Guida di lettura del Nuovo Testamento
 8810201620, 9788810201626

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GUIDA DI LE T T U R A

DEL NUOVO

TESTAMENTO

GUIDA DI LETTURA DEL NUOVO TESTAMENTO sotto la direzione di Pierre Debergé e Jacques Nieuviarts

Titolo originale: Guide de lecture du Nouveau Testament Traduzione: Rom eo Fabbri

Realizzazione editoriale: Prohemio editoriale srl, Firenze

® 2004 Bayard, 3 et 5 rue Bayard, Paris, France c 2006 Centro editoriale dehoniano via Nosadella, 6 - 40123 Bologna EDB (marchio depositato) ISBN-10 ISBN-13

88-10-201G2-0 978-88-10-20162-6

Stampa: Grafiche Dehoniane, Bologna 2006

PREFAZIONE P ierre D e b e rg é 1

Il 18 novembre 1993, la Pontifìcia commissione biblica pubblicava Linterpretazione della Bibbia nella Chiesa.2 Con la scelta di questo titolo essa dichiarava sia che la lettura della Bibbia dipende da un vero lavoro di interpretazione, sia che questo lavoro deve essere collocato e compiuto nella Chiesa. Del resto, l’intenzione risulta chiaramente fin dalla prima pagina dell’introduzione: «Il problema dell’interpretazione della Bibbia non è un’invenzione moderna, come talvolta si vorrebbe far credere»; esso ha semplicemente «assunto, in questi ultimi anni, dimensioni nuove».3 E il documento mostra che bisogna affrontare questo problema con un atteg­ giamento intellettualmente ed ecclesialmente responsabile. Con un dop­ pio rischio: quello di una certa pretesa a un accesso individuale e imme­ diato al significato dei testi biblici; più ampiamente, quello del fondamen­ talismo che «invita, senza dirlo, a una forma di suicidio del pensiero». Dobbiamo comunque riconoscere che dalle prime interpretazioni della Bibbia alle raccomandazioni di questo documento si è fatta molta strada. Anche se la preoccupazione di cogliere il vero significato dei testi biblici è sempre stata al centro dei diversi e successivi approcci alla Bibbia.4 Soprattutto da una trentina d’anni le scienze umane hanno modificato anche la relazione con il testo, nonché con la storia, cercando di evidenzia­ re le strutture antropologiche, sociali, psicologiche dell'essere umano. Sono comparse anche le scienze del linguaggio, che hanno rinnovato la comprensione dei testi sia nel loro funzionamento sia nella loro stessa esi­ stenza. La posizione del lettore è diventata un parametro inevitabile nell’a­ nalisi e nella lettura dei testi, cambiando così il molo dello storico: prima, era la figura centrale della ricerca, quella che illuminava ed eventualmente forniva le risposte alle domande sollevate dai testi; ora, benché il suo ruolo rimanga essenziale, è solo uno degli attori della ricerca. Esempio significativo di questo nuovo approccio, il succitato documento romano su Linterpretazione della B ibbia nella Chiesa passa in rassegna i metodi e gli approcci attualmente in uso nello studio della Bibbia. E lo fa in modo positivo, perché, pur criticando radicalmente il fondamentalismo,

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Rettore dellinstitut catholique di Tolosa. Pontificia commissione biblica. L'interpretazione deità Bibbia nella Chiesa (1993): Enchiridion Biblicum, EDB, Bologna 1996 (da ora in poi: EB), nn. 1259-1560. Pontificia commissione biblica, L'interpretazione della Bibbia nella Chiesa : EB 1264 e 1265. Cf. sotto il contributo di J. N ieuviarts, pp. 90ss.

cerca di evidenziare gli apporti, nonché i limiti, di ciascuno di questi diver­ si metodi e approcci. Fra tutti questi metodi, uno è considerato «indispen­ sabile»: il metodo storico-critico. È indispensabile, perché si sforza di deter­ minare il significato dei testi mediante lo studio della loro genesi e delle condizioni della loro produzione. Ma, pur indispensabile, secondo gli auto­ ri del documento questo metodo non può essere utilizzato in modo esclu­ sivo, perché il suo uso «si restringe alla ricerca del senso del testo biblico nelle circostanze storiche della sua produzione e non si interessa alle altre potenzialità di significato che si sono manifestate nel corso delle epoche posteriori della rivelazione biblica e della storia della Chiesa».5 Di qui l’importanza dei nuovi metodi di analisi letteraria, come la retorica, la narratologia o la semiotica. Per gli autori del documento, per quanto importanti possano essere, que­ sti diversi metodi sono comunque «insufficienti per l’interpretazione della Bibbia in quanto considerano ogni scritto isolatamente. Ora, la Bibbia non si presenta come una collezione di testi privi di qualsiasi relazione tra loro, ma come un insieme di testimonianze di una stessa grande tradizione».6 Non stupisce quindi che i membri della Pontifìcia commissione biblica ricordino poi approcci che si interessano maggiormente alla recezione dei testi biblici o alle loro successive influenze. Alcuni di questi approcci sono basati sulla tradizione, sia che cerchino di leggere i testi biblici situandoli nell’insieme del canone delle Scritture, sia che si interessino alle tradizioni esegetiche ebraiche o all’influenza esercitata da questi testi su letteratura e arte, da un lato, e su teologia, mistica o ascesi, dall’altro. Altri approcci si basano sulle scienze umane: sociologia, antropologia, psicologia e psicana­ lisi. Altri, infine, leggono i testi biblici alla luce di problematiche liberazioniste, femministe o legate a particolari correnti militanti. Pur potendo dar luogo a eccessi, non sono prive di apporti interessanti. A differenza di questi vari metodi e approcci, il documento giudica perico­ losa solo la lettura fondamentalista. Perché? Perché essa rifiuta ogni consi­ derazione storica sul testo, per cui non tiene conto del carattere storico della rivelazione biblica, si basa su un’ideologia che non è biblica, «snatura l’appello lanciato dal vangelo stesso» e, cosa ancor più grave, «si rende inca­ pace di accettare pienamente la verità della stessa incarnazione».7 Perciò, solo la lettura fondamentalista è oggetto di una critica dura e senza appel­ lo, mentre in tutti gli altri metodi e approcci, pur essendo accompagnati qua e là da riserve, si riconoscono elementi positivi, a patto che non pre­ tendano di essere esclusivi e siano considerati complementari. Questa Guida di lettura del N uovo Testamento persegue proprio un tale obiettivo: proporre un’introduzione al Nuovo Testamento che non si accontenti di rispondere alle domande abituali - quando è stato scritto un

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Pontificia c o m m is s io n e biblica . L'interpretazione della Bibbia nella Chiesa: EB 1287. Pontificia c o m m is s io n e biblica , L'interpretazione della Bibbia nella Chiesa: EB 1324. Pontificia c o m m is s io n e biblica , L'interpretazione della Bibbia nella Chiesa: EB 1387 e 1384.

