Guida alla traduzione dal greco
 8877500220, 9788877500229

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UTET Libreria

Nella medesima serie del presente volume: GIOVANNI POLARA,

Guida alla traduzione dal latino.

ANTONIO

GARZYA

GUIDA ALLA TRADUZIONE DAL GRECO

UTET Libreria

© 1991 UTET Libreria via P. Giuria, 20 - 10125 Torino Senza il permesso scritto dell’Editore sono vietati la riproduzione anche parziale, in qualsiasi forma e con qualsiasi mezzo elettronico e meccanico (compresi fotocopie e microfilm), la registrazione magnetica e l’uso di qualunque sistema di meccanizzazione e reperimento dell’informazione. Fotocomposizione:

Finotello - Borgo S.D. (Cuneo)

Stampa: Stamperia Artistica Nazionale - Torino

ISBN 88-7750-022-0 Prima edizione italiana: 1991 Ristampe:

1234 1992 1993

567890 1994 1995 1996

INDICE Cenni sul problema del tradurre e sulle traduzioni dal greco in italiano

...... sli

s

1. Il problema del tradurre .......................... 2. Le traduzioni dal greco in italiano

Il.

.................

Struttura della frase greca ............ ΝΕ 1. La frase e l'ordine delle parole .................... 2. La coordinazione ...................../ sess Particelle |... ioi esses esses Correlazione dissimmetrica ....................... Asindeto . 0... 3. La subordinazione .............. e e eese 4. Stilistica sintattica .......... osos eese esse

Ill.

Cenni storici sulla lingua e i dialetti greci .............. 1. Lingua d'uso e lingua letteraria .................... 2. I dialetti ....... «00οὐ νν νιν νννν νιν esses 3. La koiné L00000 E

IV.

Note sullo stile dei generi letterari e degli autori ......... I. Poesia Li 2. Prosa ............. ese I primordi... La storiografia .......... sisse sense L'oratoria ................. sss re La filosofia...

Sussidio indispensabile per la traduzione: l’apprendimento del lessico L00000 1. Metodi statici... 2. Metodi dinamici ................ νιν νιν νιν ιν νων Il dizionario e il suo uso...

VII.

Come accostarsi al testo da tradurre

VIII.

La trasposizione stilistica dal greco in italiano Sussidi e repertori

1. Gli articoli 2.Icasi

OONtA M

o

llo

..........

eo sss

. 0...

..............

3. I pronomi 4. Iverbi

......

..................

101

sess

.............

esses

νιν

nenn

llus ee

I modi nella proposizione principale ................ I modi nella proposizione secondaria ............... . Le preposizioni ......... sisse leen . Affermazione e negazione ........................ . Fatti stilistici 0/0. L'astratto lesse

Dellissi ............. ΝΕ

ΞΞΞΕ

113 120 121 124 127 129 129 133

8. Repertori lessicali ............................... Radici greche .............. νιν νιν νιν νυν νιν κε ννν Grecismi scientifici e tecnici in italiano ............. Voci omofone ........................... n. Termini e locuzioni ............................. Sinonimi...

ANTOLOGIA

DI TESTI

GRECI

IN TRADUZIONI

D’AUTORE

I.

Omero.

Ziade I 1-42

Il

Omero.

Odissea XXIII 205-240

.................... 0.

II.

Inni omerici.

IV.

Esiodo.

V.

Esiodo. Le opere e i giorni 448-457, 486-490, 465-472, 504-

1, Inno a Demetra

Teogonia 664-720

...................... 1-89

.................

..........................

VI. VII. VIII. ΙΧ. x. XI. XII.

Pindaro. Olimpica 14... Eschilo. Agamennone 855-913 ....................... Sofocle. Antigone 781-805 .......... ΝΕ Sofocle. Edipo a Colono 668-693 .................... Euripide. Baccanti 64-167 ..........2 222222 Erodoto. VI 109-117 .............................. Tucidide. II 49-53...

XIII. XIV. XV.

Aristofane. Le rane 1364-1435 ....................... Demostene. Per la corona (or. 18) 314-324 ............ Platone. Timeo 7 ........................... vs sess.

XVI. XVII.

Teofrasto. 1 caratteri ........: lel le lessen Callimaco. /nno a Demetra 1-110 ....................

XVIII.

Teocrito. Idilli 1............... oL llis ss sss

XIX. XX.

Plutarco. Plutarco.

XXI.

Anacreontèe

TRADUZIONI

Vite parallele, Alcibiade 1-6 ................ Moralia 30-33... 1, 7, 33, 35

D'AUTORE

West...

DAL GRECO

162 166 170 176 180 184 187 191 193 195 203 210 215 220 224 228 231 242 256 264 268 273

..........................

.........

275 277 279 281 286 288 292 294

.............. eee νιν νιν νιν νιν νιν νιν νιν νιν νιν ον

297

XXII.

Tirteo. fr.

XXIII. XXIV. XXV. XXVI.

Teognide. Erodoto. Tucidide. Ps. Lisia.

XXVII. XXVIII.

Ps. Isocrate. A Demonico 13-15, 18-19, 27-28, 29-31 .... Demostene. Per la corona 171-173 ...................

XXIX.

Vangelo di Luca

Bibliografia

159

.........

6 Gent.-Pr.

IN LATINO

. 134 134 137 141 145 152

I 1-18, 19-26... Il 124 ............... 0 II 36-37, 40-41... Epitafio 20-23...

11,1-4; 23,26-27, 32-35, 36-49

Indici dei luoghi citati .........

ool

Indice dei nomi e delle cose notevoli

νιν νιν

νιν ιν νιν νννννν

..............cccceec

299 301

I. Cenni sul problema del tradurre e sulle traduzioni dal greco in italiano.

1. Il problema del tradurre. Si ripete spesso — a partire almeno, a quanto si sa, da Joachim du Bellay — il giuoco verbale traduttore/traditore, a indicare una tal quale fatalità insita nell'operazione del tradurre, fa-

talità che finirebbe col comportare o l'impossibilità tout court del tradurre medesimo o

il ricorso, come a rimedio cautelativo, alla

resa in tutto e per tutto ad litteram. Quella dell'intraducibilità è una tesi estrema (Croce, Jakobson) e forse giusta, specialmente se riferita alla poesia, impraticabile tuttavia ove si passi dall'astratto del discorso estetico al concreto di quello ermeneutico (sappiamo che non si dà traduzione inattaccabile, ma ha innegabilmente diritto di esistere una traduzione che valga da supporto culturale relativamente affidabile anche se in parte arbitrario); l'illusione della letteralità fu già demolita da San Girolamo nei suoi celebri scritti sul tradurre!, nei quali si rappresenta mirabilmente il diva-

rio fra l'obbligo di rispettare nel modo piü assoluto il mysterium del testo biblico e quello di non depauperarlo riproducendone solo l'esterno: non verbum de verbo, sed sensum exprimere de sen-

su...; neque vero ut diserti interpretes faciunt, verbum verbo reddidi [sc. la Bibbia]..., ut nihil desit ex sensibus, cum aliquid desit

ex verbis. Nel suo scritto sul tradurre, altrettanto mirabile per la profondità dei pensieri quanto, stranamente, trascurato, salvo eccezioni, nei torrenziali dibattiti attuali sulla *traduttologia'?, F. Schleiermacher mira a delimitare il concetto di Do/metschen (l'interpretazione, in riferimento alla realtà quotidiana) in confronto a quello di Übertragung (la traduzione, in riferimento alla scienza e all'arte), e a descrivere sconfinamenti di quest'ultima quali la parafrasi

(resa del contenuto

prescindendo

dalla forma,

adatta al tratta-

mento di opere scientifiche) e il rifacimento (Nachbildung, una sorta d’imitazione che, piegandosi all’irrazionalità della lingua, può produrre, trattandosi evidentemente di opere artistiche, effetti simili a quelli dell’originale). L’autore, riferendosi ai compiti d’un traduttore, afferma a un momento? che, « essendo la lingua una realtà storica, non se ne ha un senso corretto se insieme non

si possiede il senso della sua storia», e da tale affermazione vogliono prendere le mosse le brevi considerazioni alle quali ci accingiamo. Non si tratta in effetti di prender posizione in astratto per il tradurre letterale (razionale), fedele alle singole componenti lin-

guistiche dell’originale (lessico morfologia sintassi ecc.), o non letterale (intuitivo), fedele anch’esso all’originale, ma globalmente. Si tratta di tener presente in concreto che un’opera di letteratura nasce nell'Aic et nunc d'una situazione storica e può essere intesa nella sua unitarietà — e se ne può quindi tentare il trasferimen-

to in altra lingua — solo se non si perdono di vista i modi e il senso della sua irripetibile fisionomia. Ma, come la complessità e non

la semplicità caratterizza ogni

situazione

storica, così è di

ogni testo, in quanto calato nella storia epperò inglobante anche una contestualità la quale, abbia posto su di essa o meno esplicito accento l’autore, ne è parte integrante alla stessa stregua delle componenti strutturali, formali, ecc. Se storia d’una lingua è la

storia delle modificazioni subite dai suoi istituti, ogni traduzione non potrà prescindere dal peso dei dati storico-linguistici. Una certa innovazione è sentita come tale dai contemporanei, perde smalto in epoche successive, può riacquistare aspetto di novità se fatta resuscitare ancora più tardi. Pensiamo ad esempio alla vicenda dell’ottativo in greco, sentito di volta in volta come collo-

quiale come neutro come aulico. Sarà possibile a un traduttore rendere in altra lingua la connotazione che il suo impiego rechi nel caso specifico? Non sempre, certo, ma a tale mèta dovrà tendere e, quando tutto manchi, farà bene a spiegarsi in una nota al-

la traduzione adottata. Ridotto il problema del tradurre alla dimensione che gli è più

consona, quella storico-ermeneutica, al di fuori di ogni fumisteria

9

teorizzante e ideologica‘, viene in primo piano non più la sua definizione, una volta per tutte, ma la sua soluzione, che implicherà anche una definizione, caso per caso. Prevarrà il momento pragmatico, non senza essersi prima interrogati sui condizionamenti

di base e sulla strategia da adottare in conseguenza: altro è dover tradurre un’opera di natura scientifica altro un testo d’uso strumentale (Gebrauchstext), altro un’opera di alta creatività, o un classico, altro un prodotto della paraletteratura. Ci si inserirà, se vogliamo, nella grande tradizione della precettistica umanisticorinascimentale sul tradurre, la quale ha suoi grandi momenti nel famoso Sendbrief vom Dolmetschen di Martin Lutero (1530), nel trattatello di Étienne Dolet La manière de bien traduire d'une lan-

gue en aultre (1540), ma soprattutto e molto prima nei contributi degli umanisti italiani, fra i quali il posto principe é stato a buon diritto rivendicato dal Folena a Leonardo Bruni. Al Bruni si deve non solo (in un'epistola del 1400.IX.5) la unificazione sotto le voci traducere/traductio dei vari sinonimi correnti (verto converto reddo, ecc.), ma anche (nell'opuscolo De interpretatione recta del 1420) un esemplare approfondimento delle

finalità e dei modi della trasposizione e del significato e del significante, delle res e dei verba, i cui termini, per ció che attiene al cómpito del traduttore, sono i seguenti”: a) Conoscenza profonda livelli e nei suoi meccanismi

della lingua ‘de qua transfers’ a tutti i piü peculiari, modismi, locuzioni figura-

te..., espressione metaforica di pensieri attraverso citazioni allusive a poeti noti nella tradizione di quella lingua: «Sit igitur prima interpretis cura linguam de qua sumit peritissime scire, quod sine multiplici et varia et accurata lectione omnis generis scriptorum numquam assequetur.»

b) Pieno dominio della lingua in cui si traduce, con tutta la sua gamma di sfumature semantiche e di connotazioni sinonimiche®... c) Passando dal livello grammaticale-semantico a quello retorico, si richiede *orecchio' o senso di stile fine e rigoroso, con la capacità di ‘tradurre’ anche l'arte del periodo e il ritmo periodico (* numerus?),

perché anche in filosofi come Platone e Aristotele *doctrina rerum et scribendi ornatus' vanno sempre uniti: « Et insuper ut habeat auris (se-

10 verum) iudicium, ne illa, quae rotunde ac numerose dicta sunt, dissipet

ipse quidem atque perturbet. » d) Si deve cosi mirare a una vera e propria imitatio dello stile perso-

nale dell'autore tradotto. Qui è introdotta l'analogia con la pittura, quando si copia o s'imita un esemplare, e tutta la terminologia è modellata su questa metafora critica della Nachbildung: «Ut enim ii, qui ad exemplum picturae picturam aliam pingunt, figuram et statum et ingressum et totius corporis formam inde assumunt nec, quid ipsi facerent,

sed, quid alter ille fecerit, meditantur: sic in traductionibus interpres quidem optimus sese in primum scribendi auctorem tota mente et animo et voluntate convertet et quodammodo transformabit, eiusque orationis figuram, statum, ingressum coloremque et liniamenta cuncta exprimere meditabitur. Ex quo mirabilis quidam resultat effectus...» e) L'obiettivo più alto d'una conversione è dunque una ‘con-versione’, una immedesimazione con lo stile dell'originale, che è la vera ‘fe-

deltà', un ‘farsi rapire’ da esso, obiettivo espresso con un linguaggio platonico che sembra portarci vicino alle concezioni dell'autore del Sublime: « ... Haec est optima interpretandi ratio, si figura primae oratio-

nis quam optime conservatur, ut neque sensibus verba neque verbis ipsis nitor ornatusque deficiant. »

Traduzione,

dunque,

‘totale’ e da concepire come

di getto,

con operazione unitaria: è ciò a cui tende anche Lutero: «Quo et gratiam orationis servaris exactius et proprius fueris interpretatus ad verbum, hoc versio erit potior ac praestabilior ». Né diversamente il Dolet con le sue cinque regole per il traduttore: 1) egli ha da intendere alla perfezione «le sens et la matière» dell'autore che traduce; 2) ha da conoscere alla perfezione e la lingua di partenza e la lingua di arrivo; 3) deve evitare a ogni costo di asservirsi all'originale al punto da volerlo scioccamente rendere «mot pour mot »... «ligne pour ligne ou vers pour vers»; 4) deve evitare di adoprare termini non usuali, ad esempio latinismi ove traduca dal latino, credendo di meglio accostarsi all'originale; 5) (è questa la regola più datata) deve ricercare di riprodurre il ritmo oratorio dell’originale. Alla luce di siffatte considerazioni appare sempre più chiaro

che quello del tradurre non è un problema metafisico ma un problema storico: in quanto tale esso impone al traduttore non la ri-

11 cerca d’un’esattezza finalistica e acronica della resa, col che si ca-

drebbe nella sterile disputa sulla preferenza da dare alle ‘belle infedeli’ piuttosto che alle ‘brutte fedeli’ o viceversa, ma un'esat-

tezza mirata alla riformulazione di un messaggio, inserita in un orizzonte di attesa di volta in volta differente. Ciò rende plausibile il fatto che si ritorni a tradurre, il che da sempre è avvenuto, gli stessi testi, non tutti ovviamente, ma di preferenza quelli che sia-

no portatori di più densi e articolati messaggi. Ond'é che la storia spirituale d'un'epoca può farsi anche per la spia delle sue traduzioni.

2. Le traduzioni dal greco in italiano. Quello della storia delle traduzioni dal greco in italiano è un capitolo ancora da scrivere. Si forniranno qui solo rapidi e casuali ragguagli. C'é anzitutto da dire che i volgarizzamenti — o parafrasi o travestimenti, ché di ció talora si tratta — dal greco cominciano ad apparire piü tardi di quelli dal latino. Il fatto si spiega anzitutto con la sparizione in Occidente della lingua greca essa stessa per lunghi secoli e poi con la suggestione dell'intermediazione latina, troppo forte per esser di colpo abbandonata. C'é anzi da notare che, anche quando si cominciò a voler leggere gli autori greci in’ italiano e non piü in latino, le nuove versioni furon talvolta eseguite su precedenti versioni latine. E d'altra parte, chi alla leggera avrebbe osato por mano a ritradurre, sia pure in altra lingua, autori che avevan ricevuto versioni di somma perfezione, grazie, poniamo, a un Marsilio Ficino (Platone 1482, Plotino 1492), a un Lorenzo Valla (Tucidide 1448-52)? I primi esperimenti vengono dati alle stampe nel tardo Quattrocento e sembrano piuttosto casuali quanto al genere letterario. Tre di essi riguardano testi assai diffusi per tutto il Medioevo e dopo,

a livello

medio,

o medio-basso:

la Batracomiomachia,

«tradotta in terza rima» molto approssimativamente da Giorgio Sommariva (Verona 1470) e più tardi da molti altri nei metri più diversi (fra altro in dialetto napoletano dal Duca Michele Vargas

12

Macciucca, Napoli 1589); le epistole attribuite ἃ Falaride Agrigentino, «tradotte in volgare da Bartolommeo Fonzio fiorentino» nel 1471 (s.l., rist. Firenze 1488.1491.1496), prima dell’editio princeps veneziana del 1498 (ma l’opera conobbe nel XV secolo più edizioni nella versione latina di Francesco Accolti di Arezzo);

le favole di Esopo’ (ed pr. gr. lat. 1473), «ridotte in sonetti per Accio Zucco di Sommacampagna » Verona 1475, una maldestra ‘imitazione’ di 67 favole alla quale molte altre dovevan seguire (fra cui la napoletana del 1485, di Francesco Tuppo, accompagnata dal testo greco-latino e «con allegorie» critiche nei confronti della Curia di Roma e dei Frati, e la fiorentina con greco a fronte del 1736, di Angiol Maria Ricci, in «anacreontiche tosca-

ne»*, lavoro notevole per completezza e precisione). Altri due autori tradotti nel Quattrocento sono Diogene Laerzio, forse da Antonio Cartulario (Padova 1480, l’ed. pr. greca è del 1533), e il Plutarco delle Vite, da Alessandro Jaconello da Rieti (Aquila 1482: 26 Vite dal latino, le rimanenti furono aggiunte da Giulio Bordone nella ristampa veneziana del 1525). Nel Cinquecento le versioni si moltiplicano, in corrispondenza anche del moltiplicarsi delle edizioni greche a stampa, e la gamma degli autori si fa sempre più vasta e meno casuale. Ad esempio, nella prima metà del secolo figurano in blocco le traduzioni degli storici:

1493), Maria Valla), latino, dalica

Erodiano

(1522,

sulla traduzione

latina

del Poliziano,

Dione Cassio (1532, parziale), Erodoto (1533, di Matteo Bojardo, eseguita probabilmente sulla latina di Lorenzo Arriano (1544, solo 1’ Anabasi), Procopio (1544.1547, dal prima la Guerra gotica e quindi le Guerre persiana e vane gli Edifici), Appiano (1545, dopo una prima, scadente,

dal latino, del 1502), Tucidide (1545, Venezia, pregevole tradu-

zione di Francesco di Soldo Strozzi), Dionigi di Alicarnasso (1545, solo le Antichità), Polibio (1545). Accanto agli storici alcuni autori tecnici: Dioscoride (tre versioni in sei anni: Venezia 1542, Curzio Troiano di Navò; ibid. 1544, la pregevolissima e amplissimamente commentata di Pietro Andrea Mattioli; Firenze 1546, Marcantonio Montigiano),

Euclide (Venezia

1543, Nicolò

Tartaglia, e quasi subito dopo, Roma 1545, Agnolo Cajani), Tolemeo

(Venezia

1548,

Pietro Andrea

Mattioli e poi ibid.

1561,

13

Girolamo Ruscelli). La poesia, dopo una sporadica comparsa di Aristofane nel

1545 (Venezia, trad. prosastica di Bortolomio

e

Pietro Rositini, sulla misera ed. lat. di Andrea Divo), è abbastanza presente nella seconda metà del secolo, seppure sempre in minoranza rispetto alla prosa (fra i prosatori ci sono anche Ippocrate, iusiur. e aphor., Erone meccanico, i tattici Polieno, Eliano e Leone il saggio, Isocrate, Demostene, cor., Pausania, il Plutarco dei Moralia, 1598, ecc.). Ricordiamo versioni dell'7liade (1554),

di Colluto (1571), dell’Odissea (Venezia 1573, più una sorta di tales from Homer in ottave, di Ludovico Dolce, che una traduzione; del 1578, Napoli, è la parafrasi dei ll.IX e X fatta da Ferrante Carafa; primo volgarizzamento completo in nobili versi sciolti

quello di Girolamo Baccelli, Firenze 1982), dell’Edipo re e dell’ Elettra di Sofocle (rispettivamente 1585.1588; pregevole la versione dell’Edipo, dovuta a Orsato Giustiniano), dell’ A/cesti di Euripide (1599).

