uno sguardo alla geografia dei luoghi prima della fine della glaciazione per comprendere che l’innalzamento del mare sommerse territori enormi. I Neolitici dovettero far fronte ad un mare che in pochi decenni impietosamente rendeva impraticabili i siti costieri con continue necessità di riedificazione. Un meccanismo che proseguì inesorabilmente per secoli e secoli mettendo a dura prova la resistenza dei popoli e cancellandone le tracce. Non c’è da meravigliarsi quindi se entrarono nel più protetto e mite Mediterraneo, dove individuarono aree idonee alla loro colonizzazione, ma si deve considerare perduto sotto il mare un grandissimo numero di insediamenti. La necessità dei Megalitici così clamorosamente espressa di misurazioni, rilevazioni e computi e le cui calcolatrici sono i monumenti grandiosi che hanno fatto versare fiumi d’inchiostro, bene si uniforma l’immagine di una pregressa civiltà neolitica che, a seguito di uno spostamento dell’asse terrestre – che come preconizzato dai più, determinò la fine della glaciazione – vide altrettanto tragicamente mutare l’immagine del cielo. Lo spostamento dell’asse terrestre, oltre ad essere un evento che repentinamente rischia di causare l’estinzione in massa di razze animali e sconvolgere i territori con improvvise glaciazioni e sommersioni, determina inevitabilmente un cambiamento dell’immagine del cielo. I miti diffusi in tutto il mondo che narrano del grande diluvio, dai Sumeri alla Bibbia ecc. risultano fermamente coerenti sul fatto che l’uomo sopravvisse grazie ad imbarcazioni. L’orientamento non era però più possibile per coloro che non erano in vista della costa. Pensando di tornare all’approdo abituale seguendo le stelle, smarrirono completamente la rotta e forse non ritrovarono più i loro lidi. Riteniamo possibile che i complessi megalitici che ammiriamo esprimano il tentativo di questa civiltà della pietra di rimpossessarsi di tale conoscenza. Uno sforzo che richiederà millenni di attente e diligenti osservazioni nonché la possibilità di registrare gli eventi. Il professore di Oxford Alexander Thom ha dimostrato con fatti concreti che la geometria applicata sui maggiori siti megalitici si fonda su di una stessa unità di misura, corrispondente a 82,966 cm, chiamata da lui stesso “iarda megalitica”5. Ciò rappresenta necessariamente un’incredibile conquista nonché un patrimonio esclusivo delle civiltà evolute. Un’unità di misura pressoché identica a quella utilizzata sia dalla civiltà dell’Indo che nell’antica area iberica e c’è chi afferma che anche i Minoici utilizzassero un sistema corrispondente. 337

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Pur nell’impossibilità di affermare che questi popoli disponessero di una primitiva forma di alfabeto, una serie di segni-simboli si riscontra sulla ceramica a solchi dei Megalitici, simili a quelli della cultura di Vinca ma ricordano anche i segni della lineare A e le forme più primitive del cuneiforme. Spinto da un’instancabile forza spirituale ed intellettuale il popolo megalitico finalizzò gli sforzi di intere generazioni in manovalanze specializzate nella costruzione di osservatori astronomici di incredibile precisione. Imprigionavano i raggi solari nei giorni equinoziali e solstiziali e regolavano il calendario con il passaggio ogni otto anni di Venere realizzando meccanismi complessi e di grande perfezione. New Grange, dove la luce stellare di Venere percorre i lunghi corridoi di enormi lastre di pietra, ci ricorda che lo stesso meccanismo si attuava in Egitto, quando la luce di Sirio alla sua levata eliaca percorreva i lunghi e bui corridoi dei templi annunciando l’inizio del nuovo anno e la piena del Nilo, fonte di vita e rigenerazione. Un culto stellare pressoché identico a quello del popolo atlantico6, che secondo la totalità degli studiosi fondava sulla reincarnazione il punto centrale della propria religiosità. Le gigantesche opere di pietra ci introducono direttamente al mistero della vita, dell’aldilà e della resurrezione, un credo che si renderà manifesto nel culto druidico di cui i Celti saranno eredi e che eserciterà sempre attrazione e fascino fra gli antichi, Romani compresi, per l’identità di visione con le dottrine pitagoriche a riguardo dell’immortalità dell’anima. Mille anni prima della data assegnata alla costruzione delle piramidi questa dottrina si applicava già a New Grange, il cui enorme tumulo di 280000 tonnellate di ciottoli di fiume è circoscritto da una parete esterna di quarzo eretta sopra alcune filiere basali di grandi conci di granito squadrato. Non possiamo dimenticare che in era predinastica sono delle misteriose costruzioni megalitiche a comparire per prime, come il Tempio della Valle a Giza o l’Osireyon ad Abidos. La civiltà che ha eretto le piramidi di Ghiza era forse giunta circa 500 anni prima dell’era assegnata a Cheope con le incredibili navi oceaniche miracolosamente conservatesi intatte? Quale rapporto intercorre fra queste? È possibile restringere la questione esclusivamente a due ipotesi, entrambe cariche di significati: o la piramide di Cheope fu costruita davanti alla nave interrata già vecchia di 500 anni, conferendole un valore ed importanza assoluti, o la nave fu sepolta ai piedi della piramide già esistente attorno al 3300 a.C. Un quesito a cui la storia e l’archeologia non hanno ancora dato una risposta certa. Il Megalitico non è solo un fenomeno atlantico, la civiltà delle grandi pietre ha dimostrato di non avere confini. Attraverso il mare, in ogni angolo del mondo, esistono e continuano a comparire testimonianze enigmatiche dei grandi costruttori. Si tratta di una civiltà universale che ha lasciato tracce evidenti sino all’era moderna. Ne vogliamo fornire un esempio. Esistono costruzioni molto meno conosciute perché interamente lignee ma non meno monumentali delle opere litiche. Si tratta di grandi edifici circolari di tale grandiosità da giustificare l’espressione “cattedrali 338

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Tavv. 40, 41: Sopra e sotto a sinistra: Pittura parietale, cultura di Naquada. In basso a destra: Vaso egizio di epoca predinastica. Le immagini si riferiscono alla navigazione in epoca predinastica. La storia egizia prima di Menes è stata suddivisa in tre fasi: Badariano, Amratiano e Gerzeano. A queste fasi corrisponderebbe la sovrapposizione di individui alti e dolicocefali ad una popolazione che si riscontra successivamente nelle aree meridionali di tipo basso e negroide con una capacità cranica decisamente inferiore. L’arte risulta straordinariamente raffinata per un periodo così remoto ed anche il rame fa la sua comparsa. Le immagini che riportano le testimonianze di queste evolute e raffinate genti sono straordinariamente ricche di imbarcazioni. Ne sono chiari esempi le figg. sopra e sotto a sinistra che rappresentano l’unica pittura parietale della cultura Naqada da Ieracompoli datata verso il 3300 a.C. Questo eccezionale documento, che depone per una navigazione mercantile già sviluppata in epoche remotissime, mostra due tipi di imbarcazioni. Quella raffigurata con un’alta prua e di colore scuro appare decisamente simile alla celebre “Barca Solare di Cheope” che però il radiocarbonio ha stabilito appartenere sempre al 3300 a.C.

di legno”, costruiti spesso in prossimità dei centri litici. Delimitate da un fossato esterno il cui diametro può raggiungere il quarto di miglio, queste opere straordinarie sono composte da enormi tronchi disposti a cerchi concentrici ed alti oltre 30 piedi. I pali che aumentano di diametro e di altezza dalla periferia al centro possono raggiungere il numero di 180 e ci lasciano immaginare un’immensa struttura circolare, forse ricoperta da un tetto conico piuttosto spiovente. Uno dei due colossali tronchi disposti all’ingresso del circolo di Durrington pesava non meno di 5 tonnellate, creando le stesse problematiche del trasporto delle grandi pietre. Così commenta l’archeologo Evan Hadingham: 339

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[…] questi grandi edifici dovevano veramente essere tali da ispirare un senso di timore reverenziale: il termine “cattedrale” ci sembra appropriato se cerchiamo di immaginare l’alto tetto spiovente, la mole dei tronchi di sostegno e la grandezza del cortile centrale che dava luce all’interno. Qui dovettero essere all’opera i maestri legnaiuoli del Neolitico. Dallo studio del più grande edificio di Durrington si è potuto giudicare che una tale struttura abbia richiesto più di 3000 piedi di tronchi di varia grandezza per i pali. Inoltre per collegare i vari tronchi saranno occorsi almeno 4500 piedi di travicelli. I calcoli ci parlano di più di 260 tonnellate di legno, che comportano lo spianamento di circa 9 acri di bosco solo per costruire quest’edificio7.