determinato libro, dove, da chi, a che scopo? -, ma permetta di leggere e comprendere i testi che lo costituiscono. Perciò abbiamo scelto di affron­ tare le questioni relative agli autori e alle condizioni della redazione delle loro opere in un capitolo introduttivo, intitolato «La costituzione del Nuovo Testamento: punti di riferimento storici, letterari e teologici». E, prima di passare alla lettura vera e propria dei vangeli, delle lettere di Paolo o dell’Apocalisse di Giovanni, ci è sembrato importante delineare anche la storia del testo del Nuovo Testamento e dei diversi modi in cui, nel corso dei secoli, è stato tradotto e letto. È l’oggetto del secondo capi­ tolo, dove il lettore troverà molte preziose informazioni, soprattutto sui manoscritti del Nuovo Testamento o sulle caratteristiche dei vari metodi di lettura utilizzati. Ma non dovevamo accontentarci, come fanno in genere le introduzioni, di una presentazione generale. Dovevamo leggere i testi e sperimentare la fecondità dei metodi e degli strumenti di cui disponiamo oggi. Abbiamo quindi chiesto ad alcuni specialisti di scegliere, per ogni libro presentato, alcuni passi che sembrassero loro essenziali per la comprensione di quel­ l’opera e di propoxxene una lettura. Ognuno lo ha fatto con la propria sen­ sibilità, ispirandosi ai metodi che usava abitualmente. Abbiamo chiesto loro anche di indicare, in genere sotto forma di riquadri, termini fondamentali o temi teologici caratteristici del libro o delle lettere studiati. Infine, ognuno di loro poteva presentare anche letture diverse di uno stes­ so passo, non esitando, se lo riteneva opportuno, a fare appello agli approcci femminista, materialista, ebraico, psicanalitico ecc. È ciò che hanno fatto. Nella sua costituzione, come nel suo contenuto, questa Guida, oltre a esse­ re una vera introduzione al Nuovo Testamento, è quindi soprattutto un invito alla lettura. Un invito al leggere il Nuovo Testamento, mettendosi all’ascolto della Parola che lo abita, per fare l’esperienza viva di Dio, che si rivela a ciascuno e a tutti. Infatti, leggere la Bibbia è entrare in dialogo con il verbo di Dio, la Parola, che fa vivere. P ie r r e D

ebergé

LA COSTITUZIONE DEL NUOVO TESTAMENTO Punti di riferimento storici, letterari e teologici

P

i e r r e

D

e b e r g é

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Rettore delllnstitut catholique di Tolosa; professore alla facoltà di teologia.

hi apre il Nuovo Testamento si trova davanti a un complesso di 27 scritti suddivisi in genere i in quattro gruppi: i vangeli, con Matteo, Marco, Luca e Giovanni; gli Atti degli apostoli; le lettere: 13 lettere di Paolo, la Lettera agli Ebrei, la Lettera di Giacomo, 2 lettere di Pietro, 3 lettere di Giovanni e la Lettera di Giuda; l’Apocalisse. Ma una presentazione più rispettosa della data e del contenuto di questi scritti comincerebbe con le lettere di Paolo, presenterebbe in seguito il Vangelo di Marco, collocherebbe in uno stadio intermedio lettere la cui data è incerta (Ebrei, 1 Pietro, Giacomo, Giuda), per ritornare poi alle opere degli evangelisti Matteo e Luca. E concluderebbe con la tradizione giovannea (Vangelo, lettere, Apocalisse) e la Seconda lettera di Pietro. Pur appartenendo a generi letterari diversi, tutti questi scritti hanno un punto in comune: parlano di Gesù Cristo come salvatore e mediatore di una «nuova alleanza» (2Cor 3,6). Del resto, è proprio questa l’origine della designazione di Nuovo Testamento. Ne deriva una constatazione: la storia della redazione e dell’elaborazione del Nuovo Testamento è contemporanea alla storia della Chiesa delle origini, che scopre il suo Signore, mentr e si sviluppa e diffonde, attraversata da tensioni sia con il mondo circostante sia al suo interno. In ogni caso, alla Pentecoste, gli apostoli non possiedono alcuno scritto, ma solo una certezza: Dio ha risuscitato Gesù, l’umanità è salvata (lC or 15,1-8). Presentare i testi del Nuovo Testamento significa quindi menzionare scritti destinati, fin dalla loro composizione, a giocare un ruolo nelle prime comunità cristiane: aiutarle a confessare la fede; istruire i catecumeni; confutare gli «avversari»; conservare l’unità nelle comunità e fra le comunità; lodare e celebrare Cristo risorto ecc. Sono quindi scritti funzionali, che diventeranno ben presto normativi. La formazione letteraria del Nuovo Testamento è strettamente collegata con le grandi tappe dello sviluppo della Chiesa delle origini, ma in essa giocano un ruolo importante due date: la distruzione di Gerusalemme nel 70 d.C., che colpisce il mondo giudaico e i giudeo-cristiani; la cacciata, verso l’anno 80 d.C., dei cristiani di origine giudaica dalla vita della sinagoga, che priva i primi cristiani della protezione giuridica di cui godevano. Essi saranno quindi accusati di ribellione contro la società e persino di ateismo.

Fin dai primordi del cristianesimo sono sorte in Palestina, Siria, Asia mino­ re e bacino del Mediterraneo molte piccole comunità cristiane. Impiantate in regioni diverse, con uomini e donne di provenienza sociologica, religio­ sa e culturale diversa, queste comunità hanno volti molto diversi. Ma ovun­ que vi si celebra lo stesso Signore, anche se i suoi tratti variano a seconda della costituzione delle comunità cristiane e delle loro aspettative. Esse hanno in comune anche alcune attività, indipendentemente dal fatto di essere a Gerusalemme, ad Antiochia di Siria, a Efeso, a Roma o ad Alessan­ dria: la vita liturgica e il culto; la catechesi per l’istruzione dei nuovi battez­ zati; l’annuncio del vangelo agli ebrei e ai pagani per condurli alla fede ecc. Attorno a queste attività si sviluppano tradizioni orali che verranno poi messe per iscritto.

ANNUNCIARE IL VANGELO Per la proclamazione della loro fede i primi cristiani redigono delle profes­ sioni di fede (Credo). La più antica è molto probabilmente quella della Prima lettera ai Corinzi, dove Paolo ricorda il vangelo che ha ricevuto, chie­ dendo ai corinzi di conservarlo così come lo ha trasmesso loro, perché altrimenti avrebbero creduto invano: Vi rendo noto, fratelli, il vangelo che vi ho annunziato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi, e dal quale anche ricevete la salvezza, se lo mantenete in quella form a in cui ve l’ho annunziato. Altrimenti, avreste creduto invano! Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo mori per i nostri peccati secondo le Scritture, f i sepolto ed è risuscitato [lett.: è stato rialzato) il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve [lett.: si è fatto vedere] a Cefa e quindi ai dodici. M

„ lCor 15,1-5

Segue un elenco di apparizioni di Cristo risorto. Quando Paolo ha ricevuto il vangelo? Secondo alcuni, lo avrebbe ricevuto ad Antiochia. Secondo altri, al momento del suo ingresso nella chiesa loca­ le di Damasco, dove, secondo gli Atti degli apostoli, venne battezzato (At 9,18), a meno che non lo abbia ricevuto in occasione del suo primo passag­ gio a Gerusalemme (At 9,26-29), dove incontrò Pietro (Gal 1,18). In ogni caso, ad appena alcuni anni dalla morte e risurrezione di Cristo, appaiono

