Grande antologia filosofica Marzorati. Il pensiero contemporaneo. Sezione prima [Vol. 25]

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Grande antologia filosofica Marzorati. Il pensiero contemporaneo. Sezione prima [Vol. 25]

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GRANDE ANTOLOGIA FILOSOFICA diretta da MICHELE FEDERICO SCIACCA coordinata da MARIA A. RASCHINI e PIER PAOLO OTTONELLO

MARZ ORATI- EDITORE- MILANO

Proprietà letteraria ri.seroata

©

Co pyright 1976 by Marzorati Editore CL 23-01'74-1



Milano

IL PENSIERO CONTEMPORANEO (Sezione Prima)

Volume Venticinquesimo

INDICE

GIANNI VATTIMO

Friedrich W. Nietzsche

pag.

1

p ag.

387

INTRODUZIONE: l. Nietzsche «filologo>>. - 2. Civiltà tragica e no­ zione di decadenza. La prima filosofia di :Nietzsche 3. I l sorgere del pensiero genealogico: da Umano troppo umano a La gaia scienza. 4. L'eterno ritorno e l'oltreuomo. Bibliografia essenziale. .

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TESTI: l. Civiltà tragica e decadenza. · l. Apollineo e dionisiaco. . • 3. La verità come menzogna sociale. - Il. L'iti­ nerario attraverso la metafisica e il sorgere del pensiero genealogico. l. «Umano troppo umano >>: l. Delle prime e ultime cose; 2. Per la storijl ·dei sentimenti morali; 3. La vita religiosa; 4. Dell'anima degli artisti e degli scrittori; 5. Sintomi di cultura superiore e inferiore. 2. «Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali JJI: l. Libro primo; 2. Libro secondo; 3. Libro terzo; 4. Libro quinto. · III.« La gaia scienza Ji: l. Li· bro primo; 2. Libro secondo; 3. Libro terzo; 4!. Libro quart>, cc Buono e cattivo ll; 2. cc Colpa>>, cc Cattiva coscienza ll e simiH;' 3. Che significano gli ideali ascetici? 3. Il mondo diventato favola.

2. La malattia storica

GuGIJELMO FoRNI

Fenomenologia INTRODUZIONE: I. Le origini della fenomenologia: l. Le scuole kantia. nc dell'Ottocento 2. La psicologia di Franz Brentano. - II. Il pensiero di Edmund Husserl: l. Genesi e senso della psicologia fenomenologica. 2. L'oggettività ideale come condizione della conoscenza . " 3. Astra­ zione empirica e intuizione di essenza 4. Superamento della psicolo­ gia: il concetto di cc coscienza pura Jll. 5. I gradi_ della riduzione feno· menologic11. 6. Scienze della natura e dello spirito. La fondazione trascendentale della logica 7. La fenomenologia come «nuovo carte: sianismo >> 8. La crisi dell'umanità _europea come per(lita della di· mensione della cc vitl! >> 9. Il problema ·della storia nell'1,1ltima �eno· menologia. III. Le scuole fenomenologiche: l. L'eredità husserlia­ na. 2. Max Scheler 3. Nicolai Hartmann . . 4. La fenomenologia te· desca contemporanea: Eugen Fink c Ludwig Landgrebe. 5. La feno· .



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Indice

x mcnologia francese contemporanea: Ricoeur. - Bibliografia essenziale.

Maurice

Merleau-Ponty

e Paul

TESTI: l. FRANZ BRENTANO. - La classificazione delle attività psi­ chiche: a) Tentativi di classificazione; b) Cos'è il bene? - 2. EDML"ND l. Ricerche logiche: a) Confutazione dello psicologism.o; HussE.RL. b) Evidenza e verità; c) L'unità ideale del significato; d) Gli oggetti generali; e) Astrazione empirica e intuizione eidetica; f) L'intenzio­ nalità della coscienza; g) Oggetto intenzionale e contenuto immanente; h) Oggetto intenzionale e oggetto reale. - II. La filosofia conie scienza ·rigorosa: a) Il compito della fenomenologia; b) La psicologia speri­ mentale; c) Mondo naturale c mondo psichico; d) Il metodo della psicologia >

In un frammento autobiografico del 1863, cioè di quando aveva dician· nove anni, Nietzsche conclude lo sguardo retrospettivo sulla propria vita con queste parole: « Cosi, a quasi tutto quello che mi è accaduto, eia esso gioia e dolore, posso guardare indietro con gì:atitudine, e gli eventi mi han· no finora guidato come un bambino. Verrà forse un momento in cui dovrò prendère iÒ stesso le redini degli avvenimenti ed entrare nella vita. E cosi l'uomo cresce venendo fuori da tutto ciò che una volta lo circondava ; non occorre che rompa violentemente i suoi legami ; improvvisamente, quando un dio lo ordina, essi cadono ; e dov'è il cerchio che ancora lo abbraccia ? È il mondo ? O Dio >> (1). Forse Nietzsche non > mai, come pensava qui, t< nella vita >> , almeno quale gli appariva allora come mondo « adulto»; in­ vece, questo sentimento di uno svolgersi della sua vita; benché la sua decisione di seguire gli studi filologici a preferenza di quelli teologici urtasse contro l'opposizione della madre, non sembra che per Nietzsche stesso questa scel­ ta abbia avuto un carattere drammatico. Nato il 15 ottobre 1844 nella cano­ nica del piccolo vi11aggio di Rocken, non lontano da Lipsia, dove il padre era pastore, Nietzsche fece i suoi primi studi a Naumburg, dove la famiglia si era trasferita nel 1850. Il padre di Nietzsche era morto nel 1849 ; nel 1850 mori anche l'unico fratello maschio, Joseph; Nietzsche rimase dunque con la madre, Franziska Oehler, e la sorella Elizabeth, di due anni piu giovane di lui. Quest'ultima sarà una presenza costante nella vita del fratello, sen­ tita sempre piu nettamente da lui come un ostacolo a ogni progetto di mu­ tamento della propria vita (per esempio nel caso della relazione con Lou Salomé); sarà anche lei ad avere una parte decisiva nell'edizione degli scrit­ ti postumi di Nietzsche, determinando, con le sue manipolazioni di que­ sti testi, la formazione di una immagine completamente distorta della sua personalità e del suo pensiero. Per gli studi ginnasiali, dopo i primi anni a Nanmburg, Nietzsche fu in­ viato nel collegio di Pforta, rinomato per la serietà dell'insegnamento, spe­ cialmente filologico, che vi si impartiva. A Pforta avevano studiato Novalis, Fichte, Friedrich Schlegel. Nietzsche vi rimase dal 1858 al 1864, assogget­ tandosi di buon grado alla disciplina piuttosto rigida del collegio, e stu­ diando intensamente sia le letterature classiche, sia i grandi moderni tede(3) Sull'importanza dcll'esperienZJI filologica nella formazione della critica nietzscheana della nozione di verità mi permetto di rinviare al capitolo III del mio Ipotesi su Niet­ zsche, Torino 1967.

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schi (Schiller, Kleist, Holderlin, Fichte), oltre ad approfondire la propria cultura musicale con una intensa attività di ascoltatore, pianista, composi­ tore: è di questi anni l'intensa ammirazione per Schumann, che lo avvia, - dalla sua precedente preferenza per Haydn - a sviluppare un gusto mu­ sicale piti vicino ai nuovi orizzonti che ben presto gli si apriranno con Liszt e Wagner. Già a Pforta l'amico Gustav Krug fa conoscere a Nietzsche la trascrizione per piano che Hans von Biilow ha dato del Tristano. Negli anni di Pforta nascono alcune delle amicizie che rimarranno vive lungo tut­ to l'arco della vita di Nietzsche: tra i suoi condiscepoli di Pforta vi sono infatti Paul Deussen e Cari von Gersdor:ff ; il primo diventerà un fervido se­ guace della· filosofia di Schopenhauer e studioso del pensero indiano. L'ami­ cizia di Nietzsche per lui si manterrà anche quando - abbandonata ormai la giovanile devozione per Schopenhauer - egli dissentirà completamente sul piano teorico dallo schopenhauerismo di Deussen (si veda la lettera del­ l'agosto 1877, a proposito degli appena pubblicati Elemente der Metaphysik}, e anzi vedrà nelle dottrine indiane che Deussen si sforza di far conoscere ai tedeschi del suo tempo ( Das System des Vedanta, Lipsia 1883 ; Die Sritras des Vedanta, ivi 1887) « l'espressione del modo di pensare a lui piu estraneo » (lettera del 1883 ). È verosimile comunque che questi due scritti di Deussen fossero una delle fonti attraverso cui Nietzsche accostò il pensiero india­ no (4). Quanto all'altro amico di Pforta, Cari von Gersdorff, non divenne uomo di studi ; anzi; l'amicizia che Nietzsche ebbe per lui ( senza interru­ zioni almeno fino al1877, attestata da un carteggio frequente in cui Nietzsche confidava all'amico pensieri, progetti di lavoro, la maturazione stessa delle sue posizioni filosofiche) sembra fondarsi molto sulla devozione con cui Gersdor:ff si riconosceva in qualche modo suo discepolo ; mentre d'altra par­ te Nietzsche ammirava in lui - cadetto di una nobile famiglia prussiana le virtu migliori della nobiltà terriera tedesca: la forza, la lealtà, la calma sicurezza nell'affrontare l'esistenza ; molti dei caratteri che saranno ripresi e trasfigurati nell'immagine dell'Uebermensch. Conclusi gli studi liceali con una dissertazione in latino su Teognide, nell'ottobre del 1864 Nietzsche si iscrive ai corsi di teologia e di filologia all'università di Bonn ; di qui, dopo due semestri, si trasferisce a Lipsia, abbandona la teologia {ler dedicarsi unicamente alla filologia classica sotto la guida di Friedrich Ritschl. La de­ cisione di interrompere gli studi teologici suscita grave turbamento nella madre e nella sorella di Nietzsche ; quanto a lui, già a Pforta, forse anche in connessione con l'approfondimento di un modo filologico di accostare la Bibbia, le sue convinzioni religiose si erano seriamente affievolite : i due brevi saggi del periodo di Pforta (Sull'infanzia dei popoli, del 1861, e Fato e storia, del 1862), come pure alcune lettere della stessa epoca (5), testimo­ niano di uno stato d'animo per cui il cristianesimo e la religione non co­ stituiscono piu un problema sentito in termini di impegno personale. Solo nel periodo degli studi universitari si può però parlare di una formazione di posizioni filosofiche in Nietzsche : se fin da Pforta lo studio della filologia classica si era accompagnato, piu o meno esplicitamente, a un atteggiamen­ to spirituale classicistico, che assumeva l'antichità come modello e criterio in base a cui giudicare, negativamente, il presente e la vedeva, insieme, co(4) Cfr. CHARLES ANDLER, Nietzsche. Sa vie et sa pensée, nuova ed., Parigi 1958, vol. Il, p. 412 ss. (5) Si veda per esempio la lettera Jlgli amici Pinder e Krug, scritta da Pforta nel. l'aprile 1862 (in Briefe, Historisch-Kritische Gesamtausgabe, vol. I, pp. 180-181).

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me un'epoca di grandi individualità e di vera autonomia morale, quella stessa che Nietzsche trovava teorizzata nella filosofia di Fichte, durante gli anni di studio a Lipsia egli si accosta alla filosofia di Schopenhauer e, nel 1868, conosce personalmente Richard Wagner. Rispetto a queste due figure chiave si definisce per la prima volta una filosofia del Nietzsche giovane, non accanto, ma in stretta connessione con la sua esperienza di filolÒgo. Il primo effetto della lettura del Mondo come volontà e rappresentaziorw, lettura che è del 1865, è quello di mettere in mora la fede assoluta nel la­ voro filologico, che ora viene concepito piuttosto come uno strumento da porre al servizio di una prospettiva filosofica (6). È verosimile che questa prima presa di distanza dalla filologia sia favorita dal temporaneo distacco dall'ambiente accademico dovuto all'anno del servizio militare che Nietzsche presta nel reggimento di artiglieria di Naumburg, dall'ottobre 1867 all'ot­ tobre 1868, con una lunga interruzione a causa di una caduta da cavallo nel marzo del 1868. In questo periodo Nietzsche termina un ampio lavoro sulle fonti di Diogene Laerzio, che viene pubblicato nel cc Rheìnisches Museum l), una delle piu autorevoli riviste filologiche del tempo, per interessamento di Friedrich Ritschl. Mentre da un lato, sotto l'influsso di Schopenhauer, Nietzsche si apre in questo periodo a nuove prospettive sul rapporto filologia­ filosofia, dall'altro anche il suo lavoro strettamente filologico - come attesta la ricerca sulle fonti di Diogene Laerzio e poi, piu tardi, il tema che sceglie­ rà per la prolusione a Basilea (Omero e la filologia classica) - non è tanto orientato a ricostruire direttamente personalità e momenti del passato, ma piuttosto a indagare le vie attraverso cui si è formata l'immagine che i mo­ derni si fanno del mondo e della cultura antica. Questo modo di affrontare il lavoro filologico egli lo condivide con Erwin Rohde, con cui entra in ami­ cizia negli anni di studio presso Ritschl, e al quale rimarrà legato per tutta la vita. Benché i piani di lavoro comune con Rohde non abbiano seguito, Nietz­ sche, dopo la già ricordata prolusione basileese su Omero e la filologia clas­ sica, sviluppa questa ricostruzione del modo in cui si è formata l'immagine moderna della classicità anche neJla sua opera maggiore di questi anni, cioè La nascita della tragedia dallo spirito della musica, ovvero: Grecità. e pessimismo (1), che si presenta anzitutto come il lavoro di un filologo ( 8 ). La discussione, che muove dal fenomeno esemplare della tragedia e si allarga al problema generale di ciò che è il classico, approda a un generale riesame del carattere di modello che ciò che è classico riveste per la civiltà moderna ; e, in relazione a questo modello e al modo i n cui esso è inteso, a un giudizio di valore su questa civiltà. Guardata sotto questo profilo, l'ope­ ra sulla tragedia - discutibile quanto si vuole (ma quanto ? ) sul piano del­ la dimostrazione storiografica delle sue tesi - rappresenta il punto di arrivo di tutta una tradizione di filologia europea, che fin dall'età dell'umanesimo ha sempre professato, per riprendere le parole di Nietzsche nella prolusione (6) Cfr. CH. ANDLER, Nietzsche, cit., vol. I, p. 318. (7) L'opera sulla tragedia è preparata da un intenso lavoro, di cui sono testimonianza

vari altri scritti, precedenti, del periodo basilccse, soprattutto le due conferenze su Il dram­ ma musicale greco c Socrate e la tragedia, pronunciate rispettivamente nel gennaio e nel febbraio del 1870, c La vi.�ione dionisiaca del mondo, scritto nell'estate dello slesso anno. Su tutto ciò, si vedano le « Notizie e note li comprese nel volume III, tomi l c 2 dell'edi­ zione Colli-Monlinari. (8) Documenti .e ricostruzione della polemica suscitata tra i filologi dall'opera di Nict. zsche sono ora raccolti in italiano nel volume a cura di F. SERPA, La polemica sull'arte tragica, Firenze 1972.

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basileese, « la pretesa e l'intenzione di riportare alla luce un mondo ideale sepolto, c di porre dinnanzi al presente lo specchio del classico e dell'eterna­ mente valido » (9). Punto di arrivo, lo scritto sulla tragedia è anche quanto al suo contenuto e ai suoi risultati, giacché il classicismo, come assunzione dell'antichità a modello, si trova in esso privato proprio di quella esem· plarità a cui sempre si era rivolto, e questa esemplarità viene riconosciuta essa stessa come una costruzione tranquillizzante, che ha immobilizzato e canonizzato l'immagine di una antichità già decadente, quella di cui la

moderna civiltà cristiana è prosecuzione e momento di disfacimento.

2. CIVILTÀ TRAGICA E NOZlONE DI DECADENZA. LA PRIMA FILOSOFIA DI NIETZSCHE Lo scritto sulla· tragedia, terminato nel 1871, mette in luce un complesso sistema di rapporti con l'antichità classica in cui, sia pure après coup, non

è

difficile scorgere le linee di sviluppo della successiva riflessione

> ( ibid., 2). Queste feste dapprima erano proprie dei popoli barbari; e la maestosa staticità del­ l'arte dorica ·rappresenta il baluardo originariamente oppostovi dai greci. Ma a un certo punto, « dalla radice piti profonda della Grecità si fecero stra­ da istinti simili>> ( ibid.). I greci accolgono le feste dionisiache trasfi­ gurandole artisticamente, togliendo loro ciò che avevano di pura regres­ sione all'animalità, in quanto le innalzano al mondo del simbolo. (ibid., 21; corsivo di Nietzsche ). È vero che quella che abbiamo chiamato la liberazione del dionisiaco non significa la soppressione di ogni elemento apollineo : Dioniso deve parlare la lingua di Apollo perché questi, alla fine, parli la lingua di Dioniso. Un abis­ so separa i greci dionisiaci dai barbari dionieiaci.; tale abisso consiste nel fatto che solo nell'orgia dionisiaca dei greci, a differenza delle Sacee babilo­ nesi in cui l'uomo regredisce > ( ibid., 2). L'elemento dionisiaco, presso i greci, dà luogo a simboli ; ma il trionfo finale di Dioniso su Apollo si ha· solo in quanto qui tutte le facoltà simboliche dell'uomo sono stimolate al massimo : l'ontos on, le idee platoniche - e un mondo meno vero ; ma queste gerar­ chie, in definitiva, si fondano tutte « sull'obbligo che la società impone ... di mentire secondo regole fisse » ( ibid.); sicché non è arbitrario - soprat­ tutto se si tengono presenti le successive analisi della Genealogia della mora­ le dove le stesse etimologie delle parole sono l'iportate ai rapporti di do­ minio - ritenere che tutta l a gerarchizzazione che si stabilisce nel mondo dei simboli, e poi quella gerarchia che pone il mondo dei concetti al di so· pra di quello delle impressioni immediate, la preferenza accordata al «ve­ ro >> rispetto al « falso ll e, alla fine, la stessa concezione della relazione di « rimando >> del segno alla cosa - tutto questo è fondato su una « gerar­ chia >> stabilita dalla e nella società. Il mondo apollineo delle forme definite, che lo scritto sulla tragedia vede trionfare definitivamente, senza ulteriori specificazioni, per opera di Socrate, nel saggio Sulla verità c la menzogna si configura come il mondo della menzogna imposta dalla società che, per mo­ tivi di utilità, canonizza un certo sistema di simboli e lo impone come quel­ lo « vero >>, soffocando e 1·eJegando in posizione periferica o subordinata (la « poesia >> come qualcosa di meno serio della quotidianità prosaica dell'esi­ stenza ; su ciò, cfr. la prefazione della prima edizione della Nascita della tra­ gedia) ogni altro simbolismo. Il dionisiaco, come produzione di metafore e simboli che non si irrigi­ discono e non impongono una gerarchia, tuttavia, non muore definitivamen· te con la fine della tragedia greca ; Nietzsche, nello scritto aulla tragedia, lo vede risuscitare gradu almente nella musica tedesca, e segnatamente nel dram· ma wagneriano. Il saggio su verità e menzogna, di poco posteriore, segue la stessa linea, ma offre una tesi piu generale e non piu legata a Wagner. È vero che il mondo della finzione è nato originariamente per motivi di utilità pratica ( nella lotta del singolo contro la natura e gli altri, prima ; come stru· mento di cooperazione - il linguaggio - con la costituzione della società) ; m a anche quando si sia costituito i l mondo dei concetti e sia stata imposta la gerarchia logico-sociale della verità, l'impulso alla formazione delle me­ tafore non si spegne ; «esso cerca per sé stesso un nuovo regno alla sua azio· ne e un nuovo letto di fiume, e lo trova nel DlÌto e soprattutto nell'arte >> ( ibid., 2). La fiducia di Nietzsche che dalla decadenza si possa uscire me­ diante l'arte non va dunque confusa con un qualunque mito estetistico di tipo tardoromantico. Non si tratta di «evadere >> nel mondo del mito e del­ l'arte ; piuttosto, di riconoscere clte, nel corso della storia della civiltà so· cratico-decadente, si è mantenuto in qualche modo u:ri « luogo >> privilegia­ to nel quale, pur attraverso mascheramenti e rimozioni d'ogni genere, lo spirito dionisiaco, la libera inventività simbolica è rimasta viva. Ma, come la fine della tragedi a non è stato soltanto un fatto interno alla storia dell'ar· te e della poesia, bensi il costituirsi stesso di una società, cosi la rinascita del .

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tragico e la liberazione del dionisiaco comportano conseguenze assai vaste, e non sono pensabili esclusivamente e anzitutto come eventi > ) Ma la problematicità estrema dei suoi esiti, quanto al16 possibilità di effettiva realizzazione storica, conferisce piuttosto a questo scritto il carattere di un esperimento eu una via che non potrà piu essere seguita ; l'alternativa che si deli:qea in esso pare si possa ridurre a queJla hegeliana tra astuzia della ragione (accade storia in quanto ci sono illu­ sioni che spingono l'uomo ad agire) e fine deJla storia (la piena consapevo­ lezza storica è anche fine della produttività di nuova storia). Ora, sia come lettore di Zollner, sia come filologo, Nietzsche a Basilea è già oltre questa al­ termltiva : lo sviluppo dell'intelligenza e della .conoscenza razionale è un gradino dell'evoluzione che non ha senso voler cancellare ; il modo di pen­ sare m.itico dei greci, la loro religione e la loro arte sono qualcosa che non si può immaginare di recuperare. Quest'ultimo tema è ben presente nei cor­ si di filologia basileesi soprattutto tra il 1874 e il 1876, per esempio nel cor· so sulle origini e il significato dei culti reli giosi greci, in cui è approfondito il nesso - già indicato nella Nascita della tragedia fra religione e origi­ ne dell'arte (18). Decisiva, nella determinazione del nuovo atteggiamento di Nietzsche circa l'impossibilità �i una ripresa del pensiero m.itico, fu la vi­ cinanza e l'influenza di J acob Burckhardt, di cui Nietzsche conobbe e me­ ditò le Lezioni sulla storia della cultura greca. Nel 1875 Nietzsche legge la Primitive Culture di Edward Burnett Tylor (uscito nel 1871) in cui trova le basi per quella concezione > della mentalità e della religione primitiva che sta alla base di molte pagine di Umano troppo umano e delle opere successive. A queste nuove frequentazioni culturali basileesi va ag­ giunta la lettura di grandi moralisti francesi : Montaigne, La Rochefoucauld, Chamfort, Pascal, Fontenelle. Su queste basi, non solo si modifica profonda.

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(18)

Il corso del semestre invernale 1875-76 su Der Gottesdien.çt der Griechen è pub· blicato nel volume III dei Philologi.ca di Nietzsche (XIX dell'edizione Naumann-Kroner delle opere), pp. 1-121.

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mente il su·o atteggiamento verso il pensiero mitico, ma, di riflesso, anche e soprattutto il modo di considerare Wagner e il significato riformatore della sua opera. C'è però anche un importante elemento, meno mediato e piu elementar­

mente biografico, che sicuramente gioca nello sviluppo del pensiero niet­ zscheano, almeno dopo il 1873 ; è la malattia, o le malattie ( 19), la cui natura .non sembra possibile stabilire con certezza, ma che in ogni caso si mani­ festava con violenti e prolungati dolori di testa, nausee e disturbi digestivi, indebolimento estremo della vista, insonnia. Questa malattia, che lo costrin· gerà, dopo alcune interruzioni temporanee, a dimettersi definitivamente dal­ l'università di Basilea nel 1879 ( da allora iii poi vivrà con una pensione di tremila franchi l'anno, i due terzi dell'ultimo stipendio), e darà alla sua vi­ ta l'impronta di un perenne viaggio alla ricerca di climi piu favorevoli, non è certamente estranea all'individuazione del problema teorico che domina le opere di Nietzsche a p artire da Umano troppo umano, e che si annuncia già nello scritto su verità e menzogna. Questo problema è quello del rap­ porto verità-vita, che viene formulato nella maniera piu definitiva nell'afori­ sma IlO della Gaia scienza : « fino a che punto la verità sopporta di essere incorporata? ll ; fino a che punto, cioè, la ricerca della verità è compatibile con la vita, la quale invece - come è già chiaro nel saggio del 1873 - si af­ ferma e si consolida attraverso la finzione e la canonizzazione di un sistema

di finzioni ? Il problema si impone perché la conoscenza-finzione, nata per servire alla vita (il dovere di verità come dovere di mentire secondo regole fisse è imposto dalla società per ragioni di sopravvivenza), si raffina e si au­ tonomizz a fino a rivolgersi contro la vita stessa. Ora, Nietzsche vive la sua quotidiana esperienza di malato proprio, anzitutto, come la concretezza di questo stesso problema teorico : sia l a malattia in sé, come impossibilità di studiare, di scrivere, di insegnare, sia le sue conseguenze « emarginanti Jl ( difficoltà di vivere davvero con gli altri, spos tamenti continui), gli appaio­

no come manifestazioni del permanente conflitto tra vita e verità. A p artire da Umano troppo umano, ogni opera di Nietzsche è la celebrazione di una vittoria sulla malattia, cioè sulla difficoltà di incorporare la verità nella vita. Tutto l'apparato di metafore e immagini fisiologiche con cui Nietzsche discu­

te i problemi teorici (la salute, la dieta, il problema dell'igiene migliore da adottare) è riportabile alla sua personale esperienza della malatti a : non solo come elemento biografico a cui ci si possa richiamare per spiegare l'uso di una certa terminologi a ; né solo in quanto stato di sensibilità eccezionale,

che lo mette in condizione di cogliere ciò che sfugge all'uomo sano della quo­ tidianità. L'esperienza della malattia, se letta alla luce del problema teorico

del rapporto verità-vita, risulta piu profondamente legata al significato, e agli stessi squilibri, del pensiero di Nietzsche : la difficoltà di

re

ll

> che Nietzsche opera, negli anni basileesi, della conoscenza ra­ zionale, della scienza, e anche, in certa misura, della storia (come quella at­ traverso cui siamo passati arricchendoci di esperienze sempre piu articolate e sfaccettate : cfr. Umano troppo umano, 292), Io conduce a sottolineare il carattere dionisiaco della stessa conoscenza intellettuale : non piu opposi­ zione tra un sapere mitico, produttivo e creativo, e un sapere scientifico (compresa la storiografia) paralizzante : l'impulso alla verità che si manife­ sta nella scienza è in qualche modo l'erede dello spirito dionisiaco che ha prodotto la civiltà tragica; liberazione del dionisiaco, oggi, non- significa tanto ritorno o rifondazione del pensiero mitico, ma sviluppo estremo del­ l'impulso alla conoscenza. È questo l'(( esperimento JJ di cui parlano le ul­ time linee dell'aforisma HO della Gaia scienza. Con ciò, l'arte non è ab­ bandonata a favore della scienza ; giacché la e nel successivo Der Ursprung der moralischen Emp­ findungen ( 1877) delineava una interpretazione evoluzionistica e utilitari­ stica delle idee morali, assai vicina a quella che Nietzsche espone in Uman;o troppo umano. Nictzsche lo ammirava molto, •'e certo dovette ricevere da lui stimoli e conferme alle idee che andava per suo conto elaborando. Ma in una lettera a Rohde del 1878 (21) rivendica, e con ragione, l'originalità del pro­ prio pensiero rispetto alle idee dell'amico. L'amicizia con Rée doveva dura­ re fino al 1882, quando fini nel dramma della relazione con Lou Salomé. Que­ sta giovane russa di origine francese fu presentata a Nietzsche da Malwida von Meysenbug nell'aprile del 1882, a Roma, dove un mese prima l'aveva incontrata anche Paul Rée. Lou si legò a Nietzsche e a Rée di un rapporto insieme intellettuale e sentimentale. Nietzsche pensò seriamente di poterla sposare, ma dovette rendersi conto che Lou era piu legata a Rée che a lui. La storia con Lou durò tutta l'estate e l'autunno del 1882, tra varie com­ plicazioni in cui entrarono anche, in funzione di ulteriore ostacolo, la madre e la sorella di Nietzsche. Tutto fini nel novembre del 1882, e segnò di un altro dolore la vita di Nietzsche (22). Come si è detto, l'esperimento circa la compatibilità di verità e vita che Nietzsche conduce a partire da Umano troppo umano è ispirato, in generale, da una nuova fiducia nella conoscenza intellettuale e nella scienza : la ri­ nascita di una civiltà tragica e la liberazione dello spirito dionisiaco non vanno piu cercate in una rifondazione del pensiero mitico ma nel persegtù­ mento, fino agli estremi linùti, dell'impulso alla conoscenza e alla « verità ». Ciò che in tal modo risulterà non sarà solo u n esperimento con la vita, ma con la verità stessa ; non sarà solo messo alla prova quanto di verità la vita può tollerare, ma che cosa ne sia della nozione di verità quando la si svilup­ pi fino in fondo. L'esperimento comincia con l'assunzione di un atteggiamen­ to « riduttivo » : il primo aforisma di Umano troppo umano, di chiaro signi­ ficato programmatico, è intitolato « Chimica delle idee e dei sentimenti » e annuncia il proposito di rintracciare l'origine dei « colori pio magnifici >> (le prime e ultime cose : la cultura, la morale, i valori) dai « materiali piu

(21 )

Cfr. le 11;ià citate Lettere a Rohde, pp. 257 . 58. (22) Lou Salomé doveva poi divenire amica di Rilkc e di Freud. Una interessante ricostruzione della sua vita si può leggere nel recente libro di H. F. PETERS, Mia sorella mia sposa, trad. it. di A. Pandolfi, Milano 1967.

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bassi e spregiati >>. Nietzsche è ben consapevole che questo modo di impo· stare le cose riprende in un ce1·to senso d a zero la via della conoscenza ( « I problemi filosofici riprendono oggi ... la stessa forma interrogativa di duerni· la anni fa ... n ), andando in ce.rca degli « elementi >> come i primi filosofi ionici. L'esperimento con la verità è anche, infatti, un esperimento sul me­ todo : se la conoscenza è stata cm Ìcepita, nella tradizione metafisica, come ri· salimento ai principi c alle cause, si tratta di procedere ancor piti radica}. mente, e cercare l'origine delle stesse nozioni di principio e di causa. Ap· plicando con rigore il metodo della cc fondazione >> (il reperimento di una ragione sufficiente per ogni fenomeno) Nietzsche giungerà a vedere l'infon· datezza del metodo stesso. È appena necessario avvertire che questo itinera· rio metodologico, che implica la revisione del significato stesso del pensiero e della conoscenza, non è parallelo e distinguibile dal lavoro sui contenuti ; è attraverso l'esasperazione del rigore fondativo, per la via della > , che Nietzsche arriva all'esito di uno > (82), che allude pro­ prio a questo fatto. Tutta la massa degli aforismi delle opere del secondo periodo - e, naturalmente, anche del terzo, se si eccettua per certi versi lo Zarathustra - è una descrizione di eventi, l'annuncio di qualcosa che ci è accaduto in quanto uomini di questa epoca, eredi di una tradizione che si autosopprime attraverso un processo di lenta maturazione. L'atteggiamento del « pensatore futuro » , che già in parte noi siamo, quando si rende conto che un enigma base del mondo non esiste, non può essere lo scetticismo, di­ sperato o no, perché si tratterebbe ancora di una posizione metafisica. Ma l'unica alternativa che Ni etzsche vede, c che vive egli stesso, negli anni della emancipazione da Wagncr e della elaborazione di Umano troppo umano, è quella di una appropriazione della tradizione di cui si sente costituito : non la negazione del passato come errore, ma il riconoscimento che quegli erra­ menti che oggi ci appaiono la sostanza della cultura del passato sono stati necessari ; solo 'in virtu della maturazione che essi hanno rappresentato noi siamo oggi in grado di elevarci a una forma di pensiero piu libera e meno violenta ( si veda il già ricordato aforisma 292 di Uma-no troppo umano, for­ se l'espressione piu suggestiva di questo momento del pensiero di Nietzsche). Paradossalmente, però, il pensiero piu libero a cui cosi giungiamo è ancora una volta quello della necessità dell'errore : non solo gli erramenti della re­ ligione, della morale, della metafisica sono stati necessari per render possi­ bile lo « spirito libero » ; ma il contenuto stesso di questa libertà dello spi­ rito è la consapevolezza che la vita non è po11sibile senza l'errore. Anche la scienza, infatti, che per il Nietzsche di Umano troppo umano rappresenta la forma piu matura di (( conoscenza » del mondo, opera efficacemente in quanto si serve di una quantità di generalizzazioni arbitrarie, di postulati indimostrati, di metafore (è quanto Nietzsche mostra nella prima parte di Umano troppo umano, proprio poco dopo aver enunciato il suo programm.a di una filosofia scientifica). La connessione dei due aspetti del riconoscimento della necessità del­ l'errore (per il passato ma anche per il presente e il futuro, in sensi diversi) costituisce il problema dello (( spirito libero >> ; un problema non solo teorico, giacché quello che interesserà sempre piu profondamente Nietzsche, fino al­ le opere degli ultimi anni e alla massa di appunti della Volontà di potenza, è la questione del come realizzare un tipo di uomo capace di vivere nella co­ scienza della necessità dell'errore (che possa continuare a sognare sapendo di sognare, come dice l'aforisma 54 della Gaia scienza). Sul piano teorico la connessione è chiara : se il riconoscimento della necessità dell'errore concer­ nesse solo il passato, opporrebbe semplicemente agli .erramenti passati una condizione presente di possesso della verità ; ma non renderebbe conto, in­ tanto, della possibilità di giungere d a quegli erramenti a questa pretesa ve-

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rità ; e, soprattutto, continuerebbe a misurare la condizione presente con un criterio (la verità) totalmene incluso nell'orizzonte di quegli erramenti ormai riconosciuti come tali : sa1·ebbc come l'onesta professione di ateismo di cui parla la Genealogia della morale (III, 27). In questo senso, sebbene si sia talvolta parlato di « illuminis�o » a proposito del secondo periodo della filo­ sofia di Nietzsche, la sua posizione è in realtà del tutto diversa. L'esperimento che Nietzsche fa con la verità lo conduce a vivere un modo di pensiero che, mentre si libera dell'errore (e in questo senso si illumina e vuole illuminare) si libera anche della tirannia della nozione di verità e di tutto ciò che, sul piano metafisico e su quello psicologico, suppone e comporta la coscienza della certezza. L'uomo libero dalla tirannia della nozione di verità può guardare alla necessità dell'errore senza angoscia né disperazione proprio in quanto si distingue dall'uomo metafisico che è come > (A urora, 44 ; corsi­ vi di Nietzsche). Si tratta ancora di filosofia nel senso che la tradizione ci ha abituati ad attribuire a questo termine? Non siamo di fronte a un complesso di enun­ ciati, sia pur frammentari, sull'essere, la natura, l'uomo, e nemmeno, in sen­ so stretto, sulla conoscenza, in un senso avvicinabile a quello del criticismo kantiano. Tutti questi contenuti di pensiero, dalla metafisica tradizionale a Kant e Schopenhauer, sono chiusi in un'epoca da cui abbiamo 'gia preso congedo. Ma il congedo non è stato solo dai contenuti : è una forma di uma­ nità che è tramontata, quella dell'insicurezza, della lotta per l'esistenza, del pensiero metafisico. Il problema che rimane, come si è detto, non è tanto un problema teorico quanto pratico : stabilire chi e come sia l'uomo capace di vivere davvero questa nuova epoca del pensiero. In ci.ò, ha ragione Heideg­ ger, a vedere come centrale in Nietzsche la questione deli'Uebermensch (24).

(24) Anche se per Heid�gger lo Uebermensch nietzscheano non si proietta oltre la m�­ tafisica, ma ne rappresenta invece, come tutto il pensiero di Nietzsche, il compimento. Su ciò si veda, oltre al Nietzsche di Heidegger (Pfullingen 1961, 2 voli.,), anche il suo sag-gio « Wer ist Nic tzsches Zarathustra? »•, nel v ol . Vortrii.ge und Aufsii.tze, ivi, 1954!.

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Friedrich W. Nietzsche 4. L'ETERNO RITORNO E L'OLTREUOMO

Il nuovo tipo di pensiero a cui Nictzsche « perviene >> ( dobbiamo dirlo

tra virgolette : anche lui non lo realizza ancora completamente, dato il pecu­ liare carattere teorico-pratico del p assaggio) si può a buon diritto chiamare

genealogico (25), accentuando con questo terinine, come del resto Nietzsche fa nella Genealogia della morale, non tanto il risaiimento all'origine, quan­

to piuttosto la ricostruzione del processo attraverso cui, a p artire dall'origi­ ne, si sono costituiti e arricchiti i significati. Un tale pensiero, però, scopre

che l'&.px-fJ non è un luogo dove si possa cr"t"ijva.:L, giacché in essa non è con­ tenuta la ragione, la causa di ciò che viene dopo ; non può piu essere pen­ siero che cerca, vuole e trova la > ( come ubi con..�istam), ma solo pen­ siero dell'errore necessario, e ciò in un duplice senso, oggettivo e soggettivo, del genitivo : in quanto è consapevole che sta sognando e continua a sogna­

re, cioè è sogno esso stesso. II modello che guida la costituzione

di

questa no­

zione del pensiero genealogico nel secondo periodo della filosofia di Niet­ zsche è. ancora un mo dello estetico : nell'aforisma 107 della Gaia scienza la gratitudine verso l'arte non è solo fondata sul fatto che l'arte rende soppor­

tabile l'esistenza in senso consolatorio ; ma sul fatto che essa rappresenta la sopravvivenza, nel nostro passato di uomini meta:fìsici, di una capacità di gioire della menzogna che rende sopp ortabile > dello spirito che però l'aforisma 107 ci insegna a riferire anche all'esperienza della conoscenza, anzi, oggi, soprattutto ad essa.

Il pensiero genealogico è dunque il pensiero dell'errore necessario, del

sognare sapendo di sognare ; il pensiero che si innalza al di sopra della mo­ rale, che scherza e danza su di essa. ( Non si dimentichi che la morale è tutto

l'insieme delle forme spirituali, e anzitutto la distinzione vero-falso). In questo senso, il mo dello di questo pensiero è l'atteggiamento estetico. Del� l'esperienza estetica gli rimane però anche, in tutte le opere del secondo pe­

riodo, un altro carattere, che si ritrova continuamente nelle descrizioni del­

lo > (il nome che Nietzsche dà, nelle opere di questo pe­ riodo, all'uomo capace di innalzarsi al pensiero genealogico), e cioè un ca­ rattere di eccezionalità e provvisorietà, paragonabile alla gioia dello schia­ vo nei Satumali (cfr. Umano troppo umano, 213). Il passaggio dal secondo al terzo periodo della speculazione nietzscheana, p assaggio che è segnato dalla comparsa di temi come quello della morte di Dio, dell'eterno ritorno

(25) Sulla nozione di genealogia in :Nietzsche e nella recente letteratura nietzscheana si veda ancora il mio già citato Il soggetto e la maschera, p. H3.

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dell'uguale, dell'Uebermensch ( 26) va compreso ancora una volta, come il passaggio dalle opere giovanili a Umano troppo umano, in riferimento a un problema « estetico Jl. Se l'abbandono di Wagner e la riflessione genealogica del secondo periodo sono mossi dalla riconosciuta insufficienza di una rivo­ luzione esclusivamente artistica per la rinascita della civiltà tragica, il nuo­ vo pensiero che Nietzsche è venuto scoprendo si è però caricato di una serie d i connotati estetici o, piu semplicemente, dionisiaci. Il dionisiaco, come si è già notato, è rimasto vivo in qualche misura nella civiltà platonico-cristiana proprio nella sfera dell'arte ; questo non è senza conseguenze anche per il suo caratterizzarsi nel momento in cui una rinascita del dionisiaco sembra rendersi possibile attraverso la scienza. Questa sostituzione della scienza al­ l'arte - che incide ovviamente in modo profondo sulla stessa nozione di scienza - non significa però, nel pensiero di Nietzsche, solo uno spostamen­ to del luogo riservato al dionisiaco nella nostra cultura ; la scienza deter­ mina ben altrimenti tutto il quadro dell'esistenza, giacché deve essere scien­ tifico, per Nietzsche, tutto il nuovo modo di essere dello spirito libero in l'ap­ porto al mondo, alla conoscenza, alla vita sociale. Tuttavia, lo spirito libero resta un'eccezione, come eccezionale e marginale, rispetto all'esistenza quo­ tidiana dominata dalla logica di vero e falso, era l'esperienza dell'arte .nella tradizione platonico-cristiana. Come il genio, lo spirito libero si è finora pro­ dotto per caso ; ma si tratta di produrlo consapevolmente, e farlo diventare il nuovo tipo (specie, razza) dell'uomo. Non è casuale che il personaggio cen­ trale dell'opera del Nietzsche maturo sia Zarathustra, che è profeta e mae­ stro ; le difficoltà e le vicende alterne dei suoi rapporti con i « discepoli n ri­ specchiano soltanto la difficoltà di pensare concretamente una educazione al­ la libertà dello spirito, giacché la libertà (e l'ult:raumanità) non è qualcosa che si possa dare· e ricevere. Oltre al rilievo della figura di Zarathustra (e a l tipico tono biblico del suo insegnamento) è vero piu in generale che, a p artire da Cosi parlò Zarathustra, Nietzsche si propone con le sue opere un sempre piu esplicito intervento di tipo, in senso lato, storico-politico (27) Dal punto di vista biografico, gli anni 1882-89 sono anni di vagabondag­ gio fra la riviera ligure (a Genova, Nietzsche scrive, nell'inverno 1883, la pri­ ma p arte di Zarathustra), l'alta Engadina (nella famosa passeggiata dell'ago­ sto 1881 lungo il lago di Silvaplana l a preferenza di quello pm consueto di > della pazzia ; la psichiatria contempo­ r;mea è sempre meno sicura che questi caratteri siano patologici > i confini tra il normale e il patologico, i quali invece sono ampiamente influenzati dalla società e dalla cultura. In questa luce, quale che sia il possibile giudizio l su di essa, la pazzia di Nietzsche può esser vista come la san­ zione ultima e definitiva di una cc esclusione Jl che è però un carattere ben

(29) Sul problema del testo di Ecce homo, cfr. la lunga e dettagliata discussione nel­ ]'..,dizione Colli-Mootioari, vol. VI, tomo 3, pp. 542·90. (30) Cfr. E. PooAcn, Ein Blick in Notizbiicher Nietzsches, Heidelberg 1963, p. 31. Per una critica delle posizioni di Pod, n. 69 ( 1 961., l), pp. 74 . 90 ;

P. CHAMPROMIS, Podach, Nietzsches Werke des Zusammenbruchs oder Zusammenbru.ch der editorischen Werkc Podachs, in 3.

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riconoscibile già in tutta la sua vita precedente (la condizione di malato pe• renne, di pensionato precoce ; la solitudine celibataria della sua esistenza, la stessa mancanza di una vera casa, la difficoltà di tutti i rapporti umani) e che costituisce il suo osservatorio privilegiato sulle storture della cultura e della società della sua epoca. In questa prospettiva, Niet�sche appare come l'incarnazione eminente di una figura che ha un posto di rilievo nella cultu­ ra fra ottocento e novecento, quella dell'intelle ttuale ( e specialmente del­ l'artista) piccolo-borghese sradicato (e non ancora integrato nell'industria culturale) che, proletario sui generis, fa professione di un rifiuto globale del­ le istituzioni e della cultura tradizionale ; questo rifiuto, J;J.ella misura in cui resta isolato, rischia sempre di rimanere un disperato esercizio intellettuale e, nei casi peggiori, può fraintendersi e venir frainteso fino a servire a politiche restaurative e reazionarie. In questa luce va vista la triste leggenda di un Nietzsche > , che del resto nem· nieno la tradizione metafisica ha mai visto come nettamente separabile e contrapponibile all'uomo. Resta, tuttavia, l'apparenza di circolo vizioso tra felicità ed eterno ri­ torno. Per dissolvere questa apparenza occorre rifarsi a un altro discorso di Zarathustra, quello cc Della redenzione >> . In esso, Zarathustra descrive l'opposto dell'uomo felice, quello appunto che deve essere redento ; la ra­ dice di ogni mostruosità dell'uomo viene indicata nel fatto che egli non può disporre del proprio passato ; contro il cc cosi fu ll, la volontà impotente si ribella, e in tale ribellione elabora una serie di comportamenti nevrotici che sono i contenuti stessi della religione, della morale, della metafisica, quelli che Nietzsche ha analizzato nelle opere del secondo periodo, e sui quali tornerà, con uno sguardo reso piu acuto dalla scoperta dell'eterno ri­ torno, nelle opere piu tarde, come A l di là del bene e del male e la Genea­ logia della morale. L'uomo com'è e com'è stato è solo frammento e orrida easualit� perché è schiacciato dalJa pietra del passato. II passato non è solo mostruoso quanto ai suoi contenuti ( tutta la crudeltà che è stata necessaria per addomesticare l'animale uomo), bensi nella sua stessa cc forma >> . La vo­ lontà digrigna i denti contro il passato perché esso costituisce ciò di cui, in sé, essa non può disporre. È perché non può disporre del proprio passato che l'uomo non può realizzare quell'identità di evento e senso nella quale consisterebbe la felicità. Posto in questi termini, il problema dell'eterno ritorno non riguarda. piu, nei termini estremamente generali in cui sembra­ va porsi, una qualche struttura cc metafisica ll, circolare invece che lineare, del tempo. Esso si riduce invece al fatto specifico che l'uomo non dispone del proprio passato. D'altra parte, ridotto in questi termini, è difficile immagi­ nare che il di grignar di denti della volontà si rivolga contro il fatto di non poter disporre di eventi remoti, che pure appartengono al passato ma non costituiscono effettivamente il suo p assato. Occorre quindi un'ulteriore tra· sformazione, per dare un senso alla dottrina : è passato, nel senso del maci­ gno cc cosi fu l> , quello che grava effettivamente sulla volontà e da cui essa, contro il proprio volere, dipende. Paseato equivale ora a cc ciò che pesa su di me ll, ciò che mi si impone, ciò che mi domina : l'autorità. A sostegno di questa ipotesi interpretativa, che rende conto anche di tutta l'enfasi, alme­ no in un certo senso, cc volontaristica >> che non si può non cogliere nelle pagine del discorso cr Della redenzione )) e in genere in tutto lo Zarathustra, si può ricordare una suggestiva pagina de La filosofia nell'epoca tragica dei greci (34), nella quale Nietzsche descrive la visione schopenhaueriana (ed eraclitea) del tempo - visione a cui, all'epoca di questo scritto, egli anco­ ra aderiva - come una �juccessione di momenti in cui ognuno è in funzione dell'altro e si afferma solo annientando l'attimo che lo precede, cc suo geni­ tore ll . A questa struttura, che a buon diritto si può chiamare cc edipica ll , del tempo (35), si oppone l'eterno ritorno. Oppressa dall'autorità del pas(34) È uno scritto del 1873, che Nietzsche aveva pr�parato per la stampa ma che poi non usci. Lo si veda ora, oltre che nell'edizione Colli-Montinari (vol. III, tomo 2), anche nella bella traduzione, con ampia introduzione e commento, di F. Masini, Padova 1970. (35) Su ciò, cfr. ancora il mio Il soggetto e la maschera, cit., p. 21"9 ss.

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sato, la volontà è capace di produrre solo nuove strutture autoritarie, im­ ponendosi a propria volta come autorità su altri (il figlio diventa padre, il servo diventa signore). Ma la redenzione non può pensarsi in questo schema ; essa non significa imporsi con una lotta, ma è piuttosto di un ordine metafisico ; non può infatti configurarsi come puro e semplice trionfo di una volontà su un'altra e costituzione di una autorità nuova ; è, invece, eliminazione dell'essenza stessa dell'autorità. Tutto ciò, però, implica una serie di problemi che qui si possono soltan­ to segnalare. Anzitutto, l'eterno ritorno si oppone alla ripetizione caratte­ ristica del tempo lineare (come sarebbe, emblematicamente, il succedersi delle generazioni e del1e anche e soprattutto un atteg· giamento di maggior confidenza con gli altri e con la natura. Con l'istituzio­ ne dell'eterno ritorno, è il soggetto metafisico che si nega. Nel grande discor" so su « la visione e l'enigma » , anzi, tra i primi della terza parte di Zarathu­ stra, il nesso tra eterno ritorno e negazione -- o meglio, con un'espressione cara a Zarathustra, tramonto - del soggetto sembra andare ben al di là di quello dell'implicazione e del corollario : piuttosto, il tramonto del soggetto della metafisica tradizionale, caratterizzato come centro di autoconsapevo· lezza e di decisione, è il contenuto stesso della dottrina dell'eterno ritorno. Le due vie che cominciano sotto il grande portone con la scritta « attimo » sembrano configurare, in prima approssimazione, una struttura « decisionisti­ ca » del tempo, che ripete ed accentua tutta la tradizionale riflessione spiri­ tualistica sul tempo, da Sant'Agostino agli esistenzialisti, in quanto passato c futuro si costituiscono soltanto in riferimento all'istante presente; come sue dimensioni estatiche. Ma nel discorso di Zarathustra, l'attimo che porta con sé tutte le cose passate e a venire trae dietro di sé « anche sé stesso » . L'attimo della decisione ( e che si tratti di decisione è chiaro dall'ultima fase della visione, quella del morso alla testa del serpente) non è una vera arché. Se fosse un principio assoluto, la circolarità dell'eterno ritorno non sarebbe perfetta circolarità, giacché l'eterno ritorno avrebbe un inizio. Tut­ to questo, almeno, se si sta dentro alla logica della tradizione metafisica. Ma, ora, dire che il contenuto dell'idea dell'eterno ritorno, piu che la sosti­ tuzione di una struttura circolare a una struttura lineare del tempo, è i1 tramonto del soggeito metafisico, autocosciente-responsabile (cioè :figlio-pa· (36) L'espressione è in un frammento postumo del 1879 ; nell'edizione Colli-Montinari, vol. IV, tomo 3, pp. 351�52. (37) Per questa visione « umanistica » dello Uebermensch cfr. per esempio W. K.AuF. MANN, Nietzsche , Philosopher. Psychologi.st, Antichrist, Princeton 1950.

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dre), rappresenta una soluzione del problema del circolo VIziOso tra deci­ sione ed eterno ritorno ? Certo no, appunto nella misura in cui ci si attende

una soluzione in regola con la logica dell'arché (e del perché, della ragione sufficiente). Fornisce però. indicazioni che orientano verso un diverso « luo· go >> (ne « La visione e l'enigma n c'è un caratteristico movimento di suc·

cessive dislocazioni) del discorso e dell'esistenza, un luogo che può avere anche una sua diversa « logica n .

Le due dottrine cap itali di Zarathustra sono l'eterno ritorno e l'oltre­ uomo. Di fatto, la prima parte dell'opera, che originariamente costituiva l'intera prima edizione di Cosi parlò Zarathustra, si presenta anzitutto come una critica dell'uomo com'è stato e com'è. Anche questo fatto deve orientare

a vedere nella differenza dell'oltreuomo dall'uomo della metafisica indica· zioni per capire la dottrina del ritorno. Nei discorsi di questa prima parte, da quello sulle tre metamorfosi che è un po' la parabola-guida in cui si de­ linea il passaggio dell'uomo dalla so ggezione (so ggettività) alla rivolta e poi a una condizione al di là della lotta ; a quello « Dei dispregiatori del corpo n , che oppone alla pretesa immediatezza dell'io e della coscienza d i s é (sia CO· noscitiva che morale) la pluralità gerarchizzata del corpo ( con tutti i proble­ mi che pone l'istituirsi di questa gerarchia ) ; alle pagine sull'amico, sulla li­

bera morte, sulla virtu che dona - in tutti questi discorsi, e in generale in tutte le pagine del Nietzsche « moralista >> , quel che viene in luce è sempre lo stesso tema : la differenza che oppone l'oltreuomo profetizzato da Zara­ thustra al soggetto della metafisica tradizionale, differenza nella quale, pro· prio per la connessione che i due temi �ppaiono avere nello Zarathustra, v a cercato il contenuto stesso dell'idea del ritorno. L'oltreuomo s i distingue dal

soggetto metafisico perché non si vive p in come arché ; in tal modo, non ha né sensi di colpa né volontà di vendetta ; e, soprattutto, non si contrappone

alla natura in quanto non la sente come l'altro termine di una polarità, non. si vede come un uno opposto al molteplice e mutevole del mondo esterno ; egli riconosce il proprio stesso io come una pluralità, che si costituisce in unità solo in virtu dello stabilirsi di una gerarchia. Questo riconoscimento dell'io come pluralità gerarchizzata è molto importante perché mette in luce esplicita il rapporto fra l'oltreuomo come oltrepassamento del soggetto metafisico e l'eterno ritorno come rovesciamento della struttura edipico-an· toritaria del tempo. A questa stn1ttura del tempo, la cui sostanza è la sotto· missione del figlio al p adre, del servo al padrone, ecc., corrisponde la no· zione dell'io come autocoscienza e responsabilità perché anche questa nozio· ne è eminentemente gerarchica : riproduce all'interno dell'io le strutture del

dominio che vigono nel mondo sociale. I testi in cui Nietzsche parla della (( socialità Jl dell'io ( ad esempio Al di là del bene e del ma.Ze, aforisma 12). vanno presi molto alla lettera, e il termine socialità può legittimamente e­ stendersi non solo a indicare la molteplicità delle istanze della personalità ( degli io), ma la società nel suo senso piu generale. Nietzsche ritiene cioè

che, nella molteplicità degli io che ci costituisce, si stabilisce una unità as· sicurata dal dominio di una istanza ( la coscienza) sulle altre, solo in quanto questo è necessario per la vita sociale : si legga su ciò il densissimo aforisma 354 della Gaia scienza. « ... mi è lecito procedere alla supposizione che la co­

scienza in generale si .� ia sviluppata soltanto sotto la pressione del bisogno di comunicazione... (e in particolare tra colui che comanda e colui che ub­ bidisce) >> . Ciò che qui è accennato in parentesi, e cioè che il caso princi· pale di comunicazione sia quello tra colui che comanda e colui che ubbidi­ ...

sce, verrà poi sviluppato in maniera esplicita in tutto

Al di là del bene e del

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male e nella Genealogia della morale : la società è essenzialmente una strut· tura di dominio ; anche la coscienza, in quanto legata nelle sue origini stesse alla società, è organizzata e articolata dal dominio. L'oltreuomo, allora, non è piti un « soggetto >> (un io assoggettato) in quanto l'eterno ritorno è la negazione della struttura autoritaria del tempo e della società. A questo rovesciamento della struttura del dominio si lega anche il nuo­ vo atteggiamento Indico de1l'oltreuomo nei confronti della « realtà », e la sua nuova creatività simbolica : è questo un tema costante dello Zarathustra, dove per lo piu si esprime nella metafora della danza ; e che poi trova la sua formulazione riassuntiva nella paginà del Crepu.�colo degli idoli su « Come il 'mondo vero' fini per diventare favola » . Libero dalla struttura del dominio, l'oltreuomo è anche libero, anzitutto, dalla potenza del « reale » . Già lo scritto su verità e menzogna aveva chiarito che il « vero >> è una isti­ tuzione sociale ; nel mondo dell'oltreuomo non c'è piu un simbolismo privi­ legiato ( il discorso logico, che degrada tutti gli altri discorsi e le altre forme simboliche a « poesia » ) e nemmeno, perciò, un > che faccia da misura. Che cosa tutto questo implichi andrebbe approfondito svilup­ pando l'indagine sui temi dell'arte e del simbolo anche negli appunti inediti. Ma intanto è opportuno avvicinare il problema non nel suo aspetto pitl. a­ stratto e formale (che cos'è un simbolismo « libero » c come potrebbe an­ cora essere comunicazione ? ), bensi d a un punto di vista piti concreto : an­ che- ciò che chiamiamo « realtà » è un fatto di dominio, e bisogna trarre da ciò tutte le conseguenze (per esempio in sede di riflessione critica sul valore de11e scienze della natura, ecc.). Il nesso tempo lineare-dominio o, viceversa, eterno ritorno-liberazione è il filo conduttore di tutti gli sforzi che Nietzsche fa, nelle ultime opere e negli appunti della Volontà di potenza, per concretare la profezia di Zara­ thustra cercandone una anche della volontà di potenza. In sostanza, mentre la storia del dominio è storia della metafisica perché è tutta una lotta che si articola intorno a simboli feticizzati, a che mai si irrigidiscono in « verità >> . Del resto, ciò si capisce se si prova a figurarsi che cosa potrebbe essere una lotta per la pura potenza : la storia che abbiamo sotto gli occhi è lotta di classe per i beni economici, per la sod­ disfazione di bisogni, o anche, se si vuole rifiutare una visione puramente economica del conflitto, per > , per ideali, ecc. ; mai però, sembra, per il > prevalere. Sempre nel discorso > sembra si possa intravvedere questa differenza tra storia del dominio ( e della violenza) e storia della pura volontà d i potenza : nel « Merkur ll , novembre 1957 e agosto 1958), era fondata sulla tesi ( giusta) che Nietzsche, negli ultimi tempi della sua vita cosciente, avesse rinunciato a preparare un « Hauptwerk » costituito da tutti gli appunti che andava stendendo, e che l'idea della grande opera sistematica fosse una falsificazione della sorella e di Peter Gas t (su questo problema si veda ora la nota di G.

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Colli e M. Montinari al vol. VI, tomo III, della loro edizione citata sotto, p. 461 ss.). Schlechta avanzava però anche un'altra tesi, e su questa soprattut­ to si accese la discussione, cioè che gli inediti degli ultimi anni non conte­ nessero sostanzialmente niente di nuovo, per la filosofia di Nietzsche, rispet­ to alle opere edite ( cfr. il Philologischer Nachhericht della sua edizione, vol. III, p. 1402 ). Tale questione si potrà discutere meglio quando sarà com­ pletata la nuova edizione critica iniziata nel 1965 da Giorgio Colli e Mazzino Montinari (Berlino, De Gruyter ; in traduzione italiana, Milano, Adelphi, 1965 ss;) che pubblica, oltre alle opere edite, tutti i manoscritti di Nietzsche in ordine cronologico. Alle Notizie e note che accompagnano ogni volume di tale edizione si deve ricorrere per una discussione di tutti i problemi filolo­ gici e testuali. Prima dell'edizione Adelphi, una traduzione italiana abba­ stanza completa delle opere di Nietzsche, condotta sull'edizione Naumann­ Kroner ( con il Wille zur Macht nell'edizione definitiva) era stata pubbli­ cata:, in undici volumi, dall'editore Monanni (Milano, 1926-27). Numerose le traduzioni di opere singole, oltre a varie antologie. Per ciò che riguarda le lettere, a parte i quattro volumi della già ricordata Historisch-kritische Gesamtausgabe, che arrivano solo fino al 1877, l'unica edizione complessiva rimane quella curata dall'Archivio Nietzsche : F. Nietzsches Gesammelte Briefe, 5 voli. ( il quinto in due parti), in cui la corrispondenza è suddivisa in base ai destinatari delle lettere : i v oli. I-III uscirono dapprima presso Schuster e Loeffler, Berlino-Lipsia 1 900-1904, e poi, insieme agli altri due, presso l'editore lnsel, Lipsia 1907-1909. Questa edizione non comprendeva l'im­ portante carteggio con Franz Overbeck, pubblicato a parte, a cura di R. Oehler e C. A. Bernoulli : F. N., Briefwechsel mit Franz Overbeck, Lipsia, lnsel, 1916. Traduzioni italiane : oltre a scelte minori, una scelta abbastanza ampia è quella curata' da B. Allason, Epistolario, Torino l%2 ; sono tradotte inte­ gralmente, inoltre, le Lettere a Erwin Rohde, Torino 1959, il Carteggi() Niet· zsche-Wagner, ivi 1959 e il Carteggio Nietzsche-Burckhardt, ivi 1961, tutti e tre a cura di M. Montinari. Sulle lettere si veda ora un ampio studio di C. P. )ANTZ, Die Briefe F. Nietzsches. Textprobleme und ihre Bedeutung fii r Biographie und Doxographie, Basilea 1972. 2. REPERTORI BIBLIOGRAFICI

Fondamentale la lnternationa} Nietzsche Bibliography curata da H. W. REICHERT e K. ScHLECHTA, Chapel Hill, 1960 ; 2a ed., aggiornata, ivi 1968 ; per il periodo 1968-72 un ulter�ore aggiornamento è stato preparato dal Rei­ chert, e pubblicato nel vol. II delle annesse ai singoli volumi dell'edizione Colli-Montinari, opere di riferimento essenziale per la biografia di Nietzsche sono : L ANDREAS S ALOM É, F. N. in seinen Werken, Vienna, 1894, 2a ed., Dresda, 1 924 ; E. FoERSTER-NIETZSCHE, Das Leben F. N.s, 3 voli., Lipsia 1895 ; 2" ed., ivi 1904 ; P. DEUSSEN, Erinnerungen an F. N., ivi

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1901 ; C. A. BERNOULU, N. und Overbeck, 2 voli., Jena 1907-8 ; J . STROUX, N.s Professur in Basel, ivi 1925 ; O. F. ScHEVER, F. N. als Student, Bonn 1933 ; CH. ANDLER, N. Sa vie et sa pensée, 6 voli., Parigi 1920-3 1 ; riedito in 3 voli., ivi 1958 (opera fondamentale) ; E. PoDACH, N.s Zusammenbruch. Beitriige zu einer Biographie auf Grund unveroffentlicher Do.kumente, Heidelberg 1930 ; lo., Gestalten um N. Mit unveroffentlichen Dokumenten zur Geschichte seines Lebens und seines Werkes, Weimar 1932 ; E. FoERSTEn-NIETZSCHE, F. N. und die Frauen seiner Zeit, con note a cura di K. Schlechta, Monaco 1935 ; E. PooACH, Der kranke N. Briefe seiner Mutter an F. Overbeck ( lettere 1889· 97), Vicnna 193 7 ; F. WuERZBACH, N. Sein Leben in Selbstzeugnissen, Briefen und Berichten, Berlino 1942 ; R. BLUNCK, F. N. Kindhei't und ]ugend, Mona­ co-Basilea 1953 ; I. FRENZEL, F. N. in Selbstzeugnissen und Bilddokumenten, Amburgo 1966 ; cfr. anche l'articolo di C. P. J ANTZ, Probleme der N.-Biogra­ phie, in > filo­ sofici a cui esso ha dato luogo (opere che, piu di una ricostruzione storio­ grafica, si propongono un dialogo teoretico con N. ) ; infine, non trascurare almeno le principali tra quelle opere che, sia pur di rilevanza filosofica me­ no specifica, sono indispensabili a capire la storia della « figura >> N. nella cultura e specialmente nella letteratura del nostro secolo. A queste tre esi­ genze si ispira la tripartizione della bibliografia che segue ; una tripartizione che, per certi titoli e autori, rivela il suo carattere puramente di comodo, giacché tra le monografie della sezione A non sono comprese solo ricostruzio­ ni « documentarie >l del pensiero di N. (ammesso che opere di tal genere siano possibili) ma anche studi di forte impronta teoretica, come quelli di Jaspers e di Heidegger ; in questo caso, il criterio è stato quello di includere nella sezione A tutti gli scritti che hanno avuto in qualche modo un peso determinante nello sviluppo della (( N.-Forschung ll, e che sono assurti in tal modo al livello di opere di riferimento indispensabile per chiunque in­ tenda accostare il pensiero nietzscheano. La sezione C, a sua volta, risulterà inevitabilmente solo abbozzata e senz'altro incompleta ; ma manca ancora una storia sintetica completa delle vicende dell'immagine di N. nella cultura del novecento. Vanno tenuti presenti, a questo proposito, anche gli scritti elencati nella sez. 5, qui di seguito. A) Oltre agli scritti di Lou Salomé e di Ch. Andler già ricordati, il secon­ do dei quali, soprattutto, costituisce uno strumento indispensabile non so­ lo per la conoscenza della biografia ma anche del pensiero di N., sono da vedere : O. EwALD, N.s Lehre in ihren Grundbegriffen. Die Ewige Wiederkehr des Gleichen und der Sinn iks Uebermenschen, Berlino, 1903 ; A. DREWS, N.s Philosophie, Heidelberg, 1904 ; J. HoFMILLER, Versuche, Monaco 1909 ; ed. riveduta e aumentata, Letzte Versuche, ivi 1952 ; E. BERTRAM, N. Versuch einer Mythologie, Berlino, 1918 ; 8• ed. aumentata in base a manoscritti ine­ diti a cura di H. Buchner, Bonn, 1965 ; L. KLAGES, Die psychologischen Er­ rungenschaften F.N. �, Lipsia, 1926 ; A. BAEUMLER, N. Der Philosoph und Politiker, Lipsia, 1931 ; J. HOFMILLER, F. N., Lubecca 1933 (rist. Amburgo, 1947); K. LoEWITH, N.s Philosophie der ewigen Wiederkehr des Gleichen, Berlino, 1935 ; nuova ed., Stoccarda, 1956 ; L. Gmss o, N., Napoli, 1936 e Mi­ lano, 1942 ; K. ]ASPERS, N. Einfiihrung in das Verstiindnis seines PhUoso­ phierens, Berlino, 1936, 3" ed., ivi 1950 ; E. HEINTEL, N.s 'System' in seinen Grundbegriffen, Lipsia, 1939 ; E. PAci, F. N. (antologia con ampia introdu­ zione), Milano, 1940; G. A. MoRGAN, What N. Means, Cambridge, Mass., 1941 (nuova ed., New York, 1965) ; F. CoPLESTON, F. N. Philosopher of Culture, Londra 1942 ; W. KAUFMANN, N. : Philosop.her, Psychologist, Antichrist, Prin­ ceton, 1950, 3• ed. riveduta e ampliata, New Ym'k, 1968 ; H. HEIMSOETH, Me­ taphysische Voraussetzungen und Antriebe in N.s Immoralismus, Wiesbaden, 1955 ; H. M. WoLFF, F. N. Der Weg zum Nichts, Berna, 1956 ; K. ScHLECHTA. Der Fall N., Monaco, 1958 ; E. FINK, N.s Philosophie, Stoccarda 1960 (trad. it., Padova, 1973 ) ; H. HEIMSOETH, Studien zur Philosophiegeschi'chte, Colo.

