Gli italiani di New York 9788842096597

Se volete conoscere la creatività dell'Italia andate a New York. Troverete l'orgoglio tricolore della sfilata

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Italian Pages 284 Year 2011

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Gli italiani di New York
 9788842096597

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Dello stesso autore nelle nostre edizioni:

Gli ebrei di New York George W. Bush e la missione americana L’interesse nazionale. Dieci storie dell’Italia nel mondo Il paese di Obama. Come è cambiata l’America (con Paolo Mastrolilli)

L’Italia vista dalla Cia. 1948-2004 A cura dello stesso autore nelle nostre edizioni:

(di Michael Walzer)

La libertà e i suoi nemici nell’era della guerra al terrorismo No global? Cosa veramente dicono i movimenti globali di protesta

Maurizio Molinari

Gli italiani di New York

Editori Laterza

© 2011, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2011 www.laterza.it Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council Le mappe sono state realizzate da Silvana Marzagalli

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel maggio 2011 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-9659-7

A Eli, Chana, ai loro nonni e nonne

Indice

Introduzione

xi

Il popolo

3

Gli eroi di Ground Zero, p. 3 - Police Plaza, p. 7 - Ammiragli e generali, p. 10 - Il giudice di Madison Square, p. 14 - I difensori di Arthur Avenue, p. 18 - Le panelle di Ridgewood, p. 24 - Spaghetti Park, p. 29 - Fortunato Bros a Greenpoint, p. 30 - Sunset Park, la guerra della pizza, p. 32 - Toyland a Dyker Heights, p. 35 - Little Italy assediata dall’assimilazione, p. 36 - West Village, tiro a segno su Bin Laden, p. 42 - John’s, l’East Village di Lucky Luciano, p. 44 - 43a Strada, gli americani italiani del Calandra Institute, p. 47 - Francesca, vita da clandestini, p. 51 - Piazza Verdi, Upper West Side, p. 54 - East Harlem, nel mondo di Rao’s, p. 57 - Staten Island, fra Gesù e Mazzini, p. 62

La fede

66

Bandiera vaticana su San Patrizio, p. 66 - Brooklyn, fedeli e anticlericali, p. 69 - Bensonhurst, il prete di frontiera, p. 72 - Nel seminterrato di Bleecker Street, p. 76 - Padre Pio Way, Williamsburg, p. 77 - I dollari di san Gennaro, p. 79 Il missionario di Flushing, p. 82 - Yeshiva University, p. 86

L’Italia 88 Tricolori sulla Fifth Avenue, p. 88 - In trincea contro i pregiudizi, p. 91 - Abbandonati per un secolo, p. 93 - Mulberry Street non vota, p. 97 - Conta più il cibo che la lingua, p. 99 - La baronessa della Nyu, p. 102 - Sui banchi della Rutgers University, p. 104 - Il veterano dell’Onu, p. 107 - Al gate con Benigni e Manfredi, p. 112

La politica

117

Passione e indipendenza, p. 117 - I riformisti di Tammany Hall, p. 120 - Da Koch a Bloomberg, p. 123 - Cuomo e Giuliani, p. 126 - Referendum sull’identità, p. 130

­ix

Il business

134

Maria «Money Honey», p. 134 - Generazione «Streetfighter», p. 137 - L’Italia scomparsa da Wall Street, p. 140 - Gli errori del Made in Italy, p. 144 - Manager globale, p. 147 - Alta finanza e libri antichi, p. 149 - Columbia Business School, p. 152 - L’imprenditore fuggito dall’Italia, p. 154 - L’avvocato che conobbe Sindona, p. 157 - Dove regna Anna Wintour, p. 159 - Il petroliere della Terza Avenue, p. 162 - Berlusconi, Sophia Loren e 434 navi, p. 165 - Il cassiere della ricerca, p. 168 - Curare è un lavoro di squadra, p. 170 - Fisica teorica fra Lenin e Goldman Sachs, p. 175 - Le quattro stelle di Lidia, p. 179 - Il mercante del cibo, p. 183

Le arti

186

Lo scrittore di Ocean City, p. 186 - Il toro di Manhattan, p. 189 - La ricetta per l’Oscar, p. 192 - Sul palcoscenico, p. 197 - Una star nell’Oak Room, p. 200 - Le ballerine di Broadway, p. 202 - Il teatro più piccolo del mondo, p. 205 - La regista afroitaliana, p. 208 - Carnegie Hall, alla ricerca di nuove voci, p. 210 - L’architetto del «New York Times», p. 211 - Il designer dei pezzi unici, p. 214 - Reinventare Picasso, p. 218 - Una matita per lo skyline, p. 223 - Lo «street dog» di Solita, p. 226 - Il guru delle modelle, p. 229 - Il paparazzo di Harlem, p. 232 - Yogi «the Great», p. 235

Mappe dei luoghi visitabili

239

Manhattan, p. 240 - Bronx e Queens, p. 242 - Brooklyn e Staten Island, p. 244

Indice dei luoghi di origine degli italiani a New York

249

Indice dei nomi

252

Introduzione

Se volete conoscere la creatività dell’Italia venite a New York. Troverete l’orgoglio tricolore della sfilata del Columbus Day lungo la Fifth Avenue, il patriottismo americano di chi è caduto a Ground Zero, il coraggio dei pompieri e dei marines in prima linea nella guerra al terrorismo, la babele di dialetti del mercato di Arthur Avenue, le trasformazioni sociali negli scritti di Gay Talese, i successi del business nelle trasmissioni tv di Maria Bartiromo e Charles Gasparino, la passione per la politica nelle battaglie di Mario Cuomo e Rudy Giuliani, l’immaginazione nelle creazioni di Gaetano Pesce, Renzo Piano e Matteo Pericoli, la provocazione nell’abbigliamento di Lady Gaga. E le emozioni delle nuove generazioni sui palcoscenici di Broadway, sul floor di Wall Street, nelle aule della Business School di Columbia e fra i clandestini che vivono on the road bussando alle porte di preti e missionari che presidiano chiese di frontiera, dove la mafia non è ancora sconfitta. New York somma e sovrappone le identità italiane passate e presenti perché non tutti gli oltre 3,3 milioni italiani che vi vivono condividono la stessa dimensione storica. I top manager delle banche di Midtown, arrivati negli ultimi venti anni, sono proiettati nel XXI secolo mentre sulla Fresh Pond Road di Ridgewood le panelle vengono confezionate seguendo ricette che in Sicilia si tramandano da generazioni. Nella galleria di Larry Gagosian, il tempio dell’arte contemporanea sull’esclusiva Madison Avenue, è una stakanovista torinese quarantenne a reinventare Pablo Picasso come nei laboratori della New York University è una donna medico italiano a rappresentare ­xi

l’avanguardia della lotta al cancro e sui banchi della Rutgers University ventenni nipoti e bisnipoti degli immigrati sbarcati a Ellis Island si affidano ai libri di studio per apprendere l’idioma di Dante che in famiglia mai nessuno gli ha tramandato. Ciò che distingue gli italiani di New York è l’energia con cui dibattono la loro identità. Il reporter ottuagenario di «America Oggi» parla di «italoamericani» che si ritrovano in una miriade di feste religiose, club e sodalizi, ognuno dei quali si richiama a un’origine geografica che travalica le regioni e si declina in città, paesi, villaggi e frazioni urbane. Fra i ricercatori del Calandra Institute la definizione preferita è invece «americoitaliani» perché prevalgono le caratteristiche acquisite nella nuova patria rispetto all’eredità dell’Old Country. A Mulberry Street, l’ultima strada di Little Italy nel Lower East Side, il termine «italiani» decade per essere sostituito da «calabresi», «siciliani», «napoletani» e «pugliesi». L’ammiraglio della Us Navy Edmund Giambastiani si definisce «americano di origine italiana» come fanno poliziotti, pompieri e soldati che vegliano sulla sicurezza nazionale. Il top manager farmaceutico Lamber­to Andreotti e il veterano dell’Onu Giandomenico Picco parlano di «identità globale con una componente italiana». Lady Gaga si limita a ricordare il nonno, l’ex paparazzo romano trasferito a Harlem indica le foto appese alle pareti del suo ristorante e lo scultore Arturo Di Modica rivendica la «libertà di creare ciò che mi viene naturale senza assoggettarsi ai diktat delle gallerie». Il risultato è un universo di voci e valori nel quale le contraddizioni fioriscono. In alcune famiglie gli anziani vietano ai più giovani di vedere il film Il padrino perché lo considerano un vettore di trasmissione di pregiudizi anti-italiani molto nocivi, in sintonia con le denunce dei combattivi attivisti di Niaf (National Italian American Foundation) e Italian Citizens Foundation contro il serial tv Sopranos e il reality show Jersey Shore, accusati di portare sullo schermo l’immagine di un popolo di mafiosi e cafoni. Per Anthony J. Tamburri, direttore del Calandra Institute, invece Jersey Shore serve a meglio comprendere quanto avviene nella «classe operaia» a stelle e ­xii

strisce e l’americanista Franco Zerlenga va oltre, spiegando che «uno dei tratti distintivi degli italiani di New York è non piangersi addosso come fanno altri». Nel Bronx c’è chi vende targhe automobilistiche con stampata sopra la scritta «Cosa Nostra» mentre sui banchi della Rutgers University c’è chi è pronto a battersi a mani nude contro chi lancia l’insulto «mafioso» nei confronti di un italiano di terza generazione. Per non parlare della vita politica, dove le elezioni a governatore di New York hanno dato risalto a un duello fra il democratico Andrew Cuomo e il repubblicano Carl Paladino frutto di opposte esperienze di integrazione: nel segno dell’integrazione nel modello anglosassone il primo e dell’esaltazione delle origini etniche il secondo. D’altra parte in alcune chiese di Brooklyn ci sono messe in italiano per i più anziani e in inglese per i più giovani. Ma forse è il cibo il terreno che meglio riassume il mosaico italiano: migliaia di ristoranti, supermercati, deli, salumerie, macellerie, pasticcerie, pizzerie, bar, caffè e bancarelle offrono pietanze e prodotti alimentari che descrivono una parabola di gusti parallela a quella degli immigrati. Iniziata con i sapori dei piatti originali, modificata dall’impatto con quanto era accessibile sul luogo d’arrivo e poi progressivamente tornata a riproporre la cucina italiana, per spingersi infine – come fa Del Posto, l’unico ristorante che può vantare le quattro stelle del «New York Times» – ad acquisire il meglio dei prodotti e sapori americani. Dai fedeli di Padre Pio Way a Williamsburg agli avventori della Festa di San Gennaro a Little Italy fino ai frequentatori delle notti nei roof di Manhattan c’è comunque un elemento che distingue gli italiani della Grande Mela: la convinzione che mettendocela tutta qui ogni risultato è davvero possibile. I ventenni che arrivano oggi per andare a studiare nelle migliori università o scelgono di affrontare i rischi della vita da illegale hanno in comune con i discendenti degli immigrati che attraversavano l’Atlantico l’uso frequente di un’espressione per descriversi: «We are hardworking people», siamo gente che lavora sodo. ­xiii

*** Queste pagine fotografano la realtà degli italiani di New York così come accoglie un qualsiasi viaggiatore in arrivo nel 2011. I percorsi attraverso popolo, fede, politica, rapporto con l’Italia, business e arti si sviluppano descrivendo personaggi e luoghi che li costellano. Ci si immerge così in un mondo che, seppur a 6916 km di distanza dallo Stivale, ci appartiene. È parte di ogni italiano, indipendentemente dal suo luogo di nascita o residenza. E dunque ci sfida perché le testimonianze raccolte sollevano interrogativi con i quali la patria di origine è chiamata a confrontarsi. In un club di Brooklyn intitolato a Partanna, in Sicilia, un gruppo di frequentatori, tutti oltre la sessantina, si dicono «amareggiati» ogni volta che ascoltano dalla tv italiana notizie sulle «liti fra leader politici nazionali» perché vorrebbero un’Italia «unita» nella quale «ci fossero interessi condivisi e rispetto per le istituzioni». A Bensonhurst padre Ronald Marino racconta dei giovani italiani che scelgono di vivere da clandestini, affrontando il rischio della deportazione pur di restare in America. A Flushing il missionario Al Barozzi crede nel sacerdozio femminile come strada per rinvigorire la fede mentre il vescovo di Brooklyn-Queens Nicholas DiMarzio parla di «fedeli anticlericali». Il top manager di un’importante società finanziaria su Madison Avenue rimprovera alle grandi banche italiane di «aver abbandonato Wall Street» lasciando campo libero ai concorrenti tedeschi e francesi. Un giovane imprenditore nel settore del lusso imputa la carenza di investimenti italiani in America «a una cultura d’azienda che privilegia i famigliari ai manager» e «sottovaluta l’attenzione per la clientela». Il docente di cinema alla New York University spiega con le debolezze strutturali del nostro cinema la difficoltà a vincere premi Oscar. Mentre alla domanda sul perché l’Italia non attragga investimenti a stelle e strisce la risposta di più voci dell’economia è univoca: «Manca certezza del diritto, le leggi sul lavoro sono penalizzanti per le imprese e le differenze fra Nord e Sud sono tali da rendere difficili progetti di sviluppo su ­xiv

scala nazionale». Per non parlare dei tanti titolari di passaporto italiano che non sfruttano il diritto di voto garantito ai residenti all’estero, esprimendo sfiducia verso una nazione il cui sistema politico «è troppo confuso». Su tale sfondo di domande che aspettano una risposta sono due le questioni più frequenti nei ragionamenti degli intervistati: la memoria e la lingua. La memoria ha a che vedere con il fatto che durante un periodo lungo circa un secolo, dal 1870 alla fine degli anni Settanta, la madrepatria ha voltato le spalle a milioni di famiglie di emigrati, contribuendo a causare una ferita fatta di rancore, incomprensioni e carenza di reciproca conoscenza che resta da rimarginare. La lingua può essere lo strumento per riuscirci ma affinché gli immigrati di seconda, terza e quarta generazione si impossessino dell’italiano che nessuno gli ha insegnato – visto che nelle loro famiglie si parlava quasi sempre in dialetto – serve un impegno massiccio a favore dell’insegnamento nelle scuole americane. Simile a quello che spinge la Cina a investire milioni di dollari per promuovere il mandarino sin dalle elementari. *** Trattandosi di una fotografia del presente di una comunità vivace e vibrante è stato inevitabile dover fare delle scelte difficili e il metodo prescelto è stato evidenziare gli elementi di maggior novità. Pur nella consapevolezza che, trovandomi a riscrivere da capo l’opera, il ritmo con cui New York si rinnova produrrebbe un volume in gran parte differente. Ciò che ne esce è il ritratto della più grande città italiana degli Stati Uniti: 3.372.512 residenti che rappresentano il 16% dei 21,2 milioni di abitanti della Greater New York, ovvero il primo gruppo etnico-linguistico nell’area urbana che include New York, Nord New Jersey e Long Island, riflettendo sacrifici, sfide e successi degli oltre 15,6 milioni di americani che nel censimento del 2000 hanno dichiarato di essere originari del nostro Paese, componendo il quinto gruppo etnico nazionale. ­xv

Il libro è frutto degli stimoli di un editore che dopo la pubblicazione degli Ebrei di New York mi suggerì di esplorare l’anima tricolore della Grande Mela, della scelta della «Stampa» di avermi come corrispondente negli Stati Uniti e di tre anni di interviste e incontri con i personaggi citati e di visite nei luoghi indicati. Il tutto reso possibile grazie al costante sostegno di un ristretto team di persone le cui molteplici italianità si rispecchiano sul tessuto cittadino. A loro va il mio ringraziamento per tempo, passione e risorse dedicati. Vincenzo Pascale, italianista della Rutgers University, mi ha affiancato in molteplici occasioni, mettendo a disposizione un bagaglio di cognizioni storiche e umane di valore che si sono rivelate complementari alla minuziosa conoscenza del territorio da parte degli infaticabili Rita Bonura e Antonio Barbera. L’aiuto dei giovani diplomatici Maurizio Antonini e Giuseppe Favilli, come dei veterani della Business School della Columbia University Marco Magnani e Carlo Mantica, si è rivelato indispensabile per setacciare una delle capitali della business community. Un riconoscimento particolare va a Enzo Viscusi, il newyorkese su cui scommise Enrico Mattei, per avermi aiutato a superare gli ostacoli più difficili. Ma è senza mia moglie Micol, costante fonte di interrogativi pungenti sulla città in cui viviamo, che questo libro non avrebbe potuto essere scritto. Maurizio Molinari New York, 1° maggio 2011

Gli italiani di New York

Avvertenza La maggior parte delle testimonianze riportate nel volume è stata raccolta dall’Autore nel corso di interviste o colloqui personali. In tutti gli altri casi è stata puntualmente segnalata la fonte nel testo.

Il popolo

Gli eroi di Ground Zero L’attacco all’America dell’11 settembre 2001 fa 2976 vittime delle quali 2752 trovano la morte a Ground Zero e fra queste 302 hanno cognomi di origine italiana. Fra loro vi sono 4 Esposito, 4 Mauro, 3 Giordano, 3 Marino, 2 Virgilio assieme ad Abate, Acquaviva, Amato, Angelini, Benedetti, Calcagno, Cannizzaro, Colasanti, Difazio, Fiori, Gallo, Ingrassia, Perroncino, Pugliese, Ragusa, Vitale e tanti altri ancora. A questi bisogna aggiungere gli italoamericani che hanno cognomi americani. Dopo anglosassoni e ispanici, gli italiani sono il gruppo etnico che somma più perdite nell’assalto dei 19 terroristi kamikaze di Osama bin Laden lanciatisi contro l’America a bordo di quattro aerei commerciali trasformati in rudimentali missili. Fra le 302 vittime italiane rimaste sotto le Torri Gemelle c’è Peter Ganci, di Massapequa a Long Island, il pompiere più alto in grado di New York con alle spalle trentatre anni di carriera, che all’età di cinquantaquattro anni quella mattina è al settimo piano del quartier generale del Fire Department a Brooklyn. Alle 8.46 vede dalla finestra del suo ufficio il volo 11 dell’American Airlines schiantarsi contro la North Tower e si rivolge d’istinto a Dan Nigro, capo delle operazioni dei pompieri: «Guarda, un aereo ha appena colpito il World Trade Center». Pochi minuti dopo sono a bordo di un’auto che a tutta velocità supera il ponte di Brooklyn e li porta a ridosso delle Torri. Assieme decidono di girargli attorno, guardando all’insù, per vedere quali sono i danni reali. ­3

La parte più colpita della North Tower è il lato nord, quello dell’impatto. Ganci stabilisce un punto di comando sotto la South Tower, alla base, e da lì guida per radio i pompieri che entrano nella North Tower. Alle 9.03 arriva il secondo schianto. Il volo United Airlines 175 colpisce la South Tower. Ganci e Nigro sono coperti di polvere, le radiotrasmittenti funzionano male, si dividono. «Chief Ganci», come tutti lo chiamano, capisce che la South Tower è in condizioni peggiori di quella North. Si mette a fare il vigile urbano di fronte al World Trade Center 1 per allontanare quante più persone possibile. Alle 9.59 la South Tower crolla e viene quasi sepolto ma, quando la polvere scende, assieme alla sua squadra riesce a uscire dalle macerie e riprende il lavoro. Dice ai suoi uomini «go North», andate verso nord, mentre lui fa l’opposto, torna verso sud sul luogo del crollo e crea un «posto di comando» da dove vuole cercare i sopravvissuti. Le testimonianze sui suoi ultimi attimi di vita lo descrivono «heading right back into the chaos», mentre si dirigeva verso il caos. Alle 10.28 crolla anche la North Tower e «Chief Ganci» muore dopo aver contribuito a mettere in salvo con i suoi pompieri quasi 20 mila persone. Sono 343 i pompieri che perdono la vita a Ground Zero, almeno 64 vengono da famiglie italiane. Fra i sopravvissuti c’è Daniel Tardio, capitano dell’Engine 7 nella sede di Duane Street, che arriva con i suoi uomini fin sotto la North Tower da dove vede «le persone che si gettano nel vuoto». Non dormirà per tre giorni di seguito. Sono in migliaia a trovarsi dentro le Torri al momento dell’impatto e fra loro c’è Lucio Caputo, presidente dell’Italian Wine and Food Institute. Come ogni mattina arriva in ufficio alle 8 al 78° piano della Torre numero 1, quella Nord, e sale fino al 107° per fare colazione al Club Windows on the World, poi riscende alle 8.30. È al telefono con l’Italia quando un boato gli fa cadere la cornetta dalla mano. Lo specchio antico che di fronte a lui copre tutte la parete si sposta di un metro, va via la luce, le porte sbattono, suonano le sirene, dal soffitto cade talmente tanta polvere che il divano verde diventa bianco. Pensa ­4

a una bomba come avvenne nel 1993, prova a telefonare ma le linee sono cadute, esce in corridoio e si trova nella nebbia. Frammenti di marmo per terra, gente che piange e urla. Viene a sapere dell’impatto dell’aereo. Aspetta le istruzioni dall’altoparlante della Torre, come durante le esercitazioni, ma non succede nulla. Allora prende una torcia, una bottiglia d’acqua e un asciugamano bagnato e inizia a scendere per le scale, di corsa. Ha di fronte 78 piani. Al 40° piano incrocia i pompieri che salgono, appesantiti da maschere, tute e tubature. Chiede «Cosa è successo» e la replica è «I don’t know», non lo so. Si imbatte in una donna nuda, bruciata e senza pelle, e in un cieco accompagnato dal cane. Il tutto in un silenzio surreale. Lungo le scale c’è fair play, niente spintoni, la gente fa passare i feriti. Dopo un’ora arriva al 23° piano, dove due persone in abiti civili spingono tutti in una grande stanza con l’aria condizionata. Ma Caputo teme il peggio, cerca le scale di emergenza e corre ancora fino alla hall, irriconoscibile con vetri rotti, detriti, marmi e lampadari in frantumi, un’infinità di pezzi di carta che volano per aria. Esce e fugge verso Broadway in tempo per sfuggire all’onda di fumo che si sprigiona dal crollo, dentro la quale vi sono oggetti e detriti umani. «Sarà un ricordo che porterò con me per il resto della vita» dice, considerandosi «fortunato». Fra chi sopravvive c’è Andrea Fiano, corrispondente di «Milano Finanza» con l’ufficio dentro la sede di Dow Jones, e la cenere di resti umani gli fa tornare alla mente quanto passato dal padre Edo, sopravvissuto oltre mezzo secolo prima ad Auschwitz. Nei giorni dopo il crollo si contano i morti. Gli agenti del Police Department e di Port Authority caduti sono 58 e 9 di loro hanno un cognome italiano: Amoroso, Cirri, D’Allara, Infante, Langone, Mazza, Morrone, Pezzulo e Vigiano. Ogni funerale riunisce l’intero corpo di polizia. A tendere una mano alle famiglie dei caduti è il sergente Giovanni Porcelli, campano di Raito, presidente della Columbia Association che riunisce i poliziotti newyorkesi di origine italiana nel nome di Joseph Petrosino, il cui fratello ha un cognato morto a Ground Zero con la divisa dei pompieri. «L’11 settembre ­5

vi furono molte vittime fra gli italiani e l’impatto sulle famiglie è stato pesante, i lutti hanno portato dolore, dispute finanziarie, perdite di case. L’impatto della tragedia continua tutt’oggi» spiega Porcelli, soffermandosi sul fatto che «dall’Italia a offrire aiuto furono gruppi di carabinieri e polizia ma non il governo in quanto tale». Il gesto di solidarietà che più colpì gli agenti della Columbia Association fu l’iniziativa dei «colleghi e compatrioti» californiani nel Columbus Day che si celebrò circa un mese dopo il crollo delle Torri: quell’anno i poliziotti di New York non riuscirono a sfilare lungo la Fifth Avenue nella rituale parata che celebra l’eredità italiana e così il loro stendardo venne innalzato durante la sfilata di San Francisco. Nel caso del Fire Department il bilancio di vittime è talmente pesante che il nuovo sindaco Michael Bloomberg il 1° gennaio 2002 decide di ristrutturarlo interamente. Il compito cade su Nicholas Scoppetta, classe 1932, padre di Amalfi e madre napoletana, cresciuto in un orfanotrofio di New York e divenuto viceprocuratore generale cittadino, che ricorda così i suoi primi giorni da Fire Commissioner: «343 vittime e pochi corpi recuperati, facevamo funerali senza le salme, dentro le bare non c’era nulla, ci stringevamo gli uni agli altri come una grande famiglia, fu terribile, bisognava ricostruire tutto». La conseguenza fu che molti dei sopravvissuti scelsero la pensione, lasciando il posto a nuove leve per le quali Scoppetta ha rimodellato i compiti e aggiornato la tecnologia «per poter affrontare ogni evenienza, anche la più terribile». Anche Scoppetta l’11 settembre era a Ground Zero: «I pompieri facevano a gara per essere assegnati, in ogni sede c’erano turni che si sovrapponevano, chiunque chiamammo rispose, vennero tutti, nessuno si tirò indietro e molti morirono per questo, come Chief Ganci». Ma l’11 settembre continua a uccidere. Joseph Graffagnino, trentatre anni, di Brooklyn, cade il 23 agosto 2007, assieme a Robert Beddia, cinquantatre anni, di Staten Island, quasi sei anni dopo gli attacchi, nell’incendio che avvolge l’edificio della Deutsche Bank rimasto in piedi e in via di demolizione ­6

con la cura necessaria per poter prima recuperare tutti i resti umani che vi si trovano. John Botte invece rischia la morte. È l’agente di polizia a cui il comandante Bernard Kerik affida l’incarico di scattare migliaia di foto sui resti delle Torri: lavora senza pause sulle macerie fumanti dal 12 settembre al 31 dicembre 2001, inalando le esalazioni nocive che gli hanno distrutto i polmoni. «Sentivo di camminare dentro l’inferno, inalavo un vapore che mi consumava e l’aria era pesante, densa di ceneri, ma andai fino in fondo per documentare cosa era avvenuto» ricorda, tradendo un orgoglio che non è fiaccato dalla grave malattia. A ricordare vittime ed eroi «italiani e di origine italiana» di Ground Zero è una targa in pietra all’entrata della sede del Consolato su Park Avenue, posizionata in maniera da farla vedere a chiunque entri. Police Plaza La piramide rovesciata in mattoni rossi, alta tredici piani, al numero 1 di Police Plaza, il quartier generale della polizia di New York, per trent’anni è stata la casa di George Grasso, che fino al 2009 ha ricoperto il ruolo di First Deputy Commissioner del Dipartimento ovvero l’agente n. 2 della città. I newyorkesi conoscono il suo nome perché dopo l’11 settembre il capo della polizia Ray Kelly gli affida il coordinamento delle attività con l’Fbi, il che implica avere le chiavi della sicurezza cittadina, a cominciare dagli avveniristici megacomputer del Real Time Crime Center, all’ottavo piano del quartier generale: nel maggio 2010 hanno consentito di individuare in 53 ore l’identità del terrorista pakistano-americano Faisal Shahzad che aveva lasciato un’autobomba davanti al Miskoff Theatre di Times Square con l’intento di compiere una strage di bambini. George Grasso viene da una famiglia originaria della Basilicata e la sua identità italiana è soprattutto legata al nonno Angelo, nato nel 1897 alla periferia di Melfi, che dopo aver visto da vicino gli orrori della Prima guerra mondiale combattendo sulle Alpi decide di lasciare tutto e andare in ­7

America. Arriva a Ellis Island il 16 marzo 1921 con 20 dollari in tasca dopo due settimane di navigazione. Agli ufficiali che lo interrogano dice di non essere «né criminale né poligamo» e quando gli consentono di sbarcare va a trovare una sorellastra al 2355 di Atlantic Avenue, a Brooklyn, dove si insedia. La prima cosa che fa è cercare moglie, lucana come lui. A colpirlo è Maria Fabrizio, di nove anni più giovane, perché la vede in strada mentre trascina un grande sacco di spazzatura e si convince che una donna con tale forza fisica fa per lui. Si sposano nel 1922, hanno sei figli – quattro maschi e due femmine – e Angelo inizia a lavorare fabbricando mattoni, poi si mette a fare il cuoco. La sua passione è il vino e, proprio come avveniva a Melfi, inizia a farlo nella cantina di casa a Rockaway Avenue. È vino rosso. L’odore riempie l’abitazione, giorno e notte. Lui ne è orgoglioso. Educa i figli ai valori di lealtà, lavoro duro e apprezzamento per il buon cibo. Non va mai al ristorante perché convinto che a casa si mangia meglio e quando i figli crescono, si sposano e nascono i nipoti è il suo vino rosso, al pari di ravioli e linguine, a diventare l’ossatura della coesione famigliare. Il figlio George, padre dell’omonimo First Deputy Commissioner, è un tipografo che ogni giorno torna a casa alle 17 per mangiare puntuale con moglie e figli, tutti attorno al tavolo. Per il piccolo George il momento più atteso della settimana è la domenica mattina, quando tutti gli uomini della famiglia Grasso – una quindicina – si ritrovano per giocare a bocce mettendo in palio un tacchino e poi corrono a casa a mangiare pasta fatta in casa, al sugo. «Per mio nonno come per mio padre la famiglia era tutto – racconta George, parlando in un inglese costellato di frequenti parole italiane – e se avevano il culto del lavoro duro era perché serviva a mantenerla, niente altro era importante». Nel 2006 George va per la prima volta a Melfi, cerca e trova l’anziana Luigina, sorella del nonno, che lo accoglie con un molto famigliare «perché ci hai messo tanto a venire?». Quel giorno mangiano assieme pasta fatta in casa e vino rosso. Come faceva Angelo. Ma perché il nipote ­8

del cuoco e figlio del tipografo ha scelto di fare il poliziotto? «Perché credo nel lavoro duro e nella lealtà che mi sono stati insegnati» risponde. Per spiegare cosa intende per lealtà racconta cosa avveniva nel giorno di Natale – «il più bello dell’anno» – in casa Grasso: nonno Angelo si vestiva da Babbo Natale e alle 21 in punto scendeva le scale dal piano di sopra per consegnare i regali ai nipoti, che però dovevano essere «leali fra loro» ovvero mettersi in fila uno dietro l’altro dal più piccolo al più grande. «Se qualcuno barava sull’età, Babbo Natale lo scopriva e lo mandava dietro, in fondo alla fila». Come Grasso anche il sergente Giovanni Porcelli si sofferma sul concetto di «lealtà» per spiegare perché «di generazione in generazione gli italiani vestono la divisa e portano il distintivo». «Lealtà significa lavorare duro per mantenere la famiglia, dare sicurezza ai parenti, senza protestare per la fatica che ciò comporta» sottolinea Porcelli, che dopo essere andato in pensione lavora per la sicurezza dell’American Express nella sede al numero 200 di Vesey Street proprio a ridosso di Ground Zero. A suo avviso «la sicurezza può venire tanto dall’essere nella polizia che nella mafia, con la differenza che nel primo caso è legittima e nel secondo illegittima». Molte famiglie si sono spaccate fra le due fedeltà, ci sono poliziotti con fratelli mafiosi e viceversa fra i quali c’è un «reciproco rispetto», come avviene fra «parenti nemici» anche perché «di esempi simili ve ne sono tanti, basti pensare ai soldati italoamericani che sbarcarono in Sicilia per combattere contro i loro fratelli arruolati dai fascisti». «Ma se contiamo il numero degli italiani in divisa e quelli dentro il crimine organizzato ci accorgiamo che i primi sono di gran lunga di più» sottolinea Grasso. In effetti gli italiani sono i più numerosi nel corpo di polizia dopo gli irlandesi. «Polizia e pompieri sono i corpi più ambiti dagli immigrati perché consentono una rapida integrazione» concordano Grasso e Porcelli, secondo cui «l’integrazione degli italiani nel tessuto di New York deve molto ai distintivi d’argento». Da qui l’importanza di Joe Petrosino, il poliziotto campano che per ­9

primo spinse gli italiani a rompere l’omertà che proteggeva i criminali della Mano Nera, e che a oggi resta l’unico agente di New York caduto all’estero, essendo stato ucciso mentre era in missione a Palermo nel 1909. La piazza che porta il suo nome sorge alla confluenza fra Lafayette Street e Spring Street, nel cuore della vecchia Little Italy dove prima di lui spadroneggiavano i clan mafiosi che facevano capo a Don Vito Cascio Ferro, il padrino dell’epoca. «Joe Petrosino è simbolo di orgoglio e dedizione per tutti noi» sottolinea Porcelli, paragonando il suo assassinio da parte dei clan a quello «del sindacalista Marco Biagi compiuto dai brigatisti rossi». Ogni mese sono circa 400 i poliziotti italiani che si ritrovano nel club intitolato a Petrosino. Si tratta in gran parte di veterani della lotta a Cosa Nostra, che oggi si chiama «crimine organizzato», le cui radici sono nel fenomeno stesso dell’immigrazione perché quando alla fine dell’Ottocento la gente arrivava senza nulla e aveva bisogno di tutto «la polizia era nemica, essendo composta quasi solo da irlandesi, e chiedeva aiuto a chi poteva darlo, in Sicilia o a New York». Sono due i motivi per cui Petrosino è un esempio per i poliziotti di origine italiana: riuscì a cambiare l’immagine della divisa «da nemica ad amica» a Little Italy e inventò le Bomb Squad, che si infiltravano nei clan, per comprendere le evoluzioni contemporanee del crimine. «Anche oggi la mafia si trasforma, di continuo, e il suo nuovo fronte d’azione è quello finanziario» conclude Porcelli, spiegando che se in America la criminalità organizzata italiana è scivolata alle spalle delle concorrenti cinese e russa «a New York resta in cima alla classifica» grazie all’aggressività della ’ndrangheta calabrese. Ammiragli e generali Il comandante dei sottomarini della Nato, il primo marine a guidare le intere forze armate degli Stati Uniti e l’ufficiale che comandava i soldati che hanno catturato Saddam Hussein sono tutti generali di origine italiana che in comune hanno un ­10

forte senso della famiglia. Per capire meglio chi sono bisogna iniziare da Thompson Street al Greenwich Village. È la strada che molti newyorkesi conoscono per Le Poisson Rouge, sull’adiacente Bleecker Street, il locale di spettacoli burleschi rifugio notturno di molti squattrinati nei mesi duri seguiti al sisma finanziario del 2008. Ma all’inizio del Novecento Thompson Street è una strada dove si parla quasi solo italiano e al civico 206 Emma Capellino cresce nella Italian Fine Cake Bakery vendendo pane appena sfornato e dolci delle Marche, da dove sono immigrati i genitori. Emma Capellino è la «nonna» della quale l’ammiraglio Edmund Giambastiani parla quando si tratta di raccontare la sua identità italiana. Giambastiani è l’ex comandante della flotta sottomarina della Nato – uno degli incarichi più delicati del Pentagono – che George W. Bush soprannomina «Admiral G» assegnandogli nel 2005 l’incarico di vicecapo degli Stati Maggiori Congiunti che ricopre fino al 2007. Per la comunità italoamericana è uno degli onori più grandi, anche perché Giambastiani è nato e cresciuto a Canastota, un villaggio di 4425 anime vicino al lago Oneida, a nord di New York, dove quasi tutti gli abitanti hanno la stessa origine. Siamo nella contea di Madison dell’Upstate New York, fra Syracuse, Milan e Rome, dove gli immigrati provenienti da famiglie contadine si insediarono in massa fra fine Ottocento e inizio Novecento andando a lavorare in miniere, fabbriche e lungo il fiume Erie: venire da qui significa essere cresciuto in una sorta di isola italiana incastonata nel New England. Giambastiani riceve così nel 2008 la nomina a Grand Marshal della parata italiana del Columbus Day lungo la Fifth Avenue ed è questo il momento in cui, con la fascia tricolore al petto, parla per la prima volta in pubblico del rapporto con nonna Emma: «Quando penso a cosa significhi per me essere italiano, la mia mente va alla famiglia, alla mia famiglia, ai miei genitori e nonni che non ci sono più e in particolare a mia madre e soprattutto a mia nonna materna che mi hanno allevato con una straordinaria quantità di affetto, è la base della mia italianità». In realtà ­11

l’identità italiana del generale che ha guidato alcune delle operazioni sottomarine più segrete degli ultimi anni ha radici che si diramano un po’ ovunque: se i nonni paterni arrivarono da Lucca e quelli materni da Montemarciano, in provincia di Ancona, il padre artigiano delle decorazioni viveva a Staten Island e lavorava a Manhattan – dove prese parte alla realizzazione del Chrysler Building – prima di sposarsi e andare a Canastota. «I miei nonni si sono dedicati sempre a questo grande Paese e ai figli ma hanno sempre guardato con affetto alla patria dei loro antenati» sottolinea l’ammiraglio, descrivendo l’equilibrio costante vissuto fra due patriottismi. Se Giambastiani nel giorno del Columbus Day parla della nonna, il suo diretto superiore è anch’egli d’origine italiana e nel momento più importante della carriera si commuove ricordando i genitori. Stiamo parlando di Peter Pace, il primo soldato del corpo dei marines a diventare nel 2005 capo degli Stati Maggiori Congiunti. Nato a Brooklyn in una famiglia originaria di Noci (Bari), cresciuto a Teaneck nel New Jersey, giocatore appassionato di calcio e alunno modello, Peter Pace nel 1968 è in Vietnam e guida un plotone di marines alla riconquista della cittadella di Hue durante una delle battaglie più cruente dell’Offensiva del Têt. Gli cadono accanto cinque dei suoi uomini e la foto del primo a morire, il soldato scelto Guido Farinaro, è da quel momento sempre su ogni sua scrivania di comando. Somma i teatri militari in Giappone, Corea e Thailandia e nell’aprile del 2003 è un alto ufficiale dei reparti di marines che entrano a Baghdad, dimostrando nell’occasione anche non comuni capacità di dialogo con i grandi media. La doppia qualità colpisce Bush, che lo richiama a Washington per assegnargli il grado più alto delle Forze armate. È il primo italoamericano a ricoprire questo ambito incarico ma la ratifica della nomina spetta alla commissione Forze armate del Senato, che lo chiama a deporre il 10 luglio 2006 nel Chapman Conference Center di Miami. Fra i senatori che lo bersagliano di domande sulle difficoltà della guerra in Iraq e sui rapporti col ministro della Difesa ­12

Donald Rumsfeld ci sono pesi massimi di Capitol Hill come Ted Kennedy, John McCain e Lindsey Graham. Il generale Pace risponde a ogni quesito con fermezza e competenza incarnando una miscela perfetta fra militare e uomo di comunicazione, ma tutto svanisce in un attimo quando si trova a parlare delle origini pugliesi. Racconta la povertà in cui viveva da piccolo nella casa di Brooklyn, il liceo a Teaneck, e si sofferma sui sacrifici del padre e gli stenti della madre per riuscire a crescere quattro figli, portandoli tutti a lauree che gli hanno schiuso successi e prosperità. È una sintesi dell’American dream che porta alle lacrime il generale, al punto da non essere più in grado di parlare, precipitando l’aula nel silenzio. «Ci ha commosso enormemente – gli dice Ted Kennedy – speriamo che il Congresso e l’America la ascoltino». «Quando si ha sangue italiano – aggiunge il senatore repubblicano Graham, della South Carolina – non si resiste al cuore, solo un vero marine riesce a piangere». Proprio su questa impronta del «sangue italiano» Pace si sofferma spesso, descrivendosi così: «Sono chiaramente un americano ma apprezzo le mie radici. Ho imparato da giovane l’importanza di avere sangue italiano, che fa battere forte il cuore quando ci si emoziona. Avere sangue caldo spesso mi è servito. Avere origini italiane mi fa essere una persona migliore perché mi fa sentire un cittadino del mondo ed anche apprezzare di più l’importanza per l’America di essere una nazione tanto diversa». Il generale dell’Us Army che ha firmato la cattura di Saddam Hussein invece è Raymond Odierno, che oggi guida l’Us Army Joint Forces Command: un gigante di 1,98 metri di altezza, calvo, corporatura possente e conosciuto per non risparmiare sorprese agli avversari. Quando nel 2007 la guerra in Iraq era in difficoltà per la rivolta jihadista, il comandante delle truppe David Petraeus mise Odierno al comando del Triangolo Sunnita, la regione-roccaforte dei terroristi di Al Qaeda, affidandogli la gestione dei rinforzi che cambiarono le sorti del conflitto. Odierno applicò la ricetta Petraeus – basata sull’alleanza con le tribù locali – in maniera talmente ­13

efficiente da trasformarsi nel suo legittimo successore alla guida di «Iraqi Freedom» nel 2009. Ma Odierno paga un prezzo alto alla divisa perché nel 2004 suo figlio Anthony perde un braccio quando un razzo colpisce la sua jeep a sudovest di Baghdad. Salendo assieme sul palco dei «Sons of Italy» all’Omni Shoreham di Washington, nel maggio 2010, per ricevere i Leadership Awards, parlano entrambi il linguaggio degli eroi. Il generale, indossando un frac coperto di decorazioni, ricorda la figura del sergente John Basilone, l’unico soldato americano che nella Seconda guerra mondiale sommò le decorazioni Navy Cross e Medal of Honor, definendolo «uno scintillante esempio di quanto gli italoamericani hanno dato a questo Paese». Poi tocca al figlio, Tony, che parla di «coraggio e patriottismo» come di «azioni di gente normale in situazioni straordinarie» alle quali però «spesso non si fa attenzione». L’abbraccio sul palco fa scattare una lunga standing ovation dei quasi mille italoamericani presenti, nel parterre c’è chi piange. Quando tutto è finito è Tony che ricorda le origini: «Mio nonno, Basilio Odierno, venne da Sarno, vicino Napoli, e andò a vivere nel Lower East Side, mio padre invece è cresciuto a Rockaway, New Jersey, e mia madre è tedesca, per noi essere italiani significa passare più tempo possibile in famiglia, mangiare assieme». E a chi gli chiede quale consiglio dà ai giovani italoamericani che vogliono seguire il suo esempio risponde: «Nella vita ci si scontra con molti ostacoli, uno di questi per me è stato perdere un braccio, ma c’è sempre la maniera per adattarsi e superare le difficoltà, riprendendo il cammino». Il giudice di Madison Square Con Eugene Nardelli, giudice della Corte d’Appello di New York, ci vediamo da Bella Blu su Lexington Avenue, angolo 70a Strada. Ordina caprese e penne al pomodoro, i piatti in base ai quali valuta la qualità dei ristoranti italiani. È nato nel 1934 a Fasano, in Puglia, la famiglia della madre era di New ­14