LA COSTITUZIONE DEL NUOVO TESTAMENTO

DALLE TRADIZIONI ORALI ALLE PRIME RACCOLTE

DALLE T R A D IZ IO N I O RALI ALLE PRIME RACCOLTE

già i tre aspetti costitutivi dei vangelo annunciato dai primi cristiani: un avvenimento storico, considerato conforme al disegno di Dio e tale da pro­ durre la salvezza dell’umanità. Da questo passo della Prima lettera ai Corinzi risulta, inoltre, che l’annun­ cio e la proclamazione del vangelo sono accompagnati da una lettura cri­ stiana delle Scritture, perché è a partire da esse che i primi cristiani colgo­ no il significato profondo della vita, del ministero, della morte e della risur­ rezione di Gesù. Ciò è particolarmente evidente riguardo alla sua passione e morte in croce, ma tutto il ministero di Gesù viene interpretato alla luce delle Scritture. Al tempo stesso, per rendere la loro comprensione della risurrezione - una realtà che non può essere compendiata in un’unica for­ mula - i primi cristiani usano due concetti diversi e complementari: «risur­ rezione» ed «esaltazione». Essi compaiono nei vari generi letterari in cui viene espressa la fede nella risurrezione di Cristo (Fil 2,6-11; At 2,32-36; Le 24,36-43; Mt 28,16-18).

«FARE M EM ORIA» D EL SIGN ORE Accanto a questo aspetto essenziale della vita della Chiesa bisogna ricor­ darne un altro, pure fondamentale: l’aspetto liturgico. Si tratti del pasto del Signore, del battesimo o dell’invio dei primi missionari, questi diversi momenti della vita delle comunità sono un’occasione per ricordarsi (fare memoria) di ciò che Cristo ha fatto e insegnato in contesti analoghi. In una delle sue lettere, Paolo, ad esempio, ricorda il pasto che i cristiani di Corin­ to prendono insieme. Questo pasto culmina in una nuova celebrazione rituale: il «pasto del Signore», nel quale si comunica al suo corpo e al suo sangue (IC or 10,16; ll,20ss). Questo pasto è il fondamento della vita comu­ nitaria e il luogo in cui tutta la comunità riceve se stessa da Colui che for­ gia e alimenta la sua comunione (IC or 10,17). Luogo di comunione, il ban­ chetto eucaristico dovrebbe essere quindi un luogo di fraternità e di con­ divisione. Ma non è sempre così. A Corinto, alcuni membri della comunità fanno bisboccia e non condividono il cibo con gli ultimi arrivati: «Ciascuno pren­ de prima il proprio pasto e così uno ha fame, l’altro è ubriaco» (IC or 11,21). Per Paolo, questo disprezzo della condivisione è grave. Equivale a bere il vino e mangiare il pane del Signore «in modo indegno» (11,27). Anzi, peg­ gio, perché nella realtà concreta della comunità riunita per il pasto eucari­ stico non si riconosce il corpo di Cristo, per cui chi mangia e beve in que­ sto modo mangia e beve la propria condanna (11,28-29). Per Paolo è l’oc­ casione per ricordare ai cristiani di Corinto ciò che ha egli stesso ricevuto: Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: «Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di

me». Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me».

ICor 11,23-25

Questo ricordo da parte di Paolo dei gesti che Gesù aveva compiuto e delle parole che aveva detto in occasione dell’ultima cena conferma che il con­ testo liturgico - da intendere in senso più ampio rispetto a oggi - è uno dei principali luoghi in cui si elaborano le prime tradizioni orali non solo riguardo all’istituzione dell’eucaristia, ma molto probabilmente anche riguardo al pasto di Gesù, a certi suoi insegnamenti, nei quali il tema del pasto occupa un posto importante, o anche ai miracoli di Gesù, come quel­ lo della moltiplicazione dei pani (Me G,30-44 e par.). Sembra che questo stesso scenario accompagni anche un altro atto liturgi­ co, fondamentale, perché introduce nella comunità cristiana: il battesim o «nel nome di Gesù». Dalla lettura degli Atti degli apostoli risulta che esso viene amministrato dove c’è acqua (At 8,36; 16,13-15), eventualmente in case private (At 16,33 e probabilmente 10,48). È stata tramandata una for­ mula primitiva legata a questo rito: i fedeli sono battezzati «nel nome di Gesù». Ma probabilmente anche la formula trinitaria di Mt 28,19: «Andate e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo» deriva da questa stessa pratica battesimale. Certe scene evangeliche, come quella del battesimo di Gesù (Me 1,9-11, ampliata in Mt 3,13-17; Le 3,15-18 e anche Gv 1,19-20), con il ricordo della predicazione di Giovanni Battista, sono state elaborate molto probabilmen­ te in questo contesto liturgico. Altro esempio: l’invio in missione. Essendo un atto fondamentale della vita delle comunità che mandano alcuni loro membri ad annunciare il vange­ lo, questo invio in missione dà luogo a un rito liturgico che Luca ricorda negli Atti degli apostoli, a proposito di Barnaba e Paolo: C'erano nella comunità di Antiochia profeti e dottori: Barnaba, Simeone soprannominato Niger, Lucio di Cirene, Manaèn, compagno d’infanzia di Erode tetrarca, e Saulo. Mentre essi stavano celebrando il culto del Signore e digiunando, lo Spirito Santo disse: «Riservate per me Barnaba e Saulo per l’opera alla quale li ho chiamati». Allora, dopo aver digiunato e pregato, imposero loro le mani e li accomiatarono.

At 13,1 -3

Questo passo degli Atti degli apostoli dimostra che i primi cristiani non consideravano la missione un affare privato e sapevano che si è inviati sempre da una comunità. Qui l’invio di Barnaba e di Paolo non solo avvie­ ne durante una celebrazione liturgica, ma è accompagnato anche da un gesto - l’imposizione delle mani - che verrà ripetuto, in seguito, sulle per­ sone che hanno una responsabilità in seno alla comunità cristiana (lT m 4,14; 5,22; 2Tm 1,6). Infine, poiché nelle sue lettere Paolo allude a una rego-

DALLE T R A D IZ IO N I ORALI ALLE PRIME RACCOLTE

la data dal Signore riguardo a coloro che annunciano il vangelo (IC or 9,14; cf. Le 10,7), si può ritenere che i discorsi di invio in missione contenuti nei vangeli sinottici siano stati inizialmente elaborati proprio per queste cele­ brazioni di invio dei missionari cristiani (Me 6,7-11; Mt 10,5-15; Le 9,1-6; 10,1-11). Ciò vale certamente anche per le menzioni da parte di Gesù del­ l’invio dello Spirito, in relazione alle difficoltà che incontreranno i messag­ geri del vangelo (Me 13,11; Mt 10,19-20; Le 12,11-12; Gv 15,18-27). Infine, si deve collocare in questo contesto liturgico l’elaborazione degli inni tramandati da Luca: Magnificat; Cantico di Zaccaria; Cantico di Simeo­ ne (Le l,46b-55.68-79; 2,29-32), nonché degli inni a Cristo o a Dio che tro­ viamo in varie lettere del Nuovo Testamento (Fil 2,6-11; Col 1,15-20; Ef 1,314; lPt 2,22-24). Ciò vale anche per le due diverse versioni del Padre nostro che ci sono pervenute, come il pasto del Signore, attraverso pratiche litur­ giche diverse (Mt 6,9-15; Le 11,2-4). Ricordiamo anche certe acclamazioni, la cui radice liturgica sembra evidente: Amen, Alleluia, M aranatha (ICor 16,22; Ap 22,20).

