Hans Blumenberg. Nuovi paradigmi d'analisi 9788854837751

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Hans Blumenberg. Nuovi paradigmi d'analisi
 9788854837751

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A11 584

HANS BLUMENBERG NUOVI PARADIGMI D’ANALISI

a cura di

Alberto Fragio Diego Giordano

Copyright © MMX ARACNE editrice S.r.l. www.aracneeditrice.it [email protected] via Raffaele Garofalo, 133/A–B 00173 Roma (06) 93781065

ISBN

978–88–548–3775–1

I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore.

I edizione: dicembre 2010

Index

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Diego Giordano Decentramento antropologico e neutralizzazione simbolica

027

Alberto Fragio Das Überleben der Übergänge Nuevos paradigmas de análisis de la obra de Hans Blumenberg

Saggio introduttivo

075 José Luis Villacañas

Leviatán. Un fragmento gnóstico en la modernidad

103 César González Cantón

Absolutism: Blumenberg’s Rhetoric as Ontological Concept

143 Antonio Rivera García

Reflexiones sobre el concepto filosófico de absolutismo: retórica y mito en Blumenberg

167 Vida Pavesich

Hans Blumenberg: Philosophical Anthropology, Terror, and the Faces of Absolutism

205

Manlio Della Serra L’irruzione metafisica. La logica della potenza divina nella Matthäuspassion di Hans Blumenberg 

 Index

225 Olivier Feron

Anthropologie et contingence dans la phénoménologie de H. Blumenberg

237

Martina Philippi Ein Spiel mit Selbstverständlichkeit(en). Formal-inhaltliche Übergänge in Blumenbergs philosophischen Miniaturen

263

Emanuela Mazzi I pensieri astronoetici come laboratorio per un’antropologia sperimentale: la riflessione di Hans Blumenberg sull’impresa spaziale

301 Matías González

Contraposiciones y diferencias. Sobre algunas posibilidades en la noción de tensión en el texto blumenberguiano

329

Rafael Benlliure Tébar Creación ontológica y comprensión histórica en Hans Blumenberg y Cornelius Castoriadis. Una lectura aproximativa

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Andrea Borsari Il Simmel antropologo della Beschreibung: una noterella

Saggio introduttivo Decentramento antropologico e neutralizzazione simbolica Diego Giordano A questo punto, impaziente di conoscere la propria origine, Aureliano passò oltre. Allora cominciò il vento, tiepido, incipiente, pieno di voci del passato, di mormorii di gerani antichi, di sospiri di delusioni anteriori alle nostalgie più tenaci. Non se ne accorse perché in quel momento stava scoprendo i primi indizi del suo essere, in un nonno concupiscente che si lasciava trascinare dalla frivolità attraverso un altipiano allucinato, in cerca di una donna bella che non lo avrebbe fatto felice. Aureliano lo riconobbe, incalzò i sentieri occulti della sua discendenza, e trovò l’istante del suo stesso concepimento tra gli scorpioni e le farfalle gialle di un bagno crepuscolare, dove un avventizio saziava la sua lussuria con una donna che gli si dava per ribellione. Gabriel García Márquez, Cent’anni di solitudine

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n Über Wahrheit und Lüge im außermoralischen Sinn (1873) Nietzsche, trattando della funzione emancipativa della verità, definisce l’intelletto umano come quel correlato antropologico che permette la “conservazione dell’individuo” la cui caratteristica peculiare è la simulazione, come mezzo “attraverso cui si conservano gli individui più deboli, meno robusti, visto che a loro è negato di condurre la battaglia per l’esistenza con le corna o con i morsi laceranti degli animali feroci”. Tuttavia l’individuo non vuole solo conservare se stesso di fronte ad altri 9

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individui, in uno stato di cose naturale, ma anche esistere socialmente (“sia per bisogno sia per noia”). A tal motivo egli “stipula un patto di pace e si adopera per cancellare dal suo mondo almeno il più brutale bellum omnium contra omnes”. Questo patto di pace consiste nell’elaborazione di un sistema di metafore uguali per tutti, e cioè di “una connotazione vincolante e uniformemente valida delle cose” che consente di fissare ciò che da allora in poi dovrà essere la verità: “noi crediamo di sapere qualcosa delle cose stesse, quando parliamo di alberi, colori, neve e fiori e tuttavia non disponiamo che di metafore delle cose, che non esprimono in nessun modo le essenze originarie”. In altre parole sia le metafore originarie, anche le più ardite, che il linguaggio canonizzato della verità, connotando esclusivamente le relazioni delle cose con gli uomini, non indicano la verità ma designano soltanto ciò che va tenuto come vero in modo da preservare l’integrità individuale e quella dell’organismo sociale. Per Nietzsche la verità è “un esercito mobile di metafore, metonimie, antropomorfismi, in breve una somma di relazioni umane, che sono state sublimate, tradotte, abbellite poeticamente e retoricamente, e che per lunga consuetudine sembrano a un popolo salde, canoniche e vincolanti”. In quest’ottica tutto ciò che distingue l’uomo dall’animale dipende dalla facoltà dell’uomo di dissolvere le metafore intuitive in uno schema, cioè di risolvere un’immagine in un concetto, e quindi di creare un mondo di leggi regolative e universali. Nella raccolta di “frammenti postumi” (compilazione parziale edita nel 1901 sotto il titolo Der Wille zur Macht), Nietzsche ritorna sulla questione della verità affermando che “la verità è quel genere di errore senza di cui un determinato genere di esseri viventi non potrebbe vivere” visto che a decidere di essa è il valore per la vita e non la sua aderenza alla realtà. Poiché la verità si struttura all’interno di un orizzonte valoriale di riferimento allora porre valori significa determinare il dover essere di tutto il reale. Tale consapevolezza si accompagna per il filosofo tedesco alla svalutazione di quei valori supremi (morale, religione, filosofia)

Saggio introduttivo

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che nell’arco della storia occidentale hanno determinato l’immagine del mondo. La volontà di potenza viene riconosciuta non come una nuova posizione di valori, ma come quel valore supremo in grado di porre valori. La “potenza” che si accompagna alla volontà non è un attributo di quest’ultima ma rappresenta la sua stessa essenza: la volontà come volontà di volontà, come un volere che vuole incessantemente se stesso e il suo potenziamento. Tale volontà non è un volere assoluto e astratto, un “tendere a”, un desiderare il cui fine è quello di colmare una mancanza, ossia un appetitus che resta nell’indeterminatezza. Molto più radicalmente volere significa sempre volere qualcosa di determinato, che esige risolutezza, impulso all’autoaffermazione e autopotenziamento. La dirompente critica di Nietzsche alla storia occidentale, letta come storia del nichilismo, o meglio, come storia di un errore in cui si svela l’essenza errante dell’uomo, conduce alla svalorizzazione dei valori supremi, alla dissoluzione del platonismo, all’annientamento dei fini, alla morte di Dio. La presa di coscienza del nichilismo è dunque quella soglia epocale che apre un “nuovo infinito”, come spazio da riempire di nuovi mutevoli e non assoluti significati, resi disponibili dall’interpretazione, dalle immagini, dal simbolismo: “che non ci sia una verità, che non ci sia una costituzione assoluta delle cose, una ‘cosa in sé’ – ciò stesso è nichilismo, è anzi il nichilismo estremo” (Frammenti postumi 1887-1888). Lo smascheramento del “mondo vero” come “mondo apparente”, transitorio, momentaneo, non è privo di conseguenze. Benché Nietzsche postuli il passaggio all’“oltre-uomo” [Übermensch], prima che tale passaggio possa compiersi all’“avan-uomo” [Untermensch] è affidato il terribile compito di creare nuove condizioni, anch’esse metafisiche (!), che permettano il rovesciamento della struttura rigida del tempo, la liberazione dal passato come autorità e soggezione, la liberazione del simbolico. La presa d’atto dell’illusorietà del mondo destabilizza l’uomo e lo distruggerebbe anche, assieme a tutta la sua storia,

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se non si operasse un decentramento antropologico, cioè se non fosse messo in opera un meccanismo di depotenziamento della ragione e dell’essere. Tuttavia i limiti del nichilismo stanno esattamente nel suo assolversi, e compiersi, esclusivamente in posizioni teoriche critiche. Lo smascheramento produce sì una consapevolezza ma non determina di per sé una trasformazione. Quest’ultima può avvenire solo se l’uomo abbandona la scena del mondo, continuando a lavorare dietro le quinte, spostando la propria Lebenswelt in periferia, preparando la rioccupazione dello spazio mondano lasciato vuoto a beneficio di un ente che non è lui. Se opera nell’erranza, l’intramontabile confine in cui prendere dimora. Questa condizione che, ancora secondo Nietzsche, fa dell’uomo l’animale “più lungamente e profondamente malato tra tutti gli animali malati” (Zur Genealogie der Moral, 1887), lo rende anche l’essere più esposto al pericolo. L’estremo pericolo si manifesta quando l’uomo smaschera se stesso come impostore (impostorem, da impostus = impositus, participio passato di imponere), ossia come quell’essere che si è posto sopra alle altre creature, e dunque che a esse si è imposto, attribuendosi una centralità che di diritto non gli appartiene. Ma la stessa scoperta che causa il decentramento della posizione storicamente occupata dall’uomo nel mondo è conseguenza della sostanziale estraneità dell’uomo al mondo. L’uomo intruso, l’uomo usurpatore, l’uomo sostituto, è l’uomo-altro che deve fare spazio all’altro-sconosciuto.

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n Die Legitimität der Neuzeit (1966) Blumenberg scrive che: “l’autoconservazione è una caratteristica biologica e, nella misura in cui l’uomo entrò sulla scena del mondo come essere imperfettamente equipaggiato ed adattato, fin da principio egli ebbe bisogno dei sussidi, strumenti e procedimenti tecnici per soddisfare le proprie esigenze elementari. Ma, riferito a questa

Saggio introduttivo

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natura dell’uomo, lo strumentario dell’autoconservazione rimase costante per lunghi periodi di tempo ed entro margini di varianti minime. Sembra che, per lunghi tratti della sua storia, l’uomo abbia considerato la propria situazione nel mondo non come una situazione di carenza fondamentale e di miseria fisica”. In questa prospettiva la riflessione di Blumenberg rientra perfettamente negli schemi dell’antropologia filosofica classica. Tuttavia se ne distacca in maniera radicale nella misura in cui esclude la rilevanza dell’inadattamento dell’uomo al mondo come dato originario. Per Blumenberg non è l’oggettività di questa naturale condizione ad aver dettato la forma della relazione dell’uomo nei confronti del mondo, ma essa è stata determinata dall’orizzonte delimitato dalla sua risposta simbolica, dalla sua capacità di offrire un senso alla realtà. L’uomo, che è essenzialmente un essere carente (Mangelwesen), è stato in grado di elaborare delle modalità di relazione con il mondo che nascono dall’esigenza di neutralizzare le proprie carenze per fronteggiare l’assolutismo della realtà, e cioè l’impatto con un mondo nei confronti del quale non si possiedono meccanismi adattivi. La risposta dell’uomo a quest’ordine di cose è stata iperadattiva, e cioè non solo gli ha permesso di rimodellare l’immagine del mondo per colmare i propri limiti strutturali, ma anche di cancellare la percezione della propria inadeguatezza a favore della percezione di una privilegiata posizione di centralità. Quello che secondo Blumenberg è dunque rilevante nelle dinamiche soggiacenti alla configurazione del rapporto dell’uomo con il mondo non è l’oggettiva descrizione o caratterizzazione di tale rapporto, ma la forma in cui l’uomo ha organizzato la propria relazione con il mondo. Ad esempio comprendere la Modernità non è comprende una certa oggettività della relazione dell’uomo con il mondo, come potrebbe essere data dall’aver maturato alcune posizioni teoriche di fondo in continuità con il passato storico (nei confronti della morale, di Dio, dell’arte, delle istituzioni politiche), ma comprendere l’irrompere di una diversa coscienza nel mondo, e cioè la nuova configurazione di senso, variabile e contingente, attivata dall’uomo. E

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ancora, per quanto riguarda l’antropologia rilevante per il discorso filosofico sulla società e la politica, ciò che conta non è tanto la natura umana nella sua predisposizione assoluta al politico, quanto l’epoca in cui la relazione uomo-mondo assume connotati distintivi che vanno a modificare globalmente l’orizzonte di senso in cui l’uomo si trova ad operare. L’epoca del nichilismo produce un decentramento antropologico dovuto al fatto che l’uomo riconosce i propri limiti strutturali, le proprie sostanziali carenze, d’essere quell’ente a cui l’essere fa difetto. Tale riconoscimento non è semplicemente una presa di coscienza nei confronti della quale è possibile porsi come semplici osservatori. Invece essa porta con sé delle conseguenze irreversibili, poiché perdita di centralità significa anche perdita d’identità. L’epoca contemporanea riconosce allora la propria legittimità in questo: che non potendo più l’uomo rientrare nella condizione pre-umana si è prodotto uno slittamento antropologico per cui, in tale riconoscimento, l’uomo va a occupare una posizione di precedenza nei confronti dell’uomo “da venire”. Questa condizione di decentramento viene in parte assorbita e neutralizzata dall’impiego del meccanismo di produzione simbolica. Ma i nuovi simboli non trascinano più con essi solo “parti” di mondo (il linguaggio, la tecnica, la società) della relazione uomo-mondo, ma l’uomo-mondo come ente monolitico, irrelato, autonomo. Il mondo vero diviene favola perché l’uomo stesso è questo mondo.

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li argomenti fin qui trattati costituiscono lo sfondo di pensiero su cui si articola la composita riflessione di Hans Blumenberg sulla modernità, la secolarizzazione, la metaforologia, l’“assolutismo della realtà”, ma anche sulla teoria della letteratura, la filosofia politica e la storia della scienza.

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In questi ultimi anni l’interpretazione del pensiero di Blumenberg ha subito rilevanti trasformazioni. Per esempio la pubblicazione di opere postume come Beschreibung des Menschen (2006), Theorie der Unbegrifflichkeit (2007), Der Mann von Mond (2007), Quellen (2009) o Theorie der Lebenswelt (2010), hanno offerto rinnovate prospettive utili alla comprensione e all’approfondimento della sua antropologia filosofica. Nel frattempo le ricerche condotte sui suoi primi lavori, come la dissertazione dottorale Beiträge zum Problem der Ursprünglichkeit der mittelalterlich-scholastischen Ontologie (1947) o la “Habilitationsschrift” Die ontologische Distanz: eine Untersuchung über die Krisis der Phänomenologie Husserls (1950), ci invitano a riconsiderare il pensiero di Blumenberg dal punto di vista dell’ermeneutica della fatticità di Heidegger e della fenomenologia trascendentale di Husserl. Inoltre la pubblicazione dello scambio epistolare intrattenuto con Carl Schmitt e la recente compilazione di alcuni suoi scritti pubblicati separatamente in giornali e riviste, ci consentono di guardare in maniera più completa all’incidenza e complessità della sua opera filosofica. Scopo del presente volume è quello di offrire, alla luce delle acquisizioni sopra menzionate, nuovi paradigmi d’analisi del pensiero di Hans Blumenberg, trattato qui a partire da una pluralità di punti di vista.

3.1 Alberto Fragio apre il volume con il suo saggio, eponimo della raccolta, intitolato “Das Überleben der Übergänge. Nuevos paradigmas de análisis de la obra de Hans Blumenberg”. La prima parte del saggio, di carattere introduttivo, è una ricognizione dei differenti meccanismi teoretici adoperati da Blumenberg (mutamento, o metacinesi, degli orizzonti storici del significato, concetti di realtà, immagini del mondo e modelli del mondo, soglia epocale) nel suo sforzo di portare alla luce la mutua relazione tra dimensione simbolica e concettuale sulla quale poggiano quelle

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strutture della storia che incardinano, e scardinano, ogni tentativo di “fare filosofia”. Nella seconda parte del lavoro, dopo aver discusso alcune opere di Thomas Kuhn e Anneliese Maier rilevanti per la comprensione delle posizioni di Blumenberg riguardanti le origini della scienza moderna, viene attentamente analizzato il capitolo secondo della prima parte di Höhlenausgänge (1989), ultimo libro pubblicato in vita da Blumenberg. Le nozioni di concetti di realtà [Wirklichkeitsbegriffe] e di soglia [Schwelle]―nel cui schwellen [gonfiarsi] “sono compresi mutamenti, passaggi, maree…” (W. Benjamin: “Übergangsriten”, Passagen-Werk)― vengono connesse a quella di transiti [Übergänge] nel doppio tentativo di offrire una chiave di lettura, anch’essa metaforologica, alla questione della Rezeption delle opere di altri autori, e di fornire al tempo stesso nuovi paradigmi d’analisi delle opere dello stesso Blumenberg. Uno dei concetti storici vitali dell’età moderna, ossia del Moderno che si afferma come “tempo nuovo”, è quello di “interpretazione in atto” (e perciò storica) del suo storicizzarsi (autoaffermazione, autointerpretazione, autoconcezione). Questo elemento di cui la modernità ha costante bisogno per la propria formazione “rende lo stesso concetto di epoca un elemento significativo dell’epoca” (Die Legitimität der Neuzeit, 1966). La nozione blumenberghiana dell’autoconcezione viene assunta nel secondo contributo di questa serie, “Leviatán. Un fragmento gnóstico en la modernidad”, in cui José Luis Villacañas si propone di mostrare come nella coscienza moderna si ritrovino aspetti dello gnosticismo che quella coscienza hanno concorso a problematizzare. Se lo gnosticismo parlava dell’imperfezione di un mondo materiale costruito da un demiurgo incompetente, del mondo sensibile come carcere dell’anima, la modernità, a cui manca qualsiasi forma di trascendenza, ha accettato il mondano come punto di partenza per l’intervento rivoluzionario dell’uomo. La coscienza gnostica della degradazione e corruzione del mondo ha preparato il terreno alla volontà di trasformare il mondo. Cosicché quello gnostico è stato il modello base dell’elaborazione delle “scien-

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ze” esoteriche dell’alchimia e dell’astrologia rinascimentale, del disinteressamento al trascendente, della sostituzione del Dio inconoscibile con un Dio assente e di cui è possibile fare a meno. L’esilio terreno dell’essere umano consegna dunque all’uomo una nuova missione, quella di dominare la terra, di rimpiazzare il paradiso celeste con il paradiso della tecnica, luogo totalmente umano in cui prendere dimora. Nell’iconografia del Leviatano si può cogliere, scrive Villacañas, la testimonianza silenziosa di alcuni “tratti” gnostici presenti nella modernità e rinvenibili nella concezione meccanicistica della realtà di Hobbes. In particolar modo la teoria politica del Leviatano, letta come rioccupazione da parte dello Stato assoluto dello spazio mondano precedentemente destinato a Dio, si presenta come tentativo di critica all’ingerente presenza del Papato e all’umiliante potere che esso detiene sugli esseri umani. Se la conoscenza storica è anch’essa un “fatto storico”, e cioè comprensione già storica della storia, in essa è impossibile rilevare punti di cesura tra presente e passato. Cioè, pur potendo scansionare la storia in giorni, anni, secoli, è necessario riconoscerla come un flusso senza soluzione di continuità. D’altro canto, si potrebbe obiettare, l’atteggiamento che mira a interpretare o rileggere il passato storico attraverso categorie che a quel passato non appartengono―e questa è una caratteristica peculiare della modernità che si propone di intervenire nel mondo e di prepararne la trasformazione (anche in senso retroattivo)―crea nella coscienza storica dell’uomo una frattura non più sanabile. Lo storico potrebbe tuttavia ancora trovare un compromesso al suo naturale coinvolgimento nella storia che racconta rifiutando criteri di lettura che muovono à rebours, dal presente “storicizzante” verso il passato “storicizzato”, e guardando il presente come un prolungamento del passato. Ponendosi in ascolto del presente è dunque possibile cogliere le risonanze del tempo, avvertendo il presente come sostanziale continuazione del passato. La continuità del processo storico non è però data dalla sopravvivenza di contenuti ideali da un’epoca a quelle successive, ma dalla capacità di dare risposte a problemi

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che, colti come bisogni e aspettative nei confronti del senso del mondo, vengono lasciati in eredità da un’epoca all’altra. In tal senso la modernità non si “secolarizza” per semplice opposizione all’assolutismo teologico medievale, come versione secolarizzata della Heilsgeschichte, e nemmeno per mero superamento della gnosi cristiana, ma impone l’originalità e l’autonomia delle opzioni teoriche e pratiche che sviluppa, rivendica una sua libertà creativa e infine legittima la propria dignità teoretica.

3.2 Blumenberg attribuisce al pensiero e agli eventi umani delle caratteristiche metaforiche paradigmatiche e ricorsive che sono il filo rosso sotteso a tutta la tradizione occidentale, o meglio il modo attraverso cui l’uomo ha cercato di raccontare il proprio rapporto con la realtà (cf. Paradigmen zu einer Metaphorologie, 1960). La metafora è però solo uno strumento d’indagine di quelle strutture che rappresentano le componenti essenzialmente retoriche dell’agire umano. Di fatto l’attitudine retorica trascina con sé una significanza fondamentalmente antropologica (“Anthropologische Annäherung an die Aktualität der Rhetorik”, 1971) che si aggancia ai mutamenti assiologici e prospettici della riflessione sulla realtà e alle variazioni di concetti fondamentali quali quelli di “natura” o di “tecnica”. In questa direzione si muove il saggio di César González Cantón, “Absolutism: Blumenberg’s Rhetoric as Ontological Concept”, che mira a mostrare in maniera dettagliata il contributo che Blumenberg ha dato al riesame della nozione di retorica. La discussione dei risultati raggiunti dall’antropologia filosofica tedesca del xx secolo e l’analisi delle posizioni critiche di Platone, Aristotele e dei sofisti, permettono al filosofo tedesco di reinterpretare l’ontologia in termini antropologici e di prospettare una differente lettura del pensiero retorico, che valga parallelamente come correttivo dell’approccio heideggeriano. Si tratta di una versione “ontologizzata” del pensiero retorico che gravita intorno a due aspetti basilari della temporalità umana: la

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necessità di ritardare l’incontro con la realtà, che ha i connotati di una versione secolarizzata del katéchon paolino, e l’insufficienza del tempo, vale a dire la condizione esistenziale per la quale non sia ha mai abbastanza tempo. Va da sé che anche queste modalità interpretative del tempo sono funzionali all’elaborazione delle metafore assolute, cioè di quei codici interpretativi che regolano e dirigono il nostro giudizio sulle cose. In “Reflexiones sobre el concepto filosófico de absolutismo: retórica y mito en Blumenberg” Antonio Rivera García ritorna a discutere le nozioni di mito e retorica considerate alla stregua di utili strumenti d’indagine adoperabili dalla filosofia sia per l’elaborazione di uno spettro di lettura applicabile a idee politiche preminenti nell’epoca moderna (sovranità, assolutismo, onnipotenza) sia per rintracciare le affinità sussistenti tra assolutismo filosofico (della realtà, della scienza o della teologia) e pensiero politico nelle sue diverse incarnazioni mondane, dall’antica autocrazia alle moderne forme di teologia politica. L’approccio retorico, e quindi antropologico, alle questioni politiche, ideologiche e sociali, viene ulteriormente preso in esame nel saggio “Hans Blumenberg: Philosophical Anthropology, Terror, and the Faces of Absolutism” di Vida Pavesich. In esso l’autrice esplora le dinamiche soggiacenti alle pratiche di coercizione, intimidazione, violenza simbolica e terrore, non considerate tanto dal punto di vista della loro attuazione materiale, quanto come operazioni che influenzano e dirigono la disposizione psicologica e ontologica dell’essere umano all’agire, predeterminando le condizioni e i limiti applicativi della sua prassi nel mondo moderno secolarizzato (cf. Säkularisierung und Selbstbehauptung, 1974). Compito del pensiero retorico è quello di gettare luce su questi meccanismi umani che non sono espressione né di un comportamento infondato né di una rinuncia generalizzata ai fondamenti, ma che sono costruiti su quello che per Blumenberg è l’assioma (Haupsatz) di ogni retorica: il principio di ragion insufficiente (principium rationis insufficientis) come correlato antropologico di quella creatura, l’uomo, che è essen-

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zialmente un essere carente, manchevole, limitato, privo di essenza definita (“Anthropologische Annäherung an die Aktualität der Rhetorik”). I temi fin qui esposti, della storia, dell’assolutismo, del mito, vengono ulteriormente arricchiti dalle riflessioni su peccato, colpa e sofferenza, che Blumenberg compie a partire da un’originale lettura della Matthäuspassion di J.S. Bach, di cui si occupa il sesto contributo di questa serie: “L’irruzione metafisica. La logica della potenza divina nella Matthäuspassion di Hans Blumenberg”. In esso Manlio Della Serra si fa strada nella questione relativa all’origine del peccato non limitando la riflessione agli orizzonti ristretti e condizionati della responsabilità individuale ma seguendo il naturale avanzamento della colpa adamitica che, dilagando incontenibilmente nel mondo, mette in evidenza una situazione/condizione cosmica del peccato che precede l’esistenza dei singoli. Si tratta della colpa tragica (amartia) che costruisce il proprio senso (Sinnbildung) nel mondo cristiano espandendosi al peccato originale come fondamento di ogni atto umano, e cioè non solo di ogni atto di cui l’individuo è responsabile, ma anche di ogni atto mancato, omesso, non voluto, di cui il singolo non è autore ma di cui patisce gli effetti. La Passione secondo Matteo di Bach si rapporta ai Vangeli come ennesima lettura e, nella forza ermeneutica di tale lettura, come modificazione che viene assorbita dallo stesso mito evangelico della Passione. L’episodio della sofferenza e morte di Cristo volge così a nuove determinazioni che, lontano dall’avere lo statuto di storiche, rispecchiano il funzionamento e lo sviluppo metaforico del pensiero. Questa concezione del mito acquista il suo senso―mai compiuto―per elaborazioni successive, facendo ruotare la propria forza esemplificativa sulla ricezione (cioè sulla lettura) del racconto mitico. Parte integrante dell’elaborazione del mito non è soltanto l’interpretazione letteraria o allegorica che di questo se n’è fatta, bensì anche le successive letture di quella lettura, le quali, pur procedendo per stratificazioni successive, preservano l’originario nucleo di significato.

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L’applicazione di una metodologia interpretativa e d’indagine che sia al tempo stesso originale e critica si colloca nel più ampio progetto di sviluppo di un’antropologia su basi fenomenologiche. Partendo da presupposti descrittivi elementari il metodo di Blumenberg cerca di farsi fenomenologico nella misura in cui presuppone la possibilità di una fenomenologia della storia correlata a un descrittivismo eidetico. L’oggetto di un tale metodo― scrive Olivier Feron nel suo saggio su “Anthropologie et contingence dans la phénoménologie de H. Blumenberg”―sono quelle realtà storiche fondamentali che nel linguaggio di Husserl potrebbero essere designate con il termine plurale di Lebenswelten, e che in Blumenberg preparano la strada al concetto di realtà [Wirklichkeitsbegriff], cioè a un concetto che si sottrae a qualsiasi definizione e autoevidenza e che implica che l’esperienza che il pensiero fa di se stesso nel proprio rapporto con il mondo venga radicalmente colta nella sua essenza originaria, non condizionata da fattori esterni o da una necessità ontologica. A supporto di tale concetto ritorna il principio di ragion insufficiente che, come già notato, è per Blumenberg il correlato antropologico di un essere a cui l’essere fa difetto (Er ist der Korrelat der Anthropologie eines Wesen, dem Wesentliches mangelt). La definizione di uomo come Mangelwesen è dunque fondata sul riconoscimento che l’uomo è un essere contingente, non necessario, la cui esistenza non è eo ipso “sufficiente”, ma al limite non-impossibile. Metaforologia e teorie del “mondo della vita” sono da Blumenberg esaminate in maniera approfondita in grandi opere monografiche come Arbeit am Mythos (1979), Lebenszeit und Weltzeit (1986) e Höhlenausgänge (1989). Nel suo studio, “Ein Spiel mit Selbstverständlichkeit(en). Formal-inhaltliche Übergänge in Blumenbergs philosophischen Miniaturen”, Martina Philippi cerca di mostrare come anche in piccoli lavori quali “Realität ist das Selbe und doch nie Gleiche, zu dem man zurückkommt” (in Begriffe in Geschichten, 1998) oppure “Das Dilemma der Selbstverständlichkeit” (in Zu den Sachen und zurück, Nachlaß, 2002) sia possibile ritrovare una grande quantità

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di elementi, osservazioni, riferimenti testuali e intuizioni che non solo contribuiscono a illuminare i percorsi di ricerca battuti da Blumenberg nelle opere di più ampio respiro ma che si presentano, pur nella loro brevità, come formulazioni teoretiche ben definite e significativamente autonome. Segno, quest’ultimo, della forza cinetica che ha sempre animato il pensiero del filosofo di Lubecca.

3.3 Gli ultimi quattro contributi della serie agganciano la riflessione di Blumenberg da prospettive che sono periferiche rispetto ai più noti plessi tematici trattati dal nostro autore ma che, appunto per questo, risultano utili all’elaborazione di nuovi paradigmi d’analisi. Così, nel suo saggio su “I pensieri astronoetici come laboratorio per un’antropologia sperimentale: la riflessione di Hans Blumenberg sull’impresa spaziale”, Emanuela Mazzi ci parla di un tema assai particolare come quello del viaggio spaziale e della dimensione dell’universo, oggetto supremo con cui l’uomo misura le proprie capacità conoscitive e speculative. Questo tema, a cui Blumenberg ha dedicato numerose pagine (raccolte nell’opera postuma Die Vollzähligkeit der Sterne, 1997), offre nuovi angoli d’osservazione alle analisi sulla condizione dell’uomo. Il relazionarsi al mondo, e il prendere posizione in esso, determinano non solo il compito terrestre dell’uomo ma anche la sua differenza rispetto ad altre forme di vita. Da un punto di vista antropologico/biologico la statura eretta e l’ottica frontale sono indici sia della naturale proiezione dell’uomo oltre i limiti spaziali, che della sua protensione oltre quelli temporali. Tuttavia l’impresa spaziale diviene un emblematico laboratorio di ricerca per un’antropologia sperimentale che, mettendo in evidenza aspetti e caratteri originari della condizione umana, permette di sottolineare non tanto l’apertura dell’uomo verso l’esterno e l’estraneo quanto piuttosto il suo legame con la terra e con ciò che gli è più prossimo.

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Le congruenze spazio-temporali vengono nuovamente affrontate in “Contraposiciones y diferencias. Sobre algunas posibilidades en la noción de tensión en el texto blumenberguiano”, testo in cui Matías González delimita uno spazio problematico raramente trattato dalla letteratura secondaria, e cioè l’interconnessione tra alcune idee di Blumenberg, innanzitutto quelle legate al problema delle differenti nozioni di temporalità nell’unità dell’appercezione, e le istanze post-strutturaliste che attraversano i suoi testi e che si riferiscono alla questione dell’unità delle forme simboliche, della loro trasformazione e della loro collocazione nelle strutture di tempo. Secondo l’autore nelle opere di Blumenberg, per esempio nei già citati Paradigmen zu einer Metaphorologie e Höhlenausgänge, viene spesso affrontato il problema del cambiamento degli stati della coscienza, cioè del passaggio da un orizzonte di riferimento all’altro (caverne, boschi, altre realtà nelle quali ci troviamo immersi). Idee, concetti, immagini, non soltanto si trasformano nel passaggio da un “luogo” all’altro, ma sono anche determinate dal background all’interno del quale si dispiegano, come unità di significato di volta in volta differenti e con caratteristiche del tutto peculiari. Non solo nei contesti simbolici bensì anche in quelli modali e relazionali umani si fa pressante l’esigenza di una diversa ontologia, di un’ontologia storico-sociale non regolata dal determinismo storico e materialistico ma che tenga conto della discontinuità radicale dei mutamenti sociali. Quest’ultimi non possono essere compresi né in termini di determinismo causalistico, che servirebbe solo a immunizzare il soggetto dalla sua stessa soggettività, né in termini di modelli teorici sociali e politici precostituiti, che soffocherebbero le possibilità di emancipazione e autonomia a favore di un’eteronomia poco o per nulla lucida e consapevole. Questi temi vengono presi in considerazione da Rafael Benlliure Tébar nel suo saggio intitolato “Creación ontológica y comprensión histórica en Hans Blumenberg y Cornelius Castoriadis. Una lectura aproximativa”, che è un’originale lettura comparata delle mutue “interferenze” identificabili nelle traiettorie intellettuali

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disegnate da Blumenberg e Castoriadis. Se, come abbiamo visto, per Blumenberg i passaggi, siano essi storici o metaforici, implicano un mutamento e rinnovamento di scenario da cui è impossibile prescindere, per Castoriadis i mutamenti possono essere colti solo tenendo conto dell’immaginario storico-sociale (cioè riferito a istituzioni, leggi, tradizioni, credenze e costumi presenti in una società), e dunque del clima culturale e filosofico che “legittima” la presenza e l’emergenza delle significazioni sociali all’interno dell’immaginario dominante. Chiude la raccolta la suggestiva “noterella” di Andrea Borsari su “Il Simmel antropologo della Beschreibung”, dove con condotta filologica è brevemente messo in luce il ruolo giocato dal sociologo tedesco, a cui Blumenberg fa vestire gli inediti panni dell’antropologo, nell’elaborazione antropologica presente nell’opera postuma Beschreibung des Menschen (2006). In particolar modo viene discussa la nozione di “consolazione” come categoria della socialità umana, anch’essa strutturante le significazioni sociali, che esige la partecipazione degli altri per la con-divisione di sofferenze e dolori che, in ogni caso, eccedono qualsiasi tentativo che voglia normalizzarli, giustificarli e renderli così superabili. In altre parole il connotato antropologico della consolazione non mette tanto in luce la capacità umana di anestetizzare il dolore, quanto la stessa impossibilità di annullare o anche ridimensionare la straripante quantità di dolore che naturalmente l’uomo è destinato a sopportare. Per contro questi meccanismi procurano a quell’essere che si vuole carente (Mangelwesen) un’eccedenza di sensibilità dell’immaginario che permette di trattare l’assente come presente.

Saggio introduttivo

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* * *

È

mio imperativo dovere e desiderio ringraziare qui tutti coloro che hanno contribuito alla “possibile” riuscita di questo libro, da coloro che lo hanno scritto a coloro che leggendolo lo ridesteranno all’esistenza. Tuttavia nemmeno questa tensione tra potenziale e reale si sarebbe data se non ci fosse stata la preziosa collaborazione di Alberto Fragio (co-curatore del volume), le opportune suggestioni di Laura Basile, l’interessamento e la disponibilità di Madame Bettina Blumenberg, e il permesso del Deutsches Literaturarchiv di Marbach a che fosse ampiamente citato il Nachlaß di Hans Blumenberg.

Alberto Fragio

Das Überleben der Übergänge Nuevos paradigmas de análisis de la obra de Hans Blumenberg Su capacidad de admiración hacia la naturaleza es limitada, querido señor Blumenberg. Por lo menos para la terrestre. Las estrellas permanecen intactas… … la astronomía ha recorrido el camino de la decepción mucho antes y mucho más lejos que la fisiología. […] Usted sabe tan bien como yo, señor Ritter, que admiro al hombre. Lo único que no admiro es su propensión a los trastornos. Hans Blumenberg, “Kreislauf”, Begriffe in Geschichten. El ramapiteco o quienquiera que estuviese en el arranque de la rama de los homínidos, del Homo habilis y el Homo erectus, la que hace unos doce millones de años tuvo que salir a la sabana desde la menguante selva lluviosa y sus claros colindantes, cruzó un umbral como el que hay entre el mar y la tierra. Hans Blumenberg, “Das Überleben der Übergänge”, Höhlenausgänge.

  Este trabajo ha sido posible gracias a una beca de perfeccionamiento trianual de la Fondazione Collegio San Carlo di Modena (Italia) y del proyecto de investigación “Epistemología histórica: comunidades y estilos emocionales en los siglos XIX y XX” (FFI2010-20876), financiado por el Ministerio de Ciencia e Innovación español. Quiero expresar mi agradecimiento a Francisco Jarauta y Javier Moscoso por su apoyo durante estos últimos años; a Diego Cucalón, Andrea Borsari, Chus Fernández, Abelardo Gil-Fournier, César González Cantón, Tania Jiménez y José Luis Villacañas por sus ánimos, sus críticas y su amistad. He contraído además una gran deuda con Dorit Krusche y Marcel Lepper, que tan gentilmente me acogieron en el Deutsches Literaturarchiv Marbach (DLA), y que con tanta generosidad pusieron a mi disposición su saber y su tiempo siempre que recurrí a ellos. Quiero agradecer de manera especial a Bettina Blumenberg su amabilidad y el que tuviera a bien autorizar la publicación de las citas del Nachlaβ de su padre recogidas en el presente ensayo; así como a Diego Giordano, por las fatigas compartidas en las tareas de coedición.    Hans Blumenberg, Begriffe in Geschichten, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1998, p. 107. Trad. esp. de César G. Cantón, “Circulación”, Conceptos en historias, Editorial Síntesis, Madrid, 2003, p. 58.    Hans Blumenberg, Höhlenausgänge [1989], Suhrkamp Verlag, Frankfurt 

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1. Acabar con la secularización

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uando Herzog y Koselleck quisieron homenajear a Blumenberg en junio de 1982, no organizaron un coloquio sobre la Modernidad y la problemática de la secularización, sino sobre los umbrales de época y el cambio de paradigma. Desde septiembre de 1977 Koselleck sabía que Blumenberg estaba “sencillamente harto” [“einfach satt”] de aquellos asuntos. Se lo había hecho saber el propio Blumenberg en una carta no demasiado amable en la que declinaba su invitación a participar en un coloquio sobre su obra [“Autorenkolloquium”] en el Zemtrum für Interdisziplinäre Forschung de Bielefeld, del que a la sazón Koselleck desempeñaba el cargo de Director. Poco parecía importarle a Blumenberg el que Jakobson y Gadamer hubieran aceptado con anterioridad sendas invitaciones. Con cierta acritud, en esa carta le llamaba la atención a su amigo sobre la circunstancia de que por más que algunos hubiesen leído hace poco, y quizá con agrado, sus libros, para él eran trabajos “muertos y olvidados” [“tot und vergessen”] pues sólo le interesaba lo que había de escribir “hoy, mañana o pasado mañana” [“was ich heute schreibe und morgen oder übermorgen”], y no lo que había escrito hace mucho o poco tiempo. Koselleck no am Main, 1996 p. 25. Trad. esp. de José Luis Arántegui, “Supervivencia de los tránsitos”, Salidas de caverna, Antonio Machado Libros, Madrid, 2004, p. 27.    Carta de Reinhart Herzog y Reinhart Koselleck a los miembros del grupo de investigación Poetik und Hermeneutik, con fecha junio de 1982 (DLA Marbach). En sentido estricto, o al menos de manera oficial, no era un homenaje a Blumenberg, si bien claramente constituía la principal fuente de inspiración de este coloquio y un reconocimiento tardío por la enorme contribución de Blumenberg tanto a la creación como a la consolidación del grupo Poetik und Hermeneutik, del que por entonces ya había dejado de formar parte. Véase adicionalmente el anteproyecto de este coloquio elaborado por Herzog y Koselleck “Projektskizze zur Poetik und Hermeutik XII”, con fecha 11.6.1982 (DLA Marbach).    Carta de Blumenberg a Koselleck con fecha 2.9.1977 (DLA Marbach).    Carta de Koselleck a Blumenberg con fecha 25.8.1977 (DLA Marbach).    Carta de Blumenberg a Koselleck con fecha 2.9.1977 (DLA Marbach).

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se lo tomó a mal, pero para el citado coloquio XII de Poetik und Hermeneutik prefirió proponer el tema Epochenschwelle und Epochenbewußtsein. Así las cosas, no nos debería extrañar que Blumenberg declinase también la invitación de Enrico Castelli a participar en el congreso internacional de Roma sobre la “hermenéutica de la secularización”; ni tampoco que diese la callada por respuesta a una tardía invitación de Paul Ricoeur –quien por cierto sí participó en ese congreso–10 a colaborar en un número especial sobre “la problemática general de la secularización” en la Revue de Métaphysique et de Morale.11 Desde luego Koselleck –así como otros miembros del grupo de investigación Poetik und Hermeneutik– conocía mucho mejor a Blumenberg y sus inquietudes del momento.12 Algunos de los principales interloDesde luego está en consonancia con la respuesta que Blumenberg dio a la pregunta “¿cuál es su ocupación favorita?” del Fragebogen publicado en el Frankfurter Allgemeine Magazin el 4.6.1982: “Pensar en el libro que nunca escribiré”. Véase adicionalmente César G. Cantón, La metaforología de Blumenberg como destino de la analítica existencial, Tesis doctoral, Universidad Complutense de Madrid, 2004, nota 961, p. 336.    El coloquio se celebró entre el 26 y el 30 de septiembre de 1983, y sus contribuciones fueron recogidas en Reinhart Herzog y Reinhart Koselleck (eds.), Epochenschwelle und Epochenbewußtsein (Poetik und Hermeneutik; n.º 12) Fink, München, 1987.    Carta de Blumenberg a Koselleck con fecha 2.9.1977 (DLA Marbach). Las ponencias, que quizá ahora se nos podrían antojar un tanto distraídas y en cierto modo incluso ociosas, fueron publicadas en el número especial “Ermeneutica della secolarizzazione” del Archivio di filosofia, n.º 2-3, Roma / Padova, 1976. Marco M. Olivetti fue el único que hizo una amplia referencia a Blumenberg en su “Il problema della secolarizzazione inesauribile”, véanse en especial las pp. 79-85. 10   Paul Ricoeur, “L’herméneutique de la sécularisation”, Archivio di filosofia, ob. cit., pp. 49-68. 11   Carta de Paul Ricoeur a Blumenberg con fecha 10.3.1990 (DLA Marbach). 12   Cabe, por cierto, dudar seriamente del socorrido topos de la “querelle” de la secularización. Blumenberg mantuvo contacto epistolar regular con algunos de los autores implicados en la presunta polémica –como Löwith, Gadamer, Schmitt o incluso Arendt– mucho antes (e incluso durante mucho

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cutores de Blumenberg –como Hans Robert Jauβ [1921-1997], Joachim Ritter [1903-1974], Wolfgang Iser [1926-2007] o el propio Koselleck [1923-2006]– eran perfectamente conscientes que desde mucho antes de la publicación de Die Legitimität der Neuzeit Blumenberg venía afanándose en encontrar las “estructuras de la historia” [“Strukturen der Geschichte”], y que además creía haberlas hallado en su teoría de los umbrales de época [“Epochenschwellen”] y de la reocupación [“Umbesetzung”].

2. Las estructuras de la historia y de la ciencia

E

l famoso trabajo de Thomas S. Kuhn The Structure of Scientific Revolutions [1962], en particular la noción de “cambio de paradigma” [“paradigm shift”], ofrecía a Blumenberg una contraimagen a su propia teoría del cambio de época. De ello estaban bien enterados Reinhart Herzog y Reinhart Koselleck, y en la carta que enviaron a sus colegas proponiendo el citado coloquio XII no dejaron de mencionar como una de tiempo después) de la publicación de Die Legitimität der Neuzeit. A ello se suma la costumbre de Blumenberg –que prácticamente conservó durante toda su vida– de enviar ejemplares de sus libros y artículos a amigos y colegas. En este sentido Die Legitimität der Neuzeit no fue la excepción, que en muchos casos, como el de Löwith o el de Schmitt, fue recibido además con enorme interés. La apertura del Nachlaβ de Blumenberg también ha arruinado en parte otro topos muy socorrido: el de la dualidad entre invisibilidad y legibilidad. En su lugar ha vuelto acuciante una reflexión sobre las condiciones de recepción del Nachlaβ blumenberguiano, que es casi tanto como decir de la problemática de una hermenéutica de la fragmentariedad. Por más irónico que pueda resultar, no sólo se ha vuelto perfectamente visible una porción considerable de la vida de Blumenberg, como por ejemplo sus viajes a Italia o a Egipto, por citar nada más que un par de casos, sino que también se han hecho visibles las otras vidas que Blumenberg pudo haber llevado y no llevó: su puesto de profesor visitante en Nueva York, su encuentro con Marcuse en California, su debate con Foucault en Hamburgo, su incorporación a Tübingen, etc. Paradójicamente su Nachlaβ lo ha vuelto demasiado visible, hasta el punto de ser viable una historia contrafáctica de su vida y obra.

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las “Stichworten”13 del encuentro la de “cambio de paradigma” [“Paradigmenwechsel”].14 De hecho es por Koselleck que tenemos noticia del rechazo de Blumenberg –en 1970– de un puesto de profesor de teoría e historia de la ciencia en la Universidad de Bielefeld,15 por otro de filosofía en la Universidad de Münster.16 Ignoramos las razones últimas de esta decisión y si acaso la presencia de Joachim Ritter en esta última Universidad –primero como profesor y luego como Rector– tuvieron algo que ver en la elección de Blumenberg. Sin embargo, lo cierto es que con ella daba una drástica respuesta a la duda que una vez le asaltó sobre si acaso habría de ser definitivamente clasificado como historiador de la ciencia.17   Resulta difícil determinar si uno de los artículos inéditos sobre Kuhn de Blumenberg, de apenas una página, que lleva el malicioso título “Stichwortwechsel” [“Cambio de palabras clave”] (DLA Marbach), fue inspirado por la citada carta que Reinhart Herzog y Reinhart Koselleck enviaron en junio de 1982 a los miembros del grupo de investigación Poetik und Hermeneutik (DLA Marbach) proponiéndoles el coloquio XII, y de la que Blumenberg tenía conocimiento. 14   Carta de Reinhart Herzog y Reinhart Koselleck, ibid. 15   Véase Reinhart Koselleck “Protokoll der sechsten Sitzung der Fachbereichskommission für Geschichtswissenschaft an der Universität Bielefeld”, con fecha 27.6.1970, punto II e., y la carta de Blumenberg a Koselleck con fecha 19.4.1973 (DLA Marbach). De este documento se desprende que,en caso de haber aceptado el puesto, Blumenberg habría enseñado teoría e historia de la ciencia en la recién creada Facultad de Historia en la Universidad de Bielefeld. Por Taubes, en cambio, podemos conjeturar que durante un tiempo Blumenberg estuvo pensando en la posibilidad de solicitar un puesto de profesor en la Freie Universität de Berlin. En una de las carpetas en las que se guardaban las cartas que Taubes envió a Blumenberg entre 1968 y 1981, se conserva también un recorte de la Freie Universität –con fecha manuscrita del 1.7.1969 (DLA Marbach)– en el que se anunciaba una vacante de profesor especialista en teoría de la ciencia, en teoría de las ciencias naturales y en filosofía moderna del lenguaje. 16   Resulta plausible que a raíz de su incorporación a la Universidad de Münster, Blumenberg trabara por primera vez relación y amistad con el filósofo español Fernando Inciarte [1929-2000], por entonces profesor en esa misma Universidad. Véase la correspondencia entre ambos que se conserva en el DLA Marbach. 17   Carta de Blumenberg a Gadamer con fecha 15.12.1964 (DLA Marbach): 13

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En una carta de Blumenberg con fecha 19 de septiembre de 1973, le comunicaba a Jauβ que desde hacía ya bastantes años venía habitando las “llanuras de la historia de la ciencia” y que desde allí contemplaba las seductoras “cimas de la abstracción”.18 Tampoco nos deberían extrañar entonces las ocasionales ascensiones teóricas que podemos constatar a lo largo y ancho de la obra de Blumenberg, y que con no poca frecuencia se orientan a tematizar precisamente las estructuras de la historia, sea por medio del estudio de los conceptos, de las metáforas o del mito. Ya en su tesis doctoral de 1947, las Beiträge zum Problem der Ursprünglichkeit der mittelalterlich-scholastischen Ontologie, encontramos la primera tentativa blumenberguiana de establecer una teoría de la historia –en contraposición a la Seinsgeschichte heideggeriana– a través del análisis de un numerus clausus de cuestiones fundamentales que presuntamente habrían permanecido invariables a lo largo del tiempo: “[…] en el fondo de la conciencia de la realidad histórico-fáctica” se puede identificar “una excepcional unidad y continuidad de las preguntas fundamentales […] que la historia de la filosofía ha mantenido desde sus inicios hasta hoy a través de todas las metakinesis de su horizonte”.19 Era éste un planteamiento inspirado sin duda por “meine definitive Klassifikation als Wissenschaftshistoriker”. Esta duda venía suscitada por la compilación de los primeros artículos de Blumenberg sobre astronomía copernicana en Die kopernikanische Wende (Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1965). Blumenberg se temía que esta publicación, su segundo libro tras los Paradigmen zu einer Metaphorologie [1960], fuese interpretado como su consagración definitiva como historiador de la ciencia. 18   Carta de Blumenberg a Jauβ con fecha 19.9.1973 (DLA Marbach): “Ich bin ja seit Jahren in die schlichten Gefilde der Wissenschaftsgeschichte zu meinen Copernicana zurückgekehrt (Umfang fast zwei “Legitimitäten der Neuzeit”) und sehe von dort aus die Gipfel der Abstraktionen nicht nur als verlockend zum Aufstieg an”. Conviene recordar que esta declaración de Blumenberg está hecha dos años antes de la publicación de Die Genesis der kopernikanischen Welt (Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1975). 19   Hans Blumenberg, Beiträge zum Problem der Ursprünglichkeit der mittelalterlich-scholastischen Ontologie, Tesis doctoral, Christian-AlbrechtsUniversität zu Kiel, 1947, p. 9: “[…] dass vor dem Hintergrund des faktisch-geschichtlichen Wirklichkeitsbewusstseins eine so einzigartige Einheit

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las enseñanzas recibidas de Ludwig Landgrebe [1902-1991] en la Universidad de Kiel, y que vuelve a reaparecer, con modificaciones, en el trabajo de habilitación de Blumenberg de 1950 Die ontologische Distanz. Eine Untersuchung über die Krisis der Phänomenologie Husserls, en esta ocasión bajo la formulación abiertamente fenomenológica de “las metacinéticas históricas de los horizontes de sentido” [“Metakinesen des geschichtlichen Sinnhorizontes”].20 Dicha formulación andando el tiempo und Kontinuität der fundamentelen Fragen sich bilden konnte, wie sie die Geschichte der Philosophie von ihren Anfängen bis auf den heutigen Tag durch alle Metakinesen ihrer Horizonte durchgehalten hat”. 20   Hans Blumenberg, Die ontologische Distanz. Eine Untersuchung über die Krisis der Phänomenologie Husserls, Trabajo de habilitación inédito, Christian-Albrechts-Universität zu Kiel, 1950, p. 104. Die ontologische Distanz es un trabajo con una larga protohistoria –marcada por su condición de inédito– y una más bien reciente historia. En el Nachlaβ de Blumenberg figuran dos carpetas con distintas versiones de esta obra. La versión más antigua, incluida en la primera carpeta, corresponde al período mayo de 1948 / abril de 1949 y lleva como título Das Distanzproblem des Philosophierens. Éste es el primer borrador mecanografiado de lo que después será Die ontologische Distanz, al que Blumenberg practicó numerosas enmiendas y ampliaciones. En la segunda carpeta se incluyen otras dos versiones. La primera, de carácter fragmentario, está fechada en 1949 y lleva como título Die ontologische Distanz, y como subtítulo Eine Untersuchung über die Strenge der Philosophie. Esta versión coincide con ulteriores redacciones, a excepción de la introducción y del apartado IV, cuyos contenidos varían sustancialmente, y que Blumenberg acabó por descartar. De la segunda versión incluida en dicha carpeta, se conservan dos ejemplares. El primero de ellos es una copia de seguridad [“Sicherheitskopien”] del original mecanografiado y encuadernado expuesto en el Literaturmuseum der Moderne de Marbach. El segundo ejemplar es una réplica original mecanografiada y encuadernada, fechada en 1950 en Kiel. Ambos ejemplares son idénticos y llevan como título Die ontologische Distanz, pero como subtítulo Eine Untersuchung zur Krisis der philosophischen Grundlagen der Neuzeit. La versión ulterior y definitiva de Die ontologische Distanz, con fecha 28 de junio de 1950 –la que comúnmente se suele citar y a la que nosotros nos referimos– está depositada en la Universitätsbibliothek Kiel, y su título completo es Die ontologische Distanz. Eine Untersuchung über die Krisis der Phänomenologie Husserls. Agradezco a Sabrina Juhst y Frauke Michels-Grohmann, además de su amabilidad y excelente disposición, el que me ayudaran a confirmar este último extremo. A todas luces esta versión es la que Blumenberg habría presentado en la Christian-Albrechts-Universität zu Kiel para obtener la habilitación.

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le servirá a Blumenberg como marco teórico general para sus primeros trabajos en historia conceptual, y sobre todo para su metaforología temprana, la desarrollada en los Paradigmen zu einer Metaphorologie [1960].21

3. Rothacker, la Academia de Mainz y la historia de la realidad

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stas primeras tentativas de elaborar una teoría de las estructuras de la historia pronto serán reemplazadas por la nueva propuesta blumenberguiana del “concepto de realidad” [“Wirklichkeitsbegriff”]. Esta última noción, claramente contrapuesta –de nuevo– a la historia heideggeriana del ser,22 resulta a todas luces deudora de la Begriffsgeschichte promovida por Erich Rothacker [1888-1965] –en colaboración con Hans-Georg Gadamer [1900-2002] y Joachim Ritter [1903-1974], entre otros– en el ámbito de la revista Archiv für Begriffsgeschichte, y bajo los auspicios de la Akademie der Wissenschaften und der Literatur zu Mainz. Dicho de otro modo: la nueva propuesta teórica de Blumenberg de la década de los 60 y 70 está fuertemente marcada por su adscripción a la Akademie, primero en calidad de miembro correspondiente –desde el 29 de julio de 1960–,23 cuando aún era   Hans Blumenberg, Paradigmen zu einer Metaphorologie [1960], Frankfurt am Main, Suhrkamp Verlag, 1998, pp. 13 y 50. Trad. esp. de Jorge Pérez de Tudela Velasco, Paradigmas para una metaforología, Madrid, Trotta, 2003, pp. 47 y 92. Aquí se refiere a la “metacinética de los horizontes históricos de sentido” [“die Metakinetik geschichtlicher Sinnhorizonte”], a la “captación de estructuras históricas epocales” [“epochaler geschichtlicher Strukturen ankommt”] y al “horizonte de sentido de […] época” [“Sinnhorizont ihrer Zeit”]. 22   César G. Cantón, La metaforología de Blumenberg como destino de la analítica existencial, Tesis doctoral, Universidad Complutense de Madrid, 2004, pp. 56 y ss. Véase también Alberto Fragio, “La ontología cosmológica en la obra temprana de Hans Blumenberg: las Beiträge y Die ontologische Distanz”, Res publica, Murcia (de próxima aparición). 23   Helmuth Scheel, Secretario General de la Academia de Mainz, le in21

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profesor extraordinario en la Universidad de Hamburgo, y luego como miembro ordinario –desde el 28 de octubre de 1963–,24 ya por entonces profesor ordinario en la Universidad de Gieβen.25 Resulta difícil, no obstante, fechar y caracterizar las relaciones intelectuales que Blumenberg mantuvo con Rothacker, aunque parece se remontan al periodo de Kiel26 –cuando Blumenberg aún era estudiante de filosofia bajo la supervisión de Landgrebe– y que se intensificaron en los difíciles años de Hamburgo. A este último periodo corresponden los Paradigmen zu einer Metaphorologie, de cuyo proceso de escritura estuvo Rothacker puntualmente informado por el propio Blumenberg desde sus primeros esbozos hasta su publicación en 1960 en el forma a Blumenberg de su nombramiento en una carta fechada el 1.8.1960 (DLA Marbach). Blumenberg acepta oficialmente el cargo en la carta que le envía a Scheel el 19.08.1960 (DLA Marbach). Con cierta probabilidad el nombramiento de Blumenberg como miembro correspondiente fue a propuesta de Rothacker. Véase al respecto la carta de Rothacker a Blumenberg con fecha 15.8.60 (DLA Marbach). 24   Carta de Scheel a Blumenberg con fecha 28.10.1963 (DLA Marbach). Blumenberg informa del nombramiento al Rector de la Justus Liebig-Universität de Gieβen en una carta fechada el 30.11.1963 (DLA Marbach). Según se desprende de la carta que Rothacker envió a Blumenberg con fecha 5.7.1963 (DLA Marbach) fue el propio Rothacker quien propuso a la Academia el nombramiento de Blumenberg como miembro ordinario. 25   Blumenberg fue llamado a Gieβen en torno a marzo de 1960. Este dato aparece en la carta que Blumenberg envió a Rothacker el 13.8.1960 (DLA Marbach). 26   Gracias a una carta que Blumenberg envió a Fernando Inciarte, colega suyo durante los años de la Universidad de Münster, sabemos que en el primer congreso al que Blumenberg tuvo ocasión de asistir, allá por el año 1948, Rothacker hubo de sentarse a su lado, y ante las amargas quejas del conferenciante, que se lamentaba de que nadie le había leído, Rothacker le susurró a Blumenberg: “¿Acaso nadie tiene otra cosa mejor que hacer que leer a los demás?”. Carta enviada por Blumenberg a Fernando Inciarte con fecha 21.6.1988 (DLA Marbach): “Ein arrivierter Nachbar (es war der boshafte Erich Rothacker) flüsterte mir zu: Hat nicht jeder was Besseres zu tun als die anderen zu lesen?”. Una reconstrucción más detallada de esta anécdota en Alberto Fragio “Wittgenstein según Blumenberg”, Logos. Anales del seminario de metafísica, vol. 42, 2009, Madrid, pp. 261-86.

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Archiv für Begriffsgeschichte.27 Hay constancia del vivo entusiasmo que despertó en Rothacker el artículo de Blumenberg “‘Nachahmung der Natur’. Zur Vorgeschichte der Idee des schöpferischen Menschen” publicado en Studium Generale en 1957.28 Este trabajo representaba para Rothacker lo que “buscaba y quería dar a entender” [“was ich suche und meine”] cuando se refería a la historia conceptual.29 Es probable entonces que Rothacker viera en el joven 27   Véase la correspondencia entre Blumenberg y Rothacker entre los años 1958 y 1960 (DLA Marbach). Resulta conmovedora la carta que Blumenberg le envía a Rothacker con fecha 24.4.1959 (DLA Marbach), en la que le anuncia que sus Paradigmen están acabados y que por fin podrá dar satisfacción a su deseo de “regalarle un libro al mundo”: “[…] das Manuskript der “Paradigmen zu einer Metaphorologie” ist fertig, […] endlich das von mir seit langem geforderte “Buch” der Welt zu schenken (haha!)”. Vale la pena recordar una vez más el tantas veces citado comienzo del apéndice a Schiffbruch mit Zuschauer. Paradigma einer Daseinsmetapher, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1979, pp. 77-93: “Cuando en 1960 Erich Rothacker publicó los Paradigmas para una metaforología en su Archiv für Begriffsgeschichte pensaba, al igual que su autor, en una metodología subsidiaria para aquella historia, que por esa época tomaba forma. Desde entonces no ha cambiado nada en la función de la metaforología, si acaso algo en su referente; ante todo, porque hay que concebir la metáfora como un caso especial de inconceptuabilidad”. Trad. esp. de Jorge Vigil, Naufragio con espectador, Visor, Madrid, p. 97. Blumenberg discutió algunos pasajes de los Paradigmen con Carl Friedrich von Weizsäcker, véase en especial la carta de Weizsäcker a Blumenberg con fecha 15.12.1960 y la de Blumenberg a Weizsäcker con fecha 31.1.1961 (DLA Marbach). 28   Podemos aventurar que quizá también hubo interesado vivamente a Rothacker el célebre trabajo fundacional de la metaforología blumenberguiana: “Licht als Metapher der Wahrheit. Im Vorfeld der philosophischen Begriffsbildung” [1957] [“La luz como metáfora de la verdad. En el estadio previo a la formación de los conceptos filosóficos”], Studium Generale, 10, 1957, pp. 432-47. 29   Carta de Rothacker a Blumenberg con fecha 31.1.1958 (DLA Marbach): “Eine Arbeit wie ‘Die Nachahmung der Natur’ ist geradezu ein Musterbeispiel dessen, was ich suche und meine, wenn ich sage, daβ ein perfektes Wörterbuch der Begriffs- und Problemgeschichte erst die Grundlage liefern werde für das, was man Geistesgeschichte nennt”. Véase también la carta de Rothacker a Blumenberg con fecha 3.9.1958 (DLA Marbach), y la de Blumenberg a Rothacker con fecha 7.2.1958 (DLA Marbach).

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Blumenberg el gran renovador de la historia de los conceptos e hiciera todo lo posible por alentar y favorecer su trayectoria académica e intelectual. No obstante, el verdadero viraje del Archiv für Begriffsgeschichte se produjo, paradójicamente, con la muerte de Rothacker, acaecida el 10 de agosto de 1965. Blumenberg pronunció el discurso funerario en la solemne ceremonia que la Academia de Mainz celebró para despedir a su veterano miembro.30 La muerte de Rothacker supuso, en efecto, una “nueva era” [“neuer Ära”] en la dirección del Archiv.31 30   “Nachruf auf Erich Rothacker. Gehalten am 29. April 1966 in der Offentlichen Sitzung der Akademie der Wissenschaften und der Literatur”, Jahrbuch der Akademie der Wissenschaften und der Literatur in Mainz, 1966, pp. 70-6: “Diese Akademie, deren Mitglied er seit ihren Anfängen war, gab ihm die Möglichkeit und den Rahmen, einen alten Lieblingsgedanken in Gestalt des Archiv für Begriffsgeschichte zu verwirklichen, von dem seit 1955 10 Bände von ihm selbst vorgelegt worden sind”, p. 71. Blumenberg hace referencia a su propio discurso 16 años después en Die Lesbarkeit der Welt, Frankfurt am Main, Suhrkamp Verlag, 1981, pp. 12-6. Trad. esp. de Pedro Madrigal, La legibilidad del mundo, Barcelona, Editorial Paidós, 2000, pp. 14-8. Blumenberg conservó la nota necrológica sobre la muerte de Rothacker publicada en el FAZ el 14.8.1965. Pese a la ambivalencia de esta figura –recordemos su vinculación al partido nazi o su conocida mordacidad– no cabe duda del aprecio que Blumenberg sentía por él. Incluso mucho tiempo después de la muerte de Rothacker, Blumenberg no dejaba de recordarlo con afecto. Véase la carta de Blumenberg a Gadamer con fecha 25.10.1978 (DLA Marbach). 31   Carta de Blumenberg a Ritter con fecha 20.5.1968 (DLA Marbach). Es probable que la dirección de la revista pasara en parte a manos del propio Blumenberg y de Joachim Ritter. Este último tomó el relevo de Rothacker en las labores de edición del Historischen Wörterbuches für Philosophie, un proyecto editorial extraordinariamente ambicioso acometido también bajo los auspicios de la Academia de Mainz. Véase el informe “Bericht der Tätigkeit der Philosophischen Kommission betr. Erscheinung des Historischen Wörterbuches” (DLA Marbach). El propio Blumenberg contribuyó posteriormente con varios trabajos: “Neugierde und Wissenstrieb. Supplemente zu ‘Curiositas’” [“Curiosidad e impulso de saber. Suplementos para la ‘Curiositas’”], Archiv für Begriffsgeschichte, 14, 1970, pp. 7-40; “Beobachtungen an Metaphern” [“Observaciones sobre las metáforas”], Archiv für Begriffsgeschichte, 15, 1971, pp. 161-214. Para ahondar en la cuestión de la “nueva era” de la revista véase en especial la carta de Blumenberg a G. Brenner, Secretario General de la Academia de Mainz, con fecha 21.12.1967 (DLA Marbach); el “Bericht der

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En el “concepto de realidad” [“Wirklichkeitsbegriff”] convergen, en suma, los intereses tempranos de Blumenberg por la historia de la ontología, los rudimientos de una fenomenología histórica inspirada por el apreciado magisterio de Landgrebe y la historia conceptual de nuevo cuño que se estaba desarrollando en el marco institucional de la Academia de Mainz. Quizá la mejor muestra de todo ello es el inédito de Blumenberg “Antiker und neuzeitlicher Wirklichkeitsbegriff”, conservado en su Nachlaβ del Deutsches Literaturarchiv Marbach en una carpeta con la abreviatura “ANW”.32 En dicha carpeta figuran hasta cuatro versiones distintas de un pequeño ensayo sobre el concepto antiguo y moderno de realidad. La primera versión está fechada en diciembre de 1960/enero de 1961, mientras que la última data del 2 de junio de 1977. La tercera versión fue presentada el 16 de febrero de 1973 en la Academia de Mainz en una sesión en la que también participaron Günter Bandmann, Hans Sachβe, Heinrich Vormweg y Dieter Wellershoff.33 En esta pequeña familia de ensayos vuelven a reaparecer las “Metakinesen” desde el punto de vista de la “constitución histórica del concepto de realidad” [“geschichtlicher Konstitution des Wirklichkeitsbeg riffes”],34 y ligadas además a fórmulas tan significativas como Kommission für Philosophie für das Jahrbuch 1967” (DLA Marbach); y la carta de Blumenberg a Holl con fecha 26.1.1968 (DLA Marbach). 32   Para más detalles véanse también las dos cartas que Blumenberg le envía a Ritter con fechas 19.7.1961 y 17.11.1961 (DLA Marbach). 33   Esta versión sí fue publicada, con numerosas e importantes modificaciones, bajo el título “Vorbemerkungen zum Wirklichkeitsbegriff” [“Advertencias preliminares sobre el concepto de realidad”] en la Akademie der Wissenschaften und der Literatur in Mainz. Abhandlungen der geistes- und sozialwissenschaftlichen Klasse, Jahrgang 1973, n.º 4, Mainz, 1974, pp. 3-10. El propio Blumenberg deja constancia que en febrero de 1961 pronunció una conferencia en la Jungius-Gesellschaft Hamburg con el título “Antiker und neuzeitlicher Wirklichkeitsbegriff”. Véase la nota al pie n.º 5 de su “Wirklichkeitsbegriff und Möglichkeit des Romans”, en Hans Robert Jauss (ed.), Nachahmung und Illusion (Poetik und Hermeneutik; n.º 1), Fink, München, 1964, pp. 9-27. 34   “Eine weitere, und nun ganz radikale Frage ist die nach dem Zusammenhang von geschichtlicher Konstitution des Wirklichkeitsbegriffes und Freiheit – oder, anders formuliert: nach der Verantwortung für diese

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“la estructura del concepto antiguo de realidad” [“die Struktur des antiken Wirklichkeitsbegriffes”]35 o la “historia del horizonte de realidad” [“Geschichte des Wirklichkeitshorizontes”];36 junto con aseveraciones de mucho calado como aquélla que sostiene que “el concepto moderno de realidad tiene su paradigma en la idea de objetividad científica”.37 La membrecía de Blumenberg en la Academia de Mainz volvió más acuciante, si cabe, el problema hermenéutico de la Modernidad, que Blumenberg ya había afrontado por vez primera en su trabajo de habilitación de Kiel al hilo de la “autointerpretación científica de la filosofía” [“die wissenschaftliche Selbstauslegung der Philosophie”]38 en el pensamiento cartesiano y en la fenomenología transcendental husserliana. Teorizar la ciencia moderna, con el nuevo referente de la astronomía copernicana,39 había pasado a ser una parte sustancial del espectro de cuestiones histórico-filosóficas que Blumenberg se sentía llamaGeschichte des Wirklichkeitshorizontes”. “ANW III”, p. 30 (DLA Marbach). El subrayado es de Blumenberg. 35   “ANW IV”, p. 11 (DLA Marbach). 36   “ANW III”, p. 30 (DLA Marbach). 37   “Der moderne Wirklichkeitsbegriff hat sein Paradigma in der Idee wissenschaftlicher Objektivität”. “ANW I”, p. 22 (DLA Marbach). Blumenberg no desaprovechaba la ocasión para retomar su crítica a Heidegger: “Die Konfrontation der epochalen Wirklichkeitsbegriffe ist nicht eine letzte Antwort auf eine letzte Frage – man stände dann von einer fundamentalen Faktizität, wäre zum verkappten Positivismus einer “Seinsgeschichte” mit unbegründbaren Metakinesen, Verbergungen und Entbergungen, pseudotheologischen “ewigen Ratschlüssen” des Seins also, genötigt”. “ANW III”, pp. 29-30. 38   Hans Blumenberg, Die ontologische Distanz. Eine Untersuchung über die Krisis der Phänomenologie Husserls, Trabajo de habilitación inédito, Christian-Albrechts-Universität zu Kiel, 1950, sección I § 2. 39   Recordemos que la conferencia que pronunció el 24 de abril de 1964 en la Academia de Mainz con motivo de su nombramiento como miembro ordinario llevaba el título “Kopernikus im Selbstverständnis der Neuzeit” [“Copérnico en la autocomprensión de la Modernidad”]. Si bien los intereses de Blumenberg por la astronomía datan de mucho antes de su relación con la Academia, no cabe duda de que su adscripción a una institución de carácter científico, después de todo, sirvió de estímulo a que siguiese trabajando en el ámbito de la historia y filosofía de la ciencia.

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do a afrontar en ese periodo de su vida. Pero no por ello dejaba de perseverar en la temática de una ontología histórica elaborada mediante el “concepto de realidad” y encauzada en los sucesivos coloquios del grupo de investigación Poetik und Hermeneutik, un grupo fundado en 1963 por Wolfgang Iser, Clemens Heselhaus, Hans Robert Jauβ y el propio Blumenberg.40 En este contexto se inscriben artículos tan importantes como “Wirklichkeitsbegriff und Möglichkeit des Romans”41 [1964], “Wirklichkeitsbegriff und Staatstheorie”42 [1968] o “Wirklichkeitsbegriff und Wirkungspotential des Mythos”43 [1971].44

  Véase Franz Josef Wetz, Hans Blumenberg zur Einführung, Junius Verlag, Hamburg, 2004, p. 173. A esta primera nómina luego habrían de sumarse figuras tan señeras como Jacob Taubes, Odo Marquard, Reinhart Koselleck o Dieter Henrich, entre otros muchos. 41   Hans Blumenberg, “Wirklichkeitsbegriff und Möglichkeit des Romans” [“Concepto de realidad y posibilidad de la novela”], en Hans Robert Jauss (ed.), Nachahmung und Illusion (Poetik und Hermeneutik; n.º 1), Fink, München, 1964, pp. 9-27. 42   Hans Blumenberg, “Wirklichkeitsbegriff und Staatstheorie” [“Concepto de realidad y teoría del Estado”], Schweizer Monatshefte, 48, 2, 1968, pp. 12146. 43   Hans Blumenberg, “Wirklichkeitsbegriff und Wirkungspotential des Mythos” [“Concepto de realidad y potencial efectivo del mito”] en Manfred Fuhrmann (ed.), Terror und Spiel (Poetik und Hermeneutik; n.º 4), Fink, München, 1971, pp. 11-66. 44   Dos excelentes reconstrucciones del pensamiento de Blumenberg a partir del “concepto de realidad” en Andrea Borsari, “L‘‘antinomia antropologica’. Realtà, mondo e cultura in Hans Blumenberg”, en A. Borsari (ed.), Hans Blumenberg. Mito, metafora, modernità, Bologna, il Mulino, 1999. pp. 344-59 y 384-95; y en César G. Cantón, La metaforología de Blumenberg como destino de la analítica existencial, Tesis doctoral, Universidad Complutense de Madrid, 2004, pp. 59-157. 40

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4. Imágenes y modelos de mundo

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omo complemento o alternativa a esta teoría de las estructuras de la historia elaborada mediante el “concepto de realidad”, Blumenberg también desarrollará por las mismas fechas una filosofía de la ciencia estrechamente relacionada con sus trabajos en curso sobre la astronomía moderna, una suerte de filosofía cosmológica de la ciencia basada en las nociones de “modelo” e “imagen”. Pese a su solapamiento temporal, el espacio académico de estas tentativas no será tanto el de la Academia de Mainz o el de los itinerantes coloquios de Poetik und Hermeneutik como el de su labor docente universitaria, plasmada en los centenares de cuartillas manuscritas que le servían de soporte para sus lecciones en las universidades de Kiel, Hamburgo y Gieβen.45 Una parte considerable de estas lecciones [“Vorlesungen”] –que Blumenberg tenía clasificadas en números romanos por autores y temas en pequeñas carpetas– estaban dedicadas a los modos epistemológicos de construir y organizar la representación del mundo en la historia de la filosofía y de la ciencia. Desde las primeras lecciones de Kiel, sobre la “Formación filosófica de conceptos” [“Philosophische Begriffsbildung”]46 o sobre “Los conceptos elementales del pensamiento científico” [“Elementarbegriffe des wissenschaftlichen Denkens”]47, a   La etapa de Gieβen fue ciertamente uno de los periodos más fecundos de la vida de Blumenberg. En una carta con fecha 26.9.1984 enviada por Blumenberg a su amigo Alfons Neukirchen (DLA Marbach), le contaba que en Gieβen escribía una media de 20 páginas al día, mientras que ahora, ya cercano a su jubilación, apenas sí alcanzaba las 8 páginas al día (!): “[…] in Gieβen waren es noch 20 Seiten pro Tag, hier zuletzt nur noch 8 […]”. Pese a su queja omnipresente por haberse quedado sin secretaria, y a su temor a volverse senil, lo cierto es que la última década de la vida de Blumenberg fue también extraordinariamente fructífera. A ella pertenecen una parte considerable de sus mejores libros, como Lebenszeit und Weltzeit [1986], Die Sorge geht über den Fluβ [1987], Das Lachen der Thrakerin [1987], Matthäuspassion [1988] o Höhlenausgänge [1989]. 46   Vorlesung X (DLA Marbach). 47   Vorlesung XVI (DLA Marbach). 45

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las últimas de Gieβen, sobre los “Modelos filosóficos de mundo” [“Philosophische Weltmodelle”]48 o al más tardío “Modelo de mundo y mundo de la vida. Fenomenología de la transformación de la realidad a través de la ciencia” [“Weltmodell und Lebenswelt. Phänomenologie der Veränderung von Wirklichkeit durch Wissenschaft”],49 podemos detectar un creciente interés por parte de Blumenberg en establecer una teoría de las estructuras de la historia que supere el estrecho marco de la historia de los conceptos. La mejor muestra de esta alternativa filosófica, quizá la más articulada, la encontramos en el texto de una conferencia titulada “Weltbilder und Weltmodelle” [“Imágenes y modelos de mundo”]50 que Blumenberg pronunció el 1 de julio de 1961 en la Universidad de Gieβen con motivo del aniversario de su refundación, y que luego reaparecerá fugazmente en la tercera parte [1973] de Die Legitimität der Neuzeit [1966].51 En uno y otro sitio propone una definición de la imagen de mundo y el modelo de mundo. Citamos a continuación la definición de Die Legitimität der Neuzeit: “[…] cuando hablo de un modelo teórico del mundo me refiero a una presentación sistemática de la realidad que depende del estado correspondiente de las ciencias de la naturaleza y que integra los enunciados de las mismas; con la expresión imagen del mundo me refiero a ese prototipo de realidad [“jenigen Inbegriff der Wirklichkeit”] con el que el propio hombre está   Vorlesung XXIX (DLA Marbach).   Carta de Blumenberg a Siegfried Unseld con fecha 22.5.1970 (DLA

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Marbach): “Vor mir liegen etwa zwei Drittel des Manuskripts einer Arbeit des (vorläufigen) Titels “Weltmodell und Lebenswelt. Phänomenologie der Veränderung von Wirklichkeit durch Wissenschaft”. 50   Hans Blumenberg, “Weltbilder und Weltmodelle”, publicado en el Nachrichten der Gieβener Hochschulgesellschaft, vol. XXX, Schmitz, Gieβen, 1961, pp. 67-75. 51   Como es sabido Die Legitimität der Neuzeit tuvo diversas ampliaciones desde su primera publicación en 1966: “Der Prozeβ der theoretischen Neugierde” [1973] (tercera parte); “Säkularisierung und Selbstbehauptung” [1974] (primera y segunda parte); “Aspekte der Epochenschwelle. Cusaner und Nolaner” [1976] (cuarta parte). La versión definitiva completa corresponde a 1988, luego reimpresa en 1996. Nosotros haremos referencia a esta última.

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coordinado y conforme al cual orienta tanto sus valores como la meta de sus acciones, concibe sus posibilidades y necesidades y se entiende a sí mismo en el conjunto de sus relaciones esenciales [“in seinen wesentlichen Relationen versteht”]”.52

5. Umbral de época y teoría de la reocupación

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nuestro modo de ver, es precisamente en Die Legitimität der Neuzeit donde Blumenberg lleva más lejos su tentativa de ofrecer una teoría de las estructuras de la historia. Numerosas cartas enviadas por Blumenberg a Kracauer,53 52   Hans Blumenberg, Die Legitimität der Neuzeit, [1966], Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1996, nota 310, p. 473. Trad. esp. de Pedro Madrigal, La legitimación de la Edad Moderna, Pre-Textos, Valencia, 2008, nota 1, p. 407. En una traducción más literal sería “esencia de la realidad” y no “prototipo de realidad”. He modificado ligeramente la traducción de Pedro Madrigal. 53   Véase la carta de Blumenberg a Kracauer con fecha 22.12.1964 (DLA Marbach), y las de Kracauer a Blumenberg con fechas 31.10.1964 y 17.1.1965 (DLA Marbach). Sin ningún género de duda, Kracauer era para Blumenberg un interlocutor válido. Con él mantuvo una animada discusión a propósito de la secularización, la filosofía de la historia y el análisis físico-filosófico del tiempo. En su carta a Kracauer con fecha 22.12.1964 (DLA Marbach), Blumenberg le informaba que estaba trabajando en un libro sobre “el problema del origen de la Modernidad”: “[…] ich habe zur Zeit ein Freisemester und schreibe an der längst fälligen Aufarbeitung meiner bisherigen Einzelstudien zum Ursprungsproblem der Neuzeit (Arbeitstitel: Die Legitimität der Neuzeit)”. En esta misma carta le exponía prácticamente un fragmento de la primera parte de Die Legitimität, referido a la escatología y el tiempo apocalíptico en la literatura patrística: “Zum chronologischen Aspekt lieβe sich noch näher ausführen, wie aus der Rückbildung der frühchristlichen Eschatologie das chronologische Moment hervorgeht, nämlich durch das in der patristischen Literatur um sich greifende Verfahren der Errechnung der Fälligkeit der eschatologischen Ereignisse aus den vermeintlich einschlägigen kryptischen Angaben der biblischen Schriften; die Fragen: wie lange noch? und wieviel Zeit ist schon von der Endzeit verstrichen? führen in die Fülle der chronologischen Spekulationen, deren beste Aufarbeitung das von mir zusammen mit dem Buch von Hans Jonas rezensierte Werk von Martin Werner gibt”. Tras la muerte de Kracauer, Blumenberg aún mantuvo contacto epistolar con la viuda de Kracauer, Lili

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Iser,54 Gadamer,55 Scholem56 o Jauβ57 testimonian la preocupación creciente de Blumenberg por tematizar la “estructura epocal de sentido” [“epochale Sinnstruktur”],58 ahora estrechamente ligada a la hermenéutica de la Modernidad y al problema del cambio de época. En Die Legitimität der Neuzeit Blumenberg apela a una presunta “estructura dialógica” [“dialogischen Struktur”]59 de preguntas y respuestas como base tanto para su teoría de la “reocupación” [“Umbesetzung”] como para su propuesta de los “umbrales de época” [“Epochenwellen”].60 Ni que decir tiene, Kracauer, hasta su defunción, acaecida el 30.3.1971. En la carta de Blumenberg a Lili Kracauer con fecha 1.8.1969 (DLA Marbach) le hacía saber la huella que su marido había dejado en uno de sus trabajos: “Auch in meinem Beitrag zum vierten Band von ‘Poetik und Hermeneutik’ wird sich eine Spur der Gespräche mit Siegfried Kracauer finden; es geht da um die uns gemeinsame Abneigung gegen die ‘List der Vernunft’ als eine mythische Kategorie”. En otra carta con fecha 20.12.1970 (DLA Marbach) informaba que había dedicado un seminario al libro póstumo de su marido History: The Last Things Before the Last [1969]: “Als ich die Sätze schrieb, die Sie angestrichen haben, übersah ich noch nicht ganz die Tragweite dessen, was in Richtung auf die Kritik der historischen Vernunft in “History” zutage treten würde. Im letzten Sommersemester wurde in meinem geschichtsphilosophischen Seminar dieses Buch sehr eingehend referiert und diskutiert”. 54   Carta de Blumenberg a Iser con fecha 9.2.1967 (DLA Marbach), y cartas de Iser a Blumenberg con fechas 29.8.1968 y 13.11.1968. 55   Carta de Blumenberg a Gadamer con fecha 16.8.1967 (DLA Marbach). 56   Carta de Blumenberg a Scholem con fecha 26.3.1973 (DLA Marbach). En ella aparece la noción de las “ideas estructurales análogas” [“strukturell analogen Ideen”]. Esta carta tiene un interés especial sobre todo con relación a la discusión de Blumenberg del mesianismo, específicamente del motivo de un Mesías esperado pero cuya llegada se demora “Noch-nicht-gekommen-sein”. 57   Carta de Blumenberg a Jauβ con fecha 10.09.1969 (DLA Marbach). 58 Carta de Blumenberg a Kracauer con fecha 22.12.1964 (DLA Marbach). 59   Hans Blumenberg, Die Legitimität der Neuzeit, ob. cit, p. 220. Trad. esp. La legitimación de la Edad Moderna, p. 193. 60   La primera formulación explícita de los umbrales de época corresponde al trabajo de Blumenberg “Epochenschwelle und Rezeption”, Philosophische Rundschau, 6, 1958, pp. 94-120. Este trabajo consiste en una recensión-ensayo a propósito de cuatro libros sobre cristianismo, gnosticismo y escatología publicados en torno a 1954. Son los siguientes: La Révélation d’Hermès Trismégiste IV. Le Dieu Inconnu et la Gnose de André-Jean Festugière; Gnosis y spätan-

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por otra parte, que esta “estructura dialógica” estaba ya presente en las Beiträge [1947] y Die ontologische Distanz [1950] como una reelaboración del heideggeriano “estar en la pregunta” [“InFrage-stehen”].61 Ahora Blumenberg la retoma para dar cuenta de la estabilidad y el cambio en la historia. En lo que respecta a su teoría de la “reocupación” [“Umbesetzung”], la historia estabilizaría un régimen específico de preguntas e impondría la necesidad imperiosa de darles una respuesta concreta, satisfactoria o no, pero siempre susceptible de ser sustituída. Es decir, la reocupación requiere del reemplazo de distintas respuestas a una misma pregunta: tiker Geist de Hans Jonas; Geistesgeschichte des antiken Christentums de Carl Schneider; y Die Entstehung des christlichen Dogmas de Martin Werner. De la compleja argumentación de Blumenberg destacamos sólo dos aspectos estrechamente relacionados entre sí. El primero es la tesis de Blumenberg según la cual “la historia es historia de problemas” [“Geschichte ist Problemgeschichte”] (ibid, p. 102). El segundo consiste en la idea de sostener que los cambios o “umbrales de época” definen las “metacinéticas epocales” [“Die epochalen Metakinesen”] (ibid, p. 94). Blumenberg aplicaba la metacinética de los horizontes históricos de sentido a la exégesis histórica, y en cierto modo recuperaba el heideggeriano “estar en la pregunta” pero aplicado al pensamiento antiguo y a la escatología cristiana. 61   Hans Blumenberg, Die ontologische Distanz. Eine Untersuchung über die Krisis der Phänomenologie Husserls, Trabajo de habilitación inédito, Christian-Albrechts-Universität zu Kiel, 1950, p. 109. En esta cuestión ha reparado César G. Cantón, La metaforología de Blumenberg como destino de la analítica existencial, Tesis doctoral, Universidad Complutense de Madrid, 2004, pp. 31 y ss, 178 y ss. y 291 y ss. Alberto Fragio lo ha caracterizado como la “recidiva heideggeriana” de Die Legitimität der Neuzeit, véase su “La destrucción blumenberguiana de las comprensiones teológicas de la Modernidad”, Éndoxa, UNED, Madrid (de próxima aparición). Es de notar, por cierto, que en los Paradigmen Blumenberg caracterizaba las metáforas absolutas como “respuestas” [“Antworten”] a preguntas incontestables. Véase su Paradigmen zu einer Metaphorologie [1960], Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1998, pp. 24 y ss. Trad. esp. de Jorge Pérez de Tudela Velasco, Paradigmas para una metaforología, Madrid, Trotta, 2003, pp. 62 y ss. Véase asimismo Hans Blumenberg, Lebenszeit und Weltzeit [1986], Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 2001, p. 68. Trad. esp. Manuel Canet, Tiempo de la vida y tiempo del mundo, Pretextos, Valencia, 2007, p. 59.

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Alberto Fragio El que lo nuevo en la historia no pueda ser cualquier cosa, sino que está sujeto al rigor de un conjunto de expectativas y necesidades ya dadas de antemano, es la condición para que nosotros podamos tener un conocimiento de la historia. El concepto de reocupación implica un mínimo de identidad, que tiene que poder ser encontrado –o al menos supuesto y buscado– incluso en el movimiento más agitado de la historia. En el caso de que los sistemas sean el producto, según dice Goethe, de una ‘visión sobre el mundo y el hombre’, la mentada reocupación significaría que los diferentes enunciados pueden ser entendidos como respuestas a preguntas que son iguales.62

Es suficiente, sostiene Blumenberg, con “que las condiciones que sirvan de marco sean soportes de la conciencia, tanto como los contenidos encasillados en él, que, por consiguiente, las preguntas sean, respecto a las respuestas, relativamente constantes”.63 El umbral de época, por su parte, viene identificado o bien por un “exceso de cuestiones”64 que se vuelve inasumible en el interior de un periodo histórico específico o bien por su eliminación sistemática:65 “determinadas preguntas, en un nuevo cambio radical, dejan de ser planteadas, y las respuestas que antaño se dieron a las mismas nos parecen pura dogmática, una especie de redundancia imaginaria”.66 Sin embargo, a “uno y otro lado del umbral de la época” permanece “un sistema fundamentalmente idéntico en cuanto a las necesidades expresivas”.67 Añade Blumenberg que “la autocomprensión y comprensión del mundo es uno de los presupuestos requeridos para que sea posible conseguir una visión clara de las coincidencias y, con ello, de las   Hans Blumenberg, Die Legitimität der Neuzeit, ob. cit., p. 541. Trad. esp. La legitimación de la Edad Moderna, ob. cit., p. 464. 63   Ibid. 64   Ibid., p. 75. Trad. esp., p. 71 65   Ibid., p. 157. Trad. esp., p. 141. 66   Ibid., pp. 541-2. Trad. esp., p. 464. 67   Ibid., p. 545. Trad. esp., p. 467. 62

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diferencias”.68 La tarea de análisis histórico consistirá entonces en mostrar qué aspectos separan, a cada lado del umbral, las diferentes posiciones hasta el punto de hacerlas irreconciliables entre sí. Para esta tarea Blumenberg se servirá también de la dinámica dialógica pregunta-respuesta como uno de los indicadores de umbral.69

6. Kuhn, Blumenberg y el problemático legado intelectual de Annaliese Maier

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on semejante planteamiento no resulta sorprendente que Blumenberg hallase una contraimagen a su propia teoría del cambio de época en la obra de Kuhn The Structure of Scientific Revolutions [1962].70 De hecho existen pruebas documentales vinculadas a su labor de asesoramiento a la editorial Suhrkamp71 –relativa a los años 1966 y 1968– que atestiguan el   Ibid.   Ibid., p. 549. Trad. esp. p. 470. Blumenberg elaborará una buena síntesis

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de las nociones de “umbral de época” y “reocupación” en el anteproyecto que presentó en torno a 1976 a la editorial Suhrkamp referido a la cuarta parte de Legitimität der Neuzeit: “Aspekte der Epochenschwelle: Cusaner und Nolaner” (DLA Marbach). 70   El libro de Kuhn es uno de conservados en la biblioteca personal de Blumenberg, ahora depositada en el DLA Marbach. 71   Según se desprende de su correspondencia temprana con el equipo editorial de Suhrkamp Verlag (DLA Marbach), Blumenberg se habría puesto en contacto por primera vez con la editorial en 1954 con el objeto de recabar bibliografía para su trabajo en curso sobre Eliot, luego publicado en la revista católica Hochland. De acuerdo con Vida Pavesich, “[…] junto con Jürgen Habermas, Dieter Henrich y Jacob Taubes, Blumenberg fue editor de la colección “Theorie I” de Suhrkamp”. V. Pavesich, Hans Blumenberg: An Anthropological Key, University of California at San Diego, 2003, nota 95, p. 78. Con toda probabilidad la vinculación de Blumenberg con Suhrkamp se consolidó a raíz de la creación del grupo Poetik und Hermeneutik y de manera especial tras la publicación de Die kopernikanische Wende [1965]. Sobre este último particular véase la correspondencia de Blumenberg con Günther Busch (DLA Marbach).

