Gus Van Sant 8831709615, 9788831709613

Gus Van Sant è il regista che ha affiancato grandi produzioni hollywoodiane a film di radicale sperimentazione, sviluppa

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Italian Pages 159 [117] Year 2011

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Gus Van Sant
 8831709615, 9788831709613

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Gus Van Sant è il regista che ha affiancato grandi produzioni hollywoodiane a film di radicale sperimentazione, sviluppando un percorso fatto di metamorfosi successive che passo dopo passo hanno trasformato il nostro sguardo sull’America e sul presente. I corpi in movimento dei suoi adolescenti inquieti, gli spazi dell’oggi rivisitati con il linguaggio del cinema d’autore, i capolavori del passato duplicati con fedeltà parossistica costituiscono i tasselli di un progetto artistico e concettuale che ruota attorno a un unico vero protagonista: l’immagine filmica e la sua profonda intimità con il mondo. BARBARA GRESPI e critica del cinema all’Università degli studi di Bergamo e dal 2007 è selezionatore per il Festival del cinema di Torino. Negli ultimi anni si è occupata di teoria e analisi dell’immagine, in particolare del rapporto fra cinema e fotografia e del motivo del corpo e del gesto nel film. Tra le sue pubblicazioni, Marchi d’autore (2000), Howard Hawks (2004), Immagini e memoria (2009), Cinema e montaggio (2010). Per Marsilio ha scritto saggi inclusi in diversi volumi della Storia del cinema italiano e ha collaborato al volume Cary Grant (a cura di Giaime Alonge e Giulia Carluccio).

Gus Van Sant a cura di Barbara Grespi Marsilio

elementi

sequenze d’autore a cura di Paolo Bertetto

© 2011 by Marsilio Editori® s.p.a. in Venezia Prima edizione digitale 2015 ISBN 978-88-317-3954-2 www.marsilioeditori.it [email protected] Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata. Seguici su Facebook Seguici su Twitter Iscriviti alla Newsletter

Indice Copertina Abstract - Autrice Frontespizio Copyright Il cinema metamorfico di Gus Van Sant 1. Soste 1.1. Gli abitanti della strada 1.2. L’incontro con il padre 1.3. Via dall’America 1.4. Sulla strada del ritorno 2. Le forme del movimento 2.1. Muoversi tra le immagini 2.2. Immagini in marcia 2.3. Il movimento dello spettatore Mala Noche Tutto nel prologo Dell’audacia: vedere e toccare Lo sguardo mobile e la frontiera Ti guardo ma non ti ascolto: il montaggio spezzato e il primato del visivo Ancora più vicino: il suono, l’identità e l’amplesso In mezzo a noi: vedere da dentro Da morire La tv come casa La strada verso casa Cambio di canale Psycho Un trucco che è un rituale Nouveau réalisme Ai bordi dell’opera Superfici riflettenti Il corpo vuoto Elephant

Una certa tendenza del cinema contemporaneo Fotogenia L’ordine della ripetizione (ovvero, poter tornare indietro) La giusta distanza Paranoid Park Il ritorno del soggetto «Mind-game film» «Artificielles et vibrantes forêts de la ville» Note al testo Apparati Biografia Filmografia Bibliografia

Il cinema metamorfico di Gus Van Sant di Barbara Grespi Difficile dare una definizione univoca del cinema di Gus Van Sant, autore eccentrico, che lavora da venticinque anni fuori e dentro Hollywood. Per tracciarne il profilo critico bisogna affidarsi al paradosso: la singolarità della sua opera consiste in un’ostinata pluralità (di cicli, modi di produzione, generi), il principio di coerenza dei suoi quattordici lungometraggi nel continuo rovesciarsi della forma e nel repentino variare dei modelli di riferimento. Van Sant è per la critica un regista ai limiti della schizofrenia, capace di biforcare la propria attività creativa in opere commerciali che compiacciono il sistema neo-hollywoodiano e film d’autore che cercano un pubblico addirittura extracinematografico, frequentatore delle gallerie d’arte contemporanea. Obiettivo di questo volume è dimostrare invece che la sua opera ha un carattere in sé metamorfico, costituisce cioè, nel suo complesso, un work in progress sull’immagine cinematografica e la sua rinnovata capacità di produrre esperienza. Van Sant dapprima si immerge nel grande cinema americano per saturarne l’immaginario, stipandolo di icone della controcultura hippy e queer, poi lavora alla sua depurazione, riducendolo all’osso, cioè mantenendone solo le materie primarie (deserti, strade, cieli), e infine a partire da questi residui essenziali ricostruisce, inventa una forma nuova, profondamente radicata nel cinema ma a questo punto capace di spingersi anche al di là di esso. L’obiettivo però non è semplicemente trovare la forma, individuarla una volta per tutte per ripeterla, farla funzionare, ma piuttosto intercettarla, mantenendola in costante evoluzione, anche in rapporto al mutare degli scenari della visualità a cui l’autore risulta particolarmente sensibile. Da qui l’impressione di un’opera viva, aperta e in evoluzione, la cui continuità è semmai affidata a una microscopica rete di rimandi interni, che vanno dalla ripetizione, da un film all’altro, di singole inquadrature, alla riscrittura di intere scene, dalla migrazione di oggetti e icone, al ritorno di luoghi emblematici. Non è un caso che tutte le figure ricorrenti del cinema vansantiano servano non tanto a fissare le coordinate di un universo, quanto a mettere in immagine l’idea del cambiamento: è il caso delle nuvole in cielo, forme mobili e mutanti che si compongono e si dissolvono, accompagnando quella che a tutti gli effetti è la struttura della sua opera: un viaggio interminabile tra le immagini, ovviamente segnato da alcune soste. 1. SOSTE

1.1. Gli abitanti della strada Sul tema del viaggio si incentra la prima delle sue fasi creative (1985-1993). È il momento dell’indipendenza, della maggior sintonia con la cultura beat e del maggior legame con la sua cittadina di origine: Portland, Oregon. Mala Noche (1985), Drugstore Cowboy (1989), Belli e dannati (1991) e Cowgirl - Il nuovo sesso (1993) ruotano attorno al viaggio infinito di un mitico tramp, il vagabondo dell’immaginario americano, rivisitato però in chiave beat e queer1: il primo della serie è l’immigrato messicano che si arrangia sulla strada, seguono il tossicodipendente che rapina i drugstore, il prostituto affetto da narcolessia e infine, in una variante tutta al femminile, l’autostoppista dai pollici fallici. Attraverso questi personaggi Van Sant ripercorre i generi hollywoodiani dalla propria personale posizione di spettatore hippy e

omosessuale, che per godere di cowboy e viaggiatori on the road proietta in essi i propri eroi, in verità senza alcuna violenza critica e dissacratoria, piuttosto con una certa morbidezza e complicità, tipiche del suo sguardo: le sue figure malinconiche, volti della controcultura agli epigoni (River Phoenix, Matt Dillon, Keanu Reeves) non sono che varianti, attualizzazioni, proliferazioni di un mito di cui in realtà subiscono ancora tutto il fascino. In tutti i film di questa fase l’immaginario hollywoodiano si sbriciola in frammenti, sopravvive disseminato qua e là entro storie che non appartengono chiaramente a un genere. È il caso del suofilm d’esordio, Mala Noche, che realizza in totale indipendenza, in 16 mm e con una troupe di tre persone. Mala Noche è un film urbano e sperimentale che sviluppa però il motivo del viaggio a metà fra immaginario western e on the road. Il viaggio western si intravvede nella sequenza pre-titoli, evocato da rapide immagini (i volti dei messicani, il paesaggio americano che sfila dal finestrino, il fuoco dentro il vagone), quanto basta per motivare l’incontro fra Walt, proprietario di un negozio di liquori nella periferia di Portland, e due giovanissimi immigrati messicani, Johnny e Pepper, dei quali in modo diverso si innamora. Il viaggio in realtà sarà drammatico, e quel che non abbiamo visto lo immagineremo attraverso il dettagliato racconto di uno dei due giovani, che gli darà la forma di una scena western, con i gringos che pestano i messicani e i fuggiaschi che si lanciano dal treno in corsa. Lo stesso dicasi per la seconda fuga di Johnny dal Messico, a nuoto attraverso il Rio Grande e poi di nuovo su un treno merci: essa resta del tutto fuori campo, venendo però narrata e mimata, tra il serio e il faceto, dal protagonista. Se il western costituisce per lo più una memoria, il viaggio hippy, di piacere e libertà assoluta, costituisce invece la principale avventura dei protagonisti, mostrata nella sequenza centrale del film. Qui una lunga corsa in auto lungo la Route 35 porta alla progressiva fusione dei personaggi con la natura, al loro “inserirsi” nel paesaggio sostando sulle rocce e davanti a una cascata, ma anche nel bel mezzo della strada, lanciati alla rincorsa dell’auto, o con la testa nel vento a sparare dal finestrino. È la prima apparizione della strada americana sovrastata dalle nuvole che contrassegnerà il successivo cinema dell’autore: la strada “abitata” da un’auto con la quale due giovani partono alla ricerca della propria identità. È il caso di Mike (River Phoenix) di Belli e dannati, seconda versione del tramp che perde la connotazione etnica e mantiene quella omosessuale (anche se all’inizio, dichiara l’autore, i protagonisti dovevano essere dei chicanos2). Belli e dannati è il primo soggetto originale di Van Sant, scritto subito dopo Mala Noche ma realizzato come terzo film, con un budget esponenzialmente cresciuto ma ancora all’interno del cinema indipendente. La sceneggiatura è il frutto della combinazione di tre diversi soggetti: uno è il racconto “documentario” delle vite dei ragazzi di strada a Portland, dei loro ambienti e del loro quotidiano, l’altro una reinterpretazione dell’Enrico IV di Shakespeare nella versione cinematografica di Orson Welles, Falstaff (1965), e il terzo la trama di un breve soggetto a sé, My Own Private Idaho, storia itinerante incentrata sulla narcolessia del protagonista. Il personaggio di Mike, che quando si emoziona piomba in un sonno profondo e improvviso, oltre che spesso inopportuno (durante l’autostop, a un angolo di strada, nel pieno di un rapporto sessuale), viene da questa short story, mentre Scott (Keanu Reeves) rappresenta una versione aggiornata di Hal, figlio degenere del re Enrico iv, così come Bob, il vate dei vagabondi di Portland, è ricalcato sul personaggio di Falstaff. La storia dei due hustlers di Portland che viaggiano alla ricerca della madre dell’uno e

approdano al ricongiungimento dell’altro con il padre borghese, diventa uno dei manifesti del cinema queer, al quale ascrive definitivamente i volti di due star in erba, Reeves e Phoenix. Belli e dannati lavora infatti a una mitografia dell’omosessualità, cioè non si limita a rappresentare il mondo gay, ma gli assegna un posto nell’immaginario: cala i due protagonisti dentro la quintessenza iconica della strada dell’Ovest (il cielo basso e azzurrissimo, i cespugli brulli intorno, il leggero saliscendi verso l’orizzonte) di cui Mike appunto si appropria («sono già stato qui… questa è la mia strada!», dice restringendo il proprio campo di visione con le mani, mentre un’iride rinchiude il paesaggio a formare una sorta di logo del West). Il linguaggio del film riflette in diversi punti lo “stile” di Mike, sicché i suoi tratti queer sono anche una questione di sguardo: citazioni camp (Il mago di Oz), eccentricità stilistiche e giocose revisioni di gender, come nella sequenza delle riviste gay animate. Qui, dalla copertina di «Male Call», Reeves chiacchiera del suo lavoro con i colleghi in vetrina, mostrandosi come l’ultima versione del cowboy, nudo ma con cappello e cinturone, mentre l’headline dietro di lui, dal sapore warholiano, recita: «ready to ride». La stessa riscrittura ironica del genere riaffiora durante il viaggio verso l’Idaho nella scena del falò notturno, tipico momento western in cui i cowboy si intendono sul pericolo che li attende, mentre qui l’intesa potrebbe andare ben oltre: Mike dichiara il suo amore a Scott, che però non lo ricambia. Infine, con maggior furia iconoclasta, le ceneri del western tornano al momento della rivelazione delle origini, quando Mike finalmente scopre, attraverso il fratello, qual è la storia di sua madre, sorta di vendicatrice del genere femminile, antenata delle cowgirl a venire. Viene a sapere infatti che la donna ha sparato al suo pessimo marito proprio durante la proiezione di Rio Bravo, annichilendo insieme l’uomo e il suo immaginario tutto al maschile («Rio Bravo sul grande schermo, John Wayne a cavallo che attraversava il deserto… e sparso sui sedili… il pop corn che si inzuppava di sangue!»). Del cowboy, Mike conserva solo l’idillio con la natura, la sua capacità di dormire all’aperto, sotto le stelle, sotto le nuvole che passando veloci cambiano la luce e il colore del mondo. Non è propriamente un nomade, è più che altro un abitante della strada, perché non sa veramente viaggiare, o almeno non può godersi il percorso fra un luogo e l’altro, dato che partendo cade in catalessi e si risveglia solo a destinazione. Per questo la sua è una percezione del mondo discontinua, a salti; egli vive alternando momenti in cui ha la testa sott’acqua e altri in cui la tira fuori: così fanno i delfini che nuotano contro corrente, in uno dei molti inserti onirici legati al personaggio; gli altri riguardano soprattutto l’abbraccio della madre e l’immagine della casa, agognato focolare. Evidentemente Mike è tutt’altro che conciliato con la sua identità di viaggiatore, e si sposta nel miraggio di fermarsi, di trovare alla fine un luogo di appartenenza. La sua variante femminile, Sissy Hankshaw di Cowgirl - Il nuovo sesso, è invece molto più risolta, tanto che è lei ad abbandonare i genitori per sposare convinta la religione della strada, luogo di formazione spirituale contro la violenza psicologica della famiglia. Come Mike ai delfini, così Sissy è associata a un animale: si ritroverà sul set di uno spot pubblicitario travestita da gru, mentre un vero stormo migratore prende il volo sullo sfondo. L’immagine di Sissy come creatura soave, candida e in armonia con la natura, suona come un riscatto, quasi ultraterreno, del tormento di Mike, e in definitiva un tributo al River che lo ha interpretato: Van Sant infatti gli dedica il film, uscito negli Stati Unti pochi mesi dopo la sua morte di overdose. Non è un caso che questa idealizzazione del tramp sia di sesso femminile: tra le più

sottili revisioni di gender operate dall’autore, c’è proprio questa ascrizione del maschio al regno del domestico, dell’interno, dell’abitare, e della femmina alla seduzione dell’esterno, del viaggiare. Sissy (Uma Thurman), la protagonista di Cowgirl, dichiara esplicitamente: «Non abito in nessun luogo in particolare, non faccio che spostarmi. Il mio non è viaggiare è muovermi». Keanu Reeves, che nel film interpreta il pittore asmatico di origini indiane, è invece il maschio che abita gli interni newyorchesi, e costituisce per Sissy l’occasione di accasarsi, dopo undici anni di viaggi ininterrotti. Ritroveremo la stessa opposizione tanto in Drugstore Cowboy quanto nella coppia protagonista di Da morire, dove sarà sempre il polo femminile a essere attratto dal fuori (droga, vita nomade, professione) e il polo maschile a ricercare invece la stabilità. Sissy lo fa evidentemente in modo eclatante, attraversando il paese in autostop e poi approdando in un Ovest già colonizzato dalle donne: il Rubber Rose Ranch. Se la strada che attraversa il deserto è ancora una volta una semplice icona (riassunta persino in una serie di sovrimpressioni della mezzeria intermittente sul fermo immagine del paesaggio che cambia con le stagioni), al Rubber Rose siamo in pieno western, ce lo ricorda uno dei suoi volti storici, Angie Dickinson, qui nei panni della sovrintendente. Van Sant interpreta la Dickinson come una falsa figura storica dell’emancipazione femminile, e la cala in un personaggio che mette il suo pugno di ferro al servizio del maschio, entrando in conflitto con la comunità delle cowgirl, cavallerizze lesbiche autenticamente libere che fanno dei costumi selvaggi e dell’omosessualità una vera e propria filosofia di vita. La storia è tratta dall’omonimo romanzo picaresco di Tom Robbins (1976), canto del cigno della cultura hippy, che Van Sant adatta fedelmente, non ottenendo però lo stesso successo dello scrittore: Cowgirl è il primo grande scacco di Van Sant, sia economico (il film in patria incassa un quinto del budget complessivo), sia critico. Sul corpo del film, intanto, si consuma un rito di passaggio: accanto ai vecchi modelli (non ultimo lo scrittore Ken Kasey, considerato un ponte fra cultura beat e hippy, qui nei panni del padre di Sissy), cominciano ad affiorarne altri, se si vuole più classici: Kubrick, nella sequenza in cui Sissy decide di sottoporsi a una specie di cura Ludovico, facendosi ridurre chirurgicamente i pollici proprio sulle note di La gazza ladra di Rossini, e ancora Welles nella sovrapposizione fra il Rubber Rose Ranch e Xanadu. È solo l’inizio di un processo in corso: al cinema classico e ai suoi eredi Van Sant guarderà con maggior precisione nel periodo hollywoodiano. Per ora l’impulso è continuare a lavorare sulla mitografia gay, valutando di girare un biopic sul primo uomo politico dichiaratamente omosessuale: Harvey Milk, padrino di Castro, il quartiere gay di San Francisco. La Warner gli propone l’adattamento di una sua biografia, The Major of Castro Street, firmata nientemeno che da Oliver Stone e ritagliata sulla personalità di Robin Williams, ma dopo un anno di contrattazioni tutto si blocca a causa di «differenze creative»3. La strada verso Hollywood passa invece per il film che abbiamo intenzionalmente lasciato indietro, Drugstore Cowboy, spia di un cambiamento che si compirà solo a metà degli anni novanta. Drugstore Cowboy, il suo secondo lungometraggio, non è solo il film più classico di questa prima fase, è anche quello che mette da parte la tematica omosessuale e l’utopia hippy per dare della vita nella droga una lettura ambigua e cupa, sospesa fra il mito e la condanna morale. Il film è tratto dal libro-memoria di James Fogle, un altro scrittore (e tossicodipendente) di Portland, finito in carcere con una condanna per spaccio. Entrambi si ambientano nella Portland del 1971, patria della controcultura giovanile storicamente contrapposta alla California reaganiana. Tuttavia i

junkers di Van Sant vivono solo in parte una vita “alternativa”, anzi, la loro organizzazione interna sembra ricalcare i ruoli della famiglia tipo: il capobanda Bob (Matt Dillon) nei panni del padre, Diane (Kelly Lynch) in quelli della madre, Rick e Nadine che si comportano come figli più o meno obbedienti. I quattro passano molto tempo in casa, in un salotto arredato dalla tv accesa, luogo in cui “l’educazione” si fa più esplicita (come ci si buca, come si ruba e a che cosa si ha diritto dopo il colpo), oppure in cucina, dove si esaminano le provviste procurate dal “padre” (i medicinali che Bob ha rubato alla cieca, sperando di rimediare qualche dose di eroina, morfina, metadone). All’interno di una ritualità similfamigliare si annidano però le peggio patologie: il padre rifiuta le avances della moglie, dimostrando una sorta d’impotenza, e trasforma in aggressività la sua attrazione incestuosa per la figlia Nadine, di cui assisterà alla morte per overdose; il figlio invece, non appena il padre esce dal giro, diventa il nuovo fidanzato e complice della madre, suggellando le morbosità del nucleo di partenza. Van Sant celebra così la drammatica fine di quest’ultima versione del cowboy e della cowgirl, la cui degenerazione peraltro coincide con quella del paesaggio americano, trasformato da spazio vitale in sepolcro della gioventù: una ripresa dall’alto, a conclusione di quello che è l’ultimo “buco” di Bob, scavato stavolta nel bosco in mezzo agli alberi per seppellire Nadine, ci mostra ancora la strada del mito, serpeggiante in mezzo alla natura, ma ormai carica del nero della morte. Il film contiene ancor più esplicitamente le briciole del western ridotte a quella che ha tutta l’aria di essere una collezione di giochi per l’infanzia: sulla gigantografia del primo piano di Bob in pieno trip psichedelico scivolano in sovraimpressione gli elementi del paesaggio americano, cioè il bufalo, la vacca, la casa nella prateria, il cavallo, l’albero, la siringa/pistola, lo Stateson nero da cowboy, che in un’altra allucinazione vediamo sorvolare il cielo di Portland come un uccello del malaugurio. Il western è diventato un gioco, e come tutti i giochi che si rispettino, le sue regole – una catena di scaramanzie – sono inflessibili. 1.2. L’incontro con il padre Van Sant si installa a Hollywood a metà degli anni novanta. Smette di scrivere i propri film e accetta le sceneggiature che gli vengono proposte, cimentandosi nei generi: commedia nera, melodramma, thriller. È reduce dall’insuccesso di Cowgirl, e questa è senz’altro la prima ragione della sua apparente capitolazione, ma è anche alla ricerca di un confronto più profondo con la grande tradizione cinematografica americana. Da morire (1995), la prima delle sue produzioni hollywoodiane, è stata scritta dallo storico co-sceneggiatore di Il laureato, divenuto una firma della televisione americana (Buck Henry, che interpreta nel film il professore di liceo); ma il testo di partenza è To Die for, il romanzo di Joyce Maynard relativo al caso di Pamela Smart, omicida del marito e per questo protagonista di un evento mediatico di enorme impatto: il primo processo interamente trasmesso da un canale televisivo americano. Pamela Smart diventa Suzanne Stone e la celebrità che sembra averla colpita per caso nel film diventa l’obiettivo della sua vita. Suzanne appartiene alla generazione dei «figli della tv», come li aveva chiamati Bob in Drugstore Cowboy, i ragazzini degli anni settanta, antieroici e senza scrupoli, che uccidono il fratello maggiore senza battere ciglio, quando il suo carisma ai loro occhi sfiorisce (è per colpa loro che Bob finisce in barella, più morto che vivo, nell’ultima sequenza del film). Anche in Da morire saranno gli adolescenti (pilotati da Suzanne) a sparare al giovane della generazione precedente, sempre interpretato da Matt Dillon, coincidenza che suggerisce una vera e propria continuità fra le due storie:

soppresso l’ultimo cowboy, si getta un primo sguardo atterrito sulla generazione futura. È un’analisi storica (dopo gli anni hippy, ecco gli anni della televisione) ma anche una nuova lettura della giovinezza, che non è più l’età della morte “estetica” (la poesia dello spreco, della perdita, della dissipazione), se si vuole radicata anch’essa nell’immaginario4, ma l’età della violenza e del sentirsi orfani (gli adolescenti che trovano nella tv una madre, e la stessa Suzanne che “nasce” dal piccolo schermo, come dimostra l’analisi di Chiara Borroni). Il sottile tono fiabesco del film, che prende la paradossale forma del reportage televisivo su una strega, una creatura malvagia che come per incantesimo finisce ibernata sotto la superficie di un lago, pronta a scongelarsi al bisogno, diventa una caratteristica del periodo hollywoodiano, anche per effetto delle musiche di Danny Elfman, coinvolto in quasi tutti i progetti. Il riferimento alla fiaba è l’unico tratto per così dire “autoriale” dei film più classici, come se Van Sant mettesse fra virgolette le formule di genere che adotta, connotandole come favole per adulti. Naturalmente in Da morire l’intreccio realistico è solido (Suzanne viene semplicemente uccisa per vendetta del suocero e gettata nel lago che poi si ghiaccerà), ma le suggestioni fantastiche serpeggiano fin dall’inizio, con la tv a suggerire questa lettura della protagonista: mentre la cognata di Suzanne descrive all’intervistatore la crudeltà della donna, in televisione passa un film sulle streghe, così come durante l’omicidio compiuto dai due adolescenti catatonici, gli occhi di Suzanne dallo schermo acceso emettono onde ipnotiche, condizionando i loro gesti. Se in Da morire gli accenni al fantastico producono un lieve distacco ironico dello spettatore, nel successivo Will Hunting (1997) il tono fiabesco incoraggia invece la sua adesione infantile alla storia. La sceneggiatura di partenza è stata scritta a Harvard da Matt Damon e Ben Affleck, e in seguito venduta alla Miramax. Van Sant se ne dimostra entusiasta, e forse ciò che più lo convince è proprio il fatto che i due attori l’avessero scritta per sé (anche in futuro ricercherà sempre un particolare coinvolgimento dell’attore nella storia). In realtà, nell’interpretazione vansantiana dello script affiora già il riferimento chiave di questa seconda fase creativa: il cinema di Alfred Hitchcock. Il personaggio di Will, genio della matematica e memoria assoluta, orfano, con un terribile passato di maltrattamenti infantili, richiama molto da vicino la Marnie hitchcockiana, con la quale ha in comune anche un lavoro-copertura, funzionale alla soddisfazione delle proprie perversioni (il furto per lei, la matematica per lui). Entrambi soffrono di un grave blocco affettivo, che risolvono davanti a una figura paterna capace di fare riaffiorare la memoria del trauma (il marito per Hitchcock e lo psicologo in Van Sant), e per entrambi l’immagine (i colori, il disegno) è fuori controllo, contrariamente ai numeri e alla parola, che dominano alla perfezione. Il sintomo di una parentela fra la Tippi Hedren di Hitchcock e il Matt Damon di Van Sant (di per sé interessante anche sul piano del gender) si ritrova forse nella breve rappresentazione del trauma di Will, in cui domina il motivo hitchcockiano della scala. Ma il fatto è che in questa fase Hitchcock si configura sempre più come una sorta di padre con cui confrontarsi: non a caso l’incontro con il padre è il grande tema vansantiano della seconda metà degli anni novanta, che Will Hunting sdoppia nel rapporto con un maestro di scienza e un maestro di vita. Scoprendo Forrester lavora sullo stesso motivo, presentando di nuovo un topos hitchcockiano, la finestra sul cortile, attraverso la quale un ragazzino nero del Bronx con un insolito talento letterario entra in contatto con uno dei più grandi scrittori viventi, che gli farà da maestro. Forrester è interpretato da Sean Connery (che era

stato anche la figura paterna di Marnie...), e la sua parabola sembra evocare quella assai nota di J.D. Salinger, eppure nel film egli rappresenta soprattutto il puro sguardo, l’occhio anonimo che segue a distanza i ragazzi, quasi vegliando su di loro, e continuando a farlo anche dopo la morte, come dimostra l’ultima inquadratura, lo sguardo del fantasma di Forrester sul campo da basket. In fondo questo è già un progetto artistico (quello che caratterizzerà la fase successiva del lavoro di Van Sant), che unito alla lezione impartita al protagonista (all’insegna del “per imparare a scrivere bisogna imparare a copiare”) fanno di Forrester un vero e proprio alter ego del regista. È infatti con una grande operazione di ricalco che culmina questa fase della carriera vansantiana: il remake “assoluto” di Psycho (1998), che precede Scoprendo Forrester (2000) ma idealmente arriva per ultimo, costituisce cioè la premessa necessaria alla cosiddetta “svolta”. Psycho rappresenta la quintessenza dell’autorialità paradossale di Van Sant: è il film meno personale, copia perfetta dell’originale hitchcockiano, ma anche il primo a costituire un puro gesto artistico. Van Sant in apparenza asseconda le richieste della Universal, che gli propone di realizzare l’ennesimo remake di uno dei suoi classici, ma in realtà trasforma una trita ricetta produttiva in un rischioso esperimento artistico: sceglie un film monumento, innanzitutto, e decide di rifare con esattezza maniacale la quasi totalità delle inquadrature originali, rispettandone ritmi, tagli di montaggio, suoni, dialoghi, e aggiungendo solo il colore. Il gesto è figlio delle sfide estetiche anni sessanta, delle appropriazioni, dei riciclaggi, delle copie feticcio warholiane, ma contiene anche alcune sottili revisioni ideologiche, legate alle identità degli attori scelti: la latente omosessualità di Anthony Perkins viene sostituita dalla mascolinità più schietta di Vince Vaughn, e in qualche modo spostata sulla vittima Marion Crane, data la scelta dell’interprete, Anne Heche, lesbica dichiarata. Inoltre, a differenza di quello di Janet Leigh, il corpo della Heche non viene mai erotizzato, nemmeno nella scena iniziale, dove semmai è la disinvolta nudità di Viggo Mortensen ad attirare l’attenzione, contro la rigidità del suo predecessore. Questo lieve slittamento di prospettiva si unisce ad altre microscopiche variazioni, alcune di tipo grafico, quasi decorativo, altre invece capaci di deturpare la superficie del film, quasi sfregiandolo, in un serrato corpo a corpo con l’originale che ha tutti i caratteri del rito (come illustra l’analisi di Roberto Manassero). Sono interventi grafici gli occhiali da sole di Marion e il suo ombrellino rosa, la revisione in stile coloniale della casa dei Bates, l’uccello in agguato dietro la finestra nella stanza da letto di Marion (sorta di oscura premonizione che sostituisce quella scelta da Hitchcock, cioè il dipinto raffigurante un lago dietro il primo piano della donna in ufficio) e infine il ragno che sbuca dalla mummia della signora Bates. Sono invece graffi e deturpazioni gli inserti di montaggio che interrompono le scene cult (icone vansantiane inserite tra una coltellata e l’altra, nella doccia o durante la morte di Arbogast, come se grattando sotto la superficie affiorassero altre immagini, sotto la parrucca della madre ci fosse la testa del figlio). Infatti Psycho 1998 non è solo un film sulla schizofrenia, ma anche un film che denuncia chiaramente la propria, fin dai titoli di testa, dove l’idea di Saul Bass di frammentare i nomi degli interpreti e poi ricombinarli, come se appunto ogni persona fosse sdoppiata, viene integrata da un ultimo effetto: alla fine anche un’immagine si sdoppia e ricomponendosi definisce la veduta aerea della città di Phoenix, prima inquadratura di un film in sé schizofrenico, un po’ madre (Hitchcock in drag, come da nota iconografia gay) e un po’ figlio (Van Sant imitatore degenere). Con Psycho, Van Sant comincia la sua riflessione sulle immagini cinematografiche,

interrogandosi sulla possibilità di riattivarne il fascino, in dialogo con l’arte contemporanea che aveva già fatto di Hitchcock un privilegiato oggetto di sperimentazione. 24 Hour Psycho, l’opera dell’artista scozzese Douglas Gordon (1993), era stato solo più radicale nel disattivare le potenzialità narrative del film, trasformando le sue immagini in pure icone attorno alle quali lo spettatore poteva muoversi. Gordon proietta il film su grande schermo ma da una vhs che scorre a ralenti in modo che il nastro duri ventiquattro ore, sicché mentre le immagini si liberano del racconto e i violini striduli di Herrmann diventano suono puro, il meccanismo emozionale (e commerciale) del film si disinnesca. Il monumento di Gordon non è molto lontano dal remake concettuale di Van Sant, che rispettando i tempi e lo stile originali gira un film poco adatto ai gusti del pubblico contemporaneo, costretto a soffermarsi sulle immagini proprio perché meno coinvolto dalla storia. Un altro artista contemporaneo, il francese Pierre Huyghe, aveva invece compiuto il gesto contrario lavorando su La finestra sul cortile. Il suo Remake (1994) è un film di cento minuti girato in maniera amatoriale, nel quale un gruppo di attori in un appartamento parigino inscena tutti i passaggi del film di Hitchcock, esibendo le difficoltà di interpretazione e di regia. Il tutto è visibile dentro un piccolo televisore, nel quale le immagini perdono il loro originario splendore e quel che si contempla semmai è il puro meccanismo della finzione. 1.3. Via dall’America Il viaggio nel regno delle immagini, fino a questo momento interno al cinema americano, prende ora una nuova direzione: Van Sant svolta per un sentiero secondario, incontra il cinema d’autore europeo (Béla Tarr, Chantal Akerman), si ricongiunge con la sperimentazione più radicale (Michael Snow) e si avventura nell’altra metà del mondo (Abbas Kiarostami). Sono gli anni della cosiddetta svolta, da cui nasce la trilogia della morte, composta da Gerry (2002), Elephant (2003) e Last Days (2005), tre film assolutamente coesi e sorretti da un’unica idea di cinema: la durata di contro al découpage, il luogo e l’uomo qualunque contro icone ed eroi del mito americano (cowboy, tramp, banditi). Per Van Sant, che dedica Gerry a Béla Tarr, queste scelte dipendono solo dalla scoperta di un’immagine altra, ma è un fatto che, pur essendo nell’aria già dalla primavera del 2001, la svolta si sia compiuta proprio a cavallo dell’11 settembre. Terminato a novembre e presentato in anteprima al Sundance Film Festival nel gennaio del 2002, Gerry sembra avere molto a che vedere con il collasso dei segni prodotto dal crollo delle Torri Gemelle, punto di massima crisi della cultura occidentale, cioè di un sistema di pensiero che ha trovato il suo baricentro prima di tutto in un sistema di sguardo5. Dichiara infatti l’autore: «Gerry è una reazione al modo di fare cinema del ventesimo secolo, il modo americano che è cominciato con Griffith […] probabilmente legato al film come prodotto commerciale, e basato su un vocabolario che ha qualcosa a che vedere con la catena di montaggio industriale della prima parte del Novecento»6. Ma le due scoperte in fondo vanno insieme, e forse non a caso quello di Béla Tarr è un cinema dell’apocalisse, che si regge sul sentimento dell’imminenza di una tragedia cosmica. Inoltre, a rendere sinistri i due poli dell’immaginario americano, il grattacielo e il deserto, erano stati proprio gli storici film della durata, dalle provocazioni pop di Andy Warhol (Empire, 1964) agli esperimenti avanguardistici di Michael Snow (La région centrale, 1971), il che ne rende legittimo il recupero dopo lo spettacolo delle torri squarciate: a crollare in quel momento sono anche le immagini di Van Sant regista americano, colpite e deformate, costrette a

vagare alla ricerca di qualcosa. Gerry si presenta come un western ridotto all’osso: il deserto, due cowboy, i cieli, la sabbia, il vento, insomma l’immaginario ridotto alle sue materie, e naturalmente riscritto attraverso una sintassi europea. Van Sant adatta i piani sequenza di Béla Tarr alla scena western, con i tumbleweeds che rotolano nel vento al posto delle cartacce di Satantango (Sátántangó, 1994) o il lunghissimo carrello laterale sui “cowboy” che cita quello sul poeta protagonista di Le armonie di Werckmeister (Werckmeister harmóniák, 2000). Come tutti i film della trilogia, anche Gerry è tratto da un caso di attualità: la vicenda di due giovani amici americani che deviano nel deserto per una passeggiata rigenerante e finiscono per perdersi, impazzendo al punto che uno dei due uccide l’altro. Van Sant ne trae un film zen, fatto di lunghe camminate nel nulla, di paesaggi diafani, bianchi e lunari, di chiacchiere gergali e ruminanti all’insegna della parola “gerry”, coniugata a esprimere qualunque cosa. I due Gerry (si chiamano entrambi così) vengono affiancati da lunghi piani sequenza, seguiti, attesi, circumnavigati, accompagnati nel loro viaggio suicida, durante il quale appunto Gerry (Matt Damon) ucciderà se stesso, o meglio la parte di sé (Casey Affleck) più oscura e autodistruttiva. Nell’ultima inquadratura, Damon si trova sul sedile posteriore dell’auto che lo ha soccorso, a fianco di un bambino, sotto lo sguardo vigile del padre alla guida che li tiene d’occhio entrambi dallo specchietto retrovisore. Il film racconta dunque la storia di una rinascita dopo un viaggio sulla luna, in un altrove che ha il gelo e l’immensità dello spazio virtuale, liscio, impenetrabile, senza punti di riferimento, capace di aprirsi e chiudersi, ghiacciarsi, arroventarsi, riempirsi di vento e di sabbia… come lo spazio estremo di un videogioco. Questo scenario, in cui i due protagonisti portano precisi segni di riconoscimento (la stella sulla maglietta, la t-shirt blu avvolta attorno al capo), si ripresenta infatti nel successivo Elephant proprio nella forma del videogioco. Qui i due Gerry costituiscono il bersaglio virtuale degli adolescenti Alex e Eric, poco prima che essi scatenino la loro furia omicida contro i coetanei in carne e ossa. Mentre Alex suona al piano Per Elisa, Eric gioca al videogioco di Gerry abbattendo una dopo l’altra, nel mezzo di uno spazio bianco, rudimentali sagome umane, una delle quali è contrassegnata da una stella, sorta di puntatore/bersaglio – dunque già nel film precedente – che la destina al ruolo di vittima. Il videogioco segna i punti in un riquadro intitolato “gerrycount”, ultima traccia dell’avvenuto ridimensionamento di Gerry alla grandezza dello schermo di un computer, e da qui riparte Elephant, che questa volta allarga lo sguardo all’esterno, inquadrando i giocatori e ricostruendone le mosse. Ma anche i piani sequenza di Elephant evocano un’altra dimensione, non tanto il virtuale quanto il fantasmatico. Ciò a dispetto della concreta presenza fisica dei ragazzi, e di quell’etnografia filmica dei comportamenti che nasce da un forte dato di realtà: i protagonisti non sono attori professionisti, ma veri studenti scelti in una galleria di circa tremila, e i ruoli loro assegnati sono vicini a quelli che interpretano nella vita reale (ad esempio Alex suona realmente il piano). Ma del resto questo metodo di lavoro, che gravita attorno alla realtà dell’attore, al suo corpo e alla sua personalità più o meno divistica, era stato adottato anche in Gerry. Gerry è stato letteralmente cucito sui due protagonisti, assieme ai quali il regista ha concepito il progetto, stendendo la sceneggiatura solo poco prima delle riprese e a partire dal materiale emerso dal lungo periodo di prove nel deserto dell’Argentina, dello Utah e della Death Valley, durante il quale Casey e Matt erano stati lasciati liberi di trovare da soli le scene giuste. Sia Gerry che Elephant nascono dunque da vere e proprie tracce di vita, modellate e spinte oltre il reale dalla