42

GIANNI VATTIMO

nia, 1961 ; M. HEIDEGGER, N., 2 voli., Pfullingen 1961 ; E. HEFTRICH, N.s Phi· losophie. ldentitiit von Welt und Nichts, Francoforte, 1962 ; K. {JLMER, N. Ei­ nheit und Sinn se"ines Werkes, Berna, 1962 ; K. ScHLECHTA·A. ANDERS, N., Stoccarda, 1962 (su cui cfr. H. B AIER, N. als Wi'.ssenschaftkritiker, in « Zeitschr. f. philos. Forschung >>, 1966, pp. 130-43 ) ; G. DELEUZE, N. et la philosophie, Parigi, 1962 ; A. C. DA NTO, N. as Philosopher, New York, 1965 ; G. MoREL, N. lntroduction à une première lecture, 3 voli. Parigi, 1971 ; R. J . HoLLINGDALE, N., Londra, 1973. Si vedano inoltre scritti di vari autori nelle

seguenti raccolte : numero dedicato a N. della ) dipende probabilmente dall'origine della mag­ gior parte dei naturalisti : sotto questo riguardo essi appartengono al « popolo », i loro predecessori erano gente povera e meschina, che conoscevano anche troppo da vicino la difficoltà ·di tirare avanti. Intorno a tutto il darwinismo inglese spira qualcosa come l'aria ammorbata della sovrappopolazione inglese, qualcosa come l'odore di mi-serie e strettezze, l'odore della povera gente. Come naturalisti, però, si dovrebbe evadere dal proprio cantuccio umano : e nella na­ tura non è l'estrema angustia a dominare, ma la sovrabbondanza, la prodigalità spinta fino all'assurdo. La lotta per la vita è soltanto

un'eccezione,

una provvisoria restrizione della volontà di vita ; la gran­

ne e piccola lotta ruota ovunque attorno al prevalere, al crescere all'espandersi, attorno alla potenza, conformemente alla volontà di potenza, .che è appunto la volontà della vita.

e

354. Del « genio della specie »-

Il problema della coscienza ( piu

esattamente : del divenire autocoscienti) ci compare dinanzi, soltanto allorché cominciamo a comprendere in che misura potremo fare a meno di essa : e a questo principio del comprendere ci conducono oggi fisiologia c storia degli animali ( scienze, queste, che hanno dunque avuto bisogno di due secoli per raggiungere il sospetto preco­ cemente balenato nella mente di Leibniz). Noi potremmo difatti pensare, sentire, volere, rammemorare, potremmo ugualmente gire

»

« a­

in ogni senso della parola, e ciononostante tutto questo non

avrebbe bisogno d'« entrare nella nostra coscienza

»

(come si dice

immaginosamente). La vita intera sarebbe possibile senza che ci si vedesse, per c�sf dire, nello specchio : in effetti, ancor oggi la parte

Friedrich W. Nietzsche

229

di gran lunga prevalente di questa vita si svolge in noi senza que­ sto rispecchiamento - e invero anche la nostra vita pensante, sen­ ziente, volente, per quanto ciò possa risultare offensivo a un antico filosofo. A che scopo una coscienza in generale, se essa è in sostanza .mperflua? Ehhene, se si vuoi prestare ascolto alla mia risposta a questa domanda e alla sua supposizione forse stravagante, mi sem­ bra che la sottigliezza e la forza della coscienza stia sempre in rap­ porto con

la capacità di comunicazione

di un uomo ( o ·di un ani­

male) e che la capacità di comunicazione sia d'altro canto in rap­ porto con il bisogno di comunicazione : non dovendosi intendere quest'ultimo come se proprio il singolo uomo stesso, che è appunto maestro nella comunicazione e nel rendere comprensibili i suoi bi­ sogni, dovesse in' pari tempo, anche per i suoi bisogni, fare per lo piti assegnamento sugli altri. A me sembra pertanto che relativamente a intere razze e catene di generazioni le cose stiano in questo modo : lad-dove il bisogno, la necessità hanno lungamente costretto gli uo­ mini a comunicare tra loro, a comprendersi l'un l'altro in maniera rapida e sottile, esiste alla fine un eccesso di questa forza e arte delia comunicazione, per cosi dire una facoltà che si è gradata­ mente potenziata, e che aspetta ora sol tanto un erede che ne faccia

un prodigo uso ( i cosiddetti artisti sono questi eredi, similmente i predicatori, gli oratori, gli scrittori : tutti gli uomini che vengono sem­ pre alla fine d'una lunga catena, ogni volta « nati in ritardo » nel senso migliore della parola e, come si è detto, dissipatori per na­ tura). Posto che sia giusto questo rilievo, mi è lecito procedere alla supposizione che Za

coscienza in generale si sia svilupata soltanto la pressione del bisogno di comunicazione, che sia stata all'ini­ sotto zio necessaria e utile soltanto tra uomo e uomo ( in particolare tra colui che comanda e colui che obbedisce), e soltanto in rapporto al grado di questa utilità si sia inoltre sviluppata. Coscienza è pro­ priamente soltanto una rete di collegamento tra uomo e uomo solo in quanto tale è stata costretta a svilupparsi : l'uomo solitario,

l'uomo bestia da preda non ne avrebbe avuto bisogno. Il fatto che le nostre azioni, i pensieri, i sentimenti, i movimenti siano anche oggetto di coscienza - almeno una parte di essi è la conseguenza di una terribile « necessità », che ha lungamente signoreggiato l'uomo : -

essendo esso l'animale maggiormente in pericolo,

ebbe bisogno

d'aiuto,

di protezione ; ebbe bisop,·no dei suoi simili, dovette esprimere le sue necessità, sapersi rendere comprensibile - e per tutto questo gli fu necessaria, in primo luogo, « coscienza », gli fu necessario anche « sa­ pere » quel che gli mancava, « sapere » come si sentiva, « sapere >> quel che pensava. Perché, lo ripeto ancora una volta : l'uomo, come ogni creatura vivente, pensa continuamente, ma non sa ; il pensiero

230

GIANNI VATTIMO

che diviene

cosciente

ne è soltanto la piu piccola parte, diciamo pure

la parte pili superficiale e peggiore : infatti soltanto questo pensiero consapevole si determina in parole, cioè in segni di com unicazi one, con la qual cosa si rivela l'origine della coscienza medesima. Per dirla in breve, lo sviluppo della lingua e quello della coscienza

(non

della

ragione, ma soltanto del suo divenire autocosciente) procedono di pari passo. Si aggiunga poi, che non soltanto il linguaggio serve da ponte tra uomo e uomo, ma anche lo sguardo, la pressione, la mimica : il farsi coscienti in noi stessi le nostre impressioni sensibili, la forza di poterle fissare e di porle, per cosi dire, al di fuori di noi, tutto ciò è andato crescendo nella misura in cui è progre­ dita la necessità di trasmetterle ad

altri

mediante segni. L'uomo in­

ventore di segni è insieme l'uomo sempre piu acutamente cosciente di sé : solo come animale sociale l'uomo imparò a divenir cosciente di se stesso - è ciò che egli sta facendo ancora, ciò che egli fa sempre di piu. Come si vede il mio pensiero è che la coscienza non appartenga propriamente all'esistenza individuale dell'uomo, ma piut­ tosto a ciò che in esso è natura comunitaria e gregaria ; che - come deriva da tutto questo - essa si è sottilmente sviluppata solo in rapporto ad una utilità comunitaria e gregaria ; e che di conseguenza ognuno di noi, con la miglior volontà di comprendere se stesso nel modo pili individuale possibile, di

«

conoscere se stesso

>> ,

purtuttavia

renderà sempre oggetto di coscienza soltanto il non individuale, quel che in se stesso è esattamente la sua « misura media » ; che il nostro stesso pensiero viene continuamente, per cosi dire, adeguato alla e ritradotto nella prospettiva del gregge a opera del

maggioranza

carattere della coscienza, del

«

genio della specie » in essa imperante.

Tutte quante le nostre azioni sono in fondo incomparabilmente per­ sonali,

uniche,

sconfinatamente individuali,

appena le traduciamo nella coscienza,

non

non v'è

dubbio ; ma

sembra che lo siano

piu. ..

Questo è il vero fenomenalismo e prospettivismo, come lo in­ tendo io : la natura della coscienza animale implica che il mondo, di cui possiamo aver coscienza, è solo un mondo di superfici e di se­ gni, un mondo generalizzato, volgarizzato ; che tutto quanto si fa cosciente, diventa per ciò stesso piatto, esiguo, relativamente stupi­ do, generico, segno, segno distintivo del gregge ; che a ogni farsi della coscienza è collegata una grande fondamentale alterazione, fal­ sificazione, riduzione alla superficialità e generalizzazione. Lo svilup­ parsi della coscienza non è, infine, senza pericolo, e chi vive tra gli ipercoscienti europei sa anche che è una malattia. Non è, come si può indovinare, l'opposizione tra soggetto e oggetto che m'impor-

Friedrich W. Nietzsche

231

ta : questa distinzione io la lascio ai teorici della conoscenza, che sono rimasti penzoloni nei lacci della grammatica (la metafisica po· polare). Non m'interessa nemmeno il contrasto tra « cosa in sé » e fenomeno : giacché siamo ben lontani dal « conoscere » abbastanza, per poter pervenire anche solo a una tale distinzione. Non abbiamo appunto nessun organo per il conoscere, per la « verità » : noi « sap· piamo » ( o crediamo, o c'immaginiamo) precisamente tanto quanio può essere vantaggioso sapere nell'interesse del gregge umano, della specie, e anche ciò che qui è detto « vantaggio » è infine niente altro che una credenza, un 'immaginazione, e forse esattamente quella quanto mai funesta stoltezza per cui un giorno precipiteremo in ro· VIna.

374. Il nostro nuovo « infinito ».

Fino a che punto si estenda il

carattere prospettico dell'esistenza, o se essa forse non abbia un altro carattere qualsiasi, se un'esistenza senza spiegazione, senza « senso », non diventi appunto un « assurdo », se, d'altra parte, già ogni esi· stenza non sia essenzialmente un'esistenza che spiega : tutto questo, come è giusto, non può essere deciso nemmeno attraverso la piu dili­ gente e la piu penosamente coscienziosa analisi e autoindagine dell'in· t�lletto ; infatti, in questa analisi, l'intelletto umano non può fare a meno di vedere se stesso sotto le sue forme prospettiche e di vedere

soltanto

in esse. Non possiamo girare con lo sguardo il nostro an· gol o : è una curiosità disperata voler sapere che cosa potrebbe esserci ancora per altre specie d'intelletto e di prospettive : per esempio, se chissà quali esseri possono avvertire il tempo a ritroso, oppure alternativame�te in senso progressivo e regressivo ( con la qual cosa sarebbe data un'altra direzione della vita e un altro concetto di causa ed effetto). Ma io penso che oggi per lo meno siamo lon· tani dalla ridicola presunzione di decretare dal nostro angolo che solo a partire da questo angolo si possono avere prospettive. Il mondo è piuttosto divenuto per noi ancora una volta « infinito » : in quanto non possiamo sottrarci alla possibilità che esso racchiuda

in sé interpretazioni infinite.

Ancora una volta il grande brivido ci afferra : ma chi mai avrebbe voglia di divinizzare ancora imme­ diatamente, alla maniera antica, questo mostruoso mondo ignoto ? E di a-dorare forse, da questo moniento, questa cosa ignota come « colui che è ignoto » ? Ah, in questo ignoto sono comprese troppe

non divine

possibilità d'interpretazione, troppa stregoneria, scempiag· gine, bizzarria d'interpretazione : quella nostra umana, anche troppo umana, interpretazione, che noi conosciamo...

382. La grande salute.

Noi uomini nuovi, senza nome,

diffi-

232

GIANNI VATTIMO

cilmente comprensibili, noi figli precoci di un avvenire ancora non verificato - abbiamo anche bisogno di un nuovo mezzo per un nuovo scopo, cioè di una nuova salute, una salute piu vigorosa, piu scal­ trita, piu tenace, piu temeraria, piu gaia di quanto non sia stata fino a oggi ogni salute. Per colui che ha sete nell'anima di per­ correre con la sua vita tutto l'orizzonte dei valori e di quanto fu desiderato fino a oggi, che ha sete di circumnavigare tutte le coste di questo ideale « mediterraneo », per colui che dalle avventure della sua piu intima esperienza vuole conoscere quali sono i senti­ menti di un conquistatore e di uno scopritore dell'ideale, e cosi pure di 1m artista, di un santo, di un legislatore, di un saggio, di un dotto, di un devoto, di un profeta, di un divino solitario ·d'an­ tico stile : per costui è in primo luogo necessaria una cosa sola, la una salute che non soltanto si possiede, ma che

grande salute

-

di continuo si conquista e si deve conquistare, poiché sempre di nuovo si sacrifica e si deve sacrificare.. . E ora, dopo essere stati in cammino cosi a lungo, noi argonauti dell'ideale, piu coraggiosi, forse, di · quanto non lo esigesse la prudenza, dopo che molto spes-so incorremmo in naufragi e sciagure, ma sempre, come si è detto, piu sani di quanto vorrebbero concederci, pericolosamente sani, sem­ pre rinnovellati in salute - ora è come se a ricompensa di tutto ciò

ci apparisse

dinanzi

agli

occhi

una terra ancora ignota, di

cui nessuno ancora ha misurato con lo sguardo i confini, un al di là di tutti i paesi e i cantucci dell'ideale esistenti fino a oggi, un mondo cosi sovranamente ricco di cose belle, ignote, problematiche, terribili e divine, che la nostra curiosità come la nostra sete di pos­ sesso sono fuori di sé : ah, ormai non c'è piu nulla che ci possa ' saziare ! Come potremmo noi, dopo un simile spettacolo e con una tale voracità di conoscere e di sapere, accontentarci dell'lwmo di og­

gi? È

abbastanza grave, ma è inevitabile che soltanto con un inutile sforzo per mantem•rci seri possiamo guardare alle sue piu degne mete e speranze, e forse non guardiamo neppure piu. Un altro ideale ci precede correndo, un prodigioso ideale, tentatore, ricco di perico­ li, al quale non vorremmo convincere nessuno, poiché non è cosi facile riconoscere a qualcuno il diritto a esso : l'ideale di uno spi­ rito che ingenuamente, cioè suo malgrado e per esuberante pienezza e possanza, giuoca con tutto quanto fino a oggi fu ·detto sacro, buono, intangibile, divino ; uno spirito per il quale il termine su­ premo, in cui il popolo ragionevolmente ripone la sua misura di valore, signìficherebbe già qualcosa come pericolo, decadenza, abie­ zione, o per lo meno diversivo, cecità, effimero oblio di sé ; è l'ideale di un umano-sovrumano benessere e benvolere, un ideale che appa­ rirà molto spesso disumano, se lo si pone, a esempio, accanto a tutta

Friedrich W. Nietzsche

233

la serietà terrena fino a oggi esistita, a ogni specie di solennità nei gesti, neiJa parola, nell'accento, nello sguardo, nel1a morale e nel compito, come fosse la loro vivente involontaria parodia - un ideale con cui, nonostante tutto ciò, comincia forse per la prima volta

grande serietit, è

la

posto per la prima volta il vero punto interroga­

tivo, con cui il destino dell'anima ha la sua svolta, la lancetta si

muove, la tragedia

comincia...

(Da L a gaia scienza, ed. Colli·Montinari,

tr.

il. d i F . Masini, Milano, Adelphi, 1965).

ITI. ZARATHUSTRA E LA PROFEZIA DELL'ETERNO RITORNO

« Cosi PARLÒ ZARATHUSTRA

»

Parte prima. Delle tre metamorfosi Tre metamorfosi io vi nomino dello spirito : come lo spirito di­ venta cammello, e il cammello leone, e infine il leone fanciullo. Molte cose pesanti vi sono per lo spirito, lo spirito forte e pa· ziente nel quale abita la venerazione : la sua forza anela verso le cose pesanti, piu difficili a portare. Che cosa è gravoso ? domanda lo spirito paziente e piega le ginocchia, come il cammello, e vuoi essere ben caricato. Qual è la cosa pio gravosa da portare, eroi ? cosi chiede lo spirito paziente, affinché io la prenda su di me e possa rallegrarmi della mia robustezza. No n è forse questo : umiliarsi per far male alla propria alte­ rigia ? Far rilucere la ·propria follia per deridere la propria saggezza? Oppure è : separarsi dalla propria causa quando essa celebra la sua vittoria ? Salire sulle cime dei monti per tentare il tentatore ? Oppure è : nutrirsi delle ghiande e ·dell'erba della conoscenza e a causa della verità soffrire la fame dell'anima ? Oppure è : essere ammalato e mandare a casa co loto che vogliono consolarti, e invece fare amicizia coi sordi, che mai odono ciò che tu vuoi? Oppure è : scendere nell'acqua sporca, purché sia l'acqua della verità, senza respinger.e rane fredde o caldi rospi? Oppure è : amare quelli che ci disprezzano e porgere la mano allo spettro quando ci vuol fare paura ? Tutte queste cose, le piu gravose da portare, Io spirito paziente prende su di sé : come il cammello che corre in fretta nel ·deserto sotto il suo carico, cosi corre anche lui nel suo deserto. Ma là dove il deserto è piu solitario avviene la seconda meta­ morfosi : qui l o spirito diventa leone, egli vuol come preda la sua libertà ed essere signore nel proprio deserto.

Friedrich W. Nietzsche

235

Qui cerca il suo ultimo signore : il nemico di lui e del suo ul­ timo dio vuoi egli diventare, con il grande drago vuoi egli com­ battere per la vittoria. Chi è il grande drago, che lo spirito non vuoi piu chiamare signore e dio ? « Tu devi » si chiama il grande drago. Ma lo spirito del leone dice « io voglio ». « Tu devi » gli sbarra il cammino, un rettile dalle squame scintillanti come l'oro, e su ogni squama splende a lettere d'oro « tu devi ! >>. Valori millenari rilucono su queste squame e cosi parla il pio possente dei draghi : « tutti i valori delle cose - risplendono su ·di me ». « Tutti i valori sono già stati creati, e io sono - ogni valore creato. In verità non ha ·da essere piu alcun " io voglio! " ». Cosi parla il drago. Fratelli, perché il leone è necessario allo spirito ? Perché non basta la bestia da soma, che a tutto rinuncia ed è piena di vene­ razione? Creare valori nuovi - di ciò il leone non è ancora capace : ma crearsi la libertà per una nuova creazione - di questo è capace la potenza del leone. Crearsi la libertà e un no sacro anche verso il dovere : per que­ sto, fratelli, è necessario il leone. Prendersi il diritto per valori nuovi - questo è il piu terri­ bile atto di prendere, per uno spirito paziente e venerante. In verità è un depredare per lui e il compito di una bestia da preda. Un tempo egli amava come la cosa piu sacra il « tu ·devi » : ora è costretto a trovare illusione e arbitrio anche nelle cose pio sacre, per predar via libertà dal suo amore : per questa rapina o�­ corre il leone. Ma ditemi, fratelli, che cosa sa fare il fanciullo, che neppure il leone era in grado di fare ? Perché il leone rapace deve anche diventare un fanciullo ? Innocenza è il fanciullo e oblio, un nuovo miZIO, un giuoco, una ruota ruotante da sola, un primo moto, un sacro dire di si. Si, per il giuoco della creazione, fratelli, occorre un sacro dire di si : ora lo spirito vuole la sua volontà, il perduto per il mondo conquista per sé il s uo mondo. Tre metamorfosi vi ho nominato dello spirito : come lo spirito divenne cammello, leone il cammello, e infine il leone fanciullo. Cosi parlò Zarathustra. Allora egli soggiornava nella città che è chiamata : « Vacca pezzata ». ·

236

GIANNI VATTIMO

Dei dispregiatori del corpo Ai dispregiatori del corpo voglio dire una parola. Essi non de­ vono, secondo me,

imparare o insegnare ricominciando

daccapo,

bensi devono dire addio al proprio corpo - e cosi ammutolire. Corpo io sono e anima »

«

-

cosi parla il fanciullo. E perché

non s i dovrebbe parlare come i fanciulli ?

il

Ma

risvegliato e sapiente dice :

tutto, e null'altro ; e anima non

è

corpo io sono in tutto e per

altro che una parola per indi­

care qualcosa del corpo. Il corpo è una grande ragione, una pluralità con un solo senso, una guerra e una pace, un gregge e un pastore. Strumento del tuo corpo tello, che tu chiami

«

è

anche la tua piccola ragione, fra­

spirito », un piccolo strumento e un giocat­

tolo della tua grande ragione. «

Io

»

dici tu, e sei orgoglioso di questa parola. Ma la cosa

ancora piu grande, cui tu non vuoi credere, - il tuo corpo e la sua grande ragione :

essa non dice

«

io », ma fa

«

io »-

Ciò che il s enso sente e lo spirito conosce, non ha mai dentro di sé la propria fine. Ma

il

senso e lo spirito vorrebbero convincerti

che loro sono la fine di tutte le cose : talmente vanitosi sono essi. Strumenti e giocattoli sono il senso e lo spirito:

ma dietro di

loro sta ancora in Sé. Il Sé cerca anche con gli occhi dei sensi, a�scolta anche con gli orecchi dello spirito. Sempre il Sé ascolta e cerca : esso compara, costringe, conqui­ sta, distrugge. Esso -domina ed

è

il signore anche dell'io.

Dietro i tuoi pensieri e sentimenti, fratello, sta un possente so­ vrano, un saggio ignoto - che si chiama Sé. Ahita nel tuo corpo,

è

il tuo corpo. Vi

è

piu ragione nel tuo corpo che nella tua migliore saggezza.

E chi sa a quale scopo per il tuo corpo

è

necessaria proprio la

tua migliore saggezza? Il tuo Sé ride del tuo io e dei suoi balzi orgogliosi.

«

Che sono

mai per me questi balzi e voli del pensiero ? esso si dice. Una via traversa verso il mio scopo. lo sono la danda dell'io e FinsuHlatore dei suoi concetti »-

II Sé dice all'io :

«

ecco, prova dolore !

».

E l'io soffre e ri­

flette come non soffrire pio - e proprio per questo Il Sé dice all'io :

«

deve

pensare.

ecco, prova piacere ! ». E l'io gioisce e pensa

come poter ancora gioire spesso - e per questo appunto

deve

pensare. Voglio dire una parola ai dispregiatori ·del corpo. Che essi di-

Friedrich W. Nietzsche

237

sprezzino è dovuto al loro apprezzare. Ma che cos'è che ha creato l'apprezzare e il disprezzare e il valore e la volontà ? Il Sé creatore ha creato per sé apprezzare e disprezzare, ha crea­ to per sé il piacere e il dolore. n corpo creatore ha creato per sé lo spirito, e una mano della sua volontà. Persino nella follia del vostro disprezzo, dispregiatori del corpo, voi servite il vostro Sé. Io vi dico : è il vostro Sé che vuoi morire e si allontana dalla vita. Ormai non può pio fare ciò che pio di tutto vorrebbe : - crea­ re al di sopra di sé. Questo egli vuole piu di tutto, questo è tutto quanto il suo anelito. Ma ormai troppo tardi è per lui, per far questo : - cosi il vostro Sé vuoi tramontare, dispregiatori del corpo. Tramontar vuole il vostro Sé, e perciò siete diventati dispregia­ tori del corpo ! Infatti non siete pio capaci di creare al ·di sopra di voi stessi. E per questo ora vi incollerite contro la vita e la terra. Una invidia inconsapevole è nello sguardo bieco del vostro disprezzo. lo non vado sulla vostra stra·d a, dispregiatori del corpo ! Voi non siete per me ponti verso il superuomo ! Cosi parlò Zarathustra.

Dei predicatori di morte Vi sono predicatori di morte : e la terra è piena di gente cui bisogna predicare di abbandonare la vita. Piena è la terra di superflui, corrotta la vita dai troppi. Pos­ sano costoro con gli allettamenti della « vita eterna » essere distolti da questa vita ! « Gialli » : cosi si chiamano i predicatori di morte, oppure « neri ». Ma io ve li voglio mostrare anche sotto altri colori. Ecco gli esseri spaventosi, che portano dentro ·di sé la belva ra­ 'pace e non hanno scelta che tra i piaceri e l'autoflagellazione. E anche i loro piaceri restano autoflagellazioni. Non sono nemmeno diventati uomini, questi esseri spaventosi : possano essi predicare il distacco dalla vita e trapassare nell'altra ! Ecco i tisici nell'anima : sono appena nati, che già cominciano a morire e anelano a dottrine della stanchezza e della rinuncia. Essi vorrebbero essere morti, e noi dovremmo approvare que­ sta loro volontà ! Guardiamoci dal risuscitare questi morti e dal dan­ neggiare queste bare ambulanti !

238

GIANNI VATTIMO

Basta che incontrino un malato o un vegliardo o un cada­ vere, perché dicano « la vita è confutata ! »· Ma soltanto loro sono confutati e il loro occhio, che dell'esi­ stenza vede solo quell'un volto. Entro una nuhe spessa di melanconia e bramosi di piccoli inci­ denti che rechino la morte : cosi essi attendono, e stringono i denti. Oppure : allungano le mani verso le leccornie e intanto deridono la loro puerilità : rimangono appesi al loro filo di vita e deridono questo loro essere appesi a un filo di paglia. La loro saggezza suona : « un folle è chi rimane in vita, ma cosi folli siamo anche noi ! E questa è la cosa piu pazza nella vita ! » . « L a vita non è che sofferenza » - dicono altri e non mentono : ma allora fate in modo di finire voi ! Ma allora fate in modo che · finisca la vita che è solo sofferenza ! E cosi ha da sonare la dottrina della loro virtu : « tu devi uccidere te stesso ! Da te stesso devi levarti dai piedi ! ». . Con la loro virtu essi vogliono cavare gli occhi ai loro nemici ; e si elevano solo per abbassare gli altri. E ancora vi sono di quelli che stanno assisi nella loro palude, e cosi giunge il loro discorso di tra il canneto : « Virtu è se­ dere silenziosi nella palude. Noi non mordiamo nessuno ed evitiamo chi vuoi mordere ; e in tutto abbiamo l'opinione che ci vien data >). E ancora vi sono di quelli che amano i gesti e pensano : la virtu è una specie di gesto. ·

-

-

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Le loro ginocchia sono sempre in adorazione, e le loro mani sono inni di lode alla virtu, ma il loro cuore non sa nulla di tutto ciò. E ancora vi sono di quelli che ritengono sia virtu il dire : « la virtu è necessaria » ; ma in fondo non credono se non che la poli­ zia è necessaria. E certi che non riescono a vedere ciò che è elevato negli uomini, chiamano virtu il loro vederne le bassezze : perciò chiamano virtu il loro occhio maligno. E alcuni vogliono essere edificati e innalzati e lo chiamano virtu ; e altri vogliono essere sconvolti - e anche ciò essi lo chiamano virtu. E cosi quasi tutti credono di partecipare della virtu ; e come minimo ciascuno vuoi essere un esperto di « bene » e « male ». Ma Zarathustra non è venuto per dire a tutti questi bugiardi e buffoni : « che sapete voi di virtu ! Che mai potreste sapere voi di virtu !

».

-

Bensi perché voi, amici, prendiate a tedio le parole trite che avete imparato dai buffoni e dai bugiardi : Prendiate a tedio le parole « ricompensa », « rivalsa », « puni­ zione », « vendetta nella giustizia ».

Prendiate a tedio dire : « un'azione è buona se è altruistica ». � fratelli ! Sia il vostro Sé nell'azione, come la madre è nel

figlio : questo sia per me la vostra parola sulla virtu ! In verità, vi ho tolto un centinaio di parole e i balocchi piu cari alla vostra virtu ; e ora siete incolleriti con me, come dei bam­ bini. Giocavano in riva al mare - ecco, venne l'onda e trascinò via nel suo fondo i loro giuochi : e ora 'piangono. Ma la stessa onda deve portare loro nuovi trastulli, e nuove variegate conchiglie rovesciare ai loro piedi ! Cosi saranno consolati ; e come loro anche voi, amici, avrete le vostre consolazioni - e nuove conchiglie variegate ! Cosi parlò Zarathustra.

Delle tarantole Ecco la tana della tarantola ! Vuoi vederla tu stesso ? Qui pende la sua ragnatela : toccala, che frema. Eccola venire docilmente : benvenuta, tarantola ! Nero sta sul tuo dorso il tuo triangolo e distintivo ; e io so anche che cosa si annida nella tua anima. Vendetta si annida nella tua anima :

dove tu mordi, si forma

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VATTIMO

una nera schianza ; con la vendetta il tuo veleno fa venir le verti· gm1 ali'anima ! Cosi io parlo per similitudine a voi, che fate venire le vertigini alle anime, voi predicatori dell'eguaglianza ! Tarantole voi siete . per me, e in segreto smanio si di vendetta ! Ma io porterò alla luce j vostri nascondigli : perciò vi rido in faccia il mio riso dell'elevatezza. Perciò do uno strattone alla vostra ragnatela, perché la vostra rabbia vi induca a uscir fuori dal vostro antro di menzogne, e la vostra vendetta balzi fuori dietro la vostra parola « giustizia ». Giacché : che l'zwmo sia redento dalla vendetta - questo è per me il ponte verso la speranza suprema e un arcobaleno dopo hm­ ghe tempeste. Diverso, certamente, è il volere delle tarantole. « Proprio questo significhi per noi la giustizia : che il mondo si ricolmi delle tempe· ste della nostra vendetta » cosi esse parlano tra loro. « Noi vogliamo esercitare la vendetta e l'oltraggio contro tutti coloro che non sono eguali a noi » - questo giurano a se stessi i cuori di tarantola. « E " volontà di eguaglianza " - questo ha da diventare d'ora in poi persino il nome per virtu ; e noi vogliamo elevare il nostro stridio contro tutto quanto ha potenza ! ». Voi predicatori dell'eguaglianza, la demenza tirannica ·dell'impo· tenza in voi invoca l' « eguaglianza » : le vostre p ili riposte brame di tirannide si mascherano cosi in parole di virtu ! Presunzione intristita, invidia rattenuta, forse la presunzione e l'invidia dei vostri padri : da voi eromp e come fiamma e demenza della vendetta. Ciò che il padre ha taciuto, prende parola nel figlio ; e spesso ho trovato che il figlio altro non era, se non il segreto denudato ' del padre. Essi somigliano agli entusiasmati : ma non è il cuore che li en· tusiasma, - bensi la vendetta. E quando diventano fini e freddi, non è lo spirito bensi l'invidia che li rende fini e freddi. . La loro gelosia Ii conduce anche sul sentiero dei pensatori ; e questo è il segno distintivo della loro gelosia - essi vanno sempre troppo lontano : tanto che la loro stanchezza alla fine deve met­ tersi a ·dormire sulla neve. Da ognnno dei loro lamenti risuona la vendetta, in ognuno dei loro elogi è un voler far male ; e l'essere giudici sembra loro bea­ titudine. Ma io vi do questo consiglio, amici : diffidate di tutti coloro nei quali è forte l'istinto di punire ! -

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Sono gente di qualità e origine scadente ; dai loro volti oc· chieggia il carnefice e il segugio. Diffidate di tutti coloro che parlano della loro giustizia ! In ve· rità, alle loro anime non manca soltanto ·del miele. E se essi chiamano se stessi « i buoni e giusti », non dimenti­ cate che per esser farisei non manca loro nient'altro che - la po· tenza ! Amici, io non voglio essere confuso e scambiato. Vi sono di quelli che predicano la mia dottrina della vita : e al tempo stesso sono predicatori dell'eguaglianza e tarantole. Che essi discorrano in favore della vita, sebbene se ne stiano nella loro tana, questi ragni velenosi, e lontani dalla vita : ciò è perché essi vogliono in tal modo far male. Vogliono far male a quelli che ora hanno la potenza : infatti� presso costoro trova il miglior domicilio la predica della morte. Se fosse altrimenti, le tarantole insegnerebbero un'altra dottrina : e proprio loro furono in passato i migliori calunniatori del mondo e bruciatori d'eretici. Con questi predicatori dell'eguaglianza io non voglio essere con· fuso e scambiato. Perché cosi parla a me la giustizia : non sono eguali ».

«

gli uomini

E neppure debbono diventarlo ! Che sarebbe il mio amore per il superuomo, se io parlassi diversamente ? Per mille ponti e sentieri debbono sospingersi verso il futuro� e tra loro deve essere posta sempre piu guerra e diseguaglianza : cosi mi fa parlare il mio grande amore ! Inventori di immagini e spettri debbono essi diventare nelle loro inimicizie, e con le loro immagini e i loro spettri debbono combat­ tere ancora l'un contro l'altro la battaglia suprema ! Bene e male, e ricco e povero, ed elevato e meschino, e tutti i nomi ·dei valori : armi debbono essere, segni dal metallico. suono : del fatto che la vita non può se non continuamente superare se stessa ! La vita vuole edificare se stessa in alto con pilastri e gradini: verso vaste lontananze essa vuole mirare e ancora al di là, verso bellezze beate, per questo essa ha bisogno di altezza ! -

E poiché ha bisogno di altezza, ha bisogno anche dei gradini e della contraddizione tra i gradini e coloro che salgono ! Salire vuole la vita, e salendo superare se stessa. E guardate, dunque, amici ! Qui, dove è la tana ·della tarantola� si levano verso l'alto le rovine di un tempio antico, - guardate, dunque, con occhio illuminato ! In verità, colui che un tempo torreggiò i suoi pensieri nella pte·

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tra, verso l'alto, sapeva il segreto di ogni vita, come lo sapeva l'uomo piO. saggio ! Che lotta e ineguaglianza sono anche nella ·bellezza, e guerra per la potenza e la stra potenza : ciò egli ci insegna qui, in sim­ bolo inequivocabile. Come, qui, la volta e l'arco divinamente si rompono nell'ago­ ne : come con la luce e l'omhra anelano l'un contro l'altro, i divi­ namente anelanti Cosi sicuri e belli, noi dobbiamo essere anche nemici, amici miei ! Divinamente noi vogliamo anelare l'uno contro l'altro ! Ahi ! ecco che la tarantola, la mia antica nemica, ha morso anche me ! Divinamente sicura e bella, essa mi ha morso il dito ! « Punizione ha da esserci e giustizia - cosi essa pensa : non per nulla egli deve cantare qui i suoi canti in onore dell'inimici­ . zia .l ». Si, essa si è vendicata ! E, guai ! ora farà venire le vertigini an­ che alla mia anima, con la vendetta ! Ma affinché io TUJn cominci a ruotare nella vertigine, amici, legatemi qui saldamente a questa colonna ! Preferisco essere un santo stilita che un vortice di vendetta ! lnvero, Zarathustra non è vento che ruoti vorticoso ; e se anche è un danzatore, non sarà mai un danzatore per morso di taranto­ la ! Cosi parlò Zarathustra.

Dei sublimi Placido è il fondo del miO mare : chi potrebbe indovinare che esso nasconde mostri scherzosi ! lncrollabile è la mia profondità : ma essa luccica di guizzanti enigmi e risate. Oggi ho visto un sublime, un solenne, un penitente dello spi­ rito: oh, come la mia anima ha riso della sua bruttezza ! Col petto sollevato, simile a quelli che aspirano fiato : cosi se ne stava il sublime, tacitamente : Tutto addobbato di verità brutte, la sua preda di caccia, e ricco di vesti stracciate ; molte spine aveva anche indosso - ma non ho visto ancora una rosa. Egli non ha ancora imparato il riso e la bellezza. Tetro fu il ritorno di questo cacciatore della foresta della conoscenza. Dalla battaglia tornava a casa, con belve feroci : ma dalla sua tetraggine fa capolino ancora una belva feroce - non ancora vinta !

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Egli sta là ancora, come una tigre che voglia spiccare un bal­ zo ; ma a me queste anime tese non piacciono, questi ritratti su se stessi non sono di mio gusto. E voi dite, amici, che non si ha da discutere sul gusto e sul sapore ? Ma tutta la vita è una disputa su gusto e sapore ! Gusto : è il peso e insieme la bilancia e colui che pesa ; e guai a ogni essere vivente che volesse vivere senza la contesa per il peso, la bilancia e coloro che pesano ! Se si stancasse della sua sublimità, questo sublime : allora avreb­ be inizio la sua bellezza - e allora lo gusterei e lo troverei sapo­ roso. E solo quando si distoglierà ·da se stesso, salterà al di là della sua stessa ombra, - e, davvero ! nel suo sole. Troppo a lungo il penitente dello spirito sedette all'ombra e le sue guance sono smunte ; quasi l'ha còlto l'inedia per le sue attese. Disprezzo è ancora nel suo occhio ; e la nausea si èela sulla sua bocca. Adesso riposa, è vero, ma il suo riposo non ha ancora cono­ sciuto il sole. Come il toro dovrebbe fare ; e la sua felicità dovrebbe odorare di terra, non di disprezzo della terra. Lo vorrei vedere come un candido toro, sbuffante e muggente mentre precede il vomere : e il suo muggito dovrebbe essere la lode di tutte le cose terrene ! Cupo è ancora il suo viso ; su di esso scherza l'ombra della mano. Ancora adombrato è il senso. della sua vista. La sua azione stessa è l'ombra su di lui : la mano oscura colui che agisce. Egli non ha ancora superato la sua azione. Certo, di lui io amo la nuca taurina : ma vorrei vedere anche

l'occhio angelico. Deve ancora disimparare la sua volontà eroica : un elevato egli ha da essere e non soltanto un sublime : - l'etere stesso dovrebbe s ollevarlo, senza volontà ! Ha soggiogato mostri, ha risolto enigmi : ma egli ·dovrebbe libe­ rare anche i suoi mostri e i suoi enigmi, dovrebbe trasformarli in figli del cielo. La sua conoscenza non ha ancora imparato a sorridere e a es­ sere senza gelo�ia ; la sua scrosciante passione non si è ancora acquie­ tata nella bellezza. In verità, non nella . sazietà dovrebbe tacere e immergersi la sua brama, ma nella bellezza ! La grazia appartiene alla magnani­ mità di colui che ha grandi sensi. Col braccio appoggiato sulla testa : cosi dovrebbe riposare l'eroe, cosi dovrebbe egli superare anche il suo riposarsi.

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Ma proprio per l'eroe la bellezza è di tutte le cose la pin ardua. lrraggiungibile è la bellezza per ogni volontà violenta. Un po' pio, un po' meno : proprio questo è qui molto, è qui il massimo. Stare in piedi coi muscoli rilassati e con la volontà staccata : questa è la cosa p i ti ardua per voi tutti, o sublimi ! Quando la potenza diventa clemente e scende gin nel visibile : un tale scendere gin, io lo chiamo bellezza. E da nessun altro come ·da te, o possente, io voglio appunto la bellezza : la tua bontà sia il tuo supremo sopraffare te stesso. So che sei capace di ogni malvagità : perciò da te voglio la bontà. Davvero, spesso ho riso dei rammolliti che si credono buoni per­ ché' non hanno artigli ! Alla virtn della colonna aspira ! - pio bella essa diventa e sem­ pre pin delicata, ma di dentro pio dura _ e pin robusta, quanto pin ascende. Si, o sublime, per te verrà il momento di essere anche bello e -di rispecchiarti nella tua stessa bellezza. Allora l'anima ti rabbrividirà di brame divine ; e persino nella tua vanità sarà a·dorazione ! Questo infatti è il segreto dell'anima : solo quando l'eroe l'ha lasciata, le si aVVIcma, in sogno, - il super-eroe. Cosi parlò Zarathustra.

Di grandi eventi V'ha un'isola nel mare - non lontano dalle isole Beate di Zara­ thustra - sulla quale fuma in continuazione una montagna di fuoco; il popolo - ma specialmente le vecchie comari - afferma che essa sia stata posta come un macigno rupestre davanti all'in­ gresso degli inferi : e, proprio in mezzo alla montagna di fuoco, si troverebbe l'angusto sentiero che porta gin all'ingresso degli inferi. Ordunque, al tempo in cui Zarathustra soggiornava sulle isole Beate, accadde che una nave gettasse l'àncora presso l'isola, su cui si trova quella montagna fumante ; e l'equipaggio sbarcò a terra per dar la caccia ai conigli. Ma - sarà stato mezzogiorno - quando il capitano e i suoi uomini si trovarono di nuovo insieme, ecco che �si improvvisamente videro in aria venire un uomo verso ·di loro, mentre una voce diceva : « è tempo ormai ! » . Ma quando la figura fu giunta vicinissimo a loro - ed essa volò rapida come un'ombra oltre di loro nella direzione della montagna di fuoco - ecco che, con grande costernazione, si accorsero che era Zarathustra ; infatti,

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a parte il capitano, essi lo avevano già visto, e lo amavano cosi come il popolo è solito amare : con affetto frammisto a soggezione. « Ma guarda ! disse il vecchio timoniere, Zarathustra va all'in­ ferno ! ». Nello stesso periodo in cui questi marinai erano sbarcati sull'i­ sola del fuoco, si diffuse la voce della scomparsa di Zarathustra ; e, a chi chiedeva, gli amici rispondevano essersi egli imbarcato di notte senza dire verso quali lidi. Cosi la gente cominciò a essere inquieta ; dopo tre giorni si ag­ giunse all'inquietudine anche il racconto dei marinai - e ora il popolo si mise a dire che il diavolo era venuto a prendersi Zara­ thustra. I suoi discepoli ridevano di tutte queste dicerie ; uno di loro anzi disse : « per me è pin facile che Zarathustra sia andato a prendersi il diavolo ». Ma in fondo all'anima erano tutti pieni di preoccupazione e di nostalgia : cosi, grande fu la loro gioia, al quinto giorno, quando Zarathustra ricomparve in mezzo a loro. E questo è il racconto del colloquio di Zarathustra col cane di fuoco. La terra, egli disse, ha una pelle ; e questa pelle ha malattie. Una di queste malattie si chiama, per esempio, « uomo ». E un'altra di queste malattie si chiama « cane di fuoco » : a pro­ posito di quest'ultimo gli uomini hanno detto e si sono lasciati rac­ contare molte bugie. Per sondare fino in fondo questo enigma, andai oltre il mare : e vidi, nuda, la verità - davvero ! - da capo a piedi. Quanto al cane di fuoco, ora so di che si tratti ; e cosi pure ri­ guardo a tutti quei demoni che sono il rifiuto e la sovversione della terra e di cui non solo vecchie comari hanno paura. Vien su dal tuo burrone, can di fuoco ! gli gridai, e rendi ma­ nifesto il tuo abisso ! Donde attingi ciò che ti fiamma fuor delle nari? Dal mare, attingi in abbondanza : questo rivela l'amara salse­ dine della tua eloquenza ! Invero, per essere un cane degli abissi, prendi il tuo cibo troppo in superficie ! Tutt'al piu potresti, ai miei occhi, essere il ventriloquo della terra ; e ogni qual volta ho udito parlare quei demoni del rifiuto e della sovversione, li ho trovati in tutto e per tutto eguali a te : salati, bugiardi, piatti. Voi sapete latrare con fragore e oscurare tutto di cenere ! N on ci sono gradassi par vostro, e avete imparato a sazietà l'arte di far bollire e infocare la melma. Dove voi siete, non può essere vicino altro che melma, e anche

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ogni sorta di escrescenze mostruose, di cunicoli e ceppi : tutto ciò vuoi riuscire a libertà. « Libertà » è il vostro latrato preferito : ma io ho disimparato a credere a « grandi eventi », quando a questi si accompagna grande fragore e fumo. E credi pure, amico dal latrato infernale ! Gli eventi piu grandi -- non sono le nostre ore piu fragorose, bensi quelle senza voce. Non intorno agli inventori di nuovi fragori : intorno agli inven­ tori di valori nuovi ruota il mondo; impercettibile - cosi esso ruota. E, confessalo! Al ritirarsi del tuo fragore e fumo, sempre risulta che ben poco è aécaduto. Che sarà mai una città trasformata in mummia e una statua riversa nella melma ! E a coloro che rovesciano le statue io dico : la pili grossa stol­ tezza è gettare sale in mare e statue nella melma. La statua giacque nella melma del vostro disprezzo : ma la sua legge è proprio di riacquistare vita e bellezza vivente, risorgendo dalla melma ! Ecco che essa si erge con fattezze divine e con tutta la sedu­ zione dei so:fferenti ; e - ·davvero ! - dirà anche grazie, per essere stata rovesciata, a voi che volete rovesciare tutto ! Ma ai re e alla Chiesa, e a tutto quanto soffre per decrepitezza e virto, io dico : lasciatevi rovesciare ! Per tornare in vita e perché in voi torni - la virto ! Cosi parlai al cane di fuoco : lui mi interruppe con un ringhio e chiese : « Chiesa ? Che cosa è mai? » . risposi io è una specie - e la pio bugiarda di Chiesa · tutte - di Stato. Ma taci, cane ipocrita ! Ché tu ben conosci i tuoi simili ! Come te, Io Stato è un cane ipocrita ; come te esso parla nel fumo e nei latrati - per far credere, come te, di parlare dal ventre delle cose. Infatti vuoi essere a ogni costo la bestia pio importante sulla terra, lo Stato ; e in ciò viene anche creduto. Quand'ebbi detto ciò, il cane di fuoco fece smorfie di invidia forsennata. « Come ? - urlò, - la bestia piu importante sulla ter­ ra ? E gli credono ? ». E dalle sue fauci esalavano tali vapori e orride voci, che credetti soffocasse di rabbia e di invidia. Infine si fece pio quieto, e il suo latrato si andò spegnendo ; ma quando si fu zittito, dissi ridendo : « Ti arrabbi, ca n di fuoco ? Allora ho detto il giusto sul tuo conto ! E, affinché io rimanga anche nel giusto, ascolta ciò che ti dico di un altro cane ·di fuoco : questo parla davvero dal cuore della terra. -

-

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Oro alita la sua bocca e pioggia d'oro: cosi in lui vuole il suo cuore: Che gli importa della cenere e del fumo e della melma co· · cente ! Ondeggianti nubi multicolori di risate emana la sua bocca ; egli disprezza il gorgoglio sputacchiante e la bile delle tue viscere ! L'oro e il riso - egli li prende dal cuore della terra : perché, sappilo : il cuore della terra è d'oro ». Udite queste, parole, il cane di fuoco non sopportò piu di ·darmi ascolto. Vergognoso, la coda tra le gambe, guaiolò flebile, e strisciando rientrò nel suo antro. Cosi raccontò Zarathustra. I suoi discepoli però lo avevano a malapena ascoltato : tanto grande era il loro desiderio di raccontare a lui la storia dei marinai, dei conigli e dell'uomo volante. « Che mai debbo pensare di tutto ciò ! disse Zarathustra. Forse che sono un fantasma ? Sarà certo stata la mia ombra. Sicuramente avete già sentito dire qualcosa del via ndante e della sua ombra? Una cosa è certa tuttavia : bisogna che non dia troppa corda alla mia ombra, - altrimenti finirà per rovinarmi la reputazione ». E Zarathustra scosse ancora la testa, tutto meravigliato : « Che mai debbo pensare di tutto ciò ! », ripeté di nuovo. « Perché il fantasma gridava " è tempo ! è tempo ormai ! ". Per che cosa - è ormai tempo ? ». C osi parlò Zarathustra.

Della redenzione Un giorno che passava dal grande ponte, Zarathustra fu cir­ condato da una turba di storpi e mendicanti, e un gobbo gli parlò cosi : « Guarda Zarathustra ! Anche il popolo impara da te e acquista fede nella tua ·dottrina : ma, perché ti creda completamente, manca solo una cosa - devi ancora convincere noi storpi ! Qui ne hai una bella scelta, e in verità ti si offre un'occasione per piu versi ! puoi risanare i ciechi e far camminare i paralitici ; e a chi ha troppo die­ tro di sé, potresti anche levarne un poco : - questo, io penso, sarebbe il modo giusto per far credere gli storpi a Zarathustra ! ». Ma Zarathustra rispose a quel chiacchierone : « A levare la goh­ ba al gobbo, gli si toglie il suo spirito - cosi insegna il popolo. E, a dare gli occhi al cieco, egli vedrà troppe cose atroci sulla terra : da maledire colui che lo guari. Colui, poi, che fa camminare il paralitico, gli arreca il massimo danno : infatti, non appena sarà in

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grado di camminare, andranno insieme a lui anche i suoi VIZI questo insegna il popolo a proposito degli storpi. E perché non do­ vrebbe anche Zarathustra imparare dal popolo, se il popolo impara da Zarathustra ? Ma - da quando sono in mezzo agli uomini - questo è per me il men o : che io veda : « A costui manca un occhio, a quello un orecchio, a un terzo la gamba, e altri vi sono che hanno per­ duto la lingua o il naso o la testa » . I o vedo c h o visto ben d i peggio e certe cose cosi ributtanti, che non vorrei parlare di ciascuna di esse e di talune neppure ta­ cere : uomini cioè cui manca tutto, se non che hanno una sola cosa di troppo - uomini che non sono nient'altro se non un grande occhio o una grande bocca, o un gran ventre o qualcos'altro di grande, - ·Costoro, i o li chiamo storpi alla rovescia.

E quando venni dalla mia solitudine e per la prima volta passai da questo ponte : non potevo credere agli occhi miei, e guardai, guar­ dai ancora e alla fine dissi : « questo è un orecchio ! un orecchio grande quanto un uomo !

»·

Guardai meglio :

e, realmente,

sotto

l'orecchio si muoveva una coserella piccola e misera e stentata da far pietà. In verità, l'orecchio mostruoso poggiava su di un piccolo esile stelo, - ma lo stelo era un uomo ! Chi avesse guardato con la lente, avrebbe potuto persino riconoscere un visetto piccino e invi­ dioso ; e anche che dallo stelo penzolava un'animuccia enfiata. n popolo, tuttavia, mi disse che il grande orecchio era non solo uomo, bensi un grand'uomo, un genio. Io però non credo mai al popolo, quando parla di grandi uomini - cosi rimasi nella mia convin­ zione, che cioè si trattasse di uno storpio alla rovescia, che aveva troppo poco di tutto e troppo ·di una cosa sola ». Poi che ebbe parlato cosi al gobbo e a coloro di cui costui si era fatto portavoce e avvocato, Zarathustra si rivolse profondamente con­ trariato ai suoi discepoli e disse : In verità, amici, io mi aggiro in mezzo agli uomin�, come in mezzo a frammenti e membra di uomini !

E questo è spaventoso ai miei occhi : trovare l'uomo in frantumi e sparpagliato come su un campo di battaglia e di macello.

E se il mio occhio rifugge dall'oggi verso il passato : sempre esso trova la stessa cosa : frammenti e membra e orride casualità ma mai un uomo ! L'oggi e il passato

sulla terra - ah, amici miei - questo

è per me il massimo di ciò che non posso sopportare ; e non saprei vivere, se non avessi anche la visione di ciò che neces sariamente verrà. Uno che vede e vuole e crea, egli stesso un futuro e

un

ponte

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verso il futuro - e ahimè, ancora quasi uno storpio sul ponte : tutto ciò è Zarathustra. E anche voi vi siete chiesti spesso : « chi è per noi Zarathustra ? Qual nome ha per noi? ». E, come me, avete dato a voi stessi delle domande per risposta. È uno che promette ? O -che adempie ? Uno che conquista ? O che eredita ? Un autunno ? O un vomere ? Un medico ? O un risanato ? È un poeta ? O uno che dice la verità ? Uno che libera ? O che incatena ? Un buono? O un malvagio ? lo passo in mezzo a gli uomini, come in mezzo a frammenti del­ l'avvenire : di quell'avvenire che io contemplo. E il senso di tutto il mio operare è che io immagini come un poeta e rièomponga in uno ciò che è frammento ed enigma e orrida casualità. E come potrei sopportare di essere uomo, se l'uomo non fosse anche poeta e solutore di enigmi e redentore della casualità ! Redimere coloro che sono passati e trasformare ogni « cosi fu » un « cosi volli che fosse ! » solo questo può essere per me in redenzione ! Volontà - è il nome di ciò che libera e procura la gioia : cosi io vi ho insegnato, amici miei ! Ma adesso imparate ancor questo : la volontà, di per sé, è ancora come imprigionata. Volere libera : ma come si chiama ciò che getta m catene anche il liberatore? « Cosi fu » - cosi si chiama il digrignar di denti della volontà e la sua mestizia piu solitaria. Impotente contro ciò che è già fatto, la volontà sa male assistere allo spettacolo del passato. La volontà non riesce a volere a ritroso ; non potere infrangere il tempo e la voracità del tempo, - questa è per la volontà la sua mestizia piu solitaria. Volere libera : ma che cosa può inventare il volere medesimo per liberarsi della propria mestizia e prendersi giuoco della sua pri­ gione? Ahimè ogni carcerato va fuor di senno! E, nell'insensatezza, an­ che la volontà imprigionata redime se stessa. Che il tempo non possa camminare a ritroso, questo è il suo rovello ; > e rinunziare a una delle piti antiche e venerande ipo­ tesi : come suole accadere all'imperizia dei naturalisti, ai quali basta sfiorare appena l' e forse un bel giorno ci si abi­ tuerà ancora, anche ·da parte dei logici, a cavarsela senza quel piccolo « esso» (nel quale si è volatilizzato l'onesto, vecchio io). 19. I filosofi sono soliti parlare della volontà come se fosse la cosa piu nota di questo mondo ; anzi Schopenhauer ci dètte a inten­ dere che la volontà soltanto ci . sarebbe propriamente nota, nota in tutto e per tutto, nota senza detrazioni o aggiunte. Tuttavia mi sembra sempre di nuovo che anche in questo caso Schopenhauer

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abbia fatto soltanto quel che appunto i filosofi sono soliti fare : che cioè egli abbia accolto un pregiudizio del volgo portandolo all'esa­ gerazione. Il volere mi sembra soprattutto qualcosa di complicato, qualcosa che soltanto come parola rappresenta un'unità - e appun­ to nell'uso di un'unica parola si nasconde il pregiudizio del volgo, che ha prevalso sulla cautela dei filosofi, in ogni tempo esigua. Si sia ·dunque, una buona volta, piu cauti, si sia « non filosofici » di­ ciamo : in ogni volere c'è in primo luogo una molteplicità di sensa· zioni, vale a dire la sensazione dello stato da cui ci si vorrebbe allontanare, la sensazione dello stato a cui ci si vorrebbe avvicinare, la sensazione di questo stesso « allontanarsi » e « tendere », quindi anche una concomitante sensazione muscolare, la quale, pur senza che si metta in movimento « braccia e gambe », comincia il suo giuoco mercé una specie di abitudine, non appena noi « vogliamo ». Al pari dunque del sentire, e, per la verità, di un sentire di molte specie, cosi, in secondo luogo, anche il pensare deve essere ricono­ sciuto quale ingrediente della volontà : in ogni atto di volontà esiste un pensiero che comanda : - e non si deve in alcun modo cre­ dere di poter separare questo pensiero dal « volere », come se il volere dovesse poi continuare a sussistere ! In terzo luogo, la volontà non è soltanto un complesso di sensazioni e di pensieri, ma anche, soprattutto, una passione: e in realtà quella passione del comando. Quella che viene chiamata « libertà del volere » è essenzialmente la passione della superiorità rispetto a colui che deve obbedire: > e lo stesso ·dolore viene preso da essi come un qualcosa che deve essere eliminato. Noi che siamo fatti a rovescio, noi che ci siamo creati uno sguardo e una coscienza aperta per il problema del dove e del come sia cresciuta fino a oggi piii vigorosa in altezza la pianta « uomo », riteniamo che ciò si sia sempre verificato sotto condizioni opposte e che per questo la pericolosità della sua situazione dovette aumentare in mi­ sura semplicemente enorme, la sua forza inventiva e dissimulatrice (il suo « spirito ») svilupparsi, sotto una lunga oppressione e costri-

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zione, in sottigliezza e temerarietà, e la sua volontà di vita potcn­ ziarsi fino all'assoluta volontà di potenza - pensiamo che durezza, prepotenza, schiavitu, pericoli per le strade e nel cuore, segretezza, stoicismo, arte tentatrice e demonismo ·d'ogni sorta, che tutto quan­ to v'è nell'uomo di malvagio, di tirannico, dell'animale rapace e del serpente, serva all'elevazione della specie « uomo » altrettanto come il suo opposto - e non diciamo ancora abbastanza, se ci limitiamo a dire soltanto questo, giacché in ogni caso, con tutto il nostro par­ lare e il nostro tacere su questo punto, ci troviamo all'altro polo di ogni moderna ideologia e desiderabilità per il gregge : come i suoi antipodi forse? Quale meraviglia se noi « liberi spiriti » non siamo proprio gli spiriti piu comunicativi ? se non sentiamo il desiderio di rivelare, sotto ogni rigual:'do, da che cosa uno spirito può affrancarsi e verso che cosa quindi verrà forse spinto ? E per quel che si rife­ risce alla pericolosa formola « al di là del bene e del male », con la quale per lo meno ci salvaguardiamo dall'essere scambiati con altri : noi siamo qualcosa di diverso dai « libres-penseurs » , « liberi pensatori », . Per quanto questa valutazione della filosofia possa rallegrarsi del plauso di tutti i positivisti di Francia e di Germania ( - e potrebbe , anche darsi che avrebbe lusingato il cuore e il gusto di Kant : si pensi al titolo de�le sue opere principali -), i nostri nuovi fil osofi diranno : i critici sono strumenti dei filosofi e appunto perciò, in quanto strumenti, sono ancora ben lontani dall'essere essi stessi filò, sofi ! Anche il grande cinese di Konigsberg era soltanto un grande critico.

211. Insisto nel dire che si cessi finalmente dallo scambiare per filosofi gli operai della filosofia e soprattutto gli uomini di scienza - e che proprio su questo punto si dia rigorosamente « a ognuno il suo », e non già troppo a questi, troppo poco a quelli. Può darsi che per l'educazione del vero filosofo sia necessario che anche lui si sia arrestato una volta su tutti questi gradini ai quali i suoi servitori, gli operai scientifici della filosofia, restano inchiodati - devono

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restare inchiodati ; forse deve essere stato anche lui un critico e uno scettico e un dogmatico e uno storico, e oltre a ciò un poeta e un raccoglitore e un viaggiatore e un divinatore di enigmi c un mora­ lista e un veggente e un « libero spirito », quasi ogni cosa, per per­ correre la cerchia dei valori e dei sentimenti di valore umani e per potere scrutare dall'alto verso ogni lontananza, dagli abissi verso ogni altitudine, dal cantuccio verso ogni orizzonte. Ma tutte queste sono soltanto condizioni preliminari del suo compito : questo stesso compito vuole qualcosa di diverso - esige che egli çrei dei valori. Quegli operai della filosofia, conformi al nobile modello di Kant e Hegel, devono accertare e ridurre in formule qualsiasi ampia fatti­ specie di valutazioni - vale a dire di antiche determinazioni di valori, creazioni di valori, che sono diventate dominanti e che per un certo tratto di tempo hanno assunto il nome di « verità » sia nel campo della logica che in quello della politica (morale) e del­ l'arte. Spetta a questi investigatori rendere perspicuo, ben ponde­ rato, palpabile, maneggevole tutto quanto sino a oggi è accaduto ed è stato oggetto di valutazione ; abbreviare ogni lunghezza, an­ zi il « tempo » stesso, e soggiogare l'intero passato : un compito ster­ minato e meravigÌioso, al servizio del quale ogni sottile orgoglio, ogni tenace volontà può senz'altro trovare il proprio soddisfacimento. Ma i veri filosofi sono coloro che comandano e legiferano : essi affermano « cosi deve essere ! », essi determinano in primo luogo il « dove » e l'« a che scopo » degli uomini e cosi facendo dispongono del lavoro preparatorio di tutti gli operai della filosofia, di tutti i soggiogatori del passato -,- essi protendono verso l'avvenire la loro mano creatrice e tutto quanto è ed è stato ·diventa per essi mezzo, strumento, martello. Il loro « conoscere » è creare, il loro. creare è una legislazione, la loro volontà di verità è volontà di potenza. · ­ Esistono oggi tali filosofi? Sono già esistiti tali filosofi ? Non devono forse esistere tali filosofi? ... -

-

Sono sempre piu indotto a credere che il filosofo, come uomo del domani e del dopodomani, si sia trovato in ogni tempo in contraddizione con il suo oggi : il suo nemico fu ogni volta l'ideale dell'oggi. Sinora tutti questi eccezionali fautori dell'uomo, ai quali si dà il nome ·di filosofi e che raramente si sentirono amici della verità, ma piuttosto sgradevoli giullari e pericolosi punti interrogativi hanno trovato il loro compito, il loro duro, non voluto, inevitabile compito, e infine l a grandezza del loro compito, nel co.stituire essi stessi la cattiva coscienza del loro tempo. Vivisezionando col coltello proprio il cuore delle virtu del tempo, tradirono quel che era il loro strano segreto : conoscere una nuova grandezza dell'uomo, 212.

necessario

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GIANNI VATTIMO

una nuova strada non ancora mai battuta per il suo innalzamento. Essi svelarono ogni volta quanta ipocrisia e infingardaggine, quan­ to lasciarsi andare e lasciarsi cadere, quanta menzogna si nascon­ desse sotto il tipo maggiormente venerato della moralità loro con­ temporanea, quanta virtu fosse sopravvissuta a se stessa ; ogni vol­ ta essi dissero : « Dobbiamo arrivare e partire da quel luogo, che oggi è per voi meno di ogni altro familiare ». Dinanzi a un mondo delle « idee moderne », che vorrebbe confinare ognuno in un angolo e in una « specializzazione », un filosofo, ove mai oggi un filosofo potesse esistere, sarebbe costretto a porre la grandezza dell'uomo, l'idea di « grandezza » proprio nella sua vastità e multiformità, nel suo essere intero in molte cose : determinerebbe persino il valore e il rango, a seconda di quali e quante cose uno sia in grado di sopportare e di assumere sopra di sé, a seconda del limite fi1W al quale uno può tendere la sua responsabilità. Oggigiorno il · gusto e la virtu dell'epoca affievoliscono e assottigliano il volere, nulla è tanto in armonia con i tempi quanto l'estenuazione della volontà : nell'i· deale del filosofo, quindi, proprio la forza della volontà, la durezza e la capa·cità di assumere decisioni ·durevoli deve essere parte inte­ grante della nozione di « grandezza » ; con lo stesso buon diritto con cui la dottrina contraria e l'ideale di un 'umanità stupidamente rinunciataria, umile, altruistica erano commisurati a 'un'epoca oppo· sta, un'epoca che, come il secolo XVI, soffriva del suo accumulo di energia volitiva e delle piu furibonde ondate e mareggiate del suo egoismo. Al tempo di Socrate, tra uomini tutti quanti di istinti in­ fiacchiti, tra i vecchi Ateniesi conservatori, che si lasciavano andare - « verso la 'felicità », come essi dicevano, verso il piacere, stanido a quel che facevano - e che nello stesso tempo continuavano ad aver sempre sulle labbra le antiche magniloquenti parole, alle quali da un pezzo la loro vita non dava piu a essi alcun diritto, era forse neces­ saria l'ironia per la grandezza dell'anima, quella socratica, maliziosa sicurezza del vecchio medico e del plebeo, che sezionava spietatamente la sua stessa ·carne, come la carne e il cuore dei « nobili », con uno sguardo il cui linguaggio sonava in maniera abbastanza per­ spicua : « Lasciate andare le vostre finzioni dinanzi a me ! Qui - noi siamo uguali! ». Oggi è tutto l'opposto qui in Europa, dove soltanto l'animale da armento perviene agli onori e onori distribuisce, dove l'« uguaglianza dei diritti » si potrebbe anche troppo facilmente tra­ sformare nell'eguaglianza dei torti : intendo dire in una comune guer­ riglia contro tutto quanto di raro, d'inconsueto, di privilegiato appar­ tiene all'uomo superiore, all'anima superiore, alla superiore respon­ sabilità, alla pienezza creativa della potenza e all'arte del signoreg­ giare - oggigiorno si addice alla nozione ·di « grandezza » l'es-

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sere nobili, il voler essere per se stessi, il poter essere diversi, il re­ starsene isolati e la necessità di vivere a modo proprio; il filosofo divinerà qualcosa del suo proprio ideale, quando stabilirà « Pi-6. grande tra tutti sarà colui che può essere il piu solitario, il piu na­ scosto, il piu diverso, l'uomo al di là del bene e del male, il signore delle proprie virtu, ricco quant'altri mai di volontà ; questo appunto deve chiamarsi grandezza : poter essere tanto multiforme quanto in­ tero, tanto esteso quanto colmo ». E ancora una vo�ta domandiamo : è oggi - possibile la grandezza ? 2 13. È difficile imparare che cosa sia un filosofo, non essendo ciò

un qualcosa che possa essere insegnato : lo si deve « sapere » per esperienza - oppure si deve avere l'orgoglio di non saperlo. Ma la circostanza che oggidi tutti parlino di cose riguardo alle quali non possono avere alcuna esperienza, vale in particolar modo, disgrazia­ tissimamente, per i filosofi e per gli stati filosofici - pochissimi li conoscono e possono conoscerli, e tutte le opinioni al riguardo sono false. Cosi, per esempio, è ignota alla maggior parte dei pensatori e dei dotti, dal punto di vista della loro esperienza, quella coesi­ stenza genuinamente filosofica di un'ardita, irrefrenahile spiritualità, il cui tempo è un presto, con un rigore e una necessità dialettica che non fa alcun passo falso, e per questa ragione, ove qualcuno ne volesse far tema di discorso di fronte a costoro, non lo si riter­ rebbe degno di fede. Essi si rappresentano ogni necessità come an­ gustia, come un penoso dover seguire e venir costretti ; e lo stesso ,pensare è per loro qualcosa di lento, una specie di temporeggia­ mento, quasi una tribolazione e abbastanza spesso « un fatto degno del sudore dei nobili » - mai e poi mai, invece, qualcosa ·di leggero, di divino e di strettamente affine alla danza, alla tracotanza ! « Pen­ sare » e « prendere sul serio » una cosa, « soppesarla gravemente » - questo per loro è tutt'uno : soltanto in tal modo essi hanno « vis­ suto ». Già a questo riguardo gli artisti hanno probabilmente un fiuto p iii sottile : essi che anche troppo sono consapevoli del fatto che proprio allorquando non compiono piu nulla di « arbitrario », sibbene tutto secondo necessità, il loro senso di libertà, di sottigliezza, d'assoluto potere, la sensazione ·di un porre, di un disporre e di un plasmare creativo ha raggiunto il culmine - insomma sono coscienti che necessità e « libero volere » sono allora in essi una cosa sola. Esiste infine una gerarchia degli stati interiori cui corrisponde la gerarchia dei problemi : e i problemi pili alti �espingono senza pietà colui che osa avvicinarvisi senza essere predestinato a risol­ verli dall'elevatezza e dalla potenza della sua spiritualità. A che giova se a far ressa con la loro ambizione plebea vicino a questi

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GIANNI VA'l'TIMO

problemi, come a una specie di « corte delle corti », sono svelte intelligenze mondane, oppure goffi, onesti meccanici ed empirici ! Tappeti di questa sorta non potranno mai essere calcati da rozzi piedi : a ciò è stato già provveduto nella legge primordiale ·delle cose ; le porte restano sbarrate a questi intrusi, per quanto vi sbattano e vi si rompano il capo ! Per ogni mondo elevato occorre esserci nati ; o, per dirla a p ili chiare note, occorre esservi allevati : un di­ ritto alla filosofia - prendendo questa parola in senso lato lo si ha unicamente in virtu della propria origine, gli antenati, il « sangue » sono anche in questo caso decisivi. Molte generazioni devono aver cospirato in precedenza, con la loro opera, alla nascita del filosofo ; ognuna delle sue virtu deve essere stata individualmen­ te acquisita, coltivata, trasmessa in eredità, assunta nella propria carne, e non soltanto l'andamento e il corso, ardito, lieve e deli­ cato, dei suoi pensieri, ma soprattutto l'intima disponibilità a grandi responsabilità, la nobiltà di uno sguardo imperioso, di uno sguardo dall'alto, il senso del proprio distacco dalla massa e dai suoi doveri e ·dalle sue virtu, la cortese protezione e difesa di ciò che è stato disconosciuto e calunniato, sia esso Dio o il diavolo, il piacere e l'eser­ cizio della grande giustizia, l'arte del comando, la vastità del volere, la lentezza di uno sguardo che di rado ammira, di rado si affisa in alto, di rado ama ... 6.