York e vi tornarono quando era molto piccolo. Vivevano a East Harlem, il padre aveva una piccola bottega, che lui poi gestì e dove tornò spesso. «Mio padre era man-store, stava sempre in negozio e vendeva per pochi dollari ciò che poteva in una East Harlem abitata allora da gente povera, italiani, ebrei e neri». Si laurea in Legge alla Fordham University e fa poi l’avvocato ma ciò che più gli preme è aiutare la gente del quartiere da cui proviene a risolvere una miriade di problemi quotidiani. A spingerlo è la cultura del give back, restituire alla comunità da cui provieni almeno parte di ciò che ti ha dato. Aiuta così individui e famiglie con pochi mezzi a risolvere i piccoli problemi quotidiani, spesso lavora gratis. «Ero una sorta di community organizer». Poi indossa la divisa dell’Us Army, per tredici anni. Quando torna, East Harlem è cambiata, i portoricani hanno preso il posto degli italiani e molte delle vecchie botteghe non ci sono più. Ma la memoria di ciò che ha fatto è rimasta nel quartiere, che nel 1962 lo elegge suo rappresentante. «Entrai in politica grazie ai democratici e venni eletto dalla base portoricana che sapeva quanto avevo fatto per il quartiere, all’epoca gli italiani non c’erano più e noi non avevamo una grande famiglia». La militanza democratica lo porta a essere delegato alla convention del 1972 che assegna la nomination a George McGovern e poi, nel 1975, viene eletto giudice al Tribunale civile di New York, dove resta fino al 1985 per essere poi nominato alla Appellate Division della Corte Suprema nel 1993. Nardelli è un democratico ma l’approccio alle leggi è da conservatore. «Sul ruolo dei giudici la penso come il giudice della Corte Suprema di Washington Antonin Scalia, secondo cui devono giudicare e non legiferare» perché «i giudici sono degli ingegneri sociali, aiutano a far funzionare la fabbrica umana applicando la legge». Dunque non gli piacciono «i giudici che si dicono a favore delle nozze gay» perché «tentano di legiferare, forzando la mano alla maggioranza dei cittadini che è contraria, sulle questioni di valore deve decidere la gente non i giudici». Alla base di ciò che pensa e dice c’è ­15

l’idea che «il giudice rappresenta la legge e l’avvocato il popolo» e «si tratta di ruoli ben separati». Ogni tanto adopera dei termini in italiano, sorride, unisce le dita della mano per mimare l’espressione «ma che dici?». Volto, gesti e battute sono in italiano ma la sua lingua è l’inglese e tiene a sottolineare che «il mio Paese è l’America». Ricorda quando andò al consolato italiano a rinunciare alla cittadinanza perché altrimenti avrebbe dovuto fare il servizio militare in Italia e non in America. «Feci quella scelta perché sono americano». Nei trentacinque anni passati da giudice a New York ha firmato quasi 20 mila decisioni giuridiche, incluse alcune delle sentenze che hanno segnato la vita della città, come avvenne nel caso del Peter Cooper Village a Stuyvesant Town, quando nel marzo del 2006 la Appellate Division votò all’unanimità che il gigante immobiliare Tishman Speyers aveva agito «impropriamente» aumentando l’affitto agli inquilini di migliaia di case popolari dopo aver ricevuto particolari esenzioni fiscali per costruirle. La sua tesi fu che avendo già avuto gli sgravi non potevano anche aumentare gli affitti perché «non si sommano due privilegi». È uno dei principi che ha trasformato in diritto. In altri casi si è trattato di affermare che «un regalo è un regalo» o di difendere chi «agisce in buona fede». «Ciò che conta è che a prevalere deve essere sempre la legge e quando c’è spazio per la discrezionalità bisogna decidere in maniera pragmatica, per ottenere i risultati desiderati sulla base del common sense», il senso comune architrave della cultura giuridica anglosassone. L’idea che il giudice Nardelli incarna è quella di un’America «nation of laws not nation of men», nazione di leggi, non di uomini, dove «liberty is under the law», la libertà è sotto la legge, «frutto del pensiero di Benjamin Franklin come degli scritti di Gaetano Filangieri, l’illuminista italiano autore nel 1780 della Scienza della legislazione». «Se il popolo americano rispetta la legge è perché i principi che loro hanno elaborato sono radicati, diffusi, condivisi». Il paragone con l’Italia gli viene spontaneo: «I ­16

problemi nascono dal fatto che molti giudici in Italia sono corrotti perché non vengono eletti: se tu sei eletto rispondi al popolo e devi essere giusto, se invece sei nominato rispondi a interessi di parte». Per non parlare poi dei giudici che sono anche pubblici ministeri. «Vergogna, vergogna» ripete, tradendo rabbia, «l’Italia è la nazione di Filangieri che ispirò Franklin, come possiamo consentire giudici-procuratori oppure processi infiniti?». L’ex governatore Mario Cuomo, che lo nominò nel 1992 nella commissione sui 500 anni dalla scoperta dell’America, descrive Nardelli come il giudice «capace di formulare soluzioni pratiche ad astratti problemi legali», mentre Jonathan Lippman, presidente della Corte Suprema di New York, intervenendo alla cerimonia per i trentacinque anni di toga ne ha lodato la capacità di «essere collegiale anche nel dissenso». Protagonista, animatore ed ex presidente della Columbus Citizens Foundation e del Columbus Club che organizza la parata annuale lungo la Fifth Avenue, degli italoamericani di New York dice che «erano poveri ma hanno fatto incredibili progressi economici e sociali» e «votano democratico perché qui la città è democratica ma sono sempre stati repubblicani perché gli piaceva Lincoln, che aveva liberato gli schiavi dalla povertà, e perché credono nei valori della famiglia, che sono conservatori». Conosce dal di dentro il Partito democratico e ne parla con cinismo: «Roosevelt e Kennedy giocarono la carta etnica per avere i voti degli italiani ma per la nostra gente hanno fatto di più filantropi come Rockefeller e sindaci come LaGuardia e Giuliani, entrambi repubblicani». Nel dopo 11 settembre il tema più scottante resta «il confine da tracciare fra libertà personale e sicurezza collettiva» e a suo modo di vedere «la risposta viene dalla Costituzione, che non è un contratto suicida» come pensava anche Lincoln che «sospese l’habeas corpus durante la guerra civile senza contare che nella Seconda guerra mondiale i giapponesi e anche gli italiani vennero messi in campi di internamento per tutelare la nazione». Se dunque il «pericolo oggi viene dai maschi ­17

musulmani fra i venti e i cinquant’anni, bisogna identificarli, ciò non significa essere razzisti». Di questo parla dal suo ufficio con vista sul Madison Square Park, al secondo piano dell’edificio neoclassico costruito nel 1900 a ridosso dell’allora casa della madre di Winston Churchill e che è diventato una sorta di seconda casa da diciassette anni. Sentenze a parte, Nardelli ha avuto la responsabilità di sovrintendere alla ristrutturazione, a cominciare dalla storica facciata con le statue Forza e Saggezza, come anche di migliorare la qualità della vita dei giudici riorganizzando la mensa. Impiegati, consiglieri e agenti lo salutano chiamandolo «Giudice» con un misto di rispetto e affetto mentre lui lavora su una scrivania circondata dalle foto con Sophia Loren, Luciano Pavarotti, il senatore «Scoop» Jackson, il cardinale John O’Connor, il giudice Antonin Scalia, il sindaco Dinkins, Joe DiMaggio, Frank Sinatra, il presidente Sandro Pertini e il governatore George Pataki. Anche se quella a cui tiene di più è su un tavolinetto vicino alla porta di ingresso. È stata scattata negli anni Trenta a Fasano e si vede il piccolo Eugenio a fianco del padre Vito, poco prima di partire per l’America. I difensori di Arthur Avenue Pane alle olive, cantucci alle mandorle e cannoli al limone. L’ultrasettantenne Peter Madonia tiene alla premura di ogni gesto con cui le giovani commesse servono ai clienti gli stessi prodotti grazie al quale il padre, Mario, nel 1918, aprì la Bakery al 2348 di Arthur Avenue, nell’isolato che è oggi quanto di più assomigli all’Italia nell’intera metropoli di New York. Se a Little Italy le famiglie italiane hanno venduto case e negozi ai cinesi e a Bensonhurst, Brooklyn, la presenza italiana si è diluita fra ispanici e asiatici, ad Arthur Avenue, nel Bronx, c’è una roccaforte che resiste. Per rendersene conto basta camminare a piedi da Crescent Avenue all’incrocio con la East 187th Street. Sono due isolati nei quali sapori, colori e dialetti italiani si materializzano in un torrente di passan­18

ti che sosta, mangia e acquista di tutto dentro negozi che sono gli stessi da tre generazioni. Fra il ristorante Mario’s e la panetteria Madonia c’è l’entrata del Retail Market, il mercato coperto inaugurato da Fiorello LaGuardia nel 1940 per ricreare l’atmosfera delle piazze dei paesi d’origine, con bancarelle di olio, verdure, carni e pizza una accanto all’altra, dove i proprietari si conoscono e chiamano per nome. A svelare che siamo in America ci sono le bandierine a stelle e strisce, sempre a fianco di ogni tricolore, le divise dei pompieri che vengono qui a farsi un panino nei momenti di pausa e un salottino all’aperto per gustare sigari, con tanto di foto di Al Pacino con un toscano in bocca, proprio come piace fare agli invitati di ogni matrimonio quando la festa volge al termine. A fianco di Madonia c’è la macelleria Biancardi’s e poi a seguire un’altra panetteria, Addeo Bakery, il mercato del pesce Cosenza e, dopo l’angolo con la East 186th Street, Teitel, ovvero una drogheria-salumeria con scaffali e banchi colmi all’inverosimile di ogni tipo di formaggio, verdura e salumi di produzione italiana. Con tanto di Stella di David disegnata sulle mattonelle all’entrata per sottolineare l’origine dei proprietari. Poco più avanti sulla East 187th Street, proprio di fronte alla chiesa Our Lady of Mount Carmel, alla terza generazione di commercianti appartiene anche Borgatti’s Ravioli & Egg Noodles, dove la pasta all’uovo viene venduta sulle note di Frank Sinatra, così come da Randazzo’s il pesce viene offerto su lunghi banchi mentre risuonano senza interruzione motivi partenopei come Luna caprese. Per comprendere l’attaccamento delle famiglie originarie a questo quartiere del Bronx, che di nome fa Belmont in omaggio alla famiglia che ne acquistò le prime terre alla fine del XVIII secolo, non basta soffermarsi davanti a oratori e chiese che ricordano con orgoglio la figura di Joseph Maria Pernicone, il primo italoamericano a essere nominato vescovo nel 1954. Bisogna tornare agli anni Sessanta, quando le tensioni razziali fra gli italiani che vi abitavano e i neri – in gran parte portoricani – che risiedevano nei quartieri limitrofi erano ­19

molto alte. Vi furono scontri in strada, di giorno e di notte. All’epoca c’era un autobus di linea che attraversava Belmont ma divenne oggetto di questi attacchi. In un’occasione furono dei giovani italiani a rovesciarlo per impedire ai neri di lanciare offese e oggetti dai finestrini. La scelta della città fu di sospendere le corse – che da allora non sono più riprese – e ciò servì ad attutire le tensioni fino alla notte fra 13 e 14 luglio del 1977, quando New York piombò in un black-out che innescò violenze e saccheggi nella maggioranza dei quartieri. Il Bronx, Queens e Brooklyn furono fra i più colpiti dai vandali. Con fiamme e fumo che si levavano in cielo, le famiglie dei negozianti italiani lungo Arthur Avenue temettero di perdere tutto quanto era stato costruito in decenni di fatica e sacrifici. Così scelsero di difendere le loro botteghe. Padri e figli, molti dei quali non ancora maggiorenni, si misero ognuno di fronte al proprio negozio impugnando mazze da baseball, pronti allo scontro fisico con chiunque avesse osato avvicinarsi. Le bande di vandali e saccheggiatori saggiarono l’aria e fecero prudentemente marcia indietro, evitando di avvicinarsi ai marciapiedi e consegnando alle famiglie Madonia, Biancardi, Borgatti e molte altre ancora la convinzione che non c’era nulla di più importante che conservare Arthur Avenue, proteggendola da ogni pericolo. Pochi anni più tardi uno di quei giovani con le mazze da baseball, Peter Madonia Jr, nipote di Mario, entrava a City Hall come giovane consigliere del sindaco democratico Ed Koch. Il suo compito era riorganizzare il Dipartimento dei pompieri ma ben presto sentì la necessità di dover cogliere l’occasione per contribuire a rafforzare la «comunità di Arthur Avenue». Fu così che nacque l’idea di ripetere in questa enclave italoamericana quanto a Times Square stavano facendo con grande successo le maggiori corporation titolari di palazzi e megastore: creare un meccanismo fiscale per destinare una parte delle imposte al miglioramento del quartiere. Arthur Avenue divenne così un Business Investment District (Bid) nel quale ogni titolare di attività commerciale paga un 4% in più di ­20

imposte immobiliari al Comune, che poi versa questi fondi in un apposito conto gestito da un board nominato dagli stessi negozianti. A conti fatti ciò significa che ogni anno le famiglie di Arthur Avenue hanno circa 400 mila dollari a disposizione da destinare a miglioramenti collettivi che vanno dalla pulizia delle strade alla sicurezza notturna fino alla raccolta dei rifiuti. In questa maniera gli isolati attorno al Retail Market sono diventati un gioiello del Bronx, al punto che gli italiani vi si riferiscono con il termine «Uptown» per riassumerne le qualità di vita, opponendosi a spada tratta tanto al ritorno dei bus come al passaggio della metro al fine di tutelare il loro dorato isolamento. Tantopiù che i clienti arrivano comunque da ogni parte della città, come anche dal Connecticut e dal più lontano New Jersey, grazie all’altra novità introdotta da Peter Madonia Jr alla fine degli anni Ottanta: la pubblicità in tv, antesignana degli odierni siti Internet. «Fino ad allora vendevamo solo alle famiglie residenti sul posto ma il business poi è cambiato, il cibo etnico è divenuto di moda e dunque abbiamo scoperto di avere clienti ovunque». Da qui l’attuale necessità di avere più parcheggi per accogliere chi viene in auto ad acquistare formaggi, salumi, dolci, olio o pomodori secchi. Il fatto di trovarsi vicino allo zoo del Bronx, al Bronx Park, ai giardini botanici cittadini e alla Fordham University moltiplica la clientela, anche perché gran parte di chi viene a fare compere è attirato dall’immagine della «vera Little Italy» che nel 1993 Robert De Niro portò sul grande schermo con la pellicola Bronx Tales ispirata all’omonimo libro di Chazz Palminteri. Fra le mete più gettonate c’è la Casa della Mozzarella, sulla East 187th Street, mentre fra i ristoratori il salernitano Roberto Paciullo ha da poco aperto Zero Otto Nove – come il prefisso telefonico della città d’origine – togliendosi il vezzo di arredarlo con i manifesti elettorali delle più recenti campagne elettorali avvenute in Campania. All’estremo opposto di Arthur Avenue, alla confluenza con Crescent Avenue, c’è un giardino con gazebo dove ci si ritrova per il barbecue nel Columbus Day. Anche perché vi campeggia un busto di Cri­21

stoforo Colombo firmato da Attilio Piccirilli, lo scultore in marmo che assieme ai cinque fratelli aprì l’omonimo studio sulla 142a Strada nel Bronx lavorando a opere come il Maine Memorial di Central Park, i leoni all’entrata della New York Public Library e l’imponente statua di Lincoln al memoriale di Washington. Ma quest’angolo italiano della Grande Mela «è assediato dagli stranieri» lamenta Cecilia, ottantasette anni e borsa della spesa in mano, scuotendo la testa mentre attraversa Hughes Avenue per andare dal mercato a casa. In mezzo alla strada vi sono bambini messicani a giocare a pallone, il ristorante La Casita Poblana è pieno di avventori e dal Cuba Cigar esce una nuvola di fumo. «Guardatevi attorno, di italiani non ce ne sono quasi più» dice a malincuore Cecilia, arrivata giovanissima da Torretta «vicino Palermo» e cresciuta ad Arthur Avenue, dove sono nati i suoi figli e nipoti. Se la Little Italy di Manhattan si è svuotata a favore di Brooklyn a partire dagli anni Cinquanta per la fuga verso i sobborghi e una generazione dopo lo stesso spostamento in cerca di quartieri migliori ha portato gli immigrati di seconda e terza generazione a Staten Island e nel New Jersey, Arthur Avenue aveva resistito attorno al Retail Market, ma ora la sua italianità è sfidata dai nuovi arrivati a causa della crescita esponenziale di due gruppi che non potrebbero essere più diversi: gli albanesi e i messicani. Scritte albanesi ornano il murales con la gigantografia di Gesù che campeggia all’entrata dell’unico parcheggio della zona – il cui valore specifico è molto alto perché qui la metropolitana non arriva – e sullo stesso marciapiede c’è il Gurra Café, un ristorante dai prezzi non accessibili a tutti che serve specialità schipetare alla stessa clientela che poi a casa guarda Alb Tv, l’emittente albanese il cui nome campeggia sul palazzo a due piani al 2220 di Arthur Avenue. Il merito è di un trentenne albanese-americano, Leonel Dreshaj, che ha creato la società Fta Market, che vende quello che definisce un «decoder etnico» con il quale «la gente di qui può vedere le stazioni nella lingua madre». Sono 23 i canali albanesi di­22

sponibili. La madre, Nusha, è una ex profuga kosovara che di tv non sa molto ma offre da bere a chiunque entra «perché noi europei siamo molto ospitali». Il negozio accanto è gestito da altre due albanesi, una di Tirana e l’altra di Pristina, ed è un deli che vende di tutto: giornali in lingua originale, cd di cantanti come Gazi, Leke e Dava, costumi schipetari, bandiere con l’Aquila e manuali da combattimento per i «guerrieri dervisci» in lotta contro i serbi. Drina, quella di Tirana, parla degli italiani del quartiere come di «estranei, perfetti sconosciuti» perché «qui dentro non entrano mai» e «per strada quasi sempre neanche salutano». Mentre gli albanesi invece fanno la fila alla Madonia Brothers Bakery che vende pane fresco e cantucci dal 1918. Se albanesi e kosovari sono un gruppo minoritario ma molto aggressivo, determinato a farsi spazio senza troppi complimenti, i messicani invece dilagano. E sorridono, senza curarsi troppo delle tensioni con i non ispanici. «Gli italiani chi?» chiede con un ghigno Gregorio Castro, quarantacinque anni, titolare del negozio di abbigliamento sportivo Mexico Sports Center, che da sette anni è anche la sua casa. «Vendo magliette nere e verdi della nazionale del mio Paese, qui vengono solo messicani e in questo quartiere sono davvero tanti... gli italiani? Non si fanno vedere molto, qui ognuno sta a casa sua» racconta passeggiando nel giardino davanti al suo negozio, dove sorge un busto marmoreo di Cristoforo Colombo, simbolo dell’insediamento italiano in America. Ma la Storia passata interessa poco ai messicani, che in gran parte sono giovani e intenzionati a «lavorare sodo e guadagnare molto» come riassume Ramiro, trentasette anni, di Puebla, titolare della tavola calda El Sureño dove i prezzi sono bassi e «il cibo talmente piccante che gli italiani neanche si avvicinano». Se nel 1980 solo 35 abitanti di Arthur Avenue erano messicani – pari allo 0,2% della popolazione – ora sono ben 3200 – il 14% del totale – con un aumento in sintonia con quanto sta avvenendo nel resto della città. Le conseguenze si vedono da quanto avviene nei luoghi di culto di quartiere. La cattolica ­23

chiesa di Our Saviour ha oramai l’80% dei fedeli di origine ispanica mentre alla Our Lady of Mount Carmel, perennemente ornata con festoni tricolori, l’arcidiocesi a New York ha imposto di celebrare almeno due messe in spagnolo ogni settimana, designando alcune suore ispaniche per curare i rapporti con i fedeli madrelingua spagnoli. «Non c’è molto da sorprendersi di questi cambiamenti», taglia corto il negoziante napoletano Salvatore De Cicco, che su Arthur Avenue vende targhe personalizzate, «perché albanesi e messicani continuano ad arrivare, moltiplicandosi, mentre gli italiani non vengono più a New York, se ne stanno a casa loro». Maurizio, capo cameriere nel ristorante salernitano Zero Otto Nove, aggiunge: «Tutto vero ma conta poco, qui in America l’unica maniera per andare avanti è lavorare sodo ed è una regola che vale per tutti, italiani, messicani o albanesi». Alessandro Fava, ventenne newyorkese-palermitano, ammette che «qui un po’ tutto oramai è cambiato» e l’unica costante con i racconti dei genitori è il boom di vendite di prodotti alimentari italiani, simili a quelli che lui vende nella Casa della Mozzarella di Orazio Carciotto, dove chiunque entra può vedere con i propri occhi come viene lavorato il più popolare dei formaggi nostrani. Se gli italiani sembrano rassegnati a essere destinati a perdere il controllo della Little Italy del Bronx, a gioire senza esitazioni di quanto sta avvenendo sono gli inservienti messicani delle pescherie Cosenza’s e Randazzo’s che, fra polpi vivi e ippoglossi freschi, vedono un futuro roseo: «La gente che parla la nostra lingua qui sta aumentando». Le panelle di Ridgewood Per ascoltare una conversazione sulla mafia fra baristi e poliziotti bisogna arrivare a Ridgewood, nel Queens. L’arteria dove più sono presenti caffè, ristoranti, club e supermercati italoamericani è Fresh Pond Road. Se ci si allontana di qualche strada si arriva di fronte al bar L’Aroma del Caffè situato ­24

in una palazzina ad angolo che Francesco Aluzzo, immigrato nel 1968 da Castellammare del Golfo, prima ha acquistato e, dopo un incendio sprigionatosi dal sottoscala, ha ricostruito con le proprie esperte mani di muratore. Espresso a parte, Aluzzo offre chinotti, aranciate e paste, e fra gli avventori ci sono anche degli agenti della polizia di New York. Arrivano in borghese, con pistola e distintivo sotto la camicia o la maglietta, e sorseggiando la bevanda preferita ingaggiano spesso accese discussioni con gli altri avventori. Si parla di mafia, delitti, spiate, arresti e la dinamica segue uno schema che vede gli avventori lamentarsi o fare domande e gli agenti spiegare, quasi sempre in italiano e molto spesso anche in dialetto siciliano. Il tema che più infuoca gli animi è quello dei rats, i topi, o come vengono più semplicemente chiamati «gli infami», ovvero coloro che prima compiono delitti e poi, una volta presi, patteggiano condanne lievi e vantaggi economici collaborando con gli inquirenti. «Ci sono cose che è difficile comprendere – dice Aluzzo – come quella del rat che ha ucciso 30-33 persone, poi ha scelto di collaborare e ora è tornato nel quartiere, dove è diventato una sorta di capostrada». Fra gli agenti, a rispondere è uno dei più giovani: «Vedi France’, tu non capisci come funziona l’America, questa nazione è stata fondata sulla base degli scambi di danaro, se un delinquente va in galera e poi l’avvocato chiede un patteggiamento l’accordo si fa ma a patto che quello arrestato faccia arrestare i mandanti». Il rompicapo più difficile per gli agenti infatti non è tanto catturare i killer, quanto trovare chi li paga e manda. Uccidere una persona a New York costa in media duemila dollari ma i killer non sono locali, vengono chiamati da altre città, o anche dall’Italia, fanno ciò che gli è stato chiesto e poi spariscono nel nulla. Per la polizia prenderli è difficile. Ad esempio faticò molto per mettere le mani sul «polacco», un uomo feroce che chiedeva 12 mila dollari a esecuzione perché offriva delle garanzie in più al committente: a cose fatte gli faceva recapitare un video nel quale si vedevano i topi rosicchiare il cadavere del morto desiderato. Il «polacco» è ­25

stato arrestato, ed è morto di cancro in un penitenziario federale, ma di killer a piede libero ve ne sono ancora e la polizia appena riesce a catturarne qualcuno è disposta a favorire un patteggiamento se l’arrestato fa i nomi dei mandanti, che quasi sempre sono insospettabili. Nella zona di Fresh Pond Road la maggioranza dei residenti è costituita da italiani e polacchi. Una volta c’erano tedeschi e irlandesi, ma se ne sono andati lasciando il posto ai nuovi venuti dai Paesi dell’Est, mentre gli italiani sono gli unici del vecchio ceppo a essere rimasti. Vecchi e nuovi residenti si incontrano da Valentino’s, al civico 6664, che il titolare Filippo Barone aprì nel 1975 assieme al padre – con il quale era arrivato nel giugno del 1968 lasciando Santa Margherita distrutta dal terremoto del Belice – e oggi gestisce con tre figli e trenta dipendenti. Offre ogni sorta di prodotti italiani, la pasta che importa in aereo e gli agrumi che acquista nei mercati del New England, ma il vanto maggiore sono i cibi confezionati dalla cuoca, Stella, originaria di Alcamo. Si tratta delle panelle, fatte di farina di ceci, e di mega-arancini ripieni di carne macinata. Gli uni e le altre figurano in bella vista sul balcone della salumeria, poco lontano dalla cassa dove le dipendenti polacche e albanesi lavorano sotto grandi foto di famiglia e una gigantografia del camion con cui Filippo Barone trasporta la merce: sulle portiere ha un’enorme immagine di Padre Pio. Per capire il perché della scelta bisogna chiedere a Tony Mulè, originario di Partanna, e animatore della comunità locale: «Qui siamo tutti devoti di Padre Pio, ogni volta che torniamo in Italia lo andiamo a trovare». La fede si incarna nella convinzione che il Santo abbia poteri miracolosi, così come trova un’altra espressione nella scelta di far svolgere nella chiesa della Medaglia Miracolosa – Our Lady of the Miraculous Medal – le lezioni di italiano per i figli più piccoli. Si tratta di corsi pomeridiani e alla fine di ogni anno scolastico si fa una grande festa dove le famiglie si riuniscono: attorno a quindici Ferrari messe a disposizione dai rispettivi proprietari per farci giocare i bambini. ­26

L’altra festa di cui Fresh Pond Road va fiera è la sfilata italoamericana che si tiene ogni anno all’inizio di settembre: è il momento in cui il quartiere si ritrova attorno alla processione per Padre Pio che termina con vendita di cibo a volontà, la banda che suona motivi italiani e spettacoli di artisti sul palco. «Ma riuscire a ottenerla è stata una conquista difficile – ricorda Tony Di Piazza, a capo dell’Associazione culturale italiana e vicepresidente dei Comites di New York – perché negli anni Novanta tedeschi e irlandesi si opponevano con forza, paventando il fatto che la sfilata avrebbe portato a un’invasione di mafiosi». In un primo momento le proteste ebbero la meglio ma poi fu l’allora sindaco, Rudolph Giuliani, a intervenire per consentire a Padre Pio di sfilare di fronte ai bar italiani di Fresh Pond Road. Dentro questi locali è come trovarsi in Italia. Grandi tv sempre accese, sintonizzate sui canali italiani per vedere partite di calcio, corse ippiche, notiziari dei tg e popolari show. Caffè e cappuccini a non finire. Chiacchiere fra amici attorno ai tavolini. E nel retro sempre una stanza più grande dove si gioca a carte. A qualsiasi ora, del giorno e della notte. Come fanno i coetanei nei paesi di origine come Partanna, Santa Margherita del Belice, Polizzi Generosa e Castellammare del Golfo. I tavoli rotondi consentono di giocare fino a un massimo di sei persone, di fronte a ognuno c’è una vaschetta scavata nel legno per mettere i soldi e poi non resta che decidere il gioco: fra i più popolari vi sono briscola in cinque, cinquecento, tresette, scopone, ramino, scala quaranta e poker, che rimane il più popolare anche perché è quello a cui si possono vincere le cifre più alte. Qui giocano praticamente tutti, sempre. Soprattutto se si tratta di pensionati che vanno a casa solo all’ora di pranzo per mangiare, e poi tornano subito ai tavoli. Fra loro c’è anche Giuseppe Battaglia, che arrivò in America da clandestino nel 1958 «lasciando una nazione che era in ginocchio a causa della guerra» e non se ne è più andato «perché questo è un Paese difficile dal quale però abbiamo avuto ciò che l’Italia non ci ha dato». «Sono orgoglioso di essere italiano ma Dio benedica l’America» aggiunge Mulè, ­27

parlando seduto nella sede del club Partanna circondato da cimeli garibaldini, perché «a noi che siamo venuti qui è andata bene mentre chi emigrò in America Latina se l’è vista brutta con dittatori, colpi di Stato, violenze e crisi economiche dall’Argentina al Brasile fino al Venezuela». L’attaccamento alla madrepatria comunque resta forte. «Chi vive da questi parti ama l’inno di Mameli, il tricolore e la festa del 2 giugno più di tanti italiani che stanno in Italia – dice sicuro Di Piazza – perché qui di queste cose sentiamo la mancanza». Si tratta in effetti della generazione di immigrati che giunse fra gli anni Sessanta e Settanta. Sono gli ultimi a essere arrivati. «Da allora non è più venuto nessuno» assicura Mulè, ricordando come «c’erano settimane nelle quali arrivavano dalla Sicilia in media 400 persone». Tutto ciò è finito con l’aumento del tenore della vita in Italia e il bilanciamento del livello di crescita economica con gli Stati Uniti. È come se gli immigrati degli ultimi vent’anni appartenessero a un altro pianeta. «Sono stato una volta a una cena a Manhattan, c’erano cinquecento giovani italiani, tutti professionisti – racconta Di Piazza – noi non conosciamo loro e loro non conoscono noi ma questa separazione ci indebolisce entrambi». La Ridgewood italiana è anche quella di Antonino Colombo, titolare del negozio di frutta e verdura Colombo’s sulla Metropolitan Avenue, nel Middle Village. Nato a Balestrate, in provincia di Palermo, nel 1932, emigra prima in Argentina nel 1952 e poi, dieci anni dopo, a New York, dove prima fa il muratore e poi vende verdura. È un uomo anziano e chi lo incontra per la prima volta potrebbe scambiarlo per un mendicante a causa di quello che ha addosso: una giacca vecchia ormai lacera, pantaloni rossi scoloriti, scarpe logore e un cappello impolverato. Ma a dispetto dell’immagine è un abile imprenditore, titolare di case e farmacie. È riuscito a vendere e riacquistare il proprio supermercato da coreani rivelatisi meno abili di lui nel vendere fave e carciofi. Non gli piace sentirsi apprezzato per i risultati economici mentre quando si tratta di parlare dell’Italia è senza freni: ­28

«La mia terra è invasa da extracomunitari, vogliono togliere perfino i crocifissi, i politici sono tutti corrotti, l’ultimo sano è stato Sandro Pertini, povera Italia!». Se si chiede ad Antonino Colombo qual è il caffè che preferisce in città la risposta è «quello che fa Joe». Si tratta di Joe Bonura, ottantatre anni, di Castelvetrano, a New York dal 1967 e proprietario da allora di cinque bar-caffè, prima a Brooklyn sulla Knickerbocker Avenue di Bushwick e ora al 917 della North Broadway a Massapequa, dove continua a servire ciò che i clienti apprezzano di più: cappuccino con cornetti firmati dalla pasticceria milanese Bindi e gelato in 50 sapori diversi. Le pareti del Caffè Gondola sono adornate con carretti siciliani, immagini di Venezia, piccole gondole e una radio del dopoguerra che ancora funziona. Arrivò con un visto turistico per sole tre settimane ma non è più tornato indietro se non per andare a trovare parenti e amici. «L’ultima volta che sono andato non vedevo l’ora di ritornare, tutti quelli che conoscevo in Sicilia sono morti, qui a New York ho il bar che è la mia vita, non c’è nulla al mondo come l’America». Per comprendere cosa intende bisogna aspettare l’ora di chiusura del Caffè Gondola: ogni giorno, appena inizia a spegnere le luci, arriva un affezionato cliente – che di mestiere fa il poliziotto – e lo aiuta e portare dentro sedie e ombrelloni. «Only in America». Spaghetti Park Vincent Barbacci vende ghiaccio colorato a William F. Moore Park che gli italiani di Corona, nel Queens, chiamano più semplicemente Spaghetti Park. Il motivo non ha tanto a vedere con il fatto che quando la famiglia di Barbacci arrivò nel 1957 in questa zona erano tutti italiani quanto con la topografia che allora aveva questo piccolo quartiere. Attorno a William F. Moore Park si snodavano vie e viuzze creando angoli nascosti, vicoli e incroci che ai nuovi venuti ricordavano molto i luoghi d’origine e, guardando la mappa, «sembrava un roto­29

lo di spaghetti» assicura Barbacci. Di quella topografia non è rimasto nulla, le vecchie case in legno sono state sostituite da condomini, i vicoli hanno lasciato il posto a larghe strade con i marciapiedi e anche la maggioranza degli italiani è andata via, spostandosi in quartieri migliori a Long Island o Staten Island. Ma il nome «Spaghetti Park» è rimasto, come anche la bottega The Lemon Ice King of Corona è ancora aperta, identica a quella creata dal fondatore, che si chiamava Benfaremo, ed ereditata dai Barbacci, originari di Godrano, in provincia di Palermo. Il momento in cui la piazza del parco torna a parlare italiano è il Columbus Day, che cade a inizio ottobre, perché le famiglie vengono anche da altre zone per ritrovarsi, giocare a bocce e fare il barbecue assieme. «Ma con la maggioranza della popolazione oramai ispanica abbiamo dovuto cambiare i sapori che offriamo – spiega Barbacci – e così se prima vendevamo soprattutto pistacchio, arancio, limone e mandorle adesso li abbiamo sostituiti con mango, piña colada, cocco e frutti tropicali, perché è questo che piace ai sudamericani». Il ghiaccio che vende lo chiama ice-water, è un mucchietto di ghiaccio colorato con il sapore favorito che si succhia. Usare il cucchiaino è «una cosa antica, per amatori, come facevano i miei genitori». Sul lato opposto della piazza l’altro locale italiano residuo è il ristorante Parkside di Anthony Federici, con alle pareti molteplici foto di Luciano Pavarotti che, tovagliolo al collo, mangia spaghetti al sugo. Fortunato Bros a Greenpoint Greenpoint a Williamsburg è una delle zone di New York dove fino a un secolo fa le gang etniche lottavano per il controllo di ogni metro di strada. Oggi è terra di delicata convivenza fra italiani e ispanici, dove i primi sono in gran parte immigrati dalla Campania a cui si sommano nuclei di pugliesi. Questa piccola Napoli a ridosso del fiume East River vive attorno a una pasticceria: quella dei Fortunato Bros (Brothers, fratelli) al 289 di Manhattan Avenue. Bancone lungo ­30

con ogni sorta di paste partenopee in bella mostra, tavolini al coperto con vista sulla strada e una crema chantilly della quale era goloso Frank Sinatra, fanno di Fortunato Bros una tappa obbligata per chiunque venga a Brooklyn proponendosi di incontrare gli italoamericani. Qui è venuta, a più riprese, la banda della Polizia di Stato prima di suonare alla sfilata del Columbus Day e qui vennero a prendere il loro ultimo caffè i cinque italiani che morirono nell’agosto del 2009 nello schianto del loro elicottero contro un piper sui cieli dell’Hudson. La pasticceria è opera di tre fratelli tanto legati quanto diversi fra loro, per carattere e mansioni: Michele fa la crema prelibata, Mario nasce nel settore delle costruzioni e Salvatore è un sarto professionista. Vengono da Saviano, nei pressi di Napoli, e arrivano a New York nel 1970, aprendo i battenti sei anni dopo. Da quel momento è stato un continuo di cannoli, sfogliatelle, crema chantilly, babà e «tifo napoletano doc» come è scritto sul muro a caratteri cubitali. Qui vengono a sostare, mangiare e anche cantare personaggi come Gianni Morandi, Renzo Arbore, Nino Benvenuti, Nino D’Angelo, Gigi D’Alessio e Giorgio Panariello. Matilda Cuomo, quando il marito Mario era governatore, venne da queste parti e si appassionò talmente ai dolci dei Fortunato da mandare spesso l’autista a prenderli, cedendo alla nostalgia per i sapori della Campania da dove arrivarono i suoi suoceri. Ma nel 1994 il sogno dei fratelli partenopei di Greenpoint si inceppa: nel giorno di San Giuseppe Mario è in uno dei club italiani del quartiere e mentre gioca a carte si trova davanti due killer che ammazzano un suo compagno di poker, a bruciapelo, sotto i suoi occhi. La polizia sospetta una sua complicità e quando, nel 2002, l’Fbi trova un pentito che accusa Fortunato di «complicità con il clan dei Genovese» tutto cambia. Mario diventa un reietto, di lui si parla come di un killer e andare a mangiare i cannoli diventa una scelta di campo per molti residenti di Greenpoint. Per otto anni Mario è emarginato dal business di famiglia e resta nella cella di un carcere che descrive «come un autentico ­31

inferno, dove il 97% dei detenuti sono neri o sudamericani». Ma tutto finisce nel 2010 quando il tribunale federale che lo voleva condannare come complice di un delitto fa marcia indietro, assolvendolo con formula piena, fino al punto da considerare possibili risarcimenti. Per Michele, il pasticcere, è una vittoria di famiglia che corona «lunghi anni nei quali portavamo decine di paste e cannoli alle guardie carcerarie per cercare di migliorare da fuori le condizioni di detenzione di Mario». Al ritorno a Manhattan Avenue, l’ex detenuto ha festeggiato riprendendo il proprio posto nel mosaico di un quartiere. Impegnandosi da quel momento a festeggiare Thanksgiving Day, il giorno del Ringraziamento che ricorda l’arrivo dei primi coloni, per rendere omaggio a una nazione «dove tutto è possibile, anche essere scagionati con formula piena dopo otto anni di carcere duro». E a chi, come il blogger e scrittore Jerry Capeci, continua ad accusarlo di essere un «mafioso mascherato» incastonato nel mosaico di «Gangland» Mario Fortunato risponde prendendo spunto dal film Gomorra, tratto dal romanzo di Roberto Saviano: «Su molte cose ha sbagliato di grosso ma quando descrive una mafia sconfitta in America ma che sopravvive in Italia ha ragione da vendere». Sunset Park, la guerra della pizza Sulla 5th Avenue di Sunset Park, a Brooklyn, si combatte una spietata guerra della pizza. Il campo di battaglia è il marciapiede compreso fra la 58a e la 59a Strada, che è una sorta di culla del quartiere per via del fatto che a pochi metri di distanza sorge Our Lady of Perpetual Help, ovvero la più grande chiesa cattolica di Brooklyn. Al numero civico 5806 c’è l’entrata di Johnny’s Pizza, fondata nel 1968 da John Miniaci e da allora orgogliosa delle pietanze che può servire grazie al proprio forno a legna, mentre al 5804 ha aperto dalla fine del 2007 Papa John’s Pizza che è gestito da un indiano e serve fast food. Da Miniaci gli avventori sono in gran parte ­32

italoamericani discendenti da quelli che si insediarono sul waterfront di Brooklyn alla metà del XIX secolo, contribuendo a trasformarlo nel porto commerciale incentrato attorno all’Army Terminal da cui, durante la Seconda guerra mondiale, passarono almeno 63 milioni di tonnellate di rifornimenti e l’80% delle truppe, e nel quale oggi sorge un moderno centro commerciale. Ma quella Brooklyn oramai volge al tramonto perché al posto di italiani, polacchi, olandesi, finlandesi e norvegesi oggi vi risiedono in maggioranza ispanici e asiatici, che iniziarono a insediarvisi a partire dagli anni Ottanta. Sono questi ultimi i clienti di Papa John’s Pizza perché la pizza che cercano e di cui si cibano è niente altro che una delle variazioni del fast food che hanno imparato ad acquistare assimilandosi ai costumi americani. Le due pizzerie rispondono così alle esigenze di opposti tipi di clientela: quella nostalgica dei sapori italiani e l’altra che invece in mente ha soprattutto la necessità di mangiare in fretta e a prezzi bassi. Inevitabile lo scontro, culturale prima che culinario. Il duello si rinnova così ogni singolo giorno su due binari paralleli. Su quello dei conti economici Papa John’s Pizza è molto più aggressivo: trattandosi del franchising di una catena di pizzerie con il quartier generale in Kentucky, può offrire pizze a prezzi stracciati, recapita il cibo a domicilio in tutto il quartiere, può contare su un efficiente numero verde nazionale e moltiplica i guadagni badando più al numero dei clienti che all’originalità del prodotto, vendendo cibi che di italiano hanno quasi solo il nome. La risposta di Johnny’s Pizza è invece sulla qualità del cibo. Rocco Coluccio, che vi lavora da quando aveva sedici anni e dopo un lungo corteggiamento ha sposato la figlia del proprietario, si vanta di controllare di persona, assieme ai cognati John e Louie Miniaci, tutte le pizze che escono dal forno, di garantirne la qualità e dunque anche l’origine dei singoli ingredienti usati – dai pomodori all’aglio – ai clienti che chiedono delucidazioni. Coluccio imputa a «quelli del Kentucky» il progetto di «sbarcare nel nostro mercato cittadino con prodotti a prezzi stracciati all’unico fine di eliminar­33

ci» e su questa linea di attacco ha dalla sua la mobilitazione delle altre pizzerie a gestione famigliare di Sunset Park: nel giro di tre isolati ve ne sono quattro e si sentono anch’esse minacciate dal fast food gestito dagli immigrati indiani. Gino Campese, proprietario di Scotti’s Pizza spiega così la dinamica di quanto sta avvenendo lungo il marciapiede: «Se a Johnny’s Pizza manca un po’ di pomodoro o mozzarella noi li aiutiamo e glieli diamo come abbiamo sempre fatto in passato e loro fanno lo stesso, anche i prezzi li abbiamo sempre alzati e abbassati assieme a loro perché a Sunset Park c’è posto per tutti». Tranne che per Papa John’s Pizza, dietro il quale si cela la minaccia dello sbarco della grande distribuzione che potrebbe uccidere quanto resta dell’economia creata dal nulla dagli emigranti nella ristorazione di New York. Sandeep Sing, il ventenne (o poco più) indiano che ha rischiato i propri risparmi nel franchising di Papa John’s Pizza obietta però di «non vedere il problema» e tantomeno la «guerra della pizza» visto che «i miei piatti sono diversi e destinati a un pubblico differente rispetto ai ristoranti tradizionali». Come dire: non c’è alcuna ragione di litigare a Sunset Park. Ma a pensarla diversamente è Chuck Schumer, il senatore democratico dello Stato di New York, preoccupato da quanto sta avvenendo lungo la 5th Avenue al punto da prendere carta e penna per rendere omaggio a «Mom and Pop Miniaci» ricordando come «quando ero piccolo chiamavamo a Brooklyn posti come questa pizzeria dei great joint» per sottolineare il piacere con cui ci si ritrovava tutti assieme. Schumer a Brooklyn è un nome autorevole ma i Miniaci e Coluccio sanno bene che per riuscire nella gara con il molto competitivo fast food bisogna giocare ben altre carte: da qui la decisione di piantare proprio davanti a Johnny’s Pizza una bandiera a stelle e strisce che ha una storia patriottica perché è stata issata al Point Scorpion, in Iraq, dal sergente dell’Us Army Abel Torres in un giorno particolare: l’11 settembre 2007, sei anni dopo gli attacchi alle Torri Gemelle.