Il Seicento sembra un secolo di stasi dell’attività volgarizzatrice. Si segnalano un primo tentativo pindarico (Pisa 1631, trad. Alessandro Alinari, «in parafrasi e in rima toscana»);



la prima

della lunghissima serie di versioni delle ‘odi di Anacreonte’ (ossia di quello che poi si sarebbe dimostrato essere pseudo-Anacreonte; Venezia 1670, Francesco Antonio Cappone); il Longo Sofista stampato a Bologna nel 1643 sotto il nome di Gio. Batt. Manzini, ma in realtà di Annibal Caro con poche alterazioni (la poi celebre traduzione del Caro correva ancora manoscritta; sarebbe stata stampata solo nel 1786, a Parma, vent’anni dopo la veneziana, anche celebre, di Gaspare Gozzi). I volgarizzamenti riprendono con buona lena nel Settecento e

continueranno nel secolo seguente e in questo nostro. Si può dire che gli autori greci, più o meno integralmente tradotti nella nostra lingua, sieno senz’altro la grande maggioranza. Le lacune tuttavia non sono poche. Manchiamo, tuttora, per fare due esempi tra i più vistosi, di un Ippocrate e di un Galeno completi; come pure

di un Nonno di Panopoli, essendo rimasta inedita la versione secentesca contenuta in un codice Magliabechiano,

e di Dione

di

Prusa del quale si ha ben poco in italiano; per non dire di tanta parte della letteratura tardoantica e bizantina?.:

-

14

Fra i traduttori benemeriti per l’ampiezza del lavoro svolto, anche se fatalmente disuguale per qualità, va ricordato per il Settecento l’abate Antonio Maria Salvini (1653-1729), il quale, in varie forme, diè veste italiana a quasi tutti i poeti greci, cimentandosi solo raramente nella prosa. Aveva tendenza a tradurre di getto, senza ritornar su a limare, il che spiega certa povertà della sua re-

sa, ma nel complesso si può dire che la sua prolificità non gli ha nociuto. Per la prosa, ma celebre fu anche la sua elegantissima versione in endecasillabi dell’//iade, fa da pendant al Salvini il

dottissimo abate Melchior Cesarotti (1730-1808). Suo capolavoro è Demostene, impetuoso e sobrio al tempo stesso, il più congeniale a lui degli oratori greci che tutti tradusse (anche una scelta da Dione Crisostomo e da Temistio). Venendo al nostro secolo van-

no citati Ettore Romagnoli (1871-1938) e Filippo Maria Pontani (1913-1983), i quali tradussero entrambi quasi per intiero il corpus della poesia greca, con sensibilità diversa ma con resultati in qualche caso esemplari (pensiamo rispettivamente all’ Aristofane e all’ Antologia greca). Benemeriti della traduzione greco-italiana furono anche alcuni editori che promossero grandi raccolte organiche da servire al largo pubblico: ad esempio nel Settecento lo Zatta di Venezia, che accolse il fortunato Parnaso de’ poeti classici d'ogni nazione trasportati in lingua italiana, in quarantun volumi (1793-1803), curato dall’abate Andrea Rubbi, che vi accoglieva traduzioni, vecchie e nuove, fatte da autori vari; nell’Ottocento i Sonzogno di

Milano con le loro collezioni di classici in nuove edizioni o ristampe rimaste in vita quasi fino ai nostri giorni; nel Novecento lo Zanichelli di Bologna, che pubblicò con enorme successo il corpus romagnoliano e poi altri, fra cui — con i già citati « Classici greci», che sono però a un più alto impegno scientifico e editoriale — la UTET,

erede dell’editrice Pomba

che nell’Ottocento si ac-

quistò molti meriti anche in questo settore, e la Rizzoli con la notissima Biblioteca Universale nella prima e nella seconda serie.

15 Note 1. L'epistola a Pammachio De optimo genere interpretandi, 57 Lab., nonché le due a Teofilo, 99 e 114 Lab., la prefazione al Chronicum di Eusebio, ecc. 2. Cfr., fra il moltissimo, gli Atti di quattro Convegni sulla traduzione: AA.Vv., La traduzione. Saggi e studi, Trieste 1973, La traduzione del testo poetico, Milano 1989, La traduzione dei testi religiosi, Monselice 1990 e La traduzione dei classici, Palermo 1991 (ivi in particolare la prolusione di J.-R. LADMIRAL, La traduction des textes classiques, pp. 9-29); nonché il sempre valido W. BENJAMIN, Die Aufgabe des Übersetzers (1920), trad. it., Torino 1962, in Angelus novus, pp. 37-50; B. TERRACINI, // problema della traduzione, in Conflitti di lingua e di cultura, Venezia 1957, pp. 49-121 (già in spagnolo, Buenos Aires 1951); R. JAKOBSON, On Linguistic Aspects of Translation (1959), trad. it., Milano 1966, in Saggi di linguistica generale, pp. 56-64; M. FuniN1, Sulla traduzione, in Critica e poesia, Bari 1966, pp. 341-370; G. Μουπιν, Traductions et traducteurs (1964), trad. it., Torino 1965; H. MEscHoNNIC, Pour la poétique. II: Epistemologie de l'écriture. Poétique de la traduction, Paris 1973; i fondamentali G. STEINER, After Babel: Aspects of Language and Translation (1975), trad. it., Firenze 1984 e G. FoLENA, Volgarizzare e tradurre, Torino 1991 (riedi-

zione riveduta e ampliata d'un contributo al Convegno triestino sopra cit.). Utile rassegna dei principali punti di vista teorici in E. MATTIOLI, Introduzione al problema del tradurre, in Studi di poetica retorica, Modena 1983, pp. 135-163 (già in // Verri XIX [1965], pp. 107-128; ved. anche Ip., Problemi della traduzione letteraria, in Atti Acc. Peloritana dei Pericolanti, Cl. Lett. Filos. Belle Ar-

ti LXV [1989], pp. 33-46). 3. Sui diversi metodi del tradurre, in Etica ed ermeneutica a cura di G. Mo-

retto, Napoli 1985, p. 100; cfr. 92: « Chi infatti si é impadronito di quest'arte del comprendere con lo studio più tenace della lingua, con una esatta conoscenza

dell'intera vita storica del popolo e con la piü vitale attualizzazione di singole opere e dei loro autori, lui, lui soltanto puó proporsi di dischiudere un'uguale comprensione dell'arte e della scienza ai suoi contemporanei e ai suoi connazionali»; per le vedute romantiche sul tradurre cfr. A. BERMAN, L’épreuve de l’étranger. Culture et traduction dans l'Allemagne romantique, Paris 1984. 4. Il Meschonnic, ad esempio, op. cit., pp. 308 s., al., lancia tuoni e fulmini contro la traduzione come « annexion » (sc. del significato del testo di partenza), in quanto prodotto dell'«impérialisme culturel» d'un pensiero «européocentrique, logocentrique, colonialiste... », ecc. ecc. 5. Riportiamo dal FOLENA, op. cit., pp. 62 ss. 6. Il Bruni ha di mira la trasposizione dal greco in latino (aveva appena finito di tradurre l’Etica nicomachea di Aristotele), ma il suo discorso vale naturalmente anche per chi traduca in madrelingua.

7. In verità due primi volgarizzamenti di Esopo pare sieno stati eseguiti nel Trecento, l’uno da anonimo e l’altro da Luigi Rigoli, e stampati a Firenze rispettivamente presso Vanni nel 1778 e presso Garinei nel 1818.

16 8. In martelliani invece tradussero Esopo il Goldoni, Modena 1756, e Ferrigo Cotteli, Venezia 1769, che si servi del dialetto veneziano. 9. Viene ora incontro a questo importante desideratum la Sezione « Autori della tarda antichità e dell’età bizantina» della nota Collana «Classici greci» della UTET: primi due volumi il ‘tutto Sinesio', a cura di A. Garzya, 1989, e l'annunciato corpus oratorio completo di Temistio, a cura di R. Maisano.

II. Struttura della frase greca.

1. La frase e l’ordine delle parole. S’intende per frase l’enunciazione completa d’un’idea concepita dal parlante. L'indeuropeo ha conosciuto con sicurezza la frase semplice, fondata cioè sull'organizzazione del nome e del verbo e dominata dalla sintassi dei casi. Un momento successivo fu segnato dalla frase correlativa — argomento + commento - la quale inizialmen-. te si presentò come ‘dittico normale’ (un embrione di nesso subordinante nel quale la futura secondaria precede la futura principale: «chi?... questo», «qualcuno... quello»), in séguito come ‘dittico inverso’ (anticipazione della principale, ancora espressiva nella prosa vedica, normale e non più significativa in greco e in latino). Il metodo comparativo, non potendo operare su ció che non ha lasciato traccia di sé, non permette di affermare, né di escludere, che l'indeuropeo abbia anche conosciuto un'unità lin-

guistica superiore al livello della frase correlativa, com’e stato il caso per il greco e altre lingue indeuropee. In ogni caso, la conoscenza della struttura di base della frase, e degli scarti relativi, é essenziale ai fini della traduzione, giacché questa dovrà in qualche modo riflettere anche il grado di espressività conferito all'originale dai modi della sua stessa organatura'. La frase semplice puó essere in indeuropeo di due tipi principali: verbale (il tipo normale) e nominale, a seconda che comporti o meno la presenza d'una forma verbale personale”. La frase nominale è in greco abbastanza frequente, ma il suo impiego non è senza significato espressivo.

Nel caso più semplice, il più vicino all'indeuropeo (cfr. sanscr. sa gatah «egli [è] andato », russo eto student « questo [è] uno stu-

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dente»), si tratta αἱ sottintendere il verbo «essere», per lo più la forma ἐστιν. Così in formule denotanti famigliarità di linguaggio

come οὐδεὶς ὅστις οὐ «non (c’è) nessuno che», οὐδὲν ἐμοὶ καὶ σοί «non (c’è) niente fra me e te», δῆλα δὴ ὅτι «(ἐ) chiaro che», τί τοῦτο; «cos'(&) ciò? », οὐδὲν πρὸς ἐμέ «(questo è) niente per me, non m'importa », τί πλέον; οὐδὲν πλέον «cosa (c’è, si guadagna) di più? » «(non c’è) niente di più», καὶ τἄλλα πάντα οὕτως «e tutto il resto (è) così», e così via. Famigliari, ma in grado diverso, sono anche le frasi nominali di tipo proverbiale o sentenzioso: es.

λευχοὶ x6paxeg «(sono [rarissimi come]) corvi bianchi», μηδὲν ἄγαν «niente (non ci sia) di troppo», μελέτη τὸ πᾶν «l'esercizio è tutto», καιρὸς ἐπὶ πᾶσιν ἄριστος «la giusta misura (è) in ogni caso ottima», Θεὸς οὐ ληπτός᾽ εἰ δὲ ληπτός, où ϑεός «Iddio non (è) concepibile; se (è) concepibile, non (è [bisogna tener presente che

l’ellissi dell’ottativo (&v] εἴη è di norma vietata]) dio ». In taluni di codesti casi si può con vantaggio conservare la forma ellittica an-

che in italiano: es. φροῦδα πάντα «tutto finito! » («tutto è finito» perderebbe la nota enfatica). Peraltro il grado di colloquialità d’una frase nominale non si lascia identificare automaticamente. Ad esempio, l’ellissi verbale ch’essa comporta quasi obbligatoriamente con gli aggettivi verbali in -téog e con le varie espressioni di necessità o convenienza può implicare tanto l’adesione a una rou-

tine quanto un intento bene definito: altro è dire ἀνάγκη, ϑέμις τοὺς πατέρας τιμᾶν « (è) necessario, giusto onorare gli antenati » o ὥρα ἀπιέναι « (è) il momento di andarsene» altro qualcosa come

ἡμῖν γ᾽ ὑπὲρ τῆς ἐλευϑερίας ἀγωνιστέον «a noi almeno tocca combattere per la libertà!» (Demostene, or. 9 [Phil. 3], 70)?. Né è . impossibile impiegare la frase nominale in contesti oratori di tono

solenne: es. ἰταμὸν γὰρ ἡ πονηρία καὶ τολμηρὸν καὶ πλεονεχτικόν,

xai τοὐναντίον ἡ χαλοχαγαϑία, ἡσύχιον xai ὀχνηρὸν καὶ βραδὺ καὶ δεινὸν ἐλαττωϑῆναι (Demostene, or. 25 [c. Aristog.], 24) «sfrontata è la cattiveria, e audace e cupida, e tutto l’opposto la bontà, tranquilla, esitante, tarda, capace di trovarsi in svantaggio ». Alla strutturazione della frase contribuisce anche l’ordine delle parole. L’indeuropeo ha conosciuto al riguardo qualche regola, o tendenza, generalissima: precedenza al determinante rispetto al

19

determinato (sanscr. pitür duhitá, patris filia; l'inversione implica opposizione: praetor urbanus contro praetor peregrinus); le forme atone in seconda posizione; il verbo alla fine di proposizione subordinata; il soggetto in testa sia di principale che di subordinata e subito dopo i complementi, a cominciare dagl’indiretti e si che il diretto preceda immediatamente il verbo. Le varie lingue indeuropee hanno accolto, ciascuna con accenti propri, lo schema primordiale. . La lingua greca è certamente in tal riguardo la più duttile. L’ordo verborum può presentarsi negli schemi più vari, non per questo gratuiti, il che richiede singolare impegno da parte del traduttore che voglia coglierne le sfumature. I punti di riferimento per l’identificazione di quello trattatisti* intendono per ordine abituale sono pochissimi:

che i

— le particelle — a eccezione di ἀλλά e di alcune composte, quali οὐχοῦν οὔχουν τοιγάρ — vanno, così come molte enclitiche, dopo la prima parola della relativa frase o membro di frase; — nella lingua letteraria il verbo tende verso la fine, ma meno strettamente che in sanscrito e in latino; nelle principali ciò accade soprattutto quando si tratti di frase proverbiale o di sentenza

di tre parole: χελιδὼν ἔαρ où ποιεῖ (Cratino, fr. 33 K.) «una ron-

dine non fa primavera»; μηδεὶς ἀγεωμέτρητος εἰσίτω (scritta sulla porta di Platone secondo Elia, in Arist. cat. 118, 18) «non entri nessuno che sia ignorante di geometria »; nella lingua d’uso corrente invece la posizione normale del verbo è piuttosto verso il terzo quarto della proposizione relativa: es. Lisia, or. 24 (pro

inv.), 27 καὶ οὕτως ὑμεῖς μὲν τὰ δίκαια γνώσεσϑε πάντες, ἐγὼ δὲ

τούτων ὑμῖν τυχὼν ἕξω τὴν χάριν «così voi tutti farete giustizia, io vi serberó gratitudine di quanto ottenuto»

(...n&vres γνώσεσϑε

avrebbe dato in italiano «...giustizia farete» e... τὴν χάριν ἕξω «...gratitudine serberò », due giri di frase meno piani); Aristofa-

ne, Thesmoph. 443 ὀλίγων Évexa χαὐτὴ παρῆλϑον ῥημάτων «son qui per dire poche parole»; — il complemento diretto precede di norma il predicato, ma

non negli storici di età attica, i quali sembrano preferire l'ordine opposto, cosi anticipando l'uso ellenistico (non tuttavia di scritto-

20

ri arcaizzanti quali Plutarco o i Filostrati) più aderente alla lingua parlata; questo però soprattutto nelle principali, nelle subordinate la sequenza compl. dir.-pred. è molto più generale e resistente)"; — è sentito come normale il primo posto al verbo nei casi seguenti: con èdote/placuit che introduce leggi o decreti (es. Aristofane,

Thesmoph. 372 s. ἔδοξε τῇ βουλῇ τάδε - τῇ τῶν γυναιχῶν.... «L'assemblea delle donne ha decretato quanto segue... [non «ha decretato l’assemblea...», ché s’introdurrebbe un corrispettivo ‘anormale’ della ‘normalità’ dell’originale]);

con éom/exstat (es. Senofonte, anab. III 1,4 ἦν δέ τις ἐν τῇ στρατιᾷ Ξενοφῶν ᾿Αϑηναῖος «c'era nell’esercito un certo Senofonte di Atene»);

con verbi tipici delle descrizioni geografiche (κεῖσϑαι, ἐνεῖναι,

ῥεῖν, ἀπέχειν, ecc.) o dei resoconti narrativi (es. ἑσπέρα μὲν γὰρ ἦν, fixe δ᾽ ἀγγέλλων τις ὡς τοὺς πρυτάνεις ὡς ᾿Ελάτεια χκατείληna: all'inizio del celebre annunzio della presa di Elatea in Demostene, or. 18 [cor.], 169). Le esigenze particolari del pensiero, dell'emozione, del sentimento, inducono quello che viene detto ordine occasionale’ delle

parole. I suoi schemi possono andare ovviamente all'infinito. Con una certa frequenza s’incontrano i seguenti e bisognerà tenerne adeguato conto nel tradurre: — rilievo enfatico all'inizio: esempio classico Platone, Protag.

310b (Ippocrate a Socrate) Πρωταγόρας, ἔφη, fixeı « (È) Protagora — disse — (che) sta qui!», ma

più innanzi,

310c τότε μοι

ἁδελφὸς λέγει ὅτι ἥχει Πρωταγόρας « allora mio fratello mi dice che era (proprio) giunto, Protagora» e 3104 μῶν ti σε ἀδικεῖ, Πρωταγόρας;

«forse che ti ha offeso in qualcosa,

Protagora? »

(qui l’accento s'é spostato sui verbi ἥχει e ἀδικεῖ, la sorpresa della notizia è stata superata); _ — rilievo enfatico in fine: es. Demostene, or. 2 (Olinth. 2), 8,

... ἢ ὡς οἱ παρὰ τὴν αὐτῶν ἀξίαν δεδουλωμέναι Θετταλοὶ νῦν οὐχ ἂν ἐλεύϑεροι γένοιντ᾽ ἄσμενοι (per ἄ.γ.) «...0 che i Tessali resi schiavi contro la loro volontà diverrebbero ora liberi ben volen-

tieri»; Lisia (ps.-?), or. 20 (pro Polystr.), 32 ἔχει δ ὑμῖν, ὦ ἄνδρες

21

διχασταί, οὕτως (invece di οὕτως ἔχει ο È. οὔ.) «è questo qui il vostro problema, signori giudici ». Si pensi anche alle celebri chiuse, come riassuntive di tutto, di grandi opere quali la Repubblica di

Platone (τῆς ἄνω ὁδοῦ ἀεὶ ἐξόμεϑα ... ἵνα ... καὶ ἐνθάδε xai ἐν τῇ χιλιέτει πορείᾳ, ἣν διεληλύϑαμεν, εὖ πράττωμεν [nella coordinata precedente il verbo non è in fine: ἵνα καὶ ἡμῖν αὐτοῖς φίλοι ὦμεν xai τοῖς ϑεοῖς] «ci terremo sempre alla via che mena verso l'alto... e così ci troveremo bene al più alto grado, sia qui sia nel viaggio di mille anni che abbiamo

descritto»

[sc. otterremo l’eudemonia,

scopo supremo della speculazione filosofica]), o il De corona di

Demostene (...& πάντες ϑεοί, ...iuîv δὲ τοῖς λοιποῖς τὴν ταχίστην ἀπαλλαγὴν τῶν ἐπερτημένων φόβων δότε xal σωτηρίαν ἀσφαλῆ «... O dèi tutti... a noi superstiti concedete al più presto la liberazione dalle incombenti paure e la salvezza sicura»; — posposizioni varie: d’un genitivo al quale si vuole dar rilie-

vo (es. Platone, resp. V 477c δυνάμεως γὰρ ἐγὼ οὔτε τινὰ χρόαν ὁρῶ οὔτε σχῆμα... δυνάμεως δ᾽ εἰς ἐχεῖνο μόνον βλέπω ἐφ᾽ ᾧ te ἔστι... «d’una facoltà [è la parola-chiave di tutto il passo] io non vedo né colore alcuno né forma... d’una facoltà invece guardo a

ciò solo a cui mira... »); d’un’interrogativa (es. Platone, /eg. VII

810a μανϑάνειν δὲ ἐν τούτοις τοῖς χρόνοις δὴ τί ποτε δεῖ τοὺς νέους

xai διδάσχειν αὖ τοὺς διδασκάλους, τοῦτο αὐτὸ πρῶτον μάνϑανε [da notare anche la disposizione chiastica delle due forme di μαν9&vo] «ma anzitutto devi capire ciò che in questo periodo i fan-

ciulli debbono apprendere e i maestri insegnare»); d'una relativa (es. Platone, /eg. IX 873c τὸν δὲ δὴ πάντων οἰχειότατον xai λεγό-

μενον φίλτατον ὃς ἂν ἀποχτείνῃ, τί χρὴ πάσχειν; « ma per chi [sc. il suicida] addirittura [questo rafforzativo può in qualche modo rendere l’effetto voluto dalla posposizione di ὃς — ἄπ.] uccida ciò che v’è al mondo di più intimo e, così si dice, di più caro, qual pena vi dovrà mai essere? » [anche l’interrogativa è posposta]); d’una congiunzione, specie negli oratori e nelle Leggi di Platone (es.