Che cos'è aristocratico ?

257. Ogni elevazione del tipo « uomo » è stata, fino a oggi, opera di una società aristocratica - e cosi continuerà sempre a essere: di una società, cioè, che crede in una lunga scala gerarchica e in una differenziazione di valore tra uomo e uomo, e che in un certo senso ha bisogno della schiavitu. Senza il pathos della distanza, cosi come nasce dalla incarnata diversità delle classi, dalla costante ampiezza e altezza di sguardo con cui la casta dominante considera sudditi e strumenti, nonché dal suo altrettanto costante esercizio nell'obbedire e nel comandare, nel tenere in basso e a distanza, senza questo pathos non potrebbe neppure nascere quel desiderio di un sem­ pre nuovo accrescersi della distanza all'interno dell'anima stessa, la elaborazione di condizioni sempre pio elevate, piu rare, piu lontane, piu cariche di tensione, pio vaste, insomma l'innalzamento appunto del tipo « uomo », l'assiduo « a:utosuperamento dell'uomo », per pren­ dere una formola morale in un senso sovramorale. Indubbiamente, per quanto riguarda la storia delle origini -di una società aristocra­ tica ( il presupposto, dunque, di quell'innalzamento del tipo « uo-

Friedrich W. Nietzsche

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mo »), non ci si può abbandonare ad alcuna illusione umanita­ ria : la verità è dura. Diciamocelo francamente, come sino a oggi ogni civiltà superiore è cominciata sulla terra ! Uomini con un'indole ancora naturale, barbari in ogni terribile significato della parola, uo­ mini da preda ancora in possesso di non infrante energie volitive e bramosie di potenza, si gettarono su razze piu deboli, piu ben costumate, piu pacifiche, forse dedite al commercio o alla pastorizia, o su antiche civiltà marcescenti, in cui appunto l'ultima forza vi­ tale fiammeggiava in rutilanti fuochi artificiali d'intelligenza e di pervertimento. La classe aristocratica è stata sempre, in principio, la casta barbarica : la sua preponderanza non stava in primo luogo nella forza fisica, ma in quella psichica, - erano gli uomini piu interi (la qual cosa, a ogni grado, significa anche lo stesso che « bestia piu intera » -). 259. Trattenerci reciprocamente dall'offesa, dalla violenza, dallo sfruttamento, stabilire un'eguaglianza tra la propria volontà e quella dell'altro : tutto questo può, in un certo qual senso grossolano, divenire una buona costumanza tra individui, ove ne siano date le condizioni (vale a dire la loro effettiva somiglianza in quantità di forza e in misure di valore, nonché la loro mutua intel'dipendenza all'interno di un unico corpo). Ma appena questo principio volesse guadagnare ulteriormente terreno, addirittura, se possibile, come prin• cipio basilare della società, si mostrerebbe immediatamente per quello che è : una volontà di negazione della vita, un principio di dissolu­ zione e di decadenza. Su questo punto occorre rivolgere radicalmente il pensiero al fondamento e guardarsi da ogni debolezza sentimen­ tale : la vita è essenzialmente appropriazione, offesa, sopraffazione di tutto quanto è estraneo e piu debole, oppressione, durezza, impo­ sizione di forme proprie, un incorporare o per lo meno, nel piu tem­ perato dei casi, uno sfruttare - ma a che scopo si dovrebbe sempre usare proprio queste parole, sulle quali da tempo immemorabile si è impressa un'intenzione denigratoria ? Anche quel corpo all'interno del quale, come è stato precedentemente ammesso, i singoli si trat­ tano da eguali - ciò accade in ogni sana aristocrazia - deve an­ ch'esso, ove sia un corpo vivo e non moribondo, fare verso gli altri corpi tutto ciò d� cui vicendevolmente si astengono gli individui in esso compresi : dovrà essere la volontà di potenza in carne e ossa, sarà volontà di crescere, di estendersi, di attirare a sé, di acquistare preponderanza - non trovando in una qualche moralità o immo­ ralità il suo punto di partenza, ma per il fatto stesso che esso vive, e perché la vita è precisamente volontà di potenza. In nessun punto, tuttavia, la coscienza comune degli Europei è piu riluttante all'aro-

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maestramento di quanto lo sia a questo proposito ; oggi si vaneggia in ogni dove, perfino sotto scientifici travestimenti, di condizioni di là da venire della società, da cui dovrà scomparire il suo « carat­ tere di sfruttamento » - ciò suona alle mie orecchie come se si pro­ mettesse di inventare una vita che si astenesse da ogni fWlZione or­ ganica. Lo « sfruttamento » non compete a una società guasta op­ pure imperfetta e primitiva : esso concerne l'essenza del vivente, in quanto fondamentale funzione organica, è una conseguenza di quella caratteristica volontà di potenza, che è appunto la volontà della vita. - Ammesso che questa, come teoria, sia una novità come realtà è il fatto originario di tutta la storia : si sia fino a que­ sto punto sinceri verso se stessi !

281. « Mi crederanno ? ma io pretendo che mi si creda : ho pen­ sato a me, ho riflettuto su di me sempre soltanto malamente e solo in rarissimi casi, solo perché costretto, sempre senza piacere " per la faccenda ", pronto a divagare da " me ", sempre senza fiducia nel risultato, grazie a un'incoercibile diffidenza verso la possibilità della conoscenza di sé ; diffidenza che mi ha condotto cosi lontano da avvertire persino nel concetto di " conoscenza immediata ", che si permettono i teoretici, una contradictio in adjecto - tutto questo dato di fatto è quasi la cosa pio sicura che io so di me. Deve es­ serci in me una specie di ripugnanza a credere qualcosa di deter­ minato al mio riguardo. - Sta forse annidato un enigma in tutto questo ? Può darsi : ma fortunatamente non un enigma per i miei propri denti. - Forse tutto ciò tradisce la specie alla quale appar­ tengo ? - Ma non per me : e mi torna abbastanza a proposito ». -

289. Negli scritti di un eremita si ode ancor sempre qualcosa come la eco del deserto, qualcosa ·dei bisbigli e del timido guar­ darsi attorno della solitudine ; dalle sue pio forti parole, dal suo stesso grido affiora ancora una nuova e pio pericolosa specie di si­ lenzio� di tacita segretezza. Chi di anno in anno, ogni giorno e ogni notte, è stato in un intimo contrasto e colloquio con l'anima sua, chi nella sua caverna - può essere un labirinto, ma anche una miniera d'oro è divenuto un orso antidiluviano o un disseppel­ litore o un custode di tesori e un ·drago, finisce per ricevere, per­ sino nelle sue idee, un tono di luce crepuscolare, un profumo tanto d'abisso che di muffa, qualcosa di incomunicabile e di ripugnante che investe con un soffio gelido chiunque gli passi accanto. L'ere­ mita non crede ·che un filosofo - posto che un filosofo sia sempre stato, prima di tutto, un eremita - abbia mai espresso in libri le sue intime ed estreme opinioni : non si scrivono forse libri al p re-

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ciso scopo di nascondere quel che si custodisce dentro di sé ? - dubi­ terà, anzi, che un filosofo possa avere in generale « estreme e intime » opinioni, pensando invece che ci sia in lui, dietro ogni ca­ verna, una caverna ancor pio profonda - un mondo pio vasto, piu strano, piu ricco al di sopra d'una superficie, un abisso sotto ogni

fondo, sotto ogni « fondazione ». Ogni filosofia è filosofia di proseenio - questo è un giudizio da eremita : « V'è qualcosa di arbitrario nel fatto che costui si sia arrestato qui, abbia rivolto lo sguardo indietro e abbia in tutto nione è

e intorno a sé, non abbia, qui, scavato piu profondamente messo in disparte la vanga - c'è pure qualcosa di sospetto ciò ». Ogni filosofia nasconde anche una filosofia ; ogni opi· anche un nascondiglio, ogni parola anche una maschera.

(Da Al di là del bene e Adelphi, 1968).

2.

del male, ed. Colli·Montinari, tr. it. di

F. Masini, Milano,

« GENEALOGIA DELLA MORALE »

l. «

Buono e malvagio

», «

Buono e cattivo » 4

- A

offrirmi l 'indicazione della via

giusta

fu il problema di

quel che devono propriamente significare, sotto il riguardo etimo­

logico,. le designazioni di « buono » coniate dalle diverse lingue : tro­ vai allora che esse si riconducono tutte a una identica metamorfosi - che ovunque « nobile », « aristocratico », nel senso

.concettuale

di ceto sociale, costituiscono il concetto fondamentale da cui ha tratto necessariamente origine e sviluppo l'idea di « buono » nel senso di

« spiritualmente nobile », e « aristooratico », nel senso di « spiritual­

mente bennato », « spiritualmente privilegiato » : uno sviluppo che corre sempre parallelo a quell'altro, il quale finisce per far trapas­ sare il concetto di « volgare », « plebeo », « ignobile » in quello di

attinto al calderone dell'odio insaziabile - il primo, una creazione posteriore, un accessorio, un colore complementare, il secondo, in­ -vece, l'originale, il principio, l'atto vero e proprio nella concezione di una morale degli schiavi - come sono diverse queste due parole, « cattivo » e « malvagio », apparentemente contrapposte allo stesso con­ cetto ·di « buono » ! Ma non è lo stesso concetto di « buono » : doman­ diamoci piuttosto chi propriamente è « malvagio », nel senso della morale del ressentiment. Con una risposta rigorosa occorrerà dire : appunto il « buono » dell'altra morale, appunto il nobile, il potente, il dominatore, solo che è dipinto con altri colori, interpretato in guisa opposta, guardato di sbieco ·dall'occhio torvo del ressentiment. Su questo punto c'è una cosa che siamo ben lontani dal voler nega­ re : chi ha conosciuto quei « buoni » soltanto come nemici, non cono­ scerà nient'altro che nemici malvagi, e quegli stessi uomini che sono cosi severamente tenuti nei limiti dal costume, dalla venerazione, dall'uso, dalla gratitudine e piu ancora dalla reciproca vigilanza, dalla gelosia inter pares, e che d'altro canto, nei loro mutui rapporti, si dimostrano cosi perspicaci nel rispetto, nell'autodominio, nella delicatezza del sentire, nella fedeltà, nell'orgoglio e nell'amicizia sono, per quanto riguarda l'esterno, là dove comincia il mondo estra­ neo, gli stranieri, non molto migliori di scatenate belve feroci. Assa­ porano allora la libertà da tutte le costrizioni sociali, si rifanno, nello stato selvaggio, della tensione dovuta a una lunga segrega­ zione e allo star rinserrati nella pace della comunità, regrediscono nell'innocenza della coscienza propria di un animale da preda come giubilanti mostri che se ne escono forse da una orribile serie di delitti, incendi, infamie, torture con una tracotanza. e un intimo equilibrio, come se si fosse trattato semplicemente d'una zuffa studen­ tesca, convinti che i poeti avranno ormai per · lungo tempo qual­ cosa ·di nuovo da cantare e celebrare. AI fondo di tutte queste razze aristocratiche occorre saper discernere la belva feroce, la magnifica divagante bionda bestia, avida di preda e di vittoria ; di tanto in tanto è necessario uno sfogo per questo fondo nascosto, la belva deve di nuovo balzar fuori, deve di nuovo rinselvarsi - aristocra­ _zia romana, araba, germanica, giapponese, eroi omerici, Vichinghi scandinavi - tutti sono eguali in questo bisogno. Sono le razze no­ bili ad aver lasciato su tutte le loro orme la nozione di « barbaro », ovunque siano esse passate ; il loro superiore livello ·di cultura tra­ disce ancora una consapevolezza di questo fatto e persino un orgoglio a questo riguardo (per esempio, quando Pericle dice ai suoi Ateniesi, in quella sua famosa orazione funebre, « la nostra audacia s'è aperta una strada in ogni terra e in ogni mare, erigendo ovunque imperi-

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turi monumenti nel bene e nel male »). Questa . Colui che può comandare, che è naturalmente « si­ gnore >> , che si fa innanzi dispotico nell'opera e nell'atteggiamen­ to - che cosa mai ha a che fare con contratti ! Con tali esseri non si fanno calcoli, sopraggiungono come il destino, senza un moti­ vo, una ragione, un riguardo, un pretesto, esistono come esiste il fulmine, troppo terribili, troppo repentini, troppo persuasivi, trop­ po « diversi » per essere anche soltanto odiati. L'opera loro è un'i­ stintiva plasmazione di forme, espressione di forme, sono gli artisti pio spontanei, pio inconsapevoli che esistano - insomma esiste qual­ cosa di nuovo, dove essi appaiono, una concrezione di ·dominio che vive, nella quale parti e funzioni sono circoscritte e messe in connes­ sione, nella quale non trova posto alcuna cosa in cui non sia prima immesso un « senso » in vista del tutto. Essi ignorano che cosa sia colpa, responsabilità, scrupolo, questi organizzatori nati ; regna in loro quel terribile egoismo di artisti che ha uno sguardo bronzeo e nell'« opera » si sa giustificato in anticipo per tutta l'eternità, come la madre nel figlio. Non sono costoro quelli nei quali è allignata la « cattiva coscienza » - lo si comprende fin dal principio tuttavia, senza di loro, non sarebbe cresciuta, questa brutta pianta, essa sarebbe assente se sotto il peso dei loro colpi di martello, della loro violenza di artisti non fosse stato eliminato dal mondo, o per lo meno dalla vista e, per cosi ·dire, reso latente un enorme quan­ tum di libertà. Questo istinto della libertà reso latente a viva forza - lo abbiamo già capito - questo istinto della libertà represso, rin­ tuzzato, incarcerato nell'intimo, che non trova infine altro oggetto su cui ancora scaricarsi e disfrenarsi se non se stesso : questo, sol­ tanto questo è, nel suo cominciamento, la cattiva coscienza.

18 Ci si guardi dal tributare una scarsa importanza a tutto questo fenomeno per il semplice fatto che esso è, fin dall'inizio, brutto e doloroso. In fondo, la stessa forza attiva che in codesti artisti della violenza, nonché organizzatori, si mostra piu grandiosamente all'o­ pera e edifica Stati è per l'appunto quella che qui, interiormente piu esigua, piu limitata, volta a ritroso, nel « labirinto del cuore » , per dirla con Goethe, si crea la cattiva coscienza e costruisce ideali

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negativi, è precisamente lo stesso istinto deUa libertà (per esprimermi nel mio linguaggio: la volontà di potenza) : solo che la materia su cui si scatena la natura plasticamente formatrice e tirannica di questa forza, è qui appunto lo stesso uomo, il suo intero, anima­ lesco, antico sé - e non, c ome in quell'altro fenomeno piti grande e piti appariscente, l'aùro uomo, gli altri uomini. Questa segreta tirannide su se stessi, questa crudeltà di artisti, questo piacere di dare a se stessi, qua.si greve, riluttante, sofferente materia, una forma, di marchiare a fuoco una volontà, una critica, una contraddizione, un disprezzo, un no, questo sinistro e orrendamente gioioso travaglio di un'anima docilmente scissa in se stessa, che si cagiona dolore per gusto di cagionare ·dolore, tutta questa « cattiva coscienza » attiva ha infine - già lo si indovina -, in quanto vero e proprio grembo materno di ideali e fantastici eventi, dato altresi alla luce una profusione di nuove sorprendenti bellezze e affermazioni e forse, per la prima volta, innanzitutto la bellezza.. . Che cosa, infatti, sa­ rebbe « bello », se prima la contraddizione non fosse divenuta co­ sciente a se stessa, se prima il brutto non avesse detto a se stesso : « Io sono brutto »?.. Per lo meno, dopo quest'accenno, sarà meno ambiguo l'enigma : fino a che punto, cioè, in concetti contradditto­ ri come disinteresse, abnegazione, autosacrificio possa essere indicato un ideale, una bellezza ; e una cosa d'ora innanzi sarà nota - non ne dubito - vale a dire di quale specie è il piacere che prova il ·d isinteressato, il negatore di se stesso, l'immolatore di sé : questo piacere rientra nella crudeltà. - Tanto andava detto in via prov­ visoria sull'origine del « non egoistico » in quanto valore morale e sulla delimitazione del terreno da cui è germogliato questo valore : soltanto la cattiva coscienza, soltanto la volontà di svillaneggiare se stessi fornisce il presupposto per il valore del non egoistico. -.- .

19 È una malattia, la cattiva coscienza, non v'è dubbio, ma una

malattia come è una malattia la gravidanza. Ricerchiamo le condi­ zioni nelle quali questa malattia è pervenuta al suo apice piti ter­ ribile e sublime - e vedremo che cosa propriamente ha fatto in tal mòdo il suo primo ingresso nel mondo. Ma a tal uopo occorre un vasto respiro - e dobbiamo tornare innanzitutto ancora una volta a un punto di vista anteriore. Il rapporto di diritto privato tra il debitore e il suo creditore, di cui già a lungo si è discorso, è stato ancora una volta interpretato, e per la verità in una ma­ niera estremamente notevole e coscienziosa sotto il profilo storico, all'interno di un rapporto in cui esso risulta per noi moderni forse

Friedrich W. Nietzsche del tutto incomprensibile :

359

del rapporto, cioè, intercorrente tra i

e i loro progenitori. Nell'àmhito dell'originaria comu­ nità di stirpi - parliamo ·dei primordi - la generazione vivente

contemporanei

riconosce ogni volta un'obbligazione giuridica nei confronti di quella

piu antica, fondatrice della .stirpe ( e in nessun modo un semplice vincolo sentimentale : non senza ragione si potrebbe perfino negare

in generale quest'ultimo per il piu lungo periodo della specie umana).

Domina qui la persuasione che la specie unicamente sussiste grazie ai sacrifici e alle opere degli antenati - e che questi devono essere ripagati loro con sacrifici e opere : si riconosce, quindi, un debito che continua a crescere costantemente per il fatto che questi avi,

perpetuando la loro esistenza come spiriti possenti, non cessano di assicurare alla specie nuovi vantaggi e prestiti da parte della loro

forza. Gratuitamente forse ? Ma non esiste alcun

«

gratuitamente »

per quelle età rozze e « spiritualmente povere ». Che cosa si può dar loro in contraccambio ? Sacrifici ( inizialmente per il nutrimen­ to, nel senso piu grossolano), feste, tempietti, atti ·di omaggio, so­

prattutto obbedienza - tutti gli usi infatti, in quanto opera dei progenitori, sono anche prescrizioni e comandi loro -: si dà mai

abbastanza a essi ? Tale sospetto permane e cresce : di tempo in tempo esso impone un grande riscatto in blocco, un qualche mostruoso indennizzo al « ere·ditore » ( il famigerato sacrificio del primogenito, per esempio, sangue, sangue umano in ogni caso). Il til'IWre per l'antenato e per la sua potenza, la coscienza d'un debito verso di

lui cresce di necessità, secondo questa specie di logica, nella stessa esatta misura in cui aumenta la potenza della stirpe medesima, nella misura in cui la stessa stirpe diventa sempre piu vittoriosa, piu autonoma, piu onorata, piu temuta. Non già, caso mai, l'opposto ! Ogni passo verso il depotenziamento della stirpe, tutte lè eventualità

miserabili, tutti i segni di degenerazione, di dissoluzione imminente sempre, invece, anche il timore dinanzi allo spirito del

diminuiscono

proprio fondatore e determinano una rappresentazione sempre piu esi­ gua della sua accortezza, della sua previdenza e della presenza del suo poter.e . Se si immagina spinto all'estremo questo rozzo tipo di logica, i progenitori delle stirpi piu possenti d ovranno infine, grazie alla fantasia del crescente timore, assumere addirittura pro­

porzioni gigantesche ed essere ricacciati nelle tenebre di una sinistra

e irrappresentabile dimensione divina - il progenitore ,finisce per essere necessariamente trasfigurato in un dio. Forse sta proprio qui l'origine degli dèi, un'origine dunque dal

til'IWre! . . E .

se a qualcuno

dovesse sembrare necessario aggiungere : « Però anche dalla venerazio­ ne ! » difficilmente potrebbe con ciò aver la ragione dalla sua, per codesto lunghissimo periodo della specie umana, la sua età primeva.

GIANNI VATTIMO

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Tanto piu l'avrà indubbiamente per l'epoca di mezzo, nella quale si vanno foggiando l e stirpi aristocratiche - le quali, in realtà, hanno

restituito a usura ai loro fondatori, agli avi ( eroi, dèi), tutte le qua­ lità che intanto, in esse stesse, sono divenute manifeste : le qualità aristocratiche. Daremo ancora, piu tardi, uno sguardo al nobilitarsi e all'ingentilirsi degli dèi (che certo non è nient'affatto la loro «

consacrazione

») :

al momento limitiamoci a portare provvjsoria­

mente a termine il corso di tutta quest'evoluzione della coscienza di colpa.

20 La coscienza di essere in debito nei confronti della divjnità non si estingue - come insegna la storia - neppure ·dopo il declino di quella forma d'organizzazione della « comunità » fondata sulla affinità di sangue : alla stessa guisa con cui ha ereditato le nozioni

di

«

buono e cattivo » dalla nobiltà di stirpe ( unitamente alla sua

fondamentale tendenza psicologica a stabilire gerarchie), l'umanità

ha ricevuto, insieme con l'eredità delle divinità della stirpe e della trihu, anche quella del peso ·di debiti non ancora soddisfatti e del

desiderio di estinguerli. ( Segnano il trapasso quelle vaste popolazioni di schiavi e di servi della gleba che, sia per costrizione, sia per sotto­

missione e mimicry, si Bono adattati al culto divino dei loro padroni : da essi questa eredità si riversa in ogni direzione). II senso di un debito nei confronti della divinità non ha cessato di crescere per pa­ recchi millenni e per la verità sempre nella stessa proporzione con

cui sono cresciuti e sono stati portati in alto sulla terra il concetto di dio e il senso della divinità. ( L'intera storia delle lotte, delle vit­ torie, delle conciliazioni, delle fusioni etniche, tutto quanto precede il definitivo assetto gerarchico -di tutti gli elementi popolari in ogni grande sintesi di razze, si rispecchia nel guazzabuglio genealogico dei loro dèi, nelle saghe _delle loro battaglie, vittorie e pacificazioni :

il progresso verso imperi universali è sempre altresi il progresso verso divinità universali, il dispotismo con la sua sopraffazione dell'aristo­ crazia autonoma apre sempre altresi la strada a una qualche spe­ cie di monoteismo). L'avvento del Dio cristiano, in quanto massimo

dio che sia stato fino a oggi raggiunto, ha portato perciò in evi­

denza, sulla terra, anche il maximum del senso di ·debito. Ammesso che si sia entrati con l'andar del tempo nel movimento opposto, si potrebbe, con non poca verosimiglianza, derivare dall'inarrestabile declino de11a fede nel Dio cristiano il fatto che già oggi si sta ·deter­ minando anche un considerevole declino della umana coscienza di colpa ; anzi non si può respingere la prospettiva che la compiuta e definitiva vittoria ·dell'ateismo potrebbe affrancare l'umanità da tutto

Friedrich W. Nietzsche

361

questo suo ientirsi in debito verso il proprio principiO, la propria causa prima. Ateismo e una sorta di seconda innocenza sono intrin­ secamente connessi. 21 Questo è quanto provvisoriamente va detto, in breve e a grandi linee, sul nesso esistente tra le nozioni di « colpa », di « dovere » e i loro presupposti religiosi : di proposito, ho sinora lasciato in disparte la caratteristica moralizzazione di questi concetti (lo sposta­ mento dei medesimi nella coscienza, o ancor piu precisamente, l'in­ vilupparsi della cattiva coscienza con l'idea di dio) e al termine del paragrafo precedente ho perfino parlato come se questa moraliz­ zazione non ci fosse affatto, come se, di conseguenza, questi concetti fossero ormai sul punto di essere liquidati, essendo caduto il loro presupposto, la fede nel nostro « creditore » , Dio. Da ciò si distanzia terribilmente il dato di fatto. Con la moralizzazione delle nozioni di colpa e ·di dovere, con il loro spostarsi indietro nella cattiva coscienza, si è fatto realmente il tentativo di rovesciare la dire­ zione dello sviluppo testé descritto o per lo meno di arrestarne il movimento : ora deve essere pessimisticamente preclusa una volta per sempre proprio la prospettiva di un riscatto definitivo, ora lo sguardo deve sconsolatamente ottundersi e proiettarsi all'indietro di fronte a un'impossibilità ferrea, ora quei concetti di « colpa » e di « dovere » devono volgersi a ritroso - ma contro chi? È fuori di dubbio : in primo luogo contro il « debitore », in cui ormai la cat­ tiva coscienza mette tali radici, si fa cosi intimamente corrosiva, si estende e cresce a tal punto, in lungo e in largo, a somiglianza di un polipo, che insieme alla inestinguibilità della colpa si fini­ sce per concepire anche l'inestinguihilità dell'espiazione, il pensiero della irrisarcibilità di quella ( della « pena eterna ») - ; e infine persino contro il « creditore », sia che si pensi alla causa prima dell'uomo, all'inizio del genere umano, al suo progenitore, il quale ormai è colto ·da una maledizione ( « Adamo » , « peccato origina­ le », « non libertà del volere »), oppure alla natura dal cui grem­ bo nasce l'uomo e in cui ormai è immesso il principio del male (« natura resa diabolica »), ò all'esistenza in generale che rimane come non valida in sé ( nichilistica diversione da essa, desiderio del nulla o desiderio del suo « opposto », di un essere-altro, buddhismo e simili) - finché eccoci all'improvviso di fronte al paradossale e spaventoso espediente in cui la martoriata umanità ha trovato un momentaneo sollievo, quel tratto geniale del cristianesimo : Dio stesso che si sacrifica per la colpa dell'uomo, Dio stesso che si :ri-

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GIANNI VATTIMO

paga su se stesso, Dio come l'unico che può riscattare l'uomo da ciò che per l'uomo stesso è divenuto irriscattabile - il creditore che si sacrifica per il suo debitore, per amore ( dobbiamo poi creder­ ci ? -), per amore verso il suo debitore !...

22 Si sarà già indovinato che cos'è realmente accaduto con tutto Cio e al di sotto di tutto ciò : quella volontà di straziarsi, quella rin­ tuzzata crudeltà dell'aniniale-uomo interiorizzato, ricacciato in se stes­ so, dell'incarcerato nello « Stato » ai fini dell'ammansimento, il qua­ le per cagionarsi dolore, essendo sbarrata la piu naturale via di liberazione di questo voler-cagionar-dolore, ha escogitato la cattiva coscienza - quest'uomo della cattiva coscienza si è inipadronito del presupposto religioso per spingere il proprio automartirio fino alla sua piu orribile crud'e zza e sottigliezza. Un debito verso Dio : questo pensiero diventa per lui strumento di tortura. Afferra in Dio le antitesi estreme che riesce a trovare in rapporto ai suoi caratteri­ stici e non riscattabili istinti animali, reinterpreta questi stessi istinti aniniali come una colpa verso Dio ( come ininiicizia, ricalcitramento, rivolta contro il « Signore », il « Padre >> , il progenitore e il prin­ cipio del mondo), si tende nella contraddizione « Dio » e « dia­ volo », ogni no che dice a se stesso, alla natura, alla naturalità, alla realtà del suo essere, lo proietta fuori di sé come un si, come qual­ cosa d'esistente di corporeo, di reale, come Dio, come santità d' Id­ dio, come tribunale d' Iddio, come patibolo d' Iddio, come al di là, come eternità, come strazio senza fine, come inferno, come incom­ mensurabilità ·di pena e colpa. Questo è una specie di delirio della volontà nella crudeltà psichica che non ha assolutamente _eguali : la volontà dell'uomo di trovarsi colpevole e riprovevole fino all'im­ possibilità d'espiazione, la sua volontà di infettare e intossicare col problema della pena e della colpa le piu profonde radici delle cose, la sua volontà di pensarsi castigato, senza che il castigo possa mai essere equivalente alla colpa, per tagliarsi una volta per tutte la via d'uscita da questo labirinto di « idee fisse », la sua volontà di erigere un ideale - quello del « Dio santo » -, e di acquistare una tangibile certezza della propria assoluta indegnità di fronte a lui. Oh dissennata triste bestia, l'uomo ! Quali fantasie le vengono in mente, e non appena si vede un poco inipedita di essere bestia del­ l' azione, quale contronatura erompe, quali parossismi di follia, quale bestialità dell'idea !... Tutto ciò è di uno smisurato interesse, ma an­ che di una tristezza nera, fosca, sfibrante ; dobbiamo davvero impe­ dirci a forza ·di scrutare troppo a lungo in questi abissi. Qui. c'è

Friedrich W. Nietzsche

363

malattia, non v'è dubbio, la piu tremenda malattia che sia infuria­ ta sino a oggi nell'uomo - e chi ancora riesce a udire (ma oggi non si hanno piu orecchie per questo ! . -), come in questa notte di martirio e di assurdità ha echeggiato il grido amore, il grido del piu struggente rapimento, della redenzione nell'amore, si volge al­ trove, còlto da un raccapriccio incoercibile ... Nell'uomo v'è tanto di terribile !... Già troppo a lungo la terra fu un manicomio ! ... 23

Basti questo, una volta per tutte, sull'origine del « Dio santo ». - Che in sé la concezione degli dèi non debba necessariamente por­ tare a questo abbruttimento della fantasia, dalla cui raffigurazione per un istante non abbiamo potuto dispensarci, che esistano modi piu nobili di servirsi della poetica creazione di dèi mirando ad altro che a questa autocrocifissione e autodeturpazione dell'uomo, in cui hanno mostrato la loro eccellenza gli ultimi millenni d' Europa - è la conclusione che si può ancora, per fortuna, ricavare da ogni sguar­ do che sia rivolto agli dèi greci, questi rispecchiamenti di uomini no­ bili e signori di sé, nei quali la bestia, che è nell'uomo, si sentiva divinizzata e non lacerava se stessa, non infuriava contro se stessa! Per lunghissimo tempo questi Greci si sono serviti dei loro dèi pro­ prio allo scopo di tenere a una certa distanza la « cattiva coscienza » , di potersene restar contenti della loro libertà spirituale : dunque in un senso antitetico all'uso che il cristianesimo ha fatto del suo Dio. In ciò essi andarono molto lontano, queste splendide e leonine teste di fanciulli ; e nientemeno un'autorità come quella dello stesso Zeus mnerico fa loro intendere qui e là che essi se la prendono troppo alla leggera. « Curioso ! » - ebbe a dire una volta - si trattava del caso di Egisto, un caso assai grave « È proprio curioso che i mortali si lamentino tanto contro gli dèi ! Soltanto da noi verrebbe il male, a sentir loro ; ma sono essi stessi, per dissennatezza, anche contro la sorte, a crearsi la sventura » . Eppure a questo punto si ascolta e si vede a un tempo che anche questo spettatore e giudice olimpico è lontano dal nutrire avver­ sione per loro e dal pensarne male : « Come sono sciocchi ! » pensa costui di fronte ai misfatti dei mortali - e « stoltezza », « dissen­ natezza », un po' di « confusione in testa », questo anche i Greci dell'età piu vigorosa e piu intrepida hanno riconosciuto in se stessi come radice di molti mali ed eventi funesti - stoltezza, e non giil peccato ! compredete voi questo?... Ma anche questa confusione men­ tale era un problema - « già, come è mai possibile ? donde può essere venuta in teste come le nostre, di noi uomini di nobile ori-

364

GIANNI VATTIMO

gine, fortunati, ben riusciti, della migliore società, ragguardevoli, vir­ tuosi ? » - cosi, per secoli, si chiedeva il greco aristocratico di fron­ te a ogni errore ed empietà per lui incomprensibili, di cui si fosse macchiato qualcuno dei suoi simili. « Deve pur averlo accecato un dio », si diceva alla fine scuotendo il capo... Questa scappatoia è tipica per i Greci... In tal modo allora gli dèi servivano a giusti­ ficare, entro una certa misura, l'uomo anche nel male, servivano come cause del male - in quel tempo essi non si assumevano la pena, bensi, come è piu nobile, la colpa ...

24 - Concludo con tre interrogativi, come ben si vede. « Propria­ mente si sta qui erigendo un ideale, oppure lo si sta abbattendo? » forse mi si chiederà... Ma vi siete mai chiesti abbastanza voi, a quanto caro prezzo si è fatto pagare l'innalzamento di ogni ideale sulla terra ? Quanta realtà dovette sempre essere, a tale scopo, calun­ niata e disconosciuta, quanta menzogna santificata, quante coscienze sconvolte, quanta « divinità » sacrificata og:Òi volta ? Affinché un san­ tuario possa essere eretto, un santuario deve essere ridotto in fran­ tumi : è questa la legge - mi si indichi il caso in cui non è adem­ piuta ! ... Noi uomini moderni, noi siamo gli eredi di una millenaria vivisezione della coscienza e di una tortura da bestie rivolta contro noi stessi : abbiamo in tutto ciò il nostro piu lungo esercizio, forse la nostra vocazione · da artisti, in ogni caso il nostro affinamento e pervertimento del gusto. Troppo a lungo l'uomo ha considerato le sue tendenze naturali con un « cattivo sguardo », cosicché queste hanno finito per congiungersi strettamente in lui con la « cattiva coscienza ». Sarebbe in sé possibile un tentativo opposto - ma chi è abbastanza forte per questo ? -, vale a dire quello di congiungere indissolubilmente con la èattiva coscienza le tendenze innaturali, tut­ te quelle aspirazioni al trascendente, all'anti-senso, all'anti-istinto, al­ l'anti-natura, all'anti-animale, insomma gli i-deali esistiti sino a oggi, che sono tutti quanti ideali ostili alla vita, ideali calunniatori del mondo. A chi rivolgersi oggi con tali speranze e rivendicazioni? ... Avremmo contro di noi proprio gli uomini buoni ; inoltre, come è ovvio, i pigri, i pacificati, i vanitosi, i sognatori, gli stanchi... Che cosa offende piu a fondo, che cosa divide piu radicalmente se non dare a conoscere un po' di quel rigore e di quella sublimità con cui trattiamo noi stessi ? E d'altro lato · con quanta compiacenza e amorevolezza ci viene incontro il mondo, non appena ci compor­ tiamo come tutti e come tutti ci Qsto - gli affetti dive­ nuti freddi, il « tempo » rallentato, la dialettica al posto dell'istinto, la gravit'fz espressa nei volti e nei gesti (la gravità, questo inequivocabile sintomo del piu faticoso ricambio, ·della vita che lotta e che piu dura­ mente si travaglia). Si considerino le età di un popolo in cui il dotto appare in primo piano: sono tempi di stanchezza, spesso di crepuscolo, di decadenza - la forza sovrabbondante, la certezza di vita, la certezza d'avvenire se ne sono partite. La preponderanza dei mandarini non significa mai nulla di buono : come l'avvento della democrazia, degli arbitrati di pace al posto della guerra, dell'egua­ glianza dei diritti delle ·donne, della religione della compassione e qualsiasi altro sintomo esistente della vita declinante. ( Scienza con­ cepita come problema ; che cosa significa scienza ? - cfr. al riguardo

Friedrich W. Nietzsche

381

la prefazione alla « Nascita della tragedia » ) - No ! questa « mo­ derna scienza » - aprite un po' gli occhi voi ! - è intanto la mi­ gliore alleata dell'ideale ascetico, per il fatto appunto che è la piu inconsapevole, la pio involontaria, la piu segreta e sotterranea ! Fino a oggi hanno fatto uno stesso giuoco, i « poveri di spirito » e gli oppositori scientifici di quell'ideale ( ci si guardi, sia detto per inciso, dal pensare che questi costituiscano l'antitesi ·di quelli, qualcosa co­ me i ricchi dello spirito - non lo sono affatto, li ho chiamati tisici dello spirito). Le famose vittorie di questi ultimi : indubbiamente sono vittorie - ma su che cosa ? L'ideale ascetico non è stato per nulla debellato in essi, è stato invece reso piu forte, cioè piu inaffer­ rabile, pio spirituale, pio capzioso grazie al fatto che da parte ·della scienza è stato sempre di nuovo sgretolato, demolito un muro, un b astione che si era addossato a quello e ne involgariva l'aspetto. Si pensa davvero che, per esempio, la sconfitta dell'astronomia teolo­ gica significhi una sconfitta di quell'i·deale ?... Forse che l'uomo è divenuto meno bisognoso di una soluzione trascendente del suo enig· ma esistenziale, in virtu del fatto che da allora quest'esistenza appare anc�r piu gratuita, messa da parte, superflua nell'ordine visibile delle cose? Non è forse, da Copernico in poi, in un inarrestabile progresso l'autodiminuirsi dell'uomo, la sua volontà di farsi picco· lo? La fede, ahimé, nella sua dignità, unicità, insostituibilità nella scala gerarchica degli esseri è scomparsa - è divenuto animale, animale, senza metafora, detrazione o riserva, lui che nella sua fede di una volta era quasi Dio (« figlio d' Iddio », « Uomo-Dio »)... Da Copernico in poi, si direbbe che l'uomo sia finito su un piano in­ clinato - ormai va rotolando, sempre piu rapidamente, lontano dal punto centrale - dove ? nel nulla ? nel « trivellante sentimento del proprio nulla » ? ... Suvvia ! sarebbe questo il retto cammino per l'antico ideale? .. Ogni scienza ( e nient'affatto la sola astronomia sulla cui avvilente e sconfortante efficacia Kant ha fatto la note­ vole confessione che « essa annulla la mia importanza >>... ), ogni scienza, tanto quella naturale, quanto la non naturale chiamo cosi l'autocritica della conoscenza -, si propone oggi di dissua·dere l'uomo dal rispetto sinora avuto per se stesso, come se questo altro non fosse stato che una stravagante presunzione ; si potrebbe per­ sino dire che essa ripone il suo proprio orgoglio, la sua propria au­ stera forma di atarassia stoica nel conservare presso di sé questo faticosamente conquistato autodisprezzo dell'uomo come il suo estre­ mo e piu severo titolo di stima (a buon diritto in realtà : giacché colui che disprezza è pur sempre uno che « non ha disimparato l'ap· prezzare » .. ). È in questo modo che si lavora contro l'ideale ascetico ? Si pensa ancora davvero, con tutta serietà (come per qualche tem.

.

-

.

GIANNI VATTIMO

po si rmmaginarono i teologi), che la vittoria di Kant sulla teo­ logia dogmatica concettuale ( « Dio », « anima », « libertà », « im­ mortalità ») avrebbe recato un qualche pregiudizio a quell'ideale ? - al quale riguardo non ci deve affatto interessare al momento, se Kant stesso ha avuto qualcosa di simile anche soltanto nelle sue intenzioni. Certo è che dopo Kant ogni sorta di trascendentalisti ha di nuovo avuto partita vinta - si sono emancipati dai teologi : che fortuna ! - egli ha rivelato loro quella via traversa nella quale possono ormai di testa propria e con il miglior decoro scientifico assecondare i « desideri del loro cuore ». Similmente chi potrebbe ormai biasimare gli agnostici se costoro, in quanto veneratori del­ l'ignoto e ·del misterioso in sé, adorano ora come Dio lo stesso punto interrogativo ? (Xaver Doudan parla una volta dei ravages che « l'ha­ bitude d'admirer l'ininteUigible au lieu de rester tout simplement dans 'Cinconnu » avrebbe cagionato ; è del parere che gli antichi ne

avrebbero fatto a meno). Posto che tutto ciò che l'uomo « conosce » non soddisfi i suoi desideri, ma piuttosto li contraddica e li spaventi� quale divina scappatoia poter cercare la colpa di tutto ciò non già nei « desideri », bensi nel « conoscere » ! ... « Non esiste alcun cono­ scere : di conseguenza - esiste un Dio » : quale nuova elegantia syllogismi ! quale trionfo dell'ideale ascetico !

27 - Basta ! Basta ! Lasciamo andare queste singolarità e comples­ sità dello spirito piu moderno, di cui c'è tanto da ridere e da indi­ spettirsi : precisamente il nostro problema può farne a meno, il pro­ blema del significato dell'ideale ascetico - che cos'ha esso a che fare con il tempo di ieri e di oggi? CO>desti argomenti saranno da me trattati in maniera piu radicale e rigorosa in un altro contesto (sotto il titolo « Per la storia del nichilismo europeo » ; rimando per questo a un'opera che sto approntando: LA VOLONTÀ DI POTENZA. Saggio di una trasvalutazione di tutti i valori). Ciò a cui è per me impor­ tante aver rinviato qui è questo : anche nella sfera piu spirituale� l'ideale ascetico continua sempre a avere, per il momento, un'unica specie di reali nemici e danneggiatori : sono i commedianti di que­ sto ideale - essi infatti suscitano diffidenza. Ovunque del resto lo spirito è oggi all'opera severamente, potentemente e senza coniazione di monete false, fa in generale a meno ora dell'ideale - l'espres­ sione popolare per quest;astinenza è « ateismo » - : senza prendere in considerazione la sua volontà di veriiii. Ma questa volontà, que­ sto residuo d'ideale, è, se mi si vuoi prestare fede, quello stesso ideale nella sua formulazione piu severa, piu spirituale, assolutamente eso-

Friedrich W. Nietzsche

383

terico, spoglio di ogni apparecchiatura esterna, e quindi non tanto il suo residuo, quanto il suo nocciolo. L'incondizionato, onesto atei­ smo (- e unicamente la sua aria respiriamo noi, noi uomini maggiormente spirituali di quest'epoca !) non sta, conformemente a ciò, in contrasto con quell'ideale, come ne ha l'apparenza ; è piut­ tosto soltanto una delle sue ultime fasi ·di sviluppo, una delle sue forme conclusive e delle sue ultime consequenzialità - è la catw;tro­ Je, imponente rispetto, di una bimillenaria costrizione educativa alla verità, che finisce per proibirsi la menzogna della fede in Dio. (Lo stesso processo evolutivo in India, in perfetta autonomia e perciò non privo di una qualche forza probante ; lo stesso ideale che co­ stringe a un'analoga conclusione ; il punto decisivo raggiunto cin­ que secoli prima dell'èra europea, con Buddha, o piu esattamente, già con la filosofia Sankhya, successivamente popolarizzata da Bud­ dha e trasformata in religione). Che cosa, domandiamocelo col massimo rigore, ha veramente trionfato sul Dio cristiano ? La rispo­ sta sta nella mia « Gaia scienza » , p. 290 : « La stessa moralità cristiana, il concetto di veracità preso con sempre maggior rigore, la sottigliezza da padri confessori della coscienza cristiana, tradotta e suhlimata nella coscien�a scientifica, nella pulizia intellettuale a qualsiasi prezzo. Riguardare la natura come se essa fosse una dimo­ strazione della bontà e della protezione di un dio ; interpretare la storia in onore di una ragione divina come costante testimonianza di un ordinamento etico ·del mondo e di finali intenzioni etiche ; spiegare le pr� prie esperienze di viJ;a come le hanno abbastanza a lungo spiegate uomini religiosi, come se tutto fosse una disposizione, tutto fosse un cenno, tutto fosse concepito e preordinato per amore e per la salute dell'anima : questo ha ormai fatto il suo tempo, ha la coscienza contro di sé, è per tutte le coscienze sensibili qualcosa di sconveniente, di disonesto, una menzogna, roba da donnicciole, debolezza, viltà ; grazie a questo rigore, se non altro, noi siamo appunto buoni Europei ed eredi del piti lungo e piu valoroso auto­ superamento dell' Europa » . Tutte le cose grandi periscono a opera di se stesse, per un atto di autosoppressione : cosi vuole la legge della vita, la legge del necessario « autosuperamento » nell'essenza della vita - ed è sempre il legislatore stesso, infine, a subire il richiamo : « Patere legem, quam ipse tulisti ». In tal modo il cri­ stianesimo come dogma è crollato per la sua stessa morale ; in tal modo anche il cristianesimo come morale deve ancora crollare noi siamo alla soglia di questo avvenimento. Avendo la veracità cri­ stiana tratto una conclusione dopo l'altra, trae infine la sua p.iu drastica conclusione, la sua conclusione contro se stessa ; ma questo avviene, quand'essa pone la questione « che cosa significa ogni vo..

384

GIANNI VATTIMO

lontà di verità? »··· E a questo punto tocco ancora una volta il mio problema, i nostri problemi, cari amici sconosciuti ( - giacché ancora non so di alcun amico) : che senso avrebbe tutto il nostro essere, se non quello espresso dal fatto che in noi codesta volontà di verità, sarebbe diventata cosciente a se stessa come problema?. .. Per questa progressiva autocoscienza della volontà di verità, a partire da que­ sto momento - non v'è alcun dubbio - va crollando la morale : un grande spettacolo in cento atti, che viene riservato ai due pros­ simi secoli europei, il piu tremendo, il piu problematico e forse anche il piu ricco di speranza tra tutti gli spettacoli. ..

28 Se si prescinde dall'ideale ascetico, l'uomo, l'animale uomo non ha avuto fino a oggi alcun senso. La sua esistenza sulla terra è stata vuota di ogni meta ; « a che scopo l'uomo? » - fu una do­ manda senza risposta ; mancava la volontà per uomo e terra ; dietro ogni grande destino umano risonava, a guisa di ritornello, un ancor piu grande « invano ! ». Questo appunto significa l'ideale ascetico : che qualche cosa mancava, che un'enorme lacuna circondava l'uo­ mo - egli non sapeva giustificare, spiegare, affermare se stesso, soffriva del problema del suo significato. Soffriva anche d'altro, era principalmente un animale malaticcio : ma non la sofferenza in se stessa era il suo problema, bensi il fatto che il grido della domanda « a che scopo soffrire? » resta&se senza risposta. L'uomo, l'animale piu coraggioso e piu abituato al dolore, in sé non nega la sofferenza ; la vuole, la ricerca persino, posto che gli si indichi un senso di essa, un « perché » del soffrire. L'assurdità della sofferenza, non la sof­ ferenza, è stata la . maledizione che fino a oggi è dilagata su tutta l'umanità - e l'ideale ascetico offri a essa un senso ! È stato fino a oggi l'unico senso ; un qualsiasi senso è meglio che nessun senso ; l'ideale ascetico è stato sotto ogni aspetto il « faute de mieux » par excellence che sia mai esistito sino a ora. In esso la sofferenza venne interpretata ; l'enorme vuoto parve colmato ; si chiuse la porta di­ nanzi a ogni nichilismo suicida. L'interpretazione - indubbiamen­ te - comportò nuova sofferenza, piu profonda, piu intima, piu venefica, piu corrosiva ri,spetto alla vita : dispose ogni sofferenza sotto la prospettiva della colpa. . . Ma ciò nonostante - l'uomo venne in questo modo salvato, ebbe un senso, non fu piu, da quel momento in poi, una foglia al vento, un trastullo dell'assurdo, del « senza-sen­ so », ormai poteva volere qualcosa - e soprattutto senza che avesse la minima importanza in che direzione, a che scopo, con che mezzo egli volesse : restava salvata la volontà stessa. Non ci si può assolu-

385

Friedrich W. Nietzsche tamente nascondere

che cosa

propriamente esprime tutto quel vole­

re, che sulla base deli 'ideale ascetico ha preso il suo indirizzo : que­

sto odio contro l'umano, piu ancora contro il ferino, piu ancora con­

tro il corporeo, questa ripugnanza ai sensi, alla ragione stessa, il

timore della felicità e della bellezza, questo desiderio di evadere da tutto ciò che è apparenza, trasmutamento, divenire, morte, desi­ derio, dal desiderare stesso - tutto ciò significa, si osi rendersene

conto, una

un'avversione alla vita, una rivolta

volontà del nulla,

contro i presupposti fondamentalissimi della vita, e tuttavia

una

volontà !... E

è

e resta

per ripetere in conclusione quel che già dissi al­

l'inizio : l'uomo preferisce ancora volere

piuttosto che

non

Colli-Montinari, tr. it. d i F. Masini, Milano,

Adel­

il nulla,

volere. . .

(Da Genealogia della morale, ed. phi, 1968) .

3.

IL MONDO DIVENTATO FAVOLA

Come il

«

mondo vero

»

fini per diventare favola

Storia di un errore l. Il mondo vero, attingibile dal saggio, dal piO, dal virtuoso,

egli vive in esso,

lui stesso

è

questo mondo.

( La forma piu antica dell'idea, relativamente intelligente, sem­

plice, persuasiva. Trascrizione della tesi « Io, Platone,

2.

.saggio,

al pio,

al virtuoso

( Progresso dell'idea :

inafferrabile

3.

sono la

verità »).

Il inondo vero, per il momento inattingibile, ma promesso al ( « al

peccatore che fa

penitenza »).

essa diventa piu sottile, piu capziosa, piu

- diventa donna,

si cristianizza ... ).

Il mondo vero, inattingibile, indimostrabile, impromettibile,

ma già in quanto pensato una consolazione, un obbligo, un impe­

rativo.

( In fondo l'antico sole, ma attraverso nebbia e scetticismo ; la

idea sublimata, pallida, nordica, konigsb ergica).

E

4. Il mondo vero - inattingibile. Comunque non raggiunto. in quanto non raggiunto, anche sconosciuto. Di conseguenza nep­

pure consolante, salvifìco, vincolante : . a che ci potrebbe vincolare

qualcosa di sconosciuto ? . . .

( Grigio mattino. Primo sbadiglio della ragione. Canto del gallo

del positivismo) .

Il « mondo vero » - un'idea, che non serve piu a niente, nemmeno piu vincolante - un'idea divenuta inutile e superflua�

5.

quindi

un'idea confutata : eliminiamola !

GIANNI

386

VATTIMO

( Giorno chiaro ; prima colazione ; ritorno ·del serenità ; Platone rosso

di

bon sens

e della

vergogna ; baccano indiavolato di tutti gli

spiriti liberi). 6. Abbiamo tolto di mezzo il mondo vero : rimasto ? forse quello apparente ?... Ma no ! col

quale mondo ci è

mondo vero abbia­

mo eliminato anche quello apparente! ( Mezzogiorno ; momento dell'ombra piu corta ; fine del lunghis­

simo errore ; apogeo dell'umanità : INCIPIT ZARATHUSTRA). (Da Crepuscolo degli idoli, phi, 1968).

ed. Colli-Montinari, tr. it. di

·F.

Masini, Milano, Adel­

GUGLIELMO FORNI

Fenomenologia S O M M A R I O origini della fenomenologia : l . Le scuole kantiane dell'Ottocento.

INTRODUZIONE : I. Le



2. La psicologia di Franz Bretano. - II. Il pensiero di Edmund Husserl : l. Genesi e senso della psicologia fenomenologica. 2. L'oggettività ideale -come condizione della conoscenza 3. Astrazione empirica e intuizione di essenza. 4. Supcramento della psicologia : il concetto di « coscienza pura )) . . 5. l gradi della riduzione feno­ .



·

menologica. . 6. Scienze della natura e dello spirito. La fondazion_e trascendentale della logica. 7. La fenomenologia come « nuovo cartesianismo >>. 8. La crisi del­ l'umanità europea come perdita della dimensione della « vita )). 9. Il problema della storia nell'ultima fenomenologia. III. Le scuole fenomenologiche : l. L'eredità husscrliana 2. Max Schcler 3. Nicolai Hartmann 4. La fenomenologia tedesca contemporanea : Eugcn Fink e Ludwig Landgrebe. 5. La fenomenologia francese contemporanea : Maurice Merleau-Ponty e Paul Ricoeur. - Bibliografia essenziale. •

·



.



.

TESTI : l. FnANZ DRENTANO.



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La classificazione delle attiV'ità psichiche : a) Tentativi di classificazione;• b) Cos'è il bene? - 2. EoMuND HussERL I. Ricerche logiche : a) Con. futazionc dello psicologismo; b) Evidenza e verità; c) L'unità ideale del significato ; d) Gli oggetti generali ; e) Astrazione empirica e intuizione eidetica ; f) L' intenzio­ n !llità della coscienza ; g) Oggetto intenzionale c contenuto immanente ; h) Oggetto intenzionale e oggetto reale. Il. La filosofia come scienza rigorosa : a) Il compito della fenomenologia ; b) La psicologia sperimentale; c) Mondo na turale e mondo psichi co ; d) Il metodo della psicologia « pura »; c) Scienza rigorosa e filosofia. III. Idee per una fenomenologia pura : a) Dato di fatto ed essenza ; b) Visione del­ l'essenza e visione individuale ; c) Il concetto naturalistico di esperienzo ; d) L'accusa di realismo platonico; e) L'atteggiamento naturale ; f) Neutralizzazione e dubbio car. tesiano; g) L' h;oxi} fenomenologica-trascendentale ; h) La regione della coscienza pura ; i) Contingenza della cc tesi )) del mondo; l)" L'essere assoluto dell'immanenza ; m) La riduzione e il residuo fenomenologico; n) Nessun cc idealismo soggettivo )). IV. Logica formale e trascendentale : il) Logica e filosofia ; b) Il riferimento a un mondo reale ; c) La logica come scienza positiva ; d) La costituzione operata dalla · coscienza ; e) L'a priori costitutivo ; f) La logica trascendcnt!lle ; g) Relatività della verità obiettiva V. Meditazioni cartesiane : a) La fondazione cartesi11na della filo­ sofia; b) Necessità di un nuovo inizio ; c) L'cc ego cogito » come soggettività trascen. dentale ; d) L' io psicologico e l'io trascendentale ; el Riflessione naturale e rifles­ sione trascendentale ; f) Il problema cartesiano; g) Significato autentico dell'ideali· smo ; h) Fenomenologia e metafisica. VI. La crisi delle scienze europee : a) Dif. ficoltà dell'ideale filosofico ; b) La lotta per il senso dell'umanità ; c) Conside,ra. zioni esistenziali;· d) L'idea di conoscenza universale ; e) La matematizzazione della natura ; f) L' ipotesi galileiana; g) Mondo della vita e mondo della scienza ; h) ll mondo della vita come lema autonomo ; i) lJ'apriori soggettivo-relativo ; l) La cor. relazione trascendentale ; m) L'essente come indice di un sistema di datità ; n) L'an­ tologia del mondo della vita; o) Significato pratico-empirico della verità obiettiva ; p) La fenomenologia come nuovo razionalismo ; q) li destino dell'Europa. - 3. MAX ScUELER L'eticll materiale dci valori : a) Puro sentire e stati emozional i ; b) L'apriori moteriale ; c) Gerarchia delle modalità del valore ; d) Persona e ragione;· e) Persona I. L'ontologia critica : a) Pensiero sistematico e e atto. - 4. NICOLA! HARTMA.t'ffl . pensiero problematico ; b) La « metafisica dei problemi »; c) Il ritorno alle cc cose stesse » ; d) Fenomenologia, aporetica, teoria ; e) Il senso del 1c capire qualcosa ,;; •

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GUGLIELMO FORNI

388

I) lpcroggettività dell'oggetto del conoscere.

II. La trascendenza del rejlle : a) Gli atti emozionali ; b) L'cc accidente » e l'cc essere colpito >>. III. l valori etici: a) Realtà etica e sfera ideale etica ; h) Il rapporto dei valori con la realtà ; c) Il dover essere ideale ; d) Il dover essere attivo; e) Il ruolo del soggetto nellll metafisica del do­ vere. S. EuGEN FINK Il gioco come simbolo del mondo : a) Il gioco come u: so­ spensione >> degli interessi finali ; h) I l carattere di irrealtà del gioco ; c) Il mondo del gioco e il gioco del mondo ; d) Il mondo come gioco senza giocatore. 6. LUDWIG LANDGREBE Fenomenologia e storia : a) n problema della storieità della vita ; b) La soggettività trasccndentllle-fattualc; c) Il cc comprendere » (Verstehen) ; d) Critica della telcologia storica; e) L'idea dell'auto-produzione dell'uomo ; f) La struttura del tempo storico; g) La « fine di tutte le cose ». 7. MAURICE MERLEAU ­ PoNTY Corporeità e intersoggettività : a) Che cos'è la fenomenologi a ? ; b) Il « ri­ torno alle cose stesse » ; c) La riduzione fenomenologicjl ; d) Il metafisico dell'uomo ; e) Il filosofo e la sua ombrn. - 8. PAUL RICOEUK La riflessione ermeneutica : a) Per­ cezione e significato ; b) Il problema del soggetto ; c) Archeologia e teleologia. -



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INTRODUZIONE

l.

LE ORIGINI DELLA FENOMENOLOGIA

l. Le scuole kantiane dell'Ottocento ( * ) La filosofia detta dal suo fondatore cc fenomenologia >> nasce i n Germa­ nia, all'inizio del nostro secolo ; e nelle sue interpretazioni, nei suoi sviluppi complessi e ramificati, non è ancor oggi del tutto spenta. Ma per coglierne davvero il senso, occorre risalire al secolo scorso, cioè allo sviluppo del kantiE.mo nel secolo XIX, nella sua relazione alle « scienze della natura >> e alle cc scienze dello spirito >> ; e a quei problemi di logica, matematica, psicologia, teoria della conoscenza, che occuparono la seconda metà del­ l'Ottocento, e che furono relativamente poco notati - specie in Italia - a causa dell'immenso successo della filosofia hegeliana. La fenomenologia come tale ha dunque una vita di circa 70 anni (se si intende il termine in una accezione larga, poiché nessuno dei successori accettò il pensiero di Edmund Husserl, ed egli stesso lo modificava continuamente) ; tuttavia, essa va compresa come il frutto tardo, estremamente complesso e composito, dell'orizzonte storico kantiano, delle varie scuole che, in qualche modo, si richiamarono a Kant : e allora occorre risalire molto piti indietro, alla seconda metà dell'Ottocento. Delle linee di sviluppo del kantismo ottocentesco, l'idealistica, la psico­ logica e la marburghiana ( quella della cosiddetta scuola di Marburgo ), soltanto le ultime due ci interessano piti da vicino in rapporto alla formazione della fenomenologia. Della interpretazione idealistica di Kant 6 delle posizioni idealistiche (specie di quella di Hegel) Husserl non ebbe mai molta stima, e nemmeno una conoscenza approfondita : ebbe invece ben presenti l'interpretazione psicologica e quella marburghiana di KanL La scuola di Marburgo è rappresentata soprattutto dai nomi di Cohen, Natorp c Cassirer. Appartiene, insieme alla scuola del Baden

(*) Cfr. A. NEGRI,

Filosofica.