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Toyland a Dyker Heights Un mese prima di Natale Dyker Heights si trasforma e diventa la città dei balocchi. Si tratta di un reticolo di strade fra la 84a e la 86a all’incrocio con la 11a e la 12a Avenue, che si distinguono dal resto dell’area di Bay Ridge per la presenza di numerose ville che ostentano opulenza. A risiedervi sono tutte famiglie di italoamericani, arrivate attorno agli anni Cinquanta e che hanno scelto di trasformare quest’angolo di Brooklyn nel loro villaggio, resistendo alla scelta fatta da amici, parenti e soci di trasferirsi sempre più a sud, a Staten Island o in New Jersey alla ricerca di zone ancora più belle, ricche e isolate. Per attestare il possesso del territorio, questa comunità, che condivide l’origine meridionale e redditi alti, ogni anno sfrutta l’arrivo delle feste per arredare ville, giardini, patii e fontane con addobbi natalizi capaci di rivaleggiare con i set di Hollywood. Basta passarvi davanti per accorgersene. Ogni villa ha decorazioni diverse, sgargianti e in costante competizione con i vicini. La famiglia Spata, sulla 84a Strada, da quattro decadi popola il giardino di soldati di plastica, angeli, pupazzi di neve giganti, Babbo Natale e una miriade di personaggi di Walt Disney. I Rizzuto, sempre sulla 84a Strada, li superano con un’animazione di pupazzi giganti che ripete il Christmas Carol di Charles Dickens in una sorta di villa-castello ornata da bandiere tricolori con sopra stampata l’effige di Babbo Natale. I Lombrone, sulla 12a Avenue, puntano invece su un manto di luci multicolori ma è poco distante, all’1145 della 84a Strada, che sorge Toyland (Città dei giocattoli) ovvero la villa coloniale dove ha vissuto fino alla morte Alfred Polizzotto, uno dei più rispettati businessman italiani di Bay Ridge. Dalla sua scomparsa, la moglie Florence ha non solo confermato il parco-giochi di Toyland, con immagini giganti di cavalli, soldati, maghi, Babbi Natale e giostre ruotanti su ogni balcone, ma anche aggiunto come colonna sonora la voce del marito, che chiede ai passanti di fermarsi, gioire dello spettacolo di Toyland e quindi «donare ­35

a chi ha bisogno». «In effetti molti di questi proprietari – spiega Tommy Hahan, che lavora per un’azienda locale che vende alberi di Natale – spendono cifre da capogiro ma poi raccolgono fondi per orfani, poveri e bisognosi». Per avere un’idea del valore di Toyland basti pensare che il costo medio di alcuni giocattoli giganti si aggira sui 25-30 mila dollari. Ma qui non ruba nessuno, la criminalità è inesistente, l’orgoglio italoamericano tracima da finestre, auto e negozi e l’unico rammarico che trapela dagli anziani avventori del Caffè Italia sulla 18a Avenue – meglio conosciuta come Cristoforo Colombo Boulevard – è che «negli ultimi tempi il numero dei cinesi e coreani si sta moltiplicando», rubando terreni, negozi e scuole agli italiani. Ma per i bambini delle scolaresche che sotto Natale arrivano fin qui da Manhattan, Connecticut o New Jersey per contemplare statue e fontane di Toyland le guerre fra immigrati sono una reliquia del passato. Ciò che conta è solo che, anno dopo anno, i giocattoli giganti restino sempre dove sono. Little Italy assediata dall’assimilazione Fra Mulberry Street e Grand Street c’è l’angolo di Little Italy dove fino al 1932 sorgeva la Banca Stabile, creata nel 1882 per assicurare alle masse di immigrati in arrivo i servizi bancari basilari, l’elargizione di piccoli prestiti, l’accesso a traduzioni e assicurazioni, l’acquisto di biglietti di viaggio per l’Europa e, cosa più importante, la possibilità di trasferire danaro ai parenti in Italia o insediatisi in altri angoli degli Stati Uniti. Il fondatore Francesco Stabile contribuì in questa maniera a dar sicurezza agli abitanti di Little Italy ma la tempesta della Grande Depressione non lo risparmiò, obbligandolo a fondersi con la Banca Commerciale Italiana Trust Company. In quello stesso edificio c’è ancora la cassaforte originale degli Stabile, che è oggi una delle testimonianze conservate nell’Italian American Museum che l’accademico Joseph Scelsa ha creato per tutelare la memoria di un’identità etnica in via ­36

di estinzione. «Gli italiani di New York sono oramai tanti e diversi al pari degli altri americani – dice, accompagnando i gesti delle mani a un inglese senza accento – e dunque non esistono più come un gruppo differenziato, isolato, con caratteristiche uniche». I risultati dell’integrazione, o dell’assimilazione, sono presenti ovunque: vi sono stati italoamericani divenuti sindaci, governatori, presidenti del New York Stock Exchange e di giganti di Wall Street. «Gli italoamericani di oggi sono i nipoti di quelli che arrivarono fra il 1880 e il 1920, hanno colto successi importanti e, come fanno tutti gli americani, ne perseguono ancora di maggiori, vogliono emergere. Tutto è iniziato quando i Giuseppe Verdi arrivavano a Ellis Island scegliendo di diventare Joseph Green, con una scelta importante perché assimilarsi anche nel nome è servito soprattutto sul posto di lavoro, in quanto in America ciò che conta è il business». L’odierna integrazione viene però «vissuta in maniera diversa dalle differenti generazioni di immigrati» spiega Scelsa, perché «coloro che arrivarono prima della Seconda guerra mondiale oramai sono cosmopoliti come tutti i newyorkesi e dunque non ci fanno caso mentre quelli che giunsero dopo sono stati travolti da questo fenomeno e temono adesso di perdere ciò che resta della loro italianità». E i giovani? «Forse la prossima generazione riscoprirà le origini italiane, per reazione al fatto di averle perdute». È la parabola stessa degli Scelsa a descrivere il fenomeno in atto. Il padre del fondatore del museo di Little Italy era siciliano di Caccamo, in provincia di Palermo, e la madre americana con genitori campani e calabresi, lui parla un inglese accademico, è stato docente alla City University di New York e protagonista delle battaglie per i diritti degli italoamericani ma il figlio oramai è immerso nella cultura yankee «anche se sono fortunato per il fatto che tiene molto alle sue origini». «L’italianità per gli immigrati è nella casa, nella conservazione della lingua, nei costumi famigliari e nel cibo a cui si è più attaccati, a cominciare dalla pasta, ma oggi a New York si mangia un buon piatto di pasta anche al ristorante e ­37

per appena 10 dollari». Come dire, la metropoli è diventata italiana al punto da far diventare secondario il legame etnicofamigliare che dominava fra le pareti domestiche. Ma non è tutto. «L’assimilazione si vede anche dall’approccio alle feste, oramai sono tantissimi a festeggiare San Giuseppe assieme al Father’s Day, come ad esempio avviene a Howard Beach», nel Queens. La fede d’altra parte unisce sempre meno. Se per gli immigrati delle origini l’essere cattolici era un elemento di differenziazione dai protestanti ora la situazione è assai diversa perché «benché siano tutti cattolici in grande maggioranza non praticano, in chiesa la domenica ci vanno più donne che uomini e c’è chi fa matrimoni misti con altre fedi e razze, anche se le conversioni sono molto rare». Ciò che invece è emerso è «il fare gruppo» negli ambienti di lavoro, professionali o commerciali, nella consapevolezza che «bisogna unirsi per contare» perché «anche se questa è una nazione di individualisti per avere successo bisogna appartenere a una tribù». Se dunque «nelle generazioni degli inizi prevalevano le divisioni sulla base dell’origine regionale, provinciale o del singolo paesino gli italoamericani tendono oggi a unirsi per affermarsi meglio, da un punto di vista lavorativo». E nel fare questo si fanno portatori dei valori a cui tengono di più – come la famiglia e il popolo – anche se la ricerca del lavoro li porta a spostarsi di città in città «proprio come fanno tutti gli altri americani». Scelsa parla immerso in una realtà che è la testimonianza della fuga degli italoamericani dalle proprie radici. Little Italy fino al termine della Seconda guerra mondiale era un pullulare di migliaia di famiglie italiane rigorosamente divise per strade che ripetevano le regioni per costumi, odori e dialetti: i siciliani a Elizabeth Street, i campani a Mulberry Street e Mott Street con pugliesi e calabresi. Oggi restano solo i ristoranti napoletani negli ultimi isolati di Mulberry Street verso Canal Street mentre Mott Street ed Elizabeth Street ospitano boutique, negozi di specialità alimentari, pub e gallerie d’arte che fanno di Nolita (North of Little Italy) uno ­38

dei quartieri più trendy attorno a Soho. L’immagine della trasformazione avvenuta è il civico 247 di Mulberry Street: qui fino agli anni Ottanta aveva sede il Ravenite Social Club dove John Gotti, boss dei Gambino, aveva il proprio quartier generale, mentre oggi il palazzo in mattoni rossi è fatto di appartamenti in affitto per i giovani manager che vanno a lavorare nel Distretto finanziario mentre al livello della strada sul marciapiede ex roccaforte del «Don» – dove l’Fbi mise le cimici che lo incastrarono – c’è un negozio di scarpe per donna, tacchi a spillo, colori sgargianti e prezzi alti. Fra i pochi testimoni rimasti della Little Italy del passato c’è Moe Albanese, ottantasette anni, l’ultimo macellaio di Elizabeth Street. Il padre Vincenzo arrivò da Polizzi Generosa nel 1923, si sposò con Mary e assieme aprirono nella strada dei siciliani una delle sei macellerie che fornivano carne all’intero quartiere. Ora è rimasto solo Albanese Meats & Poultry, al numero 238, e Moe si vanta di «servire la carne sempre alla stessa maniera» ovvero «tagliandola davanti ai clienti dal pezzo originale, perché altrimenti potrebbero pensare che si tratta di avanzi». Ma dei clienti di una volta non è rimasto nessuno proprio a seguito della trasformazione di Little Italy che Moe Albanese, seduto su una sedia davanti all’ingresso della macelleria, racconta così: «Una volta qui erano tutti italiani, questa strada era piena di carretti e le case in affitto costavano 55 dollari al mese, poi dopo la Seconda guerra mondiale la situazione migliorò poco a poco, la gente iniziò a far soldi e acquistarono case a Brooklyn, sulla 18a Avenue, si spostavano a gruppi seguendo ognuno il rispettivo club del paese d’origine, e poi da Brooklyn si sono spostati ancora, andando in case più belle a Staten Island e poi in New Jersey». Elizabeth Street, Mott Street e Mulberry Street di conseguenza si sono svuotate, gli edifici vecchi sono stati acquistati e ristrutturati e il risultato è «che li affittano a giovani manager pronti a pagare 2500 dollari al mese, a famiglie di cinesi che hanno molti liquidi oppure a negozi di moda, vestiti e scarpe» proprio come quello che occupa ­39

i locali dell’ex quartier generale di Gotti. «Per quanto mi riguarda – commenta Albanese, la cui macelleria è un locale spoglio, con qualche foto di santi, delle affettatrici e i ricordi di famiglia – questo ha fatto sparire gli italiani che mangiavano la mia carne e ora se riesco ad andare avanti è solo grazie ai ristoranti alla moda, vengono al mattino, chiedono carne di qualità e poi la servono ai tavoli facendola pagare il triplo». Gli affari non vanno male ma resta la nostalgia di Moe, occhi celesti e carnagione chiara, «per gli anni in cui sono cresciuto assieme a Charlie Scorsese, padre di Martin, che assieme a padre, madre, quattro fratelli e due sorelle abitava proprio qui davanti». Charlie e Moe erano amici e quando il primo ebbe dei «problemi» con Martin corse a raccontarglielo. «Charlie lavorava nel distretto del tessile, gestiva una pressa a vapore, e non avevano tanti soldi – ricorda Albanese – così un giorno venne da me e si lamentò del figlio che ‘perdeva tempo sognando di fare il regista’ senza pensare mai a lavorare, ma io gli dissi di aspettare e avere fiducia in lui…». L’ultimo macellaio di Little Italy parla del passato come se fosse immanente e per Scelsa si incarna un’«eredità di tutti» ma la realtà oramai è tutt’altra. Con le nuove generazioni, di casa a Long Island come a Staten Island, impegnate a convivere e contrastare i pregiudizi che ostacolano la corsa verso l’assimilazione. Se il serial tv dei Sopranos sul canale Hbo aveva infatti divulgato dal piccolo schermo la convinzione che ogni italoamericano fosse un mafioso o un boss, il reality Jersey Shores su Mtv apre un nuovo fronte, raffigurando una dozzina di ragazzi e ragazze «cafoni» al punto da essere chiamati con i dispregiativi «Guidos» e «Guidettes», per sottolineare il fatto che si tratta di gente maleducata, ignorante, che vive in maniera ambigua ai margini della città. «Se prima tutti gli italoamericani erano mafiosi, ora tutte le italoamericane sono delle bambole con seni grossi e linguaggio sguaiato, con la conseguenza di obbligare i nostri giovani a battersi contro tali pregiudizi tanto a scuola come nelle università». Di fronte ­40

a simili fenomeni Scelsa ha pochi dubbi su cosa fare: «Bisogna battersi nei tribunali federali, la legge sta dalla nostra parte ma bisogna adoperarla». E ammette che «ci servirebbe qualcosa come la Anti-Defamation League di Abraham Foxman» per consentire di spiegare nelle scuole come in tv «i problemi da cui questi pregiudizi si originano», come il fatto che «all’inizio del Novecento la mafia aveva il controllo assoluto sui quartieri di immigrati e la criminalità imperversava con i delitti della Mano Nera ma la svolta arrivò quando con Joe Petrosino la polizia iniziò ad arruolare italiani, trovando dall’interno la risposta a Cosa Nostra». Ma se questa è la cornice di un’integrazione venata dai pregiudizi, potrà mai un italoamericano diventare presidente degli Stati Uniti? «Certo, potrebbe essere uno come Andrew Cuomo – è la risposta – perché è sposato e divorziato da una Kennedy ma soprattutto è un italoamericano che ha scelto di non definirsi sulla base dalla propria etnicità, proprio come ha fatto Barack Obama», accusato per questo da molti afroamericani di non essere «abbastanza nero». Ironia della sorte però vuole che Andrew Cuomo sia in campo con i democratici mentre Scelsa ritiene che «il tempo delle convergenze con i liberal è finito» perché «i repubblicani hanno i nostri stessi valori su famiglia, patria e business» anche se spesso «gli italoamericani questa verità se la tengono per loro in quanto a New York si fa strada solo nelle file del Partito democratico». Parlare di «assimilazione all’America» significa anche sviscerare il dibattito sul cibo e qui Scelsa è netto nell’affermare che «i locali americani sono una cosa e quelli italiani un’altra». Per il semplice fatto che «il cibo italoamericano è una tradizione culturale dovuta all’impatto del posto». Ad esempio, per «fare il pesto non avevano il basilico e hanno usato gli spinaci» e non «avendo i pinoli hanno usato le noci» dando vita a piatti diversi da quelli della madrepatria ma che continuano a essere molto gettonati come «la vitella alla parmigiana» e gli «spaghetti con le meatballs» (polpette di carne), pietanze nate dal fatto che gli piaceva assaggiare as­41

sieme gli ingredienti di «piatti separati», creando scompiglio nelle cucine. West Village, tiro a segno su Bin Laden Pat e Steve sono due corpulenti ex agenti di sicurezza e passano le giornate ad aiutare gli ospiti a sparare con carabine calibro 22 nel poligono a tre corsie che si trova nel seminterrato di MacDougal Street 77, fra Bleecker Street e West Houston Street. Si tratta di fucili con caricatori da cinque colpi l’uno e un mirino capace di far centrare il bersaglio a qualsivoglia membro del club che, fra una portata e l’altra della cena, vuole divertirsi con i bersagli che hanno stampata sopra l’immagine di Osama bin Laden e la scritta «Osama Been Leaded» (Osama riempito di piombo). Siamo nel Club del Tiro a Segno di New York, meglio noto come Rifle Club, una roccaforte dei portatori d’armi da fuoco che venne fondata il 14 agosto del 1888 da un gruppo di immigrati italiani appassionati di caccia a cui Giuseppe Garibaldi aveva scritto di proprio pugno una lettera di chiara sollecitazione, facendogli capire che essere abili nell’uso delle armi da fuoco avrebbe potuto risultare sempre utile. L’appello fu raccolto e Garibaldi donò in segno di amicizia un suo piccolo revolver che oggi è in bella vista al terzo piano del club, dove c’è la sala privata dei soci, sotto la teca che contiene anche la foto dell’equipaggio Alpha di un elicottero dell’Us Army che nel 2005 sorvolò i cieli del Triangolo Sunnita, caposaldo della guerriglia islamica, portando con sé un drappo a stelle e strisce donato proprio dai 330 soci del Tiro a Segno in segno di solidarietà con le truppe impegnate a combattere i nemici della nazione. Eredità italiana e patriottismo americano si fondono nelle sale dove il busto di Leonardo da Vinci, le immagini dei marines, i fucili alle pareti, i quadri d’autore con le vedute del Bel Paese e i trofei di tiro accolgono soci e ospiti negli stessi spazi dove ha cantato il tenore Enrico Caruso, mangiavano il sindaco Fiorello LaGuardia e il Ceo Lee Iacocca, e vengono ­42

spesso personaggi come Anthony Fauci, l’immunologo protagonista della lotta all’Aids che guida l’Istituto nazionale per la lotta alle allergie ed alle malattie infettive. La prima sede del Tiro a Segno Nazionale di New York si trovava al 407 di Canal Street in quella che i fondatori chiamarono Mazzini Hall, ma la costruzione dell’Holland Tunnel obbligò a un trasferimento e nel 1919 si arrivò a MacDougal Street. Questo è un luogo dove si vive di tradizioni. Il venerdì sera è considerato un «buon intermezzo» durante la cena scendere e sparare al poligono assieme a Pat e Steve, durante il Giorno del Ringraziamento le famiglie portano a tirare nella Shooting Gallery i bambini e chi fa centro vince un tacchino congelato. Portare ospiti esterni è consentito ma non troppo gradito e la nostalgia maggiormente sentita è per la tenuta di caccia che una volta si possedeva a Staten Island – l’isola che diede ospitalità a Garibaldi – con i suoi tanti fagiani da cacciare a piacimento. Ma quei tempi sono finiti, la tenuta è stata venduta, la squadra dei «Fusiliers» più che a tiro oramai preferisce giocare a golf, la scrivania di LaGuardia è sotto un telone al secondo piano e del ritratto di Mussolini non c’è più alcuna traccia. È impossibile sapere anche a quale parete fosse appeso fino all’entrata in guerra dell’Italia fascista contro l’America di Franklin Delano Roosevelt. D’altra parte si trattò di un periodo difficile: gli italiani venivano sospettati di intesa con il nemico, il Tiro a Segno tolse dal nome l’aggettivo «Nazionale» e alcuni suoi membri, come Alfred e Charles Rossotti, furono obbligati a presentare documenti che attestassero la fedeltà agli Stati Uniti. Ma poi durante la guerra furono in molti i members a indossare la divisa, partecipando anche alla liberazione dell’Italia, come nel caso del maggiore che di cognome faceva Toscani, a cui l’esercito affidò il governo temporaneo della cittadina siciliana di Licata, dove si trovò ad affrontare un problema insolito: la chiesa era rimasta senza campana – fusa dai fascisti per lo sforzo bellico – e i cittadini si sentivano sbandati. L’idea che ebbe fu di montare sul campanile una campana nuova, presa ­43

da un’unità dell’Us Navy e quell’intuizione ebbe un successo ancora ricordato a testimonianza del contributo che le radici italiane possono dare all’America. Ma oggi ciò che domina è la filantropia: i soci versano cifre elevate ogni anno e ciò significa che il club può fare opere di beneficenza per circa mezzo milione di dollari. «Un anno li abbiamo dati alla Casa Italiana della New York University – racconta Angelo Bongiovanni, general manager che preferisce parlare inglese – ma la destinazione più comune è pagare le rette di alunni che non possono permettersi il costo delle scuole private cattoliche, investendo nell’educazione delle nuove generazioni». Durante l’estate e i periodi di vacanza i members del club, la cui sede è il risultato della somma di tre palazzine pre-war in mattoni rossi, si scambiano il libero accesso con i colleghi del Columbus Club sulla 69a Strada, a pochi metri da Central Park, perché fra i due gruppi c’è un’antica consuetudine di attività in comune per valorizzare l’eredità italiana a New York. A preparare da mangiare per tutti nelle cucine di MacDougal Street è Giovanni Lanzarotti, chef di Parma, che lavora qui da diciotto anni e ogni sera, dopo aver terminato di confezionare qualsiasi cosa gli venga in mente, sale al secondo piano per portare le pietanze riuscite meglio ad almeno un paio di agenti del Dipartimento di polizia che, in divisa blu-celeste e pistola nella fondina, confessano di ritenere i suoi piatti «i migliori del West Village». John’s, l’East Village di Lucky Luciano Peperoni arrosto con le acciughe, pasta con meatballs e pollo alla parmigiana con spaghetti: per poco meno di 50 dollari, birra inclusa, da John’s si può fare un’immersione nella cucina italoamericana, frutto dell’incrocio fra i piatti originali che gli immigrati ricordavano e i condizionamenti della nuova patria, tanto riguardo agli ingredienti che ai modi di mangiare. Al 302 East della 12a Strada, nell’East Village, John’s accoglie gli avventori con le stesse pietanze da oltre cento anni. Aprì i bat­44

tenti nel 1908 ed è rimasto come era all’epoca: tavoli di legno, appendiabiti a muro, bar con banco circolare. L’unica vera innovazione è la vistosa insegna luminosa, attorno alla quale il Lower East Side si è trasformato, con l’arrivo in massa degli asiatici al posto di italiani ed ebrei, ma l’arredamento interno ripropone fedelmente quello dei ristoranti che all’inizio del Novecento erano frequentati da personaggi come Joe Masseria e Lucky Luciano che hanno fatto la storia della mafia newyorkese. L’11 agosto del 1922, Masseria, che era «Joe il Boss» del clan dei Genovese, scelse proprio i tavoli di John’s per vendicarsi con il gangster Umberto Valenti che solo 72 ore prima aveva tentato di assassinarlo per potersi garantire il controllo di Little Italy. Masseria sapeva che Valenti amava le meatballs di John’s e si fece trovare casualmente al ristorante. Fra i due vi fu solo una fugace stretta di mano ma tanto bastò a «Joe il Boss» per indicarlo a una dozzina di sicari che, mentre lui si faceva rapidamente da parte, crivellarono di colpi Valenti. Il diluvio di proiettili investì clienti e passanti, causando diversi feriti, e nella confusione generale fu Lucky Luciano ad avvicinarsi per esplodere il colpo di grazia, consentendo a Masseria di avere la vendetta che cercava. L’episodio che lega due dei boss mafiosi più spietati e potenti a John’s è un momento spartiacque perché segna lo schieramento di Lucky Luciano con Masseria nella guerra clandestina che lo opponeva al rivale Salvatore Maranzano, altrettanto spietato. Nel 1931 Maranzano venne ucciso nel suo ufficio di Park Avenue e furono in molti ad attribuire l’omicidio a Luciano, che da quel momento diede inizio alla «americanizzazione della mafia», ovvero l’eliminazione dei vecchi capi immigrati dalla Sicilia per sostituirli con nuove leve cresciute, o addirittura nate, in America. È questa cornice a spiegare perché i produttori del popolare serial tv The Sopranos abbiano scelto John’s per ambientarvi alcune riprese sulle alterne vicende della famiglia Gandolfini. D’altra parte è questa la zona di Manhattan dove quasi ogni angolo ricorda Cosa Nostra. All’11 East della 11a Strada venne trovato dentro un bidone della spazzatura il corpo torturato e mutilato – era il ­45

13 aprile 1903 – di Benedetto Madonia, coinvolto all’epoca in traffici di merci contraffatte assieme ai boss Giuseppe Morello e Ignazio Lupo. E al 332 East, a inizio gennaio 1908, i sicari della Mano Nera demolirono i primi due piani di un edificio al fine di terrorizzare gli abitanti delle altre case per poterli ricattare negli anni a venire. All’angolo fra la 11a Strada e la Seconda Avenue il 31 settembre 1922 venne invece freddato il trafficante di alcolici Ignazio La Barbera. I killer lasciarono sul corpo esanime le chiavi di un magazzino poco lontano dentro il quale la polizia trovò 39 barili: in ciascuno di essi c’erano 20 litri d’alcol, oltre ad attrezzi e materiale per far funzionare a pieno regime una grande distilleria. Scendendo di un’altra strada verso sud si arriva alla 10a East, dove al civico 265 sorge l’edificio in cui il piccolo Charles «Lucky» Luciano visse con i genitori e la famiglia dal 1906, quando arrivarono dalla Sicilia, al 1926. Si tratta di un palazzo malridotto, con scale interne che i pochi lavori di ristrutturazione eseguiti non hanno reso meno maleodoranti. È qui che quello che sarebbe diventato il più influente gangster americano ebbe i primi approcci con il crimine, quando lo chiamavano ancora con il nome avuto alla nascita, nel 1897, a Lercara Friddi, Salvatore Lucania. Da bambino «Lucky» era un aggressivo borseggiatore ma il salto di qualità lo fece andando alla poco distante scuola pubblica, dove iniziò a minacciare i compagni di classe per estorcergli denaro promettendo in cambio di «proteggerli». Fra i pochi a respingere minacce e ricatti fu il coetaneo Meyer Lansky, un compagno di classe ebreo di Columbia Street, con il quale avrebbe creato un leggendario tandem criminale, incrociando rivalità e affari con gli altri ragazzi con cui fecero amicizia nelle strade di Little Italy e Chinatown come Louis Lepke, Bugsy Seigel e George Uffner. Per provare ad affacciarsi sul mondo di allora, oltre ai sapori e tavoli di John’s, ci sono, all’East Village Visitors Center, i tour Gangsters and Murderers of Lower East Side guidati da Eric Ferrara, docente al Brooklyn College e fondatore del Museum of the American Gangster all’80 di St Mark’s Place, ­46

a Noho. Oppure le sedie di metallo del barbiere Alberto Bonanno al 201 East della 16a Strada, all’angolo con la Terza Avenue. «Una volta qui entrò un brutto ceffo mandato da John Gotti e mi offrì 5000 dollari rubati chiedendomene in cambio 2500, lo mandai via a calci e non si fece vedere mai più» racconta Bonanno, che arrivò nel 1963 a diciotto anni da Cosenza e non ha mai smesso di tagliare capelli lavorando 12 ore al giorno. La bottega artigianale che possiede è oramai una rarità a Manhattan e fra i primi a scoprirlo fu David Letterman, che alla fine degli anni Novanta capitò qui per caso e decise di ambientarvi uno dei suoi show tv. Alberto Bonanno afferma con orgoglio di «non avere nulla a che fare con i mafiosi che portano il mio stesso cognome» e di conoscere gli americani «meglio di chiunque altro» per il semplice fatto che da quattro decadi continua ad «ascoltarli e parlarci» mentre gli taglia i capelli. Ecco il ritratto che ne fa: «Parlano di sport, politica e donne. Lo sport è soprattutto il baseball, sulla politica bisogna stare attenti perché si prendono troppo sul serio e se contraddetti sono capaci di arrabbiarsi molto, mentre riguardo al sesso sono le donne a comandare i giochi perché gli piace divertirsi e gli uomini cedono, facendosi togliere un sacco di soldi». Fra i clienti vi sono anche alcuni poliziotti e tempo fa uno di loro si lamentò molto per il prezzo pagato ritenendolo ingiusto «rispetto a quanto stava scritto sul muro». Incontrando Bonanno in metro, l’agente, per l’occasione vestito in borghese, gli mise le mani addosso. Ma il barbiere calabrese dal corpo esile e i capelli grigi è cintura nera di karate e l’agente ebbe rapidamente la peggio, al punto da fargli poi causa per le lesioni subite. «Mai un ko mi è costato tanto – ammette con un sorriso amaro – gli dovetti pagare 5000 dollari». 43a Strada, gli americani italiani del Calandra Institute Il busto bronzeo del senatore John Calandra, un tavolo ricoperto dalle ultime edizioni dei giornali locali in lingua italiana, una libreria con volumi sul linciaggio di New Orleans ­47

e le gesta di Joe Petrosino, una galleria di poster sull’epopea dell’immigrazione, passaporti ingialliti con lo stemma di Vittorio Emanuele II e le foto di Madonna. Siamo al 25 West della 43a Strada di Midtown, dove al diciassettesimo piano il Calandra Institute è il centro studi della City University of New York, laboratorio di un’identità italoamericana in costante trasformazione. A guidarlo è l’accademico Anthony Julian Tamburri, radici ciociaro-pugliesi – a Settefrati e a Faeto – e accento toscano, che spiega a studenti, ricercatori e curiosi come pregiudizi positivi e negativi non resistano alla prova dei fatti. «Gli americani di origine italiana che studiano nelle scuole di New York solo nel 65% dei casi si identificano come ‘italiani’ mentre nel restante 35% si limitano a definirsi ‘caucasici’», ovvero di razza bianca, come gli anglosassoni, per distinguersi da afroamericani e ispanici. Per non parlare della lingua italiana «che le giovani generazioni non conoscono» o dei costumi famigliari «che in molti dimenticano». Ma ciò non toglie che i mentors inviati dal Calandra Institute nelle scuole cittadine si trovino comunque assediati da centinaia di alunni che vogliono avere a che fare con «consiglieri di cultura italiana». «Non si tratta di una contraddizione – spiega Tamburri – ma della conferma dell’affermazione di un nuovo tipo di identità che possiamo definire come americano-italiana» nella quale ciò che prevale sono i costumi yankee anche se si mantiene il bisogno di «parlare e avere contatti» con chi è di «cultura italiana», perché ciò comporta il fatto di avere un «comune sentire» basato sulla «conoscenza di come si vive in una famiglia italiana». Il binomio «americano-italiano» che Tamburri ha in mente descrive l’individuo che è di origine italiana – ovvero la sua famiglia proviene dall’Italia – oppure è nato in Italia, e forse vi è anche cresciuto e vi si è laureato, ma che vive da un notevole numero di anni negli States. Per «numero notevole» si intende come minimo un decennio, supponendo che tale persona svolga le sue attività, professionali e non, per la maggior parte negli States, pur facendo diversi viaggi di ritorno ogni anno in Italia. «Si tratta dunque ­48

di una persona che ha messo radici in America pur rimanendo legata all’Italia» sottolinea Tamburri. È una trasformazione che appassiona chi studia e lavora al Calandra perché disegna la sfida di una nuova fase dell’integrazione in America ma, lamenta Tamburri, «in Italia in pochi si accorgono di quanto avviene dalle nostre parti». Si tratta di un’«amnesia culturale» evidenziata dal fatto che «gli scrittori italoamericani vengono raramente pubblicati in Italia», come dimostra la rarità delle traduzioni di Don DeLillo o il caso del romanziere David Baldacci, che per farsi pubblicare i primi volumi dovette optare per il nome anglosassone di David B. Ford, mentre a sedimentarsi sono i contenuti di una letteratura dagli accenti negativi come quelli adoperati da Giuseppe Prezzolini per descrivere l’emigrante italiano come «turbato di mente» nel suo I trapiantati (1963), oppure da Emilio Cecchi per soffermarsi sull’America amara nel 1939. «In Italia c’è una carenza di studi sugli italoamericani così come una mancanza di traduzioni di testi italoamericani e il risultato si vede nel fatto che si è sedimentata un’immagine negativa dell’emigrato in America risalente alla prima metà del Novecento, mentre c’è scarsa attenzione per le trasformazioni a cui gli immigrati sono andati incontro, fino al fenomeno degli americani italiani» sottolinea Tamburri, che ha scritto anche dei saggi su Madonna, così come ha scelto un approccio controcorrente anche alla polemica su Jersey Shores, il reality di Mtv che racconta la vita dei giovani italiani mettendone in luce i tanti eccessi. Se per numerose associazioni italoamericane, dalla Niaf a Sons of Italy, Jersey Shores porta sul piccolo schermo il pregiudizio sugli «italiani cafoni» riassunto dai termini «Guidos» e «Guidettes» per identificare tanto ragazzi tutti muscoli e catene d’oro che ragazze dal seno rifatto e linguaggio da caserma, Tamburri ritiene invece che una più corretta interpretazione del fenomeno dei «Guidos» venga dagli studi del sociologo Donald Tricarico della City University of New York. La tesi che Tricarico espone proprio di fronte al pubblico del Calandra Institute è che il modello culturale dei «Gui­49

dos» nasce dall’incontro fra la classe operaia italoamericana e la cultura pop portata sullo schermo da Hollywood con il film Saturday Night Fever del 1977, il cui protagonista è un Tony Manero (interpretato da John Travolta) vestito di bianco che danza senza sosta nei club di New York sullo sfondo di Bensonhurst, il quartiere di Brooklyn dove fino al 1980 vivevano almeno 100 mila italiani. «Consumare prodotti della cultura pop significa per la classe operaia entrare a far parte di un ceto più alto» osserva Tricarico, secondo il quale la molla da cui tutto si origina è il desiderio dell’immigrato italoamericano di «arrivare a essere qualcuno». Il termine «Guido» è riconducibile per Tricarico al «cugino» che andava molto di moda nella classe operaia italiana di Brooklyn negli anni Ottanta e serviva a distinguersi dal «fratello» adoperato dagli afroamericani per riconoscersi come gruppo di amici. La moda dello Studio 54 alla fine del secolo scorso, serial tv come Growing Up Gotti, il Mambo italiano trasmesso da stazioni radio come la Wktu di Brooklyn e social network come Night Social Life hanno contribuito a trasformare i «Guidos» in un fenomeno di massa che si è distribuito sulla mappa di New York seguendo i movimenti degli italoamericani: se l’origine era a Bensonhurst e nel sud di Brooklyn, si è spostato verso il New Jersey quando, fra il 1980 e il 2000, migliaia di famiglie con redditi aumentati e in fuga dalla convivenza con neri e ispanici hanno scelto di superare il ponte di Verrazzano o di stabilirsi a Staten Island, subito rinominata «Staten Italy». «I ‘Guidos’ sono così diventati un modo di essere hip hop di un particolare gruppo etnico di bianchi», aggiunge Tricarico, parlando di nouveau riches con un’identità di gruppo talmente forte da rivaleggiare con quella dei clan mafiosi. A confermare questa matrice tribale, proprio come nel caso degli hip hop afroamericani, ci sono le caratteristiche esteriori dei «Guidos» e delle «Guidettes», ovvero il fatto che «sono sempre vestiti come se dovessero andare al night club o in palestra», ascoltano in continuazione canzoni «freestyle e di club music» e hanno una particolare attenzione per l’accon­50

ciatura dei capelli: i maschi li portano corti, gelatinati e indietro alla «90 km/h» mentre le donne «lunghi e lisciati in continuazione» con ogni tipo di prodotti che portano sempre con loro, obbligandole ad andare in giro con borse molto grandi. Tamburri vede in questa descrizione di Tricarico una delle molteplici declinazioni della sovrapposizione fra italianità e cultura pop americana, perché «Guidos» e «Guidettes» portano con loro i simboli della classe operaia italoamericana – bandiere tricolori, tatuaggi con frasi in latino e grandi croci dorate al collo – integrandoli con musiche e consumismo che distinguono le tribù giovanili newyorkesi. Da qui la necessità di «comprendere davvero cosa stia avvenendo fra gli italiani d’America senza permettere ad altri, fosse anche una popolare stazione tv, di definire noi stessi». Francesca, vita da clandestini Li chiamano «Off the Boat», fuoribordo. Sono i clandestini italiani. A New York sono centinaia, forse migliaia. Sbarcano negli aeroporti John F. Kennedy e Newark con la stessa determinazione a rimanere che avevano gli immigrati che a inizio Novecento attraversavano l’Atlantico sulle navi a vapore e facevano tappa a Ellis Island. La differenza sta nel fatto che nell’America del post-11 settembre le norme anti-clandestini sono le più dure mai promulgate. E così c’è chi vive senza documenti da tre, cinque, dieci, perfino quindici anni. Senza poter tornare a casa, dovendo vivere protetto da bugie, temendo lo sguardo degli agenti, cercando in continuazione un espediente per risolvere problemi imprevisti, come una malattia improvvisa o il bisogno di guidare un’auto. Francesca è una di loro. È nata a Latina nel 1977. Dalla mamma toscana ha tratto il sarcasmo, dal papà siciliano gli occhi chiari ma l’accento è romano. Ci vediamo in una pizzeria nell’Upper East Side, il quartiere che somma la più alta percentuale di milionari del Pianeta, dove lavora sin da quando sbarca nel febbraio 2001. «A Latina avevamo una pizzeria ma gli affari ­51

andavano male, mio fratello aveva già scelto di venire a New York e decisi di seguirlo». L’arrivo è «da sogno». Fa la «busgirl», che nel gergo dei ristoranti significa fare accomodare ai tavoli i clienti prima dell’arrivo del cameriere, oppure la guardarobiera. «Ogni serata guadagnavo 100 dollari, allora c’era ancora la lira… erano quasi 200 mila lire a notte… mi sentivo ricca, quando lo dicevo ai miei coetanei non mi credevano». La felicità è tale che ai documenti non ci pensa. Passano i canonici tre mesi e neanche si accorge di essere diventata illegale. Poi arriva l’estate, con il relativo aumento del lavoro, e quindi l’11 settembre. «Quella mattina tutti venivano su da Downtown camminando a piedi, si sedevano al ristorante, mangiavano per riposarsi o distrarsi, non funzionavano né le carte di credito né i computer, piangevamo tutti, pensavamo che i morti fossero 20 mila. Ancora oggi piango se penso a quei momenti». Lo shock è tale che d’istinto decide di tornare in Italia. Stacca dal passaporto il tagliando verde oramai scaduto, va all’aeroporto Kennedy «con il fiato in gola» e quando al check-in le chiedono dove lo ha messo, fa la vaga: «Boh… lo avrò perso, e che ne so?». Le va bene, passa la dogana, torna a Latina, rifà il passaporto e torna a New York con documenti nuovi di zecca. Adesso la scelta di diventare illegale è consapevole. Quando scadono i tre mesi sa bene cosa cambia: «Niente guida di auto, niente assicurazione medica e rischio di essere deportata in pochi giorni se la polizia ti trova senza documenti». Ma la vita presto si svela meno difficile del previsto. «Sono andata all’Irs [l’ufficio delle imposte] e mi hanno dato il tax number con il quale poi ho avuto anche il conto in banca e la carta di credito». Lavora come consulente di vini, va di negozio in negozio a offrire e assaggiare prodotti diversi. La pagano bene ma sempre con l’espediente di girarle assegni di terzi. Trova casa in affitto grazie a un parente che le fa da «garante» con il proprietario e ha soldi a sufficienza per vivere a Manhattan, andando anche qualche volta sulla spiaggia a Miami. È una vita precaria ma «funziona». Sceglie comunque di tornare al ristorante, dove ­52

