Grande antologia filosofica Marzorati. Il pensiero contemporaneo. Sezione prima [Vol. 26]

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Grande antologia filosofica Marzorati. Il pensiero contemporaneo. Sezione prima [Vol. 26]

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GRANDE

ANTOLOGIA

FILOSOFICA diretta da MICHELE FEDERICO SCIACCA coordinata da MARIA A. RASCHINI e PIER PAOLO OTTONELLO

MARZORATI

·

EDITORE - �IILANO

Proprietà letteraria riseroata

© Copyright 1976 by Marzorati Editore CL 23-0174'1



Milano

IL PENSIERO CONTEMPORANEO (Sezione Prima)

Volume Ventiseiesimo

IN D I C E

PIER pAOLO 0TTONELLO

Esistenzialismo francese, russo e italiano

p ag.

l

INTRODUZIONE: I. EsiSTE.'iiZIALJSMO FRAi\"CESE; l. L'impegno nel niente di Sartre 2. L'ascetismo negativo di Camus 3. L'empirismo religioso di Marcel. 4. La consumazione della filosofia in Wahi. S. L'estetismo mistico di Jankélévitch. II. EsiSTEN"ZIAUSMo RUSSO: l. Il mistero dell;. libertà in l>crdjaev. 2. La concupiscenza del sapere in Sestòv. III. EsiSTENZIALISMO ITALIANO; Esistenzialismo ed empirismo in Abhagnano. Bi/,[iografìa essenziale. .



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TESTI; l. EsiSTENZIALISMO FRANCESE: l. J..P. SARTRE: l. Immagine e coscienza 2. L'in-sé e il per-sé. .3. Negazione e nulla. . 4. La mala­ fede S. Lo sguardo altrui e la vergogna . . 6. Il mio corpo. 7. Il con­ flitto come il senso originario dell'essere-per-altri. 8. Libertà, situa­ zione, responsabilità;' 9. Lo scrittore « impegnato»10. Di!llcttica, bisogno, penuria. II. A. CAMUS: l. L'assurdo e l'omicidio 2. L'as­ surdo, il suicidio, la libertà. - 3. La rivolta metafisica. 4'. Nichilismo e storia.- III. G. MARCEL: l. Problema dell'essere e mistero antologico. 3. Esistenza e incarnazione. 4. Speranza e fedeltà 2. Essere e avere creatrice.- IV.J. WAHL: l. Sentimento dell'essere 2. Qualità e quan­ tità 3. Realismo ed empirismo. 4. Sentimento della verità S. L'esi­ stenza 6. Dialettica esistenziale. V. V. ]ANKÉLÉVITCH; l. Metaem­ pirico e metalogico : 2 Istante e intuizione. . 3. Acategoricità del cuore 4. Innocenza e coscienza. 5. Impensabilità della morte 6. Di un puro amore. II. EsiSTENZIALISMO RUSSO; I. N. A. BERDJAEV: l. La filosofia esistenziale come atto creativo. - 2. Metafisica esistenziale e oggettiva­ zione 3. L'alternativa tra essere e libertà. 4. Spirito e libertà. 5. La libertà c il male . 6. Il paradosso del personalismo. - 7. Libertà e crea­ tività escatologica . . 8. Storia ed escatologia. II. L. SESTÒY: l. Ideali­ smo e filosofia della tragedia. 2. La caduta e il sapere. - 3. Concupi­ scentia irresistibilis. 4. La libertà. III. EsiSTENZIALISMO ITALUI\'0: N. ABBt.G:'i"ANO: l. Essere esistenza trascendcnza 2. Necessità c prohle­ maticità 3. Ricerca dell'essere, possibilità, impossibilità 4. Finitu­ dine c temporalità.. 5. Esistenzialismo positivo. - 6. La scienza !' l'impe­ gno dell'uomo di fronte a se stesso. .





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GIUSEPPE FAGGIN

Lo spiritualismo nella seconda metà dell'Ottocento INTRODUZIONE: l.

italiano

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pag. 239

Lo spiritualismo francese 2. Lo spiritualismo 4. Lo spiritualismo russo.

3. Lo spiritualismo inglese

Bibliografia e55en:::iale.

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Indice

VIII

TESTI: I. J. Barthélemy-Saint-Hilaire. II. c . .J. Tissot. - III. A. Gratry. - IV. E. Vacherot. . V. J. Lequier VI. L. Ollé-Laprune. VII. J. Lagneau. - VIII. P. Janet. IX. A. Fouillée . . X. L. Bloy. Xl. C. Secrétan. - XII. F. Bonatelli . . XIII. F. Acri . . XIV. J. I-I. New­ man . . XV. Solov'ev. .



�ANDO RIGOBELLO

Lo spiritualismo del Novecento

pag.

lNTRODUZIO;>;"E: l. Lo spiritualismo come corrente filosofica e come movimento culturale. 2. Caratteristiche razionali e loro tematizzazio­ ne. 3. Le condizioni dello spirittialismo oggi. - 4. H. Bergson. 5 . L. M. Billia. 6. G. Tarozzi. 7. A. Carlini. 8. J. Nabert. 9. R. Le Senne 10. L. Stefanini. - 11. R. Jolivet . . 12. H. Kuhn. 13. L. Gabriel. 14. E. Mounier. 15. M. Nédoncelle. Bibliografia -



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essenziale.

TESTI: L H. Bergson .. Il. L. M. Billia. - III. G. Tarozzi . . IV. A. Carlini. - V. J. Nabert. . VI. R. Le Senne, . VII. L. Stefanini . . VIII. R. Jolivet . . IX. H. Kuhn. . X. L. Gabriel. XL E. Mounier. - XII. M. Né­ doncellc. •

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PIER PAOLO OTTONELLO

Esistenzialismo francese, russo e italiano SOMMARIO 2. l. EsiSTENZIALISMo FRANCESE; l. L'impegno nel niente di Sartre. 3. L'empirismo religioso di Marcel. L'ascetismo negativo di Camus. 4. La con­ sumazione della filosofia in Wahl. 5. L'estetismo mi.o;tico di Jankélévilch. - II. Esi­ STENZIALISMO RUSSO: l. Il mistero della libertà in Bcrdjaev 2. La concupiscenza del sapere in Sestòv. - III. EsiSTENZIALISMO ITALIANO: Esistenzialismo ed empirismo in Ahbagnano. - Bibliografia essen::;iale.

INTRODUZIONE:







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I. ESISTENZIALISMO F RANCESE: I. J.-P. SARTRE; l. Immagine e coscienza il per-sé. 3. Negazione e nulla. 4. La malafede. 5. Lo sguardo altrui e la vergogna 6. Il mio corpo. 7. Il conflitto come il senso originario del­ l'essere-per-altri. 8. Libertà, situazione, responsabilità 9. Lo scrittore c< impegnato ll. IO. Dialettica, bisogno, penuria. - II. A. CAMus: l. L'assurdo e l'omicidio. 2. 3. La rivolta metafisica. 4. Nichilismo e storia. L'assurdo, il suicidio, la libertà 2. Essere e avere . III. G. MARCEL: l. Problema dell'essere e mistero antologico. 3. Esistenza e incarnazione 4. Speranza e fedeltà creatrice. - J. WARL: l. Sen­ timento dell'essere. 3. Realismo ed empirismo. - 4. Senti­ 2. Qualità e quantità mento della verità . 5. L'esistenza. 6. Dialettica esistenziale. V. V. JANKÉ· LÉVITCH: l. Metaempirico e metalogico 2. I stante e intuizione. 3. Acategoricità del creare . 4. Innocenza e coscienza. - 5. Impensabilità della morte. 6. Di un puro amore. - Il. ESISTENZIALISMO RUSSO : I. N . A. BERDJAEV: l. La filosofia esi­ stenziale come atto creativo 2. Met;�fisica esistenziale e aggettivazione . 3. L'altèr4. Spirito e libertà. nativa tra essere e libertà. 5. La libertà e il male. 6. Il paradosso del personalismo. 7. Libertà e creatività escatologica. 8. Storia ed escatologia. n. L. SESTÒV: l. Idealismo e filosofia della tragedia 2. La caduta e il sapere 3. Concupiscentia irresistibilis. - > - nel­ l'Esquisse scrive che >. Da sifiatta fenomenologia della coscienza, e dopo il fortunatissimo esordio «non-filosofico > de La nausée ( 1938) e Le mur (1939), il passo all'«ontologie phénoménologique > > de L'etre et le néant non è certo un salto, ma piuttosto l'epopea, monumentalizzata in una sorta di «enciclo­ pedia sadica e nauseabonda », della néantisation come impegnata proiezione della riduzione al niente dell'Occidente quale era esplosa nella seconda guerra mondiale. Quasi secondo una disintegrazione bellica della filosofia, L'étre et le néant raccoglie quella piu «suggestiva », prebellica, dei ro­ manzi e racconti, rivestendo non senza ambizioni architettoniche la sua -

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dialettica della confessione coatta e della esasperata velleità di autopsica­ nalizzarsi cinicamente di fronte al « pubblico ll, con reticenze d'effetto. Se La nausée è l'autoanalisi dell'esistere come semplicemente esistere nel morbido slittamento del suo niente, ed analisi in prima persona del mio cc esser di troppo JJ cui resta solo da giocare con l'assurdità del mondo fatto delle cose come oscene nudità anch'esse di troppo, l'(( ontologia JJ de L'etre et le néant si riduce ad una strutturazione fenomenologizzante, dunque ancora a d una psicologia, delle situazioni umane cosi:ficate nell'oscenità deJla loro costitutiva contingenza ; è cioè una pseudo-ontologia, una inau­ tentica fenomenologia dell'inautentico, una vischiosa analisi , dell'uomo come « passione inutile >> . In tale cc libertà n è reperibile la vera prospettiva del « problema JJ del nulla che la rettorica simulazione :filosofica di L'etre et le néant riduce al niente - niente che nella sua brutale nicntità è per ciò stesso il piu lontano dalla possibilità di consentire la posizione di un problema -, dilettandosi a se frotter, epi· dermicamente, con Hegel e con Heidegger, col risultato piu notevole di inscenare uno spettacolo di simia sapiens ingozzata di Hegel ed Heidegger cosi come di Husserl e di Freud e poi finalmente di Marx. La determi­ nazione pseudoootologica delle cc zone dell'essere >l dell'en-soi e del pour-soi e della cc dialettica J> dell'annullamento dell'en-soi nel pour-soi come la cc malattia dell'essere >l si riduce infatti alla pseudofenomenologia del nulla

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come continuamente penetrante l'essere, , sempre piu amplificate dall'interminabile serie dei volumi di Situations, e raccolte in « sistema >> nei due volumi della Critique de la raison dialectique ( 1960). L'« ultrabolscevismo>> e la deplorevole scimmiottatura mar.xiano-hegeliana del > di cui Merleau-Ponty, colpendo a segno, lo aveva accusato ne Les aventures de la dialectique (Parigi, 1955, p. 179), finisce di denudare il suo > come malafede che, mediante la foglia di fico di una cattiva co­ scienza del mar.xismo, tenta santificare la sua cattiva coscienza di borghese « marcio» di là da qualsiasi pessimismo come da qualsiasi ottimismo, come pure, malgré lui, da un >.

2. L'ASCETISMO NEGATIVO DI CAMUS La diffamazione sartriana di Camus dopo la rottura - scoppiata nel '52 in occasione di una polemica pubblica intorno allo stalinismo e defini­ tiva dall'anno dopo - si lascia tuttavia sfuggire, alla sua morte, un giu­ dizio felice di lui come > francese nel quale, naturalmente, dichiarava di non riconoscersi -, è il moralista assoluto che diagnostica « letteraria­ mente>> - anche in quanto moralista la sua letteratura > non ha presunzioni filosofiche, delle quali è invece satura quella epidermica­ mente impegnata di Sartre - la crisi contemporanea della ragione, per cui il reale è senza significato, >. Tragicamente fedele alla propria vocazione, Camus la realizza attraverso tm'arte che solo per arbitrio può opporsi alla filosofia, in quanto incarna la radicalità di una rivolta « allo stato puro n, della libertà creatrice scaturente dal suo essere oscillazione continua tra l'unificazione e il rifiuto del reale, tra il > e il >, secondo suona il titolo (L'envers et fendroit) della sua prima raccolta di saggi, scritti intorno ai vent'anni, nel '35. Specie dopo il fal­ , limento (nel '34), dopo appena un anno, del suo primo giovanile matri­ monio (Albert Camus era infatti nato nel 1913, a Mondovi, in Algeria), fallimento con il quale coincide la sua adesione al partito comunista, dal quale anche, però, l'anno dopo divorzia, Camus si affina come tormentoso autotormentatore che insegue vertiginosamente la nudità dell'esistenza, nel suo crudo splendore, smascherandone gli assassini, cioè i mistificatori che la coprono di illusioni. Tale atteggiamento postromantico, attraversato da no· stalgie cristiane, percorre una radicale ascesi di tipo stoico-epicureo un'ascesi sostanzialmente negativa e propria di una decadenza -, ormai compiuta ne L'Etranger e ne Le mythe de Sisyphe, che pubblica nel '42, cui poco aggiungono il dramma Le malentendu ( 1944), l'altro romanzo, La peste (1947), e l'altro saggio, L'homme révolté ( 1951), che nel '57 gli fa­ ranno assegnare il premio Nobel. La dissertazione universitaria su Plotino e Agostino (del '36, dal titolo Métaphysique chrétienne et néoplatonisme) getta le lontane radici di quel­ l'ascesi della «povertà >> che, prima giornalista «ideologicamente >> impe­ gnato, specie durante la guerra, attivo animatore del giornale clandestino della resistenza, cc Combat >>, dopo la guerra (nel '47) lo induce ad una progressiva estraneazione polemica dalla politica attiva - culminata con la rottura con Sartre -, sia ritirandosi da cc Combat >> sia rigorosamente denunziando ne L' homme révolté l'ideologia come viziata dalla logica del­ l'assassinio. La crescente tensione etica dell'cc io mi rivolto, dmique noi siamo >> è perciò affatto aliena da qualsiasi quietismo o qualunquismo, ed

è invece l'espressione culminante di quel moralismo c< eroico n il cui mi­ glior emblema resta il motto nietzscheano posto a capo del primo volume di Actuelles ( 1950): >. Di tale moralismo radi­ cale il Meursault de L' Etranger è l'incarnazione piu drammaticamente og­ gettivata: l'esistenza si scopre nella sua nudità come l'insensibilità del de­ litto che si cc confessa >> in una cruda proiezione di fatti: l'ascesi alla ve­ rità la rivela nella sua pura negatività del far tacere ogni menzogna. La menzogna fondamentale è la finzione di un legame comunque cc logico >> tra l'uomo e i suoi atti: l'uomo, invece, appartiene a sé solo, come i suoi atti solo al suo destino: l'«assurdo >> ha la sua base appunto nella cc di­ stanza », nella scindente «estraneità >> tra i piu profondi sentimenti del­ l'uomo e il suo destino, tra il suo incarnato desiderio e «diritto >> di feli­ cità nel mondo e la morte. II mondo è l'estraneità dell'uomo, incarnata in lui: l'ascesi antifilistea - non dimentica di Kierkegaard, di Nietzsche, nonché della «sincerità n gidiana - tende dunque al culmine della luci­ dità delfassurdo; nella sua coerenza tragica (che Camus vive fino all'> automobilistico nel quale muore nel '60) respinge l'equivalenza, nell'assurdo, del suicidio e dell'omicidio, la cui lotta costituisce ciò che è piu proprio del mondo moderno e contemporaneo, che accetta ed afferma l'assurdo o lo respinge e costruisce. All'esperienza contemporanea della guerra, al terrore della «violenza organizzata>> sulla base del nodo tragico di assurdo-suicidio-omicidio, l'a­ scetismo negativo di Camus oppone l'unica alternativa dell'impresa di Sisifo della lucidità, la dea unica di Camus, rifatta coeva ai miti ellenici, quelli di Prometeo e di Ulisse oltre che di Sisifo. Sisifo

è l'eroe della

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« verità» nel momento in cui è la propria coscienza, culminante allorché il masso che è il peso necessario del suo stesso sopravvivere, rotolato in­ dietro una volta di piu delle infinite volte, si fa appunto il peso della sua coscienza, l'istantanea sosta che separa il suo eterno precipitare dall'ac­ cingersi dell'>. Camus o « socratico Cl'IStiano», secondo l'auto-oggettiva­ zione di cui si è gratificato, né biraniano - la - e cui l'cmpirizzante neohegelismo di Bradley e Royce offre l'enucleazione di temi etico-religiosi quale quello della dialettica triadica ( io-tu-mondo) e dell'(( inverificabile assoluto ll. Tale autobiografismo per­ segue una frammentata recherche ·della perduta intimità dell'uomo con il mistero, anzitutto attraverso l'esplorazione deil'esperienza del < < mio corpo >>, che intcsse la tematica forse piu notevoltl del ]ournal, la qu;;tle conserva una sua originalità anche nei confronti dei suoi sviluppi in Husserl, Sartre e Merleau-Ponty, e si muove su basi accidentalmente affini a quelle del preriflessivo prepred.icativo Erlebnis e della Lebenswelt husserliana. Il > offre cosi la materia d'elezione ad un empirismo > come esperienza interiore riflessivamente assunta ad esorcizzare un puro empirismo oggettivante : nutre un platonismo, a Marcel naturale allo stesso titolo del suo cristianesimo, che essenzialmente si esprime come vibrante esigenza di una trascendenza come trascendenza dell'esperienza > , attraverso una sensuosa ascesi su per i gradini dei l con la realtà. La > che ne germina è in realtà una sorta di superempirismo religiosamente orientato, che Marcel può chiamare > cd è ancora e solo una «esperienza )), quella della grazia, a determinare la sua < < conversione > al cattolicesimo, datata, del 23 marzo 1929 - che non metafisica sia pure che secondo Wahi, come scrive in Vers le concret ( Parigi, 1932, p. 261), fonda una ad esso, che costituisce il pensiero, si fa, nella sua esistenziale riflessione « seconda>>, > che struttura il pensare come atto non sintetico (idealisticamente), ma piuttosto orientato alla teticità dell'intenzionalità dell'apprensione per immediate approches mediante le quali >. La riflessione esisten­ ziale è dunque per Marcel un concreto < < realismo>> fondato sull'«unità irrazionale >> dell'esperienza interiore e perciò di là sia dal sensismo che dall'idealismo, in quanto, nel stio < impegno>> nell'incarnazione che esor­ cizza ogni evasione «spettacolare )) scindente soggetto e oggetto, trascende l'opposizione di questi. L' idealismo, che ne fonda l'opposizione, pretende, mediante una radicalizzazione dell'io penso, di pensare l'esistenza, l'io sono; il quale, invece, è il primum, engagée, enraciné nell'essere, vivente appunto in quanto incarnato: l'incarnazione costituisce la struttura della inoggettivahilità e inintelligibilità dell'esistenza, della sua metaprohlemati­ cità : dell'esistenza, dunque dell'essere, che l'esistenza è, incarnata nell'es­ sere, non si dà problema, in quanto è mistero - > di James e Whitehead e sul pseudosuicidio marceliano della dia­ lettica), Wahi tende ad accentuare quasi una continuità paradossale della dialettica > di Kierkegaard nel volume di Études kierkegaar­ diennes (1938), che segna insieme la definizione della pur vibrantissima aura teoretica del suo pensare e un caposaldo della storiografia esistenzia� lista contemporanea. Da dopo la guerra il discorso di Wahi è essenzialmente un infittirsi di un dialogo continuo con tutti gli interlocutori dell'esistenzialismo contem­ poraneo, da Berdj aev a J aspers (nella Petite histoire de l' existentialisme, del '47, e ne La pensée de l'existence, del '51), fino a trovare in Heidegger, cui dedica numerosi corsi e il monumentale commentario alla Einfuhrung in die Metaphysik ( costituito dal volume Vers la fin de l'antologie, del '56), quasi la polarità dialettica di Kierkegaard, nel senso che mentre questi rappresenta la radicalità del pensiero concreto come filosofia esistenziale soggettiva, Heidegger tenta con una nuova filosofia nell'essere di oltre­ passare filosofia dell'esistenza e filosofia dell'essenza mediando il soggetti­ vismo esistenziale con l'oggettiviamo realistico. Wahi può cosi raccogliere una paradossale summa del suo dialogare esistenzialista in quella sorta di esemplare « trattato dell'esistenzialismo >> che è il Traité de Métaphy­ sique, del 1953, di cui L'expérience métaphysique, del '65, è l'incompibile compimento. In Vers le concret l'empirismo esistenziale batte l'accento sul pericolo

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PIER PAOLO OTTONELLO

della concettualità e sulla non intelligibilità dell'essere, che lascia spazio solo ad un «realismo metarazionale », in quanto > : dal perenne domandare costitutivo del pensiero al silenzio come risposta. Ne La pensée de rexistence Wahi aveva confermato il suo esistenzialismo come paradossalmente non racchiudibile in nessuna categoria od etichetta filo­ sofica, nemmeno in quella di un razionalismo negativo o inesistenzialismo o anesistenzialismo, affermando che « non possiamo parlare se non indiret­ tamente dell'esistenza mostrando ciò che essa non è >>; nel Traité radica­ lizza il metodo della ricerca della verità assoluta nella totalità del parti­ colare, mediante una inesausta compresenza di affermazioni e negazioni. L'essere - vi conclude - può solo essere espresso per antitesi coesistenti; dell'essere non si dà pensiero ma sentimento; il discorso sulJ'essere può essere solo discorso sul divenire come discorso negativo necessario per af­ fermare, in quanto radicalmente negativo, il non-discorso come l'unico possibile relativamente all'essere. La dialettica « intrepida >> di Kierkegaard si fa dialettica vertiginosa e dialettica della vertigine e dialettica vertigino­ samente autonegantesi. L'empirismo radicale può coincidere con una meta­ fisica dialettica solo se la dialetticità della metafisica dialettizzando se stessa si ritrova nella propria negazione adialettica. L'empirismo di Wahi si rivela dunque come , con Nietzsche, lo Hegel heideggeriano -: che la conoscenza coincide con la non cono-

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scenz a - Connaitre sans connaitre suona il titolo di un suo volume di poesie. L'esistenza grida cosi il suo prorompere immediatamente variegato fino al silenzio, pura esistenza che può dirsi solo come silenzio : la filosofia esi­ stenziale attua cosi in W ahi la sua consuma1.ione filosofica della filosofia iden­ tificandosi con la dialettica della adialetticità di ciò chP è tutt'altro dal pensiero.

5. L'ESTETISMO MISTICO DI ]ANKÉLÉVITCH Il > della scrittura di Vladimir J ankélévitch è racchiuso nel mistero del severo arabescare dcll'odissea del suo pensare : solital'io e in­ sieme imbevuto di una capacità indefinita, fino ai limiti del preziosismo, di un assorbimento culturale levissimamente trascorrente da Platone al neo­ platonismo, dai classici del misticismo alla tradizione moralistica francese, dai Padri della chiesa specie orientale a variegature gnostico-catare, da Schelling a Kierkegaard e al mai dimenticato Bergson. A Bergson dedica infatti il suo primo libro (Bergson, Parigi, 1931), per risalire lungo le vibra­ zioni romantiche della coscienza nella dissertazione di dottorato che, tren­ tenne ( essendo nato nel 1903, a Bourges, da famiglia ebrea russa), dedica a L'odyssée de. la conscience dans la dernière philosophie �e Schelling ( Pa­ rigi, 1933) e a L'ironie (Parigi, 1935). Il labirinto della coscienza, dalle invisibili strade conducenti senza nostos alla ricerca sempre smarribile della smarrita semplicità originaria, è tracciato con la virtuosità dialettica del trascolorare dal pudore all'ironia socratica, nel pathos del hel rischio del pensare, istoriazione agilmente imma­ ginifica e raziocinante, stillante sensitività estetica e tormentata dal cilicio di una austerità morale che la trasfigurazione nell'amore addolcisce nella sua intollerabilità ma abbacinando con l'incandescenza di una lucidità intransi­ gente. L'acrobatica fenomenologia della coscienza raggiunge l'acme della sua finezza anche teoretica laddove si tematizza come ironia riflessiva, come tentazione del vizio dello sdoppiamento indefinito, dell'autoconoscenza fre­ neticamente acrobatica che è all'origine della decadenza dall'innocenza ori­ ginaria. L'originale analitica esistenziale di questo esteta triste dell'intelli­ genza morale, al massimo sensitivo e insieme mobile e controllato, si stilizza sempre piu nettamente nella sua dialettica vertiginosa e insieme miniata di chiaroscuri e tonalmente variata di temi notturni borealmente trascolo­ ranti, quasi frammenti ingranditi di icona. I tenii dell'esistenzialismo postromantico - dopo l'ironia, l'alternativa, nell'opera omonima del '38 - dopo l'esplosione musicale nella > degli anni bellici ( nei quali pubblica ì suoi lavori musi­ cologici sugli > Fauré R avel Debussy, alimentando un filone che sboccerà ne La musique et l'ineffable del '60), prendono forma, dopo tante raffinate sarchiaturc, di un vasto giardino - di un Bosch dall'occhio di eremita - di una fenomenologia della morale di cui Du mensogne ( 1942) e Le mal ( 1947) sono inquietanti antiporte, il Traité des vertus ( del 1949 : dal '51 alla Sorbona succede a La Senne nella cattedra di filosofia morale) è l'istoriatissima sistemazione di cui sono variazioni L'austérité et la vie morale ( 1965), L'aventure, l'énnui, le sérieux ( 1963) e Le pardon ( 1967). Il basso continuo di questa vasta istoriazione è il carattere > della condizione umana, caratterizzato da una finitudine impura di inter-

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mediarità, la quale si rifrange fin sull'universo dei valori, che incarnano il mistero dell'assoluto plurale per la loro molteplicità paradossalmente coin­ cidente col porsi di ciascun valore come assoluta unicità. Di qui l'ambiguità insormontabile, la mediocre dialettica di potenza e impotenza, dialettica del disordine e dell'equivoco infinito, che tende la serietà tra l'essere e il nulla del comico e del tragico, e la volontà e il dovere nella polarità della facilità difficile, e l'amore nell'agonia trasfìguratrice della possibile impossibilità. II legame dell'avventura c9n la serietà morale e dell'avventura e della serietà con la morte pone la morte come il centro misterioso tlel pensiero, il nero fuoco metempirico transrazionale che è necessario fissare faccia a faccia per abbacinarsi di veggenza : né ottimismo ellenico né pessimismo esisten­ zialisticamente irrimediabile valgono dunque a tracciare la metafisica della morale, la morale della metafisica e l'estetica della morale e della metafisica, cioè il labirinto edenico di cui Jankélévitch, nell'opera piti teoricamente incl8lva (la Philosophie première. lntroduction à une philosophie du « presque >> , Parigi, 1953, di cui Le je-ne-sais-quoi et le presque-rien, del '57 può considerarsi quasi un'appendice) fa balenare l'invisibile filo d'Arianna dell' dell'istante potrà dunque essere la mistica estetica di una metaontologia, di una teologia anti­ teologica dell'effettività. Ironicamente dissolte le razionalistiche filosofie seconde, la meditazione « metafisica » sarà il coglimento impossibile del­ l'istantaneità del vuoto eloquente del mistero, della notte del male e della morte e de11' « ineffabile chiaro-scuro » del mistero divino : una filosofia del . L' «impossibile >> intuizione dell'istante è la poiesis seconda, la ri-creazione, l'impossibile pensabilità della stessa creazione, « pensabile » , appunto, solo. non speculativamente, di là dal pensiero come la creazione è di là dall'essere e dal nulla, cioè solo mediante il poiein creativo proprio soltanto dell'uomo come il dio-istante, la creatura-ricreatrice. Dunque « pensabili » come la creazione sono Dio, il tempo, la libertà, la musica, l'amore e la morte. La morte. n fuoco sempre piti approssimato dalla meditazione di J ankéléVitch (La mort è dd '66'1, 8i fa il perno estremo de11'intrascendibi1e oscillatorio con· trasto dell'esistenza tra la morte e la coscienza, la morte e la libertà, la morte e l'amore, « puro » solo nella suprema incandescenza caritativa del per­ dono, che brucia ogni torbida nostalgia della cattiva coscienza nell'edenico ritorno alla originaria Semplicità.

Esistenzialismo francese, russo e italiano II.

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ESISTENZIALISMO RUSSO

Berdjaev e Sestòv si possono considerare i portatori > di quell' > che, dopo Hegel, è sempre piu nettamente caratte­ rizzata dal nichilismo e dallo slavofilismo in polemica con la cultura del­ l'Occidente > quanto piu massicciamente se ne alimenta. La Crisi della filosofia occidentale. Contro i positivisti ( 1874) di Solov'ev si può assumere come l'emblema di un antirazionalismo che risulta da un com­ porsi del lato neoplatonizzante dell'idealismo tedesco (da Schelling a Ba ader come portatori di Bohme) con un neognosticismo ortodosso, nella direzione, variamente percorsa - da Herzen a Belinskij, da Dostoevskij a Leont'ev, da Fedorov a Ivànov, da Bulgakov a Florenskij a Karsavin - di un nuovo umanesimo oscillante tra una residua teologia della storia e sue ancora escatologiche secolarizzazioni.

l. IL MISTERO DELLA LIBERTÀ

IN BERDJAEV

Il nativo antiformalismo di Berdjaev percorre il suo pensiero tendendolo, secondo una polarità anarchico-mistica, come antisistematismo esistenziale rad.icato in una nostalgia profonda dell'originaria misteriosa libertà del­ l'uomo, misteriosamente decadente, con la colpa, nella schiavitu, che solo il mistero escatologico della ricreazione può liberare. Filosofia esistenziale, personalismo ed escatologismo religioso si incontrano in Berdiaev nella lotta per eccellenza del pensiero integrale contro le schiavitu razionaliste, siano esse idealistiche o marxistiche. Nato nel 1874 in un villaggio presso Kiev da famiglia di alta nobiltà militare, Nikolàj Alexàndrovic Berdjaev, entrato nel Corpo dei Cadetti, scopre precocissimo la sua vocazione, alimentando la sua fantasia con letture filosofiche - da Kant a Hegel, da Schelling a Schopenhauer - che gli radi­ cano un profondo sentimento di solitudine e insieme di superiorità, unito con un disgusto per ogni forma di schiavitu, da quelle sociali alla schiavitu della carne e della famiglia che, tutte, si annodano in quella della malvagità, della caduta che è il mondo. Perciò gli studi di giurisprudenza frattanto intrapresi a Kiev sono condotti sempre piu saltuariamente nella misura in cui, dopo la rottura con la società aristocratica, stringe contatti con i mag­ giori rappresentanti del populismo russo, specie con Michajlovski (sul quale pubblicherà il suo primo saggio, nel 1901) e con Lunaciarskij ; finché, ventenne, scoperto, dopo Feuerbach, il marxismo e fattosi frequentatore assiduo e attivo, se pur sempre indipendente, del comitato socialdemocra­ tico di Kiev, dominato da Plekhanov, nel 1898 è arrestato per tale attività, espulso dall'università e confinato nella lontana Vologda. Dostoevskij, al quale piu tardi dedicherà un volume (La concezione del mondo di Dosto­ evskij, Berlino, 1923), coagula in Berdjaev tutti i suoi drammatici sentimenti di schiavitu facendogli scattare, come scriverà nell'A uto biografia, una > , come quella > scientiforme è disgregatrice accetta­ zione della necessità, del non senso ; la :filosofia creatrice è antropologica - non in senso psicologico bensi meta:fisico -, come quella scientiforme antiumanistica. Di qui la serie dei primati costitutivi del pensiero di Ber­ djaev : della libertà sull'essere, dello spirito sulla natura, del soggetto sul­ l'oggetto, della persona sull'universale e generale, della creazione sull'evolu­ zione, del dualismo sul monismo, dell'amore sulla legge. Al primato della libertà sull'essere corrisponde il principio del suo personalismo esistenziale secondo cui la persona stessa precede l'essere - Berdjaev fa osservare che i mistici insegnano che Dio, persona, non è essere -, poiché lo spirito ha il primato sull'essere, per la sua dinamicità e personalità costitutive, di contro alla staticità e impersonalità dell'essere, fondamento, infatti, dell'uni­ versalismo deterministico e antipersonalistico di ogni ontologia. L'onto­ logia raccoglie dunque le aggettivazioni comunque razionali dell'esistenza, della persona come libertà : ma libertà, spirito, persona, sono mistero in nessun modo razionalizzabile, pena la sua negazione naturalistica - secondo il processo attraverso il quale il dualismo moderno genera per Berdjaev il positivismo agnostico e lo psicologismo, e il razionalismo genera natura­ lismo e materialismo -, bensi solo simholizzabile : simbolizzazione del­ l'arte, > , elevatrice e purificatrice - ma l' > Berdjaev avverte anche la tentazione dell'estetismo come quella della «languorosa passività >> che ha perduto, schiava delle im­ magini, la capacità creativa - ; e simholizzazione religiosa che produce rappresentazioni mitologiche : gnosi nella quale culminano e :filosofia e arte e religione. Alla simholizzazione corrisponde la vittoria della :filosofia esistenziale, dello spirito, sulla sua schiavitu radicale, l'oggettivazione. Simbolizzare significa, in senso forte e ampio, trasfigurare il mondo creandolo secondo un senso, ricreandolo come esistente concreto, liberandolo dall'inesistenza del­ l'oggetto come essere in generale : la verità dell'«oggetto >> è il senso, il logos dell'esistente nell'esistente stesso, spirito risvegliato a se stesso, ricreatÒsi nella sua libertà dalla necessità strumentalizzatrice e antipersonalistica della natura e della storia. Alla libertà e al suo mistero corrisponde dunque il mistero della creazione : la libertà umana rivela, perciò non teologicamente ma antropologicamente, la creazione divina. Il mistero della libertà raccoglie in sé il mistero della creazione, della persona, e della caduta, del male : il mistero della libertà è il medesimo mistero della sua caduta nella schiavitu, nel male, sconvolgimento della creazione che solo un atto ricreatore può risanare, nel tempo, per l'eternità. Come la libertà, lo spirito, anche il male è superrazionale, e perciò ogni monismo razionalistico - cosi come anche ogni dualismo manicheo e gnostico - tenta di eliminarlo ; senza causa, Ungrund; pur nasce dalla libertà, come sua negazione, appunto come principio della causalità necessaria, della necessità : è mistero fondato sul mistero, al .di sopra di ogni logica, in quanto, schellinghia:Ò.amente, è non-essere, dunque

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inaccessibile ad ogni significato, fondato sull'abisso dell'essere. L'essere come spirito, dal nulla del male ricrea la libertà, libertà dal male, nell'amore, compiendo l'atto escatologico dell' > ) e poi con Kicrkegaard, si determina come fideismo antispeculativo nelle sue opere fondamentali, dalla Notte di Getsemani. Pascal ( 1923) a Kier­ kegaard e la filosofia esistenziale ( 1936) e ad A tene e Gerusalemme, che esce a Parigi nel 1938, dove nello stesso anno egli muore. Dostoevskij e Nietzsche costituiscono per Sestòv l'appoggio nella sua lotta iniziale contro il proprio > - in realtà contro la cultura « occi­ dentale n - cioè contro gli opposti ma equivalenti monismi dello spirito e della materia (il > proprio della scienza) tendenti a sposarsi nel loro tentativo di autogiustificazione e non divorziando nemmeno nelle loro dispute - tra idealismo e positivismo -, in verità puramente apparenti, verbali, facile tattica di nascondimento della realtà sotto le magJie compatte ·degli apriorismi, intessute a costruire la securitas della morale della quoti­ dianità. Tale morale può smagliarsi, e mettere cosi a nudo l'uomo del « sottosuolo », solo nell'urto con la realtà nella sua crudezza piti disorien­ tant� : i demoni dello scetticismo e del pessimismo sgretolano fino agli ul­ timi baluardi ogni apriorismo « idealistico n lasciando balenare sulle sue mediocri rovine la « filosofia della tragedia >>. La quale non sussiste avendo �ome suo scopo la saggezza, pur ricostituendo il legame essenziale tra saggezza e filosofia spezzato e negato per la sua scomodità da ogni filosofia « specu­ lativa n ; invece « la filosofia nasce dalla disperazione JJ che è il retaggio necessario del vedere la realtà « in faccia n, cioè nella sua nudità, scopren­ ,dola come male antologico del suo essere insieme di esistenti, di finiti : attra­ verso la disperazione, la filosofia, che dunque è « esistenziale » , nell ab ban­ dono alla disperazione stessa deve attuare la tensione assoluta di invocare l'impossibile luce della fede, dell' « assoluto arbitrio >> divino, dell'Assurdo. La « filosofia esistenziale >> coincide dunque, per Sestòv, con tale fede. Nietzsche e Kierkegaard affilano a Sestòv le armi della polemica anti­ razionalista in cui si esaurisce, negativamente e positivamente, il suo pen­ siero. Entrambi individuano, infatti, la radice storica del pensiero occi­ dentale come filosofia « speculativa n , il primo identificandola con Socrate, -

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il > per eccellenza, e il secondo con Adamo stesso, di cui per Sestòv Socrate non fa che rinnovare il crimine del tender la mano all' albero della conoscenza. Il male entra nel mondo come peccato - nel mondo già ontolo· gicamente male in quanto finito - nella caduta dell'appropriazione della scienza del bene e del male : del proprio limite non accettato fa leva suicida alla hybri.� de1la ribellione al limite stesso, infrangendo il legame col Creatore, l' Origine sua e, in quanto origine assoluta, origine della sua finitezza. La scientia è dunque il peccato, frattura teoretica della creaturalità originaria che è esistenza di là dal bene e dal male. Ma la sorgente della scientia è la ragione, il cui sussistere comporta un crescere come concupi· scentia irresistibilis che prolifera i frutti maledetti di ogni filosofia specu­ lativa o razionalistica, abominevole sacrilegio, ateismo tanto piu pervicace quanto piu deve lottare per la negazione totale e definitiva del mistero, dell'ineffabilità costitutiva dell'esistenza, della rivelazione come ciò che piu teme in quanto è >, cioè la liberazione, mediante l'esorcismo esistenziale, da se stessa, la cui fatalità resta comunque l'autoannullamento, in quanto la concupiscentia sciendi, il peccato primo, ha come retaggio, paolinamente, la morte. Storicamente, per Sestòv, il peccato originario si è radicato proprio in quel medioevo occi· dentale che segna il trionfo della religione, del cristianesimo : la fede come fede in Dio consuma la profanazione suicida di non rinunziare all'eredità de1 razionalismo ellenico - non a caso è nei Padri della chiesa che nasce la valanga storica della da Dio è il niente della libertà c il niente dell'uomo stesso annullato insieme con Dio, perché la libertà dal Niente è solo nella dipendenza da Dio, nel riconoscimento della propria crcaturalità che, radicalmente, è il non-sapere deJla fede. Hegel, infatti, assolutizza la ragione umana, la propria ragione, come il principio stesso del sapere : non sa che farsene della verità cc rive­ lata » , attuando la ciclopica o prometeica impresa speculativa di c< conci­ liare >> religione e ragione, mediante la giustificazione speculativa della reli­ gione, alla quale in sostanza non resta che il bearsi al cospetto della stessa ragione che solo può « giustificarla » , alimentandosi alla sorgente della filosofia che è l'albero della scienza, incurante dell'angelo di fuoco - an­ ch'esso speculativamente assunto come il fuoco della logica enciclopedistica del sapere filosofico - che dopo il peccato primo si è parato dinanzi a tutte le originarie ricchezze e passioni dell'esistenza, priva delle quali, infatti, l'esi­ stenza langue privata di se stessa nel suicidio speculativo. Smascherare l'hybris suicida della speculazione corrisponde, da un lato, alla proclama­ zione nietzscheana della morte di Dio e, dall'altro, al ritrovamento lcierke­ gaardiano della libertà autentica del peccato del sapere speculativo nel suo opposto, la fede, il non-sapere oltre ogni sapere, costitutivo della c< filosofia esistenziale », la quale nasce dalla disperazione, attraverso essa, anziché dallo stupore, come quella ellenica, che si radica nel suo inorgoglirsi mor­ dendo il proibito frutto del sapere. 'Lo spirito di Gerusalemme trionferà sull' « autocrazia della ragione » dello spirito di Atene solo quando il pen­ siero, cioè l'esistenza radicale del cc pensatore privato » il cui paradigma sono Giobbe e Abramo, sussisterà integralmenté come la fede deJla disperata invocazione de profundis della fede, cioè dell'accettazione religiosa del cc ter­ rore dell'esistenza racchiusa nel mistero » .

III. ESISTENZIALISMO ITALIANO

ESISTENZIALISMO ED EMPIRISMO IN ABBAGNANO

Il fenomeno europeo della Kierkegaard-Renaissance si incontra, in Italia, nell'anteguerra, con una certa stanchezza del neoidealismo, il quale, pur nel suo esaurirsi e poi nei seppellimenti non di rado frettolosi quando non anche astiosi che subirà - confermando anche cosi la profondità della sua portata speculativa e l'ampiezza delle sue sollecitazioni culturali -, me­ diante i nuovi stimoli di tale incontro feconda, da un lato, un rinnovarsi delle polemiche antispeculative e antimetafisiche ( dal Banfi al Luporini al M assolo fino al Paci ; il Fili asi C arcano le ordina nel suo metodologismo di radice aliòttiana) progressivamente smorzantisi a misura del loro confi­ gurarsi come una neostoricista analitica esistenziale non affatto immemore di risonanze ed impegni marxisti nonché husserliani e poi pragmatisti e neoempiristi ; e, dall'altro lato, feconda una rinascita ( da Carlini a Stefa-

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nini, da Sciacca a Pareyson e a Prini) di un personalismo spiritualista o neoclassico ( 1). Nicola Abbagnano è il rappresentante piu significativo di questo che resta essenzialmente un episodio culturale, per quanto rilevante, di reazione prebellica-postbellica : in Italia l'esistenzialismo filosofico resta in buona parte di seconda mano, di scarsa consistenza e originalità teoretica, come dimostra la stessa posizione di Abbagnano, nel senso che, infatti, rispetto ad essa l'esistenzialismo - se ancora può ritenersi qui valida tale denomi­ nazione - si riduce in sostanza ad un punto �i passaggio toretico, impor­ tante ma tanto piu quanto piu rapidamente e profondamente da evadere in direzione empiristica. La cc positività » dell' cc esistenzialismo >> di Abbagnano si esplica sin dagli anni giovanili - Abbagnano è nato a Salerno nel 1901 in una intensa ampia attività storiografìca che, alla scuola dell'Aliotta, spazia, tra il '23 e il '34, da Aristotele (nel lavoro su La nozione del tempo secondo A ristotele, Lanciano, 1933) al pensiero contemporaneo (negli aliottiani im­ portanti volumi su Le sorgenti irrazionali del pensiero, Napoli, 1923 e su Il nuovo idealismo inglese e americano, Napoli, 1927), attento ad un ampio raggio di problemi, da quello estetico (Il problema dell'arte, Napoli, 1925) a quello, di sempre maggior rilievo, della scienza ( da La filosofia di E. Meyerson, Napoli, 1929 a La fisica nuova, Napoli, 1934). Tale attività storia­ grafica, sempre fortemente sorretta da un impegno teoretico, sbocca ne Il principio della metafisica, del 1936 - anno nel quale vince la cattedra e dal quale insegnerà per sette lustri all'Università di Torino -, opera nella quale l'esigenza di fondare una metafisica come speculazione autonoma, auto­ fondantesi di là da ogni soggettivismo ed oggettiviamo, trova in Kierkegaard e Heidegger, negati nella loro negatività, una strada di uscita dal nodo neoidealistico e dalle sue reazioni comunque cc negative » , da quelle proble­ maticiste a quelle irrazionaliste e religiose, nei confronti delle quali, in parti­ colare, Abbagnano aguzza la piu netta ripulsa, rigorosamente incompatibile con qualsiasi forma di autobiografismo comunque spiritualistico o intro­ spettivo. La conseguente costante omissione dell'esistenzialismo francese trova con­ ferma nell'impostazione de La struttura dell'esistenza ( Torino, 1938), l'opera cruciale della sua maturazione teoretica e insieme raro esempio di una rigorosa disciplina, insieme lucida e appassionata, che - nell'anteguerra opera la fondamentale scelta esistenziale dell'assunzione della finitudine dell'uomo. Tale scelta è la base della « positività » della sua concezione del­ l'esistenza : qualsiasi evasione dalla finitudine - cui si riducono in sostanza i denticamente le opposte posizioni di Heidegger e di J aspers, negando la possi· bilità e dunque la positività propria dell'esistenza, il primo nell'impossibilità dell'esistenza di emergere dal nulla e il secondo nell'impossibilità dell'esistenza di essere l'Essere è vanamente contraddittoria e negatrice della stessa esi­ stenza ; la sua assunzione comporta la costituzione dell'esistenza come impegno -

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( 1 ) Cfr. l'ampio dettagliato panorama tracciato da A. SANTUCCI con un volume su Esistenzialismo e filosofia italiana, Bologna, 1959, 19672, in una prospettiva per piu aspetti vicina a quella dell' Abbagnano e del Paci. Cfr. inoltre le nostre rassegne Gli studi kierkegaardiani in Italia nell'ultimo ventennio, in « Cultura e Scuola », 1968, pp. 127-138 e Sullo c< spiritualismo cristiano >> italiano dal dopoguerra ad oggi, ivi, 1972, pp. 82-92.