Il neocriti.cismo,

nel vol. XXH della presente Grande A ntologia

Fenomcnologia

389

(Windelhand e Rickert) e allo storicismo tedesco di Simmel, Dilthey e Troeltsch, àl generale movimento di > è una regola metodica, un principio di orientamento per la ricerca. Cosi l'esteriorità kantiana, che psicologizzava il soggetto puro, è divenuta anch'essa una regola dell'esperienza, cioè una parte o un aspetto del soggetto puro. Tutto ciò, secondo gli autori di Marburgo, si trovava già in Kant, almeno fino a un certo punto. La critica hegeliana della « cosa in sé » , come concetto contraddittorio, sarebbe ingenua, in quanto Kant già ne parla non come di una vera e propria > ( che come tale apparterrebbe sempre all'ordine dei fenomeni ) ma come « noumeno » , mero pensabile, come una > indeterminata. È però indubbio che Kant le attribuiva un residuo carattere meta:fisico, che doveva svelarsi e giustificarsi chi aramente nella seconda Critica, mentre la modificazione operata da Mar­ burgo permetteva di chiudere in se stessa la prima Critica e intenderla indi­ pendentemente dalle altre. La tesi che il dualismo psicologistico di interno e esterno sia superato entro una soggettività piu profonda, intesa come sfera non-reale (non-mondana) di puri significati o essenze, ritorna con forza in Husserl ; e l'altra tesi, che l' di una cosa, questa non ci è mai propria­ mente data : ci sono offerti i suoi aspetti, i suoi profili, i suoi lati, ma la > resta sempre al di là della nostra esperienza effettiva, come regola della sua connessione e unificazione. Vi è però una grande e decisiva differenza tra il concetto marburghiano di oggetto e quello husserliano. Da un lato si pensa soprattutto all'est>e­ rienza scientifica, fisica (perciò le regole della costituzione sono logico-for­ mali), dall'altro all'esperienza pre-scientifica o quotidiana, comune ( per­ ciò le regole, non essendo né psicologiche né puramente logiche, sono quelle del rinvio associativo fra contenuti di coscienza). In questo senso, Husserl non ha mai cessato di preferire Hume a Kant, né di pensare che la logica sia un oggetto di cui pure si deve cercare la genesi soggettiva - come di ogni oggetto, reale o ideale che sia. Perciò egli inclinava, almeno ini­ zialmente, verso una >, o « psicologia descrit­ tiva >>, che aveva la propria radice di senso nell'ambito delle scuole neo­ kantiane. Il vecchio strumento della psicologia empirica, l'auto-osservazione,

Fenomenologia

391

l'esperienza « interna >> del soggetto, si era già riaffermato all'interno del kantismo psicologistico : si può pensare a Beneke, che intorno al 1820 si opponeva alla speculazione hegeliana presentando la psicologia come luogo di verifica e di soluzione per ogni problema filosofico. Anche Beneke riconosceva che ogni conoscenza è approssimativa e appartiene a un processo infinito di correzioni, di miglioramenti, ma, a differenza di Marburgo, vedeva il terreno di ogni conoscenza non in un complesso di regole formali, ma nell'esperienza cosi come la descriveva _la psicolo�ia. Pensiamo a Beneke come lontano precursore di un metodo fenomenologico solo in questo senso : egli privilegia una psicologia riflessiva (fondata sulla introspezione, sull'autoosservazione) e non una psicologia sperimentale, cioè una « scienza naturale >> dell'uomo alla maniera di altri kantiani, come . Helmholtz, Lange, Vaihinger. Se è vero però che quest'ultima era la piu violentemente combattuta, da Marburgo e da Husserl, la psicologia « descrit· tiva >> o fenomenologica non è neppure « riflessiva » in senso benekiano, poiché mira alle stmtture, alle leggi essenziali della coscienza - e non a rilevare eventi psichici reali. È questo il preciso limite che incontra l'indi­ cazione di una componente empiristica nel pensiero di Husserl ( Landgrebe e Wahl) (3). Anche Cohen aveva dato inizialmente (prima cioè di fornire la sua nuova inte1·pretazione della Critica della ragion pura) una versione psico· logica dell' « idea >> in Platone, e queste indagini erano certamente cono· sciute da Husserl (se non nella forma originale - il primo articolo di Cohen, La teoria platonica delle idee e la matematica, è del 1878 - nello sviluppo che ne aveva dato Natorp nel 1908 : La teoria platonica delle idee). Alla radice dell' « idea n sarebbe originariamente un « vedere >> , un atto di visione o di intuizione, che si è poi perduto : per cui si è rafforzato, sulla base dei presupposti teologico-metafisici di Platone, l'oggetto visto ( eidos ), e se ne è dimenticata l'origine soggettiva, il suo procedere da un atto. Qui c'è tutto il problema, che Husserl �on abbandonerà mai, della costitu· zione soggettiva dell'oggettività e del suo oblio, che ci permette di inten· dere gli oggetti, reali o ideali (concetti, proposizioni), come provvisti di una propria consistenza o validità indipendente d al soggetto, dalla sua attivi tà. Questo orientamento d'ind-agine, espresso negli studi platonici di Cohen, nasceva appunto in seno a una certa interpretazione di Kant : che non era ancora quella di Marburgo, né era quella idealistica, ma quella .psico­ logica. Cosi ad esempio Bona Meyer era convinta che Kant avesse scoperto i diversi a priori attraver13o una cc _ analisi psicologica dell'esperienza interna >> ; ma il suo orientamento andava oltre la psicologia c< riflessiva >> , introspet· tiva, per avvicinarsi al problema delle leggi e delle stmtture. Vi sono infatti, nel dibattito sulla psicologia, diverse posizioni, e diversi modi d'in· tendere l'intuizione psicologica. Secondo la Meyer, è alla psicologia riflessiva che si deve riconoscere l a superiorità su quella sperimentale o naturalistica ; ma poi, non è tanto alla intuizione psicologica come introspezione, come osservazione di un fatto interno, che si deve affidare l'analisi della coscienza, quanto all'intuizione degli clementi necessari e universali dell'esperienza umana. Non dobbiamo avvicinare induttivamente, empiricamente, gli stati psichici osservati, cercando di percorrere il problema psicologico preso in esame in tutti i suoi aspetti concreti, sperimentali ; ci basterebbe, al limite,

(3)

Cfr. AA. VV., Phénoménologie



Existence, Parigi, 1953, pp. 134-35, 206-07.

392

GUGLIELMO FORNI

un solo caso concreto per intuire in esso, attraverso una « riflessione astra­ ente >> , le leggi che lo t·egolano, l'essenza del fenomeno. Tutto ciò è abba­ stanza conforme alle ricerche husserliane : è sufficiente ad esempio per Husserl una sola osservazione di una percezione « esterna >> ( o di cosa), per sapere che essa procede per aspetti, profili, prospettive, e che tale caratteristica è una legge della percezione, un dato essenziale, un elemento universale e necessario che noi dobbiamo attribuire non soltanto alla per· cezione osservata, ma ad ogni percezione possibile. Ci accorgiamo cosi ehc esistono zone grigie o intermedie fra le diverse interpretazioni di Kant. Vi è un kantismo, che talvolta inclina a un'in· dagine empirica o fattuale della coscienza, ma poi si richiama alle leggi essenziali, e sembra cosi raggiungere la scuola di Marburgo. Ma vi sono alcune importanti e insupcrabili differenze, decisive per comprendere la formazione del pensiero husserliano. Da un lato, il senso �utenticamente kantiano dell'apriori come legge di produzione o di costituzione di un oggetto, c inseparabile da questo, è presente sia alla scuola di Marburgo che alla psicologia « descrittiva >> nel senso della Meyer o di Ilusserl. Sul versante opposto, comb attute sia da Marburgo che da Husserl, troviamo la psic.Jlogia sperimentale o induttiva (che cerca di trarre una regola dal cumulo dei fatti) e la versione psicofisiologica di Kant ( Helmholtz, Lange, ecc.) secondo la quale le leggi della coscienza sono meccanismi reali del cer­ vello, organi : per cui è possibile una « fisica del pensiero n, eventualmente matematica. Tuttavia un elemento decisivo separa la scuola di Marburgo dalla psicologia descrittiva, e dalla fenomenologia : quest'ultima si applica in linea di principio a tutte le esperienze, a quelle affettive come a quelle conosci­ tive per esempio, insomma a tutto ciò che fino ad allora rimaneva abban­ donato alla psicologia empirica o induttiva. Invece la scuola di Marburgo, o almeno il suo fondatore Hermann Cohen, si occupano di teoria della cono­ scenza (specialmente di teoria della conoscenza scientifica) c vedono « nella matematica e· nel1e scienze della natura >> il contenuto privilegiato, esemplare, dell'esperienza. Ciò si riflette sul modo di intendere l'apriori soggettivo, che in un caso è logico-formale, nell'altro è invece intuitivo e « materiale n , per cosi dire : sono i contenuti stessi non in quanto fatti, ma in quanto significati, concetti, che si avvicinano o si respingono, si legano fra loro, venendo a costituire una trama di regole non meramente logiche, perché sempre intuitive: Ma l'idealità dell'oggetto, il non esser dato come reale bensi proposto come regola metodica dell'esperienza, è comun.:- alle due scuole : e in un senso molto vicino. Cohen parlerà sempre - anche dopo la sua prima fase psicologica - dell' (( idea n come ipotesi metodica, come presupposto necessario della conoscenza, valido sia per lo scienziato ( che parte dai dati sperimentali per trovarne la legge) che per il filosofo (che parte dai risultati scientifici per scoprirne le condizioni soggettive di pos· sibilità). Husserl parlerà dell'idea e della connessione di idee come di un apriori della coscienza che permette di comprendere la formazione dell'oggett�vità in generale (non soltanto scientifica). Del resto un ele­ mento importante, anche se apparentemente estraneo al nostro argomento, è la comune origine ebraica dei filosofi di Marburgo e di Husserl ; la loro comune opposizione a Hegel è anche rifiuto di una Incarnazione già avvenuta, che nell'interpretazione specl.Ùativa dello Hcgel, riconcilia definitivamente e totalmente sensibile e intelligibile, esperienza e ragione.

393

Fenomenologia

Dall'altra parte, invece, questa riconciliazione integrale è una « idea )) , resta cioè al di là del processo effettivo della conoscenza. Husserl si è formato all'insegnamento di Brentano, del cui pensiero ci occuperemo in seguito ; ma anche all'insegnamento di Natm:p, successore di Cohen a Marburgo ( dopo il 1885 ), ricevendone alcuni orientamenti fondamentali. Si può pensare ad esempio che i due concetti-chiave della fenomenologia, riduzione e costituzione, derivino, almeno in parte, dallo studio dell'opera di Natorp Introduzione alla psicologia secondo il me­

todo critico ( 1888), che Husserl scelse poi spesso come testo di lettura per i suoi studenti (4). In quest'opera, come poi nella Psicologia generale del 1912, Natorp tenta di stabilire oggetto e metodo della psicologia non ilaturalistica. L'oggetto della psicologia è la coscienza, costituita da tre momenti o aspetti indissociabili : il contenuto di cui si è coscienti, la rela­ tione di questo contenuto

( « coscienzialità )) ) e,

all'io

terzo, l'io stesso.

Questa struttura ritorna in Husserl, che parla di una articolazione in tre momenti : ego-cogito-co gitatum, e la di Husserl. Quanto al metodo, si tratta di rovesciare la direzione oggettivante della coscienza, cioè di sostituire l'atteggiamento inusuale e difficile della > all'atteggiamento normale o naturale della > . Occorre, afferma Natorp, disfare la tela della coscienza per comprenderne il funzionamento secondo leggi ; regredire dagli o ggetti ai fenomeni, ai vissuti psichici, e ritornare poi da questi alla oggettività. Questo movimento circolare o pendolare ( a della > husserliana, Natorp sottolineò in una recensione le affinità reali, al di là di certe differenze di linguaggio, tra la fenomenologia di Husserl

c

il kantismo di Marburgo, salvo « una certa

apparenza di assolutismo incompatibile con lo spirito della critica >>

( 5 ).

Ora in che senso la fenomenologia assumeva il significato i< assoluti­ stico )) , giustamente notato da Natorp ? Si tratta ovviamente di un problema critico assai complesso, che tocca l'intero sviluppo della filosofia husserliana. Limitiamoci, per ora, a differenziare il senso della « psicologia descrittiva >) di Husserl nei confronti di un analogo tentativo, condotto da \V. Dilthey proprio in quegli anni. Ambedue mirano a una certa analisi della coscienza, che non dipenda, quanto al metodo, dalle scienze naturali ; essa deve ser­ virsi piuttosto della osservazione

della vita psichica

fantasie, sentimenti) e della sua descrizione in termini

(percezioni, ricordi,

intuitivi.

Che il lin­

guaggio e i concetti descrittivi si riferiscano imme diatamente all'intuizione diretta, significa che io devo sempre poter il concetto

> è intuitivo perché lo posso vivere in ogni momento,

perché ho ricordi o posso suscitarli, formarli nella mia mente. Vi sono però differenze tra la psicologia descrittiva di Dilthey e quella di Husserl.

(4) Cfr. I. KE:Rx, Husserl und J(ant, L'Aia, 1964, p. 350. (5) Citato da H. Dus SORT, op. cit., p. 143. Natorp aveva già previsto questo sviluppo

del pensiero husserliano in una recensione al primo volume delle Ricerche logiche (P. NA­ « Kant-Studien », VI, Berlino, 1 901, pp. 270.83).

TOHP, Zur Frage der logischen Methode, in

394

GU GLIELMO

FORNI

Mettiamoci per un momento dal punto di vista di Dilthey (6) : egli rico­ nosce la novità e il valore del metodo descrittivo fenomenologico, anzi riconosce esplicitamente il suo debito nei confronti di Husserl. Vede nelle « scienze dello spirito » un gruppo di discipline che vanno comprese a partire dalla vita, dall'esperienza vissuta, e dalla descrizione di questa espe­ rienza. Anche per lui, « descrizione >> significa conoscenza concreta e in­ tuitiva nel senso detto, che viene opposta alla > astratta ( non-vissuta) delle scienze naturali. Tutti questi elementi sono comuni alla fenomenologia. Ma la tendenza di Dilthey è piti decisamente anti­ i dealistica di quella husserliana : si riferisce cioè alla coscienza come vita umana, corporea, limitata dalla storia e dal1a na tura materiale, e rifiuta nettamente la tendenza a concepirla come un punto di partenza assoluto e non condizionato. Inoltre, della coscienza Dilthey accentua l'aspetto pro­ priamente vitale, cioè emozionale, sentimentale, volitivo ; mentre Husserl concentra la sua attenzione sulla coscienza come conoscenza, e innanzitutto come percezione. Questo diverso atteggiamento va riferito alla diversa formazione, e ai diversi interessi, dei due autori : Dilthey, formatosi come storico, affrontava il problema del metodo storiografico ; Husserl, forma­ tosi come matematico c logico, affrontava da ultimo il problema storico e insieme filosofico del significato della scienza moderna, rappresentata esem­ plarmente dalla fisica classica. Cosi Dilthey giunge a criticare Husserl per molte caratteristiche della sua psicologia descrittiva ; sono le caratte­ ristiche che si manifestano soprattutto in Brentano (maestro di Husserl in questo campo) e nella prima fase della ricerca husserliana, cioè lo scola­ sticismo astratto, gnoseologico e classificatorio.

2. La psicologia di Franz Brentano Veniamo ora a un contesto culturale piti direttamente connesso al sor­ gere della fenomenologia : quello della nuova psicologia. È un tema che abbiamo già intravvisto, nella varia articolazione del kantismo ottocen­ tesco, ma che va pure considerato alla luce di quella rivalutazione della tradizione scolastica medioevale che è tipica di Brentano e, prima di lui, del suo maestro Trendelenburg� Brentano si trova al centro di questo complesso sviluppo, cui appartengono, in maniera diversa, anche i suoi mag­ giori allievi : coloro che, come Anton Marty e Oskar Kraus, rimarranno vicini al maestro e altri, come Cari Stumpf, Edmund Husserl e Alexius Meinong, che ne svilupperanno autonomamente la dottrina. Questi ultimi, poi, intrattengono fra loro rapporti di qualche rilievo : ad esempio Husserl fu allievo di Stumpf e cita spesso la sua Psicologia del suono ( 1883); il con­ cetto di > nella husserliana Filosofia delf aritmetica ( 1891) è vicino a quello di « qualità di forma >> in un allievo di Meinong, Christian von Ehrenfels (Sulle qualità formali, 1890). E tuttaVia, in questa rete di influenze, non è da vedere l'inizio vero e proprio della fenomeno­ logia. Brentano non parla mai di « fenomenologia » , se non per rifiu­ tare ironicamente le posizioni di Husserl e le sue accuse di psicologismo ; segue il sorgere delle nuove dottrine con un certo scetticismo, e si man­ tiene estraneo a quegli sviluppi, continuando a precisare e ad arricchire (6) Si veda il volume Critica della ragione storica cialmente alle pp. 57, 62, 105, 136, 180, 197, 344.

!l

cura di P. Rossi, Torino, 1954, spc·

Fenomenologia

395

le vedute già espresse. Cosi, di fronte alla fenomenologia delle Ricerche logiche (1900-1901) o alla > di Mcinong, non ammette una oggettività ideale e intemporale, oppure > sprovYisti di esistenza : che fissi sperimentalmente lo svolgersi causale dei fenomeni ; questo compito scien­ tifico è secondario rispetto a quello, non ancora affrontato, della classifi­ cazione dei fenomeni psichici, che va operata descrittivamente sulla base della diversa modalità, propria di ogni attività soggettiva, di ;riferirsi all'og­ getto. Soltanto a partire da questa nuova ricerca, fondata esclusivamente sull'esperienza interna e orientata sulle modalità intenzionali, abbiamo una vera scienza psicologica, che ci consente poi anche di affrontare i problemi della > nel senso detto, e di fissare i rapporti che intercorrono fra le due discipline. Questa distinzione è soltanto abbozzata (ed anche scar­ samente osservata ) nella Psicologia del 1874 ; emergerà chiaramente piu tardi, nel periodo in cui Brentano si prepara a lasciare l'Austria per l'Italia (l miei ultimi voti per l'Austria, 1895). Ma è chiaro fin d'ora che la > (o > ) sviluppa una serie di caratteristiche assolutamente originali. Essa è ) intende appunto garantire la universalità ( o la scientificità) dell'essenza, il suo non essere legata a un insieme finito, cioè particolare, di individui. Ora, si è detto che la psicologia fenomenologica ha lasciato la psicologia tradizionale, cioè l'introspezione, l'osservazione di fatti psichici e di coscienze individuali : essa mira invece all'universale essenza della coscienza, alla struttura tipica di ogni coscienza possibile. Tuttavia (ed è qui il presupposto inconsapevole di cui si diceva) pensiamo ancora all'uomo, alla psiche umana, che vive in un certo mondo reale ed è dotata essa stessa di una dimensione reale o naturale, dì un corpo ; pen· siamo forse all'uomo di un determinato tempo storico, di una determinata civiltà ; ma anche se ci portiamo alla situazione piu generale, > ci apparirà pur sempre come umana, come parte reale di un mondo reale. E qui occorre intendersi su una questione fondamentale. Questo presupposto, che appartiene all'atteggiamento > , o valida. La fenomenologia ha superato questo problema, in essa il > (la nostra conoscenza della cosa) è l'essere ( la cosa stessa). Ma per· ché ciò avvenga, occorre superare il concetto psicologico di coscienza e l a distinzione interno"esterno : la coscienza pura non ha nulla fuori d i sé, ma ha in sé l' « interno >> (i concetti di spirito, io psichico, ecc.) e l' > ( i concetti di natura, cosalità reale, ecc.). Storicamente, questa posizione ha faticato molto ad afferma1·si e la si trova realizzata solo nel­ l'idealismo post-kantiano : il problema cartesiano della relazione tra pen­ siero ed estensione domina tutta la speculazione successiva, fino a Kant compreso, senza trovarvi una vera soluzione. 4) Il « dubbio >> cartesiano non è la riduzione fenomenologica, ma una « modificazione >> (cioè una semplice variante) dell'atteggiamento naturale, della credenza nella realtà delJe cose. Dubitiamo sulla base di una preliminare certezza, cosi come, ad es., quando un oggetto già « atteso >> nella percezione non si presenta o si presenta in modo diverso. Anche la negazione, secondo Husserl, non è una forma originaria, ma va compresa. come « delusione >> di un'aspetta· tiva, come svolgimento delusorio di una affermazione iniziale. La riduzione invece sospende, insieme alla semplice certezza, tutte le sue ramificazioni o « modificazioni » , e cioè la negazione, il dubbio, la possibilità, la proba­ bilità, ecc.

4ll

Fenomenologia

Dunque l'io, la coscienza pura, non è una parte del mondo. Neppure si può dire, secondo le Meditazioni, che il mondo e gli oggetti mondani siano parti o pezzi del mio io. j.� vero che la Logica portava espressioni assai simili, che ·Sembravano affermare il mondo come parte o > ( E. HusSERL, Logica formale e troscen­ rlenwle, a cura di G. D. Neri, Bari, 1966, § 94. p. 288) .

412

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culturale dell' Europa è nel frattempo mutata : l'esistenzialismo, in varie forme, si va affermando nella filosofia tedesca, mettendo in ombra i pro· blemi della conoscenza, della ragione, della scienza. Heidegger, special­ mente, ottiene grande successo con il suo Essere e tempo, pubblicato nel 1927. Inoltre, si vanno diffondendo la psicanalisi e il marxismo : e anche a questi, come alla filosofia della esistenza, Husserl cerca di rispondere dal suo punto di vista. Questi elementi contribuiscono a fare della Crisi un'opera diversa da tutte le altre, provvista di un suo inconfondibile stile e di un suo autonomo gruppo di -problemi : la piu importante di Husserl (a no­ stro avviso) ma anche la piu scorrevole e avvincente. Al centro della Crisi è il problema della storia, che Husserl concepisce come movimento dell'umanità dalla prassi alla teoria, dal particolare al· l'universale. L'uomo, nel suo atteggiamento naturale, è interessato alle cose del mondo, preso totalmente da esse. Ma, nella storia, si presenta anche un altro atteggiamento : il quale, togliendo valore alla vita immediata degli interessi pratici, vuole conoscere l'intero mondo ; non questo o quell'essere (per manipolarlo e servirsene) ma la totalità dell'essere. Questo nuovo orientamento, che si presenta per la prima volta nel pensiero greco, domina anche la nascita della scienza moderna : essa ha l'ambizione propriamente filosofica di mirare alla totalità dell'essere ; di non fermarsi a nessun ente particolare, ma di applicare un certo metodo alla conoscenza vera dell'in­ tero mondo. Ma in un tempo piu recente questo senso della scienza, questo atteggiamento che la sosteneva, è andato perduto : abbiamo ormai tante scienze, e ognuna di esse si occupa di un oggetto particolare, è spinta da un interesse pratico, tecnico. II senso e la responsabilità filosofica della scienza, il conoscere disinteressato e la mira universale, tutto ciò si è perduto ne1le scienze contemporanee. Ora, questa crisi è anche una crisi dell'uomo « eu· ropeo n , dell'esistenza umana. Infatti l'uomo ha la sua guida nella ragione, nella conoscenza universale : cioè nella filosofia, c nelle scienze intese come sue diramazioni. Ma quan-do le scienze rifiutano di considerarsi parti di un sapere globale, responsabile in via definitiva, anzi si disperdono al se· guito di oggetti particolari e si fanno autonome, l'uomo ha perduto la sua guida unica e sicura : è privo di orientamento, non solo nella conoscenza, ma anche nella propria vita individuale e sociale. In base a questa valutazione della crisi, Husserl ne tenta poi il supera· mento. Uscire dalla crisi significa per lui innanzitutto riconsiderare e de­ scrivere, sulla base del metodo fenomenologico, la genesi della cultura moderna, dai suoi fondatori, Galileo e Cartesio, fino a noi. La sua inten· zione fondamentale è quella di restituire le scienze a quell'atteggiamento puramente teoretico e universale, che ora sembra essersi perduto, e che tuttavia era ed è l'unico fondamento vero e l'unico senso della scienza mo· derna. Nella filosofia greca, si era presentato all'uomo un nuovo compito : di essa : dunque soltanto una parte della vita soggettiva, che rappresenta invece per la fenomenologia l'ultima e defi­ nitiva universalità.

9. Il problema della storia neltultima fenomenologia La Crisi presenta una esposiZIOne del processo fenomenologico abba­ stanza nuova nei confronti delle opere precedenti. Il processo fenomeno­ logico è il cammino della riduzione, che conduce dall'atteggiamento natu­ rale all'io trascenderi.t :;;.l e ; esso non è unico, né determinato una volta per tutte. Anzi Husserl pensa che tali > alla fenomenologia siano innu­ merevoli, e che ognuno debba cercare e percon·ere la propria, senza rite· nersi vincolato dalle « vie n già indicate e sperimentate ( uno dei migliori allievi di Husserl, Eugen Hnk, ne ha distinte quattro nella sua opera) (24). Ma forse, questa libertà non è data nella fenomenologia, perché la via della riduz ione, o il processo fenomenologico, non è soltanto un metodo indiffe­ rente al risultato, ma è sempre pensato e costruito in funzione di un risul­ tato, di una certa filosofia. Ora, il fine del processo è la coscienza pura come terreno o luogo di ogni possibile conoscenza, come totalità che non ha nulla fuori di sé ; è la fenomenologia come sapere assoluto e definitivo, filosofia ultima. L'idea del trascendentale è proprio questa : l'idea dell'immanenza alla coscienza di ogni trascendenza, cioè la coscienza come totalità. Occone qui rendersi conto ( e in questo senso ci si potrebbbe riferire a Spinoza o a Hegel) che se la coscienza ha ancora qualcosa fuori di sé, qualcosa che le rimane trascendente, essa allora è solo una parte della totalità, una pa rte condizionata da altre parti ; la co. scienza non sarebbe pura o trascen­ dentale, assolutamente incondizionata : sarebbe, ancora una volta, la co­ scienza umana o psicologica. Se tentiamo di fondare la filosofia sulla coscienza intesa come parte, abbiamo, secondo Husserl, un idealismo psico­ logico e non trascendentale. È il caso, nella Crisi, di Cartesio, di Hume, di Kant. Ora Husserl stesso, nel corso della sua vita, si è trovato spèsso a credere dì aver già raggiunto la coscienza pura, e ad accorgersi poi che qualcosa non era stato considerato, era rimasto esterno o trascendente, e che dunque il concetto già raggiunto di coscienza non era veramente defi­ nitivo, anzi era psicologico, parziale. In questi casi, I-lusserl riprendeva i l suo sforzo e correggeva l a sua posizione, l a sua filosofia, per poter accogliere in essa ciò che rimaneva esterno : mantenendo sempre come fine l'idea della coscienza come totalità. È in base a queste considerazioni che va compreso il processo fenome­ nologico che muove dal mondo della vita, la nuova : quella > delle prime Idee ( dalla critica del « dubbio >> alla riduzione fenomenologica), quella che parte dalla psicologia descrittiva ( sparsa un poco dappertutto nelle sue opere) e quella che parte dalla logica formale (24) Durante la discussione sulla relazione di W. Biemel al convegno di Royaumoot Le! 1957 (cfr. A A . VV., Husserl, cit., p. 65), Fink affermò che, (( come Husserl ha dichiarato spesso )), esse sono : la via psicologica, quella logica, quella « cartesiana )) e quella che pari� dal (( mondo della vi t a )).

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{Logica formale e trascendentale). Ora ne presenta una nuova : tutta la Crisi, si può dire, è dedicata al problema del mondo della vita, e noi dob­ biamo comprenderne i motivi. Husserl ha scoperto un tema che . non aveva considerato : il tema della storia. Se pensiamo che la fenomenologia è sol­ tanto una filosofia dopo tante altre, concepita da un uomo in una certa situazione storica, ambientale, culturale, non possiamo vederla come asso­ luta e definitiva, ma appunto, come un certo prodotto storico : il suo con­ cetto di coscienza è uno dei tanti che ci vengono presentati. Non è, allora, la totalità : la storia è tutta esterna a questa coscienza, è un processo reale di eventi, e la filosofia di Husserl, il suo concetto di coscienza, ecc . , non è altro che un evento fra gli altri, condizionato da tutti gli altri : da eventi politici, sociali, culturali, insomma da tutta la storia precedente. Nelle Meditazioni cartesiane il condizionamento storico non era emerso, e in­ fatti quell'opera rappresentava la fenomenologia come un idealismo ormai .compiuto, e la coscienza pura come una sfera sicuramente raggiunta. Sco­ prire, piu tardi, il condizionamento storico, significava attribuire alle Me­ ditazioni un significato ben diverso ; in esse, l'idealismo era solo apparen­ temente raggiunto, la coscienza era solo apparentemente . pura o trascen­ .dentale : in realtà, era ancora psicologica (o parziale) condizionata com'era da tutta la cultura precedente. Come reagisce Husserl a questa scoperta, e a q uesto pericolo ? Con una modificazione di tutta la sua filosofia, modifica­ zione rappresentata dalla Crisi e dagli inediti dello stesso periodo. Il fine rimane lo stesso : la coscienza pura, ma la fenomenologia viene sottoposta a una revisione profonda per poter accogliere e risolvere il problema della storia ; per togliere, cioè, l'ultima esteriorità, l'ultima trascendenza ( dopo quella del mondo scientifico, del mondo pre-scicntifico, ecc.) che impedisce ancora alla coscienza di essere il tutto, di essere trascendentale, c alla feno­ menologia, alla riduzione, di giungere a termine (25). Certo, questo nuovo sforzo non va esente da dubbi e incertezze talora .angosciose, che si manifestano negli scritti degli ultimi anni. Nell'Appen­ . dice XXVIII della Crisi (estate 1935), egli sc rive : > . E con­ tinua dicendo che > . Ep­ pure egli supera sempre la tentazione del cedimento, dell'abbandono, con una rinnovata affermazione del compito filosofico. « Dunque non c'è dub­ bio : noi dobbiamo approfondire le nostre considerazioni storiche se dob­ biamo poter capire noi stessi �n quanto filosofi e ciò che attraverso noi cerca

( ZSj Questa interpretazione è presentata piu ampiamente nei nostri studi husserliam : cfr. G . FORNI, Il sogno finito. Saggio sulla storicità della fenomenologia, Bologna, 1967, In· troduzione (pp. 5.18) ; e Il soggetto e la storia, Bologna, 1972 ((( Fenomenologia e filosofia della storia >>, pp. 23-57).

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di diventare una filosofia n (26). Ciò significa da un lato che si chiede alla storia una giustificazione della fenomenologia : occorre mostrare come tutta l'epoca moderna tende, piu o meno consapevolmente, a questa forma di filo­ sofia, e come . questa tendenza è il vero e unico senso della storia. Ma ciò è possibile se si trasforma la fattualità storica in forma razionale, se ciò che in essa è oscuro, estraneo, irriducibile, viene ricondotto alla luce e al domi­ nio della coscienza. Ora cosa significa rendere la storia trasparente alla co­ scienza, fare della storia una parte, un momento della coscienza ? Il mon­ do è parte della coscienza perché non vi è differenza, per chi ha operato la riduzione, fra mondo e conoscenza del mondo : la posizione opposta è, come abbiamo visto a proposito di Cartesio, contraddittoria. Possiamo considerare anche la storia come identica alla conoscenza della storia ? A prima vista, parrebbe di no : perché, mentre la conoscenza della natura è scienza, legge universalmente valida, ragione che determina l'essere ( che parte dal mondo della vita : quello di costruire un im­ pianto metodico e teorico atto a comprendere lo sviluppo filosofico moderno. Dunque, la razionalizzazione integrale della storia è necessaria al com­ pimento della fenomenologia, della riduzione, della coscienza pura. Ma, al tempo stesso, quella razionalizzazione si presenta come inesauribile, come un lavoro infinito, che rinvia indefinitamente la realizzazione della feno­ menologia. Solo ora, di fronte al problema della storia, Husserl si rende conto che una filosofia universale, assoluta, definitiva, non può essere raggiunta e posseduta ; noi possiamo mirare ad essa come a un'idea regolativa, a un prin­ cipio-guida della nostra ricerca. Cosi, la considerazione della storia si tra­ duce in una modificazione, molto profond � , del senso generale della fenome­ nologia : Husserl avverte che la filosofia assoluta, universale, è un « sogno finito » se si pensava di realizzarla, di raggiungerla effettivamente ; essa è piuttosto « un polo disposto all'infinito e non realmente raggiungibile » , nel senso del (( concetto kantiano della i dea regolativa )) e�J.

III. LE SCUOLE FENOMENOLOGICHE

l. L'eredità hu.çserliana L'eredità di Husserl è tanto complessa e varia, si sviluppa in direzioni cosi diverse, che non è forse possibile dirne con sicurezza il momento di unità : ogni autore si richiama a una certa fase della riflessione husscrliana, e fa intervenire motivi, problemi ad essa del tutto estranei. Talora (è il caso della Germania) si avverte il peso crescente della meditazione heideggeriana ; talaltra invece si avvia la fenomenologia in una direzione esistenziale e uma­ nistica (è il caso della Francia e anche, sotto certi aspetti, dell' Italia). Hus­ serl si rendeva già conto di questa situazione quando condannava il « frain­ tendimento » della fenomenologia, o meglio lo specifico rifiuto, che gli giun­ geva da ogni parte, della svolta di un ente, il suo « obiettarsi >> nella conoscenza ; la quale mira all'ente attraverso l'oggetto. Quindi la fenomenologia (lo studio dei feno­ meni, degli « oggetti >> ) non esaurisce il compito filosofico, come voleva Husserl, ma è un momento preliminare che deve essere seguito, secondo Hartmann, da altri due momenti : l'aporetica e la teoria. L'aporetica mostra il carattere problematico dei fenomeni, le difficoltà e contraddizioni proprie al primo momento dell'indagine : la coscienza non può impadronirsi di esse e risolverle, perciò viene rinviata a un essere che la trascende. Quindi il « problema >> ha un significato teoretico preciso e molto importante : quello di evitare una affrettata sistematizz azione, che è sempre unilaterale e arbitraria ( nel senso del soggcttivismo ), di mantenere vivo il senso della trascendenza dell'essere al pensiero. Ciò che Hartmann .chiama « teoria >> non è quindi un sistema nel senso detto, ma la « visione >> · comprensiva di ciò che è stato colto fenomenologicamente e approfondito nel suo carattere problematico. Solo cosi è giustificata la « teoria >> : come onto­ logia critica che riconosce la varietà delle sfere dell'essere (reale e ideale), i suoi piani o strati ( fisico, organico, psichi co, spirituale) : ogni sfera, ogni piano ha proprie leggi e strutture, che vanno rispettate nella loro specificità, senza arbitrarie unificazioni c confusioni ( Hartmann critica, ad es., l'esten­ sione aristotelica delle categorie potenza-atto, materia-forma, valide sol­ tanto per il piano organico, all'essere in generale). Occorre, in ogni caso, privilegiare il pensiero problematico ( l a « metafisica dei problemi » ) sul pensiero sistematico : questo è storicamente mutevole e sempre superabile, quello ha invece un contenuto inevitabile e perenne, in cui affiora l'essere nascosto, « trans-intelligibile » o « irrazionale >> ; quell'essere, che non è posto dall'uomo, ma che s'impone all'uomo. La dimensione del problema

( 31) Durissima, in questo senso, la critica di M. Farber in Prospettive della fenome.. nologia, cit., pp. 172-173. Scheler respinge l'accusa di della filosofia moderna, accettando l'etica materiale dei valori dello Scheler e sviluppandola in un senso piti nettamente ontologico. Scheler ha riaffermato l'autonoma o ggettività del valore di fronte alle concezioni psi­ cologistiche e razionalistiche ; ma non ne ha tenuta ben ferma l'indipen­ denza nei confronti dell'atto emotivo, dell'intenzionalità agente che appare nel suo pensiero come « persona >> . Il valore non è per Hartmann un oggetto intenzionale, ma una entità esistente in sé, iscritta in un mondo dei valori che appartiene all'essere ideale, assieme agli enti matematici, alle forme logiche e alle essenze delle cose. Questo mondo sussiste di per sé, anche nel senso che è indifferente alla realizzazione ( sempre incerta e relativa) che può ottenere nell'azione umana. Secondo Hartmann, infatti, le idealità logiche e matematiche dominano il reale, ne costituiscono i principi regolatori ; l'idealità del valore non ha invece, di per sé, alcuna presa sulla realtà, anzi è impotente rispetto ad essa. Certo, può incarnarsi in quanto assunta nella realizzazione del soggetto umano, che in tal modo diventa > , essere morale c spirituale. Ma i valori non sono affatto toccati da questo rapporto, poiché appartengono a una sfera indi­ pendente di essere, all'essere ideale. In Scheler, la scala dei valori è appresa e vissuta dall'uomo, che, nel movimento ascensivo dei suoi atti di preferenza, si rivolge a Dio, supremo fondamento personale dei valori : e i valori sono vissuti nell'amore, nel movimento da persona a per­ sona, sono, dunque, valori personali. Pe'r Hartmann, la persona è lo strato superiore dell'essere reale, irriducibile agli strati inferiori della psichicità, della vitalità, della fisicità, ma impensabile senza di questi. L'attribuzione a Dio del carattere di persona appare allo Hartmann come indebita estensione di una categoria valida soltanto nella connessione indicata con un sostrato psico-fisico. Cade cosi il centro stesso dell'etica. materiale dei valori, la personalità divina, che permetteva a Scheler di saldare - nel­ l'amore - valore e persona, nonché di ordinare i valori secondo una scala ascendente. Hartmann crede, con ciò, di assicurare la libertà della persona umana, soffocata nella morale teologica di Scheler ; ma incontra, essenzial­ mente, due difficoltà. Mancando un centro, non è possibile stabilire tma gerarchia dei valori : infatti la prima parte dell'Etica ( > ) offre analisi particolari minuziose e acute, entro schemi prov­ visori e frammentari. Egli tenta di raggruppare i valori a seconda della loro > e della loro (( altezza >> , nel senso che i valori si impongono con sempre minor forza, quanto pil'i sono elevati, e viceversa ( questo principio è stato riconosciuto positivamente da Scheler : > ). Ma vi sono anche valori che non si possono pa­ ragonare (è piti (( alto n il valore-carità o il valore-fedeltà ? ) e quindi or­ dinare gerarchicamente. Inoltre il rapporto fra . persona e valore rimane incerto. Hartmann mantiene ferma l'assoluta indipendenza del valore ; ma nel caso dei (( valori morali », che sorgono dall'attività storica dell'uomo, in risposta a certe condizioni ed esigenze, è particolarmente evidente la difficoltà di mantenere, insieme, quella assolutezza e questa relatività e storicità. Secondo Scheler, Hartmann non lascia spazio sufficiente (( alla considerazione della natura storica e sociale di ogni eticità vivente... Anche come essere spirituale l'uomo respira solo nella storia e nella società » (38). Vi è dunque in Hartmann una risorgente contraddizione tra la impostazione fenomenologica (la descrizione, il (( problema >> ) e la tendenza alla costru­ zione schematica e classificatoria, che è sempre presente nelle sue opere. La rigorosa distinzione di essere ideale e reale fa si che l a descrizione dei valori avvenga in un ciclo chiuso, in una immobilità remota e artifi­ ciosa. La posizione del realismo ontologico non viene quindi sempre man­ tenuta : la classificazione tende a porsi come sistematica, nel senso negativo, da lui stesso indicato, di una sospensione o conclusione della prohlema­ ticità.

4. La fenomenologia tede.�ca contemporanea: Eugen Fink e Ludwig Landgrebe L'opera degli allievi piu direttamente collegati a E. Husserl, specie di coloro che furono suoi assistenti negli anni Venti, risente certamente di una situazione di particolare familiarità e collaborazione col maestro ; tuttavia anche qui si manifesta assai presto la critica dell'idealismo fenome­ nologico e della riduzione trascendentale, secondo modalità e svolgimenti teoretici che sono chiaramente riferibili alla meditazione dello Heidegger (il quale nel 1928 subentra a Husserl nella cattedra di Friburgo). Tra questi allievi, due in particolare rappresentano lo sviluppo heideggeriano della fenomenologi a : Fink e Landgrebe. Eugen Fink fu assistente di Husserl, conobbe profondamente i suoi scritti, e ne diede una interpretazione radicalmente idealistica, che ottenne l'espressa e completa approvazione del suo maestro. Il problema della fenomenologia, egli dice, è quello tradizionale dell' (< origine del mondo » ; che però viene ora posto in un modo nuovo. La riduzione del mondo reale fa apparire un mondo di significati, un mondo intenzionale. Quindi la fenomenologia non affronta il problema della sua > in un senso realistico (proprio ad esempio delle discussioni classiche sulla crea­ zione, sulla evoluzione, ecc. ) : si tratta di comprendere come l'oggetto intenzionale intenzionale ; per cui Husscrl è convinto che non abbia senso parlare dell'essere al di fuori della sua relazione a una coscienza. La ridu­ zione, poi, non è altro che lo sviluppo coerente del suo concetto di inten-

(38) Der Formalismus, cit.,

p. XIX.

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zionalità, già presentato nelle Ricerche logiche ( 1900) ( 39 ). Questo saggio sollevò molti consensi e anche molte discussioni, per l'accentuazione meta­ fisica che il tema dell' « origine >> parve ricevere, soprattutto agli occhi di coloro che della fenomenologia davano già una versione « metodo!ogièa » o realistica. La dimostrazione di coerenza portata da Fink spiaceva a quei fenomenologi che, sostenendo la tesi di una « svolta >> idealistica nel pen· siero di Husserl, intendevano mantenersi fedeli alla prima fase della fenomenologia. È invece chiaro come, a11o Husserl del 1933, che si appre· stava a stendere la Crisi, il saggio di Fink dovesse apparire perfetto. Le ambizioni metafisiche erano notevolmente aumentate anche nel maestro, e l'allievo (a differenza di tanti altri) non faceva che prenderne atto. In seguito Fink parla ormai apertamente di e un > di W. Dilthey e la filosofia dell'esistenza di M. Heidegger. Tali rapporti furono dapprima prevalentemente critici (La teoria delle scienze dello spirito in W. Dilthey, 1928) ; ma già in un discorso commemorativo pronunciato nel 1938 (45) si parla della necessità di considerare Husserl e Heidcgger in una « reciproca integrazione Jl , e in Cosa significa oggi « filosofia >> ( Amburgo, 1948) appare una concezione della storia occidentale e del suo destino, chiaramente ispirata allo Heideg· ger, oltre che all'ultimo Husserl. Si apre cosi un periodo in cui Landgrehe, privilegiando la produzione husserliana successiva alla prima guerra mon· diale (c specialmente l'opera : La crisi delle scienze europee), consolida il senso ormai nettamente antropologico della coscienza > husserliana, inserendola in una storia orientata verso un Assoluto trascen· dente. Se la riduzione ci insegna ad astenerci da ogni validità data e indi­ pendente dalla nostra attività, l'assoluta libertà che ne consegue non è quella di di Husscrl, assimilata qui a un principio teologico), bensi quella di un ente finito che ha possibilità di scelta, che svolge una responsabilità di fronte a una > . superiore. In questo senso va intesa la permanente tendenza metafisica di questo pensiero, anche quando esso sembra stabilire un primato ontologico dello > sulla > ( 47). Il tema della concretezza esistenziale è, forse, il filo profondo che unisce tutta l'opera di questo Autore. Già nei primi saggi su Dilthey, egli si chie­ deva se la rigorosa separazione tra fatto c essenza, sostenuta da Husserl nelle Idee ( 1913), significasse un rifiuto della storicità della vita ; e rispon­ deva che quella distinzione non può esprimere il senso piu profondo della riduzione alla soggettività fondante. La riduzione non è svalutazione del fattuale e del contingente, non è il semplice ritrarsi in una sfera di essenze pure, poiché è anche un ritorno all'io fattuale, al soggetto storico con­ creto. L'esistenza umana va compresa nella sua situazione, storica e so­ ciale : essa è > , come voleva Dilthey, ma anche un glol:iale del processo, considerandolo solo come mezzo di ciò che ne deriva. In tal modo, noi perdiamo la nostra stessa esistenza ( Dasein) come un che di valido per se stesso ; sact·ifichiamo il nostro stare come forza tra altre forze nel momento attuale, abbandonandoci alla sicurezza di un corso complessivo che ci media, ci degrada a mezzo. Landgrebe però non· esclude la storia dalla sua riflessione, se non per quanto riguarda la conoscibilità teoretica del suo fine o del suo senso. In base a una lettura di Kant, egli recupera questo problema nell'ambito della sfera pratica. L'uomo è un essere teleologico che, nel suo agire, in· contra la resistenza di una situazione, di un mondo circostante. L'inten· zionalità è > : un « essere-sempre-oltre-sé >> ( trascendenza in senso heideggeriano) che non è già deciso in una sfera compiuta di essenze, in una « coscienza pura >> . La forma, lo « stile » della mia vita non è data, ma progettata nel mio esistere ; e questo progetto è unico, indeclinabile, in quanto collegato a una particolare base corporea. Il mondo emerge come resistenza al mio sforzo : esso non è semplicemente dato, le sue determi· nazioni non appaiono, originariamente, allo sguardo oggettivnnte, ma si rivelano nell'attività diretta a un fine. Nel caso della storia, non si dà prima un divenire omogeneo nel quale poi scegliamo ciò che è rilevante per il nostro progetto vitale, al contrario occorre interrogarsi - sulla traccia di Husserl - su come la realtà storica significativa per il presente, e che noi facciamo intervenire nella nostra situazione, si distenda poi in un unico decorso obiettivo, Il fondamento della storicità non è dato alla considerazione teoretica, ma soltanto all'esistere praticamente verso un :fine. Perciò Landgrebe, interrogandosi sul classico problema kantiano della cc fine di tutte le cose >> , esclude la decidibilità speculativa dell'antinomia di finitezza e infinità del tempo. La storia è opera dell'uomo, nel senso che nell'agire emerge una situazione, e l'orientamento sul futuro è sempre anche ricostruzione di un passato, attribuzione di senso a un divenire. La fine della storia si dà soltanto nell'atteggiamento di un'attesa, di una spe­ ranza escatologica che fonda la nostra libertà. Ciò non significa, secondo Landgrebe, un ritrarsi nella pura interiorità, un abbandono del mondo, poiché l'obbedienza all'Assoluto si traduce pur sempre in azioni storicamente rilevanti ; e tanto piu rilevanti, in quanto solo in questa obbedienza, e non nell'acquiescenza al mondo, si dà la possi­ bilità del nuovo nella storia.

5. La fenomenologia francese contemporanea: Maurice Merleau-Ponty e Paul Ricoeur Anche la fenomenologia francese rifiuta, in tutte le sue espressioni, l'idealismo husserliano ; ma le sue soluzioni sono da considerare in parte originali rispetto ai contemporanei sviluppi della tedesca « :filosofia dell'esi­ stenza >>. Pensatori come Sartre o Merleau-Ponty, Ricoeur, Dufrenne o De Waelhens, si distinguono soprattutto per l'attenzione vivissima dedicata alle scienze umane (specie alla psicoanalisi) e ad alcune grandi esperienze :filosofiche del passato ( Hegel, Kicrkegaard, Marx) interpretate e rivissute in chiave esistenziale e non sistematica. Ci occuperemo qui di due autori,

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Merleau-Ponty e Ricoeur, che muovendo da una vastiSSima conoscenza dell'opera di Husserl, presentano una propria concezione del compito feno­ menologico. Husserl stesso aveva presentato la fenomenologia come « nuovo carte­ sianismo » : è il tema delle sue lezioni parigine, tenute il 23 e il 25 febbraio 1929 alla Sorbona. Del resto le sue Meditazioni cartesiane apparvero per la prima volta in francese, nel 1931, e furono pubblicate in lingua originale soltanto dopo la sua morte. La fenomenologia appare dunque come com­ piuta risoluzione del mondo e della storia nelle strutture costitutive della soggettività assoluta ; e in questa forma essa viene compresa e criticata dai filosofi francesi. Le prime opere di Merleau-Ponty, La struttura del com­ portamento ( 1942) e Fenomenologia della percezione (1945) affrontano Husserl e il cartesianismo dal punto di vista di un nuovo interesse pCI l'esistenza umana. Il > ) (51) e la dialettica dell'osservatore e dell'osservato non si conclude mai. L'osservatore, proprio come un'« ombra ll, segue l'os· servato senza poter coincidere con esso ; l'auto-oggettivazione dell'io è un'attività che non viene a sua volta fatta oggetto se non in una attività di grado superiore. Anche per Husserl, dunque, vi è un irriflesso, un non· pensato da prendere a tema di una nuova riflessione ; un orizzonte non-te· ma1ico che condiziona il senso di ciò che è attualmente tematico, presente. Ma in lui questo sfondo ultimo è la coscienza pura, cioè l'idea di una rifles­ sione totale, definitiva. Negli svolgimenti anti-idealistici della fenomeno· logia, quello > assume un senso antropologico e ontologico, talvolta

(49) Di quest'ultimo avviso è M. Dufrcnne ( Maurice Merleau·Ponty, c< Lcs cétudes philo­ sophiques >>, 1962, n . l, pp. 81-92). (SO) M. ME!ti.EAU-PONTY, Segni, a cura di A. Bonomi, Milano, 1967, p. 235. (51) E. Hvs sERL, Meditazioni cartesiane e Discorsi parigini, a cura di F. Costa, Milano, 1960, p. 16.

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cosmologico (si ricordi il concetto di > in Fink). Per Merleau-Ponty, la riflessione è tanto piu radicale quanto piu lascia sussistere lo sfondo naturale-corporeo come un dato, che la coscienza non può completamente chiarire e dominare : « il piu grande insegnamento della riduzione è l'im­ possibilità di una riduzione completa >> ( 52). L'uomo, proprio perché non può coincidere compiutamente con se stesso, è un essere storico cui resta sempre qualcosa da pensare e da vivere. Cosi la fenomenologia « si sdop­ pierà indefinitamente, sarà, come dice Husserl, un dialogo o una medita­ zione infinita, e nella misura stessa in cui rimane fedele alla sua intenzione, non saprà mai dove va >> ( 53 ). Il compito del filosofo non è la visione sistematica e compiuta ; non è la teologia, né l'anti-teologia dell'umanesimo asso­ luto. « Il filosofo nÒn afferma che un superamento finale delle contraddi­ zioni umane è possibile, e che l'uomo totale ci attende nell'avvenire : egli, come tutti, non ne sa niente. Dice - ed è tutt'altra cosa - che il mondo co�incia, che non dobbiamo giudicare il suo avvenire sulla base del pas­ sato, che l'idea di un destino nelle cose non è un'idea, ma una vertigine, che i nostri rapporti con la natura non sono fissati una volta per tutte, che nessuno può sapere cosa può fare la libertà, né immaginare cosa sarebbero i costumi e i rapporti umani in una civiltà che non fosse piu assillata dalla competizione e dalla necessità » (54). Se la fenomenologia « è, in buona parte, la storia delle eresie husser­ liane » ( 55), l'Autore di questa affermazione va ancora collocato nell'area dell'eresia esistenzialista. Paul Ricoeur studiò l'opera di Husserl durante la guerra, e ne diede una magistrale traduzione ( 56) ; ma il suo pensiero, assai complesso e composito, va riferito innanzitutto alla svolta anti­ idealistica della fenomenologia francese, cioè a Sartre e a Merleau-Ponty. Ricoeur è un pensatore cristiano, che ha dedicato le sue prime opere a J aspers e Marcel, e che nelle opere maggiori ha fornito nuovi ele­ menti alla ricerca psicoanalitica e alla teologia contemporanea. La sua è una ontologia antropologica, che accoglie lo strumento della descri­ zione eidetica husserliana ma ne rifiuta decisamente gli sviluppi trascen­ dentali ( 57). Se la fenomenologia mira a una esplicitazione del cogito nelle sue diverse modalità intenzionali, esso non appare soltanto come conoscen­ za, ma anche come volontà : e una « filosofia della volontà » non può non essere anche una ricerca sull'involontario, cioè su quel margine di irrazio­ nalità, di non-senso, e, in senso etico, di male, che è irriducibile alla .coscienza costituente, all'assoluta chiarezza del pensiero. È quella dimen­ sione che Merleau-Ponty chiamava dell'« essere-al-mondo » , della corpo­ reità, che Husserl non ha· mai « preso sul serio » ( 58 ) ; e che ora, con Ricoeur, assume il senso di una diminuzione, di una colpa originaria, e viene com­ presa attraverso i grandi simboli religiosi della caduta, dell'impurità, del­ l'esilio. In essi si manifesta una « sproporzione » fondamentale : l'uomo (52) M. MERLEAu-Po:-;-TY, Fenomenolo.e.ia della percezione, a cura di A. Bonomi, Milano, 1965, p. 23. (53) lbid., p. 31. (54) Éloge de la philosophie, cit., p. 52. . (55) P. RrcOEUR, Sur la phénoménologie, « Esprit >>, 1953, n. 21, p. 836. (56) E. HusSERL, Idées directrices pour une phénoménologie, Parigi, 1950. (57) Cfr. P. RrcOEUR, Philosophie de la volonté, l : Le volontaire et l'involontaire, Pa­ :rigi, 1949, p. 7. (58) Jbid., pp. 19-20.

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come essere finito e aspirazione infinita, secondo un'intuizione che fu già di Pascal. Nel secondo volume della sua Filosofia della volontà ( « Finitudine e colpa >l , 1960), Ricoeur chiarisce questo concetto della « sproporzione >l , riferendosi alla analisi husserliana della percezione. In ogni percepire, c'è un superamento di ciò che è propriamente visto (il singolo aspetto o lato) verso un senso globale, verso un « oggetto Jl ; di questo movimento, Ricoeur mette in rilievo il significato fondamentale, la continua trasgressione del limite verso un illimitato, che però non è mai « visto ll o dato pienamente. La riCchezza del senso si offre soltanto nelle singole prospettive, cioè entro un margine ineliminabile di oscurità, di irrazionalità. Per Ricoeur, tutto ciò ha un senso ontologico sconosciuto a Husserl : egli vi legge l'ansia del­ l'assoluto e della felicità, e insieme la condizione finita e negativa in cui questo tendere deve continuamente fissarsi. L'uomo è, appunto, « spro· porzione ll, scissione irreparabile e originaria. Questa interpretazione della dialettica percettiva conduce Ricoeur a ulteriori esiti metafisici. La filosofia è volontà di fondazione, non nel senso gnoseologico husserliano, bensi come riflessione su una realtà illimitata, su un essere, che non è posto dal soggetto, ina si dà a lui nelle forme finite del­ l'esistenza. n pensiero è interpretazione, attribuzione di senso che non crea, ma riconosce l'essere assoluto ed eterno come inoggettivabile. E il tema del simbolo, che ritorna continuamente in Ricoeur, ha un senso diret· tamente ontologico proprio perché ogni ente vive nella duplicità simbolica di un senso immediato, primario, e di un senso nascosto : ogni ente è se stesso, si presenta con precise determinazioni esclusive di tutte le altre, e insieme rinvia alla totalità, all'essere infinito che si manifesta negli enti. Cosi la riflessione filosofica e teologica deve porsi innanzitutto entro la di­ mensione simbolica, in una interrogazione regressiva sul Fondamento che non potrà mai dirsi esaurita. Interrogarsi è riattivare un senso nascosto,. riscoprire tma « storia ll , proprio nel senso dell'ultimo Husserl ; cioè ·ritro· vare le condizioni di possibilità del nostro attuale pensare, il « mondo· della-vita ll soggiacente alle forme obiettivate de�la cultura ; non però nel senso di una universalità della ragione o dell'io, nel senso della tradizione cartesiana. Ricoeur vuole trovare, al di qua della distinzione e della chia· rezza, dell'univocità logico-matematica, il mondo ambiguo, ' duplice, che il cartesianesimo ha distrutto ; il mondo simbolico proprio delle grandi espe· rienze religiose del passato. L'interrogazione suppone una storia : noi pen· siamo all'interno di una cultura, e le condizioni ultime di possibilità sono le condizioni di questa cultura, il suo « mondo-della-vita Jl . , Nell'ultima opera (Dell'interpretazione. Saggio su Freud, 1965) Ricoeur affronta la psicoanalisi proprio dal punto di vista della coscienza simbolica. Infatti il sogno presenta un senso immediato e un senso riposto, si vale cioè di elementi simbolici che rinviano alle pulsioni istintuali. Queste però non esauriscono il significato del simbolo, ma si servono di esso come veicolo o segno del desiderio. Freud non si preoccupa dell'origine del sim· bolo, in quanto tale, lo assume soltanto come segno, in se stesso indifferente, e tenta di stabilire le correlazioni tra l'istinto e la sua « presentazione Jl oni­ rica. Perciò Freud non ha colto la forza evocativa del simbolo, il suo senso di rinvio ad altro come apertura di una « storia Jl ; egli ha tuttavia avviato una interrogazione regressiva sulla « verità Jl della coscienza, met· tendo tra parentesi la coscienza apparente o immediata. Cosi, attraverso.

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Freud (ma anche attraverso Nietzsche e Husserl) Ricoeur si riallaccia al senso fondamentale della sua ricerca : la psicoanalisi può essere una > , avvenuta du· rante l'ultima guerra) sono state edite o riedite a Berna altre opere, a cura

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di F. Mayer-Hillehrand. Per una informazione bibliografica p1u nutrita, si veda : L. GILSoN, Méthode et métaphysique selon F. B., Parigi, 1955, pp. 16-23. Su Brentano : O. KRAus, F. B., zur Kenntnis seines Lebens und seiner Lehre, con la collaborazione di C. Stumpf e E. Husserl, Monaco, 1919 ; O. KRAus, Die « Kopernikanische Wendung » in · B.s Erkenntnis- und Wertlehre, in « Philosophische Heftc », l, Berlino, 1929 ; H. EATON, The Austrian Philosophy of Value, Norman, 1929 ; A. WERNER, Die psycholo­ gisch-erkenntnistheoretischen Grundlagen der Metaphysik F. B.s., Hil­ desheim, 193 1 ; H. WINDISCHER, F. B. und die Scholastik, lnnsbruck, 1936 ; H. SPIEGELBERG, Der Begriff dé r lntentionnalitiit in der Scholastik, bei B. und bei Husserl, in « Philosophischc Hefte » » , )/, 1936 ; AA. VV., Natur­ wissenschaft und Metaphysik, Briinn - Lipsia, 1939 ( scritti per il centena­ rio della nascita); . S. VANNI-ROVIGHI, La natura delle categorie secondo F. B., in Note sulla teoria della conoscenza e l'antologia, Milano, 194 7; A. KASTIL, Die Philosophie F. B.s, Berna, 195 1 ; P. ·F. LINKE, Die Philosophie F. B.s, in , 1968 ; R. T. MuRPHY, Consciousness in B. and Husserl, in « The Modern Schoolman >> , marzo 1968 ; A. BAUSOLA, Conoscenza e moraliià in F. B., Milano, 1968 ; F. KERSTEN, F. B. and W. ]ames, in >, 1969, pp. 177-91 ; R. INGARDEN, Le concept de philosophie chez F. B., in > , luglio-settembre 1969 ; L. L. Mc ALISTER, F. B. and lntentional lnexistence, in , in « Phi­ losophy and Phenomenological Research >> , 1967-68, pp. 537-53 ; D. M. LEVIN, lnduction and H.'s Theory of Eidetic Variation, ibidem, 1968-69, pp. 1-15 ; D. B . KusPIT, Fiction and Phenomenology, ibidem, pp. 16-33 ; F. CosTA, Sulla evoluzione del problema del tempo in E. H., in , n. ll2, 1969, pp. 26-45 ; J. M. BENOIST, > essere qua e là nelle mie vicinanze - un sapere che però non ha nulla del pensare concettuale e che d'altra parte soltanto grazie al vol­ gersi dell'attenzione su quegli oggetti si tramuta, ed anche allora solo parzialmente e imperfettamente, in chiara visione, in un percepire

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nel senso per cui il percepire è un cogliere, è anche un esperire che include una conferma. Ma il mondo che in ogni momento di veglia mi è consapevol­ mente « alla mano » non si esaurisce nell'ambito di questa con­ presenza, chiara od oscura, distinta o indistinta, che costituisce l'alone costante del mio attuale campo percettivo. Nella sua solida organiz­ zazione, esso non ha limiti. Ciò che è attualmente percepito, ciò che è piu o meno chiaramente conpresente e determinato ( o almeno de­ terminato in certa misura), per quanto sempre soltanto in modo im­ perfetto, è in parte attraversato, in parte circondato da un orizzonte di realtà indeterminata oscuramente consaputo. In questo orizzonte io posso affondare, con risultati variabili, i raggi dello sguardo chia­ rificatore dell'attenzione. Può avvenire che ne emergano determinate rappresentazioni, dapprima oscure, poi sempre piu vive, che una ca­ tena di ricordi si saldi, che il cerchio della determinatezza si allarghi eventualmente sino al punto da stabilire la connessione con il campo percettivo attuale come contorno centrale. Ma per lo piu il risul­ tato è un altro : la lieve nebbia dell'oscura indeterminatezza si popola soltanto di possibilità o di presumibilità, cosicché solamente la « for­ ma » del mondo come « mondo» riesce a disegnarsi. L'alone di inde­ terminatezza è del resto infinito, cioè : l'orizzonte nebuloso e mai completamente determinabile c'è necessariamente. Se questo vale per il mondo nel suo ordinamento di presenza spaziale, come fin qui l'ho descritto, non diversamente avviene per il mondo considerato nell 'ordinamento della successione temporale. Questo mondo, che adesso, in ogni « adesso » di veglia, mi è alla mano, ha il suo orizzonte temporale bilaterale infinito, il suo passato e il suo futuro, noto od ignoto, vivo o privo di vita. Nella libera attività dell'esperire, che mi rende visivo ciò che mi è alla mano, posso seguire queste connessioni della realtà che immediatamente mi circonda. Posso variare il mio punto di vista nello spazio e nel tempo, dirigere lo sguardo in qua e in là, avanti e indietro nel tempo, posso procacciarmi percezioni e rappresentazioni sempre nuove, piu o meno ricche di contenuto, o immagini piu o meno chiare, in modo da rendermi visibile ciò che nelle solide forme del mondo spaziale e tem­ porale è possibile e presumibile. Cosi, nella coscienza desta, mi trovo sempre, e senza poter mai modificare tale situazione, in rapporto con un solo e medesimo mondo, per quanto mutevole nel suo contenuto. Esso mi è costantemente « alla mano », ed io stesso sono un suo membro. E mi è dinanzi non soltanto come un mondo di cose, ma; con la medesima imme­ diatezza, anche come mondo di valori, mondo di beni, mondo pra­ tico. Davanti a me trovo le cose fornite di caratteri di valore, come

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di proprietà fisiche, belle e brutte, piacevoli e spiacevoli, gradite e sgradite, ecc. Le cose si presentano immediatamente come oggetti d'uso, la « tavola » con i suoi « lihri », il « bicchiere », il « vaso », il « pianoforte », ecc. Anche questi caratteri assiologici e pratici appar­ tengono costitutivamente agli oggetti come tali, che io presti o non presti attenzione ad essi e agli oggetti. E, come per le mere cose, ciò vale naturalmente anche per gli uomini e gli animali, che mi circondano riguardo al loro carattere sociale. Essi sono miei « ami­ ci », o « nemici », miei « inferiori » o « superiori », dell'esistenza naturale, e ad attribuire alla nuova idea di « verità obiettiva » una dignità pio alta, la dignità di una norma per tutta la conoscenza. A questa connessa, sorge infine l'idea di una scienza universale, capace di includere nella propria in­ finità qualsiasi conoscenza possibile, e quest'idea, tanto audace, di­ venta l'idea direttrice dell'epoca moderna. Se noi teniamo presente tutto ciò, ci accorgiamo che un esplicito chiarimento della validità obiettiva e del compito complessivo della scienza esige innanzitutto una riconsiderazione del mondo già dato. Esso è già dato del tutto naturalmente e a tutti noi, a noi in quanto persone nell'orizzonte dell'umanità, in qualsiasi connessione attuale con gli altri ; è « il » mondo comune a tutti. Per questo, come abbiamo esaurientemente mostrato, il mondo è un terreno costante di validità, una sorgente costantemente disponibile di ovvietà, e noi, sia in quanto uomini pratici sia in quanto scienziati, ci occupiamo sempre di esso. Ora, se questo mondo già dato deve diventare un tema auto­ nomo, un tema di constatazioni scientificamente garantite, sono ne­ cessarie alcune precauzioni e accurate considerazioni preliminari. In quest'ambito non è facile attingere la chiarezza, stabilire chiara­ mente quali siano i compiti propriamente scientifici, e quindi uni­ versali, che vanno posti sotto il titolo di mondo-della-vita, e in quale misura possa sorgere in questo mondo qualcosa di filosoficamente si­ gnificativo. Già il primo tentativo di comprendere il suo peculiare senso d'essere, il quale risulta ora troppo angusto e ora troppo am­ pio, suscita parecchie difficoltà. Il modo stesso con cui noi abbordiamo qui il mondo-della-vita in quanto tema scientifico lo fa apparire un tema accessorio e par-

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ziale nell'ambito del tema complessivo della scienza obiettiva. Que­ st'ultima, in generale e quindi anche in tutte le sue forme partico­ lari (nelle singole scienze positive), è diventata incomprensibile pro­ prio riguardo alla possibilità delle sue operazioni obiettive. Se essa, sotto questo aspetto, diventa un problema, noi dobbiamo sottrarci al suo interno movimento e dobbiamo raggiungere un punto di osser­ vazione che sia al di sopra di essa, dobbiamo abbracciare con lo sguardo, in generale, le sue teorie e i suoi risultati nel nesso siste­ matico del pensiero predicativo e delle sue formulazioni, ma, d'altra parte, anche la vita, gli atti compiuti dagli scienziati nel loro ope­ rare in comune, le finalità, i termini finali e l'evidenza finale. Tra l'altro vien posto in questione anche il costante ricorso, che avviene per mille vie, dello scienziato al mondo-della-vita e ai dati intuitivi che esso mette costantemente a disposizione ; in questo ricorso dob­ biamo far rientrare anche gli enunciati, che sono adeguati imme­ diatamente ad esso, e sono definiti in via meramente descrittiva allo stesso modo del giudizio pre-scientifico che è proprio delle formula­ zioni occasionali nell'ambito della vita pratica quotidiana. Perciò il problema del mondo-della-vita, oppure del modo in cui esso funge e deve fungere per lo scienziato, è soltanto un tema parziale nell'am­ bito della totalità della scienza obiettiva. ( E cioè al servizio di una sua compiuta fondazione.) Tuttavia è chiaro che, prima del problema generale della sua funzione per una fondazione evidente della scienza obiettiva, il pro­ blema del senso d'essere peculiare e costante di questo mondo-della­ vita per gli uomini che vivono in esso ha buone ragioni per essere posto. Non sempre questi uomini nutrono interessi scientifici, e gli · scienziati stessi non sono sempre occupati nel lavoro scientifico ; inol­ tre, come mostra la storia, non sempre c'è stata nel mondo una uma­ nità che vivesse abitualmente nella dimensione di un interesse scien­ tifico da molto tempo costituito. Il mondo-della-vita invece c'è sem­ pre stato, prima di qualsiasi scienza, qualunque sia il modo d'essere che esso ha nell'epoca della scienza. Si può quindi porre il problema del modo d'essere del mondo-della-vita in sé e per sé ; ci si può porre completamente sul terreno di questo mondo direttamente intuitivo, mettendo fuori gioco tutte le opinioni e le nozioni della scienza obiet­ tiva ; si può considerare in generale quali siano i compiti « scienti­ fici », e quindi da risolvere nella prospettiva di una validità gene­ rale, che si pongono riguardo al suo proprio modo d'essere. Tutto ciò non costituisce forse un grande tema di lavoro ? Quello che dapprima si presenta come un tema parziale compreso nel sapere teoretico, nou si rivela forse alla fine come quella « terza dimensione » che

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è chiamata ad assorbire il tema « scienza obiettiva altri temi che rientrano nella « superficie ») ?