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deseo de Blumenberg de que esta célebre obra fuese traducida y publicada en una de las colecciones de Suhrkamp,72 junto con el libro de Friedrich Kambartel Erfahrung und Struktur. Bausteine zu einer Kritik des Empirismus und Formalismus73 [1968].74 A la vista del conjunto de la obra de Blumenberg, no cabe duda de que ningún otro historiador y/o filósofo de la ciencia ha despertado en él un interés equivalente. Esto no implica, por supuesto, que Blumenberg compartiese los presupuestos teóricos kuhnianos ni que desconociera al resto de autores que componen la disciplina. Desde luego no se le podría aplicar aquello que el padre de Taubes reservaba para las comisiones de evaluación: que no distinguía un camello de un caballo.75 Todo lo contrario: Blumenberg estaba al corriente de la obra de autores tan significativos y dispares como Henri Poincaré [1854-1912],76 Pierre

72   Véanse los documentos con fechas 2.2.1966, 1967, 8.3.1967, febrero de 1968 y ss. incluidos en la correspondencia de Blumenberg con la editorial Suhrkamp Verlag entre los años 1954-1972 (“Konvolut Vorschläge und Planungen für die Reihe Suhrkamp Theorie”) (DLA Marbach). 73   Friedrich Kambartel, Erfahrung und Struktur. Bausteine zu einer Kritik des Empirismus und Formalismus, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1968. Trad. esp. de Ernesto G. Valdés, Experiencia y estructura, Editorial Sur, Buenos Aires, 1972. 74   Véase el documento con fecha 8.3.1967 incluido en la correspondencia de Blumenberg con la editorial Suhrkamp Verlag entre los años 1954-1972 (DLA Marbach). En una carta de Blumenberg a Karl Markus Michel, con fecha 15.4.1966 (DLA Marbach), decía le había dejado “muy impresionado” [“Ich bin von dieser Arbeit sehr beeindruckt”] y le describía con detenimiento los contenidos del libro de Kambartel, sugiriéndole su publicación en Suhrkamp. 75   Carta de Taubes a Blumenberg con fecha 1.12.1966 (DLA Marbach): “Oft dachte ich in diesen Tagen an ein sarkastisches Wort meines Vaters: Ein Kamel ist ein Pferd, das von einer Kommission zusammengestellt wurde”. 76   Blumenberg lo cita con no poca frecuencia en sus artículos tempranos sobre astronomía. Con él precisamente abre su Die Genesis der kopernikanischen Welt [1975]. Véase adicionalmente la carta de Walter Bröcker a Blumenberg con fecha 16.5.1960 (DLA Marbach).

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Duhem [1861-1916],77 Alfred North Whitehead [1861-1947],78 Rudolf Carnap [1891-1970],79 Hans Reichenbach [1891-1953],80 Ludwig Fleck [1896-1961],81 Karl Popper [1902-1994],82 Alistair C. Crombie [1915-1996],83 Wolfgang Stegmüller [1923-1991],84 Paul Feyerabend [1924-1994]85 o incluso Bernard I. Cohen [1914-2003].86 Sin embargo ninguno de ellos, por lo que parece,   Hans Blumenberg, “Kosmos und System. Aus der Genesis der kopernikanischen Welt” [“Cosmos y sistema. De la génesis del mundo copernicano”], Studium Generale, 10, 2, 1957, nota 14, p. 63. 78   Véase la correspondencia entre Blumenberg y Taubes y entre Blumenberg y Jauβ de finales de la década de los 60 (DLA Marbach). También la carta de Blumenberg a Unseld (Suhrkamp Verlag) con fecha 6.9.1969 (DLA Marbach). 79   Véase la correspondencia entre Blumenberg y Taubes de finales de la década de los 60 (DLA Marbach). 80   Véase adicionalmente la carta de Walter Bröcker (Universidad de Kiel) a Blumenberg con fecha 16.5.1960 (DLA Marbach). 81   Véase en especial la carta de Blumenberg a Unseld (Suhrkamp Verlag) con fecha 6.9.1969 (DLA Marbach). 82   Ver la correspondencia temprana de Blumenberg con el equipo editorial de Suhrkamp Verlag (DLA Marbach). 83   Ibid. 84   Probablemente Blumenberg tuvo la oportunidad de conocerlo en persona en Hamburgo en torno a los años 50. Sobre este particular véase la carta de Blumenberg a Walter Bröcker con fecha 31.5.1960 (DLA Marbach). Blumenberg había conservado la necrológica de Stegmüller, fechada el 4.6.1991 (DLA Marbach). En 1955 Blumenberg reseñó el libro de Stegmüller, Metaphysik – Wissenschaft – Skepsis, Humboldt-Verlag, Frankfurt, 1954. Véase la correspondencia entre Blumenberg y Neukirchen de la década de los 50 (DLA Marbach). Véase adicionalmente la carta de Carl Friedrich von Weizsäcker a Blumenberg con fecha 15.10.1959. 85   Véase la correspondencia entre Blumenberg y Taubes y entre Blumenberg y Jauβ de finales de la década de los 60 (DLA Marbach). 86   En el Nachlaβ de Blumenberg figura una carta enviada por Bernard Cohen a Blumenberg con fecha 12.05.1961 (DLA Marbach). Particularmente significativo para Blumenberg fue el artículo de Cohen, escrito en coautoría con Alexandre Koyré, “The Case of the Missing Tanquam: Leibniz, Newton and Clarke”, Isis, n.º 52, 1961, pp. 555-66. A este trabajo hace referencia en Die kopernikanische Wende, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1965, nota 149, p. 177; y también en Die Legitimität der Neuzeit, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1996, pp. 92 y 535. 77

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fue tan relevante para Blumenberg como Kuhn. Existían razones profundas que fundaban su interés: más allá de que ambos se hubieran afanado en buscar las estructuras de la historia y del cambio epocal,87 o incluso con independencia de que hubieran tomado la noción de “paradigma” para especificar la tipología del curso histórico que sigue la ciencia o las metáforas,88 también compartían como referente para sus propios trabajos sobre ciencia moderna la obra de Annaliese Maier [1905-1971].89 Como es sabido, en el prefacio a The Structure of Scientific Revolutions, Kuhn mencionaba a Maier como una de las historiadoras que, a su juicio, había mostrado “de manera más clara que la mayoría de los demás eruditos recientes lo que significaba pensar científicamente en una época en la que los cánones del pensamiento científico eran muy diferentes a los actuales”.90 En lo que se refiere a Blumenberg, Anneliese Maier tuvo una importancia decisiva en la formación de algunas de las principales 87   En el caso de Blumenberg hallamos “estructuras” hasta en los lugares más insospechados. Véase por ejemplo su “Kritik und Rezeption antiker Philosophie in der Patristik. Strukturanalysen zu einer Morphologie der Tradition” [“Crítica y recepción de la filosofía antigua en la Patrística. Análisis de la estructura para una morfología de la tradición”], Studium Generale, 12, 8, 1959, pp. 485-97. No es muy diferente el caso de Kuhn. Con acierto sus albaceas publicaron póstumamente su último libro bajo el título The Road Since Structure: Philosophical Essays, 1970-1993, University of Chicago Press, Chicago, 2000. 88   Para esta cuestión véase Alberto Fragio, “Descubrir la emergencia, disolver la revolución: el cambio científico a través de sus metáforas”, Revista de filosofía, Universidad Complutense de Madrid, vol. 32, n.º 1, 2007, en especial pp. 35-7. 89   Una breve síntesis de la contribución histórica y filosófica de Maier en Annette B. Vogt, “Anneliese Maier and her contribution to the history of science”, Proceedings of the 2nd ICESHS, Cracow, Poland, September 6-9, 2006, pp. 567-71. 90   Thomas S. Kuhn, La estructura de las revoluciones científicas [1962], México, FCE, 1992, pp. 23-4. Para más detalles véase cfr. Antonio Sánchez y Alberto Fragio, “Un pasado aún sin redimir: la epistemología histórica de las ciencias en la tradición historiográfica francesa”, Revista de filosofía, Universidad Complutense de Madrid (de próxima aparición).

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ideas de Die Legitimität der Neuzeit, y Blumenberg no dejó de reconocerlo en pasajes clave de su obra, como en este en el que cita a Maier en relación con el umbral de época y el abandono del régimen cognoscitivo asociado al ideal de exactitud escolásticoaristotélico: Calcular con medidas aproximadas, es decir, con valores de aproximación, con determinados límites de error y magnitudes descuidables –algo obvio para la física posterior– hubiera sido, para los filósofos escolásticos, una grave transgresión contra la dignidad de la ciencia. De este modo se quedaron parados en el umbral de una física genuina [“an der Schwelle einer eigentlichen, messenden Physik stehengeblieben”], basada en mediciones, sin traspasar jamás ese umbral [“ohne sie zu überschreiten”], porque, en definitiva, no pudieron decidirse a la renuncia de la exactitud, renuncia que es lo único que hace posible el desarrollo de una ciencia de la naturaleza exacta.91

En un ensayo-reseña anterior a Die Legitimität der Neuzeit, que lleva por título “Die Vorbereitung der Neuzeit”92 [1962], y que vió la luz precisamente el mismo año que The Structure of Scientific Revolutions, Blumenberg discutía nada menos que cinco libros de Anneliese Maier.93 Al hilo de su comentario a los   Anneliese Maier, Metaphysiche Hintergrüde der spätscholastischen Naturphilosophie, Edizioni di storia e letteratura, Roma, 1955, p. 402, citado por Blumenberg, Die Legitimität der Neuzeit, ob. cit., pp. 410-1. Trad. esp. La legitimación de la Edad moderna, ob. cit., p. 353. 92   Hans Blumenberg, “Die Vorbereitung der Neuzeit” [“La preparación de la Modernidad”], Philosophische Rundschau 9, 1962, 2/3, pp. 81-133. 93   Son los siguientes: 1) Die Vorläufer Galileis im 14. Jahrhundert. Studien zur Naturphilosophie der Spätscholastik, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 1949; 2) Zwei Grundprobleme der scholastischen Naturphilosophie. Das Problem der intensiven Grösse. Die Impetustheorie, Edizioni di Storia e Letteratura, 2ª ed. Roma, 1951; 3) An der Grenze zwischen Scholastik und Naturwissenschaft. Studien zur Naturphilosophie, Essen, 1943; 4) Metaphysische Hintergründe der spätscholastischen Naturphilosophie, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 1955; y 5) Zwischen Philosophie und Mechanik. Studien zur Naturphilosophie der Spätscholastik, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 1958. 91

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trabajos de Maier, Blumenberg anticipaba varios aspectos que luego habrían de ser centrales en Die Legitimität der Neuzeit,94 como son el intento de depositar la originariedad de la época moderna en la comprensión de sí del hombre,95 la noción de legiti94   Este trabajo no es el único anticipador de Die Legitimität der Neuzeit. Blumenberg escribirá una serie de artículos que también podemos considerar preparatorios a Die Legitimität, un libro que en buena medida fue escrito por acumulación, pero que supone ciertamente la culminación de una labor ingente de teorización de la Modernidad emprendida por Blumenberg en la década de los 60. En Die Legitimität se reunirán y reelaborarán materiales de procedencia muy diversa, junto con otras aportaciones nuevas. Destacan en particular cuatro artículos, dos de ellos dedicados al problema de la curiosidad en San Agustín, y otros dos a la autoafirmación y a la secularización: 1) “Augustins Anteil an der Geschichte des Begriffs der theoretischen Neugierde” [“La parte de San Agustín en la historia del concepto de curiosidad teórica”], Revue des Études Augustiniennes, 7, 1961, pp. 35-70; 2) “Curiositas und veritas. Zur Ideengeschichte von Augustin, Confessiones X 35” [“Curiositas y veritas. Para la historia de las ideas de San Agustín, Confesiones X 35”] (conferencia presentada en la Third International Conference on Patristic Studies, Oxford 1959) publicada en Frank Leslie Cross (ed.), Studia Patristica 6 (Texte und Untersuchungen zur altchristlichen Literatur; 81), Akademie-Verlag, Berlin, 1962, pp. 294-302; 3) “Ordnungsschwund und Selbstbehauptung. Über Weltverstehen und Weltverhalten im Werden der technischen Epoche” [“Pérdida de orden y autoafirmación. Sobre la comprensión y la conducta respecto al mundo en el devenir de la época técnica”], en Helmut Kuhn y Franz Wiedmann (eds.), Das Problem der Ordnung (VI. Deutscher Kongress für Philosophie, München, 1960), Hain, Meisenhelm am Glan, 1962, pp. 3757 y 4) “‘Säkularisation’. Kritik einer Kategorie historischer Illegitimität” [“‘Secularización’. Crítica a la ilegitimidad de una categoría histórica”], en Helmut Kuhny Franz Wiedmann (eds.), Die Philosophie und die Frage nach dem Fortschritt (VII. Deutscher Kongress für Philosophie, Münster, 1962), Pustet, München, pp. 240-65. El proceso de escritura de Die Legitimität se extendió más de diez años, y desde su primera versión, de 1966, a la edición completa definitiva, de 1988, media un lapso de veintidós años. 95   “Jetzt sollte der Mensch die geschichtliche Inzision leisten, er sollte sich als Urspung seiner eigenen Geschichte in ihrer endgültigen Verwirklichun erweisen. […] Die Neuzeit wurde auf den Grund originärer Leistungen des menschlichen Geistes zurückgeführt […]”. Hans Blumenberg, “Die Vorbereitung der Neuzeit”, Philosophische Rundschau 9, 1962, 2/3, p. 81. Sobre esta cuestión véase cfr. Alberto Fragio, “La destrucción blumenberguiana de las comprensiones teológicas de la Modernidad”, Éndoxa, UNED, Madrid (de próxima aparición).

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midad,96 su oposición al concepto de secularización,97 la concepción moderna del tiempo,98 la curiosidad99 o la técnica.100 En el caso de Blumenberg, ponerse en la pista de Anneliese Maier es en cierto modo ponerse en la pista de Gadamer y de Rothacker, y en especial ponerse en la pista de sus propios trabajos sobre astronomía moderna. El citado ensayo-reseña sobre Maier, “Die Vorbereitung der Neuzeit”, había sido escrito para Philosophische Rundschau, una revista fundada (en 1953) y editada por Gadamer y Helmut Kuhn,101 y en la que –como a día de hoy– se publicaban reseñas críticas. Por mediación de la editorial Mohr Verlag,102 Blumenberg recibió la invitación a colaborar en dicha revista, y con toda probabilidad trabó entonces relación y luego amistad tanto con Gadamer como con Helmut Kuhn. La contribución efectiva de Blumenberg a esta revista tuvo lugar con cuatro trabajos de diversa extensión: 1) “Marginalien

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Hans Blumenberg, “Die Vorbereitung der Neuzeit”, ob. cit, p. 92. Ibid., p. 109. Ibid., pp. 119-23. Ibid., p. 127. 100   Ibid., p. 133. 101   Es importante no confundir Helmut Kuhn (Universität München) con Thomas S. Kuhn. Recordemos que Helmut Kuhn fue uno de los editores, junto con Franz Wiedmann, de las actas del VI. Deutscher Kongress für Philosophie, München 1960, en el que se recogerá el trabajo de Blumenberg “Ordnungsschwund und Selbstbehauptung. Über Weltverstehen und Weltverhalten ím Werden der technischen Epoche”, Hain, Meisenhelm am Glan, 1962, pp. 37-57; también del VII. Deutscher Kongress für Philosophie, München 1962, en el que aparecerá el famoso texto de Blumenberg “‘Säkularisation’. Kritik einer Kategorie historischer Illegitimität”, Pustet, München, 1964, pp. 240-65. Asimismo, Blumenberg participará en un volumen colectivo en homenaje a Helmut Kuhn con motivo de su 65 cumpleaños, editado por Franz Wiedmann, “Sokrates und das “objet ambigu”. Paul Valérys Auseinandersetzung mit der Tradition der Ontologie des ästhetischen Gegenstandes” en Franz Wiedmann (ed.), EPIMELEIA. Die Sorge der Philosophie um den Menschen. Helmut Kuhn zum 65. Geburtstag, Pustet, München, 1964, pp. 285-323. 102   Carta de Blumenberg a Gadamer con fecha 21.11.1952 (DLA Marbach). 97

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zur theologischen Logik Rudolf Bultmanns”103 [1954/55]; 2) “Helmo Dolch: Kausalität im Verständnis des Theologen und der Begründer neuzeitlicher Physik”104 [1955]; 3) “Epochenschwelle   Hans Blumenberg, “Marginalien zur theologischen Logik Rudolf Bultmanns”, Philosophische Rundschau, 2, 3/4, 1954/55, pp. 121-40. Esta reseña versa sobre dos libros de Rudolf Bultmann, Theologie des Neuen Testaments y Das Evangelium des Johannes. Conviene recordar que Bultmann había acometido la insólita empresa de aplicar la fenomenología husserliana y la hermenéutica de la facticidad heideggeriana al estudio del Antiguo Testamento. En esta reseña de Blumenberg se puede advertir la antesala del problema de la secularización, dispuesto claramente en su reconsideración crítica de la escatología cristiana. Sobre este particular se concentrará la breve reseña de Blumenberg a otro libro de Bultmann, Geschichte und Eschatologie, publicada en la revista Gnomon. En esta última reseña aparecía ya plenamente formulada la cuestión de la secularización. No será, por tanto, a partir de Carl Schmitt que Blumenberg llega por vez primera al problema de la secularización –como a veces suele creerse– sino con Bultmann y su revisión de la “teleología de la historia teológica” [“Säkularisierung der theologischen Geschichtsteleologie”]. Hans Blumenberg, “Rudolf Bultmann, Geschichte und Eschatologie”, Gnomon, 31, 1959, pp. 163-66. 104   Hans Blumenberg, “Helmo Dolch: Kausalität im Verständnis des Theologen und der Begründer neuzeitlicher Physik. Besinnung auf die historischen Grundlegungen zum Zwecke einer sachgemäßen Besprechung moderner Kausalitätsprobleme”, Philosophische Rundschau, 3, 3/4, 1955, pp. 198-208. Esta breve reseña está dedicada al libro de Dolch Kausalität im Verständnis des Theologen und der Begründer neuzeitlicher Physik, en el que se trataba de vincular la física aristotélica y la teología de Santo Tomas de Aquino con la física cartesiana y newtoniana, siguiendo el hilo conductor del concepto de causalidad que en cada uno de esos casos era puesto en juego. En esta tentativa de Doch –que Blumenberg considera en gran medida fallida– se introduce, no obstante, una idea clave asumida a lo largo y ancho de los trabajos blumenberguianos sobre historia de la astronomía: la ciencia moderna encuentra sus premisas en la metafísica y la teología. Resulta muy llamativo, por otra parte, que Blumenberg salga al paso de la interpretación de Doch según la cual la duda cartesiana es una secularización de la pregunta por la salvación personal. Para Blumenberg no cabe convertir la incertidumbre epistemológica moderna en un mero trasunto del problema teológico de la certeza de salvación. En su opinión, la hipótesis secularizadora es una “construcción” [“Konstruktion”] hipostasiada en el proceso de análisis histórico. Por el contrario, habría que considerar más bien que la “certeza de salvación” [“Heilsgewiβheit”] y la “certeza epistemológica” [“Erkenntnisgewiβheit”] surgen simultáneamente a partir de la imagen nominalista de Dios. Blumenberg lo encuentra perfectamente repre103

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und Rezeption”105 [1957/58]; y 4) el citado “Die Vorbereitung der Neuzeit”106 [1962]. La presencia de Anneliese Maier y de Thomas S. Kuhn se fue haciendo cada vez más patente en la correspondencia de Blumenberg con el equipo editorial de Philosophische Rundschau,107 al que Blumenberg se remitía con frecuencia para solicitar la bibliografía que necesitaba para sus reseñas. Así en la carta de Blumenberg a Gadamer con fecha 20 de diciembre de 1958, en la que Blumenberg solicitaba, entre otros títulos, el libro de Arthur Lovejoy The Great Chain of Being [1936] y el de Kuhn The Copernican Revolution: Planetary Astronomy in the Development of Western Thought [1957]. Del temprano intercambio epistolar con Gadamer se desprende que Blumenberg también lo mantuvo al corriente de la marcha de sus primeros trabajos sobre “teleología y teología en la génesis del mundo copernicano” [“Teleologie und Theologie in der Genesis der kopernikanischen Welt”]108 y sobre la “explicación copernicana del mundo” [“kopernikanische Welterklärung”].109 Que al cabo de sentado en las afinidades entre el Dieu trompeur cartesiano y el mutabilissimus Deus luterano. Uno y otro ponen de relieve, a su juicio, el esfuerzo moderno de “autoafirmación de la racionalidad” [“Selbstbehauptung der Rationalität”] y el insoportable “absolutismo de la Gracia” [“Absolutismus der Gnade”] propios del final de la Edad Media. Ibid, p. 202. 105   Hans Blumenberg, “Epochenschwelle und Rezeption”, ob. cit. Ya hemos hecho referencia a este texto con motivo de los umbrales de época. Véase la nota 60. 106   Sobre estos cuatro trabajos hay abundantes alusiones en la correspondencia temprana entre Blumenberg y Gadamer (DLA Marbach). 107   Véanse en especial las cartas de Blumenberg a Gadamer con fechas 10.7.1956, 9.4.1958, 20.12.1958 y 25.7.1956; la postal de Gadamer a Blumenberg con fecha 25.7.1956, y la carta de Blumenberg a la mujer de Gadamer, K. Gadamer, con fecha 12.11.1959 (DLA Marbach). 108   Carta de Blumenberg a Gadamer con fecha 29.11.1955 (DLA Marbach). Por supuesto también mantuvo al corriente a Rothacker, véase en especial la carta de Blumenberg a Rothacker con fecha 7.2.1958 (DLA Marbach). 109   Carta de Blumenberg a Gadamer con fecha 29.12.1955 (DLA Marbach). En esos años Blumenberg publicará tres sustanciosos artículos sobre Copérnico en Studium Generale: 1) “Der kopernikanische Umsturz und die Weltstellung

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los años Gadamer escribiera una importante y muy conocida reseña a Die Legitimität der Neuzeit, y que además la publicase en Philosophische Rundschau,110 no debería ya sorprender a nadie. Tampoco debería sorprender que en el primer capítulo de Die kopernikanische Wende111 [1965] Blumenberg hiciera amplia referencia a Anneliese Maier, al igual que en múltiples pasajes de su monumental Die Genesis der kopernikanischen Welt112 [1975]. Todo parecía conspirar para que la presencia de Maier en éstos y aquellos trabajos de Blumenberg fuese inevitable. Por una carta enviada por Rothacker a Blumenberg, con fecha 15 de agosto de 1960, sabemos que Maier era también –al igual que Blumenberg des Menschen. Eine Studie zum Zusammenhang von Naturwissenschaft und Geistesgeschichte” [“La subversión copernicana y la posición del hombre en el mundo. Un estudio para la relación entre la ciencia de la naturaleza y la ciencia del espíritu”], Studium Generale, 8, 10, 1955, pp. 637-48; 2) “Kosmos und System. Aus der Genesis der kopernikanischen Welt” [“Cosmos y sistema. De la génesis del mundo copernicano”], Studium Generale, 10, 2, 1957, pp. 61-80; y 3) “Melanchthons Einspruch gegen Kopernikus. Zur Geschichte der Disoziation von Theologie und Naturwissenschaft” [“La protesta de Melanchthon contra Copérnico. Para la historia de la disociación entre teología y ciencia natural”], Studium Generale, 13, 3, 1960, pp. 174-82. A estos tres trabajos hay que añadir “Kopernikus im Selbstverständnis der Neuzeit” [“Copérnico en la autocomprensión de la Modernidad”], publicado en el marco de la Akademie der Wissenschaften und der Literatur in Mainz. Abhandlungen der geistes und sozialwissenschaftlichen Klasse, Jahrgang 1964, n.º 5, Mainz 1965, pp. 33968 (apareció también una versión reducida en el Jahrbuch der Akademie der Wissenschaften und der Literatur in Mainz, 1964, pp. 174 y ss.); y la introducción a una selección de escritos de Galileo, con el título “Das Fernrohr und die Ohnmacht der Wahrheit” [“El telescopio y la impotencia de la verdad”], en Galileo Galilei: Sidereus Nuncius (Nachricht von neuen Sternen). Dialog über die Weltsysteme (Auswahl). Vermessung der Höhle Dantes. Marginalien zu Tasso, Insel Verlag, Frankfurt am Main, 1965, pp. 7-75 110   Hans-Georg Gadamer, “Die Legitimität der Neuzeit”, Philosophische Rundschau, 15, 1968, pp. 201-9. 111   Hans Blumenberg, “Der naturphilosophische Hintergrund”, Die kopernikanische Wende, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1965, pp. 7-40. Este libro es fundamentalmente una compilación reelaborada y ampliada de los primeros artículos de Blumenberg sobre astronomía copernicana. 112   Hans Blumenberg, Die Genesis der kopernikanischen Welt [1975], Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, pp. 174 y ss., 219 y ss., 533 y ss.

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en ese momento– miembro correspondiente de la Academia de Mainz, pese a que aún no hubiese hecho acto de aparición en ninguna de las sesiones ordinarias de la institución.113 Rothacker estaba convencido de que ella encontraría en Blumenberg “un apreciado compañero de discusión” [“sie werde dann in Ihnen einen würdigen Diskussionspartner finden”].114 Ni Blumenberg ni el propio Rothacker podían imaginar entonces hasta qué punto esas palabras habrían de ser premonitorias, aunque en un sentido ciertamente inesperado. Sabemos, esta vez por Taubes, que entre Anneliese Maier y Blumenberg se creó una disputa de inciertos confines por la autoría intelectual de la célebre tesis –comúnmente atribuida a Blumenberg– sobre “la conexión entre el concepto nominalista de Dios y la formación de la ciencia natural [moderna]”.115 Tan profundas eran las afinidades entre Maier y Blumenberg que ambos se vieron en la tesitura de tener que defender la singularidad y autonomía de sus propios planteamientos frente a los del otro.

7. Kuhn según Blumenberg

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n consecuencia, las afinidades de Blumenberg respecto a Thomas S. Kuhn no podían sino ser también electivas, y quizá, y por las mismas razones, conflictivas. De acuerdo con la evidencia disponible, el primer abordaje de Blumenberg de la obra de Kuhn corresponde a un importante artículo de 1971, “Beobachtungen an Metaphern”, publicado en el Archiv für 113   Carta de Rothacker a Blumenberg con fecha 15.8.1960 (DLA Marbach): “Haben Sie Anneliese Maiers Aufsatz im letzten Band der “Scholastik” gelesen? Ich habe ihr geschrieben, sie solle endlich einmal zu einer Sitzung kommen – auch sie ist korrespondierendes Mitglied […]”. 114   Ibid. Hay constancia de que Blumenberg le envió a Rothacker su “Die Vorbereitung der Neuzeit”. Véase la postal de Rothacker a Blumenberg con fecha 30.4.1962 (DLA Marbach). 115   Véase la carta de Blumenberg a Taubes con fecha 29.7.1965 (DLA Marbach) y la de Taubes a Blumenberg con fecha 2.8.1965 (DLA Marbach).

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Begriffsgeschichte,116 y luego reelaborado en otros de sus trabajos posteriores.117 El que hace ahora al caso fue recogido con el título “Paradigma, grammatisch” en Wirklichkeiten in denen wir leben [1981].118 Este es su pacífico comienzo: Thomas Kuhn, en su muy controvertido libro sobre la estructura de las revoluciones científicas, introdujo en la teoría de la historia de la ciencia el concepto de paradigma. Él mismo indica en la introducción cómo llegó a la utilización de esta expresión. Había pasado el año académico 1958-1959 en un grupo del Center for Advanced Studies in the Behavioral Sciences, de Stanford, integrado mayoritariamente por sociólogos, en calidad de científico de la naturaleza. Para un tipo de especialista como él resultaba sorprendente la diversidad de opiniones sobre métodos y problemas científicos que se dirimen en el ámbito de las ciencias sociales. Kuhn no se dio por satisfecho con la suposición de que en las ciencias exactas de la naturaleza hay una mayor seguridad y solidez en las cuestiones fundamentales, sino que llegó a la conjetura de que allí otras estructuras históricas y sociales de la praxis teorética habían favorecido la consolidación de determinados supuestos que descartan las controversias.119

En este pequeño artículo Blumenberg trataba de poner de relieve cómo Georg Christoph Lichtenberg [1742-1799] –sin duda uno de sus autores preferidos– había utilizado “el término “paradigma” refiriéndolo como una metáfora a la historia de la ciencia”,120 y aplicándolo además al análisis histórico de la 116   Hans Blumenberg, “Beobachtungen an Metaphern”, Archiv für Begriffsgeschichte, 15, 1971, pp. 161-214. 117   En este artículo hay una anticipación de Schiffbruch mit Zuschauer. Paradigma einer Daseinsmetapher, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1979. 118   Hans Blumenberg, “Paradigma, grammatisch” en Wirklichkeiten in denen wir leben [1981], Reclam, Stuttgart, pp. 157-62. Trad esp. de Pedro Madrigal, “El paradigma, gramaticalmente”, en Las realidades en las que vivimos, Paidós I.C.E. / U.A.B, Barcelona, 1999, pp. 159-64. 119   Ibid., pp. 157. Trad esp., p. 159. 120   Ibid., pp. 158. Trad esp., p. 160.

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astronomía copernicana. Según Lichtenberg, del paradigma copernicano habrían sido “declinados”, como si de un paradigma gramatical se tratase, el resto de descubrimientos astronómicos modernos.121 En Die Legitimität der Neuzeit Blumenberg no desaprovechó la oportunidad de señalar un error interpretativo de Kuhn, quien, siguiendo una abundante y muy heterogénea tradición historiográfica, había atribuído a Copérnico el doble “anuncio profético”122 de que en un futuro no muy lejano se demostraría, gracias a algún instrumento que perfeccionase la capacidad de visión humana, que Venus poseía las mismas fases que la Luna: “la parroquia que encontró esta anécdota casa muy bien con la imagen de una historiografía de la ciencia para la que sus héroes, haciendo, como hacían, época, parecían tener, en ocasiones, demasiado poca conciencia de sí mismos”.123 Esta maliciosa apostilla también se aplicaba sin duda al propio Kuhn. Unas páginas más adelante, en la cuarta parte [1976] de Die Legitimität der Neuzeit, Blumenberg confrontaba expresamente su teoría de la reocupación con la teoría kuhniana de la estructura de las revoluciones científicas, reconociendo, no obstante, que su propuesta se aplicaba sobre todo a una historia de corte intelectual o espiritual [“Geistesgeschichte”]. A su modo de ver, la teoría de la reocupación […] proporcionaría un criterio sobre qué es lo que puede ser entendido aún en la historia cuando en ella se dan cambios radicales, transvaloraciones y giros decisivos que conciernen al conjunto de la estructura vital. Donde es más fácil que tenga éxito la aplicación de esta concepción es cuando se trata de realizar el ideal, ciertamente obsoleto, de una “historia del espíritu”. Éste   Para más detalles véase la reconstrucción de Blumenberg, ibid., pp. 157-62. Trad. esp. pp. 159-64. 122   Hans Blumenberg, Die Legitimität der Neuzeit [1966], Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1996, p. 426. Trad. esp. de Pedro Madrigal, La legitimación de la Edad Moderna, Pre-Textos, Valencia, 2008, pp. 367-8. 123   Ibid, p. 428. Trad. esp. ibid, p. 368. 121

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Alberto Fragio es, sin duda, el caso cuando el tema de la teoría de la historia no es otra cosa que la historia de la teoría, o sea, eso que actualmente puede ser llamado, sin ninguna actitud despectiva, la historia de la ciencia.124

Aunque “la vida histórica transcurra entre cosas que se derrumban y otras que se forman de nuevo […] sólo puede ser entendida –a juicio de Blumenberg– teniendo en cuenta el principio de autoconservación”.125 En este sentido, la teoría kuhniana de las revoluciones científicas puede describir de un modo correcto “el colapso de los correspondientes sistemas dominantes” [“den Zusammenbruch jeweils herrschender Systeme”],126 pero no ofrecería una explicación satisfactoria de “los actos de nuevas fundamentaciones que vayan a ocurrir después, donde se prefiera un nuevo “paradigma””.127 También en su posterior Die Genesis der kopernikanischen Welt [1975] Blumenberg se mostró renuente a la hora de seguir “el concepto […] de ‘cambio de paradigma’” para el análisis histórico del problema astrofísico moderno de “la deformación de la Tierra y el tiempo absoluto”:128     126   127   128  

Ibid, p. 539. Trad. esp. ibid, p. 462. Ibid. Ibid, p. 540. Trad. esp. ibid, p. 463. Ibid, p. 541. Trad. esp. ibid, p. 463. Hans Blumenberg, “IV. Die Deformation der Erde und die absolute Zeit” [“La deformación de la Tierra y el tiempo absoluto”], Die Genesis der kopernikanischen Welt [1975], Vierter Teil, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 2007, pp. 586-606. Trad. inglesa de Robert M. Wallace, The Genesis of the Copernican World, The MIT Press, Cambridge, Massachusetts, 1987, pp. 50424. No en vano, Kuhn no figuraba en la “lista de envío” [“Versandliste”] (DLA Marbach) de las personas a las que –entendemos– Blumenberg quería que la editorial Suhrkamp remitiese un ejemplar de Die Genesis der kopernikanischen Welt, quizá con la esperanza de que los destinatarios tuvieran a bien redactar una reseña. Tampoco, por cierto, en aquella otra sobre Die Legitimität der Neuzeit (DLA Marbach). Respecto a Die Genesis, saltan a la vista, entre otros muchos, los nombres de Enrico Castelli, Bernard I. Cohen, Gadamer, Pierre Hadot, A. R. Hall, Dieter Henrich, Jauβ, Hans Jonas, Ludwig Landgrebe, Hermann Lübbe, Helmuth Plessner, Paul Ricoeur, Carl Schmitt, Gershom Scholem y Carl 124 125

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Mi duda sobre este concepto se debe a su descuido de la continuidad como precondición para cada posible discontinuidad. Prefiero por ello la idea de “reocupación” de un conjunto tácito de posiciones que funcionalmente permanecen invariables y que no sólo hacen ‘viables’ las transformaciones parciales, sino que además las vuelven ‘plausibles’.129

En nuestra opinión, el fondo de la crítica de Blumenberg a Kuhn pasa por afirmar que este último habría entendido el cambio histórico por analogía con el acto voluntario,130 de tal forma que los cambios de época acabarían por ser el resultado de decisiones personales de sujetos que detentarían, quizá sin saberlo, el privilegio de hacer época.131 Desde la perspectiva de Blumenberg, Friedrich von Weizsäcker. Respecto a Die Legitimität der Neuzeit –en su primera edición de 1966– resulta muy llamativa la presencia en la lista de Gadamer, Pierre Hadot, Dieter Henrich, Wolfgang Iser, Hans Jonas, Reinhard Koselleck, Helmut Kuhn, Ludwig Landgrebe, Karl Löwith, Helmut Plessner, Joachim Ritter o Carl Friedrich von Weizsäcker, entre otros muchos. 129   La traducción es nuestra. Este es el pasaje original: “Ich möchte hier dem von Th. S. Kuhn vorgeschlagenen Konzept des ‘Paradigmawechsels’ nicht folgen. Mein Zweifel bezieht sich auf die Vernachlässigung der Kontinuität als Voraussetzung jeder möglichen Diskontinuität. Ich bevorzuge daher die Vortellung der ‘Umbesetzung’ eines intakt bleibenden und funktional vorausgesetzten Stellenrahmens, der partielle Veränderungen nicht nur ‘erträglich’, sondern vor allem ‘plausibel’ macht”. Hans Blumenberg, Die Genesis der kopernikanischen Welt, ob. cit., pp. 596-7. Trad. ingl. The Genesis of the Copernican World, ob. cit., pp. 512-3. Sin embargo Blumenberg no tenía empacho en recurrir a la noción de “paradigma” para explicar el rechazo de Galileo de la acción a distancia a través del espacio. Ibid., “Erfahrungen mit der Wahrheit: Galilei” [“Experiencias con la verdad: Galilei”], ob. cit., p. 455. Trad. ingl. ob. cit., p. 388. 130   Seguimos en esto a César G. Cantón, La metaforología de Blumenberg como destino de la analítica existencial, Tesis doctoral, Universidad Complutense de Madrid, 2004, p. 296. 131   Para más detalles véase el capítulo “Die Epochen des Epochenbegriffs” [“Las épocas del concepto de época”], Die Legitimität der Neuzeit, ob. cit., pp. 531-57. Trad. esp. La legitimación de la Edad Moderna, ob. cit., pp. 455-78. Véase también Hans Blumenberg, “Geschichtemachen”, Begriffe in Geschichten, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1998, pp. 63-5. Trad.

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Kuhn habría minusvalorado, después de todo, la existencia de estructuras duraderas en la historia, estructuras susceptibles de admitir reocupaciones constantes que permiten precisamente el continuum del discurrir histórico.132

esp. de César G. Cantón, “Hacer historia”, Conceptos en historias, Editorial Síntesis, Madrid, 2003, pp. 141-4. 132   Lamentablemente debemos interrumpir aquí nuestro breve análisis de la presencia de Kuhn en la obra de Blumenberg. Ni que decir tiene que Blumenberg llevó muchísmo más lejos sus críticas. Tendremos, no obstante, que dejar la tarea de un estudio detallado para otra ocasión. Véanse Hans Blumenberg “Anthropologische Annäherung an die Aktualität der Rhetorik” [1971], Wirklichkeiten in denen wir leben, Reclam, Stuttgart, 1981, p. 112. Trad. esp. de Pedro Madrigal, “Una aproximación antropológica a la actualidad de la retórica”, Las realidades en las que vivimos, Paidós I.C.E / U.A.B, Barcelona, p. 122. Hans Blumenberg, Arbeit am Mythos [1979], Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, p. 185. Trad. esp. de Pedro Madrigal, Trabajo sobre el mito, Paidós, Barcelona, 2003, p. 184. Hans Blumenberg, Theorie der Unbegrifflichkeit. Aus dem Nachlaβ herausgegeben von Anselm Haverkamp, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 2007, pp. 22-4. Hans Blumenberg, “Metaparadigma”, Begriffe in Geschichten, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1998, pp. 1289. Trad esp. de César G. Cantón, “Metaparadigma”, Conceptos en historias, Editorial Síntesis, Madrid, 2003, pp. 203-4. Véase asimismo Severin Müller, “Paradigmenwechsel und Epochenwandel. Zur Struktur wissenschaftshistorischer und geschichtlicher Mobilität bei Thomas S. Kuhn, Hans Blumenberg und Hans Freyer”, Saeculum, n.º 32, 1981 (a este texto hacían referencia, por cierto, Herzog y Koselleck en su “Projektskizze zur Poetik und Hermeutik XII”, DLA Marbach); Anselm Haverkamp, “Paradigma Metapher, Metapher Paradigma. Zur Metakinetik hermeneutischer Horizonte (Blumenberg/Derrida, Kuhn/Foucault, Black/White)”, en Reinhart Herzog y Reinhart Koselleck (eds.), Epochenschwelle und Epochenbewußtsein (Poetik und Hermeneutik; n.º 12), Fink, München, 1987, pp. 547-60; David Ingram, “The Copernican Revolution Revisited: Paradigm, Metaphor and Inconmensurability in the History of Sciences. Blumenberg’s Response to Kuhn and Davidson”, History of the Human Sciences, 6, n.º 4, 1993, pp. 11-35.

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8. La supervivencia de los tránsitos

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a aportación fundamental de Blumenberg al debate de las estructuras de la historia y de su cambio no debemos buscarla, a nuestro modo de ver, en las cimas estériles de la abstracción, por las que él mismo fue seducido una y otra vez, sino en sus magistrales crónicas de los desplazamientos simbólicos y de las incesantes reelaboraciones metafóricas. En el capítulo de Höhlenausgänge [1989] que lleva como título “Das Überleben der Übergänge”, “La supervivencia de los tránsitos”, Blumenberg propuso la “metáfora especulativa” [“spekulative Metapher”]133 –de clara inspiración freudiana– de los “traumas de separación” [“Trauma der Trennung”]134 para dar cuenta de la perseverancia de la vida a través de sus innumerables transformaciones filogenéticas, en un interminable proceso en el que los seres animados se veían, más tarde o más temprano, expulsados de su medio y obligados a ocupar (o reocupar) uno nuevo, alterando así “la totalidad de sus condiciones de existencia, sus formas de percepción y movimiento”.135 En lo que hace al caso del hombre, el trauma canónico de separación, cargado a su vez de reminiscencias filogenéticas, es el del nacimiento [“Geburtstrauma”]: “ver la luz del mundo como perífrasis del nacimiento suena a triunfo en boca de quienes ya creen estar en ella: éste es el estado que valía la pena alcanzar cuando uno se puso en camino alguna vez”.136 Blumenberg nos recordaba en ese capítulo de Höhlenausgänge que no somos realistas de nacimiento ni por naturaleza, y que se suele pasar por alto que los dolores del parto quizá no sean sólo los de la madre, sino también los de quien ha de ser parido: “la historia del in133   Hans Blumenberg, Höhlenausgänge [1989], Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1996, p. 22. Trad. esp. de José Luis Arántegui, Salidas de caverna, Antonio Machado Libros, Madrid, 2004, p. 25. 134   Ibid, p. 21. Trad. esp., p. 24. 135   Ibid. 136   Ibid, p. 21. Trad. esp., p. 23.

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dividuo empieza con una separación, y vuelve siempre a estar marcada por separaciones que a la vez son o pudieran ser grados de ganancia de realidad”.137 De manera análoga, la historia filogenética del conjunto de los seres vivos, estuvo y sigue estando marcada por parejas violencias, de modo “que sólo es llevar la especulación a un valor límite el ver la raíz de todo dolor en el surgimiento de las primeras formas de vida”.138 En la historia de los tránsitos asociados a la superviencia, “el primero y acaso el más decisivo” fue el tránsito del mar a la tierra: “podemos imaginarnos ese tránsito, en la línea de marea entre mar y tierra, asociado a sensaciones de violencia, de abandono de lo familiar en el “seno” de lo fluido, y así, como situación que somete a extrema tensión las reservas orgánicas”.139 El trauma está aquí en los millones de organismos que habrían tenido que perecer en su errático camino hacia la tierra. En suelo firme había de crearse un equivalente “a las condiciones marinas del cuerpo liviano y oculto en un medio homogéneo”.140 Los organismos hubieron de arrastrarse por lo desconocido hasta hacer de ello su elemento más propio; hasta el extremo de convertir lo radicalmente inhóspito y hostil a la vida en lo más familiar, cercano y acogedor, y además durante el lapso de tiempo en el que las exigencias de supervivencia no trajeran consigo el ulterior trauma de tener que transitar de la tierra a las ramas de los árboles y al aire. En ese momento, “vueltos pájaro, se alzan los reptiles en el aire, y los descendientes de los roedores se alejan del suelo y empiezan a animar los árboles, vueltos mundo del trepar, colgar y columpiarse”.141 En esta situación, “la membrana amniótica reproduce el medio primordial para la fase más sensible”, una suerte de mar en miniatura albergado en el seno de la madre: “a cambio, el trauma de la separación se introduce en la historia     139   140   141   137 138

Ibid. Ibid. Ibid, p. 21. Trad. esp., p. 24. Ibid, p. 22. Trad. esp., p. 25. Ibid.

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de la vida, y ello en un punto bastante tardío de la evolución. Sólo en el ser humano se llegará a retroceder aún más, hasta un grado de mayor indefensión y más larga permanencia bajo tutela de la madre”.142 En esta perspectiva, incluso el caso extremo de la llegada del hombre a la Luna podría ser visto como un nuevo tránsito en la marcha nunca interrumpida de la filogénesis:143 “antes aún del primer aterrizaje en la Luna, el adelantado de la astronáutica Werner von Braun respondía a la pregunta de cuál era la importancia exacta de ese hecho con estas palabras: “considero ese acontecimiento de la misma importancia que aquel momento de la evolución humana en que la vida se arrastró del mar a la tierra”. En aquella conferencia de prensa, al parecer, la analogía planteada debió de arrancar literalmente de sus asientos a los asistentes, según relata Norman Mailer. Aun cuando no se hubiera producido tal arrebato, sería comprensible por qué justamente esa anamnesis podía tener tanta fuerza”.144 Es en este imaginario desplegado por Blumenberg donde reaparecen tardíamente los “umbrales” [“Schwellen”] como teoría general de la historia (de la vida): los umbrales del tiempo se superponen con los umbrales del dolor, pero también con los “umbrales de capacidad de vivencia, de conocimiento, de reali  Ibid.   No deja de ser llamativo que en su primer libro, Paradigmen zu ei-

142 143

ner Metaphorologie, redactado antes de ese memorable acontecimiento, Blumenberg ya incidiera en la circunstancia de que quizá iba a ser necesario ponerse al día con la geografía americana o rusa para estar a la altura de los testimonios “que nos traigan o radiotelegrafíen los primeros viajeros”, Paradigmen zu einer Metaphorologie [1960], Frankfurt am Main, Suhrkamp Verlag, 1998, p. 92. Trad. esp. de Jorge Pérez de Tudela Velasco, Paradigmas para una metaforología, Madrid, Trotta, 2003, p. 141. Más allá de la ocurrencia, ya aquí reconocía Blumenberg la parte nominalista del ímprobo esfuerzo por salvar las distancias de incertidumbre y perplejidad suscitadas por el enigmático satélite, asimilando la toponimia lunar a ciertas zonas, en lo sucesivo preeminentes, de la toponimia terrestre. 144   Hans Blumenberg, Höhlenausgänge, ob. cit. p. 64. Trad. esp. Salidas de caverna, ob. cit., 2004, p. 59

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dad y, acaso de verdad” [“Schwellen der Erlebnisfähigkeit, der Erkenntnis, des Realismus, vielleicht der Wahrheit”].145 De este modo, desde los abismos insondables del pasado de las especies vivientes y de la antropogénesis, Blumenberg establecía ya su último y acaso definitivo apunte respecto a las estructuras de la historia y la teoría de la realidad, al señalar la indeleble conexión entre “los traumas de separación y los conceptos de realidad” [“Trennungstraumata und Wirklichkeitsbegriffe”].146

9. Umbrales de la recepción

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o podemos cerrar esta breve introducción sin hacer una rápido comentario al difícil problema de la recepción de la obra de Blumenberg. Para ello queremos remitirnos al debut de Blumenberg como figura intelectual de moderado alcance público. En la década de los 50, mientras su tambaleante carrera como profesor universitario en Kiel empezaba a consolidarse, Blumenberg llevó a cabo una ingente labor, virtualmente clandestina, como escritor de reseñas para la sección cultural del Düsseldorfer Nachrichten. A este periódico local de Düsseldorf entregaba pequeños textos, con frecuencia firmados bajo el seudónimo “Axel Colly”, que su querido amigo Alfons Neukirchen [1908-1993],147 periodista y jefe del Feuilleton, se encargaba de ir publicando. En esos años Blumenberg escribió numerosas recensiones, dedicadas a libros tan variados como el Das tibetanische Totenbuch [El libro tibetano de la muerte], el ortegiano Pasado y porvenir para el hombre actual [Vergangenheit 145   Ibid., p. 24. Trad. esp., p. 26. Blumenberg también se refería a la “Erlebnisfähigkeit” en su Die Sorge geht über den Fluβ, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1987, pp. 40-1. Trad. esp. de Jorge Vigil, La inquietud que atraviesa el río, Ediciones Península, Barcelona, 1992, p. 36. 146   Hans Blumenberg, Höhlenausgänge, ob. cit. p. 24. Trad. esp. Salidas de caverna, ob. cit., 2004, p. 26. 147   La correspondencia entre Blumenberg y Neukirchen (DLA Marbach) es extraordinariamente abundante, y se extiende más de tres décadas.

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und Zukunft im heutigen Men] o el Technik. Eine Geschichte ihrer Probleme [La técnica. Una historia de sus problemas] de Friedrich Klemm. Todos estos libros los solicitaba Blumenberg, o al menos los sufragaba, con cargo a la editorial –al igual que en el caso de Philosophische Rundschau– incrementando de este modo su biblioteca personal y su ya de por sí singular bagaje intelectual. A estas mismas fechas y circunstancias pertenecen también otros pocos artículos de mayor extensión, algunos de los cuales llegaron a causar un pequeño revuelo entre los lectores del Düsseldorfer Nachrichten, como “Keine medizinische Inflation?”148 o su artículo sobre Thomas Mann.149 De este heterogéneo conjunto de textos, de dudoso valor filosófico, queremos tan sólo destacar una brevísima reseña, de apenas siete líneas, al libro de Wolfgang Binde TABU. Die magische Welt und wir [“El mundo mágico y nosotros”]. No nos interesa tanto su contenido específico como el añadido que Blumenberg hubo ulteriormente mecanografiado en rojo en su copia original: “Wer dies ablegt, ist ein Dieb!” [“quien me robe esto es un ladrón”].150 Un poco más abajo, escrito a mano con letra torpe, probablemente la de un niño, figuraba lo siguiente: “Hans ist doof” [“Hans es tonto”].151 Quizá esta contraposición entre el ladrón y el tonto, entre el usurpador del pensamiento ajeno y la ocasional compostura afectada de su propietario, nos puede servir como un posible paradigma para una metaforología de la recepción, en este caso de la obra de Blumenberg, sobre todo de sus textos inéditos, pero también para el posterior trabajo de la reelaboración crítica. El motivo de la “supervivencia de los tránsitos”, aplicado al contexto de la recepción y a sus equívocos paradigmas, puede ser entendido como la imposibilidad de detener el movimiento   Hans Blumenberg ““Keine medizinische Inflation? Ein Einspruch und eine Antwort” (DLA Marbach). 149   Cartas de Blumenberg a Neukirchen con fecha 24.6.1955 y 31.5.1955 (DLA Marbach). 150   Hans Blumenberg, “Wolfgang Binde, TABU. Die magische Welt und wir” (DLA Marbach). 151   Ibid. 148

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incesante e imprevisible de la crítica, y como revulsivo al pequeño y enigmático mitologema, usualmente compartido por todos, de querer decir sobre un tema de especialización, ya que no las últimas palabras, al menos sí las penúltimas.152 En este sentido, la supervivencia de los tránsitos nos recuerda la vanidad intrínseca de cualquier voluntad de clausurar de una vez por todas la historia de la recepción. Más bien plantea la necesidad de abrirla y hacerla plenamente visible, de reestablecer su originaria condición de apertura y de quienes la reciben. Precisamente el problema de la recepción, con su ambigua hermenéutica y todos sus fructíferos malentendidos, e incluso con sus no menos frecuentes patologías,153 constituye en gran medida la razón de ser de la obra de Blumenberg, quizá el secreto último de su desbordante productividad. Blumenberg ha sabido como muy pocos rastrear en la cultura occidental el ejercicio inagotable de la libre variación de las metáforas, los símbolos, el mito o las anécdotas,154 levantando testimonio de sus respectivas dislocaciones de sentido.155 Desde la llamada divina y la escucha 152   Podemos ver en la “retórica de la gran relevancia teórica”, de acuerdo con la acertada expresión de José Luis Villacañas, el envés complementario del mitologema de las penúltimas palabras. Véase su “Esferas de acción y sistema filosófico. El carácter imprescindible de la metáfora”, en Daimon, n.º 24, Murcia, 2001, pp. 124 y ss. 153   Hans Blumenberg, “Rezeptionsfälle und -unfälle”, Höhlenausgänge, ob. cit. pp. 719-40. Trad. esp. “Casos y fracasos de la recepción”, Salidas de caverna, ob. cit., pp. 590-608. 154   César González Cantón lo ha expresado con mucho acierto: “El estilo mismo de Blumenberg, centrado en la anécdota –sobre todo en sus últimos trabajos–, no distingue […] entre lo que pasó, lo que se cuenta que pasó, lo que se piensa sobre lo que se cuenta… No hay diferencia relevante entre las personas y los personajes. Una historia real es sometida a variaciones imaginarias, y cada una de ellas tiene el mismo valor filosófico que la real”. Véase su La metaforología de Blumenberg como destino de la analítica existencial, Tesis doctoral, Universidad Complutense de Madrid, 2004, nota 337, p. 144. 155   En su trabajo sobre la metáfora y el mito en la obra de Blumenberg, Remo Bodei nos recordaba que “el término ‘metáfora’ (de ‘metaphoré’, que en griego quiere decir traslado, transporte) indica que la metáfora es una transposición, una dislocación del sentido: se une aquello que es distante, se

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humana en la gnosis y el cristianismo antiguo156 a la caída de Tales de Mileto,157 o desde “La Pasión según San Mateo”158 de Bach al mito platónico de la caverna,159 por citar tan sólo unos pocos ejemplos, Blumenberg no ha dejado de analizar los tránsitos de la recepción a través de las múltiples “huellas” [“Spuren”],160 “auras” [“Aura”]161 o “resonancias” [“Resonanzen”]162 que han sobrevivido al paso del tiempo hasta acabar por convertirse en objeto de una suerte de hermenéutica del vestigio, y con ello –y como el propio Blumenberg apuntara una vez– en materiales para

hace inmediatamente perceptible una relación que se creía inexistente”. Remo Bodei, “Metafora e mito nell’opera di Hans Blumenberg”, en Andrea Borsari (ed.), Hans Blumenberg. Mito, metafora, modernità, Bologna, Il Mulino, 1999, p. 29. La traducción es nuestra. 156   Hans Blumenberg, Die ontologische Distanz. Eine Untersuchung über die Krisis der Phänomenologie Husserls, Trabajo de habilitación inédito, Christian-Albrechts-Universität zu Kiel, 1950, Zweiter Teil, § 5 “‘Sehen’ und ‘Hören’”, pp. 60-9. Véase también Hans Blumenberg, “Licht als Metapher der Wahrheit. Im Vorfeld der philosophischen Begriffsbildung”, Studium Generale, 10, 1957, pp. 432-47. 157   Hans Blumenberg, Das Lachen der Thrakerin. Eine Urgeschichte der Theorie [1987], Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1987. Trad. esp. de Teresa Rocha e Isidoro Reguera, La risa de la muchacha tracia. Una protohistoria de la teoría, Pre-Textos, Valencia, 2000. 158   Hans Blumenberg, Matthäuspassion [1988], Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1988. 159   Hans Blumenberg, Höhlenausgänge, ob. cit. Trad. esp. Salidas de caverna, ob. cit. 160   Carta de Blumenberg a Lili Kracauer con fecha 1.8.1969 (DLA Marbach). 161 Cartas de Blumenberg a Jauβ con fechas 4.12.1979 y 13.6.1984 (DLA Marbach). Esta expresión fue muy utilizada por Jauβ, quien la tomó a su vez de Walter Benjamin. Véase el artículo de Jauβ de 1987 “Spur und Aura (Bemerkungen zu Walter Benjamins ‘Passagenwerk’” (DLA Marbach) que este último envió a Blumenberg. Como es conocido, a Jauβ se le suele considerar uno de los creadores de la así llamada “estética de la recepción”. 162   Carta de Blumenberg a Jauβ con fecha 29.8.1967 (DLA Marbach). Huellas, auras y resonancias son, junto al ladrón y el tonto, otros tantos posibles paradigmas para una metaforología de la recepción.

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una “auditoriología” [“Auditoriologie”]:163 aquella que tematiza la idiosincrasia de los receptores. Como muestra de este asunto, queremos traer a colación brevemente el ejemplo de libre variación de la expresión latina Flavit et dissipati sunt. En la etapa final de su vida, Blumenberg recopiló una gran cantidad de literatura primaria y secundaria relacionada con Freud, aún conservada en diversas carpetas depositadas en su Nachlaβ.164 Unos pocos de estos textos pertenecían a diferentes pasajes extraídos de las obras completas de Freud, en los que Blumenberg había subrayado los usos del psicoanalista austríaco de dicha expresión latina –o de alguna pequeña variación equivalente como Afflavit et dissipati sunt– a propósito de la terapia de la histeria. Esta locución, que podemos traducir como “Sopló y se dispersaron”,165 ha sido comúnmente asociada con el célebre episodio de la derrota de la Armada Invencible y el no menos conocido comentario de Felipe II: “Yo envié a mis naves a pelear contra los hombres, no contra los elementos”. Si en este último caso el soplo contra la Armada española no podía sino ser el de Dios, en el de Freud era el del inconsciente, que de un solo golpe vencía todas las resistencias.166

  En una de las dos fichas que acompañaban los apuntes de Blumenberg para un curso introductorio sobre fenomenología, “Einführung in die Phänomenologie” (DLA Marbach), concebidos en 1970 y revisados en 1977, figuraba el concepto de “auditoriología”, acompañado de la siguiente referencia bibliográfica: “Volker Aschoff, Grundlagen und Ergebnisse der Auditoriologie, Essen 1971, Vulkan-Verlag, 258 S”. 164   Hans Blumenberg, “Materialsammlung Freud” (DLA Marbach). 165   Agradezco con cariño a Carmen Jodra y Tessa Marzotto el que me ayudaran a traducir la locución. 166   Para más detalles véase Hans Blumenberg, Die Lesbarkeit der Welt, Frankfurt am Main, Suhrkamp Verlag, 1981, pp. 366-71. Trad. esp. Pedro Madrigal, La legibilidad del mundo, Barcelona, Editorial Paidós, 2000, pp. 370-5. Véase adicionalmente S. Freud, La interpretación de los sueños [1900], en Obras completas, Amorrortu editores, Buenos Aires, 1991, vol. 4, p. 227. 163

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10. ¿Renunciar a cazar el cisne?

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e nos disculpará si antes de terminar hacemos todavía referencia a Platón, sin duda otro de los autores predilectos de Blumenberg.167 Se cuenta del filósofo ateniense que hacia el final de su vida tuvo un sueño en el que se veía a sí mismo encarnando un animoso cisne que saltaba de un lado para otro, burlando de este modo a sus captores, que inútilmente se afanaban en darle caza.168 Simias, uno de los discípulos de Sócrates, se aventuró a dar una interpretación de tan extraño sueño: por más que se intente comprender el significado auténtico y último del pensamiento platónico nadie lo conseguirá, y cada cual se verá destinado a ofrecer su singular interpretación en arreglo a sus propios conceptos e inclinaciones: “Todos los cazadores afirman haber visto el cisne por aquí o por allá, pero al final el cisne los esquiva, tal como lo ha hecho durante dos mil años”.169 No podemos dejar de observar, en la línea de la argumentación blumenberguiana sobre la filogénesis, que una de las características más notables del cisne, en tanto ave acuática, es su condición de animal que transita con naturalidad de un medio a otro, del aire al agua, del agua a la tierra, de la tierra al aire, etc. En Schiffbruch mit Zuschauer [1979], Blumenberg nos recordaba que en la mitología griega la tierra y el mar, y por extensión también el aire, caían bajo la jurisdicción de poderes y dioses diversos: “del océano, que rodea los límites del mundo habitable, proceden los monstruos míticos más alejados de las figuras cono  Además de que su último libro publicado en vida, Höhlenausgänge [1989], versase sobre la historia de la recepción de la alegoría platónica de la caverna, Blumenberg también le dedicó dos amplias lecciones, las Vorlesungen XVII y XXVII (DLA Marbach). 168   Francisco José González, “A la caça de Plató: una alternativa a les interpretacions tradicionals”, Comprendre. Revista catalana de Filosofía, I, 2, 1999, pp. 127-40. 169   “Qualsevol caçador afirma avui haver vist el cigne ací o allà. Al capdavall, però, el cigne s’escapa de tothom, tal com ha fet durant més de dos mil anys”, ibid., p. 127. 167

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cidas de la naturaleza y que no parecen ya comprender el mundo como cosmos”.170 En Die Sorge geht über den Fluβ [1987], en un pequeño artículo titulado “Quejas al mar”, Blumenberg recogía la fábula de Esopo sobre el náufrago que, vencido por el agotamiento, se abandona en la oscuridad de la noche al furor de la tormenta, despertando al día siguiente en la arena de la playa. Ante la vista del mar en calma “le embarga la ira y arremete contra aquello que le llevó a la ruina: con un bello semblante seduce el mar al hombre para perderle cuando le sigue”.171 En ese momento el mar habría tomado la palabra –de otro modo no sería una fábula– y le replicó al encolerizado náufrago: “No te quejes de mí, sino de los vientos, pues yo por naturaleza no soy distinta a la tierra; son ellos los que caen sobre mí y me arrancan violentas olas”.172 Blumenberg observa que la fábula es fragmentaria: “los vientos, ahora censurados por el náufrago, deberían haber tenido la palabra. Acaso habrían dicho: el mar no es como la tierra. Cuando caemos sobre ésta, no se mueve. Para eso necesita el seísmo”.173 Pero este último, el seísmo, permanecía a su vez bajo la jurisdicción mítica de Poseidón, dios del mar.174 En esta fábula de Esopo no comparecía cisne alguno, pero sí en el episodio mítico de la violación de Leda por parte de Zeus. Adoptando la forma de ese animal, y fingiendo ser perseguido por un águila, Zeus llegó a la orilla del río Eurotas, en la que la mortal y atractiva Leda se encontraba dando un paseo. La transformación en cisne, con la que, en exacta inversión de nuestra pequeña parábola, Zeus cazaba a Leda, no era sino una artimaña 170   Hans Blumenberg, Schiffbruch mit Zuschauer. Paradigma einer Daseinsmetapher, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1979, p. 9. Trad. esp. de Jorge Vigil, Naufragio con espectador, Visor, Madrid, p. 14. 171   Hans Blumenberg, Die Sorge geht über den Fluβ, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1987, p. 7. Trad. esp. de Jorge Vigil, La inquietud que atraviesa el río, Ediciones Península, Barcelona, 1992, p. 7. 172   Ibid. 173   Ibid. 174   Hans Blumenberg, Schiffbruch mit Zuschauer, ob. cit., p. 9. Trad. esp. Naufragio con espectador, ob. cit., p. 14.

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nefanda concebida para pasar desapercibido y no levantar sospechas de ningún tipo. Un modo, en suma, de transitar libremente entre los distintos órdenes y jurisdicciones, quedando así invisible e impune su transgresión de fronteras. Para el caso de la recepción crítica de la obra de Blumenberg, y sin querer abusar del juego alegórico, quizá podríamos plantearnos, en cambio, si el ladrón no debería renunciar de una vez por todas a querer dar caza al cisne, si no debería desistir tras tantos intentos fallidos, ante el espectáculo bochornoso de sus torpes e ineficaces movimientos. No obstante, si algo enseña la obra de Blumenberg, es que por más que el cisne no sea susceptible de ser cazado, tampoco cabe renunciar así como así a querer darle caza.

11. Nuevos paradigmas de análisis

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l modo en que hemos entendido la obra de Blumenberg ha experimentado en los últimos años notables variaciones. Beschreibung des Menschen175 [2006] y Theorie der Lebenswelt176 [2010], por ejemplo, han ofrecido una renovada perspectiva desde la antropología filosófica y la fenomenología del mundo de la vida. Otras de las obras póstumas de Blumenberg, como Theorie der Unbegrifflichkeit177 [2007], Der Mann von Mond178 [2007] o Quellen179 [2009], han proporciondo argumentos adicionales so175   Hans Blumenberg, Beschreibung des Menschen, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 2006. 176   Hans Blumenberg, Theorie der Lebenswelt, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 2010. 177   Hans Blumenberg, Theorie der Unbegrifflichkeit. Aus dem Nachlaβ herausgegeben von Anselm Haverkamp, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 2007. 178   Hans Blumenberg, Der Mann vom Mond. Über Ernst Jünger. Herausgegeben von Alexander Schmitz und Marcel Lepper, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 2007. 179   Hans Blumenberg, Quellen. Herausgegeben von Ulrich von Bülow und Dorit Krusche, Deutsche Literaturarchiv Marbach, Stuttgart, 2009.

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bre el marco teórico manejado por Blumenberg y sobre algunas de sus influencias menos conocidas. Mientras tanto, las investigaciones centradas en la obra temprana de Blumenberg, como su disertación doctoral Beiträge zum Problem der Ursprünglichkeit der mittelalterlich-scholastischen Ontologie [1947] o su trabajo de habilitación Die ontologische Distanz. Eine Untersuchung über die Krisis der Phänomenologie Husserls [1950], nos invitan a reconsiderar el pensamiento blumenberguiano desde el punto de vista de la hermenéutica de la facticidad y de la fenomenología transcendental. Por añadidura, la correspondencia de Blumenberg con Carl Schmitt,180 y las compilaciones de númerosos artículos aparecidos en revistas especializadas de difícil acceso,181 como magacines y periódicos,182 arrojan una imagen más amplia y compleja, si cabe, de la obra de Blumenberg. Todas estas aportaciones se han venido a sumar a las cuestiones, ya clásicas, de la legitimidad de la Modernidad, la polémica de la secularización, la metaforología o el absolutismo de la realidad. El libro que el lector tiene entre sus manos ha sido concebido por sus autores con el propósito de mostrar nuevas aproximaciones con las que analizar la obra de Blumenberg desde una amplia variedad de perspectivas. Renovados intentos con los que quizá dar caza, por fin, al cisne. 180   Alexander Schmitz y Marcel Lepper (eds.), Hans Blumenberg Carl Schmitt Briefwechsel 1971-1978, Suhrkamp Verlag, Frankfurt, 2007. Sobre Blumenberg y Schmitt véase también el último apartado del epílogo de José Luis Villacañas, “La leyenda de la liquidación de la teología política” en Carl Schmitt, Teología política, Editorial Trotta, Madrid, 2009, pp. 173-80. 181   Hans Blumenberg, Ästhetische und metaphorologische Schriften. Auswahl und Nachwort von Anselm Haverkamp, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 2002. Hans Blumenberg, “Atommoral. Ein Gegenstück zur Atomstrategie”, en Helga Raulff (ed.), Marbachermagazin 123/124, Strahlungen. Atom und Literatur, Deutsche Schillergesellschaft, Marbach am Necker, 2008, pp. 124-41. 182   Hans Blumenberg, Begriffe in Geschichten, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1998. Trad esp. de César G. Cantón, Conceptos en historias, Editorial Síntesis, Madrid, 2003. Hans Blumenberg, Ein mögliches Selbstverständnis. Aus dem Nachlaβ, Stuttgart, Reclam, 1997. Trad. esp. de César González Cantón y Daniel Innerarity, La posibilidad de comprenderse, Editorial Síntesis, Madrid, 2002.

José Luis Villacañas

Leviatán. Un fragmento gnóstico en la modernidad

1. La tesis de Blumenberg

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o repetiré la tesis de Blumenberg sobre la modernidad: esta sería la propuesta de la autoafirmación del ser humano como única forma de vencer la renovada presencia de la gnosis. Pero esta tesis implicaba dos cosas: primera, que hubo un asalto gnóstico antes de la moderni­dad. Este asalto tendría como objetivo la devaluación del mundo sen­sible, la proliferación de la decepción y la melancolía ante él y la exi­gencia de nuevas formas de sacralizarlo. Segunda, que este asalto gnóstico fue superado en la modernidad sin recaídas en la trascenden­cia, recurriendo sólo a la propia dimensión inmanente del ser humano. El asalto gnóstico hablaba de mundo imperfecto, construido por un demiurgo creador incompetente. Ésta fue la premisa gnóstica. Mas la modernidad, en lugar de confiar en alguna forma de trascendencia, se entregó al proceso de intervención en el mundo, de conocer sus posi­bles cambios, de preparar sus metamorfosis, su dignificación y su sal­vación con herramientas humanas. Así que donde la gnosis subrayaba la materialidad del mundo con la idea de transmitir que era una cárcel del pneuma, la modernidad aceptaba la materialidad como punto de partida de su intervención masiva. La conciencia de un mundo degra­dado y material preparaba así su transformación técnica. El Dios tras­cendente de    H. Blumenberg, The Legitimacy of the Modern Age, Mit, Massachussets, 1985, part II, “Cosmogony as a Paradigm of Self-Constitution, pág. 205-222. “Reduction of the world to pure materiality is not a primarily a theoretical proposition, which would have to compete with a traditional truth, but rather a postulate of reason assuring itself of its possibilities in the world —a postulate of self-assertion”. Ob.cit. pág. 209-210.

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los gnósticos se convirtió en un Dios ausente y prescindi­ble, y el destierro del ser humano en esta tierra incluyó la misión de dominarla. Así que la gnosis se superó —pues ni siquiera se confió en la trascendencia del tiempo—, pero se podría decir también que sus premisas se adaptaron como imaginario básico de la modernidad. El ser humano se autoafirmó, cierto, pero parece que tal actitud sólo fue considerada legítima cuando se hizo derivar de una reocupación de la subjetividad divina que dejó al Dios tradicional sin espacio. El ca­rácter imperfecto del mundo pasó a ser una condición de posibilidad abierta a la actividad del ser humano. Blumenberg sugirió en su día que este esquema se repite en Hob­bes, nuestro autor hoy. Y lo hizo mostrando el final de la filosofía es­toica del derecho natural. Mucho antes de que Kelsen extrajera la misma consecuencia, Hobbes mostró que el derecho natural implica un ius in omnia. Pero al ser universal lleva consigo un ius omnium in omnia. Así que la ley natural implica el caos del derecho absoluto. En simétrica oposición al viejo Platón, que tenía que ofrecer una teoría del cosmos como preámbulo de una teoría del Estado, ahora Hobbes insistía en un mundo de choques caóticos como metáfora de la guerra de todos contra todos. El mismo caos de la materialidad era ahora la premisa para el mundo físico y el político. De esta forma, Hobbes asumió la premisa gnóstica de la decadencia radical del mundo, que él llevó hasta hacer de todos los seres humanos fieras enloquecidas. Para que ese caos llegase a cosmos, en ambos terrenos se requería reocu  “God must not be needed in the history of the world itself”, ob. cit., pág.



210.

   “Neither resignation before ‘laws of nature’ nor leaving everything to the transcendence of time, as final form of all the trascendences that are indifferent with respect to man, have been able to invalidate the self-assertion of reason”. Ob. cit. pág. 226.    “The process of the disappearance of order and teleology in nature has undergone a revaluation; what is no longer found ready as reality benefiting man can be interpreted as a possibility open to him”. ob.cit. pág. 211.    Cf. ob. cit. pág. 218 y sigs.

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par la misma capacidad creadora de un dios. En realidad, fue así: como sabemos, Hobbes se planteará el problema de cómo imitare creatio­nem en el campo político. Como ha señalado Q. Skinner, “Hobbes goes to the almost blasphemous extreme of drawning a parallel bet­ween this act of engendering and the work of God”. La premisa gnós­tica también produjo en su teoría del Leviatán una reocupación del es­pacio de Dios. Sin embargo, esta aproximación a Hobbes, aunque excitante, es claramente limitada. Sin duda, puede ser ampliada con facilidad en algunos puntos. La premisa de la posición de Blumenberg, desde luego, reside en que el viejo Dios católico ya no podía garantizar a toda costa la continuidad entre naturaleza y gracia, que la neoescolástica, haciendo pie en Santo Tomás, había intentado salvar por todos los medios. Sin duda, este esquema escolástico era relevante para la política en un punto central: la autoridad política legítima hundía sus raíces en una dimensión de dominio natural querido por Dios. Tal cosa sucedía mediante la fundamentación del poder monárquico en el poder paternal y en su transmisión directa desde Adán. La teoría implicaba salvar en este mundo una huella de la institución originaria, válida ya en el Paraíso, la familia, y trasladarla al mundo caído como un elemento de salvación y orden. Vemos así que, como ya supo el católico Chesterton, Tomás de Aquino resistió la gnosis de manera profunda al defender la continuidad de naturaleza y salvación, naturaleza y ordenación a la gracia. El universo de Hobbes es distinto. Como es sabido, Hobbes se opone a esta continuidad. Entre el Dios creador y el rey político ya no hay línea ininterrumpida de legitimidad. En su dedicatoria a Francis Codolphin,   Quentin Skinner / Yves Charles Zarka, Hobbes. The Amsterdam Debate, edited and introduced by Hans Blom, Olms, 2001, pág. 63. En realidad, cita el pasaje de “The Pacts and Covenant, by which the parts of this Body Politique were at first made, set together, and united, resemble that Fiat, ot the Let us make man, pronounced by God in the Creation”. Th. Hobbes, Leviathan, or the Matter, Form & Power of a Common-wealth Ecclesiasticall and Civill, edited Richard Tuck, Cambridge, C.U.P. pág. 9-10. En la edición de C. B. Macpherson, 1968, Peguin, está en la pág. 82. 

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Hobbes identifica esta doctrina como la propia de aquellos que “contend [...] for too much Authority”. Quintin Skinner ha identificado a sus líderes teóricos . Como sabemos, las teorías llegan hasta Robert Filmer, el gran rival de Locke. Su tesis básica es que Dios es el autor inmediato de la autoridad y de todos los poderes políticos, que son naturales. Esto es así porque derivan de los padres. Como los seres humanos no eligen a sus padres, no eligen a sus reyes. Frente a esta teoría, Hobbes insiste en que lo natural es el individuo, no la familia, y que por eso cada uno vive en el caos. Si hay un poder, una autoridad y un Estado han de ser siempre de naturaleza artificial.

2. Una simplificada filosofía de la historia

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sí que la premisa gnóstica de Hobbes, en este sentido, nos sugiere que el Dios de los patriarcas, el Dios de los reyes, el Dios del Antiguo Testamento ya no tiene vigencia. No es un azar que Hobbes tuviera necesidad de avisar a sus lec   Leviathan, ob. cit. pág. 75. Trad. espa. Círculo de Lectores, Carlos Mellizo, pág. 37.    en Thomas Morton, que escribió The Necessity og Christian Subjection, y que publicó en 1643 y sin editor en Oxford, y en G. Williams, que en el mismo año editó su Vindiciae Regum; or the Great Rebellion, igualmente en Oxford y en el mismo año, pero editado por Genry Hall. Por último, un año después, John Maxwell, en su Sacro-sancta Regum Majestatis; or The Sacred and Royall Prerogative of Christian Kings, en la misma casa y ciudad. Su rival fue Henry Parker, que escribió “Observations upon some of His Majesties late Answers and Express” [1642], en Tracts on Liberty in the Puritan Revolution 1638-1647, ed. por William Haller, New York: Columbia Univ.Press, vol. 11, pp. 167-213. Éste sería el líder de aquellos que, según Hobbes, “contend on one side fortoo great Liberty”. Su tesis es que la “the whole universality of the people” no es sólo el “free and voluntary Author” de toda soberanía, sino que además mantiene en todo tiempo “the proper Subject of all power”. Pág. 167 y 210. Cf. Skinner, ob.cit. pág. 65.    En el cap. XVII, ob. cit.pág. 226, y cast. Pág. 219. Pero ya en la Introducción se dice con claridad que el Leviathan es un “artificial Man”. Ob. cit. pág. 81 y cast. 39.

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tores acerca de la naturaleza ofensiva que él estaba haciendo de la Sagrada Escritura10. Sin embargo, tal uso era inevitable, porque esos textos sagrados –dice– son las “Outworks of the Ennemy”, desde donde todas las facciones disparan contra todo Civill Power. Así que aquí también se debían cortar las líneas de continuidad. Cuando vamos al cap. xxxv del Leviathan, que se interroga sobre el significado del reino de Dios, que atraviesa todo el Antiguo Testamento y concede la centralidad a la tradición de los judíos, vemos que Hobbes defiende expresamente que tal expresión debe tomarse en sentido literal: fue un pacto o alianza por el que el pueblo de Israel elige a Dios por su rey. Con ellos los judíos eran unos “peculiar Subjects”, en tanto estaban sometidos no a la ley moral, sino a la “Gods positive Law”11. El de los judíos fue un reino formado por un pacto entre Dios y su “extraordinary People”, por el cual “God was their King, and governed the Civil State of their Common-Wealth”12. Desde luego, no había aquí una metáfora. El rey era Dios, la única persona pública y representativa, el único soberano, la persona del Estado. De él era ahora la nación de los judíos. Hobbes resume su tesis de que el reino de Dios es un “Civill Kingdome”. Sin embargo, lo más sorprendente es que este mismo razonamiento vale para el Nuevo Testamento y el nuevo Reino de Dios. De hecho, Cristo no hace sino restaurar aquel reino. Sin embargo, la diferencia reside en que mientras que el reino de Dios con los judíos fue presente durante un tiempo, el de Cristo hemos de rezar para que venga. El pacto con Dios lo hacen ahora los cristianos, pero es un pacto de futuro. Abrazar el Evangelio es “to promise obedience to Gods government” y esto significa “to bee in the Kingdome of Grace”13. Cuando se reconoce esa alianza a través de la fe, se alcanza gratis “the power to bee the subjects (that is, Children) of God hereafter”.   “That which perhaps may most offend, are certain Texts of Holy Scripture, alledged by me to other purpose than ordinarily they use to be by others”. Leviathan, ob. cit. pág. 76 cast. 38. 11   Leviathan, ob. cit. pág. 443, cast. pág. 469. 12   Leviathan, ob. cit. 446 y cast. 472. 13   Leviathan, ob.cit. pág. 448 y cast. 474. 10

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Hay un juego de reinos aquí muy especial, diseñado para romper la continuidad y marcar las diferencias entre el pasado y el futuro de la gracia, y así crear el tiempo meramente humano del presente, ajeno a ella. En realidad, los cristianos somos parte del reino de la Gracia, pero esto no nos da derecho aquí y ahora a nada, sino sólo poder ser súbditos e hijos de Dios en el futuro. Es una promesa lo que obtenemos y por eso el vínculo es de fe. Esa promesa dice que seremos súbditos de otro reino, del Kingdom of Glory. Tal cosa sucederá “when”. Como es natural, este adverbio temporal juega con el anterior “hereafter”. Ese “cuando” es muy preciso: “when Christ shall come in Majesty to judge the world”. Sólo entonces se hablará de presente: “and actually to govern his owne people”. Entre el Antiguo Testamento que se ha hundido en el pasado, y el Nuevo Testamento que de hecho sólo tendrá actualidad en el futuro, queda el tiempo del presente. Se trata de la doctrina de los tres mundos, la simplificada filosofía de la Historia de Hobbes, que arruina la retórica medieval de las Siete edades y coloca entre el principio y el final de las postrimerías el tiempo indefinido del mundo. En ese especial capítulo sobre los viejos temas del Apocalipsis que es el xxxviii, dedicado al análisis de significado del futuro, Hobbes dice con toda claridad: “There are three worlds mentioned in Scripture, the Old World, the Present World, and the World to come”14. Hay tres mundos, entonces, y si el primero se extiende hasta el diluvio, el presente se extiende desde entonces hasta el día del Juicio Final. El tercero se inaugurará ese mismo día de la Segunda Venida de Cristo. Como se ve, el mundo presente, el temporal, el corrupto mundo de la gnosis, queda autonomizado en su duración, pero sobre todo sin otra conexión con el mundo de la Gracia salvo la fe. La presencia de Dios y su pacto con el pueblo de Israel está rota y la venida de Cristo no es sino para ofrecer una renovación de la promesa. Pero Cristo sólo tiene una palabra, recogida por Juan 18:36: “Mi reino no es de este mundo”. En el comentario de esta frase del cap.   Leviathan, ob.cit. pág. 495 y cast. 527.

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xli,

se expone el significado: “The Kingdome of Christ is not to begin [un]till the generall Resurrection”15. El reino de Cristo no comenzará hasta que tenga lugar la resurrección. El contacto con Dios se cierra ahí: tenemos una promesa y una fe y la esperanza ha sido regenerada. El tiempo de la vida carnal de Cristo fue un anticipo del reino de Dios16, pero no funge efecto alguno en el presente, salvo la creencia. Pero la creencia no produce efecto alguno en el mundo presente, pues concierne sólo al futuro que está en el exclusivo poder de Cristo. Todo lo que tiene que ver con Dios se resume en esta premisa gnóstica. La época del presente no conecta con Dios de ninguna manera. Pero la ganancia que se quiere obtener con esto apenas puede ser ocultado. Así se impugna la premisa básica de la Iglesia católica: que el reino de Dios ya ha comenzado desde la primera venida de Cristo y la elección de su vicario, con la formalización de sus oficiales, su clero, sus impuestos y sus códigos católicos. A esto opone Hobbes su doctrina: no es posible un reino institucional que conecte con Cristo, porque su reino es de futuro17. Bellarmino, y su obra De Summo Pontifice es así refutado de raíz18. Pero no nos engañemos. Hobbes tampoco quiere otro contacto profético, como el que ofrecen los reformados. La tesis del prolijo cap. xxxvi “De la palabra de Dios y de los Profetas” es en este sentido rotunda. Ya no hay profetas ni puede haberlos. Esa es la palabra de Dios: “No escuchéis lo que os profetizan los profetas”. Ahora bien, tras Cristo, no puede haber otro profeta, pues el único espíritu de profecía que él ha permitido consiste en reconocerlo como Cristo y rey futuro de los cristianos. Su reino   Leviathan, ob. cit. 514, cast. 549.   Literalmente un ”earnest of the Kingdom of God that was to come”,

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pág. 516 y 551. 17   Para esto se debe ver el cap. xlii, § 26, al final, cuando se dice “Again, our Saviour Christs Commission to his Apostles and Disciples wasto proclaim his Kingdome (not present, but) to come. [...] In all which there is nothing of Power, but a Perswasion”. Pág. 551, y cast. 589. 18   Su refutación se dará en la parte final de cap. xliii, “Del poder eclesiástico”, a partir del § 43, págs. 576 y sigs y cast. 615 y sig.

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es válido sólo para el futuro y vendrá cuando Él lo decida. ¿Y mientras, qué hacer? La pregunta, que es la preferida por Hobbes, dice que Cristo no nos ha dado leyes nuevas para el ahora, dice Hobbes en el cap. xliii, sino el consejo de observar aquéllas a las que estamos sujetos por nuestros soberanos respectivos19. Quien se pretenda profeta, por tanto, pretende disponer ahora del poder sobre el mundo, del poder sobre este universo ajeno a Cristo, gnóstico, y por eso al sacralizar una realidad puramente inmanente es sospechoso de ambición y de impostura20. Una profecía falsa no puede sino producir otras muchas más. La consecuencia será “the first Chaos of Violence and Civill warre”21. El corolario que se sigue de aquí, en esa época de decadencia y caos aumentados por la falsa profecía de encontrar en este mundo degradado un poder conectado con la divinidad, es que el rey y todo poder político han de ser establecido antes, no a consecuencia de su capacidad profética. Las leyes del Estado, las leyes del mundo presente, no pueden derivar de Cristo ni de sus profetas. Son leyes que los mismos hombres han de hacer sin apoyo en la promesa de Cristo.22

19   Dice este capítulo titulado “Of what is necessary for a Mans Reception into the Kingdome of Heaven”, tan relacionado con los anteriroes, se dice que únicamente se requiere la fe en Cristo y la obediencia a la ley. Leviathan, ob.cit. pág. 610, y cast. 652. Aquí se dice que “For our Saviour Christ hath not given us new Laws, but Counsell to observe those wee are subject to”. Pág. 611 y cast. 653 y 654. 20   Leviathan, ob. cit. pág. 466, cast. 494. 21   Levithan, ob. cit. pág. 469, cast. 497. 22   Otra cosa sería que el rey o “Civill soveraign” profetizara. Entonces no se podría hablar de impostura ni su palabra podría ser sometida a crítica y examen por el súbdito. De hecho, estas es la tesis del § 14, cuando dice “All prophecy but of the Soveraign Prophet is to be examined by every Subject”. Leviathan, ob.cit. pág. 467, y cast. 495.

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3. Invenciones de los hombres

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in duda, ahí estaba la época y Hobbes lo sabía con toda claridad23. De ahí los dos enemigos a los que se dirige en su obra. Por una parte, la Iglesia católica. Por otra, los elementos proféticos reformados, como los anabaptistas y los puritanos radicales. Ahora bien, esta época en la que los profetas falsos producen un completo caos y violencia originaria, porque quieren ir más allá de reconocer que Cristo ya ha venido y “looketh for him in some future Imposter that shall take upon him that honour falsely”24, no puede ser llamada con propiedad —“properly”— sino la época del Anticristo. Y esa época era la que tenía que ser neutralizada. ¿Cómo hacerlo? ¿De dónde encontrar recursos y energías, siendo así que Cristo no está presente en esta historia hasta que decida venir? Frente al Anticristo siempre se había posicionado la Iglesia de Roma. Hobbes ahora tiene que negar esta posibilidad. Al contrario, la Iglesia ha puesto en circulación el error básico: que el reino de Cristo ya ha llegado y está en el mundo presente y que ha dejado un vicario por el cual actúa en este mundo antes de su segunda venida. Contra esta opción resuena su sagrada palabra de que su reino no es de este mundo. La tesis de Roma, en su opinión, es “el mayor y principal abuso que se hace de la Escritura”. En realidad, esa tesis abre la Cuarta parte del libro, dedicado a “The Kingdome of Darknesse”25. De esa premisa romana se deriva que “tiene que haber un hombre o asamblea por cuya boca nuestro Salvador hable y dé leyes”. El error teológico es el mismo que en los profetas reformados: Dios está en contacto con el mundo de otra forma que por haber fundado el reino de la Gracia, el de los que esperan la Promesa,   “And such giving of the Lye to one another and such controversies in the New Testament at this day, amongst the Spirituall Prophets”. Leviathan, ob. cit. pág. 467 y cast. 495. 24   “Lo busca en algún futuro impostor que asuma ese honor de forma fraudulenta”. 25   Leviathan pág. 629: “The greatest and main abuse of Scripture”, dice. Cast. pág. 675. 23

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convirtiendo su reino en algo de este mundo26. La cuestión queda en cómo neutralizar la época del Anticristo, sin depender de la acción de los vicarios o profetas de Cristo. Entonces obtiene pleno sentido la referencia al Leviatán, la reocupación de este mito. No hay otras leyes en mundo presente que las leyes civiles. No hay antes de la segunda venida de Cristo leyes religiosas ni leyes sagradas de las que se puedan derivar obligaciones políticas. Cristo nos ha dado la orden de obedecer cualquier ley a la que estamos sujetos por nuestros soberanos respectivos. Pero no nos ha dado indicaciones acerca de cómo formarlos ni establecerlos, ni reconocerlos. Desde luego, ese poder no ha de poner en peligro la salvación eterna27. La manera de cumplirla sería mediante la gracia universal de la razón. Pero el problema consiste en que esta empresa no se forja al principio de los tiempos, sino en medio del presente, ese ancho mundo temporal que va desde el diluvio hasta la Segunda Venida en el que no hay sino caos y violencia. En suma, en un mundo gnóstico, donde dominan los poderes de las tinieblas, ¿cómo tener una ley legítima? ¿Cómo proponer una ley civil capaz de neutralizar los efectos del error, y sus consecuencias, la guerra civil y no aumentarlos?28. Situado en este preciso problema, Hobbes añade lo que a mi parecer supone el diagnósitico básico del libro: “But as the Inventions of men are woven, so also are they ravelled out; the way is the same, but the order is inverted”29. Vemos así que debemos intentar organizar un orden usando las invenciones de los   Leviathan, ob. cit. pág. 630, 676.   “Si el mandamiento es tal que no puede ser obedecido sin peligro de

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condenación eterna, entonces sería una locura obedecerlo”. Leviathan, ob. cit, pág. 610 y cast. 652. 28   En el último capítulo del libro, Hobbes recuerda el episodio central de la edad media, la lucha del Imperio contra el Papado, la derrota de Federico I frente a Adriano IV, la posterior crisis del imperio. Como es natural, exculpa al primer Federico, aunque tiene durísimas palabras para los que tras él han sostenido el estribo a los papas y han permitido que se destruyan pacíficos estados. Levithan, ob. cit. pág. 710, cast. 766. 29   “Pero así como se tejen las invenciones de los hombres, así también se destejen; el procedimiento es el mismo, pero el orden se invierte”. Idem.