Vi sono prove per pensare che si trattasse di luoghi a cui accedeva l’intera comunità in particolari occasioni. È costante in questi luoghi il ritrovamento di grandi quantità di ceramica frammentata dalla quale non è stato possibile ricostruire neppure un vaso completo, ed è stato proposto che potesse essere il risultato finale di banchetti rituali a cui seguiva la rottura dei vasi delle libagioni. Ora, lo stesso archeologo Geoffrey Wainwright che portò in luce il sito di Durrington ed altri negli anni Sessanta riferisce che un analogo fenomeno sociale era stato osservato nel XVII e XVIII sec. tra le tribù indiane dei Cherokee e nella confederazione dei Creek. Il naturalista William Bartram visitò questi popoli nel 1770 e dipinse un quadro pressoché identico a quello dell’antica Britannia. Ecco la descrizione che ci ha lasciato, seguito dal commento di Hadingham: […] è una larga rotonda, capace di accogliere parecchie centinaia di persone… costituita nel seguente modo. Innanzitutto configgono nel terreno un cerchio di pali o tronchi d’albero, alti circa sei piedi e uniformemente distanziati, che ricevono un’intaccatura sulla cima in modo da sostenere una serie di travicelli o di assi; all’interno si trova un’altra serie circolare di grandissimi e robusti pilastri, alti una dozzina di piedi, anch’essi con un’intaccatura in cima per accogliere un’altra serie di tavole; ancora più internamente si trova una terza serie di pilastri ancor più forti ed alti, però meno numerosi, disposti a grande distanza l’uno dall’altro; infine, al centro sorge un pilastro robustissimo, che costituisce il pinnacolo della costruzione, verso il quale convergono i travicelli di copertura; questi travicelli… sostengono il tetto o copertura, formato da uno strato di corteccia disposta con molta precisione, tale da non far penetrare la pioggia… Vi è un solo grande ingresso, che serve anche a lasciar entrare la luce esterna e a far uscire il fumo quando si accende un fuoco… Tutt’intorno alla parte interna della costruzione, fra la seconda serie di pilastri e la parete, si trova una serie di recessi o divani, formati da due o tre gradini cioè come nei teatri, sui quali l’assemblea sta seduta o distesa.

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Bartram prosegue con la descrizione dei Cherokee che assistono a spettacoli di danza “ed altre rappresentazioni e feste pubbliche che si celebrano quasi ogni notte per tutto l’anno”, spesso precedute da “un discorso esaltato e guerresco” pronunciato da un “anziano capo” che commemora le vittorie della tribù. La rotunda di Bartram, da lui osservata nella città indiana di Attaffe, nella Creek Confederacy, aveva una struttura consimile e fu qui che, una sera, egli assistette […] all’assemblea di un grandissimo numero di capi venerabili e vecchissimi, tanti quanti mai ne avevo visti prima: passammo la sera e la maggior parte della notte insieme, bevendo Cassine e fumando tabacco. La grande casa del consiglio o rotunda… sembra essere in particolare destinata agli affari politici; donne e giovanotti non vi possono mai entrare; anzi penso che per una donna passare quella porta od avvicinarsi al recinto significhi morte… Vi sono persone che si incaricano di curare l’edificio, di pulirlo tutti i giorni e di provvedere il necessario per mangiare e per l’illuminazione. Bartram descrive il Cassine, sorta di bevanda di colore nero, che si estrae dalle foglie di una pianta: la bevanda viene portata, cerimonialmente, nell’edificio entro due grandi conchiglie, che passano di persona in persona. L’esattezza della descrizione di Bartram è stata pienamente confermata da uno scavo che ha portato alla luce una rotunda di questo tipo, nei pressi del fiume Savannah in Georgia; il monumento può essere collocato nel periodo fra il 1550 e il 1600 d.C. Il diametro di questo edificio circolare superava i 110 piedi ed aveva una sola entrata ed un focolare centrale. Per tenere in piedi i tronchi, più che fori per sostenere dei pali venivano scavate trincee riempite da una palizzata. Ciononostante, le opere di scavo hanno messo in evidenza un complesso di sei anelli concentrici. All’esterno della costruzione era stato scavato un pozzo contenente ceramiche contemporanee alla struttura principale; gli archeologi hanno supposto che si trattasse di recipienti per bere (forse un tempo riempiti dalla nera bevanda di Cassine) che poi erano stati volutamente infranti e seppelliti. Certamente vi è una stretta rassomiglianza fra i centri tribali degli Indiani e le strutture dell’antica Inghilterra meridionale, rassomiglianza che si estende anche alle attività associate alle costruzioni. Come già si è visto, partendo da fortuite analogie fra diverse culture si può arrivare troppo lontano. Tuttavia, se la descrizione lasciataci da Bartram ci può aiutare ad immaginare le attività del popolo all’interno della cattedrale di legno, tale descrizione sarà sempre un utile sistema per completare il quadro dell’antica Britannia8.

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La rotta nordica utilizzata in seguito dai Vichinghi per raggiungere le terre nordamericane avrebbe potuto essere estremamente facilitata dalla presenza delle isole dell’Haou-Nebout, che potevano rendere possibile una navigazione a vista facilitando la via di comunicazione marina. La tesi poi che questa sia stata la via essenziale della colonizzazione del continente americano è rafforzata dalla fragilità della teoria che vedrebbe l’uomo giungere attraverso lo Stretto di Bering in una fase di interglaciazione tale da consentire il passaggio fra i continenti. Ciò ammetterebbe quindi la possibilità che l’uomo abbia attraversato lo Stretto di Bering o dopo il 1000012000 a.C., e cioè al termine dell’ultima era glaciale, oppure sarebbe necessario rimandare il passaggio a circa 25000 anni fa. Ora, sembra che non esistano insediamenti o tracce di umani prima del 9300 a.C., inoltre, nella genetica di questi primi americani sarebbero presenti geni che li avvicinano ai popoli europei mentre sono assenti nella popolazione asiatica. È indubbio che uno dei momenti di cambiamento epocale che a nostro giudizio implica un evento meteorologico planetario è quello attorno al 3300 a.C. La civiltà umana assiste ad un’accelerazione straordinaria. Come ben sappiamo è da questo momento che appaiono i nuclei fondamentali della nostra civiltà come gli Egizi, i Sumeri, i Pelasgi, ma, anche il popolo vedico aveva determinato l’inizio di quest’ultima Era (Kaliyuga) nel 3100 a.C. e la stessa cosa capita all’estremità opposta del globo poiché anche la civiltà Maya9 possiede una data pressoché analoga di inizio dell’Era attuale: il 3113 a.C. I Pelasgi diedero il via all’Età del Bronzo nel Mediterraneo ma non va dimenticata la coeva splendida arte metallurgica nordica, soprattutto di Danimarca e Scandinavia, che nulla aveva da invidiare alle migliori realizzazioni egee tanto, che si sosteneva con tutta convinzione l’influsso miceneo sulle civiltà nordiche mentre la direzione dell’iter percorso dai popoli pare esattamente l’opposto. Il Pelago, il loro luogo d’origine caduto nel caos, non ci appare più indeterminabile. Le testimonianze letterarie non lasciano spazio a dubbi sulla collocazione di questa immensa area marina paludosa, là dove più vasta e remota è la distesa marina gli elementi acqua, terra, aria e fuoco si erano mischiati. È l’immagine di un fangoso e melmoso oceano quella diffusa in tutta la letteratura greca, ma Oceano è anche padre degli dèi e di tutta l’umanità, e un concetto decisamente analogo si esprime nel sapere egizio. Dall’orizzonte pelasgico, dalle isole del centro del Grande Verde, nasce un astro, è la stella di Keftiou che troverà nell’isola di Minos-Creta, la base ideali per i suoi secolari traffici commerciali. Anche i giganteschi complessi palaziali lo testimonierebbero dal momento che appaiono più come labirintiche strutture di stoccaggio che non regge fastose.

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I superlativi affreschi minoici di Thera (Santorini) svelano una fauna totalmente estranea al mondo isolano egeo, ribadendo l’estraneità dei Keftiou che risulterebbero originare da un biotopo completamente diverso. Si tratta delle celebri raffigurazioni delle scimmie azzurre e di una coppia di antilopi10, individuate ad un esame più accurato come gazzelle di Grant o di Sommering. Si tratta di animali diffusi oggi in Africa orientale. Le due gazzelle affrescate con grazia e fedeltà appaiono vive e raffigurate in un atteggiamento tipico del rituale in cui due maschi prima del combattimento si fronteggiano lateralmente per valutare la forza dell’avversario. La perfetta conoscenza anatomica e degli atteggiamenti comportamentali non può che suggerire un diretto contatto dell’artista con gli splendidi animali ed elimina totalmente la possibilità di un modello iconografico importato e ripetuto. Si tratta quindi della fauna del Paese Keftiou delle isole del centro del Grande Verde. Non si può parlare di affreschi senza nominare quello rinvenuto nella casa dell’“Ammiraglio”. Si tratta di una sontuosa processione di nove navi da guerra spinte da 40 e più rematori, addobbate a festa, che trasportano nobili cittadini da una città all’altra, salutati dalla folla festante sui terrazzi delle case. Solo una procede a vele spiegate mentre le altre recano baldacchini ricoperti dalle stesse velature. Si tratta di immagini di una tale raffinatezza da mostrarci nei particolari l’eccezionale livello delle imbarcazioni keftiou. I rapporti tra Keftiou ed Egitto risultano della massima importanza pur nell’estrema e remota collocazione ad Occidente, come sancisce la Stele Poetica di Tuthmosis III. Minerali di ogni genere, pietre preziose, avorio, ambra e splendide piume esotiche, Keftiou e le isole risultano negli elenchi dei paesi minerari che riempiono il tesoro egizio. Gli Egizi cercano di impararne la lingua facendo esercizio anche se si tratta di un Paese tanto lontano da rendersi necessario l’uso di navi speciali (forse speciali quanto quella ritrovata ai piedi della piramide?). È un luogo esotico e misterioso dove governano gli stessi dèi dell’Egitto e dove si pratica l’imbalsamazione. A favore di ciò che affermano i testi potrebbe deporre anche l’uso della mummificazione praticata dagli antichi abitanti delle Canarie: i Guanci che utilizzavano una tecnica indubbiamente molto simile a quella ben conosciuta e praticata in Egitto e che si avvaleva di un particolare ed enigmatico tipo di balsamo. Possediamo numerose mummie dal III al XVII sec., quando gli spagnoli ne causarono l’estinzione. Biondi e con gli occhi chiari, non avevano familiarità col mare mentre hanno lasciato misteriose strutture piramidali che creano un ulteriore nesso con gli Egizi. Nel testo riportato nel II capitolo (par. 2.16, “Kftiou e le isole del Cuore del Grande Verde’’) (cfr. infra, p. 134) si ammette candidamente, tra l’VIII e la X dinastia, attorno al 2200 a.C., che è decaduta l’epoca in cui si viaggiava per mare e si sottolinea la conoscenza di Keftiou e dei suoi costumi, che sottintende ovviamente rapporti tra i due Paesi. Si alluderebbe quindi 343