figura del piano sequenza. Naturalmente in Elephant a produrre l’impressione di galleggiare in una sovra-realtà è anche il vortice narrativo: le ultime ore precedenti la carneficina attraverso cui Alex, adolescente ombroso che ama Beethoven come il suo omonimo kubrickiano, si vendica, con l’amico Eric, dell’emarginazione subita a scuola, sono ripresentate da più prospettive, senza un reale guadagno conoscitivo, anzi sfumando il senso della consequenzialità degli eventi, impedendo univoche letture sociologiche per presentare semmai una bolla di vuoto, un momento di puro collasso temporale, che quasi sconfina nel mito (la scuola è un labirinto e John, lo studente dal ciuffo biondo che porta stampato sulla maglietta gialla un toro7, evoca a mo’ di presagio il minotauro, il mostro che vi si insedia). Van Sant trae questo schema narrativo dall’omonimo film del regista inglese Alan Clarke, ma oltre a Clarke e alla sua opera fatta del ripetersi di omicidi senza nome, sempre uguali e sempre diversi, in Elephant c’è molto Kubrick: ad esempio le stanze grandangolari, i corridoi labirintici e la stanza-frigorifero alla Shining, la posa di Alex dopo gli omicidi, che rievoca quella di Palla di lardo in Full Metal Jacket, e il suo recitare filastrocche prima di uccidere, simile al canticchiare dell’omonimo in Arancia meccanica. Beethoven invece, e in particolare il brano Per Elisa, rimanda a Jeanne Dielman, il film di Chantal Akerman a cui Van Sant si è ispirato per la trilogia, nel quale la protagonista ascolta il brano alla radio. Mescolando e trasformando la steady cam kubrickiana, il gioco sulla routine della Akerman e i lunghi piani sequenza di Béla Tarr, Van Sant trova dunque una particolare forma dello sguardo che è intrisa di cinema fino al midollo, ma miracolosamente si spinge oltre il cinema, verso il regno delle installazioni d’arte contemporanea (come si legge nell’analisi di Luisella Farinotti). E tornando allora al piano sequenza, in Elephant esso si traduce in una straniante intimità dello spettatore con i personaggi, in una condivisione, cioè, che non ha nulla di empatico, corrisponde piuttosto allo sguardo di uno spettro (lo spettatore fantasma) sugli spettri (i dead men walking della scuola cimitero). In definitiva, la vera continuità ricercata da Van Sant attraverso la figura del piano sequenza si colloca tra la vita e la morte, e il cinema, in questa trilogia che ha come tema l’autoannientamento, rappresenta un corridoio di passaggio fra le due dimensioni. Lo dimostra in modo ancor più evidente il successivo Last Days, incentrato sugli ultimi giorni della vita del cantante grunge Kurt Cobain, leader dei Nirvana, qui sotto le spoglie del personaggio di Blake (come William, il poeta della morte). Van Sant aveva incontrato Cobain nel 1991, in occasione della lotta per i diritti degli insegnanti omosessuali, e a colpirlo era stata soprattutto la sua presenza silenziosa e raccolta8. Deciderà così di conferire al personaggio di Blake questo fondamentale tratto, ma ancora una volta senza imporre nulla all’attore, Michael Pitt, libero di interpretarlo secondo le proprie personali sintonie con la rock star (basti dire che le canzoni Death to Birth e Fetus sono state da lui scritte e interpretate). Lo straordinario corpo di Blake, in febbrile movimento, ma orientato da riflessi quasi automatici e sostanzialmente impermeabile al fuori, è dunque frutto della solita collaborazione fra attore e regista. Il suo tratto principale è la tragica sconnessione dal mondo, rivelata anche dal linguaggio, ridotto a un groviglio di mugugni interiori che non servono per comunicare con gli altri ma per perdersi entro se stessi. Blake però si trova all’apice di una condizione che riguarda tutti, la sconfinata solitudine degli esseri umani che vivono solo apparentemente nello stesso mondo, in realtà si ritrovano isolati ciascuno nella propria capsula, condannati al proprio punto di percezione del tutto impermeabile a quello

degli altri. Paradigmatica in questo senso è la ripetizione della scena del dialogo fra Blake e Luke (da diverse prospettive, come in Elephant ): Luke gli chiede un consiglio su un brano, e riceve, la seconda volta, una risposta leggermente diversa, accompagnata da altri piccoli gesti (la prima è quella che Blake crede di aver dato e la seconda quella che Luke ha sentito, o ha creduto di sentire). L’intimità fra le persone non esiste, nemmeno nella casa, che non è più un rifugio dall’esterno, come in Drugstore cowboy (con cui Last Days ha in comune solo l’ossessione per i segni del malaugurio), bensì un buco nero che ti risucchia. 1.4. Sulla strada del ritorno Gli ultimi tre film di Van Sant si presentano come opere di passaggio, perché da un lato introducono i germi di un cambiamento prossimo venturo e dall’altro tornano su luoghi e temi delle origini, sfiorando di nuovo la forma classica: la topografia della città natale, Portland, ricostruita, come già in Mala Noche, attraverso il romanzo di uno scrittore autoctono (Paranoid Park, 2007), il lavoro sulla mitografia gay (Milk, 2008), tipico della sua prima fase creativa, e il ritorno al genere (questa volta il melodramma) di Restless (2011). Paranoid in realtà sembra mescolare diverse figure vansantiane, ripensandole e rimontandole in una forma musicale, quasi coreografata e calata all’interno di un racconto forte, che fa tesoro dell’esperienza hollywoodiana e insieme ripropone l’andamento a spirale, il riavvitarsi della storia su momenti chiave. Protagonista è ancora un’adolescente di nome Alex, assassino, questa volta involontario, di un guardiano ferroviario che lo ha sorpreso saltare su un treno merci in corsa, in compagnia di un balordo sulla trentina. Dunque di nuovo la scuola, l’assenza colpevole dei genitori, il rapporto ambiguo fra coetanei e le difficoltà con le ragazze. Di nuovo, il piano sequenza a seguire i ragazzini nei corridoi, nei labirinti della pista di skateboard, ma anche nell’erba verso il mare, dove Alex si isola a scrivere le proprie memorie. L’effetto però è diverso: il ralenti e il forte uso della musica (da Nino Rota a Billy Swan) spostano queste scene su un piano extranarrativo, a rappresentare qualcos’altro, ad esempio il vagabondare della mente, i percorsi della memoria (evocati anche dal brano di Amarcord, “mi ricordo”), il suo estraniarsi dalla realtà (come illustra Andrea Minuz attraverso il concetto di mind-game film). Anche in Paranoid, dunque, il piano sequenza è una forma dell’irrealtà, o meglio della realtà della mente: quella dei personaggi, che più classicamente rispetto ai protagonisti della trilogia, possiedono ora una dimensione psicologica. Lo skateboarding è anche una figura dell’andamento della storia, che non possiede semplicemente una struttura a mosaico, fatta di frammenti da ricomporre, piuttosto sembra formata da un succedersi di ondate, un salire e scendere della tensione e della conoscenza, un’altalena continua che ora ci porta in alto, in punti dove si vede qualcosa, ora in basso, dove non si vede più nulla. I flussi e riflussi non sono funzionali a un cambio di prospettiva, come in Elephant, dove l’obiettivo era soprattutto evitare la linearità causa-effetto e proporre una compresenza e complessità di fattori, ma neppure alla sottolineatura di piccole differenze che rivelano la distanza siderale fra i vissuti, come in Last Days ; in Paranoid corrispondono piuttosto a figure dell’ossessione e della rimozione. Alex, infatti, alla fine del film rimuoverà tutto, bruciando nel fuoco il suo diario della memoria. Con questo lavoro sulla psicologia dei personaggi, Van Sant sembra integrare per la prima volta metodo hollywoodiano e ricerca formale, e ancora una volta lo fa passando attraverso il cinema di Hitchcock. Quando rientra a casa dopo il misfatto, Alex si ritrova all’improvviso dentro La finestra sul cortile: entra in salotto e si abbassa istintivamente,

avendo l’impressione che qualcuno lo spii attraverso l’ampia finestra di fronte, poi si infila nella doccia, e il luogo si fa ancora più sinistro, sulle piastrelle retrostanti c’è disegnato un uccellino… brutto segno, come l’uccello che si posa dietro la testa di Marion nel nuovo Psycho, soprattutto perché di quello e di altri uccelli sentiamo subito il canto stridulo, altro motivo hitchcockiano della minaccia. Insieme alle memorie del cinema di Hitchcock, in Paranoid tornano anche i personaggi dei suoi film precedenti, come il Johnny di Mala Noche, il John di Elephant e il Blake di Last Days. Alex è un ragazzino che salta sui treni in corsa, come il giovane messicano suo predecessore, che però ce l’aveva solo raccontato (e Mala Noche è più vicino di quanto sembri: poco prima di girare Paranoid Park, Van Sant ne ha curato una riedizione per le sale, lavorando soprattutto sulla colonna sonora); Alex è anche un corpo che si scollega dalla mente, si rinchiude in casa, come Blake, e vive dopo il trauma in un parziale stato di coscienza. Ed è infine un altro studente con la morte sulla maglietta (non il minotauro, non la stella o la croce, ma più esplicitamente il teschio), che per Van Sant significa sostanzialmente crescita, cambiamento, come se la fine della gioventù coincidesse con la morte (o la morte fosse una metafora della fine della giovinezza). L’ultimo Restless sembra esplicitare quest’equazione sommersa, rinunciando a metterla in immagini ed esperienze visive, per trattarla attraverso un intreccio del tutto convenzionale, tipico del melodramma: la love story fra Annabel, giovane malata di cancro con soli tre mesi di vita (Mia Wasikowska) e Enoch, un coetaneo orfano, ombroso e solitario (Henry Hopper), che si trova a suo agio soltanto ai funerali di gente sconosciuta. È ancora una volta il particolare contatto degli adolescenti con la morte a renderli esseri alieni, misteriosi, fantasmatici, assaggi di un’altra dimensione che in questo caso percepiscono letteralmente (il confidente di Henry è il fantasma di un kamikaze giapponese morto durante la seconda guerra mondiale). Van Sant sembra proporsi di rifare il proprio cinema sul piano della pura trasparenza classica, attraverso un’ingenuità e una pulizia dello sguardo che gli permettono di parlare senza pudori il linguaggio dei giovani che rappresenta (le musiche indie pop, i molti cliché del teen movie). Per questo, e non soltanto per ragioni cronologiche, Restless è un punto di arrivo che scavalca Milk, film che in ogni caso avvia il recupero della scrittura classica. Milk è letteralmente un film del ritorno, dato che costituisce la ripresa di un vecchio progetto dei primi anni novanta, riconducibile appieno al lavoro sulla mitografia gay, ora però interpretato come un semplice tributo alla causa. Milk è un biopic in piena regola, senza sperimentazioni sul linguaggio, dove anzi i tratti autoriali intenzionalmente, quasi programmaticamente, spariscono (non ci sono nuvole, steady cam ecc.), e lo stile ha un sapore quasi vintage, quello del film “civile” anni settanta, dove sono i temi e non le forme (e tantomeno le firme) a portarsi in primo piano. Eppure c’è una certa continuità tematica con la sua opera precedente, e soprattutto con il precedente Paranoid Park: Harvey Milk appare la prima volta seduto a un tavolo, come Alex allo scrittoio, intento a depositare in un registratore le proprie memorie. Anche Milk è un film scritto dalla memoria, ma se in Paranoid c’è un dislivello fra il racconto dei fatti e la loro rappresentazione, in Milk la voce lascia semplicemente, linearmente il posto alle immagini. Il film si produce a partire dalle memorie di Harvey, che di lì a poche ore sarà assassinato da Dan White, il consigliere conservatore. E certo non siamo più nell’onda dei fatti di attualità (la morte di un cantante rock, l’assassinio alla Columbine, il caso di due americani qualunque), ma questo film storico, basato su materiali d’archivio e ricostruzioni vintage, strizza l’occhio al presente, con Antonia

Bryant che riecheggia Sarah Palin, e Dan White che ha il volto di Josh Brolin, il W. Bush di Oliver Stone. Il legame più forte con il passato resta comunque di tipo tematico: Milk è un film sulla politica come spettacolo, teatro, opera e soprattutto televisione, tant’è che ancora racconta, come Da morire, la storia di un personaggio che sogna di finire dentro il piccolo schermo (è lì che approda Milk, quando finalmente viene eletto). 2. LE FORME DEL MOVIMENTO

Entro il multiforme percorso creativo di Van Sant spicca almeno una ricorrenza, che è insieme tematica e figurativa: l’attrazione per il motivo del movimento. In Cowgirl, il percorso di formazione di Sissy è inaugurato da una riga di giornale illuminata: «la più grande libertà di movimento». In Elephant, i due ragazzini nel parco fermati da Elias, che li vorrebbe fotografare, chiedono al loro coetaneo: «che cosa dobbiamo fare?» «Niente», risponde lui, «solo camminare». Attraversare gli spazi, transitare e in particolar modo marciare sono azioni che assumono proprietà ipnotiche nell’opera di Van Sant, offrendo allo spettatore la possibilità di fare attraverso l’immagine filmica un’esperienza della realtà molto intensa, insieme sensibile e razionale. Questa sembra essere, secondo l’autore, la potenzialità del cinema rispetto ad altri linguaggi visuali, che egli peraltro ha praticato e progressivamente scartato: la pittura a olio, la fotografia ritrattistica9, la pubblicità e il videoclip, rimasto nei suoi interessi molto a lungo (celebre il suo Under the bridge, dei Red Hot Chili Peppers). L’approdo al cinema come area espressiva privilegiata sembra dunque il frutto di una precisa selezione fra le diverse forme dell’immagine, e soprattutto di una costante interrogazione sulle specificità del mezzo, ovviamente mai esplicitata, eppure inequivocabile in molti dei suoi gesti creativi. Tra questi, la continua giustapposizione di forme filmiche ottenute attraverso supporti diversi (la fotografia, il video, il Super 8, il disegno), una prassi che confluisce anch’essa nel più generale studio del movimento e delle sue varianti. 2.1. Muoversi tra le immagini In ciascuno dei film di Van Sant c’è almeno una scena girata in un differente supporto, che si tratti dell’8 mm, dell’immagine televisiva, del videogioco o della fotografia. Ma non bisogna pensare alla mescolanza dei linguaggi tipica del cinema postmoderno, al gioco ludico con le forme, e all’indiscriminato gusto per l’ibridazione: la convivenza dei supporti in Van Sant è circoscritta e basata su criteri molto precisi, che mirano non tanto a far esplodere il caleidoscopio della visione quanto a far emergere al suo interno una differenza. In particolare, ricorre il raddoppiamento di alcune scene, ovvero la loro ripetizione in Super 8 attraverso l’espediente dell’home movie. A circa metà film, il Walt di Mala Noche riceve in dono una macchina da presa e comincia a filmare gli amici messicani sulla strada davanti al negozio. I loro gesti scherzosi vengono mostrati prima in 16 mm bianco e nero, il formato del film, poi in 8 mm a colori, il formato del film amatoriale che Walt sta girando (ad esempio vediamo due volte Johnny accarezzare un cane di passaggio, prima in bianco e nero e poi a colori). Le scene mostrate una volta sola vengono invece riproposte in 8 mm lungo i titoli di coda, in cui si recupera anche il fuori campo della sequenza centrale, quella del viaggio in auto sulle strade dell’Ovest durante il quale Johnny e Roberto pretendono di imparare a guidare. Anche Drugstore Cowboy impiega analoghi inserti in Super 8, ancora una volta frutto delle riprese dei protagonisti su se stessi. Il film inizia dalla fine, cioè dal momento in cui Bob, in barella

ferito, ricostruisce la sua storia e quella dei suoi amici, presentandoli a uno a uno attraverso le scene buffe di un loro home movie, immagini soggettivate dalla sua memoria che poi lasciano il posto a immagini più oggettive, fino agli ultimi minuti della storia, quando Bob finisce in barella e l’home movie riprende nella chiusa e durante i titoli di coda. Il film si situa dunque fra questi due gruppi di immagini di altra natura, tracce di qualcosa che non c’è più (la banda ormai disgregata, Nadine, morta di overdose), ma anche tracce di qualcosa che ci rammarichiamo di non aver visto (la loro gioia e il loro splendore prima della decadenza). Si produce così, in entrambe le opere, una dialettica fra ciò che il film mostra e ciò che non mostra, fra il modo in cui i protagonisti si raccontano (si filmano, si presentano) e il modo in cui li ha filmati un altro occhio, fra un tempo passato che si dà come attuale e un tempo passato che si dà come perduto. La stessa dialettica emerge anche nel finale di Milk, quando vengono introdotti i filmati d’epoca del vero Harvey, in una giustapposizione di ricostruzioni e documenti (gesti, smorfie e costumi di Sean Penn a fianco dei corrispettivi del personaggio storico): è ancora un modo di vedere due volte, nella differenza, le stesse scene, mettendo in rilievo il divario fra immagine traccia e icona pura. Paranoid Park e Milk traggono infatti questi inserti dall’archivio, spostando il problema dalla memoria individuale (dei soggetti in scena) a quella collettiva, sia essa nazionale, come in Milk, o locale, come in Paranoid Park. Qui Van Sant inserisce fra le proprie immagini alcuni filmati in Super 8 dei veri skaters di Portland, queste ultime contrassegnate da bruti segni di “realtà”, come le fascette nere che coprono gli occhi delle persone filmate, preservandone l’anonimato, o il montaggio rapsodico, gli sguardi in macchina, e il traballare fisico della macchina da presa. La brutalità corporea del reale semplicemente registrato si contrappone così alle immagini mentali, sinuose e fluide girate dal regista sulle rampe di Paranoid Park, innescando ancora una volta una riflessione sulle potenzialità esperienziali del film. Come non vedere, inoltre, il medesimo scarto anche in Da morire, dove le immagini tratte da un archivio simulato si interpongono a quelle del film? Suzanne Stone si sdoppia spesso in due diversi primi piani: la sua presenza filmica e la sua icona mediatica (simulata a partire dalla vera storia di Pamela Smart); esse coincidono solo in alcuni momenti, come nel caso dei monologhi su fondale neutro, che appartengono tanto al film quanto alla trasmissione televisiva in cui la donna si confessa. Più spesso l’una raddoppia l’altra, come al funerale, dove il volto della Kidman improvvisamente si congela in una fotografia in bianco e nero che si rimpicciolisce a misura quotidiano; ma anche al di là della protagonista, lo sdoppiamento delle immagini è una costante del film, basti pensare al continuo slittamento dalla ripresa sgranata degli adolescenti inquadrati dalla videocamera di Suzanne alla loro presenza “reale”. Da morire del resto focalizza con tutta chiarezza il suo oggetto, l’immagine televisiva, analizzandolo a fondo, scomponendolo letteralmente attraverso la macchina da presa, come nell’inquadratura in cui uno zoom si avvicina al primo piano di Suzanne al punto da dissolverlo, disgregarlo in singoli pixel e poi cancellarlo nel vuoto fra un punto e l’altro (dunque le icone della tv sono il nulla, il vuoto assoluto). In Drugstore Cowboy, invece, la televisione è uno strumento che immette nell’inquadratura un’altra immagine, più piccola e meno attraente, ma ancora una volta capace di presentarsi come un doppio: la tragica storia del cagnolino di Bob e Diane è mostrata sì in flashback, ma è anche raddoppiata da quel che Bob sta guardando in quel momento in tv, ovvero uno spot di

cibo per cani, dove un analogo quadrupede compie lo stesso gesto mostrato dal flashback. In generale nel cinema di Van Sant la televisione è una presenza fissa, come sorgente di immagini ma anche, lo si è già detto, come polo di un discorso storico-culturale. Spesso le immagini della tv rappresentano quasi una voce autoriale, uno dei possibili indizi di lettura delle storie, come nel caso del documentario sul nazismo che Alex e Eric guardano distrattamente poco prima di andare a sparare a scuola, o del tg che ricorda all’Alex di Paranoid Park il misfatto, o ancora del ridicolo sdolcinato videoclip dei Boyz ii Men che scorre insistito sulla crisi catatonica del Blake di Last Days. In questo film la tv offre anche l’occasione di osservare i corpi con particolare attenzione: in un’inquadratura virtuosa vediamo insieme una gara di karate nel televisore acceso, due componenti del gruppo addormentati, e nella profondità di campo, al di là della finestra, il gesto di Blake, impegnato a scavare la terra in trance; l’inquadratura diventa così un montaggio di tre diverse funzioni del corpo: performativo, letargico e automatico. Infine l’ultimo tipo di immagine che si intervalla al 35 mm è il video, e in particolare il videogioco10. Esso compare in Elephant e in Mala Noche e corrisponde in entrambi i casi a una soggettiva dei protagonisti. Johnny di Mala Noche gioca alle corse d’auto mentre Eric di Elephant gioca al videogioco di Gerry, e quel che loro vedono alla consolle diventa una delle immagini del film. In due modi diversi: quello classico della soggettiva, e quello che ormai possiamo definire tipicamente vansantiano della ripetizione con differenza. Rivediamo infatti l’immagine del videogioco di Johnny nella sequenza in cui il ragazzo guida senza criterio ad alta velocità: alla sua soggettiva della strada si intervalla la soggettiva del videogioco, come se quella fosse l’immagine registrata dalla sua mente. L’effetto è il solito: un dislivello, una discontinuità brusca che deriva dall’associazione di due immagini uguali (il punto di vista e la situazione sono identici) presentate però su supporti diversi. In Elephant la strategia diventa più sofisticata: l’immagine del videogioco, tale e quale, l’abbiamo già vista in versione “realtà” nel film precedente (Gerry), anche se lì non c’erano i fucili, che ricompaiono invece in Elephant, durante la scena degli spari in biblioteca, quando Alex fa oscillare analogamente l’arma da destra a sinistra. Il lavoro dello spettatore diventa ancora più articolato: si tratta di raccogliere l’invito a ripensare e rivedere con altri occhi il film precedente, e insieme predisporsi a ritrovare uno schema nelle immagini che verranno11. L’invito, più in generale, è a riconoscere svariate forme di ripetizione, che nel cinema di Van Sant si incontrano a ogni livello (anche quello narrativo, se si pensa al continuo avvitarsi delle storie su se stesse). La ripetizione è il principio creativo di base, come se fosse necessario ripetere le immagini per capire l’immagine. Il gesto Psycho in questo senso è illuminante, e in fondo anche Psycho ha una storia di riapparizione in diversi supporti: Van Sant rifà per la prima volta la scena della doccia già nel 1979, nello spot parodico dello Shampoo Psyhco, dopo di che la riprende nel remake e infine nella shower scene di Paranoid Park. Infine, anche nell’ultimo Restless, la classica scena del discorso strappalacrime al funerale di Annabel è accompagnata da un analogo ritorno sulle immagini già viste (Enoch racconta la loro storia e lo spettatore rivede il film a ritroso, in una sorta di rewind). Ebbene, che cosa succede allo spettatore di fronte alla ripetizione con differenza, alla percezione di continui slittamenti di grana, supporti, direzioni e ritmi? L’effetto principale è il movimento, l’oscillazione dell’occhio, il transito mentale fra due poli, e la

possibilità di vagare, di fermarsi nel mezzo. L’esperienza è simile a quella che descrive Jaques Aumont a proposito della serie pittorica (un’opera composta di più quadri quasi uguali, come Le cattedrali di Monet), di fronte alla quale l’occhio è costretto a oscillare, a saltare da un polo all’altro, scoprendo la differenza nell’identità, o viceversa. Nel confronto fra due immagini che sono nello stesso tempo simili e diverse, scrive Aumont, «lo sguardo acquista di fatto una possibilità nuova: quella di ritrovarsi fra tutte e due, là dove non c’è nulla, nulla di visibile. Diventa uno sguardo intermittente, uno sguardo a eclissi»12. Ecco perché questo particolare uso dei supporti è in Van Sant già una forma dinamica, la possibilità di muoversi fra le immagini. 2.2. Immagini in marcia Il fra, l’essere tra due rappresenta in fondo, in Van Sant, l’essenza del movimento. Il suo “logo”, ovvero le nuvole, formazioni di vapore che viaggiano spinte dal vento, cambiando forma e colore, sono materie di confine, che segnano il limite fra terra e cielo, richiamando i personaggi a oltrepassarlo (Blake, Mike, John: quasi tutti i suoi personaggi le guardano, le mirano come una sorta di meta). In Psycho, le nuvole si interpongono fra due immagini di Hitchcock, aprono un varco nella superficie compatta del film, producendo un salto che ancora una volta è un invito a muoversi, a spostarsi tra le immagini (peraltro in un film il cui protagonista è un entre deux, un individuo a metà tra la madre e il figlio). E infine sono entre deux gli adolescenti, che in sostanza non fanno che spostarsi da un luogo all’altro, essendo per natura soggetti in movimento, in transito fra due età. Proprio per questo si ritrovano sempre sospesi tra la vita e la morte, essendo la morte l’equivalente della fine della giovinezza, che il cinema ha il dono di cogliere. In realtà i suoi personaggi non muoiono quasi mai letteralmente: a un certo punto si ritrovano tutti nella stessa posa, a terra supini, le braccia lungo il busto, le gambe allungate, ma tutti in un modo o nell’altro si rialzano. Il narcolettico Mike giace incosciente in questa precisa posa nel finale di Belli e dannati, viene derubato, ma subito si risveglia e riparte con l’ultimo autostop. Anche il tossico Blake finisce così, sul pavimento della stanza in cui viene trovato cadavere, e anche lui in un certo senso si rialza, dato che la sua anima trasparente si stacca dal corpo e fugge dalla finestra. L’Alex di Paranoid Park si stende a terra supino con lo skateboard sulla pancia al termine della vicenda che lo riguarda, e la sua “resurrezione” avviene per mano di un’amica che lo fa rialzare, offrendo al suo skateboard solitario l’occasione di farsi trainare dalla bicicletta. Infine in Restless, nel tentativo di sperimentare e addomesticare la morte, Enoch e Annabel si stendono a terra, fingendosi senza vita, e con il gesso tracciano la loro sagoma sul terreno, come fa la scientifica prima che i cadaveri vengano rimossi dal luogo del delitto. Si produce così una scissione fra le orme e i corpi che si rialzano, ultima figura della serie di morti “apparenti” del cinema vansantiano. Il fatto è che per Van Sant la morte è meno cinematografica della zona di passaggio attraverso cui ci avviciniamo a essa: un limbo ovattato, una bolla visuale e sonora che funziona come una camera di trasformazione, lo spazio della metamorfosi in cui l’ordinario, il quotidiano diventa sinistro, perde i suoi contorni rassicuranti e si deforma (la strada diventa deserto, la scuola diventa labirinto, la casa diventa tomba, la rampa di skateboard diventa l’occhio del ciclone: un luogo al centro dell’urgano ma proprio per questo sicuro, al riparo dalla tempesta13). Qui si vive il senso dell’imminenza del disastro, da cui nasce la maggior parte delle opere di Van Sant, costruite appunto sul

confine di una catastrofe (gli ultimi giorni prima della morte di Cobain, le ultime ore prima della strage, l’ultima traversata, gli ultimi tre mesi di vita di un’adolescente malata), ed è qui che i personaggi entrano in uno stato di grazia, trasformando lo spettatore in un angelo che veglia su di loro, li accompagna a ogni passo e a ogni movimento. È la logica dei lunghi piani sequenza nel deserto a seguire i due Gerry sempre più esausti, delle traversate nei corridoi di Elephant, o del vagabondare nel bosco di Last Days, i tre film in cui la principale figura vansantiana del movimento affiora e si arricchisce. Da dove viene la sua forza? Perché contemplare per diversi minuti la marcia ritmata di due uomini nel nulla, il passo felpato degli studenti nei labirinti della scuola e il caracollare semiconscio di una rockstar in mezzo alla natura costituisce un’esperienza così intensa per l’occhio dello spettatore? La fascinazione per la camminata, per l’incedere degli esseri umani risale in realtà alle fine dell’Ottocento e ha molto a che vedere con la nascita del cinema. Secondo Suzanne Liandrad-Guigues, la figura dell’uomo che cammina costituisce “un’allegoria dinamica” che domina l’immaginario scientifico ed estetico del xix secolo, affascinato dai ritmi del passo e dalla ripetizione di un gesto che si rinnova e si cancella all’infinito14. Il soggetto che incede non è semplicemente un tema, bensì un agente di trasformazione, un principio dinamico che modifica lo spazio circostante, producendo così una rivoluzione dei modi di rappresentazione. Per questo a cavallo fra Otto e Novecento la marcia diventa oggetto di un dibattito artistico molto ampio che coinvolge diverse forme espressive: il disegno, la fotografia, la pittura e la scultura. Balzac è il primo a individuare la questione nel suo Theorie de la démarche (1833), mentre nel campo delle arti visive la figura esplode più tardi ma tiene a lungo la scena, dall’Homme qui marche di Rodin (1900-1907) all’omonimo di Alberto Giacometti (1961), dal Nudo di Duchamp alle opere futuriste. Alla base di queste esperienze si situa l’opera del fisiologo Albert Marey che nella seconda metà del’Ottocento scompone il movimento in istanti attraverso la cronofotografia, diffondendo un suggestivo immaginario della moltiplicazione del corpo e ponendo le premesse tecniche necessarie alla nascita del cinema. L’immaginario della camminata si forma insomma fra scienza e avanguardia, fra empiria e astrazione, due dimensioni che si ritrovano anche nell’iconografia del movimento di Van Sant. Naturalmente essa non ne costituisce la sua prima interpretazione cinematografica, basti pensare alle pagine di Deleuze sulla forma ballade, sull’erranza dei personaggi neorealisti e moderni che fanno del camminare fra le cose, seguiti dalla macchina da presa, la loro cifra distintiva15. Deleuze la considera una forma della crisi, della sconnessione fra uomo e mondo, dimensione che in Van Sant non è sostanziale, anzi è subordinata all’elegia del movimento cosmico dei corpi e della loro possibile sincronia. Nelle sue camminate contano la qualità sensibile e insieme “grafica” del divenire, la forma astratta che esso assume e l’esperienza concreta che fa fare allo spettatore. Per questo Van Sant sembra più vicino all’immaginario di Marey che non a quello, filosoficamente contrapposto, di Bergson, a cui Deleuze si ispira e attraverso il quale interpreta la forma ballade. Bergson, che partecipa al dibattito sul movimento in un tacito contraddittorio con Marey (dove L’evoluzione creatrice sembra rispondere a La Machine animale, e Materia e memoria a La méthode graphique), professava la tesi del movimento indivisibile, interpretando la continuità spaziale come “continuità in movimento” dove tutto cambia e resta allo stesso tempo, e ogni divisione della materia è artificiale. Marey invece si ostinerà sempre a scomporlo, cominciando prima di tutto a

visualizzarlo attraverso macchine di intermittenza delle istantanee. Anche Van Sant comincia dalla moltiplicazione “cronofotografica” del soggetto in movimento: penso evidentemente a Gerry, e alla sequenza in cui i due amici marciano per ben quattro minuti, di profilo, i lineamenti assai simili e fuori campo tutto ciò che li differenzia (gli abiti, il colore dei capelli). La loro marcia è perfettamente sincronizzata e scandita dal rumore dei passi, la posizione del capo è identica (sguardo in basso, collo inclinato), perciò anche se non avessimo già detto che dal punto di vista tematico i due Gerry sono uno solo, quest’unica immagine lo renderebbe evidente. Il movimento moltiplica il corpo, produce fantasmi che nella stasi si sovrappongono l’uno all’altro, ma nel divenire si spalmano sull’immagine, come nelle spettralizzazioni futuriste dei Bragaglia. Il brano musicale di Arvo Part che accompagna il lungo piano sequenza iniziale del viaggio in auto si intitola non a caso Spiegel in Spiegel, cioè specchio nello specchio, quasi che i due Gerry fossero entrambi i riflessi di un unico corpo in sé invisibile, se non nei fantasmi del suo transitare. Ma Marey non si limita alla tecnica della cronofotografia, trova un modo ancor più astratto di rappresentare il movimento; dato che oggetto del suo interesse non è l’uomo che cammina, bensì il camminare in sé, si sforza di cancellare il corpo e rendere visibile solo il suo spostamento. È il cosiddetto “metodo grafico”. Scrive: Non bisogna cercare di ottenere attraverso la cronofotografia le immagini complete del soggetto che si studia, perché esse si confonderanno in modo inestricabile, ma bisogna ridurre queste immagini agli elementi strettamente necessari. Il mezzo più naturale consiste nel ridurre artificialmente la superficie del corpo studiato. Si rendono invisibili, annerendole, le parti del corpo che non è indispensabile rappresentare, e si rendono luminose al contrario quelle di cui vogliamo conoscere il movimento. È così che un uomo vestito di nero con dei bottoni brillanti non produce nell’immagine che linee geometriche attraverso le quali comunque si riconoscono le posizioni dei diversi segmenti del corpo16.

Marey arriva così a dei veri e propri dinamogrammi, pure curve che riassumono lo sviluppo delle forze dinamiche, nella convinzione che il movimento, come scrive in La machine animale (1873), sia la principale nozione fisiologica della vita, presente in tutte le funzioni vitali e concentrato delle risorse energetiche dell’uomo17. Ma conseguenza dell’epurazione delle sue immagini è evidentemente una forte crisi dell’antropomorfismo: l’uomo sparisce, così come i suoi gesti, per lasciare il posto ai semplici segni del suo passaggio. Anche Van Sant, dopo Gerry, abbandona l’effetto cronofotografia e prosegue la sua esplorazione del movimento attraverso la Rückenfigur, cioè scegliendo di seguire la camminata dei corpi di schiena, fin sotto le spalle (una sorta di primo piano rovesciato). La scelta è motivo di una prima defigurazione (il corpo diventa una sagoma, un contorno, il viso una macchia di luce), alla quale però si aggiungono altri elementi: la fotografia sfoca gli sfondi in un amalgama e i corridoi della scuola sono spesso bui, tanto che i ragazzi dai capelli scuri e i vestiti scuri spariscono, rendendosi visibili solo attraverso il punto di colore che li caratterizza (la croce bianca sulla felpa di Nathan, il giallo della maglietta di John); il nostro sguardo segue l’ondeggiare di questi segni, punti di luce che oscillano come il bottone luminoso di Marey, mostrando allo spettatore la pura forma del movimento. Anche in Last Days Blake è una macchia bianca nel verde del bosco, che ora seguiamo in campo lunghissimo, quasi un punto nel paesaggio, ora attraverso la solita Rückenfigur, lungo la curva della sua schiena scoliotica. In Paranoid Park le immagini dello skateboarding compiono un passo ulteriore nella direzione dell’astrazione: non c’è più un corpo da pedinare e nemmeno un punto di cui seguire la traiettoria, diverse silhouette volteggiano davanti agli occhi dello spettatore e la macchina da presa non

assume la soggettiva di nessuno. Piuttosto essa sembra scorrere lungo uno dei dinamogrammi di Marey, oscillando vertiginosamente, alzandosi e abbassandosi a partire dall’ideale baricentro di uno skater lanciato sulle rampe. Non è più dunque un occhio che vede, è un nervo energetico puro, un sismogramma del movimento in tutta la sua carica emotiva. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare queste grafie astratte sono infatti cariche di pathos, non solo quelle di Van Sant, ovviamente più compromesse con il sensibile, ma anche le inquietanti curve di Marey, che già Nadar descriveva in termini essenzialmente patetici. Nadar considerava l’insieme dei fogli neri tracciati di bianco realizzati da Marey come un «archivio sismografico dei movimenti vitali», la registrazione del ritmo del nostro bruciare, il diagramma «di lugubre semplicità» del nostro consumarci. Scrive Nadar: Non sono che onde, curve, piroette, trepidazioni, giravolte, sbalzi, ascensioni brusche e cadute improvvise, rimbalzi simili alla cima frastagliata di qualche catena vulcanica. In questa diversità sintomatica delle stigmate della nostra esistenza, ritmi di tutte le sofferenze umane, ogni malattia, ogni veleno ha la sua gamma personale18.

Le curve di Marey come le traiettorie in steady cam di Van Sant, sono dunque immagini del nostro agitarci tra la vita e la morte, elegie pure dell’attraversamento del mondo e soprattutto della dissipazione di energia (di vita) che ciò comporta. In Van Sant però il pathos astratto si associa a un esplicito appello ai sensi, che non deriva tanto dalla forma delle immagini (di cui ugualmente riduce l’antropomorfismo) quanto dalla posizione di sguardo in cui viene collocato lo spettatore. La sua è un’intimità sensibile con gli oggetti filmati, un effetto di presenza che spinge i film di Van Sant oltre il cinema, verso il regno delle (video)installazioni. 2.3. Il movimento dello spettatore L’inquadratura vansantiana è spesso, prima che immagine, luogo. Il luogo di avvenimenti che diventano forma sotto gli occhi dello spettatore che li visita e li vive dall’interno, benché senza calarsi nel corpo di un personaggio e vivere fino in fondo nella finzione. A volte è il sonoro a scollare la sua percezione da quella dei personaggi in scena costruendo un ambiente altro (accade soprattutto in Mala Noche e Paranoid Park), a volte il punto di vista rigorosamente mobile erode progressivamente la cornice producendo l’impressione di una continuità non empatica fra spettatore e mondo rappresentato. Queste inquadrature “espositive” contengono inoltre oggetti dal forte carattere materico, poco integrati nell’ambiente ed evidentemente esposti alla percezione dello spettatore. Gli spazi di Elephant, come la sala in cui John riceve il bacio che consola le sue lacrime, sono ad esempio un riarrangiamento artistico degli oggetti e dei mobili reali che arredavano un liceo appena dismesso di Portland, e per questo hanno il sapore dell’objet trouvé messo a disposizione dei visitatori. Nella scena citata, il tavolino di fronte al divano, la moquette, il bollitore del caffè attirano fortemente l’attenzione, tanto che il regista è costretto a sfocarli nel momento in cui vuole fissarsi sul volto piangente di John. La stanza di Alex è ugualmente un muro espositivo, percorso da una lenta panoramica che si stacca dal corpo del ragazzo al pianoforte e scorre sui disegni appesi, gli articoli di giornale, i promemoria, le fotografie. Prende forma così uno sguardo che visita le immagini, sicché in un film come Elephant, fatto di scene che si ripetono, si ha l’impressione di trovarsi in un’installazione nella quale un video scorre a loop. Visitare le immagini significa ruotare attorno ai loro elementi, ai due Gerry seduti su una roccia nel deserto, ai due protagonisti di Elephant assopiti, o anche avvicinarsi con occhio tattile agli oggetti

(l’acqua che bolle in Mala Noche, o il pentolino del tè in Drugstore Cowboy). In particolare, in Mala Noche, il cui stile è basato su un montaggio sincopato che modifica bruscamente la distanza dell’osservatore, le qualità tattili dell’immagine sono particolarmente accentuate (come si legge nell’analisi di Massimiliano Fierro). Ma forse il prototipo dell’inquadratura-installazione si trova in Last Days, dove la casa di Blake è un ambiente espositivo fatto di oggetti dall’evidenza allucinatoria (il divano dal rivestimento strappato, la chitarra appoggiata alla poltrona, i cibi in scatola stile pop art, il Buddha sul comodino). Blake entra in questi spazi senza abitarli e farli funzionare, piuttosto si comporta da attore chiamato a un happening nella sala, da elemento di attivazione dell’installazione. Soprattutto nella sequenza in cui si presenta in sottoveste e scarponi, e si comporta da oggetto fra gli oggetti, ci appare come una statua di carne: le sue crisi si manifestano in un progressivo torpore degli arti, penzolanti in posizioni coreografiche e in armonia con lo spazio circostante. La maglietta macchiata si mimetizza con i muri scrostati e il linoleum ingiallito della cucina, la poltrona sulla quale si accascia, un piede davanti all’altro, lo avvolge in una sorta di guscio, diventa un uovo da cui sbucano le bionde piume di un pulcino, secondo quel ciclo, “dalla morte alla nascita”, di cui parla l’unico brano che Blake ha la forza di eseguire, Fetus. Anche lo skateboarding offre al regista l’occasione di contemplare corpi puri, messi in movimento da semplici leggi fisiche, e fissati dal ralenti nei loro gesti scultorei. Paradigmatico è il piano sequenza fisso su un dosso dal quale appaiono e scompaiono a ruota ragazzi sempre diversi, in volo sullo skateboard: una galleria di statue lanciate nel vuoto, simili ai volti alieni degli studenti di Elephant, scoperti da una panoramica circolare durante la lezione contro le discriminazioni sessuali, uno più sorprendente dell’altro, per chioma, abbigliamento e concretezza dei lineamenti. Questi primi piani perlustrati dalla macchina da presa non hanno dunque nulla di classico, non esercitano una funzione narrativa perché appartengono a studenti che non conosceremo e non sono stati introdotti dalla didascalia di presentazione, bensì a corpi-alieni, “cose” da “visitare” con lo sguardo come gli oggetti di arredamento delle stanze della scuola. Ai protagonisti, invece sono dedicati i già citati primi piani rovesciati, le nuche in movimento, suggestiva serie di teste senza volto. In Elephant in realtà c’è ancora un certo uso del primo piano, mentre in Last Days il volto del protagonista scompare: Blake si riduce a un casco di capelli biondi che coprono del tutto i lineamenti, sorta di evoluzione del volto di John in Elephant, il ragazzino dalla chioma ossigenata e dal lungo ciuffo che gli penzola sul viso. Blake è sempre chinato a scrivere o a suonare, oscurato dalla sua chioma disordinata, oppure indossa grandi occhiali di plastica e ampi cappucci calati sulla fronte, che similmente sfigurano il suo primo piano angelico. Anche in Gerry il più deciso primo piano di Damon consiste in una sorta di volto cancellato: la sua testa è una mummia fasciata nel blu della maglietta, alla maniera dei beduini, e gli occhi traspaiono solo da una piccola fessura. L’Alex di Paranoid Park invece subisce una trasformazione nel corso del film: nasce come primo piano pittorico, nella lunga scena del viaggio in macchina in cui dondola la testa al tempo di musica, dopo di che il suo volto si cancella. Subito dopo l’omicidio, egli si trasforma in Blake, cammina a lungo nella notte all’aperto, parla da solo febbrilmente per calmarsi, si cala il cappuccio sugli occhi, poi arriva a casa e si mette in poltrona nella stessa posa a uovo assunta dalla rockstar. Da quel momento, comincia a indossare cuffie, a coprirsi il capo, a suonare la chitarra con un sipario di capelli sul volto. Ma le due scene in cui culmina il

processo di defigurazione del suo primo piano corrispondono alla shower scene e alla sua prima volta con la fidanzata. Nella doccia, Alex sta sotto l’acqua a capo chino, con i capelli che si inzuppano e gocciolano, deformando la forma del suo cranio come se dei filamenti nervosi lo prolungassero. E ancora nella scena d’amore con la ragazzina sono i capelli biondi di lei ad avvolgerlo e a coprirgli il viso, a sfigurarlo in un ondeggiare fluido molto simile all’effetto visivo delle corse in skateboard. Questo occhio mobile che osserva i corpi senza cornice, li circumnaviga, li vede a tratti, li percepisce con i sensi, rappresenta un tentativo di pensare a un spettatore postcinematografico, non più puro sguardo disincarnato, ma corpo concreto che reagisce all’immagine-materia con cui entra in contatto.