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seres humanos, y que ese uso puede ser parecido al destejer un tejido, el de la inversión. Este tejido histórico erróneo ha sido la transformación de la reverencia sagrada, fruto de la persuasión profética, en poder. Los nudos del poder se han cerrado sobre “the third and last knot, and the whole Synthesis and Construction of the Pontificall Power”30. Así que aunque en cierto modo, los reformados proféticos son enemigos, en todo caso son enemigos secundarios de Hobbes. Frente a la síntesis y construcción histórica del Papado, que ellos han ayudado a destejer, Hobbes propone un análisis y descomposición de ese poder papal. Para eso, se debía ante todo eliminar el primado praeterpolítico del Papa sobre Inglaterra; y luego se debía eliminar el poder de los obispos sobre los fieles, y luego reducir el poder de los presbíteros sobre los individuos hasta llegar al punto cero del tejido. Éste se obtiene en la “Independency of the Primitive Christian”, donde “every man” puede seguir lo que mejor le plazca. La desconstrucción se ha realizado en la propia época de Hobbes y este es el significado de las terribles guerras: han sido necesarias para destejer la invención secular de la usurpación del poder de Cristo, desde la voluntad de edificar con su sagrada autoridad un reino de este mundo. Todo el último capítulo de Leviathan es un comentario pormenorizado de esta tesis: al interpretar que el reino de Dios es de este mundo, la Iglesia ha fundado un reino de tinieblas que ha acabado en un reino de las brujas. Sus últimos pasajes tienen muy en cuenta el Sueño de una noche de verano de Shakespeare y juega con la traducción del rey Oberón como trasunto del Papa. La metamorfosis es la sustancia de esta tesis: el reino de la luz convertido en reino de las tinieblas, el reino de Dios convertido en reino de brujas, el representante de Cristo en el rey de los demonios y los duendes. Sin embargo, no se puede permanecer en una situación de punto originario, de punto cero. Es preciso tejer un poder civil que pueda detener la aspiración a configurar ese   “El tercer y último nudo y la completa síntesis y construcción del poder pontificio”. Idem. 30

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doble poder capaz de imitar la unidad del poder de la iglesia, a la vez civil y eclesiástico. Para ello, se ha de crear un poder civil para el tiempo del mundo y que sea capaz de garantizar que el reino de Cristo es un reino futuro. Así, de forma paradójica, es preciso construir un poder civil que reúna los dos poderes: el del presente y el del futuro. Y es preciso hacerlo sin que medie la invocación a la gracia, a la intervención de Cristo, sin fundamentos sagrados. ¿Qué debemos destejer, qué debemos invertir entonces de entre las invenciones de los seres humanos? Sabemos que esa estrategia nos coloca en la senda del Leviathan. Pero el resto gnóstico de Hobbes juega aquí con toda claridad. Pues ese poder de este mundo sólo puede basarse en gentes que tienen la primitiva independencia, que pueden seguir a “Paul, Cephas or Apollos” y que están en medio de guerras civiles terribles. Una segunda inversión, una inversión de la inversión, debe abrirse camino para cerrar y destejer la primera. Si el reino de Dios en este mundo se ha convertido en el reino de las tinieblas, es preciso encontrar la manera de que los poderes tenebrosos de este mundo se transformen en poderes de luz. Y aquí es donde Hobbes hace uso de la tradición gnóstica de forma prodigiosa. Esta tradición despreció el mundo como una cloaca para hacer sentir a la gente la necesidad de la gracia, para persuadir a la gente a seguir a los que decían tener una palabra profética de Cristo, para tornar obedientes a los que ofrecían una conexión con la salvación mediante la erección de un reino de Dios en la tierra. Para eso tuvieron que despreciar como poderes malignos a los poderes de este mismo mundo, poderes que martirizaban a los seres humanos y les impedían aspirar al mundo de la gracia. Hobbes ahora invierte este proceso y ve que el desprecio del mundo y sus poderes quizá ha servido a erigir poderes monstruosos. Aquello que para la gnosis era terrible, debería ser invertido en su valoración y considerarse salvador. Este juego de simetrías lo había usado Hobbes en el cap. xxxviii para explicar la relación entre la vida del paraíso de Adán y la vida del reino de Dios. La inversión, el procedimiento gnóstico por excelencia, hace de lo

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más despreciado por los falsos profetas de este mundo, lo más salvador. Es por tanto, fácil de comprender que Hobbes se vinculara a los poderes de este mundo y que aspirara a mostrar su inversión en poderes de orden y de paz. Así que Hobbes produjo una autoafirmación, como quería Blumenberg, pero por el medio de invertir el autodesprecio de la gnosis. Donde la gnosis vio la cárcel y el infierno, Hobbes entrevió la posibilidad de la libertad y el cielo. Para entender toda la historia, debemos ir a cómo estaban las cosas al principio de todo, cuando el ser humano antiguo se representaba la creación, antes del pecado y de la caída, antes de la degeneración gnóstica. El testimonio más apreciable que tenemos para imaginar este mundo, nos lo da el tapiz de la Creación de la catedral de Girona, del siglo X [figura 1]. Tenemos aquí los dos monstruos sin relación alguna con el ser humano, cada uno en su territorio, instalados en una recíproca indiferencia. Se trata del mundo en el primer día de la creación. En este mundo de perfección irrumpió la caída y la muerte, así como la amenaza. Entonces estos dos animales inmensos pudieron ser monstruos con los que Dios pudo castigar al ser humano. Este mundo caído fue neutralizado en su brutalidad por la palabra profética. El testimonio de Job es el decisivo para entender cómo lo que antes era orden indiferente, se convirtió en amenaza. Hobbes, que cita varias veces a Job, puso en el frontis de su portada el fragmento 41, 25 de este libro profético: “Non est potestas super terram quae comparetur”. Es lógico pensar que el pasaje completo estuviera muy presente en Hobbes. Cuando se lee entero, ese pasaje nos sugiere muchas cosas. El pasaje de Levithan y Behemot tiene lugar en un momento en que Job ha criticado a Dios y este le muestra su poder. Entonces, le reta a que sea consecuente con su soberbia y le exhorta a que se “vista de gloria y esplendor”. Antes le ha preguntado dónde estaba su humilde humanidad mientras Él hacía los cielos y la tierra. Por fin, le dice. ahí tienes a las potencias de Behemot y de Leviatán, las potencias del mundo. Véncelas, parece decirle Dios a Job, el

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paciente, el que ha sufrido todo tipo de dolores. Entonces, tras esta victoria, el hombre se ceñirá de “grandeza y majestad”. Uno de los retos que lanza Dios a Job es si podrá domar al Leviatán. La manera del reto es muy concreta: “¿Hará contigo el trato de ser tu siervo de por vida?”. Dios, como es natural, prevé que nadie saldrá ileso de este combate. “Ante él danza el espanto”, le dice Dios, sin duda con la finalidad de rebajar su orgullo y de paralizar sus posibilidades. Sólo Dios podría dominar a tal fiera. Por eso al final, Job se retracta y se arrepiente, hace penitencia y se somete. Hobbes habría puesto punto y final a este pasaje bíblico. Habría mostrado la posibilidad de hacer un trato con la fiera mítica y habría conquistado en esta operación una grandeza e inteligencia igualmente ejemplares. Hay al final una caracterización del Leviatán que resulta de especial significado. Pues en tanto que potencia de este mundo es caracterizado como “el rey de los hijos del orgullo”. En la metafórica del libro de Job los hijos del orgullo son las fieras arrogantes del himno 28,8. Hobbes pensaba exactamente así al recordar que el hombre era un lobo para el hombre. Sin duda, en estas caracterizaciones, los textos de Job, y el del Salmo 74, 13, que atribuye al Leviatán varias cabezas —comentado por Orígenes en Omilia sobre el cantar de los cantares—, pasaron a la tradición gnóstica cristiana. En uno de esos textos que forman parte de la Biblioteca de Hag Hammadi I, el conocido como Enseñanza Autorizada o el discurso soberano, reconoce a los seres humanos entregados a este mundo como seres bestiales, sepultados en una continua lucha31. Allí se reivindica para los partidarios de la gnosis, los salvados, la condición de no ser de este mundo, “a fin de que la potestad cósmica que vino a existir no nos retenga en los mundos en los cuales habita la muerte universal”32. Esa potestad cósmica que retiene a los seres humanos normales no puede nada contra 31   Textos Gnósticos, Biblioteca de Nag Hammadi, I, Tratados filosóficos y cosmológicos, trad. por Antonio Piñero, J. Monserrat Torrents y F. García Bazán, Trotta, 1997, pág. 443. 32   Ob. cit. pág. 444.

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los conocedores del Logos. Pronto nos damos cuenta de que esa potencia habita en las aguas. De hecho, nos retiene porque nos lanza su red y nos devora en el barrizal como su alimento de muerte. En una alusión al poder supremo del Logos-Cristo, dice entonces: “No hay hombre alguno que pueda apoderarse de este pez en las aguas profundas, a no ser por medio de la trampa tendida por el pescador”33. Tenemos así que el katechontos que nos apresa es el Leviatán, la potencia cósmica de este mundo, el pez de las aguas profundas, que nos retiene, nos devora y al que sólo podemos escapar por las trampas que el propio Dios salvador le ha tendido como pescador, una de las formas preferidas de los gnósticos para referirse a Jesús. Su sentido más profundo, como vemos, se revela cuando pensamos en el Leviatán. Luego, la tradición cristiana dominante no hizo sino vincular esos elementos mitológicos de la tradición judía a aquellos que impedían que la Iglesia, como reino de Dios en el mundo presente y casa de los salvados, pudiera acabar su gloriosa misión de gobierno del mundo. Fue así como el Leviatán pasó a ser vinculado a las potencias que resistían el poder de la Iglesia, y las potencias de este mundo que mantenían a los seres humanos en el mal. Con ello, Hobbes no tuvo sino que usar de la vieja inversión gnóstica para dotar a los viejos esquemas míticos de los poderes mundanos negativos y anticatólicos de un poder emancipador justo en su batalla contra la propia Iglesia. Este curso argumental, que es irrefutable desde el punto de vista de los argumentos, tiene en la historia de las imágenes su demostración palpable. Tanto que se podría decir que sin la inspiración autónoma forjada por el estudio de las imágenes, sería imposible entender esas huellas gnósticas de Hobbes. La iconografía del Leviathan es el testigo mudo de esa herencia de inversiones. Con esto, la tesis de Blumenberg puede reformularse. La huella gnóstica de Hobbes reside en asumir de forma positiva las instancias de este mundo, otrora negativas, para así destejer la fuerza del Papado y desplazar el humillante poder que mantiene   Ob. cit. pág. 445.

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sobre los seres humanos. Lo que era así algo relacionado con la condenación se reveló un elemento de salvación. Hablamos más bien de una herencia gnóstica que de una superación de tal herencia. La autoafirmación no consiste en superar la gnosis, sino en aceptarla e invertirla. Así que la portada del Leviatán era la más precisa tesis del pensamiento de Hobbes, que puede ser elevada a ekphrasis pormenorizada de su portada. En sí misma resumía una vieja tradición iconográfica y afirmaba de golpe la inversión de la misma. Esta visión de las cosas se puede apreciar a través de una pequeña exposición, que no puede pretender ser exhaustiva. Como en tantos otros conceptos, todo el programa iconográfico al servicio de la iglesia militante y triunfante, así como la denuncia de las potencias mundanas, tiene su origen para nosotros en los Beatos, en tanto que exposición del Apocalipsis. Era normal, porque en este libro, en el capítulo 11,9, el Anticristo tiene sus asociados en las fieras, una de las cuales es el dragón. Como ya vio Jeffrey Burton Russell, la iconografía medieval hizo del Anticristo el poder cuya misión era imponer la adoración de la Bestia. Desde este punto de vista es un poder entronizado que sirve al Diablo. Así se puede ver en el Apocalipsis de De Quincey34. Ellos son los poderes que obstruyen el reino de Dios. En estas representaciones, como en las de los Beatos españoles, tenemos la demostración palpable de que el animal mítico se convirtió en el Diablo y, de acuerdo con Job, el mar fue una de las formas de los infiernos. Hobbes ya sabía esto y citando el pasaje de Job 26:5 dice que “Aquí el lugar de los condenados está bajo las aguas”35. Cuando recordamos la disposición del tapiz gironés de la creación, ya vemos los espacios bien dispuestos para ello. El Beato es el primer testimonio en gran estilo de esta transferencia iconográfica. Aquí se nos propone una representación del Leviatán como una serpiente que domina las aguas. Como es na  Jeffrey Burton Russell, El diablo. Percepciones del mal de la antigüedad al cristianismo primitivo. Laertes, Barcelona, 1995, pág. 244 y 245. 35   Leviatán cast. 517. 34

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tural, en tanto que supremo de los poderes mundanos, se encarga de martirizar a los condenados incluso con aquellas inclinaciones caníbales que apreciamos en los textos gnósticos. Miremos esta figura del Beato de Fernando y Sancha, de la primera mitad del siglo XI. A diferencia del tapiz de la Creación, el orden ya viene garantizado por el Cordero que domina el cielo estrellado. Abajo, en las aguas, los seres humanos son descuartizados en una levedad flotante que resulta dominada por el gentil navegar de la gran serpiente [figura 2]. Pero donde mejor se ve que estamos hablando del Leviatán, según el relato de los Salmos 74: 13, en el que se atribuye a Dios el poder de “machacar las cabezas de Leviatán”, es en esta imagen, en la que un monstruo marino de siete cabezas se levanta sobre las aguas y comienza su actividad de apresar a las víctimas, a las que encierra, como Katechontos en las mazmorras subacuáticas, de las que algunos ángeles pueden todavía liberarlas. Las que capturan los ángeles negros son lanzadas a las aguas, donde un espíritu encadenado y sujeto las devorará y las mata con sus garras, eficaces a pesar de que un ángel de luz lo mantenga atado por sus cadenas [figuras 3 y 4]. Como es natural, el Diablo no siempre aparece en esta figura marina. También aparece en una representación más libre y antropomórfica y así se inicia un complejo camino de transferencias iconográficas. Sin duda, ya en el propio dibujante del Beato de Girona se muestra este poder de retener, que es de devorar, de comer, de atar. Hablamos del diablo del descenso a los infiernos del Beato de Girona, folio 17v, en el que el demonio, situado en el centro mismo del último infierno, maneja con los brazos las cadenas con los que tiene presos a los antiguos patriarcas de Israel. Como vemos, esta iconografía nos muestra al diablo de forma analógica al rey del submundo, y en su posición recuerda de forma lejana la dignidad de un Pantocrator invertido de un mundo de perdición. Resulta evidente que aquí el Diablo presenta también la función de katechontos, frente al que Jesús tiene la difícil misión de ir soltando y librando de las cadenas uno

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a uno a los patriarcas del Antiguo Testamento. El ayudante del Leviatán del primer dibujo se ha convertido en una de las formas del Diablo del segundo36 [figura 5]. En todo caso, no se puede negar que, para la tradición medieval, el Leviatán pasó a significar el Diablo por cuyas fauces abiertas son devorados los pecadores. Tanto fue así que el infierno pasó a ser representado por las fauces abiertas del Leviatán. Tal cosa sucede de forma fundamental en las representaciones seriales del infierno en el Breviari d’Amor de Ermengaud de Beziers, escrito allá por 1288 y del cual se conserva un códice en El Escorial37 [figuras 6 y 7]. Como sabemos, la organización de las penas de los condenados era deudora del esquema del Elucidarium de Honorius Augustodunensis, cuyos manuscritos circularon de forma intensa por toda la edad media, desde el siglo XII al XV, libro que a su vez tiene una estrecha relación con el Hortus Deliciarum de Herrade de Landsberg. En todos estos imaginarios sobre el infierno, junto con la Navigatio de Sancti Brandani, de Benedit, el Leviatán es el monstruo que domina el abismo, que viene a ser su propia garganta, cuya puerta son sus fauces, y por eso reside en la isla Facies Thetis y la Facies Abyssi. Es muy relevante que la divisa con la que se conoce este abismo y estas tinieblas en el Breviari d’amor es con un superlativo propio que recuerda el esquema gramatical de Hobbes: “ninguna oscuridad es comparable a esta”. Unas de estas ilustraciones de Breviari, la que debe explicar el castigo del pavor, en el folio 129r, nos muestra al Leviatán en majestad, con la boca abierta dispuesto a causar pánico con sus dientes. Otros de los castigos, en la misma página, constituyen un eco de su papel de katechontos, en tanto 36   Joaquín Yarza Luaces: “Diablo e infierno en la miniatura de los beatos”, Actas del Simposio para el estudio de los códices del Comentario al Apocalipsis de Beato de Liébana. Madrid, 1980, vol. 2, p. 248. 37   Estudiado en la tesis de Carlos Miranda García, Iconografía del Breviari d’amor, Un. Complutense de Madrid, 2001. Se puede ver su trabajo, con Pilar Gómez Torrego, “Los infiernos en el Breviari d’amor de Matfre Ermengaud de Beziers, en Cuadernos de Arte e Iconografía, n.º 13, F.U.E., revista digital.

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que mantiene presos a los pecadores en cadenas ardientes. Por eso, no es de extrañar que en la iglesia de Santiago de Estella, al principio mismo del camino de Santiago, se haya escenificado la salvación de los patriarcas por el Jesús que desciende a los infiernos saliendo de la boca del Leviatán, como Jonás siendo escupido por la ballena [figura 8]. No cabe duda de la profecía bíblica cristológica de aquel que ha de tener la fuerza de someter al Leviatán y de disciplinar a los mismos diablos, que de forma humilde sostienen la faz abierta de la bestia mítica. Por eso la serie va de la anunciación hasta la última cena, en orden perfecto, respecto a la cual el tropel de los patriarcas muestra el final de un mundo de ansiedades. En todos estos esquemas iconográficos, el Leviatán es un monstruo que devora a los hombres y esto significa exactamente lo mismo que sepultarlos en el abismo de sus entrañas o en el infierno. Por eso es representado como el verdadero rey de las potencias mundanas y muchas veces se representa en posición de trono. Sin duda, en la estructura misma de esta iconología reside ya una lógica que invierte las representaciones iconográficas de la protección divina, en las que el triángulo de las mandíbulas que engullen a los condenados es sustituido por un cono de luz que protege como las alas cósmicas de la omnipotencia, en las que la iglesia triunfante y militante tiene garantizada su paz. Era fácil imaginar que esta fuerza de la inversión se desplegara como una extraordinaria fuente de lucha ideológica tan pronto como esa iglesia militante entrara en crisis. Tal cosa se puede ver en las pinturas satíricas del Papa que circularon en el siglo XVI y XVII, en las que se dice Ecclesia perversa habet faciem dyaboli. Se conocen medallas de esta guisa en Amsterdam hacia 1570. Esta misma estampa [figura 9] se remonta a una figura de Theodor de Bry de 1558. El juego de las dos figuras tiende un efecto: realzar las fauces abiertas, generar esa oquedad devoradora y terrible que habían esquematizado la figura del Leviatán medieval. Pero la lógica de la inversión tiene un antecedente muy especial en el dibujo de Melchior Lorch conocido como el Papa

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como Anticristo y dedicado a Lutero [figura 10]. La imagen lleva la fecha de 1545. Creo que se ha concedido demasiada relevancia a la organización de esa iconografía desde la figura del Hombre Salvaje. Esta figura, sin duda, ofrece relieve especial a la representación del diablo reinante que atravesaba toda la iconografía medieval. Pero sólo para marcar los rasgos de fortaleza y eroticidad del Anticristo, sin duda muy señalados tras la experiencia de Alejandro VI. Lo decisivo sin embargo es el ámbito de poder que producen sus dos brazos abiertos, todavía con alas negras, y los atributos de poder que se muestran en sus manos extendidas. La dimensión devoradora se apunta no tanto por la boca abierta del Anticristo, sino por su doble faz, con ese lobo ansioso relamiéndose por el festín. Sin duda, estamos cerca del esquema que sirve a la portada del Leviatan y el báculo pastoral del poder espiritual ya aparece plenamente definido en la mano izquierda. Bajo el Anticristo imponente, el mundo en llamas, desordenado y destructor. Con este recorrido creo que tenemos suficientes elementos para mostrar la potencia de la lógica de la inversión, originariamente gnóstica, a lo largo de la iconografía medieval. Tras un uso ortodoxo del leviatán para definir el infierno, la Reforma reactivó la lógica originaria previa a la disciplina romana del catolicismo, y aplicó a la iglesia las categorías de las potencias del mal. Considerada como tal potencia del mal, como Anticristo, como diablo, la iglesia se entendió como la verdadera productora del infierno de este mundo y la que devoraba la fe y el futuro de los seres humanos, incendiando el mundo con una guerra religiosa que duraba siglos. El Leviatán de Hobbes no hace sino culminar esta lógica y por eso no puede situarse fuera del contexto general de la Reforma. Su capacidad de invertir todos los conceptos de la tradición católica, sin embargo, sólo alcanza visibilidad y rotundidad en el modelo iconográfico de su portada [figura 11]. Leviatán, el otrora señor del mal para la Iglesia, lejos de ser el que engulle y devora, es el que preserva y salva. Los hombres no entran bajo su poder en una sima donde son descuartizados

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y devorados, sino conservados y preservados. La entraña del Leviatán ya no es una sima donde se amontonan los cadáveres y los membra disjecta, sino donde todos conservan su integridad y pueden convivir en orden y paz. Bajo sus brazos abiertos y los símbolos de su poder no se alzan las llamas del mundo, sino sencillamente se abren los campos en orden y las ciudades en paz, las iglesias y los castillos, la tiara y la corona, el anatema y el cañón, el dogma y las banderas, el concilio y el ejército. La condición es que el Anticristo de Roma haya desaparecido y por eso aquél a quien ella llamaba Anticristo, el Leviatán, debía aparecer como su inverso, un dios de este mundo, con un reino de este mundo, pero con la mirada franca, benevolente, y la boca cerrada. En este sentido, se apropió de la iconografía de los héroes liberadores, como se ve en este Hércules medieval [figura 12]. No retiene a su gente con cadenas de fuego, sino sencillamente con la armonía protectora de su cuerpo, y con la paz que impone la espada y la obediencia que reclama el báculo. Finalmente, hay algo de gnosis antijudía en esta poderosa visión. Pues si Dios preguntaba a Job si acaso podría sellar con el Leviatán un contrato para que fuera su siervo de por vida, Hobbes ha contestado que tal cosa era posible. Con ello, el gesto de Job, una rebeldía frustrada, queda consumada. Desde luego, hay una autoafirmación en el alba de la modernidad, y Blumenberg tiene razón, pero tal cosa no podría haberse producido sin llevar hasta el final la potencia de la inversión, de naturaleza gnóstica y tan antigua como ella. Así que no se pueden contraponer ambos procesos. La autoafirmación no se dirige contra la gnosis, sino que es una gnosis limitada y orgullosa, aquella que proclama pura y simplemente los derechos de la inmanencia degradados por la trascendencia católica, y despojados de todo rasgo positivo hasta ser considerados como mero, desnudo y violento poder38. Ésta fue   Sin embargo, en la gnosis anti-judáica, la serpiente fue ya objeto de una inversión, que llega hasta María Zambrano, en su librito Los bienaventurados. Hipólito nos habla de los naasenos, los adoradores de la serpiente. “Era de esperar que la gnosis antijudaica glorificara a la serpiente bíblica, que se enfrentaba a Jahvé, el dios inferior”. Como es natural, esto implicaba que 38

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la operación por la cual se pensó en el Estado como el heredero de un poder mítico sobre el que había recaído la maldición, justo hasta hacer de él una figura inversa de orden, luz y salvación. El destino de esta imagen iconográfica del Leviatán, que llega hasta Kubin, nos permitiría juzgar cuál de las dos opciones, la positiva o la negativa, ha tenido más fortuna y creyentes. Con ello podemos ver cuándo la modernidad dejó de creer en su propia autoafirmación.

la interpretación gnóstica del cristianismo presentara a Jesús como ejerciendo el papel de la serpiente, en tanto que ambos dieron lugar al conocimiento, a la gnosis. Ya el propio Hans Jonas llamó la atención sobre el hecho de que la serpiente puede ser tanto un principio pneumático y gnóstico, o bien bajo la representación cristiana en la forma del “erdummindenden Urdraches der Herrscher oder böse Geist dieser Welt”. Este tipo de referencias gnósticas ya fueron denunciadas por Orígenes, en Contra Celso, VI, 25, cuando se opone a quienes él llama ofitas. Sus doctrinas son reducidas a fantasías por Pablo, y quedan caracterizados como hombres que “están siempre aprendiendo y no son jamás capaces de llegar al conocimiento de la verdad”. Estos sectáreos gnósticos ofitas tenían un diagrama, que se describe en este parágrafo, de esta manera: se dividía el universo en diez círculos concéntricos, del cual el más abarcante y dominador era el alma. A este llamaban Leviatán, el dragón originario. Éste, así dignificado, invertía el sentido negativo con que aparecía en la literatura bíblica. Por eso dice Orígenes, “Ahora bien, el impío diagrama dice ser el alma que penetra el universo ese Leviatán que tan claramente condena el profeta”. En estas condiciones, es fácil ver que la gnosis llevó adelante una inversión de los esquemas mitológicos de la tradición judeo-cristiana. Allí donde unos veían elementos negativos, poderes del mal que disputaban al Dios judío su poder, y que luego se oponía a las instancias cristianas, los otros vieron en ellos elementos que trazaban las huellas de la vieja sabiduría, y que el perverso dios de Israel tenía mucho interés en ocultar y desprestigiar.

César González Cantón

Absolutism: Blumenberg’s Rhetoric as Ontological Concept

T

his article is devoted to show both the importance of Blumenberg’s notion of rethoric within his philosophical framework, and his particular understanding of this notion. What might merely seem a sophistical revival of the topic of rethoric turns out to be an ontological notion. In order to justify this assert, we present Blumenberg discussing Heidegger’s philosophical enterprise of taking account of human existence’s finitude. In Blumenberg’s view Heidegger did not actually accomplished his goal. The Heideggerian proposal needs to be pushed further by integrating into the ontological analysis, not only contingence but also what human beings do to avoid contingence’s awareness. These two factors give shape to human existence. This new understanding actually means to reframe ontology from an anthropological vantage point. In order to do that does Blumenberg stick to the approach developed by the philosophical anthropology arisen in the 20th century in Germany. For this reinterpretation it is key his concept of rethoric. I focuse on a comparison between Plato’s, Aristotle’s and the sophists’ notions of rethoric on the one side, and Blumenberg’s one on the other side. At this point it arises a radical confrontation between two aspects of reason, that correspond to the aforementioned double-faced structure of existence: an absolutist reason―vehicle of discovering of the contingence―, and a rethorically shaped reason―means of avoiding the counsciousness of it―guided by the so-called “principle of insufficient reason”. I also treat the role played by metaphors in the latter. Three principal outcomes emerge from these considerations. Firstly, Blumenberg loads rethorical―and, more generally, anthropological―features with “ontological weight”. Particularly 103

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significant here are the two aspects of human temporality disclosed for Blumenberg by his “correct” understanding of human finitude: the necessity of delaying and the situation of not having enough time. Secondly, both aspects have ethical consequences. Thirdly, one of the two functions of philosophy would be for Blumenberg of rethorical kind (metaphorology); Blumenberg allignes so with the contemporary “Renassaince of rethoric”.

1. Ontology as metaphorology

I

t might be said that Blumenberg considers himself as a step beyond—and maybe definitive—Heidegger in the history of ontology. Most concretely, in his opinion existential analysis of Dasein must be replaced by anthropology with phenomenological characteristics, very close to that elaborated by Arnold Gehlen, Helmut Plessner, Ernst Cassirer, Erich Rothacker and Paul Alsberg, among others. Blumenberg intends to explore the contingence of human existence from a phenomenological perspective, strongly critical of Husserl and Heidegger.   J. Kopperschmidt, ed., Rhetorik, Vol. I, (Darmstadt, 1990), 1.   Factual translation mistakes in the case of German works not published in English remain my own.    This interpretation of Blumenberg’s philosophy is far from usual. We have attempted to give a more detailed argumentation in César G. Cantón, “Blumenberg versus Heidegger: la metaforología como destino de la analítica existencial”, Anuario Filosófico 38 (2005), 726.    Above all: Arnold Gehlen, Der Mensch. Seine Natur und seine Stellung in der Welt (Frankfurt a/M: Athenäum Verlag, 1962).    Above all: Helmut Plessner, Gesammelte Schriften IV. Die Stufen des Organischen und der Mensch (Frankfurt a/M: Suhrkamp, 1981).    Ernst Cassirer, Was ist der Mensch?: Versuch einer Philosophie der menschlichen Kultur (Stuttgart: Kohlhammer, 1960).    For instance: Erich Rothacker, Probleme der Kulturanthropologie (Bonn: H. Bouvier und Co. Verlag, 1948).    Paul Alsberg, Der Menschheitsrätsel (Dresden, 1922).    Cfr. Hans Blumenberg, Die ontologische Distanz. Eine Untersuchung  

Blumenberg’s Rhetoric as Ontological Concept

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For Blumenberg, “anthropology” is the attempt to understand human existence from itself, not having its reason in “Being”, “God” or whatsoever, such as it has supposedly been the case throughout the history of thinking. Resorting to whatever entity outside of man serves to the purpose of giving answer to the “fundamental questions” (Grundfragen)10 posed by the fact of existence, for instance, what’s the world? Where do we come from? Why are we here? Why is there something rather than nothing? What’s the sense in dying? It is not difficult to see that being able to have these answers means having the capacity for a kind of total knowledge about reality (about the world, the own existence) as a whole, which has received the name of theory. Human beings’ plenitude (happiness) is contingent on this knowledge. To state that the world has sense means for Blumenberg that it is “sending” these answers to human beings; in the experience of happiness it is perceived that reality “cares for” man. Since an infinite amount of time would, in Blumenberg’s opinion, be required to gain such a knowledge,11 to attribute sense to the reality implies that the cognoscenti live forever and always existed. In other words, the congruence between world-time and lifetime.12 The history of thinking has been full of proposals about the details of this comprehension of human beings and reality. To every one of them can be applied, Blumenberg states, the title of cosmos, whose exemplary representation was coined in the Ancient Greece by Plato.13 Not all of them stick to every element with similar radicality, but all stand on the solid ground of the über die Krisis der Phänomenologie Husserls (Kiel: 1950), 7, 12, 112. Unpublished habilitation’s work. 10   Hans Blumenberg, Beiträge zum Problem der Ursprünglichkeit der mittelalterlich-scholastischen Ontologie (Kiel, 1947), 5. Not published dissertation’s work. 11   Cfr. Hans Blumenberg, Höhlenausgänge (Frankfurt am Main: Suhrkamp, 1989), 176. 12   This is the title of one of the most famous Blumenberg’s books: Lebenszeit und Weltzeit (Frankfurt am Main: Suhrkamp, 1986). 13   Cfr. Blumenberg, Die ontologische Distanz, 52.

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following statement: reality cares for human beings. Blumenberg, on the contrary, affirms the impossibility of finding out these answers. That means actually “anthropology”: reality does not take care of human beings. Positioned within a sort of “negative” platonic framework, Blumenberg considers that human beings are looking forward to taking charge of the totality of reality and of their own existence. However, that is not possible. Thus, the quest for happiness becomes rather flight of pain. It is what Blumenberg terms the “absolutism of reality (Absolutismus der Wirklichkeit)”: the same way that a person is defenseless in front of an absolutist governor, so human beings cannot “control the conditions of their own existence”.14 That means, above all, that they cannot control when they are born and when they die, because a reality with sense means people who live both since ever and forever. Reality has no sense because we die. Not being able to access to the whole of reality is the core of what Blumenberg calls historicity, finitude or contingence. This incapacity consists in that loss of world (because we are born or die “too soon”) are irreversible ones. This consideration of contingence leads straightforward to the integration of human corporality into the ontological analysis, since to be born and to die are made possible by corporality.15 Blumenberg’s position can be described as “ontological skepticism (metaphysisches Skeptizismus)” that would differ from “rational” skepticism, as it can be found in some philosophical systems before him.16 The latter certainly states our knowledge’s weakness, but continues to move along Platonic coordinates, taking for granted a basic security in our relationship to the world. The Being, may it be either spiritual or material, one way or the other, cares for human being; whilst the former declares a radical   Blumenberg, Arbeit am Mythos, 10.   Moreover, an aspect―though not the most relevant―of imperfect

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knowledge as we will see later, would be its being disturbed by strong feelings and passions, that are corporal realities 16   Cfr. Hans Blumenberg, The Legitimacy of the Modern Age, Robert Wallace, trans. (Cambridge and London: MIT Press, 1985), 218–19.

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hostility between human beings and reality. This hostility is already expressed at the human biological level. The ontological “poverty” of human beings matches their anthropological one, as apparent in the vision of human beings as animals characterized by a lack of instincts.17 An instinct can be described as an inborn configuration of animal tendencies resulting from an evolutionary specialization, which allows an automatic response triggered by specific stimuli.18 As species, human beings’ evolutionary development has followed a different and unique path. As philosophical anthropology explains, that means a huge disadvantage in respect to the other animals,19 because instincts help animals to survive by reducing environmental uncertainty.20 Thus, thanks to them an animal always knows what to do and how to do it. Not so human beings. These are, with a Herder’s term, a “creature of deficiency” (Mängelwesen),21 that has firstly to be understood as an insufficiency to deal properly with reality from a biological point of view.22 In substitution of such accurate instruments in the struggle for survival emerges in human beings rationality and, consequently, culture.23 One aspect of the ontological poverty of human beings, made possible by the lack of instincts, is their “openness” (with the term inherited from Max Scheler)24. Human nature has not a giv  It could be said that the anthropological “poverty” is the ratio cognoscendi of the ontological one, while the latter is the ratio essendi of the former. 18   Cfr. Jakob von Uexküll, Theoretische Biologie (Berlin, Gbr. Paetel: 1920), 116–17. 19   Cfr. Blumenberg, Höhlenausgänge, 811. 20   Cfr. Blumenberg, Höhlenausgänge, 812; Gehlen, Der Mensch, 21; Alsberg, 482. 21   J. G. Herder, Abhandlung über der Ursprung der Sprache (Berlin, 1772). 22   Cfr. Gehlen, Der Mensch, 99–100; Alsberg, 99. 23   Cfr. Gehlen, Der Mensch, 38; Alsberg, 44. 24   “Offenheit”: Max Scheler, “Vom Wesen der Philosophie und der moralischen Bedingung des philosophischen Erkennens”, Vom Ewigen im Menschen, Gesammelte Werke vol. 5 (Bern 1954). 17

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en goal, it is comprised mainly of possibilities rather than facts. Man is a “being of possibilities” (Möglichkeitswesen),25 burdened with the task of “creating” himself and its destiny. Up to here, what finitude means for human existence. Yet the novelty of Blumenberg’s proposal is not only to help see this question in a different light, but of putting it together with the idea that human beings are always trying to skip it. With Blumenberg, we are not allowed to take seriously the idea of cosmos as real but, on the other hand, we cannot live without it. As human beings we need the presence of sense in our lives. Heidegger claimed to be able to confront contingency without lenitive factors because his understanding of it was cosmistic deep down.26 Precisely because Blumenberg claims the radical finitude of human beings, he must acknowledge the heavy-weighted role that the idea of cosmos plays in human life. Human existence consists then of a dialectical movement between two equally dominating ontological poles: the consciousness of contingence (Inständigkeit) and the attempt to silence it (Gegenständigkeit),27 that is, to live “as though” (als ob)28 the world had sense, i.e., we were immortals. Both mankind and personal history swift, like a pendulum, between these two poles.29   Blumenberg, Vollzähligkeit, 212.   Blumenberg comes up with the idea that every thinker before him–

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Heidegger included–has been so to say “cosmistic”, as they have refused to accept that we cannot have all of the world and existence. This argument can seem difficult to admit at first sight, but Blumenberg’s philosophical efforts are to a great extent intended to uncover the presence of “cosmistic” elements in the thinkers before him. 27   Cfr. Blumenberg, Die ontologische Distanz, 201. 28   Hans Blumenberg, “An Anthropological Approach to the Contemporary Significance of Rhetoric” in After Philosophy? End or Transformation, Kenneth Baynes, James Bohman, and Thomas McCarthy, eds., Robert M. Wallace, trans. (Cambridge: The MIT Press, 1987), 450. 29   In this way does Blumenberg reinterpret the heideggerian “ontological movement” (ontologische Bewegung) (Die ontologische Distanz, 201; cfr. Sein und Zeit, Max Niemeyer, ed., Halle5 1941, §40, 189.). Cfr. also Blumenberg, Höhlenausgänge, 799; Die Vollzähligkeit der Sterne (Frankfurt am Main: Suhrkamp, 1997), 360. A good introduction to this point can be found in Ulrich

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Human beings can conceal contingence in various ways. Through the invention of tools and artifacts that help them overcome their biological deficiency, and in general through the context of sense provided by culture30. This sense needs to be individually appropriated in the form of a “self-understanding” (Selbstverständnis)31. Therefore, if cosmos means to live in a comprehensive knowledge of the world and of one’s own position in it, cosmos and self-understanding overlap to a great extent. Blumenberg attributes consequently a double functionality to rationality in human beings. On the one side, reason has an inherent inclination to reveal the finite nature of existence, which can be expressed as follows: there’s no reason for existence… This is the way in which Blumenberg understands the “absolutist reason” highlighted by our time. Blumenberg calls the output of this reason truth. On the other hand, reason leans similarly towards covering it. It is the logic of life, which pursues its “own preservation” (Selbsterhaltung)32 above all: … but I exist. This reason is seen by Blumenberg as rhetorically shaped. Its product is sense. From the point of view of each type of reason, the opposite pole suffers from irrationality. Each one of both reason’s aspects can take the form of mythical, scientific or philosophical knowledge. Thus, the opposition between the two different aspects of reason is not contingent on which concrete form it takes (mythos, science, philosophical reflection), but on the function it develops, i.e., to uncover or to Dierse, “Hans Blumenberg: Die Zweideutigkeit des Menschen”, Reports on Philosophy 15 (1995), 121–129. 30   Cfr. Blumenberg, “Approach”, 438. 31   Blumenberg, “Approach”, 441. 32   Hans Blumenberg, “Paradigmen zu einer Metaphorologie”, Archiv für Begriffsgeschichte 6 (1960), 108–9. Taking into account what it has been said so far, it is clear that the notion of self-preservation extends to biology, personal life and history of civilizations. Cfr. also: Hans Ebeling, “Einleitung: Das neuere Prinzip der Selbsterhaltung und seine Bedeutung für die Theorie der Subjektivität”, in Subjektivität und Selbsterhaltung. Beiträge zur Diagnose der Moderne, Suhrkamp 1976, 10.

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cover human existence’s finitude. As we will see, rhetorical reason’s main instrument for the accomplishment of this goal is metaphor, considered as means of self-expression and world understanding. Phenomenological anthropology is finally understood as historical revision of metaphors: metaphorology. It plays the roles of both uncovering the contingence of human existence by making clear the relativity of each metaphor; and helping avoid this knowledge by telling “a story” about us and our relation to reality which “makes sense”, i.e., which makes the impression that we know something about the Being. Therefore is Blumenberg’s philosophy, like human existence and History themselves, both Inständigkeit and Gegenständigkeit.

2. Plato’s and Aristotle’s accounts for rhetoric

A

s we have just seen, Blumenberg wants to grant ontological weight to the human activity of creating cosmos. As we will see in a moment, by calling this activity rhetoric Blumenberg introduces anthropological themes at the very beginning of the history of thinking: in the well-known discussion between Plato and the sophists, that is one about the relation between words and things,33 that is, about the very possibility of ontology. As we mentioned before, it is appropriate to locate Blumenberg’s attempt in the context of the so-called “Renaissance of rhetoric”,34 where rhetoric is becoming, at the end of XX century, a new universal paradigm for every discipline, natural sci-

  Cfr. Hans Blumenberg, “Individuation und Individualität”, in: Die Religion in Geschichte und Gegenwart III (Tübingen: Mohr Siebeck, 31959), 718. 34   J. Kopperschmidt, in J. Kopperschmidt, ed., Rhetorik, Vol. I, (Darmstadt, 1990), 1. 33

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ences and philosophy alike.35 While for Plato and Aristotle rhetoric is limited to persuasion in matters of justice,36 Blumenberg understands it as penetrating every human theoretical or practical activity in order to introduce sense in the world, i.e., to generate a cosmos. In the light of Blumenberg, the secondary role played by rhetoric in both Plato’s and Aristotle’s philosophical systems derives from the fact that access to Being is by them taken for granted. Beyond the important differences between these two authors in their respective ideas about rhetoric, Blumenberg considers that their common “cosmistical” approach permits him to keep them in view together. The possibility of relation to the Being and, therefore, of a global knowledge, allows Plato and Aristotle to discriminate between essences’ true knowledge (science) and appearances’ imperfect knowledge (opinion). The former emerges from understanding of causes, while the latter is properly related to belief. Plato holds rhetoric to be in the ambit of “belief (πιστευτικη̂ς)”.37 This would not be negative at all under the condition that rhetoric stayed within its limits. But the sophist claims rhetoric to be the most perfect kind of knowledge. In this way, according to Plato, a sophist leads people to confuse justice with the appearance of justice, the same way that cookery fakes medicine, sophistry pol  For instance: S. Ijsseling, Rhetorik und Philosophie. Eine historischsystematische Einführung (Stuttgart-Bad Cannstatt, 1988); A.G. Gross, The Rhetoric of Science (Massachusets: Cambridge, 1990). 36   Cfr. Gorgias 454b, in Plato. Plato in Twelve Volumes, Vol. 3, W.R.M. Lamb, trans. (Cambridge, MA: Harvard University Press; London: William Heinemann Ltd. 1967). Vid. Sophist 233c 5, in Plato. Plato in Twelve Volumes, Vol. 12, Harold N. Fowler, trans. (Cambridge, MA: Harvard University Press; London: William Heinemann Ltd., 1921); Rhetoric 1355a 21–24 fw., in Aristotle in 23 Volumes, Vol. 22, J. H. Freese, trans. (Cambridge, MA: Harvard University Press; London: William Heinemann Ltd., 1926). Greek versions: Plato. Platonis Opera, John Burnet, ed. (Oxford: Oxford University Press, 1903); Ars Rhetorica. Aristotle, W. D. Ross (Oxford: Clarendon Press, 1959). 37   Gorgias 455a 1–2, where Plato says rhetoric “is a sort of knowledge based upon mere opinion” (δοξαστικἠν ἄρα τινὰ περί πάντων ἐπιστήμην). 35

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itics and cosmetics gymnastics.38 Rhetoric, ranking lowest in Plato’s knowledge system, “is not an art (τέχνην), but a habitude (ἐμπειρἱαν), since it has no account to give of the real nature of the things it applies and so cannot tell the cause of any of them. I refuse to give the name of art to anything that is irrational (ἄλογον πραγμα)”.39 A habit all the more dangerous since it aims at satisfaction without any consideration of fairness.40 Therefore, as believed by Plato, sophistry does not go beyond manipulation. That is to be understood when Plato affirms that a sophist is a “producer of persuasion”.41 A sophist offers an appearance of knowledge in exchange for money, so that rhetoric likens the hunting of domestic animals, that is, of wealthy and distinguished young men.42 The sophist’s victim falls into a trap of words, carried by the force of persuasion. Because of that, Plato uses the dialog form: he does not just want to make philosophical assessments, but to make the reader to question what he or she hears, i.e., to help getting him or herself out of the manipulating logos.43 It is the difference between ἐπεδεἱξατο (“to give a display”) and διαλεχθη̂ναι (“to discuss”).44 Dialectical speech, however, haunts the audience as well. But not in the way that rhetoric does, but because what it says is true.45 With respect to this, the only legitimated usage of rhetoric by Plato is that of persuading the unjust man to submit to the punishment that will bring him back to a state of pureness.46     40   41   42   43  

Cfr. ib. 465c fw. íb. 465a 1–4. Another name for art: “rational opinion”, Phaedrus 238b. Cfr. íb. 462b–d; vid. also 501a 3–5. íb. 453a 2: peithous dêmiourgos hê rhêtorikê. Cfr. Sophist 223b 2–7. Cfr. Robert Wardy, The Birth of Rhetoric. Gorgias, Plato and their successors (London and New York: Routledge, 1998), 54 fw. 44   Gorgias 447a 6 and 447c 1. 45   Cfr. íb. 508e 6–509a 2. 46   íb. 480a and fw. That is precisely what Plato is intending to do with Calicles through storytelling (vid. 493a and fw.) 38 39

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However, Plato’s position seems to allow for still being pushed one step further. In Phaedrus he displays a notion of rhetoric reconciled with philosophy. Being trapped and pulled by rhetorical speech needs not be negative because it could mean we have gotten in touch with muses47 and, therefore, achieved a superior understanding of reality. But what remains untouchable in Plato’s approach is the priority of truth: if rhetoric is to be practiced, it is indispensable to be acquainted “with the similarity and dissimilarity of things”;48 especially with those which are very similar, because we might more easily be mistaken. Plato concludes that practicing rhetoric necessarily includes communicating truth:49 anyone who does not know his or her topic could undoubtedly make good speeches but would not possess the rhetorical art.50 Aristotle inherits the Plato’s first approach to rhetoric. He is however less suspicious of it and Aristotle grants more attention than Plato to the specifically rhetorical elements of speech―for instance, to the voice tone. Nonetheless it continues to be a prevalence of science over opinion, which results in the reduction of rhetoric to its therapeutical role. Optimistic regarding the possibilities of human knowledge, Aristotle thinks that truth, from an ideal point of view, can be achieved by everyone, for “the true and the just are naturally superior to their opposites”.51 However, since the prevalence of 47   Phaedrus 238c in Plato. Plato in Twelve Volumes, Vol. 1, Harold North Fowler, trans. (Cambridge, MA: Harvard University Press; London: William Heinemann Ltd. 1966). Vid. also Ion 542a in Plato. Plato in Twelve Volumes, Vol. 9, W.R.M. Lamb, trans. (Cambridge, MA: Harvard University Press; London: William Heinemann Ltd., 1925). See Christina Schefer, “Rhetoric as part of an initiation into the mysteries: a new interpretation of the platonic Phaedrus”, 175–96, in Ann N. Michelini, ed., Plato as author: the rhetoric of philosophy (Leiden/Boston: Brill, 2003), 359 p. 48   Phaedrus 261e–262a. 49   “[…] unless he pays proper attention to philosophy he will never be able to speak properly about anything”, ib. 261a. 50   ib. 271d–272b. 51   Rhetoric I 1, 1355a 12.

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truth is not so automatic in the ambit of opinion,52 where we can be easily confused by our passions or prejudices, a philosopher needs rhetoric as “the faculty of discovering the possible means of persuasion in reference to any subject whatever”.53 Rhetoric is an art that implies knowledge of the causes;54 in this case, of the causes that make the speech persuasive.55 Philosophers should “pay attention to style […] not as being right, but necessary; for, as a matter of right, one should aim at nothing more in a speech than how to avoid exciting pain or pleasure. For justice should consist in fighting the case with the facts alone, so that everything else that is beside demonstration is superfluous; nevertheless, as we have just said, it is of great importance owing to the corruption of the hearer”.56 Therefore, the function of rhetoric can only be not to let the sophist make the weaker logos stronger than truth itself, it being up “to rhetoric to discover the real and apparent means of persuasion”57 and playing consequently an “ancillary service”.58 Rhetoric has to be based on what things are and on the basic principles of ethical behaviour: logic and ethics are required as previous disciplines.59 That leads to the following conclusion by   Cfr. Rhetoric I 9, 1367b 22–7.   ib. I 2, 1355b 26 and fw. 54   Aristoteles, Metaphysica 981a 24–b 6, in Aristotle in 23 Volumes, 52

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Vols.17, 18, Hugh Tredennick, tr. (Cambridge: MA, Harvard University Press; London: William Heinemann Ltd., 1933, 1989): “Nevertheless we consider that knowledge and proficiency belong to art rather than to experience, and we assume that artists are wiser than men of mere experience (which implies that in all cases wisdom depends rather upon knowledge); and this is because the former know the cause, whereas the latter do not”. 55   For instance, Rethoric I 10, where Aristotle comments on which and how many are the causes of injustice; or Rethoric II 1, 1378a 6–12, for the characteristics of an expert orator. 56   ib. III 1, 1404a 1–12. 57   ib. I 1, 1355b 15; vid. as well Peri sophistikon elenxion 1402a 23 and fw. 58   Wardy, 109–10. 59   Josef König, Einführung in das Studium des Aristoteles: an Hand einer Interpretation seiner Schrift über die Rhetorik (Freibur and München: Karl Alber, 2002), 43.

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Aristotle, reminiscent of Plato’s one aforementioned: persuasion is only possible about what is fair. To unfairness belongs on the contrary manipulation: it can be defended but not justified, likewise a corpse can be respectfully treated but not healed.60 Summarily, both Plato and Aristotle state that truth imposes itself on us. It must be supposed a teleological reality where truth is for mind and inversely. Plato expresses it so: discussion is possible when the interlocutors do not speak against their own convictions,61 which implies human mind’s trend to truth. Sophistry assigns to rhetoric much more importance because of its fundamental doubts about the possibility of understanding reality. In Gorgias’ essay On Nature we find the remarkable sentence: “Nothing exists. If anything does exist, it is unknowable. If anything can be known it is incommunicable”.62 It is persuasion that originates truth. From this point of view, the sophist’s purpose would not be to cheat young men but to teach the way to get by in an uncertain world. When no perfect knowledge can be gained, then everything turns out to be opinion and the sole possible knowledge is of rhetorical kind. As Wardy says, Gorgias would be dealing with “the likelihood, better, the reasonability (eikos)”63 of our world.

3. Ontological reinterpretation of rhetorical aspects

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fter having gone shortly through the main positions regarding rhetoric in Greek thinking, we can connect them with the Blumenberg’s reflections previously displayed. Relation to Being can be understood as direct and clear (cosmos) 60   Héctor Zagal, Retórica, inducción y ciencia en Aristóteles (México DF: Universidad Panamericana/Publicaciones Cruz O, 1993), 96. 61   Gorgias 495a 4. 62   Gorgias von Leontinoi, Reden, Fragmente und Testimonien, Th. Buchheim, ed. (Hamburg, 1989), 41. 63   Wardy, 33.

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and therefore there will be the possibility of science, or rather as difficult and even nonexistent and then rhetoric will be the ideal kind of knowledge. More specifically, it depends on whether there is a right comprehension of human temporality. Rhetoric has a subsidiary function if we had all the time in the world and, consequently, we could achieve a total understanding of reality and of ourselves; on the contrary, rhetoric turns out to be the only means to deal with reasonability, that is, with the peculiar type of knowledge that emanates from not being able to have all of the world and our existence. Summarily, whilst Platonic science would be suitable for immortal beings, rhetoric is the appropriate knowledge for mortals. As Blumenberg states, “revivals of rhetoric are, since Antiquity, a property of resignations of a certain kind”.64 Rhetorical speech bases, then, on an “axiom”65 that Blumenberg calls “principle of insufficient reason” (Prinzip des unzureichenden Grundes) as opposed to Leibniz’ “principle of sufficient reason”,66 that would have become paradigmatic of the Platonic comprehension. Once Blumenberg has carried out a transmutation of ontology in anthropology, rhetoric takes over the place assigned by Plato to philosophy. In the process, the function of philosophy has slightly changed. For Plato it was to achieve happiness through comprehension of reality, i.e., being immortal; for Blumenberg, to lessen the pain caused by not having the entire world (i.e., having to die), through avoiding to became aware of it. In order to clarify the ontological features of Blumenbergian rhetoric, I follow three steps. 64   Hans Blumenberg, Begriffe in Geschichten (Frankfurt am Main: Suhrkamp, 1998), 164 (“ist Belebung von Rhetorik seit der Antike ein Merkmal bestimmter Resignationen”). 65   Blumenberg, “Approach”, 447. 66   That says: “nihil esse sine ratione, vel ut rem distinctius explicemus, nullam esse veritatem, cui ratio non subsist. Ratio autem veritatis consistit in nexu praedicati cum subiecto, seu ut praedicatum subiecto insit”: Gottfried W. Leibniz, in Opuscules et fragments inédits de Leibniz, L. Couturat, ed. (Hildesheim, 1988), 11.

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Firstly, I show a general overview of the rhetorical elaboration of cosmos based in the symbolical features of language. Two aspects are here considered: rhetoric as (1) instrument of configuration of reality and, more specifically, as (2) instrument of instruments. As a result two Gorgian descriptions of rhetoric (as art of elaborating speeches and as fighting instrument) and the Aristotelian topoi are re-interpreted in ontological terms. These two last points deal with the basic aspects of human temporality for Blumenberg. Both of them are defined in respect to the pressure that absolutism of reality imposes on human beings. In front of it human beings react structurally in two ways. The first of them―this is the second step―considers human beings as being swept out to a relationship with reality for what it is not ready, and reacting by means of delaying entering in contact with it. In this sense the rhetorical characteristic of not going straightforward to the point, is reinterpreted ontologically as art of delaying; also the platonic interpretation of rhetoric as art of appearances. The second of them―third step―regards rhetoric as providing a way of responding to the pressure of reality when there are no more chances left to avoid it. In this case three more elements are “ontologized”: the topoi used in rhetorical speech; the Aristotelian goal of “easy learning”; and the time constraints of speech. In every one of this points it is discussed where the peculiar rationality of rhetoric lies in by means of contrast with the “absolutist reason”. In respect to that it is specially stressed the role played by metaphor in rhetorical reasonability. On the other hand, it is considered that each aspect of human temporality has some consequences for ethical behavior. Along the exposition, these three points are each examined both at the ontological level and in its expression at the anthropological level.

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4. Rhetoric as instrument of instruments

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s we pointed out above (1), the term “rhetoric” is in Blumenberg’s philosophy the key concept to introduce his anthropological thesis in the scope of ontological thinking. For a better understanding of this statement, it must be realized that philosophical anthropology has considered language as the instrument par excellence for the configuration of reality.67 Rhetoric as the art of elaborating speeches, as it was defined by Gorgias,68 happens to leave its simple ancillary role to be assigned an ontological task. Beginning with the anthropological point of view, it was argued that lack of instincts made difficult for human beings to work their living out. However, this handicap is balanced out and even overwhelmed by the possession of intelligence and its primary expression, language.69 In animals, both perception of reality and themselves are well structured by instincts since their very first moments in life. Human beings, on the contrary, perceive world as a chaotic cloud of signals in need of configuration to become signs with sense;70 and themselves as a pure possibility requiring to be given a form and whose sentimental correlate is the anguish of existentialism.71 Language is not―contrary to both Plato’s and Aristotle’s reports―secondary to thinking, a mere “adornment” (ornatus)72 to communicate a truth already held in mind and, in its most beautiful form (rhetoric), the lesser of two evils, required only because of either the weakness or the   It must be noted that Blumenberg, as we said above, has not spoken of the relation between mind and things but between words and things. 68   Marcello Zanatta, “L’arte del persuadere: la retorica in Platone e Aristotele” (preface), 27, in Marcello Zanatta, ed., Aristotele. Retorica (Milano: Unicopli, 2002), 227 p. 69   Hans Blumenberg, Arbeit am Mythos (Frankfurt am Main: Suhrkamp, 1979), 10; Plessner, Die Stufen, 245. 70   Gehlen, Der Mensch, 41; Blumenberg, Höhlenausgänge, 812. 71   Cfr. Blumenberg, Arbeit am Mythos, 10. 72   Blumenberg, “Approach”, 430. 67

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perversion of recipient73. It turns out rather to be “a function of human beings’ specific difficulty”74, that is, of the puzzlement of being disoriented in a sinless world: “the art of surviving” (Überlebenskunst)75. Speaking does not consist only in communicating a content but in modifying a situation.76 This order is introduced in the very act of speech,77 so language learning in human beings occurs to be a regulating and categorizing action at the same time. A principal role is played in this process by the well-known phenomenon of echolalia, first studied by Herder and Humboldt. The child reacts to stimuli’s excessive appeal by elaborating and integrating them in its own vocalic response, so that resulting words do not merely mirror reality but bring in itself the child’s practical elaboration of stimuli.78 It can then be said that language “creates”79 reality. “What” comes to human beings as impression “of something alien and inaccessible” is given back to the world as “sensuously tangible” expression.80 Things are, in a certain sense, their names.81     75   76   77   78   73

Blumenberg, “Paradigmen“, 8. Blumenberg, “Approach”, 432. Blumenberg, Vollzähligkeit, 293. Rothacker, Probleme, 137. Plessner, Die Stufen, 442. Helmut Plessner, “Homo absconditus”, in Roman Rocek and Oskar Schatz, eds., Philosophische Anthropologie heute (München: Verlag, 1972), 54. 79   Arnold Gehlen, Gesamtausgabe. Bd. 4: Philosophische Anthropologie und Handlungslehre, Karl-Siegbert Rehberg, ed. (Frankfurt am Main: Klostermann, 1983). Cfr. Hans Blumenberg, Ein mögliches Selbstverständnis. Aus dem Nachlass (Stuttgart: Reclam, 1997), 45 fw. 80   Blumenberg, “Approach”, 438. In Stoellger’s opinion, this situates Blumenberg in the Vico-tradition: Philip Stoellger, Metapher und Lebenswelt: Hans Blumenbergs Metaphorologie als Lebenswelthermeneutik und ihr religionsphänomenologischer Horizont (Tübingen: Mohr Siebeck, 2000), 102 fw. Vico is the first author to make a process of construction of metaphors into a “model of adaptation of human behaviour to changing environment”: Ferdinand Fellman, Vico-Axiom. Der Mensch macht die Geschichte (Freiburg i. Br, 1976), 169 fw. 81   This intuition is what underlies Plato’s criticism of the association be74

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This understanding of language stresses its symbolical aspect and favorites the interpretation of human beings as Cassirer’s “animal symbolicum”.82 The subject of symbol connects the more general question of language with that of rhetoric. The situation of pressure of reality terms Blumenberg “rhetorical situation” (rhetorische Situation).83 A symbol or metaphor is, in its Aristotelian sense, something that stands for another thing.84 This can be seen both in Aristotle’s definition of metaphor85 and in the etymology of both words,86 and it is assumed by Blumenberg’s definitions of metaphor as a “heterogeneous element that refers to another context”,87 or something which “displays something that it is not present”.88 Examples of metaphors for Blumenberg can be that of the work clock for the universe―metaphor invented by Nicolas of Oresme89―in the beginning of Modernity, or tween rhetoric and magic―as has been pointed out by Wardy (40)―: the magic word identifies with the thing referred to, rendering it possible to control it. 82   Cassirer, Was ist der Mensch. 83   Blumenberg, “Approach”, 437. 84   Blumenberg hardly distinguishes between metaphor or symbol, rather he considers them as quite equivalent regarding their ability to “represent” (Repräsentanz) (Vollzähligkeit, 420); the only difference between them is that symbol is what a metaphor becomes when performing its outmost in the substitution of unavailable for available (“Ausblick”, 96). As Stoellger states correctly, Blumenberg does not take part in the contemporary debate about the symbol theory (Stoellger, 180). 85   “Metaphor by analogy means this: when B is to A as D is to C, then instead of B the poet will say D and B instead of D. And sometimes they add that to which the term supplanted by the metaphor is relative” Poetics 1457b 18–20 in Aristotle. Aristotle in 23 Volumes, Vol. 23, W.H. Fyfe, trans. (Cambridge, MA: Harvard University Press; London: William Heinemann Ltd., 1932). 86   μεταφορὰ (from μετα-, “change” as verb particle; “between” as adverb; and -φέρω, “to bring”) and σύμβολον (from σύμ-, “with”; and -ballein “to put together”); it is well-known that with συìμβολον was meant each of the two parts of a broken piece of ceramic, through which someone’s identity could be certified: a short of credential. 87   Blumenberg, “Ausblick”, 98. 88   Blumenberg, Höhlenausgänge, 26. 89   Hans Blumenberg, “Selbsterhaltung und Beharrung. Zur Konstitution der neuzeitlichen Rationalität”, in Akademie der Wissenschaften und der

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that of Balint’s “condensator” for human psyche in the context of psychiatry.90 It is clear that, from this viewpoint, the “for”-element of the definition does not point to a possible comprehension of the reality for which the metaphor is.91 It is the “stand”-element that is emphasized: symbol is, with Aristotle, about “set[ting] things before the eyes”,92 but not in order to help us accept the truth but quite to place a front to prevent us from seeing it. While metaphors are for Aristotle just a resort at hand as it’s difficult for an orator to find real life examples,93 Blumenberg regards it as the condensation of everything we have said so far. The activity of introducing order in reality at the anthropological level is at the same time an ontological process of creation of reality, both external and internal. It is not that human beings create “the” reality, but surely they create “a” reality where they live. Blumenberg positions himself, naturally, on Gorgias’ side. Since language is an intersubjectivity reality,94 this activity of truth creation can only be possible in the consensus.95 It is the ontologization of what Aristotle calls “generally accepted principles” (τῶν κοινῶν)96 or “commonplaces” (τοὺς τόπους)97: the context of a world in the commonality of “convention” (Konvention).98 Thus, a statement being true does not have much to do with a mental content fitting its correlate in reality, but with the function it perLiteratur in Mainz. Abhandlungen der geistes- und sozialwissenschaftlichen Klasse 11 (1970), 340. 90   Blumenberg, Begriffe, 86. 91   This question will be treated later. 92   Rhetoric III 11, 1411b25: “πρό ὀμμάτων ποιει̂ν”; see also Poet 17, 1455a 21 fw. 93   See Rhetoric II 20 1, 1393b 5–10. 94   See Ludwig Wittgenstein, Philosophische Untersuchungen Philosophical Investigations (The Macmillan Company: New York, 1970), §199. 95   Blumenberg, “Approach”, 436. 96   Rhetoric 1355a24–9. 97   Rhetoric 1358a 12–14. 98   Blumenberg, “Approach”, 443.

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forms in order to make sense.99 The true may consequently change with time.100 Therefore, Blumenberg puts an end to the equivalence inaugurated by Plato between rhetoric and manipulation. Persuading might be not lying when truth is not evident even to who is persuading.101 Moreover if, as it was said before, the activity of creating cosmos could be equaled in a certain sense to the elaboration of the own self-understanding, whoever tries to talk someone into something is seeking not so much to convince others as much as to persuade him or herself of the correctness of his or her own self-understanding. Thus, it may be said that every statement of rhetorical kind is always “canvassing rhetoric”.102 Nonetheless a cognitive function for the “for”-element in symbol’s definition is not excluded in Blumenberg’s analysis. But it does not go “forward”, to the reality, but “backwards”, to the life-world. We see it next, in relation to the Platonic and Aristotelic notion of “resemblance”. Plato asserts that rhetoric will be “the art by which a man will be able to produce a resemblance between all things between which it can be produced, and to bring to the light the resem-

99   Hans Blumenberg, “Sokrates und das ‘objet ambigu’. Paul Valérys Auseinandersetzung mit der Tradition der Ontologie des ästhetischen Gegenstandes”, Franz Wiedmann, ed., Epimeleia. Die Sorge der Philosophie um den Menschen. Helmut Kuhn zum 65. Geburtstag (München: Pustet, 1964), 290. Blumenberg follows here the Ernst Cassirer’s criticism of Aristotle’s epistemology, Substanzbegriff und Funktionsbegriff. Untersuchungen über die Grundfragen der Erkenntniskritik (Wissenschaftliche Buchgesellschaft: Darmstadt, 19693 [1910]). 100   Cfr. Hans Blumenberg, Die erste Frage an den Menschen. All der biologische Reichtum des Lebens verlangt eine Ökonomie seiner Erklärung, Frankfurter Allgemeine Zeitung 2.6.2001, 127. There is only one “eternal” truth of human nature: the formal “ontological movement” (ontologische Bewegung) between Inständigkeit and Gegenständigkeit: Blumenberg, Legitimacy, 457– 81. 101   Blumenberg, “Lebenswelt”, 13. 102   Blumenberg, “Approach”, 443.

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blances produced and disguised by anyone else”.103 It will be a fair imitation when rhetorician sticks to “true reasoning”, while when he or she does not―producing in consequence what Plato terms “spoken images”104―, he or she is able to mislead the listener. A false doctor but experienced rhetorician, would sound more knowledgeable about an issue than a true doctor who does not manage the art of speaking, for the former can make his or her speech more agreeable and, therefore, more likely to be accepted by the ignorant. Following Plato, Aristotle speaks of rhetoric as of an art of managing resemblances.105 Metaphor can act as a representation―in the sense exposed above―because it rests on analogy, that is, on a communal aspect between two things; with an Aristotelian example, an arbitrator and an altar are said to be the same since the injured fly to both for refuge. Both for Plato and Aristotle, resemblance is possible because the “for” implies a true knowledge about reality. Blumenberg resorts, on the contrary, to the Husserlian concept of life-world to explain where the possibility of establishing resemblances lies. There we find at the same time the possibility of the “for” we were talking about.106 Any metaphor stands not “for” reality but “for” a complex relations field within the wider net in which the life-world consists. For instance, to understand the universe as a work clock tell us nothing about the universe in itself but about how we understand ourselves and our place in the world, what depends in turn on a net of interrelated senses of which human life and culture is comprised. In the same vein, the notion of God, that for Blumenberg is a metaphor, shows what kind of being is man when trying to push its self-understanding to its limits.107     105   106   107   103 104

Phaedrus 211d–e. Sophist 234c (“εἴδωλα λεγόμενα”). See Rhetoric I 19 9, 1367b 13 (geitnian). Blumenberg, “Ausblick”, 98 and fw. Blumenberg, “Approach”, 456. Blumenberg has a book completely de-

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This would be an aspect of rationality of rhetoric: considered as a piece of information about our life-world. It would serve for the metaphorologue’s “academic” purposes. A second aspect has to do more with the individual life who seeks to create a cosmos: it gives him or her a “glance” of reality and, as “open” beings, metaphors provide him or her with new possibilities of living, i.e., of acquiring or enriching a self-understanding. It serves the metaphorologue as human being. That is irrational for the absolutist reason―for instance in its scientific shape. The target of science is to establish a causal relation among given facts108 expressed in concepts, whose measure is “truth”. Neither a global vision of reality nor a possibility are facts. On the contrary, the principle of insufficient reason focuses on human “openness”. Its measure is not truth but “significance” (Bedeutsamkeit). It means that it is perceived and taken into account109 by human beings only what carries out a function both in the preservation of life and in its development (that is, in its elaboration of a self-understanding), though be it not “real” or only still to come. Since theory implies human beings as having all the time in the world, human life’s individuality can be disregarded, which constitutes the base for scientific objectivity: statements acceptable by everyone at every time, unrelated to their own circumstances.110 voted to this issue: Hans Blumenberg, Matthäuspassion (Frankfurt am Main: Suhrkamp, 1988). 108   Blumenberg, “Weltbilder”, 48. 109   Blumenberg, Höhlenausgänge, 812. This notion, first formulated as the “principle of significance” by Rothacker in his Zur Genealogie des menschlichen Bewusstseins (Bonn 1966), 44–52, says that a human being perceives only those objects of existential relevance for it. So to speak, significance takes the place of a causal mechanism of stimulus-reaction in a human being: Barbara Merker, “Bedürfnis nach Bedeutsamkeit. Zwischen Lebenswelt und Absolutismus der Wirklichkeit”, Franz Joseph Wetz, H. Timm, eds., Die Kunst des Überlebens. Nachdenken über Hans Blumenberg (Frankfurt a.M.: Shurkamp, 1999), 83. 110   Blumenberg, Legitimacy, 129. Let’s see Nagel’s definition of objectivity: “A view or form of thought is more objective than another if it relies less

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Science is not able to forecast where a human life can get to or what it can achieve, while rhetoric “has to do not with facts but with expectations”.111 Therefore “in our practice we turn into an axiom, as a ‘postulate’, what provides a motive for taking advantage of the more favorable prospects for humanity”,112 for example the existence of God, liberty, immortality, i.e., of whatever helps make sense of human life. To “the probability” (Wahrscheinlichkeit) of scientific statements, the “credible” (glaubwürdig) or “verisimilar” (dem Wahren ähnlich) of practical ones must be opposed.113 The principle of insufficient reason thus summons human beings to act as though true theoretical statements (may they be either philosophical or scientific) were not worthy of consideration as soon as one’s own self-understanding is put in a tight corner; for example, when some psychological version of the evolutionary theory concludes that human beings are only animals, or love only a chemical reaction.114 It is worthwhile for human beings to “bear”115 an insufficient knowledge where otherwise human life might be handed over to the indifference of absolutist reason.116 on the specifics of the individual’s makeup and position in the world, or on the character of the particular type of creature he is”: cfr. Thomas Nagel, The View from Nowhere (Clarendon Press: Oxford, 1986), 5. 111   Blumenberg, “Approach”, 451. 112   Blumenberg, “Approach”, 450. “Axiom” in the Kantian sense, as the statement of the practical reason that can be neither demonstrated nor even understood by theoretical reason, but that is necessary for the exercise of practical reason: Gesammelten Werken (Akademieausgabe) Bd. 5: Kritik der praktischen Vernunft, Kritik der Urteilskraft (1798), (electronic edition: Institut für Kommunikationsforschung und Phonetik (IKP) - Universität Bonn, Bonn), 473; url: http://www.ikp.uni-bonn.de/kant/aa05/. 113   Blumenberg, “Approach”, 451; Paradigmen, 91. 114   Hans Blumenberg, “Weltbilder und Weltmodelle”, Nachrichten der Gießener Hochschulgesellschaft 30 (1961), 74. 115   Hans Blumenberg, “Ausblick auf eine Theorie der Unbegrifflichkeit”, Schiffbruch mit Zuschauer. Paradigma einer Daseinsmetapher (Frankfurt am Main: Suhrkamp, 1979), 98. 116   Blumenberg, Arbeit am Mythos, 19, 437. The negation of the logic of life (that is, of its preservation) from side of theory results not only in disrupting

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The “irrationality” of rhetoric can be more precisely outlined with Blumenberg’s term Unbegreifflichkeit (“unconceptuability”)117. Because of that “absolute metaphors” (absolute Metaphern)118 take a special place between metaphors, so-called because they present both a global interpretation of world and self, and resistance to be reduced to concepts. (2) But language is not only a “tool” for the creation of sense, but it is an instrument of instruments. Its peculiarity lies in that every other instrument―either mental or physical―exists through language. It is not limited to just one function, like a hammer or the knowledge about how to make cookies. This was already perceived by Plato, Aristotle and the sophists. Plato criticizes what he considers an odd feature of rhetoric― based on considering words as imitations, as we have seen―, praised by sophists: their capability to speak about every topic as if they know everything about every thing. In his criticism Plato has probably Gorgias’ words in mind, rhetoric is to be understood as a fighting instrument119 that might be used at wish either for justice or injustice.120 The same is observed by Aristotle who, to self-understanding but logically in destroying life itself. Blumenberg gives the nazi genocide as an example: to consider people as animals―based on “scientific” statements―brought on the possibility of eliminating them like animals. 117   Blumenberg, Paradigmen, 21. This is to be understood in the context of Kantian categories and referring primarily to concrete existence, that is not located in the categories framework: Cassirer, Substanzbegriff, 403. 118   Blumenberg, Paradigmen, 13. As we mentioned at the very beginning, metaphorology’s object is the historical going over about variation of absolute metaphors. 119   Gorgias 456d 1. 120   For Gorgias, rhetoric is not all about knowing a certain object, but about knowing the right combination of words that has the desired effect on the audience; see Marcello Zanatta, “L’arte del persuadere: la retorica in Platone e Aristotele”, 27, in Marcello Zanatta, ed., Aristotele. Retorica (Milano: Unicopli, 2002), 227. This vision is supported by Gorgias’ understanding of word’s meaning as being made of a very subtle stuff, that would cause a “physical” reaction in the listener’s soul (Encommium of Helena, §14, quoted by Giuseppe Mazzara, Gorgia: la Retorica del Verosimile (Academia Verlag: Sankt Agustin, 1999), 261). Words have thus a “real” effect on people.

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the statement “words are imitations”,121 adds remarkably “and the voice also, which of all our parts is best adapted for imitation”.122 Rhetoric is, therefore, “form as means for, obedience of rules as an instrument”,123 “sheer method” (reine Methode).124 We have seen that Gorgian rhetoric as both art of elaborating speeches and instrument of instruments, such as Aristotelian topoi, are “ontologized”. Other rhetorical features spring from the consideration of human temporality. Its peculiar biological and ontological constitution converts human beings’ consciousness of time in a dialectical experience. On the one side, a human being is an animal that has to think twice before coming into contact with a hostile reality, for it lacks the competent means for it. It suffers from what Blumenberg calls a structural “perplexity”. This aspect is to be discussed in the following pages under the title of rhetoric as the art of delaying. It is “ontologized” the rhetorical circumstantia and rhetoric as art of appearances. On the other side, as there is no more options left to avoid   Rhetoric 1355b 8–35.   Íb. 1404a 22–25. This last sentence by Aristotle, when confronted with

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what was said before, reveals a deep sense about the relation between the anthropological and ontological levels. The wide range of sounds of which human voice is capable―made possible by the lack of instincts (Plessner, Die Stufen, 54)―reveals the ontological sense at an anatomic level: that words can “imitate” things because language has played an important role in how we perceive them. See also Plato, Cratylus 423b fw., in Plato. Plato in Twelve Volumes, Vol. 12, Harold N. Fowler, trans. (Cambridge, MA: Harvard University Press; London: William Heinemann Ltd. 1921): “A name, then, it appears, is a vocal imitation of that which is imitated, and he who imitates with his voice names that which he imitates”. 123   Blumenberg, “Approach”, 431 (original text: “Form als Mittel, Regelhaftigkeit als Organ”). 124   Blumenberg, “Lebenswelt und Technisierung unter Aspekten der Phänomenologie” (7–54), in Wirklichkeiten in denen wir leben. Aufsätze und eine Rede (Stuttgart: Reclam, 1981), 45. As an anatomical counterpart of this anthropological flexibility of language, human beings happen uniquely to be in possession of five finger hands, the “instrument of instruments” at the anatomical level.

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reality, human beings must react swiftly and amidst uncertainty to the situations they are confronted with: it is the expression of a radical not having enough time. Rhetorical is, in this case as well, the way human beings counter it. Here we find an “ontologization” of Aristotelian topoi from a different point of view, as well as of the target of rhetoric for Aristotle (“easy learning”). Both aspects will serve as conducting threads to the theme of rationality of rhetoric and its ethical consequences.

5. Rhetoric as the art of delaying

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his aspect of rhetoric has found expression in popular sayings, like when said that a person “goes on and on”… but he says actually nothing! At the ontological level, as we said before, in the place of the pressure of reality do human beings place a symbolic world to be able to live on in this reality. In relation to the aspect of rhetoric we are discussing now, “lacking definitive evidence”125 in our relation to the world justifies a delaying in our approaching it until we had ideally gained an “understanding” (Verständnis).126 Yet that is not possible, due to the radical closure of reality. Therefore human beings are by definition perpetually deferring its disembarkation in reality, keeping its distance to it. Language can be regarded as the “de-realizator” per excellence. If kept in mind that not being able to get to this understanding is equivalent to be a mortal being, then it is clear that human beings’ whole efforts go to not dying. We could say: man is an indirect being,127 a being whom “detour”128 is a structural feature. This makes it deserve the name of     127   128   125

Blumenberg, “Approach”, 441. Blumenberg, “Approach”, 447. Cfr. Gehlen, Philosophische Anthropologie. Blumenberg, “Approach”, 438; Hans Blumenberg, Lebensthemen. Aus dem Nachlaß (Stuttgart: Reclam, 1998), 15 fw. 126

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“hesitant being” (zögerndes Wesen):129 human beings’ existential structure requires “to take one’s time” before acting. Rhetoric can then be understood as the human life itself as interposing procedures to avoid straight deals with reality: “circumstantiality” (Umständlichkeit),130 the ontologization of Cicero’s circumstantia.131 The basic relational form between human life and reality is therefore―with a term coined by Gehlen132―“unload” (Entlastung),133 discharge of the burden of reality: “substitution of absolutism of reality”134 for a world of appearance. The symbolic world would be what we need to busy ourselves with in order to avoid the awareness of death. This is task of rhetoric defined as “art of appearance” (Kunst des Scheins).135 Plato’s derogatory statement about the rhetorician as being a “conjurer”136 turns out to receive a positive ontological significance: rhetoric engages us with its verbal tricks, making appear and disappear a linguistic reality where there is literally nothing.137 Rhetoric is also then an art of illusionism. From an anthropological point of view, loss of instincts is like a short-circuit in the stimulus-reaction chain; in other words, it means the nonappearance of an immediate and automatic reaction to stimulus. This means at least two different problems that human being must confront.   Blumenberg, Vollzähligkeit, 487.   Blumenberg, Arbeit am Mythos, 159–60; Lebensthemen, 15. 131   Cicero, Topica, Tobias Reinhardt, ed. (New York: Oxford University 129 130

Press, 2006), I.VIII; cfr. Bruno Accarino, “Nomadi e no. Antropogenesi e potenzialismo in Hans Blumenberg”, in Andrea Borsari (ed.), Hans Blumenberg. Mito, metafora, modernità (Bologna: Ed. Il Mulino, 1999), 216, n. 36. 132   Gehlen, Der Mensch, 26. 133   Blumenberg, Höhlenausgänge, 25. 134   Blumenberg, Höhlenausgänge, 71. 135   “Approach”, 430. 136   “θαυματοποιω̂ν”, Sophist 235b3. 137   Cfr. Hans Blumenberg, Die Verführbarkeit des Philosophen (Frankfurt am Main: Suhrkamp, 2000), 54.

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On the one hand, human beings face situations of perplexity or of danger for which they are not biologically equipped.138 In front of them human beings respond not in a physical way, like animals, but in a rhetorical one.139 For example, starting a fight can be substituted by a slight raise of the eyebrow and have the same effect. Human being does not know (or want) anymore what to do in front of the requirements of reality, and therefore it does what it can: to do as though it did something. Paraphrasing the sentence attributed to Aristotle, “the thought of fire does not burn”, it can be said that the action of symbolizing is not real so far it introduces no change in reality; but it is on the contrary a “real” action so far it helps human beings to live humanly. The process of “substituting physical accomplishments for verbal [i.e. symbolic] ones is an anthropological ‘radical’”.140 Examples of this art of delaying are Greek myths. Myth establishes a daedal set of rules and procedures to manage the relation among gods, and between them and mortals; however, what myth is really intending to do is having divine, arbitrary, huge power (i.e. absolute power) closed into certain boundaries.141 On the other hand, through loss of instincts human beings are deprived also of regulating and channeling means for their impulses that become exuberant and disorientated. Thus the stimuli overabundance is matched by an “impulsive overabundance”. That explains the common experience of being seized by a fit of passion, which may bring us to lately regrettable decisions.   Hans Blumenberg, “Wirklichkeitsbegriff und Staatstheorie”, Schweizer Monatshefte 48 (1968), 137. 139   At least so long as they are allowed to postpone it, as we will see in the next section: cfr. Blumenberg, Die Sorge, 13. 140   Blumenberg, “Approach”, 438. Probably these ideas were taken from Plessner, “Homo absconditus”, 75. It could then be asked what is the specific in the eyebrow movement in comparison with certain threat signs in many animal species. Although we cannot discuss that subject here, something about it will be said later. 141   For example, Blumenberg considers politeism as a “technique of weakening” (Technik der Schwächung), Arbeit am Mythos, 142. 138

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To avoid it human beings build delaying mechanisms in its behavior, both at individual (to give a sober second thought) and institutional level.142 Another expression of the art of delaying is that the human capacity for taking one thing for another is true also from a reverse standpoint: the capability of “delegation” (Delegation),143 so that “we needn’t do or know everything that is necessary for self-preservation”.144 In the pressure of rhetorical situation, to get others to make what oneself should do (they consequently standing for us) is another means of not having to confront reality ourselves. What is rational in the art of delaying is, as we know, that it corresponds to the “logic of life”. It is seen as irrational by both scientific and some philosophical approaches as far as, from the viewpoint of absolutist reason, existence has no reason to exist. For example, while an aspect of technological progress is “concentration of processes [with the] intention of saving time”,145 so often in human affairs it’s more convenient to put off doing something. What is technically possible need not be the most “timely”. Human beings must lead a life of existential “procrastination”. Moreover, technological complexity can nowadays be very much like the original situation of “overabundance of stimuli”146 that we mentioned before. In such open-to-doubt situations, long political/rhetorical digressions can “make uncertain that the shortest line between two points is the human way as well”.147 Blumenberg reinterprets here Husserl’s analysis in Die   Some authors in the field of public rational choice interpret in this way the institutional division, in congress and senate, of political choice-making process: Elster, J., “Intertemporal choice and political thought”, in G. Loewenstein & J. Elster (eds.), Choice over time (New York: Russell Sage Foundation, 1992), 35–53. 143   Blumenberg, Vollzähligkeit, 420. 144   Blumenberg, Höhlenausgänge, 71. 145   Blumenberg, “Approach”, 444–45. 146   Blumenberg, Begriffe, 111. 147   Hans Blumenberg, Gerade noch Klassiker. Glossen zu Fontane 142

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Krisis, upon the irrationality of natural sciences and their technological appendix in the context of the need for a clarifying reflection about both the sense of the world and of human beings and its action.148 According to Husserl, technology is led by an “active ignorance”149 (it is enough to know how to use it, not why it works as it does), it being needed of being put under the guidance of reason if it has to serve human interests. Accordingly to Plato, rhetoric gives only an appearance of explanation but not a real one at all. Blumenberg’s belief is that human life needs not investigate its causes, neither with a scientific nor philosophical approach, because it would run the risk of discovering it has no sense. Rhetorical metaphors or myths are not used to “replace theory (…) but to make it unnecessary”150 by having us engaged.151 That is exactly what makes them rational. Prisoners’ refusal to leave the platonic cave is not due to their irrationality, but to not wanting to have a direct experience of reality.152 Rhetoric can also take the form of philosophy when it performs a rhetorical function; what has been the case, for Blumenberg, of every philosophical system before his metaphorology, since they all were, as it was mentioned before, cosmistic. That means, they have played the game of entertaining us by promising imminent answers to the important questions but actually never getting to (München: Hanser, 1998), 122 (emphases added). 148   Edmund Husserl, Philosophie als strenge Wissenschaft (Frankfurt am Main: Suhrkamp, 1981), 14. Cfr. Blumenberg, “Lebenswelt”, 26. 149   Blumenberg, “Lebenswelt”, 33. 150   Blumenberg, Höhlenausgänge, 168. As Gehlen explains (Der Mensch, 360), in the field of vital knowledge the usual way to elaborate perturbations (for instance a burn) is not to investigate the causes of the event (why fire burns) but rather a shock and the ensuing prevention (not to get too close to the bonfire anymore). 151   Blumenberg, Höhlenausgänge, 164. 152   It is of great interest how Blumenberg describes the situation of someone who leaves the cave: sunlight blinds him or her and as a result he or she “loses” his or her world: the sun is the truth (finitude), which makes us realize our world is a fake (cfr. Ontologische Distanz, 44).

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them, because such a thing would mean to become aware that there are no such answers.153 Rhetoric disguised as philosophy equates a never-ending rumor superimposed on the terrifying silence of Being.154 Without this game of providing apparent answers to the questions posed by the inherent tendency of reason to ask for the causes, we would get sooner or later to the experience of finitude. From the absolutist reason’s point of view, rhetorical speech “says nothing”; from rhetoric’s side, there’s (literally) nothing to say. It might accept theoretical requirements to “cutting the nonsense”, “stopping beating about the bush”, “speaking out plainly”… only at the cost of disappearing itself. Metaphorology, from this viewpoint builds up a new history providing an appearance of answers to fundamental questions, by telling the history of metaphors, but really preventing us from getting to truth.155 The “basic estrangement”156 between this aspect of reason and life, as in the prior section, justifies acting “as though” (als ob)157 these were no true.158 Rhetoric is, from this vantage point, “the art of persuading ourselves to ignore [theory]” in the case it is   Blumenberg, Lebensthemen, 86–7. Blumenberg gives a memorable description of this point in “Das Sein - ein MacGuffin”, Selbstverständnis, 157–160. 154   Hans Blumenberg, “Weltbilder”, 69–74. 155   Thus, Metaphorology takes the place of Husserl’s phenomenology and its infinite work on the philosophical object, an object that becomes the history of the analytical approaches to it: cfr. Emmanuel Levinás, En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger (Paris: Vrin, 1967), 174). However, Blumenberg subjects this concept to an inversion: infinite work-on is rational not because we get to know better, but because it avoids uncovering. 156   Blumenberg, Vollzähligkeit, 155. 157   Blumenberg, “Approach”, 450. 158   With these reflections, Blumenberg pushes forward the husserlian construction of life-world (“Lebenswelt”), that, roughly said, is matched by Husserl to ordinary life and thought as a reserve of sense for human life in front of the abstraction of occidental science. Edmund Husserl, “Kant und die Idee der Traszendentalphilosophie”, Erste Philosophie (1923/24). Erster Teil: Kritische Ideengeschichte (Husserliana. Gesammelte Werke VII), Rudolf Boehm, ed. (Den Haag: Martinus Nijhoff, 1956), 232. Cfr. Blumenberg, Begriffe, 107. 153

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unbearable for praxis.159 As Wardy points out, to enjoy a tragedy one must let himself into a disposition to be deceived.160 It is not about sheer cynicism: it not only responds to the logic of life, but to unavailability of knowledge of reality for any kind of knowledge, also for the scientific one. The difference between practical and theoretical knowledge is not in our access to reality or Being―as if theory were able to achieve “the” truth. Both of them are insufficient accesses to Being, so that the only difference between them is that theory has an infinite time to concoct;161 accordingly we are allowed for not taking too seriously its statements, because they may also change over time.162 These arguments have far-reaching consequences for ethics. Contrary to the “openness” of human beings, for the absolutist reason human life is supposed to have a specific target, whose elucidation would be the task of the Platonic “ethical science”. However, radical lack of a pre-determined telos of human life requires an “understanding” of a rhetorical kind that, since a complete determination of human life is not possible, takes detours and persists and is re-elaborated during the whole lifetime.163 To understand the rationality of human action is, from this standpoint, an “introduction to every ethical problem. We should know what we are doing in order to know whether it is what we should be doing”.164 However, an ethics that, like the Platonic one, “takes the evidentness of the good as point of departure leaves no room for rhetoric―as the theory and practice of influencing behavior on the assumption that we do not have access to definitive evidence of the good”.165 The Platonic man would feel warranted to say   Blumenberg, “Approach”, 451.   Wardy, 36. 161   Hans Blumenberg, Das Lachen der Thrakerin. Eine Urgeschichte der 159 160

Theorie (Frankfurt am Main: Suhrkamp, 1987), 17; “Approach”, 437. 162   Blumenberg, “Approach”, 449. 163   Blumenberg, Matthäuspassion, 96. 164   Blumenberg, “Weltbilder”, 68. 165   Blumenberg, “Approach”, 432.