Iperide, 3 [pro Euxen.], 27 ἀλλὰ τῶν ῥητόρων ἐάν τις ἀδικῇ, τοῦτον χρίνειν, στρατηγὸς ἐάν τις μὴ τὰ δίκαια πράττῃ, τοῦτον εἰσαγγέλλειν «ma se a commettere un reato sia un oratore, ecco chi citare in giudizio; se a non fare il suo dovere sia uno stratego, ec-

co chi incriminare »);

22

— le figure retoriche contribuiscono anch’esse ovviamente alla creazione di ordini occasionali di parole in contrasto con l’ordine logico: così il chiasmo, l’antitesi, l’allitterazione, la figura etimologica, ecc. Il loro effetto può essere il più diverso: tensione,

sorpresa, armonia fonica, ecc., e non è sempre agevole trasferirlo in altra lingua. Ci soffermeremo su qualche caso di iperbato*, un artificio tipico del greco letterario, il quale può presentarsi in gradazioni assai varie. Il caso più semplice è forse la separazione, più o meno lontana, dell’articolo dal nome o participio a cui si riferi-

sce (es. Platone, Phaed. 88a ἐν τῷ πρὶν χαὶ γενέσϑαι ἡμᾶς χρόνῳ «nel preesistere [sc. le anime] alla nostra nascita»: l’allontanamento

dell'articolo conferisce

stretta unità all'espressione);

già

meno semplice l'allontanamento di due parole costituenti un tutt'uno e sostituibili con una sola (es. Platone, Phaedr. 250a λήϑην

ὧν τότε εἶδον ἱερῶν ἔχειν «ottenere l'oblio delle sacre visioni che avevano avute») o quello del pronome interrogativo dal nome a

cui si riferisce (es. Platone, /eg. VII 809b ποῖα xai τίνα μεταχει-

ρίζεσϑαι χρή σοι τρόπον... τοὺς ὑπὸ σοῦ τρεφομένους «quali [sc. scritture] e in che modo occorre che i tuoi alunni abbian fra mano») o del pronome dimostrativo dal suo articolo (es. Isocrate [che fa largo uso di tale iperbato], or. 2 [ad Nicocl.], 41, ἐν τοῖς

λόγοις χρὴ τούτοις, 5 [Phil.], 6 τὴν χώραν ἡμῖν ταύτην). Casi particolari sono: la separazione di due frasi o proposizioni a mezzo

d’un elemento

comune

a entrambe

(es. Tucidide,

I

69,1 ἐς τόδε te αἰεὶ ἀποστεροῦντες οὐ μόνον τοὺς ὑπ’ ἐχείνων δεδουλωμένους ἐλευϑερίας, ἀλλὰ καὶ τοὺς ὑμετέρους ἤδη ξυμμάχους «poiché sin qui non solo quelli che essi hanno fatto schiavi avete sempre privato della libertà, ma anche i vostri alleati» [l'audace disposizione delle parole tucididee non puó esser serbata in italiano, né peraltro si deve adottare l'ordo normale italiano lasciando

del tutto perdere l'espressività dell'originale]); l'incastro di due iperbati (es. Platone [un amatore di tale stilema], /eg. VI 763a

οὐδὲ... toic ἐχείνων ἐπὶ τὰ ἴδια χρήσονται ὑπηρετήματα διαχόνοις, ἀλλὰ μόνον ὅσα εἰς τὰ δημόσια «né... dei servi di quelli si gioveranno per i loro affari privati, ma solo per i pubblici», Phaed.

84e τῶν κύχνων δοχῶ φαυλότερος ὑμῖν εἶναι τὴν μαντικήν « quanto a divinazione, da meno dei cigni devo sembrarvi); il rilievo al se-

23 condo

membro

dell’iperbato

mediante

collocazione

enfatica al

penultimo posto (es. Platone, resp. VI 486e τῇ μελλούσῃ τοῦ ὄντος

ἱκανῶς te χαὶ τελέως φυχῇ μεταλήφεσϑαι « per l’anima che a cogliere adeguatamente e compiutamente l’essere è destinata»); la collocazione enfatica fuori della struttura delimitata dall’iperbato

d'un qualche termine di rilievo (es. Platone, resp. VI 486d Èupe-

zpov ἄρα xai εὔχαριν ζητῶμεν πρὸς τοῖς ἄλλοις διάνοιαν φύσει, ἣν..., «per natura dotato, oltre al resto, di proporzione e di grazia dobbiamo cercare quell'intelletto che... »).

2. La coordinazione.

Due o piü frasi semplici possono entrare in rapporto di coordinazione nell'àmbito di uno stesso discorso. Si ha allora la frase composta per paratassi. La coordinazione propriamente detta comporta la presenza di elementi copulativi oppure avviene per semplice giustapposizione (o asindeto). Particelle. Il greco è straordinariamente ricco di elementi copulativi (i quali legano peraltro non solo frase a frase, ma anche componenti singoli d'una stessa frase). Fra essi tocca posto primario alle cosi dette particelle, alle quali non si farà mai abbastanza attenzione nel tradurre, visto che spesso e da esse che di-

pende il senso esatto o il mutamento di senso d'un enunciato. « Il gioco delle particelle — per dirla col Meillet? —... apporta [sc. allo stile] altre risorse, di tipo diverso, che consentono di sfumare l’e-

spressione sottolineando ogni parola, ogni gruppo di parole, ogni membro della frase, ogni frase. Le particelle invariabili disseminate tra le parole flesse introducono degli accenti nella frase e isolano l’una dall’altra le parole principali, non distinte nettamente da nessuna particolarità fonica». La loro funzione può in alcuni casi esser paragonata a quella dei nostri segni d’interpunzione, praticamente inesistenti nella scriptio continua del greco antico. Le particelle sono in genere, anche se non sempre, riconducibili all'indeuropeo (es. μήν)μέν« *smä, sanscr. smä/smä) xe « *que, sanscr. -ca, lat. -que, frigio -xe, got. ni-h [neque]), ma al loro va-

24 lore di base si sono poi aggiunte sfumature varie che ne hanno

moltiplicato la valenza semantica, per non dire dei nuovi valori ottenutisi nel tempo a mezzo dei moltissimi nessi fra particelle

(xai μήν, μὲν οὖν, ἄλλως τε xat, ecc.). Una classificazione sommaria delle particelle può limitarsi alle

categorie seguenti '?. — Additive (aggiungono, spositiva), in sé praticamente valore avverbiale di «anche» mono sfumature particolari

senza ‘interpretare ’): xaí e τε (posinonimi (però xaí conserva talora il che é il suo originario), ma che assuse congiunte o raddoppiate. Kai...

xai sottolinea la distinzione, e cosi τε... τε, mentre τε... xai avvicina e quasi confonde: es. Senofonte, Hell. VI 5,41 εἴσονται μὲν

ταῦτα ϑεοὶ οἱ πάντα ὁρῶντες καὶ νῦν xai εἰς ἀεί, συνεπίστανται δὲ

τὰ γιγνόμενα οἵ τε σύμμαχοι καὶ οἱ πολέμιοι, πρὸς δὲ τούτοις καὶ ἅπαντες “Ἕλληνές τε καὶ βάρβαροι «sapranno queste cose gli dèi che tutto vedono e ora e sempre, ma insieme con loro sanno ciò che accade gli alleati come i nemici, e oltre a questi anche il mondo intiero, Greci e barbari». Le additive trovano, per gradazioni varie, il loro contrario e il

loro complemento nelle disgiuntive: T; « 0», ἢ... ἢ... (εἴτε... εἴτε ο ἐάν... τε... ἐάν τε...) «O... 0...» («sia... sia»), οὔτε... οὔτε... «né... né...», nonché nel nesso correlativo μὲν. .., dè... [, dè...] «d’un lato..., dall’altro..., e inoltre...», il quale può ricevere, a partire da una notazione leggermente oppositiva, sfumature infi-

nite di senso talvolta anche con la mancanza d’una delle due particelle (entrambe pospositive). In effetti vi sono molti casi, soprattutto con il pronome personale o dimostrativo, di μέν solitarium, nei quali la particella (una forma attenuata di μήν) serba il suo originario valore confermati-

vo-avverbiale: es. Omero, Od. VII 237 ξεῖνε, τὸ μέν σε πρῶτον ἐγὼν εἰρήσομαι αὐτή « Ospite, ecco, questo per primo ti chiederò io stessa»; Euripide, Or. 8 ὡς μὲν λέγουσιν «come del resto dicono»; Senofonte, anab.

I 4,7 ἀπέπλευσαν,

ὡς μὲν τοῖς πλείστοις

ἐδόχουν, φιλοτιμηϑέντες... « presero il largo animati, almeno come sembrava ai più, da rivalità... ».

Anche casi di dé («poi»,

«orbene»,

«ma», ecc.) senza pév nel

membro precedente della correlativa sono frequenti, in particola-

25

re quando v'é parola ripetuta (es. Omero,

Il. XXIV

4835.

ὡς

᾿Αχιλεὺς BduBnoev...- - ϑάμβησαν δὲ καὶ ἄλλοι «così Achille restò stupefatto...; — stupiron tutti [si può forse render così — invece che con «e anche gli altri» — l'espressività dell’originale] gli altri»); quando precede membro negativo (es. Tucidide, IV 86

οὐχ ἐπὶ χαχῷ, ἐπ᾿ ἐλευϑερώσει δὲ τῶν Ελλήνων «non per la rovina,

ma

per la liberazione dei Greci»);

quando

δέ è seguito da

xat!!; quando v'é stretto parallelismo di azione o di qualificazio-

ne: es. Euripide, Phoen. 415 νὺξ fiv: ᾿Αδράστου δ᾽ ἦλθον εἰς πα-

ραστάδας; Erodoto, VII 8,2 ᾿Αρισταγόρῃ τῷ Μιλησίῳ, δούλῳ δὲ

ἡμετέρῳ.

Poiché il greco, come il latino, sente fortissimo il bisogno di legare fra di loro i pensieri, sì che il discorso scorra come flusso ininterrotto, l’uso di particelle copulative, come s'é detto, è assai

frequente in entrambe le lingue. Una di esse è appunto δέ, la quale in tale funzione si rifà al suo valore originario avverbiale di «d’altra parte» (cfr. lat. autem), valore peraltro spesso assai attenuato, per cui riesce non di rado quasi impossibile una traduzione in italiano che non sia pedantesca e non introduca così nel contesto una nota assente nell’originale (vanno evitate zeppe del genere di «e», «poi»,

«infatti» e sim., a meno

che non ve ne sia una

reale necessità). — Esplicative (spiegano uno stato di cose constatato o giustificano un atteggiamento dell’interlocutore): γάρ (pospositive, cfr. lat. enim), χαὶ γάρ, (καὶ) γὰρ οὖν «infatti, ché, sì, dunque», con differenze minime a seconda del contesto (in generale i nessi dovrebbero esprimere una presa di posizione più decisa rispetto al

semplice γάρ). In italiano non è sempre necessario che il γάρ venga tradotto; talvolta i due punti possono essere corrispettivo suf-

ficiente (es. Senofonte, mem.

I 2,32 ἐδήλωσε δέ: ἐπεὶ γὰρ oi

τριάχοντα πολλούς... ἀπέκτεινον... «lo manifestò bene [sc. l’odio per Crizia]: quando i Trenta... uccisero tanti cittadini». — Intensive (rinforzano la conferma, la limitazione, la riser-

va): γε (enclitica) «almeno, per lo meno »; γοῦν (pospositiva) «in ogni caso» «ciò ch’è certo è che»; δή (pospositiva, più forte di

μέν) «proprio, appunto, orbene, ecco che» (con richiamo insieme dimostrativo e temporale, un po’ come iam lat.: λέγετε δὴ «a

26

questo punto, dite», διὰ ταῦτα δὴ «ecco dunque perché»; f| « veramente»

(affermativa

o interrogativa,

raramente

sola

perché

troppo debole); καίτοι e μέντοι (pospositiva; la particella tor, ove non si associ a altre, è incolore) «e tuttavia, nondimeno »; (xai) μήν «e indubbiamente, eppure » (più forte di μέν: Platone, Gorg.

493c ταῦτ᾽ ἐπιεικῶς μέν ἐστιν ὑπό τι ἄτοπα, δηλοῖ μὴν «queste cose, si capisce, sono per qualche rispetto strane, ma ben chiariscono tuttavia»).

Delle intensive la più versatile è ye. Afferma delimitando, nel senso che dà rilievo a uno in particolare, di preferenza una persona, degli elementi del pensiero in corso; es. Omero,

7|. I 173 s.

οὐδέ σ᾽ ἔγωγε - λίσσομαι εἵνεχ᾽ ἐμεῖο μένειν «non ti supplico certo, neanch’io, a restare per causa mia», 320 ἀλλ᾽ ὅ γε Ταλϑύβιόν τε... προσέειπε «ma lui [sc. Agamennone], sì, lui... disse a Taltibio». Ma può dar rilievo ai sentimenti e atteggiamenti più diversi: consenso senza riserve, indignazione, ironia, sarcasmo, modestia

(o il suo contrario), o più semplicemente può attirare l’attenzione su una parola o un’espressione così come noi facciamo talvolta impiegando il corsivo. Es.: Euripide, Hec. 773 s. Θνήσχει δὲ πρὸς

τοῦ

- Τίνος γ᾽ ὑπ᾿ ἄλλου; Θρήξ νιν ὥλεσε ξένος

per mano di chi...? — E di chi altro se non lui? È

«Ma è morta il nostro ospite

tracio che l’ha uccisa»; Zon 381 πολλαί γε πολλοῖς εἰσι συμφοραὶ βροτῶν « E sì che son tante le sventure per tanti dei mortali! »;

Cycl. 551 καλόν γε τὸ γέρας τῷ ξένῳ δίδως, Κύχλωφ «Che bel regalo offri al tuo ospite, o Ciclope! »; Platone, Phaed.

77d πῶς

οὐχ ἀνάγχη αὐτὴν xai ἐπειδὰν ἀποϑανῇ εἶναι, ἐπειδή γε δεῖ addio αὐτὴν γίγνεσϑαι; « Come non deve [sc. l'anima] necessariamente esistere anche dopo esser morta, se veramente le tocca generarsi

di nuovo? ». — Progressive o prospettiche (confermano quanto precede per collegarsi con quanto segue): μὲν οὖν (pospositiva) «d'altro canto dunque» e «precisamente, appunto », nelle risposte «si,

anzi»; μενοῦνγε (a inizio di frase) «anzi, che anzi», lat. immo vero; ἄρα (pospositiva) « perciò dunque», lat. igitur; δῆτα (οὐ δῆτα, πῶς δῆτα!) «certo (che sì, che no); δήπου «sicuro, senza dubbio »,

lat. nimirum (semiserio, come δῆϑεν); τοίνυν «a questo punto, e cosi», ingl. now (nel dialogo tuttavia vale piuttosto οὖν "2, es.

27

Aristofane, equit. 30 χράτιστα τοίνυν τῶν παρόντων ἐστὶ νῷν « ... il meglio dunque per noi, ora come ora... »).

Si legga questo brano del Carmide di Platone, dove il discorso di Socrate è finemente punteggiato da molte di queste particelle:

171ab

Οὐκοῦν

ἐν τούτοις ἀναγκαῖον

σχοπεῖν τὸν βουλόμενον

ἰατρικὴν σχοπεῖν, ἐν οἷς ποτ᾽ ἔστιν. οὐ γὰρ δήπου ἔν γε τοῖς ἔξω, ἐν οἷς οὐχ ἔστιν; -- Οὐ δῆτα. -- Ἔν τοῖς ὑγιεινοῖς ἄρα xal νοσω-

δέσιν ἐπίσχεφεται τὸν ἰατρόν, Tj ἰατρικός ἐστιν, ὁ ὀρθῶς σχοπούμενος. -- Ἔοικεν... — Ἦ οὖν ἄνευ ἰατρικῆς δύναιτ᾽ ἄν τις τούτων ποτέροις ἐπαχολουϑῆσαι; -- Οὐ δῆτα. «Ordunque, chi vuole indagare sulla medicina è necessario che indaghi su ciò in cui essa consiste, e non certo su oggetti estranei, nei quali non [il corsivo per rendere la sfumatura di γε] consiste? — Sicuro che no!

— Allora [o: perciò, e così, altrimenti detto] chi esamina rettamente un medico per accertare se sia tale lo esaminerà sull’uomo sano e sul malato. — È naturale. — Ora, senza conoscere la me-

dicina, ci si potrà occupare dell’uno o l’altro di codesti due oggetti? — Sicuro che no!». — Avversative (indicano una frattura nell’espressione del pensiero, per introdurre una distinzione, un’opposizione, un’e-

. Sortazione): ἀλλά con le sue varie gradazioni, spesso rilevate dall'accompagnamento d’un’altra particella. Es. Isocrate, or. 4 [pa-

neg.], 137 ταῦτα πάντα γέγονε διὰ τὴν ἡμετέραν ἄνοιαν, ἀλλ᾽οὐ διὰ τὴν ἐχείνου δύναμιν «tutto ciò è accaduto per la nostra follia, e non certo per la potenza di quest'uomo » (opposizione); Platone, Phaed. 117b (Socrate al momento di bere la cicuta) μανϑάνω, 7

d ὅς. ἀλλ᾽ εὔχεσϑαί γέ που τοῖς ϑεοῖς ἔξεστι « Capisco, disse. Ma almeno [sc. visto che non ci sono gocce di cicuta da libare agli dèi] rivolgere una preghiera agli dèi sarà lecito » (restrizione); Sofocle,

Phil. 335 s. ... tx Φοίβου δαμείς. — ᾿Αλλ᾽ εὐγενὴς μὲν ὁ χτανών te xy ϑανών «... abbattuto da Febo. — Si, ma nobile è chi ammazΖὸ e chi cadde! » (frattura, ma nel consenso); Platone, symp. 192

ἀλλ᾽ ὁρᾶτε νῦν εἰ τούτου ἐρᾶτε «Suvvia, guardate se è questo che amate»

(esortazione); Aristofane, Acharn.

406-408 Διχαιόπολις

καλῶ σ᾽, 6 Χολλήδης ἐγώ. — ᾿Αλλ᾽ οὐ σχολή. — ᾿Αλλ᾽ ἐχχυχλήInt. — “AVV ἀδύνατον. -- AM ὅμως. — ᾿Αλλ᾽ ἐχχυκλήσομαι" καταβαίνειν δ᾽ οὐ σχολή «Son io che ti chiamo, Diceopoli di Colli-

28

de, proprio io. — (Eur.) Ma non ho tempo. — E allora monta sul carrello. — Ma non è possibile. — Ma si, fallo. — Ebbene, prende-

rò il carrello: tempo per scendere però non ne ho»

(versatilità e

frequenza di ἀλλά). Correlazione dissimmetrica. Il greco mira di norma a un certo equilibrio fra i membri della correlazione, e a ciò giova anche la ripetizione di particelle (καὶ... καὶ ecc.). Non sempre tuttavia. Talvolta la seconda particella (o nesso) muta, sì che il secondo membro riceve, pur nello stesso àmbito di pensiero, sfumatura

leggermente diversa. Cosi con te... dé in luogo di te... te; οὔτε... οὐδέ ο οὐδὲ... οὔτε) in luogo di οὔτε... οὔτε; οὐ(χ)..., dé... in luogo di οὐ(χ)..., ἀλλά; ecc. ‘Irregolarità’ siffatte, che talvolta hanno provocato ingiustificati emendamenti della lezione, rientrano peraltro nel più vasto fenomeno della dissimmetria (inconcinnitas, μεταβολή) ricercata da vari autori,

specialmente da Tucidide,

e consistente nell’op-

porre in correlazione un avverbio o una locuzione prepositiva a un participio, un participio a una subordinata, un astratto a un concreto, e sim.; es. Senofonte, anab. II 1,7 ἔρχονται χήρυχκες, οἱ

μὲν ἄλλοι βάρβαροι, ἦν δ᾽ αὐτῶν Φαλίνος εἷς Ἕλλην « vengon i messi,

barbari

gli altri, greco uno

solo, Falino»

(in ital. riesce

troppo duro conservare l'anacoluto «... barbari..., ma greco era uno solo).