IS T R U IR E I FE D E L I Un altro settore della vita delle comunità cristiane che ha certamente favo­ rito l’elaborazione di raccolte di parole o di episodi della Ut a di Gesù è quello della formazione di coloro che aderivano a Cristo, anche se non è facile determinare esattamente ciò che deriva dall’annuncio del vangelo e ciò che fa parte dell’istruzione cristiana». Checché ne sia, si può facilmen­ te immaginare che questa istruzione comportasse il ricordo di episodi della vita di Gesù, dai quali i nuovi adepti potevano attingere un insegna­ mento per la loro vita: chiamata dei primi discepoli che avevano lasciato tutto per seguire Gesù (Me 1,16-20); certi incontri di Gesù, come quelli con il «giovane ricco» (Mt 19,16ss) o con Zaccheo (Le 19,lss); il modo in cui Gesù aveva Unto le tentazioni di sempre (Mt 4,1-11); il suo insegnamento sul comportamento da tenere nei riguardi delle autorità religiose e politi­ che (Me 12,13-17; Mt 17,24-27). Sempre in materia di «formazione dei credenti», bisognerebbe ricordare anche le parole di Gesù sul matrimonio, sul pericolo delle ricchezze, sul posto dei bambini, sull’esercizio del potere ecc, sia che fossero riunite in rac­ colte di detti (Mt 5-7) o «errassero» di comunità in comunità. È comunque certo che la preoccupazione di fare memoria dei fatti e dei gesti di Gesù si è iscritta in una fedeltà Uva, che non bisogna confondere con una ripetizione quasi «meccanica». Di qui, certamente, la diversità delle formulazioni e dei contesti nei quali queste parole si trovano ora nel Nuovo Testamento. Ma questo non significa che ogni comunità abbia prodotto ciò che voleva e come voleva. A questo bisogna aggiungere che la fissazione letteraria dei ricordi si è ripar­ tita su vari decenni, con la flessibilità e le oscillazioni che si possono suppor­ re in circostanze del genere. Si può comunque ritenere che molto presto i

responsabili delle comunità locali abbiano avvertito la necessità di una docu­ mentazione evangelica scritta, al di fuori delle Scritture, che restavano la base della loro cultura religiosa. È in questo contesto che si sono costituite raccolte parziali, certamente con molte varianti e dettagli, conservate e tra­ smesse di comunità in comunità.*2 In ogni caso, se c’è stata, come vedremo soprattutto con i vangeli, una vera creazione letteraria, essa si è adattata alle necessità concrete e particolari delle comunità alle quali bisognava fornire un insegnamento, per mantenere, approfondire ed esprimere la loro fede.

LE LETTERE DI PAOLO Le lettere di Paolo appartengono alla prima letteratura cristiana. Corrispon­ dono a un periodo in cui i primi cristiani attendevano l’imminente ritorno di Cristo. Essendo un apostolo itinerante che annunciava il vangelo di città in città, le lettere erano per Paolo un modo per comunicare con le comunità che aveva fondato.3 Cosi negli anni 50 d.C., Paolo ha prodotto gli scritti cri­ stiani più antichi giunti fino a noi.4 Ciascuno di questi scritti ha un tono e un accento un po’ diversi, perché legati alla situazione concreta delle comu­ nità cui Paolo si rivolgeva e ai loro bisogni particolari. Delle tredici lettere atuibuite generalmente a Paolo sette sono considerate «autentiche», cioè det­ tate e inviate personalmente da lui, mentre sulle altre sei i pareri divergono.

LE L E T T E R E RICO N O SCIU TE COME PAOLINE Sette lettere sono normalmente considerate di origine paolina: la Prima lettera ai Tessalonicesi; le due lettere ai Corinzi; le lettere a Galati, Filippesi, Romani e Filemone. Sono state redatte in base a modelli ben noti nel

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È possibile che certe raccolte di parole di Gesù, poi scomparse, abbiano veicolato materiali del genere fino in epoca patristica. Cosi si spiega la presenza di parole verosimilmente autentiche di Gesù in certi scritti dei padri della Chiesa o anche nel Vangelo secondo Tommaso. Vengono indicate abitualmente con il termine agrapha. Vero «sostituto di presenza», le lettere permettono a Paolo di ritornare fra coloro che aveva incontrato quando aveva annunciato loro Cristo. Esse rendono presente l'autorità di colui che aveva giocato un ruolo importante nella fondazione della loro comunità e permettono anche certe affermazioni audaci o certe ferme prese di posizione che la presenza fisica o un discorso a viva voce non sempre avrebbero consentito (Gal 5,12). Del resto, apparentemente si rimprovera a Paolo di essere così umile quando è presente e di parlare con tanta audacia quando scrive (2Cor 10,1 ). Per una possibile cronologia di Paolo, cf. sotto E. C uviluer, «Leggere le lettere di Paolo», pp. 385ss.

«Lettere» o «epistole»5?

R eynier , L'Évongile du Ressuscité,

C.

Éditions du Cerf, Paris 1995, 10-11

Gli scritti paolini appartengono a un genere letterario situato fra la let­ tera e l'epistola. La lettera, in senso stretto, è un documento breve, a carattere privato e personale. L'epistola, come viene usata nell'antichità da Aristotele, Cicerone o Seneca, è un genere letterario che tratta di un determinato argomento di interesse generale, in forma sistematica e secondo precise regole di presentazione. Le epistole sono destinate alla lettura in pubblico. Negli scritti paolini questi due aspetti si intrecciano. Essi contengono notizie personali dell'apostolo, informano sui suoi spo­ stamenti, ma sono destinati alla lettura nell'assemblea cristiana e la riguardano direttamente. Da un lato, gli scritti rispondono a problemi concreti della comunità e, dall'altro, mirano a incoraggiarla a vivere coerentemente la fede che essa proclama.

LE LETTERE DI PAOLO

mondo ellenistico. Sono anche «scritti di circostanza», rivolti a destinatari conosciuti e rispondenti a problemi concreti. Non sono quindi trattati teo­ logici, ma atti pastorali, con argomenti e linguaggio determinati da proble­ mi e questioni propri delle comunità cui Paolo si rivolgeva. Solo la Lettera ai Romani sembra fare eccezione.