>>

( come tutti gli

(Op. cit., pp. 150-152).

i) L'apriori soggettivo-relativo Ora che il nostro interesse è puntato esclusivamente sul > secondo l'analisi di. M. S., in « Rivista di filosofia neoscolastica >> , sett.-dic. 1971.

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L'ETICA MATERIALE DEI VALORI a) Puro sentire e stati emozionali Sino ai nostri giorni la filosofia ha inclinato ad un pregiudizio, la cui origine storica risale all'antichità, consistente nella separazione della struttura dello spirito in « ragione » e « sensibilità », intese come incommensurahili. Separazione che, in certo modo, induce ad attri­ buire alla sensibilità tutto ciò che non è ragione, ordine, legge, e simili. Pertanto tutta la nostra vita emozionale ( e, per la maggior parte dei filosofi dell'età moderna, anche la vita delle aspirazioni), nonché l'amore e l'odio, viene inclusa nella « sensibilità » ; mentre quanto vi è di alogico nello spirito, il vedere, il sentire, l'aspirare, l'amare, l'odiare, è considerato dipendente dalla « organizzazione psicologica dell'uomo » ; e il suo sviluppo è concepito in funzione di reali mutamenti dell'organizzazione nell'evoluzione vitale e sto­ rica, e delle particol�Jrità e degli influssi dell'�Jmbiente. Che poi, anche nel campo dell'alogico, ci poss�Jno essere originarie ed es­ senziali diversità gerarchiche di atti e funzioni ( trll cui anche �Jtti di una originarietà pari a quella degli atti con cui apprendiamo gli oggetti connessi logic�Jmente), che ci siano, cioè, un vedere puro, un sentire puro (Fiihlen), un amare e odiare puri ( tutti quanti indi­ pendenti dall'organizzazione psicofisica della nostra specie umana non meno del pensare puro e in pari tempo soggetti ad un ordinamento ger�Jrchico irriducibile alle regole della psicologi�J empirica) : tutto questo, a causa di quel pregiudizio, non venne mai posto in questione. E, n�Jtur�Jlmente, nemmeno ci si dom�Jndò se vi fossero connessioni e opposizioni tra gli oggetti o le qualità, cui si dirigono quegli atti alogici, e le corrispondenti leggi aprioriche di quegli atti stessi. In particolare, si deve a tale pregiudizio se storicamente l'etica si formò o come assoluta, apriorica e razionale, ovvero come relativa, empi­ rica ed emozionale. Che ci potesse essere un'etica assoluta, apriorica ed emozionale insieme, venne a mala pena considerato. Assai pochi pensatori infatti si sono sottratti a quel pregiudizio, e anche quei pochi senza giungere a una costruzione positiva. N ornino tra essi Agostino e Biagio Pasca!. Troviamo invero negli scritti di Pascal una idea che, come un filo rosso, tutti li attraversa, indicata da lui ora con le parole « ordre du coeur », ora con le parole « logi­ que du coeur >>. Egli dice infatti : « Le coeur a ses raisons ». E in­ tende con ciò una eterna ed assoluta conformità alle leggi del sentire (Fiihlen), dell'amare e dell'odiare, assoluta come quella della pura lo­ gica, ma in nessun modo riducibile alla legalità intellettuale. Degli uomini che divennero intuitivamente partecipi di questo ordine e lo

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espressero nella vita e nella dottrina, egli parla con grandi, sublimi parole. Rilevando poi quanto piu rari essi siano stati dei genii della conoscenza scientifica, esprime l'opinione che stiano rispetto a questi genii in un rapporto analogo a quello dei genii verso la media degli uomini. La persona che ha compreso e vissuto con la massima pie­ nezza questo « ordre du coeur » è per lui Gesu Cristo. Queste parole di Pascal furono peraltro stranamente fraintese da molti suoi espositori. Le si interpretarono come se egli volesse dire : « Il cuore ha pure qualcosa da dire, dopo che la ragione ha par­ lato ! » Punto di vista ben noto, e condiviso anche da quei filosofi che assegnano alla filosofia « il compito di fornire una concezione del mondo che soddisfi egualmente l'intelletto e l'animo ». Si inten­ dono cioè le « raisons » in una certa sfumatura ironica. Pascal - si pensa - non voleva già dire che il cuore avesse « ragioni », ossia qualcosa di veramente equivalente, per significato e per dignità, ai principi razionali, e tanto meno « ses raisons », i suoi propri prin­ cipi, che esso non mutuerebbe dall'intelletto ; ma voleva piuttosto sug­ gerire : non dobbiamo cercare ovunque delle ragioni o qualcosa di equivalente, bisogna qualche volta lasciar parlare anche il cuore, il cieco sentimento ! Ebbene, questo è esattamente il contrario di quello che pensa Pascal. Sulle « ses raisons » e sulle « ses raisons » batte l'accento della sua proposizione. Non una scrupolosa condiscendenza del pensiero verso i cosiddetti « bisogni del cuore e del sentimento », e neppure un successivo complemento della cosiddetta « visione del mondo » mediante accettazioni suggerite dal sentimento come « po­ stulati » (e fossero pure postulati della « ragione ») in questioni che l'intelletto è incapace di risolvere : non è questo sicuramente il senso di quell'affermazione. Ma piuttosto : c'è una modalità dell'espe­ rienza, i cui oggetti sono completamente inaccessibili all'intelletto, che è cieco nei loro riguardi come l'orecchio e l'udito rispetto ai co­ lori ; ma quest'esperienza ci presenta oggetti autentici, disposti in un ordine eterno e gerarchico, che sono appunto i valori. Le leggi poi di questo procedimento sono determinate, precise ed evidenti come quelle della logica e della matematica ; ossia, ci sono evidentissime connessioni ed opposizioni tra i valori e gli atti, sorgenti sulla loro base, del preferire, del posporre, dell'amare, dell'odiare, ecc. ; e su tali connessioni ed opposizioni diventa possibile, anzi necessaria, una fondazione dei fenomeni morali e delle loro leggi. A questa idea di Pascal noi ci riannodiamo. E distinguiamo anzitutto dai semplici stati emozionali ( Gefiihls­ zustiinde) l'intenzionale puro « sentire qualcosa » (Fuhlen von Et­ was ) . Questa distinzione è indipendente dal significato che i senti­ menti intenzionali possono avere rispetto ai valori, cioè dalla loro

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attitudine ad essere organi di apprensione dei valori stessi. E anzi-· tutto : c'è un sentire intenzionale originario. La cosa acquista forse la maggiore evidenza nel caso che i sentimenti e i] sentire puro siano simultanei ( rappresentando il sentimento ciò su cui si dirige il sen­ tire). lo apprendo ad esempio uno stato sentimentale, sia un dolore sensibile o un piacere sensibile, corrispondente al carattere gradevole di un pranzo, di un profumo, di un lieve contatto. Ora, con questo dato di fatto non si è ancora per nulla determinato il modo del sentire puro. A questo fine gioverebbero piuttosto delle condizioni mutevoli, come quando io soffro del dolore, lo sopporto, lo tollero, magari lo godo addirittura. Ciò che qui muta nella qualità funzionale del sentire puro (magari gradualmente) non è certo lo stato dolo­ roso. E nemmeno è l'attenzione generale, con i suoi gradi di « os,­ servare, fare attenzione, badare, considerare, o afferrare ». Un dolore fatto oggetto di considerazione è quasi il contrario di un dolore sof­ ferto. Ma tutti questi gradi e questi modi di attenzione e di appren­ sione possono variare, quanto loro è possibile, nell'ambito stesso di ciascuna di quelle qualità del sentire, senza riuscire a modificarla. E ciò, perché il crescendo del sentimento puro del dolore è comple­ tamente indipendente dal crescere dello stato doloroso in relazione allo stimolo. L'attitudine a soffrire e a godere non ha quindi nulla a che fare con la sensibilità nei riguardi del piacere e del dolore sensibili. Un individuo può soffrire piu o meno di un altro pur nel­ l'identico grado di dolore. Ciò si comprenderà facilmente nelle distinzioni che seguono. Tutti i sentimenti specificamente sensibili sono di natura condizionale ( cioè, sono, per natura, condizioni, Zustiinde). Possono quindi connettersi con oggetti ( per mezzo di semplici contenuti sensibili, rappresenta­ tivi e percettivi), dove questa connessione può essere piu o meno profonda. Sempreché essa abbia luogo, ha però carattere mediato .. Ci sono sempre infatti atti relazionali successivi al presentarsi dei sentimenti, a cui questi sono debitori della loro connessione con l'oggetto. Cosi, se io mi domando : Perché oggi sono di questo o quell'umore ? Che cosa ha «causato » in me questa tristezza o que­ sta gioia ? L'oggetto causante e il mio stato d'animo possono venire appresi o ricordati in atti completamente diversi. Soltanto in un mo­ mento successivo, e mediante il pensiero, io li metto in relazione tra loro. E infatti il sentimento qui non si presenta quale originariamente connesso con qualcosa di obiettivo, come ad esempio quando sento la bellezza dei monti nevosi al tramonto. Possiamo anche dire : un sentimento è connesso con un oggetto per mezzo di una associazione percettiva o rappresentativa. Ci sono senza dubbio stati di sentimen­ ti, che dapprima sembrano privi di legame oggettivo ; e allora io

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debbo trovare la causa del loro apparire. Comunque, in nessuno dei diversi casi ora considerati, il sentimento si riferisce originariamente ad un oggetto. Esso non apprende nulla, nulla si muove incontro ad esso, e nulla mi giunge in esso. Non gli è immanente nessuna intenzionalità (Meinen). Infine un sentimento, dopo che mi si è presentato sovente in connessione con oggetti e con situazioni o con esperienze di cangiamento, può anche diventare un « segno » di que­ sto cangiamento : ad esempio, quando l'inizio di una malattia mi si annunzia con certi dolori, di cui precedentemente sperimentai la con­ nessione col sorgere di quella malattia. Ma anche qui il rapporto simbolico è mediato dali'esperienza e dal pensiero. Del tutto diversa da queste connessioni è quella del sentire inten­ zionale con ciò che in esso viene sentito. Questa particolare forma di connessione è evidente in ogni sentimento « puro » di valori. C'è in essa un originario riferirsi, e indirizzarsi, del sentire a qualcosa di oggettivo, ai valori appunto. Questo sentire non è una morta condizione, o ima situazione di fatto, che può entrare in nessi asso­ ciativi, e esserne il simbolo, ma è un moto determinato nel fine (an­ che se si tratta di una attività non scaturente dal centro del sog­ getto e di un moto privo di estensione temporale). Si tratta di un moto puntuale che, secondo i casi, parte dall'io con direzione ogget­ tiva, ovvero fa capo all'io, nel quale qualcosa mi viene dato e per­ viene alla sua apparizione. Questo sentire ha perciò col suo corre­ lato-valore l'identica relazione che si riscontra fra la rappresenta­ zione e il suo oggetto : la relazione intenzionale, appunto. Il sentire, insomma, non viene connesso dal di fuori con un oggetto, o imme­ diatamente, o per il tramite di una rappresentazione (come avviene per i sentimenti che sono uniti ad un oggetto per una meccanica causalità o per mezzo di un riferimento meramente pensato), ma si dirige originariamente verso la sua propria specie di oggetti, cioè i valori. Esso è dunque un accadimento significativo e perciò passi­ bile di « riempimento » e di « non-riempimento ». Si consideri invece un affetto. Uno stato di collera cresce in me, e poi declina. Qui il legame della collera col mio trascorso io incollerito non è intenzionale né originario. La rappresentazione, il pensiero, o meglio gli oggetti dati in esso, che dapprima io percepii, rappresentai e pensai, suscitano la mia collera ; ma soltanto in un momento successivo (anche se normalmente molto vicino) io posso riferire la mia collera a tali oggetti, e sempre mediatamente, attra­ verso una rappresentazione. Nella collera in se stessa sicuramente non posso afferrare nulla di ciò. Piuttosto, bisogna che io abbia già ap­ preso col sentimento puro (fiihlend) qualche contrarietà, affinché da queste sorga la collera. Cosa d'altronde evidente quando io mi ralle-

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gro o mi rattristo di o per qualcosa. Ovvero, quando mi entusiasmo, o mi dispero per qualcosa. Le parole an e iiber indicano già lin­ guisticamente che in questo rallegrarsi o rattristarsi gli oggetti non sono prima percepiti, per poi dare luogo alla gioia o alla tristezza, ma che piuttosto essi mi stanno dinanzi sin da principio non soltanto percepiti, ma già affetti dai predicati di valore colti nel sentire puro. Le qualità dei valori esigono poi corrispondenti qualità di rea­ zione emozionale, che d'altra parte raggiungono, in un certo senso, nei valori il loro fine. Si tratta di connessioni di carattere non empi­ ricamente casuale, e indipendenti dalla causalità psichica individuale. Qualora le esigenze dei valori non fossero soddisfatte, noi soffriamo, ad esempio di non poterei rallegrare di un avvenimento quanto il suo valore meriterebbe, oppure di non poterei rattristare come ad esempio la morte di una persona amata esigerebbe. Questi caratteri­ stici modi di atteggiamento ( che non vogliamo chiamare né atti né funzioni) hanno certo in comune la « direzione » col sentire inten­ zionale. Non sono però intenzionali in senso stretto, se intendiamo con questo soltanto esperienze vissute che hanno di mira un oggetto, e nel cui compimento appare effettivamente un oggetto. Ciò ha luogo sol­ tanto nelle esperienze emozionali, che costituiscono appunto il sentire­ valori in senso rigoroso. In questo caso, cioè, noi non sentiamo per qualcosa, ma sentiamo immediatamente qualcosa, ossia una determi­ nata qualità di valore. E non siamo oggettivamente consapevoli del sentire ; ma semplicemente una qualità di valore ci viene incontro, dal di dentro o dal di fuori. È necessario un atto di riflessione, affin­ ché anche lo stesso atto del sentire ci si oggettivizzi e ci sia possi­ bile vedere per quale valore già dato noi sentiamo. Questo sentire puro di carattere percettivo costituisce la èlasse delle funzioni inten­ zionali. Funzioni che però non hanno alcun bisogno della mediazione dei cosiddetti « atti oggettivanti » del rappresentare, del giudicare, ecc., per entrare in rapporto con la sfera oggettiva. Di tale media­ zione ha bisogno soltanto lo stato di sentimento, non il genuino sentire intenzionale. Nel corso del sentire intenzionale ci si schiude piuttosto il mondo degli oggetti, dal lato assiologico appunto. E pre­ cisamente la frequente mancanza di oggetti rappresentativi nel sen­ tire intenzionale sta ad indicare che il sentire è originariamente un « atto oggettivante » che non abbisogna della mediazione di alcuna rappresentazione. ( Il formalismo nell'etica e l'etica materiale dei valori, 1943, pp. 4 7-56).

a cura

di G. Alliney, Milano,

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h) L'apriori materiale

Tutta la nostra vita spirituale, e non soltanto il conoscere ogget­ tivo e il pensare nel senso di conoscenza dell'essere, possiede atti e leggi di atti, beninteso la vita « pura », indipendente secondo la sua essenza e il suo contenuto dalla situazione di fatto dell'umana orga­ nizzazione. Anche la parie emozionale dello spirito, il sentire (Fiihlen), il preferire, l'amare, l'odiare, ha un contenuto originario apriorico, che non è tolto in prestito dal pensare, e che l'etica, in piena indi­ pendenza dalla logica, ha il compito di rivelare. C'è un apriorico ordre du coeur, o logique du coeur, come dice acutamente Biagio Pascal. Ma la parola « ragione » o « ratio », specialmente se viene contrapposta alla cosiddetta sensibilità, indica, fin dal tempo in cui i greci la coniarono, l'aspetto logico dello spirito, non quello alogico­ apriorico. Cosi Kant riconduce il puro volere alla ragion pratica o ·semplicemente alla ragione, in quanto agisce praticamente, miscono­ scendo con ciò l'originarietà dell'atto volitivo. Il volere appare qui come un semplice campo d'applicazione della logica, e, per quanto diverso dal pensare; affetto da una legalità originariamente pari a quella del pensare. Può essere certamente che il medesimo contenuto fenomenale renda intuitivo ( Erfiillung gibt: riempia) tanto il prin­ cipio di contraddizione, quanto il principio che è impossibile « volere e non volere la medesima cosa », o desiderare e schifare la medesima cosa. Ma non per questo l'ultima proposizione è una semplice « ap· plicazione del principio di contraddizione » ai conceUi di desiderare e disprezzare. Si tratta di un principio del tutto indipendente da quello, anche se ha con esso una base fenomenologica parzialmente identica. Cosi gli assiomi assiologici sono indipendenti dagli assiomi logici e non rappresentano delle applicazioni di questi ultimi ai valori. Accanto alla logica pura sta una dottrina pura dei valori. Mentre oscilla ancora in questi problemi, Kant è invece altrettanto deciso nell'assegnare alla sfera sensibile, escludendolo cosi dall'etica, ogni sentimento puro, compresi l'amare e l'odiare, in quanto non gli è possibile di far�i rientrare nella « ragione ». Questa infondata limitazione dell'apriori ha una delle sue pio sot­ tili radici nella sua connessione col formalismo. Soltanto una definitiva eliminazione del vecchio pregiudizio che lo spirito umano si esaurisca nella contrapposizione di ragione e sensibilità, ovvero che qualunque suo aspetto si debba ripor�are al­ l'una o all'altra, rende possibile la costruzione di un'etica materiale a priori. Questo errato dualismo, che costringe addirittura a sorvo­ lare o a fraintendere la particolarità di intere sfere di atti deve assolutamente sparire dal progresso della filosofia. La fenomenologia

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del valore e della vita emozionale deve essere considerata come un campo di ricerca autonomo e indipendente dalla logica. È pertanto infondata l'affermazione di Kant, che ogni uso del sentire, dell'amare, dell'odiare, ecc., quali fondamentali atti della vita morale, costituisca una aberrazione dell'eti�a nell'empirismo o nel regno del sensibile, ovvero una gratuita assunzione della « natu­ ra dell'uomo » per la conoscenza del bene e del male. Infatti il sen­ tire, l'amare, l'odiare e i loro rapporti reciproci nonché quelli verso le loro « materie » sono tanto poco specificamente umani quanto gli atti di pensiero, per quanto possano sempre venir studiati nell'uomo. La loro analisi fenomenologica ( la cui essenza consiste appunto nel prescindere dalle specifiche organizzazioni dei portatori degli atti e dalla realtà degli oggetti, per elaborare quanto si trova nell'essenza di questi atti e delle loro materie) è tanto diversa da ogni psico­ logia e antropologia quanto l'analisi fenomenologica del pensare dalla psicologia del pensare umano. Anche per la vita emozionale sussiste un grado spirituale che non ha a che fare con l'intera sfera del sensibile, e nemmeno con quella, nettamente distinta, degli atti vi­ tali o corporei, e il cui interno ordinamento è tanto indipendente dalle precedenti sfere quanto le leggi del pensare dagli stimoli delle sensaziOni. Quello dunque a cui, in opposizione a Kant, noi qui risolutamente miriamo è un apriorismo dell'emozionale, e quindi la scissione della falsa unità esistente t;a apriorismo e razionalismo. Un'etica emozio­ nale, in opposizione ad un'etica razionale, non è detto che sia neces­ sariamente « empirismo », nel senso di un tentativo di raggiungere i valori morali con l'osservazione e l'induzione. Il sentire, il preferire, l'amare, l'odiare dello spirito hanno un loro proprio contenuto aprio­ rico, tanto indipendente dall'esperienza induttiva quanto le leggi del pensiero puro. ln un caso come nell'altro c'è una visione essenziale ( Wesensschazt) degli atti e delle loro materie, del loro fondamento e delle loro connessioni. Qui come là c'è l'evidenza e la rigorosis­ sima esattezza degli accertamenti fenomenologici. (Op. cit., pp. 63.66).

c) Gerarchia delle modalità del valore I rapporti apriorici pio importanti tra i sistemi di qualità deì valori materiali ( cioè tra le modalità del valore) consistono nel loro ordinamento gerarchico. Tali modalità rappresentano il vero apriori materiale per la nostra visione preferenziale dei valori, nonché la piu rigorosa confutazione del formalismo kantiano. La suprema suddivi· sione delle qualità di valore, necessaria a stabilire i nessi essenziali

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tra i valori stessi, deve essere tanto indipendente da tutti i beni ef­ fettuati e da ogni particolare organizzazione di nature idonee all'ap­ prensione di valori, quanto la gerarchia esistente fra le modalità. Non già per fondare e sviluppare esaurientemente questi sistemi di qualità e le loro leggi di precedenza, ma semplicemente in via di esemplificazione, valga quanto segue. l. Una prima modalità nettamente delimitata consiste anzitutto nella serie dei valori del gradevole e dello sgradevole ( e già Ari­ stotele la introduce nella sua triplice divisione del « edu, chrésimon, kalòn ») A questa serie corrispondono la funzione del sentire sensi­ bile (con i suoi modi del godere e del soffrire), nonché gli stati dei sentimenti sensitivi, cioè il piacere e il dolore sensibili. L'intera serie è relativa a un essere di natura sensibile in generale, mentre non è per nulla relativa ad una determinata organizzazione di un qualunque essere di tal natura, ad esempio dell'uomo, e nemmeno a determinate cose o avvenimenti del mondo reale che fossero gra­ devoli o sgradevoli rispetto ad un essere di una determinata organiz­ zazione. Se il medesimo fatto può essere gradevole ad un uomo e sgradevole ad un altro ( e lo stesso si dica per animali diversi), la distinzione dei valori « gradevole-sgradevole » è invece una distinzione assoluta, già del tutto chiara prima della conoscenza di quei fatti. Anche il preferire ( ceteris paribus) il gradevole o lo sgradevole non è un principio fondato sulla osservazione e sulla induzione, ma sull'essenza di questi valori e su quella del sentire sensibile. Se infatti un viaggiatm:e, uno storico, uno zoologo ci descrivesse una spe­ cie di uomini o di anim� 1i, per i quali valesse il contrario, noi a priori non gli presteremmo fede, ma diremmo : « È impossibile. Al piu, tali esseri avvertiranno come gradevoli o sgradevoli cose diverse dalle nostre ; ovvero : non si tratta già che essi preferiscano lo sgra­ devole al gradevole, ma ci deve essere per loro un valore (forse a noi sconosciuto) di una modalità piu elevata di questa ( del grade­ vole-sgradevole), di maniera che, mentre preferiscono questo valore sconosciuto a noi, accolgono lo sgradevole ; ovvero ancora, si tratta di una perversione dell'appetito, per cui essi vivono come gradevoli cose nocive alla vita, ecc. ». Dunque questa connessione (tra i valori e gli atti), come tutti i nessi essenziali, costituisce il presupposto di tutte le osservazioni e le induzioni, nonché il principio d'intelligi­ bilità delle manifestazioni vitali di altri esseri e il principio di valu­ tazione dei fatti storici ( compresi i nostri medesimi, come avviene nel ricordo). Essa è pertanto apriori rispetto ad ogni esperienza etno­ logica. Non diversamente, questo nesso essenziale non può venir spiegato da nessuna considerazione teorico-genetica. Cosi, non ha senso dire .

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che questi valori e il loro ordine di preferenza siano simboli di com­ binazioni meccaniche di carattere finalistico, individuale o collettivo. In questo modo, infatti, si spiega soltanto il legame tra gli impulsi attivi diretti alle cose reali ed i concomitanti stati emozionali ; ma non si spiegano i valori e il loro ordine di preferenza, che valgono indipendentemente da qualunque organizzazione naturale. Ai valori del gradevole e dello sgradevole corrispondono speciali gruppi di valori consecutivi (valori tecnici e valori-simboli), che non è questo il luogo di trattare. 2. Come seconda modalità si presenta l'insieme dei valori del sentire vitale. Questa modalità abbraccia tutte le qualità comprese tra il nobile e il volgare (in contrapposizione tra loro) o anche tra il « buono », in quella particolare pregnanza di significato per cui viene equiparato all'« abile », e il « cattivo » (Schlecht), a cui vera­ mente l'abile si contrappone ( e non già al « malvagio », Bose). Va­ lori consecutivi sono quelli che fanno parte della sfera della « pro­ sperità » e del « benessere », naturalmente subordinati al « nobile » o all'« ignobile ». Stati emozionali corrispondenti a questa modalità sono tutti i modi del sentimento vitale (ad esempio il sentimento della vitalità in ascesa o in decadenza, della salute e della malattia, della vecchiaia e della morte, sentimenti come « esausto » ed « esu­ berante », ecc.). Reazioni sentimentali corrispondenti sono, ad esem­ pio, il rallegrarsi e il rattristarsi ( di una specie particolare). Reazioni istintive sono il coraggio, l'angoscia, l'impulso della vendetta, la col­ lera, ecc. Il campo di queste qualità e dei loro correlati non può es· sere qui interamente descritto. I valori vitali sono una modalità autonoma e non possono venir ticondotti ai valori del gradevole e dello sgradevole, né a quelli spi­ rituali. Nel disconoscimento di questo dato di fatto sta il difetto fon­ damentale delle dottrine etiche sino ad oggi. Anche .Kant presuppone tacitamente che i valori vitali si possano ridurre a quelli edonistici, in quanto pensa che tutti i valori si possano suddividere in « buono­ cattivo » e « gradevole-sgradevole ». Ora, se questo non è lecito per il « benessere », tanto meno lo sarà per il « nobile ». Ma la vera ragione, per che venne trascurata la particolare natura di questa modalità, è i� misconoscimento del dato di fatto, che la vita è una « essenza pura », e non un empirico concetto di specie, abbracciante soltanto le caratteristiche comuni agli organismi terrestri. Non pos­ siamo però addentrarci in questo tema. 3. Si distingue dai valori vitali, come una nuova unità modale, il campo dei valori spirituali. Già nel modo di darsi, rivelano la loro indipendenza e il netto distacco dalla sfera corporea e naturale. La loro distinta unità modale è provata anche dal fatto evidente che, per

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raggiungerli, bisogna sacrificare i valori vitali. Gli atti e le funzioni� in cui li apprendiamo, sono funzioni del sentire (Fiihlen) « spiri­ tuale », e atti del preferire, dell'amare e dell'odiare « spirituali », che si staccano dagli omonimi atti e funzioni « vitali » tanto sul piano della fenomenologia pura, quanto per le loro intrinseche leggi, irri­ ducibili a qualunque legge biologica. Questi valori, secondo le loro specie principali, si distinguono in : l) valori del bello e del brutto, con l'intero campo dei valori estetici puri ; 2) valori del diritto e dell'ingiuria, di carattere oggettivo e assoluto, ben diversi dal giusto e dall'ingiusto, che sono relativi ad una legge ; essi costituiscono l'ul­ timo fondamento fenomenale della idea di « ordinamento giuridico », idea indipendente da quella di legge, di Stato, di comunità e da ogni legislazione positiva ; 3) vàlori della pura conoscenza del vero, quali tenta di realizzarli la filosofia (a differenza della scienza posi­ tiva, guidata dallo scopo del dominio dei fenomeni naturali). l valori della « scienza » sono quindi consecutivi rispetto a quelli della cono­ scenza. Ma in generale i valori consecutivi di quelli spirituali sono i cosiddetti valori culturali (Kulturwerte), che per loro natura ap­ partengono già alla sfera dei « beni » (ad esempio tesori artistici, istituzioni scientifiche, legislazione positiva, ecc.). Stati emozionali corrispondenti ai valori spirituali sono quei sentimenti ( quali ad es. la gioia e l'aftlizione spirituali, ben diverse dall'essere o no lieti� di na� tura ancora vitale) che per apparire all'io non esigono una precedente aggettivazione del corpo come corpo di quella data persona, ma gli appaiono immediatamente ; non diversamente essi variano indipen­ dentemente dal variare degli stati della sfera vitale ( e anzitutto, com'è naturale, di quelli sensibili), mentre dipendono direttamente dalle variazioni degli oggettivi valori-essenze. Reazioni sentimentali sono, per questa modalità, ad esempio il piacere ( Gefallen) e il di­ spiacere, l'approvare e il disapprovare, la stima e la disistima, la tendenza alla remunerazione (a differenza dell'impulso della ven­ detta, di carattere vitale), la simpatia spirituale, in quanto dà ]uogo all'amicizia, ecc. 4. Ultima modalità, ben delimitata rispetto a quelle sin qui nominate, è quella del sacro e profano, che a sua volta costituisce una unità, non meglio definibile delle altre, di particolari qualità. Tuttavia è possibile fissare la condizione ben determinata del loro darsi : questi valori, cioè, appaiono soltanto in oggetti che siano dati intenzionalmente come oggetti assoluti. E con questo non in­ tendo una particolare classe di oggetti, ma, per principio, qualunque oggetto in quanto sia dato « nella sfera assoluta ». Come la moda­ lità spirituale, anche questa è del tutto indipendente da tutto ciò che ha avuto valore di .sacro in epoche diverse e presso diversi popoli,

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considerato in cose, potenze o persone reali ( dalle rappresentazioni feticiste al piu puro concetto di Dio). Tutto ciò riguarda la consi­ stenza dei « beni positivi >> in questa sfera 'di valori, e non la dot­ trina apriorica dei valori e della loro gerarchia. Piuttosto è da rile­ vare che, con i valori del sacro, tutti gli altri sono dati simultanea­ mente come loro simboli. Stati corrispondenti a questa serie di valori sono i sentimenti della beatitudine e della disperazione, indipendenti dalla felicità e dal­ l'infelicità, e idonei a darci, per cosi dire, la misura del « vicino >> o « lontano » del sacro nella vita vissuta. Specifiche reazioni a questa modalità sono la fede, l'incredulità, la venerazione, l'adorazione e simili atteggiamenti. L'atto, poi, nel quale apprendiamo originariamente i valori del sacro, è l'atto di una determinata maniera d'amore ( che precede e determina, in quanto le dirige, tutte le rappresentazioni ed i con­ cetti degli oggetti sacri), e a cui è essenziale di rivolgersi a persone, cioè a qualcosa di esistente in forma personale, restando indifferenti sia il contenuto da attribuirvi, sia il particolare concetto che si possa averne. Il valore genuino (Selbstwert, cioè non consecutivo) nella sfera del sacro è dunque essenzialmente un valore personale. Valori consecutivi invece sono rappresentati da cose e forme di adorazione, date in parte nel culto, in parte nei sacramenti ; e sono veri valori-simboli, non già semplici simboli di valori. Non possiamo descrivere qui, dove ci limitiamo alle cose elementarissime, in che mo­ do questi valori (consecutivi) fondamentali si intrecciano con le idee di persona e di società e diano luogo a tipi personali, come il santo, il genio, lo spirito conduttore, l'artista del godimento ( Kilnstler des Genusses), e alle rispettive professioni tecniche (esempio il prete), nonché a tipi di collettività, come la comunità d'amore ( e la sua forma tecnica, la chiesa), la comunità giuridica, quella culturale e quella vitale ( e la loro forma tecnica, lo stato) e infine le semplici forme della cosiddetta società. Tutte le nominate modalità di valore sono ordinate gerarchica­ mente a priori, e questa gerarchia si riflette sulle qualità apparle· nenti alle singole modalità ; ugualmente essa vale per i « beni » cor­ rispondenti ai diversi valori, perché vale per i valori dei beni. Dico dunque che i valori del nobile e volgare sono piu alti di quelli del gradevole e sgradevole ; i valori spirituali sono piu alti di quelli vitali, e i valori del sacro piu alti di quelli spirituali. (Op. dt.,

pp.

99,107).

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d) Persona e ragwne Una delle principali pretese dell'etica formale, e in particolare di quella kantiana, è di potere essa sola conferire alla persona una « dignità » superiore a qualunque « prezzo » : laddove ogni etica ma­ teriale annullerebbe la dignità della persona, non potendo ricavarne da nessuna fonte il valore. Ora, che questo tocchi all'etica dei beni e degli scopi, è senz'altro da ammettere, poiché ogni tentativo di misurare il valore della persona secondo l'incremento che essa può arrecare a un mondo di beni ( e siano pure beni « sacri ») o secondo il suo contributo al raggiungimento di uno scopo (e sia pure uno scopo sacro, immanente all'accadere cosmico) urta contro la legge preferenziale che i valori della persona sono i piu alti possibili. Ma si affaccia poi la questione, se l'etica formalistica, basata sulla ra­ gione e sulla legge, non sopprima a sua volta la dignità della per­ sona, ponendola sotto il dominio di un Nomo.>

Queste considerazioni trovano una conferma completamente diversa se ci si volge a quel campo che, agli occhi del criticismo, doveva essere chiamato a estirpare la metafisica : la teoria della conoscenza. Si riteneva di poter dare nella critica della conoscenza la prova piu rigorosa, che la comprensione metafisica è una cosa impos­ sibile e persino che i problemi metafisici - e tra questi si compren­ devano tutti i problemi ontologici - sono problemi illegittimi e fal­ samente posti. Anche alla critica kantiana della ragione si attribuiva questo significato e cioè di avere in fondo già prodotto questa dimo­ strazione. n ripiegarsi della logica nella teoria immanente del pen­ siero, della psicologia nell'analisi dell'esperienza vissuta, era già un prodotto di questa concezione. Con questo era completamente rove­ sciato il senso della critica kantiana. Ma dove era l'errore ? Storicamente esso si trovava in quell'abitudine mentale tutt'altro che inoppugnabile di vedere Kant unicamente come il creatore del sistema dell'idealismo trascendentale. Si eliminava la cosa in sé, si svalutava la funzione della « realtà empirica » nel fenomeno. Che appunto la cosa in sé fosse un concetto fondamentale, eminente­ mente critico, che la dottrina dell'oggetto trascendentale avesse legato

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questo concetto in modo del tutto positivo col fenomeno, che appunto, secondo Kant, un apparire senza una cosa che appaia in esso fosse una vuota apparenza, tutto ciò sotto il peso costruttivo dell'i> prima della riflessione, come una presenza inalie­ nabile, una filosofia tutta tesa a ritrovare quel contatto ingenuo con il mondo per dargli infine uno statuto filosofico. È l'ambizione di una filosofia che vuole essere una « scienza esatta », ma è anche un reso­ conto dello spazio, del tempo, del mondo « vissuti ». È il tentativo di una descrizione diretta della nostra esperienza cosi come è, senza alcun riferimento alla sua genesi psicologica e alle spiegazioni causali che lo scienziato, lo storico o il sociologo possono fornire ; tuttavia, nei suoi ultimi lavori Husserl menziona una « fenomenologia gene­ tica » e anche una « fenomenologia costruttiva ». Si vorranno rimuo­ vere queste contraddizioni distinguendo la fenomenologia di Husserl da quella di Heidegger ? Ma tutto Sein und Zeit è uscito da una indicazione di Husserl e in ultima analisi non è altro che una espli­ citazione del natilrlichen Weltbegriff o della Lebenswelt che Husserl, alla fine della sua vita, assegnava come prip1o tema alla fenome­ nologia, cosicché la contraddizione riappare nella filosofia dello stesso Husserl. Il lettore frettoloso rinuncerà a circoscrivere una dottrina che ha detto tutto, e si chiederà se una filosofia che non giunge a definirsi merita tutto il rumore che si fa attorno ad essa e se non si tratta . piuttosto di un mito o di una moda. Anche se cosi fosse, rimarrebbero da comprendere il prestigio di questo mito e l'origine di questa moda, e la serietà filosofica espri­ merà tale situazione dicendo che la fenomenologia si lascia prati­ care e riconoscere come maniera o come stile ed esiste come movi­ mento ancor prima di essere giunta a un'intera coscienza filosofica. Essa è in cammino da molto tempo, i suoi discepoli la ritrovano ovunque, certamente in Hegel e in Kierkegaard, ma anche in Marx, Nietzsche e Freud. Un commento filologico dei testi sarebbe inutile : in essi troviamo solo ciò che noi vi abbiamo messo, e se c'è una

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storia che ha sempre postulato la nostra interpretazione, questa è la storia della filosofia. Troveremo in noi stessi l'unità della fenomeno­ logia e il suo vero senso. Non si tratta di contare le citazioni, bensi di fissare e di oggettivare questa fenomenologia per noi la quale fa si che, leggendo Husserl o Heidegger, molti nostri contemporanei ab­ biano avuto la sensazione non tanto di incontrare una filosofia nuova quanto di riconoscere ciò che attendevano. La fenomenologia non è accessibile se non a un metodo fenomenologico. Tentiamo dunque di annodare deliberatamente i famosi temi fenomenologici cosi come si sono annodati spontaneamente nella vita. Forse comprenderemo al­ lora perché la fenomenologia è rimasta a lungo allo .stato di comin­ ciamento, di problema e di voto. (Fenomenologia della perce:r.ione,

b) Il

«

a

cura di A. Donomi, Milano, 1965, pp. 15-16).

ritorno aUe cose stesse »

Non si tratta di spiegare o di analizzare, bensi di "descrivere. La prima consegna che Husserl impartiva alla fenomenologia esordiente, di essere cioè una « psicologia descrittiva » e di ritornare « alle cose stesse », è anzitutto la sconfessione della scienza. lo non sono il risultato o la convergenza delle molteplici causalità che determinano il mio corpo o il mio « psichismo », non posso pensarmi come una parte del mondo, come il semplice oggetto della biologia, della psi· cologia e della sociologia, né chiudere su di me l'universo della scienza. Tutto ciò che so del mondo, anche tramite la scienza, io lo so a partire da una veduta mia o da una esperienza del mondo senza la quale i simboli della scienza non significherebbero nulla. Tutto l'universo della scienza è costruito sul mondo vissuto e se vo­ gliamo pensare la scienza stessa con rigore, valutarne esattamente il senso e la portata, dobbiamo anzitutto risvegliare questa esperienza del mondo di cui essa è l'espressione seconda. La scienza non ha e non avrà mai il medesimo senso d'essere del mondo percepito, sem­ plicemente perché essa ne è una determinazione o una spiegazione. Io sono non già un « essere vivente » o un « uomo » o una « co­ scienza », con tutti i caratteri che la zoologia, l'anatomia sociale o la psicologia induttiva accordano a questi prodotti della natura o della storia - io sono la fonte assoluta, la mia esistenza non viene dai miei antecedenti, dal mio ambiente fisico e sociale, ma va verso di essi e li sostiene, giacché sono io che faccio essere per me ( e dunque essere nel solo senso che la parola possa avere per me) que­ sta tradizione che scelgo di riprendere o questo orizzonte la cui dì­ stanza da me - non appartenendogli come proprietà - si eclisse­ rebbe se io non fossi là a percorrerla con lo sguardo. Le vedute

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scientifiche per le quali io sono un momento del mondo, sono sempre ingenue e ipocrite, perché sotiintendono, senza menzionarla, l'altra veduta - quella della coscienza - per la quale originariamente un mondo si dispone attorno a me e comincia a esistere per me. Ritor­ nare alle cose stesse significa ritornare a questo mondo anteriore alla conoscenza di cui la conoscenza parla sempre, e nei confronti del quale ogni determinazione scientifica è astratta, segnitiva e di­ pendente, come la geografia nei confronti del paesaggio in cui origi­ nariamente abbiamo imparato che cos'è una foresta, un prato o un fiume. Questo movimento è assolutamente distinto dal ritorno ideali­ stico alla coscienza, e l'esigenza di una descrizione pura esclude sia il procedimento dell'analisi riflessiva che quello della spiegazione scientifica. Cartesio e soprattutto Kant hanno svincolato il soggetto o la coscienza mostrando che io non potrei cogliere nessuna cosa come esistente se dapprima non mi esperissi esistente nell'atto di coglierla, hanno fatto apparire la coscienza, l'assoluta certezza di me per me, come la condizione senza la quale non ci sarebbe proprio nulla e l'atto del collegare come fondamento del collegato. Certamente l'atto del collegare �on è nulla senza lo spettacolo del mondo che esso collega ; in Kant l'unità della coscienza è esattamente contemporanea all'unità del mondo, e in Cartesio il dubbio metodico non ci fa perdere nulla, giacché il mondo intero, per lo meno a titolo di espe­ rienza nostra, è reintegrato al Cogito, sicuro insieme con questo, e contrassegnato soltanto dall'indice « pensiero di... ». Ma le relazioni del soggetto e del mondo non sono rigorosamente bilaterali : se lo fossero, in Cartesio la certezza del mondo sarebbe immediatamente data con quella del Cogito e Kant non parlerebbe di « rivoluzione copernicana ». L'analisi riflessiva risale dalla nostra esperienza del mondo al soggetto come condizione di possibilità distinta da quella esperienza, e mostra la sintesi universale come ciò senza di cui non ci sarebbe mondo. In questa misura essa cessa di al!erire alla nostra esperienza, e a· un resoconto sostituisce una ricostruzione. Si com­ prende quindi come Husseri abbia potutu rimproverare a Kant uno « psicologismo delle facoltà dell'anima » e opporre a una analisi noe­ tica, che fa riposare il mondo sull'attività sintetica del soggetto, la sua riflessione noematica, che rimane nell'oggetto e ne esplicita l'unità primordiale anziché generarla. Il mondo è là prima di ogni analisi che io possa farne, e sa­ rebbe artificioso derivarlo da una serie di sintesi che collegassero le sensazioni, e successivamente gli aspetti prospettici dell'oggetto, men­ tre le une e gli altri sono appunto prodotti dell'analisi e non deb­ bono essere realizzati prima di essa. L'analisi riflessiva crede di se-

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guire a ritroso il cammino di una costituzione preliminare e di rag­ giungere nell'« uomo interiore », come dice Sant'Agostino, un potere costituente sempre identico a se stesso. Cosi, la riflessione rimuove se stessa e si ricolloca in una soggettività invulnerabile, al di qua dell'essere e del tempo. Ma ques�a è una ingenuità o, se si prefe­ risce, una riflessione incompleta che perde coscienza del proprio co­ minciamento. Ho iniziato a riflettere, la mia riflessione è riflessione su un irriflesso e non può ignorare se stessa come evento, quindi essa appare ai suoi stessi occhi come una autentica creazione, come un mutamento di struttura della coscienza, e le spetta riconoscere, al di qua delle proprie operazioni, il mondo che è dato al soggetto per­ ché il soggetto è dato a se stesso. Il reale è da descrivere, e non da costruire o costituire. Ciò significa che non posso assimilare la per­ cezione alle sintesi che appartengono all'ordine del giudizio, degli atti o della predicazione. In ogni momento il mio campo percettivo è riempito di riflessi, di scricchiolii, di fugaci impressioni tattili che io non sono in grado di connettere in modo preciso al contesto per­ cepito, e che tuttavia pongo immediatamente nel mondo, senza mai confonderle con le mie fantasticherie. Inoltre, in ogni istante io sogno sulle cose, immagino oggetti o persone la cui presenza qui non è incompatibile con il contesto e che tuttavia non si mescolano al mondo., ma sono oltre il mondo, sul teatro dell'immaginario. Se fosse fondata solo sulla coerenza intrinseca delle « rappresentazioni », la realtà della mia percezione dovrebbe essere sempre esitante e, abbandonato alle mie congetture probabili, in ogni momento io dovrei disfare sintesi illusorie e reintegrare al reale fenomeni aberranti dapprima esclusi. Nulla di tutto questo. Il reale è un tessuto solido, non attende i nostri giudizi per annettersi i fenomeni pio sorprendenti e per re­ spingere le nostre immaginazioni pio verosimili. La percezione non è una scienza del mondo, non è nemmeno un atto, una presa di posizione deliberata, ma è lo sfondo sul quale si staccano tutti gli atti ed è da questi presupposta. Il mondo non è un oggetto di cui io posseggo nel mio intimo la legge di costituzione, ma è l'ambiente naturale, il campo di tutti i miei pensieri e di tutte le mie perce­ zioni esplicite. La verità non « abita >> soltanto l'« uomo interiore » o meglio non v'è uomo interiore : l'uomo è nel mondo, e nel mondo egli si conosce. Quando ritorno in me a partire dal dogmatismo del senso comune o dal dogmatismo della scienza, io trovo non un nucleo di verità intrinseca, ma un soggetto votato al mondo. (Op. cit., pp. 16-19).

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c) La riduzione fenomenologica Come Ego meditante, io posso si distinguere da me il mondo e le cose, giacché certamente io non esisto alla maniera delle cose. Debbo anzi allontanare da me il mio corpo inteso come una cosa fra le cose, come una somma di processi fisico-chimici. Ma, anche se è senza luogo nel tempo e nello spazio oggettivi, la cogitatio che in questo modo io scopro trova posto nel mondo fenomenologico. Il mondo che distinguevo da me come somma di cose od i processi legati da rapporti di causalità, lo riscopro « in me » come l'orizzonte permanente di tutte le mie cogitationes, come una dimensione in rapporto alla quale io non cesso di situarmi. L'autentico Cogito non ·definisce resistenza del soggetto per il pensiero che questi ha di esistere, non tramuta la certezza del mondo in certezza del pensiero del mondo e infine non sostituisce al mondo stesso il significato del mondo. Esso riconosce invece il mio pensiero stesso come un fatto ina­ lienabile ed elimina ogni sorta di idealismo scoprendomi come « es­ sere al mondo »· Proprio pel fatto che siamo da parte a parte rapporto al mondo, per noi la sola maniera di rendercene conto è di sospendere questo movimento, di negargli la nostra complicità ( o di guardarlo ohne mitzumachen, come spesso dice Husserl), o ancora di metterlo fuori gioco. Non perché si rinunci alle certezze del senso comune e dell'at­ teggiamento naturale - viceversa esse sono il tema costante della filo­ sofia -, ma perché, appunto come presupposti di ogni pensiero, esse ibilità, degli atti altrui, riattivazione in base a segni ambigui di un'esperienza che non è la sua, appropriazione da parte sia di una struttura a priori della specie, schema suh­ linguistico o spirito di una civiltà - di cui non forma un con­ cetto distinto ma che restituisce come il pianista esercitato decifra una musica ignota : senza cogliere neppur lui i motivi di ogni -

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gesto e di ogni operazione, senza poter risvegliare tutto il sapere sedimentato di cui fa uso in quel momento. Non c'è pio qui posi· zione di un oggetto, ma comunicazione con una maniera d'essere. L'universalità del sapere non è plu garantita in ciascuno da quel ritiro di coscienza assoluta in cui anche l'« io penso >> kantiano, per vincolato che fosse a d una certa prospettiva spazio-temporale, s'assi­ curava a priori d'essere identico ad ogni altro possibile « io penso ». Solo davanti a noi, nella cosa in cui la nostra percezione ci colloca, nel dialogo in cui la nostra esperienza d'altri ci getta con un movi­ mento di cui non conosciamo tutte le molle, si trova il germe d'universalità o la « luce naturale » senza cui non ci sarebbe cono­ scenza. C'è metafisica a partire dal momento in cui, cessando di vivere nell'evidenza dell'oggetto - che si tratti dell'oggetto sensoriale o dell'oggetto di scienza - scorgiamo indissolubilmente la soggetti­ vità radicale di tutta la nostra esperienza e il suo valore di verità. La nostra esperienza è nostra, il che significa due cose : che non è la misura d'ogni essere in sé immaginabile, e che tuttavia è coesten­ siva ad ogni essere di cui possiamo aver nozione. Il fatto metafisico fondamentale è questo doppio senso del cogito : sono sicuro che ci sia dell'essere, a condizione di non cercare un'altra specie d'essere -oltre all'essere-per-me. Quando ho coscienza di sentire non ho da un lato coscienza di uno stato mio e d'altro lato coscienza di una certa qualità sensibile come il rosso o l'azzurro : ma il rosso e l'az­ zurro non sono niente altro che le mie differenti maniere di per· correre con lo sguardo quel che si offre e di rispondere alla sua sollecitazione. Analogamente, quando dico che vedo qualcuno, vuoi dire che sono affetto da simpatia per il comportamento a cui assisto e che agguanta le mie proprie intenzioni fornendo loro una realiz­ zazione visibile. Solo nella nostra differenza e nella singolarità della nostra esperienza s'attesta lo strano potere che quest'ultima ha di pas­ sare in altri, di ri-compiere gli atti d'altri, e quindi si trova fondata in una verità a cui, come diceva Pascal, non possiamo né rinunciare né accedere in pieno. La metafisica è il proposito deliberato di descri­ vere questo paradosso della coscienza e della verità, dello scambio e della comunicazione, nel quale la scienza vive e che essa incon­ tra sotto l'aspetto di difficoltà vinte o di fallimenti da riparare, ma senza tematizzarli. A partire dal momento in cui ho riconosciuto che la mia esperienza, appunto in quanto mia, m'apre a ciò che non è me, e che io sono sensibile al mondo e ad altri, tutti gli esseri che il pensiero oggettivo poneva alla loro distanza mi s'avvicinano singolarmente. O, invertendo i termini, riconosco la mia affinità con loro, non sono nient'altro che un potere di far loro eco, di compren­ derli e di risponder loro. La mia vita m'appare assolutamente indi-

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viduale ed assolutamente universale. Tale riconoscimento di una vita individuale che animi tutte le vite passate e contemporanee e da loro riceva ogni vita, d'una luce che ci provenga da loro contro ogni sp('\'anza, è appunto la coscienza metafisica, che al suo primo grado è stupore di scoprire l'affrontarsi dei contrasti ed al suo secondo grado riconoscimento della loro identità nella semplicità del fare. La coscienza metafisica ha per unico oggetto l'esperienza quotidiana : questo mondo, gli altri, la storia umana, la verità, la cultura. Ma, anziché prenderli bell'e fatti, come conseguenze senza premesse e come se fossero ovvi, riscopre la loro estraneità fondamentale per me il miracolo della loro comparsa. Allora la storia dell'umanità non è pio quell'avvento inevitabile dell'uomo moderno muovendo dall'uomo delle caverne, quella crescita imperiosa della morale e della scienza di cui parlano i manuali scolastici « troppo umani », non è la storia empirica e successiva, ma la coscienza di quel rapporto segreto che fa si che Platone sia ancor vivo tra noi. Cosi intesa, la metafisica è il contrario del sistema. Se il sistema è un assetto concettuale che rende immediatamente compatibili e compossibili tutti gli aspetti dell'esperienza, esso sopprime la coscienza metafisica insieme, d'altronde, alla moralità. Se per esempio si vuole fondare il fatto · della razionalità o della comunicazione su un asso­ luto del valore o del pensiero, allora o quest'assoluto non toglie nes­ suna difficoltà e, tutto ben considerato, la razionalìtà _ e la comunica­ zione restano fondate su loro stesse, oppure l'assoluto discende per cosi dire in loro, con la conseguenza però di rovesciare tutti i mezzi umani di verificazione e di giustificazione. Che ci sia o no un pen­ siero assoluto, e, in ogni problema pratico, una valutazione asso­ luta, per giudicare dispongo solo d'opinioni mie, che, per quanto severamente le discuta, restano capaci di errori. L'accordo con me stesso e con altri resta pure difficile da ottenere, ed ho un bel credere che in linea di diritto sia sempre realizzabile, la sola ragione che ho di affermare questo principio è l'esperienza di talune concordanze, tanto che. infine la mia fede nell'assoluto, in quel che ha di solido, si riduce alla mia esperienza di un accordo con me stesso e con altri. Quando non è inutile, il ricorso a un fondamento assoluto distrugge proprio quel che deve fondare. Se infatti credo di poter raggiungere nell'evidenza il principio assoluto d'ogni pensiero e d'ogni valutazione, a condizione d'avere la mia coscienza per me, ho il diritto di sot­ trarre i miei giudizi al controllo d'altri ; essi ricevono il carattere del sacro ; in particolare, nell'ordine del pratico, dispongo d'un piano di fuga in cui si trasfigurano le mie azioni : la sofferenza di cui sono causa si tramuta in felicità, l'astuzia in ragione, e faccio pieto� samente perire i miei avversari. Quando dunque colloco fuori del-

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l'esperienza progressiva il fondamento della verità o della moralità, o continuo ad attenermi alle probabilità che essa mi offre - svalu­ tate solo dall'ideale di una conoscenza assoluta -, o le travesto in certezze assolute, ed allora lascio il verificabile per la verità, ossia la preda per l'ombra. Oscillo tra incertezza e arroganza senza mai trovare il giusto punto della risoluzione umana. Se invece ho capito che verità e valore possono essere per me soltanto il risultato delle nostre verificazioni e delle nostre valutazioni a contatto con il mondo, dinanzi agli altri e in situazioni di conoscenza e d'azione date, che anche queste nozioni perdono ogni senso fuori delle prospettive uma­ ne, allora il mondo riacquista rilievo, gli atti particolari di verifica­ zione e di valutazione nei quali riafferro un'esperienza dispersa ri-as­ sumono importanza decisiva c'è qualcosa di irrecusabile nella cono­ scenza e nell'azione, di vero e di falso, di bene e di male, appunto perché non pretendo di trovarvi l'evidenza assoluta. La coscienza me­ tafisica e morale muore a contatto con l'assoluto perché è proprio lei, al di là del mondo piatto della coscienza abituata o addor­ mentata, la viva connessione di me con me e di me con altri. La metafisica non è una costruzione di concetti con i quali cerche­ remmo -di rendere meno sensibili i nostri paradossi ; ma è l'esperienza che ne facciamo in ogni situazione della storia personale e collettiva, e delle azioni che, assumendole, le trasformano in ragione. È un'inter­ rogazione tale da non concepire una risposta che l'annulli, ma solo azioni risolute che la riportino piti in là. Non è una conoscenza che porterebbe a compimento l'edificio delle conoscenze ; è il sapere lucido di quel che le minaccia e la coscienza acuta del loro pregio. La contingenza di tutto quel che esiste e di tutto quel che _vale non è una piccola verità a cui far posto, bene o male, in un anfratto del sistema, ma è la condizione di una visione metafisica d.el mondo. Una simile metafisica non è conciliabile con il contenuto mani­ festo della religione e con la posizione d'un pensatore assoluto del mondo. Tali affermazioni pongono immediatamente il problema d'una teodicea che non è proceduta d'un passo dopo Leibniz, e che, nello stesso Leibniz, consisteva forse, in ultima analisi, nell'evocare l'esistenza di questo mondo come fatto insuperabile che attira sin dall'origine il divenire creatore, e quindi nel ricusare il punto di vista di un Dio senza mondo. Dio appare allora non come il crea­ tore di questo mondo (il che implica subito la difficoltà d'un potere sovrano e buono costretto a incorporare del male alla sua opera), ma piuttosto come un'idea nel senso kantiano e restrittivo del ter­ mine - punto di riferimento di una riflessione umana che, consi­ derando questo mondo cosi com'è, precipita in tale idea quel che vorrebbe che fosse. Un Dio, invece, che non sia solo per noi, ma per

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sé, può essere cercato dalla metafisica solo dietro alla coscienza, al di qua delle nostre idee, come la forza anonima che sostiene ogni nostro pensiero ed esperienza. A questo punto, la religione cessa d'es­ sere una costruzione concettuale, un'ideologia, e si ricollega all'espe­ rienza della vita interumana. La novità del cristianesimo come reli­ gione della morte di Dio consiste appunto nel rifiutare il Dio dei filo­ sofi ed annunciare un Dio che assume la condizione umana. La reli­ gione fa parte della cultura, non come dogma e neppure come cre­ denza, ma come grido. Ma può essere qualcosa d'altro, almeno con conseguenze ? Poiché insegna che la colpa dell'uomo è una felix culpa, che il mondo senza colpa sarebbe meno buono e che, infine, la crea­ zione, che fa decadere l'essere dalla sua perfezione e dalla sua suffi­ cienza originali, è tuttavia preferibile ossia è un bene, costituisce la negazione piu risoluta d'un infinito concepito. Infine, se tra la metafisica intesa come sistema e lo scientismo si sono scatenate battaglie risonanti, tra una metafisica che rifiuti per principio il sistema ed una scienza che tenga sempre piu conto dello scarto fra le sue formule e i fatti che esse devono esprimere, c'è, come aveva osservato Bergson, molto molto di piu che un con­ cordato : una convergenza spontanea. La presa di coscienza filosofica non rende vano lo sforzo d'oggettivazione della scienza : lo prosegue al livello dell'uomo, poiché ogni pensiero è inevitabilmente oggettiva­ zione ; sa solo che qui l'oggettivazione non può esercitarsi su se stessa e ci fa conquistare il rapporto piu fondamentale di coesistenza. Tra conoscenza scientifica e sapere mctafisico, che la rimette sempre in presenza del suo compito, non può esserci rivalità. Una scienza senza filosofia non saprebbe, alla lettera, di che cosa essa parli. Una filosofia senza esplorazione metodica dei fenomeni darebbe solo luogo a verità formali, cioè ad errori. Fare della metafisica, non è entrare in un mondo conoscitivo separato, né ripetere formule ste­ rili quali quelle di cui qui ci serviamo - ma è fare piena esperienza dei paradossi che esse indicano, verificare sempre di nuovo il funzio­ namento discordante dell'intersoggettività umana, cercare di pensa­ re sino in fondo gli stessi fenomeni che la scienza investe, resti­ tuendo loro soltanto la trascendenza e l'estraneità originarie. Quando la metodologia ha stabilito, sembra senza contestazione, che nessuna induzione è fondata nel senso assoluto del termine e che ogni rifles­ sione comporta sempre intere zone d'esperienza che tacitamente con­ corrono a produrre le nostre piu pure evidenze, sarebbe senza dub­ bio il caso di rivedere la distinzione classica fra induzione e rifles­ sione, e di chiedersi se sono davvero due specie di sapere o se non c'è piuttosto un sapere solo a gradi diversi d'ingenuità o d'esplicita­ ZIOne.

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Era pur necessario, per circoscriverla, limitare con un certo nu­ mero di negazioni questa concezione della metafisica. Ma, consi­ derata in se stessa, s'identifica con la positività e non si vede di che mai potrebbe privard. La gloria dell'evidenza, quella del dialogo e della comunicazione riuscita, la comunità di sorte tra gli uomini, il loro accordo, non secondo la rassomiglianza biologica ma in quanto hanno di pio proprio, - tutto quel che scienza e religione possono vivere effettivamente si trova qui raccolto, e sottratto agli equivoci d'una doppia vita. (Senso

e non.senso,

· introd. di E. Paci, trad. di P. Caruso, Milano, 1962, pp. 116-121).

e) Il filosofo e la sua ombra Che la possibilità della fenomenologia sia essa stessa un problema, che ci sia una « fenomenologia della fenomenologia » da cui dipende il senso di tutte le analisi preliminari, che la fenomenologia integrale o chiusa in sé o riposante in sé resti problematica, Husserl l'ha detto pio tardi, ma risulta già dalla lettura di Idee Il. Egli non nasconde che l'analitica intenzionale ci porta contemporaneamente in due di­ rezioni opposte : da un lato essa discende verso la Natura, verso la sfera dell' Urpriisentierbare, mentre dall'altro è trascinata verso il mondo delle persone e degli spiriti. « Ciò non significa necessaria­ mente » egli riprende, « e non deve significare, che i due mondi non hanno nulla in comune, e che i loro rispettivi sensi non pos­ sono stabilire tra loro relazioni d'essenza. Noi conosciamo altre dif­ ferenze cardinali tra " mondi " che sono però mediate da rapporti di senso e di essenza. Per esempio, il rapporto tra il mondo delle idee e il mondo dell'esperienza, oppure il rapporto tra il " mondo " della coscienza pura, fenomenologicamente ridotta, e .il mondo delle unità trascendenti costituite in essa ». Ci sono quindi problemi di media­ zione tra il mondo della Natura c il mondo delle persone, - di piu : tra il mondo della coscienza costituente e i risultati del lavoro di costituzione, e il compito ultimo della fenomenologia come filosofia della coscienza consiste nel comprendere il suo rapporto con la non­ fenomenologia. Ciò che in noi resiste alla fenomenologia, - l'essere naturale, il principio « barbaro » di cui parlava Schelling, - non può restare fuori della fenomenologia e deve trovarvi il suo posto. La filosofia comporta un'ombra che non è semplice assenza di fatto della luce futura. È già « eccezionalmente » difficile, dice Husserl, « com­ prendere dall'interno » il rapporto fra il « mondo della Natura » e il « Mondo dello spirito » , anziché limitarsi a « coglierlo ». Per lo meno, questa difficoltà è superata praticamente nella nostra vita, poi­ ché, costantemente e senza sforzo, noi passiamo dall'atteggiamento

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naturalistico a quello personalistico. Non si tratta che di eguagliare la riflessione a ciò che facciamo in modo del tutto naturale passando da un atteggiamento all'altro, di descrivere cambiamenti di appren­ sioni intenzionali, articolazioni di esperienza, relazioni essenziali tra molteplicità costituenti che rendono conto delle diversità d'essere tra i costituiti. La fenomenologia può qui dipanare quel che è intri­ cato, eliminare malintesi che dipendono proprio dal fatto che noi passiamo da un atteggiamento all'altro naturalmente e senza averne coscienza. Tuttavia, se esistono questi malintesi e questa transizione « naturale », è certo perché c'è una difficoltà di principio nel dipa­ nare la connessione fra la Natura e le persone. Che cosa accadrà quando occorrerà comprendere dall'interno il passaggio dall'atteggia­ mento naturalistico o personalistico alla coscienza assoluta, dai poteri che per noi sono naturali a un atteggiamento « artificiale » ( kun­ stlich), il quale, a dire il vero, non deve essere piu un atteggiamento tra gli altri, ma l'intelligenza di tutti gli atteggiamenti, l'essere stesso che parla in noi ? Qual è questa « interiorità » che potrà abbrac­ ciare i rapporti stessi fra l'interiore e l'esteriore ? Se - almeno im­ plicitamente e a fortiori - Husserl pone questo problema, ciò è dovuto al fatto che per lui la non-filosofia non è inclusa sin dal­ l'inizio nella filosofia, né il « costituito » trascendente nell'immanenza del costituente, al fatto che egli per lo meno intravede, dietro la genesi trascendentale, un mondo in cui tutto è simultaneo, o(..Lov Tjv '!tli.V"t'OC,

Quest'ultimo problema è poi cosi sorprendente ? Husserl non aveva forse avvertito, sin dal principio, che ogni riduzione trascendentale è inevitabilmente eidetica ? Ciò significava che la riduzione coglie il costituito solo nella sua essenza, che non è coincidenza, che non si ricolloca in una situazione pura, ma ri-produce solamente il disegno della vita intenzionale. Egli presenta sempre il « ritorno assoluto alla coscienza » come un titolo per una moltitudine di azioni che si impa­ rano, si effettuano a poco a poco, e non sono mai compiute. Noi non ci confondiamo mai con la genesi costitutiva, ed è già tanto se l'accompagnamo per brevi tratti. Cos'è dunque ( se queste parole hanno un senso) che, dall'altro lato delle cose, risponde alla nostra ricostituzione ? Dal nostro lato, ci · sono solo intenzionalità conver­ genti ma discontinue, momento di chiarezza. Noi costituiamo la co­ scienza costituente in virtu di sforzi rari e difficili. Essa è il sog­ getto presuntivo o supposto dei nostri tentativi. L'autore, diceva Va­ léry, è colui che in un istante pensa un'opera che fu lenta e labo­ riosa, - e questo pensatore non è in nessun luogo. - Come l'autore è per Valéry un'impostura dell'uomo scrittore, cosi la coscienza costi­ tuente è l'impostura professionale del filosofo ... Per Husserl, in ogni

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caso, essa è l'artefatto cui tende la teleologia della vita intenziona­ le, - e non l'attributo spinoziano del Pensiero. Progetto di possesso intellettuale del mondo, la costituzione di­ viene sempre piu, via via che il pensiero di Husserl matura, il mezzo per svelare un rovescio delle cose che non è stato costituito da noi. Era necessario questo insensato tentativo di sottomettere ogni cosa allo statuto della coscienza, al limpido gioco dei suoi atteggiamenti, delle sue intenzioni, delle sue imposizioni di senso, - bisognava spingere all'estremo il ritratto di un mondo saggio che la filosofia classica ci ha lasciato, per rivelare tutto il resto : quegli esseri, al di sotto delle nostre idealizzazioni e oggettivazioni, che le alimentano segretamente, e in cui si stenta a riconoscere dei noemi : la Terra, per esempio, che non è in movimento come i corpi oggettivi, ma neppure in riposo, poiché non si vede a che cosa potrebbe essere « inchiodata » « suolo » o « ceppo » dei nostri pensieri come della nostra vita, che potremo si spostàre o riportare, quando abiteremo altri pianeti, ma solo perché avremo allora ingrandito la nostra pa­ tria, che non possiamo sopprimere. Come la Terra, per definizione, è unica, poiché ogni suolo che calpestiamo diviene una sua provincia, cosi gli esseri viventi con cui i figli della terra potranno comuni­ care diventeranno simultaneamente uomini, - o, se si vuole, gli uomini terrestri saranno varianti di una umanità piu generale che resterà unica. La Terra è la matrice del nostro tempo come del nostro spazio : ogni nozione costruita del tempo presuppone la nostra proto­ storia di esseri carnali compresenti a un solo mondo. Ogni evoca­ z ione dei mondi possibili rinvia alla visione del nostro ( Welt-anschau­ ung). Ogni possibilità è una variante della nostra realtà, è possibi,. lità di realtà effettiva (Moglichkeit an Wirklichkeit) . . Queste ana­ lisi del tardo Husserl non sono né scandalose né sconcertanti, se si tiene presente tutto ciò che le annuncia fin dal principio. Esse espli­ citano « la tesi del mondo » prima di ogni tesi e di ogni teoria, al di qua delle oggettivazioni della conoscenza,_ di cui Husserl ha sem­ pre parlato, e che soltanto è divenuta per lui il nostro unico mezzo per uscire dal vicolo cieco in cui esse hanno condotto il sapere occi­ dentale. Lo volesse o meno, contro i suoi disegni e secondo la sua audacia essenziale, Husserl risveglia un mondo selvaggio e uno spirito sel­ vaggio. Le cose sono là, non piu, come nella prospettiva del Rina­ scimento, solamente secondo la loro apparenza proiettiva e secondo l'esigenza del panorama, bensi erette, insistenti, pronte a scalfire lo sguardo con i loro spigoli, rivendicanti, ognuna per proprio conto, una presenza assoluta che è incompossibile con quella delle altre, e che però esse hanno tutte insieme, in virtu di un senso di confi-

-

.