Disuguaglianze nella struttura paratattica della frase si verificano talora in ragione d'una certa tendenza del greco all'espressione brachilogica. In tali casi occorre in genere che nel tradurre si renda in qualche modo esplicito quanto nella fonte è sottinteso. Alcuni esempi: Platone, apol. 25e Ταῦτα ἐγώ σοι οὐ πείϑομαι, ὦ Μέλητε, οἶμαι δὲ οὐδὲ ἄλλον ἀνϑρώπων οὐδένα « Questo, Meleto; non telo credo io, né penso che te lo crederà [va sottinteso un in-

finito] nessun altro uomo»; symp. 192 e... οὐδ᾽ ἂν εἷς ἐξαρνηϑείη

οὐδ᾽

ἄλλο

τι ἂν φανείη

βουλόμενος,

ἀλλ᾽

ἀτεχνῶς

οἴοιτ᾽ ἂν

ἀχεχοήναι ὃ ἐπεϑύμει « nessuno direbbe di no né mostrerebbe di desiderare altro, ma crederebbe invece [il passaggio dal negativo al positivo è implicito] d’aver udito esattamente ciò che brama-

va»; Gorg. 517a εἰ οὗτοι ῥήτορες ἦσαν, οὔτε τῇ ἀληϑινῇ ῥητορικῇ

29

ἐχρῶντο -- οὐ γὰρ ἂν ἐξέπεσον — οὔτε... «se quelli erano degli oratori, vuol dire che non praticavano né la vera eloquenza -- ché

[sott. se lo avessero fatto; questo tipo di brachilogia è tipico negl’incisi parentetici] non avrebbero fallito — né...». La disuguaglianza talora non è d’ordine formale, ma concettuale. La pregnanza d’uno dei membri della coordinazione introduce quasi un'idea di subordinazione. Così a pèv...dé, avversative

e complementari, può corrispondere una condizionale o una con-

cessiva (col gerundio); a οὐκ... ἀλλά «invece di»; οὐχ ὅπως (pù 6.) .. «ἀλλὰ xat «non è possibile che» «lungi da» «nonché» (es. Senofonte, Hell. V 4,34 οἱ βοιωτάζοντες ἐδίδασχον τὸν δῆμον ὡς οἱ

Λακεδαιμόνιοι οὐχ ὅπως τιμωρήσαιντο, ἀλλὰ xal ἐπαινέσειαν τὸν Σφοδρίαν « quelli del partito beota spiegavano al popolo che i Lacedemoni, lungi dall’aver punito Sfodria, lo avevano persino approvato »); ἤδη... xaf «ecco che... quando»; οὔπω... χαί «non

ancora... che»; ἅμα... καί «appena... che»; οὐχ ἔφϑην... χαί «non avevo ancora... che»

(es. Isocrate, or. 17 [trapez.], 23 οὐχ

ἔφϑη διαπραξάμενος ταῦτα xol ϑρασύτατος ἁπάντων ἀνϑρώπων ἐγένετο «non aveva ancora sfrontato degli uomini»).

compiuto

ciò, che divenne

il più

Asindeto. Accanto alla paratassi per coordinazione il greco impiega, sia pur parcamente, quella per giustapposizione (asindeto). In effetti l'abitudine a connettere con particelle periodi e frasi

fu in ogni epoca della grecità estremamente radicata negli autori, ed è codesto uno dei tratti che più sorprendono chi si riconosce nell’abitudine contraria corrente in molte lingue contemporanee,

fra cui l’italiano. L’asindeto tuttavia ha gradazioni, e quindi forza espressiva, varie: altro è la mancanza di copula fra singole parole o frasi, altro quella, molto più rara, fra un periodo e l’altro. Nel tradurre pertanto occorrerà por mente al diverso peso stilistico dei singoli casi. Occorrerà anche tener presente che vi sono autori che rifuggono dall’asindeto (così Tucidide, in misura minore Lisia e Isocrate, ancor minore

Platone) e altri che lo ricercano

(soprattutto Demostene, gran maestro al riguardo).

Eliminando

i legami

formali l'asindeto concentra la carica

espressiva nella icasticità essa stessa dei termini o delle frasi. Que-

30

sto spiega come esso ricorra di preferenza nei casi di accumulazione (enumerativa,

oggettuale,

interrogativa,

dimostrativa,

ecc.).

Due esempi fra i tanti offerti dalla commedia: Aristofane, av. 366

ἕλχε τίλλε παῖε δεῖρε, χόπτε πρώτην τὴν χύτραν «strappa spenna batti scuoia; fa’ a pezzi la pentola, prima di tutto! »; ran. 112-114

(Dioniso a Eracle) τούτους φράσον μοι, λιμένας ἀρτοπώλια — πορver ἀναπαύλας ἐχτροπὰς χρήνας ὁδοὺς -- πόλεις διαίτας πανδοχευτρίας, ὅπου — κόρεις ὀλίγιστοι (sc. che ci sono nell'Ade) «... índicami qui porti panetterie bordelli fermate crocicchi fontane strade città alloggi, le albergatrici presso cui ci son meno cimici »;

e due da Demostene: or. 18 (cor.), 311 τίς γὰρ... τί τῶν οἰκείων ἢ

τῶν Ἑλληνικῶν καὶ ξενικῶν οἷς ἐπέστης ἐπηνώρϑωται; ποῖαι τριήρεις; ποῖα βέλη; ποῖοι νεώσοιχοι; τίς ἐπισχευὴ τειχῶν; ποῖον imm

χόν; τί τῶν ἁπάντων σὺ χρήσιμος; τίς ἢ τοῖς εὐπόροις ἢ τοῖς ἀπόροις

πολιτικὴ xai χοινὴ βοήϑεια χρημάτων; οὐδεμία «quale... quale affare di politica interna o estera del quale fosti incaricato (sc. tu Eschine) è stato condotto con successo, quali triremi, quali armi, quali cantieri navali, quale fortificazione di mura, quale cavalleria? in quale di tutti questi provvedimenti sei tu utile? quale il tuo aiuto in danaro agli abbienti o ai poveri, nell’interesse dello Stato

e della comunità? Nessuno! »; or. 19 (fais. leg.), 119 ταῦτ᾽ οὐ

φανέρ᾽, ἄνδρες ᾿Αϑηναῖοι; ταῦτ᾽ οὐχὶ βοᾷ καὶ λέγει, ὅτι... «Tutto ciò non è manifesto, Ateniesi; tutto ciò non dice a voce altissima che...».

3. La subordinazione.

Due o più frasi possono entrare nello stesso discorso senza che fra di esse vi sia parallelismo rilevato da elementi copulativi. Si ha allora la frase complessa, retta da un rapporto di subordinazione, o ipotassi, esplicita o implicita a seconda che sia presente o meno l'elemento subordinante, fra la principale e la (o le) secondaria (-e). Le secondarie, o subordinate, possono a loro volta trovarsi

fra di loro in rapporto di coordinazione o di subordinazione (di secondo grado o anche oltre). Gli elementi subordinanti sono congiunzioni, pronomi, avverbi, ecc., secondo insegna la sintassi.

31

Nel caso di due o più subordinate parallele, è raro che il greco ripeta ogni volta l’elemento subordinante collocato in testa alla

prima. Questo introduce una complessità che può indurre il traduttore in equivoco e occorre guardarsene.

Prendiamo Platone, resp. VIII 568e - 569a ἐὰν δὲ ἀγαναχτῇ τε xai λέγῃ ὁ δῆμος ὅτι οὔτε δίκαιον τρέφεσϑαι ὑπὸ πατρὸς ὑὸν ἡβῶντα, ἀλλὰ τοὐναντίον ὑπὲρ ὑέος πατέρα, οὔτε τούτου αὐτὸν ἕνεκα ἐγέννησέν τε xai κατέστησεν,

ἵνα,

ἐπειδὴ μέγας γένοιτο,

τότε αὐτὸς δουλεύων τοῖς αὑτοῦ δούλοις τρέφοι ἐχεῖνόν τε καὶ τοὺς δούλους..., ἀλλ᾽ ἵνα ἀπὸ τῶν πλουσίων τε καὶ χαλῶν χἀγαϑῶν λεγομένων ἐν τῇ πόλει ἐλευϑερωϑείη ἐκείνου προστάντος, καὶ νῦν χελεύει ἀπιέναι Ex τῆς πόλεως αὐτόν te καὶ...; «e se il popolo si sdegnasse e dicesse che non è giusto che un figlio (il popolo) in

piena giovinezza sia mantenuto dal padre (il tiranno), ma al contrario il padre dal figlio, e che non per questo lo generò e costituì (il tiranno), per finire (sc. esso popolo), una volta fattosi grande, servo dei suoi propri servi e dover mantenere lui e i di lui servi..., ma perché, sotto la sua guida (sc. del tiranno), fosse liberato da coloro che in città avevano fama di ricchi e di galantuomini; e se dicesse che ora gli ordina di andar via dalla città, lui e...?». Come si vede un solo ὅτι introduce le tre completive, le prime due non molto distanti, ma la terza separata dalla seconda da tutto uno

sviluppo di pensiero. In quest’ultimo peraltro vi sono anche due ‘finali, ma introdotte ciascuna da un suo proprio elemento subor-

dinante (ἵνα), in quanto le due relative azioni non sono parallele (come con le tre completive), ma indipendenti e divergenti l’una dall’altra; mancando il secondo ἵνα, si avrebbe un controsenso: il

popolo, invece di subire, contro il suo intento, le conseguenze obbiettive della tirannide, le avrebbe addirittura esso stesso concepi-

te, sia pure per poi rifiutarle (οὐ... ἀλλ᾽...). La ripetizione si evita anche se l'elemento subordinante è il pronome relativo (ὅς, ὅστις); se peró nella seconda (o terza...) delle subordinate parallele il caso cambia, a meno che non si tratti di nominativo, il relativo non si tralascia, ma è sostituito dal perso-

nale αὐτός. Es. Lisia, or. 3 (in Simon.), 47 μή (ue) (Reiske) περιίÖnte Ex τῆς πατρίδος ἀδίχως ἐχπεσόντα, ὑπὲρ ἧς ἐγὼ πολλοὺς χινδύνους χεχινδύνευχα xai πολλὰς λῃτουργίας, καὶ χαχοῦ μὲν

32

αὐτῇ οὐδενὸς αἴτιος γεγένημαι..., ἀγαϑῶν δὲ πολλῶν «Non prendete alla leggera il fatto che io sia iniquamente scacciato dalla pa-

tria per la quale ho corso molti pericoli e ho assunto molte liturgie e alla quale [ci si attenderebbe N invece di αὐτῇ] non ho causato male alcuno, ma tanto bene!»; Platone, Phaed. 65a ...& μηδὲν

ἠδὺ τῶν τοιούτων μηδὲ μετέχει αὐτῶν «... colui αἱ quale nessuna di tali cose è gradita e che non ne partecipa... ». Nell’ipotassi implicita hanno grande importanza l’infinito articolato — che, spesso accompagnato da preposizioni convenienti, sostituisce varie proposizioni circostanziali (la causale: τῷ, διὰ τὸ, éx τοῦ, ecc.) — e il participio — con valore, soprattutto, temporale o causale — o concordato con un nome o pronome della stessa frase o usato assolutamente, senza alcun collegamento formale con la principale. In tale costrutto frequentissimo è il genitivo

(corrispettivo

dell’ablativo

assoluto

latino);

piuttosto

raro

l’accusativo e in locuzioni di tipo impersonale reggenti ordinariamente, ma non necessariamente (ved. p. es. Platone, Protag. 314c

δόξαν ἡμῖν ταῦτα, ἐπορευόμεϑα «presa questa decisione, ci movemmo ») un infinito; quasi inesistente nella lingua classica il nominativo assoluto che s’imporrà più tardi (i casi noti rientrano

piuttosto nell'anacoluto: es. Lisia, or. 32 [in Diogit.], 23 ἐξῆν

αὐτῷ... μισϑῶσαι τὸν οἶκον ἀπηλλαγμένος

[GT] πολλῶν πραγ-

μάτων... ἢ γῆν πριάμενος [GT]... «avrebbe potuto... affittare il patrimonio, liberandosi così da molti fastidi, oppure, acquistando terreni...»; Tucidide, VIII 104,4 ἐπειγομένων δὲ τῶν Πελο-

ποννησίων πρότερόν te συμμεῖξαι, χαὶ κατὰ μὲν τὸ δεξιὸν τῶν ᾿Αϑηναίων, ὑπερσχόντες αὐτοὶ τῷ εὐωνύμῳ, ἀποχλῇσαι τοῦ. ἔξω aùτοὺς ἔχπλου... «incalzando i Peloponnesi per passare prima e per bloccare l’uscita degli Ateniesi dallo stretto dopo aver oltrepassato con il loro fianco sinistro la loro ala destra... »).

Il participio ha un posto di rilievo nella frase complessa in ragione della molteplicità delle sue funzioni. Occorre tener presente che tale tendenza a privilegiare stilisticamente il participio porta spesso a invertire in suo favore l’ordine gerarchico dei modi. La

cosa si verifica tanto in brevi giri di frase quali λάϑε βιώσας « vivi

33

nascosto», ἐλϑὼν λαβέ «vieni a prendere», quanto in altri più complicati. Le costruzioni participiali richiedono talora dal traduttore attenta riflessione. Vediamo due esempi di natura opposta.

Senofonte, Hell. II 4,7 ἐπαναχωρήσαντες δὲ χαὶ τρόπαιον στησάμενοι xai συσχευασάμενοι ὅπλα te ὅσα ἔλαβον xai σχεύη ἀπῆλϑον ἐπὶ Φυλῆς «ritornati indietro, innalzarono un trofeo, riunirono tutte le armi e le suppellettili prese e ripartirono per File». Qui l’azione principale è motivata da un insieme di azioni parallele e quasi simultanee: la coordinazione che lega i participi rende appunto la concomitanza e non la successione. In Teofrasto invece, charact. 22,9, dei quattro participi i primi due, in subordinata, sono legati dalla copula perché riflettono azioni parallele, il terzo e il quarto, in principale, sono in asindeto perché l’azione del secondo è condizionata da quella del primo: xaì φίλου

ἔρανον συλλέγοντος xai διειλεγμένου αὐτῷ, προσιόντα προϊδόμενος ἀποχάμφας ix τῆς ὁδοῦ τὴν χύχλῳ οἴκαδε πορευϑῆναι «e se un amico raccoglie una colletta e gliene ha dato notizia, egli (sc. il gretto), lo ha appena visto avvicinarsi da lontano che subito scantona e si dirige verso casa con un lungo giro».

4. Stilistica sintattica.

Molti dei fenomeni che abbiamo sin qui raccolti (asindeto, pa: rallelismo, ecc.) e altri ai quali accenneremo rapidamente rientrano in virtù della loro frequenza in quella che si designa come stilistica sintattica, un livello linguistico a un di mezzo fra la sintassi comune, quale l'uso ha consolidata, e la stilistica vera e propria, in quanto studio, per dirla con G. Devoto", di «quanto rimane d'individuale nelle realizzazioni linguistiche, non appena esse sono entrate nel mondo economico-giuridico, e cioé hanno accetta-

to una legalità esterna all'individuo... sono diventate accessibili a un lettore». In ámbito germanico soccorre al riguardo la distinzione fra stilistica bassa (niedere Stilistik) e stilistica retorica o al-

ta (rhetorische, hóhere Stilistik), spersonalizzata e spesso inconsapevole la prima, spesso personale e sempre consapevole la se-

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conda, la quale peraltro si limita per lo più a riprendere in nuovo

adattamento elementi della prima". Ovviamente non è sempre agevole fissare la linea di demarcazione fra le due sfere di competenza, trattandosi d’interpretazione e non sempre disponendosi delle necessarie conoscenze storico-linguistiche indispensabili per la valutazione d’ogni fenomeno. Ma occorre comunque che chi s’accinga a tradurre un qualsiasi testo si ponga il problema. Solo penetrando nei segreti della stilistica sintattica potrà valutare tradizione e innovazione, fatti di routine e di rottura, e comportarsi in conseguenza nel tentativo di trasferirli in italiano. Si considerino, fra gli elementi fonici con funzione espressiva, quelli non puramente auditivi (iato, parechesi, omeoteleuto, clausole, ecc., rientranti nella stilistica dei suoni), ma che abbiano

anche incidenza sintattico-concettuale. Si tratta basilarmente di fenomeni occorrenti nell’uso spontaneo della lingua, ma in letteratura essi possono da una parte esser ripresi di proposito, eventualmente accentuati, dall’altra esser riproposti come modi di di-

re sbiaditi e privi di espressività. Essi investono tanto singole parole tanto gruppi di parole. Il più importante è l'iterazione, che può essere solo fonica (omeoteleuto, ecc.) o anche etimologica:

la seconda — sia totale

(raddoppio) sia parziale (paronomasia) — rafforza l’espressione.

Es. Omero, Il. V 31 "Apsc “Apeg βροτολοιγέ (cfr. Κύριε Κύριε nel Nuovo Testamento), Eschilo, Pers. 1010 νέαι νέαι δύαι δύαι, Euri-

pide, Andr. 980 ἤλγουν μὲν ἤλγουν, carm. pop. 32,1 D?. ἦλϑ᾽ ἦλϑε χελιδών; Eschilo, Pers. 681 ὦ πιστὰ πιστῶν, Aristofane,

vesp. 466 πόνῳ πονηρέ, Senofonte, Hier. 6,2 ἡδόμενος ἡδομένοις, Omero, Il. XVI 776 χεῖτο μέγας μεγαλωστί. Non hanno invece alcun rilievo o perché non piü sentite come tali o perché l'uso ne ha consunto la vis innovativa, iterazioni di questo tipo: οἶνον οἰνοχοεύειν, ἄλλοϑεν ἄλλος, χαχῶς... κακὸν (.. ἀπολέσειαν Aristofane, equit. 2); πάμπαν (cfr. lat. iamiam, ubiubi), μίαν μίαν distributivo, ecc. Non così si può dire di altre pur impiegate per se-

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coli, p. es. la formula, di origine persiana, βασιλεὺς βασιλέων vigente nella titolatura imperiale

(e ampliata

poi a Bisanzio

in

β.β.βασιλεύων βασιλεῦσι). L’iterazione può anche volere esprimere una condizione emotiva e partecipe, dell’autore o meno, rispetto all’oggetto di cui tratta. Ma non è il solo mezzo. Allo stesso intento mirano il dati-

vo etico (es. Erodoto V 130 ᾿Αρταφρένης ὑμῖν Ὑστάσπεος μέν ἐστι παῖς, Δαρείου δὲ τοῦ βασιλέος ἀδελφέος « Artaferne — sappiatelo! — è figlio d’Istaspe

e fratello del re Dario»);

l’apostrofe (es.

Omero, Il. VII 104 ἔνϑα κέ τοι, Μενέλαε, φάνη βιότοιο τελευτή «e sarebbe allora stata la fine, Menelao, della tua vita! »); l’interrogativa retorica (es. Sofocle, Ai. 4575. χαὶ νῦν τί χρὴ δρᾶν; ὅστις

ἐμφανῶς — ϑεοῖς ἐχϑαίρομαι... «E ora, che debbo fare? sono in odio agli dèi, è chiaro... »); l'interruzione d'una narrazione continua a mezzo d’un dialogo fittizio. In certo senso opposta è la funzione di taluni artifici che dànno l’impressione d’una struttura trascurata, quali l’anacoluto, la parentesi, il pleonasmo. Quest’ultimo è particolarmente ricercato, rientrando, con qualche eccesso, nella tendenza del greco alla

precisione. Se ne hanno occorrenze anche nella lingua documen-

taria: es. Inscr. Gr.? 1 39,22 s. (a.446/45?) οὔτε τέχνει οὔτε μεχα-

ver οὐδεμιᾶι (praticamente due sinonimi, come πάλιν αὖτις in Omero, ἀρχαῖα καὶ παλαιά, χλάειν καὶ δαχρύειν in Demostene, ἀληϑῶς ὄντως e πάντῃ πάντως in Platone, ecc.). È frequente in espressioni positivo-negative (γνωτὰ χοὐχ ἄγνωτα in Sofocle,

Oed. r. 58, οὐχ ἥκιστα, ἀλλὰ μάλιστα in Erodoto, II 43, ecc.) e in

sineddoche (es. Sofocle, Ai. 1147 καὶ σὲ καὶ τὸ σὸν λάβρον στόμα «anche te assieme alla tua bocca violenta »). È tipico nelle espressioni ‘polari’, assai frequenti per la tendenza dello spirito greco a esaurire tutte le possibilità logiche d’un’espressione: es. Alcma-

ne, fr. 1 P., 43s. ἐμὲ δ᾽ οὔτ᾽ ἐπαινῆν — οὔτε μωμήσϑαι viv... ἐῇ « ... non permette né ch'io la lodi né ch'io la biasimi » (in realtà il concetto di ‘biasimo’ non vi è affatto richiesto), Platone, Gorg.

508a xai ἐν ϑεοῖς xai ἐν ἀνθρώποις.