Mala Noche di Massimiliano Fierro TUTTO NEL PROLOGO

Campo lunghissimo, un cielo terso; sullo sfondo la lieve silhouette di una montagna, più vicino, una catena di colline in grisaille che gradualmente si accendono di nero. Di colpo una linea le taglia; nel foreground una landa interamente buia [fig. 1]. Mala Noche, primo lungometraggio di Gus Van Sant, storia di un amore non ricambiato fra un trentenne omosessuale di Portland e un ragazzino messicano che ha passato clandestinamente il confine1, inizia così: una gradazione di grigi e di neri, di silhouette e di contrasti evidenti. Tutto il film è racchiuso nel prologo: l’intensità drammatica di volti di luce (il primo piano di Johnny), la valenza iconica del nero che costruisce piani e spazi plastici (la lieve luce del piccolo falò improvvisato all’interno del vagone, l’alternanza del buio e bagliori), la presenza di frontiere e di confini da attraversare, così come di identità da proteggere e ricercare. Tutto è nel prologo: il rumore di un treno che scorre sulle rotaie, concretizzazione sonora di un desiderio incessantemente disatteso e inarrestabile. DELL’AUDACIA: VEDERE E TOCCARE

Mala Noche è un film audace: la sua forza e la sua particolarità risiedono in quello specifico senso di incompiutezza, o se si vuole di disorganicità narrativa, che appare sovente come il consapevole tratto distintivo di un progetto ben determinato. È sì la prova giovanile, a tratti “claudicante”, di un regista che ha alle spalle una decina di cortometraggi, ma anche la prima espressione di quell’energia sperimentale messa da parte nelle tre opere successive e destinata a riaffiorare nella cosiddetta “trilogia della morte”. L’audacia di cui vorrei occuparmi, però, non è affatto quella vincolata ai temi proposti, aspetto che trascureremo intenzionalmente o che, per meglio dire, cercheremo di affrontare in maniera discordante rispetto alle analisi che antepongono, mi si passi il termine, “sociologie culturologiche” alla forza e alla specificità del testo filmico. L’audacia di Mala Noche è quella che si nasconde dietro la volontà di mettere in azione uno sguardo mobile non ancora disposto a piegarsi alle logiche di una narrazione rigidamente strutturata; uno sguardo che fin dall’inizio ci obbliga quasi a toccare più che a vedere le forme, i luoghi, le vicende e i personaggi, che ci fa sentire parte di una messa in scena spesso frammentaria e sovente priva di un centro. Questa dimensione fisica (aptica)2, che ovviamente non è solo il frutto di una scelta formale, intrecciata com’è al corrispettivo tematico del film (il desiderio di Walt per Johnny), conferisce a Mala Noche quella freschezza e autenticità tipica di un certo cinema indipendente americano (a cui è vicino anche per i modi di produzione: il film è costato solo 25.000 dollari)3. Non si vuole perseguire né forzare alcuna apologia della sperimentazione, e neanche vedere ispirazioni e fonti dove in realtà non ci sono, anche perché Mala Noche è e rimane un film principalmente narrativo. Lo stesso Gus Van Sant dichiara che, all’epoca della sua realizzazione, pensasse più a film come Il terzo uomo, Midnight Cowboy e L’ultimo tango a Parigi, che al cinema underground americano, che pure conosceva e che in parte influenzò i suoi cortometraggi d’esordio.

Quello che qui si intende fare è isolare analiticamente quegli elementi che permettono a Van Sant di costruire, attorno a uno sguardo mobile (quello della macchina da presa, dunque anche il nostro), una vera e propria messa in scena plastica, fisica. Una messa in scena, dunque, basata fondamentalmente sulla variazione continua delle distanze tra il punto di vista e il suo oggetto (anche oggetto del desiderio: la stessa relazione tra Walt e Johnny è riconducibile interamente a questa variazione), così come su una dialogica relazionale tra spazi, luoghi e identità (la comunità clandestina messicana, l’identità sessuale di Walt ecc.) e, in ultima istanza, su un progetto narrativo che non include tanto l’idea di progressione temporale, bensì di una circolarità che riporta figure e personaggi sovente negli stessi luoghi e nelle stesse condizioni. Proverò a esemplificare le questioni in gioco, analizzando una delle prime sequenze del film, in particolare quella che segue i titoli di testa, quando Johnny entra per la prima volta nel negozio di Walt. Le prime sette inquadrature: (1) piano fisso di due clienti, quasi in mezza figura; (2) dettaglio dello stipite di una porta che si apre, svelando uno strano e curioso meccanismo di chiusura (una bottiglia che fa da contrappeso). Entra Johnny e lo sguardo si mette in moto: (3) una panoramica, seguita da (4) un movimento laterale di macchina a mano e ancora da (5) una panoramica accompagnano l’andatura di Johnny che si dirige verso una dispensa di bottiglie. Ancora (6) il piano fisso dei due clienti e infine (7) un totale dall’alto del negozio. Gus Van Sant ci cala letteralmente dentro uno spazio claustrofobico fatto di luce e di nero, nel quale avvertiamo, fin dalle prime inquadrature, una relazione incessante tra avvicinamenti e distanziamenti che, attraverso un montaggio serrato, alternano dettagli e totali, rapidi movimenti di macchina e piani fissi. Basta vedere come dal cassetto del registratore di cassa che si chiude (quindi si allontana), sul quale è attaccata una bandiera americana, passiamo al volto in estasi di Walt che si avvicina di colpo (accompagnato in realtà da un leggero movimento in avanzamento della macchina). Nello spazio fisico e aptico di questa messa in scena, anche la parola si fa corpo diventando onomatopeica (guardando e desiderando Johnny, Walt dice: «He makes my heart drop pompadipom pompom when I see him»), anche il dialogo perde un proprio centro, diviso com’è tra una voce fuori campo che descrive e una voce che dialoga con gli altri personaggi della scena. Tutto sembra partecipare all’improvviso impulso motorio suscitato dall’ingresso di Johnny, che ci proietta immediatamente nel cuore della storia, senza preamboli (le parole di Walt sono dirette), senza centrature, senza introduzioni, come a dire «sei capitato nel bel mezzo di qualcosa che sta già accadendo». La percezione di quella che sembra a tutti gli effetti una simultaneità e contemporaneità di stimoli è esattamente il frutto di una costruzione plastica e fisica della messa in scena, che non ti lascia mai in disparte, che ti trascina dentro gli eventi e vicino ai personaggi; una macchina da presa che dunque è in mezzo, non semplicemente davanti alle cose. La costruzione di questa fisicità dello sguardo, ha ovviamente delle ricadute anche sul progetto narrativo generale: la narrazione, infatti, non sembra procedere progressivamente e nonostante la presenza di una voce fuori campo, quella di Walt, sembri guidare e spiegare gli eventi, non si viene a creare alcun tipo di sviluppo e processualità nell’intreccio. Tutto deve immediatamente venirti addosso, senza mezzi termini: «I want to drink this mexican boy Johnny Alonso…», dice Walt: tutto è già chiaro, non devo mostrarti nulla, semmai farti sentire qualcosa che già avviene. Persino l’alternanza del giorno e della notte, che nel film assume una rilevanza decisiva, non dà vita ad alcuno sviluppo, in

essa si misura solo il desiderio inappagato di Walt, non l’evolversi di una vicenda (fatta eccezione forse per la prima nottataccia, così suona la traduzione letterale del titolo del film). Uno sguardo mobile cerca dunque di colmare la distanza tra il punto di vista da cui parte lo sguardo e l’oggetto guardato, in una sorta di chiasma fenomenologico secondo il quale vedere è anche un “toccare”, un “abitare” (uno spazio), un sentirne il “prolungamento”: è in questa fisicità che cercheremo di leggere e vedere l’audacia di Mala Noche4. LO SGUARDO MOBILE E LA FRONTIERA

Il nero, l’oscurità e il buio sono i primi elementi della messa in scena plastica di Mala Noche, i primi “sostegni” di uno sguardo mobile che in quello stesso spazio si muove tra zone di buio e di luce. Il volto di Johnny che emerge dal nero [fig. 2] è solo la prima di una serie di figure e di corpi sezionati dalla luce (nella splendida fotografia di John Campbell), elemento che non può essere ascritto a un semplice compiacimento stilistico e formale, ma che trova invece una sostanziale eco nella dinamica delle vicende raccontate. Il sapiente utilizzo del bianco e nero, infatti, contribuisce a modellare una spazialità decisamente aptica, tattile, composta da dinamiche energetiche che mettono incessantemente in relazione l’ambiente con i personaggi e, dunque, in perenne mobilità lo sguardo che lo abita. Anche l’occhio mobile dello spettatore è iniziato a un percorso visivo all’interno della stessa inquadratura che, disseminata di vuoti e di pieni, di oggetti dimezzati, di finte profondità e di zone nascoste, diventa dinamica, internamente mobile. Il procedimento visivo che seziona l’immagine, e dunque le figure, si lega inevitabilmente alla creazione di specifici spazi di attraversamento, che non si limitano semplicemente ad accogliere i personaggi, bensì a metterne in discussione o a preservarne le stesse identità. I clandestini messicani infatti, oggetto del desiderio di Walt, costretti di giorno a nascondersi, a fare gruppo per proteggersi dalla polizia e dunque a riconoscersi in quanto comunità, si lasciano andare solo nel corso della notte, come se gli spazi e i luoghi d’ombra forzassero una condizione di anonimato democratico assoluto (perché tutti uguali). La notte, allora, può cancellare identità già poco delineate e sbandate (quella confusa di Pepper, che si prostituisce per soldi: dirà Walt: «He only wants to have sex at night, not during the day»), ma anche frustrare quella più decisa, ma fragile, di Walt che non può raggiungere Johnny e si accontenta di Pepper (lo stesso atto sessuale risulterà “invertito”, come dice lo stesso Walt: «And certain aggressive acts, that’s what he wants and needs. That’s not what I want, I mean I’m not an invert. His sexual desires are very stereotypical and mine aren’t»). Anche il confine si attraversa nel buio della sera (prologo), così come le soglie (di luoghi, di identità): è interessante notare la differenza sostanziale tra la porta del negozio (a vetri e trasparente), che dunque mette in relazione interno ed esterno soprattutto nelle ore diurne, con la porta della casa di Walt, sezionata dalla luce e dall’ombra, che divide nettamente, preservandoli, l’interno dall’esterno. La porta del negozio è “posticcia”, con un evidente e strambo meccanismo amatoriale di chiusura, quella di casa è “blindata” dalla luce e dal nero: essa è chiamata a sezionare spazi, confini e identità [fig. 3]. Mala Noche è dunque un film disseminato da figure che emergono e che ritornano nel buio, esattamente come luogo di protezione e di passaggio: come quando Walt si

arrampica sulle scalette esterne dell’albergo dove dorme Jonnhy, il suo corpo emerge gradualmente dal fondo della strada. Sempre interamente bui, a volte in silhouette, i corpi di Walt e Johnny nella sala giochi, dove addirittura i fasci di luce sezionano e decapitano le figure (a volte si assiste a un montaggio che potremmo definire “complementare”: dopo l’irruzione della polizia a casa di Walt, Pepper fugge e si appresta a sparare. Lo vediamo già “decapitato” dalla linea del buio mentre si apposta dietro una parete, sicché la sua testa diventa quella di Walt nell’inquadratura successiva – fig. 4 e fig. 5). Il nero dunque modella gli spazi e le figure, contribuisce a rendere plastica la messa in scena e conseguentemente ad avvicinare il vedere al toccare (la dimensione aptica), percorso, questo, che non si esaurisce nel semplice rigore formale, perché trova il suo corrispettivo tematico nel desiderio di Walt per Johnny. L’oggetto delle vicende, in ultima istanza, contamina la stessa composizione della messa in scena (è questa l’audacia del film). Dal nero si emerge e dal nero tutto ha inizio: le dissolvenze in apertura di quasi tutte le sequenze del film, ad esempio, oppure gli stessi titoli di testa, nei quali l’unica sezione visibile dell’inquadratura è costituita dal solo riquadro in alto a destra con le immagini della Portland cara al regista. Il nero è anche lo spazio neutro che permette di armonizzare e mettere in moto l’occhio della macchina da presa (lo sguardo mobile), anche grazie all’utilizzo di una forma di montaggio che lo include in quanto punto di sutura, piano di appoggio e accordo tra piani. Nel prologo ad esempio, dopo l’inquadratura del piccolo falò improvvisato nel vagone merci, una lenta panoramica a salire svela uno dei compagni di Johnny mentre si sfrega le mani per scaldarsi; il nero invade il quadro alternandosi con flash di luce (lo scorrere del treno). Si tratta di un movimento ricorrente nel corso di tutto il film, anzi questa sorta di dissolvenza nel buio, provocata dalla mobilità dello sguardo, presuppone un voler restituire al nero un proprio valore iconico e strutturale, come punto di forte immobilità nell’accentuata mobilità della macchina da presa. Ed è proprio alla luce di questo forte contrasto che lo sguardo mobile abita gli spazi, che vede giunture dove ci sono fratture, che svela connessioni dove ci sono solo confini. Ad esempio quando un veloce movimento di macchina a scendere (a nero) lega due inquadrature solo apparentemente “separate”: la macchina da presa “attraversa” un pavimento, passando dal dettaglio di Pepper che si slaccia i pantaloni a Walt che guarda in alto (sul soffitto, dunque), simulando così un piano sequenza che include il nero come spazio di “giuntura”. Sarà poi la sequenza dell’amplesso tra Walt e Pepper a enfatizzare gli elementi dello sguardo mobile, messo al servizio di un’intensificazione drammatica e fisica della messa in scena. TI GUARDO MA NON TI ASCOLTO: IL MONTAGGIO SPEZZATO E IL PRIMATO DEL VISIVO

Un altro aspetto che rende dinamici, accessibili e tattili gli spazi è l’utilizzo di un montaggio spezzato e discontinuo che ritarda la chiusura e il compiersi degli eventi rappresentati, poiché li frammenta a tal punto da renderli quasi tutti simultanei, al limite della successione. Lo sguardo è dunque gettato nello stesso compiersi delle cose, accostato ai corpi e agli eventi dai quali in qualche modo rimbalza. Questa modalità compositiva, unita alla dinamica instaurata dal nero e dai movimenti di macchina, rafforza una certa fisicità della messa in scena che ora si fa palpabilmente vicina, quasi disponibile al tatto, ora più distante e contemplativa. La consistenza di questa doppia

dimensione si nota, ad esempio, nella sequenza della cena a casa dell’amica di Walt. Dopo il racconto dell’arresto e del pestaggio alla frontiera, Pepper è interrotto da Walt che traduce lo spagnolo all’amica; la macchina da presa li inquadra da vicino e sembra reagire alla drammaticità dei fatti, mostrando volti e reazioni. Poi di colpo lo sguardo (occhio mobile) va sovra-pensiero e si mette a con templare il volto di Johnny: una lenta zoomata lo riprende da vicino, mentre si perdono le parole di Walt. Se fino al racconto di Pepper lo sguardo è rimasto in disparte e si è limitato a mostrare i volti dei partecipanti, improvvisamente si estranea dal dialogo, proprio come se fosse in mezzo a loro (zoomata contemplativa), dichiarandosi esplicitamente interlocutore della tavolata. Forse non è un caso che la mobilità dello sguardo coincida con una certa gratuità dei dialoghi della sequenza, gratuità che ovviamente riscontriamo non nel contenuto dei discorsi, quanto nella loro estraneità al contesto e alla strutturazione narrativa fin lì costruita (Walt infatti, si cimenta in una alquanto strampalata e improvvisata riflessione sull’estraneità al concetto di morte, il cui unico risultato, ci sembra, sia quello di spostare l’attenzione dal dialogo all’inquadratura contemplativa su Johnny). Nell’equilibrio tra parola, immagini e ritmo narrativo (elementi del racconto cinematografico), cioè, si avvertono delle marcate ed evidenti forzature che, in questo caso, vanno a tutto vantaggio di un passaggio percettivo, quello cioè che trasforma gradualmente un semplice vedere e ascoltare in un più intenso e partecipato sentire. Gus Van Sant evidenzia dunque non solo una variazione delle distanze e una dinamica energetica degli spazi ma, come appena mostrato, una discrepanza tra l’investimento di senso conferito alla parola (ai dialoghi, ai discorsi ecc.) e quello conferito all’immagine: il risultato è un continuo slittamento e mobilitazione di uno sguardo che si muove in mezzo agli eventi, che rende plastico il nostro stesso partecipare a ciò che vediamo. La plasticità mobile non si serve solo di un sapiente uso del bianco e nero o dei singoli movimenti di macchina, ma fa affidamento su una loro reciproca interdipendenza che trova una sintesi e amalgama, ancora più incisiva, in un montaggio che abbiamo definito discontinuo e spezzato. Confrontiamo ad esempio queste due semplici sequenze: da una parte il dialogo tra Walt e la sua amica, alla quale confessa il suo amore e desiderio per Johnny, dall’altra quello tra Walt e Johnny stesso all’interno della sala giochi (quando lo invita a cena cercando di sedurlo). Per girare e montare la prima sequenza, Gus Van Sant sceglie un classico campo controcampo che alterna i due protagonisti inquadrati davanti al bancone di un bar: il ritmo del montaggio è piuttosto uniforme e senza accelerazioni. La seconda sequenza invece è caratterizzata da una progressiva frammentazione della messa in scena, che ora non alterna più singole inquadrature, semmai introduce tra esse una serie di elementi di “disturbo” (il nero, lo schermo del videogioco, il volto nell’ombra di un clandestino messicano, figure in silhouette), che tagliano e recidono anche visivamente la relazione (impossibile) tra Walt e Johnny. Il ritmo risulta alterato, difforme e più dinamico. Tra Walt e Johnny non c’è alcun campo e controcampo, come se il desiderio del primo non trovasse nessuna corrispondenza nel secondo e dunque lasciasse alla dinamizzazione della messa in scena la sua unica e possibile valvola di sfogo. L’occhio mobile è dunque portato a reagire alla presenza di Johnny, traducendo così sul piano visivo il desiderio represso di Walt. L’analisi di queste due semplici sequenze induce anche a un’ulteriore riflessione, che problematizza il rapporto tra parola e immagine, questione tutt’altro che secondaria perché sottesa all’intero progetto. Nel campo e controcampo tra Walt e la sua amica,

infatti, si avverte una sorta di “semplificazione narrativa”, un procedimento cioè che è portato a risolvere e a condensare sul piano strettamente linguistico (cioè del dialogo, della parola) qualcosa che invece dovrebbe essere affidato allo sviluppo dell’intreccio, o che, per meglio dire, avrebbe bisogno di tempo per entrare a far parte organicamente del tessuto narrativo. Spieghiamo meglio la questione, che riteniamo centrale per avvicinare il rapporto tra parola e immagine, riportando parte del dialogo con la ragazza: Walt dice: «I don’t care. Even if it jeopardizes working at the store. I have to show him that I’m gay for him, to show him how I feel». Perché mai sbrigare e condensare in una battuta, l’ipotetica lotta socio-culturale che Walt dovrebbe affrontare scegliendo di stare con Johnny? Ci sembra che nell’economia del film costituisca davvero un dialogo poco felice, che infatti non avrà nessun seguito (il film non affronta mai direttamente la lotta sociale per l’affermazione di un’identità sessuale, o se lo fa, la traspone e la trasforma immediatamente nella relazione più nascosta tra l’idea di una comunità – che nel film è quella messicana, ma che non si fa alcuna fatica a pensare come alla comunità omosessuale di una società – e la scelta di un individuo). Mala Noche non sviluppa affatto il nucleo di quel dialogo, che dunque risulta forzato, narrativamente superfluo. Questo discredito della parola favorisce un lavoro meticoloso sulla plasticità della messa in scena, dunque sull’immagine (pensiamo anche alla voce doppiata di Johnny, al suo evidente asincronismo che non favorisce un’esegesi piana e lineare fondata unicamente su processi di identificazione con i personaggi). ANCORA PIÙ VICINO: IL SUONO, L’IDENTITÀ E L’AMPLESSO

Diversamente dalla parola, il suono assume una rilevanza piuttosto centrale nel film, contribuendo a evidenziare una forma di montaggio che abbiamo definito spezzato e discontinuo. La sequenza forse più rappresentativa in tal senso, e unica nel panorama filmografico di Gus Van Sant, è quella dell’amplesso tra Walt e Pepper. La scena si apre con l’inquadratura di una porta chiusa (immagine ricorrente): una porta chiude o apre verso spazi, suggerisce l’idea dell’attraversamento (della frontiera) e della custodia (fare comunità per difendersi) che, a diverso titolo, costituiscono i due nuclei tematici dell’intero film. È infatti solo in questo senso che Mala Noche inserisce la questione dell’omosessualità all’interno di un contesto di lotta sociale, dentro cioè l’idea di un conflitto tra una condizione individuale (Walt) e un riconoscimento sociale da conquistare e dietro il quale riconoscersi (il fare gruppo). Il fatto è che il gruppo sociale protagonista del film non è una comunità omosessuale che difende i propri diritti, ma una sua versione “clandestina” e camuffata: la comunità dei messicani. «They’re people like we are», dice la voce di Walt dopo la morte di Pepper, “sono persone, come noi”, riferendosi appunto ai suoi amici messicani. Perché non leggere in questa disperazione, anche se in maniera piuttosto semplicistica e didascalica, un riferimento alla condizione sociale della propria identità sessuale (più che di Walt, ovviamente, dello stesso Gus Van Sant, attivo in quegli anni nella difesa e acquisizione dei diritti degli omosessuali)? Nonostante questa accennata sensibilità, Mala Noche non è affatto un film di rivendicazione sociale, semmai di libertà sessuale, un film che lavora esattamente in questa precisa dicotomia: da una parte riversa l’identità sessuale individuale interamente nella figura di Walt, dall’altra trasla il suo riconoscimento sociale, in quanto omosessuale, nella comunità dei clandestini messicani, restituendo così quella stessa scissione che contraddistingue Walt (si veda la doppia sequenza della ricerca di

Johnny nell’albergo: una di prostrazione – simulare un cane –, l’altra di frustrazione – impossibile raggiungere la sua camera). C’è forse solo un momento in cui questo rapporto tra individualità e riconoscimento comunitario trova un punto di convergenza, solo in un caso cioè la spinta individualistica di Walt incontra l’apertura comunitaria di un gruppo sociale che lo accoglie: ancora una volta sarà solo di notte che le barriere identitarie e comunitarie potranno essere abbattute, che le frontiere potranno essere varcate (tutto è nel prologo). È infatti solo di notte che Pepper vuole fare sesso («He only wants to have sex at night, not during the day»). Si torna così alla sequenza dell’amplesso notturno: la porta si apre e Walt entra, ancora una volta decapitato dal buio. Un lento movimento di macchina laterale (una panoramica forse) attraversa una zona interamente buia, fino a quando lo vediamo entrare in cucina per mangiare qualcosa. Sentiamo il casello e il rumore di un treno (come nel prologo). Stacco e inquadratura del ragazzo che si prepara un tè riempiendo un pentolino con l’acqua; poi il primo piano di Pepper che dorme, ne riconosciamo i tratti messicani da fasci di luce che gli illuminano il viso, e infine il passaggio del treno che proietta su di lui un raggio di luce più intenso, mentre Walt è pensieroso in cucina. E qui la prima evidente frattura, nella quale si cominciano a stratificare e ad accumulare dettagli su dettagli, bloccando l’andamento della sequenza sull’intensità del desiderio di Walt. L’occhio mobile della macchina da presa, animato forse dal sovrapensiero di Walt e dal suo desiderio per Pepper/Johnny, si avvicina all’orecchio, invitandoci a spostare la nostra attenzione, anche abbastanza didascalicamente, sul piano sonoro della sequenza, dominata ora dal rumore di un treno, ora da quello di un passaggio a livello. Il treno del prologo ritorna, e al di là di una semplice ambientazione scenica, suggerisce anche una evidente associazione sessuale, di stampo hitchcockiano: il treno è metafora dell’amplesso sessuale, in questo caso, concretizzazione sonora del desiderio di Walt. Le due inquadrature successive, infatti, mettono in evidenza esattamente questo tipo di stratificazione: prima il particolare della bocca di Pepper e successivamente l’acqua del pentolino che bolle, mentre il rumore del treno fa da vero e proprio collante della frammentazione. Dopo alcuni stacchi e ancora una lenta mobilitazione dell’occhio, che in panoramica unisce Walt nuovamente alla bocca di Pepper, assistiamo alla scena d’amore. Walt si spoglia, mentre una serie di stacchi sul corpo nudo di Pepper simula una soggettiva di Walt (non sono affatto delle soggettive, e questa loro estraneazione è resa ancor più evidente da una illuminazione quasi sfocata). L’amplesso segna dunque la perdita di distanze dell’occhio mobile, che ora si perde in particolari che fondono i due corpi (le dita che premono sulla pelle, i due volti di quinta ecc.) in un forte contrasto di luci e di ombre, corpi che si fa fatica a riconoscere e che ora occupano l’intero spazio dell’inquadratura. IN MEZZO A NOI: VEDERE DA DENTRO

Questa volontà di lavorare per disgiunzioni e per stratificazioni che non sviluppano, ma addensano (rendendo così plastica e fisica la messa in scena), è disseminata nell’arco di tutto il film, e il finale non fa che confermarlo. Johnny torna all’improvviso, senza che Gus Van Sant ci dica come e perché (se non in un secondo momento); si è tentati di dire che Johnny torni prima di tutto nel suono, cioè che la sua figura diegetica sia ormai riconoscibile per dettagli e particolari, e che il film non abbia fatto altro che farcelo conoscere per scomposizioni ulteriori. Il ritorno di Johnny, infatti, è innanzitutto un

ritorno sonoro, l’eco uditivo con il quale lo abbiamo associato in una delle sue prime apparizioni, quello del videogioco dell’automobile in corsa. Il suo primo piano appare all’improvviso dopo l’inquadratura diurna all’interno del negozio di Walt: fuma una sigaretta, non dice nulla, mentre sentiamo in sottofondo il rumore elettronico. Il suo è un primo piano quasi extra-diegetico, non sappiamo dove e come collocarlo. È veramente tornato? Oppure è semplicemente la proiezione del desiderio di Walt, che infatti subito dopo lo incontrerà più volte fino a ritrovarselo in casa? Come a dire, Johnny è prima di tutto luce e ombra, è un paio di stivali (dettaglio sul quale Gus Van Sant torna più volte), tutti stilemi che si caricano di valenze narrative autonome e disgiunte e che, soprattutto, non hanno più bisogno della parola: la ricerca di Johnny infatti, confluirà in un montaggio alternato tra un corpo senza testa (quello di Walt) e un paio di stivali senza corpo [fig. 6 e fig. 7]. Spingendo ulteriormente l’analisi ai limiti della congettura, si potrebbe leggere in questa modalità di montaggio un tentativo di giungere a una forma di racconto pseudoastratto, molto vicino alla tecnica dei cut up burroughsiani (Burroughs è stato un autore amato, citato e scritturato dallo stesso Gus Van Sant). Il nostro azzardo interpretativo potrebbe essere questo, e cioè che Burroughs costituisca un modello non dichiarato, anzi espressamente mai citato, di questa forma di montaggio spezzato che rimane decisamente narrativo, non raggiungendo mai le forme di condensazione spaesanti dei lavori del “maestro”. Nel corso degli anni sessanta infatti, lo scrittore americano aveva realizzato, insieme al regista Antony Balch, una serie di cortometraggi nei quali cercava di applicare la tecnica del cut up, creata insieme al pittore e letterato Brion Gysin. Non sosteniamo che questa tecnica, che deriva dal collage dadaista e che consiste nel tagliare e incollare pezzi di testo alla ricerca di nuovi significati, abbia direttamente ispirato il Van Sant di Mala Noche, ma potrebbe averlo sensibilizzato nella mobilitazione di uno sguardo che trascura una compiutezza narrativa, favorendo, in fase di montaggio, una serie di processi cumulativi che tolgono consistenza allo sviluppo progressivo della narrazione. Non c’è alcuna tipologia estrema e sperimentale nelle dinamiche narrative di Mala Noche, ma questo non ci impedisce di ipotizzare una certa sensibilità e dimestichezza, una sorta di omaggio indiretto al “maestro”, che poi è stato effettivo ed evidente in alcuni suoi cortometraggi (The discipline of D.E. – 1977 – e Thanksgiving Prayer – 1991), e che ha preso, in due circostanze, la forma della partecipazione attoriale (Burroughs è Tom il “prete” in Drugstore Cowboys e se stesso in Even Cowgirls Get the Blues)5. E se questa volta l’omaggio si fosse trasformato in acquisizione inconsapevole di una certa sensibilità per l’incompiutezza, attraverso la quale riuscire ancora e nonostante tutto a raccontare? Mala Noche è esattamente questa scommessa, quella cioè che affida alla disgiunzione del montaggio un’audace ed efficace possibilità narrativa. È questa l’audacia del film: un rapporto per così dire aporetico tra la messa in scena e lo sguardo che da un lato la forma e dall’altro la abita. Una messa in scena plastica e uno sguardo mobile: formare e abitare, è esattamente in questo chiasma fenomenologico che ho voluto misurare l’audacia del film, la sua capacità di stringere insieme rigore formale e intensità drammatica, incompiutezza linguistica e forza dell’istante (dell’improvviso). Ancora un’ultima sequenza allora, anzi una semplice inquadratura: Pepper è febbricitante e disteso su un divano. Walt entra nella stanza e dopo una serie di inquadrature “informative” (volti sudati e volti preoccupati), si china verso di lui accarezzandolo. Lo vediamo in quella che sembra a tutti gli effetti una

soggettiva: la sua mano si avvicina e invade il nostro campo visivo, sta accarezzando la macchina da presa, sta accostando lo sguardo [fig. 10]. L’occhio mobile è in mezzo a loro, li ha accompagnati, li ha raccontati ma, soprattutto, li ha sentiti: ne ha registrato gli umori (non ponendosi semplicemente di fronte a loro), ha reagito alla loro presenza mettendosi in movimento, sfiorando e lasciandosi accarezzare. Si è fatto corpo tra corpi, diventando “visibile e vedente”, come scriveva Merleau-Ponty6, immerso in un mondo che non smette mai di farsi vedere e di lasciarsi sentire. Vedere è dunque inevitabilmente anche un toccare, un abitare, un patire. Chi guarda allora? Chi ci racconta? Nel chiasma i confini diventano indefiniti, l’occhio è lì, in mezzo alle cose, ne sente il sapore e lo restituisce, lasciando tracce del suo passaggio e del suo stesso movimento: forse la magia di Mala Noche, l’audacia che prova a mantenere fino alla fine, è proprio la scia di questo percorso, di questo continuo mostrare mostrandosi. Per quanto possa essere considerato incompiuto, claudicante come un passo che non conosce ancora il terreno che pesta, il primo lungometraggio di Van Sant costituisce insomma una fondamentale lezione di audacia e di vigore, e in definitiva, per il suo regista, una preziosa riserva a cui attingere dopo il ritorno alla forma del periodo hollywoodiano.

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Da morire di Chiara Borroni To Die for (Da morire, 1995) ricostruisce la storia dell’omicidio di Larry Maretto, giovane ristoratore di origine italiane, assassinato dalla moglie Suzanne Stone, ragazza di provincia, bionda, seducente e determinata, nata e cresciuta con una sola ambizione: la televisione. Il film inizia dal funerale dell’uomo e mette subito in evidenza l’attenzione mediatica scatenata dalla vicenda, per poi articolarsi in un montaggio che alterna diverse interviste televisive alle persone coinvolte: i genitori della coppia, la sorella di Larry, da sempre contraria all’unione del fratello con Suzanne, i ragazzini da lei plagiati, il direttore dell’emittente televisiva locale presso cui la donna lavorava, e infine una sua dichiarazione autofilmata. Le testimonianze rilasciate dai personaggi alla tv fungono da introduzione a una serie di flashback che mostrano la vita della coppia dal momento dell’incontro fino all’omicidio progettato da Suzanne e perpetrato da Jimmy, Lydia e Russell (i tre ragazzi emarginati che ha coinvolto in uno dei suoi progetti televisivi per poi manipolarli con programmatica sistematicità). La narrazione però non ha un andamento circolare, cioè non si conclude con le esequie del docile Larry, la cui unica colpa è stata mostrare segni di insofferenza rispetto all’assenza totale della moglie dal focolare domestico e alla piena indifferenza di questa nei confronti di una progettualità familiare. Il film prosegue dopo il funerale, continuando ad alternare testimonianze e flashback, per mostrare le indagini della polizia che inchiodano Suzanne alle sue responsabilità. Ma l’arresto non avverrà, perché nel frattempo, convinta di avere finalmente conquistato la notorietà, la donna accetta un appuntamento con un misterioso giornalista che le ha promesso di farla apparire in televisione. Ma costui è un killer assoldato dalla famiglia di Larry per vendicare il figlio, sicché la scalata al successo di Suzanne finisce sotto la superficie ghiacciata di uno sperduto e anonimo lago. «You are not anybody in America unless you are on tv», dice la protagonista in una delle dichiarazioni della sua autointervista, sintetizzando il nucleo del film che Gus Van Sant realizza nel 1995, ovvero nel pieno del suo cosiddetto periodo hollywoodiano. Non è la prima incursione del regista nel cinema mainstream: reduce dal fallimento commerciale e critico di Even Cowgirls Get the Blues (Cowgirl - Il nuovo sesso, 1993), Van Sant deve riguadagnarsi la fiducia di un sistema produttivo che in realtà sembrerà sempre ospitarlo in attesa di conferma. E inizia a farlo con questo film sorprendente e complesso: Da morire non è solo un attacco diretto al giogo mediatico che tiene in scacco la società americana (e non solo), ma è anche un meccanismo articolato e sfaccettato che vede mescolarsi codici visuali differenti (l’home movie, l’inserto fotografico, l’inserto televisivo, la finta intervista, la ricostruzione) e lavora incrociando i temi nodali del suo cinema (i marginali, gli adolescenti, le esistenze alla deriva, la dipendenza) con la questione sensibile e ultra popolare della televisione. «You are not anybody in America unless you are on tv»: Suzanne Stone guarda fisso la camera in un primo piano frontale mentre, tailleur rosa confetto, coiffure impeccabile, trucco misurato e sorriso disarmante, ricostruisce la sua verità sull’accaduto. Suzanne Stone è in televisione, questo è quello che conta indipendentemente dal perché ci sia e quali siano le modalità che lì l’hanno condotta. Suzanne Stone è in televisione ovvero ha finalmente conquistato il proprio spazio esistenziale. È finalmente a casa, si potrebbe dire. In questo film, Van Sant tratta infatti il tema della casa in maniera esplicita: mentre altrove è la sua assenza a essere significante (i road movie sono un viaggio

verso una casa che non si raggiungerà mai), qui Suzanne è al centro di una narrazione imperniata direttamente sulla questione della domesticità, nel senso specifico di tensione tra dimensione privata e dimensione pubblica dell’esistenza. LA TV COME CASA

