Guarigioni, rinascite e metamorfosi. Studi su Goethe, Schopenhauer e Nietzsche
 9788860877499

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GIORNALE CRITICO DELLA FILOSOFIA ITALIANA QUADERNI 18

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Direzione Aldo Brancacci, Massimo Ferrari, Sebastiano Gentile, Gianna Gigliotti, Maurizio Torrini (coordinatore) Comitato scientifico Carlo Borghero, Michele Ciliberto, Tullio Gregory, Helmut Holzhey, Sir Geoffrey E.R. Lloyd, Denis O’Brien, Dominic O’Meara, Gianni Paganini, Gennaro Sasso, Loris Sturlese, Giuseppe Tognon, Mauro Visentin Redattore Alessandro Savorelli

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SANDRO BARBERA

GUARIGIONI, RINASCITE E METAMORFOSI Studi su Goethe, Schopenhauer e Nietzsche

a cura di Stefano Busellato

Le Lettere

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Il volume è stato pubblicato grazie al contributo del Dipartimento di Linguistica dell’Università degli Studi di Pisa con i fondi d’Ateneo (Barbera).

© 2010 by Casa Editrice Le Lettere – Firenze ISBN 978 88 6087 749 9 www.lelettere.it

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NOTA DEL CURATORE

Questo libro prende le mosse da un’idea di Sandro Barbera. Era infatti sua intenzione raccogliere alcuni dei propri articoli e pubblicarli in due distinti volumi: il primo avrebbe dovuto intitolarsi Guarigioni, rinascite, metamorfosi. Studi su Goethe; il secondo, con titolo ancora da definire, era su Schopenhauer. Barbera pensava di apportare profondi cambiamenti ad alcuni testi già editi e di aggiungere ad essi il frutto di nuove ricerche. Tra i fogli che ha lasciato sulla sua scrivania, si è trovato questo indice del volume su Goethe: 1) La guarigione di Oreste (su Ifigenia in Tauride, radicale rifacimento di un capitolo del volume, da tempo fuori commercio, Goethe e il disordine. Una filosofia dell’immaginazione, Marsilio 1990). 2) Stella o il declino del mito (già comparso sulla rivista «Cultura tedesca» 2001; con qualche ritocco e aggiornamento bibliografico). 3) Un Prometeo tedesco? Osservazioni su “Hermann und Dorothea”” (inedito; ampliamento di una relazione letta nel 2008 a un incontro dell’Associazione dei Germanisti italiani per commemorare Luciano Zagari). 4) La scena iniziale di Faust II (inedito). 5) Dal mito alla tradizione. Il Goethe di Nietzsche (già comparso in «Belfagor», 2003). Un altro foglio contiene l’indice del libro su Schopenhauer: 1) Il genio e la conoscenza simbolica (già pubblicato, con diverso titolo, in «Philosophischer Taschenkalender» I, 1993, – qui con aggiunte e rimaneggiamenti radicali).

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NOTA DEL CURATORE

2) La doppia conoscenza del corpo, sintesi e riscrittura di vari articoli pubblicati altrove. 3) La struttura dialettica della volontà. Schopenhauer e Schelling, (rifacimento e ampliamento di una relazione al convegno «Schopenhauer und die Schopenhauer-Schule», 2005). 4) Il fenomeno originario dell’etica (già pubblicato in “Giornale critico della filosofia italiana” , – qui con qualche aggiunta) 5) La biblioteca di Schopenhauer (già comparso nel volume collettaneo Bibliothèques d’écrivains, Parigi 2001 – saggio corredato di immagini in bianco e nero, qui con qualche breve aggiornamento). 6) La prima critica di Nietzsche a Schopenhauer: una fonte (già pubblicato, con diverso titolo, in «Nietzsche-Studien», 1995). 7) Il castello di Kafka: itinerario di un’immagine (già pubblicato in «Belfagor», (qui con pochi aggiornamenti bibliografici). 8) Schopenhauer nel III Reich (inedito). Il lavoro su entrambi i volumi era già avviato. Nel suo studio privato aveva disposto di recente due tavoli affiancati, uno per raccogliere i materiali su Goethe e l’altro quelli su Schopenhauer; nella libreria ci sono contenitori che portano l’etichetta, ad esempio, «Schopenhauer nel III Reich». Purtroppo però non sono state reperite stesure, neppure provvisorie. Si è dovuto rinunciare, per questo motivo, all’idea dei due libri, ma è parso opportuno non lasciar cadere l’intenzione dell’autore di presentare riuniti in volume lavori altrimenti reperibili solo in sedi disparate; ci si è limitati comunque ai saggi per i quali non erano previste profonde revisioni o aggiunte. Dell’indice su Goethe si pubblicano qui, dunque, solo i numeri 2 e 5, avvertendo che il numero 3 è uscito postumo, in «Archivio di storia della cultura», XXII, 2009, pp. 59-75. Dell’indice su Schopenhauer compaiono i numeri dal 4 al 7. I saggi già editi in lingua straniera sono due; di quello in francese (La Bibliothèque d’Arthur Schopenhauer) si è reperito l’originale in italiano; di quello in tedesco (Eine Quelle der frühen Schopenhauer-Kritik Nietzsches: Rudolf Hayms Aufsatz “Arthur Schopenhauer”) si presenta la traduzione di Tomaso Cavallo, che ringraziamo per la generosità con la quale ha risposto alla nostra richiesta: i riferimenti bibliografici nietzscheani sono stati riscontrati sull’edizione italiana. Ai saggi scelti dall’autore ne sono stati aggiunti altri quattro, che sono sembrati tappe significative del percorso intellettuale dell’autore stesso.

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NOTA DEL CURATORE

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Il volume comprende infine una bibliografia di Sandro Barbera. Ad essa si fa riferimento, all’inizio di ogni capitolo, per indicare luogo e data della prima pubblicazione. Stefano Busellato

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TAVOLA DELLE ABBREVIAZIONI

J.W. GOETHE: BA:

Berliner Ausgabe, 22 voll., Berlin-Weimar, Aufbau Verlag 1960 sgg. HA: Hamburger Ausgabe, 14 voll. C. H. Beck, München 1982 sgg. WA: Weimarer Ausgabe 143 voll., DTV, München 1987. A. SCHOPENHAUER: WW: Il mondo come volontà e rappresentazione a cura di A. Vigliani, Milano, Mondadori 1989. ER: Supplementi a Il mondo come volontà e rappresentazione, in WW, pp. 733-1582. GB: Gesammelte Briefe, a cura di A. Hübscher, Bonn, Bouvier 1978. HN: Der handschriftliche Nachlaß, hrsg. von A. Hübscher, Frankfurt a.M., DTV 1985. PP: Parerga e Paralipomena, Milano Adelphi 1981-1983. SP: Scritti postumi, Milano, Adelphi 1996 e sgg. SW: Sämtliche Werke, hrsg. von A. Hübscher, Wiesbaden, Brockhaus 1972. F.W. NIETZSCHE: OFN: Opere complete di Friedrich Nietzsche, testo critico originale stabilito da G. Colli e M. Montinari, Milano, Adelphi 1967 sgg.

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12 FP : E: SE:

TAVOLA DELLE ABBREVIAZIONI

Frammento postumo, con numerazione adottata in OFN. Epistolario di Friedrich Nietzsche, testo critico stabilito da G. Colli e M. Montinari, Milano, Adelphi 1976 sgg. Schopenhauer come educatore, in OFN, III/1, pp. 357-457.

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STELLA O IL DECLINO DEL MITO*

Tra le molte analogie che consentono di istituire un confronto tra Clavigo e Stella, la più vistosa riguarda probabilmente la sconcertante natura tragica dei due seduttori involontari Clavigo e Fernando. A Clavigo viene facilmente riconosciuto un «cuore sensibile» (HA IV, p. 281, 7) 1 e di Fernando Lucie osserva, alla fine del primo atto, che «non è cattivo», mentre l’evolversi dell’azione mostrerà a più riprese la toccante pienezza della sua sensibilità. Eroi della nuova tragedia borghese o della commedia sentimentale, non può esservi in loro nessuna «altezza di caduta», né nel senso del rango, né nel senso di una sublimità del carattere o di una ferma determinazione al bene o al male. Essi si segnalano, piuttosto, per l’assenza di carattere e per la passiva sottomissione alle sensazioni e agli stati d’animo nella loro instabilità e variabilità, cosicché la capacità di decisione si dissolve, di volta in volta, nell’adeguamento alle situazioni che essi stanno vivendo. La via per un’analisi più approfondita di questi eroi dell’Empfindsamkeit è stata aperta da un lavoro di Peter Michelsen sulla Miss Sara Sampson, che individua in Mellefont il prototipo di un nuovo personaggio drammatico 2. Nella sua subalternità al carattere incostante ed effimero delle passioni, e come precursore delle figure di «seduttori incolpevoli» come Fernando, quando

* Cfr. infra, Bibliografia 2001 n. 4. 1 Cito sempre il testo di Clavigo e di Stella dal IV volume di HA, indicando solo il numero di pagina, seguito da quello della riga. In un unico caso mi riferisco alla WA. 2 Mi riferisco al capitolo Die Problematik der Empfindungen. Zu Lessing “Miss Sara Sampson”, in P. MICHELSEN, Der unruhige Bürger. Studien zu Lessing und zur Literatur des achtzehnten Jahrhunderts, Würzburg, Königshausen & Neumann 1990, pp. 163-220.

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GUARIGIONI, RINASCITE E METAMORFOSI

mostra la sua natura intimamente passiva, Mellefont indica una trasformazione dell’immagine del seduttore che, più spesso sedotto di quanto non abbia sedotto lui, ha impegnato a fondo il Settecento. Con Mellefont il Lessing psicologo e drammaturgo allestirebbe una critica distruttiva del tipo dell’uomo sensibile, mostrando l’effetto rovinoso della subalternità al carattere mutevole e particolare delle Empfindungen e l’impossibilità di costruire un comportamento etico sopra questo terreno friabile, come tentano invece di fare le contemporanee filosofie del sentimento morale, per le quali Lessing ha mostrato un attivo interesse. Una breve digressione su un altro testo famoso di poco precedente i due drammi di Goethe può precisare ancora meglio i contorni del problema. Movendosi tra il campo della filosofia morale e quello dei generi letterari e della teoria estetica, nello scritto del 1764 Osservazioni sui sentimento del bello e del sublime Kant ha ricondotto la differenza di tragedia e commedia a quella di sublime e bello, da connettere rispettivamente al prevalere di un principio di ordine e di unità interiori, oppure alla dispersiva varietà di stimoli, sensazioni e sentimenti. Già qui l’obiezione rivolta ai «sentimenti morali» di non essere capaci di attingere l’universalità (obiezione che nella Critica della ragione pratica si concluderà con un vigoroso attacco contro la «Empfindelei») è prefigurata nella critica distruttiva che Kant muove alla «passione benevola» della compassione. Insieme alla considerazione che laddove il sentimento raggiunge un grado di generalità esso è «sublime ma anche più freddo», tale critica mostra senza mezzi termini l’avversione di Kant per la cultura della sensibilità e delle lacrime con tutti i suoi corollari, «giacché – proseguiva aggredendo proprio la passività dell’uomo sensibile – non è possibile che il nostro petto si gonfi di tenerezza [Zärtlichkeit] e sia pieno di malinconia per ogni necessità altrui, altrimenti il virtuoso, sciogliendosi incessantemente in lacrime di compassione come Eraclito, non diventerebbe altro, con tutta questa bontà di cuore, che un pusillanime ozioso» 3. Le Considerazioni criticavano la cultura morale della Empfindsamkeit ricorrendo alla teoria dei temperamenti. La «bellezza e fine eccitabilità del cuore» suscettibile di venire commosso da

3 I. KANT, Beobachtungen über das Gefühl des Schönen und Erhabenen, in Werke, II («Vorkritische Schriften bis 1768», II) a cura di W. Weischedel, Frankfurt a. M., Suhrkamp 1977, p. 835.

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STELLA O IL DECLINO DEL MITO

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compassione o benevolenza sono naturalmente connesse al carattere sanguigno, sottomesso al «mutare delle circostanze». In questo caso i moti dell’animo non si basano su principi universali (termine con cui Kant indica qui non «regole speculative» ma la coscienza del sentimento universalmente presente nell’animo per la bellezza e dignità della natura umana, che chiama anche «sentimento morale universale») dipendono in modo «puerile» dal variare delle circostanze. Proprio l’opposto è il caso della «vera virtù», capacità di subordinare tutte le inclinazioni particolari all’egemonia del sentimento morale universale, e in questo assimilabile al temperamento malinconico. Per la sua introversione e gusto per il sublime, il malinconico si sottrae alle seduzioni degli stimoli momentanei, che appartengono alla sfera del bello e del piacevole. Il suo carattere, la costanza, è per Kant il vero presupposto della «immutabilità» e della «universalità» delle determinazioni, ossia delle condizioni di un carattere morale. Le Considerazioni del 1764, che due anni dopo conoscevano una seconda edizione, e una terza nel 1771, possono dunque essere assunte come la pietra di paragone di una critica sistematica alla cultura della sensibilità, che ha come suo principale obiettivo quell’indecisione tra opzioni inconciliabili, basata sulla passività alle sensazioni, comune anche ai protagonisti di Clavigo e di Stella. Nei due drammi la passività dei protagonisti giunge al punto che la stessa esistenza di un Sé risulta compromessa e come dissolta entro un campo di tensioni eteronome e del tutto incontrollabili. O meglio, si può trovare un criterio della permanenza di un Sé nel fluire del tempo solo se sentimenti e passioni non mutano e permettono in tal modo di riconoscere l’identità tra le Empfindungen presenti e quelle passate. Nel lungo monologo del terzo atto in cui Clavigo si presenta a Marie come un Ulisse ritornato dopo un lungo viaggio per mare, la costanza dei sentimenti e la tormentosa insistenza sull’identità tra il Clavigo attuale e quello di allora emergono non come espediente retorico per persuadere Marie ma come il motivo fondamentale della sua personalità drammatica (HA IV, p. 284). Sennonché Clavigo deve anche soffrire nel corso dell’azione una serie di attentati rovinosi contro la coerenza della sua persona. Fatta oggetto sulla scena di valutazioni simultanee e divergenti (come sono ad esempio nel terzo atto quelle di Sophie e di Buenco) l’unità della sua persona si frantuma in una serie di prospettive incoerenti, ed egli stesso provvede attivamente a dimostrare una natura camaleontica. Nel quarto atto è lui, incalza-

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GUARIGIONI, RINASCITE E METAMORFOSI

to delle insinuazioni dell’amico sull’aspetto e la malferma salute di Marie, a rivedere radicalmente quel che provava poco prima. Non solo Marie gli appare ora «pallida, consunta», ma i suoi stessi sentimenti per lei ricevono adesso un nome diverso, non più «amore» ma «pietà». La battuta in cui Clavigo dichiara il mutare del suo animo (HA IV, pp. 291, 32), un capolavoro di ambiguità che introduce un effetto differito di straniamento togliendo allo spettatore ogni sicurezza su quel che ha appena visto e sta vedendo sulla scena, non mette solo in questione la costanza delle Empfindungen, che si rivelano soggette a una mutevolezza estrema in tempi assai ravvicinati, ma ne dissolve soprattutto la presunta immediatezza, mostrando come esse siano intrise di atti linguistici e di interpretazione: il sentimento di Clavigo, che poco prima sembrava riempire la scena con una vittoriosa certezza di sé, perde le preziose prerogative del sempre eguale e i fondamenti stessi dell’identità della persona ne vengono erosi. Si tratta di una procedura che Stella porta fino a un limite estremo, quando mette in scena la sicurezza sconcertante del sentimento esclusivo che Fernando nutre, in momenti successivi, sia per Stella sia per Cäcilie. In analogia al radicalismo della scelta tra gli opposti inconciliabili in Clavigo, vi è in Stella il rifiuto di attenuare il conflitto tra le passioni e di trasformare l’amore per le due donne, secondo la formula del «triangolo della beatitudine», in una conciliata composizione di relazione amichevole ed erotica. Anche Stella prende esplicitamente in esame questa soluzione, che aveva nella società di Clarens della Nuova Eloisa il suo grande (ma ben più complicato) modello – dove Wolmar assume oltreché il ruolo di marito quello di padre, risarcisce Julie del senso di colpa causato dalla precedente infrazione al divieto dell’autorità paterna e tutela benigno le relazioni tra i due antichi amanti, trasformati in fratello e sorella – ma la respinge a favore di un’opzione che mantiene intatto il potenziale egoistico e distruttivo dell’eros, teso all’esclusività del possesso. Nel dialogo del quinto atto che precede immediatamente la leggenda del conte Gleichen, Cäcilie si dichiara pronta a compiere un sacrificio che le è reso possibile dal suo amore «disinteressato», che non aspira al possesso, e ad assumere il ruolo di amica distante, disposta a comunicare con Fernando solo per lettera, ma soccombe a Fernando, che non vuole rinunciare alla pienezza del possesso reciproco («Tu sei mia – io rimango tuo», pp. 344-345). Stella ha indubbiamente in comune con Werther il rifiuto di levigare in affetti socialmente accettabili l’asprezza egoistica dalla passione. L’«amicizia» di Albert appare al protagonista il «rapporto più

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risibile» che sia mai stato inventato al mondo (lettera del 10 agosto), fino a che Werther leggendo Ossian rivelerà a Lotte il suo inconsapevole desiderio di distruzione del rivale 4. Nella versione del 1782 Goethe ha dato ancora più rilievo a quest’aspetto. La scena in cui Lotte riceve la visita di Werther durante l’assenza di Albert, riconosce l’«impressione incancellabile» che Werther ha fatto sul suo cuore e si riprende dalla «confusione» quand’egli entra nella stanza, è stata ridisegnata per mostrare l’urto tra il sentimento d’amore, che resta nascosto, e la sua sublimazione: la «confusione» da cui Lotte si riprende diventa «una specie di confusione passionale» e altrettanto aperta ne è la sublimazione nell’ottativo «Oh, avesse potuto trasformarlo allora in un fratello, come sarebbe stata felice». Come aveva osservato già Erich Schmidt indagando le affinità tra Werther e la Nuova Eloisa ciò che a Goethe interessa non è la soluzione di Clarens ma la prima parte del romanzo di Rousseau, l’analisi della passione nel suo riferimento a un egoismo invincibile 5 e sostenuta dal meccanismo dell’immaginazione. Ma torniamo al tema dell’eroe senza carattere. Ciò che lega in modo immediatamente riconoscibile Werther, Fernando e Clavigo,, è l’attributo di «vagabondo». Lo scarto, che Werther non colma, tra la dimensione di totalità a cui crede di accedere mediante il «meraviglioso sentimento» di identità con la natura vivente, e dall’altra l’incapacità di trasformare questa sensazione (grazie alla «forza di rappresentazione») in una forma dai contorni accertabili, «mondo» in cui ci si sente appaesati, è espresso appunto dalla figura del vagabondo al centro della lettera del 21 giugno. Il motivo, presente in numerose varianti nell’opera goethiana di questo periodo 6, è l’altro polo del mito di Prometeo. Al vagabondo sospeso tra la nostalgia del viaggio infinito e quella per la casa perduta corrisponde, nel mito di Prometeo, la fattiva costruzione del focolare, dimora limitata ma esclusiva, che gli dèì invidiano. L’atto di creare un mondo, che a Werther non riesce per difetto di forza formativa vitale, da Prometeo viene compiuto addirittura sfidando il confronto con la creazione divina. Sia nel4 Cfr. L. MITTNER, Freundschaft und Liebe in der deutschen Literatur des achtzehnten Jahrhunderts, in Stoffe, Formen, Strukturen. Studien zur deutschen Literatur, a cura di A. Fuchs e H. Motekat, München, Hueber 1962, p. 116. 5 E. SCHMIDT, Richardson, Rousseau und Goethe, Jena, Fromann 1924, pp. 158 sgg. 6 M. FRESCHI, Goethe. L’insidia della modernità, Roma, Donzelli 1999, p. 81.

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l’inno sia nel frammento drammatico la separazione dalla divinità è simultaneamente accettazione della finitezza (ma una finitezza, come si vedrà, che partecipa dell’infinito), e questa caratteristica costitutiva del mondo umano si concreta nella costruzione della capanna. Al contrario della capanna in cui l’«inquieto vagabondo» Werther ritrova la propria patria e la semplicità dei tempi patriarcali perduti, la capanna di Prometeo, con evidente riferimento al Secondo Discorso di Rousseau, è l’atto inaugurale del diritto di proprietà – che genera conflitti e sanguinose ferite – e del periglioso viaggio della sua stirpe nelle avventure della civiltà, fuori dall’idillio dello stato di natura e con un consapevole commiato dall’età dell’oro. Nel frammento drammatico gli uomini si trastullano dapprima arrampicandosi sugli alberi, cogliendo frutti e intrecciando corone di fiori, ma poi si infliggeranno ferite disputandosi la proprietà. Nella lettera di Werther del 21 giugno la menzione di Omero e dei «pretendenti di Penelope» lega subito il vagabondo ai viaggi di Ulisse, mentre più avanti il riferimento è al figliol prodigo che fa ritorno alla casa del padre celeste e nello stesso tempo al Cristo che dopo la passione e la morte anela di tornare al padre che l’ha abbandonato. Anche Clavigo si ripresenta a Marie, implorandone il perdono, come un nuovo Ulisse, e altrettanto salde sono le radici del «vagabondo» Fernando nel mito di Ulisse, anche se non immediatamente riconoscibili, perché esse debbono compiere un percorso più tortuoso e inseguire le peregrinazioni che il mito compie in età moderna. In tutti questi casi la costanza del riferimento al mito di Ulisse dipende dall’attenzione per la forza centripeta della figura del ritorno che il racconto omerico impone come struttura circolare contro il caos, contro la dispersiva e minacciosa infinità di un universo aperto senz’ordine verso tutte le direzioni 7. Proprio in questo è evidente la complementarietà e polarità della figura del vagabondo con quella di Prometeo, che nel dramma incompiuto di Goethe vincola il destino della sua stirpe, con la costruzione della capanna, non a una struttura circolare del ritorno, ma a un centro dell’esistenza da cui si diparte secondo una direttrice lineare (benché tutt’altro che priva di conflitto, dolore, morte e negatività) il viaggio della civiltà.

7 H. BLUMENBERG, Wirklichkeitsbegriff und Wirkungspotential des Mythos, in Terror und Spiel. Probleme der Mythenrezeption (Poetik und Ermeneutik, IV), a cura di M. Fuhrmann, München, Fink 1971, p. 52.

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Fernando si dichiara apertamente «vagabondo» nell’incontro con Stella che apre il terzo atto (p. 325), dove poi il tema viene sviluppato – con differenze di rilievo nella prima e nella seconda versione 8 – nel successivo dialogo con l’amministratore. Ma in entrambe le versioni la figura goethiana del vagabondo rimane condizionata dall’incapacità di fissare una dimora nel regno della finitezza e della decisione e da un oscillare continuo tra i poli della nostalgia per la casa e l’aspirazione indistinta, senza forma, a una libertà degli orizzonti che si trasforma ben presto in noia. All’interno di questo motivo si rivela un’altra caratteristica comune di Fernando e Clavigo. Entrambi si proteggono mediante una strategia della ripetizione dal rischio di perdita dell’identità causata dall’adeguamento passivo alle Empfindungen. Clavigo si presenta come un Ulisse che ritorna perché nuovamente preso dall’amore per Marie (HA IV, p. 284, 12), e collocarsi nel nunc stans del sentimento significa per lui beneficiare, come aveva osservato Sophie all’inizio dell’atto, della sua inesauribile disponibilità a manifestarsi sempre uguale (p. 281, 7). Nell’incontro del terzo atto tra Stella e Fernando, anch’esso reduce da un viaggio oltremare per combattere i Corsi, «vagabondo» che attende di porre un fine alle sue peregrinazioni (p. 325, 4), la capacità di ripetere intatto il passato (preparata dall’aspettativa di Fernando nel primo atto: «Ti vedo di nuovo? Visione celeste! Ti vedo di nuovo?», p. 313, 31) si manifesta nell’iterazione del «di nuovo» nella battuta iniziale di Stella, e nel corso del colloquio (p. 325). Come in Clavigo la ripetizione del passato è un riandare alle sorgenti del sentimento, un rinnovarsi della vitalità e della giovinezza (pp. 324-325). Nella sua dimensione sorgiva l’amore è un fluido di comunicazione diretta tra i cuori e si colloca in una ritrovata età dell’oro (p. 319, 6), una condizione celeste che Cäcilie riconosce come adeguata a Stella. La natura fanciullesca che nel dramma è spesso attribuita a Stella viene intesa qui da Cäcilie come corollario dell’età dell’oro, riproduzione di un’umanità naturale e incorrotta, preistorica e perciò felice (p. 320, 13) ed è in contrappunto alla scansione del tempo da lei sofferta, all’invecchiamento che l’ha resa irriconoscibile a Fernando, all’amara diversità tra il presente e il passato, poiché il sentimento soffre la consunzione del tempo quando si distende in fattivo operare mondano. «Nulla

8 Dove viene accentuato l’aspetto stürmeriano del vagabondo: WA I/11, p. 412 (Lesarten).

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dura» dice Cäcilie parlando dei primi tempi dell’unione con Fernando, poco prima di descrivere la sua trasformazione in «onesta donna di casa» dedita al benessere della famiglia (p. 332, 22), in antitesi alla sterilità dell’amore «celeste» di Stella. Ma nel terzo atto l’incanto della ripetizione è incrinato dalla domanda di Stella «sono diventata più vecchia, non è vero?» (p. 326, 7), alla quale Fernando replica con la lode dei capelli biondi che smentiscono il grigiore ma anche ne nascondono l’eventuale presenza e che, con un rafforzamento dell’ambiguità, «sembrano» non esserle caduti (p. 326, 17). L’audace gioco dei capelli sciolti e intrecciati alle braccia di Fernando fa scattare infine il richiamo all’episodio di Armida e Rinaldo nella Gerusalemme liberata 9, con cui la scena conclude il reiterato tema della ripetizione: «Rinaldo di nuovo nelle antiche catene» (p. 326, 21). La citazione di Fernando assolve una duplice funzione. Rivela anzitutto l’illusoria immediatezza della comunicazione erotica, e proprio nel momento del suo massimo fulgore, riferendola a un linguaggio già codificato nello stereotipo letterario. Si tratta dunque di una funzione straniante non molto dissimile dal celebre «Klopstock!» nella lettera di Werther del 16 giugno. A essa si unisce, in modo solo apparentemente contraddittorio, una seconda funzione: la citazione inaugura una successione di legami simbolici e di identificazioni, non resa esplicita dal testo, che prepara la favola del conte Gleichen e il suo sorprendente quanto repentino effetto – nella prima versione di Stella – sullo scioglimento della situazione drammatica. La favola del conte Gleichen non è altro, in effetti, che il racconto in cui tutta la serie di connessioni sotterranee e di figure inaugurate dall’identificazione di Stella e Fernando con Armida e Rinaldo riceve una forma coerente. Cerchiamo di ricostruire per sommi capi questi processi nascosti sotto la superficie del testo drammatico. L’episodio della Gerusalemme liberata varia il motivo petrarchesco de «l’aureo laccio» dei capelli, che la maga si propone di recidere quando non può più tenere legato a sé Rinaldo: 9 Per la immensa fortuna iconografica dell’episodio di Rinaldo e Armida cfr. L. RITTER SANTINI, Stumme Erzählungen. Armida, Erminia, Clorinde und ihre Mahler, in Torquato Tasso in Deutschland. Seine Wirkungen in Literatur, Kunst und Musik seit der Mitte des 18. Jahrhunderts, a cura di A. Aurnhammer, Berlin-New York, de Gruyter 1993, pp. 575-608 e G. CARERI, Le retour du geste antique, in La Jérusalem délivrée du Tasse. Poésie, peinture, musique, ballet, a cura di G. Careri, Paris, Musée du Louvre 1999, pp. 41-66.

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Sprezzata ancella, a chi fo più conserva Di questa chioma, or ch’a te fatta è vile? (XVI, 49).

L’evidenza simbolica del motivo è aumentata dalla sua collocazione: esso compare quando Rinaldo si scioglie dall’incantesimo, ma anche all’ingresso nel giardino, quando i due cavalieri si imbattono nella bella nuotatrice che copre con i capelli sciolti il corpo nudo e stillante, e annuncia loro che stanno per entrare nel luogo di una ritrovata età dell’oro (XIV, 63). Il giardino-labirinto di Armida è un luogo chiuso e isolato come il giardino di Stella, introdotto fin dall’inizio da Lucie come complemento indispensabile della sua personalità: «Ma la gentile signora ha un bel giardino e dev’essere una brava signora» (p. 309, 7). Nel giardino, informa la locandiera, vi è la tomba della figlia di Stella (p. 312, 8), reminiscenza del giardino d’Arcadia che tornerà rafforzata nella scena successiva, dove l’illusione vitale è condizionata e infine neutralizzata dalle metafore funerarie. Il motivo accoglie il potenziale simbolico di una caratteristica comune dei giardini dell’Empfindsamkeit, tanto che il loro teorico Hirschfeld giustifica la presenza dei monumenti funerari nell’ambito di un’ideologia del pittoresco, e sostiene che il complesso tombale «deve rappresentare un grande, serio, fosco e solenne dipinto, che non ha in sé nulla di spaventoso e orrendo, e tuttavia scuote l’immaginazione ponendo simultaneamente in moto il cuore con sentimenti di compassione, teneri e dolcemente malinconici» 10. È subito al giardino che va il pensiero di Fernando nel primo atto quando non sa se è desto o sogna e pensa a Stella immutata malgrado lo scorrere del tempo: «E lei, lei sarà così come era. Sì, Stella, tu non sei cambiata, me lo dice il cuore» (p. 314, 2). Nel terzo atto Stella si accomiata da Fernando dandogli appuntamento nel «boschetto» (p. 327, 11), dove lo accoglieranno gli usignoli; all’inizio del quarto il monologo di Stella si svolge nell’eremo del giardino, dove le sensazioni di vita e di rinascita che avevano dominato nella scena precedente si mescolano ai riferimenti funerari. Ineludibile l’associazione al boschetto della Nuova Eloisa (I, lettera 14) in cui Saint-Preux riceve da Julie il «bacio mortale» che ne altera i sensi e le facoltà 11; a esso si richiamerà a Clarens il giardino-Eliso di Julie dove l’«illusione» 10 Tolgo la citazione da E. CONERT, Wilhelmsbad, Garten der Empfindsamkeit, Hanau, CoCon-Verlag 1997, p. 120. 11 J.-J. ROUSSEAU, La nouvelle Heloïse, a cura di H. Goulet e B. Guyon, in

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continua a regnare, così spiega Wolmar, ma in una maniera moderata e consona ai cuori affrancati dal «tumulto della passione». L’Eliso di Clarens rappresenta un modello – applicabile ovunque la passione sia mitigata dalla ragione – di una natura padroneggiata, ma non violata dall’uomo. Come spiega Julie, «È vero che la natura ha fatto tutto, però sotto la mia direzione, e non c’è niente che non sia stato ordinato da me» (IV, lettera XI) 12. L’intervento dell’uomo è discreto fino al punto che nell’uccelliera del verziere gli uccelli non devono sentirsi prigionieri, ma l’uomo viceversa ospite loro; ciò fa sì che a Clarens si respingano le soluzioni del giardino geometrico, che obbedisce al dispotismo di forme inesistenti in natura, e si preferisca la politica dell’«illusione» illustrata da Wolmar. In tal modo il luogo della virtù familiare coincide in verità con l’inganno di una natura artificiale che camuffa se stessa presentando il risultato della costrizione come spontaneità: ma la mano del giardiniere non la si vede […] si è avuto gran cura nel cancellarla […] l’errore della sedicente gente di gusto è di volere arte dappertutto, e di non essere mai contenti se l’arte non compare; mentre il vero gusto consiste nel nasconderla, specie se si tratta di opere della natura 13.

Benché al servizio di una strategia di segno opposto, visto che l’illusione è volta a far dimenticare ragione e virtù a favore di una pura eccitazione della sensualità, anche il giardino di Armida è allestito sulla base del medesimo inganno, nei versi in cui si è potuto addirittura riconoscere il prototipo del giardino naturale o pittoresco divenuto, nel Settecento, una specialità inglese 14: Poi che lasciar gli avviluppati calli, in lieto aspetto il bel giardin s’aperse: […] e quel che ’l bello e’ l caro accresce all’opre, l’arte che tutto fa, nulla si scopre

Oeuvres complètes, sotto la direzione di B. Gagnebin e M. Raymond, vol. II, Paris, Gallimard 1964, p. 63. 12 Ivi., p. 471. 13 Ivi., pp. 478 e 482. 14 M. PRAZ, Il giardino dei sensi, in ID., Studi sul manierismo e sul barocco, Milano, Mondadori 1975, p. 112

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Stimi (sì mesto il culto è co ’l negletto) Sol naturali e gli ornamenti e i siti. Di natura arte par che per diletto L’imitatrice sua scherzando imiti. L’aura, non ch’altro, è de la maga effetto, l’aura che rende gli alberi fioriti; co’ fiori eterni eterno il frutto dura, e mentre spunta l’un, l’altro matura (XVI, 9 e 10).

Gli ultimi versi della X stanza mostrano che nel giardino di Armida l’inganno arriva fino a un punto a cui l’Eliso di Julie non osa spingersi, ma che invece è al centro della costellazione simbolica di Stella. La fonte remota della figura del giardino con fiori e frutta perpetui, immagine diffusa nei romanzi cavallereschi del ciclo bretone 15, è negli episodi omerici della dimora di Circe e del soggiorno di Ulisse nell’isola dei Feaci, dove l’eroe ammira gli alberi dell’orto che danno frutti invernali ed estivi, perché Zefiro «sempre […] altri fa nascere e altri matura» (Odissea VII, 11228), e nel terzo atto del frammento drammatico Nausicaa Goethe rielaborerà in un confronto diretto con il testo omerico il motivo del giardino in cui le gemme spuntano accanto ai frutti e il melarancio fruttifica per tutto l’anno (HA V, p. 71). La deformazione della percezione temporale che vige nel giardino di Stella fa di esso un’Arcadia oscillante – in modo non diverso, malgrado l’orchestrazione assai più sontuosa, dal parco delle Affinità elettive – tra il teatro dell’eros e il monumento funerario, in una immobilità apparentemente sottratta alla consunzione del tempo. Questa sua natura si manifesta soprattutto nel monologo di Stella che apre il quarto atto, dove la totalità ed eternità dell’amore prende l’aspetto, rispettivamente nella prima e nella seconda parte del monologo, di una simultanea presenza della morte e del rifiorire della vita. Il ritorno di Fernando sembra quasi poter rovesciare la successione della lettera di Werther del 18 agosto, quando «lo spettacolo della vita infinita si trasforma nell’abisso della tomba eternamente aperta», visto che qui è la fredda terra a trasformarsi in fioritura primaverile. Si tratta però di un’apparenza, come rivela l’immagine usata da Stella, e attorno alla quale gravitano le coppie di termini antitetici che definiscono la morte e la vita: la terra pronta ad accoglierla, la «putredine», la dissolve succhiandole il seno 15 Cfr. P. RAJNA, Le fonti dell’«Orlando», Firenze, Sansoni 1975 (ristampa della II ed. 1900), pp. 165-175.

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come farebbe un bambino (p. 335, 11), e il richiamo alla figlia sepolta nel giardino accanto all’eremo in una tomba fatta solo d’erba (p. 312, 8) – come «l’altare d’erba» di cui parla ora Stella – ristabilisce la progressione latente Fernando-morte della figlia che smentisce la progressione manifesta morte-ritorno di Fernando. Quando il primo tentativo di persuasione naufraga per le obiezioni di Fernando, cocciutamente indisponibile a rinunciare al reciproco possesso, ma anche ai richiami di quella che egli chiama «la fredda ragione che non scioglie il nodo» (p. 344, 34), ossia non convince il sentimento, la strategia che Cäcilie ha in serbo è un ricorso al mito. La leggenda del conte Gleichen in Terra Santa funziona come un mito di fondazione. L’incipit, «C’era una volta un conte», è un atto di destorificazione che distoglie dal presente, per accogliere da un evento remotissimo il modello di comportamento adatto a superare il momento critico che grava sull’attualità e la minaccia. Il mito fugge dalla storia per potervi tornare, e assumere una funzione risolutrice là dove la razionalità – come nel caso del precedente tentativo di Cäcilie – si è inceppata perché posta di fronte al compito impossibile di conciliare l’inconciliabile ed evitare il dilemma tragico, la decisione che necessariamente esclude. Nella sua opera, Goethe ha utilizzato più volte la capacità del mito e delle sue figure di sopportare la presenza di attributi contraddittori. Negli Anni di apprendistato di Wilhelm Meister III, 7 il protagonista utilizza la «doppia qualità» di Minerva (HA VII, p. 171, 26) per farla intervenire in una «doppia parte» nello spettacolo che sta allestendo, come dea della guerra e della distruzione e insieme dea dell’umanità e della pace. Tra quelli a me noti, l’esempio forse più istruttivo di tale procedura è in Ifigenia in Tauride, quando alla figurazione omerica dell’Apollo saettante che arreca una morte pietosa «con miti frecce» evocato da Oreste nel delirio (v. 1313) Ifigenia fa seguire nell’invocazione ai fratelli divini l’immagine di Apollo Febo, rischiaratore del buio notturno e con ciò dell’oscurità della morte e della follia di cui ancora Oreste è prigioniero (vv. 1321 sg.). In questo modo, attraverso l’unione degli opposti consentita dal mito Ifigenia, adeguandosi all’immagine del delirio, fa compiere al fratello il tragitto che lo porta dalla visione di morte alla liberazione dalla malattia. Alla parola pronunciata dalla «fredda ragione» che non interviene davvero sui sentimenti, come le aveva rimproverato Fernando, Cäcilie sostituisce la parola del racconto. Nella sua funzione sostitutiva, il racconto deve condurre coloro che vi sono coinvol-

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ti, vi si identificano o riconoscono, a una situazione modificata rispetto al punto di partenza. Il mito si presenta in tal modo come un’interpretazione che implica una dinamica di trasformazione, e in questo senso la leggenda del conte non dovrà solo esibire elementi dotati di affinità con quelli della storia dei tre personaggi del dramma, ma dovrà dimostrare anche che modifica effettivamente tali elementi. Il primo aspetto è facilmente accertabile. Fernando, il vagabondo che ha combattuto in terra straniera, con l’interiezione esclamativa si identifica immediatamente con l’analoga condizione del conte (p. 345, 39), e il racconto mostra affinità evidenti e nascoste con le situazioni del dramma. Non meno evidente è la parentela tra la fine della leggenda con il «noi siamo tue» detto dalla moglie del conte e il finale del dramma con il «noi siamo tue» detto da Cäcilie, e ripetendo i medesimi gesti (p. 346, 33 e p. 347, 19). Il motivo di tale parentela rimane a prima vista oscuro, non è affidato ad alcuna evidenza testuale, ma va per l’appunto ricondotto a una serie di relazioni latenti inaugurate dall’introduzione del mito di Rinaldo e Armida, e che secondo l’ipotesi anticipata promuove un flusso di analogie e identificazioni culminanti nella leggenda del conte. Pur funzionando come un mito di fondazione, che permette di inaugurare una nuova situazione storica, la leggenda del conte, al pari del racconto del giardino di Armida, non è altro che una variazione del mito di Ulisse, è anzi un esempio particolarmente suggestivo di quel che Hans Blumenberg ha chiamato «elaborazione del mito», ossia il fatto che ramificandosi in una serie inesauribile di combinazioni e variazioni, il mito si modifica ed è anzi suscettibile, nella sua interna plasticità, di produrre sempre nuove interpretazioni. Il racconto del conte contamina in effetti due racconti, quello della maga Circe e quello del soggiorno presso Nausicaa, dei quali già Omero indica l’affinità (Odissea IX, 29 sg.). Nella lettera a Schiller del 14 febbraio 1798, che fa implicito riferimento ai progetti per il dramma Nausicaa iniziati durante il viaggio in Italia, Goethe rivela quanto fascino avesse per lui il motivo generale che è comune a tutte queste variazioni del mito. La lettera lamenta che si debba costantemente combattere con l’Odissea, perché essa ha già sottratto all’invenzione poetica tutti i motivi più interessanti, e indica nell’episodio di Nausicaa un prototipo inarrivabile: la commozione suscitata in un animo femminile dall’arrivo di uno straniero, il motivo più bello, non è più possibile dopo Nausicaa, e

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anche nell’antichità quanto sono inferiori alla figlia di Alcinoo, e già solo per la situazione, Medea, Elena e Didone 16.

La modificazione del mito di Ulisse e Nausicaa in quello del conte e della giovane che ha compassione per il suo stato di schiavo, nonché la relazione con l’episodio di Rinaldo e Armida, fa sì che nel linguaggio delle relazioni simboliche si istituisca non una contaminazione statica ma una trasformazione dei personaggi, per esempio del personaggio di Stella, che passa dall’identificazione con Armida-Circe a quella di Armida-Nausicaa. È una procedura analoga a quella già notata nell’esempio di Apollo saettante e Apollo Febo, dove l’unità degli opposti nell’unica figura giustifica il passaggio da una situazione all’altra. Nemmeno la maga Armida può essere connotata in modo esclusivo come nuova Circe che trattiene l’eroe impedendone il ritorno: vi è anzi in essa un tratto che sembra in relazione con la giovane infedele della favola quando, dopo avere liberato il conte dalla schiavitù, si trasforma in suo scudiero e gli fa da scorta affrontando con lui i pericoli della guerra. Nell’episodio in cui promette di recidere la chioma che non attrae più Rinaldo, Armida aggiunge: Ti seguirò, quando l’ardor più ferva De la battaglia, entro la turba ostile. Animo ho bene, ho ben vigor che baste A condurti i cavalli, a portar l’aste. Sarò qual più vorrai scudiero o scudo: non fia ch’in tua difesa io mi risparmi. Per questo sen, per questo collo ignudo, pria che giungano a te passeran l’armi (XVI, 49 e 50).

Il mito non è pura destorificazione, racconto avulso dal tempo storico, ma esso stesso un evento e un anello nella catena delle trasformazioni. Nella pausa che il mito assicura rispetto alla storia ha luogo una trasformazione, sia pure sotto forma di interpretazione basata su connessioni simboliche e riferimenti ad altri miti affini, che è essa stessa un anello nella catena degli eventi storici. Con l’«operetta» Lila Goethe dava l’esempio forse più clamoroso della procedura, presente in quasi tutti i suoi Singspiele del

16 Der Briefwechsel Goethe-Schiller, a cura di E. Staiger, Frankfurt a. M., Suhrkamp 1987, p. 576.

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periodo 1773-82, di fare di un’azione fittizia il motore di trasformazione dell’azione reale17. Il soggetto di Lila è la «cura psichica»18 a cui il dottor Verazio sottopone la protagonista per guarirla da un trauma, affettivo causato da una fantasia (Lila è convinta di avere perduto il marito) che la induce a rifugiarsi in una cupa solitudine malinconica e a respingere ogni legame con il mondo. L’affinità con il primo Singspiel di Goethe Ervino ed Elmira è evidente: in entrambi i casi la logica spontanea delle Empfindungen, non corretta né controllata da altre istanze, sfocia in uno stato patologico di incomunicabilità e isolamento; in entrambi i casi la cura non può avvenire invocando un intervento diretto della ragione. L’intenzione del dottor Verazio, inizialmente osteggiata dai familiari di Lila come eccentrica e pericolosa, è quella di curare «la fantasia con la fantasia», ossia di istituire un campo di comunicazione con il delirio di Lila basato su una finzione a cui Lila stessa sia chiamata a partecipare, recitandovi attivamente un ruolo. La finzione è tuttavia assai più complicata di quella di Ervino ed Elmira, Elmira perché in luogo di una semplice «mascherata» qui viene allestita una vera féerie, una rappresentazione fiabesca con orchi e fate nella quale tutti i personaggi, incluso il dottor Verazio, recitano una parte. Il luogo in cui si consuma il dramma dell’isolamento e dell’incomunicabilità, il «paesaggio pittoresco di un parco» e l’eremo in cui Lila si rifugia per «evitare tutti» (BA IV, p. 187), diventa la scena dell’azione teatrale che deve condurre la protagonista fuori della malattia. Ma il tragitto che porta alla guarigione è tutt’altro che lineare o istantaneo. Il dottore deve intervenire di volta in volta con accorte variazioni di regia per adeguarsi alle oscillazioni d’animo di Lila, che «risale verso l’alto e ricade nuovamente all’indietro» (BA IV, p. 200). Si tratta di difficoltà previste da Verazio come evenienze del percorso terapeutico, fasi alterne della lotta tra la guarigione e la malattia, ed egli esorta a «non temere le ricadute» (BA IV, p. 201). L’intera procedura terapeutica è basata sulla convinzione che sia sempre possibile convertire il comportamento passivo, in cui stati d’animo e sensazioni vengono semplicemente accettate come tali, in un comportamento attivo indirizzato alla loro trasformazione, e la svolta che lascia intravedere con sicurezza il successo 17 Mi permetto di rinviare su questo a S. BARBERA, Goethe e la forma del Singspiel, «Cultura tedesca. Annali Goethe», I, 2000, pp. 44-45. 18 L’espressione è usata da Goethe in una lettera al conte Brühl dell’1.10.1818, cit. in G. DIENER, Goethes “Lilia”. Heilung eines «Wahnsinns» durch «psychische Kur», Frankfurt a. M. 1971, p. 147.

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della cura ha luogo quando Lila, recitando il suo ruolo nella storia fantastica, risulta «vincitrice» nella lotta contro l’orco in difesa dei compagni prigionieri, e in tal modo ribalta sia la sua posizione di impotenza in un gratificante senso di potenza e possibilità d’azione, sia l’isolamento in partecipazione alla sorte collettiva. Anche in questo caso, la trasformazione vera e propria ha luogo mediante una metafora, allorché Lila dice di essere il secchio che il destino getta in fondo a un pozzo, per poter tirare su attaccati alla catena anche i compagni (BA IV, p. 205). Le catene, l’essere prigionieri «in società» con gli altri e condividerne lo stato coatto diventano anzi il presupposto della liberazione, perché è con le catene, unica arma di cui dispone, che Lila sfida l’orco e lo sconfigge. Tutta quanta la trasformazione di Lila, le cui condizioni sono concentrate nella metafora del secchio, si compie entro lo spazio fittizio dello spettacolo fiabesco; è al suo interno che Lila si scopre dotata del coraggio dell’iniziativa e ha la possibilità di mutare il suo ruolo, indirizzando la fiaba recitata verso un lieto fine. Solo a trasformazione avvenuta la realtà riprende il sopravvento sulla finzione: Lila riconosce nel proprio giardino la scena dell’azione fantastica e la finta barba di Verazio, travestito da mago, si scolla dal mento. Ma torniamo ora a Stella. Il segno del confluire della favola del conte Gleichen nella storia reale, o piuttosto del conformarsi della seconda alla prima, è tanto l’identità dei finali nella leggenda e nel dramma (nella sua prima versione) quanto, e soprattutto, l’invito di Cäcilie: «Stella, prendi la metà di quel che è tutto tuo: tu l’hai salvato, salvato da se stesso, ora me lo dai di nuovo» (HA, p. 347, 8). Il riferimento alla salvezza non può che indicare l’identità di Stella con la Nausicaa omerica: «Tu mi hai salvato, fanciulla» le dice l’eroe promettendole voti giornalieri, come a una dea, non appena sarà tornato in patria (Odissea, VIII, 461-8). In questo modo Cäcilie riconosce tutta la vicenda passata come iscritta nell’interpretazione fornita dal racconto, con la trasformazione di Stella da Armida-Circe a Armida-Nausicaa. Così come la trasformazione non è riconducibile a processi della ragione, ma per l’appunto a identificazioni di natura mitica e simbolica, anche il risultato a cui il mito conduce contiene un’eccedenza rispetto alla ragione, come indica il dialogo finale delle due donne: Stella – Non lo capisco. Cäcilie – Lo senti (p. 347, 11).

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La rinuncia di Cäcilie sulla base dell’amore disinteressato, e che Fernando respinge perché dettata dalla «fredda ragione», fallisce perché intimamente contraddittoria, dato che Stella non può accettare di perpetrare un «furto» ai danni della rivale. Il triangolo con la combinazione di amore e di amicizia è destinato al naufragio, così come lo era in Werther il timido ottativo di Lotte. Con la prima proposta di Cäcilie Goethe allude alla formula dell’amore intellettuale di Dio nel IV libro dell’Etica di Spinoza, l’amore senza reciprocità che avrebbe poi ricordato, caratterizzandolo con lo stesso aggettivo usato in Stella, «disinteressato», nel XIV libro di Poesia e verità. La sua antitesi è l’amore proprietario, connotato come furto e rapina o esercizio violento del possesso attraverso il verbo rauben, che ricorre nel dramma. Se si pensa però all’esito fallimentare della proposta di Cäcilie, bisogna forse supporre che in questo passaggio la nozione spinoziana venga corretta da un riferimento alla nozione di amore senza possesso passato a permeare, grazie anche alla versione datane da Rousseau, la cultura dell’Empfindsamkeit, e corollario importante, nella Nuova Eloisa, di quella dialettica di amor di sé/amor proprio, immaginazione e passione erotica che riconosciamo come costitutiva di Werther. Nella Nuova Eloisa infatti (III, 7a lettera) la Signora d’Orbe spiega a Saint-Preux che la natura del «vero amore» consiste nel rinunciare al possesso e alla soddisfazione, ossia nell’interrompere la dialettica di desiderio e godimento. La minaccia più forte per l’amore e per la sua capacità di resistere alla consunzione del tempo, è proprio una soddisfazione priva di impedimenti. Al vantaggio di perpetuare, mediante una «deliziosa illusione», il periodo iniziale dell’amore 19, l’amore senza possesso ne aggiunge poi un altro. È un vantaggio che si basa sull’incremento dell’amor proprio, e quindi riattiva implicitamente la dinamica dell’egoismo che sembrava eliminare: Questo squisito egoismo [della rinuncia] che trae vantaggio da tutte le più dolorose virtù mescolerà il suo incanto a quello dell’amore. Vi direte che sapete amare con un piacere più duraturo e più delicato di quanto provereste dicendo: «Posseggo colei che amo!». Perché

19 «Sarete sempre l’uno per l’altra nel fiore degli anni, vi vedrete sempre come vi siete visti lasciandovi; i vostri cuori uniti fino alla tomba prolungheranno in una deliziosa illusione la vostra giovinezza e i vostri amori», J. ROUSSEAU, La nouvelle Héloïse cit., p. 321.

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questo piacere si consuma a forza di goderne. Mentre l’altro rimane sempre e ne potrete godere persino se aveste cessato di amare 20.

La soluzione suggerita dal mito per evitare gli equivoci dell’amore senza possesso è marcatamente paradossale. Essa riafferma l’esigenza del possesso, il «tuo» e il «mio» a cui Fernando non vuole rinunciare, ma disinnesca miracolosamentee la logica di esclusione che ne discende e concilia il possesso separato con il suo opposto, l’intero indiviso: Prendi tutto quel che ti posso dare! Prendi la metà di quello che appartiene a te tutto intero. Prendilo tutto, lasciamelo tutto! Ognuna deve averlo senza rubare nulla all’altra (p. 346, 30).

Di tale soluzione, possibile solo con la sospensione delle procedure razionali garantita dal mito, il «siamo tue» nel finale del dramma riprende le conseguenze di cui ci si può appunto persuadere con il sentimento, non con l’intelletto. Ma il brano non rimane l’unica testimomanza di un’utopia paradossale e nel dramma Prometeo Goethe ha proposto un’analoga soluzione. Nel rapporto tra sé e le creature da lui plasmate, che rivela una perfetta coincidenza tra ideazione e realizzazione, Prometeo vede, dice, «Il mio spirito in mille guise/suddiviso, e tutto intero nei miei cari figli» (HA IV, p. 178, vv. 94-95); l’identità fra il tutto e le parti – tra il suo atto creatore e le figure umane – non è che un riflesso della partecipazione di Prometeo all’alito celeste di Minerva, forma dell’amore eterno (v. 116) che lo lega alla dea. E di «partecipazione» (Teilnahme) Goethe parlerà successivamente nell’unico tentativo di dare forma filosofica – in riferimento alla dottrina spinoziana dei modi e della sostanza – a questa intuizione 21. Con la conciliazione mitica del razionalmente inconciliabile la prima versione di Stella elabora un nodo tematico che, trattato con strumenti più complessi, sarà poi al centro di Ifigenia in Tauride. Ma prima di accennarvi occorre brevemente considerare un altro aspetto della relazione tra sfera del racconto e sfera della razionalità nella leggenda del conte. Se si legge la fonte da cui Goethe con più probabilità ha avuto notizia della leggenda, la voce «Gleichen» nel Dictionnaire di Bayle, saltano agli occhi due 20 21

Ivi., p. 320. Cfr. J. W. GOETHE, Studie nach Spinoza, WA II/11, pp. 315-316.

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differenze essenziali nelle prospettive in cui la storia viene letta. Mentre la preoccupazione fondamentale di Bayle, come dei suoi predecessori e anche successori, è di accertare il grado di verosimiglianza del racconto, di segnalare le contraddizioni presenti nella sua tradizione, inclusa quella romanzesca o della nouvelle historique (Bayle si occupa lungamente soprattutto della Zulima, ou de l’amour pur di Le Noble 22), o le lacune nella documentazione che ne comprova l’autenticità – sulla quale Bayle si dimostra assai scettico, concludendo comunque che «Si Si cette Histoire est véritable, nous avons là un très grand triomphe de l’Amour»» 23 – la versione di Goethe è giocata invece con tutta evidenza su un’accentuazione della natura favolistica, mette in atto una stilizzazione estrema che cancella sistematicamente tutti i particolari in grado di richiamare il realismo di una localizzazione spaziale e temporale, o di una maggiore caratterizzazione storica dei personaggi. In quest’ottica la stessa economia del racconto viene trasformata. In Bayle la storia del conte Gleichen trova il suo asse nella dispensa papale che permette la poligamia, con una modificazione eccezionale della consuetudine e della legge cristiana. In Stella quest’elemento è relegato in una posizione del tutto secondaria, e degradato a formula convenzionale di chiusa della favola («E Dio nel cielo si rallegrò dell’amore, e il suo santo Vicario aggiunse la sua benedizione», p. 346, 35), mentre il lieto fine poggia interamente sulla libera e autonoma deliberazione del conte e della moglie. Il conte non fa affidamento su autorità divine o terrene 24 22 E. LE NOBLE, Zulima ou l’amour pur. Seconde nouvelle historique, Paris, G. de Luyne 1694 (ripr. anastatica Genève, Vernes 1989). La vera protagonista della storia è qui la principessa Zulima, che salva contemporaneamente il cavaliere cristiano e la sua sposa, Leonora, caduta anch’essa nelle mani degli infedeli. Alla fine, Zulima riceve il battesimo dalle mani del pontefice, vive «come una vera sorella» (p. 287) accanto ai due, e dopo la morte di Leonore la rimpiazza nel ruolo di legittima sposa. 23 P. BAYLE, Dictionnaire historique et critique, Amsterdam, P. Brunel 1740, V ed., p. 556. 24 In modo totalmente opposto alla lettura che propongo qui, G. M. Schulz ha visto nella storia del conte «la dimostrazione della giustizia divina, una risposta dunque alla questione della teodicea e proprio perciò il modello di una soluzione non tragica» (Goethes “Stella”. Wirrnisse der Liebe und Gottes Gerechtigkeit, in «Germanisch-Romanische Monatsschrift», 1979, 4, p. 441). Schulz fa poggiare questa interpretazione sul «sentimento di pio dovere» che appare all’inizio della storia e spinge il conte a recarsi in Terra Santa e che, com’egli ritiene, è un corrispettivo della «fede nell’umanità». Anche il riferimento finale al «Dio in cielo» e al suo «santo vicario» conferma Schulz

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né confida nel loro aiuto. Motore della decisione è la sua «umanità» («Sentiva umanità! – credeva nell’umanità, e la prese con sé», p. 346, 9); la sua tranquilla determinazione, il ritorno in patria pieno di solennità e «orgoglioso onore», è coronato dalla sicurezza con cui affida alla moglie «il tesoro più grande» nel passaggio che ridisegna il ruolo dei tre personaggi del dramma e indica quale sarà la loro reciproca collocazione (p. 346, 18). Si può così definire la leggenda del conte un mito dell’illuminismo, se per illuminismo si assume l’accezione kantiana di «fuoriuscita dell’uomo da una immaturità di cui egli stesso si è reso colpevole» e dove l’immaturità, come è noto, è intesa da Kant come incapacità di usare del proprio intelletto senza essere guidati da altri. La stilizzazione simbolica a cui la storia del conte è sottomessa, e che il confronto con le sue possibili fonti mette ancora di più in evidenza, non ne cancella tuttavia la vibrante suggestione utopica, né ha impedito agli interpreti di mettere al centro della loro lettura, con una curiosa regressione rispetto al piano simbolico su cui tutto il dramma è mantenuto, il motivo della poligamia, pure dotato di una storia così ricca nella letteratura europea del secolo. Eccezione quasi unica Gundolf, per il quale invece «tutta la questione del doppio matrimonio non costituisce il soggetto vero del dramma, ma il simbolo di un’esperienza psichica» 25. Lo stesso Goethe ha involontariamente contribuito a fare della prima versione di Stella un manifesto della poligamia, e della seconda una prudente ritirata strategica, motivata dalla constatazione che l’istituto del matrimonio monogamico è troppo radicato nei nostri costumi perché la sua infrazione possa essere fatta oggetto di commedia anziché di tragedia senza suscitare resistenze 26. Involontariamente, perché l’osservazione non sembra riguardare affatto l’opportunità morale, ma la corrispondenza tra il sistema dei generi drammatici e il sistema delle aspettative

in quest’interpretazione, come pure la natura della salvatrice del conte, che recherebbe i tratti sovrumani di un angelo custode, immagine che il racconto non esplicita affatto ma che troverebbe conferma nella battuta immediatamente successiva di Fernando, con il ringraziamento al Dio celeste che invia i suoi angeli dal cielo. 25 F. GUNDOLF, Goethe, ripr. Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft 1963, p. 206. 26 In un’annotazione di diario del febbraio 1815: cfr. H. G. GRÄF, Goethe über seine Dichtungen, parte II, vol. IV, ripr. Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft 1968, p. 204.

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ideologiche del pubblico, nonché i limiti entro cui è proponibile, all’interno di un codice etico, una trasformazione dei generi. Ifigenia in Tauride è considerato comunemente, oltre che «dramma dell’autonomia», dramma dell’onnipotenza della parola. L’impavida prestazione linguistica di Ifigenia non solo permette che con l’esercizio continuo del discorso si controlli la violenza potenziale dei conflitti di cui i personaggi del dramma sono portatori, ma è anche l’organo di una superiore ragione femminile, capace di ottenere la conciliazione delle istanze antagonistiche senza cedere alla lusinga della logica dell’esclusione, propria invece della ragione virile. Se ciò è vero, altrettanto vero è che nel dramma il primato del discorso non coincide affatto con un incontrastato dominio delle procedure razionali. Quando anzi la parola, coinvolta nel processo della guarigione di Oreste, deve dare espressione ai nodi sentimentali che si stringono intorno all’atto sanguinano del matricidio, si scontra con resistenze invincibili, viene addirittura meno e deve cedere il posto alla potenza immediata dell’eros e dell’immagine. Con un uso del linguaggio e della «parola amichevole» analogo a quello che Cäcilie mette in atto nel IV atto nel dialogo con Fernando, che a sua volta vede in lei uno «spirito maligno» intento a frugare nel suo intimo, Ifigenia suscita la resistenza di Oreste. Il suo tentativo terapeutico si scontra allora con l’ostacolo apparentemente insormontabile oppostogli dal suo interlocutore. Essa appare a lui come un’Erinni che gli impedisce di distogliere la vista dal passato orrendo. La lettura dei due brani basta a convincere della parentela tra le situazioni: 1. Stella «Cäcilie – […] essere separata dal mondo che le è caro! da colui che ama con tanto ardore? da colui che la… Tu la ami, Fernando, non è vero? Fernando – Ah, sei forse uno spirito maligno nelle sembianze di mia moglie? Perché rigiri la lama nel mio cuore, dilani il dilaniato? Non sono già distrutto, fatto a brani? Lasciami! Lasciami al mio destino, e Dio abbia pietà di voi! Si lascia cadere su una sedia» (p. 345, 24). 2. Ifigenia in Tauride Non domandare più, e non aggiungerti alla schiera delle Erinni […] Si cela in te una dea della vendetta? Chi sei tu, che con voce spaventosa, mi scuoti le profondità dell’animo? (vv. 1148-49 e 1169-71).

Nel momento in cui il suo interlocutore manifesta la massima resistenza, Ifigenia abbandona l’esercizio della parola e confida es-

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clusivamente nel potere dell’amore («Oh, lascia che l’alito puro dell’amore / spirando lieve ti rinfreschi il petto», vv. 1157-8) e dà così luogo a un’autentica dinamica di transfert che culmina, dissipato l’equivoco di Oreste che vedeva in lei la baccante in preda alla furia erotica, in una evocazione della scena primaria del matricidio. Si tratta dell’immagine delirante che precede immediatamente il deliquio di Oreste, nella seconda scena del terzo atto: Oreste – […] Mi guardi con pietà? Desisti! Con questi sguardi Clitennestra cercava di aprirsi un varco nel cuore di suo figlio, ma il suo braccio le colpì, costretto, il petto. La madre cadde. Vieni avanti, spirito adirato! Fatevi avanti voi, Furie, in cerchio chiuso, godete lo spettacolo da voi desiderato, l’ultimo e il più cruento che avete preparato. Non odio, non vendetta le affilano l’arma piena d’amore la sorella è costretta all’azione. Non piangere. Tu non hai colpa (vv. 1239-49).

Nell’istante in cui Oreste in delirio crede di venire colpito dalla sacerdotessa, la scena del matricidio viene evocata e trasformata attraverso una serie incalzante di identificazioni. Nel v. 1240 Ifigenia è come Clitennestra attraverso l’identità dello sguardo; nel v. 1242 come Oreste quando colpiva «costretto» la madre; nel v. 1243 Oreste cade colpito come Clitennestra; nel v. 1247 infine la catena delle identificazioni si conclude con un Oreste uguale a Ifigenia, che «piena d’amore» e costretta all’atto sanguinario, è liberata da ogni colpa. In tal modo l’evocazione delirante dell’immagine con le identificazioni di cui essa è capace ridefinisce il ruolo dei personaggi e attribuisce loro una nuova identità rimodellando addirittura – grazie alla caratteristica indifferenza del delirio per le scansioni temporali – la scena passata del matricidio. Il passaggio dai processi discorsivi alla dinamica dell’immagine delirante è un passaggio dalla razionalità al mito che in forma meno concitata viene ripetuto anche alla fine del dramma, dove il discorso di Oreste che si apre con la soluzione dell’ambiguità dell’oracolo va inteso come una ricapitolazione dell’intera logica di Ifigenia. Alla soluzione razionale che distingue le due sorelle, Diana e Ifigenia, fa seguito infatti una rinnovata commistione mitica tra sorella umana e sorella divina, cosicché la prima è di nuovo assimilata alla «sacra immagine» (v. 2127) e in questa veste può diffondere la sua capacità di salvezza.

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Ho parlato qui e altrove di «identità», e con questo termine intendo quel che Paul Ricoeur ha chiamato una «identità narrativa». Ciò che il racconto fonda non è un’identità come idem, basata cioè su una sostanza-soggetto che si mantiene invariata nel tempo, ma come ipse, qualcosa che può sfuggire al dilemma del medesimo e dell’altro (il dilemma appunto che la passività di Fernando e Clavigo hanno portato agli estremi limiti). L’identità dell’ipse è il risultato di una rifigurazione dell’esperienza prodotta dal racconto. Esso, come avviene con la elaborazione secondaria del sogno in Freud (da lui equiparata anche, per l’analogia con il sogno a occhi aperti, a un petit roman) dà coerenza a una molteplicità frantumata di racconti parziali disseminati come rovine o reperti nel passato, in modo tale che l’identità appare come «frutto della rettificazione senza fine di un racconto anteriore per mezzo di un racconto ulteriore» 27. L’analogia che abbiamo creduto di individuare, in Stella e in Ifigenia in Tauride non ha nulla a che fare con la ricerca di «anticipazioni», ma piuttosto intende dare un contributo parziale a quella tipologia delle funzioni del mito nell’opera di Goethe che soprattutto su impulso dei lavori di Hans Blumenberg si è imposta in maniera rinnovata all’attenzione della ricerca. Se si fa riferimento a uno studio recente, che affronta il problema a partire dal finale di Faust e delle Affinità elettive, dove il mito «interviene a concludere una vicenda epocale apportando grandezze che non sono alla portata di quelle e che dunque la concludono attraverso un salto radicale»28, dobbiamo dire che in Stella e Ifigenia in Tauride il mito è immanente al sistema, ne ri-narra gli elementi precipitati in una situazione critica o dilemmatica, ma per permettere al sistema di sopravvivere con un ordine aggiustato e rinnovato. Ha poca importanza che quest’ordine sia o possa apparire di natura utopistica, come nel finale della prima Stella, oppure serva a ristabilire la continuità di una stirpe regale e una ritrovata solidarietà tra uomini e dèi liberando dalla colpa, come in Ifigenia: la funzione del mito è qui sostanzialmente diversa da quella in cui esso garan27 P. RICOEUR, Tempo e racconto, vol. III (Il tempo raccontato), trad. di G. Grampa. Milano, Jaca Book 1999 (ristampa), p. 378. Il testo di Ricoeur tiene conto di Freud non meno che, mi sembra, della teoria di Pierre Janet della personalità come «racconto di sé». 28 E. DE ANGELIS, Un sistema da non risolvere ovvero la salvazione di Faust, in La storia di Faust nelle letterature europee, a cura di M. Freschi, Napoli, CUEN 2000, p. 133.

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tisce una salvezza che proviene da un’istanza estranea al sistema, e che non garantisce affatto la sopravvivenza o il riaggiustamento di quest’ultimo. Nel 1816 il VI volume dell’edizione Cotta delle opere di Goethe offriva ai lettori una versione trasformata di Stella, sottotitolata ora Una tragedia. Nell’edizione del 1807 Stella è ancora commedia per amanti, benché nel 1806 fosse stata rappresentata per la prima volta, grazie a Schiller, con finale tragico. Una lettera della Stein al figlio che informa sull’insuccesso della rappresentazione, adducendo come motivo che il suicidio di chi è dedito all’inganno non può suscitare compassione nel pubblico, ha fatto pensare che la rappresentazione del 1806 si contentasse di far morire il solo Fernando29. Con l’eccezione già menzionata del colloquio tra Fernando e l’amministratore la parte del dramma che precede la leggenda del conte rimane intatta nella seconda versione; minime variazioni ininfluenti sono segnalate nell’edizione di Weimar. In presenza di un testo privo di variazioni, e pur concedendo che la commedia sentimentale è dotata di un alto potenziale di ambiguità, tale da poter determinare sia un finale tragico sia un lieto fine 30, risulta che l’unico elemento del dramma su cui grava la possibilità di modificazione senza mettere a rischio la coerenza dell’insieme non può essere che l’effetto esercitato dalla leggenda del conte. Il motivo dominante nel finale della seconda versione è quello del mutismo, del «tacere», in quanto strategia che neutralizza l’effetto del racconto di Cäcilie. Dopo aver riconosciuto che dalla leggenda del conte discende «un raggio di speranza» (p. 348, 4), Fernando respinge drasticamente la funzione della parola (p. 348, 10): ma stavolta non parola come logos, bensì come mythos. Sembra riproporsi la situazione che aveva caratterizzato il colloquio di Fernando e Cäcilie precedente il racconto; la successiva battuta di Cäcilie manifesta infatti la volontà di vincere le ulteriori resisten-

29

Cfr. H. DÜNTZER, Goethes “Clavigo” und “Stella”, Leipzig, Wartig 1878,

p. 93. 30

Un caso inverso rispetto a Stella è rappresentato dall’Amalia di Christian Felix Weiße (essa pure basata sulla competizione di due donne per amore di un uomo), concepita dapprima come tragedia e poi trasformata in commedia su suggerimento degli amici. In una lettera a Oeser del 24.11.1768 (WA IV/1, p. 181) Goethe ha manifestato forte interesse per l’altra commedia di Weiße basata sul triangolo, l’atto unico Generosità per generosità. Su tutta la questione cfr. J. MINOR, Zur Stella, in Aus Goethes Frühzeit, a cura di W. Scherer, Straßburg, Trübner1879, pp. 126-190.

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ze di Fernando (p. 348, 16). Nella sua impavida lotta, Cäcilie ricorre addirittura all’esempio di coloro che si sono risollevati dalla tomba (p. 349, 34): là dove è venuta meno l’efficacia del racconto salvifico imperniato su una determinazione autonoma, Cäcilie si rivolge all’aiuto sovrumano, ma ancora condizionato, mediante la «preghiera» che può più di ogni soccorso umano, all’esercizio della parola. In quanto precipita ormai verso un destino che fin dall’inizio sembrava incombere su di lui (p. 350, 9) Fernando è «il muto, senza speranza» (p. 350, 8). L’infelicità di Fernando è legata al suo «parlare sempre a monosillabi, resistere sempre alla parola amichevole e mediatrice» (p. 348, 14), tenace dedizione al silenzio che fa di Stella una sua complice (p. 350, 15). Si spiega così l’enigmatica battuta successiva di Cäcilie, di essere nella disperata situazione di non potere né unire «né separare» i due. L’inseparabilità è cementata dalla complicità di amore e morte, come Stella conferma («Tutto per amore, e anche la morte»), qui in antitesi alla funzione dell’amore come veicolo di vita in Cäcilie (p. 350, 6), ed è cementato soprattutto dalla complicità nel silenzio. Il silenzio che neutralizza l’effetto della leggenda del conte non è, infatti, mera negazione della ridefinizione dei ruoli che essa proponeva, e con ciò scelta di immodificabilità rispetto alle trasformazioni suggerite dal racconto, ma viene presentato come unica espressione adeguata della perfezione sentimentale già evocata dagli amanti, e ora connessa alla morte: Stella – […] Nei momenti più felici tacevamo e ci capivamo […] e ora lasciatemi tacere e riposare […] Fernando – Sì, tacciamo, Stella, e riposiamo (p. 349, 24).