La P rim a le tte ra ai T essa lo n icesi6 Risalente agli anni 50-51 d.C., la Prima lettera ai Tessalonicesi segna una tappa nell’attività missionaria di Paolo, perché non è solo la prima delle sue lettere, ma anche lo scritto più antico del Nuovo Testamento. Benché inviata da Paolo, Silvano e Timoteo - tutti e tre all’origine della comunità di Tessalonica, di cui non avevano potuto, apparentemente, completare l’organizzazione (At 17,1-9) - il vero autore sembra Paolo (5,27). La lette­ ra è stata redatta poco dopo il suo arrivo a Corinto, dove Timoteo gli aveva portato notizie rassicuranti sulla comunità di Tessalonica (3,6-10; cf. 2,17-20). Dalla lettera risulta che quella comunità era composta da cristiani prove­ nienti dal paganesimo (1,9) e non, come potrebbero indurre a credere gli Atti degli apostoli, da giudei e pagani simpatizzanti per la sinagoga. Quan­ do Paolo scrive, la comunità era oggetto di calunnie o persecuzioni da parte dei giudei, i quali aizzavano la popolazione e le autorità locali. Di qui la violenta reazione di Paolo (2,14-16). La lettera vuole incoraggiare i tessalonicesi e fortificarli nella loro fede, non correggere errori o deviazioni. Paolo li esorta a vivere nella santità (4,4-8), lavorare per non essere a carico gli uni degli altri (4,11), vigilare (5,1-11) ed edificarsi reciprocamente (4,18; 5,12-22). In un tempo nel quale il ritorno

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Cf. in questo volume E. C uvillier, «Paolo e l'arte epistolare: una questione difficile», pp. 388ss. Come per le altre lettere, ci limitiamo qui a una breve presentazione. Si troveranno altri sviluppi nel contributo di C uvillier, pp. 385ss.

di Cristo sembrava imminente (1,10; 2,19; 4,16), Paolo risponde anche a questioni che preoccupavano i cristiani di Tessalonica, in particolare riguardo a coloro che fossero morti prima dell’avvento della parusia (5,lss; 4,13). La questione gli offre l’occasione per un prezioso insegnamento sulla risurrezione dei morti (4,13-18).

Le le tte re ai C orinzi Queste lettere fanno parte di uno scambio di corrispondenza fra Paolo e i cristiani di Corinto che non si limita alle due lettere che noi conosciamo. Sembra infatti che Paolo abbia inviato almeno quattro lettere alla comunità di Corinto. Nella Prima lettera ai Corinzi, Paolo ricorda una precedente let­ tera, ovviamente perduta (lC o r 5,9-11),7 e in 7,1 si parla di una lettera invia­ ta dai cristiani di Corinto. Nella Seconda lettera ai Corinzi, Paolo allude a una terza lettera scritta «tra molte lacrime» (2Cor 2,3-4; 7,8). Molti autori pensano che potrebbe corrispondere ai capitoli 10-13 dell’attuale Seconda lettera,8 mentre gli altri capitoli costituirebbero una quarta lettera. Secondo gli Atti degli apostoli, Paolo giunse a Corinto dopo lo smacco di Atene (At 18,1-18). Vi rimase circa un anno e mezzo, probabilmente dalla fine del 50 all’inizio del 52. Durante il suo soggiorno a Corinto, fu tradot­ to davanti a Gallione, proconsole della provincia romana dell’Acaia, una delle rare figure del Nuovo Testamento che può essere datata con certez­ za. In base alla Prima lettera ai Corinzi, allora Paolo aveva annunciato il vangelo non con un discorso sapiente (lC o r 1,17), ma come missionario di Cristo crocifisso (1,23-24; 2,1-5). Aveva trasmesso anche tradizioni liturgi­ che, come il battesimo (1,13; 12,13), il pasto del Signore (ll,23ss) e, ovvia­ mente, il «credo» da lui stesso ricevuto (15,1 ss). Come regola generale, aveva scelto di non farsi «mantenere» dalla comunità, ma di guadagnarsi da vivere con il lavoro manuale (4,12), il che aveva suscitato una certa ostilità (lC or 9; 2Cor 11,7-12). Ben presto si era formata una comunità, composta per lo più di convertiti di cultura greca provenienti dal paganesimo, di con­ dizioni sociali piuttosto umili (lC or l,26ss; 7,21ss; 11,22), con alcuni ele­ menti di origine ebraica (At 18,8; lC or 1,22-24). Dopo la partenza di Paolo, altri missionari cristiani avevano continuato la sua opera (3,5-15). L’unico a noi noto è Apollo (At 18,24), che aveva fatto degli adepti (3,5) e la cui per­ manenza a Corinto è attestata anche in At 19,1. Dalla Prima lettera ai Corinzi apprendiamo che, a differenza di quella di Tessalonica, la comunità non era oggetto di ostilità e tanto meno di perse­ cuzioni. I cristiani erano invitati a tavola dai non cristiani (10,2 7ss), fre­ quentavano, a quanto sembra, le piccole botteghe che si trovavano vicino ai templi pagani (8,10) e ricorrevano ai tribunali della città (6,1). La chiesa di Corinto era quindi ben integrata nella società, ma lacerata al suo inter-

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Perciò, la lettera che noi chiamiamo prima potrebbe essere la seconda. A meno che non sia andata perduta. Si può trovare una bella presentazione delle relazioni fra Paolo e Corinto in J. M urphy-O 'C onnor , Corinlhe c u lem ps de saint Paul. L'archéologie éclaire les textes, Éditions du Ceri, Paris 2004, 216-217.

LE LETTERE DI PAOLO

no da gravi contrasti e tragiche divisioni, perché alcuni si richiamavano ad Apollo, altri a Cefa e altri ancora a Cristo (1,10-12). Questi dissensi erano aggravati, stando a 11,17-34, da profonde ineguaglianze sociali fra coloro che possedevano case e mangiavano e coloro che non avevano nulla. Per­ ciò, in occasione del pasto del Signore, i benestanti arrivavano per primi e mangiavano tutto ciò che avevano portato, mentre i meno fortunati, pro­ babilmente trattenuti dal lavoro, arrivavano dopo e non trovavano più nulla da mangiare. Infine, i cristiani di Corinto erano divisi sul comporta­ mento da tenere nei riguardi delle carni immolate agli idoli (8,10; 10,14ss). Alcuni, forti della libertà ricevuta da Cristo, non si facevano alcuno scrupo­ lo al riguardo, mentre altri - i deboli - si astenevano dal mangiarne per motivi di coscienza. Come risulta dai capitoli 6 e 7, i cristiani di Corinto «erano divisi» anche riguardo alla sessualità. Infine, le stesse riunioni di pre­ ghiera erano occasioni di divisioni (cc. 12-14), perché spesso alcuni osten­ tavano, con una certa aria di superiorità, un carisma che gli altri non ave­ vano, umiliando ancor più i meno dotati. E, cosa ancor più grave, alcuni negavano addirittura la risurrezione dei morti (lC o r 15). Tutto questo può chiarire il contesto e la natura della corrispondenza inter­ corsa fra Paolo e i cristiani di Corinto, ma, riguardo all’invio delle varie let­ tere, si può immaginare, fra gli altri possibili, questo scenario: • Mentre si trova a Efeso, Paolo viene a sapere dei gravi disordini avvenuti nella comunità di Corinto. Scrive una prima lettera, perduta, ricordata in lC or 5,9, nella quale chiede ai corinzi di rinunciare a frequentare coloro che sono noti a tutti per la loro cattiva condotta. • Poiché la lettera non produce l’efFetto sperato, Paolo invia Timoteo, fon­ datore insieme a lui della comunità, sperando che il suo intervento sia più efficace. I corinzi mandano delle domande per iscritto a Paolo, il quale risponde, punto per punto, inviando una seconda lettera, quella che noi chiamiamo Prima lettera ai Corinzi, risalente probabilmente alla primavera del 55. • Allora Tito lascia Efeso e si trasferisce a Corinto, dove trova una situazio­ ne deplorevole. Le prime due lettere e la visita di Timoteo non hanno pro­ dotto gli effetti sperati. Perciò Paolo decide di fare una visita lampo a Corinto, ma non riesce a risolvere la situazione. Di ritorno a Efeso, redige la sua Terza lettera, quella scritta in mezzo a molte lacrime, che corrispon­ de certamente ai capitoli 10-13 della nostra Seconda lettera ai Corinzi. • Per rimediare al fallimento della sua visita e valutare gli effetti di questa lettera, Paolo chiede a Tito di riprendere contatto con i corinzi, attenden­ do con impazienza i risultati della sua missione. Sotto la pressione delle circostanze, certamente gravi (2Cor 1,8), Paolo lascia Efeso per Troade, da dove parte per la Macedonia. Lì viene raggiunto da Tito che gli porta finalmente buone notizie: la comunità è cambiata e si è sottomessa all’a­ postolo. Allora, pieno di gioia, rincuorato, Paolo redige un’apologià del suo apostolato, aggiungendovi un piccolo capolavoro letterario: l’appello a favore della colletta (2Cor 8). È la quarta lettera (2Cor 1-9). Paolo l’af­ fida a Tito. Siamo verso la fine del 5G.