«essere pagati in nero è più facile perché lo stipendio non c’è e sono tutti soldi delle mance». Diventa cameriera e questo significa guadagnare di più perché le mance – ogni cliente lascia almeno il 15% del conto – consentono di mettersi in tasca anche 800-1000 dollari a settimana. L’imprevisto arriva però banalmente, sbatte un piede sotto la porta e si frattura l’alluce. Deve andare in ospedale ma non può dare il vero nome, mente e inventa le generalità «intanto al pronto soccorso sono obbligati a curarti». Passano i mesi e deve tornare altre volte in ospedale, per motivi diversi: dà ogni volta un nome nuovo e cambia pronto soccorso per evitare un corto circuito. Lo fa anche quando deve partorire la figlia avuta da un giovane copto egiziano appena sposato, un designer di negozi di profumeria con i documenti in regola. «Il matrimonio a City Hall è stato divertente, mi hanno chiesto solo il nome e se ero già sposata, niente altro». Assicura che «come me vivono in tanti», anche se «la maggioranza degli illegali sta qui da almeno dieci anni perché dopo l’11 settembre i controlli sono diventati più rigidi e sono in meno quelli che si azzardano». Fra i «tanti italiani nelle mie condizioni» c’è un giovane sardo che «vive qui da dodici anni, non ha ancora i documenti e fa venire sempre i genitori ma soffre molto a non poter tornare in Italia». E a Francesca cosa pesa di più dell’essere clandestina? «Non poter andare sulla spiaggia di Sabaudia, a Torre Paola, d’estate... vedere il mare… qui il mare non ce l’hanno, c’hanno l’oceano ma è freddo anche in agosto». La mancanza del mare «mi fa piangere come una bambina ogni weekend d’estate». Se ora vede la luce in fondo al tunnel è perché il matrimonio con un immigrato legale le schiude la porta per avere «prima o poi» i documenti in regola. «Io mi sono sposata per amore ma sono in tanti a farlo per diventare regolari in tempi stretti» assicura. Da qui il fiorire di un mercato clandestino: «Sono gli ispanici, uomini e donne, a offrirsi più spesso di sposare i clandestini, la tariffa varia da 7 mila a 10 mila dollari, metà alle nozze e metà alla consegna dei documenti che può avvenire anche tre anni dopo». La ­53

polizia però oramai conosce bene il meccanismo e «quando uno si sposa deve perfino presentare le foto dei viaggi fatti assieme, altrimenti non ti credono». La caccia ai clandestini è asfissiante. «Se ti prendono, vai in cella fino a quando non ti portano dal giudice, poi cercano il primo volo e ti deportano. Niente eccezioni, sono molto fiscali». Sono in tanti gli italiani come Francesca che temono di «essere presi» e vivono con il costante timore di «compiere l’errore fatale» ma a rassicurarli c’è il fatto che «in questa città nessuno ti giudica o ti chiede, l’unica cosa che conta è lavorare» e ciò «rende tutto più facile». L’incubo invece è il modello-Arizona, lo Stato che ha varato le leggi che consentono alla polizia di fermare chiunque per controllare la regolarità dei documenti di residenza: «È una vergogna, questa nazione è stata fatta da immigrati e non erano certo tutti regolari dal primo giorno di residenza». L’altra cosa che poco sopporta sono i pregiudizi contro gli italiani. «Qui quando ti chiamano ‘Guido’ è un’offesa seria». Poi però aggiunge: «Gli italoamericani non sono come noi, c’è stato un periodo che vivevo a Queens e abitavo in una strada dov’era pieno, vanno in giro in tuta, parlano sboccati, dicono ‘lobadroom’ anziché ‘bathroom’ per intendere bagno... sono quelli che in Italia si chiamano coatti», senza contare che «mangiano cibi tutti loro che con la nostra cucina hanno poco a che fare». Piazza Verdi, Upper West Side Cesare Casella è uno degli chef più apprezzati di Manhattan e Santino Battiata è un ex postino che vende pizza al taglio. Non potrebbero essere più differenti. Casella ha cinquant’anni, viene da Lucca, dove aveva il ristorante Il Vipore nel quale andavano Henry Kissinger e Tom Cruise, arriva a Manhattan negli anni Novanta, fa lezioni di cucina nell’apposita scuola di Macy’s – il megastore più grande del Pianeta – e si fa largo nei migliori ristoranti della città fino ad aprire nel 2009 la Salumeria Rosi, disegnata da Dante Ferretti, dove ­54

vende prosciutto di Parma, mortadella, porchetta, arista e speck rigorosamente Made in Italy. Battiata invece viene da Castellammare del Golfo, in Sicilia, arriva a New York nel 1965 quando ha quattordici anni, dopo un breve passaggio nelle scuole pubbliche di Brooklyn lavora in una manifattura di cappotti, fa il postino per United Postal Service e apre un negozio di caramelle prima di scommettere sulla pizzeria New Pizza Town, arredamento essenziale, all’angolo fra Broadway e la 78a Strada, che apre nel 1985 combattendo ogni giorno con i barboni che occupano il marciapiede davanti all’entrata. Ad accomunare i diversi percorsi dello chef toscano e del pizzettaio siciliano è il punto d’arrivo: a distanza di ventiquattro anni entrambi sbarcano a ridosso della Verdi Square, che sorge attorno al parco triangolare fra la 72a e la 73a Strada all’incrocio con Amsterdam e Broadway. Il nome è legato a Giuseppe Verdi, simbolo del Risorgimento, al quale è dedicata la statua in marmo realizzata nel 1906 dallo scultore Pasquale Civiletti, che scelse di aggiungere alla base la raffigurazione di quattro dei suoi più popolari personaggi: Falstaff, Aida, Otello e Leonora della Forza del destino. Poco lontano si trova il Dante Park, proprio davanti alla New York City Opera del Lincoln Center. Tanto per Casella che per Battiata aprire i battenti nei pressi di Verdi Square è stato un caso, ma la loro presenza contribuisce a dare un’impronta italiana a quest’angolo dell’Upper West Side, anche perché si somma ad altri punti di richiamo: la gelateria torinese Grom, all’angolo fra Broadway e la 76a Strada, il teatro Beacon, due strade più verso sud, dove vengono a suonare noti musicisti italiani – da Renzo Arbore a Paolo Conte –, il negozio di alimentari Citarella e il supermercato Fairway che offrono una aggiornata selezione di prodotti italiani. Ma Verdi Square non è un’altra Little Italy perché gli italiani che la frequentano appartengono all’ultima generazione molto distante da quella dei primi immigrati: si tratta in gran parte di professionisti, arrivati dal 1980 in poi, che vanno e vengono dall’Italia ma puntano a integrarsi nel tessuto newyorkese. Non espri­55

mono la loro identità con bandiere tricolori alle finestre e non parlano dialetti ma cercano spesso e volentieri odori e sapori di casa se confezionati con qualità. «Questa Piazza Verdi mi piace perché è come un piccolo paese – riassume Cesare Casella, che ha chiamato Nabucco la società con cui ha aperto la salumeria – nel bel mezzo della città più cosmopolita del mondo». E proprio perché si sente «sulla piazza del paese» i tavoli della Salumeria Rosi, al 283 di Amsterdam Avenue, offrono i prodotti della più tradizionale salumeria italiana. «La cucina italiana deve essere pura, piace per questo – sottolinea Casella – distinguendosi da quella italoamericana che invece è un’esperienza a parte». Ironia della sorte vuole però che «a New York oramai i migliori chef italiani non sono italiani», aggiunge con un pizzico di autocritica facendo i nomi degli americani che considera «stelle assolute»: Mark Ladner a Del Posto, Michael White a Marea, Scott Conant da Scarpetta e Paul Bartolotta emigrato a Las Vegas con il suo Bartolotta’s. Per comprendere qual è l’approccio di Casella a New York bisogna andare ad ascoltarlo durante le affollate lezioni alla scuola De Gustibus, gestita da Salvatore Rizzo all’ottavo piano di Macy’s, quando si descrive parlando dell’adolescenza «passata fra allevatori di maiali» dalla quale ha tratto l’insegnamento che «la ricetta per un buon prosciutto era e resta solo una: sale, aria e maiali felici». Santino Battiata invece confeziona ogni giorno margherite e napoletane con prodotti Made in Italy che prepara da sé: ha imparato negli anni a scegliere «la salsa giusta per la pizza», facendola da solo oppure acquistando sul mercato quelle che «più si avvicinano al sapore di casa mia in Sicilia» ovvero «alcuni sughi italiani ma anche spagnoli o israeliani». Il risultato è tale che star di Hollywood come Alec Baldwin e Whoopi Goldberg sono clienti abituali al pari degli agenti del Dipartimento di polizia. Passate davanti a New Pizza Town a qualsiasi ora del giorno e della sera e vedrete una macchina della polizia parcheggiata davanti o al lato, con gli agenti dentro a mangiare di tutto. «Sì, è vero, i poliziotti vengono ­56

qui a mangiare nelle pause fra i turni – dice, gesticolando con le mani – ma lo fanno come tanti altri americani, mangiano la pizza a pranzo perché è leggera e gli consente di fare anche la cena». Per Santino Battiata la soddisfazione è nel vedere gli agenti affollarsi davanti al bancone per acquistare calzoni e pizze con i condimenti più bizzarri perché «quando aprii qui c’era criminalità, droga, insicurezza, mi serviva un buttafuori per poter lavorare e di poliziotti ne passavano assai pochi, e non ne entrava nessuno». La svolta «arrivò quando sindaco diventò il nostro Rudy Giuliani», che con la tolleranza zero nei confronti del microcrimine ripulì la città dai violenti consentendo anche a Santino Battiata di moltiplicare incassi, profitti e investimenti. «Oggi ho sei-sette case e una villa a Pompano Beach, in Florida» afferma, con evidente orgoglio. L’altra differenza fra Casella e Battiata è nel rapporto con New York: per lo chef è tutto proiettato verso i progetti dell’imminente futuro per trasformare la Salumeria Rosi in un trampolino verso un mercato ancora più promettente mentre il pizzettaio guarda all’indietro, non pensa più tanto al cibo, e tradisce un forte timore: «Fra vent’anni di italoamericani qui non ce ne saranno più perché l’emigrazione è finita, una volta arrivavano 40 mila italiani l’anno, la maggioranza da Sicilia e Campania, ma ora le condizioni di vita in Italia sono migliorate e restano lì mentre qui da noi i giovani si assimilano, sono americani in tutto e per tutto, non parlano la nostra lingua e non vengono ai nostri eventi, come la festa di San Giuseppe a Long Island, gli italiani così diventano vecchi mentre i giovani si dileguano, la nostra identità è basata sulla lingua ma ai nostri figli non gliene frega un bel niente». East Harlem, nel mondo di Rao’s All’incrocio fra la 116a Strada e Lexington Avenue c’è The Lucky Corner, l’angolo di East Harlem che negli anni Venti il giovane deputato repubblicano Fiorello LaGuardia sceglie per fare i comizi e che poi, divenuto sindaco nel 1934, lascia ­57

in eredità al delfino Vito Marcantonio, che riunendo nello stesso luogo italiani e portoricani lo trasforma nel trampolino di lancio verso Washington, dove diventa uno dei deputati dell’American Labor Party, il più di sinistra dell’intero Congresso. E anche Edward Corsi, contemporaneo di Marcantonio ma repubblicano, deve le sue fortune al Lucky Corner. Se l’incrocio porta fortuna agli italiani che fanno politica è perché si trova nel cuore della più popolosa Little Italy di New York. Nel quadrato di strade compreso fra la 96a a sud, la 125a a nord, Lexington Avenue a ovest e l’East River a est negli anni Trenta vivono circa 89 mila immigrati italiani, che equivalgono all’81% della popolazione residente nella stessa area – nella Little Italy del Lower East Side la percentuale è dell’88 ma il numero complessivo di residenti è minore – con alcuni isolati nei quali la presenza diventa schiacciante: 672 italiani su 682, 703 italiani su 720, 914 italiani su 932. Questo massiccio insediamento, come documentato dagli studi dello storico Gerald Meyer della City University of New York, nasce dall’arrivo dei primi immigrati da Polla, in provincia di Salerno, nel 1878, che si insediano sulla 115a Strada innescando la ripetizione della suddivisione topografica per luoghi d’origine che all’inizio del XX secolo avviene nell’altra Little Italy: i baresi nella 112a, i campani di Sarno nella 107a, i calabresi nella 109a e la 100a divisa fra i siciliani, tra la Prima e la Seconda Avenue, e alcuni gruppi di settentrionali negli altri isolati. Si tratta di una massa di contadini che ha difficoltà a trovare lavoro nelle industrie e crea un’economia locale basata su piccole botteghe, panetterie, pasticcerie, negozi di frutta, pizzerie e piccoli ristoranti. A lavorare in una delle tante salumerie è Pasquale «Patsy’s» Lancieri che il 19 agosto del 1933 apre la «pizzeria ristorante» che ancora si trova sulla Prima Avenue all’angolo con la 118a Strada vantando la pizza «più leggera di New York» grazie a un forno a legna che si trova nello stesso posto dove lo volle il fondatore. Nel 1933 un’intera pizza al forno veniva venduta a 60 centesimi. Nella sala del ristorante un imponente ritratto di ­58

Frank Sinatra campeggia su una parete disseminata di foto che raccontano la Storia di East Harlem partendo proprio dal Lucky Corner di LaGuardia e Marcantonio perché ha segnato il debutto degli italoamericani nella vita politica cittadina. Senza contare i molteplici scatti con Tony Bennett, una star del locale al pari di Sinatra. Due strade più a nord la 116a Strada era il corso commerciale della Little Italy di Uptown dove si vendeva di tutto e nelle case abitavano le famiglie dei professionisti che erano riusciti ad affermarsi più in fretta: dottori, avvocati, docenti. Fra le tracce che restano vi sono i biscotti della Morrone Bakery – al 324 East – e la sede – al 227 East – dell’associazione intitolata ai due leader politici, LaGuardia e Marcantonio. Davanti a Patsy’s Pizzeria c’è Rex’s, che vende il lemon ice, e un isolato più a sud, al 2268 della Prima Avenue, la Ascione Pharmacy accoglie i clienti con la stessa scritta «Purity and Accuracy» (Purezza e Cura) delle origini. Sulla 115th Street invece, fra Pleasant Avenue e la Prima Avenue, dal 1884 sorge Our Lady of Mount Carmel, la chiesa che gli italiani si costruirono a causa dell’impossibilità di essere accolti nelle chiese cattoliche gestite dagli irlandesi. La rivalità era tale che gli immigrati italiani si mobilitarono per edificare la loro chiesa da soli: i carrettieri portarono il materiale acquistato con raccolte volontarie e i muratori la realizzarono con l’apporto di decine di artigiani del legno, del ferro e del marmo. Ciò non toglie che a lavori terminati gli italiani continuarono a pregare nel sottoscala fino al 1919, quando il primo prete italiano, Gaspare Dalia, diventa parroco. Per portare la statua della Nostra Signora del Carmelo dentro la chiesa vera e propria bisogna aspettare fino al 1923 e la dura battaglia fatta spiega la decisione del pontefice Leone XIII nel 1903 di proclamarla Basilica, come anche perché la Festa della Madonna del Monte Carmelo, che ha luogo ogni anno in luglio, continua ad attirare migliaia di fedeli da ogni angolo degli Stati Uniti. Ciò non toglie che l’esodo degli italiani da East Harlem, iniziato nel 1950 a seguito dell’ondata di microcriminalità portata dalle gang ispaniche ­59

implicate nel traffico di droga, ha ridotto la Basilica di marmo bianco a una cattedrale nel deserto nel «Barrio» dominato dai portoricani, sebbene venga adornata con premura da festoni tricolori apposti dagli studenti dell’omonima scuola. L’altro istituto scolastico della zona è stato fino al 1982 la high school intitolata a Benjamin Franklin – nei cui locali oggi si trova il Manhattan Center for Science and Mathematics –, che l’educatore Leonard Covello guidò dal 1934 al 1956, facendone una palestra di formazione per i figli degli immigrati italiani e poi trasferendo tale esperienza a vantaggio delle giovani generazioni di ispanici. Assai più frequentato, vivace e vibrante resta invece Rao’s, all’incrocio fra la 114a Strada e la Pleasant Avenue, proprio davanti al Jefferson Park. Il ristorante aperto da Charles Rao nel 1896 è gestito da Ron Straci e Frank Pellegrino, meglio noto con il soprannome di «Frankie No» per il fatto di rifiutare sempre ogni prenotazione poiché gli undici tavoli del ristorante sono tutti «assegnati sempre» a singoli avventori che ci vanno ogni sera, da soli o con ospiti. Da Rao’s si mangia la più classica delle cucine italoamericane – dalle meatballs alla steak pizzaiola con salsa arrabbiata – ancora come la confezionava «Uncle Vinnie» Rao che, fino alla scomparsa nel 1999, gestiva la cucina con in testa un cappello da cowboy. Il fatto di essere un ristorante con i «tavoli assegnati» – anche star come Madonna hanno subito il «no» di Frank Pellegrino, mentre Bill Clinton e Bill Gates vi hanno potuto mangiare solo perché invitati da altri – lo trasforma in un microcosmo di personaggi congelati nel tempo che sembrano usciti dai film di Hollywood. Come nel caso di Louis Barone – meglio noto come Louie Lump Lump – sessantasette anni, cliente da oltre quarant’anni e proveniente da una famiglia sospettata di legami con il clan dei Genovese. Tre sere prima del Natale 2004 si siede al bar, fa il suo ordine e poi fredda con un revolver calibro 38 il trentasettenne Al Circelli per gli «apprezzamenti sconvenienti» rivolti nei confronti di una cantante del locale, a lui gradita. Nel locale ­60

è il parapiglia e sul terreno si crea una pozza di sangue, con due agenti in borghese che si palesano all’istante e si affrettano a catturare il killer. Ma l’episodio non nuoce più di tanto a Rao’s, che sette giorni dopo è pieno come al solito, con la cantante di turno a intonare ’O sole mio e Frankie che risponde al telefono per ripetere l’inesorabile «Mi dispiace, non c’è posto». Cinque anni dopo Rao’s si guadagna ancora i titoli dei tabloid. Questa volta il merito è di Anthony Rabito, settantacinque anni, meglio noto come «Fat Tony» (Tony il Grasso) in ragione di una stazza stabilmente superiore ai 100 kg. A fine luglio 2009 esce dalla prigione di Loretto, in Pennsylvania, dopo aver scontato due anni di pena per estorsione, racket e gioco d’azzardo e riceve quella che per lui è la peggiore delle limitazioni. Il giudice distrettuale di Manhattan responsabile del suo dossier, al fine di tenerlo lontano dal clan mafioso dei Bonanno, decide infatti di «allontanarlo dal mondo del crimine» obbligandolo a disertare i luoghi di «tradizionale incontro» fra gangster: i ristoranti. Ovvero si tratta di «non frequentare più» i quattro ristoranti di New York considerati un naturale punto di incontro fra sospetti mafiosi. Il primo della lista è, neanche a dirlo, Rao’s, dove il piatto favorito di «Fat Tony» è il lemon chicken da 24 dollari, preparato secondo la ricetta di «Uncle Vinnie» con una salsa particolare composta di succo di limone, aceto di vino rosso, olio d’oliva e spezie. «Ho mangiato su quei tavoli tutta la mia vita, come farò?» si chiede il gangster sconsolato, obbligato a disertare anche quelle che, negli anni, aveva maturato come «naturali alternative a ‘Uncle Vinnie’», ovvero Bamonte’s a Williamsburg, 32 Withers Street, per i «grandi piatti di vongole», Don Peppe al 135 di Lefferts Boulevard, a Ozone Park nel Queens, per le linguine al sugo di scampi, e Parkside a Corona Avenue, sullo Spaghetti Park, dove servono il chicken scarpariello condito con rosmarino, aglio, olio, vino e sugo di pollo. «Ma Rao’s resta unico», parola di «Fat Tony», nel cui mondo si parla una lingua disseminata di vocaboli italiani americanizzati che dice, ad esempio, «chec­61

ca» per cake (dolce), «bega» per bag (la borsa), «storu» per store (negozio) e «carru» per car (macchina). Staten Island, fra Gesù e Mazzini Se l’isola di Staten Island è meglio nota ai newyorkesi come «Staten Italy» è in ragione della forza dei numeri della presenza di italoamericani: lo sono il 34,8% dei quasi 450 mila residenti, la densità più alta di tutte le contee degli Stati Uniti. Qui Giuseppe Garibaldi arriva dopo la caduta della Repubblica Romana ispiratasi a Giuseppe Mazzini, lavorando nella fabbrica di candele dell’inventore fiorentino Antonio Meucci, fuggito dall’Italia dopo essere stato arrestato per le idee risorgimentali. Proprio nella sua casa di Staten Island, al 420 di Tompkins Avenue, Meucci testa per la prima volta con successo il rudimentale antesignano del telefono. A fine Ottocento sono migliaia gli immigrati che si fermano sulla North Shore per i costi molto bassi delle abitazioni, il panorama della baia dell’Hudson che ricorda i golfi del Mediterraneo e la possibilità di vivere tutti assieme un po’ isolati dalla grande città, proprio come nei paesi di origine, nelle strade di Rosebank che dal 1937 ha nella grotta della Our Lady of Mount Carmel – al 36 di Amity Street – il luogo sacro di New York che più assomiglia alle cave meta dei pellegrini cattolici in Europa. Il Grotto sorge a breve distanza dalla ex fabbrica di Meucci – oggi trasformata in museo garibaldino – riassumendo le due identità originarie dei primi immigrati arrivati in questo avamposto creato dagli olandesi nel XVII secolo: la fede in Gesù e la speranza in Giuseppe Mazzini. Il Grotto viene costruito da volontari, laici e religiosi della Society che porta lo stesso nome per essere un santuario collettivo dove recarsi in preghiera e meditazione, affiancandosi agli edifici delle chiese o ai piccoli altari costruiti in casa. Contiene un crocifisso, un inginocchiatoio, una fontana, un monumento e l’altare ad Antonio di Padova. La costruzione del santuario continua ininterrotta a tutt’oggi e i fedeli lo adornano con gu­62

sci di conchiglie e fari di biciclette, aumentandone l’aspetto frugale che lo accomuna alla vicina Sala degli incontri, costruita nel 1914 da alcuni immigrati, adoperata come sala da lavoro durante la costruzione e trasformatasi da allora in un’altra sala per celebrazioni religiose. Fede e Storia a parte, la vita di Rosebank, principale centro degli italoamericani sull’isola, si svolge attorno alle attività legate alle chiese cattoliche di St Mary e St Joseph e a due eventi annuali: la Corsa delle rose, che si svolge in ottobre in coincidenza con il Columbus Day – nel quale si celebra l’eredità italoamericana –, e la Festa della Nostra Signora di Monte Carmelo, che in luglio vede svolgersi un’imponente processione attraverso le vie cittadine che termina al Grotto. È un ambiente dove il cattolicesimo sconfina nell’identità etnica e questo spiega perché gli abitanti locali, come quelli della vicina Snug Harbor, tengano molto al fatto che ogni anno all’inizio di gennaio scuole e centri comunitari trovino modo per ospitare recite e mini-show incentrati sul personaggio della Befana. Ma tutto ciò ancora non è sufficiente a spiegare l’alto numero di italoamericani concentrati sull’isola: se è vero che una presenza significativa risale alla fine del XIX secolo, ciò che fa decollare il fenomeno è la costruzione nel 1964 del Ponte di Verrazzano, che unisce per la prima volta Staten Island a Brooklyn – e dunque al resto di New York – lì dove prima funzionavano solamente i traghetti. Il ponte ha un forte impatto sulla popolazione italoamericana, che dopo aver lasciato il Lower East Side per Brooklyn negli anni Quaranta, nei Cinquanta dà vita al fenomeno del White Flight (volo bianco) con il trasferimento a piccoli gruppi a Staten Island e nel vicino New Jersey in sobborghi più eleganti e spaziosi. Il ponte accelera questo fenomeno aggiungendo alla popolazione italoamericana frutto delle prime migrazioni le famiglie formatesi o arrivate fra la fine degli anni Quaranta e l’inizio dei Sessanta. Da quel momento la roccaforte italiana di New York non fa che crescere non solo di numero ma anche di reddito, con il conseguente spostamento politico verso il Partito repubblicano, più atten­63

to agli interessi economici di proprietari e azionisti nonché difensore dei valori tradizionali della famiglia che molti italoamericani considerano come propri. Tutto ciò dà i suoi frutti politici nelle ultime tornate elettorali. Nelle presidenziali del 2008 Staten Island è l’unico distretto di New York ad andare al repubblicano John McCain e nel novembre del 2009 sono proprio i voti di «Staten Italy» a consentire al sindaco uscente Michael Bloomberg di essere rieletto per la seconda volta nonostante la sorprendente affermazione dello sfidante democratico William Thompson. Bloomberg prevale infatti con una differenza di appena 50 mila voti ed è il vantaggio ottenuto a Staten Island – 31.125 voti – a rivelarsi decisivo. Se la costruzione del ponte che la collega a Bay Ridge, Brooklyn, ha avuto tanta rilevanza nella crescita della comunità italoamericana, il suo nome è frutto di una dura battaglia. A proporre di intitolarlo al navigatore fiorentino Giovanni da Verrazzano è nel 1951 il combattivo John LaCorte, presidente dell’Italian Historical Society in America, già protagonista nel 1939 della battaglia che porta a istituire la festa – e la parata – del Columbus Day lungo la Fifth Avenue. La tesi di LaCorte è che da Verrazzano merita il riconoscimento perché fu lui nel 1524 il primo a navigare nell’attuale porto di New York, ben prima del 1609, quando a ripetere la rotta fu Henry Hudson, adoperando peraltro le carte nautiche del fiorentino. Ma Robert Moses, responsabile della costruzione del ponte in quanto titolare del Triborough Bridge and Tunnel Authority, si oppone ritenendolo un nome «poco conosciuto» oltreché difficilmente orecchiabile dai newyorkesi. Ma si tratta di obiezioni che non scoraggiano LaCorte, che per tutta risposta si lancia in un’offensiva di lobbying che riesce a reclutare prima il governatore dello Stato, Averell Harriman, poi una serie di Comuni lungo la costa e infine l’intero Parlamento di Albany, il quale approva una legge a favore del Verrazzano Bridge che nel 1960 viene promulgata dal nuovo governatore Nelson Rockefeller. Ma non è ancora finita, perché l’assassinio di Dallas nel 1963 fa ipotizzare tanto al ­64

governatore che ad Albany di cambiare il nome a favore del presidente John F. Kennedy e per scongiurarlo LaCorte va a parlare di persona con l’unico che può aiutarlo: il ministro della Giustizia, Robert Kennedy. Lo convince. Il fratello del presidente ucciso si pronuncia a favore del Verrazzano Bridge e chiude la controversia – anche perché a prendere il nome del fratello John è l’aeroporto cittadino finora denominato Idlewild – consentendone l’inaugurazione alle 11 del mattino del 21 novembre 1964. Fra i testimoni dell’evento c’è Gay Talese, lo scrittore del New Journalism, che copre l’evento per il «New York Times». Annota sul taccuino: «Il primo pedaggio da 50 centesimi è stato pagato dal ventiduenne George Scarpelli, impiegato comunale, a bordo di una Cadillac con sei passeggeri di Staten Island, la moneta è stata presa dal collector Larry Chrusano, che l’ha messa in tasca e sostituita con una propria». Un debutto tutto italiano.

La fede

Bandiera vaticana su San Patrizio La bandiera bianca e gialla con lo stemma pontificio sventola sul portone della cattedrale di San Patrizio sulla Fifth Avenue così come si trova all’interno di ogni chiesa cattolica d’America. «Mettetevi davanti a ogni altare, dal cuore di Manhattan alla più piccola chiesa del Wyoming, e vedrete la bandiera americana in un angolo e quella vaticana in quello opposto» dice l’arcivescovo Celestino Migliore, che nel 2010 ha terminato sette anni a New York maturando la doppia esperienza di osservatore permanente della Santa Sede alle Nazioni Unite e di interlocutore privilegiato del cattolicesimo a stelle e strisce. «Ciò che lo distingue è l’essere composto di fedeli che dichiarano apertamente la propria identità nella società che li circonda» spiega, facendo più esempi. La bandiera vaticana nelle chiese è solo uno dei tanti: si va «dai cattolici che il Mercoledì delle Ceneri vanno in giro con una vistosa croce segnata sulla fronte» ai «brindisi per il papa nelle serate di gala» fino alle «pubbliche preghiere per i soldati in guerra in Iraq o Afghanistan inimmaginabili in una qualsiasi nazione europea». I cattolici americani sono «fedeli che vanno in piazza», credono e «praticano la preghiera» come l’«esternazione della fede» e «donano molto in base al principio del give back che è profondamente radicato». Ecco di cosa si tratta: «Chi ha successo sente di dover donare per restituire a Dio quanto ha ricevuto e dunque versa opere di beneficenza». Per Migliore è «un comportamento che coin­66

cide con l’originale sentire cristiano che non è costituito dal sospirare ma dal mettere in comune le cose con chi non ha, al fine di aiutare i poveri». Il give back è possibile grazie al particolare regime fiscale vigente negli Stati Uniti, che incentiva e agevola le donazioni agli enti di beneficenza, favorendo la tendenza a essere «cristiani nelle piazze» e «incarnando un profondo senso di dipendenza da Dio». Per Migliore, che è stato a fianco di Benedetto XVI durante la visita a New York nell’aprile del 2008, sono queste le caratteristiche alla «base della solidità della fede cattolica in America», la cui importanza per la Chiesa è tale da poter ipotizzare un pontefice americano. «Dopo 475 anni di papi italiani ve n’è stato uno polacco e ora uno tedesco, le pregiudiziali geografiche oramai sono cadute e dunque è legittimo chiedersi ‘perché non un papa americano?’, la salvezza della fede cattolica potrebbe venire da un Paese religioso come questo prima che da altri luoghi del Terzo Mondo, in Asia come in Africa o America Latina». Quando ipotizza un «papa americano» monsignor Migliore, nato a Cuneo e titolare dell’arcivescovado di Canosa di Puglia, sottolinea come «questa nazione è assai meno laicizzata dell’Europa» e anche il fatto che «le obiezioni sull’eccesso di concentrazione di poteri negli Stati Uniti non hanno molto senso perché la Chiesa cattolica non è certo assimilabile al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite». Della forte religiosità che permea la società americana parlò proprio Ratzinger sull’aereo a bordo del quale attraversava l’Atlantico diretto verso gli Stati Uniti, e Migliore si sofferma a più riprese a citare esempi che richiamano la guerra in Iraq: «Era il 2003, ero appena arrivato e ricordo che in Ohio vi fu una messa cattolica pubblica per un soldato che si era salvato, in Italia c’era chi ironizzava e faceva errati paragoni con il ‘Gott mit uns’ dei nazisti durante la Seconda guerra mondiale, non comprendendo che in questo Paese c’è un forte senso della presenza di Dio nella vita». La conseguenza per molti cattolici di New York, a cominciare dagli italoamericani, è di trovarsi spesso a vivere nella discrepanza culturale fra la ­67

Roman Law – che si colloca alla base dei codici canonici – e la Common Law architrave del diritto anglosassone. O ad affrontare il conflitto di coscienza, per esempio, delle suore che dopo aver aiutato per decenni a edificare importanti strutture scolastiche e sanitarie cattoliche in Nordamerica si trovano ora obbligate a chiuderne alcune, e così penalizzare i poveri, per l’impossibilità di far coincidere i principi in cui credono con leggi civili che prevedono, ad esempio, l’obbligo di installare distributori di preservativi nelle scuole come anche il diritto delle donne all’aborto. L’altro cappello di Migliore è stato quello di «osservatore» della Santa Sede al Palazzo di Vetro. «Il termine ‘pontefice’ significa costruttore di ponti e all’Onu è proprio questo ruolo a essere svolto dalla Santa Sede, grazie al fatto di poter avere un ruolo informale non trovandosi obbligata a dare voti in Assemblea Generale». L’essere «informale» ha consentito a Migliore di farsi protagonista di trattative su più fronti: per i diritti dei disabili, la tutela delle donne e anche contro la nuova schiavitù del commercio di esseri umani e il traffico d’armi. A volte su temi come l’opposizione all’aborto e i diritti dei gay Migliore – che ora è nunzio in Polonia – si è trovato nella scomoda posizione di avere al suo fianco come alleati Paesi musulmani dove i diritti dei cristiani non vengono rispettati «e ho sempre scelto di evitare decisioni che potessero implicare l’abdicazione alla difesa di chi è perseguitato o discriminato». Proprio nell’aula dell’Assemblea Generale Migliore assicura di aver vissuto «il momento più bello dei miei sette anni e mezzo a New York», quando Benedetto XVI al termine del suo discorso venne salutato con una prolungata standing ovation da tutti gli ambasciatori presenti. «Ci fu chi disse con cinismo che gli stessi ambasciatori il giorno seguente avrebbero subito ricominciato a litigare ma per me fu vero il contrario, le parole del papa avevano incarnato gli ideali dell’Onu da tutti condivisi, riuscendo per una volta a identificare un terreno comune».

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Brooklyn, fedeli e anticlericali Nicholas DiMarzio, vescovo di Brooklyn e Queens, passa 16 ore al giorno nella sede della diocesi all’angolo fra Prospect Park e 19a Strada. È un edificio in mattoni rossi che include anche una delle 200 parrocchie cattoliche che dipendono da lui. Dalle finestre si vede l’autostrada che attraversa Brooklyn. Nella sala delle conferenze vi sono crocifissi, icone, libri religiosi, le foto con Karol Wojtyła e Joseph Ratzinger come anche un bussolotto per la raccolta della zedakà (la beneficenza ebraica) e un quadro islamico con scritti i 99 attributi di Allah. DiMarzio veste l’abito talare e parla in italiano con un forte accento meridionale che viene dai luoghi d’origine dei nonni, Campobasso, Avellino e Salerno. Ogni mattina si alza alle 4.30, va dal barbiere alle 6, alle 7 celebra la messa e poi si mette a lavorare: incontri con i fedeli, visite alle parrocchie, viaggi a Manhattan per trattare con il sindaco Bloomberg più aiuti per le scuole che ospitano 50 mila alunni, di cui 35 mila alle elementari e 15 mila alle superiori assieme a 3 mila insegnanti. Guida una delle diocesi più grandi d’America: 4,8 milioni di cattolici che parlano 29 lingue diverse. «È una piccola nazione» come lui dice. Quanti di questi sono italiani? «Circa 400 mila, perché la maggioranza oramai sono immigrati ispanici». E gli italiani, che rapporto hanno con la fede? DiMarzio si tocca gli occhiali leggeri e allarga le braccia: «Qui è come in Italia, per gli italiani la cosa più importante è la famiglia, dopo viene il resto, fede inclusa». D’altra parte quando i primi immigrati italiani arrivarono alla fine dell’Ottocento «avevano troppa fame ed erano troppo poveri per poter pensare alla fede». È stata l’integrazione a farli tornare in chiesa. «La seconda generazione già lo faceva, con la terza abbiamo iniziato ad avere anche le vocazioni, che continuano ancora oggi». Sulla strada del cattolicesimo degli italoamericani c’è stato l’ostacolo irlandese. «Quando gli italiani arrivarono trovarono gli irlandesi già sul posto, parlavano la lingua ed erano più integrati, avevano più soldi». ­69