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a viaggi oceanici che richiedevano imbarcazioni del tutto speciali. Dal momento che possediamo documenti della XVIII dinastia che attestano riparazioni di cantiere per alcune di queste navi, bisognerebbe ammettere che tali audaci imbarcazioni fossero in attività fra Egitto e Haou-Nebout in tempi antichissimi. Tempi che precedevano lo sviluppo della civiltà minoica, che avrebbe costruito i suoi primi palazzi solo nel 2000-1900 a.C., nell’“isola di Minos”, base mediterranea dei Keftiou. Un documento attesta il titolo di “re di Keftiou e di Minos” e nei numerosissimi elenchi di popoli stranieri Minos segue sempre Keftiou. Doveva trattarsi di una potenza smisurata, una vera egemonia totale dei mari, se Minos poteva permettersi di non avere nessun tipo di fortificazione, nonostante le enormi ricchezze e la considerevole distanza dalla madrepatria. Storicamente la prima talassocrazia nel Mediterraneo fu appannaggio di Minos e dei Keftiou. D’altronde gli storici si sono sempre interrogati sulla provenienza degli stimoli e delle raffinatezze della cultura minoica. Se verso il 2200 a.C. Keftiou era già considerata una potenza marittima affermata, come dimostra la celebre lamentazione, quanti secoli si erano resi necessari per conseguire una tale fama in regioni così remote come il Mediterraneo orientale? Presumibilmente in epoche precedenti aveva avuto il sopravvento sulle isole del Grande Verde, e dal momento che conosciamo la complessa eterogenea composizione dei popoli Haou-Nebout, potrebbe essere stata una lunga fase travagliata. Quando la potente Keftiou decise di fondare una colonia in Mediterraneo orientale, certo, la scelta non fu casuale. Già dal 3300 a.C. genti pelasgiche avevano colonizzato l’area egea, come dimostrano Poliochni a Lemno, Troia I e la cultura cicladica. Quindi, quando verso il 2300 a.C. si rilevano archeologicamente le prime testimonianze di coloro che chiamiamo Minoici, la regione già da molti secoli era conosciuta e frequentata. Si tratta di una fase storica di grande rilievo. L’area mediterranea era infatti fino a quell’epoca immersa in un Neolitico che aveva sviluppato però una rete complessa di commerci e rapporti. Bene lo testimonia un centro di transito tra Oriente e Occidente come Malta, la cui cultura megalitica dimostrava una maturità e raffinatezza strabilianti. Questa misteriosa cultura fu però, verso il 2200 a.C., spazzata via non si sa bene da cosa o da chi. Non sarebbe pertanto fuori luogo considerare, tra le varie ipotesi, che la cultura maltese sia stata distrutta dai Pelasgi o Keftiou, forti del segreto del bronzo. Lo stagno, ben più prezioso dell’oro in quell’epoca, era del tutto assente in Mediterraneo e soprattutto in Egeo, da sempre povero di metalli e miniere. È un fatto che la civiltà del Bronzo sia, secondo la storia, apparentemente fiorita in Egeo nonostante la totale assenza di stagno, la cui origine è completamente nordatlantica. Certamente non poteva essere la sola Cornovaglia a fornire la quantità di stagno necessaria a produrre l’Era del Bronzo. Come dimostrano i testi minerari egizi e i testi delle tombe dei nobili tebani della XVIII dinastia erano le isole Haou-Nebout e Keftiou la fonte di importazione di ogni genere di metalli e pietre preziose. 344

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Nel mito greco-romano, tali ricordi ormai lontani si focalizzavano nel mito delle remote, settentrionali, atlantiche, isole Cassiteriti. Il monopolio dei metalli da parte dei Keftiou è provato archeologicamente. Lo dimostrano i numerosi “ox lingots” rinvenuti fuori dall’Egitto, dove precocemente fiorì la conoscenza della fusione del bronzo, come in Medioriente, a Cipro o anche in Sardegna. Tali pani a pelle di bue sono infatti contrassegnati con lettere appartenenti al lineare A, la scrittura minoica, e identici a quelli rappresentati in Egitto come nella tomba di Rekmire, dove vengono portati in dono dai “principi di Keftiou” delle isole del centro del Grande Verde. A Keftiou si era quindi realizzato il miracolo della lineare A. Nonostante la non unanimità del pensiero storico, riteniamo più che sufficienti le prove fornite da Palmer, Furumark e altri a favore dell’identificazione della lineare A con la lingua luvia. Il luvio è infatti considerato la prima lingua indoeuropea, che svolge la funzione di sostrato sia dell’area egea che dell’Asia minore, su cui si impianteranno le lingue greche e la lingua ittita, strettamente imparentata al luvio. Tutti i toponimi che terminano in “inthos” (come Corinthos), o in “ssos” (come Assos, Thermessos, ecc.) sono di origine luvia, e naturalmente anche il termine Knossos. È quindi ipotizzabile che il proto-luvio sia stata la lingua parlata dai primi colonizzatori pelasgi, ma, nel trascorrere dei secoli, anche il luvio produsse numerosi dialetti. Lentamente, dall’area egea, il luvio si diffuse in Anatolia, come archeologicamente dimostra la diffusione della cultura di Troia II, che interessò anche la regione costiera mediterranea della Cilicia. Tra i dialetti luvi, il palaico è considerato il più arcaico, mentre per lo più è dogmaticamente considerata preindoeuropea la lingua di Hatti. La sua cultura però si fonda su emblemi come la svastica, che non dovrebbero lasciare alcun dubbio sull’origine di questo nobile popolo, la cui capacità di fusione “a cera persa” del bronzo raggiunse apici mai toccati in precedenza. Gli Hatti penetrarono l’Anatolia, ma i loro primi insediamenti erano sul mar Nero. Poteva quindi trattarsi di un ceppo pelasgico così antico da rendersi quasi estraneo alle stesse lingue luvie successive, che meglio conosciamo. Il fatto poi che gli indoeuropeissimi Ittiti abbiano accettato di chiamarsi con un nome derivato da questa cultura e ne abbiano adottato il linguaggio nella liturgia, ha, secondo noi, un peso soverchiante sulla questione. L’hatti si conserva nella liturgia ittita esattamente come il latino per quella italiana. Nessun popolo adotterebbe per il proprio credo religioso una lingua del tutto estranea, né tanto meno quella di un Paese sottomesso. La cultura che restituì le celebri sepolture principesche di Alaça Hoyük faceva probabilmente parte del movimento pelasgico che compenetrò l’Anatolia, ancora immersa nella realtà neolitica derivata dall’esperienza di Çatal Höyük. L’idea che verso il 2200 fossero giunti gli antenati dei Greci ha creato numerosi preconcetti dannosi, il primo naturalmente quello di provocare una cesura inesistente tra Indoeuropei e pre-Indoeuropei, quando i fondamenti culturali, come risulta anche dall’utilizzo del megaron, sono del 345