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di problematicità trascendentale ; la possibilità costituisce la struttura dell'esi­ stenza in quanto possibilità trascendentale di rapporto con l'essere : costituisce l'esistenza come trascendenza. Dove « essere >> equivale agli « esseri n che sono la mia esistenza singola, il mondo e gli altri ; e « trascendenza >> vale l'auto­ trascendenza che l'esistenza è come impegno totale a radicarsi nella sua pos­ sibilità e libertà, come autoprogettazionc nel compito della coesistenza. La consapevolezza e l'assunzione della finitudine umana, essenzialmente sulla base della concezione della ragione .come problematicità fondante il finito, si esplica perciò come impegpo della finitudine nella finitudine stessa, per cui essa si assume come libertà da ogni negazione assolutizzatrice e comunque dissolutoria. Nei successivi volumi teoretici (i piu importanti restano Filosofia, re­ ligione e scienza, del 1947 ; Esistenzialismo positivo, del '48 e Possibilità e libertà, del '56) Abbagnano imbocca cosi sempre phi decisamente la strada positiva di un « esistenzialismo >> che proprio nella sua positività si farà progressivamente sempre pil'i > a trovare il proprio volto piu teo­ reticamente autentico - dunque piuttosto morendo che trasfigurandosi come umanesimo neoilluministico c neoempiristico, saggiamente equili­ brato sul filo della > , il criterio del bilico di tutte le varie­ gate ed anche opposte empiristico de­ terminatosi nel dopoguerra equivale dunque ad una compiuta assunzione di Abbagnano dell'empirismo aliottiano di partenza (che gli alimenta una imperturbata positiva fiducia nella ragione nel suo limite), radicalizzato attraverso una feconda messa tra parentesi dell'esistenzialismo ( di cui Aliotta si faceva critico negli stessi anni), che pertanto, esauritasi la sua esplosione europea, sempre piu nettamente si rivela nella sua :funzione es­ senziale di nodo risolutivo del suo neostoricismo situazionale e strumen­ talistico sempre piu rigorosamente e strettamente depurato - non ultimo mediatore Dewey - da ogni residuo > de Platon, ivi, 1926, 195 F ; Le malheur de la conscience dans la philosophie de Hegel, ivi, 1929, 195 F ; Vers le conere t. Études d' histoire de la philosophie contemporaine ( W. J ames, A. N. Whitehead, G. Marcel), ivi, 1932 ; Gesellschaft und Skeptizismus bei Rosa Maculay, Tuhinga, 1936 ; Études kierkegaardiennes, Parigi, 1938, 19673; Existence humaine et transcendance, Neuchatel, 1944 ; Poèmes, Montréal, 1945 ; Parigi, 19522 ; Tableau de la philosophie française, Parigi, 1946, 19622 (tr. ted., Sackingen, 1948 ; tr. it. : Il pensiero moderno in Francia, Firenze, 1965) ; Petite histoire de l'existentialisme, suivie de Kafka et Kierke· ,gaard, Parigi, 1946 (tr. ingl., Nuova York, 1949, 19622 ; tr. spagn., Buenos Aires, 1954); The Philosopher's Way, Nuova York-Oxford, 1948 ; Poésie, pensée, perception, Parigi, 1948 ; Esquisse pour une histoire de l'existen­

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può esaminare fin che si vuole la nozione di essere, senza trovarvi la minima traccia del nulla. Al contrario, il nulla che non è, non può avere che un'esistenza derivata : prende il suo essere dall'es­ sere ; il suo nulla d'essere non si incontra che nei limiti dell'es­ sere e lo sparire totale dell'essere non costituirebbe l'avvento del regno del non-essere, ma lo svanire immediato del nulla : non vi è non-essere che alla superficie dell'essere. ( .. ) Heidegger, nella sua opera piu importante, ha dimostrato la legittimità dell'interrogazione sull'essere ; questo non ha piu -il carattere di universale scolastico che conservava in Hegel ; c'è un senso dell'essere che bisogna chiarire : una « comprensione preonto­ logica » dell'essere che è strettamente legata a tutte le condotte della « realtà umana », cioè a tutti i suoi progetti. Parimenti le aporie che si pongono quando un filosofo arriva al problema del nulla si rivelano tutte senza portata : il loro valore sta solo nel limitare l'uso dell'intelletto, e mostrando semplicemente che il problema non è di competenza dell'intelletto. Esistono, invece, nu­ merosi atteggiamenti della « realtà umana » che implicano una « com­ prensione » del nulla : l'odio, il divieto, il rimpianto, ecc. C'è pure per il « Dasein » una continua possibilità di trovarsi , « di fronte » al nulla e di scoprirlo come - fenomeno : l'angoscia. Tuttavia Hei­ degger pur stabilendo _ le possibilità di una percezione concreta del nulla non cade nell'errore di Hegel, non conserva al non-es· sere un essere, neppure un essere astratto : il nulla non è, si annulla. È sostenuto e condizionato dalla trascendenza. ( . .) Ogni determinazione, per Heidegger, è superamento, perché richiede un ripiegamento, una presa di posizione. Questo superamento del mon­ do, condizione del . formarsi stesso del mondo come tale, il « Da­ sein » lo compie in direzione di se stesso. Infatti la caratteri­ stica dell'ipseità (Selbstheit) è che l'uomo è sempre separato da ciò che è da tutto il volume dell'essere che egli non è. Si annuncia a se stesso dall'altro lato del mondo e torna indietro ad interioriz­ zarsi in se _stesso, partendo dall'orizzonte : l'uomo è « un essere di lontananze ». ·È proprio nel movimento di interiorizzazione, che lo attraversa tutto, che l'essere si forma e si organizza come mondo, pur senza che vi sia priorità del movimento sul mondo, o del mondo sul movimento. Ma questa apparizione del sé al di là del mondo, cioè della totalità del reale, è una emergenza della « realtà umana » nel nulla. Solamente nel nulla si può completare il superamento dell'essere. Nel medesimo tempo, proprio dal punto di vista dell'al di là del mondo, l'essere è organizzato in mondo, e ciò significa, da un lato, che la realtà umana si forma come emergenza dell'essere nel non-essere, e dall'altro che il mondo è .

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« in sospeso » nel nulla. L'angoscia è la scoperta di questo du­ plice e perpetuo annullamento. E proprio partendo da questo supe­ ramento del mondo il Dasein realizza la contingenza del mondo, cioè pone il problema : « In base a che cosa vi è qualcosa, piut­ tosto che niente ? ». La contingenza del mondo appare dunque alla realtà umana in quanto questa si è posta nel nulla per percepirla. Ecco qui, dunque, il nulla che circonda l'essere da ogni parte e, nello stesso tempo, ne è espulso : ecco che il nulla è dato come ciò per cui il mondo riceve i suoi contorni di mondo. Può soddisfarei questa soluzione ? Certo non si può negare che l'apprensione del mondo come mondo è annullatrice. Il mondo, apparendo come mondo, si · pre­ senta come non essente che esso. La contropartita necessaria di questa apprensione è dunque l'emergenza della « realtà umana » dal nulla. Ma donde viene il potere che ha la realtà umana di emergere cosi dal non-essere ? Senza dubbio Heidegger ha ragione di insistere sul fatto che la negazione trae fondamento dal nulla. Ma se il nulla fonda la negazione, rinchiude pure in !3é come sua struttura essenziale il non. In altre parole, non è come vuoto in­ differenziato o come alterità che si pone come alterità e), che il nulla fonda la negazione. Il nulla è all'origine del giudizio nega­ tivo, perché è esso stesso negazione. Fonda la negazione come atto, perché è la negazione come essere. Il nulla non può essere nulla, se non annullandosi espressamente come nulla del mondo : cioè dirigendosi espressamente, nel suo annullamento, verso questo mon­ do, per costituirsi come rifiuto del mondo. Il nulla porta l'essere in grembo. Ma in che senso l'emergenza spiega questo rifiuto an­ nullatore ? Non è certo la trascendenza, che è « proiezione di sé al di là ... », che può fondare il nulla, al contrario è il nulla che è nel seno stesso della trascendenza e la condiziona. Ora, la carat­ teristica della filosofia heideggeriana è di usare nella descrizione del Dasein dei termini positivi che nascondono delle implicite ne­ gazioni. Il Dasein è « fuori di sé, nel mondo » è un « essere delle lontananze », è « inquietudine », è « le sue possibilità » ecc. Tutto ciò significa che il Dasein « non è » in sé, « non è » rispetto a se stesso in una immediata vicinanza e « supera » il mondo in quanto si pone come non essente in sé e come non essente il mondo. In questo senso Hegel ha ragione contro Heidegger quando af­ ferma che lo spirito è il negativo. Solo, si può porre sia all'uno che all'altro la medesima domanda sotto forme appena differenti ; dobbiamo dire a Hegel : « Non basta porre lo spirito come la me(3) Ciò che Hegel chiama te » dall'uomo. Dovremo tener presente que­ sta verità nella sua interezza per svilupparne tutte le conseguenze : è quel che si dice la circolarità dialettica ; l'esperienza deve stabi­ lirla, come vedremo. Se però non fossimo già esseri dialettici, non potremmo neppure capirla. La presento in partenza non come ve­ rità, e neanche come ipotesi, ma come il tipo di pensiero che ci vuole, programmaticamente, per illuminare un'esperienza che si svolge da sé. Sul terreno piu superficiale e piu familiare, l'esperienza rivela anzitutto, nell'unità dei nessi dialettici, l'unificazione come movi­ mento della praxis individuai�, la pluralità, l'organizzazione della pluralità e la pluralità delle organizzazioni. Basta aprire gli occhi per rendersene conto. Il problema per noi è quello dei nessi. Se ci sono piu individui, chi totalizza ? o che ? La risposta immediata ma insufficiente, è che non ci sarebbe nemmeno un abbozzo di totalizzazione parziale se l'individuo non fosse per se stesso totalizzante. Tutta la dialettica storica poggia sulla praxis individuale in quanto questa è gUi dialettica, cioè nella misura in cui l'azione è di per se stessa superamento negatore di una contraddizione, determinazione di una contraddizione presente in nome di una totalità futura, lavoro reale ed efficace della ma­ teria. Tutto ciò lo sappiamo, l'esperienza soggettiva ed oggettiva ce l'ha insegnato da un pezzo. Il nostro problema è invero : che cosa sarà mai la dialettica se vi sono soltanto uomini e se questi

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sono tutti dialettici? Ma ho detto che l'esperienza fornisce da sola la propria intelligibilità. Bisogna dunque vedere al livello della praxis individuale (poco ci importa, per ora, quali siano le costri­ zioni collettive che la suscitano, la limitano o la privano d'effi­ cacia) qual è la razionalità propriamente detta dell'azione. Tutto si rivela nel bisogno : è il primo rapporto totalizzante di questo essere materiale, un uomo, con l'insieme materiale di cui fa parte. Tale rapporto è univoco e d'interiorità. Con il bisogno, infatti, compare nella materia la prima negazione di negazione e la prima totalizzazione. Il bisogno è, negazione di negazione nella misura in cui si denuncia come una mancanza all'interno dell'orga­ nismo, è positività nella misura in cui grazie ad esso la totalità organica tende a conservarsi come tale. La negazione primitiva è, infatti, una prima contraddizione fra organico e inorganico, nel doppio senso che la mancanza si definisce per una totalità ma, d'altra parte, una lacuna, una negatività in quanto tale, ha un tipo d'esistenza meccanica e, in ultima analisi, ciò che manca può venir ridotto a elementi disorganizzati o meno organizzati o, sem­ plicemente, a carne morta, ecc. Da questo punto di vista, la nega­ zione di questa negazione si attua superando l'organico verso l'inor­ ganico : il bisogno è rapporto d'immanenza univoca con la mate­ rialità circostante, in quanto l'organismo cerca di nutrirsene, esso è quindi già totalizzante, e doppiamente : infatti è nient'altro che la totalità vivente che si manifesta come totalità e che svela la materialità circostante, all'infinito, come campo complessivo delle possibilità di appagamento. Sul piano che c'interessa, il superamento . in base al bisogno nori ha nulla di misterioso, perché la condotta originaria del bisogno di cibo, ad esempio, ripete le condotte elementari della nutrizione : masticazioni, salivazioni, contrazioni gastriche, ecc. Il superamento si manifesta qui come la semplice unità di una funzione totalitaria che si esercita a vuoto. Senza l'unità delle condotte elementari in seno al tutto, la fame non esi­ sterebbe, non ci sarebbe che uno sparpagliamento di comporta­ menti impazziti e sconnessi. Il bisogno è una funzione che, se si pone per sé e si totalizza come funzione, è ridotta a diventare gesto, cioè a funzionare per se stessa c non nell'integrazione della vita organica. E, attraverso quest'isolamento, l'organismo corre il rischio di disgregarsi ; è il pericolo di morte. Questa prima totalizzazione è trascendente nella misura in cui l'organismo trova il suo essere fuori di sé - immediatamente o mediatamente - nell'essere ina­ nimato ; il bisogno costituisce la prima contraddizione poiché l'or­ ganico dipende, nel suo essere, direttamente (ossigeno) o indiret­ tamente (cibo) dall'essere non organizzato e, reciprocamente, il

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controllo delle reazioni impone all'inorganico uno status biologico. Si tratta, infatti, di due status della stessa materia1ità in quanto, tutto porta a crederlo ( .. .), i corpi viventi e gli oggetti inanimati sono costituiti dalle stesse molecole ; ma questi status sono contradit­ tori perché l'un suppone un rapporto d'interiorità fra il tutto come unità e le relazioni molecolari, mentre l'altro è di pura esterio­ rità. Tuttavia, la negatività e la contraddizione vengono all'inerte mediante la totalizzazione organica. La materia circostante riceve sin dalla comparsa del bisogno un'unità passiva per il solo fatto che una totalizzazione in corso vi si riflette come totalità. Onde si può dire che la N atura, nella sua prima forma, è la materia svelata come totalità passiva da un essere organico che tenta di trovarvi il suo essere. Sin d'ora, il bisogno cerca in essa le possi­ bilità di venir soddisfatto in base al campo totale ; ed è la tota­ lizzazione a scoprire nella totalità passiva il proprio essere mate­ riale come abbondanza o penuria. ( . . . ) Astrattamente, la penuria può essere ritenuta come una rela­ zione dell'individuo con quanto lo circonda. Praticamente e stori­ camente - vale a dire in quanto siamo situati - quel che cir­ conda è un campo pratico già costituito, che rinvia a ciascuno strutture collettive (vedremo in seguito che cosa ciò significhi), la piu fondamentale delle quali è proprio la penuria come unità negativa della molteplicità degli uomini ( di questa molteplicità con­ creta). Tale unità è negativa rispetto agli uomini poiché viene al­ l'uomo dalla materia in quanto disumana ( ossia in quanto la sua presenza d'uomo non è possibile senza lotta su questa terra) ; ciò significa quindi che la prima totalizzazione mediante la materialità si manifesta ( all'interno di una società determinata e tra gruppi sociali autonomi) come possibilità di una distruzione comune di tutti e come possibilità permanente per ciascuno che tale distru­ zione giunga a lui dalla materia tramite la praxis degli altri uo­ mini. Questo primo aspetto della penuria può condizionare l'u­ nione del gruppo, nel senso che questo, collettivamente conside­ rato, può organizzarsi per reagire collettivamente. Ma tale aspetto dialettico e propriamente umano della praxis non può in nessun caso esser contenuto nella relazione di penuria in se stessa, ap· punto perché l'unità dialettica e positiva di un'azione comune è la negazione dell'unità negativa, come ritorno della materialità cir­ costante sugli individui che l'hanno totalizzata. In realtà la penu­ ria, come tensione e come campo di forze, è espressione di un fatto quantitativo ( piu o meno rigorosamente definito) : una certa sostanza naturale o un certo prodotto manufatto esiste, m un campo sociale determinato, in quantità insufficiente dato il numero dei

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membri dei gruppi o degli abitanti della regione : non ce n'è abba­ stanza per tutti. Cosi « tutti » (l'insieme) esiste per ognuno, in quanto il cons1llllo di quel certo prodotto, laggiu, da parte di altri, gli vieta qui la possibilità di trovare e di consumare un og­ getto dello stesso ordine. Esaminando il rapporto vago e univer­ sale di reciprocità non determinata, abbiamo rilevato che gli uo­ mini potevano essere uniti gli uni agli altri indirettamente da aderenze in serie e senza neppur sospettare l'esistenza dell'tino o dell'altro. Nell'ambito della penuria, invece, quand'anche gli indi­ vidui s'ignorino, quand'anche stratificazioni sociali e !itrutture di classe spezzino nettamente la reciprocità, ciascuno, all'interno del campo sociale definito, esiste ed agisce alla presenza di tutti e di ciascuno. ( . . ) ( ... La) penuria, come rapporto univoco di ciascuno e di tutti con la materia, diventa, in definitiva, struttura oggettiva dell'am­ biente materiale circostante e in tal modo, di rimbalzo, indica, con dito inerte, ogni individuo come fattore e vittima di penuria. E ciascuno interiorizza tale struttura nel senso di rendersi con il suo comportamento l'uomo della penuria. Il suo rapporto con l'Altro, in quanto gli deriva dalla materia, è un rapporto d'esteriorità : in primo luogo perché l'Altro è pura possibilità (vitale ma astratta) che il prodotto necessario sia distrutto e, dunque, perché si defini­ sce in esteriorità come possibilità minacciosa, ma contingente, del prodotto stesso come oggetto esterno ; in secondo luogo perché la penuria, come rigido schema di negazione, organizza, attraverso la praxis di ciascuno, ogni gruppo di possibili individui in ecce­ denza come totalità da negare in quanto totalità che nega tutto quello che essa non è. Cosi l'unità negativa operata dalla materia ha per risultato di totalizzare falsamente, cioè inertemente, gli uo­ mini, come le molecole della cera sono inertemente unite dal di fuori da un sigillo. Ma non essendo tuttavia soppressi i rapporti di reciprocità, appunto in essi l'esteriorità s'insinua. Ciò significa che rimane la comprensione di ciascuno per la praxis dell'Altro, ma che quest'altra praxis è compresa dall'interno proprio nella misura in cui la materialità interiorizzata nell'agente che comprende costituisce l'Altro in molecola inerte e separata da ogni altra mo­ lecola C()n una negazione d'esteriorità. Nella pura reciprocità, l'Al­ tro da me è anche il medesimo. Nella reciprocità modificata dalla penuria, il medesimo ci appare come il contro-uomo in quanto questo medesimo uomo ci appare come radicalmente Altro (ossia portatore per noi di una minaccia di morte). O, se si vuole, ne comprendiamo all'incirca i fini (sono i nostri), i mezzi (abbiamo gli stessi) e le strutture dialettiche dei suoi atti ; ma li compren.

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diamo come se fossero i caratteri di un'altra specie, il nostro dop­ pio demoniaco. ( .. .) Noi riteniamo dunque, al livello del bisogno e in base al biso­ gno, che la penuria venga praticamente vissuta mediante l'azione manicheista e che l'etica si manifesti come imperativo distruttivo : bisogna distruggere il male. A questo stesso livello si deve definire la violenza come struttura dell'azione umana dominata dal manichei­ smo nell'ambito della penuria. La violenza si presenta sempre come controviolenza, ossia come replica alla violenza dell'Altro. Questa violenza dell'Altro è una realtà oggettiva solo nella misura in cui esiste in tutti come motivazione universale della controviolenza : ed è semplicemente il fatto insopportabile della reciprocità rotta e dell'utilizzazione sistematica dell'umanità dell'uomo per realizzare la distruzione dell'umano. La controviolenza è esattamente la stessa cosa, ma in quanto processo di riequilibrio, in quanto risposta a una provocazione : distruggendo nell'avversario la disumanità del contro-uomo, non posso, di fatto, che distruggere in lui l'umanità dell'uomo e realizzare in me la sua disumanità. Che si tratti di uccidere, di torturare, d'asservire o semplicemente di mistificare� il mio scopo è di sopprimere la libertà estranea come forza ne­ mica, cioè come forza che può respingermi dal campo pratico e fare di me un « uomo di troppo » condannato a morire. In altri termini, è ben vero che aggredisco l'uomo in quanto uomo, ossia in quanto libera praxis di un essere organico, che nel nemico odio l'uomo e nient'altro che l'uomo, ossia me stesso in quanto Altro� e che proprio me stesso io voglio distruggere in lui, per impe­ dirgli di distruggermi davvero nel mio corpo. ( Critica della ragione dialettica, tr. it. di P. Caruso, Milano, Il Saggiatorc, 1963.

pp. 205-207, 253, 257, 259).

II. A. CAMUS l.

L'ASSURDO E L' OMICIDIO

Siamo nel tempo della premeditazione e del delitto perfetto. nostri criminali non sono piu quei bimbi inermi che adducevano la scusa dell'amore. Sono adulti, al contrario, e il loro alibi è irre­ futabile : è la filosofia, che può servire a tutto, fino a tramutare in giudici gli assassini. ( ...) Dall'istante in cui il delitto si fa raziocinante, prolifera come la stessa ragione, assume tutte le figure del sillogismo. Era solitario eome il grido, eccolo universale come la scienza. Ieri giudicato, oggi il delitto detta legge. Non ce ne indigneremo qui. È assunto di questo saggio accet­ tare una volta di piu la realtà del momento, che è il delitto lo­ gico, ed esaminare con precisione le giustificazioni : questo è uno sforzo per comprendere il tempo. ( .. .) Al tempo della negazione, poteva essere utile interrogarsi sul problema del suicidio. Al tempo delle ideologie, bisogna mettersi in regola con l'omicidio. Se l'omicidio ha le proprie ragioni, la nostra epoca e noi stessi siamo nella coerenza. Se non le ha, siamo nella pazzia e solo scampo è ritrovare una coerenza o mutar strada. In ogni caso, è nostro compito rispondere chiaramente al problema -che ci viene posto, nel sangue e nei clamori del secolo. Poiché siamo al problema. Trent'anni or sono, prima di decidersi a ucci­ dere, si aveva molto negato, al punto di negarsi col suicidio. Dio bara, il mondo con lui, e io stesso, dunque muoio : il problema era suicidio. Oggi, l'ideologia non nega piu se non gli altri, soli truffatori. E quindi si uccide. Ad ogni alba, assassini gallonati si insinuano in una cella : il problema è l'omicidio. I due ragionamenti sono legati. O piuttosto ci legano, e cosi strettamente che non possiamo piu scegliere i nostri problemi. Ci .scelgono essi, ad uno ad uno. Accettiamo d'essere scelti. ( . . .) Il senso dell'assurdo, quando si pretenda trarne subito una norma d'azione, rende l'omicidio per lo meno indifferente, e quindi possibile. Se a nulla si crede, se nulla ha senso e se non possiamo l

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affermare alcun valore, tutto è possibile e nulla ha importanza. Non c'è pro né contro, né l'assassino ha torto o ragione. Si pos­ sono attizzare i forni crematori, come anche ci si può consacrare alla cura dei lebbrosi. Malizia e virtu sono caso o capriccio. Si deciderà allora di non agire, ciò che equivale per lo meno ad accettare l'omicidio altrui, salvo deplorare armoniosamente l'im­ perfezione degli uomini. Oppure s'immaginerà di sotituire all'a­ zione il dilettantismo tragico, e in questo caso, la vita umana diviene 1a posta di un gioco. Ci si può infine proporre d'intra­ prendere un'azione che non sia gratuita. In quest'ultimo caso, in mancanza di un valore superiore che orienti l'azione, ci si diri­ gerà nel senso dell'efficacia immediata. Nulla essendo vero o falso� buono o cattivo, la norma consisterà nel mostrarsi il piti effi­ cace, cioè il piti forte. Gli uomini allora non si divideranno piu in giusti e ingiusti, ma in signori e schiavi. Cosi, da qua­ lunque parte ci si volga, al cuore della nazione e del nichilismo l'omicidio ha un suo posto privilegiato. Se dunque pretendiamo di adagiarci nell'atteggiamento assurdo, dobbiamo prepararci a uccidere, dando cosi la precedenza alla logica su scrupoli che giudicheremo illusori. ( . ) La conclusione ultima del ragionamento assurdo consiste ( ...) nel respingere il suicidio e nel mantenere quel confronto disperato tra l'interrogazione umana e il silenzio del mondo. Il suicidio �igni­ ficherebbe la fine di questo confronto e il ragionamento assurdo ritiene di non potervi sottoscrivere se non negando le proprie pre­ messe. Per esso, tale conclusione sarebbe fuga o liberazione. Ma è chiaro che con ciò il ragionamento assurdo ammette la vita come il solo bene necessario, in quanto essa permette appunto il con­ fronto : senza vita, la scommessa assurda non avrebbe piu appog­ gio alcuno. Per dire che la vita è assurda, bisogna che la coscienza sia viva. ( . ) ( . ) Il nichilismo assoluto, quello che accetta di legittimare il suicidio, trascorre ancora piu facilmente all'omicidio logico. Se il nostro tempo ammette agevolmente che l'omicidio abbia una sua giustificazione, ne è cagione quell'indifferenza alla vita che distingue il nichilismo. Senza dubbio, vi sono state epoche nelle quali la passione di vivere era cosi forte che prorompeva anche essa in eccessi criminali. Ma questi eccessi erano come la febbre di un piacere terribile. Non erano quest'ordine monotono, instau­ rato da una logica stenta agli occhi della quale tutto s'agguaglia. Questa logica ha spinto i valori connessi al suicidio, di cui s'è nu­ trito il nostro tempo, fino a quella loro conseguenza estrema che è l'omicidio lef!;ittimo : e culmina quindi nel suicidio collettivo. .

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( ...) In certo modo, l'uomo che s'uccide m solitudine preserva ancora un valore poiché, secondo ogni apparenza, non si riconosce diritti sulla vita altrui. Prova ne sia che non utilizza mai, per .dominare gli altri, la terribile forza e la libertà conferitagli dalla sua decisione di morire ; ogni suicidio solitario, quando non avvenga per risentimento, è in qualche modo generoso o sprezzante. Ma si disprezza in nome di qualche cosa. Se al suicida il mondo è indifferente, ciò avviene perché egli ha un 'idea di ciò che non gli è o potrebbe non essergli indifferente. Si crede di distruggere tutto e di portare tutto con sé, ma da questa stessa morte rinasce un valore per il quale, forse, sarebbe valsa la pena di vivere. La nega· :zione assoluta non si esaurisce quindi nel suicidio. Non può esau­ rirsi che nella distruzione assoluta, di sé e degli altri. O almeno, non la si può vivere se non tendendo a questo dilettevole limite. Suicidio e omicidio sono qui due volti di uno stesso ordine, quello .di un 'intelligenza infelice che preferisce alla sofferenza di una con· -dizione limitata la fosca esaltazione in cui s'annientano terra e ·cielo. ( ...) L'assurdo è in !!e stesso contraddizione. Lo è nel contenuto poiché esclude i giudizi di valore volendo ad un tempo mantenere la vita, quando il vivere è in se stesso un giudizio di valore. Respirare è giudicare. È forse falso dire che il vivere è perpetua scelta. Ma è vero che non si può immaginare una vita priva di qualsiasi scelta. Da questo semplice punto di vista, la posizione assurda, in atto, inimmaginabile. È inimmagina· bile nella sua stessa esp�essione. Ogni filosofia della non-significanza vive sulla contraddizione per il fatto stesso d'esprimersi. Essa dà con ciò un minimo di coerenza all'incoerenza, introduce un rapporto di conseguenza in quello che, a darle retta, è privo di connessione. Parlare ripara. Il solo atteggiamento coerente fondato sulla non-si· gnificanza sarebbe il silenzio, se a sua volta il silenzio non signi· ficasse. L'assurdità perfetta cerca di essere muta. Se parla, è perché si compiace oppure, come vedremo, perché si ritiene provvisoria. Questo compiacimento, questa considerazione di sé, indicano chia­ ramente il profondo equivoco della posizione assurda. In certo modo l'assurdo, che pretende esprimere l'uomo nella sua solitudine, lo fa vivere davanti a uno specchio. L'iniziale lacerazione rischia allora di diventare comoda. La piaga grattata con tanta sollecitu­ -dine finisce per dare qualche piacere. ( .. .) Spezzato lo specchio, nulla resta che possa servirei a rispon­ .dere ai problemi del secolo. L'assurdo, come il dubbio metodico, ha fatto tabula rasa. Ci lascia in un vicolo cieco. Ma come il .dubbio, esso può, tornandoci sopra, orientare una nuova indagine.

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II ragionamento continua allora allo stesso modo. Grido che a nulla credo e che tutto è assurdo, ma non posso dubitare del mio grido e devo almeno credere alla mia protesta. La prima e sola evidenza che mi sia data cosi, all'interno dell'esperienza assurda, è la rivolta. Privo d'ogni scienza, incalzato a uccidere o ad accon­ sentire a che si uccida, dispongo di questa sola evidenza che trae nuova forza dal dissidio in cui mi trovo. La rivolta nasce dallo spettacolo dell'irragionevolezza, davanti a una condizione ingiusta e incomprensibile. Ma il suo cieco slancio rivendica l'ordine in mezzo al caos e l'unità al cuore stesso di ciò che fugge e scompare. Essa grida, esige, vuole che lo scandalo cessi e clie si fissi final­ mente quanto finora si scriveva senza posa sull'acqua. È ansiosa di trasformare. Ma trasformare è agire, e agire, domani, sarà uccidere, mentre non sa se l'omicidio sia legittimo. La rivolta genera appunto le azioni che le si chiede di legittimare. Bisogna pure che essa tragga da sé le proprie ragioni, poiché non può trarle da null'altro. Bisogna che acconsenta ad esaminarsi per imparare a comportarsi. ( .. .) L'uomo è la sola creatura che rifiuti di essere ciò che è. Si tratta di sapere se questo rifiuto possa condurlo soltanto alla di­ struzione degli altri e di sé, se ogni rivolta dovrà concludersi in una giustificazione dell'uccisione universale, o se al contrario, senza pretendere a un'impossibile innocenza, essa possa scoprire il prin­ cipio di una colpevolezza ragionevole. (L'uomo in rivolta,

tr.

it., in Opere, Milano, Bompiani, 1969, vol. II. pp. 327-334).

2. L'ASSURDO, IL SUICIDIO,

LA

LIBERTÀ

Il senso dell'assurdo non equivale alla nozione dell'assurdo : la fonda e basta ; e non è contenuto in quella, se non il breve istante in cui esso pronuncia il proprio giudizio sull'universo. Gli resta poi di procedere oltre. È vivo, cioè deve morire o riper­ cuotersi oltre, come risulta dagli argomenti che abbiamo raccolti. Ma anche qui ciò che mi interessa non sono le opere e gli spiriti, la cui critica richiederebbe di essere fatta in altra forma e in altro luogo, ma la scoperta di ciò che vi è di comune nelle loro con­ clusioni. Mai spiriti sono stati tanto diversi ; ma tuttavia i paesaggi spirituali in cui si muovono, noi li riconosciamo identici. Allo stesso modo, attraverso scienze tanto dissimili, il grido con cui termina il loro itinerario ha un identico suono. Si sente chiara­ mente che vi è un clima comune fra gli spiriti che abbiamo testé ricordati ; e il dire che è micidiale, significa giuocare appena sulle

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parole. Il vivere sotto un tal cielo soffocante, richiede che se ne esca o che vi si rimanga. Si tratta di sapere come se ne esca nel primo caso e perché si resti nel secondo. Io cosi definisco il pro­ blema del suicidio e l'interesse che si può avere per le conclusioni della filosofia esistenzialista. ( . ) L'assurdo è essenzialmente un divorzio, che non consiste nel­ l'uno o nell'altro degli elementi comparati, ma nasce dal loro con­ fronto. Nella fattispecie e sul piano dell'intelligenza, posso dunque dire che l'Assurdo non è nell'uomo ( se una simile metafora potesse avere un senso), e neppure nel mondo, ma nella loro comune presenza. Per il momento, è il solo legame che li unisca. Se voglio fermarmi ali' evidenza, so ciò che vuole l'uomo e ciò che gli offre il mondo ; c ora posso dire che so anche ciò che li unisce. Non ho bisogno di approfondire oltre, perché una sola certezza basta a colui che cerca. Si tratta soltanto di trarne tutte le conseguenze. La piu immediata di queste è, al tempo stesso, una regola di metodo. La singolare trinità che si mette, in tal modo, in luce, non è certo l'improvvisa scoperta dell'America, ma ha di comune con i dati dell'esperienza il fatto di essere insieme infinitamente semplice e infinitamente complessa. Il primo suo carattere, a tal riguardo, è quello di non potersi dividere. Distruggere uno dei termini, è distruggerla interamente. Non può esistere assurdo al di fuori dello spirito umano. Cosi l'assurdo finisce, come tutte le cose, con la morte. Ma non può neppure esistere assurdo al di fuori di questo mondo. Ed è alla luce di questo criterio ele­ mentare che giudico che la nozione di assurdo sia essenziale e possa figurare come la prima delle mie verità. Qui appare la regola di metodo sopra richiamata. Se reputo che una ·cosa sia vera, devo preservarla ; se mi occupo di apportare a un problema la soluzione, bisogna almeno che non faccia sparire, in virtu di questa soluzione stessa, un termine del problema. L'unico dato per me è l'assurdo. Il problema è sapere come uscirne, e se da codesto assurdo debba dedursi il suicidio. La prima e, in fondo, l'unica condizione delle mie ricerche, è preservare proprio ciò che mi schiaccia, rispettare di conseguenza quello che in esso giudico essenziale. Ho cosi defi­ nito l'assurdo un confronto e una lotta senza sosta. Ora, spingendo fino all'estremo questa logica assurda, devo ri­ conoscere che tale lotta suppone la totale assenza di speranza (che non ha nulla a che vedere con la disperazione), il rifiuto continuo ( che non deve essere confuso con la rinuncia) e l'insoddisfazione cosciente ( che non dev'essere assimilata all'inquietudine giovanile). Tutto ciò che distrugge, sopprime o assottiglia queste esigenze ( e .

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in primo luogo il consenso che distrugge il divorzio) rovina l'as· surdo e svaluta l'atteggiamento che può essere allora proposto. L'assurdo ha senso solo nella misura consenso.

in

cui gli venga negato

il

Esiste un fatto evidente che sembra assolutamente di ordine morale, ed è che un uomo è sempre preda delle proprie verità. Quando le abbia riconosciute, egli non è capace di staccarsene. Bisogna pur pagare qualche cosa. Un uomo divenuto cosciente dell'assurdo, è legato a questo per sempre. Un uomo senza spe· ranza e cosciente di esserlo, non appartiene piu all'avvenire. Questo è nell'ordine delle cose. Ma è pure naturale che egli si sforzi di sfuggire all'universo di cui è il creatore. Tutto ciò che precede, per l'appunto, non ha senso che in rapporto a questo paradosso. Nulla può essere piu istruttivo in proposito, che esaminare il modo con cui gli uomini - i quali, partendo da una critica del raziona­ lismo, riconobbero il clima assurdo - hanno spinto le loro con­ seguenze. Ora, per attenermi alle filosofie esistenzialiste, vedo che tutti, senza eccezione, mi propongono l'evasione. Con un singolare ra· gionamento, costoro, partiti dall'assurdo sulle rovine della ragione, in un universo chiuso e limitato all'umano, divinizzano ciò che li schiaccia e trovano una ragione di sperare in ciò che li spoglia.

( . . .)

Per gli esistenzialisti, la negazione è il loro Dio. Esattamente, questo dio non si sostiene che in virtu della negazione della ragione umana (1). Ma, come i suicidi, gli dei cambiano con gli uomini. Vi sono molti modi di saltare, quando l'essenziale è saltare. Que­ ste negazioni redentrici, queste contraddizioni finali, che negano l'ostacolo che non è stato ancora saltaio, possono nascere ( è il paradosso a cui mira questo ragionamento) tanto da una certa ispirazione religiosa quanto dall'ordine razionale. Esse pretendono sempre l'eterno. È a questo riguardo soltanto che esse compiono il salto. Bisogna ancora dirlo : il ragionamento, che segue questo sag­ gio, lascia interamente da parte l'atteggiamento spirituale pio dif­ fuso nel nostro secolo illuminato : quello che si appoggia al prin· cipio per cui tutto è ragione e che mira a dare una spiegazione del mondo. È naturale darne una chiara visione, quando si ammette che esso debba essere chiaro. Tutto ciò è anche legittimo, ma non interessa il ragionamento che noi qui inseguiamo, e che consiste

(l) Precisiamo ancora una volta : non è l'affermazione di Dio che è qui messa in di· scussione, ma è la logica che vi conduce (N.d.A.).

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appunto nello spiegare il processo dello spirito, quando, par­ tendo da una filosofia del non-significato del mondo, finisce per trovargli un senso e una profondità. Il piii patetico di questi pro­ cessi è di essenza religiosa e si illustra nel tema dell'irrazionale. Ma il piii paradossale e significativo è proprio quello che attribui­ sce le ragioni ragionanti a un mondo che, all'inizio, veniva immaginato senza principio direttivo. Ad ogni modo non si potrebbe giungere alle conseguenze che ci interessano, senza aver dato una idea di questo nuovo acquisto dello spirito di nostalgia. ( . . . ) Ci si meraviglierebbe invano dell'apparente paradosso che con­ duce il pensiero alla sua stessa negazione, attraverso le opposte vie della ragione umiliata e della ragione trionfante. Dal dio astratto di Husserl al dio folgorante di Kierkegaard la distanza non è tanto grande. La ragione e l'irrazionale conducono alla stessa predicazione. Il fatto è che, in verità, il cammino ha poca importanza e la volontà di arrivare basta a tutto. Il filosofo astratto e il filosofo religioso partono dallo stesso smarrimento e si sostengono nella stessa angoscia. Ma l'essenziale è dare una spiegazione. Qui la no­ stalgia è piii forte della scienza. È significativo che il pensiero del­ l'epoca sia, insieme, uno dei piii penetrati di una filosofia del non­ significato del mondo e uno dei piii straziati nelle sue conclusioni. Esso non cessa di oscillare fra l'estrema razionalizzazione del reale, che spinge a frammentarlo in ragioni-tipo, e l'estrema irrazionaliz­ zazione, che spinge a divinizzarlo. Ma questo divorzio è soltanto apparente. Si tratta di giungere ad una conciliazione e, in entrambi i casi, basta il salto. Si crede, sempre a torto, che la nozione di ragione abbia un senso unico. In verità, per quanto rigorosa essa sia nella sua ambizione, il concetto è instabile né piii né meno degli altri. La ragione ha un volto assolutamente umano, ma sa anche rivolgersi al divino. Dopo Plotino, che per primo seppe con­ ciliarla con il clima eterno, ha imparato ad allontanarsi dal piii caro dei suoi principi, che è la contraddizione, per integrarne il piu strano, quello, assolutamente magico, di partecipazione (�. Essa è uno strumento del pensiero e non il pensiero stesso. Il pen­ siero di un uomo è innanzi tutto la sua nostalgia. Allo stesso modo che la ragione seppe placare la malinconia di Plotino, essa dà all'angoscia moderna i mezzi per placarsi nella scena familiare dell'eterno. Lo spirito assurdo ha minore fortuna. ( 2) A In quel tempo bisognava che la ragione si adattasse o morisse. Si è adattata. Con Plotino diviene estetica. La metafora sostituisce il sillogismo, B D'altronde, non è questo il solo contributo di Plotino alla fenomenologia. Tutto questo atteggiamento è già contenuto nel pensiero, tanto caro al pensatore alessandrino, che non vi sia soltanto un'idea dell'uomo, ma anche un'idea di Socrate (N.d.A.)_. •

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Per lui il mondo non è tanto razionale, né irrazionale fino a tal punto : è irragionevole ed è solamente questo. La ragione in Husserl finisce per non aver limiti. L'assurdo, al contrario, fissa i propri limiti, in quanto la ragione è impotente a calmare l'an­ goscia. Kierkegaard, da un altro lato, afferma che un solo limite basti a negarla. Ma l'uomo assurdo non va tanto lontano ; questo limite, per lui, mira soltanto alle ambizioni della ragione. Il tema dell'irrazionale, quale è concepito dagli esistenzialisti, è ]a ragione che si confonde e si libera negando se stessa. L'assurdo è la ra­ gione lucida, che accetta i propri limiti. ( .. .) Ora, la cosa principale è fatta : posseggo alcune evidenze dalle quali non posso staccarmi. Ciò che so, che è sicuro, che non posso negare né rigettare : ecco quello che conta. Posso tutto negare della parte di me stesso che vive di incerte nostalgie, all'infuori di que­ sto desiderio di unità, di questa brama di risolvere, di questa esi­ genza di chiarezza e di coesione. Posso tutto confutare, in questo mondo che mi circonda, mi urta o mi trasporta, salvo questo caos, questo caso imperante e questa divina equivalenza, che nasce dal­ l'anarchia. N on so se il mondo abbia un senso che lo trascenda ; ma so che io non conosco questo senso e che, per il momento mi è impossibile conoscerlo. Che valore ha per me un significato al di fuori della mia condizione ? Io posso comprendere soltanto in termini umani. C iò che tocco e che mi resiste, ecco quanto comprendo. E queste due certezze, la mia brama di assoluto e di unità e l'irriducihilità del mondo a un principio razionale e ragio­ nevole, so anche che non posso conciliarle. Quale altra verità posso riconoscere senza mentire, senza far intervenire una speranza che non ho e che non significa nulla contro i limiti della mia condizione ? Se fossi albero tra gli alberi o gatto tra gli animali, questa vita avrebbe un senso o piuttosto questo problema non sussiste­ rebbe, r, erché farei parte del mondo. Io sarei quel mondo, al quale mi oppongo ora con tutta la mia coscienza e con tutta la mia esigenza di familiarità. Questa ragione tanto inconsistente è quella che mi pone contro tutta la creazione. Ma, poiché non posso ne­ garla con un tratto di penna, devo dunque mantenere ciò che credo vero e sostenere ciò che mi appare tanto evidente, anche se contro me stesso. E che cosa forma il fondamento del con­ flitto, della frattura fra il mondo e il mio spirito, se non la co­ scienza che io ne ho ? Se voglio dunque conservare tale conflitto, devo farlo per mezzo di una coscienza perpetua, sempre rinnovan­ tesi, sempre tesa. Ecco ciò che, per il momento, devo ritenere.