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to the Blumenbergian one: “stop beating about the bush: what you must do is…” Blumenberg finds this position problematic, even potentially perilous, much more if the philosopher finally becomes king, because he would want to impose his idea of happiness to everyone.166

6. Rhetorical modes of responding to not having enough time

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ack of instincts may require, as we have seen, an art of delaying. Yet, on the contrary, an art of quick response too, when there are both no chance to continue avoiding the “crash” with reality and deficit of guidances to manage it. The rhetorical situation is often determined by “being compelled to act (Handlungszwang)”167 or “being compelled to take a decision (Entscheidungszwang)”.168 Thus, human beings are constituently those that “have not enough time”. It implies that, both anthropologically and ontologically, human behavior needs to be automated to a certain degree in order to react conveniently to complex situations. On the one hand, this characteristic of the rhetorical situation can be seen in the “restricted time allotted to speakers”,169 that for Aristotle is necessary to achieve the target of rhetoric: “easy learning”.170 Since ordinary people can’t stand time-consuming reasoning, rhetorical speech should avoid being too long or it 166   Cfr. Blumenberg, Vollzähligkeit, 187, 76. As Wardy says (76), Plato rejects democracy because he considers that truth does not emerge in the agora, but in the face to face conversation: Socrates affirms that the single witness of the veracity of his reasonings that he admits, is his persuaded interlocutor (Gorgias 474a5–b1). 167   Blumenberg, “Approach”, 437. 168   Blumenberg, Vollzähligkeit, 130. In my opinion Blumenberg echoes Plessner’s concept of Vollzugszwang: Plessner, Die Stufen, 395. 169   Blumenberg, “Approach”, 437. 170   Rhetoric III 10 2, 1410b 21.

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runs the risk of missing audience’ attention. On the other hand and from a properly anthropological standpoint, human passions play a significant role in a quick reaction. Both Plato and Aristotle see here an opportunity for rhetoricians to manipulate people via emotions.171 For Plato, rhetoricians study and draw up an index of character types to make sure that his or her influence will be successful.172 But they do not really know what they are doing because their knowledge, as it was said before, is rather “a routine and habitude”173 than a true understanding, and consequently their influence ends up being a manipulation. Their speech results in the mere employment of given common senses (topoi) which unleashes listeners’ automatic reactions. Aristotle grants nevertheless more legitimacy to passions through their integration into practical judgments.174 So, to develop a rhetorical speech is the art of driving people angry when they should be, i. e., when presenting something morally wrong to them.175 To persuade is not only to help think about something but act on something: rhetoric is the only discipline that not only contemplates its object but takes into account the subject.176 Yet rhetoric may become also for Aristotle a sort of emotional manipulation177 if passion raising statements being resorted to are a consequence of “speaking outside the subject”178―that is, as much as they are far from truth. From this standpoint, human action would be irrational because not enough time is taken to reflect on it, to weigh it up, to analyze it, to gain a global comprehension of the issues involved. Kant agrees with it as he says that rhetoric is to regret because it transforms human beings into     173   174   175   176   177   178   171 172

Cfr. Wardy, 52. Phaedrus 271c–272b. Gorgias 501a 3–5. Rhetoric II 1 3, 1378a 20–30; see also Et. Nic. II 3, 1104b 15. Rhetoric III 7 1, 1408a 15–20. Topics, 155b4, 10. See Rhetoric III 18 3, 1419b 25–6. Rhetoric I 1 2, 1354a 24–6.

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machines.179 For Blumenberg, nevertheless, there are enough dangers and pressures in reality to justify as to become a machine.180 Among Aristotelian topoi, metaphors are the “common places” par excellence regarding its function of automatizing human behavior. As I said, metaphors put something in front of listener’s eyes, giving him or her visualization, immediate understanding of it. Its “simplicity”181 provides a swift action guide which, as Blumenberg says, “induces [agent] to jump into another level”.182 The metaphor of “jump” introduces again the topic of the rationality of rhetoric. Decision is described as a “jump” because it involves abandoning the familiar ground towards terra ignota. In every decision there is always a point of “faith”―of irrationality, from a scientific standpoint―and that is what Blumenberg wants to emphasize. Metaphors help us take a course of action where no clear course can be seen. As a surgeon, I might have doubts about whether I should save the convict’s life lying in front of me. From a “rational” point of view, to be completely sure we should know his whole future life course and weigh pros and cons in terms of benefits for both him and society. This is clearly impossible, not only because my lifetime is too short for that, but because his life is all but an already-written story. Therefore, we must resort to fables, anecdotes, fairy tales (metaphors) where “application” of indisputable principles like “do good, not bad” is the rule. 179   Kant, Kritik der praktischen Vernunft, Kritik der Urtheilskraft, 327: “aber Rednerkunst (ars oratoria) ist, als Kunst sich der Schwächen der Menschen zu seinen Absichten zu bedienen (diese mögen immer so gut gemeint, oder auch wirklich gut sein, als sie wollen)”. 180   Blumenberg, “Approach”, 455. The principle of insufficient reason is identified by Blumenberg with the pascalian “reason of effects (Raison des effets)”, that regulates “the natural and automated mechanism of ordinary impulses”: Hans Blumenberg, “Das Recht des Scheins in den menschlichen Ordnungen bei Pascal”, Philosophisches Jahrbuch 57 (1947), 428. 181   Hans Blumenberg, “Paradigma, grammatisch”, in Wirklichkeiten in denen wir leben. Aufsätze und eine Rede (Stuttgart: Reclam, 1981), 159. 182   Blumenberg, “Ausblick ”, 96.

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As opposite to metaphor we find concept, which tolerates the Husserlian “infinite work-on” of reason; therefore the impossibility of decision that implies by definition an interruption of the deliberative process.183 From this perspective, both the “saving time” strategy and the “active ignorance” of the technological world―due to its complexity―criticised by Husserl, appears as the very essence of the principle of insufficient reason. Husserl’s attempt to rationally clarify human action misses the point at least in three different ways: that rhetorical situation compels human being to act so many times without thinking twice; that too much cerebration would lead to undesirable consequences, such as uncovering finitude―expressed in this ambit as absence of guidances, i.e., indecision in the act of choice; and eventually that such a clarification is not possible, as stated by Blumenberg’s ontological skepticism. The structural shortage of time is what, in Blumenberg’s opinion, explains why the philosopher is made a fool by the Thracian slave184 or by the cave inhabitants as he or she comes back after having seen the “reality”.185 The philosopher is not able to meet the challenges of practical life―“there’s not enough light”, says Blumenberg―and makes steadily a fool of him or herself. Blumenberg sees it as the effect of intending a “«critical» destruction and consequent «definitive foundation»” of practical thinking, as proposed by Husserl,186 which would impose “such 183   To the question of how the theoretical reason determines itself to become practical, Kant answers: “I don’t know”. The condition for this ignorance was already treated by the Aquinas, who gave the following explanation: human will is infinite, so that no concrete good―being finite―can determine it to action. If it could, deliberative process will be a sort of pros-and-cons calculus from which it would “fall” the heavier-weighted option: cfr. Summa Theologica, Enrique Alarcón, ed., S. Thomae Aquino. Opera omnia (Universitatis Studiorum Navarrensis, Pamplona, http://www.corpusthomisticum.org/iopera.html), I–II, q. 10, a.3. 184   Blumenberg, Lachen, 16. 185   Blumenberg, Höhlenausgänge, 87. 186   “Nichts, das nicht absolut gerechtfertigt ist, soll gelten”: Edmund Husserl, Erster Philosophie (1923/4). Zweiter Teil: Theorie der phänomenolo-

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a level of rational proof that it would leave no room for what is really intended with this process: the rational movement of existence”.187 Theory in general, and its major exponent Husserl, “has idealized itself as the necessity of seeking a fundament for life; nevertheless, it is typical of life not to need fundament at all”.188 Thereafter, “in the realm of reasoning about practical activities in life, it can be more rational to accept something on insufficient grounds [das Unzureichende] than to insist on a procedure modeled on that of science”.189 If it was said in the previous section that Husserl’s intuition underlying his concept of “infinite work on” was a good approach to practical rationality, from this other point of view it must be said it is not. It might be accurate, Blumenberg thinks, to liken vital and practical thinking to Descartes’ concept of provisory moral knowledge. It was expressed through the metaphor of the traveler lost in the forest.190 When disorientation is total, the only rational behavior is taking an arbitrary path and following it without dismay, for there is only one thing sure: every forest comes to an end.191 Rational in the rhetorical situation―which, however, does not have an end―is this: the only justification to take a certain direction is being compelled to act;192 waiting until every necessary piece of information is available may be very rational from a theoretical viewpoint but it surely would mean an early death. Metaphor is then the right orientation for Handlungszwang. In this sense and introducing the ontological aspect in our analysis, metaphor’s standing for can be understood in the following way: gischen Reduction (Husserliana. Gesammelte Werke VIII), Rudolf Boehm, ed. (Den Haag: Martinus Nijhoff, 1959), 6. 187   Blumenberg, “Lebenswelt”, 47. 188   Blumenberg, Höhlenasugänge, 150–1. 189   Blumenberg, “Approach”, 448. 190   René Descartes, Discours de la méthode (Le Livre de Poche, 1970), III 22. 191   Blumenberg, “Selbsterhaltung”, 18. 192   Blumenberg, Glossen, 80.

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as a means of having at least something (the symbol), when there is no enough time to obtain the real object. Since human beings’ desires are directed to have things in themselves, to be content with their signs has to do with the “constitutive impatience of individual”.193 In the human war against finitude, it is a great success “not to need have things in themselves […] but their mere signs”:194 at least something.195 For instance: understanding the universe as a work-clock is a way of having the world in a certain aspect when we do not have enough time to have it as it is, because it would take us an eternity.196 Human beings can thus have every thing, as it is experienced in the vicarious life provided by literature.197 From this point of view, in the presence of radical questions about existence metaphorology offers a prompt “answer” in the form of erudite storytelling about the diverse answers that have been given to these questions, making as though in turn it was an answer. So it provides an orientation for human beings’ life quickly, succeeding again in the task of hiding contingence from view. All of this has ethical consequences that Blumenberg illustrates with a theological metaphor: human action is constituently “sinful”. And that for two main reasons: 1) Lack of evidence makes both most consequences of human actions harmful and responsibility for them much less heavy than moralists of sufficient reason principle would be willing to accept: “Most people are probably not more guilty [for their deci    195   196  

Blumenberg, Lebenszeit, 190–1. Blumenberg, Lebenszeit, 169. Hans Blumenberg, “Glossen zu Anekdoten”, Akzente 30 (1983) 1, 34. Arnold Gehlen, Urmensch und Spätkultur. Philosophische Ergebnisse und Aussagen (Athenäum–Verlag: Bonn, 1956), 162. This aspect of symbolization is based on the ability of human beings, thanks to the lack of instincts, of referring not only to sets of facts but to their negation. The short–circuit of stimulus (i.e. not having what would be due) is the primitive germ of consciousness of negation; cfr. Plessner, Die Stufen, 340. 197   Alsberg, Menschheitsrätsel, 129. 193

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sions] than in situations where no «decision» is to be made”.198 This might count as another aspect of lacking control over the conditions of our existence. As abovementioned, Blumenberg represents just the negative of Platonic ethics: if immoral action comes from ignorance, then human beings do structurally bad. 2) On the other hand, since the logic of life is its self-preservation; we are mainly our possibilities; and we have little time, our actions can be no other than egoistic. As long as we do not know in advance who we can get to be and what we will need for it;199 being this the most unavoidable “moral” command, because the human way of living consists of making real our possibilities;200 and having absolutely not enough time to succeed, every other human being logically turns out to be a rival.201 The main ethical problem is the existence of “a being with a limited lifetime and unlimited desires”.202 Against Kant, “because of the finitude of our life, we can afford no omission in achieving our goals”.203 Plato can say it is better bearing than doing injustice because he believes in immortality.204 Turning over Christian theology about sin,205 Blumenberg affirms that it was death that let sin have its way in the world and not the reverse.206 In this sense, the diabolic could be defined as “a concentrate of crafts and ruses to save time, to have more of the world. With a more abstract formulation: the world takes time”.207 Thereafter ethical and technological fields would be alien to one another: no moral law can     200   201  

Blumenberg, Selbstverständnis, 67. Blumenberg, Vollzähligkeit, 320. Blumenberg, Begriffe, 195–6. Hans Blumenberg, Matthäuspassion (Frankfurt am Main: Suhrkamp, 1988), 95. 202   Blumenberg, Lebenszeit, 71–2. 203   Blumenberg, Arbeit, 285. 204   Gorgias 524a–b. From my viewpoint, myth of judgment after death functions as the hidden base for all his argumentation in this dialogue. 205   Cfr. Romans, 5, 12. 206   Blumenberg, Arbeit, 285. 207   Blumenberg, Lebenszeit, 73. 198 199

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prevent human beings doing everything they can, “because we can’t stand being doubtful about whether we really can or not”.208 This is not, however, a justification for every kind of behavior; along with these reflections, Blumenberg defends the protection of community, just as a condition of the existence of individual life.209 We find here and again the ambivalence that permeates human existence for Blumenberg. In this paper we have tried and displayed the main concepts of Blumenberg’s view of rhetoric. It seems to us that rhetoric plays a crucial role in Blumenberg’s philosophy, since it makes apparent the ontological meaning of the Blumenbergian metaphorology’s anthropological turn. This ontological reference comes in turn to light through the discussion with Plato and Aristotle’s concepts of rhetoric. Going into more detail, we have tried to emphasize the Blumenbergian anthropological transformation of ontology by loading the classical features of rhetoric with ontological meaning. Following this argument, we have examined the ideas of human being as animal symbolicum and human beings’ double-faced temporality, drawing as a result both the concepts of rhetoric as art of delaying and as solution for not having enough time. This analysis has positioned us adequately in order to understand the ethical consequences deriving from the Blumenbergian ontological and anthropological comprehension.

  Blumenberg, Vollzähligkeit, 214. Italic by Blumenberg.   Hans Blumenberg, “Ist eine philosophische Ethik gegenwärtig

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möglich?”, Studium Generale 6 (1953) 3, 178.

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Reflexiones sobre el concepto filosófico de absolutismo: retórica y mito en Blumenberg

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eguramente tiene razón Odo Marquard cuando señala que Blumenberg ha pretendido con su obra la “descarga del absoluto” (Entlastung vom Absolutem), la liberación de los absolutismos que ignoran al ser humano, que lo convierten en un ser arbitrario, insignificante, atemorizado e incapaz de enfrentarse libremente a la realidad y tener su propia historia. Absolutismo de la realidad y absolutismo teológico son dos conceptos fundamentales en la filosofía de Blumenberg, sin que falten otros como el que ha marcado la historia de al menos los dos últimos siglos, el absolutismo de la técnica y de la ciencia. Blumenberg apenas ha escrito textos que puedan considerarse pertenecientes a la filosofía política. Sin embargo intentaré demostrar en las páginas siguientes la gran utilidad que tiene su pensamiento para este campo, pues nos proporciona armas muy útiles para hacer frente a los absolutismos y, sobre todo, a la teología política que lleva hasta su máxima expresión la soberanía y omnipotencia de la modernidad. Kelsen hace ya tiempo que afirmó la afinidad entre el absolutismo filosófico, aunque más bien podríamos reducirlo a gnoseológico, y el absolutismo político. En este caso también Blumenberg nos invita a considerar la afinidad entre el absolutismo filosófico, sea de la realidad, teológico o de la ciencia, y el político en sus distintas versiones, desde las antiguas autocracias a las modernas formas de teología política.   O. Marquard, “Descarga del absoluto. Para Hans Blumenberg, in memoriam” en Filosofía de la compensación. Escritos sobre antropología filosófica, Paidós, Barcelona, 2001.    H. Kelsen, “Absolutismo y relativismo en Filosofía y en política”, en ¿Qué es justicia?, Ariel, Barcelona, 1982. 

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Quisiera, finalmente, apuntar la hipótesis de que la filosofía de Blumenberg nos permite elaborar una especie de estética de la política que, en un sentido contrario al esteticismo de la realidad que desarrollaron en el siglo veinte los fascismos, podría servir para fundamentar la democracia.

1. La relación entre retórica y democracia

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omenzaremos señalando la afinidad de un determinado discurso de la democracia con la aproximación blumenberguiana a la retórica. Para este propósito resulta muy relevante el artículo “Aproximación antropológica a la actualidad de la retórica” que aparece en el libro Wirklichkeiten in denen wir leben. No se olvide que la persuasión ocupa un lugar central en la democracia, y que el carácter retórico de este medio se debe a que pretende obtener un acuerdo sobre el valor de la acción política, y no la verdad definitiva o eterna. La antropología blumenberguiana subraya, como sabemos, la inadaptación o falta de disposición biológica para hacer frente a la naturaleza, tan indiferente y hostil que, según Blumenberg, en el estado natural de la criatura impera el absolutismo de la realidad. En su libro sobre el mito concibe este absolutismo como un status naturalis donde el terror es omnipotente. Se trata de una sensación primigenia, de un mysterium tremendum, que despierta horror y miedo. Todo ello tiene que ver con el carácter limitado, finito y conflictivo del ser humano, quien consigue sobrevivir porque, lejos de establecer relaciones inmediatas con la realidad, se aproxima a ésta de modo indirecto, mediato, selectivo o metafórico. Es decir, establece con ella una distancia que es la propia del espectador. La imaginación o facultad de representación constituye una de las principales artes del espectador, presente tanto en el mito   H. Blumenberg, “Aproximación antropológica a la actualidad de la retórica”, en Las realidades en que vivimos, Paidós, Barcelona, 1999. 

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como en la misma ciencia, que han permitido despotenciar este mundo hostil, dotarle de significación (Bedeutsamkeit) y hacerlo más familiar o seguro. El pensamiento político, como indicaba Schmitt, parte de una concepción del hombre que, simplificando, puede ser optimista o pesimista. Optimista como en el fondo lo es el pensamiento político desde el iusnaturalismo moderno, que parte de un status naturalis que ha de ser superado, hasta las diversas versiones modernas y contemporáneas de republicanismos, liberalismos y socialismos. O pesimista como la filosofía política contrarrevolucionaria que alcanza, ya en el siglo veinte, su culminación con Carl Schmitt. Indudablemente, la democracia resulta incompatible con una antropología pesimista como la que subyace al concepto schmittiano de lo político, el cual parte de la insuperable maldad o peligrosidad del hombre y concluye afirmando la enemistad y la posibilidad de la guerra como destino inexorable. Pero tampoco si admitimos un excesivo optimismo, como el de los movimientos milenaristas y mesiánicos de la modernidad. Pues éstos nos llevan a poner todas nuestras esperanzas en una metapolítica y en un futuro en que, tras resolverse todos los conflictos, será innecesario el debate y la persuasión retórica. En Blumenberg, ni una cosa ni la otra. Ciertamente, en el origen encontramos el absolu  C. Schmitt, El concepto de lo político, Alianza, Madrid, 1991, pp. 90



ss.

  A partir de la Ilustración se produce un cambio significativo en la manera de comprender el estado natural. Para Blumenberg, la diferencia entre Hobbes y Rousseau no puede ser más evidente. Juzga que lo realmente efectivo en los mitos de la Ilustración “no fue la definición del objeto de las esperanzas, sino la ficción de los recuerdos. La historia primigenia del hombre como aquel ser natural carente de necesidades inventada por Rousseau significó […] la proclamación del carácter contingente de toda clase de situación, cultural y política de la actualidad”. Esta tesis suponía la completa inversión del teorema del status naturalis, entendido “como paradigma de todo lo que había obligado a la razón a fundamentar la dominación del hombre por el Estado.” (H. Blumenberg, Trabajo sobre el mito, Paidós, Barcelona, 2003, pp. 245-6). A partir de ahora citamos este libro con la abreviatura TM. 

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tismo de la realidad, pero enseguida nos dice que la historia del ser humano coincide con la afirmación de la cultura y del trabajo necesario e interminable para distanciarse de ese terrible origen. Según Blumenberg, hay algo peor que la enemistad, que la “negación óntica de un ser distinto”: la indiferencia, no ser tenido en cuenta, o lo que es lo mismo, no ser visto, permanecer invisible. Aquí se halla el verdadero mal de los absolutismos: nos amenazan con reducirnos a sujetos invisibles o a cosas sin valor alguno. Si la superación del absolutismo supone luchar por la visibilidad del cualquiera, la apología de la democracia implicará asimismo la inacabable pugna por que todos sean visibles, por que cuenten hasta las más insignificantes opiniones. De ahí que el conflicto no sea siempre lo peor, ni como señala Schmitt la   C. Schmitt, o. c., p. 63.   Bruno Accarino ha abordado las consecuencias antropológicas del tema

 

de la invisibilidad en el cuarto capítulo de su libro Daedalus. Le digressioni del male da Kant a Blumenberg, Mimesis, Milán, 2002 (antes apareció con el título “Nomadi e no. Antropogenesi e potenzialismo in Hans Blumenberg”, en A. Borsari (ed.), Hans Blumenberg. Mito, metafora, modernità, Il Mulino, Bolonia, 1999). Accarino aprecia tres posiciones antropológicas en relación con lo que él denomina “el experimento decisivo de la modernidad” (Daedalus, pp. 117 ss.) y que podemos sintetizar con esta pregunta: ¿qué sucede en el estado de naturaleza cuando se encuentran por primera vez dos hombres que nunca se habían visto antes? Una antropología pesimista respondería que se mostrarían hostiles; la versión optimista partiría del deseo natural de sociabilidad y, por lo tanto, diría que cada uno de ellos se alegraría al ver en el otro a un igual. Una tercera posición mantendría que el hombre en el estado natural carece de curiosidad y manifiesta la más profunda indiferencia hacia el semejante. En cierto modo esta última es la posición de Rousseau, y, desde luego, no cabe ser tachada de pesimista. Sin embargo, Accarino llega a decir que la indiferencia puede ser más eficaz en el rechazo del otro que la enemistad. La indiferencia, en el extremo opuesto a la hospitalidad, lleva incluso a la invisibilidad, a no reconocer al otro, pero también a la pérdida de sentido del mundo, a que sean imposibles las historias que nos constituyen como seres humanos (Ibídem, p. 120).    Sobre la noción de la democracia vinculada a la visibilidad, me remito a la estética de la política de Jacques Rancière, y en particular a sus libros La Mésentente. Politique et philosophie (Galilée, París, 1995), Aux bords du politique (La Fabrique, París, 1998) y La Haine de la démocratie (La Fabrique, París, 2005).

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inevitable consecuencia de nuestra peligrosidad, sino que, por el contrario, sea en muchas ocasiones la única vía para la liberación o emancipación. Es más, todos los absolutismos, ya no digamos los totalitarismos, aspiran a la ausencia de conflicto y a la desaparición de los enemigos –o, al menos, de los internos–, a convertirlos en invisibles. En cambio, la historia de la cultura, que es lo más propio de la condición humana, podría ser analizada como un viaje desde lo invisible a lo visible. Se comprende así que Blumenberg –y luego volveremos a este tema– haya denunciado la metafísica y la teología que, en contra del saber del mito, se alían con la invisibilidad.

1.1 El primer presupuesto antropológico de la retórica: la falta de evidencia Seguidamente apuntaremos que los presupuestos antropológicos de la retórica, los que encontramos en el artículo citado de Blumenberg, lo son también de un determinado modo de entender la democracia. Comencemos con el primer presupuesto, la falta de evidencia. En contraste con la ciencia clásica que persigue la verdad definitiva, la retórica tiene que vérselas con situaciones en que la ausencia de certezas no debe desembocar en la indecisión o inacción. La razón práctica, la que afronta estas situaciones y hace uso de la retórica, resta como una razón insuficiente, como una razón que, a diferencia del leibniziano principio de razón suficiente, no puede suprimir la contingencia porque no podemos disponer de un conocimiento determinante y acabado de las causas que motivan cualquier suceso. El principio de razón insuficiente explica también la necesidad de metáforas absolutas para comprender fenómenos complejos e infinitos sobre los cuales la ciencia no puede dar una respuesta que cumpla con sus exigencias. Las metáforas absolutas y demás medios retóricos que influyen sobre los juicios que orientan las decisiones políticas, judiciales, etc., no son, desde luego, irracionales, pero dependen de opiniones y teorías fundadas de una

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forma difusa y no metódicamente reglamentada. Recordemos que, de una parte, la metaforología está unida a la teoría de la inconceptuabilidad. De otra, la utilización del principio de razón insuficiente para comprender la razón práctica ha de encuadrase dentro de la debilidad teórica de una disciplina que, lejos de las ciencias naturales y de la ética kantiana, no sólo no posee ni principios, ni conceptos universales ni imperativos categóricos, conforme a los cuales conocer y valorar la realidad política, sino que también se duda –y por este motivo debería ser moderadamente escéptica– de que sea posible o útil alcanzarlos, habida cuenta del tiempo necesario para ello. La metáfora absoluta surge de esa incapacidad de la razón conceptual para conocer fenómenos complejos como la vida, la muerte, el universo, etc. No siempre el uso de metáforas está unido al reconocimiento de los déficits conceptuales de la razón práctica. La filosofía clásica ha empleado con frecuencia la metáfora al servicio de la verdad. En este caso tales medios retóricos se convierten en intuiciones, ejemplos o analogías que sirven para verificar la realidad de los conceptos. Por eso no debemos confundir las metáforas absolutas, las vinculadas a la teoría de la inconceptuabilidad, con todas aquellas metáforas que son ajenas al principio de razón insuficiente. Así sucede, si nos referimos a las políticas, con la secular metáfora orgánica, la del bello animal, cuyo desarrollo podemos seguir desde los griegos, pasando por el Leviatán, hasta la Revolución francesa, e incluso más allá. Según Blumenberg, la retórica nos enseña que puede ser más racional tratar con enunciados provisionales y teóricamente dudosos, pero capaces de impulsar la praxis, que proceder de una manera científica que pueda retrasar y hacer imposible el juicio y la decisión. No ocurre de otro modo con el democrático principio mayoritario, pues, aunque resulta insatisfactorio para la ciencia   Sobre la metaforología en la obra de Hans Blumenberg, véase sobre todo su libro Paradigmas para una metaforología (Trotta, Madrid, 2003), pero también resulta imprescindible “Aproximación a una teoría de la inconceptuabilidad”, en Naufragio con espectador, Visor, Madrid, 1995, pp. 97 ss. 

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que busca la verdad, siempre indiferente a la opinión y creencia de la mayoría, sirve al menos para tomar una posición clara y seguir adelante. Este presupuesto retórico pone de manifiesto que la política democrática no debe identificarse con la filosofía, con el platónico saber de los expertos. También el pascaliano argument du pari supone una clara muestra del principio de razón insuficiente propio de las disciplinas que, en lugar de proporcionar verdades, hacen significativa nuestra existencia10. En realidad, la retórica no abandona, como nos explica nuestro filósofo a propósito de Cicerón, las categorías de lo verdadero y lo falso. Con la metáfora de lo verosímil11, los clásicos romanos pretendían expresar que lo probable (probabile) está muy próximo a lo verdadero (prope verum), que participa de su aparien10   Una magnífica exposición de esta tesis de Blumenberg se puede hallar en el film de Éric Rohmer Ma nuit chez Maud, en la conversación entre el jesuítico Jean-Louis y el pascaliano profesor Vidal. En el cuento moral de Éric Rohmer Ma nuit chez Maud, Vidal, el profesor marxista, aplica incluso el argumento de la apuesta al último estadio de la doctrina del progreso, al materialismo histórico: “pour un communiste –dice Vidal al muy jesuita narrador–, ce texte du pari est extrêmement actuel. Au fond, moi, je doute profondément que l’histoire ait un sens. Pourtant, je parie pour le sens de l’histoire, et je me trouve dans la situation pascalienne. Hypothèse A: la vie sociale et toute action politique sont totalement dépourvues de sens. Hypothèse B: l’histoire a un sens. Je ne suis absolument pas sûr que l’hypothèse B ait plus de chances d’être vraie que l’hypothèse A. Je vais même dire qu’elle en a moins […]. Néanmoins, je ne peux pas ne pas parier pour l’hypothèse B, parce qu’elle est la seule qui me permette de vivre […] est la seule qui justifie ma vie et mon action. Naturellement, il y a quatre-vingt-dix chances pour cent que je me trompe, mais ça n’a aucune importance.” “La probabilité –añade el narrador– est faible, mais le gain est infini, puisque c’est pour toi le sens de ta vie, et pour Pascal le salut éternel.” (E. Rohmer, Six contes moraux, Ramsay, París, 1988, pp. 68-9). O para expresarlo con las palabras de Blumenberg: “sigue siendo válido decir que el ser humano, ante cualquier riesgo de error, tendría que hacer la apuesta de toda su praxis por la oportunidad de una alternativa teórica favorable a su autoafirmación y autodesarrollo.” (“Aproximación antropológica…”, cit., p. 135). 11   El tema de la verosimilitud es tratado por Blumenberg en Paradigmas para una metaforología, cit., pp. 171 ss. Esta cuestión la he desarrollado con anterioridad en el artículo “El republicanismo de Cicerón: retórica, constitución mixta y ley natural en De Re publica”, en Doxa. Cuadernos de Filosofía del Derecho, n.º 29, 2007, pp. 367-86.

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cia y esencia (De oratore, I, 240), y que basta con lo verosímil para seguir avanzando en un mundo como el de la política donde siempre se precisa dar una rápida respuesta. La fiabilidad del parecerse-a-la-verdad (verisimili), de lo probable, satisface la necesidad humana de orientación en el mundo y cumple la esencial función política de favorecer la toma de decisiones. Debemos distinguir, no obstante, entre la retórica que, como la de Cicerón, tiene un marcado sentido escéptico12 y la retórica que, como la de Quintiliano, hace referencia tan sólo al buen hablar, de modo que se da por supuesto la íntima vinculación entre la virtud o el saber práctico y la capacidad de expresarse bien. Para esta segunda concepción, la retórica desaparece como propiedad distinta y separada de la sabiduría o teoría; pues se trata de una disciplina que, como podemos observar en la obra de Agustín de Hipona, se limita a enseñar la elocuencia a quienes conocen la verdad13. Quisiera a continuación poner de relieve la afinidad del discurso retórico de Blumenberg con las lecciones de Arendt sobre la filosofía política de Kant que, como se sabe, la pensadora localiza fundamentalmente en la primera parte de la Crítica del juicio14. El juicio del gusto es retórico porque, como se puede leer en el §8 esta obra, “no postula la aprobación de cada cual   La postura del escepticismo académico en favor de lo probable viene exigida por las necesidades éticas y políticas, como explica Cicerón en el Lucullus: “entre nosotros y los que creen saber sólo hay una diferencia: ellos no dudan de la verdad de lo que defienden; nosotros, por el contrario, consideramos como probable gran número de opiniones y creemos que se las puede seguir, pese a no hacer ninguna afirmación sobre ellas”, esto es, pese a no ser más que probables (M. T. Cicerón, Lucullus, proem. 8, cit. en H. Blumenberg, Paradigmas…, cit., p. 174). La primacía de la dimensión práctica se puede observar también cuando advertimos que el valor de lo probable depende de su conveniencia política, de su fiabilidad orientativa y de su dimensión antropológica; en suma, de que le sirva al hombre para vivir en el mundo. En caso contrario, lo probable se transformaría en captiosa probabilitas. 13   S. Fish, Práctica sin teoría: retórica y cambio en la vida institucional, Destino, Barcelona, 1992, pp. 260-1. 14   H. Arendt, Conferencias sobre la filosofía política de Kant, Paidós, Barcelona, 2003. 12

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(pues esto sólo puede hacerlo un juicio lógico general, que puede aducir razones); sólo pretende la aprobación de todos como un caso de la regla cuya confirmación espera, no por conceptos, sino por la adhesión de los demás”. A pesar de ser un juicio subjetivo, ya que no se puede aducir una regla general o universal a priori, aspira a la intersubjetividad, al acuerdo. La validez de este juicio reflexionante o reflexivo depende de su comunicabilidad y de su fuerza de persuasión. No es otra la esencia de la retórica. Quizá la mejor manera de expresar la necesidad de retórica para lograr al menos la intersubjetividad a la cual se refiere Arendt, sea una anécdota que encontramos en el libro póstumo Begriffe in Geschichten. Blumenberg señala en esta obra que Schopenhauer, con el propósito de ilustrar “la soledad del hombre razonable en medio de trastornados”, ha contado la historia de un hombre que “tenía un reloj que daba la buena hora en una ciudad cuyos campanarios estaban todos equivocados; sólo él sabía la hora verdadera. La gracia de esta historia está en la escueta pregunta: ¿de qué le sirve?”. “El núcleo del absurdo –nos advierte nuestro autor– no está en quienes salen en la historia, sino en quien la cuenta”, en Schopenhauer, pues éste parecía suponer que alguien puede tener el tiempo verdadero mientras que los demás pueden estar equivocados. “El solitario –concluye Blumenberg– poseedor del tiempo verdadero en una ciudad cuyos campanarios tocan una hora equivocada no es un sabio, sino un loco”15. El filósofo relataba de este modo una tragedia imposible: olvidada que el tiempo supone una convención pública, que no pueden haber ni tiempos secretos ni relojes privados. El tiempo pertenece a esas esferas de saber humano que, como la estética, el derecho o la política, deben contentarse con el acuerdo o la intersubjetividad, lo único que nos permite acercarnos al espíritu de la objetividad, y renunciar a verdades a las que uno puede llegar en soledad sin tener en cuenta a los demás hombres.

  H. Blumenberg, Conceptos en historias, Síntesis, Madrid, 2003, pp.

15

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Queda entonces claro que, cuando nos conformamos con la falta de certeza o de evidencia, favorecemos el acuerdo en torno a los objetivos políticos. Ahora bien, como el ámbito retórico de lo verosímil no se puede apartar de la contingencia y provisionalidad de sus resultados16, ha de quedar necesariamente abierta la vía del disenso, del desacuerdo. La retórica une así dos lógicas heterogéneas, pues favorece el acuerdo de un modo que legitima al mismo tiempo el desacuerdo posterior.

1.2 El segundo presupuesto antropológico de la retórica: la compulsión a la acción En relación con este segundo presupuesto también podemos apreciar, nos indica Blumenberg, una clara diferencia entre la ciencia y la retórica. La falta de evidencia puede ser común a ambas disciplinas, pero la primera, cuya máxima aspiración consiste en lograr verdades y deshacer dudas teóricas, parte con la clara ventaja de poder esperar y soportar la provisionalidad de sus resultados. Esto se debe a que el tempo de la teoría es el tiempo del mundo (Weltzeit), y no el de la corta vida del hombre. En realidad, el sujeto de la ciencia no es el hombre concreto, finito, sino un sujeto –una institución– artificialmente construido: sociedad, nación, humanidad o ciencia17. Por el contrario, las disciplinas retóricas presuponen como factor situacional constitutivo la compulsión a la acción de este ser carencial, finito o mortal que es el hombre. La provisionalidad de nuestras hipótesis políticas, judiciales o estéticas no puede ser un freno para el juicio y la acción. No podemos esperar, como   La provisionalidad de las decisiones y acuerdos políticos se debe –como ya expresara Max Weber– a que los deseos personales y la unilateralidad de las convicciones comprometen la universalidad de la comunicación. Resulta imposible lo que pretenden los anti-retóricos: un lenguaje (lenguajes artificiales, derecho natural, situación de habla ideal, etc.) que refleje fielmente las cuestiones de hecho. Desde la perspectiva retórica son inevitables las superfluidades, equívocos, metáforas, etc. 17   H. Blumenberg, “Mundo de la vida y tecnificación bajo los aspectos de la fenomenología”, en Las realidades…, cit., p. 68. 16

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hace la ciencia, a que nuestras hipótesis y juicios se verifiquen, ya que nuestra mortalidad –la razón de nuestros males– nos empuja a tomar una decisión en el plazo relativamente breve del tiempo de la vida (Lebenszeit). Por esta causa, en lugar de prometer verdades definitivas o eternas, la retórica se conforma con lo provisional, lo cual nos permite al menos superar el efecto paralizador de la duda teórica18. Este modo de proceder, perfectamente adaptado a la condición humana, contrasta con la inseguridad y el malestar generados por la teoría que se desarrolla gracias a continuas retractaciones, revisiones o gradaciones. La historia de las ciencias demuestra que el inacabable e infinito intento de aprehender la verdad última y absoluta19 constituye, en realidad, una tarea inhumana. Blumenberg, en Lebenszeit und Weltzeit, expresa que la raíz del mal del hombre, de sus defectos antropológicos, se debe a la falta de tiempo, a su mortalidad. O en otras palabras, al desequilibrio que se produce –y que ya habían observado Séneca, Pablo de Tarso, Maquiavelo, Goethe y tantos otros– en un ser cuyos deseos pueden ser infinitos pero su duración es finita20. En el mismo libro se indica que sólo en un dios omnipotente o en un monstruo coinciden el tiempo del mundo y el tiempo de la vida. La congruencia o sincronización de estos dos tiempos supone una locura, como la de los últimos días de Hitler, quien, al parecer, pretendía hacer coincidir su propio final con el fin del mundo, con el apocalipsis de la humanidad. En el fondo, la única   “Aproximación antropológica…”, cit., p. 133.   Sobre el pathos científico de la “idea de una infinidad de trabajos”,

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véase “Mundo de la vida…”, cit., p 63. 20   Blumenberg explica que el hombre “vive en un mundo que parece no poner límites preestablecidos a todo lo que es posible, exceptuando uno solo: el hecho de que debe morir”. El Fausto de Goethe lo expone con estas palabras: “Doch nur vor Einem is mir bang:/Die Zeit ist kurz, die Kunst ist lang”. Pero mucho antes Séneca ya había dicho que cuanto mayor es la desproporción entre la grandeza de los deseos y la duración de la vida, mayor puede ser la maldad. También Pablo de Tarso había escrito que el pecado permanece en el mundo a causa de la muerte, y que el paraíso lo es porque precisamente aquí no falta tiempo. Cf. H. Blumenberg, Tempo della vita e tempo del mondo, Il Mulino, Bolonia, 1996, pp. 90-1.

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fórmula sensata encontrada por los humanos para impedir que no se abra más la diferencia –las tijeras– entre los dos tiempos y, por tanto, que el tiempo de la vida no sea la medida de todas las cosas, consiste en la construcción de instituciones21. La compulsión a la acción nos obliga a conformarnos con un tipo de racionalidad práctica que no cumple con las expectativas de la ciencia. Ello no obsta para que Blumenberg sea consciente de las patologías engendradas por la razón moderna, la cual, aun en nombre de la emancipación y libertad del hombre, del progreso y la revolución, favorece “factores de aceleración y condensación de los procesos” en los que el individuo constituye una pieza más, sacrificable en bien de la colectividad. Tenemos así un nuevo absolutismo, el de la técnica y la ciencia modernas. En la época de la aceleración, también hemos asistido al nacimiento de un decisionismo, la teología política, que toma como modelo la manera de actuar fulminante, instantánea y sin rodeos propia de la divinidad monoteísta. Contra estos absolutismos, la retórica moderna se ha apartado de la antigua y ha adoptado la estrategia de la dilación. Los medios retóricos de significación, entre los cuales destaca la prolijidad, la fantasía en el tratamiento o la ritualización, “llevan implícitos –afirma Blumenberg– la duda de que la unión más corta entre dos puntos sea el camino apropiado para el hombre”22. Y no es otra, como veremos, la lección que puede extraer el hombre contemporáneo del mito. De esta manera, mientras el fenómeno moderno de la técnica se resume en la intención de ganar tiempo y de adoptar decisiones rápidas, las disciplinas retóricas y las prácticas democráticas, así como las instituciones que asumen la división de poderes y reemplazan las acciones por “meras palabras”, hacen uso del aplazamiento, de la dilación, de la prolijidad o del rodeo metafórico, todos ellos medios utilizados por el mito para hacer significativa la realidad. Ésta es la razón por la cual “si la retórica clásica apunta, esencialmente, al mandato de la acción, la moderna retórica solicita   Ibídem, p. 102.   H. Blumenberg, “Aproximación antropológica…”, cit., p. 130.

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un aplazamiento de la acción, o, por lo menos, una comprensión del mismo”23. También aquí, como en el primer presupuesto, nos encontramos ante la unión de dos lógicas heterogéneas: la de la compulsión a la acción, debida al tiempo esencialmente limitado de la vida, y la de la dilación, debida al peligro de generar un sujeto omnipotente como el de la teología política.

1.3 La democracia de la retórica Para terminar esta primera parte quisiera volver a subrayar la conexión entre retórica y democracia. El discurso democrático, el que utilizan los iguales para resolver los asuntos de la ciudad en el breve tiempo de la vida, es un discurso retórico porque ha de conformarse con el acuerdo o la intersubjetividad, y no con la verdad. Pero también sucede que la retórica misma, tal como la podemos entender a partir de Blumenberg, constituye un discurso democrático. Tres razones me llevan a sostener esta tesis. En primer lugar porque siempre se da entre iguales, entre los que no precisan de ninguna identidad previa ni de ningún saber específico. No puede desarrollarse, por tanto, allí donde impera la violencia o el temor, 23   Ibídem, p. 133. La aceleración comenzó siendo en la modernidad un factor ligado al progreso de la humanidad y a la superación de las necesidades. Sin embargo, Koselleck, en una línea parecida a Blumenberg, indica que hoy “determinados fenómenos de aceleración han alcanzado su grado de saturación”, de forma que surge “el problema de si la experiencia general de la aceleración puede continuar siendo registrada sin trabas también en el futuro”. Y añade que “en el ámbito de la aceleración del tiempo histórico se perfila la posibilidad de que el hombre mismo aniquile las condiciones tradicionales de su existencia, saturadas cultural e industrialmente” (R. Koselleck, Aceleración, prognosis y secularización, Pre-textos, Valencia, 2003, p. 68). De ahí que, al final, Koselleck señale que “tal vez nos sintamos constreñidos en el futuro a dirigir los esfuerzos de la humanidad más bien hacia los factores de estabilización y a los condicionamientos naturales de nuestra existencia terrestre” (Ibídem, p. 71). La preocupación contemporánea por la sostenibilidad tiene mucho que ver con esta crítica de Koselleck a la aceleración moderna, o con la de Blumenberg al absolutismo de la ciencia y la técnica.

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allí donde no se dan las condiciones para un debate libre. En segundo lugar, la retórica es democrática porque se refiere a un saber provisional, inestable, abierto siempre al disenso, al cambio, que es lo propio de un conocimiento que depende de la opinión de los demás. Y, finalmente, porque une lógicas heterogéneas o contrarias, la que favorece los acuerdos y la que abre la vía del desacuerdo, la que lleva a una acción rápida y la que propone dilatar la decisión; unidad de contrarios que resulta inevitable allí donde impera el pluralismo y la libertad de los iguales. Por lo demás, tampoco debe obviarse que esta unión retórica de dos lógicas heterogéneas rompe con los dualismos conceptuales clásicos, empezando por la división entre gobernante y gobernado, soberano y súbdito, amigo y enemigo, etc. Dualismos que constituyen, como nos enseña Schmitt, una de las principales claves para entender la teología política.

2. La retórica del mito contra el absolutismo de la realidad y la verdad dogmática

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l politeísmo que nos propone Blumenberg en su magna obra Arbeit am Mythos24 hace referencia a todas esas historias y medios de significación míticos que, por oponerse al absolutismo de la realidad y a la omnipotencia, también nos pueden servir para combatir la teología política y defender lo más alejado de ella, la democracia. La función del mito resulta profundamente racional, aunque no sea la racionalidad de la teoría, porque pretende desmontar el absolutismo de un cosmos inhóspito, inmanejable e indiferente al hombre. Gracias al mito, nos dice Blumenberg, “el mundo va perdiendo monstruos”, “se va convirtiendo en algo más amable”, “se va acercando más a la necesidad del hombre –que es quien   Una buena parte de los argumentos expuestos en este segundo apartado los abordé más extensamente en el artículo “La Filosofía del mito de Hans Blumenberg: de la politización del mito al esteticismo moderno de la realidad”, en Analecta Malacitana, XXVII, 1, 2004, pp. 31-63. 24

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escucha el mito– por sentirse en el mundo como en su casa” (TM, p. 127). Las historias míticas permiten, por un lado, combatir la indiferencia del tiempo, el aburrimiento, la arbitrariedad de las cosas o, en definitiva, la amenaza de que el mundo no esté hecho para el hombre y de que sea una criatura prescindible. Y, por otro, permiten ahuyentar el miedo y la inseguridad generados por esta realidad hostil. El miedo, como se sabe, está asociado a lo desconocido, a lo que no tiene nombre. Si el miedo más intenso coincide con el más innombrable, el más invisible, Blumenberg sostiene que encontrar un nombre para lo indeterminado, para lo extraño, ha de ser necesariamente una forma de superar el temor, el absolutismo de la realidad, y de confiar en nuestro entorno. El fin apotropeico o tutelar del mito se logra así nombrando, designando, las cosas y contando historias: “cubrir el mundo –señala el filósofo– con nombres significa repartir y dividir lo indiviso, hacer asible lo no asido, aunque todavía no comprensible” (TM, p. 50). El trabajo del mito, consistente en nombrar, repartir los poderes, codificar competencias o regular las relaciones, suprime la extrañeza y temor de un cosmos que, antes de esa labor, se caracterizaba por su pura arbitrariedad, por su absoluta contingencia. Todo ello explica el horror vacui del mito, el hecho de que permita una densidad que excluye los espacios y tiempos vacíos. Este esfuerzo por nombrar, por ampliar las fronteras de nuestro interés y conocimiento, entronca tanto con la literatura moderna, para la cual todo debe hablar, como con la democracia, para la cual se trata de verificar el presupuesto de la igualdad y visibilidad de cualquiera. La nominación, el dar nombre, se complementa con el politeísmo mítico o con el reparto (división) de poderes entre los dioses, que es el principal medio del cual se sirve el mito, pero también la política, para desmontar el absolutismo, despotenciar lo absoluto y suprimir toda omnipotencia. Como en el universo de Montesquieu, los poderes presentes en el mito compiten entre sí, se contrabalancean y se invalidan mutuamente. Ésta es la razón principal por la que en el politeísmo griego no existe el mal

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teológico y moderno de la omnipotencia: ni siquiera Zeus detenta un poder absoluto como demuestra el mitologema de Prometeo, el titán que, a pesar de retar al dios supremo, sobrevive a su castigo. Sólo de este modo, con la disminución del poder de los dioses, podemos distanciarnos de lo siniestro y aumentar las condiciones de familiaridad. La función apotropeica del mito, lejos de solidarizarse con la teoría, la filosofía o la ciencia en la búsqueda del saber más profundo y primigenio, consiste en distanciarse, olvidarse25 incluso, de la verdad del status naturalis. Distanciamiento que, por lo demás, se da en toda representación, en todos los medios indirectos con los que, como veíamos en relación con la retórica, se hace frente al absolutismo de la realidad. No entraremos ahora a desarrollar la gran relevancia que tiene el distanciamiento26, la condición de espectador, en Blumenberg. Nos limitaremos a subrayar que esta distancia nos lleva de nuevo a la retórica y a la estética. La función racional del mito, la que lleva a establecer fronteras, poner nombres y definir el mundo, debe tener, no obstante, sus límites. Si pensamos en la división hasta el infinito corremos el peligro de caer en el otro extremo de la omnipotencia, en el opuesto de la histeria, en la división esquizofrénica y en la constante metamorfosis –la de Proteo– que impide la identidad mínima, la subjetividad necesaria, para contar una historia27.   Sobre la relación entre distanciamiento y “estrategia de olvido (Vergessenheit)”, véase M. Cometa, “Mitologie dell’oblio. Hans Blumenberg e il dibattito sul mito”, en Hans Blumenberg. Mito, metafora, modernità, cit., especialmente las pp. 156-65. 26   Blumenberg ha prestado mucha importancia al esquema conceptual del distanciamiento, a la actitud de espectador incólume y a salvo del naufragio existencial. Sobre este tema reflexiona en su breve e intenso ensayo Naufragio con espectador (Visor, Madrid, 1995). El mismo goce estético, nos dice en Trabajo sobre el mito, puede aparecer, sobre todo si nos referimos al efecto catártico de la tragedia, como un acto de distanciarse de lo insoportable que ahora se vive únicamente en la representación (TM, p. 132). Por lo demás, el lenguaje, el mito, la metáfora, la institución o, en suma, todas esas mediaciones culturales que Blumenberg ha estudiado en sus libros, sirven para distanciarnos, para trazar fronteras y protegernos del absolutismo de la realidad. 27   El mitologema de Proteo lleva hasta tal extremo la falta de identidad 25

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2.1 Significación del mito En su gran capacidad para hacer significativo el mundo, se encuentra, al entender de Blumenberg, lo más atrayente del mito para el hombre moderno y contemporáneo. La significación (Bedeutsamkeit) –expresión tomada de Dilthey– es un concepto que se puede explicar, pero no definir. Se asemeja al juicio estético, pues, si bien no coincide con la objetividad y verdad perseguida por las ciencias, tampoco equivale a algo puramente subjetivo o arbitrario. Las cosas significativas tienen un rango o fundamento real: son cosas que se sobreentienden o de las cuales se desprende una arcaica sensación de pertenecer al mundo (TM, p. 78). Cargar o dotar de significación a la realidad, que es la función principal del mito, nos permite hacerla familiar y luchar contra la indiferencia, contra la más absoluta contingencia. En su lucha contra la indiferencia e infinitud temporales, el mito se refiere siempre a grandes acontecimientos caracterizados por su singularidad, mientras que la ciencia prefiere las situaciones resultantes de un número indeterminado de personas y de causas, lo cual no impide que también en algunas ocasiones haga referencia a acontecimientos, particularmente cuando se trata de las disciplinas históricas. Para la ciencia que prefiere las situaciones, la historia se convierte en “algo parecido a un proceso de la naturaleza, a una secuencia [infinita] de olas” (TM, p. 116). Blumenberg ve, por el contrario, en la división del tiempo, en el establecimiento de hitos temporales o en la acción de realzar el principio y fin de los relatos históricos, una influencia de los medios de significación del mito sobre los de la ciencia, ya que estos jalones ayudan a combatir la indiferencia e infinitud de la realidad histórica. histórica, que acaba convirtiéndose en una parodia del mito. Tan ilimitada resulta la capacidad de este personaje para transformarse, para metamorfosearse, que se hace prácticamente imposible relatar su mito. El ser siempre otro, el no tener un ser propio, revienta desde dentro el principio de la narratividad (TM, p. 151).

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El autor de Arbeit am Mythos es consciente de que la ciencia debe emplear a veces los medios con los cuales el mito hace significativo el mundo. Entre estos medios cabe destacar la simultaneidad, la identidad latente de cosas, personas y sujetos ficticios, la repetición (Wiederholung) o el retorno de lo mismo, la reciprocidad entre la resistencia y la elevación existencial, la digresión o el rodeo (Umwege) y la prolijidad (Umständlichkeit). En esta ocasión me limitaré a destacar la prolijidad por su relevancia para combatir el absolutismo en su modalidad política. Blumenberg demuestra que la prolijidad se convierte en una de las armas más eficaces contra el decisionismo. No es de extrañar que Schmitt siempre huya de órganos que, como el Parlamento o el Tribunal Constitucional, introducen en la vida institucional la prolijidad típica de los procesos judiciales o de la colegialidad. Las dilaciones propias de lo prolijo, el que los dioses se sometan a determinados procedimientos, el que acaten una especie de constitucionalismo, pues, con independencia de que utilicen constantemente el engaño y su moral privada sea muy censurable, han de respetar los juramentos si no quieren ser castigados por perjurio; todo ello, en suma, sirve para mantener a distancia el absolutismo, para poner de manifiesto que los poderosos dioses son incapaces de conseguir todos sus antojos, y que, al final, no son omnipotentes28.

2.2 Más allá del absolutismo teológico y de la verdad dogmática Una de las cuestiones centrales planteadas en Arbeit am Mythos es la oposición entre dogma y mito. El dogma, que surge con el monoteísmo judeo-cristiano, aspira a desprenderse de los medios utilizados por el mito para hacer significativa la realidad y a aproximarse a la precisión conceptual de la metafísica. 28   Que la prolijidad se dirige contra el decisionismo del dios omnipotente o contra los contemporáneos admiradores “de las decisiones fulminantes y de las acciones grandes y relevantes”, se puede comprobar en TM, p. 159.

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Por este motivo, la teología política se sitúa del lado del dogma, mientras que la genuina democracia siempre se hallará lejos de este terreno. El dios del dogma, y en especial el de Hobbes y Calvin, es el de la teología política, el que ha inspirado la teoría schmittiana de la soberanía. Se trata de un dios del cual se sospecha, y sirva de ejemplo el mandato recibido por Abraham, que establece condiciones imposibles de cumplir. Este dios, severo, absoluto, omnipotente, se aleja de las necesidades del hombre, del mito cuya función consiste en hacer más seguro y familiar el mundo, y se convierte por ello en un deus absconditus y arbitrario. Aparece entonces bajo el aspecto de un dios autárquico, desinteresado por el destino de la criatura, y semejante al motor inmóvil de la metafísica aristotélica. Ocupado en la contemplación de sí mismo, determina también la meta autárquica del hombre: la pura contemplación de la vida beatífica. La invisibilidad juega un papel fundamental tanto en el absolutismo de la realidad como en el absolutismo teológico-dogmático. A juicio de Blumenberg, “lo invisible apremia a una elaboración dogmática” (TM, p. 243). La invisibilidad se hace imprescindible cuando nos encontramos ante un dios, como el judeo-cristiano, cuyos atributos son los abstractos, universales e ilimitadamente transportables conceptos de la metafísica; o cuando se trata de un dios tan omnipotente y autárquico que, al no dejar ningún espacio libre para el hombre, impide imaginar una historia (TM, p. 246), incluida la misma historia de la creación universal. Esta divinidad invisible y dotada de potentia absoluta no tiene ni enemigos ni amigos: carece tanto de rivales, de competidores, como de amigos con los cuales concluir un contrato que, lógicamente, presupone libertad e igualdad entre las partes. Al igual que sucede con el absolutismo de la realidad, dicha invisibilidad pone de relieve que hay algo peor que la enemistad. De todos modos, Blumenberg reconoce que la religión monoteísta intentó desprenderse de la pesada carga del absolutismo de la trascendencia, esto es, de las abstracciones del dogma y de la

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metafísica imperativa vinculada a la autarquía divina. Lo intentó mediante la inclusión de elementos que, como la figura del Hijo, conducían a la visibilidad y narratividad propias del mito. Así, en el seno de la teología dogmática, acabó introduciéndose el mítico reparto de poderes, si bien la pluralidad quedó reducida al dualismo o tensión entre el Padre, el Dios autárquico u omnipotente, y el Hijo, el Dios limitado que se encarna y sacrifica por el hombre. Toda la explicación de Blumenberg tiende a destacar esta remitificación operada en el interior del dogma. Según Blumenberg, la invisibilidad del Dios del dogma, de la cual entre otras cosas se deriva la prohibición de imágenes e historias, resulta afín a dos manifestaciones tan contrarias al mito como la utopía y el mesianismo. Por un lado, “las utopías son débiles en imágenes porque toda imagen destruye el ideal: tras cada forma de creación de felicidad para el hombre se esconde un dios invisible” (TM, p. 244). Por otro, la invisibilidad también constituye uno de los rasgos esenciales del mesianismo, ya que éste se caracteriza por hacer referencia a lo completamente desconocido, a lo aún por venir. Tanto la utopía como la espera mesiánica se definen mediante un conjunto de negaciones (TM, p. 249), que, aparte de traducirse en la prohibición icónica, impiden relatar las historias consustanciales al mito y la condición humana. Blumenberg asocia también la prohibición de historias e imágenes, compartida por el mesianismo y la utopía, con algunas de las expresiones más significativas de la filosofía del siglo veinte: el ser heideggeriano, la dialéctica negativa de Adorno, el dialéctico y extraño Dios de Barth o el kerygma de Bultmann (TM, p. 244). Esta lista podría ser completada con Lévinas y filósofos que, como Lyotard, nos hablan de la sacralidad del arte moderno y consideran que su verdadero tema es lo impresentable, lo invisible y lo negativo, ya se trate del crimen más horrendo o del bien absoluto. O con los filósofos impolíticos que, como los Nancy, Blanchot, Agamben o Derrida, mantienen una evidente relación con el mesianismo y con una concepción tan exigente del ser humano y de la comunidad que inevitablemente siempre estarán

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por venir, invisibles y reducidos a mera potencia. El dogma, en contraste con el mito y la retórica, se caracteriza por sus constantes restricciones. A diferencia de la pluralidad de dioses griegos, nos ofrece una religión monoteísta. Frente a la pluralidad de historias mitológicas que, a su vez, son objeto de interminables variaciones, el dogma relata una sola y coherente historia que, por haber sido fijada por escrito, no puede ser objeto de interpretaciones, variaciones o modificaciones. De otro modo el dogma no podría tener el carácter coactivo que tienen las leyes. Para conseguir este objetivo levanta una institución, una Iglesia, dotada de funcionarios, los clérigos, que velan por la correcta interpretación del dogma y rechazan las preguntas no incluidas en el canon eclesiástico como una deleznable manifestación de hybris. En cambio, la mitología griega carece de instituciones o de una policía que ponga orden en las infinitas interpretaciones de sus historias. Además, el dogma se caracteriza porque no permite a nadie afirmar otra cosa distinta (TM, p. 256). La verdad es siempre, para la religión del dogma y para la ciencia clásica, única e incompatible con una pluralidad de puntos de vista. Aún más, la sensibilidad para la verdad se estropea con la presunta posesión de demasiadas verdades. Pero si el dogma se caracteriza por la reducción constante de la pluralidad, cuando pasamos al mito y a la retórica observamos, sin embargo, que la tolerancia y el pluralismo desempeñan un papel fundamental. Se comprende entonces que la oposición entre mito y dogma reaparezca en Marquard bajo la distinción entre la saludable polimiticidad y la dañina monomiticidad29. Pero volvamos a Blumenberg. Nuestro filósofo da la razón a Voltaire cuando este último ve en la tolerancia el principal criterio para distinguir el dogma del mito politeísta. De manera similar al liberal pluralismo de los valores, que otorga una gran importancia a la tolerancia, las historias míticas pretenden hacer compatibles diversas verdades, cultos o tipos de vida. Sin este pluralismo no   O. Marquard, “Elogio del politeísmo. Sobre monomiticidad y polimiticidad”, en Adiós a los principios, Alfons el Magnànim, Valencia, 2000. 29

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podemos entender la actualidad de la retórica y las razones por las que debemos conformarnos con lo provisional. Voltaire sería en cierto modo consciente de la lección pluralista –y hasta cierto punto relativista– de la retórica que se conforma con lo provisional, cuando localiza en el mito, en virtud de su despreocupación por la verdad, la mejor plasmación de la saludable separación entre moral y teoría, acción y verdad, política y filosofía (TM, pp. 254 ss.). Lo mejor del mito se debe entonces a su carácter retórico, a que resulta incompatible con una dogmática moral o con una filosofía empeñada en universalizar toda una serie de principios de orden práctico. El trabajo del mito resulta electivamente afín a una retórica cuyo principal objeto consiste en combatir la omnipotencia del saber dogmático. Omnipotencia que, por lo demás, se encuentra latente en cualquier intento de señalar, a través de la vinculación de la praxis a la teoría, contenidos morales verdaderos, definitivos e inmutables. El mito muestra de este modo su cercanía a todas aquellas teorías políticas que, tras separar teoría y praxis, verdad y poder, no les queda más remedio que afirmar la pluralidad de los sistemas de valores y modos de vida. Para acabar también quisiera poner de relieve que el pluralismo y la tolerancia inherentes al mito suponen una reducción de la seriedad. En una dirección opuesta a esta reducción, los anti-liberales conservadores, y estoy pensando sobre todo en Carl Schmitt y en el Leo Strauss que tan agudamente critica Der Begriff des Politischen30, suelen despreciar a los defensores del liberalismo, y por extensión de la modernidad, porque desdramatizan los conflictos y no se toman en serio las alternativas irreconciliables. Lejos de estos dos antiliberales, la despotenciación blumenberguiana de lo absoluto implica relativizar aquellas graves y serias alternativas. Aquí, una vez más, confluyen las vías de la estética y de la política, pues, como escribe Marquard en Aesthetica und 30   L. Strauss, “Anmerkungen zu Carl Schmitt. Der Begriff des Politischen”, en Archiv für Sozialwissenschaft und Socialpolitik, LXVII, n.º 6, agosto-septiembre, 1932, pp. 732-49.

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Anaesthetica, el arte –y nosotros añadiríamos que la democracia más rigurosa– hace valer aquello que no vale nada y se considera insignificante, niega validez a todo lo que reivindica un valor absoluto, y, al poner tantos elementos en juego, reduce la seriedad a un momento más entre otros31.

  O. Marquard, Estetica e anestetica, Il Mulino, Bolonia, 1994, p. 102.

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Hans Blumenberg: Philosophical Anthropology, Terror, and the Faces of Absolutism Alas, we are only trembling shadows! And yet one shadow wants to tear another one to pieces? Jean Paul, quoted by Hans Blumenberg

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t is said that we live in an “age of terrorism.” Terrorism can be defined as “the deliberate use or threatened use of force or violence to coerce or intimidate individuals, governments or societies, often to achieve political, religious, ideological, or social objectives.” Although no one definition is accepted universally, almost all include the notion of intimidation and threat with the aim of gaining influence and power—whether state-sponsored or from the bottom up. That is, the act or threat of violence is partly symbolic; it would have repercussions far beyond the immediate victims and send a message to, as well as instill fear and anxiety in, a target audience that would then be susceptible to manipulation. At one point in “An Anthropological Approach to the Contemporary Significance of Rhetoric,” philosopher Hans Blumenberg claims that rhetoric is an “alternative    The definition given here is an amalgam that borrows from those offered by the U.S. State Department, the FBI, and Bruce Hoffman, author of Inside Terrorism (New York: Columbia University Press, 1988). For an excellent account of the history of the definition and difficulties in defining terrorism, see chapter 1, “Defining Terrorism.” Hoffman emphasizes the political nature of terrorism: it is violence or the threat of violence, by an organization or group to achieve a political end, e.g., to change the “system.” For religiously motivated terrorism, see, for example, Mark Juergensmeyer, Terror in the Mind of God: The Global Rise of Religious Violence (Berkeley and Los Angeles: The University of California Press, 2000).

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to terror [Terror].” Terror in this context refers to a psychological state or effect rather than to an act, and for Blumenberg it also refers to experience of vulnerabilities fundamental to the human form of existence—an experience that also makes human beings susceptible to the siren call of moral absolutisms. Blumenberg is not commenting on terrorism—except perhaps obliquely—but is making a more general claim about the human susceptibility to dread and anxiety and the need for a relatively stable life-world as a hedge against vulnerabilities. Blumenberg’s comment that rhetoric is an alternative to Terror was an aside, although not a frivolous one. The word occurs over and over again in Work on Myth, where it is clear that it is at the heart of his conception of the human condition. My intention here is to examine Blumenberg’s remark first for what it may tell us about his philosophical anthropology, or conception of human existence, and second how his anthropology can shed light on the psychological-ontological disposition that makes us vulnerable to Terror and therefore to fundamentalisms of all stripe, whether religiously, politically, or philosophically motivated.   “An Anthropological Approach to the Contemporary Significance of Rhetoric,” in Philosophy: End or Transformation? (Cambridge: The MIT Press, 1986), 437.    I am taking some liberties with the term “fundamentalism.” As applied to religion, the term appeared first in a 1920 edition of the Northern Baptist periodical, The Watchman-Examiner. According to the authors Gabriel A. Almond, R. Scott Appleby, and Emmanuel Sivan of Strong Religion: The Rise of Fundamentalism around the World (Chicago: The University of Chicago Press, 2003), the editor of the periodical used the term to describe himself and a group of conservative evangelical Protestants as militants willing to do ‘battle royal’ to preserve the ‘fundamentals’ of the Christian faith from the evolutionists and the biblical critics infecting mainline seminaries and colleges.” The authors argue that the term can be applied broadly to refer to a “discernible pattern of religious militance by which self-styled ‘true believers’ attempt to arrest the erosion of religious identity, fortify the borders of the religious community, and create viable alternatives to secular institutions and behaviors” (15-16, 17). Strong Religion makes the claim that there are “family resemblances” on several continents in all the major religions, all of which they trace to a type of anti-modernism and anti-secularism. In each case, the true believers embrace 

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Returning to rhetoric: that speech and symbolically mediated behavior—talking things through, negotiating, or reflecting—is preferable to being undone by anxiety in extreme situations is certainly one of Blumenberg’s intended meanings, but there is more to it than that because of how Blumenberg conceptualizes rhetoric, what he means by philosophical anthropology, and how he understands the relation between the two. First, Blumenberg uses the term rhetoric to refer to the entire constellation of symbolic means, including language, metaphor, myth, institutions, and patterns of habitual behavior that constitute what philosophers commonly refer to as a “life-world,” a web of significances that cushion us from a direct relation to reality. So, from Blumenberg’s perspective, rhetoric in this larger sense is not directly an alternative to Terror. Rather, rhetoric eliminates an unbearable threat and thereby makes human existence possible. Furthermore, rhetoric is also all that humans ever have at their disposal given that the definitive evidence they yearn for is unavailable. Blumenberg links this understanding of rhetoric with the claim that human beings operate on a “principle of insufficient reason,” which elsewhere he characterizes as the “axiom of all rhetoric.” On this account, rhetoric can only be understood as an alternative to dread and anxiety if we take into account how our most fundamental existential limitations—resulting from our biological underdetermination—are at the same time a need for compensatory orientation. Consequently, the recognition of what those limitations entail is part of what it would mean to learn to cope with our ever-present susceptibility to Terror. What this means is not at all self-evident. It is necessary to make the distinction between the “anthropological function” of rhetoric as compensation for the precarious uncertainty of human life, which I have sketched in here in a preliminary way, and rhetoric absolutist interpretations of texts, traditions, and so on. My intention here is to isolate a pattern of absolutist or fundamentalist thinking, which may or may not be tied to religious extremism—but which is a response to feeling threatened in the most “fundamental” way.    “An Anthropological Approach,” 447.

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understood in the more usual sense as persuasive, manipulative, or incendiary speech—as well as the tension between them.

1. Blumenberg, Philosophical Anthropology, and Rhetoric

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ut first, Blumenberg and philosophical anthropology require some introduction and contextualization. If he is known at all in the Anglophone world, Blumenberg is recognized primarily as a philosopher of history for The Legitimacy of the Modern Age, and as a theorist of myth and metaphor for Work on Myth, Paradigms for a Metaphorology, and other writings. Most likely, Blumenberg has not received the attention he deserves because he has not entered explicitly into debates that are fashionable in contemporary analytic and continental philosophy and because most of his work has not been translated. In addition, given that he is not a systematic thinker the writings that have been translated may appear to be no more than an eclectic and somewhat obscure mélange of literature, history, and philosophy. And although rhetoric is an important concept in his work, he devoted only one relatively brief article to it. I will not locate Blumenberg in relation to other theorists of rhetoric—as valuable an enterprise as that may be for a different project—but I will place him philosophically. Blumenberg has taken up the legacy of Husserl’s phenomenology and Heidegger’s Daseinsanalysis and history of Being from the perspective of philosophical anthropology. A full treatment of this topic is beyond the scope of this paper; however, as a philosophical anthropologist,    Hans Blumenberg, The Legitimacy of the Modern Age, trans. Robert M. Wallace (Cambridge: The MIT Press, 1983)/Die Legitimität der Neuzeit (Frankfurt: Suhrkamp, 1966); “Paradigmen zu einer Metaphorologie,” Archiv für Begriffsgeschichte 6 (1960): 7–142; Work on Myth, trans. Robert M. Wallace (Cambridge: The MIT Press, 1985)/Arbeit am Mythos (Frankfurt: Suhrkamp, 1979).

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Blumenberg objects to Husserl’s assumption that there can be a free-floating theoretical subject, an a priori life-world, or that we should aspire to absolute certainty. There are no points of view from “nowhere.” Nonetheless, Blumenberg adopts a version of the phenomenological method as well as a reinterpretation of Husserl’s conception of intentionality, which will be discussed later. Blumenberg’s attitude toward Heidegger is more problematic. In a nutshell, he objects to Heidegger’s philosophy of history and historical change, and this objection centers around Heidegger’s account of the transition between scholasticism and modernity. He also objects to Heidegger’s assumption that we    According to Ania Wertz, for Heidegger Scholasticism strengthened the objectification of Being that began with Plato. Blumenberg took exception and saw the Middle Ages as a break with ancient metaphysics, a time of dismantling. Because medieval thinkers could not reconcile Aristotelian ideas of the cosmos with divine will, they gave up the identification of Being with nature. Nature could no longer encompass everything that is because of God’s infinite power to create. Modern metaphysics is not the “reduction of Being to representation but the expansion—if not the explosion—of Being to possibility.” For the modern age, this possibility, first mapped out by theology, is the arena of “humanity’s near omnipotence and infinity” and a source for the mandate to subjugate nature, (“On the Possibility of Creative Being: Introducing Hans Blumenberg, Qui Parle [2000]: 11). I n her doctoral dissertation, “The Legitimacy of Theory: Hans Blumenberg, 1944-1972,” Wertz also details the narrative of the dissolution and crisis of modernity that Blumenberg inherited (“a crisis about the legitimacy and purposes of theoretical knowledge,” “a loss of faith in a universal rationalism,” and so on), and she demonstrates that Blumenberg’s early stances on Heidegger and Husserl contain “in concentrated form many of the themes and questions that would continue to occupy Blumenberg throughout his careeer.” The two philosophers “determined the contours of Blumenberg’s intellectual project.” Blumenberg also challenged their concept of history, arguing that their teleologies “severed the modern age from its historical contingency, refusing to see it as the outcome of the particular dilemmas it inherited,” (Chapter One, “An Inherited Crisis”). One of these dilemmas is what Blumenberg terms “theological absolutism,” (more on this later) which led to a concern for human orientation in the here and now as opposed to the hereafter; hence the embrace of the scientific method and progressive theories of history that attempt to fill the gap that emerged when theological absolutism no longer fulfilled human orientation needs.

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can take for granted the various existential structures so prominent in Heidegger’s Daseinsanalysis, e.g., the modes of orientation represented by care, everydayness, being-in-the-world, and so on without accounting for why we are so oriented, i.e., how these existential structures compensate for the fact that human beings are Mängelwesen, or “deficient” creatures. Both Husserl and Heidegger dismissed and discounted philosophical anthropology as anthropocentric. This raises another important reason for Blumenberg’s neglect. Philosophical anthropology, which is also not on the radar screen of contemporary Anglophone philosophy, motivates and structures his thinking in ways that are not obvious. To clarify: the term “philosophical anthropology” does not refer to empirical disciplines such as ethnology or physical anthropology, or to a determinant conception of human nature, but to a study of the general features of human existence—to what Axel Honneth and Hans Joas in Human Nature and Social Action term “the unchanging conditions of human changeableness.” For his part, Blumenberg follows most directly in the tradition of the early twentieth-century German philosophical anthropologists Max Scheler, Helmuth Plessner, Arnold Gehlen, and Ernst Cassirer, who claimed that only by gaining insight into the kind of being that we are would it be possible to address urgent social and political matters. A bit of historical background is in order.   See, Vida Pavesich, “Hans Blumenberg: An Anthropological Key,” doctoral dissertation, 2003, Chapter One, “From Kant to Davos, the Modern Origins of Hans Blumenberg’s Philosophical Anthropology”; and “Hans Blumenberg’s Philosophical Anthropology: After Heidegger and Cassirer,” The Journal of the History of Philosophy 46 (July 2008): 433-34. Blumenberg’s commentators usually mention that he has been influenced by philosophical anthropology, but until recently the magnitude of its importance has not been fully appreciated. Two valuable books have appeared recently that help fill this gap: Oliver Müller’s Sorge um die Vernunft: Hans Blumenberg’s phänomenologische Anthropologie (Paderborn: Mentis, 2005), and Felix Heidenreich’s Mensch und Moderne bei Hans Blumenberg (München: Wilhelm Fink, 2005).    Social Action and Human Nature, trans. Raymond Meyer (Cambridge: Cambridge University Press, 1988), 7. 

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Scheler, Plessner, and Gehlen explicitly thematized philosophical anthropology as a problem of human orientation. On their view, the lack of traditional supports and the increasing rationalization of the world in modernity have made philosophical anthropology indispensable, because these losses and changes should compel us to question who and what we are in relation to the world. Wilhelm Dilthey’s philosophy of life and the rise of the empirical sciences, especially biology, after Immanuel Kant conditioned how the anthropologists conceptualized philosophical anthropology. All, to varying degrees, took up the issue of biological underdetermination first emphasized by Wilhelm Gottfried Herder in On the Origins of Language. Despite their differences, those in the Scheler tradition agreed that human beings are born prematurely, have no fixed biological niche, and require a lengthy period of enculturation. This enculturation should be understood as a form of compensation for the way in which humans are more “detached” from the environment than other animals and therefore more prone to anxiety. Indeed, from the perspective of philosophical anthropology generally, the defining characteristic of human existence is this detachment and attendant need for compensation of various types that gradually accrue as a “life-world,” or in Blumenberg’s terms, as “rhetoric.” Of the anthropologists mentioned above, Arnold Gehlen is important for articulating the concepts of “distance” [Entlastung] and “institutions.” According to Gehlen, unlike other animals, human beings are less specialized and therefore burdened by per   Recent work in the biological sciences corroborates the plasticity-detachment thesis. See, for example, Lenny Moss, “Redundancy, Plasticity, and Detachment: The Implications of Comparative Genomics for Evolutionary Thinking,” Philosophy of Science 73 (December, 2006): 930–46. Drawing in part on the work of Maynard Olson, and arguing against “preformationism,” Moss argues that “human evolution is due to a ‘less is more’ phenomenon and that it is actually the loss of genes that plays the most important role in opening up a new phenotypic possibility space,” 936.

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ceptions that “do not have an innate function as signals.” Hence they are vulnerable to an anxiety-provoking unpredictability. Gehlen introduces another idea adopted by Blumenberg: “action.” Because of their plasticity, human beings must do something to cope with their “world openness”—they require nonnatural solutions, which Gehlen refers to as “institutions.” The German word “Institution” refers to habitual patterns of thought and behavior, such as language, morals, manners, and mundane forms of social organization that substitute for a lost instinctual orientation. These “quasi-automatic” behavior patterns provide stability by restricting the latitude of action and provide historically-tested ways of mastering tasks.10 Gehlen also claimed that given our contemporary world of accelerated change, which tends to exacerbate a sense of vulnerability and produce excessive affect, institutions should be preserved at all costs. Blumenberg parts company with Gehlen here, arguing that “decisionism” would absolve us of responsibility for reflectively distinguishing between institutions that continue to serve us well and those we should resist. In relation to philosophical anthropology understood as the predicament identified by the tradition above, Blumenberg has thus recast the term “rhetoric,” extending metaphorically the notion of “persuasive speech” bound up with the term’s historical and generally accepted meaning. In the modern world, he claims, rhetoric cannot be conceptualized as the art of beautifying the communication of a truth one can possess, because philosophical anthropology rules out the rhetoric of the “platonic ideal” as an

  Arnold Gehlen, Man: His Nature and Place in the World, trans., Claire McMillan and Karl Pillemer (New York: Columbia University Press, 1988), 76. An evolutionary biologist, anthropologist, or a cognitive scientist would probably say that characterizing human beings as “instinctually poor” oversimplifies matters and uses archaic “instinct” language. The basic point that human beings are born prematurely and are “world open” still stands. The question remains: how do we cope with this plasticity, a question that does not admit of a purely naturalistic answer. 10

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“excessive demand.”11 In other words, Blumenberg’s philosophical anthropology undercuts and dissolves the basis for any claim that might be made in the name of an absolutism or a fundamentalism—whether born of philosophy’s search for immutable truths or from forms of political and religious extremism—that embraces a totalizing solution to a historically generated problem. History, like rhetoric and human existence itself is openended and admits only of provisional solutions. On this account, rhetoric must also be understood as a different form of rationality, an “aggregate of legitimate means…necessary for the intelligent movement of existence.”12 Rhetoric is thus the means for “persuading” ourselves that we can continue to exist: it is the “lifeworld” from the perspective of its function as a buffer against and compensation for our vulnerabilities. This is not to deny that the term rhetoric cannot also refer to the art of communication, as, for example, in conflict resolution. However, conflict resolution involves creating distance from one’s own terrors, the “willingness to accept the notion that there are flaws on one’s own side as on the opponent’s side.”13 It requires reflection. Any participatory process such as this implicitly acknowledges human fallibility as well as the notion that rhetoric is an alternative to Terror. This is not to deny that terrorism itself cannot be a form of rhetoric14—but it is a form that insists perversely on being the “beautification” of what is taken to be an absolute truth. Such rhetoric collapses the distinction between symbol and reality; it furthers an all or nothing stance that does not brook compromise and is thus antithetical to very idea of rhetoric Blumenberg seeks to illuminate. For example, extreme religious elements on both sides of the Palestinian/Israeli situation thwart every attempt at     13   14   11

“An Anthropological Approach,” 431. “An Anthropological Approach,” 437. Juergensmeyer, Terror in the Mind of God, 149. See, for example, Juergensmeyer’s analysis of terrorism as “performance violence” legitimated by an underlying (absolutist) ideology by those who cannot or will not resort to “normal means” (124, 125). 12

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a negotiated compromise.15 I will discuss to how terrorism is a perversion of rhetoric as I go along, but first I want to examine more closely the anthropological reasons why absolutisms are so compelling for human beings.

2. Anthropology, Terror, and Absolutism

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hat is Blumenberg’s conception of the human condition and how precisely does he conceive of human vulnerabilities such that “rhetorical” rather than “absolutist” compensation is necessary for “taking advantage of the more favorable prospects for humanity”?16 In Work on Myth, Blumenberg provides the resources for reconstructing a philosophical anthropology in relation to what he terms “the absolutism of reality.”17 The absolutism of reality is a limit concept designating the anthropological terminus a quo: the concept represents the vanishing point of existence—an immediate relation to reality that would be experienced as total arbitrariness and therefore as Terror. Haunted by reminders of this intolerable state, humans seek some kind of resolution or “distance.” To imagine this state of affairs, because we cannot know it, Blumenberg provides a speculative narrative of anthropogenesis, which he compares to early state of nature concepts that allow us to reflect on the 15   Gershom Gorenburg, author of The End of Days: Fundamentalism and the Struggle for the Temple Mount (Oxford: Oxford University Press, 2000), writing about millennialism in religion and in the Israeli-Palestinian conflict in particular—especially conflict over the Temple Mount—emphasizes the confusion of symbol and reality in religious conflict. “In the literalism that characterizes fundamentalism, a symbol really is the thing it represents.” Hence to violate a mosque is more than humiliating Islam: the world “is askew because the sacred is polluted.” Thus, for bin Laden, “having American troops in the mosques of Mecca and Medina as well as the Jewish rule over Jerusalem, site of the Al-Aqsa Mosque, [violates] the three most potent symbols of Islam,” (vii). 16   “An Anthropological Approach,” 450. 17   Work on Myth, trans. Robert M. Wallace (The MIT Press, 1985), 3-4.

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present. Extrapolating from the fact that human beings are already oriented, already constituted and supported by rhetoric, Blumenberg hypothesizes that some problem (i.e., a failure of adaptation) induced the “’prehuman creature’” to adapt anew by forming what we would call a culture. By adopting an upright posture, this creature anxiously confronted a world rather than an environment, a setting that was no longer amenable to stimulus-response or fight or flight behavior, one that required the development of forethought and reflection. “The absolutism of reality designates a condition, continually receding into the past in which man came close to not having control over the conditions of his existence, and what is more important, believed that he simply lacked control of them.”18 Human existence is human (and humane) precisely to the extent that it moves away from “the terror” of the absolutism of reality, coping with the plasticity that accompanied acquiring an upright posture and developing mediating myths, symbols, metaphors, and institutions that provide traction in an alien environment.19 This he designates as the “work of myth.” This “ur-situation”—which involves distancing ourselves from absolutes—is the template for understanding what human beings are always up against, what “will never leave them alone.” Even though “Man is al-ways already on this side of the absolutism of reality,” he is never certain that he will not slip back into impotence, never certain of the “supremacy of the subject” over reality because there is “no criterion for this turning, for this ‘point of no return.’”20 What would it be like to approach the “absolutism of reality”? A natural disaster, such as the cyclone in Burma; the tsunami   Work on Myth, 3–4.   Here Blumenberg is indebted to Ernst Cassirer whose work on sym-

18 19

bolic forms was influential. Blumenberg criticized Cassirer for assuming an unquestioned biological foundation—for not explaining the function of symbolic forms anthropologically as answering to the need for orientation. See “An Anthropological Approach to the Contemporary Significance of Rhetoric,” 438. 20   Work on Myth, 9.

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in Indone-sia; massive poverty and starvation; premeditated attacks, such as 9/11; genocide; civil war; being on the receiving end of structural adjustment programs; torture; rape, and so on hurtle human beings to-ward chaos, toward powerlessness and helplessness. All are or threaten the loss of control over the conditions of existence. Note: Blumenberg has claimed that believing we have lost control of the conditions of existence may be more problematic. This is not to say that in fact fearing a terrorist attack is worse than being tortured or being on the receiving end of genocide or rape, but that a constitutional vulnerability makes us prone to being controlled and paralyzed by fear and anxiety, which in turn militates against realistically appraising circum-stances. Feeling powerless, dreading a life-threatening disaster—not knowing when, where, or if “it” will happen—and feeling unable to trust customary practices and roles, we are easily manipulated. This is the aim of terrorism, which attempts to make its target audience believe it has lost or may lose control of the conditions of existence. Those who resort to terrorism also experience themselves as having lost control of the conditions of existence; they often feel powerless and humiliated and in need of orienting themselves symbolically. Terrorism expert Walter Lacqueur claims that there are many terrorisms, but a factor common to all is that the would-be terrorist, feeling disappointed, aggrieved, powerless, or humiliated, hatches an ideological plot supported by “absolute certainty as to the justness of [the] cause, the legitimacy of [a] leader, the inability to recognize other moral values and considerations, and the abdication of critical judgment.” For religiously motivated terrorists, God’s plan for the victors justifies action: “in its most extreme form…[such] terrorism intends to liquidate all satanic forces” as a precondition for change.21 The aim is to render the target’s institutions ineffectual so that a new system or a radically reformed system or human being can take its place.   Lacqueur, The New Terrorism (Oxford: Oxford University Press, 1999), 39, 129. 21

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For example, the authors of Strong Religion point out that “the breakup of the Ottoman empire, the abolition of the caliphate, and the imposition of atheistic communist rule upon Muslim Central Asia,” led some Muslims to fear for the loss or contamination of their religion and way of life, which led to a backlash against modernization and secularism. The influential theorists, Indian Muslim Maulana Maududi in the 1930s and the Egyptian Sayyid Qutb in the 1940s and 1950s, claimed that Islam had relapsed into a state of jahiliyya (“ignorance” of the sort attributed to preIslamic pagans in Arabia). Islam came to be seen as threatened and in exile in its own land.22 Mark Juergensmeyer, in his study of comparative religious violence, identifies “stages of symbolic empowerment” that result from this sense of marginalization that lead to terrorism as an incremental process: 1) feeling helpless in a world that has “gone awry,” e.g., there are real problems such as the Israeli occupation of Palestine; 2) “the foreclosure of ordinary options,” such as electing new leaders, changing public policy, rallying public support, and so on; 3) the “sataniztion of enemies” and promulgation of an all-or-nothing cosmic war buttressed by an absolutist interpretation of religious doctrines or traditions in order to generate hope; and 4) “symbolic acts of power” that display the depth of the struggle, such as creating and developing new systems of communication, creating alternative governments, holding private rallies and public demonstrations—and finally terrorism, either as an isolated incident or as part of a guerrilla war.23 On both sides of the equation—whether terrorist or victim—the basic feeling is one of the vulnerability and powerlessness of human beings, who are never certain of the “supremacy of the subject.”

22   Strong Religion, 24-25. The authors also identify similar feelings of marginality and threats posed by secularizing trends among fundamentalist Catholics, Jews, and Christians. 23   Juergensmeyer, Terror in the Mind of God, 184-86.

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3. The Human: Existence between Limits

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iven that vulnerability to absolutes and the need for orientation is at the heart of what it means to be human, human existence cannot be defined as an essence or a nature but rather as a set of limits, parameters, needs, and requirements to which rhetorical compensation answers. Although Blumenberg never offers a full-fledged definition, it is possible to reconstruct an account. I begin with my reconstruction: human existence is a potentially self-assertive [intentional or “emergent”] autonomy that is constrained by anthropological limits and stabilized and humanized by institutions [rhetoric], which by forming a livable [“heimlich”] world reduce uncanniness by limiting arbitrariness and making action and reflection possible. I will flesh out this definition by examining its elements. First, the limitations: Human existence must occur between the two limits of an unstable detachment and a dreamed-of perfect orientation (an ideal life world). Thus it must occur in the contingent realm of rhetoric and history. The ideal life-world or utopia of the imagination, e.g., a fundamentalism that has all the answers, and that expresses the yearning to bypass contingency and vulnerability, is the other primary limit concept. For Blumenberg, “life-world” thus has two meanings: 1) limit concept, and 2) the world of rhetoric, a storehouse of cultural givens that can be taken for granted and that supply a basis for orientation, thereby making human life possible. As a limit concept, the life-world represents the human longing to be free of the uncanniness that accompanies having no fixed home or abode, the wish for perfect congruence between the organism and its environment, the desire for perfect satisfaction of human needs, as well as the philosopher’s dream of a perfect fit between thought and its objects. These are all goals of untempered mythical thinking that attempts to oppose the absolutism of reality with an “absolutism of images and wishes.” For example, a perfect theocratic state will lead to heaven on earth, the war on terror will eliminate evil, definitive evidence

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will subdue the evil demon, and so on. This is not to say that some philosophers are terrorists but that the impulse to mythicize is as Lezcek Kolakowski would say a “constitutive feature of consciousness,” one that desires a world definitively and permanently devoid of chaos, misery, and disappointment, as well as the irreversibility of history. It would be a “true” home exempt from the flux of events or troublesome dissent. From Blumenberg’s perspective, continued human orientation depends on maintaining an appropriate distance from absolutisms in general, i.e., Terror-inducing chaos on the one hand and ideologies, totalizing myths, dreams of perfect transparency, and impossible utopias on the other. Rhetoric is thus the middle way in the sense that our existential situation itself requires it, both as a solution to existential difficulties and as a vehicle of human creativity in the face of those difficulties. As Blumenberg puts it: our situation is “rhetorical” insofar as we can avail ourselves only of provisional means, whether we realize it or not; and recognizing these limitations becomes a benchmark for understanding our fragility, and not recognizing them is a red flag for tracking how we can go seriously wrong as individuals, groups, nations, and as a species.

4. Intentionality as Self-Assertive Self-Stabilization

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n order to map out more precisely the relation between rhetoric, vulnerability, and our propensity to go seriously wrong, more must be said about intentionality. As bio-cultural hybrids, human beings must stabilize themselves; they must do something vis a vis the anthropological terminus a quo. Blumenberg accounts for the logic of this orientation through his conception of intentionality, which he claims is a system of self-stabilization and self-regulation.24 If we are indeed the anthropologists’   Beschreibung des Menschen, (Frankfurt: Suhrkamp, 2006), 76.

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underdetermined animals, then—against Husserl (and others)— intentionality cannot be a given, there is no “pre-reflexive life world,” consciousness is not always paired with an object, nor can we isolate a theoretical subject from the conditions of its contingency. Rather, as non-specialized creatures, humans must establish horizons that will circumscribe possibilities. That is, to reduce reality’s indifference, consciousness needs meaning and relatively stable objects.25 Intentionality, on this account, is an act of “self-assertion,” a protest against reality’s absolutism;26 thus self-assertion is the impulse toward self-preservation that will be shaped by a humanly relevant world—a world with limitations appropriate to our needs and characteristics.27 Considered anthropogenetically, intentionality is necessary because the tighter natural coupling between impulse and action that characterizes other animals has been lost. Stimulus-response or purely reactive fight or flight behavior may be a temptation but it is ineffective because of its focus on point-like immediacy. The “world” (as rhetoric or a constellation of signifying) thus comes into being as a function of a double-sided, affectively-tinged horizon that mediates existence in reference to limits.