36 Note 1. Cfr. J. HAUDRY, L’indo-europeen, Paris 1984?, pp. 95 ss. (con bibl.). 2. Altra classificazione: a uno, a due, a tre componenti, per indicare rispettivamente un evento (« piove »), una predicazione («egli viene», «egli è grande ») o un'esistenza («c'era una volta...», «eccomi»), una relazione («io lo vedo»). 3. La forza espressiva dell'ellissi ὁ qui rilevata dalla particella γε, altrove da altre particelle, particolarmente quando la frase ha inizio con un aggettivo neu-

tro in funzione predicativa: μέγιστον δὲ τοῦτο, ὅτι... «ma la cosa più importante è che...» (oppure δῆλον δὴ τοῦτό γε..., e così ἄτοπον, δεινότατον, χαλεπόν, ῥάδιον, ecc.). 4. Fra i recenti cfr. soprattutto H. Frisk, Studien zur Wortstellung im Griechischen, Góteborg 1932; K. Dover, Greek Word Order, Cambridge 1960. 5. In realtà la posizione al centro fu sentita sempre come la meno enfatica; cfr. ps. Demetrio, e/oc. 39: «Noi tutti ricordiamo le parole iniziali e finali e ne siamo colpiti, ma ció che sta in mezzo ha su di noi effetto minore, quasi fosse celato e oscuro». 6. Cfr. J.D. DENNISTON, Greek Prose Style, Oxford 1952, pp. 42 ss. 7. Cfr. J. CARRIERE, Stylistique grecque. L'usage de la prose attique, Paris 1967, pp. 102 ss. 8. Intendiamo l'iperbato in senso lato (con inclusione di inversione/anastrofe, tmesi, sinchisi, parentesi, ecc.); in senso stretto la figura comporta la separazione di terminio sintagmi logicamente connessi, separazione che raggiunge migliore effetto quando si ha l'impressione che un termine o sintagma venga aggiunto inaspettatamente a frase finita: questa - bella d'erbe famiglia / e d'animali (Foscolo). Le motivazioni della predilezione dei Greci per l'iperbato non sembrano del tutto chiare (cfr. in particolare L. LINDHAMER, Zur Wortstellung im Griechischen, Diss. Leipzig 1908): importanza notevole avranno avuta in ogni caso la ricerca dell'enfasi e l'intento di stringere in stretta unità la frase. 9. A. MELLET, Apergu d'une histoire de la langue grecque (1976*), Torino

1976, p. 300. 10. Il trattato fondamentale è sempre quello di J.D. DENNISTON, The Greek

Particles, Oxford 1954? (fotorist. 1970), il quale prende in considerazione il greco classico; per il periodo seguente cfr. J. BLoMQVIST, Greek Particles in Hellenistic Prose, Lund 1969. Ved. anche E. SCHWYZER - A. DEBRUNNER, Griechische

Grammatik, 11: Syntax und syntaktische Stilistik, München 1959, pp. 557-590; J. HUMBERT, Syntaxe grecque, Paris 1960’, pp. 368-442 (che qui per lo più si se-

gue).

. 11. Ove mai δὲ καὶ sia comunque preceduto da μέν, vuol dire che xot non fa

nesso con δέ, ma si riferisce a altro termine; su questa ‘trappola’ richiamano l’attenzione R. KÜHNER-B.

Sprache,

II 2, Hannover

GERTH, Ausführliche Grammatik

1904? (fotorist.

der Griechischen

1963), p. 273; cfr. Senofonte, anab.

VII 7,42 πλουτεῖ μὲν ὄντων φίλων πολλῶν, πλουτεῖ δὲ xai [avverbiale: tràdito

37 solo da parte della tradizione manoscritta] ἄλλων βουλομένων γενέσϑαι «è ricco dei molti amici che ha, è ricco anche degli altri che voglion divenirlo ».

12. Οὖν (pospositiva) è la tipica conclusiva; suo rafforzativo è οὐχοῦν (nelle interrogative = lat. nonne?), sua negazione οὔχουν, che vanno entrambi al primo posto. Il significato originario della particella è oscuro (da connettere con il sanscr. satydm «realmente» *(h)ofty)on, nell'àmbito dell’idea di *esistere'?): forse riconduce al concetto di ‘conformità dell'asserzione con la realtà’. Oscura anche la sua articolazione dialettale: οὖν in Omero e in attico; Qv, oltre che in dorico e eolico, anche, stranamente, in Erodoto; entrambe le

forme nel Corpus Hippocraticum; ὧν in Pindaro contro οὖν in Bacchilide. 13. Cfr. fra altro G. DEvoro, La stilistica e le sue scelte, in Scritti minori, III, Firenze 1972, pp. 128-155. 14. Cfr. SCHWYZER-DEBRUNNER, ΟΡ. cit., pp. 698 ss.

III.

Cenni storici sulla lingua e i dialetti greci.

1. Lingua d'uso e lingua letteraria. Come ogni dominio linguistico anche quello greco ha conosciuto nella sua storia plurimillenaria (e conosce al giorno d'oggi) un divario fra la lingua d'uso corrente e la lingua d'uso letterario.

L'entità di tale divario puó oscillare di molto, e per motivi diversi, da caso a caso: è minimo,

ad esempio, nella Francia contem-

poranea, é stato enorme nell'Italia pre-unitaria. In Grecia fu nell'insieme piuttosto notevole, anche per la concezione ‘alta’ che si ebbe della letteratura (ma fu cosi anche per l'arte) e che dominó

per secoli portando, fra altro, a escluderne a priori ogni forma di *realismo' (anche, ovviamente, linguistico e lessicale) salvo che nei generi comici e mimetici, o in genere per esprimere parodia e scherno, e anche allora non senza rinunziare del tutto all'artificio stilizzante: Aristofane non ha l'importanza d'un Plauto per lo studio

della

lingua

colloquiale,

anche

se

una

qualche

utilità

l’abbia!. Ma quale che sia stata — cosa che non potremo mai precisare poiché la stragrande maggioranza dell’evidenza a nostra disposizione proviene dai soli testi letterari — la portata di tale divario, esso dovette in ogni caso investire soprattutto due aspetti: il lessico e la struttura della frase. Ogni forma di creazione letteraria comporta anche un continuo rinnovamento del patrimonio lessicale che può essere a sua volta recepito nell’uso corrente, ma non

necessariamente e non sempre. Le costruzioni semplici, brevi, lineari soddisfano alle esigenze del parlato; la lingua letteraria, specie della prosa, è necessariamente più complessa e si struttura differentemente, e con gradazioni varie di complessità, in ragione

delle molteplici esigenze alle quali deye sovvenire. Inoltre, il par-

39

lato integra la sua strumentazione espressiva con il tono vocale, col gesto, con l’allusività di effetto immediato, ecc.; la lingua letteraria, anche se di miti pretese, per essere intesa, ha bisogno

d’una sua interna coerenza e d’una sua formale regolarità. Esse possono anche all’occasione essere violate, ma volutamente, per

ottenere un livello nuovo e più alto di espressività. Da qui l’indispensabilità per un allofono, tanto più se si voglia anche traduttore, di rendersi conto della ricchezza e della collocazione e evoluzione storica delle situazioni linguistiche che si trova a affrontare per intendere e tradurre.

2. I dialetti.

Il mondo greco, a malgrado della sua frammentazione politica, o forse proprio come reazione ad essa, ha avuto sempre fortis-

simo il senso della sua unità linguistica. L'etnico Πανέλληνες che compare per la prima volta nel Catalogo delle navi (Omero, ἢ. II 530) allude soprattutto alla lingua una per tutti. Anche il senso artistico, anche la religiosità di fondo

ebbero

i Greci

fortemente

unitari, ma non cosi come il sentimento della lingua, "ἑλληνίζειν. A tale sentimento si deve il fatto che le trasformazioni subíte dal greco nel corso di circa tremilacinquecento anni sono state relativamente

modeste.

Nessun

dialetto greco,

qual che possa essere

stato il suo prestigio, è mai giunto al punto di autonomia toccato, ad esempio, da una delle lingue romanze nei confronti del latino. Nessun grecofono ha mai dubitato della grecità di una qualsiasi varietà, parlata o scritta, di greco, anche quando per avventura gli riescisse solo parzialmente intelligibile. Questo spiega anche il carattere arcaico dell'indeuropeicità del greco moderno (e p. es. del russo e ancor piü del bulgaro) nei confronti, ad esempio, dell'inglese o del persiano (con la prevalenza delle strutture analitiche su quelle sintetiche). La coscienza linguistica unitaria non impedi la fioritura dei dialetti siaa livello di parlate locali sia a livello di vere e proprie lingue letterarie. «La varietà delle parlate locali, tutte sentite come elleni-

che, predisponeva i Greci ad accettare la varietà delle lingue lette-

40 rarie, che costituisce un tratto caratteristico della loro letteratura.

Come i capi delle città, costretti ad avere rapporti con le città straniere, erano abituati a comprendere parlate diverse, così le persone colte comprendevano senza sforzo le lingue letterarie diverse. Un'aristocrazia, politica o intellettuale, ha sempre qualcosa d'internazionale. Ora, la letteratura greca è fatta per un'aristocrazia? ». Non è qui il caso di toccare la grossa questione della classificazione generale dei numerosi dialetti greci (largamente accolta una partizione in cinque gruppi: dorico, nord-occidentale, eolico, ionico-attico, arcado-cipriota, più miceneo): ci limiteremo a poche note sui dialetti letterari, linguaggi artificiali che solo raramente,

e comunque in parte, rispecchiano le parlate locali. Una consuetudine risaliente all’antichità li raccoglie sotto tre diciture convenzionali (che poi sono anche etniche): ionico, eolico, dorico. Ogni genere letterario è legato a un dialetto, salvo particolari eccezioni: Anacreonte che usa per la lirica monodica il ionico invece dell’eolico, Archimede che usa il dorico invece del ionico (o dell'attico)

proprio della prosa scientifica, ecc. È spesso possibile sorprendere interferenze d’un dialetto nell’altro: eolismi nella poesia corale, ionismi nella monodica, dorismi nell’elegia, ecc., o occasionali

e fortuite o dovute a intenti allusivi dell'autore (cosi gli eolismi in Pindaro, i ionismi in Alcmane).

La lingua omerico-epica è a dominanza ionica, con tratti di ar-

caismo (es. ἔλπω-ομαι per ἐλπίζω «spero»; Tivtv/-t; «di un anΠΟ», acc. sing./pl. non altrimenti noti) che han fatto talora parlare, ma a torto, di ionico antico (in contrapposizione al neoionico erodoteo) e con immistioni eoliche e attiche. Sua caratteristica piü straordinaria é forse la ricchezza del vocabolario, base di tutta la poesia greca successiva. Fra le altre menzioniamo una piccola scelta: la psilosi (mancanza dello spirito aspro), in comune — cosi

come l'infinito in -μεναι, l'uscita in -μι di φίλημι per -éo, xe(v) per ἄν, ecc. — con l’eolico (es.: omer. ἦμαρ; ἄμμες, Uupes; ἴρηξ;

ἄλλομαι per att. ἡμέρα; ἡμεῖς, ὑμεῖς; ἱέραξ; ἅλλομαι); la distrazione (διέχ-τασις) in forme dei verbi in -ἄω (es. ὁράασϑαι per -άε-,

ὁρόωσα per ὁράουσα); la dieresi, un fenomeno antecedente alla

41

dittongazione diverso dall’occasionale dieresi metrica (es. "χλή-

Fis > χληΐς per xAfig/xAef n [νικῆτε, ecc.], d0/kw > ἃ [γελᾶντι per -ὥσι, ecc.]); scambi consonantici (x per τ, « per c in óxa/7óxa per dte/méte, τινήτοι per oot, προτί per πρός, ecc.); gen. sing. in ἃ dei témi masch. in -«

(Ατρείδα, ecc.) e in - di quelli in -o ππω, ecc.), plur. comune in -&v (Ατρειδᾶν, ecc.); acc. plur. in -wg dei tèmi in -o (ππως, ecc.); I* plur. dei verbi attivi in -μες, lat. -mus (φέρομες, ecc.), 3* dei tempi principali in -ντι, lat. -nt- (ἐντί, φέροντι, ecc.); inf. att. in -uev (ἦμεν, ϑέμεν, ecc.); x&/xé(v) per, e in alternanza con, ἄν. I grammatici antichi dànno molte leggi speciali per l'accentazione dorica: fra altro l'accento acuto e non circonflesso sulla penultima quando l'ultima è un dittongo (inteso sempre come lungo, es.

ἀνϑρώποι, δραμήται, μαχέται nel testo papiraceo di Alcmane). Non cosi compatto come il lesbico saffico-alcaico e non cosi frastagliato come il dorico sembra il ionico della prosa (frammenti di Democrito e altri presocratici, di Ecateo e altri logografi; opere di Erodoto e del Corpus Hippocraticum), il quale in linea generale si avvicina a quello omerico depurato degli arcaismi e degli eolismi. Tipici di tale prosa, che fu una creazione dei Ioni, sono, a parte il passaggio generale di ἃ panellenico > n e la rarità delle contrazioni, i tratti seguenti: attenuazione dell'aspirazione (es. δέχομαι, οὐκί, αὖτις per -£x-, -χί, -Ütc) o sua inversione di sillaba (es.

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ἐνθαῦτα,.-τεν, χιϑών per -xa00-/-Otv, xır-); passaggio di x a x in pronomi e avverbi (es. χοῖος, χόσος, χότερος, οὔχοτε, x, per ποῖ-,

πόσ-, πότ-, οὔπ-, πῆ); perdita quasi totale del duale; gen. sing. in -&« dei maschili in -ng (es. Ξέρξεω per -ov). Il dialetto più vicino al ionico, e che ne ingloba la gran parte delle caratteristiche, è l'attico (onde si parla di ionico-attico), la lingua delle parti non cantate della tragedia (con peculiarità proprie) e della commedia, quella della filosofia, della storiografia, dell’eloquenza, ecc., lingua affermatasi circa la metà del V secolo e dominante almeno sino alla metà del IV. La sua fisionomia è definita rispetto al ionico dalle opposizioni seguenti: -tt- per -σσ-

(es. πράττω per -σσ-); -pp- per -pa- (es. ἄρρην per -ρσ-, ma πυρσός in Euripide è un iperionismo e Tucidide ha sempre -po- salvo che

nel termine δέρρις «riparo di cuoio », forse per non averlo trovato in ionico); perdita del f dopo v, p, X senza allungamento di com-

penso (es. "ξένξος » ion. ξεῖνος, dor. ξῆν-, att. ξέν-, cfr. micen. ke-se-nu-wo; * FópFoc > ion. οὖρος, dor. ὧρ-, att. ὅρ- «confine», cfr. micen. wo-wo; *öpafog (?) cfr. sanscr. rsvah «alto» >ion.

οὖρος, dor. ὧρ-, att. ὄρ- «monte»); *xaAFóc » ion. xàAóc, att. xà-); conservazione (salvo apparenti eccezioni come xópn, χόρρη,

δέρη) di ἃ dopo e, t, p (il così detto a puro): es. σοφία, ἡμέρα per ion. -ἢ.

3. La koiné. I dialetti erano destinati al declino con l'affermarsi, a partire

dalla metà circa del IV sec. a.C., della χοινὴ διάλεχτος. Il complesso fenomeno sopraffece la varietà dei dialetti letterari, lasciandone sopravvivere taluni relitti artificiosi quasi solo in poesia; obliteró in larga misura la memoria delle varietà locali, le quali sopravvissero certo, pur indebolite, nell'uso corrente, ma solo di rado lasciaron traccia nel documento scritto (epigrafi, pa-

piri), ché questo subi il livellamento della koine anche quando aveva carattere strettamente privato (lettere personali, contratti, ecc.). La possibilità di coglier tracce di dizioni dialettali scompari-

45 rà poi quasi del tutto — a parte qualche rara attestazione di gram-

matici — nei lunghi secoli (a partire dal II d.C.) d’incontrastato dominio dell’atticismo a tutti i livelli, anche se con sfumature diverse, dell’espressione scritta.

Sull'origine e la definizione della koiné molto si è discusso nel passato. Oggi sembra chiaro che alla sua base ὁ l'attico di Atene, già da tempo una sorta di lingua franca nel bacino mediterraneo, il quale continuó nella sua funzione anche dopo la sconfitta politica della polis, arricchendosi a sua volta di elementi allotri, assunti in un primo momento dalla cosmopolitica folla aggirantesi al Pireo e poi dai vari ambienti d'oltremare nei quali si diffuse. La nostra conoscenza della koine, nei suoi vari stadi espressivi, si fonda: a) su numerosi testi letterari (Polibio, Diodoro Siculo, l'E-

pitteto delle diatribe, ecc.); b) sulla traduzione in greco della Sacra Scrittura ebraica (la Settanta); c) sul Nuovo Testamento e altri scritti protocristiani; d) su numerosi

documenti

e lettere private

restituitici dai papiri egiziani (IV sec. a.C. - VIII d.C.); e) su osservazioni di grammatici. A parte variazioni connesse con la destinazione degli scritti relativi (p. es. la Koiné neotestamentaria è assai più vicina al ‘parlato’ che non quella di Polibio), pare che la nuova lingua abbia avuto e differenziazioni locali (una Koiné achea e etolica, nell’àmbito delle leghe omonime, in opposizione alla ellenistica; isole di resistenza in zone marginali, come quella del laconico sopravvivente nell’odierno zaconico; ecc.) e una cer-

ta evoluzione cronologica, difficili peraltro da precisare. Ebbe certo una gradazione di livelli — ad esempio quello, importantissimo e che solo ora si comincia a studiare, della prosa tecnica a un

di mezzo fra ‘dotto’ e ‘popolare’ (Zwischenschichtsprosa) — in relazione con la variegata estrazione dei parlanti e con le molteplici funzioni assunte ora dalla letteratura. In effetti il passaggio dal greco classico al greco ellenistico per un verso si verificò di pari passo con un’apertura senza precedenti degli orizzonti culturali, per l’altro è paragonabile al passaggio dal greco preistorico al greco arcaico in quanto in entrambi i casi l’uso della lingua greca fu esteso a genti la cui madrelingua non era il greco. L’evoluzione della koine d'uso ci conduce alle soglie

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del greco medievale per toccare, come δημοτιχή (γλῶσσα), i giorni nostri; quella della Koiné dotta, specie nella sua forma atticistica,

giunge al greco bizantino per toccare anch’essa i nostri giorni (come χαϑαρεύουσα): nel che trovano spiegazione l’origine e le vicende della diglossia nel mondo greco. Il carattere naturalmente fluido della koiné rende difficile isolarne tratti costanti nel tempo e nello spazio. Ci limiteremo a indicarne, pur non senza riserve, solo alcuni:

— scompare di norma (le eccezioni si hanno in genere in ambiente atticistico) ciò che è sentito come esclusivamente attico: fra

altro -ττ- per -σσ-, -pp- per -po-, χ(λ)άω per x(A)a{w, ποέω per -téco, ἐς per εἰς, ξύν per σύν, ecc.; l'alternanza, ereditata dall’indeuropeo fra -ı-/-v- e -e- nei paradigmi dei témi nominali in *i e

*u: πόλις πόλεως (già ion. -ı0c); l’alternanza dei témi *yos e -tov nella declinazione dei comparativi in -(() ων: (ἡδίω« -iooa per ἡδίονος ἡδιόνων ecc., ἡδίους « -ἴοσες); il duale; — nell'àmbito dei gradi di comparazione vi è grande elasticità: comparativi formati su tèmi di comparativo o superlativo:

μειζό-τερος, ἐλαχιστό-τερος, ecc., e scambio di funzioni: ὁ μείζων per ὁ μέγιστος (come in italiano), superlativo assoluto con valore di comparativo e viceversa; ecc.;

— molte le innovazioni in sintassi: tendenza a surrogare con strutture analitiche la funzione sintetica dei casi, soprattutto del

dativo (εἰς + acc. in luogo del dat. propriamente detto; διά + acc., μετά + gen. e poi acc. in luogo del dat. strum.; ecc.); tendenza a

livellare le nozioni locative (es. Vangelo di Marco, 13,16 ò eig τὸν ἀγρὸν μὴ ἐπιστρεφάτω εἰς tà ὀπίσσω «colui che sarà nel suo campo non torni indietro », mentre i più ‘corretti’ Matteo 24, 18

e Luca 13,31 hanno ὁ ἐν τῷ ἀπγρῷ); progressivo indebolimento

dell’infinito

sino

alla

completa

sparizione,

sostituito

da

ὅτι +ind. ο tva -- cong. (cfr. gr. mod. ϑέλω νὰ πάω «andrò»); concentrazione sul congiuntivo delle funzioni dell’ottativo che non avrà vita se non artificiale (il ionico in effetti, e soprattutto l’attico, conservano i due modi laddove la maggior parte delle lingue indeuropee rinuncia a uno dei due: al cong. il sanscrito, all’ott. il latino, ecc.);