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A questo punto, l'assurdo, cosi evidente e insieme cosi difficile da conquistare, rientra nella vita di un uomo e ritrova la propria patria ; e, a questo punto ancora, lo spirito può lasciare lo ste­ rile ed arido cammino dello sforzo lucido, che sboccia ora nella vita quotidiana. Tale via ritrova il mondo dell'anonimo imper­ sonale, ma l'uomo vi rientra ormai con la sua rivolta e la sua perspicacia, poiché ha disimparato a sperare. L'inferno del presente è finalmente il suo regno. Tutti i problemi riprendono il loro ca­ rattere perentorio, l'evidenza astratta si ritira di fronte al lirismo delle forme e dei colori. I conflitti spirituali si incarnano e ritro­ vano il miserabile e magnifico rifugio del cuore umano. Nessuno è deciso, ma tutti sono trasfigurati. Si deve morire, sfuggire con il salto, ricostruire una casa di idee e di forme su misura ? O si deve, invece, accettare la scommessa straziante e meravigliosa dell'assurdo ? Facciamo a questo riguardo un ultimo sforzo e tiriamo tutte le conseguenze. Il corpo, la tenerezza, la creazione, l'azione, la nobiltà umana riprenderanno allora il proprio posto in questo mondo insensato. L'uomo vi ritroverà infine il vino dell'assurdo e il pane dell'indifferenza, di cui nutre la sua grandezza. Insistiamo ancora sul metodo : si tratta di ostinarsi. A un certo punto del cammino, l'uomo assurdo è incalzato. La storia non è priva di religioni né di profeti, anche senza dei. Gli si chiede di saltare. Tutto quello che può rispondere è che non comprende bene, perché ciò non è evidente. Egli, appunto, non vuoi fare quello che non capisce. Lo si assicura che è peccato di orgoglio (ma egli non afferra la nozione di peccato) ; che forse, alla fine, c'è l'inferno {ma egli non ha sufficiente immaginazione per raf­ figurarsi questo strano avvenire) ; che perderà la vita immortale {ma questo gli sembra futile). Si vorrebbe fargli riconoscere la sua colpevolezza, ma egli si sente innocente. A dire il vero, egli non sente che questo : la propria innocenza irreparabile. È questa che gli permette tutto. Cosicché, ciò che egli richiede da se stesso è solamente vivere con ciò che sa, adattarsi a ciò che è, e non far intervenire nulla che non sia certo. Gli viene risposto che niente lo è ; ma questa, almeno, è una certezza. È con questa che ha a che fare : egli vuoi sapere se è possibile vivere senza ricorso. Posso affrontare ora la nozione di suicidio. Si è già notato quale soluzione sia possibile darle. A questo punto, il problema è invertito. In precedenza, si trattava di sapere se la vita dovesse avere un senso per essere vissuta ; appare qui, al contrario, che essa sarà tanto meglio vissuta in quanto non avrà alcun senso. Vivere un'esperienza, un destino, è accettarlo pienamente. Ora, non si vivrà tale destino, sapendolo assurdo, se non si farà di tutto

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per mantenere davanti a sé quell'assurdo posto in luce dalla co­ scienza. Negare uno dci termini dell'opposizione di cui esso vive, significa sfuggirgli ; abolire la rivolta cosciente, equivale eludere il problema. Il tema rivoluzionario permanente viene cosi traspor­ tato nell'esperienza individuale. Vivere è dar vita all'assurdo. Dar­ gli vita è innanzi tutto saper guardarlo. Al contrario di Euridice, l'assurdo muore soltanto quando gli si voltano le spalle. Cosi, una delle sole posizioni filosofiche coerenti è la rivolta, che è un per­ petuo confronto dell'uomo e della sua oscurità ; che è esigenza di una trasparenza impossibile e che mette in dubbio il mondo ad ogni istante. Come il pericolo offre all'uomo l'insostituibile occa­ sione di comprenderla, cosi la rivolta metafisica estende la coscienza per tutto il campo dell'esperienza : essa è la costante presenza del­ l'uomo a se stesso. Tale rivolta non è aspirazione, poiché è senza speranza ; è la certezza di un destino schiacciante, meno la rasse­ gnazione che dovrebbe accompagnarla. È qui che si vede fino a qual punto l'esperienza assurda si scosti dal suicidio. Si può credere che il suicidio sia la rivolta, ma a torto, poiché esso non rappresenta il logico sbocco di questa, ma è, anzi, esattamente il suo contrario, a causa del consenso che presuppone. Il suicidio, come il salto, è l'accettazione del proprio limite. Tutto è consumato ; l'uomo ritorna nell'ambito della sua storia essenziale. Il suo avvenire, il solo e terribile avvenire, egli lo discerne e vi si precipita. A suo modo, il suicidio risolve l'assurdo, perché lo trascina nella stessa morte. Ma io so che per mantenersi, l'as­ surdo non può risolversi. Esso sfugge al suicidio nella misura in cui è al tempo stesso coscienza e rifiuto della morte ; è, alla p ili alta cima dell'estremo pensiero del condannato a morte, quel correg­ giuolo da scarpe che, nonostante tutto, egli scorge a qualche metro di distanza, sull'orlo stesso della sua vertiginosa caduta. Il con­ trario del suicida, è appunto, il condannato a morte. Questa rivolta dà alla vita il suo valore. Diffusa per tutta un'esistenza, quella restituisce a questa la sua grandezza. Per un uomo senza paraocchi, non vi è spettacolo piu bello di quello del­ l'intelligenza alle prese con una realtà che la supera. Lo spetta­ colo dell'orgoglio umano è ineguàgliabile. Non v'è diminuzione di valore che lo colpisca. Questa disciplina, che lo spirito detta a se stesso, questa volontà coniata con ogni materia, questo faccia a fac­ . cia hanno qualche cosa di singolare. Impoverire tale realtà, l'inu· manità della quale fa la grandezza dell'uomo, significa impoverire contemporaneamente anche questo. Capisco allora perché ]e dot­ trine, che mi spiegano tutto, mi indeboliscano nel medesimo tem­ po. Esse mi sgravano dal peso della mia vita, ma con tutto ciò

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bisogna bene che io lo porti da solo. A questa svolta, non posso con �epire che una metafisica scettica possa accordarsi con una mo­ rale della rinunzia. Coscienza e rivolta : questi rifiuti sono il contrario della rinun­ cia. Tutto ciò che vi è di irriducibile e di appassionato in un cuore umano li anima, al contrario, della propria vita. Si tratta di mo­ rire irreconciliati e non già di pieno accordo. Il suicidio è una sconoscenza. L'uomo assurdo non può far altro che tutto esaurire ed esaurirsi. L'assurdo è la sua estrema tensione, quella che egli conserva costantemente con uno sforzo solitario, poiché sa che in questa coscienza e in questa rivolta, giorno per giorno, egli at­ testa la sua sola verità, che è la sfida. Questa è una prima con­ seguenza. Se mi tengo nella posizione stabilita, che consiste nel trarre tutte le conseguenze ( e null'altro che queste), che la scoperta di una nozione porta con sé, mi trovo di fronte a un secondo pa­ radosso. Per restar fedele a questo metodo, non devo aver nulla a che fare con il problema della libertà metafisica. Non mi interessa sapere se l'uomo è libero ; io non posso provare che la mia propria libertà. Su questa io non posso avere nozioni gene­ rali, ma· alcune chiare idee sintetiche. Il problema della « libertà in sé » non ha senso, perché è congiunto, in modo diverso, a quello di Dio. Sapere se l'uomo è libero, impone che si sappia se egli può avere un padrone. L'assurdità particolare a questo problema deriva dal fatto che la stessa nozione, che rende possibile il pro­ blema della libertà, gli toglie al tempo stesso ogni senso in quanto di fronte a Dio esiste piuttosto un problema del male che un problema della libertà. Conosciamo l'alternativa : o non siamo liberi, e Dio onnipotente è responsabile del male ; o siamo liberi e responsahili, ma Dio non è onnipotente. Tutte le sottigliezze delle scuole non hanno aggiunto né tolto nulla al carattere perentorio di questo paradosso. Tale è la ragione per cui non posso perdermi nell'esaltazione o nella semplice definizione di una nozione, che mi sfugge e perde senso, dal momento in cui oltrepassa la cornice della mia espe­ rienza individuale. Non posso capire che cosa sia una libertà che mi verrebbe data da un essere superiore. Ho perso il senso della gerarchia. Della libertà posso avere soltanto il concetto che ha il prigioniero o l'individuo moderno in seno allo Stato. La sola libertà che conosco è quella dello spirito e dell'azione. Ora, se l'assurdo annienta tutte le mie probabilità di libertà eterna, mi restituisce, invece, esaltandola, la mia libertà d'�zione. Questa pri­ vazione di speranza e di avvenire significa un accrescimento nelle disponibilità dell'uomo.

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Prima di incontrare l'assurdo, l'uomo quotidiano vive con degli scopi e con il pensiero dell'avvenirè o della giustificazione (rispetto a chi e a che cosa non importa). Egli valuta le proprie possibi­ lità, fa assegnamento sul piti tardi, sulla pensione o sul lavoro dei figli, crede anche che nella sua vita qualche cosa possa avere una direzione. In realtà, egli agisce come se fosse libero, anche se tutti i fatti si incaricano di contraddire tale libertà. Ma, dopo· la scoperta dell'assurdo, tutto si trova sconvolto. L'idea che « io sono », il mio modo d'agire come se tutto avesse un senso ( an­ che se, all'occorrenza, dicevo che niente lo ha), ogni cosa si trova smentita in modo vertiginoso dalla assurdità di una possibile mor­ te. Pensare al domani, fissarsi uno scopo, avere preferenze, tutto suppone la credenza nella libertà, anche se a volere si è sicuri ·di non averne la prova. Ma, a questo punto, so bene che la libertà superiore, la libertà di essere, che sola può fòndare una verità, non esiste. La morte è là, di fronte, come la sola realtà. Dopo questo tutto è finito. Non sono piti libero di perpetuarmi, ma schiavo ; e schiavo soprattutto senza speranza di un'eterna rivolu­ zione, senza possibilità di ricorrere al disprezzo. E chi mai senza rivoluzione e senza disprezzo può restare schiavo ? Quale libertà� in senso assoluto, può esistere, senza sicurezza dell'eternità ? Ma nello stesso tempo, l'uomo assurdo capisce che fino a questo momento era legato a un postulato di libertà, sulla cui illusione viveva. In un certo senso ciò lo impastoiava. In quanto immagi­ nava uno scopo della vita, si conformava alle esigenze di una meta da raggiungere, e diveniva schiavo della propria libertà. Cosi, io­ non potrei piti agire in modo diverso da un padre di famiglia (da un ingegnere o da un reggitore di popoli o da un impiegato aggiunto delle Poste) quale mi preparo ad essere. Credo di poter scegliere di essere questa piuttosto che un'altra cosa. Lo credo in­ consciamente, è vero, ma io appoggio contemporaneamente il po­ stulato sulle credenze di coloro che mi circondano e sui pregiu­ dizi del mio ambiente umano ( gli altri sono cosi sicuri di essere liberi e questo ottimismo è cosi contagioso !). Per quanto lontani ci si possa tener da tutti i pregiudizi, morali o sociali, si subi­ scono in parte, e, per ciò che riguarda i migliori fra questi (in quanto vi sono pregiudizi buoni e cattivi), si conforma a i:l essi per­ sino la propria vita. Cosi l'uomo assurdo capisce che, in realtàt non era libero. Per parlar chiaro, nella misura in cui spero o mi dò pensiero di una verità che mi sia propria, di un modo di essere o di creare, nella misura in cui ordino la mia vita e provo� con . ciò stesso, di ammettere che essa abbia un senso, mi creo bar­ riere entro le quali rinchiudo la mia vita. Faccio come tanti magi-

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strati dello spirito e del cuore, che mi ispirano solamente disgusto e che non fanno altro - lo vedo bene adesso - che prendere sul serio la libertà dell'uomo. L'assurdo mi illumina su questo punto : non esiste un domani. Ecco ormai la ragione della mia profonda libertà. Prenderò, a questo punto, due paragoni. I mistici, a prima vista, trovano da darsi una libertà. Annientandosi nel loro dio, consentendo alle sue regole, diventano a loro volta segretamente liberi. È nella schia­ vitu spontaneamente accettata che essi ritrovano una profonda indipendenza. Ma che cosa significa tale libertà ? Si può dire prin­ cipalmente che si sentono liberi di fronte a se stessi e, soprattutto piu liberati che liberi. Cosi pure l'uomo assurdo, volto interamente verso la morte (presa, qui come la piu evidente assurdità) si sente sciolto da tutto ciò che non sia l'appassionata attenzione, che in lui si cristallizza. Egli assapora una libertà rispetto alle regole comuni. Si vede qui che i temi da cui parte la filosofia esistenzialista conservano tutto il loro valore. Il ritorno alla co­ scienza, l'evasione del sonno quotidiano rappresentano i primi passi della libertà assurda. Ma è la predicazione esistenzialista che viene presa di mira e, con questa, quel salto spirituale che, in fondo, sfugge alla coscienza. Allo stesso modo ( è il mio secondo para­ gone) gli schiavi dell'antichità non appartenevano a se stessi, ma conoscevano quella libertà che consiste nel non sentirsi responsa­ bili ( 3). Anche la morte ha mani patrizie, che schiacciano, ma liberano. Nell'inabissarsi in questa certezza senza fondo, nel sentirsi or­ mai abbastanza estranei alla propria vita per accrescerla e per­ correrla senza la miopia degli amanti, c'è già il principio di una liberazione. Questa nuova indipendenza è a termine, come ogni libertà di azione, e non stacca un assegno sull'eternità ; ma sosti­ tuisce le illusioni della libertfi, che si fermavano tutte alla morte. La divina disponibilità del condannato a morte, davanti al quale si aprono le porte della prigione all'albeggiare di un determinato giorno, l'incredibile disinteresse per tutto, salvo per la pura fiamma della vita - lo si intuisce - la morte e l'assurdo sono, in que­ sto caso, i principi della sola libertà ragionevole : quella che un cuore umano può provare e può vivere. Ecco la seconda conse­ guenza. L'uomo assurdo intravede cosi un universo ardente e ge­ lato, trasparente e limitato, dove nulla è possibile, ma tutto è dato ; e dopo il quale vi è lo sprofondamento e il nulla. Egli può allora (3) Si 'tratta qui di un paragone di fatto e non di un'apologia dell'umiltà. L'uomo as· i!Urdo è il contrario dell'uomo riconciliato (N.d.A.) ,

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decidere di accettare la vita in un tale universo ' e di trarne la, propria forza, il rifiuto a sperare e la prova ostinata di una vita senza consolazione. Ma che cosa significa la vita in un universo del genere? Niente· altro, per ora, che indifferenza per l'avvenire e passione di e!iau­ rire tutto ciò che ci è dato. La credenza nel senso della vita sup­ pone sempre una scala di valori, una scelta delle preferenze. La credenza nell'assurdo, secondo le nostre definizioni, insegna il con­ trario. Ma qui vale la pena di soffermarsi. Sapere se si può vivere senza richiamo è ciò che mi interessa, e non voglio uscire da questo campo. Posso accontentarmi di que­ sto aspetto della vita giacché mi è stato dato ? Ora, di fronte a questa particolare apprensione, la credenza nell'assurdo torna a so­ stituire la qualità delle esperienze con la quantità. Se mi persuado che questa vita non ha altro aspetto che quello dell'assurdo, se provo che tutto il suo equilibrio dipende dalla perpetua opposi­ zione fra la mia rivolta cosciente e l'oscurità in cui que-sta si dibatte, se ammetto che la mia libertà non ha senso che rispetto· al suo destino limitato, allora devo dire che ciò che importa non è vivere il meglio, ma il p ili possibile. ( .. . ) Sentire la propria vita, la propria rivolta e la propria libertà· il piu intensamente possibile, equivale a vivere il piu possibile. Dove regna la lucidità, la scala dei valori diventa inutile. Siamo­ ancora p ili semplicisti : diciamo che il solo ostacolo, il solo fall() nel conseguimento della vittoria è costituito dalla morte prematura.. ( .. .) Cosi traggo dall'assurdo tre conseguenze, che sono la mia ri­ volta, la mia libertà e la mia passione. Per mezzo del solo giuoc() della coscienza, trasformo in regola di vita ciò che era un invit() alla morte - e rifiuto il suicidio. (Il mito di Sisifo, tr. it. in Opere, Milano, Bompiani, 1969, vol. Il, pp. 39-42, 50-Sl.

55-56, 59-70).

3. LA RIVOLTA METAFISICA

Se nel mondo religioso non si trova il problema della rivolta,. è che in verità non vi si trova alcuna problematica reale, tutte le risposte essendo date in una volta. La metafisica è sostituita dal mito. Non ci sono piu interrogativi, ci sono soltanto risposte ed eterni commenti, che possono allora essere metafisici. Ma prima di entrare nel campo religioso, ed anche per entrarvi, o appena ne esce, ed anche per uscirne, l'uomo è interrogazione e rivolta. L'uosi

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mo in rivolta è l'uomo che sta prima o dopo l'universo sacro, e si adopera a rivendicare un ordine umano in cui tutte le risposte siano umane, cioè razionalmente formulate. Da quell'istante, ogni interrogazione, ogni parola è rivoltà , mentre nel mondo religioso, ogni parola è rendimento di grazie. Sarebbe possibile mostrare cosi come non vi possano essere per uno spirito umano che due soli universi possibili, l'universo religioso ( o per parlare il linguaggio cristiano, della grazia) (4), e quello della rivolta. La scomparsa dell'uno equivale alla comparsa dell'altro, sebbene questa com­ parsa possa avvenire in forme sconcertanti. Anche qui, ritroviamo il Tutto o Niente. L'attualità del problema della rivolta deriva solo dal fatto che oggi intere società hanno voluto assumere una posizione di distanza rispetto ad ogni univers� sacro. Viviamo in una storia sconsacrata. L'uomo, certo, non si riassume nell'insur­ rezione. Ma la storia di oggi, con le sue contestazioni, ci costringe a dire che la rivolta è una delle dimensioni essenziali dell'uomo. È la nostra realtà storica. A meno di fuggire la realtà, dobbiamo trovare in essa i nostri valori. Si può, lungi dall'universo religioso, e dai suoi valori assoluti, trovare una regola di condotta ? È que­ sta la domanda posta dalla rivolta. ( . .. ) La solidarietà degli uomini si fonda sul movimento di rivolta, e questo, reciprocamente, solo in tale complicità trova giustifica­ zione. Saremmo dunque in diritto di dire che ogni rivolta che si autorizzi a distruggere questa solidarietà perde con questo il nome di rivolta e coincide in realtà con un assenso omicida. Allo stesso modo questa solidarietà, fuori dell'universo religioso, prende vita soltanto sul piano della rivolta. Il vero dramma della rivo1ta del pensiero è allora annunciato. Per essere, l'uomo deve rivoltarsi, ma la sua rivolta deve rispettare il limite che scopre in se stessa ; limite nel quale gli uomini, venendo a raggiùngersi, cominciano ad essere. Il pensiero informato alla rivolta non può dunque pre­ scindere dalla memoria : esso è tensione perpetua. Seguendolo nelle opere e negli atti, dovremo dire, ogni volta, se rimanga fedele alla sua primitiva nobiltà oppure, per stanchezza e pazzia, se ne scordi, in un'ebbrezza di tirannia o di servito. Intanto, ecco il primo progresso che lo spirito di rivolta fa compiere ad una riflessione da principio compenetrata dell'assurdità e dell'apparente sterilità del mondo. Nell'esperienza, assurda, la 1:ìofferenza è individuale. A principiare dal moto di rivolta, essa ha coscienza di essere collettiva, è avventura di tutti. Il primo (41 Beninteso, �sisle una rivolta metafisica all'inizio del cristianesimo, ma la resurre· l' annuncio della parusìa e il regno dì Dio interpretato come una promessa ài vita eterna, sono le risposte che la rendono vana (N.d.A.).

zione di Cristo,

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progresso di uno spirito intimamente straniato sta dunque nel ri­ conoscere che questo suo sentirsi straniero, lo condivide con tutti gli uomini, e che la realtà umana, nella sua totalità, soffre di. que­ sta distanza rispetto a se stessa e al mondo. Il male che un solo uomo provava diviene peste collettiva. In quella che è la nostra prova quotidiana, la rivolta svolge la stessa funzione del « cogito » nell'ordine del pensiero : è la prima evidenza. Ma questa evidenza trae l'individuo dalla sua solitudine. È un luogo comune che fonda su tutti gli uomini il primo valore. Mi rivolto, dunque siamo. ( .. .) La rivolta metafisica è il movimento per il quale un uomo si erge contro la propria condizione e contro l'intera creazione. È metafisica perché contesta i fini dell'uomo e della creazione. ( . ..) ( ... L'insorto metafisico) si erge su di un mondo in frantumi per rivendicarne l'unità, oppone il principio di giustizia che sta in lui al principio d'ingiustizia che vede all'opera nel mondo. Non vuole dunque nient'altro, primitivamente, che risolvere questa con­ traddizione, instaurare il regno unitario della giustizia, se può, op­ pure, ove lo si spinga agli estremi, dell'ingiustizia. Intanto, de­ nuncia la contraddizione. Protestando contro la condizione in ciò che essa ha d'incompiuto a causa della morte, e di disperso, a causa del male, la rivolta metafisica è la rivendicazione motivata di una unità felice, contro la so:fferenza di vivere e di morire. Se la pena di morte generalizzata definisce la condizione degli uomini, la ri­ volta, in certo senso, è ad essa contemporanea. Nel tempo stesso che rifiuta la propria condizione mortale, l'uomo in rivolta rifiuta di riconoscere il potere che lo fa vivere in questa condizione. L'in­ sorto metafìsico non è dunque sicuramente ateo, come si po�rebbe credere, ma necessariamente blasfemo. Semplicemente, egli bestem­ mia innanzi tutto in nome dell'ordine, denunciando in Dio il padre della morte e il supremo scandalo. ( ...) ( ...) Se l'insorto metafisico si erge contro una potenza di cui, simultaneamente, afferma l'esistenza, non pone quest'esistenza se non all'istante stesso in cui la contesta. Egli trascina allora que­ st'essere superiore nella stessa avventura umiliata dell'uomo, il suo vano potere equivalendo alla nostra vana condizione. Lo sot­ tomette alla nostra forza di rifiuto, lo inchina a sua volta davanti a quella parte dell'uomo che non s'inchina, lo integra con la forza in un'esistenza assurda rispetto a noi, lo trae infine dal suo rifugio atemporale per immetterlo nella storia, ben lungi da una stabilità eterna che non potrebbe trovare se non nel consenso unanime degli uomini. La rivolta afferma cosi che, al suo livello, ogni esi­ stenza superiore è per lo meno contraddittoria. La storia della rivolta metafisica non può dunque confondersi

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con quella dell'ateismo. Sotto un certo aspetto anzi, essa si con­ fonde con la storia contemporanea del sentimento religioso. Pio che 11egare, l'uomo in rivolta sfida. Primitivamente almeno, non sopprime Dio, gli parla semplicemente da pari a pari. ( . ) La ribellione umana sfocia in una rivoluzione metafisica. Procede dal sembrare al fare, dal dandy al rivoluzionario. Rovesciato il trono divino, il ribelle riconoscèrà che quella giustizia, quell'ordine, quel­ l'unità che cercava invano nella sua condizione, è ora suo com­ pito crearli con le proprie mani, e giustificare cosi la destituzione di Dio. Allora comincerà uno sforzo dispera�o per fondare, a prezzo del delitto se occorre, l'impero degli uomini. .

(L'uomo in rivolta, 353-355).

4.

tr.

.

it. in Opere, Milano, B ompiani, 1969, vol. Il, pp. 347-349,

NICHILISMO E STORIA

Centocinquant'anni di rivolta metafisica e di nichilismo hanno visto ricorrere con ostinazione, sotto maschere diverse, lo stesso volto devastato ; quello della protesta umana. Tutti, insorgendo con­ tro la condizione e il suo creatore, hanno affermato la solitudine della creatura, la vacuità di ogni morale. Ma al tempo stesso tutti hanno cercato di costruire un regno puramente terrestre ove re­ gnasse la norma che avevano scelta. Rivali del creatore, sono stati logicamente condotti a rifare la creazione per proprio conto. Quelli che, per il mondo da loro creato, hanno rifiutato ogni regola tranne quella del desiderio e della potenza, sono corsi al suicidio o alla pazzia, e hanno cantato l'apocalissi. Quanto agli altri, che hanno voluto crearsi una loro norma con le proprie forze, hanno scelto la vana parata, il sembrare o la banalità ; oppure l'omicidio e la distruzione. Ma Sade e i romantici, Karamazov e Nietzsche sono entrati nel mondo della morte soltanto perché vollero la vera vita. Cosicché, per effetto inverso, è l'invocazione dilaniata alla regola, all'ordine e alla morale, a risuonare in quest'universo demente. Le loro conclusioni sono state nefaste o liberticide solo dacché hanno gettato il gravame della rivolta, fuggito la tensione che essa pre­ suppone e scelto gli agi della tirannia o della servitO.. L'insurrezione umana, nelle sue forme elevate e tragiche, non è e non può essere altro che una lunga protesta contro la morte, un'arrovellata accusa a questa condizione retta dalla pena di morte generalizzata. In tutti i casi in cui ci siamo imbattuti, la protesta si rivolse sempre a quanto, nella creazione, è dissonanza, opacità, soluzione di continuità. Si tratta dunque, essenzialmente, di un'in·

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terminahile rivendicazione d'unità. Il rifiuto della morte, il deside­ rio di durata e di trasparenza, sono incentivi di tutte queste paz· zie, sublimi o puerili. È soltanto il vile e personale rifiuto di morire ? No, poiché molti di questi ribelli hanno pagato quanto occorreva per essere all'altezza della loro esigenza. L'uomo in rivolta non chiede la vita, ma le ragioni della vita. Rifiuta la conseguenza introdotta dalla morte. Se niente dura, niente è giustificato, ciò che muore è privo di senso. Lottare contro la morte equivale a rivendicare un senso alla vita, a combattere per la regola e l'unità. A questo riguardo, è significativa la protesta contro il male che sta nel cuore stesso della rivolta metafisica. Non è la soffe­ renza del bambino ad essere rivoltante in se stessa, ma il fatto che questa sofferenza non sia giustificata. Dopo tutto il dolore, l'esilio, la clausura, vengono talvolta accettati quando ce ne per­ suadano la medicina o il buonsenso. Agli occhi dell'uomo in rivolta, ciò che manca al dolore del mondo, come agli istanti della sua felicità, è un principio di spiegazione. L'insurrezione contro il male rimane innanzi tutto una rivendicazione d'unità. Al mondo dei condannati a morte, alla mortale opacità della condizione, l'uomo della rivolta oppone instancabilmente la sua esigenza di vita e di trasparenza definitive. Senza saperlo è alla ricerca di una morale o di un elemento sacro. La rivolta è un'ascesi, sia pure cieca. Se l'insorto allora bestemmia, lo fa nella speranza del nuovo Dio. Lo scuote l'urgere del primo e piii profondo tra i moti religiosi, ma si tratta di un moto religioso deluso. Non la rivolta in se stessa è nobile, ma quanto essa esige, anche se ciò che consegne sia di nuovo ignobile. Mi bisogna almeno saper riconoscere quanto d'ignobile conse­ gue. Ogniqualvolta deifica il rifiuto totale di ciò che è, il no asso­ luto, essa uccide. Ogniqualvolta accetta ciecamente ciò che è, e grida il si assoluto, uccide. L'odio contro il creatore può tramu­ tarsi in odio contro la creazione o in amore esclusivo e provocante di ciò che è. Ma in ambedue i casi, va a sfociare nell'omicidio e perde il diritto a dirsi rivolta. Si può essere nichilista in due modi, e ogni volta per una intemperanza d'assoluto. In apparenza, ci sono i rivoltosi che vogliono morire e quelli che vogliono far morire. Ma sono gli stessi, arsi dal desiderio della vita vera, pri· vati dell'essere e portati allora a preferire l'ingiustizia generalizzata a una giustizia mutilata. A questo grado d'indignazione, la ra­ gione diviene furore. Se è vero che la rivolta istintiva del cuore umano incede a poco a poco, lungo i secoli, verso la massima co· scienza di sé, essa è pure cresciuta, l'abbiamo visto, in audacia cieca

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fino al momento smisurato in cui ha deciso di rispondere all'omi­ cidio universale con l'assassinio metafisico. L'anche se, che come abbiamo riconosciuto segnava il momento capitale della rivolta metafisictJ., si adempie in ogni caso nella distru­ zione assoluta. Non è la rivolta a risplendere oggi sul mondo, né la sua nobiltà, ma il nichilismo. E di esso dobbiamo ora delinean le conseguenze, senza perdere di vista la verità delle sue origini. Anche se Dio esistesse, Ivan non gli si arrenderebbe di fronte all'ingiustizia fatta all'uomo. Ma una piu lunga ruminazione di que­ st'ingiustizia, una vampa piu amara, hanno trasformato l'« anche se esisti » in « non meriti di esistere », e poi « non esisti ». Le vittime hanno cercato la forza e le ragioni del delitto estremo nel­ l'innocenza che si riconoscevano. Disperando dell'immortalità, certe della. loro condanna, hanno deciso l'uccisione di Dio. Se è falso dire che da quel giorno abbia avuto inizio la tragedia dell'uomo contemporaneo, non è vero neppure che essa vi sia conclusa. Que­ st'attentato segna al contrario il piu alto momento di un dramma iniziatosi alla fine del mondo antico e di cui non hanno ancora suonato le ultime parole. Da quel momento, l'uomo decide di esclu­ de.J,"si dalla grazia e di vivere con i propri mezzi. Il progresso, da Sade ai giorni nostri, è consistito nell'allargare progressivamen­ te il luogo chiuso dove, seguendo la propria regola, regnava sel­ vaggiamente l'uomo senza Dio. Si sono progressivamente portate avanti le frontiere del campo trincerato, di fronte alla divinità, fino a fare dell'universo intero una fortezza contro il Dio deposto ed esiliato. AI termine della rivolta, l'uomo si rinchiudeva : la sua grande libertà consisteva soltanto, dal castello tragico di Sade al campo di concentramento, nel costruire il carcere dei propri delitti. Ma lo stato d'assedio a poco a poco si generalizza, la rivendica­ zione della libertà vuole estendersi a tutti. Bisogna allora co· struire il solo regno che s'opponga a quello della grazia, il regno della giustizia, e riunire al fine la comunità umana sulle macerie della comunità divina. Uccidere Dio e costruire una Chiesa, è que· sto il movimento costante e contraddittorio della rivolta. La libertà assoluta diviene infine prigione di doveri assoluti, ascesi collettiva, e per finire, storia. L' Ottocento, secolo della rivolta, sfocia cosi nel Novecento, secolo della giustizia e della morale ; in cui ognuno si batte il petto. Chamfort, moralista della rivolta, ne aveva già dato la formula : « Si deve essere giusti prima di essere generosi, come si hanno delle camicie prima d'avere dei merletti ». Si rinuncerà dunque alla morale del lusso per l'aspra etica dei costruttori. Questo sforzo convulso verso l'impero del mondo e verso la regola universale, dobbiamo ora prenderlo in esame. Siamo giunti

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al momento in cui la rivolta, respingendo ogni servito, mira ad annettere l'intera creazione. A ciascuno di questi fallimenti, avevamo già visto annunciarsi la soluzione politica e conquistatrice. Ormai, delle sue acquisizioni, essa manterrà, insieme al nichilismo morale, soltanto la volontà di potenza. Al principio, l'uomo in rivolta, voleva soltanto conquistare il proprio essere e mantenerlo in fac­ cia a Dio. Ma perde la memoria delle proprie origini e, seguendo la legge di un imperialismo spirituale, eccolo in marcia per l'impero del mondo attraverso uccisioni moltiplicate all'infinito. Ha scaccia­ to Dio dal suo cielo, ma venendo allora lo spirito di rivolta meta­ fisica a raggiungere risolutamente il movimento rivoluzionario, la rivendicazione irrazionale della libertà prenderà come arma, parados­ salmente, la ragione, solo potere di conquista che le sembri pura­ mente umano. Morto Dio, restano gli uomini, vale a dire la storia che bisogna comprendere e costruire. Il nichilismo che, in seno alla rivolta, sommerge allora la forza creativa, aggiunge soltanto che si può costruirla con qualsiasi mezzo. Ai delitti dell'irrazionale, l'uomo, su di una terra che sa ormai solitaria, unirà i delitti della ragione in cammino verso l'impero degli uomini. Al « mi rivolto, dunque siamo » aggiunge, meditando prodigiosi disegni e la morte stessa della rivolta : « E siamo soli » . ( . . . ) Ma siamo ancora in un mondo in rivolta ? Questa non è forse divenuta, al contrario, alibi dei nuovi tiranni? Il « Noi siamo >> contenuto nel moto di rivolta, può forse, senza scandalo e senza sotterfugio, conciliarsi con l'omicidio ? Assegnando ali'oppressione un limite entro il quale comincia la dignità comune a tutti gli uomini, la rivolta definiva un primo valore. Metteva in primo piano, tra le sue referenze, una complicità trasparente degli uomini tra loro, una tessitura comune, la solidarietà della catena, una comunicazione tra essere ed essere che rende gli uomini somiglianti e alleati; Faceva compiere cosi un primo passo allo spirito alle prese con un mondo assurdo. Con questo progresso, rendeva ancora piu angoscioso il problema che deve ora risolvere di fronte all'omicidio. Sul piano dell'assurdo, infatti, l'omicidio suscitava sol­ tanto contraddizioni logiche ; sul piano della rivolta, è lacerazione. Poiché si tratta di decidere se sia possibile uccidere quel qualsiasi uomo di cui proprio ora abbiamo finalmente riconosciuto la somi­ glianza e consacrato l'identità. Superata appena la solitudine, dob­ biamo dnnque ritrovarla definitivamente legittimando l'atto che separa da tutto ? Forzare alla solitudine chi ha appena saputo che non è solo, non è forse il delitto definitivo contro l'uomo ? Sul piano logico, dobbiamo rispondere che omicidio e rivolta

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sono contraddittori. Che un solo padrone sia infatti ucciso, e l'in­ sorto, in certo modo, non è piu autorizzato a richiamarsi alla comu­ nità degli uomini da cui tuttavia traeva giustificazione. Se questo mondo non ha un senso superiore, se l'uomo non ha che l'uomo a suo mallevadore, basta che un uomo scinda un solo essere dalla società dei viventi per escludere se stesso. Caino, quando uccide Abele, fugge nel deserto. E se gli uccisori sono folla, la folla vive nel deserto e in quell'altro genere di solitudine che si chiama promiscuità. Non appena colpisce, l'insorto taglia il mondo in due. Si erge nella sua rivolta in nome dell'identità dell'uomo con l'uomo e sa­ crifica l'identità consacrando, nel sangue, la differenza. n suo solo essere, al cuore della miseria e dell'oppressione, stava in questa identità. Lo stesso moto che tendeva ad affermarlo, lo fa dunque cessare di essere. ( ...) La rivolta si concreta anche nella storia che chiede non solo opzioni esemplari, ma anche atteggiamenti efficaci. L'omicidio razio­ nale rischia di trovarvi giustificazione. La contraddizione della rivolta si ripercuote allora in antinomie apparentemente insolubili i cui due moduli, in politica, sono l'opposizione tra violenza e non violenza da un lato, e dall'altro tra giustizia e libertà. Cerchiamo di definirle nel loro paradosso. Il valore positivo contenuto nel primo moto di rivolta implica la rinuncia alla violenza di principio. Ne deriva, per conseguenza, l'impossibilità di stabilizzare una rivoluzione. La rivolta trascina incessantemente con sé questa contraddizione, che sul piano della storia si fa piu irriducibile. Se rinuncio a far rispettare l'identità umana, abdico di fronte a chi opprime, rinuncio alla rivolta e ri­ torno a lin consenso nichilista. Il nichilismo si fa allora conserva­ tore. Se esigo, per essere, che questa identità venga riconosciuta, m'impegno in un'azione che, per riuscire, ·presuppone un cinismo della violenza, e nega l'identità umana e la rivolta stessa. Esten­ dendo ancora la contraddizione, se l'unità del mondo non può venire dall'alto, l'uomo deve costruirla al proprio livello, nella storia. La storia, senza un valore che la trasfiguri, è retta dalla legge dell'efficacia. Il materialismo storico, i1 determinismo, la vio­ lenza, la negazione di ogni libertà che non vada nel senso dell'ef. ficacia, il mondo del coraggio e del silenzio sono le conseguenze piu legittime di una filosofia puramente storicistica. Nel mondo di oggi, solo una filosofia dell'eternità può giustificare la non-violenza. Allo storicismo assoluto obietterà la creazione della storia. alla situazione storica chiederà la sua origine. Infine, consacrando al­ lora l'ingiustizia, rimetterà nelle mani di Dio la cura della giustizia.

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Con ciò le sue risposte, a loro volta, esigeranno la fede. Le si obietterà il male, e il paradosso di un Dio onnipotente e male­ fico, o benefico e sterile. Resterà aperta la scelta tra la grazia e la storia, tra Dio e la spada. Quale può essere allora l'atteggiamento dell'uomo in rivolta ? Egli non può distogliersi dal mondo e dalla storia senza rinnegare il principio della sua rivolta stessa, scegliere la vita eterna senza rassegnarsi, in certo senso, al male. Non cristiano, per esempio, deve andare fino in fondo. Ma fino in fondo significa scegliere la storia assolutamente e con essa l'uccisione dell'uomo, se questa uccisione è necessaria alla storia : accettare la legittimazione del­ l'omicidio è ancora una volta rinnegare le proprie origini. Se l'uomo in rivolta non sceglie, sceglie il silenzio e la schiavitu altrui. Se, in un moto di disperazione, dichiara di scegliere a un tempo con­ tro Dio e contro la storia, è testimone della libertà pura, vale a dire del nulla. Allo stadio storico cui apparteniamo, e nell'impos­ sibilità in cui esso si trova di affermare una ragione superiore che non incontri nel male il proprio limite, il suo apparente dilemma è questo : il silenzio oppure l'omicidio. In ambedue i casi, un'ab­ dicazione. Cosi per quanto riguarda la giustizia e la libertà. Queste due esigenze stanno al principio del movimento di rivolta, e si ritrovano nello slancio rivoluzionario. La storia delle rivoluzioni mostra tut­ tavia che esse entrano quasi sempre in conflitto come se le loro reciproche esigenze si trovassero ad essere inconciliabili. La libertà assoluta coincide col diritto, per il piu forte, di dominare. Essa mantiene dunque i conflitti che avvantaggiano l'ingiustizia. La giu­ stizia assoluta passa attraverso la soppressione di ogni contraddi­ zione : essa distrugge la libertà ( . ) La rivoluzione per la giustizia mediante la libertà finisce col farle insorgere l'una contro l'altra. C'è cosi, in ogni rivoluzione, una volta liquidata la casta fino a quel momento dominante, una tappa in cui essa stessa suscita un moto di rivolta che indica i suoi limiti e annuncia le sue pos­ sibilità di fallimento. La rivoluzione si propone da principio di soddisfare lo spirito di rivolta che le · ha dato origine ; s'obbliga poi a negarlo per meglio affermare se stessa. A quanto pare, c'è opposizione irriducibile tra il moto di rivolta e le acquisizioni della rivoluzione. Ma queste antinomie non esistono se non nell'assoluto. Esse suppongono un mondo e un pensiero senza mediazioni. Non c'è infatti conciliazione possibile tra un dio totalmente avulso dalla sto­ ria e una storia svuotata di ogni trascendenza. ( ) La rivoluzione del ventesimo secolo crede di evitare il nichili.

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smo, di essere fedele alla vera rivolta, sostituendo a Dio la storia. Rafforza il primo, in realtà, e tradisce la seconda. La storia, nel suo puro divenire, non fornisce per se stessa valore alcuno. Bisogna dunque vivere secondo l'efficacia implediata, e tacere o mentire. La violenza sistematica, o silenzio imposto, il calcolo o menzogna concertata diventano regole inevitabili. Una concezione puramente storicistica è dunque nichilista : essa accetta totalmente il male della storia, e si oppone in questo alla rivolta. Per quanto voglia af­ fermare in compenso la razionalità assoluta della storia, questa ra­ gione storica non sarà compiuta, non avrà un suo senso intero, non sarà appunto ragione assoluta, e valore, se non alla fine della storia. Intanto bisogna agire, e agire senza norma morale perché la norma definitiva venga alla luce. Il cinismo come atteg­ giamento politico non è logico se non in funzione di una conce­ zione assolutista, cioè da un lato il nichilismo assoluto, e dal­ l'altro il razionalismo assoluto e). Quanto alle conseguenze, non esiste differenza tra i due atteggiamenti. Dall'istante in cui ven­ gono accettati, la terra è deserta. ( ...) Se la rivolta potesse fondare una filosofia, questa sarebbe al contrario una filosofia dei limiti, dell'ignoranza calcolata e del ri­ schio. Chi non può sapere tutto, non può tutto uccidere. L'uomo della rivolta, lungi dal fare della storia un assoluto, la ricusa e la sottopone a contestazione in nome di un'idea che ha della propria natura. Rifiuta la propria condizione, condizione che è, in gran parte, storica. L'ingiustizia, la fugacità, la morte si manifestano nella storia. Respingendole, si respinge la storia stessa. Certo, l'uomo in rivolta non nega la storia che lo circonda, appunto in . essa egli cerca d'affermarsi. Ma si trova di fronte alla storia come l'artista di fronte al reale, la respinge senza sfuggirla. Non un attimo ne fa un assoluto. Se può partecipare, per forza di cose, al delitto della storia, non può dunque legittimarlo. Il delitto razionale non soltanto non si può ammettere sul piano della rivolta, ma per di piu esso significa la morte della rivolta. Per rendere piu chiara questa esigenza, il delitto razionale si esercita innanzi tutto sui rivoltosi la cui insurrezione contesta una storia ormai divinizzata. La mistificazione propria allo spirito che si dice rivoluzionario riprende oggi e aggrava la mistificazione borghese. Sotto la pro­ messa di una giustizia assoluta, fa passare la perpetua ingiustizia, il compromesso senza limiti e l'indegnità. Quanto alla rivolta, essa ·

(5) Si vede nuovamente, e non insisteremo mai troppo su questo, che il razionalismo assoluto non è razionalismo. Tra i due, passa la stessa differenza che fra cinismo e rea· lismo. Il primo spinge il secondo oltre i limiti che gli danno senso e legittimità. Piu bru­ tale, è in fin dci conti meno efficace. È la violenza di fronte alla forza (N.d.A.).