  Blumenberg’s critique of Husserl’s concept of intentionality in Lebenszeit und Weltzeit [Lifetime and Worldtime] (Frankfurt: Suhrkamp, 1986) is a study in its own right. 26   “Prospect for a Theory of Nonconceptuality,” in Shipwreck with Spectator, trans. Steven Rendell. (Cambridge, MA: The MIT Press, 1997), 98. 27   In The Legitimacy of the Modern Age, trans. Robert M. Wallace (Cambridge, MA: The MIT Press, 1983), Blumenberg claims that self-assertion is the principle of modernity, but it is important not to overlook Blumenberg’s mitigated defense of Enlightenment aspirations. Self-assertion within limits is necessary for survival and as such philosophical anthropology is the basis for his critique of the grandiose metaphysical humanism that that fails to recognize elementary human orientation needs. On this score, he and Heidegger see eye to eye—up to a point. Blumenberg does not see the need to evacuate an attenuated anthropocentrism because this would be tantamount to forgetting man, which is what Blumenberg maintains is one of the chief problems with modernity’s focus on species progress. 25

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Horizons are double sided, because intentionality can be either with or without an object. In states of extreme anxiety or Terror, the horizon lacks specific objects (it is everything or nothing) and is therefore inherently unstable: it is “the sum of directions from which one has to be prepared for the appearance of undefined things,” a state that cannot be maintained indefinitely.28 Over against this lack of orientation is the possibility of intentionality with an object, which requires filtering out excess stimuli and focusing on specific objects and possibilities. Resolving a generalized anxiety into fear of specific objects is thus the first form of reducing reality’s absolutism, the first achievement and articulation of consciousness. In Work on Myth, Blumenberg characterizes this process by referring to the myth of Medusa, who has become a metaphor for dread. She represents the coalescence of pure anxiety into a feared “object,” and as such, it becomes possible to imagine strategies for “getting along with her,” or of getting along with the overpowering nebulousness of detachment. When affect coalesces into an image, the horizon then becomes the “sum of the directions to which anticipation of possibilities and reaching out toward them is oriented.”29 Having built his understanding of the riskyness that accompanies human existence into his conception of intentionality, Blumenberg is suggesting that what we are oscillates between two extremes defined by the need for a sense of a home (rhetoric) in the midst of a hostile or unfamiliar set of circumstances (state of nature) to which specific affects and the expectations they generate are or can be attached.30   Work on Myth, 6. For Blumenberg, consciousness can exist fleetingly without an object, because as Samuel Moyn points out, “preliminary distinctions have not yet been made,” “Metaphorically Speaking: Hans Blumenberg, Giambattista Vico, and the Problem of Origins,” Qui Parle (2000): 58. There is no prereflexive “life-world.” 29   Work on Myth, 7. For Blumenberg, the great myths are institutions in the broad sense adopted from Arnold Gehlen. Tracking their reception histories reveals that they have stood the test of time and therefore provide important information about the human condition. 30   Work on Myth, 167. 28

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5. Empirical Corroboration: Intentionality, Evolutionary Anthropology, and Psychoanalysis

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lumenberg’s implied theory of intentionality—as well as the uses to which I will put it—can be clarified, expanded, and empirically corroborated by examining recent work in evolutionary anthropology by Michael Tomasello and his cohorts. Like Blumenberg, Tomasello understands what he calls “intentional action” as part of an “adaptive system that serves to regulate the organism’s behavioral interactions with the environment.”31 Tomasello refers to motivation but does not try to account for it on an anthropological level, i.e., how intentionality addresses biological plasticity. We will go elsewhere for that. All he will say on that front is that human beings have a “biologically inherited capacity for living culturally” and that intentionality is central to that capacity.32 That said, Tomasello elaborates the development of intentionality by investigating the differences between human and nonhuman primates, arguing, on the basis of careful observation, that what differentiates them is that humans have the capacity to identify with and understand themselves and others as intentional agents, pursuing goals, and as mental agents thinking about the world. Crucially, human beings, unlike other primates, also discover that they can affect the intentional and mental states of conspecifics, not just their behavior. This is related to the human ability to perceive and understand underlying causes “as mediating the dynamic relations among…objects and events.”33 Tomasello’s claim is that such understandings emerged first to allow individuals to “explain the behavior of conspecifics” and then was extended to deal with inert objects.34 Be that as 31   Tomasello, Michael, “Understanding and sharing intentions: The origins of cultural cognition,” Behavioral and Brain Sciences, 28 (2005): 676. 32   Tomasello, Michael, The Cultural Origins of Human Cognition (Cambridge: Harvard University Press, 1999), 53. 33   Ibid., 22, 23. 34   Ibid., 25.

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it may, the key point here is the radical change that occurs with the evolution of this signature capacity that Blumenberg associates with the shift from a “pre-human creature” to Homo Sapiens. Tomasello claims that our capacity is “part of a unique biological inheritance of the species Home sapiens.” For my purposes, his importance lies in his distinction between humans and other primates based on his careful observation of childhood acquisition of shared attention, identification with conspecifics, the emergence of intentional behavior, and the effects of the inheritance of cultural material. In regard to the latter, Tomasello observes another defining characteristic of human existence (along with Blumenberg), which he calls a “rachet effect” resulting from cumulative cultural evolution, such that even though each human infant starts from scratch, human beings have at their disposal the cultural learning into which they are born.35 Able to internalize (which they must do) the achievements of those who came before them, they are thus also fundamentally historical beings. What are the stages of this process? Tomasello observes that infants are “extremely sensitive to social contingencies” from the get-go, such as the adult being more passive, active, responsive, and so on. A necessary precursor to acquisition of shared intentionality—which he claims seems to be a universal feature of human development—and a precursor to language—is what he refers to as “proto-conversations” that involve mutual gazing and sharing of psychological states. The “glue that holds protoconversations together is not just contingency but the exchange of emotion.” Infants and adults often express the same emotion in dyadic behavior and this is the beginning of a long developmental process that involves the following stages: beginning to understand others as intentional agents (as goal directed); triadic activity or joint attention regarding an outside activity or object, which importantly has an effect on outside reality; coordinated joint engagement with the infant directing the attention of the   Ibid., 37.

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adult; gradual internalization of roles and learning to anticipate the actions of others; acquisition of language, which is inherently collaborative; and gradual internalization of and participation in the normative structures and institutions of a society. In all of this mimetic activity—so important in religious rituals—plays a significant role. Humans also seem to be unique in that simply sharing attention can be an end (a pleasure) in itself. In essence, Tomasello has mapped the acquisition of the skills it takes to become human, the core of which is shared attention and shared intentionality with conspecifics. Tomasello’s work emphasizes the social aspect of the developmental process, which is implied but nowhere developed in Blumenberg’s account of intentionality. How does this help us to understand vulnerability to Terror? Tomasello observes the infant’s sensitivity to contingency but is not himself interested in the experience of contingency as motivation. He simply states that infants are motivated to share psychological states. He turns to early object-relations for his claim that sharing of emotions and psychological states is foundational for the developmental process described above. Blumenberg himself refers to psychoanalysis as one way of describing, at least on an ontogenetic level, the need for compensation—which in my view is the missing link in Tomasello’s account. Alluding to Freud in Work on Myth, Blumenberg claims: “Freud described the complete helplessness of the ego in the face of overwhelming danger as the core of the traumatic situation, and saw in the child’s early demand for love the compensation for such helplessness.”36 Much is packed into this sentence, and there are clear parallels between Blumenberg’s comment, his somewhat sketchy remarks about anxiety, the need for resolution in the form of intentionality, and the process of ego integration observed by object-relations psychoanalysts such as Donald Winnicott.37   Work on Myth, 5.   Quotes in the section on object-relations theory are taken from

36 37

Winnicott’s The Maturational Processes and the Facilitating Environment: Studies in the Theory of Emotional Development (London: The Hogarth Press and the Institute of Psychoanalysis, 1965), 56–63.

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Winnicott’s work provides empirical support for this dimension of Blumenberg’s thinking—given Winnicott’s decades-long observation of how the “growing human personality…tends…to become integrated into a unit” and acquires symbolically mediated behavior. This process does not begin from a given mother/child symbiosis, but from a radical lack of orientation. As Winnicott states: we should think of a baby less as a person who gets hungry and whose instinctual drives may be frustrated or met than as an immature being who is all the time “on the brink of unthinkable anxiety.” The achievement of a partial symbiosis with a mother figure occurs as she/he attempts to comprehend and meet the baby’s needs—to compensate for immaturity—which are at first primarily physical and during which time the infant does not distinguish between itself and the mother. But we cannot call this a symbiosis. If anything it is a lack of symbiosis. Hence the task is one of integrating motor and sensory elements and acquiring the use of symbols in the process that enable the new little person to build up a personality that provides enough inner stability such that she begins to see herself and the mother as separate objects—a process that parallels on an emotional level the ontogenetic acquisition of intentionality described by Tomasello. Winnicott claims that if there is “good enough ego coverage” by the adaptive mother, i.e., she anticipates the infant’s needs such that the infant experiences sufficient “continuity of being” that the infant can take her supportive function for granted—can build up trust—which wards off the unthinkable anxiety. Of course, insufficient support leads to fragmentation and subsequent psychopathologies in those whose lack of ego orientation leaves them vulnerable to being overwhelmed by extreme states of anxiety. This observation is key because all of us are vulnerable to anxiety in extreme situations of shattered life-world orientation. Winnicott’s theory of the transitional object also provides resources for understanding the affective dimension of intentionality and the symbolic construction of objects in what he calls an

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“intermediate area of experiencing.” Human beings face a lifelong task of keeping the inner and the outer realities separate yet interrelated as part of the process of reality testing. Transitional objects enable this process. For a child a transitional object might be a teddy bear, the edge of a blanket, or any object to which the infant becomes attached and that functions as a partial substitute for the mother—what Winnicott refers to as a “subjective object.” This stage of development presupposes having been shielded adequately from extreme anxiety and is also a defense against that anxiety—a learned defense that is part of what Winnicott (and Blumenberg) terms the “omnipotence” phase. The baby experiences control over the environment while being shielded from unbearable chaos. At this stage, if the mother adequately anticipates or “recognizes” what the infant needs, self-assertive impulses are “humanized”—sensory-motor impulses begin to organize into what Winnicott calls “going on being,” which is the foundation of self and object constancy necessary for becoming a being who can cope with the uncertainties of life. Winnicott goes further and likens culture to transitional objects, which would make sense given Blumenberg’s premises that we regulate our relationship to the absolutism of reality through the creation of myths (a culture). In sum, it is an anthropological requirement that human beings become intentional beings in concert with others and that this requires adult attention and care from the very beginning of life; furthermore, intentionality is necessarily intersubjective and intersubjectivity is necessarily localized. Consciousness and cognition are a culturally specific group affair even if the ontogenetic sequence is universal—all of which provides a fulcrum for where to locate universality. Content is localized, but the process and modes of structuring are universal. One lesson to be drawn from this is that attempts to locate universality in content (to absolutize it) are off the mark: Western—or any other—values and culture cannot be (wholly) universalized even if they have been

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globalized.38 The cultural relativists and postmodernists thus have one part of the equation—the local and the contingent—but both are missing the universality of the anthropological predicament (which is necessarily resolved locally). The same can be said of the Enlighteners, who suppressed one of their own key insights when they opted for Eurocentric philosophies of history and chose Kant and other believers in the march of progress over Herder’s anthropological insights (that we are Mängelwesen) and “proto-multiculturalism.” Herder argued that each culture was a center of meaning and deserving of respect.39 As I claimed earlier, the anthropological predicament can function as a normative benchmark for assessing when individuals, cultures, and the species as a whole are going seriously wrong, i.e., are moving toward (are enthralled by) rather than away from absolutes. Without calibrating conflicts and historical realities by means of an anthropological optic, there is no way of bridging the divide between cultures that reject Enlightenment values and the excesses of modernization (e.g., the effects of colonialism and development): giving everyone a seat at the table so that their voices can be heard is desirable and even laudable but attention must be focused first on ways to “reduce absolutisms,” which then might lead to dialogue—to the substitution of rhetoric for   The same also might be said of radical Islamists who preach global jihad aimed at bringing about a “universal revolution” whose “ultimate objective is no other than to effect a world revolution” in which all un-Islamic systems would be eliminated—by any means necessary. Such “truth” cannot be “confined within geographical borders,” “Jihad in Islam,” address delivered by Abul A’la Maududi, published on www.muhammadanism, March 27, 2006. Maududi was one of the chief anti-modern, anti-western “revivalist” theorists of an inspired call to return to what he termed a “pure” form of Islam, but one that was based on a selective reading of texts. I am not claiming that Islamists and post-Enlightenment westerners influenced by ideals of democracy and so on are exactly parallel: the point of comparison is global aspirations. On one side is a global jihad and on the other is global spread of Western “values,” culture, and economic systems, which may or may not be benign. 39   Although each culture may be deserving of respect, it is not the case that all practices in every culture deserve respect. 38

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terror. Although we cannot force someone to talk, we can figure out the compensatory benefits reaped by those in power as well as the compensatory needs of those who are powerless, and search for latent opportunities where communication might occur. What new needs are about to coalesce such that new compensations might be possible? Such dialogue might not be possible with jihadis, suicide bombers, Sikh extremists, the Haredim, the anti-abortionist Army of God, or many others who embrace toxic ideologies, but it might be possible with those susceptible to recruitment or the surrounding, less radical population. For example, it would almost certainly be possible with younger, more democratically minded Iranians.

6. Medusa, bin Laden, Bush—and others: Great Myths, Toxic Myths, and Dogma What remains is the setting up of images against the abomination—the maintenance of the subject, by means of its imagination, against the object that has not been made accessible. In myth, the total and the definitive do not occur; they are products of dogmatic abstraction.40

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iven that risk is part of the human equation, it is not possible to be certain of another person’s intentions or of one’s own construal of reality. Clearly, images, stories, myths, and so on that we entertain may be no more than harmless fantasy; but they might also be toxic versions of “the absolutism of images and wishes.”41 There are no guarantees that the resolution of anxiety into a feared object or personification is anything more than self-delusion. This is not to say that our contemporary Medusas, such as Osama bin Laden, are merely fantasies but that our perceptions of how to deal with them and what they represent   Work on Myth, 10, 267.   Work on Myth, 8.

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may be faulty. We need a criterion for discriminating between types of fantasy and myth. Blumenberg states: “What the horizon is filled with can lack realism as long as this does not extend to the central matter of survival,” which does not give us much to go on.42 Presumably here he is referring to the threat to survival both physically, emotionally, and culturally that is presented by the terminus a quo. There is some ambiguity in this statement, however, given that it is not always possible to discern whether a threat to survival is real. Blumenberg adds that cases of failure create a zone of realistic but circumstantial “as if” behavior. The so-called “great myths” provide a benchmark of sorts because they circumscribe a history of trial and error and realistic behavior: to provide an example (from which I will extrapolate), Blumenberg traces the reception of the myth of Odysseus in Western culture, noting the core meaning that persists despite the vagaries of historical change, much like variations on a theme in music. Odysseus makes it home by outwitting all the terrors that threatened to prevent his return, such as the Sirens’ lethal song. Myth did not aim at alarming and frightening its audience, but at “bringing forward the terror, tamed.”43 The audience wanted to hear the story again and again because such a myth satisfies a need for reassurance—and they wanted to forget the terror that preceded what they “had domesticated into myth.” In this particular myth, they also wanted reassurance of homecoming and triumphing over adversity. However, reassurance might also be based on delusions, so more must be said. Blumenberg uses Odysseus as an exemplar to illustrate how, over the millenniums, the stories that continue to maintain a life-worldly (humane) position acquire a kind of “objectivity” and necessity. A human world must be comprised substantially of embodied, second-nature limitation-awareness rhetoric, i.e., institutions that have stood the test of time by having been con  Ibid., 7.   Ibid., 240.

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tinually tested and corrected by reality. Such institutions constitute “burdens of proof” to which human beings can appeal. Such institutions exhibit the characteristics of the great myths such as Odysseus and Prometheus (understood as modes of coping with detachment) are historically-tested narratives (“transitional objects” that facilitate “going on being”); they are not foolproof because nothing is, but they are a hedge against pure fantasy and provide models for how viable institutions should be understood generally, namely as a core narrative with de facto legitimacy that is open to revision. The great myths, understood functionally as historically-optimized forms of rhetoric, provide a benchmark for sorting through myths and dogmas that resist revision, attempt to bypass contingency, and become rationales for “resolutely going forward.”44 The great myths have “no outsiders,” but the myths that metastasize uncontrollably during times of crisis or that insist on dogmatic purity are stories with outsiders and insiders, stories with heresies and orthodoxies that strive to maintain a firm distinction between the saving remnant and the mainstream. The pain of detachment entails a constitutional propensity toward excess affect, and intentionality and the formation of culture regulate affect; it follows that times of crisis are also times of excess affect whether on an individual or a group level and there is greater tendency to latch onto ideologies that promise stability (a resolute way out of the chaos) and that bypass the need to regulate the situation at hand in relation to the actual circumstances. Human beings can be targets, terrorists, and fundamentalists because they are always plagued by the threat of an angst-ridden horror vacuii.45 Radical Islamists, for example, reject the entire notion of the democratic framework necessary for dialogue. They   I am using the word “myth” broadly here. Some myths are positive in that their visions are used to project constructive solutions to problems. For example, social contract theory, feminist and racial justice ideals plus revisable narratives of how to implement them, have been to the benefit of human beings. 45   Lebsenszeit und Weltzeit, (Frankfurt: Suhrkamp, 2001), 291. 44

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reject Western institutions, “the increasing hybridization of cultures, peoples, languages, and religions that inevitably accompanies modernity and now globalization.”46 All are experienced as a threat to the imagined purity of their history and institutions— which once did provide a more reliable identity and sense of community. When the past is present as the dream of the restoration of the caliphate, it has become an ideology severed from the mechanisms of historical reception. Incendiary rhetoric fueled by an ideology becomes a means of persuasion: terrorist networks recruit by using a variety of messages enshrined in bits and pieces of toxic myths and dogmas: “heroic deeds of its ‘martyrs;’ the suffering of the pious; the continuing slaughter of Muslims, from the time of the Crusades to the ethnic cleansing in Bosnia, at the hands of the infidels; the repression of the Palestinians; and the occupation of Iraq. All this is seen as the product of ‘the Zionistcrusader chain of evil,’ which was Bin Laden’s version of Bush’s “axis of evil.”47 In his analyses of National Socialism, historian George Mosse has referred to such myths as “scavenger ideologies.” For Mosse, the term refers to a worldview drawn from various ideologies that were cobbled together by the Nazis to add “legitimacy” to the Third Reich. The term “scavenger ideology” has a broader application and can point to any ideology that draws upon a selective combination, reinterpretation, and urgent defense of what is perceived as (or is) a threatened tradition. The purpose is to clearly distinguish the “enclave” of believers from the mainstream and in the process create outsiders who are deficient in the virtues so valorized by the insiders. Hence the strong appeal to a specific kind of absolutist nationalism that demonized Jews. Similarly, Islamism, which is not necessarily connected to nationalism, selectively reinterprets basic ideas of Islam, emphasizes and distorts notions of jihad, and reifies the positions of   See Seyla Benhabib’s discussion of the threats posed by fundamentalism’s “dream of purity.” The Claims of Culture: Equality and Diversity in the Global Era (Princeton: Princeton University Press, 2002), pp. 185-86. 47   Jenkins, “’Axis of Evil’ vs. ‘Chain of Evil.’” 46

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“pure” Muslims. One absolutism is opposed by another, i.e., a jihad will obliterate the West just as a pre-emptive war on terrorism sought to obliterate our vulnerability by obliterating the terrorists. According to the authors of Strong Religion, such “fundamentalist” movements are characterized not only by selectivity but also by a “moral Manichaeanism” that cordons the remnant off from the contaminated world outside. Each group has an authoritative, inerrant text or tradition, such as the Torah, the Talmud, the Qur’an, the Shari’a, the Bible, and so on. Adherents reject modern hermeneutical interpretations of texts in favor of reifications that preserve “the absolutist character of the sacred text or tradition.” History is read messianically, where good will triumph over evil: the Messiah, the Savior, or the Hidden Imam promise victory to believers, who will then be delivered from suffering— will then regain control over the conditions of existence. Other characteristics are: a chosen few who see the light, an authoritarian organization, enforced conformity, selective appropriation of modern technologies, and rigid gender demarcations.48 Taken together, all these factors legitimate the sacrifices that allow the believers to go resolutely forward with a closed mind.

7. Going Resolutely Through the Forest: Descartes, Modernity, and the War on Terror

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or Blumenberg, philosophical anthropology guides his reconstruction of the history of Western culture and philosophy. But, as is I hope clear, anthropology can be more than an academic benchmark for redescribing the history of philosophy, although such redescription is not a bad place to begin this section. Even though modernity ushered in pluralism, secularism, scientific and technological innovations, a fallible idea of   See Chapter 2.

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rationality, and the notion of historical development, modernity also contains at its core, paradoxically, a desire for certainty that can never be consummated. This is not to say that no prior age aspired to certainty, but that given the influence of the scientific method as agreement subject to revision,49 it would seem that modernity is (or should be) all about learning to accept degrees of uncertainty wisely. That said, Descartes is an exemplar of modernity’s influential dream of certainty under the conditions of modernity. Blumenberg’s commentary on Descartes in “An Anthropological Approach to the Contemporary Significance of Rhetoric” and The Legitimacy of the Modern Age is relevant here given that from an anthropological perspective Descartes’ (and philosophy’s influential) dream of certainty is homologous and functionally similar to the dreams of fundamentalism. It is also widely accepted by scholars that religious fundamentalism is a distinctly modern phenomenon. Descartes was no terrorist, but he was a modern “philosophical fundamentalist.”50 According to Blumenberg, when Descartes proposed a provisional ethics, which would tide us over until the completion of physics and the arrival of a “definitive morality,” “he was not compelled to think through the anthropological implications” of what this process entailed. Descartes illustrated his position with the image of a person who has lost his way in a forest and who only needs “to go resolutely in one direction in order to get out of the forest, because all forests are finite   “An Anthropological Approach,” 436.   I am claiming that there is a functional similarity between this pro-

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gram and Descartes’ defense of and aspiration toward cognitive (and ultimately moral) certainty if both are viewed in relation to the anthropological terminus a quo. In both cases, there is a demand for purity and certainty, as well as a providential plan of sorts in which the process and purpose transcends individuals. In both cases, modernity is the spur. For Descartes, this involved preserving remnants of a medieval-world metaphysics within a cognitive/experiential space defined for the most part by modern science and mathematics. For the religious fundamentalists, the dislocations of modernity, which were to become increasingly evident after Descartes, were an overriding factor in producing orientation anxieties in a “post-traditional” world.

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and can be regarded in the imagined situation, as unchanging.” For Blumenberg this formal resoluteness “means a prohibition against considering all the concrete characteristics of the situation and their changes, including how man is equipped for dealing with situations in which his orientation is uncertain.”51 Descartes’ method, with its promised end, blocks out an awareness of the kind of “rhetoric” that “creates institutions where evident truths are lacking” as a way of coming to terms with our vulnerabilities. Rhetoric, as “everything this side of definitive evidence,” claims Blumenberg, is the vehicle of a truly provisional ethics. The absolute toward which Descartes was forced to march was, as we all know, God as the guarantor not only of the system but also of the mathematics without which modern science is unthinkable. Having boxed himself into a corner, Descartes had no other recourse by which to overcome the philosophical terror unleashed by the evil genius of (medieval/modern) doubt. Blumenberg cites Leibniz’s reproach against Descartes: “through the radicalness of his doubt and the questionable perspicuity of its elimination he [Descartes] had introduced into the world a demand for certainty, which on account of the rigor of its requirements could not be fulfilled by him or anyone else, but [also] could not be revoked and rejected merely on account of the impossibility of satisfying it.”52 The context of the preceding remark is part of the introduction to the theory of “reoccupation,” which is a key term describing Blumenberg’s logic of historical change, whereby different contents can take on identical functions in different epochs. For example, the modern age inherited a set of theological (absolutist) “answer positions” whose questions could not be eliminated even if they could not be “satisfied.” These questions created a legitimate orientation need for humankind in modernity, because of the loss of cosmic orientation as a result of the arbitrariness of God’s absolute power (e.g., Ockham). The answer position   “An Anthropological Approach,” 434-35.   The Legitimacy of the Modern Age, 65.

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inherited from the Middle Ages contained a salvation story, but if the nominalist God is totally arbitrary then what are human beings to do? In the case of Descartes, this theological absolutism is transformed into the “philosophical hypothesis of the deceptive world spirit [and] Descartes denies the historical situation to which his initial undertaking is bound and turns it into the methodical freedom of arbitrarily chosen conditions.” Theological absolutism set the stage for both the degree of the doubt and the need for absolute certainty as a response. Blumenberg goes on to say that the Enlightenment then adopted the idea of radical independence from the “outcome of the Middle Ages” as part of “its own self-consciousness.”53 A feature of that self-consciousness was that humanity should take into its own hands the job of bringing heaven down to earth: hence the long march of species progress to perfection is taken up by grand philosophies of history in the West (as well as by imperialism), but it runs on the tracks laid down in the earlier epoch, i.e., the salvation story (the previous “answer position”). With God’s help (paradoxically), Descartes’ cogito is an attempt to do what cannot be done: install the supremacy of the subject. As such, Descartes is also an exemplar of what modernity wanted to be: an absolutely new beginning, a complete but impossible rupture with the past’s prejudices, kings, and organized religions, which could only be impediments to workings of rationality. As an exemplar of the modern impulse and at the heart of modernity’s pretentions is an attempt to definitively exclude the absolutism of reality, to deny the mechanisms of historical transmission, and to make the subject the authority of the objects that it knows. This is continued on in the philosophies of progressive history that “reoccupy” the medieval salvation story 53   The Legitimacy of the Modern Age, 184. Blumenberg’s theory of reoccupation is intended to demonstrate that history is never just the repetition of the past, nor is it ever something absolutely new. By accounting for both continuity and discontinuity, he specifies the conditions of historical change and therefore historical cognition generally.

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and aim to master the evils of the human situation through the power of reason, the discoveries of science and technology, and the secular transformation of institutions. Blumenberg: “We have almost forgotten that ‘progress’ is nothing but the form of life, adjusted for the long term, of that Cartesian interim for which the provisional ethics was intended.”54 It is precisely this modern anthropocentric, tradition-disrupting type of change that set the stage for modern fundamentalism. During times of great change and crisis, whether philosophical, religious, or political, that threaten to tip the scales in the direction of chaos, human beings become vulnerable to myths and ideologies that promise total relief from arbitrariness. Without pushing the similarities too far, there are functional similarities between the metaphysical situation of Descartes and religious fundamentalism: extreme doubt coupled with the belief that an absolutist stance is the proper countermove. A precise method will get us out of this mess; we must leave behind the prejudices of the past (misconceptions of the true religion in the case of religious fundamentalism); there is a conflict between the metaphysical stance and the available solutions to present urgencies; and cognitive/moral purity is necessary. Above all, the disruption of traditions and resulting anxiety about orientation entail adopting an uncompromising stance. For both Descartes and for religious fundamentalists, religion must be “strong because its enemies are perceived as powerful”: Since God is not deceptive in either case, we go resolutely forward. The neoconservative ideology that fueled the war on terror as a pre-emptive strike was also based on resolutely going forward without considering fully the contingencies of the situation—and rejecting other proffered remedies, such as treating acts of terrorism as policing matters that would best be addressed through international cooperation based on an evolving consensus (“rhetoric”). Resolutely going forward—even if Iraq was not   “An Anthropological Approach,” 435.

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responsible for 9/11—would eventually get us out of the forest, or so went the rhetoric of the Bush administration and seems to be part of Obama’s strategy in Afghanistan. Both Bush and Bin Laden invoked God in speeches that were mirror images of each other. Bush’s famous “axis of evil” speech and one by Bin Laden broadcast on Al Jazeera television sixteen days earlier made it clear that neither had any doubt about whose side God was on. According to Bin Laden: “The struggle between us and them, the confrontation and clashing began centuries ago, and will continue … until judgment day.” According to terrorism expert Brian Jenkins, Bin Laden eschewed “political reform as an excuse for not pursuing jihad. To him, parliaments and democracy were an affront to religion, which he said must govern all worldly affairs.”55 Shifting back to Blumenberg’s essay: holding out the prospect of eternal truths and definitive certainties entails that “’consensus’ as the ideal of rhetoric, and agreement subject to later revocation as the result attained by persuasion” had to seem contemptible.56

8. Modernity and its Shadow: Terrorism

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he dream of certainty and the fundamentalist dreams of returning to the true religion were provoked by modern forms of disorientation; but they reflect the anthropological reality and the human desire for models that have mythical clarity. Not all fundamentalisms give rise to terrorism, but some variety of dogmatic ideology seems to be a necessary condition of terrorism. And disorientation is a necessary condition for the   Jenkins, Brian, “’Axis of Evil’ vs. ‘Chain of Evil,’” Los Angeles Times, opinion section, February 1, 2004. 56   “An Anthropological Approach,” 436. Although Blumenberg is discussing the history of philosophy here, the idea is applicable to any situation that has the same form. 55

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embrace of a fundamentalist ideology. Human beings need an inertial, experiential base camp, and because of their detachment there is a gap that desire aims to bridge. Rapid institutional change exacerbates constitutional vulnerabilities by dissolving continuities, e.g., traditions and taken for granted behaviors, or what Blumenberg refers to as “optimized constants.” Thomas McCarthy’s comments on American (post-colonial) “modernization” theory in the 1950s and 1960s make it abundantly clear how the modernization process (whose rationale stems from the grand philosophies of history that got underway in Western modernity) is what Blumenberg and Hermann Lubbe would call an “excessive demand.” That is, too much change was inflicted on too many areas of life, such that people in less developed parts of the globe, especially those who did not unambiguously profit from changes, were induced to believe they were losing control of the conditions of their existence. In a very real sense people were and are threatened with more change and more loss than they could and can be expected to bear. As applied to the modernization of postcolonial societies in the mid-twentieth century…the development processes that had begun under colonial regimes could best be completed by adopting Western attitudes, values, practices, and institutions—including market mechanisms and state bureaucracies, industrialization and urbanization, secularization and rationalization, the rule of law and democratization, social mobility and mass education, and so forth.57

This is not to say that all these changes are negative, but that there was too much change in too many areas all at once such that the thick cultural context and sense of historical rootedness that supports forms of subjectivity and conceptions of goods was either threatened or vanished. Such accelerated change is a feature of modernity and the antidote is “retardation,” or distance.   Thomas McCarthy, Race, Empire, and the Idea of Human Development (Cambridge: Cambridge University Press, 2009). 57

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Blumenberg: “The acceleration of processes is after all only a variant of the ‘stimulus overload’ that the biologically impoverished creature, man, is constitutionally exposed to and that he deals with by institutionalizing his behavior.”58 The changes described above cut across every “institution” (in an anthropological and in a mundane sense). The world in which traditional practices would make sense was being destroyed in many areas even if the memory of those practices remained vivid and therefore all the more wrenching and often humiliating. If, anthropologically, it is necessary that human beings be able to rely on or take for granted some degree of familiarity in their institutions and behaviors, then this type of change leaves them grasping for compensatory, stabilizing meaning—often in the form of a flight into illusion or a search for absolutes. By clinging to fragments of tradition and magnifying the feelings of shame and humiliation, Islamic, Jewish, Protestant, Sikh, Buddhist, neo-Confucian, and all types of fundamentalist radicalism then goes on to imagine a perfect compensatory life-world.59 On the flip side are the neoconservative, neoliberal imperialist policies that push modern change along at warp speed under the secular banners of global democracy and free trade. It is no accident that modern religious fundamentalism is a global phenomenon given the pervasiveness of accelerated institutional change. As the target on September 11, we launched a “war on terror,” soon rushed blindly into Iraq based on faulty intelligence, and knew little about the history, customs, and cultures of the peoples of the region. Barbara Lee, the lone dissenter in Congress, in September 2001, received death threats from ag58   “An Anthropological Approach,” 445–56. See McCarthy’s discussion of acceleration, which is similar, 148. 59   I do not intend to suggest that Islamism is entirely a product of Western imperialism, even though its formation has been aggravated by it. Islamism is a particularly “virulent and potentially global form of radical fundamentalism,” according to the authors of Strong Religion, which identifies “family resemblances” on several continents in all the major religions, all of which they trace to a type of anti-modernism and anti-secularism.

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grieved Americans and required round-the-clock protection. The provocation? She said: “We’re grieving. We need to step back and think about this so that it doesn’t spiral out of control. We have to make sure we don’t make any mistakes.”60 Lee wanted members of Congress to talk before acting, to substitute speech for action. Terrorized by the events of 9/11, which were endlessly rebroadcast on television (the media is the terrorist’s best friend) and further amplified by the Bush administration’s incendiary rhetoric, few would or could listen. History teaches that had we not learned to use substitutes [i.e., rhetoric] for actions not much would be left of mankind.61 And Lee offered to substitute rhetoric for terror and rage. Thus, the target and the terrorist fear loss of control over the conditions of existence; they succumb to immediacy and use limitation-denying rhetoric to justify actions—desiring absolute answers to problems that require provisional solutions. Terrortheoretician Bakunin stated: “terrorists are fanatics without rhetoric.”62 We might amend this by saying that terrorists (or reactive targets) may be fanatics because they lack awareness of the limitrecognizing rhetoric that allows us to maintain distance from our impulses. Blumenberg’s claim that “rhetoric implies the renunciation of force” gains added density when applied to an analysis of modern terrorism.63   Lee: “’I am convinced that military action will not prevent further acts of international terrorism against the United States,’ Lee said on the House floor on Sept. 15. ‘There must be some of us who say, “Let’s step back for a moment and think through the implications of our actions today — let us more fully understand the consequences,’” http://www.motherjones. com/news/feature/2001/09/lee.html. 61   “An Anthropological Approach,” 440. 62   Quoted in Hoffman, Inside Terrorism. See also, Lacqueur, The New Terrorism, 15. Bakunin wrote that he and his friends recognized no other action except destruction; the terrorist breaks with society and its laws and conventions—its institutions. 63   “An Anthropological Approach,” 437. It is possible to imagine a few— very few—situations when terrorism is arguably legitimate, such as in attempts to overthrow a cruel dictatorship. 60

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It can certainly be objected that the staging of 9/11 was a brilliantly conceived and executed rhetorical act—and it was. However, we must examine the type of rhetoric and the failure to recognize limits, both from the side of perpetrators and from those who retaliated with force on a target having nothing to do with 9/11. In modernity, developing and maintaining a reflective consciousness in relation to myths and institutions means, above all, acquiring a sense of history—but not in the way exemplified by the Bush/Bin Laden speeches. Human beings may desire indicators having the “clarity of mythical models,” but “there may be no way to gain sensitivity to a future except through “insight into the uniqueness and irretrievability of what is past.”64

  Work on Myth, 99–100, italics mine.

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L’irruzione metafisica. La logica della potenza divina nella Matthäuspassion* di Hans Blumenberg



Morieris, non quia aegrotas, sed quia vivis. Seneca, Epistulae ad Lucilium, IX,78

1. Introduzione: Cristianesimo mitico?

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ontro ogni previsione, il lavoro che Hans Blumenberg dedica alla Matthäuspassion, eseguita da J.S. Bach tra il 1727 e il 1729, non è il risultato di un progetto strettamente musicologico, né una semplice proposta ermeneutica rivolta ai due capitoli sulla Passione presenti nel Vangelo di Matteo. Blumenberg intuisce l’insolita natura della Matthäuspassion nello spessore del tessuto musicale, nella costruzione dell’impianto narrativo, tutti elementi che Bach, meglio di altri, affida inconsapevolmente alla dimensione del mito, fino ad aggiungere qualcosa alla portata dell’evento centrale e con la pretesa ultima di * H. Blumenberg, Matthäuspassion, Frankfurt am Main 1988 [= Mth]. Si farà riferimento all’edizione italiana a cura di C. Gentili, Passione secondo Matteo, Bologna 1992 [= Passione].    Probabilmente spinto da esigenze di vario genere, Bach abbandona Köthen nel 1723 per ottenere a Lipsia un posto nella chiesa di San Tommaso nel maggio dello stesso anno. La consistente produzione degli anni trascorsi a Lipsia, prima come Kapellmeister poi come direttore del Collegium Musicum, dipende soprattutto dalle numerose richieste e dal clima di particolare creatività di quel periodo (sono gli anni di G.P. Telemann, J. Kuhnau, J.P. Krieger). Nonostante Bach segua fedelmente il testo nella traduzione luterana della Passione di Matteo (26-27)¸ al librettista C.F. Henrici (dietro lo psudonimo di Picander) è affidato il compito di inserire passi poetici nella narrazione.    Si rinvia a C. Gentili, Passione, pp. 13-15. Merita una trattazione a parte l’indagine che Blumenberg dedica al mito per la quale si rinvia a: H.

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restituire a qualunque dimensione storica l’istante che realmente si consuma in un solo momento. Per quale ragione ciò ha importanza per gli ascoltatori della Passione secondo Matteo, che vengono circa un millennio e mezzo dopo questi avvenimenti? Per la ragione che essa costituisce l’unico modo ancora possibile del ritorno allo stadio della ritualità, che non poteva rinunciare all’utile della narratività e neppure osava mettere mano ad essa.

Più che un commento al genere delle Passioni, un’opera di teologia speculativa quella di Blumenberg, che trae spunto dall’universo musicale settecentesco, per seguire l’imponenza di una costruzione sonora contro il quale nessuna logica ha valore. La Matthäuspassion è anzitutto una condanna dell’allegoria, che volge alla certezza del ritardo narrativo come unico modo per restituire l’integrità di quanto accaduto. Lavorare con il mito significa ribadire la contemporaneità di una vicenda adatta all’individuo di tutti i tempi, comunque capace di scatenare una reazione, spesso aldilà del contenuto veritativo che pretende di enunciare. Così, la lettura di un testo, implicito e programmatico tentativo di ancoraggio di un documento altrimenti errante, conferma un valore attraverso il contenuto che promette di attualizzare. Se la rilevanza problematica della ricezione del mito coinvolge alcuni valori che forse è opportuno non trattare in questa sede, va comunque notato come la continuità mitica permetta di avvistare, con l’approssimazione del caso, la densità e la corporeità di parte del messaggio religioso cristiano. Blumenberg, Arbeit am Mythos, Frankfurt am Main 1979 (trad. it., B. Argenton, Elaborazione del mito, Bologna 1991); Id., Höhlenausgänge, Frankfurt am Main 1989.    H. Blumenberg, Passione, p. 73. Le esigenze di riorganizzazione testuale del rito sarebbero dunque dettate da motivazioni puramente contingenti come il fissaggio nel tempo di fatti che andrebbero certamente perduti nella storia (Ibid., pp. 72-73).    Ibid., p. 77.

La logica della potenza divina nella Matthäuspassion

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In questa prospettiva si può estorcere al testo più di quanto il suo autore voglia indicare, riconoscendone la natura parlante oltre la convenzionalità del mezzo impiegato. Più che rispondere alle logiche di una lineare valutazione semantica, tanto nel caso della cronaca quanto del mito, la rilevanza di un testo è rimessa alla severità del giudizio storico che ne decide la conservazione nel tempo. Se l’inversione da testo a mito favorisce un tipo di investigazione sulle modalità del raccontare, è anche verosimile che il testo possa convalidare entro se stesso la propria pretesa di annullare i tempi o di assegnarvi un valore non strettamente limitante. Ponendo nel tempo della lettura una validità perenne e superiore al contenuto trasmesso, è proprio la risonanza del Cristianesimo a denunciare l’accostamento, tutt’altro che secondario, tra messaggio e racconto, restituendo, in un’ottica speculativa ad ampio raggio, contenuti religiosi non più incastonati nella sequenza temporale, perché inadatti a costituire soltanto una cronologia immobile e non distribuibile nella totalità del divenire storico. Aggiungendo al carico musicale dell’opera di Bach un’accurata analisi del corpo narrativo, Blumenberg ricolloca la portata evocativa del mito tradotto in musica, insistendo sulla priorità, sempre decisiva nella Matthäuspassion, di alcuni aspetti teologici concettualmente funzionali alla crescita di una sicura teologia del dolore e della colpa individuale.

2. Premesse storico-filosofiche

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ntro una complessa manovra di destrutturazione e ricollocazione delle principali coordinate del pensiero filosofico occidentale, lo studio della Matthäuspassion inaugura una pista di ricerca sulla modernità della riflessione teologica come circostanza di ascolto e revisione delle diligenti e rassicuranti indicazioni offerte dalla teologia medievale, per arrivare a definire, con

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inserimenti polemici inaspettati e spesso di difficile lettura, un articolato resoconto sulle più esaltanti contraddizioni concettuali che segnano l’evoluzione del Cristianesimo occidentale. Ad arricchire ulteriormente le innumerevoli letture di Blumenberg rimane, dunque, la certezza che, senza rivolgere attenzione alla grammatica speculativa relativa il vasto periodo compreso tra i secoli IV-XIII, non sia possibile risalire alle ragioni delle intrinseche trasformazioni della religiosità nel dogma, come nel rito. Tuttavia, se a guidare gli interessi di Blumenberg non vi fosse una urgente domanda sull’infermità morale del peccatore, poi tradotta in quella mancata rassegnazione che accentua tutte le perplessità dell’individuo dinanzi al paradosso dell’onnipotenza divina, si stenterebbe a giustificare il coinvolgimento concettuale della Matthäuspassion all’interno di una speculazione propriamente teologica: Forse si riflette troppo poco, a tal proposito sul fatto che gli ascoltatori della Passione secondo Matteo di Bach non sono tanto più o meno ‘miscredenti’, non hanno perso la familiarità con la ‘dogmatica’ del sofferente e del morente, quanto piuttosto sono, oltre a questo, ‘irragionevoli’, non possono intendere e non vogliono sapere come debbano ammettere di essere ‘peccatori’ e bisognosi di una redenzione, sia essa questa o un’altra.

Proprio lo spostamento del punto d’osservazione e l’abbandono della tradizionale prospettiva salvifica offerta del Cristianesimo, indicano alcune premesse necessarie allo svol   Ibid., p. 144. Questa mancata rassegnazione solleva vari interrogativi sul grado di prescienza (Vorwissen, H. Blumenberg, Mth, p. 125) divina che dovrebbe permettere di ignorare l’esito incerto del progetto di creazione del mondo. Blumenberg asserisce che il peso o l’affanno (Sorge, Ibid., p. 126) neanche può essere accessibile ad un essere onnisciente. È questa inevitabile frattura che sposta il punto di osservazione dal peccatore alla causa prima (« Der Sünder ist nicht der Bezugspol dieser Geschichte », Ibid., p. 127).    H. Blumenberg, Mth, p. 126.

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gimento della riflessione di Blumenberg. Ad essere in questione non è soltanto l’insuperata domanda sulla logica del paradosso che governa il tema dell’onnipotenza divina, ma il grado di coinvolgimento spirituale che una teologia dogmatica, poggiante su instabili, anche se specifiche, soluzioni dottrinali, può arrivare a rivendicare. Con la più compiuta attualizzazione del male come sintomo dell’instaurazione dell’età moderna, il bisogno di una teodicea (quella leibniziana ne sarà un esempio) che ne preveda il naturale – e non forzato – inserimento in processo creativo, come momento di massima espansione del cogito cartesiano, evolve nell’identificazione uomo-Dio entro una metafisica paradossalmente speculare a quella classica, in cui non soltanto il potere può essere drammaticamente avvistato, ma anche trattenuto ed esercitato. Se un primo tentativo di superamento della gnosi consiste nell’affermazione spontanea del concetto di onnipotenza, poi ridotto in fallimento da un prevedibile destino storico, la razionalità dell’età moderna si procura un’affinità con il progresso e con la malvagità o, detto altrimenti, con la malvagità del progresso inarrestabile che, proprio nel dualismo gnostico, si bilanciava secondo una contrapposizione tra dio della salvezza e dio del mondo. Così, se le imponenti questioni metafisiche, prima tra tutte quella riguardante l’esistenza del male, vengono alleggerite dai tentativi della teologia classica, che finisce per gravarsi di tutti gli svantaggi dovuti a risoluzioni spesso troppo eversive, è un principio di compensazione dialettica a dirimere la maggior parte degli impedimenti concettuali, ridimensionati e attutiti proprio con il soccorso delle discipline del trivio, responsabili del nuovo primato del linguaggio e delle sue dirompenti conseguenze.

  Per l’inquadramento della gnosi si rimanda a H. Blumenberg, Die Legitimität der Neuzeit, Frankfurt am Main 1966, pp. 80-98. 

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a storia della teologia medievale è un complesso intreccio di dispute dialettiche. Alla polivalenza di questa peculiarità linguistica, che assume fattezze sempre nuove, edificando spesso sulle macerie di precedenti costruzioni concettuali, vanno attribuite, prima di recuperare l’onnipotenza divina come primo elemento nodale sul quale è utile insistere, le difficoltà incontrate dal Cristianesimo in secoli di stratificazione dogmatica. Il dinamismo speculativo espresso dal Cristianesimo in epoca medievale e la complessità dogmatica che ne estende il raggio di influenza, meritano l’impegno di teologi e di magistri piuttosto abili nell’argomentare. Secondo Blumenberg, è proprio nella Matthäuspassion che emerge un principio evidentissimo di lacerazione della potenza divina che, scissa entro l’assolutezza della propria definizione assiomatica, giunge ad esasperare le vivide preoccupazioni sull’inserimento del male nel mondo e sulla relativa ingovernabilità. In tal modo, l’incontro di Blumenberg con l’agostinismo non fa altro che accreditare la grande rilevanza riconosciuta al tema della potentia Dei, nell’ambito di una ricerca che vuole anzitutto penetrare l’universo emotivo di Bach, secondo scelte stilistico-musicali assai riconoscibili, ma anche molto sfumate sul piano teorico. Come primo esecutore materiale del concetto di onnipotenza divina, Agostino avverte tutta la viscosità del suo bilanciamento etico, provando a risolvere la frattura tra la potenza e l’esistenza del male, riducendo quella forte polarità concettuale, responsabile della spartizione tra una potenza imprevedibile e il volere controllato, ad una sicura identità. Neque enim Deus omnipotens quod etiam infideles fatentur: Rerum cui summa potestas cum summe bonus sit, ullo modo sineret mali esse aliquid in operibus suis nisi usque adeo esset omnipotens et bonus ut bene faceret et de malo.   H. Blumenberg, The Legitimacy of the Modern Age, ed. R.M. Wallace, Massachusetts 1999, p. 319.    Agostino, Enchiridion de fide, spe, charitate, 3,11. Si rinvia inoltre a J. 

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Senza mai allestire una dimostrazione sistematica della logica che guida il potere divino, Agostino ribadisce, in più occasioni e soffusamente, quel dettato teologico che prevede, seguendo una piena sovranità divina sul creato,10 l’esecutività delle libere azioni individuali secondo prescienza divina, accertando un’operatività e una possibilità d’intervento all’interno dell’ordine temporale che, nonostante sia conosciuto in anticipo nella totalità dei suoi sviluppi, mantiene una certa indipendenza nel dispiegarsi. Quapropter saluberrime confitemur, quod rectissime credimus, Deum Dominumque rerum omnium, qui creavit omnia bona valde, et mala ex bonis exoritura esse praescivit, et scivit magis ad suam omnipotentissimam bonitatem pertinere, etiam de malis bene facere, quam mala esse non sinere, sic ordinasse Angelorum et hominum vitam, ut in ea prius ostenderet quid posset eorum liberum arbitrium, deinde quid posset suae gratiae beneficium iustitiaeque iudicium.11

Così, il libero arbitrio risponde, nella sequenza che conduce dalla perseveranza alla perdizione adamitica, alla concessione di una possibilità volontariamente scelta ab initio da Dio, assicurata nella propria identità soltanto alla conoscenza infallibile, perché intimamente disposta in un mondo che diversamente non avrebbe eguagliato la perfezione del mondo presente. Come nel corale maestoso che conclude la preghiera che Gesù rivolge al Padre poco prima della cattura (Mt 26,40-42),12 Plagnieux, Le binome justitia-potentia dans la sotériologie augustinienne et anselmienne, in « Spicilegium Beccense », 1, Parigi 1959, pp. 141-154. 10   Per una valida presentazione della matrice ebraico-greca della nozione di potere divino si rinvia a G. Van Den Brink, Almighty God. A study of the Doctrine of Divine Omnipotence, Kok 1993, pp. 43-50. 11   Agostino, De correptione et gratia, 10,27. Per gli sviluppi della prescienza divina in riferimento alla creazione si veda R.H. Cousineau, Creation and Freedom. An Augustinian Problem: quia voluit? and, or: quia bonus?, in « Recherches augustin. » 2 (1962), pp. 253-271. 12   J.S. Bach, Matthäus Passion BWV 244, ed. T. Koopman, Amersfort 2005, 25, Corale [= BWV 244]: « Quel che vuole il mio Dio, sempre si com-

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la difficoltà di definire la potentia Dei nell’agostinismo si elude soltanto tenendo conto della portata dialettica nell’organizzazione del ragionamento e dell’impossibilità di pervenire a soluzioni incapaci di avvertirne l’implacabile carica etica. Le ragioni del permittere il male, che nel De contientia13 agostiniano ben aderiscono ad una futura promessa di conoscenza, accentuano la corrispondenza tra le imbarazzanti questioni di metafisica e le pretese di una sapiente arte della parola, due ambiti ormai non più separabili e ugualmente presenti nella domanda che Maria pone all’angelo (Lc 1, 34-37), quando la potenza di Dio è restituita nell’intreccio di una curiosità ermeneutica e dell’impedimento che l’avvalora rendendola nulla. Se qualunque domanda godesse di risposta, non avrebbe più senso giustificare la comparsa del mito, ma unicamente confermare un fatto. Nel Vangelo di Luca, la domanda di Maria, anche se non corrisposta, risulta ugualmente soddisfatta: Maria si arresta di fronte all’onnipotenza di Dio e comprende di non poter domandare legittimamente. Soltanto avvertiti da questa premessa e ricollocando gli elementi funzionali alla strategia teologico-speculativa che Blumenberg vuole attuare, l’onnipotenza divina può irrompere come parametro limite e principio di arresto della conoscenza individuale. Così il male è liberamente scelto dal peccatore perché Dio onnipotente vuole concedere l’esercizio di un arbitrio totalmente indipendente, che soltanto nel peggiore dei casi evolve in malvagità.14 La potenza di Dio che realizza questo esito creativo – e pia./ e la Sua volontà è la migliore./ È sempre pronto ad aiutare/ quelli che in Lui con salda fede credono./ Ci aiuta nel bisogno, Iddio pietoso,/ e ci castiga con moderazione./ Chi in Dio confida, edifica su saldo/ terreno, e Lui non lo abbandonerà ». 13   Agostino (De continentia, 6,15) non risponde alla questione posta se non attraverso la formulazione di un’altra domanda: « Sicut ergo dicis: cur permittit ista, si displicent? ita ego dico: cur punit ista, si placent? Ac per hoc sicut ego confiteor, quod omnino ista non fierent, nisi ab Omnipotente permitterentur, ita tu confitere facienda non esse, quae a iusto puniantur ». 14   Inutile qui riportare una stima delle occasioni in cui Agostino dimostra una certa preparazione dialettica a sostegno di una prescienza combinata con

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non altri – riassorbe nell’autonomia della propria scelta la volontà e il facere, entrambi valori esecutivi agostinianamente inscritti nella bontà universale del movente creativo. Non soltanto Dio crea l’individuo, ma lo crea libero e gli concede la grazia salvifica dopo la caduta: tre occasioni di lode che confermano il primato etico nell’inimitabile disegno della creazione.

4. L’offesa di Dio. Una teoria della duplicazione Come esser può ch’io viva se m’uccidi? E come vuoi ch’io mora, se mi dai vita ancora? Fra due mi tieni, onde, tra morte e vita, vivendo moro e non vivendo ho vita. Gesualdo da Venosa, Madrigali, lib. I

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olto aderente alla definizione che apre le Confessiones agostiniane, Blumenberg chiarisce come il concetto di Dio (Gottes Begriff), riconsegnato ai tempi di una pura valutazione speculativa, agevoli la comparsa del paradosso dell’onnipotenza quando, la libertà del prodotto creato incontra un limite nella disponibilità del potere e nello scarto sostanziale rispetto al principio generante.15 Più che un’occasione di esaltante maestria, l’esistenza del mondo introduce un rischio per l’onnipotenza che la libertà individuale. Per queste tematiche si rinvia a J. Van Gerven, Liberté humaine et prescience divine d’après saint Augustin, in « Reveu philosophique de Louvain », 55 (1957), pp. 317-330. 15   H. Blumenberg, Mth, p. 11. Giocando con chiara ironia sulle premesse del proprio ragionamento, Blumenberg introduce l’esistenza del mondo come una sfida per l’onnipotente, così radicale da escluderne ulteriori: « Die Mächtigen werden, je näher sie dem Superlativ kommen, von der Neigung zum Abenteuer gepackt. Und es ist keine Lästerung, wenn man von der Allmacht vermutet, ihr sei die Welt zum Abenteuer geworden. Was hätte sie sonst auch tun können? Alles wäre ihr zur Welt geworden, denn ‘Welt’ heißt eben, daß nicht Alles-Mögliche möglich bleibt ».

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dovrebbe, per non contraddire la definizione stessa del potere privo di limiti, fermarsi ad un semplice gioco (spiel) del potere con se stesso.16 Ma nella creazione del mondo, il naufragio dell’onnipotenza dipende essenzialmente dal fatto che essa non conceda tutto il possibile, facilitando un elemento di disturbo sufficientemente scomodo da rendere necessaria la Passione del ‘Figlio dell’uomo’,17 quale unico espediente per rimediare ad una così grave distrazione. L’assolutezza del principio di creazione, compromesso nel momento stesso in cui rimette il prodotto creato allo strappo del confronto diretto, espone se stesso ad un rischio tanto consistente che soltanto l’esistenza del Figlio, e la relativa condanna, possono rimuovere per evitare quanto altrimenti avrebbe rivelato perdita e mancanza. Anche se la domanda sull’inefficienza del Dio onnipotente trascende l’antica idea di redenzione,18 Blumenberg affida la conservazione dell’onnipotenza al solo principio d’identità che, invece di affidarla alle sfide della moltiplicazione e all’impaccio del paragone, l’avrebbe preservata come indiscussa sovranità sul mondo creato. Nel mito tutto ciò viene rappresentato e messo in risalto in una storia che ha la sua fine esattamente nel modo in cui termina quando viene narrata. Per il Dio che trionfa per ultimo esiste tuttavia la minaccia di un altro Dio che potrebbe essergli superiore, così come egli stesso era stato l’ultimo più grande in una serie di dèi di volta in volta più grandi.19

Il messaggio vincente della Matthäuspassion pretende di ridimensionare l’offesa che si può muovere a Dio quando, premessa l’eventualità della duplicazione, si accusa del disastroso     18   19   16 17

Ibidem. Ibid., p. 13. Id., Passione, p. 230. Ibid., p. 286.

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fallimento della creazione. Non bisogna richiamare Lutero20 per accorgersi della latitanza di questa tematica nella patristica proprio a partire da Agostino. L’uomo che vuole essere Dio, il mondo creato e sottomesso al potere onnipresente del primo artefice, l’impossibilità di mangiare dall’albero proibito, restano tutte occasioni per rintracciare un necessitarismo o un postulato di conservazione della potenza nonostante l’azione creativa. Come magistralmente ritratto dall’inserimento di Henrici a conclusione della seconda scena dopo il tradimento di Giuda,21 il rimorso scatenato dalla duplicazione è risolto nella Matthäuspassion con l’intima sofferenza del ribelle, figlio inadempiente cresciuto e trasformato dal peccato, umiliato dal folle tentativo di imitare il Creatore. Nello schematismo abbozzato da Agostino nel De continentia, la sola fiducia nella salvezza, come abbandono del peccato deludente e sollievo momentaneo, pari soltanto a quello che percorre gli istanti finali dell’ultima cena,22 basta a sperare in una conoscenza delle remote cause di infiltrazione del peccato nell’universo: Sicut ergo dicis: cur permittit ista, si displicent? ita ego dico: cur punit ista, si placent? Ac per hoc sicut ego confiteor, quod omnino ista non fierent, nisi ab Omnipotente permitterentur, ita tu confitere facienda non esse, quae a iusto puniantur.23

Ma tutta la teologia agostiniana è inscrizione del processo creativo all’interno di un tentativo apologetico senza pari: Dio   Id., Mth, pp. 15-17.   J.S. Bach, BWV 244, 8 Aria (Soprano)]: « Blute nur, du liebes Herz!/

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Ach! Ein Kind, das du erzogen,/ Das an deiner Brust gesogen,/ Droht den Pfleger zu ermorden,/ Denn es ist zur Schlange worden ». 22   Ibid., 12, Recitativo (Soprano): « Benché il mio cuore nuoti nelle lacrime/ or che Gesù da me prende congedo,/ stringer con Lui un patto mi dà gioia:/ la Sua carne e il Suo sangue, eredità/preziosa affida Egli alle mie mani./ Come nel mondo Egli ai Suoi fedeli/ in nulla mai poté esser ostile,/ così sino alla fine li amerà ». 23   Agostino, De continentia, 6,15.

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crea l’uomo, lo crea libero, rimedia con la grazia al peccato.24 Come si è detto, tre occasioni di lode per dimenticare che proprio nel gioco stesso dell’onnipotenza creatrice si annida un grave errore. Nella disputa con Giuliano d’Eclano,25 tutta giocata sulla prontezza dialettica di due abili maestri, il fallimento dell’onnipotenza è persino formalizzato dal vincolo sostanziale del mondo creato. Premessa la volontà divina di creare il mondo, perfetta esecuzione di una potenza priva di limiti, Giuliano riscontra l’infelice riuscita della supposizione agostiniana nel fatto che il mondo si trovi ad esistere senza volerlo, fino ad includere una totale deresponsabilizzazione rispetto alle conseguenze deprecabili che ne segnano l’evoluzione: Ora dunque si domanda cosa Dio abbia fatto e non cosa abbia potuto. Sarebbe ora pazzi furiosi dire: Ciò che esiste è male, poiché Dio poté fare altro. Questo sarebbe infatti lodare Dio con il vituperio, e stabilire l’onnipotenza nella vergogna del suo proposito (consilium).26 Non solo non sarebbe una lode, ma anche una grande offesa attribuire alla forza quanto sottratto alla sapienza, e ritenere che in Dio ci fu la fortezza, ma venne meno il proposito. Arriva a negare assolutamente la potenza il biasimo dell’intenzione (consulentia27): Dio non può ogni cosa, se non   Non si insiste volutamente sulle occasioni di una simile progressione. Si rinvia tuttavia alle opere agostiniane che maggiormente ne fanno presente la portata: De correptione et gratia, 11,32; De continentia, 6,15; Enchiridion de fide, spe, charitate, 3,11. 25   Per le linee essenziali sull’aristotelismo nel pensiero di Giuliano d’Eclano si rinvia a C. Moreschini, Storia della filosofia patristica, Brescia 2004, pp. 366-382. 26   La varietà terminologica del passo impedisce di identificare erroneamente il consilium con la sapientia. Differenza rilevante se si considera che il venir meno del consilium intacca la sapienza perché rende la sapienza non assolutamente impeccabile. Al contrario, l’identificazione dei due termini rende meno accentuata la sfumatura tra quanto custodito nelle profondità della saggezza divina e quanto disposto conseguentemente nelle esplicazioni della saggezza. 27   Qui il consilium diventa consulentia, semanticamente prossimi rispetto 24

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può ordinare bene ogni cosa (non omnia potest, si ordinare bene non potest). Anzi, se gli manca la sublimità della sapienza, nulla si conserva del rispetto per la divinità: e poiché sospettarlo è la cosa più empia, ritorna ciò per cui il vostro tralcio è distrutto. Dio, che fece tutte le cose molto buone, non istituì nulla che nel modo in cui fu fatto poté essere fatto più appropriato o più razionale. Dio non istituì, parimenti in onnipotenza e sapienza, quanto un omuncolo avrebbe giustamente potuto criticare. Tutti gli elementi che si ritiene naturali in tutte le creature sono stati fatti così sommamente che ogni correzione si ritenga di apportare ad essi risulta stolta ed empia.28

La capacità divina di creare un ordo privo di contraddizioni interne non permette, con una significativa ed intransigente dimostrazione di bravura da parte dell’avversario di Agostino, di disporre un male naturale nell’uomo che non sia anche diffuso nel principio organico del funzionamento naturale. Pur rendendo impraticabile la scelta di un male radicalmente diffuso e volto a contaminare la creatura che oscilla tra numerose volizioni, l’esistenza del mondo sigla, con un atto di infinita portata semantica, la giustapposizione di un principio di identità divina, non removialla sapientia da cui entrambi muovono. La consulentia può essere intesa come il fare appello alla sapienza, come ricerca di giusta ispirazione nell’immutabilità del principio. 28   Agostino, Contra Iulianum opus imperfectum, V, 15: « Nunc ergo quaeritur quid fecerit, non quid potuerit. In quo loco furiosa responsio est, ut dicatur: Malum est quod est, quia potuit Deus aliter facere; hoc est enim laudare Deum in vituperationem sui, et in maculam consilii eius omnipotentiam praedicare. Non solum nulla laudatio, verum etiam ingens contumelia est, dare viribus quod sapientiae detraxeris, et dicere adfuisse Deo fortitudinem, sed defuisse consilium. Pertingit omnino ad negationem potentiae, reprehensio consulentiae; non omnia potest, si ordinare bene non potest. Immo si ap sapientiae sublimitate deficitur, nihil de reverentia divinitatis retentat; quod quia suspicari profanissimum est, recurrit illud, quo tradux vestra iugulatur. Deus qui fecit omnia bona valde, nihil ita instituit, ut in illo genere quod factum est, fieri potuisse aut aptius, aut rationabilius, approbetur. Sapientia quippe et omnipotentia ex aequo praeditus non institueret, quod homunculus posset iure reprehendere. Quaecumque ergo in omnibus omnino creaturis naturalia docentur, ita summe facta sunt, ut affectata in his emendatio, stulta et profana doceatur ».

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bile ed intimamente escludente ogni possibilità di duplicazione. Tuttavia, se l’infinità attuale di Dio è posta in relazione alla possibilità di creare infiniti mondi,29 si individua facilmente il paradosso che ritrae Dio nell’impossibilità di creare infiniti mondi senza riprodurre se stesso. Le macchinose obiezioni di Giuliano, calibrate applicazioni di una ferrea logica aristotelica, poi rievocate nelle eretiche asserzioni di Bruno sulla moltiplicazione infinita di universi ancora animati dal politeismo, segnalano una rivalutazione del primato individuale, con l’abbandono della pena necessaria e immeritata, inevitabilmente culminante, secondo Blumenberg, nel desiderio dell’uomo di essere uguale a Dio (Sein zu wollen wie Gott30). L’offesa di Dio rimane così connaturata all’unico atto di creazione che, quasi volto a scongiurare la noia (Langeweile) della perfezione,31 si libera in un prodotto così ingestibile da generare un imbarazzante confronto proprio nell’ipotesi di una duplicazione del potere originario. Se per Blumenberg la Matthäuspassion non comunica soltanto un tentativo di riscatto della creatura, è proprio perché la responsabilità di Dio, giustamente affiorata secondo elaborazioni dialettiche, viene polemicamente disposta per un vero superamento teorico, rinnovando, aldilà dell’influenza accertabile del pietismo e contro ogni interpretazione gnostica tra principi in opposizione, una riflessione sulla colpa non commessa dall’individuo, ma ereditata.32 La Matthäuspassion offre primariamente l’occasione per ripensare l’applicazione del potere divino – e del conseguente naufragio – oltre la necessaria esistenza di quanto già in atto. Ad accomunare Bach, Paolo, Agostino e Lutero, tutti accaniti sostenitori dell’inalienabilità della colpevolezza primordiale, è     31   32  

H. Blumenberg, The Legitimacy…, cit., p. 162. Id., Mth, p. 16. Id., Passione, p. 53. Blumenberg accenna (Ibid., p. 55) alla questione, ancora agostiniana, del permittere divino come conseguenza del dualismo. 29 30

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la certezza che l’offesa di Dio, insistentemente ribadita dall’uomo senza ritegno e in più occasioni dopo la prima ribellione, sia prova di una miserabile bassezza dalla quale partire per ripensare, con risvolti spesso insoddisfacenti, la logica che guida il perdono individuale.33 Anche il rinnegamento di Pietro, seguito dall’ammissione di una colpa radicata e dilaniante della nota aria Erbarme dich,34 chiarisce che ciò che gli occhi di Bach visualizzano è il protagonismo della pena individuale, destinata a protrarsi fino all’espiazione radicale. Il primato dell’autoconservazione della divinità, che può essere dedotto dalla prescrizione vieta di attingere all’albero della conoscenza, ripropone tuttavia quello assai urgente di una conoscenza del bene e del male che Agostino, come si è anticipato, restituisce al dominio della speranza. La pretesa di conoscere il pensiero divino nella sua esattezza, di parteciparne attraverso la piena comprensione, similmente a quando si cerca nell’immedesimazione « im strikten Sinne, zu sein oder sein zu können wie er »,35 finisce per restituire, per contro, l’oscura identità di colui che diventa, come Dio, ens absconditum, nella doppiezza della copia imperfetta che, anche nella tensione al superamento del limite imposto, non riesce a dominare l’entità di questa ipotetica rinascita.36 Il corale che incornicia il tradimento di Pietro, ricavato nella melodia da un antico Lied funebre su testo di Bernardo di Chiaravalle,37 ritrae l’aderenza morbosa dell’uomo a Dio, inseparabilmente vicino nel dolore della morte, ma già intimamente     35   36  

Ibid., p. 66. J.S. Bach, BWV 244, 39, Aria (Alto). H. Blumenberg, Mth, p. 93. Blumenberg (Passione, pp. 117-118) arriva ad ipotizzare una fase di superamento che principia dall’identità uomo-Dio, fino a rivelare la serie di prescrizioni e divieti che avrebbero dovuto mantenere la creatura nell’insignificante indifferenza per la conoscenza di sé attraverso l’altro. 37   J.S. Bach, BWV 244, 15, Corale; 17, Corale. La risposta di Pietro indica, a dire di Blumenberg (Passion, p. 47), uno ‘psychologische Vokabel’, che centra esattamente il disinteresse per il gregge che sarà riunito e si sofferma sulla divisione dello skandalizesthai, perché profondamente interessato a negare il peso della propria responsabilità. 33 34

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cosciente di non poter tener fede alla promessa. Se a sostegno dell’irriproducibilità dell’identità divina e della sua conoscenza rimane l’idea di una perdita inammissibile del pensiero esclusivo (Exklusivität seines Sinnens), la Matthäuspassion deve offrire alcune risposte sull’espiazione di una simile infamia, ormai compiuta e cancellabile soltanto con un gesto estremo.

5. Dall’affronto al rimedio: una Passione senza resurrezione

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e si considera, in particolar modo, una necessità interna alla divinità stessa, non suscita alcuna sorpresa che l’evangelista Matteo abbia concentrato tutto il potenziale del suo resoconto sulla sofferenza del Figlio, come anche il fatto che Bach abbia musicato un testo in cui il trionfo è ancora taciuto rispetto all’esaltazione del danno metafisico: Das Theologumenon von der ewigen Prädestination des Sohnes zur Vermenschlichung zieht die Menschengattung hinein in die Notwendigkeiten der Gottheit selbst: Die real existente Menschengattung mußte es geben zur Vorbereitung des johanneischen Verbum caro factum est .38

L’affanno (Sorge) della creazione, le cui conseguenze neanche un essere onnisciente può arrivare a sospettare, sono riassunte nella Matthäuspassion attraverso un moto di ribellione dell’ascoltatore, lo stesso che Blumenberg vede affetto dall’irragionevolezza di chi non può credere di dover pagare per una colpa non direttamente commessa.39 A tutto ciò servirebbe la soferenza   H. Blumenberg, Mth, p. 119.   Con tutta probabilità, Blumenberg si avventura (Passione, pp. 144-145)

38 39

in un ragionamento ipotetico sulla validità ultima della prescienza senza trovare altre giustificazioni all’errore che l’imprevedibilità di alcuni effetti della creazione.

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estrema della morte del Figlio, a far comprendere all’uomo e a Dio « welche Sorge der Tod in das Leben hineingebracht hatte ».40 Di ‘ascoltatore implicito’ parla Blumenberg quando vuole riconoscere nel destinatario della Matthäuspassion il peccatore qualunque, la cui redenzione è ormai possibile soltanto con il lacerante sforzo di una morte apparente.41 Allo stesso ascoltatore non si può chiedere un’attenzione pari a quella dei testimoni oculari, che disposero di azioni vive e concrete. Di questa circostanza la Matthäuspassion si serve per restituire a quanti provano a disinteressarsi della colpa universale la misura del loro diretto coinvolgimento, in occasioni di culto che accertano, nonostante la crescita inarrestabile del ritardo temporale, la familiare risonanza di momenti soltanto apparentemente perduti. Se l’ascoltatore non può che partecipare, come uno dei discepoli, ad un evento che non gli mostra il compimento della ‘contingenza’ del Figlio,42 nessun sepolcro dovrà essere aperto per svelare il compimento sperato, perché il dolce riposo43 sarà sufficiente alla sua redenzione, anche come sommo epilogo dell’espiazione ottenuta con la morte del Figlio. Al sepolcro chiuso, alla lastra tombale non rimossa, è affidato il compito di fissare questa sofferenza, tanto più penosa quanto utile all’anima che in essa è redenta,44 posta dinanzi alla propria condanna e privata della Resurrezione, poi soltanto preannunciata da una progressione tonale nell’augurio Mein Jesu, gute Nacht, in cui continuano a sovrapporsi pentimento e desiderio di riscatto.

    42   43   44   40

41

H. Blumenberg, Mth, p. 128. Id., Passione, p. 182. Id., Mth, p. 244. J.S. Bach, BWV 244, 68, Cori. Ibid., 56, Recitativo (Basso).

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6. Una storia di fallimenti? Deus potest praecipere quod voluntas creata odiat eum, igitur voluntas creata potest hoc facere. G. De Ockham, IV Sent., d. 14

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el grande affresco proposto da Blumenberg, a risolvere le conquiste teologiche dei primi cinque secoli interviene, definitivamente e senza alcun ripensamento, l’immediatezza della logica, sempre più presente ed evocata per immobilizzare il concetto di Dio e sottrarlo ad eventuali aggiustamenti. Blumenberg chiama exzess questo tentativo estremo di fissaggio laddove, stando ad una più spontanea elaborazione dogmatica e al conseguente gioco dei superamenti, ogni divinità prodotta si sarebbe presto vista subordinata ad una divinità superiore in grado. Si è anticipato come i tentativi di assestamento dogmatico rispondano alle nette distinzioni del dualismo gnostico senza essere troppo convincenti. Già la tarda introduzione dello Spirito Santo traduce un atteggiamento dogmatico fortemente esposto a quei superamenti che l’idea di onnipotenza divina, per più di nove secoli, deve ridimensionare o, addirittura, implicitamente annullare. Così, se l’insufficienza dell’onnipotenza cede il passo, con il sopraggiungere della modernità, ad un tentativo ancora inespresso ed eminentemente antropocentrico (lo stesso che proprio il pesante uso della dialettica nelle questioni teologiche riesce a ritardare), ciò è dovuto al fatto che l’orientamento concettuale di un potere privo di limiti, in qualunque modo venga postulato, non può mai sminuire le resistenze dell’arbitrio arroccandosi solo sul dogma trinitario. L’agostinismo, dunque, tampona un momentaneo cedimento in modo così accurato da rendere l’onnipotenza capace autonomamente di difendersi per un periodo con-

La logica della potenza divina nella Matthäuspassion

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siderevole. Un ulteriore superamento, che gode di una splendida matrice teorica e che mostra il collasso dell’espediente razionale, giustifica, con la rimozione di certezze metafisiche ormai obsolete, un capovolgimento così radicale da esigere un’altra definizione dell’individuo, non più sottomesso al potere ed incapace di opporre resistenza, ma amministratore autoritario e immodesto della potenza rivendicata. Se il Dio dei filosofi somiglia al Dio del mito, l’Übermensch provvede a rimuovere quanto riflette un’impostazione propriamente, pur accettando una riuscita ancora perfettibile che presto lo vedrà nuovamente perdente. Portato all’eccesso, ciò significa ora che Dio, in quanto Dio defunto, deve cedere all’uomo in quanto nascente essere universale, in quanto colui che risponde dell’eterno ritorno.45

La fortuna di questa conquista, oltre a segnare la resa ultima di certi apparati teologici e transitando inevitabilmente verso l’identificazione spinoziana dio-mondo, dipende in larga misura dalla mancata assolutizzazione del principio dedotto (l’uomo), ancora essenzialmente esposto a quel fallimento (la morte) che non poteva che rientrare nel concetto di Dio con qualche riserva. Un giorno, nel corso del mondo, lo Übermensch lo seguirà in quell’abisso. Forse è già pronto per farlo. Se è dovuto morire il Dio al quale il mondo poteva essere addossato come colpa, dovrà morire anche l’uomo che di questa colpa del mondo non sa liberarsi o che non sa evitare.46

Nella sintesi di Blumenberg, che così riprodotta assume la Matthäuspassion come espediente polemico accuratamente scelto tra molti, il fallimento della divinità, distribuita e scissa in innumerevoli occasioni di confronto, supera la natura del danno   H. Blumenberg, Passione, p. 292.   Ibid., p. 292-293.

45 46

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prodotto nello spettatore, rafforza l’isolamento della colpa, per colmare definitivamente e con una risposta non più penalizzante il vuoto causato dalla sistemazione della responsabilità individuale. L’autentica resa della Matthäuspassion sembra, giunti a questo punto, accogliere la certezza della perdita come condizione naturale dell’umanità, unicamente sorretta da una penosa anticipazione dell’errore, compromessa, insieme all’intero universo, più che dagli effetti di un destino intimamente non voluto, dall’assenza di un vero responsabile per le umiliazioni da sempre subite.

Olivier Feron

Anthropologie et contingence dans la phénoménologie de H. Blumenberg

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e projet de développement d’une anthropologie à partir d’une certaine phénoménologie n’est pas l’exclusivité de Blumenberg. Un autre phénoménologue, Jean Paul Sartre, conçu sa philosophie comme anthropologie radicale. Il est ainsi possible d’étudier les propositions du premier tout en établissant des points de rapprochement avec le second, dans la mesure où l’on peut reconnaître chez chacun d’eux une capacité à élaborer une pensée philosophique à la fois originale et critique par rapport aux figures classiques de la phénoménologie. Blumenberg reconnaît ce qu’il doit à la phénoménologie lorsqu’il déclare : « Ma méthode, cette perspective élémentaire de description, cherche à devenir phénoménologique, présuppose par conséquent la possibilité d’une phénoménologie historique en tant que description eidétique. L’objet d’une telle méthode serait les réalités historiques fondamentales que l’on pourrait caractériser dans le langage de Husserl comme Lebenswelten, et comme ce dont la caractéristique structurelle continue ferait ressortir ou préparerait le «concept de réalité» (Wirklichkeitsbegriff)». Cette méthode originale qu’O. Müller appelle de phénoménologie de l’histoire trouve dans ses études historiques et extrêmement documentées son développement, qui s’apparente à une patiente * Une première version de ce texte fut présentée lors du 1er Congrès LusoBrésilien de Phénoménologie, et fait partie du projet de recherche PTDC/ FIL/71833/2006 - Theories of Rationality: Neokantianism and Phenomenology, financé par la Fundação para a Ciência e a Tecnologia (Portugal).

   H. Blumenberg, diskussion zu Wirklichkeitsbegriff und Möglichkeit des Romans, in Nachahmung und Illusion [Poetik und Hermeneutik Bd. 1], Hg H. Jauss, München, 1964, p. 226; cité par O. Müller, Sorge um die Vernunft – Hans Blumenbergs phänomenologische Anthropologie, Mentis, Paderborn, 2005, p. 20.

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archéologie visant à mettre à jour les conditions transcendantales de ce que Husserl cherchera comme ancrage ultime à ses recherches. L’enjeu est ici ce que recouvrent les notions de Lebenswelt et de réalité. On peut dire dès le départ que la condition historique de la méthode tend à multiplier les horizons d’expérience, à reconnaître les multiples configurations qu’elles assument au long de l’histoire, ce qui conduit Blumenberg à utiliser Lebenswelt au pluriel. Cette pluralité de « mondes de la Vie» désamorce immédiatement la tentation de s’y référer comme à une patrie perdue de la réflexion, ou à une origine qui garantirait la détermination des essences. L’unicité de la Lebenswelt est soumise à l’examen, à la description de ses différents avatars au long de l’histoire, au point d’en faire la trace d’une modification essentielle du rapport de la philosophie moderne à la réalité. Ce qui est en cause ici, c’est l’expérience que la pensée fait d’elle-même dans son rapport au monde, expérience dont le philosophe exige qu’elle soit originaire et sans conditionnement extérieur. Descartes avait caractérisé cette nouvelle forme de rapport au monde de laboriosa vigilia, une veille laborieuse qui devait à   La thèse fondamentale de Blumenberg sur la modernité est sa définition du Neuzeit comme la vie dans « plus qu’un monde » ou, pour reprendre la formule de Kant, dans un « monde de mondes ». L’appel husserlien à un Lebenswelt est dont directement perçu comme ce qui répond à des « nécessités normatives, à des espoirs finalistes », mais qui est plus le « symptôme de revendications non résolues, et probablement irrésolubles, faites à la philosophie, comme également une partie de son répertoire rhétorique, au travers duquel on suggère une série de réalisations ». Face à la prétention de répondre à ces grandes questions qui sont à la fois inéliminables et qui constituent le fond inépuisable de la métaphysique, Blumenberg avance la patience sceptique de la rhétorique contre la précipitation à résoudre les « grands problèmes » qui servent d’horizons unificateurs d’interrogation. « Il appartient également à la rhétorique du «Lebenswelt» de suggérer, qu’il y aurait donc au fond (auf dem Grunde) – et qui serait à nouveau atteignable – l’unique monde (die eine Welt), que l’on doit vivre afin de vivre en lui ». H. Blumenberg, Wirklichkeiten in denen wir leben, Reclam, Stuttgart, 1999, p. 4.    Cf. H. Blumenberg, La légitimité des temps modernes, trad. M. Sagnol, JL. Schlegel, D. Trierweiler, Paris, Gallimard, p. 204 ; la citation de Descartes provient de la Première Méditations métaphysiques, AT VII, 23. 

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la fois le prémunir contre l’hypothèse d’un Dieu trompeur, mais qui permettait à la raison fondée en liberté (volonté) de se doter d’un commencement absolu. En écartant en bloc ce qu’il a reçu en opinion des époques antérieures, Descartes échappe à l’obligation de se poser la question : pour quelle raison le réel est-il moins fiable qu’il ne l’était auparavant? L’absolutisme théologique de la fin du moyen âge, du nominalisme en particulier dont le Dieu ne garantit pas à l’homme de n’être pas trompeur, n’assurait pas l’existence d’un ordre intelligible auquel l’homme puisse avoir accès. L’hypothèse du genius malignus est une stratégie cartésienne afin de répondre au besoin de certitude séculière de l’homme ; ce faisant, Descartes utilise l’affirmation absolue de la liberté de la raison, affirmation nécessairement soustraite à ses conditions historiques d’apparition : « en transformant l’absolutisme théologique de l’omnipotence en l’hypothèse philosophique de l’esprit trompeur, Descartes renie la situation historique à laquelle est liée son approche et fait de celle-ci la liberté méthodique des conditions choisies arbitrairement ». Les catégories que Descartes lègue donc à la modernité sont celles de doute méthodique et de commencement absolu, et fait que « la perception qu’a la raison de soi-même comme organe du commencement absolu rend impossible l’apparition ne serait-ce que des premiers signes d’une situation dans laquelle l’amorce de la raison soit, à cet instant, à l’ordre du jour. La nécessité interne interdit que des nécessités externes entrent en jeu ». L’archétype de l’auto-position de soi de la raison va surdéterminer la modernité philosophante, au risque de lui retirer toute légitimité dans la mesure où son refus d’avoir un passé rend suspect sa prétention à rendre raison de ce même commencement. « L’idée d’un commencement absolu – même si elle se voit mise au service du système de la rationalité qu’il s’agit d’édifier de manière définitive – est aussi peu rationnelle que n’importe création ex nihilo ». Le   H. Blumenberg, La légitimité des temps modernes, op.cit., p. 205.   H. Blumenberg, La légitimité des temps modernes, op.cit., p. 156.    « La réfutation de son commencement absolu conduit à la problématisa 

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refus de prendre en compte le caractère historique de son repli sur la seule lumen naturale conduit Descartes à ne pas poser ce geste arbitraire et donc libre comme une réponse à une crise, celle qui secoue la position de l’homme à l’entrée de ces temps nouveaux (Neuzeit) qu’est la modernité. Ce caractère librement arbitraire est fondamentalement une stratégie pour se prémunir face à un monde douteux, et à la nécessité d’un monde dont la connaissance n’est plus assurée par une instance extérieure à la propre raison. Le risque d’erreur ici est la principale menace pour qui « avait toujours un extrême désir d’apprendre à distinguer le vrai d’avec le faux, pour voir clair en mes actions, et marcher avec assurance en cette vie ». Ce besoin vital d’assurance, que la contemporanéité pourrait qualifier d’existentielle, rencontrera dans l’exercice le plus radical de la liberté de la raison la possibilité de ne pas devoir assumer seule la responsabilité de rendre raison du monde : par la possibilité pour la raison de ne pas prendre de décision. « L’idée de l’esprit libéré de ses préjugés, de la «mens a praejudiciis plane libera» semble réalisable à Descartes, en raison de sa théorie stoïcienne du jugement, par l’acte de la décision de ne pas prendre de décision ; et c’est en cela que l’homme démontre non seulement son indépassabilité métaphysique mais aussi son pouvoir d’ingénuité historique, de recommencement perpétuel de son histoire ». La reprise de l’epokhè comme geste à la fois d’autofondation du cogito et de son absolue indépendance par rapport au monde va évidemment être un des principaux axes de l’analyse de la phénoménologie husserlienne que Blumenberg va développer. C’est sur la base de la critique du volontarisme husserlien que la phénoménologie va être mise en cause à deux niveaux : tout tion de sa légitimité historique, laquelle est toujours liée à l’exigence présente dans l’autodéfinition et fait de la dissimulation de la dépendance historique l’indice du caractère problématique de la conscience dissimulant ses contenus illégitimes ». H. Blumenberg, La légitimité des temps modernes, op.cit., p. 157.    R. Descartes, Discours de la Méthode, I, 10, Classiques Garnier, Paris, I, p. 577.    H. Blumenberg, La légitimité des temps modernes, op.cit., p. 206.

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d’abord lorsqu’elle part de la Lebenswelt comme correspondant aux «existences» préalables que présuppose une construction théorétique; ensuite, lorsque Husserl structure l’histoire de la raison en fonction d’une téléologie immanente qui fait de la science une « transformation adaptée à des fins », sans indiquer l’objectif de cette finalité. « Mais l’affirmation que l’«expérience plane dans laquelle le monde se donne à nous est le fondement ultime de toute connaissance objective» présente l’exigence de fond de comprendre la transformation de la Lebenswelt en un monde d’objets à partir de ce même monde de la vie, sans introduire une espèce de «péché originel» sous la forme d’un acte de volonté qui ne peut être interrogé plus avant »10. On comprend immédiatement que ce « péché originel » husserlien a un précédent historique : Descartes. Dans les deux cas, il reste un certain caractère d’évidence qui n’est pas interrogé : pour quelle raison n’y a-t-il pas besoin de rendre raison de la raison même ? En d’autres termes : l’évidence à soi de la raison semble transférer l’attribut de nécessité qui est propre à l’absolutisme de la réalité, pour en faire un attribut essentiel de la libre auto-instauration de la raison. La question continue à être fondamentalement moderne, plus précisément leibnizienne. On reconnaît ici l’ombre du principe de raison suffisante, qui fonde le fait qu’il y ait quelque chose, plutôt que rien (cur aliquid potius quam nihil), appliqué à la propre existence de la raison. Ici, il en va fondamentalement de la question de la contingence, que la phénoménologie husserlienne, répétant en cela un certain geste cartésien, résout originairement au travers de l’exposition pure, qui fait sortir la réflexion du   « Nous savons déjà que toute prestation théorétique de la science objective se situe sur le terrain du monde pré-donné – celui de la vie -, qu’elle présuppose une connaissance pré-scientifique et le changement de forme téléologique de celle-ci. L’expérience nue, dans laquelle le monde de la vie est donné, est le fondement ultime de toute connaissance objective. ». E. Husserl, La crise des sciences européennes et la phénoménologie transcendantale, trad. G. Granel, Paris, Gallimard, 1976, p. 254-5; cité par H. Blumenberg, Wirklichkeiten in denen wir leben, op. cit., p. 29. 10   H. Blumenberg, Wirklichkeiten in denen wir leben, op.cit., p. 29. 