Se i due finali dipendono rispettivamente dall’efficacia o dall’inefficacia della leggenda nel rimodellare i ruoli, ed è questo che dà ragione della loro intima coerenza, rimane però del tutto aperta la questione di cosa abbia indotto Goethe a mutare opinione sull’efficacia del mito. La questione resta del tutto aperta, merita però di essere almeno introdotta da un confronto con le Affinità elettive (1809), a cui il lettore avrà già spontaneamente pensato ricordando il mutismo di Ottilie e la perfetta riunione degli amanti nella quiete della morte. Nella parte finale il romanzo presenta, con la santificazione di Ottilie e gli effetti salvifici che il miracolo diffonde o sembra31 31

«E credettero di cogliere un improvviso miglioramento» (HA VI, p. 488,

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diffondere sulla comunità, un mito non risolutivo della crisi del sistema, ed esterno a esso. Ma le Affinità elettive completano la tipologia proponendo, con la novella Gli strani figli dei due vicini, la parodia di un mito risolutivo e interno al sistema molto simile, per struttura e funzione, alla leggenda del conte Gleichen. Anzitutto, come la leggenda, la novella possiede un alto grado di stilizzazione che la distacca dalla realtà, senza tuttavia rendere del tutto irriconoscibili i tratti di quest’ultima. A essa accade infatti come alle storie passate di bocca in bocca e infine elaborate da un narratore pieno di gusto, delle quali rimane «tutto e nulla di com’era» (HA VI, p. 442, 20) Un caso inverso rispetto a Stella è rappresentato dall’Amalia di Christian Felix Weiße (essa pure basata sulla competizione di due donne per amore di un uomo), concepita dapprima come tragedia e poi trasformata in commedia su suggerimento degli amici. All’insaputa del narratore la «strana» storia ha certamente a che fare con gli ascoltatori, e Charlotte si mostra tanto turbata da dovere abbandonare la stanza, poiché la storia le è nota, avendo a che fare con una vicenda passata del Capitano. Al lettore non può sfuggire, del resto, un altro legame tra la novella e la realtà delle vicende narrate dal romanzo. La novella racconta una storia di salvataggio dall’acqua che richiama il salvataggio di Charlotte da parte del Capitano, di poco precedente, e attraverso esso la serie di salvataggi che forma una vistosa catena simbolica del romanzo. Attraverso il salvataggio portato a buon fine nella novella il paesaggio naturale della passione, fatto di un impasto di antagonismo e attrazione che i due giovani inizialmente non sanno districare, si trasforma in un’unione sanzionata dalla società. La passione viene liberata dagli elementi distruttivi che nel passato la minacciavano e, superato il caos naturale, si inserisce senza tuttavia perdere la sua nativa energia nell’orizzonte della convenzione. Nel «restiamo insieme!» deciso dai due giovani vi è infatti unione amorosa, suggellata dall’abbraccio, e insieme, in alternativa al «fuggire» e al «nascondersi», un restare insieme della coppia con il resto della compagnia: “Dobbiamo fuggire? dobbiamo nasconderci?” disse il giovane. “Restiamo insieme” disse lei, abbracciandolo (p. 441, 21).

In questo modo, ciò che nel romanzo è soggetto a frattura o si concilia solo attraverso forme ingannevoli e immaginarie, la pas37) si dice delle madri che di nascosto hanno fatto toccare ai figli la salma di Ottilie.

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sione e l’orizzonte del nomos, viene rimodellato miticamente dalla novella, che sollecita grazie alla funzione stessa del raccontare una nuova identità per i protagonisti del romanzo. Essa si assume il compito di riaggiustare il sistema dei rapporti tra natura e cultura che si sono infranti nella relazione tra i quattro protagonisti, ma il confronto con l’esito fallimentare della leggenda del conte nella seconda versione di Stella suggerisce forse che, lungi dal rappresentare un luogo di condensazione utopica delle relazioni che nel romanzo corrono invece verso la catastrofe, la novella è per l’appunto una parodia del mito interno al sistema, un mito depotenziato e inefficace che anziché modificare il destino tragico inserito nella costellazione dei personaggi lo rende ancora più evidente.

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GOETHE E LE FORME DEL SINGSPIEL*

Nel 1923 Hugo von Hofmannsthal scriveva la prefazione per un volume dove erano raccolti i libretti di Goethe e confermava il tradizionale giudizio su di essi come opere irrimediabilmente «minori». Ai testi della raccolta Hoffmannsthal dedicava tre righe finali, con l’osservazione che «qui, come ovunque nel campo della natura e dell’arte, i passaggi dalle forme più sublimi a quelle più modeste sono fluidi»1, e per il resto preferiva rivolgersi al tema, assai più avvincente, della natura intimamente musicale dell’arte poetica di Goethe, che riconosceva nel carattere «operistico» di Faust II, ma anche della struttura narrativa dei Lehrjahre: dall’episodio di Wilhelm e della contessa aveva tratto spunto, anni prima, per un abbozzo dal titolo Die Gräfin, Ein Singspiel nach Wilhelm Meister. Relegati nell’ambito delle opere d’occasione e di carattere secondario, questi libretti hanno talora ricevuto un’attenzione percentualmente più intensa, all’interno della fluviale letteratura su Goethe, quando il loro soggetto manifestava un’accentuata eccentricità (apparente o reale), come è il caso del Singspiel Lila, oppure quando mostravano più forti affinità con alcuni momenti dell’opera maggiore, come avviene ad esempio con il frammento d’opera Der Zauberflöte zweiter Teil, concepito alla fine degli anni Novanta, che contiene un’evidente parentela tematica con * Cfr. infra, Bibliografia 2000 n. 3. 1 H. VON HOFMANNSTHAL, Einleitung zu einem Band von Goethes Werken, enthaltend die Opern und Singspiele, in Gesammelte Werke-Prosa, IV, Frankfurt a.M., Fischer 1966, p. 181. Sul progetto di Singspiel con soggetto tratto dai Lehrjahre, del giugno 1900, vd. S. KOHLER, Das Singspiel als dramatischer Formtypus: Goethe-Strauss-Hofmannsthal, in Goethe im Kontext, a cura di W. Wittkowski, Tübingen, Niemeyer 1984, pp. 187 e sg.

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l’episodio di Euforione nel secondo Faust. Dal 1773 al 1782 Goethe scrive il libretto per sei Singspiele; i primi due di essi vengono radicalmente rimaneggiati in una seconda versione nel 1787, durante il soggiorno romano. A questi testi se ne aggiungeranno poi altri che rimangono tentativi frammentari, tra cui appunto Der Zauberflöte zweiter Teil o addirittura semplici intenzioni. I libretti scritti dal ’73 all’82 – Erwin und Elmire; Claudine von Villa Bella; Lila; Jery und Bätely; Die Fischerin; Scherz, List und Rache – rappresentano, malgrado l’evoluzione o addirittura la trasformazione di paradigma che vi si scorge, un gruppo compatto, un «ciclo» che Goethe raccoglie in volume nell’86 per l’editore Göschen e che sembra ritenere chiuso quando sulle scene si afferma Il ratto dal serraglio di Mozart, che Goethe ode a Weimar nell’inverno dell’ ’85, assistendo da tre a cinque rappresentazioni successive. «Apparve il Ratto dal serraglio e abbatté tutto quanto», si legge in un passo della Italienische Reise (Resoconto del novembre 1787) in cui Goethe descrive con un misto di ammirazione e rassegnazione l’inutilità di ogni confronto con un’opera che aveva suscitato in lui giudizi diversi, ma offuscato e compromesso fin dall’inizio il successo del suo ultimo Singspiel, Scherz, List und Rache, che per colmo di ironia si rifaceva, come il Serraglio, a moduli della commedia dell’arte italiana, e che si richiamava al modello dell’opera buffa. In un’altra testimonianza, questa volta del 1817 2, Goethe parla della sua attenzione e attrazione per la popolarità di cui avevano goduto in Germania le operette (ossia opere realizzate con estrema parsimonia di mezzi) imitate o tradotte o aggiustate mediante contaminazioni sui modelli dell’opera comica francese, per l’appunto i Singspiele di Weiße e Hiller e di André, che erano diventati una moda dilagante in Germania. Esisteva una vera e propria «fabbrica di operette» 3 con centro a Lipsia e in altre città commerciali come Amburgo e Francoforte. A Weimar, che come Mainz, Darmstadt, Bonn, Gotha era una delle piccole residenze dove all’inizio si era ripiegato sui Singspiele perché mancavano i mezzi, nonché la tradizione orchestrale e vocale necessaria per al2 Cfr. J. W. GOETHE, Deutsche Sprache in Schriften zu Literatur und Theater, a cura di Walther Rehm, vol. XV della Gesamtausgabe der Werke und Schriften in zweiundzwanzig Bänden, Stuttgart, Cotta, pp. 648-654. 3 «Il pubblico non voleva ormai vedere nient’altro che operette»: così J. MINOR, Christian Felix Weiße und seine Beziehungen zur deutschen Literatur des achtzehnten Jahrhunderts, Innsbruck, Wagner 1880, p. 183.

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lestire le più costose e impegnative opere italiane, la voga era letteralmente dilagata, sotto il patrocinio della Granduchessa Amalia, dopo la rappresentazione di Die Jagd di Christian Felix Weiße, con musiche di Hiller, nel 1770. Stava a parte, beninteso, la tradizione viennese del Singspiel su cui si innesta il Ratto mozartiano 4. Quando parla di popolarità, come in questo scritto, Goethe non pensa tanto al trionfo di un genere teatrale o all’eventuale destinazione popolare del Singspiel, a cui pure fa riferimento, al punto che altrove, nella lettera a Voigt del 9 dicembre 1808 5, parla di «opere di artigiani» alludendo al ceto sociale dei loro protagonisti (il vasaio, il barbiere di villaggio ecc.). Egli pensa piuttosto alla capacità del prodotto letterario di diventare elemento del costume e del modo di vita. Il popolo veneziano che canta i versi del Tasso, di cui Goethe narra nella Italienische Reise, è l’esempio del genere di popolarità che Goethe qui ha in mente, e che ha certamente a che fare, per dirla in un modo un po’ affrettato, con l’affinamento dei costumi di una nazione attraverso l’assimilazione della letteratura e delle arti. Nella lettera a Voigt Goethe sembra vedere nella struttura drammatica delle operette quasi esclusivamente la cornice, il supporto e il veicolo per la diffusione dei Lieder in esse contenuti: sono i Lieder il genere popolare vero e proprio o, come scrive Goethe, il sintomo e l’espressione di un confortante affinarsi della socialità. Quest’incidentale osservazione sembra corrispondere anche alla realtà storica. Nella sua autobiografia Weiße ricorda di essere stato quasi costretto alla prima edizione delle sue operette, nel ’68, dal fatto che mentre i Lieder o le piccole arie in esse contenuti venivano stampati a parte e conoscevano una fortunatissima circolazione separata, le parti in prosa erano affidate a precari manoscritti che passavano di teatro in teatro, così da rendere il testo drammatico insicuro nella sua tradizione e manipolabile da chiunque 6. Nella prima versione di Claudine von Villa Bella, tra le due canzoni di Crugantino a Claudine, Liebliches Kind e Es war ein Buhle frech genug, vi è una discussione sull’origine delle canzoni, sulla loro fruizione da parte di tutte le classi sociali, 4 Cfr. H. ABERT, Mozart. La giovinezza 1756-1782, trad. di B. Porena e I. Cappelli, Milano, Il Saggiatore 1984, cap. XXVIII (Il Singspiel tedesco), pp. 822-839. 5 WA IV/4, pp. 255-262. 6 Christian Felix Weißens Selbstbiographie, hrsg. von dessen Sohne Christian Ernst Weiße und dessen Schwiegersohne Samuel Gottlob Frisch, Leipzig, Georg Voß 1806, p. 71.

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sui loro generi, e infine sulla «nuova moda» letteraria, così descritta da Crugantino: «Adesso si ricercano con solerzia tutte le ballate, romanze, serenate, le si traduce da tutte le lingue ed è su questo che si infervorano i nostri begli spiriti» 7, cosa che viene interpretata dal suo interlocutore, Gonzalo, come un confortante ritorno alla natura e alla naturalezza. Ma è anche evidente che quel che attrae Goethe nel Singspiel non è solo la sua natura di contenitore di Lieder, ma proprio la forma ibrida di questo prodotto, nato dalla commedia o dalla farsa con inserti musicali e canori 8, dotato di una diffusione cosmopolita e soprattutto – in corrispondenza alla mobilità dei ceti sociali di cui è espressione – non ancora sottomesso a canoni rigidi, incerto anzi a quali generi drammatici e operistici contigui guardare per assimilarne in tutto o in parte le caratteristiche. La natura camaleontica, aperta a diversi esiti del Singspiel ha rappresentato una sfida per lo sperimentalismo teatrale di Goethe, così accentuato in quegli anni, mentre d’altra parte la stessa parabola dei suoi Singspiele dal ’73 all’82, e poi nei due rifacimenti dell’87, è la testimonianza più lampante della plasticità insita in un genere teatrale non solo composito, ma alla ricerca ancora del proprio canone.

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J. W. GOETHE, Claudine von Villa Bella, in BA IV, p. 97 e sg. «Commedia con canto» lo chiama H. M. SCHLETTERER nel suo classico saggio Das deutsche Singspiel von seinen ersten Anfängen bis auf die neueste Zeit, Augsburg, J. A. Schlosse 1863, p. 18. Nell’esordio (p. 1) egli dà inoltre questa definizione: «Con il termine Singspiel viene designata qualunque opera drammatica in cui sono intessuti in una maniera prevalente o anche solo subordinata pezzi musicali, soprattutto parti cantate». Schletterer utilizza questa definizione per indicare un tipo ideale, che egli chiama «Singspiel semplice» dal quale discenderebbero cinque generi principali: Zauberoper; Melodrama (Monodrama o Duodrama) che ha il suo prototipo nel Pygmalion di Rousseau; Schaupiel mit Musik, dove gli inserti musicali sono assi più rari e casuali che nel Singspiel; Liederspiel, il genere creato e teorizzato da Reichardt, dove le parti cantate sono tutte canzoni assai semplici, spesso canti popolari già noti, e l’accompagnamento strumentale è ridotto «allo stretto necessario»; e infine la Posse, erede degli intermezzi giocosi italiani (pp. 123-135). Egli utilizza quest’ampia definizione e la suddivisione in generi per polemizzare contro un’interpretazione del Singspiel che ne vede la storia come una vicenda assai recente e di breve durata, iniziata sostanzialmente «con l’anno 1764, quando a Lipsia venne rappresentata la prima operetta di Weiße e Hiller» che accoglieva gli stimoli provenienti dal genere inaugurato dalla Beggar’s opera di John Gay e dalle operette francesi del teatro di Favart; a questa storia di breve respiro Schletterer contrappone invece un’evoluzione nazionale del Singspiel che affonda le sue radici nella Riforma. 8

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Il primo Singspiel del ’73, Erwin und Elmire, è sottotitolato, come il successivo Claudine von Villa Bella, «una rappresentazione con canto», una denominazione anch’essa di carattere generico, ma che non può non ricordare quella di «rappresentazione con canzoni», che Reichardt userà un anno dopo, nei suoi Briefe eines aufmerksamen Reisenden die Musik betreffend, per definire le «operette con scene campagnole» di Weiße-Hiller 9. Anche nei primi Singspiele di Goethe è mantenuta una caratteristica essenziale dell’opera di Weiße e Hiller, la netta prevalenza del dialogo parlato in prosa sulle parti cantate. Mentre però le operette di Weiße osservavano una suddivisione in tre atti, ognuno dei quali con numerose scene, fino a 15, per rendere possibile anche la presentazione di azioni parallele con un numero cospicuo di personaggi, talora dagli 8 ai 10, Goethe opera con suddivisioni più libere e sempre (con l’unica eccezione di Claudine, dotata di una maggiore complessità dell’intreccio) tende a una unità e semplicità estrema dell’azione con riduzione al minimo dei personaggi. Da questo punto di vista, e a prescindere del tutto dalla qualità letteraria dei testi, non è certo impresa facile dimostrare un’affinità reale tra i libretti di Weiße e quelli di Goethe; si sarebbe anzi tentati di dare ragione a chi, sfidando un luogo comune consolidato, nega drasticamente l’esistenza di ogni relazione 10. Né è facile immaginare come Jery und Bäteli e Die Fischerin possano essere considerati pacificamente «un ritorno alle operette di Weiße» solo a causa dell’adozione di un ambiente agreste 11, mentre qui lo

9 Un estratto dei Briefe di Reichardt è in R. SCHUSKY, Das deutsche Singspiel im 18. Jahrhundert. Quellen und Zeugnisse zur Aesthetik und Rezeption, Bonn, Bouvier 1980, pp. p. 23-37, da cui citiamo. Sui sinonimi Singspiel, opera comica, operetta, piccola opera ecc. con le relative variazioni semantiche cfr. A. KOCH, Das deutsche Singspiel, Stuttgart, Metzler 1974, pp. 24 e sg. Il volumetto di Koch contiene anche un capitolo su Goethe e il Singspiel, corredato di bibliografia. Dello stesso autore si veda poi il più diffuso Die Singspiele, in Goethes Dramen. Neue Interpretationen, a cura di W. Hinderer, Stuttgart, Reclam 1980, pp. 42-67. La bibliografia più aggiornata sul tema è in T. Frantzke, Goethes Schauspiele mit Gesang und Singspiele 1773-1782, Frankfurt a.M., Lang 1998. 10 Cfr. L. JOHN PARKER, Christoph Martin Wielands dramatische Tätigkeit, Bern/München, Franke 1961, p. 58. 11 Così F. VAN INGEN, Literarischer Anspruch und Autonomie der Musik in Revolution und Autonomie. Deutsche Autonomieästhetik im Zeitalter der französischen Revolution, a cura di W. Wittkowski, Tübingen, Niemeyer 1990, p. 113.

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sviluppo lineare e monotematico dell’azione, fedele alla sobrietà tipica dell’intermezzo, è anzi in modo quasi programmatico l’opposto della farraginosa drammaturgia di Weiße, dove il più delle volte l’azione ristagna o si smarrisce in rivoli laterali e secondari. Löttchen am Hofe (1767), rielaborazione di Ninette à la court (1755) di Favart e uno dei massimi successi di Weiße-Hiller, con cui si apre il primo volume delle Komische Opern, è uno degli esempi più chiari della tendenza di Weiße a far ristagnare l’azione in scene statiche e ripetitive, dove la vitalità drammatica è soffocata dalle intenzioni pedagogiche e morali. Nel secondo atto la contadinella Lotte, della quale il «principe dei Lombardi» Astolph si innamora, fa conoscenza della vita di corte e in 9 monotone e immobili scene dedicate alla moda, ai cosmetici, ai manierismi e alle ipocrisie dei cortigiani ecc. ripete senza timore di annoiare lo spettatore i motivi che le fanno preferire al lusso le semplici gioie della vita secondo natura 12. Nell’Erwin und Elmire sono in scena quattro personaggi e uno di essi, la madre della protagonista, compare solo all’inizio per rendere possibile una discussione ricca di riferimenti a Rousseau sull’educazione di corte e l’educazione naturale. Il soggetto ripete solo in apparenza i moduli consueti dell’operetta, ma in realtà ne rovescia il significato dall’interno. La vicenda è quella dei due innamorati separatisi a causa dell’incapacità di comunicare a cui inevitabilmente porta il «linguaggio naturale» del sentimento celebrato dalla cultura dell’Empfindsamkeit e caduti perciò in uno stato di autentica malinconia (non mancano temi e movenze wertheriane), ma che alla fine vengono guariti e riuniti grazie all’intervento di un saggio istitutore, ed è un evidente calco di quella dell’intermezzo pastorale di Rousseau Le Devin du village, che fa da modello a Goethe anche dal punto di vista formale, per la semplicità dell’intreccio e la parsimonia nei personaggi. Le Devin du village è anche il prototipo ideologico a cui Weiße si rifaceva 13, sia direttamente sia attraverso la mediazione delle operette francesi, per l’ambientazione agreste dei suoi Singspiele. Nelle prefazioni alla prima e seconda edizione delle Komische Opern nel ’68 12 C. F. WEISSE, Komische Opern, I, Frankfurt und Leipzig, Dyck 1777, pp. 41-68. 13 Benché lo stesso Rousseau gliene avesse parlato, a Montmorency, in termini inequivocabilmente negativi: «[…] c’est une bagatelle, je ne l’ai faite, que pour voir, quelles bêtes sont ces François-là, pour pouvoir gouter une telle misère». Vd. Christian Felix Weißens Selbstbiographie, cit., p. 71.

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e nel ’77 Weiße spiega diffusamente il motivo della scelta di scene agresti, che evocano uno spazio libero da costrizioni in antitesi all’angustia degli appartamenti cittadini. La costante ideologica di tutte queste produzioni è la contrapposizione tra i sani costumi della vita campagnola e il lusso-corruzione della vita cittadina e di corte. Se però si può genericamente parlare di una “critica alla corte” nel Singspel tedesco, per riprendere il titolo di un bel saggio di Thomas Koebner 14, è anche vero che il suo scopo evidente, perlomeno in Weiße, è quello di celebrare la conciliazione tra le classi sociali, e in particolare tra la corte e i villani, conciliazione fondata sul trionfo che i sentimenti naturali e non corrotti riportano a danno del lusso. L’evocazione della naturalezza crea un campo di conciliazione e di incontro tra le classi, che però non scalfisce in nulla le loro insormontabili differenze. Anche di questa attitudine Löttchen am Hofe è un ottimo esempio: nello stesso tema della fedeltà in amore (di Löttchen per il suo Gürge) vi è, più che una decisione sentimentale, una fedeltà al ceto sociale di appartenenza e tutti i personaggi cospirano al mantenimento del proprio e dell’altrui rango. Il principe Astolph non pensa neppure un istante di abbandonare la sua condizione per amore di Lotte e nel terzo atto, complice l’inganno organizzato dalla stessa Lotte, tornerà dalla contessa Emilie, a cui è naturalmente destinato. Il motivo della coppia parallela, tipico dell’opera buffa italiana, viene usato per confermare una conciliazione basata sulla separazione dei valori di ceto. Lo spirito di compromesso di Weiße si spinge fino al punto di far dichiarare al principe (III,12) che se è bello essere amati da Lotte, che deve tutto il suo fascino a «innocenza e semplicità», ancora meglio è possedere un cuore che, come quello della contessa Emilie, «è stato migliorato dall’arte senza detrimento per la natura» 15. Nelle operette di Weiße non di rado sono i nobili stessi i depositari della virtù e della fedeltà coniugale ed esortano i personaggi dei ceti inferiori a non infrangere le regole morali. «È tempo che viviate di nuovo secondo ragione, lavoriate di buona lena e amiate la vostra buona moglie, e avrete sempre in me un buon amico»: così Hans von Liebreich, il gentiluomo di campagna, ammonisce il suo suddito Jobsen nella seconda parte di Der Teufel ist los, Der lustige Schuster, prima del

14 T. KOEBNER, Hofkritik im Singspiel, in Das deutsche Singspiel im 18. Jahrhundert, Heidelberg, Winter 1981, pp. 11-26. 15 C. F. WEISSE, Komische Opern, cit., I, p. 95.

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Divertissement finale 16. Nell’ultimo atto del Singspiel, Die Jagd, che aveva trionfato a Weimar, un re in incognito ascolta compiaciuto e felice le lodi incondizionate del vecchio contadino, che riconosce nell’attitudine del suo sovrano verso i sudditi gli stessi costumi naturali e patriarcali che egli pratica nella sua famiglia e come saggio giudice del villaggio. Così, se nel finale il coro saluta nel re «Il nostro padre / il nostro amico», il monarca dal canto suo può esprimere, in mezzo ai suoi contadini, «la gioia di essere un uomo, e di vedere la natura nella sua innocenza» 17. È vero anche, tuttavia, che questa tendenza alla conciliazione sociale non cancella tutte le tracce di elementi autenticamente critici, che sono stati percepiti in modo vivo dai contemporanei nella forma stessa delle operette di Weiße-Hiller, come avviene nella ricca e dettagliata analisi su Die Jagd fatta da Reichardt in Ueber die deutsche komische Oper, uno dei rarissimi testi contemporanei dedicati all’estetica del Singspiel. Pieno di incondizionata ammirazione, tanto da vedere in lui il corrispettivo nella musica di ciò che Gellert è per la poesia, Reichardt fa di Hiller l’iniziatore di un genere tutt’affatto originale del teatro lirico, ottenuto dalla fusione delle caratteristiche delle opere comiche delle altre nazioni e dalla capacità di adeguarle alle condizioni dei teatri tedeschi, in particolare al basso livello professionale dei cantanti (o attoricantanti) e alla povertà dei mezzi orchestrali. La «superiorità» del Singspiel di Hiller sui generi comici degli altri paesi (la tonalità dello scritto di Reichardt non è priva di un certo orgoglio nazionale) dipende soprattutto, però, dalla capacità di delineare musicalmente i caratteri, e qui tutto si basa sull’innovativa combinazione di Lieder messi in bocca ai rappresentanti dei ceti popolari e che si attengono, come le chansons delle operette francesi, a una melodia semplicissima, tali quindi da poter essere ricantati dal pubblico senza accompagnamento 18, e di arie – incluse, sia pure

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Ivi, II, p. 168. Ivi, III, pp. 37-39. 18 J. F. REICHARDT, Ueber die deutsche comische Oper nebst einem Anhange eines freundschaftlichen Briefes über die musikalische Poesie, Hamburg, C. E. Bohn 1774 (ripr. München, Katzbichler 1974, con una postfazione di W. Salmen), ), p. 11: «Quando si considerano i Lieder francesi (chançons) dal giusto punto di vista, non si può che lodarli: giacché il francese vuole questo, che la canzone sia fatta in modo tale da poter essere ricantata. E non sono pochi a Parigi quelli che vanno all’opera solo per potere disporre di nuovi canti, la sera, quando bevono». 17

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in forma adattata, le «grandi arie» dell’opera seria – utilizzate spesso in senso parodistico «come segno distintivo dei personaggi nobili quando compaiono nella società degli uomini naturali» 19. In Erwin und Elmire Goethe si appropria di questa caratteristica dei Singspiele alla moda di enfatizzare la naturalezza alla Rousseau, ma ne rovescia il senso mediante un potente e ripetuto effetto di straniamento. La vicenda non è più ambientata in una scena naturale, ma in un paesaggio che imita artificialmente la natura e che si fa immediatamente riconoscere dallo spettatore come artificiale: si tratta, come dice il testo, di una «romantische Gegend», del paesaggio pittoresco che ha al centro la capanna e il giardino dove il protagonista si è rifugiato a coltivare le rose assieme alla sua malinconia e dove Elmire vuole «suggere dal petto della natura un alimento che lenisca le sue pene» 20. A questo effetto di straniamento se ne aggiunge però subito un altro, perché la finta natura è anche la scena in cui si svolge un’altra finzione, la mascherata, l’inganno allestito dall’istitutore per consentire la riunificazione degli innamorati. In Erwin und Elmire viene così configurata una struttura che si ripete nei libretti di Goethe e in cui è possibile riconoscere un momento significativo della sua critica ai presupposti dell’Empfindsamkeit: una situazione sentimentale irrigidita nell’incomunicabilità e nell’isolamento, e condannata a sfociare in stato patologico se abbandonata alla propria spontaneità, viene risolta, rimessa in movimento o comunque avviata a una soluzione di compromesso non dagli ammonimenti astratti della ragione (e meno che mai dalla natura lasciata libera di seguire il suo corso spontaneo), ma da un’azione fittizia inserita nell’azione drammatica e allestita da uno dei personaggi, che costringe gli altri a prendervi parte come attori o come spettatori. In questo modo i personaggi vengono per così dire sdoppiati tra la situazione sentimentale che stanno vivendo di fatto e quella che invece recitano, e proprio questo confronto consente di avviare la soluzione della crisi. La procedura trova la sua massima evidenza in Lila, «operetta» (come compare nel sottotitolo della prima versione, di cui possediamo solo le parti cantate) rappresentata a Weimar nel gennaio 1777 per il compleanno della duchessa Luisa, e dove la

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Ivi, p. 8. BA, p. 20; su indicazione di Goethe, le scene dovevano imitare stampe di Poussin. 20

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protagonista viene guarita da uno stato malinconico grazie al ruolo che recita in una rappresentazione fantastica con orchi e fate organizzata a scopo terapeutico, una di quelle féeries alla Gozzi che erano tanto amate alla corte di Weimar, e che ha per l’appunto come scenario la falsa naturalezza di un parco. Il modello roussoviano adottato nell’Erwin con la figura del saggio istitutore è mantenuto in una figurazione più complessa, che certamente tiene conto anche di contemporanei esperimenti di «cura psichica». Il «mago» Verazio è un accorto terapeuta che, dapprima osteggiato dalla famiglia di Lila, riesce finalmente a mettere in atto il suo inconsueto metodo di cura e fa in modo che tutti i personaggi diventino attori dello psicodramma da lui allestito e accortamente guidato nelle fasi più rischiose, e nel quale è prevista anche l’utilizzazione della iatromusica. Il ricorso all’espediente del teatro nel teatro (presente anche nei grandi drammi, come ad es. nel primo atto di Tasso) ha molteplici funzioni in Goethe, prima di tutte però la funzione formale di sottolineare il carattere rigorosamente convenzionale e innaturale del Singspiel. Più tardi, nel saggio Ueber Wahrheit und Wahrscheinlichkeit der Kunstwerke (1798), Goethe ricorrerà proprio all’esempio dell’inverosimiglianza del teatro d’opera per negare il carattere mimetico dell’arte, che il bello sia imitazione del vero naturale: nella sua terminologia, per mostrare che l’arte è «vera parvenza» e non «parvenza del vero». Perlomeno per questo aspetto, Goethe è schierato dalla parte di Wieland nel sottrarre il Singspiel ai criteri di un’estetica dell’imitazione. A chi, come Gottsched,, nemico feroce del Singspiel, aveva obiettato che niente è più innaturale del teatro d’opera, già per il fatto che i personaggi cantano anziché parlare, come farebbero nella vita normale, Wieland rispondeva che ogni tipo di spettacolo, e non solo l’opera, è possibile solo sulla base di un tacito patto stipulato tra l’autore e lo spettatore, il quale si mostra disponibile ad assumere temporaneamente come realtà ciò che sa benissimo essere finzione 21. Wieland mirava a un tipo di Singspiel del tutto diverso da quello di Goethe, un Singspiel basato su soggetti eroico-mitologici, che rivendicava una parentela con la tragedia greca ed era ispirato al modello, allora già da tempo declinante, anche se doveva ancora 21 C. M. WIELAND, Versuch über das deutsche Singspiel und einige dahin einschlagende Gegenstände (1775) in Sämmtliche Werke, vol. 26 (Singspiele und Abhandlungen), Leipzig, G. J. Göschen 1796 (ripr. Hamburg/Nördlingen, Greno 1984, vol. 8), p. 246.

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dare i suoi frutti più splendidi, dell’opera seria italiana. Benché non suffragata da alcuna testimonianza, è opinione ripetuta che Goethe sia stato indotto a sperimentare il genere del Singspiel dalla sua opposizione all’Alceste di Wieland, un’opposizione che si esprimeva intanto nella farsa Götter, Helden und Wieland. Sembra più significativo, invece, un altro punto di contatto tra i due, essenziale nella contemporanea discussione sul Singspiel. Già Weiße aveva sostenuto l’opinione che gli inserimenti canori hanno sempre un valore ritardante o di stasi perché «il Lied arresta sempre l’azione», come egli scriveva nella prefazione del ’68 alle Komische Opern 22; Wieland ritiene che le parti cantate siano deputate all’effusione di sentimenti mentre l’azione «può solo essere agita» o descritta nei dialoghi parlati 23. Ugualmente, nei primi Singspiele di Goethe il canto si insedia per così dire nei momenti di sospensione dell’azione: «la musica abbia l’ardire di esprimere i sentimenti di queste pause» come recita in modo molto significativo una didascalia per il compositore dell’Erwin und Elmire (BA IV, p. 32). La concezione di Wieland, a cui la prassi di Goethe sembra corrispondere pienamente, era che la maggiore semplicità possibile dell’azione e del dialogo drammatico fosse una caratteristica «propria ed essenziale» del Singspiel. Per lui questo è una conseguenza logica del fatto che la musica, limitata com’è all’espressione dei sentimenti momentanei, non ha in linea di principio alcun potere nell’esposizione dello sviluppo drammatico. Un’ulteriore limitazione proveniva dalla convinzione che la musica è in grado di significare solo i sentimenti piacevoli, cosicché è esclusa dal tragico e «le è interdetto il furore di Edipo, che si strappa gli occhi per la disperazione» 24. Nella prospettiva di Wieland il Singspiel mira a una specia di azione interiore o, com’egli scrive, a una esposizione diffusa dell’evoluzione o gradazione degli affetti, cosa che non è possibile se il soggetto è «molto composito, intricato e pieno d’intrigo», perché tali caratteristiche «non ci lasciano il tempo di guardare così profondamente nell’intimità dei personaggi» 25. Come ha mostrato Stefan Kunze nella sua magistrale analisi comparativa del Ratto mozartiano e dei Singspiele di Goethe 26, 22

La si veda ora in R. SCHUSKY, Das deutsche Singspiel, cit., pp. 13-14. C. M. WIELAND, Versuch über das deutsche Singspiel, cit., p. 257. 24 Ivi, p. 255. 25 Ivi, p. 259. 26 S. KUNZE, Il teatro di Mozart. Dalla “Finta semplice” al “Flauto magico”, trad. di L. Cavari, Venezia, Marsilio 1990, pp. 215-230. 23

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questi ultimi sono ancora dominati dalla convinzione che l’azione scenica e la parola debbano avere la precedenza rispetto alla musica. Ciò non è contraddetto, naturalmente, dal fatto che in Goethe si possono leggere singole proposizioni assai ardite che sembrano andare in direzione diversa, come ad esempio, in una lettera a Zelter, l’affermazione che «il testo di un’opera deve essere un abbozzo, non un quadro finito» 27, ciò che fa effettivamente pensare a una collaborazione aperta nella quale il musicista non è vincolato a un testo poetico definito in partenza e suscettibile solo di variazioni occasionali. Kunze ha visto nella dipendenza della musica dal libretto e dall’azione scenica una vera e propria «aporia estetica» che spiega il motivo del fallimento di Goethe nel Singspiel assai meglio del vecchio e in fondo ingeneroso argomento che egli non avrebbe mai trovato i compositori adatti. Soprattutto, però, è proprio l’esiguità strumentale e canora del Singspiel alla Weiße, da cui Goethe prende le mosse, a determinare l’estrema semplificazione nel soggetto e nei personaggi, addirittura fino all’eccesso, come mostra l’angustia quasi soffocante di Scherz, List und Rache che Goethe mette idealmente in competizione con il Ratto, e che è l’esilissima storia di una burla organizzata da due personaggi della commedia dell’arte, Scapino e Scapina, ai danni del dottore pedante. Paradossalmente infatti il ruolo modesto affidato alla musica non consente nemmeno uno sviluppo adeguato della parte affidata al dialogo parlato, a meno di non creare tra i due uno squilibrio troppo forte. Mentre i due criteri della semplicità dell’azione e dello scarso numero dei personaggi continuano a valere per tutti i Singspiele di Goethe, ciò che si modifica in modo evidente all’interno dell’aporia estetica denunciata da Kunze, e fino al punto quasi di creare una controtendenza rispetto ad essa, è il rapporto tra l’elemento lirico-musicale e quello drammatico, che Goethe tendeva comunque a concepire come un’«azione senza tregua». In questo modo, i Singspiele acquistano un significato rilevante all’interno della drammaturgia goethiana, sono il laboratorio per sperimentare una relazione altamente problematica in questa fase della sua attività; basta pensare a drammi come Clavigo e Stella, alla metà degli anni Settanta, che cercano un difficilissimo equilibrio tra azione ed effusione sentimentale.

27 Briefwechsel zwischen Goethe und Zelter 1799-1832, a cura di M. Hekker, I, Frankfurt a.M., Insel-Verlag 1987, p. 345 (lettera del 19 maggio 1812).

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Nel 1779, in una lettera all’amico Kayser, che doveva mettere in musica il testo del Singspiel Jery e Bätely, basato sul solito schema dei due innamorati e della finzione risolutrice e ambientato in un paesaggio alpino della Svizzera manierato fino alla caricatura, Goethe dà una schematica formulazione delle modifiche che intende introdurre rispetto alla primitiva rigida separazione tra cantato e parlato, parte lirica e parte drammatica. Accanto ai Lieder devono trovare posto piccole arie dove «il personaggio esprime il sentimento del momento e, totalmente perduto in esso, canta dal profondo del suo cuore» 28. Fino a qui musica e canto resterebbero sempre deputati all’espressione del sentimento istantaneo, e come in precedenza non avrebbero un ruolo nel determinare lo sviluppo dell’azione, se non fosse che Goethe introduce un terzo elemento, che chiama «dialogo ritmico», distinto dal dialogo parlato e che, scrive, deve essere come un anello d’oro liscio in cui vengono incastonati come pietre preziose Lieder e arie. Qui il musicista ha grande libertà di intervento per rallentare o accelerare l’azione, a seconda che tratti il dialogo come declamazione con ritmi spezzati o lo faccia muovere rapidamente sulla base di una melodia. Accanto ad esso sopravvive il dialogo parlato, che «qua e là» può essere trattato dal musicista, per sua libera scelta, come un recitativo accompagnato 29. Questa riflessione sulla funzione drammaturgica della musica non si discosta molto da quella, celeberrima, che si legge nella Italienische Reise (Resoconto del novembre 1787) a proposito del teatro d’opera italiano, che lo avrebbe poi indotto a modificare radicalmente in una seconda versione i due primi Singspiele. Qui Goethe scrive che il dialogo in prosa delle prime versioni gli ricordava troppo «quelle operette francesi» (in realtà egli intende il Singspiel alla Weiße-Hiller, che aveva riprodotto come dialogo in prosa ciò che nell’opera comique è dialogo versificato), che non soddisfano più chi da «naturalizzato italiano, voleva perlomeno vedere connesso il canto melodico con quello recitativo e declamatorio», una tripartizione che corrisponde appunto alla distribuzione proposta anni prima nella lettera a Kayser. In un’altra lettera allo stesso musicista meno nota e commentata della precedente, ma non meno interessante, e che discute il trattamento musicale di Scherz, List und Rache, la musica viene

28 29

WA IV/4, p. 156; lettera del 29. 12. 1779. Ivi, p. 157.

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concepita come un testo che commenta o «accompagna» la mimica e la gestualità degli attori-cantanti, in quanto però essi comunicano agli spettatori significati che creano un contrasto comico rispetto a quelli del testo poetico. Goethe inizia invitando Kayser a «immaginarsi il tutto come pantomima, come azione, proprio come se dovesse fare senza la parola più di quanto possono fare le parole» e continua assegnando alla musica che commenta l’azione scenica una capacità espressiva che oltrepassa quella della parola, e istituisce un registro di significati alternativi. Il brano che segue si riferisce alla scena finale del terzo atto in cui Scapina si finge avvelenata dall’arsenico scambiato con la medicina e Scapino, mercanteggiando un compenso sempre più alto, si fa indurre dal dottore a portare via il finto cadavere: Se Lei si fa per ogni scena un’idea vivida dell’azione teatrale, vi troverà delle cose che non sono espresse in parole. Ad esempio nella scena in cui si finge morta, Scapina può rendere la sua positura più comoda e nello stesso tempo può rendere più comica la situazione tirandosi su, a tratti, alle spalle del vecchio, sbeffeggiarlo, fare segni a Scapino che non deve concludere l’affare cedendo troppo sul prezzo. Quando il vecchio fa l’atto di voltarsi ricade giù distesa30.

Benché la musica sia esplicitamente concepita come commento o «accompagnamento» dell’azione, qui viene assegnato al musicista un altissimo grado di libertà e di invenzione drammatica, poiché tutto dipende da come egli «immagina» la scena, mentre nel libretto non vi è nessuna didascalia che dia indicazioni di sorta sulla pantomima. Libertà e responsabilità del musicista vengono esaltate dal fatto che qui si tratta evidentemente di inventare un testo alternativo a quello poetico; e dal fatto che la musica in contrasto con il testo poetico deve sottolineare il carattere di finzione, di teatro nel teatro che Goethe, apparentemente utilizzando in modo tradizionale l’espediente della burla proprio della commedia dell’arte, assegna a questo momento decisivo dell’azione. Nella vecchia (ma tutt’altro che superata) letteratura sul Singspiel di Goethe l’evoluzione dal ’73 all’87 è stata descritta come un approssimarsi al modello dell’opera buffa. In un saggio che per rigore filologico e ampiezza problematica rimane forse il più cospicuo tra quelli dedicati a questa parte della produzione di Goethe, Elmar Bötcher ha circoscritto i termini della questione 30

WA IV/7, p. 68; lettera del 20. 6. 1785.

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GOETHE E LE FORME DEL SINGSPIEL

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osservando che «Per Goethe non si tratta di questioni di tecnica musicale, bensì del rapporto tra poesia e musica; ciò che soprattutto lo interessa è la tecnica del librettista» 31. Nelle nuove versioni di Erwin e di Claudine l’introduzione, accanto ai dialoghi versificati e dei finali d’atto, delle coppie parallele e l’eliminazione di alcuni personaggi significherebbe un adeguamento rigoroso alla struttura drammaturgica dell’opera buffa, che non sopporta ruoli secondari o ruoli che, comunque, siano ininfluenti rispetto all’azione e musicalmente infecondi. Benché Bötcher continui a parlare di un passaggio percepibile (che sarebbe avvenuto nel 1784, quando Goethe conosce l’opera italiana attraverso le rappresentazioni della compagnia di Bellomo a Weimar) 32 dal modello dell’operetta di Weiße-Hiller a quello dell’opera italiana, si dovrà piuttosto parlare di un’influenza della buffa – così come si manifesta in Scherz, List und Rache e nei rifacimenti italiani dei due primi Singspiele – nel senso di un potenziamento ulteriore del principio di semplicità dell’azione e di funzionalità ad essa dei personaggi. L’«azione senza tregua» a cui Goethe idealmente mira prende concretezza adesso grazie a quello che Bötcher chiama il principio d’immanenza dell’opera buffa, secondo il quale tutte le trasformazioni drammatiche devono procedere dall’interno dei personaggi e delle loro relazioni. Significativa risulta così, nell’Erwin, l’abolizione di due personaggi come quello della madre, da cui non viene alcun impulso dinamico all’azione, e dell’istitutore, da cui ne vengono per così dire troppi, visto che era paradossalmente l’unico personaggio che veramente agiva, funzionando come un deus ex machina che permette la trasformazione della situazione iniziale. Se l’analisi di Bötcher stabilisce dunque che l’influenza dell’opera buffa riguarda propriamente le possibilità drammaturgiche del libretto, ricerche più recenti, come quella di Benedikt Holtberndt 33, hanno fatto notare come ai Singspiele di Goethe sia estranea proprio la caratteristica principale dell’opera buffa, il canto simultaneo di più personaggi basato sulle possibilità specificamente musicali della polifonia: travolti i limiti imposti al teatro parlato musicalizzato, dove può parlare o cantare 31 E. BÖTCHER, Goethes Singspiele “Erwin und Elmire” und “Claudine von Villa Bella” und die “opera buffa”, Marburg, Elwert 1912, p. 18. 32 Sulla circostanza cfr. anche W. BODE, Die Tonkunst in Goethes Leben, vol. I, Berlin, Mittler & Sohn 1912, cap. IV (Die komische Oper). 33 B. HOLTBERNDT, Die dramaturgischen Funktionen der Musik in den Schauspielen Goethes, Frankfurt a.M., Peter Lang 1992.

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solo uno alla volta e la struttura monologica del discorso domina anche nei finali d’atto, nell’opera buffa si afferma il principio di un’azione drammatica che trova prioritariamente nella musica, e non nell’azione scenica e nella parola, il suo tessuto espressivo. Se si scarta l’ipotesi che l’evoluzione di Goethe nel campo del Singspiel vada cercata in un brusco ribaltamento di paradigma oppure, come è stato ultimamente sostenuto, nell’intenzione di creare un autentico Gesamtkunstwerk come sintesi di libretto, azione scenica e testo musicale 34, rimane quella, assai più realistica, di ricercarla analiticamente nel lavoro che Goethe ha compiuto per superare i limiti imposti dall’esiguità strumentale e canora dell’operetta alla Weiße e creare un alto grado di integrazione tra elemento lirico e drammatico. Uno dei mezzi per ottenere questo risultato è di fare assumere sempre di più agli elementi canori, Lieder ecc., una funzione drammaturgica precisa e non più soltanto quella di esprimere i sentimenti momentanei dei personaggi o di essere, come diceva la lettera a Kayser, le pietre preziose incastonate nell’anello. L’esempio più cospicuo di questo mutamento di funzione ci viene, come ha ben visto Holtberndt, da un confronto del ruolo e della forma che assume la celebre romanza Das Veilchen nelle due versioni di Erwin und Elmire, del ’73 e dell’87 35. Il contenuto resta immutato: la viola sogna di essere il fiore più bello, in modo che la pastorella lo colga e se lo ponga in seno; la pastorella, che nemmeno si accorge di quel modesto fiore, lo calpesta e lo uccide, ma la viola muore felice di essere stata calpestata dal suo piede. Nella prima versione la romanza possiede una funzione dialogica, anche se assai esile e quasi impercettibile, perché si dice che la cantava Erwin per esprimere il suo incondizionato amore, e adesso Elmire la ricanta con rammarico e nostalgia. La romanza dunque, collocata all’inizio, come terzo inserimento musicale, esprime un sentimento di unione che nel profondo lega ancora i due innamorati, malgrado la separazione, ma esprime anche l’oscura sensazione che l’amore ha un potenziale distruttivo e arreca inconsapevolmente la morte. Ci troviamo così di fronte, fin dalle prime prove di Goethe, a una funzione drammaturgica più sottile e complessa dell’inseri34 La tesi, che mi pare francamente avventurosa, è stata recentemente riproposta da D. BORCHMEYER, “Götterwelt der Töne”. Goethes Theorie der Musik, in Ein unteilbares Ganzes. Goethe: Kunst und Wissenschaft, a cura di G. Schnitzler e G. Schramm, Freiburg i.Br., Rombach 1997, specie pp. 146 e sg. 35 BA, p. 17 e pp. 40-41.

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mento canoro, che non è esclusivamente espressione di sentimenti insediata nelle «pause» dell’azione, ma indica uno strato profondo della situazione drammatica. La dialettica tra momento lirico e momento drammatico è particolarmente visibile nel ruolo delle ballate Erlkönig36 e Der Wassermann37 nel Singspiel Die Fischerin. Le ballate hanno un valore di presentimento e permettono di indovinare il fondo oscuro – l’incombente impulso di morte – che condiziona l’agire materiale sulla scena dei personaggi, e in particolare della protagonista. Grazie a Erlkönig la successiva finzione di Dortchen, che fa credere di essere annegata per vendicarsi della disattenzione verso di lei da parte del padre e del futuro sposo, si rivela come qualcosa di più che un semplice trucco messo in atto per sbloccare una relazione critica tra i personaggi; essa è invece la realizzazione parziale, non cruenta, di una disperata fantasia infantile che la stessa protagonista ci rivela nel lungo monologo sull’infelicità della sua condizione: «Quando sarò morta vedranno cosa hanno perso con me, si rimprovereranno la loro ingratitudine: ma sarà troppo tardi, e non aiuterà né loro né me. Comincia a piangere» (BA IV, p. 264). In modo speculare, la ballata dello spirito delle acque che si presenta travestito da cavaliere alla fanciulla per condurla in sposa, ma la trascina con sé nelle profondità marine, rivela al padre e a Niklas che la realtà visibile è intessuta di una realtà invisibile e spaventosa che è vano esorcizzare con il nome di «fantasie», e li induce a prestare fede all’annegamento di Dortchen. Esso, sospeso com’è tra i due piani simultanei di un mondo sensibile e di un mondo impalpabile e oscuro, ha dunque una solida motivazione, e benché sia una finzione è più reale della realtà stessa. Le due ballate sono in verità la chiave d’accesso alla logica drammatica di questo incantevole e inquietante Singspiel, che è giocato tutto, anche nelle sue varie motivazioni tematiche, sul manifestarsi entro l’azione visibile di un’azione invisibile, e che anche dal punto di vista scenografico doveva avere il suo punto culminante, secondo le indicazioni di regia contenute nel testo38, nel momento in cui gli spettatori, che assistevano a una rappresentazione notturna, grazie a una fiaccolata si rendevano conto di trovarsi sull’ansa del fiume, circondati dall’acqua e quasi prigionieri dell’elemento che la ballata Der Wassermann connette all’impulso di morte.

36 37 38

Ivi, pp. 261-262. Ivi, pp. 269-270. Ivi, p. 272.

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Se torniamo ora alla romanza Das Veilchen 39, possiamo osservare che nella seconda versione essa viene invece cantata a tre voci da Elmire con Rosa e Valerio, la seconda coppia di innamorati. Ogni personaggio ne canta una strofe, e l’ultima viene ripetuta all’unisono. La drammatizzazione della forma lirica ha un valore funzionale, perché nella seconda versione in omaggio al principio di immanenza dell’opera buffa la riconciliazione degli amanti non dipende più dalla finzione organizzata dall’istitutore, che non esiste più neanche come personaggio, ma è affidata interamente alla loro capacità di riflettere sul passato, quel passato che, nei due elementi della dedizione erotica e della minaccia mortale, è concentrato nella romanza della violetta, e di separare eros da thanatos, cosicché il dramma nel dramma che caratterizzava la prima versione viene sostituito a tutti gli effetti dalla romanza nella forma di piccolo dramma.

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WA IV/4, pp. 255-262.

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IL «FENOMENO ORIGINARIO DELL’ETICA»*

1. In un pensiero scritto a Dresda nel 1815, il n. 445 secondo la numerazione che Arthur Hübscher dà nella sua edizione del materiale postumo che precede la prima pubblicazione del Mondo, Schopenhauer enuncia in modo compiuto, benché sintetico, il tema della memoria che nel 1840 presenterà all’Accademia danese delle Scienze con il titolo Il fondamento della morale. «Se si mantiene genuina nell’azione – scrive Schopenhauer – la compassione è dunque virtù. Uno degli errori e delle debolezze più grandi di Kant consiste nel negarlo e nel ritenere virtù solo le azioni buone derivate da massime astratte, anzi addirittura dal concetto astratto di un imperativo categorico»1. Alla compassione Schopenhauer connette qui varie forme o modalità del conoscere, che vanno da un semplice rappresentarsi o «vedere» il dolore altrui (anziché «sentire» un dolore proprio, secondo la distinzione che verrà ripresa nel Mondo) fino a una forma di conoscenza superiore che va oltre il principium individuationis e il velo del mondo fenomenico. In un’aggiunta a margine del testo principale, sulla quale neanche l’edizione Hochstetter di questi pensieri, solitamente più precisa di quella di Hübscher nel distinguere le stratificazioni del testo, avanza una data ipotetica di composizione2, Schopenhauer equipara infatti senz’altro il fenomeno della compassione come rappresentazione del dolore altrui con la «svolta (Wendung)» della volontà che coincide con la sua negazione ed equivale a una tra* Cfr. infra, Bibliografia 2006 n. 2. 1 SP I (I manoscritti giovanili 1804-1818, a cura di S. Barbera) p. 395. 2 A. SCHOPENHAUER, Die Genesis des Systems – Erstlingsmanuskripte, hrsg. von E. Hochstetter (vol. 11 dei Sämtliche Werke curati da Paul Deussen), München, Piper 1916, pp. 313-314. Il pensiero compare in questa edizione con il numero 425.

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sformazione del carattere intelligibile. Egli mette l’intero processo sotto l’egida della forma superiore della conoscenza che nel Mondo e nelle quasi coeve Lezioni berlinesi sarà espressa dalla figura – già presentata tuttavia nel 1814 e poi via via perfezionata3 – dell’eterna giustizia, ossia dalla conoscenza dell’identità metafisica che cancella tutte le differenze e le opposizioni vigenti nel mondo fenomenico. «Simultaneamente e di colpo (Zugleich und mit einer Schlage)» si passa dalla compassione alla negazione della volontà, anzi la prima è già una forma della seconda, e l’intero processo è fatto dipendere da un tipo superiore di conoscenza: «Il fondamento ultimo di ogni virtù, o piuttosto la sua essenza autentica, è la conoscenza dell’identità dell’unica volontà in tutti i suoi fenomeni, e dell’inganno del principium individuationis, in virtù del quale gli altri individui appaiono come diversi dal nostro e così pure la loro sofferenza». Solo nella prospettiva di questa conoscenza «non comunicabile in concetti astratti» si spiega, in effetti, perché nel tentativo di annullare il dolore altrui con l’atto compassionevole l’individuo «proprio così nega la volontà di vivere che egli stesso è». La compassione appare quindi in questo testo4 non come una virtù specifica accanto alle altre, ma come l’essenza stessa della virtù, come un fenomeno morale che pur essendo concreto contiene potenzialmente in sé tutti gli altri, secondo una caratteristica che viene mantenuta anche nel Fondamento della morale, e che sta anzi alla base della connotazione – su cui occorrerà ritornare – della compassione come «fenomeno originario dell’etica». Da tempo tuttavia Schopenhauer aveva iniziato a distinguere compassione, amore del prossimo o charitas, e negazione della volontà, disponendo tutti questi termini in una progressione gerarchica che sarà poi perfezionata e resa definitiva nel IV libro del Mondo; aveva inoltre connesso il processo che conduce alla negazione della volontà, e di cui la compassione è momento essenziale, a quella forma potenziata e geniale di conoscenza che consiste nell’intuizione dell’idea, pur sempre una conoscenza rappresentativa, nella quale però si scavalcano le condizioni spazio-temporali e l’oggetto è colto sub specie aeternitatis, come recita il § 34 del Mondo5, 3 Cfr., oltre al § 63 del Mondo, Metaphysik der Sitten. Philosophische Vorlesungen Teil IV, hrsg. von V. Spierling, München, Piper 1985, pp. 174-93, e SP I, p. 213 (n. 263). 4 Cfr. inoltre il n. 470, ivi, p. 417. 5 Schopenhauer si spinge fino al punto di considerare questa parte della sua filosofia come unica giustificazione possibile del pensiero di Spinoza:

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IL «FENOMENO ORIGINARIO DELL’ETICA»

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da un soggetto che si è liberato dai legami con la volontà ed è divenuto «puro occhio del mondo». In una serie di appunti del 1814 Schopenhauer esamina il valore salvifico della conoscenza, e in particolare del suo potenziamento in conoscenza dell’idea, descrive con una precoce utilizzazione del lessico della fisiologia (niente affatto dunque una prerogativa del tardo Schopenhauer) il processo di affrancamento dalla volontà a cui il conoscere dà luogo, descrivendolo come un passaggio dall’irritabilità alla sensibilità, e sulla base di questa analisi, che sfocia nella distinzione tra la figure pur affini del genio e del santo, pone in dubbio che la «svolta» della volontà si risolva in un evento esclusivamente cognitivo, o possa coincidere pienamente con esso. Il pensiero 274, che ancora mantiene pienamente la polarità di derivazione fichtiana, tipica del primo Schopenhauer, di «coscienza empirica» e «coscienza migliore» (orientata questa al mondo soprasensibile, in una relazione di alterità con quello empirico, e che egli chiama anche «l’indicibile») stabilisce bensì il legame essenziale tra conoscere e affrancamento dalla volontà, e che «lo stato del puro conoscere (che interviene quando si guardano la natura e le opere d’arte) è quindi il vero evangelio, che dice: “Tu volente (ossia infelice) sei però anche conoscente, e questo ti redimerà dal volere”»; ma constata nello stesso tempo che lo stato del «puro conoscere» non significa ancora passaggio dall’una all’altra, superiore e distinta forma di coscienza, ma solo «la via che vi conduce, la promessa di questa via». Poco più tardi, in maniera assai più circostanziata, Schopenhauer stabilisce che nella conoscenza dell’idea si afferma «il soggetto del conoscere nella sua purezza, ossia senza riferimento alcuno alla volontà», ma anche che essa «in quanto tale, non è ancora la redenzione, ma l’elemento di necessaria mediazione, la via alla redenzione»6. La distinzione va di pari passo con quella tra il santo e il genio: che è tanto più impegnativa e difficoltosa, quanto più la conoscenza geniale – per le ragioni che tra breve vedremo – è strutturalmente affine all’atteggiamento virtuoso per l’«oblio completo della personalità e delle sue relazioni» che in essa ha luogo7. «“Mens aeterna est, quatenus res sub aeternitatis specie concipit” (SPINOZA, Ethica, Prop. XXI, schol.). È solo grazie al mio modo di concepire le cose che queste parole ricevono un significato chiaro», ivi, p. 384 (n. 436, 1815). 6 Ivi, p. 309 (n. 369, 1815). 7 WW § 36. L’illustrazione più diffusa della «affinità tra genio e virtù» e tuttavia della sua differenza con il santo si legge nel pensiero n. 420 del 1815 (SP I, pp. 360-363).

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Attraverso queste distinzioni Schopenhauer attenua vistosamente la tendenza a identificare conoscenza e virtù che in varie occasioni fin dagli esordi della sua riflessione, e in particolare nei suoi Quaderni di studio su Kant e Fichte, aveva evocato con un richiamo a Platone: «La legge morale non è altro che una conoscenza superiore. È ciò che già pensava Platone, che chiama la virtù una epistéme e il vizio un errore». Così si legge negli appunti su Fichte8, ma anche nelle riflessioni Sulla teoria kantiana della virtù (autunno 1811), vi è un riferimento alla identificazione platonica di virtù e conoscenza. L’atteggiamento di Platone viene polemicamente opposto a quello di Kant, e si tratta in effetti della prima esplicita critica all’imperativo categorico, che secondo il giovane Schopenhauer Kant connette in modo illegittimo alla promessa di una ricompensa futura9. In tale modo non solo vengono introdotti di soppiatto elementi di eudemonismo in una filosofia morale che pure ha avuto il merito di combatterlo, ma soprattutto quel che dovrebbe esprimere la maestà della legge soprasensibile, la voce della coscienza migliore, viene mescolato alle vicende del mondo sensibile e abbassato al rango della coscienza empirica. L’obiezione contiene, anche se non ancora tematizzato in modo esplicito, il nucleo da cui si sviluppa la successiva critica di Schopenhauer alla ragione pratica di Kant, da lui respinta come espressione di un inaccettabile «sincretismo» tra mondo sensibile e mondo soprasensibile. Quando scrive queste note il giovane Schopenhauer intende sviluppare una filosofia che ha come punto di partenza la separazione radicale tra la «coscienza migliore» e la coscienza empirica e che egli chiama «una chimica spirituale, il vero criticismo», intendendolo appunto come uno sviluppo coerente della parte feconda della filosofia kantiana. Kant, come scrive nelle note intitolate Sulla teoria kantiana della virtù10, ha neutralizzato le pretese metafisiche e l’uso trascendente dell’intelletto

8 Oltreché nel passo citato, contenuto negli appunti alla Sittenlehre – cfr. HN II (Kritische Auseinandersetzungen 1809-1818), p. 351 – il tema della virtù come scienza compare nelle annotazioni alla Istruzione per la vita beata (ivi, p. 349). 9 Prima ancora che nel Fondamento della morale, l’osservazione compare nel pensiero n. 675 del 1817 (SP I, p. 635), dove l’attesa della ricompensa come «celato motivo egoistico» vanifica l’azione virtuosa, sempre basata su una rinuncia ad affermare la volontà egoistica. 10 HN II, pp. 256-259.

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IL «FENOMENO ORIGINARIO DELL’ETICA»

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umano, e nel costringerlo entro confini invalicabili gli ha impedito di oltrepassare l’orizzonte della coscienza empirica, segnando dunque in modo netto l’incommensurabilità tra le due forme della coscienza. Per il giovane Schopenhauer – ed è questo uno dei punti nodali di sviluppo del suo sistema – la filosofia della coscienza migliore e del «vero criticismo» non corrisponde affatto a un’intenzione ‘religiosa’, ma rappresenta anzi il punto culminante dell’Aufklärung, della cultura intellettuale che lentamente ma inesorabilmente distrugge ogni religione11; è invece proprio il sincretismo della ragione pratica, e quello della «ragione assoluta» dell’idealismo postkantiano, che da lì ha preso le mosse dilatando a dismisura l’errore di Kant, a rappresentare una ripetizione del mito, che in quanto traduzione dell’«indicibile» della coscienza migliore nel linguaggio adeguato all’immagine di quella empirica sta alla base di ogni religione. La discussione sulle relazioni tra le forme della conoscenza e il processo che conduce alla negazione della volontà è in ogni modo un Leitmotiv della filosofia di Schopenhauer, e il suo atto definitivo è forse da ricercare nel 1844, quando egli, in seguito alle «obiezioni assai sottili» che l’avvocato August Becker, il più acuto tra i suoi primi seguaci, gli rivolgeva in una serie di lettere sul problema della noluntas, nega la possibilità di identificare la svolta della volontà persino con la forma superiore di conoscenza, la stessa di cui parlava, dando per scontata quell’identificazione, il pensiero 445 del 1815. Dopo avere spiegato al suo interlocutore che «svolta» o negazione della volontà e corrispondente trasformazione del carattere intelligibile sono misteriose espressioni del carattere libero della volontà che hanno un’analogia nei fenomeni descritti con la resurrezione in seguito alla grazia (giacché di questo dominio, che sfugge alla nostra esperienza, si può parlare solo ricorrendo al linguaggio figurato del mito religioso), Schopenhauer ne illustra il nesso con la conoscenza attraverso l’immagine dell’acqua che giunge al punto di ebollizione, dunque con l’esempio del rapporto tra un incremento quantitativo e un mutamento qualitativo di stato. La «visione che va oltre» il princi11 Cfr. SP I, p. 27 (n. 32, 1812) e così pure le note dello stesso periodo alla Critica di ogni rivelazione di Fichte. Schopenhauer adopera l’immagine kantiana dell’illuminismo come fuoriuscita dallo stato di minorità e prevede che nella separazione tra le due coscienze effettuata dal vero criticismo «verrà buttata via una buona volta ogni religione, come si fa con le dande della fanciullezza» (HN II, p. 360).

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pio d’individuazione, la forma superiore di conoscenza, «prepara senza dubbio la negazione della volontà, ma non la induce, nemmeno gradualmente», cosicché quella «trasformazione improvvisa e totale» si presenta come un «fenomeno del tutto nuovo»12. 2. Rispetto a questo stadio di elaborazione del problema, è opportuno fare un passo indietro e soffermarsi sulla prima ed elementare forma di conoscenza (l’intuizione intellettuale) legata alla compassione, una forma che nel testo principale, di prima stesura, del pensiero 445, è presentata come un processo visivo. La già ricordata distinzione tra «dolore sentito» e «dolore visto» per indicare le due vie che portano alla redenzione dalla volontà è sostenuta sull’identità tra vedere e conoscere. In base a una gerarchia desunta soprattutto dall’Antropologia pragmatica di Kant, la vista costituisce per Schopenhauer un senso «teoretico» per eccellenza, perché quello meno, o addirittura per nulla coinvolto nelle affezioni della volontà, e dunque più vicino non solo alla conoscenza intellettuale ma anche alla «conoscenza pura», ossia alla procedura del rappresentare in quanto attività del soggetto conoscente separato dal soggetto della volontà. «Il senso più nobile è la vista – scrive nel 1815 – perché il vedere non è affatto una sensazione, ossia stimolazione della volontà, ma pura conoscenza indifferente rispetto alla volontà; di qui la letizia che procurano la luce e i colori: perché la luce è soltanto il senso della vista considerato oggettivamente». L’intima affinità di conoscere e vedere viene illustrata inoltre nell’opuscolo Sulla vista e sui colori, dove le procedure stesse della visione sono illustrate come operazioni dell’intelletto che corregge e riplasma la configurazione del mero dato sensibile, come nel caso dell’immagine che percepiamo raddrizzata rispetto all’immagine capovolta nella retina. Rappresentare e vedere qui coincidono, ma tale affinità continuerà a occupare l’attenzione di Schopenhauer e nel secondo volume del Mondo (cap. XXII), in cui la versione fisiologica della teoria della conoscenza ha ormai preso il sopravvento, l’ipotesi di una gerarchia dei sensi culminante nella vista si sostiene sulla prospettiva, 12 Lettera a Becker del 23 agosto 1844, in GB, p. 201. L’edizione non contiene le lettere dei corrispondenti; per le lettere di Becker cfr. A. SCHOPENHAUER, Sämtliche Werke, cit., vol. XIV (Der Briefwechsel A. Schopenhauers, hrsg. von C. Gebhardt, tomo I, p. 565 e sg.). Il tema della spiegazione metaforica e del necessario ricorso al mito religioso per illustrare questi eventi è affrontato distesamente nella successiva lettera a Becker.

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che gli deriva ora da Cabanis13, di un «accrescimento della sensibilità» a scapito dell’irritabilità che, in presenza di uno «sviluppo superiore del sistema nervoso», fa sì che gli organi sensoriali «più nobili» possano sentire senza piacere e dolore, ossia senza il corrispondente stimolo della volontà. È dunque all’interno dell’identità vedere-conoscere che nel pensiero n. 445 l’uomo compassionevole viene presentato come colui che «è addolorato dal vedere le sofferenze altrui tanto quanto lo è dalle proprie sofferenze». Nel pensiero n. 314 del 1814, dove compare forse la prima definizione della compassione, si parla di essa come di una disposizione in cui «la miseria umana ci è data meramente come conoscenza e quindi in modo mediato (bloß als Erkenntnis also mittelbar gegeben). L’osservazione (Betrachtung) della sofferenza altrui è predominante e ci fa distogliere l’attenzione dalla nostra sofferenza». Il Fondamento della morale non si discosta da questa impostazione del 1814, sottolinea il carattere cognitivo/rappresentativo della compassione e la presenta come una forma di immedesimazione mediata con l’altro. Così nel § 16: «Ma io non posso mettermi nella pelle (in der Haut) dell’altro; il solo mezzo a cui posso ricorrere è dunque di utilizzare la conoscenza che ho di lui, la rappresentazione che di lui mi faccio nella mia testa». Si tratta di una situazione paradossale14, perché il superamento della distinzione tra il sé e l’altro, la «partecipazione (Teilnahme)» di cui Schopenhauer qui parla, ha luogo proprio mantenendo il distacco e l’alterità che caratterizza la relazione tra soggetto e oggetto nella conoscenza rappresentativa (intuizione intellettuale)15. Per questo il § 18 del Fondamento della morale dichiara «misterioso» il fatto che un dolore non mio possa diventare un 13 Il riferimento di Schopenhauer è alle pagine dei Rapports du physique et du moral de l’homme in cui Cabanis riferisce che negli organi superiori i nervi si sbarazzano sempre più degli «intermediari» posti tra loro e gli oggetti esterni, dimodoché, ad esempio, la «polpa nervosa» pressoché messa a nudo nella retina trasmette direttamente le impressioni all’organo centrale: cfr. P. J. G. CABANIS, Oeuvres philosophiques, sous la direction de C. Lehec e J. Cazeneuve, vol. I, Paris, PUF 1956, p. 177. 14 Cfr. § 19. Su questo paradosso cfr. anche le riflessioni di O. HALLICH, Mitleid und Moral. Schopenhauers Leidensethik und die moderne Moralphilosophie, Würzburg, Königshausen & Neumann 1998, p. 43 e sg. 15 «Questa completa, mutua dipendenza dell’oggetto e del soggetto l’uno dall’altro indica in modo necessario una loro unità, che però va ricercata al di fuori del mondo come rappresentazione, perché qui, per quanto si condizio-

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motivo che mi spinge ad agire, che io sia, e la cautela segnala appunto il paradosso, «in qualche modo (auf irgend eine Weise)» identificato con l’altro, e siano momentaneamente cadute le barriere che separano l’Io dal Non-io. Per evitare equivoci, il § 18 ripropone la cautela: «Questo presuppone però che io mi sia in una certa misura (gewissermaßen) identificato con l’altro […] Benché la sua pelle non racchiuda affatto i miei nervi». Risolvere il paradosso, o per lo meno fornirne una parziale giustificazione, è possibile solo se il fenomeno della compassione viene assunto nella sua stretta dipendenza dalla struttura della conoscenza intellettuale/intuitiva alla quale Schopenhauer costantemente lo riferisce. Emerge allora con chiarezza come la dialettica di distacco e di identificazione del soggetto e dell’oggetto si muova attorno a quella funzione del «distogliere» dal soggetto volente/paziente di cui parla il pensiero n. 314, facendone il carattere eminente della compassione. Riferire a una causa le modificazioni dei sensi – ciò in cui consiste l’esclusiva attività dell’intelletto – equivale a proiettarle nello spazio, a distanziarle dal soggetto, a cui inerivano in quanto impressioni corporee, configurandole in un’immagine, l’oggetto rappresentato appunto. Il primo capitolo del saggio sui colori parla addirittura di un «trasferimento» in un punto dello spazio fuori di noi delle impressioni corporee16. La funzione del «distogliere» è dunque già presente nell’atto di alienare dal Sé le modificazioni che gli sono inerenti. Questa procedura viene potenziata nella conoscenza geniale dell’idea o «pura conoscenza», a cui Schopenhauer lavora alacremente a Dresda nel 1814 e 1815. L’ipotesi che sostiene la teoria delle idee e ne illustra per così dire il meccanismo segreto è da ricercare nella prima edizione della Quadruplice radice. Nel § 22, Fantasmi e sogni. Fantasia Schopenhauer dichiara che la presenza del corpo (che in questa fase egli chiama ancora «oggetto immediato») nella coscienza è tanto nino, essi si fronteggiano tuttavia come opposti e non coincidono mai»: SP I, p. 511 (n. 565 del 1816). 16 Über das Sehen und die Farben. Eine Abhandlung von Arthur Schopenhauer, Leipzig, Hartknoch 1816, p. 12. Il passo è conservato nella seconda edizione del 1854: cfr. La vista e i colori e carteggio con Goethe, trad di M. Montinari, Torino, Boringhieri 1959, p. 34: «All’intuizione, vale a dire alla conoscenza di un oggetto, si giunge prima di tutto per il fatto che l’intelletto riferisce a una causa ogni impressione ricevuta dal corpo, la trasferisce [verversetzt]] poi nello spazio intuito a priori nel punto da cui proviene l’effetto, e così riconosce la causa come agente [wirkend], come reale [wirklich], vale a dire come una rappresentazione della stessa specie e classe del corpo».