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non tende che al relativo e non può promettere altro che una dignità certa congiunta a una giustizia relativa. Si fa sostenitrice di un limite sul quale si stabilisce la comunità degli uomini. Il suo è l'universo del relativo. ( .. .) Un'azione rivoluzionaria che voglia essere coerente con le pro­ prie origini fii dovrebbe riassumere in un consenso attivo al rela· tivo. Sarebbe fedeltà alla condizione umana. Intransigente sui mezzi, accetterebbe l'approssimazione quanto ai fini e, perché la approssimazione venga progressivamente a definirsi, lascerebbe libero corso alla parola. Manterrebbe cosi quell'essere comune che giustifica la sua insurrezione. In particolare, serberebbe al diritto la possibilità permanente di esprimersi. Ciò definisce un comporta­ mento rispetto alla giustizia e alla libertà. Non c'è giustizia, nella società, senza diritto naturale o civile che ne sia fondamento. Non c'è diritto senza una sua espressione. Il diritto si esprime senza indugio, ed è probabile che, presto o tardi, la giustizia che esso fonda verrà al mondo. Per conquistare l'essere, bisogna partire da quel poco essere che scopriamo in noi, non cominciare col negarlo. Far tacere il diritto fino a che sia instaurata la giustizia è farlo tacere per sempre. Di nuovo, si affida dunque la giustizia a coloro che soli hanno la parola, i potenti. Da secoli, la giustizia e l'essere dispensati dai potenti si sono chiamati beneplacito. Uccidere la libertà per far regnare la giustizia equivale a riabilitare il con­ cetto di grazia senza l'intercessione divina e a restaurare, per una reazione vertiginosa, il corpo mistico sotto le specie piti basse. An­ che quando la giustizia non sia realizzata, la libertà preserva la facoltà di protesta e salva la comunicazione. La giustizia in un mondo silenzioso, la giustizia asservita e muta, distrugge la com· plicità e non può infine piu essere giustizia. La rivoluzione del ventesimo secolo ha superato arbitrariamente, per fini smisurati di conquista, due concetti inseparabili. La libertà assoluta irride la giustizia. La giustizia assoluta nega la libertà. Per essere fecondi, i due concetti devono trovare, l'uno nell'altro, il proprio limite. Nessun uomo reputa libera la propria · condizione se non è insieme giusta, né giusta ove non sia libera. Non si può, appunto, imma­ ginare libertà senza la facoltà di dire chiaramente il giusto e l 'in­ giusto, di rivendicare l'essere intero in nome di una particella di essere che rifiuta di morire. C'è infine una giustizia, per quanto ben diversa, nel restaurare la libertà, solo valore imperituro della storia. Mai gli uomini sono morti bene se non per la libertà : non credevano allora di morire del tutto. Lo stesso ragionamento si applica alla violenza. La non-vio­ lenza assoluta fonda negativamente la servitu e le sue violenze :

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la violenza sistematica distrugge positivamente la comunità vivente e l'essere che ne riceviamo. Per essere feconde, queste due nozioni devono trovare i loro limiti. Nella storia considerata come asso­ luto, la violenza si trova legittimata ; come rischio relativo, essa costituisce una frattura nella comunicazione. Deve dunque serbare, per l'insorto, il suo carattere di provvisoria effrazione, andar sem­ pre congiunta, se non può evitarsi, a una responsabilità perso­ nale, a un rischio immediato. La violenza sistematica si colloca nel­ l'ordine ; è, in certo senso, comoda. Filhrer-prinzip o Ragione sto­ rica, qualsiasi ordine le sia fondamento, essa regna sovra un uni­ verso di cose, non d'uomini. Allo stesso modo . che un uomo in rivolta considera l'omicidio come un limite che deve, qualora vi acceda, consacrare morendo, cosi la violenza non può essere niente altro che un limite estremo che si oppone a un'altra violenza, per esempio in caso d'insurrezione. Se l'eccesso d'ingiustizia rende que­ st'ultima impossibile a evitarsi, chi sia fedele alla rivolta rifiuta in anticipo la violenza al servizio di una dottrina o di una ragion di Stato. Ogni crisi storica, per esempio, si conclude con istitu­ zioni. Se non abbiamo presa sulla crisi stessa, che è puro rischio, ne abbiamo sulle istituzioni poiché possiamo definirle, scegliere quelle per cui lottiamo e inclinare cosi nella loro direzione la nostra lotta. L'autentica azione di rivolta acconsentirà ad armarsi soltanto per le istituzioni che limitano la violenza, non per quelle che la codificano. Una rivoluzione vale la pena che si muoia per essa solo se assicura senza indugio la soppressione della pena di morte ; che per essa si patisca il carcere, solo se rifiuta a priori d'applicare castighi senza termine prevedibile. Esplicarsi nella dire­ zione di queste istituzioni, annunciandole piu sovente possibile, sarà per la violenza insurrezionale il solo modo di essere vera­ mente provvisoria. Quando il fine è assoluto, cioè, storicamente parlando, quando si ritiene certa la sua realizzazione, si può arri­ vare a sacrificare gli altri. Quando non lo è, si può sacrificare soltanto se stessi, come posta di una lotta per la dignità comune. Il fine giustifica i mezzi? È possibile. Ma chi giustificherà il fine ? A questo interrogativo, che il pensiero storico lascia in sospeso, la rivolta risponde : i mezzi. ( ...) Esistono dunque, per l'uomo, un'azione e un pensiero possi­ bili a quel livello medio che gli è proprio. Ogni tentativo piu ambizioso si rivela contraddittorio. L'assoluto non SI consegue e soprattutto non si crea attraverso la storia. La politica non è reli­ gione, o allora è inquisizione. Come potrebbe la società definire un assoluto ? Ognuno, forse, cerca per tutti quest'assoluto. Ma la società e la politica hanno il solo compito di sbrigare gli affari

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di tutti perché ciascuno abbia il tempo c la libertà di questa ri­ cerca comune. La storia allora non può piu essere innalzata a og­ getto di culto. È solo un'occasione, che si tratta di rendere feconda con una rivolta vigile. « L'ossessione della messe e l'indifferenza alla storia », scrive mirabilmente René Char, « sono i due estremi del mio arco ». Se il tempo della storia non è fatto del tempo della messe, la storia non è infatti che un'ombra fugace e crudele in cui l'uomo non ha piu parte. Chi si dà a questa storia non si dà a niente, ed è a sua volta niente. Ma chi si dà al tempo della sua vita, alla casa che difende, alla dignità dei vivi, quegli si dà alla terra e ne ri­ ceve la messe che di nuovo si fa seme e nutrimento. Infine, fanno avanzare la storia coloro che sanno, al momento voluto, rivoltarsi anche contro di lei. Ciò suppone un'immensa tensione e la rat­ tratta serenità di cui parla lo stesso poeta. Ma la vera vita è pre­ sente al cuore di questa lacerazione. È la lacerazione stessa, lo spi­ rito librato su vulcani di luce, la smania di equità, l'intransi­ genza estenuante della misura. Ad echeggiare per noi ai confini di questa lunga avventura ribelle non è qualche formula di otti­ mismo, di cui non sapremmo che fare all'estremo della nostra sciagura, ma parole di coraggio e d'intelligenza che, vicino al male; sono una stessa ' virtu. ( .. ) ( . ) La rivolta non può fare a meno di uno strano amore. Coloro che non trovano quiete né in Dio né entro la storia si dan­ nano a vivere per quelli che, come loro, non possono vivere ; per gli umiliati. ( .) È questa la pazza generosità della rivolta, che dà senza indugio la sua forza d'amore e rifiuta senza dilazioni l'ingiustizia. Il suo onore sta nel non calcolare nulla, nel distribuire tutto alla vita presente e ai suoi fratelli vivi. In questo modo essa giova agli uomini di là da venire. La vera generosità verso l'avvenire consi­ ste nel. dare tutto al presente. La rivolta, con questo, prova di essere il moto stesso della vita, e non la si può negare senza rinunciare a vivere. Il suo grido piu puro, ogni volta, suscita un essere. È dunque amore e fecondità, o non è niente. La rivoluzione senza onore, la rivolu­ zione del calcolo che, preferendo un uomo astratto all'uomo di carne, nega l'essere tante volte quante occorrono, mette appunto il risentimento al posto dell'amore. Non appena la rivolta, dimen­ tica delle sue generose origini, si lascia contaminare dal risenti­ mento, nega la vita, corre alla distruzione e fa alzare la coorte ghignante di quei piccoli ribelli, seme di schiavi, che finiscono per offrirsi, oggi, su tutti i mercati d' Europa, a qualsiasi servitu. .

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Non è piu rivolta né rivoluzione, ma rancore e tirannia. Allora, quando la rivoluzione, in nome della potenza e della storia, si converte in meccanismo omicida e smisurato, diviene sacra una nuova rivolta, in nome della misura e della vita. Siamo a questo estremo. In fondo alle tenebre avvertiamo già l'inevitabile luce e non ci resta che lottare perché sia. Al di là del nichilismo, noi, tutti, tra le rovine, prepariamo una rinascita. Ma pochi lo sanno. (L'uomo in rivolta, tr. it. in Opere, Milano, Bompiani, 1969, vol. II, pp. 435-439, 632-634, 638-645, 657 -660).

III. l.

G. MARCEL

PROBLEMA DELL ' ESSERE E MISTERO ONTOLOGICO

A. Se si considera la posizione attuale del pensiero filosofico come si estrinseca in una coscienza che cerca di approfondire le pro­ prie esigenze, si è portati a formulare le seguenti osservazioni : l) I termini tradizionali con i quali alcuni tentano ancora oggi di enunciare il problema dell'essere, risvegliano in generale una sfiducia insormontabile, la cui origine è da ricercarsi pio nel fatto che alcuni spiriti sono imbevuti dei risultati della critica bergsoniana - e ciò si constata anche in coloro che non potrebbero richiamarsi al bergso­ nismo in quanto metafisica - che in una adesione piii o meno espli­ cita ad alcune tesi kantiane. 2) D'altronde l'atteggiamento di astensione pura e semplice di fronte al problema dell'essere :da parte di molte dottrine filosofiche contemporanee è in ultima analisi insostenibile. Infatti tale atteggia­ mento si riduce ad una specie di intervallo non giustificabile di diritto che deriva dalla pigrizia o dalla timidezza. Questo atteggiamento . come generalmente succede - può anche riconnettersi sia pure indi­ rettamente, ad una negazione piii o meno esplicita dell'essere, che racchiude una opposizione alle esigenze essenziali di un essere la cui essenza concreta è ·di essere in ogni modo impegnato. Per il fatto stesso di essere impegnato si viene a trovare alle prese con un destino che deve non soltanto subire, ma anche far suo, ricreandolo in qualche modo dall'interno. Questa negazione dell'essere non potrebbe essere in realtà la constatazione di una assenza, di una mancanza ; può essere soltanto voluta e quindi può anche essere rifiutata. B. È opportuno notare come io che mi pongo dei quesiti sull'es­ sere, non so né se io sia, né a fortiori che cosa io sia, né il significato proprio del quesito : che cosa sono io?, che tuttavia mi assilla. Noi vediamo qui che il problema dell'essere si estende ai suoi stessi dati, e si approfondisce in seno al soggetto che lo pone. In questo mod.o si nega ( o si trascende) in quanto problema e si trasforma in mistero. C. Sembra proprio che fra un mistero e un problema vi sia una differenza essenziale. Infatti un problema è qualcosa che incon-

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PIER

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tro, che trovo davanti a me, ma che posso delimitare e trasformare, mentre un mistero è qualcosa in cui sono impegnato e che quindi è pensabile soltanto come una sfera in cui la distinzione fra 1' « in me » e « davanti a me » perde il suo significato e il suo valore iniziale. Un problema autentico dipende -da una te�nica appropriata in fun­ zione della quale si definisce, mentre un mistero trascende per definizione ogni possibilità di tecnica. Senza dubbio è possibile ( logi­ camente e psicologicamente) svalutare un problema per farne un mistero ; ma sarebbe un processo sostanzialmente vizioso, le cui origini dovrebbero forse essere cercate in una specie di corruzione dell'in­ telligenza. In realtà ciò che i filosofi hanno chiamato il problema del male ci offre un esempio particolarmente istruttivo di questa svalu­ tazione.

D. Il mistero, in quanto può essere riconosciuto tale, può essere pure riconosciuto e attivamente negato : si riduce quindi a un qualcosa di cui « h o inteso parlare », a un qualcosa che io rifiuto -

perché riguarda soltanto gli altri, e ciò per una illusione di cui questi « altri » sono vittime, illusione che io affermo di avere definitiva­ mente superato.

È necessario evitare ogni confusione fra il mistero e l'incono­ scibile : in realtà l'inconoscihile è soltanto un limite del proble­ matico che non può essere attualizzato senza cadere in contraddi­ zione. Il riconoscimento del mistero è invece un atto essenzialmente positivo dello spirito, l'atto positivo per eccellenza, in funzione del

quale ogni positività può essere rigorosamente definita. Tutto sembra svolgersi come se io beneficiassi ·di una intuizione che posseggo senza saperlo immediatamente : di una intuizione che, propriamente par­ lando, non potrebbe essere per sé, pur comprendendosi tramite i modi di esperienza sui quali si riflette, e che essa illumina mediante questa stessa riflessione. Un'essenziale procedimento metafisica consisterebbe allora in una riflessione su questa riflessione ; una riflessione quindi alla seconda potenza con la quale il pensiero si protende verso il recupero di una intuizione che viene a perdersi nella misura in cui esso si attua. Il raccoglimento, la cui possibilità effettiva può essere conside­ rata come il segno antologico piu rivelatore che possediamo, costi­ tuisce il mezzo reale in cui può a ttuarsi questo recupero. E. li « problema dell'essere » sarà ·dunque una esemplificazione, sia pure in linguaggio inadeguato, di un mistero che può essere dato soltanto a un essere capace di raccoglimento e la cui caratte­ -

ristica consiste forse nel non coincidere in modo puro e semplice con la sua vita. Troviamo la conferma o la prova di questa non-coin­ cidenza nel fatto che io valuto la mia vita in modo piu o meno

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esplicito. In realtà io posso non soltanto condannarla con una sen­ tenza astratta, ma porre un termine effettivo se non a questa vita considerata in profondità, almeno all'espressione finita e materiale alla quale sono libero di credere che questa vita si riduca. Nella possibilità stessa del suicidio, vi è un elemento essenziale di ogni autentico pensiero metafisico. E questo non soltanto per il suicidio : la disperazione sotto tutte le sue forme, il tradimento in tutti i suoi aspetti, in quanto negazioni effettive dell'essere, in quanto l'anima si dispera, si chiude anch'essa alla garanzia misteriosa e fondamentale in cui abbiamo creduto di trovare il principio di ogni positività. F. - Non basta dire che noi viviamo in un mondo in cui il tra­ dimento è possibile ad ogni istante, in ogni misura, in tutti i suoi aspetti ; la struttura stessa del nostro mondo ce lo raccomanda, per non dire che ce lo impone. Lo spettacolo della morte offertoci da questo mondo, da un determinato punto di vista può essere consi­ derato come un continuo incitamento al rinnegare, alla defezione assoluta. Del resto si potrebbe dire che il tempo e lo spazio, come modi coniugati dell'assenza, in quanto ci riportano su noi stessi, ten­ dono a respingerei nell'indigente istantaneità del godimento. Ma nello stesso tempo la disperazione, il tradimento, la morte stessa possono, almeno sembra, essere rifiutati, negati : e se il termine trascendenza ha un significato, in questo è implicito questa negazione, o piu esattamente questo superamento ( Uberwindung, piu che Aufhe­ bung). Infatti l'essenza del mondo è forse tradimento, o piu esatta­ mente, nel mondo non vi è nulla il cui prestigio possa resistere sicu­ ramente agli assalti di una intrepida riflessione critica. G. - Stando cosi le cose, le approssimazioni concrete del mistero ontologico dovranno essere cercate non sul piano del pensiero logico la cui oggettivazione suscita un problema iniziale, ma piuttosto nella chiarificazione di alcuni dati propriamente spirituali, come la fedeltà, la speranza, l'amore. Su questo piano possiamo vedere l'uomo alle prese con la tentazione del rinnegamento, del ripiegamento su se stessi, dell'indurimcnto interiore, senza che per questo il metafisico puro possa decidere se la causa di queste tentazioni risieda nella natura stessa considerata nei suoi aspetti intrinseci e invariabili, o piuttosto in una corruzione di questa stessa natura, sopravvenuta in seguito ad una catastrofe, che piu che inserirsi nella storia, avrebbe dato origine ad essa. Sul piano ontologico la fedeltà ha una grande importanza. In effetti essa è il riconoscimento effettivo, e non teorico o verbale, di un permanente ontologico, di un permanente che dura, e in rapporto al quale noi duriamo, di un permanente che implica o esige una

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storia in opposiZIOne alla permanenza inerte e formale di una pura validità, di una legge. La fedeltà è il perpetuarsi di una testimo­ nianza che in ogni momento potrebbe essere cancellata o rinnegata. È una attestazione non soltanto perpetuata, ma creatrice, tanto piu creatrice se è maggiormente elevato il valore oi::ttologico di ciò che essa testimonia. H. Una ontologia cosi orientata sconfina nella direzione di una rivelazione che essa non potrebbe né esigere, né presupporre, né integrare e neppure comprendere, pur preparandone in un certo senso l'accettazione. Può anche acca·dere che questa ontologia possa di fatto svilupparsi su un terreno preparato precedentemente dalla rivelazione. Ciò non deve sorprenderei e a fortiori scandalizzarci ; lo sviluppo di una metafisica può prodursi soltanto in seno a una determinata situazione che la suscita : ora l'esistenza di un dato cristiano costituisce un fattore essenziale ·di questa nostra situazione. Conviene rinunciare per sempre all'idea ingenuamente razionalista di un sistema di affermazione valido per un pensiero in generale, per una qualsiasi coscienza. Questo pensiero è il soggetto della cono­ scenza scientifica, un soggetto che è soltanto un'idea. Invece il piano ontologico può essere riconosciuto soltanto con un atto personale, tramite la totalità di un essere impegnato in un dramma che è il suo, pur tralasciandolo infinitamente in tutti i sensi, un essere al quale è stato concesso la singolare qualità di affermarsi o di negarsi, sia che affermi l'Essere e si apra a lui, sia che lo neghi e quindi si chiuda ad esso : in effetti proprio in questo dilemma consiste l'essenza stessa della libertà. ( .. .) Sarei propenso a dire che questa continuità implicata in ogni problematizzazione è quello ·di un « sistema per me », mentre nel mistero io mi sento portato al di là di ogni « sistema per me ». lo sono impegnato in concreto su un piano che per definizione non potrà mai divenire oggetto o sistema per me, mentre lo potrà per un pensiero che mi trascende e mi comprende, e con il quale non posso identificarmi, sia pure idealmente. In questo caso l'espressione al di là acquista il suo effettivo significato. Ogni problematizzazione è relativa al « mio sistema », e il « mio sistema » è un prolungamento del « mio corpo ». Questo egocentrismo sarà contestato, ma in realtà una qualsiaiìi teoria scientifica resta in ultima analisi tributaria del percipio e non semplicemente del cogito. Il percipio resta il centro reale, benché accuratamente mascherato, di ogni problematizzazione, qualunque essa sia. (Giornale metafisica, tr. it. di F. Spirito, Roma, Abete, 1966, pp. 319-323, 329).

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( ...) L'essere esiste ? Che cosa è l'essere ? Ma io non posso riflettere su questi problemi senza vedere aprirsi sotto i miei passi un nuovo abisso : io che interrogo sull'essere, posso essere sicuro di essere ? E tuttavia io che formulo questo problema, dovrei poter mante­ nermi fuori sia al di qua che al di là - del problema che formulo. In realtà, è chiaro che non è cosi ; la riflessione mi mostra che questo problema inva·de in un certo senso in una maniera inevi­ tabile questo proscenio teoricamente preservato. È per mezzo di una finzione che l'idealismo nella sua forma tradizionale tenta di con­ servare ai confini dell'essere una coscienza che lo ponga o lo neghi. Non posso dunque dispensarmi dal chiedermi nello stesso tempo : chi sono io, io che questiono sull'essere ? Quale qualità ho per procedere a queste indagini ? Se io non sono, come spererò di vederle giungere a termine ? Ammettendo anche che 10 sia, come posso essere sicuro di essere ? ( . ..) Vediamo chiaramente cadere qui la distinzione fra ciò che è in me e ciò che non sarebbe che di fronte a me ; essa cade sotto i colpi di una riflessione riduttrice : una riflessione alla seconda potenza. Ma va da sé che è nell'amore che vediamo piu chiaramente annullarsi la distinzione fra l'in me e il di fronte a me ; - forse sarebbe anche possibile mostrare che in effetti la sfera del metapro­ blematico coincide con quella ·dell'amore, che un mistero come quello dell'unione dell'anima e del corpo non si può cogliere che a par­ tire dall'amore, e in qualche maniera l'esprime. È . d'altronde inevitabile che una riflessione che non si è riflessa essa 'stessa, unendosi strettamente all'amore, tenda a dissolvere que­ sto metaproblematico, a interpretarlo in funzione di elementi a­ stratti quali la volontà di vivere, la volontà di potenza, la libido, ecc. ; d'altra parte, essendo l'ordine dei problemi quello del valore, sarà estremamente difficile - se non impossibile - confutare que­ ste interpretazioni senza porsi su di un terreno differente, sul quale in verità esse perdono il loro significato. Nello stesso tempo, mi è assicurato, mi è garantito - e questa certezza mi avvolge come un mantello protettore - che in quanto io amo realmente non ho da preoccuparmi di queste riduzioni dispregiative. Si domanderà : qual è dunque il criterio dell'amore vero? Bi­ sogna rispondere che non ve ne è criteriologia se non nell'ordine dell'oggetto o del problematizzabile, ma fin d'ora scorgiamo a distan­ za il valore eminente che dal punto di vista ontologico sarà il caso di assegnare alla fedeltà. Ecco un altro esempio piu immediato, piu particolare, e che mi -

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sembra adatto a mettere in luce la differenza fra un mistero e un problema. Voi fate un incontro che risulterà avere sulla vostra vita una ripercussione profonda, indefinita. Ciascuno può aver fatto l'espe­ rienza di ciò che significa a volte un incontro dal punto di vista spirituale - e tuttavia vi è qualche cosa che i filosofi hanno comu­ nemente ignorato o ·disdegnato, senza dubbio perché l'incontro inte­ ressa la persona e solamente la persona ; essa non è universalizzabile, essa non concerne l'essere pensante in generale. È evidente che un tale incontro, se si vuole, pone ogni volta un problema ; ma vediamo anche molto chiaramente che la soluzione di questo gusto o di questa malattia non ci avvicina nel senso reale per sé. Mi si dica, per esempio : « lei ha incontrato questa persona in tale luogo, perché ad essa piacciono gli stessi paesaggi che piac­ ciono a lei o perché la sua salute la obbliga a sottoporsi agli stessi trattamenti cui si sottopone anche lei » : si vede subito che la rispo­ sta è inesistente. Si trova a Firenze o nell' Engadina contemporanea­ mente a me una folla di persone che si presume condivida i miei gusti ; si trova alle terme dove io mi curo un numero· considerevole di malati colpiti dalla mia stessa malattia. Ma la presunta identità di questo problema si pone di qua dalla questione che interessa di quella parola ; essa è senza rapporto con l'affinità intima, unica nel suo genere, di cui si parla qui. D'altra parte sarebbe oltrepassare i limiti di questo valido ragionamento considerare l'affinità stessa come causa c affermare : « È proprio essa che ha determinato il nostro incontro ». Da quel momento mi trovo alla presenza di un mistero, cioè di una realtà le cui radici affondano di là da ciò che, per parlare pro­ priamente, è problematico. Eluderemo la difficoltà asserendo che non vi è in ciò dopo tutto che una felice combinazione, una coincidenza ? Una protesta sale subito ·dal mio intimo contro questa formula vuo­ ta, contro questa negazione inèfficace di qualche cosa che io colgo nella profondità di me stesso. Ma ancora qui ritroviamo la defini­ zione iniziale del mistero .come problema che sconfina dai nostri pro­ pri dati : io che mi interrogo sul senso e sulla possibilità di questo incontro non posso pormi realmente al di fuori o di fronte ad esso : sono impegnato in questo incontro, dipendo da esso, sono in qualche modo interiore ad esso, esso mi avvolge e mi comprende - io non lo comprendo. È dunque per una sorta di rinnegamento o di tradimento che io posso dire : « Dopo tutto, esso avrebbe potuto non essere, io sarei rimasto ugualmente quello che ero, quello che sono ancora ». E non bisogna dire neppure : io sono stato modifi­ cato da esso come da una causa esteriore. No, esso mi ha avvolto

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dal di dentro, ha agito nei miei confronti come principio interiore me stesso. Ma questo è molto difficile da cogliere senza deformazione. ( Position et appror.;hes conc:rètes du mystère ontologique, Lovanio-Parigi,

Vrin, 1949, pp. 54, 59-61).

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2. EssERE E AVERE

Già nel ]ournal Métaphysique io mi ponevo questo . problema che dapprima sembrava essere di ordine puramente psicologico. Come è possibile - mi chiedevo - identificare un sentimento che si prova per la prima volta ? Infatti l'esperienza dimostra che questa identi­ ficazione è spesso molto difficile ( l'amore può ostentare delle forme sconcertanti che impediscono a colui che lo prova di individuarne la vera natura). Constatavo che questa identificazione è tanto piu realizzabile in quanto il sentimento può essere maggiormente para­ gonato a qualche cosa che io ho, come posso avere il raffreddore o la rosolia ; esso si lascia allora definire, intellettualizzare. Cosi io posso formarmene un'idea e confrontarla con il concetto che io potevo avere di que_sto sentimento in generale (sia ben chiaro che adesso io schematizzo, ma ciò poco importa). Invece - dicevo meno questo sentimento è sceverabile, meno sono sicuro di ricono­ scerlo. Ma non esiste forse, proprio in antitesi a questi sentimenti che ho, una trama affettiva talmente consostanziale a ciò che io sono, per cui io non posso contrappormela realmente (e quin-di pensar­ la) ? Cosi cominciavo a intravedere, se non proprio una chiara di­ stinzione, almeno una gamma di sfumature, una gradazione sia pure minima fra un sentimento che ho e un sentimento che io sono. Donde questa annotazione del 16 marzo 1923 : « In sostanza si rapporta alla distinzione fra ciò che si ha e ciò che si è. È molto difficile esprimerla sotto forma di concetti : tuttavia -deve essere pos­ sibile farlo. Ciò che si ha presenta evidentemente una certa esteriorità in rapporto al proprio io. Questa esteriorità non è però assoluta. Per principio ciò che si ha, sono delle cose (o ciò che può essere paragonato a delle cose, se questo paragone è possibile). Io posso avere nel vero senso della parola soltanto qualcosa che possiede una esistenza in un certo senso non dipendente da me. In altri termini, ciò che ho si aggiunge a me ; inoltre il fatto -di essere da me posse­ duto si aggiunge alle altre proprietà e qualità, ecc. proprie della cosa che possiedo. Dunque io ho soltanto ciò di cui posso in qualche modo sia pure in certi limiti disporre, in quanto posso essere consi-

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derato come una potenza, come un essere dotato di poteri. Vi è possibilità di trasmissione soltanto per ciò che si ha ». Passavo quin­ di a un problema molto oscuro : volevo sapere cioè se vi è effetti­ vamente dell'intrasmettibile nella realtà e in che modo possa essere pensato. Vi è dunque rma possibilità di arrivare al problema, ma non è la sola. Per esempio io non posso concentrare la mia atten­ zione su ciò che è il mio corpo in antitesi al corpo-oggetto pen­ sato dal fisiologo - senza ritrovare il concetto quasi impenetrabile dell'avere. E tuttavia a rigor di termini posso ·dire che il mio corpo è qualche cosa che ho ? Innanzi tutto il mio corpo in quanto tale è una cosa ? Se io lo considero come una cosa, che cosa sono io che lo considero cosi? « In fondo - cosi scrivevo nel Journal Métaph-ysique ( p. 252), si giunge alla formula seguente : il mio corpo è ( un oggetto), io non sono niente. L'idealismo avrà la risorsa di affermare che io sono l'atto che pone la realtà oggettiva del mio corpo. Non è forse un modo sottile di ingannare ? seguitavo a dire. lo temo che sia cosi. Tra questo idealismo e il materialismo puro non vi è che una minima differenza ». Ma si potrebbe conti­ nuare l'esame e dimostrare· in particolare le conseguenze di que­ sto modo di rappresentare o di immaginare, per quel che riguarda l'atteggiamento di fronte alla morte, al suicidio. Uccidersi non è forse un disporre del proprio corpo ( o della propria vita) come di qualcosa che si ha, come di una cosa ? Non è forse un ammettere implicitamente che ci si appartiene? Quante tenebre quasi impenetrabili a questo riguardo : che cosa è questo sé? Che cosa è questa relazione· misteriosa fra sé e se stesso ? Non è forse evidente che la relazione è differente per l'essere che rifiuta di uccidersi, perché non se ne riconosce il diritto, perché non si ap­ partiene ? Non intravediamo forse, sotto rma ·differenza di formule che sembrava trascurabile, come un abisso che è impossibile colmare e che si può esplorare soltanto a poco a poco ? Mi limiterò a far notare queste due possibilità iniziali ; ce ne sarebbero ancora molte altre, ma le riconosceremo a poco a poco o almeno conosceremo alcune di esse. Quindi un'analisi viene ad essere indispensabile. Ma tengo a precisare che questa analisi non sarà un ridimensionare. Essa ci mo­ strerà come noi siamo invece in presenza di un dato opaco, che noi possiamo forse affrontare completamente. Ma il riconoscimento di un irriducibile costituisce già sul piano filosofico un passo in avanti molto importante, che può forse trasformare in qualche modo la coscienza che l'effettua. Infatti non possiamo pensare questo irriducibile senza pensare un al di là nel quale esso non si riassorbe ; ed io penso che la -

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doppia esistenza di questo irriducibile e di questo al di là tende proprio a definire la condizione metafisica dell'uomo. (Giornale metafisica, tr. it. di F. Spirito, Roma, Abete, 1966, pp. 353-355).

3. EsiSTENZA E INCARNAZIONE

Quando affermo che una cosa esiste, considero sempre questa cosa collegata al mio corpo, suscettibile, per quanto indirettamente, di essere messa a contatto con esso. Però è necessario considerare come questa priorità, che io attribuisco cosi al mio corpo, derivi dal fatto che questo mi è dato in un modo non del tutto oggettivo, in quanto è il mio corpo. Il carattere, ad un tempo misterioso e intimo, del legame che intercorre fra me e il mio corpo (espressamente non uso qui il termine relazione) ·dà un tono in realtà a ogni giudizio esistenziale. E ciò ribadisce il concetto che non � possibile dissociare realmente : Esistenza ; La coscienza di sé come esistente ; La coscienza di sé come unito a un corpo, come incarnato. Ne derivano molte e importanti conseguenze. l) Innanzi tutto il punto di vista esistenziale sulla realtà sembra poter essere soltanto quello di una personalità incarnata ; e in quanto possiamo immaginare un'intelligenza pura, vediamo che per una simile intelligenza, non vi è possibilità alcuna di considerare le cose come esistenti o non-esistenti. 2) D'altronde il problema dell'esistenza del mondo esteriore si trasforma e perde forse perfino il suo significato ; non posso infatti senza contraddizione pensare il mio corpo non-esistente, perché è in rapporto a·d esso (in quanto è il mio corpo) che ogni esistente si definisce e si pone ; ma bisognerebbe anche chiedersi s'e vi siano delle ragioni valide per accordare al mio corpo una condizione metafisica privilegiata rispetto alle altre cose. 3) Se è cosi, ci si può chie dere se l'unione dell'anima e del corpo sia in realtà, nella sua essenza, differente dall'unione fra l'a­ nima e le altre cose esistenti : in altri termini, se, ad ogni afferma­ zione di esistenza, è forse sottintesa una certa esperienza di sé, come unito all'universo. 4) Considerare se una tale interpretazione dell'esistenziale porti al soggettivismo. 5) Dimostrare come l'ideali�mo tenda inevitabilmente ad elimi­ nare ogni considerazione esistenziale in ragione della non-intelli-

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gihilità radicale dell'esistenza. L'idealismo contro la metafisica. l va­ lori slegati dell'esistenza : troppo reali per esistere. Stretto legame fra le preoccupazioni esistenziali e le preoccupa­ zioni personaliste. Il problema dell'immortalità dell'anima, fulcro della metafisica. ( . ..) L'incarnazione, dato essenziale della metafisica. L'incarnazione� situazione di un essere che si presenta come unito a un corpo. Dato non trasparente a se stesso : opposizione al « cogito ». Di questo corpo io non posso dire né che sono io, né che non lo sono, né che esso è per me (oggetto). L'opposizione soggetto-oggetto viene a essere tra­ scesa. Invece, se parto da questa opposizione, considerata come fon­ damentale, non ci sarà alcun artificio logico che mi permetta ·di arri­ vare a questa esperienza ; questa, in effetti, sarà inevitabilmente elusa o rifiutata. Non si obietti che questa esperienza presenta un carat­ tere contingente ; in realtà ogni ricerca metafisica richiede un simile punto di partenza. Essa può avere inizio soltanto da una situazione che si riflette su se stessa senza potersi comprendere. Non mi sembra che sia da esaminare se l'incarnazione è un fatto ; essa è il dato per cui un fatto diventa possibile. (Ciò non è vero per il « cogito »). Situazione fondamentale, che non può essere a rigore dominata, padroneggiata, analizzata. Ed è proprio questa impossibilità che viene ad affermarsi quando dichiaro, confusamente, che io non sono il mio corpo. Non posso considerarmi cioè un termine separato dal mio corpo, che sarebbe ad esso legato da un rapporto determinabile. Come ho detto altrove, dal momento in cui il mio corpo è considerato come oggetto di scienza, io esulo infinitamente da esso. (Giornale metafi.sico,

tr.

it. di F. Spirito, Roma, Abete, 1966, pp. 230-232).

Annoto a caso i pensieri che mi vengono in mente ; forse a un dato momento si schiuderà la via da seguire. Il mio corpo può essere forse uno strumento per me unicamente in quanto non è una idea, ossia non è pensato come oggetto ? La mia incapacità di ese­ guire un movimento abituale quando vi fisso sopra la mia attenzione, sembrerebbe confermare questa mia osservazione. Tutto ciò che noi abbiamo acquisito - e non è neanche sicu­ ro - potrebbe formularsi cosi : io sono il mio corpo ( nel senso in . cui io sono le mie idee, le mie opere) soltanto in quanto non lo considero come uno strumento. Sembra che vi sia la possibilità di un ·doppio rapporto fra il mio corpo e me : supponendo che il ter­ mine di rapporto sia qui adeguato. Ma ecco sorgere un problema singolare : se io posso esercitare la mia attenzione soltanto per mezzo

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del mio corpo, ne deriva che questo è impensabile per me, poiché l'attenzione che si concentra su di esso lo presuppone. Si dirà forse che ciò che è vero per il mio corpo, non lo è per quello degli altri? È della massima evidenza che io posso considerarmi come esso, co­ me altro e viceversa. L'argomento conduce dunque a provare che il mio corpo è im­ pensabile e come, credendo di pensare la sua distruzione, io pensi in realtà la distruzione di qualcosa che non è il mio corpo, un qual­ cosa che io sostituisco a·d esso. Porre la priorità assoluta del corpo, significa dire che la sua mediazione è necessaria per porre l'atten­ zione su qualsiasi cosa� dunque per conoscerlo esso stesso. Ma come potrebbe in queste condizioni la natura di questa funzione media­ trice cadere sotto le prese dell'attenzione e quindi essere conosciuta ? Ponendo quindi la priorità assoluta del corpo, lo convertiamo in un inconoscibile, poiché lo togliamo dal mondo degli oggetti. Ritornando ancora su questo punto fondamentale, vediamo che in sostanza soltan­ to tre ipotesi sono possibili : l) o la priorità assoluta del corpo deve essere negata, e al­ lora l'attenzione può agire direttamente su un oggetto qualsiasi ; 2) o questa priorità è riconosciuta come data, ma allora : a) o si ammetterà che, ogni volta che l'attenzione si fissa, entra in gioco qualcosa che non può essere concepito come oggetto, e che non potrebbe coincidere con ciò che abitualmente chiamo il mio corpo ; b) o si porrà, in linea di massima, si postulerà che questo X e il mio corpo devono essere identici. A mio parere la prima ipotesi deve essere immediatamente riget­ tata perché incompatibile con la: struttura del nostro universo. Resta allora l'alternativa che ho qui indicato. 24

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Non sono affatto sicuro della consistenza delle mie osservazioni di ieri. Ecco il punto cui avevo pensato di giungere : se w sorw il mw corpo significa soltanto « il mio corpo è oggetto di attuale interesse per me » , non vi è niente che basti a d attribuire al mio corpo una priorità reale in rapporto ad altri oggetti. Avviene altri­ menti quando « il mio corpo » è considerato come la sola condizione per cui un oggetto può essere offerto alla mia attenzione. Ma in questo caso l'attenzione che si fissa sul mio corpo presuppone l'azione di questo elemento mediatore che sconfina quindi al di là del cono­ scibile. E soltanto tramite un procedimento arbitrario dello spirito ( b), io potrò identificare il corpo-oggetto con il corpo-mediatore;

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D'altronde cosa pensare dell'idea di un primo strumento di at­ tenzione ( che coincida o no con ciò che abitualmente io chiamo il mio corpo)? Da ciò che ho detto ieri consegue l'impossibilità del­ l'idea di un principio mediatore tramite il quale agisce l'attenzione. Però ciò che non può in nessun modo essere oggetto per me, può per questo non esserlo per nessuno ? Non si potrebbe concepire un tipo di organizzazione, un'ottica intellettuale differente dalla nostra e dal cui punto ·di vista il problema non sussisterebbe p ili? Innanzitutto sarebbe necessario approfondire la natura della relazione strumentale. A mio parere, ogni strumento è in sostanza un mezzo per sviluppare il « potere » che noi possediamo - e ciò è vero - sia per una vanga, sia per un microfono. Dire che que­ sti poteri stessi sono degli strumenti, sarebbe appagarsi di parole, poi­ ché bisognerebbe determinare di che cosa questi poteri siano il pro­ lungamento. Deve esserci sempre una certa affinità tra lo strumento e lo strumentista. Ma allora, quando io considero il mio corpo come il mio strumento, non cedo forse a una specie di illusione incosciente che mi fa riportare nell'anima i poteri i cui dispositivi meccanici ai quali riduco il mio corpo, non sarebbero che i prolungamenti? Negando che il corpo sia completamente pensabile nego anche che possa essere considerato come uno strumento : poiché lo strumento è, per la sua essenza, ciò di cui è possibile un'idea, ossia ciò che è possibile soltanto per mezzo di questa idea. In queste condizioni la questione iniziale cambia aspetto. Quan­ do insistevo sulla necessità ·di una mediazione, perché l'attenzione potesse fissarsi su un oggetto qualunque, non era forse di uno stru­ mento che io intendevo parlare ? E d'altronde, ·dicendo che non po­ tevo farmi un'idea di questa mediazione, non negavo forse implici­ tamente che si potesse trattare di uno strumento ? Sembra dunque che io mi sia addentrato in un dedalo di contraddizioni. Tutto ciò deve essere ripreso in considerazione piu particolarmente. Se io penso il mio corpo come strumento, attribuisco all'anima di cui è lo strumento, le virtualità che verrebbero rese attuali da questo strumento stesso ; non solo, ma : converto l'anima in corpo, impegnandomi in una regressione senza fine. D'altronde affermare che io possa essere qualunque cosa, identificandomi cioè in qualun­ que cosa con quell'atto anche minimo di attenzione che è implicito nella sensazione piu elementare, senza che intervenga una mediazio­ ne qualsiasi significa minare i fondamenti stessi della vita spiri­ tuale, significa disperdere lo spirito in atti disordinati e puramente successivi. Non posso però concepire questa mediazione come se fosse sul piano strumentale. Le darò il nome di mediazione simpatica. Ma l'idea ·di una tale mediazione è possibile per un'intelligenza -

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diversa dalla nostra ? Anche questa volta è necessario aggirare la situazione. Mediazione strumentale e mediazione simpatica sembra· no cosi unite da essere impensabili separate ; però cosa indica esat­ tamente questa mutua dipendenza ? Dal mio punto di vista comprendo come ad esempio l a telepatia sia un caso particolare di un sistema generale di mediazione, che può rendere possibile la mediazione strumentale. Ma è evidente che non è interponendo un corpo occulto X fra l'attività spirituale e il corpo visibile, che noi ci riavvicineremo, sia pure di poco, alla solu­ zione del problema da me posto. D'altronde l'espressione stessa di attività spirituale non mi soddisfa : bisogna rivedere le considerazioni precedenti. Dire che l'attenzione non può riferirsi direttamente ad un oggetto significa rifiutare di considerarla come una realtà indi­ pendente. Non si potrebbe dire che l'attenzione è st:mpre attenzione a se stessa e che inversamente c'è un se stesso soltanto se vi è atten· zione ? Del resto è evidente che fare attenzione a qualcosa, è sempre fare attenzione a sé, in quanto senziente. È necessario osservare però come questo sé sia ancora al di qua di ogni oggettività. Si ritrova qui la critica che ho fatto altre volte alla dottrina forma­ lista dell'io ( oggetto che non ha niente di un oggetto, che non è né un che, né un chi). Posso considerarmi soltanto come una attività attenta legata a un certo « questo » sul quale essa agisce e in mancanza del quale non sarebbe se stessa. Ma non ho detto che di tale « questo » ogni idea era impossibile ? Tuttavia non bisogna che sia in ogni momento questo o quello, cioè determinato ? (non vorrei insistere qui sul pro­ blema temporale che ritroveremo assai presto). Il « questo » di cui parlo non è un oggetto, ma la condizione assoluta perché un oggetto qualsiasi possa essermi dato. Mi chiedo se non tradisco in un certo senso il pensiero che in questo momento cerco di « dare alla luce », dicendo : vi è attenzione soltanto se nello stesso tempo vi è un modo fondamentale di sentire che non può essere convertito in oggetto e che non si riduce d'altronde all'io penso kantiano ( poiché non è una forma universale) e in mancanza del quale la personalità viene ad annullarsi. Questa sensazione fondamentale si identifica in ultima analisi con l'attenzione a sé ( non essendo il sé che l'immediatezza assoluta considerata come mediazione). Bisogna però comprendere come questo Ur-Gefiihl non possa es· sere sentito in nessun modo, proprio perché è fondamentale. Po­ trebbe esserlo soltanto in funzione ·di altre sensazioni ma verrebbe a perdere la sua priorità e). Ma non si può pensare che questa ( l ) L'idea di un a priori individuale della sensibilità pura mi sembra ;mcora oggi una specie di scoperta fondamentale (novembre 1925) (N.d.A.).