La casa, intesa come spazio investito di senso1, è per Suzanne la televisione: la televisione costituisce il ventre che la partorisce, e insieme la tomba che lei stessa riserva a sé e agli altri. Suzanne non abita veramente la villetta middle class su due piani che suo marito Larry ha comprato per lei investendovi il fondo che avrebbe dovuto essere destinato al college, perché quello spazio non rappresenta il punto di riferimento identitario della donna, ma al contrario un luogo da cui evadere, o meglio da cui entrare per un altro varco, appunto dalla piccola ma potente finestra elettronica che troneggia nel centro del salotto. Lo scontro fra Larry e Suzanne è uno scontro fra due diversi sensi del domestico: la casa-famiglia e la casa-pubblico. Da una parte c’è infatti la concezione tutta familiare di Larry, per cui il vero scopo della domesticità è dato dalla costruzione di una dimensione privata di realizzazione dell’esistenza intesa nel senso più convenzionale del termine, mentre dall’altra c’è Suzanne per cui la domesticità non si configura come circoscrizione di una sfera privata rispetto a una pubblica, ma al contrario si giustifica completamente nell’individuazione di un pubblico cui mostrarsi: «Because what’s the point in making anything worthwhile if nobody is watching?». Lo scontro tra le due diverse concezioni sarà risolto dalla stessa Suzanne giocando proprio su un particolare tipo di pubblico-famiglia, costruito ad arte plagiando i tre adolescenti al margine, Lydia, Jimmy e Russell, per i quali lei stessa diventa appunto una sorta di casa: Suzanne è il miraggio che improvvisamente si materializza ai loro occhi nella sequenza al ralenti che vede la vaporosa aspirante giornalista sfilare davanti a loro in tailleur giallo con minigonna nel cortile della scuola. Se l’abitare consiste infatti, come scrive l’architetto norvegese Norberg-Schulz sulla scorta di Heidegger2, di orientamento e identificazione, Lydia, Jimmy e Russell, identità sradicate3, trovano in quel momento lo spazio che vogliono abitare, lo spazio che legittimandoli come essere umani e consentendo loro di orientarsi e identificarsi può diventare il loro luogo di appartenenza; è la stessa funzione che per Suzanne ha quella sorta di monade che è la televisione. Quando Meyrowitz scrive: «I media elettronici ci influenzano non tanto con i loro contenuti, ma modificando la geografia situazionale della vita sociale»4, sembra descrivere in un certo senso il cortocircuito esistenziale di Suzanne, anche se a un grado inferiore. Attraverso il mito dell’entrare a far parte del sistema mediatico, Suzanne non solo orienta infatti in maniera definitiva la sua psicogeografia ricollocando la propria concezione di casa e di senso del luogo di appartenenza, ma rielabora anche la natura e la funzione stessa del mezzo di comunicazione: la televisione non è infatti per Suzanne né l’oggetto che modifica lo spazio domestico né il medium che modifica lo spazio sociale; la televisione è per lei vero e proprio luogo di riconoscimento e costruzione dell’identità5. Che la personalità di Suzanne sia inconfondibilmente connotata dalla televisione come spazio esistenziale, è lei stessa a dirlo in un altro lapidario passaggio dell’autointervista sulla sua tragica vicenda matrimoniale. In una delle sequenze dedicate alla

testimonianza televisiva della donna, al primo piano frontale segue l’estratto di un filmino di famiglia che risale all’infanzia di Suzanne. Van Sant, lavorando – anche dal punto di vista estetico oltre che narrativo – sull’interazione del frammento amatoriale e dell’immagine in pellicola, fa emergere le tracce dell’identità profonda di Suzanne. Dopo la battuta di lei che dice, sguardo alla camera: «I always knew who I was and who I wanna to be… Always!», uno stacco conduce lo spettatore nel passato della donna, fisicamente nella casa dei genitori, metaforicamente in quella che è la sua casa fin dall’infanzia: la televisione. È una sola inquadratura, ma segna un passaggio fondamentale che recupera i germi dell’innato vivere in televisione della protagonista e annuncia l’autodistruzione della sua stessa immagine/esistenza. Un traballante zoom all’indietro mette precariamente a fuoco l’immagine di una bambina che guarda in uno schermo televisivo la propria immagine riflessa all’infinito. Prima si vede il corpo con l’impeccabile vestitino bianco e poi, a salire, il volto sorridente, incorniciato dai boccoli biondi. L’immagine sfocata e instabile si compone tra le centinaia di righe dello schermo che la rimanda, mentre la voce del padre fuori campo chiede: «Ok… Who wants to be on tv?». La bambina intanto continua a voltarsi verso i genitori e poi di nuovo verso lo schermo, guardando e riguardando come ipnotizzata dalla sua stessa immagine. Quando finalmente viene messa a fuoco con un leggero zoom che la porta in primissimo piano, la bambina si avvicina all’obiettivo rimandando di nuovo in crisi il fuoco dell’immagine; zoomando, la telecamera cerca di rimetterla nuovamente a fuoco mentre lei continua a sorridere e riprende ad avvicinarsi fino a sfondare i limiti dell’inquadratura barcollante. Dapprima il volto della bambina sparisce, fondendosi sostanzialmente con lo schermo e poi, quando il padre recupera faticosamente la messa a fuoco, rimette di nuovo l’immagine in crisi oscurandola con la mano che cerca di impossessarsi del mezzo. Quella che si imprime sullo schermo spento non è tanto l’immagine di Suzanne bambina quanto piuttosto una traccia del suo inconscio alloggiato televisivamente, direbbe Bachelard6. L’immagine riflessa nell’abisso dello schermo funziona infatti come una traccia del tutto affine a quella che l’inquilino imprime inconsapevolmente nel proprio intérieur, secondo le osservazioni formulate da Benjamin7, ma invertita di segno. L’intérieur di Suzanne non è infatti lo spazio privato moderno che si definisce in funzione della sua presa di distanza rispetto all’esterno pubblico, ma al contrario è lo spazio esibizionistico8 della televisione, quello che rappresenta l’irruzione del pubblico nel privato della casa e la trasformazione della famiglia in un pubblico. L’esistenza di Suzanne è dunque situata televisivamente e il suo senso del domestico è determinato congenitamente dalla localizzazione del proprio luogo di riconoscimento nella casapubblico: «On tv is where we learn about who we really are!». LA STRADA VERSO CASA

La naturale propensione di Suzanne per la televisione e il suo patologico identificarla come luogo della propria identità risultano, come appena visto, radicati nel patrimonio genetico della donna; c’è però una sequenza precisa del film in cui Suzanne acquisisce, per così dire, consapevolezza sul come arrivare a conquistare il suo luogo di riconoscimento, la sua casa. È la sequenza dell’entrata nella sala della National Broadcasters Conference che si

tiene all’albergo dove, proprio per questo motivo, ella ha indirizzato la sua luna di miele. Il paradosso sta già nello snodo della sceneggiatura: il viaggio di nozze, l’inizio di un nuovo nucleo familiare, di una nuova domesticità condivisa è immediatamente diretto da Suzanne in funzione della conquista della sua vera casa. Suzanne lascia Larry andare per mare su una barca con altri uomini che forse di sua moglie hanno capito più di lui. Suzanne saluta il marito, inquadrata di schiena, in un primo piano che lascia il quadro quasi interamente occupato dalle larghe tese del cappello giallo che indossa. Quando lentamente si volta, uno stacco mostra allo spettatore il suo obiettivo: il grande albergo rosa che le sta di fronte. Un controcampo la inquadra di nuovo in primo piano, poi, lo sguardo alto e determinato sull’edificio, esce camminando decisa dalla destra dell’inquadratura fissa. Un nuovo stacco interrompe il flashback ritornando a Lydia che ha assunto la funzione di narratore di questo frammento della vita di Suzanne. Appoggiata a una staccionata, i panni stesi dietro di lei in un contesto che suggerisce la povera periferia di provincia, Lydia sta fuori dalla casa misera che abita con la madre obesa e la tv accesa su una soap opera; sta lì, all’esterno tanto della sua casa-non casa quanto della sua famiglianon famiglia, cercando di capire, di fronte alla telecamera del giornalista che la intervista, se la tv, come le ha insegnato Suzanne, può essere una possibilità per lei di conquistare una porzione di spazio tutto suo. Racconta allora dell’episodio della luna di miele e cita uno degli esemplari moniti della sua maestra: «Suzanne used to say: opportunity is always knocking, but if you aren’t listening its knuckles get sore and it moves to another house… or something like that». Intanto un lentissimo zoom in avanti le stringe lentamente il campo intorno anticipando la trasformazione finale della ragazza in personaggio televisivo; con la moltiplicazione all’infinito degli schermi televisivi che riproducono la sua immagine, finalmente Lydia – l’unica a trarre beneficio dalla lezione esistenziale di Suzanne – sta per diventare qualcuno, perché sta per andare in televisione. Con lo stacco successivo finisce il prologo della scena e – con il contributo fondamentale del tema al contempo teso e onirico composto da Denny Elfman – inizia il racconto per immagini di una serie di rivelazioni cruciali, sia per l’esistenza di Suzanne sia per lo sviluppo della narrazione. Suzanne avanza nel corridoio dell’albergo mentre la macchina da presa retrocede lentamente assecondando il suo incedere; quando si ferma davanti all’ingresso della sala delle conferenze la voce del relatore (che resta per il momento nel fuori campo) rapisce la sua attenzione. Stacco. Il relatore entra in scena sulla predella da cui sta parlando a una platea di divertiti ascoltatori che restano nella penombra; tutta la luce è su di lui che occupa la parte destra dell’inquadratura. Stacco. Suzanne ride anche se evidentemente non ha capito la battuta; ha capito però di essere sulla soglia del mondo che le interessa fare suo, sulla soglia di casa. Infatti la macchina da presa le gira intorno lentamente e la segue nel breve movimento che la porta sul limite della sala: si ferma per un attimo prima di compiere il grande passo. La macchina da presa procede con il suo movimento avanzando verso il relatore e lasciando la donna sul margine sinistro del quadro fino a farla uscire di scena. In questo preciso istante, quando cioè esce dall’inquadratura, è il relatore ad accorgersi di lei e a zittirsi per qualche istante.

Stacco. Suzanne si rivela nella sala come presenza estranea eppure catalizzatrice di attenzione. La voce dell’uomo prosegue con qualche pausa nel fuori campo: Suzanne lo ascolta come si trovasse di fronte a un oracolo. La macchina da presa la inquadra frontalmente lasciandola sul fondo di un totale: movimenti lenti, la mise floreale, l’affascinante candore, ipnotizzano il relatore che la vede, il cappello giallo ancora in testa, bloccarsi come una visione sospesa, leggiadra e colorata, quasi surreale nel nuovo moltiplicarsi nello specchio davanti al quale si è fermata. Stacco. Il relatore prosegue a fatica il suo discorso continuando a guardare Suzanne. La macchina da presa si muove impercettibilmente intorno a lui imprimendo un leggero senso di instabilità alla figura sul palco illuminato. Stacco. Suzanne ormai ferma davanti allo specchio in un piano americano si toglie il grande cappello giallo con un gesto morbido e seducente, guardando fisso il relatore; nella parte bassa del quadro, seduto, c’è il pubblico, che sostanzialmente scompare nello sfondo del quadro: ormai è diventato un dialogo di sguardi tra lei e l’uomo. Stacco. Il relatore si avvia alla chiusura della relazione con un’affermazione nodale: «In a fast computer age, is the medium of television that joins together on a global comunity. And it is the… It is the television journalist who serves as messenger, bringing the world in to our homes and our homes into the world»9. La verità rivelata a Suzanne. Stacco. Suzanne, completamente rapita dalle parole dell’uomo che arrivano dal fuori campo, è inquadrata in primo piano di profilo, in una calda penombra che la avvolge: i capelli fluenti sulle spalle, lo sguardo sognante e un sorriso estasiato sulle labbra. Rivolge lo sguardo verso il corpo del suo messia, la cui immagine entra in campo come doppia proiezione. Nella parte sinistra dell’inquadratura infatti si possono scorgere sfocati sullo sfondo sia uno schermo che rinvia, mediandola elettronicamente, l’immagine del relatore, sia l’ombra dell’uomo sul muro, nel cerchio di luce proiettato dall’occhio di bue che lo illumina sul palco. Suzanne estasiata, immersa finalmente nella televisione, si ritrova come circondata dalle immagini dell’uomo il cui corpo (quello reale sul palco e quello mediato delle proiezioni) si dà come epifania allo sguardo devoto di Suzanne. Stacco. Il relatore ringrazia, poi si avvicina al microfono e chiosa lanciando uno sguardo intenso verso la donna: «Thanks a lot!». Stacco. Suzanne di nuovo in primo piano di profilo, come se stesse uscendo dolcemente dal sogno, comincia a battere le mani, felice, annuendo impercettibilmente con la testa, convinta di aver finalmente capito. La sequenza è costruita come un succedersi di epifanie concatenate. La prima riguarda Suzanne: la donna si ferma per un istante nel fondo della sala e resta come ipnotizzata davanti è una specie di televisione in carne e ossa, un corpo-luogo che catalizza tutti i suoi desideri, il corpo del celebre personaggio del mondo della televisione che pontifica dal palco. La seconda rivelazione riguarda l’uomo-televisione che resta come incantato davanti all’apparizione di quella donna, irreale e immateriale, non perché non sia abituato alla bellezza, ma perché riconosce in lei un enorme potenziale di sfruttamento. La terza rivelazione consiste invece nella presa di coscienza da parte di Suzanne della propria missione: le formule promozionali confezionate dall’uomo-televisione secondo la logica della televendita (esattamente come se il prodotto in vendita fosse una pillola per dimagrire o un mirabolante set di coltelli, anziché l’etica di una professione come quella del giornalista televisivo) funzionano perfettamente sulla Suzanne spettatrice che le interpreta come parole sacre.

La quarta rivelazione consiste infine nella presa di coscienza da parte dello spettatore della totale surrealtà in cui vive Suzanne: la donna è infatti convinta che le parole del relatore siano la chiave per conquistare il suo spazio esistenziale e non ha ancora capito quale sarà invece il compromesso al quale si dovrà piegare (si vedrà nella sequenza successiva). Il fatto che Suzanne filtri il reale attraverso il proprio inconscio alloggiato televisivamente10 costituisce infatti ciò che le consente di accettare senza troppa sofferenza, con solo un attimo di sbigottimento iniziale, le avances dell’uomotelevisione, accettabili in quanto parte della logica del mezzo. Dopo questa scena il film compie una forte ellissi, e riprende nella camera d’albergo in cui dorme, da solo, Larry; la porta si apre e Suzanne entra lentamente, fermandosi in controluce, i capelli meno vaporosi, la giacca aperta, la voce sussurrata. Suzanne ha scelto evidentemente di accettare le logiche della televisione ma lo ha fatto procedendo come in uno strano stato di straniamento dal reale, rimuovendo l’incubo – è questo il processo psicologico intelligentemente sottolineato dalla scelta di lasciare in ellisse l’atto sessuale – e tenendosi il sogno. Con lo stesso meccanismo mentale, più tardi pianificherà e porterà a compimento l’eliminazione del marito. Suzanne vive come completamente immersa in quella che Bachelard chiamerebbe la sua rêverie: ogni gesto, ogni movimento, ogni parola di Suzanne sembra infatti collocarsi non tanto nella realtà, quanto piuttosto all’interno di uno specifico stato di coscienza in cui l’immaginazione dialoga con il reale, proprio come nella rêverie bachelardiana. È infatti questa facoltà che mescolando memoria e immaginazione permette all’individuo di muoversi lungo un percorso che è psichico e fisico al contempo, un percorso fatto di immagini che gli consentono di recuperare il proprio senso di appartenenza ai luoghi e di vivere le immagini stesse direttamente, considerandole avvenimenti della vita. È proprio in questo sovrapporsi di immaginazione e realtà che si crea il cortocircuito psichico di Suzanne: la sua rêverie televisiva non è solo lo strumento che le consente di attuare l’esercizio concreto dell’immaginazione ma diviene per lei strumento di attuazione della propria esistenza. È in questo senso che la televisione, integrando i pensieri, i ricordi e i sogni, diventa per Suzanne una casa. CAMBIO DI CANALE

Il cortocircuito della domesticità che Suzanne vive mettendo in forma televisiva il proprio inconscio è esplicitato in un altro passaggio cruciale del film. Quando cioè la donna si rende conto della necessità di eliminare il marito. Su incitazione della sorella, Larry – profondamente radicato nella famiglia di appartenenza e fortemente intenzionato a crearne una propria – si è infatti deciso a contrastare l’indifferenza della moglie per il focolare domestico. Sforzandosi di non cedere alla consueta accondiscendenza, una sera aspetta insolitamente Suzanne che torna tardi dall’emittente tv. La sequenza illustra perfettamente l’impossibilità di un vero rapporto fra i coniugi, che pur trovandosi l’uno di fronte all’altro, vivono di fatto in due luoghi diversi. Da una parte c’è Larry, canottiera, vestaglia e pantaloni del pigiama, birra in mano e tv accesa sulla partita di basket. Dall’altra c’è Suzanne, perfetta in una delle sue solite mises color pastello che rientra dal lavoro. Una situazione banale, ma che rivela la forte tensione tra le due opposte domesticità, quella familiare e convenzionale di Larry e

quella individuale e completamente mediatizzata di Suzanne. La complessità della regia di Van Sant risiede qui proprio nella capacità di mettere in scena un sistema di sguardi e di pensieri che non possono incrociarsi perché sono situati in luoghi incompatibili. In questa sequenza, a differenza di quella precedentemente analizzata e della maggior parte di quelle relative agli spaccati di vita di Suzanne prima dell’omicidio, non c’è un narratore che introduce il frammento. Nessuno infatti è stato testimone diretto né può aver ricostruito a posteriori che cosa sia avvenuto in quel preciso istante che ha reso manifesta a Suzanne la necessità di eliminare Larry. Il prologo alla sequenza è qui costituito non da un’introduzione narrata in una delle interviste ai protagonisti della vicenda, ma dalla telefonata tra Larry e Janice, la sorella. Janice, con la tv del suo appartamento significativamente accesa su Bell, Book and Candle (Una strega in paradiso, Richard Quine, 1958), tenta di convincerlo della possibilità di opporsi al totale autoriferimento della moglie. Un altro schermo tv, quello che sta guardando Larry, apre la sequenza successiva: il televisore al centro di un’inquadratura frontale trasmette un incontro di pallacanestro e domina il salotto; inizia poi una serie di campi e controcampi che fissa le coordinate spaziali del confronto tra Suzanne e Larry. Questa porzione di sequenza si apre e si chiude con due movimenti di macchina speculari: il primo è una panoramica verso destra che scopre Larry sprofondato nel divano del salotto, al centro della casa, davanti alla tv, completamente addomesticato11; l’altro è invece una panoramica verso sinistra che accompagnerà Suzanne a sedersi anche lei in salotto, ma rigida, sul limite di una poltrona floreale che appena si intuisce, completamente estranea alla familiarità dell’ambiente. Stacco. Le scale in legno che conducono al piano superiore restano per qualche istante vuote, un divano di quinta, prima che compaia Suzanne, entrata in casa e in campo dalla destra dell’inquadratura. Avvolta da una minigonna azzurro cielo e da una gonfia camicetta a sbuffo con pois neri che decorano uno sfondo in pendant con il colore della gonna, Suzanne sale le scale senza neppure salutare, la valigetta in mano, e delle scarpe gialle con i tacchi alti. Dal fuori campo arriva la voce di Larry che la chiama. La macchina da presa si muove compiendo la panoramica a destra che svela la presenza dell’uomo: Larry è seduto sul divano, il telecomando in mano, la vestaglia arancione a coprire una canottiera bianca, i pantaloni del pigiama rigati e dei calzini bianchi e neri che riscaldano i piedi trasgressivamente appoggiati sul tavolino, l’espressione imbronciata come a convincersi di poter prendere posizione contro la moglie, verso cui rivolge lo sguardo distogliendolo dal match televisivo. Stacco. Suzanne inquadrata con una leggera angolazione dal basso si avvicina al limite del soggiorno nel suo completo azzurro e sgrida il marito per i piedi sul tavolino. Stacco. Il controcampo su Larry lo mostra che, inspirando profondamente, abbassa i piedi e dice alla moglie di doverle parlare. Stacco. Di nuovo Suzanne inquadrata allo stesso modo che, scocciata, si mette una mano alla vita e chiede quale genere di cosa debbano affrontare. Stacco. Ancora un controcampo su Larry che, guardandola dal divano nel fuori campo, le dice che lei sa a che genere di cose si riferisce. Stacco. Ultimo stacco su Suzanne che dice di non sapere e, senza neanche dare importanza alla richiesta del marito, si rigira muovendosi verso la scala e rimandando all’indomani la discussione. Stacco. Un rapidissimo passaggio su Larry lo mostra finalmente risoluto: «No», dice

quasi stupendosi della sua stessa voce. Ci è riuscito. Stacco. Suzanne incredula si volta e ritorna sporgendosi dallo stipite della porta in un’inquadratura che replica le precedenti. «What?», dice. Stacco. Larry ripete soddisfatto il no e rimette i piedi sul tavolino invitando la moglie a sedersi. Stacco. Suzanne sempre più incredula e scocciata si muove, mentre la macchina da presa panoramica sulla sinistra seguendola e mostrando l’altro lato del soggiorno middle class con carta da parati floreale e abat-jour a luce calda. Suzanne si siede svogliatamente, si appoggia alla valigetta che ancora ha in mano e fissa il marito. Stacco. A questo punto inizia la seconda parte della sequenza e il registro visuale cambia. Larry appare in una strana inquadratura che si direbbe la soggettiva dello spettatore di una sit-com. L’uomo è infatti al centro di un totale, inquadrato frontalmente, seduto sul divano come se fosse sul set di uno studio a tre pareti. Bevendo birra e agitando teso il telecomando, l’uomo parla alla moglie ma sembra parli a una telecamera perché lei lo fissa da lontano come lo guardasse all’interno di uno schermo tv. La scelta di messa in scena di Van Sant traduce lo sguardo televisivo di Suzanne: il frame cognitivo della donna denuncia infatti la propria natura profondamente televisiva trasformando direttamente in televisione il reale. Nell’inconscio di Suzanne il marito diventa allora il protagonista di una fiction che lei osserva da fuori. Stacco. La macchina da presa stacca su Suzanne nella penombra che guarda fisso nel fuori campo destro dell’inquadratura, la bocca leggermente aperta, la valigetta sempre stretta tra le mani, come se entrando in casa di qualcuno una trasmissione televisiva inaspettata avesse rapito la sua attenzione. Quando Larry le dice per la prima volta «No!», costringendola a sedersi e ascoltare i suoi progetti per il loro futuro familiare, inizia infatti un nuovo programma. Suzanne se ne rende conto proprio quando si siede di fronte al marito e ascolta la sua voce provenire da lontano sovrapponendosi alla telecronaca della partita. In questo momento Suzanne sa di essere di fronte a un nuovo show inaspettato e che non le piace: elaborate dal suo inconscio televisivo le parole di Larry suggeriscono infatti il prendere forma di uno squallido sceneggiato in cui lei dovrebbe interpretare il personaggio della moglie servizievole e della madre devota. Qui Suzanne comincia anche a maturare quello che diventerà palese alla fine della sequenza: la necessità di fermare quella nuova imprevista trasmissione. Stacco. La macchina da presa torna su Larry che accende la luce accanto al divano, spegne la tv tenendo il telecomando in mano e si alza in piedi spostandosi sulla sinistra della stanza. Restando nella posizione della precedente inquadratura di Larry, la macchina lo segue mentre si alza e avanza ritrovandosi inquadrato dal basso in un piano americano fortemente angolato dal basso che lo schiaccia contro il soffitto come se la casa incombesse al di sopra della sua testa. Larry si muove e gesticola roteando il telecomando nell’aria, mentre espone eccitato il suo progetto di espansione dell’attività familiare. Stacco. Il movimento di Larry sembra aver risvegliato Suzanne dalla visione pseudocatodica: nel controcampo infatti la si vede guardare dal basso verso l’alto incredula per quello che lui le sta proponendo; poi di colpo sorride nervosa prima di farsi di nuovo seria. Stacco. Larry, ancora in piedi, inquadrato dal basso, si avvia verso il punto cruciale dell’esposizione della sua proposta: «You, with your tv background, you could help me

with that!». Stacco. Suzanne, sempre seduta con la sua valigetta, resta muta e sembra reimmergersi nella visione televisiva. La voce di Larry si riallontana infatti progressivamente, mentre la macchina da presa compie un avvicinamento su Suzanne fino a chiuderla in un primissimo piano che la mostra battere appena le palpebre. Stacco. Larry di nuovo seduto, inquadrato frontalmente, è ritornato nel set della sit-com ma è a una distanza più ravvicinata e pronuncia, guardando in macchina, le parole fatali: «And believe me… Suz, I’m not selling short what you are doing now, I mean, in the weather report stuff, which you are really good at! But, let’s face facts, probably not gonna lead to any big network office…». Nel frattempo un’iride comincia a stringersi: il nero cancella il salotto, cancella la casa di Larry che da solo resiste al centro dell’inquadratura, trovandosi come nel centro di un mirino. Lo scontro tra le due dimensioni domestiche tocca qui il suo apice narrativo. La narrazione (che prosegue poi il suo andamento frammentato e multiplo) attraversa infatti in questo passaggio lo snodo centrale, nel momento cioè in cui Suzanne esplicita il suo sguardo televisivo sulla realtà. Stacco. Suzanne di nuovo in primissimo piano, quasi catatonica guarda la sit-com chiudendo e riaprendo lentamente gli occhi. La musica in crescendo di Denny Elfman, che ricorda vagamente le colonne sonore dei film di fantascienza degli anni cinquanta, carica la scena di un sapore onirico. Stacco. Di nuovo Larry quasi completamente fagocitato dall’iride che si è chiusa intorno a lui, incorniciato dal nero, al centro del quadro, guardando in macchina chiude il discorso che raccorda questo al quadro precedente: «In this way we could be working together in both our respective fields doing what a family is supposed to be doing… a family! that’s what I’m talking about Suz… What are you thinking?». Stacco. Suzanne ancora attonita, dopo qualche frazione di secondo si sblocca. La musica interrompe il crescendo e conserva solo qualche nota che sottolinea la tensione del momento. Suzanne sorride: «Uhhmm… I’ll think about it…». Poi si morde il labbro distogliendo lo sguardo dal marito e girando gli occhi verso il fuori campo alla sua sinistra dove sembra cercare la soluzione che le consenta di riprendere il suo cammino senza ostacoli, la sua trasmissione; poi abbassa lo sguardo e infine risolleva gli occhi guardando fisso il marito nel fuori campo di fronte a lei. Glaciale, ha trovato la soluzione: la trasmissione che sta guardando, quella di cui Larry e la sua casetta a due piani con il giardino pronto a essere popolato di bambini sono i protagonisti, deve finire. La tv deve essere spenta, non basta neppure cambiare canale come Suzanne stessa consigliava di fare a Lydia per far fronte agli orrori della sua famiglia. E così, il fatto che Larry abbia stretto per tutta la sequenza il telecomando tra le mani come se avesse il potere sulla televisione in cui vive Suzanne, diventa ancora più paradossale: è lui, al contrario, il protagonista inconsapevole del programma che Suzanne sta guardando, uno show destinato a chiudersi perché la tv sta per essere spenta. L’iride sta infatti per ingoiare Larry definitivamente, lasciando il nero conquistare lo schermo della sua esistenza.

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Psycho di Roberto Manassero Copia più che remake, elaborazione di un concetto più che riesumazione di un classico, Psycho1 è il culmine di quel processo di progressiva ristrutturazione dell’immagine che coglie il cinema di Van Sant verso la metà degli anni novanta. A una lettura superficiale, la parabola stilistica del regista di Portland sembrerebbe segnata da un’involuzione: il passaggio da una fase iniziale nel segno della controcultura americana e del cinema underground a una fase più matura, già ravvisabile in To Die for (Da morire, 1995) ed evidente in Good Will Hunting (Will Hunting - Genio ribelle, 1997), di inattesa e spiazzante conversione al sistema produttivo hollywoodiano. Ma quel che a suo tempo sembrò (e per certi versi giustamente) un cedimento al controllo e alla moderatezza del linguaggio classico, nonché alle sue mitologie, si sarebbe poi rivelato, con il ritorno alle produzioni indipendenti, come una necessaria fase di rinegoziazione dello stile. Il passaggio per le terre di Hollywood, lontano dal privato dell’Idaho e delle highways della provincia, è per Van Sant un rito di purificazione stilistica, l’attraversata di una paradossale terra di nessuno (in realtà il luogo cinematograficamente più popolato del mondo) che lo porterà a una totale immersione nel deserto bianco e infinito dell’America. Il vuoto significante che riempie il cinema di Van Sant a partire da Gerry (2002) non può che nascere, infatti, dalla pienezza soffocante della sua fase hollywoodiana, a cui fa eco la distruzione dell’immaginario nazionale prodotta dall’11 settembre. Come reazione alla bulimia di immagini-sensazione e allucinazioni-realtà, Gerry propone uno spazio libero e piatto, persino angosciante, un vuoto assoluto che proprio per questo si carica di ogni suggestione: dalla fine del cinema western come indice del tramonto della civiltà statunitense (come nota Barbara Grespi)2, al richiamo allo spazio infinito della celebre scena dell’attacco aereo di North by Northwest (Intrigo internazionale, Alfred Hitchcock, 1954), che era una riflessione sui meccanismi della suspense e dell’angoscia spettatoriale. Ma il vuoto della rappresentazione problematizzato da Van Sant a inizio millennio è uguale e opposto alla “pienezza” che il suo cinema acquisisce verso la fine del xx secolo. Ed è soprattutto attraverso la riproduzione di Psycho (Psyco, Alfred Hitchcock, 1960) che la trasformazione del suo cinema trova compimento: con un’operazione tanto ardita quanto meccanica nella sua elementarità, Van Sant affronta l’origine stessa di ogni procedimento artistico, l’impossibilità, cioè, dello spazio bianco come punto d’avvio di ogni processo creativo. E, specularmente, la condanna del cinema contemporaneo a un continuo confronto con i modelli del passato. La sua versione del capolavoro di Hitchcock è un’operazione che nasce dalla consapevolezza di muoversi nello spazio compresso di una gabbia creativa: non solo, ovviamente, quella imposta dalla scelta “suicida” di rigirare un film scena per scena, quasi inquadratura per inquadratura, ma anche quella, meno visibile ma non meno invasiva, creata da ogni spettatore e dalla sua conoscenza pregressa del modello. Di fronte a ogni remake, infatti, la tendenza è quella di rapportare la nuova versione all’originale, tanto più in un caso come questo, in cui non solo il film di partenza è uno dei più famosi della storia del cinema, ma l’autore del rifacimento ha una biografia artistica poco compatibile con quella del maestro del noir hollywoodiano. La prima questione che Psycho solleva riguarda così le motivazioni che portano Van Sant a intraprendere un’operazione tanto ambiziosa quanto rischiosa. Esse nascono dal successo di Good Will Hunting e ne sono in un certo senso una conseguenza. Diventato

infatti un regista affidabile già dopo i buoni riscontri di To Die for e ancora di più dopo gli Oscar per il film successivo, Van Sant, come ha più volte dichiarato, si trova nella condizione di rispondere in modo più libero alle decine di proposte di remake provenienti dalla Universal: e se in precedenza era stato impossibile imporre l’idea di un remake shot-for-shot di un classico, ora ha il potere di far sì che essa venga accettata3. Stretto così tra un sistema che cambia faccia ma non strategie (e che si ripete nei decenni ripresentando i suoi prodotti tramite remake, sequel e prequel) e la necessità di imporre una volontà autoriale in un contesto che non la prevede o la riassorbe, Van Sant ribadisce la sola condizione alla quale accetterà di girare un remake: svuotare dall’interno la pratica, intendendola letteralmente, e dunque rivoltandola contro il sistema che l’ha generata. Partendo dalla convinzione che ogni nuova versione finisca per impoverire l’originale, Van Sant gira il suo Psycho come se appartenesse per davvero a un altro regista, come se la sua fosse una forma in prestito: «un trucco», l’ha definito, «per dimostrare la natura assurda dei loro desideri più profondi»4: dove «loro» sono i responsabili delle major e i «desideri», naturalmente, sono gli imperativi dell’industria dello spettacolo. Un trucco, dunque, è l’obiettivo dichiarato, un’operazione che affronta il cinema classico come materia bruta, inerte, evitando «gli eccessi e gli squilibri visivi»5 della produzione underground e puntando dritto verso un’immagine cristallizzata e abbacinante. Ma come si è detto, la forma piena, soffocata e soffocante, di Psycho non è che il contraltare dell’immagine aperta, bianca e infinita di Gerry: Van Sant inizia da qui la sua palingenesi artistica, affrontando l’America pop delle icone inossidabili eppure continuamente rivisitate (come le flags di Jasper Jones) per arrivare ai luoghi chiave della geografia nazionale, come il deserto bianco della Death Valley, dove ridefinire i confini del suo stesso universo creativo. UN TRUCCO CHE È UN RITUALE

Il trucco di cui parla Van Sant ha il sapore di una sfida, meglio ancora di un gioco. Addirittura, nella sfrontatezza unita a timore con cui approccia una forma nobile, quasi sacra, il suo gesto assume il valore di un rito: il rito dionisiaco dello smembramento e della rinascita del suo cinema attraverso la forma compiuta e controllata del modello classico. Il passo del suo film è completamente ricalcato su quello del modello e nella sua riproposizione letterale di un racconto che ha terrorizzato intere generazioni di spettatori svela potenzialmente il segreto di ogni produzione hollywoodiana: l’idea, cioè, della serialità applicata anche all’emozione, alla speranza di ottenere sempre gli stessi risultati in termini di paura e fascino ripetendo sempre le stesse formule. La nuova versione di Psycho, infatti, potrebbe essere il numero due di una serie infinita: «[…] se fosse stato un exploit commerciale», ha detto Van Sant, «avrei regalato agli studi la ricetta perfetta per il loro obiettivo, rifare sempre lo stesso film e ottenere ogni volta lo stesso trionfo […]»6. Ma è chiaro che si tratta di una provocazione: Psycho del 1998 non poteva essere un successo, perché anziché aggiornare la formula hitchcockiana a gusti, convenzioni e ritmi della contemporaneità, riproduceva esattamente quelli del 1960. Ciò che Van Sant aggiunge, al di là di modifiche minime (ad esempio, il calcio che Lila Crane, la sorella di Marion, rifila a Norman per stordirlo) e dell’eliminazione di una scena (quella in cui Lila

e Sam parlano con lo sceriffo Chambers fuori dalla chiesa di Fairvale), è il colore, che però non emerge, rimane parte di una superficie piatta e impenetrabile, troppo piena per ammettere, almeno in apparenza, spazi di libertà e movimento. La nuova versione di Psycho, così, al di là dell’operazione di modernariato cinematografico o di vintage consapevole, finisce per essere molto di più, la proposta di una forma nuda che appare come semplice struttura, un succedersi meccanico di inquadrature già previste che danno vita a un corpo immobile apparentemente privo di vita. E se lo scopo di Hitchcock era costruire pezzo per pezzo la suspense e la paura, a partire dalla successione meccanica delle inquadrature, per Van Sant la ragione del procedere del film non può (più) risiedere nel dispiegamento di un racconto noto, bensì, inevitabilmente, nel suo stesso procedere. Muovendosi tra le pieghe del découpage classico, cerca ciò che ancora di non visto si nasconde nell’originale creando per sé spazi di manovra minimi all’interno di singole scene o addirittura di singole inquadrature. In questo modo, come nella dinamica hitchcockiana del campo e controcampo si cela il segreto del cinema del suo autore, si cela il fascinum, cioè lo sguardo stesso e il suo desiderio (come scrive Pascal Bonitzer)7, per Van Sant nella costruzione meccanica del suo film, tassello per tassello, si nasconde una pulsione funerea, un desiderio di morte e ricomposizione che ne fa un’operazione necrofila, tassidermica. La successione delle stesse inquadrature tra copia e originale rimanda all’idea d’imbalsamazione e fa del nuovo Psycho un film pienamente strutturalista, da inserire idealmente in una tradizione che appartiene più agli anni sessanta di Warhol, della pop art e del nouveau réalisme, che non al cinema degli anni novanta e alla sua tendenza a rifare film del passato. Dello stesso periodo di Psycho sono infatti i remake di Delitto perfetto (A Perfect Murder, Delitto perfetto, Andrew Davis, 1998), Scrivimi fermo posta (You’ve Got Mail, C’è posta per te, Nora Ephron, 1998) e Una notte d’estate - Gloria (Gloria, id., Sidney Lumet, 1998), i quali, però, limitandosi a riprendere la fabula e ad aggiornare personaggi e ambientazioni, sono privi di una riflessione estetica sull’originale. Van Sant, invece, gioca a scacchi con le pedine di Psycho e del cinema classico: lo approccia come un giocatore abile a nascondersi dietro le proprie mosse; ricrea il tipico andamento invisibile e meccanico del découpage classico, ma obbedendo alla struttura di un film già esistente palesa la natura fittizia di tale costruzione, come se lo svelamento dei meccanismi di un racconto funzionasse da tradimento: un gesto sconsiderato e intollerabile che porta il sistema sul baratro della dissoluzione. Il suo procedimento ricorda quello che Lévi-Strauss scrive in Il pensiero selvaggio a proposito del rapporto tra gioco e rito: il gioco, secondo l’antropologo francese, appare disgiuntivo, cioè crea uno scarto differenziale tra due “giocatori” e conduce all’inevitabile vittoria di uno sull’altro (Delitto perfetto di Hitchcock, ad esempio, sarà sempre meglio del suo remake), mentre il rito, in modo simmetrico e inverso, è congiuntivo, «perché istituisce un’unione (si potrebbe dire in questo caso, una comunione), o comunque una relazione organica tra due gruppi […] che all’inizio erano dissociati»8. Van Sant, insomma, compie un rito: considera l’originale Psycho non come una mossa che innesca una contromossa, ma come un gesto da riportare in vita, un evento visivo da riconfermare. Se «il gioco produce eventi muovendo da una struttura»9 (e in generale un remake può essere considerato un evento nuovo), il rito si comporta in modo contrario, confermando la struttura (cioè il vecchio testo) a partire da un

evento (cioè il remake): per questo motivo Psycho è un film fuori dal tempo, un’astrazione pura, uno sguardo verso il regno delle immagini e verso il loro potere nullificante. NOUVEAU RÉALISME

Che cosa si nasconde dunque dietro questo film ripetuto, raddoppiato? Che cosa spinge Van Sant a cercare un’aderenza pressoché perfetta all’originale? Nulla, è chiaro. O meglio, l’esperienza del nulla, del vuoto, dal quale di lì a poco rinascerà tutto il suo cinema. Psycho è quindi una sorta di congedo, una resa dei conti con il lato commerciale, luminoso e colorato, della filmografia del regista, è il geniale rovesciamento critico della richiesta di adesione a procedimenti, regole, e formati codificati dall’industria. Se il film è stato un fallimento commerciale, poiché incapace di differire la regola quel tanto da presentarsi come riconoscibile ma autonomo, al tempo stesso esso non è l’equivalente cinematografico di una serigrafia di Andy Warhol, non è (solamente) la rielaborazione, attraverso la ripetizione, di un’icona. L’operazione di Van Sant è più vicina al nouveau réalisme europeo che alla pop art americana: non è, cioè, una resa dell’arte di fronte alla realtà impenetrabile dell’oggetto industriale, ma è un “riutilizzo estetico”, un’indagine materiale e spirituale a partire da una forma preesistente svelata nella sua matericità. E come il blu di Yves Klein trasforma modelli nobili (la Nike di Samotracia o la Venere di Milo) in «fenomeni di pura contemplazione», secondo una celebre definizione di Pierre Restany10, il colore di Van Sant applicato sull’icona in bianco e nero di Psyco, non in quanto oggetto creato, bensì scelto e riadattato alla rappresentazione, genera necessariamente un superamento e una reificazione. Partendo da un’idea di cinema classico come «singolarità collettiva», dall’espressione che gli esponenti del nouveau réalisme utilizzavano per considerarsi un movimento, e cioè come continua riproposizione di forme sempre uguali eppure differenti, abdica, come Warhol, di fronte alla freddezza del lavoro della copia, ma affronta il nodo identità/differenza meccanizzando la forma originale di Hitchcock e al tempo stesso elevandola come forma pura, come vuoto in grado di aprirsi a qualsiasi esito estetico11. Tornando a Lévi-Strauss, diventa evidente come l’operazione, nella relazione che innesca tra corpi vivi e icone eterne, si ricolleghi in modo sorprendente ai cosiddetti “riti d’adozione” e ai dialoghi tra vivi e morti nelle popolazione indigene studiate dall’antropologo francese: i riti d’adozione che sono indispensabili per convincere l’anima del morto a raggiungere definitivamente l’aldilà dove essa assumerà le sue funzioni di spirito protettore, sono generalmente accompagnati da gare sportive, giochi di abilità o di fortuna tra campi costituiti secondo una divisione ad hoc in due metà […]; il gioco contrappone i vivi e i morti, come se, prima di sbarazzarsene definitivamente i vivi offrissero al defunto la consolazione di un’ultima partita12.