47 — evolve molto, com'é naturale, il lessico o per autoinnovazio-

ne (derivati: es. ϑεότης « divinità » < ϑεός, πειρασμός «tentazione »

«πειράζω; composti — es. ἀνϑρωπ-άρεσχος «che compiace agli uomini» —; diminutivi, molto spesso depotenziati: es. ἰχϑύδιον «pesciolino», xuváptov «cagnolino» contro ὠτίον per οὖς «orec-

chio », βιβλίον « βίβλος «libro» [ma BigA( vov, βιβλαρίδιον « libriccino »]) oper imprestito (latinismi della lingua pratica, amministra-

tiva, militare, ecc.: es. χαμίσιον « camisia,

μάχελλος-ον-χέλλη

« macellum; πραίτωρ « praetor, δηληγατεύω < delegare; χόρτη « cohors, βιγλεύω eccesso, profusione (ὑπερβάλλω « passo la misura »)

ὑπο-

posizione

inferiore> subordinazione

(ὑπαχούω

«obbedisco »,

«sono sottomesso »)

segreto, incertezza (ὑπονοέω prendo» e «interpreto ») stadio iniziale, luce»).

prossimità

«suppongo», (ὑποφαίνομαι

ὑπολαμβάνω «spunto,

vengo

«soralla

La forza espressiva di tali preverbi ‘pieni’ è tanto più grande quanto più la notazione relativa si allontana dal concreto e circostanziato: p. es. ἐπιβουλεύειν «complottare, tendere un agguato

contro» dà molto più del semplice βουλεύειν «tener consiglio, progettare»; così, in confronto di βλέπω, προσβλέπω «guardo in

faccia», παραβλέπω «guardo di traverso», ἀναβλέπω «levo lo sguardo» o «guardo di nuovo», περιβλέπω «guardo tutt’intorno», ὑποβλέπω «guardo in basso». Molto

spesso gli stessi preverbi assolvono una funzione non

‘piena’ — son detti allora ‘vuoti’! —, ma comunque tale da con-

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ferire del pari sfumature nuove, specialmente relative all’aspetto verbale, al verbo col quale entrano in composizione senza peraltro alterarne il valore di base. Così per esempio ἀνα- suggerisce, soprattutto in poesia, avvio, messa in movimento; &x- (e ἀπο-)

compimento, esaurimento (ἀποδείχνυμι «dimostro», ἐκμανϑάνω «apprendo a fondo», ἐκπίνω χύλιχα «vuoto un calice»); διαpersistenza, compimento

(διασχέπτομαι «esamino minutamente,

passo al vaglio», διέρχομαι παιδείαν «ricevo un’educazione completa »); κατα- efficacità, raggiungimento d'una meta (κατανοέω χαταλαμβάνω

«penetro,

afferro con la mente»),

περι-

(e συν-)

pienezza, totalità (περιβάλλω πένϑει «avvolgo nel lutto», συγχέω «sconvolgo totalmente »). I preverbi hanno tendenza a cumularsi conservando ciascuno la sua

valenza

in epoca

classica,

depotenziandosi

e riducendo

enormemente la loro espressività in epoca post-classica (es. συν-

ert- βουλεύειν « ordire un complotto in comune», δι- εξ- ἐρχεσϑαι «esporre molto in dettaglio », δι- ex- πλεῖν «aprirsi un varco fra le navi avversarie»). i

Fra i preverbi non preposizionali i più comuni sono aùto- ὁμοεὖ- δυσ- (0 xaxo-) παλιν-, evocanti rispettivamente spontaneità, comunione, stato buono e cattivo, inversione (es. παλινῳδέω «ritratto, cambio di tono»).

Alcune osservazioni sui generi del verbo e la diatesi relativa. Diversi verbi attivi hanno valore tanto transitivo che intransitivo. Esempi: ἄγειν

«condurre, guidare» e «marciare»

αἴρειν

«sollevare» e «partire»

ἀναζευγνύναι

«riaggiogare», τὸν στρατόπεδον «levare il campo»

e assol.

«levare il campo»

ἐλαύνειν

«sospingere, condurre»

e «spingersi, giungere a, marciare,

cavalcare, remare»

ἔχειν «avere» e «stare» (εὖ, χαχῶς) καταλύειν «slegare» (τοὺς ἵππους) e «alloggiare» (παρ᾽ ἐμοῦ ὁρμᾶν «spronare, incoraggiare» e «mettersi in moto, affrettarsi» πράττειν

«fare» e «trovarsi» (εὖ, χαχῶς)

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τείνειν «tendere » (τόξον) e «estendersi» (γῇ) τελευτᾶν

Può

«terminare»

(qc.) e « morire»

darsi che un verbo

(sc. τ. τὸν βίον).

transitivo divenga

intransitivo

per

composizione: βάλλωείσ- ἐμ- peta- συμ-, δίδωμι,έπι-, ἰέναι,έξ-, μείγνυμισυμ-, φέρωδια- ecc. L’impiego del passivo in greco è limitato. Talvolta lo surroga un verbo intransitivo o un perfetto attivo di formazione atematica. Esempi: ἀποϑνήσχειν ὑπό τινος cido»

«essere ucciso da q.», passivo di ἀποχτείνω «uc-

ἐχπίπτω ὑπό τινος «essere scacciato da q. », passivo di ἐχβάλλω «scaccio»

φεύγω ὑπό τινος «sono accusato da q.», passivo di διώχω «accuso in

un processo».

Locuzioni derivate: δίκην δίδωμι ὑπό τινος «sono condannato da q. », κεῖμαι ὑπό τινος «sono sepolto da q.». Passivo di ποιεῖν ἃ

γίγνομαι, come fieri di facere. Non vi è in greco il passivo impersonale di intransitivi (tipo latino curritur, ventum est), salvo, casi

rarissimi, quando anche l'attivo è impersonale (es. δέδοχται modellato su ἔδοξε, visum est). Si formano invece talvolta participi passivi, sostantivati, di verbi intransitivi: es. tà δυστυχηϑέντα «le

sfortune subíte », τὰ ἠσεβημένα «le azioni sacrileghe», τὰ χινδυνευϑέντα «i pericoli corsi», τὰ σεσωφρονημένα «le azioni moderate». Ben presente in greco è il medio, una specificazione del mediopassivo indeuropeo nel quale si distinguono tradizionalmente sei valori:

1) medio dinamico: gr. ἔφατο-- ἔφη «egli disse» 2) medio riflessivo: gr. λούομαι «io mi lavo» 3) medio reciproco: gr. μάχεσϑαι «combattersi »

4) medio con soggetto beneficiario dell'azione: gr. ϑύεσθϑαι, vedico ydjate «sacrificare per sé» 5) medio con soggetto possessore: gr. μισϑοῦσϑαι una mercede»

«ricevere

117

6) passivo: vedico stávate «egli è lodato» contro stduti «egli loda». Non si hanno elementi per uno scaglionamento diacronico dei sei valori; due sono le teorie principali riguardo alla loro formazione: a) punto di partenza in 1), ossia complementarità originaria di attivo e medio passivo (Meillet?); b) punto di partenza in 5), ossia passaggio da un denominativo possessivo-ricettivo al passivo (sulla stessa base del passaggio in latino dall'aggettivo denominale possessivo in *-to [barbatus] al participio passato [amätus] attraverso l’intermediazione del riflessivo e del reciproco) e,

in qualche caso, perdita del valore proprio di 5) e sopravvivenza come medio dinamico o deponente?. Di fronte al possessivoricettivo, che darà in un secondo momento il medio-passivo, un * donativo' (denominativo col valore di «provvedere di», latino clipeare « fornire di clipeum/scudo ») ha dato l'attivo (es. VdeH;-

e ittita dà-, attivo, vedico d-dä medio-passivo). I principali tipi di medio presenti nel greco classico sono i seguenti:

— diretto (il soggetto agisce su sé stesso): ἀλείφομαι χρίομαι «mi ungo», ἀπέχομαι «mi astengo», γυμνάζομαι « mi esercito », ἵσταμαι (aor. ἕστην) «mi pongo»,

χαλύπτομαι «mi nascondo»,

χοσμέομαι «mi adorno», λούομαι lavor, ὁπλίζομαι «mi armo», παρασχευάζομαι «mi preparo» (εἰς μάχην «per un combattimen‘ to», οἴκαδε «per andare a casa»), στεφανόομαι «mi cingo d'una

corona», τάττομαι «mi dispongo», τρέπομαι (aor. ἐτραπόμην) «mi rivolgo », φυλάττομαι «mi guardo da», γεύομαι «assaggio» (γεύω «faccio assaggiare»), tegat «mi slancio, mi affretto alla volta di» (μι «lancio»), παύομαι «cesso» (παύω «faccio cessare»), φαίνομαι «appaio, brillo» (φαίνω «faccio apparire, brillare»); in altri casi si adopra l'attivo col pronome riflessivo: ἐπαινῶ ἐμαυτόν «mi lodo», ῥίπτεις σαυτόν «ti getti», ἀπέχτεινεν αὑτόν

«si uccise», πολίτας ἀγαϑοὺς ἡμᾶς αὐτοὺς παρέξομεν «ci mostreremo buoni cittadini», ecc.;

— indiretto e dativale (il soggetto agisce per sé stesso): ἄγομαι γυναῖχα « (mi) prendo (una) moglie», αἱρέομαι «mi [per me] scel-

go»), αἰτέομαι «richiedo per me», εὑρίσκομαι «(cerco e) trovo per me»,

χαταστρέφομαι

«sottometto

al mio

potere»,

λούομαι

118

(τὴν χεφαλήν) « mi lavo (la testa)», ποιέομαι (τινὰ φίλον) «mi fac-

cio (amico qualcuno)», προβάλλομαι (ἀσπίδα) « mi metto davanti (uno scudo)», ἀμύνομαι χίνδυνον « allontano da me un pericolo », προΐεμαι « getto lungi da me», τίϑεμαι ὅπλα « depongo, allontano

da me le armi», ἄρχομαμᾶἄρχω τινος «comincio il mio lavoro/un lavoro», νόμους τίϑεμαι γράφομαμ τίϑημι γράφω «mi dò/dò del-

le leggi», βουλεύεσϑαι « consigliarsi a vicenda», διαλέγεσϑαι «intrattenersi, conversare (l'uno con l’altro)», dtavéueoda: « suddividere fra sé »; — dinamico (il soggetto agisce da sé, dispiegando le sue ener-

gie, esterne o interne): ἀποδείχνυμαι ἔργον « faccio conoscere una propria azione», ἀποφαίνομαι γνώμην «manifesto il mio avviso » (anche senza γνώμην), λύομαι «riscatto con il mio denaro» (es.

ϑυγατέρα), παρέχομαι «fornisco con i miei propri mezzi», συμβάλλομαι «dò un contributo mio», εἰρήνην, πόλεμον ποιεῖσθαι, ποιεῖν «concludere, condurre/provocare la pace/la guerra», πο-

λιτεύεσϑαμ πολιτεύειν «impegnarsi nella vita pubblica»/«esser cittadino », στρατεύεσϑαι στρατεύειν « partecipare come soldato a una spedizione »/« dirigere una spedizione »; — causativo (il soggetto agisce o fa agire per sé o su di sé): daνείζομαι «mi faccio prestare del danaro», διδάσχομαι τὸν υἱόν

«mi faccio istruire il figlio», δικάζομαι «mi lascio processare », ποιοῦμαι ὅπλα «mi faccio preparare le armi», t{(v)opar «mi faccio pagare un'ammenda, punisco ». In indeuropeo, come al sostantivo è originariamente inerente il genere relativo, così è alla radice verbale la categoria dell'aspetto nelle sue tre espressioni:

puntuale,

durativa,

resultativa.

In

effetti alcune radici dànno un téma d'aoristo o di presente senza aggiunta alcuna di suffisso: es. VsteH;- «stare in piedi»» aor. *steH;-t, Ves- «essere»»pres. *es-ti. In epoca storica tuttavia l'indicazione dell'aspetto rientra nella flessione, si ha cioé per derivazione: ad esempio a ogni tema di presente si oppone un tema d'aoristo che esprime il medesimo processo temporale, ma a prescindere dalla durata (il segno relativo é dato da *-s- aggiunto alla radice di grado lungo). L'italiano non ha conservato traccia — come,

p. es., alcune

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lingue slave — dell’antica categoria dell’aspetto verbale e ciò pone dei problemi non piccoli nel tradurre poiché non v'è corrispondenza se non parziale fra i tempi delle due lingue. Si prenda

una semplice frase come questa di Senofonte (anab. V 4,23): Oi

δ᾽ ἄλλοι βάδην ἐπορεύοντο ἐπὶ τὸ χωρίον, ἀφ᾽ οὗ τῇ προτεραίᾳ οἱ βάρβαροι ἐτρέφϑησαν «Il resto (dell’esercito) si avviò a passo di marcia verso la posizione dalla quale i barbari erano stati cacciati il giorno prima». Traducendo così, applichiamo ai due verbi categorie proprie dell’italiano (maggiore comprensività semantica del passato rispetto all’imperfetto; bisogno di precisare anche col verbo, non solo col complemento di tempo, l’anteriori-

tà), le quali non trovano corrispondenza nell’imperfetto e nell’aoristo dell’originale, alludenti invece rispettivamente al fatto che la marcia avrebbe avuto una certa sua durata e all’episodio della vigilia in sé e per sé. Forse dovrebbe tradursi: « Il resto cominciò la /unga marcia verso il luogo della cacciata dei barbari il giorno prima». Ciò premesso, si considerino alcuni casi specifici:

— l’opposizione fra presente e aoristo risalta specialmente nell'imperativo: es. λέγε « (continua a) parla(re)» per εἰπέ « dimmi»;

— il participio dell’aoristo talora è anch’esso puntuale, tal altra indica l’anteriorità: es. Platone, Phaed. 60e εὖ γ᾽ ἐποίησας ἀναμνήσας

«facesti bene a ricordarmelo»

vs Sofocle,

Oed.

tyr.

447 (Tiresia) εἰπὼν ἄπειμι, ὧν οὕνεχ᾽ ἦλϑον « me ne andrò solo dopo aver spiegato ció per cui son venuto qui»; ancora diverso ἐλ-

ϑὼν λαβέ « vieni a prendere! » (imp. aor. puntuale e determinato); — l'imperfetto, ancor più del presente, definisce spesso un'azione ben nota e segnalata (tempus adumbrativum), o riproponendo lo sviluppo o alludendo allo sforzo ch'essa ha comportato: es. Teofrasto, charact. 20,7 Ein’, ὦ μάμμη, ὅτ᾽ ὥδινες καὶ ἔτικτές με, τίς ἡμέρα; «Dimmi, mammina, che giorno era quando ti presero i dolori e partoristi me? »; — l’aoristo, per lo meno all’indicativo, può avere valore in-

gressivo:

es.

ἐβασίλευσεν

«sali

al trono»,

édkxpuoe/tyÉXaoe

«scoppiò a piangere/ridere»; in proverbi, aforismi, sentenze, esprime l’atemporalità dell'azione (aor. gnomico): es. ὁ Ἔρως

120

διέφϑειρέ τε πολλὰ χαὶ ἠδίχησεν (Platone) «Eros causa molti guasti e malanni »; — il perfetto esprime l’irrimediabilità d’una situazione indipendentemente dal suo essersi verificata o sviluppata: es. τέϑνηχε

«giaceva morto» vs ἔϑανεν « morì» vs ἔϑνησχεν «stava moren-

do»; Senofonte, anab. 11 5,33 Νίχαρχος ἧχε φεύγων τετρωμένος « Nicarco giunse in fuga ferito com'era»; — né il piuccheperfetto né il futuro anteriore del greco corrispondono in genere a quelli dell'italiano, ma anch'essi a altret-

tanti stati perfettivi: es. Tucidide, V 14,2 ξυμφορὰ οἵα οὔπω ἐγεγένητο τῇ Σπάρτῃ « una sciagura quale per Sparta non s’era ancora verificata » (Sinesio); — il tipo latino cum rediveris, decernemus corrisponde, inve-

ce, in greco a ὅταν ἐπανέλθϑης, βουλευσόμεϑα; l’attualità imminente o immediatamente precedente viene espressa in greco con

un avverbio, accompagnato talora da νῦν: es. ἤδη (νῦν) ἄπειμι «ora me ne andrò » (si usa per questo anche μέλλω + ἀπιέναι abiturus sum),

ἄρτι

(vov/vuvi)

τέϑνηχεν

«è appena

morto»,

ἄρτι

μανϑάνω «or ora capisco ». I modi nella proposizione principale. Con verbi, per lo più impersonali, o locuzioni indicanti dovere, potere, convenire, simili,

si richiede il presente o l'imperfetto dell'indicativo secondo schema seguente: Realtà

Presente δεῖ σε λέγειν Passato

lo

Irrealtà

ἔδει νῦν σε λέγειν

«devi parlare»

«dovresti parlare ora» (ma non lo fai)

ἔδει σε λέγειν

ἔδει τότε σε λέγειν

«dovevi parlare» «avresti dovuto parlare allora» (ma non lo facesti).

Così ἀνάγχη (ἀναγκαῖον) ἦν « sarebbe, sarebbe stato necessario » ἐξῆν, παρῆν, fiv, οἷόν τ᾽ ἦν «era, sarebbe stato possibile»

καλὸν (χάλλιον κάλλιστον, ἄμεινον αἰσχρόν δίκαιον χράτιστον εἰκός) ἦν «sarebbe, sarebbe stato bello», ecc. (anche con gli aggettivi verbali in -téoc).

121

Con ὀλίγου e μικροῦ «per poco non»

va l’indicativo aoristo:

es. ὀλίγου εἶπον (= ὀλίγου ἐδέησα εἰπεῖν « poco mancò [ma in gr. c’è la costr. personale] che dicessi») «per poco non dicevo» lat. paene dixi. Nelle interrogative retoriche che abbiano un valore affermativo

preciso va l'indicativo: es. τίς οὐχ οἷδε (ἀχήχοε);

«chi non sapreb-

be saprà (avrebbe/avrà saputo)? », πῶς οἶδα «come dovrei, avrei

dovuto saperlo? » πῶς οὐκ μεγάλης τιμῆς ἄξιος Σωχράτης;

«come

Socrate non sarebbe, sarebbe stato degno di grande onore? ». I modi nella proposizione secondaria. Nell’àmbito dei modi nella proposizione secondaria non vige in greco la rigidità della consecutio temporum latina; c’è piuttosto una consecutio modo-

rum (ottativo in dipendenza da tempi secondari, o storici, congiuntivo da tempi principali, ecc.), ma neanch’essa rigida, specie nel greco post-classico. Vanno tenuti presenti, ai fini del tradurre, alcuni casi particolari: — la completiva indiretta non va al congiuntivo, ma o conser-

va il tempo e modo del discorso diretto (es. εἰπέ μοι, ὅ τι βούλει mihi dic quid velis) o, specie se nella principale v’è un tempo se-

condario, l’ottativo (es. οἱ πρέσβεις ἔλεγον, ὅτι ὁ βασιλεὺς ἐν βραχεῖ ἥξει ῆἥξοι «gli ambasciatori dicevano che il re sarebbe ve-

nuto fra breve», ὁ ἄγγελος ἔλεγεν, ὅτι Κῦρος μὲν τέϑνηκενήτεὑναίη, ᾿Αριαῖος δὲ ἐν τῷ σταϑμῷ ἐστιν εἴη «Il messo diceva che Ciro era morto, Arieo invece si trovava nell’accampamento »); — talvolta la secondaria — specie se finale, relativa o temporale — regola il suo modo in corrispondenza di quello della prin-

cipale: es. εἴϑε ἥχοις, ἵνα τὸν φίλον ἴδοις «voglia il cielo che tu possa venire, per vedere il tuo amico», εἴϑε ἧχες, ἵνα τὸν φίλον εἶδες « volesse il cielo che fu fossi potuto venire, per vedere il tuo amico »;

.— il participio greco ha maggior versatilità di quello latino; oltre al genitivo assoluto, frequentissimo e più duttile del corrispettivo ablativo assoluto latino (si accompagna talora a congiunzioni o a locuzioni avverbiali: es. Senofonte, anab. III 3,1... μεταξὺ

δειπνούντων ἡμῶν ἧχε «arrivò mentre noi pranzavamo » [= ἐν à ἐδειπνοῦμεν]), si segnala l’accusativo assoluto, ignoto al latino e

122

che trova impiego specie in concise frasi impersonali implicanti

convenienza, opportunità, possibilità (δέον δεῆσαν προσῆχον, δόξαν δυνατὸν ὄν ἐξόν παρόν); esso surroga talvolta il genitivo assoluto quando si vuol rilevare una certa naturalezza o imperiosità della motivazione: es. Senofonte, mem. I 2,20 oi πατέρες τοὺς

υἱεῖς ἀπὸ τῶν πονηρῶν ἀνϑρώπων εἴργουσιν, ὡς τὴν μὲν ἀπὸ χρηστῶν ὁμιλίαν ἄσχησιν οὖσαν τῆς ἀρετῆς, τὴν δὲ τῶν πονηρῶν χατάλυσιν «i padri allontanano i figli dalla frequentazione dei malvagi, al pensiero più che naturale che la pratica degli onesti è esercizio di virtù, quella dei malvagi è rovina »;

— talvolta il soggetto del genitivo assoluto viene tralasciato

quando può facilmente intendersi (es. ἤδη ἐν τῷ σταϑμῷ ὄντων [sc. αὐτῶν] RA dev ὁ σατράπης «il satrapo giunse quando essi erano già nell'accampamento ») o quando l’espressione è di tipo im-

personale (es. ὕοντος «poiché pioveva», ἀγγελϑέντος ἀγγελϑέντῶν σημανϑέντων «dopo ch'era stato annunziato che... », οὕτως

ἐχόντων «stando cosi le cose»); — il participio gode talvolta di una posizione privilegiata che capovolge i rapporti logici fra due azioni: es. λάϑε βιώσας «vivi

nascosto », ἐλϑὼν λαβέ «vieni a prendere», o anche in struttura più complessa: xai τίνα δὴ ἐγὼ... ὁδὸν ἰὼν τοῦτο πράττων ἱκανὸς ἔσομαι;

«e io, quale via prenderò

per essere in grado

di fare

ciò? »;

— la negazione del participio è di norma οὐ: es. oi στρατηγοὶ οὐχ ἀνελόμενοι «gli strateghi (che) non (erano stati) uccisi »; si usa

però μή se il participio o abbia valore ipotetico (es.