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monde de la vie : « En sortant de la Lebenswelt, c’est-à-dire de «l’univers des évidences» (Universum der Selbstverständlichkei ten), ne s’est pas seulement produit le début de ce processus de l’esprit européen qui, pour Husserl, culmine dans sa propre phénoménologie, mais également le début du retournement du caractère d’évidence de la réalité dans la contingence. Contingence signifie l’appréciation de la réalité depuis le point de vue de la nécessité et de la possibilité »11. Ce retournement est au centre de la méthode philosophique pratiquée par Blumenberg, lorsqu’il la désigne comme « le démontage de choses que l’on considère évidentes » (Philosophie Abbau von Selbstverständlichkeiten ist)12. Le premier démontage (déconstruction ?) auquel Blumenberg soumet la phénoménologie est l’articulation fondamentale pour elle entre monde de la vie et téléologie de la science qui en émane : « Il est vrai que la Lebenswelt est ce fait (Faktum) qui voile et cache (verhüllt und verbirgt) sa propre facticité essentielle propre, s’offrant comme l’univers des évidences (Universums der Selbstverständlichkeiten) »13. Ce que cherche à démonter Blumenberg, est le fait de savoir si l’évidence avec laquelle Husserl remplace le Faktum science par le Faktum Lebenswelt 11   H. Blumenberg, Wirklichkeiten in denen wir leben, op.cit., p. 46. « Ainsi donc, le fait que nous dussions voir dans la contingence un stimulant pour la prise de conscience de la puissance démiurgique de l’homme rend compréhensible la raison pour laquelle le pathos technique de l’époque moderne a pu croître en correspondance avec une augmentation exacerbée de la conscience de contingence de la fin du moyen âge ». H. Blumenberg, Ibidem, p. 47. Ce qui est bien en jeu ici est donc la raison moderne qui résout au travers de la science et de la technique une crise qui lui est contemporaine, contrairement à la rhétorique cartésienne de la tabula rasa et du commencement absolu. En se référant à la thèse d’habilitation de Blumenberg, O. Müller fait remarquer que Husserl y est présenté comme le parfait représentant de la pensée moderne, où il y est décrit comme le « kühne und konsequent Vollstrecker des cartesianischen Entwurfes absoluter Gewiβheit in ausgezeichnetem Maβe » (Die Ontologische Distanz, Kiel, 1950 ; mémoire inédit, p. 21). Cf. O. Müller, Sorge um die Vernunft, op.cit., p. 55. 12   H. Blumenberg, Wirklichkeiten in denen wir leben, op.cit., p. 114 (Real, 124) 13   H. Blumenberg, Wirklichkeiten in denen wir leben, op.cit., p. 27. (Real, 51)

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- ce qui lui permet d’éliminer de son projet philosophique tout soupçon de néokantisme non assumé - est suffisamment radical pour poser la question du monde. La réponse de Blumenberg ne peut être que sceptique : « la Lebenswelt n’est pas «tout, ce qui est le cas». Il est possible qu’elle ne soit rien de ce dont il est le cas »14. Car la difficulté face à la Lebenswelt est d’éviter de l’objectiver au travers des catégories scientifiques qui ne finiraient que par la réifier inauthentiquement. Telle est la raison pour laquelle Blumenberg décrit la Lebenswelt en utilisant un lexique beaucoup plus heideggérien que husserlien : verhüllen und verbergen, n’est-ce pas là des attributs que le maître de Freiburg va exclusivement réserver à l’être même ? La thématique de la Lebenswelt ne serait dès lors qu’une stratégie d’évitement qui permettrait de faire l’économie de la question de la contingence. Or c’est précisément à partir de la question de la contingence que Blumenberg (et Sartre) va imprimer à la phénoménologie cette inflexion anthropologique qu’aussi bien Husserl que Heidegger avaient refusé à la philosophie entendue soit comme science stricte, soit comme stricte ontologie. Considéré comme ultime représentant de la pensée moderne, Husserl sera interrogé dans les termes de cette même pensée lorsque Blumenberg pose la question de la nécessité du cogito husserlien. La question sera formulée selon l’exigence déjà présentée de la philosophie telle que Blumenberg la conçoit : comme démontage des évidences. Or il n’est pas évident que le cogito comme autofondation soit nécessairement. La généalogie historique nous a permis de voir combien le geste cartésien, que Husserl reprend à son compte, vaut plus comme   “Die Lebenswelt ist nicht «alles, was der Fall ist». Sie ist womöglich nichts von dem, was der Fall ist„. H. Blumenberg, Wirklichkeiten in denen wir leben, op.cit., p. 166. L’expression „Der Welt ist alles, was der Fall ist” est évidemment la définition que Wittgenstein donne du monde dans son Tractatus logico-philosophicus, Pairs, Gallimard, 1971, p. 28. Blumenberg reprendra également cette définition de Wittgenstein dans La passion selon saint Matthieu, trad. H. A. Baatsch & L. Cassagnau, Paris, L’arche, p. 14, et dans Theorie der Unbegrifflichkeit, Suhrkamp, Frankfurt, 2007, p. 102. 14

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indice d’une crise que comme fondement absolu de lui-même. Le premier pas pour éviter la tentation de se laisser prendre à la rhétorique du commencement absolu est de renoncer à faire de la raison l’essence de l’homme. Si la raison ne peut rendre compte d’elle-même comme autoposition absolue, alors sa nécessité est ébranlée d’un point de vue rationnel. Le programme de la métaphorologie sera donc conçu comme nécessaire stratégie de compensation de l’absence d’essence qui caractérise ce que l’on ne peut plus caractériser comme animal rationnel, mais qui, au contraire se définira par son insuffisance de fondement. Cette rhétorique fonctionnera dès lors selon le principe de raison insuffisante : « l’axiome de toute rhétorique est le principe de raison insuffisante (principium rationis insufficientis). Il est le corrélat de l’anthropologie d’un être, à qui l’être fait défaut (Er ist der Korrelat der Anthropologie eines Wesen, dem Wesentliches mangelt). Si le monde correspondait à l’optimisme de la métaphysique de Leibniz, lequel croyait pouvoir même évoquer la raison suffisante pour le fait que quelque chose existe plutôt que rien (cur aliquid potius quam nihil), il n’y aurait pas de rhétorique car il n’existerait aucune nécessité ni aucune possibilité d’agir à travers elle »15. La définition de l’homme comme Mangelwesen part du constat que la contingence s’étend jusqu’à son corrélat intentionnel, celui-là même qui s’impose comme nécessaire pour compenser la perte d’évidence. Cette contingence de la rhétorique, du métaphorologique conduit Blumenberg à affronter ce qui rend nécessaire toute pratique rhétorique, et qu’il nomme l’inconceptuabilité (Unbegrifflichkeit). Celle-ci est en fait la raison – toujours insuffisante – de la nécessité de la métaphore comme ce qui définit fondamentalement l’anthropologie qui n’est plus moderne. « Du point de vue de la thématique du Lebenswelt, la métaphore, qui est sous sa forme courte telle qu’elle est précisément définie par la rhétorique, est quelque chose de tardif et de dérivé. C’est pourquoi la métaphorologie, si elle ne veut pas se limiter à la per  H. Blumenberg, Wirklichkeiten in denen wir leben, op.cit., p. 124-5.

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formance de la métaphore pour la formation des concepts, mais l’utiliser comme fil conducteur du regard porté sur le monde de la vie, ne pourra pas éviter de s’intégrer dans l’horizon plus vaste d’une théorie de l’inconceptuabilité »16. Ce que l’on entend par Lebenswelt ne recouvre finalement que la limite du dicible; mais marque également la limite de ce territoire où se joue l’existence de cet être improbable dont les manques sont autant biologiques que symboliques. L’anthropologie semble découler nécessairement de la confrontation entre la puissance limitée de la rationalité face à ce que recouvre l’expression Lebenswelt, et l’obligation de trouver un substitut au caractère indicible – et donc insupportable – du monde. Pourtant il n’en n’est rien. Car faire de l’anthropologie la réponse évidente à cette tension reviendrait à donner à l’homme une nouvelle essence, une essence symbolique comme le fait E. Cassirer. « Mais cette théorie de Cassirer renonce à expliquer pour quoi l’homme à recourt aux «formes symboliques» ; le fait qu’elles apparaissent dans le monde de la culture permet de les dériver d’un animal symbolicum, qui extériorise son «essence» (Wesen) dans ses créations. Pour une anthropologie de l’homme «riche», qui repose sur une existence biologique assurée, ou tout au moins qui n’est pas interrogée, la coquille culturelle des «formes symboliques» s’accroît couche après couche. L’enrichissement de l’existence nue ne garde aucune relation fonctionnelle avec sa possibilité d’existence. Mais en tant que la philosophie est un démontage des choses que l’on considère évidentes (selbsverständlich), une anthropologie «philosophique» doit aborder le thème de savoir si l’existence physique n’est pas déjà le résultat de ces performances qui sont attribuées à l’homme comme «essentielles». Et, dès lors, le premier énoncé de l’anthropologie serait : il n’est pas évident que l’être humain puisse exister »17.

  H. Blumenberg, Naufrage avec spectateur, trad. L. Cassagnau, Paris, L’arche, p. 101. 17   H. Blumenberg, Wirklichkeiten in denen wir leben, op.cit., p. 114. 16

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Nous pourrions dire ici que la nécessité à être homme est toujours en retard, décalée par rapport à sa contingence en tant qu’existant. Notre incapacité à considérer notre existence nue fait signe vers cette énigme que Husserl appelle de Lebenswelt. Mais celle-ci apparaît comme la nostalgie d’un homme riche de sa culture dont il goûte la nécessité de ses enchaînements, sans avoir à se demander si son existence est pourvue d’une quelconque raison. C’est probablement dans cette considération, rétrospectivement abyssale, de l’essence de l’homme comme absence d’essence, comme défaut (Mangelwesen), que Blumenberg se trouve au plus près de cet autre anthropologue qu’est Sartre. En effet, sa pensée du pour soi tournera également autour de la tension entre nécessité et contingence, sachant que la nécessité « concerne la liaison des propositions idéales mais non celle des existants. Un existant phénoménal ne peut jamais être dérivé d’un autre existant, en tant qu’il est existant. C’est ce qu’on appelle la contingence de l’être-en-soi »18. Mais Sartre ne limite pas cette contingence au seul être-en-soi. Le pour-soi en tant qu’existant, en tant que fait est lui aussi soumis à cette re-connaissance réflexive de sa non nécessité. L’existence du pour-soi n’est pas nécessaire; et pourtant, l’on ne peut pas dire qu’il serait possible qu’il ne soit pas puisque le possible reste « une structure du pour-soi, c’est-àdire qu’il appartient à l’autre région d’être »19, celle de l’en-soi. Mon existence, en tant que fait, dépasse donc infiniment toutes les raisons qui me font défaut, qui manque à la justification de mon existence. Le principe de raison insuffisante développé par Blumenberg se décline chez Sartre comme la dérive de l’effort que le pour-soi fait pour combler le fait brut d’être, par une possible nécessité de sens idéal. « Nécessaire, le pour-soi l’est en tant qu’il se fonde lui-même. Et c’est pourquoi il est l’objet réfléchi d’une intuition apodictique : je ne peux pas douter que je sois. Mais en tant que ce pour-soi, tel qu’il est, pourrait ne pas être, il a toute la contingence du fait. De même que ma liberté néantisante   J.P. Sartre, L’être et le néant, Paris, Gallimard, p. 33.   J.P. Sartre, Idem.

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se saisit elle-même par l’angoisse, le pour-soi est conscient de sa facticité : il a le sentiment de son entière gratuité, il se saisit comme étant la pour rien, comme étant de trop. »20. Le parallélisme des développements des deux philosophes, sur fond de lexique leibnizien, est surprenant. Tout aussi prégnant, leur consensus sur le statut de la technique comme réponse qui vise à compenser ce défaut de raison de l’être de l’homme. Blumenberg ira jusqu’à se recommander du Sartre de L’existentialisme est un humanisme lorsqu’il déterminera en 1953 l’homme sans essence comme celui qui « fabrique son existence même et n’est finalement rien d’autre que ce qu’il fait de lui-même »21. Or l’obligation de devoir vivre avec le fait de son existence pousse le pour-soi sartrien à se doter de ce que son existence même lui refuse : de la raison suffisante de son existence : « L’apparition du pour soi ou événement absolu renvoie bien à l’effort d’un en-soi pour se fonder : il correspond à une tentative de l’être pour lever la contingence de son être. Mais cette tentative aboutit à la néantisation de l’en soi, parce que l’en soi ne peut se fonder sans introduire le soi ou renvoi réflexif et néantisant dans l’identité absolue de son être et par conséquent sans se dégrader en pour-soi »22. Voilà ce qui explique la raison pour laquelle Blumenberg confère à l’exercice de la mémoire poétique la légitime responsabilité de résoudre la question de l’origine. L’enfance de l’être humain, cet animal biologiquement jeune, est un territoire où Freud, répondant à Fliess, disait qu’il ne s’était rien passé. Dès lors, le souvenir « gagne la liberté de se créer lui-même, et de laisser celui qui s’est créé en cela qu’il possède finalement ce souvenir, être ce qu’il a choisi d’être. C’est le langage de l’«existentialisme» (…) Pour le lecteur d’après-guerre de l’Être et le Néant, paru en 1943, il ne fallut pas plus de deux décennies pour que ce retournement n’apparût aussi transparent que suspect, avec l’auto-analyse de   J.P. Sartre, L’être et le néant, op.cit., p. 122.   O. Müller, Sorge um die Vernunft, op.cit., p. 72. 22   J.P. Sartre, L’être et le néant, op.cit., p. 122. 20

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Olivier Feron

Sartre, Les Mots (publié en 1963) : on peut alors s’étonner qu’une enfance qui à force de rétrojections, n’en n’est plus une s’achève même de ce fait. (…) L’enfance est un simple phénomène. (…) Le besoin du philosophe peut être satisfait aussi bien par son souvenir que par sa réflexion – voilà une chose qu’on attendait pas de qui est allé à l’école du Maître Descartes »23. Surprenant étonnement que celui de Blumenberg : il devait savoir mieux que quiconque que Sartre fut le plus dur critique de la substance pensante, et que lorsqu’il rend hommage à la pensée moderne pour avoir réduit «l’existant à la série de ses apparitions »24, il ne faisait certes pas référence à Descartes. Tout au contraire, il définit l’essence comme « raison de la série »25. Or, comme l’a fort bien vu D. Giovannangeli, cette conquête toujours en retard de la nécessité au sein même de l’articulation phénoménale est un emprunt à Leibniz, et une référence au principe de raison suffisante26. Ici comme tout au long de notre exposé, Sartre comme Blumenberg se rejoignent dans leur critique de la pureté de la conscience intentionnelle telle que Husserl la conçue, prenant modèle sur Descartes. Cette critique les mène tous deux à faire de l’anthropologie l’issue logique d’une phénoménologie ayant assumé cette impureté originaire, dès lors qu’elle ne prend plus appui sur l’auteur des Méditations métaphysiques, mais se réfère paradoxalement à Leibniz, un Leibniz phénoménologue à propos duquel Blumenberg déclarait « das Prinzip des zureichenden Grundes – anders gesagt : das Postulat der Sinnstruktur jedes Bewuβtsein »27.     25   26  

H. Blumenberg, La passion selon saint Matthieu, op.cit., p. 162-3. J.P. Sartre, L’être et le néant, op.cit., p. 11. J.P. Sartre, L’être et le néant, op.cit., p. 13. “En somme, em faisant de la raison de la série des apparitions une apparition elle-même, la phénoménologie reprend à son compte une problématique leibnizienne. Au § 37 de la Monadologie, Leibniz écrit en effet qu’«il faut que la raison suffisante ou dernière soit hors de la suite ou series de ce détail des contingences, quelqu’infini qu’il pourrait être»”. D. Giovannangeli, Finitude et représentation. Six leçons sur l’apparaître – De Descartes à l’ontologie phénoménologique, Bruxelles, OUSIA, 2002, p. 112. 27   H. Blumenberg, Zu den Sachen und Zurück, Suhrkamp, Frankfurt, 2002, p. 97. 23 24

Martina Philippi

Ein Spiel mit Selbstverständlichkeit(en). Formal-inhaltliche Übergänge in Blumenbergs philosophischen Miniaturen

1. Miniaturen und Theoriekomplexe

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ie hier vorgestellte Überlegung beginnt mit einer trivialen Beobachtung. Betrachtet man die Texte Blumenbergs nach dem zunächst völlig oberflächlichen Kriterium ihrer Länge, lässt sich ein wesentlicher Teil seines Werkes zwei Extremen zuordnen: Sehr lange und sehr kurze Texte. Das Extreme nur rechtfertigt den Versuch, in dieser Äußerlichkeit eine Besonderheit zu erkennen: Monographien wie Höhlenausgänge, Die Legitimität der Neuzeit, Arbeit am Mythos oder dem posthum erschienenen Band Beschreibung des Menschen, die die saloppe Bezeichnung „Regalbieger“ verdienen, stehen jene kurzen und dabei auffallend gehaltvollen Texte gegenüber, die unter anderem in Begriffe in Geschichten, Zu den Sachen und zurück und Löwen publiziert sind. Unter diesen Textminiaturen finden sich anekdotenhafte Nacherzählungen der zahlreichen Lektürefunde Blumenbergs, methodologische Anmerkungen zur Philosophie, insbesondere zur Phänomenologie, und kleine Betrachtungen alltäglicher Gegenstände. Sie wirken wie populärphilosophisches Beiwerk zu den theoretisch angelegten Projekten, denen sie stilistisch meist ähneln – hier wie dort schreibt Blumenberg in einem Tonfall, den wir später als apodiktisch charakterisieren werden, verweist und zitiert mit Leidenschaft und Präzision, aber häufig ohne Quellenangabe, und spielt mit Motiven und Überschriften. Dieses Spiel schlägt sich nieder in den Titeln von Textsammlungen wie Löwen oder Schiffbruch mit Zuschauer, 237

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welche mit der jeweils thematisierten Metapher überschrieben sind, wie auch in ironisch verzerrenden Anspielungen auf philosophische Wendungen in Werktiteln wie Die Sorge geht über den Fluß, Zu den Sachen und zurück oder Höhlenausgänge; auch die Ausreizung von Gegensätzen und Nuancen in Titeln wie Begriffe in Geschichten und, im so überschriebenen Band enthalten, Realität ist das Selbe und doch nie Gleiche, zu dem man zurückkommt deuten eine rhetorische Leichtigkeit an, die in den hier zu betrachtenden Kurztexten eine merkwürdige Pointierung findet. Was Blumenbergs kurze Texte so besonders und irritierend macht, ist zweierlei: Die zeitweise ausufernden, geradezu übermütigen Ausführungen einer Vielzahl von Themen, kombiniert mit jener Eigenart, die im Folgenden untersucht werden soll. Nicht die knappe Form selbst soll hier als Besonderheit gewertet werden, findet sie sich doch ebenso bei anderen Autoren in unterschiedlicher Funktion; sondern eine Überschreitung der Grenze des Formalen und Inhaltlichen soll aufgezeigt werden, genauer: Ein Verweis von der formal-stilistischen Besonderheit jener Blumenbergschen Miniaturen auf wesentliche inhaltliche Theoriekomplexe seines Werkes. Dieser Beitrag versucht, die oben skizzierte Verbindung anhand zweier Beispiele von Miniaturen nachzuweisen; dies geschieht, indem die ausgewählten Miniaturen mit Augenmerk sowohl auf stilistische Besonderheiten als auch auf implizite werksinterne Verweise gelesen werden. Zwei Fragen ist dabei nachzugehen: Wie kann mit den Kurztexten umgegangen werden? Und welches Potenzial haben sie hinsichtlich des übrigen Werkes, dem sie formal scheinbar entgegenstehen? Gezeigt wird dabei der Zusammenhang von Form und Inhalt. Ziel ist zunächst, eine    Etwa bei Nietzsche, Montaigne, Benjamin, Wittgenstein, Heidegger; als aphoristische oder essayistische Notiz, Betrachtung oder ergänzende Anmerkung; Roland Barthes´ Mythen des Alltags etwa kommen den Blumenbergschen Kurztextsammlungen auch konzeptionell sehr nahe (Roland Barthes, Mythen des Alltags, aus dem Franz. von H. Scheffel, Suhrkamp, Frankfurt/Main 2003).

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Lesart zu finden, welche weder bloß den zweifellos vorhandenen Unterhaltungsaspekt dieser kleinen Texte bemerkt, noch sie als „untheoretisches“ Beiwerk des Blumenbergschen Gesamtwerkes abwertet. Vielmehr präsentiert die erarbeitete Lesart schließlich eine eigenständige Textform, die nicht nur auf die größeren Theoriekomplexe verweist, sondern auch zu zwei darin diagnostizierten Problemen - vielleicht den Hauptproblemen - eine Lösung vorstellt: Nicht auf argumentative, sondern demonstrative Weise. Dabei wird auch die Annahme gestärkt, dass ein Inhalt nicht in beliebiger Form dargestellt werden kann, d. h. dass für manche Thematik eine andere Ausdrucksform als die theoretischsystematische oder argumentative gefunden werden muss. Es wird dabei nach einer adäquaten Lesart gesucht, und diese Suche lässt sich leiten von den Besonderheiten der Miniaturen - namentlich der interpretatorischen Schwierigkeiten, die sie aufwerfen (2.1.). Diese werden an einem Beispieltext aufgewiesen. Als Lösung wird der Rückgriff auf verschiedene Aspekte des theoretischen Hintergrundes vorgeschlagen und am gewählten Text erprobt (2.2.). An einem weiteren Beispiel wird anschließend ein Bezug zu jenen Theoriekomplexen erarbeitet, der die Verbindung von Inhalt und Form in den Blumenbergschen Texten erhellt (2.3.). Unter Verwendung dieser Ergebnisse erläutern wir schließlich das daraus erwachsende Potenzial der Miniaturen (3.).

2. Schwierigkeiten und Chancen der Interpretation 2.1 Die Suche nach einer geeigneten Lesart

I

n diesem ersten Abschnitt soll die Frage nach einem geeigneten Umgang mit dem Text geklärt werden. Dabei werden zuerst ein exemplarischer Text analysiert, problematische Auffälligkeiten registriert und schließlich ein Weg vorgeschlagen, diese interpretatorischen Probleme zu bewältigen. Die so

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ermittelte Lesart wird helfen, implizite Verweise auf grundlegendere Theoriekomplexe in Blumenbergs Werk aufzuzeigen. Im Fokus des ausgewählten Textes stehen Alltagserfahrungen. Sein Titel lautet: Realität ist das Selbe und doch nie Gleiche, zu dem man zurückkommt aus Begriffe in Geschichten. Die Begriffe in Geschichten sind, wie der Klappentext der SuhrkampAusgabe informiert, ursprünglich als Textserie für die Seite „Geisteswissenschaften“ der Frankfurter Allgemeinen Zeitung verfasst worden und zu einem relativ geringen Teil im Zeitraum von 1985 bis 1990 dort erschienen. Die in Buchform publizierte Sammlung von 106 Kurztexten tritt, alphabetisch geordnet, im Stile eines Glossars auf. Der ausgewählte Text sticht zunächst durch seine thesenhafte Betitelung hervor; er weist auf weniger als zwei Seiten in vier Absätzen auch eine besondere Dichte unterschiedlicher Gedanken auf. Zunächst sei der Gedankengang des Textes in vorsichtiger Paraphrase seiner Etappen kurz vorgestellt und auf Struktur und Plausibilität überprüft, um problematische Auffälligkeiten zu registrieren. Wir zitieren den ersten Absatz in seiner Gänze, um die Ausgangsgedanken in ihrem originalen Tonfall aufzunehmen: Ich tauche aus dem Schlaf auf, als hätte es mich nie gegeben. Nur eine dubiose Kleinigkeit hindert mich daran, dieser Neuling des Daseins zu sein: meine Erinnerung und die der anderen an mich. Es gibt Umstände, Umgebung, Dinge, die nicht dazu pas  Hans Blumenberg, Begriffe in Geschichten, Suhrkamp, Frankfurt/Main



1998.

   Klappentexte gelten freilich nicht als gängige Informationsquellen für wissenschaftliche Recherche. In Ermangelung eines Vorwortes oder einer editorischen Notiz greifen wir jedoch bei dieser posthum erschienenen Sammlung darauf zurück. Nicht einmal die erste Folge von Blumenbergs FAZ-Serie „Begriffe in Geschichten“, „Identität“, wird von einführender Information begleitet: Sie erscheint in der FAZ Nr. 275 vom 27.11.1985, S. 35, kommentarlos in einem unscheinbaren Kästchen auf der Geisteswissenschaften-Seite, die zu diesem Zeitpunkt selbst noch ein junges Projekt ist (siehe die erste Geisteswissenschaften-Seite und ihre Präsentation in: Frankfurter Allgemeine Zeitung Nr. 228 vom 02.10.1985).

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sen wollen, daß ich unter ihnen erstmals zutage träte. Ich kenne sie, sie kennen mich. Deshalb hat es seinen Sinn, daß die anderen mich begrüßen wie ich sie, wenn wir uns am Morgen oder im Laufe des Tages begegnen. Dazu muß man nur in einem allerweitesten Sinne dazugehören, keineswegs besondere Intimität besitzen: Die Normalität des Schon Dagewesenseins bedarf der Zeugenschaft für ein Wesen, das so tief schlafen kann wie der Mensch, daß sein Anschluß an sein gelebtes ›Vorleben‹ ihm nicht selbstverständlich ist.

Hier schon erscheint eine Schwierigkeit: Der Text beginnt nicht mit generalisierten Thesen, sondern mit einer Reflexion in erster Person. Zu einer These könnte sich der Leser sogleich positionieren; die Reflexion dieses unbekannten Ich erlaubt lediglich einen ersten subjektiven Eindruck. Um darüber hinaus über den Text reden zu können, ist eine Interpretationsgrundlage erforderlich. Wir ermitteln sie, indem wir den Text befragen – als unsere zu diesem Zeitpunkt einzige Quelle. Wir beginnen mit der Textsituation. Diese ist zwar keine Argumentation im Thesensinne - doch offensichtlich ebensowenig eine Erzählung, die in der Unverbindlichkeit eines Erfahrungsberichtes einem unbeteiligten Zuhörer angeboten wird. Denn nicht nur die beschriebene Situation ist grundsätzlich bekannt – das Aufwachen, Sich-Orientieren, die Begrüßung der anderen –; vor allem die Unterordnung dieses Ichs unter das „Wesen […] Mensch“ appelliert an den Leser, das Gesagte auch auf sich zu beziehen. Was wie eine Erzählung beginnt, beansprucht nach wenigen Zeilen Allgemeingültigkeit – es findet also doch Generalisierung statt, allerdings in noch zu klärender Weise. Da das Mitgeteilte somit Behauptung ist, bietet sich zunächst eine propositionale Bestandsaufnahme der einzelnen Behauptungen an. Wir wählen diesen Weg gleichsam im Sinne eines Experimentes, um zu sehen, ob und gegebenenfalls unter welchen Voraussetzungen er zu einem angemessenen Ergebnis führt.

  Ebd., S. 148.



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Drei Behauptungen kristallisieren sich aus dem zitierten Abschnitt heraus: Ein Subjekt erwacht aus dem Schlaf in eine Situation, welche es wider einem obskuren ersten Eindruck als bekannte erkennt. Beleg (oder Anlass) dessen ist die eigene Erinnerung und die der anderen, für die dies ebenso gilt. Die gegenseitige Erinnerung stiftet eine Verbindung des weitläufigen Dazugehörens, die ihren Ausdruck im wechselseitigen Gruß findet. Warum von einem „Neuling des Daseins“ die Rede ist und was die „Zeugenschaft“ erforderlich macht, benennt der folgende Absatz. Dort heißt es: Es ist eben nicht das Und-so-weiter schlichtweg. Man kommt zu sich, das ist eine unglaubliche Sache, […] weil alles dagegen spricht, daß sich das Bewußtsein auf seine Unterbrechung eingelassen hat: Es ist seinem Wesen nach, was Unterbrechungen nicht erträgt.

Dies ist die Ausgangsthese; von ihr leitet sich ab, dass „jedes Aufstehen eine Auferstehung“ ist und das Bewusstsein sich um sein Fortbestehen sorgt und dabei im Sinne des erwähnten Beleges der Bestätigung durch andere bedarf. Diese Sorge tritt – wieder kommt eine Alltagserfahrung zum Zug – symptomatisch in der Schlaflosigkeit vor Augen, deren Auslöser in der Blumenbergschen Deutung keine Pathologie, sondern eine sich durchsetzende Normalität ist. So wie diese Schlaflosigkeit sich als „›Sorge‹ um sich“ mit zunehmendem Lebensalter verstärkt, gewinnt wiederum der Gruß an Bedeutung – so verbindet eine Gemeinsamkeit die beiden Aspekte: Sie betreffen den nahenden Tod. Hier gilt es abermals innezuhalten. Diese Behauptungen basie  Das Subjekt sei hier ohne die Konnotationen der problematischen SubjektObjekt-Dichotomie verstanden; wir interpretieren es als das, was Heidegger das „Dasein“ nennt: Das „je ich“, das sich auf den jeweils konkreten Menschen beziehen lässt und zugleich Wesensaussagen über dessen Sein erlaubt. Zum Begriff des Daseins und seiner Rechtfertigung vgl. Martin Heidegger, Sein und Zeit, Niemeyer, Tübingen 199317, S. 7 und 46.    Blumenberg, Begriffe in Geschichten, a.a.O., S. 148. 

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ren offensichtlich auf impliziten Grundannahmen. Der Text wird somit nur verständlich unter Hinzunahme externer Hinweise. Denn mit den soeben paraphrasierten Aussagen nimmt Blumenberg eine Umdeutung scheinbar vertrauter Gegebenheiten vor. Die Deutung einer Pathologie nämlich – der Schlaflosigkeit – als Selbstsorge des Bewusstseins und die eines biologischen Faktums – des natürlichen Todes des Menschen – als dessen Nicht-mehrZusichzurückfinden, und zwar in generalisierender Absicht, suggeriert einen erklärungsbedürftigen Bewusstseinsbegriff. Wollen wir seinen Hintergrund explizieren, werden wir möglicherweise bei Husserl fündig, dessen Rezeption Blumenbergs Werk durchzieht. Doch die implizite Annahme bleibt problematisch. Ob die Konzepte von Bewusstseinsstrom und Intentionalität tatsächlich mit einer Unterbrechung des Wachseins unverträglich sind, müsste zunächst diskutiert werden. Der Rahmen dieses Beitrags erlaubt die Klärung jener Frage nicht. Wir halten jedoch fest, dass wir in dieser potenziellen theoretischen Voraussetzung eine erste implizite Prämisse des Textes erkennen – und zugleich seinen argumentatorisch prekären Charakter ahnen: Ein Begriff wird präsupponiert, dessen Herkunft ebensowenig thematisiert ist wie seine Angemessenheit. Er bleibt nicht deswegen implizit, weil er sich von selbst erklärte; vielmehr wird die Erklärung mit Absicht verschwiegen. Wir werden klären müssen, welchen Zweck diese bedenkliche Vorgehensweise verfolgt. So gelingt Blumenberg ein gedanklicher Bogen vom Wesen des Bewusstseins zur Erbsubstanz Geld: Denn aufgrund der schwindenden Zeugenschaft im Alter gilt es, neue Zeugen zu finden – mit dem Erbe als Anreiz für die Jungen und zugleich als der durch den Tod erfüllten Bedingung für die Alten, „daß man die ausgedienten Zeugen nicht mehr belastet“. Die Erbsubstanz dient der Aufrechterhaltung der notwendigen Rituale: „Jeder Gruß am Morgen, jede Wiedersehensszene während eines Lebens wird honoriert oder kann tendenziell vergolten werden mit dem schnö-

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desten Medium des Dagewesenseins“. Gerade an dieser Stelle erweist sich der Text eher als Gedankengang denn als eine strategische Argumentation: Die Aufmerksamkeit kehrt zur Funktion des Grußes zurück, und es bleibt offen, ob die Ausführung über die Vergeltung des Erbes ein Beleg für das Vorangegangene sein soll – was gewagt wäre – oder eine ausgiebige Überleitung. Das Motiv des Grußes tritt in den Vordergrund: War am Anfang von einer Eigenheit des Bewusstseins die Rede, so arbeitet Blumenberg mit dem abermals alltäglichen Ritus des Grußes einen weiteren Aspekt des Schon-Dagewesenseins heraus. Weil, wie anfangs festgestellt, der „Anschluß“ des Bewusstseins „an sein gelebtes ›Vorleben‹ nicht selbstverständlich ist“, kann Selbstverständlichkeit nur extern erzeugt werden, und diese Funktion kommt dem Gruß zu. Was ist dabei aber das „ganz und gar nicht“ Selbstverständliche, dem er „dient“? Hier ist wiederum Interpretation nötig. Das Aufwachen selbst kann es nicht sein, dieses gilt hier ja als eine Leistung des Bewusstseins, liegt also außerhalb des Einflussbereiches eines Grußes; übrig bleibt als Lesart, wenn man das Moment des Dienens wörtlich nimmt, nur ein gleichsam intersubjektives Abkommen über die Beständigkeit der wechselseitigen Bestätigung – und gleichzeitig der routinierte Ablauf der Tage im Alltag, dessen Nichtbestehen in der Regel nicht in Erwägung gezogen wird: „Der noch und wieder da ist, jeden Morgen in seinem Büro, an seinem Arbeitsplatz wieder da ist, soll gar nicht merken, wie erstaunlich das ist.“ Eine seltsame Umkehrung wird hier offenbar: Was eben noch als wichtiges Ritual gewertet wurde, kann nun einen „Ton des Widerwillens“ annehmen, nämlich des Widerwillens gegenüber dem Grüßen des Austauschbaren. Aus der Beiläufigkeit, die laut Blumenberg angesichts der gleichgültigen Anwesenheit eines beliebigen Menschen auftreten kann, wird Nachlässigkeit und sogar „fast“ Widerwilligkeit „dagegen, daß er nicht weichen will“. Diese Wende ist überraschend; der Beginn des Textes suggerierte ja   Ebd., S. 148 f.



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noch, dass alle auf ihre wechselseitige Bestätigung angewiesen sind, d. h. sich diesbezüglichen Unwillen eigentlich nicht leisten könnten; und darauf weist auch der Schluss des Textes hin, der die Abschiedsformel „Auf Wiedersehen“ als eine Reminiszens an jene Möglichkeit wertet, die Blumenberg als das „Drama des Risikos“ bezeichnet, „daß es auch nicht hätte stattfinden können.“ Umso seltsamer erscheint dann, dass dem austauschbaren Anderen „ebendies wichtig“ sei, „daß auch er zu den Indizien gehörig wird, die den anderen dazu gefügig sind, sich aus der Verwunderung herauszuziehen, daß sie wieder und noch da sind als dieselben“. Hier stößt die wörtliche Interpretation an ihre Grenzen. Der „Ersetzbare, der jederzeit jeder beliebige andere sein könnte“, dem also der Widerwillen gilt, kann schließlich nicht als konkrete Person gemeint sein; ebenso ergibt in diesem Kontext die Annahme keinen Sinn, dass eine reale Person sich als Mittel zur Herstellung von Selbstverständlichkeit sehen will. Als intuitiv einleuchtende Interpretation bleibt nur: Das Ereignis des Wiedersehens trägt immer die Möglichkeit mit sich, nicht stattzufinden – eine Alternative, die als Moment der Kontingenz keiner Notwendigkeit unterworfen ist. Der Umgang mit dieser bedrohlichen Kontingenz erzwingt eine Kompensationstechnik, die sich jedoch als ambivalent erweist: Ihr Funktionieren erinnert sowohl an das Risiko, das es mit Selbstverständlichkeit zu verdecken gilt, als auch an die dabei selbsterzeugte, ausweglose Gleichförmigkeit unter Austauschbarkeit des Einzelnen – ein einleuchtend guter Grund zu Widerwillen. Doch dieser Gedanke wird im Text abermals nicht expliziert, die Interpretation kann den Status einer Vermutung nicht abwerfen. Dasselbe Problem zeigt das bereits angeführte Zitat bezüglich des austauschbaren Jemands, der „gar nicht merken [soll], wie erstaunlich“ seine täglich-alltägliche Anwesenheit ist. Hier findet der Leser kaum eine formulierbare Interpretationsgrundlage. Denn von wem geht dieses „Sollen“ aus? Von einem Arbeitgeber, der seinen Betrieb durch grübelnde Angestellte im reibungslosen Funktionieren

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gefährdet sieht? Von einer ominösen Macht, die gleich dem Cartesischen genius malignus das menschliche Leben gleichsam unter einer Glocke der Unwissenheit und Täuschung hält? Die nicht weiter spezifizierte Behauptung mag haltlose Spekulationen evozieren – obwohl sie beim Lesen gar nicht so abwegig klingt. Auf diesen Aspekt, dass der Text den Leser für sich einnehmen kann, obgleich seine Paraphrase nur Unklarheiten aufwirft, werden wir weiter unten eingehen. Zunächst scheint jedoch die herausragende Problematik des Textes zu sein: Die Interpretation bleibt in weiten Teilen dem Leser überlassen; und somit auch die Destillation der Behauptungen selbst. Wir haben festgestellt: Die Analyse des Textes evoziert Fragen an einen Hintergrund, der streitbar ist – und zugleich nützlich. Denn die nicht explizierten Grundannahmen, die ihn ausmachen, geben dem Text Tiefe, indem sie auf über ihn hinausgehende Theoriekomplexe verweisen. Zu klären sind nun sowohl eine inhaltliche als auch eine formale Frage: Wo kann für die oben vorgeschlagenen Interpretationen ein Boden gefunden werden? Und was sagt die bisher erfolgte Analyse über die Miniaturen hinsichtlich ihres Stils und einer ihnen adäquaten Lesart aus?

2.2 Der Rückgriff auf theoretischen Hintergrund Die hier entwickelte Interpretationsgrundlage hat mit einem Rechtfertigungsproblem zu kämpfen, das auf den bislang unklaren Status des Textes zurückgeht. Es wurde bemerkt, dass dies ein generalisierender, in diesem Sinne theoretischer, jedoch nicht gemäß wissenschaftlichem Anspruch argumentativer Status ist. Dies eröffnet zwar interpretatorische Freiräume; die Wahl der Lesart hat jedoch gewichtige Konsequenzen. Um ein Kontrastbeispiel zu nennen: Bei erzählend-literarischen Texten, bei denen der Leser einen ähnlichen Spielraum bewältigen muss, wird mit interpretatorischer Unsicherheit auf fachspezifisch systematische Weise umgegangen: Ob insbesondere der Rekurs auf andere Werke oder gar die Biographie des Autors zulässig ist,

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hängt dort unter anderem von Strömungen ab und hat, dies ist für uns wesentlich, von der Warte des Korrektheitsanspruchs einen geringeren Stellenwert, als es bei philosophischen Texten der Fall ist: Literatur beansprucht Allgemeingültigkeit nicht in derselben Weise wie Philosophie. Wollen wir den Kurztext im Sinne eines Theoriestücks lesen, das beansprucht, einen Sachverhalt allgemeingültig wiederzugeben, müssen wir zusätzliche Annahmen zulassen bzw. mögliche implizite Inhalte explizieren. Die bisher genannten, konkrete Textpassagen betreffenden externen Hinweise suggerieren tieferliegende Annahmen, die folgendermaßen formuliert werden können: 1. Der Mensch ist seiner Endlichkeit ausgeliefert, die sich als das Nicht-mehr-zu-sich-Zurückfinden des Bewusstseins deuten lässt. Er versucht daher Strategien zu finden, sich seines Daseins (hier des Wachzustandes) zu versichern und es zu schützen (hier gedeutet als Schlaflosigkeit). Die Strategie zielt darauf ab, einen Zustand zu erzeugen, in dem das eigentlich Unsichere nicht mehr in Frage steht – den Zustand der Selbstverständlichkeit. 2. Diese Selbstverständlichkeit kann allerdings auch in ein Unbehagen umschlagen. Ursprünglich kompensiert sie die an sich nicht ertragbare Kontingenz des Gegebenen; dabei kann sie sich derart versteifen, dass sie äußerlich die Gestalt einer Notwendigkeit annimmt. Was künstlich erzeugt werden musste, wird dann zu einem unumstößlichen Faktum, dem man mit Gleichgültigkeit oder Widerwillen begegnen kann. Unter Annahme dieser im Text nicht ausgesprochenen Voraussetzungen ergeben auch die fragwürdigen Stellen Sinn. Doch mit diesem Interpretationszwang bringt Blumenberg seine Leser in zweierlei Schwierigkeiten: Um die externen Annahmen hinzuzuziehen, muss der Leser für sie eine Quelle ausfindig machen, damit sie nicht willkürlich „hineingelesene“ Setzungen sind. Gesucht wird also ein theoretischer Hintergrund, der diesen

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Thesen entspricht. Zweitens ist der Status der Aussagen zu klären: Wie ist ein Stil zu beurteilen, der nicht nur Behauptungen aufstellt, ohne sie zu begründen, sondern ihnen dabei komplexe implizite Thesen zugrundelegt, über die man im Wortsinne streiten kann? Und diese Frage evoziert einen weiteren Aspekt: Was passiert mit einem solchen Text, wenn er in Aussagen, explizite und implizite, gleichsam zerlegt wird? Diese Fragen wirft die oben experimentell ausgeführte Textanalyse auf – einerseits hinsichtlich der inhaltlichen Interpretation, andererseits der Darstellungsform. Wir wenden uns zunächst der letztgenannten Frage zu: Was ist mit dem Text passiert, nachdem wir ihn derartig zerlegt haben? Zunächst wurde er exegetisch auf ein Vielfaches seiner Länge gebracht, was bei dichten Texten nicht ungewöhnlich ist; jedoch entbehrt die interpretierende Paraphrase allen Charmes und aller Eleganz, die der Kurztext unzweifelhaft besitzt. Wie wir gesehen haben, ist eine thesenhafte Zusammenfassung nur um den Preis möglich, dass der argumentative Nachvollzug mit Inkongruenzen kämpfen muss, die sich innerhalb dessen, was als Text vorliegt, nicht auflösen lassen. Es muss in der stilistischen Besonderheit des Textes liegen – seiner formalen Gestalt also –, dass er dennoch plausibel klingt und beim Leser den Eindruck erwecken kann, diese Gedanken aus dem eigenen Erfahrungsvorrat wiederzuerkennen. Dies bedeutet: Die gesuchten impliziten Annahmen beziehen sich nicht nur auf den Inhalt. Daher gilt es nun, sowohl Konzepte, die den Inhalt erhellen, als auch solche, die die Form rechtfertigen, zu finden. Eine Überlegung, die zur Charakterisierung jener formalen Besonderheit hilfreich sein kann, findet sich in Edmund Husserls sogenannter „Krisisschrift“: Nämlich die Ersetzung von unreflektierten, „selbstverständlichen“ Annahmen in begründete, jederzeit nachvollziehbare. In dieser Schrift beklagt Husserl die fatale Kurzsichtigkeit der europäischen Wissenschaften, die die

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formalisierten Weltmodelle mit der wirklichen Welt verwechseln und, ungeachtet des Verlustes der „Lebensbedeutsamkeit“ der Wissenschaften, die Grundlagenforschung vernachlässigen. Seine Forderung nach Rückführung der wissenschaftlichen Praxis auf ihren Ursprung, die Lebenswelt, beinhaltet eine neue, bewusste Erkenntnisart, die sich durch „Apodiktizität“ auszeichnet. Apodiktisch ist das mit endgültiger Geltung Gesagte, zugleich das unumstößlich Einsichtige. Das Vorhaben der Krisisschrift wird zum Anlass für die Elaboration der Technik der „transzendentalen Epoché“, welche die unreflektierten Grundsätze auflöst und durch unumstößlich einsichtige ersetzt.10 Für unseren Kontext interessant ist dabei jenes Moment, in dem Blumenberg das Programm der Phänomenologie schlechthin sieht: Die „Überführung von Selbstverständlichkeiten in Verständlichkeiten“.11 Diese Verständlichkeiten tragen im Husserlschen Sinne den Charakter der Apodiktizität. Im Prozess jener Überführung werden also Selbstverständlichkeiten dekonstruiert, was jedoch nicht die Notwendigkeit abwehren kann, dass es überhaupt Selbstverständlichkeiten gibt; so würde ein Leben ohne sie ja bedeuten, sich auf nichts verlassen zu können, stets die Grundlagen des Handelns und Denkens, die gewöhnlich ausgeblendet sind, neu bedenken zu müssen. Sind die Selbstvers tändlichkeiten, die den Mangel haben, noch nie hinreichend auf ihre Korrektheit oder zumindest Angemessenheit überprüft worden zu sein, beseitigt, müssen sie durch neue Voraussetzungen



Edmund Husserl, Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie, Husserliana Bd. VI, Hg. Walter Biemel, Nijhoff, Haag 19622, S. 3 ff.    Vgl. Edmund Husserl, Erste Philosophie (1923/24), Zweiter Teil: Theorie der phänomenologischen Reduktion, Husserliana Bd. VIII, Hg. Rudolph Boehm, Nijhoff, Haag 1959, S. 26 ff., bes. S. 35. 10 Zur Einführung des Begriffs der Apodiktizität siehe Krisisschrift, a.a.O., § 7, S. 16; zur Kritik der Naturwissenschaften § 9; zur Zielsetzung § 73, besonders S. 275. 11 Hans Blumenberg, Zu den Sachen und zurück, Suhrkamp 2007, S. 304. 

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ersetzt werden, die sich „von selbst verstehen“ und dabei jederzeit einer Überprüfung standhalten – also „Verständlichkeiten“. Übertragen wir diesen Gedanken auf die oben erfragte stilistische Besonderheit der Blumenbergschen Miniaturen, entdecken wir das Schema wieder – und zugleich die erhellende Nichterfüllung des Anspruchs. Tatsächlich werden in unserem Beispieltext Selbstverständlichkeiten aufgedeckt und entmachtet: Allen voran die Selbstverständlichkeit des alltäglichen Immer-wieder-da-Seins, des Immer-wieder-Zusichkommens des eigenen Bewusstseins und dessen der anderen. Der Text deckt auf, wie der illusorische Eindruck der Selbstverständlichkeit entsteht, nämlich durch eine Technik; und er zeigt die Macht der künstlich erzeugten Selbstverständlichkeit, die (auch und sogar jenseits einer Explikation ihrer Problematik) Widerwillen erzeugen kann. Was wir nach unserer Analyse, welche die nichtargumentative, unbegründete Aufstellung von Behauptungen ebenso wie die Verwendung impliziter Prämissen aufgezeigt hat, zugeben müssen: Dieser unbegründeten Selbstverständlichkeit wird wiederum eine solche entgegengestellt. Blumenbergs Stil zwar ist im Husserlschen Sinne apodiktisch, keinen Widerspruch duldend. Doch er löst Husserls Forderung nicht ein, die Selbstverständlichkeiten in Verständlichkeiten zu überführen; er bietet eine Deutung an, aber ohne theoretische Begründung, nicht in der argumentativ-thesenhaften Form, die jene Apodiktizität Husserls klar erkennen ließe. Wo nach jener Forderung Begründung sein sollte, bleibt Raum für Interpretation, die dann aber in die Verlegenheit kommt, sich legitimieren zu müssen. Hier findet ein Spiel mit Selbstverständlichkeit (als Geltungsanspruch) und Selbstverständlichkeiten (als Gegebenheiten mit kontingenter Bedeutungsgebung) statt, und eine darin erkennbare Art von Provokation führt wiederum in den Strudel der Deutungen: Immerhin geht es in Blumenbergs von apodiktischem Stil geprägtem Text um – in Husserls Terminologie – lebensweltliche Grundlagen – und kann es apodiktische Erkenntnis und Darstellung in Bezug auf solche überhaupt geben? Können wir

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sie über Theorie überhaupt in unseren Fokus bekommen? Diese Problematik verweist auf Fragen, die weit über den Text hinausgehen – und birgt für uns daher wertvolle Hinweise. Ihr widmen wir uns nach der Beantwortung jener oben genannten Frage, welche die inhaltlichen Aspekte betrifft. Benötigt wird die Quelle der beiden ausformulierten Prämissen. Doch nach dem Gedanken, dass der Mensch einer Reihe von unvermeidbaren Gegebenheiten ausgeliefert ist, darunter die Kontingenz seiner eigenen Existenz und seines Lebensvollzugs, und dieser Notwendigkeit etwas entgegenzustellen versucht, muss in Blumenbergs Werk nicht lange gesucht werden. Bereits im ersten Kapitel von Arbeit am Mythos wird das entsprechende Moment vorgestellt: Der „Absolutismus der Wirklichkeit“, den es für den Menschen durch Eigenleistung unterschiedlicher Art zu überwinden gilt.12 Blumenberg paraphrasiert ihn als die „schiere[n] Lebenswidrigkeit und Dienstunwilligkeit gegenüber diesem Dilettanten des Lebens, wie Scheler den Menschen genannt hat“.13 In einer ausdeutenden Nacherzählung der menschlichen Evolutionsgeschichte zeigt Blumenberg, wie der Mensch durch „die bloße Nutzung einer Überlebenschance im Ausweichen vor dem Selektionsdruck, der auf irreversible Spezialisierung hingetrieben hätte“,14 eine ganz eigene Haltung zu seiner ihm weitestgehend widrigen Umwelt entwickeln musste – und dazu gehört auch die Herausbildung von Mythen. Diese sollten – durch Deutung – der übermächtigen Umwelt einerseits die beängstigende Unberechenbarkeit nehmen, andererseits den Eindruck von Beeinflussbarkeit (etwa durch Gnädigstimmen mächtiger Götter) stiften. Diese künstliche Erzeugung von Selbstverständlichkeit kennzeichnet nicht ein abgeschlossenes Heimischwerden des Menschen in seiner Welt, sondern einen in seiner Natur liegenden und damit in anthropo  Hans Blumenberg, Arbeit am Mythos, Suhrkamp, Frankfurt/Main 2006, S. 9-39. 13   Ebd., S. 21. 14   Ebd., S. 10. 12

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logischen Begriffen fassbaren ständigen Prozess. In Arbeit am Mythos zeigt Blumenberg auf, wie der Mensch durch Mythen, aber auch durch Metaphern sich selbst eine Weltvertrautheit erzeugt, die in den oben thematisierten Selbstverständlichkeiten ihren Höhepunkt findet – gerade durch sie jedoch wieder fremd erscheinen kann. Dieser Aspekt vermag zu erhellen, was im ersten Beispieltext ohne theoretischen Hintergrund nicht überzeugen will. Wie bisher gesehen, können wir den Kurztext nur durch Hinzunahme externer Theoriekomplexe erschließen: Inhaltlich die Zurückführung des präsupponierten Bewusstseinsbegriffs auf Blumenbergs Husserl-Rezeption und die des Kontingenzund Selbstverständlichkeitsgedankens auf das Konzept des „Absolutismus der Wirklichkeit“; formal die Zurückführung der Darstellung und des Stiles auf die Bedeutung der Metapher und auf die Husserlsche Überlegung zum Verhältnis von Selbstverständlichkeit und Apodiktizität. Der folgende Abschnitt widmet sich dem dabei berührten Problem der Thematisierbarkeit der Lebenswelt: An ihm wird sich unsere These der notwendig herauszukristallisierenden Hintergrundannahmen bestätigen; und zugleich eröffnet es eine neue Perspektive auf die formale Darstellung – hinsichtlich ihrer Anforderungen und Leistungen, besonders aber ihrer wechselseitigen Verschränktheit mit den Inhalten.

2.3 Der zweite Teil des Experiments Zur Behandlung dieses grundsätzlichen Problems der Phänomenologie wählen wir einen zweiten Text aus: Das Dilemma der Selbstverständlichkeit aus dem Nachlassband Zu den Sachen und zurück.15 Bereits der (von Blumenberg gewählte) Titel des Buches signalisiert eine kritisch-distanzierte Behandlung der Phänomenologie Husserls. Es ist nicht der   Hans Blumenberg, Zu den Sachen und zurück, Hg. Manfred Sommer, Suhrkamp, Frankfurt/Main 2007. 15

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einzige Ort der Auseinandersetzung Blumenbergs mit den Ursprüngen der Phänomenologie; auch in Lebenszeit und Weltzeit und in Beschreibung des Menschen finden sich ausführliche Kommentare zu Husserls Werk und dem wechselseitigen Verhältnis zu Heidegger, die Blumenberg in der Präzision, mit der er seine Lektüreergebnisse verarbeitet, zeitweise als kritischen Chronisten dieser beiden Autoren erscheinen lassen.16 Das Dilemma der Selbstverständlichkeit hingegen ist – auch hier greift die Gegenüberstellung von umfangreichen und kurzen Texten – ein Text von nur einer Seite Länge, der ein ganz pragmatisches Problem des Wissenschaft betreibenden Phänomenologen fokussiert. Zentrale Begriffe sind Lebenswelt, Selbstverständlichkeit, Lebenskunst. Selbstverständlichkeit, das oben bereits behandelte Motiv, ist hier das, „was eine Welt und erst recht ihren elementaren Typus, die ›Lebenswelt‹, ausmacht“. Dies rekurriert auf das oben Gesagte: Wenn Phänomenologie „definiert [ist] als Überführung von Selbstverständlichkeiten in Verständlichkeiten“, so muss sie den Ort dieser Selbstverständlichkeiten hinreichend behandeln. Das Problem tritt auf durch das phänomenologisch erforderliche Aufbrechen der „Ungestörtheit des alltäglichen Lebensvollzuges“, gehemmt durch den „Wunsch, sich selbst leben zu lassen“: Eine Spannung zwischen wissenschaftlicher, speziell phänomenologischer Praxis einerseits und der Lebenswelt sowohl des Phänomenologen als auch seines Umfeldes andererseits. Bei der Bearbeitung von Selbstverständlichkeit […] haben die Phänomenologen zwei Schwierigkeiten zu überwinden. Die erste ist, zwar zu erkennen, aber doch unzerstört zu lassen, was anderen in ihren Welten und durch diese selbstverständlich ist. Auch Philosophie bedarf des Respekts vor dem, was andere leben läßt. Die andere Schwierigkeit ist zu erkennen, was dem Phänomenologen selbst selbstverständlich ist. Hier ist die Zerstörung unvermeidlich, und er ist darauf angewiesen, mit ihr zu leben.17 16   Vgl. Hans Blumenberg, Lebenszeit und Weltzeit, Suhrkamp, Frankfurt/ Main 2001, S. 9-68; ders., Beschreibung des Menschen, Suhrkamp, Frankfurt/ Main 2006, S. 9-47. 17   Ebd., S. 304.

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Die „Lebenskunst“, die somit erforderlich wird, besteht darin, „sich so zu verhalten“, als hätte man „an das Selbstverständliche nicht gerührt“. Der nicht näher bestimmte Hinweis auf „Aufklärer“ wirkt dabei bizarr, streben diese doch gerade Veränderung an und somit auch den Umsturz des Etablierten, das sich sprichwörtlich von selbst versteht. Die „Rivalität“ zwischen dem „Wunsch, sich selbst leben zu lassen, und den Anforderungen, die eine professionell ausgeübte Methode mit sich bringt“, kann nicht durch theoretische Ergebnisse überwunden werden. Hier scheint der Husserlsche Wissenschaftler durch, der sich nie ganz von der Lebenswelt lösen kann und soll, der er entstammt und die seiner Forschung zugleich Boden und Horizont ist.18 Sowohl in den diesbezüglichen Teilen von Husserls Krisisschrift als auch in Blumenbergs Text Das Dilemma der Selbstverständlichkeit besteht das Lebensweltproblem in der Untrennbarkeit von Forschungsgegenstand und Forschungsgrundlage. Ausgerechnet Husserls Ansatz einer Lebenswelt-Theorie birgt für Blumenberg ein großes Problem: Die exakte Umkehrung des genannten Dilemmas. Blumenberg thematisiert dieses Paradox im ersten Kapitel von Lebenszeit und Weltzeit, welches den plakativen Titel Ein Lebensweltmißverständnis trägt.19 Das Dilemma besteht in der dortigen Fassung darin, dass eine thematisierte Selbstverständlichkeit keine Selbstverständlichkeit mehr sein kann; in diesem besonderen Fall verändert die Reflexion ihren Gegenstand, indem sie das, was seinem Wesen nach unreflektiert ist, reflektiert. Das Problem befindet sich nicht außerhalb des Textes Das Dilemma der Selbstverständlichkeit, denn es gehört selbst zu jenen, die erklären, warum Blumenberg das Thema „Welt“ bzw. „Lebenswelt“ als das „Grenzthema“ der Phänomenologie bezeichnet. Dies nämlich geht aus dem kurzen Text nicht hervor; das beschriebene Problem ist ja nicht das der 18   Siehe Edmund Husserl, Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie, a.a.O., besonders S. 123 ff. 19   Hans Blumenberg, Lebenszeit und Weltzeit, Suhrkamp, Frankfurt/Main 2001, S. 9-68.

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Phänomenologie, sondern des praktizierenden Phänomenologen. Um zu verstehen, warum von einem „Grenzthema“ die Rede ist, ganz wörtlich verstanden als einem, an dem die Phänomenologie an ihre Grenzen stößt, müssen wir Blumenbergs Kritik der (insbesondere Husserlschen) Lebenswelt-Theorie berücksichtigen – die im Endeffekt für Blumenberg die Problematik jeglicher theoretischen Bearbeitung von Lebenswelt ist. Unter den Titel „Leb ensweltmißverständnis“ fasst Blumenberg ein ganzes Konvolut von Problemen, die unter anderem aus den Ansprüchen der Phänomenologie, dem begrifflichen Instrumentarium Husserls und der Unschärfe des Begriffs „Lebenswelt“ selbst resultieren; besonders jedoch fällt ins Gewicht, dass sich die Lebenswelt bzw. der Lebensvollzug nicht mit theoretischer Reflexion vertragen.20 Ein Symptom dafür ist das Verhältnis zur bereits behandelten Kontingenz: Kontingenzmangel charakterisiert die Alltäglichkeit wie die Lebenswelt, deren existentialisierter Abkömmling sie ist. Für beide gilt, es brauche und könne nicht eigens festgestellt werden, daß etwas ist, aber anders sein könnte, als es ist.21

Wie sich die Konfrontation von theoretischer Reflexion und einem mit Reflexion inkompatiblen Gegenstand schlimmstenfalls auf eine Theorie der Lebenswelt auswirken kann, können wir in der vergleichenden Betrachtung bestimmter Lebenswelttheorien erkennen. Vergleichen wir jene drei Konzepte, die als Ergebnisse 20   Nicht verschwiegen werden darf, dass der Terminus „Lebenswelt“ in Lebenszeit und Weltzeit viel enger gefasst ist als etwa in Ausblick auf eine Theorie der Unbegrifflichkeit; Blumenberg spricht hier sogar von einem „Lebensweltschwund“, da der Terminus in diesem Kontext einen Zustand jenseits aller Reflexion und Erwartung bezeichnet – was aber in eine Paradoxie mündet: „Wir brauchen eine Theorie der Lebenswelt, weil wir nicht mehr in einer solchen leben, aber auch niemals ihr zur Verstandesverfügbarkeit entkommen können.“ (S. 22 f.) Die Verbindung erfolgt über den Begriff der „Alltäglichkeit“ als „Abkömmling“ der Lebenswelt (S. 64). Blumenbergs Kritik an Husserl greift jedoch auch dann. 21   Ebd., S. 46.

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phänomenologischer Forschung zur Lebenswelt (in verschiedenen, teils nicht miteinander verträglichen Ausprägungen) größte Bedeutung erlangt haben: Erstens, als das Beispiel par excellence, Husserls Konzept von Lebenswelt in der „Krisisschrift“; zweitens, in der vorgeblichen Nachfolge Husserls,22 Heideggers Theorie der Alltäglichkeit in Sein und Zeit; drittens Alfred Schütz´ und Thomas Luckmanns Strukturen der Lebenswelt, die mit der ausdrücklichen Zielsetzung verfasst wurden, die Phänomenologie Husserls hinsichtlich des Lebenswelt-Aspektes auch für die Soziologie fruchtbar zu machen.23 Der markante Unterschied zwischen der Methodologie Husserls und Heideggers und der Schütz´ besteht in der Bedeutung des Themas: Während Schütz und Luckmann die Lebenswelt selbst mit phänomenologischen, d. h. in ihrem Verständnis rein beschreibenden Mitteln erfassen wollen, steht sie bei Heidegger und Husserl in einem übergeordneten Kontext – bei Heidegger die Begründung einer Fundamentalontologie, bei Husserl eben die Entwicklung einer transzendentalen Methode, welche der Wissenschaft Apodiktizität zum Ziel setzt. Das Ergebnis vermag zu überraschen. Niklas Luhmann prägte den Begriff der „Trivialanthropologie“ für Schütz´ Lebensweltkonzeption24 – zu Recht, denn die Strukturen der Lebenswelt bieten nicht mehr als eine ordnende Inventarisierung der Lebenswelt, deren Beschreibung nicht über das hinausgeht,   Husserl an Ingarden über Sein und Zeit: „Ich kam zum Resultat, daß ich das Werk nicht dem Rahmen meiner Phänomenologie einordnen kann.“ Edmund Husserl, Briefe an Roman Ingarden, Phaenomenologica Bd. 25, Nijhoff, Den Haag 1968, S. 56; zitiert bei Hans Blumenberg, Beschreibung des Menschen, a.a.O., S. 21. Das Konzept ist dennoch wichtig, um zu zeigen, in welche Richtungen Husserls Impuls der Thematisierung von Lebenswelt weiterentwickelt wurde. Heidegger verwendet den Begriff „Lebenswelt“ zwar nicht, erläutert aber Selbstverständlichkeit und Alltäglichkeit des Daseins, was denselben Gegenstand begreift. 23   Alfred Schütz / Thomas Luckmann, Strukturen der Lebenswelt, UVK, Konstanz 2003, S. 13 ff. 24   Niklas Luhmann, Die Lebenswelt - nach Rücksprache mit Phänomenologen, in: Archiv für Sozial- und Rechtsphilosophie 72, Heft 2, 1968, S. 176-194, hier S. 177. 22

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was in der Lebenswelt selbst wahrnehmbar ist; die Reflexion der Selbstverständlichkeiten erliegt der (kaum begründeten) Klassifizierung derselben als Elemente eines „Wissensvorrats“, sie werden also im Kern ihrer Problematik nicht berührt. Das Thema „Lebenswelt“ scheint somit die Eigenart zu besitzen, im wesentlichen Aspekt der Selbstverständlichkeit nur jener Theoretisierung zugänglich zu sein, welche knapp daran vorbeisieht. Dies bedeutet: Steht nicht die Lebenswelt selbst im Zentrum der Untersuchung, kann sie mit dem Instrumentarium einer übergeordneten Theorie (auch entgegen Blumenbergs Husserl-Kritik) angemessen thematisiert werden; ist sie selbst Gegenstand der Beschreibung, verweigert sie sich dem theoretischen Blick.25 Dieses Ergebnis hilft zu verstehen, warum die Phänomenologie gerade beim Thema „Lebenswelt“ an ihre Grenzen stößt. Über das genuin phänomenologische Arbeitsproblem hinaus verbirgt sich ein weiterer Verweis auf einen Theoriekomplex im Text: Nämlich im Satz „Auch Philosophie bedarf des Respekts vor dem, was andere leben läßt.“26 Was andere und den Phänomenologen selbst leben lässt, kann nur die Selbstverständlichkeit sein, die zu zerstören er sich gemäß der phänomenologischen Anweisung, Selbstverständlichkeiten in Verständlichkeiten umzuwandeln, anschicken muss. Damit stehen wir abermals vor dem bereits besprochenen Gedanken des „Absolutismus der Wirklichkeit“, gegen den der Mensch sich zur Wehr setzen muss, indem er der kontingenten und doch absoluten Faktizität seine selbsterzeugten Selbstverständlichkeiten entgegenstellt. Wie wir sehen, lässt sich auch der zweite Beispieltext nur vor 25   Zu dieser These siehe Martina Philippi, Der Begriff der Lebenswelt – zwischen Selbstverständlichkeit und Kontingenz, Magisterarbeit, Leipzig 2009. Für Heidegger lässt sich an diese These auch mit Blumenberg anschließen: „Vom Vergleich zwischen Lebenswelt und Alltäglichkeit gewinnen nur unter diesem Aspekt der Funktion für das, was verstanden werden soll, beide Seiten.“ Lebenszeit und Weltzeit, a.a.O., S. 63. 26   Blumenberg, Zu den Sachen und zurück, a.a.O.

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einem theoretischen Hintergrund erschließen – und bringt damit zugleich das Problem des theoretischen Umgangs mit dem Thema „Lebenswelt“ in unser Blickfeld. Wir werden darauf noch einmal zurückkommen, wenn wir für die Analyse der beiden ausgewählten Kurztexte Resümee ziehen. Der letzte Abschnitt dieses Beitrags fragt zunächst nach dem Status der Miniaturen – und wie ihr Funktionieren überhaupt möglich ist.

3. Das doppelte Theoriepotenzial der Miniaturen

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ei der Lektüre und Analyse der beiden exemplarisch ausgewählten Kurztexte haben wir festgestellt: Auch wenn sie auf den ersten Blick auf unter Umständen sogar sympathische Weise plausibel klingen, zum Wiedererkennen des Beschriebenen einladen oder mit einer Pointe zum Schmunzeln bringen, fordert der Versuch, ihnen ihren theoretischen Gehalt abzuringen, vom Leser eine hohe interpretatorische Eigenleistung – verbunden mit der Gefahr willkürlichen „Hineinlesens“. Zugleich war angesichts ihres starken Behauptungsduktus, den wir mit dem Titel „apodiktisch“ bezeichnet haben, eine Klärung ihrer impliziten theoretischen Prämissen unumgänglich; schließlich wollten wir uns nicht nur von den Worten gefangen nehmen lassen, sondern uns zum Gesagten positionieren können. Um die Unklarheiten nicht gleichsam „wegzuinterpretieren“, haben wir uns an die Theoriekomplexe des Blumenbergschen Werkes und eng verwandter Konzepte gewandt, die in den Texten anklingen. Dies führte im Wesentlichen zu zwei Motiven: Zum einen zu dem des Absolutismus der Wirklichkeit, zum anderen zur Problematik der mangelnden Theoriefähigkeit von Lebenswelt. Angesichts der letzteren gilt es hier auf die eingangs genannte These zurückzukommen, dass die zur Darstellung eines Sachverhaltes gewählte Form nicht beliebig ist, genauer: Dass nicht jeder Inhalt in argumentativer Darstellung angemessen bearbeitet werden kann. Mit Hilfe des Gesagten wollen wir diese Einsicht um ein besonde-

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res Potenzial der Miniaturen erweitern. Wir kennzeichnen dazu die Unterscheidung zwischen der streng theoretischen Form und ihrer möglichen Alternative mit den von Gottfried Gabriel verwendeten Begriffen der „propositionalen“ und der „nicht-propositionalen“ Erkenntnis bzw. Darstellung.27 Über ästhetische Vergegenwärtigung werden demnach Inhalte transportiert, die „in Aussagen umgesetzt, aber niemals durch diese ersetzt werden“ können.28 Solche Vergegenwärtigungen können etwas leisten, das sich in theoretischer Übermittlung nicht erschöpft. Für unsere Fragestellung ist nun interessant, ob dies eine geeignete, nichttheoretische und dennoch nicht-triviale Darstellungsform für die Lebensweltthematik sein könnte – und ob, das wäre die Pointe, Blumenberg mit seinen Kurztexten damit gegebenenfalls genau den Nerv einer angemessenen Darstellung lebensweltlicher und lebensweltverbundener Themen trifft. Um Blumenberg selbst hinsichtlich dieses Vorschlages zu befragen, berücksichtigen wir den dafür einschlägigen Theoriekomplex, der als das „vielleicht systematischste[n] Theoriestück[s] der Philosophie Hans Blumenbergs“29 betrachtet werden kann: Die Metaphorologie bzw. die Theorie der Unbegrifflichkeit. Hier einschlägig ist dabei weniger die Metaphorologie als Begriffsgeschichte und (äußerst streitbare) Theorie der Metaphysik, sondern der Aspekt der Unbegrifflichkeit selbst. Es wäre zu vorschnell, wenngleich versucherisch, einer naheliegenden Assoziation zu folgen und die Kurztexte Blumenbergs als Metaphern zu kennzeichnen – und unzutreffend in dem Sinne der „absoluten Metaphern“, die „für die Welt gefunden worden sind“ 27   Gottfried Gabriel, Logische und ästhetische Unaussagbarkeit, Sonderdruck aus: W. Hogrebe (Hg.), Grenzen und Grenzüberschreitungen. XIX. Deutscher Kongress für Philosophie, Akademie Verlag, Berlin 2004, S. 762-769.

  Ebd, S. 769.   Dirk Mende,

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Vorwort. Begriffsgeschichte, Metaphorologie, Unbegrifflichkeit, in: A. Haverkamp / D. Mende (Hg.), Metaphorologie. Zur Praxis von Theorie, Suhrkamp, Frankfurt/Main 2009, S. 7-32, hier S. 7. 29

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und sich nicht „in Eigenschaften und Bestimmbarkeiten“ auflösen lassen,30 also nicht begrifflich gefasst werden und höchstens durch andere Metaphern abgelöst werden können. Auch wenn die Begriffe in Geschichten gefasst sind, sind sie deswegen noch keine Metaphern; sie können allerdings mit ihnen etwas Wesentliches gemein haben. Blumenberg fordert, „daß Metaphorik nur als ein schmaler Spezialfall von Unbegrifflichkeit zu nehmen ist“31. Dies ist das Stichwort für die Verbindung zu Gabriels Konzept der nicht-propositionalen Darstellung. In den Paradigmen zu einer Metaphorologie wird die „Funktion“ der absoluten Metapher dergestalt beschrieben, dass sie „in die begreifend-begrifflich nicht erfüllbare Lücke und Leerstelle einspringt, um auf ihre Art auszusagen“32; Gabriel präzisiert daraufhin die Leistung der absoluten Metapher im Bezug auf Frege, der zum Ausdruck der kategorialen Unterscheidung von Gegenstand und Funktion die absolute Metapher der Gesättigt- bzw. Ungesättigtheit benutzt. In der Macht der absoluten Metapher liegt es nämlich, „nicht ›auszusagen‹, sondern zu zeigen. Sie leistet also etwas, was begrifflich nicht ›sagbar‹ ist. So wird der Logiker (aus Begriffsnot) zum Metaphoriker.“33 Darin erkennen wir nun das Potenzial der Blumenbergschen Kurztexte, die wir trotz ihrer nicht-propositionalen Form als philosophische, sogar theoretische Miniaturen betrachten können. Das Ziel des Beitrags war, zu zeigen, dass Blumenbergs Miniaturen nur unter zusätzlichen theoretischen Annahmen ver30   Hans Blumenberg, Ausblick auf eine Theorie der Unbegrifflichkeit, in: Ders., Schiffbruch mit Zuschauer. Paradigma einer Daseinsmetapher, Suhrkamp, Frankfurt/Main 1997, S. 85-106, hier S. 91. 31   Ebd., S. 87. 32   Hans Blumenberg, Paradigmen zu einer Metaphorologie, Suhrkamp, Frankfurt/Main 1998, S. 177. 33   Gottfried Gabriel, Kategoriale Unterscheidungen und „absolute Metaphern“. Zur systematischen Bedeutung von Begriffsgeschichte und Metaphorologie, in Haverkamp / Mende, Metaphorologie, a.a.O., S. 65-84, hier S. 77 f. und 82.

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ständlich sind, dass der Leser beim Interpretationsversuch förmlich zu diesen Annahmen gezwungen wird, soll der Text Sinn ergeben. Es ging dabei nicht darum, die propositionale Lesart zu verwerfen, sondern ihre Bedingungen aufzuzeigen. Als theoretische Lesart wurde eine solche vorgeschlagen, welche die Zusatzannahmen aus Blumenbergs Werk heraussucht; doch dass wir zugleich auf jenes besondere Potenzial der Texte aufmerksam machen können, ein in Blumenbergs Werk selbst thematisiertes Problem zu bewältigen, geht auf jene zusätzliche, nicht strikt theoretisch vermittelnde, sondern auf Vergegenwärtigung beruhende Dimension der Miniaturen zurück: Sie bergen in diesem Sinne ein doppeltes Potenzial, Inhalte zu transportieren. Unser Vorschlag einer Lesart dieser Texte besteht somit darin, ihrer impliziten Aufforderung zu einer eingehenden Beschäftigung mit jenen Gedanken zu folgen, die ihnen unausgesprochen zugrundeliegen und in den Theoriekomplexen Blumenbergs bereitstehen; und zugleich die Chance zu bemerken, die sie selbst als Antwort auf jene Probleme anbieten, deren problematische Darstellbarkeit Blumenbergs theoretisches Werk thematisiert – etwa die Lebensweltproblematik; und in besonderem Maße den Absolutismus der Wirklichkeit, der in theoretischer Darstellung wohl plausibel erscheinen mag, sich dem Leser aber erst in der empathischen Vergegenwärtigung der Miniaturen Blumenbergs erschließen wird.

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I pensieri astronoetici come laboratorio per un’antropologia sperimentale: la riflessione di Hans Blumenberg sull’impresa spaziale

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ans Blumenberg ha dedicato un’articolata e originale attenzione a un tema assai particolare come quello del viaggio spaziale, una riflessione che prende avvio dal fascino esercitato dalla dimensione dell’universo, dal momento che questo rappresenta per l’uomo “l’oggetto supremo e quindi critico del suo mondo e della sua facoltà teoretica”. A tale tematica sono, in particolare, dedicate le numerose pagine scritte nell’arco di trent’anni e raccolte nell’opera postuma Die Vollzähligkeit der Sterne. In questi testi, Blumenberg indaga i motivi, le aspirazioni e i miti che hanno proiettato l’uomo nello spazio e che, dopo la delusione seguita agli entusiasmi per i viaggi spaziali, ne hanno determinato la spinta geotropica, che trasforma l’astronautica nel progetto di una “astronoetica”. I numerosi capitoli di questo volume iniziano in generale con un aneddoto, una citazione, un riferimento biografico dal confronto con i quali, e spesso seguendo direzioni inusuali, prendono avvio le sue considerazione. In questo senso, nell’approcciarsi a questa opera, non è facile contornare gli infiniti dettagli, seguire un discorso continuamente esposto a deviazioni, rinvii e ritorni, che tende a collegare fra loro autori apparentemente distanti,   H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, trad. it. a cura di C. Marelli, Marietti, Genova 1992, p. 259.    Jürgen Busche indica come probabile data di inizio della stesura di questi testi il 1957, anno del lancio dello Sputnik. Cfr. J. Busche, Warum Carossa? Hans Blumenbergs Hommage an einen fast vergessenen Dichter, «Neue Rundschau» 1 (1998) 96. 

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un’impostazione che corrisponde più in generale al modo di procedere e allo stile della riflessione blumenberghiana, motivata dal tentativo di fondazione della filosofia sulla metafora e sulla persistenza di forme figurative di pensiero. Nell’analizzare il tema del viaggio spaziale è, però, riduttivo e poco proficuo limitarsi a un’analisi di Vollzähligkeit der Sterne. Questo testo, del resto, frutto di un’operazione editoriale postuma, non possiede un’unitaria chiave di lettura, né corrisponde a un progetto strutturato dallo stesso autore. È tuttavia possibile assumere il tema del viaggio spaziale come una sorta di contenitore tematico su cui convergono diversi nodi problematici affrontati nella complessa e articolata opera del filosofo, un tema che compare spesso nei suoi testi, in quanto viene considerato in grado di offrire nuove prospettive di osservazione sulla condizione dell’uomo nel mondo, sia storica che antropologica. Un’altra difficoltà che emerge nell’approcciarsi a questa tematica riguarda la carenza di analisi critiche. I pochi studi specificatamente rivolti alla riflessione blumenberghiana sull’esplo   Nel definire l’effettiva rilevanza attribuita da Blumenberg a tale tematica, occorre tener presente la genesi di Vollzähligkeit der Sterne, dato che si tratta di un’opera postuma frutto di un’operazione editoriale che ha messo insieme alcuni testi già pubblicati con altri contenuti nella sezione del Nachlass denominata dal filosofo UNF (comprendente cioè gli “Unerlaubte Fragmente”), che probabilmente corrispondono ai testi lasciati Unfertiges scritti fra gli anni ’80 e ’90.    In questa direzione il tema del viaggio spaziale appare a più riprese già nelle opere pubblicate in vita. Così in Die Legitimität der Neuzeit l’esplorazione dello spazio serve a Blumenberg per indicare alcuni sviluppi della modernità, come quello della “visibilità” o della “curiosità”, o in Lebenszeit und Weltzeit, viene vista in relazione all’ampliamento della forbice temporale, di cui sono simbolo esemplare le distanze cosmiche. La riflessione sull’astronautica è, poi, strettamente connessa all’analisi della rivoluzione copernicana, sviluppata da Blumenberg dapprima in un volume del 1965, Die kopernikanische Wende, a cui segue una nuova versione notevolmente ampliata nel 1975, Die Genesis der kopernikanischen Welt. Significativi apporti giungono anche dalle riflessioni di carattere antropogenetico e antropologico, come quelle sviluppate nelle pubblicazioni postume, Zu den Sachen und zurück e Beschreibung des Menschen, per quanto concerne, ad esempio, il tema delle forme di vita extraterrestri.

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razione dello spazio, inoltre, la analizzano principalmente da un punto di vista storico e in connessione con la rivoluzione copernicana. Più in generale, del resto, nella riflessione filosofica novecentesca le, seppur poche, analisi sul significato del viaggio spaziale hanno privilegiato la prospettiva storica anche perché questa letteratura ha prodotto principalmente scritti d’occasione, che hanno visto tale tematica soprattutto in riferimento all’analisi del ruolo e dei risultati dello sviluppo scientifico e tecnologico.    Franz Joseph Wetz ha, ad esempio, sottolineato la duplicità fra l’immagine dei deserti cosmici privi di orientamento di senso e quella della terra, come unica oasi che l’uomo può abitare (cfr. F. J. Wetz, Hans Blumenberg zu Einführung, Junius, Hamburg 1993). Karsten Harries ha, invece, fatto riferimento alle considerazioni di Blumenberg sulla ricerca di extraterrestri, come segno di un ritorno all’antropocentrismo precopernicano (cfr. K. Harries, Copernican reflections, «Inquiry» 23 (1980) 253-259). Sul tema del confronto con l’altro nello spazio cosmico si è concentrato anche Bruno Accarino, sottolineando come in esso venga messo in atto l’esperimento mentale della modernità della scena originaria in cui il primo uomo ha incontrato un suo simile (cfr. B. Accarino, Vestigium umbra non facit. Astronoetica, ostilità e amicizia in Hans Blumenberg, in Idem, Daedalus. Le digressioni del male da Kant a Blumenberg, Mimesis, Milano 2001, pp. 109-121).    Se fra Ottocento e Novecento numerosi sono stati i racconti di fantascienza che hanno avuto per oggetto il viaggio nello spazio, tale indagine non ha goduto di particolare fama in ambito filosofico, dal momento che ha dato origine principalmente a scritti di occasione, come il saggio di Hannah Arendt, Man’s Conquest of Space del 1963, o la monografia di Günther Anders, Der Blick vom Mond del 1970. Sorti in corrispondenza con il decennio spaziale, questi studi non sviluppano una teoria, ma solo alcune considerazioni e riflessioni sull’esplorazione dello spazio a partire dagli eventi contemporanei, riprendendo alcuni nodi problematici in linea di continuità con le altre opere di questi autori. Rispetto a questi testi, il brevissimo saggio di Emmanuel Levinas, Heidegger, Gagarin et nous del 1976 o le considerazioni di Ernst Jünger svolte nel volume Al muro del tempo non costituiscono delle vere e proprie interpretazioni sull’impresa spaziale. In queste pagine, infatti, il tema del viaggio nello spazio viene considerato nella sua natura puntuale di evento, quale simbolo o conferma di una più ampia riflessione sulla società contemporanea. Precedente a questi studi è, invece, la riflessione che Carl Schmitt sviluppa in Land und Meer, pubblicato nel 1942, e nel Gespräch über den neuen Raum del 1958, che, seppure non si presenti come una vera e propria riflessione sull’impresa spaziale, ne fornisce comunque un’interpretazione, considerando la sua progettazione all’interno di una ricostruzione delle “rivoluzioni spaziali” che hanno segnato la storia umana, come quella dell’epoca moderna con l’emergere dell’elemento marino.

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La riflessione di Blumenberg si distingue da questi studi proprio a partire da un’originale interpretazione del ruolo della tecnica, intesa come parte integrante di un concetto più ampio di cultura, che riunisce tutte le produzioni dell’uomo volte a compiere quel compito originario di distanziarlo dalla realtà e di realizzare nuove forme di familiarizzazione con il mondo, siano esse produzioni tecniche o simboliche. Conseguentemente, nell’approcciarsi al tema dell’impresa spaziale Blumenberg non si limita a una considerazione sugli esiti dello sviluppo scientifico e tecnologico. Egli apre, invece, la strada a una ricerca storica di immagini e di pensieri astronoetici, ma anche, e questo è un altro aspetto distintivo della sua indagine, a una riflessione sulla condizione umana. È, in particolare, nella prospettiva antropologica, su cui questo articolo intende soffermare l’attenzione, che il filosofo indica interessanti continuità che collegano più o meno direttamente la scena primordiale, in cui il preominide ha acquisito la statura eretta e ha, poi, trovato il suo rifugio nella caverna, e il viaggio nella navicella spaziale. Il relazionarsi al mondo, tramite l’agire a distanza e come apertura ed estraneità, e il prendere posizione in esso, anche quando questo viene a includere parte dell’universo, costituiscono un dovere per l’uomo nei confronti della sua esistenza e allo stesso tempo ciò che lo definisce e lo differenzia dagli altri esseri viventi. Nell’uomo, inoltre, la duplicità di apertura ed estraneità e dati della sua struttura antropologica, rintracciabili nella statura eretta e nell’ottica frontale, indicano la sua naturale proiezione oltre i limiti mondani e nel cosmo. Nella riflessione blumenberghiana è, però, possibile individuare anche un’altra prospettiva di indagine, secondo la quale non è solo l’analisi antropologica a mettere in luce quali sono stati i presupposti dell’interesse dell’uomo per lo spazio cosmico, ma è il viaggio spaziale stesso a rendere possibili nuove prospettive di osservazione sull’essere umano e sulla sua condizione, compiendo un movimento di ritorno secondo il quale, volgendo lo sguardo verso ciò che è “estraneo”, si riconosce, in realtà, il “proprio”.

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1. L’uomo, il mondo e l’universo

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lumenberg affronta la riflessione sull’impresa spaziale avendo sullo sfondo la definizione dell’uomo come essere della mancanza (Mängelwesen). Questa condizione, determinata dal salto sostanziale che nel passaggio dall’animale all’uomo ha provocato la perdita nel bagaglio che la natura gli ha predisposto, è messa in evidenza dalla percezione della sua stessa corporeità secondo due aspetti principali: da un lato, la consapevolezza tutta umana della propria “nudità”, dall’altro, la specificità della sua ottica, che essendo frontale e bioculare, lo rende come tale un essere mit vielem Rücken, cioè costitutivamente, per gran parte, invisibile a se stesso. Si tratta di una dorsales Defizit, che chiama in causa una dimensione fondamentale dell’umano, rappresentata dalla visibilità e che consiste nel fatto che l’uomo può vedere da un solo lato, mentre il suo corpo è “esposto” da tutti gli altri allo sguardo dell’“altro”.10 Blumenberg non motiva dal punto di vista biologico la definizione dell’uomo come essere mancante e non cerca di afferrarne le complesse relazioni psicologiche. La definizione blumenberghiana si presenta, semmai, come una pessimistica intuizione che   La mancanza che caratterizza l’essere umano è intesa da Blumenberg come defectus più volentieri che come carenza, riassumendo con ciò l’essere privo di un’originaria sicurezza istintuale da parte dell’uomo, in cui il momento privativo rimanda ad una pienezza che deve essere reintegrata e che è incarnata dal significato antropologico della metafora. Blumenberg individua nella retorica la via d’accesso alla definizione della natura umana, che è in grado di ribaltare la povertà della sua condizione in ricchezza metaforica (cfr. H. Blumenberg, Approccio antropologico all’attualità della retorica, in Idem, Le realtà in cui viviamo, trad. it. a cura di M. Cometa, Feltrinelli, Milano 1987, p. 109).    Cfr. H. Blumenberg, Arbeit am Mythos, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1979, p. 193.    Cfr. H. Blumenberg, Zu den Sachen und zurück, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2002, p. 299. 10   Sulla dimensione della visibilità, come Sehenkönnen e Gesehenwerden, nella riflessione antropogenetica e antropologica di Blumenberg, cfr. H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2006 e Idem, Zu den Sachen und zurück, op. cit. 

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ha un fondamento anche storico delineato a partire dalla problematica della posizione dell’uomo nel cosmo, sviluppata soprattutto nell’analisi del mondo copernicano. Blumenberg mette in evidenza come l’uomo sia il risultato di un caso e di uno strenuo sforzo della natura,11 di cui l’astronomia, a partire dalla rimozione dal centro operata dal copernicanesimo e, poi, più di recente gli studi sulla velocità della luce e sull’entropia hanno dimostrato la sua tremenda e desolante unicità ed eccentricità, in un cosmo per nulla fatto a sua dimensione e a suo vantaggio. Il richiamo all’origine del processo di ominizzazione è fondamentale perché, se è vero che l’uomo non possiede più quel bagaglio a priori che consente agli animali di orientarsi nel proprio ambiente, diventa centrale la domanda su come un tale essere sia potuto sopravvivere nonostante questa mancanza.12 Lo scenario dell’antropogenetica13 ci mostra come, quando diviene homo erectus, l’essere umano, non più garantito da un predeterminato ambiente come specifico correlato di un organismo o sistema biologico, si trovi esposto a un numero maggiore di pericoli e di   Cfr. H. Blumenberg, Die Vollzähligkeit der Sterne, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1997, p. 109. 12   Cfr. H. Blumenberg, Approccio antropologico all’attualità della retorica, op. cit., p. 94. “Il primo enunciato di un’antropologia deve essere dunque: non è ovvio che l’uomo possa esistere”, ivi. 13   Per antropogenetica Blumenberg intende la ricostruzione di ciò che ha reso possibile la sopravvivenza dell’uomo, nonostante, e anzi proprio in virtù, della sua condizione di mancanza. Non si tratta, però, di un ritorno alle origini. I risultati della sua riflessione vogliono far emergere ciò che costituisce e forma l’uomo originariamente in un contesto spaziale e temporale definito come distanza dall’inizio, piuttosto che come “origine”. Del resto, Blumenberg usa con cautela il termine “origini”: “Il parlare di inizi è sempre in sospetto della mania di tornare alle origini. Nulla vuole tornare all’inizio, che è il punto di convergenza di ciò di cui trattiamo. Al contrario, ogni cosa è definita dalla sua distanza dall’inizio. Perciò è prudente parlare di ‘passato remoto’ [Vorvergangenheit] piuttosto che di ‘origini’” (H. Blumenberg, Elaborazione del mito, ed. it. e trad. a cura di Bruno Argenton, Il Mulino, Bologna 1991, p. 45). Nella filosofia di Blumenberg è possibile esclusivamente una Erinnerung an den Anfang (H. Blumenberg, Höhlenausgänge, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1989, p. 11), che si pone in contrasto con la heideggeriana Versprechen des Anfangs. 11

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difficoltà che deve affrontare per la sua sopravvivenza, aperto a un mondo che gli appare come una sovrabbondanza di sollecitazioni, a un “profluvio di stimoli”,14 come lo definisce Arnold Gehlen, che lo mettono di fronte all’“assolutismo della realtà”,15 espressione con cui Blumenberg indica l’insieme delle condizioni della propria esistenza che non è in grado di controllare. Simbolo precipuo ed esemplare del carattere assoluto della realtà è, per Blumenberg, il cosmo, per la smisuratezza e l’indifferenza che lo caratterizzano, “un cosmo – spiega Franz Josef Wetz – senza dubbio silenzioso e senza alcun riguardo per l’uomo”.16 Ritorna, quindi, l’universo come termine di confronto esemplare per una riflessione sulla condizione umana: l’abisso dell’esteriorità assoluta, in cui non c’è spazio per l’uomo, il quale, però, paradossalmente non può fare a meno di rivolgervisi, proprio perché amplifica all’ennesima potenza, e con ciò rende visibili, i limiti della sua condizione. A motivazione di questa connessione originaria uomo-universo interviene anche l’altra dimensione fondamentale dell’umano, quella rappresentata dalla visibilità, che si esplicita come duplicità di vedere ed essere visto, ed è rispecchiata a livello cosmico dall’intreccio e dalla compresenza di visibile e opaco, che caratterizzano l’osservazione del cielo.17 Se all’uomo fosse stata concessa la capacità di guardare il cielo in modo del tutto limpido e chiaro, egli non sarebbe diventato contemplator caeli. È proprio questo originario, ma fragile e delicato rapporto fra visibilità, invisibilità ed esistenza sulla terra che ha spinto l’uomo a volgere lo sguardo al cosmo e ha, da sempre, costituito “il background cosmico della storia della consapevolezza umana”.18 È in questo senso che la riflessione sulla natura umana viene messa in re14   A. Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, trad. it a cura di C. Mainoldi, Feltrinelli, Milano 1983, pp. 62-63. 15   Cfr. H. Blumenberg, Elaborazione del mito, op. cit., pp. 25-27. 16   F. J. Wetz, Hans Blumenberg zur Einführung, op. cit., p. 82. 17   Cfr. H. Blumenberg, Die Genesis der kopernikanischen Welt, Suhrkamp, Frankfurt am Main, p. 11. 18   Ibidem, p. 15.

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lazione allo studio del cielo, perché l’uomo è tale soprattutto a partire dalla sua collocazione nel cosmo. Questi sono i riferimenti basilari di quella che Blumenberg chiama “semantica antropologica della cosmologia”,19 che si fonda sul fatto che “conoscenza di sé” da parte dell’uomo e “conoscenza del cielo” si rimandano l’una con l’altra e che pertanto una pura antropologia basata sul biologico sarebbe incompleta. Lungi dal “romanticizzare” questa relazione con il cosmo, Blumenberg vuole al contrario sottolineare come questa capacità di volgere lo sguardo verso il cielo non rappresenti un’attività che determina la condizione di privilegio della specie umana rispetto agli altri esseri viventi, ma costituisca un derivato di una problematica situazione senza eguali propria della condizione umana e a cui essa ha risposto definendo con comportamenti sia “pratici” che “teoretici” il suo prendere posizione nel mondo.