Quello di Van Sant, che è chiaramente un gioco di abilità, è anche un ultimo scontro, dal momento che di fronte a un’icona del cinema classico opera un duplice rito d’adozione e di passaggio: prendendo in prestito una forma che non gli appartiene, se ne appropria pienamente per sancirne la fine, ma attraverso questa morte cerca l’origine di una nuova vita. AI BORDI DELL’OPERA

Sono sostanzialmente due i modi con cui Van Sant opera in Psycho: la totale aderenza all’originale, che crea una straniante sensazione di vintage cinematografico, soprattutto a livello di ritmica interna del montaggio, e la ricerca di continui slittamenti differenziali tra i singoli piani dei due film. Van Sant opera contemporaneamente in entrambi i modi, con un atteggiamento che è, al tempo stesso, d’adozione e di superamento. In questo senso, l’apertura del film dopo i titoli di testa (ricalcati su quelli di Saul Bass con l’aggiunta del colore) è già di per sé una dichiarazione d’intenti, un esempio di come la tecnologia possa aiutare la nuova versione di Psycho a sovrapporsi a quella vecchia e al tempo stesso superarla: il celebre passaggio dal campo lungo su Phoenix al primo piano di Marion e Sam in una camera d’albergo è infatti realizzato con un’unica ripresa, come avrebbe voluto lo stesso Hitchcock, il quale, però, fu costretto per ragioni economiche a ricorrere a una combinazione di panoramica, dissolvenze incrociate e raccordi sull’asse per dare l’impressione del movimento unico13. Nel 1998, dunque, per Van Sant è possibile realizzare quello che quarant’anni prima era stato impossibile; eppure, nella fluidità del movimento che apre il suo Psycho c’è qualcosa in più di una semplice evoluzione tecnica: c’è, soprattutto, il superamento della meccanicità del procedimento classico, il rifiuto della falsa continuità creata dal montaggio attraverso la successione di singole inquadrature che suggeriscono l’idea del movimento. Van Sant, perciò, non si nasconde dietro il suo modello, ma vi si sostituisce in modo invisibile, sottile, nelle pieghe di un lavoro di riproduzione (quasi) letterale. È chiaro che in un processo già di per sé abbacinante e spiazzante, che porta la nuova forma a mimetizzarsi sotto le spoglie di quella vecchia, gli scarti operati da Van Sant sono attimi, particolari incongrui di un procedimento che ha il pieno controllo della propria materia. Proprio per questa ragione, però, non sono frutto di scelte casuali, bensì di una precisa volontà “autoriale”: se infatti da un lato il mandato è quello di riprodurre Psycho inquadratura per inquadratura, tanto da ricorrere anche a espedienti datati come il trasparente (nella soggettiva con cui Marion vede il suo capo attraversarle la strada mentre sta lasciando Phoenix), dall’altro i piccoli ma significativi cambiamenti nella costruzione delle sequenze racchiudono il valore dell’operazione artistica. Tali procedimenti, naturalmente, risultano solo da un accurato confronto tra i due film, ma Van Sant fa in modo di differire il corpo riflesso del suo film in particolari momenti della trama, passaggi privilegiati che lo spettatore attende e con cui sa di doversi confrontare: l’inizio, come detto, la fuga di Marion, il dialogo tra la donna e Norman, la scena della doccia, chiaramente, e poi ancora l’uccisione del detective Arbogast. In tutti questi casi Van Sant interviene sul corpo del suo film svincolandolo anche solo per un’inquadratura dalla prigione in cui l’ha recluso. Il cinema di Hitchcock diventa così un totem da superare, la madre impagliata che sta alla finestra, un passaggio obbligato che la nuova versione cerca di scrollarsi di dosso: in questo senso, quindi, Psycho di Van Sant è esso stesso, come il suo protagonista, schizofrenico, perché riporta in vita l’originale, ma al tempo stesso lo sfregia, lo accoltella, lo uccide. Il procedimento è all’apparenza invisibile, perché inserito in una catena di inquadrature perfettamente aderenti all’originale: salvo qualche piccolo adattamento allo spirito dei tempi, soprattutto nella fisicità degli interpreti, dall’aria più sbarazzina di Anne Heche (Marion) rispetto a Janet Leigh, alla prestanza di Viggo Mortensen (Sam) contro la compostezza di John Gavin, fino alla goffa corpulenza di Vince Vaughn (Norman) a confronto con la figura allampanata di Anthony Perkins, due modi opposti di incarnare il

disadattamento fisico e mentale del personaggio, il film (ri)costruisce la sua trama già scritta con precisione implacabile. Le differenze a livello di sceneggiatura, con alcune battute di dialogo aggiunte o alcuni particolari modificati (soprattutto nei costumi, adattati agli anni novanta, e nelle scenografie, che non sono quelle originali), sono infatti trascurabili o, come scrive Alberto Morsiani, «rispecchiano, per lo più, un semplice aggiornamento ai nuovi tempi»14. I veri cambiamenti riguardano la dinamica stessa del linguaggio cinematografico, interventi del (nuovo) regista sullo scorrimento della catena invisibile costruita pezzo su pezzo dal découpage. Fedele alla sceneggiatura originale nello stesso modo con cui Hitchcock era preciso nel rispettare gli storyboard (e dunque, per estensione, lo Psycho hitchcockiano funzionerebbe da storyboard per quello nuovo), Van Sant realizza un lavoro che è soprattutto compilativo, infila inquadrature una di seguito all’altra per costruire, più che raccontare, una trama. Lo scorrere del suo Psycho è “muto”, oggettivo, poiché il film esiste già come prodotto finito e pure come residuo nella memoria degli spettatori, e il compito del regista è quello di accompagnare il racconto al compimento del suo cammino inesorabile. Van Sant, così, sottolinea non solo la passività dello sguardo spettatoriale (pratica peraltro comune allo stesso Hitchcock, che inchiodava il pubblico ai suoi piaceri voyeuristici e alla sua impotenza), ma pure quella inedita, paradossale del regista, il cui occhio è guidato da una struttura coercitiva che impone il modello come forma a priori da rispettare. Lo spazio di manovra per Van Sant è perciò esiguo, costretto e condizionato, ma proprio per questo motivo la sua azione rimanda ancora ai movimenti artistici degli anni sessanta, il periodo cioè contemporaneo a Psycho, e in particolare al lavoro dell’espressionista astratto Morris Louis, il quale nella serie Alpha-Phi (1960-61) operava lungo la cornice dei suoi dipinti esaltando strisce di colore industriale ai lati di un corpo centrale lasciato significativamente bianco. Van Sant ripete idealmente, e magari inconsciamente, tale procedura, lavorando anch’egli “ai bordi” di un’opera che in superficie, nella trama nota che costruisce e nella struttura esistente che ripresenta, si offre come un corpo inerme, piatto, “bianco”. La conquista di un colore netto come quello della cultura pop anni cinquanta e sessanta, inoltre, lungi dall’infondere realismo alla rappresentazione, genera uno straniante iperrealismo che rende i personaggi simili a sculture di Dwane Hanson (altro artista contemporaneo a Hitchcock), copie perfette di esseri umani, ma immobilizzate in uno spazio vuoto e in un tempo eternamente presente. Psycho, allora, è inerme non perché defunto, ma perché bloccato come icona. O meglio, ricollegandosi al tema guida del film di Hitchcock, perché svuotato di vita da un’operazione di tassidermia cinematografica. SUPERFICI RIFLETTENTI

Van Sant lavora attorno alla superficie del suo film in modo nascosto eppure significativo, come si vede nella sequenza in cui Marion viene svegliata dal poliziotto mentre sta dormendo in macchina, dopo una lunga notte di viaggio. A un confronto superficiale con l’analoga sequenza del primo Psycho, nulla sembra cambiare: né la dissolvenza dal nero su un campo lungo della vettura parcheggiata ai bordi della strada, né il palo della luce al centro del quadro o l’arbusto in primo piano sulla sinistra [figg. 1-2]. Ma a un secondo sguardo si notano differenze che minano dall’interno l’idea

della riproduzione conforme e portano il film a somigliare piuttosto a una rielaborazione concettuale, ideale di Psycho: come se Van Sant avesse ripassato nella memoria il film di Hitchcock, in quanto patrimonio immaginifico comune, e l’avesse poi rigirato a occhi chiusi. Il suo lavoro si concentra sulla superficie delle immagini e si sovrappone al lavoro, sempre rispettato, di produzione del film di partenza: se infatti la sequenza procede nello stesso modo tra copia e originale, con il prosieguo dell’inquadratura che vede l’ingresso da destra a sinistra dell’auto della polizia e il suo posizionarsi dietro la vettura di Marion e un successivo campo medio frontale del poliziotto che scende dalla macchina per dirigersi verso quella di Marion, ciò che si nota è una durata prolungata dei piani, la posizione leggermente diversa della macchina da presa (più a sinistra rispetto all’asse originale), qualcosa che sfugge all’indistinto senso di déjà vu presente in tutta la pellicola. Ed è dalla terza inquadratura che le cose cominciano a cambiare: non nella forma, ma, ripetiamo (e questa volta letteralmente), nella superficie, poiché il primo piano della macchina di Marion, prolungato di almeno un secondo, mette soprattutto in risalto la superficie riflettente dei finestrini, contro i quali un istante dopo compare il riflesso del poliziotto: tutto questo in Hitchcock manca, poiché l’inquadratura in questione era un semplice intermezzo necessario a filmare l’avvicinamento dell’uomo verso la portiera della macchina. Van Sant, quindi, non usa il montaggio classico solo per scopi narrativi, ma anche concettuali, lavora cioè su un doppio livello, ritagliandosi uno spazio che sta oltre la riproduzione di Psycho e fa parte di una sua rilettura e rielaborazione. Ed è quindi naturale che una superficie riflettente diventi l’elemento chiave della sequenza, con la successiva serie di inquadrature che mostra, sì, come nell’originale, Marion distesa nella macchina e il poliziotto che bussa ai vetri, ma perde un’inquadratura perché unisce campo e controcampo in un unico piano, passando dalla mano che batte sui vetri al volto di Marion. La correzione da destra a sinistra con cui Marion viene inserita al centro del quadro c’è anche in Hitchcock, ma quello che ora viene aggiunto è il riflesso del poliziotto sul finestrino ancora alzato della macchina [fig. 3]: così, quello che nel film originale è un primissimo piano frontale del poliziotto [fig. 4], e che nella copia arriverà subito dopo, con tutto il senso di oppressione e paura che deriva dall’inattesa soggettiva di Marion, qui è ritardato per un attimo e sostituito da un riflesso che ricerca ancora il senso di continuità spaziale ed evidenzia la meccanicità del procedimento classico. Se è solo per realizzare un film-specchio che Van Sant accetta di girare il remake di Psycho, lo specchio e le superfici riflettenti che continuamente raddoppiano le scene costituiscono allora la cifra della sua operazione. Ciò che però più gli interessa, una volta sancita la predominanza del lavoro compilativo su quello creativo, è marcare i tentativi di svincolarsi dalla gabbia della riproduzione perfetta e portare il suo film in territori che gli sono propri. Per questo è pronto a disfarsi dell’idea di specularità, in quei momenti in cui essa è presente nella prima versione di Psycho come tipica elaborazione hitchcockiana della figura del doppio. Soprattutto nella sequenza del dialogo tra Marion e Norman nel salottino del Bates Motel, costruita sullo scontro geometrico tra Marion e Norman (con la donna inquadrata frontalmente in mezza figura e l’uomo ripreso anch’egli in mezza figura, con inclinazione dal basso e asse della macchina da presa obliquo), Van Sant abbandona la rigidità del doppio confronto per schierarsi apertamente dalla parte del protagonista maschile. Lo fa ancora con un movimento di macchina, uno strappo secco che, a metà sequenza, spezza la monotonia

del campo e controcampo e introduce uno scarto che anche in questo caso manca nell’originale. E se già la precedente successione di inquadrature era meno rigida rispetto a quella di Hitchcock, soprattutto per le inquadrature di Marion [figg. 5-6], più oblique e meno geometriche nell’uso del materiale profilmico (che alle spalle della donna si raggruppa in forme circolari e in incroci perpendicolari di linee verticali e orizzontali), il movimento da sinistra a destra che sembra avvolgere Norman svincola completamente la copia dall’originale: come in precedenza, a sopperire alla mancanza di un’inquadratura (il primo piano di Marion che inizia la battuta destinata a finire sul controcampo di Norman), è non più una mezza figura, ma un primo piano con inclinazione ancora più accentuata [fig. 7]. La battuta in questione è: «Sa, se qualcuno mi parlasse mai in quel modo… nel modo in cui le ha parlato…» e in entrambi i casi accompagna il cambio di ritmo della sequenza in concomitanza con l’ingresso della madre di Norman nel discorso (dunque della patologia dell’uomo): ma quello che in Hitchcock è nascosto, gettato sulla scena come stacco improvviso che opera un raccordo sull’asse, Van Sant lo mostra nel suo farsi avvicinandosi a Norman con un movimento di macchina. Non altera il dialogo, ma “perfora” la superficie del film divincolandosi dalla costrizione del campo e controcampo per raggiungere finalmente il primo piano decentrato di Norman [fig. 8]. In questo modo riesce nuovamente a imporre il proprio sguardo: l’inquadratura riprende gli stessi elementi dell’originale, come i quadri alle pareti e soprattutto gli uccelli impagliati con le ali dispiegate, ma li sfuma in un anonimo fuori fuoco e li solleva dal ruolo di profilmico simbolico. L’intento, infatti, non è costruire la patologia del personaggio attraverso la costruzione precisa, ragionata, assoluta di ogni inquadratura – come fa Hitchcock con una concezione del racconto cinematografico in quanto universo pieno, «senza buchi», come ha scritto Truffaut15 – ma isolare Norman come essere umano e farlo emergere oltre la tessitura del testo. Nello sguardo di Vince Vaughn si intravede un’ombra di infantilismo e ritrosia che rende il personaggio ancora più fragile rispetto all’originale; la sua patologia emerge attraverso il suo corpo e i suoi occhi e Van Sant non vuole lasciarsela sfuggire. Ed è qui, in questa improvvisa rivitalizzazione del protagonista di Psycho che Van Sant riesce a infondere vita al suo film e a trasformarlo in un’opera tutta sua. La sua “rinascita” passa attraverso la riscoperta di una dimensione psicologica anche in una struttura vuota come quella che ha scelto: se nel primo Psycho ciò che conta è l’effetto complessivo della sequenza del dialogo tra Norman e Marion, lo scontro cartesiano tra le inquadrature, ora il vero centro è l’intimità dell’uomo, l’incombere sul cinema classico di una dimensione invisibile e irrappresentabile. Come succede al melodramma hollywoodiano negli stessi anni in cui viene girato Psycho, il legame tra motivazioni psicologiche e logica narrativa si allenta sempre di più16 e in questo caso lascia Norman solo sulla scena, abbandonato da una forma filmica non più al servizio delle sue pulsioni ma rivolta contro di lui, con il fuori fuoco del materiale profilmico alle sue spalle che lo separa da quello stesso mondo che nella precedente versione partecipava ancora della sua follia. È in questo modo che l’operazione concettuale di Van Sant acquisisce valore anche da un punto di vista diacronico, poiché mette in scena l’evoluzione del cinema hollywoodiano dal classicismo ancora presente negli anni quaranta e cinquanta alle forme più moderne dei decenni successivi, influenzate dalle correnti dell’arte contemporanea. E se egli può permettersi di filmare le propria sofferta palingenesi

artistica realizzando il passaggio da un modello stilistico all’altro – cioè dal proprio cinema commerciale alla propria, ritrovata indipendenza creativa – lo deve a Psycho, quello di Hitchcock, film cronologicamente e stilisticamente a cavallo tra classicismo e modernità. IL CORPO VUOTO

In una struttura compatta, apparentemente inerme e costretta, Van Sant trova nel corpo del suo protagonista uno spiraglio di libertà, un individuo autentico che prende vita da un corpo vuoto come un animale impagliato. Attraverso lo sfogo di una clamorosa masturbazione, che esplicita e dunque svuota di senso la pulsione segreta di tutto il cinema di Hitchcock, l’impotenza dell’occhio che guarda ma non possiede, Van Sant sorpassa il modello che si è imposto di rispettare, arrivando addirittura a rendere innocua la scena dell’omicidio di Marion: perché se Hitchcock trovava nell’omicidio il fine ultimo della pulsione sessuale racchiusa nello sguardo di Norman, la masturbazione è ciò che esplicita il desiderio sia sessuale sia necrofilo dell’uomo, affermando quello che la scena della doccia non può far altro che ripetere. Il momento più atteso e celebrato di Psycho diventa così per Van Sant una sfida senza motivazioni, un passaggio obbligato che egli fa in modo di rendere inoffensivo: il movimento rallentato del corpo di Marion, che si volta verso il fuori campo quando sente la tenda aprirsi alle sue spalle, ha l’effetto di ritardare per qualche decimo di secondo l’inizio dell’orrore, è un’esitazione, una pausa non richiesta, con cui lo stesso Van Sant sembra invitare lo spettatore a godere del momento che stava aspettando più di ogni altro. E non è un caso, poi, che proprio qui avvenga il maggiore tradimento di Van Sant rispetto a Hitchcock: l’inserto di due brevissimi frammenti di nuvole in movimento [fig. 9], compresi tra i primi piani di Norman coperto dal getto della doccia e di Marion agonizzante, assolutamente privi di motivazioni narrative, e dunque impossibili nel cinema classico, “graffiano” il film come cifra stilistica del regista. Sono nuvole in transito, simili a quelle del finale di My Own Private Idaho (Belli e dannati, 1991), che condensano il legame tra l’universo creativo dell’autore e la sua terra d’origine, l’orizzonte infinito di un’America rurale e mitologica che in Psycho, tramite lo sguardo di Marion, emerge come residuo della mente, come frammento di un mondo passato che si presenta prima di morire. Il collegamento con la filmografia di Van Sant è evidente, e ancor di più la ricerca da parte del regista di un confronto con la morte. L’uccisione di Arbogast, più avanti nel corso del film, ripropone l’improvvisa epifania di una dimensione altra che scorre sotto le immagini di Psycho: ancora attraverso il tramite di uno sguardo colto in primo piano nell’attimo prima di morire, appaiono sullo schermo frammenti subliminali non richiesti, non necessari (una donna mascherata distesa su un fianco [fig. 10] e il camera car di una strada con al centro un mucca), che fanno riemergere l’impronta stilistica underground dell’autore, l’incoerenza di un montaggio connotativo e lo slabbramento visivo del 16 mm rispetto al controllo formale del 35 mm e la nitidezza dei colori pop. Quello che Van Sant evidenzia è dunque la doppia superficie del suo film, la natura contraddittoria di un prodotto che spinge in direzioni opposte mentre segue inesorabile il suo cammino verso la fine nota. Il corpo lucido e impenetrabile di Psycho è in realtà attraversato da un sottotesto, anzi da un contro-testo, che appare come svista, incoerenza, presenza aliena. La risultante dei due movimenti è un’immobilità che viene

a tratti vitalizzata, un corpo mummificato, lucido come un oggetto riprodotto tecnicamente, squarciato da improvvisi strappi di vitalità. Dopo gli inserimenti improvvisi nelle due scene di morte, il film di Van Sant non riesce più a trovare il passo in sintonia con l’opera di cui è il rifacimento. O meglio, lo mantiene ma non può più contare sulla propria capacità di tenuta. Lo spazio bianco che compare nell’ultima scena, quando Norman è lasciato solo nella cella di sicurezza, è così la risultante delle forze contrastanti che lo hanno attraversato. Ed è anche l’ultimo momento, quello decisivo, in cui Van Sant strappa dalle mani di Hitchcock il suo film. Rispetto all’originale, in cui un carrello in avanti segue un poliziotto entrare nella cella ma si ferma sulla mezza figura della guardia che apre la porta, Van Sant non salta più, come in precedenza, un’inquadratura, ma la sostituisce con un’altra: al posto, infatti, della figura intera di Norman seduto in fondo alla cella, anticipato dalle parole della madre sull’inquadratura precedente, compare una soggettiva all’interno della cella bianca in cui una guardia gli offre una coperta [fig. 11]. Si tratta di un clamoroso scavalcamento di campo, la soggettiva di un personaggio dissociato che immette il film direttamente nello spazio del suo annullamento. Come nel corpo di Norman convivono due persone, allo stesso modo nel corpo visibile del film ne sono compressi altri due: e il salto di prospettiva operato da Van Sant nel finale non fa che sottolineare quale dei due abbia la meglio. Il bianco della cella, così, è già il bianco di un altro mondo che verrà da lì a poco: il film finisce perché un altro possa cominciare.

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Elephant di Luisella Farinotti

«Un cinema che in realtà non “parla”, che rifiuta di parlare “di” qualche cosa, perché si preoccupa e si accontenta di essere un lavoro di immagini». JACQUES AUMONT

«What are you doing? / I am just taking pictures». ELEPHANT

UNA CERTA TENDENZA DEL CINEMA CONTEMPORANEO

Indicato nel 2010 dai «Cahiers du cinéma» come uno dei migliori film del Duemila1, secondo solo a Mulholland Drive (2001) di Lynch con cui condivide la libertà e l’audacia compositiva, Elephant (2003) è certo un film chiave2: traccia non solo e non tanto del rinnovato interesse di Gus Van Sant per la ricerca formale, quanto di un impulso che contraddistingue una certa produzione contemporanea a spingersi oltre il cinema, nei territori della sperimentazione artistica, liberi dalla necessità di raccontare una storia, alla ricerca di immagini che siano ancora in grado di mostrare il mondo e, insieme, di una scrittura capace di diventare supplemento del reale. Film dai deboli vincoli narrativi, che privilegia il mostrare al raccontare, che produce un incontro con il reale nella sua dimensione incontrollabile e enigmatica, per quanto ordinaria ed evidente, Elephant è per molti versi un’opera concettuale: verifica di un’idea di cinema profondamente compromesso nel reale prima ancora che sguardo su un mondo indefinito, come l’adolescenza, e su un evento incomprensibile, come una strage compiuta in modo gratuito da due ragazzi contro i propri compagni; cinema della pura visione, che torna alla qualità sensibile e corporea dell’immagine, in cui anche la scrittura si rende sensibile, evidente: occhio nel reale, materia, non solo costruzione di ordine e senso. L’attenzione al puro accadere, agli avvenimenti mostrati nella loro evidenza elementare eppure stupefacente, senza alcun interesse a ordinarli in una successione lineare o a ricondurli a una causa definita e coerente, si accompagna a uno straordinario lavoro di disarticolazione dello spazio e del tempo filmico, a un’architettura formale organizzata attorno a ritorni e ripetizioni, senza movimento ascendente e risoluzioni, a costruire un complesso labirinto spazio-temporale in cui prende corpo la sostanza sfuggente e molteplice del mondo. Lo stesso eccidio finale – vera e propria catastrofe del senso – non rischiara le azioni precedenti, né ne è il risultato: non c’è progressione drammatica e l’attesa di qualcosa che sappiamo “già dato” è continuamente differita, in un gioco di sospensioni e di spostamenti nel tempo, in un va e vieni apparentemente senza direzione che ci restituisce il girare a vuoto della nostra mente, persa nel tentativo di venire a capo dell’orrore. Proprio questa evidenza sconcertante, che unisce realismo e astrazione formale, rende Elephant un film sintomatico, segnato da una sorta di “virtù contemporanea”, un film capace di intercettare tensioni e domande che travalicano l’ambito cinematografico per allargarsi al visivo, all’immagine in senso più ampio come possibile luogo di manifestazione del mondo, rivelazione ed esperienza. Elephant sembra offrire, come sostiene Dubois, «une mise en forme filmique de questions d’art contemporain»3. È

come se nella forza e nelle modalità di rottura del film – il privilegio per la contemplazione, l’apertura verso il reale, l’esplorazione del tempo, la frammentazione percettiva, la decostruzione della continuità narrativa – si riflettesse una tensione al rinnovamento dello sguardo sulle cose che anima il cinema contemporaneo di ricerca, non solo sperimentale, e che lo muove a ridosso del territorio delle arti visive. “Film exposé”, la cui forza di rinnovamento investe l’intera esperienza della visione, spingendosi non solo oltre l’ordine narrativo e gli schemi della rappresentazione filmica, ma oltre i bordi del quadro, lo spazio della sala, la cornice dello schermo, verso un’esperienza di carattere espositivo molto vicina alle installazioni d’arte contemporanea, in cui sono soprattutto le condizioni della spettatorialità a venire reinventate, Elephant sembra indicare un nuovo regime estetico, fondato sulla permeabilità delle forme, sulla molteplicità dei principi compositivi e delle esperienze di visione. Non si tratta tanto di un’operazione di sincretismo, quanto di indifferenza ai codici di rappresentazione e alle distinzioni tra le arti. Non è un caso che il progetto del film coinvolga, in prima battuta, un artista come Harmony Korine, da sempre impegnato in lavori in cui arti performative, video e cinema si contaminano, e che tra i riferimenti dichiarati da Van Sant ci siano registi di chiara impronta modernista come Béla Tarr, la Akerman, Sokurov o Kiarostami, il cui cinema è caratterizzato da gesti radicali di recupero del tempo e del reale. Ero rimasto scioccato nel vedere le sette ore di Satantango di Béla Tarr e Jeanne Dielman di Chantal Akerman. Entrambi i film raccontavano storie e personaggi estremamente ordinari con uno stile rigoroso, ricorrendo a lunghi piani sequenza. Ciò che mi aveva impressionato era come i personaggi interagissero tra di loro e come, attraverso l’uso di lunghi piani i registi riuscissero a trasmettere il passare del tempo. Ho tentato di recuperare questa tecnica, con piani sequenza meno statici, ma con le stesse finalità. […] Per me è stato straordinario verificare […] come confrontandosi con il nulla, almeno ciò che noi non consideriamo più perché appartiene alla nostra routine quotidiana, si potesse raccontare tutto, restituire una propria visione del mondo4. Il film [ Satantango] realizzava quelle cose che avevano a che fare con i tempi della storia, con il tempo che ci si può mettere a descrivere certe azioni che sono semplici ma più le guardi e più crescono nella loro illuminazione. Mi ispirò moltissimo5.

Si tratta, in modo chiarissimo, del ritorno a un’idea di cinema come intensificazione del reale, un cinema che si pone di fronte alla realtà come se fosse la “prima volta”, accettando l’asignificanza del mondo e, insieme, in attesa di un’esperienza di rivelazione; un cinema che si lascia impressionare sensibilmente da ogni cosa, aperto al disordine e all’irresolutezza della vita, alla ricerca non di un “senso”, ma delle “segrete figure dell’esistente”, convinto che «l’immagine conta prima di tutto non per ciò che essa aggiunge alla realtà, ma per ciò che ne rivela»6. Ritrovare il rapporto dello sguardo con il mondo significa innanzitutto trovare una posizione da cui tornare a guardare quello che ci circonda e di cui lo stesso sguardo è parte. A influenzare la scrittura di Elephant è proprio questa consapevolezza che il visibile è una dimensione del reale tra le altre, che partecipa alla costituzione del reale, non solo producendo senso («la visione non è una modalità del pensiero»7, come ci ricorda Merleau-Ponty), ma sensibilità. L’esserci del cinema nel reale è innanzitutto esperienza di un “pensiero sensoriale” cui la materia si presenta già come immagine, in una circolarità di sguardi tra l’uomo e le cose, tra dato e senso, tra cosa vista e atto di vedere che definisce la specularità profonda della visione. Questo cinema che solleva interrogativi sulla possibilità di vedere il mondo e di consegnarlo alla scrittura influenza moltissimo il regista di Portland che arriva a

riprenderne fedelmente figure e soluzioni visive, al limite del plagio o dell’imitazione dichiarata: dal privilegio del piano sequenza al gioco di anacronie, di ripetizioni e di variazioni del punto di vista; dalla sceneggiatura aperta all’improvvisazione – una sorta di work in progress ridefinito dagli apporti dei protagonisti – al ricorso ad attori non professionisti. La dimensione realistica che interessa a Van Sant è la verità dei corpi e dei movimenti catturata dalle immagini, è la qualità sensibile e fisica del visivo e non va confusa con la realtà della storia. Siamo di fronte a un’idea di cinema come scrittura della vita, non come documento. Il film, come noto, prende spunto da una vicenda reale, oggetto di un altro lavoro, diversissimo per concezione e per forma, Bowling for Columbine (2002) di Michael Moore, di grande peso nel dibattito su un fatto di sangue che aveva scosso l’opinione pubblica americana: il massacro compiuto da due ragazzi il 20 aprile del 1999 alla Columbine High School di Littelton, in Colorado. In Elephant la cronaca rimane sullo sfondo, spogliata da ogni elemento romanzesco, privata di riferimenti a un preciso contesto, a una collocazione geografica o a un’identità culturale8. La delocalizzazione della violenza, spostata in uno spazio anonimo e per ciò stesso esemplare – una High School simile a molte altre, in un vuoto di riconoscibilità sociale –, così come la genericità del tempo in cui avviene la strage – un giorno qualunque cadenzato da atti quotidiani insignificanti – sono chiari indizi della volontà del regista di consegnare l’evento al nulla in cui si radica e di sottrarsi a spiegazioni di stampo sociologico o psicologico, dominanti, invece, nella ricostruzione mediale dell’avvenimento. La stessa indeterminatezza segna i personaggi, puri “corpi in movimento”, semplici presenze sensibili e percettive, non qualificate da un carattere o da un’identità psicologica; vittime e carnefici condividono, almeno fino alla strage, un’identica condizione e ci appaiono come un unico volto simbiotico, un insieme anonimo di adolescenti, in tutto simili a tanti altri. Questa indifferenza dei segni acuisce, se possibile, il senso tragico della fine: nella loro assurdità, nell’assenza di una causa evidente, quelle morti gratuite ci appaiono letteralmente inconcepibili e, per questo, ancor più ingiuste e crudeli. Del resto è proprio la banalità del male, la sua qualità comune e ordinaria, pur nell’eccezionalità dell’orrore prodotto, a definire il tono tragico della vicenda: la violenza non può essere risolta o emendata invocando patologie o disturbi sociali, anche solo un principio che la governi, è una possibilità sempre in agguato, come un non senso generale, di cui l’eccidio è la dichiarazione esplosiva. Van Sant opera una spoliazione dei segni, una de-drammatizzazione della storia e delle immagini scegliendo un oggetto tragico e, insieme, consumato dalla retorica mediatica del dolore. È come se l’alleggerimento della scrittura trovasse proprio in questa “scena eccessiva” l’occasione per una messa alla prova, sia in termini estetici sia in termini etici: necessità di mostrare l’inesprimibile dando corpo non all’emozione ma all’evento, negandosi allo spettacolo mediatico di ostensione della morte. Come evidenzia Bellour, il film oppone alla «circolarità isterica della macchina pubblica», alla sua bulimia di immagini sensazionali, una «circolarità silenziosa»9, una strategia discorsiva organizzata su ripiegamenti e riprese, su risonanze e varianti, come un “tornare sui propri passi” che rilancia la questione invece di risolverla. La scelta di rivelare il reale indicandolo nella forma dell’enigma e del molteplice, impossibile da decifrare o da bloccare in una dimensione, è, del resto, dichiarata fin dal titolo, ripreso dall’omonimo film del 1989 di Alan Clarke sul gruppo terroristico dell’ira

irlandese, in cui assistiamo a una serie di omicidi anonimi ripresi sempre secondo lo stesso schema formale. Il titolo di Clarke si ispira a un motto sarcastico: «elephant in the living room», a dire dell’impossibilità di ignorare un problema evidente come “un elefante in salotto”. Van Sant cita invece una parabola buddhista – cui credeva si riferisse lo stesso Clarke – quella dei ciechi cui un sovrano chiede di descrivere un elefante, che fa passare davanti a loro. Ogni cieco riesce a toccare solo una parte dell’animale, ricavandone un’impressione inevitabilmente limitata, del tutto determinata da ciò con cui è venuto in contatto. Così, per uno l’elefante è simile a un serpente, per un altro a un albero, per un altro ancora a un vaso o a un pilastro ecc. Di fronte a situazioni complesse come quella rappresentata nel film siamo come i ciechi della parabola: impossibilitati a comprendere la totalità della questione, ne possiamo cogliere solo alcuni frammenti. Bisogna partire da qui: dall’assenza di ogni pretesa di spiegazione e, insieme, dall’evidenza di un evento; dall’opacità delle cause, ma anche dalla banalità del mondo che le ha prodotte. L’incontro con il reale si configura allora come lo scontro con l’inesplicabilità del mondo e con il suo sostanziale nonsenso. FOTOGENIA

In un cielo azzurro topazio, attraversato da striature velate che ne increspano la superficie come fosse una distesa marina, è immerso un palo della luce, il cui fusto taglia verticalmente l’inquadratura. Il palo, inquadrato dal basso, è decentrato e leggermente sghembo, quasi a sporcare con l’inclinazione la bellezza dell’immagine. Se non fosse per il rapido passaggio delle nuvole che solcano il cielo, si potrebbe pensare si tratti di un fermo immagine. In realtà siamo di fronte a “un’immagine animata” o a una “veduta mobile”: un’inquadratura fissa che ritaglia un’ampia porzione di spazio al cui interno si muovono degli elementi atmosferici tanto evidenti quanto impalpabili, il cui moto è sottolineato per contrasto dall’immobilità del palo [fig. 1]. Al flusso rapidissimo delle nuvole nel cielo si accompagna il passaggio dal giorno alla notte, con la veloce scomparsa della luce, fino al buio totale rotto solo dalla piccola luce artificiale del lampione. Elephant si apre con questa inquadratura che ci restituisce la seduzione elementare del movimento delle forme: immagine di un movimento, rappresentazione che torna all’origine del mostrare cinematografico come atto contemplativo del dinamismo del reale. La tra ma agitata delle nuvole in cielo – un movimento ordinario eppure di straordinaria resa fotografica – ci riconduce ai primordi del cinema: è un’immagine qualunque, ma che si costituisce, proprio in forza della sua mancanza di significatività, come un appello allo sguardo e al vedere. Insieme, è un’immagine densa, “fotogenica” nella capacità di violare l’apparenza per rivelarci la sostanza nervosa del reale, il dinamismo incessante delle cose e del mondo. L’accelerazione del movimento delle nuvole, la contrazione del tempo naturale in quel passaggio dal crepuscolo al buio della notte in pochi secondi, tradisce la natura sostanzialmente realistica della ripresa, così come la presenza di un sonoro – composto di voci e rumori chiaramente riconducibili a una partita o a un allenamento sportivo – che si prolunga anche nel pieno della notte, in una continuità impossibile nella realtà. Sono presenti contemporaneamente due diverse modalità di scorrimento del tempo, opposte all’arco temporale rappresentato: una, contratta e velocizzata per il piano visivo (che ci restituisce in poco più di un minuto un lasso temporale di ore), e una distesa e

“naturale” consegnata al piano sonoro. I frammenti di dialogo che provengono dal fuori campo e che si dispongono lungo l’intera scena – i richiami tra le voci, le risate e l’ansimare, gli incitamenti all’attacco – si riferiscono a un evento di breve durata, certo lontanissimo dall’arco temporale rappresentato (nessuna partita può durare tante ore, né proseguire nel pieno dell’oscurità). Siamo quindi in presenza di una rottura sia della continuità sia della plausibilità della costruzione spazio-temporale, con alcune precise distorsioni percettive, tanto più evidenti in un regime di rappresentazione di tipo realistico: la prima riguarda il rapporto tra visivo e sonoro, che si situano in tempi non coincidenti, consegnandoci la prima anacronia di un film tutto costruito su sfasature spazio-temporali; la seconda riguarda il rapporto tra spazio e tempo dell’immagine, in una ricercata coesistenza di immobilità e accelerazione. Il senso di disgiunzione tra visivo e sonoro è rafforzato dalla sostanziale estraneità dei suoni all’immagine: il sonoro proviene da un altrove che tendiamo a collocare nei pressi dello spazio rappresentato, nell’immediato fuori campo, ma l’inquadratura successiva non ci chiarirà se (e come) i due piani siano collegati. Si tratta in realtà dell’anticipazione sonora di una scena posta alla fine della terza sequenza, (a circa 15’ dall’inizio del film), in cui vediamo un gruppo di studenti giocare nel campo di allenamento della scuola mentre, sullo sfondo, alcune ragazze fanno ginnastica; l’ambiente sonoro è lo stesso del prologo, anche se qui si aggiunge gradualmente in sottofondo una musica: la sonata per pianoforte Al chiaro di luna di Beethoven. È questo il primo di una serie di differimenti che punteggiano l’intero film e che, come vedremo, ne costituiscono la struttura di replica modulare. La scena costruisce un’ulteriore congiunzione con l’inquadratura iniziale: impegnata nella lezione di ginnastica, Michelle entra in campo dalla sinistra, collocandosi sul fronte dell’inquadratura, mentre alle sue spalle gli studenti visti poco prima continuano a giocare; la ragazza, inquadrata in mezza figura frontale, si ferma un istante, come a seguire un richiamo, il capo reclinato all’indietro, lo sguardo puntato verso l’alto, a guardare il cielo, mentre un ralenti ne sospende e sottolinea l’azione [fig. 2]. Si badi, è un’alterazione del tempo di segno esattamente opposto rispetto al movimento accelerato delle nuvole nella prima inquadratura. Si tratta di un campo/controcampo a distanza, come in un sistema di richiami interni al testo che definisce una traiettoria ulteriore rispetto allo scorrimento lineare del film e, insieme, una variazione del punto di vista sulla scena. Elephant, come vedremo, si struttura sulla moltiplicazione dei punti di vista e su questi intrecci a distanza, su una serie di intervalli e di sfasature, in un va e vieni nel tempo e nello spazio disorientante. L’immagine del prologo non è un establishing shot – l’inquadratura è illeggibile ai fini della storia che sta per essere mostrata, è un’immagine “anonima”, pur nella sua qualità metafisica di “spazio vuoto” – ma certo è una scena inaugurale, che ci consegna la relazione tra realtà e immagine e i principi strutturali e sintattici di tutto il film: il privilegio della contemplazione e dell’insignificante; la coesistenza di realismo e artificio formale; il ricorso a distorsioni spazio-temporali e a tecniche di differimento; la dialettica tra evidenza e latenza, tra campo e fuori campo, tra apertura del senso e chiusura geometrica della struttura testuale. Il tempo si annuncia come figura fondamentale nelle dinamiche di costruzione del testo, nelle sue tensioni strutturali. Del resto, il tempo è il problema della “storia” messa in scena: il tempo che resta, quello che non c’è più dato. L’impossibilità di tornare indietro. L’ORDINE DELLA RIPETIZIONE (OVVERO, POTER TORNARE INDIETRO)