ὁ μὴ ἀδικῶν

οὐδενὸς δεῖται νόμου «se uno non offende, non ha bisogno di alcuna legge») o sia parte d’una frase tale da dovere anch’essa esser

negata con μή (es. φηφίσασϑε [μὴ 4.1] τὸν πόλεμον μὴ φοβούμενοι τὸν αὐτίκα χίνδυνον « deliberate la guerra senza temere il pericolo immediato»). Con i verba dicendi audiendi sentiendi timendi curandi, e simili, è frequente in greco il fenomeno della prolessi: — il soggetto della dipendente viene anticipato, in forma di complemento, nella reggente: es. Bacchilide, 18,30 Sn. ταῦτα

(acc.) δέδοιχ᾽ ὅπᾳ τελεῖται «temo come andranno a finire queste cose»;

123

— il pronome dimostrativo anticipa il contenuto della frase seguente (con conseguente epanalessi, ‘ripresa’): es. βασιλέως

ἀγαϑοῦ

τοῦτο ἔργον ἐνόμισε,

τὸ τοὺς ἀρχομένους ὡς πλεῖστα

ἀγαϑὰ ποιεῖν «di un buon re ciò egli riteneva essere cómpito, fare ai sudditi il maggior bene possibile »); — il pronome relativo viene anticipato, per enfasi, al dimostrativo o a un altro termine al quale si riferisca: es. Platone,

apol. 21d ἃ μὴ οἶδα, (ταῦτα sott.) οὐδὲ οἴομαι εἰδέναι « ciò che non so, non credo neppure di saperlo», Lisia, or. 14 [contra Alcib.],

37 ἃ uiv ἤδει τῶν

ὑμετέρων

χαχῶς

ἔχοντα,

μηνυτὴς

αὐτῶν

Λαχεδαιμονίοις ἐγένετο « quante delle vostre cose sapeva essere a mal partito, di esse si fece rivelatore agli Spartani». Grande rilievo ha in greco lo stile indiretto. L’uso del verbo vi è regolato nel modo seguente: a) Le proposizioni

indipendenti

enunciative

di stile diretto

(oratio recta), passando allo stile indiretto (oratio obliqua), si co-

struiscono con ὅτι o ὡς e un modo finito, oppure con l’infinito o col participio. Esempi:

Senofonte, arab. I 8,1 ἐβόα ὅτι βασιλεὺς προσέρχεται « gridava che il re si avvicinava »;

Senofonte, anab. VI 3,18 ἐχέλευσε δὲ χαίειν ἅπαντα « comandò di bruciare tutto»;

Senofonte, Cyrop. I 6,6 οἶδά σε λέγοντα ἀεί «so che tu dicevi sempre». Le proposizioni interrogative restano a un modo finito: Senofonte, anab. I 5,16 οὐχ ἴστε ὅ τι ποιεῖτε «non sapete cosa fate»;

Senofonte,

Cyrop.

I 3,15 διερώτα ποτέρον βούλοιτο μένειν

«chiese se volesse rimanere». L’imperativo e il congiuntivo imperativo si rendono nello stile indiretto con il tempo corrispondente dell’infinito: ἔλεγε τὸ

βιβλίον λαβεῖν « disse di prendere il libro». b) Le proposizioni subordinate, passando dallo stile diretto all’indiretto:

124

— conservano i modi dello stile diretto dopo tempi del presente o del futuro;

— dopo tempi del passato, i tempi storici dell’indicativo con ἄν (irrealis),

e generalmente anche quelli senz'&v, non mutano; i

tempi dell’indicativo riferiti al presente o al futuro, e del congiuntivo con o senza ἄν, possono essere o conservati o mutati nell'ot-

tativo corrispondente senza ἄν: Senofonte, anab. VII 1,33 ἔλεγεν ὅτι ἕτοιμος εἴη ἡγεῖσϑαι αὐτοῖς εἰς τὸ Δέλτα τῆς Θράχης, ἔνϑα

πολλὰ κἀγαϑὰ λήφοιντο « disse che era disposto a condurli al delta di Tracia, dove avrebbero preso un ricco bottino » (discorso di-

retto ἕτοιμός εἰμι... ἔνϑα λήφεσϑε); Senofonte, anab. V 6,25 Θώραξ ἔφη εἰ ἐξέλϑοιεν ἐκ τοῦ Πόντου, ἔσεσϑαι αὐτοῖς Χερρόνησον «Torace disse che, se fossero usciti dal Ponto, avrebbero trovato

il Chersoneso » (discorso diretto ἐὰν ἐξέλϑητε). Le stesse regole valgono per lo stile indiretto impropriamente

detto: Senofonte, anab. I 8,12 (Κῦρος...) Κλεάρχῳ ἐβόα ἄγειν τὸ στράτευμα χατὰ μέσον τὸ τῶν πολεμίων, ὅτι ἐχεῖ βασιλεὺς εἴη «(Ciro...) gridò a Clearco di condurre le truppe contro il centro dell’esercito nemico, poiché il re era li» (εἴη invece di ἐστί poiché si tratta del pensiero di Ciro: optativus obliquus).

S. Le preposizioni. Poiché le preposizioni hanno un ruolo di prim’ordine nella sintassi del greco, soprattutto classico (ché in séguito le funzioni relative avranno tendenza a confondersi o a sparire), si ritiene opportuno proporre un prospetto selettivo dei valori e delle reggen-

ze corrispettive: 1) Con un solo caso Genitivo

— —

ἄνευ «senza» ἀντί «invece di», «di fronte a», «in cambio di» (ἄνϑ᾽



00/0v — ἀντὶ τούτου-των, d/d) ἀπό «da» (allontanamento, nello spazio o nel tempo, opT

T

,

DI

,

»

er

125 pure origine, provenienza: es. οἱ ἀπὸ Πλάτωνος « gli scolari

di Platone», τὸν βίον ἔχειν ἀπὸ ϑήρας « procurarsi il vitto dalla caccia»)



ἕνεχα (Evexev) «a causa di» (causa finale; lat. causa + genitivo)



tx (ἐξ) «da»



conseguenza: es. ix τραύματος τελευτᾶν «morire di ferita», éx τούτων «in séguito a ciò») πρό «prima di», «avanti a» (nello spazio e nel tempo),

(distacco, nello spazio o nel tempo, oppure

«per» nel senso del latino pro «a preferenza di»: es. πρὸ

πάντων αἱρεῖσϑαί τι « scegliere qualche cosa a preferenza di ogni altra»

Dativo — ἐν «in» «dentro» (nello spazio e nel tempo) — σύν (ξύν, ἅμα) «con» (compagnia e strumento), quasi solo con ϑεοῖς ϑεῷ, altrimenti prevale μετά Accusativo



ἀνά (poetico col genitivo o dativo) «su» «sopra» 80 verso l'alto), «secondo»,

«durante»,

(dal bas-

con i numerali,

«ogni» (es. ἀνὰ τέτταρας πορεύεσϑαι « marciare per quattro»)



εἰς ἐς «in» (direzione, anche ox), «per» «sino a» (esten-

sione, anche nel tempo: es. εἰς τὴν ὑστεραίαν ἀναβάλλειν τι «rinviare qc. all'indomani»), «per» (scopo: es. εἰς τόδε ἥχομεν «siamo venuti qui per questo»), con i numerali

«circa»

(es. εἰς τοὺς δισχιλίους «circa 2000»)

2) Con due casi (genitivo e accusativo)



διά « per»

(attraverso, luogo e tempo, mezzo): gen.; « per»



(causa, propter): accusativo χατά «giù da», «contro»: genitivo; «verso giù» (moto),

«secondo» «ogni»

«lungo»

(distributivo:

(es. χατὰ γῆν xai κατὰ ϑάλατταν), es. χατὰ τρεῖς «per tre, ogni tre»,

χαϑ᾽ ἡμέραν «ogni giorno», χατὰ φῦλα «per tribù»): ac—

cusativo ὑπέρ «sopra» «al di là» (senza contatto), «in favore di» (latino pro), «intorno a» (latino de): genitivo; «attraverso» (luogo), «al di sopra di» (quantità): accusativo.

126 3) Con tre casi (per lo più genitivo: stato in luogo; dativo: stato o strumento; accusativo: moto)



ἀμφί «attorno a» (da ambedue le parti, ma senza comple-



tare il giro) in{ «sopra» (con contatto), «presso», «per»

tivo o accusativo); «per»

(fine, col da-

distributivo: genitivo; figurato,

es.: ol ἐπὶ τῶν πραγμάτων «gli uomini di stato», χαίρειν ἐπὶ τῇ νίχῃ « rallegrarsi della vittoria», τὸ ἐπ᾽ ἐμοί ἐφ᾽ ἡμῖν «per ciò che è in me/noi», ἐπὶ ϑάνατον ἄγειν «mandare ἃ morte»



μετά «fra», «con» (compagnia e mezzo): genitivo e dativo; «dopo» (luogo e tempo): accusativo



παρά «presso», «lungo», «accanto»; «da parte di»: geni-



tivo περί «intorno» (giro completo); «circa» guardo a» (genitivo)

— —

πρός «verso» «a»; «da parte di» (genitivo) ὑπό «sotto»; «da» (agente: genitivo); figurato, es. ot ὑπὸ

(accusativo); «ri-

βασιλεῖ ὄντες «i sudditi del re», παιδεύεσϑαι ὑπ᾽ ἀγαϑῷ παιδοτρίβῃ «essere educato sotto la guida d’un buon educatore»

Alcuni casi speciali: —

i verbi indicanti « porre, porsi» e simili, sono accompagna-

ti in greco tanto da ἐν (ἐπί) con il dativo quanto da εἰς (ἐπί) coll'accusativo: es. τὸ χύπελλον ϑὲς ἐν (ἐπὶ) τῇ τραπέζῃ (cfr. il latino ponere in+ abl.), εἰς (ἐπὶ) τὴν τράπεζαν (nel greco post-classico si arriverà a εἰμὶ εἰς τὸν οἶχον, ecc.); — i verbi indicanti « giungere, riunirsi, sbarcare»

e

simili, so-

no accompagnati invece da εἰς-- acc., non da ἐν + dativo; — invece del toponimo si adopra spesso l'etnico con le prepo-

sizioni ἐν, εἰς, x, διά; — il concetto di «da parte di» si può rendere non solo con

παρά, che è la preposizione più adatta, ma anche con ἀπό ἐχ πρός ὑπό + genitivo, con sfumature di volta in volta diverse, seppur impercettibili; questo porterà nel greco post-classico a analoga elasticità nella resa del complemento d’agente (propriamente reso con ὑπό + genitivo).

-

127

6. Affermazione e negazione. Alcune norme a proposito dell’affermazione e della negazio-

ne. 1) Spesso l’affermazione è rinforzata da una delle particelle

δή, 7, μήν, μέντοι, ecc.; — nelle formule di giuramento si usano μά, νή, ναὶ μά con l'accusativo per affermare, οὐ μά, μὰ... οὐ con l’accusativo per negare: es. Senofonte, Cyrop. II 1,3 Ναὶ pà Al, ἔφη «certo, per Zeus, dice»; Νὴ Δία, «sí, per Zeus»; VIII 3,45 Μὰ AC, ἔφη ὁ

Σάχας, ἀλλ᾽ οὐχ ἐγὼ τούτων εἰμί «ma per Zeus, dice Sacas, non sono (uno) di questi». 2) La negazione è unica.

L’avverbio οὐ nega che una cosa esista nella realtà, μή che esista nell’intelletto o nella volontà di chi parla; la stessa differenza

vige fra i loro composti: οὐδείς e μηδείς, οὐδέ e μηδέ, οὔτε e μήτε, οὔπω e μήπω, οὐδέποτε e μηδέποτε, οὐδαμῶς e μηδαμῶς, ecc. In conseguenza: a) si usano οὐ e i suoi composti: nelle proposizioni indipendenti che enunciano un fatto reale, non realizzato, possibile;

b) si usano μή e i suoi composti: nelle proposizioni indipendenti che esprimono una esortazione, un divieto, un augurio.

Le negazioni sono molteplici. a) Più negazioni riferentisi a termini differenti della stessa proposizione, conservano il loro valore: es. Demostene, or. 37 [in

Panten.], 56 Οὐχ ἀγνοῶ οὐ τῶν εὖ πεφυχότων ὧν ἀνϑρώπων «so che non sono di quelli favoriti dalla natura». b) Quando si riferiscono allo stesso termine:

— due negazioni con la stessa radice οὐ o μή si annullano, ed equivalgono ad una forte affermazione, se la seconda è semplice: Οὐδεὶς οὐ λέγει, nemo non dicit, «non c’è nessuno che non dica», «ciascuno dice»;

talvolta οὐ... οὐ forma una ripetizione oratoria: es. Platone,

symp. 199a Οὐ γὰρ ἂν δυναίμην, οὐ μέντοι «perché non lo potrei, no certo»;

128

— due o più negazioni con la stessa radice où o μή si rafforzano, se la seconda è composta o se sono tutte e due composte: es.

Senofonte, Cyrop. V 2,37 Μὴ λανϑανέτω δέ σε μηδὲ τοῦτο ὅτι..., ne hoc quidem te lateat, quod...; Platone, Parm.

166a "Ox τἄλ-

λα τῶν μὴ ὄντων οὐδενὶ οὐδαμῇ οὐδαμῶς οὐδεμίαν χοινωνίαν ἔχει «perché gli altri esseri non hanno assolutamente niente di comune con ciò che non esiste »; 3) Dopo verbi aventi di per sé senso negativo (ἀμφισβητεῖν

ἀπιστεῖν ἀρνεῖσϑαι; ἀντιλέγειν, aor. ἀντειπεῖν; ἀπαγορεύειν, aor. ἀπειπεῖν; ἀπέχεσϑαι φεύγειν; εἴργειν κωλύειν ἐμποδὼν εἶναι; φυ-

λάττεσϑαι εὐλαβεῖσϑαι; ecc.) l'infinito dipendente reca un μή che nella traduzione si tralascia: es. τί ἀμφισβητεῖτε μὴ ἀληϑῆ λέγειν ἐμέ; «perché dubitate che io dica la verità? », ἀπέσχοντο μὴ ἐπὶ τὴν ἑχατέρων γῆν στρατεῦσαι « si astennero dal marciare contro il

territorio di entrambi»; dopo xwAvew e ἐμποδὼν εἶναι il μή in questione si tralascia spesso, dopo οὐχ ἐᾶν sempre; dopo ἀντιλέyew «contraddire, replicare», ἀμφισβητεῖν ἀπιστεῖν «dubitare»,

ἀρνεῖσϑαι «rifiutare», anche in una dichiarativa con ὡς, ὅτι si trova un où(x) pleonastico: es. πολλοὶ ἀντέλεγον, ὡς οὐχ ἄξιον εἴη ἀπιέναι « molti replicarono (negarono che non) che conveniva andar via»;

4) Locuzioni particolari:. μόνον οὐ (μονονού) tantum non «quasi (quasi)»: es. μόνον où αὐτὸν ἐν ταῖς ἀγχάλαις περιέφερεν «mancava poco che lo portasse, quasi quasi lo portava in giro sulle braccia»; ὅσον où «già quasi»: es. ἐλέγετο, ὅτι éxeivos ὅσον

où παρείη εἰς τὴν πόλιν «si diceva che quello era già quasi in cit-

tà»; οὐχ örı/un ὅτι... ἀλλὰ καί «non solo, nonché... (ma) anche» (sott. ‘non voglio dire che solo...”): es. μὴ ὅτι ϑεός, ἀλλὰ xoi ἄνϑρωποι ἀγαϑοὶ οὐ φιλοῦσι τοὺς ἀπιστοῦντας « nonché il dio, anche gli uomini buoni non amano chi vien meno alla parola»; μὴ

ὅτι... ἀλλ᾽ οὐδέ non modo... sed ne quidem: es. διὰ τὸν χειμῶνα μὴ ὅτι στρατεύεσϑαι, ἀλλ᾽ οὐδὲ πλεῖν δυνατὸν ἦν «a causa della tempesta non solo non era possibile marciare, ma neanche navi-

gare»; οὐχ ὅπως)μὴ ὅπως... ἀλλὰ καί «non solo non... ma anche» «(non ci aspettiamo) che..., tutto all'opposto...»: es. οὐχ

ὅπως χάριν αὐτοῖς ἔχεις, ἀλλὰ καὶ ἀντιπράττεις «non solo non sei loro grato, ma addirittura ti rivolti contro», Senofonte, Hell. V

129

4,34 οἱ βοιωτάζοντες ἐδίδασχον τὸν δῆμον ὡς οἱ Λαχεδαιμόνιοι οὐχ

ὅπως τιμωρήσαιντο, ἀλλὰ xai ἐπαινέσειαν τὸν Σφοδρίαν «i partigiani dei Beoti spiegavano al popolo che i Lacedemoni, iungi l’aver punito Sfodria, lo avevano invece approvato»; où ἀλλά, οὐ μέντοι ἀλλά «e pur tuttavia, ciò non di meno»; ἔφϑην... xat «non avevo ancora.. che»: es. Isocrate, or. 17

dalμὴν οὐχ [tra-

pez.], 23 οὐκ ἔφϑη διαπραξάμενος ταῦτα xai ϑρασύτατος ἁπάντων ἀνϑρώπων ἐγένετο

«non aveva ancora compiuto tali atti che di-

venne il più sfrontato degli uomini ».

7. Fatti stilistici.

Passiamo ora a una ristretta miscellanea di fatti stilistici. L’astratto. Il greco, come ogni lingua, ben conosce l’uso dell’astratto. Vi ricorre liberamente senza che si possano fissare vere linee di demarcazione fra autore e autore o fra una parte e l’altra dell’opera d’uno stesso autore. Tuttavia un certo tipo di astratto

può esser più usato d’un altro e i modi dell’uso stesso possono esser più d’uno. Su alcuni di codesti fenomeni è opportuno riflettere perché il lavoro di traduzione sia più consapevole. In linea generale si può dire che i sostantivi astratti corrispon-

denti a un aggettivo qualitativo vengono adoprati di solito senza particolare connotazione, un po’ come in italiano: fra ἀνδρείαν

tvdetxvuo da: « mostrar coraggio » e φαίνεσϑαι ἀνδρεῖος ἀνὴρ « mostrarsi uomo coraggioso » non v’è differenza sostanziale. Più raro invece, epperò più espressivo, l’astratto così detto verbale, incluso in una perifrasi esprimente un’azione o un evento: per «arrecare

un danno»

ζημίαν ποιεῖν è meno

normale

di

ζημιοῦσϑαι, per «ricordare le offese» μνησιχαχίαν ἔχειν meno di μνησιχαχέω, ecc. Di tal genere di perifrasi si hanno svariati esem-

pi nei prosatori del V secolo a.C.; in séguito la tendenza sembra diminuire.

Ricercata è la perifrasi con ποιέω -έομαι.

Erodoto λήϑην,

usa, fra altro, ποιεῖν ϑῶμα

(per ϑαῦ-), χομιδήν,

ὀργήν, πλόον per, rispettivamente, ϑωμάζειν,

λήϑειν λανϑάνειν, ὀργίζω, πλέω.