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qualità fondamentale possa invece essere sentita da altri esseri posti su un altro piano ? Quando rileggo l'insieme delle mie riflessioni credo di discernere un « punto debole » nel mio ragionamento. Non mi si rimprovererà di avere ammesso, come un . postulato di per sé evidente, che questa qualità fondamentale non potrebbe identificarsi con il mio corpo ? In realtà non posso identificare oggetto e condizione di oggett�va­ zione. Non siamo d'altronde al termine delle difficoltà : se il mio corpo non si identifica con questa qualità mediatrice, questo medium per­ ché si appare come se fosse piu di un oggetto fra altri oggetti? Perché ci sia mediazione simpatica, è necessario - almeno credo una mediazione strumentale. Quindi perché ci sia J:lledium, è neces­ sario che ci sia anche uno strumento conoscibile, cioè un corpo. In sostanza la specie di antinomia che è racchiusa in tutto ciò, è legata alla natura stessa della vita personale ; quindi se la media­ zione strumentale facesse ·difetto, noi saremmo nel puro dissimile, nell'inafferrabile. 25

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In fondo, non ritrovo forse l'immediato non mediatizzabile sul quale ho tanto insistito nelle mie ricerche prima della guerra ? Ma questo immediato sarebbe nello stesso tempo mediazione assoluta e non mediatizzabile se non soltanto per sé. Ciò, lo confesso, è molto oscuro. Sento sempre piu chiaramente che è impossibile pronunciarsi sulla natura di questa mediazione ; ed è necessariamente cosi, poiché non possiamo averne l'idea, propriamente parlando. Stamattina sento proprio che questa qualità TWn sentita o questo sentire fondàmenta­ le può non essere una costante assoluta ; può invece arricchirsi, ac­ crescersi nel corso dell'esperienza. Ciò è molto importante, ma difficile da approfondire. ( ...) ( . ..) La funzione della riflessione - sia che si eserciti sul sen­ tire . o sull'agire - consiste non nello spezzare, nello smembrare, ma nel ristabilire nella sua continuità il tessuto vivente che un'analisi imprudente aveva ·distrutto. Ci si rimprovererà senza dubbio di sostituire ad una soluzione, forse imperfetta ma chiara, l'enunciato incomprensibile di un proble­ ma. Ma qui dovremo procedere, come per l'esistenza, e chiederci se il pensiero non commetta un abuso dialettico ponendo un pro­ blema, quando non vi è e non può esservi niente di problematico. Ecco ciò che vogliamo dire : considerando il mio corpo sia nei suoi

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rapporti con gli altri corpi, sia nella sua propria struttura, io sono in presenza di qualcosa che è essenzialmente materia per un proble­ ma, e un oggetto possibile di conoscenza, anche in ragione di un distacco da me cui ho proceduto per isolare e definire questo insieme di termini. Per il fatto che il mio corpo si presta a questo tratta­ mento, esso si trasforma in oggetto.; ma in questo modo non posso piu considerarlo il mio corpo, gli levo questa priorità assoluta in virtu della quale il mio corpo si pone come il punto di riferi­ mento o il centro in rapporto al quale si ordina la mia esperienza, il mio universo. Diventa dunque materia per un problema soltanto in condizioni tali per cui lo stesso problema che si voleva porre, perde ogni significato. Ci si chiedeva in che modo il mio corpo è unito alla X di cui è il corpo ; soltanto per mezzo di una specie di simpatia mentale, identificandomi con la personaltà degli altri, io posso o credo di poterlo porre in termini universali. Ha invero senso soltanto per me (un me che posso a volontà ridurre o dila­ tare). Ma questo problema non può essere posto senza contraddi­ zione se non per me - e per il mio corpo. Questo punto è particolarmente delicato e crediamo necessario insisterei. Riprendiamo la formula riferita, per metterne in evidenza il carattere contraddittorio : come il mio corpo è unito, quale rela­ zione l'unisce cioè alla X di cui è il corpo? Ma invero questo rap­ porto, che· è espresso dal genitivo di cui, è formalmente negato dalle parole il mio corpo. Dire il mio corpo, significa rifiutare di attri­ buirlo a questo o a quello. Ciò deve sembrare a prima vista oltrag­ giosamente paradossale : invece di dire il mio corpo, non posso chia­ mare me stesso, designare quello a cui questo corpo appartiene ( � ? Ma noi sosteniamo proprio che, per mezzo di questa operazione che logicamente si presenta come la sostituzione di un termine a un termine equivalente, io passo da un ordine dato ad un ordine irridu­ cibilmente diverso. Quando io penso il mio corpo ( e non quello di un'altra persona alla quale dò il mio nome), mi trovo in una certa situazione della quale è quasi impossibile rendere conto non appena gli sostituisco l'idea di una relazione fra dei termini ipo­ teticamente ·dissociati : operando questa sostituzione, mi pongo in ef­ fetti in condizioni rigorosamente incompatibili con lo stato iniziale che si trattava di spwgare. Ci proponiamo, per chiarire in modo piu completo il significato di questo paradosso, di illuminarne i contorni in modo da farne apparire meglio l'importanza. (2) È evidente che tutta questa discussione si basa anche sul qui e sull'ora ( ecceità spaziale e temporale) ; pensiamo che, analizzando le cose a rigore e metafisicnmente, non sia possibile sostituire a questi termini delle designazioni che li · media tizzino ( N.d.A.).

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Quando considero il mio corpo come un termine che è in rela­ zione con ciò di cui è il corpo, misconosco le condizioni necessa­ rie per definire un termine in generale : in effetti può far fun­ zione di termine per lo spirito soltanto ciò che può essere appreso grazie ad un atto di attenta discriminazione. Dunque è cosi anche per il mio corpo , soltanto se il mio pensiero, allontanandosi da esso, lo considera un oggetto fra gli altri oggetti ; ma, cosi facendo, agi­ sco come se dimenticassi che questo corpo è mio ; mi disincarno idealmente, per riprendere l'espressione che avevo usato pio sopra. Se invece reintegro il mio corpo, non mi sembrerà piu un termine possibile, un oggetto di discorso. Ma pensare il mio corpo è evi­ dentemente chiarire questo atto di ripresa di possesso, questa reincar­ nazione ; significa stabilire con cognizione di causa lo stato di indi­ visione infranto da una elementare riflessione. ( Giornale metafisica,

4.

tr.

it. di F. Spirito, Roma, Abete, 1966, pp. 132-136, 222-223).

SPERANZA E FEDELTÀ CREATRICE

( . . .) Colui che spera, se la sua speranza è reale e non si riduce a un platonico desiderio, appare a se stesso come implicato in un certo processo ; soltanto da questo punto di vista è possibile rendersi conto di ciò che vi è di specifico e, aggiungerò, di sopra-razionale, fors'anche di sopra-relazionale, nella speranza, che, per riprendere la terminologia cui tanto spesso sono ricorso, si presenta come mistero e non come problema. Si potrebbe fare osservare nello stesso senso che la speranza si lascia rappresentare molto difficilmente. In effetti cercando di rappresentarmela sono quasi fatalmente condotto a sna­ turarla, ad esempio a trattarla come presunzione. È cosi che si sarà portati a interpretare lo « sperare » come « illudersi di ». Ma, in realtà, se riusciamo a rievocare o, ciò che è lo stesso, ad. immaginare con grande forza ciò che significa sperare ( . . .) dovremo riconoscere che « io spero » non significa affatto « io sono nel segreto, nel con­ siglio di Dio, o degli d.èi, mentre tu sei un profano, ed è in quanto beneficio di questi lumi particolari che affermo.. . ». Una simile inter­ pretazione è certo la piO. infedele ; essa non tiene conto di ciò che vi è di umile, di timido, di casto nella speranza autentica. Il difficile com­ pito del filosofo consiste proprio nel reagire con forza contro questa interpretazione e nel comprendere al tempo stesso perché sia diffi­ cilmente evitabile. Come non comprendere che l'umiltà, il pud.ore o la castità ripugnano per loro essenza a lasciarsi ridurre, cioè a svelare il loro segreto al pensiero raziocinante ? Di qui l'insufficienza radicale, la grossolana inadeguatezza delle

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interpretazioni alle quali si ricorrerà molto spesso per spiegare ciò che ho chiamato il mistero della speranza. Facilmente si dirà, ad esem­ pio, ponendoci da un punto di vista naturalista : « la speranza del malato, o del prigioniero, o dell'esiliato non si riduce in fin dei conti a un rifiuto organico nell'accettare come definitiva una situazione intollerabile ? Questo rifiuto misura la vitalità che resta nel soggetto ; e non si constata che se costui è giunto a un certo grado ·di logo­ ramento e di esaurimento diventa incapace di alimentare la speranza che lo sosteneva ancora nelle fasi anteriori della sua prova ? ». Ma bisogna confessare che la nozione di vitalità alla quale si è ricorsi qui è per se stessa molto vaga. Ciò che è soprattutto caratte­ ristico è l'intenzione spregiatrice che presiede a questo ricorso : « Non ci si faccia illusioni : la speranza non è altra cosa che... ecc. ». Si tende cosi a contestarne il carattere specifico. Sarà comunque com­ pito della riflessione riconoscere a che cosa corrisponda questa preoc­ cupazione di disprezzo. ( . ) D'altra parte, sarà necessario notare che può esservi, senza alcun dubbio, uno stato di assopimento dell'anima che tende a paralizzare qualsiasi reazione ; è chiaro ad esempio che il freddo o la fame possono mettermi nell'impossibilità di concentrare la mia attenzione su un'idea o, a fortiori, di eserci­ tare la mia riflessione ; non sarebb� meno assurdo trarre da ciò con­ clusioni materialistiche circa la natura dell'attenzione o della rifles­ sione. Del resto, l'esperienza prova che la speranza è suscettibile di so­ pravvivere ad una rovina quasi totale dell'organismo ; dunque se è vita­ lità lo è sempre in un senso ben difficile da determinare e non coinci­ dente con quello che noi conferiamo a questa parola quando parlia­ mo di vitalità di un corpo in buona salute. Ad ogni modo, bisogna certo porre come principio che l'idea di una fisica della speranza è assurda e manifestamente contraddittoria : si potrebbe forse legitti­ mamente sostenere che la speranza coincide con il principio spirituale stesso. Né si creda di potercene rendere conto movendo da predi­ sposizioni psicologiche, che in realtà saranno sempre immaginate a poste_riori, per spiegare qualche cosa che resta in sé mistero. ( .. ) La speranza non dipende, si potrebbe dire, ·da una giurisdizione metafisica particolare, se non a condizione di trascendere il desiderio, ossia di non restare centrata sul soggetto stesso. Ancora una volta siamo cosi condotti a rilevare l'indissolubile connessione che lega spe­ ranza e carità. Piu l'amore è egoista, piu le affermazioni di carat­ tere profetico che esso ispira dovranno essere considerate soggette a cauzione, suscettibili di essere puntualmente smentite dall'esperienza ; al contrario, piu si rapporta alla vera carità, piu il senso di que­ ste affermazioni si indebolisce e tende a caricarsi di un'incondizio­ natezza che è il segno stesso della presenza. Questa presenza si incarna ..

.

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nel « noi », per il quale « Io spero in Te », ossia in una comunione .di cui proclamo l'indistruttibilità. Certo il pensiero critico come sem· pre viene immediatamente ad accusare di falso questa afferma­ zione ; contro di essa invoca la testimonianza dell'esperienza, delle innumerevoli distruzioni visibili di cui essa ci offre lo spettacolo. Ma questa testimonianza stessa può essere ricusata solo in nome di una assicurazione che, come abbiamo visto, non si fonda sull'esperienza costituita : l'assicurazione che tutto ciò non è vero se non di una ve­ rità passeggera, e che gli incessanti mutamenti cui il pessimismo cri­ tico fa gran caso non fanno presa sull'unica realtà autentica. Questa affermazione è appunto la speranza ricondotta al suo principio in­ telligibile ; ciò che la caratterizza è il movimento stesso con cui essa ricusa la testimonianza in nome della quale si pretendeva ricu­ sarla. Occorre aggiungere che la speranza, cosi concepita, trova a sua volta un 'simbolo e un punto ·d'appoggio in tutte le esperienze considerate con occhio nuovo, ossia non nel loro meccanismo filoso· fico o anche fisico, ma nell'eco infinita che risvegliano in coloro che sono chiamati a viverle direttamente o a provarne simpatetica­ mente il beneficio. ( ... ) Movendo da queste considerazioni ci avviciniamo infine alla .definizione che abbiamo rifiutato di ·dare all'inizio della nostra analisi : potremmo dire che la speranza è essenzialmente la disponb­ .bilità di un'anima molto intimamente impegnata in un'esperienza di comunione per compiere l'atto trascendente l'opposizione del volere .e del conoscere, attraverso il quale essa afferma la perennità vivente di cui questa esperienza offre nello stesso tempo il pegno e le pre­ nwsse. (Homo viator, Prolégomènes a une métaphysique de l'espérancc, Parigi, Aubier, 191'4,

pp. 47-49, 89-91).

( ..) Metafisicamente parlando, l'unica speranza autentica è .

quella diretta a ciò che non dipende da noi, quella il cui movente è l'umiltà, non l'orgoglio. Siamo cosi portati a considerare un altro aspetto del mistero fondamentalmente unico ·del quale tento qui di cogliere qualche aspetto. ll problema metafisica dell'orgoglio, dell'hybris, che i Greci hanno colto e che è stato uno dei temi essenziali della teologia cristiana, mi sembra sia rimasto quasi totalmente misconosciuto dai filosofi non teologi dei tempi moderni : era un dominio riservato ai moralisti. Ma, dal punto di vista in cui mi pongo, è invece una questione essen· :ziale, se non fors'anche la questione vitale. Basta considerare la defi­ nizione che Spinoza dà della superbia nell' Etica (III, def. XXVIII)

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per vedere a che punto il problema gli sia sfuggito : « L'orgoglio, egli dice, è una troppo buona opinione che l'amore proprio ci dà di noi stessi ». In realtà, questa è una definizione della vanità. L'or­ goglio consiste nel non trovare la propria forza che in se stessi ;. esso toglie a colui che lo prova una comunione con degli esseri e insieme tende a romperla, gioca come un principio di distruzione. Questa distruzione può, d'altronde, essere diretta dall'orgoglio· contro se stesso ; l'orgoglio non è affatto incompatibile con l'odio­ di sé, può condurre al suicidio ; è questo, mi sembra, ciò che Spinoza non ha colto. Al punto in cui siamo giunti rischia di presentarsi un'obiezione· considerevole e molto grave. In fondo - mi si dirà forse - ciò che sei portato a giustifi.. care ontologicamente non è una specie di quietismo morale che trova appagamento nell'accettazione passiva, nella rassegnazione, nella spe­ ranza inerte ? Ma che cosa diventa in tutto ciò l'uomo in quanto uomo, in quanto essere agente? L'azione stessa non si trova condan· nata in quanto implica una fìduca in sé che già si apparenta con l'orgoglio ? In fìn dei conti, l'azione stessa è dunque una degrada· zione ? Noterò che questa obiezione implica una serie di malintesi. Anzi. tutto l'idea di una speranza inerte è, a mio parere, contraddittoria. La speranza non è una specie di attesa intorpidita, è qualcosa che sottende o sorvola l'azione, ma che certamente si degrada o scom· pare quando l'azione stessa si estingue. La speranza mi appare come il prolungamento nell'ignoto di un'attività centrale, cioè radicata nell'essere. Da qui le sue affinità non con il desiderio, ma con la volontà. La volontà comporta anch'essa, in effetti, un rifiuto di cal· colare le possibilità, o almeno un arresto in questo calcolo. Non si potrebbe quindi definire la speranza come una volontà applican­ tesi a ciò che non dipende da essa ? Abbiamo la prova sperimentale di questa connessione nel fatto che nei santi piu militanti la speranza è giunta al suo piu alto grado ; ciò sarebbe inconcepibile se fosse un semplice stato velleitario dell'anima. Ciò che ha tutto falsato qui, come d'altronde nelle zone piu alte dell'etica, è una certa rappresentazione stoica della volontà concepita come un irrigidimento, mentre, al contrario, è slancio e creazione. Questa parola creazione ci ' si presenta qui per la prima volta,. tuttavia è la parola decisiva. Ove è creazione, non c'è né può esserci degradazione ; c, nella misura in cui la tecnica è o implica una crea·· zione, non è affatto una degradazione. La degradazione incomincia dal momento .in cui la creazione si imita, si ripiega, si ipnotizza, si

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contrae su se stessa. Possiamo qui intravedere la fonte ·di alcuni equi­ voci che denunciavo a proposito del raccoglimento. Grande è la tentazione di confondere due movimenti che le nostre metafore spaziali non ci permettono di opporre nettamente l'uno all'altro : questa contrazione, questo ripiegarsi su ·di sé, che sono inseparabili dall'orgoglio, che perfino lo simboleggiano, non si pos· sono confondere con il ritirarsi umile che è proprio del raccogli­ mento e tramite cui riprendo contatto con le mie basi ontologiche. Si può pensare che questo ripiegarsi, questo raccogliersi siano presupposti dalla stessa creazione estetica. La creazione estetica, come la ricerca scientifica, escludono in realtà l'atto per cui l'io si centra, si fissa su di sé, l'atto che ontologicamente è negazione pura. Può sembrare che. qui mi avvicini alla tesi bergsoniana al punto da coincidere con essa. Ma non credo sia realmente cosi. I termini di cui si è quasi sempre servito Bergson fanno pensare che per lui l'essenziale nella creazione è l'inventività, l'innovazione zampillante. Ma mi domando se, concentrando troppo esclusivamente la sua attenzione su questo aspetto della creazione, non si tenda a perdere di vista il suo significato ultimo, il suo ra·dicamento nell'essere. È qui che interverrebbe la nozione della fedeltà creatrice, nozione tanto piu difficile da racchiudere e soprattutto da precisare concettual­ mente, in quanto recupera un paradosso insondabile, è al centro stesso del mctaproblematico. È importante osservare che sembra difficile salvare la fedeltà in una metafisica bergsoniana, in quanto essa rischia sempre di es­ sere interpretata come una routine, come un'osservanza nel senso peggiorativo della parola, come una salvaguardia arbitrariamente man­ tenuta contro la potenza di rinnovamento che è lo spirito stesso. Sono portato a credere che in questa misconoscenza dei valori di fedeltà c'è qualcosa che vizia profondamente la nozione di reli­ gione statica cosi come appare nelle Deux Sources. Qui una medi­ tazione sulla fedeltà creatrice, di cui non posso che indicare qual­ che lineamento, consentirebbe una messa a punto indispensabile. In realtà, la fedeltà è il contrario di un conformismo inerte ; è la riconoscenza attiva di alcunché permanente, non formale come una legge bensi ontologico. In questo senso si riferisce sempre ad una presenza o ancora a qualcosa che può e deve essere mantenuto in noi e dinanzi a noi come presenza, ma che ipso facto può altret­ tanto bene e anche perfettamente essere misconosciuto, dimenticato, cancellato ; e vediamo qui riapparire quest'ombra del tradimento che, secondo me, avvolge tutto il nostro mondo umano come una nube sinistra. Si dirà che parliamo comunemente di fedeltà ad un principio ?

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Resta da sapere se non vi è in ciò una trasposizione illegittima di una fedeltà d'altro ordine. Un principio fino a quando si riduce ad un'affermazione astratta, non può nulla esigere da me, perché esso deve tutta la sua realtà all'atto con il quale io lo sanziono o lo proclamo. La fedeltà al principio in quanto principio è un'idolatria nel senso etimologico della parola : può essere per me un'obbliga­ zione sacra rinnegare un principio da cui la vita si è ritirata e al quale sento di non aderire piu ; continuando a conformarvi la mia condotta, è in fondo me stesso - me stesso in quanto presenza che io tradisco. La fedeltà è cosi poco un conformismo inerte che essa implica una lotta attiva e continua contro le forze che tendono in noi verso la dispersione interiore e anche verso la sclerosi dell'abitudine. Mi si dirà : è una specie di conservazione attiva, è il contrario di una creazione. Credo occorra qui penetrare molto piu oltre nella natura della fedeltà e della presenza. Se la presenza non fosse che un'idea in noi, con la caratteristica di essere soltanto se stessa, tutto ciò che potremmo sperare, infatti, sarebbe di mantenere in noi o dinanzi a noi questa idea, cosi come si conserva una fotografia in un cassetto o su u� camino. Ma è proprio di una presenza in quanto presenza di non essere circoscrit­ ta : ritroviamo qui ancora il meta problematico. La presenza è mi­ stero nella misura stessa in cui è presenza. La fedeltà è la presenza atti· vamente perpetuata, è il rinnovamento del beneficio della presenza della sua virtu, che consiste nell'essere un incitamento misterioso a creare. Anche qui la considerazione della creazione artistica potrebbe esserci di grande aiuto, in quanto se la creazione estetica è conce­ pibile può esserlo solo a partire da una certa presenza del mondo al· l'artista : presenza al cuore e all'intelligenza, presenza all'essere stesso. Dunque, se una fedeltà creatrice è possibile, è perché la fedeltà è ontologica nel suo principio, perché prolunga una presenza che corrisponde ad una certa presa dell'essere su di noi ; con ciò molti­ plica e approfondisce in modo quasi insondabile l'eco di questa pre· senza in seno alla nostra durata. (Position_ et approches concrètes du mystère ontologi q ue, Lovanio-Parigi, Nauwelaerls·

Vrin, 1949, pp. 73- 79).

IV.

l.

J. WAHL

SENTIMENTO DELL' ESSERE

La vita dello spirito consiste nel porre l'essere, nel distruggerlo, nel ricostruirlo di nuovo. Ma tutti i termini che nòi veniamo ad impiegare, non sono che simboli insufficienti di quella vita dello spirito che non può essere completamente tradotta in formule. Si dà uno scambio continuo tra il nostro spirito e ciò che sta al limite di esso, che ci attira e tuttavia non può mai essere da noi comple­ tamente attinto. In verità, non è attinto dalla nostra intelligenza, ma è tuttavia in certa guisa attinto per mezzo di una sorta d'intui­ zione per la quale alcuni fenomenologi possono parlare di un giu­ dizio pre-predicativo, anteriore al giudizio. Noi siamo nel mondo : ma ciascuna delle parole che compongono questa espressione è soltan­ to una pallida astrazione ; ciascuna di esse, infatti, acquista il va­ lore che ha, grazie al suo contatto con qualche cosa che non è affatto parola, che non può tradursi in parole. Opposizione e unione, distacco e compimento, scelta e dato : questo è l'essere. Il nostro spirito si trova in continua tensione tra l'essere assoluta­ mente trascendente e l'essere assolutamente immanente ; tale tensione costituisce la vita dello spirito stesso. Giungeremmo a dire che vi è un sentimento ·dell'essere, o piuttosto che ve ne sono due : un sentimento dell'essere in quanto separato da tutte le cose e un sentimento del­ l'essere in quanto unificatore di tutte le cose. L'essere può essere espresso, e tuttavia incompletamente, solo da antitesi. I sentimenti dei quali abbiamo detto possono essere provati, non possono essere espressi. Non si può costruire una filosofia sull'idea dell'essere, poiché, come ha visto Hegel, essa è un'idea vuota. Piuttosto, noi guardiamo all'essere come sentimento, come ciò che abbiamo chiamato non-idea. AI fine di studiare l'idea dell'essere in se stessa, vediamo subito i suoi rapporti con altre due i-dee : quella di apparenza, e quella di tempo. Interroghiamoci sulle relazioni tra l'essere e l'apparenza. In un

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senso, nessuna idea può essere opposta all'idea di essere. Infatti la stessa apparenza è, in un certo senso. Ciò non di meno, se si conosce l'essere, è proprio grazie all'opposizione con alcune cose delle quali si dice che non sono ( secondo l'espressione di Parmenide), che hanno meno essere ( secondo l'espressione di Platone), e che si chiamano apparenze ; per questo la prima parte del poema di Par­ menide verte sull'essere o la verità e la seconda sull'apparenza o il non-essere. L'essere è, dice Parmeni> di essere e di non essere, ma piuttosto tertium-quid di là dall'inter­ vallo ontico e dal vuoto meontico, nell'istante infinito, vuota pienez­ za o piena vacuità, si trova sospesa ... per un istante l'al ternativa di un niente di pensiero e di un pensiero restauratore del tutto ; sospesa ma non risolta, in quanto l'istante è proprio ciò che non dura... né poco né molto ! L'alternativa fa in modo che sia nella nascita sia nella morte si arrivi sempre troppo presto o troppo tardi Da una parte un giorno che è già avvenuto e senza mistero, un Esse d'intervallo e di estrema chiarezza, un si ormai pronunciato, totalmente affermato ; dall'altra la notte che è oscurità su oscurità e tenebre superlativa. Quando il pensiero si crede di là da se stesso, si trova ancora al di qua, proprio perché lo crede ; quando il pensiero

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si trova veramente aldilà, non esiste piii nessuno che possa saperlo. Come è possibile essere testimone della propria nihilizzazione, morire sopravvivendo ? Se si escludono le approssimazioni del pseudo-pen· siero e del dormiveglia, che confondono la filosofia prima con la fra­ seologia dei vagiti, non resta che una soluzione : nella tangenza finis­ sima dell'istante, cioè in un Nihil-instar qUll$i inesistente ( ma non assolutamente) o appena esistente (ma posto al limite dell'esistenza), l'intuizione si rende contemporanea di questo Adesso inattingibile e senza durata che è sempre piu tardi del Non-ancora e piu presto del Non-piu. ( . ) L'intuizione è una presa di coscienza che è assenza di coscienza, veglia incosciente, chiarore che dissolve le tenebre ; la coscienza, nel­ l'istante stesso in cui svanisce, si risveglia ; nell'istante in cui muore risuscita. L'istante è vita morente, una morte che coincide colla vita. ( ) ..

...

L'intuizione è coscienza simultaneamente perduta e ritrovata, - non ritrovata, allo stesso modo di un tesoro ben nascosto, dopo laboriose ricerche, ma come l'improvvisa gratuità ·della gioia nella disperazione di un rimorso sincero, ritrovata in quanto perduta ; e mentre la coincidenza del moribondo colla morte è una coincidenza fatalmente mortale, cioè aderente e irrevocabile, l'istante intuitivo è un quasi-niente su cui il pensiero si riflette : in questo modo se i morti recano con sé il proprio mistero, l'intuizione può comunicarci alcune parvenze del suo. L'intuizione coglie immediatamente il pen­ siero sul punto di inabissarsi nel vuoto : l'intuizione dunque è la fine « punta » dell'istante in istanza di nihilizzazione immediata ; morte infinitesimale e sospensione istantanea del pensiero, è un'intenzione negatrice che, senza restare di qua dal niente, non si spinge mai aldilà ; ora se non vi è nulla di pensabile nel niente in atto, tutto è pensabile nell'intenzione di questo niente. ( ) Infine nella culminazione critica, inattingibile e inenarrabile del Quasi-niente la coscienza può l'impossibile : essere nello stesso mo­ mento e contradditoriamente nihilizzata e spettatrice del proprio niente, apparire per un istante ciò che Dio è insondabilmente in modo eterno, causa sui e miracolo di causalità circolare. ( .. ) La creatura è separata dall'assoluto per mezzo della necessità seconda che s'interpone fra gli ornamenti dell'empiria terziaria con la sue apparizioni e le sue eclissi e la grande improvvisazione meta­ lo gica dell'Aldilà... Questa necessità implacabilmente coestensiva al nostro essere e coessenziale al nostro pensiero ci preclude l'intero cielo della sopraessenza, e ciò avviene senza alcun margine di possibilità ; come impossibilità del poter-essere-altrimenti, viene assi­ milato alla membrana impenetrabile della morte attraVt:"L'SO la quale ...

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i] passaggio può compiersi in una sola direzione. Noi possiamo co­ gliere, nell'essere quasi inesistente dell'istante, solo una coscienza essa pure quasi inesistente, cioè transdiscorsiva e intuitiva di questo asso­ lutamente-altro inesistente e inessenziale, sopraessenziale e due volte sopraesistente, da cui la solidificazione della finitezza ci esclude cosi accuratamente : questa conoscenza-folgorazione è la sola scienza po­ sitiva della sopraverità cui ci sia consentito tendere ; un sapere discorsivo e temporale della sopraverità è una contraddizione, e per­ tanto un sapere fondato sulla memoria e sulla continuazione del­ l'intervallo si condanna qui alla negatività. Infatti questo è il chia­ sma ironico, l'alternativa che costituisce il paradosso della filosofia prima : la suprema positività, essendo puramente posizionale, consente solamente una filosofia negativa ; e se questa è intravista nell'istan­ te, la sua rivelazione è assolutamente positiva, ma può determi­ narsi ancora come « filosofia » ? Al contrario, la filosofia positiva volgare, quella che afferma, attribuisce, si stende nella continuazio­ ne, attinge soltanto la negatività ·dell'essente : cosicché la positività non è mai data contemporaneamente nell'oggetto conosciuto e nel­ l'atto di conoscere, nell'atto come affermazione e nell'oggetto come posizione di esistenza ... , eccetto quando si tratta precisamente della miracolosa coincidenza delle due positività nella puntualità dell'in­ tuizione. Anche l'intuizione è niente ! Anche questa « scintilla » è istante e non essente ! Fuori da questo quasi-nihil evanescente, l'og­ getto è positivo quando la scienza è negativa ; e quando la scienza si crede positiva, l'oggetto è negativo. Infatti esistono due positività ben distinte e che si trovano in opposizione l'una all'altra : la posi­ tività ontica in opposizione alla negatività meontica, e la positività tetica in opposizione alla negatività ipotetica. ( ... ) ( . . .) La semi-gnosi del mistero quodditativo è insieme conoscenza dell'istante e conoscenza nell'istante... Definiamo l'istante come il minimo-essere intermediario fra l'essere descrivibile, narrabile o ana­ lizzabile e l'inattingibile niente. È piuttosto utrumque o piuttosto neu­ trum, quest'ibrido di essere e di niente, questo paradosso che ge­ nera pensieri « ibridi », questo non so che, infine, che è privo di volume di durata, che è quasi niente e che perciò non è un puro niente ? La stessa oscillazione dialettica ci rinvia dalla presenza all'as­ senza dell'io-non-so-che e ci impone l'eterna alternativa fra queste due impossibilità : l ' utr umq ue che viola il principio di contraddizione, il neutrum che smentisce il principio del terzo escluso ; infatti l'es­ sere e il non essere evidentemente si dividono tutto l'universo del reale e ·del possibile ; in quanto non si dà evidentemente nulla al di fuori di questi due emisferi della totalità... Fra Cariddi e Scilla esiste uno stretto canale in cui il navigante può bordeggiare : ma del-

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l'essere e del non essere bisogna necessariamente scegliere l'uno, ri­ nunciando contemporaneamente a cumulare l'uno e l'altro e a negare l'uno e l'altro ! l'istante trascende a questo riguardo (ma solo a que­ sto riguardo) la fatalità dell'opzione e della disgiunzione ; l'istante � l'assurdità compiuta e l'illogismo divenuto avvenimento reale ... Per­ ché l'istante appartiene a un « tutt'altro ordine » da quello dei prin­ cipi della ragione e dell'alternativa ! ( .. ) In una parola : l'intuizione irrazionale dell'istante è molto meno gnostica che drastica o tetica ; in realtà la semi-gnosi della tesi è essa stessa una tesi. Finché si tratta solamente di logos - linguaggio o ragione - una sola scienza può trattare seriamente di quell'as­ soluto che è privo di solidifìcazione pensahile, di materia relaziona­ hile e ·di determinazioni categoriali, perciò è una scienza negativa : un discorso affermativo devia quasi fatalmente dalla tesi verso gli epiteti periferici della tesi e dal quod verso la circostante struttura quidditativa dello stesso quod, in altri termini discorre necessaria­ mente d'altro e diventa, come nelle narrazioni platoniche, mito o allegoria. Al contrario una sola « gnosi » dice si all'a sopraipseità, e questa gnosi è non tanto affermativa quanto positiva, o meglio « po­ sizionale »: cioè non « afferma », per mezzo della copula, l'ineren­ za di un qualsiasi attributo a un soggetto qualunque, ma « pone » puramente e semplicemente il soggetto puro e semplice ; infatti si af­ ferma in relazione al soggetto di un sostantivo, e ciò secondo questo o quel « quatenus » , ma la cosa affermata è sempre l'aggettivo. Lo stesso soggetto in sé è a fortiori immediatamente, assolutamente posto, e posto in un avvenimento che non è un enunciato, ma un atto ; ora, l'atto per eccellenza è l'atto che pone un Piu, che edi­ fica qualcosa, sia che crei l'essere, sia che arricchisca l'esistenza ; s e gli epiteti e le ipotesi sono, a questo riguardo, l'affermativo che invoi ge in sé il negativo, la « tesi », che è positività non catafatica, ma miracolosamene tetica, è perciò stesso posizione pura : positio po­ nens, assoluta da ogni res posita. ( ... ) L'intuizione posizionale è op­ posta alla scienza relazionale, l'atto assoluto tetico e taumaturgico di porre senza avere nulla in comune con la messa in relazione : ma questa posizione a sua volta non è posizione della Posizione, è piut­ tosto posizione elittica indotta simpateticamente in noi dalla Posi­ zione delle posizioni. ( ) Questo è il mistero dell'iterazione creatrice, e creatrice in quanto ricreatrice ; il relativamente assoluto dell'ipseità è instar della sopra­ ipseità assolutamente assoluta, - in altri termini : l'uomo è il Dio dell'istante. Infatti la riposizione intuitiva è suhalterna, cioè itera­ tiva e seconda, solo in quanto è istantanea. L'intuizione, riproducendo il quod attraverso l'improvvisazione simpatica ( ciò che si chiama .

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comprendere), attua essa stessa nell'istante la posizione dell'istante : essa è dunque insieme intuizione dell'istante e intuizione nell'istante. L'intuizione è un istante che si confonde coll'istante nell'istante. Di là dall'impressionismo soggettivo come di qua dal realismo oggettivo, nel punto focale in cui si compie la tangenza dell'intuizione stessa con l'ipse stesso si compie pure la coincidenza del soggetto conoscente coll'oggetto conosciuto : io stesso ed egli stesso siamo divenuti un solo Autos, un solo nominativo perfettamente trasparente non appena è eliminata l'opacità sostanziale della terza persona. La dualità e la distanza gnoseologica vengono annullate, ma la nostra relatività tra­ scendentale non è perciò sormontata : è al contrario confermata dal carattere eccezionale, folgorante, istantaneo, dell'evasione intuitiva ; tale evasione si attua soltanto nell'essere quasi inesistente del quasi­ nulla e per definizione non potrebbe essere perennizzata né divenire scienza o regime stabile (E�tç), tale evasione è all'origine di certezze immediatamente dissolte : l'opacità della priorità si lascia penetra­ re soltanto per ricrearsi nella stessa misura e nello stesso istante ! Il chiarore non sarebbe piu chiarore se diventasse sole ... Non importa : questa luce non temporale, ma istantanea qual è il chiarore, questa luce non è puro niente, in quanto è, precisamente, « quasi » nien­ te, ed è la definizione stessa dell'immediatezza, che è insieme Meno e Piu, negazione e posizione di essere, negazione in quanto niente, posizione in quanto « quasi » ; in altri termini il quasi-niente, in quan­ to tale, è quasi qualcosa, simile ad una folgorazione che si considera non piu come luce che si spegne, ma come luce che s'accende. L'i­ stante, beninteso, non è che istante, ma « è » almeno istante, il suo essere consistette semplicemente in una scintillazione. L'intuizione dell'istante respinge dunque totalmente il contemplazionismo che am­ mette un'ontoscopia razionale dell'assoluto e il relativismo critico che ce ne separa irrimediabilmente ; fra le due cronicità, la gno­ stica e la gnoseologica, è sufficiente la possibilità della penetrazione istantanea, cioè la semi-gnosi, affinché la creatura colga, in mancan­ za di deificazione abituale, l'assimilazione folgorante dell'intuizione, l'assimilazione ( o!J.o(wcnç) la cui fine punta è l'identificazione (Evwcnç). Ora l'identità ricreatrice si rende possibile per una creatura proprio nell'immediatezza quasi inesistente, nell'istante quasi irreale. L' in­ tervallo, a causa della varietà dei suoi contenuti, è sempre distinto dal discorso che ne analizza i dettagli o ne narra la continuazione. Ma l'is'ante-oggetto, avvenimento o mutazione, è indistinguihile dal­ l'istante pensante, cioè dall'intuizione, in quanto dobbiamo ammet­ tere che un quasi-niente è indistinguihile da un altro quasi-niente ( . . . ) : al limite l'essere quasi nullo in cui non si dà alcunché da conoscere né da sapere, ma resta da comprendere, coincide col pen-

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siero mmnno o puntuale che lo comprende ; l'avvenimento miste· ro-oggetto non si distingue dall'intuizione che lo ricrea, a meno che tale riposizione intuitiva, mistero-soggetto, non sia essa stessa un mi­ stero di mutazione... In ogni caso, nell'istante diviniamo soltanto l'istante, e reciprocamente : diviniamo l'istante soltanto nell'istante, cioè in se stesso. Ciò significa riconoscere che l'essere-in viene pri· vato del proprio senso nel momento in cui si tratta di un niente di durata. « In » un niente di tempo come avremmo il tempo di com­ prendere altro dall'istante ? Come potrebbe avere luogo altro dall'in· travisione ? Reciprocamente questo quasi-zero di tempo è il solo mezzo per una creatura di comprendere l'ineffabile dell'io-non-so-che e l'impalpabile ·della sopraipseità. In realtà l'intuizione dell'istante non si attua « nell' » istante, ma « è » essa stessa un istante, un avvenimento mentale indotto in noi dall'avvenimento quodditativo che a sua vol­ ta coglie quest'ultimo come quasi-niente. L'assoluto, per una crea­ tura finita, è dunque l'istante intravisto istantaneamente. Da que­ sto momento dobbiamo negare che l'essere minimo è racchiuso in un minimo intervallo ; da questo momento esiste soltanto la subli.. me coincidenza, cioè la delicatissima tangenza di due finezze che co· stituis�ono un'unica finezza, una sopra-finezza : nell'istante in cui l'acumen sottilissimo dell'anima è sul punto di toccare (attingere piuttosto che tangere) l'acumen positionis, in cui l'affinamento pun­ tuale dell'intuizione ci confonde col culmine della positività tetica, in questo punto esiste soltanto un punto, cioè il punto dell'istante in istanza ; in questo punto acutissimo coincidono l'istante ·decisivo e la decisione istantanea, l'istante che pone e l'istante che ripone, il Dio che non è « absconditus » ma « fere » absconditus e l'intui­ zione che non è « nihil » ma « quasi » nihil. La « sublime coinciden­ .za » non consiste nell'identificarsi coll'altro al limite del pensiero, perché una simile coincidenza non ha, al contrario, nulla di su­ blime - ma consiste nel fondersi del se stesso nella · propria totalità con l'altro esso stesso nella sua totalità. Ora questa trasfusione esta­ tica è possibile soltanto per un istante e per un'ipseità divenuta essa stessa quasi-niente, cioè ritrovata al culmine o punta di se stessa e, attraverso questa puntualizzazione, resa capace di estrovertersi nell'altro. Nel monosillabismo del Quod, cioè nel Fiat radicale im­ mediatamente ricreato si sintetizza, per cosi dire, questa dramma­ tica folgorazione che è l'intuizione istantanea dell'istante. ( .. .) Nella coincidenza dell'istante si rivela un'evidenza assolutamente drastica : la coincidenza della riposizione creaturale colla posizione creatrice. Ora, una filosofia prima che filosofasse soltanto sulla ripo­ sizione, cioè su seconde edizioni, meriterebbe l'appellativo di « pri­ ma » ? Senza dubbio la libertà umana attua attraverso i suoi segreti

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il miracolo e la contraddizione dell'iniziativa seconda,... o dell'ile­

razione iniziale : ciò si esprime nel termine assurdo e un po' mo­ struoso di « ricreazione ». Tuttavia a rigore niente di ciò che è creazione può essere iterativo, nessuna iterazione può essere creatrice o iniziale. Fra cominciare e ricominciare non esiste soltanto una dif­ ferenza di numero ordinale, come fra il Prima e il Poi nella mede­ sima serie : ricominciare, in questo senso assolutista, non significa cominciare, ma continuare. Senza essere in senso stretto filosofia seconda, la filosofia che filosofa sul mistero della secondarietà prima o della primarietà seconda non è dunque piu filosofia numero Uno o protologia, ma deuterologia. Il principio relativo o principio secon­ do ad ogni istante rinnovato nelle decisioni del volere rinvia al prin­ cipio dei principi, ad una origo veramente radicale, ad una radice (pi!;cx.) ( . . . ) ad un'iniziativa assolutamente iniziale e prevenente la cui iniziativa prevenuta sarebbe non l'imitazione in senso mimetico, cioè il sigillo, ma la riproduzione in senso mimico, cioè la riposi­ zione passiva. (Philosophie première, Parigi, P.U.F., 1954, pp. 72, 74!,76, 99-100, 160, 164-168, 174).

3. AcATEGORICITÀ DEL CREARE Filosofare sulla creazione, filosofare sull'assoluto, si pone dun­ que come un 'unica e identica questione : infatti se l'assoluto è l'irre­ lativo « ahs relationihus », la creazione è ciò che opera « ahs prae­ existentia » nell'assenza di ogni pienezza e nel vuoto di ogni vree­ sistenza, nel mezzo aeriforme del niente allo stato puro. ( ... ) Si trova nell'essere ciò che possiamo pensare all'infinito. Ma il far es­ sere è impensabile. L'essere è l'ordine della messa-in-relazione : ma­ teria inestinguihile nella cui solidificazione l'intelletto ha presa tanto facilmente quanto il dente di un fanciullo in una tartina : è la tartina della scienza relazionale, questa scienza a cui sono promessi numerosi successi a condizione che resista al fascino sterile e paraliz­ zante del punto-zero : infatti la vuota meditazione del punto posizio­ nale lusinga inevitabilmente la mobile ragione relazionale. Ora, porre o far-essere non coincide con una relazione, in quanto significa à rigore creare il suo correlato per avere una relazione con esso ... Certamente si può dire pure che la relazione intellettiva precede gli intelligibili, che questi ultimi risultano, come i concetti, da una analisi retrospettiva, che il pensiero non li trova totalmente dati... Tuttavia il pensiero non crea i propri termini, anche se li rende significativi ; non Ii crea piu di quanto non crei le leggi eterne se­ condo cui pensa. La Posizione è una specie di pensiero divino che

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creerebbe effettivamente, insieme con le verità necessarie, il primo Altro ; che farebbe essere, anteriormente al primo Altro, il suo pro­ prio essere in quanto posizione ; la Posizione innalza se stessa sopra il niente ! A che cosa potrebbe riferirsi l'iniziativa non relativa, ma purissima e assoluta, l'iniziativa che è senza « quatenus » e per sua definizione ( se questi termini conservano un senso) radicalmente prima e « solitaria »? La decisione tetica e poietica non. è un rap­ porto fondato su due o molteplici preesistenze come un viadotto sui suoi pilastri e che, grazie a questa dualità o pluralità, supera il vuo­ to, relaziona i correlati, percorre le vie del ragionamento e -della mediazione : no, la poiesi è piuttosto, come l'ispirazione del genio, e:fferenza traboccante e spontaneità inaugurale ; in questa iniziativa poietica e veramente fondatrice tutto è posto in una sola volta, compresi i punti di appoggio e le prese che permetteranno ulterior­ mente · all'imitazione prosaica di continuare il principio e di relazio­ nare gli elementi del già-posto in combinazioni innumerevoli. Il crea­ tore non scopre una preesistenza latente, ma inventa una nuova esistenza per poi scoprirla, - pili precisamente : la crea per poi inven­ tarla ; o meglio, crea, inventa, scopre in un unico atto di geniale e incomprensibile posizione che s'accresce continuamente. Lo slancio drastico risolve dunque per ciò stesso il mistero del correlato · creato e perciò autonomo, recidendo il nodo gordiano e trasformando il circolo vizioso nella circolarità della causa sui. L' intuizione costi­ tuirà la riposizione ·di questa posizione, la poesia seconda ! Dunque il Fare puro e semplice è l'espressione del tutto : l'aporia miracolosa­ mente dissolta, la risposta all'interno della questione stessa... ( .. .) Soltanto l'intuizione, relazione senza alterità correlativa, compie lo sforzo acrobatico di realizzare nel suo stesso mistero la contrad­ dizione di un pensiero assoluto, cioè di un pensiero non pensante. Nello spazio : si pensa solamente in relazione a qualcosa di ante­ riore. Dunque il principio assoluto, che non tollera nulla di anteriore a cui non sia egli stesso anteriore, non può essere pensato. Il prin­ cipio può soltanto essere posto. Si può pensare l'inizio di un inter­ vallo relativo che è, come la nascita, la fine di un intervallo prece­ dente : ma del principio di tutti i principi, del principio unico, impreparato, non preceduto si può cogliere solo nell'intuizione. Allo stesso modo la creazione non è uno sviluppo, in quanto non è passaggio graduato e continuo dal meno al piu attraverso i gradi successivi di un comparativo scalare, ma mutazione dal nulla al qual­ cosa o ( che è lo stesso) dal niente al tutto : infatti, in quanto la distanza fra il nulla e il qualcosa è una distanza infinita, il muta­ mento che conduce dall'uno all'altro è non tanto un passaggio quan­ to un prodigio, una metamorfosi assoluta, un'improvvisa disgrega-

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zione. Quasi tutte le questioni categoriali che si potrebbero porre at­ torno a questo soggetto e gli stessi enunciati che risponderebbero a tali questioni si trovano cosi negati a priori. Piti rigorosamente la creazione spiega ogni questione creando : tale risposta « in circolo » non è una vuota ripetizione, ma è piuttosto la necessaria tautolo­ gia a cui ci condanna la causa-di-sé : in questo caso la sola risposta è fare, risposta non speculativa, ma drastica. La creazione sotto que­ sto aspetto può essere assimilata al movimento la cui possibilità si prova, di fatto e attraverso il fatto, soltanto nello stesso movimento. - La sola categoria che la creazione non escluderebbe interamente è forse quella della qualità, nella misura in cui ogni alterazione, ogni continuazione di eterogeneità implicano una forma di grazia taumaturgica ; pertanto la taumaturgia creatrice non è, come la trasformazione, passaggio da una forma ad un'altra, nemmeno, come la trasfigl:ll"azione, passaggio dalla figura caotica (che è ancora una forma) alla figura cosmica, ma piuttosto nascita dell'essere total­ mente qualificato - forma e materia - dal niente ( . ..). L'uomo è letteralmente Dio ; Dio immerso nella narrazione, Dio di un milionesimo di secondo. Il creatore secondo, alter conditor, riuscirà a prolungare la creazione divina di là dal settimo giorno? Ahimé ! la stessa eccezionalità del genio e dell'eroe che è trascendenza istantanea, colpo di genio o tratto d'eroismo, lascia presumere di no. In termini leibniziani l'ipseità è una divinità diminutiva, a1lo stesso modo che la monade è una miniatura del macrocosmo. La creatura-creatrice, creata e creante al tempo stesso, incarna insom­ ma il mistero antilogico dell'Assoluto relativo o dell'Assoluto-in-qua­ lità-di, infatti questo « Dio unilaterale », in quanto esiste nell'empi­ ria fisica, ammette paradossalmente dei « quatenus ». Si chiarisce ora la ragione per cui il mistero della finitezza infinita e il mistero dell'Assoluto plurale coincidono in un unico mistero : le ipseità sono irriducibilmente molteplici e tale molteplicità o sporadismo di per­ sone ·determina, insieme colla necessità del sacrificio, una lotta che senza duhbio è la forma empirica del Male. Alla tragedia della crea­ zione rinnegata risponde cosi, in una dimensione in qualche modo perpendicolare, il contrasto delle pretese uguali e contraddittorie e­ spresse da questi assoluti, da questi universi che sono rispettivamente io per sé e hapax in relazione a sé ; la · misteriologia del Noi sicu­ ramente non è la soluzione di un conflitto metafisicamente insolu­ bile ; non pacifica la lotta, non connette ciò che è sconnesso : la mi­ steriologia del Noi è piuttosto il compimento paradossale e continua­ mente compromesso di un miracolo il cui nome è Amore e la cui opera è perennemente incompiuta. (Philosophie première, Parigi, P.U.F., 1954, pp. 201-203, 239).