L’immagine inaugurale si ripresenta con alcune varianti in altri due momenti, segno di punteggiatura ulteriore in un film costruito su segmenti non continui, che tende a spezzare e a disperdere, più che a legare le parti. Sull’inquadratura fissa di un cielo attraversato da nuvole in fuga, in rapido dissolvimento, si chiude Elephant, immagine di fin troppo chiara valenza simbolica, eppure di una bellezza cui non ci si riesce a sottrarre, in nulla consumata dall’uso e dalle infinite, ripetute visioni. La rima visiva tra apertura e chiusura del testo costruisce una cornice, definisce una soglia di entrata e di uscita, tanto più necessaria in un film privo di risoluzione e chiusure narrative (lo stesso finale interrompe l’azione omicida di Alex, consegnando al fuori campo l’ennesima esecuzione). I titoli di coda scorrono sul movimento sospeso delle nuvole, come di onde in una distesa marina. Dopo le scene drammatiche del massacro si affaccia “l’estasi di un’indifferenza”, come se nessuna turbolenza umana potesse fermare il dinamismo incessante del mondo [fig. 3]. Le immagini sono accompagnate dalle note della sonata Per Elisa di Beethoven, cui si sovrappongono da un certo punto versi di animali, rumori stridenti e metallici, cinguettii. È una materia sonora dissonante, in cui si perdono i confini tra musica e rumore, ma anche i legami immediati tra suono e immagine che la partitura romantica della sonata ancora consentiva, in un accordo di toni e tumulti tra la tempesta in cielo e la struggente malinconia delle note. La stessa immagine di un cielo in tempesta, questa volta solcato da nuvole nere cariche di pioggia, è presente nella scena a casa di Alex, poco oltre la metà del film. Il movimento delle nuvole questa volta è più lento, a marcare il senso di un’attesa, e il sonoro ci restituisce il respiro del vento e del temporale in arrivo, fino al rumore dei tuoni sempre più vicini. C’è una piena sintonia di umori, un accordo di atmosfere tra “cielo e terra”: l’addensarsi delle nuvole è il segnale della tragedia in arrivo [fig. 4]. Il ritorno dell’immagine del cielo consente di costruire una successione ordinata (la notte che anticipa la strage è una delle soglie su cui è possibile riordinare gli eventi del film) ma, soprattutto, ci offre la logica fondamentale di Elephant : la ripetizione è, infatti, una chiave interpretativa e non solo costruttiva dell’opera. Il film è organizzato su diversi schemi di replica modulare: è pieno di rime, di richiami interni, di varianti di un’identica scena, che producono una fitta rete di intrecci nascosti dietro l’evidenza “spezzata” del testo. L’introduzione di discontinuità nel tessuto ordinato delle azioni è la logica evidente di un film del tutto disinteressato all’organizzazione cronologica della storia, ma anche a consegnarci una spiegazione. Elephant si presenta come una somma di frammenti casuali, di segmenti non ultimativi: parti di un insieme che non si offre come un sistema coerente, ma come una rete di possibilità. La complessa orchestrazione di repliche costruisce una sorta di regolarità, oltre che un legame, dentro l’impasto discontinuo del film, in quel suo costante frantumarsi, negandoci una “chiusura risolutiva”, anche solo il compimento di un’azione. Non si tratta tanto della costruzione di un’altra sintassi rispetto a quella esibita, ma di un vero e proprio rilancio di senso, come un “tornare sulla scena” per vedere “di più”, con il rischio di perdersi in un insieme di percezioni dissonanti. Il contrasto tra l’accadere come puro accidente, come labirinto di una serie infinita di traiettorie, e la geometria rigorosa con cui vengono organizzate le ripetizioni, segnala l’urto tra il reale e la sua “messa in forma”, tra fatto e discorso. Si badi, per Van Sant non si tratta di costruire senso là dove non c’è, ma di esplorare l’asignificanza del mondo, di far emergere l’opacità del reale. Così, l’instabilità del film, il suo continuo

gioco di traiettorie interrotte, rivela l’incompiutezza e l’incomprensibilità del mondo, e trova la sua evidenza logica nell’ordine “nascosto” delle ripetizioni, nella dichiarata parzialità di ogni visione. La ripetizione come “ordine del sempre uguale” è invece la logica dell’esistenza contro cui agiscono i due attentatori: l’irruzione improvvisa della violenza rompe la trama prevedibile del quotidiano e introduce un “principio d’ordine” nel disordine casuale dell’accadere. Tutti i percorsi e i movimenti dei personaggi si ricompongono attorno all’azione omicida, unico segmento di simultaneità e progressione lineare del film (non a caso la strage viene orchestrata in ogni dettaglio, con una mappa precisa dei percorsi di “caccia”, di contro alla circolarità senza direzione delle azioni banali che la precedono). Possiamo quindi riordinare Elephant a partire dall’evento finale, individuando tre assi temporali: · i 10’ che precedono la furia omicida (che comprendono quasi tutte le scene interne alla scuola e nel parco antistante)10; · il giorno precedente il massacro (cui si riferiscono tutte le scene con Alex e con Eric estranee alla strage); · i 10’ successivi al primo sparo degli assassini (tutte le scene finali, interne ed esterne all’edificio). Il tempo narrativo non corrisponde evidentemente al tempo della rappresentazione. Il tempo “dell’attesa” copre buona parte del film, definendone l’inquietudine e la tensione latente. E sono proprio le rotture e gli inceppamenti narrativi, ma anche le mille piccole differenze rivelate dalla ripetizione di una scena, a produrre disordine e squilibrio, alimentando lo stato di allerta dello spettatore. Il meccanismo dispersivo del film è evidente già nella macrostruttura del testo. A un primissimo livello, Elephant è diviso in otto segmenti, ognuno introdotto da un cartello con il nome di uno dei personaggi o di un gruppo di personaggi (John; Elias; Nathan e Carrie; Acadia; Eric e Alex; Michelle; Brittany, Jordan e Nicole; Benny). Questa sorta di suddivisione in “capitoli” si dispone lungo l’intero film, spesso inserendosi nel pieno di un’azione, spezzandone la continuità; non funziona quindi come un sistema sintattico di separazione ordinata, non segnala svolte o snodi narrativi, non è una soglia che apre o chiude un blocco narrativo coerente. I cartelli non presentano i protagonisti principali (Acadia appare solo in due scene, Benny è una “visione” durante il massacro); né definiscono l’entrata in scena dei personaggi (Nathan appare nella sequenza che precede il suo cartello; vediamo Michelle almeno 15’ prima che compaia il cartello con il suo nome). Questo sistema di rinvii e di rotture scompagina la successione ordinata degli eventi che proprio i cartelli avrebbero il compito di articolare. Solo l’incrocio tra i personaggi consente di fissare dei punti di sincronia attraverso cui diventa possibile riordinare gli eventi: è letteralmente l’intrecciarsi dei percorsi a chiarire “l’intreccio”. Le variazioni di percorso seguono uno schema preciso di anticipazioni e ritorni, disegnando una complessa architettura temporale che trova nello spazio labirintico della scuola una traduzione sensibile e nei tragitti dei personaggi – le lunghe e fluide camminate nei corridoi – la sua trascrizione dinamica. È soprattutto la meccanica dei corpi in marcia a diventare la misura del tempo e dello spazio: il tempo corrisponde allo spostamento nello spazio, è una direzione, una traiettoria. Il corpo in movimento ci consegna non tanto un punto di vista, quanto una posizione, la stessa, come vedremo, che assume la macchina da presa. LA GIUSTA DISTANZA

La scena del “ritorno” si configura come lo schema di un’ossessione, come un inceppamento della mente che si ostina a riscrivere ciò che appare confuso. Elephant torna più volte sui propri passi, ripercorre gli stessi corridoi variando il tempo di attraversamento, la luce, la messa a fuoco, invertendo le figure e le posizioni, in un processo di riavvolgimento del tempo che non modifica la sostanziale irrilevanza delle azioni (in nessuna delle “varianti” accade qualcosa di risolutivo); ogni passaggio introduce però piccole discrepanze, leggeri spostamenti che destabilizzano la nostra “presa sul mondo”. La ripetizione di una scena è una delle forme di reversibilità del tempo messe in atto nel film, ed è possibile ogni volta che i personaggi si incrociano, determinando uno snodo temporale e una moltiplicazione dei punti di vista. Diversi sono i casi di “immagine in serie”, noi analizzeremo ora uno dei più evidenti, che pone al centro un gesto chiave, una sorta di dichiarazione poetica di “disposizione dello sguardo”. Si tratta della scena della fotografia nel corridoio che, nella cronologia degli eventi, precede di pochi minuti l’entrata degli assassini nella scuola ma che, nell’articolazione del film, si dispone in tre segmenti differenti, distanti nel tempo. Vediamo la prima volta la scena nella sequenza introdotta dal cartello “Acadia”, a poco meno di 20’ dall’inizio. La macchina da presa precede Elias che avanza in piano americano in un corridoio della scuola. Il ragazzo è collocato sulla sinistra dell’inquadratura, mentre alle sue spalle si prolunga il corridoio, il cui fondo appare sfocato. In questa zona confusa della profondità di campo s’intravede una sagoma scura. Elias impugna nella mano sinistra la macchina fotografica con cui lo abbiamo già visto all’opera nella prima parte del film. La macchina da presa lo precede assumendone la velocità di andatura, fino a fermarsi insieme a lui quando, anticipato dalla voce, entra in campo da dietro la macchina da presa, sulla sinistra, John. Lo avevamo lasciato in lacrime, confortato dal bacio di Acadia, in una stanza della scuola. Mentre i due ragazzi si salutano, la macchina da presa arretra leggermente, per poi fermarsi e inquadrarli in figura intera, incorniciati da un’ampia porzione di spazio. Segue un breve dialogo che, per molti versi, riassume l’intenzione del film, la sua volontà di “presa d’atto” di un mondo: «What are you doing? / I am just taking pictures». La risposta, nella sua ovvietà constatativa, è illuminante: dichiara una disposizione dello sguardo che è di Van Sant prima ancora che di Elias. Come il regista, il ragazzo è dentro una realtà che guarda instancabilmente, alla ricerca della “giusta distanza”, di un punto di osservazione che sia anche un punto di svelamento, attento al minuto accadere, all’evidenza elementare delle cose e dei corpi, al respiro naturale del mondo11. Alla richiesta dell’amico, John si mette in posa per una foto: appoggia la mano sinistra al corrimano lungo la parete e con la destra, dopo aver contato fino a tre, si batte sul fianco. Un gesto davvero non memorabile viene fissato dalla camera di Elias che, di lì a breve, in biblioteca, non potrà fare a meno di fotografare il gesto omicida di Alex, un istante prima di esserne vittima. Tra questi due estremi di un atto testimoniale – il momento qualunque nella sua irrilevanza, paradossalmente amplificata dalla posa, e l’irruzione improvvisa di un evento eccezionale, colto “per caso” nell’attimo stesso del suo farsi – si dispone l’immagine e la forza dello sguardo. Tra la posa e la cattura dell’istante, c’è sempre il reale con la sua quota di accidente e di imprevedibilità, di cui anche l’occhio del fotografo è parte, presenza sensibile tra le cose. Lo svelamento del reale è quindi anche svelamento della visione, «oggettivazione della relazione del soggetto con il mondo, il suo essere insieme fenomeno e sguardo»12. Mentre i due ragazzi, collocati agli estremi opposti del quadro, di profilo, sono

impegnati nello scatto, alle spalle di Elias avanza di corsa Michelle, rasente la parete destra del corridoio, per poi uscire velocemente dal quadro passando dietro la macchina da presa [fig. 5]. Era lei l’ombra nella profondità di campo. Il suo passaggio coincide con lo scatto della macchina fotografica e il suono prolungato di una campanella, fissando una simultaneità di presenze che funziona come raccordo temporale nell’intreccio generale del film, ma anche «una sincronizzazione concettuale tra la meccanica della marcia e quella della fotografia»13. Il legame tra visione e movimento rinvia al gesto cinematografico, allo sguardo mobile che fissa il dinamismo del mondo. Ancora una volta Van Sant riflette sull’immagine a partire dal suo “farsi corpo”: ordine sensoriale e percettivo prima ancora che “messa in forma” e “narrazione” del mondo. Dopo lo scatto e un rapido dialogo sul concerto che si terrà la sera, i due ragazzi si salutano, procedendo in direzioni opposte. La macchina da presa, immobile per tutto il tempo dell’incontro, si rimette in marcia seguendo questa volta il percorso di John, mentre Elias esce fuori campo, alle spalle della cinepresa. Ora John è al centro del corridoio e dell’inquadratura, in figura intera di spalle, in una modalità che ricorre ossessivamente nel film [fig. 6]. Non possiamo qui che accennare a una scelta fondamentale di posizione: la ripresa di spalle, il privilegio del retro del volto, non prelude nel film ad alcun svelamento, non ha la funzione di attivare un’attesa e un desiderio (quel “ritardo del volto” come sicura promessa di felicità, tipico del cinema classico), ma si configura come vera e propria rinuncia al volto, alla sua carica espressiva e identificativa. La relazione meccanica che la macchina da presa intrattiene con i corpi del film – pure presenze sensibili, “guide” nei percorsi di perlustrazione dello spazio – è garantita dall’assenza del volto come tracciato psicologico. Il “retro del visibile” ci costringe a cercare quello che ci viene negato, a guardare oltre l’evidenza riconoscibile delle cose. La macchina da presa segue quindi di spalle John, conquistando una maggiore prossimità quando il ragazzo svolta due volte a destra verso l’uscita nel prato antistante la scuola dove, di lì a poco, incrocerà Alex e Eric in arrivo con il loro carico di armi. L’intera scena, un unico piano sequenza, dura poco più di un minuto. Rivediamo la stessa situazione nel segmento introdotto dal cartello “Michelle”, dopo circa 15’. La scena parte dal lato opposto del corridoio, in quel punto cieco in cui la prima volta avevamo intravisto una figura scura. Elias esce dal laboratorio di sviluppo, dalla luce chiara e diffusa del locale, per entrare nel buio del corridoio in cui lo attende la macchina da presa. Il ragazzo passa a fianco della camera che, con una leggera panoramica a seguire, lo inquadra in primo piano di profilo, il volto quasi completamente in ombra. La macchina da presa resta ferma in attesa della “giusta distanza”, fino a che il ragazzo raggiunge la figura intera, di spalle, al centro del corridoio, che appare in tutta la sua lunghezza e nel suo asettico lindore. Elias è in controluce, una silhouette nera che si staglia dentro lo spazio metallico di un ambiente più simile a un ospedale che a una scuola [fig. 7]. Al rumore dei suoi passi e della cinghia della macchina fotografica che sbatte, si aggiungono rumori metallici e poi il suono prolungato di un flauto, forse proveniente da una lezione. Intanto dal fondo dell’inquadratura avanza John. I due si incrociano al centro del corridoio, mentre la macchina da presa si ferma a una distanza che consente di inquadrarli in figura intera. La loro posizione è invertita rispetto alla scena precedente: John è sulla destra in posizione frontale rispetto alla macchina da presa, solo il capo è rivolto verso Elias per la foto. Al suono della campana e in corrispondenza con lo scatto, entra in campo da

dietro la macchina da presa Michelle, che corre passando dietro Elias, per proseguire verso il fondo del corridoio, fuori campo nella visione precedente [fig. 8]. Poi i due amici si salutano e, prima ancora che John esca nel fuori campo, la camera si rimette in marcia per seguire Elias. La steadicam accelera fino a inquadrare il ragazzo di spalle in mezza figura. Sembra che la camera cerchi una maggior vicinanza, prima di consegnare il giovane al suo destino. L’ambiente circostante appare sfocato e lo stesso corpo in movimento è contro luce, una massa nera in cui pure continuiamo a distinguere la nuca. Anche Elias, pur dirigendosi nella direzione opposta rispetto a John, gira due volte a destra, fino a raggiungere l’entrata della biblioteca. La ripresa è in piano sequenza e dura quasi 2’. La scena viene ripresentata una terza volta nel segmento introdotto dal cartello “Brittany, Jordan e Nicole”. Sono passati quasi 20’ dalla seconda ripetizione. L’inquadratura si apre con la mezza figura di spalle di Michelle che lascia gli spogliatoi. Si riprende qui una scena, lasciata in sospeso da tempo, della ragazza isolata e irrisa alle spalle dalle compagne. Michelle apre la porta e entra nel corridoio seguita, a brevissima distanza, dalla macchina da presa. Entriamo nella scena dallo stesso lato di Elias, nella seconda visione, e infatti intravediamo nel corridoio, davanti alla ragazza, una figura allungata, ma è come un’ombra nell’atmosfera sfocata e nebbiosa che circonda la giovane [fig. 9]. L’inquadratura qui è più stretta, la camera sta addosso a Michelle in una posizione più simile a una semisoggettiva. È come se replicasse l’atteggiamento difensivo della ragazza che appare “chiusa su se stessa”. Anche il sonoro cambia di segno e di importanza, guadagnando un’evidenza che mancava nelle presentazioni precedenti. Tutta la scena è costruita su una soggettiva acustica: da subito sentiamo il respiro irregolare della giovane, come di un pianto trattenuto, e gli stessi rumori presenti nel tracciato di Elias assumono qui una forza perturbante. Entrati nella zona più luminosa del corridoio, intravediamo sul fondo due macchie colorate in cui “riconosciamo” Elias e John [fig. 10]. Mentre il visivo è sfocato, in sintonia con la percezione alterata di Michelle, il sonoro ci restituisce con assoluta chiarezza il solito dialogo tra i due ragazzi. La giovane, ormai in prossimità della coppia di amici, si accosta ulteriormente alla parete e, al suono della campanella, inizia a correre goffamente. La macchina da presa continua a seguirla da vicino, abbandonando i due ragazzi alle spalle, nel fuoricampo. Anche Michelle svolta per due volte a destra, fino a raggiungere la biblioteca. La ripresa, in piano sequenza, dura meno di 2’. La diversa durata della scena nelle tre riprese, è il primo segnale del processo di riconfigurazione e di riscrittura degli eventi che il testo affida ai personaggi. Si badi, non siamo mai di fronte alla soggettiva di un personaggio, la macchina da presa mantiene sempre una sorta di distanza “oggettiva”, anche se è completamente aderente alla direzione e al movimento del personaggio. La camera si lascia portare dai corpi, assume non tanto o non solo il loro punto di vista, ma la loro posizione, vicinissima e, insieme, a distanza, aderendo al loro orientamento, ponendosi dentro il loro spazio, assumendone le coordinate, il passo, la postura nel mondo. Così la messa in forma dello spazio e del tempo o i rapporti gerarchici tra immagine e suono sono determinati dall’esperienza del soggetto in marcia. L’uso insistito della sfocatura nella scena di Michelle, il controluce nella “versione” di Elias registrano una diversa risonanza del soggetto con l’ambiente, una visione del mondo che lo sguardo della macchina da presa si incarica di riportare. Nella scena si intrecciano tre percorsi: quello di John che passa dal corridoio per uscire

all’esterno; quello di Elias che dal laboratorio di sviluppo si dirige in biblioteca e quello di Michelle che dagli spogliatoi della palestra va in biblioteca. Se le prime due “visioni” si possono considerare un campo/controcampo a distanza, temporalmente differito, la terza presenta il “fuori campo” delle due scene precedenti, come se «la macchina da presa si collocasse alle proprie spalle»14; al movimento inverso della camera (a precedere in una, a seguire nell’altra) corrisponde il ribaltamento di posizione dei personaggi, fino alla loro scomparsa nel fuori fuoco nell’ultima ri-presentazione. Ogni volta che assumiamo il punto di vista di un personaggio ne assumiamo anche la posizione nel tempo. La prima volta che vediamo la scena, solo John è “in linea” con il tempo rappresentato, mentre sia Elias sia Michelle sono in anticipo rispetto ai loro percorsi, così come il film ce li mostrerà. A ogni presentazione, due dei tre personaggi sono temporalmente sfasati (in analessi o in anticipo), la simultaneità dell’evento non garantisce la contemporaneità nella linea temporale della vicenda del singolo personaggio. È questo un esempio del complesso gioco di anacronie su cui si struttura il testo e che la morte provvederà a sciogliere, con la chiusura definitiva del tempo. “L’immagine in serie” è una delle forme di disarticolazione non solo della continuità narrativa, ma delle coordinate tradizionali della rappresentazione filmica, figura di radicale frammentazione e insieme di paradossale continuità. Del resto, la stessa idea del ritorno definisce un’interruzione e una memoria. Alla fine un film che è stato accusato di freddezza, di congelare le emozioni, fa del ritorno una figura affettiva: un gesto di impossibile recupero di quel che non è più. Come Elias poco prima di morire scatta una foto al suo assassino e consegna alla memoria un gesto di morte, così Van Sant fissa istanti di vita, ci restituisce il movimento dei corpi, prima che sia troppo tardi.

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Paranoid Park di Andrea Minuz Il St. Johns Bridge è tra i più grandi ponti sospesi dello stato dell’Oregon e collega la parte industriale di Portland con il quartiere di Cathedral Park, nella zona nord della città. Tra le numerose costruzioni che attraversano il fiume Willamette, questa, sui cui scorre una delle autostrade principali dello Stato, è indubbiamente la più suggestiva e come tale considerata uno dei simboli del paesaggio di Portland a cui i suoi abitanti sono più legati. L’immagine della sua grande struttura di acciaio verde chiaro, ritagliata da un’inquadratura in profondità di campo con un’angolazione che sembra ricalcare le stereotipate immagini da cartolina diffuse nelle guide turistiche di Portland [fig. 1], è posta in apertura di Paranoid Park (2007), il dodicesimo film di Gus Van Sant1. Un’inquadratura inaugurale fortemente riconoscibile, dunque, come la musica di Nino Rota (da Giulietta degli spiriti) che ascoltiamo mentre sfilano i titoli di testa del film. Si tratta di un’immagine che marca subito un’evidente distanza rispetto all’anonimia imperscrutabile dei luoghi in cui si aprono i film precedenti che compongono la cosiddetta trilogia della morte (il deserto di Gerry, 2002; la scuola di Elephant 2, 2003; il bosco di Last Days, 2005). Tuttavia, l’immediato rimando alla realtà di Portland è più complesso di quanto possa sembrare a prima vista. Paranoid Park è in realtà il nome che gli abitanti danno a O’Bryant Square, un parco della città frequentato per lo più da emarginati, tossicodipendenti, ragazzi di strada. Nell’omonimo libro di Blake Nelson da cui è tratto il film3, diventa invece il luogo in cui si raduna la comunità skater di Portland, che a sua volta si chiama nella realtà Burnside Skatepark, ed è una struttura collocata sotto un altro ponte levatoio che attraversa il fiume, il Burnside Bridge. Oltre a essere uno spazio di aggregazione per molti giovani di Portland, questo è anche uno dei primi e più famosi skatepark del mondo. Costruito agli inizi degli anni novanta, ha attirato skaters da ogni parte divenendo ben presto il tempio internazionale di questo sport di strada, mentre la pianta dei suoi circuiti è servita da modello per il design della serie di videogame Tony Hawks’s Pro Skater. La scritta “Paranoid Park”, che compare sull’immagine del St. Johns Bridge durante i titoli di testa [fig. 2], innesca pertanto un circuito di risignificazione degli spazi messi in scena nel film che funziona come una sorta di palinsesto (nell’accezione di Genette)4. Sullo sfondo dell’architettura ufficiale e autocelebrativa di Portland si inscrive il rimando a uno dei luoghi di emarginazione della città che, a sua volta, richiama qui lo spazio della controcultura giovanile in opposizione alle immagini da cartolina della città. Questo “collage spaziale”, enunciato sin dai titoli di testa, acquista un valore programmatico rispetto al più ampio lavoro di risignificazione dei materiali proposto da Paranoid Park. Tuttavia, analizzando il film, bisogna interrogarsi innanzitutto sulla relazione che quest’opera così innovativa, al confine tra cinema e videoarte, intrattiene con i tre precedenti lungometraggi di Van Sant, considerati anch’essi come un unico, affascinante esercizio di sperimentazione sulle forme del linguaggio cinematografico. Infatti, se da un lato Paranoid Park sembra proseguire nell’esplorazione di soluzioni di ricerca, tanto sul piano di una dissoluzione del racconto che su quello della sua forma audiovisiva, dall’altro (e soprattutto) si offre anche come un rilancio verso inedite direzioni dei risultati raggiunti con la trilogia. Dopo aver messo in luce questa relazione, che in tal senso permette di formulare delle ipotesi più generali su un’anomala quanto fruttuosa “eccentricità di fondo” dei percorsi (rigorosamente

plurali) di Gus Van Sant nell’ambito del cinema contemporaneo, ci occuperemo di entrare in Paranoid Park privilegiando due accessi in particolare: quello di un’interrogazione del suo orizzonte narrativo, e quello, altrettanto intricato, dell’organizzazione dei diversi materiali audiovisivi assemblati, con particolare attenzione allo straordinario lavoro sul sound design compiuto da Leslie Schatz. IL RITORNO DEL SOGGETTO

Con l’esperienza della trilogia, Van Sant ha messo in discussione pressoché tutte le certezze acquisite in vent’anni di professione. «Dopo Gerry», ha dichiarato: «non penso più al plot. Sono diventato paranoico per quanto riguarda le location e il casting, i due elementi essenziali per realizzare un buon film»5. Portland Oregon, dunque, è un elemento decisivo di Paranoid Park. D’altronde non si tratta certo di un set casuale per Gus Van Sant e in tal senso il film funziona, se non altro da un punto di vista simbolico, come un ritorno alle origini. È qui, nella città in cui egli vive da molti anni, che ha avuto inizio la sua carriera cinematografica. Ma a Portland non sono soltanto ambientati i suoi primi film (Mala Noche, 1985; Drugstore Cowboys, 1989; e la parte centrale di My Own Private Idaho, 1991). In un certo senso essa funziona nella carriera del regista come un serbatoio di storie, di stimoli creativi e di sotto-culture marginali capaci di imporsi come il contraltare del suo lavoro a Hollywood. Alla base di Paranoid Park c’è come abbiamo detto l’omonimo libro di Blake Nelson, uno scrittore di Portland proprio come Walt Curtis, l’autore di Mala Noche da cui Van Sant trasse il suo primo film quando, dopo una prima esperienza come assistente sul set a Hollywood, decise di rientrare a Portland; qui finalmente trovò la sua ispirazione: Nel 1977 tornai su, a Portland, per lavorare nel film di Penny Allen, Property. Uno degli attori era Walt Curtis, un poeta di Portland. Con la collaborazione di “Mississipi Mud”, un’associazione culturale senza fini di lucro, aveva pubblicato il suo libro, Mala Noche. Me lo ricordo come qualcosa di estremamente forte. Era il primo tentativo di Walt di scrivere un romanzo. Era una specie di diario, sulla scia delle prose poetiche che aveva già scritto6.

Dunque, se certo è evidente che Portland rappresenti il territorio di un’indipendenza creativa da contrapporre ai più rigidi schemi del cinema mainstream, potremmo anche avanzare l’ipotesi che essa funzioni come slancio ulteriore per una direzione inedita da dare al suo cinema artistico. Potremmo cioè guardare a Paranoid Park come a un ritorno di Van Sant al suo primo periodo cosiddetto indipendente, riscritto e rivisto tuttavia nel solco della radicale esperienza di sperimentazione sulla forma compiuto con la trilogia. Non è un caso allora che, come è stato notato, la locandina di Paranoid Park richiami nella grafica quella di My Own Private Idaho7. Quali, allora, gli elementi di continuità e di rottura, ed eventualmente l’amalgama che ne consegue? A prima vista, Paranoid Park presenta certamente alcune analogie con Elephant, vale a dire con quello che è considerato come l’apice della trilogia. Penso ovviamente ad alcuni elementi che immediatamente saltano all’occhio, come il richiamo alle atmosfere del teen-movie (mettendo in scena ancora una volta l’universo inaccessibile degli adolescenti e dei loro spazi), ma anche, e direi soprattutto, all’impiego di attori non professionisti. Guardando invece alla trilogia nel suo complesso, possiamo evidenziare l’uso di alcuni pattern figurativi specifici dello stile messo a punto nei film precedenti (l’uso insistito del ralenti, diversi gradi di sfocatura dell’immagine) e di soluzioni di montaggio audiovisivo che portano in primo piano sia un uso espressivo, fortemente antinaturalistico del suono filmico, che una radicale

indifferenza nei confronti della linearità del racconto – un aspetto questo, attraverso cui la trilogia emerge anche come una personale replica cinematografica alla «aporetica del tempo» – formula con cui Paul Ricoeur definisce l’interrogazione filosofica della temporalità quale esperienza intrinsecamente legata all’attività narrativa8. Tuttavia queste vicinanze stilistiche sono qui richiamate all’interno di un orizzonte radicalmente diverso. Innanzitutto, rispetto ai film della trilogia tutti scritti da Van Sant partendo dalla libera reinvenzione di un fatto di cronaca (la scomparsa di due giovani nel deserto; la strage alla Columbine High School; la morte del cantante rock Kurt Cobain), Paranoid Park segna il ritorno a un materiale narrativo preesistente (come d’altronde era avvenuto nella sua carriera sino alla trilogia). Ma soprattutto c’è un aspetto che, mi sembra, possa essere considerato come lo scarto più profondo che Paranoid Park mette in gioco rispetto ai tre film precedenti. Ovvero, se nella trilogia ciò che incessantemente si mette in scena è la deambulazione di corpi osservati rigorosamente dall’esterno, senza alcuna empatia, presi in uno spazio che progressivamente diviene sempre più estraneo fino a che non sopraggiunge la morte, in Paranoid Park vi è l’emergere di una soggettività, il tentativo di avvicinare il personaggio dall’interno, anziché limitarsi a uno studio behavioristico del suo comportamento. Se la critica ha ampiamente sottolineato come l’esperienza della durata – nell’uso estenuante del long-take – definisca l’orizzonte di ricerca della trilogia, bisogna dire che questo lavoro svolto sui “tempi morti” è inseparabile da una riflessione condotta sulla corporeità e la figurazione del movimento9. Gran parte del fascino di Gerry, Elephant e Last Days risiede cioè in una contemplazione ostinata degli spostamenti e dei movimenti dei corpi, anziché nella concatenazione discorsiva delle loro azioni. L’abbandono di figure di linguaggio come la soggettiva, sostituita per lo più dalla raffigurazione del personaggio ripreso di spalle, ne è d’altronde il sintomo più evidente. In Paranoid Park, invece, questa sorta di rilocazione filmica della Rückenfigur10 entra al più come citazione e richiamo dei numerosi passaggi simili presenti nei film della trilogia [fig. 3] – allo stesso modo, insomma, in cui la maglietta con la stella gialla indossata da Casey Affleck in Gerry, ritorna nel videogame di Elephant. È invece l’uso del primo piano a definire il lavoro di figurazione del personaggio di Alex in Paranoid Park, al punto che il critico Amy Taubin richiama espressamente l’estetica del ritratto (e in particolare la somiglianza tra alcuni dei suoi numerosi primi piani e la configurazione del Ritratto di un giovane uomo del Correggio)11. In modo radicalmente diverso dalla trilogia, Paranoid Park è insomma un film che sposa il punto di vista del suo personaggio. Ma certo questo non significa che ciò avvenga in modo trasparente; piuttosto emerge in maniera complessa come il frutto della collisione di immagini e suoni che spetta allo spettatore tentare di ricomporre tra loro. «MIND-GAME FILM»

Blake Nelson ha più volte evocato il Dostoevskij di Delitto e castigo (citato due volte nel libro) come modello di riferimento del suo Paranoid Park che, in tal senso, ne offrirebbe una sorta di riscrittura aggiornata dall’interno della cultura giovanile più marginale, cioè quella del mondo degli skaters di Portland. Sorvolando sulla schietta immodestia dello scrittore, è indubbio che i meccanismi della colpa e del caso, così come la perdita definitiva dell’innocenza, siano al centro della vicenda di Alex. L’incidente che lo vede coinvolto in prima persona – l’atroce morte di un guardiano dello scalo ferroviario,

tranciato di netto da un treno nel corso di una serata di bravate di Alex e del suo occasionale compagno incontrato in Paranoid Park – diviene lo spunto per una disanima del mondo di un adolescente, più che per un’intricata indagine della polizia volta a scoprire il colpevole. Se è possibile individuare la compresenza di più plot – l’incidente allo scalo ferroviario e l’indagine del detective Lu; il rapporto tra Alex e Jennifer, la sua fidanzata, o con Macy e Jared, i suoi amici più vicini – è anche vero che questi si offrono come altrettanti puzzle di un unico vettore narrativo che intende condurre lo spettatore nei diversi livelli di realtà di cui si compone la vita di Alex, come dice egli stesso a Macy nel corso di una conversazione del film. È questo, rispetto al libro e alla sua struttura, uno degli aspetti che si trova al centro dell’operazione compiuta da Gus Van Sant. Il romanzo di Blake Nelson è suddiviso in sette capitoli, scritti in prima persona, nella forma di un diario e ogni capitolo riporta una data e un luogo precisi. Il narratore, cioè Alex, espone la storia in modo lineare, limitando salti, ellissi, o anticipazioni, e costruendo così gli eventi in una sequenza cronologica. Se Van Sant resta fedele alla trama (e recupera alcuni dialoghi o riflessioni interiori di Alex), ne trasforma tuttavia in modo radicale la struttura temporale. Così mentre nel libro l’incidente è rivelato sin dalle prime pagine, Gus Van Sant sceglie di differirlo e mostrarlo allo spettatore nella sua effettiva dinamica non prima della metà del film. Il disordine temporale degli eventi è tuttavia solo il sintomo più evidente di un racconto costruito in modo più elusivo e confuso rispetto a quanto avviene nel libro. La scansione narrativa del film è articolabile in due macrosegmenti; nella prima, Alex è alle prese con una serie di tentativi di raccontare i fatti (nella forma di una confessione scritta) che, a loro volta, si alternano con le elusioni e i finti alibi con cui cerca di confondere le indagini del detective, così come di evadere la curiosità di Jennifer o dei suoi amici. Nella seconda parte, il film tenta di colmare i vistosi buchi del racconto sin lì seguito; il senso di colpa ha la meglio sul tentativo di rimuovere l’accaduto e i fatti ci vengono mostrati così come sembra si siano svolti; tuttavia non ci è dato sapere cosa accadrà, le indagini restano in sospeso e il film termina con l’immagine di Alex che brucia i fogli della sua confessione scritta. Per ben tre volte il film torna a mostrarci l’iscrizione iniziale del diario di Alex che a matita scrive «Paranoid Park» [fig. 4] sul primo dei fogli cui decide di affidare il suo racconto dei fatti. Ancora una volta, come già ampiamente sperimentato nella trilogia, il film ripercorre ossessivamente alcuni momenti della storia ma senza quella variazione del punto di vista sulla scena che caratterizzava gli altri film – e che si definiva come il motivo strutturale della decostruzione del tempo filmico lì operata. Più che al gioco di variazioni e ripetizioni, la complessità di Paranoid Park è invece dovuta a una certa incoerenza di fondo nella connessione degli eventi, proprio perché questi ci vengono mostrati a partire dalla ricostruzione che ne fa Alex. Egli appare cioè scisso tra la decisione di mettere a fuoco quanto è successo e la volontà di nascondere l’accaduto; nasconderlo alla sua famiglia e ai suoi amici, innanzitutto, ma a ben vedere anche a se stesso. Un contrasto, questo, che è posto in evidenza da una visibile contraddizione del film. Da un lato, nella prima parte, vediamo Alex apprendere la notizia della morte atroce del guardiano allo scalo ferroviario dal telegiornale; nel seguire il servizio, il ragazzo si porta le mani alla bocca con un gesto di improvviso sgomento, come se soltanto in quell’istante scoprisse cosa è accaduto, o comunque come se non avesse potuto immaginare la sorte toccata all’uomo [fig. 5]. Con questa sequenza lo spettatore è insomma portato a credere che Alex, seppur direttamente coinvolto nell’accaduto,

non abbia in effetti “visto la scena”. D’altro canto, più avanti nel film, torniamo ai fatti di quella notte; ora vediamo Alex incredulo, con lo sguardo fisso, terrorizzato di fronte al corpo del guardiano tranciato di netto in due metà. Il segmento è costruito dapprima con un’immagine in totale, ripresa dall’alto, poi con uno scambio di primi piani tra i due, attraverso il campo/controcampo dello sguardo che si rivolgono poco prima che Alex si volti e scappi [figg. 6-7]. Vi è pertanto, da un punto di vista narrativo, un vistoso disaccordo tra la reazione improvvisa e inaspettata di Alex di fronte alla tv, e il modo in cui sembra si siano svolti effettivamente i fatti. L’ipotesi di una radicale rimozione da parte del ragazzo è rafforzata dal fatto che il film ci mostra la scena dell’incidente subito dopo che il detective Lu, convocati tutti gli skaters della scuola, fa circolare tra loro la fotografia con il cadavere mutilato del guardiano. Questa fotografia, considerabile così come uno spartiacque della struttura del film, scuote nel profondo Alex facendo riemergere in lui i fatti di quella notte; da qui parte il flashback dello scalo ferroviario, ora mostrato senza reticenze allo spettatore, ma anzi insistendo sui suoi macabri particolari (tanto che alcuni critici hanno sottolineato l’improvvisa irruzione di una scena che sembra tratta da un film gore). Alex dunque non è soltanto un narratore che, preda del suo inconscio, deve trovare il coraggio per ritornare sui propri passi e raccontare quanto accaduto. Egli sembra anche configurarsi come un narratore inaffidabile e solipsistico che trascina lo spettatore in uno stato di radicale incertezza cognitiva nei confronti della storia e dei suoi buchi narrativi. Di questa incertezza si fa carico anche la frammentazione del paesaggio audiovisivo configurato dal film, a cominciare dai bruschi passaggi dalle immagini in 35 mm a quelle riprese in 8 mm (alla maniera dei filmati amatoriali degli skaters). Anche se Van Sant prosegue con questo film la sua personale ricerca artistica, il modo in cui la soggettivazione delle immagini e lo stato mentale di Alex coinvolgono in profondità la struttura del testo permette di avvicinare Paranoid Park all’orizzonte di quella più ampia tendenza del cinema contemporaneo che Thomas Elsaesser ha definito «Mind-Game Film»12. Attorno a questo termine egli raggruppa film molto diversi tra loro, per genere, nazionalità e produzione, ma che tuttavia si offrono come una compatta declinazione cinematografica della complessità delle narrazioni contemporanee, in un modo che è appunto trasversale alle categorie del film indipendente, d’autore, o popolare. Film che giocano con la struttura labirintica che essi stessi costruiscono, mentendo su elementi cruciali del racconto sia allo spettatore (The Usual Suspects, 1995) che agli stessi protagonisti della vicenda (The Others, 2001; The Sixth Sense, 1999), o presentando il loro mondo interiore come indistinguibile dal mondo diegetico messo in scena nel film (vedi i personaggi inesistenti di Fight Club, 1999; A Beautiful Mind, 2001), o ancora costruendo un multiverso diegetico (Mulholland Drive, 2001; Donnie Darko, 2001). Spesso i protagonisti del «Mind-Game Film» sono pertanto individui che soffrono di patologie, nevrosi o comunque di una condizione post traumatica che in tal senso investe non già la “storia”, ma la stessa struttura del film, come nel caso emblematico di Memento. Così Elsaesser afferma che: I cosiddetti mind game movies consistono, almeno nei loro momenti-chiave, di immagini referenziali che però non sono “incorniciate” attraverso strutture di point-of-view o tramite il classico sistema della suddivisione in scene. Queste immagini si sottraggono invece sia al paradigma modernista della autoreferenzialità, sia a quello “costruttivista” del postmoderno […] Il principio strutturale dei mind-game movies consiste nel trascinare gli

spettatori nel mondo del protagonista, e ciò in un modo che sarebbe impossibile se la narrazione guadagnasse distanza o contestualizzasse per esempio l’eroe attraverso le sue condizioni spirituali o corporee13.

In questo senso il disorientamento dello spettatore di fronte alla configurazione narrativa di Paranoid Park, ai salti aleatori del racconto e delle scene, è da un lato il frutto della soggettività messa in gioco (ovvero della condizione post traumatica di Alex), ma dall’altro, e contemporaneamente, di quel nuovo orizzonte della dimensione narrativa nell’epoca dei nuovi media cui anche Paranoid Park può essere accomunato. Un orizzonte in cui la linearità della lettura e quei principi di organizzazione teleologica del racconto, sostanzialmente validi dalla Poetica di Aristotele sino a oggi, lasciano il posto a nuove forme di connessioni rizomatiche che hanno nella disomogeneità radicale del database, dell’archivio e della navigazione in rete il loro modello di riferimento. È in tal senso che in un articolo su Paranoid Park apparso su «Film Quarterly», per riferirsi al modello di montaggio del film e al collegamento aleatorio di vari momenti del racconto, si allude al cosiddetto «internet hodge-podge», ovvero quella sorta di flânerie virtuale con cui ci muoviamo da un link all’altro costruendo serie sempre nuove di percorsi che si sovrappongono tra loro14. Il modello di scrittura di Paranoid Park (che a sua volta intende riflettere la scrittura del diario di Alex) è dunque l’accumulo disordinato e non lineare di informazioni, testi e dati che pratichiamo nell’orizzonte dei nuovi media e della rete. Oltre che incidere direttamente sulla configurazione narrativa del film, quest’ipotesi coinvolge e riguarda a mio avviso direttamente l’accumulo di materiali che Paranoid Park mette insieme, soprattutto dal punto di vista della colonna sonora musicale. Passando dall’indie-rock del cantautore di Portland Elliot Smith a Nino Rota, dal folk di Billy Swan all’elettronica sperimentale, dalla Sinfonia n. 9 di Beethoven all’hard-core di The Revolts, il film non costruisce soltanto una serie di contrasti musicali indubbiamente originali. Esso riconfigura quell’accesso generalizzato e immediato a tutta la musica che milioni di adolescenti praticano grazie alla rete attraverso un personale assemblaggio che, nell’epoca di YouTube, non tiene più conto delle diverse provenienze e dei contesti produttivi, annullando così intrinsecamente, cioè se non altro sul piano della accessibilità, le distinzioni tra generi, forme e modelli. L’idea di playlist, potremmo dire, si sostituisce insomma a quella più canonica di colonna sonora di un film. È lo stesso Van Sant a rafforzare questa ipotesi interpretativa: At this point I’m working on a Mac and you have iTunes on the Mac. As you’re working, you can click on iTunes and weigh things. Sometimes I was working and the score was going along at the same time because Eric Hill, who’s my assistant editor, is a musicologist and he has a lot of stuff in his iTunes. He would leave it on because he was listening to it while seeing dailies or whatever and so I would hear things that I would ordinarily not hear. I would make associations and/or drag the song into the score haphazardly but also instinctive discovery15.