Come si scriveva al tem po di Paolo? Per scrivere si tagliava lo stelo di una canna. L'inchiostro, nero, era otte­ nuto dalla fuliggine che si scioglieva in acqua di gomma; il calamaio che la conteneva era di metallo o di ceramica. Si scriveva su carta o su pergamena. La carta proveniva dalle foglie di papiro intrecciate, incol­ late e pressate per farne dei fogli lisci, di formato simile al nostro A4. Per realizzare i rotoli, si incollavano i bordi .dei fogli. I fogli di pergame­ na - pelle di animale, normalmente pecora o agnello, preparata per la scrittura - venivano cuciti sui due lati per farne un rotolo o su un lato, che aveva allora la forma di un quaderno (detto codex, codice). In genere le lettere venivano dettate. A quel tempo si conosceva e usava ampiamente la tecnica della scrittura rapida (stenografia o tachi­ grafia), perché era molto difficile scrivere velocemente sul papiro: dosa­ re la giusta quantità di inchiostro sulla penna e cancellare gli errori richiedeva tempo. Perciò si scriveva con uno stiletto su tavole spalmate di cera, prima di copiare in bella su papiro o pergamena. Il compito della scrittura, che poteva andare dalla semplice copiatura servile alle correzioni grammaticali e stilistiche, alla composizione del­ l'intera opera (a partire da idee e temi forniti dall'autore), veniva affida­ to a un segretario. Per la preparazione e l'elaborazione delle sue lette­ re, Paolo si è fatto aiutare da uno o più collaboratori, che ha consulta­ to e con cui ha discusso i vari tipi di argomentazioni e la loro articola­ zione. Chi spediva una lettera ne conservava in genere una copia, per cui certi esegeti attribuiscono allo stesso Paolo la confezione del codice delle sue lettere con le copie che conservava e portava sempre con sé nei suoi viaggi. L'altra copia o le altre copie della lettera venivano recapitate ai destinatari da una persona che, all'occorrenza, poteva spiegarne il contenuto, come sembra essere avvenuto per le lettere di Paolo.

} N ALfrf| pau| a.t.jj été un' écrj_ vain?», in Le

monde de la Bible

(1999)123, 60

La L e tte ra ai Galati Considerata il più paolino di tutti gii scritti di Paolo, quello in cui la colle­ ra lo ha indotto a dire ciò che veramente pensava, questa lettera è stata scritta durante la permanenza di "Paolo a Efeso (54-55 o 56-57). Paolo aveva saputo che certi giudaizzanti turbavano i galati, da lui evangelizzati proba­ bilmente quando una malattia lo aveva costretto a fermarsi presso di loro (Gal 4,13ss; At 18,23). Quei giudaizzanti cercavano di persuadere i galati a ritornare alla pratica della legge (Gal 3,2; 4,21; 5,4) e a farsi circoncidere (5,6.12; 6,12). Ne avevano già convinti alcuni (5,2-4), che facevano pressione sugli altri (6,13). Per scre­ ditare più facilmente la posizione di Paolo, attaccavano anche la sua perso­ na, cercando di scalzare la sua autorità di apostolo. Per loro Paolo non face­ va parte del gruppo dei dodici e non aveva ricevuto alcuna missione da essi. Predicava un vangelo tutto suo, in conù addizione con quello delle vere auto­ rità della Chiesa. Ammorbidiva le esigenze del messaggio per farsi accettare più facilmente dai pagani (1,10). Perciò, se volevano ritrovare la retta via, i galati dovevano rompere ogni rapporto con lui e con il messaggio.

Accusato di non essere un vero apostolo, in presenza di una contromis­ sione giudaizzante, le cui tesi svuotavano il vangelo del suo contenuto, vanificando la croce di Cristo (2,21; 3,1; 3,13; 5,11; 6,12-14), che cosa fa Paolo? Scrive ai galati, per convincerli che il «vangelo» di quei nuovi mis­ sionari non ha nulla a che vedere con il vangelo di Dio e per assicurarli che egli è veramente un messaggero di Dio. Reagisce con forza, addirittu­ ra con passione, dando libero sfogo a un’emotività che non cerca in alcun modo di contenere. Nella foga non teme di usare formule audaci (5,12), domande dirette (3,1-5; 5,2-11), appelli pressanti, dai quali traspare tutta la sua sensibilità (4,8-20). Ricorre anche alle forme letterarie più svariate: racconti autobiografici (1,13-2,14; 4,13-20); argomentazioni bibliche (3,614; 4,27-30); benedizioni e dossologie (6,16); parenesi (5,19-21); elenchi di vizi (5,19-21) e di virtù (5,22). Infatti, ciò che conta è la conservazione della verità del vangelo (2,5), una verità che egli enuncia in 3,26-28.