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4. INNOCENZA E COSCIENZA L'innocenza può essere assimilata ad un cristallo : nessuna om­ bra può sfiorarlo, nulla di implicito o di inespresso può alterarne la composizione. L'innocenza s'identifica con un animo integro. In­ tegrità qui risulta sinonimo di Semplicità. La semplicità costituisce il limite dell'unità di composizione : possiamo parlare di semplicità quando la composizione è diventata cosi elementare da cancellare ogni traccia ·di pluralità. In tal senso l'uomo puro è esclùsivamente se stesso e totalmente se stesso. ( . ) L'elemento allogeno che fonda la nostra duplicità o triplicità di mentitori è letteralmente un alter ego, E'tEpoç oc1h6ç. Dimostriamo come la semplicità intrinseca è le­ gata alla trasparenza e alla penetrante lucidità, la complicazione interiore all'opacitli impenetrabile e all'isolamento. L'innocente è per gli altri ciò che è per se stesso e ciò che gli altri sono per lui : non solo è semplice in sé, ma è egli stesso trasparente per gli altri ; non solo si rende trasparente per gli altri, ma anche gli altri si rendono trasparenti per lui ; gli altri sono per lui ciò che egli è per gli altri : vede attraverso l'opacità d'una visione radioscopica e penetra il futuro d'una visione profetica ; è insieme penetrabile e p enetrante ; è assolutamente sincero con se stesso, sincero con gli altri e inoltr� chiaroveggente. Al contrario, ia coscienza complicata,. - coscienza di sé, coscienza ansiosa, coscienza menzognera, coscienza vanitosa, coscienza egoista - riflette gli altri in quanto la sua op­ primente presenza opaca ed impenetrabile rinvia gli altri a se stessi ; gli altri a loro volta rappresentano per lei una superficie riflettente,. quasi uno specchio, in quanto negli altri ritrova soltanto se stessa ; la coscienza si trova perciò isolata, alienata, scissa dal mondo. In­ nanzi tutto insistiamo sul rapporto della complicazione con l'impe­ netrabilità. L'io si volge o si ripiega su se stesso rendendosi in tal modo opaco. L'io nell'io non equivale infatti a diafano su diafano : l'io-oggetto crea nella massa dell'io-soggetto la vana menzogna che altera la n ostra innocenza originaria e intercetta il raggio della verità. Il progetto del mentitore e di ogni criptologia è precisa­ mente quello di dissimularsi sotto un velo oscuro per non essere visto. In opposizione ad una cattiva fede impura e complessa, la Sincerità designa precisamente la pura lega e il sereno oriente di una coscien­ za senza impurità, né storture. La funzione dell'innocente, come quella dell'invisibile trasparenza, è quella di consentire la visione del mondo esteriore senza essere visto. La coscienza di sé invece è come una respirazione che opacizza la trasparenza del cristallo deponen­ dovi sopra la densità del proprio alito ; rende impuro il purissimo cristallo. Non guardiamo piu il mondo attraverso la lente della co..

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scienza ansiosa che impedisce invece ·di consentire il passaggio della luce. Quanto alla coscienza vanitosa, ambisce troppo ad essere vista per lasciar vedere, di là da essa, un mondo che potrebb e farle con­ correnza. ( .. .) L'innocenza è uno stato instabile che non può essere duraturo ; c ome ogni superlativo ( rammentiamo che è un èh. L' idealismo, in modo del tutto inaspettato per se stesso, da giu­ dice impeccabile si trasforma in giudicando. Dostoevskij ha onta

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di ricordare che una volta fu anche egli idealista. Egli vorrebbe rinnovare il proprio passato e nell'impossibilità di ingannare se stesso, si sforza di rappresentarsi la vita passata sotto un'altra luce, inventa delle circostanze che attenuino la colpa. ( ... ) ( .. .) Alla fin fine la polemica dell'idealismo col positivismo, e perfino col materialismo, è solo una disputa a parole. Per quanto le parti contendenti si mordano causticamente l'un l'altra, per un osservatore estraneo è chiaro che nella sostanza esse sono d'accordo fra loro e che qui si ripeie soltanto la vecchia storia : i parenti non riconoscono i parenti ! Per quanto riguarda Nietzsche, soltanto le sue prime opere possono essere enumerate tra quelle di uno degli indirizzi filosofici esistenti. Cominciando infatti ·da Umano, troppo umano, cioè dal momento in cui guardò il mondo coi propri occhi, egli si allontanò subito e moltissimo da qualsiasi sistema. Al positivismo e al materialismo chiese le armi per combattere con l'idealismo e, viceversa, poiché egli non desiderava niente cosi sinceramente e profondamente quanto la fine di tutte le concezioni del mondo inventate dagli uomini. Quella « stabilità » che era· considerata come il pio alto ed ultimo scopo delle costruzioni filosofiche e alla quale pretendevano aperta· mente tutti i fondatori ·di scuole, non soltanto non lo attirava, ma lo spaventava. Per Kant, per i materialisti, per Mill essa era neces­ saria, perché garantiva loro l'immutabilità di quella posizione nella vita che essi avevan cara. Ma Nietzsche prima di tutto mirava a mutare la sua posizione : che cosa poteva promettergli la stabilità ? Savoir pour prévoir o la regolare normalità con la quale tanto ci lusingava il positivismo, suonava per lui come uno scherno offen· sivo. Che cosa poteva egli prevedere? Che il passato non ritorna ? Che egli non sarebbe mai guarito e alla fin fine sarebbe diventato pazzo? Questo egli lo sapeva senza il positivismo e senza la scienza. E l'idealismo kantiano con la mo· ralità dell'imperativo categorico che l'incorona, diceva forse qual­ cosa di diverso ? A Nietzsche era e rimase intima solo la lingua dello scetticismo e non di quello scetticismo da salotto o studio che mette capo a motti di spirito o a costruzione di teorie, ma di quello scetticismo che penetra tutta l'anima ·dell'uomo e lo fa uscire dai binari della vita quotidiana. « La vita scomparve ai miei occhi, le onde dell'infinito si impadronirono di me », dice Zarathustra. Che cosa possono far qui il positivismo o l'idealismo, che hanno la sola preoccupazione di convincer l'uomo che la riva è vicina, di nascon· dergli l'infinito e di trattenerlo nel campo limitato dei fenomeni che sono per tutti gli uomini eguali, abituali, comprensibili, riducibili ad una determinazione precisa ? A Mill la necessità ·di riconoscere

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la possibilità dell'azione senza causa perfino per un pianeta lontano diede una grande amarezza. Lange, seguendo Kant, accettò l'aprio­ rismo, pur di non vedersi costretto ad ammettere l'arbitrio nella .na­ , tura. Ma tutte queste loro preoccupazioni furono estranee a Nietzsche ; le loro paure erano, al contrario, le sue speranze. La sua vita signi­ ficava, poteva significare ancora qualche cosa nel caso in cui tutte le costruzioni scientifiche fossero soltanto una volontaria autolimita­ zione dell'intelletto umano pauroso. Il compito della sua vita consi­ steva appunto nell'uscire dai limiti di quei campi in cui l'avevano cacciato le tra·dizioni della scienza e della morale. Da ciò il suo odio per la scienza, che si espresse nella lotta coi sistemi filosofici e la ripugnanza per la morale che dava la formula « al di là del bene e del male ». Per Nietzsche esisteva un solo interrogativo : rie del sottosuolo ! Quanti tormenti, quante sofferenze si sentono sotto quei discorsi disperati, con i quali egli si rivolge a Liza. Anche Faust, del resto, sopportò parecchio prima di invocare il diavolo. In una parola, tutti questi uomini « non comuni », insorti contro i ceppi dell'obbligatorietà delle leggi della natura e della morale umana, non insorgevano di propria volontà : come i servi della gleba, in­ vecchiati al servizio dei padroni, venivano obbligati con la forza alla libertà. Non si trattava di una « rivolta degli schiavi nella morale », come insegna Nietzsche, ma qualcos'altro per cui nella lingua umana non c'è parola. Il « carattere », cioè, qui non c'entra per nulla e se esistono due morali non sono la morale degli uomini comuni e quella degli uo­ mini non comuni, la TTU>rale della quotidianità e la morale della tra-

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gedia - occorre introdurre questa correzione nella terminologia di Dostoevskij e Nietzsche. (La filosofia della tragedia, 89-90, 94-95, 182-184, 203-205).

tr.

it. di E. Lo Gatto, Napoli, E.S.I., 1950, pp. 15-19,

2. LA CADUTA E IL SAPERE

( . ..) Il problema della caduta costituisce il centro della proble­ matica filosofica di Nietzsche che, secondo l'opinione generalmente ammessa, era tanto lontano dalla Bibbia. Il suo tema fondamentale, essenziale, è Socrate, nel quale egli vedeva un decadente, oppure anche l'uomo decaduto per eccellenza. In ciò su cui la storia e in particolare la filosofia della storia ponevano l'accento sempre e ci insegnavano a considerare come il titolo piu importante di Socrate, la sua fiducia illimitata nella ragione e nel sapere che essa fornisce, proprio in ciò, Nietzsche vedeva la sua caduta. Quando si leggono le considerazioni di Nietzsche su Socrate senza volerlo si evoca costantemente il racconto biblico : il frutto proibito e le parole del tentatore - eritis scientes. Kierkegaard ci parla di Socrate ancora piu insistentemente che Nietzsche ; e ciò che vi è di piu scioccante è che per Kierkegaard Socrate è l'avvenimento piu notevole che si sia verificato nella storia dell'umanità prima che apparisse sul­ l'orizzonte dell'Europa questo libro misterioso che viene chiamato « il libro », cioè la Bibbia. Fin dai tempi piu remoti il peccato originale ha sempre ango­ sciato il pensiero umano. Gli uomini si rendevano conto che le cose non andavano molto bene nel mondo, anzi, che andavano molto male ; « vi è qualcosa di marcio nel regno di Danimarca », per dirla con Shakespeare. Si facevano sforzi enormi al fine di comprendere in che cosa ciò consisteva. Ora, bisogna dirlo subito : alla questione cosi posta la filosofia greca, come quella degli altri popoli, compresi i popoli dell'estremo oriente, dava una risposta completamente op­ posta a quella che noi leggiamo nel Genesi. In un frammento giunto sino ai nostri giorni, Anassimandro, uno dei primi filosofi della Gre­ cia, parla cosi : « Precisamente di là donde viene la nascita degli enti particolare, deriva necessariamente la loro caduta. La puni­ zione li colpisce a tempo fisso ed essi ricevono l'uno dall'altro la loro retribuzione per la loro empietà ». Questo pensiero ·di Anassi­ mandro attraversa tutto lo sviluppo della filosofia greca. L'apparire delle cose particolari, e principalmente degli esseri viventi, è con­ siderato come un'empia audacia, da cui la loro morte, la loro di­ struzione e la giusta retribuzione. L' idea della « nascita » e della

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distruzione » è il punto di partenza della filosofia greca (e questa . stessa idea, lo ripeto, s'imponeva inevitabilmente ai fondatori delle religioni c delle filosofie dell'estremo oriente). In tutti i tempi e presso tutti i popoli il pensiero naturale dell'uomo si arrestava, senza forza, come ammaliato davanti alla fatale necessità d'avere intro­ dotto nel mondo la terribile legge della morte legata ineluttabilmcnte alla nascita dell'uomo, della distruzione che raggiunge tutto ciò che è apparso e che apparirà. Il pensiero scopre nello stesso essere del­ l'uomo qualcosa che non doveva esistere, un vizio, una malattia, un peccato e, in conformità a ciò, la saggezza esigeva che questo pec­ cato fosse colpito alla radice, in altre parole esigeva la rinunzia al­ l'essere individuale che avendo un inizio è condannato ad avere ir­ revocabilmente una fine. La catarsi greca, la purificazione, ·derivano da questa convinzione, che i dati immediati della coscienza, i quali testimoniano della distruzione di tutto ciò che nasce, ci scoprono la verità anteriore al mondo, eterna, immutabile, mai oltrepassabilc. Il vero essere, l'essere reale, non si deve cercarlo fra noi e per noi, ma cercarlo là dove finisce il potere della legge della nascita e della morte, là dove non vi è piu nascita e dove, di conseguenza, non vi è piu morte. La legge della -distruzione ineluttabile di tutto ciò che è nato e che è stato creato, questa legge che ha scoperto la visione intellettuale, ci appare come appartenente allo stesso essere : la filo­ sofia greca come la saggezza greca ne erano fermamente convinte ; nonostante il fatto che migliaia di anni ci separino dai greci e dagli indi, noi non siamo ancora riusciti a liberarci dal potere di questa verità evidente come coloro che furono i primi a scoprirla e a mostrarcela. Solo il libro dei libri ci presenta, sotto questo rapporto, un'ec­ cezione enigmatica. Ciò che vi è detto è in diretta opposizione a ciò che gli uomini hanno scoperto per mezzo della loro ricerca intellettuale. Tutto fu creato dal Creatore, si legge all'inizio del Genesi ; tutto ha un cominciamento. Ma non ne deriva affatto un mancamento, un vizio, un peccato nell'essere ; al contrario, è proprio questo fatto che condiziona tutto ciò che può esserci di buono nell'universo. In altre parole, l'atto creatore ·di Dio è la sorgente, la sorgente unica, che massimamente è, di tutto il bene. La sera di ogni giorno della crea­ zione, Dio, avendo contemplato la sua opera, disse : valde bonum ; l'ultimo giorno, Dio, avendo considerato tutto ciò che aveva fatto, vide che tutto era buono. E il mondo, e gli uomini (che Dio aveva benedetto) creati da Dio, e proprio perché egli li aveva creati, erano perfetti, non avevano nessun difetto ; il male non esisteva nell'uni­ verso creato da Dio, e il peccato dal quale è scaturito il male non «

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esisteva nemmeno. Il peccato e il male son venuti dopo. Donde sono venuti? A questa ·domanda anche la Scrittura fornisce una risposta definitiva. Dio tra gli altri alberi aveva piantato nell'Eden l'albero della vita e l'albero della scienza del bene e del male. Egli disse al primo uomo : (< Voi potete mangiare i frutti di tutti gli alberi, ma non toccate i frutti dell'albero della scienza, perché il giorno in cui ne gusterete, morrete ». Ma il tentatore (nella Bibbia chia­ mato il serpente, il piu astuto degli animali creati da Dio) disse a Eva : « No, voi non morrete, i vostri occhi si apriranno, e voi sarete come dei, che conoscono il bene e il male ». L'uomo si lasciò ten­ tare, gustò il frutto proibito, i suoi occhi si aprirono e divenne sa­ piente. Che cosa gli apparve ? Che cosa apprese? Gli apparve ciò che era apparso ai filosofi greci e ai saggi indi : il valde bonum di­ vino -è ingiustificato ; nel mondo creato non tutto è buono. Nel mondo creato e precisli!mente perché è stato creato, è impossibile che non vi sia del male, molto male, un male insopportabile come ne testi­ monia con indiscutibile evidenza tutto ciò che ci circonda - i dati immediati della coscienza. Colui che guarda il mondo « gli occhi aperti », colui che « sa » non può giudicare altrimenti. A partire dal momento in cui gli uomini sono divenuti scientes, cioè con il sapere, il peccato si è introdotto nel mondo, il peccato e il male. Cosi dice la Bibbia. La questione si pone a noi, uomini del ventesimo secolo, come si poneva agli antichi : donde viene il peccato, ·donde vengono i tormenti e gli orrori dell'esistenza legati al peccato? Esiste un vizio nello stesso essere che, in quanto creato, benché da Dio, in quanto avente un cominciamento, deve ess �re inevitabilmente macchiato d'imperfezione, in forza di una legge eterna non sottoposta a nulla e a nessuno, imperfezione che lo condanna in anticipo alla distru­ zione, oppure il peccato, il male, consistono nel « sapere » , negli « occhi aperti » e provengono cosi dal frutto proibito ? Uno dei filosofi piu importanti dell'ultimo secolo, che aveva as­ similato (e in ciò giustamente sta la sua importanza e il suo signi­ ficato) tutto il pensiero europeo dall'inizio, da venti secoli or sono, Hegel, afferma senza alcuna esitazione : il serpente non ha ingan­ nato l'uomo, i frutti dell'albero della scienza sono divenuti la sor­ gente ·della filosofia in tutti i tempi. E bisogna ammetterlo : dal punto di vista storico Hegel ha ragione. I frutti dell'albero della scienza in effetti sono divenuti la fonte della filosofia, la sorgente del pen­ siero in tutti i tempi. I filosofi, non solamente i pagani, totalmente estranei alla Scrittura, ma gli ebrei e i cristiani, che consideravano la Bibbia come un libro ispirato, erano scientes, e non volevano rinunciare ai frutti dell'albero proibito. Per Clemente d'Alessandria

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(terzo secolo dopo Cristo) la filosofia greca è il « secondo Antico Testamento » ; e dichiara che se si potesse separare il sapere dalla salvezza eterna e se gli si desse a scegliere fra i due, egli sceglierebbe il sapere e non la salvezza eterna. La filosofia medioevale ha seguito la stessa via ; gli stessi mistici a questo riguardo non fanno eccezione. Lo sconosciuto autore ·della celebre Theologia deutsch afferma che Adamo avrebbe potuto mangiare venti mele e non ne sarebbe deri· vato alcun male : il peccato non è venuto dai frutti dell'albero della scienza ; niente di male può venire dal sapere. A che cosa si aggrappa la sicurezza dell'autore della Theologia deutsch, donde gli viene que­ sta convinzione che il male non può derivare dal sapere ? Egli non si pone questa domanda : e nemmeno lo sfiora il pensiero che si può cercare e trovare la verità nella Scrittura. Bisogna cercare la verità solo nella propria ragione ed è vero solo ciò che la ragione ammette come vero. Il serpente non ha ingannato l�uomo. ( ... ) La filosofia dello spirito di Hegel disprezza la Scrittura e se ne burla ; essa accetta dalla Bibbia solo ciò che può « giustificarsi » da­ vanti alla coscienza nazionale. Hegel non sa che farsene della ve· rità « rivelata » ; piu esattamente, egli non l'accetta o, se si vuole, considera come verità rivelata ciò che il suo spirito gli rivela. Certi teologi non hanno avuto bisogno di Hegel per rendersi conto della cosa al fine di liberarsi dal tormentoso enigma della rivelazione bi­ blica, dichiararono che tutte le verità erano rivelate. La verità in greco si chiama liÀ:i)i}wx ; facendo derivare questo termine ·dal verbo aÀa.vMvw ( discoprire), questi teologi si liberano dell'obbligo tanto oneroso per l'uomo colto di riconoscere la situazione privilegiata delle verità della Scrittura : ogni verità, proprio perché è una ve· rità, svela qualcosa che prima era velato. Da questo punto di vista la verità biblica non costituisce un'eccezione, né si giova di alcun vantaggio rispetto alle altre verità. Essa è accettabile da noi solo allorquando può e in quanto può giustificarsi davanti alla nostra ragione, essere percepita dai nostri « occhi aperti ». ( . .. ) Per Hegel, la rottura del legame naturale dei fenomeni, rottura in cui si manifesta il potere del Creatore del mondo, e la sua on· nipotenza, era la cosa pili intollerabile, la pili terribile : si trattava per lui ·di una « violazione dello spirito ». Egli si burla dei racconti della Bibbia : appartengono tutti alla « storia » , essi non ci parlano che del « finito », di questo finito che l'uomo che vuole vivere nello spirito e nella verità deve respingere lontano da sé. Questo è ciò che Hegel chiamava « conciliare » la religione e la ragione ; cosi la religione si trova ad essere giustificata dalla filosofia la quale per­ cepisce attraverso la diversità delle molteplici concezioni religiose la « verità necessaria » e scopre in questa verità necessaria « l'idea

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eterna ». Senza dubbio, la ragione ottiene cosi piena soddisfazione. Ma che cosa resta della religione che si giustifica in questo modo davanti aUa ragione ? Cosi, è fuor di dubbio che avendo ridotto il contenuto della « religione assoluta » all'unità della natura divina � della natura umana, Hegel e tutti coloro che lo seguivano diveni­ vano scientes, come il tentatore aveva promesso ad Adamo, cioè essi scoprivano nel Creatore una natura identica a quella percepita nel proprio essere. ( ...) Ma essendosi scontrato con questa realtà che Hegel in nome degli interessi dello spirito voleva respingere lontano da sé, Kierkegaard, che intanto si era nutrito di Hegel e lo venerava nella sua giovinezza, Kierkegaard senti subito che la filosofia ·del suo maestro celava una fatale menzogna, un traflimcnto, una tentazione pericolosa ; vi rico­ nobbe l'eritis scientes del serpente biblico : un appello per cambiare la fede in un Creatore vivente e libero, la fede che non ha paura di niente, di fronte alla sottomissione alle verità immutabili, che di­ spongono di un potere assoluto su tutto ma che sono indifferenti a tutto. Abbandonando il glorioso filosofo, il grande sapiente, Kierke­ gaard si volse, anzi si precipitò verso il suo unico salvatore, verso un « pensatore privato », verso il Giobbe della Bibbia. E da Giobbe egli passò ad Abramo, non ad Aristotele, il maestro di coloro che sanno, ma a colui che la Scrittura chiama il padre della fede. Per Abramo egli abbandonò lo stesso Socrate. Anche Socrate « sapeva ». In forza del « conosciti, conosci te stesso » il dio pagano gli aveva rivelato la verità dell'unità delle nature divina e umana prima che la Bibbia fosse giunta in Europa. Socrate sapeva che per Dio, come per l'uomo, tutto non è possibile e che il possibile e l'impossibile sono determinati non da Dio ma dalle leggi eterne alle quali Dio è sottomesso come l'uomo. Per questo, Dio non ha potere sulla storia, cioè sulla realtà. ( .. .) « Nulla sarà impossibile per voi se avrete tanta fede quanto un grano di senape ». Ma la· filosofia dello spirito non intende queste parole, né le vuole intendere. Esse la indignano : il miracolo, ricordiamolo, è una violazione dello spirito. Ma la fonte del « miracoloso » è la fede, una fede che ha l'audacia di non ten· tare di giustificarsi di fronte alla ragione, che non cerca giustifica­ zioni in niente, che chiama davanti al suo tribunale tutto ciò che esiste nel mondo. La fede è al di sopra del sapere, oltre il sapere. Quando Abramo andava verso la terra promessa, dice l'apostolo, camminava senza sapere lui stesso dove andava. Non aveva bisogno di sa perlo, aveva la promessa : là dove arriverà - e perch� vi arri­ verà - quella sarà la terra promessa. Una simile fede è inesistente per la filosofia dello spirito. Per la filosofia dello spirito la fede è solo un sapere imperfetto, un sapere a credito, e potrà essere vera

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soltanto quando otterrà il riconoscimento della ragione. Nessuno ha il diritto di discutere e la forza di lottare con la ragione e le ve­ rità razionali. Le verità razionali sono verità eterne : bisogna accet­ tarle senza riserve e !asciarsene investire. La formula hegeliana « tutto ciò che è reale è razionale », è la libera traduzione -della formula spinoziana non ridere, non lugere neque detestari, sed intelligere. Davanti alle verità eterne il Creatore s'inchina allo stesso modo che la creatura. La filosofia speculativa non rinuncerà per niente al mondo a questo principio, che difende con tutte le sue forze. Il sapere, la conoscenza gli sono piu cari che la salvezza eterna ; di piu, è nel sapere che egli vede la salvezza eterna. ( ...) Per Kierkegaard e per la sua filosofia, che in opposizione alla filosofia speculativa egli chiama filosofia esistenziale, ossia tale che apporta all'uomo non la « conoscenza » ma la vita ( « il giust� vivrà per la fede »), i lamenti di Giobbe non sono soltanto dei lamenti ovvero dei clamori assurdi, inutili, faticosi : per Kie�kegaard in que­ sti lamenti si rivela una nuova ·dimensione del pensiero ; egli sente in essi una forza attiva che come le trombe di Gerico deve fare cadere le mura della fortezza. È questo il tema fondamentale della filosofia esistenziale. Kierkegaard sa certamente bene come tutti che dal punto di vista della filosofia speculativa, la filosofia esistenziale è la peggiore delle assurdità. Nell'« oggettivismo » della filosofia speculativa egli vede il suo vizio essenziale. « Gli uomini, scrive, sono divenuti troppo oggettivi per ottenere la beatitudine eterna, poiché la beatitudine eterna consiste giustamente in un interesse personale infinitamente appassionato ». ( . ) Per Kierkegaar·d, « il contrario del peccato non è la virtu ma la libertà », e ancora : « il contrario del peccato è la fede ». La fede, solo la fede libera l'uomo dal peccato ; solo la fede può strap­ pare l'uomo al potere delle verità necessarie che si sono imposses­ sate della sua coscienza dopo aver gustato del frutto proibito. E solo la fede dà all'uomo il coraggio e l'audacia di guardare dritto negli occhi della morte e ·della follia e di non piegarsi inerme davanti ad esse. ( . ) L'angoscia del Niente sfocia nell'agonia della libertà, ( . ) l'uomo avendo perduto la propria libertà, si ritrova privo di forze e scambia nella sua debolezza il Niente per il Destino invincibile, per la po­ tentissima Necessità ; e l'uomo si fortifica sempre piu in questa con­ vinzione che il proprio pensiero è piu lucido, le proprie capacità piu grandi. Possiamo notare che nonostante tutte le sue riserve, di cui si è parlato in precedenza, Kierkegaard torna integralmente al racconto biblico della caduta del primo uomo. II genio, il piu grande genio, ammirato da tutto il mondo, considerato come il benefattore -

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dell'umanità, atteso sulla terra da una gloria immortale, proprio perché è un genio, perché il suo sguardo lucido penetra l'esistenza quasi nelle sue ultime profondità, il genio è anche il piu grande peccatore, il peccatore per eccellenza. Nello stesso istante in cui scopri « le verità generali e obbligatorie » che costituiscono ancor oggi le condizioni del sapere oggettivo, Socrate rinnovò il crimine di Adamo : tese la mano verso l'albero proibito. Cosi, nonostante tutta la sua gloria, nonostante la sua enorme importanza storica, egli non è che un uomo decaduto, un peccatore. Aggiungerei da parte mia che è forse questo peccatore che secondo il Libro eterno sarà ac­ colto nei cieli con maggior gioia di dieci giusti ; egli non è perciò meno peccatore. Egli ha gustato i frutti ·della conoscenza, e il Niente si è trasformato per lui in Necessità, che come la testa della Me­ dusa pietrifica tutti çoloro che non tornano verso di lei... E non so­ spettò neppure ciò che aveva compiuto, cosi come non sospettò nulla il primo uomo quando accettò dalle mani di Eva i frutti dall'aspetto ·cosi seducente. Sotto l'inganno pronunciato dal tentatore : entl-8 sicut dii scientes bonum et malum, si celava l'invincibile forza del Niente che paralizzò la volontà dell'uomo fino ad allora libera. Kierkegaard rileva, incidentalmente è vero, che fin tanto che Adamo era innocente, non poteva comprendere il significato delle parole ·di Dio che gli proibiva di gustare i frutti dell'albero della scienza del bene e del male, perché ignorava il bene e il male. Ma è necessario ed è possibile « comprenderli »? Noi li comprendiamo, noi sappiamo che il bene è il bene e il male è il male. Ma un'altra p ossibilità resta celata e resterà apparentemente sempre celata alla nostra comprensione, una possibilità di cui parla la Scrittura : non è che Adamo ignorasse la differenza tra il bene e il male, è che questa differenza non esisteva. Per Dio e per Adamo fin tanto che egli visse in presenza di Dio, non esisteva il male : tutto nel mondo era valde bonum. Promettendo all'uomo che se avesse gustato i frutti dell'al­ bero della scienza, sarebbe stato come Dio, conoscente il bene e il male, il serpente lo ingannò doppiamente. L'uomo non divenne si· mile a Dio ; Dio in generale non ha « sapere » e, in particolare, Egli non possiede la scienza del bene e del male, scienza che l'uomo de­ caduto, abbagliato dalle ingannevoli seduzioni del Niente, considera ancor oggi come la propria piu alta dignità. Socrate, il piu saggio degli uomini, genio incomparabile, fu il piu grande peccatore : egli non fu come lo si credeva, un Socrate libero, ma un Socrate abba­ gliato, incatenato. L'angoscia di fronte al Niente che gli discoperse il tentatore paralizzò la sua volontà, senza che egli potesse neppure dolersi che la sua volontà fosse paralizzata. Egli era persuaso che la sua volontà fosse libera e che la ragione guidando questa volontà

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fosse ciò che si trovava di migliore in lui e in ogni uomo ; egli ere· deva che la promessa eritis sicut dii scientes bonum et malum si fosse realizzata, di essere ·divenuto simile a Dio dal momento che « sapeva » . È qui il significato delle parole di san Paolo, citate da K.ierkegaard : tutto ciò che non deriva dalla fede è peccato. Il sa­ pere al quale aspira cosi avidamente la nostra ragione è il pio grande, il pio mortale dei peccati. Ciò spiega perché Kierkegaard inclinasse cosi appassionatamente verso l'Assurdo e ci mettesse in guardia con­ tro le pretese dell'etica. La ragione con la sua sete (Io ripeto ancora una volta - concupiscentia invincibilis) delle verità necessarie e il bene con le sue esigenze categor.iche, ecco precisamente ciò che ci recarono i frutti dell'albero proibito. Questi frutti resero l'uomo im­ potente e gli impedirono di vedere che la sua impotenza era una disgrazia ; essi gli sottrassero il desiderio di lottare. L'uomo si è tra­ sformato in cavaliere della rassegnazione ; egli considera la rasse­ gnazione come proprio merito, propria virtu e identifica la cono­ scenza con la verità. Egli perse la propria libertà e non ne fu preso da orrore ; poiché egli pensa che ciò debba essere cosi, che non c'è, che non ci può essere libertà, che il mondo è fondato sull'assogget­ tamento che si manifesta nelle « leggi » dell'essere, leggi che egli identifica con la verità, e sulle « leggi » del dovere, il cui insìeme costituisce la sua morale. (Kierkegaard et la philosophie existentielle, Parigi, Vrin, 1948, pp. 9-14, 17, 19-22,

25, 27, 146·150).

3. CONCUPISCENTIA IRRESISTIBILIS

( . . .) Abbiamo ereditato dai greci tanto i problemi filosofici fon­ damentali, quanto i principi razionali . per risolverli e tutta la tec­ nica del nostro pensiero. Come fare per leggere e comprendere la Scrittura, non secondo l'insegnamento dei grandi maestri della Gre­ cia, ma come volevano ed esigevano dai loro lettori éoloro che, per mezzo del Libro dei Libri, ci hanno trasmesso quel che essi chiama­ vano la parola di Dio ? Finché la Bibbia rimase esclusivamente tra le mani del « popolo eletto », tale questione non esisteva : in ogni caso si può ammettere che gli uomini, ascoltando le parole della Scrittura, non erano sem­ pre sotto la dominazione dei principi razionali e di quella tecnica del pensiero che son ·diventati in qualche modo la nostra seconda natura e che consideriamo senza neanche rendercene conto come le condizioni per la presa di possesso della verità. ( . . . ) I pensatori me­ dioevali cercavano sempre di mantenersi aderenti allo spirito e alla

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lettera della Scrittura. Ma basta la buona volontà in certi casi ? Un uomo educato dai greci è capace di conservare questa libertà che è la condizione della comprensione esatta di quello che dice la Bib­ bia ? Quando Filone Alessandrino si prese l'incarico di presentare la Bibbia al mondo colto dei greci, fu costretto a ricorrere al me­ todo allegorico ; solo cosi poteva sperare di convincere i suoi udi­ tori. Impossibile infatti contraddire davanti a persone istruite i prin­ cipi del pensiero tradizionale e quelle grandi verità che la filosofia greca per mezzo dei suoi piu notevoli rappresentanti aveva portato all'umanità ! E d'altra parte, Filone stesso, che aveva assimilato la cultura greca, non poteva piu accettare la Scrittura senza verificarla ricorrendo ai criteri dei quali l'avevano munito i greci per distin­ guere la verità dall'errore. Alla fine la Bibbia « fu elevata » a un tale livello filosofico ch'essa poté ampiamente so-ddisfare le esigenze della cultura ellenica. Clemente Alessandrino si presè lo stesso in­ carico di Filone : non è senza ragione che Harnack lo chiama il Filone cristiano. Egli portò la filosofia greca sullo stesso piano del Vecchio Testamento, e non solo ottenne il diritto di affermare che la yvwcnç- è inseparabile dalla salute eterna, ma poté aggiungere che, se gli fosse stata data la scelta, lui Clemente avrebbe preferito non la salvezza, ma ]a yvwcnç. Anche tenendo conto solamente di Filone e di Clemente Alessandrino, è chiaro che né i padri della Chiesa, né i filosofi del medioevo potevano accettare il racconto ·del pec­ cato originale cosi come si trova nella Genesi e che di fronte a questo racconto il pensiero ·dei credenti doveva scegliere tra la Bih­ bia e il pensiero greco. Infatti, qual è il contenuto dei capitoli della Genesi che si ri­ feriscono alla caduta del primo uomo ? Dio piantò nel paradiso l'al­ bero di vita e l'albero della scienza del bene e del male. E disse all'uomo : ex omni ligno paradisi comede ; de ligno autem scientiae boni et mali ne comedas, in quocumque enim die comederis ex eo, morte morieris. Mentre Dio per solito proclama le sue verità " (p. 90)..

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Montauban, il quale, in un volume De l'éclectisme ( Parigi 1840), pur scritto con intenti non denigratori, asseriva che la filosofia del Cousin era l'espres­ sione autentica della Francia contemporanea, cioè di una generazione indif­ ferente, senza odio e senza amore, incapace di credere e di impegnarsi per una causa ( 5). L'attacco venne anche dalla parte cattolica ; nel 1840 appaiono l'Essai sur le panthéisme dell'abate Maret e le Considerazioni sulle dottrine reli­ giose di V. Cousin di Vincenzo Giob�rti (nella traduzione francese del­ l'abate Tourneur) : ambedue lo accusano di panteismo ( hegeliano ), tanto che il Cousin, nella prima prefazione al suo Rapport sur les Pensées de Pascal ( 1842) si sente obbligato a ripiegare su posizioni piu ortodosse, sacri­ ficando il panteismo hegeliano al teismo di marca francese, cioè cartesiana. Ma le opposizioni vengono altresi dalla stessa corrente eclettico-spirituali­ 'stica : · il dominio spirituale del caposcuola è avvertito in tutta la sua inva­ denza e la sua angustia speculativa ; i giovani sentono il bisogno di un'atmo­ .sfera piu ossigenata e si raccolgono intorno a un giomale, Liberté de penser, che nel titolo stesso sta a significare molteplici istanze, non sol­ tanto filosofiche : siamo infatti nel 1847, verso la fine della monarchia di luglio. I fondatori-collaboratori sono Jules Simon, Pani J anet, Amcdée J acques, Émile Saisset, Ernest Bersot, Jules-Romain Barni ; vi inizia la sua carriera il giovane Ernest Renan. Su due punti soprattutto essi riconoscono la necessità di un rinnovamento ; sul terreno religioso e su quello politico. Sul piano religioso, il ripiegamento del Cousin appare troppo accomo­ ·dante ; non che si miri a sovvertimenti piu ò meno radicali : il teismo resta anche per loro una verità inconcussa ; soltanto si esige una maggiore auto­ nomia speculativa di fronte a chiese ed istituzioni, un piu autentico im­ pegno teoretico. Sul piano sociale-politico, il pensiero liberale del Cousin appare altrettanto acc�modante : le nuove forze in presenza non possono non -suscitare nuovi problemi, far riconoscere i nuovi interessi inderogabili ; il verbo marxiano è alle porte ; si fanno strada cosi, ovviamente con deciso rifiuto del materialismo storico e comunistico, inequivocabili esigenze de­ mocratiche, le quali, di fronte all'imminente storia francese; si riveleranno insicure e titubanti (6). Quella che possiamo chiamare, non del tutto propriamente, > si porta dietro dunque le fondamen­ tali componenti della dottrina cousiniana, che sono del resto proprie dello .spiritualismo tradizionale, cioè platonico-cartesiano. Il nuovo spiritualisma non è perciò, dichiara il Vacherot, una dottrina nuova, ma è « lo spiri­ tualismo rinnovato dalla scienza >> (1). Ciò che molti spiritualisti rimpro­ verano infatti al Cousin è di aver trattato i problemi di Dio e dell'anima, ma di aver trascurato la filosofia della natura. Piacesse o no, il positivismo aveva avanzato delle istanze scientifiche ;�derogabili, di cui bisognava tener �onto : le fondamentali dottrine spiritualistiche, come la spiritua:iità cieii'a­ nima, la libertà del volere, l'ordine teleologico della natura, potevano tro-

(5) Ricordo in nota una delle ultime testimonianze anticousiniane, da parte di uno cSpiritualista, CHAULES SÉCRETAN (La philosophie de V. Cousin, Parigi; 1869), che richiama a cercare la filosofia, non piu in una tradizione consacrata, ma nella vita del concreto, J . (6) Cfr. P. ]ANET, Op. cit., pp. 338-341. (1) Cfr. E. VACHEROT, Le nouveau sp iritualisme, Parigi, 1884, p. l.

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vare da rigorose indagini scientifiche la loro conferma; o, quanto meno, la loro irriducibilità a pretese componenti fisio-chimiche. Il valore essenziale che il nuovo spiritualismo tende a porre al centro delle sue indagini e ad esaltarlo non soltanto sul piano etico-psicologico, ma su quello politico-nazionale, è il concetto della libertà. Il ritorno al pensiero di Maine de Biran, anche nella seconda metà del secolo, è, da questo aspetto, evidente e dichiarato apertamente. Si riconosce che la filosofia della libertà ha avuto in Kant e in Fichte la piu schietta espressione dot­ trinale, ma si insiste nel vedere in essi dei tributari del genio francese : il principio della libertà personale, nato nell'ambito del pensiero sociale­ politico, è la gloriosa conquista del Settecento francese : >. Egli non è d'accordo (35) Cfr. F. BouiLLIEll, Du principe vital et de l'ame pensante, Parigi, 1862 ( p . Hl : Des perceptions in.s.ensibles). (36) Cfr. C. J. TJSSOT, La vie dans l'homme, Parigi, 1861 ; L'animisme ecc., Parigi, 1865, pp. 489-502 ( trad. in questo vol. alle pp. 282-290).

(37) Il Saisset, che è lo spiritualista piu decisamente avverso all'animismo, prende le difese del Jouffroy. Le sue osservazioni mettono bene in risalto il groviglio di oscurità e di contraddizioni in cui vanno a perdersi i neoanimisti. Portato a riconoscere i tre piani di vita distinti dal Maine de Riran, ma assillato insieme dall'istanza di unità che gli sembra compromessa dalle impostazioni neoanimistiche, il Saisset conclude la sua disamina critica prospettando un piano speculativo che è, in ultima analisi, il compito supremo della filosofia spiritoalistica : > (41). Se l'essenza dell'Essere esistente per sé è libera volontà, è manifesto che la volontà è il principio di ogni essere : ogni essere è volontà nella sua essenza ; i gradi dell'essere sono i gradi della volontà. Essere è volere la propria esistenza, la quale consiste dunque nell'essere vo­ luta ; essere libero è volere la propria vita, farsi volontà (42). Siamo dunque liberi in quanto Dio è libero, poiché « la libertà del mondo implica la libertà nel suo principio >> . L'amore è la realizzazione della libertà : perciò Dio, che è libertà, è amore : « egli crea per amore ; egli vuole la creatura per se stessa, come scopo per se stessa, e per questo volere le dà l'essere >> (43). L'uomo è creato libero. La sua libertà è voluta con un decreto assoluto ; e tuttavia l'essere libero è tale perché esso si fa da sé ciò che è. La creatura è dunque chiamata a farsi da sé ciò che deve essere. La creazione di un essere libero è un appello : per il fatto stesso che la creatura è libera, è messa in condizione di agire, di vo­ lere : essa esisterà veramente soltanto quando avrà voluto. La creazione di un essere libero è una generazione, cioè produzione di un germe destinato a realizzare se stesso con la sua attività... « L'essere libero per sua essenza non è realmente libero che se si vuole libero >> ( 44). Il pensiero centrale di Gab1·icl Marcel è chiaramente annunciato. -

( 38) J. LEQUIEH, La recherche d'une première vérité, Parigi, 1925, p. 141. (39) Cfr. É. BRÉHIEH, op. cit., pp. 966-969. (40) Cfr. PLOTINO, Enn., V, 3. (on) C. SÉCRETAN, La philosophie de la liberté, vol. II, p. 16. (42) C. SÉCRETA> ; e a questo fine - secondo il Gnesotto, che s'ingegna di trovare un certo ordine sistematico nella speculazione non sempre lineare del Bo-(58) Cfr. GIULIO ALUNEY, l pensatori della seconda metà del secolo XIX, Milano, 1942, pp. 223-227. (59) L. FERRI, Analisi del concetto di sostanza ecc., in « Atti della R. Accademia dei Lincei », 1885, vol. XII, p. 331. ( 60) G . GENTILE. Le origini della filosofia contemporanea in Italia, vol. I, Firenze, 1957, pp. 219-237, 239.240, 293.