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gurazione di cui il « senso teoretico » non ci dà idea. Anche gli altri sono là ( c'erano già con la simultaneità delle cose), non ori· ginariamente come spiriti, e neppure come « psichismi », ma quali li affrontiamo, per esempio, nella collera o nell'amore : visi, gesti, parole, cui rispondono, senza interposizione del pensiero, i nostri a tal punto che a volte rinviamo contro di essi le loro parole ancor prima che queste ci abbiano raggiunto, altrettanto sicuramente, piu sicuramente che se avessimo capito ; ognuno è pregno degli altri, ed è confermato da essi nel suo corpo. Questo mondo barocco non è una concessione dello spirito alla natura : infatti, se ovunque il senso è figurato, si tratta ovunque di senso. Questo rinnovarsi del mondo è anche un rinnovarsi dello spirito, una riscoperta dello spirito grezzo che non è addomesticato da nessuna cultura, al quale si chiede di creare di nuovo la cultura. L'irrelativo, ormai, non è la natura in sé, né il sistema delle apprensioni della coscienza assoluta, e nem­ meno l'uomo : è quella « teleologia » di cui parla Husserl - che si scrive e si pensa tra virgolette -, giuntura e membratura del­ l' Essere che si compie attraverso l'uomo. -

(Segni,

a cur:�

di A. Bonomi, trad. di G. Alfieri, Millln o, 1967,

pp. 231-235).

8. PAUL RICOEUR Nato a Valence il 27 febbraio 1913 da una famiglia protestante, ha in· segnato dapprima nei licei di Saint-Brieuc, Colmar, Lorient, Nancy e Rennes. Le sue origini protestanti lo avvicinano allo studio della teologia barthiana ; a suo stesso giudizio, però, solo l'incontro con il pensiero di Marcel è stato « filosoficamente decisivo » . Durante la seconda guerra mondiale, pas· sata in un campo di concentramento tedesco insieme all'amico Dufrenne, studia il pensiero di J aspers e di Husserl, e inizia la traduzione delle ldee per una fenomenologia pura, che vengono pubblicate nel 1950 con una lunga introduzione e un commento, utilissimi alla comprensione dell'opera. Nel dopoguerra è ricercatore presso il Centro Nazionale della Ricerca Scientifica, collabora alle iniziative culturali della Chiesa protestante fran­ cese e alla rivista « Esprit » , fondata nel 1932 dal filosofo cattolico E. Mou· nier. In questo periodo, dedica alla fenomenologia husserliana molti impor­ tanti saggi e cominciano a uscire i suoi studi sulla « filosofia della volontà », che esprimono una personale concezione del compito fenomenologico. Nel 1949 inizia ad insegnare Storia della filosofia all'università di Strasbur­ go, succedendo a Jean Hyppolite ; nel 1956 ottiene la cattedra di Filosofia generale alla Sorbona : prima nella sede centrale, poi ( dal 1966) nella nuova università di Parigi X (Nanterre) ; qui sarà preside di facoltà dal marzo 1969 fino alle sue dimissioni, per motivi politici, del 17 marzo 1970. Negli ultimi anni ha insegnato per lunghi periodi negli Stati Uniti (Chicago). Scritti di Ricoeur : L'attention. Étude phénoménologique de l'attention et de ses connexions philosophiques, in cc Bulletin du Cercle Philosophique de l'Ouest » , gennaio-marzo 1940, pp. 1-28 ; Karl ]aspers et la philosophie de l'existence, (in collaborazione con M. Dufrenne) Parigi, 1947; G. Marcel et K. ]aspers. Philosophie du mystère et philosophie du paradoxe, Parigi, 1948; Philosophie de la volonté : l, Le volontaire et l'involontaire, Parigi, 1950 ; Husserl et le sens de l'histoire, cc Revue de Métaphysique et de Morale », 1949, pp. 280-3 16; Méthodes et taches d'une phénoménologie de la volonté : in AA. VV., Problème.� actuels de la phénoménologie, Parigi. 1952, pp. l l3-40; Analyses et problèmes dans (( ldeen II » de Husserl, in AA. VV., Phénoménologie-Existence, Parigi, 1953, pp. 23-76 ; Études sur les (C Médi­ tations cartésiennes » de Husserl, cc Revue philosophique de Louvain » , 1954, pp. 75-109 ; Histoire et vérité, Parigi, 1955 ; Kant et Husserl, c( Kant· Studien » , Il, 1956 ; Philosophie de la volonté : Il, Finitude et culpabilité : l ) L'homme faillible, 2 ) La symbolique du mal, Parigi, 1960; De l'interpré­ tation. Essai sur Freud, Parigi, 1965 ; Réforme et révolution dans l' Univer· sité, in (( Esprit » , giugno-luglio 1968, pp. 987-1002 ; Le conflit des interpré­ tations, Parigi, 1969 ; Lettre au Ministre de T: Education nationale, pubbli­ cata in (( Le Monde » , 18 marzo 1970; Philosophie et Langage, in AA. VV.,

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Contemporary Philosophy. Vol. III : Metaphysics. Phenomenology. Lan­ guage and structure, a cura di R. Klibansky, Firenze, 1971 ; Evénement et Sens, in AA. VV., Rivelazione e Storia, a cura di E. Castelli, Roma, 1971, pp. 15-34 ; L'herméneutique du témoignage, in AA. VV., La Testimonianza, a cura di E. Castelli, Roma, 1972, pp. 35-61 ; La métaphore et le problème centrai de r herméneutique, in cc Revue philosophique de Louvain >> , feb­ braio 1972. Traduzioni italiane : Dell'interpretazione. Saggio su Freud, trad. di E. Renzi, Milano, 1967; Finitudine c colpa, introd. di V. Melchiorre, trad. di M. Girardet, Bologna, 1970. Anche alcuni importanti saggi raccolti nel vol. Le conflit des interprétations, cit., sono stati tradotti in italiano : Cul­ pabilité, ethique et religion, in cc Concilium ll, 1970, n. 6, pp. 2 1-40 ; Reli­ gion, athéisme, foi; Démythiser l'accusation � La liberté selon l'espérance, in P. RICOEUR, L'ermeneutica del sublime. Saggi per una critica delfillu­ sione, a cura di M. Cristaldi, Messina, 1972. Su Ricoeur : Una bibliografia mirante a completezza si trova in F. GUERRERA BREZZI, Filosofia e interpretazione. Saggio sull'ermeneutica re· stauratrice di P. R., Bologna, 1969, pp. 244-262, che giunge :fino al 1968 ; cfr. inoltre D. F. VANSINA, Bibliographie de P. R., in c< Revue philosophi­ que de Louvain ll, 1962, pp. 394-413, 1968, pp. 85-101 ; ci limitiamo, quindi, a integrare la bihl. della Guerrera Brezzi : E. PAci, Psicanalisi e fenome­ nologia, in cc Aut Aut ll , n. 92, 1966, pp. 8-13 ; P. TROTIGNON, Les philosophes français d'aujourd:hui, Parigi, 1970, pp. 81-88 ; A. GAJANO, Psicanalisi e fenomenologia nel pensiero di P. R., in cc Giornale critico della :filosofia italiana ll, 1970, pp. 406-32 ; L. OnERTELLO, Filosofia e interpretazione, in > , 1971, pp. 97-1 10 ; B. MoNDIN, La filosofia del simbolismo reli­ gioso in P. R., in cc Aquinas ll, 1971, pp. 34-48 ; C. BENINCASA, P. R. e il conflitto delle ermeneutiche, in >. Le lezioni di

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:filosofia ascoltate all'università lo avevano lasciato deluso, soprattutto per la

pretesa

dominante nell'insegnamento

accademico

di

allora,

di

voler

fare della filosofia una specie di scienza. Neppure la giurisprudenz a, quella almeno appresa sui libri, lo aveva soddisfatto : il suo carattere cavilloso gli app ariva, per il momento, lontano dalle vere esigenze della vita. Sporadici, eppur fecondi, contatti col mondo dell'arte e della poesia ( al quale si riac­ costerà in seguito attraverso le analisi psicopatologiche delle personalità di Strindberg e di V an Gogh) non vaJsero ad allontanarlo da quella che gli ap­ p ariva allora la propria autentica vocazione : quella scientifica. Nella scienza

J aspers cercava soprattutto il contatto con la realtà e con l'uomo. La scelta della medicina gli fu dettata, infatti, sia dal bisogno di giungere al chiari­ mento di una propria situazione-limite esistenziale, sia dal bisogno di comu­ nicare con gli uomini. Sin dall'infanzia, una penosa malattia (soffriva di ectasia bronchiale e di insufficienza cardiaca) lo aveva tenuto appartato. La medicina gli offriva, assieme a un campo di conoscenze assai vasto, la possi­ bilità di comunicare con gli uomini su di un piano non solo patologico e 11rganico, ma anche interpersonale.

A una comunicazione . L'intento sistematico dell'opera traspare non tanto dalle analisi descrittive, condotte secondo un metodo gene­ tico in grado di afferrare le relazioni tra i significati e i motivi dei fatti psichici, quanto dalla visione >

che, scartando le teorie par­

ziali (considerate alla stregua di semplici immagini metaforiche ), mira alla totalità dell'uomo denotandone l'inafferrabilità oggettiva e l'irriducibilità esistenziale. L'accentuazione di questi motivi, che traspare sempre piu nelle edizioni successive, rivela l'assunto critico di mostra1·e la relatività dei me­ l ; gli venne a mancare quel sostegno· spirituale che rappresentava (( l'istanza per discussioni ragionevoli ll. L'am­ biente accademico gli era ostile : nella cerchia dei filosofi di vrofessione era considerato un estraneo. Già il Rickert aveva preso posizione contro la Psicologia delle visioni del mondo ; d'altra parte J aspers lanciava attacchi contro il suo sistema dei valori, e soprattutto contro la sua pretesa di fare della filosofia una scienza. Già allora l'idea di J aspers era che la filosofia non può arrogarsi una pretesa scientifica, ma deve soddisfare a una esie:enza di verità fondata su di una responsabilità che la scienza non conosce. Quando, nel 1921, si rese vacante, per trasferimento di H. Mayer a Berlino, la seconda cattedra di filosofia presso l'Università, Rickert fece di tutto per impedirgli di accedervi, ma la commissione e la Facoltà s'imposero. Allorché, nel 1922, J aspers assunse a Heidelherg la cattedra di ordinario di filosofia, senti cadere le remore interne, vide chiaramente il proprio compito ed ebbe l'ar­ dire di considerare la filosofia professione della sua vita. Occorreva, anzi( 5) Philosophische Autobiographie, in K. ]. Werk und Wirkung, Monaco, 1963, p. 39.

L'esistenzialismo tedesco

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tutto, assimilare profondamente il pensiero dei filosofi precedenti, cercare il loro contatto al di fuori di ogni appiattimento manualistico, onde con­ quistare un diverso livello di pensiero, insomma ricominciare tutto da capo. La coscienza di « essere in cammino >> lo spinse a un'assimilazione non pas­ siva, e soprattutto critica, della tradizione. Anzitutto Platone, per il suo atteggiamento filosofico fondamentale ; indi Plotino, Cusano, Bruno, Schel­ ling, con i loro > (das Allumfas­ sende, das Umgreifende) di cui parla nelle lezioni di Groninga pubblicate col titolo Vernunft und Existenz nel 1935, e che doveva trovare definitiva si­ stemazione nella monumentale opera dedicata alla > , di cui è apparso, nel 1947, solo il primo volume dal titolo Von der Wahrheit. Il prin­ -cipio informatore di quest'opera è che una verità unica e totale per l'uomo non esiste, mentre si hanno varie manifestazioni storiche, tutte relative, della verità. Perciò occorre che, al posto dell'idea di una comunità umana -costituita dalla partecipazione a un'unica verità, si sostituisca il concetto di una > effettuata ad opera di una ragione che sia tra­ sparente a se stessa, che abbia cioè coscienza di sé, dei propri limiti, dei propri metodi. Si tratta di effettuare un tipo di riflessione a prima vista impossibile : operare attraverso la ragione un superamento della ragione stessa obiettivante, si da far scaturire da un medesimo principio di per sé inafferrabile in quanto onnicomprensivo (das Utngreifende) la giustifica­ -zione insieme del soggetto come dell'oggetto, la coscienza e l'essere. Di là dai semplici problemi formali, a cui deve accordare pure la necessaria atten­ zione, occorre che la logica filosofica realizzi .un ulteriore progresso, cercando di afferrare attraverso la realtà storica la verità obiettivamente inintelligibile dell'esistenza. Tale opera fu elaborata nel silenzio della segregazione, dominata dal­ l'incombente minaccia della deportazione da parte del governo nazista e a cui J aspers e la moglie sfuggirono come per miracolo. Dal 1933 era stato �stromesso dall'amministrazione dell'Università ; nel 193 7 gli fu tolta la (6) Die geistige Situation der Zeit, Berlino, 1965, p. 161.

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cattedra, pur consentendoglisi di usufruire della pensione ; dopo il 1938 gli fu fatto divieto di pubblicare. Furono anni in cui si maturò il suo com· pleto distacco dagli ideali nazionalistici - ispiratigli, in un primo tempo, da Max Weber c soprattutto dalla Getmania intesa come istituzione poli­ tica, nonché l'apertura al cosmopolitismo. La gestazione di Von der Wahrheit è costantemente accompagnata dal pensiero che « la perdita del mondo tedesco trasmesso alla nostra generazione doveva provocare il ricordo deHe origini, affinché i tedeschi, divenuti nuovamente veritieri fossero degni dei loro antenati » e che > (1). Di qui l'idea di una sovrani tà su­ pernazionale in grado di difendere e garantire l'individuo contro i crimini e le sopraffazioni del proprio stato, e di una corresponsabilità degli stati per la difesa dei diritti dell'umanità minacciata. Queste idee vennero espresse, subito dopo lo. liberazione, nel corso tenuto all'Università durante l'inverno 1945-46 e pubblicato nel 1946 col titolo Die Schuldfrage ; quest'opera costi­ tuisce non solo una assunzione coraggiosa di corresponsabilità, da parte di una vittima del nazismo, nella colpa del proprio popolo, ma offre insieme uno schema valido per l'analisi di qualsivoglia coscienza collettiva esami­ nata sulla base del concetto di solidarietà nella colpa ( Hersch). Queste riflessioni portarono J aspers ad allargare il concetto di solida­ rietà universale, determinata da un'unica origine e da un unico fine tra­ scendente dell'umanità, alla storia mondiale. In Vom Ursprung und Ziel der Geschichte ( 1949) domina il concetto che « nella storia noi incon­ triamo noi stessi come libertà, come esistenza, come spirito, come serietà decisionale, e come indipendenza dal mondo intero. NeHa storia ci parla quello che non ci parla nella natura : il mistero del salto nella libertà e del rivelarsi d,ell'essere nella coscienza umana >> (8). Ne deriva un richiamo al senso di libertà e di responsabilità di ogni individuo anche nel campo del sapere e dello studio, come risulta attestato nel corso intitolato Die Idee der Universitiit, pubblicato nel 1946 e contenente un progetto di ricosti­ tuzione dell'Università tedesca. È sintomatico che, in questo campo, Jaspers auspichi l'accoglimento, accanto agli insegnamenti di filosofia, anche di quelli di teologia, non per formare mentalità dogmatiche - quali possono ri­ sultare, del resto, anche da un insegnamento unilaterale della filosofia -, ma per contribuire all'allargamento della conoscenza e della comunicazione umana sotto la guida stessa della filosofia. Anche questa ha bisogno, infatti, di essere illuminata da un credere non dogmatico, né basato su testi o auto· rità sacre, ma aperto a tutte le esigenze dello spirito umano e promosso dall'incontro di tutte le fedi in un'unica fede comprensiva di tutte le esi­ genze da queste postulate. È questo, secondo J aspers, il vero significato di una fede filosofica da concepirsi in relazione opposizionale ma non contrastante con la fede religiosa (Der philosophische Glaube, 1948 ; Der philosophische -

Glaube angesichts der Offenbarung, 1962). Il compito deJla filosofia 1·isulta ormai chiaro : filosofare significa contri­ buire a una comunicazione universale e interpersonale di cui la stessa logica filosofica costituisce lo strumento euristico e la storia collettiva dell'umanità

(1) Philosophische Autobiographie, in K. ]. Werk und Wirkung, Monaco, 1963, pp. 90-91. (B) Vom Ursprung und Ziel der Geschichte, Zurigo, 19,:9, p. 305.

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il campo di verifica e di attuazione. In tale ambito s'inquadra anche la cono­ scenza storica della filosofia e il significato delle opere già da tempo dedi­ cate da J aspers a questo scopo : da Nietzsche ( 1936) a Descartes und die Phi­ losophie ( 1937), dallo Schelling ( 1955) al primo volume ( unico apparso) di quella che doveva costituire una storia universale del pensiero filosofico e religioso, Die grossen Philosophen ( 1957), dedicata al pensiero non solo dci grandi filosofi (Socrate, Platone, Agostino, Kant ecc.) ma anche dei grandi riformatori religiosi del passato ( Budda, Confucio, Gesù). Il secondo dopoguerra vede J aspcrs impegnato in un'intensa attività di conferenziere, soprattutto alla radio. Questa attività, che prosegui fino alla sua morte, rimane documentata dalle raccolte : Einfiihrung in die Philosophie

(1 950), Rechcnschaft und A usblick ( 1951), Die A tombombe und die Zukunft des Menschen ( 1958), oltre a quelle già citate. A partire dal 1948 J aspers ha insegnato all'Università di Basilea, in Sviz­ zera, dove, in seguito a dissensi con la politica di Bonn, si era ritirato, e dove si è spento il 26 febbraio 1969. Per un'esposizione sistematica del pensiero di Jaspers l'opera fondamen­ tale rimane Philosophie. Ad essa è possibile coordinare il contenuto di altri scritti particolarmente significativi, come Vernunft und Existenz, Exis­ tenzphilosophie, Nietzsche, Von der Wahrheit ecc. L'opera principale pre­ senta la ricerca filosofica orientata verso tre mete concomitanti e ingeneran­ tisi l'una dall'altra : l'orientamento nel mondo ( Weltorientierung), il risehia­ ramento dell'esistenza (Existenzerhellung), la trascendenza (Metaphysik). Sotto l'espressione « orientamento nel mondo >> J aspers comprende l'esame delle condizioni del sapere sia scientifico che filosofico, in quanto atto a ren­ dere conto del « mondo >> ( Welt), termine col quale egli designa anzitutto la totalità comprensiva delle cose che non sono io. Da un primo punto di vista, del tutto provvisorio, il mondo sembra esprimere tutto l'essere del Da-sein, ossia dell'essere situato nelio spazio e nel tempo, come totalità em­ piricamente data in senso oggettivo e come totalità degli oggetti a cui l'uomo· accede dalla sua situazione e fra cui si muove col suo pensiero e la sua azione. Tuttavia cc mondo >> può significare ancora, e significa, la totalità soggettiva della coscienza e dello spirito, vale a dire dell'interiorità e delle idee in base alle quali l'uomo orienta la sua vita e la finalizza. Anche questa totalità riveste, dal suo canto, un significato oggettivo, in quanto sia la coscienza empirica che quella categoriale si definiscono in rapporto ad oggetti (sia concreti che formali) ; mentre lo spirito, espressione dell'intel­ ligenza e della volontà, implica un riferimento a un mondo di valori al quale peraltro accede solo attraverso la sua libertà. La nozione di cc mondo » si rivela pertanto complessivamente ambigua : la sua oggettività si rivela permeata di soggettività, e viceversa ; la sua realtà ( comprend�nte la materia, la vita, l'anima e lo spirito) si rivela permeata insieme di necessità e libertà. Questa ambiguità finisce per denotare l'impossibilità, da parte sia delle scienze della natura che di quelle dello spirito, . di pervenire, unilateral­ mente, alla costruzione di una vera immagine del mondo, realmente anni­ comprensiva. La scienza mira, infatti, all'obiettività che essa persegue, come totalità, in ogni campo corrispondente alla propria specializzazione. Questo denota. il limite e la fondamentale incompibilità del sapere scientifico, sia in campo

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positivistico, rivolto alle scienze della natura, che idealistico, rivolto alle scienze dello spirito. Da un lato la materia bruta, dall'altro il significato dell'esistenza si sottraggono perpetuamente alla conoscenza di tipo scien· tifico. La ricerca sistematica dell'obiettività induce la scienza a trascurare .aspetti e valori essenziali della realtà, traducendosi in una svalorizzazione limitativa del senso generale dell'essere. La scienza mira cosi a un sapere -definito, concettuale, astratto, in quanto prescindente dalle motivazioni esi· stcnziali che ne giustificano l'impulso e la direzione. In particolare, la cono· scenza scientifica si presenta limitata in vari sensi. Anzitutto in quello della propria correlazione all'essere che è l'oggetto ultimo di ogni conoscenza veritativa ; in secondo luogo, in quello della vita, in quanto non è in grado di rispondere ai quesiti fondamentali dell'esistenza, né di fornire alla vita una direzione, uno scopo ; in terzo luogo, in quello della propria stessa giu­ stificazione, in quanto non è in grado di illuminare i propri presupposti. Già questi limiti denotano l'indispensabiltà di un rinvio alla filosofia, mo­ tivato d'altronde, anche positivamente, dal fatto che sia la filosofia che la scienza esprimono entrambe un impulso irresistibile verso il sapere e la verità ; che entrambe aspirano a una comprensione unitaria del mondo ; entrambe, infine, corrispondono a una medesima necessità metafisica : quella di attingere l'essere, non mai dato nelle fortne dell'obiettività scientifica. Ciò spiega l'apparenté rifiuto della metafisica da parte della scienza : rifiuto ehe è, d'altra parte, l'espressione di una esigenza metafisica la quale risulta come celata nella consistenza degli stessi fatti positivi di cui si occupa la scienza ( che è poi l'aspetto pià autentico di un vero empirismo e di un sano positivismo). L'ambito della scienza si estende e si mantiene nei limiti .di un'obiettività necessaria del sapere ; ma la scienza è qualcosa di piu : espli­ citare questo di piu significa stabilire il suo essenziale rapporto con la nlosofia ( 9). La filosofia, dal suo canto, si presenta non come un semplice preludio, o come un completamento del pensiero scientifico. Il suo compito non è quello di surrogare la scienza, né di costruire dei sistemi pseudo-scientifici ; bensi, :fondamentalmente, esso è quello di trascendere oltre ogni obiettività costi· tuita per via sistematica o scientifica, verso un'obiettività non mai data, ma costitutivamente presente, come limite, nell'atto stesso del trascendere. Per questo la filosofia non può mai prescindere dal rigore speculativo che costituisce la scienza ; ma è, in pari tempo, qualcosa che reclama l'aspetto scientifico soltanto come mezzo, come strumento di una vocazione piu .alta : quella di una vera e propria fede (in senso filosofico) che invoca l'es· sere e Io attesta. In particolare, la filosofia reclama una relazione non im­ personale all'essere che ridia significato al mondo riempiendolo di significati (amore, odio ecc.), inaccessibili al semplice pensiero scientifico e inattin· gibili ai fini della semplice utilizzazione pratica del sapere. Essa reclama inoltre una relazione interpersonale, vale a dire una comunicazione -e un colloquio inesauribili quali possono intrattenersi soltanto noli fra coscienze anonime e spersonalizzate come quelle che presuppone la scienza, ma fra -esistenze libere destinate a convergere in una medesima spirituale unità. In terzo luogo, essa ha il compito di offrirei una immagine del mondo veramente onnicomprensiva. Una immagine non mai realmente e defini(9) Cfr. Existenzphilosophie,

Berlino, 1936, pp.

7-12.

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tivamente conclusa, ma aperta a tutte le possibiÌità di interpretazione del mondo e dell'esistenza, sia in senso soggettivo che oggettivo. Una immagine­ limite del mondo, non statieamente definita, ma attivamente perseguita, nell'atto stesso del trascendere ogni obiettività definita, come il significato stesso di una trascendenza da cui promanano tutti gli aspetti, sia soggettivi che oggettivi, della realtà e la loro interconnessione. Una immagine del mondo corrispondente, infine, a una visione insieme subiettiva e obiettiva, che sia mia e non piu mia, in quanto appropriata in una dimensione del­ l'essere che travalica, pur inerendovi, il mio stesso essere soggettivo e il mio destino individuale ; e contemporaneamente oggetto di una fede non imposta, ma liberamente accettata, in un essere vissuto all'interno della mia libertà ( 10). A una siffatta immagine del mondo, non mai conclusa e non mai defini­ tiva, la filosofia può pervenire solo attraverso la scienza, mediante la visione obiettiva e il linguaggio stesso che la caratterizzano. L'essere non può infatti venire perseguito inizialmente, nonché successivamente comunicato, se non in modo oggettivo. La trascendenza non può manifestarsi che in un mondo, che è quello stesso che viene esplorato dalla scienza, dai cui risul­ tati la filosofia non può c non deve quindi mai prescindere. Ma la scienza si ferma all'oggettività : la filosofia invece procede oltre, perseguendo in se stessa il significato del limite che insieme l'apparenta e la distingue dalla scienza. La scienza serve alla filosofia impedendole di ritenersi una scienza e richiamandola cosi alla sua specifica vocazione che è quella di illuminare l'esistenza. La filosofia, dal canto suo, serve alla scienza indicandole i propri limiti ed evitandole di perdersi in un relativismo assoluto o di trincerarsi in un puro dogmatismo. Questa « lotta fraterna » tra filosofia e scienza è una lotta per la à vera filosofia » , per la > ("). Compito principale della filosofia è di chiarificare l'esistenza, in modo da permetterle di orientarsi nel mondo, nel riferimento continuo alla tra­ scendenza. La chiarificazione esistenziale corrisponde all'atto del trascen­ dere nell'ambito dell'infinita possibilità comprensiva di tutti gli aspetti della realtà che noi siamo e che il mondo stesso è. Ma trascendere equivale ad esistere ( ex-sistere) : questa circolarità significa che la trascendenza non può essere attinta che attraverso l'immanenza, ossia come esperienza di una totalità concretamente vissuta, c non semplicemente perseguita astrat­ tamente in sé e per sé, indipendentemente dai contenuti che l'alimentano. Questa totalità non può concepirsi in sé conclusa, ma è l'espressione di una possibilità che si propone continuamente di là da ogni limite puramente concettuale col quale noi tentiamo afferrarla per definirla, e che reclama pertanto di venire perseguita continuamente. L'esplorazione di questa tota­ lità, corrispondente all'orizzonte onnicomprensivo dell'essere c della verità (das Umgreifende), è compito della ragiorte c dell'esistenza. Alla prima è affidato il compito d'infrangere d'un balzo (Sprung} tutte le determinazioni oggettive e formali (involucri) della verità costituite dall'intelletto ; alla seconda il compito di realizzare questa possibilità attraverso la personale decisione ( Entschluss). Ragione ( Vernunft) e intelletto ( Verstand) sono in un rapporto di necessario antagonismo (né piu né meno che filosofia e ( ID) Cfr. Philosophie, Berlino, 1932, vol. I, (") Cfr. ibid., pp. 328-329.

pp.

244.246.

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scienza), ma anche di necessaria integrazione. È necessario, infatti, giungere alla chiarificazione concettuale, ma per oltrepassarla nell'idea : motiyo rego­ latore e insieme integratore (come per Kant) che esprime l'impulso della ragione verso la totalità e l'unità. Se la ragione esprime l'esigenza di un'obiet­ tività perseguita di là dalle semplici determinazioni formali dell'intelletto, l'esistenza esprime l'esigenza della suhiettività che deve essere tenuta in ·conto, come principio motore della ragione stessa e come principio decisivo dell'appropriazione personale della verità (Kierkegaard). Tale appropria­ zione può aver luogo, come per la ragione, solo con discontinuità, ovvero nel cc salto ». Razionalità e arazionalità si compongono cosi a costituire una logica filosofica, o una cc alogica razionale >> (vernunftige A logik), distinta dalla semplice logica formale che contraddistingue il funzionamento del­ l'intelletto. Si tratta di una cc logica >> che si identifica con Io sforzo stesso del pensiero di superare se stesso per affidarsi all'incommensurabilità del­ l'essere e trarre da questa l'illuminazione necessaria a decifrare gli aspetti di per sé meramente allusivi ( Chiffre, signa) della realtà (12). Solo inve­ stendo di un significato superesistenziale - quello, appunto, dell'essere nella sua infinita comprcnsività -, gli aspetti e i significati concreti dell'esi­ stem:a finita, essi potranno acquis tare quella necessaria cc trasparenza » , -corrispondente alla loro cc verità », che si presta ad essere oggetto d i un'analisi non puramente fenomenologica, ma insieme partecipativa ed esistenziale. Fra questi aspetti del chiarimento esistenziale occorre sottolineare anzi­ tutto la libertà. L'esistenza è sinonimo di libertà, ma questa libertà si rivela sempre permeata di necessità. Necessità del mio corpo che posso solo in parte controllare ; necessità del mondo fisico e naturale che posso domi· nare solo in parte attraverso la previsione scientifica e la tecnica ; necessità delle norme morali e delle leggi razionali che esprimono una autolimita­ zione intrinseca alla libertà. Necessità, infine, espressa dalla stessa situa­ zione esistenziale, del conflitto fra essere e poter essere, fra ciò che sono già in base alle mie scelte precedenti, e ciò che posso essere in base alla decisione della mia volontà. Per questo l'atmosfera della libertà è l'angoscia, l'incertezza, il tischi.o, che traducono la condizione di possibilità pur sempre legata alla limitazione dell'esistenza finita in cui la libertà consapevolmente si attua. Ma la libertà è in pari .tempo possibilità infinita di autorealizzazione, di attuazione autocomprensiva del sé. Per questo, l'atto che la rivela non è quello costituito dalla scelta fra possibilità opposte, in senso oggettivo, ma quello della scelta incondizionata del mio io sottratto alle condizioni empiriche e rivolto, già in partenza, a uno scopo assoluto, per quanto indeterminato e indeterminabile. La libertà non si attua mai direttamente, a prescindere cioè dalle concrete scelte mondane e dalle possibilità offerte -dalla situazione. Nella sua totalità e incondizionatezza essa non si esprime neppure nella continuità del rapporto con le condizioni finite dell'esistenza, bensi nella discontinuità, nel salto, nella trascendenza. Quest'ultima esprime una necessità non estrinseca, ma intrinseca, per cui la libertà stessa risulta in pari tempo illimitata c limitata dalla presenza di qualcosa d'altro; di un destino, di un Miisscn, che deve venire appropriato e che intrinsecamente la condiziona. Riappare cosi il tema nietzschiano dell'amor fati, che è quello di una volontà che vuole se stessa nella dimensione di una trascendenza infi( 12)

Cfr. ibid., pp.

15

e

43 ;

e

Vernunft und Existenz, Groninga, 1935 , pp. 39-43.

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nita (13). Di qui il paradosso che quanto piu l'individuo vuoi essere inte­ gralmente se stesso, tanto più deve fare i conti con un altro che lo sorpassa. Ne discende l'esigenza della comunicazione, determinata dal fatto che all'interno della mia lihe1·tà scopro la presenza di un altro senza cui non posso essere né divenire veramente me stesso. La comunicazione esisten­ ziale si differenzia dalle altre forme di comunicazione oggettiva ( famiglia, società, stato) che possono favorirla o insidiarla, mentre in ogni caso, costi­ tuiscono l'occasione, anzi la condizione indispensabile del suo attuarsi. AI pari della libertà, anche la comunicazione costituisce un paradosso : essa si può esprimere come l'esigenza di divenire un altro rimanendo se stesso ; è quindi l'espressione di una necessità esistenziale che esclude la conven­ zione e l'opportunità. La comunicazione esistenziale è intcrsubiettiva : essa implica la presenza di due soggetti che si riconoscono insieme eguali e diversi. Perciò essa esige, come momento iniziale, la solitudine non solipsistica, ma di fronte all'altro, ed è un rapporto di convergenza-divergenza che si esprime insieme nell'antagonismo e nell'interferenza di odio e amore. La sua condizione è pertanto pTecaria e può esaurirsi : come espressione di un divenire la comunicazione è infatti contingente ; dunque può interrom­ persi e perire. Tuttavia essa è la rivelazione di una trascendenza il cui significato si ripropone continuamente ai confini dell'esistenza, in quelle che J aspers denomina le situazioni-limite. Esse sono costituite, oltre che dalla condizione di essere nel mondo, dalla morte, dalla lotta, dalla colpa. A differenza delle condizioni empiriche che possono essere sempre modi­ ficate esse si presentano come assolutamente irrevocabili. Il fatto di essere al mondo mi costituisce già di fatto in una situazione che può essere subita passivamente o consapevolmente accettata. Questa situazione costituisce già di per sé la storicità ( Geschichtlichkeit) che si rivela per piani successivi e ascendenti : come collegamento dell'esistenza all'essere empirico, come unione di libertà e necessità, e, infine, kierkegaar­ dianamente, come interferenza di eternità e di tempo nell' « istante JJ . La storicità ( Geschichtlichkeit : da non confondersi con Histoire, che esprime l'aspetto semplicemente rappresentativo della conoscenza storica) esprime la concretezza di tutte le situazioni legate al tempo, ed è la condizione delle situazioni-limite particolari, tra cui la morte. La morte non costituisce per J aspers - come per Heidegger - la rivelazione del nulla concepito come totalità dell'esistente, ma l'impegno decisionale dell'esistenza per l'affer­ mazione della trascendenza, al limite e al di là della propria realtà empi­ rica, riconosciuta come tale e quindi trascesa nel!;angoscia : non della morte fisica, ma di quella spirituale. La stessa sofferenza che l'accompagna, segno della precarietà dell'esistenza fisica, m'induce a considerare il piacere non come fine ultimo e scopo dell'esistenza, unendomi alla trascendenza. Anche la lotta e la colpa esprimono questo legame con la trascendenza : l'una come superamento del conflitto e della violenza che contrassegnano l'esistenza

( 13) L'espressione amor fati assume pertanto in Jaspers il significato di dedizione al­ l'essere, alla trascendenza, all'assoluto, ricollegandosi cosi al significato kierkegaardiano della « ripetizione D. Il torto di Nietzsche è, secondo J aspers, di avere espresso, in fondo, lo stesso concelto servendosi però del linguaggio dell'immanenza, facendo della volontà di potenza l'espressione stessa dell'assolnto ( cfr. Nietzsohe, Berlino, 1936, pp. 315-316, 380-386). La volontà che vuole se stessa, come volizione all'infinito, riveste pertanto, in Jaspers, il significato inequivocabile della trascendenza (eh. Philosophie, cit., vol., Il, pp. 151-152, 278).

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emp1nca ; l'altra, come assunzione responsabile della situazione in cui mi trovo senza mia colpa, ma con tutta la libertà di realizzarmi. « Realizzan­ domi mi trovo rapportato alla trascendenza dall'inte1·no della mia incom­ piutezza che in quanto libertà è colpa >> ( 14). Esaminata nella sua interezza, tutta la filosofia di J aspers costituisce un continuo rimando alla Trascendenza. È in ciò, secondo J aspers, che si rivela l'assunto propriamente metafisica della filosofia. Questo assunto me­ tafisica non può venir confuso con una dottrina antologica dell'essere di per sé dato. Il significato della Trascendenza si rivela come manifestarsi storico dell'essere all'esistenza, nell'apparenza dileguante del suo signi­ fic ato, come > (C hiffre ), e nel protendersi consapevole di tutta l'esi­ stenza verso l'essere, ossia come atto concreto del trascendere. Tale atto cor­ risponde alla decisione esistenziale in cui si realizza la stessa libertà del sapere : di un sapere che si attua come non-sapere, ossia come sapere che non si lascia racchiudere nella ristrettezza dell'esser-saputo, nella pura con­ cettualità, ma che si vale delle categorie solo come via d'accesso all'unità non categorizzabile, nell'impulso della coscienza ad aprirsi al significato della verità inoggettivabile. Pur nel suo distinguersi dalla scienza quale sapere senza specifico oggetto, la filosofia deve pure poter avvalersi del metodo oggettivo della scienza per un' > ( hinaus­ gchenden A usdruck), nel suo dirigersi, attraverso una serie di > ( transzendierender Vollziige ), verso una Trascendenza orga­ nizzati va del suo pensiero. Si ha cosi un trascendere nell'orientamento mon­ dano, nella chiarificazione esistenziale e in quella metafisica : tre modi che, pur nella loro distinzione relativa, necessaria per la chiarezza della rifles­ sione e l'ordine del pensiero filosofico, si compenetrano completandosi, in via non soltanto progressiva, ma anche retrocessiva, a vicenda. La Trascendenza non può essere colta, infatti, che attraverso l'immanenza nel convergere di tutti gli sforzi del pensiero verso l'unità di un'obiettività scomparente nell'attimo stesso in cui è presente. È questo il significato della > : modo di rivelarsi dell'oggettività metafisica, in quanto espressione della Trascendenza, ossia « linguaggio )) , che non può comunque venir com­ preso nella forma generale della coscienza, ma inteso soltanto come « sim­ bolo )). La decifrazione di questo « simbolo >> nori può essere colta attra­ verso nessuna indagine speculativa, ma solo storicamente perseguita dall'e­ sistente in concreto, attraverso l'esperienza dello « scacco >> o « naufragio >> (Scheitern) del pensiero speculativo, astraente, e al limite stesso della co­ municazione esistenziale. Solo nel naufragio si scorge il fondamento della verità, come enigma ( cifrato) dell'Essere : onde « nell'esperienza viva del­ l'inesplicabile, il non sapere diventa qualcosa dell' Essere, inteso come fonte e o1·igine prima di ogni vera e propria consapevolezza di sé, nell'immensa ricchezza dell'esperienza del mondo e della realizzazione dell'esistenza >> (15). Non la rassegnazione passiva, ma la rassegnazione attiva, caratterizza l'at­ teggiamento esistenziale di fronte all'Essere che viene sperimentato nel nau­ fragio. Questa caratterizzazione attiva della rassegnazione è quella che si esprime nella fede, la quale, non come fede dogmatica, ma come « fede filoso­ fica »� si presenta quindi come complemento necessario della filosofia e come l'autentica via storica di accesso alla verità. ( 14) Philosophie, cit., vol.

Il, p. 199. p. 230.

( 15) Philosophie, ci t., vol. II,

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Siccome noi non viviamo nell'Essere, ma nell'esser-ci temporale, il senso della verità non risiede mai per noi in un compiuto possesso, ma per cosi dire, sulla via dell'acquisizione. La verità non può infatti configurarsi come una totalità in sé . conclusa, ma è sempre collegata con la non-verità, non soltanto distinguendosi da essa, ma altresi comprendendola in un continuo movimento di ricerca e di superamento, in cui soltanto è dato di scoprire la effettiva relazione tra (( vero >> e (( falso » . La verità non esiste di per sé come qualcosa di fisso che aspetti soltanto di venir comunicato. La comu­ nicazione non è, dal suo canto, qualcosa di necessario, ma la condizione stessa e l'origine della verità in relazione al processo di acquisizione che si rivolge dalla scissione di soggetto e di oggetto, in cui appare primamente diviso il senso della verità, alla trasformazione oggettiva del senso · della soggettività che diviene perciò comunicabile. La verità si genera dall'in­ treccio del pensare col vivere : il suo offuscamento non può generarsi che nell'allentamento del vincolo che stringe insieme questi due termini, nell'i­ solarsi incerto e malsicuro del vuoto intelletto da un lato e della mia vita vissuta dall'altro. Come da tutto ciò si può comprendere, il significato della verità ci è porto attraverso una mediazione : attuare questa mediazione è compito della logica filosofica. Tale compito è quello di mostrare che nes­ suno dei modi della comprensività infinita può considerarsi come un tutto in sé concluso, né posto sullo stesso piano di un altro ; né d'altra parte il tutto può essere mai saputo come tale senza riferimento ad un altro, al mondo, alla Trascendenza, a Dio. L'unica via per giungere a concepire l'esistenza di Dio è infatti quella stessa o ffertaci dall'immagine del comprensivo, in cui la vivente attualizzazione dell'Assoluto si compie "in ogni istante e diret­ tamente in ciascuna situazione storica particolare, pur senza giungere a for­ mularsi in particolari articoli di fede ; essendo la fede piuttosto manifesta­ zione di una certezza che s'instaura per l'azione, nell'improvviso ammuto­ limento dell'Essere di fronte al sapere obiettivo. L'unità della verità, venendo a contatto con la concreta situazione sto­ rica si scinde nei due aspetti dell' (( eccezione » (Ausnahme) e dell' (( auto­ rità >> (A utoritiit). Si tratta di una vera tensione o polarità in cui si mani­ festa storicamente il significato realmente onnicomprensivo della verità con­ siderata, kierkegaardianamente, nella sua specifica accezione di lotta contro l'universalità, il generale, e, per contro, di tendenza a fissarlo in modo tra­ scendente. Per il suo apporto trascendente l'autorità, se tende da un lato all'irrigidimento della verità, costituisce, dall'altro, una continua sollecita­ zione a far si che l'eccezione non si tramuti nell'arbitrio di una nuova autorità. Cosi, nella continua rinnovata tensione fra autorità e libertà, l'autorità tende a fondersi con la libera accettazione dell'individuo, in una lotta comune contro l'arbitrio e contro il fato. A questa stregua si può intendere e definire anche il rapporto fra religione e filosofia (storicamente corrispondente, almeno in parte, a quello fra cattolicità e ragione), anzi, il loro conflitto. Conflitto che appare, piu che altro, dovuto alla caratteriz­ zazione inadeguata e parziale di ciascuno dei due punti di vista quando venga assunto dall'altro lato. Esso tuttavia sembra trovare la sua composi­ zione nell'armonica comprensività dell'uomo capace di essere costantemente se stesso sia quando sperimenti la fede filosofica - senza cui nessuna filo­ sofia è vera filosofia -, sia la fede religiosa. Ne deriva la paradossale con­ seguenza, per la filosofia, di dover discutere l'esigenza della verità che non è filosofica, ossia la natura del proprio rapporto con la fede religiosa e

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l'insorgenza costante del conflitto tra filosofia e religione. Tale conflitto, se

è e rimane incomprensibile nella sua risoluzione estrema, deve tuttavia

essere assunto su di un piano di parità e di eguaglianza, in modo da non precludersi al significato tanto pio profondo della realtà, in quanto fatto presente e condiviso da entrambe le istanze della fede, sia filosofica che religiosa ( 16).

3. Martin Heidegger Martin Heidegger è nato a Messkirch, villaggio del Baden, da genitori entrambi di fede cattolica, il 26 settembre 1839. Compi i primi studi a Co­ stanza e al Bertholdgymnasium di Friburgo, dove consegui la maturità. A Friburgo, nel 1909, si iscrisse all'Università dove insegnava allora il Rickert e dove poté ascoltare, pio tardi, lo Husserl, di cui doveva diventare collega, collaboratore e amico. Frequentava intanto - come ama sottolineare nella breve nota biografica aggiunta alla tesi di dottorato, del 1914 oltre che le lezioni di filosofia, anche quelle di teologia, di matematica, di scienze naturali, e nell'ultimo semestre, quelle di storia. . Circa i primi influssi ricevuti durante il periodo del suo discepolato, Heidegger accenna al Rickert, piu che come teorico dei valori come a colui che lo avviò, per primo, alla comprensione dei problemi della logica moderna ; e al Finke, che ebbe il merito di suscitare in lui, finora alieno dai problemi storici, amore e comprensione per la storia. Al di fu01-i dei rapporti di diretto discepolato, conviene tuttavia sottolineare anche l'in­ fluenza, in questo periodo, del Kiilpe, esponente dell'indirizzo realistico, -

( 16) Lo sfon:o di Jaspers ci pare quello di cercar di promuovere una conciliazione antinomica, in senso incoativamcnte analo.gico, dei vari significati che la sua filosofia esprime. Ma tale sforzo sembra urt;uc con tro un limite invalicabilc : quello appunto espresso, nella sua concezione, dal significato stesso della trascendenza a cui costantemente si appella la sua filosofia. La trascendenza jaspersiaua rileva, inf;�tti, ben piu del carattere della trascendentalità, ossia di una trascendenza che si giustifica soltanto in base all'immanenza dei significati che essa esprime per il Dasein, come atto del trnsccndere e come concetto limite dell'esistenza, che come trascendenza autentica. ll suo signific11to è e rimane, per· tanto, privativo : come rivela il concetto stesso dello « scacco » che la conclude. L'analo· gicità si arresta ai limiti del fenomenico, della « comprensività infinita », senza riuscire a costituirsi in una inferenza non soltanto negativa, ma anche positiva all'Assoluto. Tale im· possibilità di stabilire un vero contatto con l'Assoluto viene del resto ben sottolineata nel volume della Hersch (J. HEH5CH, L'illusion philosophique, Parigi, 1936) secondo cui tutta la filosofia d.i Jaspers sarebbe una denuncia spietata di questa impossibilità. Per contro, sostanzialmente favorevoli a riconoscere un esito positivo, nel senso di una possibile riso­ luzione trascendente della problcmatica di Jaspers, appaiono Dufrenne e Ricoeur (M. Du· FIIENNE et P. RrcoEUR, Karl ]aspers et la philosophie de l'existence, Parigi, 1947). Al sem. plice quanto ambiguo principio dell'implicanza degli opposti la riconduce L. PAIIF.Y50N (La filosofia dell'esistenza e C. ]aspers, Napoli, 1940). Per conto nostro, ci sentiamo di poter tranquillamente riconoscere con J. WAHL (Études kierkegaardiennes, Parigi, 1938, p. 584) che l'idea di trascendenza non risulta minimamente provata in Jaspcrs, dallo scacco dell'immanenza. Quanto al problema di Dio, abbiamo ultimamente scritto Trascendcnza cd Essere con la maiuscola ; ma che senso h-a, da un punto di vista esistenziale, riferire la trascendenza a un essere impersonale? Sii! qui il punto critico, anzi l'insolubilità esisten· ziale, da parte di Jaspers, del vero problema dell'Essere che non può, dal punto di vista dell'esistenza, essere concepito che come assoluto personale. Ora, pur ammettendosi, da parte di Jaspers, che la Trasccndenza possa assumere anche volto personale, di fatto il suo concetto sfuma nell'impersonalità. ,

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alla cui esigenza di una metafisica induttiva, libera da presupposti ideali­ stici di vecchio o di nuovo stampo, ma basata su di una rigorosa indagine dell'esperienza, sul tipo e sul modello delle scienze empiriche, si ispira il primo- dei saggi pubblicati da Heidegger e apparso col titolo Das Realitiitspro­ blem in der modernen Philosophie nel > del 1912. L'articolo presenta un notevole interesse nel segnalarci quei punti che sono rimasti immutati nell'evoluzione successiva di Heidegger ; vale a dire : l'interesse per la realtà e la tendenza ad affrontare il suo problema con libera, nonché rigorosa mentalità scientifica. Questa mentalità ci è del resto con­ fermata anche dall'altro articolo intitolato Neuere Forschungen uber Logik pubblicato, nello stesso anno, sulla rivista di Husserl le due prime sezioni di Sein zmd Zeit, opera desti­ nata a rimanere incompiuta ; nel 1928 si fa editore delle lezioni tenute da Husserl nel 1905 sulla fenomenologia della coscienza interiore del tempo ( Vorlesungcn zur P hiinomenologie des inneren Zeitbewusstseins ) Dal 1916 al 1927, data della pubblicazione di Essere e tempo, Heidegger non produce nulla. Quale la ragione di questo lungo, quasi inesplicabile, si­ lenzio in uno scrittore rivela tosi cosi precoce ? Evidentemente, Heidegger si ·è accorto di essere arrivato, per la strada inboccata della logica, a un punto morto. Le ricerche logiche e scienti:fiste, di remota origine positivista, hanno ormai fatto il loro tempo : il problema della scienza non occupa piu tanto il dopoguerra. La profonda crisi attraversata dalla Germania e da tutta l'Europa con la prima guerra mondiale ha profondamente mutato gli animi. Quanto alla fenomenologia, essa, come testimoniano le stesse parole di Husserl contenute nel testo del 1937 che doveva servire da introduzione alla terza parte della Krisis, era entrata in una fase di ripensamento, costi­ tuita dalla necessità di affrontare e approfondire i problemi del mondo e della vita. In questa direzione si muovono alcuni degli stessi discepoli di Husserl : da Max Scheler a Emil Lask., a Nicolai Hartmann : con i quali l'istanza dell'a-logico, dell'a-razionale (se non dell'irrazionale) riferito agli stessi contenuti morali, estetico-sensibili, religiosi, si pone al centro dell'in­ dagine fenomenologica. Possiamo da tutto ciò facilmente arguire che le me­ ditazioni di Heidegger nel periodo del « lungo silenzio » , seguito alla pub­ blicazione del saggio su Duns Scolo, volgessero appunto su questi temi e assunti critici sottolineati da Sein und Zcit. A ciò si devono aggiungere le suggestioni profonde, destinate a fruttificare sempre pio in seguito, eserci­ tate sul mondo culturale germanico, negli anni immediatamente antece­ denti la prima guerra mondiale - oltre che da I-legel e da Schelling dalla pubblicazione (come Heidegger stesso ricorda) della seconda edizione della Volontà di potenza del Nietzsche, dalla traduzione delle opere di Kierkegaard, dalla poesia di Rilke e di Trakl, e, infine, dalla pubblicazione delle Gesammelte Schriften di Dilthey. Mentre Dilthey esercita un influsso decisivo in quella parte di Essere e tempo destinata a riconoscere nel fenomeno del tempo, come espressione della vitalità storica, il senso stesso dell'essere della « cura » ; Kierkegaard viene assimilato soprattutto con riferimento al concetto dell'angoscia e a quello della temporalità costitutiva del Da-sein. Permane comunque nei confronti di Kierkegaard (come anche di Agostino) una doppia preclu­ sione : quella di non aver saputo sviluppare l'indagine sull'esistenza se­ condo una vera e propria problematica filosofica in senso esistenziale, e quella di essere rimasti, nonostante tutto, prigionieri degli schemi dell'onto­ logia classica ( di Hegel e dei Greci). È sintomatico che, contemporaneamente alla elaborazione di Sein und Zeit, Heidegger affronti già, in una confe­ renza del 1925, una interpretazione di Kant (sviluppata poi neii'opera : Kant und das Problem der Metaphysik, del 1929) in cui, di contro alla interpre­ tazione meramente gnoseologica dei neo-kantiani, Kant è interpretato me­ tafisicamente. Secondo Heidegger, il vero significato del fenomeno kantiano .

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non è quello di nascondere la cosa in sé, ma di rivelarla. Se Kant non è giunto a concepire una simile possibilità di fondazione, attraverso il feno· meno, della metafisica, è perché non ha saputo sviluppa1·e adeguatamente il principio dell'immaginazione trascendentale e del concetto di tempo ad essa connesso. Perciò tutta la filosofia kantiana resta ancorata all'antropo· logia, anziché svilupparsi in una metafisica destinata a corrispondere al que­ sito sull'ente, sull'uomo : quesito a cui non è possibile fornire una risposta se non affrontando direttan1ente il problema dell'essere stesso. Questo non può tuttavia venir perseguito che attraverso il fenomeno : è quindi di una « fenomenologia ontologica » o di una « ontologia fenomenologica >> che in Sein und Zeit si tratta. Ciò implica una rottura sia con l'ontologia tradi­ zionale, sia con la fenomenologia come la concepiva Husserl : persegui­ mento puro delle essenze di là da ogni fenomenologia empirica dell'appa· rire, dell'esistente in concreto, legato al tempo. Conseguentemente, pertanto, la pubblicazione di Essere e tempo segna la rottura con Husserl (col quale aveva purtuttavia ultimamente collaborato nella compilazione della voce > ; perciò l'assioma tradizionale ex nihilo nihil fit dev'essere rove-

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sciato nel senso che ex nihilo omne ens qua ens fit ( 21 ). L'esplicitazione di questo rapporto fra essere ed ente, inteso come > (Schritt zuriick) della essenza piu profonda della metafisica, quale ci è rivelata dalla sua stessa storia, a partire soprattutto dagli inizi. Ma a questo recupero > della metafisica ( quale si enuncia nei frequenti excursus delle opere, soprattutto dell'ultimo periodo, e nei corsi universitari), che vuole in pari tempo essere un > (Oberwin­ dung) della metafisica storica, , si accompagna costantemente l'impulso cc mi­ stico >> di apertura al linguaggio diretto eppur misterioso dell'Essere, della Trascendenza, quale si rivela, appunto, nella poesia, nella parola. L'insistenza sui motivi dell'ascolto, del silenzio, dell'abbandono ( Gelas­ senheit) caratterizza il gruppo di scritti dedicati all'ermeneutica del lin­ guaggio ( Unterwegs zur Sprache, 1959 ; Gelassenheit, 1959 ; Sprache und Heimat, 1960) e all'esegesi poetica (Hebel der Hausfreund, 1957 ; Holderlins Erde und Rimmel, 1960) ; cosi come la ricerca di un pensiero direttamente evocativo dell' Essere trova espressione nell'adozione, da parte di Heidegger, di un linguaggio esoterico che nulla ha a che fare con quello della meta­ fisica tradizionale (cfr. particolarmente Das Ding, titolo di una conferenza tenuta nel 1950 e ora raccolta, con altri scritti affini, in Vortriige und

Aufsiitze). Dal 1944-45, dopo che un decreto delle potenze occupanti la Germania gli inibi qualsiasi attività accademica pubblica, Heidegger si è soprattutto dedicato alla edizione dei propri scritti successivi a Sein und Zeit. Ha tenuto anche alcune conferenze, tra cui quella intitolata : Die Sprache ( 1950) che segna l'inizio delle sue ricerche sulla lingua, e quella, già citata, sulla > (Das Ding). Dal 1951 al '58 ha ripreso, in parte, la propria attività accademica con corsi dedicati a Parmenide, Hegel, Aristotele, Leihniz, e sull'essenza del linguaggio. Vive attualmente ritirato in un villaggio della Foresta Nera. Per fissare la prohlematica di Heidegger occorre tener presente, anzi­ tutto, il suo concetto di e (Faktizitiit), da non considerarsi tuttavia alla stregua di un semplice factum brutum, ma in relazione al fatto che l'uomo si trova come > ), o esistenza, verso la possibilità di essere se stesso, nel senso di realizzarsi nella direzione del proprio essere autentico, dell'io profondo. Questo lo pone di fronte alla possibilità della > : da compiersi nel senso dell'appropriazione del sé (sich zueignen konnen), a partire dal sé inautentico. È da quest'ultimo, infatti, che parte la proposta o > ( Entwurf) dell'autorealizzazione. L'uomo che vi acconsente non fa che realizzare una possibilità già data ( scelta di una scelta), ossia attuare un progetto insito nella sua stessa condizione di essere-gettato ( > ) e che gli si offre insieme come libertà e necessità. Progettare equivale a trascendersi, ma trascendere significa, in pari tempo, immanentizzarsi, ossia accettarsi come si è : nel proprio poter-essere e nella propria possibilità di apertura al mondo, ag1i altri ; a ciò che, in altri ter­ mini, non siamo noi stessi, per il raggiungimento di una piu completa e perfetta integralità del proprio essere. L'apertura al mondo non può considerarsi come un semplice « essere pre­ sente >> intramondano, né esaurirsi, conseguentemente, in un semplice rap­ porto di > (Zuhandenheit) degli oggetti e, tanto meno, �ei soggetti che vi si mostrano e con cui veniamo a contatto. Essa non può nemmeno venir confusa con un sussistervi anonimo e spersonalizzato, alla stregua del Man, del « si n, della chiacchiera, della curiosità, dell'equivoco, che �ontrassegnano la dispersione o deiezione ( Verfallen) nell'inautentico. La apertura al mondo è invece da intendersi, nel modo piu autentico, come un > (Besorgen) che si prospetta nei confronti degli altri esseri umani �ome un > ( Filrsorgen), diretto a garantirli, a loro volta, nella loro possibilità di apertura al mondo, ovverossia nella loro libertà. La cc cura >> (Sorge), nel suo significato piu estensivo e piu autentico, come espressione, cioè, della possibilità trascendentale del Dasein, è sinonimo della mia come dell'altrui libertà. Quest'ultima non si presenta alla stregua del liberum arbitrium indifferentiae, ma come un decidersi da e per la situazione. Un decidersi autentico è d'altra parte possibile solo sulla base di una effettiva cc comprensione >> ( Verstehen) di tutti i significati che promanano dalla situazione e dallo stesso Dasein. L'cc interpretazione >> (Aztslegung) di questi significati permette di uscire dalla loro pre-comprensione originaria, di con­ netterli, di articolarli nel cc discorso >> (Rede), onde acquistano reale e con­ creta significazione per la conoscenza. M a la vera concretezza è attinta soprattutto nella « disposizione affettiva » (Befindlichkeit) con cui acce-

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diamo, dal mondo, alla cura totale di noi stessi. Questa disposizione affettiva

è l'« angoscia >> (Angst), che corrisponde al sentimento radicale della situa­

zione, della condizione finita dell'uomo, dell'esistenza. L'angoscia, sovrastan­ do tutti gli altri sentimenti ( gioia, paura, disinteresse, noia : espressioni par­ ziali, cppcrciò inautentiche, della cura onde ci sentiamo legati al mondo, alle cose, agli altri), si presenta come quel sentimento fondamentale, vera­ mènte originario, che si ricongiunge, al limite, al nulla della nostra esistenza finita nel mondo, all'« essere-per-la-morte >> (Sein-zum-Tode). Questa espres­ sione non ha riguardo alla morte come puro fatto biologico, ma al senso dell'esistenza in totale, è « libertà per la morte >> ; ossia perviene a fondare, nell'impossibilità stessa dell'esistenza, nel proprio cc non )) , la possibilità del proprio io piu autentico e profondo. Il cc non )), che dal punto di vista dell'esistenza inautentica appare come limite e finitezza, assume, dal punto di vista dell'esistenza autentica, il ca­ rattere di un'cc esigenza >> o di un > o c< colpa >> (Schuld) onde l'in­ dividuo è richiamato ad esser se stesso dalla propria estraneazione. Questo richiamo è la > (Stimme des Gewissens), espres­ sione che si riferisce essenzialmente all'intenzionalità non del conoscere, ma dell'agire. Corrisponde1·e alla chiamata della coscienza significa assu­ mersi anzitutto la responsabilità della propria esistenza ( della propria > della morte, al futuro della propria autorealizzazione. La struttura di questo attuale decidersi per la morte, ossia per il senso del­ l'esistenza finita, si rivela uguale a quella della -cura piu autentica, compren­ dente insieme passato presente e futuro, ossia a quella della temporalità costitutiva dell'essere del Dasein. La temporalità hei deggcriana non corrisponde alla concezione banale del tempo portata a scindcrne, contrapponendoli, i vari momenti ( passato presente futuro) ; essa non coincide neppure col concetto agostiniano di tem­ po come pura distensio animi ; ma investe globalmente il significato del­ l'essere e della coscienza, esprimendosi come unità estatica della cura, nella inscindibilità di quei tre momenti. I singoli modi della temporalità si deter­ minano a partire dalla quotidianità, ma la trascendono. 1 1 senso di questo trascendere, a partire dall'immanenza, è l'infuturarsi, che si esprime anche come > ( Wiederholung) : ossia come ripresentazione del pas­ sato, riscattato dal suo significato inautentico di mero passato, attraverso la decisione dell'> (A rtgenblick), all'eme1·genza del futuro inteso come « destino >> . La parola cc destino )) (Schicksal) non designa nessuna potenza estranea, ma è sinonimo del pieno attuarsi della libertà éonsapevole, nella necessità della propria stessa autodecisione. La consapevolezza del destino caratterizza la vera storicità dell'esserci, in quanto non chiusa in se stessa, ma aperta all'essere, come al proprio destino. Il concetto onto-fenomenologico dell'(( apparire )), come contemporaneo svelarsi e occultarsi dell'essere all'esistente, risalta al centro di tutta l'ana­ Jisi posteriore a Sein und Zeit rivolta all'esplorazione del > : identificato in un primo tempo con l'essere del mondo, indi

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con l'essere temporale della cura nella sua relazione immanente-trascendente al Dasein. Proprio dell'esse1·e è il manifestarsi (sich Zeigen) ; l'apparire, nel senso dell'« automanifestarsi >> (il fenomeno), riveste pertanto un chiaro significato ontologico : è l'essere quello che si manifesta, e in questo mani­ festarsi si rivela già connaturato di quella essenza - la verità - che lo costituisce, positivamente e insieme negativamente ( privativamente ), come essere, appunto, per l'esistente : fenomeno nel senso di « rivelato >> . La verità è > (Entdeckung). Con ciò Heidegger intende attuare la rimessa in valore dell'intuizione presocratica del logos come sco­ primento della verità dal suo esser nascosta ( tiÀ.1Ji}Éç = non nascosto), col bandirne l'aspetto semplicemente formale dato dalla concordanza ( vero è ciò che nel giudizio concorda), onde farcela apparire come l'espressione di ciò che, appunto, nel logos si manifesta : ossia dell' > in quanto sot­ tratto al nascondimento, in quanto scoperto. L'apparire della verità . (il mani­ festarsi) è condizionato dall'apparenza (Schein), che, includendo un riferi­ mento positivo e insieme privativo all'in sé, come destinato a manifestarsi, è ciò che lascia libero l'essere di manifestarsi anche come non essere : la non-verità concepita come > (lrre) e come > . La verità si presenta quindi come l'eqùivalente fenomenologico della libertà esisten­ ziale in cui si esprime nella sua essenza piu genuina, ossia come > . Cosi com'è costituito nella verità, l'uomo è costituito anche nella non­ verità. Apertura e chiusura si condizionano quindi reciprocamente nell'atto dello > (24). Anche nel mito platonico della caverna libertà c verità si trovano perfettamente congiunte : l'intima essenza della verità, colta nel suo ultimo fondamento, è la libertà ( plato· nicamente : il Bene). Tutto questo significa che il senso della verità risulta intimamente legato al comportamento dell'uomo, al suo libero confor­ marsi all'essenza della verità cosi com'essa si manifesta già nell'apparire degli enti, pur attraverso le deformazioni prospettate dalla situazione reale (le ombre della caverna, nel mito). Questa stretta connessione fra verità libertà e motivo ontologico, in rapporto all'atteggiamento autodecisionale dell'uomo, trova conferma nello scritto Dell'essenza della verità. In esso si pone, fra l'altro, in risalto che il fatto di aprirsi alla verità, come un , la correlazione, fondamentalmente univoca, dci significati di « essere >> ( Sein) cd ente >> (Seiende). Allo stesso modo la parola ) potrebbe seri-

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anche per quello che (( non è n , in 1·apporto alla sua manifestazione limitativa agli enti, ossia come nulla. Il nulla, dal canto suo, non corrisponde senz'al­ tro alla negazione della logica, ma è semmai ciò che la rende possibile. La sua rivelazione, corrispondente a quella dell'assoluta indeterminazione dell'esse1·e, non può essere colta dall'intelletto né da alcun sentimento par­ ticolare, ma solo dall'angoscia : nel sentimento, quasi, di sprofondarci con l'essere. L'essere non va peraltro distrutto, ma ci è solo provvisoriamente sottratto nell'esperienza del nulla che l'angoscia ci porge. Il « nientificare n non è altro, infatti, che l'equivalente negativo del determinarsi positivo del­ l'essenza medesima dell'essere nell'ente (in tal senso l'antica sentenza : ex nihilo nihil fit andrebbe piuttosto intesa come ex nihilo omne ens qua ens fit). Il nulla non è dunque altro che il modo di rivelarsi della piu genuina natura ( Wesen) dell'essere all'esistenza in quanto finita : è l'espressione della (( differenza >l , da intendersi peraltro anche come correlazione reciproc� reciprocativa, fra essere ed ente (27). Dal canto suo l'essere (come Heidegger ribadisce nell'Introduzione alla metafisica) non è una parola vuota, corrispondente a un significato comple­ tamente indeterminato ( (( l'ultimo raggio di una realtà che si volatilizza ll, come si esprimeva Nietzsche). L'essere si condetermina attivamente per rap­ porto all'ente, non immediatamente, ma secondo opposizioni ( essere-dive­ nire, essere-apparenza, essere-pensiero, essere-dover essere) che tendono a rifluire e a connettersi tutte in una superiore unità. In questa tensione impli­ cativa di opposti significati l'essere riveste insieme l'aspetto del divenire e quello della permanenza (secondo l'originario concetto della q>VO'tç' elaborato dai Greci), quello dell'apparenza rivelativa (tiÀ:rii)ELCx.) e occultante ( o6�a), quella del pensiero accogliente (À.6yoç-) e contrapponente ( 1tOÀ.E!J.Oç'), quella, infine, del valore (l'&.ya.Mv platonico) e della negazione del valore (Nietz­ sche). L'importante è non isolare questi significati, evitando soprattutto di erigere l'essere in un assoluto privo di divenire e contrapposto all'appa­ renza, di non irrigidirlo nelle forme semplicemei;J.te immobili del pensare, di non ipostatizzarlo come valore. Tutti aspetti che sembrano trovare l'equi­ valente espressione nell'idealismo platonico da cui prende le mosse quella fatale degenerazione della metafisica occidentale che ha come ultimo punto d'arrivo il cc nichilismo » nietzschiano. Da ciò l'esigenza impellente di risalire all'originario mondo dei Presocratici, di compiere una Vberwindung, un ol­ trepassamento della metafisica, mediante un salto all'indietro (Schritt zuriick} inteso a recuperare quell'originario senso dell'essere che la metafisica occi­ dentale, nel suo corso fatale - peraltro dettato da un'alternativa che risiede nella struttura insieme disvclante e occultante dell'essere stesso - sembra avere smarrito. Ripercorrere questo cammino, recuperare l'essere dall'oblio in cui, ad opera del pensiero astrattizzante e del predominio incontrollato della scienza e della tecnica, è andato smarrito, è il compito, anzi il destino •

versi talvolta con la minuscola, talnltra con la maiuscola. (Cfr. il n. atudio :La libertà in H., Bologna, 1961, Conclusione : L'uni-equivocità dell'essere). (Z7) In tal senso non può scorgersi nessuna reale contraddizione tra l'affermazione ri­ portata nella 4" cdiz. di W, M. second o cui « das Sein wohl west onhe das Seiende » e quella riportata nella S•, secondo cui : >. Responsabile di questa atmosfera era soprattutto Goffredo Kentenich a cui Wust riconosce anzitutto il merito di aver acceso nella sua mente la fiamma dell'umanesimo e dell'idealismo platonico, e di averla fatta rapidamente divampare. In secondo luogo, di avergli inculcato quella fede di « incrollabile ottimismo >> nei confronti dell'esistenza, che lo indurrà, piu tardi, a evitare sempre piu > (34) . L'influenza del Kentenich è percepibile nel titolo della prima opera pubblicata da Wuet, nel 1920, Die Auferstehung der Metaphysik (La resurrezione della meta­ fisica) e in un suo articolo, pubblicato nel 1922 nella rivista che, mentre sopravvalutava l'uomo puro, era portato inevitabil­ mente a sottovalutare la necessità della grazia divina, furono causa, nel giovane Wust, di quella crisi spirituale che lo portò ad allontanarsi dal magistero della Chiesa ( allontanamento che durò dal 1905 al 1918, anno della dolorosa sconfitta della Germania). Dopo quella di Goffredo Kentenich al ginnasio di Treviri, la seconda de­ cisiva influenza spirituale della sua vita fu costituita dall'incontro con Fre­ derich Paulsen, all'Università di Berlino. Nel frattempo Wust aveva abban­ donato il seminario e aveva incominciato a guadagnarsi la vita con l'inse­ gnamento medio che gli diede la possibilità di iscriversi ai corsi universi­ tari, essendosi abilitato all'insegnamento della filologia tedesca e di quella inglese. L'incontro con Paulsen fu quello che orientò decisamente la sua vocazione alla filosofia : « Fin dalla sua prima lezione egli mi attrasse in (ll) lbid., pp. 205-206. (34) lbid., p. 240.