Questo specifico modello di assemblaggio di materiali diversi e riutilizzo di musiche preesistenti che informa Paranoid Park si offre anch’esso come un modo di includere lo spettatore nel film, ma «in un modo non più rispondente alle classiche teorie dell’identificazione, dell’orientamento e del coinvolgimento, poiché l’atteggiamento fondamentale o il grado zero della normale interazione umana non può più reclamare alcuna validità»16. In tal senso, la scena in cui Alex si reca da Jennifer per comunicarle la rottura del loro fidanzamento, con il dialogo integralmente sostituito dal motivo musicale di Amarcord, appare del tutto esemplare.

«ARTIFICIELLES ET VIBRANTES FORÊTS DE LA VILLE»

«L’atmosfera dei miei film è fisicamente tridimensionale». Questa frase di Andy Warhol17 sembra appropriata anche per quanto riguarda il lavoro sul suono della trilogia e di Paranoid Park. Questi film possono in tal senso essere considerati come alcuni tra i più significativi esempi di riconfigurazione dei rapporti gerarchici tra suono e immagine nel panorama del cinema contemporaneo. Se da un lato i numerosi rinvii alla dimensione artificiale e simbolica della costruzione di immagini che “sanno di essere viste” tengono a distanza lo spettatore (attraverso l’uso del ralenti o di sfocature eccessive, innanzitutto), dall’altro, e più specificamente in riferimento al lavoro sul sound design, possiamo parlare di un’esperienza filmica fortemente “installativa e coinvolgente”18. La coesistenza di questi due processi è anzi, a mio avviso, uno dei tratti più affascinanti e peculiari dei film di Gus Van Sant e di Paranoid Park, in particolare. Che quello configurato in Paranoid Park si costituisca innanzitutto come universo sonoro fortemente disorientante è annunciato sin dalla prima sequenza del film. Le immagini che mostrano le evoluzioni degli skaters (riprese in 8 mm e mandate in ralenti) vengono immerse nel paesaggio sonoro della musica elettronica di Ethan Rose (Song One), una composizione minimalista con sonorità ovattate e ripetitive intrecciate a rumori della natura e improvvisi suoni “estranei” (vetri infranti, carta stropicciata). Su questo ipnotico tappeto sonoro si stacca un amalgama di voci che recitano, quasi come una litania, un testo di cui sono ben udibili solo alcuni passaggi: Bercé Que fais-tu par la bancheur infernale du jour? Je sens autour de moi l’inodore caresse patiente de l’air Notre respiration sous un coton d’éther Artificielles et vibrantes forêts de la ville

L’ultima frase in particolare (artificiali e vibranti foreste della città) assume quasi un valore programmatico rispetto al soundscape del film costruito da Leslie Schatz, che in tal senso riprende qui un motivo portante del lavoro svolto nella trilogia; ovvero l’uso di suoni della natura che generano un forte contrasto con lo spazio diegetico del film. Ma non è in gioco soltanto la mancata aderenza tra coordinate percettive e finzionali. Quella allestita da Leslie Schatz è una messa in scena sonora improntata alla multidirezionalità; è una costruzione audiovisiva in cui «la parola umana perde la propria centralità e l’ambiente acustico si apre ad una molteplicità di punti di fuga che circondano lo spettatore»19. In termini tecnici tutto ciò si traduce in un uso intensificato degli altoparlanti laterali e (soprattutto) del surround, ovvero di quelle zone normalmente deputate a un lavoro di contorno, di coloritura e riempimento dell’ambiente audiovisivo. Ciò rende l’esperienza filmica di Paranoid Park assai più vicina al mondo della video arte e delle installazioni, che non al cinema; e in tal senso si veda la rilocazione urbana del film compiuta dal gruppo Secret Cinema a Londra, il 16 dicembre 2007, in cui le immagini di Paranoid Park sono state riutilizzate come parte integrante di una installazione a tema collocata nei cunicoli sottostanti i vecchi ponti della stazione di London Bridge20. Il rifiuto della subordinazione o comunque del ruolo ausiliario del suono rispetto all’immagine è apertamente esibito nella costruzione del segmento iniziale di Paranoid Park, in cui la grana sbiadita delle immagini in 8 mm, spesso riprese in controluce, contrasta con la ricchezza di dettagli della tessitura sonora e con la sua varietà di rumori simultaneamente percepibili. In un regime audiovisivo siffatto, lo statuto di

quanto vediamo, soprattutto per ciò che riguarda la relazione tra campo e fuoricampo, viene evidentemente messo in crisi; ovvero, che statuto hanno queste immagini che non corrispondono certo al punto di vista diegetico di Alex ma che, tuttavia, sembrano definire i suoi stati di coscienza? Vediamo più in dettaglio un altro segmento specifico del film. Esso è preannunciato nella prima parte in cui, come abbiamo visto, l’incidente allo scalo ferroviario funziona come un “buco” narrativo attorno a cui si dispongono (disordinatamente) i pezzi della storia. Con un rapido montaggio di inquadrature vediamo Alex, sopra le rampe di Paranoid Park, seduto accanto al ragazzo che gli propone di salire in corsa su un treno merci. Poi è a casa di Jared; lo vediamo entrare nella doccia. Poi di nuovo fuori, in un caffè, dove incontra Macy. Di seguito, nella seconda parte del film (cioè a partire dalla visione della fotografia con il cadavere mutilato, che funziona come un ritorno del rimosso) torniamo su questi segmenti, ora dilatati e raccontati nel loro effettivo svolgimento. Di nuovo vediamo Alex entrare nella doccia, ma ora sappiamo quanto è appena accaduto allo scalo ferroviario. Il ragazzo tira la tenda dietro di sé e, con uno stacco, la macchina da presa lo mostra a questo punto ripreso all’interno della doccia, di profilo, con un primo piano molto ravvicinato. Da qui ha inizio il segmento di cui ci occupiamo in cui, anche se da un punto di vista narrativo non succede nulla, si mostra all’opera il processo di soggettivazione delle immagini e dei suoni che sottende al lavoro di messa in scena di Paranoid Park. È un segmento composto di tre inquadrature (contando quella che mostra l’ingresso nella doccia di Alex), di cui la centrale occupa gran parte degli oltre due minuti della durata complessiva. È con questa inquadratura che ha inizio il ralenti che accompagna il movimento di tutta la scena. Vediamo dunque Alex, immerso sotto il flusso dell’acqua della doccia, che china il capo verso il basso. La macchina da presa si avvicina ancora di più mentre l’illuminazione scende sensibilmente; le punte dei capelli bagnati di Alex sembrano fondersi con il getto d’acqua in un’unica, informale materia visiva. Mentre il rumore della doccia in sottofondo comincia ad aumentare significativamente di volume, si iniziano a udire suoni anomali che a questo si sovrappongono. È a questo punto che Alex si porta le mani sul volto, in un gesto di disperazione, e si appoggia alla parete della doccia. Poi, ripreso ora frontalmente sempre con le mani che coprono il viso, si lascia cadere verso il fondo della vasca. Il sottofondo sonoro aumenta vertiginosamente. Udiamo suoni di uccelli e altri versi intrecciarsi al suono dell’acqua che ormai è un unico, stridente sibilo, immergendoci così in quello che ora sembra l’ambiente acustico di una foresta tropicale. Mentre Alex continua a lasciarsi cadere, si sente il suono di uno strappo violento (forse la tenda, che egli trascina con sé, ma che comunque non ci è dato vedere). Poi, con uno stacco, la macchina da presa torna a inquadrare il ragazzo di profilo. Nel rumore assordante che continua a crescere di intensità e volume, osserviamo un nuovo cambio di illuminazione; la scena è ora più chiara, poi progressivamente torna a scurire, fino a che il quadro non diventa quasi nero. Uno stacco netto recide bruscamente l’amalgama di suoni fino a che non resta un unico sibilo, come un’eco isolata che si prolunga per qualche istante, prima dello stacco definitivo. Possiamo dunque osservare come lo stato di disperazione di Alex, giunto a casa di Jared per cambiarsi gli abiti subito dopo l’incidente, sia affidato soprattutto al piano sonoro del film, ma in un modo tuttavia assai diverso che nel sound design normalmente utilizzato nel cinema contemporaneo. Ciò non soltanto per la mancata aderenza finzionale tra la scena sonora e la diegesi. Il suono cioè non si limita a

contrapporsi all’immagine, ma sembra in qualche modo assorbirla al suo interno, attraverso un effetto di saturazione acustica dell’ambiente. Vediamo più in dettaglio. C’è un suono centrale (l’acqua), trattato e diffuso su tutti i canali, che viene progressivamente aumentato di volume. Attraverso un processo di missaggio, su questo suono dell’acqua della doccia si innesta in dissolvenza incrociata quello di un forte scroscio continuo – come di una cascata – mentre i versi degli uccelli producono un’estensione dell’ambiente acustico con un effetto spazializzante. Tuttavia, a differenza del suono improvviso che si sente verso la fine del segmento (l’unico movimento sonoro dinamico passato repentinamente su tutti i canali ad avvolgere lo spettatore), questa scena si configura come un’unica massa sonora stratificata che lavora per saturazione dell’ambiente acustico che essa genera. Poiché tutti i canali sono utilizzati per la diffusione dello stesso suono che viene via via aumentato di volume, l’effetto di spazializzazione prodotta ha qui lo scopo, paradossale, di annullare l’effetto di profondità sostituendolo con una sorta di claustrofobia acustica. Una spazialità sonora che è dunque funzionale alla creazione di uno spazio asfittico; ovvero all’immersione dello spettatore nella prigione interiore di Alex. La disgiunzione diegetica del piano visivo da quello sonoro sembra ricomporsi su un altro orizzonte esperienziale, nella forma di un nuovo, inedito, contratto audiovisivo tra il film e il suo spettatore. Attraverso questo slittamento percettivo l’ambiente domestico della doccia viene ora a configurarsi come un luogo estraneo, minacciato da primordiali forze della natura portate in superficie nella forma di un crescente muro di suoni che avvolge lo spettatore con un effetto centripeto. I versi degli uccelli funzionano così come un irreale contrappunto agli uccelli disegnati sulle decorazioni delle piastrelle del muro della doccia che scorgiamo alle spalle di Alex; anch’egli ora braccato e messo in gabbia dalla propria colpa [fig. 8]. Un momento del film in cui non succede nulla e, di fatto, non “vediamo nulla” si trasforma in uno dei passaggi più affascinanti di Paranoid Park. Così, l’oltrepassamento dell’identificazione con uno sguardo e un punto di vista si configura attraverso l’inclusione dello spettatore tra i frammenti percettivi di uno spazio diegetico immersivo, quanto perturbante.

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Note al testo Barbara Grespi Il cinema metamorfico di Gus Van Sant 1 L’identificazione del New Queer Cinema, basato sul decentramento dello sguardo eterosessuale e normativo, è dovuta a Ruby Rich che ne ha commentato le caratteristiche in un articolo del 1992 su «Village Voice». Cfr. P.M. Bocchi, Mondo queer. Cinema e militanza gay, Torino, Lindau, 2005. Sulle strategie autoriali di Van Sant come autore gay, cfr. J. Staiger, Authorship Studies and Gus Van Sant, in «Film Criticism», vol. XXIX, n. 1, Fall 2004, pp. 1-22. 2 Cfr. V. Lo Brutto, Gus Van Sant. His Own Private Cinema, Santa Barbara (California)-Denver (Colorado)Oxford (England), Praeger, 2010, p. 37. 3 Cfr. ibid., p. 127. 4 Sottolineano il lato funereo della combinazione di giovani e nuvole, che risale almeno al cinema di Nick Ray, S. Bouquet, J.-M. Lalanne, Gus Van Sant, Paris, Éditions Cahiers du cinéma, 2009, p. 48. 5 Ho sviluppato la questione in B. Grespi, Gerry, in Ventuno per undici. Fare cinema dopo l’11 settembre, a cura di A. Bellavita, L. Gandini, Recco (Ge), Le Mani, 2008, pp. 28-36. 6 Intervista pubblicata su «Film Monthly», 18 febbraio 2002: www.filmmonthly.com/Profiles/Articles/GVanSant/GVanSant.html. Vedi anche G. Van Sant, La camera est une machine, in «Trafic», n. 50, estate 2004, pp. 497-499. 7 Prima di comparire sulla maglietta del John di Elephant, il toro appare in Mala Noche: mentre Walt legge l’articolo di giornale, dietro di lui si vede un camion con la scritta «Shlitz malt liquor» che ha come insegna un toro. Il film si apre con la frase: «Se rompi le palle al toro ti becchi una cornata», e Johnny, quando torna da Walt gioca alla corrida mimando le corna del toro. 8 Cfr. Bouquet, Lalanne, Gus Van Sant, cit., p. 159. 9 Nella galleria di volti ci sono William Burroughs, Allen Ginsberg, Robin Williams, Sofia Coppola. Cfr. G. Van Sant, 108 Portraits, Santa Fe (New Mexico), Twin Palms Publisher, 1994. 10 In Belli e dannati in realtà si trova anche la fotografia, nelle scene di sesso a tre rappresentate attraverso una serie di istantanee dei corpi in posa, e il cartone animato (i Simpson), a connotare il personaggio di Mike. 11 In fondo è un esercizio di riflessione sull’essenza stessa della visione, che nella lettura che Paolo Bertetto dà di Merleau-Ponty risulta essere appunto «non mera percezione, ma un pensiero che decifra rigorosamente i segni dati […] la visione è un pensiero condizionato». Cfr. P. Bertetto, Lo specchio e il simulacro. Il cinema nel mondo diventato favola, Milano, Bompiani, 2007, pp. 182-201. 12 J. Aumont, L’occhio interminabile. Cinema e pittura, Venezia, Marsilio, 1992, p. 62. 13 L’idea del “cinema nell’occhio del ciclone” è di Bouquet, Lalanne, Gus Van Sant, cit., p. 12. 14 S. Liandrad-Guigues, Estétique du mouvement cinématographique, Paris, Klincksieck, 2005, p. 111. Cfr. anche Th. Davila, Marcher, creér, deplacements, flânerie, dérives dans l’art de la fin du XXe siècle, Paris, Editions du regard, 2002. 15 Sull’analogia fra ballade moderna e cinema di Van Sant si veda anche Eugenia Giannuri, La marche des images, in «Cinema & Cie. International Film Studies Journal», n. 8, Fall 2006, pp. 5869. 16 É.J. Marey, Le mouvement, Paris, Masson, 1894, p. 61 (nostra trad.). 17 Cfr. G. Didi-Huberman, L. Mannoni, Mouvements de l’air, Paris, Gallimard, 2004. 18 Nadar, Quand j’étais photographe, citato in ibid., p. 211.

Massimiliano Fierro Mala Noche 1 Walt, commesso in un negozio a Portland, si innamora perdutamente di Johnny, immigrato clandestino messicano che passa il tempo a bighellonare in strada con i suoi amici connazionali. Le avances di Walt, disposto anche a pagare per andare a letto con Johnny, rimangono disattese, tanto che l’unico modo per stare vicino al giovane messicano sarà quello di includere, nelle loro scorribande e uscite, l’amico Pepper (Roberto, o Papas come viene chiamato dalla comunità messicana), l’unico disposto a prestazioni sessuali occasionali e a pagamento. La solitudine e il vuoto provato da Walt per l’uscita di scena di Johnny, arrestato nel frattempo dalla polizia di confine, vengono aggravati dalla tragedia finale: Pepper viene ucciso nel corso di un sopralluogo della polizia nello stabile di Walt. Johnny, riapparso all’improvviso, venuto a sapere della tragedia occorsa, lascerà nuovamente tutti, continuando a scappare e muoversi clandestinamente per le strade di Portland. Sarà infatti proprio lì che Walt lo incontrerà per l’ultima volta.

2 Il tema della percezione aptica è molto dibattuto in ambito cinematografico, dove la piattezza dello schermo e la fantasmaticità delle immagini sembrano inibire processi di percezione tattile. Negli ultimi anni però, in sintonia con le teorie del figurale di Lyotard, si sono riscoperte forme di visualità aptica, che semplificando potremmo ricondurre a una sorta di eccedenza “sensoria”. Sia il figurale che l’aptico, già nella sua iniziale accezione formulata da Alois Riegl, implicano infatti una variazione della distanza dello sguardo dal “rappresentato”. Se dunque la modalità ottica è il frutto di una visione d’insieme a distanza, quella aptica privilegia una certa vicinanza al rappresentato, per frammenti che solo il montaggio riunisce (cfr. almeno K. Hansson, The Figural, the Haptic and Bodily Knowledge, in I cinque sensi del cinema, a cura di A. Autelitano, V. Innocenti, V. Re, Udine, Forum, 2005; mentre per un ulteriore approfondimento si vedano i numerosi contributi sul tema di Philippe Dubois, Jacques Aumont, Nicole Brenez, George Didi-Huberman, D.N. Rodowick, Paolo Bertetto). Tra i molti contributi che riprendono le riflessioni di Riegl, soprattutto dopo Benjamin, vedi almeno l’idea della spazialità prensiva come frutto di una visione ravvicinata che lavora per disgiunzioni e per frammentazioni (G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani, Roma, Castelvecchi, 2006, pp. 698-735). Per una riflessione specifica sul figurale nell’accezione lyotardiana si veda il più recente P. Bertetto, Lo specchio e il simulacro. Il cinema nel mondo diventato favola, Milano, Bompiani, 2007, pp. 182-201. 3 Penso all’esperienza di John Cassavetes ad esempio (Shadows, 1959/61 – Faces, 1968), con la quale, ovviamente, non si vuole creare nessun parallelo diretto o indiretto. 4 I problema della mobilità dello sguardo, di cui si è parlato in nota 2, viene implicato anche dalla fenomenologia ontologica di Maurice Merleau-Ponty («La tentazione di costruire la percezione a partire dal percepito […] è quasi irresistibile», scrive in Il visibile e l’invisibile, Milano, Bompiani, 1969, p. 187), che rimarca la diffusa, quanto erronea, identificazione dell’atto percettivo con l’apparente completezza del percepito. La fenomenologia invece mette in evidenza l’esistenza di uno spazio intermedio di giunzione, definita «deiscenza», ovvero un’apertura che lega strettamente il visibile all’invisibile che lo accompagna come una «scia di assenza» (cfr. P. Montani, L’immaginazione narrativa, Milano, Guerini e Associati, 1999, p. 66). Scrive Merleau-Ponty: «il visibile può così riempirmi e occuparmi solo perché io, che lo vedo, non lo vedo dal fondo del nulla ma dal cuore del visibile stesso: io, il vedente, sono anche visibile […] il sensibile è [agli occhi di colui che coglie i colori, i suoni…] come il suo duplicato o un’estensione della sua carne» – Il visibile e l’invisibile, cit., pp. 152-153. In L’occhio interminabile (Venezia, Marsilio, 1991), Jacques Aumont interpreta il cinema come l’arte che ha segnato una tappa fondamentale nella storia dello sguardo mobile. Scrive: «l’occhio si sposta nel mondo visibile; più ampiamente il corpo umano si caratterizza, secondo l’espressione di MerleauPonty, per essere nello “stesso tempo visibile e vedente” […]. Così l’uomo della fenomenologia è anche l’uomo del cinema» (p. 27). 5 Altro riferimento a Burroughs è la sequenza onirica a casa di Walt, dove le immagini doppie della zucca e dei riflessi di luce ricordano molto la Dream machine costruita da Burroughs e Gysin nel film Towers Open Fire, uno dei cut up films [fig. 8 e fig. 9]. 6 M. Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito, Milano, SE, 1989.

Chiara Borroni Da morire 1 R. Silverstone, Television and everyday life, London, Routledge, 1994 [ed. it. a cura di G. Mazzoleni, Televisione e vita quotidiana, Bologna, il Mulino, 2000, p. 55]. 2 Cfr. C. Norberg-Schulz, L’abitare. L’insediamento, lo spazio urbano, la casa, Milano, Electa, 1984. 3 «La lotta tra luogo e assenza di luogo è una lotta, forse, tra modernità e postmodernità [Barman, 1983; Harvey, 1989]. Ma è anche una lotta quotidiana, dal momento che combattiamo per creare e conservare luogo e casa in un mondo di sradicamento crescente», Silverstone, Televisione e vita quotidiana, cit., p. 54. 4 J. Meyrowitz, No Sense of Place. The Impact of Electronic Media on Social Behaviour, New York, Oxford University Press, 1985 [trad. it. di N. Gabi, Oltre il senso del luogo. Come i media elettronici influenzano il comportamento sociale, Bologna, Baskerville, 1993, p. 10]. 5 «La televisione fornisce un legame tra casa e identità in vari modi, sia in quanto oggetto domestico, sia tramite la sua mediazione di immagini domestiche che si possono intendere come riflessive oppure potenzialmente espressive di immagini della casa», Silverstone, Televisione e vita quotidiana, cit., p. 60. 6 «Non solo i nostri ricordi, ma anche le nostre dimenticanze sono alloggiate, il nostro inconscio è alloggiato, la nostra anima è una dimora e, ricordandoci delle case e delle camere, noi impariamo a dimorare in noi stessi. […] Facevamo prima notare che l’inconscio è alloggiato: bisogna aggiungere che l’inconscio è alloggiato bene, felicemente. Esso è alloggiato nello spazio della sua felicità», cfr. G. Bachelard, La poétique de l’espace, Paris, Presses Universitaires de France, 1957 [trad. it. di E. Catalano, La poetica dello spazio, Bari, Dedalo, 1999, p. 28 e p. 38]. 7 Benjamin specifica come l’intérieur acquisti un significato nella sua stessa opposizione allo spazio lavorativo, al comptoir. Comptoir e intérieur si danno come spazi organizzati in successione che

progressivamente allontanano l’individuo dalla rappresentatività della dimensione pubblica per offrirgli invece il ritiro intimo del privato, lo spazio intimo in cui affiorano le tracce dell’esistenza quotidiana. Se i concetti di intérieur e di uomo privato nascono come pre-moderni, l’idea di domesticità come tensione tra la dimensione pubblica e quella privata dell’esistenza si attesta come peculiare della modernità. Cfr. W. Benjamin, Das Passagen-Werk, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1982 [ed. it. a cura di E. Ganni, I «passages» di Parigi, Torino, Einaudi, 2000, in particolare il capitolo «L’intérieur, la traccia», pp. 223242]. 8 Nel ventesimo secolo, le due dimensioni – privata e pubblica – si sono completamente interlacciate, anche per effetto dei dispositivi che hanno trasformato la casa, come l’elettricità, le nuove tecnologie e i nuovi materiali da costruzione, le nuove forme di comunicazione, producendo una continua rinegoziazione di ciò che è pubblico e ciò che è privato. Cfr. B. Colomina, The Exhibitionist House, in AA.VV., At the End of the Century: One Hundred Years of Architecture, Los Angeles, Harry N. Abrams, 1998, p. 130. 9 «In Gran Bretagna come negli Stati Uniti i discorsi promozionali e pubblicitari che fin dai primi decenni del Ventesimo secolo avevano preceduto gli esordi ancora sperimentali del nuovo medium elettronico insistevano sulla sua abilità di “portare il mondo in casa”», M. Buonanno, L’età della televisione. Esperienze e teorie, RomaBari, Laterza, 2006, p. 6. 10 «Suzanne sa da tempo che la televisione è la (sua) vita. Lei sa […] che la televisione è l’insieme di tutti i racconti legittimi, di tutti i comportamenti accettabili, è il nostro modo coerente di interpretare la realtà, è il nostro brainframe. […] Lei è una che vive in una sit-com interetnica (suo marito è italiano di origine), che passa parte del tempo in un programma per teen-ager (Teens Speak Out) e che finisce in un telefilm poliziesco nel momento in cui uno dei giovani attori di Teens le uccide il marito. Non c’è nessuna doppiezza in questo, nessun calcolo. […] Che l’inconscio di Suzanne sia strutturato come un palinsesto televisivo è evidente». Cfr. G. De Marinis, Da morire, in «Cineforum», n. 348, novembre 1995, p. 72. 11 Per addomesticamento si intende qui l’appropriazione da parte dell’individuo di una porzione di reale come spazio di riconoscimento nonché la capacità dell’individuo stesso di adattarsi alle caratteristiche ambientali dello spazio che individua come proprio. Il termine è mutuato dalla definizione di “commedia domestica” data da Northrop Frye in Anatomy of Criticism, Four Essays, Princeton, Princeton University Press, 1957 [trad. it. di P. Rosa-Clot e S. Stratta, Anatomia della critica. Teoria dei modi, dei simboli, dei miti e dei generi letterari, Torino, Einaudi, 1969].

Roberto Manassero Psycho 1 Marion vive a Phoenix, ha una relazione con Sam, un californiano divorziato, e lavora come segretaria in un’agenzia immobiliare. Quando il suo capo le affida una grossa somma di denaro destinata alla banca, non resiste alla tentazione e fugge verso la California con i soldi. Durante il viaggio, sorpresa da un temporale, si ferma al Bates Motel e qui conosce il proprietario, Norman, che vive con la madre malata nella casa adiacente. Ritiratasi nella sua stanza, Marion entra nella doccia, ma qui viene brutalmente uccisa da una donna. È Norman a scoprire il cadavere e a occultarlo affinché la madre non sia arrestata. Il giorno dopo, sorpresi dall’assenza di Marion, la sorella Lila, Sam e Arbogast, un detective ingaggiato dall’agenzia immobiliare, si mettono sulle sue tracce. È Arbogast ad arrivare al Bates Motel, ma anch’egli viene ucciso dalla madre di Norman, dopo essere entrato nella sua casa. Sulle tracce del detective, Lila e Sam giungono al motel e vengono a sapere dallo sceriffo del luogo che in realtà Norman vive solo da quando la madre è morta insieme con il secondo marito. Mentre Sam distrae Norman, Lila penetra nella casa e qui, nascosta nella cantina, trova sua madre: un cadavere impagliato con abiti femminili. Lila viene aggredita da Norman travestito da donna, ma è salvata da Sam. L’uomo è arrestato e rinchiuso in isolamento, con la personalità della madre ormai predominante su quella del figlio. 2 B. Grespi, Appunti su un motivo paesaggistico del genere western, in Le frontiere del far west. Forme di rappresentazione del grande mito americano, a cura di S. Rosso, Milano, Shake Edizioni, 2008, pp. 167-175. 3 «The Guardian», 16 January 2009. 4 «Donna», 27 settembre 2003. 5 F. Grosoli, To Die for, in «Cineforum» (1995), n. 345, p. 19. 6 «Donna», 27 settembre 2003. 7 P. Bonitzer, It’s Only a Firm o la facciata del nulla, in Per Alfred Hitchcock, a cura di E. Bruno, Montepulciano, Editori del Grifo, 1981, p. 46. 8 C. Lévi-Strauss, Il pensiero selvaggio, Milano, Il Saggiatore, 1970, p. 45. 9 Ivi. 10 A proposito di nouveau réalisme e, in particolare, di Yves Klein, rimandiamo a P. Restany, Yves Klein. Il fuoco nel cuore del vuoto, Milano, Giampaolo Prearo Editore, 2008. 11 Il confronto/scontro con Hitchcock è sottolineato dallo stesso Van Sant all’inizio del film. Rielaborando la pratica del cameo, egli si presenta in scena nello stesso momento di Hitchcock, quando Marion entra in ufficio,

alla destra di un piano medio che riprende la stanza dall’interno. Van Sant sta parlando con un uomo che sembra rimbrottarlo e che è con tutta evidenza il sosia di Hitchcock; inoltre, l’inquadratura è speculare a quella del film originale in cui compare Hitchcock: l’una ha l’asse rivolto verso destra, l’altra verso sinistra. Quindi, sono l’una lo specchio dell’altra; meglio ancora, l’una l’annullamento dell’altra. 12 Lévi-Strauss, Il pensiero selvaggio, cit., p. 44. 13 Per conoscere aneddoti e particolari sulla lavorazione del film rimandiamo a S. Rebello, Come Hitchcock ha realizzato Psycho, Milano, Il Castoro Cinema, 1998. 14 A. Morsiani, Gus Van Sant, Milano, Il Castoro Cinema, 2003, p. 108. 15 F. Truffaut, Il cinema secondo Hitchcock, Parma, Pratiche, 1998, p. 14. 16 Sull’evoluzione del linguaggio classico attraverso la forma melodrammatica rimandiamo a Veronica Pravadelli e al suo La grande Hollywood – Stili di vita e di regia nel cinema classico americano, Venezia, Marsilio, 2007. Pravadelli sostiene che il cinema più innovativo degli anni quaranta e cinquanta è caratterizzato da un superamento della classicità, in favore di un registro melodrammatico e attrazionale. «La componente attrattiva», scrive, «domina su quella narrativa e configura per il melodramma uno statuto anticlassico: la propensione per le sensazioni vivaci, le impressioni rapide e potenti, sovrasta l’interesse per la motivazione e la causalità narrativa, così come il ricorso all’episodicità, alle coincidenze e all’impulsività rappresenta una sfida all’unità diegetica e allo sviluppo logico dell’azione» (p. 198). Inoltre, l’origine popolare del melodramma porta a un recupero da parte di questo cinema di un sensazionalismo e di un thrill «imbevuti di attrazionalità primitiva» (p. 203): un processo, sostiene Pravadelli, che coinvolge sia la forma, cioè la materialità della sensazione, sia l’esperienza spettatoriale, e che trova proprio in Psycho il suo punto d’arrivo. «Il film di Hitchcock», scrive, «rappresenterebbe la radicalizzazione o la messa in scena più esplicita sia del lavoro sulla visione svolto dal noir, che della scrittura della sensazione portata avanti dagli anni quaranta congiuntamente del noir, dal melodramma e […] dal musical» (p. 204).

Luisella Farinotti Elephant Cfr. Événement: Les années 2000, in «Cahiers du cinéma», 652, 2010, pp. 8-53. Una giornata qualunque di un gruppo di studenti di una High School, fissata in alcuni momenti. John arriva a scuola in ritardo accompagnato dal padre ubriaco; Elias è a caccia di soggetti fotografici, incontra una coppia, si avvia verso il laboratorio di sviluppo, va in biblioteca; Nathan lascia il campo di gioco e raggiunge Carrie, la fidanzata. Michelle, una ragazza goffa e solitaria, viene sgridata dall’insegnante di ginnastica. Acadia partecipa a un gruppo di lavoro sui diritti delle minoranze sessuali, in cui si discute su come sia possibile riconoscere un gay. Alex segue una lezione di fisica e viene bersagliato con delle pallottole di carta bagnata dai compagni. Tre ragazze chiacchierano di shopping, diete, gelosia, amicizia e fidanzati. Dopo aver mangiato in mensa, vanno in bagno per vomitare. A casa, da solo, Alex suona il piano. È raggiunto da Eric che si mette a giocare a un videogioco. Insieme navigano in rete, guardano in tv un programma sul nazismo, ricevono dei fucili che provano in cantina e mettono a punto un piano con tanto di mappa con diverse ipotesi di percorso. Vestiti con mimetiche militari, carichi di armi e munizioni, salgono in macchina ripromettendosi di passare una giornata divertente. A scuola uccidono diversi compagni, il preside e alcuni impiegati, inseguendoli con fredda determinazione. 3 P. Dubois, Un “effet cinéma” dans l’art contemporain, in Id. (ed.), Cinéma et art contemporain/ Cinema and Contemporary Visual Arts, in «Cinema & Cie», 8, 2006, p. 21. 4 Work in progress. Intervista a Gus Van Sant, a cura di A. Termenini, in «Cineforum», 430, 2003, p. 9. 5 Intervista nel sito del magazine «Slant»: http://www.slantmagazine.com/film/features/gusvansant.asp 6 A. Bazin, Che cos’è il cinema?, Milano, Garzanti, 1986, p. 79. 7 M. Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito, Milano, SE, 1989, p. 81. Su questi temi si veda P. Bertetto, Lo specchio e il simulacro, Milano, Bompiani, 2007 che, proprio a partire dall’analisi di Merleau-Ponty, propone un interessante rilancio della questione. Cfr. in particolare pp. 92 ss. e 127 ss. 8 Elephant è stato girato nell’edificio dismesso della Whitaker School, a Portland, ma niente nel film può essere ricondotto a quel luogo e a quella città. 9 R. Bellour, Le parti pris du réel, in «Trafic», 49, 2004, p. 12. 10 Il film è pieno di segnali temporali, affidati sia ai dialoghi sia a elementi della messa in scena. La ricostruzione dei tempi in cui si dispongono le azioni può essere fatta a partire dall’ora segnata dall’orologio della segreteria, le 11.09’, nel momento in cui John entra a scuola. 11 Già la prima immagine di Elias dichiara una poetica: nel parco, nei pressi della scuola, alla coppia disposta a farsi fotografare spiega che il suo lavoro riguarda soprattutto ritratti di gente. «Gente nuda?» – chiede il ragazzo – «non vuoi che ci spogliamo per fare la foto?» Elias suggerisce di “camminare”, opponendo un gesto naturale e qualunque a una “drammaturgia della posa”. Un gesto, tra l’altro, che anticipa le lunghe camminate dei personaggi del film, perfino nei modi della ripresa (Elias si muove con e come il soggetto ripreso, 1 2

esattamente come fa la macchina da presa nel film). 12 Bertetto, Lo specchio e il simulacro, cit., p. 92. 13 E. Giannouri, La marche des images, in Dubois, Un “effet cinéma” dans l’art contemporain, cit., pp. 66-67. 14 È quello che Fragapane definisce «scavalcamento del controcampo». Cfr. G.D. Fragapane, A. Minuz, Elephant di Gus Van Sant. Logica e circuiti della ripetizione, Roma, Onyx Edizioni, 2005, p. 118.