La L e tte ra ai F ilip p esi9

LE LETTERE DI PAOLO

Secondo gli Atti degli apostoli, Filippi era stata la prima città europea ad accettare il vangelo (16,llss), soprattutto grazie a Lidia. Paolo aveva sog­ giornato in città in occasione del suo secondo viaggio missionario, ma il suo soggiorno aveva provocato una sollevazione che lo aveva costretto a lasciare Filippi. Da allora, vincoli molto forti lo legavano a quella comu­ nità, del resto la sola dalla quale accetterà un aiuto materiale (Fil 4,15-16; 2Cor 11,9). Paolo scrive ai cristiani di Filippi mentre è in prigione (1,13.20-24), certa­ mente a Efeso, verso il 55-57. La lettera è affascinante e piena di emozio­ ni (1,7-8; 4,1). Rispecchia le riflessioni suscitate dalla prigionia in chi non può più predicare il vangelo come prima (l,12ss; 3,8). Contiene anche una delle più belle meditazioni sull’amore disinteressato di Cristo, che si è spogliato di tutto e ha assunto la condizione di servo, facendosi obbe­ diente fino alla morte e alla morte di croce (2,6-11). Leggendo, si nota la preoccupazione di Paolo che i cristiani di Filippi si comportino in modo irreprensibile, siano luminosi «in mezzo a una generazione perversa e degenere», perché così saprà di non aver corso invano (Fil 2,14-16). Perciò li esorta a restare saldi e a combattere unanimi per la fede del vangelo (l,27ss; 2,lss). Ma dalla lettera D'aspare anche che alcuni seminavano disordini nella chie­ sa di Filippi e non vivevano nella comunione. È il caso di Evodia e di Sintiche, che avevano lavorato al fianco di Paolo (4,2-3), ma che, come altri, dimostravano ben poca umiltà (2,2-4). A questi comportamenti, ispirati essenzialmente dalla vanità, Paolo contrappone l’esempio di Cristo, model-

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Secondo certi autori, questa lettera potrebbe essere il risultato di tre scritti indipendenti, poi riuniti: un biglietto di ringraziamento per l'aiuto economico ricevuto in prigione (Fil 4,10-23); una lettera scritta in vista di una possibile morte (1,1-3,1 a; 4,4-7); una terza lettera successiva all'offensiva dei giudeo-cristiani (3,1 b -4 ,3 ; 4,8-9). A riunire questi tre scritti potrebbe essere stata la comunità di Filippi.

lo perfetto di servizio disinteressato (2,6-11). A questo si aggiungevano le angherie di cui erano vittime i cristiani di Filippi (1,28-29), forse le stesse subite da Paolo quando era giunto in città (1,30; At 19,23-20,1). Infine, c’erano i cattivi operai (3,2-3), che mutilavano la carne, predicando probabilmente la circoncisione. Si tratta forse degli stessi avversari esisten­ ti fra i galati? È comunque certo che Paolo chiede ai filippesi di diffidare di loro. Egli rifiuta persino le loro pretese, invocando le sue referenze ebrai­ che senza difetto, ma lo fa perché ormai lo reputa una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Gesù Cristo (3,4-11).

La L e tte ra ai R o m an i Per la sua lunghezza e per il carattere sistematico della presentazione del suo contenuto, la Lettera ai Romani riveste un’importanza particolare nel Nuovo Testamento. È la più lunga delle lettere10 e quella che contiene indubbiamente la riflessione più elaborata. Redatta a Corinto, probabil­ mente nel 58, sembra essere stata motivata dal desiderio di Paolo di recar­ si in Spagna (15,22-29). Rivolgendosi alla comunità di Roma, che non cono­ sceva (1,8-17; 15,22.24.28-29), Paolo approfitta dell’occasione per presentar­ le il «suo» vangelo ed esporre ciò che gli sta a cuore:11 la salvezza è offerta gratuitamente a tutti coloro che credono in Cristo, indipendentemente dal fatto di essere ebrei o pagani (1,16-4,25). Si passa così dalla polemica (Let­ tera ai Galati) all’esposizione dominale (Lettera ai Romani), con la sua dimensione etica (5,12-8,39). Poiché l’argomento principale della lettera è la salvezza dell’essere umano mediante la fede, e non mediante la legge o le «opere della legge», tutto potrebbe indurre a ritenere che la comunità cristiana di Roma fosse allora costituita in gran parte da giudeo-cristiani. Così si spiegherebbero i riferi­ menti ad Abramo del capitolo 4, i tre capitoli consacrati al mistero di Israe­ le (cc 9-11), nonché certe riflessioni (2,17ss). In realtà, nulla è meno certo. Infatti, fin dai saluti iniziali, Paolo si riferisce alla «grazia dell’apostolato per ottenere l’obbedienza alla fede da parte di tutte le genti [...] e tra queste siete anche voi» (1,5-6); poi precisa che vuole andare a Roma «per raccoglie­ re qualche frutto anche tra voi, come tra gli altri gentili» (1,13). AI termine della lettera, Paolo dice addirittura ai romani che, se ha scritto loro con un po’ di audacia, in qualche parte, è in forza della grazia che Dio gli ha con­ cesso «di essere un ministro di Gesù Cristo fra i pagani [...], perché i paga­ ni divengano un’oblazione gradita, santificata dallo Spirito Santo» (15,1516). Del resto, anche la grande meditazione sul destino di Israele (cc. 9-11) sembra rivolta a cristiani provenienti dal paganesimo, perché termina con un’energica messa in guardia dalla tentazione di disprezzare i loro fratelli giudeo-cristiani (11,17-25).

10 Una ridottissima minoranza di studiosi vi vede la riunione di due lettere separate, una minoranza più ampia ritiene che il capitolo 16 sia stato aggiunto successivamente. 11 E che ha esposto nella Lettera ai Galati.

LE LETTERE DI PAOLO

Alla luce di queste varie constatazioni, sembra legittimo affermare che la comunità di Roma cui è destinata la lettera era composta da cristiani prove­ nienti sia dal giudaismo sia dal paganesimo. Segnati dalle loro rispettive ori­ gini, facevano fatica, a quanto sembra, ad accettarsi vicendevolmente. Perciò Paolo si rivolge agli uni e agli altri, predicando l’unione e l’accoglienza reci­ proca.12 In questo contesto, i capitoli 14 e 15 rivestono una particolare impor­ tanza e un versetto come 15,7: «Accoglietevi gli uni gli altri come Cristo accol­ se voi» riassume bene le esortazioni che Paolo ritiene di dover rivolgere a una comunità che rischia di scoppiare a causa delle sue divisioni interne. Poiché in seguito all’editto di Claudio, nel 49, un certo numero di giudei e di giudeo-cristiani aveva dovuto lasciare Roma (fra cui Aquila e Priscilla, At 18,2) e poiché allora la comunità cristiana era composta per lo più di cri­ stiani provenienti dal paganesimo, che non erano stati toccati dall’editto imperiale, si può facilmente comprendere l’insistenza di Paolo sulla neces­ sità di ritrovare la comunione in seno alle comunità cristiane di Roma. Esse infatti erano composte prevalentemente da cristiani provenienti dal paga­ nesimo anche in seguito al ritorno di coloro che erano stati espulsi, quindi al tempo in cui Paolo scriveva la sua lettera. Di qui l’esortazione a non dimenticare il loro debito nei confronti dei loro fratelli di origine ebraica. Dalla lettera risulta anche che Paolo aveva riunito presso di sé la colletta della Macedonia e dell’Acaia (Rm 15,26) e si preparava a imbarcarsi per Gerusalemme. Raccomandando il suo viaggio alla preghiera dei cristiani di Roma (15,30-31), egli lascia intravedere anche le difficoltà che avrebbe molto probabilmente incontrato: un’accoglienza non favorevole da parte dei fratelli della Giudea e la necessità di un duro scontro. Perciò, in qual­ che modo, anche l’imminenza di questo viaggio a Gerusalemme deve aver determinato la redazione della lettera, sia che fosse per Paolo un’occasione per fare il bilancio dei suoi anni di apostolato, sia che si preparasse a difen­ dersi a Gerusalemme. Resta, infine, un’ultima ipotesi, più missionaria che pastorale: dopo aver concluso la sua attività missionaria nel Mediterraneo orientale, Paolo avrebbe scritto la lettera per presentare alla chiesa di Roma il «suo» vange­ lo e il modo in cui lo comprendeva. E lo avrebbe fatto, sapendo di aver bisogno dell’aiuto di quella chiesa per continuare la sua missione e anda­ re a evangelizzare la Spagna: «Ora però, non trovando più un campo d’a­ zione in queste regioni e avendo già da parecchi anni un vivo desiderio di venire da voi, quando andrò in Spagna, spero, passando, di vedervi e di esser da voi aiutato per recarmi in quella regione, dopo aver goduto un poco della vostra presenza» (15,23-24; cf. 1,8-16). Forse Paolo si aspettava addirittura di essere inviato per quella nuova missione dalla chiesa di Roma. Perciò, nonostante i rischi, sapeva di dover esporre il «suo» vangelo ai cristiani di Roma, che non aveva mai incontrato.