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natelli (61 ) - si pose quattro problemi essenziali : della coscienza, del cono­ scere, del volere, dei rapporti tra concetto e idea ; contro Herbart, concepi la coscienza indipendente dal meccanismo delle sensazioni e intese l'autoco­ scienza come diretta e immediata apprensione dell'unità e identità dell'io ; contro il Rosmini, mostrò l'illecito scambio della copula logica con la nozione dell'essere ; contro gli evoluzionisti, mostrò l'irriducibilità delle idee al gioco delle forze biologiche ; contro i moralisti autonomisti, sostenne l'esistenza di un Dio personale trascendente quale fondamento assoluto della coscienza morale (62). Prendendo lo spunto dal libro di Ollé-Laprune sulla certezza morale, il Bonatelli (63) sosteneva che il principio della metafisica non è : ciò che è, è : non è il fatto che potrà darci, come fatto, l a propria ragione ; ma : ciò che deve essere, è : ossia : « ciò ch'è conveniente, ciò che sta bene, che ha un valore assoluto, un pregio intrinseco e un merito suo ·proprio, tale per cui non può non essere senza una mostruosa incongruenza, un'in­ giustizia enorme, un'assurdità » ; insomma il vero principio è : « il Bene è )) (64). Ma come, partendo dal nostro io e dalle cose finite, si può arrivare al concetto dell'Infinito ? Il Bonatelli espone a questo proposito una sua teoria, distinguendo fra pensiero potenziale o involuto o compendiato, e pensiero attuato o esplicato. Per esempio : « il numero degli abitanti della città di x è eguale al prodotto di 325 per 562 meno la loro differenza ; voi avete una nozione di quel numero ; voi lo possedete in voi, ma allo stato di involu­ zione. Per pensarlo in effetto, esplicitamente, converrà eseguire le opera­ zioni da me indicate ll (65). Ora, la nozione involuta non è esplicita, ma non perciò è nulla ; analogamente, il pensiero s'innalza alla concezione del­ l'assoluto : , cioè dalla rivelazione di Cristo (69). Ma il suo filosofare non è pecciò autentico : è semplicemente un esercizio di pensiero, che muove da1le immobili posizioni del cristi anesimo e trae da esso, pil'i che da principi razionalmente fondati, le armi per la sua battaglia speculativa ( 1°). Era perciò inevitabile che Platone, con la sua teoria delle idee, astoricamente statiche, fosse il filosofo a lui piu congeniale e che alla platonica coinonia egli si appellasse per criticare la dialettica hegeliana : > o il (( perché >> della fede, quanto invece il (( come » : dunque un pro­ blema psicologico che richiama la distinzione pascaliana fra esprit géo­ métrique ed esprit de finesse. Ne La Grammatica dell•assenso (85), che è la sua opera filosoficamente piu significativa, domina infatti la distinzione fra .(( inferenza JJ e (( assenso JJ : l'inferenza, che si esprime, al limite, nel ragio­ namento sillogistico, non può offrirei autentiche certezze, non solo perché prende l'avvio da principi indimostrabili, ma soprattutto perché si svolge nell'ambito delle astrazioni c ci lascia inesorabilmente fuori dei fatti indivi­ duali e concreti. Le sue proposizioni sono nazionali, cioè astratte ; le sue conclusioni portano a probabilità maggimi o minori, che, sotto determinate condizioni, possono essere trasmesse. L'assenso invece, anche se è prepa­ rato da argomenti razionali, è un atto ben distinto dall'inferenza, in quanto (114) Il « movimento di Oxford JJ ( cosi chiamato perché i suoi aderenti risiedevano a Oxfor d) , o « m ov imento tractariano r1 ( dal ti tolo dei Tracts for the times - Opuscoli per il tempo presente - da esso puhblic!lti) ebbe origine - secondo l'opinione del Newman dal giorno (H luglio 1833) in cui il curato anglicano di Hursley, John Keble, pronunciò il famoso discorso sulla Apostasia nazioruzle. l Tracts pubblicati furono novanta; l'ultimo, del 1841, fu scrillo dal Newman e fu condannato dall'Università di Oxford perché « in­ cline al papismo >> . Dei capi del Movimento, il Pusey, il Keble, il Mariott ri masero fedeli alla Chiesa anglicana ; il Ward e il Ncwman passarono al cattolicesimo ( conversione « che fa epoca nel la storia della Chiesa d'Inghilterra », come scrisse il Gla d s t one, L ife of bishof Wilberforce) . Il movimento di Oxford sorse per difendere la chiesa anglicana dall'opera deleteria del liberalismo (scuola del Wathely) nel campo d ogm at i co e per opporsi al Par­ lamento che stava minacciando i suoi diritti e la· sua situazione ufficiale di Chiesa di Stato in favore dei « dissidenti >> (leggi del 1828, 1829, 1832). (85) La seconda parte finisce col capitolo : « Inferenza e àssenso in materia di religio­ ne », che, a giudizio di A. Huxley, !! è un'analisi psicol ogica del pensiero umano che resta una delle piu acute e certamente la piu elegaute che mai sia stata fatta » (Proper Studies, Londra, 1927, p. XIX).

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GIUSEPPE FAGGIN

è un atto personalissimo con cui l'individuo aderisce a una realtà concreta e che apporta fiducia interiore e senso di sicurezza e conduce eroicamente all'azione. Il Newman chiama « senso illativo >> ( illative sensc ) quella facoltà ( che può estendersi dal semplice « giudizio sano e disciplinato n alla tt intuizione geniale >> ), la quale ci fa ricavare, in maniera implicita, una conclusione da un certo numero di fatti con piena confidenza nel proprio giudizio, piuttosto che farcela attendere da un processo esplicito di ragiona­ menti e di deduzioni. La fede è questo assenso e si regge su questo senso illativo ; ed è pur necessario - egli scrive - (( riconoscere che questo fenomeno, per quanto imbarazzante ci appaia, è una caratteristica normale e inevitabile della costituzione mentale di un essere com'è l'uomo nello stato presente di questo mondo. Il suo processo è un prodotto vivente, non un meccanismo ; il suo strumento sono gli atti dello spirito e non le formo le e gli espedienti del linguaggio >>.

4. Lo spiritualismo russo

Nella storia della filosofia russa, la seconda metà del sec. XIX è stata definita l' « epoca dei sistemi >> (86) ; accanto alla corrente kantiana, che insiste sull'analisi del processo conoscitivo e di cui Vvedenski è il maggiore rap­ presentante, e al positivismo, che trova in Lessevic un valido difensore, si fa strada una visione metafisica della realtà e dello spirito, che, se pur attinge alla problematica offerta dall'atto conoscitivo, si fonda su presunte intuizioni ontologiche, che toccano non solo le tradizionali dottrine psicologiche e teologiche, ma anche le visioni escatologiche della storia e il significato ultimo dell' Umanità e il destino supremo dell'universo. Da questi (( sistemi >> è rappresentato lo spiritualismo russo, che oppone, per opera dei suoi mas­ simi corifei, Solov'ev, Leont'ev, Feclorov, Kozlov, ecc., una ideale Weltan­ schauung alla visione, non meno unitaria e sintetica, dei materialisti di pro­ venienza marxista. Come in Francia e in Italia, anche in Russia lo spiri­ tualismo non può esimersi, data la sua tematica, dall'entrare in contatto col patrimonio dogmatico della Chiesa per verificarne le sostanziali affinità o le segrete divergenze, per contenderle il primato della direzione delle coscienze o per vantare la (( razionalità >> delle proprie costruzioni sistema­ tiche. In realtà gli spiritualisti russi assolvono al loro compito speculativo con quella passionalità teologica e religiosa che caratterizza la loro razza e aécolgono dentro le loro costruzioni, non solo un accento profetico e millc­ naristico, ma la sostanza stessa delle tradizioni slave e orientali, incorporate nelle esigenze del loro tempo, nel momento stesso in cui, con altrettanto ardore messianico, le dottrine secolaristiche, ispirate dal marxismo, profes­ sano decisamente l'ateismo, elevato a professione di fede umanitaria. Agli spiritualisti russi la filosofia occidentale apprestava le sue strutture portanti e le componenti formali, e con tanto maggiore forza affascinatrice quanto piu profonda appariva l'affinità fra i due mondi culturali, la cui conciliazione costituiva uno dei problemi piu dibattuti negli ambienti del­ l'intellighenzia slava. Ma era inevitabile che le (( forme >> speculative occiden(86)

Cfr. B. ZE.NKO'VSKY, Histoire de la philosophie russe, vol. II, Parigi, 1954, p.

10.

Lo spiritualismo nella seconda metà del/: Ottocento

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tali non di rado riuscissero a dissimulare una sostanza di pensiero che solo artificiosamente poteva essere calata dentro coordinate estranee ed etero· genee. Pit.i evidente è questo influsso sui pensatori Aleksej A. Kozlov (87) e Vladimir Soluv'ev, nei. quali il lievito del volontarismo schopenhaueriano non riesce ad inquinare il senso globale della storia, ma a potenziare semmai la volontà ,di riscatto dal presente per apprestare con maggior urgenza i programmi di rinnovamento ; ben piti positivo nello spiritualismo di Kozlo'v è l'influsso del Leibniz, il cui monadologismo lo poFta a una concezione pampsichistica e soprattutto a un pluralismo di > dell'ultimo periodo era inevitabile l'afflusso di prestigiosi motivi teosofici ; anche la dottrina « sofiologica » , che tanta parte ha avuto nella storia reli­ gioso-culturale della Russia ottocentesca (89), ha avuto la sua prima origine, in Solov'ev, dal pensiero schellinghiano : la « Sofia » , destinata a diventare un'idea centrale del suo sistema (Sofia è « la sostanza della Trinità divina » , « la causa vera e i l fine supremo della creazione » , « l'incarnazione sociale della Divinità nella Chiesa >> . . . ) ha difatti il suo vero antecedente nell' « anima del mondo )) ( Welt.�eele) di Schelling. Da Schelling ha origine inoltre quella teoria della « conoscenza inte· graie >> (cefnoe znanie), che, in polemica con la filosofia occidentale, indi­ viduata soprattutto nel panlogismo hegeliano, si vanta di poter realizzare una sintesi concreta e viva (cioè, nell'intento degli slavo fili che lo profes­ sano, autenticamente r u s s a e cristiana) tra scienza e fede, fra intelligenza e sentimento, fra ragione e volontà : una fede insomma { le analogie con Kierkegaard non mancano) che sia pienezza spirituale di tutto l'essere. La « filosofia integrale >> è soprattutto presente nelle opere giovanili di Solov'ev (/ principi filosofici della conoscenza integrale, del 1877 ; e Critica dei principi astratti, 1877-80) ed è una delle dottrine maggiormente ricor· renti negli spiritualisti russi (90). Ma l'originalissima e irriducibile caratteristica dello spiritualismo rnsso è data dal tono profetico-palingenetico che esso assume, specialmente in Solov'ev, in Leont'ev, in Fedorov, con i quali la filosofia proclama di voler (87) Nato a Mosca nel 1831, morto a Pietro burgo nel 1901 ; professore di filosofia alla Università di K i ev dal 1876 al 1887 ; direttore della rivista « Parola propria JJ\. Di lui ricor. diamo La genesi della teoria kantiana del tempo e dell.o spazio, Kiev, 1884; Intuizione dl

Dio e conoscenza di Dio, in a Voprozy .filosotìi i psichologii », nn. 29, 30. ( SB) l successori spirituali di Leibniz in Russia, oltre il Kozlov, sono stati Sergio Askol. dov ( 1871-1947), suo figlio, Leone Lopatin ( 1855-1920) e N icola Losskj (n. nel 1870). Cfr. R.A,xNov, Leibni: nella filosofia russa della seconda metà del XIX secolo, in , 1950, pp. 3•).74. (90) Cfr. B. ZENKavSKY, op. cit., vol . Il; E. RADLOV, Storia della filosofia r!LS8a, trad . ital., Roma, 1925, p. 51 !gg.

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essere, a costo di apparire fantasiosa e utopistica, un'attività trasformativa e rivoluzionaria : « Per diventare un sapere concreto e vivente - scrive Fedorov (91) la filosofia dev'essere la conoscenZa non soltanto di ciò che è, ma anche di ciò che deve essere, deve cessare cioè di essere una spiegazione facile e intellettuale di ciò che esiste per diventare il progetto attivo di ciò che deve essere, il progetto dell'opera comune e universale » ; attraverso l'amore opero�o e generale, che deve abbracciare i vivi .e i morti, l'universo deve essere « definitivamente spiritualizzato ll ; è necessario che gli uomini arrivino con la scienza « a dirigere tutte le molecole e tutti gli atomi del mondo per raccogliere insieme ciò che è disperso, riunire ciò che è fram­ mentario, per ricompone cioè il cmpo dei nostri padri ll (92). Con maggior senso storico ma con altrettanto fervore profetico Costantin Leont'ev (93), nel quale lo spiritualismo non è confinato dentro un ambito strettamente speculativo ma esercita una critica radicale contro il culto borghese del benessere economico, nell'ingaggiare la sua polemica contro l'Occidente, si attende dalla Russia, rinnovata da una rivoluzione sociale, l'avvento di una civiltà, che dovrà essere religiosa e universale. « La Russia - egli scrive - non è mai stata una nazione puramente slava : i suoi domini orientali e occidentali, che l'hanno arricchita culturalmente ed economi­ camente, hanno parzialmente soffocato il suo spirito slavo per vie diverse che riusciranno meglio note agli storici futuri... Ripeto, la Russia non fu e non sarà mai una potenza slava. Il suo contenuto puramente slavo è troppo povero per il suo spirito universale. Nel carattere della nazione russa vi sono dei tratti molto forti e notevoli che ricordano piu da vicino i Turchi, i Tartari e altri asiatici, che non gli slavi occidentali e meridionali. In noi vi è piu pigrizia, piu fatalismo, una molto maggiore sottomissione all'auto­ rità, piu rilassatezza e benevolenza, piu folle coraggio, piu incostanza, mòlta inclinazione al misticismo religioso, anche nella creazione religiosa e d ereticale ll (94). -

(91) NICOLI\J FEDOROV, ( 1828-1903), fu impiegato nella Biblioteca del Museo di Rumjan­ cev ; la sua opera fondamentale è la l> , 1952, pp. 433-439 ; u. SCATTURIN, F. B., in (( Filosofia » , 1952, pp. 433-439. .

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GIUSEPPE FAGGIN

LA COSCIENZA DELLA LIBERTÀ

La coscienza della libertà indeterminata è negativa, in quanto si fondamenta sulla persuasione che non vi sono ostacoli insormontabili alla nostra risoluzione qualunque sia per essere. Quand'è infatti che siamo consci d'una possibilità in genere, ossia quand'è che una cosa ci apparisce possibile ? Allorché noi ci rappresentiamo un fatto avve­ nire, noi componiamo o costruiamo idealmente il fatto medesimo. Se in questa costruzione non ci s'affaccia veruna rappresentazione, la quale si attraversi alla nostra operazione, cioè se gli elementi concorrenti a produrre il fatto non si impediscono e si eliminano vicendevolmente� se di piu nulla di estrinseco agli elementi stessi, ma che però sia con­ giunto con essi indissolubilmente, si presenta come ostacolo irremovi­ bile, quella cosa noi la giudichiamo possibile a farsi. Consideriamo ora il caso che quel fatto sia un'azione nostra, e in primo luogo sia un'azione esteriore. Se mentre io sono seduto nel mio studio penso all'atto di uscirne per recarmi a passeggio, e se nel­ l'eseguire cosi mentalmente un tal atto io non incontro ostacolo nessu­ no, cioè non sorge in me la rappresentazione d'un ostacolo dato, reale (non puramente immaginario, ma pensato come un termine del sistema dei reali onde io medesimo faccio parte e di cui sono centro rel�tivo), l'azione mia la giudico possibile fisicamente. Se nel tempo stesso e per analoghe ragioni reputo possibile l'atto contrario, cioè non prevedo veruna forza estrinseca irresistibile che mi espella dalla stanza, è giu­ dicato possibile anche il rimanere. Allora io mi giudico fisicamente libero d'uscire o di restare. Si applichi lo stesso ragionamento alle azioni interne, anzi non a tutte le interne, ma a quelle che chiamansi volizioni, risoluzioni. Anche queste, che comunque si spieghino sono fatti innegabili, io me le posso rappresentare come future. Ogni risoluzione che io posso mentalmente costruire senza che sorga verun impedimento invincibile, è pensata da me come possibile. Ora se due o piu risoluzioni opposte nonché diverse verranno riconosciute come egualmente possibili, io avrò coscienza della possibilità di risol­ vermi in contrario senso, e ciò val quanto dire : avrò io coscienza della mia interna o spirituale libertà. Questa, fosse anche illusoria, certo è una coscienza della propria libertà ; non è dunque vero che una tale coscienza sia impossibile. E ciò sta contro la prima delle ac­ cennate difficoltà. Senza fallo qui si tratta d'una possibilità non assoluta ma condi­ zionata ; di piu non è una possibilità meramente ideale o logica, bensi del genere empirico, reale. Infatti non possiamo sapere se prima di adottare quella data risoluzione non sopravverranno tali modificazioni

Lo spiritualismo nella seconda metà dell' Ottocento

411

nell'esser nostro da toglierei quella possibilità : per esempio se non impazziremo, se non perderemo la coscienza e la padronanza di noi medesimi, se non morremo e via dicendo. Si osservi inoltre che per siffatto modo non solo si ha coscienza d'essere interamente liberi, ma anche dei gradi di questa libertà : gradi che dal massimo, il quale sarebbe la libertà assoluta, possono scendere fino al minimo. Tali gradi sono inversamente proporzionali agli ostacoli interni - perocché, rammentiamocelo, trattasi d'un atto interno - che si possono pre­ vedere. Quanto piu numerosi e gravi sono tali ostacoli, tanto la sfera della possibilità si impicciolisce, ossia l'esercizio della nostra liberti.. ci apparisce tanto piu malagevole ; ove si affaccino come insupera­ hili - per esempio una passione radicata noi ci sentiamo non piu liberi, ma schiavi. Dicemmo che una siffatta coscienza della propria libertà potrebbe anco essere illusoria. Con ciò intendemmo dire soltanto che le osser­ vazioni addotte di sopra non dimostrano propriamente che noi siamo realmente liberi, si provano solamente che noi appariamo tali a noi stessi, e che questa persuasione si fonda non sul ragionamento sup­ posto nella seconda delle istanze dianzi ricordate, sibbene sulla man­ canza d'ostacoli prevedibili che si attraversino alla nostra risoluzione. Ma tuttavia questa coscienza della libertà è già un forte argomento -che siamo effettivamente liberi. Imperocché gli è bensi vero che ci potrebbero essere degli impedimenti che leghino la nostra volontà, i quali, rimanendo sepolti nella notte dei processi psichici inconsapevoli, non potrebbero insorgere nella nostra coscienza e impedire la costru­ zione ideale delle opposte risoluzioni. Ma è da notarsi che l'atto voli­ tivo essendo di sua natura essenzialmente anche conoscitivo - ché altrimenti non tratterebbesi piu di volizioni, ma di moti istintivi, i quali nessuno afferma essere liberi - ciò che entra a modificarlo conviene che sia una rappresentazione o almeno ne contenga gli ele­ menti. Il perché non dovrebbe poter rimanere ignoto alla coscienza. La forza poi d'un tale argomento cresce al grado di perfetta certez­ za congiungendosi con quell'altra maniera di coscienza che abbiamo detta positiva, colla coscienza cioè d'un sentimento, in cui direttamente si traduce la nostra spontanea energia volitiva. Di che fatta sia questo sentimento non si può significare a parole, essendo esso un elemento immediato della nostra vita reale ; chi ha voluto e voluto energica­ mente lo conosce per prova e sa distinguerlo da qualùnque altro sen­ timento. Chi poi non l'avesse provato mai, nessuna definizione o descri­ zione arriverebbe a dargliene la piu vaga nozione. Come poi in un sentimento possa manifestarsi l'intima energia dell'esser nostro, appa­ risce da quanto sopra dicemmo, e apparirà piu chiaramente ancora nel seguito. Esso basta ad assicurarci che l'atto volitivo emana da noi, · .

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GIUSEPPE FAGGIN

che è un'attuosità, una manifestazione della nostra sostanza. La quale consapevolezza, congiunta, come dissi, con quell'altra che due o piu risoluzioni opposte ci sarebbero egualmente possibili, ci prova che il nostro volere può farsi realmente principio d'una serie causale. Ammesso pertanto che di qualunque atto o stato nostro onde ab­ biamo l'immediata consapevolezza, l'elemento che è direttamente alla coscienza è sempre un sentimento, resterebbero a chiarirsi due punti di molto rilievo, cioè: l) come per mezzo del sentimento abbiano ac­ cesso alla coscienza anche l'altre attività dell'anima, e 2) come nel senti­ mento la coscienza apprenda la sostanza medesima dell' lo e non una semplice modificazione o determinazione di questo. Il secondo punto è quello che a noi piu importa per la nostra investigazione presente, dalla quale abbiamo alquanto deviato, benché com'io credo non senza frutto per lo scopo che ci siamo proposti. Quanto al primo, che oramai c'interessa solo per incidenza, già si è dato un cenno poc'anzi colla similitudine dei colori ; i limiti, l'ordine e le differenze quantitative dei quali servono a dare al contenuto della visione una ben altra ric­ chezza che non sarebbe quella della semplice qualità cromatica. Cosi i sentimenti cadendo nella coscienza vi cadono con tutte le loro deter­ minazioni e attinenze ; in tal modo queste, che prese nella loro tota­ lità contengono tutto ciò che nell'uomo può accadere e su cui la co­ scienza può direttamente esercitarsi, mentre per sé non sarebbero ma­ teria da essa, lo divengono come inseparabili che sono da' sentimenti. Ma prima di procedere innanzi mi corre l'obbligo di render ra­ gione d'un altro elemento della vita psichica che finora sembrammo trascurare. Passi - dirà taluno - che l'atto del rappresentare non cada esso medesimo nella coscienza ; ma l'oggetto, la cosa rappresen­ tata, questa affé non dirai che abbia mestieri d'intermedio perché se n'abbia contezza. O come va che tu non ne hai manco fatto parola ? Per due ragioni, rispondo. Prima perché noi si trattava qui della coscienza di sé e di sé come subbietto reale. Ora le rappresentazioni (il rappresentato) non sono il subbietto, anzi sono appunto ciò che a questo si oppone, l'obbietto ; dunque per la presente nostra indagine non fanno. In secondo luogo poi è da notare che anche le rappresen­ tazioni attingono la loro materia dalla vita dell'anima. Gli elementi primi di ogni rappresentazione. Or che sono queste se non una classe particolare di sentimenti? C). Bene è vero che fin dalla bella prima (l) Nell'uso tecnico i significati di questi due vocaboli, che l'uso comune adopera ora promiscuarnentc ora distinguendoli secondo altri criterii che non sono quelli d'una clas. sificazionc ·psicologica sistematica, sono abbastanza determinati perché sia necessario ch ' io li definisca. Colori, suoni, sapori ecc. sono se�a::ioni ; il piacere e il dolore co n tutte le infinite loro gradazioni e misture sono sentimenti. Ma quello che importa di notare si è che non v'ha tra gli uni e gli allri una separazione assoluta, unzi piuttosto costituiscono tutti insieme una serie continua, di cui un polo è la sensazione cosidetta oggettiva (specie

Lo spiritualismo nella seconda metà dell' Ottocento

413:

elleno si staccano per cosi dire dal soggetto, si proiettano fuori di lui, e la coscienza le contempla come inerenti non all'anima in cui

si producono, ma alle cose che le provocano. Ma resta sempre vero che nella loro radice sono sentimenti. Sicché per le rappresentazioni vale quanto dicemmo dianzi dei sentimenti in generale. Quanto poi alle forme superiori del pensiero, vuole notarsi che quanto piu si sale nella serie delle rappresentazioni e de' concetti, tanto si va smarrendo l'ele-· mento sensibile ; rimangono le pure attinenze, poi le attinenze delle attinenze, e via via fino alle piu astratte concezioni ; e con ciò prevale l'elemento puro, l'a ciò per cui

il

priori, la è altro

pensiero

forma, l'idea, o come che si chiami e piu che il rappresentare fantastico.

Ma con ciò scompare sempre piii anche il lato soggettivo, che

è

quello·

che a noi importava di determinare. Bensi importa che avvertiamo come quell'atto della coscienza, di cui in opposizione al suo oggetto di­ cemmo che non cade alla sua volta nella coscienza, venga esso pure rappresentato da un sentimento. Accade perciò di esso quello che del volere. Lo spirito contemplando esercita un'attività ; questa nella sua qualità d'atto cosciente non cade sotto la coscienza, ma ben

vi

cade nella qualità di sforzo, di mutazione nel modo d'esistere del sog­ getto onde emana ; in altre parole vi cade sotto la forma del senti­ mento.

È

naturale poi che un tale sentimento non possa entrare diret­

tamente in quella coscienza di cui è sentimento, perché essa è come a dire ripiena d'un altro oggetto ; non appena questo sia fuori della vi-· sta, il sentimento che ancora risuona nell'anima, può diventare oggetto

d'un successivo atto di coscienza ? Ed

è

perciò che a tutto rigore non

abbiamo mai la coscienza di pensare, si sempre d'aver pensato. Torniamo finalmente al secondo dei punti sopra enumerati, voglio· dire al come nel sentimento la coscienza si impadronisca dell'intima nostra sostanziale realtà. Anzitutto convien premettere quello che già altrove abbiamo riconosciuto innegabile, vale a dire che la coscienza di ciò che accade in noi medesimi possiede quella che in logica chia­ masi verità materiale, ossia che la cosa appresa

è

è

precisamente quale

appresa. Dal che scende la conseguenza che il sentimento

è

proprio·

tale quale nella coscienza ci si manifesta. Questo ci dà prossimamente solo la realtà, non ancora la sostanzialità. Ma analizzando la natura del sentire scopriamo che esso include come elemento essenziale l'interquelle della vista) dove prevale assolutamente l'elemento rappresentabile, e l'elemento suhbiettivo, sentimentale, è presso che nullo affatto ; l'altro polo è il sentimento puro, in cnì prevale il piacere o il suo contrario, e l'elemento oggettivo, rappresentabilc, scompare. Tutti gli altri termini della serie comprendono in varia proporzione amendue gli ele· menti e s'accostano piu all'uno o all'altro estremo, dal quale anche sogliano pigliare il nome. Ciò fu avvertito chiaramente anche dal Fries ( cfr. Sist. v . Logik, ed. III, p. 33}. Come poi in ogni sensazione anzi anche nelle rappresentazioni piu astratte, ci sia, benché inavvertito, un sentimento propriamente detto, fu ben mostrato dal Lotze (cfr. Mikrak ... v. I, pp. 264-5, cd. II, pp. 272·3 e altrove) {N.d.A.).

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nità : vale a dire che il sentimento è per sua essenza un fatto che si compie dentro la sfera di quel principio che affetta. Con questo -carattere va congiunta necessariamente l'unità ; avvegnaché tutta la varia e molteplice ricchezza dei sentimenti, ove si guardi non all'ele­ mento loro qualitativo e che abbiamo anche chiamato rappresentabile, ma all'elemento propriamente sentimentale, cioè all'intimo bene o mal essere che con quello s'immedesima, mostra evidentemente che ·si appuntano in un centro impartibile nel quale e pel quale soltanto quellì pigliano natura di sentimenti. Osservazioni vecchie, stravecchie ! si dirà. Del resto una verità per vecchia che sia ha sempre mestieri d'essere ricorda ta, quando veggiamo che troppo spesso la si vuole dimenticare. Se pertanto nella coscienza diretta - per ripeterlo un'altra vol­ ta - rion è possibile illusione, e se il sentimento si manifesta alla -coscienza quale l'abbiamo descritto, non si potrà negare che nel sen­ timento abbiamo davanti a noi l'intima e profonda realtà dell'esser nostro, la sostanza medesima in azione. Le son cose queste per vero pio difficili a dirsi che a pensarsi: ma chi voglia spregiudicatamente discendere entro di sé e por mente a quel che dicemmo, non potrà a meno di sentirsi convinto che la cosa sta proprio cosi ; che l' Io empirico qui s'immedesima coll' lo reale ·e sostanziale ; che non c'è né ci può essere un sentimento campato in .aria e distribuito sopra una pluralità di sostanze - quale sarebbe pur sempre il corpo per quanto organicamente unificato - ; che perciò la ·coscienza del proprio sentire è coscienza del proprio esistere, e del pro­ prio esistere non come modo, accidente, qualità d'altra cosa, ma si .del proprio esistere in sé e per sé. Perciò l'esplicazione rosminiana che formula la percezione cosi : .questo sentimento è, ci pare l'inversa della vera. Giacché la coscienza non piglia l'essere d'altronde per applicarlo al sentimento, sibbene nel ·sentimento stesso ha l'essere e lo afferra direttamente salvo a idealiz­ zarlo dappoi. La formola pertanto dovrebbe sonare a un dipresso cosi : in questo sentimento io sono ; donde poi la formola universale : nel sentimento c'è l'essere. Questa critica tocca per mio avviso il punto vulnerabile del sistema rosminiano, il cui essere ideale, appunto perché ideale, per isforzi che faccia l'autore, non può mai offrirei che la possibilità, l'essenza, non la concreta realtà. L'È del Rosmini essendo sempre l'applicazione del· l'essere ideale, rimane perpetuamente nella cerchia delle idee, a quel modo stesso che la natura e lo spirito dello Hegel per essere gene­ rati d all' Idea logica restano sempre una natura e uno spirito astratti, un mondo che non può varcare i limiti delle idee. Cosi se in un .dramma parte dell'azione consista nel rappresentare un altro dramma,

Lo spiritualismo nella seconda metà delf Ottocento

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anche quella parte che rimane fuori di quest'ultimo, che rispetto· a questo figura come avvenimento reale, è ancora finzione dramm�­ tica, non vera realtà. (La coscienza e il meccanismo interiore, Padova, Salmin, 1872, pp. 52-59)�

MECCANICISMO E LIBERTÀ

Finora noi s'è parlato assai della libertà ' del pensiero, ma in effetto· questa libertà l'abbiamo vista all'opera quasi solamente nella scelta dell'oggetto. Giova però ricordarsi che l'atto suo proprio, essenziale,. quello per cui non è mera recettività, ma attività vivente e spontanea,.. è il riferire, il porre la relazione, anzi la relazione stessa in azione. Perciò se anche tutti gli elementi d'un concetto gli siano dati estrin­ secamente e la loro unità gli venga suggerita dalla percezione o dalla riproduzione meccanica, il concetto è pur sempre produzione sua. Di qui la possibilità del nuovo. Male però da cotesta possibilità s 'infe-· rirebbe che il pensiero non abbia che a volere per crearsi di botto qual piu concetto gli talenti, e che la produzione d'un concetto sia a cosi dire una generazione spontanea che non abbia uopo di progenitori. n pensiero non produce se non da quello che già possiede, e l'opera sua è essenzialmente continova. Con ciò siamo rimandati al meccanesimo· psichico. Il che vuoi dire, fuori di metafora, che anche per produrre alcun che nuovo occorre anzitutto richiamare rappresentazioni e concetti preesistenti. E questo sappiamo ormai come si possa fare. Ma. la scelta di ciò che vuoi essere richiamato, molto piu poi il modo di servirsene, una volta che sia presente, dipende da un altro fattore. Questo poi è alla sua volta un concetto, ma d'una natura affatto spe­ ciale e che noi, per pur designarlo con un nome, chiameremo con­ cetto anticipato o prenozione. Gli è evidente infatti che qui pure vale: quanto dicemmo sopra circa la deliberazione di pensare un oggetto, che cioè deve essere già in qualche modo pensato prima che si pensi. lo non posso cercar nulla, quindi neanche voler nulla produrre, se io non so quello che voglio. Dunque anche il concetto nuovo da pro, dursi debbe essere in qualche guisa nella coscienza prima che si voglia realizzarlo. Ora noi abbiamo trovato due cose che potevano far l'ufficio di rap­ presentanti di un concetto nella nostra coscienza, un sentimento e· un'attinenza, o un gruppo di sentimenti e d'attinenze. Ma qui del sentimento non possiamo giovarci, perocché un concetto non per anco· formato non può naturalmente essersi ancora legato con un sentimento ;. restano quindi solo le attinenze. Ora un concetto che non è dato pe�· liìUoi caratteri intrinseci, ma solo per una o piu attinenze verso altri concetti è quello che dicesi un concetto puramente formale. Ecco per-

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tanto in che consista quella prenozione che vedemmo testé essere indi8pensabile al pensiero che s'incammina alla ricerca del nuovo. Questa presiede primamente, come dicemmo, alla scelta delle rappresenta­ zioni che vogliono essere richiamate, non solo, ma è ancora uno degli agenti di cui la coscienza si serve a richiamarle. Perocché le atti­ nenze, in cui esclusivamente consiste ciò che si pensa della prenozione, 5ono bensi attinenze oggettive e particolarmente logiche - onde come tali non avrebbero influenza sul meccanesimo psichico - ma in gene­ rale ad esse corrono parallele altre attinenze psichiche. Per esem_pio le relazioni di successione, di somiglianza, di fusione si accompagnano con quelle di causalità, di specie congeneri, di subordinazione logica e cosi dell'altre. Ecco dunque che quelle attinenze medesime, onde consta la prenozione, servono di leva al meccanesimo psichico accìò riproduca le rappresentazioni domandate. In secondo luogo la preno­ zione deve dirigere il lavoro del pensiero costruttore e anche in dò benché sia la parte ove piu si manifesta la libera energia e l'ini­ ziativa dell'intelligenza - il meccanesim.o psichico gli sta a fianco e :gli fa per cosi dire da manovale. Avvegnaché ogni singolo passo che dà il pensiero vuoi essere riscontrato a quel modello, né ciò è possi­ bile senza l'incessante richiamo d'un passato e la fusione dell'identico e la repulsione del contrario. Ben è vero che in tutto questo pro­ cesso il pensiero dee far opera di svincolarsi da' legami psicologici e sprofondarsi nei rapporti puramente obbiettivi. Ma questi si trasfor­ mano continuamente in attinenze subbiettive, e a questo solo patto perdurano nell'anima. Di qui l'alta opportunità per non dire neces­ sità di fissare i nostri .pensamenti p.er mezzo di segni sensibili c specie della parola. E se ciò vale del pensiero propriamente scientifico, se vale in genere -dell'indirizzo teorico, a maggior ragione varrà del pensiero che muove in traccia del nuovo nel campo dell'arte, c di qualsiasi indirizzo pratico. Nell'arte soprattutto le attinenze che dicemmo obbiettive - né queste possono negarsi senza tor via il bello, per la stessa ragione che :facendo subbiettiva e quindi relativa la conoscenza togliesi affatto il vero sono piu intimamente che mai legate e fuse colle attinenze subbiettive. Che anzi le prime, ove non si riflettessero e traducessero in queste, non avrebbero piu alcun valore estetico, e ridurrebbonsi a pure formole indifferenti e vuote d'ogni significato. Perciò sola­ mente nella vita stessa dello spirito, nelle armonie dell'imma gina­ zione e dei sentimenti può il pensiero artistico trovare i materiali e le forme per le sue costruzioni. n che fa si che l'artista piu ancora del teorico deve aver ricorso alle leggi del meccanesimo e a queste in certo modo abbandonarsi, salvo a tener l'occhio costantemente ri­ volto al faro dell'ideale. -



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Noi potremmo del pari passare in rassegna tutte le pili nobili e alte funzioni del pensiero, e dovunque troveremo quello che abbiamo trovato fin qui : cioè da un lato la coscienza libera e regolatrice, dal­ l'altro il gioco meccanico delle forze psichiche al servizio di quella. Dal predominio del secondo sulla prima derivano per la piu gran parte gli errori, le inconseguenze, le contraddizioni, le lacune, le aberra­ zioni, i salti capricciosi, cosi nell'ordine del conoscere come in quello dell'azione e dell'arte. Dall'ostinazione poi della coscienza intelligente a voler tutto cavare da se stessa, a disprezzare la ricca miniera di materiali e il potente aiuto della produzione psico-meccanica deriva alla sua volta quel senile e vuoto scolasticismo, quello sterile e vano circolo di forniole che sopprime ogni palpito di vita e trasforma i prodotti del pensiero in corpi mummificati, che al piu leggero cozzo della realtà si dissolvono in polvere impalpabile. Solo la subordina­ zione sapiente del meccanesimo psichico alla libera coscienza è feconda di utili e grandi risultamenti ; per essa la scienza riproduce il reale senza disconoscere l'idea che lo governa, e si leva all'idea senza stac­ carsi dal reale in cui quella s'incarna ; anzi quanto p ili si sprofonda nell'uno tanto piu ritorna all'altra, di cui esso medesimo è un effiusso. Per essa l'arte attraverso alle mille gradazioni che il bello assoluto e immutabile assume nella vita concreta dell'uomo e nel suo commercio cogli altri esseri non si smarrisce e forvia, ma si è fatta abile a riprodurre le genuine sembianze del bello sotto forme sempre piu varie, piu elevate c profonde ; per essa l'etica, il diritto, tutte le discipline che governano l'uomo individuo e sociale, vengono mano mano assog­ gettando le diverse forme, che il processo storico dell'umanità adduce, agli eterni e immutabili principi del giusto e del bene. La religione medesima, dovendo governare l'uomo tutto quant'è e compenetrarlo fino al midollo, richiede imperiosamente che si mantenga quella giu­ sta relazione tra i due fattori d'ogni prodotto spirituale ; essa pure, se una tale armonia venga meno, si deforma e snatura diventando a tenore dell'elemento che trasmoda o astratto razionalismo scemo di ogni efficace azione sulla vita o tenebroso misticismo e superstizione. Ci rimane finalmente a notare, che il meccanesimo psichico seb­ bene non possa mutare le sue leggi essenziali, che sono in ultima ana­ lisi ciò che costituisce l'animalità, è tuttavolta capace d'un progressivo perfezionamento, quando al governo di esso sieda il pensiero intelli­ gente e la retta volontà. Né potrebbe essere diversamente, posciaché, come piu volte osservammo, ogni atto e fatto dello spirito, a qua­ lunque ordine appartenga, s'impronta incancellabilmente nel soggetto in cui si compie. Cosi la coscienza viene gradatamente trasformando e migliorando il suo strumento psichico, come questo alla sua volta nobilita e perfeziona l'organismo corporeo. Il che, entro certi confini,

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può accadere fin anco allora che il subbietto intelligente è estrinseco al subbietto del meccanesimo : di che ci porge un chiaro esempio l'am­ maestramento de' bruti. Nell'uomo poi la cosa si fa e nell'una e nel­ l'altra maniera ; esso è capace e di essere educato dagli altri e di edu­ care se stesso. Né l'influsso benefico dell'elemento razionale sulla psiche rimansi chiuso entro i limiti dell'individuo. Quali che sieno i pro­ cessi arcani per cui le qualità si ingenite come acquisite dei genitori si trasmettono alla prole, certo è che ogni novella generazione porta seco dalla nascita un complesso di disposizioni, nelle quali sta come inviluppata e compendiata tutta la vita psichica de' parenti. Talché se il meccanesimo fosse l'unico fattore della vita, come pretendono certe teorie psicologiche, o ci avrebbe una perfetta inalterabilità nelle sue­ cedentisi generazioni - ciò che vediamo accadere ne' bruti che riman­ gono sottratti all'influenza dell'uomo -, oppure ci sarebbe un pro­ gresso uniforme e incessante o un incessante règresso. La libertà e solo la libertà spiega il fatto storico, cioè lo scadere di questa nazione, di questa razza, l'avanzare e il perfezionarsi di quella. La libertà come da un lato può paralizzare e sperdere miseramente le migliori disposizioni e i frutti accumulati d'una lunga serie di genera­ zioni colte e virtuose, cosi dall'altro rende possibile il risorgimento e la liberazione. Ma quanto è piu agevole il distruggere che non l'edi­ ficare ! lmperocché la libertà che vuole il male rinnega e soffoca se medesima e ogni suo atto con cui si assoggetta al meccanesimo ani­ male, crea nuovi ostacoli e per l'individuo stesso e pe' suoi discendenti ; finché la fiaccola della coscienza diventa cosi fioca e tremolante che appena rischiara lo spaventevole disordine di tutto l'essere umano. Al­ lora il ritorno al megliò non è piu possibile, se non intervenga una azione esteriore. Le razze umane giunte al limitare della bestialità ce ne porgono un irrefragabile documento. Ma chi potrà sperare che si rialzino da quello stato, se le nazioni civili seguiteranno, come han fatto quasi esclusivamente finora, ad influire sopra di quelle co' peg­ giori loro elementi, con la zavorra e il putridume che fermentano sul fondo della civiltà ? È chiaro pertanto che il movimento psicologico, quale s'è venuto svolgendo in Germania dal principio di questo secolo a' giorni nostri per opera soprattutto delle scuole realiste, mentre ha pur diffuso molta luce su' piu riposti e intricati fenomeni della vita spirituale, non è riuscito però a conciliare in modo veramente scientifico quella dua­ lità, che i vecchi sistemi avevano riconosciuto e affermato senza tro-· varne le vere attinenze e l'unificazione. La coscienza soprattutto o venne troppo leggermente trattata come qualcosa che si intenda da per sé, o fu confusa con l'attualità ed energia del fatto psichico in generale, ovvero, come nel tentativo del Fortlage, fu cercata là dove

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non poteva trovarsi. Con la coscienza naturalmente rimaneva nel vago e nel buio la radice di tutte le attività superiori, e perciò sva· niva il criterio fondamentale su cui riposa la distinzione fra l'uomo e il bruto. Cosi la psicologia riusciva impotente a troncare il corso di quelle mostruose e avvilenti teorie, superfetazione morbosa delle scienze naturali, delle quali, se pur la coltura e la civiltà non sono destinate a perire, i posteri un giorno arrossiranno per noi. (La conoscen::;a

e

il

meccanismo interiore, Padova, Salmin, 1872, pp. 251-256).

XIII.