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tutto conservati e coerenti. Un quadro archeologico di distruzioni e la presenza di una nuova ceramica chiamata Minia, peraltro diffusa anche a Troia, sono stati a torto giudicati elementi sufficienti a testimoniare l’avvento di una nuova cultura. Se i Pelasgi appaiono liberi vagabondi del mare, non sottomessi ad autorità centrali forti, nel Pelago, nel loro luogo d’origine, la potenza di Keftiou stava per emergere prepotente. La sua immagine appare sull’isola di Minos, la più importante stazione commerciale del Mediterraneo, organizzata con vari centri e vari palazzi che rappresentavano i luoghi di stoccaggio delle merci più preziose e le sedi dei vari governatorati. Ecco perché è così difficile per gli storici comprendere chi prevalesse a Creta, che rapporti ci fossero tra i palazzi, quale fosse stata la loro storia, per non parlare dell’ignota provenienza di questo popolo tanto raffinato da possedere nelle case servizi idraulici di cui neppure la Roma dei Cesari poteva usufruire. Non poteva una colonia svelarci la storia della Madrepatria, ma solo fornircene delle immagini. Keftiou e Minos, come nei frequenti elenchi egizi, rimangono completamente legate e alla scomparsa dei Keftiou cronologicamente corrispondono l’invasione e la presa di potere su Creta dei Micenei, verso il 1400 a.C. I classici però non parlano né di Minoici, né di Micenei, bensì solo di Pelasgi, Lelegi, Cari o Lici. Secondo Erodoto, erano Cari i marinai di Minosse: è quindi presumibile supporre che l’élite dei Keftiou assoldasse, in carenza di uomini, marinai di questa provenienza. La tradizione afferma che i Pelasgi approdarono a una maggiore grecità con la migrazione di personaggi come Danao e Cadmo. Si parlerà infatti di Danai e Cadmei; Omero definisce i Micenei Danai, Achei o Argivi, ma ciò rientra nell’ultima fase dell’epoca micenea. In epoca più antica, quando Micene non ricopriva un ruolo egemone, era stata Tebe a rappresentare, anche archeologicamente, il centro più importante, insieme ad Argo. Tebe era stata fondata da Cadmo e i suoi abitanti erano chiamati anche Cadmei, mentre Argo rappresentava la fase più antica dell’insediamento pelasgico nell’Egeo. Secondo Erodoto, dalla linea pelasgica derivarono poi gli Ioni, ma non i Dori, che dalla Madrepatria ancestrale dei Greci arriveranno sulla scena con l’ultima grande migrazione di Popoli del Mare, verso il 1200 a.C., vicende narrate come “il ritorno degli Eraclidi”. Gli storici, non essendo in grado di formulare ipotesi comprovate archeologicamente sul luogo di origine dei Dori, hanno, come nel caso del professor Chadwick, cercato di negarne l’esistenza. Per fortuna, il buon senso dei più rende l’ipotesi di Chadwick inaccettabile e sottolinea quanto la questione sia lungi da una risoluzione, se si rimane confinati ai dogmi correnti. Gli Egizi, dopo secoli di tranquilli rapporti commerciali, dalla XVIII dinastia in poi parlano degli Haou-Nebout come di nemici. Erano giunti dall’estremo Nord dell’Haou-Nebout per stabilirsi sul Mediterraneo orientale. Per quanto la loro posizione geografica asiatica si collocasse a Est o meglio Nord-Est dell’Egitto vennero sempre denominati “popoli nordici delle rive dell’Asia”. 346

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Il 1750 a.C. segna l’ingresso nella storia di un’ondata di genti indoeuropee che realizzarono un nuovo mondo governato da nuove leggi con evoluti criteri di internazionalità. Queste genti, considerate fin dalla loro comparsa come un’aristocratica casta di guerrieri che combatteva sul carro da battaglia, seppero impadronirsi dei regni che si affacciavano sul Mediterraneo. Pur in mancanza di prove, la distruzione dei primi palazzi di Minos-Creta nel 1750 a.C. ca. può farci sospettare che un emporio così ricco di ogni merce sia stato un inevitabile preda dei popoli invasori del Mediterraneo. Se al contrario si trattò di una catastrofe naturale, ci troveremmo di fronte ad un tale cataclisma da giustificare l’ipotesi che la stessa causa abbia indotto la migrazione di questi bellicosi Indoeuropei, la cui comparsa è cronologicamente pressoché sincrona alle distruzioni dei centri cretesi. Anche gli Egizi ne subirono l’invasione, gli Hyksos fanno parte di questi aristocratici principi guerrieri e dimostrano di condividere la genia dei Greci Achei-Micenei, come testimonia la storia di Danao e degli altri colonizzatori. La migrazione-colonizzazione indoeuropea del 1750 a.C. aveva come arma fondamentale il cavallo e il carro da combattimento. Alcuni particolari interessanti sono riportati a questo proposito da Piggott: Il primo cavallo conosciuto da quelle parti fu seppellito con grandi onori intorno al 1750 a Buhen; la guerra con bighe è specificatamente ricordata per la prima volta due secoli più tardi dal re Kamose che pose definitivamente fine alla dominazione degli Hyksos, e le prime rappresentazioni pittoriche compaiono sotto Amenophi I, intorno al 15491529 a.C. Come abbiamo visto è proprio a quest’epoca che compare la prima testimonianza di bighe da combattimento in Europa, nelle scene scolpite sulle lastre tombali a Micene. I Micenei come i loro contemporanei del mondo egeo e dell’Asia occidentale allevavano cavalli, nella pianura di Argo e altrove, utilizzando la biga come un braccio meccanico leggero per i loro servizi; in Omero essa non è più utilizzata altro che per portare il guerriero sulla linea del fronte dove poi combatte a piedi, e soltanto Nestore si ricorda delle vecchie tattiche. Un passo dell’Iliade, tuttavia, ci dice che le ruote delle bighe venivano fatte con gavelli di un pezzo solo ricavati da tronchi di pioppo. “Un costruttore di bighe lo abbatte per uno splendido carro”; così si esprime anche una similitudine del Rig-Veda sanscrito del secondo millennio: “Mi sono piegato di fronte ad [Indra] cantando, come un falegname piega il suo gavello di buon legno”, per le bighe dei guerrieri ariani. È esattamente questa maniera di costruire le ruote che continuò a essere usata per le bighe europee, dai Celti all’epoca della conquista romana della Britannia, ed esempi di siffatte ruote di carro fatte di un sol pezzo sono conservati in Britannia11.

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Nella tomba del primo profeta di Amon, Menkeperreseneb, sono identificati come Haou-Nebout Ittiti, Mitanni, Keftiou nonché i principi di Tounip e Kadesh. È evidente che pochi Indoeuropei seppero mettersi a capo delle popolazioni locali come nel caso dei Mitanni che dominavano uno stato hurrita o gli Hyksos che guidavano una folla semita e hurrita. Gli Hyksos, “principi dei Paesi stranieri”, riuscirono ad integrarsi come veri faraoni anche perché non dovevano sentirsi estranei ai rituali e alle cerimonie di una religione che evidentemente condividevano sotto la protezione del dio Seth, l’okapi, la cui immagine doveva essere giunta in Egitto da quegli stessi luoghi in cui si era svolto il mitico scontro con Horus: le isole del Grande Verde. Se poi esistessero dubbi ulteriori sull’origine Haou-Nebout iperborea degli Hyksos, da Tell ed-Daba proviene una prova definitiva. Lo storico Barry J. Kemp riferisce: Tell ed-Daba ha fornito anche un’importante raccolta di materiale antropologico, con i 134 corpi delle necropoli del periodo hyksos [Jungwirth, 1970]. I rapporti di scavo preliminari descrivono una popolazione nettamente differente dal comune tipo semitico occidentale, più simile, anzi, ai tipi individuati nelle contemporanee necropoli dell’Europa settentrionale e centrale12.

Tav. 42: Affreschi di Thera (Santorini). Sopra: Casa dell’Ammiraglio. Sotto: Gazzelle di Grant o di Sommering diffuse oggi in Africa Orientale.

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Tav. 42: Affreschi di Thera (Santorini). Affresco delle scimmie azzurre. Si tratta decisamente di un tipo di animale estraneo al contesto geografico minoico.

L’idea poi che gli Hyksos avessero significato solo un momento triste ed oscuro della millenaria storia egizia va completamente ribaltata. La diffusione infatti di reperti egizi sembra raggiungere i confini della civiltà mediterranea proprio durante questo periodo. Paradossalmente sembrano più abbondanti le testimonianze di questi usurpatori all’estero piuttosto che in Egitto, come afferma Kemp: Alcuni oggetti in cui compare il nome del re hyksos Seuserenra Khyan sono stati trovati al di fuori dell’Egitto, ma così lontano che qualunque interpretazione in chiave politica parrebbe avventata. Sono un piccolo leone in granito rinvenuto a Cnosso, un frammento di un vaso in ossidiana ritrovato a Bog˘azköy e inoltre un’impronta di sigillo rinvenuta nella Palestina meridionale. Data la probabile origine degli Hyksos, non stupirebbe scoprire che una parte della Palestina meridionale sia stata sotto il loro controllo13.

Il gusto estetico di questi Indoeuropei che si erano integrati in Egitto doveva però risentire in qualche modo del loro luogo d’origine ma l’indagine archeologica, al di là del materiale prettamente egittizzante, è sempre stata ardua se non sterile a seguito della damnatio memoriae che subirono. È però di questi ultimi anni l’eccezionale scoperta del palazzo reale degli Hyksos ad Avaris. Ne abbiamo appreso i fatti straordinari da un’importante pubblicazione del British Museum quando ci apprestavamo già alla conclusione della nostra ricerca. Si tratta di una scoperta che lascia gli studiosi nello stupore e nella meraviglia. Dallo sbriciolato palazzo sono 349

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emersi frammenti di intonaco dipinti dove il tema, la tecnica, lo stile sono del tutto minoici, cioè keftiou. Non si potrebbero immaginare soggetti più indicativi come è possibile constatare dalla foto che riportiamo (tav. 43).

Tav. 43: Avaris (Tell Ed-Daba). Frammento di intonaco dipinto dal palazzo reale degli Hyksos. Nessun frammento potrebbe racchiudere una più intensa impronta minoica. L’archeologia è stupefatta, incredula, senza risposte.