Le chiese così si sdoppiarono: sotto le navate pregavano gli irlandesi in inglese, nei sottoscala gli italiani nella lingua di Dante o spesso anche in dialetto. La differenza di reddito e cultura si trasformò in un detonatore di tensioni sociali. «Vi è stata molta competizione fra noi e loro» ammette il vescovo, «basti pensare che il primo alto prelato italoamericano negli Stati Uniti fu designato solo dopo la fine della Seconda guerra mondiale», quando venne nominato il vescovo Joseph Maria Pernicone. Oggi molte tensioni sono alle spalle: delle oltre 200 parrocchie della diocesi di Brooklyn-Queens almeno 40 hanno messe bilingui, gli immigrati degli anni Sessanta e Settanta ascoltano i molto popolari programmi di Radio Maria – qui emittente dei Padri missionari scalabriniani diretta da Walter Tonellotto – e la lingua italiana è l’ossatura dell’identità dei più «che per conservare l’idioma hanno sofferto assai più di quanto avvenga per gli ispanici oggi che possono contare su aiuti pubblici e ogni sorta di facilitazioni». Il vescovo Nicholas DiMarzio torna spesso a parlare delle sofferenze degli immigrati: prima discriminati dagli irlandesi, poi obbligati a battersi senza aiuti dall’Italia per conservare lingua e identità, in sostanza abbandonati a se stessi per molte decadi. È stato un percorso duro ma oggi in coloro che risiedono nella diocesi «la fede è forte, tengono ai sacramenti, vanno a messa la domenica e mandano i figli alla scuola cattolica» e la loro identità «è fondata prima sulla famiglia, poi sulla Chiesa e solo dopo sulla nazione, America o Italia che sia». Più nazionalisti sono invece «i cattolici irlandesi o polacchi» mentre per gli italiani la fede si declina nel «valore della famiglia» che li porta a essere in genere ostili all’aborto come alle nozze gay. «Per molti la Chiesa è la fede che sta alla base della stabilità famigliare». Questo approccio spiega anche un’altra differenza con gli irlandesi, perché «gli italiani non vedono nella Chiesa il potere politico mentre gli irlandesi sì». La «cultura anticlericale è molto diffusa fra i credenti immigrati o discendenti da immigrati ma ciò non toglie che la fede sia salda». La convivenza fra le due identità solo apparentemente con­70

trapposte la si è vista nella calorosa accoglienza tributata a Ratzinger durante la visita a New York nel 2008 che culminò nella messa al Giants’ Stadium: la gente partecipò di getto, in maniera massiccia, senza vedere nel papa il capo di uno Stato ma solo l’incarnazione della fede. Al vescovo di Brooklyn-Queens, dal 2003 al comando della diocesi e con alle spalle gli anni passati a Newark e Camden, è capitato spesso di imbattersi nella presenza all’interno delle famiglie della «criminalità organizzata», ovvero la mafia. «Si tratta sempre di singoli, come singoli sono anche i poliziotti italiani» dice, ammettendo di essersi confrontato a volte con l’«orgoglio del padrino» provato da ragazzi rimasti affascinati dalla dimensione del potere portata sul grande schermo da Francis Ford Coppola. «La Chiesa ha fatto molto contro la mafia, parlando con le persone, soprattutto i giovani», anche se poi nell’immaginario collettivo gli italiani restano comunque tutti mafiosi per gli americani «come mi accorsi di persona quando durante un viaggio in Australia mi dissero che avevo l’accento come quello dei Sopranos». Dopo due ore di incontro, il vescovo si scusa ma deve ritirarsi, ad aspettarlo vi sono decine – a volte centinaia – di lettere ed email di fedeli che gli scrivono per chiedere consigli e, molto spesso, anche per protestare. «Scrivono senza mostrare alcun rispetto, a volte mi chiedono di cacciare questo o quel prete per vicende minori». DiMarzio risponde a tutti ma spesso rimanda al mittente le richieste più brusche. Completamente diverso invece l’approccio alla vicenda degli abusi sessuali. Nella diocesi si sono verificati circa 40 casi, tutti fino agli anni Novanta tranne uno più recente che ha portato il vescovo ad allontanare subito l’insegnante sospettato. «Ho incontrato e continuo a incontrare le vittime e i loro famigliari – dice – devo ascoltarli, sentire le loro sofferenze e trasmettere l’assenza di rancore da parte della Chiesa, la Chiesa deve essere vicina a queste persone che hanno sofferto così tanto per colpa di singoli preti che si sono approfittati di loro quando erano bambini». DiMarzio è nato in America e si comporta da ame­71

ricano: di fronte allo scandalo niente reticenze o ambiguità ma solo infinita compassione, al fine di ricostruire il rapporto fra la Chiesa e i suoi fedeli. Bensonhurst, il prete di frontiera Al 1230 della 65a Strada di Brooklyn, nel cuore del quartiere di Bensonhurst che una volta parlava italiano ma che ora è invaso dai cinesi, sorge la chiesa di Santa Rosalia-Regina Pacis, guidata da un prete di frontiera tanto con i clandestini quanto con la mafia. Il reverendo Ronald Marino ha il colletto dell’abito talare slacciato, il volto sorridente e l’ufficio disseminato di oggetti per invogliare i fedeli a unirsi nel sacramento del matrimonio. Ascoltarlo significa entrare nelle viscere di New York. Basti pensare che fu lui, nato a Brooklyn nel 1946 da padre di Corleone e madre di Enna, il giovane sacerdote che nel 1972 si trovava ogni domenica a contatto con Carlo Gambino, il «Boss dei Boss», che sarebbe morto di infarto quattro anni dopo. «Veniva sempre nella chiesa dove a volte servivo messa, quando il pastore titolare non c’era, e al termine del servizio religioso si metteva in piedi al mio fianco, in maniera tale che tutti i fedeli, quando stringevano la mano a me, la stringessero anche a lui». Il boss mafioso che Marino ha conosciuto «mandava sempre avanti i suoi uomini, che prendevano possesso delle due file davanti» nella chiesa della Madonna della Grazia. «Era un uomo anziano e malato ma molto rispettato, e teneva a essere in chiesa la domenica, facendo capire che anche lì era lui il più importante». Fra il poco più che ventenne Marino e il «Boss dei Boss», nato a Caccamo, vi fu più di qualche tensione «ma lui tentava anche di accattivarsi la mia simpatia». Come avvenne «una volta quando in città scarseggiava la benzina: tutti facevano la fila al distributore ma lui mi disse di lasciar stare e di seguirlo, andammo da un altro che sembrava chiuso, mi avvicinai, uscì un uomo, mi riempì il serbatoio e se ne andò». Era il benzinaio privato del boss. Quando un colpo al cuore lo stroncò nella sua casa di Massapequa il 15 ottobre 1976, il ­72

prete «andò dalla moglie e i figli scongiurandoli di evitare che il funerale diventasse uno sfarzoso show cinematografico». La trattativa fu sul numero e tipo delle lussuose vetture che avrebbero accompagnato la processione con il feretro del boss di Castellammare del Golfo. «Il prete gli disse che non dovevano arrivare in chiesa con più di venti limousine nere e dieci carri di fiori, loro gli dissero di sì e in effetti il giorno del funerale quello fu il numero dei mezzi parcheggiati davanti alla chiesa – ricorda Marino – ma al termine delle esequie, quando il pastore andò a ringraziarli, gli sorrisero, dicendo che ne avevano lasciate altrettante poche centinaia di metri più lontano, per rispettare il suo desiderio». D’altra parte il clan dei Gambino aveva una forza stimata dalla polizia in oltre mille «soldati» e tenerli tutti a bada non era compito facile. Per scoprire chi fossero quelli più importanti in un particolare frangente, l’Fbi veniva in chiesa ogni domenica, prima che arrivasse il Boss dei Boss, e metteva ovunque telecamere. Ma gli uomini di Gambino sapevano dove le avevano posizionate e si sedevano di conseguenza, in maniera da pregare senza farsi vedere. Pur conoscendo la mafia, il reverendo Marino non vuole chiamarla così. Preferisce dire «crimine organizzato» perché «la vecchia mafia non c’è più, quella nuova è anche russa, cinese, messicana ed ebraica e la maggior parte dei reati oramai sono di nuova generazione, hanno a che vedere con la finanza». Ecco di cosa si tratta: «Singoli privati creano aziende, fanno utili illecitamente, eludono il fisco e la legge. Si tratta di reati finanziari commessi da gente in doppiopetto, i vecchi killer di strada non si vedono più». L’altro fronte di Marino è quello che viene dalla sua carica di «vicario per i migranti». Se all’entrata del suo studio ci sono preghiere in italiano alternate a testi in cinese è perché il suo maggior compito quotidiano è avere a che fare con gli immigrati. Che in gran parte sono clandestini. «E fra loro ci sono molti italiani». «È bene che in Italia si sappia che molti italiani sono clandestini – dice, gesticolando mentre sta seduto di fronte a un grande dipinto religioso – perché da voi quando ­73

si pronuncia questa parola ci si riferisce solo a marocchini, albanesi, senegalesi e romeni». Ma chi sono gli italiani clandestini? Ecco cosa risponde: «Sono camerieri, pizzaioli, muratori, operai, gente semplice che parla in dialetto, sta qui da cinque, anche dieci anni, ed è diventata illegale arrivando con un visto per tre mesi del quale, una volta scaduto, non si è più voluta occupare». È una realtà fatta di lavoro duro e sacrifici «perché non possono tornare in Italia» e «restano lontani da feste e lutti dei famigliari stretti, soffrendone molto». C’è anche chi «di fronte a momenti drammatici come la perdita di un genitore sceglie di tornare ma poi, dopo il funerale, la polizia americana gli impedisce di sbarcare a New York e così resta separato da moglie e figli che ha qui, e che magari sono cittadini americani». Ma di quante persone stiamo parlano? «Sono centinaia e centinaia, il numero esatto non lo sa nessuno ma credo che si possa arrivare a oltre 2000 in tutta New York, basti ricordare che nel 1994 un’indagine della polizia locale svelò che il numero più alto di illegali era composto da italiani». Marino conosce molti di questi clandestini «perché vengono da me, chiedono aiuto e soprattutto vogliono una mia ‘raccomandazione’ per diventare legali ma io gli spiego che qui non funziona in questa maniera, gli dico che l’unico modo di uscire dall’illegalità è fare la lotteria del governo che ogni anno assegna le ‘carte verdi’». Tuttavia quasi tutti non seguono il consiglio «perché non si fidano di dare alla lotteria del governo i dati personali, temono che finiranno in manette, ma anche qui sbagliano perché questo è un Paese di regole e la lotteria non può dare al governo i dati su chi partecipa ma solo su chi viene estratto come vincitore». Ciò che preoccupa il pastore di Bensonhurst è come «molti di questi illegali stanno oramai qui da oltre dieci anni, non sono più giovanissimi» e si è dunque formata una «comunità di mezza età che vive senza documenti». Molti di loro «sono devoti ma non religiosi» ovvero «sono seguaci di Padre Pio ma poi la domenica mattina restano a casa a dormire». Comunque, quando mettono piede in chiesa e vanno nel confes­74

sionale «mi parlano in dialetto stretto ma vogliono che io gli risponda in italiano». Padre Marino per studiare la lingua di Dante ha soggiornato a lungo a Firenze ma al ritorno a Brooklyn ha scoperto che fra le 4000 famiglie della sua parrocchia la maggioranza in realtà parlava cinese. Se gli immigrati italiani a New York sono quelli con la media di età più alta, il 56% dei nuovi immigrati è cinese e di età molto giovane. Questo spiega perché in un’area dove vi sono 28 parrocchie che prevedono messe in italiano i giovani pastori si trovino in realtà ad avere a che fare soprattutto con i cinesi. E i problemi abbondano. «Si tratta di cattolici anomali – spiega Marino – perché vengono da un Paese dove la Chiesa ufficiale è alleata di un regime oppressivo, e dunque gli è nemica». La conseguenza è che i cinesi «sanno di essere cattolici ma diffidano delle chiese e non praticano la fede». Per risolvere il problema la scelta è stata di «andare incontro alla loro cultura» e così Santa Rosalia gli ha offerto ciò di cui più hanno bisogno: una scuola pomeridiana dove lasciare i bambini visto che i cinesi lavorano moltissimo, quasi 24 ore al giorno. Da qui il fatto che Santa Rosalia è diventata una chiesa italiana che assiste soprattutto i cinesi, offrendogli corsi di inglese, riso gratis per i bambini tre volte al giorno e attività ricreative. «Con i cinesi le nostre iniziative sono pre-evangeliche, gli offriamo dei servizi per legarli alla Chiesa, puntando poi sul fatto che sarà la nuova generazione a leggere il Vangelo, diamo servizi ai genitori affinché siano i figli un domani a pregare la domenica». È questa volontà di «comprendere le culture per riuscire a portare la fede» che guida il credo e le opere del reverendo Marino, che passa giornate intere a immergersi nelle strade adiacenti alla Columbus Avenue dove si parla solo mandarino. Fra le cose che ha scoperto c’è il fatto che «dentro casa usano luci al neon per risparmiare e fuori le finestre montano grate pesanti per difendere i soldi che tengono sotto il letto, visto che non si fidano delle banche».

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Nel seminterrato di Bleecker Street All’incrocio fra Bleecker Street e 60th Place, nel Queens, sorge la chiesa Our Lady of the Miraculous Medal, ovvero una delle parrocchie dove a New York si celebra la messa in italiano. Come avviene un po’ ovunque la congregazione religiosa ha due messe la domenica, nella navata della chiesa si prega in inglese e nel seminterrato in italiano. È una suddivisione di lingue e spazi che risale al fatto che quando gli italiani arrivarono in massa, fra fine Ottocento e inizio Novecento, non erano i primi cattolici a sbarcare in America perché trovarono già gli irlandesi, con i quali gli attriti furono molti. E perdurano per molti versi ancora oggi. A officiare nel seminterrato di Our Lady of the Miraculous Medal è Fabio Flaim, diacono di ottant’anni, di Tregiovo in Val di Non, provincia di Trento. Emigrò nel 1949 in Argentina, fece poi tappa in Uruguay e nel 1962 è arrivato in America, dove si è sposato e ha cinque figli. I suoi fedeli sono tutti siciliani e appartengono alla terza età. «Ogni domenica vengono circa cento persone a sentire la messa in italiano che abbiamo iniziato a fare dopo il Concilio Vaticano II, ma vengono solo gli anziani perché i giovani vanno a quella in inglese, al piano di sopra» racconta al termine del servizio religioso, mentre si toglie la lunga veste bianca parlando con alcuni frequentatori della chiesa che si rivolgono a lui come a un amico di vecchia data. «Qui la fede è viva in chi viene ogni domenica ma la maggioranza purtroppo si fa vedere solo a Natale e San Giuseppe, ciò non toglie comunque che siano tutti cattolici, inclusi i mafiosi» spiega il diacono con una voce flebile che si sofferma sulla descrizione dei «valori di chi crede» ovvero «la fede nella vita eterna, nell’aldilà e il senso della morte». Fra i temi di cui parla più spesso dopo la messa con chi lo viene salutare c’è quello della persistenza dei pregiudizi anti-italiani in America. «Sì, è vero, ci sono perché prima la gente si lamentava perché gli italiani non lavoravano mentre ora si lamenta perché hanno avuto successo, gli altri sono diventati gelosi». Ma dal suo punto di vista queste ­76

diatribe contano poco perché «la verità è che i fedeli italiani vanno in chiesa e sono quelli che accendono più candele, fanno offerte di fiori e sono più costanti anche nel versare piccole offerte». E i mafiosi «vengono anche loro molto spesso in chiesa, sono fedeli come tutti gli altri, ma fanno offerte più sostanziose e organizzano grandi feste». Vicino, a correggerlo, c’è Battista Caruso, di Torretta, settant’anni, baffi vistosi e parole secche: «Qui la mafia non c’è». Ma in pochi fanno caso all’obiezione perché il tema che interessa discutere è un altro. Antonio Barbetta, barbiere di settantotto anni, non riesce a trattenere la rabbia contro «chi ce l’ha con noi»: «Noi italiani facciamo sacrifici, mettiamo tutto da parte e non sperperiamo il danaro come gli americani che si spendono tutto a cena o per divertirsi e poi non riescono a farsi la casa». L’essersi fatti grazie al «lavoro duro» è un vanto che accomuna molti. Vito Spampinato, settantotto anni, di Regalbuto, iniziò a fare il pastore da ragazzo in Sicilia e poi, una volta a New York, ha fatto dozzine di mestieri, da bidello di scuola a manovale in una fabbrica di cioccolata, e ora che è in pensione esprime l’energia rimasta nel pronunciare poesie a memoria in pubblico, appena capita, al bar o nel seminterrato della chiesa. Una di queste termina con la strofa: «Questa è l’America, bisogna lavorare, non c’è niente da fare». Padre Pio Way, Williamsburg Felice Manna si fa chiamare semplicemente «Philip», indossa una felpa nera e ci vediamo sui gradini di Our Lady of Mount Carmel, all’incrocio fra la N 8th Street e Havemeyer Street di Williamsburg, Brooklyn. Sopra si celebra messa in italiano letta da una donna con pochi fedeli, nel sottoscala preparano la struttura decine di ragazzi che lavorano ogni sabato dell’anno per confezionare i dodici pezzi della torre alta cinque piani – e pesante cinque tonnellate – che ogni estate viene portata a spalla da 320 uomini nella Dance of the Giglio Feast, che ripete un’usanza vecchia di tre secoli con ­77

la quale la città campana di Nola rende omaggio alle gesta eroiche di san Paolino contro i visigoti nel V secolo. I giovani disegnano pezzo per pezzo i legni della torre con una passione che porterà molti di loro essere fra i «portatori», tutti sui sedici-diciassette anni, 50 davanti e dietro, e gli altri ai lati. A guidarli sono i «capi paranza» che a Williamsburg chiamano lieutenants e Manna è stato «capo paranza 1», ovvero il titolare dell’intera Danza del Giglio. Ha cinquantatre anni, ripete con orgoglio la tradizione del padre e del nonno, che arrivò da Nola, in provincia di Napoli, nel 1910. Nella struttura che sorregge la torre c’è anche una barca, per ricordare i viaggi di san Paolino in Nordafrica, e che durante l’intero anno è ospitata nel cortile di un vicino a cento metri da Our Lady of Mount Carmel. Davanti c’è Padre Pio Way, la strada che prende nome dal sacrario eretto per il santo più popolare fra gli italoamericani di queste parti ed è su questa strada che si svolge la Giglio Feast, mettendo in evidenza l’affermarsi dei costumi religiosi degli ultimi venuti. «I nuovi italiani sono arrivati negli ultimi vent’anni – spiega Manna – e pregano Padre Pio mentre i vecchi immigrati quando arrivarono all’inizio del Novecento non lo conoscevano, avevano la Madonna del Carmelo e la Festa del Giglio» e dunque «sono gli italiani dell’Italia a portarci Padre Pio». A fronte di tanto slancio e volontariato in chi prepara la festa del Giglio o mantiene l’altare di Padre Pio, i sacerdoti scarseggiano. È un unico prete a occuparsi di più chiese cattoliche nell’area di Greenpoint a Williamsburg e poiché ve ne sono davvero numerose una è stata data ai luterani e un’altra agli armeni. «Ci sono più chiese che preti e la Chiesa cattolica ha problemi di numeri perché gli americani vanno dai preti solo se sono carismatici» sottolinea Manna. Una volta attorno alle chiese vi erano case abitate solo da italiani, basse e in legno, ma alla morte di ogni proprietario si sono fatte avanti le aziende di costruzioni offrendo prezzi da capogiro per acquistare l’immobile, distruggerlo e ricostruire sul terreno condomini eleganti, con più appartamenti, facendo milioni di dollari. Ad abitarci ­78

sono gli hipsters, i giovani che si insediano a Williamsburg perché è uno dei quartieri più trendy di inizio secolo. I vecchi italoamericani si sentono assediati da una realtà nella quale non riescono a riconoscersi, da Driggs Street a Bedford Avenue, perché gli hipsters fanno gli artisti, si ubriacano la notte, hanno i capelli colorati e non potrebbero essere più lontani dai valori di Padre Pio come dalle tradizioni della Danza del Giglio. Senza contare le tensioni fra «nuovi» e «vecchi» italiani che Manna ha toccato con mano durante una sfilata del Columbus Day, quando un giovane arrivato da pochi anni gli si è avvicinato e gli ha detto «tu non sei italiano». Ma le tensioni svaniscono quando Manna entra nel monolocale sulla strada che, a poca distanza dalla strada davanti alla chiesa dove si svolge il festival annuale, ospita il Club del Giglio. Dentro ci sono le foto di soldati italoamericani con la divisa dei marines, manifesti autografi di Frank Sinatra e i cimeli degli eroi del baseball e la musica che ascolta quella «di Nola, che significa poi napoletana» a cominciare da ’O Saracino. I dollari di san Gennaro Le dieci file di biglietti da un dollaro scendono dal busto dorato di san Gennaro che con la mano sinistra tiene due ampolle di sangue sciolto e con la destra fa il segno della croce. Le file di dollari sono irregolari, i biglietti si accavallano gli uni sugli altri e a tenerli fermi lungo strisce di stoffa rossa sono piccoli spilli apposti dal guardiano della chiesa del Most Precious Blood di Mulberry Street, a pochi metri dall’incrocio con Canal. Nel giardino della piccola chiesa che simboleggia il legame con Napoli dell’ultima strada rimasta di Little Italy – dove dalla fine dell’Ottocento si insediavano gli immigrati giunti dalla Campania – è un piccolo bazar della fede cattolica romana. Vi sono le bancarelle con le magliette di san Gennaro, i santini di Padre Pio, i libri religiosi che raccontano in entrambe le lingue miracoli e gesta dei santi più popolari, innumerevoli statue sacre e una miriade di candele ­79

votive di ogni colore, misura e costo che i fedeli pagano e portano poi attraverso un piccolo corridoio fin dentro la chiesa, addobbata di bandiere tricolori e americane in occasione della Feast of San Gennaro che ogni anno a metà settembre riporta ciò che resta di Little Italy ai fasti del passato. Un fiume umano di newyorkesi che si catapulta lungo Mulberry Street durante gli undici giorni della Feast, che inizia con la processione della statua del santo partenopeo lungo Little Italy, a cui segue la festa vera e propria che consente di mangiare salsicce, zeppole, torroni e carciofi fritti in mezzo alla strada, di portare i bambini nel circo della «Donna Serpente» e delle «Tartarughe a due teste», di giocare a tiro a segno per vincere pesci rossi e gustare i «Sigari di Scarface» assieme alla piña colada, ascoltando dai megafoni Frank Sinatra che canta New York, New York o dalle bancarelle i motivi intramontabili di Domenico Modugno e Umberto Tozzi. I newyorkesi, italoamericani o meno, che da Prince Street, Grand Street, Elizabeth Street e Canal Street si riversano dentro Mulberry Street, si accalcano nel corridoio rimasto fra le bancarelle lungo i marciapiedi. E puntano tutti ad arrivare in una maniera o nell’altra alla statua di san Gennaro, all’entrata della chiesa dal lato di Mulberry Street. È la stessa che è stata portata in processione e alla sua sinistra sta seduto il guardiano, con la spilletta del santo sul petto, che consegna un santino a chiunque si avvicina per aggiungere un dollaro alla vistosa cascata di danaro. Basta sostare davanti per pochi minuti per assistere a una sfilata delle diverse anime degli italiani di New York. Arriva la mamma con due figli piccoli al seguito, borsa firmata e infradito, che appone tre dollari, facendoli prima toccare ai figli. Poi spetta a un giovane energumeno, peserà cento chili, ha la testa rasata, il collo massiccio e indossa una maglietta tutta nera con sopra impressa solo la scritta «Italia». Tira fuori un dollaro dal portafoglio e mentre lo spilla guarda san Gennaro, tradendo una visibile commozione che svanisce appena si gira e se ne va, con passo celere. Dietro di lui un anziano che parla solo in dialetto, ma sa a memoria cosa ­80

fare, guarda il santo come si fa con un amico di vecchia data, ha portato molti biglietti da un dollaro da attaccare alla statua e poi si allontana per ripetere il gesto con la vicina statua di Padre Pio, anch’essa dotata di una striscia di stoffa rossa portadollari ma assai meno omaggiata. La chiesa del Most Precious Blood ha due entrate e quella opposta a Mulberry, su Baxter Street, è sorvegliata dagli uomini del servizio d’ordine come da un vistoso contingente del Dipartimento di polizia. Sono agenti di origine irlandese, asiatica o afroamericana. Il sindaco Michael Bloomberg nel 2007 si è battuto contro il comitato di quartiere che voleva interrompere la tradizione della Feast of San Gennaro, accusandola di essere troppo chiassosa nonché gestita dalla mafia, ma una volta salvata la tradizione di Little Italy ha deciso di moltiplicare gli agenti schierati, lasciando intendere che non tutte le obiezioni sollevate erano completamente infondate. D’altra parte nel 1996 furono 19 i membri del clan dei Genovese a finire in manette per una serie di crimini che partiva dagli omicidi e si concludeva con la sottrazione indebita dei dollari attaccati alla statua di san Gennaro. Gli investigatori dimostrarono che i Genovese gestivano il racket della Feast, raccogliendo tasse da ristoranti e bancarelle fino al punto da aver creato un sistema per la riscossione di affitti capace di rendere profitti pari a circa un milione di dollari l’anno. Riguardo ai dollari di san Gennaro, alla fine della festa venivano presi e messi in una borsa da un fedelissimo di Vincent Gigante, il boss morto nel 2005 noto per passeggiare nel Greenwich Village in pantofole e accappatoio. La Festa di San Gennaro è la cornice nella quale – durante i film Il padrino II e Il padrino III – il giovane Vito Corleone assassina il capoclan locale Don Fatucci e poi suo nipote, Vincent Mancini-Corleone uccide il rivale Joey Zasa, scatenando il panico fra la folla. E non si tratta solo di fiction. In tempi più recenti, anno 2004, Perry Criscitelli, presidente dell’associazione Figli di San Gennaro, venne accusato dall’Fbi di essere un «soldato» della famiglia Bonanno che aveva sostituito i Genovese nella riscossione de­81

gli «affitti» che prevedevano, sotto Natale, il versamento da parte di alcuni ristoranti di cifre fino a 15 mila dollari. Non c’è da sorprendersi se vi siano i newyorkesi che aspettano la Feast per dedicarsi alla tradizione denominata «Spot the Mobster», ovvero il divertimento di muoversi avanti e indietro fra la folla per riuscire a «vedere il boss mafioso» al fine di scattargli una foto o chiedergli un autografo. Il missionario di Flushing Ogni giovedì dai microfoni di Radio Maria Al Barozzi parla di fede con i credenti di New York. La trasmissione dura oltre un’ora, all’inizio il reverendo trentino affronta un tema spesso scabroso – dall’aborto alla pedofilia – a cui segue un botta e risposta che vede gli ascoltatori recitare preghiere ed esternare ogni sorta di passioni. Se i fedeli si confessano nell’etere con padre Barozzi, nato con il nome di Italo, è perché è un prete di strada, sempre in giro, a incontrare gente, parlare di matrimoni e funerali, pronunciare prediche alle processioni, cenare nelle case parlando di santi, scuole e battesimi, e anche raccontare barzellette che ha raccolto in uno dei suoi libri. Lo stile è quello appreso dai missionari della Consolata di Torino con i quali ha girato il mondo, dalle giungle amazzoniche in Venezuela al deserto marocchino di Marrakech, dopo essere stato ordinato prete a Roma nel 1965. L’arrivo a New York risale al 1967 ed è qui che ha studiato giornalismo alla Columbia University, lavorato per quotidiani italoamericani e collaborato con la Rai della natia Trento, affiancando lo slancio per la fede alla consapevolezza dell’importanza della comunicazione con ogni singolo cattolico. La convinzione che ne ha tratto è che «quando mi trovo a scegliere fra la regola e la gente, opto sempre per la gente». Così se gli impongono di fare i battesimi solo fino alle 14, lui li celebra anche se sono le 16.30 «perché vale più il battezzato della regola scritta». È questo approccio che ne fa un personaggio capace di entrare nelle viscere della comunità italoamericana, concentrata fra Brooklyn e Queens ­82

in tre grandi isole geografiche dove i fedeli cercano chiese e sacerdoti che si distinguono per la lingua italiana: a Bensonhurst attorno alle chiese di San Domenico, Sant’Attanasio e Santa Maria, a Ozone Park, dove sorge la chiesa della Natività della Madonna, e Flushing, dove ci sono Saint Lucia e Saint Mel. Proprio a Saint Mel, la chiesa che porta il nome irlandese del nipote di san Patrizio, Al Barozzi ha la sua base, da dove esce ogni giorno con una missione differente. Ecco come descrive il suo popolo di credenti: «Sono più ligi alle tradizioni rispetto a quanto non avvenga in Italia, vivono riuniti attorno a club che ripropongono i paesi di origine, onorano i santi e sono alle prese con il problema della lingua, che è poi quello del rapporto fra giovani e anziani». La questione nasce dal fatto che «gli anziani hanno sempre parlato il dialetto pensando fosse italiano, i giovani dunque non hanno mai appreso l’italiano e ora che la vecchia generazione scompare non hanno più alcun legame con l’Italia, non sanno leggere o scrivere la lingua così come ignorano chi siano Raffaello o Leonardo da Vinci. Certo sanno chi è Pavarotti ma non basta». A ciò si aggiunge la dinamica «che spinge i figli ad allontanare i genitori perché si sentono più americani di loro, considerandoli un rimasuglio del vecchio mondo». Da quindici anni la diocesi di BrooklynQueens gli ha affidato il compito di occuparsi degli italiani e Al Barozzi lo svolge immergendosi nel loro mondo ogni giorno dell’anno, senza interruzione. «C’è molto lavoro da fare perché i preti italiani sono sempre di meno – spiega – una volta le vocazioni erano da noi, ora sono nel Terzo Mondo, e dunque i sacerdoti sono africani o ispanici e gli italiani sono rimasti senza preti capaci di parlare la loro lingua». A Brooklyn e Queens sono «molte le chiese italiane senza preti» che vengono date a parroci che parlano altre lingue «soprattutto lo spagnolo» e il risultato è che «i fedeli non sanno con chi dialogare». Barozzi è fra i pochi che gira di strada in strada, di casa in casa, e ciò che vede è «un piccolo mondo dove gli immigrati dal Nord hanno fatto in una generazione quello che ai meridionali ne ha richiesto tre». Il risultato è che chi è arrivato dal Piemonte ­83

o dal Triveneto è «diventato rapidamente dottore o avvocato» mentre gli immigrati da Campania, Sicilia, Puglia o Calabria «hanno case, pizzerie e ristoranti». Sono questi ultimi «a vivere ancora in un universo dove la mafia è ben radicata». Padre Barozzi l’ha toccato con mano andando a predicare nel club di immigrati originari di paesi come Corleone: «L’identificazione con la mafia ha più cause, c’è chi ci arriva spinto dall’orgoglio delle origini, chi dalla nostalgia per il passato e chi dal miraggio di essere potente, rispettato e anche ammirato, non solo come i boss di un tempo ma anche inseguendo modelli di Hollywood tipo Sylvester Stallone». Al Barozzi parla della mafia come di una realtà immanente, di boss «che hanno costruito chiese con materiali portati dall’Italia», di «cene annuali di gran lusso alle quali vengono tutti vestiti di nero» e di «strade disseminate di bancarelle i cui titolari per vendere devono pagare l’affitto della strada a una sola persona». Ma ciò non toglie che «la famiglia conta più di tutto» per gli italoamericani, «anche più della Chiesa» perché «la benedizione dei genitori vale più di quella dei preti». E qui il padre missionario di settantadue anni, che gira a piedi e ogni giorno fa almeno un’ora di jogging, parla senza peli sulla lingua dei sacerdoti «troppo vaghi», incapaci di stabilire rapporti con i fedeli perché interpreti di un «credo immobile» che «a volte sconfina nella magia». «Nel passato essere prete significava indossare la toga e ripetere dei riti, oggi invece bisogna andare incontro alla gente, ascoltarla quando parla di tutto». Politica inclusa. «Quando nei club vedono tutti assieme in tv i tg italiani che descrivono le liti fra Di Pietro e Bossi, Berlusconi e Napolitano, la gente è scontenta, amareggiata, vorrebbe un’Italia integra, unita, solidale». Riguardo invece alla politica americana «in grande maggioranza gli italiani sono conservatori sui valori anche se a volte votano democratico» come ha fatto lui stesso alle presidenziali votando Barack Obama ma nel novembre scorso alle elezioni per il Congresso ha cambiato campo scegliendo i repubblicani, «perché questo presidente ha dimostrato di essere un parolaio, mancando le promesse fatte, non ha chiuso Guantánamo, continua due ­84

guerre, l’economia è un disastro e si è messo troppo nelle mani di Nancy Pelosi» nota sostenitrice dell’aborto. Riguardo ai rapporti fra gli italiani e le altre minoranze, Al Barozzi ne sa qualcosa in quanto ogni anno celebra fra i 30 e 40 matrimoni misti con ebrei «dal New Jersey al Connecticut». Tutti più o meno con lo stesso cerimoniale: lui e il rabbino fianco a fianco sotto il baldacchino, con preghiere delle due fedi, letture dal Vecchio e Nuovo Testamento e infine l’«unione delle candele», un rito che vede i due sacerdoti consegnare alle mamme degli sposi le rispettive candele che poi passano agli sposi che le uniscono per accenderne una terza simbolo della famiglia che nasce. Con gli afroamericani invece i rapporti «non sono buoni e c’è molto razzismo» dovuto al fatto che «gli italiani si sono affermati in America al prezzo di enormi sacrifici, con il lavoro duro di generazioni, e mal tollerano famiglie che da decine di anni si fanno mantenere dallo Stato sociale, pesando sulle finanze di tutti». Nel botta e risposta con i fedeli nelle chiese come su Radio Maria, spesso Al Barozzi si trova a parlare dello scandalo della pedofilia e la tesi che esprime è senza peli sulla lingua: «La differenza è fra i preti che vengono dalle università e quelli che invece sono passati solo dai seminari perché i primi hanno avuto contatti con il sesso femminile mentre gli altri no». Quando studiava giornalismo alla Columbia University, Barozzi fu corteggiato, ricevendo anche un’offerta di matrimonio ma scelse il celibato. È stato un momento che lo ha segnato: «Il celibato deve essere una libera scelta non un obbligo per i preti, non c’è scritto da nessuna parte che non bisogna sposarsi, è qualcosa che non ha nulla a che vedere con la teologia, gli apostoli erano sposati, perché noi non possiamo esserlo?». In un’occasione a Barozzi è capitato di trovarsi in una chiesa di New York alle prese con un prete che aveva commesso abusi: «Mi dissero che il sistema era più importante, gli risposi di no, ciò che conta di più sono le persone». E ancora: «Sono a favore anche delle donne prete, santa Maria Maddalena fu la più vicina a Gesù come dimostra il fatto che ­85

fu lei a sapere per prima della resurrezione» ma «purtroppo a non volere il sacerdozio femminile sono proprio le donne, non vogliono assumersene le responsabilità». La sua idea di «Chiesa della gente» si richiama all’esempio di Giovanni Paolo II, «un grande papa», mentre su Joseph Ratzinger è più freddo: «Quando ero a Roma lo vedevo ogni giorno andare in giro con la sua valigetta, scrive molto bene ma si mostra immobile di fronte ai bisogni della gente comune». Yeshiva University C’è un pezzo di Italia ebraica che negli ultimi quattro anni ha studiato alla Yeshiva University. Si tratta di Umberto Piperno, l’ex rabbino capo di Trieste, che nel 2006 decise di varcare l’Atlantico con moglie e tre figli seguendo le orme di un altro rabbino italiano, quell’Alberto Somek che fino a metà del 2010 ha guidato la comunità di Torino. Per Piperno, nato nel 1961 a Roma, dove i genitori avevano un negozio nei pressi di Fontana di Trevi, lo sbarco a Manhattan non è stato indolore: pur avendo il titolo di rabbino italiano si è dovuto rimettere a studiare praticamente da capo per ottenere la Smichà (laurea rabbinica) che gli consente di esercitare in America. Ciò ha significato quattro anni di studi «apprendendo modi diversi di approfondire gli argomenti come anche una maggiore specializzazione nel rabbinato» per via del fatto che, tanto per fare alcuni esempi, «in America una delle priorità del rabbino è la costruzione di un Eruv (la recinzione di un’area abitata che consente il trasporto durante il Sabato)» nonché la formazione di ministri di culto «con competenze dettagliate per le singole mansioni che possono svolgere, dall’essere cappellano ospedaliero e ufficiale di culto nelle Forze armate o nei pompieri». Il tutto «in un ambiente dove l’alta tecnologia è il pane quotidiano perché si studia grazie a software molto avanzati». Umberto Piperno vive a Riverdale, nell’area residenziale del Bronx a ridosso di Manhattan dove guida una congregation di sefarditi, e insegue un sogno che ritiene «realizzabile qui a ­86

New York» ovvero «creare un Tempio italiano» come punto di «accoglienza, incontro e studio» per gli italiani ebrei che vivono a New York «a cominciare dai tanti giovani universitari che ogni giorno vi vengono a studiare». Ma perché in una città come New York, con la maggiore popolazione ebraica urbana del Pianeta, dovrebbe aver successo una sinagoga italiana? «Perché l’ebraismo italiano ha le caratteristiche adatte per trasformarsi in un ponte fra culture diverse» nell’ambito di una collettività ebraica «segnata dalle vivaci divisioni fra ortodossi, conservatori e riformisti». Per accennare a cosa ha in mente, Umberto Piperno, che è stato rabbino anche a Udine, evoca l’esempio delle «sinagoghe italiane dei secoli passati che all’interno ospitavano congregazioni di riti differenti» rappresentando un modello di convivenza che «ancora oggi può diventare un punto di riferimento». D’altra parte proprio a New York viene pubblicata «Segulat Israel», la rivista di pensiero ebraico diretta da Donato Grosser per rilanciare in lingua italiana alcuni dei confronti più vivaci in corso nel pensiero ebraico americano, esprimendo un’altra declinazione del concetto di «ponte culturale». E a ben vedere è proprio questo lo spirito con cui, anno dopo anno, il console d’Italia a New York Francesco Talò in occasione del Giorno della Memoria – che ricorda la liberazione del campo di sterminio di Auschwitz il 27 gennaio 1945 – esce dal portone su Park Avenue e, proprio sotto la bandiera italiana, partecipa alla lettura dei nomi di tutti gli ebrei italiani deportati dai nazifascisti. «È un evento unico in questa città – osserva il rabbino Arthur Schneier della sinagoga di Park East, gemellata con quella di Roma – e testimonia quanto il legame fra ebrei e Italia giovi molto anche alla vita di New York».

L’Italia

Tricolori sulla Fifth Avenue I bersaglieri in alta uniforme portano il tricolore con stampato sopra il motto mazziniano «Dio e Patria» aprendo la sfilata del Columbus Day sulla Fifth Avenue. È il momento in cui gli italiani di New York celebrano, con orgoglio e passione, la loro identità. Sono in decine di migliaia a ritrovarsi all’incrocio fra la 47a Strada e la Fifth Avenue per marciare verso nord, fino alla 72a Strada, seguendo un ordine che descrive i valori nel giorno in cui l’America intera rende omaggio a colui che la scoprì nel 1492, il navigatore genovese Cristoforo Colombo. Il Columbus Day cade ogni secondo lunedì di ottobre, viene proclamato dal presidente degli Stati Uniti, è considerato giorno di festa in tutto il Paese ed è celebrato da ogni città e agglomerato urbano in maniera differente. A New York la tradizione della sfilata risale al 1866 e si ripete ogni anno dal 1929, dando vita a un momento di orgoglio etnico italiano nel quale gli originari dell’Old Country sfilano fra due ali di folla davanti alla cattedrale di San Patrizio, circondati da una moltitudine di bandiere tricolori e stelle e strisce di ogni grandezza e forma. Se è vero che ogni gruppo etnico-religioso ha il giorno della propria parata a New York, gli italiani si distinguono per due caratteristiche: la soverchiante presenza di corpi di polizia, simbolo dell’integrazione raggiunta, e le macchine d’epoca, in gran parte Ferrari e Maserati, considerate il fiore all’occhiello del Made in Italy. ­88