FRANCESCO ACRI

Francesco Acri nacque a Catanzaro nel 1834 ed ebbe un'educazione rigo­ rosamente cattolica, alla quale rimase fedelissimo nella vita e nel pensiero. I primi suoi contatti con la speculazione avvennero sotto l'influsso del Ro­ smini e del Gioberti, dai quali attinse la sua problematica ; ma quando il papa Leone XIII, con la Aeterni Patris del 1879, richiamò i cattolici allo stu­ dio del pensiero tomistico, si accostò con maggior interesse alla filosofia dell'Aquinate ( cfr. Amore, dolore, fede, p. 237). Ottenuta una borsa di stu­ dio, passò due anni a Berlino, dove ascoltò il Trendelenburg, acclamato maestro antihegeliano in quell'università ; tornato in patria, vinse il con­ corso alla cattedra di storia della filosofia nell'università di Palermo, da cui passò poi, nel 1871, a quella di Bologna, dove mori nel 1913. Le sue opere risentono direttamente delle polemiche suscitate, sin dal 1860, dallo Spa­ venta e dalla sua scuola neohegeliana, di cui egli fu sempre acerrimo avver­ sario, non meno che del positivismo (cfr. op. cit., pp. 73-74) ; famosa soprat­ tutto la sua polemica col Fiorentino, della scuola spaventiana e suo collega universitario. È del 1870 l'A bbozzo di una teoria delle idee, ripubblicato poi in Videmus in aenigmate, Bologna, 1907, che rimane la sua opera migliore. Da ricordare ancora A more, dolore, fede, Bologna, 1908 ; Dialettica turbata, Bologna, 19ll ; Moto e fine secondo A. Trendelenburg, Bologna, 191 1 ; Dia­ lettica serena, Rocca S. Casciano, 1917 ; Lezioni di storia della filosofia, in , 1957, pp.- 101-126 ; G. Muzw, F. A., in « Riv. rosminiana ll , 1963, pp. 292-298. ,

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L'AUTORE E UN ROSMINIANO

Il Rosminiano. Sei tu un Rosminiano come me ? L'autore. Come me, si ; come te, no. Il Rosminiano. Oh non credi alla visione dell' Essere possibile ? L'autore. Si, ma non di lui in lui medesimo. Ecco, io credo alla visione dell' Essere ma nell' Ente, del possibile, ma nel Possente ; im­ perocché se, come di' tu, l' Essere io lo vedo nella mia mente, ma non come se appartenga alla mia mente, è necessità ch'io lo veda come se appartenga a sé, nella sua possanza. Il Rosminiano. Ma il reale Ente, niuno sa di vederlo ; e né anche tu lo vedi. L'autore. Ma altresi l' Essere possibile niuno sa di vederlo ; ma, in tutto quello di che noi si ha coscienza, chi ben riguarda, l'Essere possibile ce lo vede, come di' tu, e ci vede l' Ente reale, come dico io. Ecco perché, come i nuovi glottologi insegnano, tra i quali è il nostro insigne Tromhetti, la parola Essere non si trova nelle lingue antiquissime ; e per dire, a mo' d'esempio, il sole è buono, non signi­ ficando la copula, insistevano con la voce, le genti antichissime, su la parola sole : Il so-o-le - buono. E dipoi la detta insistenza significa, rono con un pronominale aggettivo : Il sole, esso buono. E da cotesto pronome dipoi venne la parola Essere ; se è vero è quello insegnano. Ma posto che l' Ente e l' Essere fossero pure significati assai tardi, non segue però ch'essi non fossero veduti assai presto. E furon veduti insieme : ché se cosi non fosse, mancherebbe il passaggio dall' Essere possibile all' Ente reale ; perocché quello, come tu dici, è questo medesimo, cavatane la realtà e la infinità ; dunque quello è a questo, come il meno è al piu. Ora, dal piu al meno, è la via agevole ; ma non è cosi dal meno al piu. Il Rosminiano. Ma in ciò tu pensi come me, che la mente abbia davvero una cotale visione continua, ovvero dell'Essere o dell'Ente, di' pure come vuoi? L'autore. Ma in cotesta visione, secondo te� è quiete ; secondo me, è moto. Perché, secondo te l'anima vede l'idea dell' Essere innanzi che sia il corpo divenuto atto a destare sensazioni ; ed è come un sipario tra l'anima veggente essa Idea, e l'anima senziente ; e quando quello è lacerato per cagione di alcuno stimolo, massimamente il do­ lore, la mente compone l' Essere con la sensazione e fa il primo giudi­ zio, il quale, significato con la parola, è questo : Ciò che sento è. Le sensazioni sono come stanti in scura valle, e l' Essere è la luce del sole, e il sipario, cioè il sistema nervoso ancora non formato, è come fitta nebbia ; dissipata cotesta, la luce del sole arriva la valle, e ciò ch'è nella valle. - Ma, secondo me, la visione è moto ; ché -

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la mente perciò vede, perché si muove e muove. Voglio dire che l'in­ telligibile, cioè il visibile Ente o, come di' tu, l' Essere, in tanto si convertono in veduti e intesi, cioè in idee, interpretando cotesta pa­ rola secondo sua radice, in quanto essa mente, cosi come un chimico per le piccole cose, lo compone con indefinita moltitudine di altri intelligibili elementi ; i quali son tanti, quanti, per dirla sensibilmente, gl'indefinitamente varii tenui e mutevoli e solubili sodalizi di tutte le minuzie di sensazioni, ricordi, immagini, non altrinienti che le minuzie d'una lista di luce moventisi e moventi e mosse d'incessante moto. E innanzi che minuzie di sensazioni avvengano nell'anima e vi si pro­ fondino e celino e risurgano in minuzie d'immagini componentisi in fuggevoli compagnie già disfatte non ancor fatte ; l' Essere, o l' Ente, bene circonda l'anima e la penetra, ma come visibile non per anco veduto, come intelligibile non peranco inteso, cioè non come 'idea. In somma, vedere è comporre. Avviene della visione dell' Ente o dell' Essere quel che dell' lo. Cia­ scuno uomo in tanto vede l' lo in quanto quello è frammischiato in altri elementi che non sono lui ; lui schietto niuno vede mai. Niuno vede un solo atomo d'idrogeno, solo, ma composto con altri siniili e dissimili, lo vede nella fluente acqua ; niuno vede un atomo d'ossigeno, solo, ma composto con altri e simili e dissimili, lo vede nella rugghian­ te fiamma : e ciò che degli atomi in sé dico, vale per gl'intellegibili in sé. E come gli atomi si legano nelle molecole, cosi gl'intelligibili fra loro ; e come le molecole, cioè i minori corpi, si legano in corpi mag­ giori, e allora si vedono ; cosi gl'intelligibili, da prima legati in si­ stemi piccolissimi, quando si son legati in sistemi maggiori, allora si intendono, cioè si vedono con la mente, e allora son idee. l prinii componimenti dell' Ente o dell' Essere con indefinibili elementi son fa­ tali e occulti ; poi in modo meno occulto quei componinienti ricom­ pone il quasi fa tale volere ; e quelli poi ricompone il volere libero. Cosi l' lo si compone da prinia con indefinibili minuzie di sensazioni venienti da entro il corpo suo, sano o infermo, vivace o torpido ; e con quelle venienti da ciò ch'è intorno, dalle circostanze serene o buje, sempre diverse e mutevoli ( onde i semi delle nature diverse) ; e poi con quelle che procura da sé a sé medesimo. Onde l' lo, semplice, perché appaja anche a sé tale, è necessità che con elementi si componga, i quali non sono lui. - Comunque sia, certo è che il ripensamento, quale all'ordito è la trama, tal è verso il ripensamento ; e cosi cotesto verso la visione ; e variando i ripensamenti variar de­ vono i pensamenti, e però anche le visioni, si la prinia come l'altre che a quella seguitano. E, verso queste, la prima è come lieve e dubbioso barlume è alla piu o meno infoscata alba, non mai alla rosea aurora e al di chiaro. E come i ripensamenti possono essere, non

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che piU o meno confusi, anche piu o men veraci o fallaci, cosi 1 pensamenti, cosi le visioni ; se non le prime, quelle che seguono. E però mi scosto dai due nostri, il Rosmini e il Gioberti, e dico che la visione non è quieta, non sempre la medesima né in qualità n6, in ampiezza ; perché tra visione e ripensamento è azione reciproca, e però, variando questo, varierà quella. Esempio di ciò che dico si è che gli umani argomenti e concepimenti della realtà e natura dell'Ente, cioè Dio, e della natura e realità dell'anima, variano di essenza e di efficacia, secondo gli uomini, non dico quelli volgari, ma si quelli che si chiamano filosofi. Il Rosminiano. Via, tu poi dici come me, che l'anima è essenzial­ mente un sentire, e che per la intuizione dell' Essere ella si esalta, e si diviene un sentire che intende. L'autore. Ma io dico, oltre che un sentire, lei anche essere un desiare, un intendere, un volere ; o meglio, dico lei essere tutti cotesti atti in un atto solo, ch'io chiamo coscienza. Il Rosminiano. Ma di cotesta anima, di cotesta coscienza, i no­ vellamente nati non ne sanno nulla. L'autore. Ma nel sentire non poni tu gradi molti, se non altro, per ragione della contenenza ? E gradi molti sono nell'intendere e nella mutua insinuazione dell'uno nell'altro. È il momento primo della coscienza come l'uno sopra lo zero, nel termometro ; ma l'uno si spar­ tisce in indefinibili uni piccolissiini, e la prima coscienza è come il pic­ colissimi fra cotesti uni piccolissimi. Come un alto albero co' suoi ra­ mi, co' suoi fiori e frutti nascosto è nell'umile seme, cosi è la chiara coscienza in quella p iima coscienza indistinta e incognita. Se tu di' che passaggio niuno è dal non sentire al sentire, non posso dire io che dalla non coscienza alla coscienza neanche è passaggio ? Certo lo Spino­ za ha ragione, che il sentire è anche sentire di sentire, e l'intendere è intender d'intendere, cioè che scire è conscire ; siccome dice nell' Etica. E, come dissi dell'Io, in tanto ci svela cotesta coscienza, in quanto ci si vela e si cela in un sistema di quasi transeunti coscienze, delle quali cia­ scuna è sistema essa medesima. La coscienza paragono io a una sfera : il centro è lei, e la superficie è tutto ciò di che essa è coscienza, e i rag­ gi sono gli atti onde appropria a sé ed avvinchia tutto ciò ch'è in quella. Di coteste sfere ce n'è tante, quanti, non dico gli anni né i giorni, ma si le ore della vita ; sfere che, non come le stelle in cielo na­ scono e tramontano e poi rinascono, ma nascono e tramontano. Ora è una coscienza nella quale, come nel cielo le stelle, quelle sfere na­ scono e tramontano ; è una coscienza per la quale dico : lo, che fa un mezzo secolo era lieto, oggi sono triste. Cotesta si direbbe la co­ scienza vera, quella pura, schietta, quella permanente, che alle co­ scienze transeunti si contrappone come centro di cerchio a moltitudine

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indefinita di roteanti sfere rivolgentisi per esso cerchio. Ma cotesto centro o punto, quando lo voglio considerare in sé, mi vanisce ; e .in tanto mi si fa parvente, in quanto cresce e di sé fa sfera novella. Similmente l'intelligibile Essere o l'Ente in tanto lo vedo come inteso, cioè come idea, in quanto mi apparisce avvolto da non isquarciabili veli, avvolto in quel che veramente Egli avvolge. A questa sentenza si posson trarre quelle parole di san Paolo : lnvisibilia (Dei) per ea quae facta sunt intellecta conspiciuntur (Ai Rom., l, 20) ; e quelle altre : Videmus nunc per speculum in aenigmate (I Cor., 13, 12). Sicché noi vediamo a mala luce ; con li occhi pure in su, ma per nebbia ; e i malvagi con gli occhi in giu, come guardanti in torbido e burrascoso lago, dove gli alberi degli adiacenti poggi, ed essi poggi, sottovolti, stranamente si muovono. - Conchiudo : tu di' che ci sta dinanzi l'idea dell' Essere ; e io dico che sta dinanzi l' Ente reale. Tu di' che l' Essere ci sta dinanzi sin dalla nascita come idea ; e io dico che ci sta dinanzi come intelligibile, cioè come atto, in rispetto a noi, a divenire idea. E tu di' ch'è semplice essa idea ; e io dico che in tanto è a noi idea, in quanto si compone con indefinibili elementi, che, ciascuno in sé, scuri, per le relazioni mutue si chiari­ ficano. Tu di' che la intuizione è quiete ; e io dico, è moto. Tu di' che. l'anima è un sentire ; e io dico ch'è un sentire e intendere, un desiare e volere, in breve, è coscienza. E l'anima esce di mano a Dio ed entra nel corpo come coscienza in grado menomo, come se quasi incoscienza fosse ; quasi che, entrando nel corpo, là entrasse dove due fiumane si percuotono, secondo che dice Platone, ed ella balenasse ed istupidisse. Ma l'uscita dal corpo si si rasserena e rischiara : cioè i simboli e le figure e i veli e le ombre tutte le si dissipano ; e quel che sarà lo sa Dio, e quelli che sono a lui amici. Il Rosminiano. In somma, salvo che nel tuo discorso sono certi cotali tremolamenti di dubbio e certe cotali caligini di misterio, in ultimo mi pare che tu pensi come me. Via, di' chiaro : sei tu me, o sei te ? L'autore. Come posso dir chiaro, se i tremori ho io e le caligini? Sarò te, se cosi tu vuoi ; ma concedi che un poco sono anche me. ( Videmus in aenigrnate, Bologna, Cappelli, 1907, pp. 399-406).

IL

' TEOLOGO E L AUTORE

Il Teologo. Sei tu scettico ? L'autore. No, ch'io non dico che cognizione vera non ce n'è ; dico che quaggiu essa è per cotesta ragione difettiva, che il tutto è in tutto, secondo che diceva Anassagora (egli diceva per le cose, io per

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le idee) ; e le menti il tutto non lo vedono, vedono piu o meno nu­ mero di elementi ideali, e disposti piu o meno diversamente, e piu o meno caliginosamente ; e però gli uomini s'intendono non intenden­ dosi ; cotesto dico io. Il Teologo. Oh, e se io dico La vigna imbianca se il VJgnaw è reo, non intenderesti ciò tu se fossi vignaio, non dico filosofo ? L'autore. Si, per immagini ; ma la vita e la morte che si celan nella verdezza e nella bianchezza della vigna, nonché quei colori, e il divenire ch'è nel vivere e nel morire, e il moto ch'è nel divenire, e lo spazio e il tempo che sono con il moto ; senza dire gli articoli e le altre particelle per sé, e la natura intima della reità ; cotesto i vignai non intendono. I filosofi poi intendon chi a un modo, chi a un altro, e, peggio de' vignai, non s'intendon fra loro._ Il Teologo. Dunque i dommi della Chiesa, ancora quelli, di' tu d'intenderli e non intenderli? L'autore. Certo, quanto a non intenderli, consenti con me anche tu, tu che sei teologo. Il Teologo·. E tu, filosofo, che intendi per intendere di non m­ tenderli, e doverli credere, pure non intendendoli ? L'autore. Come la spola, vo e rivengo ; m'accosto e discosto. Ecco : la Chiesa dice che Dio uno è ; e io penso un fiore, un quadrato, e tolgo quadrato e fiore e rimane l'uno ; e cosi la mente va a Dio uno. - Ma la Chiesa dice : Quell' Uno è trino. E allora la mente si scosta da quell'uno al quale s'era accostata. - L' Uno è trino per le persone. - Persona, io dico, colui è che intende e vuole. - E la Chiesa mi oppone : L'intendere e il volere è dell' Uno ; persona è relazione reale, cioè attiva generazione, passiva generazione, spirazione. E a me pare intendere che è generare e essere gene­ rato e spirare. E la Chiesa dice : Ma non è cotesto né cotesto né cotesto ; e intendo che non intendo. Cioè, procede la mente per analogie e per negazioni di esse analogie : e di lei è come di pic­ ciola nave che s'accosta alla riva e l'onda la scosta ; e va e riviene, e riviene e va. E la Chiesa medesima in quel che dice : Credi in Dio uno e trino, non intende quel che a me dice di credere ; non in­ tende il valore della parola uno, né quello della parola trino ; ché, se intendesse, il domma non sarebbe quel che è e dev'essere : ma bene intende quel che non è secondo il domma ch'essa non intende ; E -

-

I SUOI GIUDIZI NON FALLANO.

E perché io credo pio di quel che intendo ? Perché amo ; e l'amore trapassa l'intelletto : e cotesto amore in me vien da una cotale mu­ sica di sentimenti. E le scordanze della stessa natura, dove il verde

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ingiallisce, appassiscono i fiori pur ora nati, e le stelle tramontano ; e dubbio se i belli visi, le voci, gli atti siano segni di noi,. o noi ; e la tristezza che, qual di sommergentesi nave su la quale il mare si chiuda, tale in ultimo possa essere di noi ; piu fa essere armoniosa e desiderata quella musica. Ecco perché io credo e, intendendo di non intendere, godo. E in ciò differisco dal fanciullo chiuso ancora nell'utero della ma­ dre. Se mai alcuno dicesse a lui : _ Vuoi tu venir fuori al mondo ? monti c'è fuori, ariosi, fiorite valli, mari azzurri e cieli, limpidi soli ; egli, non intendendo, direbbe no. A me chiuso nel poco meno angusto utero di questo mondo, la Chiesa dice : Partiti di costi ; c'è di là coteste bellezze e coteste, ch'io non intendo ; - e, come quei che spera senza speranza, credo che sia cosi ; e cosi sia ; e parto. Il tremore viene dal dubitoso intelletto, e la speranza e la fede dal cuore musico e umile. E la Chiesa cosi procede, con modi imperativi, ma musicali, per­ ' ché insieme fanrio armonia : procede cosi con i filosofi come con i fanciulli. I fanciulli la sentono piu, i filosofi non fanciulli meno, quella armonia. Si, i dogmi fanno una musica. Dio, uno, è trino perché è amore ; e l'amore non è solitario. Anch'io, riguardando un'opera d'arte, a chi mi è accosto e intende, dico : Com'è bella ! E Dio fattore di cotesta opera, l'universo, la mostra anche Lui a chi è con Lui e intende come Lui ; dunque non è solitario. - La Chiesa illumina e dice : Dio . non è tre persone che infinitamente si amano, in eterno ( l'uomo anche lui per sé desidera quaggiu amore infinito ed eterno, vanamente) ; e si amano quelle e s'intendono di uno stesso intendere, di uno stesso amore, infinite della infinità stessa, eterne della eternità stessa ; dunque esse persone hanno una natura, sono Dio uno. Dio, ch'è amore, crea per amore ; e però, l'opera dell'arte sua, non l'annienterà. Se Dio non annienta perché ama, non annienterà se è riamato ; e però l'anima è immortale. - La Chiesa aggiunge : Non annienterà neanche l'anima che non riama. Il cuore cosi dice, che Dio, creando l'uomo, gli dié legge ; e che se oscurata fosse {e fu oscurata, e però l'io nel mondo), la rischia­ rerebbe. - La Chiesa aggiunge che la rischiarò, comparendo esso me­ desimo in umana forma ; e, perché illuminasse in ogni luogo e m ogni tempo, affidò essa legge a lei Chiesa, come lucerna. E quanto a Cristo, la umile ragione dice che il mondo è con­ giunto a Dio, perché senza Lui non sarebbe ; ma è disgiunto da Dio, perché non è Lui, ch'è amore, esso che pieno è di odio : e dice che se gradi c'è nella disgiunzione, gradi c'è nella congiunzione. Un fiore perso nella valle piu è congiunto a Dio che una stella, e un verme sotto il

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terra pm che qualsiasi fiore, e l'uomo piu che qualsiasi animale. E gli uomini chi si congiunge piu chi meno, a Dio ; dunque una forma umana ci dev'essere a Dio massimamente congiunta ; ed è Cristo. - La Chiesa illumina e dice che quello è individua e reale natura umana, assunta dalla seconda persona di Dio. L'intelletto cieco di quei troppo veggenti oppone : E perché Dio lasciò deserti di sé tutti i cieli, e degnò di sé sola cotesta ajuola, la terra ? - E il cuore e l'umile ragione rispondono : Assurda cosa non è che la Legge apparisse quel ch'è, persona, in tante assunte na­ ture, quanti mondi sono, furono e saranno. - E dacché per il cam­ mino della vita, oltre la lampada della Legge, il pane ci vuole, il pane che ci nutra ; ecco il banchetto, quello della Eucarestia. E il pane non si nega a nessuno ; e però se altri mondi ci sono come il nostro, abbisognosi di lume cosi di pane, sarà anche li il banchetto. - Ma come un pane uno e medesimo per tutti i luoghi, per tutti i tem­ pi? - La ragione, quella che si contenta del quia, aiuta il senti­ mento con analogie amorose : Il pane, essa dice, è sostanza ; ogni sostanza è relazione : cosi la sostanza acqua è relazione definita di os­ sigeno e idrogeno ; e il sostantivo quadrato è relazione definita di tali e tante linee, di tanti e tali angoli. E aggiunge : la relazione del­ l'acqua è una e medesima in tutte le gocce d'acqua, si nel piccolo ruscello, si nel mare ; qui e in ogni luogo, ora e sempre ; e la rela­ zione di quadrato è una e medesima in tutti i piccoli quadrati nei quali quello si spartisce, in tutti quelli nei quali si moltiplica ; ora e sempre, qui e in ogni luogo. La Chiesa coteste analogie corregge, e correggendo le toglie, e formula il mistero che, soverchiando l'intel­ letto, compie il sentimento. In breve, il mistero lo sento, e lo intendo per analogie ; e poi, le analogie disparendo, piu non lo intendo. Intendo e non intendo per accostamenti e discostamenti, per ombre convertentisi in luci e luci convertentisi in ombre. Ma nel mistero del male, oppone la mala ragione, dov'è la luce ? - E non c'è il bene ? questo è, dice la buona ragione, la luce. E poi segue : Dio è buono ; chi è buono fa il bene, non il male ; ma il male c'è ; dunque non Lui, l'uomo lo ha fatto. Necessariamente ? no, se no sarebbe come l'avesse fatto Dio ; dunque liberamente. - E la libertà è bene o male ? Dio fe' libero l'uomo, e Dio è buono ; dunque essa è un bene. È bene finito che può farsi maggiore di sé, sino a con­ vertirsi in necessità di bene : ecco il paradiso ; o può farsi mìnore di sé, sino a pervertirsi in necessità di male : ecco l'inferno. - E non poteva Dio fare si che la libertà in ciascuno si convertisse in neces­ sità di bene? - Se la luna dicesse : Perché non sono io · sole ? e se la persona di un dramma dicesse : Perché non personifico io cotesto

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GIUSEPPE FAGGIN

anziché cotest'altro ? si risponderebbe : Conveniva che cosi fosse. Ma l'uomo libero sceglie da sé ciò che vuole essere nell'universale dramma ; ed egli si può da sé fare opaca luna o fulgido sole, e quale ch'egli si faccia, l'universale ordine non ne ha in sé turbamento. - La Chiesa illumina e dice : A niuno è negata grazia che basti a salvazione ; e, usata bene, necessariamente salva. E perché il male è tanto ? - E la ragione umile risponde : Pio o meno è il medesimo ; se anche in tutti i mondi di mali ce ne fosse uno solo, la stupefazione è la medesima. - Se la vita è bene, oppone la ragione degli orgogliosi, perché ci è tolta ? perché ci è data, se è un male ? - Risponde la ragione degli umili : Bene è, usata bene ; male è, usata male ; essa non è fine a sé, è mezzo al fine. - Ripiglia quella : Fine non ce n'è. - Non ce n'è, e mi domandi perché è la vita ? Cotesto tuo perché è confessione che c'è il fine. Se il tuo ope­ rare è sempre per un perché, sarà senza un perché il tuo essere ? Ripiglia quella : La coscienza falla allorché dice eh'io opero per questo o cotesto fine. - Ma tu sei certa che mi hai risposto cosi ? E per­ ché ? perché coscienza cosi a te fa manifesto ; dunque in quel che dici, La coscienza falla, ti contraddici e dici che non falla. - Ma se fine c'è, e non è qui, sarà di là ; ma di là senza il cervello come farà l'anima ? - E la ragione pura, cioè fanciulla, risponde : Tanta diffi­ coltà è che per mezzo del cervello l'anima comunichi con l'universo, quanta ce n 'è che comunichi senza quello, perché come corpo è l'uno, cosi corpo è l'altro. Comunicherà, senza mezzo, con l'universo, non per segni e per simboli ; lo conoscerà qual è in sé, non quale a lei ora apparisce. Tutto ciò a me insegna la Chiesa ; e, pure non intendendo, in­ tendo che è musica : eco di quella che risuona per entro ai seni de­ gli universi intellettuali delle idee, veniente dai seni degli eterei uni­ versi, da Dio mossi, degl'ignoti elementi primi delle reali cose. E co­ testa eco la sento ; e però credo, spero, amo. - Dico dirittamente ? Mi coroni tu e mitrii? Il Teologo. Di mitrie (e ce n'è molte) ne fu data una sola a un vivo, e se la tolse da sé (il Poeta) ; le altre si daranno ai morti, e non a quelli che han filosofato pio o men bene, ma si a quelli che han finito bene la vita. ( Yidemw in aenigrnate, cit.,

pp. 406-412).

Lo spiritualismo nella seconda metà dell' Ottocento

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SAPERE È SAPERE DI NON SAPERE

Prendi un 'idea, e dimanda ad alcuno : Che è? Quella idea per la interrogazione è divenuta X. - Risponderà : X = A + B. - E che è A ? e che è B ? - A e B divengono X' e X". - Risponderà : X' = C + D - X" = E + F. E che è C ? e che è D ? e che è E? e che è F? E l'X è divenuto quattro X e l'X" è divenuto altresi quattro X ; e cosi il primo X è divenuto otto X. E cosi seguitando. Dunque la definizione d'un X, cioè d'una idea incognita, è moltiplicazione di incognite. Pili chiaro : Ogni definizione è cotesto : X = oo X. Ogni scienza è cotesto : coscienza d'infinita ignoranza. ( Videmus in aenigmate, cit., pp. 398-399).

IL VECCHIO E IL FANCIULLO Il vecchio che smemora, ridiviene fanciullo, e la scienza sua si riduce nell'idea prima, quella dell' Essere. Gli si domanda : Chi è co­ lui ? - Ed egli : È . . . e non va oltre, perché le note di colui sonosi pro­ fondate nella valle buia della sua incoscienza. Il fanciullo è interro­ gato all'esame : Che è il circolo? Risponde : È . . . e non va oltre, perché li per li stupidendoglisi la mente, quell'idea ha per picciol tempo riti­ rate le note in sé,

come face le corna la lumaccia. Il maestro dice a lui : N on sai nulla. Ma a torto ; egli sa molto, sa dell'idea dell' Essere. Ma al vecchio quell'idea dell' Essere, vota­ taglisi di ogni contenenza ideale gli si riempie di sentimento pie­ toso : è l'idea di Dio, l'ultima stella, che, scurandoglisi cotesto mondo, in un altro lui guida. ( Videmus in aenigm.atc, cit., p. 399).

XIV.

J OHN HENRY NEWMAN

John Henry Newman nacque a Londra il 21 febbraio 1801, di famiglia calvinista ; nel 1817 entrò al Trinity College di Oxford, fu ordinato diacono nel 1824, prete nel 1825 e vicario di St. Mary nel 1828. Tornato a Oxford da un viaggio in Italia e in Grecia ( 1832-33), partecipò appassionatamente al movimento religioso, che fu detto Movimento di Oxford o Movimento Trat­ tariano ( dal nome degli opuscoli « Tracts for the Times », coi quali i suoi aderenti miravano a conciliare l'anglicanesimo con la Chiesa romana) : è suo il Tract XC, con cui egli cercò di dimostrare la compatibilità della Chiesa anglicana con la teologia cattolica e che provocò il bando contro i Tràttariani da parte dell'autorità ecclesiastica ( 1841). Si ritirò allora a Littlemore, dove maturò la sua conversione alla fede cattolica : il 9 ottobre 1845 fu battezzato, nel l847 ordinato prete. L'anno dopo fondò a Birmingham l'Oratorio inglese ; dal 1851 al 1858 fu rettore della nuova Università catto­ lica di Dublino ; nel 1879 fu nominato cardinale da Leone XIII. Mori a Edg­ baston l'H agosto 1890. La sua prima opera è The Arians of the Fourth Century ( 1833), un'accu­ rata ricerca storico-teologica sull'arianesimo del IV secolo ; è del 1845 l'Essay on the Development of Christian Doctrine (trad. ital., Bologna, 1967); è del 1864 l'Apologia pro vita sua (la Il ed. fu pubblicata nel 1865 col titolo History of my Religious Opinions ; trad. ital., Roma, 1956) in risposta al prof. di storia Carlo Kingsley, anglicano, che aveva scritto : « Padre Newman ci insegna che la veracità per se stessa non è una virtu per il clero cattolico » ; è del 1875 An Essay in A id of a Grammar of Assent (tra d. ital. col titolo Filosofia della religione, Modena, 1943). L'elenco completo delle sue opere è nel Dictionn. de Théol. Cathol., Xl, col. 370-71. L'edizione di Londra, Collected Works, 1870-1879, comprende 37 volumi ; Letters and Correspondence, Londra 1891. È in corso l'edizione italiana delle Opere di N., in lO voli., a cura di M. Guidacci e G. Velocci, Firenze, 1970 sgg. ( l : Sermoni ; II : Gli Ariani del IV secolo ; III : Sulla giustificazione ; IV : La via media ; V : Saggio sullo sviluppo del dogma ; VI : Idea di una università; VII : A pologi� pro vita sua ; VIII : Gramma­ tica dell'assenso; IX : Scritti storici, autobiografici e vari; X : Bibliografia e indici : finora non tutti pubblicati). A cura di H. Tristram e L Bouyer sono pubbl. in traduz. frane., con testo inglese, gli, Écrits autobiogra­ phiques, Parigi; 1956. È trad. in ital. il Saggio sulla poesia, Padova, 1967 (va ricordato che il N. fu anche poeta : gli storici della letteratura inglese annoverano fra le srie cose migliori l'inno giovanile « Lead, kindly Light >> ( 1833) e il monologo drammatico del 1866 > dell'essere (J" Maritain, Sept leçon sur l'etre, Paris, Téqui, 1932-33, pp. 54, 66). Si soggiunge bensi che codesta intuizione intellettuale dell'essere è astrattiva, quasi potesse esserci intuizione di un ab tratto ; ma si spie­ ga tosto che astrazione è come estrazione di un minerale dalla ganga (p. 96), sicché quello che resta è un « qualche cosa » che la mente intuisce o un oggetto visivo dell'intelligenza. Questo risultato, a cui si attiene l'ontologia spersonalizzante ·di tutti i tempi, è l'entificazione della copula del giudizio. Invece è precisamente la copula del giudizio che impedisce di giungere a questo risultato. L'« essere-copula » è funzione : funzione che ha valore soltanto nel compito della determinazione dell'ente, senza potersi mai entificare essa stessa. Giudizio è funzione dell'ente personale in rapporto all'ente, personale o individuale, qualificato nella sua precisa determinazione. Il giudizio è sempre teso tra un ente e la sua ·determinazione. La copula non si determina mai essa stessa. Chi determina la copula annulla il giudizio. Eticnne Gilson ha compiuto uno sforzo vigoroso per determinare la copula e giustificarne l'entificazione : ha suppo· sto, accanto ai giudizi de tertio adiacente, in cui la copula ..serve da congiunzione tra due determinazioni, l'esistenza di giudizi di esi­ stenza, de secundo adiacente, in cui l'« essere » semplicemente do­ vrebbe essere il predicato del soggetto ( Gilson, L'etre et l'essence, Paris, Vrin, 1948, p. 261). Sforzo generoso e disperato, perché in codesti giudizi ·di esistenza ( es. la pianta è) non si tratta della co­ pula che, da funzione del giudizio, diventi termine del giudizio, bensi ancora di copula che congiunge il soggetto al suo predicato di esi­ stenza (La pianta è (esistente). L'esistenza è una determinazione dell'essere senza cui la copula, nel giudizio, resterebbe una battuta in aria e vanirebbe nella sua inanità. Al posto dell'> è una totalità in­ tegrata che si dispiega o sviluppa. Totalità integrata e sviluppo sono le categorie dinamico-polari della « forma configurata », modi oppo­ sti e mutuamente complementari di considerare l'intero concreto e originario, che come unità nella molteplicità realizza nella « forma configurata » la compagine strutturale dell'intero. Compagine è nella « forma configurata » ciò a partire ·da cui - perché provvisoriamente statico - si fa suscettibile d'esser colto differenzialmente lo sviluppo, processo col quale la « forma configurata » produce una immagine momentanea ( e in certe circostanze permanente), una rappresenta­ zione, che preserva un'apertura contenutisticamente determinata. La « forma configurata » è una concrezione, e, in quanto tale, espressione, in cui qualcosa è presente in modo manifesto. La « forma configurata >> è apparizione o fenomenizzarsi, essere dimostrativo. Le è propria la struttura del mediarsi concretamente nella rappresen­ tazione. Essa è per ciascuna entità la formalità (Form) concreta, in cui essa è presente in quanto se stessa. La presenzialità ·dell'uno nell'altro - di un altro in quest'uno è la sua rappresentazione. Come rappresentazicne la « forma configurata » è immagine, poi­ ché in essa si presenta alcunché, ma non come se stesso· nella sua identità, ma come un altro, nella, sua differenza. L'immagine della « forma configurata » diviene nel pensiero immagine significativa, che viene realizzata dall'espressione linguistica nelle sue « forme con­ figurate » differenziate ( dall'affettiva all'intellettiva, dal grido alla parola). L'originaria connessione tra pensiero e linguaggio si fonda nel rapporto costitutivo di significato (pensiero) insito nell'espressione ( linguaggio), rapporto che, ovviamente, si deve pensare solo come con­ nessione integrante, come un intero, come una « forma con·figurata ». -

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ARMANDO RIGOBELLO

La concezione delPintero a modo di « forma configurata » , e quindi sintetica, riposa sulla sintesi strutturale dell'intellezwne ( at­ ti della sintesi logica) che si può descrivere come atto dello svolgere la « forma configurata » logica, che coglie la coincidenza di forma (Form) e contenuto, oggetto e realtà in sé, pensiero ed esperienza, idea ed essere. L'intellezione è un intendere logico per la forma lo­ gica integrale configurata e come tale è un pensare mediato dalla « forma configurata » in quell'atto, in cui si chiarisce un significato e nel quale la coincidenza tra sperimentato e pensato non solo si costituisce coine rapporto istituito tra gli elementi citati, ma è an­ che, al tempo stesso, conosciuta razionalmente. Viene oggettivamente sotteso all'esperienza un senso o significato, che corrisponde al suo nucleo di contenuto, che le si « adatta », cosicché la componente formale e quella materiale si incastrano reci­ procamente come giunture e producono una compagine organica autentica. Solo in funzione ·d i tale relazione si può spiegare la immediatezza con cui l'esperienza coglie contenutisticamente un significato ogget­ tivo. Poiché l'intellezione rappresenta il procedimento che è atto e de· stinato a rendere trasparenti e manifeste non solo le componenti ideologiche nella compagine organica integrale della conoscenza, ma anche quelle empiriche e logiche, in essa si può supporre una connes­ sione strutturale delle « forme configurate » del pensiero, e tanto pio in quanto l'intellezione non è altro che l'atto riflesso della cono­ scenza integrale nella sua struttura complessiva. L'accennata connessione strutturale si deve ricercare nel fatto che tutte le affermazioni, ed è indifferente di quale tipo siano, sono primariamente ideologiche ( pio precisamente idee-logiche). Qualsia­ si affermazione ha nel suo senso intenzionale l'orizzonte dell'idea, di una totalità quindi, in cui include gli stati di cose (Sachverhalte) singolari dell'esperienza, per conferire loro determinate interpreta· zioni in un contesto di pensiero incontraddittorio (identità) e per poterle spiegare fondandole. Per esempio, delle proposizioni empiri­ che, in quanto debbono fornire cognizioni, non potranno essere espe­ rienza e conoscenza semplicemente di per sé sole, poiché da esse risul­ ta chiaro certo, in modo immediato, del sensibile, ma non del sen­ sato o significante ; l'esperienza consegue un chiarimento che ne de­ termina il significato soltanto quando lo sperimentato e vissuto viene posto in rapporto logico sotto una determinata idea, in certo qual modo « diffusiva di luce », cioè capace di conferire un significato. La modalità intellettiva di conoscenza deve attingere la specifi­ cità propria, l'intendimento dell'essere piu profondo e universale, e

Lo spiritualismo del N01Jecento

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questo deve avvenire nella compagine del sistema, in cui si dispiega la conoscenza totale conformemente alla sua legge costitutiva. Il risul­ tato è una visione costruttiva dell'essere, una i}EwpCIX, che si dispiega nella compagine logica del pensiero fondante. Il nuovo concetto di conoscenza appartenente all'intellezione trova la sua pienezza come concetto di un integrale, cioè come la molteplicità dell'unità, di conseguenza come l'intero dell'essere in « forma configurata » cono­ scitiva comprensiva, come concetto di un intendimento dell'essere cui si tende nel procedere logico integrale del pensiero. La conoscenza è essenzialmente 'non solo datità, non quindi nu­ cleo contenutistico, ma altrettanto poco essa è pura formalità (Form), ma contenuto e forma, perciò « forma configurata » ( Gestalt). Come formalità, ossia forma logica trascendente, è una forma-formans o piu esattamente una forma transformans, una forma che dà conformazione, cioè che è « attiva » nel trasformare, e non « pas­ siva ». La compagine della conoscenza - « compagine » significa sempre il fattore creativo-attivo del comporre o compaginare in un intero, in una « forma configurata » - è la sintesi di noumeno e fenomeno, che non sopprime né l'uno né l'altro, ma porta a piena validità ciascuno d'essi, come membro, nella relazione tra pensiero ed esperienza. Si tratta della sintesi integrante costituita dall'essere della « forma configurata » conoscitiva, che è possibile, perché la cono­ scenza è una « forma configurata » costruttiva. La conoscenza come forma è integrazione formante e configurante (gestaltende), essa è capace di operare conformando, di trarre in una forma qualsi­ voglia contenuto, di conferirgli forma e di farlo divenire una « for­ ma configurata », cioè di farlo divenire formato in senso concreto. In ciò si afferma la · sintesi-struttura logica dell'intellezione. L'intendere intellettivo è intendimento sulla base di un « tra­ durre » capace di determinare un significato, è comunicazione tra­ slativa ·di un significato nelle forme del pensiero integrante. La traslazione rende possibile la concrezione dell'intero ai suoi livelli diversi, in « forme configurate » e strutture, che stanno in un rap­ porto reciproco di corrispondenza : tale rapporto non è un'identità della forma, ma significa invece una differenza formale del nucleo contenutistico. In altre parole : nella traslazione un contenuto può essere trasposto da un piano o da un contesto ad un altro, ad uno nuovo, mediante sintesi integrale ( in quanto capace di trascendi­ mento), senza che quanto viene trasposto sia alterato, eppure con la conseguenza che esso dispieghi una qualità e un'efficienza opera­ tiva sovraelevate, corrispondenti al nuovo livello. L'interpretazione oggettuale-concettuale dei fenomeni sul ter­ reno dell'esperienza rivela il primo grado di traslazione.

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ARMANDO

RIGOBELLO

Il fenomeno, come datità, di per sé nel contesto della coscienza, è qualcosa di soggettivo, è mia esperienza vissuta, ma non ha con un essente il rapporto manifesto e indipendente dal soggetto, non ha l'oggettività che dobbiamo esigere dalla conoscenza. Il contesto psi­ cologico ·della coscienza e il contesto logico del pensiero sono unità e ordini distinti, strutture contestuali qualitativamente distinte. La traslazione rende possibile tuttavia trasferire elementi dall'ordine del contesto fenomenico nell'ordine del contesto di pensiero, cosicché essi in seguito a ciò sono sottoposti alla legge del nuovo ordine ( di pensiero), si inseriscono nel nuovo intero, e d'ora in poi vengono anche qualificati in modo nuovo da esso. Poiché nel pensiero, dal nuovo inqua-dramento in tale ordine, per i fenomeni sorge una nuo­ va qualità logica, qualcosa che essi non possono produrre da sé, dal loro strutturale ordinamento fenomenico nel puro contesto delle apparizioni o fenomeni, rimandano a qualcosa di oggettivo, che essi significano. La struttura interpretativa del concetto è caratterizzata dal fatto che fenomeno (percezione) e noumeno ( idea), vengono posti nella compagine della relazione e della connessione reciproca, da cui risulta l'oggetto nella sua determinatezza di tipo conoscitivo. Da questo ordinamento ad una compagine che foggia un intero, consegue la trasposizione o traslazione ·del dato dall'ambito di signi­ ficanza della percezione alla sfera di significanza dell'interpretazio­ ne. In tal modo il nucleo contenutistico di significato, come princi­ pio del conferimento di un significato, sul piano del suo inserimento diviene una concreta interpretazione significante nei riguardi del fenomeno. Per la determinazione di un oggetto, dalla percezione risulta cosi la « interpretazione univoca » ( Eindeutung) ·di un fenomeno nella concrezione del concetto, attraverso il superamento traslativo della astrazione. Mediante la traslazione logica nell'ambito ordinativo di quel rap­ porto di pensiero interpretante-determinante, le proprietà fenome­ niche divengono contrassegni degli oggetti ; da · contenuti coscienziali, divengono contenuti concettuali sulla via della sintesi integrante, che nella sua attualità costitutiva della « forma », procede con me­ todo traslativo, partendo ·dall'inserimento concreto della forma cono­ scitiva in congiunzione con il fenomeno. Il metodo dell'astrazione (Aristotele) come procedimento analitico diretto, viene eliminato dal metodo della traslazione, che rappresenta un metodo di sintesi. La condizione di questa compagine traslativa, in cui il fenomenG della percezione e il significato dell'idea vengono posti in mutua rela­ zione in una « forma configurata » che li converte l'uno nell'altra,

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Lo spiritualismo del Novecento

è la sua possihililà per principio d'essere composta e compaginata. Percezione e significato ·devono « adattarsi » recipr9camente, affin­ ché sorga tale compagine. Siffatto adattarsi reciproco può essere de­ nominato affinità, ed è caratterizzato dal fatto che la percezione, già come struttura figurata, è di per se stessa rappresentativa, cioè, a quanto essa stessa non è, conferisce presenza mediante rappresen­ tazione e, in questa struttura - come immagine o figura dei sensi -, già va incontro all'immagine significante. Poiché la struttura figura­ ta che cos'altro significa, se non la rappresentazione di un oggetto, quindi una relazione intenzionalmente ostensiva nella stessa perce­ zione ? Che cosa d'altro significa il senso, se non appunto la rela­ zione verso un oggetto inteso, cui rimanda chiaramente, univoca­ mente ? L'idea come nucleo contenutistico significante non è mai que­ sta medesima relazione, ma è il suo contenuto e il fondamento del concetto intenzionalmente determinante. Essa fonda, traendola dal suo nucleo, l'interpretazione, dovunque sia applicata. Quando, appellandomi all'esperienza dichiaro di aver visto, u­ dito o vissuto io stesso qualcosa, mi riferisco espressamente all'effet­ tivo verificarsi dei processi da me osservati. Intendo che il processo osservato, che io ho colto, per esempio, come un lampo, ha avuto luogo anche nella realtà

( « Il

lampo è scoccato » )

.

S i mostra cosi

che percezione, interpretazione e constatazione dell'effettività sono unificate nell'atto della mia esperienza, in cui il cogliere, interpretan­ dole,

le immagini che mi balenano

dinanzi,

e la

constatazione

della loro effettività, compongono un'unità concreta. Unicamente attraverso l'interpretazione vengono colti gli oggetti solo nella loro condizione qualitativa, nelle loro proprietà. L'esperienza tuttavia va oltre questa ·determinazione qualificante dell'oggetto e afferra l'effet­ tività, la realtà effettuale getti. Dal quid

est

( Tf/irklichkeit),

cioè la

realitas

degli og­

essa ricava che quel qualcosa esiste. L'esperienza

allo stadio della constatazione fornisce dati di fatto, quindi non piO. puri oggetti

( ob-iecta),

ma entità veramente consistenti

( Bestiinde) .

Di conseguenza, l'interpretazione si eleva ad affermazione. L'in­ terpretazione risulta quindi completata qualitativamente fino a ra�­ giungere un grado piu elevato, si integra nell'affermazione, per co­ stituire una « forma configurata » logica piO. alta, che implica in sé la piO. bassa e in tal modo la innalza con sé. Questa integra­ zione traslativa significa il sorgere di un nuovo intero, con la com­ pagine dell'interpretazione e dell'affermazione :

la