2 Dalla scena antropogenetica a quella astronautica 2.1 Actio per distans, eccentricità e Umwege

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uando nella scena primaria, cioè nel passaggio dalla foresta vergine alla savana, il preominide si solleva, acquisendo la posizione eretta per scagliare una pietra contro il suo aggressore, egli si appropria anche della capacità di mettere distanza fra sé e la realtà che ha di fronte. In questo modo avviene il guadagno della distanza attraverso lo spazio che consente di non arrivare al contatto dei corpi o alla lotta ravvicinata che sono, invece, reazioni proprie degli animali. Partendo da questo scenario, in parte ripreso da L’enigma umano di Paul Alsberg, Blumenberg pone, però, soprattutto l’accento sulla funzione svolta dall’ottica prospettica frontale bioculare e più in generale dalla visibilità. La situazione di emergenza e di pericolo nella Ursituation è determinata dall’ottica passiva,   Ibidem, p. 27.

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dal fatto di essere visti da un “altro”, che ha come conseguenza la percezione della propria capacità di vedere20 e, quindi, la possibilità e al contempo la necessità dell’acquisizione della statura eretta e della liberazione delle estremità anteriori. Grazie all’ottica distanziata e al vedere prospettico diviene, infatti, possibile per il preominide un salto qualitativo nella prestazione, consistente in un guadagno di spazio (Raumgewinn) che lo rende capace di percepire la distanza rispetto a ciò che di volta in volta gli appare davanti. Si tratta di un’acquisizione determinante dal momento che gli consente anche un guadagno di tempo (Zeitgewinn),21 che lo rende in grado di collegare temporalmente i differenti stimoli nel cervello e con ciò affinare la propria capacità di previsione e sviluppare le proprie facoltà intellettive.22 La Ursprung dell’essere umano diventa, così, il vantaggio della distanza come risposta all’assolutismo della realtà, che costituisce la modalità precipua secondo la quale egli articola la propria posizione nel mondo e il suo relazionarsi ad esso. All’animale, spiega Max Scheler, manca costituzionalmente lo “spazio del mondo”, in quanto non è in grado di oggettivare il proprio corpo e i movimenti di questo, in modo da poter considerare, nella sua intuizione spaziale, la posizione di esso come momentanea rispetto al mondo che lo circonda.23 Solo l’uomo fra gli esseri viventi sa porsi con consapevolezza la domanda circa la sua collocazione nel mondo e progettare le sue esplorazioni nel tempo e nello spazio, dai più piccoli angoli della terra fino ai più remoti confini nell’universo. Queste considerazioni sono rispecchiate dalla stessa definizione di mondo che Blumenberg intende come “la quintessenza di una possibile oggettività della conoscenza che trova un’esatta espressione nel vocabolo univer-

    22   23  

Cfr. H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, op. cit., p. 240. Cfr. H. Blumenberg, Zu den Sachen und zurück, op. cit., pp. 48-49. Cfr. Ibidem, p. 123. Cfr. M. Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, ed. it. a cura di M. T. Pansera, Roma, Armando, 1997, p. 151. 20 21

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sum”.24 Come tale il mondo non indica l’insieme di tutte le cose che esistono,25 quanto semmai corrisponde alla “ragione universale della scienza possibile”; per questo è “infinitamente provvisorio” e la sua pienezza è irraggiungibile per la singola vita umana.26 Non si può individuare un concetto di mondo dato una volta per tutte; esso si forma in un progresso infinito grazie alla congiunzione e alla connessione dei singoli risultati della scienza e della conoscenza, oltre che dai confini del reale che corrispondono ai limiti delle terre conosciute e dalla collocazione nel cosmo definita dagli studi astronomici. In questo senso, il piano antropologico è necessariamente integrato da quello storico. Relazionarsi al mondo per l’uomo vuol dire, però, anche essere sempre proiettato oltre la sfera mondana. L’uomo, infatti, poggia i piedi saldamente sul suolo terrestre, ma è costitutivamente proiettato oltre se stesso, perché caratterizzato da una condizione di duplicità. La relazione con il mondo è presentata da Blumenberg, richiamando in parte il concetto plessneriano di posizionalità eccentrica,27 come caratterizzata da uno spostamento24   H. Blumenberg, Die ontologische Distanz. Eine Untersuchung über die Krisis der Phänomenlogie Husserls, Habilitationschrift, Kiel 1950, p. 128. 25   Cfr. H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, trad. it. M. Doni, Medusa, Milano 2009, p. 9. Il mondo “non coincide con la totalità dei fatti; diventa tale, nella misura in cui l’entrata/uscita verso di esso si apre, si raggiunge, si rende praticabile”, ivi. 26   H. Blumenberg, Die ontologische Distanz, op. cit., p. 128. 27   Sotto tale rispetto, tuttavia, l’analisi di Blumenberg non raggiunge la profondità teorica della proposta di Plessner, con la quale quest’ultimo, riesce a dare maggiore contenuto e spessore alla definizione dell’uomo come essere mancante nei confronti del mondo nel quale vive, vedendola come un’espressione di quella situazione, definita dal concetto di eccentricità, secondo la quale l’uomo è capace di rapportarsi sia alla sfera della corporeità che a quella dell’interiorità, sia al mondo esterno che al mondo interno, al contempo centrico ed eccentrico. La condizione antropologica fondamentale qualifica l’uomo come perenne processualità, come campo di continue trasformazioni sulla base di nuovi elementi di identità che vengono via via acquisiti. Di qui emerge una conditio humana caratterizzata dall’inquietudine e dall’incertezza, dall’insicurezza e dalla precarietà. Cfr. H. Plessner, L’uomo, un essere esposto, a cura di B. Accarino, «Forme di vita», 4 (2005) 43-49 e B. Accarino, Premessa a Plessner, «Forme di vita», 4 (2005) 37-42.

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continuo fra centricità ed eccentricità. L’essere umano si rapporta ad altro, aprendosi al mondo, ma rimanendone contemporaneamente escluso ed estraneo e venendo nuovamente ricacciato su se stesso, perché in risposta all’angoscia provata nei confronti dell’assolutismo della realtà non sono possibili, né tanto meno raccomandabili per un essere esposto quale è l’uomo, risposte e soluzioni dirette e immediate. L’actio per distans consente, invece, il tentennamento, l’esitazione e quindi la scelta delle strade più lunghe, le Umwege, che sono la carta vincente che l’essere umano gioca nei confronti delle sollecitazioni provenienti dalla realtà, in quanto gli consentono di indugiare, pensare le sue risposte e definire il suo agire.28 L’uomo è, pertanto, l’essere della Selbsterfahrungsbedarf che deriva dalla perdita dell’ambiente, è costretto a far autonomamente esperienza delle proprie capacità, mosso, però, da un principio paradossale, quello della Ökonomie, che esplica la dialettica fra compiti infiniti, apertura di nuovi orizzonti e limitatezza umana. In questo senso, in tutte le sue imprese, dalla scena originaria a quella astronautica, “ciò che spinge l’uomo sul mare aperto è anche la trasgressione del limite dei propri bisogni naturali”,29 indipendentemente dal fatto che questi possano effettivamente essere superati.30

2.2 Dalla caverna della prima umanità all’uscita nello spazio cosmico L’actio per distans conferisce all’uomo la possibilità di avere un mondo, in quanto lo spinge a fuggire l’assolutismo della realtà. Una delle Umwege messe in atto dall’essere umano consiste   Cfr. H. Blumenberg, Pensosità, trad. it. a cura di L. Ritter Santini, Eliotropia, Reggio Emilia 1981, p. 5. Rispetto a ogni forma di vita che “tende a dare senza indugio e senza scrupolo le risposte alle domande che le si pongono […] solo l’uomo si permette la tendenza opposta. È l’essere che esita”, ivi. 29   H. Blumenberg, Naufragio con spettatore. Paradigmi di una metafora dell’esistenza, trad. it. a cura di F. Rigotti, Il Mulino, Bologna 1985, p. 53. 30   Cfr. H. Blumenberg, Zu den Sachen und zurück, op. cit., p. 259. 28

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nella ricerca di rifugio in uno spazio della sicurezza protetta, dove può avere il tempo di definire il proprio orizzonte del mondo, prima di entrarvi. Il primo rifugio è stato quello della caverna, in cui l’uomo primitivo si è ritirato dalla vita errabonda e ferina della foresta illimitata, dove pativa la forza paralizzante dell’ingestibilità del poter-essere assoluto. Nello spazio chiuso e sicuro della caverna il preominide ha sperimentato la sua immaginazione e i suoi sogni, definendo così gli strumenti per affrontare l’apertura e la relazione con il mondo.31 La caverna, con questa sua funzione di cavità uterina, opera, così, un’esplicita inversione del modello platonico, perché è all’interno e non nell’uscita da essa, che si origina la fantasia e la cultura. Ciò non vuol dire che l’uscita sia un passaggio di importanza secondaria. L’uomo ha bisogno della caverna come Ort der Künstlichkeit32 che fa fronte alla iniziale situazione del profluvio di stimoli, ma non può esistere senza la realtà. Il rischio è la stazionarietà nella caverna non il nomadismo. La caverna, quindi, essendo risultato di una Distanznehmen, funziona come una sfera nel senso datole da Peter Sloterdijk di spazio protetto e immunizzato salvo poi avere come scopo ultimo quello di consentire l’uscita da essa come entrata nel chiarore del mondo,33 in quanto al suo interno l’uomo è messo nellecondizioni di progettare il suo agire, è in grado di immaginare l’assente o di definire lo spazio di ciò che è dato, del visibile e del pensabile,34 l’orizzonte di azione verso il quale poi dirigersi, abbando  Cfr. H. Blumenberg, Elaborazione del mito, op. cit., p. 30. “Lo spazio chiuso consente qualcosa che lo spazio aperto non permette: il dominio del desiderio, della magia, dell’illusione, e la preparazione di effetti per mezzo del pensiero”, ivi. 32   H. Blumenberg, Höhlenausgänge, op. cit., p. 37. 33   Cfr. H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, op. cit., p. 12: “Così come lo si affronta qui l’inizio è uscita. Uscita dallo stato di assenza del mondo, che non può essere trattenuto, nel quale non si può vivere, benché sia da esso che la vita sembra ‘strisciare’”, ivi. 34   Cfr. Ibidem, p. 25. “[la caverna] – spiega Blumenberg – insegnò a dominare la tecnica, a immaginarsi l’immediata percezione del non dato: a rendere operabili l’assente e il mancante o l’imminente. Nell’immagine, nel simbolo, nel nome e infine nel concetto, divengono ‘presentabili’ le urgenze di una realtà 31

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nando l’iniziale rifugio. In questo senso, per Blumenberg, solo l’uomo ha in senso eminente un Horizont, in quanto la coscienza di quest’ultimo è un’acquisizione fondamentale per un essere la cui ottica è, nell’ampiezza dell’angolo visuale, delimitata dalla convergenza frontale degli occhi e dal vantaggio della vista prospettica. Nel concetto blumenberghiano di orizzonte, però, non è soltanto racchiusa l’idea del delimitare, semmai quella di un limite o di un confine, che è al contempo simbolo di altre possibilità e come tale destinato a essere superato. L’aspetto decisivo di tale concetto per la natura umana è dato dal fatto che, contrariamente a quanto avviene nella riflessione husserliana, l’Horizont è, in un certo senso, una preformazione dell’intenzionalità come condizione della possibilità di avere coscienza di qualcosa. Solo a partire dall’acquisizione dell’orizzonte diviene possibile ogni ulteriore prestazione della coscienza: esso viene così elevato a un positivo orizzonte di possibilità,35 il concetto chiave delle possibilità e Präventionen umane. Si può procedere con una generalizzazione, ipotizzando che tutta la storia dell’umanità possa essere letta come segnata da momenti di passaggio rappresentati da “uscite” da uno spazio protetto con una separazione dolorosa e rischiosa, ma necessaria, un’uscita che è anche sinonimo di ingresso,36 perché l’uomo possa progettare la propria esistenza nel mondo. In questo senso, quello della caverna può essere considerato, come propone ad esempio Bruno Accarino,37 il modello per le “uscite nello spazio” che hanno caratterizzato la storia dell’uomo, nel senso dell’abbandono di una forma di esistenza raggiunta e divenuta familiare dalla quale ci si poteva ritirare nella misura in cui si disponeva di quei rappresentanti […] Il ‘vasto’ della realtà diventa immaginabile come possibilità”, ivi. 35   Cfr. H. Blumenberg, Zu den Sachen und zurück, op. cit., p. 22. 36   Cfr. H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, op. cit., p. 9. “Il mondo diventa il processo dell’entrare in esso, equivalente all’uscire da ciò che esso non è o non ancora”, ivi. 37   Cfr. B. Accarino, Nomadi e no. Antropogenesi e potenzialismo in Hans Blumenberg, in Hans Blumenberg. Mito, metafora e modernità, a cura di A. Borsari, Il Mulino, Bologna 1999, p. 332.

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e povera di pericoli per l’esplorazione di uno spazio nuovo. A partire dal “passaggio” originario dal mare alla terraferma,38 è possibile individuare nella storia dell’umanità altre tappe significative ciascuna delle quali si presenta come una “uscita” in un nuovo spazio e, conseguentemente, come costruzione di un nuovo orizzonte. I contenuti storici aggiungono profondità e densità a questo quadro e i due piani, quello storico e quello antropologico, sono tenuti insieme da una metaforica in grado di raccoglierli in un’unica immagine, che raffigura la modalità secondo la quale si svolge l’esistenza dell’uomo nel mondo: “L’uomo conduce la sua vita ed erige le sue istituzioni sulla terraferma. Ma il movimento della propria esistenza cerca di comprenderlo nella sua totalità, specialmente con la metafora del temerario navigare”.39 Così il Seefahrt viene presentato come una metafora della vita, il mare una immagine della realtà, costituita da informi sfere dell’arbitrio di forze non disponibili nei confronti dell’uomo. Secondo Blumenberg, quello che l’uomo cerca è l’instabilità e l’insicurezza di nuovi mari, piuttosto che la terraferma, nonostante essa sia il luogo in cui egli abita. In questo senso, la Seefahrt articola la semantica del percorso che, come ha mostrato Carl Schmitt, ha, dapprima, portato alla idronautica, corrispondente all’affermarsi dell’elemento del mare su quello della terra, avvenuto nel Cinquecento e Seicento,40 e quindi all’emergere dell’aria con l’apparire di significative acquisizioni tecnologiche, quali l’aeroplano e le onde radio.41 Entrambi questi passaggi rappresentano, 38   Cfr. H. Blumenberg, Uscite dalla caverna, op. cit., p. 47. Blumenberg, in particolare, cita una frase di Wernher von Braun, il quale affermò a proposito del volo sulla luna: “considero questo evento tanto importante quanto quel momento dell’evoluzione umana, nel quale la vita strisciò fuori dal mare verso la terra ferma”, ivi. 39   H. Blumenberg, Naufragio con spettatore, op. cit., pp. 27-28. 40   Cfr. C. Schmitt, Terra e mare. Una riflessione sulla storia del mondo, trad. it. a cura di G. Gurisatti, Adelphi, Milano 2002, pp. 55-56. 41   Cfr. C. Schmitt, Dialogo sul nuovo spazio, in Idem, Terra e mare, ed. it. a cura di A. Bolaffi, Giuffrè, Milano 1986, p. 105.

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come ha ben messo in evidenza Hermann Timm, una “generalizzazione della Seemannskunst”, dal momento che in modi diversi “oltrepassano la posizione sulla solida terra, stabilita dalla natura per noi uomini”,42 per poi arrivare all’ulteriore tappa rappresentata dall’astronautica, con l’emergere dell’elemento cosmico. Le fasi dell’espansione sul pianeta influiscono sulla modalità propria dell’uomo di relazionarsi al mondo, ma non intaccano tale relazione su un piano antropologico. Come base e, allo stesso tempo, conseguenza dell’espansione spaziale vi è, piuttosto, quella modalità specificatamente umana di relazionarsi al mondo: si tratta del dato di fatto secondo il quale l’uomo ha la capacità e la necessità di formare una determinata coscienza dello spazio in cui vive, una Weltbewusstsein,43 che però è a sua volta soggetta a grandi mutamenti storici.

42   H. Timm, Nach Ithaka heimzukehren verlohnt den weitesten Umweg, in Die Kunst des Überlebens. Nachdenken über Hans Blumenberg, herausgegeben von H. Timm und F. J. Wetz, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1999, pp. 61- 62. 43   Blumenberg indaga le trasformazioni che riguardano la definizione del modo di intendere la relazione fra uomo, natura, visibilità e possibilità e cioè, in sintesi, in quella che costituisce la “definizione dell’orizzonte della coscienza umana del mondo [menschliches Weltbewusstsein]” (cfr. H. Blumenberg, Das Universum eines Ketzers (Einleitung), in G. Bruno, Das Aschermittwochsmahl, herausgegeben von H. Blumenberg, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1981, p. 54). In sintesi, mentre nel mondo antico orizzonte di visibilità e di realtà coincidono, così come l’orizzonte della realtà con quello della possibilità, il Medioevo resta fedele alla congruenza fra realtà e visibilità, ma separa la realtà dalla possibilità, anche se limitatamente all’idea della capacità creativa dell’onnipotenza divina. La modernità, infine, comincia con l’ultima dissociazione, spingendo lontani l’uno dall’altro l’orizzonte della realtà da quello della visibilità, dal momento che l’invenzione dei nuovi strumenti ottici limita sempre più i confini di ciò che è dato all’ottica naturale. L’orizzonte della possibilità, inoltre, si apre alla dimensione dell’operare umano e non più divino, che ha di fronte a sé il serbatoio delle realtà invisibili all’occhio umano su cui poter orientare il proprio agire.

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3. Il risultato dell’impresa spaziale: la prospettiva astronoetica

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enendo come presupposte queste considerazioni sulla condizione umana e il suo relazionarsi al mondo, si può analizzare quello che per Blumenberg costituisce in sintesi il risultato principale prodotto dall’impresa astronautica: si tratta di un spinta geotropica, anche se non più geocentrica, che apre la strada per una via di pensiero pre-copernicana e ci invita a considerare la terra con un, nuovo o vecchio, a seconda dei punti di vista, ma in ogni caso più amorevole, sguardo: Per i suoi abitanti essa [la terra] fu sempre l’invisibile per eccellenza. Ce l’avevamo sotto i piedi, non davanti agli occhi, ovvia e inavvertita. Mancava appunto la negazione come condizione dell’appariscenza. Guardata dallo spazio la terra si mostra, se così si può dire, in un oceano di negatività: un’isola in mezzo al nulla. Ciò la rende visibile in un senso eminente: dolorosamente chiara.44

Gli stessi elementi, il volo spaziale e la conseguente trasmissione di immagini, che fanno evidenziare a Günther Anders come l’ignoranza dell’insignificanza della terra sia divenuta impossibile e con ciò il copernicanesimo acutizzato fino alla definizione di un dislivello telescopico,45 conducono, invece, Blumenberg   H. Blumenberg, L’ansia si specchia sul fondo, trad. it. a cura di B. Argenton, Il Mulino, Bologna 1989, p. 114. Cfr. anche: Idem, Die Vollzähligkeit der Sterne, op. cit., p. 30. 45   Cfr. G. Anders, Der Blick von Mond. Reflexionen über Weltraumflüge, Beck, München 1970, p. 62. Il dislivello prometeico, di cui Anders parla nei due volumi di Die Antiquiertheit des Menschen e per il quale l’uomo è in grado di gran lunga più di produrre che di immaginare, non è questo l’unico dislivello, che oggi è di rilevanza. Ce n’è un altro (molto più vecchio), il cui significato è ancora più importante del dislivello prometeico per la comprensione della nostra situazione attuale. “Il dislivello fra la grandezza di ciò che noi potremmo produrre e la rilevanza, che noi accordiamo a noi stessi e alla nostra esistenza nel mondo. […] La regola dice: quanto più in alto salgono le nostre prestazioni 44

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all’indicazione opposta: egli arriva ad affermare che è proprio il suo essere unica e desolata nell’universo ad attirare nuovamente e con più forza l’attenzione su di essa. La spinta centrifuga dell’astronautica dà voce al sogno, di matrice gnostica, di fuga da una terra sentita come greve e incatenante, portando a espressione, come sottolineato da Emmanuel Levinas, l’essere “nomade” e “senzatetto” dell’uomo.46 All’origine vi è una scissione fra mondo e vita, che si esplica nella distinzione fra tempo della vita e tempo del mondo,47 che non fa sentire l’uomo come appartenente alla sfera in cui vive, perché la sua vita è un evento puntuale rispetto alla sovrabbondanza di tempo di cui la natura dispone: “non il mondo, ma io sono un episodio”.48 Si scopre, così, che non è stato solo un desiderio disinteressato di conoscere che ha spinto l’uomo al suo volo centrifugo dalla terra, semmai un motivo per l’esplorazione dello spazio è fornito da un orgoglioso antropocentrismo tipicamente moderno, che non è ancora disposto ad accettare l’episodicità dell’esistenza umana nella storia del cosmo: “parte della nostra copernicana eredità – spiega Karsten Harries – è la non facile coesistenza del pregiudizio antropocentrico con l’esigenza di una liberazione da tutti i pregiudizi”.49 L’inquietudine per la “solitudine cosmica” dell’uomo ha innescato parallelamente una specie di “antropodicea”, intesa a restituire potere, valore, fiducia alla vicenda terrena dell’uomo. Come tale, l’impresa spaziale non è stata altro che “una variante del vecchio pregiudizio antropocentrico”,50 sul scientifiche e tecniche, tanto più profondamente affonda la funzione, che noi ci attribuiamo come giocatori nell’universo”, ivi. 46   Cfr. E. Levinas, Heidegger, Gagarin et nous, in Idem, Difficile Liberté : essais sur le giudaisme, Michel, Paris, 1976, pp. 323-325. 47   Cfr. H. Blumenberg, Tempo della vita e tempo del mondo, trad. it. a cura di B. Argenton, Il Mulino, Bologna 1996. 48   H. Blumenberg, Ein mögliches Selbstverständnis, Reclam, Stuttgart 1997, p. 10. 49   K. Harries, Copernican reflections, op. cit., p. 268. 50   H. Blumenberg, Die Genesis der kopernikanischen Welt, op. cit., p. 791. L’interpretazione dell’impresa spaziale come conferma del pregiudizio antropocentrico si trova anche in Anders, il quale sottolinea che la maggior

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quale si fonda anche oggi l’interesse per la ricerca di altre intelligenze nel cosmo. È in questo contesto che appare la terra nella sua bellezza e unicità di contro alle immagini di desolazione e assenza di vita che sono giunte dall’esplorazione della luna e ai dati degli altri pianeti del sistema solare riportati dai satelliti che hanno dimostrato che “non c’è, per l’uomo, altra alternativa alla terra”51 ed è, quindi, alla saldezza del suolo terrestre ciò a cui gli astronauti tornano così rapidamente e inevitabilmente. Spinta geotropica e tentativo di fondazione di un nuovo antropocentrismo non vogliono, però, dire ritorno a una fase del tutto precopernicana. Del resto, nella riflessione blumenberghiana non è contraddittorio affermare la coesistenza dei risultati copernicani assieme al persistere di elementi precopernicani: il copernicanesimo, che nell’idea di Prospektivität dà voce al distacco dal mondo connesso all’autoaffermazione e all’apertura al fuori propri della modernità, si afferma accanto alle varie forme in cui riappare il tolemaico, che vanno a pieno titolo a costituire l’autocomprensione dell’uomo moderno.52 parte delle persone che rivolge il proprio sospetto all’astronautica lo fa: “per paura della perdita dell’egocentrismo o del geocentrismo, per la stessa paura di fronte a Copernico, che ha indotto a suo tempo la Chiesa a combattere Bruno e Galilei” (cfr. G. Anders, Der Blick von Mond, op. cit., p. 61). Anche Arendt evidenzia questo riemergere del geocentrismo: “la nuova visione del mondo […] è probabile che diventi ancora più geocentrica e antropomorfica, tuttavia non nel vecchio senso della terra al centro dell’universo in cui l’uomo è l’essere più alto. Sarebbe geocentrica nel senso che la terra e non l’universo è il centro e la casa per l’uomo mortale; sarebbe antropomorfica nel senso che l’uomo considererebbe la sua propria mortalità rispetto alle condizioni elementari sotto cui il suo lavoro scientifico, la sua ricerca di verità e le sue imprese tecniche e la costruzione del suo proprio mondo sono possibili in toto” (H. Arendt, The Archimedean Point, in Ingenor, College of Engineering, University of Michigan (primavera 1969) 26). 51   H. Blumenberg, Die Genesis der kopernikanischen Welt, op. cit., p. 787. 52   L’avvento di Copernico e del “copernicano”, sintetizzabile nel concetto di Prospektivität quale invito a liberarsi dalle distorsioni della prospettiva per avere un accesso più adeguato alla realtà, non segna la fine del “tolemaico”, il

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L’impresa spaziale ha, però, aggiunto qualche nuovo elemento a questo contesto. Ha mostrato l’unicità della terra, non nel senso di attribuirle nuovamente una posizione centrale, ma di riconoscere, al contrario, la sua eccezionalità, il fatto, cioè, che essa è il risultato di un processo altamente improbabile nello spazio cosmico. Si tratta di intendere l’eccentricità come eccezionalità,53 nel senso che, rispetto ad un cosmo che ha deluso le aspettative, la terra è l’unica stella che meriti questo nome.54 Si arriva, così, a una riaffermazione del copernicano, del tutto nuova, però, perché liberata, a questo punto, anche dal trauma generato dalla rimozione dal centro.55 Questo nuovo apparire della meraviglia precopernicana non porta al disinteresse nei confronti dello sguardo rivolto verso il cielo stellato, anzi ha come conseguenza il riemergere della figura del contemplator caeli, che svolge la sua osservazione con occhi nuovi, appunto a partire dal ritrovato centro rappresentato dalla terra. L’astronautica segna, quindi, l’emergere dell’astronoetico quale “ultima figura di contemplator caeli, osservatore del cielo, – come lo definisce Oliver Müller – irritato, scettico e ironico”,56 e tale intende divenire lo stesso Blumenberg nelle sue riflessioni contenute nell’opera postuma Die Vollzähligkeit der Sterne. quale mostra la propria vitalità nel persistere del pregiudizio antropocentrico e antropomorfico, nei tentativi di preservare la relazione fra intuizione individuale dell’universo e la conoscenza astratta di esso o di fondazione della autoconsapevolezza umana su uno schema fisico, nella riproposizione di forme di integrazione fra uomo e cosmo. 53   Cfr. H. Blumenberg, Die Genesis der kopernikanischen Welt, op. cit., p. 787. “Una decade di intesa astronautica ha prodotto una sorpresa che è, in una via insidiosa, pre-copernicana. La terra ha mostrato di essere una eccezione cosmica”, ivi. 54   Cfr. Ibidem, p. 787. 55   Cfr. Ibidem, p. 786. L’eccentricità della terra non è più vista come una delusione, ma come una conquista positiva: “un rovesciamento che ha condotto a termine il trauma copernicano del fatto che la terra ha lo status di un mero punto – dell’annichilazione della sua importanza a causa dell’enormità dell’universo”, ivi. 56   O. Müller, Die Sorge um die Vernunft. Hans Blumenbergs phänomenologische Anthropologie, Mentis Verlag, Paderborn 2005, p. 102.

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Nell’apparire di questi nuovi elementi, la liberazione dal trauma copernicano e il delinearsi della nuova figura dell’astronoetico, lo scenario astronautico non determina, tuttavia, un effettivo cambiamento epocale, quanto piuttosto l’avvio di una serie di riflessioni che concernono la Weltbewusstsein dell’epoca moderna. Si tratta della riflessione astronoetica, in cui la curiosità centrifuga è bilanciata dalla spinta geotropica e che in quanto tale non si pone come un’alternativa all’astronautica, come il pensiero in alternativa al viaggiare, quale fosse l’ultima e decisiva risposta. Così intesa l’astronoetica non precede, ma segue l’astronautica, sebbene la sua ricostruzione risalga fino a Talete, dove l’origine dell’interesse filosofico coincide con quello astronoetico. Scaturisce dall’astronautica in quanto mentre quest’ultima è ganz uninteressant,57 essa vuole offrire significatività, recuperando dal presente, ma anche e soprattutto dalla storia del pensiero, riflessioni, situazioni e immagini, per capire perché l’uomo si sia da sempre confrontato con il cosmo e proiettato verso di esso. Si arriva, così, a riconoscere anche in questo percorso dell’umanità la tendenza a tracciare Umwege, strade indirette, deviazioni: l’uomo ha dovuto lasciare la terra, per ritrovare, in realtà, a conclusione di questo viaggio, proprio ciò da cui era partito. In tale direzione, si definisce anche l’approccio metodologico che traspare da queste pagine. Blumenberg cerca nella storia del pensiero le Umwege già tracciate, che si traducono in un gioco con la “prospettività”, con il pensiero dell’altro e di ciò che è oltre e con il ribaltamento del punto di vista. La sua riflessione non deriva da science finction, ma fa piuttosto uso di Gedankenexperimente, quando, ad esempio, sperimenta di assumere il punto di vista di esseri extraterrestri per osservare la condizione dell’uomo sulla terra. Alla base di queste operazioni di pensiero vi è, altresì, un concetto mutuato dalla fenomenologia e arricchito di una prospettiva storica. Si tratta dell’idea delle freie Variationen,58 con cui nella   Cfr. H. Blumenberg, Die Vollzähligkeit der Sterne, op. cit., p. 359.

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  Cfr. H. Blumenberg, Tempo della vita e tempo del mondo, op. cit., p.

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visione eidetica, prese le mosse da un oggetto individuale, che è presente qui e ora e il cui essere è del tutto contingente, si cerca di mettere in luce ciò che lo caratterizza in modo essenziale. Blumenberg amplia questo concetto tramite un aumento del metodo stesso della riduzione, di modo che ogni grado raggiunto è interrogato nelle sue possibilità e, anche grazie allo scandaglio metaforologico, lo stesso è preparato per un ulteriore grado di sensibilità,59 ricostruendo come varianti di storie o metafore aprano uno spazio di gioco di nuove possibilità di osservazione del fenomeno.60 Il tema del cosmo e il confronto con il cielo stellato entrano a pieno titolo in questo approccio metodologico, perché l’universo costituisce un tema di riferimento frequente per l’uomo, per la sua capacità di essere riflesso, “cartina tornasole” dell’umano o per il fatto che gli aneddoti cosmici hanno la capacità di offrire una “scala amplificatrice”61 rispetto alle questioni prese in esame. Si possono ricondurre e sintetizzare questi riferimenti nel concetto di significatività, Bedeutsamkeit, termine mutuato da Martin Heidegger, che da Grundstruktur esistenziale del Dasein62 diviene in Blumenberg struttura antropologica, che risponde ad una fondamentale destabilizzazione e situazione emotiva di angoscia, collegata all’essere mancante proprio dell’uomo. La si59   Cfr. H. Blumenberg, Die Vollzähligkeit der Sterne, op. cit., p. 471. È sul termine “possibile” che Blumenberg fa perno nel definire la differenza fra il proprio modo di intendere la libera variazione e quello fenomenologico: “Penso che le freie Variationen non solo conducono, secondo la ricetta della fenomenologia, al wesentliche, ma trasferiscono anche il reale in un’altra ottica come frammento del possibile. Qui come giustificazione non si dà nient’altro che il vantaggio di vedere di più”, ivi. 60   Cfr. M. Sommer, Sagen zu können, was ich sehe. Zu Hans Blumenberg Selbesverständnis, «Neue Rundschau» 1 (1998) 79. Il fenomeno analizzato può essere variato e ciò: “può essere fatto in modo ulteriore: rivoltare, penetrare, forzare, ma anche astrarre e fantasticare, modificare le condizioni e mettere alla prova le connessioni”, ivi. 61   H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, op. cit., p. 438. 62   Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, trad. it. a cura di P. Chiodi, Longanesi, Milano 1976, p. 117.

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gnificatività è rivolta principalmente a rispondere a segnali e input provenienti dalla dimensione spaziale e temporale,63 in cui, spesso, il richiamo più frequente è proprio al cosmo e al cielo stellato, come nell’osservazione dei loro cicli e dei fenomeni che scandiscono il tempo della vita dell’uomo e della sua storia o che mettono in luce la coincidenza di grandi avvenimenti storici con spettacolari fenomeni cosmici.64

4. Il viaggio nello spazio come laboratorio per un’antropologia sperimentale

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osì definito l’approccio bumenberghiano alla riflessione sull’impresa spaziale, sintetizzato nell’idea di astronoetica e basato sulla considerazione dell’universo come fonte di significatività, si comprende la quantità di esempi, immagini, a cui Blumenberg fa riferimento, che vanno a costituire un terreno fertile per considerazioni sui caratteri della condizione umana. Viene compiuto, così, un movimento di ritorno grazie al quale “è ora diventato chiaro che abbiamo dovuto prima diventare astronomi per poter alla fine occuparci del mondo della vita dell’uomo”.65 Quello del ritorno è, del resto, un movimento proprio della modernità, che, come ha sottolineato anche Hannah Arendt, è de  Cfr. H. Blumenberg, Elaborazione del mito, op. cit., p. 145.   Cfr. Ibidem, p. 140. Similmente, Gehlen ha messo in luce come il poten-

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ziale di autocomprensione offerto dall’immagine cosmologica sia un elemento antropologicamente costitutivo; se per esempio l’uomo è attratto da “ritmi” e regolarità astrali lo si deve ad una sorta di risonanza (cfr. A. Gehlen, L’uomo nell’era della tecnica. Problemi socio-psicologici della civiltà industriale, trad. it. a cura di A. Burger Cori, Sugarco, Milano 1984, p. 25). Un altro esempio di questo meccanismo può essere individuato, come indica Ernst Jünger, nell’astrologia, che, prendendo le mosse da più estesi spazi di tempo, consente un appiglio più solido per inquadrare, da una diversa prospettiva, il punto nel quale l’uomo si trova situato (cfr. E. Jünger, Al muro del tempo, trad. it. a cura di A. La Rocca, Adelphi, Milano 2000, p. 67). 65   H. Blumenberg, Die Vollzähligkeit der Sterne, op. cit., p. 375.

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terminato dall’evolversi della stessa astronomia: il cannocchiale di Galileo inaugura un’epoca di ottica riflessiva, che nel corpo celeste rileva ciò che deve valere per la terra e di cui diviene emblema la fusione nucleare, in quanto risultato dell’applicazione di un’energia propria del cosmo al pianeta; in questo senso “il cielo diventa semplicemente la via indiretta per comprendere quello che sulla terra non c’è più o non c’è ancora”.66 Il carattere riflessivo di tale processo si afferma con l’astronautica non solo per il fatto che tale impresa ha consentito di acquisire nuove conoscenze e informazioni sul cosmo, quanto piuttosto – e ciò ne costituisce l’aspetto più significativo – perché essa rende possibile all’uomo osservare se stesso e la propria condizione sulla terra con “occhi nuovi”. In modo simile anche Anders parla del guardarsi riflessivo del pianeta, che poi non è altro che un invito per l’uomo ad auto-osservarsi.67 Il potenziale riflessivo dell’immaginario astronautico è determinato dal carattere significativo della dimensione cosmica stessa, di cui si è già detto, ma anche dal fatto che la situazione in cui l’uomo si viene a trovare nel cosmo è segnata dal carattere estremo e dal confronto con una situazione ai limiti delle possibilità e condizioni abituali. Quando vengono a mancare i riferimenti familiari, lo sfondo che si presenta è come quello del nero scuro del cielo cosmico da cui per contrasto era apparsa con inaudita evidenza l’immagine della terra.68 Questo aumento di   H. Arendt, La conquista dello spazio e la statura dell’uomo, in Idem, Verità e politica, trad. it. a cura di V. Sorrentino, Bollati Boringhieri, Torino 1995, p. 85. Cfr. anche H. Blumenberg, Das Fernrohr und die Ohmacht der Wahrheit, in G. Galilei, Side­reus Nuncius. Nachricht von neuen Sternen, herausgegeben von. H. Blumenberg, Suhrkamp, Frankfurt am Main 19802, p. 22. Galilei è un uomo di un’ottica riflessiva: “Egli diresse il telescopio sulla luna, ma quello che vide fu la terra come stella nel cosmo”, ivi. 67   Cfr. G. Anders, Der Blick von Mond, op. cit., p. 12. Con l’impresa astronautica la terra “ha per la prima volta la possibilità di vedersi, perfino di incontrarsi così come finora aveva potuto incontrarsi solo la persona che si riflette nello specchio”, ivi. 68   Dal confronto con il padre, fotografo dilettante, deriva a Blumenberg questa idea di ciò che risalta dal negativo, da un contrasto forte come quello 66

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“visibilità” offerto dall’impresa del viaggio spaziale deriva anche dal fatto che essa consente di osservare la terra e la condizione umana dal di fuori e da lontano, una prospettiva di osservazione grazie alla quale, come ha spiegato Ernst Jünger, le cose appaiono in una luce diversa e migliore, in un certo senso atemporale e telescopica.69 In questo modo, l’immaginario astronautico può offrire nuove e inaudite prospettive di osservazione e di analisi70 sulla natura dell’uomo, dalle condizioni della sua sopravvivenza alla definizione della consapevolezza di sé, fino al modo di relazionarsi al mondo, agli altri e al proprio pianeta. Si potrebbe parlare a questo proposito di una sorta di “minima antropologia”.71 Blumenberg stesso definisce il suo lavoro su differenti Lebensthemen una Experimentalanthropologie,72 che parte da situazioni concrete per arrivare a considerazioni sulla condizione umana. Riflettere sull’impresa spaziale vuol dire, quindi, non solo individuare i determinato da uno sfondo scuro. Cfr. H. Blumenberg, Concetti in storie, trad. it. a cura di M. Doni, Medusa, Milano 2004, pp. 25-26. 69   Cfr. E. Jünger, Lettera siciliana all’uomo sulla luna, in Idem, Il contemplatore solitario, trad. it. a cura di Q. Principe, Guanda, Parma 2000, p. 29. “Le cose non si modificano agli occhi di chi è sopra di esse e le osserva, ma mettono in mostra un altro lato della loro realtà. Con questa differenza, che nasce dall’allontanarsi dell’immagine, si fonde la diversità dei tempi […] balza in primo piano ciò che potremmo chiamare il loro modello unificante – la comune struttura cristallina nella quale è precipitata la materia prima”, ivi. 70   Una chiave di lettura di carattere antropologico del significato “riflessivo” dell’impresa è presentata da Hans Jonas, il quale ritiene che la questione dell’essenza dell’uomo posta nei termini di cosa lo distingua dagli altri esseri viventi, cioè come questione della differentia specifica, possa trovare nell’immaginario astronautico una significativa modalità di sperimentazione: essa, infatti, “nega per il riconoscimento dell’umano ogni sostegno della pregiudicante familiarità morfologica, vale a dire ogni indizio, ma anche ogni tentazione della mera somiglianza apparente. “Umano” deve designare quindi qualcosa che giustifichi l’assegnazione del nome persino in presenza di un’estrema dissomiglianza fisica”, cfr. H. Jonas, Organismo e libertà. Verso una biologia filosofica, trad. it. a cura di A. Petrucco Becchi, Einaudi, Torino 1999, p. 204. 71   J. Georg-Lauer, Minima antropologia, «Neuen Zürcher Zeitung» (11 dicembre 1987) 70 72   Cfr. H. Blumenberg, Die Vollzähligkeit der Sterne, op. cit., p. 246.

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presupposti e le continuità antropologiche che vi hanno condotto e l’hanno resa possibile e per certi aspetti inevitabile, ma anche farla divenire essa stessa una sorta di “laboratorio antropologico”. Nell’ambito della riflessione filosofica contemporanea, questo approccio è stato sviluppato soprattutto da Peter Sloterdijk, che ha definito il volo nello spazio una disciplina dell’antropologia sperimentale e ha visto nella navicella spaziale un laboratorio di analisi dei caratteri della condizione umana, in quanto essa deve consentire una “ricostruzione integrale, eccentrica, radicalmente esplicita delle premesse della vita”.73 Si tratta di uno spiegamento del protesico, che determina la messa in atto di un processo di “esplicitazione”, in cui ciò che era implicito, supposto e presupposto, cioè gli elementi e le condizioni che consentono la sopravvivenza dell’uomo, deve essere esplicitato e chiarito per ricostruire un ambiente che consenta la vita “nonostante” l’inospitale vuoto dello spazio cosmico.74

  P. Sloterdijk, Schäume. Sphären III, Suhrkamp, Franckfurt am Main 2003, p. 323. La teoria di Sloterdijk sulla “schiuma” si presenta come una polisferologia o serrologia che trova nella teoria tecnologica degli spazi abitati dall’umano e simbolicamente climatizzati l’ambito di indagine privilegiato. Da questo punto di vista: “La disciplina più apparentata con questa teoria eterodossa della cultura e della civilizzazione si trova fino a questo momento nella tecnica del volo spaziale abitato – perché in nessun’altra tecnologia, ci si interroga con un impegno così radicale sulle condizioni tecniche della possibilità dell’esistenza umana nelle capsule incaricate di preservare la vita”, ivi. 74   Cfr. Ibidem, p. 321. “Da un punto di vista filosofico, non bisogna cercare il significato del volo spaziale nel fatto che fornisce i mezzi di un possibile esodo dell’umanità nel cosmo o che è associato al bisogno supposto che ha l’uomo di spingere costantemente le frontiere del possibile. Possiamo lasciare da parte il romanticismo dell’idea di esodo. Se il volo spaziale gioca un ruolo importante, dal punto di vista ontologico, per una teoria della condizione umana illuminata dal punto di vista tecnico, è per il fatto che esso fornisce un quadro d’esperienza a tre categorie indispensabili per la capacità umana d’essere – quella dell’immanenza, quella dell’artificialità e quella della forza ascensionale”, ivi. 73

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Riprendendo questa idea di esplicitazione è possibile interpretare in tale senso alcune questioni sviluppate dalla riflessione di Blumenberg sull’impresa spaziale. Nell’applicare questa chiave di lettura occorre, in ogni caso, compiere qualche variazione. In Blumenberg possono avere questa capacità di esplicitazione, innanzitutto, le riflessioni sull’impresa spaziale. Ne sono esempio gli stessi astronauti, in quanto si trovano sottoposti a condizioni di vita radicalmente estranee, per far fronte alle quali sono protetti dalle tute e dai caschi, che impediscono loro di guardarsi negli occhi e limitano i segnali di identificazione dei soggetti.75 Gli astronauti sono, così, annullati nella loro capacità di percezione sensibile, il proprio corpo è del tutto sostituito nelle sue funzioni dall’altissima capacità protesica della tuta. In modo simile a quanto affermato da Sloterdijk, Blumenberg mette in evidenza come la tuta dell’astronauta svolga così una funzione esplicitante di ciò che costituisce l’uomo, perché deve riprodurre del tutto i suoi bisogni per potervi far fronte tecnicamente, ed è così che grazie all’impresa spaziale “ora si sono accorti di cosa un essere curioso di provenienza terrestre sarebbe debitore”,76 per quanto attiene alle sue condizioni di esistenza e di sopravvivenza. Nella riflessione di Blumenberg la chiave di lettura dell’esplicitazione può, poi, essere applicata più in generale ai pensieri “astronoetici”, in grado, infatti, di mostrare ed esplicitare alcune aspirazioni e bisogni propri dell’uomo. Interessante da questo punto di vista è la figura dell’abitante di altri mondi77 che giunge 75   Cfr. H. Blumenberg, Die Vollzähligkeit der Sterne, op. cit., p. 476. L’astronauta non può guardare l’altro, ma solo vedere nella visiera dell’altro il riflesso della propria immagine. Come tali, gli astronauti sono “monadi dotate di finestre”, ridotte anche nella possibilità di identificazione reciproca e di conoscenza dell’“altro”, che si limitano ai segni lasciati dalle orme dei loro passi: “Il linguaggio del corpo, scomparso, dovrebbe interamente trapassare nella fisionomica dell’impronta del piede”, ivi. 76   Ibidem, p. 479. 77   Nell’Illuminismo, lo scopo di questi esperimenti mentali era quello di guardare più da vicino il mondo umano, proprio a partire da uno sguardo straniante e dall’esterno. Ci si rivolge all’Universo non tanto e non solo per vedere l’effettiva conferma dell’idea della pluralità di mondi abitati, quanto

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in visita sulla terra, figura che, sviluppata soprattutto in ambito illuminista, costituisce un’esemplare applicazione di quella idea di prospettività indicata da Blumenberg come centrale nella definizione del “copernicano”. Dalla percezione della nudità e dal monito “come se qualcuno ci vedesse”78 avvertito nella savana originaria, l’uomo ha da sempre fatto i conti con la prospettiva dell’altro, sia esso il vicino, il nemico o anche la divinità, perché, come dimostra il carattere originario e preponderante dell’ottica passiva, egli è da sempre esposto allo sguardo altrui. Al contempo, l’uomo stesso, proprio in quanto colui che agisce a distanza, è in grado di autoassumere questa prospettiva e, con il tramite di una sorta di figura di mediazione, di osservare e giudicare se stesso e la propria condizione a partire da tale punto di vista che, proprio in quanto distante ed estraneo, è in grado di osservare la realtà cogliendone gli aspetti essenziali e distintivi. La stessa tematica dello sguardo dell’altro può essere analizzata anche da un ulteriore punto di vista, secondo il quale piuttosto per cercare una prospettiva relativizzante e critica per l’autocoscienza umana e per ciò che essa ha realizzato, ingenerando così il dubbio, che quella tracciata possa non essere l’unica strada possibile. La figura dell’abitante di altri mondi viene usata come strumento di satira volta allo smascheramento di pregiudizi: “L’uomo voleva spettatori, anche se lo schernivano come quelli di Sirio e Saturno [Voltaire]. Ma se essi ridevano, egli doveva prenderli sul serio, altrimenti non ne sarebbe derivata alcuna Aufklarung dalla loro visita” (H. Blumenberg, Il riso della donna di Tracia, op. cit., p. 49). In ambito contemporaneo, Blumenberg rintraccia un esempio dell’uso di questa figura dell’abitante di altri pianeti, ad esempio, in alcune riflessioni di Ernst Jünger, il quale, a commento del suo lavoro nell’opera Die Arbeiter, aveva affermato: “Ho cercato di descrivere la nostra realtà come se essa fosse spiegata a un abitante della luna, che non ha mai visto un’automobile né letto una pagina della letteratura moderna” (cit. in H. Blumenberg, Die Vollzähligkeit der Sterne, op. cit., p. 180). Il Mann vom Mond, di Jünger osserva la società attuale con un sorriso beffardo e non più con quello ironico proprio dell’osservatore illuminista. 78   H. Blumenberg, Die Vollzähligkeit der Sterne, op. cit., pp. 141-142. Come emerso nella riflessione antropologica, l’ottica originaria è pertanto passiva ed è simbolo del fatto che l’uomo vive in un mondo in cui deve fare sempre i conti con il fatto di essere visto.

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l’abitante proveniente da altri mondi non è più colui che osserva l’uomo, ma ciò che viene da quest’ultimo ricercato. Entra qui di nuovo in gioco la prospettività, come tentativo dell’uomo di rispecchiarsi in una figura che, sebbene sia pensata come ciò che è radicalmente altro, viene comunque ipotizzata a partire da categorie proprie dell’umano, che egli pensa di poter vedere paradossalmente riprodotte in ciò che in realtà è considerato come l’assolutamente diverso ed estraneo. Blumenberg cerca più volte di mettere in evidenza il carattere paradossale delle ricerche di intelligenze extraterrestri,79 tentando di smascherare presupposti e pregiudizi che vi sono sottesi, a loro volta riconducibili a uno unico, l’antropomorfismo, che costituisce il modello-base per tutti i pregiudizi. Alla base di questa ricerca vi sarebbe, infatti, un pregiudizio sulla ragione umana, che tende, in maniera semplicistica e frettolosa, a considerarla come una dotazione naturale e necessaria di esseri viventi abitanti di altri mondi.80   Data l’immensità del cosmo e l’omogeneità della materia, non risulta inconcepibile l’idea che la vita intelligente possa essere sorta anche in altri luoghi nello spazio, mentre sembra un ritorno a un geocentrismo precopernicano affermare al contrario l’unicità della vita razionale sulla terra. Anche se sottolinea l’estrema improbabilità di una riproduzione della vita intelligente in altri pianeti, lo scopo ultimo di Blumenberg è piuttosto quello di affermare l’inutilità di tale ricerca, dal momento che le enormi distanze cosmiche renderebbero, in ogni caso, impossibile entrare in comunicazione con altri esseri viventi nel cosmo o mantenere il contatto con essi, anche una volta trovate delle tracce di altra vita su un altro pianeta. Conseguentemente, Blumenberg fa appello alla disproporzione fra tempo della vita e tempo del mondo, ulteriormente confermata e acuita dalle distanze cosmiche, per sottolineare l’inutilità di questa ricerca, al di là della possibilità o meno della sua fondatezza (cfr. H. Blumenberg, Tempo della vita e tempo del mondo, op. cit., pp. 206-207). 80   Cfr. H. Blumenberg, Die Vollzähligkeit der Sterne, op. cit., p. 366. Blumenberg sottolinea l’assurdità oggi di questa ricerca, mossa da una facile tautologia fra mondi e ragione, che pretende che la “ragione sia qualcosa che vale in ogni mondo” (ivi). Queste ricerche non tengono in conto l’estrema improbabilità della ragione nel cosmo, che, come emerge in una riflessione di carattere antropologico, è segnata dalla finitezza, dalla contingenza della sua origine sulla terra, come una conseguenza del divenire l’uomo in posizione eretta. Da questo punto di vista, l’errore sta nel pensare che la ragione umana possa 79

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Nella ricerca di altre forme di vita nell’universo è, poi, possibile rintracciare un’esplicitazione del bisogno proprio dell’uomo di entrare in comunicazione con “altri”, a sua volta motivato dalla necessità di fronteggiare la disproporzione fra tempo della vita e tempo del mondo e il rischio che la vita umana, infinitesimale episodio rispetto alla dimensione temporale propria del mondo, abbia termine senza poter lasciare tracce di sé. In questo modo si trova anche conferma all’immagine dell’uomo come l’essere della visibilità, che ha puntato a poter essere visto e al quale importa essere visto, in quanto: “noi primati della razza dell’homo sapiens sapiens siamo un ‘fenomeno’ e vogliamo mostrarci”.81 Compiendo un’illegittima trasposizione, questi stessi bisogni vengono riconosciuti come motivazione che dovrebbe muovere altri esseri a giungere dal loro pianeta alla terra.82 Nelle tematiche fin qui richiamate, si è assistito al ricorrere di un medesimo meccanismo tramite il quale nelle riflessioni esotiche e astronoetiche non si fa altro che riconoscere nel Fremde ciò che in realtà costituisce il “proprio”. In questa operazione l’universo si dimostra un terreno fecondo, in quanto per la sua immensità può facilmente essere popolato con ciò che la mente umana vi vuole vedere: “così il cosmo si anima di ciò che ci aspettiamo da lui”.83

essere staccabile dalle condizioni contingenti che l’hanno creata qui sulla terra, quando invece proprio queste sono state determinanti nella sua formazione. 81   Ibidem, p. 115. 82   Cfr. Ibidem, p. 405. 83   Ibidem, p. 337.

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4.1 Implicazioni antropologiche del ritorno sulla terra Nell’ambito di una considerazione dell’impresa spaziale quale laboratorio della condizione umana, una riflessione a parte va dedicata al risultato geotropico dell’astronautica conseguente allo sbarco sulla luna. È un dato antropologico quello che emerge da questa operazione: la spinta centripeta che segue quella centrifuga chiama in causa la relazione dell’uomo con la terra nella sua interconnessione e distinzione con il mondo e l’universo.84 A dimostrazione di come la natura umana non sia fatta per la terra può essere richiamato il fatto che l’uomo è costretto a contrastare la forza di gravità per potersi mantenere in piedi sul solido suolo terrestre.85 Tuttavia, se Levinas ha individuato nel distacco dalla terra l’unico vero risultato dell’impresa spaziale (condizione emblematicamente rappresentata da Gagarin, l’uomo che “è esistito al di fuori di ogni orizzonte”),86 Blumenberg si avvicina piuttosto alle interpretazioni di Anders e Arendt, i quali hanno sottolineato come la fuga concreta dal pianeta, motivata da questa non-appartenenza, non possa essere pensata senza il movimento di ritorno, basato a sua volta sul fatto che, se anche l’uomo non è fatto per la terra, è comunque radicato in essa, perché è da essa che si è originato. Ciò è testimoniato, spiega Blumenberg, dello stretto legame che si dà fra il metabolismo degli organismi e la terra, la   In Blumenberg terra e mondo sono interconnessi, ma è possibile riconoscere comunque due prospettive differenti a cui i due termini fanno capo. Quando si fa riferimento alla terra si intende lo spazio entro il quale si danno le condizioni della vita umana, mentre, quando emerge la prospettiva dall’esterno, essa diviene pianeta e globo, o “corpo cosmico abitato” (cfr. H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, op. cit., p. 172). Il mondo, invece, è ciò che, come conseguenza del confronto con l’assolutismo della realtà, viene elaborato nel pensiero e nella produzione dei mondi culturali e nella definizione dell’orizzonte dell’agire dell’uomo, ma anche nella sua articolazione come Weltbilder e Weltmodelle, in cui anche terra e universo sono tenuti insieme in una visione unitaria. 85   Cfr. H. Blumenberg, L’ansia si specchia sul fondo, op. cit., p. 85. 86   E. Levinas, Heidegger, Gagarin et nous, op. cit., p. 323. 84

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quale conserva ogni prodotto dei metabolismi degli esseri viventi che la abitano. Anche nello spazio l’uomo non può fare a meno di portare segni della sua propria terrestrità, perché il suo organismo non può fare a meno di riprodurre il proprio metabolismo. Nello spazio inospitale del cosmo, accade perciò che l’astronave si comporti proprio come la terra e, per un effetto dovuto alla forza di gravitazione che la circonda e attira attorno a sé quello che si trova nelle immediate vicinanze, trattiene i rifiuti prodotti dall’equipaggio, che vanno ad attorniarla e la seguono nello spostamento.87 Le navicelle spaziali, che, ha spiegato in modo più incisivo Sloterdijk, devono produrre una climatizzazione del tutto artificiale,88 mostrano come, a differenza delle altre uscite in nuovi spazi che hanno segnato la storia dell’umanità, nel viaggio nel cosmo più che uscire dalla terra, l’uomo ha dovuto portare con sé una riproduzione della propria “caverna” primitiva, una protesi della sua stessa terrestrità, si potrebbe dire, la protesi di tutte le protesi. La terrestrità dell’uomo appare così come una condizione che egli si porta con sé, perché “la terra è il destino dell’uomo, anche se un giorno egli dalla lontananza dello spazio non potesse più vederla: l’uomo fa di tutto quello che abita e su cui viaggia piccole terre con la loro e con la sua storia”.89 La terra è una dimensione che l’uomo non può trascendere, ma che si porta con   Cfr. H. Blumenberg, Die Vollzähligkeit der Sterne, op. cit., p. 435. Durante il viaggio dell’Apollo 11, racconta come esempio Blumenberg, la vista della terra veniva disturbata dall’eliminazione dell’acqua sporca del veicolo, che ghiacciava e rimaneva attorno alla navicella. Questo fatto ci mostra come l’uomo sia sempre “perseguitato da se stesso, dall’involuzione del suo metabolismo, dalla sua dipendenza dal mondo intorno a se” (ivi). In modo simile, Anders parla di Mini-Welten, che gli astronauti portano con sé nel cosmo e che corrispondono agli oggetti che costituiscono il loro equipaggiamento, “dal momento che insieme rappresentano un sistema per la loro sopravvivenza” (cfr. G. Anders, Der Blick vom Mond, op. cit., p. 155). 88   Cfr. P. Sloterdijk, Schäume. Sphären III, op. cit., p. 38. La situazione dell’astronave nell’universo è, in particolare, quella in cui l’ “essere-a-bordo” rende possibile l’ “essere-nel-mondo”. 89   H. Blumenberg, Die Vollzähligkeit der Sterne, op. cit., p. 436. 87

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sé anche quando vi si allontana, perché “la Terra immemorabile – come ha sottolineato Pierre Lévy – porta il proprio tempo con sé, è sempre già presente, mai trascorsa. Si è sempre sulla Terra quando si va sulla luna”.90 È interessante vedere come la riflessione di Blumenberg sul radicamento terrestre dell’uomo richiami altre voci della filosofia novecentesca che si sono mosse in una direzione simile,91 puntando su una rivalutazione dell’abitare autentico, inteso ad esempio da Heidegger come “il soggiornare dei mortali sulla terra” e “sotto il cielo”,92 e sulla solidarietà che lega la nostra esistenza incarnata al suolo che la nutre e la sostiene, alla terra nel “suo senso di dimora primordiale, di arca del mondo”,93 come l’ha definita   P. Lévy, Intelligenza collettiva. Per un’antropologia del cyberspazio, trad. it. a cura di D. Feroldi, Feltrinelli, Milano 1996, p. 176. 91   In questo senso, Arendt ha, ad esempio, sottolineato come l’essere legati alla terra proprio della condizione umana si esprima nel linguaggio e nei concetti, che guidano il suo pensiero e, pertanto, anche il suo agire politico (cfr. H. Arendt, La conquista dello spazio, op. cit., p. 85). In questo senso, si può anche rilevare con Schmitt, il fatto che, in seguito alle “rivoluzioni spaziali” che hanno di volta in volta fatto emergere nuovi elementi e l’apertura tramite la tecnica di nuovi spazi, l’uomo rimane pur sempre di natura fondamentalmente e radicalmente terrestre e ciò è rispecchiato nei suoi ordinamenti politici e giuridici (cfr. C. Schmitt, Dialogo sul nuovo spazio, op. cit., p. 109). L’uomo deve essere richiamato, sostiene anche Ernst Jünger, nel suo legame con la terra, a una riabilitazione della dimensione tellurica dell’Essere, che invita a ricollocare la storia dell’uomo nel suo letto geologico e a considerarla alla stregua di un capitolo della storia della terra. Questo invito è motivato più profondamente dal fatto che il pericolo più grande nel mondo tecnologico senza storia riguarda il pianeta e la possibilità della sua distruzione. La speranza per contrastare l’avvento del niente risiede in un radicamento terrestre, in quanto la terra con il proprio tempo, con la propria verità, ha la facoltà di ostacolare la tecnica. In questo senso Jünger sottolinea la significatività dell’immagine del pianeta visto dallo spazio e il suo carattere metastorico (Cfr. E. Jünger, Al muro del tempo, op. cit., pp. 124-125). 92   M. Heidegger, Costruire abitare pensare, in Idem, Saggi e discorsi, trad. it. a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976, p. 99. 93   E. Husserl, Rovesciamento della dottrina copernicana nell’interpretazione della corrente visione del mondo, «Aut Aut» 245 (1991) 16. Su questo studio husserliano cfr. anche G. D. Neri, Terra e Cielo in un manoscritto husserliano del 1934, in «Aut Aut» 245 (1991) 24. Guido Neri sottolinea come in 90

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Husserl. La terra appare come il solido suolo dell’esistenza degli uomini, esseri fondamentalmente terrestri, che vivono e creano le proprie istituzioni sulla terraferma, che definiscono “terra” un pianeta coperto per i tre quarti di acqua e paradiso “terrestre” il luogo della felicità ultraterrena. In questo senso, secondo Blumenberg, l’impresa spaziale non ha, in effetti, provocato un concreto cambiamento. Si sarebbe in senso stretto lasciato la terra, se si fosse viaggiato nello spazio avendo come parametro un tempo assoluto. Nel viaggio spaziale, all’opposto, si è mantenuta una sostanziale contemporaneità artificiale fra gli astronauti e la navicella, in cui è stata riprodotta la dimensione temporale propria dell’esistenza dell’uomo sul suolo terrestre. Più che un cambiamento, l’impresa astronautica ha reso possibile l’esplicitazione di quel dato esperenziale e fenomenologico secondo il quale, come ha spiegato Edmund Husserl, “io so nel pensiero che mi trovo sulla terra nel cosmo, ma non lo vedo”,94 in quanto il pianeta costituisce un Vehikel-Phänomen, che resta il punto di riferimento costante, il suolo di esperienza (Erfahrungsboden) per tutti i corpi, che nella forma originaria di rappresentazione non si muove né è a riposo, ma è solo in riferimento a lei che quiete e moto hanno un senso.95 Rispetto a Husserl, l’intenzione di Blumenberg non è quella di richiamare all’esperienza sensibile che rimane precopernicana e che la costruzione scientifica della visione del mondo ha perso questo saggio sia interessante il modo di procedere dell’argomentazione husserliana che fa uso di esempi particolari che richiamano la prospettiva astronautica: “Libero dall’impaccio di scrivere un testo per il pubblico, il filosofo con se stesso si lascia attraversare dalle ipotesi più ardite, si cimenta negli esperimenti mentali più lungimiranti. Si immedesima negli uccelli in volo per confrontare e allargare il campo delle possibilità cinestetiche, si solleva con una navicella tanto in alto da vedere la Terra come una sfera […]; immagina di essere nato su un’astronave per assistere al relativizzarsi e poi all’ampliarsi del riferimento alla Terra-suolo”, ivi. 94   Cit. in H. Blumenberg, Zu den Sachen und zurück, op. cit., p. 85. 95   Cfr. E. Husserl, Rovesciamento della dottrina copernicana nell’interpretazione della corrente visione del mondo, op. cit., p. 7.

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di vista. Egli vuole piuttosto mostrare come lo sviluppo scientifico-tecnologico, grazie alla nuova acquisita prospettiva astronautica, abbia portato all’esplicitazione su un piano fenomenico e intuitivo, dell’essere la terra un “corpo cosmico”, all’esplicitazione, cioè, di un dato, in realtà, già acquisito, almeno nella teoria, dall’astronomia e fisica moderna. Tale esplicitazione ha per conseguenza il ritorno alla terra come un passaggio necessario e inevitabile in quanto risulta direttamente proporzionale al grado di curiosità propria dell’essere umano: una curiosità grande, ma non al punto da motivare un viaggio che si sappia fin dall’inizio senza ritorno.96 Non stupisce che il risultato dell’impresa spaziale sia stato alla fine ciò da cui si era partiti. Del resto, fa parte del modo proprio dell’uomo di approcciarsi alla realtà, il fatto di arrivare alle conclusioni, anche quelle più semplici, anche quelle che ha avuto sempre sotto gli occhi, solo per la via più indiretta. Attuale si rivela quanto sostenuto già da Lichtenberg il quale nutriva un sospetto che si sarebbe confermato solo con la caduta del richiamo esercitato dai voli spaziali: che l’enorme grandezza dell’oggetto astronomico potrebbe far sì che l’interesse si perda in esso, quando non fosse più riconoscibile un “ritorno” sull’uomo. In realtà:

96   Cfr. H. Blumenberg, Die Vollzähligkeit der Sterne, op. cit., p. 383. La terra “con i voli spaziali ha mostrato una qualità molto graziosa: quella del possibile ritorno a lei, se si è stati così curiosi […] da lasciarla. Per Ulisse, anche nelle sembianze spaziali, ritornare a Itaca - così è richiesto - esige e merita una deviazione grandissima” (ivi). L’implicazione del ritorno è comune a tutte le avventure di esplorazione intraprese dall’uomo, perché senza tale movimento non si può dare testimonianza dell’evento e crearne così il ricordo (ivi, p. 324). Per Blumenberg il bisogno del ritorno risponde, altresì, ad un motivo antropologico, esemplificato dall’ipotesi dei geonauti per i quali il viaggio di ritorno sulla luna sarebbe altamente improbabile e rischioso. Se la natura fondamentalmente curiosa dell’uomo lo spinge sempre a nuove avventure anche a quelle più rischiose, essa tuttavia richiede che la strada del ritorno sia per lo meno probabile: “Potrebbe essere che geonauti provenienti dalla luna – scrive Blumenberg – avrebbero una curiosità teoretica di intensità diversa da quella del tipo a noi familiare di ricercatore e di avventuriero, per il quale a dispetto dei rischi insiti nelle sue imprese deve rimanere aperta la scappatoia del ritorno” (ivi, p. 381).

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L’universo sarebbe – sostiene Blumenberg - semplicemente una di quelle vie lunghe e tortuose che l’uomo percorre per aver lumi su se stesso come essere capace di conoscere: un esperimento, per il quale il suo oggetto più completo gli offre semplicemente lo stimolo.97

È in questo senso che l’esperienza di tornare alla terra avrebbe potuto essere fatta solo abbandonandola. Il ritorno geotropico è in definitiva l’ultima parola di Blumenberg sull’impresa spaziale, in quanto esso, così come era stato quello di Ulisse, è, o vorrebbe porsi, come un “movimento di restituzione del senso”.98 La significatività sorge dalla tensione tra la resistenza che la realtà nel suo assolutismo oppone alla vita e la mobilitazione di energia che viene messa in moto per affrontarla, anche se ciò vuol dire prendere strade indirette, deviare per poi tornare al punto di partenza. Si crea, così, “lo schema della chiusura di un cerchio che garantisce il tenore d’ordine del mondo e della vita contro ogni apparenza di arbitrio e di caso”.99 Anche se l’indagine portata avanti da Blumenberg intende proporsi come esaustiva, essa lascia in ogni modo aperta la domanda di come conciliare lo smascheramento dell’inutilità e assurdità della ricerca di esseri extraterrestri con quei caratteri della condizione umana che lui stesso ha riconosciuto: l’essere curioso, l’aver bisogno di entrare in comunicazione, di mostrarsi e di essere riconosciuto e con ciò ricordato, tutti elementi che, fra l’altro, hanno ricevuto nell’attivismo proprio della modernità ulteriori possibilità di espressione. La difficoltà sta nel conciliare tale attivismo, che, usando le parole di Arendt, alimenta la tendenza a ripetere all’infinito la ricerca di sempre nuovi punti di Archimede,100 con l’indicazione dell’inevitabile ritorno sulla terra.   H. Blumenberg, Tempo della vita e tempo del mondo, op. cit., pp. 279-

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  H. Blumenberg, Elaborazione del mito, op. cit., p. 106.   Idem. 100   Cfr. H. Arendt, La conquista dello spazio, op. cit., p. 95. 98 99

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L’astronoetica blumenberghiana non indica altre direzioni e rimane con ciò intrappolata in questa impasse, in cui smascherare l’illusione non riesce comunque a cancellarla, perché la strada che indica, quella geotropica, non dà voce alle esigenze antropologiche, che vi erano pur celatamente sottese e presupposte. Senza l’apertura propria dell’uscita in nuovi spazi e della ricerca di nuovi orizzonti anche irraggiungibili, l’uomo, come ha mostrato lo stesso Blumenberg, rischia di non rispondere al bisogno che gli è proprio di consumare le condizioni della sua esistenza e “l’esaurirsi di questa qualità è più preoccupante di altre perdite, perché produce quella inerzia della coscienza che, con molta imprecisione, può essere chiamata noia ed è fonte di innumerevoli mali”.101 Del resto, se l’universo, dopo la sua esplorazione, non ha effettivamente dischiuso all’uomo nuove significatività, dando conferma al desiderio e alla speranza di incontrare nuove terre, nuove vite o nuovi spazi abitabili, esso, cosa che Blumenberg non intravede, è comunque stato oggetto di un processo di familiarizzazione, che ha riguardato soprattutto lo spazio cosmico immediatamente circostante il pianeta, perché, come ha sottolineato Anders, ogni meta raggiunta dall’uomo nello spazio è stata comunque alla fine reinterpretata e inglobata nell’ambito del terrestre.102 Nel mondo che ha acquisito la prospettiva astronautica pare emergere, appunto per questo, la possibilità che la terra rispetto alla sua tradizionale definizione fondata ontologicamente, a cui   H. Blumenberg, L’ansia si specchia sul fondo, op. cit., pp. 70-71.   Cfr. G. Anders, Der Blick von Mond, op. cit., pp. 26-27. Il geocen-

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trismo, nella misura in cui si amplia la cerchia di ciò che viene conquistato e raggiunto, non subisce scosse anzi mostra la possibilità di accrescere il proprio raggio: “Siamo noi che non ci estenderemo con l’estendersi del nostro mondo. Al contrario: a causa di questa estensione diventeremo ancora più egocentrici, più centripeti. Senza sosta saremo costretti a mettere la lontananza al servizio della vigilanza, a rendere domestici i pianeti catturati, ad impiegare per quaggiù i territori conquistati come basi strategiche, come materie prime, come apparecchiature di prestigio. In altri termini: i cosmonauti non abbandoneranno la terra”, ivi.

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sono riconducibili le riflessioni di Heidegger e Husserl e a cui Blumenberg stesso fa riferimento quando richiama alla saldezza del suolo terrestre, possa, o debba, essere intesa in un modo radicalmente nuovo, certamente più dinamico e aperto, più vitale e complesso, laddove la terra include anche il cielo (volta celeste e atmosfera) tanto quanto il suolo e il mare.

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Contraposiciones y diferencias. Sobre algunas posibilidades en la noción de tensión en el texto blumenberguiano

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n el presente trabajo se intentará esbozar una exploración en función de diferentes modalidades en la posibilidad de una comprensión o una aproximación al texto blumenberguiano en (relación a) sus dimensiones más marcadamente –o entendibles bajo la consigna de– post-fenomenológicas. En todo caso, se observará la problemática definida de este modo en la inmanencia de la apertura que la misma generaría –cumpliendo, por lo tanto, en cierto modo, con la “posición” de una regla, la de su interpretación. Trabajo que será realizado en un plano nuevamente activo al interior o a través de recientes lecturas en relación al texto en cuestión, especialmente en lo concerniente a las relaciones entre metaforología e inconceptuabilidad, y específicamente en función de la posibilidad de dar mejor forma, en el complejo de una serie de aristas y temas, a la cuestión de (algunos modos de representación de) la temporalidad en el texto blumenberguiano. Por razones de extensión, nos concentraremos aquí en un breve espacio problemático a través de Haverkamp, Palti, Pavesich, entre otros, con el fin de generar un campo de refracciones –crítico, pero a su vez positivo– en el que poder formar un suelo o recortar el trazado de una diagonal específica de un momento blumenberguiano, en refracción con Koselleck, Heidegger y Husserl, en torno a la problemática planteada.   Este artículo se presenta, pues, sólo como un punto de acceso a la problemática en la que intenta inscribirse –constituyendo el mismo una derivación de un trabajo parcial de mayor amplitud donde otros textos de relevancia en relación a su temática son conjuntamente tematizados. Por otra parte, hemos dejado de lado el desarrollo de una conjetura de interés en este contexto al 

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1. Aproximación a la literatura inconceptuable

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n “L’inconceptuabilité de l’être”, Haverkamp retomaría algunos aspectos de su anterior intervención en Ästhetische und metaphorologische Schriften en torno al sentido de los desplazamientos teóricos a través de la historia de la obra blumenberguiana explicándolos en compaginación al interior de un relato histórico (conceptual) del “ser”. Podríamos distinguir aquí, en principio, como dos modos de crítica de la metáfora, un cierto momento teórico inmanente –en el que se destacará la aporía trascendental de “toda metáfora”– y un momento histórico en torno a una revisión de los límites epistémicos de la metaforología –en el que se concentrará la mayor parte del texto. Por el primero cabe comprender el fin de la problemática metaforológica a través de la destrucción des-historizisante de los “horizontes” en virtud de una presentificación que reconduciría a una universalidad y permanencia bajo la problemática inconceptuable. En este sentido, poniendo el acento en lo que está entre paréntesis, habría de comprenderse en la misma introducción a la Aproximación el que Blumenberg se refiera a “las conexiones hacia atrás con el mundo de la vida, en tanto sostén motivacional constante de toda teoría –aunque no siempre se tiene presente”. Tratándose aquí de la metafórica del Dasein, interior de un registro en la tensión indecidible entre literatura y filosofía del texto blumenberguiano, o del trabajo del texto, parcialmente, como forma de exploración o como consecuencia pre-conceptual de (una noción de) inconceptuabilidad que a continuación intentaremos observar. Éstos y otros aspectos de una investigación bajo el apoyo MAEC-AECI.    A. Havekamp, L’inconceptuabilité de l’être. Le lieu de la métaphore d’aprés Blumenberg. Esquisse d’un commentaire, «Archives de Philosophie» 2004/2, T. 67, 269-278; y Nachwort en H. Blumenberg, Ästhetische und metaphorologische Schriften, Suhrkamp, Frankfurt AM, 2001, 193-209. Puede verse en general, para toda una pluralidad de temas de interés en torno a la teoría de la metáfora, la vasta obra de este autor, incluyendo sus más recientes publicaciones.    H. Blumenberg, Aproximación a una teoría de la inconceptuabilidad, «Naufragio con espectador. Paradigma de una metáfora de la existencia», Visor,

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según observa Haverkamp en virtud del contexto (y subtítulo) del Naufragio, el problema principal del proyecto delineado por Blumenberg en Paradigmas encontraba en este nuevo contexto su “estadio último” y final bajo una rúbrica puntual de ascendencia post-nietzscheana hacia lo humano, demasiado humano. Es decir, que para Haverkamp esta circunstancia no era más que una consecuencia o “un resultado” derivado del hecho de que en Paradigmas se había partido ya de un “aprieto resueltamente histórico”, y que ahora, retrospectivamente, Blumenberg pondría de relieve. En otros términos, que la revisión del concepto heideggeriano de “ser” le permitiría a Blumenberg “la ocasión de un análisis más profundo de la historicidad de sus propios paradigmas”; inclusive, que la marcada desfiguración de los contornos de su proyecto original hablarían de “una perplejidad abisal inscrita en el mismo”. Por una parte, se argumentará que el campo de estudios de los Paradigmas adolecía de una limitación temporal precisa, desde Agustín hasta Nietzsche, mientras que la paradigmaticidad de su concepto sólo sería establecida con Kant, por lo que se entendería en algún sentido como “un verdadero producto de la Ilustración” –en donde Nietzsche buscará luego elucidar los límites post-metaforológicos y post-metafísicos. Es decir, que “la elaboración del núcleo metaforológico” apuntaba a “la génesis de la modernidad”. Como posible disyunción, se podría remarcar al interior de estas series de argumentos de corte histórico la distinción sobrevolada entre la historicidad de los objetos de una metafórica y la del proyecto metaforológico en tanto tal, contigüidad que no se descartará pueda confluir en conexiones de mayor significatividad. Acorde a este planteo, la fuerte desfiguración que la teoría (ausente) de la inconceptuabilidad imprimiría respecto de los Paradigmas sería un “efecto histórico, específicamente post-metafísico” que implicaría una cierta reactualización bajo el marco Madrid, 1995, 98. Cfr. H. Blumenberg, Paradigmas para una metaforología, Trottta, Madrid, 2003.    A. Haverkamp, op.cit., 270, 276 y 272.

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de una constelación activada como crítica al logocentrismo –y por lo tanto, un ataque directo al “logos en la raíz del concepto de ser”. Con lo que puede comprenderse en tanto presupuesto cuál sería el lugar en el que participarían los Paradigmas, aunque, como hemos visto, sin dejar establecido si esto se debería a la ubicación histórica de sus objetos, o a la naturaleza de sus presupuestos –ni mucho menos a las fallas “trascendentales” de su concepto. En efecto, la argumentación se desplazará en torno a la problemática metacinética de la que los paradigmas querían dar cuenta. “Para Blumenberg, esta tentativa” vinculada a los orígenes de la modernidad sería “un fracaso” en tanto “desconocía la punta metodológica y metaforológica de este proyecto relativo a la historia de las ciencias” –al igual que lo hacía su misma metaforología. El nexo implícito aquí es el de lo metaforológico y lo metafísico, que a esta altura únicamente se sostiene. Circunstancia que llevaría a Blumenberg a desplazarse desde el plan de un análisis “meta-cinético” profundo hacia la “descripción de fenómenos de superficie formadores de mitos”. Este fracaso, por su parte, tendría consecuencias en dirección a dos planes complementarios: el Trabajo sobre el mito, influido por Adorno, que se pliega sobre “las condiciones del enceguecimiento” y la Aproximación, influida por la filosofía analítica, que articulará las condiciones o presupuestos analíticos y metodológicos del plan sobre el mito (luego de una maduración a través de una reflexión sobre la Actualidad de la retórica). De buscarse algún lineamiento para las concatenaciones que median estableciendo una serie entre metaforología, metafísica e   Ibíd., 272.   Ibíd.    Todo lo cual llevaría a que con “antropología” se pueda designar “la  

actualidad de la retórica del enceguecimiento que se manifiesta en los antropomorfismos implícitos en toda ‘antropológica’ bajo el modo de analogías míticas produciendo y demostrando de esta manera su actualidad retórica”. Ibíd., p. 273. Cfr. H. Blumenberg, Realidades en que vivimos, Paidós, Barcelona, 1999; Trabajo sobre el mito, Paidós, Barcelona, 2003.

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historia del ser –frente a una era post-metafísica– se podría justamente retrotraer el texto a los acentos y contigüidades en los que se articulaba lo metaforológico al proyecto moderno; en efecto, el Trabajo se vincularía en este contexto al diagnóstico de Adorno según el cual “la profundización de la cinética meta-retórica que la metaforología tenía por tarea analizar forma parte del proceso de creciente enceguecimiento del siglo XIX”; lo que concuerda con lo que “verosímilmente” la hacía devenir o cristalizar con la Ilustración, que significa que se despliega allí “la apariencia de verdad tendente a la totalidad”. Esto no sólo parece concordar con lo que anteriormente habíamos visto como una posible tensión entre las series que se esbozaban, sino también en relación a otros matices o acentos que dan un mayor sustento al argumento de Haverkamp. Además de los ya vistos correlatos con los diagnósticos frankfurtianos y la dicotomía entre un proyecto de análisis metacinético profundo y uno de fenómenos de superficie o tal vez marcas (post-metafísico) se replantea un supuesto desapego con cualquier proyecto de tematización de “totalidades”; todo lo cual podría coordinarse con otras lecturas en clave crítica del supuesto logocéntrico como las planteadas en la mitología blanca derridiana (interpretando a la filosofía misma como la dicotomía entre sentido figural y literal, y que toda empresa metaforológica extraería su concepto del seno de esta tradición). O como el mismo Haverkamp remarca, el giro blumenberguiano ponía a su obra en la línea de Heidegger y Derrida, según los cuales, las “metáforas dependen de la metafísica”.10 Siguiendo los mismos   H. Haverkamp, op.cit., 272-3.   Lo que a su vez tendrá como resultado los antropomorfismos de Kant y

 

de Nietzsche a los que apuntará el trabajo sobre el mito y su (reducción a la) inconceptuabilidad. 10   Sin que podamos detenernos aquí, una cuestión derivada del conjunto de definiciones en las que se estructuran los distintos planteamientos, llevaría tal vez a que una disyunción se presente no en función de la claridad de una determinación sino de cuanto se condensa, en este contexto, en la cuestión de una modulación, como se intentará observar posteriormente en Blumenberg. Se recordará igualmente la importancia de un cuidado histórico-intelectual en el posible desplazamiento metafórico entre un gesto de “precedencia” y uno que

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presupuestos críticos de Haverkamp, se podría quizás plantear en el seno de esas “series” que hemos observado la posibilidad de un espacio para una distancia o un impasse que sería excéntrico al mismo horizonte de una supuesta superación metafísica. Quien tal vez permitiría observar aspectos de este punto, estableciendo una interpretación análoga respecto al sentido del paso epistémico blumenberguiano, aunque sin desvincular dicho texto de los problemas del desplazamiento conceptual y los horizontes, sería E. Palti, en cuyo argumento nos detendremos a continuación. En efecto, podríamos partir de un planteo eventualmente coincidente en esta dirección, es decir, que la desvinculación de la problemática post-metafísica con respecto al tema de los horizontes sería sólo un modo de responder, por cierto, de factible problematicidad, a su mismo concepto (post-estructural, para evitar reiteraciones) a partir del mismo Derrida. Si consideramos que el planteo estructuralista se levantará sobre el horizonte epistémico abierto hacia finales del siglo XIX –con la quiebra de las concepciones evolucionistas de la historia–; es decir, el mismo cuya paradigmática establecería la fenomenología en reabsorción de la interrogación emergente por la fuente del cambio en la historia (esto es, en el marco de una concepción que habría dejado también atrás a una forma misma de ser de las cosas –y de saber– concentrada en los elementos, por una en clave de sistemas y relaciones) la cuestión de fondo quedará establecida en torno a la negación –por parte de las estructuras– de un sujeto trascendental como instancia insustituible del acto institutivo primario por el que se articularía el campo dado. Lo cual, si por un lado permitía destacar el trasfondo metafísico de esta concepción que remitía a un ámbito de objetividades de segundo orden, a la vez a priori y contingentes, por la otra dejaba sin responder a la interrogación por la fuente del cambio entre sistemas o “estructuras” sucesivas –lo cual constituía, no obstante, su presupuesto. Si la problemática postestructuralista justamente se entroncará con suponga la transhistoricidad de ese antecedente –en cuya sobredeterminación, usura muy aprovechable, descansa a menudo el trabajo de una literalidad.

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esta cuestión, resultaría difícil en principio generar una aproximación de su clave en paso filosófico descartando la problemática del concepto que está en su base, el de horizontes-estructurados/ antes; es decir, el de sedimentaciones precarias –e internamente disyuntas pero sedimentaciones al fin– en “sistemas” relacionales o contextos que hacen posible que el sentido –o algún sentido en absoluto– pueda producirse.11 No obstante esta línea argumental, cabe destacar que el planteo de Haverkamp se presenta particularmente sutil en su construcción y en lo refinado de su sobredeterminación conceptual. En efecto, el sentido principal de su temprana intervención en torno a la inconceptuabilidad parece encontrar un considerable espacio de sustento a la vez que iluminar un tipo de interrogación sobre un campo de cruces muy poco explorado en la literatura del área. Siguiendo con sus dos momentos, se puede rescatar, entre las diversas posibilidades direccionales que permite su texto, la comprensión de un segundo Blumenberg como un trabajo de mayor precisión de su aspecto “post-fenomenológico” –que puede rastrearse desde sus textos tempranos en torno al tema de la distancia, en palabras de Haverkamp, como un intento de rodear “como efecto de una méta-kinèse, un espaciamiento”. En apoyo de este planteo, puede leerse tal vez la siguiente línea como el lugar donde se pueda manifestar buena parte extensiva del planteamiento de su momento histórico. La inconceptuabilidad “no puede bastarse ni permanecer en sí misma”, esto la habría empujado “hacia las figuras del hombre”, y el filósofo que no sucumbe a la seducción de sus figuras míticas, de sus “antropomorfismos y de su bio-política” no tiene al parecer otra opción que generar un nuevo retoño en una tupida vegetación escéptica. Tema al que se llega a través del veredicto metafórico que Blumenberg ofrece en cuanto a Heidegger, aquel que “nos permite saber fundadamente de qué tipo no es la 11   Destaquemos, sólo por mencionar algunos ejemplos en este sentido, el clásico J. Derrida, La escritura y la diferencia, Anthropos, Barcelona, 1989; o Márgenes de la Filosofía, Cátedra, Madrid, 1989.

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comprensión del ser”;12 cuya contraparte podría hallarse, según Haverkamp, en el paralogismo metaforológico determinante de Simmel con el que Blumenberg cierra este complejo trabajo, luego de evocar las tensiones en el texto kantiano y su derivación en la metáfora absoluta de la acción del entendimiento y su posibles riesgos. Observación que confluirá aquí con la conclusión del mismo texto de Haverkamp, a la que podríamos resumir, en torno a esta línea argumental –y empleando el estilo mallearmeano que atrae a Badiou– como la de que “no hay más que un pasaje de la metafísica, y una deriva escéptica” sino que hay un paso más allá (de todo escepticismo); y que la figura clave en este sentido en la obra blumenberguiana se puede relacionar a la metafórica explosiva cusana. Lo que nos conectará aquí con el planteo de Palti será justamente esta conclusión del texto de Blumenberg, en la que se deja planteado un aspecto fundamental en el contexto de “un paso más allá” respecto al sentido de una episteme fenomenológica (aunque también, como hemos visto, estructuralista). En tanto que presupuesto necesario de la razón, para Kant, la “libertad” es una idea, pero una de la que no existe intuición posible alguna (no siendo susceptible de simbolización –en el sentido que Kant da al término) Será la introducción del concepto trascendental de acción, observa Blumenberg, la que abriría el espacio de una cierta tensión o implicaría la posibilidad de algunas consecuencias equívocas, sugiriendo quizás tomar por libertad “todo lo que puede figurarse una acción trascendental del entendimiento”.13 Tomando en cuenta la presentación de Kant de la síntesis de la apercepción trascendental como proceder del entendimiento –y las categorías como regulación en última instancia– desde el concepto de acción de la teoría de la razón práctica surge el interrogante de si esto puede aún denominarse “acción”: “La teoría de la razón práctica puede y tiene que presuponer la identidad del sujeto, la condición de toda posible responsabilidad   H. Blumenberg, Naufragio, 115.   H. Blumenberg, Naufragio, 116.

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e imputabilidad; pero no puede hacerlo la teoría de la razón teórica, pues precisamente muestra la identidad del sujeto in statu nascendi. El entendimiento no es el sujeto en sus acciones que se sirva de una técnica; no es más que el conjunto de este proceder reglado”14 Sería la separación lingüística que se da entre el sujeto y tales acciones, la que de tomarse literalmente llevaría a que “toda la crítica de la razón, y no sólo la práctica (que, como tal, es naturalmente también teórica)”, devenga práctica. “Así pues, si todo es práctico y nada es ya teórico, todos son tranquilizados, pero no instruidos”. La sutileza de esta apreciación del horizonte de posibilidad del que se trata es continuada en el párrafo siguiente, que permite dar sustento al sentido o la dirección principal de la lectura de Haverkamp, pero también y especialmente a las matizaciones histórico epistémicas planteadas, al interior del proyecto blumenberguiano –y sus desplazamietos–: En la comprensión de la libertad como principio condicionante de la moralidad nada se ha ganado al conocer que «ya» la síntesis de las representaciones sería una operación del intelecto. Este equívoco es sin embargo más antiguo de lo que creen sus recientes inventores; está ya en la admirada interpretación kantiana de Simmel y, tras ella, en el intento de su filosofía de la historia de conseguir algo con ella contra el historicismo determinista. El hombre «haría» entonces en libertad o en más liberad su historia, porque la síntesis de sus representaciones sería «la acción» de su entendimiento. Pero esto no es más que el engaño de una metáfora absoluta, que fue tomada al pie de la letra.15

  Ibíd., 117.   Ibíd.