Gli agenti del Dipartimento di polizia marciano in alta divisa a cavallo, su motociclette con la scritta «Sheriff», a piedi con la banda o semplicemente gli uni accanto agli altri. A centinaia. I tricolori sono ovunque, a fianco ai drappi delle unità scelte che combattono il crimine organizzato in New Jersey, il terrorismo a Manhattan o i reati finanziari in Connecticut. Si tratta di veterani, ufficiali, agenti di nomina recente e intere pattuglie. In alcuni casi dentro le auto con cui vanno di ronda, quelle che si vedono ogni giorno sulle strade ma anche altre, vecchie di mezzo secolo, oppure quelle bianconere con dentro le grate di ferro per fare da cella per i peggiori criminali appena arrestati. Il tributo che gli assegna la folla svela il riconoscimento per questi corpi che tanto hanno contribuito all’integrazione sociale in città, come anche a smentire l’immagine e i pregiudizi sugli italiani-mafiosi. Ad alternarsi con le divise blu ci sono quelle nere dei carabinieri, seguite dalla Polizia di Stato, a sottolineare l’alleanza di ferro fra i due Paesi nel garantire la sicurezza collettiva. Il tutto in una festa di colori che sovrappone i carri allegorici dei Columbus Citizens a quelli giunti dalle province italiane, soprattutto del Sud, che mostrano le veneri del Golfo di Napoli, i Bronzi di Riace, i carretti tipici della Sicilia e quant’altro richiami i luoghi da dove milioni di italiani sono arrivati a Ellis Island negli ultimi 130 anni. Sullo sfondo le musiche vanno da God Bless America, che per i newyorkesi evoca la reazione collettiva agli attentati dell’11 settembre 2001, a New York, New York di Frank Sinatra fino a Volare di Domenico Modugno, ma non mancano anche le cornamuse irlandesi, le melodie ispaniche delle scuole di ballo di Brooklyn e perfino il Ponte sul fiume Kwai intonato dalla banda della polizia di Tokyo, sebbene il motivo evochi un film sulla Seconda guerra mondiale nel quale il Giappone era descritto come il più spietato dei nemici. La sovrapposizione fra colori e identità diverse è nel Dna di New York, incarna il messaggio che se questa è la sfilata che celebra l’eredità italiana ciò avviene nella cornice di una metropoli orgogliosa di essere multietnica. A metà del corteo ­89

in genere sfilano i pompieri, il corpo decimato dall’attentato alle Torri Gemelle che ha visto gli italiani pagare un tributo di sangue fra i più alti. Quando passano i camion rossi, con le sirene lampeggianti, la gente lungo i marciapiedi grida «God Bless America» e «Viva Napoli» quasi a una sola voce. Subito dopo tocca ai politici e alle istituzioni, di entrambi i Paesi. Per New York sfilano il sindaco, il governatore, gli eletti nel Parlamento dello Stato ad Albany come nel consiglio cittadino, seguiti dal procuratore generale e da una miriade di cariche amministrative, con in fondo anche i candidati in lizza nelle principali sfide elettorali se si è alla vigilia di un voto importante. Non c’è infatti migliore occasione per fare campagna che la Columbus Parade, quando gente di ogni quartiere di New York si ritrova lungo il percorso della sfilata. Mischiati fra loro gli italiani: può trattarsi di ministri arrivati da Roma, sindaci di città importanti come Roma o Milano oppure dell’ambasciatore a Washington e del console di New York. Al passaggio vengono salutati da ovazioni e applausi come raramente avviene per le autorità pubbliche nelle città italiane. Ma la persona che più riassume l’identità della sfilata è il «maresciallo» designato dalla Columbus Citizens Foundation che dal suo quartier generale in un’elegante palazzina neoclassica all’8 East della 69a Strada rinnova di anno in anno la tradizione iniziata da Generoso Pope, l’uomo d’affari che il 12 ottobre 1929 guidò da East Harlem a Columbus Circle la prima di queste parate. «Marescialli» sono stati negli ultimi dieci anni personaggi diversi fra loro come l’ammiraglio Edmund Giambastiani, la regina della cucina italiana Lidia Bastianich, lo stilista Roberto Cavalli e Maria Bartiromo, stella della tv economica. Ciò che colpisce della Columbus Parade è quanto metta in luce le persistenti distanze emotive fra italiani d’America e della madrepatria: i primi si emozionano nel vedere i tricolori, applaudono con le lacrime agli occhi, cercano nei carri allegorici figli e parenti così come nei simboli di cartapesta richiami al proprio passato, mentre i secondi sono in genere turisti di passaggio nella Grande Mela usciti di ­90

mattino dagli hotel per fare shopping lungo la Fifth Avenue che si trovano all’improvviso immersi in una festa della quale ignoravano l’esistenza, reagendo dunque alla parata con un misto di sorpresa, sarcasmo e cinismo. Sostando per alcuni minuti vicino ai rivenditori di piccole bandiere tricolori ci si accorge che la maggioranza di chi le acquista non sono turisti italiani di passaggio ma immigrati italiani che hanno scelto di restare. In trincea contro i pregiudizi Vincenzo Milione è un ricercatore della City University di New York e ha legato il suo nome alla battaglia contro i pregiudizi anti-italiani lanciando al proprio ateneo la più dura delle accuse: «Ci discriminate in base all’origine». Per provare l’affermazione Milione è andato a spulciare negli archivi dell’università, arrivando a sostenere che «negli ultimi trent’anni la percentuale di italoamericani fra docenti e personale è rimasta stabile fra il 5 e 6% mentre il numero di afroamericani, ispanici e asiatici si è impennato». Ironia della sorte vuole che Milione punti l’indice contro il Calandra Institute creato dalla City University di New York proprio per tutelare l’eredità italiana. L’ateneo nega la discriminazione avanzando altri numeri – la percentuale dei docenti bianchi dal 1981 è diminuita del 20% mentre gli italiani sono cresciuti dal 5,8 al 7 – ma Milione ribatte che «il pregiudizio degli italiani mafiosi diffuso da film e tv ha fatto danni anche nel mondo universitario» e lascia intendere di essere disposto ad andare avanti, portando la sfida sul terreno legale fino a immaginare la necessità di una Affirmative Action – le norme sulla tutela della presenza di afroamericani nelle scuole e negli impieghi pubblici – anche per gli italiani d’America. Ciò che colpisce nella battaglia di Milione, un corpulento docente cinquantenne, è la convergenza con le battaglie di pubbliche relazioni condotte negli ultimi anni dalla Niaf – la National Italian American Foundation, che è la maggiore ­91

organizzazione degli italoamericani – contro i film, serial tv e reality show accusati di diffondere immagini negative degli italiani. La tesi della Niaf infatti è che alla base dei pregiudizi così radicati in differenti generazioni di americani vi sia l’impatto del grande e piccolo schermo. Le campagne più recenti sono state contro Jersey Shore, il reality show trasmesso da Mtv, e The Sopranos, il serial tv andato in onda per sei stagioni su Hbo e premiato da pubblico e critica per la capacità di raccontare dal di dentro la vita di una famiglia di mafiosi nei ricchi sobborghi sempre del New Jersey a ridosso di Manhattan. Nel mirino della Niaf sono finite anche alcune puntate di Desperate Housewives, il serial della tv Abc sulle casalinghe disperate, per il fatto che fra le protagoniste c’è una donna sgarbata nei modi, ex amante di un terrorista e sexy in maniera volgare che parla con accento marcato e cucina pasta con «la salsa imparata dai nonni» di immancabile origine italiana. La tesi di Joseph Raso, presidente della Niaf, è che «siamo tutti sotto attacco» da parte di una «cultura di massa» frutto delle semplificazioni di Hollywood che finisce per complicare la vita alle nuove generazioni o anche a docenti come Milione facendo leva su immagini come quella dei «Guidos». L’Order Sons of Italy sostiene tesi analoghe individuando il maggior responsabile della «caratterizzazione negativa degli italiani d’America» nella trilogia del Padrino realizzata da Francis Ford Coppola sulla base del romanzo di Mario Puzo. Sarebbe stato infatti proprio il successo del Padrino a generare una tipologia di pellicole come Analyze That, Good Fellas e Mickey Blue Eyes, dove i gangster sono esclusivamente di origine italiana, al pari di quanto avvenne nei primi film di questo tipo che risalgono all’inizio del Novecento, come The Black Hand del 1906, The Italian Blood del 1911 e The Last of the Mafia del 1915. Chiedendo a Raso su quale base vengano avanzate tali accuse, ci si trova di fronte ai sondaggi realizzati da Zogby International – una delle più stimate società demoscopiche – che all’inizio del 2001 pubblicò uno studio sui pregiudizi nei confronti dei gruppi ­92

etnici arrivando a concludere che per la maggioranza degli americani gli italiani sono rappresentati sugli schermi da personaggi come «boss mafiosi, criminali, membri di gang e camerieri di ristoranti». L’Order Sons of Italy identifica inoltre un ulteriore filone di «diffusione del pregiudizio» nel campo della pubblicità commerciale perché – come documenta uno studio pubblicato nell’estate del 2003 – «gli uomini italiani vengono presentati come rozzi, disonesti e violenti». Dal caso della Godfather’s Pizza il cui slogan è il dialettale «Stay a home with da family» illustrato con un coupon denominato The Mob Pleaser (L’animatore della mafia), fino alla compagnia telefonica AT&T che per reclamizzare la banda larga ricorre a uno spot nel quale due protagonisti dei Sopranos minacciano un insegnante per spingerlo a dare ottimi voti a un alunno. Ad accomunare Niaf e Sons of Italy c’è la memoria delle ferite subite a causa di tali pregiudizi, a cominciare da quel che avvenne nel 1891 a New Orleans quando undici italiani vennero linciati dalla folla dopo essere stati accusati di aver complottato l’assassinio dei membri del locale distaccamento di polizia. Si tratta di eventi drammatici, che ritornano spesso nella memoria collettiva, sovrapponendosi a episodi quotidiani che vanno dalle battute sugli «italiani mafiosi» ai frequenti ritratti di Snooki – una delle protagoniste di Jersey Shore – come di una anti-star espressione della classe media più ai margini della cultura popolare. Abbandonati per un secolo La sovrapposizione fra la moltiplicazione del numero di italiani arrivati di recente a New York e la legge elettorale che dal dicembre 2001 consente ai residenti all’estero di votare per la Camera e per il Senato spiega perché un significativo numero di leader politici faccia tappa a Manhattan per affrontare vivaci botta e risposta con gli emigrati più interessati alle vicende politiche. Romano Prodi affronta un pubblico di oltre duecento giovani in un loft a ridosso di Canal Street alla ­93

vigilia della decisione di candidarsi alle politiche del 2006. Francesco Rutelli, Gianfranco Fini, Roberto Maroni, Roberto Formigoni, Massimo D’Alema in momenti diversi degli ultimi dieci anni incontrano il pubblico degli studenti della New York University nell’auditorium della Casa Italiana Zerilli-Marimò ricevendo domande spesso pungenti, anche da parte di giovani americani appassionati di Italia. Marcello Pera, Giuliano Amato, Walter Veltroni, Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano vengono ricevuti con tutti gli onori nella cornice dell’Italian Academy della Columbia University. Marco Pannella e Nichi Vendola scelgono ristoranti ben conosciuti dai connazionali per ricevere l’abbraccio di piccole folle di affezionati che si riconoscono nelle rispettive battaglie. Per non parlare della folta schiera di leader politici, da Pierluigi Bersani a Ignazio La Russa e Mara Carfagna, che anno dopo anno fanno tappa per pochi giorni a New York ritagliandosi eventi con comunità di emigrati che condividono la stessa fede politica, origine geografica o passione calcistica. In genere tali eventi riscuotono un notevole successo di pubblico. Ad ascoltare Fini sull’identità italiana nei saloni dell’Hyatt Hotel nell’inverno 2010 c’è una folla incontenibile anche per la ballroom dei grandi eventi, così come per Vendola il ristorante Matilda sulla 11a Strada non riesce a fare fronte al gran numero di avventori, D’Alema registra il tutto esaurito alla Casa Italiana e grande curiosità circonda Pierluigi Bersani a Brooklyn o Clemente Mastella quando partecipa alla sfilata del Columbus Day. Per non parlare dell’aula gremita di studenti, italiani e non, alla New York University per ascoltare il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, sul tema del futuro dell’Europa. Ma a dispetto di tali singole occasioni di significativa partecipazione, quando si tratta di votare la quota degli aventi diritto che compila le apposite schede spedendole per posta supera a stento il 30%: alle politiche del 2006 i votanti sono 17.242 su 54.596 elettori (31,58%) per la Camera e 16.645 su 52.139 per il Senato (31,81%) e due anni dopo i dati quasi si ripetono con 17.405 votanti su ­94

52.765 elettori (32,99%) per la Camera e 16.673 votanti su 50.605 (32,95%) al Senato. Per comprendere l’origine di tale apparente contraddizione bisogna lasciarsi alle spalle il Washington Bridge, superare il fiume Hudson e inoltrarsi in New Jersey per oltre un’ora di auto fino ad arrivare al 72 di Franklin Turnpike, a Waldwick, dove in una casa bassa e biancastra, circondata da un giardino irregolare, abita Antonio Ciappina, ovvero il reporter veterano di «America Oggi», il giornale più diffuso nella comunità italoamericana diretto da Andrea Mantineo. Nato a Messina nel 1925, ex interprete degli americani in Sicilia durante la guerra, ex importatore di legno dall’Alabama a Genova ed ex correttore di bozze nel «Progresso ItaloAmericano» – predecessore di «America Oggi» – Ciappina si rifiuta di usare macchine fotografiche digitali, registratori e computer, prende sempre appunti scritti, la sua passione sono processioni e feste paesane, con preti e prelati sempre in primo piano, viaggia nonostante l’età avanzata e acciacchi in giro per il mondo e ha un amico francescano nelle Ande, dove si reca regolarmente perché promuove raccolte fondi per le sue opere umanitarie. Raccoglie pane che consegna a bisognosi, in passato ha insegnato italiano e tutti, anche in redazione, lo chiamano «professore», in segno di rispetto per età, opere e passione civica. Entrare a casa sua significa tastare il polso al mondo dell’emigrazione. Nel sotterraneo di una casa che ha costruito muro per muro, ci sono pareti ricoperte di libri di storia, bandiere, cartine geografiche e una miriade di riconoscimenti avuti dai «sodalizi», ovvero le Mutual Aid Societies (Società di mutuo soccorso) formate dagli emigrati per riunirsi sulla base dell’origine geografica. «Nessuno meglio di Antonio Ciappina conosce l’animo e la storia degli italiani di New York» assicura Riccardo Chioni, firma di «America Oggi». E Ciappina spiega la scarsa partecipazione degli italoamericani alla vita pubblica italiana con «l’esistenza di un vulnus molto profondo, sepolto dentro migliaia di famiglie». ­95

Ecco di cosa si tratta: «Gli emigranti qui sono iniziati ad arrivare nel 1870 circa e per oltre un secolo l’Italia non si è occupata di loro se non per sbrigare, con grande difficoltà, la burocrazia relativa a passaporti e pensioni». È stato «un periodo lungo e doloroso, nel quale migliaia di famiglie si sono sentite abbandonate, tradite, ignorate dalla loro terra di origine». La formazione dei «sodalizi», club intitolati ai singoli paesi di origine, «è servita per sopperire alla mancanza dell’Italia» che «è stata tanto più grave quanto si è sommata alla memoria di gran parte dei meridionali, che sono la schiacciante maggioranza degli emigrati, sul disastro umano seguito all’Unità d’Italia, quando i nordici scesero al Sud non per costruire fabbriche ma per riscuotere ogni sorta di tasse». Se dunque nel secolo seguito alla breccia di Porta Pia l’Italia ha vissuto una progressiva – quanto ancora incompleta – integrazione fra Nord e Sud, le comunità di emigrati hanno «vissuto una storia diversa, fatta di un altro abbandono». L’inversione di marcia «è arrivata negli anni Ottanta, prima con la creazione dell’Aire, l’anagrafe per i residenti all’estero, e poi con l’elezione dei Comites che li rappresentano», dando vita a «un processo nuovo, di maggiore identificazione fra gli emigrati e il Paese di origine». Ma «ciò non ha portato a un forte interesse per la politica italiana a causa di due problemi differenti» sottolinea Ciappina. Ecco di cosa si tratta. Primo: «La scarsa conoscenza dell’italiano da parte della seconda e terza generazione di immigrati – si tratta di figli e nipoti cresciuti in famiglie che avevano scelto l’integrazione in America in risposta all’abbandono subito dall’Italia – e l’effetto con cui dobbiamo fare i conti è che i più giovani oggi considerano la lingua di Dante un obbligo e non un piacere, con la conseguente difficoltà nel seguire le vicende della politica italiana». Secondo: «A Roma i leader politici cambiano troppo velocemente, non facciamo neanche in tempo a impararne i nomi, la gente si confonde e dunque si allontana». Senza contare che «ne abbiamo viste di tutti i colori, dai gemellaggi fra città andati in fumo per l’incuria delle amministrazioni ­96

italiane alle vere e proprie truffe, come quella consumata ai danni di un imprenditore del New Jersey che andò a Palermo per donare mille dollari a ogni ragazza vergine e finirono per estorcergli con l’inganno oltre 100 mila dollari». «È triste ma vero, il legame con l’Italia riguarda oramai solo una ristretta minoranza di emigrati e si tratta quasi sempre di gente arrivata molto di recente, negli ultimi venti anni, tutti gli altri non hanno fiducia e dunque non votano, quando dicono ‘noi’ intendono un’Italia che è quella immersa nei ricordi del passato non certo della vita politica di oggi» conclude Ciappina, sorseggiando vino con ghiaccio versatogli da Cindy, la «mia fidanzata di settantaquattro anni di età che mi ha presentato il nostro comune prete quando sono andato al funerale del marito». La ferita storica di cui parla il vecchio cronista fa fatica a rimarginarsi perché un secolo di abbandono ha causato conseguenze a pioggia – a cominciare dalla carente conoscenza dell’italiano delle nuove generazioni, che rende più difficile l’identificazione con l’Old Country – anche se i tentativi per riconquistare fiducia e credibilità negli ultimi anni non sono mancati da parte dello Stato, non solo grazie alla creazione e al sostegno ai Comites ma anche attraverso gesti simbolici come la decisione del console generale a New York Francesco Talò di scegliere la nave per il viaggio di insediamento al fine di ripercorrere attraverso l’Atlantico momenti e sensazioni che segnarono l’arrivo di milioni di connazionali. Mulberry Street non vota «Qui non vota nessuno». Cappello rosso degli Yankees in testa e tazzina in mano, Ciro Silvestri è il proprietario di Caffè Napoli a Mulberry Street, nel bel mezzo di una Little Italy ricoperta di neve. «Ho trentasette anni, da sedici vivo a New York, amo l’Italia e soprattutto Napoli, la mia città – dice Ciro – ma non chiedeteci di andare a votare per le politiche perché è evidente a tutti che i partiti non si occupano di noi». Nell’area della Grande Mela che somma New York, New Jersey e ­97

Connecticut risiedono poco più di 3 milioni di italoamericani e gli aventi diritto al voto sono circa 75 mila ma a spiegare lo scetticismo che circonda il diritto al voto – sancito per la prima volta alle elezioni 2006 – è Quintino Cianfaglione, presidente del Comites di New York e Connecticut: «Il sistema di voto è un’autentica barzelletta e inoltre tutti i partiti impongono i candidati dall’alto, con decisioni prese a Roma, perché mai la gente dovrebbe sentirsi coinvolta?». Cianfaglione è di centrodestra, e nel 2006 si candidò con la lista Tremaglia, ma le perplessità sul sistema elettorale sono identiche a quelle che esprime Graziella Bivona, che nel 2008 corse con il centrosinistra: «Vengono spedite per posta schede non numerate che chiunque potrebbe ristampare in proprio, senza contare che sono poi compilate e rispedite in assenza di controlli, così quando arrivano al Consolato per essere spedite a Roma nessuno può affermare con certezza che a votare siano stati proprio gli aventi diritto destinatari delle schede». E Cianfaglione aggiunge: «Oltre che vulnerabile ai brogli il metodo del voto per posta è davvero caro, ogni busta alla fine viene a costare 20-30 dollari, optando per i seggi elettronici si risparmierebbe molto ma è come se lo Stato volesse a tutti i costi buttare i soldi al vento». L’altro nodo è la scelta dei candidati. «Alle elezioni del 2008 la circoscrizione del Nordamerica ha eletto due candidati canadesi e uno di Filadelfia mentre il grosso degli aventi diritto è nella regione di New York, non è una evidente contraddizione?» si chiede Stefano Vaccara che per «America Oggi» ha seguito la campagna elettorale. Tony Di Piazza, vicepresidente del Comites, risponde così: «I candidati, di destra e di sinistra, non esprimono la base elettorale, sono frutto di decisioni prese a Roma dai partiti, che scelgono singoli personaggi solo perché a loro molto legati, sulla base di favoritismi, sarebbe assai meglio fare le primarie ma nessuno le vuole». A essere eletti nel 2008 sono stati alla Camera Gino Bucchino di Toronto (Pd) e Amato Berardi di Filadelfia (Pdl) mentre al Senato ha prevalso Basilio Giordano di Montreal (Pdl). «L’unica cosa che conta per le segreterie dei partiti di ­98

Roma è chi paga di più per farsi candidare – aggiunge Bivona, popolare conduttrice alla radio italoamericana Icn del New Jersey – anche perché con una circoscrizione che si estende dal Canada al Costarica solo chi ha soldi in abbondanza può permettersi di fare campagna, io avevo appena 10 mila dollari di fondi e bastò un viaggio a Toronto per finirli tutti». Vista dal Canada la situazione non è differente. «Ho seguito la campagna del 2008 dall’inizio alla fine – racconta Angelo Persichilli, reporter del «Corriere Canadese» di Toronto – ma di eventi pubblici non ve ne sono praticamente stati e anche dopo il voto la vita politica qui è restata a quota zero, e non potrebbe essere altrimenti visto che il sistema con cui si vota è una barzelletta». Davanti al banco del Caffè Napoli si sono raccolti oramai una dozzina di avventori ed è sempre Ciro che parla per tutti: «Ciò che deve preoccupare le segreterie dei partiti è il fatto che a non votare non sono tanto gli immigrati giunti qui mezzo secolo fa, che oramai sono diventati americani, ma gli italiani come noi, di ultima generazione, giunti dal 1990 in poi, che tornano spesso, sono al corrente di ciò che avviene e pensano sovente all’ipotesi di tornare». Circondato da un assenso generale, il fan degli Yankee con accento partenopeo conclude in crescendo: «I partiti non ci considerano? E noi facciamo lo stesso con loro». La conversazione finisce qui perché tanto Ciro che gli altri hanno fretta di spalare la neve che ricopre i marciapiedi di Little Italy prima che arrivino i clienti dell’ora di cena. Conta più il cibo che la lingua Corre l’anno 1977 quando Franco Zerlenga, nato a Torre del Greco e arrivato a New York nel 1968, durante una giornata di lavoro nell’Istituto italiano di Cultura su Park Avenue si trova fra le mani un documento della Farnesina che lo fa rabbrividire. «Si trattava di una circolare del ministero degli Esteri nella quale si suggeriva al direttore dell’Istituto di Cultura di non avere rapporti con gli italoamericani» ricorda, ­99

tradendo con la voce un’emozione che conserva viva, misto di rabbia e stupore. «Era passato oltre un secolo dall’arrivo dei primi immigrati italiani in America ma la patria d’origine ancora non si fidava di loro a causa dell’ostilità che circondò quella partenza in massa» sottolinea, facendo leva su cognizioni e studi che lo hanno portato a insegnare alla New York University. Da allora molto è cambiato: ambasciatori, consoli e direttori dell’Istituto di Cultura fanno a gara nel consolidare e rinnovare il legame con gli italiani all’estero ma comprendere quella ferita iniziale aiuta ad andare alla genesi della «fragile identità italiana» degli immigrati trasmessa a generazioni di discendenti. «Tutto nasce da quel vulnus iniziale, con il Sud che si svuota a causa della mancata identificazione con lo Stato unitario e l’Italia che subisce il fenomeno dell’emigrazione di massa come un tradimento, non solo dell’ideale unitario ma anche degli interessi molto concreti dei proprietari terrieri che vedevano fuggire oltre Atlantico una manodopera che consideravano preziosa per lo sviluppo economico». C’è dunque una ferita originaria nel rapporto fra l’Italia e gli italiani di New York alla quale Zerlenga aggiunge un altro elemento: la lingua. «Quando gli immigrati arrivarono a decine, centinaia di migliaia parlavano i dialetti dei villaggi d’origine non certo l’italiano, che non conoscevano, e ciò ha prodotto la conseguenza che la prima e seconda generazione di italoamericani parlando di ‘Italia’ in realtà intendevano una matrice geografica e linguistica molto ristretta». Da qui il fatto che la terza generazione di italoamericani conosce assai poco la lingua di Dante «perché si tratta di gente che si è trovata ad apprenderla in America, come se fosse una lingua straniera». Il fenomeno della riscoperta dell’italiano oggi distingue molte istituzioni scolastiche, a New York e negli Stati Uniti, «ma avviene con grande ritardo» sottolinea Zerlenga – classe 1942 – e dunque «per questi milioni di immigrati è stato il cibo a sostituire la lingua come legame con villaggi e famiglie del passato». Sono state le pietanze espressione di culture dialettali, e non la lingua italiana, a comporre la memoria ­100

collettiva di una popolazione di immigrati che sul territorio si è frammentata. Tutto ciò ha accelerato un’integrazione che secondo il sessantanovenne ex docente «spiega perché gli italoamericani in realtà si considerano americano-italiani, non si sono mai pianti addosso per i pregiudizi che li circondano e sono stati protagonisti di successi in ogni settore della vita di New York, dal business alla politica, sempre lavorando molto duramente». Se dunque «hanno un’identità italiana fragile» quella americana «è molto consistente» anche grazie al «patriottismo» testimoniato dai molti italiani che vestono ogni tipo di divisa, dai pompieri ai poliziotti fino alle Forze armate. «A essere decisiva è stata la Seconda guerra mondiale, molti vennero mandati dall’esercito a combattere in Italia perché bombardando la nazione d’origine avrebbero provato la fedeltà alla nuova patria» sottolinea Zerlenga, parlando di un fenomeno «doloroso ma diffuso» che «ha avuto successo nel forgiare l’identità americana delle nuove generazioni» contribuendo anche a «lasciarsi alle spalle retaggi del passato come antisemitismo e razzismo contro i neri che gli immigrati avevano portato con sé attraverso l’Oceano» assieme a termini come «mulignane» – le melanzane dal colore esterno nero – per identificare gli afroamericani. Nato nell’Italia ancora in guerra, educato dai gesuiti ed ex studente di teologia, Zerlenga arriva a New York nel 1968 «per cercare una verità che nella Chiesa non aveva trovato» e, passando dalla conoscenza di Erich Fromm a quella di Allen Mandelbaum – il maggiore esperto americano di Dante –, studia teatro con Herbert Berghof e Uta Hagen, arriva alla cattedra della New York University dopo l’11 settembre 2001 per insegnare Storia dell’Islam su impellente richiesta di un ateneo che vede in lui la possibilità di approfondire la conoscenza dei nuovi pericoli. È la molteplicità di esperienza a distinguere l’identità newyorkese di Zerlenga, che appena può si rifugia nel ristorante napoletano di Bleecker Street il cui nome, Kestè, come lui stesso spiega, «viene dal partenopeo Chist’è, ovvero That’s it». ­101

La baronessa della Nyu Central Park si estende a vista d’occhio fino a Harlem dalle grandi finestre dell’elegante appartamento dell’Hampshire House dove Mariuccia Zerilli-Marimò ha la sua casa dal 1987. Quadri d’autore, vasi in ceramica, libri d’arte, mobili d’epoca, tappezzeria rossa e l’inseparabile cameriera portoghese creano un’atmosfera che evoca l’alta borghesia lombarda di inizio Novecento dalla quale proviene la moglie dell’ex Ceo dell’industria farmaceutica Lepetit, Guido Zerilli-Marimò, scomparso nel 1981. La baronessa, come tutti la chiamano a New York con un misto di affetto e rispetto, sbarcò per la prima volta a Manhattan nell’ottobre 1950. Arrivò a bordo di uno dei transatlantici che partivano da Southampton, in Gran Bretagna, diretti verso la baia dell’Hudson. Fra i suoi vanti c’è di «averli provati quasi tutti», dall’Andrea Doria «a bordo del quale passammo un’epica tempesta che si sentiva molto per la cattiva qualità degli stabilizzatori» all’ultimo arrivato Queen Elizabeth II, che definisce «assai più solido e accogliente» dei predecessori «anche se con il neo di essere uscito dai cantieri navali francesi e non italiani, cosa che ho fatto ben presente al comandante». «Arrivare a New York dall’Atlantico è un’emozione unica, che appena posso ripeto anche se oramai preferisco spostarmi in aereo» assicura, parlando della «brezza dell’Oceano» e dei «brividi che chiunque prova quando all’orizzonte si scorge la sagoma della Statua della Libertà». Con i natali nella famiglia meneghina dei Soncini, nell’immediato dopoguerra incontra il futuro marito nella cornice del comune sostegno al Partito liberale italiano di Giovanni Malagodi e si ritiene oggi interprete dell’eredità di un uomo che fece la sua fortuna nell’industria farmaceutica, portando in Italia prodotti e scoperte scientifiche americane per aiutare la Ricostruzione nazionale. Mariuccia Zerilli-Marimò confessa di essersi sentita subito a casa a New York e per questo vi si trasferì nel 1987, acquistando l’appartamento con vista su Central Park grazie ai proventi ­102

della vendita della casa di famiglia, una elegante residenza disegnata da Gio Ponti immersa in un giardino nel bel mezzo di Milano, proprio dietro via Manzoni. La scelta è stata di puntare sulla New York University per onorare «la memoria di mio marito e l’amore per l’Italia», decidendo di creare una Casa Italiana destinata a ospitare un Dipartimento di Italian Studies in maniera analoga a quanto già avveniva per gli studi francesi, tedeschi ed ebraici. Al rettore John Brademas l’idea piacque, il consiglio dell’ateneo la fece propria e la baronessa setacciò Manhattan, trovando ciò che cercava nel Greenwich Village, ovvero l’area che in passato aveva ospitato una delle prime Little Italy. Tre anni dopo, nel novembre 1990, è così lei a inaugurare la Casa Italiana nella palazzina a sei piani al 24 West della 12a Strada, vicino a Washington Square, costruita nel 1851 e già proprietà del generale Winfield Scott, eroe della guerra del Messico. La Casa Italiana della New York University è a tutt’oggi il più effervescente punto di contatto fra la cultura della Penisola e gli studenti della Grande Mela. Ogni anno somma fra i 90 e 100 eventi che offrono agli studenti della New York University l’opportunità di immergersi nella memoria e nell’attualità italiane. Se l’Italian Academy della Columbia University si distingue per ospitare docenti e ricercatori italiani – sulla base di un accordo fra l’ateneo e il governo italiano – e l’Istituto di Cultura italiano su Park Avenue promuove eventi scelti e finanziati da Roma, la «Zerilli-Marimò» è invece interamente frutto delle donazioni private garantite dalla baronessa, che hanno poi innescato un meccanismo di autofinanziamento al quale la New York University garantisce il contributo per la costante manutenzione. Sul palco dell’auditorium della Casa Italiana sono passati in molti: Vittorio Gassman ha recitato la Divina Commedia di Dante, Giorgio Strehler ha parlato su Pirandello e Giuseppe Tornatore ha raccontato le sue opere, Martin Scorsese ha descritto l’approccio al cinema, il musicologo Fred Protkin ha intervistato i grandi dell’Opera, il banchiere Giovanni Bazoli ha parlato di fede, pace e guerra nel ­103

bel mezzo del conflitto in Iraq e una folta schiera di politici – da Gianfranco Fini a Massimo D’Alema passando per Letizia Moratti, Francesco Rutelli e Achille Occhetto – si sono seduti per rispondere alle domande pungenti di giovani americani e italiani di New York accomunati da curiosità e dubbi sulla politica italiana. È proprio l’interazione fra studenti americani e personalità italiane che rende unica la «Zerilli-Marimò». La baronessa ricorda ogni singolo evento di oltre venti anni di attività come se fosse avvenuto ieri ma riserva per Gassman qualche emozione in più: «Era anziano, parlò agli studenti come fa un padre di famiglia e seppe trasmettergli un grande interesse per la vita». La colpì anche la recitazione di Dante ovvero «un mondo per avvicinare gli studenti alla lingua del nostro Paese». Se è vero che il lavoro di Stefano Albertini, direttore della Casa Italiana dal 1994, è stato e resta il perno delle attività che si susseguono, a stimolarlo c’è la passione inarrestabile di una donna che si definisce «orgogliosamente italiana». Ecco come lo spiega: «Anche se di questi tempi non va più di moda essere fieri del nostro Paese io lo sono, e molto, per quello che abbiamo fatto negli anni della Ricostruzione, quando siamo usciti dalla guerra con una nazione distrutta, dove non c’era più nulla, Milano per il 62% era ridotta in macerie, ci siamo rimboccati le maniche e l’Italia si è rialzata, ce l’ha fatta, è un risultato che non è mai stato scontato, lo abbiamo sudato duramente, per questo ogni volta che vedo il Tricolore o ascolto l’inno di Mameli mi commuovo, qui a New York, a Buenos Aires, San Paolo o in qualsiasi altro luogo». La Casa Italiana per la baronessa serve proprio a «trasmettere la conoscenza e l’orgoglio per l’Italia, la sua cultura, storia, arte al fine di condividerla con New York, nella quale mi sento a casa proprio come a Milano». Sui banchi della Rutgers University Ore 16.30, classe B1 della Frelinghuysen Hall. Il docente di Italian Studies Vincenzo Pascale entra nell’aula della Rutgers ­104

University dove 37 studenti fra i diciannove e i ventisei anni vengono tre volte a settimana per approfondire la «storia culturale italiana» leggendo classici, analizzando eventi storici, guardando film e parlando di attualità. La maggioranza degli studenti è di origine italiana ma di generazione diversa – c’è chi ha solo i nonni o i genitori immigrati – e mischiati a loro vi sono asiatici, latinoamericani e mediorientali, tutti accomunati dall’interesse per l’Italia, una nazione della quale non conoscono la lingua ma vorrebbero sapere di più. L’argomento della lezione è proprio l’Italia. Prende la parola Jessica Saliba, di famiglia cristiana siro-libanese: lei di italiano non ha nulla ma è molto lucida nell’affermare che «sulla base di cosa conosco e di chi frequento l’identità italiana si fonda su tre cose, famiglia, cibo e cattolicesimo». Sull’ultima sillaba la interrompe Lauren Luthman, mamma italiana e papà svedese: «Tutto vero, mi fai venire in mente mia nonna materna, diceva che la famiglia era la numero 1 in tutto, ci teneva a mangiare sempre tutti assieme e andare in chiesa la domenica, se io sono in questa classe è perché mi ha dato molto». Anche Lauren ogni domenica va in una chiesa cattolica per «pregare e sentirmi italiana». Della «nonna scomparsa da poco» parla anche Gabrielle La Spina: «Era orgogliosa di essere siciliana, ricordo che mi faceva bere il caffè quando avevo solo tre anni, quel sapore non mi ha più abbandonato» ed è così cresciuta nella convinzione che «Roma e New York fossero simili». Nel banco vicino a lei Stephanie Chen, asiatica, parla dell’Italia come di un «misto fra arte e cibo». Elisabeth Rooney, famiglia irlandese con solo una zia italiana, nel nostro Paese non c’è mai stata ma spiega di «essere attirata da un modo di fare, di essere, sempre accogliente e cordiale». Seduto in prima fila, barba incolta e muscoli ben curati, c’è Charles Tremato, veterano dell’Us Army, parla della Sicilia «terra dalla quale venne mio nonno e che mio padre amava ma dove io non sono mai stato» e spiega «con questo legame forte di storia e identità» il motivo per cui ha scelto di affidare il suo «futuro professionale a una laurea in Italian Studies». A Tremato dispiace ­105

che nessuno gli abbia mai insegnato l’italiano e altrettanto dice Anna Chrysantopoulos, padre greco e mamma italiana, che descrive la sua famiglia come «molto unita nel rispetto delle feste di entrambi anche se non ho mai capito perché i greci conservino molto meglio il loro idioma, mostrandosi più consapevoli delle radici». Le cronache di New York sono disseminate di episodi di tensioni etniche fra greci e italiani, come fra irlandesi e italiani, ma Anna e Elisabeth ne parlano come di eventi del passato superati dall’integrazione famigliare, fino al punto che la loro scelta di dedicarsi agli Italian Studies è stata con forza sostenuta da entrambi i genitori. L’immagine che l’Italia proietta sugli studenti è modellata sulle rispettive esperienze. Sachelle Vasquez, ispanica di origine cubana, la considera un luogo «dove la gente è unita, sta assieme e prevale un sentimento di comunione» dal quale è attirata perché «nel resto del mondo ci si combatte senza fine», mentre Ana Quitana, peruviana, vi vede una «fonte di possibile guadagno nel futuro perché si tratta di un’economia florida», Peter Plumeri ritiene che «la conoscenza dell’italiano mi aiuterà a diventare un buon dottore» e Lauren assicura che «per molti l’Italia assomiglia all’hotel Venetian di Las Vegas». Ma Gabriella Basile, figlia di calabresi immigrati, che in Italia va quasi ogni estate, è assai più concreta: «Le differenze fra Nord e Sud sono impressionanti, quando vado a trovare i miei parenti nel villaggio in cui abitano sui monti della Calabria, lontano da tutto e tutti, mi chiedo come facciano a restare ancora in quei posti». «È tutto vero – aggiunge Satei DiLeonardo, madre filippina e padre italiano – ma lo è anche il fatto che gli italiani vivono meglio di noi americani, sono più rilassati, si godono di più cosa hanno e soprattutto sono meno stressati». Che si tratti di italoamericani di prima, seconda o terza generazione, un po’ tutti sono preoccupati dagli «stereotipi che ci circondano» a cominciare da quelli «diffusi da film e tv sulla mafia» dice Anthony Comuniello, lamentando il fatto che «quando parlo con i miei amici sulla scia delle puntate dei Sopranos o di Jersey Shore mi rendo conto che della mafia ­106

o della Mano Nera non sanno nulla, ne ignorano le origini e parlano solo di delitti e violenza». Alex Amoroso, di seconda generazione, taglia corto: «Quanto mi trovo davanti a tali pregiudizi mi sento orgoglioso, ed è lo stesso orgoglio che mi porta a studiare in quest’aula». Charles ricorre a un aneddoto personale per «spiegare il male che fanno le falsità sugli italiani»: «Mio nonno non volle mai vedere Il padrino, si rifiutava, lo riteneva offensivo, un male capace di nuocere a tutti noi perché diffondeva un’immagine deviata della Sicilia che anziché essere terra di criminali è patria di gente che lavora sodo tutta la vita, proprio come hanno fatto gli immigrati arrivando in America». Sui nonni ha qualcosa da dire anche Gabriella Basile perché i suoi, Salvatore Basile e Augusta Colosimo, entrambi di Cropani in provincia di Catanzaro, non potrebbero essere più diversi nel loro rapporto con l’America dove emigrarono negli anni Sessanta gettando le basi dell’integrazione di figli e nipoti. «Nonna Augusta ricorda come un incubo il viaggio in nave, non fa che ripetere di sentire la mancanza del calore dei suoi vicini a Cropani e dice che l’unica cosa che la tiene qui è il fatto che figli e nipoti sono tutti in America – riassume la nipote studentessa – mentre nonno Salvatore si dice continuamente grato di qualsiasi cosa questa nazione gli abbia dato e ogni volta che va in vacanza a Cropani non vede l’ora di ripartire». Il veterano dell’Onu C’è una tribù di 124 italiani nei ranghi delle Nazioni Unite a New York e per tutti Giandomenico Picco, detto Gianni, è l’esempio a cui richiamarsi. Dal paesino di Enemonzo dove è cresciuto i carri armati sovietici erano a 40 minuti di strada e quelli jugoslavi a 45. Nella Carnia stretta fra l’Austria occupata dall’Armata Rossa e la Slovenia titina, Picco passa un’infanzia segnata dalle quotidiane tensioni della Guerra Fredda che i genitori vivono in maniera differente. La madre a volte si sveglia di notte temendo l’arrivo di sovietici e titini, convincendosi che ­107

il confine è troppo vicino, al padre invece quegli spazi geografici così angusti e quei pericoli così vicini fanno riflettere sul fatto che in fin dei conti tutti gli uomini sono uguali. L’anno in cui Picco scopre la politica è il 1956, quando ha appena otto anni e viene a sapere che i sovietici hanno invaso Budapest, ovvero la città dove il nonno materno andava a scuola da ragazzo. Quando cresce sceglie di studiare all’estero, in Irlanda, Gran Bretagna, Cecoslovacchia, California e poi ad Amsterdam, dove riceve l’offerta che segna la svolta della vita: andare a lavorare alle Nazioni Unite. Il Dna di Enemonzo poteva partorire la passione nazionalista o lo slancio verso l’internazionalismo e quando sbarca a New York nel 1972 è quest’ultimo che si afferma, seppur sempre nel segno della Guerra Fredda. Entra infatti a far parte, unico occidentale, del dipartimento incaricato del Consiglio di Sicurezza, dominato dai sovietici nel quadro degli equilibri dell’epoca che volevano anche il Palazzo di Vetro diviso per settori fra Urss e occidentali. Succede di tutto: il suo capo è un diplomatico sovietico che si comporta come un mastino, è un doppiogiochista – da ben sedici anni – e un bel giorno sparisce nel nulla, diserta e passa agli americani con tutto il suo bagaglio di informazioni mentre i suoi due sottoposti nei mesi a seguire si svelano essere spie, uno viene catturato dagli americani mentre scambia documenti segreti nascosti dentro cartoni di latte in un supermercato del New Jersey e l’altro è obbligato alla fuga. Lavorare spalla a spalla, per anni, con i diplomatici del Cremlino servirà a lui e all’Onu. Quando si tratta di mandare le delegazioni ufficiali ai funerali di Leonid Brezˇnev, Konstantin Cˇernenko e Jurij Andropov, è lui ad andare nelle vesti del funzionario più giovane, obbligato ad aspettare il passaggio dei feretri per lunghe ore sulla Piazza Rossa. E quando c’è da trovare la via d’uscita all’invasione dell’Afghanistan è ancora Picco a scrivere su un pezzo di carta – durante un volo da Roma – i quattro punti che offriranno anni più tardi a Mosca la via d’uscita diplomatica a un conflitto che nel 1989 è oramai perduto grazie all’efficace resistenza dei mujaheddin. ­108