12 Notare che la lettera usa spesso la coppia «pagani-giudei» o coppie parallele (1,14-16; 2,9-10.2527; 3,9.29; 4,9-12, 10,12; 11,13-25; 15,8).

Paolo ha veramente scritto le sue lettere? Paolo componeva le sue lettere, da solo o con altri, ma non le scriveva personalmente. Nell'antichità la maggior parte dei compositori di lette­ re ricorreva ai servizi di un segretario professionale e l'apostolo non fa eccezione [...]. Il segretario al quale Paolo ha dettato la sua Lettera ai Romani segnala in nota la sua presenza: «Vi saluto nel Signore anch'io, Terzo, che ho scritto la lettera» (Rm 16,22). È l'unico caso in cui un segretario dell'apostolo interviene personalmente e scrive il proprio nome. Il fatto che si sia sentito libero di farlo la dice lunga sui suoi rap­ porti con Paolo: nessun professionista assunto per l'occasione si sareb­ be presa una tale libertà. In altre lettere di Paolo, la presenza e l'attività di un segretario risulta da un cambiamento di scrittura e formule del tipo: «Questo saluto è di mia mano, di Paolo; ciò serve come segno di autenticazione di ogni lette­ ra» (2Ts 3,17); «Vedete con che grossi caratteri vi scrivo, ora, di mia mano» (Gal 6,11); «Il saluto è di mia mano, di Paolo» (1Cor 16,21); «Lo scrivo di mio pugno, io, Paolo: pagherò io stesso» (Fm 19); «Il saluto è di mia propria mano, di me. Paolo» (Col 4,18). Richards nota che, nel­ l'antichità, annotazioni del genere compaiono all'inizio di una sezione autografa [...]. Un paragrafo conclusivo, normalmente breve, di mano dell'autore, indicava che aveva riletto la stesura finale della lettera e ne assumeva la responsabilità. Che pensare delle altre lettere? Nel caso di 2Cor, Fil, 1Ts è intervenuto un segretario? Anche in questo caso la prassi paolina riscontrata nelle sei lettere ricordate sopra depone a favore del ricorso a un segretario.

J. M urphy-O'C on n o r

,

Paul et fan epistoloire, Éditions du Cerf, Paris 1994, 21-22

La L ettera a F ilem o n e È la più breve delle lettere di Paolo. Per la forma si avvicina molto alle let­ tere ellenistiche di intercessione o di raccomandazione. È indirizzata sia a Filemone che ad Appia e Archippo (cf. Col 4,17), nonché alla chiesa che si riunisce presso Filemone. Questo cristiano, convertito da Paolo (v. 19), doveva essere piuttosto ricco, perché nella sua casa si riuniva una chiesa domestica. Date le ripetute menzioni della prigionia di Paolo (w. 1.13), que­ sta lettera, spedita anche a nome di Timoteo, potrebbe essere stata scritta a Efeso, a Cesarea Marittima o a Roma. Ma la vicinanza geografica neces­ saria per consentire a Onesimo di recarsi senza difficoltà da Paolo induce a pensare a Efeso, quindi verso il 56. Non si conoscono i motivi che avevano spinto Onesimo a recarsi da Paolo, anche se apparentemente aveva causato un danno finanziario al suo padro­ ne (w. 18-19). È comunque certo che, presso Paolo, si era convertito al van­ gelo (v. 10). Quest’ultimo, che avrebbe voluto tenerlo presso di sé (v. 13), lo rimanda da Filemone, con una lettera di raccomandazione che è un model­ lo di questo genere. Toccando vaia registri - di ordine giuridico, ecclesiale e cristologico - Paolo spera che Filemone riceverà Onesimo non più come schiavo ma come «fratello carissimo» (v. 16). Ed è praticamente certo che lo abbia fatto, perché altrimenti la lettera non sarebbe stata conservata. È segno

che Filemone ha compreso che, in seno alla comunità cristiana, l’apparte­ nenza a Cristo trasforma i rapporti padrone-schiavo in relazioni fraterne. Basandosi su un passo della lettera di Ignazio di Antiochia ai cristiani di Efeso,*13 a volte si è immaginato che Onesimo, liberato da Filemone, sia ritornato a Efeso, diventando, dopo la partenza di Paolo, una delle figure più importanti di quella comunità cristiana. Si è addirittura affermato che sarebbe stato proprio lui a riunire le lettere sparse di Paolo, includendovi quella che lo riguardava, il che spiegherebbe la sua conservazione, nono­ stante il suo carattere particolare. Eipotesi è indubbiamente seducente, ma non esiste alcuna prova a favore. Perciò alcuni autori preferiscono pensare che l’Onesimo di Efeso, ricordato da Ignazio verso il 110, non sia quello della Lettera a Filemone, ma un cristiano che portava quel nome a ricordo dello schiavo che, molti anni prima, era stato convertito da Paolo a Efeso.

LE LETTERE DI PAOLO

LE L E T T E R E CONTESTATE Lautenticità di sei lettere, tradizionalmente attribuite a Paolo, è contestata. Diversità di stile, di vocabolario, di contesto storico, e soprattutto di ordine teologico non permettono di attribuirle a Paolo, pur essendo in genere di ispirazione paolina. Per colmare il vuoto lasciato dalla morte dell’apostolo, per mantenere vivo il suo insegnamento e per risolvere, nella fedeltà al suo spirito, i nuovi problemi sorti dopo la sua morte, alcuni cristiani che si richiamavano a lui hanno completato la sua corrispondenza con lettere composte da loro stessi. Redatte nel suo nome, esse miravano ad attualiz­ zare il messaggio del maestro e a preservarne l’autenticità. Molti biblisti collocano la Seconda lettera ai Tessalonicesi, la Lettera ai Colossesi, la Lettera agli Efesini e le lettere pastorali (lT m , 2Tm e Tt) in questa categoria di scritti, composti fra il 70 e il 100.1415Dei discepoli di Paolo vi affrontano i problemi del loro tempo, dando pareri o raccomandando atteggiamenti che consideravano fedeli al pensiero del maestro.13 Questo procedimento, riguardante anche altri scritti del Nuovo Testamento,16 era

13 «In nome di Dio ho ricevuto la vostra comunità nella persona di Onesimo, di indicibile carità, vostro vescovo nella carne» (Ef 1,3)