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più flebile quanto più è forte il grado di vivezza dell’immagine rappresentata. La condizione genetica della contemplazione dell’idea sta nella capacità dell’immagine rappresentata, esattamente come avviene per il fantasma, di «scacciare interamente dalla coscienza l’oggetto immediato»17, e con esso tutte le affezioni corporee che sono il veicolo della volontà. L’icona in cui le impressioni corporee si erano «trasferite» mediante l’atto intellettivo, il semplice rappresentare, diventa ora esclusiva, e cancella ogni presenza o ricordo del corpo da cui erano stati tratti i materiali per la sua costruzione. L’identità di soggetto e oggetto del conoscere che ha luogo nella contemplazione dell’idea, di cui parla il § 34 del Mondo quando constata che «il soggetto che si assorbe nell’oggetto dell’intuizione diviene quest’oggetto stesso, visto che la coscienza non ne è ormai che l’immagine più chiara», o quando parla di un «perdersi» del soggetto conoscente nell’oggetto conosciuto, significa che la coscienza si trasforma in una superficie tersa e senza spessore, non increspata dai moti della volontà, e nella quale il mondo si riflette riducendosi a un insieme di immagini senza implicazioni affettive. Questa struttura del conoscere, che nelle sue varie gradazioni mostra un progressivo «distogliersi» dal Sé fino a un assorbimento nell’oggetto, poggia da un lato su una circostanziata fenomenologia del genio, la cui mente è dominata come quella della sua controfigura patologica, il folle, da «idee fisse», rappresentazioni esclusive che hanno perduto ogni relazione con la coerenza narrativa dell’esperienza nella sua totalità, e quindi con lo sgranarsi di tutta la serie delle rappresentazioni; dall’altro su una concezione ascetica della morale come «cessazione» dell’individualità in quanto centro di volizioni. In questo senso soprattutto genio e santo sono, malgrado la differenza, figure ampiamente apparentate; etica e teoria della conoscenza sono davvero solidali, come Schopenhauer più volte dichiara rivendicando il carattere «organico» del suo sistema. Nell’ambito morale questa impostazione è già fissata chiaramente negli appunti Su Fichte del 1811, in un periodo in cui Schopenhauer ancora leggeva il «tu devi» kantiano come un’espressione della coscienza migliore in una prospettiva squisitamente ascetica:

17 A. SCHOPENHAUER, La quadruplice radice del principio di ragione sufficiente, a c. di A. Vigorelli, Milano, Guerini 1990, p. 60. Questo paragrafo scompare nella successiva edizione dell’opera.

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Ma la libertà del volere è la libertà di annichilire tutto quanto l’arbitrio della nostra volontà, e la sua legge suprema è “tu devi non volere nulla”. Una volta che essa si è imposta, il mio agire è determinato da un principio soprasensibile, che ha leggi così salde che ognuno sa che effetti avrà in ognuno e, una volta annientato l’arbitrio della volontà, ognuno agisce assolutamente allo stesso modo dell’altro, ossia ogni individualità è cessata, per questo Kant lo presenta come una legge etica oggettiva, perché non è affatto orientato alla natura del soggetto, come l’arbitrio della volontà, ma totalmente a quella dell’oggetto […] il mio Sé, la mia individualità non agisce più affatto, ma è lo strumento di un Indicibile, di una legge eterna18.

3. Nel Fondamento della morale il tema della natura cognitiva del compatire viene ulteriormente sviluppato attraverso una discussione con Cassina e con Rousseau. Nello sterminato dibattito settecentesco sulla compassione, che Schopenhauer evoca citando Lessing, Hutcheson, Smith etc., Ubaldo Cassina ha un ruolo certamente minore, ma di tutto rispetto, e il fatto che Schopenhauer lo scelga come interlocutore non deve sorprendere. L’opuscolo di Cassina, tradotto in francese e nel 1790 in tedesco (di questa traduzione si serve Schopenhauer), è a tal punto un riferimento del dibattito contemporaneo che Gerhard Sauder lo ha inserito nella sua selettiva antologia di testi esemplari e influenti della cultura dell’Empfindsamkeit19. Cassina, che dichiara di prendere le mosse da Rousseau e dal Saggio analitico sulle facoltà dell’anima di Charles Bonnet20, analizza il fenomeno della compassione sulla base dei concetti di amor proprio e immaginazione, per poter poi approdare a una ingegnosa spiegazione del piacere tragico, il vero scopo del suo piccolo trattato. Il piacere tragico consiste nel sollievo che lo spettatore prova allorché, assistendo all’azione drammatica, si rende conto che l’identificazione con la sofferenza dell’eroe è un effetto dell’illusione teatrale, dunque di un inganno. L’immaginazione permette di trasferire «senza che ce ne accorgiamo» il nostro dolore nell’oggetto che soffre, e di identificarsi con lui. Ha luogo qui 18

HN II, pp. 349-350. G. SAUDER, Empfindsamkeit, vol. III, Quellen und Dokumente, Stuttgart, Metzler, 1980, pp. 37-43. 20 Saggio analitico su la compassione del dottore Ubaldo Cassina, Piacenza, Giuseppe Tedeschi 1780, p. 16. È la ristampa immodificata della prima edizione dell’opera, del 1772. Schopenhauer ne possedeva la traduzione tedesca, pubblicata a Hannover nel 1790: cfr. HN. V (Randglossen zu Büchern), p. 26. 19

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un vero e proprio transfert dei sentimenti che sfugge alla coscienza, «Ond’è che si trasporta senza che ce ne accorgiamo il dolor nostro nell’oggetto che soffre, che con lui si identifica, e che in lui ci sembra di patire, e non già in noi medesimi»21. Il desiderio di mitigare la sofferenza altrui nasce dallo sforzo di evitare a noi stessi la situazione dolorosa, e ha a che fare perciò con un «ritorno del nostro amor proprio»; la compassione, anzi, non è altro che una modificazione dell’amor proprio. Il ricorso di Schopenhauer all’operetta del filosofo italiano appare ancora meno sorprendente se si pensa che le argomentazioni di Cassina si basavano su due luoghi topici della contemporanea discussione sulla compassione respinti invece (tacitamente nel secondo caso, espressamente nel primo) da Schopenhauer come errori: la tradizione dei sentimenti morali e quella sulla compassione suscitata dalla tragedia, che aveva trovato il suo punto di svolta nella reinterpretazione di Aristotele data da Lessing nella Drammaturgia amburghese. Sul primo punto il Fondamento della morale assume una posizione molto drastica. Schopenhauer non ha mai tematizzato la nozione di «sentimento», se non per far assumere al termine il significato di sapere non astratto o «coscienza immediata»22, e in questo senso effettivamente il termine «sentimento morale» compare nel § 18. Il fatto che qui egli adoperi il termine mitempfinden, inflazionato nella cultura sentimentale, 21 U. CASSINA, Saggio analitico su la compassione, cit., pp. 27 e 28. Su quest’opera di Ubaldo Cassina cfr. K. HAMBURGER, Das Mitleid, Stuttgart, KlettCotta 1985, pp. 63-65 e la voce Cassina a firma di P. Cristofolini nel Dizionario biografico degli Italiani. 22 Cfr. SP I, p. 417 (n. 470 del 1815). A conoscenza di chi scrive, l’unica eccezione a questa assenza si trova in un pensiero del 1827 che lo stesso Schopenhauer giudica «non riuscito». Si tratta di un tentativo fatto per chiarire la tematica del «senso interno» o «conoscenza interna», e che testimonia quanto rimanesse vivo in lui il problema di individuare, nel quadro di una teoria della doppia conoscenza del corpo, una forma di conoscenza priva di rappresentazione. Il sentimento (Gefühl) viene qui definito «percezione immediata dei diversi moti della volontà» (e si ricorderà che con il termine «percezione immediata» Schopenhauer designa talora nel secondo volume del Mondo la conoscenza interna) e viene interpretato come «il semplice punto di passaggio dal moto della volontà alla rappresentazione, cioè del rendersi conto di quel moto inscindibile dal moto della volontà e tuttavia volendo distinguibile: l’autocoscienza», cfr. SP III (I manoscritti berlinesi 1818-1830, a c. di G. Gurisatti), pp. 480-482. È proprio in questo senso, in effetti, che nel Fondamento della morale viene usato, un’unica volta, il termine «sentimento morale», compatibile con la definizione di compassione come «fatto della coscienza».

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non significa affatto che la compassione sia interpretata come un sentire nel senso di una modificazione affettiva. Quest’ultima ha a che fare coi moti della volontà, appartiene alla sfera degli interessi egoistici ed esclude la moralità dell’azione, che invece implica sempre una negazione dell’egoismo, e con esso della volontà. Nel fare della compassione un «fenomeno quotidiano», un «fatto» oggetto di accertamento fenomenologico e suscettibile casomai di una spiegazione metafisica, come quella cui accennerà nell’ultima parte della memoria, Schopenhauer respinge la spiegazione «psicologica» tentata sia da Cassina, sia da Hutcheson con la sua teoria del senso morale, sia da Adam Smith. A quest’ultimo dedica una particolare attenzione, perché la Teoria dei sentimenti morali viene evocata nell’experimentum crucis del §18, mentre nel § 16 il desiderio di suscitare la «simpatia degli spettatori» viene rubricato tra i motivi interessati ed egoistici, incompatibili con l’agire morale23. Dall’altro lato, il fatto che Schopenhauer osservi qui e altrove un rigoroso silenzio sulla compassione tragica è una conseguenza diretta della sua concezione della tragedia, che egli non vede mirata a una mobilitazione degli affetti dello spettatore per affinarli in virtù, ma è piuttosto – mediante la rappresentazione compiuta che essa dà del contrasto della volontà con se stessa – «perfetta conoscenza dell’essere del mondo», che solo in quanto tale induce alla rinuncia della vita. Non è affatto casuale, dunque, che nella teoria del genere tragico esposta nel primo volume del Mondo (§ 51) Schopenhauer non si preoccupi nemmeno di menzionare l’imponente discussione sulla funzione assegnata da Aristotele a pietà e timore, mentre nel secondo volume questi moti dell’animo, «suscitare i quali costituisce per Aristotele lo scopo ultimo della tragedia», vengono dichiarati di nessun rilievo rispetto al vero scopo della tragedia, di rappresentare artisticamente una conoscenza che induce a rinunciare alla vita. La mobilitazione degli affetti che la tragedia secondo Aristotele e i suoi interpreti dovrebbe favorire ricade semmai, per Schopenhauer, nella categoria dell’«interessante», che egli conia nel 1814 e rielabora 23 Nella stessa direzione vanno le interessanti note che Schopenhauer ha vergato a margine della sua copia della Teoria, che gli sembra enunciare una morale conformistica basata sull’egoismo. Il punto centrale di questo «very gentlemanly System of morals» sta nell’analisi del sentimento dell’onore «i. e. anxiety for the approbation of others». Dall’altro lato la simpatia suscitata nell’altro può essere talora un utile strumento di controllo dell’azione, mai però la ragione ultima dell’azione giusta, né tantomeno il fondamento della morale.

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in un breve trattato, lasciato inedito, del gennaio 1821, dove tutto ciò che è messo in atto per suscitare la «partecipazione emotiva» dello spettatore viene ricondotto al criterio che «l’interessante produce il suo effetto eccitando la nostra volontà, mentre il bello esiste solo per la conoscenza pura e priva della volontà»24. Nell’«alunno della natura» estraneo a ogni tentazione libresca, che più di tutti gli altri ha compreso la realtà del fenomeno morale, Schopenhauer celebra invece un Rousseau diverso dallo stereotipo fissato nella cultura dell’Empfindsamkeit25, che gli aveva dedicato un vero e proprio culto, e attraverso la significativa citazione che sceglie dal IV libro dell’Emilio sostituisce alla identificazione affettiva dell’altro al sé postulata dall’analisi psicologica di Cassina un’identificazione del sé con l’altro che ha per base un atto di conoscenza: Noi soffriamo soltanto nella misura in cui noi giudichiamo che egli soffre; non è in noi, è in lui che noi soffriamo […] offrire al giovane degli oggetti su cui possa agire la forza espansiva del suo cuore, che lo dilettino, che lo facciano tendere agli altri esseri, che dovunque lo facciano ritrovare fuori di sé, scartare con cura tutti gli oggetti che lo rinchiudono, lo concentrano26.

Il rifiuto dell’identificazione o, per usare la felice formula di Jacques Derrida, la ricerca di un’identificazione autentica basata sulla non-identificazione27, è motivata inoltre in Rousseau dalla necessità di dare universalità all’atteggiamento pietoso, che va esteso a tutto il genere umano, non deve riguardare il singolo ma l’intera specie se non si vuole che diventi un elemento patologico, di debolezza: un aspetto che Schopenhauer sottolinea citando, questa volta dal Discorso sull’origine dell’ineguaglianza, la definizione dell’amore come moderazione dell’amore di sé mirata alla conservazione dell’intera specie. Vi sono, in realtà, due motivi profondi di affinità tra la concezione di Rousseau e quella 24

A. SCHOPENAHUER, Sull’interessante, SP III, pp. 85-94. Per un orientamento generale sui precedenti cfr. W. VOSSKAMP, “Un livre paradoxal”. J.-J. Rousseaus “Emile” in der deutschen Diskussion um 1800 1800, in Rousseau in Deutschland, hrsg. von H. Jaumann, Berlin/New York, de Gruyter 1995, 995, pp. 101-114. 26 J. J. ROUSSEAU, Emile, in Œuvres complètes, vol IV, Paris, Gallimard 1969, pp. 505-506, corsivo mio. 27 Cfr. J. DERRIDA, De la grammatologie, Paris, Èditions de minuit 1967, p. 243 e sg. 25

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di Schopenhauer. Il primo riguarda, appunto, il tema della conoscenza. Nel Discorso la pietà viene concepita come un mezzo per incanalare verso la socialità la forza dell’amore di sé, impedendo che esso alimenti solo se stesso, diventi amor proprio e sprechi la propria energia e potenza chiudendosi nella circolarità narcisistica dell’egoismo, e l’Emilio precisa che la pietà può assolvere questa funzione, e portare verso l’esterno la «forza espansiva dell’anima» o la «sensibilità sovrabbondante» che è in noi solo perché essa è dotata di conoscenza. «Per compatire il male altrui, senza dubbio bisogna conoscerlo, ma non bisogna sentirlo»28: appunto perché la grammatica del sentimento è privata e autoreferenziale, quando si soffre o si teme di soffrire si può compiangere solo se stessi. La funzione del distogliere da sé e dall’inevitabile egoismo della propria immediatezza affettiva, che Schopenhauer condivide con Rousseau, risponde a una finalità complessiva del tutto diversa, non cioè all’inserimento delle energie individuali in una circolazione sociale mirata al benessere di tutti, ma a una negazione ascetica della volontà individuale che si realizza in un totale rifiuto del mondo. Grazie a queste differenti intonazioni la distanza rimane incolmabile, nonostante nel Fondamento della morale sia percepibile accanto alla finalità ascetica l’intenzione di fondare sulla compassione un comportamento morale adeguato al regno di questo mondo, senza necessariamente giungere alla sua negazione29; e quantunque non di rado anche in Rousseau l’uomo virtuoso – come nel caso dello straordinario elogio dell’Alceste di Molière nella Lettera a D’Alembert sugli spettacoli30 – sia circondato da un’aura di grandezza plutarchea, e manifesti una resistenza così forte a temperare la sua dirittura morale in favore della politesse, che sembra a un passo dal farsi nemico delle virtù 28

J. J. ROUSSEAU, Emile, cit., pp. 515 e 523. Il Fondamento della morale tiene già conto, in realtà, dell’ottica che sarà pienamente esposta nei Parerga, e che aveva trovato una prima ma già compiuta espressione nel 1822, di affiancare a mo’ di «compromesso» a una considerazione metafisica dell’etica, imperniata sulla negazione della volontà di vivere, una dottrina della saggezza di vita, organizzata in massime per il comportamento verso se stessi e verso gli altri: «all’incirca un sinonimo di eudemonica» che avrebbe lo scopo di insegnare a «vivere il più felicemente possibile senza grandi rinunce e grandi sforzi per vincere se stessi, e senza considerare gli altri solo come possibili mezzi per i propri scopi» (In-Folio II, n. 124, in SP III, p. 358). 30 J. J. Rousseau, Lettre à Mr. D’Alembert sur les spectacles, sous la direction de M. Fuchs, Lille-Genève, Giard/Droz 1948, p. 49 e sg. 29

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sociali e della benevolenza verso l’umanità che pure coltiva nella sua ammirevole intransigenza. In Rousseau come in Schopenhauer il carattere di universalità della compassione è assicurato dal suo rapporto con la giustizia. Secondo l’Emilio ci si può abbandonare alla pietà soltanto dove essa si accorda con la giustizia, mentre la pietà per i malvagi sarebbe una crudeltà: Per impedire che la pietà degeneri in debolezza bisogna dunque generalizzarla ed estenderla a tutto il genere umano. Allora la si praticherà solo in quanto è in accordo con la giustizia, perché tra tutte le virtù la giustizia è quella che più concorre al bene comune degli uomini. Per ragione, per amore verso noi stessi, bisogna avere pietà della nostra specie ancora più che del nostro prossimo, e la pietà verso i malvagi è una grandissima crudeltà verso gli uomini31.

Il § 17 del Fondamento della morale in cui Schopenhauer fa derivare dalla compassione, intesa come fondamento del sistema delle virtù, le due «virtù cardinali» della giustizia (espressa nella massima del neminem laede) e dell’amore del prossimo (omnes, quantum potes, iuva), postula un’istanza di universalità, implicita già nella circostanza che su essa poggiano sia una virtù pagana sia una virtù cristiana. Quando scrive che i filosofi antichi hanno riconosciuto la giustizia come «virtù cardinale» (§ 18) Schopenhauer si riferisce forse in modo particolare al De libero arbitrio di Agostino, che egli aveva intensamente utilizzato nella memoria dell’anno precedente sulla libertà, ma pensa anche alla nozione di giustizia generale, che Aristotele nell’Etica a Nicomaco intende come virtù perfetta «perché chi la possiede può esercitare la virtù anche verso gli altri e non solo verso se stesso» (1129b)32. Proprio il rapporto con la giustizia mette ulteriormente in luce il carattere mediato della compassione: l’inclinazione veramente originaria dell’uomo è la tendenza egoistica al fare torto e violenza gli altri, affermando la propria volontà oltre i confini del corpo, e «le sofferenze che la nostra ingiustizia e 31

ID., Emile, cit., p. 548 K. Hamburger (Das Mitleid, cit., p. 19 e sg.), che denuncia in Schopenhauer una indistinzione tra i concetti di torto e ingiustizia, diritto e giustizia, ritiene inoltre problematica l’idea che la giustizia si radichi nella compassione, ma mostra di dimenticare sia Rousseau, per cui è dubbia la giustizia senza misericordia, sia il carattere della giustizia aristotelica come virtù pròs èteron e la sua fortuna nella filosofia scolastica (ad esempio nella iustitia est ad alterum di Tommaso d’Aquino) con cui Schopenhauer aveva grande familiarità. 32

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la nostra violenza hanno causato ad altri ci diventano consapevoli solo per una via traversa, con l’aiuto della rappresentazione […] giungono a noi, dunque, indirettamente» (§ 17). Nel Fondamento della morale, con la sua definizione della giustizia come divieto di infliggere un torto, Schopenhauer continua a far valere la teoria del diritto che aveva formulato nel 181433, quando aveva presentato l’origine prima dello jus naturale nella forza con cui il corpo respinge l’offesa recata a sé o alla sua sfera d’influenza dal corpo altrui, sicché il torto è originario mentre il diritto è una «negazione della negazione», ossia un’azione difensiva, derivata e secondaria. Già in questo periodo, come poi nel § 62 del Mondo, giustizia e ingiustizia, diritto e torto si istituiscono, in una prospettiva dichiaratamente hobbesiana (e benché la riflessione di Schopenhauer miri a stabilire i principi di uno jus naturale), come le risultanti di forze antagonistiche che l’identità corpo-volontà permette di rendere quasi misurabili. In questa fondazione del diritto si affaccia un’immagine della volontà che agisce come pluralità e conflitto di forze antagonistiche, e che rivela un’intima contraddizione con se stessa – ciò che il Mondo chiamerà il «dissidio (Entzweiung)» della volontà. Un anno dopo Schopenhauer perfeziona questo essenziale aspetto della teoria della volontà utilizzando soprattutto alcuni scritti di filosofia della natura di Schelling e la sua teoria delle «potenze», per presentare l’ipotesi di un mondo lacerato da una perpetua lotta, espressione appunto di quell’intimo «dissidio»34, in cui le forze sormontanti egemonizzano, senza distruggerle, le forze inferiori che a esse continuano sordamente a resistere, entro un quadro dunque in cui accanto a quello della lotta si impone il principio di una costruzione di livelli sempre più alti e complessi della realtà, benché continuamente minacciati da quella fondamentale contraddizione35. 33 Cfr. A. SCHOPENHAUER, SP I, p. 232 e sg. (n. 286). Il tema viene ripreso organicamente nel 1816, cfr. n. 567 e sg. 34 Anche questo termine è schellinghiano, e Schopenhauer lo desume dal Primo abbozzo di una filosofia della natura e dalla Introduzione al primo abbozzo. Non bisogna dimenticare che Schelling designava il conflitto produttivo come un Grund- o Urphänomen in senso goethiano ossia come una unità basata sulla polarità; ed è certamente nel nome di Goethe, evocato poi da Schelling nel § 21 della Deduzione generale come nume tutelare della sua impresa, che si stabilisce malgrado divergenze e polemiche un solido terreno comune nella interpretazione della natura tra Schopenhauer e Schelling. 35 Mi permetto di rinviare su questo a S. BARBERA, Une philosophie du conflit. Etudes sur Schopenhauer, Paris, PUF 2004, pp. 99-128.

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IL «FENOMENO ORIGINARIO DELL’ETICA»

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Il carattere cognitivo e mediato della compassione è rafforzato infine dal fatto che la giustizia si esprime, con il neminem laede, nella forma di una massima che non dipende, a differenza delle massime kantiane, dall’etica di derivazione teologica della servitù e del comando: rappresenta invece un trasferimento in principi di un atteggiamento compassionevole che può anche non essere più presente, ma che viene rappresentato in astratto. Con la massima, la giustizia reintroduce il ruolo della ragione dell’etica, anche se non più in una funzione costitutiva. Principi e idee astratte, si legge nel Fondamento, «in generale non sono affatto la vera fonte della moralità, non sono la sua vera base, e tuttavia sono indispensabili a chi vuole vivere secondo la morale». Dopo avere portato fino alle estreme conseguenze, con l’individuazione di una origine teologica, la sua ricostruzione di un «albero genealogico» (§ 6) della morale kantiana, Schopenhauer sembra dunque riprendere la riflessione su un distinto ruolo della ragione nella deliberazione etica, che aveva annunciato nel 1814: «Anche la vera virtù non viene dalla riflessione (Kant afferma il contrario), ma ha bisogno della riflessione, delle massime astratte per essere coerente e resistere alla debolezza momentanea»36. La Quadruplice radice aveva inserito la funzione etica della ragione in un contesto ancora più ampio e significativo. Se i motivi dell’agire fossero costituiti soltanto da rappresentazioni intuitive nessuna scelta sarebbe possibile, perché la coscienza risulterebbe, a causa della vivacità di esse, occupata in un determinato momento da un unico motivo, e chiusa all’accesso di altri. La simultanea presenza nella coscienza di una pluralità di motivi, provenienti da diversi momenti temporali dell’esperienza, è possibile solo se essi sono quelle «rappresentazioni di rappresentazioni» (o rappresentazioni dall’attenuata forza iconica) costituite dai concetti della ragione: la quale non è, come l’intelletto intuitivo, legata al carattere immediato e allo hic et nunc dell’esperienza, cosicché differenti concetti possono coabitare nella coscienza. A partire dalla deliberazione l’agire è determinato dal motivo secondo una necessità inflessibile, ma in questo modo essa non dipende più dall’esclusività del momento presente. Per questo Schopenhauer paragona la ragione a una visione a distanza applicata al tempo e introduce la metafora della «seconda vita» che l’uomo vivrebbe, a differenza dell’animale, accanto a quella dell’esperienza imme-

36

A. SCHOPENHAUER, SP I, n. 253, p. 202.

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GUARIGIONI, RINASCITE E METAMORFOSI

diata. E non a caso, per designarla, utilizza nel Mondo l’immagine che applica anche al genio e alla contemplazione estetica, di colui che abitualmente recita la sua parte sulla scena della vita, ma di quando in quando se ne allontana per sedersi tra gli spettatori, e guarda uno spettacolo recitato ora da altri. Nella Quadruplice radice Schopenhauer osserva anche che il tema potrebbe diventare «materia di uno scritto più ampio, il cui contenuto avrebbe con il presente scritto lo stesso rapporto che la veglia ha con il sogno» (§ 58). Nel 1815, in effetti, ribadisce in termini nuovi l’essenzialità della ragione non solo per costruire massime che ci permettono di arginare gli impulsi momentanei rammentandoci l’inclinazione buona, ma anche per stabilire che la volontà dotata di valore morale non è il «pio desiderio» ma la «risoluzione (Entschluß)». Ciò che, in qualità di motivo dell’azione, sollecita la volontà a determinarsi non è in nessun caso il desiderio, ma un concetto, perché la ragione «si è talmente impossessata di noi tutti, che ciò che anche sollecita la volontà dell’uomo più rozzo non è più per niente […] il mero, puro desiderio sensibile, la mera immagine del piacere; è invece il concetto astratto di quel che si desidera ciò che sollecita la volontà: anche il più rozzo sceglie sempre tra concetti». Il ruolo della «seconda vita», il dominio dei concetti determinato anche dal prevalere della civiltà sulla naturalezza della vita animale è così forte che, scriveva in un’aggiunta allo stesso pensiero «sono sempre pensieri astratti quelli tra cui scegliamo un motivo e che ci determinano; il carattere morale dell’uomo consiste nel fare di questo o quel pensiero astratto la sua decisione, e con ciò egli svela esattamente il risultato ultimo dei suoi desideri in conflitto tra loro» 37. 4. È difficile però rendere ragione della coerenza interna del Fondamento della morale e della relazione che la compassione assume con le altre virtù e con le varie forme della conoscenza, se non si affronta la sua definizione di «fenomeno originario» dell’etica: il termine compare, salvo errore, quattro volte nel testo, e poi nel titolo del IV capitolo, L’interpretazione metafisica del fenomeno originario dell’etica. In altri lavori ho cercato di mettere in rilievo il significato che la nozione di «fenomeno originario» assume nella filosofia di Schopenhauer e che è particolarmente evidente

37

Ivi, pp. 316-320 (n. 377).

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IL «FENOMENO ORIGINARIO DELL’ETICA»

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nella struttura che egli assegna all’idea. Le tre caratteristiche basilari dell’idea – la sintesi di universalità e particolarità, il carattere intuitivo, la natura di archetipo generatore di nuove serie di fenomeni – corrispondono a quelle che Goethe, certo in conseguenza di una particolare lettura dell’Etica di Spinoza, attribuiva nella Teoria dei colori al suo «fenomeno originario». La specificità del fenomeno originario sta nella sua natura di simbolo, ossia di fenomeno particolare e visibile, ma situato in un punto limite dell’esperienza, che gli conferisce all’interno di essa un valore di universalità. Può rientrare in questo modo nella classe degli oggetti simbolici, che sono, secondo la formula adoperata da Goethe in una lettera a Schiller del 16 agosto 1797, «casi eminenti che, in una varietà caratteristica, sono come dei rappresentanti di molti altri casi; includono in se stessi una certa totalità, danno luogo a una serie, suscitano nella mia mente una somiglianza e una differenza e in questo modo pretendono una certa unità e una certa universalità, all’esterno come all’interno»38. Alcuni passaggi del Mondo e delle Lezioni berlinesi dedicati alla contemplazione geniale come capacità di idealizzare l’oggetto singolo menzionano esplicitamente il carattere simbolico del fenomeno originario. Qui il motto con cui Goethe caratterizza nella parte storica della Teoria dei colori la funzione simbolica del fenomeno originario, ossia il fatto che in esso «un caso vale per mille», è ripetuto da Schopenhauer per qualificare la contemplazione geniale dell’idea39. Schopenhauer si riferisce a un brano in 38 Der Briefwechsel zwischen Schiller und Goethe, hrsg. von E. Steiger, Frankfurt a.M., Insel 1987, pp. 439-440. 39 WW § 34 e A. SCHOPENHAUER, Metaphysik des Schönen. Philosophische Vorlesungen, Teil III, hrsg. von V. Spierling, München, Piper 1985, p. 84. Se non erro, la formula è adoperata per la prima volta nel pensiero 624 del 1817, dedicato all’affinità tra il genio e il folle. Entrambi «conoscono la singola cosa presente fuori dalla connessione con tutte le altre […] Il genio perché per lui un caso vale per mille, e quindi per lui questa singola cosa rappresenta tutte le altre dello stesso genere, ossia conosce l’idea» (SP I, p. 624). Dopo la pubblicazione del Mondo, che la adopera per definire l’esperienza geniale, l’espressione viene usata nel 1821 negli Appunti di viaggio n. 89 (SP III, p. 32). Nello stesso periodo Schopenhauer è indotto a riformulare la definizione di simbolo, che negli scritti giovanili aveva semplicemente equiparato all’allegoria, mentre ora vede in esso il punto di confluenza e di identità di varie prospettive particolari. «Un simbolo è un centro da cui si dipartono infiniti raggi, un’immagine in cui ciascuno, dal suo punto di vista, scorge qualcosa di diverso, benché tutti concordino sul fatto di vedere la stessa cosa»: In-Folio I, n. 45, in SP III, p. 124. Tuttavia questa accezione del simbolo come passaggio non discorsivo

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cui lo sviluppo del pensiero scientifico di Galileo era qualificato come una serie di aperçus geniali, suscettibili di caratterizzazione simbolica: «Fin dalla prima giovinezza dimostrò che per il genio un solo caso vale per mille», scrive Goethe40, e a proposito di Bacone, con un tipico riferimento alla coppia di utilità e gioia in Spinoza, «chi non sa rendersi conto che spesso un caso vale per mille, e li racchiude tutti quanti in se stesso, chi non è in grado di comprendere e di rendere onore a quello che abbiamo chiamato fenomeno originario, non potrà fare nulla che procuri utilità e gioia a sé e agli altri»41. Il Fondamento della morale utilizza però la nozione di Goethe anche per un altro suo aspetto. Poiché il fenomeno originario è presente in tutti i fenomeni particolari della sua specie (come l’incontro di luce e buio in un mezzo opaco è un elemento di tutti i colori) e ne rivela la struttura comune, permette di dare un ordine sistematico all’esperienza: i fenomeni originari, scriveva Goethe, «permettono anzi, dopo essere risaliti fino a essi, di scendere fino al caso più comune dell’esperienza quotidiana»42: ed è in base a questo carattere, in effetti, che Schopenhauer assegna al «fenomeno quotidiano» della compassione un carattere di generalità sul cui fondamento è possibile edificare un sistema delle virtù. Goethe concepiva inoltre i fenomeni originari come punti oltre i quali l’esperienza non può spingersi: essi sono originari appunto perché «nel mondo dei fenomeni non vi è nulla al di sopra

dalla particolarità all’universalità gli è chiara dal 1814, come attesta un pensiero dedicato alla differenza tra il dolore tragico e quello comune: «Anche se il dolore del personaggio tragico prende le mosse da un oggetto particolare determinato, non rimane fermo a esso; piuttosto il personaggio tragico prende l’afflizione particolare solo come simbolo della vita nella sua interezza, e a questa quindi la trasferisce» (SP I, p. 227, n. 279, corsivi nel testo). È grazie a questa caratteristica, conclude Schopenhauer, che il dolore tragico porta alla rassegnazione sciogliendo i vincoli della volontà: il trasferimento garantito dal simbolo di cui qui si parla, in effetti, diventa poi la procedura che caratterizza tutte le esperienze volte alla liberazione dalla volontà, e costituisce dunque, anche se non resa esplicita, un’accezione di centrale importanza nella filosofia di Schopenhauer. 40 J. W. GOETHE, Materialien zur Geschichte der Farbenlehre, in Werke (Hamburger Ausgabe), vol. XIV, München, DTV 1982, p. 98. 41 Ivi, pp. 91-92. 42 ID., La teoria dei colori. Parte didattica, a c. di R. Troncon, Il Saggiatore, Milano 1981, p. 61 (n. 175). Qui e nella citazione successiva la traduzione è lievemente modificata.

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IL «FENOMENO ORIGINARIO DELL’ETICA»

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di loro»43. Schopenhauer aveva sottolineato subito questo aspetto nel periodo della sua collaborazione con Goethe ma, come dimostra l’importante lettera dell’11 novembre 1815, aveva interpretato il fenomeno originario, nel suo carattere di limite dell’esperienza, come un punto di passaggio dall’empiria già ordinata in un sistema a una «teoria» vera e propria: qualcosa di molto simile, in sostanza, al passaggio dall’empiria alla metafisica prospettato nel § 21 del Fondamento della morale: Qui accade come alla fine di ogni ricerca e di ogni scienza riguardanti la realtà: ci si trova di fronte a un fenomeno originario; tale fenomeno rende conto di tutto quel che è racchiuso nel concetto che ne abbiamo, e di tutto ciò che ne risulta, ma in quanto tale esso rimane inspiegato, e ci pone di fronte a un enigma. Anche qui, dunque, è visibilmente necessaria una metafisica: una metafisica, ossia una spiegazione dei fenomeni originari in ciò che hanno di originario e, laddove si considerino questi fenomeni originari nel loro insieme, una spiegazione dell’universo.

Questo brano è a sua volta rilevante, perché Schopenhauer vi formula in termini nuovi, introducendo come altrove non avviene la nozione di fenomeno originario, il suo concetto di metafisica. È grazie ai fenomeni originari, come si vede, che la metafisica può essere una «spiegazione dell’universo». Ossia, come Schopenhauer scriveva nei pensieri dedicati al problema a partire dal 1821, poi nel 182644 e infine, senza apportare variazioni di rilievo, nel cap. 17 (Il bisogno metafisico) del secondo volume del Mondo, una spiegazione della «esperienza nella sua totalità» o della «esperienza in generale» che ha origine dall’esperienza stessa, resta a essa immanente e si propone come una sua «decifrazione», senza bisogno di inferire «qualcosa che sta al di là» o di riferirsi a «concetti puri»: La metafisica, allora, oltrepassa l’esperienza solo in certo modo (nur gewissermaßen), infatti non se ne distacca mai del tutto, ma resta

43

Ibidem. Si tratta del n. 94 (1821) di In-Folio; n. 38 (1822) di Taccuino; n. 124, Suddivisone della filosofia (1826) di In-Quarto. Cfr. A. SCHOPENHAUER, SP III, rispettivamente pp. 162-163; 204-208; 334-336. Solo se si trascura questo materiale si possono relativizzare le tesi del 1844, nel secondo volume del Mondo, a espressione di una fase particolare e tarda del pensiero di Schopenhauer: come ad esempio hanno fatto di recente N. DE CIAN-M. SEGALA, What is Will?, «Schopenhauer-Jahrbuch», LXXXIII, 2002, specie pp. 37-40. 44

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come mera interpretazione e spiegazione di essa, e della cosa in sé non parla mai se non in relazione al fenomeno45.

Qui e in analoghe affermazioni46 Schopenhauer non fa che trarre le conseguenze della teoria della duplice conoscenza del corpo (come volontà e come rappresentazione) enunciata nel § 18 del Mondo e da lui presentata come la «pietra miliare» del suo sistema, dove la conoscibilità della cosa in sé (o di quel fenomeno «più perfetto» e più vicino di tutti alla cosa in sé, che è la volontà) viene risolta nella relazione tra essa (l’atto di volontà) e il fenomeno (il movimento corporeo), affidato il primo alla conoscenza interna, il secondo a quella esterna. La duplice conoscenza del corpo è una sintesi delle due conoscenze, garantita dalla loro simultaneità, e riguarda appunto questa relazione, l’unione di «esperienza interna» ed «esterna», ciò che Schopenhauer intende con il termine «esperienza in generale» negli scritti dedicati alla metafisica. Su questa base, la «differenza radicale» che la metafisica rileva tra il fenomeno e la cosa in sé non corrisponde all’istituzione di un ens extramundanum trascendente il regno dei fenomeni, ma si risolve tutta nella potenza ermeneutica che facendo leva sulla duplice conoscenza del corpo va al di là della mera fenomenologia di ciò che è «presente»47, per conferire all’esperienza un ordine sistematico, una «decifrazione del mondo» che «deve provarsi interamente da sé». Solo se al termine «fenomeno originario», così come compare nel Fondamento della morale, si dà un valore letterale, è possibile uscire dall’equivoco interpretativo che continua a oscurare il significato dell’etica della compassione all’interno del sistema di Schopenhauer. La sua soluzione non consiste nel ricorso a un sentimento, quasi in una estrema e tardiva rivendicazione della cultura morale dell’Empfindsamkeit, da contrapporre all’astrazione kantiana; consiste piuttosto nel tentativo di istituire un sistema

45

SP III, p. 208. Oltre a quelle già menzionate, nelle lettere al discepolo Frauenstädt dell’agosto 1852, ad es. quella del giorno 21: «La mia filosofia non parla mai del paese dei sogni, ma di questo mondo, ossia è immanente, non trascendente […] Essa insegna cosa è il fenomeno e cosa è la cosa in sé. Ma quest’ultima è cosa in sé solo relativamente, ossia in rapporto al fenomeno – e questo non è fenomeno che in rapporto alla cosa in sé» (GB, p. 291). 47 Cfr. In particolare il n. 124 di In-Quarto, e il modo in cui i temi corrispondenti vengono sviluppati in WW § 17. 46

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delle virtù, dei precetti e delle condotte etiche a partire da un fenomeno dell’esperienza comune suscettibile però di universalità (o, viceversa, di un precetto universale subito traducibile nei termini dell’esperienza comune). Anche in questo si manifesta una vicinanza non occasionale a Rousseau, soprattutto se si pensa alla richiesta, enunciata nell’Emilio, di basare l’educazione morale non su «parole astratte» formate dall’intelletto ma «su vere affezioni dell’anima illuminate dalla ragione». Quella che Schopenhauer persegue sul piano etico, perlomeno nel Fondamento della morale, è una strategia simile e complementare a quella che lo aveva spinto a tentare una filosofia della natura fondata sulla conoscenza del corpo, e dunque a vincolare i livelli più astratti e formalizzati del sapere ai dati dell’esperienza sensibile e dell’autocoscienza. Questa convinzione, esposta nel secondo libro del Mondo e ripetuta in un testo più tardo come La volontà nella natura, accompagna già l’elaborazione della teoria della doppia conoscenza del corpo, a partire dalla quale, mediante applicazione del principio dell’analogia, si può conquistare una conoscenza dell’intero sistema della natura, organizzato in forze concepite come oggettivazioni sempre più complesse della volontà. Nel 1816, quando dà gli ultimi ritocchi a questa teoria e alla filosofia della natura che essa gli permette di progettare, e ne enuncia formalmente il rapporto48, Schopenhauer esprime anche la consapevolezza che nella scoperta della relazione tra l’esperienza di ciò che è più prossimo, il corpo, e la conoscenza scientifica consiste l’innovazione della sua filosofia: «A partire da te devi intendere la natura, non te a partire dalla natura. È questo il mio principio rivoluzionario»49. Proprio nell’istituire questo nesso egli si mostra un discepolo fedele della via tracciata dai lavori scientifici di Goethe e dalla polemica di quest’ultimo contro la matematizzazione della scienza intesa come separazione tra esperienza scientifica ed esperienza comune. È una via che Cassirer ha felicemente definito «un antropomorfismo approfondito e affinato»: lo scopo è quello di ottenere una connessione sistematica del materiale dell’esperienza che ne lascia intatto il contenuto intuitivo e si appella direttamente all’esperienza comune, là dove, al contrario,

48 Cfr. il densissimo n. 548 (SP I, pp. 490-494), dove è anche evidente il ricorso sistematico alla teoria schellinghiana delle potenze. 49 Ivi, n. 621, p. 567.

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le procedure della scienza moderna consistono nel trasformare i valori dell’intuizione in valori quantitativi e numerici50. La filosofia della natura che Schopenhauer propone con l’illustrazione della «serie graduale dei fenomeni della volontà» nel secondo libro del Mondo e nella Volontà nella natura dipende strettamente da questo presupposto. E si può pensare che l’opposizione tra l’etica di Kant basata sull’imperativo categorico e l’etica della compassione enunciata nel pensiero del 1815 da cui si sono prese le mosse, non sia finalizzata solo alla costruzione di un’etica diversa dal carattere non prescrittivo, ma a confermare anche in quest’ambito il programma di una teoria dell’esperienza alternativa a quella di Kant.

50 E. CASSIRER, Goethe und die mathematische Physik. Eine erkenntnistheoretische Betrachtung, in Idee und Gestalt, Darmstadt, Wissenschaftlische Buchgesellschaft 1989 (riproduzione anastatica dell’ed. 1934), p. 58.

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IL CASTELLO DI KAFKA: ITINERARIO DI UN’IMMAGINE*

Un passo di Schopenhauer sembra spiccare in modo deciso tra i vari luoghi letterari che, di volta in volta, sono stati segnalati come archetipi del misterioso castello di Kafka1. L’immagine del castello, individuata da Terence J. Reed in un breve saggio che tentava anche una ricostruzione della presenza di Schopenhauer nei Quaderni in ottavo di Kafka2, compare alla fine del paragrafo 17 de Il mondo come volontà e rappresentazione: Vediamo già a questo punto, che all’essenza delle cose non si potrà mai pervenire dal di fuori: per quanto s’indaghi, non si trova mai altro che immagini e nomi. Si fa come qualcuno, che giri attorno a un castello cercando invano l’ingresso, e ne schizzi frattanto le facciate.

Ma il castello di Schopenhauer possiede anche una curiosa analogia con la descrizione del castello di Friedland, uno dei possibili modelli materiali di Kafka. Anche qui, inizialmente l’osservatore gira intorno all’edificio, in modo da ottenerne varie vedute prospettiche: Il castello di Friedland. Molte possibilità di vederlo; dal piano, da un ponte, dal parco fra gli alberi schiomati, dal bosco attraverso alti abeti. Il castello, stranamente costruito a piramide che, quando si entra nel cortile, non si riesce a sistemare perché l’edera scura, il muro nero-grigio, la neve bianca, il ghiaccio color lavagna che copre i clivi

* Cfr. infra, Bibliografia 1990 n. 4. 1 Kafka-Handbuch, hrsg. von H. Binder, II, Stuttgart, Kröner, 1979, p. 443. 2 T. J. REED, Kafka und Schopenhauer: philosophisches Denken und dichterisches Bild, «Euphorion», LIX,, 1965, pp. 160-172. Su altre presumibili fonti dell’immagine del castello vd. D. STIMILLI, La tradizione fisiognomica, «Rivista di estetica», XXIII, 1986, pp. 33-50.

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GUARIGIONI, RINASCITE E METAMORFOSI

aumentano la varietà (Viaggio a Friedland e Reichenberg, in Confessioni, p. 34; Tagebücher, p. 435)3.

Nel romanzo, però, caratteristica del castello è una singolare relazione, insieme di estraneità e di identificazione con il villaggio. Trascuriamo per ora la circostanza che il castello si presenta, nei suoi mal definiti contorni, come fisicamente confuso con un aggregato di case: ma subito l’agrimensore è avvertito che chi dorme nel villaggio «abita e pernotta in certo modo nel castello» (p. 45; 8) e più avanti, al termine della strana visita nella casa dei contadini, la simultanea impressione di esclusione ed inclusione del protagonista nello spazio del castello è affidata all’alternarsi di immagine e suono, quest’ultimo di incerta provenienza, giacché il tocco di campana che fa tremare il suo cuore è subito sostituito dal suono di una campanella «forse lassù anche quella, o forse giù nel paese» (p. 58; 29). Nel capitolo del secondo volume del Mondo intitolato Sulla morte e il suo rapporto con l’indistruttibilità del nostro essere in sé Schopenhauer descriveva un analogo fenomeno di duplice e simultanea collocazione spaziale (all’interno e all’esterno) e si serviva di una immagine tratta da Jacques le fataliste, che occorre citare a integrazione di quella segnalata da Reed: Non meno degno di essere menzionato qui quel passo singolarissimo e sorprendente per la sua collocazione, in Jacques le fataliste di Diderot: un château immense, au frontispice duquel on lisoit: “Je n’appartiens à personne et j’appartiens à tout le monde: vous y étiez avant que d’y entrer, vous y serez encore, quand vous en sortirez” (ER, p. 1365; 550)4.

3 Nel testo e nelle note usiamo queste abbreviazioni. Per le opere di F. Kafka Confessioni = Confessioni e diari, a cura di E. Pocar, Milano, Mondadori 1972; Hochzeitsvorbereitungen = Hochzeitsvorbereitungen auf dem Lande und andere Prosa aus dem Nachlaß, hrsg. von M. Brod, Frankfurt a.M., Fischer 1983; Tagebücher = Tagebücher 1910-1923, hrsg. von M. Brod, Frankfurt a.M., Fischer 1980; per Il castello, la prima indicazione di pagina si riferisce alla traduzione di A. Rho, Milano, Mondadori 1973, la seconda a Das Schloß. Roman in der Fassung der Handschrift, hrsg. von M. Pasley, Frankfurt a.M., Fischer 1982. Per i PP di Schopenhauer, la seconda indicazione di pagina si riferisce ai volumi corrispondenti (rispettivamente III e VI) dei SW. 4 Questo passo di Diderot aveva attirato assai presto l’attenzione di Schopenhauer e lo troviamo trascritto senza alcun commento in una serie di appunti del 1812. Vd. A. Schopenhauer, HN II, p. 246.

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La metafora spaziale dell’edificio in cui siamo sempre rinchiusi, anche quando ci sembra di starne fuori, è utilizzata da Schopenhauer per mostrare che l’individuo, solo in apparenza sottomesso alla successione temporale, è radicato nell’eternità senza tempo e nella «indistruttibilità» della cosa in sé. La «vera essenza» dell’individuo è il Nunc stans, il plèroma o «eterno presente» della Volontà: egli è così situato «al centro», benché l’apparenza ci dica che è travolto dal movimento senza fine, di incessante distruzione del presente, della ruota del tempo. In queste stesse pagine dell’opera di Schopenhauer, Thomas Mann aveva fatto scorgere al senatore Buddenbrook l’accesso a un sentimento dionisiaco, di coappartenenza essenziale dell’individuo al tutto, che fa vincere la paura della morte e trasfigura la miseria della vita individuale. Ma esse rappresentano anche il tessuto connettivo che sembra consentire una lettura coerente di alcuni enigmatici passaggi del quarto quaderno di Kafka. Spetta ancora a Reed il merito di avere individuato l’ascendenza schopenhaueriana del tema dell’«indistruttibile» nei Quaderni5, benché poi egli concluda che non esiste affinità sostanziale tra il pessimismo di Schopenhauer e la tonalità complessiva delle riflessioni di Kafka. In realtà, Kafka isola proprio il nucleo di radicale pessimismo del testo schopenhaueriano, secondo un’ottica opposta a quella di Mann. A Kafka non interessa l’effetto consolatorio della rivelazione dell’indistruttibile, che pure non è assente dalle pagine di Schopenhauer ma, al contrario, la constatazione che nemmeno con la morte può esserci «quiete». La scoperta del nucleo eterno ed indistruttibile del nostro essere ci assicura che la morte non ci può liberare dal dolore e dalla ripetizione del «gioco» della Volontà, della cui fortezza restiamo prigionieri. «La nostra salvezza è la morte, ma non questa»: così Kafka conclude il gruppo di aforismi raccolti intorno alla data 26 febbraio (Confessioni, p. 752; Hochzeitsvorbereitungen, p. 90), che sono in larga parte un commento al capitolo dei Supplementi sulla morte e alle corrispondenti pagine del cap. 10 dei Parerga, Sulla dottrina dell’indistruttibilità del nostro vero essere da parte della morte. L’aforisma sulla calma che segue «per un certo tempo» la morte – «è cessata una febbre, i nostri occhi non vedono 5 Il termine compare nel terzo quaderno (Confessioni, pp. 723 e 728; Hochzeitsvorbereitungen,, pp. 67 e 71): «L’indistruttibile è unico. Ogni singolo uomo lo è e nel medesimo tempo esso è comune a tutti. Ecco l’origine dell’incomparabile, inscindibile unione che lega gli uomini».

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più un lungo morire, un errore sembra eliminato» – non riproduce solo il lessico di Schopenhauer, che chiama «errore» l’esistenza individuale, ma anche l’osservazione dei Supplementi che la morte è una pausa benefica nel processo vitale, caratterizzato da «contrasto» e «tensione». La «espressione di dolce soddisfazione» che spesso si legge sul volto dei morti è appunto il segno dell’allentarsi delle tensioni e dei conflitti che affaticano la forza vitale (ER, p. 1349; 536-357), tanto che è possibile paragonare l’attimo del morire al risveglio da un incubo. Nei tre aforismi successivi6, Kafka non fa che riassumere le pagine di Schopenhauer sulla morte dell’individuo, che non è il transito verso il «paradiso perduto del nulla», ma un momento del «gioco» della Volontà, impegnata nell’incessante produzione/distruzione degli individui. Il motivo schopenhaueriano dell’indifferenza della Volontà alla vita e alla morte dei singoli, meri strumenti della sua aspirazione a manifestarsi, è percepibile del resto in un brano dei Frammenti: Certo, non accadrebbe nulla, uno, dieci, un intero popolo potrebbero non più rialzarsi da terra e non accadrebbe nulla, la vita possente continuerebbe il suo corso, le soffitte sono ancora strapiene di bandiere che non sono mai state ammainate, quest’organetto ha bensì un solo cilindro, ma è l’eternità in persona che gira la manovella. Eppure, quanta angoscia! (Confessioni, p. 846; Hochzeitsvorbereitungen, p. 181).

Kafka ha accostato più volte la propria condizione di scrittore a quella di una morte apparente, e il luogo ideale in cui la scrittura nasce all’isolamento della tomba; non è perciò arbitrario ricondurre queste annotazioni dei Quaderni nell’orizzonte tematico della relazione tra la vita e la scrittura. Anche nella lettera a Brod da Plana, del 5 luglio 1922, «lo stesso essere scrittore» si situa tra i due poli di un non-vivere che è ripetuta morte, e la «morte reale». La componente diabolica dello scrivere (o perlomeno, dell’unico scrivere che Kafka dichiara di riconoscere come suo) è la «vanità e cupidigia di piaceri», in virtù dei quali lo scrittore è sospeso tra il ripetuto morire della propria vita e l’attesa della vera morte: «Ciò che l’uomo ingenuo talora si augura, “Vorrei morire 6 «Il lato crudele della morte è che porta con sé il dolore reale della fine, ma non la fine stessa. Il lato crudele della morte: una fine apparente produce un dolore reale. I lamenti intorno al letto di morte sono, in realtà, provocati dal fatto che non c’è stata una morte vera e propria. Dobbiamo ancor sempre accontentarci di questo morire, giochiamo ancora sempre questo gioco» (Confessioni, p. 752; Hochzeitsvorbereitungen, p. 90).

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e vedere come mi si compiange”, un simile scrittore lo realizza in continuazione; egli muore (o non vive) e in continuazione si compiange». La «vanità» è anche il segno della paradossale situazione del protagonista del racconto L’artista del digiuno. Come lo scrittore nella quasi contemporanea lettera a Brod, il digiunatore mette in scena un morire continuamente trattenuto e rinviato, benché nel perfezionamento stesso della sua arte sia implicita l’aspirazione allo stato finale di quiete ed annullamento. Solo dopo avere confessato che all’origine dell’arte del digiuno c’è un’inappetenza verso il cibo, di cui egli si sarebbe altrimenti nutrito a quattro palmenti, il digiunatore scomparirà nella paglia e nello strame per le fiere – la bella e crudele vitalità che alla fine si afferma come il centro dello spettacolo circense, e verso la quale egli rappresentava solo un «impedimento» – così come, nella lettera a Brod, con la «morte reale» lo scrittore, fragile e precaria «costruzione della vanità», è destinato a diventare «sabbia». Se nella morte volontaria per fame Il mondo come volontà e rappresentazione aveva indicato il vertice vittorioso della negazione della Volontà, l’unica via immanente verso la quiete, l’artista del digiuno di Kafka appare come la parodistica rivelazione dell’impossibilità di congiungere condizione estetica ed ascesi, di elevare cioè l’artista alla figura del «santo» schopenhaueriano che ottiene la vera quiete facendo scomparire il proprio corpo, volontà oggettivata nello spazio. È in realtà il testo dei Parerga, che, per il suo tessuto tematico dalle trame più ravvicinate, offre una guida immediata alla successione di motivi in queste pagine dei Quaderni. Il legame istituito tra la morte e il dolore è l’argomento dominante dei capp. 10-12 dei Parerga, dove il radicarsi dell’individuo nella cosa in sé equivale al suo soggiornare nella inesauribile causa del dolore, dal quale la morte non può perciò distoglierci. L’espressione kafkiana «positività del dolore» (Confessioni, p. 739; Hochzeitsvorbereitungen, p. 80) è tolta dal cap. 12 dei Parerga, Aggiunte alla dottrina del dolore del mondo (PP II, pp. 383 e 385; 309 e 311), dove il mondo si rivela a Schopenhauer come «qualcosa che non dovrebbe esserci». Esso è il frutto di una colpa rappresentata in modo adeguato dal mito del peccato originale, e appare come un «inferno» in cui gli stessi uomini assumono vicendevolmente la parte dei diavoli e dei dannati, o, infine, come una colonia penale7.

7 «Per avere in ogni momento a portata di mano una sicura bussola che orienti nella vita […] niente è più opportuno che abituarsi a considerare que-

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L’identità del mondo con un istituto di pena non è altro che il corollario della «eterna giustizia», un’idea basilare de Il mondo come volontà e rappresentazione, e che insieme con le meditazioni di Nietzsche sulla natura della colpa e della pena, ha lasciato un segno profondo nell’opera di Kafka. Mentre nella «giustizia terrena» la pena viene comminata a fini preventivi ed intimidatori, per scoraggiare da futuri atti delittuosi, e dunque non sussiste alcuna relazione essenziale tra pena e colpa, la dottrina dell’«eterna giustizia» dice che vi è non solo perfetta corrispondenza, ma simultaneità e identità tra malum culpae e malum poenae. Questa verità rimane inaccessibile alla maggioranza degli uomini, ma per lo sguardo che sa penetrare oltre il velo dell’apparenza colpa e pena, tormentatore e tormentato appaiono come un «tutt’uno». Il tormentatore erra nel non ritenersi partecipe del tormento, il tormentato «nel non ritenersi partecipe della colpa». Altrimenti riconoscerebbe «che ogni malvagità, la quale viene commessa o fu un giorno commessa sulla terra, procede da quella volontà, che costituisce anche l’essere suo, che anche in lui si manifesta. […] egli ha preso su di sé tutti i dolori, che da tale volontà promanano; e giustamente li soffre fin quando egli è quella volontà». Ma torniamo al testo di Kafka. L’indistruttibile e la «distruzione» sono al centro del complesso aforisma immediatamente successivo alla data 5 febbraio, nel quarto quaderno: La distruzione di questo mondo sarebbe il nostro compito solo se: primo, questo mondo fosse cattivo, cioè in contrasto col nostro spirito; secondo, se noi fossimo in grado di distruggerlo. La prima cosa ci sembra esatta, ma la seconda non siamo in grado di effettuarla. Noi non possiamo distruggere questo mondo perché non l’abbiamo costruito come qualcosa di a sé stante, ma vi ci siamo smarriti (verirrt) dentro, più ancora: questo mondo è il nostro smarrimento (diese Welt ist unsere Verirrung), ma come tale è, esso medesimo, un’entità indistruttibile, o meglio, qualcosa che può essere distrutta solo col portarla sino in fondo, non col rinunciarvi, dove occorre osservare, peraltro, che anche il portarla sino in fondo non può essere altro che un seguito di distruzioni, sempre però nell’ambito del mondo stesso (Confessioni, p. 739; Hochzeitsvorbereitungen, p. 80).

Il primo tema schopenhaueriano che Kafka propone è quello della indistruttibilità del mondo. Attraverso la comune relazione sto mondo come un luogo di espiazione, dunque per così dire un istituto di pena, a penal colony» (PP II, p. 395; 321).

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all’indistruttibile Schopenhauer stabilisce la coincidenza di Io e mondo «giacché la comprensione dell’indistruttibilità della nostra essenza coincide con la identità di macrocosmo e microcosmo» (ER, p. 1372; 548). Il mondo ha pertanto un duplice volto: in quanto fenomeno è nostra rappresentazione, in quanto Volontà è la nostra stessa parte essenziale, e in virtù di questa duplice dimensione Schopenhauer può concludere che «il mondo non è meno in noi di quanto noi siamo in lui, e che la fonte di ogni realtà poggia sul nostro intimo» (ER, p. 1372, 548). In questa più profonda accezione, il «mondo» non è solo la fantasmagoria delle nostre rappresentazioni; il duro nocciolo della Volontà da cui dipende gli assicura invece una consistenza irriducibile. Perciò Schopenhauer può scrivere che con la morte dell’individuo, il venir meno della coscienza e della facoltà rappresentativa, il mondo, come avviene con il sopravvenire della notte, «scompare» ma «non cessa un solo istante di esistere» (ER, p. 1494; 556), così come non cessa di esistere il nostro nocciolo indistruttibile. Che Kafka fosse attratto proprio da questo aspetto della filosofia di Schopenhauer, lo mostra implicitamente la lettera a Minze Eisner della fine del marzo 1921. Attraverso una libera variazione di un passaggio dei Supplementi, Kafka evoca l’antitesi schopenhaueriana tra il mondo come teatro della volontà di vivere e il mondo come spettacolo estetico, risolto cioè in mera immagine o rappresentazione e redento in tal modo dal dolore della Volontà: Da qualche parte il filosofo Schopenhauer fa un’ affermazione che qui sono in grado di riprodurre solo in modo molto provvisorio e che suona più o meno così: “Coloro che trovano bella la vita non hanno apparentemente difficoltà a dimostrarlo, basta che facciano vedere il mondo come se lo si vedesse da un terrazzo. Comunque sia, sereno o nuvoloso, sempre il mondo sarà bello, la vita sarà bella; la vita dei popoli, delle famiglie, dei singoli individui sarà sempre meravigliosa e bella, sia essa lieve o pesante. Ma cosa dimostra questo? Nient’altro se non il fatto che, se il mondo fosse davvero una camera ottica, sarebbe davvero infinitamente bello, ma purtroppo non lo è, e questa bella vita in un mondo bello esige di essere vissuta in ogni dettaglio di ogni istante e questo, allora, non è più bello per niente: anzi, non è altro che pena”. Così pressappoco Schopenhauer8. 8 F. KAFKA, Briefe 1902-1924, hrsg. von M. Brod, Frankfurt a.M., Fischer 1983, p. 310. Schopenhauer aveva usato la metafora del mondo come camera ottica in un passaggio polemico contro le filosofie ottimistiche, al quale con tutta probabilità Kafka si riferisce: «…l’ottimista mi dirà di aprire gli occhi

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L’affermazione dei Quaderni che è impossibile distruggere il mondo e la sua dura consistenza non è, come ha supposto Reed, polemica contro la riduzione del mondo a fantasmagoria della rappresentazione, a mero fenomeno o immagine, giacché non a questo aspetto della filosofia di Schopenhauer è rivolta l’attenzione di Kafka, bensì alla coappartenenza di io e mondo nella radice dell’«indistruttibile». «Il mondo è il nostro smarrimento» è apparso a Reed come una deformazione del filosofema «il mondo è la nostra rappresentazione», ma il significato del contesto non è ambiguo, e nega appunto la vanificazione del mondo a rappresentazione. Verirrung è un termine che compare in Schopenhauer con accezioni diverse, ma nella sezione dei Parerga probabilmente utilizzata da Kafka, indica un evento analogo a quello del peccato originale, con cui la Volontà si individua e si specifica, e l’unicità del fondamento si manifesta come varietà delle apparenze. «Brahma – vi si legge – produce con una specie di peccato originale o di smarrimento (Verirrung) il mondo; ma rimane egli stesso nel mondo, per espiare, finché non se ne sia liberato. […] Nel buddhismo,, il mondo nasce in seguito a un perturbamento inspiegabile, che subentra dopo una lunga quiete, ecc.»9. La Verirrung indica insieme il rapporto di alterità e differenza, ma anche di coappartenenza dell’individuo all’unico fondamento di tutte le cose; proprio in questa accezione compare all’inizio de Il castello, dove il protagonista si chiede in quale villaggio si sia mai «smarrito» (verirrt), ad annunciare la paradossale situazione di esclusione/inclusione del protagonista. Il punto della filosofia schopenhaueriana che sembra interessare soprattutto Kafka non è la separazione di cosa in sé e mondo della varietà fenomenica, ma la partecipazione dell’«apparenza», del «male» e della «transitorietà» (verso i quali è rivolta la volontà di distruzione) all’indistruttibile cosa in sé. Questa reciprocità

e di guardare com’è bello il mondo, quando è illuminato dal sole, con le sue montagne, le sue vallate, i suoi fiumi, le sue piante, i suoi animali e così via. Ma forse che il mondo è una camera ottica? Certamente, tutte queste cose sono belle a vedersi, ma essere tali cose, è completamente diverso » (ER, p. 1497; 667). L’immagine della camera ottica era stata usata da Karl Philipp Moritz per indicare la trasformazione del mondo in bella apparenza (Anton Reiser. Ein psychologischer Roman, hrsg. von W. Martens, Stuttgart, Reclam 1972, pp. 289-290), e di qui passa probabilmente a Schopenhauer. 9 PP II, p. 393; 319. Qualche pagina prima, si legge che l’esistenza umana è «una specie di smarrimento» (eine Art Verirrung): p. 377; 305.

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si riverbera anche sulla dimensione conoscitiva. Un tema analogo a quello dell’aggiramento prospettico del castello, del succedersi delle apparenze in mancanza di una diretta via d’accesso è formulato da Kafka, nel terzo quaderno, con il resoconto sui quattro miti di Prometeo. La molteplicità delle interpretazioni non è antitetica all’unicità del fondamento, ma è anzi la manifestazione, nel regno della varietà e dello smarrimento, del suo carattere inesplicabile. Il mito termina nell’inesplicabile, proprio perché proviene da un «fondamento di verità», che è a sua volta inesplicabile10. Il Prometeo di Kafka ricorda la prima parte di Timore e tremore di Kierkegaard, insieme con Schopenhauer la fonte principale delle meditazioni consegnate soprattutto al quarto quaderno. Timore e tremore si apre infatti con il resoconto delle quattro versioni della storia di Abramo rimuginate dall’uomo che l’ha ascoltata da bambino, ma al quale essa continua a rimanere incomprensibile. Nessuna delle possibili versioni, ordinate secondo una progressione che termina con la perdita della fede e con il silenzio (in analogia alla metamorfosi discendente che, come ha mostrato Giuliano Baioni, ordina le quattro storie del Prometeo di Kafka) spiega la grandezza di Abramo, perché essa coincide con il paradosso di un «rapporto assoluto con l’assoluto», con la singolarità non comunicabile dell’esperienza religiosa. Per Kierkegaard, quest’ultima consiste appunto in una condensazione di «singolarità» e «assoluto» che si sottrae alla hegeliana mediazione, cioè alla sottomissione o risoluzione dell’individuale nell’universalità del linguaggio o in quella della relazione etica. Kierkegaard viene riassunto, ma anche contestato, in questo aforisma del quarto quaderno: La non comunicabilità del paradosso forse esiste, ma non si manifesta come tale, poiché Abramo stesso non lo capisce. Egli, però, non ha bisogno di capirlo e perciò nemmeno di interpretarlo per se stesso, ma può, invece, tentare di interpretarlo per gli altri. Anche l’universale, in questo senso, non è univoco: verità che nel caso di Ifigenia si manifesta nel fatto che l’oracolo non ha mai un significato solo (Confessioni, pp. 753-754; Hochzeitsvorbereitungen, p. 91).

La prima parte dell’aforisma ripropone il tema di Prometeo, con il rapporto tra inesplicabilità del fondamento e la molteplicità delle interpretazioni; la seconda parte estende il carattere di

10 Hochzeitsvorbereitungen, p. 74. La traduzione italiana è in F. KAFKA, Tutti i racconti, I, a cura di E. Pocar, Milano, Mondadori 1980, p. 154.

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inesplicabilità anche a quell’«universale» che, secondo Timore e tremore, definisce il manifestarsi del fondamento non nella forma religiosa ma in quella etica, caratteristica dell’eroe tragico. Kafka si riferisce all’analisi kierkegaardiana dell’Agamennone euripideo, che nell’Ifigenia in Aulide sacrifica l’amore di padre all’«universalità» del comando divino, e si propone così come eroe tragico per eccellenza; ma allude anche all’Ifigenia in Tauride di Goethe – un’opera che gli era assai cara – dove il significato ambiguo dell’oracolo viene deciso, ma non esaurito dalla interpretazione umana. La relazione al fondamento inesplicabile vale sia per il sacrificio di Abramo sia per quello di Agamennone, e la distinzione stabilita da Kierkegaard tra l’eroe tragico e quello religioso, tra due diverse collocazioni della singolarità rispetto all’«universale», sembra venir meno per Kafka. Nei due aforismi immediatamente successivi, si parla di «equivoco dell’universale», e all’universale come «quiete» (già tematizzato negli aforismi sulla morte e il dolore) viene accostato l’universale come «oscillazione tra universale e singolo» (Confessioni, p. 754; Hochzeitsvorbereitungen, p. 92); sulla «scena reale» vi è oscillazione, mentre la «vita nell’universale» (la quiete intesa come «scopo finale») appare solo sullo sfondo. Sulla meditazione occasionata dall’opera di Kierkegaard si distende ancora l’ombra schopenhaueriana del mondo come Volontà, con l’intreccio non districabile tra la sfera dell’individuazione e della transitorietà e quella dell’«indistruttibile» cosa in sé, che continuamente aspira ad individuarsi nel mondo fenomenico. Questa commistione di riferimenti filosofici, caratteristica del quarto quaderno, è confermata dagli aforismi successivi. Viene drasticamente ridimensionato il carattere trascendente dello sforzo di Abramo: mondo «eterno» e mondo «transitorio» sono i poli di una dialettica dell’immanenza, di cui Abramo è prigioniero al punto che le sue lamentele nascondono l’aspirazione a «saltare nel mondo» (Confessioni, p. 754; Hochzeitsvorbereitungen, p. 92). Si tratta di un’espressione che deforma in senso parodistico il «salto beato nell’eternità» di cui Kierkegaard parla, a proposito del «timore e tremore» che lo coglie quando considera la propria esistenza, in quel Buch des Richters che aveva a lungo occupato Kafka 11.

11 Cfr. S. KIERKEGAARD, Buch des Richters. Seine Tagebücher 1833-1835 im Auszug aus dem Dänischen von H. Gottsched, Diederichs, Jena u. Leipzig 1905, p. 64. Si tratta di una raccolta liberamente confezionata con brani di

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Anche l’agonismo di Abramo (la «lotta con Dio» a cui Timore e tremore consegna la grandezza e il carattere «eroico»-prometeico di Abramo) è reinterpretato da Kafka nei termini della filosofia di Schopenhauer. La figura della lotta, che costituisce uno dei motivi ricorrenti del Castello e che compare già nel terzo quaderno in connessione con quello della seduzione sessuale12, risale all’idea schopenhaueriana del « dissidio» come marchio della volontà di vivere. La «lotta continua» di cui parlano le Aggiunte alla dottrina del dolore e in virtù della quale l’individuo «trova dovunque degli avversari, vive in costante combattimento, e muore con le armi alla mano» (PP II, p. 384; 310) non è, in effetti, che il distendersi nel mondo fenomenico del dissidio che agita la Volontà. Per Schopenhauer il fondamento non è in uno stato di quiete, ma anzi in una disposizione intimamente conflittuale; la sua stessa «fame» induce la Volontà a rivolgere i denti contro se stessa e a dilaniarsi, e ciò si ripercuote in forma di distruzione e di lotta in tutti i gradi delle sue oggettivazioni, dal mondo minerale a quello animale, per terminare nell’oscuro fenomeno del cannibalismo. Lotta ed impossibilità di uscire dal mondo sono per Kafka gli indici di una invincibile immanenza, espressa appunto dalla figura di Abramo. L’agonismo di Abramo, la sua aspirazione a distruggere il transeunte, recano il segno di una seduzione mondana; rivelano la loro parentela con la natura della Volontà e con gli strumenti che essa adopera per produrre/distruggere le sue individuazioni. Riteniamo sia questo il senso dell’affermazione di Kafka, che propria di Abramo è una «distruzione del mondo non distruttiva, ma costruttiva» (Confessioni, p. 755; Hochzeitsvorbereitungen, p. 92). L’«eterno» dell’Abramo di Kafka è a tal punto incluso nel mondo come Volontà che proprio a una carenza della volontà, alla «debolezza della propria voce nel gridare gli ordini», egli addebita la responsabilità del mancato passaggio dal transeunte all’eterno. In un passo dei Frammenti («In città non fanno che costruire…»: Confessioni, p. 862; Hochzeitsvorbereitungen, p. 193 e sg.) inconKierkegaard,, nota a Kafka fin dal 1913. Sul «salto» di Abramo si veda anche la lettera di Kafka a R. Klopstock del giugno 1918 (Briefe, cit., p. 333). 12 «Uno dei più efficaci mezzi di seduzione dell’elemento diabolico è l’invito alla lotta. È come la lotta con le donne, che finisce a letto» (Confessioni, p. 711; Hochzeitsvorbereitungen, p. 55). Lotta e istinto sessuale sono, nella filosofia di Schopenhauer, i due modi in cui si manifesta per eccellenza la volontà di vivere.