κομίζειν,

130

Tucidide διαμέλλησιν,

ποιεῖν ἀναβολήν, ἀνάπαυσιν, ἀποχώρησιν, διδασχαλίαν, ἐπιχείρησιν, μάϑησιν, ὀλόφυρσιν,

παραχινδύνευσιν,

τέχνωσιν,

ὑπόμνησιν

per,

rispettivamente,

ἀναβάλλειν, ἀναπαύειν, ἀποχωρεῖν, διαμέλλειν, διδάσχειν, ἐπιχειρεῖν, μανϑάνειν, ὀλοφύρεσϑαι, παρακινδυνεύειν, τεχνοῦν, ὑπομιμνήσχειν. Tucidide ha un certo gusto per l’astratto anche al di fuori delle

perifrasi con «fare». Alcuni esempi: V 38,4 ἀμέλεια dé τις ἐνῆν χαὶ διατριβὴ τῶν πάντων «non si occuparono più di nulla e tutto fu rimandato a altra occasione» (per... ἠμέλησαν.... διέτριφαν), III 9,2 οὐχ ἄδιχος αὕτη ἡ ἀξίωσίς ἐστιν, εἰ τύχοιεν... «non è ingiusto questo modo

di giudicare, sol che essi...» (per οὐχ ἀδίκως

ἀξιοῦνται...), II 87,8 ὅσα... διδασκαλίαν παρέξει «daranno ammaestramento » (per διδάξει); con εἰμί: VII 75,5 χατήφειά τέ τις

ἅμα xai κατάμεμφις σφῶν αὐτῶν πολλὴ fjv «nello stesso tempo v'era un'umiliazione e disprezzo di sé stessi» (per χατήφησαν...

σφᾶς αὐτοὺς χατεμέμφαντο),

VIII

15,2 πολλὴ ἦν ἡ προϑυμία

«grande era il fervore» (per... προεϑυμέοντοπρουϑυμοῦντο), IV 29,4 οὐχ οὔσης τῆς προσόψεως «non essendovi la vista da lontano» (per προσορᾶν οὐχ ἦν); con γίγνομαι: VII 4,6 τῶν πληρωμάτων... τότε πρῶτον χάχωσις ἐγένετο «cominciarono proprio allora per

l'equipaggio i malanni» (per... τὰ πληρώματα... ἐκαχκώϑησαν), V 69,1 ... παραινέσεις... ὑπο τῶν... στρατηγῶν ἐγίγνοντο « cominciarono le esortazioni da parte dei comandanti» (per... παρήνουν....

οἱ στρατηγοῦ, VII 81,5 però... τις ἐγίγνετο ἐπ᾽ εὐπραγίᾳ ἤδη σαφεῖ «in vista del successo ormai sicuro c’era risparmio (di ricchi)»

(per... ἐφείδοντο «ci si risparmiava »). Platone, e così Isocrate e altri scrittori del IV sec. a.C., usano la formulazione astratta per la concreta di rado; sembrano invece

prediligere il contrario e allo scopo ricorrono all'accusativo interno neutro, attratto talora al genitivo o dativo. Esempi (il verbo sostituisce il nome):

Platone, resp. VI 4974 φόβῳ ὧν ὑμεῖς ἀντιλαμβανόμενοι δεδηλώχατε μαχρὰν xai χαλεπὴν αὐτοῦ τὴν ἀπόδειξιν «per timore delle obiezioni che avreste opposte contro una dimostrazione lunga e difficile»; Crit. 110a πρὸς οἷς ἠπόρουν τὸν νοῦν ἔχοντες «con l'animo proteso verso tali bisogni »;

Isocrate,

or.

4

(paneg.),

56

ἀποδοῦναι

χάριν

ὑπὲρ

ὧν...

131

εὐεργέτησεν « render grazie dei benefici»; 5 (Phil.), 23 ἠσχύνοντο.... ἐφ᾽ οἷς ἐϑρασύναντο «si vergognavano delle tracotanze»; 12 (Pa-

nath.), 189 ἔν τε τοῖς ἄλλοις οἷς διῴχουν τὴν πόλιν «e nelle altre disposizioni per (il governo del)la città»; 6 (Archid.), 104 ἐξ ὧν ἐν

τῷ πολέμῳ προδυστυχήσασαι πάλιν αὐτὰς ἀνέλαβον « dalla loro ripresa dopo gl’iniziali disastri della guerra »; Demostene, or. 8 (Chers.), 62 ὅσα... ἐξηπάτησε «gl'inganni

operati contro...», 63 ὦν... ἀπεστερεῖσϑε «le perdite da voi subi-

te»; 18 (cor.), 18 οἷς γὰρ εὐτυχήχεσαν ἐν Λεύχτροις οὐ μετρίως ἐχέχρηντο « non avevano fatto uso moderato del successo di Leut-

tra», 19 ἐν οἷς ἡμάρτανον ἄλλοι καὶ χαχῶς ἐφρόνουν, αὐτὸς παρεσχευάζετο «egli si andava preparando sugli errori e le malefatte

degli altri», 198 δηλοῖς δὲ καὶ ἐξ ὧν ζῇς καὶ ποιεῖς καὶ πολιτεύῃ καὶ πάλιν οὐ πολιτεύῃ «ne dài prova col tuo modo di vivere e di agire e dal tuo impegno o, al contrario, disimpegno in politica»; 19

(fals.

legat.),

205



παρ᾽

ὑμῖν

ἀντεῖπον,

ἐν

τῇ

ἀποδημίᾳ

προσέχρουον «le proteste da me fatte dinanzi a voi, le ostilità incontrate nel viaggio».

Il sostantivo astratto ricorre solo raramente come soggetto (per questo 51 preferisce un essere animato). In tali casi si può talvolta sospettare che si tratti di personificazioni, eventualmente con forza allegorica, ma non è sempre agevole stabilirlo e comunque accade anche in greco, come in altre lingue, frequentemente che una originaria personificazione si depotenzi riducendosi a mero modo di dire. Altro è, per esempio, la forza del concetto di

ἡδονή in Democrito, fr. 71 DK. ἡδοναὶ ἄχαιροι τίκτουσιν ἀηδίας «i piaceri inopportuni provocano nausea» (si potrebbe addirittura pensare all’iniziale maiuscola), altro la formula come di modestia

di Senofonte, mem. IV 2,39 ἀναγχάζει με καὶ ταῦτα ὁμολογεῖν ἡ ἐμὴ φαυλότης «la mia pochezza mi costringe a ammettere anche questo ». Gran maestro nell’uso del soggetto astratto con forza di

personificazione (allegorica) è Tucidide; se ne contano in tutta

l'opera 310 esempi, fra cui uno tipico: III 45,4 ἡ μὲν πενία ἀνάγχῃ τὴν τόλμαν παρέχουσα, ἡ δ᾽ ἐξουσία ὕβρει τὴν πλεονεξίαν καὶ φρονήματι, αἱ δ᾽ ἄλλαι ξυντυχίαι ὀργῇ τῶν ἀνθρώπων ὡς ἑχάστη τις χατέχεται ὑπ᾽ ἀνηχέστου τινὸς χρείσσονος ἐξάγουσιν ἐς τοὺς

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χινδύνους «la povertà che con la necessità ispira l’audacia, la grandezza che con la tracotanza e l’orgoglio rende insaziabili, le diverse congiunture che intervengono per effetto delle umane passioni, dominate come sono ciascuna da una forza incontenibile: tutto ciò spinge al rischio». Accanto a Tucidide si pone, fra i poeti, Sofocle. In generale sembra che la tendenza, pronunziata negli autori arcaici, subisca una stasi nel V secolo per poi riprendere nel periodo successivo. Un punto di riferimento per la individuazione del grado di ‘poeticità’ d’uno stile è fornito dalla qualificazione aggettivale degli astratti. Ad esempio, Demostene non vi ricorre quasi mai,

ma

vi sopperisce con delle endiadi:

γνώμης

καὶ χακχοδαιμονίας

«mentalità delirante», τοῦ χαχοῦ καὶ τοῦ πράγματος « della disastrosa situazione», τὸν τρόπον χαὶ τὴν ἀσέλγειαν «il carattere

sfrenato », μανίαν χαὶ πολυτελείαν « stravaganza insana», ecc.; vi ricorrono di frequente Gorgia (es. fr. 6 DK. οὔτε ἐνοπλίου ἔριδος οὔτε φιλοχάλου εἰρήνης «né di contesa armata, né di pace amante

del bello», 11 [Hel.], 9 φρίχη περίφοβος καὶ ἔλεος πολύδακρυς καὶ πόϑος φιλοπενϑής « un brivido pieno di terrore, una pietà tutta di lacrime, un rimpianto che lusinga il dolore», 11a [Palam.], 30

σχολῆς ἄλυπον διατριβήν «trascorrere il tempo senza affanni»), Erodoto, Platone; a una via di mezzo è Tucidide (es. VI 28,1 petà

παιδιᾶς καὶ οἴνου «scherzando ubriachi» e I 70,8 ἡσυχίαν ἀπράYuova... ἀσχολίαν ἐπίπονον «pace inerte... impegno sfibrante»). Frequente in Tucidide, ma assai rara in altri autori (Ippocrate, Platone, ecc.), è la sostituzione d’un sostantivo astratto con un

aggettivo (o participio) neutro articolato: es. I 36,1 τὸ μὲν δεδιὸς αὐτοῦ... τὸ δὲ ϑαρσοῦν «la sua ansietà... la fiducia», 142,8 ἐν τῷ

μὴ μελετῶντι ἀξυνετώτεροι ἔσονται « per mancanza di esercizio saranno sempre più incapaci».

Demostene stantivo

sembra invece prediligere la sostituzione del so-

astratto

con

l’infinito

articolato,

sentito

come

meno

astratto: es. or. 19 (fals. legat.), 289 οὐ δέδοικ᾽ εἰ Φίλιππος ζῇ, ἀλλ᾽ εἰ τῆς πόλεως τέϑνηχε τὸ τοὺς ἀδιχοῦντας μισεῖν xai τιμωρεῖσϑαι « non mi spaventa che Filippo sia in vita, ma che nella città sieno morti l’odio e la punizione dei colpevoli».

133

Abbastanza generalizzate sono altre due categorie di astratti: — il collettivo rappresentato da un singolare astratto: ἑταιρία,

ἡλικία, νεότης, πρεσβεία, συμμαχία, ὑπηρεσία, φυλακή per ἑταῖροι, ἡλικιῶται, νέοι, πρέσβεις, σύμμαχοι, ὑπηρέται, φύλακες, ecc.; — l’astratto posto al plurale per una nozione particolare vista eventualmente nella molteplicità delle sue parti o applicazioni: es.

αἰσχύναι, ἀλήϑειαι, ἀργίαι per i corrispettivi singolari; l’uso è frequente in Isocrate e nella poesia lirica e tragica. L’ellissi. Fra i tratti significativi dello stile greco figura l’e/lissi, fenomeno che rientra in quello più ampio della brachilogia, al quale abbiamo già avuto occasione di accennare. Ne scegliamo alcuni casi: — wc/örı+superlativo d'un aggettivo o, ancor più spesso, d’un avverbio o d’una locuzione avverbiale, con sottinteso δυνατόν ἐστιν: «il più possibile» (ὡς ἐν βραχυτάτοις, ecc.); — olov+superlativo,

eventualmente

accordandosi

con

sottinteso ἐστιν: es. Platone, symp. 2200 ὄντος πάγου νοτάτου « mentre il gelo era al suo massimo grado »;

esso,

οἵου δει-

— ὡς )ὅσον ὁπόσον (anche accordando) οἷόν te + superlativo, sottinteso (δυνατόν) ἐστιν: es. Isocrate, or. 5 (Phil.), 101 δύναμιν ὅσην οἷός τ᾽ ἦν πλείστην (συναγαγών) « (riunita) quanta più forza era possibile»; così ὅτι πλεῖστον, ὅπως, ὡς βέλτιστον, ecc.; — ἐν τοῖς-- superlativo Tucidide,

e

con

l’articolo

(raramente + positivo) soprattutto in sempre

al

maschile:

es.

ἐν

τοῖς

φρονιμώτατος (φρόνιμος) «tra i più assennati », ἐν τοῖς πλεῖσται... νῆες « navi in numero dei più elevati»; la formula completa sareb-

be φρονιμώτατος ἐν τοῖς φρονίμοις, ecc. — ellissi del complemento logico del comparativo («di quello di»...): es. Tucidide, I 71,3 tà τῶν ᾿Αϑηναίων ἀπὸ τῆς πολυπει-

ρίας ἐπὶ πλέον ὑμῶν χεκαίνωται «la civiltà ateniese per le sue molte esperienze s’è rinnovata più della vostra (di quella di voi)»; — espressioni di comando formulate brachilogicamente in

forma interrogativa: es. οἶσϑ᾽ ὃ δρᾶσον)σύμπραξον; (colloquialismi della tragedia euripidea e della commedia) «sai che devi fare? » (o anche «sai che? » per rendere il tono colloquiale); lo sviluppo completo della problematica forma sarebbe οἶσϑ᾽ ὡς δεῖ σε

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δρᾶν; ... ὡς σε χελεύω δρᾶν; oppure: οἶσϑ᾽ ὃ δράσεις; ὃ δρᾶσον; ; — ellissi nelle risposte: ναί e οὔ (οὔχ, οὔχ), «si» e usano

se non

per

eccezione;

normalmente

si ricorre

«no»

non si

a ἔγωγε,

δῆλον ὅτι, μάλιστα ἥχιστα, οὐδ᾽ ἥχιστα, παντάπασιν, πάνυ γε, πάνυ μὲν οὖν (con sott. il verbo della domanda) oppure a formule verbali, come (εὖ) οἶδ᾽ ὅτι «so (bene) che è cosi», οἶμαί γε «così mi sembra», φημί «si, certo (lo affermo)», o alla ripetizione del

verbo precedente: es. ϑέλεις; ϑέλω; — pregnanza dell’indefinito: es. ἄλλοι te... χαί, ἄλλως τε... καί «fra altri», «e specialmente»

(lett. «altri senza dubbio... e

anche», «in altro modo, ma anche... »);

— pregnanza del participio, soprattutto in proposizioni relative o interrogative: es. Senofonte, Cyrop. 16,16 καὶ tiva δὴ ἐγὼ...

ὁδὸν ἰὼν τοῦτο πράττειν ἱχανὸς ἔσομαι; «e qual cammino dovrò seguire per essere in grado di fare ciò? ».

8. Repertori lessicali.

Per famigliarizzarsi il più possibile col lessico giova da un lato riconoscere d’acchito il valore di base dei termini, e a tal fine occorre sapere il valore delle radici principali, dall’altro introdursi alla fraseologia specializzata memorizzando idiotismi e usi particolari. Giova altresì riflettere su fenomeni comuni a ogni lingua, quali l'omofonia e la sinonimia, nonché,

nel caso del greco,

ai

tanti termini (sono migliaia!) presenti, in forma identica o adattata, nella nostra lingua quotidiana, soprattutto dell’uso scientifico. Seguono alcune liste lessicali che possono essere utili ai fini detti. Radici greche. 'AT condurre ‘AT esser puro, santo (agio-grafia) 'AIO bruciare

'AK 'AAA 'AAK

essere aguzzo, appuntito nutrire, far crescere esser forte

135 ‘AP adattare, armonizzare 'APK allontanare, respingere 'APX cominciare, comandare (arconte) ‘A® toccare BA andare BAA lanciare (balistica) BAP esser pesante (baro-metro) BOP/BPQ inghiottire FEN nascere, generare (genesi) TEP svegliare, essere sveglio ΓΝΩ conoscere (a-gnostico) TPA® graffiare, scrivere (epi-grafe) AQ/AO dare AAK mordere AAM/AHM domare AE legare AEK/AEX prendere, ricevere AIK/AEIK indicare (indice), mostrare AOK sembrare, sembrar bene (orto-dosso) APAM/APOM correre (ippo-dromo) AY immergersi 'EA mangiare (edüle) ἘΣ essere ZYT congiungere *HX star seduto OH/OE porre (biblio-teca) OAN/OHN morire (eu-tanasia) OEP essere caldo (termo-metro) ’EI andare jE gettare, lanciare (lat. iacio) KAA/KAH chiamare (clamore) KAJ bruciare (caustico) KEI/KOI star disteso (cimi-tero) KIN muovere (cinema) KAEII nascondere, rubare (cleptomane) KAIN inclinare, essere inclinato

KAY/KAEF

ascoltare

KOII tagliare (apo-cope) KPI trascegliere (critica) KTAN/KTON uccidere (sauro-ctono)

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nascondersi (latente, lat. /ateo) AA®/AH® AAMII brillare (lampada) AAB AET

prendere (sil-lepsi) dire (logo-grafo)

AEX AIII

stare a letto lasciare

MA®@ apprendere (matematica) pensare (mente) MEN ricordare (a-mnesia, a-mnestia) MNA/MNH di-min-uire MI/MEI

MAAII/BAAII

danneggiare

distribuire, suddividere (eco- -nomia) NEM/NOM OII vedere (ottica) TIAT fissare, condensare (com-patto)

TIA®/TIEN®

soffrire, patire (pato-logico)

attraversare ΠΕΡ IIET/IITO cadere (ptosi) IIET volare (elico-ttero)

III/IIO bere (idro-pinico, pozione) IIIO persuadere IIYO informarsi (Pizia) ZEB onorare star seduto (sede) XEA/EA (E)EK (i.e.* séqUetai) seguire (micen. e-qe-ta, lat. sequor) (Z)EX (sanscr. sdhate) avere EKEIJII vedere, osservare (scettico) EPE (sanscr. srávati) scorrere (reuma) ETA stare in piedi scivolare (a-sfalto) ZDAA XFAA esser piacevole (edonismo) ZFIA trasudare reggere (a-tono) TAN sopportare TAA/TAA TAX essere rapido (tachi-metro) TEK produrre TEA terminare, completare (teleologico) TI pagare TYX ottenere brillare (foto-grafia) ΦΑΜΦΩ portare (meta-fora) ΦΕΡ ΦΟΡ

137 ΨΥΧ

soffiare (psico-logia)

FEK volere FEAK tirare FEAF girare (lat. volvo) FEII parlare (epopea) FEP/'PH

FEPT FEX FEX FIA FIK

dire (verbo)

fare vestire trasportare (veicolo) vedere (lat. video) rassomigliare (icona).

Grecismi scientifici e tecnici in italiano. Il criterio di scelta è dato dalla diffusione dei termini anche al di fuori dell'àmbito loro proprio. Non si è incluso, ad esempio, nessun nome di farma-

ci, la cui formazione artificiale e a fini puramente pratici ne impedisce il passaggio nel linguaggio corrente. aerofagia

(ἀήρ «aria» + φαγεῖν « mangiare »)

agiografia

(ἅγιος «santo», γράφω « [de]scrivo»)

agorafobia (ἀγορά «pubblica piazza» + φοβεῖσϑαι «temere») anoressia (&-privativo + ὀρέγειν «tendere verso, desiderare») antibiotico

(ἀντί «contro»

* βίος «vita»,

contro

una certa forma

di

vita, quella dei ‘micro-bi’) antipiretico (ἀντί «contro» + πῦρ, πυρετός «fuoco, febbre»)

antologia

(ἄνϑος «fiore» + λέγω «raccolgo »)

antropologia

(&vdpwros «uomo»

e λόγος «discorso, ricerca»)

archetipo (ἀρχή «principio » + τύπος « forma») aritmia (&-privativo + ῥυϑμός «ritmo [regolare] ») artròsi

(ἄρϑρον

«articolazione» + suffisso-wow

indicante alterazione

degenerativa dell’organo; cfr. a(r)ter(i)oscleròsi, simili)

ascesi

(ἄσχησις «esercizio (spirituale)» «ἀσχεῖν «esercitarsi »)

astenia atarassia

(&-privativo -- σϑένος « forza») (&-privativo + ταράσσω-ττ- «agitare, sconvolgere»)

atomo (è-privativo + τέμνειν «tagliare ») autodidatta (aùrég+d:dkoxev «insegnare ») batteria (Baxmmpla «bastone» lat. baculum) batiscafo

bibliografia

(βαϑύς «profondo» + ax&qn/-oc «barca, nave»)

(βίβλιον «libro» + γράφειν « scrivere »; cfr. bio-grafia, geo-

grafia, sim.)

138 biopsia (βίος «vita» + ὄφις «vista, visione») brachilogia (βραχύς «breve» + λόγος « discorso »; cfr. « brachi-cardia», sim.)

bradipepsia cefalea

(βραδύς «lento» + πέπτειν « dirigere »)

(χεφαλή «testa»)

chiropratico

(χείρ «mano» +rpàgcewv « agire »)

cibernetica

(sc. arte, scienza;