Gli archeologi non sanno darsi una spiegazione plausibile se non che siano stati creati da artisti minoici, ma non ne spiegano il perché. È plausibile che provenendo dall’Haou-Nebout, gli Hyksos fossero influenzati dallo stile dettato da Keftiou che da secoli primeggiava sulle isole. È probabile che il raffinato gusto emergente dagli affreschi di Creta e Santorini fosse ritenuto un modello artistico assoluto. Chi raggiungeva la regalità non poteva che desiderare di essere circondato da quello stesso stile e da quegli stessi soggetti che adornavano le regge dei Keftiou, così come in altri tempi saranno Atene poi Roma a dettare i canoni di una bellezza emulata e desiderata. Tuthmosis III è il faraone che più di qualsiasi altro estese e fece grande l’Egitto e Rekmire era il suo Gran Visir che visse anche durante il regno di Amenophi II. Immortalato nella sua tomba è l’arrivo dei “principi di Keftiou”, provenienti dalle isole del Grande Verde, che recano doni a Tuthmosis III poiché hanno sentito parlare delle sue vittorie ed intendono chiedere di mantenere gli scambi commerciali con gli Haou-Nebout delle rive 350

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dell’Asia. I testi egizi non si prestano a dubbi, consideravano Haou-Nebout, oltre ai Keftiou-Minoici, gli Ittiti, i Mitanni, i principi di Tounip e Kadesh, coloro che vivono nel Retenu, cioè nell’area siro-palestinese ed i Cassiti Babilonesi. Molto spesso sono indicati come i “Popoli nordici”. La scomparsa dei Minoici è legata alla decadenza di Keftiou che verso il 1350 a.C. non si ritrova più nei testi egizi. Minos-Creta, che non possedeva neppure fortificazioni, sarebbe caduta molto prima nelle mani degli agguerriti Micenei se non avesse usufruito della protezione di quella che per più di mille anni era stata la potenza marittima indiscussa: Keftiou, di cui Minos-Creta rappresentava l’avamposto mediterraneo principale. Non è possibile infatti per questioni cronologiche che l’esplosione di Santorini, da collocarsi prima del 1500 a.C., abbia determinato il crollo del potere di Minos-Creta, anche se l’isola ne fù fortemente danneggiata. Vercoutter riporta il giudizio di studiosi che ritenevano di identificare l’episodio illustrato nella tomba di Rekmire come il momento di passaggio di potere ai Micenei sull’isola di Creta. Non v’è dubbio che cronologicamente i due momenti potrebbero coincidere. Ci troviamo infatti alla morte di Rekmire, in un’epoca in cui i Micenei forse si erano già impossessati dell’isola. Sarebbe quindi verosimile ipotizzare che il re di Keftiou, avvertita la minaccia sulla propria base mediterranea, fosse nella necessità di chiedere protezione all’Egitto che aveva così enormemente aumentato il suo potere nel Mediterraneo orientale al fine di mantenere i proficui commerci con gli Haou-Nebout delle rive asiatiche di cui i Mitanni rappresentavano l’élite. Risulta quindi evidente da ogni documento che gli Egizi consideravano i Mitanni una popolazione rivierasca. La tesi di una loro origine dalle montagne armene si rivela impossibile, anche se con la loro bellicosità espansiva guadagnarono vaste regioni interne sino all’alta Mesopotania. Dopo lo scontro di Ramesse II e Muwatallish venne raggiunto un equilibrio che avrebbe potuto perdurare a lungo, ma non fu così. Un’immensa catastrofe celeste avrebbe cambiato il destino dei popoli. Sono i Popoli del Mare, gli Haou-Nebout, le genti pelasgiche ad essere i più colpiti. Come appurato si trattò di un evento che sconvolse anche l’intero Mediterraneo e che potrebbe essere identificato con le celebri piaghe mosaiche. Anche il Libro di Amos, quando afferma “non ho forse fatto uscire Israele dalla terra d’Egitto, i Filistei da Kaftor…”14 sembrerebbe avvicinare i due eventi come si fosse trattato di un fatto unico e simultaneo. I testi egizi15 risultano del tutto esaurienti a riguardo sia delle cause naturali che colpirono l’Haou-Nebout sia delle reazioni che seguirono: la migrazione di una foresta di popoli che articolarono l’invasione del Mediterraneo, seguendo un piano accuratamente progettato per non lasciare scampo neppure all’Egitto. La Bibbia ci conferma che i Popoli del Mare erano i “sopravvissuti delle isole” in cui aveva primeggiato Keftiou-Kaftor identificata in molti passi come la patria dei Filistei. 351

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Fra questi numerosissimi popoli, preponderanti erano le forze achee, cioè genericamente greche, e i Dori certo non possono essere esclusi. Il mito e l’archeologia lo dimostrano inequivocabilmente: il nemico che distrusse Pilo proveniva dal mare e sul mare i Dori realizzarono i centri del loro potere come dimostra la stessa Creta. I Dori erano già presenti con alcune colonie anche prima del 1200 a.C., a Creta, come racconta Erodoto, o a Rodi e Cos, come narra Omero, ma gli storici hanno aggiustato la questione, che ostacolava la visione dei Dori come montanari rozzi provenienti dal nord della Grecia, creando la tesi di un “complesso anacronismo storico”. È però Oceano il capostipite della stirpe che li governa e saranno i Greci, Dori compresi, nel VII e VI sec. a.C. ad essere appellati eminentemente “Haou-Nebout” come inequivocabilmente dimostra la stele di Rosetta. I testi egizi ci raccontano solo parte della storia del mondo mediterraneo, come dimostra la comparsa dei Traci, popolo numerosissimo, e dei Frigi che avevano con i Greci un altissimo grado di affinità. Lo testimonia Omero nell’Iliade quando ci presenta la mitica figura di Reso re dei Traci, figlio della musa Clio, avanzare su di un carro sfarzoso d’oro e d’argento. Anche Enea è presentato come un principe trace alla guida dei Dardani, dislocati sullo stretto del Bosforo. Nell’Iliade si elenca una serie di popoli di origine tracica alleati dei Troiani nonché i Frigi. Ciò testimonierebbe che l’avvento della prima ondata dei Popoli del Mare era precedente alla guerra di Troia e che numerose genti avevano trovato una sistemazione in Tracia e a ridosso dello stretto dei Dardanelli e del Bosforo mentre i Dori, dopo un primo contatto infelice con il mondo miceneo, si erano ritirati in Epiro16, ritardando di due generazioni l’attacco ai principali centri micenei. La prima ondata dei Popoli del Mare, datata al 1230 a.C., precedette infatti di quaranta-cinquant’anni la guerra omerica. L’impresa di Troia potrebbe essere interpretata quindi come l’estremo tentativo dei Micenei di mantenere il predominio sullo stretto invaso dall’ondata dei Popoli del Mare che avevano trovato in Troia, antichissima città pelasgica, la naturale leader della confederazione e il centro strategico fondamentale. In tempi precedenti Troia non avrebbe potuto contrastare l’intera federazione micenea, era stata espugnata anche da Eracle il quale aveva affidato proprio a Priamo il compito di ricostruirla e rigovernarla. Un altro elemento che avvicinava Troia agli Eraclidi e quindi ai Popoli del Mare: Priamo risultava un sovrano legittimo per gli Eraclidi con cui era possibile allearsi. È quindi lecito avanzare l’ipotesi che Troia, da modesta città-Stato, sia assurta a polo di convergenza dei nuovi popoli la cui forza confederata diventava un’intollerabile minaccia per il mondo miceneo, che però non rimase passivo. Anche in Omero è evidente che senza la presenza di ingenti forze alleate i Troiani non avrebbero potuto così a lungo resistere all’intera confederazione micenea. La distruzione di Troia fu solo un’apparente vittoria dei Micenei che, stanchi delle lotte, abbandonarono lo stretto e fecero ritorno ai propri potentati. I nipoti di coloro che combatterono a 352

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Troia saranno poi definitivamente esautorati dal “ritorno degli Eraclidi” che con i Dori si sostituiranno al potere miceneo, Creta compresa. Pochi decenni dopo la caduta di Troia la seconda ondata dei Popoli del Mare devastava il regno di Arsawa, l’Anatolia e il resto del Mediterraneo, lasciando ai Frigi il potere che era stato degli Ittiti. La guerra di Troia rappresentava quindi l’ultima vittoria, l’ultimo sussulto di un mondo che cambiava identità ed avrebbe espresso una realtà storica sconvolta e rivoluzionata dalle grandi migrazioni. Solo così è possibile comprendere il senso fondamentale espresso dai Greci della assoluta frattura temporale che essi esprimevano nel concetto di prima e dopo la guerra di Troia, un confine tra mito e storia. Ora è molto più semplice cogliere il significato lapidario dell’affermazione erodotea in cui solo gli Ioni e non i Dori erano i discendenti delle schiatte pelasgiche che popolavano già da secoli l’Egeo. I Dori partirono per ultimi dalla patria originaria comune a tutti gli Indoeuropei. Nonostante riconoscessero Danao e gli altri colonizzatori come progenitori comuni di tutta la stirpe greca, è facile comprendere come i Dori considerassero tuttavia di appartenere ad un ghenos di spiccata individualità grazie ad un contesto di istituzioni (istituzioni doriche) ben distinte dagli altri Greci e con un loro idioma dialettale. Tali diversità furono alla base di quel sentimento che produsse in seguito le celebri ostilità tra Atene e Sparta. Tutta l’epica greca che si riferisce all’era micenea è soffusa da misteriosi viaggi attraverso l’Oceano su rotte nordiche anche estreme. Si tratta di un substrato di ricordi geografici e climatici giunti in Grecia con le migrazioni di genti indoeuropee, individuate dagli Egizi come i “Popoli nordici”, i “Settentrionali”, gli “Haou-Nebout”. Ciò è ben presente in Omero che, cantando le gesta degli Achei, oltre all’epopea del conflitto ne celebra le avventure in mari remoti come quelli oceanici percorsi da Ulisse ai confini del mondo17. Siamo forse quindi gli eredi di una cultura iperborea, come era già stato propugnato fin dall’Ottocento, soprattutto da alcune correnti legate all’esoterismo, e per questo snobbate dagli studiosi accademici, che non trovavano sufficienti basi storiografiche a sostegno di tale teoria? L’equivalenza dei termini Haou-Nebout-Iperborei ci arricchisce però di una grande mole di testimonianze epigrafiche in un arco di tempo dal Predinastico al Ferro, che supera i duemila anni. L’atteggiamento con cui devono essere considerati tali documenti dovrebbe essere privo di quei pregiudizi che da sempre hanno avviluppato molte testimonianze preistoriche, mito compreso, trasformandoli in favole poco credibili. Questi documenti erano ritenuti portatori di fondamentali verità da trasmettere ai posteri. È forse il compito dello storico fermarsi ai documenti di epoca storica e rimanere al buio per il passato più remoto? No di certo. È un buon esempio da seguire l’opera dell’eminente professor Andrea Carandini sulle origini di Roma. È proprio con un’abile tessitura di elementi come tradizione, mito, racconti popolari, elementi linguistici ecc. che attribuisce consi353