Parlando davanti a un boccale di birra in un saloncino al primo piano del Century Club della 43a Strada, lo stesso che ha avuto fra i membri nove ex presidenti e dozzine di ex ministri degli Stati Uniti, Picco racconta la sua vita al servizio dell’Onu come fanno i veterani per i conflitti militari: molti dettagli, memoria lucida e poche emozioni. Queste ultime trapelano solo quando racconta uno dei successi che hanno segnato il Medio Oriente: l’ultimo miglio della trattativa che porta alla fine della guerra fra l’Iraq di Saddam Hussein e l’Iran dell’ayatollah Khomeini. È il 1988 e Picco segue il negoziato per conto di Pérez de Cuéllar, il segretario generale dell’Onu con cui aveva legato anni prima durante una comune missione a Cipro, quando il segretario di Stato americano dell’epoca, George Shultz, lo minaccia di «tagliarlo come il burro» se non si toglie di mezzo, consentendo all’alleato di Baghdad di lanciare la nuova offensiva. Picco si consulta con de Cuéllar, che prima gli lascia la scelta su cosa fare e poi, riscontrata la sua volontà di sfidare il monito di Shultz, gli dice che deve ottenere la pace entro sei giorni. L’obiettivo viene raggiunto grazie a una maratona mozzafiato, degna di un film d’azione, che ha la sua svolta quando Picco si chiede «come si conclude una guerra quando una delle parti abbandona la trattativa?», trovando la risposta nei precedenti del Rinascimento, allorché le armate si fermavano quando nazioni e comandanti finivano i soldi assicurati dalle banche. A pagare Saddam in questo caso sono i sauditi di re Fahd ed è con lui che l’inviato di de Cuéllar tratta, negoziando con il ministro degli Esteri Faisal la formula del compromesso accettabile da entrambi i co-belligeranti. È una telefonata di re Fahd al segretario generale a dare luce verde alla fine della guerra ma de Cuéllar obietta: «Me lo deve dire Saddam Hussein». Il rais di Baghdad chiama dopo appena 5 minuti: «Sottoscrivo tutto quanto le ha detto Sua Maestà». Finiscono così otto anni di guerra, con Picco nelle vesti di creditore nei confronti degli iraniani, stremati dal conflitto e bisognosi della pace. Ma quando, pochi anni dopo, tocca ancora all’inviato ­109

di de Cuéllar trattare con l’Iran per ottenere la liberazione degli ostaggi occidentali a Beirut – detenuti da Hezbollah – la risposta di Teheran è priva di riconoscenza. Deve rifare tutto da capo. Riuscendo ancora. L’operazione degli ostaggi in Libano è l’evento che gli segna, e cambia, la vita perché gli capita di tutto: preso nel cuore della notte, bendato, trasportato in auto verso mete ignote senza sapere se ne uscirà vivo. Il salvataggio riesce ma Picco non tornerà più dietro una scrivania al Palazzo di Vetro. La vita cambia perché le minacce di morte lo inseguono, alcuni aeroporti in Europa diventano off limits per certi periodi e l’esperienza fatta nelle mediazioni impossibili lo porterà in seguito ad aiutare l’Onu a riportare in libertà altre quattordici persone. Sono esperienze che gli ricordano l’insegnamento del padre sul fatto che «tutti siamo importanti e nessuno è indispensabile», facendo di Picco un testimone delle più roventi crisi internazionali. Con alle spalle oltre tre decadi di gestione di conflitti e una moltitudine di incarichi per l’Onu, Picco ora rappresenta solo se stesso e resta un infaticabile negoziatore. Lascia spesso il suo ufficio nel Connecticut per viaggi-lampo in più continenti, dove l’agenda degli incontri è destinata a rimanere top secret. E quando si ferma a guardare oltre l’orizzonte di un equilibrio internazionale in ebollizione vede due processi in atto. Quello a più breve termine riguarda il «ritorno al passato», ovvero a un ordine mondiale frutto del bilanciamento fra più potenze, come è sempre stato prima della «lunga eccezione della Guerra Fredda». Ma guardando ancora più in là percepisce la tendenza a «superare l’idea dello Stato nata dal Trattato di Westfalia del 1648 che vide nascere le nazioni fondate sulla compattezza identitaria, etnica o religiosa». «L’idea di Stato è spesso cambiata nella Storia, prima di Westfalia era tutt’altro, poi arrivò la nazione basata su identità uniche e oggi sta cambiando ancora» dice, indicando come elementi dirompenti comunicazioni, trasporti e scoperte dell’era della globalizzazione che «trasformano in vicini persone lontanissime sul piano geografico». Ciò che ­110

accomuna dunque non è più la presenza sullo stesso territorio ma le attività che si svolgono e gli interessi che si hanno. «Sono i singoli a prendere il sopravvento, creando ognuno un proprio network di riferimento che spesso supera i rigidi confini nazionali che imprigionavano Enemonzo e condizionano a tutt’oggi i rapporti fra Stati». Terminato lo sguardo verso il prosieguo del XXI secolo, Gianni Picco lascia il Century Club diretto alla Columbia University, dove lo attende un think thank sul Medio Oriente. Ma prima dei saluti tiene a definirsi un «italiano marginale» perché pur avendo avuto dall’Italia la formazione che gli ha consentito di risolvere la guerra Iran-Iraq ispirandosi al Rinascimento – ed è solo uno dei molti esempi possibili – i rapporti con il Paese di origine sono sempre stati in secondo piano. Marginale o meno, Picco resta un modello per gli italiani che scelgono la carriera nel Palazzo di Vetro perché, come spiega Furio de Tomassi, presidente dell’Unione dei funzionari italiani nelle organizzazioni internazionali a New York, «è il connazionale che ha raggiunto i livelli più alti di professionalità, gareggiando in popolarità con lo stesso segretario generale», incarnando «la dedizione agli ideali dell’Onu come avviene per tutti gli altri italiani che vi lavorano». Fra loro vi sono Staffan De Mistura, ex capo della sede Onu a Baghdad ed oggi a Kabul (dove però è in quota alla Svezia, suo Paese di nascita), Patrizio Civili, arrivato al grado di assistente segretario generale, Laura Vaccari, direttore degli Affari politici, Vincenzo Aquaro, direttore degli Affari economici e sociali nonché responsabile dei progetti, e una miriade di statistici, economisti, esperti di diritti umani, scenari internazionali, e tecnici di aiuti allo sviluppo convinti che le Nazioni Unite possano essere «una garanzia di trasparenza e stabilità nei rapporti internazionali» come osserva de Tomassi, protagonista di una battaglia legislativa per ottenere dal Parlamento il riconoscimento della figura giuridica di «funzionario nelle organizzazioni internazionali». Sono almeno tremila i post-laureati italiani che ogni anno tentano di sbarcare in una delle agenzie che fanno capo ­111

al Palazzo di Vetro grazie a un programma creato con i fondi della cooperazione allo sviluppo che mette in palio appena 20 posti. Ma quelli che ce la fanno assai raramente tornano indietro perché, a dispetto di stipendi inferiori a quelli di altre organizzazioni internazionali, credono nella possibilità di diventare i Gianni Picco del XXI secolo, per riuscire a reinterpretare e rinnovare l’invenzione con cui Franklin Delano Roosevelt e Winston Churchill nel 1942 immaginarono le Nazioni Unite, riuscendo a guardare oltre l’orizzonte di un conflitto che ancora era tutt’altro che vinto. Al gate con Benigni e Manfredi Per migliaia di italoamericani che ogni anno scelgono di tornare nei luoghi d’origine come per le miriadi di turisti del Bel Paese in arrivo a New York il viaggio inizia negli aeroporti John Fitzgerald Kennedy e Newark, dove atterrano e decollano ogni giorno i voli Alitalia sotto la regia del caposcalo Gaetano Messina nel cui ufficio, ricoperto di autografi celebri, premi e cimeli di ogni tipo, spiccano le foto di Roberto Benigni, Pelé e papa Ratzinger. La storia newyorkese di Gaetano inizia quando con i genitori Castrenze e Francesca arriva a Brooklyn nel luglio del 1972 da Castellammare del Golfo, Trapani, e va a vivere a Bensonhurst, in una piccola casa al 1935 West della 6th Street. Gaetano a quattordici anni di età frequenta il liceo Lafayette, dove i primi tempi si rivelano «terribili». «Passavo i fine settimana chiuso nella mia stanza ad ascoltare i Beatles e i Rolling Stones – ricorda – e volevo tornare a tutti i costi in Italia». L’unico momento in cui tenta di socializzare durante la settimana arriva con le partite di calcio con i coetanei. Ogni giorno, finite le lezioni, Gaetano va a giocare a pallone e si fa così i primi amici americani, che in realtà sono greci, polacchi, jugoslavi e caraibici. Sono anni nei quali le tensioni razziali sono forti. Molte scuole fanno il bussing degli afroamericani, andandoli a prendere nei quartieri neri per portarli a lezione in quelli ­112

bianchi tentando di favorire l’integrazione, ma spesso tale pratica si trasforma in boomerang, generando liti, risse, insulti fra opposti gruppi. Messina assiste ai pestaggi dei neri da parte dei bianchi con disgusto, rabbia. «Per me il colore della pelle non è mai stato un problema, eravamo amici, giocavamo insieme a calcio, tentavamo di vincere una partita e questo era ciò che contava, giocare a pallone era la cosa più bella». Il periodo passato al liceo si rivela formativo. «La strada del bene correva parallela a quella del male, era molto facile fare la scelta sbagliata, con tutta quella droga che ci girava attorno». Ancora una volta è il pallone che lo salva anche se poi i weekend continua a passarli in totale solitudine, travolto dalla nostalgia per la terra di Sicilia che ha lasciato. Grazie al calcio entra nella selezione dei migliori giocatori della scuola e della città – l’All City Team – e così incontra l’allenatore del St. Francis College di Brooklyn Heights che gli offre una borsa di studio per coprire il costo totale degli studi accademici. È il momento in cui la sua vita cambia. L’università gli apre le porte di un mondo che non conosce, lo porta a giocare sui campi di Princeton, Penn State, Albany, Hartwick. Viaggia, scopre nuovi mondi, esplora New York: Little Italy, Broadway, il Village, l’East Side, il West Side, Chinatown. La solitudine del 1935 West della 6th Street diventa un ricordo sempre più lontano. Va al Madison Square Garden, riesce finalmente ad ascoltare dal vivo i Rolling Stones, Eric Clapton, Stevie Wonder, PFM e tanti altri ancora. «Il College è stato il momento più bello della mia vita». Ciò che più lo rende fiero è essere diventato un All American, uno dei quaranta migliori giocatori di soccer fra gli studenti di college di tutti gli Stati Uniti. È l’estate del 1978 e quando l’allenatore gli chiede se vuole fare l’assistente al Pelé Soccer Camp lui non ci pensa due volte. Non credeva certo che avrebbe mai potuto incontrare il grande campione brasiliano ma gli bastava l’idea di potersi trovare sullo stesso campo di gioco. Il primo giorno viene assegnato ai «pulcini», i ragazzi più giovani. Gli spiega le regole del mini-campus portandoli a esplorarlo e quando arrivano nella caffetteria si trovano ­113

d’improvviso davanti la leggenda vivente del calcio, il tre volte campione del mondo Edson Arantes do Nascimento detto Pelé. «Gli dissi che era un piacere conoscerlo e feci per dargli la mano ma lui mi mise le braccia intorno, fu indimenticabile». Quella notte a Pelé va di cantare, prende la chitarra e inizia a suonare, trascinando tutti con lui. Quando arriva il momento delle canzoni italiane guarda Gaetano e gli chiede di intonarne una. La scelta cade su Volare, la conoscono tutti. «Fu una notte indimenticabile, andai a letto pensando che ero la persona più felice al mondo». Il camp dura un mese, Pelé passa molto tempo con i giovani calciatori, che lo adorano. L’ultimo giorno lo assediano con richieste di autografi talmente numerose – su palloni, magliette, fogli e ogni possibile oggetto – che rinvia la partenza per accontentare tutti. «Questo è il motivo per cui Pelé è il più grande, prima di essere un grande calciatore è una grande persona». Terminata l’università, Messina gioca per tre anni nella squadra dei New York Eagles, fra i semiprofessionisti dell’American Soccer League, ma nel 1982 il campionato è quasi in bancarotta ed arriva così il momento di trovarsi un «lavoro vero»: un amico del padre ha un ristorante dove vanno a mangiare la regina d’Olanda e molti vip dei Paesi Bassi, inclusi i dirigenti della Klm. È lui che gli suggerisce di provare con la compagnia di bandiera olandese spiegando che «si tratta di gente molto brava nel commercio». Ma il primo impatto è duro perché al colloquio il manager gli dice: «Questo non è un lavoro per lei, qui si lavora sempre, Natale, Capodanno e Pasqua». Messina accetta la sfida, inizia dal check-in dove chiede ai passeggeri «posto fumatore o non fumatore?», si occupa di chi ha bisogno di sedie a rotelle. Poiché la Klm fa il check-in anche per Korean Airlines, Olympic, Lan Chile e Viasa impara a fare la stessa domanda anche in coreano, greco, spagnolo e portoghese, incarnando uno «stile Klm» molto rigido nel rispetto delle regole e dei passeggeri. La Klm ha anche un club di calcio ed è l’occasione per coltivare la passione giocando con campioni come il brasiliano Carlos Alberto e il tedesco Gerd Müller, entrambi sbarcati in Nordamerica come Pelé dando ­114

consistenza a un decollo del soccer che porterà gli Stati Uniti a ospitare i Mondiali del 1994. Nel 1990 Messina diventa duty manager di Klm ed è a tal punto popolare che nel menu di bordo entra un piano denominato «Cannelloni Gaetano», ma tutto finisce quando Klm passa la gestione del mercato Usa a Northwest Airlines: anche lui cambia compagnia e tre anni dopo, nel 2000, arriva all’Alitalia. «La mia famiglia era felice ma io venivo da una mentalità anglosassone ed ebbi bisogno di un certo tempo per adattarmi a un modo più flessibile di gestire il lavoro, non ero abituato a trovarmi di fronte passeggeri che mi dicevano ‘mi manda…’ oppure mi chiedevano ‘di che regione sei?’». L’11 settembre del 2001 è di turno il pomeriggio, si trova bloccato fuori dallo scalo Kennedy chiuso e a gestire una manciata di voli 747 cancellati in poche ore: dopo tre giorni di stop ai voli sono migliaia i passeggeri a terra, teme il collasso ma alla riapertura bastano tre voli per smaltirli perché «partirono solo quelli che tornavano a casa», tutti gli altri decisero di restare. Fu un momento spartiacque. «Prima di allora era possibile salire a bordo di un aereo anche con un biglietto che riportava il cognome da nubile, adesso invece l’identità viene controllata quattro volte, la sicurezza ha ridisegnato il nostro lavoro, le macchine a raggi X hanno obbligato a ristrutturare gli aeroporti e non è difficile immaginare che il sistema tenderà a perfezionarsi, arrivando magari a seguire un percorso governato dall’elettronica – da check-in sul computer di casa fino all’imbarco – senza più bisogno di personale in carne e ossa». La maggiore attenzione per la sicurezza ha cambiato la vita e il lavoro di Gaetano Messina, che descrive l’Alitalia come una «compagnia unica» perché «gli italiani d’America la considerano il primo passo verso casa, chiedono di viaggiare solo con noi e a bordo si sentono in famiglia», creando un «legame unico e irripetibile fra azienda e clienti». È in tale cornice che Messina ha conosciuto e accompagnato al gate personaggi fra i più diversi: Mick Jagger, Eric Clapton, Bocelli, Domingo, Berlusconi, Prodi, Casini, Bill Clinton, Tony Renis, Bonolis, Pino Daniele, Prodi, D’Alema, Fini, Totti, Batistuta, Milito, Del ­115

Piero, Krasic´, Collovati e «due persone di gran classe» come Paolo Maldini e Ciro Ferrara. Ma, fra tutti, gli incontri che più lo hanno segnato sono stati quelli con Roberto Benigni, Nino Manfredi e Benedetto XVI. Benigni arriva nel 2004 a Newark, i due si conoscono all’uscita dell’aereo e pochi giorni dopo il popolare attore lo fa chiamare da Chicago chiedendogli aiuto per riprogrammare il viaggio. «Feci ciò che mi aveva chiesto e pochi minuti dopo fu lui in persona a telefonarmi mentre ero in macchina su Goethals Bridge, mi ringraziò e mi chiese ‘ti posso dare del tu?’ lasciandomi senza parole». Cinque anni dopo si reincontrano quando Benigni arriva a Manhattan per recitare Tutto Dante, Messina lo accompagna al controllo passaporti e si accorge che qualcosa non va. È l’ufficiale della dogana che gli svela «Mr Benigni viaggia con un passaporto rubato». L’attore non protesta, segue le procedure interrogandosi su cosa potrebbe avvenire e si reca nell’ufficio del capo della dogana che nel frattempo chiama l’Interpol. La suspense si scioglie dopo qualche minuto, quando gli dicono che «c’è stato un errore, la differenza è solo di una cifra nel numero del passaporto, potete andare». Anni prima l’incontro era stato con un Nino Manfredi oramai costretto a muoversi su una sedia a rotelle. Fu Messina a portarlo di persona in aereo e la cura fu tale che, per ringraziarlo, Manfredi gli baciò la mano, mentre nel 2009 Benedetto XVI chiese di conoscere Messina sul volo fra Washington e New York, poco prima dell’atterraggio, per ringraziare l’uomo che aveva vegliato sugli spostamenti aerei della sua prima missione papale in America. Fra tanti aneddoti avvenuti al manager dell’aria che custodisce la «porta d’Italia», quello che però più gli è restato nel cuore e che ama ricordare ai figli Isabella, Bianca e Marco risale al suo arrivo a New York: «Avvenne in nave, vidi all’alba la Statua della Libertà, non dimenticherò mai quell’emozione».

La politica

Passione e indipendenza La presenza di italiani nella vita pubblica di New York è vistosa e lascia intendere quanto il governatore Andrew Cuomo, dal 2006 al 2009 procuratore generale, non sia un’eccezione. Italiani sono 22 dei 150 deputati e 13 dei 62 senatori dello Stato nonché 7 dei 51 consiglieri comunali della Grande Mela, 2 dei 3 consiglieri di Staten Island, 2 dei 16 di Brooklyn, 2 dei 14 di Queens, 1 su 8 nel Bronx e, singolare eccezione, 0 su 10 a Manhattan. A questi numeri bisogna aggiungere che lo Stato di New York ha eletto al Congresso 3 deputati di origine italiana su 29 – Mike Arcuri, Dan Maffei e Eric Massa – a cui bisogna aggiungere Eliot Engel, che italiano lo è divenuto d’ufficio, con tanto di titolo di Cavaliere della Repubblica, promuovendo le leggi sul riconoscimento delle libertà civili degli italoamericani violate durante la Seconda guerra mondiale e sulla designazione di ottobre come del mese dell’eredità italiana in America. Al pari di Andrew Cuomo, paladino della sicurezza dei minori che si collegano a Facebook, i politici italiani più influenti nella metropoli si distinguono per la comune passione nel difendere i vari aspetti dei diritti dei cittadini. Thomas DiNapoli è dal 2007 lo State Comptroller responsabile della sorveglianza contabile sull’amministrazione dello Stato, una carica elettiva a cui è arrivato grazie alla credibilità guadagnatasi per aver combattuto contro gli sperperi e risanato i bilanci della contea di Nassau a Long Island, mentre Bill de Blasio dal gennaio 2010 è il Public ­117

Advocate garante dei diritti dei residenti di fronte alle attività della pubblica amministrazione e ha nel curriculum decisioni come quella di consentire a ogni newyorkese l’accesso a un asilo nido pubblico e la limitazione a 20 del numero di alunni nelle aule delle scuole elementari. Poi ci sono i volti emergenti e si tratta di personaggi molto determinati nel volersi affermare, come il repubblicano Enrico Anthony Lazio, detto «Rick», classe 1958, che nel 2000 perse contro Hillary Clinton la corsa al seggio del Senato di Washington, e il compagno di partito Carl Paladino, l’uomo d’affari di Buffalo di sessantacinque anni sostenuto dal Tea Party e reduce da un duello «in nome della Costituzione» con Andrew Cuomo nella corsa al posto di governatore. E la democratica Regina Calcaterra, nata nel 1966, che si è invece candidata al Senato dello Stato forte dei successi ottenuti come legale nella difesa in aula dei diritti delle vittime dei reati finanziari commessi dai manager di giganti di Wall Street come WorldCom e Merrill Lynch. Cresciuta da giovane assieme ai quattro fratelli in un istituto per ragazzi abbandonati, Calcaterra è protagonista di un costante impegno umanitario contro l’abbandono dei minori che raccoglie ogni anno importanti donazioni private e il crescente plauso dei media cittadini. Se è la passione civica a distinguere i politici italiani più in vista, l’elettorato che hanno alle spalle è multietnico. Gli italiani infatti da tempo non sono più un blocco elettorale compatto in quanto votano per promuovere in primo luogo i loro interessi, proprio come fa il resto degli americani. E gli interessi si legano al territorio: a Long Island e Staten Island gli italiani vivono in eleganti sobborghi, appartengono al ceto medio-alto, hanno redditi superiori alla media e votano in gran parte per i repubblicani, ritenendo prioritari la riduzione delle tasse, l’opposizione all’aborto, il sostegno all’istruzione privata e il mantenimento della pena capitale reintrodotta dall’ex governatore George Pataki, il cui nome greco nasconde un’origine italiana. A Queens, Brooklyn e nel Bronx gli elettori italiani vivono invece in zone urbane dove ­118

a prevalere è la classe media e sono così più in sintonia con la base dei democratici: dall’istruzione pubblica alla tutela del diritto all’aborto fino alla riforma dell’immigrazione. Manhattan è un discorso a parte perché oramai la maggioranza degli italiani che vi risiedono sono arrivati negli ultimi anni e spesso non sono neanche americani. «Nel complesso il voto italiano a New York è equamente diviso fra repubblicani e democratici – spiega John Calvelli, ex assistente del deputato Engel fino al 2000 e ideatore di ottobre come Italian American Heritage Month – ma in entrambi i campi si ritrova l’attenzione degli elettori per il miglioramento dell’istruzione in generale e della diffusione della lingua italiana in particolare, considerata il principale strumento di conservazione della propria identità». Frank Macchiarola, che fu titolare del portafoglio dell’Istruzione durante l’amministrazione di Ed Koch, ricostruisce così la genesi della differenziazione del voto: «Gli italiani hanno sostenuto il Partito democratico fino a quando si distingueva per la difesa del lavoro e dei diritti degli immigrati, ma quando i democratici negli anni Sessanta sono diventati il partito delle minoranze, dai neri agli ispanici, scegliendo posizioni molto liberal su aborto e gay, un gran numero di elettori se ne è andato, spinto anche da un’identità cattolica rispettosa della vita e della famiglia, senza dubbio più in sintonia con i valori dei repubblicani». A incrinare il legame con i democratici fu anche il fatto che «gli italiani non furono in prima fila nella battaglia contro la segregazione e nel movimento per i diritti civili – come ricorda Victor Kovner, avvocato di Midtown da cinquant’anni consigliere informale dei maggiori leader liberal cittadini – a causa della rivalità che li opponeva agli afroamericani, dovuta alla competizione fra i ceti meno abbienti dell’epoca, in zone come il Greenwich Village». Per Maria Laurino, la scrittrice che fu speechwriter del sindaco David Dinkins, «la scelta dell’elettorato italiano di spostarsi dai democratici ai repubblicani nasce da una forma di distinzione all’interno della società americana: più si ha successo economico e professionale e ­119

più si entra a far parte dell’upper class, più ci si identifica con i valori repubblicani». Si votava democratico quando le istanze da difendere erano quelle di una popolazione operaia, povera e fatta di immigrati; ora invece che gli italiani vivono in maggioranza nei sobborghi, hanno case di proprietà e mandano i figli nelle migliori università, la convergenza è con i repubblicani. A dare visibilità allo spostamento di voti da sinistra a destra fu nel 1981 Alfonse D’Amato, diventando senatore a Washington grazie a una campagna elettorale che aveva la propria roccaforte proprio nella contea di Nassau a Long Island, nei nuovi sobborghi abitati dagli italoamericani. Pochi anni dopo fu proprio D’Amato, tenace sostenitore della pena capitale, che consigliò a Reagan di prendere Rudolph Giuliani come numero 3 del Dipartimento di Giustizia, rafforzando ulteriormente il legame con i conservatori. Mario Cuomo, che nel 1983 fu il primo italoamericano a diventare governatore dello Stato ed è stato testimone delle trasformazioni politiche avvenute, parla degli italiani come di «elettori appartenenti alla fascia degli indipendenti, che votano sulla base dei loro interessi del momento». E che spesso finiscono per essere decisivi. I riformisti di Tammany Hall «Noi italiani siamo arrivati a New York dal 1880 al 1925. Tutto è iniziato allora e di politica non se ne parlava neanche». John LoCicero ha ottant’anni e da sei decenni è una delle anime del Partito democratico di Manhattan: ha fatto campagne elettorali con Eleanor Roosevelt, per John Kennedy e Bill Clinton, ma soprattutto è cresciuto nel Lower East Side «dove tutto è cominciato». «Quando gli immigrati arrivarono non avevano una coscienza politica perché si portavano dentro l’eredità di un’idea dello Stato nemico che li allontanava dalla vita pubblica» oltre al fatto che «a dominare la politica a New York, come anche la Chiesa cittadina, erano gli irlandesi, non certo disposti a cedere il passo dopo aver ­120

tanto sofferto per affermarsi a dispetto dei protestanti». Il Lower East Side negli anni Venti era un reticolo di strade dove ogni regione e città d’origine si riconosceva in un certo numero di isolati, «quindi figuratevi se qualcuno poteva mai essere in grado di parlare di voto italiano: era l’idea stessa di italiani che mancava, ognuno parlava un dialetto differente e a casa mia era il siciliano». La conseguenza fu che «quando a qualcuno serviva qualcosa andava a chiederlo a un deputato di nome Foley, che era irlandese». La prima svolta vi fu quando gli italiani «lasciarono i carretti e cominciarono a fare gli operai», entrando nelle Unions, i sindacati. «In molti andarono a lavorare in fabbrica, numerosi stabilimenti erano a East Harlem e dunque vi fu un trasferimento di gente dal Lower East Side». La Grande Depressione trasformò questa nuova generazione di lavoratori in indigenti, avevano bisogno di tutto e arrivarono alla conclusione che lo Stato poteva aiutarli. Sono questi gli anni Trenta, nei quali si afferma Vito Marcantonio – il deputato repubblicano che poi diventerà un volto di spicco del Labor Party, dando voce al radicalismo operaio – e matura un’idea di voto italiano legato alla necessità di tutelare gli interessi degli operai flagellati dalla crisi economica. «Oltre che a East Harlem gli italiani negli anni Venti e Trenta si spostarono anche verso Brooklyn, a Bensonhurst, dove era piena campagna» aggiunge LoCicero, spiegando che «uno dei vantaggi di andare laggiù era l’assenza della Mano Nera», antesignana della mafia. «Si viveva più tranquilli, sicuri, la gente stava meglio rispetto al Lower East Side, che era un vero ghetto con molti criminali». Gli anni Quaranta sono quelli di Fiorello LaGuardia sindaco «che trova spazio nel Partito repubblicano perché in quello democratico gli irlandesi ancora non volevano farci passare», ma quando la Seconda guerra mondiale finisce il leader politico italiano più in vista è Carmine Gerard DeSapio. «Veniva dal Lower East Side come me, nel 1949 fu abile a sbaragliare gli irlandesi diventando il leader più giovane della società di Tammany Hall, ovvero la macchina elettorale democratica, e nel 1955 il ­121

magazine ‘Time’ ne celebrò la potenza politica dedicandogli la copertina». Negli anni Cinquanta era lui l’uomo decisivo per nominare sindaci, governatori e amministratori locali, ma si era fatto una avversaria temibile: Eleanor Roosevelt; la vedova del presidente che aveva piegato Hitler gli rimproverava di aver ostacolato e bloccato la corsa del figlio, Franklin D. Roosevelt Jr, alla carica di governatore nel 1954. Lo scontro fra i Roosevelt e DeSapio portò la nuova generazione di politici italiani, di cui LoCicero faceva parte, a schierarsi con l’ex First Lady puntando a dare inizio a una stagione di riforme dentro Tammany Hall, per «svecchiare un partito arrugginito e farlo diventare più liberal». La battaglia fu vinta nel 1961, quando DeSapio lasciò Tammany Hall a seguito della sconfitta subita nelle primarie democratiche per le presidenziali del 1960, in cui sostenne Lyndon Johnson, mentre Roosevelt e i giovani leader del movimento dei Reform Democrats puntarono su John F. Kennedy. «A New York fu quasi un terremoto, noi riformatori ci ritrovammo attorno a Koch, che si batteva per i diritti civili, per l’aborto, il divorzio e il rispetto dei gay» sottolinea LoCicero, parlando di una «stagione disseminata di sconfitte e smacchi» fino a quando Koch venne eletto sindaco nel 1978. «D’altra parte Ed si batteva per aborto, divorzio e sodomia... non c’è da sorprendersi che negli anni Sessanta ci fosse nei suoi confronti un po’ di resistenza». Koch, però, come rivale democratico ha Mario Cuomo. I due si scontrano, sostengono candidati diversi alle cariche cittadine e non si amano perché non potrebbero esser più diversi. «Koch era un riformatore, Cuomo invece non voleva rompere con la vecchia guardia, basti pensare che per ostacolarlo aveva coniato lo slogan ‘Meglio Cuomo che Omo’, che sarebbe stato bene in bocca ai repubblicani» perché metteva all’indice il rivale in quanto omosessuale. Ma per gli italiani che fanno politica in casa democratica sono anni di successi e riscatti, «perfino i mafiosi, penso ad esempio ai Gambino, si resero conto che era meglio far studiare i figli per schiudergli carriere di businessmen e avvocati». Sulla genesi della ­122

trasformazione del Partito democratico nel secondo dopoguerra, con la «caduta dei vecchi baroni e l’avvento dei liberal grazie a Eleanor», LoCicero, veterano della guerra di Corea nell’Air Force, ha una sua lettura: «Molto avvenne grazie al GI’s Bill, la legge fatta dal Congresso a favore dei soldati che tornavano; garantì la possibilità di acquistare case e avere una migliore educazione; furono centinaia di migliaia i veterani di origine italiana che la sfruttarono e ciò cambiò gli italiani di New York, erano andati in guerra sapendo spesso a malapena l’inglese, ora tornavano ed entravano a far parte della classe media», portando nuove energie anche in ­politica. Da Koch a Bloomberg Oltre che essere il discendente di una delle famiglie più in vista della Little Italy del Bronx, Peter Madonia Jr è la mente e il braccio della Rockefeller Foundation. Ha un ufficio a «L» con vista mozzafiato sui grattacieli di Midtown al ventesimo piano del 420 di Fifth Avenue. È arrivato a essere il chief operating officer di una delle maggiori organizzazioni filantropiche d’America dopo aver avuto i gradi di capo di gabinetto a fianco del sindaco Michael Bloomberg, mentre ai tempi di Ed Koch era il numero 2 del Fire Department, i pompieri. Viene dal Bronx, dove suo padre aprì su Arthur Avenue nel 1918 la Madonia Brothers Bakery che è ancora funzionante e che proprio Peter si trovò a gestire in uno dei passaggi da una carriera all’altra. Alto, carnagione rosea e capelli castani, ha il portamento dell’atleta e si siede al suo tavolo tondo come se fosse un cowboy. La sua italianità è nei valori che ha ereditato dal padre e che riassume nel termine loyalty, la fedeltà alla unit a cui si appartiene, ovvero la famiglia come l’azienda. Un principio di appartenenza in base al quale «anche se si hanno opinioni differenti e a volte si litiga, prevale sempre la lealtà verso gli altri per costruire il futuro e affrontare le tempeste». È questo l’approccio che lo ha guidato nel percorso compiuto nella politica di New York, da un sindaco all’altro. «Essere ­123

in disaccordo non compromette la lealtà» sottolinea, spiegando che «i dissensi spesso sono salutari perché è dai contrasti sinceri che emergono le idee migliori, a patto però di essere sempre leali». E lui è stato leale al democratico Ed Koch dal 1979 al 1988, così come è avvenuto con il repubblicano (poi indipendente) Bloomberg dal 2002 al 2004. «Fare il sindaco a New York City significa governare il melting pot – spiega –, armonizzare comunità etniche, essere al centro del mondo, nel laboratorio dell’umanità, lo si vede quando si viaggia all’estero perché dicendo di essere americani si viene accolti con distacco mentre quando uno spiega di venire da New York la reazione è che la gente ti abbraccia, come è avvenuto a me a Kampala, in Uganda, dove un barista mi disse ‘anche io ho un cugino nel Bronx’». Tanto Ed Koch che Michael Bloomberg hanno incarnato il ruolo di «sindaci interpreti di una città di immigrati, degni successori di Fiorello LaGuardia», affrontando in questa maniera le differenti agende di ricostruzione che si trovarono a gestire. «Koch come sindaco prese una città dove il crimine era alto, le infrastrutture in rovina, metropolitana, treni e garbage da ristrutturare. Dovette rimettere tutto in piedi. Fu davvero dura. Cadeva tutto a pezzi. Il segreto fu motivare i giovani, trasformarli nel volano della rinascita. Avevo solo ventitre anni e ricordo bene quella sensazione». Bloomberg invece si insediò dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001 ed «ebbe il problema del caos finanziario, la maggiore forza della City era oramai la sua debolezza e ha lavorato da businessman, rimettendo in cammino la crescita con una raffica di progetti, anche se alcuni hanno funzionato e altri meno: il Waterfront nuovo e il rezoning della città come anche la mancata costruzione dello stadio nel West Side e il fallimento della corsa alle Olimpiadi». Nel complesso però, assicura Madonia, «Bloomberg è riuscito a rilanciare New York proprio come Ed Koch fu abile nel risollevarla» e a dimostrarlo fu «la reazione al black-out del 2004, perché tutto fu più ordinato rispetto a quanto avvenuto nel 1977, avrebbe potuto essere il colpo di grazia ma non fu così». ­124

Riguardo al ruolo degli italoamericani, però, Madonia indica delle differenze fra i due sindaci. «Con Koch camminavo per Little Italy dieci anni fa lungo Mott Street – ricorda – e mi disse ‘sai, Peter, gli italiani sono stati gli ultimi fra gli immigrati a lasciare Manhattan per i sobborghi, non se ne vanno, sono un tessuto importante di New York’». Per Bloomberg invece gli italiani non sono più immigrati. «D’altra parte l’ultima ondata risale agli anni Cinquanta-Sessanta ed è oramai troppo lontana nel tempo, per lui gli immigrati sono cinesi, sudasiatici e centroamericani. Non distingue più italiani e americani». Lasciata City Hall, la nuova dimensione dell’impegno pubblico per Madonia è nella Rockefeller Foundation, con la quale promuove programmi per la difesa del clima e lo sviluppo della riforma sanitaria nei Paesi del Terzo Mondo, d’altra parte fu proprio questa roccaforte della beneficenza che riuscì a sconfiggere la febbre gialla. Ma cosa significa guidare una fondazione? «Cercare dei modelli che abbiano successo e poi puntare a replicarli» risponde, facendo riferimento a singoli progetti sanitari in Ruanda come ad alcune comunità costiere in India e Vietnam, dove sono in via di realizzazione progetti destinati a difendere gli abitanti dal rischio di inondazioni se il livello del mare si dovesse alzare in maniera significativa. Il fiore all’occhiello della Fondazione è il Bellagio Center ma ammette che «se dovessi oggi ripartire da zero non lo rifarei» per via degli ostacoli connaturati all’operare in Italia: «Abbiamo 32 dipendenti con costi altissimi, bisogna pagare l’assicurazione sanitaria a vita e 14 stipendi al mese, le leggi del lavoro sono troppo onerose, per questo gli imprenditori americani non investono da voi. Il problema è che chiunque impieghi una persona per sei mesi poi deve tenersela a vita, andando incontro a costi stratosferici». Se l’Italia di oggi da un punto di vista economico non lo convince troppo, sul piano dell’identità invece non ha dubbi: «Mio padre Peter veniva dalla Sicilia, mia madre Josephine da Senigallia, nelle Marche, e fu cresciuta a Canarsie, Brooklyn, dove subì discri­125

minazioni solo perché italiana, una mia zia addirittura morì perché era andata ad abitare in un quartiere di New York dove per strada parlavano tutti inglese. Mi sento italiano». Cuomo e Giuliani Gli italiani di New York hanno espresso sindaci, governatori, deputati, senatori e una miriade di amministratori locali, ma chi più ne incarna la passione politica sono i due leader che hanno accarezzato il sogno di diventare il primo italoamericano a sedersi nello Studio Ovale. Progetti presidenziali a parte, il democratico Mario Cuomo e il repubblicano Rudolph Giuliani non potrebbero essere più distanti, perché rappresentano idee differenti dell’America, sono portavoce di valori opposti e le loro vite descrivono legami diversi con la cultura d’origine. Le rispettive parabole, tuttavia, aiutano a comprendere fino a dove si è spinta la partecipazione degli italoamericani alla vita pubblica. Mario Cuomo nasce nel 1932 in una casa di Queens dal matrimonio fra Andrea Cuomo, di Nocera Superiore, e Immacolata, di Tramonti. I Cuomo hanno una famiglia numerosa che mantengono grazie a una bottega a South Jamaica, allevano Mario parlandogli in dialetto, fino al punto da mandarlo a scuola all’età di otto anni privo della minima conoscenza dell’inglese. È la scuola pubblica che insegna quindi al piccolo Cuomo cos’è l’America «visto che i genitori e i preti della chiesa dove andavamo non l’avevano fatto» rivela in una intervista all’«American Heritage Magazine» nel dicembre 1990. Rudy Giuliani invece nasce nel 1944 a Brooklyn, figlio unico di Harold Angelo Giuliani e Helen D’Avanzo, entrambi nati in America da genitori arrivati alla fine dell’Ottocento. A conferma che si tratta di una famiglia che è più avanti nel percorso dell’integrazione, in casa parlano inglese. Anche se questo non li aiuta troppo da un punto di vista economico, visto che sbarcano il lunario passando da un impiego all’altro. A complicare le cose c’è il fatto che Harold Giuliani viene ­126

condannato per aggressione e rapina, finisce dietro le sbarre e quando esce diventa il guardaspalle del cognato Leo D’Avanzo, coinvolto nel gioco d’azzardo e nel prestito d’usura. Tanto per Cuomo come per Giuliani si tratta di infanzie segnate da stenti e difficoltà, che li portano ad affermarsi negli studi – Cuomo alla Public School No. 50, Giuliani alla Bishop Loughin Memorial High School – schiudendogli le porte della carriera di avvocato, che Mario inizia a fianco del giudice Adrian Burke dopo essersi laureato alla St. John’s University e Rudolph con il giudice Lloyd MacMahon dopo aver terminato la School of Law della New York University. Pur con dodici anni di differenza, Cuomo e Giuliani incominciano dalle aule di tribunali l’attività pubblica anche se mentre per Mario è uno sbocco naturale degli studi fatti, nel caso di Rudy si tratta di una scelta passata attraverso la rinuncia alla tonaca, dopo aver preso a lungo in considerazione l’ipotesi di diventare prete. Il rapporto di Giuliani con la fede cattolica è molto stretto, cementato dagli studi alla Bishop Loughin, mentre Cuomo vive la fede come tradizione di famiglia, distinguendola dall’educazione che gli arriva soprattutto dalle scuole pubbliche, che gli trasmettono il credo americano nella divisione fra Chiesa e Stato. Come avvocato, alla fine degli anni Sessanta, Cuomo emerge sulla scena cittadina quando difende i Corona Fighting 69, ovvero il gruppo di 69 proprietari di immobili del quartiere Corona a Queens minacciati di trasloco forzato dal piano comunale per la costruzione di un nuovo liceo. È una battaglia legale che lo trasforma in un paladino del ceto medio che – dopo altre due cause simili in difesa di piccoli proprietari a Queens – spinge il sindaco John Lindsay nel 1972 ad affidargli la gestione delle dispute immobiliari a Queens fra residenti e proprietari. Il debutto di Giuliani invece è segnato dalla lotta al crimine perché MacMahon è il giudice del Distretto Sud di New York – che include Manhattan – e gli affida alcune cause ­127

contro il traffico della droga che lo fanno emergere fino a portarlo nel 1973 a guidare l’Unità Narcotici. Negli anni Settanta Cuomo e Giuliani crescono su binari paralleli: l’impegno per i diritti dei meno abbienti trasforma Mario in una stella nascente del Partito democratico di New York – fino a perdere la candidatura a sindaco contro Ed Koch nel 1977 –, mentre Rudy punta tutto sulla sicurezza collettiva, lascia il Partito democratico, diventa indipendente ed entra per la prima volta nel governo durante l’amministrazione del repubblicano Gerald Ford come capo di gabinetto del viceministro della Giustizia Harold Tyler. A trasformarli in aperti avversari è l’amministrazione Reagan: un presidente che Cuomo, divenuto nel 1982 governatore di New York, aborrisce imputandogli l’ideologia della diseguaglianza, mentre Giuliani – oramai repubblicano – gli deve nel 1981 la nomina ad Associate Attorney General, il numero 3 del ministero della Giustizia. Alla convenzione democratica di San Francisco del 16 luglio 1984 il candidato Walter Mondale assegna proprio a Cuomo il keynote speech, il discorso di indirizzo politico, di cui fa un manifesto anti-reaganiano nel quale si rimprovera al presidente in carica di «non vedere la disperazione degli esclusi dalla tua città splendente». «I repubblicani credono che il treno non arriverà a destinazione se durante il tragitto non lascerà indietro qualche vecchio, qualche giovane o qualche debole, in maniera da far prevalere i forti – dice Cuomo dal palco di San Francisco – ma noi democratici crediamo in qualcosa di diverso, crediamo che si possa fare l’intero tragitto mantenendo intatta la famiglia d’America, che include neri e ispanici, gente di ogni etnia, nativi americani e coloro che devono lottare per salvaguardare le rispettive famiglie». Oratoria e contenuti proiettano Cuomo nel ruolo di leader di punta del partito dopo la netta sconfitta del ticket composto da Mondale e dall’italoamericana Geraldine Ferraro (un’altra newyorkese, di Queens) e quando, quattro anni dopo, i repubblicani candidano George H.W. Bush a succedere ­128

a Reagan, sono in molti i democratici che scommettono su di lui, convinti che abbia il profilo giusto per conquistare lo Studio Ovale, sommando ai valori liberal i positivi risultati della ripresa dell’occupazione nello Stato che governa. Ma Cuomo resiste alle lusinghe, esita a parlare di candidatura e lascia il campo aperto a Michael Dukakis, che verrà poi sconfitto. La sua incertezza lascia perplessi i liberal di New York e gli guadagna il titolo di «Amleto dell’Hudson», che trova ulteriore fondamento quando, a metà degli anni Novanta, il presidente Bill Clinton pensa di nominarlo giudice della Corte Suprema ma lui, ancora una volta, si tira indietro. «Per non dover dire di no a Clinton, Cuomo non prese la telefonata» racconta un veterano del Partito democratico cittadino, confessando di «ignorare ancora oggi il motivo di tale incomprensibile comportamento». Se nel 1988 è l’eccesso di prudenza di Cuomo che fa svanire la prospettiva di un italoamericano candidato presidente con i democratici, vent’anni dopo l’ipotesi Rudy Giuliani svanisce, nel campo repubblicano, per la ragione opposta: troppa sicurezza. Nella campagna elettorale del dopoBush, Giuliani si presenta con le credenziali più solide sul tema della sicurezza: come procuratore di New York a metà degli anni Ottanta ha sgominato il crimine organizzato con gli arresti nell’ambito dell’inchiesta Pizza Connection e come sindaco ha guidato la risposta della città agli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001, dopo averla ripulita dal crimine negli anni Novanta applicando la dottrina della Tolleranza Zero, basata sul principio che arrestando chi commette piccoli reati si impedisce nel lungo termine l’aumento dei delitti più gravi. Nel gennaio 2008, quando iniziano le primarie, Giuliani sente di avere la nomination repubblicana in tasca e raccoglie milioni di dollari. Fra i maggiori finanziatori ci sono gruppi di italoamericani di New York, della Pennsylvania e della Florida che si identificano in lui, sebbene Giuliani stenti a cavalcare la candidatura etnica e, a differenza di Cuomo, non parli italiano. Ma è l’eccesso di fiducia nelle proprie capacità che fa scivolare Rudy. Sceglie una strategia elettorale suicida, ­129

non presentandosi alle primarie in Iowa, New Hampshire e South Carolina per puntare tutto sulla Florida dove viene però sonoramente battuto. Arriva alla convention di Saint Paul, in Minnesota, con un solo delegato a fronte dei 50 milioni di dollari di fondi elettorali spesi. La nomination presidenziale che l’anno prima sentiva di avere a portata di mano è sfumata e non gli resta che vestire i panni del mastino anti-Obama in un intervento che galvanizza il parterre di delegati conservatori. Il secco ko di Giuliani, che il magazine «Time» dopo l’11 settembre aveva incoronato «Man of the Year» definendolo il «Sindaco d’America», porta sotto i riflettori l’altra storia della sua vita: dalle complicità mafiose attribuite al padre ai tre matrimoni (di cui uno annullato con la cugina di terzo grado), dalla coabitazione con due amici gay di Manhattan al legame politico e personale con Bernard Kerik, l’ex capo della polizia di New York travolto dallo scandalo della ristrutturazione del suo appartamento pagata da un boss. Nell’arco di due decadi prima Mario Cuomo e poi Rudy Giuliani hanno così perso la possibilità di candidarsi alla Casa Bianca a causa di un misto di incertezze e decisioni sbagliate che stridono con grinta e successi dimostrati da entrambi nei rispettivi campi. Ma ciò non toglie che le loro candidature, dichiarate o ritenute credibili, abbiano fatto cadere il tabù su un candidato italoamericano alla presidenza degli Stati Uniti. Consegnando la sfida nelle mani dei leader della nuova generazione. Referendum sull’identità Per gli italiani di New York l’Election Day del 2010 si rivela un referendum sulla propria identità. La scelta del nuovo governatore dello Stato fra il democratico Andrew Cuomo e il repubblicano Carl Paladino li pone infatti per la prima volta di fronte a una scelta netta fra due modi opposti di incarnare valori e ideali degli italoamericani. È una situazione imprevista che matura a sorpresa quando nelle primarie ­130