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modo cosi decisivo nell'ambito della filosofia che da quel momento tale disciplina divenne ad un tempo il grande destino e la grande gioia della mia vita. Un soffio d'aria fresca di campagna emanava dalle lezioni di quest'uo­ mo dello Schleswig-Holstein. Da questo momento fui cosi intensamente imbevuto dello spirito �ella filosofia che la filologia divenne in verità da quel momento un capitolo del tutto secondario del mio programma di studio, come mezzo per campare la vita » (35). Nel 1914 si laureò, a Bonn, con Oswald Kiilpe che gli a:veva proposto uno studio sulla « logica delle scienze dello spirito >> nella filosofia di J ohn Stuart Mill. L'approfondimento di questo argomento lo portò sulle orme di Hcinrich Rickert, di cui studiò soprattutto l'opera sui Limiti della formazione delle nozioni nelle scienze naturali ; e, in seguito, nel pieno delle controversie pro e contro il neo-kan­ tismo fra le scuole di Rickert e di Lask, di Cohen e di Natorp da un lato, e quella di Edmond Husserl dall'altro. > . Domanda che risale con penà e tremore dalla profondità dell'anima di S. Agostino : Et direxi

me ad me et dixi mihi : Tu autem Augustinus tu quis es? Et respondi : homo !

E poiché frattanto avevo messo su famiglia e mi erano nati tre figli... la meditazione sulla polarità dei rapporti tra vita e filosofia e tra filosofia e vita divenne quanto mai pertinente >> (36). L'astrazione del soggettivismo della :filosofia dei valori e di quello neo-kan­ tiano segnò il punto culminante della crisi ideologica e spirituale ( a cui tuttavia non cessava di ribellarsi il suo > ) che, mentre lo portava ad allontanarsi sempre piu dall'essere e dal significato piti profondo della realtà, si traduceva, parallelamente, in un atteggiamento passivo e inerte di fronte alla fede cristiana. , inteso come contrasto evolutivo fra la semplicità e la riflessione, a cui lo destò la lettura del Mario­ nettentheater di Kleist. Tutta l'opera di Kleist gli parve simbolicamente esprimere questo problema della semplicità : un problema che nascondeva un mistero, nell'approfondimento del quale poteva trovarsi la chiave per ac­ cedere ( 42). La pubblicazione dell'opera e la notorietà da essa derivata gli valse finalmente, nell'autunno del 1930, la chiamata da parte dell'Uni­ versità di Miinster (Westfalia) alla cattedra lasciata vacante dalla scom­ parsa di Max Ettlinger ; cattedra che tenne fino alla morte e con un magistero attivo sia all'interno che all'esterno dell'Università e il cui frutto, anzi precipitato filosofico, è l'opera piu universalmente nota di P. \Vust (come attestano anche le numerose traduzioni), Incertezza e rischio ( Ungewissheit und Wagnis, 1937), che rappresenta il suo piu vivo contributo alla tematica esistenziale. Quest'opera è concepita, come scrive il Bendiscioli, che 1·iporta tutti gli esseri creati a Dio creatore, e che si rivela negli esseri spirituali come impulso alla verità e come istinto amoroso. L'uomo partecipa in modo essenzialmente contrastante, dialettico, a questa (56) Cfr. P. WusT, Die Dialektik des GeisiP-s, in Gesammelle Werke, cit., vol. 111-1,

I, pp. 59-65, 21'8. (57} Cfr. ibid., pp. 153-155 181, 436-437.

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attrazione istintiva e amorosa, in quanto in lui, all'originario istinto di fedeltà può contrapporsi l'orgoglio presuntuoso della riflessione che dà luogo al fenomeno del « satanismo » ( 58 ). Questo « protodualismo n costi­ tuito dalla tendenza naturale, espressa dalla ingenuità, di inserirsi sponta­ neamente nell'essere in un atto d'amore confidente e reverenziale che dà luogo alla pietà (in senso sia umano che religioso); e dalla tendenza all'aseità orgogliosa, espressione della riflessione non pervasa di amore e animata .da un impulso contrastante e disarmonico nei confronti dell'essere, costituisce l'odissea dello spirito umano. :Finché l'uomo non perverrà, con l'uso di uno spirito critico pervaso d'amore, a recuperare l'armonia della semplicità naturale, resa però riflessiva, e la misura della propria imperfezione ; finché non accomunerà alla sua reflexio la fiducia nel mondo c l.a dedizione al creato e al creatore, egli non perverrà alla vera saggezza, che è quella di sapersi costituire in un rapporto personale, armonico e insieme differen· ziato, nutrito di pietà e di amore, con l'essere. Alla saggezza dello stoico e del buddista, nutrite di isolamento di fronte al mondo e di assoluta fiducia in se stessi, pur nella sottomissione a un destino impersonale, si contrap· pone la vera saggezza cristiana intrisa di pietà amorosa c di reverenziale distacco che significano, insieme, protezione contro l'orgoglio solipsistico c riconoscimento del mistero insondabile che alberga in noi, in Oio e nelle cose (59). La pietà, infatti, ha come destino particolare di intrattenere nell'io un rispetto religioso in cospetto delle profondità metafisiche della propria realtà : realtà misteriosa, conferitaci da Dio. « Poiché il nostro io è un tempio santo dello spirito edificato da Dio stesso ... è un santuario, un santo dei santi dove noi stessi, a cui pure appartiene, non dobbiamo penetrare senza un segreto spavento religioso ... Certo, c'è un senso per cui noi siamo rimessi a noi stessi, ed è questo che significa questa aseità relativa di cui siamo dotati ; noi però non siamo confidati a noi stessi che a guisa di un'opera d'arte uscita dalla officina di un eterno Maestro » (60). Securitas e insecuritas sono le due molle che compongono lo spirito umano, il quale è da qn lato e deve essere animato da un profondo senso di certezza che significa solidarietà con le cose, ma non può e non deve, dall'altro, sottrarsi al senso d'incertezza e di « pericolo » che esse rappre­ sentano per lui. Tale inquietudine è ignota all'essere animale che vive nell'affidamento puro dell'istinto e aJla nec�ssità dell'ordine naturale : la bestia è, per natura, un animal securum, essenzialmente determinato dalla natura, nell'impossibilità di trascendere la propria condizione naturale. Per contro, l'uomo è essenzialmente un animal insecurum, duplicemente carat­ terizzato da tale insicurezza in modo oggettivo e insieme soggèttivo : nei confronti delle cose e di se stesso. Tale insicurezz a corrisponde alla « possi­ bilità di infinita determinazione » cui l'uomo è soggetto per via della stessa componente razionale che pervade anche la sua sensibilità. Bios e logos costituiscono i due mondi ai quali appartiene, senza risultare permanente( SB) Cfr. P. WusT, Naivitiit und Pietiit, in Gesammelte Werke, ci t., vol. II, p. 352. Cfr. sull'argomento : Das Diimonische ( 1927) progettato come schema per una « filosofia del diabolico )) (Die Philosophie. des Diab'olischen), opera non realizzata, e pubblicato in forma di a r t ic ol o in « Kolnische Vo lksze itung )) . (59) Sul tema cfr. i due articoli : Der Doppelaf!ekt von Stauen und Erfurclut als Waktor der Kulterentwiklung ( 1924) e Weisheit und Heiligkeit (1927), ora in Gesammelte Werke, cit., vol. VI. ( 60) P. WusT, Naivitiit und Pietiit, cit., pp. 221-222.

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mente fissato in nessuno di essi. Di qui l'insanabile conflitto che lo sospinge continuamente a conquistare la propria esistenza ; di qui la > : il rischio piu sapiente che ci sia. J_,a fede soprannaturale è cosi un ubbidire, un atto della volontà, ma altresi un ascoltare, ovvero un atto dell'intelletto. È un ubbidire ragionevole e un rationabile obsequium. D'altra parte, « questa razionalità del rischio soprannaturale della sapienza della fede non rappresenta alcun razionalismo superficiale. La ragione, illuminata dalla luce della fede è, per via della forza miracolosa della grazia, una ragione superiore al comune intelletto mondano » (62). Il rapporto fra filosofia e religione, fra reflexio e devotio è e permane - come attesta nella sua ultima opera il filosofo - nonostante tutto, pro· blematico. Ma è pur vero che permane anche l'esigenza, per l'atto filosofico della reflexio, della devotio : di includere cioè una nota religiosa di devo­ zione. Senza tale momento l'atto della reflexio degenera in sterile atto umano (63).

(61)

(62) (03)

P. Wt;sT, Ungewissheit und Wagnis, in Gesammelle Werke, cit., vol. IV, p. 200. lbid., p. 284. CfT . P. Wu s T, Der Mensch und die Philosophie, cit., p. 401 segg. È, in defini tiva.

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5. Erich Przywara Erich Przywara nacque il 12 ottobre 1889 da genitori cattolici, ambedue di origine polacca, a Kattowitz, nell'Alta Slesia, la patria di Eichendorfi. « Terra di boschi e di canzoni, di pozzi e di miniere ll , come egli stesso ama rievocare, in cui > s'incontra con > (64). Tale aspetto contrastante, che sem­ brava riflettersi nell'indole stessa dei suoi genitori, è possibile riscontrare anche nella personalità di Przywara : disposta alle piu austere analisi razionali e insieme aperta al mondo della poesia, della musica ; portata al piu severo controllo critico e insieme all'abb andono mistico al mistero. Appena compiuti gli studi liceali nella sua città, Przywara entrava come novizio, a diciotto anni, nella compagnia di Gesù, a Exaten, in Olanda. Sempre in Olanda, a Volkenburg, dal 1910 al 1913, compi gli studi filosofici conse­ guendo il dottorato, e, successivamente, dal 1917 al 1921, nella stessa città, quelli teologici, fino al conseguimento del titolo di dottore in filosofia e teologia, a Roma. Coltivava nel frattempo anche la sua vivissima disposi­ zione musicale orientata soprattutto ve1·so Palestrina e Bach. Lo troviamo infatti, dal 1913 al 1917, « Musikprafekt ll presso il collegio > a Feldkirch (Austria) ove compone, in collaborazione con J . Kreit­ meier, una raccolta di inni liturgici ( Unsere Kirche, Neue religiose Lieder, Regensburg, 1915). Anche in seguito Przywara non cesserà di affiancare contro lo profonda dell'esistenza dinanzi a Dio : che è il tema di Wandlung ( 1925), opera chiave di questo primo periodo (65). Nel periodo che va dal 1920 al 1930, uno dei pit1 ricchi e travagliati della vita intellettuale tedesca, Przywara si trovò a dover affrontare con­ temporaneamente i temi della filosofia attuale sorta dalla crisi post-bellica del razionalismo idealista, temi che vengono riassunti in Ringèn der Ge­ genwart ( 1 929). Essi, se da un lato testimoniavano, con la rinascita kierke­ gaardiana promossa da Barth e con l'affacciarsi . della fenomenologia di Husserl, un nuovo interesse per i. problemi e gli aspetti della vita concreta, ·sembravano dall'altro culminare in una visione tragica e senza sbocco, facendo risaltare le antitesi insormontabili dell'esistenza cosi nell'uomo (Scheler), come nella storia ( Berdiaeff) e nella religione (K. Barth, E. Brunner). Pur nell'esigenza dominante di reagire alle tendenze radicalizzanti della contraddizione, Przywara ha, da questo ·momento, intrecciato un dia­ logo costante con quelle tendenze della cultura c della filosofia tedesca con­ temporanea (Husserl, Scheler, Heidegger, Hartmann, Barth, per fare solo alcuni nomi) che gli sembravano piu feconde di risolutivi sviluppi. « La polarità di Goethe » , la filosofia romantica ( Baader e soprattutto Gorres), « l'eroismo dinamico di Nietzsche » e di Kierkegaard, la fenomenologia realistica di Scheler e quella di Husserl, contribuiscono ad allargare il campo della sua visione del reale, che peraltro finisce per non accontentarsi piu delle semplici analisi fenomenologiche ed esistenziali, ma punta deci­ samente alla metafisica. Ma è in particolare a Kierkegaard, a Newman e a Max Scheler che egli si sente debitore del primo avvio speculativo sui temi filosofici del concreto. Al 1922 risale la pubblicazione dell'Einfiihru ng in Newmans Wesen rtnd Werk, seguita da Religionsbegriindung. Max Scheler, H. Newman ( 1923)

(65)

P· 6 .

H. U. VON BALTHASAR,

E. Przywara. Sein Schrifttum, Einsiedeln, 1963, Introduzione,

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e poi, nel 1929, da Das Geheimnis Kierkegaards che schiude una nuova visione della personalità di Kicrkegaard. Appaiono in queste opere, assieme ai motivi di consenso, anche le motivazioni di attrito che caratterizzano, da parte sua, l'abbandono sia della posizione antropocentrica (condivisa in parte da N. Hartmann e da P. Tillich) di Scheler ; sia del decisionismo irr�zionalistico ( affine, seppure in direzione opposta a quello di Nietzsche) di Kierkegaard ; in un avvicinamento sempre piu al Newman, di cui con­ divide l'intenso spirito d'interiorità non solipsistica e la posizione di aper­ tura verso la tradizione cattolica e al magistero della Chiesa. Agli atteggia­ menti meramente opposizionali, fallimentari o antropocentrici che caratte­ rizzano, seppure diversamente, le posizioni di Barth, J aspers, Heidegger; per ciò che riguarda il problema del rapporto con Dio, Przywara contrappone tutto il peso della tradizione cattolica e della teologia cristiana, in parti­ colare di un S. Tommaso rivissuto attraverso lo spirito di S. Agostino e della mistica dello Pseudo-Dionigi. Ma insieme rivive i temi della pietà cristiana contrassegnante l'atteggiamento reverenziale dell'uomo di fronte al mistero dell'essere e dell'unità permeata dalla tensione degli opposti ( R. Guardini, A. Rademacher, K. Eschweiler). Tutti questi motivi confluiscono nel corpo centrale della filosofia przy­ wariana, rappresentato dagli scritti dell'Analogia entis ( 1932), i cui primi spunti e abbozzi risalgono al tempo della polemica con Scheler e con B arth, e il cui concetto informatore riceve una prima precisazione negli scritti Religionsbegrundung, Gott (1926) e Religionsphilosophie ( 1927). Il prin­ cipio dell'analogia costituisce il tema centrale di quella metafisica della creatura che Przywara intende anche come « Philosophie der Mitte >> : filo­ sofia della mediazione, diretta a oltrepassare le opposizioni, pur senza ab'o­ lirle ma conservandole anzi al centro e all'apice dello slancio e della ten­ sione che caratterizzano i l rapporto creaturale con Dio : cc maior dissimilitudo in tanta similitudo >> secondo la formula del IV Concilio Lateranense. . Dal 1951 visse ritirato in cam­ pagna, a Murnau, piccola località dell'Alta Baviera, continuando nella sua attività di scrittore, peraltro limitata dalle malferme condizioni di salute. È stato membro del sodalizio « Holderlin >> , della società filosofica intitolata a Conrad-Martius, e del patronato ed > ( aristoteli­ camente : aisthanein e noein), modernamente riproposta come contrappo­ sizione fra > da uri lato, e aprioristica cc visione delle essenze >> ( Husserl) dall'altro ; fra c< sentimento del valore >> (Scheler) e (in greco : empeiria) nel senso di > e di una c< immanenza trascendente >> , cui criticamente mettono ca­ po, rispettivamente, una cc metafisica realistica >> ispirata al mondo delle scienze naturali, come quella d i Aristotele ; e una « metafisica idealistica >> ispirata dall'esplorazione del mondo interno della coscienza, come quella di S. Agostino. Metafisica realistica e idealistica stanno fra loro in un rap­ porto di opposizione solo app arente. In realtà, la loro relazione è dialet­ tica : il che significa che la vera essenza della metafisica si rivela solo in quel « ritmo J> propulsore di pensiero, sovrastante e insieme sottostante le opposizioni, che le spinge ad essere l'una di stimolo all'altra, collocandosi cosi in un « piano intermedio >> fra trascendenza-immanente e immanenza­ trascendente. È in questo ritmo cc nascosto entro l'evidente dialettica tra metafisica realistica c idealistica " che si propone il significato di un assoluto, di un « ultimo sovrareale >> dal quale si originano e nel quale sono radicate tutte le cose, e che in esse >, cosi come esse > in lui ; secondo il significato attribuito da S. Paolo al rap­ porto fra le creature e il creatore nel Discorso dell'Areopago. Una eguale tensione o polarità di trascendenza-immanente e di imma-

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nenza-trascendente, troviamo nella religione (rcligio, euscbeia). Essa caratte­ rizza, a prima vista, il significato apparentemente diverso della rcligio in S. Agostino e in S. Tommaso, in corrispondenza al carattere rispettivamente '' idealistico >> e '' realistico JJ delle loro due metafisiche. Mentre nel De vera religione Agostino sembra fondare il significato della religione nel rap­ porto immediato e senza intermediari (come in seguito Eckart) tra il Dio unico e onnipotente e il nostro sentimento spirituale ; per Tommaso la reli­ gione si avvale della mediazione del che si manifesta come ritmo di un pensiero colto nel suo trascendente dinamismo verso la verità, e non come possesso esaustivo di questa. Questo analogon è, aristotelicamente il > ( 't"Ò yàp &.va· À.oyov (J.ECJ0\1 : Eth. Nic., V, 7, l l31 B Il). Questo aristotelico si differenzia tanto dal meson platonico, quale > e dalla platonica di Eraclito. Alla platonica « somiglianza >> Aristotele contrappone infatti l' analogon come fl).).o npò ç fl).).o (Met., IV, 6, 1016 B 35), come rapporto tra due x, tra due dissomi· glianze, perseguito di là dalla semplice comunanza di genere numero e specie ; mentre, contro Eraclito, sottolinea la positività del pros che sta fra le due x, corrispondente all'analogia proportionis della scuola tomistica clas· sica. In altri termini, I'analogon come > aristotelico sottolinea in· sieme la differenza e la proportio : si configura cioè come > ( unio charitatis in gratia : unità dell'amore nella grazia divina) ; ossia come riflesso positivo di quell'unità sovrannaturale che si esprime coine sempre maggiore dissomiglianza fra Dio e le creature. In definitiva, quell'es· sere che in quanto essere è insieme creatore e creato non può esprimersi altri· nienti che per il senso dell'analogia (analogia entis), ovverossia per il senso (68) Inutile sottolineare quanto di arbitrario vi è in questi! come in altre similari interpretazioni di Przywara.

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di una somiglianza rapportata all'assoluta differenz a. Schematicamente, l'analogia costituisce l'incrocio fra un rapporto orizzontale (&.v&.) e un rap­ porto verticale (&vw) : è cioè l'espressione di una proportio excedens o exce­ dens proportio (wç &).J o 7tpÒç &).).._o, secondo la definizione aristotelica) de­ stinate a tradnrsi in un continuo movimento ascensionale. Movimento che costituisce insieme l'ordine ·(noetico) del pensiero e l'ordine (meta-noetico) della realtà, e che si esprime come impulso irresistibile verso una perfe­ zione-limite (confinium come perfectio) di cui il creato non è che l'imma­ gine : immagine rinviante a nn al di là inafferrabile (Deus tamquam ignotus). Analogia significa dunque, essenzialmente, rapporto con Dio e apparizione dell'inconcepibilità divina nella tensione metodica degli opposti. Tensione che è espressione dell'oggetto vero e proprio della metafisica (analogia entis) e di quella che il soggetto esperimenta dentro di sé come il proprio « niente » , e che lo pone di fronte all'incondizionata verità del suo essere. L'analogia, cosi come costituisce il principio formale di ciascuno dei due indirizzi della metafisica, è anche il principio formale del loro essenziale rapporto ( analogia dell'analogia), ossia del loro integrarsi in un'unica metafisica, non però in guisa diretta, ma indiretta, cioè come esperienza dell'allo pros allo. Da ciò, di contro alla deduzione e all'induzione tradi­ zionalmente intese, la definizione del metodo analogico : non come pro­ gredire nella 1uce (per via di successive integrazioni di sistemi), ma piut­ tosto come un muoversi da oscurità a oscurità nella crescente reductio in mysterium ; ossia come un progressivo « regresso >> dalla luce a un'oscurità sempre crescente, come un procedere nella tenebra della bufera (gnophos : secondo l'espressione di Dionigi l'Areopagita); come consapevole (in quanto voluto e vissuto) ri-legarsi e ri-leggersi all'indietro ( religio, nel senso di religare e di relegere). Tale metodo, che potremmo definire « regressivamente induttivo )) ( distinto pertanto dalla semplice induzione scientifica tendente a relativizzare, come dalla mera deduzione aprioristica tendente ad asso­ lutizzare) si vale dell'indagine e della comparazione storica dei sistemi, colti nella loro coincidenza opposizionalc, analogica, e della tradizione reli­ giosa c teologica, non per farne emergere un sistema, ma per farne risultare l'unità profonda, insieme filosofica e religiosa, che si traduce peraltro in una fondamentale « supremazia formale >> della teologia sulla metafisica di cui costituisce l'intimo telos. Metodo storico e insieme soprastorico, meta­ ontico, insieme noetico e meta-noetico : il cui scopo è quello di proporre il significato dell'analogia, ossia di una maior dissimilitudo perseguita attra­ verso una tanta similitudo, non solo come base di una > , ma altresi di una « religione consapevolmente accettata e vis­ suta )J . Infatti, la vera esperienza religiosa non è quella del valore (come in Rickert o Hesscn) o quella dell'U:omo (come in Dilthey o Spranger) auto­ nomamente considerati, ma è « coscienza dell'essere >> ed esperienza del rap­ porto fra uomo vivente e Dio vivente, che ha in Cristo l'unica cd esclusiva rivelazione. Quanto piu, infatti, l'uomo sperimenta sé nel mondo, tanto piu il senso del rapporto fra interiorità ed esteriorità, fra sé e mondo, fra essenza (Sosein) ed esistenza (Dasein) gli appare configurarsi sotto il « segno cruci­ forme >> (nel senso di una verticalità che incrocia dall'alto al basso una oriz­ zontalità : espressa dall'ava) dell'analogia. Vero mysterium crucis, le cui coor­ dinate esprimono contemporaneamente il senso del rapporto dell'uomo con sé, col mondo e con Dio : come logos insieme immanente e trascendente il mondo, e come mistero inafferrabile al di là di tutto questo. Per l'analogia ...

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infatti « Dio non corrisponde all'ipostatizzazione di alcuno dei singoli aspetti creati : non dello spirito, né del tutto, né del volere, né del pensiero, né della persona, né dell'idea. Non è nemmeno l'Uno idealmente contrapposto alla molteplicità reale. Egli è semplicemente al di là di ogni contenuto afferra­ bile : tamquam ignotus, come si esprime S. Tommaso. Da questo punto di vista creatura (Geschopf) significa ciò che non può mai essere precluso (Ge­ schlossene) ma che permane sempre protensionalmente aperto >> (69). II vivere da parte dell'uomo, in senso teoretico-pratico, questo senso dell'analogia corrisponde al significato esistenziale e in pari tempo essenziale della filosofia stessa intesa, rispettivamente, come > e « restaurazione >> ) che si pro­ spetta come « ritorno a un'origine ideale >> da una « catastroficità abis­ sale » ( 71). Nel segno e nel senso di questa trasmutazione, che riveste insieme il significato di rigenerazione oggettiva ( di vera e propria palìngenesi) e di mutamento soggettivo di mentalità ( metanoia), il dramma della storia si prospetta come un « rinascere della vita nella morte >> (che trova la sua espressione simbolica sia nel « trionfo della morte >> del camposanto pisano, sia nel « trionfo della vita >J di cui appare pervasa la concezione di J. Bohme dell'amore e della luce di Dio che da parte dell'uomo ; e, per converso, anche di una « super· alleanza n , ossia di un ristabilimento del vincolo spezzato per colpa del­ l'uomo, da parte della grazia sovrabbondante di Dio. Si tratta di un ritmo comune a tutte le età del mondo, che non esprime, come quello hegeliano, un movimento dello spirito fondato sulla sostanziale . identità degli opposti, ma che si erige > (13). Nella dinamica inafferrabile di questo ritmo di alleanza-contral­ leanza-sovralleanza fra Dio e l'uomo, che domina l a storia e ne esprime il supremo significato cosmico, si esprime �a forza coilcrescente dell'analogia caratterizzante sempre piti l'infinito mistero di Dio (mysterium mysterio­ rum ), e la stessa economia trinitaria della salvezza intesa come > (14). Il cosmo della storia esprime la specificità dell'uomo come microcosmo nella sua posizione-limite di essere compreso fra il cosmo creato e Dio ( come Logos theios), tra un relativamente infuiito cosmo creaturale e un Dio attualmente infinito ( infinitum in actu), fra la cusaniana coincidentia oppositorum (che trova la sua espressione nella teo· logia positiva dell'explicatio divina nel mondo) e la divina rerum omnium

(11) Ibid., pp. 226-227, 230-232. (72) lbid., p. 318. (73) lbid., p. 401. ( 14) lbid., p. 421.

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complicatio che trova la sua espressione nella teologia negativa, quale theo­ logia eminentiae et excessus contrassegnante la « sempre maggiore disso­

miglianza ll rispetto alla (( pur cosi grande somiglianza ll espressa dalla teologia positiva (che trova cosi in quella il suo sbocco). Cosi teologia positiva e teologia negativa confluiscono entrambe nel­ l'unico grande ritmo dell'(( ultima onnicomprensiva analogia Jl contrasse­ gnata da un costante progresso e regresso dell'uomo rispetto al divino. Per cui l'ascendere dell'uomo verso Dio, in corrispondenza al discendere di Dio verso l'uomo non va confuso con la presunzione demoniaca dell'uomo di volersi rendere eguale a Dio, ma come un (( condiscendere con un Dio che discende n . La posizione dell'uomo, come essere compreso fra il cosmo e Dio, come logos theios, trova cosi la sua espressione nell'incrociarsi costante di mistero divino e di mistero umano : « Nella misura in cui mito, mistero, apocalisse, disvelano sia il paradosso del mistero dell'ascesa dell'uomo verso Dio, sia il paradosso del mistero della discesa di Dio verso l'uomo, nonché il paradosso che intercorre fra l'uno c l'altro, in questa stessa misura è dato cogliere la rivelazione dell'elemento metafisico ultimo e decisivo dell'uomo : il mistero paradossale del suo essere tra il cosmo e Dio Jl (15).

(75) lbid., p. 248. La nozione przywariana di analogia suscita lllquanta perplessità. L 'analogia, pur postulando la reale differenza dei termini a confronto, non può mai essere caratterizzata da un'assoluta eccedenza del negativo sul positivo senza snaturare compie. tamente il proprio significato, tramutandosi cosi nel proprio contrario, vale a dire in non-analogia, univocità, equivocità, reciprocazione: che è proprio ciò che Przywara inten­ derebbe evitare. Per via della sua interpretazione lJSsolutamente restrittiva del tanta simi­ litudo l'analogia di a ttribuzione, in Przywara•. non fa che mettere in luce una diversità irriducibile, l11 relazione una non-relazione. Come rileva A. FAVRE (La philosophie de P.: métaphysique de la creature, in (< Rev. neosc. de Phil. >> , 1934, p. 67) : « L'analogie d'al· tribution s'achève donc en une proportionnalité ... relation entre deux relations qui ont entrc elles deux une ligne commune de séparation irréductiblc.; c'est la diversité d'un terme réel ( aliquid unum, esse, verum, etc.) affirmé de Dieux et dc la créature, en Dieu et en la créature ... >>. E ciò sia per quanto riguarda l'ordine ascensionale del pensiero, sia l'ordine della manifestazione divina. Da un punto di vista metafisica (come sottolinea H. HuEN Analogia entis. La méthode et l'epistémologie du P. P., ibid., p. 246) per Przywara !< affirmer l'analogie, c'est affirmer ii la fois l'immancnce de Dieu et sa transcendence, d'où résultent le dynamisme et la . tcnsion de notre ctre vcrs Dieu ( car Dieu est infini et nous sommes en devenir) aussi bien que no tre unité avec lui ... ». Da entrambi questi punti di vista, e pur procededo da un'impostazione cattolica, Przywnra sembra insomma giungere alla stessa conseguenza da lui imputata alla teologia protestante ( cfr. Ringen der Ge.. genwart, II, pp. 692 segg.).: quella cioè di pervenire dall'assoluta negazione ;tlla recipro­ cazione creaturalc con Dio. Anche se, come rileva von BALTHASAR (E. P. in Sein Schriftum Einsiedeln, 1963, p . 6) !< ciò che Przywara quale pensatore dice in modo negativo è fatto per amore del positivo »', anzi appunto per questo, la sua posizione teoretica è ben lungi da quell'equilibrio « cattolico » che egli intenderebbe raggiungere e che si sforza di mantenere con il continuo mezzo dell'esegesi biblica e storica. Sorge cosi il legittimo dubbio, cosi ben espresso da A. FAVRE (op. cit., p. 79) : se, cioè, !! celte analogie qui semble ne rien supposer, ce principe trop inconsistant pour étre l'origine d'una déduction systématique, ne reproduit-il pas le geste prestigieux de Heidegger tirant l'eire du non-étre ; ne prétend.il pas constituer une nouvelle " métaphysique du néant " ? Ou bien alors ce rytme infallible ne s'apparenterait-il pas à la dialectique divine de Hegel? Przywara ... s'est elforcé de main. tenir l'équilibre, d'observer une direction, souple sans doute, mais ne déviant ni à droite ni à gauche, bref, de tenir le milieu. Ce milieu dynamique peut-il le garder sans acrobatie trop vertigineuse? >J, Il fatto è che nell11 formazione di Przywnra, nella sua forma mentis, ben piu di S. Agostino e di S. Tommaso, hanno giocato un ruolo determinante (come rivelano soprattutto le liriche del !! Carmelo >J e di > , 1946 ; P. CHIODI, L'esistenzialismo di H., Torino, 1947, II ediz., riv., ivi, 1955 (è il primo approfondito studio analitico italiano di H., ancora principalmente sulla base di Essere e tempo) ; N. PICARD, Nuovi orizzonti dell'antologia di M. H., in Esistenzialismo, Atti della setti­ mana di studio indetta dall'Ace. di S. Tommaso, 8-13 aprile 1957, Torino, 1947 ; A. NABER, Von der Philosophie des > , 1956 ; Der Bestiindige A ufbruch, Fetschrift fiir E. P., ed. S. Behn, Norimherga, 1959 ; P. DEN ÙTTOW.NDER, E. P.s 70.a jaar, in > , 1959-60 ; E. P. Sein Schrifttum, a cura di L. Zimmy, Einsiedeln, 1963 ; H. WuLF, E. P. Zu den gesammelten Werken, in >, 1963 ; P. DEN 0TTOLANDER, E. P. religieuze wijsbe­ _geerte, in « Streven », 1964 ; A. LOPEZ QuiNTAS, E. P., in Pensadores cristianos contemporaneo.9, Madrid, 1968 ; V. MATHIEU, E. P. nella filosofia d'oggi, in E. P., L'uomo, Milano, 1968 (introd. alla trad. italiana).

Testi l

l.

LA

FARE.

KARL JASPERS

SITUAZIONE FONDAMENTALE E LA REALE PORTATA DEL FILOSO·

FILOSOFIA

E

SCIENZA

Non c'è, in fondo, che l'individuo che si trovi m situazione. Solo in senso traslato possiamo riferire il c o n c e t t o di situazione ai gruppi sociali, agli Stati, all'umanità, a istituzioni come la Chiesa� l' U:p.iversità, il teatro, o a delle formazioni obiettive come la scienza, la filosofia, la poesia. Solo in quanto vediamo la volontà dell'indivi­ duo impadronirsi di queste realtà come di qualcosa che lo riguarda, questa volontà può considerarsi, con le cose che la concernono, in situazione. Le situazioni o sono i n c o n s c i e , e si realizzano senza che colui che esse riguardano sappia minimamente come ciò avvenga ; op­ pure risultano attualmente r i c o n o s c i u t e ad opera di una v o · l o n t à a u t o c o s c i e n t e in grado di assumersele, utilizzarle, mo­ dificarle. La situazione resa cosciente reclama un certo comportamento. Essa non produce automaticamente un risultato inevitabile, ma espri­ me delle possibilità e dei limiti di queste possibilità. Ciò che essa produce dipende da chi la vive e dal modo come la riconosce. Co­ gliere la situazione è già un modificarla, nella misura in cui essa può rappresentare un appello all'azione e a un comportamento. Già il fatto di considerare una situazione è l'inizio per padroneggiarla ; fronteg­ giarla rappresenta già la volontà di lottare per la realizzazione del proprio essere. ( .. .) Si tratta, ogni volta, di vedere quale s i t u a z i o n e c o n .s i d e r o . Anzitutto, l'essere umano, in quanto e s i s t e n t e , si tro­ va inserito in particolari situazioni economiche, sociologiche, politiche, dalla cui realtà dipende tutto il resto, benché attraverso di esse nessuno pervenga a realizzare veramente se stesso. In secondo luogo, l'esserci umano, in quanto c o s c i e n z a , si colloca nell'ambito del cono· ·

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scibile. Il sapere, considerato come acquisizione storica divenuto per noi disponibile tanto nel suo contenuto quanto nella maniera in cui ne prendiamo coscienza e non cessiamo · sistematicamente di affi­ narlo e di estenderlo - costituisce la s i t u a z i o n e intesa come p o s s i h i l e c h i a r e z z a dell'uomo. In terzo luogo, ciò che e g l i '6 t e s s o diventa è determinato, quanto alla situazione, dagli uomini che incontra e dalle possibilità di credere che a lui fanno appello. L'analisi della situazione spirituale richiede dunque che si faccia attenzione all' e s s e r c i d i f a t t o (faktisches Dasein), alla possi­ bile c h i a r e z z a d e l s a p e r e , e all' e s s e r e - s e - s t e s s o con­ siderato n e l l a p r o p r i a f e d e e come in essa appellante. Ogni individuo si trova sempre ad avere a che fare con queste condizioni. La sociologia, la psicologia, l'antropologia c'insegnano a considerare l'uomo come un oggetto suscettibile di venir sottoposto a determina te esperienze e di essere modificato con opportuni procedimenti. In tal modo esse colgono indubbiamente certi aspetti dell'uomo, ma non l'uomo in se stesso. L'uomo, in quanto possibilità di essere in senso spontaneo, non si lascia ridurre alla condizione di semplice risultato. Le costruzioni della sociologia, della psicologia, dell'antropologia, non sono per nulla costringenti per il singolo individuo. Egli si libera dal­ l'influenza che le scienze tendono ad acquistare su di lui in guisa appa­ rentemente definitiva, col prender coscienza del carattere effettiva­ mente particolare e relativo delle sue conoscenze. Egli si rende conto che nell'atto in cui esse oltrepassano il limite del conoscibile col fare affermazioni dogmatich e sull'essere diventano un illusorio surrogato del filosofare ; in quanto a prescindere dalla libertà non può aversi che una pseudo scienza dell'essere. (Die geistige SituatOOn der Zeit, Berlino, W. de Gruyter et Co., 1965, pp. 21-22,

160,161)

( . . .) Nel filosofare dobbiamo guardarci dal cadere in potere del· l'oggettività di cui abbiamo pure costantemente bisogno. Dobbiamo mantenere il dominio dei nostri pensieri e non sottometterei ad essi. In questo pensiero del trascendimento caratteristico della filosofia, e che ha qualche analogia con le forme del pensare scientifico, la filosofia è m e n o della scienza. Essa, infatti, non perviene a risul­ tati dimostrabili è a un tipo di conoscenza costringente per ogni in­ telletto. Né è da trascurare il fatto che la conoscenza scientifica si diffonde in forma identica per tutto il mondo, mentre la filosofia, con tutte le sue pretese di validità universale, non diventa effettivamente universale in nessuna forma. Questo non è che l'esteriore contras­ segno dell'intrinseca differenza delle rispettive verità : quella scientifica è senz'altro universale, e tuttavia relativa ai metodi e ai presupposti

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di cui si vale e su cui s1 fonda la scienza ; la verità filosofica è in­ condizionata per colui che l'attua nella realtà storica, ma quanto alle proprie affermazioni non è universale. La verità scientifica è uguale per tutti ; quella filosofica si rivela molteplice sotto le diverse forme che essa storicamente riveste : manifestazioni, tutte, di una specifica singolarità, ognuna delle quali vanta un proprio diritto, ma che non si possono identicamente trasmettere. L' U n i c a filosofia è la philosophia perennis attorno a cui ruo­ tano tutte le filosofie, per quanto nessuno giunga a possederla. Ad essa tuttavia partecipa ogni filosofo autentico, per quanto essa non possa mai assumere la forma di una costruzione di pensiero valida per tutti e che sia essa sola la vera. Con ciò la filosofia si denota non soltanto come qualcosa di meno, ma anche come qualcosa d i p i u rispetto alla scienza, in quanto fonte di una verità inaccessibile al sapere costringente scientifico. A questa filosofia corrispondono affermazioni come le seguenti : filo­ sofare è imparare a morire ; è slancio verso il divino ; è conoscenza dell'essere in quanto essere. Tali affermazioni vogliono significare che il pensare della filosofia è insieme un agire interiore ; è un appello alla libertà ; un'evocazione della trascendenza. Il che può anche voler dire che la filosofia è l'accertamento che ognuno fa di se stesso nel­ l'essere autentico ; è il pensiero di una fede data con l'uomo e che deve essere illuminata con sforzo infinito ; è la via per cui l'uomo attua,. mediante il pensiero, l'affermazione interiore di se stesso. ( . ..) Siffatto genere di considerazione include altresi il rapporto tra scienza e filosofia. Solo con la loro rigorosa distinzione si può con­ seguire - in modo puro e vero - anche la loro indissolubile con­ nessione. ( . . .) (Philosophie und Wissenschaft, in Rechenschaft und Ausblick, Monaco, R. Piper et Co., 1951, pp. 116-ll7).

La conoscenza dell'uomo tocca il suo limite quando s'incontra con l'esistenza. Il rischiaramento dell'esistenza, pur varcando questi limiti,. mantiene in sé un'insoddisfazione. Sulla base del rischiaramento esi­ stenziale bisogna penetrare in una dimensione nuova se si vuole attin­ gere il piano metafisico. La costituzione di un m o n d o o g g e t t i v o m e t a f i s i c o , ossia la rivelazione dell'origine dell'essere, non si­ gnifica nulla se la si distacca dall'esistenza. (Die geistige Situation der Zeit, Berlino, W. de Gruyter et Co., 1965, pp. 160-161, 1M).

L'esistenzialismo tedesco 2.

LE

DOMANDE

FONDAMENTALI

E

LA RICERCA DELL

737 '

ESSERE

Quando mi pongo domande di questo genere : Che cos'è l'essere ? Perché c'è qualcosa anziché nulla ? Chi sono io? Che cosa voglio io veramente ? - con queste domande io non mi trovo in un inizio asso­ luto. Io mi pongo queste domande a partire da una s i t u a z i o n e in cui mi trovo come proveniente da un passato. Col risvegliarmi alla coscienza di me stesso io mi scopro collocato in un mondo nel quale cerco di orientarmi. Avevo delle cose e le ho perdute. Tutto pareva semplice e a portata di mano. Mentre ora, col mio meravigliarmi, mi chiedo che cosa sia veramente tutto ciò. Tutto mi appare quanto mai precario. Dunque non ero al principio e non mi trovo ora alla fine. Cosi collocato fra un inizio e una fine mi chiedo che cosa siano l'uno e l'altra. ( ) Cosi situato, ridesto a me stesso, io mi pongo la domanda sul­ l'essere. Trovandomi nella situazione come indeterminata possibilità sento di dover c e r c a r e l ' e s s e r e per trovare veramente me stesso. Ma solo nel naufragare di questa ricerca diretta alla pura e semplice scoperta dell'essere io entro nell'atto del filosofare. In quel modo di f i l o s o f a r e a partire dall' e s i s t e n z a p o s s i h i l e che costituisce anche- il vero metodo per giungere alla t r a s c e n denza. ( .) ( ...) L'essere in cui anzitutto m'imbatto nella situazione è per me o g g e t t o . Ma io sono diverso, Io non sto davanti a me come alle cose. Io sono colui che interroga e che cerca, colui al quale i diversi modi di essere si offrono come risposte e che si conosce come interro­ gante. Per quanto cerchi di trasformarmi per me stesso in oggetto, io sono sempre là come colui per il quale divento oggetto. Rimango sempre un esser-io ( lchsein). E s s e r e c o m e e s s e r e - o g g e t t o ( Objektsein) ed e s s e r e c o m e e s s e r - i o sono le due maniere di essere che si impongono radicalmente dapprima come essenzialmente diverse. Tra gli oggetti ci sono anche persone che sono per sé degli altrettanti io, né piu né meno come io posso diventare oggetto per loro. Perfino per me io posso diventare oggetto, per via che mi trovo qui. Resta comunque nell'esser io un punto in cui io come oggetto e io come soggetto, mal­ grado la separazione, non facciamo che uno. L'essere delle cose nulla sa di sé ; io, come soggetto pensante, invece, so di loro. Se penso questo essere indipendentemente dal suo· essere oggetto per un soggetto ( e cioè non come apparizione per un altro) lo concepisco come un e s s e r e - i n - s é . In quanto però ne ho fatto dall'inizio un oggetto, un'apparizione per me, tale essere-in-sé risulta per me inaccessibile. Un essere che sia per se stesso e in cui ...

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GIUSEPPE

MASI

essere e coscienza facciano tutt'uno non lo ravviso che in me. Come essere io sono radicalmente diverso dall'essere di tutte le altre cose perché in grado di dire « io sono ». Ma se mi rendo, come esserci empirico, oggetto, allora non sono piu, in quanto tale, ciò che « l'io » è in se stesso. Non posso sapere ciò che io sono fintantoché mi pongo a me stesso come oggetto ( . . . ) . Scindendo l'essere in essere-oggetto, essere-in-sé ed essere-per-sé non mi trovo in cospetto di tre modi di essere giustapposti, ma a tre po­ larità, reciprocamente inscindibili, dell'essere. Posso però avere la ten­ denza a considerare u n o d e i t r e p o l i c o m e l ' e s s e r e v e r o e p r o p r i o . Mi costruirò allora un essere-in-sé com� unico essere, senza tener conto che in tal modo io lo rendo di già oggetto per me ; oppure foggerò l'essere come tale oggetto per me, senza �onsiderare che con questo risolverò l'essere in apparenza, sicché que­ sto essere, come oggetto, verrà ad esse.re apparenza di qualcosa per qualcuno ; oppure mi configurerò l'essere-per-sé come un soggetto, cosi da fare dell'io quale soggetto la realtà ultima, senza por mente al fatto che io mi trovo sempre di fronte ad oggetti soltanto in una situazione, e cioè come una coscienza ordinata alla ricerca dell'essere­ in-sé. L'essere, in quanto essere-oggetto mi è dato in una moltepli­ �ità infinita e in una inesauribile ricchezza di significati. Esso sta, in quanto tale, a significare il mondo del conoscibile. L'essere come es­ ser-io è tanto immediatamente certo quanto inafferrabile e può soltanto venir conosciuto in quanto divenuto, come esserci empirico, oggetto, e quindi non piu vero e proprio io. Quanto all'essere come essere-in-sé risulta inaccessibile al conoscere valendo quindi come concetto-limite necessario del pensiero e come problematizzazione di tutto ciò che cono­ sco come oggetto. Il suo compito è di relativizzare, come apparizione, ogni essere oggettivo che pretendesse farsi valere come l'essere vero e proprio, nel senso dell'assoluto. Ma riuscire a far passare un determinato essere come l'essere vero e proprio è impossibile. Nessuno di questi esseri è l'essere puro e semplice, e nessuno può stare senza l'altro. Ognuno è un essere nel­ l'essere, ma i l t u t t o d i q u e s t o e s s e r e n o n p u ò e s s e r t r o v a t o . Esso non è il generale in cui rientrerebbero come specie le tre modalità dell'essere-oggetto, dell'essere-per-sé e dell'essere­ in-sé ; e non è nemmeno l'origine dalla quale esse provengono. Esse si respingono come eterogenee, tanto piu decisamente quanto piu hanno bisogno l'una dell'altra per essere in generale, e cioè per una coscienza. È quindi come se fossero cadute fuori dell'imprescrutabile, pur pre­ sentando un'appartenenza comune. Come i modi dell'essere non legano fra loro, cosi non si possono neppure spiegare l'uno con l'altro. N e s sun esse re p u ò v a n t a r e un prim a t o s ull'alt r o ,

L'esistenzialismo tedesco

739

salvo che sotto un determinato punto di vista. Cosi, per la meta­ fisica ingenua, che intenderebbe impadronirsi direttamente del vero es­ sere, il primato spetta all'essere-in-sé. Ma essa può solo studiarsi di riempirlo con rappresentazioni derivate dal mondo dell'essere come essere-oggetto, che essa si sforza di concepire come sottostante a ogni essere determinato. Per la conoscenza ha invece il primato l'essere-og­ getto, e ciò perché solo gli oggetti risultano conoscibili ; infatti, nel conoscere solo il conosciuto vale come essere, mentre il conoscente è qualcosa di accessorio. Invece, per il filosofare inteso come chiari­ mento dell'essere, al primo posto viene l'essere che ricerca, domanda e conosce come essere-per-sé. Ed è da questo punto di vista dell'auto­ comprensione che si tende ad accordargli la preferenza. L'essere è stato inteso oggettivamente come essere concettualmente determinato, afferrato nell'autoriferimento immediato dell'esser-io, colto come dileguante nel pensiero-limite dell'essere-in-sé e ricono­ sciuto come tale inafferrabile. Ciò che è stato cosi pensato proviene comunque da una base co­ mune : dall' e s s e r c i d e l p e n s a n t e . Se io mi addentro in questa profondità per cercare l'essere risulta che i modi dell'essere appaiono come altrettante prospettive del pensare. Il pensiero stesso, quello che accoglie tutte queste prospettive, è l'essere considerato come totalità ogni volta presente in tutto ciò che si presenta come essere. È la coscienza considerata come l'e s s e r c i t e m p o r a I e nella si­ tuazione nella quale si trova. Poiché l'esserci è coscienza ed io sussisto come coscienza, le cose sono per me soltanto quali oggetti di coscienza. Tutto ciò che è per ' me deve entrare nella coscienza... Essa non è soltanto in direzione degli oggetti, ma si retroflette, si riflette su di sé. Non è cioè sol­ tanto coscienza, ma autocoscienza. La riflessione della coscienza su di sé è cosa altrettanto naturale e meravigliosa quanto l'intenzione.lità. lo mi rivolgo a me stesso, sono uno e doppio. ( . ) ( . . ) Se io domando che cosa intendo quando dico « io » la prima risposta è quella che scaturisce dal fatto di considerarmi, per via di un atto di riflessione su me stesso, oggetto. Io sono questo corpo, sono questo individuo, con una indeterminata autocoscienza, in ordine al posto che occupo riguardo al mio ambiente. lo sono come e s s e r c i e m p i r i c o . In secondo luogo sono come un « io » essenzial­ mente identico a qualsiasi altro io : un io fungibile. Questa fungibi­ lità non è da intendersi come determinata dall'identità delle qualità medie degli individui empirici, ma come l'esser-io in genere, vale a dire come la suhiettività quale condizione di ogni essere-oggetto : io sono come c o s c i e n z a i n g e n e r a l e ( Bewusstsein uberhaupt). In terzo luogo, io mi sperimento nella possibilità dell'incondiziona..

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GIUSEPPE MASI

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tezza. Non mi interesso piu solo a ciò che è contingente, considerato nel suo pro e nel suo contro, ma voglio sapere a partire dall'insonda­ hilità dell'origine. Nell'agire ho dei momenti nei quali divento certo di me stesso : ciò che or� voglio e faccio lo voglio io veramente. V o­ gli o essere in modo tale che questo voler sapere e questo agire mi appartengano. Dal modo come voglio sapere e agire proviene a me la mia essenza che, pe� quanto ne sia certo, non conosco. In quanto io sono questa possibilità che costituisce la libertà del sapere e dell'a­ gire, io sono e s i s t e n z a p o s s i h i l e . L'io non è dunque qualcosa di univocamente determinato, ma qualcosa di 'ambiguo. Come c o s c i e n z a i n g e n e r a l e io sono la suhiettività per la quale gli oggetti sussis tono come realtà obiet­ tiva e generica. Ogni coscienza concreta partecipa di questa co­ scienza genericamente considerata nella misl}ra in cui afferra l'essere che si fa oggetto per tutti. Io sono i n d i v i d u a l i t à e m p i r i c a come suhiettività che è diventata oggetto. Come tale mi ritrovo nella indefinita pluralità degli individui come qualcosa di particolare e ir­ repetibile. Mi ritrovo dunque ad essere questa individualità dell'es­ serci empirico nei confronti della coscienza in genere, e cosi oggetto inesauribile della psicologia. Posso cosi osservarmi e investigarmi, ben­ ché non come un tutto. Sono infine, come e s i s t e n z a p o s s i h i l e , un essere che si rapporta alla sua possibilità e che non è, come tale, per nessuna coscienza in generale. Con l'afferrare il senso dell'esistenza possibile s'infrange la cerchia di tutti i modi dell'essere obiettivo e subiettivo. ( . .) ( . .) L'io, come e s i s t e n z a p o s s i h i l e , detiene l'indiscuti­ hile privilegio del filosofare in grado di irrompere nella cerchia del­ l'essere inteso come essere-oggetto ed essere-soggetto. L'esistenza possi­ bile esprime il movimento verso l'essere-in-sé che può venire determi­ nato solo negativamente entro questa cerchia. Essa schiude la via che nel mondo degli oggetti per una coscienza in genere risulta pre­ clusa. Questo filosofare che è per l'esserci empirico un nulla, per la coscienza in generale una immaginazione immotivabile, diventa per l'esistenza possibile la via per pervenire a se stesso e all'essere vero. L'esistenza è ciò che non può mai diventare oggetto. È l'o r i g i n e a partire dalla quale penso e agisco. È ciò di cui parlo in ragiona­ menti che non portano a nulla. L'esistenza è ciò che si rapporta a se stessa e in tal modo alla propria trascenden­ z a . ( .. ) ( . ) All'esistenza possibile l'essere si presenta, da un lato, fran­ tumato nei modi dell'essere del mondo, nel medio della coscienza in genere ; mentre, dall'altro lato, si trovano le esistenze. D a n e s ­ s u n a p a r t e s i t r o v a u n e s s e r e i n s é c o n c l u s o , né .

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L'esistenzialismo tedesco

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in senso obiettivo come unità dell'essere mondano, né in senso esisten­ ziale come un mondo di esistenze pensabili e calcolabili. Se penso ad un essere è sempre a un determinato essere, non mai all'essere. Se mi accerto dell'esistenza possibile non ho di fronte a me né un'esi­ stenza come oggetto né mi accerto di un'esistenza in genere, bensi soltanto di me stesso e dell'esistenza con me comunicante. In ogni caso, noi siamo qualcosa di assolutamente insostituibile, non delle sem­ plici declinazioni della parola « esistenza ». L'esistenza si presenta come signum indicativo della direzione di questo processo di auto­ accertamento di un essere non pensabile né valutabile obiettivamente, che nessuno può sapere né di sé né degli altri e non può sensa­ tamente affermare. ( .. ) ( . ..) S c o p r i r e l'essere è proprio del conoscere scientifico quale si attua nell'orientamento mondano come afferrare, ogni volta, un es­ sere determinato, in maniera piu o meno adeguata. A c c e r t a r e l'essere è proprio invece del filosofare inteso come trascendere oltre l'oggettività, e costituito dall'afferrare inadeguatamente, per mezzo di categorie, in oggettività rappresentative, ciò che non può mai diven­ tare oggetto. ( . ) Il vero essere, che non è dato trovare in alcun senso conce­ pibile ( wissbar), è da ricercare nella sua t r a s c e n d e n z a , alla quale non si rapporta nessuna coscienza in genere, bensi soltanto l'esistenza. .

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(Philosophie, Berlino, Springer, 1932, v�l. l, pp. 1-2, 4-7, 13-15, 19-23).

3.

LE

MODALIT

À

DEL

TRASCENDERE

Distinguiamo un trascendere nell' o r i e n t a m e n t o m o n d a · n o ( Weltorientierung), nel r i s c h i a r a m e n t o d e I l ' e s i s t e n z a ( Existenzerhellung), nella m e t a f i s i c a ( Metaphysik). Come dimostreremo, ciascuno di questi modi del trascendere non solo consegue all'altro, ma conferisce ad esso un nuovo senso retrospettivo. Essi si compenetrano l'un l'altro, dimodoché ciascuno senza l'altro ri­ schia di andar perso. La loro separazione è pertanto solo relativa, valendo solo per l'ordine del pensiero filosofico che mira a conseguire la piena effettiva chiarezza nella riflessione. l) Il trascendere nell'orientamento mondano. ( .. ) n trascendere nell'orientamento filosofico nel mondo cerca di distinguere i limiti re­ lativi da quelli principali e). Se i limiti principali venissero confusi

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(l) Proprio in virtu di questa distinzione l'orientamento « filosofico » nel mondo non deve esser confuso con l'orientamento semplicemente >.

L'esistenzialismo tedesco

747

il risultato della mia illimitata orientazione nel mondo e del moltipli­ carsi, per via di una riflessione infinita, dei miei possibili modi di essere me stesso. ( .) Solo nella s c e l t a io divengo consapevole di quella libertà che è l i h e r t à o r i g i n a r i a , poiché solo in essa io mi riconosco autenticamente come me stesso. Tutti gli altri mo­ menti della libertà appaiono, dal punto di vista di quella libertà, solo come c o n d i z i o n i perché possa venire alla luce quella libertà esi­ stenziale piu profondà. Tale libertà non è mai in alcun modo ogget­ tivabile o generalizzabile. ( ... ) ( .. ) La scelta esistenziale non è frutto di una lotta fra motivi (in tal caso si tratterebbe di un fatto oggettivo). ( ...) Quello che ha importanza decisiva nella scelta è piuttosto il fatto che sono i o che scelgo. ( . ) Una scelta siffatta è costituita dalla d e c i s i o n e di essere me stesso nell'esserci. ( ...) I n h a s e ad essa io posso volere, ma e s s a io non la posso piu volere. Nella decisione io colgo la li­ bertà in base alla speranza di imbattermi in me in ciò che io, nel profondo, sono per me stesso, per il fatto appunto di poter volere. La decisione si manifesta tuttavia nella scelta concreta. Questa scelta è del tutto m e d i a t a Al cospetto di tutte le oggettività che si dànno nell'ambito del possibile, saggiata nella rifles­ sione illimitata del soggetto, si enuncia la decisione assoluta del­ l'esistenza. Essa non è tuttavia il risultato di calcoli, benché vi debba passare fra mezzo e non possa essere senza di essi. La decisione come tale consiste unicamente nel s a l t o . ( ... ) Malgrado ciò, la decisione è anche del tutto i m m e d i a t a . Non si tratta comunque dell'immediatezza dell'esserci, hensi dell'im­ mediatezza dell'autentico e s s e r - s e - s t e s s o . Decisione ed esser­ se-stesso sono una cosa sola. ( .. ) ( ...) La scelta è l'espressione della consapevolezza che io ho non solo di agire nel mondo in base a una libera risoluzione, ma altresi di costituirmi, nella mia essenza, in una continuità storica. ( .. ) La scelta pura e semplice si presenta solo come una scelta fra situazioni obiettive. Ma la libertà è una scelta di me stesso. ( .. ) Questa deci­ sione è, nella scelta, qualcosa di originariamente c o m u n i c a t i v o . La scelta di me stesso fa tutt'uno con la s c e l t a d e I l ' a l t r o . ( .) L'autentica scelta dell'altro non è uno scegliere in base a deter­ minati presupposti, ma è un originario e fondamentale decidersi per la comunicazione incondizionata con colui col quale mi trovo come con me stesso. ( . ) Per ciò che concerne, integralmente, il rischiaramento della li­ bertà esistenziale, rimane il fatto che la libertà n o n p u ò e s s e r c o n o s c i u t a e non può in alcun modo venir p e n s a t a ogget­ tivamente. ( ... ) La consapevolezza della libertà non può mai venir ..

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GIUSEPPE MASI

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espressa con un'unica formula determinata. Solo nel movimento da una espressione all'al�ra può rendersi palese quel senso della libertà che in nessuna di esse, singolarmente presa, risulta di per se stesso evi­ dente. ( ...) Ogni formula, presa i m m e d i a t a m e n t e , non con­ cerne che l'esserci di fatto, mentre solo un rischiaramento di carattere t r a s c e n d e n t e può riguardare l'esistenza possibile. ( .. ) Sapendomi libero mi riconosco colpevole. Rispondo di ciò che ho fatto. Sapendo ciò che ho fa tto lo prendo su di me, me ne rendo responsabile. ( . ) Se non ci fosse alcuna trascendenza, allora si porrebbe il problema del perché io sia tenuto a volere. Non ci sarebbe che il puro arbitrio scevro di consapevolezza. In realtà io posso volere solo se c'è la trascendenza. ( .. ) Cosi come c'è già la libertà, per il fatto che ne discuto, ne viene che anche la possibilità della trascendenza non può sussistere che n e I l a l i h e r t à s t e s s a . Essendo libero, è nella libertà, e solo m e d i a n t e essa, che esperimento la trascendenza. ( .. ) Essendo libero, mi trovo di fronte alla trascendenza, ma non per questo distaccato da lei. Non potendo, di fronte ad essa, cogliermi come una perfezione, anche soltanto transitoria, io sono realmente per me stesso, nella mia libertà, come un essere incompleto, e cioè libero nell'esser costretto. Costrizione di cui mi rendo conto come di una colpevolezza. Ma proprio questo modo di essere reale si trova già nella sua trascendenza. La trascendenza non è la mia libertà, ma è presente in essa. ( . ) ( ...) Mediante la trascendenza io mi trovo come esistenza possibile, vale a dire come libertà, nell'esserci del tempo. ( ...) Chi è in grado di mantenersi in se stesso in cospetto della trascendenza si rende conto, nella maniera pio decisiva, di quella necessità che lo consegna inte­ ramente nelle mani del suo Dio. Solo allora egli si rende conto della sua libertà come di un fenomeno transitorio, portato ad annullare se stesso. La libertà ha il suo tempo. Essa è ancora qualcosa di inferiore che vuole annullare se stesso. Ma questo pensiero non ha signifi­ cato nel mondo, hensi solo in vista di un compimento trascendente , della fine di ogni giorno. .

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( Philosophie, Berlino, Springer, 1932,

7. S ITUAZIONI-LIMITE

E

vol.

II, pp. 178-183, 185-186, 196, 198-200).

CONSAPEVOLEZZA

DELLA

MORTE.

L'ANGOSCIA

Poiché l'esserci è un essere in situazione, cosi io non posso uscire da una situazione se non e n t r a n d o i n u n ' a l t r a . ( .. ) Si­ tuazioni come quelle di trovarmi sempre in situazione, di non poter .