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triamo una serie di minuziose variazioni sulla coppia edificare-distruggere, che termina con l’immagine di un castello. Distruzione e ricostruzione degli edifici si succedono secondo uno stile ciclico e senza incremento, fino a coincidere, visto che «si sa bene che la distruzione lavora meglio di qualsiasi muratore». Il testo presenta inoltre il motivo della problematica identificazione della «casa di campagna» con un castello: solo l’esame delle fondamenta, e ancor più la conferma della «tradizione», permette di stabilire che le rovine, dove si conservano tracce di un passato splendore, sono quelle di «un grande edificio simile a un castello». In un altro passo dei Frammenti, la difficile identificazione dei contorni della città e del castello ha a che fare con quella indistinzione castello-villaggio in cui è raffigurata la paradossale simultaneità di esclusione e inclusione dell’agrimensore: – Vedo in lontananza una città, è quella che vuoi dire tu? – Può darsi, ma non capisco come fai a vedere una città, là in fondo vedo qualcosa solo da quando me l’hai fatto notare tu, e anche adesso nient’altro che dei contorni indistinti nella nebbia. – Oh sì, io lo vedo: è una montagna con una rocca (Burg) in cima e una specie di villaggio lungo il pendio. – Allora è proprio la città che intendo io; hai ragione, in fondo non è che un grosso villaggio (Confessioni, p. 922; Hochzeitsvorbereitungen, p. 241).

La seconda, grande descrizione del castello nel primo capitolo del romanzo unifica però questi due aspetti e suggerisce, accanto alla indistinzione di castello e villaggio, l’impressione di incipiente rovina a cui l’edificio è sottoposto. Il protagonista vede ora stagliarsi, nell’aria limpida, i contorni del castello; «una vasta costruzione, composta da pochi edifici a due piani e molte case basse serrate l’una contro l’altra […] in fondo il castello non era che una misera cittadina, una accozzaglia di casupole senza nessuna caratteristica, tranne quella di essere costruite in pietra, ma l’intonaco era cascato da un pezzo, e la pietra pareva sgretolarsi» (pp. 50-51; 17-18). La distinzione che il testo introduce subito dopo tra l’allucinante edificio turrito e il «guazzabuglio di casupole basse» costringe quasi il lettore al raffronto con la casa di Lotario, che sconcerta Wilhelm allorché la vede di lontano, all’inizio del settimo libro degli Anni d’apprendistato. Se non fosse per la presenza delle torri, a Wilhelm non sarebbe facile distinguere come parte più antica della variegata costruzione un «vecchio castello irregolare», di una irregolarità aumentata dai «nuovi edifici aggiunti, costruiti in parte vicino, in

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IL CASTELLO DI KAFKA: ITINERARIO DI UN’IMMAGINE

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parte a una certa distanza dal primo». Ma per arricchire il patrimonio delle fonti dell’immagine kafkiana, occorre fare riferimento a un altro passo di Goethe, che, certo non senza relazione con quello or ora citato, fonde però alla perfezione i due attributi della rovina e della indistinzione col groviglio di case. Sulle tracce di questo secondo castello di Goethe, ci conduce appunto la lettura kafkiana di Schopenhauer con le supposizioni che essa consente. I Quaderni in ottavo si aprono con l’abbozzo di una lettera, nella quale Kafka manifesta il suo entusiasmo per una piccola antologia di Schopenhauer che il curatore, Paul Wiegler, gli aveva inviato13. Benché la curiosità degli interpreti di Kafka per questa operetta si sia limitata alla registrazione aneddotica, anche la natura e l’indice del libretto confezionato da Wiegler sembrano degni di qualche attenzione. Esso appartiene a un genere prediletto da Kafka; si tratta infatti di una biografia costruita attraverso una scelta di lettere, resoconti di colloqui ed altre testimonianze sulla vita del filosofo. La parte più cospicua dell’antologia di Wiegler (alle pp. 77-119) è occupata dallo scambio epistolare tra Goethe e Schopenhauer negli anni 1814-1818 a proposito della teoria dei colori, e delle divergenze che il manoscritto Sulla vista e i colori, fatto pervenire dal giovane Schopenhauer a Goethe nella speranza di ottenerne l’autorevole assenso, aveva invece portato alla luce. Se il libricino confezionato da Wiegler è stato veramente il punto d’avvio di una rinnovata lettura di Schopenhauer da parte di Kafka14, sarà lecito supporre che questo dibattito con Goethe non sia sfuggito all’attenzione dello scrittore. Ad esso aveva dato rilievo, del resto, anche l’altra biografia del filosofo nota a Kafka, Schopenhauers Leben di Wilhelm Gwinner, che si soffermava diffusamente sull’argomento. Più importante sembra però la circostanza che lo scambio epistolare è animato da una serie di motivi dotati, per così dire, di una naturale affinità con l’universo simbolico di Kafka. Così, ad esempio, il primato della letteratura e l’idea di una vita completamente assorbita in essa induceva Schopenhauer a scrivere, nella lettera del 3 settembre 1815: 13 A. SCHOPENHAUER, Briefe, Aufzeichnungen, Gespräche. Eingeleitet und ausgewählt von Paul Wiegler, Berlin und Wien, Ullstein s.d. (ma 1916). 14 Sulla base di una testimonianza di Max Brod, si è soliti datare dal 1903 l’incontro di Kafka con l’opera di Schopenhauer. L’incipit del Frammento filosofico del 1906, che colloca il piacere estetico in una rappresentazione estranea all’ambito della volontà, è già di sapore schiettamente schopenhaueriano.

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GUARIGIONI, RINASCITE E METAMORFOSI

Ella stessa mi ha detto che l’attività letteraria è sempre stata per Lei una cosa secondaria, e la vita reale la cosa principale. Per me vale l’opposto: ciò che io penso, ciò che io scrivo, ha valore per me ed è importante: ciò che invece sperimento personalmente e mi accade è per me una cosa secondaria, anzi oggetto della mia ironia. Per questa ragione, mi riesce penoso ed inquietante non essere più in possesso, da otto settimane, di un mio manoscritto e neppure avere la piena certezza che sia arrivato dove volevo mandarlo e, sebbene questa cosa sia estremamente verosimile, non sapere almeno se è stato letto, se è stato bene accolto, insomma che cosa ne sia15.

Con queste parole, iscrivibili a buon diritto nel mondo dei motivi kafkiani, Schopenhauer introduceva la nota dominante di questo straordinario scambio epistolare: via via il silenzio di Goethe, causa dapprima di incertezza ed apprensione, si ingrandisce e diventa minaccioso, fino a che l’intero carteggio assume i contorni di una inutile lotta per ottenere un cenno univoco, di accettazione o di rifiuto, dal nume di Weimar. Vinto da un clima non dissimile da quello in cui si muove il protagonista de Il castello, e che domina le sue relazioni con i funzionari, intenti con un gioco estenuante di reticenze e di rinvii ad eludere la volontà di interpretazione dell’agrimensore, Schopenhauer doveva finalmente riconoscere, nella lettera del 7 febbraio 1816, l’insuccesso dei suoi sforzi: Non posso nascondere che ho molto sofferto per non aver ricevuto da Lei un serio interessamento, una reazione, una replica. Avevo sperato, con più fiducia di quanto potessi permettermi, che la mia prima preghiera sarebbe stata esaudita: ero sicuro di incontrare la più viva partecipazione. Un poco alla volta queste vive speranze si sono affievolite: ma, dopo tanto tempo e tante lettere, non ricevere nemmeno una Sua opinione, il Suo giudizio, niente, assolutamente niente, se non un elogio esitante e un debole rifiuto di approvazione, senza che mi si dicessero le ragioni in contrario: tutto ciò era più di quanto potevo temere e meno di quanto potevo sperare.

Il tono alto e drammatico di queste lettere, del resto, corrisponde a quello usato da Goethe nei Colloqui di Eckermann, un altro testo caro a Kafka, e nel quale la teoria dei colori è tra gli argomenti ricorrenti di conversazione. Qui la polemica verso la teoria newto-

15 A. SCHOPENHAUER, La vista e i colori e carteggio con Goethe, trad. M. Montinari, Torino, Boringhieri 1959, p. 159; la lettera del 7 febbraio 1816, citata subito dopo, è a p. 186; quella dell’11 novembre 1815 a p. 174.

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niana abbandona il registro di un consueto dibattito scientifico e assume i contorni di una vera e propria guerra per la difesa di una verità religiosa16. La metafora militare compariva anche nella lettera di Schopenhauer dell’11 novembre 1815. Egli concludeva un’argomentazione volta a presentare la propria teoria come coerente completamento dell’edificio scientifico iniziato da Goethe, con l’immagine di una vecchia rocca fortificata (la teoria newtoniana) che solo ora sarebbe possibile distruggere, e in modo definitivo: Ella ha investito e attaccato con forza da ogni lato quell’antica fortezza (Burg); le persone competenti la vedono vacillare e sanno che deve crollare; ma gli invalidi che vi si sono rifugiati non vogliono capitolare, e anzi gracidano ai quattro venti uno sciocco Te Deum. Ora io, partendo dalle sue postazioni, sono riuscito a collocare una mina che con un colpo solo deve far saltare l’intiero edificio…

Schopenhauer non inventava una nuova immagine, ma si limitava a citare (fin nel dettaglio degli «invalidi» che occupano la vecchia fortificazione) l’Introduzione alla parte didattica della Teoria dei colori. Qui Goethe, elaborando una lunga, complessa immagine, aveva paragonato l’ottica di Newton a una «antica rocca» progettata con precipitazione e poi, via via, rabberciata ed ampliata secondo le circostanze. Al nucleo primitivo dell’edificio si affiancano «parti ed aggiunte eterogenee» collegate, come nel caso del castello di Lotario, da gallerie, sale e passaggi bizzarri. Benché inquietante, il disordine architettonico dell’abitazione di Lotario è fatto per assicurare agio e comodità; tutt’altro è il caso del castello della Teoria dei colori, in cui confusione e disordine sono apertamente coniugati con la caratteristica della rovina. L’usurpata fama di inespugnabilità di questo rudere «che minaccia il crollo» fa sì che nessuno si accorga, dall’esterno, della sua inabitabilità: Nessuno si accorge che l’antica costruzione è divenuta inabitabile. Si parla sempre della sua straordinaria durata, del suo validissimo equipaggiamento. Si va a essa in pellegrinaggio, se ne mostrano rapidi schizzi per tutte le scuole e la si raccomanda all’ammirazione di una ricettiva gioventù, mentre in realtà l’edificio è già vuoto, sorvegliato soltanto da alcuni invalidi, che in tutta serietà si credono armati17. 16 Su questo aspetto degli scritti di Goethe sulla teoria dei colori, e delle numerose considerazioni contenute nei colloqui con Eckermann, si veda ora il lavoro di A. SCHÖNE, Goethes Farbentheologie, München, Beck 1987. 17 J. W. GOETHE, La teoria dei colori, cit., pp. 8-9. Né si può dimenticare,

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GUARIGIONI, RINASCITE E METAMORFOSI

Allo stesso modo, Goethe aveva osservato nelle conversazioni con Eckermann che il sopravvivere nell’opinione dei dotti dell’autorità della teoria newtoniana della luce non dipende da un valore di verità che sfida il tempo, ma dall’esitazione ad abbandonare una casa alla quale si è fatta l’abitudine. Beninteso, solo un percorso lastricato di supposizioni ci conduce fino all’immagine della Teoria dei colori; eppure l’aria di famiglia tra il castello di Goethe e quello di Kafka è sostenuta, oltreché dalla somiglianza figurale, dalla cospicua affinità di senso delle due immagini. Entrambe indicano il vigore inesauribile della casa vuota della legge, che continua a plasmare e dirigere gli uomini, quale che sia la sua inabitabilità, vecchiezza e crudele insensatezza.

a confronto con questa descrizione, la parte iniziale della Novella, con l’elaborata immagine dell’antichissima fortificazione in rovina che si staglia, osservata al cannocchiale, nella luce serale.

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LA BIBLIOTECA DI SCHOPENHAUER*

Le 172 opere in 242 volumi conservate allo Schopenhauer-Archiv nel Literaturhaus di Francoforte sul Meno sono ciò che oggi resta della biblioteca che il filosofo aveva raccolto dai suoi primi anni di studio fino praticamente al giorno della morte. Si tratta di una piccola parte dei libri che egli aveva lasciato per testamento al suo futuro biografo Wilhelm Gwinner, con l’eccezione dei volumi di Kant che adoperava come copie di lavoro, ereditati invece insieme ai manoscritti dall’allievo Frauenstädt. Un testimonianza di Foucher de Careil del 1839 parla di una biblioteca di «près de trois mille volumes»1 e la stessa cifra è menzionata da Wilhelm Gwinner2, mentre il catalogo compilato nel 1861, subito dopo la morte di Schopenhauer, elenca 1410 titoli, incluse naturalmente le miscellanee, le pubblicazioni periodiche e le opere complete in vari volumi ed edizioni, come quelle di Aristotele, Platone, Spinoza, Goethe, Calderón ecc. ecc. Nella ricostruzione del catalogo che Arthur Hübscher ha pubblicato nel 1968 si contano infine 1848 titoli3. Per farci un’idea molto approssimativa della consistenza e della natura della biblioteca, possiamo aggiungere * Cfr. infra, Bibliografia 2001 n. 1. 1 «Introduit dans sa bibliothèque, j’y ai vu près de trois mille volumes que, bien différent des nos modernes amateurs, il avait presque tous lus», cit. in A. SCHOPENHAUER, Gespräche, hrsg. von A. Hübscher, Stuttgard/Bad Cannstadt, Frommann-Holzboog 1971, p. 364. 2 W. GWINNER, Schopenhauer’s Leben, Leipzig, Brockhaus 1910, p. 281. 3 HN V. Nell’Introduzione al volume, pp. VII-XXXVII, Hübscher ricostruisce le vicende della biblioteca dopo la morte di Schopenhauer, vicende che qui riproduciamo in maniera sintetica. Sulla storia della biblioteca ha in preparazione uno studio il Dr. Stollberg, che attualmente custodisce lo Schopenhauer-Archiv -Archiv. Egli ha acquisito di recente 91 titoli: molti volumi presentano annotazioni e rimandi di mano di Schopenhauer, cfr. J. STOLLBERG, Ein

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che in essa vi erano 764 titoli di filosofia, teologia e scienze religiose, che includevano praticamente tutti i classici della filosofia antica e moderna; 206 di scienze naturali, benché a Francoforte Schopenhauer si servisse della biblioteca Seckenberg, specializzata in letteratura scientifica; 115 su visioni di spiriti, mesmerismo, magnetismo animale e oniromantica; 545 di letterature antiche e moderne; 145 sulle culture orientali e dell’India, tra cui i volumi delle «Asiatic Researches» che egli aveva acquistato all’asta della biblioteca di August Wilhelm Schlegel, una delle tante a cui aveva partecipato, come ci viene testimoniato dall’epistolario4. Il resto dei volumi è suddiviso tra le sezioni di storia, geografia e resoconti di viaggio. Su tutti i volumi vi era come ex libris il suo stemma familiare (Fig. 1), assente solo su quelli che non erano ritenuti degni di fregiarsene, come ad esempio la Fenomenologia dello spirito di Hegel.

fig. 1. Arthur Schopenhauer Ex-libris

bedeutender Zuwachs für die Sammlung “Bibliothek Arthur Schopenhauer”, in «Schopenhauer-Jahrbuch», LXXXII, 2002, pp. 31-35. 4 Cfr. la lettera a Eduard Böcking del 19 novembre 1845, GB, p. 224. Questa lettera e quella immediatamente precedente, del 18 Novembre 1845 alla libreria Barth di Lipsia (ivi, p. 223), sono un buon esempio dell’accortezza commerciale di Schopenhauer, che non dava mano libera ai suoi incaricati e forniva sempre l’indicazione di un prezzo massimo da osservare per ogni singola opera da acquistare.

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LA BIBLIOTECA DI SCHOPENHAUER

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Per motivi di spazio, Gwinner si era ben presto sbarazzato della biblioteca, conservandone solo i 400 volumi più preziosi, e aveva dato avvio a quella «dispersione ai quattro venti» della biblioteca, come l’ha definita Arthur Hübscher, che non è stato possibile contrastare se non in minima parte. Tantopiù che circa un terzo dei volumi in possesso della famiglia e poi della fondazione Gwinner è andato poi distrutto durante l’ultima guerra. Alla sua morte, nel 1860, Schopenhauer godeva già di una fama diffusa e radicata; nel 1873 c’è la prima edizione delle opere complete e già nel ’64 la prima parziale pubblicazione del Nachlaß, a cui ne seguiranno rapidamente altre: tanto più strano appare perciò il fatto che né presso il pubblico colto e i suoi oramai numerosi seguaci, né presso le istituzioni culturali vi siano in quegli anni segni di attenzione per le sorti della biblioteca, o il minimo tentativo di restaurarne l’integrità, come allora ancora sarebbe stato possibile. Anche nella letteratura scientifica, già in quell’epoca abbondante, vi è un totale silenzio sulla biblioteca, e soprattutto manca la consapevolezza che, ben più di altre biblioteche contemporanee, quella di Schopenhauer si segnala per l’abbondanza delle note a margine o in calce anche di notevole estensione, per le sottolineature, i disegni, i rimandi di vario tipo con cui il filosofo reagisce a una prima lettura, e spesso anche a letture successive del testo. Questa caratteristica era stata resa nota per la prima volta in una pubblicazione di tipo commerciale e pubblicitario. Tra i cataloghi d’asta che segnalavano volumi provenienti dalla biblioteca di Schopenhauer – ne conosciamo quattro dal ’66 all’80 – l’ultimo, del libraio Baer di Francoforte5, includeva una sezione intitolata Schopenhauers Randglossen e raccomandava i preziosi autografi agli «zahlreichen Verehrern des großen Mannes». La prima pubblicazione non condizionata da finalità commerciali delle annotazioni e dei segni di Schopenhauer sui libri della sua biblioteca è il libro del 1888 Edita et inedita Schopenhaueriana del poeta Eduard Grisebach, autore anch’egli di una biografia di Schopenhauer e bibliomane noto ai suoi tempi come «der Generalissimus der Bibliophilie»6. Il volume di Grisebach, che 5 Tra i cataloghi di queste aste, organizzate tutte dal libraio Baer, ci manca solo quello dell’8 febbraio 1869. Sulla questione cfr. la citata introduzione di Hübscher alle Randglossen zu Büchern, p. XXIII 6 Su di lui si veda H. HENNING, Eduard Griesebach in seinem Leben und Schaffen, Berlin, Hoffmann 1905, con una bibliografia dei suoi scritti alle pp. 67-71.

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GUARIGIONI, RINASCITE E METAMORFOSI

fig. 2. Annotations de Schopenhauer à la Metakritik zur Kritik der reinen Vernunft de Herder, in Eduard Grisebach, Edita ed Inedita Schopenhaueriana, 1888

conteneva anche una ricostruzione del catalogo della biblioteca, tentava di dare una chiara e fedele idea della natura di queste annotazioni riproducendole assieme al testo. Ecco un esempio della procedura di Grisebach a proposito della Metakritik zur Kritik der reinen Vernunft di Herder (Fig. 2). Grisebach riassume e cita parzialmente il testo di Herder, e riproduce integralmente l’annotazione di Schopenhauer. Il testo è citato integralmente solo quando ciò è indispensabile per capire l’annotazione di Schopenhauer che non di rado, come in questo caso, è una battuta di spirito. Schopenhauer commenta la frase di Herder «ciò che non è comprensibile per te, lascialo incompreso» con le parole «per esempio la Critica della ragion pura». Grisebach riproduce anche i segni di lettura, come mostra quest’altro esempio tratto da Pope (Fig. 3). È interessante osservare però che egli non tenta neppure approssimativamente di datare le annotazioni, benché fosse un ottimo conoscitore delle variazioni e fasi della grafia di Schopenhauer, del quale pubblicherà negli anni 1891-93 un’edizione del Nachlaß. Nel 1930 veniva messa all’asta a Berlino la biblioteca di Grisebach che includeva 60 volumi provenienti da quella di

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fig. 3. Annotations de Schopenhauer à une œuvre de Pope, in Eduard Grisebach Grisebach, Edita ed Inedita Schopenhaueriana, 1888

Schopenhauer, e in quella occasione veniva dato alle stampe un importante catalogo con numerose prove in facsimile di pagine annotate o disegnate da Schopenhauer. Questo catalogo – 60 volumi messi all’asta con «numerose note a margine manoscritte e in parte del tutto sconosciute» – si rivolgeva esplicitamente ai bibliomani e agli appassionati di Schopenhauer che fossero pronti a considerare come una reliquia ogni suo autografo, e non aveva naturalmente nessuna pretesa scientifica. Le numerose pagine in facsimile introdotte nel testo erano scelte solo in base al criterio di sollecitare la curiosità dei collezionisti di autografi, non certo in base a quello della loro rilevanza scientifica. Grazie al catalogo era però possibile farsi un’idea chiara di quanto siano spesso ampi e circostanziati gli interventi di Schopenhauer sul testo a stampa. Come ci mostra, per esempio, la riproduzione della Fig. 4, le annotazioni al Système du Monde di Laplace. Come si

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GUARIGIONI, RINASCITE E METAMORFOSI

fig. 4. Annotations de Schopenhauer au Système du monde de Laplace

vede, le annotazioni sono in francese; Schopenhauer aveva infatti l’abitudine di adeguarsi alla lingua del testo che leggeva, e il caso più cospicuo è rappresentato dalle numerosissime annotazioni latine all’Ethica di Spinoza. Questo esempio è inoltre significativo, insieme a numerosi altri, perché qui le annotazioni non trovano corrispondenza alcuna negli appunti o nei pensieri del Nachlaß; costituiscono, per quanto circoscritte ad aspetti particolari, una testimonianza unica della riflessione di Schopenhauer. Può essere utile, per iniziare ad illustrare meglio quest’aspetto e le possibilità dischiuse da uno studio della biblioteca, dare un’occhiata alla copia del System der Ethik di Fichte conservato allo Schopenhauer-Archiv di Francoforte. Noi sappiamo quanto sia stata grande l’importanza di Fichte per la genesi del sistema di Schopenhauer e per alcuni suoi concetti centrali, come quelli di volontà, di doppia coscienza, di corpo come «oggetto immediato» ecc. Nei quaderni di lezioni e di appunti del periodo giovanile, sui Vorlesung-- e gli Studienhefte, nei quali Schopenhauer raccoglieva chiose e riflessioni sui testi filosofici che leggeva, in particolare su Kant, Fries, Schelling e Fichte, possiamo leggere numerose riflessioni e annotazioni su Fichte. Grazie ad esse sappiamo ad esempio che Schopenhauer considerava particolarmente «degno di essere letto», come egli scrive, un gruppo di pagine del System der Ethik. Solo un esame della sua biblioteca, però, ci può dare l’indicazione precisa sui punti del testo che avevano suscitato il suo interesse. Ecco in-

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fig. 5

tanto il frontespizio dell’opera di Fichte con il titolo, al quale Schopenhauer ha aggiunto a mano “0 sia [in italiano, poi cancellato] Sistema del fatalismo morale» (Fig. 5). Il libro ci dà anche, come ve-

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fig. 6. Dessin de Schopenhauer en commentaire du «sich setzen» du System der Ethik de Fichte

diamo dalla foto successiva (Fig. 6) un bell’esempio di come Schopenhauer usava talora il disegno, questa volta in funzione burlesca. Qui però la burla è una manifestazione di quella costante polemica verso la deformazione metaforica del linguaggio, che egli ritiene essere una strategia essenziale e deleteria della filosofia idealistica. Riporta allora il «setzen» (porre) di Fichte al suo significato letterale di «sedersi» e disegna vicino alla parola una sedia. Torniamo ora a cose più serie, ossia alla questione del rapporto tra le annotazioni del Nachlaß e quelle della biblioteca. Nella pagina XVII che vedete nella Fig. 7 la cosa più interessante non è la lunga annotazione, ma lo sono piuttosto le sottolineature e i segni a margine, che individuano come problema centrale del testo di Fichte la relazione, insieme di separazione e unità, di azione corporea e atto della volontà, i quali appaiono come la stessa realtà vista sotto due prospettive diverse. Si tratta dunque, come ben sanno i lettori del Mondo come volontà e rappresentazione, del problema che è al centro della riflessione di Schopenhauer sulla doppia conoscenza del corpo, ossia su ciò che egli

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fig. 7. Annotations et soulignements de Schopenhauer à la page XVII du System der Ethik de Fichte

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stesso chiama la «pietra angolare» del suo sistema. Le informazioni che ci danno queste sottolineature sono assai più rilevanti, ad esempio, di quelle che ci provengono dalle fitte annotazioni a margine della p. 53. Queste annotazioni discutono il tema della «Begreiflichkeit» dell’imperativo categorico, ma in definitiva non si discostano da ciò che Schopenhauer scrive sull’argomento negli Studienhefte, e quindi hanno un valore al massimo di conferma e non ci dicono nulla di nuovo rispetto agli appunti del Nachlaß. Vorrei dare più avanti un altro esempio, tratto dalla copia della Recherche de la verité di Malebranche, dell’importanza che per lo studioso di Schopenhauer possono assumere queste semplici sottolineature, o minimi interventi sul testo. Torniamo adesso al nostro tema principale. Quattro anni prima della pubblicazione del catalogo d’asta della biblioteca di Grisebach, ossia nel 1926, era uscito a cura dell’avvocato viennese Robert Gruber un volume con le Randbemerkungen zu den Hauptwerken Kants, le annotazioni scritte da Schopenhauer sulle sue copie di lavoro di Kant, che Frauenstädt aveva ricevuto in eredità e che poi erano state acquisite da Gruber.. Il lavoro di Gruber veniva pubblicato come XIII volume delle opere di Schopenhauer curate da Paul Deussen per l’editore Piper di Monaco a partire dal 1911, un’edizione che prevedeva anche la pubblicazione del Nachlaß in ordine cronologico e nella sua completezza, poi non portata a termine. Il criterio adottato da Gruber era quello di riprodurre sia il testo kantiano – spesso l’intera pagina – sia le note di Schopenhauer, che vengono presentate rispettando la loro localizzazione nella pagina originale, e riproducendo anche i segni di richiamo. I testi su cui Gruber lavorava sono andati, purtroppo, perduti; per verificare il suo metodo possiamo solo fare ricorso all’unico facsimile che egli ha inserito nel volume. La prima immagine (Fig. 8) mostra il facsimile della pagina 131 della Critica della ragion pura, quinta edizione (conforme alla seconda) del 1799. Come si vede, vi sono parole sottolineate alle quali, attraverso particolari segni grafici, si riferiscono le annotazioni scritte a margine. Per orientarci nel confronto, richiamo la vostra attenzione sulle parole «Einheit Einheit gegebener Begriffe» che Schopenhauer ha sottolineato. La seconda immagine (Fig. 9) mostra la stessa pagina riprodotta però da Gruber in due pagine. Il paragrafo 16, che nell’originale occupa la fine della pagina, nella riproduzione è invece all’inizio della pagina di destra. Ho messo in riquadro le parole «Einheit Einheit gegebener Begriffe»,, di cui come si può osservare Gruber non si cura di segnalare la sottolineatu-

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fig. 8. Fac-similé de la page 131 de la Critique de la Raison pure de Kant

ra. Egli si distacca così dal metodo del suo predecessore Grisebach senza nessuna motivazione apparente, visto che il tipografo non avrebbe avuto certo difficoltà a riprodurre le sottolineature.

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fig. 9

È un fatto però che in un’altra copia di lavoro della Critica della ragione pura, la prima edizione del 1781 che Schopenhauer legge solo più tardi, di cui Gruber non dà conto ma che per fortuna è

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conservata all’Archivio Schopenhauer, intere parti del testo sono commentate solo mediante sottolineature e lapidarie interiezioni. In ogni modo, già dai testi editi da Gruber, che sono corredati di un apparato di note esplicative assai scrupolose e utili, emerge con chiarezza l’utilità della biblioteca per integrare e completare anche in punti decisivi il Nachlaß. Per scegliere un esempio semplice e rapido, è questo il caso della pagina, sempre dalla quinta edizione della Critica di Kant, che riproduce l’inizio del capitolo sullo schematismo trascendentale. Nei vari appunti del Nachlaß che costituiscono il materiale preparatorio per la Critica della filosofia kantiana pubblicata nel Mondo, la polemica contro la nozione di schema – che viene definito una «mostruosità» – dipende dal fatto che esso annulla un principio fondamentale della teoria della conoscenza di Schopenhauer, ossia la differenza tra intuizione e concetto, tentandone una sintesi impropria. Solo dall’annotazione a margine pubblicata da Gruber sappiamo però, e non è una notizia da poco, che per venire a capo di queste enigmatiche pagine della Critica, una croce di tutta la filosofia postkantiana, Schopenhauer si richiama, come qui si legge, a un altro testo, la lettera di Kant a Tieftrunk del dicembre 1797. Nell’annotazione si legge: «Una spiegazione autentica di questo oscuro capitolo sullo schematismo la dà una lettera di Kant, riprodotta nella Denklehre di Tieftrunk». In astratto e in linea di principio, se non si tiene conto cioè del fatto che Gruber aveva a disposizione un intero volume per dare conto delle annotazioni alle sole opere kantiane, è evidente la superiorità dei suoi criteri di pubblicazione su quelli seguiti, nel 1968, da Arthur Hübscher. Negli anni sessanta, Hübscher ci ha dato un’edizione non completa ma soddisfacente del Nachlaß, che è diventata un punto di riferimento obbligato per tutti gli studiosi di Schopenhauer. Nel quinto e ultimo volume Hübscher ha ricostruito il catalogo della biblioteca e ha riprodotto una parte considerevole delle annotazioni a margine. Esse sono corredate dall’indicazione della pagina in cui si trovano e spesso dalla citazione di una parte almeno del testo a cui si riferiscono. Hübscher adotta dunque un metodo che certamente si può definire obbligato in relazione ai supporti cartacei di cui si avvale; è evidente però che questo quinto volume del Nachlaß soffre di insuperabili difetti. Anzitutto ha un tasso di leggibilità assai basso, poi, a differenza di ciò che avviene in Gruber, non permette di percepire la continuità tra l’annotazione a margine o in calce e il testo a cui essa si riferisce, e rischia così di indurre il lettore ad assegnare indebitamente un valore assoluto all’annotazione. Infine, rinuncia ad

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informarci (se non in modo molto generico, nei casi in cui ne segnala la presenza nel volume) sulla serie dei segni e richiami che ci permettono di individuare esattamente le zone del testo a cui è rivolta l’attenzione di Schopenhauer durante la lettura. Il volume di Hübscher, in definitiva, è un indispensabile strumento solo per chi ha poi la possibilità di prendere direttamente visione dei volumi della biblioteca oppure, approfittando della liberalità del direttore dell’Archivio, di farsene inviare le (purtroppo costose) fotocopie. Ciò risulterà evidente, spero, dall’esempio che segue, che traggo dall’opera di Malebranche De la Recherche de la verité. La copia di quest’opera non mostra certo grande abbondanza di annotazioni. Esse sono anzi rare e brevissime, e si limitano a un paio di battute sarcastiche su questioni inessenziali, che Hübscher riporta fedelmente, ma che non ci aiutano certo a capire l’enorme importanza che Schopenhauer assegna a quest’opera nel Mondo e altrove. Come nel caso di Fichte, anche qui possiamo venire aiutati solo da un esame delle sottolineature e dei segni a margine, di cui Hübscher si limita a segnalare l’esistenza. Esse si addensano nella parte in cui Malebranche riconduce le cause naturali a cause occasionali mediante le quali si esprime la volontà di Dio. Queste sottolineature sono molto importanti, perché costituiscono l’unica testimonianza che ci permette di vedere in che modo la dottrina delle cause occasionali possa diventare per Schopenhauer il modello del suo particolare tipo di dualismo, dove movimento e volizione costituiscono due entità eterogenee, non vincolate da causalità, ma in modo tale che trovano la loro unità sul piano metafisico della volontà unica, la stessa che Malebranche chiama «Volonté de Dieu». Per questo è così emozionante constatare la piccola correzione che Schopenhauer apporta al testo di Malebranche, quando in maniera appena percettibile, sulla pagina riprodotta nella Fig. 10, trasforma «Volonté de Dieu» in «volonté»: essa indica per l’appunto la sua completa adesione al modello malebranchiano della causa occasionale, un’adesione che possiamo accertare grazie all’esame congiunto del testo filosofico e dei materiali fornitici dalla biblioteca, ma che sarebbe impossibile senza questi ultimi. Ho sfiorato più di una volta il problema del ruolo che la conoscenza della biblioteca assume per ricostruire la genesi della filosofia di Schopenhauer. Vorrei assicurare che non sostengo affatto la necessità di conoscere ogni scarabocchio presente sui suoi libri: sono anzi convinto che finora l’edizione del Nachlaß è stata utilizzata solo in maniera molto superficiale cosicché, allo stato attuale degli studi su Schopenhauer, l’analisi della biblioteca può apparire

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LA BIBLIOTECA DI SCHOPENHAUER

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fig. 10. Page de De la recherche de la vérité de Malebranche

addirittura come un lusso inutile e forzato, da rimandare a momenti più propizi. Le cose starebbero veramente così, se non fosse che su alcuni settori della riflessione di Schopenhauer il Nachlaß è estremamente reticente, non ci dà praticamente nessuna notizia sulla formazione del suo pensiero, mentre molto si può ricavare dalla biblioteca. Uno di questi punti riguarda la delicata questione dell’interesse di Schopenhauer per il pensiero e le religioni indiane. Scelgo un unico esempio dal vasto settore della biblioteca dedicato agli Orientalia. Nello Schopenhauer-Archiv è fortunatamente conservata la copia di lavoro – due grossi volumi – dell’Oupenk’hat, la traduzione latina con annotazioni e commenti di 50 Upanishad in versione persiana che nel 1801 era stata pubblicata da Anquetil Duperron7. Schopenhauer prende a prestito la prima volta quest’opera nel 1813 a Weimar, città in cui abitava e che era allora un centro di studi e di pubblicazioni sull’Oriente8 (vi usciva ad esempio l’«Asiatisches Asiatisches Magazin» di Klaproth, anch’esso presente nella biblioteca di Schopenhauer). Nello stesso anno Schopenhauer acquista la copia dell’Oupnek’hat che lo accompagnerà per sempre come un autentico livre de chevet o, come scrive nei Parerga, «la consolazione della mia vita, che sarà anche quella 7 Cfr. R. SCHWAB, Vie d’Anquetil - Duperron suivie des Usages civils et religeux des Parses par Anquetil - Duperron, Paris, Leroux 1934. 8 Cfr. P. TH. HOFFMANN, Der indische und der deutsche Geist von Herder bis zur Romantik, Tübingen, Laupp 1915, p. 37 e sg. e p. 53 e sg.; R. GÉRARD, L’Orient et la pensée romantique allemande, Paris, Didier, 1967, p. 166 e sg.

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GUARIGIONI, RINASCITE E METAMORFOSI

fig. 11. Abraham Hyacinthe Anquetil-Duperon, Oupenk’hat id est Secretum tegendum…, Argentorati, Levrault, 1801, p. 397

della mia morte», un libro che costituisce un caso assolutamente eccezionale nella sua biblioteca. Sul volume si sedimentano infatti le tracce di innumerevoli letture eseguite durante l’intero arco dell’attività di Schopenhauer, e che prendono la forma di osservazioni, riflessioni, perfino trascrizioni di materiali di studio desunti da altri testi. La copia dell’Oupenk’hat diventa così il vero taccuino di Schopenhauer per quanto riguarda questo settore dei suoi studi, e sostituisce i quaderni che sono assenti nel Nachlaß. Ciò è provato già dall’insolita accuratezza nella grafia di alcune note, che fa pensare non alla trascrizione di un’impressione o reazione immediata del lettore, ma alla stesura definitiva di un concetto. Nella Fig. 11 si nota anzitutto lo scrupolo con cui Scho-

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LA BIBLIOTECA DI SCHOPENHAUER

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penhauer, che non conosceva il sanscrito, affronta lo studio delle Upanishad confrontanto la traduzione di Anquetil Duperron con altre traduzioni comparse in anni successivi, in questo caso con la traduzione inglese di Carey. Nel margine superiore della pagina (Fig. 12 e Fig. 13) sono elencate alcune delle traduzioni («Anglica, gallica») con cui nei punti e per i termini strategici viene confrontata quella di Anquetil Duperron. Nel margine destro, in alto, si legge la frase «in margine adscripsi: a margine ho annotato la versione delle stesso brano, che insieme al testo si trova nella Grammar of the Sangskrit language di W. Carey, 1806». Si tratta appunto dei brani in inglese che Schopenhauer riporta nella pagina che già abbiamo visto. Hübscher non riproduce queste annotazioni, benché esse siano essenziali per capire il modo in cui Schopenhauer individua il significato dei concetti secondo lui essenziali delle Upanishad, come Brahman, atma, maya ecc. Non si tratta infatti di un confronto tecnico tra traduzioni, ma di un faticoso lavoro per la trascrizione dei concetti delle Upanishad nei corrispondenti concetti della tradizione filosofica occidentale. Lo dimostra l’annotazione, anch’essa in bella copia, che possiamo leggere nel margine inferiore di p. 399 (Fig. 13). Essa ci dà un’informazione essenziale per capire il lavoro di Schopenhauer orientalista, ossia spiega perché, malgrado le traduzioni successive e più accreditate delle Upanishad che aveva acquistato e che ben conosceva, egli abbia continuato a servirsi di quella di Anquetil Duperron nella quale si era imbattutto durante la sua giovinezza: quelle traduzioni infatti non sono solo – così scrive – più povere e insufficienti, ma soprattutto sono viziate da un’intenzione apologetica, perché falsificano il panteismo delle Upanishad con «Notiones christianae», con il lessico della teologia cristiana, con il suo Dio personale. La copia dell’Oupnek’hat si segnala poi per un’altra caratteristica. Schopenhauer non lavora soltanto sulla traduzione, ma anche, e forse più ancora, sull’imponente apparato di note e commenti con cui Anquetil Duperron aveva corredato il testo, e in cui istituiva un confronto sistematico tra l’etica e la metafisica delle Upanishad e quelle della tradizione filosofica occidentale, in particolare con autori tedeschi dell’età kantiana. Non a caso l’autore di una sintetica volgarizzazione dei due volumi dell’ dell’Oupnek’hat fatta per il pubblico tedesco, un tale professor Rexner di Passau, parlava di Anquetil come dell’«unico metafisico francese» impegnato a tessere un dialogo con gli scrittori tedeschi, da Lessing a Fichte, sulla dottrina dell’Uno-Tutto, la «fonte originaria della

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figg. 12 e 13. Notes marginales à l’Oupenk’hat

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LA BIBLIOTECA DI SCHOPENHAUER

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fig. 14. Notes marginales à l’Oupenk’hat

conoscenza» comune all’Oriente e all’Occidente9. E i primi appunti giovanili di Schopenhauer sulla sua copia dell’Oupnek’hat sono appunto dei rinvii ad altri testi della tradizione mistica o panteistica dell’Occidente, dove si vedono delinearsi le prime trame della rete di corrispondenze tra verità filosofica occidentale e orientale che continuerà a tessere e ad inseguire per tutta la vita. Ecco due soli esempi, tratti da queste annotazioni giovanili. Il primo (Fig. 14) rinvia un brano del testo a un’identica immagine che si trova nei Torrens spirituels di Madame De La Motte Guyon, la mistica francese che attrae Schopenhauer per le tecniche ascetiche di negazione della volontà individuale. Il secondo esempio (Fig. 15) riferisce invece un passo delle note di Anquetil sul termine Bujos (ossia gorgo, vortice che indica per i Valentiniani l’Eone preesistente e originario) a una corrispondente idea di Böhme e di Schelling. A margine si legge «A partire da questa favola Jacob Böhme e poi Schelling confezionarono i loro dogmi». E viceversa troviamo il richiamo puntuale all’Oupnek’hat in uno scritto schellinghiano determinante per la formazione del giovane Schopenhauer. Nelle scritto sulla libertà contenuto nelle Philosophische Schriften del 1809 Schopenhauer ha commentato il brano

9 Th.A. RIXNER, Versuch einer neuen Darstellung der uralten indischen AllEins-Lehre, Nürnberg, Stein 1808, pp. 6-13. Su questa volgarizzazione tedesca dell’Oupnek’hat cfr. H. GLASENAPP, Das Indienbild deutscher Denker, Stuttgart, Koehler 1960, p. 26.

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GUARIGIONI, RINASCITE E METAMORFOSI

fig. 15. Notes marginales à l’Oupenk’hat

schellinghiano sulla «Indifferenz» in quanto «Ur-» o «Ungrund» con queste parole, che si leggono nella parte inferiore delle pagine: «Non in modo diverso, perché questa è la traduzione migliore del Bujos dei Valentiniani da cui viene fuori tutta questa storia che Schelling conosce tramite Böhme, a cui dev’essere poi arrivata alle orecchie, in qualche modo, attraverso la storia degli eretici. Vedi il passo principale sul Bujos in Ireneus, Contra Haereticos, riprodotto in Oupnek’hat vol. I, p. 562». E anche la notizia che il giovane Schopenhauer leggeva Schelling aiutandosi con le note dell’erudito commentatore francese delle Upanishad non è di poco conto per la ricostruzione genealogica del suo pensiero.

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LA PRIMA CRITICA DI NIETZSCHE A SCHOPENHAUER: UNA FONTE*

1. La ricerca nietzscheana ha ripetutamente sottolineato la complessità della lettura di Schopenhauer da parte del giovane Nietzsche,, il suo carattere stratificato e la necessità di collocarla in un ampio contesto. Nonostante i significativi contributi a nostra disposizione oggi su questo tema, si può affermare comunque che tutta una serie di problemi continua a restare aperta. Così in primo luogo si pone la questione, trattata da Wilhelm Metterhausen 1, se attraverso le lezioni di Karl Schaarschmidt Nietzsche si sia imbattuto nel pensiero di Schopenhauer già nel periodo di Bonn; poi fino a che punto i confronti con Eduard von Hartmann ed Eugen Dühring (che portano con sé una rinnovata lettura di Schopenhauer) abbiano mutato in Nietzsche l’immagine della filosofia schopenahueriana e in che misura l’immagine che Nietzsche ha di Schopenhauer sia condizionata, esplicitamente o implicitamente, dalla interpretazione wagneriana. Da ultimo resta aperta la questione se all’interno dell’evoluzione di Nietzsche l’esperienza-Wagner possa essere vista come una diretta prosecuzione dell’esperienza-Schopenhauer. Tali esperienze non costituiscono affatto una sintesi aproblematica o una «miracolosa unità» (wundersame Einheit) come scrive Nietzsche, bensì un campo di relazioni carico di tensioni. È quanto rivelano in

* Cfr. infra, Bibliografia 1995 n. 1, trad. di T. Cavallo. 1 Cfr. W. METTERHAUSEN, Friedrich Nietzsche Bonner Studienzeit 1864/65, dattiloscritto inedito, 1942 (Murhard’sche Bibliothek der Stadt Kassel), p. 94 e sg. Cfr. anche J. FIGL, Dialektik der Gewalt. Nietzsches hermeneutische Religionsphilosophie, Düsseldorf, Patmos-Verlag 1984, pp. 114 e sg; ID. Nietzsches Begegnung mit Schopenhauers Hauptwerk. Unter Heranziehung eines frühen unveröffentlichten Exzerptes, in Schopenhauer, Nietzsche und die Kunst («Schopenhauer-Studien» Bd. 4, 1993), a cura di W. Schirmacher, pp. 89 e sg.

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GUARIGIONI, RINASCITE E METAMORFOSI

particolare alcuni frammenti postumi del periodo tra la Nascita della Tragedia e la terza Considerazione inattuale, Schopenhauer come educatore, uno degli scritti più enigmatici di Nietzsche. Non è dunque un caso se il frammento postumo 27 [80] dell’inizio dell’estate 1878, in cui Nietzsche retrospettivamente valuta il significato di Schopenhauer come educatore per la sua evoluzione, pare accentuare il fallimento del tentativo di realizzare una sintesi teorica dell’esperienza-Schopenhauer con l’esperienza-Wagner. Il frammento considera univocamente la figura dell’uomo schopenhaueriano come lo presenta la III Inattuale, quale mezzo di liberazione da Wagner e da uno Schopenhauer letto con occhi wagneriani, e quale «deviazione» che conduce alla figura dello spirito libero: L’uomo schopenhaueriano mi spinse alla scepsi verso tutte le cose rispettate, tenute in onore, fino a quel momento difese (anche verso i Greci, Schopenahuer, Wagner) il genio, il santo – pessimismo della conoscenza – Per questa via indiretta giunsi alla vetta, dove spirano i venti più freschi2.

Un ulteriore problema emerge comunque: quello posto dal ruolo giocato nell’evoluzione intellettuale di Nietzsche dalla risoluta critica alla metafisica della volontà, contenuta negli appunti presi a Lispsia nella primavera del 18683. Al centro di tali appunti4 vi è il problema della dicibilità dell’indicibile, della possibilità di denominare la cosa in sé con la parola «volontà». Una possibilità che, come è noto, già nel testo di Schopenhauer è accompagnata da una serie di obiezioni critiche. Il confronto di Nietzsche con Schopenhauer è contrassegnato in modo decisivo dalla critica avanzata contro il concetto della volontà come cosa in sé, come un fondamento dei fenomeni interamente separato dalle forme della rappresentazione. La fedeltà a tale critica giovanile è attestata a più riprese nei frammenti po2

FP 27 [80] primavera-estate 1878, OFN IV, 3, p. 281. I contorni di questo problema sono stati brevemente delineati con acutezza nell’introduzione preposta da G. Campioni e F. Gerratana alla prima traduzione italiana delle Philosophischen Notizen. Cfr. Introduzione a F. NIETZSCHE, Appunti filosofici 1867-1869. Omero e la filologia classica, Milano Adelphi 1993, p. 15 e sg. Sugli appunti dedicati da Nietzsche a Schopenhauer nel periodo di Lipsia cfr. anche J. SALLIS, Crossings. Nietzsche and the Space of Tragedy, Chicago and London, Chicago University Press 1991, p. 63 e sg. 4 OFN I, 3, p. 191 e sg. 3

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LA PRIMA CRITICA DI NIETZSCHE A SCHOPENHAUER: UNA FONTE

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stumi del periodo della Nascita della tragedia. Il tentativo di formulare un coerente quadro metafisico complessivo, che Nietzsche intraprende nel gruppo di frammenti 7 (fine 1870 – aprile 1871) muove dal concetto dell’Uno-originario concepito come il fondamento sofferente dell’essere e che «ha una sua manifestazione fenomenica»5 nella volontà. La volontà che appartiene «all’apparenza»6 viene intesa proprio come la «forma più universale dell’apparenza»7, come una polarità di sentimenti di piacere e di dolore compenetrata di rappresentazioni. Questa definizione della volontà ricompare nell’importante frammento postumo 12 [1] della primavera 1871, ampia disamina sulle espressioni linguistiche e simboliche che Nietzsche conduce palesemente utilizzando le speculazioni wagneriane sul linguaggio umano originario, riattinto grazie al dramma musicale. Muovendo dalla tesi che il «nucleo» del mondo ci sia accessibile solo come rappresentazione, «nelle sue espressioni simboliche», Nietzsche indica la volontà come uno dei due «generi principali» di fenomeni. La volontà consiste in sensazioni di piacere e di dolore (a loro volta intimamente e inseparabilmente compenetrate di rappresentazioni) e costituisce il «basso continuo» di tutte le possibili rappresentazioni, che si esprime simbolicamente «nel tono di colui che parla», mentre le altre rappresentazioni si esprimono «mediante la simbolica gestuale del parlante». In questo modo, attraverso la congiunzione di linguaggio sonoro e di linguaggio gestuale (vale a dire delle forme d’espressione musicale con le forme d’espressione plastiche) Nietzsche tenta di formulare in modo nuovo nell’ambito estetico il nesso metafisico della volontà con il mondo fenomenico. Ma l’impossibilità di equiparare la volontà con la cosa in sé, con una sfera sottratta alle determinazioni della rappresentazione, continua a valere come il presupposto generale del suo tentativo: Anche l’intera vita istintiva, il gioco degli affetti, degli atti della volontà – come debbo obbiettare qui contro Schopenhauer – ci risul-

5

FP 7 [174] fine 1870 – aprile 1871, OFN, III/3, 3, p. 212. FP 7 [167] fine 1870 – aprile 1871, OFN, III/3, 3, p. 207. In FP 7 [174] fine 1870 – aprile 1871, OFN, III/3, 3, p. 212 l’autosuperamento della volontà da parte del genio è possibile «poiché la volontà stessa non è altro se non apparenza, e soltanto in essa l’Uno originario trova manifestazione». Ma il tema viene trattato ampiamente già in FP 5 [80] del settembre 1870 – gennaio 1871 (Cfr. OFN, III/3, 3, p. 108 e sg.). 7 FP 7 [167] fine 1870 – aprile 1871, OFN, III/3, 3, p. 206. 6

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GUARIGIONI, RINASCITE E METAMORFOSI

tano noti, se indaghiamo noi stessi con la massima esattezza, unicamente come rappresentazione, non nella loro essenza: e possiamo ben dire che persino la “volontà” di Schopenhauer non sia altro se non la massimamente universale forma dell’apparenza di un qualcosa che è per noi del resto indecifrabile8.

Nei suoi appunti lipsiensi Nietzsche stabilisce un nesso tra la pretesa di Schopenhauer di conoscere e nominare la cosa in sé e la funzione della volontà come fondamento di una considerazione sistematica del mondo. Inoltre in Schopenhauer Nietzsche vede dipendere la costruzione del sistema da un predominio della facoltà immaginativa e dell’atteggiamento poetico. Per Nietzsche il problema della filosofia schopenhaueriana in quanto sistema e definitiva decifrazione dell’enigma del mondo in un certo senso non è troppo diverso da quello della filosofia di Democrito, su cui Nietzsche scrive nello stesso periodo, scorgendovi la confluenza di un impulso sistematico e di un atteggiamento poetico9. Il tema della filosofia schopenhaueriana come sistema si evidenzia anche nell’attenzione di Nietzsche per la metafora della «volontà» come «chiave» per la decifrazione dei geroglifici del mondo10. Con questa metafora Schopenhauer fa della volontà il concetto fondamentale di una «metafisica immanente». La volontà non è in alcun modo una sostanza che trascende i fenomeni, bensì il codice universalmente valido che permette di decifrare i rapporti tra i singoli ambiti fenomenici. Schopenhauer utilizza spesso la metafora della chiave e della scrittura geroglifica, ma anzitutto nel 17 capitolo dei Supplementi al Mondo, dove la metafisica immanente viene indentificata con la coerenza sistematica dei fenomeni «poiché parla della cosa in sé mai altrimenti che in una relazione con il fenomeno»: Se troviamo uno scritto, il cui alfabeto ci è sconosciuto, tentiamo di interpretarlo, finché giungiamo ad un’ipotesi circa il significato delle lettere, ipotesi in base alla quale tali lettere formano parole comprensibili e periodi coerenti. A questo punto non resta più alcun dubbio sulla correttezza della decifrazione […] In modo analogo la decifrazione del mondo deve provarsi interamente da sé. Essa deve diffondere una luce uniforme su tutti i fenomeni del mondo e armonizzare 8 9

FP 12 [1] primavera 1871, OFN, III/3, 3, p. 373. Sulla «grande poesia nell’atomismo» cfr. OFN I, 3, pp. 200, 205, 216,

218. 10

OFN I, 3, p. 225.

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tra loro anche i più eterogenei, cosicché, anche tra i più contrastanti, venga meno la contraddizione11.

Negli appunti lipsiensi Nietzsche ricorda inoltre il passo del Mondo in cui la cosa in sé viene raffigurata come una fortezza inaccessibile dall’esterno, con i mezzi che ci sono messi a disposizione dall’intelletto12. Nel capolavoro schopenahueriano questa immagine introduce la teoria della «doppia conoscenza» del corpo, che viene percepito contemporaneamente da due atti conoscitivi (uno «interno» e uno «esterno») – una teoria che ripetutamente Schopenhauer designa come la «pietra miliare» della sua filosofia e che, appunto, permette l’accesso alla fortezza della cosa in sé. Può sorprendere che sia negli appunti lipsiensi, sia nei suoi scritti successivi Nietzsche non dedichi alcuna attenzione al complesso meccanismo gnoseologico che per Schopenhauer costituisce lo strumento che permette il superamento dei limiti dell’intelletto. Più tardi, e anzitutto in Umano, troppo umano Nietzsche sembra ricondurre la pretesa schopenhaueriana di aver scoperto l’accesso alla cosa in sé alla distinzione tra una conoscenza discorsiva e una conoscenza geniale, identificata quest’ultima con una «visione immediata dell’essenza del mondo, come attraverso un buco nel mantello dell’apparenza»13. La teoria schopenahueriana della «doppia conoscenza» non si basa però sul presupposto di una conoscenza immediata, nel senso di un’intuizione esaltata di stampo romantico, bensì su una riconfigurazione della disposizione delle 11 WW, pp. 971-972. Il testo degli appunti lipsiensi non consente di decidere con certezza se e in quale misura Nietzsche conoscesse già a quell’epoca il materiale postumo pubblicato da Julius Frauenstädt. In ogni caso Frauenstädt aveva pubblicato la lettera che Schopenhauer gli aveva scritto il 21 agosto 1852 per chiarire questo aspetto controverso del suo pensiero: «La mia filosofia non parla mai di Nubicuculia, bensì di questo mondo, vale a dire, è immanente, non trascendente. Essa legge il mondo che ci sta davanti come una tavola geroglifica (la cui chiave io ho trovato, nella volontà) e mostra compiutamente la sua connessione. Essa insegna che cosa è il fenomeno e cosa è la cosa in sé. Ma questa è cosa in sé solo relativamente, ovvero nel suo rapporto con il fenomeno – e questo è fenomeno solo nella sua relazione con la cosa in sé. Altrimenti è un fenomeno cerebrale. Ma cosa sia la cosa in sé al di fuori di quella relazione, io non l’ho mai detto perché non lo so: ma entro tale relazione è volontà di vivere». (Arthur Schopenhauer. Von ihm. Ueber ihm. Ein Wort der Vertheidigung von Ernst Otto Lindner und Memorabilien. Briefe und Nachlassstücke von Julius Frauenstädt, Berlin, Hayn 1863, p. 555). 12 OFN I, 3, p. 225. 13 F. NIETZSCHE, Umano, troppo umano, § 164.

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forme della sensibilità e dell’intelletto – spazio, tempo, causalità – per produrre una struttura della simultaneità dei due atti conoscitivi, in cui l’«immediatezza» della conoscenza interiore rimanda unicamente a una conoscenza che si fonda sul senso interno, sulla forma del tempo e non dello spazio. Qui Nietzsche pare seguire fedelmente la critica di Rudolf Haym, secondo cui con la sua teoria Schopenhauer avrebbe ricondotto la conoscenza della volontà a una intuizione immediata che oltrepasserebbe le forme della sensibilità e dell’intelletto. Non è dunque un caso – e qui si colloca il secondo baricentro dei suoi appunti – se Nietzsche identifica il problema dell’«origine dell’intelletto» e il problema dell’individuazione come la principale contraddizione della filosofia schopenahueriana14. Gli appunti lipsiensi citano la duplice concezione dell’intelletto, da un lato come soggetto trascendentale che produce le rappresentazioni e quindi il mondo in quanto fenomeno, dall’altro lato come cervello, come apparato fisiologico. In quanto tale l’intelletto scaturisce dai gradi della storia della volontà15, che presuppongono l’individuazione prodotta dalle forme della conoscenza. In questa «antinomia della nostra facoltà conoscitiva», come l’aveva chiamata Schopenhauer nel cap. 20 delle Aggiunte al Mondo, si manifesta nuovamente il duplice e simultaneo sguardo sul mondo, già portato in luce dalla struttura caratteristica della «doppia conoscenza»; e qui Schopenhauer aveva parlato della necessità di integrare la concezione trascendentale con la concezione ideologica (nel senso degli Idéologues, in particolare di Cabanis) e aveva rimproverato a Kant di aver considerato l’intelletto come qualcosa di immediato, anziché sottoporlo ad un’analisi genealogica nel senso che la fisiologia assegna a tale termine. Nella letteratura critica, da Eduard Zeller sino a Ernst Cassirer, questo aspetto è noto come il circulus vitiosus della filosofia di Schopenhauer. L’antinomia venne formulata nel 1903 da Kuno Fischer in questi termini: «Intelletto e cervello sono identici in Schopenhauer; si rapportano come funzione e organo. Spazio e tempo esistono solo nel cervello. E il cervello? Con tutti i suoi annessi e con tutte le sue condizioni e precondizio14

OFN I, 3, p. 224 e sg. Ivi, p. 227. «Schopenhauer immagina insomma una gradazione di manifestazioni della volontà con bisogni sempre crescenti per la loro esistenza: per soddisfarli la natura si servirebbe di una corrispondente gradazione di sussidi, tra i quali si trova anche l’intelletto, dal primo barlume della sensazione fino alla chiarezza estrema». 15

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ni il cervello esiste nel tempo e nello spazio! Qui la teoria di Schopenhauer si muove palesemente in un circulus vitiosus […]»16. Prima di Zeller17 e Fischer il problema era già stato comunque sollevato da Rudolf Seydel, in un saggio del 1857 verosimilmente ignoto a Nietzsche. Seydel scorgeva in questa «contraddizione fondamentale» della teoria schopenhaueriana il fallimento del tentativo di conciliare l’idealismo di Fichte con la filosofia della natura di Schelling18. In una certa continuità con le osservazioni critiche di Seydel, che suscitarono la collera di Schopenhauer,19 si colloca l’importante saggio di Rudolf Haym su Schopenhauer che apparve sui «Preussische Jahrbücher» (e anche come pubblicazione a parte) nel 186420 e che Nietzsche sicuramente conosceva, 16 Cfr. Materialien zu Schopenhauers «Die Welt als Wille und Vorstellung», a cura di V. Spierling, Frankfurt a.M., Suhrkamp 1984, p. 189. 17 Ivi, p. 184. La critica venne formulata da Zeller nella sua Geschichte der deutschen Philosophie seit Leibniz, München, Oldenbourg 1873. 18 R. SEYDEL, Schopenhauers philosophisches System, Leipzig, Breitkopt & Härtel 1857, p. 48. 19 Schopenhauer ricorda più volte il «saggio incredibilmente stupido» di Rudolf Seydel nelle lettere a Carl Bühr, Johann August Becker, David Asher e altri degli anni 1857 e 1858 (a quel tempo erano note solo le lettere ad Asher, pubblicate nel 1865 sulla rivista «Deutsches Museum») definendolo una «miserabile abborracciatura», perché «cercare contraddizioni è il modo più comune ed usato dalle teste vuote per criticare un libro e un sistema: essi sfogliano un po’ qui e là, fino a che trovano delle frasi che, strappate dal contesto, non concordano tra loro» (Lettera a David Asher del 15 luglio 1857, GB p. 417). 20 Citazioni e numeri di pagina si riferiscono qui a R. HAYM, Arthur Schopenhauer, in Gesammelte Aufsätze, Berlin, Weidmann 1903, pp. 239-355. Nelle sue memorie (Aus meinem Leben, Berlin, Gaertner 1902, p. 281) Haym racconta: «ad occuparmi a fondo di Schopenhauer mi aveva sollecitato l’amico Dilthey». La decisione di occuparsi di un filosofo che «con la sua metafisica fantastica» si collocava fuori dal suo personale percorso intellettuale è spiegata da Haym con la necessità di opporsi al successo crescente di tale pensiero e ai suoi effetti politici e morali: «Da tutto ciò derivava che dovevo confrontarmi con lui in modo completamente diverso da come avevo fatto con Hegel, che dovevo combatterlo come il nemico mortale di ogni sano sviluppo del nostro spirito nazionale. Questo sistema andava spiegato anche in termini storici e psicologici, come al contempo bisognava scoprire le sue numerose contraddizioni interne e così, attraverso queste due strade, distruggere l’aura che l’energica genialità, il profondo sguardo artistico e l’inconsueto talento espositivo diffondevano sulla dottrina, celando alla vista il suo pericoloso nucleo antistorico, antiliberale e antinazionale» (ivi, pp. 284-285). Sull’influenza esercitata dal saggio di Haym sulle successiva ricezione di Schopenhauer, cfr. Y. KAMATA, Der junge Schopenhauer. Genese des Grundgedankens der “Welt als Wille und Vorstellung”, Freiburg/München, Alber 1988, p. 107 e sg.

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come dimostrano alcune lettere degli anni 1866-6821. Haym aveva interpretato la teoria della «doppia conoscenza» come una forma di intuizione romantica, come un salto mortale oltre le forme della sensibilità e le categorie dell’intelletto. Inoltre, nella concezione dell’intelletto come cervello e strumento della volontà scorgeva la vistosa conferma del «falso idealismo naturalistico»22 di Schopenhauer. La pretesa di conciliare la filosofia trascendentale di Kant con la fisiologia di Cabanis sfocia in un labirinto di contraddizioni ed è proprio nel mettere in evidenza queste contraddizioni che diventa chiara la prossimità tra Haym e Nietzsche.. Nietzsche parla di una concezione che «pone un mondo fenomenico prima del mondo fenomenico. […] Già prima della comparsa dell’intelletto noi vediamo il principium individuationis, la legge della causalità in piena attività»23; Haym per parte sua, se non di un «circulus vitiosus» aveva parlato comunque di un «circolo»: la volontà può produrre rappresentazioni solo attraverso l’individuazione, da cui dipende il bisogno stesso della conoscenza che giustifica la genesi dell’intelletto: «Il conoscere dunque deve divenire necessario mediante l’individuazione, ma a sua volta l’individuazione diviene possibile solo mediante tempo e spazio, dunque mediante le forme del conoscere! Siamo sprofondati in un […] circolo. Perché secondo questa concezione, ad essere rigorosi, non la volontà, bensì l’intelletto produce l’intelletto»24. Il circolo è effettivamente per Haym la più aperta manifestazione dell’impossibilità logica su cui inciampa Schopenhauer, allorché pretende di separare la volontà dal conoscere determinato e dalla coscienza. Il carattere fondamentale della filosofia schopenhaueriana consiste del resto per Haym in una «indecisione» 21 Richiamando questi brani epistolari, già Mazzino Montinari aveva identificato il saggio di Haym come una fonte significativa della critica a Schopenhauer del primo Nietzsche. Cfr. M. MONTINARI, Nietzsche, Roma, Ubaldini 1975 p. 50 [vd. ora ID., Che cosa ha detto Nietzsche, a cura di G. Campioni, Milano, Adelphi 1999, p. 65. Ndc]. 22 R. HAYM, cit., p. 282. 23 OFN I, 3, p. 227 Cfr. anche 230 e sg.: «È notevole l’accortezza con cui Schopenhauer evita la questione dell’origine dell’intelletto: non appena arriviamo nei paraggi di tale questione, e segretamente speriamo infine di arrivarci, Schopenhauer scompare per così dire dietro a una coltre di nuvole: anche se è del tutto evidente che l’intelletto, in senso schopenhaueriano, presuppone già un mondo coinvolto nel pr in e nelle leggi della causalità». 24 R. HAYM, cit., pp. 281-282.

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tra l’immanenza e la trascendenza della volontà rispetto ai fenomeni25. Le contraddizioni che scaturiscono da questa indecisione sono superabili solo mediante un uso arbitrario della lingua che si manifesta prevalentemente nell’impiego equivoco del concetto di «volontà», una parola che propriamente designa un fatto psicologico, prima impiegata per sostituire il concetto di «forza» nell’ambito dei fenomeni naturali, poi per indicare l’in sé dell’insieme dei fenomeni, la cosa in sé. In tal modo Haym interpreta l’intera filosofia di Schopenhauer a partire dal punto di vista di una critica del linguaggio, inaugurando una tendenza che nella letteratura critica troverà la sua più compiuta espressione nel lemma «Schopenhauer (Volontà)» del Philosophische Wörterbuch di Fritz Mauthner.26 Una critica che lascia però una traccia anche nell’osservazione di Nietzsche secondo cui Schopenhauer con il termine «volontà» avrebbe introdotto una «parola […] dal conio grossolano e di senso molto ampio»27. Anche un’ulteriore osservazione degli appunti lipsiensi, ovvero che il concetto della volontà è prodotto «soltanto grazie a un’intuizione poetica»28 coincide con l’interpretazione di Haym, per es. con il passo in cui egli vede nell’uso del termine «volontà» «la semplice applicazione di una metafora»29. Questo rilievo cri-

25 Ivi, pp. 265-266: «Questa indecisione tra rapporto immanente e trascendente di fenomeno e cosa in sé, un’indecisione che ritorna di continuo, conferisce al sistema il suo specifico aspetto oscillante». Questa osservazione critica ha un grosso peso anche nell’esposizione di Nietzsche ed è strettamente connessa con il tema precedentemente evocato del sistema come decifrazione del mondo: «Ma tutto il sistema di Sch, in particolare però la sua prima esposizione nel vol. I di W. als W., chi convince che, dove gli fa comodo, egli si permette l’uso umano e per nulla trascendente dell’unità della volontà, e in fin dei conti ricorre a quella trascendenza solo quando gli appaiono troppo evidenti le lacune del sistema» (OFN I, 3, p. 226). 26 Il tentativo di Mauthner di considerare Il mondo come volontà e rappresentazione «dal punto di vista di una storia della critica del linguaggio» sfocia in una critica al carattere «sostantivistico», ovvero «mitologico» del linguaggio schopenhaueriano nell’impiego del termine «volontà». Qui Schopenhauer trasforma la sua filosofia in un «gioco delle tre carte» e si riduce a «servo superstizioso del linguaggio». Cfr. F. MAUTHNER, Philosophisches Wörterbuch, Zürich, Diogenes 1980 (Ristampa dell’ediz. 1910/11) sub voce Schopenhauer (Wille). 27 OFN I, 3, p. 221. 28 Ivi, p. 222. 29 R. HAYM, cit., p. 260. Haym impiega qui l’«espressione calzante» di Adolf Trendelenburg. Quest’ultimo nel X capitolo delle sue Logische Untersu-

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tico per Haym non ha per nulla un valore secondario. Mediante l’abuso del procedimento analogico e metaforico Schopenhauer infatti privilegia gli elementi immaginativi e poetici del linguaggio, a spese di una forma espositiva rigorosamente logica: solo così gli riesce di far apparire i suoi pensieri come componenti di un sistema coerente, privo di contraddizioni e addirittura organico e può, in ultima analisi, comporre il suo «romanzo filosofico»30. Questo abuso linguistico secondo Haym diviene particolarmente evidente laddove Schopenhauer traspone il concetto

chungen (2. ed. Leipzig, Hirzel 1862, Bd. 2, p. 101 e sg.) riconduceva l’equiparazione schopenhaueriana della volontà con la forza agente nell’ambito della natura e della volontà psicologica con una «volontà universale» ad un uso smodato dell’analogia, che oltrepassa i limiti dell’uso legittimo del linguaggio. «Il principio schopenhaueriano, la volontà di vivere è una metafora» (p. 113) e altrettanto «metaforico» è il concetto dell’«oggettità» della volontà. La medesima intenzione critica è avvertibile nelle pagine dedicate a Schopenhauer nel Grundriss der Geschichte der Philosophie der Neuzeit (Berlin, Mittler 1866, p. 242 e ss.) di Friedrich Ueberweg, per es. nell’osservazione che in lui «il senso proprio e quello figurato della parola volontà» si confondono costantemente. Nel saggio dedicato a Schopenhauer il ricorso a una critica dell’uso del linguaggio conferma del resto uno dei tratti fondamentali della riflessione filosofica di Haym. Fin dal 1847 Haym vede nel linguaggio, che egli designa come «forza», «energia» e «modello» della relazione dialettica tra natura e spirito, la germinale forma nascosta di ogni pensiero filosofico, così che «più o meno […] ogni filosofia è l’espressione ovvero l’esplicazione di questa dialettica immanente al linguaggio» (Feuerbach und die Philosophie. Ein Beitrag zur Kritik beider, Hall, Heynemann 1847, p. 36). Haym può perciò rimproverare a Feuerbach di aver trascurato il carattere di realtà dell’estraniazione religiosa come espressione di processi che ineriscono al linguaggio, perché «l’ipostatizzazione dei pensieri ad esseri reali è profondamente ancorata nel carattere del linguaggio» (op. cit. p. 15). Più tardi Haym ha indicato il ruolo centrale svolto dalle riflessioni filosofico-linguistiche per lo sviluppo del suo pensiero nel volume su Wilhelm von Humboldt pubblicato nel 1856. Qui le teorie di Humboldt sono concepite come il coronamento della filosofia postkantiana, in quanto ne rappresentano gli unici risultati ancora vivi e scientificamente fecondi: «Il sistema dell’identità è caduto insieme con il sistema dell’assoluto e come altri sistemi. La filosofia del linguaggio di Humboldt, al pari dell’estetica di Schiller è un acquisto per sempre, un progresso irrevocabile nelle conquiste della ragione conoscente […]» (Wilhelm von Humboldt. Lebensbild und Charakteristik, Osnabrück, Zeller 1965 (Rist. dell’ediz. 1856, pp. 457-58). Sulla genesi e sul significato di questo aspetto nel pensiero di Haym cfr. W. HARICH, Rudolf Haym und sein Herderbuch, Berlin, Aufbau-Verlag 1955. Ringrazio Andrea Orsucci per avermi messo a disposizione numerosi scritti di e su Haym presenti nella sua biblioteca personale. 30 R. HAYM, cit., p. 265.