Andrea Minuz Paranoid Park 1 Alex è un liceale di Portland con la passione per lo skateboard. Un giorno lui e il suo amico Jared vanno a visitare Paranoid Park, uno skatepark ricavato sotto un ponte che è anche tra i più malfamati luoghi di raduno per gli emarginati della città. Alex ne resta affascinato e decide di tornarci una sera, da solo. Giunto a Paranoid Park conosce quindi altri skaters, tra i quali un ragazzo, più grande di lui, che gli propone di andare allo scalo ferroviario per saltare su un treno merci in corsa. La bravata si trasforma in tragedia quando Alex, nel tentativo di divincolarsi da un sorvegliante che si è accorto dei due ragazzi sul vagone, colpisce la guardia facendola cadere tra i binari mentre è in arrivo un altro treno. L’uomo muore tranciato di netto dalla locomotiva. Alex fugge terrorizzato e decide di non rivelare a nessuno l’accaduto, nascondendo ogni traccia della serata. Partono le indagini della polizia e i sospetti del detective Lu si indirizzano subito verso la comunità degli skaters di Portland. Alex sembra farla franca, ma la sua vita inizia ad andare in frantumi. Rivela il proprio malessere alla sua amica Macy che gli consiglia di scrivere una lettera con la quale raccontare quanto accaduto, e cos’è che lo fa stare così male. 2 Anche se Elephant è girato a Portland, utilizzando l’edificio dismesso della Whitaker Middle School, appare evidente in questo caso la volontà di trasfigurare il luogo nella sua dimensione anonima e ripetitiva (vedi l’insistenza sui lunghi corridoi della scuola) e perciò affatto ascrivibile al riconoscimento della realtà specifica di Portland. 3 In italiano tradotto nel 2007 da Rizzoli. 4 L’idea di palinsesto – ovvero di una scrittura stratificata da cui emergono le tracce dei testi precedenti, come nel caso delle antiche pergamene raschiate e riutilizzate più volte – è la metafora che sta alla base della teoria dell’intertestualità elaborata da Genette. Un testo lascia sempre intravedere l’opera (o la serie di opere) da cui deriva, attraverso varie strategie che Genette si occupa quindi di formalizzare. Cfr. G. Genette (1982), Palinsesti: la letteratura al secondo grado, Torino, Einaudi, 1997. 5 In Work in Progress. Conversazioni con un cineasta nomade, intervista a Gus Van Sant di A. Termenini, in Id., Gus Van Sant. L’indipendente che piace a Hollywood, Bergamo-Pisa, Edizioni di Cineforum-Edizioni ETS, 2004, p. 69. 6 Gus Van Sant in ibid., p. 13. 7 Vedi il documentario sul film di Luc Lagier, prodotto da MK2, e allegato tra gli extra nell’edizione italiana del DVD. 8 Cfr. P. Ricoeur, Temps et récit, 3 voll., Paris, Seuil, 1983-1985, trad. it. Tempo e racconto, Milano, Jaca Book, 1986-1988. 9 Per una lettura della trilogia particolarmente attenta alla figurazione del corpo rimando a F. Bernard de Courville, La pesanteur et la grâce, in «Eclipses», n. 41, 2007, pp. 128-137 (numero monografico dedicato al cinema di Gus Van Sant). 10 Con questo termine si indica l’inclusione di una figura umana, ripresa di spalle, nel contesto di un paesaggio. Tipica della pittura romantica e dell’opera di Caspar David Friedrich in particolare essa si offre allo sguardo come un doppio dell’osservatore, vale a dire la replica di un punto di vista riscritto all’interno dell’immagine secondo un procedimento di mise en abyme dell’atto di visione. 11 Cfr. A. Taubin, Portrait of the Artist?, in «ArtForum», vol. 46, n. 7, marzo 2008, pp. 107-116. 12 Cfr. T. Elsaesser, The Mind-Game Film, in Puzzle Films. Complex Storytelling in Contemporary Cinema, a cura di W. Buckland, Malden, (MA), WileyBlackwell, 2009, pp. 13-41. Vedi anche T. Elsaesser, M. Hagener, Filmtheorie. Zur Einführung, Hamburg, Junius Verlag, 2007, trad. it. Teoria del film. Un’introduzione, Torino, Einaudi, 2009. Vedi in particolare il cap. VII (Mente e cervello). 13 Ibid., pp.173-174. 14 Cfr. M. Ratner, Paranoid Park. The Home Front, in «Film Quarterly», vol. 62, n. 1, Fall 2008, pp. 2631. Su questi aspetti del cinema e della narrazione contemporanea rimando in estrema sintesi a T. Elsaesser, Tales of Epiphany and Entrophy: Paranarrative Worlds on You Tube, in Film Theory and Contemporary Hollywood Movies, a cura di W. Buckland, New York, Routledge, 2009, pp. 150171. 15 Intervista rilasciata a Michael Guillen (Paranoid Park: An Evening Class Question for Gus Van Sant; http://theeveningclass.blogspot.com/2007/12/paranoid-park-evening-class-question.html). 16 Ibid., p.174. 17 A. Warhol, The Philosophy of Andy Warhol (From A to B and Back Again), New York, Harcourt, trad. it. La

filosofia di Andy Warhol, Genova, Costa & Nolan, 1990, p. 131. 18 Riprendo da Marco Senaldi il termine da lui utilizzato a proposito del cinema di Warhol. Vedi il suo Doppio sguardo. Cinema e arte contemporanea, Milano, Bompiani, 2008. 19 M. Di Donato, La spazializzazione acustica nel cinema contemporaneo. Tecnica, linguaggio, modelli di analisi, Roma, Onyx, 2006, p. 90. 20 Cfr. www.secretcinema.org

Apparati

Biografia a cura di Tamara Manco Gus Green Van Sant Jr nasce il 24 luglio 1952 a Louisville, Kentucky, in una famiglia della upper-middle class. A causa della professione del padre Gus Sr, commesso viaggiatore, il giovane è costretto ad affrontare continui trasferimenti che lo portano in Colorado, California e Illinois prima di fermarsi a Darien, Connecticut, nel 1962. I lunghi viaggi affrontati in questi anni acuiscono nel ragazzo una particolare sensibilità verso il grande paesaggio americano e la dimensione on the road, aspetti che torneranno nelle opere del futuro regista. I primi anni alla Darien High School sono importanti per la presenza di due insegnanti: l’eccentrico Bob Levine, che avvicina lo studente all’arte contemporanea e in particolare a quella di Warhol, e il docente di letteratura David Sohn, che mostra ai suoi allievi i lavori sperimentali del National Film Board of Canada e li incoraggia a realizzare brevi film da proiettare in classe. È qui che Van Sant inizia a dipingere, fotografare, fare musica e girare i suoi primi cortometraggi con una cinepresa Super 8 acquistata con i propri risparmi. Nel 1970 il ragazzo è però costretto di nuovo a fare le valigie e partire per Portland, Oregon, dove frequenta l’ultimo anno scolastico alla Catlin Gabel. Qui stringe amicizia con Eric Alan Edwards, inaugurando un lungo sodalizio che li vedrà impegnati alla regia e alla fotografia a partire dal corto The Happy Organ, realizzato per l’esame di diploma. Nel 1971 entrambi si iscrivono al dipartimento di cinematografia della prestigiosa Rhode Island School of Design di Providence, dove si appassionano al cinema sperimentale di Warhol, Brakhage, Rice, Mead, Belson e Mekas, ma anche a quello di autori europei come Buñuel e Godard, ai quali si ispirano per la realizzazione del mediometraggio Late Morning Start. Ottenuto il diploma, nel 1976 Van Sant si trasferisce a Los Angeles dove viene assunto come assistente alla produzione dal regista Ken Shapiro. Qui può osservare da vicino il funzionamento dello studio system e spera di trovare finanziatori per i suoi progetti, ma all’iniziale euforia segue presto la consapevolezza delle continue pressioni alle quali sono sottoposti gli autori e della trama di rapporti da intessere per entrare nel giro che conta. All’esclusivo ambiente degli studios, Van Sant preferisce il lato oscuro della città, quella fauna di emarginati, falliti e reietti che anima Hollywood Boulevard e che tanto spazio avrà nei suoi primi lungometraggi. Anche per questo nel 1977 accetta di tornare a Portland per un ingaggio come tecnico del suono nel film di Penny Allen Property, dove ritrova l’amico Edwards ed entra in contatto con un modo più libero di fare cinema, promosso da un piccolo gruppo di artisti poliedrici capaci di creare un clima stimolante sia dal punto di vista artistico che umano. La ritrovata vitalità gli dà lo slancio per realizzare nel 1978 il cortometraggio The Discipline of D.E. tratto da un racconto di William Burroughs, la cui proiezione al New York Film Festival segna il primo riconoscimento per il giovane cineasta e l’inizio di un rapporto di stima e collaborazione con lo scrittore. Tornato a Los Angeles nel 1979, Van Sant tenta di realizzare il suo primo lungometraggio grazie a un prestito del padre, ma la lavorazione di Alice in Hollywood si rivela più difficile del previsto, e quando viene portato a termine è ridotto a un mediometraggio di 40’ che non trova nessun distributore. Per riordinare le idee e ripianare i debiti, il regista è costretto a tornare a Darien dalla famiglia e lavorare per un anno nell’azienda di abbigliamento del padre, dopodiché viene assunto come assistente di produzione in una rinomata agenzia pubblicitaria di New York. Messo da parte abbastanza denaro, Van Sant lascia l’impiego e si trasferisce a Portland, dove trova finalmente la sua dimensione. Qui si impegna in prima persona per la tutela

dei malati di AIDS e della minoranza gay e lesbica alla quale appartiene, e torna a dedicarsi alle sue prime passioni come la pittura, la fotografia (nel 1993 pubblicherà la raccolta 108 Portraits) e la musica, suonando nella band Destroy All Blondes e componendo pezzi che nel 1989 verranno raccolti negli album 18 Songs About Golf e Gus Van Sant. Qui, nel 1985, con un budget di 25.000 dollari e l’aiuto dei cineasti conosciuti durante le riprese di Property, realizza il suo primo lungometraggio Mala Noche, che viene accolto con entusiasmo al Festival di Berlino ed è premiato dalla Los Angeles Film Critic Association come miglior film indipendente. Il nome di Van Sant comincia a circolare non solo nell’ambiente del cinema underground e di quello omosessuale (Mala Noche vince la prima edizione del Festival Gay e Lesbico di Torino e i corti Five Ways to Kill Yourself e My New Friend sono premiati ai Teddy Awards di Berlino) ma anche in quello delle major, attirando l’attenzione della Universal che giudica però i suoi progetti troppo rischiosi. La prima fase della carriera di Van Sant continua dunque sotto l’insegna del cinema indipendente, dando vita a due piccoli cultmovie: Drugstore Cowboy (1989) e Belli e dannati (1991). Il primo, tratto dal romanzo del detenuto James Fogle e ispirato ai ritratti di giovani tossicodipendenti del fotografo Larry Clark (col quale nel 1995 Van Sant collaborerà nella produzione del film d’esordio Kids), vanta una breve apparizione di Burroughs nei panni di un prete. Belli e dannati, nato da un soggetto originale di Van Sant, si segnala invece per la presenza del giovane attore River Phoenix, con il quale sviluppa un rapporto di profonda amicizia. In questi anni Van Sant si dedica anche a progetti minori come la realizzazione di videoclip per artisti del calibro di Bowie, Red Hot Chili Peppers o Elton John e la realizzazione di corti tra cui spiccano i polemici Thanksgiving Prayer (1991) e The Ballad of the Skeletons (1997), nei quali Burroughs e Ginsberg lanciano ironici strali contro i potenti responsabili del degrado sociale e culturale della propria terra. Dopo questa serie di successi, nel 1993 la carriera del cineasta subisce una prima battuta d’arresto con la pessima accoglienza riservata a Cowgirl - Il nuovo sesso e il naufragio di The Mayor of Castro Street, adattamento del libro di Randy Smith sulla vita di Harvey Milk, primo omosessuale dichiarato a essere eletto a una carica pubblica negli Stati Uniti. Nello stesso anno il regista è colpito dal lutto per l’improvvisa morte di River Phoenix, che cercherà di rielaborare quattro anni più tardi nella scrittura del romanzo Pink (in Italia edito da Minimum Fax) dedicato proprio al giovane amico scomparso. Dopo una pausa di riflessione, nel 1995 Van Sant compie il grande salto nel mondo delle major accettando il suo primo lavoro su commissione da parte della Columbia, che lo ha scelto per mettere in scena il romanzo di Joyce Maynard Da Morire. Il vero ingresso nel mainstream arriva però nel 1997 con lo strepitoso successo ottenuto da Will Hunting Genio Ribelle, prodotto dalla Miramax, che incassa più di 200 milioni di dollari e vince due premi Oscar. Questo gli permette, un anno dopo, di mettere in cantiere un rischioso progetto di ascendenza warholiana: la realizzazione di un remake del capolavoro di Hitchcock Psyco ricostruito inquadratura per inquadratura, che viene accolto però con freddezza da pubblico e critica. Il passo falso non mina la credibilità del regista di fronte agli studios, tanto che nel 2000 la Columbia gli affida un budget di 40 milioni di dollari (il più alto della sua carriera) per la realizzazione di Scoprendo Forrester. Il lavoro con le major costringe in questi anni Van Sant a risiedere per lunghi periodi a New York, in un appartamento che dista pochi isolati dal World Trade Center e dal quale l’11 settembre 2001 assiste allo schianto del secondo aereo sulle Twin Towers. A questo punto della sua carriera il regista sente il bisogno di fare un passo indietro e tornare a

produzioni indipendenti e a basso budget, realizzando tra il 2002 e il 2005 una trilogia nella quale sviluppa una personale riflessione sulla giovinezza e la morte, composta da film accomunati dall’assenza di trama e di dialoghi significativi, e da un montaggio dilatato che si ispira ai lunghi piani sequenza del maestro ungherese Béla Tarr. Il primo di questi, Gerry, divide pubblico e critica tra entusiasmo per il nuovo corso seguito dal regista e derisione per quella che ad alcuni sembra una parodia del cinema d’autore europeo. Il successivo Elephant, ispirato al massacro della Columbine High School e girato a Portland con attori non professionisti, segna sia il momento di massimo riconoscimento della carriera del regista, che riceve al 56° Festival di Cannes la Palma d’Oro per il miglior film e il premio per la miglior regia, sia quello di maggiore attrito con una parte della critica statunitense, che gli contesta la scelta di non fornire spiegazioni alla violenza dei protagonisti. Chiude la serie Last Days, che rimanda alla tragica fine della rockstar Kurt Cobain e nel quale i canoni stilistici della trilogia cominciano ad accusare una certa ripetitività. Si distacca da questi stilemi il successivo Paranoid Park (2007), nel quale il regista, pur affidandosi ancora a una produzione indipendente e ad attori non professionisti, torna a un uso più convenzionale di trama, dialoghi e montaggio, soprattutto per le necessità di adattamento del romanzo di Blake Nelson. Nello stesso anno il cineasta partecipa al film collettivo Chacun son cinéma per il 60° anniversario del Festival di Cannes, operazione analoga a quelle che lo vedono impegnato nei progetti Paris Je t’aime e 8. Nel 2008 con Milk Van Sant ritorna al cinema mainstream, ma lo fa con il più politico dei suoi film. Riprendendo un progetto a lui caro abbandonato quindici anni prima, il regista utilizza i canoni classici del biopic hollywoodiano e la presenza di una star come Sean Penn per far conoscere al grande pubblico la vita e le idee dell’attivista gay assassinato a San Francisco nel 1978. Il film riscuote un ampio successo di pubblico e critica, confermando la capacità del cineasta americano di incarnare entrambe le anime del cinema americano, quella classica e quella sperimentale. Nel 2011 Van Sant ritorna a Portland e ai temi prediletti dell’adolescenza e della morte con il suo ultimo lavoro Restless, presentato in anteprima al Festival di Cannes. Scritto da Jason Lew e prodotto da Brian Grazer, Ron Howard e Bryce Dallas Howard per Imagine Entertainment e Columbia, il film vede come protagonisti l’astro nascente Mia Wasilowska e Henry Hopper, figlio del compianto Dennis al quale il film è dedicato.

Filmografia a cura di Tamara Manco CORTOMETRAGGI

1967 Fun With a Bloodroot (8 mm, colore, 3’) 1971 The Happy Organ (16 mm, b/n, 20’) 1972 Little Johnny (16 mm, b/n, 1’) 1973 1/2 of a Telephone Conversation (16 mm, b/n, 28’) 1975 Late Morning Start (16 mm, colore, 28’) 1978 The Discipline of D.E. (16 mm, b/n, 9’) 1981 Alice in Hollywood (16 mm, colore, 45’) My Friend (16 mm, b/n, 3’) Fly Flame (16 mm) 1983 Where’d She Go? (16 mm, colore, 3’) 1984 Nightmare Typhoon (16 mm, b/n, 9’) 1986 Switzerland 1987 Five Ways to Kill Yourself (16 mm, b/n, 3’) My New Friend (16 mm, colore, 3’) Ken Death Gets Out of Jail (16 mm, b/n, 3’) Junior (2’) 1988 Five Naked Boys and a Gun 1991 Thanksgiving Prayer (35 mm, b/n, 3’) The Flez Sint 1996 Four Boys in a Volvo (4’) Ballad of the Skeletons (35 mm, b/n e colore, 5’) 2000 Easter (Betacam, colore, 33’)

2001 Smoking Man LUNGOMETRAGGI

1985 Mala Noche Regia: Gus Van Sant; sceneggiatura: Gus Van Sant dal racconto di Walt Curtis; fotografia (b/n e colore, 16 mm): John Campbell, Eric Alan Edwards; montaggio: Gus Van Sant; musica: Creighton Lindsay; suono: Pat Baum; interpreti: Tim Streeter (Walt), Doug Cooeyate (Johnny), Ray Monge (Roberto Pepper), Nyla McCarthy (Betty), Sam Downey (impiegato dell’hotel), Bob Pitchlynn (ubriaco), Eric Pedersen (poliziotto), Marty Christiansen (amico del bar), Bad George Connor (Wino), Walt Curtis (George), Don Chambers (se stesso); produzione: Gus Van Sant per Northern Film; produttori associati: Jack Yost, Chris Monlux; distribuzione: Respectable Films; origine: USA; durata: 78’. 1989 Drugstore Cowboy (Id.) Regia: Gus Van Sant; soggetto: dal romanzo di James Fogle; sceneggiatura: Gus Van Sant, Daniel Yost; fotografia (colore, 35 mm): Robert Yeoman; montaggio: Curtiss Clayton, Mary Bauer; musica: Elliot Goldenthal; scenografia: David Brisbin; costumi: Beatrix Aruna Pasztor; suono: Rod Judkins; interpreti: Matt Dillon (Bob Hughes), Kelly Lynch (Dianne), James Le Gros (Rick), Heather Graham (Nadine), James Remar (Gentry), William S. Burroughs (Tom il prete), Grace Zabriskie (madre di Bob), Max Perlich (David), Beach Richards (consulente), Mike Parker (ragazzo che piange), Ray Monge (tossicodipendente); produzione: Nick Wechsler e Karen Murphy per Avenue Pictures; distribuzione italiana: Filmauro; origine: USA; durata: 100’. Sinossi: Portland, 1971. Una banda formata da due coppie di tossicodipendenti, capeggiata da Bob Hughes, rapina farmacie per procurarsi gli stupefacenti. I quattro sono costretti a spostarsi continuamente perché braccati dalla polizia, la quale però non riesce a incastrarli. La giovanissima Nadine, ultima arrivata nel gruppo, fatica a comprendere le regole della malavita e le strane superstizioni di Bob e della moglie Dianne, e dopo aver compromesso un furto viene esclusa dal colpo successivo e lasciata sola in un motel. Al loro ritorno però i compagni trovano la ragazza morta per overdose, mentre l’albergo si sta riempiendo di sceriffi giunti in città per un convegno. Sconvolto, Bob seppellisce Nadine in un bosco e torna a Portland a disintossicarsi. Qui trova un lavoro onesto e una casa, ma una notte subisce l’irruzione di due spacciatori che lo pestano e gli sparano. Caricato in ambulanza, il ragazzo medita sulla sua sfortuna, ma è contento di essere ancora vivo. 1991 My Own Private Idaho (Belli e dannati) Regia: Gus Van Sant; soggetto e sceneggiatura: Gus Van Sant; fotografia (colore, 35 mm): Eric Alan Edwards, John Campbell; montaggio: Curtiss Clayton; musica: Bill Stafford; scenografia: David Brisbin, Ken Hardy; costumi: Beatrix Aruna Pasztor; suono: Reinhard Stergar, Robert Marts, Jan Cyr, John Huck; interpreti: River Phoenix (Mike Waters), Keanu Reeves (Scott Favor), James Russo (Richard Waters), William Richert (Bob Pigeon), Rodney Harvey (Gary), Udo Kier (Hans Klein), Chiara Caselli (Carmela),

Jessie Thomas (Denise), Michael Parker (Digger), Grace Zabriskie (Alena), Flea (Budd), Tom Troupe (Jack Favor), Mickey Cotrell (papà Carroll), Sally Curtice (Jane Lightwork), Robert Lee Pitchlynn (Walt); produzione: Laurie Parker per New Line Cinema; distribuzione italiana: Penta; origine: USA; durata: 105’. Sinossi: Mike è un ragazzo di strada che si prostituisce e soffre di attacchi di narcolessia, durante i quali ha visioni della madre che lo ha abbandonato da piccolo. Durante le crisi, spesso è tratto in salvo dall’amico Scott, figlio del potente sindaco di Portland che si è dato alla vita da strada per amore del vecchio Bob Pigeon, sorta di re dei bassifondi che occupa un albergo abbandonato con la sua corte di reietti. Mike, accompagnato da Scott, intraprende un viaggio alla ricerca della madre, che lo porta prima in Idaho dal fratello, poi in un motel dove la donna ha lavorato e infine in Italia, nella campagna romana, dove Scott si innamora di Carmela e abbandona l’amico per portarla in America. Dopo qualche tempo, a Portland, Mike ritorna alla sua solita vita mentre Scott, il giorno stesso della morte del padre, abbandona la strada rinnegando pubblicamente l’amico Bob, che muore di crepacuore. I funerali di Bob e del sindaco si svolgono in contemporanea, uno chiassoso e l’altro formale, con Scott e Mike che ormai si osservano a distanza. 1993 Even Cowgirls Get the Blues (Cowgirl – Il nuovo sesso) Regia: Gus Van Sant; soggetto: dal romanzo di Tom Robbins; sceneggiatura: Gus Van Sant; fotografia (colore, 35 mm): John Campbell, Eric Alan Edwards; montaggio: Curtiss Clayton; musica: k.d. lang, Ben Mink; effetti speciali: Morgan Guynes; scenografia: Missy Stewart; costumi: Beatrix Aruna Pasztor; interpreti: Uma Thurman (Sissy Hankshaw), John Hurt (Contessa), Rain Phoenix (Bonanza Jellybean), Noriyuki “Pat” Morita (il “Cinese”), Keanu Reeves (Julian Gitchie), Lorraine Bracco (Delores Del Ruby), Angie Dickinson (la signorina Adrian), Sean Young (Marie Barth), Crispin Glover (Howard Barth), Heather Graham (cowgirl Heather), Buck Henry (il dottore), Ed Begley Jr (Rupert), Udo Kier (il regista), Ken Kesey (papà di Sissy), Grace Zabriskie (mamma di Sissy), William Burroughs (se stesso), Carol Kane, Roseanne Arnold; produzione: Laurie Parker per New Line Cinema/Fourth Vision; distribuzione italiana: Cecchi Gori; origine: USA; durata: 93’. Sinossi: Sissy Hankshaw, nata con due lunghissimi pollici, sfrutta il suo difetto per diventare la migliore autostoppista del mondo. Giunta a New York, accetta la proposta del ricco travestito Contessa di girare uno spot per un suo centro di bellezza in un ranch dell’Oregon, dove sosta ogni anno l’ultima colonia di gru americane e che è stato scelto come base da un gruppo di cowgirls femministe guidate da Bonanza Jellybean, con la quale Sissy inizia una storia d’amore. Quando queste occupano il ranch con la forza, la ragazza riprende i suoi vagabondaggi fino a trovarsi di nuovo faccia a faccia con Contessa, che colpisce duramente durante un alterco causandogli seri danni cerebrali. Sconvolta dalla sua forza, Sissy si sottopone a un’operazione di riduzione dei pollici prima di tornare al ranch, assediato dalla polizia da quando le cowgirls hanno sospeso la migrazione delle gru drogandole col peyote. L’esaurirsi della scorta di funghi costringe le ragazze ad arrendersi, ma quando Jellybean esce per negoziare la resa i poliziotti le sparano colpendola a morte, mentre gli uccelli prendono il volo. Alla fine Contessa cede il ranch alle cowgirls sotto la direzione di Sissy, che si inoltra nel deserto per bruciare le lettere della sua amata. 1995

To Die for (Da morire) Regia: Gus Van Sant; soggetto: dal romanzo di Joyce Maynard; sceneggiatura: Buck Henry; fotografia (Technicolor, 35 mm): Eric Alan Edwards; montaggio: Curtiss Clayton; musica: Danny Elfman; scenografia: Missy Stewart; costumi: Beatrix Aruna Pasztor; interpreti: Nicole Kidman (Suzanne Stone), Joaquin Phoenix (Jimmy Emmett), Matt Dillon (Larry Maretto), Casey Affleck (Russell Hines), Dan Hedaya (Joe Maretto), Illeana Douglas (Janice), Alison Folland (Lydia Mertz), Maria Tucci (Angela Maretto), Kurtwood Smith (Earl Stone), Holland Taylor (Carol), Susan Traylor (Faye Stone), Wayne Knight (Ed Grant), Buck Henry (professor Finlaysson), George Segal (l’uomo della televisione), David Cronenberg (l’uomo del lago); produzione: Laura Ziskin per Columbia Pictures; distribuzione italiana: Uip; origine: USA; durata: 103’. 1997 Good Will Hunting (Will Hunting – Genio Ribelle) Regia: Gus Van Sant; soggetto e sceneggiatura: Matt Damon, Ben Affleck; fotografia (colore, 35 mm): Jean Yves Escoffier; montaggio: Pietro Scalia; musica: Danny Elfman; scenografia: Missy Stewart; costumi: Beatrix Aruna Pasztor; suono: Steve Kohler; interpreti: Matt Damon (Will Hunting), Ben Affleck (Chuckie), Stellan Skarsgard (professor Gerald Lambeau), Robin Williams (professor Sean McGuire), Rachel Majorowski (Krystyn), Minnie Driver (Skylar), Colleen McCauley (Cathy), Cole Hauser (Billy), John Mighton (Tom), Scott Williams Winters (Clark), Rob Lyons (Carmine Scarpaglia), Casey Affleck (Morgan); produzione: Lawrence Bender per Miramax; distribuzione italiana: Buena Vista; origine: USA; durata: 126’. Sinossi: Boston. Will Hunting è un ventenne dotato di grande intelligenza che, rimasto presto orfano, lavora come addetto alle pulizie al MIT e passa il suo tempo libero al pub, finendo spesso per mettersi nei guai per via del suo carattere rissoso. Un giorno il suo talento viene scoperto dal professor Lambeau, che lo sorprende a scrivere delle complesse formule matematiche sulla sua lavagna. Finito in carcere per aver colpito un agente, il ragazzo accetta la proposta del docente di lavorare al suo fianco e frequentare uno psicologo in cambio del pagamento della cauzione. Ma se il lavoro procede a gonfie vele, il ragazzo si dimostra ostile verso la terapia, almeno fino a quando non incontra il prof. McGuire, il quale a poco a poco conquista la sua fiducia. Nel frattempo Will frequenta la studentessa Skylar, lasciandola però in malo modo quando questa gli chiede di seguirla in California. Dopo aver mandato a monte una serie di prestigiosi colloqui di lavoro per farsi assumere in un cantiere, il ragazzo viene affrontato duramente dall’amico Chuckie, che lo esorta a sfruttare le sue doti per non accontentarsi di una vita da fallito. Così, dopo un ultimo liberatorio incontro con McGuire in cui confessa gli abusi subiti durante l’infanzia, Will parte per la California con un’auto regalatagli dagli amici per il suo compleanno. 1998 Psycho (Id.) Regia: Gus Van Sant; soggetto: dal romanzo di Robert Block e dal soggetto del film omonimo (1960) di Alfred Hitchcock; sceneggiatura: Joseph Stefano; fotografia (colore, 35 mm): Chris Doyle; montaggio: Amy E. Duddle ston; musica: Bernard Herrmann (adattata da Danny Elfman); scenografia: Tom Foden; costumi: Beatrix Aruna Pasztor; interpreti: Vince Vaughn (Norman Bates), Julianne Moore (Lila Crane), Viggo Mortensen (Sam Loomis), William H. Macy (Milton Arbogast), Anne Heche (Marion Crane), Robert Forester (il dottor Richmond), Philip Baker Hall (lo sceriffo Chambers), Anne Haney (la

signora Chambers), Chad Everett (Tom Cassidy), Rance Howard (signor Lowery), Rita Wilson (Caroline), James Remar (l’agente della stradale), James Le Gros (rivenditore di auto); produzione: Brian Grazer e Gus Van Sant per Universal/Imagine Entertainment; distribuzione italiana: Uip; origine: USA; durata: 104’. 2000 Finding Forrester (Scoprendo Forrester) Regia: Gus Van Sant; soggetto e sceneggiatura: Mike Rich; fotografia (colore, 35 mm): Harris Savides; montaggio: Valdis Oskarsdottir; musica: Bill Frisell; scenografia: Harris Musky; costumi: Ann Roth; suono: Kelley Baker; interpreti: Sean Connery (William Forrester), Rob Brown (Jamal Wallace), F. Murray Abraham (professor Robert Crawford), Anna Paquin (Claire Spence), Michael Nouri (dottor Spence), Busta Rhymes (Terrell), April Grace (signora Joyce), Michael Pitt (Coleridge), Richard Easton (Matthews), Glenn Fitzgerald (Massie), Matt Damon (avvocato); produzione: Laurence Mark, Sean Connery e Rhonda Tollefson per Columbia Pictures; distribuzione italiana: Columbia; origine: USA-Canada; durata: 134’. Sinossi: New York, Bronx. Jamal Wallace è un sedicenne di colore con due passioni: la letteratura e il basket. Sfidato dagli amici a introdursi nell’appartamento di un vecchio sul quale circolano strane storie, il ragazzo inizia un rapporto di amicizia con lo sconosciuto, frequentando con regolarità la casa dove vive da recluso. Jamal scopre che si tratta del leggendario scrittore William Forrester, di cui nessuno aveva notizie da decenni, il quale lo aiuta a sviluppare il suo talento in cambio del riserbo. Nel frattempo il ragazzo riceve una borsa di studio da una prestigiosa scuola privata, dove però la sua bravura instilla sospetti di plagio nel professor Crawford, confermati quando questi scopre che parte di un suo scritto è copiato da un racconto di Forrester. Minacciato di espulsione, il ragazzo rifiuta di porgere le scuse, e quando gli viene offerto il perdono in cambio della vittoria del campionato di basket, sbaglia volontariamente i tiri liberi decisivi. Il giorno della lettura dei componimenti Jamal è escluso dal podio, ma tra lo stupore generale fa il suo ingresso in aula Forrester, che legge ad alta voce uno scritto dell’amico, scagionandolo dall’accusa di plagio. Lo scrittore si congeda dal ragazzo e torna nella sua patria scozzese, dove morirà un anno dopo lasciandogli tutti i suoi averi e un romanzo inedito di cui dovrà scrivere la prefazione. 2002 Gerry (Id.) Regia: Gus Van Sant; sceneggiatura: Gus Van Sant, Casey Affleck, Matt Damon; fotografia (Technicolor, 35 mm): Harris Savides; montaggio: Casey Affleck, Matt Damon, Gus Van Sant; musica: Arvo Pärt; interpreti: Matt Damon (Gerry), Casey Affleck (Gerry); produzione: Jay Hernandez e Dany Wolf per Epsilon Motion Pictures e My Cactus; origine: USA; durata: 103’. Sinossi: Due giovani amici, entrambi di nome Gerry, viaggiano in auto nel deserto per raggiungere un sentiero escursionistico. Scesi dalla macchina, i due si incamminano senza portare nulla con sé, e per evitare gli altri turisti escono dal percorso segnalato. Dopo qualche tempo i ragazzi si accorgono di essersi persi e, non riuscendo a tornare sui propri passi, decidono di passare la notte all’addiaccio. Per due giorni vagano continuamente senza trovare segni di vita, nemmeno salendo sulle montagne rocciose che sovrastano la pianura sconfinata, mentre la mancanza d’acqua rende il cammino sempre più lento. Il quarto giorno le loro condizioni sono ormai gravi e, arrivati a un grande deserto di sale, crollano a terra. Nel tentativo di rialzarsi, i due si avvinghiano

per qualche istante, fino a che uno non rimane a terra morto. Il sopravvissuto, rialzatosi, avvista in lontananza delle auto e lentamente si incammina verso la strada, dove viene tratto in salvo. 2003 Elephant (Id.) Regia: Gus Van Sant; soggetto e sceneggiatura: Gus Van Sant; fotografia (colore, 35 mm): Harris Savides; montaggio: Gus Van Sant; scenografia: Benjamin Hayden; costumi: Marychriss Mass; suono: Leslie Shatz; effetti speciali: Jor Van Kline; interpreti: Alex Frost (Alex), Eric Deulen (Eric), John Robinson (John McFarland), Elias McConnell (Elias), Jordan Taylor (Jordan), Carrie Finklea (Carrie), Nicole George (Nicole), Brittany Mountain (Brittany), Alicia Miles (Acadia), Kristen Hicks (Michelle), Bennie Dixon (Benny), Nathan Tyson (Nathan), Timothy Bottoms (signor McFarland), Matt Malloy (il preside Luce), Ellis E. Williams (supervisore del seminario), Chantelle Chriestenson (Noelle), Marychris Mass (la madre di Alex); produzione: Dany Wolf per HBO Films; distribuzione italiana: Bim; origine: USA; durata: 81’. 2005 Last Days (Id.) Regia: Gus Van Sant; soggetto e sceneggiatura: Gus Van Sant; fotografia (colore, 35 mm): Harris Savides; montaggio: Gus Van Sant; musica: Rodrigo Lopresti; scenografia: Tim Grimes; costumi: Michelle Matland; interpreti: Michael Pitt (Blake), Lukas Haas (Luke), Asia Argento (Asia), Scott Patrick Green (Scott), Nicole Vicius (Nicole), Ricky Jay (Detective), Ryan Orion (Donovan), Harmony Korine (uomo in discoteca), Rodrigo Lopresti (musicista in discoteca), Kim Gordon (il discografico), Adam Friberg (Elder Friberg n. 1), Andy Friberg (Elder Friberg n. 2), Thadeus A. Thomas (venditore), Chip Marks (potatore); produzione: Dany Wolf per HBO Films e Pie Films Inc.; distribuzione italiana: Bim; origine: USA; durata: 97’. Sinossi: Blake è il leader di un famoso gruppo rock, fuggito da una clinica per rifugiarsi, insieme ad altri musicisti, in una grande casa in mezzo a un bosco. I coinquilini lo trattano con un misto di rispetto e accondiscendenza, cercando per lo più di lascarlo in pace mentre assistono al suo progressivo sfacelo psichico, dal quale sembra risvegliarsi solamente quando imbraccia la chitarra per esprimere tutto il suo malessere. Una sera, rimasto solo nella tenuta, Blake si chiude in un capanno e si spara con il fucile che da giorni portava sempre con sé. Il suo cadavere viene rinvenuto il mattino dopo da un giardiniere, mentre gli amici, per paura di essere coinvolti nell’accaduto, radunano le loro cose e abbandonano la casa in tutta fretta. 2006 Le Marais (episodio di Paris, je t’aime) Regia: Gus Van Sant; soggetto e sceneggiatura: Gus Van Sant; fotografia (colore, digitale 4K): Pascal Rabaud; interpreti: Christian Bramsen (tipografo), Marianne Faithfull (Marianne), Elias McConnell (Elie), Gaspard Ulliel (Gaspard); produzione: Emmanuel Benbihy e Claude Ossard per Victoires International e Canal+; origine: FranciaLiechtenstein-Svizzera; durata: 6’. Film collettivo composto da 18 episodi sul tema dell’amore, ognuno ambientato in un diverso quartiere parigino. Sinossi: Gaspard accompagna Marianne in una tipografia del Marais (IV

arrondissement di Parigi) dove è immediatamente attratto dal taciturno impiegato Elie, sul quale cerca di fare colpo senza accorgersi della sua scarsa comprensione della lingua francese. 2007 Paranoid Park (Id.) Regia: Gus Van Sant; sceneggiatura: Gus Van Sant dal romanzo di Blake Nelson; fotografia (colore, 35 mm): Christopher Doyle, Rain Kathy Li; montaggio: Gus Van Sant; scenografia: John Pearson-Denning; costumi: Chapin Simpson; interpreti: Gabe Nevins (Alex), Daniel Liu (detectve Richard Lu), Jake Miller (Jared), Taylor Momsen (Jennifer), Lauren McKinney (Macy), Scott Patrick Green (Scratch), John Michael Burrowes (guardia), Grace Carter (la madre di Alex), Jay ‘Smay’ Williamson (il padre di Alex), Christopher Doyle (lo zio Tommy), Dillon Hines (Henry), Emma Nevins (Paisley), Brad Peterson (Jolt), Winfield Jackson (Christian), Joe Schweitzer (Paul), Oliver Garnier (Cal), Emily Galash (Rachel); produzione: David Allen Cress, Charles Gillibert, Nathanaël Karmitz, Neil Kopp per MK2 Productions; distribuzione italiana: Lucky Red; origine: USAFrancia; durata: 85’. First Kiss (episodio di Chacun son cinéma ou Ce petit coupa au coeur quand la lumière s’éteint et que le film commence) Regia: Gus Van Sant; interpreti: Paul Parson (proiezionista); produzione: Cannes Film Festival e Elzévir Films; origine: Francia; durata: 3’. Film collettivo composto da trentaquattro episodi, commissionato per il proprio sessantesimo anniversario dal Festival di Cannes, chiedendo a ogni regista di esprimere le sensazioni suscitate loro dalla sala cinematografica. Sinossi: un giovane proiezionista fa partire una pellicola che mostra le immagini di una spiaggia tropicale dove fa il suo ingresso una ragazza in bikini, per raggiungere la quale attraversa la sala vuota, oltrepassa lo schermo ed entra lui stesso a far parte del film, ottenendo il suo primo bacio. 2008 Milk (Id.) Regia: Gus Van Sant; sceneggiatura: Dustin Lance Black; fotografia (b/n e colore, 16 mm – 35 mm): Harris Savides; montaggio: Elliott Graham; musica: Danny Elfman; scenografia: Bill Groom; costumi: Danny Glicker; interpreti: Sean Penn (Harvey Milk), Emilie Hirsch (Cleve Jones), Josh Brolin (Dan White), Diego Luna (Jack Lira), James Franco (Scott Smith), Alison Pill (Anne Kronenberg), Victor Garber (il sindaco George Moscone), Denis O’Hare (il senatore John Briggs), Joseph Cross (Dick Pabich), Stephen Spinella (Rick Stokes), Lucas Grabeel (Danny Nicoletta), Brandon Boyce (Jim Rivaldo), Hoeard Rosenman (David Goodstein), Kelvin Yu (Michael Wong), Jeff Koons (Art Agnos), Ted Jan Roberts (Dennis Peron), Boyd Holbrook (Denton Smith); produzione: Bruce Cohen e Dan Jinks per Focus Features in associazione con Axon Films, Groundswell Productions, Jinks/Cohen Company; distribuzione italiana: Bim; origine: USA; durata: 128’. Sinossi: New York, 1970. Alla vigilia del suo quarantesimo compleanno, l’assicuratore Harvey Milk abborda il giovane Scott, che diventa il suo amante e col quale si trasferisce a San Francisco, dove apre un negozio di fotografia nel quartiere Castro. Qui Milk scopre la sua attitudine politica, organizzando la comunità gay e candidandosi alla carica di consigliere comunale, fino a diventare, nel 1977, il primo omosessuale

dichiarato ad assumere una carica pubblica negli Stati Uniti. Intanto nel paese monta una ventata reazionaria guidata dalla cantante Anita Bryant e dal senatore Briggs, che propongono l’abrogazione delle norme che vietano il licenziamento per l’orientamento sessuale. Quando è il turno della California, nonostante i sondaggi diano loro un netto vantaggio, Milk organizza un’efficace campagna che ribalta ogni pronostico. Il successo politico è pagato però a caro prezzo da Milk, perché causa la rottura con Scott, il suicidio del nuovo compagno Jack e il rancore dell’ex consigliere Dan White, che si introduce nell’edificio comunale armato di pistola e lo uccide a sangue freddo insieme al sindaco Moscone. La sera stessa un’immensa fiaccolata si accende per le strade di San Francisco, testimoniando che le idee dell’attivista non sono morte con lui. Mansion on the Hill (episodio di 8) Regia: Gus Van Sant; montaggio: Gus Van Sant; musica: Mark Tschanz; suono: Leslie Shatz; effetti visivi digitali: Jalal Jemison; produzione: David Allen Cress, Neil Kopp, Lise Paillet per LDM Productions, in associazione con Ace and Company e Mediascreen; coproduzione: Green Sky Films; origine: Francia; durata: 6’. Film collettivo composto da otto cortometraggi, in cui a ogni regista è stato affidato il compito di interpretare uno degli otto Obiettivi di Sviluppo del Millennio che le Nazioni Unite si sono prefisse di raggiungere entro il 2015. Sinossi: un montaggio di immagini di giovani skaters in azione fa da contrasto a didascalie che riportano una serie di drammatici dati sulla mortalità infantile nel mondo. 2011 Restless Regia: Gus Van Sant; soggetto e sceneggiatura: Jason Lew; fotografia (colore, 35 mm): Harris Savides; montaggio: Elliot Graham; scenografia: Benjamin Hayden; costumi: Danny Glicker; musica: Danny Elfman; interpreti: Henry Hopper (Enoch), Mia Wasikowska (Annabel), Ryo¯ Kase (Hiroshi), Schuyler Fisk (Elizabeth), Jane Adams (Mabel), Luisa Strus (Rachel), Chin Han (Dr. Lee); produzione: Brian Grazer, Bryce Dallas Howard, Ron Howard per Imagine Enterteinement e Columbia Pictures; origine: USA; durata: 95’. Sinossi: La vita dell’adolescente Enoch è segnata da un incidente d’auto che lo lascia in coma per mesi e nel quale perdono la vita i genitori. Il ragazzo si chiude in se stesso e si abbandona a una serie di meditazioni sulla morte insieme all’amico immaginario Hiroshi, “fantasma” di un kamikaze della seconda guerra mondiale. La sua ossessione lo spinge a imbucarsi nelle cerimonie funebri di persone sconosciute, durante una delle quali incontra Annabel, una coetanea che dice di lavorare con i malati di cancro e che, al contrario di Enoch, è piena di vita e di amore per la natura. I due sembrano completarsi e, mentre il ragazzo comincia a riaprirsi al mondo, la loro amicizia si trasforma in un sentimento più profondo. Quando Enoch scopre che Annabel ha mentito riguardo al suo lavoro, e che un tumore al cervello le lascia solo pochi mesi da vivere, la sua ossessione per la morte si trasforma in attaccamento alla vita. VIDEOCLIP

1990

Tarbelly and Featherfoot di Victoria Williams (4’) Fame ’90 di David Bowie (4’) 1991 I’m Seventeen di Tommy Conwell & The Young Rumblers (4’) 1992 Under the Bridge dei Red Hot Chili Peppers (4’) Bang Bang Bang di Tracy Chapman (4’) The Last Song di Elton John (3’) Runaway dei Deee-Lite (5’) 1993 Just Keep Me Moving di k.d. lang (3’) San Francisco Days di Chris Isaak (4’) 1995 Understanding dei Candlebox (4’) 1998 Weird degli Hanson (4’) 2005 Who Did You Think I Was? (version 1) del John Mayer Trio (4’) 2007 Desecration Smile dei Red Hot Chili Peppers (4’)

Bibliografia OPERE DI GUS VAN SANT

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