L' esi.denzialismo tedesco

749

vivere senza lotta e dolore, di dovermi inevitabilmente assumere la colpa, di dover morire, sono quelle che io chiamo situazioni-limite. Esse in se stesse non mutano, salvo che nelle loro manifestazioni ; esse sono, nei confronti del nostro esserci, d e f i n i t i v e . Esse non sono trasparenti ; non possiamo, nel nostro esserci, scorgere di là da esse qualcosa d'altro. Sono una specie di muro, di barriera, contro cui urtiamo e contro cui naufraghiamo. Esse non possono venir mu­ tate da noi. Noi possiamo soltanto prenderle in considerazione, senza poterle chiarire o dedurle da qualcosa d'altro. Esse sono date con l'es­ serci stesso. ( ... ) La morte, come fatto obiettivo dell'esserci, non costituisce ancora una situazione-limite. Per l'animale che nulla sa della morte tale si· tuazione-limite non è possibile. L'uomo invece, che sa di dover morire, possiede questa consapevolezza come attesa di uri momento indetermi­ nato del tempo. Ma fintantoché la morte non rappresenta per lui che la cura d'evitarla anche per l'uomo la morte non costituisce una situa­ zione-limite. ( .. ) Se invece e s i s t e n d o mi rendo conto, in una storica consapevolezza, del mio esserci come apparizione nel tempo ; e che esso non è che un'apparizione, ma apparizione di un'esistenza possibile ; al­ lora l'esperienza della fine di ogni cosa viene riferita a questo lato fenomenico dell'esistenza. La sofferenza della fine diventa allora un'ac­ certamento dell'esistenza. ( ) Cosi la presenza della situazione-limite della morte impone all'esistenza la duplicità del punto di vista concernente ogni esperienza dell'esserci in rapporto all'azione : ciò che n e i c o n f r o n t i d e I l a m o r t e permane e s s e n z i a l e riguarda l'esistenza, ciò che diviene t r a n s i t o r i o riguarda semplicemente l'esserci. ( . ) L'angoscia suscitata dal raccapriccio d a v a n t i a l n o n e s s e r e non può venire eliminata dalla volontà di esserci, e resta l'ul­ timo traguardo quando l'esserci è assolutamente tutto, non soltanto nel senso determinato della realtà fenomenica, nel senso cioè del vivere nel mondo con consapevolezza e memoria. ( .. ) Soltanto la certezza che pervade l'angoscia esistenziale può rendere relativa l'angoscia dell'esserci. In base alla certezza dell'essere propria dell'esistenza è possibile dominare la brama di vivere e tro­ vare la pace di fronte alla morte come rassegnazione consapevole di fronte alla fine. ( . ) La vita acquista profondità e la vita si fa maggiormente consapevole di fronte alla morte. Ma la vita rimane in pericolo di perdersi, ricolma d'angoscia, nel vuoto dove l'esistenza si offusca. ( .) La duplicità dell'angoscia dell'esserci e dell'angoscia dell'esi­ stenza fa si che il timore della morte si presenti sotto un duplice aspet.

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to, ossift come e s s e r c i c h e n o n è v e r a m e nte, e come ra dicale n o n - e s s ere. ( ...) L'importante non è che un esserci si trascini a lungo, privo di speranza, e non faccia che ripetersi come vuoto esserci, ma che venga riempito dalla decisione di identificarsi con la realtà storica. Soltanto se assume la forma della f e d e l t à la ripetizione non si presenta piu come un processo senza fine né scopo, ma come un adem­ pimento, un'attuazione. La morte attinge la profondità dell'essere non già come riposo, ma come c o m p i m e n t o . Il fatto che la morte appartenga ne­ cessariamente alla vita non può in verità comprendersi mediante pen­ sieri obiettivi, e tuttavia la coscienza di questa appartenenza è ineli­ minabile. (Philosophie, Berlino, Springer, 1932, vol. Il, pp. 203, 220, 223, 225-228).

8. !L

MISTERO DELL' ESSERE NEL NAUFRAGIO

( ... ) Su ogni essere vivente incombe la morte. L'uomo, col suo vivere e con la sua s t o r i a , esperimenta che ogni cosa ha la sua fine. ( ...) Alla fine non c'è che il n a u f r a g i o . ( ...) Naufraga, ' per quanto riguarda l' o r i e n t a z i o n e n e l m o n d o , lo stesso mondo in quanto esserci, per il fatto che non può esser compreso da se stesso né giustificato in se stesso. Esso non può infatti proporsi come un essere in sé concluso, conoscibile fino in fondo ; né, d'altra parte, il processo conoscitivo giunge mai a compiersi in una visione totale. Naufraga, nel c h i a r i m e n t o d e I l ' e s i s t e n z a , la stessa autonomia esistenziale, in quanto nell'essere veramente me stesso non sono soltanto me stesso. Naufraga, infine, nella t r a s c e n d e n z a , il pensiero che si volge alla passione per la notte e) ( .. . ). Per quanto concerne tutti questi vari modi di naufragare, si af­ faccia il problema se il naufragio sia un puro annientamento, dato che ciò che naufraga va di fatto in rovina, oppure se nel naufragio non si riveli un essere ; la questione, insomma, se il naufragio sia solo un naufragare o anche un eternare. (l) Il nostro essere, appare, secondo Jaspers, dominato da due forze opposte e com­ plementari che condizionano il corso stesso della nostra esistenza : la norma del giorno ie l.a passione per la notte. La norma del giorno esprime il primato della riflessione, il ri• chiamo alla realizzazione storica del nostro mondo e di noi stessi, l'apertura alla comuni­ cazione; la passione per la notte esprime la necessità del naufragio, l'attrazione verso il mistero, verso ciò che non si concede se non sottraendosi e annullandoci, verso la ·tra. sccndeuza. « La nolte alla quale mi sono affidato ad occhi aperti, non è il nulla, non è il male considerato semplicemente come tale. Al di là del bene e del male, cose che contano finché c'è una scelta da fare, essa è male solo per il giorno che tuttavia sente di. non essere tutto » (Philosophie1, cit., vol. III, p . 106 ; cfr. ihid., pp. 102-16, infr.).

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( .) Quando, di fronte alla caducità d'ogni cosa - durasse anche mill'anni -, l' e s s e r c i c o m e e s i s t e n z a p o s s i h i l e ravvisa l'essere vero e proprio unicamente nella presente e concreta realtà del proprio io, allora anche la distruzione e lo sfacelo possono diventare un essere, purché liberamente accettati. Il naufragio, che come naufragio del mio esserci viene subito passivamente come fatto accidentale, può attivamente venire accettato come naufragio au· tentico. La volontà di eternarsi, anziché respingere il naufragio, può . sembrare allora raggiungere proprio in esso il suo scopo. ( . ) V o l e r e s e n z ' a l t r o i l n a u f r a g i o costituirebbe un traviamento in cui l'essere verrebbe di nuovo oscurato riducen­ dosi a nulla. Il fatto si è che non in ogni annientamento, in ogni abbandono di se stesso, in ogni rinuncia o rifiuto si manifesta un vero naufragio. La cifra, il segno misterioso dell'eternare nel naufra· gio, s'illumina soltanto se io n o n voglio naufragare, ma affronto ciononostante il rischio del naufragio. ( .. ) Se dunque il naufragio al quale mi abbandono passivamente, non rappresenta che il vuoto nulla, il naufragio che mi coglie quando ho fatto veramente di tutto per evitarlo risulta essere non un mero naufragio. Cosi io posso sperimentare l'essere allorché nella sfera del­ l'esserci ho fatto tutto ciò che potevo per salvaguardarmi ; se, come esistenza, rispondo completamente di me e tutto esigo da me ; ma non già se nella consapevolezza della mia nullità creaturale di fronte alla trascendenza mi abbandono semplicemente al mio essere creaturale. ( .) Soltanto il naufragio autentico, che io sono disposto a rico­ noscere e ad accettare senza alcuna riserva, può diventare pienamente cifra dell'essere. Se invece io mi nascondo la realtà, oppure, privo di realtà, mi avvio al disfacimento, in entrambi i casi vengo a perdere, nel naufragare di fatto, il vero naufragio. ( . ) 'La finitezza può essere oltrepassata soltanto nel naufragio. Se, abolendo il tempo, mi pongo in una posizione metafisica puramente contemplativa nei confronti del naufragio, senza cioè spcrimentarne in me la realtà effettiva, ricado fatalmente di nuovo nella finitezza del­ l'esserci. Chi invece cancella il tempo nel naufragio autentico non ri­ torna indietro. Inaccessibile al permanere, egli esige dalla realtà finita dell'esserci di lasciare intoccato l'essere della trascendenza. ( ...) Come in ogni trapassare delle forme mondane rimane la ma­ teria come qualcosa di assolutamente altro, e del tutto indifferente, cosi nel naufragare di ogni esserci e di ogni esistere, permane, del tutto inaccessibile, l'essere vero e proprio nel cui oscuro senso si svela l'es­ senza di ogni cosa ( .. ) ( ... ) Solo di fronte all'enigma indecifrabile la fine del mondo di­ venta finalmente l'essere. Mentre ogni fine consaputa si trova nel. ..

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mondo e nel tempo senza costituire mai una fine del mondo e del tempo, il silenzio di fronte all'enigma indecifrabile dell'universale naufragio si trova in rapporto con l'essere della trascendenza per il quale il m o n d o è a n d a t o p e r d u t o . Il non essere di ogni essere a noi accessibile, quello che si rivela nel naufragio, è l'essere della trascendenza. ( . . . ) Infatti il naufragio è la misura fondamentale di ogni essere­ cifra. Solo nell'esperienza del naufragio è dato di cogliere la cifra quale realtà dell'essere. Da questa esperienza discende la definitiva confer­ ma di tutte le cifre che non sono state rigettate. Io posso recuperare come cifra tutto ciò che lascio cadere nell'annientamento. Quando cerco di decifrare le cifre permetto loro di emergere al mio cospetto sulla rovina che conferisce risonanza a ogni altra particolare cifra sulla base di quella del mio naufragio ( .. ). Ma l'inesplicabilità dell'ul­ tima cifra non è cosa che possa essere ulteriormente determinata. Essa rimane a p erta : di qui il suo silenzio. ( .) .

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(Philosophie, Berlino, Springer, 1932, vol. III, pp. 219-220, 222-223, 225, 233-235).

9. L'ANGOSCIA FINALE E LA PACE DELLA TRASCENDENZA Non è possibile vivere in vista del naufragio. Se la consapevolezza della realtà accresce l'angoscia e il cessare di ogni speranza mi fa venir meno nell'angoscia, ne consegue che di fronte al fatto reale, inevitabile, l'angoscia è ciò che conduce alla fine. L'autentica ango­ scia è quella che si prospetta come l'ultimo evento, da cui non c'è scampo. ( .. ) Il salto da questa angoscia alla r e q u i e è il salto pio straordinario e decisivo che l'uomo possa compiere. Il fatto che gli possa riuscire è cosa che trascende, come fondamento, la sua specifica personale esistenza. È la sua fede che, in maniera imprecisabile, lo astringe all'essere della trascendenza. Soltanto l'angoscia capace di produrre il salto che porta alla requie è anche in grado di avere l' i n c o n d i z i o n a t a v i s i o n e d e 1 1 a realtà del mondo. ( . ) Mentre la rassegnazione passiva è vuota, e rappresenta solo un modo di abbandonarsi senza resistenza alle cose, la rassegnazione attiva è in grado di sperimentare il naufragio di ogni esserci e di attuarlo fin dove è possibile. È in questa tensione che si realizza il suo abbandono ( Gelassenheit). È per via della rassegnazione che il mondo dell'uomo che si è aperto alla realtà, e a cui l'essere della trascendenza si è fatto sentire, può mantenersi in tale apertura. Nella rassegnazione c'è il non sapere della fede, per cui la fede è attiva .

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nel mondo senza bisogno di ritenere possibile una perfetta e definitiva organizzazione del mondo. ( . ..) Proprio l'accertamento di questa trascendenza, il quale nel momento piu critico e piu oscuro poteva rifiutarsi d'intendere il lin­ guaggio della trascendenza, diventa per l'esserci un punto fermo onde pervenire a una r e q u i e non piu illusoria. Siffatta certezza, legata alla presenza viva e reale dell'esistenza, non può tuttavia costituire una garanzia oggettiva nel tempo, onde è soggetta con­ tinuamente a dileguarsi e a disperdersi. Ma quando è presente non c'è nulla che possa qualcosa contro di lei. Basta che l'essere ci sia. Certo, il cercar di sapere qualcosa della divinità diventa superstizione. E tuttavia c'è la verità allorquando, nel suo naufragare, l'esistenza è in grado di tradurre nella pura e semplice certezza dell'essere il linguaggio ambiguo della trascendenza. (Philosophie, BerlinO', Springer, 1932, v.ol. III, pp. 235-236).

10. LA VERITÀ, LA LOGICA FILOSOFICA E IL CONCETTO DEL « COM­ PRENSIVO » Noi non viviamo direttamente nell'essere, perciò la verità non co­ stituisce per noi un possesso che possiamo considerare definitivo. Noi viviamo nell'esserci temporale, pertanto la verità rappresenta per noi soltanto la via. ( .. .) La verità si origina dall'intreccio del pensare e del vivere : dalla separazione dei due termini consegue l'offuscamento della co­ scienza veritativa. In questo caso, al posto della verità non rimane che la vuotezza dell'intelletto ( Verstand) (4), da un lato, e la cecità della vita vissuta dall'altro ; ossia l'incertezza e la mutevolezza di entrambi. Solo se l'uomo vi rivela in grado di concentrarsi e di col­ legare in se stesso ciò che tende a dividersi può pervenire ad essere se stesso sulla via della verità. Se si divide, se. si disperde, ora come puro intelletto, ora come puro istinto, si perde e non è mai se stesso. ( . .. ) Per conquistare la verità deve compiere una trasformazione personale tale da pervenire da una condizione imbrogliata e oscura a una chiara posizione della sua essenza nel suo mondo, in quel mondo in cui egli realizza se stesso e in cui vive ; ma, perché ciò sia possibile, la condizione indispensabile è che egli sia in grado di pervenire a una comprensione dell'essere autentico. ( . . .) (4) Intelletto ( Verstand) e ragione ( Vernunft) non sono, per J., tet·mini equivalenti, ma, al contrario, contrapposti. La ragione (Vernunft) non procede per livellazioni e deduzioni concettuali, ' ma per salti qualit;�tivi, mantenendo cosi un costante contatto con l'esistenza con la quale finisce col fare, come pensiero, tutt'uno (cfr. Vernunft und Existenz, Gro. ninga, 1935, pp. 39-4'0, ss.).

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( ...) La verità non può essere inconsapevolmente vissuta. La verità dà, come tale, un qualche affidamento solo rendendosi conscia. La logica filosofica ha appunto il compito di tradurre la coscienza della verità dalla sua immediatezza in un sapere riflettuto. Solo cosi pos­ siamo conseguire anche la reale certezza della nostra coscienza veri­ tativa. La logica filosofica persegue questo compito in base ai seguenti punti di vista : a) Il sapere logico può risultare vero soltanto in quanto o n n i a h h r a c c i a n t e , onnicomprensivo (allumfassend). Dev'essere in gra­ do di rischiarare ogni modalità del sapere e della coscienza, ogni modo della certezza e della verità, ogni via del conoscere. ( ... ) La logica filosofica si basa sul pre-categoriale e sul trans-categoriale, e vi si rife­ risce, pur esprimendosi comunicativamente in pensieri categoriali. b) Il nostro intelletto ( Verstand) presuppone che tutto il conosci­ bile si trovi su di un medesimo piano, ( ...) la logica filosofica, in­ vece, riconosce i salti inerenti alle varie maniere d'essere e di pensare ; essa d i s t i n g u e e riconosce i limiti di ciascuna maniera. Rea­ gendo contro ogni livellamento, essa si studia di risalire alle sca­ turigini effettive di ogni specie di accertamento dell'essere e di distin­ guerle nelle loro proprietà. I vari modi del manifest arsi dell'essere e le diverse operazioni di pensiero necessarie per rintracciare, in essi, le modalità dell'essere-se-stesso ( sia rispetto a sé che all'ahro) devono essere consaputi nella loro molteplicità. La logica considera quèste modalità secondo gradi, sfere, oppure in salti radicali. c) Le distinzioni hanno la tendenza a lasciar disintegrare l'essere nella sua pensabilità e di proseguire all'infinito la sua disintegrazione. La logica filosofica guarda invece all'intero. Quanto pio decisamente essa perviene a conoscere i limiti delle varie maniere dell'essere e del pensare, di cui respinge le contaminazioni mentre , nega i presunti passaggi da tutto a tutto, tanto piu decisamente essa mostra di per­ seguire costantemente il senso dell' u n i t à . E questo senza lasciar mai sussistere nulla di isolato, ma cercando anzi di stabilire relazioni da tutto a tutto. Benché guidata dall'idea dell'intero, essa tuttavia fa in modo da non diventare mai essa stessa _un intero. Cosi essa si volge dalla sua interezza consaputa nell'unità trascendente, contro la propria stessa compiutezza, in una organizzazione di pensiero delimi­ tante tutto il possibile. Il suo senso dell'unità distrugge ogni unità in sé compiuta considerandola solo provvisoria. Essa è un tutto con . la consapevolezza della propria incompiutezza nel tempo. ( ... ) Compete alla logica filosofica l'impulso indefesso verso l'unità, sicché si rivela del tutto estranea alla sua natura la tendenza a costituire una scienza chiusa della logica che intenda rimanere filo-

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sofica. Suo compito è di indicare non solo tutte le vie dell'interezza, nell'ambito dell'unità, ma anche tutte le possibili rotture delle tota­ lità in sé conchiuse, diventate oggettive nel tempo. ( .. .) ( ...) L'oggettività è qualcosa di d e t e r m i n a t o . È un essere che è in rapporto ad altro da cui è diviso, e in rapporto a me a cui sta di fronte come pensato. Esso n o n è t u t t o perché, per quanto grande, si trova sempre compr:eso in un essere ancor piu vasto e comprensivo. N o n rappresenta dunque l a t o t a l i t à ( das Ganze). L'essere in quanto essere non si manifesta mai come oggetto. Pensare l'essere per esempio come materia, come energia, come spirito, come vita - secondo tutte le possibili categorie che sono state pensate - significa assolutizzare come essere un modo determinato dell'essere che mi viene incontro nella totalità dell'essere. L'essere che io esperimento nella sua immediatezza p.on è se non un fenomeno che mi si mostra al di sopra degli altri ; mentre l'essere che conosco in modo mediato non è sperimentabile in se stesso. L'essere in quanto es'sere non può mai essermi dato, né immediatamente né mediatamente, m modo oggettivo. Esso è obiettivamente inafferrabile. ( . .. )

( ... ) La nostra conoscenza procede dalla i n d e t e r m i n a t a t o t a l i t à del nostro mondo (in cui immediatamente viviamo) alla o g g e t t i v i t à d e t e r m i n a t a ( che si fa avanti nel mondo e da esso ci viene incontro), pervenendo da qui alla t o t a l i t à i n s é c o n c l u s a . d e l m o n d o consaputa nel suo proprio orizzonte (nel sistema corrispettivo dell'essere). In ognuno di questi momenti l'essere ci è presente, ma in nessuno di essi lo possediamo come es­ sere. Ci si presenta infatti ogni volta la possibilità di procedere oltre, attraverso le prospettive dell'essere che abbiamo guadagnato, e di ad­ dentrarci vieppiu nell'essere stesso. L'essere determinato, l'essere con­ saputo, è sempre compreso in un essere pio ampio. Ogni volta, nella positiva comprensione di un essere particolare ( particolarità che può essere riferita anche a ogni sistematica concezione della totalità del­ l'essere), noi cogliamo anche ciò che l'essere non è. Una volta divenuti consapevoli di ciò, non ci resta che rinnovare la domanda anche a proposito dell'essere : di quell'essere che, col mani­ festarsi di tutti i fenomeni che ci vengono incontro, indietreggia come tale. Questo essere che non è oggetto (portato sempre a restrin­ gerne il significato), né una totalità configurantesi come particolare orizzonte (portata sempre a delimitarne il contenuto), è ciò che noi chiamiamo il c o m p r e n s i v o ( das Umgreifende). Esso si presenta come un orizzonte che comprendendo di volta in volta ogni orizzonte acquisito, si propone continuamente come un al di là, senza configurarsi esso stesso come orizzonte determinato. Cosi

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il comprensivo non corrisponde all'orizzonte del nostro relativo sapere e neppure a quello in cui ci vengono incontro determinati modi di essere, giacché non si rende mai, come orizzonte, eviden te. Il com­ prensivo è, pio semplicemente, l'essere dal quale piuttosto emergono, come da una totalità avvolgente, via via tutti i vari orizzonti. Il com­ prensivo è pertanto ciò che a n n u n c i a sempre e solo se stesso, nella prcsenzialità oggettiva e nei vari orizzonti, non configurandosi mai esso stesso come oggetto o come orizzonte n. Esso è ciò che non ci si manifesta mai in se stesso ma nel quale si manifestano a noi tutte le cose. Esso ci si presenta quindi solo indirettamente nel­ l'atto in cui ci dirigiamo verso di lui superando e oltrepassando i vari orizzonti. All'interno di ogni particolare orizzonte noi comprendiamo le cose come oggetti via via determinati che però non sono solo ciò che imm ediatamente ci appare, ma anche ciò che dal comprensivo e attraverso di lui traspare. Noi compiamo l'operazione filosofica del pensare fondamentale al­ lorché oltrepassando col pensiero ogni essere determinato, ogni oriz­ zonte evidente e con ciò determinato, perveniamo al comprensivo n el quale siamo e che noi stessi siamo. Il comprensivo è il luogo in cui si trova ogni essere per noi ; ov­ vero è la condizione per cui l'essere ci appare come quel determinato essere. Esso non è il totale equivalente alla somma degli esseri, ma la totalità che permane a noi dischiusa come fondamento dell'essere. ( .. ) Occorre · distinguere fra la trascendenza di ciascun modo del com­ prensivo e la trascendenza vera e propria. Noi trascendiamo verso una certa comprensibità quando oltrepassiamo l'oggettività circoscritta an­ dando verso ciò che la circoscrive. Da questo punto di vista è possibile riconoscere in ogni tipo di comprensività una trascendenza, e ciò nei confronti dell'oggettività ivi compresa. Noi però designamo come trascendenza vera e propria solo il puro comprensivo, ovvero la comprensività di tutte le comprensività. Il suo significato è origi­ nario ed unico. Esso rappresenta, nei confronti di tutti i tipi di com­ prensività che tendono alla trascendenza, la trascendenza di tutte le trascendenze. ( ... ) Innumerevoli sono le denominazioni della Trascendenza. I termini di Essere, Realtà, Divinità, Dio, che le attribuisce la tradizione occi­ dentale appaiono indeterminati e tuttavia solenni e infinitamente ric­ chi di significato secondo la tradizione storica. Se p e n s i a m o alla Ttascendenza come al comprensivo, la chia­ miamo E s s e r e . L' Essere si presenta come il Positivo, l' Immu­ tabile, il Vero. Ma è un Essere che può, in questa sua impertur.

(5) Nel senso che si tratta di una totalità, od orizzonte, non limitante, ma illimitante.

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babilità e incondizionatezza, apparire tale solo per un pensiero astrat­ tamente trascendente. Se noi v i v i a m o la Trascendenza, essa ci si presenta come r e a l t à a u t e n t i c a , ossia come qualcosa che sentiamo appar­ tenere essenzialmente al nostro essere, e che ci attira, ci sostiene. Se poi in questa realtà ci parla un essere che da noi esige, che ci domina e che ci circonda, chiamiamo la Trascendenza D i v i n i t à . Se infine ci sentiamo p e r s o n a l m e n � e c o l p i t i nella no­ stra singolarità e intratteniamo un rapporto personale con la Tra­ scendenza concepita come persona, allora chiamiamo la Trascendenza con il nome di Dio. ( Vvn der Wahrheit, Monaco, R.

Piper

et

Co.,

1947, pp. 1-5, 37-39, 108-109, 111).

11. VERITÀ E NON-VERITÀ , L'AUTORITÀ E L 'ECCEZIONE. LA CATTOLICITÀ Se c'è la verità è possibile anche la non-verità. Se facciamo consistere la verità nella concordanza, i modi della non-verità sono quelli della non-concordanza. Cosi verità e non-verità sembrerebbero coesistere l'una accanto all'altra, come se alternativamente tutto po­ tesse essere o vero o falso, come se il falso non aspirasse ad essere e potesse venire del tutto eliminato. In realtà, ogni affermazione della verità è in pari tempo anche un superamento di una possibile non-ve­ rità a lei connessa ; onde si ripresenta sempre di nuovo l'alternativa in cui distinguere in modo chiaro ed esclusivo il vero dal falso. Da ciò risulta che la verità non si costituisce affatto nella sua totalità, come un grande e pacifico regno in sé concluso che abbia e mantenga fuori di sé la falsità, escludendola. Per contro, ogni ricerca della ' verità, e con ciò la verità stessa, almeno per l'aspetto che ci riguarda, restano in ultima analisi incluse in un movimento comprendente la falsità, e che non solo la respinge, ma anche l'accetta. ( ...) La verità è pertanto congiunta con la non-verità in un modo non solo rispetto a lei separante ed escludente, ma in modo che quest'ultima diventa un momento inseparabile di lei stessa. La distinzione del vero dal falso è quella che si opera sulla via della ricerca e del supera­ mento, mentre la loro riunificazione è l'estremo scopo e il fondamento ultimo della ricerca. ( . ..) L'esserci sta nella situazione in una inevitabile posizione di lotta. Noi dunque viviamo dovunque in una serie di rapporti che si rive­ lano altresi ostili. La non-verità nasce da una situazione che implica di fatto l'abban­ dono della lotta che contrappone verità e non-verità, nello scivolare verso una posizione di comoda quanto transitoria neutralità. Oppure

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la non-verità nasce dall'occultamento proveniente dal fatto di abban­ donare la lotta profittando della verità conquistata da altri ( . ) per as­ sicurarmi cosi una posizione di forza. ( . . ) La non-verità nasce anche quando si faccia valere la verità storica per verità universal­ mente valida o la necessità valida per una particolare situazione per necessità assoluta. ( ..) In ultima analisi, la fonte della non-verità è la finitezza dell'uomo. Ma l'uomo può rendersi conto dell'infinito. La fonte della verità autentica in lui consiste nel diventar conscio della propria finitezza, in quanto è attiva in lui la possibilità dell'in­ finito. ( . ) Finché la verità rimane nel mondo essa si trova sempre congiunta con la falsità. Essa si va formando a fatica in un trascendere conti­ nuo per rapporto al falso che contiene sempre dentro di sé come qual­ cosa che deve essere incessantemente superato, e tuttavia non lo è mai del tutto. Ma la falsità che essa trascina sempre con sé non è di un unico tipo. Bisogna infatti distinguere la falsità che è propria della verità in quanto permane in ogni superamento attuato dalla verità, e la falsità mantenuta in linea di principio. Vi è, in altri termini, una falsità che consente la realizzazione del vero, e una falsità che la ini­ bisce. ( ..) In ogni modo del comprensivo la v e r i t à è presente. Vi è cioè qualcosa di analogo che può di volta in volta essere chiamato verità. E questo analogo è siffatto che ogni modo si rispecchia nell'altro, ognuno è come un riflesso, un medio, o una condizione dell'altro. Infine, nessuno di essi è senza l'altro. ( .. ) La verità non si trova in nessuno dei modi del compren­ sivo preso in sé. Questo è un segno che la verità, quale può esserci prodotta dall'unità di un comprensivo di tutti i comprensivi, va per­ duta nell'isolamento di ciascun comprensivo. Questo diventa sensibile al limite dello schiudersi di ogni modo del comprensivo agli altri. L'esperienza dell'insufficienza di ciascuno dei modi si traduce in un impulso di completamento. L'impulso alla verità produce, nell'au­ toisolarsi di ogni singolo modo del comprensivo, l'esperienza della non­ verità che pretende valere essa stessa come esser-vero. Questa non-ve­ rità si dimostra cieca nei confronti dell'altro, velando ciò che non le è conforme. ( .) Qualsiasi isolarsi di un modo del comprensivo - nei confronti del proprio essere-reale, della coscienza in generale, dello spirito significa abbandono della trascendenza. Ma il voler afferrare propria­ mente e di per sé la trascendenza significa abbandonare, di rimando, tutto il resto, e con ciò lasciare alla fine svanire la trascendenza stessa nel nulla. .

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La trascendenza diviene presente in ogni cosa secondo la illimi­ tata modalità di ciascun comprensivo, attraverso la concrezione storica. Servendoci dell'esempio dell'antinomia fra l'affermazione dell'es­ serci e la realizzazione dell'esser-se-stesso (espressione insieme di un conflitto e di un accordo) intendiamo far presente come la ricerca della verità sia destinata a naufragare nel conflitto con l'altra verità, ma come, in questo stesso naufragio, anziché il puro nulla parli l'esigenza dell' Unità che in nessuna forma della verità trova una realizzazione adeguata. ( . ..) Abbiamo visto come la verità sorga nell'ambito del comprensivo­ e come i vari modi della verità traggano il loro significato dai modi L'uomo tende incessantemente all' Unità, ma ogni unità da lui afferrata del comprensivo. Abbiamo poi considerato. la possibilità dell' Unità. può sempre di nuovo infrangersi, fino almeno che sia raggiunta la tranquillità dell' Uno, là dove il pericolo della rottura viene a ces­ sare nella compresenza infinita dell'essere nell' Uno, di tutto in tutto. ( ... ) Il m o v i m e n t o d e l l a r o t t u r a ci si presenta .come un effettivo accadimento in ogni sfera della realtà dell'essere umano e come fare teorico nei movimenti scettici del pensiero. Si tratta di movimenti nei confronti dei quali si pone sempre da capo la do­ manda : si dà ancora la verità ? Le f o r m e d e I l a r o t t u r a le indichiamo coi termini di « eccezione » e di « autorità ». Per l' e c c e z i o n e l 'uomo, col suo pensiero, non si prospetta come modello, come criterio di verità universalmente valida per tutti, ma piuttosto come qualcosa che col mettere in questione tutto mette in questione se stesso. La profondità di questa esperienza-limite spa­ venta gli altri che non sono eccezioni, e che tuttavia rimangono scossi, come se nell'eccezione si mostrasse originariamente anche la loro pro­ pria verità. Di fronte all'essenzialità dell'eccezione permane la que­ stione : può darsi an �ora una verità in generale ? Quanto all' a u t o r i t à essa contrappone a tutta l'irrequietezza e fragilità dell'essere umano, la propria assoluta pretesa. La verità non si ottiene mercé la comprensione singola, l'autentica verità sta nell'ubbidienza. La verità io la colgo mediante la sottomissione all'an- , torità legittima. Di fronte al fatto che tali autorità hanno costituito le maggiori manifestazioni storiche, permane la questione : c'è ancora posto per una comprensione e per una verità singola ? In con_seguenza delle rappresentazioni compiute dell'eccezione e dell'autorità si prospettano alla fine al filosofare d u e p o s s i b i l i­ t à :_ o far consistere tutto nell' a s s o l u t a u n i t à s t o r i c a che si presenta in pari tempo, in quanto tale, come l'unica universale autorità valida per tutti gli uomini, vale a dire la c a t t o l i c i t à ;

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oppure ammettere che questa universalmente valida umta storica è inammissibile. Al suo posto rimane di vero soltanto, nell'esserci tem­ porale, il m o v i m e n t o illimitante, schiudente, irrompente, d e I l a r a g i o n e. ( ) Se ci si chiede ora di scegliere fra cattolicità e ragione, diciamo subito che non si tratta di decidere logicamente fra posizioni astratte di pensiero, in quanto il contrasto non può essere fondato su di una contraddizione logica, ma chiarito soltanto in una molteplicità di dire­ zioni, come abbiamo tentato. Non si tratta neppure della scelta di una giustificazione storica di contro a un'altra, in quanto entrambe hanno la loro motivazione storica. ( ...) Questa scelta è, nondimeno, per il filosofare una scelta decisiva, quella cioè se essa debba o meno aver luogo. ( . ) Se ora cerchiamo di renderei conto della c o n t r a d d i z i o n e f r a c a t t o l i c i t à e r a g i o n e , diciamo subito che tale con­ traddizione non sussiste nell'essere stesso, ma solo nel nostro essere. Essa esprime la tensione pio profonda dell'essere umano. In essa l'es­ sere umano viene sospinto in alto. ( .) Che cattolicità e ragione si trovino in insanabile contrasto è una manifestazione della profonda contraddittorietà che sussiste nel tempo. Ma nessun contrasto può, di fronte alla ragione, assolutizzarsi in modo dissolvente. Occorre pertanto considerare anche il contrasto fra cattolicità e ragione come un tutto ... Anche se il contrasto rimane inconciliabile, la ragione accoglie la cattolicità come un dato di fatto, ma se ne difende. Noi possiamo collegarci all'autorità senza gettarci in braccio alla cattolicità. La cattolicità si basa su di un'autorità asso­ luta, unica, escludente ; la ragione coglie l'autorità senza farla diven­ tare cattolica. ( .. ) La filosofia intende conservare l'autorità quando la scopre ricca di contenuto. ( .) Nel conservarla la filosofia pone tuttavia la condi­ zione della sua c h i a r i f i c a z i o n e p e r m e z z o d e I l a r a g i o n e o n n i c o m p r e n d e n t e . ( ...) Tutto deve essere attratto dal movimento della ragione. ( ...) Siffatta affermazione dell'autorità è ora qualcosa di completamente div.erso dalla affermazione della cat­ tolicità. ...

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( Von der Wahrheit, Monaco, R. P i per et Co.,l947, pp. 475-476, 493-494, 530, 590; 661, 666, 710-7ll, 858, 861-862, 866).

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12. IL MOVIMENTO DELLA RAGIONE, LA LETTURA DELLE CIFRE E IL PROBLEMA DI DIO

La ragione non è qualcosa di sussistente in modo atemporale. Non è il regno tranquillo della verità, né l'essere stesso. Non è neppure il pensare come tale, né tanto meno rappresenta un qualsiasi momento del pensiero. Il suo essere sembra consistere nel g e n e r a l e , in ciò che tende verso la norma, verso l'ordine, ed è esso stesso questa iwrma, questo ordine. Ma essa tende altresi alla violazione del gene­ rale, come possibilità essenziale dell'esistenza. La ragione è infine l'u­ nica potenza mediante la quale, nella passione per la notte, il caos del negativo consegue un suo modo di possibile' esistenza per lei. ( ... ) La ragione rappresenta l'inestinguibile i m p u I s o d e l f i ­ l o s o f a r e che verrebbe meno senza di essa. Impulso di conquistare la ragione, di costituirsi come tale, e cioè come ragione vera e pro­ pria distinta dalla cosiddetta ragione [l'intelletto ] . ( ... ) La ragione è ciò che entra in tutte le forme del compren­ sivo di cui essa sembra costituire il legame, legame che però non sus­ siste di per sé. ( . . ) Il movimento della ragione rivela il suo decisivo carattere nella volontà di non interrompere mai la comunicazione. La sua volontà di collegamento diventa chiarificazione del vincolo onnicomprendente. La ragione non può mai permettere che si verifichi una separazione as­ soluta. La comunicazione fra gli uomini può avvenire in diversi modi, in varie condizioni e gradi. Ma caratteristica della ragione è la volontà totale di comunicazione, aperta a tutto, in grado di non omettere nulla e di penetrare a fondo l'essere umano. Questa volontà non può essere limitata, non accetta di essere sottoposta ad alcuna condizione definitiva, ma vuole osare, reiterare in ogni circostanza il proprio ten­ tativo, animata com'è da un'indefettibile fiducia nelle innumerevoli possibilità dell'essere in totale. A voler rappresentare il movimento della ragione, la caratteristica da sottolineare è appunto questa totale volontà di comunicazione. ( ...) ( ...) L'amore n�n è mai qualcosa di particolare ma sta a rap­ presentare sempre il comprensivo. Esso esprìme in ogni modo della comprensività la presenza, appunto, del comprensivo. Ma esso è anche ciò che trascende ogni comprensività. L'amore è ciò che comprende la comprensività che siamo noi. Esso coincide con la ragione, è l'anima della ragione. ( . ) Il nostro possibile compimento risiede nella m e d i a z i o n e . Lo slancio verso il Dio-uno passa attraverso il mondo fenomenico. La ' trasformazione -del mondo in una mediazione fra noi e il Dio-uno è costituita dalla sua trasformazione in e s s e r e - c i f r a . Che la .

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realtà autentica sia il Dio-uno lo sperimentiamo solo indirettamente� nella realtà mondana, attraverso la lingua del mondo. Lo sperimen­ tiamo nel nostro slancio, nel diventare consapevoli delle cifre, ognuna delle quali non ci lascia in pace, ma diventa la spinta per un ulteriore volo. Se si desse un'esperienza diretta del Dio-uno essa sarebbe incomu­ nicabile e potrebbe, ancora una volta, nella successione del tempo, es­ sere confermata solo indirettamente, mediante nuove manifestazioni fenomeniche mondane, e per questa via ricordata, accertata. C'è solo una via in grado di condurci al Dio-uno, una via in cui tutto ciò che è, tutto ciò che appare, ciò che noi stessi siamo e facciamo, di­ venta trasparente. Questo diventare trasparente significa diventare ci­ fra, e questo diventare cifra conduce in modo misterioso nella pro­ fondità di significati sempre piu pregnanti dei quali nessuno riveste un significato esauriente per la conoscenza. Dobbiamo pertanto mante­ nerci costantemente aperti e disponibili per la lettura delle cifre, la cui comprensione ultima trascende peraltro ogni previsione e ogni si­ stematizzazione. Tutto ciò che è deve diventare cifra. È da questo che proviene la serietà capace di agire in noi e che agli occhi della realtà quotidiana può apparire sogno o gioco. ( ...) ( ... ) Il Dio-uno non può essere conquistato in un determinato modo, per un'unica via. Soltanto nel totale, nella profondità storica, coll'ab­ bracciare tutto il pensabile e l'esperibile, può effettuarsi lo slancio verso l'Uno non pio povero, non pio vuoto, non piu astratto, come quello del mondo, bensi abbracciante il mondo stesso : in cui tutto, una volta venuti in contatto con esso, può venir potenziato al mas­ simo delle sue possibilità. Non si può dare nessuna indicazione sul modo di eseguire questo slancio. Come in tutte le operazioni veramente filosofiche qui il decidersi è ogni volta unico e singolare né può es­ sere anticipato in termini universali. ( ...) Il fondamento originario è in Dio. È da lui che deve venir donato a og;ni uomo ciò che questi diventa attraverso il manifestar­ glisi iJeJl'essere e il modo con cui gli si manifesta. La mediazione filosofica non dà la · realtà, ma consente che ci si renda conto di lei. La filosofia risveglia, rende attenti, indica delle vie, conduce per un certo tratto, ci rende pronti e maturi, per sperimentare ciò che sta oltre, la trascendenza. ( Von der Wahrheit, Monaco, R. Piper et Co., 19.1'7, pp. 967, 971, 922, 1051, 1053-1054).

13.

TRASCENDENZA E IMMANENZA

Tutte le esperienze di cui si è discusso concordano nel fatto che nel pensiero esistenziale le s o l u z i o n i f i l o s o f i c h e f o n d a -

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m e n t a l i corrispondono ad altrettanti modi di a f f e r r a r e i l reale. l) La prima soluzione del credo filosofico riguarda il dilemma se sia da ritenersi possibile una p e r f e z i o n e d e l m o n d o i n s é o se la t r a s c e n d e n z a debba guidare il pensiero. La pretesa della pura immanenza si fonda sulla convinzione che ogni trascendenza non sia che un inganno, un'illusione da gente inef­ ficiente, un mondo immaginario in cui sfuggire alla dura presa della realtà. L'immanenza s'impone come l'essere vero e proprio in quanto essa sola è conoscibile. Soltanto l'immanenza può farsi oggetto di sapere, cosi come, per converso, ogni contenuto di sapere si riferisce solo al­ l'immanenza. E tuttavia l'immanenza si rivela fragile per una quantità di fen­ diture, scissure, per mancanza di unità, per la �:.ua incompiutezza. La pura immanenza, malgrado la sua forza apparente, la momentanea chiarezza del suo sapere, si rivela di una superficialità opaca, priva dell'incondizionatezza della fed.eltà, della continuità dispiegantesi in lotte amichevoli, e della presenza di una vera e propria realtà. ( ..) Il salto, brusco mutamento della nostra coscienza dell'essere, s'instaura nell'istante in cui sperimentiamo originariamente, con la nostra intima essenza, che la trascendenza è per noi la r e a l t à che si costituisce nella r o t t u r a d i o g n i e s s e r c i d e t e r minato. Nel filosofare, la trascendenza, benché occulta, è presente con la realtà. Ma ciò che essa sembra dirci permane ambiguo ; nondimeno io devo avere il coraggio di una responsabilità non sorretta da alcuna diretta testimonianza della divinità. La trascendenza è la potenza me­ diante la quale io divento me stesso. Io sono proprio quando sono veramente libero per causa sua. La sua p a r o l a pio decisiva e pio chiara è proprio quella che si esprime attraverso la mia libertà. 2) La seconda soluzione è espressa dal dilemma se la trascendenza mi conduce fuori del mondo verso una n e g a z i o n e d e l m o n d o o se esige che io mi realizzi unicamente n e l m o n d o . La fede filosofica è collegata al mondo come alla condizione di ogni essere per lei ( dimodoché, di fatto, ogni pura dottrina dell'im­ manenza rappresenta, per la filosofia, l'incombente pericolo di svuo­ tarsi d'ogni contenuto). Essa esige in ogni caso di restare nel mondo, a contatto con le cose, di non trovare nulla di piu importante che di compiere quaggiu, con tutte le forze, quello che di volta in volta piu conta ( onde apprendere da ciò e dalla realtà che ne scaturisce la parola sempre piu pregnante e significativa della trascendenza) ; senza dimenticare, in pari tempo, la dileguante nullità di tutto di fronte .

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alla trascendenza. Questa fede, pur con la coscienza che essa ha della finitezza, esige nondimeno la storicità come solo modo della propria realizzazione. Essa richiede il nobile atteggiamento di chi non « vuo­ le » la morte, ma è pronto ad accoglierla in sé come potenza incom­ bente nel presente; Se filosofare significa imparare a morire, questo non vuoi dire che, col pensiero della morte, io perda, a motivo del­ l'angoscia, il presente. Imparare a morire significa anzi accentuare, a misura della trascendenza, in un impegnato e fattivo adempimento,. il senso del presente. La trascendenza è quindi per noi nulla solo in quanto tutto ciò che è riveste per noi il senso dell'essere determinato. Essa è invece per noi tutto in quanto tutto ciò che nella sfera dell'esserci determi­ nato è essere per noi lo è solo in rapporto alla trascendenza, o come cifra della trascendenza. ( Existenzphilosophie, Berlino, W. de Gruyter el Co., 1964, pp. 69-72).

14. LA FEDE FILOSOFICA. FILOSOFIA E RELIGIONE La fede non è la stessa cosa del sapere. ( ... ) La fede filosofica, quella dell'uomo che pensa, manterrà sem­ pre, come proprio contrassegno, un legame ineliminabile col sapere. Essa vuoi conoscere ciò che è conoscibile e conoscere se stessa. La scienza, come c o n o s c e n z a praticamente illimitata costi­ tuisce l'elemento fondamentale della riflessione filosofica. Non deve es­ serci nulla che non debba essere indagato, nessun mistero deve sfug­ gire alla nostra ricerca, niente deve dissimularsi, rimanere velato. Ma l'atteggiamento critico ha il compito altresi d'indicarci la purezza, il senso e i limiti della conoscenza. In quanto il pensatore deve ben guar­ darsi dalle prevaricazioni di un sapere illusorio e dalle deviazioni della scienza. La fede filosofica vuole inoltre c h i a r i f i c a r e se stessa. Filoso­ fando, non devo lasciare nulla inesplorato, ma non devo nemmeno !asciarmi imporre nulla. La fede, in verità, non può costituire un sapere universale, ma deve rendermisi presente per la convinzione stessa che ha di sé. Essa deve progredire in chiarezza, in coscienza, e, con ciò stesso, in estensione. ( ..) Possedere la fede significa vivere ispirato dal comprensivo, signi­ fica lasciarsi guidare e riempire da lui. La fede ispirata dal comprensivo è libera, in quanto essa non si arresta a un finito eretto in assoluto. Essa è caratterizzata dal rima­ nere in sospeso ( . ). Per parlare di lei occorre compiere l'operazione fondamentale della .

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:filosofia : accertarsi del comprensivo, oltrepassare, nell'ambito di ciò che permane di irremissibilmente obiettivo nel pensiero, ogni soggetti­ vità. Cosi, mentre il nostro essere ci appare ancora prigioniero della scissione di soggetto e di oggetto, noi cerchiamo di evaderne, pur senza poter realmente penetrare nello spazio libero al di fuori. ( ...) La fede filosofica, mantenendosi cosciente e guardinga nei con­ fronti di quella specie di superstizione che è costituita dalla fede in un oggetto, si rivela pertanto incapace di tradursi in enunciati. Tutta l'obiettività deve rimanere in movimento e insieme evaporare, in modo che, proprio in questo venir meno e in questo scomparire dell'obiet­ tività, la coscienza dell'essere possa pervenire alla sua pienezza e alla sua chiarezza. È per questo motivo che la fede filosofica dovrà sempre basarsi su di una dialettica in grado di rifondere e cancellare se stessa. ( . .) Da millenni filosofia e religione si sono mostrate alleate o avver­ :Sarie. All'origine esse procedono di pari passo nei miti e nelle cos:tno­ gonie e, piu tardi, nella teologia. La filosofia ama rivestire infatti ta­ lora le vesti della teologia come anche, spesso, quelle della poesia, e ancora piu spesso, quelle della scienza. ( . . ) Né la religione né la filosofia sono comunque delle realtà tal­ menJe semplici da p oterle raffrontare fra di loro come dati stabili. Esse si evolvono storicamente, ma entrambe acquistano un senso in rapporto a una verità eterna che risulta in pari tempo occultata e 1rasmessa nel proprio travestimento storico. ( .. ) La religione non è, per la filosofia, una nemica, ma qual­ cosa che la concerne intimamente e la mantiene in una essenziale irre­ .quietudine. .

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( Der philosophische Glaube, Zurigo, Artemis, 1948, pp. 9, 12, 20·22, 68-69).

II.

MARTIN HEIDEGGER

l. L'ANALITICA DELL'ESSERCI E IL PROBLEMA DEL SENSO DELL'ESSERE IN GENERALE L'esserci non è semplicemente un essente qualsiasi fra gli altri. Esso è piuttosto, onticamente, caratterizzato dal fatto di essere un essente a cui, essenzialmente, n e v a del proprio stesso essere. ( ...) L a comprensione dell'essere è insieme e in pari tempo una determinazione dell'essere dell'es­ s e r c i . La caratteristica ontica dell'esserci consiste nel fatto di essere ontologico. ( ... ) L'essere a cui l'esserci in un modo o nell'altro sempre co· munque costantemente si rapporta lo denomiamo e s i s t e n z a . ( ...) L'esserci si comprende sempre dalla sua esistenza, ovvero dalla propria possibilità di essere o no se stesso. ( ...) La sua analitica ha carattere non di una comprensione esistentiva, bensi e s i s t e n z i a l e . Il com­ pito di un'analitica esistenziale dell'esserci risulta incentrato, quanto alla propria stessa possibilità e necessità, nella costituzione ontica del· l'esserci. ( . . .) Ora, siccome è l'esistenza che determina l'esserci, l'analitica onto� logica di questo essente richiede già da sempre una preliminare visio· ne dell'esistenzialità. Quest'ultima la concepiamo come costituzione dell'essere dell'essente che esiste. Nell'idea di tale costituzione c'è già l'idea dell'essere. La possibilità di una realizzazione ·dell'analitica dell'esserci dipende cosi da una previa elaborazione del problema del senso deli'essere in generale. ( .. .) ( ... ) Pertanto, di fronte al compito di un'interpretazione del senso dell'essere, bisogna tener presente che l'esserci non è soltanto il primo degli essenti da interrogare, ma che inoltre esso è un tale essente che nel suo essere si rapporta già da sempre a c i ò che costituisce l'og· getto della ricerca. La problematica dell'essere risulta cosi nient'altro che la radicalizzazione di una tendenza verso l'essere essenzialmente già insita nella costituzione dell'esserci stesso, ovverosia la radicalizzazione della comprensione pre-ontologica dell'essere. ( ...) _

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( .. .) L'analitica dell'esserci, cosi intesa, risulta pertanto completa­ mente orientata, come compito, in direzione dell'elaborazione del pro­ blema dell'essere. È qui che essa tocca i propri limiti. Il suo intento non è quello di fornire un'ontologia completa dell'esserci, quale sicu­ ramente occorre che sia realizzata se deve sussistere qualcosa come una antropologia « filosofica », fondata su sicura base :filosofica. Nei ri­ guardi di una possibile antropologia e relativa fondazione ontologica, la presente interpretazione può fornire solo un parziale contributo, benché tutt'altro che inessenziale. L'analisi dell'esserci non è però soltanto incompleta, bensi anche, e in primo luogo, p r o v v i s o r i a . Essa fa soltanto emergere l'essere di questo essente, senza offrire al­ cuna interpretazione del suo senso. Suo compito è piuttosto quello di approntare un libero orizzonte per la piu originaria interpretazione dell'essere. Una volta realizzata quest'ultima, l'analitica preliminare dell'esserci richiederà di venir ripetuta su di una base ontologica piu alta e piu autentica. ( . ) È stato accennato come all'esserci, nella sua costituzione ontica, competa un essere preontologico. L'esserci è un essente in grado di comprendere l'essere. In base a questa connessione si deve mostrare che ciò per cui l'esserci intende e interpreta, benché in modo ancora ine­ splicato, l'essere, è i l t e m p o . Il tempo è ciò che deve risultare chiarito e concepito genuinamente come l'orizz�mte di ogni compren· sione e interpretazione dell'essere. Per evidenziare tutto ciò occorre un 'originaria espl icitazione del tempo come o r i z z o n t e d e l l a c o m p r e n s i o n e d e l l ' e s s e r t> a p a r ­ tire d a l l a tempor alità i n t e s a c ome e s s ere d el­ l ' e s s e r c i i n g r a d o d i c o m p r e n d e r e l ' e s s e r e . ( ...) ( .. .) Se l'essere deve venire inteso in base al tempo e se i diversi modi e derivati dell'essere, nelle loro modi:ficazioni e derivazioni, di­ ventano effettivamente comprensibili con riguardo al tempo, ciò si­ gnifica che è l'essere stesso, e non solo l'essente come tale « nel tempo », a rendersi evidente nel suo carattere « temporale ». ( . . ) ( .. ) Il compito fondamentale, ontologico, relativo all'interpreta­ zione dell'essere come tale, implica pertanto l'elaborazione della t e m · p o r a l i t à (Temporalitiit) d e I l ' e s s e r e . È nell'esposizione della problematica della temporalità che si dà la prima concreta rispo­ sta alla questione del senso. dell'essere. ( ...) Se si deve recare il problema dell'essere alla trasparenza della sua storia genuina, occorre rimuovere alla base la tradizione inveterata e togliere i veli disposti da essa nel frattempo. Per noi questo com­ pito è quello di una d i s t r u z i o n e da compiersi, a I l a l u c e d e l p r o h l e m a d e I l ' e s s e r e , della tradizionale sostanza della metafisica antica, e ciò in base a quelle esperienze originarie che ci ..

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permisero di acquisire le prime determinazioni dell'essere destinate a indirizzarci in seguito. ( .. . ) Nell'ambito della presente indagine, che ha per fine una radicale rielaborazione del problema dell'essere, questa distruzione della storia dell'ontologia dovrà essere perseguita limitatamente a ciò che intrat·· tiene una connessione essenziale col nostro probelma. ( . ..) Solo perseguendo una distruzione della tradizione ontologica, il pro­ blema dell'essere può acquistare la sua effettiva consistenza. È in essa che è dato conseguire la prova completa dell'indispensabilità del pro­ blema del senso dell'essere, e che si rivela quale senso abbia parlare di una « ripetizione » di tale problema. ( . ..) (Sein und Zeit, Tubinga, Max N icmeyer, 1953, pp. 12-14, 17·19, 22 -23, 26).

2. LA NUOVA IMPOSTAZIONE FENOMENOLOGICA DEL PROBLEMA DEL SENSO DELL' ESSERE

Nella direzione posta dal problema circa il senso dell'essere, la ri­ cerca si trova di fronte al problema fondamentale della filosofia in genere : quello del metodo della trattazione, che è nella fattispecie, quello f e n o m e n o l o g i c o . Ciò non implica l'assunzione di un « punto di vista » o di una « direttiva », in quanto la fenomenologia non è nessuna di queste due cose, né può diventarlo, almeno fintanto che non abbia preso coscienza di sé. L'espressione «fenomenologia » · vuole anzitutto significare un c o n c e t t o d i m e t o d o . Essa non indica il che cosa ( Was) effettivo dell'oggetto dell'indagine filo­ sofica, ma soltanto il suo c o m e ( Wie). ( ...) L'espressione greca c:pcxwé�Evov, a cui si riconduce il termine· « fenomeno » deriva dal verbo cprx�VEO'�cxL che significa : manifestarsi ( sich zeigen) ; c:pcxLVé�Evov va quindi inteso nel senso di ciò che si manifesta, il rivelato ( das Offenbare). ( .. .) Il significato dell'espres­ sione « fenomeno » va preso pertanto come corrispondente a : ciò che s i - m a n i f e s t a - i n - s e - s t e s s o , il rivelato. ( ...) L'essente può manifestarsi in diversi modi che costituiscono altrettante maniere di accesso alla sua manifestazione. Sussiste anche la possibilità che esso. si manifesti per come n o n è in se stesso. In questo manifestarsi l'essente « si mostra » a stregua di un « come se ... ». Questo manife-· starsi lo chiamiamo a p p a r i r e (Scheinen). ( ... ) Per una comprensione adeguata del concetto di fenomeno è quanto mai importante vedere come si colleghino, nella sua struttura, i due suddetti signifi­ cati : di « fenomeno » come automanifestarsi (Sichzeigende) e di feno­ meno come apparenza (Schein). Soltanto perché qualcosa in gene­ rale, pretende, in virtu del suo senso, di manifestarsi, ovverossia di

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essere fenomeno, è p o s s i b i I e che esso sì mostri anche c o m e n o n è, ossia « sotto l'aspetto di... ». Nel significato di cpa.w6(J..Evov come « apparenza » (Schein) è già incluso il significato originario di fenomeno come « rivelato », come fondativo del secondo. Noi riser­ biamo al termine « fenomeno » il significato primitivo e originario di cpa.w6(J.Evov, e distinguiamo fenomeno da apparenza quale manifesta­ zione privativa del fenomeno. Ma ciò che e n t r a m b i i termini esprimono non ha assolutamente nulla a che fare con ciò che comu­ nemente s'intende per semplice o « mera » apparenza ( « Erscheinung » oder gar « blosse Erscheinung ») (6). ( ... ) La semplice apparenza (Erscheinen) è un n o n m a n i ­ f e s t a r s i . Ma questo « non » non dev'essere assolutamente confuso col « non » privativo che caratterizza la struttura dell'apparenza (Schein). Ciò che n o n si manifesta, nel modo della semplice appa­ renza, non può neppure giammai apparire (Scheinen). ( . . .) F e n o m e n o - nel senso di ciò che si manifesta in se stesso significa un particolare modo del venire incontro di qualcosa. S e m p l i c e a p p a r e n z a , per contro, significa un rapporto di rimando all'essente stesso tale che il r i m a n d a n t e (l'annunciante) può adempiere la sua possibile funzione solo se si manifesta in se stesso. solo se è « fenomeno ». L 'intricata congerie di « fenomeni » designati coi termini di fenomeno, apparenza, semplice apparenza, mera appa­ renza, può districarsi solo se, fin dall'inizio, viene riportata al con­ cetto di fenomeno come ciò che si manifesta in se stesso. ( ...) Se quale automanifestantesi s'intende l'essente che, come in K a n t , risulta accessibile attraverso l'intuizione empirica, allora il concetto formale di fenomeno, viene usato legittimamente. Fenomeno, in tal caso, traduce il concetto volgare di fénomeno. Ma questo con­ cetto non è quello fenomenologico. ( . . .) Riprendendo, in concreto, quanto è emerso dalla interpretazione di « fenomeno » e di « logos » risalta, fra i due concetti; un'intima connessione.· L'espressione fenomenologia può esser resa, in greco, con : ÀÉyEw -r& cpa.w6(J..Eva. ; dove tuttavia ÀÉynv significa &.1tocpa.�vEcril'a.L. Fenomenologia viene allora a significare : &.1tocpa.LvEcril'a.L -r& cpa.w6(J..Eva. ; ossia : lasciar vedere in se stesso ciò che si manifesta cosi come si manifesta da se stesso. È questo il senso formale della ricerca che si autodefinisce come fenomenologia. Ma questa non è che l'espressione della massima già formulata : andare alle cose stesse ! ( . . .) La fenomenologia è il modo di pervenire a quello che dev'essere il tema dell'antologia e di giungere a determinarlo dimostrativamente. (6) Rendiamo tuttavia >

conce p i t a come gen�ralità :

del mistero.

(come nel caso dell'essenza im sinne des Gleichgiiltigen), ma in quello della lrasr.en denza, ·

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( .. . ) L'essenza del fondamento non può essere perseguita né tanto meno trovata in base a una ricerca vertente su di un universale ot­ tenuto per via di astrazione. L ' e s s e n z a d e l f o n d a me n t o s i evince dalla triplice trascendentale e origi­ naria diramazione del fondare : in base al pr o­ g e t t o d e l m o n d o , a l l ' i n c l u s i o n e n e l l ' e s s e n t e , ·e g i u s t i f i c a z i o n e o n t o l o g i c a d e I l ' e s s e n t e m·e d e ­ sImo. Unicamente per questo motivo la questione da noi inizialmente posta circa l'essenza del f o n d a m e n t o ci apparve strettamente collegata al compito di una chiarificazione dell'essenza dell' e s s e r e e della v e r i t à . ( . ..) ( . . .) Poiché il « fondamento » si presenta come un carattere tra­ scendentale, essenziale, dell' e s s e r e i n g e n e r a l e (Sein ilber­ haupt), proprio per questo vale per l' e s s e n t e il principio di ragion sufficiente (der Satz des Grundes). Ma il fondamento appartiene al­ l'essenza dell'essere in quanto vi è essere ( e non già essente) solo nella trascendenza, intesa come fondare effettivamente situato e pro­ gettante il mondo. Si è dunque chiarito che il «luogo d'origine » di questo prin­ cipio, per ciò che attiene l'essenza del fondamento, non dsiede es­ senzialmente né nel giudizio, né nella verità del giudizio, ma bensi nella verità ontologica, vale a dire nella trascendenza. L a l i h e r t à è l ' o r i g i n e d e l p r i n c i p i o d i r a gi o n suff i c i en t e . In essa, infatti, intesa come unità di slancio e di sottrazione, si fonda il giustificare (Begrilnden) che si configura come verità ontologica. ( . . .) ( ... ) Il fondamento comporta il proprio non essere, in quanto esso scaturisce dalla libertà finita. Questa stessa non può sottrarsi a ciò che da essa cosi scaturisce. Il fondamento che scaturisce nel trascendere riposa sulla libertà stessa, e questa, in q u a n t o o r i g i n e ( Urs­ prung), si fa essa stessa « fondamento ». L a l i h e r t à è i l f o n d a m e n t o d e l f o n d a m e n t o . Non però, certo, nel senso di una « iterazione » formale e senza fine. ( ...) e2). La finitezza dell'esserci si manifesta essenzialmente nella t r a ­ scendenza come libertà per il fondamento. Cosi l'uomo, come trascendenza esistente che si protende in possi­ bilità, è un e s s e r e n e I l a l o n t a n a n z a . Solo per via di que­ sta originaria lontananza che egli si foggia nel trascendere su ogni essente, a lui deriva la vera prossimità con le cose ( . ..). ( Vom Wesen des Grundes, in Wegmarken, Francoforte, V. Klostennann, 1967, pp.

66-69, 71).

( 12) Evidente

l'allusione

a

Hegel.

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8. ESSERE E NULLA. IL PROBLEMA DELLA METAFISICA E LA POSIZIONE DELL' UOMO DI FRONTE ALL' ESSERE

Ciò su cui verte il rapporto col mondo è l'essente stesso e nul­ l'altro. Ciò da cui ogni atteggiamento desume la sua direzione è l'essente stesso - e ancora, oltre a ciò, null'altro. Ciò per cui si realizza, nell'irruzione, l'esplicazione propria della ricerca scientifica è l'essente stesso - e null'altro al di fuori di ciò. ( ) Che cosa significa questo nulla? È forse un caso che ci av­ venga di parlarne? Si tratta di un semplice modo di dire - e niente altro ? Perché allora preoccuparci di questo nulla? La scienza non vuoi proprio saperne del nulla e lo ripudia come mera negatività ( als das Nichtige). Ma proprio quando lo respingiamo non lo accogliamo forse in certo modo ? ( ...) Che cosa dunque significa il nulla ? ( ...) Il nulla si rivela nell'angoscia. Non però come essente. Ancor meno ci viene dato come un oggetto. L 'angoscia non costituisce af­ fatto una comprensione del nulla. Il nulla tuttavia si fa per essa e in essa manifesto, benché non come se il nulla si mostrasse separata­ mente >), da parte dell'essere, di apparire anche diversamente da come è in sé, ossia anche come non essere. come non.verità.

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come possibile esperienza per il pensiero, ma· in modo siffatto che il pensiero occidentale stesso è portato, benché inconsapevolmente, a occultare sotto l'aspetto della metafisica, il fatto stesso di questo rifiuto. ( . . .) L'essere è diventato valore. ( ... ) In realtà, mentre l'essere viene innalzato alla dignità di valore, esso è di bel nuovo abbassato a con· dizione posta dalla stessa volontà di potenza. ( ...) Allorché l'essere dell'essente è degradato a valore e la sua essenza è determinata da ' questo, all'interno di questa metafisica, ossia all'interno della verità dell'essente come tale, per tutto questo periodo, ogni via d'accesso al­ l'esperienza dell'essere come tale risulta preclusa. ( ... ) ( ... ) La posizione dei valori ha ucciso ogni valore in sé sòtto· ponendolo e subordinandolo a sé ( 14). Quest'ultimo colpo all'uccisione di Dio è arrecato dalla metafisica, la quale, come metafisica della volontà di potenza riduce il pensiero a pensamento di valori. ( ... ) ( ...) La storia d eli' essere ha inizio, in modo certamente necessario, c o n l ' o b l i o d e li ' e s s e r e . ( ...) Il nichilismo risulterebbe cosi, nella sua essenza, una storia concernente l'essere stesso. Ciò che ri· mane impensato sarebbe pertanto iscritto nell'essenza dell'essere stesso, in quanto si nasconde. L'essere stesso si sottrae nella sua verità. Con ciò esso custodisce se stesso e si nasconde in questo custodirsi. In ·que­ sto custodire nascondente la propria essenza s'intravede l'essenza del mistero in cui la verità dell'essere si produce ( west). ( ...) La meta· fisica rappresenta un'epoca (Epoche) della storia dell'essere stesso. Ma è, nella sua essenza, nichilismo. L'essenza di quest'ultimo fa parte della storia secondo la quale l'essere stesso si produce ( west). ( .. .) (Holzwege, Francoforte, V. Kloslermann, 1967, pp. 195-196, 238, 242, 143-145).

L'essenza del nichilismo che si risolve, in ultima analisi, nel pre­ dominio della volontà, consiste nell'oblio dell'essere. ( ... ) Invece di cer· care di superare senz'altro il nichilismo, dobbiamo studiare di pene­ trare anzitutto la sua e s s e n z a . Penetrarne l'essenza costituisce il primo passo per oltrepassarlo. La via per compiere questo ingresso ha la direzione e il carattere di un regresso. (Zur Seinsfrage, in W egmarken, Francoforte, V. Kiostcrm ann, 1967, p. 250).

Ma come pervenire a questo « dentro » ? Solo staccandoci dal pen· siero rappresentativo. Questo distaccarsi corrisponde ad un salto, ad un balzo. In questo salto balziamo via, ci allontaniamo dalla rappre­ sentazione corrente dell'uomo come animal rationale, divenuto, in epo· ( 14) Come si vede la negazione del cc valore »', consistente nel tomistico-aristotelico che troppo volentieri indulge a una statica dottrina di scuola). D'altro lato, però, inversamente, anche la matura classicità del ritmo « verticale » dell' &vw.xd:"tw ( come secondo prefisso dell'ana-logia) è legato alla necessità di trovare, nel « piano orizzontale » dell' à:va ( come primo prefisso dell'ana-logia) per cosi dire il suo « medio » ( compreso fra l'altezza dell' li.vw e l'abisso del x&...w): posto che il ritmo dell'li.vw..xd:"tw propende, di per sé, verso una forma