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di «volontà» nell’ambito dei fenomeni naturali, per sostituire il concetto di «forza». In tal modo l’intero sistema assume un tratto caratteristico dell’antropomorfismo: Lo scambio reciproco del concetto generale di forza e del concetto speciale di volontà, questo ingannevole gioco con il termine «volontà» – in connessione con il confuso concetto di cosa in sé – solo questo gli rende possibile da un lato naturalizzare la volontà umana e con essa l’intera etica e, d’altro lato, antropomorfizzare in modo poeticofantastico la natura31.

Il carattere antropomorfico della metafisica schopenhaueriana, in particolare in rapporto alla spiegazione dei fenomeni naturali, a cui Nietzsche accenna già nell’anno 1870/7132, viene di nuovo fortemente sottolineato nei frammenti postumi dell’epoca di Umano, troppo umano e interpretato come conferma di una tendenza poetica e mitologizzante: Schopenhauer concepisce il mondo come un immenso uomo, del quale vediamo le azioni, e il carattere del quale è affatto immutabile: […] E questo è il valore dei metafisici come Schopenhauer: cercano di dare un’immagine del mondo, peccato che così il mondo si trasformi in un uomo; si potrebbe dire: il mondo è Schopenhauer in grande. Ma ciò non è vero 33.

A leggere il saggio di Haym insieme con gli appunti lipsiensi di Nietzsche si ha l’impressione che Nietzsche non abbia nulla da obiettare alla critica «molto malevola» di Haym (così la definisce in una lettera a Mushacke del 27 aprile 1866)34: non una parola contro l’attacco alla metafisica della volontà e contro l’equiparazione della filosofia di Schopenhauer a un’opera poetica di stampo romantico. Tuttavia, grazie alla mediazione di Friedrich Albert Lange, Nietzsche giunge ad attribuire ai concetti fondamentali di tale critica un valore positivo e affermativo, anziché un valore negativo e polemico. Nella famosa lettera a Gersdorff di fine agosto 1866, Nietzsche ricorda che per Lange l’inconoscibilità della

31

Ivi, p. 260. Cfr. FP 5 [83] settembre 1870 – gennaio 1871, OFN III/3, 3, p. 112: «La volontà, se deve essere connessa con una rappresentazione, nemmeno esprimerà l’essenza della natura». 33 FP 24 [21] OFN IV/2, pp. 436-437. 34 E I, p. 429. 32

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cosa in sé assicura al filosofo una libertà che è simile alla libertà dell’artista: pertanto «l’arte è libera anche nella sfera dei concetti. […] Come vedi, perfino attenendoci a questo rigidissimo principio critico, ci rimane sempre il nostro Schopenhauer, anzi egli diventa per noi diventa quasi qualcosa di più. Se la filosofia è arte, allora anche Haym deve nascondersi davanti a Schopenhauer»35. Anche per altri aspetti è ipotizzabile che lo scritto di Haym abbia potuto destare l’attenzione di Nietzsche: si pensi solo ai passi sulla teleologia nascosta nella «cieca necessità» della volontà, ma anzitutto al ripetuto tentativo di Haym di vedere nella sua analisi «storico-psicologica» di quel sistema filosofico la fedele espressione della personalità schopenhaueriana, la sua Stimmung melanconica e il suo radicale rifiuto della «prosa del mondo». Anche per Nietzsche, come confermano un passo degli appunti36 e una lettera a Deussen della metà di ottobre 1868, la concezione del mondo è l’espressione immediata di una personalità e in quanto tale, nonostante contraddizioni e lacune, è incontestabile: «[…] o si capisce tale visione o non la si capisce, non vedo altre alternative»37. Bisogna sottolineare che il saggio di Haym rappresenta per Nietzsche una fonte particolarmente significativa, in quanto conserva la sua efficacia ancora sulla lettura di Schopenhauer del periodo basileese, fino al Schopenhauer come educatore e addirittura oltre. Ci consente pertanto di gettare un ponte tra gli appunti di Lipsia e le successive letture di Schopenhauer, valutandone gli elementi di continuità e rottura. Il tema della natura artistica della filosofia schopenhaueriana riemerge nel gruppo 19 dei frammenti postumi del 1872, dove Nietzsche vede come tratto fondamenta35

E I, p. 463. Cfr. OFN I/3, p. 221 «Se perciò ora ci accingiamo ad analizzare criticamente la tesi sopra menzionata, la quintessenza del sistema schopenhaueriano, siamo ben lontani dal voler mettere alle strette Schopenhauer stesso, dal rinfacciargli con aria trionfante i singoli pezzi delle sue dimostrazioni, domandandogli infine a sopracciglia inarcate come sia mai possibile che un sistema così pieno di falle avanzi tali pretese». 37 E I, p. 635. Qui Nietzsche si oppone ai tentativi di «certi sfacciatissimi Überweg, certi Haym estranei alla filosofia» che riducono la critica della filosofia schopenhaueriana al «mettere in evidenza certi passi difettosi, o dimostrazioni non riuscite, o goffaggini tattiche». La lettera a Deussen attesta così l’atteggiamento duplice di Nietzsche nei confronti della filosofia di Schopenhauer, che egli da un lato sottopone a una critica spietata, ma di cui apprezza dall’altro l’aspetto educativo-artistico e metafisico. 36

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le del pensiero di Eraclito e Schopenhauer la prestazione poetica e stabilisce , per descrivere la natura del filosofo l’equivalenza di «poetare» e «conoscere»: «Egli [il filosofo] conosce in quanto poeta, ed è poeta in quanto conosce»38. In confronto al filosofo della «conoscenza disperata» che si consuma negli effetti nichilistici del sapere a ogni costo, qui Schopenhauer appare, come nella III Inattuale, il modello del filosofo tragico, in cui l’istinto della conoscenza, approdato ai suoi confini estremi, non raggiunge alcun fondamento metafisico, bensì volge contro se stesso la sua forza distruttiva. Per spiegare la funzione di questa prestazione autodistruttiva Nietzsche impiega, mi pare, quel concetto di «vero criticismo» con cui Schopenhauer, nella prima fase del suo pensiero, connotava il merito supremo della filosofia trascendentale di Kant. Nell’interpretazione del giovane Schopenhauer, Kant ha distrutto le pretese metafisiche della ragione, liberando così definitivamente il mondo da ogni «afferrabilità» e aprendo al contempo la strada alla possibilità di rivelare alla coscienza una dimensione della vita completamente diversa, raggiungibile attraverso l’arte e la santità39. I frammenti escludono ogni metafisica della volontà (Nietzsche parla di un «vacuum metafisico»); vogliono però utilizzare gli effetti nichilistici del sapere per salvare un ambito che Nietzsche nel frammento 19 [35] chiama «la vita migliore» ovvero «le radici di tutto ciò che è supremo e più profondo», come nel frammento 19 [34]: «le radici di tutto ciò che è più alto e più profondo, l’arte e l’etica – Schopenhauer». Qui non si parla dello Schopenhauer del Mondo, della metafisica della volontà, bensì dell’autore degli scritti che precedono l’ela38

FP 19 [62] estate 1872 – inizio 1873, OFN I, 3/II, p. 221. Questa concezione schopenhaueriana della filosofia di Kant (avvertibile anche nell’appendice al primo volume del Mondo come volontà e rappresentazione, Critica della filosofia kantiana, dove per es. si parla di Kant come l’«omnidistruttore» (Alleszermalmer) e della «disperazione» della filosofia critica) è possibile che fosse presente a Nietzsche attraverso gli appunti su Kant, Fries, Schelling e Fichte che erano stati pubblicati nel volume Aus Arthur Schopenhauers handschriftlichen Nachlaß. Abhandlungen, Anmerkungen, Aphorismen und Fragmente, a cura di Julius Frauenstädt, Leipzig, Brockhaus 1864 (sul «vero criticismo» cfr. per es. p. 101 e sg.). Cfr. S. BARBERA, Ein Sinn und unzählige Hieroglyphen. Einige Motive von Nietzsches Auseinandersetzung mit Schopenhauer in der Basler Zeit, in “Centauren-Geburten”. Wissenschaft, Kunst und Philosophie beim jungen Nietzsche, a cura di T. Borsche, F. Gerratana e A. Venturelli, Berlin/New York, de Gruyter 1994, p. 217 e sg. 39

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borazione della dottrina della volontà e stabiliscono una differenza assoluta tra coscienza «migliore» e «coscienza empirica». La coscienza migliore, come forma suprema di vita, forma ideale in senso platonico, deve essere raggiunta attraverso il cammino geniale dell’arte e della santità; la coscienza empirica resta invece soggetta alla temporalità, alla conoscenza discorsiva e all’errore filisteo di voler unire virtù e ragione. La dottrina della volontà che Schopenhauer elabora più tardi ha proprio il compito trovare un fondamento unitario che permetta di superare la separazione delle due forme di conoscenza e di vita. La teoria della coscienza migliore – o della vita migliore, come scrive Nietzsche40 – contenuta negli scritti giovanili schopenhaueriani implica una stretta affinità tra arte e filosofia, che sono rigorosamente distinte dal modo di procedere della scienza. Questi scritti di Schopenhauer nel periodo di Lipsia erano immediatamente accessibili a Nietzsche,, attraverso la scelta dei frammenti postumi che Frauenstädt, il fedele «apostolo» di Schopenhauer, aveva pubblicato nel 1863 e 1864. Ma proprio Haym aveva determinato come baricentro degli scritti giovanili schopenhaueriani l’equiparazione dell’arte con la filosofia all’interno della sfera della coscienza migliore41. Secondo l’interpretazione di Haym proprio gli scritti giovanili permettono di conoscere la vera natura anche della successiva esposizione del sistema filosofico, di interpretarlo come la manifestazione romantica di una personalità dominata dall’impulso poetico e 40 A mia conoscenza Nietzsche si serve un’unica volta dell’espressione schopenhaueriana «coscienza migliore» (besseres Bewußtsein), e precisamente nella parte delle lezioni del 1874-75, Geschichte der Griechischen Literatur OFN II, 5, p. 121, dedicate a Euripide, per indicare l’autentico spirito della tragedia in opposizione alla «sofistica della passione». 41 Cfr. R. HAYM, cit. p. 316: «In modo che corrisponde perfettamente a questo punto di vista soggettivistico e in piena aderenza ai motivi romantici che accompagnano, la filosofia stessa nei manoscritti di cui parliamo è concepita in tutto e per tutto come arte. Perché anch’essa, naturalmente, rientra nell’ambito della coscienza migliore. Il filosofo è sulla stessa linea dell’artista e del poeta». Haym si riferisce qui e in passi analoghi all’ampia scelta degli scritti giovanili dedicati a questo tema che Frauenstädt aveva pubblicato. Cfr. Arthur Schopenhauer. Von ihm. Über ihm, cit., p. 718 e sg.; 724; 726 e sg. Lo stesso Frauenstädt nella sua introduzione aveva sottolineato il significato centrale del tema: «In questi suoi primi manoscritti Schopenhauer è inesauribile in osservazioni sulla differenza della sua filosofia, concepita come un’arte dalla filosofia corrente concepita come una scienza. In questi passi si tocca con mano il solo criterio con cui si può giudicare in modo giusto la filosofia schopenhaueriana (ivi, p. 247).

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dal «potere dell’immaginazione»42. In questo senso Haym vede espresso il vero nucleo della filosofia di Schopenhauer nei suoi scritti giovanili. Ciò che noi possiamo appurare nel suo sviluppo successivo, sino all’opera maggiore, è solo «una quantità di audaci combinazioni». Per la maggior parte esse sono ricavate dalle dispense di altri filosofi e rispetto all’aperçu originario non costituiscono un’elaborazione originale: «Le rappresentazioni prese a prestito vengono complessivamente asservite alle profonde intuizioni fondamentali, ma non sono in sé capaci di alcuno sviluppo concettuale»43. Nietzsche riprende la stessa argomentazione in un passo di Schopenhauer come educatore, dove interpreta la filosofia di Schopenhauer come un insieme di forme e strumenti espressivi che tentano di riprodurre un’intuizione giovanile – l’esperienza delle figure dell’artista e del santo, in cui, senza ricorso alla metafisica della volontà si esprime la genialità della coscienza migliore: Non si può affatto stabilire in qual periodo Schopenhauer abbia contemplato questo quadro della vita, proprio nel modo con cui tentò di riprodurlo in tutti i suoi scritti; si può dimostrare che il giovane, e si potrebbe credere anche il bambino, abbia già avuto questa straordinaria visione. Tutto ciò che più tardi egli assimilò dalla vita e dai libri, da tutti i campi della scienza, fu per lui quasi soltanto colore e mezzo per l’espressione; persino la filosofia di Kant fu da lui messa a frutto soprattutto come uno straordinario strumento retorico, con cui credette di esprimersi ancor più chiaramente su quel quadro: così come talvolta per lo stesso scopo, si servì della mitologia buddhistica o cristiana. Per lui vi era un solo compito e centomila mezzi per assolverlo: un significato solo e innumerevoli geroglifici per esprimerlo44.

Nella III Inattuale si possono del resto rintracciare altri elementi che paiono confermare questo aspetto della lettura di Schopenhauer. Così l’affermazione che il carattere «eroico» dell’uomo schopenhaueriano non consiste affatto in una redenzione estetica del mondo del divenire, bensì in una radicale contrapposizione ad esso, che Nietzsche condanna quale regno della menzogna, dell’esistenza che deve essere negata. Per questa ragione l’uomo schopenhaueriano concepisce il senso di tutta la sua attività come un senso «metafisico, spiegabile a partire dalle leggi di un’altra vita, di una vita superiore» e tutto ciò che egli compie appare 42 43 44

R. HAYM, cit., p. 316. Ivi, p. 318. SE 7, OFN III/1, pp. 439-440.

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«come un distruggere e uno spezzare le leggi di questa vita»45. Un antagonismo così aspro come quello che ci presenta Schopenhauer come educatore tra l’esistenza prigioniera della temporalità e del divenire e la forma di vita del santo, contrassegnata dalla pace dell’«essere», dalla «saggezza», dall’identità di soggetto-oggetto, caratterizza proprio nei primi scritti schopenhaueriani l’autoliberazione della coscienza migliore – che Nietzsche indica qui con l’espressione «il meglio»46 – rispetto alla coscienza empirica. Il rimando al giovane Schopenhauer acquista però nel Schopenhauer come educatore un significato polemico rispetto all’intera metafisica dell’artista e anzitutto rispetto alla stretta connessione tra intensificazione della volontà e funzione redentrice del genio (in quanto creatore di illusioni salvifiche), che caratterizza la concezione di Wagner e la sua lettura di Schopenhauer. Questo rimando va letto come il punto di approdo della critica di Nietzsche alla metafisica della volontà, una critica che attraversa in forme diverse gli scritti basileensi, i cui contorni tuttavia sono già chiaramente riconoscibili negli appunti del periodo di Lipsia.

45 46

SE 4, OFN III/1, p. 397. Ivi, p. 400.

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DAL MITO ALLA TRADIZIONE. IL GOETHE DI NIETZSCHE

«Quando vidi l’insicurezza del moderno orizzonte della cultura mi prese un senso di paura. Lodai, vergognandomene un po’, le culture messe sotto la protezione di una campana di vetro. Finalmente mi ravvidi e mi gettai nell’oceano»: cosi scrive Nietzsche nel frammento 40 [91] dell’estate 1879 in cui sembra voler commentare il suo passaggio dalla fase della Nascita della tragedia a quella di Umano, troppo umano. Disagio o addirittura paura sono i sentimenti che afferrano chi affronta il mare aperto dell’età moderna dopo avere abbandonate le garanzie offerte dalla metafisica dell’artista, di cui Nietzsche aveva parlato in quella prima fase del suo pensiero. Qui al genio artistico spetta la funzione di fondare e tutelare la comunità ancorandola alla saldezza del mito, e la metafisica dell’artista vede la modernità come una pluralità di forze dagli esiti disgreganti, che vanno appunto riplasmate in una società organica basata sul mito. Umano, troppo umano riprende con insistenza il problema, anche se gli dà una soluzione diametralmente opposta. Il demone del divenire erode le fondamenta e la saldezza immobile dell’essere, e invano ci si richiama alle categorie metafisiche per salvaguardarle; aumenta a dismisura la molteplicità delle forme di vita anche in conflitto tra loro, e soprattutto questa sconcertante molteplicità significa che l’esperienza dell’uomo moderno è un amalgama in cui si riconoscono stili di vita appartenenti a epoche storiche diverse, sicché le varie forme del passato vivono ancora nel presente rivendicando il loro diritti. Il primo e più vistoso tema di Umano, troppo umano è la percezione di una società non-organica, organizzata in strati e falde sovrapposte e conviventi, basata insomma su una pluralità che ancora non ha trovato una forma ad essa adeguata. Ma questa percezione non è priva di precedenti che potevano avere impressionato Nietzsche, giacché nel periodo in cui egli era

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impegnato a costruire, con la metafisica dell’artista, l’immagine di una rinata società organica, Jacob Burckhardt, che pure in privato non perdeva occasione di lamentare la miseria del presente e la «crescente uniformità della nostra civilizzazione»1, nelle lezioni basileesi sulle crisi storiche aveva saputo vedere proprio nella mobile e cangiante varietà che la Rivoluzione francese impone ai contemporanei – adesso privi di riferimenti a modelli consolidati di vita e lanciati in un dinamismo di una sperimentazione continua – un motivo di superiorità dei moderni sugli antichi, un arricchimento e un’occasione per aumentare la conoscenza: Ma d’altra parte è subito evidente un grande vantaggio: si tratta della consapevolezza, della conoscenza del contrasto tra il nuovo e l’antico […] Tutta questa congerie deve essere per noi non una confusione, bensì un patrimonio spirituale; dobbiamo trovarvi non un’afflizione, ma un tesoro.

Umano, troppo umano condivide questo atteggiamento di Burckhardt anche e proprio nell’affermazione di un primato del conoscere: è attraverso la conoscenza adesso, e non attraverso la bella apparenza dell’arte, che si supera il pessimismo. Ma non era certo questa, pluralistica, differenziata, conflittuale, e sottoposta a un dinamismo inarrestabile, la forma di civiltà auspicata dalla metafisica dell’artista. Nella fase della Nascita della tragedia e degli scritti coevi Nietzsche progetta anzi una forma di civiltà organica basata sul mito. Si tratta di una società devota al genio, che per compassione verso le sofferenze dei suoi membri getta su di loro una rete di belle illusioni (Nietzsche parla di Täuschungen e Wahnvorstellungen) che hanno funzione consolatrice e redentrice. Paragonate da lui ai personaggi del dramma musicale che si muovono sulla scena come se fossero generati dal grembo dell’orchestra, le «illusioni» non sono altro, per l’appunto, che le immagini evocate dalla forza mitopoietica del genio artistico. Nel far questo, egli ripete ogni volta il gesto metafisico del fondo vitale – l’«Uno originario» lo chiama in questo periodo Nietzsche – che

1 Così in una lettera del 3 ottobre ’72 a Preen in cui commenta un articolo di Rosenkranz sullo stesso tema: J. BURCKHARDT, Briefe, ed. critica a cura di Max Burckhardt, vol. V (1868-75), Basel/Stuttgart, Metzler 1963, p. 156. La successiva citazione è tratta dalla trascrizione dell’ultima versione del corso sulle crisi storiche: Jacob Burckhardt: “L’epoca della rivoluzione” a cura di M. Ghelardi, «Studi storici», XXXVIII, 1997, fasc. 1, p. 46.

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«scarica» in immagini liberatrici la insopportabile tensione degli opposti di dolore e piacere rinchiusi in lui. Il genio artistico si comporta come lo schopenhaueriano (e wagneriano) «genio della specie»: non il genio del III libro del Mondo come volontà e rappresentazione, che perdendosi nella contemplazione dimentica le tribolazioni della volontà, ma il machiavellico demone della natura, che nella Metafisica dell’amore sessuale, nel II volume del Mondo, inganna gli individui con le belle immagini e le illusioni di Eros per indurli a perpetuare la specie, e a tenere così in piedi con un’eterna ripetizione l’infernale meccanismo del mondo. Come è stato giustamente osservato, con la teoria del mito/illusione Nietzsche introduce una paradossale «negazione gnoseologica del concetto di mito che nello stesso tempo ne sottolinea la necessità»2. Il paradosso, messo in luce dallo stesso Nietzsche quando fa poggiare l’intera costruzione su un «vacuum metafisico», si risolve in realtà nel fatto che il progetto della metafisica dell’artista rientra nell’orizzonte di un «mito tecnicizzato», ossia di quelle costruzioni artificiali del mito che nell’Ottocento e nel Novecento accompagnano i tentativi di riformare la società nel senso di una totalità «organica». Nella Nascita della tragedia la dimostrazione della «potenza mitopoietica della musica», la sua capacità appunto di creare le immagini/illusioni, e l’intera speculazione sulla natura del mito tragico, non sono che una variazione degli argomenti affini che Wagner aveva sviluppato nei suoi saggi teorici. Quest’intima affinità è stata variamente indagata, ma credo che fino a ora sia sfuggito all’attenzione un aspetto, che invece mostra bene fino a qual punto l’orizzonte di Nietzsche sia condizionato da quello di Wagner. Nell’esordio del 23° capitolo della Nascita della tragedia Nietzsche presenta la rivitalizzazione della tragedia antica attraverso il dramma musicale come una «rinascita del mito germanico» e vede nel mito il fondamento indispensabile della unità della cultura, la sua «sede originaria, fissa e sacra»; ma assimila anche il dramma a un «miracolo rappresentato sulla scena», ed egualmen2 N. PETER, Im Schatten der Modernität. Franz Overbecks Weg zur “Christlichkeit der heutigen Theologie”, Stuttgart/Weimar, Metzler 1992, p. 154. Il tentativo di Peter di interpretare la metafisica dell’artista come una «vera e propria teoria speculativa del mito» mi sembra pienamente riuscito, a patto di ricordare che la teoria è, a sua volta, costruita sulla variazione wagneriana del mito prometeico dell’artista creatore. Sul tema prometeico anche C. GROTTANELLI, Nietzsche and Myth, «History of Religions», XVIII, 1997, pp. 3-20.

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te dichiara che il mito, questo «simbolo riassuntivo dell’universo» non può fare a meno del «miracoloso». Wagner aveva dedicato una intera sezione di Opera e dramma alla identificazione del dramma con il miracolo, e lo aveva fatto discutendo in modo meticoloso il 14° capitolo dell’Essenza del cristianesimo di Feuerbach, dove miracolo e sogno, generati da uno stesso meccanismo, vengono presentati come realizzazioni del desiderio dell’individuo, che aspira alla comunione con il genere, attraverso un’identità di natura allucinatoria e che avviene «senza lavoro». L’appagamento del desiderio mediante la pura contemplazione dell’immagine è proprio il punto che attrae l’attenzione di Wagner; egli prende le distanze però dal «miracolo dogmatico» di Feuerbach: mentre quest’ultimo rappresenta un depotenziamento della realtà a illusione, perché l’immagine si sovrappone alle cose e ne cancella le contraddizioni, il problema di Wagner è per cosi dire di trasferire e comprimere nell’azione scenica tutta la molteplice e consistente rugosità del reale, una procedura a cui egli dà il nome di «condensazione». Fuori dalla scena la realtà sensibile è dispersa in una varietà incontrollabile di differenze che impedisce di scorgere la loro radice nel «puramente umano», il dramma invece la comprime in figure e azioni che riflettono in modo riconoscibile l’unità del genere. Contro l’effetto solo illusorio del miracolo dogmatico di cui parla L’essenza del cristianesimo Wagner recupera e fa valere il concetto di condensazione che aveva trovato in un’opera giovanile e iperromantica di Feuerbach, i Pensieri sulla morte e sull’immortalità, un’opera a lui così cara che se ne trovano ancora consistenti segni nell’intreccio di Tristano. Nei Pensieri il termine «condensazione» designa la capacità dell’immaginazione, al suo più alto grado di eccitazione, di superare i pori, le fratture, le separazioni della realtà sensibile in un’immagine o visione che anticipa (ma stavolta in senso effettivo, non illusorio) l’unificazione di finito e infinito, sensibile e ideale. In Opera e dramma anche il mito è fondato su questa accezione di condensazione, ne condivide la funzione simbolica, ed è questa la ragione della sua intima affinità con il dramma. Il mito non riflette affatto – e checché ne pensi la vulgata su Wagner – uno stato originario di innocenza pre-culturale, ma piuttosto una forma accettabile e riformabile di alienazione (nel senso di Feuerbach), perché la potenza simbolica attiva in esso permette di mantenere la visibilità del «puramente umano» anche nella realtà devastata dall’alienazione, che in questo modo non si abbandona alla dissipazione ma rimane vincolata a un centro. Anche la speculazione

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che Opera e dramma dedica alla genesi del mito ne mostra il carattere derivato, non originario. Il mito è una reazione dell’immaginazione umana (o, come Wagner già nel ’48 aveva stabilito nel suo saggio sulla saga dei Nibelunghi, dello spirito popolare inconscio) a uno stato primitivo in cui le forze della natura minacciano l’uomo. Anche per Wagner vale il primos in orbe deos fecit timor: la paura o, come scrive, l’«inquietudine» per la natura minacciosa anche solo per la sua estraneità e impenetrabilità viene controllata assegnando una causa fantastica, che li «condensa» in un unico punto, alla molteplicità dei fenomeni. Tale causa, l’immagine divina o eroica del mito, non è altro però che il prodotto dell’alienazione con cui l’uomo si raffigura la sua propria essenza generica: in termini squisitamente feuerbachiani il contenuto della figura mitica appare «sovrumano e sovrannaturale» perché gli viene attribuita l’intera potenza della specie, cosicché Dio e gli dèi sono le prime creazioni della forza poetica dell’uomo: in essi l’uomo si rappresenta l’essenza dei fenomeni naturali come vincolata a una causa, e come causa concepisce involontariamente nient’altro che la sua propria essenza umana, sulla quale, del resto, è unicamente fondata questa causa immaginata3. Per questo Wagner è convinto che il mito illumini veramente le zone profonde della realtà, anzi contribuisca, qualunque sia la sua lontananza cronologica dall’attualità, a risolverne le contraddizioni. Ne è un esempio l’appassionata interpretazione che Opera e dramma dà dello sviluppo del mito di Edipo fino ad Antigone, per Wagner la «tragedia per eccellenza», dove il mito «inesauribile» illustra lo svolgersi del conflitto tra l’essenza umana «naturale» (rappresentata dall’innocente amore incestuoso di Edipo e dall’amore «puramente umano», senza determinazioni di sesso o di parentela, di Antigone) e le forme politiche e sociali della sua alienazione (che appartengono invece all’artificio e all’innaturalezza), e ne prefigura la soluzione improntata a un auspicio radicale di morte dello Stato e della proprietà individuale: Se, anche ai giorni nostri, interpretiamo fedelmente il mito di Edipo in base alla sua natura più intima, ne ricaviamo un’immagine intelligibile di tutta quanta la storia dell’umanità fino al necessario declino 3 R. WAGNER, Oper und Drama, a cura di K. Kropfinger, Stuttgart, Reclam 1984 (riproduce la prima edizione del 1851), p. 161. La citazione successiva è a pp. 200-201, con corsivo nel testo.

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dello Stato. Il mito presentisce tale declino; spetta alla storia reale portarlo a compimento […] La saga di Edipo ci dischiude anche il nocciolo dello stato. Nel dominio di Laio riconosciamo la sorgente di ogni crimine: per averne un possesso integrale è diventato padre innaturale. Da questo possesso diventato proprietà – che viene prodigiosamente visto come base di ogni buon ordinamento – derivano tutti i sacrilegi del mito e della storia.

Epica e dramma Tuttavia la nozione di cultura come forma rispettosa della pluralità, che troviamo in Umano, troppo umano, ha una lunga storia alle spalle, e in essa sfocia una corrente sotterranea nel pensiero giovanile di Nietzsche che l’idea largamente egemonica della metafisica dell’artista non cancella del tutto, anzi lascia qua e là affiorare in maniera vistosa. Una delle sue manifestazioni principali è nella Prima Inattuale, dove la cultura è definita come «l’unità dello stile artistico in tutte le manifestazioni vitali di un popolo». Malgrado il primato della sfera estetica, che àncora la definizione della cultura alla metafisica dell’artista, Nietzsche pensa l’unità di stile come un’«armonia» che implica la varietà ed è agli antipodi del «tutti unisono» del filisteo che vuole imporre la sua «impronta uniforme». Il filisteo mira a una riproduzione sterile e sempre uguale di un sé incapace di assimilazione, e che anzi coltiva un atteggiamento puramente polemico: Proprio in questo egli riconosce il carattere di ciò a cui dà la patente di ‘cultura tedesca’: il non accordo con questa impronta è la misura di ciò che gli è nemico e gli resiste. In questo caso il filisteo della cultura si difende, nega, fa il settario, si tappa le orecchie, non vuole vedere, è una natura negativa anche nel suo odio e nella sua inimicizia.

Nella Terza Inattuale, Schopenhauer come educatore, Nietzsche ha riconosciuto lo scritto in cui più si è allontanato dall’impostazione della metafisica dell’artista, avvicinandosi alla prospettiva dello spirito libero con la sua predilezione per un tipo di conoscenza lontana dalla pressione della volontà (FP 27 [80], primaveraestate 1878). Come ho cercato di mostrare altrove l’Inattuale su Schopenhauer è attraversata dall’intenzione di abbandonare la figura del «genio della specie» che sta al centro della metafisica dell’artista e della riforma della cultura, per valorizzare piuttosto una genialità di carattere contemplativo e puramente cognitivo.

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L’attenzione di Nietzsche si sposta dallo Schopenhauer del Mondo come volontà e rappresentazione allo Schopenahuer giovanile (che egli conosceva indirettamente attraverso un celebre saggio di Rudolf Haym, e direttamente attraverso le carte inedite del filosofo allora parzialmente pubblicate dai suoi discepoli Frauenstädt e Lindner): ossia allo Schopenhauer che ancora non ha elaborato una metafisica della volontà ma si attiene al dualismo inconciliabile tra «coscienza empirica», che si muove nel mondo del divenire e delle apparenze, e la «coscienza migliore» che dà accesso a una forma di vita alternativa basata su una negazione radicale del mondo. Si tratta di un momento molto particolare della riflessione di Nietzsche, la cui intensità quasi mistica non è stata ancora (se si prescinde da alcune intuizioni di Giorgio Colli) indagata a dovere. Ma è in base alla tonalità di Schopenhauer come educatore che si spiega anche la vicinanza che egli sentiva e dichiarava tra le sue idee e quelle esposte nell’opuscolo contro la teologia liberale dell’amico Overbeck, per il quale, sulla scia di Schopenhauer, «il rifiuto del mondo è il carattere indelebile del cristianesimo»4. Nella Terza Inattuale il passaggio dall’impeto riformatore della metafisica dell’artista e della sua nozione di cultura come «physis rinnovata» alla pacatezza contemplativa è stilizzata nella figura di Faust, che abbandona la sua forma primitiva, di «riflesso più alto e più ardito dell’uomo di Rousseau», ribelle e liberatore, per assumere un atteggiamento di contemplatore del mondo: L’uomo di Goethe a questo punto evita l’uomo di Rousseau; giacché odia qualsiasi violenza, qualsiasi salto, il che vuol dire però: qualsiasi azione; e così il liberatore del mondo Faust diventa quasi soltanto uno che viaggia per il mondo. Tutti i campi della vita e della natura, tutte le epoche passate, le arti, le mitologie, tutte le scienze vedono volare davanti a sé l’insaziabile contemplatore (SE 4)

che prefigura in questo modo la caratteristica di «viaggiatore» e «viandante» propria più tardi dello spirito libero e del suo stile di vita. Qui non c’è ancora nella completezza dei suoi tratti l’immagine di Goethe che Nietzsche proporrà nei frammenti postumi soprattutto della fine ’76 – estate ’77 e in Umano, troppo umano;

4 Così J. TAUBES, Entzauberung der Theologie: Zu einem Porträt Franz Overbecks, in Franz Overbeck, Selbstbekenntnisse, Frankfurt a.M., Insel 1966, p. 16.

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manca in particolare l’illustrazione del carattere antitragico e assolutamente convenzionale della sua arte. Come mostrano gli appunti consegnati ai frammenti postumi, la definitiva acquisizione di questa duplice caratteristica è il frutto di una elaborazione lenta e tutt’altro che lineare. Non vi è dubbio però che il Goethe contemplativo di Schopenhauer come educatore è il legittimo erede del Goethe idillico ed epico, piuttosto che tragico, a cui già nella fase della Nascita della tragedia (e probabilmente, come si vedrà, sotto l’influenza diretta di Opera e dramma di Wagner e in polemica con lui) Nietzsche aveva prestato una forte attenzione, mostrando di utilizzare i Colloqui con Goethe di Eckermann e la discussione su Hermann und Dorothea nell’epistolario di Goethe e Schiller. Da qui, in particolare, Nietzsche sembrava accogliere l’idea che il genere epico si adatta alla «tranquilla esistenza delle cose e alla loro azione naturale» (così Schiller nella lettera del 21 aprile 1797), non deformata dall’incalzare dell’azione drammatica. In tale modo, proseguiva Schiller, il pubblico non è invitato a partecipare alla febbre dell’azione, ma se ne distacca in uno stato di quieta osservazione, sicché mentre il poeta drammatico ci «priva della nostra libertà», quello epico la garantisce con la forma stessa della sua rappresentazione. Per questo, sempre secondo Schiller, il genere epico si muove quasi naturalmente nella sfera dell’intelletto, come accade al romanzo e in particolare al Wilhelm Meister, la cui forma è prosaica piuttosto che poetica (a Goethe, 20 ottobre 1797). In questo epistolario «prosaico» e «intellettuale» formano effettivamente un’endiadi costante, è però nei Colloqui con Goethe di Eckermann, uno dei suoi libri prediletti, che Nietzsche poteva leggere una dichiarazione sorprendente, e nella quale sono legati insieme i vari aspetti o corollari che Umano, troppo umano connette al tema del mutamento di funzione dell’arte. Hermann und Dorothea, che nella lettera a Schiller del 12 agosto 1797 Goethe presentava come esempio di una sostanziale affinità tra i «soggetti moderni» e il genere epico, veniva ora paragonato al romanzo cinese. Non solo, ma nell’ottundimento «borghese» della passione e dell’entusiasmo poetico che vi si esprime, Goethe vede la condizione che assicura anche il perdurare nella tradizione delle grandi istituzioni storiche. La parola «moderazione» o «misura» (Mäßigung) che qui compare è d’altro canto un termine chiave nell’ideologia goethiana della rinuncia, e aveva conosciuto la sua celebrazione in un famoso dialogo del Torquato Tasso. Ecco il brano nel resoconto di Eckermann del 31 gennaio 1827:

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[nel romanzo cinese] tutto è accessibile all’intelletto, è borghese, è senza gran passione e slancio poetico, e per questo ha una gran somiglianza col mio Hermann und Dorothea e con i romanzi inglesi di Richardson […] Ma è proprio grazie a questo rigoroso senso della moderazione in tutto quanto che l’impero cinese ha potuto conservarsi per secoli e continuerà a farlo.

A sua volta Schiller vedeva nell’epica proprio in base al suo carattere contemplativo, intellettuale, prosaico, adeguato infine alla complessità dei «soggetti moderni», la possibilità di riprodurre «la totalità costante, e che quietamente perdura» dell’umanità, mentre la tragedia deve limitarsi agli aspetti patologici o a «singoli momenti straordinari» (a Goethe, 24 agosto 1798). Nietzsche partiva da qui per una progressiva relativizzazione del primato della tragedia di cui possiamo seguire le tappe nei frammenti postumi del periodo. Il punto d’approdo è la valorizzazione del carattere antitragico dell’arte e della personalità di Goethe. Rifiutando Kleist, Goethe si distoglie dal tragico, in cui percepisce «il lato insanabile della natura»: «Egli stesso era conciliante e suscettibile di guarigione. Il tragico ha a che fare con sofferenze insanabili, la commedia con sofferenze risanabili» (FP 29 [1], estate 1878). Un successivo frammento dello stesso periodo, il 29 [15], che ribadisce la «natura conciliante» di Goethe («Goethe contro il tragico. Perché andarselo a cercare? Natura conciliante») porta a compimento, con l’osservazione che tragedia e commedia non danno una rappresentazione fedele della vita, ma soltanto una sua caricatura, un’obiezione contro il carattere semplificatore e deformante della tragedia che, in termini assai simili, Nietzsche aveva mosso a Wagner negli appunti per l’Inattuale Wagner a Bayreuth, come ad esempio nel lungo FP 11 [20]. Il riposo e la funzione lenitiva che l’arte drammatica assicura in quanto è un’abbreviazione «del calcolo infinitamente complicato della vita reale» rende poi più difficile e faticoso il ritorno all’esistenza e alle sue lotte. Nell’arte di Wagner i problemi sono sottomessi a una semplificazione insostenibile, e il carattere «semplificatore» di Wagner è presente anche nella sua tendenza anti-alessandrina di ricondurre a unità la dispersione del moderno, o nella funzione «astringente» che Nietzsche gli riconosce. Questa critica, interessante soprattutto perché qui Nietzsche comincia a distaccare le funzioni dell’arte da quelle di una riforma della cultura, e a mettere in luce che essa è incapace di riprodurre le complesse ragioni della modernità, utilizza in realtà gli argomenti del capitolo di Opera e dramma dedicato al dramma e al

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romanzo, per rovesciarne (ma anche forzarne) il senso. In effetti, anche Wagner attribuiva a Goethe una natura «conciliante», anzi è proprio la conciliazione con la realtà disgregata e scissa di una civiltà corrotta dal lusso e dominata dall’intellettualismo che induce Goethe a preferire il romanzo, come genere letterario che esprime le condizioni della civiltà alienata, e ad abbandonare il ruolo di poeta drammatico tentato in gioventù. Nel periodo della Nascita della tragedia Nietzsche aveva seguito alla lettera la damnatio wagneriana del romanzo come prodotto dell’intellettualismo, fino a scrivere, a proposito dei nuovi romanzi tedeschi, che in essi «la cosa seria è il pensiero, che viene esemplificato in modo artificioso» (FP 7 [114], fine ’70 – aprile ’71). Ma per Wagner era chiaro che il romanzo è anche il prodotto più genuino della modernità, anzi l’unica forma d’arte a essa adeguata: Il romanzo – scriveva – non era però un prodotto arbitrario, ma necessario del nostro sviluppo moderno: esso era l’espressione artistica di situazioni vitali rappresentabili artisticamente solo per il suo tramite, non con il dramma. Il romanzo prendeva le mosse dalla rappresentazione della realtà e il suo sforzo era così genuino che alla fine, al cospetto di questa realtà, annientava se stesso in quanto opera d’arte (Oper und Drama. 165).

Certo in Opera e dramma l’eccellenza della forma drammatica rispetto al romanzo consisteva nella sua inattualità, nel rifiuto di ogni compromesso, ma la rivendicazione dell’antica forma – come nel caso della Sposa di Messina di Schiller, con la reintroduzione del coro – veniva recepito come qualcosa destinato a rimanere nel «cielo» dell’ideale, una purissima rivendicazione della forma artistica incapace di accogliere nella sua unità la dispersa complessità della vita moderna. La valorizzazione dello Schiller drammaturgo contro il Goethe romanziere termina così con una vistosa aporia. L’uso che Nietzsche fa in questi anni delle categorie di epos e dramma per costruire la figura del Goethe anti-tragico non colpisce tanto – bisogna pur dirlo – le tendenze teoriche di Wagner,, e meno che mai la sua prassi artistica, ma è piuttosto rivolta contro se stesso, contro la rinascita germanica dell’antica forma di tragedia auspicata nella Nascita della tragedia. Wagner si muoveva in una direzione assai diversa, e così come mirava a una definizione aperta del mito, visto come struttura di condensazione rispetto al carattere diffuso delle moderne forme d’alienazione, così tendeva a un dramma come forma aperta capace di sostenere le esigenze del romanzo. A partire dal parallelo solo apparentemente

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paradossale proposto da Thomas Mann tra l’Anello wagneriano e il ciclo di Zola dei Rougon-Macquart si è sempre più affermata – con rare eccezioni – la convinzione che Wagner miri a un genere in cui si può vedere un «romanzo drammatizzato» (Stefan Kunze) o una «forma drammatica epica, aperta» (Annette Ingenhoff); mentre gli influenti studi di Reinhold Brinkmann e di Carl Dahlhaus hanno rispettivamente mostrato come in Opera e dramma Wagner tenda a identificare il dramma musicale con un’inedita forma aperta di «epos scenico» e come (con una stringente corrispondenza tra teoria e prassi) il testo musicale assolva le funzioni epiche che vengono richieste all’opera5. La funzione conservatrice dell’arte L’ipotesi, che pure Nietzsche affaccia in questo periodo, di un’arte del futuro, ossia conciliata con la modernità, viene subito cancellata dalla constatazione del carattere sostanzialmente retrospettivo dell’arte, che è un’attività dominata dal sentimento della pietà: «Potrei anche pensare a un’arte che guarda in avanti, che cerca nel futuro le sue immagini. Perché non esiste un’arte del genere? L’arte è connessa alla pietà» (FP 10 [13], estate 1875). In una serie di riflessioni della primavera/estate del ’75 Nietzsche parla del carattere «pericoloso» dell’arte in quanto «custode e galvanizzatrice di idee morte e morenti»; essa ci riporta indietro a sentimenti ormai scomparsi e disattende l’ammonizione «lasciate che i morti seppelliscano i loro morti». L’immagine dei poeti come epigoni, «nature rivolte all’indietro verso età lontanissime» rafforza il carattere di «palliativo» dell’arte, ma in una luce decisamente negativa, come una funzione che distoglie dal lavoro necessario per migliorare il presente. Solo quando nel 1877 Nietzsche tematizza la funzione di conservazione dell’arte, che getta un ponte tra passato e presente (FP 24 [1] n. 10, autunno 1877), si

5

Mi riferisco a S. KUNZE, Der Kunstbegriff Richard Wagners. Voraussetzungen und Folgerungen, Regensburg, Bosse 1981, p. 187; A. INGENHOFF, Drama oder Epos? Richard Wagners Gattungstheorie des musikalischen Dramas, Tubingen, Niemeyer 1987, p. 12; R. BRINKMANN, Szenische Epik. Marginalien zu Wagners Dramenkonzeption im ‘Ring des Nibelungen’, in Richard Wagner. Werke und Wirkung, a cura di Carl Dahlhaus, Regensburg, Bosse 1971, pp. 58-86; C. DAHLHAUS, Wagners Konzeption des musikalischen Dramas, Regensburg, Bosse 1971.

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può dire che siano acquisiti tutti gli elementi concettuali su cui poggiano gli aforismi 145-56 di Umano, troppo umano. Qui l’arte viene considerata (e non di rado con riferimento alla letteratura etnologica combinata con la speculazione romantica sul linguaggio originario che era stata rivitalizzata da Wagner) un residuo di età trascorse. La funzione mitopoietica del genio, al centro della metafisica dell’artista e che ancora l’Inattuale Wagner a Bayreuth presenta come capacità di pensare per analogia e per immagini, è vista ora come la sopravvivenza di un linguaggio arcaico, magicoreligioso: e tuttavia proprio per questo motivo preziosa, giacché il suo linguaggio ci dà la chiave per decifrare le epoche scomparse. La «giustizia» e la pietà verso quel che è scomparso viene esercitata dunque anche nei confronti dell’arte e della metafisica dell’artista, di cui Umano, troppo umano smonta il concetto basilare sotto la rubrica «superstizione del genio». La metafisica dell’artista viene analizzata come utopia di restaurare quel linguaggio arcaico, irrimediabilmente perduto, e di farne il principio di una riforma dell’esistenza. Anche l’analisi della «superstizione del genio» va letta nella chiave di un’autocritica: una polemica più ancora che verso Wagner e verso Schopenhauer verso la sintesi vertiginosa che lo stesso Nietzsche ne aveva tentata. Il Wagner che nella fase della Nascita della tragedia è presentato come il legislatore che dà consistenza e forma a una società disgregata, compare ora nelle vesti di un genio essenzialmente polemico, in antagonismo con i suoi contemporanei, e soprattutto contro l’interpretazione scientifica del mondo, per riaffermare il primato dell’arte. Nel Viandante e la sua ombra però l’analisi dell’arte in quanto sopravvivenza di antiche età viene integrata da una vera e propria genealogia, in cui la funzione regressiva della metafisica dell’artista viene illustrata come un effetto della modernità. Il punto di partenza è l’esperienza di Bayreuth: «Noi viviamo il declino dell’ultima arte. Bayreuth mi ha convinto di questo» recita un’annotazione dell’estate 1878 (FP 30 [139]), mentre nell’aforisma 170 del Viandante, intitolato L’arte nell’epoca del lavoro, la «grande arte» del dramma musicale è interpretata nell’ottica di un radicale mutamento della funzione dell’arte nella vita umana. Nell’«epoca del lavoro» essa non ha più relazione con la serietà dell’uomo attivo, ma col suo tempo libero. Non può più fare assegnamento sulla «coscienza dei laboriosi e dei valenti», ma sui privi di coscienza e sugli indolenti. La trasformazione strutturale del pubblico e delle forme di ricezione dell’arte viene individuata come causa principale di alcune tonalità espressive

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proprie del dramma musicale, come la «sovraeccitazione causata dal poco sonno» o l’«essere fuori di sé per il rapimento e il terrore». In questo caso, come anche nelle annotazioni postume che individuano nell’arte di Wagner l’espressione di una sintesi tutta moderna tra «la rozzezza, e la debolezza più delicata», inselvatichirsi dell’istinto e sovraeccitazione nervosa, «ricerca dell’emozione per stanchezza e piacere della stanchezza» (FP 27 [32] e [55], primavera-estate 1878), è evidente la continuità con la fenomenologia della modernità e della nevrosi metropolitana che Nietzsche affronterà nel Caso Wagner. Le condizioni che nella fase della Nascita della tragedia Nietzsche considerava come costitutive per il dramma musicale, o per la tragedia attica, vengono viste adesso come reazioni ai processi della modernità. In definitiva, un arcaismo generato dalla stessa attualità, e ad essa funzionale: è in questi appunti per una genealogia del mito che bisogna ricercare il senso più riposto dell’«illuminismo» di Umano, troppo umano. In uno straordinario frammento del giugno-luglio ’79, che però non sembra avere avuto altri sviluppi letterari, Nietzsche vede la macchina come fattore di un’organizzazione dispotica del tempo di lavoro, di cui l’operaio è «schiavo», ma osserva che essa non ha come conseguenza un’autodisciplina (Selbstbeherrschung) della volontà nel suo complesso, bensì divide l’esistenza umana in due metà, la prima caratterizzata dalla cieca sottomissione al nuovo potere, l’altra da «disordinate reazioni contro il dispotismo», cosicché è la stessa macchina a evocare sregolatezza ed ebbrezza come propri Saturnali (FP 40 [4]). Goethe, i Greci La via precedentemente scelta da Nietzsche, di utilizzare il dramma musicale, in quanto legittimo erede della tragedia antica, per plasmare la modernità sul modello del mondo greco, frana ora dall’interno, e lo smottamento coinvolge in modo molecolare – anche se non simultaneo – tutte le componenti della metafisica dell’artista. Viene meno, in primo luogo, l’equazione di grecità e germanesimo, che Nietzsche aveva manifestato nel modo più intenso nella lettera per il compleanno di Wagner del 24 maggio 1875 con la citazione del Gesang des Deutschen di Hölderlin, una «profezia» sulla Germania (così anche il FP 227 [69], primaveraautunno ’73). Ancora nell’inverno ’72-’73 Nietzsche concepisce la civiltà greca come «creatura naturale» in antitesi alla «convenzio-

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nalità» romana (FP 24 [11]) e vede in Goethe il genio della cultura in quanto physis, che mediante il gioco della forma armonizza e produce una «enorme molteplicità». Ma intanto, nel gruppo di frammenti già menzionato, il tema del carattere epigonale e regressivo dell’arte è strettamente congiunto a quello della morte (e dell’impossibile resurrezione) della cultura antica, sicché ora non è più possibile ricapitolare e promuovere mediante l’arte uno sviluppo «naturale» della civiltà. Al Goethe genio della cultura come physis Nietzsche sostituisce il Goethe rappresentante, insieme a Leopardi, della figura del poeta-filologo. L’espressione era stata usata da Burckhardt nella Civiltà del Rinascimento per indicare negli umanisti la combinazione tra sapere storico e ispirazione poetica, e insieme la loro funzione di guida nell’ambito della cultura e perfino della politica. Per Nietzsche il «poeta-filologo» è il sintomo di quel processo di intellettualizzazione dell’arte che si manifestava anche nel confronto tra genere epico e genere drammatico; e indica sia la trasformazione del suo universo concettuale, sia del percorso tutt’altro che lineare di tale trasformazione. Negli appunti preparatori a Noi filologi, nella primavera del ’75, la figura del poeta-filologo è valutata ancora come sintomo di un sostanziale misconoscimento o falsificazione della grecità, della cui eredità bisogna ricostruire storicamente le tappe per poter risalire alla realtà originaria (FP 3 [15]) che dunque non è più attingibile attraverso la via esclusiva e privilegiata dell’arte. Nella figura del poeta-filologo è comunque presente un «elemento di attacco, attivo», che corregge il «filologo oggettivamente castrato», e anzi Wagner, come mostra l’influenza dell’Orestea nella sua produzione artistica, è un ulteriore gradino nella linea di sviluppo di Goethe «come poeta e filologo tedesco» (FP 5 [109]). Intanto, si intensificano le osservazioni sulla morte della cultura antica e sul carattere regressivo dell’arte, e la falsificazione del mondo greco iniziata con l’ellenismo diventa – con un definitivo accantonamento dell’analogia Grecia/Germania – l’unico modo realmente produttivo di appropriarsene. La tradizione non è più per Nietzsche una ripetizione dell’originario che si rivela nell’arte, ma appunto un processo di falsificazione, di trasferimento e di diffusione attraverso una dialettica di assimilazione e distacco, fondata sul riconoscimento di una sostanziale alterità. Anche il rapporto di Goethe con il mondo greco ricade adesso nella categoria della competizione e dell’emulazione, animate da consapevole distacco e da produttivo agonismo polemico (FP 5 [167], primavera-estate 1875).

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Nell’autunno del ’77, infine, Nietzsche parla di una nuova prospettiva sull’Antichità sotto l’egida di Goethe: «Ora l’Antichità e la visione di Goethe della grande arte mi sono diventate chiare», scrive nel FP 27 [49], ed effettivamente, seguendo il filo rosso del Goethe antitragico, Nietzsche inizia una revisione completa dell’immagine della Grecia, che troverà espressione definitiva negli aforismi 169 e 170 delle Opinioni e sentenze diverse. Se i Greci sono condotti all’arte dal «traboccare e straripare del loro benessere e della loro salute» e non, come i contemporanei, dal «disgusto per se stessi», cosicché per loro l’arte nasce da un lusso di energia vitale ed è abbellimento della vita, Goethe vi è condotto dal suo «ben-essere e ben-volere (Wohl-sein und Wohl-wollen wollen)» e l’attività artistica è in lui espressione di una natura ricca e armonica, lontana dalla tragedia. Appartiene certamente a questo motivo la citazione di Goethe che Nietzsche trascrive nell’estate del ’78: «Goethe: “bello è quando contempliamo ciò che vive seguendo delle leggi nel culmine della sua attività e perfezione, e ne veniamo stimolati a riprodurlo, sentendoci vivi e collocati nella suprema attività”» (FP 30 [5]). La pienezza vitale di Goethe, che determina la sua affinità con i greci e fa di lui un’eccezione nella decadenza moderna, si esprime anche con i termini della «misura» e della «sobrietà», in cui Nietzsche vede una virtù che fa difetto alla gioventù tedesca, dedita al culto dell’eccesso, della passione e dell’estasi (FP 27 [51]). A partire dal ’77 la salute da antico di Goethe contrapposta alla malattia moderna deriva chiaramente da una riesumazione delle coppia sano/classico e romantico/malato che lo stesso Goethe aveva adoperato per definire la sua posizione rispetto ai romantici, e diventa il punto di partenza per la prima riflessione di Nietzsche sul carattere «romantico» di Wagner. La revisione a cui Nietzsche sottopone l’immagine della Grecia coinvolge numerosi motivi, ma è sostanzialmente imperniata su una radicale revisione del primato della tragedia. Nell’estate del 1875 Nietzsche inizia una serie di riflessioni che, con tutta evidenza, manifestano delle tendenze in contrasto tra loro. Da un lato vi è l’auspicio che la Grecia decorativa e «romanizzata», nonché annacquata dal cristianesimo, possa essere sostituita da un’immagine autentica, basata su una combinazione di «Schopenhauer, Wagner e la grecità più antica» (FP 6 [14]), che possa essere la base per una nuova cultura; dall’altro lato si richiama all’ellenismo di Goethe come «sophrosyne greca nell’arte trasferita all’uomo morale» e corredata da un insistente richiamo

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a Socrate, a cui Nietzsche (che aveva iniziato le sue riflessioni sull’origine della tragedia proprio con il problema del socratismo come cultura intellettuale che dissolve il mito) si dichiara ora legato da una segreta anche se polemica affinità (FP 6 [1] e [4]). Con l’affermazione che «la tragedia non è la forma più alta che si possa pensare» Nietzsche ne relativizza il rango mettendola in connessione con la tirannide. Già nell’autunno del ’69 aveva insistito sul legame tra l’origine della tragedia e la tirannide, e in particolare Pisistrato. «Probabilmente – aveva scritto – tutto il dramma è sorto come mistero pubblico, come una reazione contro le pratiche segrete dei sacerdoti, a difesa della democrazia da parte dell’autorità. Penso che i tiranni abbiano introdotto questi misteri pubblici in opposizione ai sacerdoti dei misteri. Di Pisistrato sappiamo che favoriva Tespi» (FP 1 [67]). Ora riafferma che senza Pisistrato gli Ateniesi non avrebbero avuto la tragedia, ma aggiunge che se si considera la contrarietà di Solone per questo genere poetico, che nasce dalla pratica dei lamenti funebri a cui egli si oppone in nome della volontà di misura e moderazione (Mäßigung) che deve dominare la vita pubblica, occorre interrogarsi sulla funzione politica della tragedia, legata ai disegni del tiranno: «Cosa voleva Pisistrato con queste grandi manifestazioni di lutto?» (FP 6 [29], estate 1875). L’ipotesi di una latente intenzione politica dell’espressione del lutto fa parte di un’analisi dell’«istinto tirannico» presente nella civiltà greca e intensificatosi in seguito alle guerre del Peloponneso. Non interessa ora l’evidente relazione di questi appunti con l’analisi del fenomeno della tirannide che Burckhardt aveva condotto nelle sue lezioni sulla storia della civiltà greca6, quanto piuttosto il fatto che essi si concentrano sulle «tendenze centralizzatrici sorte dalle guerre del Peloponneso». Queste guerre hanno avuto per Nietzsche un esito fatale, perché hanno cancellato ogni possibilità di «riforma» basata sul modello dell’agonismo e mirata alla creazione di una pluralità di geni o «tipi di vita superiori» (FP 6 [31] e [35]), favorendo invece una forma di civiltà basata sulla tirannica egemonia spirituale del6 Manca ancora un’analisi del debito di Nietzsche verso la Griechische Kulturgeschichte di Burckhardt, ci si può basare intanto sui risultati a cui perolisbild und Demokratieverständnis in Jacob viene l’utile lavoro di S. BAUER, Polisbild Burckhardts “Griechische Kulturgeschichte”, Basel/München, Schwabe und Beck 2001. Sul rapporto Nietzsche-Burckhardt è sempre ricco di spunti e indicazioni A. VON MARTIN, Nietzsche und Burckhardt. Zwei geistige Welten im Dialog. München, Erasmus-Verlag, 1947 (4a ed.).

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la sola Atene. Essa tende ora a escludere o a reprimere nell’uniformità tutte le forze che non vi si riconoscono, e che nella loro varietà costituivano la ricchezza della cultura greca: Pindaro non sarebbe stato possibile come ateniese […]. E neppure Empedocle, ed Eraclito. Quasi tutti i grandi musicisti vengono da fuori. La tragedia attica non è la forma più alta che si possa pensare: ai suoi eroi manca troppo l’elemento pindarico (FP 6 [27]).

Il genio della cultura Se si seguono le tappe della dialettica di forma e pluralità negli scritti di questo periodo si possono effettivamente fissare alcuni momenti decisivi del passaggio che porta all’aforisma 221 di Umano, troppo umano, e nel quale la convenzione viene sostituita alla physis come fondamento dell’arte e della cultura. Il ribaltamento di prospettiva è clamoroso. Nel ’72-’73 Nietzsche ancora lavora presupponendo un’antitesi tra una nozione ellenistico-romana-rinascimentale di arte come «nobile convenzione», e la concezione greca dell’arte come prosecuzione della natura, nel cui ambito si colloca l’«enorme lotta di Goethe e Schiller» per ottenere una unità della cultura tedesca mediante l’imposizione di uno stile; e in modo significativo mette in evidenza la polemica di Kotzebue, rappresentante di un «illuminismo francesizzante», verso lo «stile tedesco» di Goethe e Schiller (FP 19 [294]). Umano, troppo umano rovescia l’impostazione: la tradizione greca passa per il convenzionalismo della tragédie classique e della drammaturgia di Voltaire, per culminare infine nell’esperienza artistica e nella concezione dell’arte del tardo Goethe. Tuttavia le riflessioni di Nietzsche sullo «stile tedesco» del ’72-’73 non suppongono affatto l’esistenza di un patrimonio già disponibile, e descrivono quella tedesca come una «cultura in divenire». Non solo la cultura è burckhardtianamente separata dallo Stato e dalle altre «potenze», ma si sottrae alla tentazione del già compiuto e già esistente. In base a quest’argomentazione, che non è di carattere contingente ma testimonia un aspetto essenziale (accanto alla dipendenza dall’arte) della sua concezione di cultura, Nietzsche manifesta preoccupazione per la vittoria nella guerra franco-prussiana, che può «distruggere il frutto che segretamente cresce» (FP 19 [314]). Nella prima Inattuale e nei frammenti postumi di questo periodo viene evocato un brano dei Colloqui di Eckermann sul-

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la «barbarie» dei tedeschi per sottolineare il carattere dinamico e processuale della cultura, ma anche il fatto che l’imposizione dello stile dipende da un’iniziativa geniale. Di fatto il carattere di physis attribuito all’arte e alla cultura coincide con l’esercizio stilistico con cui il genio plasma l’informità della barbarie, cosicché il ruolo che spetta al dato «naturale» è fin dall’inizio assai in ombra, per non dire del tutto irrilevante, rispetto alla dinamica costruttiva che dipende dall’iniziativa del genio. La simbiosi che in Nietzsche esiste tra la prospettiva aristocratico/geniale e il carattere dinamico e costruttivo della cultura è ancora più evidente in un gruppo di appunti della primavera-estate 1873, dove l’analogia di Grecia e Germania è fondata esclusivamente sulla comune partecipazione alla categoria del divenire, e non su presunte affinità linguistiche o razziali. Il frammento 29 [121] parla di una cultura «organica» come risultato a cui la Germania deve aspirare a imitazione della Grecia. Malgrado però il suo sapore naturalistico, il termine significa: integrare in una perfetta unità di stile ciò che è in origine diverso, come è accaduto con l’assimilazione dell’elemento asiatico-orientale da parte dei greci. Poco prima Nietzsche aveva stabilito che né a proposito dei greci né a proposito dei tedeschi si può parlare di unità prestabilita nel senso della razza («Race-Deutsche»), ma che piuttosto «la tedeschità come qualità dello stile va ancora trovata, così come presso i greci lo stile è stato trovato solo più tardi: non esisteva un’unità primitiva, ma una terribile krasis» (FP 29 [47]). Anche in questo frammento il rifiuto di un’unità originaria e naturale fa tutt’uno con la prospettiva aristocratico/geniale: la maledetta anima popolare! Quando parliamo di uno spirito tedesco, intendiamo i grandi spiriti tedeschi, Lutero, Goethe, Schiller e alcuni altri, non il fantasma mitologico della massa dei senza spirito riuniti […].

La prospettiva di una riconduzione a unità di stile della «mescolanza» mediante l’iniziativa geniale culmina infine nel parallelo tra il soldato prussiano e Goethe, entrambi uomini stilizzati in cui l’acquisizione della forma ha un’impronta apertamente antinaturalistica: Il mio punto di partenza è il soldato prussiano: qui c’è una convenzione reale, c’è costrizione, serietà e disciplina, anche riguardo alla forma. Essa è sorta dal bisogno. Certo molto lontana da “semplicità e naturalezza” […] Goethe ha poi un valore di modello: l’irruente na-

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turalismo, che poco per volta diventa dignità rigorosa. Come uomo stilizzato è giunto più in alto di qualunque altro tedesco. Adesso si è così ottusi che gli si fa di questo un rimprovero, e lo si accusa addirittura per il suo modo di invecchiare. Si legga Eckermann e ci si chieda se mai in Germania qualcuno si sia spinto tanto avanti nella nobiltà della forma. Certo, da qui alla semplicità e alla grandezza c’è ancora un grande passo da fare, solo che non dovremmo pensare di poter saltare oltre Goethe, ma dobbiamo sempre ricominciare da capo, come ha fatto lui (FP 29 [119]).

Certo, come mostra l’osservazione finale, in questo momento la convenzione è concepita ancora in una funzione subordinata, come passo preliminare e necessario nel cammino che conduce all’unità della cultura, allo «stile nazionale» (vd. anche FP 29 [121]). Siamo ancora molto lontani dalla dichiarazione della primavera-estate del ’77 che «la forma è sempre convenzione o costrizione» (FP 22 [67]), in cui la lontananza da ogni naturalismo o fondamento metafisico è rafforzata dalla considerazione che la forma è sempre espressione di un simbolismo, e quest’ultimo è legato in modo necessario al sorgere o al tramontare di una fase storica della civiltà. Giunti a questo punto, il concetto di tradizione ha un significato del tutto nuovo, non è più inteso come il riverbero o la riconquista di una forma originaria quanto totalizzante, ma come una capacità di assimilazione del diverso guidata da una scelta consapevole, la procedura che in Umano, troppo umano prende il nome di «comparazione (Vergleichung)» e caratterizza in modo specifico la potenziale superiorità dei moderni sugli antichi. Ciò non toglie, tuttavia, che nell’autunno del ’73 la polemica di Nietzsche verso l’ideologia romantica della spontaneità e del fondamento originario è ormai inequivocabile, e si inserisce in una crescente tendenza del suo pensiero a intellettualizzare i dati e le forme dell’esperienza. L’affermazione della primavera-estate 1875 che «La negazione della volontà non è più così facile da raggiungere» (FP 5 [26]) perché i santi odierni dovrebbero misurarsi, a differenza di quelli di un tempo, con le complicazioni intellettuali e con il sapere, non è soltanto un’ironica presa di distanza dall’ideologia della santità di Schopenhauer, ma l’applicazione di una critica alla metafisica della volontà assai precoce in Nietzsche (risale in fondo alle sue primissime letture di Schopenhauer): egli vede nel termine un illegittimo tentativo di sostituire la spiegazione di fenomeni complessi e disomogenei con il ricorso a un fondamento metafisico. La critica al fondamento metafisico è solo un lato della ten-

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denza di Nietzsche – presente, sia pure in forma sotterranea, fin dal periodo della metafisica dell’artista – a interpretare le forme dell’esperienza come sedimentazioni di costruzioni e scelte intellettuali, e quindi a trasferire alla dinamica della cultura ciò che si è soliti assegnare a disposizioni naturali. Nel 1872/73, in riferimento al darwinismo, Nietzsche ribadisce che gli «istinti» sono il risultato di «processi continuati per tempi infinitamente lunghi» e che «anche la volontà è un risultato ultimo di estrema complicazione nella natura». Nella frequente contrapposizione di «semplice» e «complicato», che coinvolge tutti i tipi di fenomeni («Anche l’urto meccanico è qualcosa di complicato») bisogna scorgere in definitiva l’esordio del lavoro genealogico di Nietzsche. In un gruppo di annotazioni della fine del ’76 – estate del ’77, i termini «istinto» e «volontà di vivere» sono visti di nuovo come il risultato di un procedimento mitologico, che sostituisce con parole l’ignoranza di un meccanismo ignoto, e l’intero campo dell’esperienza è descritto come attraversato da processi intellettuali; ma ora critica alla metafisica e intellettualizzazione dell’esperienza sono finalizzate a demolire i presupposti della metafisica dell’artista. Compassione, genio, ispirazione sono sottoposti a un’analisi che, come si legge nel frammento 23 [12], nega l’esistenza di «fatti originari» perfino nella polarità elementare piacere/dolore, e scopre ovunque le tracce di procedure intellettuali passate. Nietzsche riprende anche il tema dello stile nell’ottica di uno smascheramento di una mitologia della natura: La posizione di Epicuro nel confronti dello stile è tipica di molte situazioni. Egli credeva di tornare alla natura perché scriveva come gli piaceva […] La ‘natura’ che egli otteneva era l’istinto per lo stile acquisito mediante abitudine. È quel che si chiama naturalizzare; si tende l’arco un po’ di meno, per esempio Wagner nella musica e nell’arte del canto. Gli stoici e Rousseau sono naturalisti nello stesso senso: mitologia della natura! (FP 23 [7]).

La tendenza a mostrare la genesi intellettuale dell’esperienza «naturale» sfocia infine in un’affermazione del primato del sapere; essa viene proposta mediante una citazione di Goethe che sarà ripresa nell’aforisma 265 di Umano, troppo umano, ma a cui il frammento assegna esplicitamente il valore strategico di motto conclusivo: «In conclusione: ragione e scienza, la forza suprema dell’uomo» (23 [86]). Prima ancora che nel testo di Umano, troppo umano, la figura di Goethe viene accolta in questi frammenti come emblema del

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rapporto problematico dell’arte con la modernità. La preferenza per l’epica come genere suscettibile di esprimere il predominio moderno della riflessione si sviluppa nell’immagine di Goethe come genio della cultura, che sa temperare l’arcaismo del linguaggio artistico con l’apertura all’esercizio intellettuale e alla scienza. Se infatti l’arte ci permette, per la sua natura conservatrice, di accedere al passato ed è perciò un «mezzo per ricordare» oppure di far riverberare nel presente estenuato gli ultimi raggi del sole che riscaldava le antiche età, come è nell’aforisma 223, essa viene collocata anche, nell’aforisma 222, in un orizzonte di evoluzione continua dello spirito. Addirittura «L’uomo scientifico è l’ulteriore sviluppo dell’uomo artistico» nella misura in cui l’arte invita a considerare con piacere ogni forma di esistenza e a interpretare la vita «come un pezzo di natura, senza lasciarsi troppo trasportare», e questa stessa attitudine ritorna poi alla luce nell’epoca moderna «come prepotente bisogno di conoscenza». La forma stessa della modernità come presenza simultanea di mentalità appartenenti a epoche diverse, che possono rispecchiare l’apice dello sviluppo oppure la sopravvivenza del passato, è la condizione di una possibile permeabilità tra il linguaggio dell’arte e quello della scienza, che è affidata al genio della cultura. Prima ancora di attribuirgli la capacità di riattivare la memoria delle forme antiche (e vedremo in quale particolare accezione), come farà nell’aforisma 221, Nietzsche fa di Goethe una figura che sintetizza nelle fasi della propria esistenza i diversi periodi storici: Uomini appartenenti agli stadi di cultura più diversi continuano a vivere simultaneamente l’uno accanto all’altro, anche nelle nazioni altamente sviluppate. In Germania e in Svizzera […] è possibile viaggiare all’indietro nel tempo e parlare con uomini di quelle epoche passate. Anzi, l’uomo dal ricco sviluppo, come Goethe, nelle diverse fasi della sua natura vive in anticipo grandi spazi temporali, interi secoli (FP 23 [100], fine ’76 – estate ’77).