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stenza storica ad evidenze archeologiche che, considerate isolatamente, non porterebbero a nessuna rilevante conclusione. Durante l’espansione dell’Età del Ferro, una palese confusione linguistica si presenta sulla scena mediterranea e risulta impossibile chiarire il percorso dei popoli che geograficamente ricoprono aree incompatibili per la legge della prossimità o lontananza linguistica. È ostentata una tale disposizione di casualità che solo una migrazione transmarina continentale poteva realizzare. Renfrew ha rintracciato la cultura indoeuropea identificandola con quella anatolica del VII millennio a.C. Il termine “indoeuropeo” risulterebbe però decisamente improprio e tale definizione dovrebbe permanere solo per identificare uno stadio linguistico temporale posteriore al 3000 a.C. riconosciuto per la prima volta nella lingua luvia; un contesto dove compaiono anche i primi Semiti, cioè gli Accadi18 oltre agli Egizi e ai Sumeri. Il luvio, il palaico e l’ittita sono le più antiche lingue indoeuropee riconosciute, per lo stretto rapporto che presentano sono raggruppate nel gruppo anatolico e vanno considerate quindi come derivanti da un unico idioma progenitore. Successivamente i linguisti inclusero in questo gruppo anche il licio, il lidio e il cario precedentemente considerate asiatiche. Il luvio era eminentemente la lingua del regno di Arsawa sull’Egeo di cui non conosciamo confini ma possediamo un documento che riporta il trattato tra il sovrano ittita Muwatallish e Alaksandus di Wilusa, importante città del regno di Arsawa. Anche se i pareri degli esperti non sono unanimi, Troia, chiamata Wilion dai Greci, nonché il nome Alessandro utilizzato anche per Paride, presentano tali equivalenze onomastiche che difficilmente possono considerarsi casuali. Ciò testimonierebbe quindi che il regno di Arsawa comprendeva anche la regione di Troia, per cui tutta la regione egea era, come abbiamo d’altronde già verificato, popolata da genti luvie derivanti da un numero imprecisabile di ondate che dovevano presentarsi non come uno Stato unitario ma piuttosto come una costellazione di città confederate spesso anche in lotta fra loro. Di questo mondo luvio naturalmente facevano parte anche i Minoici, come dimostra lo studio del lineare A e come ci conferma il mito del fratello di Minosse, Sarpedone, alla guida dei Lici. A questa grande famiglia doveva appartenere però anche l’hatti considerata un residuo preindoeuropeo ma, la conservazione di questa lingua nella liturgia ittita e inoltre la presenza di svastiche così frequenti negli stendardi di questa cultura rappresentano un’indicazione fortissima a favore di uno stretto rapporto di parentela fra l’ittita e la più arcaica lingua hatti. Così afferma Francisco Villar nel suo Gli Indoeuropei e le origini dell’Europa: Le lingue anatoliche hanno provocato una vera rivoluzione nella nostra scienza. Dopo la loro scoperta nulla è più tornato a essere come

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prima. Si tratta di un vero dono del destino, di una potente arma che gli archeologi hanno messo nelle mani dei linguisti: tutto un nuovo ramo di lingue, eredi di una varietà molto arcaica di indoeuropeo, con la capacità di permetterci di retrocedere di molti secoli nella preistoria della nostra lingua. Mettere a profitto questo regalo o condannarlo all’inoperosità, per paura di perdere la tranquillità conservatrice delle dottrine note, dipende solo da ciascuno di noi19.

La continuità culturale dimostrabile archeologicamente dalle cittadelle fortificate e dal megaron, dalla ceramica e dai motivi a spirali e meandri ci spinge a considerare che la prima ondata di luvio ad invadere il mondo egeo sia da identificarsi con la cultura cicladica di Poliochni e di Troia I, che ci riporta a prima del 3000 a.C. Sono i Pelasgi i responsabili del sostrato pregreco definito dai linguisti come “pelasgico”, le cui ondate colonizzatrici continuarono nei secoli e riteniamo che la cultura di Hatti, di Alaça Höyük e quella minoica rappresentino i momenti più rilevanti di queste numerose ondate. Georgiev affermava che la lineare A racchiudeva in sé due lingue: una forma di greco arcaico e una lingua del gruppo anatolico luvio e la definiva eteocretese. Altri studiosi ampliarono questo sostrato pregreco identico a quello presente in Asia minore e a tutto il Mediterraneo, dal Golfo Persico all’Iberia, definendolo sostrato mediterraneo. È la linguistica l’unica scienza in grado di svelarci quali fossero i legami di parentela più stretta tra i popoli, corrispondenti a rapporti geografici di vicinanza nella madrepatria. Il greco risulta più vicino all’indo-iranico, al frigio e all’armeno che non alle lingue d’Europa, latino compreso. Il tracio costituisce un gruppo indipendente dal frigio. I Greci mal comprendevano il tracio fatto di suoni per loro poco intelligibili, mentre i linguisti più recentemente assimilano le lingue trace, illiriche e daciche al gruppo delle lingue baltiche per le numerosissime coincidenze lessicali. Abbiamo quindi di fronte l’evidenza di un intricato processo migratorio di cui non possiamo che tracciare le tappe fondamentali, ma dove è necessario accettare l’idea di una coabitazione nella terra d’origine di popoli che in tempi storici risulteranno lontanissimi. La linguistica è però in grado di fornire altre rivelazioni sorprendenti. È infatti possibile affermare con assoluta certezza che il popolo baltico è quello che parla la più antica lingua indoeuropea vivente e risulterebbe anche quello che meno si sarebbe allontanato dalla patria originaria; sono tre le lingue baltiche: il prussiano oggi estinto ed il lettone e il lituano parlate ancora. Così afferma Villar nel suo Gli Indoeuropei e le origini dell’Europa: Quello baltico è uno dei pochi popoli indoeuropei del quale è stato possibile stabilire l’insediamento ancestrale con ragionevole sicurezza. Con i dati forniti dall’idronimia, vari indoeuropeisti, soprattutto sovietici, hanno dimostrato che i balti occupavano il territorio compreso tra

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il fiume Parseta (Polonia) a ovest, Mosca a est, Kiev a sud e Riga a nord. Alcuni chiamano questa zona, la cui estensione è sei volte superiore a quella che occupano i balti oggi, il primitivo balticum. In essa, almeno all’inizio del II millennio a.C., sembra che si sia parlato, secondo quanto ci indica l’idronimia, il baltico comune20.

Tav. 44: I giganti di Tula in Messico. Questi colossi, che fanno parte di un centro cerimoniale toltehi, rappresentano gli antenati giunti da Oriente, dal mare. Il copricapo piumato ricorda decisamente quello filisteo.