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2. Inconceptuabilidad, temporalidad y matices antropológicos

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nteresa destacar, en este contexto, un tipo de lectura proveniente desde la historia intelectual respecto al sentido del desplazamiento de la obra blumenberguiana en relación a la cuestión de la temporalidad de las formaciones conceptuales en la línea de una tradición que puede remontarse al menos hasta Dilthey.16 Esto se traduciría, en este contexto, a la cuestión de cómo comprender la historicidad de tales formaciones, bajo qué presupuestos se concibe que éstas no puedan fijar su sentido, o “cómo pensar la conmoción” decía M. De Certeau “cuando las categorías con las que la pensamos forman parte de lo conmovido” –aunque aquí nada se diga aún acerca de la fuente y la forma de intentar dar cuenta de esa contingencia. En el marco de una reconstrucción más vasta de “la tradición alemana de historia intelectual” Palti observaría que en la Ideensgeschichte se pondría de relieve, a su manera, un género de aporías propio de las filosofías neokantianas de la historia, “éstas –según observa– habrían introducido un sentido histórico que las lleva a postular quiebres y rupturas conceptuales” sin poder, no obstante, pensarlos sin poner al mismo tiempo en cuestión algunas premisas en que se sustentaba su sistema de saber.17 Tomando El mito del estado de Cassirer en el que se plantea la cuestión de la posibilidad de comprender el universo mítico desde un tipo racionalidad científica, acentuando la imposibilidad de que no haya distorsión en tal proceder, aunque tampoco lo opuesto –que no sea posible conocimiento alguno en tanto absolutamente extraño– se genera finalmente la atenuación de que, si bien las diversas categorías y procedimientos intelectuales de   En el apartado anterior hemos hecho referencia a E. Palti, Ideas, conceptos, metáforas. La tradición alemán de historia intelectual y el complejo entramado del lenguaje, manuscrito suministrado por el autor, 2009. Agradezco a Elías Palti por facilitarme el manuscrito. 17   Ibíd. 5. 16

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cada universo carecen de significado desprendidos del mismo, por lo tanto se trata de dos sistemas cerrados, es posible la mutua traducidibilidad –o, quizás, la mutua interpretabilidad para decirlo en lenguaje kuhneano. En el marco de una Begriffsgeschichte Koselleck se concentraría a su vez en el análisis de la ausencia de medida común entre los contenidos ideales pertenecientes a “dos grandes cosmovisiones”, la moderna y la premoderna; siendo justamente la misión del historiador recobrar y “volver significativo” ese mundo premoderno, aunque también el mismo proceso de mutación o de “bisagra” que delimitaría tales horizontes de manera de generar una aproximación a su inflexión histórica. Contexto en que se revelaría un particular punto crítico en relación a una historia de “ideas”: la inoperatividad de éstas como unidades en el marco de algún tipo de explicación de la temporalidad de las formaciones intelectuales –en tanto una idea puede aparecer o no en un contexto, siendo su relación con éste puramente contingente, según se destaca.18 Ante la interrogación por su modo de identificar una misma idea a través de sus cambios históricos, se observaría la necesidad del supuesto de la existencia de una especie de “núcleo de sentido” inalterado que persistiría a través de sus diversas variaciones. El planteamiento contrapuesto basado en la revelación del análisis histórico en torno a la inexistencia de un núcleo común de sentido que comprenda al conjunto de sus variaciones históricas –especialmente manifiesta en la terminología política, como democracia, república, etc. – dejaría ver prematuramente las dificultades que se presentarían a un trabajo de esta naturaleza. Dificultades que estarían vinculadas, según se ha observado, a un campo más general como es el de las filosofías neokantianas de la historia a la hora de abordar el problema del cambio histórico en las formaciones conceptuales (que justamente habían introducido, o, tal vez, entendido ya como una quaestio, podría decirse, en sentido blumenberguiano, que “habían preparado”).   Ibíd. 3.

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Los intentos de abrir a partir de este punto un procedimiento genérico (Badiou) podrían recomponerse, según lo observado, en su momento koselleckeano. Al calor de la máxima nietzscheana de que “sólo lo que no tiene historia puede definirse” o hallar un núcleo uniforme de sentido, los conceptos, para Koselleck, se caracterizarían por su dimensión diacrónica. Es decir, que serían conceptos sólo aquellos casos en los que una sobredeterminación semántica históricamente formada y desplegada provee de una riqueza tal en la que un contexto de experiencia en “el que se usa ya para el que se usa” una palabra que lo encarna pasa a “formar parte globalmente” de la misma. Sería el entretejido semántico de sus redefiniciones históricamente formado y desplegado el que determinaría su inevitable plurivocidad sincrónica –y el que supone ya su capacidad para trascender su contexto originario. Acorde a este proyecto, la historia conceptual –que se recorta de la historia social– adquiere su propio carácter en tanto provee de claves para “reconstruir procesos de largo plazo”. Es decir, en tanto los conceptos aparecerían articulando redes significativas de experiencias sociales históricas diversas, servirían como índices para las variaciones estructurales –pero esto en tanto serían, al mismo tiempo, factores de su constitución. Los conceptos, para Koselleck, establecen horizontes de sentido y experiencia, proveen compendios intencionales por los que la “experiencia cruda” deviene “experiencia vivida” en los actores sociales. Pero si la historia conceptual trasciende en su despliegue temporal a la historia social, al mismo tiempo nunca la agota simbólicamente, de allí que sean los hechos sociales o las acciones las que expliquen según este proyecto que un concepto pueda eventualmente alterar su significado. Y es aquí justamente donde la crítica de Palti extremará su agudeza al alcance de una extracción de una literalidad histórica que llevará (o “preparará”) a su vez las consecuencias genéricas desplegadas en la propuesta post-fenomenológica blumenberguiana.19   El planteo de Palti sin embargo es más extenso y complejo. Destaquemos la puesta en relieve de los problemas que parecen presentarse al modelo ko19

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Acorde a lo visto hasta aquí, se plantearía la necesidad de postular la existencia de un residuo de facticidad ineliminable que impediría la clausura lógica de los sistemas simbólicos, “abriéndolos a la temporalidad”; pero si tal postulado explicaría su contingencia última, continúa Palti, el mismo daría lugar a una nueva serie de interrogantes, entre ellos, se podría decir, el de cómo sería posible que bajo el marco de un horizonte de inteligibilidad histórico comiencen a destacarse, percibirse –conceptualizarse– ciertos elementos como fuertemente desestructurantes del mismo principio de inteligibilidad que comienza a recortarlos; o también: “¿si [dicho elemento o residuo] no está siempre ya investido de sentido, cuál es su naturaleza ontológica y cuál el modo por el que eventualmente irrumpe en el plano simbólico obligando a reconfigurar el mismo para forzarlo a dar cuenta de él?”. Por detrás de esta interrogación, se observa, “asoma una cuestión más radical”, a saber, “no cómo cambia el sentido de los conceptos particulares sino cómo se recompone el sistema que los dispone y articula”; o también: “¿qué pasaría si no sólo los selleckeano a la hora de explicar esa gran mutación cultural a la que llama Sattelzeit: por un lado, ésta aparecerá remitida a los viajes ultramarinos y su apertura a la diversidad cultural, a los desarrollos técnicos del siglo XVIII y por sobre todo a la Revolución en Francia que daría origen a una nueva conciencia de la constructibilidad histórica. Buena parte de los acentos explicativos en el concepto koselleckeano recaerían sobre esta disponibilidad: “La historia parece estar disponible desde dos puntos de vista –para el que actúa, que dispone la historia que hace; y para el historiador que dispone de la historia escribiéndola”. Pero acorde a su mismo supuesto de que los conceptos serían “factores” históricos de apertura a la experiencia posible, se tendería a un círculo argumental entre historia social y conceptual, pues tales viajes ultramarinos, desarrollos técnicos o eventos revolucionarios no habrían sido posibles sin una serie de transformaciones conceptuales precedentes. Desde un punto de vista histórico fenomenológico –añadiría Blumenberg– se podría suponer que si el término historia estaría tensionado como podría estarlo un concepto de “mundo”, una vocación última por la diversamente comprendida fórmula “los hombres hacen la historia” llevaría a observar la tranquilizadora referencia, en la que “hacer” se puede equiparar a actuar, desplazando todo el problema a la ética, cuya “verosimilitud” parece cuestionable. H. Blumenberg, Conceptos en historias, Síntesis, Madrid, 2003, 141. R. Koselleck Futuro Pasado. Para una semántica de los tiempos históricos, Paidós, Barcelona, 1993, 252.

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conceptos sino también los propios horizontes de sentido dentro de los cuales los conceptos se despliegan fueran también construcciones históricas contingentes, sin fundamentos racionales o premisas intelectuales comunes en qué sostenerse? […] ¿cómo articularlos en un unidad de sentido a través de los desplazamientos significativos que permite su inteligibilidad histórica?”.20 El problema de las unidades de sentido a través de las que pensar su propio cambio histórico quedará así desplazado a un nivel simbólico anterior, o más “primitivo”, cuya inaccesibilidad se revelaría en su propio concepto; lo que dejaría planteado, sutilmente, un tipo de “tensión” característica de la empresa blumenberguiana y que podría comprenderse en continuidad con su problemática post-fenomenológica. Consecuentemente con este planteo, en el desarrollo argumental de Palti se pondrá de relieve la preocupación blumenberguiana por la cuestión de los pasos entre momentos funcionales (in)conceptuables –sirviendo el paréntesis en doble sentido, como presencia ausencia y como separación, límite, o quizás umbral– pero también y especialmente –o quizás, justamente– entre formaciones de sentido; y otro tanto respecto a las diversas funciones metafóricas tematizadas por Blumenberg, entre ellas, sus caracteres disruptivos en relación a la continuidad teleológica intencional que instala un despliegue conceptual –que se vinculará a su vez a la problemática de un mundo como compendio de pulsiones en reiteración de los límites y huellas que dan forma a lo simplemente coincidente con lo completamente real. El ángulo de esta concatenación cuidadosamente reconstruida permitiría comprender la problemática de una inconceptuabilidad en relación a la inmanencia en la sustracción de una presencia por definición evanescente al plano simbólico pero que precedería al umbral de posibilidad de su institución como tal; lo cual conllevaría un principio de historicidad que invertiría el planteo koselleckeano –en el que el abordaje del cambio histórico quedaba librado a la contingencia de una introducción extralingüística   E. Palti, Ideas., 8.

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que reconducía su función explicativa a un terreno aporético. Blumenberg habría condensado a partir de la apertura de un despliegue genérico del sentido post-neokantiano que reconstruye (activamente) en la intervención de Cassirer una problemática a su vez reconstruible desde un suelo husserliano que hará a su propia genericidad. Cassirer habría “llevado a su término” (en el doble sentido de completar y, al mismo tiempo, concluir, o ubicarse más allá de sus marcos) al proyecto neokantiano, al realizar sus intenciones “implícitas o explícitas” según observaba Blumenberg (al considerar “la tabla categorial de los objetos naturales solamente como un caso especial del sistema categorial de los objetos culturales, entre los cuales, al final, vuelven a emerger también los naturales, metódicamente dispuestos”).21 La problemática del horizonte –o mejor dicho, la de la inexpresabilidad conceptual del paso (que se sobrelleva necesariamente desde el interior) de una configuración simbólica a otra– se condensaría en la de su irrebasabilidad. O mejor, para pensarlo en su propio sentido, la trama intencional que condensa la problemática del mundo de la vida representa, por definición, la que establece ese límite. El proyecto fenomenológico se habría organizado en torno al traspaso del plano de realidad restableciendo las conexiones de sentido que le subyacen y sobre cuyas bases opera, integrándose en una tematización ulterior en el concepto de Lebenswelt; “Éste da lugar a permanentes reconfiguraciones significativas, pero el mismo constituye un horizonte irrebasable,   H. Blumenberg, Realidades, 167. Puede también observarse el trabajo de Villacañas en torno a esta “rememoración” de Cassirer y la problemática blumenberguiana en el que buena parte del argumento se concentrará en otro de los elementos representativos de este paso postneokantiano, a saber, el que se organizaría en torno a la discordancia interna en la obra de Cassirer, remarcada por Blumenberg, en cuanto a su teoría de las formas simbólicas –y especialmente a su trabajo histórico en torno a esos vacíos filosóficos o tierra de nadie– y una conocida teleología por la que el conjunto del sistema apuntaría supuestamente en dirección a “un conocimiento de cariz científico e insuperablemente definitivo” (Blumenberg, Realidades., 169). J. L. Villacañas, De nobis ipsis silemus. Reflexiones sobre Hans Blumenberg lector de Kant, «Daimon, Revista de filosofía» 33, Universidad de Murcia, Murcia, 2004, 65-78. 21

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por definición”.22 Sería justamente el mundo del que en ningún caso se podría decir: “Yo estoy por encima del mundo” señalaba Blumenberg; por lo que todo salirse del mismo reconduciría hacia lo que no se podría creer; o no se puede pensar; y que Palti articulará a la confrontación con la nuda contingencia o la radical facticidad de los mismos horizontes. La implicación inmediata del mundo de la vida sería, justamente, que este “salirse”, devenga inconcebible.23 Si bien en este punto puede percibirse el sentido fuerte de una interpretación (activa) por parte de Palti en el seno de la ambigüedad del concepto de paso, la misma permite no obstante poner de relieve lo que a su vez puede resultar coincidente en términos amplios con la estructura general del texto blumenberguiano, o tal vez, con el carácter constante en sus dinámicas de una tematización de la temporalidad y las cinéticas en la vida simbólica. En una última diagonal de actualidad retórico-antropológica se llegará en este contexto al establecimiento del vínculo entre la problemática metafórico-inconceptuable como instalación de una reflexión en torno a un espectro de fenómenos inmanentes al mundo simbólico, pero que hacen las veces no simplemente de una expresividad plástica o de una alegoría estética sino en los casos en que su dinámica se trueca con la (in)funcionalidad de un índice intralingüístico de ese vacío impensable en trance de confrontar a su régimen con lo hasta entonces invisible en él. El lado inverso de esta problemática, como habíamos mencionado, sería organizado a través de una intensificación de los valores disruptivos de la metáfora. Pero el proceso que tematiza una metafórica –vinculado al replanteo de una metafísica en las funciones de la imagen– en tanto que esencialmente catacrético, implicará a su vez un desfasaje interno permanente; su fracaso constitutivo   E. Palti, Ideas., 16.   Lo que le llevaría a destacar, al igual que Haverkamp, aunque por una

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vía diferente, un sentido que haría a un desplazamiento respecto al marco fenomenológico del proyecto blumenberguiano, es decir, que el mismo entroncaría con las premisas de aquél pero conduciendo hacia lo que en ellas permanecería impensable.

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se plegaría sobre su propia función. Al igual que Haverkamp, aunque por una vía distinta, se vuelve a rescatar aquí la importancia de las metáforas explosivas para determinar parte de la tensión que daría forma al proyecto blumenberguiano. En el caso de Haverkamp, la acentuación de la modulación giraba en dirección al momento diferido de un espacio (vacío) para una filosofía por venir; aunque se sobreentiende ya en su determinación como un paso más allá de todo escepticismo. En Palti, y sin entrar en contradicción –y hasta puede haber motivos para argumentar que se trata en parte de una explicitación de otras dimensiones en una misma dirección, a pesar de las diferencias esbozadas– las metáforas explosivas se destacan en tanto reconducen el universo conceptual, desde su interior, hasta el momento inasible de su inmanente excedencia; las metáforas señalan, finalmente, en sus valores en torsión o de forzamiento, el lugar de una posibilidad de lo imposible. A su forma, observa Palti, se trataría de acontecimientos de lenguaje, un proceso que implicaría un cierto contacto con lo “increíble”. En este punto se podría observar que, al igual que en buena parte de un contexto post-metafísico, podría estar operando quizás, aunque por vías diferentes, un campo metafórico de cierta antigüedad (afianzado al menos, y especialmente en la tradición metafísica, desde Plotino) y generalmente en competencia con las metáforas ópticas que hegemonizan el campo contemporáneo espacialmente (estructuras, horizontes, vacío) es decir, las metáforas hápticas –que por cierto guardan relación, a su manera, con las metáforas explosivas de Cusa, fundamentales en la filosofía de Blumenberg. Contexto en que se podría trazar una cierta distinción, quizás, que abriría algunos aspectos a otras posibilidades en el argumento de Palti, es decir, al considerar que la problemática del mundo en cierta forma ponía de relieve todo un espacio metafórico –aunque en articulación– que un horizonte podía inhibir; y así la ampliación de todo cuanto tiene relevancia en su valor de significatividad, y que por lo tanto podría estar en la base de un proceso pre-conceptual. A su manera, tales campos parecen

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ser también el fondo sobre el que pueden leerse construcciones contemporáneas sugiriendo, por ejemplo, que no habría hoy más que “cuerpos y lenguajes”. Anteriormente hemos reproducido la línea argumental con que Blumenberg cerraba su Aproximación de la cual, de todas maneras, tomada in abstracto, no se excluiría necesariamente una recaída en campo escéptico –y cuya antípoda sería, justamente, como veremos más adelante, un sector de la crítica a la acontecimentalidad heideggeriana. Esto explica que Haverkamp apunte en dirección a una superación de lo que se plantea como humanismo y escepticismo, que remiten como dos caras de una moneda a una episteme que hemos visto tensionada por la fenomenología y el estructuralismo, volviendo así a la conclusión de su texto, en la que hay un paso más –aunque en la forma de un despliegue “por venir” que se vincula a las metáforas explosivas. Circunstancia que podría encontrar algún correlato de época, según hemos sugerido, en la introducción de Badiou de una lógica mallarmeana de: “No hay más que cuerpos y lenguajes, sino que hay verdades” En este contexto, resulta interesante destacar que se tome en cuenta el trabajo de la sintaxis misma en torsión de la intencionalidad que implicaría la continuidad conceptual en el régimen de discurso al que pertenece; que deja ver además no sólo su carácter intra-discursivo sino que parece sugerir una lógica que no implicará ni una adición (en Badiou: “las verdades como suplementos simples de los cuerpos y de los lenguajes”) ni una síntesis (“las verdades como autorrevelación de los cuerpos y de los lenguajes”), sino una excepción a lo que hay.24 En un campo de reflexión cercano al de Badiou, algunos motivos entretejidos en la crítica de Haverkamp al proyecto de una metafórica serán retomados por Laclau en una digresión sobre el concepto de ideología. Partiendo de que todo sistema de significación opera bajo una lógica de diferencias, y que como tal requiere, para su propia estabilización, de una diferencia inac  A. Badiou, Lógicas de los mundos. El ser y el acontecimiento, 2, Manantial, Buenos Aires, 2008, 17-21. 24

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cesible –al no tener exterior– que lo constituya como campo, es decir, en su modalidad de articulación del sentido; no habiendo, pues, más que el juego de las diferencias, se comprenderá que lo que se coloque más allá del límite será de la naturaleza de una exclusión; y que el campo sólo podrá ser estabilizado mediante operaciones retóricas analogables a las del objeto a en Lacan, esto es, que será un cierto particular el que, sin dejar de serlo, pase a encarnar esa totalidad –imposible y necesaria a la vez: en tanto no hay objeto literal que le corresponda, pero sin el mismo, tramitado en un particular, no habría significación. El cierre, pues, será esencialmente tropológico y las formas discursivas que construyan un horizonte, necesariamente figurativas: “Son –según Laclau– como las llama Hans Blumenberg, metáforas absolutas, un gigantesco como si.”25 Operación de cierre a la que en el vocabulario planteado por el autor se podría llamar ideológica –al parecer, ordenando el concepto en torno al carácter de un modo de inteligibilidad no lógicamente necesario y él mismo invisible. Resta destacar, no obstante, que estos regímenes de analogías operan a su vez como equivalencias, por lo que contienen asimismo un resto, con el riesgo consecuente de una eventual fragmentación, lo que podría darse por ejemplo, en relación al “significante vacío”26 que pasa a encarnar esa totalidad ausente y sus mayores afinidades con los desarrollos de Blumenberg en torno al símbolo, que se distingue de la metáfora y que en todo caso podría ser sólo un “caso especial” de inconceptuabilidad –aunque sean posibles sobredeterminaciones de momentos funcionales (más allá de todo lo que implica conceder a estos balances entre campos distantes). Como se observa, sólo a primera vista la digresión de Laclau 25   E. Laclau, Ideología y posmarxismo, «Anales de la educación común» 4, Buenos Aires, 2006, versión digital, 12. 26   Recordemos que el campo principal de reflexión de Laclau es el de la política, y los significantes vacíos (o el proceso de vaciamiento de contenidos de ciertos significantes) serían en su teoría piezas fundamentales en los procesos por los que un tipo de articulación particular logra hegemonizar un espacio político.

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no estaría tan lejana del planteo de Palti, en el que –a diferencia de Haverkamp– tampoco se descarta la problemática de los horizontes, a la vez que la metáfora se relaciona especialmente al momento del umbral inaccesible de constitución en los pasos de un horizonte a otro, y a sus valores disruptivos –si bien en clara acentuación, totalmente ausente en Laclau, de esta segunda posibilidad. Para cerrar este apartado se destacará brevemente el modo en que una comprensión más “antropológica” del texto blumenberguiano podría conducir hasta el mismo género de cuestiones. Ubiquémonos en un reciente texto27, estructurado en buena medida en torno a una secuencia que parte desde una “naturaleza” o existencia humana carente de “orientación” biológicamente determinada –o de un formato de conducta regido por dinámicas de estímulo-respuesta– por lo tanto humanamente determinada como ruptura en el seno de la vida, o salida de emergencia en “un punto final de una línea de evolución”28 a través del universo de símbolos con que el hombre media, reduce, da forma a un campo amorfo, infinito, mortífero, como sería para él de otro modo un encuentro con el “absolutismo de la realidad”.29 Es decir, que 27   V. Pavesich, Hans Blumenberg’s philosophical anthropology: after Heidegger and Cassirer, «Journal of the history of philosophy» 46, no.3 (2008) 421-48. 28   Expresión de R. Savage, Aporias of origin. Hans Blumenberg’s primal scene of hominization, «Vernunft, Immagination, Erinnerung, Internationale Blumenberg Konferenz» Hamburg, 2008. 29   En relación a los seres humanos como creaturas con un déficit instintivo que los hace incompletos, “abiertos” al mundo y por ello posiblemente abrumados de estímulos de los que necesitan alivio, se destaca en el texto un estudio enfocado en los diversos grados de independencia de un organismo respecto a un medio, desde las moléculas hasta los humanos, observando que los últimos serían las entidades más “desprendidas” de la naturaleza, lo que sería igual a que están menormente sujetos a unos estímulos determinados, o que su atención puede dirigirse “hacia una multiplicidad de objetos”; y sería la tensión de este des-atamiento lo que estaría en la base de la formación de nichos culturales, de objetividad –asimilados a través de una participación en procesos de “atención compartida”. Desde el inicio, pues, se presentaría una suerte de necesidad “creativa” en relación a lo humano. La referencia aquí, en el amplio y

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parte desde la infinitud o fragmentación dada o latente para aquel en la apertura sin medida de posibles objetos y estímulos (expresada quizás en la salida de la selva a la estepa y en el momento de erguirse y el cambio implicado por la óptica frontal ante a ese universo que a su vez lo haría más visible, lo dejaría más “expuesto”, de un modo parcialmente metafórico); apertura des-atada biológicamente de posibilidades tendencialmente infinita –tal vez articulado a una pulsión metafísica– que sería correlativa, en el seno de dicha infinitud, con la implosión insoportable de una nada sin medida. Tal estado prehistórico y latente sería neutralizado a través de un estado simbólico constitutivo de una trama de objetividades y por “instituciones” (Gehlen) entendidas como patrones de pensamiento y comportamiento que restablecerían el vínculo roto entre respuestas y estímulos, y que en cierta forma, en su rutinización, devendrían funcionalmente analogables a una comportamiento instintivo –o, por definición, pre-reflexivo­– en tanto consustancial a un cierto sentido de realidad. Se destaca, por un lado, que tales instituciones en el sentido de una tensión propia del texto blumenberguiano, en su carácter de “bosques culturales” –expresando el hecho de que desde su interior sólo se ven árboles pero no el bosque mismo– podrían ser entendibles en una magnitud “coincidente con lo completamente real”30 y, por el otro, que las mismas son inevitablemente históricas y contingentes; conduciendo al problema de cómo concebir, desde el interior de un bosque, desde un principio de inteligibilidad, algo como el desplazamiento de ese mismo principio; es decir, conduce a confrontar con lo que, justamente, desde su interior, no se puede pensar, o no se puede creer. En definitiva, si tal género de entidades serían densamente históricas, este problema sería al menos el principio de una de sus consecuencias filosóficas, de época, sobre las que Blumenberg rico trabajo de Pavesich, es a L. Moss, Detachment, Genomics, and the Nature of Being Human, en prensa, 2009. 30   H. Blumenberg, Salidas de caverna, A. Machado Libros, Madrid, 2004, 161.

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presta generalmente un especial cuidado, en función justamente de la problemática del desplazamiento conceptual en dichas condiciones –problema que, a pesar de su carácter permanente en el (trabajo del) texto blumenberguiano, puede quedar sin ser considerada en énfasis antropológicos como el citado. Más allá de la eventual independencia de presuntos registros temáticos, el problema siguiendo estos presupuestos quedaría desplazado –como observaría Heidegger respecto a la pregunta por el hombre– en función de los modos en que puede ser abordado. En este caso, ejemplarmente se destacará el tipo de concepto que se deriva principalmente de la noción de “disrupción” o disonancia en Blumenberg, que es leída en Aproximación quizás sobre el fondo de la secuencia de hominización –especialmente en Trabajo– a su vez interpretada de una manera orientativa por un presunto orden antropológico extra-discursivo, en el que la atención recaerá. Es decir, que se desplazará sobre una “realidad” que excede o actúa en disrupción o genera una disonancia con respecto a las tramas simbólicas disponibles, que recurren a la analogía metafórica para integrar lo desconocido a lo conocido. Este momento podría a su vez articularse al sentido dado en dicha lectura a la noción metafórica de una suerte de “darwinismo” de las unidades culturales, esto es, al trabajo de las posibilidades de dicha noción en cuanto a una dimensión de relaciones temporales entre unidades y tejidos simbólicos en los que, sólo en función de una de sus posibilidades se entendería como patrón de compensación de las tramas en referencia a un realidad y su función de supervivencia; este acento dado, reforzado por la cuestión del límite impuesto por la realidad de la supervivencia, terminaría de ocluir que nociones de este tipo en el texto blumenberguiano como espacio de sobredeterminaciones y variables entre ellas pragmáticas en sentido amplio y, en último término, retóricas, hagan de las mismas, unidades en nada ajenas a su contexto, pudiéndose rescatar, en este sentido, asimismo, su valor en relación al incremento de un potencial de rendimiento espiritual simbólico transhistóricamente en su operatividad paradójicamente histórica; en relación

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a tales unidades, la cuestión del potenciamiento de su posibilidad de supervivencia en los cambios de “environment” o nicho cultural, como modo de especialización. Si bajo este marco las instituciones o sistemas simbólicos determinan el que algo pueda ser concebido de un cierto modo, una mirada histórica se desplazaría en función de observar que en el marco conceptual en cuestión, la disponibilidad de formas conceptuales de las cuales “institución” sería sólo una expresión, implicaría el que resulte dificultoso asentar dicha trama en la realidad que sólo ha sido posible, acorde a sus presupuestos, en ese marco. En este contexto, se destaca además que si la “novedad” blumenberguiana queda demasiado estructurada en función de nociones como institución es posible que su contribución quede tendencialmente ubicada como una variación dentro de un contexto no muy lejano a presupuestos rastreables en nociones presentes en Dilthey, Husserl, Simmel, Scheler, Plessner, Gehlen, entre otros. En todo caso, la tendencia a enfocar en la secuencia de hominización podría aunque no necesariamente conllevar el riesgo de dejar al menos dos problemas sin ser tratados, sea el de los desplazamientos entre formas simbólicas o bien el de su pluralidad –heterogénea igualmente apta para la supervivencia; es decir, cuestiones histórico epistémicas y conceptuales que integran o dan forma a dicho texto, el cual incluso podría quedar fuertemente despolitizado –término arriesgado para el contexto, aunque lo opuesto resulta también dificultoso si se considera la atención dedicada a procesos de transformación histórica, y sin duda tampoco lo sería para autores como Canguilhem– o desligado de esta clase de cuestiones tal como puede desprenderse también de expresiones blumenberguianas en el texto en honor a Cassirer –la cuestión de la otredad, como respeto, pero también como mención de un problema, y la extensión del principio de nobis ipsis silemus no sólo a los contemporáneos; el que existan una pluralidad contingente de posibilidades de sentido no obstante igualmente aseguradoras de una supervivencia, y las condiciones de su transformación, o metamorfosis; todas ellas no obstante, cuestiones igualmente an-

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tropológicas, aunque permitiendo integrar el sentido de una temporalidad o novedad histórica en el texto blumenberguiano.31

3. Variaciones subjetivas y dominancias

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olvamos a los momentos finales del texto de Haverkamp, aquellos en que se reconstruye la posibilidad de entender al trabajo blumenberguiano como un paso “más allá” en relación al escepticismo. Tras ese paso el texto de Haverkamp encuentra su disolución en dirección a una teoría inconceptuable que abriría una metafórica explosiva y que obtiene en el desarrollo de Palti especial atención en relación a sus potencialidades “en torsión de lo que hay”. En definitiva, se podría destacar un cierto campo argumental establecido entre las intervenciones analizadas, las que si bien estarían sólo parcialmente superpuestas, se pueden establecer correlatos en torno a dos argumentos que a su modo permiten dar forma el campo que plantean. Es decir, la problemática epistémica mencionada previamente, que en Palti será trabajada en torno a la comprensión del sujeto en Blumenberg, y la importancia expresada por una metafórica explosiva en relación a las funciones de la problemática inconceptuable. Además de otras referencias señaladas en ocasiones anteriores que contribuirían en este sentido, parecen también coincidentes algunas páginas de las obras póstumas de Blumenberg. Destaquemos, brevemente, entre ellas, una de las modalidades de la crítica a Heidegger desplegada a través de una de las funciones de la “historia del ser”. Un contemporáneo y admirador del Heidegger tardío habría dejado la siguiente sentencia: “De haberse comprendido el pen31   No obstante, invirtiendo el argumento, aunque confirmando la mención de las distintas modalidades, una preocupación en relación a las formas simbólicas heterogéneas y el proceso de hominización encontraría un terreno claro de incumbencias compartidas, llegando incluso a generar invertidamente el momento de una circularidad o una tensión, en cuanto a las precedencias, o que incluso la lectura blumenberguiana en este marco se encuentre también orientada bajo una preocupación claramente (post) husserliana.

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samiento de Heidegger, llegaría a su fin la época técnica en la que vivimos”; la que dará a Blumenberg, entre otras cosas, la ocasión de analizar este género de motivos o “patrones” organizadores, en este caso, en torno a Heidegger, cuyo “truco fundamental” estaría en trabajar con la falta de claridad. Si se observa la frase citada con mayor atención, surgen algunos interrogantes, como el de a quiénes se refiere con el impersonal, o cuántos deberían ser esos que de haber “comprendido” se hubiera causado el efecto del que esta comprensión sería condición. Se observa aquí que uno de los modos de tracción fundamentales en estos “gestos monumentales” surge del que nada se dice sobre “lo que vendría después” de la eliminación que en ellos se plantea –y en muchos partidarios de tantas doctrinas habría alcanzado con ello. En cierto modo, en el estilo apocalíptico sólo se “trata de que a los horrores del fin del mundo suceda un nuevo cielo y una nueva tierra. Al entendimiento ha de bastarle con saber que son completamente distintos de lo que existe; y parece que lo consigue”32. Pero qué cosa podrían ser, considerando que los anteriores cielos y tierras han salido tan mal a su Creador, es algo que corre igualmente en sordina respecto a cómo el mismo hombre, luego de tan rotundo fracaso con la época técnica, podría hacerlo después mejor. “Este problema sólo tenía una solución: la ‘historia del ser’”, que se entiende en parte como inhibición de que lo sujetos cambien o puedan hacerlo; eficacia causal que en todo caso se asignaría a una esfera objetiva, “que ya no es la Historia hecha por el hombre, sino la historicidad como ejercicio del arbitrio del ser”. Y este despojamiento generaría a su vez un incremento en la evidencia de la posibilidad de un gran cambio en el que, por una “misteriosa fatalidad”, se reconfiguren todos los objetos desde la raíz alterando las condiciones del comportamiento de los sujetos. “Entonces, la comprensión de un pensamiento como el de Heidegger sería sin embargo, sólo el síntoma de algo que no es causado, sino sólo mostrado, por esta comprensión”; la época de   H. Blumenberg, La posibilidad de comprenderse, Síntesis, Madrid, 2002, 37. 32

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la técnica “se acabaría aún antes de que se hubiera comprendido bajo qué condiciones”33 Del mismo tenor serán algunas conclusiones derivadas del análisis blumenberguiano del célebre encuentro en Davos. Destaquemos de ello sólo dos motivos en el marco de su consideración en un texto titulado Afinidades y dominancias –en el que, al mismo tiempo, se puede observar la importancia otorgada a distinciones en términos de recursos compositivos o discursivos en la elaboración de las respectivas teorías en disputa, y en sus posibles efectos, como las “fórmulas patéticas” del “sentido del ser” en Heidegger frente a la sobriedad de la “formas simbólicas”, o el efecto de expectativa que genera (la promesa atada a) la obra no concluida. El primero de ellos se desprende luego de una consideración del sentido de una ampliación en Cassirer del concepto kantiano de categoría –hacia un concepto estructural para las diversas capacidades espirituales– frente al gesto fundacional heideggeriano de un “nuevo y radical comienzo”; contexto en el que se destaca del primero la tarea de una fenomenología en tanto investigación de “las estructuras de ámbitos de objetos totalmente diferentes sólo desde el punto de vista de lo que ‘significan’, sin tener en cuenta la ‘realidad’ de sus objetos”;34 con33   Ibíd., 38. Resulta interesante destacar que este género de acentuación, llevado sobre una dicotomía basada en desplazamientos de sentido internos y cambios en el sistema general, pueda dar lugar a la idea, especialmente si se considera la fuerte herencia heideggeriana en autores como Badiou, de un retraimiento a un patrón reconocible de cambio total y completo que Haverkamp justamente intentaría criticar. El argumento de Palti, por cierto, podría por momentos permitir una lectura “activa” que lo reincorpore en texturas que hagan extraer sentidos parcialmente análogos. No obstante, como se ha observado, su planteo no hace referencia a que tales sistemas deban entenderse bajo una noción de totalidad como la que se sostenía en proyectos clásicos, por lo que basta hablar de sistemas. En definitiva, tal “actividad” debería ir en contra de buena parte del sentido post-fenomenológico en que se construye, aunque en el caso de los textos de Badiou se habría efectuado, luego de un primer momento basado en un sentido de acontecimiento un desplazamiento hacia versiones más plurales en diversas gradaciones –en un sentido coincidente por cierto a una de las críticas previamente planteadas por autores como Laclau. 34   Ibíd., 129.

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duciendo luego a la distinción entre cuestiones de ser o sentido, realidad o significado, sustancia o función; observando que la pregunta por el sentido del ser, que en Husserl se entendería en todo caso parte de la teoría del significado, en Heidegger –en tanto no se podía reducir de ese modo “la dignidad” de la pregunta– se tratará de una cuestión de ser, y así, del “retorno de las cosas mismas”. Con lo que además se ganaría considerablemente en concurrencia a través del realismo –que también a Husserl pudiera valerle en algo antes de 1912– aunque ahora “incluso se trataba del mismo ser”, y en el contexto de cosas tales como el “ser de la existencia”, o el sentido del ser, “¿quién no iba a querer estar presente?”35 Con respecto a la distinción entre “ser o sentido”, Blumenberg destaca aquí un importante paralelismo –e insinúa posteriormente algún antecedente genealógico– en la discusión entre Lutero y Zwinglio cuatrocientos años antes en torno al tipo de presencia de Jesús en la última cena y las polémicas del realismo –que, a su vez, habría ganado hace ya tiempo la batalla– frente al docetismo gnóstico. Entre una Substanzberiff y una Funktionsbegriff, se podrá decir, “al igual que Lutero”, Heidegger se decidirá por la primera alternativa al calor del mencionado realismo. El lenguaje de Lutero, “que era familiar” a Heidegger, sostiene Blumenberg en otro texto, a su vez se vinculará en este punto al tema de la subjetividad y la “historia del ser”; esto es, que sería además de utilidad tener en cuenta que Lutero había entendido la encarnación del hijo de Dios de modo pasivo, como un estar arrojado en la carne, “olvidando el lenguaje de toda la tradición de la acción salvadora por la adopción de un cuerpo” Lenguaje que a su vez sería en gran medida el de Agustín en su época antipelagiana, “determinado por la figura de la predestinación”, con sus pasivas implicancias en la historia de la salvación: “De igual modo, la analítica del Dasein carece del pathos de la libertad, y por ello no hay ningún ‘giro’ a la ‘historia del ser’”, que aparece así como una variación o “proyección” a gran escala de aquella “figura”   Ibíd., 131.

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Matías González

que muestra aquí a esta ascendencia agustino-luterana como jugando un rol particular y tal vez no de menor interés dado el estado actual del lenguaje heideggereano.36 El segundo elemento se puede entender quizás como una de las consecuencias del anterior, en el que se produce una decisión en el contexto abierto por la disposición en que se inscribe, y que se entiende a través de la contradicción también presente en Davos –bajo la sentencia del “¡Romper, no doblar!” frente a la suavidad de la “comprensión del ser” y la interpretación en el Dasein como cura– lo que Blumenberg conectará con las dificultades de la “ontología fundamental” y su imposibilidad de ser terminada, concluyendo a través de la tensión en trance de convertirse luego en un dualismo maniqueo y que en este caso se plasmará en que finalmente “sólo el ser mismo –aunque algo le ‘abriera’ un camino antes o a la vez por entre la maleza intransitable de las contradicciones– podía variar su destino”.37 Tal contexto, puesto sobre el fondo de la frase con que se cierra Aproximación, genera lo que podría entenderse también en función de una caracterización de sus texturas como el espacio propio de una tensión del texto blumenberguiano.

  H. Blumenberg, Conceptos, 115.   H. Blumenberg, Posibilidad, 132-3. El mismo tema será retomado en

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relación al giro de Heidegger a través de un análisis en el “espíritu del idioma” y las asociaciones a que puede llevar un término como el “hay”, donde desaparecería, en cierta forma, quién da, o a quién se le da, revertiendo en el tema del estar dado y don, y que mueve a agradecer, y en cuyo contexto también se observará que la “historia del ser” sólo sería “posible por la ausencia del sujeto”. H. Blumenberg, Conceptos, 77-80.

Rafael Benlliure Tébar

Creación ontológica y comprensión histórica en Hans Blumenberg y Cornelius Castoriadis. Una lectura aproximativa

Para Violeta

0.

N

o existe una historia de efectos recíproca entre las obras y trayectorias intelectuales de Hans Blumenberg y Cornelius Castoriadis. La comprensión que la metaforología blumenberguiana, por un lado, y la teoría de lo imaginario instituyente de lo social-histórico, por el otro, tuvieron de su propia reversibilidad en método académicamente vinculante y, con ello, de su relevancia práxica, política en última instancia, por profundamente diferentes entre sí, no invitan a la lectura convergente. Sin desatender la significatividad de tales desavenencias –antes bien, reconociendo el escenario de post-teoreticismo compartido por ambos pensadores, inteligible únicamente a partir de las estrategias concretas que articularon y articulan teoría de la racionalidad y determinación de lo filosófico como agente social legítimo– este trabajo propone algunos puntos de contacto entre dichos planteamientos. Ambos, Blumenberg y Castoriadis, reaccionaron con pareja determinación –la expresada en una teorización constructora de inteligibilidad de la conversión de la theoria en poíesis– frente a, y utilizo las palabras que A. Borsari dedicara hace diez años al primero, la «fácil filosofía de la disolución de la filosofía». La convocatoria a presente de las comprensiones que de su tiempo hicieron sus obras sirve, así se va a entender en adelante, para reivindicar un estatuto cultural de lo filosófico actual que extraiga su legitimidad de la defensa de la relevancia de la pregunta por la validez en contextos de complejidad no cosificada. 329

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1.

E

n «Lo imaginario en la comprensión de la Historia», de 1993, Sergio Sevilla conjugaba determinación de nervios filosóficos –en una focalización precisa y, por ello, plenamente actual, de su objeto, el «giro retórico» por entonces operante–, y amplitud del registro textual, autoral y disciplinar utilizado para su objetivación, en una diagnosis que, por más de un motivo, conviene a este planteamiento como punto de partida. En este   Reeditado en S. Sevilla Crítica, historia y política, «Lo imaginario en la comprensión de la historia», Catedra-Universitat de València, Valencia, 2000, pp. 140-160. Véanse del mismo autor «Identidad y experiencia: hacia una hermenéutica crítica», en M. Torrevejano-A. Faerna (coords.) Individuo, identidad e historia, Pretextos, Valencia, 2003, pp. 169-190; «Cambios de perspectiva en la filosofía de hoy» y «Conversación sobre la filosofía hoy», en Pasajes de pensamiento contemporáneo, número 16, Universitat de València-Fundación Cañada Blanch, Valencia, 2003, pp. 33-47 y 59-92. La deuda que este texto contrae con la elucidación de la expresión que cerraba su resumen, la de «complejidad cosificada», es evidente. Hago mías, como primer paso en el intento de resarcirla, dos intervenciones de Sevilla en el último título reproducido: «(…) si la filosofía tiene que despedirse de esa función ideológica [la «producción de opinión pública y la producción de consenso»] que sea para bien. Es decir, que asuma la función metadiscursiva que tiene vinculada a los saberes en donde se generan los problemas culturales importantes de auto-producción social, y en cualquier caso ha de realizar las articulaciones de los discursos de primer orden con los grandes problemas sociales, políticos…» (p. 86); pero «(…) no debe confundirse ese carácter político con las condiciones de aplicación, o con la idea de que el metadiscurso cumpla directamente una función ideológica. Si precisamente situamos la filosofía en el ámbito de un metadiscurso que requiere de la mediación de un discurso de primer orden para aparecer como instancia reflexiva, yo creo que hay que tener claro que su camino de vuelta lo real también es mediado, no directo» (p. 90). La tesis fundamental que mi planteamiento quiere hacer valer, y que dirige su elección de fuentes, es la siguiente: la filosofía no puede acreditarse, sin recaer en ensoñaciones de auto-contención conceptual, como discurso poseedor de la clave de acceso al potencial de transformación de la reflexión, aunque eso fuera lo más deseable en un contexto social de demanda (cito expresiones institucionalmente muy amplificadas, a fechas de la redacción de estas líneas) de «respuestas dinámicas a los retos de una realidad cambiante y compleja». Blumenberg y Castoriadis serán invocados aquí contra esa función ideológica 

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texto, Sevilla evalúa su presente en términos de fáctica «crisis del cientifismo, que en sus aspectos generales puede presentarse como una fatal pérdida en la confianza en que la ciencia sea el modelo que determine lo que ha de valer como real», tanto como de exigencia (no fáctica, pero sí, o precisamente por ello, hacedera) a no desconsiderar la pluralidad posible de formas de reaccionar culturalmente frente a la constatación de que «la suspensión de la perspectiva epistemológica» –suspensión reflexiva como estado en el que todavía podemos participar, y que no ha de ser idéntico a la «negación del problema de la verdad»– «conlleva una suspensión de la perspectiva ontológica: el mundo aparece no como la realidad a que se refiere la teoría, sino como un producto construido por ésta». Más en concreto, y pensando Sevilla en la sumarísima condena al irracionalismo acuñado ad hoc por el Discurso filosófico de la modernidad habermasiano (una metábasis “retórica por lógica” capaz de subsumir, con final indistinción, a Adorno y a Heidegger, tanto como a los propios Castoriadis y Blumenberg), el citado texto recusa que el asumir la pérdida de estatuto de la teoría (su canónico «ser duplicado conceptual de la realidad») tenga forzosamente que significar desactivación del propósito crítico de discriminación: Para no malentender el giro retórico (…) conviene no perder de vista que aquel no niega la legitimidad del problema epistemológico de la validez; más bien se sitúa en una perspectiva distinta: la de analizar el funcionamiento y las leyes de construcción de las obras teóricas como productos de la imaginación. Que tal perspectiva sea contraria a la epistemología, o sea complementaria, es una cuestión que permanece abierta.

Trataré en este texto de proponer una aproximación de la metaforología de Blumenberg a este registro con el que Sevilla consigna la viabilidad de lo filosófico, y que en el planteamiento de de la filosofía como metadiscurso.    Ibid. p. 140.    Ibid. p. 141.

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1993 quedaba ligado al nombre de Castoriadis como uno de sus más radicales exponentes. No es éste, desde luego, un registro inicialmente ajeno al autor de Paradigmas para una metaforología, en la medida en que aquel proyecto se comprendió, desde un principio, implicado en el propósito de conceptuar los efectos que la «fantasía creadora» tiene sobre el concepto como instancia derivada; en ese sentido, la doble presencia del concepto de “concepto” en la última expresión responde a la tentativa de representar «análisis» y «legalidad», en la cita de Sevilla, cuando uno y otra han perdido el sentido, ilusoriamente naturalizado, que les arropara en la posición objetivista del teoreticismo. Que ello se traduzca en versión de “despedida de la metafísica” (entendiendo por ésta no el sistema de lo bañado ya en la verdad última, sino el no menos periclitado ideal de fijación de qué pueda eso significar para un sujeto, individual y colectivo, constituido desde esta certeza), y que “la metáfora” desempeñe, en la hora del (tan dilatado) adiós, un papel preponderante, es algo que el lector de Blumenberg conoce desde la frase final de aquel texto programático. Un retorno a esos motivos que discurra en contigüidad a algunos de los principales postulados de Castoriadis puede, sin embargo, ayudar a mostrar cuán lejos estuvo, desde sus primeros compases, la constelación “retórica-postmetafísica” en su concreción blumenberguiana de otros modos de coordinar ambas nociones. Pienso, como explicitaré más adelante, en el nexo establecido entre la idea heideggeriana de metafísica como «retirada del ser» y la hipertrofia de una retorización de los procedimientos de verdad que se derivan de la escucha de una tal retirada. Me valdré para articular la prometida contigüidad –por supuesto, parcial y tentativa– de algunas acuñaciones conceptuales («círculo de la especulación», «círculo de la creación» y «mito   H. Blumenberg Paradigmas para una metaforología, trad. de J. Pérez de Tudela, Trotta, Madrid, 2003, p. 43.    Ídem, p. 257: «A menudo, la metafísica se mostró como metafórica tomada al pie de la letra; la desaparición de lo metafísica llama de nuevo a la metafórica a ocupar su lugar». 

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del deseo especulativo», en concreto) de F. Ciaramelli puestas a prueba en su estudio «Creación humana y paradoja de lo originario»; dirigiré, por tanto, lo originalmente pensado para interpretar el proyecto castoridiano de legitimación de las pretensiones racionales de autonomía hacia dos momentos bien conocidos de la obra de Blumenberg: la lectura de Nietzsche llevada a cabo en “Wirklichkeitbegriff und Wirkungspotential des Mythos” y las valoraciones de la genetización de la fenomenología de Tiempo de la vida y tiempo del mundo. La defensa que Ciaramelli elabora, al través de aquellas conceptuaciones, de la importancia de la propuesta castoridiana tiene, a mi entender, la virtud de visibilizar la convergencia con la metaforología de Blumenberg –así delimitada a efectos de esta exposición– de perfiles sustantivos de aquella su teorización de un «imaginario radical», ontológicamente instituyente, en tanto que versión de racionalización de lo preconceptual como precondición de teoría. Una racionalización que en ambos autores alcanza carta de naturaleza autoreflexiva, esto es, se convierte en proceder que se sabe constructivo de sus propias medidas de inteligibilidad y que, por ello, niega la intuición de su objeto (sea éste la cosa o la lógica que permite su acceso), en tanto algo exterior a tal lógica del hacer, como validador procedimental. La siguiente parte de este texto pretende centrarse en esto, en la compartida renuncia a la congruencia teoreticista de ambos pensamientos, y en la parcial comparabilidad de los espacios lógicos que esa indeterminada noción de “preconceptualidad” ocupa en los mismos, dejando para otra ocasión mayores concreciones, caso de que esta aproximación las posibilite. Planteamos esta clase de lectura, por tanto, desde la atención a tres conceptos elementales para la tradición filosófica, tan generales como ineludibles para cualquier presente que se piense en alguna relación con aquélla: el de “conciencia”, junto con su in-

   F. Ciaramelli «Creación humana y paradoja de lo originario», en Archipiélago. Cuadernos de crítica de la cultura, número 54, Archipiélago, Barcelona, 2002, pp. 58-67.

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transparencia constitutiva; el de “temporalidad”, como proceso posibilitador de lo nuevo y destructor de lo sido, efectos ambos, en el ámbito de la realidad humana, de dicha intransparencia primera, y el de “verdad”, como irrenunciable “posición de totalidad”, relativa y no cerradamente representacional. Vuelvo a ci  Presento, inicialmente, las zonas de convergencia que este trabajo plantea mediante su mostración inarticulada, la sucesión de citas: «El pensamiento no es, hablando metafóricamente, una actividad autoerótica: no puede cerrarse sobre sí mismo y considerarse a sí mismo como actividad de pensamiento. A partir del momento en que se considera como actividad de pensamiento, en cierto modo se ha objetivado, se ha vuelto otro que la actividad misma», en C. Castoriadis Sujeto y verdad en el mundo histórico-social. Seminarios 19861987. La creación humana I, trad. de S. Garzonio, Fondo de Cultura, Buenos Aires, 2004, p. 298. «Los distintos accesos antropológicos a la retórica convergen en una constatación descriptiva central: el ser humano no tiene ninguna relación inmediata, puramente “interior”, consigo mismo. Su autocomprensión tiene la estructura de la “autoexterioridad”», en H. Blumenberg «Una aproximación antropológica a la actualidad de la retórica», en Las realidades en que vivimos, trad. de P. Madrigal, Paidós, Barcelona, p. 141. El de “intransparencia” no deja de ser un término problemático para Blumenberg. Marca de inteligibilidad fenomenológica, esa imposibilidad de fijar en su totalidad el autos de una experiencia dada se convierte con facilidad en renuncia a la agencia de responsabilidades. En este sentido, el tercer concepto invocado, el de “verdad”.    «Hay un tiempo al que llamaré conjuntista-identitario o algorítmico para el que vale la termodinámica. Pero si este tiempo fuera el único, habría habido unas cuantas formas iniciales que al cabo de quince mil millones de años se habrían degradado. Lo que advertimos, sin embargo, es que siempre hay emergencia de formas nuevas. Hay pues otro tiempo, que no es el simple tiempo de la degradación sino el tiempo de la creación, al que llamaré tiempo poiético (…)», en C. Castoriadis La insignificancia y la imaginación. Diálogos, trad. de J. Capella, Trotta, Madrid, 2002, p. 132. «La aceptación de una relación mediata con el mundo es un compromiso que vincula la renuncia a la plena intensidad de la experiencia con la ganancia de tiempo, para así hacer una nueva experiencia –quizá aceptando de nuevo el compromiso de la mediatez. Lo que se llama “la vida” consiste en esta clase de concesiones y arreglos», en H. Blumenberg, Tiempo de la vida y tiempo del mundo, trad. de M. Canet, Pretextos, Valencia, 2007, p. 65.    «La intransparencia no libera de la acción en tanto que causalidad física, pero sí de la responsabilidad por ella: ha sido éste, pero su disposición, su motivación, su determinación son indeterminables en grado y procedencia. En el caso límite de duda no hay que imputar el caso a éste, sino a todos los demás 

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tar a Sevilla, antes de iniciar una caracterización, obligadamente sesgada, del pensamiento de Castoriadis que sea ya arranque de ese desarrollo, para localizar tanto el contramodelo de aquella especificidad, reconocible objeto recurrente de la crítica de nuestros autores, como la terminología («perspectiva del análisis del discurso») que ha de vincular en adelante sus propuestas: A diferencia de lo que sucede en la hermenéutica de raigambre heideggeriana que se mantiene en la perspectiva de la alétheia, como teoría de la verdad de carácter originario, y mantiene el modelo de la praxis-phrónesis como modo de acceso prioritario a la teoría-sophía, la perspectiva del análisis del discurso se aproxima al tercer modo de acceso comprensivo al mundo: el que propone la techne como actividad que produce una obra: la poíesis. La obra pasa a ser considerada como un elemento de la imaginación productiva y su análisis se integra en el problema de la función social de lo imaginario.10

2.

U

n momento privilegiado para captar el perfil intelectual del Castoriadis posterior a la publicación de La institución imaginaria de la sociedad, y centrar así nuestra interrogación por el modo particular de aproximarse su pensamiento a la dilatada noción de preconceptualidad antes referida es, a mi (como causantes de las circunstancias» (H. Blumenberg «Intransparencia», en Conceptos en historias, trad. de C. Cantón y D. Innerarity, Síntesis, Madrid, 2003, p. 159. «Hay en cada momento, y para un determinado estado de nuestra experiencia, verdades y errores y la necesidad de efectuar siempre una totalización provisional, en movimiento y abierta, de lo verdadero», en C. Castoriadis «Recommencer la révolution», Socialismo o barbarie (citado de E. Escobar y P. Vernay «Si hay un filósofo llamado Castoriadis», en Archipielagos, op.cit. p. 91. «(…) La verdad no es correspondencia, no es adecuación: es el esfuerzo constante por romper la clausura en la que estamos y de pensar algo distinto», en C. Castoriadis Imaginación…, op.cit. p. 82. 10   Sevilla «Lo imaginario…», p. 140.

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entender, aquel en el que, a petición del psicólogo social René Barbier, vemos una teoría que pensó sus conceptos capitales («imaginario radical», «magma») comprometidos con una lógica del continuo11 tratando de dar cuenta del éxtasis místico, la supuesta experiencia de la interrupción de la intencionalidad de la conciencia; o, si se quiere, experiencia de la suspensión de la actividad trascendental constituyente de experiencia: «Lo que en la tradición oriental se denomina meditación» –sitúa Barbier, y describe, utilizando, y contraviniendo, los conceptos de su interlocutor: «(…) una vigilancia extrema y una ausencia de representación. Aquí no hay ni concepto ni imagen. Es una zona de la psique en la que lo imaginario estaría, por así decir “en silencio”»12. 11   Tal lógica del continuo ha de ser aquí entendida, en la medida en que, como expresión, debe vincular las ideas de creación ontológica y comprensión histórica, lejos de sustancialismos de cualquier clase. Por tal entiendo, como paso a explicar, la toma de conciencia en el ejercicio hermenéutico, y en la determinación ontológica que a este es parejo, de la no separabilidad neta entre instancias lógico-trascendentales y el efecto de objetivación constitutivo de experiencia fáctica. En este sentido interpreto el principio blumenberguiano de indeterminación determinada de que «ninguna experiencia se mueve en un espacio de indeterminación absoluta, como tampoco en una realización puramente lineal de las conexiones causales de sus objetos» (en H. Blumenberg La legibilidad del mundo, trad. de P. Madrigal, Paidós, Barcelona, 2000, p. 18) e, igualmente, la noción de «círculo de la creación» de Castoriadis, cuya referencia adelanto: «Toda pregunta por el por qué y el para qué de la significación está ya situada en el espacio creado por la significación (…). Aquí no se trata simplemente de un argumento”lógico”, sino que se trata de hacer explícita la idea misma de creación, de aparición de un nivel ontológico que se presupone él mismo y se procura los medios de ser (…). La institución presupone la institución: ésta sólo puede existir si individuos fabricados por ella la hacen existir. Este círculo primitivo es el círculo de la creación (C. Castoriadis «La institución de la sociedad y de la religión», en Dominios del hombre Las encrucijadas del laberinto, trad. de A. Bixio, Gedisa, Barcelona, 1998, p. 180). 12   El debate, titulado por los editores de su transcripción «Psique y educación» (en C. Castoriadis Figuras de lo pensable, trad. de V. Gómez, CátedraUniversitat de València, 1999, p. 193), se celebró «con motivo de la publicación de un número de la revista Pratiques de formation centrado en la multirreferencialidad». Se debe tener en cuenta, y con ello este texto sigue describiendo qué entiende por cosificación de la complejidad, que estas reivindicaciones de

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La respuesta que diera Castoriadis implica, de primera instancia, una reivindicación de la inelubilidad, a efectos de poder ser el objeto tematizado, de las concreciones que, en forma de nombres propios o locuciones acuñadas («la “pequeña muerte”, decían los antiguos, fading del sujeto, traducía Lacan (…) el “sentimiento oceánico” de Romain Rolland y de Wilhelm Reich, Krishnamurti…»)13, ha generado la conciencia, en cuanto entidad datada, en su intentona de eludir su naturaleza mediada y discursiva. Así tomada, y en la medida en que es de por sí expresión de una preferencia expresada con nitidez por Castoriadis en otro lugar, la de que es «mucho más interesante reflexionar sobre las condiciones en las cuales el hombre llega a hablar de lo que no se puede hablar»14, la respuesta me parece ya alineada, en profundidad, con determinaciones que el programa metaforológico blumenberguiano se dio a sí mismo a partir, al menos, de la programática «Aproximación a una teoría de la inconceptuabilidad», esto es, que «no está descriptivamente en discusión la existencia de correlatos de una declarada ausencia de lenguaje sino la del esfuerzo, que forma parte de la historia de la consciencia, de representar con el lenguaje su propia inefabilidad»15. En un sentido para nuestros intereses más mediato, la respuesta introduce en el debate la noción de «mónada psíquica», lo que nos brinda un elemento decisivo para traer a colación las conceptuaciones de Ciaramelli ligadas a los objetivos de lectura referidos. Vaya por la interrupción –crudamente teoreticista en cuanto supuestamente facilitadora de una perspectiva de aquiescencia frente a su objeto, previamente modelado, y conceptualmente afásico: la “complejidad”- se realizan porque nuestros «universos de significaciones, cada vez más plurales y paradojales» nos hacen necesitados de «intercesores entre Einstein y San Juan de la Cruz». Encontramos estas expresiones de propósitos en textos como R. Barbier «El educador como passeur de sens» (Comunicación al congreso ¿Cuál universidad para el mañana?, Locarno, Suiza, 1997), donde el autor entona adhesión al llamado Manifiesto de la transdisciplinariedad, de Basarab Nicolescu. 13   C. Castoriadis, «Psique…», op. cit. p. 194. 14   C. Castoriadis, Sujeto y verdad…, p. 252. 15   En H. Blumenberg Naufragio con espectador, trad. de J. Vigil, Visor, Madrid, 1995, p. 106.

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delante la cita siguiente con objeto de subrayar, en una reconstrucción necesariamente parcial, las pretensiones explicativas de esta noción y su vocación de transcender el tecnicismo propio de la praxis psicoanalítica, ejercida profesionalmente por su autor; en un texto importante, al que volverá esta lectura, «La lógica de los magmas y la cuestión de la autonomía», y como explicación del viraje intelectual hacia «la importancia de lo que llamé el imaginario radical en el mundo humano», se nos dice que es la comprobación de que el psiquismo humano no puede ”explicarse” por factores biológicos ni considerarse como un autómata lógico de gran riqueza y complejidad y sobre todo la comprobación de que la sociedad no puede reducirse a determinaciones racionales de cualquier índole (…)

la circunstancia que indica la necesidad de «concebir otra cosa y pensar de una manera diferente para poder comprender la naturaleza y el modo específico de ser (…) de esos dos estratos, lo psíquico y lo histórico social». Aquello otro sobre lo que tratará de diferenciarse el resultado de la declarada ocupación en ese imaginario, la «lógica conjuntista-identitaria» o, como también la llama Castoriadis, lo «ensídico», es la decisiva categoría coligada a la de imaginario instituyente, y en este sentido, esta lectura se dirige ya a su tematización16. Baste, de momento, el acento 16   Adelantemos, para auxiliar la lectura, la definición inicial que se ofrece en el referido «La lógica de los magmas…», en C. Castoriadis Los dominios del hombre, op. cit., p. 196: «Trataré de mostrar lo que considero como los rasgos esenciales o, mejor aún, las categorías u operadores logico-ontológicos que necesariamente entran en juego por la obra de la lógica conjuntista-identitaria, ya sea que ésta funcione en la actividad de un matemático, ya sea que funcione en un salvaje que clasifica las aves, los peces y los clanes de su sociedad. Los elementos principales de estos operadores son: el principio de identidad, el principio de contradicción y el principio del tercero excluido, la equivalencia de propiedad=clase, la existencia fuertemente afirmada de relaciones de equivalencia, la existencia fuertemente afirmada de buen orden, la determinación». Por lo que respecta a esa coligación entre categorías: «Sólo el esfuerzo de distinguir (y pensar juntas) la dimensión ensídica y la dimensión propiamente imaginaria

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puesto sobre la relación de esos dos «estratos»: ser «radicalmente irreductibles lo uno con lo otro y, por otro lado, absolutamente indisociables: lo uno es imposible sin lo otro»17. Volviendo a la alusión a la noción de «mónada psíquica» en el debate con Barbier; para Castoriadis, la idea de una «clausura en sí mismo del núcleo psíquico en las vertientes de la representación, el afecto y el deseo»18, lejos de ser cualquier x experimentable por un sujeto (e incluso más patentemente, un x intersubjetivamente comunicable)19, es el producto reflexivamente elaborado de pretensiones de comprensión; en efecto: Estos estados me hacen pensar más bien en la vuelta al estado monádico inicial de la psique: a una especie de indiferenciación primera, indiferenciación entre lo sí mismo y lo otro, entre afectos, representaciones y deseos, caracterizada fundamentalmente por un conato de perpetua permanencia en lo idéntico, de permanencia en ese “ser”. Como usted sabe, éste es para mí el estado inicial, originario, de la psique humana, en la medida en que podamos reconstruirlo –o postularlo- a través de un proceso regresivo partiendo de los rasgos esenciales de las psiques observables, lo que sólo es posible, precisamente, porque está ya roto parcialmente este estado. (o poiética) del ser», como directriz metodológica expresada en el prefacio del volumen citado, p. 14. 17   Idem., pp. 193-194. 18   C. Castoriadis «Las raíces psíquicas y sociales del odio», en Figuras…, op. cit. p. 180. 19   «No creo que se pueda hablar de ello sin tener experiencia personal (…). Pero, repito, en principio (…) no puedo creer a los que dicen que en los procesos culminantes de la meditación, ya no hay representación. Si así fuera, no entiendo cómo después podrían hablar de ello, o recordarlo siquiera», en C. Castoriadis, «Psique…», op. cit. pp. 194-195. Por supuesto, ese “no entender” puede ser un final o un comienzo en la relación con los que, a pesar de todo, insisten en que aquello ellos lo experimentan, y dicen saber cómo transmitirlo, como demuestran las ochocientas páginas de la novela Salto Mortal, de K. Oé (1999) dedicadas a la relación de los líderes de una secta japonesa Patrón (el que «estuvo allí») y Guiador (el que consigue poner aquello «en palabras de aquí»).

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Y poco después, incidiendo en el carácter reflexionante20 de la noción: La mónada no es reprimida, está más acá de la represión; pero si no se postula un estado monádico, la totalidad de la historia posterior de la psique resulta incomprensible.21

Esta diferenciación, decisiva a mi entender, es profundamente malentendida por Barbier, quien significativamente trata de retraducir lo que ha sido explícitamente comprendido como objetivación problemática –la fijación logicista, aquí represión, de un sustrato prelógico, aquí mónada, como condición de intelección del proceso subsiguiente– en objeto de paradójica intuición: «Si le he entendido bien, ese estado monádico es un percatarse inconsciente del estado caótico»22. Por lo que hace al carácter de lo así reconstruido, y dejando puntualmente de atender al aspecto epistemológico del problema (la naturaleza objetual u objetivada de lo “preconceptual”), a todos los efectos cabe aplicarle a tal entidad el dictum de Blumenberg sobre la caverna como metáfora de clausura de significación: se puede vivir en ella, no sobre  Especialmente oportuna me parece aquí la mención de la conocida aplicación del principio de razón insuficiente del arranque de Salidas de caverna «La afirmación de que hay una memoria del género como la hay del individuo no admitirá prueba ni refutación, pero facilita un acercamiento comprensivo a los fenómenos», en tanto comparten de modo tan claro intereses de comprensión de la ontogénesis (H. Blumenberg Salidas de caverna, trad. de J.L. Arántegui, A. Machado Libros, Madrid, 2004, p. 25. 21   C. Castoriadis «Psique…», pp. 194 y 196. 22   Idem, p. 199. La posición de Blumenberg en el debate sobre el mito recogida en su «Wirklichkeitsbegriff…» comienza definiéndose frente a esa romántica contemplación de lo preorganizado: «el autor romántico [aquí, Schlegel] entiende el mito desde sus categorías auténticas» lo que «conlleva siempre el contacto con el caos como su terminus a quo». Y de ahí la pregunta de Blumenberg, que apunta a la dimensión reflexiva antes referida «¿no podría la relación entre caos y fantasía apuntar también hacia una libertad derivada…?», en H. Blumenberg, El mito y el concepto de realidad, trad. de C. Rubies, Herder, Barcelona, p. 18. 20

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vivir23. En este nivel, sin embargo, no se le podría incorporar al pensamiento de Castoriadis aquella comprensión de la actividad retórica (ligada, prima facie, a un imaginario) como constitutivo antropológico del llamado “hombre pobre”: la facultad de elaborar un cosmos como atemperamiento, que genera supervivencia, del «absolutismo de la realidad». Antes bien, dice Castoriadis, «el predominio de la imaginación condiciona la no funcionalidad del aparato psíquico humano (…) un ejemplo: la existencia de lactantes anoréxicos»24. Esta inaptitud para la vida –encontrar sentido (sólo) en la estabilización de la experiencia al margen de la mutación de su objeto, en todo caso de su entorno– tiene dos consecuencias decisivas para los subsiguientes desarrollos de la teoría en los ámbitos del individuo socializado y del imaginario social, ámbitos de realidad auto-organizada diferentes a la psique (aunque, como ha quedado arriba referido, interdependientes): que la «clausura se convierte para la psique en matriz de sentido» (lo que significa para Castoriadis que el individuo socializado nunca se convierte sin resto en unidad de función social) y que la «sociedad se encarga mal que bien de satisfacer la necesidad primordial de la psique»25. Según esto, la institución tiende a entender –más o menos conscientemente, a su vez– la racionalización ejercida sobre la psique, acción que constituye su ser mismo, no como instauración de un perfil histórico y social determinado (y, por ello, de alcance lógico finito), sino como concesión a ésta, la psique, de un objeto inasequible, la identidad allende toda racionalización-enculturación (limitada), en la medida en que su plena efectuación hubiera significado la muerte. Una sociedad, por tanto, será autónoma en la medida en que sofrene esa pulsión de 23   H. Blumenberg, Salidas de caverna, op.cit. p. 30. Por lo que hace a la definición que da Castoriadis a ese fenómeno de clausura, como morfología de lo ensídico: «Un mundo de significaciones es cerrado si toda cuestión que puede plantearse en él o bien halla una respuesta en términos de significaciones dadas, o bien su planteamiento carece de sentido», en C. Castoriadis «Las raíces…», op. cit. p. 184. 24   C. Castoriadis Sujeto…, op. cit. p. 21. 25   C. Castoriadis «Las raíces…», p. 183.

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autocancelación, que es el desear (y pensar, y acabar haciendo) su actividad instituyente de normatividad como expresión de un patrón de significación de carácter extrasocial. Pero más importante ahora que la vislumbre del horizonte crítico de esta teoría es reparar en el carácter proyectivo que esa nunca sida identidad (esos “recuerdos del yo perdido”, por decirlo con la expresión cara a Blumenberg) tiene en el diseño de formas de autocomprensión. Con mayor concreción: se impone el reparar en cómo el nexo individuo-sociedad queda caracterizado, para esta teoría, con la forma de la reversión en estatismo –reintegración identitaria de cara a la psique racionalizada– de la transformación, inevitable, de lo socialmente gestionado. Ciaramelli ha expresado así «el mito del deseo especulativo» subyacente al estado dominante de heteronomía derivado de esa inadecuación primera de los propósitos identitarios de lo social y sus medios (esto es: su trabajar sobre ficciones de unidad originaria), ligándolo inicialmente en lo filosófico a Hegel y al sistema del concepto como expresión científico-suficiente del ser, y hablando, después, de constante desde Platón a Heidegger: El círculo hegeliano [el «círculo especulativo»], que en su comienzo posee ya su meta y su fin, no es nada más que eso. Este comienzo –la implantación inicial de uno en el orden de las apariencias– presupone que, antes de la pérdida del origen (antes de la pérdida de la simplicidad), había, como culminación lograda originariamente, eso que de ahora en adelante se considerará la meta del sendero del deseo (…). Pero al final de la andadura es lo que es (acceso directo o inmediato, visión intuitiva o disfrute de las cosas mismas) sólo en la medida en que su origen haya sido poseído ya anteriormente en la intimidad de su autodonación.26

  F. Ciaramelli «Creación humana…», op. cit. p. 62.

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Si desde aquí miramos la operación principal de “Wirklichkeitbegriff und Wirkungspotential des Mythos”, esto es, intentar «hacer comprensibles las estructuras precategoriales del mito que demostró Cassirer, a partir de la diferencia en la comprensión de la realidad que le es inherente», para con ello, y puntualiza Blumenberg, «con intención primera», «derivar de esta diferencia las formas e intensidad de la recepción del mito»27, observamos como prerrogativa hermenéutica elemental evitar los réditos de ese planteamiento especular para una eventual filosofía de la historia surgida de la convicción de un trato objetivo con la esencia de “lo mítico”. Tal como es leída por Blumenberg, la intención de Nietzsche de «poner fin al mito», posibilidad ésta única en una historia que por ello termina, y que se deriva de la aprehensión de «el modo de repetición» como «único y último contenido del mito»28, se inscribe nítidamente en esta estructura: se da certificación de término al proceso en tanto su clave genética es reenviada, en algún sentido integra, desde aquello que trasparece entonces como su origen. Ahora bien, y esto es importante para entender cómo la hermenéutica de Blumenberg sobre Nietzsche (continuada, desde luego, en Trabajo sobre el mito, fundamentalmente) vehiculó una advertencia, no siempre tenida en consideración, a sus contemporáneos: si a la modernidad, exangüe de deber, vocación esquizofrénica de adecuación, y mala conciencia de su actividad, se le pudo oponer, con eficacia histórica, la convocatoria a aceptar la siempre sida y nunca aceptada actividad mitopoiética que nos constituye precisamente al través de la idea de “repetición”, es porque se tomó como carácter originario (una vivencia de lo inmanente, libre del desangrante teleologismo platónico-cristiano cuyo apetito el griego no conoció) lo que es justamente su contrario: significatividad surgida de la recepción, de la articulación y transformación de los contenidos. Lo segundo, apostar por el procedimiento mismo como productor de la significatividad sobrevuela muy rápido –   H. Blumenberg El mito y el concepto de realidad, p. 59.   Idem, p. 50.

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debe hacerlo– la celebración de que se es consciente de la necesidad antropológica de ello, y la acuñación de un tipo humano que viene a continuación, de prolongarse mucho ese objeto de foco29. Y, por lo mismo, en el continuo de creación ontológica que genera la consideración de que ninguna posición de conciencia es fruto ella misma de las condiciones de autocomprensión que se dará, a sí misma, sobre un fondo perdido, nunca escasearán las ocasiones de echar en falta correspondencias. Los conceptos de realidad tipologizados por Blumenberg –la sucesión histórica, procesualmente irreversible, entre realidad definitivamente categorizada y realidad de contextualidad abierta– contribuyeron a disolver, o permitieron tal cosa, la ilusión que producía plausibilidad de terminar el siglo con una “ilustración de la ilustración” en forma de remitologización, aprovechamiento patético de tales dependencias. A mi entender, la misma inconciliabilidad de fondo entre ideal de instantaneidad de la verdad filosófica30 y la anchura del tiempo del mundo, inconciliabilidad que había llevado a la fenomenología a autocomprenderse como un «platonismo dinamizado» que construía su verosimilitud, íntegramente, en la captación de la «tarea infinita» en el horizonte especulativo griego, es la que llevó a decir, haciendo de ello piedra angular de un programa de crítica cultural, que (…) las pruebas citadas ya bastan para concluir que el “dios venidero” desempeñaba entre los románticos un papel muy peculiar: no lo entendían como un dios más, sino como la quintaesencia –es más, como el título genérico– del propio proceso mitológico.31 29   Lo que hace posible una sucesión de bautismos del tipo del “homo pictor”, “homo faber”, “homo ludens”, “homo compensator”, etc. 30   Esto no tiene que ser geométrico; pero el fenomenólogo ha de estar ahí cuando el ahí “sucede”. 31   La cita pertenece a M. Frank El dios venidero. Lecciones sobre la nueva mitología, trad. de H. Cortés y A. Leyte, Serbal, Barcelona, 1994, p. 22. Me interesa destacar el fiasco receptivo que supuso la inclusión de Blumenberg entre los proveedores de argumentos para validar una operación que, al entender de los traductores y prologuistas de la edición castellana, enseñaba a apreciar,

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En uno y otro caso la identidad in nuce –la comunidad futura de los fenomenólogos como funcionarios de la autoreflexión, por un lado; los beneficiarios de la finisecular ocupación con tal “metadeiad” greco-romántica, por el otro– surge del mismo gesto: la «recapitulación en evento puntual» (Ciaramelli) de la historia fáctica como totalidad de las transformaciones, reconducida así a la categoría de potencialidad, pretendidamente ubicable y utilizable, y a la lógica temporal de ocultación y desvelamiento que le es propia. Operado este repliegue ficticio, elaborador de distanciamiento teórico (dispensador, para un corpus doctrinal, de la «autorreflexión de la humanidad», o de la imaginación creadora como matriz de posibilidades), y más o menos virulentamente inesencializador de las mediaciones entre «carácter originario creativo y posterioridad hermenéutica»32, resulta indiferente si al objeto de la condensación lo llamamos Razón o Margen de ésta. Entiendo que desde aquí resulta trazable una línea que lleve desde el malentendido de Barbier hasta el irónico tacto con que Blumenberg recomienda a los implicados en el rescate hermenéutico del mito despegarse de la «fascinación por el sistema comunicante entre premundo filogenético y submundo ontogenético», a favor de la demorada «tematización de los fenómenos diacrónicos de recepción, citación y transformación de aquel potencial mitológico como un complejo muy singular de estructuras históricas»33. No se trata, en esta última cita, de una simple ampliación de los contenidos que nazca de la seguridad con que la fenomenología histórica se entiende motor de descriptibilidad, sino de certificar la inaccesibilidad teórica a, y la imposibilidad de operar metadiscursivamente (una praxis desde las impensadesde la «suposición de que hoy nos encontramos en el límite más extremo de la Ilustración», que «tal vez lo nuevo mismo, esperado con devoción por la teología como una salvación, no es sino lo que siempre estuvo ahí, ante nosotros, pero oscurecido por los muchos nombres, por el afán mismo de nombrar, que tiene su exponente más crispado en la ciencia» (idem, prólogo, p. 11). 32   H. Blumenberg El mito y el concepto de realidad, op.cit. p. 44. 33   Idem, p. 12.

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bles certidumbres del silencio conceptual; un pensamiento del pensamiento creador, como atajo hacia lo energético, y no meramente producido, etc.) sobre aquello que, bien como aurática totalidad del ser, bien como órgano humano generador de significación, subyacería a toda elaboración cultural, y de cuya aprehensión cabría esperar subversión liberadora de la implicación disciplinar en la conceptualización que hace posible sus experiencias, siempre parciales, relativas, revisables. La siguiente cita de Castoriadis reitera el motivo de la naturaleza reflexionante de la “determinación magmática” de la mónada antes señalado, y muestra en el centro de la ontología de este autor la idea de norecapitulabilidad entre “preconceptualidad” y concepto, magma y entendimiento, como anulación de tal promesa ideológica de metadiscursividad por parte de la hermenéutica: Un magma es aquello de lo que pueden extraerse (o aquello en lo que se pueden construir) organizaciones conjuntistas en número indefinido, pero que no puede ser nunca reconstruido (idealmente) por composición conjuntista (finita o infinita) de esas organizaciones.34

Para terminar: ¿Qué propone la ontología de Castoriadis, al entender de Ciaramelli, frente a la reducción a lo irrelevante de la temporalidad como constituyente de significado ínsita en la idea del «círculo especulativo» desplegada? La noción de «círculo de la creación», adelantada ya en esta lectura, es así definida en su condición aparentemente paradójica:



(…) Hay que pensar la creación humana como génesis ontológica. Pero dicha creación, aunque sea radical, no es de ninguna manera absoluta, esto es, no es ni ilimitada ni inmediata e instantánea (…). La paradoja estriba en que la creación tiene presuposiciones, pero estas presuposiciones no están “fuera” de la creación sino que son sus mismos efectos.35   La definición, proveniente de La institución imaginaria de la sociedad, la tomo de C. Castoriadis «La lógica de los magmas…», op. cit. p. 200. 35   F. Ciaramelli, «Creación humana…», op. cit., p. 58. 34

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A mi juicio, la paradoja que Ciaramelli sitúa en el centro de la ontología del imaginario radical puede traducirse en la siguiente doble irrepresentabilidad: A) Impensable la supervivencia de lo nuevo en lo histórico-social si suponemos lo ensídico como prius lógico: si un x es enteramente deducible de su antecedente, no se deja entender, a ningún efecto, la existencia de un x distinto de aquél. Y B) Impensable la significatividad de eso nuevo si éste no es leído en alguna congruencia contextual con lo que, en tanto que nuevo, critica o supera. En forma de sentencia, muchas veces repetida por su autor, y que nos retrotrae a esa noción de continuo que se ha alineado aquí a la premisa blumenberguiana de legibilidad comprensiva de lo sido: «la creación es ex nihilo pero no es in nihilo ni cum nihilo; surge en alguna parte y a través de algo»36. No me parecería aventurado –pero queda para otra ocasión– entender desde esta idea la tensión polémica protagonista de La legitimación de la edad moderna, tensión subyacente a la elaboración de las principales aportaciones teóricas de aquella obra, como son la de «umbral de épocas» o el de «cambio de reparto de papeles»: reivindicar, desde el «conocimiento histórico», la crítica al «gran prejuicio en el nombre de Neuzeit», el comienzo incondicionado, sin por ello privarse «de la posibilidad de hacer valer que la conciencia que tiene de sí misma la Edad Moderna es la de ser una época singular y definitiva»37. Seguir definiendo esa puesta en valor, determinar qué significó para Blumenberg concebir en su presente la especificidad del fenómeno moderno de autoafirmación como experiencia histórica irreductible a 36   C. Castoriadis «Falso y verdadero caos», op. cit. p. 272. La primera alusión al perfil hermenéutico de la indeterminación determinada lo hacía este texto en su nota 11. Lo allí citado tiene el célebre antecedente de que «(…) tendríamos que confrontarnos aquí con algo interpretable que precede a otra cosa interpretable, que coordina y colorea otro estado de cosas, pero que, no obstante, no admite la total indeterminación de la totalidad y de sus posibilidades siempre pendientes de ejecución aquende, en el seno de la determinación de los objetos», H. Blumenberg, La legibilidad…, op. cit. p. 18. 37   H. Blumenberg La legitimación de la Edad Moderna (Edición corregida y aumentada), trad. de P. Madrigal, Pre-textos, Valencia, 2008, p. 468.

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mero segregado de una ahistórica esencia humana, pero también como algo no sublimable en auto-génesis de la razón, implica nuestra apropiación de su pensamiento, y la viabilidad crítica que le otorguemos para nuestro presente.

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Il Simmel antropologo della Beschreibung: una noterella

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hi si appresti a ritracciare i modelli e gli autori, i termini di confronto e gli obiettivi polemici, che hanno prodotto la specifica elaborazione antropologica di Hans Blumenberg si trova di fronte a uno scenario non canonico, a una serie di letture originali e sottratte alle piste usuali. Se, in particolare, dopo i molti indizi contenuti nell’opera edita in vita, ci si accosta alla summa antropologica postuma della Beschreibung des Menschen, colpisce tra l’altro l’attenzione qui rivolta in modo obliquo ad autori solo marginalmente presenti nella discussione dell’antropologia filosofica. A titolo esemplare e di anticipazione di una più vasta disamina, si procederà nella breve noterella che segue a mettere a fuoco il ruolo svolto nell’argomentazione della Beschreibung dall’opera del sociologo e filosofo Georg Simmel (1858-1918), qui presente appunto nell’inedita veste di antropologo. Autore tra i più citati nella sezione della Beschreibung sui tentativi di definire l’uomo – “l’essere indiretto”, “l’animale che scambia”, “l’essere in cerca di consolazione”, “l’essere dai mezzi inservibili”, “l’essere affamato per eccellenza” (B 512-514) – Simmel assurge a figura incompiuta di un’“antropologia filosofica” che ci si sarebbe potuti aspettare “di altro livello”, rispetto a tutto quello che sotto questa insegna sarebbe stato poi prodotto nel corso degli anni Venti (B 625), e svolge un ruolo chiave nella discussione di almeno tre passaggi della pars instruens dell’antropologia blumenberghiana, il bisogno di consolazione e l’inconsolabilità dell’uomo, la capacità di trasporsi in altro e il carat   H. Blumenberg, Beschreibung des Menschen, a cura di M. Sommer, Frankurt am Main, Suhrkamp, 2006 (a tale testo vanno riferiti tutti i rimandi in corpo dell’articolo che segue indicati con B e un numero di pagina).

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tere contingente dell’individuazione, la filosofia dei sensi. Se la “consolazione” (Trost) è una categoria della socialità umana, giacché richiede la partecipazione anche fittizia degli altri alla sofferenza propria, essa poggia sulla capacità generale degli esseri umani di “delegare”, di non dovere sopportare tutto da sé quello che loro accade, e, con il Simmel del celebre frammento postumo, si presenta nel suo insieme come: “un’esperienza singolare che lascia sussistere il dolore, ma per così dire supera la sofferenza nella sofferenza [das Leiden am Leiden], essa non riguarda il male [Übel] stesso, bensì il suo riflesso nella più profonda istanza dell’anima” (B 625). Il suo lato più propriamente antropologico, afferente cioè alla situazione fondamentale del genere umano, è che – ancora con Simmel – “all’uomo nel suo complesso nulla può essere di aiuto” (B 626). Ben più che una sorta di quietivo della capacità di modificare la propria condizione, il bisogno e la capacità di consolazione rappresentano il correlato di un essere cui non si può portare soccorso per il quantum di dolore al quale è destinato. A differenza che per gli altri animali, i quali pure lo conoscono, il dolore è costitutivo per un essere che può restare inconsolabile per la morte di altri organismi e il cui bisogno di consolazione raggiunge il “valore limite dell’inconsolabilità”. Rendendo possibile la messa in forma di una simile antinomia, Simmel consente così al discorso blumenberghiano di trasporre a un livello interiore lo stesso principio che si era mostrato decisivo per la sopravvivenza nell’antropogenesi – sulla scorta di Alsberg – ovvero la necessità di trovare egualmente una via di fuga quando si finisce in un vicolo cieco, di ricorrere alle virtù della distanza e, in questo caso, della “pura espressività” per elaborare qualcosa (il dolore) cui non ci si potrebbe sottrarre a piacere, sicché Trost diventa “una forma di distanziazione dalla realtà, nel caso limite, di perdita della realtà” (B 626-627). E, grazie a ciò, diventa altresì possibile riconnettere l’antinomia disegnata dal bisogno di consolazione alla struttura a Umwegigkeit della cultura, e al suo procedere per digressioni e vie indirette, al paradossale bisogno di compensazione di

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una “struttura” (l’uomo) che si vuole carente ma che si procura in tal modo “la eccedenza di sensibilità dell’immaginario”, che permette di trattare l’assente – anche l’assente non reale – come presente, all’oblio e alla capacità di vivere “nonostante”, nella contingenza di un principio di ragione insufficiente e, con Freud, nel passaggio dal “trotztdem” al “grundlos”, all’assenza di fondamento per la nostra esistenza, alla capacità umana di felicità come capacità di illusione che poggia su possibili schermature di contro alla realtà, e alla consapevolezza, oltre ogni teodicea, che – ancora citando Freud – “la vita, come ci viene inflitta, è troppo pesante per noi” (B 630-643). Insiste, invece, Blumenberg sui limiti della formulazione simmelliana nella “filosofia dell’attore”, laddove essa individua correttamente la “incomparabile capacità umana” di “trasporsi in altro”, di “raffigurare l’altro e impersonarlo”, ma si limita a localizzare questa facoltà di “identificarsi in altro” nello “strato pulsionale” più proprio e profondo dell’individuo, senza cogliere il suo nesso con la “contingenza antropologica”, la coscienza che quello stesso individuo sarebbe potuto essere o diventare un altro (B 650-651). Il “fenomeno originario” (Urphänomen) dello scambio o cambiamento dei ruoli (Rollenwechsel) rende infatti consapevoli del carattere casuale e “sconveniente” dell’identità, del fatto che l’individuo soltanto per caso è questo e non un altro (B 651). Centrale diventa tuttavia per la comprensione della “prestazione sociologica” peculiare che si produce nella reciprocità dello sguardo, nel fronteggiarsi di due individui che si guardano, la nozione di “azione reciproca” (Wechselwirkung) derivata dalla Sociologia di Simmel (B 869-873). Risulta con essa elevata a categoria dell’esperienza sociale la capacità di porre come dominante nelle relazioni elementari non tanto il rapporto tra soggetto e oggetto, ovvero l’entrare in relazione con l’altro come un oggetto di natura, quanto piuttosto il nesso reciproco di entrambi (B 871). Nessun terzo può per Simmel farsi un’idea precisa di ciò che accade nella relazione, giacché l’azione reciproca in cui il guardarsi negli occhi collega gli esseri umani non si cristallizza

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in alcuna formazione oggettiva e l’unità che essa costituisce si risolve interamente nella funzione (B 870). Per questo, sempre con Simmel: “Non si può prendere con l’occhio senza dare contemporaneamente. L’occhio svela all’altro l’anima che cerca di svelarlo” (B 872). Al cuore delle “variazioni sulla visibilità”, sul vedere ed essere visti come relazione basilare nella antropogenesi e nella definizione della condizione umana (la visibilità non significa solo che l’uomo è un essere corporeo-visibile ma anche che gli è costitutivo il poter essere visto dagli altri, B 778), si trova pertanto il confronto di Blumenberg con la “sociologia dei sensi” simmeliana. Se la nudità è il “residuo dell’esclusione degli organi” nell’ominazione, in quanto mostra la bisognosità di ausilio culturale così come l’assenza di armi del corpo umano, e, nel caso del volto, è la ragione del significato del velo, della maschera, dei cosmetici e dei tatuaggi, la cultura si presenterà come la quintessenza di “ciò che ci equipaggia per restare sotto i suoi veli così deboli e nudi” e l’occhio concentrerà la visibilità e opacità del volto (B 859-866). Come Rembrandt che ha cercato, secondo la lettura simmeliana, la profondità del tempo nella sottigliezza del colore dipingendo i suoi tardi autoritratti, si tratta di analizzare il deposito della storia di una vita nel volto che diventa così il simbolo di tutto ciò che l’individuo ha portato con sé come presupposto della sua vita, mentre le stesse acquisizioni simmeliane vengono rivolte contro la opposizione schmittiana: “il viso fa sì che l’uomo venga compreso già al suo apparire senza aspettare il suo agire” con il che, commenta Blumenberg, siamo di fronte “alla cultura della comprensione [Kultur des Verstehens] che deve sostituire la barbarie delle decisioni amico-nemico” (B 873-874). Per quanto la tipologia della cecità e della sordità di Simmel risulti efficace nel mettere in risalto le trasformazioni percettive della moderna metropoli (il confronto silenzioso tra le persone nei mezzi di trasporto urbano o – come in Höhlenausgänge – la prevalenza della dimensione ottica nella “caverna acustica”

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della grande città rumorosa), essa sembra entrare in contrasto con l’ipotesi antropogenetica blumenbeghiana, attribuendo alla perdita di relazione uditiva con il mondo il potenziamento della diffidenza e, di contro, alla perdita visiva la crescita della calma e di una disponibilità indifferenziata rispetto a esso (B 875877). Se la soluzione a tale contraddizione sembra prospettata da Blumenberg in chiave di sfasatura tra il ruolo odierno dei sensi e la sua genesi – non senza ripercussioni sulla discussione delle tesi marquardiane sull’esclusione reciproca di antropologia e storia ampiamente ripresa in questo stesso volume, afferma perentoriamente poco oltre: “Ogni antropologia, anche quella che lo nega, è nel proprio nucleo storica” (B 890) – il serrato dialogo con Simmel intorno alla funzione della differenziazione di vista e udito nell’intersoggettività si conclude richiamando, più in generale, il carattere di inibizione e via indiretta di ogni cultura che è primariamente Umweg attraverso gli altri e la struttura digressiva e indiretta della stessa autocoscienza che rende l’uomo capace di estremi mutamenti del punto di vista, come il cogliere l’estraneo attraverso l’esperienza interna (Fremdinnererfahrung) e se stesso dall’esterno, come un “artefatto dell’esperienza dell’estraneo” (B 879 e 881).

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