Il genio della cultura vive la simultaneità di stili diversi di esistenza che secondo Burckhardt costituiva il vantaggio inestimabile dell’uomo moderno anche rispetto alla grandezza degli antichi. Umano, troppo umano parla a sua volta del vantaggio offerto dalle «epoche di comparazione» nelle quali il passato, in qualità di residuo o strato geologico che riemerge alla superficie, si offre al confronto con il presente, permettendoci così di diventare «giudici» che scelgono le migliori forme di vita soppesandone vantaggi e svantaggi. Il tema dei giudici mostra che la sensibilità autunnale

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che domina molte pagine di Umano, troppo umano (come quelle dell’aforisma 223 appena ricordato) non assume mai una tonalità epigonale, ma si connette con una volontà di forma e di gerarchia che intende riplasmare, senza però coartarla, la pluralità del moderno. Nell’aforisma 276 il concetto di cultura ribadisce e rafforza il carattere di pluralità che già le era stato assegnato dalla prima Inattuale. Cultura significa «costringere alla concordia le potenze (Mächte) tra loro contrastanti mediante una coalizione egemonica delle altre potenze meno incompatibili, senza però opprimerle e incatenarle». La convivenza delle potenze molteplici e anche opposte, che altrove, nell’aforisma 281, viene presentata come una caratteristica della cultura «superiore», e che perciò Nietzsche descrive come «dotata di molte corde» e richiedente «forza e duttilità», appare anche come una conciliazione tra gli opposti di arte e scienza. Nell’aforisma 631 essa diventa grazie all’evocazione del Tasso di Goethe la necessaria e auspicata integrazione tra lo spirito scettico, scientifico e realistico di Antonio e la natura «antiscientifica e inattiva» di Tasso, e Nietzsche evoca lo spirito di rinuncia, di malinconico commiato dalla felicità e pienezza di un’età poetica arcaica – e perciò irrecuperabile – che anima il dramma di Goethe. Qui, implicitamente, la tonalità fondamentale di Umano, troppo umano si esprime attraverso il duplice volto della goethiana rinuncia, che è sentimento del declino pieno di nostalgia ma nello stesso tempo realistica capacità di autolimitarsi e di prendere commiato da un’impossibile restaurazione dell’età dell’oro. È certo, in ogni caso, che Nietzsche tiene conto del Goethe che Emerson presentava nel saggio Goethe, lo scrittore degli Uomini rappresentativi come «filosofo della molteplicità» e come «tipo della cultura, l’amatore di tutte le arti, di tutte le scienze e di tutti gli eventi», che accetta e che sa elaborare la prosaicità del moderno. Emerson vede in Goethe un «Argo dai cento occhi», espressione utilizzata nell’aforisma Verso quale meta si deve viaggiare di Umano, troppo umano per designare la possibilità di un enorme ampliamento dell’Io grazie alla capacità di rivivere o assimilare esperienze ed epoche disparate. C’è però da chiedersi se non esista una connessione ancora più stretta tra le due caratteristiche che Umano, troppo umano attribuisce a Goethe, il primato della scienza da un lato, e dall’altro la rivitalizzazione delle antiche forme artistiche di cui parla l’aforisma 221. La forma di pluralità che Nietzsche vede come costitutiva dell’«edificio della cultura» prevede un’osmosi sistematica tra

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l’arcaico e il moderno, che si esprime infine nell’ipotesi del «doppio cervello» nell’aforisma 251. In mancanza di un processo di osmosi che permetta all’uomo di pensare criticamente, ma anche di godere del piacere procuratogli dall’arte, l’aforisma prevede la regressione in una nuova età di barbarie. Questa preoccupazione si inserisce in un contesto più ampio, che riguarda le modalità di sviluppo e le possibilità di decadenza della cultura moderna. La questione principale, affrontata ad esempio nell’aforisma 22, è allora se l’epoca critica possa assicurare alle istituzioni la stessa solidità e durata che esse avevano quando poggiavano su fondamenti religiosi e metafisici, ossia in una situazione che la metafisica dell’artista aveva cercato di imitare mediante una restaurazione del mito. Umano, troppo umano auspica una progressione continua della cultura, senza scosse né ricorsi di barbarie, un processo in cui gli elementi di innovazione vanno «inoculati» con prudenza, in dosi controllate (aforisma 224; e cfr. il FP 20 [11] dell’inverno ’76-’77) per permettere l’istituirsi di una tradizione non interrotta da fratture violente. L’aforisma 221 de Il viandante e la sua ombra parla di «continuare l’illuminismo rendendo non avvenuta la rivoluzione» e per Nietzsche il tema all’ordine del giorno è effettivamente quello di una tradizione aperta all’innovazione ma priva di rivoluzioni, determinate spiritualmente da quella mitologia della natura che l’Inattuale su Schopenhauer attribuiva a Rousseau. L’uomo di Rousseau, celebrato come uno dei fondamentali «tipi» escogitati dall’età moderna, è dominato dal culto della «santa natura». Nel suo «odio» contro il carattere innaturale e corrotto della civiltà moderna, come pure nell’aspirazione a restaurare un’essenza umana naturale, non è certo difficile cogliere l’allusione di Nietzsche all’idea guida che attraversa le prestazioni teoriche di Wagner, dall’Opera d’arte dell’avvenire a Opera e dramma. Ma l’opzione contemplativa con cui Faust si distacca da Rousseau e che in Schopenhauer come educatore è l’indice più vistoso del superamento della metafisica dell’artista assume in Umano, troppo umano e negli appunti del periodo una più decisa tonalità spinoziana. La convinzione che i comportamenti e gli stili di esistenza sono il risultato di atti intellettuali sedimentati non implica solo una trasformazione di tipo contemplativo degli affetti in cognizioni, ma un incremento di potere e di controllo nel territorio della passione. Anche l’osservazione che «i metodi scientifici sgravano il mondo dal grande pathos» rientra in una terapia delle passioni improntata al modello spinoziano, e la revisione della gerarchia dei generi poetici e del primato della tragedia è determinata dal

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GUARIGIONI, RINASCITE E METAMORFOSI

suo carattere «patologico», dal fatto che la tragedia utilizza la passione come dato naturale, la sottrae ai processi con cui essa viene modificata e assorbita nella dinamica della cultura. Tutto il discorso di Nietzsche, nelle sue varie ramificazioni, si aggira intorno a quel tema della Mäßigung che costituirà anche il centro ideale dell’aforisma 221 di Umano, troppo umano. L’aforisma, che individua i momenti più significativi dell’eredità letteraria greca nella tragédie classique, nella drammaturgia di Voltaire e infine nella concezione dell’arte del tardo Goethe, rovescia completamente – come già notato – la posizione espressa nel periodo della Nascita della tragedia, quando lo stile tedesco si opponeva al travisamento ellenistico, romano e poi illuministico della Grecia. L’opera di Goethe appare come un esercizio della memoria e una rivisitazione delle antiche forme: «così egli visse nell’arte come nel ricordo della vera arte, il suo poetare era divenuto un mezzo per ricordare e per comprendere antiche epoche artistiche, da lungo tempo sepolte». Nello stesso tempo Goethe depotenzia i contenuti dell’arte, toglie loro ogni carattere di originalità, immediatezza e naturalezza, e li fa valere solo nella loro rilevanza formale, dissolvendoli quasi a pure funzioni di una conservazione della tradizione artistica: Il sentire presente e i problemi della presente società riassunti nelle forme più semplici, spogliati delle loro qualità stimolanti, eccitanti, patologiche, resi inefficaci in ogni altro senso diverso da quello artistico; non soggetti e caratteri nuovi, bensì quelli antichi, da gran tempo abituali, in una sempre nuova elaborazione e vivificazione: questa è l’arte, come Goethe più tardi la intese, come i greci e anche i francesi la esercitarono.

In un saggio del 1915/16 Ernst Bertram non aveva mancato di sottolineare l’importanza di questo aforisma come documento della concezione nietzscheana della convenzione e dello stile, e in una pagina di rara sensibilità interpretativa faceva rientrare l’aforisma in una «sfera di precoce felicità, saggezza, simbolismo della vecchiaia» che a Nietzsche proveniva dalla vicinanza a Burckhardt7. All’osservazione bisogna aggiungere che questa parte del-

7 E. BERTRAM, Nietzsches Goethe, in ID., Dichtung als Zeugnis. Frühe Bonner Studien zur Literatur, a cura di R.-R. Wuthenow, Bonn, Bouvier 1967, p. 257. Il saggio, che Bertram ha poi inserito in forma diversa nel suo celebre libro su Nietzsche, sembra non sentire il peso degli anni; oltre che di esso, ho

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l’aforisma non è che una variazione di un passo della Civiltà del Rinascimento dedicato all’Orlando furioso. Da un poeta del rango di Ariosto, scrive Burckhardt, […] si sarebbe desiderato qualcos’altro che le avventure di Orlando o simili. Si sarebbe voluto che egli avesse rappresentato in un grande lavoro i più grandi conflitti del cuore umano, che avesse riprodotto le idee più alte del suo tempo su ogni cosa umana e divina […] Invece egli procede come gli artisti plastici dell’epoca e raggiunge l’immortalità astraendo dall’originalità nel senso moderno, lavorando ulteriormente sopra un gruppo di figure note e servendosi, tutte le volte che gli servono, dei loro particolari tradizionali […] Bisogna che egli possa riannodare fila spezzate e dimenticate: le sue figure devono essere tali da poter con uguale facilità apparire e sparire, non perché lo richieda l’essenza profonda della loro personalità, ma perché così vuole il poema.

L’idea dell’arte come somma di convenzioni in cui l’originalità del contenuto viene stemperata o addirittura neutralizzata è ora il presupposto dell’affinità essenziale che Nietzsche scorge tra Goethe e i greci. L’aforisma 122 de Il viandante e la sua ombra, intitolato La convenzione artistica, dichiara che «I tre quarti di Omero sono convenzione, e lo stesso vale per tutti gli artisti greci, che non avrebbero avuto nessuna ragione per coltivare la mania di originalità dei moderni». Anzi, la familiarità con le regole, che il pubblico condivide con l’artista, è la condizione stessa di una civiltà artistica basata sulla Eris, sulla contesa, giacché il giudizio che il pubblico deve pronunciare per l’assegnazione del primato si basa su una completa conoscenza degli strumenti dell’arte.

tenuto conto soprattutto di K. SCHLECHTA, The German ‘Classicist’ Goethe as Reflected in Nietzsches Work, in Studies in Nietzsche and the Classical Tradition, a cura di J. C. O’ Flaherty, Chapell Hill, University of North Carolina Press, 1976, pp. 144-156; V. VIVARELLI, Goethe und der historische Sinn, in ‘Centauren-Geburten’. Wissenschaft, Kunst und Philosophie beim jungen Nietzsche, a cura di T. Borsche e altri, Berlin/New York, De Gruyter 1994, pp. 276-291; R. MÜLLER-BUCK, Heine oder Goethe? Zu Friedrich Nietzsches Auseinandersetzung mit der antisemitischen Literaturkritik der “Kunstwart”, in «NietzscheStudien», XV, 1986, pp. 265-288 e E. HEFTRICH, Nietzsches Goethe, ora in ID., Nietzsches tragische Größe, Frankfurt a.M., Klostermann 2000, pp. 103-24. Sull’aforisma 221 M. MONTINARI, Aufklärung und Revolution, in ID., Nietzsche lesen, Berlin/New York, De Gruyter 1982, pp. 56-63. 56-63 La successiva citazione da Burckhardt è tratta da La civiltà del rinascimento in Italia, trad. di D. Valbusa, Firenze, Sansoni 1968, pp. 299-300.

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GUARIGIONI, RINASCITE E METAMORFOSI

L’aforisma non fa altro che perfezionare un argomento che Nietzsche aveva affrontato per la prima volta nei ’71-’72, in un gruppo di frammenti dedicati all’agone e all’individuo agonale nella civiltà greca. Tenendo sullo sfondo un’idea darwiniana di lotta per l’esistenza, Nietzsche presenta l’agone come idealizzazione o sublimazione della contesa naturale, che libera le energie dell’individualità e nello stesso tempo le disciplina in un universo regolare e ordinato. Il problema dell’agone è quello del trasferimento della volontà, intesa come una forza cieca che è intimamente scissa e che divora se stessa «ficcando i denti nella propria carne» (secondo l’espressione di Schopenhauer), in «istinti più nobili». È dunque il problema dell’origine della cultura, e le due istanze più forti di sublimazione vengono individuate da Nietzsche nella idealizzazione della lotta che ha luogo nella gara tra gli artisti (e che presuppone per l’appunto l’esistenza di un «pubblico giusto» di intenditori degli strumenti dell’arte) e nella «trasfigurazione della contesa» che Eraclito propone con l’immagine del mondo come gioco, presentandosi così come il filosofo che per eccellenza sintetizza la capacità della natura greca di «utilizzare le proprietà spaventose» (FP 16 [17] e [18], estate ’71 – primavera ’72). Se si tiene conto di questo contesto e dei suoi immediati precedenti negli appunti sull’agonismo del ’71-’72, e soprattutto se si tiene conto che questi ultimi propongono un contrasto implicito – ma non perciò meno chiaro – tra una cultura fondata sul mito e sull’esclusività del genio artistico da un lato, e dall’altro una cultura che si esprime nell’agone e prevede una pluralità di geni in lotta per il primato, apparirà chiaro che l’aforisma del Viandante e la sua ombra suggerisce un rapporto dell’artista con il pubblico che è esattamente antitetico a quello immaginato nella metafisica dell’artista, dove il genio trasporta il pubblico in una fascinazione onirica che gli fa dimenticare il mondo presente. Malgrado successive correzioni, arricchimenti, mutamenti di prospettiva, Goethe mantiene ferma per Nietzsche la sua funzione di anti-Wagner, come ad esempio in un frammento dell’inizio del 1888 intitolato Per la critica a Wagner: «La musica di Wagner è antigoethiana. Di fatto Goethe manca nella musica tedesca, così come manca nella politica tedesca» (FP 15 [12]).

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L’ARCHIVIO NIETZSCHE TRA NAZIONALISMO E COSMOPOLITISMO*

In due occasioni, in data 11 febbraio 1926 e 5 ottobre 1927, il conte Harry Kessler riferisce nei suoi diari di avere ammonito l’amica Elisabeth Förster-Nietzsche sull’inconciliabilità tra la sua passione incontenibile per Mussolini e l’idea del «buon europeo» e degli «stati uniti d’Europa» contenuta nel celebre aforisma 256 di Al di là del bene e del male1. In questo passo Nietzsche perfezionava una riflessione inaugurata con l’aforisma 475 di Umano, troppo Umano I, L’uomo europeo e l’annientamento delle nazioni, nel quale la figura del «buon europeo», che qui compare per la prima volta, sembra adattarsi in modo particolare ai tedeschi, per la loro vecchia consuetudine di essere «traduttori e mediatori tra i popoli». Ma a prescindere dall’evoluzione che il concetto ha nell’opera di Nietzsche,, né per Elisabeth né per Kessler quella del «buon europeo» era un’espressione qualunque: all’inizio del secolo era diventata la parola d’ordine quasi esclusiva del movimento artistico-culturale della ‘nuova Weimar’ che aveva in Harry Kessler e in Henry van de Velde due protagonisti, e in Elisabeth e nell’Archivio Nietzsche, che di quell’esperienza era diventato il santuario, aveva trovato dei punti di riferimento essenziali. Nel 1903 a Weimar, nella villa Silberblick dove tre anni prima il filosofo era morto, viene solennemente scoperto il busto marmoreo di Nietzsche scolpito da Klinger e nella biblioteca, completamente rimodellata dall’architetto * Cfr. infra, Bibliografia 2003 n. 1. 1 H. KESSLER, Tagebücher 1918-1937, a c. di W. Pfeifer-Belli, Frankfurt a.M., Insel 1979 (4a ed.), pp. 454-455 e pp. 543-544. Nelle sue memorie, Kessler ha fatto di questo aforisma di Nietzsche un testo epocale, che ha dato senso non solo alla sua carriera diplomatica, ma a tutta la sua esistenza. Cfr. H. KESSLER, Gesichter und Zeiten. Erinnerungen, vol. I (Völker und Vaterländer), Berlin, Fischer 1921, p. 287 e sg.

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GUARIGIONI, RINASCITE E METAMORFOSI

van de Velde, i discorsi commemorativi sono tenuti simbolicamente da un italiano, uno svizzero, un francese e un tedesco2: e in Elisabeth è viva, in effetti, la consapevolezza che la fama del fratello si può accrescere solo in un orizzonte cosmopolita. Ma il 1927, l’anno in cui Kessler si ritirava a Weimar per scrivere il suo libro su Rathenau3 e polemizzava con Elisabeth per le sue predilezioni politiche, appartiene al periodo burrascoso del suo rapporto con l’Archivio e con Elisabeth. Durante la guerra e nel dopoguerra quest’ultima aveva accentuato la sua radicata inclinazione verso gli ambienti nazionalistici e conservatori e nel 1922, con il libricino Detti di Nietzsche su stati e popoli4, aveva confezionato un florilegio di dichiarazioni del fratello sulle questioni politico-sociali che fornivano un’unilaterale interpretazione di Nietzsche in questo senso. Attraverso la “Società degli amici dell’Archivio Nietzsche”, fondata nel 1926, e nella quale si fronteggiavano forze di sentimenti liberali e forze conservatrici o reazionarie (la cui voce più autorevole è Oswald Spengler) Elisabeth mirava a fornire un’immagine dell’Archivio al di sopra delle parti e che non aveva dimenticato la sua vocazione cosmopolita. Così perlomeno intendeva la cosa Romain Rolland quando evocava la visita fatta cento anni prima da Jean-Jacques Ampère a Goethe, che gli «annunciava l’avvento dei «cittadini del mondo» pronti a unirsi nella superiore città dello spirito. Il tempo era stato più lento del genio di Goethe», ma la tradizione di Weimar era stata comunque rispettata5. Anche in questo caso però, come sempre nella storia dell’Archivio, erano in primo piano i motivi di natu-

2

GSA 72/2473 (Gedächtnisfeier am 15. Oktober 1903). Si trattava rispettivamente di Francesco Orestano, Rudolf Burckhardt, Henry Lichtenberger e Alois Riebl. La sigla GSA (seguita dal numero di fondo e di cartella) indica l’Archivio Goethe-Schiller di Weimar, dove sono conservare le carte di Nietzsche,, della famiglia e dell’Archivio Nietzsche. 3 Sul soggiorno di Kessler e le discussioni con Elisabeth cfr. R. WOLLKOPF, Das Nietzsche-Archiv im Spiegel der Beziehungen Elisabeth Förster-Nietzsches zu Harry Graf Kessler, «Jahrbuch der deutschen Schillergesellschaft», XXXIV, 1990, pp. 158 e 159. In appendice è pubblicata una selezione del vasto carteggio tra i due. 4 Nietzsches Worte über Staaten und Völker, zusammengestellt von Elisabeth Förster-Nietzsche, Leipzig, Kröner 1922. Nella seconda edizione del 1927, sempre con l’editore Kröner, vi era una lieve modifica del titolo, e i «detti» diventavano «detti profetici». 5 La lettera di Rolland è in GSA 72/3176 (Gesellschaft der Freunde der Nietzsche-Archivs. Mitgliederversammlungen 1926-1931).

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L’ARCHIVIO NIETZSCHE TRA NAZIONALISMO E COSMOPOLITISMO

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ra finanziaria ed Elisabeth, quali che fossero le sue convinzioni politiche ostili alla repubblica di Weimar, voleva anzitutto evitare ogni rottura con Kessler almeno «fino a che, grazie alle sue relazioni con influenti politici, egli poteva procurare all’Archivio il sostegno finanziario del Reich»6. Ed è infatti nel 1927 che, per dimostrare come nulla fosse mutato nell’anima cosmopolita e antinazionalistica dell’Archivio, Elisabeth ricordava all’amico e mecenate svedese Ernest Thiel le conferenze e gli incontri – in parte già avvenuti, in parte programmati – che attestavano la natura di «centro della conciliazione tra i popoli» dell’Archivio7. La prima conferenza menzionata da Elisabeth era quella del direttore della «Europäische Revue» principe Anton von Rohan su La problematica politica della nostra generazione e aveva avuto luogo il 24 novembre del ’268; l’altra importante conferenza era intitolata Sul buon europeo, e l’aveva tenuta due anni più tardi il germanista parigino Henry Lichtenberger, autore di un fortunatissimo libro sulla filosofia di Nietzsche che nel 1899 Elisabeth aveva fatto tradurre, aggiungendovi una sua prefazione in cui si dichiarava totalmente d’accordo con le opinioni dell’autore. Lichtenberger, figura di primissimo piano per la diffusione della fama di Nietzsche in Francia e amico di vecchia data dell’Archivio9, vi tornava dopo molto tempo. Nel 1908 vi era stata tra lui ed Elisabeth una «piccola crisi» per divergenza di vedute sul modo migliore di reagire alla pubblicazione del libro di Carl Albrecht Bernoulli e all’attacco frontale che esso sferrava all’Archivio Nietzsche, ma il vecchio accordo aveva retto alla prova, e Lichtenberger era poi tornato a perorare, contro la tesi del Nietzsche «romantico» della biografia di Halévy, la causa (sostenuta dall’Archivio) del Nietzsche «classico» in quanto superatore del 6 Così E. NAAKE, Nietzsche und Weimar. Werk und Wirkung im 20. Jahrhundert, Köln/Weimar/Wien, Böhlau 2000, p. 93, a cui bisogna fare riferimento per un’equilibrata ricostruzione di questo periodo dell’Archivio Nietzsche. 7 Lettera a Ernest Thiel del 10 febbraio 1927, cit. in n H. F. PETERS, Zarathustras Schwester. Fritz und Lieschen Nietzsche - ein deutsches Trauerspiel, München, Kindier 1983, p. 289. 8 GSA 72/2548 (Veranstaltungen des Nietzsche-Archivs). 9 Su di lui cfr. H. M. BOCK, Henry Lichtenberger, fondateur de la germanistique française et médiateur entre la France et l’Allemagne, in Histoire des études germaniques en France, a c. di M. Espagne e M. Wemer, Paris, CNRS Éditions 1994, pp. 155-169. Sulla corrispondenza di Lichtenberger con Elisabeth: S. BARBERA, Un biglietto smarrito di Friedrich Nietzsche a Jean Bourdeau, «Belfagor», LIV, 1999, pp. 74-78.

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nichilismo; durante «gli anni delle grandi prove» (come scriverà poi a Elisabeth)10, la corrispondenza tra i due si era interrotta e nel 1923 per giunta il patriottismo e i sentimenti politici di Elisabeth erano stati profondamente feriti dal suo libro L’Allemagne d’aujourd’hui dans ses rélations avec la France. Non ho trovato resoconti della conferenza di Rohan, che anche nelle sue memorie vi accenna appena11, ma è lecito immaginarne i contenuti sulla base degli articoli che egli pubblicava nella rivista da lui diretta12. Nata nel ’25 in concomitanza con i successi di Stresemann per un accordo franco-tedesco, la «Europäische Revue» ruotava attorno a temi di «rivoluzione conservatrice», auspicava una soluzione pacifica della crisi europea (nel primo numero aveva esordito con una serie di pensieri di Nietzsche sull’Europa)13 e guardava con simpatia a una democrazia di tipo autoritario, di cui vedeva nel fascismo italiano una forma esemplare. Rohan aveva stabilito un’analogia tra fascismo e bolscevismo sia per il «tipo di Führer» che i due movimenti avevano espresso sia per la comune attenzione a una struttura corporativa dello stato. Se, aveva sostenuto nel ’25, si toglie alla costituzione sovietica il «non essenziale» riferimento alla lotta di classe, essa appare centrata su una «rappresentanza professionale per ceti» che corrisponde assai più del sistema parlamentare alle esigenze delle giovani generazioni14. Fino al 1930, nelle analisi di Rohan un tema centrale è quello della trasformazione «antropologica» delle generazioni che avevano vissuto la guerra, la comparsa di un «nuovo tipo umano» che egli vedeva provenire, sia nel fascismo sia nel bolscevismo, «dal medesimo ceppo» e che chiedeva di risolvere il grande dilemma dell’ora, ossia conciliare l’ormai irreversibile emancipazione delle masse con un’«autorità stabile e continua», ciò che per Rohan equivaleva a formare e imporre un’aristocrazia in grado di riscuotere la fiducia popolare. Sia il fa10

Lettera del 28 novembre 1925, GSA 72/BW 3198. K. A. ROHAN, Heimat Europa. Erinnerungen und Erfahrungen, Düsseldorf/Köln, Diederichs 1954, p. 168, dove si può leggere anche un rapido ritratto di Elisabeth. 12 I più importanti sono stati raccolti nel volume ID., Umbruch der Zeit 1923-1930. Gesammelte Aufsätze, Berlin, Stilke 1930. Su Rohan e la sua rivista cfr. K. P. HOEPKE, La destra tedesca e il fascismo, trad. it. D. Veneruso, Bologna, Il Mulino 1971, pp. 43-70. 13 Europäische Fragmente. Worte von Friedrich Nietzsche, «Europäische Revue», I, fasc. 1, aprile 1925, pp. 77-78. 14 K. A. ROHAN, Die Aufgabe unserer Generation (1925), ivi, pp. 24-29. 11

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L’ARCHIVIO NIETZSCHE TRA NAZIONALISMO E COSMOPOLITISMO

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scismo sia il bolscevismo esprimono un nuovo tipo di Führer che non corrisponde più agli assetti simbolici della società patriarcale, tramontati definitivamente con la guerra, ma è invece, con una radicale «trasformazione di simboli», un Bruderführer15. Le analogie sostanziali tra bolscevismo e fascismo non sono messe in questione dalle divergenti parole d’ordine, quali possono essere la «dittatura del proletariato» per l’élite sovietica o l’«italianità» per quella fascista: esse appaiono come miti o idee-forza per realizzare lo scopo principale, il consolidamento di un’élite in una democrazia di massa di tipo autoritario. Anche il nazionalismo, che sembra essere l’elemento principale della politica fascista, non è in realtà che una sua fase necessaria e preliminare, destinata però a sfociare nell’ulteriore fase di una politica europea. Corollario della vocazione europea del fascismo è l’educazione della futura élite, capace di conciliare in un orizzonte «sovranazionale» le esigenze delle nazionalità e dell’Europa. Lichtenberger a sua volta vedeva nel «buon europeo» di Nietzsche l’anticipazione utopica di una nuova aristocrazia insieme antidemocratica e antinazionalistica. Nietzsche era stato, all’inizio del secolo, la guida della Germania intellettuale che si sentiva in esilio nel Reich «miliardario e industriale», ora doveva diventare il profeta di una generazione che aspirava a congiungersi all’élite europea, respingendo sia il materialismo della società industriale sia il livellamento democratico16 da essa prodotto. Proprio nell’idea della formazione di una nuova élite e nel problema di una geistige Führung va ricercato l’elemento di continuità tra due periodi di vita dell’Archivio solo apparentemente in contraddizione tra loro: il primo in cui esso funziona da referente ideologico per il modernismo e il cosmopolitismo del movimento artistico della «nuova Weimar» di Kessler e Van de Velde; il secondo periodo, nel dopoguerra, caratterizzato invece da un patriottismo conservatore sempre più chiuso e intollerante. Né

15

ID., Führertum, «Europäische Revue», VI, fasc. 4, aprile 1930, pp. 233-

240. 16 Nietzsche und die Nachkriegsgeneration, «Nord und Süd». Monatsschrift für internationale Zusammenarbeit, hrsg. von Ludwig Stein, L,, novembre 1927, p. 623. Lichtenberger aveva formulato gli stessi argomenti nell’articolo Nietzsche und Frankreich, pubblicato sulla «Europäische Revue» (11, fasc. 1, aprile 1926), dove però precisava che l’influenza di Nietzsche doveva mantenersi su un piano metapolitico, senza confondersi con le formule «rigide» dei partiti in lizza.

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in Kessler né in van de Velde, in realtà, la concezione artistica e ideologica della «nuova Weimar» possiede la tonalità antinazionalistica che Kessler farà assumere al suo europeismo solo in seguito allo choc causatogli dal crollo militare del Reich durante la guerra. In precedenza Kessler nutre sentimenti politici schiettamente conservatori (nel 1909 è membro della Deutsche Nationalgesellschaft, uno dei maggiori gruppi di pressione conservatori per una politica di espansione imperialista), e benché nelle sue memorie proietti sulla giovanile lettura di Nietzsche un ideale europeistico e pacifista che egli acquisisce solo più tardi, i diari ancora inediti mostrano che le sue uniche e iniziali perplessità su Nietzsche riguardano proprio la critica radicale che il filosofo muoveva alla nazione tedesca17. All’ideale politico di Kessler in quegli anni, la formazione in Germania di una «aristocrazia dirigente» di tipo inglese e di un assetto gerarchico della società, corrisponde la diffusione di una cultura artistica destinata a un pubblico ristretto, facoltoso e raffinato. In questo orizzonte, il programma della «nuova Weimar» è stato esposto nel modo più pertinente, come ha mostrato Hildegard Nabbe18, nella conferenza L’importanza del pubblico che André Gide teneva proprio a Weimar nell’agosto del 1903, e dalla quale si poteva apprendere che «il pubblico […] dev’essere colto, e aggiungerei che deve essere poco numeroso. In pochi i greci di Pericle, le «honnêtes gens» di Luigi XIV, i nobili italiani del Rinascimento»; ciò che corrisponde assai bene, in definitiva, agli ideali rinascimentali di Kessler e al suo sogno di «fare di Weimar una vera corte del Rinascimento»19. Anche Henry van de Velde, benché evidentemente ispirato

17 P. GRUPP, Harry Graf Kessler 1868-1937. Eine Biographie, München, Beck 1994, p. 218. Sulla relazione di Kessler con Nietzsche A. VENTURELLI, Die Enttäuschung der Macht. Zu Kesslers Nietzsche-Bild, in Harry Graf Kessler: Ein Weghereiter der Moderne, a c. di G. Neumann e G. Schnitzler, Freiburg, Rombach 1997, pp. 109-133: l’autore mostra come Kessler in una relazione assai cangiante abbia adattato, corretto e «integrato» Nietzsche alle esigenze concettuali della sua personale evoluzione ideologica. 18 H. NABBE, Mäzenatentum und elitäre Kunst. Harry Graf Kessler als Schlüsserfigur für eine kulturelle Erneuerung um die Jahrhundertwende, «Deutsche Vierteljahrsschrift für Literaturwissenschaft und Geistesgeschichte», LXIV, 1990, pp. 652-679. La citazione di Gide è a p. 660. 19 Lettera a van de Velde del 27 dicembre 1902, cit. in A. KOSTKA, Der Dilettant und sein Künstler. Die Beziehung Harry Graf Kessler-Henry van de Velde, in Henry van de Velde. Ein europäischer Künstler seiner Zeit, (catalogo catalogo della mostra) a c. di K.-J. Sembach e B. Schulte, Köln, Wienand 1992, p. 265.

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L’ARCHIVIO NIETZSCHE TRA NAZIONALISMO E COSMOPOLITISMO

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all’esperienza delle Arts and Crafts di William Morris, non indulge nemmeno in sede teorica a contaminazioni tra riforma dello stile e riforma sociale: precisa anzi nelle sue memorie di aver allora considerato la «profezia» di Morris sul ritorno della bellezza come effetto di una restaurata giustizia sociale «una questione da rimandare al futuro, o a cui addirittura bisognava rinunciare», e di aver preferito a essa le idee di Ruskin sulla trasfigurazione estetica del lavoro20. In Kessler come in van de Velde il rapporto tra l’artista e il pubblico è spesso assimilato a un fenomeno di tipo religioso. Nel lungo saggio Arte e religione pubblicato nel 1909 sulla rivista «Pan» Kessler vede il rapporto del pubblico con l’artista come una copia impallidita di quello che lega la moltitudine religiosamente eccitata al «sacerdote e veggente». La massa può sviluppare i suoi sentimenti religiosi fino al livello di rappresentazioni confuse, alle quali solo il veggente può dare una forma: Tra coloro che si ritrovano insieme sulla base di oscuri presentimenti o immagini impallidite del ricordo, vi è uno che si leva in piedi e alle loro rappresentazioni confuse e varie sostituisce l’immagine che è comune a tutti e ha saldi contorni21.

Malgrado le numerose argomentazioni che la complicano, e che a Kessler venivano dalla sua familiarità con la psicologia di Wundt,, l’ispirazione nietzscheana del saggio è facilmente riconoscibile, e deriva dalla metafisica dell’artista del giovane Nietzsche, con l’idea che la comunità sofferente e disgregata venga redenta dalle suggestioni del genio artistico, grazie alle «illusioni» risanatrici che da lui emanano. La stessa tonalità religiosa è presente in van de Velde, ma con riferimento, più che al Nietzsche wagneriano della Nascita della tragedia, al profetismo di Zaratbustra. È questa, perlomeno, l’indicazione che emerge dal suo carteggio con Elisabeth Förster-Nietzsche, alla quale, forse più ancora di Kessler,, van de Velde è rimasto legato con un vincolo assai tenace. La sua fedeltà all’Archivio, nel quale aveva visto nel 1901 (l’enfasi è caratteristica di queste lettere) «il fuoco irradiante dei pensieri più

20 H. V. DE VELDE, Geschichte meines Lebens, trad. H. Curjel, München, Piper 1962, p. 168. 21 H. KESSLER, Kunst und Religion. Die Kunst und die religiöse Menge, estratto dalla rivista «Pan», 1899, p. 4. Il saggio è stato ristampato nel II vol. (Künstler und Nationen. Aufsätze und Reden 1899-1933) delle Gesammelte Schriften di Kessler, Frankfurt a.M., Fischer 1988.

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profondi e la fonte alla quale ci si verrà a ritemprare»22, veniva ribadita in due lunghe e ditirambiche lettere del ’19 e del ’23 dove, con frequenti riferimenti a Zarathustra, van de Velde evoca il grandioso progetto del tempio dedicato a Nietzsche come testimonianza di un «culto» votato alle «verità» scoperte dal filosofo23. Il faraonico progetto del tempio di Nietzsche non doveva essere solo la realizzazione finale di un culto cosmopolita dalle complesse ramificazioni24, ma l’inaugurazione di una riforma artistico-religiosa che doveva portare alla formazione dell’«uomo nuovo». Il fondamento ideologico del progetto era riconducibile ancor sempre alla metafisica dell’artista del Nietzsche wagneriano e «greco», che ruota intorno al problema della rifondazione della comunità mediante l’attività mitopoietica del genio. Nei piani di Kessler, il progetto si spingeva addirittura fino al punto di prevedere la presenza di un «istituto di genetica, per il miglioramento della razza»25, e si collocava in realtà nella tendenza a monumentalizzare il rapporto teatrale tra il genio artistico e le masse: un progetto assai simile a quello che all’inizio del secolo Il Fuoco di D’Annunzio fa vagheggiare a Stelio Effrena con il suo «teatro di 22

Lettera a Elisabeth del 20 ottobre 1901 (GSA 72/BW5599, 1). Così ad esempio nella lettera del 17 aprile 1923: «Tutti i ricordi che conservo di Weimar – e non voglio conservarne altri – si affollano intorno a Voi e affondano le radici nell’Archivio Nietzsche, sono imbevuti dell’atmosfera nella quale ha vissuto quel gigante. […] Il mio culto per lui non ha fatto che aumentare e non apro mai uno dei suoi libri senza provare un sacro fremito. In questi momenti, l’affetto che provavate per me mi ritorna in mente, e tutto quello che abbiamo sognato di realizzare insieme a Weimar, tutto quello che contavamo di edificare per la sua gloria, e ancora ritorno spesso ai cartoni con gli schizzi per il tempio che volevamo consacrargli! Erano i tempi in cui, lo ricordate, Kessler aveva riunito il più brillante comitato internazionale: ognuno dei suoi membri professava con entusiasmo il culto delle verità che il suo sguardo d’aquila aveva scoperto sotto velami così spessi che da che mondo è mondo i pensatori più audaci non erano riusciti né a vederli né a supporli. Come sono cambiati i tempi! Non che il culto di Nietzsche si sia rallentato, ma tra i «vecchi» che lo professavano la maggior parte si è abbandonata alla paura e allo scoraggiamento, e ricordare loro «le verità» in cui hanno avuto fede significa mostrare la loro vigliaccheria […]» (ivi). 24 Sull’origine, le vicende e il fallimento del progetto cfr. J. KRAUSE, “Märtyrer” und “Prophet”. Studien zum Nietzsche-Kult in der bildenden Kunst der Jahrhundertwende, Berlin/ New York, De Gruyter 1984, pp. 199-210. 25 Così nei diari ancora inediti, in data 5 settembre 1911: cit. in A. KOSTKA, Der Epigone als Vollender: Harry Graf Kessler, in Widersprüche. Zur frühen Nietzsche-Rezeption, a c. di A. Schirmer e R. Schmidt, Weimar, Böhlau 2000, p. 178. 23

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L’ARCHIVIO NIETZSCHE TRA NAZIONALISMO E COSMOPOLITISMO

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marmo», anche qui con un fitto sistema di riferimenti alla Nascita della tragedia26. 2. Le idee elitarie che fermentavano nell’Archivio o attorno a esso nei primi anni del secolo avevano trovato un fermo punto di riferimento nei volumi della biografia in cui Elisabeth fissava le linee canoniche per il culto del fratello, descritto come un genio che assomma in sé anche i tratti della santità e dell’eroismo. Nella politica culturale dell’Archivio e nella costruzione del culto di Nietzsche alla biografia spetta un ruolo privilegiato; si può dire anzi che il monopolio di Elisabeth sulla eredità spirituale del fratello presuppone il monopolio sulla biografia. Come essa scrive nel 1907 in un articolo sulla rivista «Die Zukunft»27, «io sono l’unica a conoscere esattamente la vita di mio fratello nella sua interezza»; e teorizzava due modi di conoscenza di Nietzsche: una conoscenza esteriore, che tenta di cogliere la sua essenza profonda attraverso le opere, e una conoscenza intima, che procede dall’interno e coglie «l’elemento personale» attraverso una condizione di empatia o di privilegiata partecipazione alle vicende della vita. Questa giustificazione per così dire metodologica del

26 Nella sua Storia dell’Archivio Nietzsche Adalbert Oehler vede nel progetto non senza qualche ragione «qualcosa di simile a ciò che più tardi è stato fatto nella nuova Germania [del III Reich] per i giochi olimpici e gli impianti sportivi» (cfr. Zur Geschichte des Nietzsche-Archivs, dattiloscritto, GSA 100/1334, p. 131). Oehler riconduce l’avversione di Elisabeth per il progetto a motivi di oculatezza economica (il costo dell’impresa era valutato a circa un milione di marchi), e al timore che il suo fallimento avrebbe compromesso il «movimento Nietzsche», oltreché alla sua avversione per gli spettacoli rumorosi e di massa in nome dello spirito di «solitudine» del fratello. È più probabile invece che nell’impresa Elisabeth abbia visto qualcosa che necessariamente, a causa della sua grandiosità e impegno finanziario, si sarebbe sottratto al controllo dell’Archivio. Vero è però che Elisabeth, come testimonia una sua lettera all’architetto Schultze-Naumburg del luglio 1935, si era opposta anche al progetto nazista di costruire a Weimar un «luogo di culto» nietzscheano, con l’argomento che non si poteva arbitrariamente manomettere il paesaggio che il fratello aveva avuto negli occhi nell’ultimo scorcio della sua vita. La lettera è citata in U. SIGISMUND, «Denken im Zwiespalt». Das Nietzsche-Archiv in Selbstzeugnissen 1897-1945, Münster/Hamburg/London, LIT Verlag 2001 p. 238. 27 Cit. in R. F. KRUMMEL, Nietzsche und der deutsche Geist, vol. II (19011918), Berlin/New York, De Gruyter,1983, p. 291. «Die Zukunft» di Maximilian Harden aveva appoggiato i progetti della «nuova Weimar» e ospitato numerosi articoli di Elisabeth contro i nemici dell’Archivio, soprattutto sulle questioni della biografia di Nietzsche.

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primato della biografia, che come era stato fatto presto notare non ha il minimo fondamento nella realtà28, spiega bene però il comportamento di Elisabeth, che mostra spesso una grande tolleranza verso interpretazioni della filosofia del fratello lontane dalla sua sensibilità, ma sempre un’intolleranza assoluta sulle questioni biografiche. Dall’altro lato illustra il funzionamento della macchina mitologica che si mette in moto con la diffusione europea del culto di Nietzsche, e che riguarda solo marginalmente l’opera (inclusa la famigerata Volontà di potenza), ma in prima istanza la persona di Nietzsche, il fascino leggendario della sua vita e il mito fiorito negli ultimi anni intorno alla sua malattia29. E mito del fratello è, contemporaneamente, mito della sorella, come interprete autorizzata del genio perché in empatia con esso. Esemplare in questo senso è l’incipit drammatizzato del 2° capitolo (Naumburg e Röcken) nel 1° volume della biografia, con il prolungato dialogo tra Fritz ed Elisabeth bambini, un’ostentata finzione che trasferisce tutto il racconto nel clima di un idillio fuori del tempo30. È sorprendente che la biografia o le biografie di Elisabeth, malgrado la loro enorme influenza, e malgrado esse siano state il principale veicolo della fortuna di Nietzsche, non siano mai state prese seriamente in considerazione nel loro autonomo significato letterario, nemmeno negli studi (non numerosissimi) che sono stati dedicati all’evoluzione del genere biografico e della biografia romanzata nell’Ottocento e nel Novecento. Mi sembra invece evidente che sia dal punto di vista stilistico sia da quello ideologico – il tema dell’eroe/genio/uomo superiore – esse appartengono idealmente

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«I ricordi personali del fratello che essa [Elisabeth] ha comunicato costituiscono una quantità minima. Con Nietzsche ha vissuto sempre e solo in maniera provvisoria. […] Cosa diremmo, ad esempio, se la sorella di Goethe volesse darci lumi su Goethe a Weimar? In generale la Signora Förster-Nietzsche fa riferimento soltanto, come tutti i biografi che si collocano dall’esterno, a documenti scritti. E li padroneggia male»: così E. HORNEFFER nell’opuscolo Nietzsches letztes Schaffen, Jena, Diederichs 1907, pp. 44-45. 29 Si veda l’osservazione di Gottfried Benn nella lettera a Oelze del 3 novembre 1940: «Nietzsche era un grande romantico. Un mito romantico. Nella fine della sua vita, nella “tenebra mentale”, vi è indubbiamente un che di borghese-idealistico. Mettere il piede in fallo a causa della grave miopia che lo affliggeva sarebbe stato molto più sobrio e non leggendario» (Briefe an F. W. Oelze 1932-1945, vol. I, a c. di H. Steinhagen e J. Schröder, Frankfurt a.M., Fischer 1986, p. 249). 30 E. FÖRSTER-NIETZSCHE, Das Leben Friedrich Nietzsches, vol. I, Naumann, Leipzig 1895, p. 14 e sg.

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alla voga della biografia superomistica degli anni ’90, che ha il suo campione più noto in Karl Bleibtreu e in opere come il Napoleone o il Byron il superuomo31. Oltre ad alcuni moduli stilistici, come ad esempio il ricorso alla drammatizzazione del racconto32, Elisabeth condivide con Bleibtreu la polemica contro la tesi lombrosiana (applicata a Nietzsche dallo psichiatra Moebius e da Max Nordau nei loro fortunatissimi profili del filosofo) sul carattere patologico, e quindi eccentrico ed eslege, del genio. Il Nietzsche «assolutamente sano» di Elisabeth33 è il Nietzsche normale, anche se di una normalità potenziata all’estremo, che in questo modo Elisabeth può fare rientrare, neutralizzandone la forza eversiva, nei canoni della «virtù di Naumburg»34. In questo contesto, la biografia di Elisabeth è un importante precedente letterario della

31 Sul culto del genio in Bleibtreu cfr. J. SCHMIDT, Die Geschichte des Genie-Gedankens 1750-1945, vol. II (Von der Romantik zum Ende des Dritten Reichs), Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft 1985, pp. 180-185. Sempre istruttive le pagine che gli dedica L. BERG, Der Uebermensch in der modernen Literatur. Ein Capitel zur Geistesgeschichte des 19. Jahrhunderts, München/Leipzig/Paris, Langen 1897, pp. 173-188. Bleibtreu usava il termine «superuomo» distanziandosi dichiaratamente da quella che riteneva essere l’accezione di Nietzsche: cfr. Byron der Uebermensch, sein Leben und sein Dichten, Jena, Costenoble 1897,, p. 2 e p. 66. 32 Un buon esempio di questa procedura è nel volume di BLEIBTREU, Napoleon, I, Dresden und Leipzig, Pierson 1889, pp. 9-11, 50-53 ecc. 33 E. FÖRSTER-NIETZSCHE, Das Leben Friedrich Nietzsches, cit., vol. II/1, p. VI. «L’intenzione era quella – si legge ancora – di descrivere le fondamenta sane su cui si era edificata la vita di mio fratello». Al di là dei noti motivi di carattere personale, è questa la causa della profonda avversione di Elisabeth per il libro su Nietzsche di Lou Salomé, il quale viene incontro «a una tendenza dei tempi, di spiegare la grandezza dello spirito in base all’elemento patologico» (ivi, p. 7). 34 Cfr. R. MÜLLER-BUCK, “Naumburger Tugend” oder “Tugend der redlichkeit”. Elisabeth Förster-Nietzsche und das Nietzsche-Archiv, «Nietzscheforschung», IV, 1998, fasc. 4, pp. 319-335. Già Franz Overbeck nelle sue puntigliose annotazioni sulla biografia scritta da Elisabeth aveva precocemente osservato che essa era volta ad alimentare l’incipiente culto di Nietzsche e che la sua finalità principale consisteva nel neutralizzare tutti gli elementi di eccentricità della personalità di Nietzsche (nonché ogni forma di immoralismo, ateismo, aggressione ai valori costituiti) in modo da renderne accessibile il «genio» al Bildungsphilister dell’età guglielmina. Cfr. F. OVERBECK, Autobiographisches, Werke und Nachlaß, vol. VII/2, a c. di B. v. Reibnitz e M. Stauffacher-Schaub, Stuttgart/Weimar, Metzler 1999, pp. 185-189. Se non erro, Franz Overbeck è stato anche il primo a notare che i tre volumi di Elisabeth si iscrivono nella «mania» dell’epoca per le biografie, ivi, p. 272.

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moda biografica esplosa nel Novecento sia nelle varianti sublimi, con le biografie monumentali della cerchia di Stefan George, sia in quelle triviali. Emil Ludwig, che Elisabeth non manca di citare, era del resto un fervente ammiratore di Nietzsche (e di Richard Dehmel, un’altra delle presenze illustri all’Archivio Nietzsche)35 e una copia del suo dramma giovanile Napoleone è presente con dedica a Elisabeth nella biblioteca dell’Archivio. Malgrado le innumerevoli varianti ed elaborazioni, il comune denominatore delle biografie geniali o eroiche è il tema della «geistige Führung» e della plasmazione eroica della cultura da parte dei grandi uomini. Negli anni di guerra e dell’immediato dopoguerra, però, si può notare una notevole oscillazione nel modo in cui Elisabeth presenta il tema della Führung e dell’uomo superiore. Nel suo libro probabilmente più coerente e riuscito, La solitudine di Nietzsche del 1914 (il testo è invariato nell’edizione del 1922), il modello dell’uomo superiore che Nietzsche rappresenta viene nettamente distinto da quelli della «moda del giorno», Elisabeth protesta con veemenza contro l’identificazione del superuomo con la «bestia bionda» e nega la possibilità di una utilizzazione politica immediata di questi concetti. Al centro della filosofia di Nietzsche, che poi come sempre si confonde e coincide per Elisabeth con l’insegnamento che si può trarre dallo stile di vita del fratello, vi sono Rangordnung e Züchtung. Si tratta di principi già realizzati nell’esistenza esemplare dell’ufficiale prussiano, al quale Nietzsche guarda come a un modello. Richiamandosi a Simmel, di cui utilizza lunghe citazioni36 per chiarire al lettore il concetto nietzscheano di distinzione signorile, Vornehmheit, Elisabeth nega però che questi principi abbiano a che fare con il darwinismo o comunque con teorie biologiche di selezione razziale – come pure nel 1906 aveva sostenuto Raoul Richter, un filosofo assai vicino a lei e all’Archivio37. Per Elisabeth 35 E. LUDWIG, Richard Dehmel, Berlin, Fischer 1913. Su Dehmel e l’Archivio cfr. H. SCHMIDT-BERGMANN, “Gehemnissvolles, undurchsichtiges Deutschland”. Elisabeth Förster-Nietzsche und das Nietzsche-Archiv in Weimar, in Widersprüche, cit., pp. 121-135. Anche Ludwig nelle sue biografie «non si peritava di drammatizzare testi narrativi, ossia di trasferirli in forma dialogata» (C. C. GRADMANN, Historische Belletristik. Populäre historische Biographien in der Weimarer Republik, Frankfurt a.M./New New York, Campus 1993, p. 75). 36 Cfr. E. FÖRSTER-NIETZSCHE, Der einsame Nietzsche, Leipzig, Kröner 1914, pp. 363 sg. 37 Raoul Richter, allievo di Wundt, intimo amico di Kessler e figlio di Cornelia Richter, il cui salotto aveva abbagliato Elisabeth all’epoca del suo

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infine il superuomo non ha corrispettivo nella realtà, tantomeno in quella politica; la Führung si definisce in termini spirituali e Nietzsche è il profeta o il fondatore di una nuova religione. L’aspetto metapolitico del superuomo e del Führer è una dottrina che continua a essere professata dall’Archivio almeno fino alla metà degli anni venti, come dimostrano gli articoli e le conferenze dei due «califfi» Max e Richard Oehler, i quali sono – fino all’eccezione in cui ora ci imbatteremo – dei semplici ripetitori senza autonomia delle opinioni di Elisabeth, supini a essa perfino nella

soggiorno berlinese del 1901, aveva involontariamente partecipato, come primo editore di Ecce homo, alle manomissioni del testo e al loro occultamento. Cfr. M. MONTINARI, Ein neuer Abschnitt in Nietzsches “Ecce homo”, in ID., Nietzsche lesen, Berlin/New York, De Gruyter 1982, specie pp. 155 sg. Dalla corrispondenza con Elisabeth risulta tuttavia con chiarezza che nella vicenda della pubblicazione di Ecce homo non erano mancate le tensioni tra i due, e che Richter si era chiaramente reso conto del carattere manipolato del testo; come quando, in una risentita lettera del 19 luglio 1908 (GSA 72/BW 4421), ricorda a Elisabeth che condizione per accettare il ruolo di editore era stata che gli venissero messi a disposizione «tutti i materiali che si riferiscono a Ecce homo». Ma altrettanto interessanti sono le discussioni tra i due sul piano dell’interpretazione di Nietzsche. I «dissensi» di cui spesso si parla in questo carteggio riguardano sia Nietzsche come fenomeno «religioso», sia la relazione della figura del superuomo con il darwinismo. A un superuomo in chiave darwiniana, che avrebbe cioè a che fare non con la creazione di individui eccezionali ma con la selezione di una nuova specie, Elisabeth oppone un tenace scetticismo. In una lunga lettera del 2 febbraio 1906 (GSA 72/726d) Elisabeth si dichiarava convinta che il concetto, se non il termine, di superuomo era stato sempre presente in Nietzsche, perlomeno a partire dall’Inattuale Noi filologi, e che tutto quanto sembrava indicare affinità col darwinismo – come l’immagine della scimmia che compare nella sua definizione in Zarathustra – andava ricondotto in realtà a un uso metaforico del linguaggio. Ancora meno (e lo testimonia la lettera di Richter del 1° aprile 1906, che parla di «opinioni divergenti») dimostrava d’accordo con l’articolo di Richter Nietzsches Stellung zur Entwicklungslehre und Rassetheorie (lo si veda ora in R. RICHTER, Essays, Leipzig, Meiner 1913, pp. 138-177) dove si sostiene che l’analogia delle teorie razziali di Nietzsche con quelle di Gobineau, Wagner, Chamberlain e i loro seguaci «salta agli occhi», e si riassume nei tre principi dell’ineguaglianza, della superiorità degli ariani sui non ariani e dell’avvelenamento del sangue ariano con quello di «razze inferiori». Una ulteriore conferma della tendenza costante di Elisabeth a staccare la figura del superuomo da contaminazioni col darwinismo viene da una lettera inviatale dal filosofo Francesco Orestano il 7 gennaio 1904: «Su questo [la questione del superuomo] vorrei molto che Lei mi tenesse informato. Temo però che Le sarà difficile mostrare che il superuomo di Zarathustra non ha una base evoluzionistica» (GSA 72/BW 3973). Cfr. anche qui, più avanti, la nota n. 69.

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scelta delle citazioni. In un articolo del ’26, Nietzsche e la nostra epoca, Max Oehler parla della volontà di potenza come di una disposizione interiore («innere Haltung der Seele»)38, e solo nei primi anni Trenta, sulla base di Baeumler e da convinto seguace del movimento nazionalsocialista, scoprirà un «Nietzsche politico», e interpreterà le pagine sul «buon europeo» come la professione di fede di una nuova religione eroico-tragica, modellata sulle caratteristiche del neopaganesimo nazista. In effetti, sulla base soprattutto dei lavori di Baeumler del biennio 1930-31, Max Oehler si sentiva autorizzato a parlare di «un nuovo stadio» nella NietzscheBewegung, imperniato sul «Nietzsche politico»39 e che introduceva degli elementi visibilmente lontani, ormai, dall’immagine del Nietzsche asceta e «luterano» caro a Elisabeth. Se per Baeumler, in effetti, la Volontà di potenza come «puro divenire» privo di scopi è l’espressione stessa del germanesimo di Nietzsche, l’identificazione di essa con l’«innocenza del divenire»40 equivale a una radicale emancipazione dal cristianesimo. L’intuizione iniziale di Nietzsche è quella degli dèi che muoiono propria della saga e della mitologia nordico-germanica, e nell’introduzione al suo libro Baeumler polemizzava contro un’immagine di Nietzsche «inteso e frainteso sempre, fino a ora, a partire dal terreno del cristianesimo» ed erroneamente presentato «come un profeta, un credente o perlomeno come uno che lotta per la fede»41. 3. In concomitanza e in antitesi alla interpretazione metapolitica di Nietzsche, conciliabile ancora con il cosmopolitismo del «buon europeo», si faceva però strada sempre di più, durante la guerra e nell’immediato dopoguerra, un nazionalismo acceso, esasperato dalla questione delle riparazioni e dall’occupazione francese, ma che a ben vedere ingigantiva una tendenza da sempre presente in Elisabeth, e che era la sua più autentica. 38 M. OEHLER, Nietzsche und unsere Zeit, estratto dalla rivista «Der Pflug» (Vienna), 1926, pp. 37-42 (GSA 100/1198). 39 Cfr. in GSA 100/1203 il dattiloscritto di Max Oehler (presente anche come ciclostilato, e destinato probabilmente a usi interni dell’Archivio) Das neue Nietzsche-Bild. Ein Blick auf die Nietzsche-Literatur der letzten Jahre, che è dedicato soprattutto a Baeumler, Jaspers e Adler (Max Oehler era un appassionato di psicanalisi, e in lui sono frequenti i paralleli tra Nietzsche e il movimento psicanalitico). 40 A. BAEUMLER, Nietzsche, der Philosoph und Politiker, Leipzig, Reclam 1931, p. 59. 41 Ivi, p. 7.

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Fin dal 1899, in un articolo sulla rivista «Die Zukunft»42, Elisabeth aveva fortemente ridimensionato il ruolo della cultura francese nel pensiero e negli interessi del fratello: l’attrazione di Nietzsche per la Francia si riduceva in sostanza alla sua pionieristica ammirazione per Gobineau, mentre la «mescolanza di natura tedesca e cultura francese» nei suoi scritti non era che una variante del genuino germanesino di Nietzsche, perché andava ricondotta alla predilezione per la Francia del grande re Federico di Prussia. L’argomentazione, evidentemente un po’ debole, veniva in seguito rimaneggiata; Elisabeth ammetteva ora (luglio 1915)43 il prevalente interesse del fratello per gli scrittori francesi della décadence e la preminenza assegnata a Parigi come laboratorio della cultura europea, ma riconduceva l’intera questione a una formula che sarebbe rimasta per lei definitiva: la predilezione di Nietzsche andava alla Francia prerivoluzionaria dell’ancien régime, la Francia dei grandi moralisti e di Pascal, oppure a quella postrivoluzionaria di Napoleone, per il quale anche Elisabeth aveva un culto personale44. Ma oltre a essere corso e non francese, Napoleone era stato concepito da suo fratello come «meravigliosa antitesi alla rivoluzione», rivincita dell’uomo antico e rinascimentale sulla modernità figlia dello spirito rivoluzionario. Nietzsche amava una Francia autoritaria e antidemocratica, ma vedeva il vero modello di questo tipo di società nella «libertà di obbedire» dell’ufficiale prussiano: prevalenza delle virtù militari, «fedeltà e obbedienza», che secondo Elisabeth costituivano l’in-

42 E. FÖRSTER-NIETZSCHE, Nietzsche und die Franzosen, «Die Zukunft» XXVI, 18 marzo 1899, pp. 462-473. 43 EAD., Nietzsche, Frankreich und Deutschland, manoscritto e dattiloscritto GSA 72/17. L’ampio articolo non è segnalato nella bibliografia di PETERS, Zarathustras Schwester, cit., pp. 309-311, né in quella, più sommaria, di C. DIETHE, Nietzsches Schwester und der Wille zur Macht, Hamburg/Wien, Europa-Verlag -Verlag 2001, p. 226. 44 Il culto di Napoleone è una vera cifra della cultura di Elisabeth; la «N» che fa da stemma all’Archivio e campeggia nella biblioteca di Villa Silberblick è un omaggio a Napoleone non meno che a Nietzsche ed è noto che l’ammirazione di Elisabeth per Mussolini viene coronata nel ’32 dall’esecuzione, nel teatro di Weimar, del dramma di soggetto napoleonico Campo di Maggio di Mussolini e Forzano. Nella biografia Elisabeth riconduce il culto per Napoleone che la accomuna al fratello a un episodio infantile, la lettura da parte della madre di un dramma, Napoleone a Sant’Elena, già da lei recitato coi fratelli in occasione di una festa in famiglia (Das Leben Friedrich Nietzsches, vol. I, cit., p. 37).

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timo carattere germanico dell’anima di Nietzsche, una specie di suo inconfondibile patrimonio genetico. Nell’articolo Nietzsche e la Germania sul «Berliner Tageblatt» il 5 settembre 191545 Elisabeth faceva culminare la piramide dei valori tedesco-prussiani nel concetto di Rangordnung, ordinamento gerarchico sulla base del rango, che da questo momento diventerà la vera parola d’ordine dell’Archivio, variata in tutte le salse e vista quasi come la sintesi della filosofia e della vita di Nietzsche. In quest’articolo Elisabeth scrive: «Mio fratello sottolinea ripetutamente che il vantaggio della Germania è quello di possedere gli uomini più virili (die männlichste Männer); e l’ideale del buon europeo e dell’Europa unita era naturalmente e strettamente congiunto con i voti segreti della sua anima per la Germania». E dove le citazioni facevano difetto, Elisabeth ricorreva come di consueto all’inconfutabilità della testimonianza vissuta: «E quando gli si chiedeva in confidenza chi si aspettava che assumesse la guida dell’Europa unita, rispondeva con vivacità: “la Germania, naturalmente!”». Con la procedura sperimentata, Elisabeth risolveva la contraddizione tra il preteso germanesimo di Nietzsche e la sua polemica antitedesca ricorrendo a giustificazioni biografiche o psicologiche, come l’irritazione per la scarsa fortuna delle sue opere in patria o, con più nobile motivazione, l’amore deluso per la Germania. Già nel primo volume della biografia, però, Elisabeth aveva dato grande rilievo alla passione giovanile di Nietzsche per Hölderlin, e alla possibile derivazione dallo Hyperion di una tradizione specificatamente tedesca di polemica antitedesca. Inaugurava così la serie delle considerazione sull’antigermanesimo solo apparente di Nietzsche, come quelle contenute nelle Considerazioni di un impolitico di Thomas Mann e nel Nietzsche di Ernst Bertram, che prende direttamente le mosse dalla biografia di Elisabeth e dedica particolare attenzione al rapporto con Hölderlin, nel Nietzsche e il romanticismo di Karl Jöel46 e infine nel libro, oggi ingiustamente dimenticato, di Fritz Krökel su Nietzsche e i moralisti francesi47, che

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E. FÖRSTER-NIETZSCHE, Nietzsche und Deutschland, manoscritto e dattiloscritto GSA 72/19. 46 K. JOËL, Nietzsche und die Romantik, Jena, Diederichs 1905, p. 83. Anche la tradizione basileese degli interpreti di Nietzsche, di cui Joël fa parte, condivide infatti questa persuasione di Elisabeth e dell’Archivio. 47 F. KRÖKEL, Europas Selbstbesinnung durch Nietzsche. Ihre Vorbereitung durch die französischen Moralisten, München, Verlag der Nietzsche-Gesellschaft 1929.

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L’ARCHIVIO NIETZSCHE TRA NAZIONALISMO E COSMOPOLITISMO

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aveva condiviso con il Nietzsche in Francia di Geneviève Bianquis il premio istituito dalla “Nietzsche-Gesellschaft” di Monaco, ed era stato l’occasione di un incidente assai significativo. Il premio, conferito da una giuria prestigiosa con Würzbach, presidente della società, Thomas Mann, Bertram, Vossler, Lévy-Bruhl, Lichtenberger (e vi erano state trattative per avere nella giuria Ernst Curtius e Otto Weininger), aveva l’evidentissimo significato politico di un «gesto d’intesa franco-tedesco sotto il segno di Nietzsche»48. Esso viene boicottato dall’Archivio Nietzsche, fino al punto di lanciare l’accusa di votazioni truccate per favorire il candidato Krökel, stretto collaboratore del presidente della Nietzsche-Gesellschaft; l’episodio, che ha lasciato una vistosa traccia anche nel carteggio di Thomas Mann con Ernst Bertram49, dimostrava lo schizofrenico comportamento dell’Archivio, che nel frattempo organizzava conferenze per dimostrare di essere un centro di conciliazione europea, e insieme la sua tenace intenzione di mantenere un monopolio rigidissimo, fino alla neutralizzazione dei concorrenti, sulla gestione dell’immagine di Nietzsche e dei suoi «usi» politici. Le Considerazioni di un impolitico di Mann e il Nietzsche di Bertram, probabilmente i risultati più influenti della discussione sul germanismo e l’europeismo di Nietzsche nel periodo immediatamente successivo alla guerra, vanno visti anche come risultati dell’irradiazione ideologica dell’Archivio Nietzsche. Anzitutto in senso istituzionale, perché di queste opere l’Archivio si è per 48 Così scriveva Geneviève Bianquis a Würzbach. Quest’ultimo a sua volta precisava che il premio aveva «il senso di far collaborare di nuovo, finalmente, studiosi tedeschi e francesi, in modo tale però che l’iniziativa stia dalla parte tedesca» (lettera a Fritz Norden del 27 febbraio 1927 in GSA 72/3150: Preisgabe der Nietzsche-Gesellschaft Nietzsche-Gesellschaft). Tutta la vicenda del premio è nel segno di un difficile equilibrio tra le due esigenze, tanto che la decisione – avvenuta in corso d’opera – di non assegnare un unico premio, ma due distinti premi per un lavoro tedesco e uno francese, era dettata dal timore per il «clamore che stampa tedesca solleverebbe se dessimo al lavoro francese il primo premio» (lettera di Würzbach a Simolin, mecenate del premio, 9 dicembre 1926, ivi). 49 Da esso risulta che la «vecchia Signora» aveva suggerito a Mann di assumere lui la presidenza della Nietzsche-Gesellschaft, ma soprattutto il fatto che, dopo avere esaminato gli atti, Mann si era ricreduto sulla natura delle accuse, riteneva che non bisognava «lasciarsi informare e influenzare in modo unilaterale da Weimar» e convinceva Bertram a firmare anche lui la dichiarazione chiesta da Würzbach a tutti i membri della giuria per attestare la correttezza delle procedure seguite. Cfr. le lettere del 15 e del 19 novembre 1928 in Thomas Mann an Ernst Bertram. Briefe aus den Jahren 1919-1955, a c. di I. Jens, Neske, Pfüllingen 1960, pp. 163-165.

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GUARIGIONI, RINASCITE E METAMORFOSI

così dire appropriato e le ha dichiarate affini alle proprie opzioni spirituali conferendo ad esse il premio Nietzsche. Il premio, che poi andrà anche al Tramonto dell’Occidente di Spengler, veniva assegnato da una giuria presieduta da Elisabeth e dotata, grazie alla presenza di fedelissimi dell’Archivio come Max Brahn e Adalbert Oehler (suo presidente), di una maggioranza blindata. Elisabeth era anche autrice di una dichiarazione non ambigua in cui si leggeva che il premio era stato istituito perché «chiunque voglia svolgere in futuro una funzione di guida si sottragga all’oppressiva fraseologia democratica»50. Ma al di là dell’aspetto istituzionale sia l’opera di Mann sia quella di Bertram mostrano una forte dipendenza dalla biografia di Elisabeth. Anche per loro, sulla base del cliché impostato nel primo volume della biografia, il Nietzsche atleta dell’eroismo e dell’autosuperamento ascetico è un Nietzsche luterano, il figlio del pastore di Röcken. E può essere fatta risalire a Elisabeth anche la tesi che per Nietzsche la superiorità della Germania dipende dal suo essere un popolo giovane, non formato e ancora in divenire. Il tema, da lei affrontato con frequenza, viene svolto in modo sistematico negli articoli sul germanesimo di Nietzsche scritti durante la guerra, e che ho già ricordato. In Nietzsche, la Francia e la Germania si legge ad esempio: Allora si giunse a formulare grosso modo quest’argomento: certo la Germania non ha ancora una cultura che sia degna di lei, soprattutto non ha ancora una cultura definita come la Francia; proprio questo però è il vantaggio della Germania e lo svantaggio della Francia. La Germania è giovane, è “in divenire”.

Soprattutto Bertram raccoglierà il tema e lo trasformerà in un’identità metafisica tra la germanicità e la categoria del divenire. Si tratta della deformazione di un motivo effettivamente presente in Nietzsche, che soprattutto nei frammenti postumi dal 1873 al 1876 (e Bertram, che aveva avuto accesso ai manoscritti di Nietzsche custoditi all’Archivio, era un ottimo conoscitore di questi materiali) se ne serve per stabilire sia che l’affinità tra l’antica Grecia e la Germania non consiste nella fissità di comuni caratteri linguistici o razziali, ma appunto nell’aspetto costruttivo e dinamico delle loro civiltà, sia per polemizzare con i «filistei della cultura» che vedono nella potenza del Reich dopo la guerra 50

GSA 72/2468.

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franco-prussiana la realizzazione compiuta della cultura tedesca. Il divenire costituirebbe poi, per Bertram, l’intimo germanesimo del superuomo, caratterizzato dal suo continuo tendere verso un oltre, una meta che ancora non c’è: Questo Reich è divenuto per lui [Nietzsche] un Reich del divenire tedesco, della speranza tedesca, anche se la più grande di queste speranze porta il nome ultraterreno di Zarathustra: già nella parola che lo definisce [=über] il superuomo porta il marchio del suo profondo carattere tedesco, del divenire tedesco51.

Il Nietzsche bifronte di Bertram, eracliteo e luterano insieme (e perciò antiromano, perché «essere è una realtà romana, divenire un’effettualità [Wirklichkeit] tedesca») – un Nietzsche che si inseriva perfettamente nell’orizzonte ideologico dell’Archivio – diventava alla fine il Nietzsche affine a Dürer, in cui si compie l’ideale di una «cristianità nordica» e antiellenistica. Un decennio più tardi Alfred Baeumler, prendendo di mira il capitolo del Nietzsche sulla giustizia che aveva entusiasmato Mann, sferrava un attacco radicale contro il fraintendimento «cristiano» di Bertram del «carattere fondamentalmente greco» di Nietzsche52. Era infat51 E. BERTRAM, Nietzsche. Per una mitologia, trad. it. M. Keller, Bologna, Il Mulino 1988, p. 133. 52 Cfr. A. BAEUMLER, Nietzsche, der Philosoph und Politiker, cit., pp. 78 e 79. Che il libro sia stato concepito da Baeumler come una discussione ravvicinata della interpretazione di Bertram è confermato da una sua lettera dell’8 novembre 1949 a Arthur Hübscher, e conservata nelle carte della SchopenhauerGesellschaft (di cui Hübscher era allora presidente) allo Schopenhauer-Archiv di Francoforte sul Meno. Per contestare che il libro abbia un presupposto esclusivamente propagandistico, o che sia nato – come Hübscher aveva scritto in un articolo – dalle «visite di Hitler alla casa di Nietzsche», Baeumler scrive: «anche senza fare riferimento alle postfazioni ai volumi di Nietzsche nell’edizione tascabile di Kröner (postfazioni che vengono oggi ripubblicate senza modifiche, perché non vi sono modifiche da apportare), il lettore del mio saggio su Nietzsche può riconoscere che questa interpretazione ha preso le mosse da una costruzione di filosofia della storia sui punti nodali grecità/germanesimo/Roma. La lettura della Geschichte des gelehrten Unterrichts di Paulsen è stata molto importante per tale costruzione, mentre non lo era il mondo politico, che allora mi era totalmente estraneo: con tale mondo sono venuto in contatto, grazie alla Signora Elsa Bruckmann, solo quando il mio libricino su Nietzsche era già stato pubblicato. Di visite di Hitler all’Archivio Nietzsche non ho mai avuto sentore. I presupposti psicologici diretti del mio libricino stavano nella contrarietà, che sentivo in modo assai vivo, verso la liricizzazione di Nietzsche effettuata da Bertram, e nel mio interesse per i greci». Sulla

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GUARIGIONI, RINASCITE E METAMORFOSI

ti nella coincidenza eraclitea tra divenire e pòlemos, nel carattere squisitamente agonale e agonistico, e non in una ascesi di tipo religioso perfezionatasi nel luteranismo (per Mann: nel calvinismo prolungantesi nell’ethos borghese) che Baeumler individuava la fonte dell’«eroismo» guerriero di Nietzsche, e del suo germanesimo. Il dibattito segnalava che il clima nel giro di un decennio era radicalmente cambiato: la volontà di potenza veniva ora assimilata da Baeumler (sulla base di un modello quasi futuristico di azione) a una pura distensione di energia e conflittualità, un divenire agonale che si è scrollato di dosso tutti gli scopi, e quindi in primo luogo il riferimento di Elisabeth, Bertram e Mann ai valori religiosi del luteranesimo. La stessa forte relativizzazione a cui Baeumler sottopone l’eterno ritorno va vista in quest’ottica: esso è un concetto antitetico a quello di volontà di potenza non solo perché tenta di ricondurre il divenire all’essere, ma anche – e in misura non minore – perché è il residuo di un momento «religioso» di cui Nietzsche si libererà poi completamente, e che contraddice il sistema filosofico definitivo della volontà di potenza53. La stessa intenzione del libro di Bertram, l’idea di trattare Nietzsche come un mito, è una sublimazione della prassi dell’Archivio, tesa a propagare un culto di Nietzsche e di porlo al centro di un movimento riformatore, la cosiddetta Nietzsche-Bewegung. In Bertram però la dimensione mitica non riguarda solo la funzione «leggendaria» della ricostruzione storica, che viene identificata con l’attività mitopoietica, ma qualcosa di più. Il Nietzsche di Bertram è, proprio come lo è il mito, una specie di totalità esclusiva e onnicomprensiva, un organismo autosufficiente che ha in sé stesso tutti gli elementi del proprio sviluppo, anche quelli che lo contestano. Tutti i conflitti di Nietzsche non possono essere altro che conflitti con se stesso e gli oggetti delle sue polemiche – per esempio Wagner – sono «maschere», tratti oggettivati e depersonalizzati della sua natura. Anche la polemica antitedesca riguarda un tratto insopprimibile della personalità di Nietzsche, e la natura «sovratedesca» a cui egli vuole approdare non è altro che un approfondimento del suo germanesimo. Malgrado le affinità con il libro di Bertram – un «libro fratello» come lo chiamava Mann –, le Considerazioni di un impolitico mostrano una direzione diversa. interpretazione di Baeumler e la nazificazione di Nietzsche cfr. soprattutto M. ZAPATA GALINDO, Triumph des Willens zur Macht. Zur Nietzsche-Rezeption im NS-Staat, Hamburg, Argument 1995, pp. 84 sg. e passim. 53 A. BAEUMLER, Nietzsche, der Philosoph und Politiker, cit. p. 80 e sg.