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È veramente sorprendente apprendere di una lingua odierna che secondo Villar risulta per arcaismo assimilabile all’antico linguaggio ittita o ario-vedico. Tacito li localizzava sul Baltico e li descriveva come agricoltori e raccoglitori d’ambra. Naturalmente su ciò si fondavano le vecchie teorie sull’origine baltica degli Indoeuropei che ancora oggi hanno dei sostenitori. Al di là delle ovvie critiche da sempre incontrate da tale teoria emerge comunque una fortissima indicazione nordica difficilmente sottovalutabile. La linguistica è stata la causa di fondamentali cambiamenti su questioni che erano condivise all’unanimità dagli storici. È sufficiente riportare un esempio: tra gli storici e archeologi nessuno dubitava che prima del mondo greco e romano doveva esserci stata un’unica cultura madre progenitrice diretta di entrambe ma, grazie alla linguistica, questo falso postulato crollò fragorosamente. Anche nel caso dell’etrusco la linguistica si rende fondamentale. Per Paul Kretschmer, l’etrusco insieme al pelasgico faceva parte del proto-indoeuropeo, per Vladimir I. Georgiev sarebbe una forma più recente di ittita, Jean Faucounau lo avvicinava al licio e Francisco Adrados alle lingue anatoliche. I Filistei, che provenivano dallo stesso Pelagos, come dimostra l’interscambiabilità di Pelasgicos-Pelasticos, parlavano inizialmente una lingua più vicina a quella greca di quella frigia e tracia. Garbini ci ha restituito l’importante ruolo che questo popolo ha ricoperto nelle colonizzazioni del Mediterraneo, come nel caso della Sardegna o della fondazione di Cadice, in un’epoca in cui Tartesso possedeva ancora l’eredità delle isole del Grande Verde. Tartesso, madre di Tiro, come asserisce la Bibbia, aveva un rapporto preferenziale con i Fenici di Hiram che arricchirono il regno di Salomone, ma la storia di Argantonio e dei Focei nonché la testimonianza della Tavola dei popoli dove Tarschisch è figlia di Javan non possono che farci pensare ad una forma di parentela bilaterale in grado di sanare l’incomprensione dei rapporti tra i rossi Fenici e i biondi Greci, costantemente latenti nella tradizione come nel caso degli Eraclidi. È Eracle Melkart il dio di Tiro e con Eracle, Apollo sarà il nuovo padrone del Mediterraneo e ovunque ne possediamo riscontri archeologici esaurienti. Eracle è patrimonio dell’intera civiltà mediterranea. Eroe dei due mondi, era entrato con una flotta ed un forte esercito proveniente dall’Iberia dopo aver conquistato anche il mondo oceanico, come ci racconta Dionigi di Alicarnasso, ed aver restituito vigore ai Greci, come scritto nel De Facie. Non v’è dubbio che linguisticamente l’Haou-Nebout si presentava come un insieme di popoli con una netta predominanza della famiglia greca. L’invasione fu una vera e propria emigrazione continentale realizzata nella perfetta conoscenza geografica e politica del Mediterraneo. La conoscenza metallurgica ed il segreto del ferro condussero ad una completa rivoluzione della civiltà e da questo momento l’archeologia è in grado di ricostruire la scena storica che non dovrà più cimentarsi con popoli sconosciuti ed estremamente progrediti, comparsi all’improvviso dal “nulla”. 357

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Non è inopportuno chiedersi se i popoli dell’Haou-Nebout abbiano seguito solo la direzione ad Oriente o se una parte di loro non abbia scelto la via probabilmente più lunga verso Occidente. È peraltro noto che le civiltà precolombiane (Olmechi) sorgono proprio attorno al XIII-XII sec. a.C. È argomento sul quale non intendiamo dilungarci ma solo riferire un particolare affascinante. Il copricapo indossato dai Filistei, la celebre corona piumata, non trova in Mediterraneo nessun paragone possibile. Se però osserviamo i giganti di Tula che rappresentano gli antenati, quei progenitori Toltechi che provenivano dal mare, da Oriente, non possiamo che evidenziarne l’estrema somiglianza, per non dire identità. Sono peraltro molti gli interrogativi che ancora si pongono ma che non intendiamo approfondire. Prove considerabili legali in qualsiasi tribunale come il riscontro, grazie a tecnologie mediche avanzate, della presenza in alcune mummie di coca e tabacco che ne prova un uso prolungato, non hanno di certo ancora trovato risposta. Ma di droghe e di erbe magiche parlano i testi egizi: provengono dal Grande Verde, dalla terra del dio Osiride che non può che essere l’Occidente. La scienza medica potrebbe anche con la ricerca genetica ottenere risultati sorprendenti e in grado di procurare un’ulteriore scossa a dogmi storiografici che hanno già fatto il loro tempo. Un gruppo di biologi anglo-tedeschi guidati dal professor Peter Foster dell’Università di Cambridge hanno svolto approfonditi studi sul patrimonio genetico del cavallo, utilizzando anche esemplari ibernati più di 28000 anni fa nel permafrost, e sono approdati a conclusioni rivoluzionarie. Il cavallo risulterebbe frutto di una lunghissima fase di incroci e ibridazioni i cui primi tentativi di selezione risalirebbero oltre il 28000 a.C. Questo processo selettivo si sarebbe poi interrotto bruscamente intorno al 10000 a.C., in corrispondenza della fine dell’era glaciale, ricomparendo dopo una lunga fase silente attorno al 4000 a.C. Ogni tentativo di ricostruzione degli avvenimenti legati alle grandi migrazioni soffre inevitabilmente di fronte alla complessità estrema di questa intricata e stratificata realtà: è pertanto il nostro un tentativo di semplificare e rendere comprensibile una serie di vicende che così non sono state. Le cause climatiche potrebbero essere il motivo anche dei grandi movimenti migratori che apparentemente, a partire dall’Europa centrale, si diressero e si espansero verso Oriente. Questo fenomeno che certo meriterebbe approfondimenti adeguati è definito dei “campi di urne” per l’uso dell’incinerazione che lo contraddistingue. Sarebbe auspicabile una visione più unitaria dei fenomeni migratori che evidentemente coinvolsero quasi l’intera umanità. Le poche righe di Stuart Piggott che seguono sono sufficienti ad evocare immagini suggestive di tale ipotesi: Nell’Europa che giace al di là dei confini dell’Egeo sembra che il crollo delle antiche sedi di potere sia stato a lungo ricordato come l’inizio di un’epoca. Oscure memorie popolari riecheggiano lungo i secoli,

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Disco di Festo (facciata A e B). Fra i numerosi misteri che costellano le vicende trattate, un oggetto del tutto particolare, decisamente unico nel suo genere, è il Disco di Festo. Nonostante sia stato scoperto in un contesto minoico che la cronologia stabilisce verso il 1600 a.C. non si è del tutto certi che non provenga da uno strato più recente che, crollato, si sia mischiato con reperti più antichi. Il disco da entrambi i lati possiede caratteri stampati di un linguaggio sconosciuto con andamento spiraliforme. Si tratta sicuramente di una scrittura sillabica che appare per la prima volta nella storia e dove vengono utilizzati 45 caratteri mobili, veri precursori dell’invenzione di Guttemberg, presumibilmente d’oro come sostiene Godart o di avorio o di legno. Sulla faccia A sono presenti 123 segni suddivisi in 31 gruppi da linee grafite a mano. Sulla faccia B, 118 segni divisi in 30 gruppi. Già Evans riteneva il disco estraneo alla cultura minoica sottolineando che il segno che rappresenta la testa maschile sormontata da un copricapo di piume fosse analoga alle raffigurazioni dei Popoli del Mare a Medinet-Habu, mentre il segno della “pagoda” gli ricordava delle architetture licie. L’argilla finissi-

Tav. 45: Disco di Festo.

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ma del disco in effetti non proviene dall’isola di Creta. Godart che ne ha pubblicato uno studio afferma che nessuno dei tanti tentativi di traduzione ha dato esiti certi; così è pure per l’attribuzione anche se tutti notano l’analogia con la corona piumata dei Filistei. Abbiamo però anche altri elementi come il particolare tatuaggio a forma di 8 che presenta una seconda testa maschile calva. Lo stesso tatuaggio è presente sul volto di uno dei personaggi dei Popoli del Mare dipinti nella tomba di Rekmire. Inoltre, fra i numerosi tentativi di decifrazione, l’archeologo Corsini ritiene di leggervi una dedica alla “grande signora dei Keftiou” identificata con Neith e Atena (Minerva). La forma e l’aspetto spiraliforme dell’iscrizione è analoga al cosiddetto “piombo di Magliano” che per quanto in caratteri etruschi ci riporta sempre ai Popoli del Mare. Per quanto sia difficile esprimersi sul significato del messaggio riteniamo non vi siano dubbi sul fatto che testimoni movimenti di popoli bellicosi soprattutto attraverso imbarcazioni; la figura della nave è infatti attestata ben 7 volte. È presente la figura di un prigioniero, frecce, scudi, elmi e mazze, e se consideriamo il primo gruppo del lato A si appalesa chiaramente un tale punto di vista. Non riusciamo però a trattenerci dal ravvisare che diversi simboli presenti nel disco di Festo ricodino il mondo precolombiano Sia i copricapi piumati che gli scudi rotondi, insieme alla mazza in cui sono innestate lame di ossidiana, risultano tipicamente precolombiane.

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confuse ora con le leggende di Troia, e i popoli nuovi del primo millennio a.C. si compiacevano di collocare le loro origini nella stessa epoca dei movimenti di eroi successivi alla guerra di Troia. Non erano soltanto i Romani; è documentato che nel I sec. a.C. anche i popoli celtici credevano discendere dalla stessa origine, ed anche se ciò può essere spiegato con il bisogno di darsi degli antenati rispettabili e di tenersi all’altezza della progenie d’Enea, potrebbe anche significare qualcosa di più. E anche i racconti medievali sulle origini troiane, scite o trace dei Bretoni, Irlandesi e Pitti possono non essere solo delle invenzioni letterarie fondate su Omero, Virgilio, Ditti Cretese, Darete Frigio e gli altri, ma possono anche qui risalire in parte a una tradizione orale indigena, e alla vaga memoria di un’epoca in cui i popoli erano in movimento21.

L’Egitto, santuario del sapere, pone l’Haou-Nebout all’origine della nostra civiltà, indicando una nuova direzione verso cui esplorare. Ciò che l’Egitto rivela si armonizza con i clamorosi risultati della linguistica. Questa scienza infatti si è spinta nel XX secolo al traguardo più importante, affermando un’origine comune del linguaggio. L’ipotesi che esistesse una relazione di parentela fra Indoeuropei e Semiti ha dovuto superare, come è facile immaginarsi, ostacoli enormi. Da Villar: Un indoeuropeista del prestigio di V.V. Ivanov arrivò a dire che la dimostrazione della parentela genetica delle lingue nostratiche realizzata da Illiç-Svityç era una delle più grandi conquiste del XX secolo non solo nell’ambito della linguistica ma anche nell’insieme delle scienze umane. […] Seguendo i metodi della scuola russa, ritiene che si possano trovare indizi del fatto che tutte le lingue dell’umanità conosciute, a eccezione forse di qualcuna, hanno un’origine comune. Tutte deriverebbero da una lingua ancestrale parlata 25000-30000 anni fa22.