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In uno scritto del 1921 pubblicato in un volume di festeggiamento per il 75° compleanno di Elisabeth, e che condensa le osservazioni su Nietzsche sparse nelle Considerazioni, Mann scriveva che «non era stata necessaria la guerra per insegnarmi a vedere la germanicità di Nietzsche»54. Eppure nelle Considerazioni il germanesimo è presentato (per usare una categoria che Mann applica a Wagner) secondo un’ottica doppia. Da un lato esso appare nella forma di un patriottismo senza incrinature, fino a glorificare dopo Caporetto «l’azione limpida e maestosa delle armi»55, ma dall’altro lato, nella zona più problematica del libro, il luogo comune propagandistico sulla centralità geopolitica del Reich si rovescia nell’immagine della Germania come luogo di mediazione dei contrasti spirituali dell’Europa e l’essere tedesco, il Was ist deutsch? è visto come «il campo di battaglia spirituale per tutte le contraddizioni dell’Europa»56. L’asse portante delle Considerazioni è l’equivalenza, variata con mille accorgimenti, dei termini Germania, Nietzsche e ironia, e tutti questi termini posseggono una funzione mediatrice, di «unità dei contrari», indicano un essere né qui né là, una forma secondo Mann di fecondo spaesamento che è il contrario delle sterili certezze nazionalistiche. Il Nietzsche prediletto delle Considerazioni non è quello tardo, che Mann giudica «grottesco e fanatico»57, o quello politico e della volontà di potenza, ma quello di Umano, troppo umano58, dunque il Nietzsche della critica illuministica a Wagner, che gli insegna la psicologia dell’artista. Si tratta dello stesso Nietzsche intellettualista e psicologo che Mann aveva valorizzato qualche anno prima nelle note per il saggio incompiuto Spirito e arte, e che presenta un’enigmatica unità di spirito polemico e amore, «critica» e «lirica»59. Gli aforismi di Umano, troppo umano che vedono nell’arte il veicolo per fare ritornare nel mondo moderno un’età ormai scomparsa e altrimenti impossibile da rievocare, dunque un’attività regressiva

54 Th. MANN, Einkehr, in Den Manen Friedrich Nietzsches, a c. di M. Oehler, München, Musarion 1921 p. 217. 55 ID., Considerazioni di un impolitico, a c. di M. Marianelli, Bari, De Donato 1967, p. 465. 56 Ivi, p. 42. 57 Ivi, p. 300. 58 Ivi, p. 399 e p. 438. 59 Cfr. H. WYSLING, “Geist und Kunst”. Thomas Manns Notizen zu einem “Literatur-Essay”, in P. Scherrer, H. Wysling, Quellenkritische Studien zum Werk Thomas Manns, Bern/München, Francke Verlag 1967, p. 171.

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GUARIGIONI, RINASCITE E METAMORFOSI

e epigonale (e soprattutto l’aforisma 147, L’arte come evocatrice di morti), hanno ispirato in modo diretto le pagine delle Considerazioni sull’arte come «forza conservatrice», attività funeraria e sguardo volto all’indietro, al passato. Sono le pagine in cui si consuma il vero distacco di Mann da Bertram, ossia dalla convinzione, propria della «leggenda Nietzsche» alimentata in forme diverse sia dal circolo di George sia dall’Archivio Nietzsche, che il mito (e l’arte in quanto mito) possa essere forza creatrice di cultura o, per citare Bertram, «facoltà magica di preparare e suscitare nuove forme di esistenza»60. Vi era infatti per Bertram una duplice dimensione del mito: da un lato il Nietzsche come leggenda, esso stesso mito, e dall’altro il Nietzsche creatore di miti, che completa la sua «passione socratica» di educatore con Zarathustra. Zarathustra è «la più grandiosa utopia educativa che a partire da Platone abbia ideato una volontà socratica» e nello stesso tempo «la più alta vetta raggiunta dalla forza di mitopoiesi di Nietzsche, che segue però la stessa direzione in cui si è sviluppata fin dal suo inizio»61. Zarathustra si congiunge così, chiudendo il cerchio, alla Nascita della tragedia (l’opera di Nietzsche veramente ed esclusivamente apprezzata da George e dalla sua cerchia), a Wagner e alla metafisica dell’artista, ne è anzi l’autentica realizzazione. Nel successivo capitolo, Eleusi, il riferimento è infatti alla Nascita della tragedia e all’affermazione che solo un orizzonte delimitato dal mito può dare unità e forza creativa a un movimento di civiltà. Di fatto è nel radicale distacco da Bertram (e da George) su questo punto, un distacco che ha luogo optando per il Nietzsche della psicologia dell’artista di Umano, troppo umano, non per quello della Nascita della tragedia, che Mann inaugura, già nelle Considerazioni, la sua successiva riflessione sul mito. Essa continua però all’ombra di Nietzsche, se è vero che il punto di partenza polemico di Mann, da cui egli sviluppa l’idea di una «psicologia del mito», è la discussione su Nietzsche condotta da Baeumler nel 1926 in alcune pagine della sua introduzione all’antologia di Bachofen Il mito d’Oriente e d’Occidente. Secondo Baeumler in Nietzsche manca del tutto «la profondità del passato, del mito e della morte»62. La completa estraneità al 60

E. BERTRAM, Nietzsche, cit., p. 406. Ivi, p. 421. Corsivo mio. 62 A. BAEUMLER, Das Mythische Weltalter. Bachofens romantische Deutung des Altertums, München, Beck 1965, p. 271 (l’edizione riproduce invariato il testo della introduzione di Baeumler del 1926). 61

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simbolo e al romanticismo che gli fa imboccare la via opposta a quella di Bachofen deriva dall’adozione di un metodo psicologico per affrontare il mito, benché mito e psicologia si escludano a vicenda. «L’errore fondamentale è l’atteggiamento psicologico», spiega Baeumler63 e da qui, ossia dal presupposto della «attualità di tutto quanto è umano» deriva in Nietzsche la «sconcertante» equiparazione dell’uomo greco all’uomo moderno e la contaminazione dell’intangibile alterità del passato con le condizioni della modernità. 4. È molto dubbio che Elisabeth e i suoi collaboratori più stretti abbiano avvertito sotto la scorza patriottica del libro di Mann, ma in definitiva anche nella sofisticata retorica di Bertram sul Nietzsche «sovratedesco», le potenzialità che eccedevano, o addirittura negavano, il nazionalismo forsennato che avrebbe caratterizzato l’Archivio nel primo dopoguerra e che, malgrado gli sforzi in contrario, rendeva sempre più difficile una conciliazione con la propaganda cosmopolita sotto l’egida del «buon europeo». Di questa difficoltà è una testimonianza significativa il carteggio di Hans Vaihinger con Elisabeth e con Richard Oehler. Accanto al già menzionato Raoul Richter, a Alois Riehl, a Rudolf Eucken, Vaihinger è uno dei filosofi che hanno svolto un ruolo di primo piano nelle vicende dell’Archivio. Benché agli storici della filosofia sia ben nota l’influenza che il pensiero di Nietzsche ha avuto sulla teoria delle finzioni esposta nella Filosofia del Come Se64, è ancora in ombra sia il suo ruolo di propagandista di Nietzsche grazie al fortunato libretto del 1902 Nietzsche come filosofo

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Ivi, p. 273. Oltre all’appendice su Nietzsche nell’opera principale di Vaihinger, cfr. dello stesso Wie die Philosophie des Als Ob entstand, in Die Deutsche Philosophie der Gegenwart in Selbstdarstellungen, a c. di R. Schmidt, vol. II, Leipzig, Meiner 1921, specie pecie pp. 188 sg. Nel breve scritto Der Mythus und die Philosophie des Als Ob (in Festschrift Tillägnad Hans Carsson, Stockolm, Alb. Bonniers Boktryckeri 1927, pp. 227-246) che si misura con la contemporanea rivalutazione del pensiero mitico visto come specifica «forma della rappresentazione», in particolare col neoromanticismo degli scrittori che si raccolgono negli anni Venti attorno all’editore Diederichs, e dedica una speciale attenzione a Nietzsche come prosecutore della «dottrina del mito e dell’illusione di Richard Wagner», Vaihinger dichiara di avere riconosciuto l’importanza di Nietzsche solo dopo la prima elaborazione della teoria della finzione, su cui sarebbe invece percepibile, in particolare, l’influenza di Friedrich Albert Lange (p. 240). 64

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(comparso contemporaneamente in francese, da Colin, nella Biblioteca del Congresso di Filosofia curata da Xavier Léon, e che avrà varie edizioni tedesche, tra cui una «edizione di guerra» opportunamente purgata dagli aspetti più problematici), sia il suo costante sostegno dell’Archivio e delle posizioni di Elisabeth. Non senza qualche significativa perplessità, in almeno un caso giunta sull’orlo di una rottura. Nel 1916 infatti, a proposito di una vicenda che coinvolgeva anche le esternazioni antisemite del filosofo jenese Bruno Bauch (per questo motivo estromesso per iniziativa dello stesso Vaihinger dal comitato direttivo della Kant-Gesellschaft), Hans Vaihinger si era trovato ad arginare un’espressione particolarmente virulenta del mai sopito antisemitismo di Elisabeth, che proprio ora tornava alla luce senza infingimenti65. In una lunga lettera del 23 novembre Vaihinger notava la contraddizione tra il ruolo positivo giocato da intellettuali ebrei, per ammissione della stessa Elisabeth, nella diffusione della fama di Nietzsche e nella stessa sopravvivenza materiale dell’Archivio e le attuali esternazioni, ma soprattutto metteva in connessione l’episodio con l’ultranazionalismo a cui l’Archivio sembrava indulgere a causa della guerra. Vaihinger, che nel 1914 non aveva visto contraddizione tra l’idea cosmopolita del «buon europeo» e la mobilitazione della nazione tedesca66, e che negli sforzi per fare ottenere a Elisabeth il premio Nobel aveva presentato l’Archivio come un «punto di mediazione spirituale della civiltà europea» in grado di riannodare nel prossimo futuro i fili che la guerra aveva spezzati (lettera a Elisabeth del 26 ottobre 1914), cominciava adesso a intravedere tra antisemitismo e nazionalismo una connessione non casuale, destinata a spezzare l’ideale del «buon europeo». Con tatto e prudenza, ma anche con parole che mettevano sotto accusa senza mezzi termini le opinioni della sua interlocutrice, nella già menzionata lettera del 23 novembre 65 Tornerò in altra sede, pubblicando questa parte del carteggio tra Vaihinger e Elisabeth, sui dettagli e sugli svolgimenti della vicenda. 66 «Cosa avrebbe detto Nietzsche di quest’epoca grandiosa! Peccato, peccato che non gli sia stato concesso di vivere il suo settantesimo compleanno. Nell’interesse della cultura europea, come “buon europeo”, avrebbe biasimato nel modo più severo quest’autodilaniarsi dell’Europa, ma avrebbe anche gioito per la grandiosa mobilitazione del popolo tedesco, che ci condurrà, speriamo, alla vittoria. È necessario però – e credo di parlare nel senso di Nietzsche – che noi assimiliamo ancor più di quello che abbiamo fatto finora il bene e il meglio delle altre culture»: lettera a Elisabeth del 22 settembre 1914, GSA 72/BW5590.

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L’ARCHIVIO NIETZSCHE TRA NAZIONALISMO E COSMOPOLITISMO

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1916 Vaihinger metteva in dubbio che fosse opportuno realizzare il progetto comunicatogli da Elisabeth, di raccogliere in un volume dal titolo Nietzsche e la guerra gli articoli che essa aveva scritto sul tema. C’era infatti il rischio, scriveva, che nei paesi nemici possa risultare confermata l’opinione erronea, ma dominante, che la filosofia di Nietzsche sia una concausa della guerra mondiale. La bella posizione internazionale dell’Archivio potrebbe venirne pregiudicata. Certo, chi scommette ancora sull’ideale di una cultura internazionale, sull’ideale del “buon europeo”? […] Personalmente, però, non posso trovarmi a mio agio in quest’atmosfera di reciproche incomprensioni tra i popoli, della quale, certo, i nostri nemici sono molto più responsabili di noi. […] Per ciò che concerne il rapporto di Nietzsche col germanesimo, bisogna naturalmente fare molte distinzioni tra i diversi periodi della sua evoluzione. Qui non posso entrare nei dettagli, ma credo che nel primo periodo fosse molto nazional-tedesco, nel secondo e mediano più freddo, nel terzo e ultimo molto critico nei confronti della Germania.

I dubbi di Vaihinger sul patriottismo di Nietzsche continuavano ad aumentare, fino a che, il 3 febbraio 1917, chiedeva con amara ironia ad Elisabeth se la «terribile profezia sulla Germania» contenuta nella lettera a Overbeck del 26 dicembre 1889, dove Nietzsche annunciava un promemoria alle case regnanti d’Europa per costituire una lega antitedesca, e sosteneva di voler «stringere il Reich in una camicia di ferro» per provocarlo a una «guerra dettata dalla disperazione»67 potesse adattarsi al suo progettato libro su Nietzsche e la guerra. A guerra terminata infine, e con un evidente richiamo alle posizioni ultranazionalistiche di Bauch, che pretendeva di conciliare in chiave di filogermanesimo Fichte e Nietzsche, ma anche alla sua precedente polemica con la Signora dell’Archivio, Vaihinger scriveva a Elisabeth di avere visitato Pforta in omaggio all’uomo che prima di altri aveva visto «nel wagnerismo,, nell’idealismo tedesco, soprattutto di im67 Cfr. F. NIETZSCHE, Sämtliche Briefe, a c. di G. Colli e M. Montinari, München, DTV 1986, vol. VIII, p. 551. Su questa lettera, che lo aveva evidentemente impressionato, Vaihinger ritorna in due occasioni, e a distanza di tempo l’una dall’altra, anche nelle lettere a Richard Oehler: si informa se il promemoria menzionato da Nietzsche sia conservato nell’Archivio e nota che il passo, destinato a una cerchia esoterica di lettori, pur essendo una testimonianza della malattia mentale di Nietzsche è dotato di una «oggettiva» importanza: cfr. le lettere del 13 dicembre 1917 e del 20 settembre 1920, in GSA 100/1327d.

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pronta fichtiana, nell’antisemitismo e nell’«orgueil allemand»» le cause dell’attuale rovina tedesca, cosicché «se la natura tedesca deve guarire di nuovo, deve orientarsi su Nietzsche» (10 febbraio 1919). Il vero catalizzatore delle istanze nazionalistiche dell’Archivio, colui che ha dato loro la dignità che non potevano ricevere né dagli scritti di Elisabeth, né da quelli degli Oehler, che soprattutto ha contribuito negli anni Venti a fare uscire l’Archivio dalla schizofrenica oscillazione tra un cosmopolitismo oramai di maniera e un sostanziale nazionalismo, è stato Oswald Spengler. Dopo avere vinto il premio Nietzsche con Il tramonto dell’Occidente, Spengler diventa il più importante consigliere di Elisabeth; è prodigo di consigli editoriali grazie alle sue influenti relazioni sociali, progetta d’accordo con lei un’antologia di Nietzsche in tre volumi, tiene conferenze all’Archivio, entra nel comitato per l’edizione critica. L’idea fondamentale di Spengler è che occorre liberare Nietzsche dalle sue sovrastrutture «romantiche», dalle nebulose fraseologie sui «nuovi valori» e sul «superuomo». L’armamentario romantico impedisce di riconoscere il nocciolo politico del suo pensiero, ossia l’idea dell’«allevamento di una classe di uomini superiori», come si legge nel Tramonto dell’Occidente68. Accantonata l’interpretazione religiosa, profetica e metapolitica, Nietzsche diventa l’annunciatore della necessità di una nuova casta dirigente che sa utilizzare i meccanismi della democrazia piegandoli nella direzione contraria; e i centrali concetti di Züchtung e di Rangordung, che erano da tempo le parole d’ordine dell’Archivio, vengono ricondotti nell’alveo di un’ideologia darwinista e socialdarwinista dalla quale, secondo Spengler, essi derivano direttamente. Secondo una sua icastica formulazione del 1917 «Se dallo stile di Zarathustra si traducono in prosa le declamazioni nebulose e romantiche del superuomo (che derivano in modo chiarissimo dal darwinismo) si arriva subito all’argomentazione sociale e politica»69. Vero è che Spengler non presenta però un

68

Si veda l’analisi di G. Merlio, Oswald Spengler témoin de son siècle, Heinz, Stuttgart 1982 vol. I pp. 550-54 e vol. II p. 223. Su Spengler, Nietzsche e l’Archivio M. FERRARI ZUMBINI, Untergänge und Morgenröte. Über Spengler und Nietzsche, «Nietzsche-Studien» V, 1976, pp. 194-254 e D. FELKEN, Oswald Spengler. Konservativer Denke zwischen Kaiserreich und Diktatur, München, Beck 1998, p. 158 e sg. 69 Lettera a Hans Klöres del 6.1.1917 in O. Spengler, Briefe 1913-1936, a c. di M.A. Koktanek e M. Schröter, München, Beck 1963, p. 62. L’iniziale

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L’ARCHIVIO NIETZSCHE TRA NAZIONALISMO E COSMOPOLITISMO

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Nietzsche direttamente politico, ma piuttosto sostiene, come dimostra la conferenza che egli ha tenuto all’Archivio in occasione dell’ottantesimo anniversario della nascita di Nietzsche, che proprio il suo atteggiamento aristocratico di distacco e di «distanza» gli aveva permesso di vedere meglio di altri le condizioni oggettive dell’azione70. Tutto il resto viene, per così dire, da sé, e la corrispondenza mostra quali e quanti fossero i punti di vista che Elisabeth e Spengler condividevano: l’avversione alla democrazia, ai partiti e al parlamentarismo; la difesa della casta militare «tradita» dalla politica, la convinzione che la Germania poteva salvarsi attraverso la rivitalizzazione della tradizione prussiana e la creazione di una casta dominatrice, la ammirazione per Mussolini. Per non parlare del comune culto di Napoleone, visto da Spengler come un «fenomeno rinascimentale» e dimostrazione esemplare che solo la grande personalità sa «allevare» un nuovo tipo umano71. Anche la inequivoca posizione di Spengler sulla Francia, che a suo parere meditava di formare nelle colonie un esercito di «50 o 60 milioni di negri» per dominare l’intera Europa e non solo il comprensorio della Ruhr72, doveva suonare come una conferma e un balsamo per il patriottismo ferito di Elisabeth, al di là degli echi oramai sbiaditi del cosmopolitismo del «buon europeo». Sull’onda della crescente politicizzazione e germanizzazione di Nietzsche, nel 1931 Alfred Baeumler chiudeva il suo libro su Nietzsche con un capitolo sul «buon europeo», in cui riconosceva tre divergenti accezioni del termine. Il buon europeo come spirito libero, filofrancese e «amante delle culture romaniche»; il

perplessità di Elisabeth per l’immagine di Nietzsche contenuta nel Tramonto dell’Occidente, su cui ci informa un laconico accenno di una lettera di Thomas Mann, è dovuta probabilmente alla sua resistenza a ricondurre il superuomo alle categorie del darwinismo. La minuta della lettera di Mann è citata in P. DE MENDELSSOHN, Der Zauberer. Das Leben des deutschen Schriftstellers Thomas Mann, vol. II, Frankfurt a.M., Fischer 1997 (2a ed.), p. 123 e se ne indica il destinatario nel «borgomastro di Weimar»: ma si tratta probabilmente di Adalbert Oehler, che veniva comunemente interpellato col titolo della carica ricoperta, non però a Weimar, fino alla sua defenestrazione a opera degli Spartachisti. 70 Cfr. O. SPENGLER, Nietzsche und sein Jahrhundert, in Reden und Aufsätze, München, Beck 1937, pp. 110-124. 71 Così rispettivamente in Preußentum und Sozialismus (1924) e in Neubau des deutschen Reiches (1924), in ID., Politische Schriften, Beck, München 1932, p. 63 e p. 214. 72 Cfr. ID., Frankreich und Europa, in Reden und Aufsätze, cit., p. 84 e sg.

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GUARIGIONI, RINASCITE E METAMORFOSI

buon europeo identico alla figura dell’ultimo uomo in Zarathustra, ossia «il risultato estremo del livellamento democratico»; infine il buon europeo che, scriveva Baeumler non è più uno spirito libero, ma uno spirito guerriero. Egli è ben lungi dall’essere un illuminista […] piuttosto lotta contro il secolo dei lumi in cui si sapeva leggere e scrivere così bene: “In fondo noi buoni europei siamo in guerra contro il diciottesimo secolo” (Volontà di potenza n. 117). Questi buoni europei vengono descritti nell’aforisma 132 della Volontà di potenza, sono gli uomini della filosofia di Nietzsche. Sono “i legislatori del futuro, i signori della terra”. Un passo dell’opera postuma recita: “Principio: 1. creare una specie di esseri che sostituiscano il prete, il maestro e il medico. (La conquista dell’umanità). – 2. un’aristocrazia del corpo e dello spirito che alleva se stessa, accoglie in sé elementi sempre nuovi e si distacca dal mondo democratico dei malriusciti e dei riusciti a metà (I signori della terra)”. Per questo tipo troviamo anche il nome di «europeo superiore», che viene definito un precursore della grande politica (Volontà di potenza, 463)73.

E il lettore, giunto alla fine del libro, non doveva certo avere difficoltà a scegliere la giusta accezione.

73

A. BAEUMLER, Nietzsche, der Philosoph und Politiker, cit., pp. 176-177.

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IL NIETZSCHE DI COLLI: 1940*

1. Giorgio Colli e Mazzino Montinari hanno affrontato in maniera divergente un problema la cui soluzione costituiva, per entrambi, il presupposto di una lettura non effimera di Nietzsche: il problema, intendo, dell’unità della sua opera. Montinari pensava che lo strumento per ricostruire la totalità della forma Nietzsche fosse la biografia, e certamente aveva ragione un suo allievo, Federico Gerratana, quando osservava che questo era lo scopo primario, anche se non a tutti evidente, della sua impresa e che «il lavoro propriamente filologico doveva preparare il materiale per questa biografia»1. Ma questa unità, che rispecchia il continuum di un’unica personalità, si rivela essere una forma drammatica di discontinuità, una forma che deve includere la contraddizione tra fasi ed espressioni completamente diverse, se non antagonistiche le une verso le altre, e anche tra le diverse «maschere» (è il termine usato da Montinari) che Nietzsche ha imposto a se stesso. È probabile che Montinari derivi il tema delle maschere di Nietzsche dalle riflessioni critiche di Overbeck2 sulla biografia del fratello scritta da Elisabeth Förster-Nietzsche, ma di certo quel che egli mostra con l’introduzione di questo tema è la necessità di pensare insieme il problema * Cfr. infra, Bibliografia 2004 n. 5. 1 F. GERRATANA, Lavorare con Mazzino Montinari, in Mazzino Montinari. L’arte di leggere Nietzsche, a cura di P. D’Iorio, Firenze, Ponte alle Grazie 1992, p. 71. 2 F. OVERBEK, Aufzeichnungen, ora in ID., Autobiographisches, Werke und Nachlaß, VII/2, a cura di B. von Reibnitz e M. Stauffacher-Schaub, Stuttgart/ Weimar, Metzler, 1999: erano state pubblicate da Carl Albrecht Bernoulli in forma ridotta e col titolo Erinnerungen an Friedrich Nietzsche nel celebre libro Franz Overbeck und Friedrich Nietzsche. Eine Freundschaft, di cui Elisabeth Förster-Nietzsche ottenne la censura per le parti che più colpivano la credibilità sua e dell’Archivio Nietzsche.

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GUARIGIONI, RINASCITE E METAMORFOSI

Nietzsche e il problema della sua immensa, spesso fatale fortuna, perché le letture di Nietzsche che si sono succedute e si sono anche combattute tra loro non sono solo invenzioni arbitrarie, semplificazioni ideologiche, ma riverberi appunto delle «maschere» con cui Nietzsche stesso ha voluto presentarsi. Ciò mostra fino a che punto Montinari fosse convinto, con Thomas Mann, che «chi prende Nietzsche alla lettera, è perduto»: qualcosa di totalmente diverso, dunque, dall’illusione di un’equivalenza filologia/neutralità che gli è stata rimproverata da qualche dilettante. L’ammonimento di Mann vale sicuramente anche per Colli, e per la soluzione che egli ha dato al problema dell’unità. A partire almeno dal 1957, e poi via via in modo sempre più tagliente e articolato, Colli ha distinto tra una parte essoterica e una parte esoterica dell’opera di Nietzsche, imperniata, quest’ultima, sull’approfondimento della natura teoretica del dionisiaco e su una negazione della volontà di potenza, e in questo ha creduto di trovare l’unità della sua opera e della sua persona. In entrambi questi motivi, il dionisiaco e la negazione della volontà, Colli ha visto condensarsi la «grecità» di Nietzsche, non però nel senso che Nietzsche sia un episodio, per quanto importante, della grecomania tedesca (di cui ancora negli anni Trenta davano testimonianza le pur divergenti interpretazioni di Baeumler e di Heidegger), ma nel senso che Nietzsche ha toccato e ci ha rivelato il punto nevralgico della cultura greca, e ci ha dato una chiave, sia pure imperfetta e limitata, per interpretarne il fenomeno più inquietante, la nascita del sapere filosofico. Più tardi, Colli individuerà più precisamente quel punto nevralgico nel rapporto tra logos e scrittura che ha condizionato e plasmato il destino della filosofia. La Filosofia dell’espressione spiegherà come la scrittura, in origine uno strumento mnemonico, trasformi poi il discorso vivente, ancora vincolato al fondo vitale, in una sostanza autonoma. La scrittura fissa e amplifica la funzione «spettacolare» della parola, allorché essa è portata oltre la cerchia ristretta dei protagonisti della discussione dialettica per toccare un pubblico più vasto, ma anonimo e soprattutto destinato a rimanere uno spettatore passivo. In un appunto contemporaneo si legge che «L’evanescente parola pronunciata si fissa in spettacolo. Colui che aveva pronunciato una parola, che quindi era legato lui stesso alla parola pronunciata, se ne è ora distaccato e non è altro che uno specchio: la parola è diventata un oggetto contemplato»3. 3 G. COLLI, La Ragione errabonda. Quaderni postumi, a cura di E. Colli, Milano, Adelphi 1982, p. 396.

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In questo orizzonte il nocciolo dell’opera di Nietzsche non va ricercato nel suo dibattito con l’attualità, consiste invece in una colossale prestazione della memoria che percorre a ritroso le forme e le vicende del discorso fino a toccarne le espressioni nascenti, il momento genetico in cui il fondo vitale comune a tutti gli uomini (la cultura nel senso di Burckhardt) diventa espressione, forma, rappresentazione. In questo lavoro che potremmo chiamare di smontaggio genealogico, di decostruzione delle forme reificate del logos e del linguaggio (al fine, come mostra senza possibilità di dubbio La Ragione errabonda, di rendere possibile nuove forme di comunicazione, e nuovamente disponibile la potenzialità produttiva della cultura), Colli si è sentito pienamente erede di Nietzsche; e di qui dipende anche il rilievo che egli attribuisce alla sua evoluzione stilistica, considerarata nel complesso non come un evento letterario a sé stante ma, proprio al contrario, come un tentativo senza precendenti di logorare dall’interno, fino a scioglierlo, il rapporto del pensiero con la scrittura. 2. La polarità di dimensione cognitiva del dionisiaco e critica alla volontà di potenza è già al centro dello scritto che qui si presenta, e che, con il titolo Einleitung, si riferiva a un’opera che Colli aveva pianificato e che doveva intitolarsi Ellenismo e oltre. Il suo contenuto non doveva infatti limitarsi ai filosofi greci (Parmenide, Empedocle, Eraclito, Platone), ma includere anche i mistici, il pensiero del Rinascimento, i romantici, nonché filosofi «grandi» e «piccoli»4. Questo scritto permette, anche, di immaginare quale fosse il Nietzsche di cui un piccolo gruppo di studenti liceali, tra cui vi era Mazzino Montinari, sentiva parlare nel 1943 dal loro giovane professore di filosofia, in lezioni che proprio Montinari più tardi avrebbe presentato come la scena primaria del complicato processo sfociante nell’edizione critica. «Da Colli, scrive Montinari, imparammo anche l’opposizione al fascismo. […] Il nostro maestro dovette fuggire in Svizzera. […] Perché racconto

4

Della Einleitung ha dato notizia per la prima volta A. PISTOIA in Misura e dismisura. Per una rappresentazione di Giorgio Colli, Genova, Erga 1999, p. 129 e sg. che ne dà anche una collocazione nell’itinerario mentale di Colli e rende noti schema e suddivisione in capitoli del piano Ellenismo e oltre. Il testo dell’Einleitung, preceduto da una breve informazione di Enrico Colli, è stato tradotto da H.J. Pérez e F. Lavezzari per il numero monografico Nietzsche y la politica di «Res publica. Revista de la historia y del presente de los conceptos politicos», IV, 2001, n. 7, pp. 181-235.

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GUARIGIONI, RINASCITE E METAMORFOSI

tutto questo? per spiegare che la cattiva (perché ideologica) identificazione Nietzsche = fascismo non valeva per noi liceali italiani antifascisti di allora. Il nostro rapporto con Nietzsche non fu turbato neanche quando, a guerra finita, in Germania Nietzsche cadde vittima della denazificazione»5. Era dunque un Nietzsche singolare quello che Giorgio Colli illustrava ai suoi giovani studenti. Nello scritto del 1940 il problema Nietzsche viene affrontato entro uno schema che Colli nella sostanza non abbandonerà più, anche se la progressiva conoscenza dei testi del filosofo lo indurrà a mutare e riformulare singole parti del quadro, e a correzioni di rilievo. I due sostegni fondamentali – e concomitanti – dello schema di Colli sono la relazione di Nietzsche con la civiltà greca inaugurata con la Nascita della tragedia (e il rilievo preponderante assegnato al concetto di dionisiaco, che qui è visto addirittura come «la formula della sua vita») e l’ineludibile rapporto con la filosofia di Schopenhauer. Negli anni successivi – io penso, non senza ragione – Colli denuncerà nella mancata esplorazione di questa filiazione filosofica il principale difetto anche delle migliori interpretazioni di Nietzsche, sennonché il rilievo dato al rapporto con Schopenhauer non si spiega solo come risultato di una ricognizione storiografica, come riconoscimento di una «influenza» culturale dominante, ma dipende da una circostanza molto più significativa. Schopenhauer rappresenta, si legge nell’Einleitung, un «terreno saldo» per Nietzsche; «è l’uomo che ha interpretato il problema filosofico, nel senso più generale, in modo definitivo e insuperabile», perché nella sua lotta contro l’idealismo postkantiano ha reintrodotto nel pensiero moderno il significato originario che il logos aveva per i greci. Anche negli anni successivi – ad esempio nelle prefazioni che Colli ha scritte per la Quadruplice radice nel 1959 e per i Parerga nel 1963 – Schopenhauer appare come il filosofo di una «ragione sana» che riproduce la natura essenzialmente relativa e allusiva del logos greco, il suo essere «rappresentazione» e discorso su qualcos’altro, che a sua volta non è ragione. Nel ’40 Colli dichiara che «non è possibile senza avere penetrato a fondo il sistema di Schopenhauer seguirci nella nostra via di ricerca» e traduce con «intimità» e «espressione» i termini della coppia volontà/rappresentazione. Vent’anni dopo, in un ap-

5 M. MONTINARI, Die erste kritische Gesamtausgabe von Nietzsches Werken, in Nietzsche lesen, Berlin/New York, de Gruyter 1982, p. 10.

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punto della Ragione errabonda ritroviamo intatto un pensiero che c’è già in questo scritto, e che possiamo così riassumere: la polarità di apollineo e dionisiaco della Nascita della tragedia poggia su quella schopenhaueriana di rappresentazione (espressione) e volontà (intimità o interiorità noumenica), ed entrambe le coppie richiamano la polarità, propria della civiltà ellenica, tra quella che Colli chiama la «visione pura» e l’interiorità dionisiaca. La «visione pura» significa il risolversi dell’esistenza nella dimensione estetica della rappresentazione individuale priva di interiorità e legata al sentimento tipicamente apollineo dello phthonos, rivolto al trionfo senza altri riguardi della individualità fenomenica, alla potenza e alla sopraffazione; l’interiorità dionisiaca è qualcosa che non si esprime tanto o soltanto nella coralità dell’ebbrezza collettiva (una forma primitiva di dionisiaco, ma l’unica che Nietzsche vede nella Nascita della tragedia – gli rimprovera Colli – perché fuorviato dalla preminenza che nello studio della mentalità greca Burckhardt e Bachofen assegnavano alla dimensione collettiva più che alla realtà dell’individuo), ma piuttosto nel misticismo introdotto dai misteri, perfezionato infine nella forma dell’«individuo superiore». Quest’ultimo non è l’individuo rivolto allo splendore del fenomeno e alla potenza, ma l’individuo che rifiuta la tentazione tirannica e coltiva la solitudine, la contemplazione gioiosa dell’esistenza con tutto il suo dolore (Colli si muove nell’orbita della laetitia di Spinoza), e che culmina infine nelle «individualità eroiche» e puramente teoretiche dei filosofi presocratici. Secondo Colli – e anche in questo caso vi è più che un abbozzo delle sue concezioni successive – con La filosofia nell’epoca tragica dei Greci e i frammenti postumi coevi Nietzsche si approssima a una caratterizzazione squisitamente teoretica e cognitiva del dionisiaco, dimostrando così che malgrado l’attrazione per il modello del dramma musicale wagneriano e la metafisica dell’artista la tragedia non esaurisce affatto la totalità della cultura ellenica, anzi propriamente non ne rappresenta neppure la tonalità principale. Su questa interpretazione agisce con forza la suggestione del libro di Karl Joël del 1905 Nietzsche und die Romantik, che Colli cita e mostra di apprezzare, certo anche per la relazione stretta che esso istituisce tra Nietzsche e Schopenhauer. Nietzsche rappresentava per Joël un’alternativa netta al neoclassicismo e a un’evocazione del mondo greco basata sul primato dei valori plastici e della misura. Nello stesso tempo, però, Joël interpretava la dissoluzione musicale della forma classica, la sua riduzione a simbolo, come un depotenziamento del fenomenico a

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favore dell’interiorità. Per lui è proprio questo il significato della teoria di Nietzsche sull’origine dionisiaca della tragedia, secondo cui essa, in antitesi alla drammaturgia wagneriana con la sua pretesa plastica e visiva (e Colli più tardi, nel Dopo Nietzsche, definirà «barocco» il dramma musicale) non è altro che «lirica oggettiva»: «Nella tragedia egli odia ciò che ne fa un dramma, l’azione e il dialogo. Vuole soltanto il sentimento tragico; trova che l’accento cade sul patire, non sull’agire, e che il suo corrompersi coincida con l’introduzione del dialogo»6. Un lettore del 1940 non avrebbe certo avuto difficoltà a indovinare quale fosse il bersaglio polemico di questa interiorità dionisiaca nemica sia della potenza sia della metafisica dell’artista di derivazione wagneriana. Si tratta del Nietzsche del superuomo, della volontà di potenza e del «vivere pericolosamente» che D’Annunzio aveva messo in circolazione all’inizio del secolo e che si era affermato nella cultura italiana – a parte significative eccezioni, come il Nietzsche di Svevo e dei triestini, o quello di Dino Campana – come uno stereotipo indiscusso. Sviluppando alcuni temi della metafisica dell’artista, nel Fuoco D’Annunzio aveva reso la figura del superuomo equivalente a quella del genio/eroe/artista che mediante il mito e la forza dell’illusione teatrale piega la società di massa ad esiti autoritari. La figura del superuomo che ne risulta è il frutto di un singolare impasto di estetismo e politica, e di una commistione tra il Nietzsche della Volontà di potenza e quello wagneriano della Nascita della tragedia che ha ben poco a che fare con Nietzsche, ma che si adatta benissimo alla cultura e al meccanismo di un regime totalitario, anzi ne anticipa le caratteristiche. In seguito, Colli ha visto soprattutto nella teoria dell’«Uno originario», solo abbozzata da Nietzsche e perciò da considerare come «esoterica», il tentativo del giovane Nietzsche di coniare una nozione di dionisiaco svincolata sia dal wagnerismo che impronta di sé la Nascita della tragedia, sia dalla metafisica schopenhaueriana della volontà. Nei frammenti sull’Ur-Eine inizia quella «evoluzione» del concetto di dionisiaco di cui Colli parla nella postfazione all’Inattuale Wagner a Bayreuth (1967) e ai Frammenti postumi dell’ ’84-’85, dove esso, liberatosi definitivamente dall’influenza wagneriana, si manifesta finalmente non

6 K. JOËL, Nietzsche und die Romantik, Jena und Leipzig, Diederichs 1905, p. 301.

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più in forma di «vita immediata, senza qualità» ma di «vita come conquista conoscitiva, vertice dell’uomo». Qui, come già lasciava intendere l’Einleitung, la connessione con l’esperienza misterica dei greci, oscuramente intuita da Nietzsche, fa del dionisiaco e dell’interiorità noumenica una prestazione puramente individuale, teoretica e intellettuale, che respinge da sé ogni carattere legato all’immediatezza e all’azione, o al liberarsi in forma di rito collettivo di passioni e istinti. Il presupposto dell’interpretazione del dionisiaco avanzata da Colli è una critica alla nozione di volontà in cui, effettivamente, la sua autonoma riflessione è quasi indistinguibile da quella di Nietzsche. Nella Filosofia dell’espressione Colli rifiuta di identificare con la volontà il fondamento extrarappresentativo da cui germina il mondo della rappresentazione o «espressione». Nella volontà bisogna invece vedere una «intrusione metafisica» rispetto alla totalità, di natura puramente relazionale, del mondo fenomenico: E così l’universo della natura, […] l’uomo e la sua storia […], tutto ciò non è altro che rappresentazione, ed è lecito soltanto interpretarlo come dato conoscitivo. Tutti gli altri nomi che la ragione umana può mettere avanti, con la pretesa di svelare qualcosa di sostanziale, di elementare, di unificante rispetto al caleidoscopio dell’esperienza, i nomi di idea, di spirito, di volontà, di istinto, di azione, di potenza, non sono giustificati e non spiegano nulla, rivelano semplicemente l’intrusione di concetti metafisici a interpretare i nessi propulsivi che la rappresentazione come tale, senza aiuti trascendenti o trascendentali, già possiede in sé7.

La Filosofia dell’espressione stabilisce in tal modo che all’immediatezza non si accede con una fuoriuscita vitalistica dall’universo della rappresentazione, o ricorrendo a concetti metafisici, ma che essa piuttosto sta al termine di un processo di anamnesi e decostruzione cognitiva dei modi in cui si è organizzata l’esperienza. Ma lo stesso atteggiamento noi lo troviamo già pienamente e consapevolmente esplicitato nel 1941. Lo scritto esordisce ponendo al centro il concetto di «vita», ma subito Colli precisa che il significato del termine non è quello della Lebensphilosophie, bensì,

7 G. COLLI, Filosofia dell’espressione, Milano, Adelphi 1969, p. 12; cfr. la versione dello stesso brano in La ragione errabonda, cit., p. 306, che termina con l’osservazione: «l’azione al di fuori della conoscenza non esiste».

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GUARIGIONI, RINASCITE E METAMORFOSI

dice, quello del § 54 del Mondo come volontà e rappresentazione, dove la vita è la volontà già intrisa di rappresentazioni, anzi, è la volontà nello specchio della rappresentazione. La vita, scrive Colli coniando una definizione che mi sembra decisiva per cogliere il significato di questo scritto, è «connessione indissolubile e passaggio reciproco tra intimità ed espressione» ed è per questo che lo Schopenhauer che lo interessa non è affatto quello della divaricazione tra noumeno e fenomeno (così lo avrebbe inteso erroneamente il giovane Nietzsche, equivocando sulla relazione tra il terzo e il quarto libro del Mondo, tra lo splendore estetico del fenomeno e l’interiorità noumenica che lo dissolve), ma invece – sulla scia dell’interpretazione di Martinetti – lo Schopenhauer che fa della volontà, tolta dal suo isolamento e alterità metafisica, una chiave ermeneutica della totalità delle relazioni tra i fenomeni: Sennonché il mondo della volontà e della rappresentazione erano in antitesi per Schopenhauer in un modo ben diverso, uniti strettamente insieme a formare la realtà complessiva delle cose, e vi era anzi un rapporto tra di loro, essendo il secondo l’oggettivazione del primo.

Questi enunciati ci dicono molto sull’atteggiamento filosofico di Colli. «Vita» non significa altro in questo scritto che vitalità della cultura, ossia la capacità di esprimere in forme, in individui, la produttività di un fondo comune a tutti gli uomini, e virtualmente inesauribile, capace di forme espressive sempre nuove. In un senso molto affine a Burckhardt – che pure non è mai evocato in questa accezione – Colli ritiene che la produttività di una cultura dipende dalla consapevolezza della contiguità tra il fondo comune e la sua individuazione in forme (nel suo linguaggio, appunto, contiguità tra l’intimità e l’espressione). Non è difficile capire, allora, perché Colli fosse tanto attratto da Giovanni Pico della Mirandola e dall’innovativo libro dedicatogli qualche anno prima da Eugenio Garin. Come mostra la parte iniziale dell’Einleitung, gli venivano da qui potenti stimoli per correggere, nel senso già indicato da Martinetti, la metafisica della volontà e il pessimismo di Schopenhauer, o, come si è visto, per superare lo iato supposto da Nietzsche tra la valorizzazione estetica del fenomeno nel terzo libro del Mondo e la sua negazione ascetica nel quarto. Vi era anzittutto il fatto che Pico, secondo la lettura di Garin, concepisce la vita dell’universo come una tendenza delle singole creature a ricongiungersi all’Uno, in uno sforzo di convergenza che equivale all’attività amorosa. La filosofia del-

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l’amore non solo si riferisce a una dinamica ascendente, a «un infinito processo di vita che vuol realizzare un valore sempre nuovo» ma soprattutto si svolge in un universo gerarchicamente ordinato e nemico dell’indifferenziato, che realizza l’unità nel moltelpice, senza travolgere ma anzi potenziando l’individualità delle creature. È ciò che si rispecchia appunto nella bellezza, il tipo di bene a cui l’amore aspira in quanto desiderio consapevole: la bellezza non consiste nell’unità, ma «bellezza è nella lotta, che non sia però antitesi pura, bensì concordia discors, coincidenza dei contrari. E questa è l’armonia, cioè appunto molteplicità che si unifica, “amica inimicizia”»8. Prescindiamo pure da altri motivi che l’Einleitung sviluppa, la filologia come declinazione della filosofia dell’amore in antitesi alla filologia dell’umanesimo letterario avversato da Pico, oppure il suo anticipare un atteggiamento spinoziano, quando oppone la consapevole conoscenza della necessità, che caratterizza il potere dell’uomo attivo, alla passiva accettazione del fato; ma il riferimento a Pico permette a Colli di introdurre i due motivi dominanti di questo scritto, la dialettica di dionisiaco e apollineo come filosofia dell’Uno che salvaguarda e potenzia la molteplicità degli individui, e l’unione di poesia e filosofia. La teoria del dionisico esposta nell’Einleitung sembra, in alcuni passaggi, svolgere la funzione di propedeutica a una fenomenologia dell’atto creativo, di una Dichtung che è insieme filosofia e poesia; la teoria dell’espressione che vi è abbozzata è esplicitamente presentata come alternativa a quella crociana, alle tesi dell’Estetica che Croce aveva allora ribadito nella Poesia (1935), ad esempio dove aveva scritto che «l’espressione prosastica non altrimenti si distingue dalla poesia, se non come la fantasia dal pensiero, il poetare dal filosofare»9. L’ipotesi di un’unità di poesia e filosofia che sarebbe reperibile alle origini del pensiero greco, sarà poi lasciata cadere, o almeno fortemente attenuata, da Colli. E in questo contesto il conoscitore sempre più profondo dell’opera di Nietzsche dovrà lasciar cadere anche l’idea che la teoria schopenhaueriana del sogno esposta nei Parerga possa essere assunta come la descrizione più adeguata di 8 E. GARIN, Giovanni Pico della Mirandola. Vita e dottrina, Firenze, Le Monnier 1937, p. 213. Sulla collocazione storica di questo libro vd. ora C. VASOLI, Gli studi di Eugenio Garin su Giovanni Pico della Mirandola, in Eugenio Garin. Il percorso storiografico di un maestro del Novecento, a cura di F. Audisio e A. Savorelli, Firenze, Le Lettere 2003, pp. 65-92. 9 B. CROCE, La poesia. Introduzione alla critica e storia della poesia e della letteratura, Bari, Laterza 1971, p 15.

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un’espressione dell’intimità dionisiaca che si sottrae alla signoria dell’Ananke nel mondo dei fenomeni. Se è vero infatti che questo modello schopenhaueriano del passaggio dall’interiorità noumenica al mondo dell’individuazione (l’Einleitung ne riproduce addirittura la terminologia fisiologica) costituisce il nucleo profondo della Nascita della tragedia, è vero anche che la «teoria del sogno» a cui Nietzsche si riferisce è sì quella schopenhaueriana, ma nelle forme e nel contesto in cui il Beethoven di Wagner l’aveva manipolata e aggiustata per illustrare il fenomeno originario del dramma musicale, il generarsi dell’immagine dal grembo sonoro dell’orchestra, e per giustificare la sovranità del genio-mago, che salva la comunità attraverso la menzogna dell’illusione artistica. Nemmeno il nucleo filosofico della Nascita della tragedia, la metafisica dell’artista, risulta in tal modo affrancato dall’ipoteca wagneriana, anzi ne è l’espressione diretta, e nella sua posteriore riflessione sul giovane Nietzsche Colli sarà indotto ad accentuare ancora di più la divaricazione tra il libro rivolto al pubblico, che vuole agire sul presente con le illusioni artistiche equiparate al mito, e la meditazione esoterica rivolta alle prestazioni cognitive dei primi filosofi greci. 3. Torniamo però alla critica che la Filosofia dell’Espressione rivolge alla volontà di Schopenhauer come intrusione di un concetto metafisico. In questa fase della sua meditazione Colli utilizza senza riserve la critica antiromantica che a partire da Umano, troppo umano Nietzsche rivolge alla presunta immediatezza della volontà e della sfera istintiva, che si rivelano invece già complicate dalla presenza dell’astrazione ed elaborazione intellettuale, al punto che per lui, nota Colli, «l’istinto è subordinato all’intelletto». Il Dopo Nietzsche vede nella distruzione dei valori morali l’atto conclusivo dell’intellettualismo di Nietzsche, una mossa che ha reso possibile una visione «soltanto teoretica» del mondo, e interpretabile come restaurazione del pensiero presocratico, che non conosce l’esistenza di una riflessione morale autonoma. L’interpretazione teoretica del dionisiaco, affrancato dalla metafisica dell’artista e della volontà, e reso affine alla sapienza dei misteri, che Colli sottolinea nella postfazione ai frammenti postumi dell’ ’84-’85 (siamo nel 1975, ma in piena conformità con lo scritto nel ’40) è anche il metro per misurare il ruolo che la nozione di volontà di potenza assume all’interno del pensiero di Nietzsche. La questione della volontà di potenza è affrontata soprattutto, oltreché nel Dopo Nietzsche, nelle postfazioni a Al di là del bene e del male e Genealogia della morale (1968), ai Frammenti postumi del

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1884-’85 (1975), del 1885-’87 (1975), del 1887-’88 (1971), raccolte tutte negli Scritti su Nietzsche. A questi scritti occorre affiancare alcune annotazioni della Ragione errabonda, e soprattutto la riflessione sulla magnanimità in Aristotele (poi ripresa nella Filosofia dell’espressione), che opponendo grandezza interiore e carattere espressivo/rappresentativo della potenza ripropone la polarità già individuata nel ’40 tra l’«individuo superiore» e l’affermarsi dell’individualità nella potenza fenomenica che ha tagliato ogni relazione con l’intimità. È noto che uno dei risultati più clamorosi dell’edizione critica di Colli e Montinari – da loro annunciato già al convegno di Royaumont alla metà degli anni ’60 con la formula «la volontà di potenza non esiste»10 è stato quello di smontare l’ordine arbitrario imposto da Elisabeth Förster-Nietzsche all’opera postuma al fine di fornire ai lettori contemporanei l’agognato «sistema» filosofico del fratello. In concomitanza con lo studio di Mazzino Montinari, che dava una ricostruzione storica delle vicende della Volontà di potenza, in quanto autonomo progetto letterario, dal momento in cui era sorta nella mente di Nietzsche fino a quando, dopo numerose variazioni nello schema, era stata definitivamente abbandonata dal suo autore, per essere poi riesumata dall’Archivio Nietzsche11, Colli si concentrava su una critica filosofica del concetto stesso di volontà di potenza: critica significativa non solo in sé, ma perché permette di vedere all’opera da vicino la distinzione tra una parte esoterica o inattuale e una parte essoterica o attuale nell’attività letteraria di Nietzsche, di cui si diceva all’inizio. Per Colli non vi è alcun dubbio che la volontà di potenza è una filiazione diretta della volontà di Schopenhauer, e ciò è detto a chiare lettere fin dal ’62 negli appunti della Ragione errabonda. In questo senso, la postfazione del 1972 ai frammenti postumi dell’ ’85-’87 afferma che la prima formulazione del «sistema» 10 G. COLLI e M. MONTINARI, Etat des textes de Nietzsche, in Nietzsche. Cahiers de Royaumont, Paris, Éditions de Minuit 1967, p. 136. 11 Cfr. il Kommentar di Mazzino Montinari al vol. VI della Kritische Studienausgabe: Nietzsches Nachlaß 1885-1888 und der sogenannte “Wille zur Macht”, in F. NIETZSCHE, Sämtliche Werke. Kritische Studienausgabe, vol. XIV, München, DTV 1980, 980, pp 383-518. Come è noto, l’infelice ripresentazione di una traduzione italiana della Volontà di potenza dell’Archivio Nietzsche, che non ne riproduce esattamente nessuna delle edizioni tedesche, e dunque è priva di utilità anche per lo studio della fortuna di Nietzsche, aveva suscitato anni fa nelle italiche gazzette un deprimente dibattito, all’insegna del dilettantismo e dell’incompetenza.

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della volontà di potenza «non è altro che un travestimento del pensiero di Schopenhauer», e poco cambia a questa constatazione il fatto che Nietzsche abbia frantumato l’unità metafisica della volontà in una pluralità di centri di volontà. Anche l’osservazione che la teoria della volontà di potenza prende le mosse «dal linguaggio del suo cosiddetto periodo positivistico»12, visto che Nietzsche non fa che trasferire al mondo interiore un concetto di forza tratto dalle scienze della natura, non può non ricordare al lettore di Schopenhauer il tentativo, nel terzo libro del Mondo, di fare della metafisica della volontà una vera e propria filosofia della natura, un sistema gerarchico delle forze. Colli indica nell’idea di volontà di potenza un aspetto inautentico-essoterico di Nietzsche, e il grado di inautenticità è misurato dalla distanza rispetto alle sue intuizioni sul mondo greco, al quale è estranea ogni visione del mondo gravitante intorno alla volontà. Si viene accentuando la divaricazione tra il dionisiaco e la volontà, e nella volontà di potenza risuona ancora, in una forma filosofica elaborata, l’illusione wagneriana dell’azione riformatrice che già nella fase della Nascita della tragedia velava la genuina intuizione nietzscheana. Non a caso, infatti, nella postfazione ai frammenti postumi dell’ ’87-’88, là dove analizza il tema della filosofia della menzogna, Colli sottolinea l’identificazione tra volontà di potenza e impulso artistico, tra arte e menzogna, e nota in questo un ritorno ciclico di Nietzsche al primitivo wagnerismo: «Con altri mezzi, ancora una volta ritorna la metafisica dell’arte della Nascita della tragedia, chiudendo il cerchio delle avventure speculative di Nietzsche»13. La volontà di potenza corrisponde all’intenzione di ottenere un’efficacia persuasiva sul presente e si colloca così in una dimensione retorica e «essoterica». Già nella postfazione all’inattuale Richard Wagner a Bayreuth Colli aveva assegnato ai frammenti postumi del periodo una «importanza maggiore» rispetto al testo edito, perché in essi sono più chiari l’incipiente avversione a Wagner e il carattere forzato della conciliazione tra attualità e inattualità, ma propriamente è nella postfazione ai frammenti dell’ ’85-’87 che la collocazione e il valore del materiale postumo assumono per Colli una preminenza decisiva. Egli prende le mosse dal frammento 5 [9] dell’ ’86-’87, dove Nietzsche fa seguire alla distinzione «Eso-

12 G. COLLI, Postfazione ai Frammenti postumi 1884-85, in ID., Scritti su Nietzsche, cit., p. 156. 13 Ivi, p. 176.

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terico-essoterico» la dichiarazione che «Non c’è affatto una volontà», per osservare che qui la volontà di potenza è «abbassata al rango di un’esperienza divulgativa», e conclude: Di fronte a molte sue formulazioni costruttive, o addirittura sistematiche, che caratterizzano gli scritti di questi anni e di quelli successivi, è dunque inutile stupirsi, o cercare di criticarle; per Nietzsche si trattava di un’elaborazione essoterica, e lui stesso ne conosceva le debolezze, se a esse contrappone un punto di vista esoterico. Da questa prospettiva emerge per noi un nuovo e più alto interesse dei frammenti postumi, che vanno considerati qualcosa di più che una raccolta di materiale in vista di future pubblicazioni: difatti sarà soltanto nei quaderni postumi di Nietzsche che si potrà rintracciare la coesistenza di una elaborazione esoterica tendente alla divulgazione e di un approfondimento segreto, personale del suo pensiero14.

Colli ne vede la conferma più evidente nella coesistenza contraddittoria, rilevabile nei frammenti postumi, di una teoria della volontà di potenza e in una critica della nozione di soggetto che sgretola intimamente l’idea stessa di volontà di potenza. Ritiene anzi che sia stata quest’intima contraddittorietà la ragione più probabile dell’abbandono, da parte di Nietzsche, della pianificata opera sistematica: forniva così una rilevante spiegazione filosofica di quel che resta, probabilmente, il problema più bruciante dell’opera di Nietzsche.

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Ivi, pp. 161-162.

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ALFRED BAEUMLER E IL CULTO DELL’EROE*

Il mio contributo riguarda un personaggio che, insieme a Martin Heidegger, è stato probabilmente l’unico filosofo e storico della filosofia di rango (il suo libro del ’23 sulla Critica del giudizio è un classico della letteratura su Kant) che abbia avuto una relazione organica con il regime nazionalsocialista. Molto più organica, per la verità, di quella di Heidegger, da quando Baeumler, iscrittosi al partito nel ’33 dopo avere partecipato al mondo della cosiddetta «rivoluzione conservatrice» e avere coltivato contatti con la rivista «Der Widerstand» del nazionalbolscevico Niekisch e con la cerchia dei due fratelli Jünger, collabora con Alfred Rosenberg e il suo ufficio della cultura (anche se non sappiamo praticamente nulla della natura e consistenza di questa attività)1 e siede sulla cattedra di pedagogia all’Università di Berlino. Occorre anche aggiungere per dovere di cronaca che, a differenza di Heidegger o di altri intellettuali di spicco del III Reich, Baeumler ha portato avanti, a partire dal 1945, una critica/autocritica sistematica ai presupposti politico-ideologici e culturali dell’hitlerismo, di cui solo pochi frammenti sono stati pubblicati2, mentre il resto * Cfr. infra, Bibliografia 2008. 1 Cfr. E. PIPER, Alfred Rosenberg. Hitlers Chefideologe, München, Karl Blessing 2005, pp. 358-362. La Storia della Germania che Baeumler aveva avuto l’incarico di scrivere dallo Amt Rosenberg è restata incompiuta: la prima parte, in forma dattiloscritta, è conservata presso il fondo Baeumler dell’Archivio dello Institut für Zeitgeschichte di Monaco. 2 Si tratta di due articoli, Hitler und der Nationalsozialismus. Aufzeichnungen von 1945-1947, e Der Irrtum des Faschismus, entrambi pubblicati sulla rivista «Der Der Pfahl: Jahrbuch aus dem Niemandsland zwischen Kunst und Wissenschaft», rispettivamente VI, 1991, pp. 159-204 e VII, 1992, pp. 138-146. La sua prima pubblicazione che affronta questi temi è però il breve articolo Vernunft und Charakter comparso nel notiziario del campo di concentramento

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GUARIGIONI, RINASCITE E METAMORFOSI

fa parte di un consistente lascito conservato all’Institut für Zeitgeschichte di Monaco di Baviera e al Philosophisches Archiv dell’Università di Costanza, ai quali la vedova Marianne Baeumler lo ha affidato rendendolo accessibile con un prezioso lavoro di datazione (dove ciò era possibile) e di trascrizione. Riassumere la consistenza e la natura di questo lascito, che tocca i più vari argomenti soprattutto di carattere filosofico (con appunti dotati di gradi diversi di elaborazione, e inseriti in vari progetti letterari, su Kant, Hegel, Schopenhauer, Hamann, Schiller, Nietzsche, Marx e il marxismo, Tocqueville, Heidegger, Spengler, Benn ecc.) è impossibile in questa sede. Mi limiterò a dire che nel dopoguerra Baeumler riprende e rinnova radicalmente il progetto, già implicito nel suo libro su Nietzsche del ’31, di una antropologia filosofica, ma vuole fondarla su quella che chiama una «ontologia relazionale», ossia non sulla ontologia delle sostanze irrelate rispetto alla coscienza, criticata in modo definitivo da Kant, ma basata appunto sul carattere relazionale che Kant assegna alla coscienza. La restaurazione di una prospettiva ontologica significa anche, nell’ottica di Baeumler, riconoscimento di leggi storiche alle quali va commisurata l’azione umana. In un gruppo di appunti del 1945/47 intitolati Hitler e il nazionalsocialismo, Baeumler scrive che la nuova prospettiva ontologica è in primo luogo una critica alla forzatura «idealistica» della realtà operata dal volontarismo, di cui fascismo e nazionalsocialismo non sono che la formula estrema e «caricaturale». «La critica della volontà consiste nell’illustrazione di una nuova ontologia», scrive in un appunto del 1945. La tendenza ideologica più profonda del nazismo è la trasformazione della storia in uno scenario di collisioni tra volontà basate sull’arbitrio e non ancorate a tendenze oggettive: Volontà contro volontà. Non esiste alcuna legge dell’accadere; […] Il nazista è incolto, non conosce affatto ciò che è stato creato dal passato. Crede davvero che tutto cominci con Adolf Hitler. Pensiero astorico. Nazionalsocialismo: caricatura di un movimento religioso, di Hammelsburg, dove Baeumler era stato rinchiuso dopo la fine della guerra, in data 31 luglio 1946 (lo si legge nel fondo Baeumler dell’Institut dell’ für Zeitgeschichte, fasc. ED 318/17). La ricostruzione di una forma democratica di governo, e l’adesione a quella che più tardi Baeumler chiamerà la «Weltkonvention», ossia il sistema dei valori ideologico-politici a cui si richiamano le potenze occidentali e a cui la Germania nella sua storia ha sempre guardato con sospetto, viene vista non come una scelta ma come «l’unica speranza», la sola possibilità di sopravvivenza del popolo tedesco.

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religione da grande magazzino: a poco prezzo, buona per tutti, ebbrezza delle parole.

Alla conoscenza delle leggi storiche vengono sostituite costruzioni illusorie e miti, che sostengono la deformazione idealistica della realtà: il caso più eminente è l’idea del Reich, il maggior responsabile ideologico della catastrofe tedesca nelle riflessioni di Baeumler,, che dà in questi appunti un nuovo contenuto a una vecchia avversione al prussianesimo, presente già negli scritti degli anni ’20 e ’30 e sulla quale tornerò brevemente più avanti. All’idea del Reich non sono connesse solo forme di romanticismo politico che occultano i rapporti reali, ma soprattutto la fatale idea dello sviluppo della Germania in quanto potenza continentale. In una nutrita serie di appunti (46 pagine dattiloscritte) datati 19 novembre 1945 e intitolati la Germania tra l’Occidente e l’Oriente, Baeumler vede nel permanere dell’idea del Reich il motivo per cui non si sono tratte le conseguenze della sconfitta della prima guerra mondiale, e non si è superata l’«immagine storica» che vietando di riconoscere la sua appartenenza all’Occidente ha condotto il paese all’isolamento: l’idea del Reich corrisponde a un modo di pensare «puramente continentale», in continuità con il Reich medioevale, e vincola la Germania alla natura di potenza territoriale, laddove l’epoca moderna è caratterizzata dal predominio delle potenze marittime. In questo modo la Germania si preclude l’accesso da protagonista nella modernità, resta ancorata a un antiquato modo di pensare il mondo – è il caso di Bismarck, rimasto come Metternich, con la sua idea dell’affermazione della Germania come potenza dell’Europa centrale, «all’interno dell’impostazione continentale del passato» – mentre «nella fresca aria salmastra del mare aperto si forma un altro modo di pensare». Ciò che cambia è la struttura stessa del potere e della potenza, non più orientata alla conquista territoriale e alla decisione mediante la guerra, ma tesa a privilegiare le relazioni economiche, a mettere al centro il mercato mondiale e anzi a utilizzare l’economia stessa come principio di potenza, cosicché la stessa conduzione della guerra diventa di natura «totale». Tra i materiali del lascito successivi al ’45 vi è uno scritto, presumibilmente dei primi anni ’60, intitolato Noi tedeschi, in cui Baeumler scrive che la figura e l’ideologia dell’eroe, insieme all’idea del Reich, ha costituito uno dei passaggi fatali per la catastrofe della Germania. Si tratta certamente di un riferimento autobiografico, perché il tema dell’eroe, della vita eroica e del culto

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dell’eroe viene intensamente coltivato da Baeumler dal ’26 al ’31, dunque due anni prima dell’adesione al partito nazionalsocialista3, e viene affrontato attraverso la ricostruzione del pensiero di Bachofen e Nietzsche, e di un ideale dibattito tra i due. Ma bisogna appunto avvertire che il termine «eroico» comincia ad avere cittadinanza nel pensiero di Baumler sei anni prima. Nella lettera aperta a Thomas Mann del 1920 sulle Considerazioni di un impolitico, pubblicata con il titolo Metafisica e storia, Baeumler contrappone alla «metafisica orientale» rappresentata, sulla scia di Schopenhauer e della Nascita della tragedia di Nietzsche, dal Tramonto dell’Occidente di Spengler, con il suo rifiuto «mistico» della storia e dell’unità della cultura, «una visione del mondo non già metafisico-mistica ma bensì eroico-storica», dove la «decisione eroica di prendere su di sé il proprio destino» corrisponde appunto alla capacità di comprensione basata sul possesso di una «logica della storia» filosoficamente elaborata4. Sono gli anni in cui Baumler, all’ombra del neokantismo di Marburg (Cohen) e di Heidelberg (Rickert), progetta in polemica con le varie forme di irrazionalismo, di vitalismo e di biologismo una «logica dell’individualità»5 su cui innestare una teoria delle scienze storiche e della cultura, e di cui la considerazione «eroica» rappresenta, evidentemente, il pendant pratico ed ideologico. I tre lavori attraverso cui vorrei presentare alla vostra attenzione alcuni punti dello svolgersi del tema dell’eroe sono 1) Il saggio che nel 1926, con il titolo L’epoca mitica. Bachofen e l’interpretazione romantica dell’antichità, Baeumler pubblica come introduzione all’antologia del Diritto materno curata dall’amico Manfred Schröter. Si tratta di un lungo saggio, di circa 360 pagine, ma quello che ci interessa in particolare è il secondo capitolo della prima sezione, intitolato Il culto dei morti e la tragedia; 2) il saggio 3 Il 30 aprile 1933, «impressionato dalle elezioni del 5 marzo». In precedenza, Baeumler era entrato in contatto con il movimento nazionalsocialista attraverso i suoi studenti di Dresda, e nell’inverno del 1930/31 aveva invitato Hitler a tenere una conferenza – che non ebbe luogo – per il gruppo locale da lui presieduto della Deutsche philosophische Gesellschaft (dall’orientamento radicalmente conservatore). Un colloquio di un’ora con Hitler ebbe luogo poco dopo, nel marzo1931. Dello stesso periodo è la sua prima conoscenza con Rosenberg, nel celebre salotto monacense della moglie dell’editore Bruckmann. 4 Cfr. A. BAEUMLER, Metafisica e storia. Lettera a Thomas Mann, trad. it di L. Pica Ciamarra, in «Archivio di storia della cultura», XVIII, 2005, p. 378. 5 Cfr. l’articolo ID., Kritizismus und Kulturphilosophie, in «Kant-Studien» XXV, 1920/1921, pp. 411-426.

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Bachofen e Nietzsche del 1929, in cui viene enunciata per la prima volta una caratterizzazione della filosofia di Nietzsche come filosofia eroica e greco-germanica; 3) il celebre libro Nietzsche filosofo e politico, ampiamente discusso da Lukács nella Distruzione della ragione come esempio di una lettura nazionalsocialista di Nietzsche. Baeumler ha più volte protestato contro l’assimilazione del suo libro all’ideologia nazionalsocialista, e non senza ragione, se non altro perché esso è l’espressione di un lungo, coerente e sempre più fitto confronto con la filosofia di Nietzsche i cui inizi, come mostrano alcuni appunti di diario del periodo studentesco, datano addirittura dal 1908 (inizialmente Baeumler era stato attratto dall’Inattuale di Nietzsche sulla storia)6. Questo libro è anche il punto di partenza delle celebri lezioni di Heidegger su Nietzsche iniziate nel 1936: Heidegger apprezza che l’opera di Nietzsche venga sottratta a una lettura psicologizzante (come sono invece quelle di Klages e di Jaspers) e venga considerata – anche se poi Heidegger non condivide le conclusioni di Baeumler – come un sistema filosofico coerente. Nel saggio del ’26 su Bachofen, Baeumler legge la Nascita della tragedia come il risultato del clamoroso fraintendimento di un fenomeno religioso: sulla scia di Creuzer, Nietzsche è indotto a vedere il dio Dioniso esclusivamente nella forma e nella tradizione del Dioniso orfico, mentre gli sfugge la dimensione ctonia del dio, non il suscitatore dell’estasi, ma «il dio delle anime che hanno preso commiato»7. È questa invece la dimensione che fa di Dioniso il padre della tragedia e che Nietzsche non può vedere perché «il mondo della religione ctonia nel suo complesso rimane, dall’inizio alla fine, al di fuori delle sue conoscenze e del suo interesse». La mancanza in Nietzsche dello sguardo simbolico, di cui invece è dotato Bachofen, sulla realtà religiosa dell’antica Grecia, fa sì che egli fraintenda del tutto la natura della tragedia e faccia di essa un fenomeno puramente «estetico», la cui spiegazione viene cercata, mediante la combinazione di concetti filosofici e di una psicologia completamente astorica, nel fenomeno dell’entu6 ID., Aus den Tagebüchern der Schul- und Studentenzeit: copie del manoscritto e del dattiloscritto sono conservate a Monaco e a Costanza. 7 ID., Das mythische Weltalter. Bachofens romantische Deutung des Altertums, München, Beck 1965, pp. 257 e 267. Si tratta della riedizione, immodificata, dell’introduzione alla scelta J. J. BACHOFEN Der Mythus von Orient und Occident. Eine Metaphysik der alten Welt, a cura di Manfred Schröter, München, Beck 1926.