Tali rivoluzionarie acquisizioni non riescono però ad armonizzarsi con la ricostruzione storica ufficiale, mentre si conformano decisamente alla tesi di un’unica origine marina e di un’unica civiltà madre identificata dagli Egizi come Haou-Nebout. Anche il mito, che utilizza sempre un linguaggio da favola per raccontare i più spettacolari eventi celesti che obbligavano a grandi cambiamenti della vita quotidiana, è stato solo sfiorato, se non ignorato, in questa ricerca, che non può che considerarsi parziale ed elementare. Di certo anche ne0l mito sono innumerevoli le vicende su cui varrebbe la pena soffermarsi, come ad esempio la questione di Atlante, che generò Espero, a sua volta scomparso nel Nun e le sette Esperidi. Atlante ebbe sette figlie, per i Greci si trattava di isole al di là delle colonne di Eracle, favolose per la 361

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loro ricchezza (Pomi d’oro delle Esperidi). Erano quindi collocate in una posizione estremamente occidentale, la stessa in cui erano poste altre enigmatiche entità, come le isole dei Felici, o le isole dei Beati, o le isole dei Morti: un’ottica completamente sovrapponibile tra mito greco e testimonianze egizie. Dall’Egitto proveniva anche il mito che più di ogni altro ha provocato la conoscenza e il sapere dell’uomo, un mito irrisolto e inviolato, ma costantemente presente, come celasse l’enigma dell’intera nostra civiltà. Colui che ce lo ha tramandato rispondeva al nome di Platone.

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J. Vercoutter, BIFAO 46, cit., p. 154. Ibidem, p. 155. Le isole. J. Vercoutter, cit., p. 156. Tale sistema di computo si fonderebbe sulla divisione in 366 gradi del cerchio, equivalenti al numero delle levate del sole in un anno. È archeologicamente comprovato che i più antichi allineamenti della civiltà megalitica erano a carattere stellare e solo in seguito venne favorita la religione solare con allineamenti solstiziali ed equinoziali. E. Hadingham, I misteri dell’antica Britannia, cit. p. 51. Ibidem, pp. 53-55. Non conosciamo il significato dei complicatissimi computi dei cicli temporali che i Maya ci hanno lasciato, ma è indubbio che fossero fissati da eventi naturali straordinari; né certo possiamo ipotizzare cosa potrebbe accadere nel non lontano 2012, data fissata dai Maya stessi come fine della nostra Era, la quale appare sia coincidere al passaggio all’Era dell’Acquario in seno al fenomeno precessionale, sia all’evento della completa inversione del magnetismo terrestre che gli scienziati asseriscono essere non lontana dal realizzarsi. Marinatos, che fu il primo archeologo ad osservarle, le ritenne appartenenti alla specie orix, gazzella beisa dell’Africa orientale e si domandò come potessero trovarsi dipinte a Thera verso la metà del II millennio. S. Piggott, Europa antica, dagli inizi dell’agricoltura all’antichità classica, cit., pp. 147-148. B.J. Kemp, Antico Regno, Medio Regno e Secondo Periodo Intermedio, in B.G. Trigger, B.J. Kemp, D. O’Connor, A.B. Lloyd, Storia sociale dell’antico Egitto, Laterza, 2000, Bari, pp. 119, 200. Ibidem, p. 201. Bibbia, Libro di Amos 9, 7. I dettagli e le precisazioni sulla traduzione di importanti termini dei testi di Medinet Habu da parte di Edgerton e Wilson sono esaurienti nonostante si trattasse per loro stessa ammissione di un primo approccio alla traduzione. Nonstan-

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te abbiano spesso adottato soluzioni traduttive moderate, ne risulta sempre evidente l’intento degli Egizi di raccontare una catastrofe tellurica. Ne forniamo un importante esempio. Si tratta del termine tfy che con grande frequenza è utilizzato dagli Egizi a proposito sia dei Popoli del Mare che dei Meshwesh e dei Libici. Dalle traduzioni di Medinet Habu: “No land has stood firm at the sound of my name but they leave their settlements, [moving away] from their place”, e ancora “[Removed] and scattered in the fray were the lands lay one time” (W.F. Edgerton, J.A. Wilson, Historical Records of Ramses III, The Texts in Medinet Habu, cit., nota 102, Plate 46). Ai termini fra parentesi che traducono il termine tfy è correlata una nota che riportiamo: “Materials show that the primary idea of tfy is not ‘to leap’ but ‘to move away, to remove’. It involves sudden or violent motion. […] The word is common at Medinet Habu” (Plate 16, nota 1a). È quindi evidente che la traduzione adottata da Edgerton e Wilson, si discosta un pò dall’idea di “saltare”, che sarebbe la versione più letterale. Gli Eraclidi, dopo un primo scontro dove Illo, figlio di Eracle, rimase ucciso, osteggiati da un oracolo ostile che si proclamava favorevole alla conquista dell’Ellade solo alla terza generazione, si ritirarono in Epiro dove stazioneranno per due generazioni. Le analogie tra il mondo omerico e quello nordatlantico è talmente evidente da aver indotto A. Vinci, un libero ricercatore, a trasferire direttamente nel Baltico la vicenda di Troia. Omero nel Baltico è un’opera che evidenzia un’enorme mole di sinonimi onomastici e toponomastici tra mondo nordico e mondo greco-miceneo. La diffusione delle lingue semitiche ricopre un’area territoriale enorme. Con lingue semitiche intendiamo infatti convenzionalmente il linguaggio parlato da un vasto gruppo di popoli che, a partire dal 3000 a.C., abitavano ampie regioni del vicino Oriente. I Semiti si presentano come un insieme multietnico, multirazziale. La famiglia semitica è stata suddivisa in Orientale e Occidentale, quest’ultima a sua volta in Settentrionale e Meridionale. Il gruppo Orientale, il primo a fornire testimonianze storiche, è rappresentato dagli Accadi (AssiroBabilonesi), che appresero il cuneiforme dai Sumeri e utilizzavano una lingua sillabica. L’Occidentale comprende l’amoritico, l’ugaritico (Ras Shamra) e il cananeo, che comprende il fenicio e l’ebraico, e altri idiomi meno conosciuti come l’aramaico e il moabitico, a sud l’arabo e le lingue semitiche dell’Etiopia (tale suddivisione si desume però solo dal II millennio). I principali Stati semiti erano insediati nell’area nota come Mezzaluna fertile. Nei secoli si dimostra che questo ampio substrato fu in grado di assorbire migrazioni anche di entità rilevanti di popoli indoeuropei. I Filistei infatti, dopo qualche secolo di permanenza, adottarono il fenicio, abbandonando l’originale idioma indoeuropeo appartenente alla famiglia greca. Non è pertanto azzardato ipotizzare che le lingue semite siano precedenti al 3000 a.C. e si pongano direttamente in connessione con la fase neolitica finale del IV millennio, di cui rappresenterebbero l’evoluzione. Il precursore dell’accadico doveva dunque trovarsi in una posizione non troppo lontana da quello stesso precursore neolitico che aveva invece generato nell’Haou-Nebout l’indoeuropeo. In questo

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caso l’accadico dovrebbe mantenere delle vestigia rintracciabili anche nell’indoeuropeo, risalenti al comune precursore neolitico. Così sarebbe, tanto che il Semeraro, nel suo La favola dell’Indoeuropeo, Bruno Mondadori, 2005, Milano, ha proposto di riconoscere nell’accadico una sorta di lingua madre ancestrale. Le grossolane conclusioni che possono trarsi da questo panorama ci portano a considerare le lingue semitiche come maggiormente collegate al substrato neolitico, rispetto a ciò che possiamo osservare per l’indoeuropeo e l’egizio camitico, che appaiono decisamente più intrusive e di cui possiamo controllare l’espansione e gli influssi sui territori. Le successive ondate migratorie che nel 1750 e nel 1200 a.C. cambieranno ripetutamente il panorama politico e geografico del Mediterraneo e dell’Oriente sono un’esclusiva indoeuropea. Popoli sconosciuti ma dotati di potenti innovazioni tecnologiche in grado di cambiare la società su cui interverranno. Le ondate migratorie neolitiche erano state quindi causa di una dicotomia che aveva visto evolvere prevalentemente verso la famiglia semita l’area colonizzata, mentre nella patria originaria l’evoluzione linguistica aveva prodotto l’Indoeuropeo. Anche i camitici Filistei parlavano una lingua della famiglia greca. Fra i Popoli del Mare elementi apparentemente estranei, come nel caso degli Etruschi, risulterebbero utilizzare semplicemente idiomi poco documentati e talmente arcaici da essere difficilmente inquadrabili. È comunque soddisfacente il fatto che un sempre maggior numero di esperti riconosca l’etrusco come indoeuropeo. F. Villar, Gli indoeuropei e le origini dell’Europa, Lingua e storia, cit., p. 361. Ibidem, pp. 401-402. S. Piggott, cit., p. 172. F. Villar, cit., p. 654.

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Finito di stampare nel mese di aprile 2015 a cura di PDE Spa presso lo stabilimento di LEGOPRINT SRL – Lavis (TN)