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siasmo e dell’estasi, costituenti in realtà entrambi una «esperienza elementare» che non può valere come «elemento formativo» per la genesi della tragedia. Essa ha origine invece – e Baeumler lo avrebbe poi ribadito in forma divulgativa in un articolo intitolato Il sorgere della tragedia dal culto dei morti e pubblicato nel «Völkischer Beobachter» (n. 111/112 del 21/22 aprile 1935), il giornale del partito nazionalsocialista, dal culto funebre dell’eroe nel suo significato sacrale. L’argomentazione di Baeumler si basa sulla distinzione tra la dimensione epica e la dimensione sacrale o tragica dell’eroe. Il tempo dell’epica è il passato trasfigurato in una dimensione di assenza del tempo ed essa ci presenta l’eroe come se non fosse morto, il tempo della tragedia invece è il divenire presente del passato, il ritorno sulla scena degli eroi morti. La tragedia è in tutto e per tutto, scrive Baeumler, «evocazione dei morti», sono le ombre dei morti quelle che si muovono sulla scena: «Dell’eroe epico non si pensa che esso è un trapassato, l’eroe in senso sacrale invece appartiene per propria natura ai morti», e ancora: «bisogna attribuire alla parola “eroe” tutto il significato di gravità e di orrore che l’uomo religioso prova di fronte a un essere demoniaco, che agisce provenendo dalla tomba, per capire cosa significa nel sesto secolo il termine “ditirambo eroico”»8. Baeumler non poteva sapere, come oggi noi sappiamo grazie all’edizione critica dell’opera postuma di Nietzsche, che lo stesso Nietzsche, diventato ben presto critico nel confronti del suo capolavoro giovanile, avrebbe avanzato, anche se in poche e frammentarie annotazioni, una interpretazione non molto dissimile dell’origine della tragedia, facendo di essa un genere nato dalle grandi manifestazioni del lutto favorite, per motivi politici, dal tiranno Pisistrato9. Importante è invece, anche per la successiva definizione del concetto di eroico che Baeumler tenterà in seguito, il fatto che qui per lui l’opposizione tra l’eroe sacrale e l’eroe epico poggia su una distinzione di carattere ontologico tra l’essere e il divenire. L’eroe morto e la tragedia che ne celebra il lutto appartengono – come in generale la religione ctonia – alla sfera del generarsi e del trapassare, laddove l’epos omerico, che si è lasciato alle spalle l’idea di generazione e di divenire propria della 8

A. BAEUMLER, Das mythische Weltalter, cit, pp. 53 e 67. Cfr. in particolare il frammento 6 [29] dell’estate 1875. Su questa interpretazione nietzscheana dell’origine della tragedia mi permetto di rimandare a S. BARBERA, Friedrich Nietzsche dal mito alla tradizione, in «Belfagor» LVIII, 2003, fasc. IV, pp. 416-417. 9

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Teogonia di Esiodo, presenta figure eroiche e divine che hanno preso commiato da questa dimensione, hanno fatto astrazione dal tempo e dalla morte. «Anche gli dei di Omero sono divenuti – scrive a un certo punto Baeumler –, ma al sentimento religioso essi appaiono come essenti (seiend): l’Olimpo è in tutto e per tutto statico, il mondo degli dèi riposa nella luce sempre uguale dell’essere»10. Tornerò brevemente più avanti sull’importanza di questa distinzione. I due capitoli della prima sezione del saggio su Bachofen hanno un ruolo centrale nell’economia dell’opera, e benché si muovano sul piano astratto di una riflessione storiografica e filosofica sulle strutture della temporalità implicite nei generi letterari dell’epica e della tragedia, non sono certamente prive di rapporti con la preoccupazione, che Baeumler esprimeva in sedi meno paludate e accademiche, di definire la forma che deve assumere il culto dei morti e dei caduti nella politica tedesca del dopoguerra. Mi sembra interessante osservare che sia nel saggio su Bachofen, sia nell’articolo del ’29 Bachofen e Nietzsche , che già presenta apertamente Nietzsche come l’autore di una filosofia eroica e lui stesso come «combattente virile (männlicher Kämpfer)», il centro di gravità del discorso non è il mito ma il culto. Fare nascere la tragedia da un mito anziché da un culto è stato anzi l’errore fondamentale di Nietzsche, il quale per giunta concepisce il mito come la creazione artistica di un singolo. Nelle sue insistenti obiezioni al «wagnerismo» della Nascita della tragedia Beaumler sembra quasi ripetere alla lettera la critica che Wilamowitz aveva mosso a quell’opera subito dopo il suo apparire: cosa ha a che fare la tragedia attica con il dramma musicale di Wagner? Ma l’obiezione di Baeumler non è, come quella, sacrosanta, di Wilamowitz, un’accusa di antistoricismo, ha invece un altro significato: Baeumler coglie con acutezza che il programma celato nella Nascita della tragedia è la rinascita, la rigenerazione della comunità sulla base di un mito greco-germanico, ma appunto un mito costruito dal genio artistico, ossia dalla massima espressione dell’individualità, e per giunta con la esplicita consapevolezza del suo carattere illusorio e artificiale (Nietzsche ne parla come di una «Wahnvorstellung»,, di una rappresentazione illusoria che il genio offre alla comunità sofferente per lenirne il dolore). È in questa origine geniale e artificiale del mito, per lui, che risiede il carattere emi-

10

A. BAEUMLER, Das mythische Weltalter, cit., p. 81.

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nentemente wagneriano della Nascita della tragedia. Quello che Baeumler vuole dire con l’alternativa tra culto e mito risulta ancora più chiaro se lo confrontiamo con due scritti rispettivamente del ’29 e del ’30, Il significato della grande guerra e la conferenza tenuta alla comunità studentesca di Dresda11: in entrambi i casi la rigenerazione della Germania, il superamento dell’umiliazione di Versailles, dipende dalla comunità religiosa del popolo con i caduti, possibile perché con la guerra esso ha condiviso la loro stessa esperienza. Quel che Baeumler intende dire è chiaro: il nuovo nazionalismo non ha bisogno di nessun mito, soprattutto di nessun mito escogitato o artificiale, deve solo fare assumere all’evento storico vissuto in forma collettiva una dimensione cultuale. Qualcosa di non molto diverso dirà negli stessi anni Ernst Jünger, che Baumler conosce personalmente nel ’28 e con cui, in una lettera a Walter Eberhardt dello stesso anno, dichiara di avere una profonda affinità nella concezione della vita eroica. Jünger insegnava infatti che la vita del soldato in trincea, schiavo dell’esasperazione bellica della tecnica con il suo dinamismo, distruttivo di ogni forma stabile, è una riduzione dell’esistenza umana a forme espressive elementari (commentando i romanzi o diari di guerra dei combattenti Walter Benjamin parlava di un colossale «impoverimento dell’esperienza» a cui essi vengono sottoposti), a una serie di gesti rituali che da loro stessi determinano un nuovo stile di vita, senza bisogno che esso si fondi su un mito escogitato dall’esterno. Per Jünger è come se, insomma, la forma estrema della modernità producesse da se stessa un potente arcaismo semplificatore, che assume un valore fondativo per la nuova comunità nazionale. L’articolo del ’29 Bachofen e Nietzsche è per così dire la realizzazione letteraria di un programma politico che Baeumler aveva formulato in una serie di appunti, anch’essi inediti, del 1928, e che parlano di una imminente «svolta nella storia del mondo» con la distruzione della «forma borghese di vita». Si tratta di una dinamica oggettiva che va sostenuta attraverso un programma ideologico capace di raccogliere intorno a sé le forze di avanguardia atte a governare e accelerare la trasformazione. In questo contesto egli scrive: «Io introduco la nuova ideologia con Bachofen e con Nietzsche. Ctonio-eroico».

11 Contenuti in A. BAEUMLER, Männerbund und Wissenschaft, Berlin, Junker und Dünnhaupt 1943 (1a ed. 1934).

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Queste note, raccolte in un fascicolo intitolato Appunti sulla storia europea e tedesca 1928-1931, rappresentano uno dei pochi documenti sistematici di pugno di Baeumler di cui disponiamo per decifrare la sua posizione politico-ideologica che precede immediatamente il libro su Nietzsche. Gli appunti prendono le mosse dalla percezione di una situazione estrema di distruzione dei vecchi ordinamenti («Ciò che vi è d’intorno non è che un vortice di rovine. Solo la Russia si è salvata»), e dalla caratterizzazione della Germania come unico paese europeo potenzialmente rivoluzionario nel suo contrapporsi alla «Santa Alleanza della reazione», le potenze borghesi Inghilterra, Francia e America. La guerra, il cui significato è rinchiuso nella formula «Eroismo contro cittadinismo», significa la fine dell’epoca «gotica», ossia della sicurezza borghese che si esprime nella forma di vita cittadina – la città difesa dalle mura e sede dei commerci, in cui si sviluppa uno stile di vita antitetico a quello del guerriero che combatte in campo aperto. Gli Appunti elencano fin dallo inizio la serie di antitesi che saranno costitutive per il pensiero di Baeumler, tra germanismo/ grecità/eroismo da una parte, romanismo e urbanismo dall’altra, infine tra donna e lega virile. La resistenza e la lotta del popolo germanico contro la romanizzazione sono rivolti anche contro l’urbanizzazione e «la storia tedesca è la storia dell’urbanizzazione di un popolo che intimamente si oppone a questa urbanizzazione». Il guerriero germanico combatte il nemico in campo aperto, è organizzato nella struttura feudale del séguito che obbedisce al suo condottiero e che costituisce il nucleo virile dello stato germanico, laddove l’urbs difesa dalle mura, istituzione appartenente in origine al diritto materno, è la sede della società-femmina, del godimento contrapposto al duro lavoro agreste, infine dei diritti dei cittadini sanzionati dal diritto romano e realizzati nella cornice di uno stato di funzionari all’interno e all’esterno (pax romana) fino alle conseguenze moderne di uguaglianza, democrazia, socialismo. Qui dunque la diade urbanismo-romanismo si perfeziona con l’attribuzione di essa al principio femminile, mentre per contrasto viene accentuato il carattere di lega virile del patto tra il guerriero e il suo séguito. Lo stesso significato assume, nel Bachofen e Nietzsche, l’attribuzione a Nietzsche della definizione di «combattente virile». È però interessante notare che in questi appunti la prospettiva eroica interviene anche in una funzione di tattica politica. Affascinato probabilmente, come confermano numerose testimonianze, dall’esempio della politica leniniana, Baeumler ha in mente, con una prospettiva che sembra essere assai meno let-

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teraria ed estetizzante di quella di Jünger, la creazione di un partito basato sull’alleanza di operai e contadini. I primi acquisiscono attraverso lo sviluppo tecnico del lavoro un’attitudine soldatesca ed eroica (e in questo Baeumler è certamente vicino all’endiadi di Jünger operaio-soldato), nei secondi l’eroismo è implicito già nella dura lotta contro la terra. La ideologia eroica ha un fondamentale ruolo politico, tutt’altro che retorico, in questo trasferimento della strategia bolscevica alla prospettiva nazionalistica, perché rappresenta l’istanza ideologica che può fare da cemento per l’alleanza delle due classi, altrimenti separate dagli interessi puramente economici. Questa tonalità «bolscevica» o «nazionalbolscevica» degli appunti tuttavia non è completamente assimilabile alla prospettiva di Niekisch: fin da questi anni, come sarà per motivi diversi dopo il ’45, Baeumler rifiuta il modello prussiano di rinascita del Reich e contro l’«ammiratore di Bismarck» Niekisch obietta che «la nuova formula non può essere «più Prussia» (Niekisch). Questo sarebbe reazione». Il nuovo fondamento della rinascita deve essere invece «il più antico», ossia va ricercato nell’affinità Grecia – Germania come potenze basate sull’agone, che si oppongono perciò alla forma di esistenza esprimentesi nell’urbanismo, nel romanismo e nella sicurezza borghese. Il tema viene riformulato nell’articolo del ’29 su Nietzsche e Bachofen, dove si argomenta che la cultura borghese ha il suo culmine nella «cultura statale di tipo prussiano» con cui Hegel ha cercato una sintesi tra tradizione greca e tradizione cristiana, ma che Nietzsche rifiuta proponendo un’alternativa radicale tra grecità e cristianesimo. La grecità di Nietzsche non ha nulla a che fare con il mito fondativo della comunità rigenerata di cui parla la Nascita della tragedia, né con la categoria del dionisiaco, ma con il fatto che la Volontà di potenza, la formulazione estrema e più astratta del sistema di Nietzsche, non è altro che il compimento del suo giovanile eraclitismo, espresso nello scritto La filosofia nell’epoca tragica dei greci, coevo alla Nascita della tragedia, non pubblicato in vita da Nietzsche e che Baeumler considera come la vera alternativa ad essa, anzi l’espressione più genuina del pensiero di Nietzsche, qui non contaminato da elementi wagneriani. Gli scritti postumi di Nietzsche, allora noti grazie alle edizioni curate dall’Archivio Nietzsche di Weimar, e che Baeumler riprenderà in parte in una propria edizione curata per l’editore Kröner, costituiscono per Baeumler un testo unitario e sistematico – anzi malgrado la (apparente) frammentarietà la vera espressione del carattere sistematico della filosofia di Nietzsche – che si distende senza so-

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luzione di continuità per l’appunto dalla Filosofia dell’epoca tragica fino alla Volontà di potenza, laddove paradossalmente, secondo lui, sono proprio le opere edite a mostrare oscillazioni, frammentarietà e discontinuità. Nietzsche è il pensatore della forma eroica di vita rivelata dalla guerra. La categoria di «realismo eroico», poi introdotta nel libro su Nietzsche, ha a che fare con i due concetti eraclitei della guerra e del divenire che Nietzsche fa propri, ossia con una concezione della realtà come divenire basato sul conflitto che può risolversi in sempre nuovi equilibri, ma non può trovare conciliazione nella stabilità di un essere, di un sistema di valori permanenti e universali, che si tengono fuori dalla contesa e che corrispondono a ciò che Baeumler chiama, fin dallo scritto su Bachofen e Nietzsche, la sicurezza borghese. Detto qui per inciso solo dopo il ’45, sia grazie a un mutamento complessivo e radicale della sua interpretazione di Nietzsche12 sia grazie alla lettura del Parmenide di Karl Reinhardt, che mostra il carattere convenzionale dell’immagine di Eraclito come filosofo di un divenire inteso come fluire continuo e privo di strutture permanenti, Baeumler si convincerà del carattere insostenibile della sua vecchia interpretazione, e cancellerà del tutto l’aspetto agonistico-conflittuale dalla sua ricostruzione di Nietzsche. Importante è comunque che la forma eroica di vita non ha a che fare in Baeumler, – e nemmeno nella versione dell’eroe germanico come traduzione moderna dell’eraclitismo – con l’istituzione di un mito o di una immagine dell’eroe, ma piuttosto con la affermazione di una filosofia della partecipazione all’assoluto divenire, una filosofia dell’azione (stavo per dire una filosofia dell’atto), che non ha scopi esterni all’azione stessa. La volontà di potenza, che riassume il senso del realismo eroico, non è affatto una volontà che ha come fine la potenza o il potere (Macht). Scrive Baeumler: E neppure la volontà è tesa a qualcosa – tutte queste rappresentazioni falsificano la realtà della volontà. Ad essa non appartiene scopo alcuno, è l’eterno divenire stesso, che non conosce scopo. Questo divenire è una lotta. Cos’è allora il volere? Nietzsche spiega: “volere in generale equivale a voler diventare più forti, a voler crescere – e a volere anche i mezzi per ottenere ciò” (Volontà di potenza, 675). La

12 Su questo vd. S. BARBERA, “Er Er wollte zu Europa, wir wollten zum Reich”. Anmerkungen zu den Nietzsche-Interpretationen von Alfred Baeumler, in Nietzsche nach dem ersten Weltkrieg, a cura di S. Barbera e R. Müller-Buck, Pisa, ETS 2006, pp. 199-234.

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forza non è uno scopo della volontà, perché è la volontà stessa. La volontà dunque ‘vuole’ solo se stessa […]13.

Mondo dell’essere, mondo degli scopi consapevoli, dei valori e della coscienza, mondo delle sostanze, inclusa l’idea di un soggetto dell’azione, di un «agente» esterno all’azione stessa, sono concezioni «idealistiche», estranee al realismo eroico. Nel quadro di questa filosofia dell’azione e di un divenire senza soggetto il primato del corpo diventa per Baeumler non solo la manifestazione del genuino istinto ellenico di Nietzsche, ma anche «la più perfetta manifestazione della volontà di potenza […] il fenomeno in cui ritroviamo la più pura impronta di tutti i tratti di questa volontà»14: il corpo è una «formazione politica» che dà forma immanente alle parti in conflitto, mostrando che dalla lotta stessa scaturisce l’ordine o l’ordinamento gerarchico (Rangordnung), e d’altro lato non è una realtà biologica ma simbolica, così come sono simbolici gli istinti che attraverso esso si manifestano. L’opposizione simbolico-biologico, che Baeumler affronta anche in altri scritti editi e inediti del periodo, rappresenta un aspetto importante del libro su Nietzsche, e si esprime tra l’altro nella polemica verso il non infrequente indulgere di Nietzsche al riduzionismo biologico. In ogni modo è nella filosofia del corpo come sintesi di lotta e ordine che si manifesta nel modo più netto il carattere eracliteo della filosofia di Nietzsche, e il fondamento della sua antropologia è contenuto nella «rivolta contro la coscienza». Rovesciando completamente questa interpretazione, dopo il ’45 Baeumler farà invece di Nietzsche un filosofo della coscienza, intesa non come soggetto ma come campo di relazioni, e della distanza critica dall’azione, dall’immediatezza e dal primato della volontà. Ma nel Nietzsche del ’31 il gioco delle forze che si svolge nell’organismo, inaccessibile alla filosofia dello spirito, ragione o coscienza, che di quel gioco sono solo epifenomeni, rappresenta il fondo da cui emerge l’azione, secondo la concezione di «dinamismo germanico» a cui Baeumler ha continuato a fare riferimento, come ad esempio nello scritto del ’43 su Rosenberg: Anche l’uomo creativo dall’intelletto più chiaro non è mai un puro intelletto. Tutto ciò che all’improvviso ci sta davanti come nato dal

13 A. BAEUMLER, Nietzsche der Philosoph und Politiker, Leipzig, Reclam 1931, p. 47. 14 Ivi, p. 60.

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nulla, i liberi progetti dell’anima per i quali non vi è alcuna indicazione preventiva nei contesti che ci sono dati, viene fuori da un punto che rimane sempre oscuro15

oppure nell’influente discorso, di nove anni prima, Das Reich als Tat, dove l’azione ha le sue radici «in una decisione di profondità insondabile», non può essere concepita come «realizzazione» di una elaborazione concettuale ed esige il simbolo come suo linguaggio adeguato16. Nell’articolo La lotta intorno all’umanesimo (1936), Baeumler parla di un’epoca di «depotenziamento della parola» e di predominio dei simboli, intesi come un linguaggio comprensibile alla corporeità, e vede il carattere antiumanistico del «movimento greco» inaugurato da Winckelmann e proseguito da Herder in un atteggiamento antiletterario che anziché privilegiare la rappresentazione interiore legata alla parola muove dal primato delle arti plastiche, del «vedere» e della «intuizione vivente». Il linguaggio simbolico-corporeo non è affatto in connessione con un recupero di un modo arcaico di vita o di un mito passato, è piuttosto un linguaggio eminentemente moderno, legato all’affermarsi della civiltà di massa. Proprio in questo senso, fin dagli anni del saggio su Bachofen, Baeumler polemizza aspramente contro il movimento giovanile, che cerca i propri simboli in un passato nazionalpopolare: «in questi circoli si crede di avere accesso al simbolo di una nuova comunità quando si cantano vecchi canti popolari», il compito è invece quello, attraverso il linguaggio simbolico del corpo basato sul fluire continuo degli istinti e delle loro collisioni, di afferrare una «sostanza» che sta sotto il carattere effimero, estatico, di «ebbrezza momentanea» determinata delle nuove forme di aggregazione della comunità, come il cinema o lo sport. L’esempio di una autentica creazione di simboli della vita moderna gli veniva, del resto, fin dal 1927/28, dai movimenti di massa dell’Unione Sovietica ed egli stabiliva che «solo la popolazione metropolitana ha ancora, in quanto massa, la capacità di creare simboli, e si tratta sempre di un istinto genuino». Ma per tornare a noi, questa natura dell’eroico come, si potrebbe dire, categoria portante di una filosofia del divenire riceve 15 A. BAEUMLER, Alfred Rosenberg und der Mythos des 20. Jahrhunderts, München Hoheneichen-Verlag 1943, p. 10. 16 ID., Das Reich als Tat (1934), in ID., Politik und Erziehung. Reden und Aufsätze, Berlin, Junker und Dünnhaupt 1937, pp. 7-15. Appartiene alla stessa raccolta anche il saggio La lotta intorno all’umanesimo.

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contorni ancora più chiari se si considera che Baeumler l’aveva formulata, ben prima di entrare in contatto con la cerchia di Jünger e avere dichiarato il suo entusiasmo per il diario, o finto diario di guerra Nelle tempeste d’acciaio, in una serie di lezioni accademiche sull’etica tenute a Dresda nel semestre invernale 1927/28, e di cui possediamo il testo di pugno di Baeumler (si tratta di uno dei pochi manoscritti che ha scelto di salvare dalla distruzione delle sue carte nel 1945)17. Qui ricompare l’endiadi eroico-tragico già affrontata nell’Introduzione a Bachofen, ma a due anni di distanza l’eroico sacrale, connotato dalla transitorietà e dalla temporalità, è diventato l’eroico in quanto immanenza al divenire, all’agire, di nuovo in un’accezione non molto diversa da quella che il termine ha nella lettera aperta a Thomas Mann. «Tragica» è la situazione etica in quanto conflitto sia all’interno dell’individuo tra i gli istinti, sia tra gli individui tra loro e con la comunità – tragico, dunque, è il mondo del conflitto considerato da una prospettiva esterna e statica, «l’eroico» invece è la categoria che esprime la decisione e l’azione che trasforma gli equilibri interni del conflitto, mantenendosi interna al divenire di questa trasformazione. «L’uomo etico – scrive Baeumler – è l’uomo eroico, non l’uomo che tragicizza se stesso. Solo chi guarda da fuori può trovare tragica questa vita etica». Il fatto che la categoria dell’eroico stia al centro della filosofia dell’azione di Baeumler ci spinge a un ulteriore confronto con Jünger, con cui vorrei chiudere, sia pure in modo provvisorio, queste considerazioni. Tra le molte concezioni che uniscono i due, la più decisiva è quella che la guerra ha significato una trasformazione epocale irreversibile e ha plasmato la vita umana «fin nell’intimo dei nervi», ciò che vale, come scrive Jünger nel saggio Mobilitazione totale, sia per gli eserciti sia per le popolazioni civili. In entrambe le visioni del mondo c’è un evidente tratto futuristico, e Carl Schmitt ha acutamente connotato il dinamismo della tecnica in Jünger – e la categoria di lavoro che ne consegue – come un actus purus. Ma mentre, come ho cercato di mostrare, Baeumler vede nel realismo eroico della volontà di potenza la possibilità di mantenere la fluidità dell’actus purus, di impedire che l’eterno divenire sia immobilizzato dagli ordinamenti che esso stesso crea, cosicché l’eroe o il «guerriero virile» presentato da Nietzsche è costretto a nuotare senza protezioni nel

17 Il testo è presente in forma manoscritta sia nell’archivio Monaco sia, in fotocopia, in quello di Costanza, con il titolo Vorlesungen über Ethik.

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fiume eracliteo di cui è esso stesso il simbolo, il dinamismo della tecnica che Jünger enfatizza, anche nella funzione nichilistica di distruzione della stabilità borghese, si irrigidisce poi, come aveva giustamente notato Delio Cantimori in un suo esemplare saggio degli anni ’3018 dove parlava del «platonismo» di Jünger, in tipi, figure o forme che pretendono poi di avere la stessa estraneità al divenire, appunto, delle idee platoniche.

18 D. CANTIMORI, Ernst Jünger e la mistica milizia del lavoro (1935): lo si legge ora in ID., Politica e storia contemporanea. Scritti 1927-1942, a cura di L. Mangoni, Torino, Einaudi 1991, pp. 209-225.

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BIBLIOGRAFIA DEGLI SCRITTI DI SANDRO BARBERA *

1971 Premessa e traduzione di G. LUKACS, Vecchia e nuova Kultur, «Quaderni Piacentini» X, 1971, pp. 185-195. 1973 Marx al cabaret fenomenologico, recensione a P. A. ROVATTI, Critica e scientificità in Marx, «Quaderni Piacentini», XII, 50, 1973, pp. 168-173. 1974 1) Recensione a H. J. W. KOCH, Der Sozialdarwinismus […], «Rivista di filosofia», LXV, 1974, pp. 72-76. 2) (con A. Iacono) A proposito di teoria politica e socialismo, «Quaderni Piacentini», XIII, 53/54, 1974, pp. 149-167. 1975 Primitivismo e storia nazionale, «Rivista di filosofia», LXVI, 1975, fasc. 3, pp. 418-437. 1976 L’antimarxismo tascabile di Domenico Settembrini, «Quaderni Piacentini», XV, 60/61, 1976, pp. 189-194. 1977 Traduzione di saggi e capitoli di Dilthey, Windelband, Rickert, Simmel,

* La bibliografia è stata raccolta da Mirella Scardozzi Barbera, utilizzando alcuni elenchi di titoli presenti nel computer di suo marito, l’Anagrafe della ricerca dell’Università di Pisa (http://arp.unipi.it) e la pagina in memoria apparsa su «Belfagor» (LXIV, 2, 2009, p. 234), per la quale si ringrazia sentitamente la redazione della rivista. Delle monografie si riporta l’indice, contrassegnato dal segno *.

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BIBLIOGRAFIA

Spengler, Troeltsch, Meinecke, in Lo storicismo tedesco, a cura di P. ROSSI, Torino, UTET 1977. 1978 1) Per una nuova lettura di Hegel, «L’Era. Bimestrale di lettere e arti», III, 1978, 3, pp. 6-12. 2) Recensione a E. DE MARTINO, La fine del mondo, «Librioggi», 1978, 3, p. 8. 1979 1) Recensione a R. BODEI, Sistema ed epoca in Hegel, «Hegel-Studien», XIV, 1979, pp. 386-388. 2) Recensione a Carteggio Croce-Omodeo, «Studi di filosofia, politica e diritto», II, 1979, pp. 176-180. 3) (con G. Campioni) Cantimori: politica, ideologie e coscienza storica, «Rinascita», 2 marzo 1979, p. 25. 1980 1) Forme del sacro in epoca di crisi, «Il Ponte», XXXVI, 1980, pp. 245249. 2) (con G. Campioni) Delio Cantimori critico dell’attualismo. Gli inizi filosofici (1922-28), «Il Ponte», XXXVI, 1980, pp. 723-737. 3) (con G. Campioni) Passione della conoscenza e distruzione dei miti. Musil e Nietzsche, «Studi tedeschi», XXXIII, 1980, pp. 357-419. 1981 1) voci: Benedetto Croce, Ernesto De Martino, Lucien Levy-Bruhl, Gyorgy Lukàcs, in La cultura del Novecento, I, Milano, Mondadori 1981, pp. 153-157, 162-167, 190-194, 195-200. 2) Luigi Russo polemista: un libro, «Il Ponte», XXXVII, 1981, pp. 137142. 3) (con G. Campioni) Dalla filosofia alla storiografia: gli inizi di Delio Cantimori (1922-37), in G. CAMPIONI, F. LO MORO, S. BARBERA, Sulla crisi dell’attualismo. Della Volpe, Cantimori, De Ruggiero, Lombardo-Radice, con una introduzione di E. Garin, Milano, Franco Angeli 1981, pp. 37-152. 1982 1) (con G. Campioni) Conoscenza e volontà di potenza nella lettura musiliana di Nietzsche, in Nietzsche e la cultura contemporanea, a cura di M. Bertaggia, Venezia, Arsenale Coop. Edit. 1982, pp. 39-52. 2) Due studi tedeschi su Weber, «Il Ponte», XXXVIII, 1982, pp. 476-484. 3) Traduzione di E. MACH, Conoscenza ed errore, Torino, Einaudi 1982. 1983 1) (con G. Campioni) Il genio tiranno. Ragione e dominio nell’ideologia

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BIBLIOGRAFIA

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dell’Ottocento: Wagner, Nietzsche, Renan, Prefazione di M. Montinari, Milano, Franco Angeli 1983. * Il genio e la città: Schopenhauer, Wagner, Nietzsche – Il romanticismo e la macchina – L’illusione e la musica – Il romanticismo e la scienza: Nietzsche, Wagner, Renan – Il caso Renan. “Due antipodi” – Appendice: Robert Musil, una lettura “inattuale” di Nietzsche. 2) (con G. Campioni) L’«Anti-Darwin» di Friedrich Nietzsche, «Il Ponte», XXXIX, 1983, pp. 30-37. 3) (con G. Campioni) L’illusione e la musica. Note su Wagner e il giovane Nietzsche, in Nietzsche. Verità/interpretazione, alcuni esiti della rilettura. Atti del convegno di studi nietzschiani, Rapallo 2-4/12/1981, a cura di A. Monti, Genova, Tilgher 1983, pp. 31-71. 4) Una filosofia della comunicazione, in Giorgio Colli. Incontro di studio, a cura di S. Barbera e G. Campioni, Milano, Franco Angeli 1983, pp. 41-46. 1984 1) La comunicazione perfetta. Wagner tra Feuerbach e Schopenhauer, Pisa, Serv. Edit. Univers. 1984. * Cap. I: Il teatro di legno – Romanzo e dramma. Una teoria del mito – Il teatro invisibile – Comunicazione magica – La filosofia di Tristano. Cap. II: “Durch Mitleid wissend…” – Il primato dell’immagine – Il sublime musicale e la teodicea. 2) Nietzsche,Wagner e la grande città, in Richard Wagner e Friedrich Nietzsche. Atti del convegno, Torino 10-11/3/1983, a cura di E. Fubini, Milano, Unicopli 1984, pp. 103-116. 3) (con G. Campioni) Wissenschaft und Philosophie der Macht bei Nietzsche und Renan, in Grundfragen der Nietzsche-Forschung, hrsg. von M. Montinari und B. Hillebrand, Internationales Nietzsche-Seminar Wissenschaftkolleg zu Berlin, «Nietzsche-Studien», XIII, 1984, pp. 279-315. 4) La comunicazione perfetta. Wagner tra Feuerbach e Schopenhauer, in Wagner:: la lingua, la musica. Atti del convegno, Ravenna 18-20/11/1983, 18-20/11/1983 a cura di F. Masini e L. Pestalozza, Milano, Unicopli 1984, pp. 131-152. 5) Traduzione e cura di K. ROSENKRANZ, Estetica del brutto, Bologna, Il Mulino 1984. 1985 Traduzione di F. ASPETSBERGER, Smorfie metafisiche. Il modello biografico nel romanzo tra le due guerre e F. WALLNER, Conoscenza per straniamento, in A. G. GARGANI (a cura di), La crisi del soggetto. Esplorazione e ricerca del sé nella cultura austriaca contemporanea, Firenze, La Casa Usher 1985, pp. 67-92 e 101-108. 1986 Capitoli Teatro espressionista, Alfred Döblin, Bertolt Brecht, Ernst Jün-

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ger in Profilo storico della letteratura tedesca, a cura di A. Reininger, Torino, Rosenberg & Sellier 1986; 2ª ed. riveduta e ampliata, Torino 1996, pp. 397-401, 418-420, 432-435, 450-452, 468-471, 490-491. 1987 Antonio Labriola e il positivismo, «Critica marxista», 1987, 4, pp. 65-90, ristampata in Antonio Labriola nella cultura europea dell’Ottocento, a cura di F. Sbarberi, presentazione di E. Garin, Manduria/Bari/Roma, Lacaita 1988, pp. 39-52. 1988 1) Dall’attimo al fenomeno originario. Immagini del tempo in Schopenhauer, in Undici conferenze sul tempo, a cura di E. De Angelis, Pisa, Jacques 1988, pp. 133-170. 2) Mazzino Montinari e il problema della biografia di Nietzsche, «Dimensioni», XIII, giugno-dicembre 1988, pp. 51-58. 1989 1) Der “griechische” Nietzsche des Giorgio Colli, «Nietzsche-Studien», XIX, 1989, pp. 83-102. 2) Schopenhauer e Goethe: dall’attimo al fenomeno originario, «Iride», I, gennaio-giugno 1989, pp. 41-63, tradotto come Vom Augenblick zum Urphänomen. Anmerkungen zu Schopenhauer und Goethe, «Philosophischer Taschenkalender», I, 1993, pp. 58-80. 3) Lettere inedite di Antonio Labriola, «Giornale critico della filosofia italiana», LXVIII, 1989, pp. 419-425. 4) “Presenza” e “mondo”. Modelli filosofici nell’opera di Ernesto De Martino, in La contraddizione felice? Ernesto De Martino e gli altri, a cura di R. Di Donato, Pisa, ETS 1989, pp. 103-127. 5) Traduzione di G. KNEPLER, La storia che spiega la musica, Milano, Ricordi 1989. 1990 1) Goethe e il disordine. Una filosofia dell’immaginazione, Venezia, Marsilio 1990. * Il ritorno di Oreste - L’uomo di cinquant’anni – Il disordine del tempo nelle “Affinità elettive” – La “Gradiva” di Goethe. Su “Ifigenia in Tauride”. 2) Recensione a S. NATOLI, Gentile filosofo europeo, «Belfagor», XLV, 1990, pp. 247-248. 3) Il castello di Kafka. Itinerario di un’immagine, «Belfagor», XLV, 1990, pp. 403-416. 4) Apollineo e Dionisiaco. Alcune fonti non antiche di Nietzsche, «Linguistica e Letteratura», 1990, pp. 23-48; poi in La biblioteca ideale di Nietzsche, a cura di G. Campioni e A. Venturelli, Napoli, Guida 1992, pp. 45-70; tradotto come Das Apollinische und das Dionysische.

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Einige nicht-antike Quellen bei Nietzsche, in D. CONWAY/ R. REHM (Hrsg.), Nietzsche und die antike Philosophie, Bochumer Altertumswissenschaftliches Colloquium, Bd. 11, 1993, 131-152. 5) Recensione a A. PUSCEDDU, La sociologia positivistica in Italia, «Giornale critico della filosofia italiana», LXIX, 1990, pp. 141-143. 1991 1) Note su Gottfried Benn collaboratore di Hindemith in Paul Hindemith nella cultura tedesca degli anni Venti. Atti del convegno internazionale, Milano 25-27/5/1987, a cura di C. Piccardi, Milano, Ricordi/Unicopli 1991, pp. 265-277. 2) Recensione a E. NOLTE, Nietzsche und der Nietzscheanismus, «Belfagor»,, XLVI, 1991, p. 118. 3) Traduzione di H. M. ENZENSBERGER, Gli eroi della ritirata, «Belfagor», XLVI, 1991, pp. 206-210. 4) Recensione a G. COLLI, La sagesse grecque, «Belfagor», XLVI, 1991, pp. 243-244. 5) Recensione a M. HEIDEGGER, K. JASPERS, Briefwechsel. 1920-1963, «Belfagor», XLVI, 1991, pp. 363-364. 6) Recensione a CESARE PAVESE, ERNESTO DE MARTINO, La collana viola. Lettere 1945-1950, «Belfagor», XLVI, 1991, pp. 593-598. 7) Traduzione di R. DEBRAY, A domani, presidente. De Gaulle, la sinistra, la Francia, Venezia, Marsilio 1991. 1992 1) Le disavventure di Nietzsche in casa Bollati. Frammenti democritei. «Belfagor», XLVII, 1992, pp. 461-470. 2) Traduzione di J. W. GOETHE, Prometeo. Frammento drammatico, in J. W. Goethe, Testi prometeici, Pisa, Europrint 1992. 1993 1) Recensione a HANS BLUMENBERG, Elaborazione del mito, «Belfagor», XLVIII, 1993, pp. 238-243. 2) Note e Postfazione a HEINRICH MANN, Nietzsche, Milano, Il Saggiatore 1993. 3) Traduzione di M. WEBER, Storia economica. Linee di una storia universale dell’economia e della società, Roma, Donzelli 1993. 4) Traduzione di J. W. GOETHE – F. SCHILLER, Sul dilettantismo, «L’Informazione bibliografica» XIX, 1993, n. 1. 1994 1) Ein Sinn und Unzählige Hieroglyphen. Einige Motive von Nietzsches Auseinandersetzung mit Schopenhauer in der Basler Zeit, in T. BORSCHE/ F. GERRATANA/ A. VENTURELLI (Hrsg.) “Centauren-Geburten”. Wissenschaft, Kunst und Philosophie beim jungen Nietzsche, Berlin/ New York 1994, pp. 217-233.

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2) Recensione a M. FLÜGGE, Gesprungene Liebe. Die wahre Geschichte zu “Jules und Jim”, «Belfagor», XLIX, 1994, p. 127. 3) Recensione a P. COLLINI, Wanderung. Il viaggio dei romantici, «Belfagor», XLIX, 1994, pp. 253-254. 4) Recensione a P. SZONDI, Briefe, «Belfagor», XLIX, 1994, p. 760. 5) Recensione a P. DERKS, Die Schande der heiligen päderastie. Homosexualität und Öffentlichkeit in der deutschen Literatur 1750-1850, «Germanistik», XXXV, 1, 1994, pp. 129-130. 1995 1) Eine Quelle der frühen Schopenhauer-Kritik Nietzsches: Rudolf Hayms Aufsatz “Arthur Schopenhauer”, «Nietzsche-Studien», XXIV, 1995, pp. 124-136. 2) Postfazione a THOMAS MANN, Una Traversata con Don Chisciotte, Milano, Il Saggiatore 1995, pp. 68-78. 3) La guerra di Clausewitz, «Cenobio», XLIV, gennaio-marzo 1995, pp. 53-60. 4) Recensione a J. KÖHLER, Nietzsche. Il segreto di Zaratustra, «Belfagor», L, 1995, pp. 261-262. 5) Recensione a M. HEIDEGGER, Nietzsche, «Belfagor», L, 1995, pp. 386387. 6) Recensione a R. SAVIANE, Il bello. Il dionisiaco. Schiller-Nietzsche, «Belfagor», L, 1995, pp. 771-772. 1996 1) Recensione a A. SILVESTRI, Per Gadda il Politecnico di Milano, «Belfagor», LI, 1996, pp. 263-264. 2) A. SCHOPENHAUER, I manoscritti giovanili (1804-1818), a cura di Sandro Barbera, Milano, Adelphi 1996. 1997 1) Italienische Landschaften und künstlerischer Schein in Goethes “Lehr-” und “Wanderjahren”, in K. MANGER (Hrsg.) Italienbeziehungen des klassischen Weimar, Tübingen, Niemeyer 1997, pp. 113-127. 2) Klages e le salsicce di Stefan George, «Belfagor», LII, 1997, pp. 27-41 e ivi, (con U. Colla), pp. 724-729. 3) Recensione a F. NIETZSCHE, La nascita della tragedia, a cura di V. Vitiello e E. Fagiuoli, «Belfagor», LII, 1997, p. 380. 4) Recensione a AA.VV., Il ruolo del Politecnico di Milano nel periodo della Liberazione, «Belfagor», LII, 1997, pp. 755-756. 1998 1) “Il mondo come volontà e rappresentazione”. Introduzione alla lettura, Roma, Carocci 1998. * La vita e la fortuna (1788-1860). Le edizioni – La conoscenza dei fenomeni e il mondo come rappresentazione – La conoscenza meta-

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2) 3) 4) 5) 6)

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fisica e il mondo come volontà – La contemplazione, il genio e il sistema delle arti – Affermazione e negazione della volontà – Fisiologia e filosofia – Cronologia della vita e delle opere. Recensione a A. GIDE e J. L. BARRAULT, Il processo, «Belfagor», LIII, 1998, p. 126. Recensione a W. WIPPERMANN, Wessen Schuld? Vom Historikerstreit zur Goldhagen-Kontroverse, «Belfagor», LIII, 1998, pp. 771-772. L’errore di Heidegger, «Rivista dei libri», novembre 1998, pp. 18-22. Nota introduttiva a Storia delle religioni e parapsicologia: Ernesto de Martino e Mircea Eliade, a cura di S. Barbera, «Belfagor», LIII, 1998, pp. 455-468. Olocausto e colpa collettiva nella cultura della Germania del dopoguerra, in P. COLOMBO (a cura di), Germania ed Europa dal 1945 ad oggi. Sei conferenze, La Spezia, Acit 1998, pp. 83-98.

1999 1) Mann contro Mann, «L’Indice dei libri del mese», XVI, 9, 1999, p. 16. 2) Un biglietto smarrito di Friedrich Nietzsche a Jean Bourdeau, gennaio 1889, «Belfagor», LIV, gennaio 1999, pp. 74-78. 3) Recensione a F. TÖNNIES, Il culto di Nietzsche, «Belfagor», LIV, 1999, pp. 254-255. 4) Recensione a C. VIOLANTE, Una giovinezza espropriata, «Belfagor», LIV, 1999, pp. 255-256. 5) Recensione a R. KLIBANSKY, Le philosophe et la mémoire du siècle. Tolérance, liberté et philosophie, “Belfagor”, LIV, 1999, pp. 385-386. 6) Recensione a La teologia a partire da Kant, a cura di M. Guerri, «Belfagor», LIV, 1999, p. 774. 7) Eine Quelle der frühen Schopenhauer-Kritik Nietzsches, in A. SCHIRMER, R. SCHMIDT (Hrsg.) Entdecken und Verraten. Zu Leben und Werk von Friedrich Nietzsche, Weimar, Böhlhaus 1999, pp. 59-67. 2000 1) “Die Welt ist die Vorstellung von wenigen Uebermenschen”. Nietzsche im Italien des frühen 20. Jahrhunderts, in A. SCHIRMER, R. SCHMIDT (Hrsg.), Widersprüche. Zur frühen Nietzsche-Rezeption, Weimar, Böhlhaus 2000, pp. 262-270. 2) Postfazione a Le Nietzsche “grec” de Giorgio Colli, in G. COLLI, Nietzsche.. Cahiers posthumes III, III Paris Éditions de l’Éclat 2000, pp. 173209. 3) Goethe e le forme del Singspiel, in G. DOTOLI (a cura di), Goethe e la musica, Brindisi, Fasano 2000, pp. 75-87. 4) Goethe e le forme del Singspiel, «Cultura tedesca», 13, 2000, pp. 3753. 5) (con lo pseud. Pio Borgundio), recensione a A. SCHOPENHAUER, L’arte di insultare, a cura e con un saggio di F. Volpi, «Belfagor», LV, 2000, pp. 252-253.

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6) (con lo pseud. Pio Borgundio), recensione a La Commune photographiée, «Belfagor», LV, 2000, p. 369. 7) Recensione a J. P. FAYE, Nietzsche et Salomé, «Belfagor», LV, 2000, pp. 497-498. 2001 1) Laa Bibliothèque d’Arthur Schopenhauer, Schopenhauer in Bibliothèques d’écrivains, sous la direction de P. D’Iorio et D. Ferrer, Paris, CNRS édition 2001, pp. 101-120. 2) “Ma la sua cara e magnifica mente si impoverisce sempre di più”. Franziska Nietzsche a Franz Overbeck, «Belfagor», LVI, 2001, pp. 81-90. 3) L’amico di Nietzsche, «La Rivista dei Libri», XI, 3, 2001, pp. 26-28. 4) Stella e la maga Armida. La funzione del mito e il suo declino in “Stella”, «Cultura tedesca», 17, 2001, pp. 23-47. 5) El Nietzsche apolitico de Colli y Montinari, «Res publica. Revista de la historia de los conceptos politicos», num. 7, vol. 4, 2001, pp. 11-36. 6) Recensione a A. MOHLER, Ravensburger Tagebuch. Meine Jahre mit Ernst Jünger, «Belfagor», LVI, 2001, pp. 129-130. 7) Recensione a E. TUGENDHAT, Aufsätze 1998-2000, «Belfagor», LVI, 2001, pp. 730-731. 8) Recensione a R. RAGGHIANTI, Introduzione a Montaigne, «Belfagor», LVI, 2001, p. 515. 9) Recensione a S. HAFFNER, Geschichte eines Deutschen. Die Erinnerungen, 1914-1933, «Belfagor», LVI, 2001, pp. 760-761. 2002 1) Nietzsche, num. monografico di «Cultura tedesca», a cura di S. Barbera, 20, ottobre 2002. 2) (con Cristiano Grottanelli), Ammiratori di Evola, «Belfagor», LVII, 2002, pp. 555-565. 3) Recensione a F. NIETZSCHE, Choses humaines, trop humaines, a cura di O. Ponton, «Belfagor», LVII, 2002, pp. 122-123. 4) Recensione a G. SCHIAVONI, Walter Benjamin. Il figlio della felicità, «Belfagor», LVII, 2002, pp. 255-256. 5) Recensione a U. PURCHER, Die völkische Bewegung im wilhelminischen Kaiserreich, «Belfagor», LVII, 2002, pp. 510-511. 6) Il “buon europeo” dell’Archivio Nietzsche, in «HyperNietzsche», http://www.hypernietzsche.org/sbarbera-2, 2002, pp. 1-20. 2003 1) L’Archivio Nietzsche tra nazionalismo e cosmopolitismo, «Giornale critico della filosofia italiana», LXXXIII, 2003, pp. 21-41. 2) Friedrich Nietzsche dal mito alla tradizione, «Belfagor», LVIII, 2003, pp. 403-426. 3) Recensione a H. BROCH, Autobiografia psichica, a cura di R. Rizzo, «Belfagor», LVIII, 2003, pp. 761-762.

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4) Voluntad de vivir o voluntad de poder: un episodio del debate de Nietzsche con Schopenhauer (1885-1889), (1885-1889) «Estudios Nietzsche», III, 2003, pp. 11-26. 5) La théorie de la double connaissance du corps chez Schopenhauer: Genèse de l’écriture, genèse du système, «Genesis», VIII, 22, 2003, pp. 53-68. 2004 1) Une philosophie du conflit. Etudes sur Schopenhauer, Paris, Puf 2004. * La connaissance des phénomènes – La double connaissance du corps. Philosophie et physiologie – La structure dialectique de la volonté – La contemplation, le génie et le système des arts – Le phénomène originare de l’éthique. De la compassion à la négation de la volonté – Annexe I: La bibliothèque de Schopenhauer – Annexe II: Une source de la critique de Schopenhauer par le jeune Nietzsche – Annexe III: Le château de Kafka. Itinéraire d’une image. 2) Goethe versus Wagner. Le changement de fonction de l’art dans “Choses humaines, trop humaines”, in P. D’IORIO, O. PONTON (a cura di), Nietzsche. Philosophie de l’esprit libre, Paris, Editions rue d’Ulm 2004, pp. 37-60. 3) “Eine schreckliche Prophezeihung Nietzsches”. Nationalismus und Antisemitismus im Briefwechsel zwischen Hans Vaihinger und Elisabeth Foerster-Nietzsche, in S. BARBERA, P. D’IORIO, J. H. ULBRICHT (Hrsg.), Friedrich Nietzsche. Rezeption und Kultus, Pisa, ETS 2004, pp. 259-299. 4) Recensione a G. SASSO, Ernesto De Martino fra religione e filosofia, «Belfagor», LIX, 2004, pp. 739-744. 5) Introduzione a G. COLLI, Ellenismo e oltre. Einleitung, a cura di S. Busellato, Pisa, ETS 2004 (ed. fuori commercio), pp. 5-19. 2005 1) “Die tatsächliche Moralität des Menschen”. Nietzsches Auseinandersetzung mit Kant von der Morgenröthe bis zu Jenseits von Gut und Böse, in B. HIMMELMANN (Hrsg.) Kant und Nietzsche im Widerstreit, Berlin, De Gruyter 2005, pp. 130-142. 2) Sacrifici umani fra Monaco e Parigi: Schuler, Klages, Caillois e Bataille, Bataille in S. BARBERA, C. GROTTANELLI, A. SAVORELLI (a cura di), La riscoperta del “sacro” tra le due guerre mondiali, Le lettere, Firenze 2005, pp. 67-77. 3) Paul Rée rivisitato, «La Rivista dei libri», XV, 12, 2005, pp. 11-13. 4) Recensione a P. ZAMBELLI, Magia bianca, magia nera nel Rinascimento, «Belfagor», LX, 2005, pp. 125-126. 2006 1) Il Nietzsche di Colli: 1940, in Nietzsche. Edizioni e interpretazioni, a cura di M. C. FORNARI, S. FRANZESE, Pisa, ETS 2006, pp. 49-61.

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BIBLIOGRAFIA

2) Il “fenomeno originario dell’etica”. Sul concetto di compassione in Schopenhauer, «Giornale critico della filosofia italiana», LXXXVII, 2006, pp. 197-219. 3) (con G. Campioni) La compassione del genio e la vivisezione del filosofo, in R. WAGNER, Sulla vivisezione. Lettera aperta al signor Ernst von Weber, autore dello scritto “Le camere di tortura della scienza”, traduzione, introduzione e note di S. Barbera e G. Campioni, Pisa, ETS 2006. 4) Il testamento di Schopenhauer, recensione a A. SCHOPENHAUER, L’arte di invecchiare ovvero Senilia, a cura e con un saggio di F. Volpi, «La Rivista dei libri», dicembre 2006, pp. 8-10. 2007 1) Recensione a H. VON SEGGERN, Nietzsche und die Weimarer Klassik, «Jahrbuch der Nietzsche Gesellschaft» (Nietzsche und Europa, Nietzsche in Europa), XIV, 2007, pp. 269-271. 2) “Er wollte zu Europa, wir wollten zum ‘Reich’”. Anmerkungen zu den Nietzsche- Interpretationen von Alfred Baeumler, in S. BARBERA, R. MÜLLER-BUCK (Hrsg.), Nietzsche nach dem ersten Weltkrieg, ETS, Pisa 2007, pp. 199-234. 2008 Alfred Baeumler e il culto dell’eroe, in Religione e Politica. Mito, autorità, diritto, a cura di P. Pisi e B. Scarcia Amoretti, Roma, Nuova cultura 2008, pp. 33-45. 2009 1) Schopenhauer und Schelling. Aufzeichnungen über den Begriff der Entzweiung des Willens, in F. CIRACI, D. M. FAZIO, M. KOSSLER (Hrsg.), Schopenhauer und die Schopenhauer-Schule, Würzburg, Köningshausen & Neumann 2009, pp. 73-87. 2) Un Prometeo Tedesco? Osservazioni su “Hermann und Dorothea”, in «Archivio di storia della cultura», XXII, 2009, pp. 59-75.

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INDICE DEI NOMI

Abert Hermann, 43n. Adler Alfred, 174n. Agostino d’Ippona, 73 Amalia Teresa di Württemberg, 43 Ampère Jean-Jacques, 162 André Johann 42 Ariosto Ludovico, 159 Ascher David, 125n. Bachofen Johan Jakob, 182-183, 193, 206, 207 e n., 209-210, 212, 215-216 Baeumler Alfred, 174 e n., 179-180 e nn., 182 e n., 183, 187, 188 e n., 190, 203-204nn, 205, 206 e n. 207, 208-210 e nn., 211-213, 214-215 e nn., 216 Baeumler Marianne, 204 Baioni Giuliano, 91 Barbera Sandro, 27n., 59n., 74n., 163n., 208n., 213n. Bauch Bruno, 184-185 Bauer Stefan, 150n. Bayle Pierre 30, 31 e n Becker Johan August, 63, 64n., 125n. Bellomo Joseph, 55 Benjamin Walter, 210 Benn Gottfried, 170n., 204n. Berg Leo, 171n. Bernoulli Carl Albrecht, 163, 189n. Bertram Ernst, 158 e n., 176, 177 e n., 178, 179 e n., 180, 182 e n., 183

Bianquis Geneviève, 177 e n. Binder Hartmut, 83n. Bismarck Otto Eduard Leopold von, 205, 212 Bleibtreu Karl, 171 e n. Blumenberg Hans, 18n., 25, 35 Bock Hans Manfred, 163n. Böcking Eduard, 100n. Bode Wilhelm, 55n. Böhme Jakob, 117-118 Bonnet Charles, 68 Borchmeyer Dieter 56n. Borsche Tilman 131n., 159n. Bötcher Elmar 54, 55 e n. Brahn Max, 178 Brinkmann Reinhold, 145 e n. Brod Max, 84n. Bruckmann Elsa, 179n. Bruckmann Friedrich, 206n. Bühr Carl, 125n. Burckhardt Carl Jacob, 136 e n., 148, 150 e n., 155, 158, 159 e n., 191, 193, 196 Burckhardt Max, 136n. Burckhardt Rudolf, 162n. Cabanis Pierre Jean Georges, 65 e n., 124, 126 Calderón de la Barca Pedro, 99 Campana Dino, 194 Campioni Giuliano, 120 n., 126n. Cantimori Delio, 217 e n. Cappelli Ida, 43n. Careri Giovanni, 20 Carey William, 115

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INDICE DEI NOMI

Cassina Ubaldo, 68, 69 e n., 70-71 Cassirer Ernst, 81, 82n., 124 Cavallo Tomaso, 119n. Cavari Leonardo 51n. Cazeneuve Jean, 65n. Chamberlain Houston Stewart, 173n. Cohen Hermann, 206 Colli Enrico, 190-191nn. Colli G., 141, 185n., 189, 190191nn., 192-194, 195 e n., 196198, 199-200 e nn., 201 Conert Elke, 21 Creuzer Georg Friedrich, 207 Cristofolini Paolo, 69n. Croce Benedetto, 197 e n. Curtius Ernst, 177 D’Annunzio Gabriele, 168, 194 D’Iorio Paolo, 189n. Dahlhaus Carl, 145 e n. De Angelis Enrico, 35n. De Cian Nicoletta, 79n. De la Motte Guyon Jeanne Marie, 117 De Mendelssohn Peter, 187 Dehmel Richard, 172 e n. Democrito di Abdera, 122 Derrida Jacques, 71 e n. Deussen Paul, 59n., 108, 130 e n. Diderot Denis, 84 e n. Diener Gottfried 27n Diethe Carol, 175n. Dilthey Wilhelm, 125n. Dühring Eugen, 119 Düntzer Heinrich 36n. Duperron Anquetil, 113 e n., 115 Dürer Albrecht, 179 Eberhardt Walter, 210 Eckermann Johann Peter, 96, 97n., 98, 142, 151, 153 Effrena Stelio, 168 Eisner Minze, 89 Emerson Ralph Waldo, 156 Empedocle di Agrigento, 151, 191

Eraclito di Efeso, 14, 131, 151, 160, 191, 213 Esiodo, 209 Espagne Michel, 163n. Eucken Rudolf, 183 Euripide, 132n. Federico II di Hohenzollern, 175 Felken Detlef, 186n. Ferrari Zumbini Massimo, 186n. Feuerbach Ludwig Andreas, 128n., 138 Fichte Johann Gottlieb, 62, 63n., 104-105, 112, 115, 125, 131n., 185 Figl Johann, 119n. Fischer Kuno, 124-125 Förster-Nietzsche Elisabeth, 161, 162-164 e nn., 167, 168-173 e nn., 174, 175-176 e nn., 178, 180-181, 183, 184 e n., 185186, 187 e n., 189 e n., 199 Forzano Giovacchino, 175n. Foucher De Careil Louis Alexandre, 99 Frauenstädt Julius, 80n., 99, 108, 123n., 131n., 132 e n., 141 Freschi Marino, 17n., 35n. Freud Sigmund, 35 e n. Fries, Jakob Friedrich, 131n. Frisch Samuel Gottlob, 43n. Fuchs Albert, 17 Fuchs M. (J. J. Rousseau, Lettre à Mr. D’Alembert sur les spectacles, sous la direction de m. Fuchs) Gagnebin Bernard 22n Galilei Galileo, 78 Garin Eugenio, 196-197nn. Gay John 44n. Gebhardt Carl, 64n. Gellert Christian Fürchtegott, 48 George Stefan, 172, 182 Gérard René, 113n. Gerratana Federico, 120n., 131n., 189 e n.

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INDICE DEI NOMI

Gersdorff Carl von, 129 Ghelardi Maurizio, 136n. Gide André, 166 e n. Glasenapp Helmuth von, 117n. Gobineau Joseph Arthur de, 173n., 175 Goethe Johann Wolfgang, 14, 17 e n., 18, 23, 25-26. 27 e n., 29, 30 e n., 31-32, 35, 36 e n., 37, 41, 42 e n., 43, 44-45 e nn., 46, 49 e n., 50-56, 74, 77, 78 e n., 7981, 92, 95-96, 97 e n., 98-99, 135, 141-144, 147-149, 151156, 158 e n., 159-160, 162 e n., 170n. Gozzi Carlo, 50 Gradmann Christoph, 172n. Gräf Hans Gerhard, 32n. Grisebach Eduard, 101-103, 108109 Grottanelli Cristiano, 137n. Gruber Robert, 108, 111 Grupp Peter, 166n. Gundolf Friedrich, 32 e n Gurisatti Giovanni, 69n. Gwinner Wilhelm, 95, 99 e n., 101 Halévy Daniel, 163 Hallich Oliver, 65n. Hamann Johann Georg, 204 Hamburger Käte, 69n. Harden Maximilian, 169n. Harich Wolfgang, 128n. Hartmann Eduard von, 119 Haym Rudolf, 124, 125-128 e nn., 129, 130 e n., 132-133 e nn., 141 Heftrich Eckard, 159n. Hegel Georg Wilhelm Friedrich, 100, 125n., 204, 212 Heidegger Martin, 190, 203-204, 207 Hekker Max 52n Henning Hans, 101n. Herder Johann Gottfried, 102, 215

231

Hiller Johann Adam 42 Hinderer Walter 45n. Hitler Adolf, 179n., 203-204, 205n. Hochstetter Erich, 59 e n. Hoepke Klaus-Pete, 164n. Hoffmann Paul Theodor, 113n. Hofmannsthal Hugo von 41 e n. Hölderlin Johann Christian Friedrich, 147, 176 Holtberndt Benedikt 55 e n., 56 Horneffer Ernest, 170n. Hübscher Arthur, 59, 99 e n., 101 e n., 111-112, 179n. Humboldt Wilhelm von, 128n. Hutcheson Francis, 68 Ingen Ferdinand van, 45n. Ingenhoff Annette, 145 e n. Ireneo di Lione, p. 118 Janet Pierre, 35n. Jaspers Karl, 174n., 207 Jöel Karl, 176 e n., 193, 194 e n. Jünger Ernst, 203, 210, 216-217 Jünger Friedrich Georg, 203 Kafka Franz, 83, 84n, 85-88, 89 e n., 90, 91 e n., 92, 93 e n., 95 e n., 96, 98 Kamata Yasuo, 125n. Kant Immanuel, 14 e n., 15, 32, 59, 62-64, 68, 75, 82, 99, 104, 108, 111, 124, 126, 131 e n., 133, 203-204 Kayser Philipp Christoph 53-54, 56 Kessler Harry Graf, 161-162 e nn., 163, 165-166, 167-168 e nn., 172n. Kierkegaard Søren Aabye, 91, 92 e n. Klages Ludwig, 207 Klaproth Heinrich Julius, 113 Kleist Bernd Heinrich Wilhelm von, 143 Klinger Max, 161 Klopstock Friedrich Gottlieb, 20

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INDICE DEI NOMI

Klopstock Robert, 93n. Klöres Hans, 186n. Koch Hans-Albrecht 45n. Koebner Thomas 47n. Kohler Stephan 41n. Koktanek Anton Mirko, 186n. Kostka Alexandre 166n., 168n. Kotzebue Otto von, 151 Krause Jurgen, 168n. Krökel Fritz, 176 e n., 177 Krummel Richard Frank, 169n. Kune Stefan, 51 e n., 52 Kunze Stefan, 145 e n. Lange Friedrich Albert, 129, 183n. Laplace Pierre-Simon, 103-104 Le Noble Eustache 31 e n Lehec Claude, 65n. Léon Xavier, 184 Leopardi Giacomo, 148 Lessig Gotthold Ephraim, 14, 6869, 115 Lévy-Bruhl Lucien, 177 Lichtenberg Henry, 162n., 163 e n., 165 e n. Liebreich Hans von 47 Lindner Ernst Otto, 141 Ludwig Emil, 172 e n. Luigi XIV di Borbone, 166 Lukács György, 207 Lutero Martin, 152 Malebranche Nicolas, 108, 112 Mangoni Luisa, 217n. Mann Thomas, 85, 145, 176, 177 e n., 178-180, 181 e n., 182-183, 187n., 190, 206, 216 Martin Alfred von, 150n. Martinetti Piero, 196 Marx Heinrich Karl, 204 Matterhausen Wilhelm, 119 e n. Mauthner Fritz, 127 e n. Merlio Gilbert, 186n. Metternich Klemes von Michelsen Peter Minor Jacob 36n., 42n.

Mitekat Helmut Mittner Ladislao Moebius Paul Julius, 171 Montinari Mazzino, 66n., 96n., 126n., 159n., 173n., 185n., 189-191, 192n., 199 e n. Moritz Karl Philipp, 90n. Morris William, 167 Müller-Buck Renate, 159n., 171n., 213n. Mushacke Hermann, 129 Mussolini Benito, 175n., 187 Naake Erhardm 163n. Nabbe Hildegard, 166 e n. Napoleone Bonaparte, 175 e n., 187 Neumann Gerard, 166n. Newton Isaac, 97 Niekisch Ernst, 201 Nietzsche Wilhelm Friedrich, 88, 119, 120 e n., 123 e n., 124125, 126-127 e nn., 129, 130132 e nn., 133-137, 140-149, 140 e n., 151-157, 158 e n., 159-160, 161-163 e nn., 164, 165-166 e nn., 167, 168-171 e nn., 172, 173-176 e nn., 177178, 179-180 e nn., 181-182, 183-187 e nn., 188-198, 199 e n., 200-201, 204, 206-214, 216 Nordau Max, 171 Norden Fritz, 177n. Oehler Adalbert, 169n., 178, 187n. Oehler Max, 173, 174 e n., 181 e n., 186 Oehler Richard, 173, 183, 185 e n., 186 Oeser Adam Friedrich 36n. O’Flaherty James C., 159n. Omero, 208-209 Orestano Francesco, 162n., 173n. Orsucci Andrea, 128n. Overbeck Franz, 141, 171n., 185, 189

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INDICE DEI NOMI

Parker L. John 45n. Pascal Blaise, 175 Pasley Malcolm, 84n. Paulsen Friedrich, 179n. Pericle, 166 Peter Niklaus, 137n. Peters Heinz Friedrich, 163n., 175n. Pico della Mirandola Giovanni, 196 Piper Ernst, 203 Pisistrato, 150, 208 Pistoia Andrea, 191n. Platone, 62, 99, 182, 191 Pocar Ervinio, 84n., 91n. Pope Alexander, 102-103 Porena Boris 43n. Poussin Nicolas 49n. Praz Mario, 22n. Rajna Pio, 23n. Rathenau Walther, 162 Raymond Marcel, 22n. Reed Terence J., 83 e n. Rehm Walter, 42n. Reibnit Barbara von, 171n., 189n. Reichardt Johann Friedrich 45 e n. Reinhardt Karl, 213 Rho Anita, 84n. Richardson Samuel, 143 Richter Raoul, 172 e n., 173n., 183 Rickert Heinrich, 206 Ricoeur Paul, 35 Riebl Alois, 162n. Riehl Alois, 183 Ritter Santini Lea, 20n. Rixner Thaddae Anselm, 117n. Rohan Anton von, 163, 164 e n., Rolland Romain, 162 e n. Rosenberg Alfred, 203 e n., 206 Rousseau Jean-Jacques, 17-18, 21n., 29 e n., 44, 46 e n., 49, 68, 71-73 e nn., 81, 141, 154, 157 Ruskin John, 167 Sallis John, 120n. Salmen Walter, 48n. Salomè Lou, 171n.

233

Sauder Gerhard, 68 e n. Schaarschmidt Karl, 119 Schelling Friedrich Wilhelm Joseph von, 74 e n., 104, 117-118, 125, 131n. Scherer Wilhelm, 36n. Scherrer Paul, 181n. Schiller Johann Christoph Friedrich von, 24, 36, 77, 128, 142144, 151-152, 204 Schirmacher Wolfgang, 119n. Schirmer Andreas, 168n. Schlechta Karl, 159n. Schlegel August Wilhelm, 100 Schletterer Hans Michel, 44n. Schmidt Erich, 15 e n. Schmidt Jochen, 171n. Schmidt Raymund, 183n. Schmidt Rüdiger, 168n. Schmidt-Bergmann Hansgeorg, 172n. Schmitt Carl, 216 Schnitzler Günter, 56n. Schnitzler Günter, 56n., 166n. Schöne Albrecht, 97n. Schopenhauer Arthur, 59-60 e nn., 61-62, 63-65 e nn., 66, 67-70 e nn., 71-72, 73-75 e nn., 76, 7779 e nn., 80-83, 84 e n., 85-87, 89-90 e nn., 91, 93 e n., 95-96 e nn., 97, 99-100 e nn., 101-108, 110-119, 120 e n., 121-122, 123-128 e nn., 129, 130 e n., 131, 132 e n., 133-134, 140-141, 146, 149, 153, 157, 160, 192193, 196, 198-200, 204, 206 Schramm Gottfried, 56n. Schröder Jürgen, 170n. Schröter Manfred, 186n, 206, 207n. Schulte Birgit, 166n. Schultze-Naumburg Paul, 169n. Schulz Georg-Michael, 31n. Schusky Renate 45n., 51n. Schwab Raymond, 113n. Segala Marco, 79n. Sembach Klaus-Jürgen, 166n. Seydel Rudolf, 125 e n.

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INDICE DEI NOMI

Sigismund Ursula, 169n. Simmel Georg, 172 Simolin Rudolph von, 177n. Smith Adam, 68, 70 Socrate, 150 Solone, 150 Spengler Oswald, 162, 178, 186187 e nn., 204, 206 Spierling Volker, 60n., 77n., 125n. Spinoza Baruch 29, 60-61 nn., 7778, 99, 104, 193 Staiger Emil, 26n Stauffacher-Schaub Marianne, 171n., 189n. Steiger Emil, 77n. Steinhagen Harald, 170n. Stimilli Davide, 83n. Stollberg Jochen, 99n. Stresemann Gustav, 164 Svevo Italo, 194

Veneruso Danilo, 164n. Venturelli Aldo, 131n., 166n. Vigorelli Amedeo, 67n. Vivarelli Vivetta, 159n. Voigt Christian Gottlob 43 Vossler Karl, 177

Ueberweg Friedrich 128n., 130n.

Wagner Richard, 119-120, 134, 137-138, 139n., 142-149, 154, 157, 160, 173n., 180-182, 183n., 198, 200, 209 Weininger Otto, 177 Weiße Christian Ernst 43n. Weiße Christian Felix 36n., 38, 42, 43, 44n., 45, 46-47 e nn., 48, 51-53, 55-56 Werner Michael, 163n. Wiegler Paul, 95 Wieland Christoph Martin, 50-51 e nn. Wilamowitz-Moellendorff Ulrich von, 209 Winckelmann Johann Joachim, 215 Wittkowski Wolfgang 41n. Wollkopf Roswita, 162n. Wundt Wilhelm Maximilian, 167, 172n. Würzbach Friedrich, 177 e n. Wuthenow Ralph-Rainer, 158n. Wysling Hans, 181n.

Vaihinger Hans, 183-185 e nn. Valbusa Domenico 159n. Van de Velde Henry, 161-162, 165, 166-167 e nn., 168

Zapata Galindo Martha, 180n. Zeller Eduard, 124, 125 e n. Zelter Carl Friedrich, 52 e n. Zola Émile, 145

Tasso Torquato 43, 156 Taubes Jacob, 141n. Thiel Ernest, 163 e n. Tieftrunk Johann Heinrich, 111 Tommaso d’Aquino, 73n. Trendelenburg Adolf, 127n. Troncon Renato, 78n.

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INDICE GENERALE

Nota del curatore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p.

7

Stella o il declino del mito. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »

13

Goethe e le forme del Singspiel. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »

41

Il «fenomeno originario dell’etica». . . . . . . . . . . . . . . . . . »

59

Il castello di Kafka: itinerario di un’immagine . . . . . . . . . »

83

La biblioteca di Schopenhauer . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »

99

La prima critica di Nietzsche a Schopenhauer: una fonte . . »

119

Dal mito alla tradizione. Il Goethe di Nietzsche. . . . . . . . . »

135

L’archivio Nietzsche tra nazionalismo e cosmopolitismo . . »

161

Il Nietzsche di Colli: 1940 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »

189

Alfred Baeumler e il culto dell’eroe . . . . . . . . . . . . . . . . . »

203

Bibliografia degli scritti di Sandro Barbera. . . . . . . . . . . . . »

219

Indice dei nomi. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »

229

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FINITO DI STAMPARE NEL MESE DI MAGGIO 2010 PER CONTO DELLA CASA EDITRICE LE LETTERE DALLA TIPOGRAFIA ABC SESTO F.NO - FIRENZE

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GIORNALE CRITICO DELLA FILOSOFIA ITALIANA

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QUADERNI 1. Saverio Ricci, La fortuna del pensiero di Giordano Bruno (1660-1775). 2. Roberto Maiocchi, Non solo fermi. I fondamenti della meccanica quantistica nella cultura italiana tra le due guerre. 3. Eugenio Garin, Dal Rinascimento all'Illuminismo. Studi e ricerche. Seconda edizione riveduta e accresciuta. 4. Renzo Ragghianti, Dalla fisiologia alla sensazione all'etica dell'effort. Ricerche sull'apprendistato filosofico di Alain e la genesi della «Revue de Métaphysique et de Morale». 5. Guido Oldrini, La disputa del metodo nel Rinascimento. Indagini su Ramo e sul ramismo. 6. Helmut Holzhey, Il concetto kantiano di esperienza. Ricerche filosofiche delle fonti e dei significati. Con un'appendice sulla nozione platonico-aristotelica. 7. Lia Mannarino, Le mille favole degli antichi. Ebraismo e cultura europea nel pensiero religioso di Pietro Giannone. 8. Alberto Meschiari, Psicologia delle forme simboliche. «Rivoluzione copernicana», filosofia del linguaggio e «spirito oggettivo». 9. La geografia dei saperi. Scritti in memoria di Dino Pastine. A cura di Domenico Ferraro e Gianna Gigliotti. 10. Eugenio Garin. Il percorso storiografico di un maestro del Novecento. Giornata di studio. Prato, Biblioteca Roncioniana. 4 maggio 2002. A cura di Felicita Audisio e Alessandro Savorelli. 11. Alessandro Savorelli, L’aurea catena. Saggi sulla storiografia filosofica dell’idealismo italiano. 12. Paola Basso, Il secolo geometrico. La questione del metodo matematico in filosofia da Spinoza a Kant. 13. La riscoperta del ‘sacro’ tra le due guerre mondiali. A cura di Sandro Barbera, Cristiano Grottanelli e Alessandro Savorelli. 14. Massimo Ferrari, Non solo idealismo. Filosofi e filosofie in Italia tra Ottocento e Novecento. 15. Paola Rumore, L’ordine delle idee. La genesi del concetto di ‘rappresentazione’ in Kant attraverso le sue fonti wolffiane (1747-1787). 16. Figure di servitù e dominio nella cultura filosofica europea tra cinquecento e seicento. Atti del convegno. A cura di Nicola Panichi. 17. Loris Sturlese, Eckhart, Tauler, Suso. Filosofi e mistici nella Germania medievale. 18. Sandro Barbera, Guarigioni, rinascite e metamorfosi. Studi su Goethe, Schopenhauer e Nietzsche. A cura di Stefano Busellato. www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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