repubblicane l’uomo d’affari di Buffalo Paladino, sostenuto dal Tea Party, prevale inaspettatamente sul favorito Rick Lazio, anch’egli italiano d’origine ma senza un timbro troppo etnico. Paladino invece si presenta come una sintesi di tutti i più diffusi stereotipi sugli immigrati italiani: le sue riunioni elettorali si svolgono a Buffalo, nell’Upstate, in un ristorante denominato Sinatra’s frequentato da avventori con catene dorate al collo, tatuaggi e modi di fare che evocano lo stile dei Sopranos, e il club che frequenta è quello dei Big Tymers, in gran parte operai di origine meridionale che «parlano ad alta voce, sovrapponendosi gli uni agli altri senza ascoltarsi mai», come riassume al «New York Times» (11 ottobre 2010) Guy Molinari, ex presidente del comitato del borough di Staten Island. Paladino proviene da una famiglia di immigrati molisani che nel 1926 arrivarono a Ellis Island da Santa Croce di Magliano, ogni anno vi torna almeno una volta, parla senza difficoltà il dialetto ed è un orgoglioso consumatore di piatti della cucina locale, che ama descrivere per parlare di sé. È un modo di essere italiani che mette in mostra durante la parata del Columbus Day lungo la Fifth Avenue, quando i più giovani sostenitori sfilano con le magliette del reality show Jersey Shore. Se a tutto ciò si aggiunge che Paladino, nato nel 1946, è sposato a una donna consapevole dei suoi numerosi tradimenti, fino all’estremo di un figlio segreto che Carl ha avuto da una delle amanti, non è difficile immaginare come l’uomo d’affari repubblicano riassuma in sé un modo di vita che molti italoamericani considerano eccessivo, volgare e sostanzialmente nocivo all’integrazione in America. Andrew Cuomo, classe 1958, è l’esatto opposto di tutto questo. Pur essendo figlio dell’ex governatore Mario, protagonista di molte battaglie contro il razzismo anti-italiano e della moglie Matilda, madrina di innumerevoli associazioni ed eventi a sfondo etnico, Andrew lascia tali origini sullo sfondo. La sua prima moglie è stata Kerry Kennedy – figlia di Robert ed Ethel Skakel – e l’attuale compagna è la wasp Sandra Lee, capelli biondi e occhi chiari, conduttrice di ­131

programmi di cucina per Food Network. Come procuratore generale di New York non ha mai mancato occasione per evitare comportamenti troppo etnici, forte anche dei risultati di un sondaggio che commissionò nel 2002, dal quale emerse che gli stereotipi sugli italiani mafiosi e cafoni erano ancora a tal punto radicati da minacciare la sua carriera politica. E quando la gara per governatore, nell’autunno del 2010, si trasforma in una sfida tutta italiana – con l’aggiunta di altre sfide amministrative sempre dominate da nomi di immigrati dal Bel Paese – non esita a confessare agli stretti collaboratori di temere un boomerang negativo in termini di popolarità. Per esplorare l’identità italoamericana di Andrew bisogna incontrare la madre Matilda, un’elegante signora newyorkese che affianca l’orgoglio per le radici siciliane – la madre è nata a Merì, in provincia di Messina – con frequenti richiami all’esempio di Eleanor Roosevelt non solo come First Lady ma nell’impegno per il prossimo. «Ciò che più conta per il futuro di New York sono le nuove generazioni – spiega Matilda Raffa Cuomo durante una colazione all’Hotel Regency su Park Avenue – perché se quando mio marito era governatore la piaga peggiore erano gli homeless, oggi invece si tratta dei bambini abbandonati, che si trovano in questa situazione a causa di genitori che dopo averli messi al mondo gli hanno voltato le spalle». Si tratta di «migliaia di casi» per soccorrere i quali Matilda pensa a un «network di sostegno» fondato su «famiglie, scuole e comunità», declinando la ripetizione dell’«esempio avuto dai miei nonni e genitori nella realtà del XXI secolo». Ecco di cosa si tratta: «I miei arrivarono da una nazione dove bisognava fare tutto da soli e dopo essere arrivati qui in America continuarono a fare tutto da soli, lavorando sodo per crescere i figli ma oggi deve essere lo Stato a farsi portatore di tale eredità di passione e determinazione per aiutare i bambini senza genitori a cui dobbiamo dare un futuro». Sono parole che descrivono un trasferimento di valori italiani nel cuore del sistema americano. Se per Carl Paladino essere italiano significa esaltare le proprie caratteristiche etniche, ­132

per Andrew Cuomo a prevalere è l’integrazione, la sovrapposizione fra valori. Ciò porta Paladino a irriderne le origini affermando sarcasticamente che «forse Andrew è stato adottato» e dunque di italiano ha solo il cognome. Ma quando si aprono i seggi e New York sceglie il nuovo governatore è proprio Andrew a prevalere. I motivi di una vittoria schiacciante – 61% contro 34% – sono in gran parte da ricercare lontano dal duello di identità, perché Cuomo è il procuratore divenuto popolare per le indagini contro gli illeciti di Wall Street e per la tutela dei diritti dei consumatori travolti dalla crisi finanziaria. Ma se anche gli italoamericani lo preferiscono in maniera netta è perché rappresenta il modello di un’integrazione riuscita, capace di far coesistere le origini etniche con lo stile di vita anglosassone. Non a caso Victor Kovner, veterano del Partito democratico cittadino, parla di Andrew Cuomo come del «primo italiano che può davvero diventare presidente degli Stati Uniti» perché «simile a Barack Obama nel fatto che la sua identità etnica è importante ma non lo definisce, in quanto l’elemento prevalente è essere americano». Chi invece ha preferito Paladino lo ha fatto non solo per dare un voto di protesta anti-establishment, raccogliendo gli appelli del Tea Party su scala nazionale, ma anche per riaffermare l’orgoglio etnico delle origini in opposizione ai diktat sociali anglosassoni. È una differenza che si rispecchia anche nelle distanze socio-geografiche fra i due candidati, perché gli italoamericani di Manhattan a cui Cuomo appartiene sono considerati alla stregua di un corpo estraneo dal popolo dei club di Buffalo, composto in maggioranza da famiglie della classe media dedite ai lavori più umili, distanti dalle luci e dal benessere della Grande Mela.

Il business

Maria «Money Honey» Wall Street parla italiano grazie a imprese e successi firmati negli ultimi trent’anni da Ceo come Gil Amelio di Apple, Lee Iacocca di Chrysler, Carly Fiorina di Hewlett-Packard, Bob Nardelli di The Home Depot e Leonard Riggio di Barnes&Noble e l’immagine stessa del New York Stock Exchange, la Borsa di New York, per la maggioranza degli americani coincide con il volto di «Money Honey». Questo è il soprannome della star indiscussa delle trasmissioni tv di finanza e al tempo stesso l’economista più sexy di Wall Street. Maria Bartiromo nasce nel 1967 a Bay Ridge, Brooklyn, in una famiglia del ceto medio italiano che si mantiene grazie alle entrate di Rex Manor, il ristorante con il nome del transatlantico che portò in America il nonno Carmine salpando nel 1919 dal porto di Napoli. Bartiromo cresce in una casa della multietnica Bay Ridge, dove gli italiani sono il 16,6% dei 70 mila residenti, ovvero il maggior gruppo nazionale, seguito da irlandesi, arabi, cinesi, greci e ispanici. In famiglia, con il padre napoletano Vincent e la madre agrigentina Josephine, parla soprattutto di abbondanza di cibo e scarsità di mezzi economici, da piccola va in una scuola femminile cattolica, il primo impiego è come guardarobiera nel ristorante di famiglia e durante una difficile adolescenza gli unici momenti di sfogo sono le sere del sabato in discoteca con la sorella Theresa, durante le quali balla così tanto da venire considerata dagli amici una «Disco Queen». Mai avrebbe ­134

pensato di superare il traguardo dei quarant’anni nella veste della giornalista economica più nota degli Stati Uniti. Fama, successo e denaro derivano dalla capacità di «lavorare sodo come facevano gli immigrati a inizio Novecento» appresa dai genitori, consentendole di laurearsi alla New York University in Giornalismo ed Economia. Lei lo spiega così: «La mia forza viene dal modo in cui sono stata cresciuta, non importa quanto successo posso avere, mi sento sempre legata alle mie origini, vengo da una famiglia molto unita, mia madre è la mia migliore amica e mia sorella Theresa è la seconda, vedo ancora con i miei occhi mio padre che lavora al Rex Manor con una bandana bianca in testa, sudando, senza mai risparmiarsi per lunghe ore. Sono queste radici modeste che mi fanno apprezzare le piccole gioie della vita». È così che getta le premesse di una carriera che inizia da stagista con la Cnn nel 1987, la porta ad affiancare Lou Dobbs come producer di Money Line e ha la sua svolta nel 1995, quando diventa il primo reporter a trasmettere in diretta dal parterre della New York Stock Exchange. Affronta quel giorno il tema in cima a tutti i notiziari, la nomina di Jack Welch alla guida di General Electric. I primi a non fidarsi di una donna che parla di finanza sono gli operatori di Borsa, che si accalcano a decine attorno alla postazione tv gridandole senza troppi complimenti «tu qui non c’entri nulla, vattene». Ma lei resta, termina la diretta tv di SquawkBox per la Cnbc e torna l’indomani e poi ancora il giorno seguente. Dando vita a una nuova forma di giornalismo economico divenuto, dopo quindici anni, praticamente senza rivali: le all news finanziarie, con commenti in diretta su andamenti di titoli e operazioni raffigurati sullo schermo dai dati reali delle valutazioni. A sostenerla a spada tratta, sin dall’ottenimento dei permessi per la prima trasmissione, è Richard Grasso, nato a Queens in una famiglia di immigrati italiani e maltesi, presidente della Borsa di New York dal 1995 al 2003. Alla fine degli anni Novanta Bartiromo racconta in diretta dai teleschermi il boom all’America clintoniana guadagnandosi il soprannome «Mo­135

ney Honey», che non le dispiace troppo perché ciò che vuole fare è «trasformare il business in qualcosa di sexy». D’altra parte, se donne atletiche, alte e bionde sono diventate popolari volti delle trasmissioni sportive o politiche sui maggiori canali, Maria Bartiromo non trova nulla di male se una come lei, alta 1,65, con occhi verdi, forme sinuose e colori mediterranei può ambire a diventare una sorta di Sophia Loren di Wall Street. Lo share di spettatori della sua trasmissione del mattino The Wall Street Journal Report come di Closing Bell – che conduce al pomeriggio sulla Cnbc – lascia intendere che la popolarità continua a essere in ascesa, sostenuta da plauso della critica, premi giornalistici, libri sui segreti della finanza e un cumulo di cariche cittadine, dal consiglio di amministrazione dei City Ballet di New York alla fascia tricolore di maresciallo del Columbus Day del 2010. Per «Vanity Fair» la bellezza ne fa la «Sophia Loren del giornalismo» e la competenza finanziaria la «versione economica di Barbara Walters». Sono state le due tragedie di inizio secolo a farne una testimone dell’attualità: l’attacco terroristico dell’11 settembre – che è poi il giorno del suo compleanno – durante il quale era dentro la Borsa e vide con i suoi occhi lo schianto dell’aereo-missile sulla seconda Torre e il crollo di Wall Street a seguito del fallimento di Lehman Brothers il 15 settembre del 2008. La sua New York è tutta nell’Upper East Side, dove vive in una palazzina da 6,5 milioni di dollari con il marito Jonathan Steinberg – figlio del finanziere Saul –, adopera la sala del breakfast del Regency Hotel per gli incontri di lavoro e pianifica giornate di lavoro durante le quali, assicurano i suoi colleghi alla Cnbc, «è capace di ritmi di lavoro superiori a tutti». Stakanovismo e onori non le hanno impedito nel 2007 di attraversare un brutto momento quando il top manager di Citigroup Todd Thomson fu accusato di aver volato da Pechino a New York con un jet privato lasciando a terra tutti i colleghi solo per viaggiare in solitudine con Maria, con la quale avrebbe avuto una relazione. Il sospetto della complicità con un vip di Wall Street per alcune settimane le fa temere ­136

il peggio ma la scelta di non commentare mai nulla, facendosi difendere a spada tratta dalla sua tv, alla fine paga. E lei può riprendere a dedicarsi a collezionare scoop e interviste – da Alan Greenspan a Condoleezza Rice passando per tutti i maggiori Ceo di Wall Street – dedicando il tempo libero per andare spesso a trovare il parente più anziano che ha e al quale resta molto affezionata. Si tratta di «uncle Charles», di centotre anni di età, che suole raccontarle com’era New York quando Rex Manor aprì i battenti. Nell’American dream che Maria Bartiromo incarna c’è però una preoccupazione incombente che risponde al nome dell’unico reporter televisivo finanziario in grado di rubarle attenzioni e spettatori: Charles Gasparino, classe 1963 e origini nel Bronx, che quando era in forza alla Cnbc liquidava «Money Honey» come una «brava giornalista» ed è passato poi a sfidarla dai teleschermi di Fox tv con un’energia che gli ha valso il soprannome di «Rocky Balboa», evocando il boxer incarnato sul grande schermo da Sylvester Stallone. Generazione «Streetfighter» Gli italoamericani che si sono fatti largo nella business community di Wall Street non sono nati, come si dice in inglese, con il cucchiaio d’argento in bocca, si tratta di gente che viene da famiglie povere, che si è affermata lavorando sodo, al prezzo di terribili sacrifici, emancipandosi da un retroterra di povertà, di famiglie di immigrati che appena arrivati facevano gli operai e i muratori. A raccontare pene e successi di questa generazione di streetfighters – combattenti di strada – è uno che la conosce dal di dentro, Charles Gasparino, il volto di punta di Fox Business Network Tv, i cui nonni arrivarono da Napoli a tasche vuote. «Oggi a New York non c’è più il razzismo anti-italiano di una volta e gli stereotipi sui mafiosi affiorano solo in poche occasioni, come fa ad esempio il ‘New York Times’ quando parla di Dick Grasso come di un ‘world boss’, che è un termine per indicare un bandito di Co­137

sa Nostra – spiega Gasparino – ma quando si affacciarono per la prima volta a Wall Street dovettero affrontare proprio questi pregiudizi, non erano né anglosassoni né protestanti. Nessuno si fidava di loro». È remando controcorrente che ce l’hanno fatta e i loro nomi sono quelli di Richard Grasso, che è stato presidente della Borsa di New York, del banchiere d’affari Kenneth Langone, uno dei fondatori del gigante dei casalinghi The Home Depot, di Leonard Riggio, proprietario delle librerie Barnes&Noble, di Samuel Palmisano, Ceo Ibm, di Lawrence Auriana, manager del Kaufmann Fund e leader della Columbus Citizens Foundation cresciuto a East Harlem, e di tanti altri ancora. «Ce l’hanno fatta perché sono tutti degli streetfighters, onesti ma tosti. Niente gli è mai stato dato, si sono dovuti guadagnare tutto, partendo da sottozero». In gran parte si tratta di uomini d’affari con genitori, nonni o bisnonni arrivati dalle regioni del Sud, cresciuti molto poveri con l’ambizione di voler fare meglio dei genitori, ricorrendo all’unica strada che avevano: lavorare duro e fare le cose giuste. «Stiamo parlando di gente aspra, concreta. Questo è stato il loro timbro e per questo ci sono riusciti» assicura Gasparino. Ciò non toglie che vi siano anche le pecore nere. Angelo Mozilo, Ceo del gigante dei mutui Countrywide, è per gli americani il volto di uno degli speculatori che hanno affossato sicurezza e benessere di milioni di famiglie, così come Raffaello Follieri sta scontando una condanna a quattro anni e mezzo di carcere per una truffa immobiliare milionaria che, ad appena trent’anni di età, aveva messo a segno riuscendo a ingannare anche diversi vescovi americani e la Fondazione Clinton. «Sono personaggi rimasti imprigionati in maniera diversa nella bolla immobiliare, le loro responsabilità sono note a tutti ma nessuno li accusa in quanto italoamericani, a conferma che i pregiudizi sono in fase discendente» assicura l’anchorman finanziario, soffermandosi sul fatto che «a colpire gli americani è assai più il fatto che il business miliardario della grande moda parli italiano, basta camminare per New York per accorgersene». Se a Wall Street le banche italiane ­138

sono poco presenti e nell’alta finanza il Made in Italy latita «ciò non deve sorprendere più di tanto perché questo settore dell’economia in fin dei conti è in calo, i consumatori continuano invece a spendere per la moda e qui invece siete fortissimi». Assieme a Gucci, Fendi, Loro Piana, Armani, Max Mara, Dolce & Gabbana e Bottega Veneta, che tengono banco lungo Madison Avenue e la Fifth Avenue – a dispetto di una crisi che ha colpito altre sigle importanti del lusso –, l’altra novità del business Made in Italy a New York viene dal settore immobiliare. Daniele Bodini con la sua American Continental Properties è una realtà consolidata e negli ultimi anni il gruppo Sorgente ha acquistato il Flatiron – uno degli edifici simbolo di Manhattan – mentre la Bizzi & Partners ha inaugurato un grattacielo al 400 della Fifth Avenue e altri ancora hanno collezionato acquisti, società e investimenti. «È un segno dei tempi, gli immobili a Manhattan costano meno che in passato e gli imprenditori italiani fanno bene a cogliere questa preziosa occasione» commenta Gasparino, i cui nonni sono arrivati da Napoli con quelli materni che andarono a vivere nel Lower Manhattan, dalle parti di Sullivan Street, e quelli paterni invece nel West Village, dove sorgeva la Little Italy, per poi spostarsi a East Harlem e nel Bronx, dove è nato. Fu il padre, che ha svolto alcuni dei lavori più umili per mantenere la famiglia, a suggerirgli l’importanza del mondo del business e il resto lo hanno fatto gli studi universitari, la passione per il giornalismo e l’inizio della carriera accompagnato dagli scandali finanziari degli anni Ottanta e Novanta, che diventarono il trampolino verso la tv. Essere riuscito a imporsi nel mondo del giornalismo economico televisivo per Gasparino è un successo parallelo a quello degli streetfighters di Wall Street e lo spiega con la determinazione a emanciparsi dalla «mentalità da povero da cui provenivo». Ne parla senza acredine ma con fermezza: «Alle spalle abbiamo famiglie che ci suggerivano di andare a lavorare nella nettezza urbana per poter avere la sicurezza di posto fisso, pensavano così perché erano poveri, operai, ritenevano che un impiego al Comune ­139

fosse l’obiettivo più alto ma io, mio fratello, divenuto poi dottore, e tanti altri abbiamo scelto una strada diversa, abbiamo voluto metterci alla prova, tentare di costruire un futuro migliore. E ci siamo riusciti». Parola di streetfighter. L’Italia scomparsa da Wall Street La sede di Lincoln International, agli ultimi due piani del 400 di Madison Avenue, è arredata come un appartamento, con quadri caldi, scrivanie colorate e una cucina perfettamente funzionante. Affacciandosi dalla terrazza ci si trova circondati dalle sedi della Lazard, JPMorgan e Deutsche Bank. Sebbene si tratti di una tana di mastini della finanza, l’atmosfera è rilassata, quasi famigliare. Il managing director, Federico Mennella, viene da Milano, dove ha studiato al liceo classico «Leone XIII» dei gesuiti, e se si trova in America è anche a seguito di quanto avvenne il 13 agosto 1975, quando lo zio materno Gianfranco Lovati Cottini fu rapito dalla «banda dei giostrai» nel primo grande sequestro di un imprenditore in Veneto. Lovati Cottini riconobbe i rapitori e il 18 agosto fu ritrovato senza vita. Per Federico, che ha diciassette anni, è uno shock e il padre, titolare a Milano di una industria di giocattoli di plastica e giochi educativi, reagisce mandandolo in America, dove sbarca il 25 agosto, avendo studiato inglese solo per due anni al liceo. Ad aiutarlo è il giurista di Yale Guido Calabresi, fuggito anch’egli dall’Italia trentasei anni prima – a causa delle leggi razziali –, che vede nel giovane Federico la ripetizione della propria odissea, anche se per cause molto differenti. Consigli e stimoli di Calabresi – diventato nel frattempo rettore della facoltà di legge di Yale – accompagnano Federico alla laurea in Economia e Scienze politiche proprio a Yale. Comincia a lavorare da Oppenheimer a Wall Street, va alla Harvard Business School e, dopo una breve esperienza alla McKinsey di Milano, ritorna a Wall Street. Si consulta con il banchiere David Rockefeller, che gli consiglia di entrare a Lazard Frères, ma la tentazione di tornare in ­140

patria rimane comunque. Negli anni Ottanta fa un colloquio a Mediobanca a Milano ma gli sollevano obiezioni a valanga: dubitano del vero valore della laurea di Yale e Harvard (che all’epoca non erano riconosciute in Italia) e pertanto gli chiedono se può definirsi «dottore», vogliono attestati che provino la sua «conoscenza delle lingue» e rimangono increduli di fronte ai guadagni riportati a Wall Street. Da qui la decisione di restare alla Lazard (a New York, a Francoforte e ancora a New York), per nove anni, da dove passa alla Deutsche Bank e JPMorgan per occuparsi di fusioni e acquisizioni, fino al 2005, quando crea l’ufficio di New York della Lincoln International. Mettere radici a New York significa d’altra parte seguire le orme di famiglia, perché il nonno, di cui porta il nome, nato nel 1895 a Napoli, era arrivato a Ellis Island nel 1913 per aprire la succursale americana della società di famiglia di prodotti alimentari napoletani, e dopo essere andato volontario nella Prima guerra mondiale vi tornò da antifascista, con l’hobby per le poesie napoletane. Il legame del managing director con l’Italia è solido, quasi viscerale, per questo quando si tratta di spiegare la carente presenza di investimenti imprenditoriali in America parla con pacata ma evidente amarezza: «Il problema è che molti imprenditori italiani, quando decidono di investire in America, spesso non usano advisors locali, vogliono a fianco persone di fiducia e non americani, privilegiano la conoscenza della lingua rispetto alla competenza, e spesso preferiscono pagare poco per una persona di professionalità inferiore. A volte, addirittura, suggeriscono di eseguire transazioni ‘all’italiana’ presupponendo che qui in America si faccia la doppia contabilità, sorprendendo gli interlocutori al punto da farli spesso allontanare». È questo il risvolto della «scomparsa degli italiani a Wall Street» che Mennella descrive così: «Quindici o venti anni fa, le industrie e banche italiane, francesi e tedesche a New York erano sullo stesso piano come importanza industriale e peso finanziario. In questi decenni, l’importanza delle no­141

stre società è diminuita significativamente. Allora a Manhattan avevamo grandi gruppi industriali come Olivetti, Fiat, Ferruzzi, Finmeccanica, Pirelli, Telecom, mentre oggi sono rimaste solo alcune grandi colonne, come la moda con Valentino, Armani, Prada e Ferragamo, singoli imprenditori o famiglie come i Del Vecchio, proprietari di Luxottica e di Brooks Brothers, Colaninno, presidente di Piaggio, e Benetton, che controlla la catena omonima e del gruppo Autogrill/ Host Marriott, nonché aziende di dimensioni minori come Citterio e Binda. Noto ora, inoltre, che alcuni fondi di private equity italiani, come Investindustrial e altri, stanno aprendo uffici negli Usa. Ciò che manca è una presenza organizzata dei grandi gruppi industriali o statali» se si esclude Fiat, protagonista negli ultimi tempi del merger con Chrysler che l’ha portata a tornare in Nordamerica. Dietro la carente presenza italiana c’è «un fallimento manageriale e/o strategico, dovuto al fatto che non c’è stata volontà di investire negli Usa attraverso acquisizioni, come hanno fatto gruppi stranieri simili a Saint Gobain, Schneider, Siemens, Deutsche Bank che ha comprato Bankers Trust, Credit Suisse che si è fusa con First Boston e l’Ubs che si è fusa con la Paine Webber e la Sbc. Per contrasto molte banche italiane, come Monte dei Paschi e Intesa Sanpaolo, hanno ridotto la loro presenza e la loro importanza nel mercato americano». La conclusione è spietata: «Siamo stati tattici e non strategici, mettendo a segno singole operazioni di piccolo cabotaggio e non di ampio raggio. Per esempio, vari anni fa sia la Comit che la Deutsche Bank avevano la stessa valutazione borsistica e la stessa partecipazione nella Lehman Brothers. La Deutsche vi restò, imparò a conoscere il mercato americano e costruì una sua posizione importante, mentre Comit vendette la sua quota e uscì». Un altro caso emblematico è quello del Jolly Hotel che «acquistò un albergo su Madison Avenue ma non costruì mai una catena di hotel». E ancora, «Olivetti era fra le prime società di personal computer ma non riuscì a sfruttare la situazione». La tesi di Mennella è che dietro il ridimensionamento degli investimen­142

ti italiani a Wall Street ci sia «un problema di base: le società italiane non sono riuscite ad attrarre dei top manager italiani o stranieri con una visione davvero globale, dove un periodo negli Usa veniva visto come parte essenziale della carriera. In generale, la logica degli imprenditori italiani è stata preferire il ‘build’ al ‘buy’, meglio costruire un piccolo impianto proprio che acquistare imprese o banche, non c’è stata volontà di inserirsi in maniera strategica nel business americano. Sono state queste scelte compiute negli anni Ottanta e Novanta ad aver creato la situazione attuale», come dimostra il fatto che «persone come De Benedetti hanno fatto molte acquisizioni in Europa, non in America». A indebolire il management c’è anche il fatto che «in Italia molte imprese private privilegiano i figli e i nipoti, non cercano manager esterni e di qualità» e il risultato di questo processo durato oltre vent’anni è che «oramai qui è rimasta solo qualche società industriale come Eni, Enel, Finmeccanica e Chrysler, grazie all’operazione esemplare fatta da Sergio Marchionne con Fiat». Ma «si tratta oramai di poche eccezioni». Come risultato, molti dei top manager italiani hanno preferito fare una carriera in società estere, da Lamberto Andreotti di Bristol-Myers Squibb a Francesco Granata di Biogen Idec, a Vittorio Colao di Vodafone. E a completare il quadro c’è la «Borsa di Milano che quando fa i roadshow a New York invita solo italiani, così come quando sono venuti Gianfranco Fini e Letizia Moratti a promuovere investimenti, in platea ad ascoltarli non c’erano quasi operatori americani». D’altra parte «poche società italiane sono quotate in Borsa negli Usa» e ciò dimostra che gli investitori locali non guardano con interesse al nostro Paese. «E come potersi sorprendere di questo – conclude Mennella – visto che in Italia abbiamo molta burocrazia, la manodopera ha costi stratosferici, non c’è certezza del diritto, c’e troppa politica, il sistema bancario è farraginoso e scandali come Cirio e Parmalat hanno creato un nervosismo che resta nell’aria?». Parole dure e giudizi taglienti ma il top manager confessa che «nonostante tutto, sarei pronto a tor­143

nare in Italia» se «fosse possibile operare sul mercato come avviene qui». Gli errori del Made in Italy Sono tanti, giovani e di successo. New York pullula di manager fra i trenta e i quarantacinque anni che dopo essersi laureati in Italia – molti di loro alla Bocconi – o aver fatto le prime esperienze di lavoro a Milano, nel Triveneto o in Sicilia, sono arrivati da queste parti riuscendo a imporsi nella business community. Le loro sono storie di sacrifici, lavoro duro e genialità che consentono di entrare nelle viscere di due fenomeni: le difficoltà che molte aziende italiane incontrano in America e la resistenza degli imprenditori a stelle e strisce a investire nel nostro Paese. Entrando nei loro uffici, ascoltando cosa dicono e spiegano, sono i due temi che ricorrono di più. Incominciamo dalle difficoltà del Made in Italy. Nicola Gallotti, general manager del Geneva Watch Group, presidio Usa di Binda – un’azienda di orologi di base a Milano –, fa esempi che spiegano quanto sia importante comprendere le differenze culturali prima ancora che avere una buona strategia, pena il non riuscire neanche a «iniziare a giocare la partita». Primo esempio: il pragmatismo americano fa sì che «se vuoi vendermi qualcosa, devo poterlo vedere». Sembra un principio banale e condivisibile quello dell’accessibilità, ma la nostra cultura del fare business non sempre la sposa fedelmente. «Spesso, entrare in gioielleria in Italia è come passare la dogana in aeroporto! Minimo si suona il campanello; a volte bisogna lasciare le impronte digitali. Qui tutto è aperto ed invita a entrare: chiudere la porta di ingresso a chiave farebbe pensare che il negozio sia chiuso. Semplice e pragmatico», dice Gallotti. Qual è la lezione da trarre? «Che non basta il nome o la qualità per farsi acquistare, in America bisogna andare incontro al consumatore, cercarlo applicando alcune regole base». Abbiamo aziende blasonate con piani strategici sofisticati che cadono nell’errore più banale di replicare quel­144

lo che fanno in Italia. «Eppure basterebbe un po’ di spirito di osservazione e applicare il buon senso». Secondo esempio: quello che Gallotti definisce il «contesto Little Italy», ovvero la radicata abitudine delle aziende italiane di infarcire le filiali americane con decine di manager italiani pronti a replicare quanto imparato e sperimentato nel Bel Paese. Gallotti è general manager di una società dove su oltre duecento dipendenti in America lui è l’unico italiano e dice «l’isolamento culturale mi ha permesso di ascoltare e imparare velocemente l’abc, evitando di commettere dolorosi errori grossolani; tutti concordano che per imparare l’inglese è fondamentale essere circondati da madrelingua ed evitare i propri connazionali: perché dovrebbe funzionare diversamente quando si parla di business?» spiega Gallotti, il cui ufficio è al quarto piano del 1407 di Broadway, a due isolati da Times Square. Da Times Square si arriva al Rockefeller Center in dieci minuti di strada e quindi, nel grattacielo che sorge al numero 1, nella suite 2404 c’è lo studio legale e finanziario Chiomenti, dove lavora Salvo Arena, catanese, con un master alla Scuola di Legge di Harvard, la cui specialità è nel settore delle fusioni e acquisizioni (mergers and aquisitions) dove più si tocca con mano la capacità delle aziende italiane di fare industria in America. «La realtà è che qui a New York sono rimaste solo 10-15 grandi aziende, come Eni, Enel e Fiat, e tre banche maggiori, Monte dei Paschi, Intesa-Sanpaolo e Unicredit, tutto il resto è deserto, o quasi» spiega, indicando in Luxottica «l’unica che ha fatto significative acquisizioni con Ray-Ban e Brooks Brothers». È una situazione che «nasce dal fatto che le imprese italiane non fanno industria perché non creano lavoro ma si limitano quasi sempre a conservare quello ereditato da aziende famigliari». Se gli imprenditori americani cercano in continuazione occasione «per crescere, innovare, cambiare», quelli italiani «sono bravi ma si limitano troppo». Per molti l’approccio è timido, è sufficiente mettere piede a New York in una qualche maniera – aprendo un punto vendita, creando una società o inviando un agente in ­145

maniera saltuaria – ma poi «non si costruisce» e «non ci si insedia, a differenza di quanto fanno i tedeschi e gli asiatici». «Recentemente si assiste a un lieve cambiamento di rotta – aggiunge – con un discreto flusso di società di medie e piccole dimensioni soprattutto nel settore della distribuzione e con un interessante progetto appena ultimato nel settore immobiliare dal gruppo Bizzi». Diego Piacentini, vicepresidente del gigante di Amazon, va anche oltre, affermando che «uno dei principali punti di debolezza delle aziende italiane in America è il rapporto con la clientela» perché «questo è un mercato dove non c’è nulla di più importante del consumatore e per metterlo a suo agio si investe in personale e pubblicità, mentre molte aziende italiane ritengono che in questa maniera perdano solamente denaro». Ed è una differenza che «nasce da una diversa idea di profitto», perché «gli americani pensano al profitto nel lungo termine mentre fra gli italiani prevale la vantaggiosità della singola vendita contingente». Quando si passa ad affrontare il tema della carenza di investimenti americani in Italia la convergenza di opinioni fra i manager aumenta. Per Piacentini, che Jeff Bezos ha chiamato vicino a sé a Seattle per affidargli le attività internazionali che compongono il 50% di Amazon, «la realtà è che non vi sono incentivi a investire in Italia» perché «anche se siamo l’ottava potenza economica del mondo e abbiamo redditi alti e potenzialità importanti» ad allontanare gli imprenditori americani vi sono «il peso fiscale, gli eccessi di regolamentazione e la scarsa flessibilità del lavoro». Senza contare, aggiunge Piacentini, «la carenza di incentivi locali che spingono invece ad andare in Irlanda, Canada e Australia». Amazon ha aperto centri di distribuzione in Europa, in Galles e a Lipsia, nell’ex Germania Est, mentre in Italia lo sbarco è avvenuto solo di recente perché, ad esempio, «anche creare un call center è complicato», mentre «riguardo alle poste italiane la situazione sta migliorando ma restano problemi seri di logistica», ovvero continua a essere difficile impegnarsi a recapitare l’acquisto fatto entro un preciso numero di giorni o a seguire via Internet il percorso del pacco. ­146

Manager globale Non ama parlare dal podio, si definisce un «manager globale», ammette di «essere una rarità in quanto italiano» e governa un colosso farmaceutico con una capitalizzazione di oltre 43 miliardi di dollari. Lamberto Andreotti, classe 1951, è assieme ad Alberto Cribiore, vicepresidente di Citigroup, l’italiano che più è riuscito a imporsi nella competitiva galassia del Corporate America. Lo sbarco nel settore farmaceutico è stato piuttosto occasionale: aveva studiato da ingegnere al Mit ma gli inizi erano stati stentati prima dell’arrivo alla guida di una Montedison subito travolta dalla bancarotta, con il risultato di passare in forza alla spagnola Farmacia da dove, quasi trent’anni fa, decise di andare via per accettare un incarico di livello minore alla Squibb, che ha poi scalato diventandone nel 2010 il Ceo. «Decidere di lasciare Farmacia per Squibb non fu facile ma la vita insegna che a volte l’umiltà paga e questo è avvenuto anche nel mio caso» racconta, incontrando un gruppo di ex allievi della Bocconi al piano rialzato di Le Cirque, il ristorante fiore all’occhiello di Sirio Maccioni. Per una serata sotto lo stesso tetto di Le Cirque siedono Maccioni in una giacca bianca molto glamour, Cribiore in completo blu da combattente di Wall Street e Lamberto Andreotti, che rifiuta di parlare dal podio «perché non mi fa sentire a mio agio» e si aggira dunque con il microfono fra i tavoli con una trentina di invitati. È abituato da tempo a convivere con la consapevolezza che qualsiasi italiano lo incontri corre con il pensiero al padre, Giulio Andreotti. Ma l’emancipazione dall’ombra paterna è venuta assieme all’integrazione nella ristretta comunità dei vip Corporate America. «Mi considero anzitutto un manager globale, vivo a New York come potrei lavorare in qualsiasi altra parte del mondo. Il mio cognome? Certo, so bene che in Italia è famoso, ma qui in America mi scambiano in continuazione per un parente del corridore Mario Andretti». Al pari di Madonna, Sarah Jessica Parker e Woody Allen, anche per Lamberto Andreotti vivere a New York ­147

è più facile che altrove, perché si tratta di una metropoli dove star e vip abbondano in tale misura da diventare quasi anonimi, riuscendo a condurre una vita quasi normale. Nel botta e risposta con gli ex bocconiani, a loro volta manager emergenti nella business community di Manhattan, Andreotti si sofferma nel descrivere i valori in cui crede di più. Sono tre. Il primo è il team work, lavorare in squadra, perché è la ricetta migliore per affrontare la competizione globale. «Dico spesso ai miei stretti collaboratori che possono essere i migliori, li sprono e credo in loro perché oggi è impossibile affermarsi da soli, è il team che fa la forza di un’azienda». Poi viene l’«integrità», ovvero «una misura della quale spesso non si tiene conto nei grafici e nelle statistiche ma che pesa molto sul successo di un individuo come di una grande azienda». Essere «integro» per Lamberto Andreotti significa «dedizione al lavoro» e «onestà personale». Ma tutto ciò non basta senza «il terzo valore» in cui più crede, ovvero «la passione per il lavoro che si fa». Su questi tre pilastri ha costruito un’«identità nella quale essere manager conta più che essere italiano anche se sono ben consapevole che avere il passaporto italiano è una rarità nel mondo in cui vivo, popolato di anglosassoni». Ciò che più lo appassiona del proprio lavoro è il fatto di contribuire a creare «prodotti che hanno un effetto concreto sulla vita delle persone». Quando studiava da ingegnere al Mit non immaginava neanche di essere catapultato nell’industria farmaceutica ma la sua Bristol-Myers Squibb oggi ha i numeri di un gigante in questo settore dell’industria: 28 mila dipendenti, vendite per 20 miliardi di dollari annui e una radicata presenza non solo in Nordamerica, Europa Occidentale, Giappone e Australia ma anche nelle maggiori economie emergenti, come Cina, India e Russia. Sulla sua scrivania nell’ufficio al 345 di Park Avenue si sommano dati e studi che descrivono salute, benessere e difficoltà di miliardi di abitanti e ciò gli consente di tastare quotidianamente il polso al Pianeta. Ecco l’opinione che ne ha tratto: «Pur con tutte le difficoltà in cui versano, gli Stati Uniti rimangono la nazione che somma maggiore capacità di ­148

innovazione ma se avessi vent’anni andrei a vivere in Cina, a Shanghai, perché il futuro verrà da lì». Inevitabile una riflessione sul Paese di nascita. «Di manager italiani di valore ve ne sono molti, solo nella mia azienda ve ne sono almeno venti, la nostra debolezza però sta nel fatto di non avere molte multinazionali italiane perché ciò comporta la mancanza di opportunità locali per accumulare un’esperienza globale». Da qui la conseguenza che «pur avendo ottimi ricercatori e un buon numero di ottime menti» l’Italia arranca nella comunità globale del business «per l’assenza di imprenditori che vogliono essere tali senza contare dunque su aiuti da parte dello Stato». La serata finisce con una domanda di Cribiore che pone all’amico manager il quesito più difficile: «Come si fa a gestire il settore di ricerca e sviluppo?», ovvero come fa un top manager a guidare il team di scienziati intenti a progetti e invenzioni che possono rivelarsi decisivi per la salute degli esseri umani. «È vero, è la cosa più difficile da gestire – è la risposta – e l’unica maniera per affrontarla è nel parlare con chiarezza con chi ci lavora e diversificare il più possibile gli investimenti», che nel caso di Bristol-Myers Squibb sommano a 700 milioni di dollari l’anno. Alta finanza e libri antichi Pino Torinese come trampolino verso il World Financial Center di Manhattan. L’avventura americana di Alberto Cribiore, vicepresidente di Citigroup con alle spalle la presidenza ad interim di Merrill Lynch, parte dal piccolo centro piemontese perché è qui che sceglie di abitare quando nel 1971, a venticinque anni di età, arriva all’Ifi, dove a chiamarlo è Gianluigi Gabetti, che tre anni dopo lo manda in America per conto dell’appena creata Ifi International. Cribiore accetta la sfida e si trasferisce negli Stati Uniti con la moglie Raffaella e i figli Federico e Martina, allora in tenera età. Arrivano a New York con i passaporti italiani ma la decisione è di andare a vivere non a Manhattan bensì nel verde Westchester, perché l’in­149

tenzione è di immergersi nell’America vera, quella che pulsa lontano dai grattacieli di Midtown Manhattan. L’integrazione nel tessuto americano è rapida e intensa. Tempo fa Cribiore paragonò l’impatto con la realtà di New York al fumo: «All’inizio si tossisce, poi se si fumano due o tre sigarette non lo si abbandona più». In quegli anni, fra il 1974 il 1976, New York è molto diversa da come si presenta oggi: si tratta una città meno internazionale, molto americana e comunque aperta, accogliente per gli immigranti perché avere gente nuova diverte l’America, le garantisce costantemente l’immissione di nuove idee, linfa e vitalità. Il salto successivo è verso le pianure del Midwest, dove Alberto Cribiore arriva per conto di Ifi International cercando opportunità di investimento in aziende a governo di famiglia, simili dunque a quella che lui stesso rappresenta. La sfida del Midwest si dimostra subito avvincente perché se a New York l’abitudine di chi fa finanza è spesso quella di restare seduti negli uffici ad aspettare che arrivino le opportunità di investire, Cribiore va piuttosto all’origine, cerca direttamente alla fonte tali opportunità. Negli anni Settanta il Midwest è la parte più produttiva e creativa degli Stati Uniti, è qui che si genera valore, e Cribiore si immerge in questa realtà trovandola non solo fonte di significative innovazioni e opportunità economiche ma anche deliziosa e divertente nel carattere di chi la popola. Non mancano gli episodi che descrivono l’accoglienza ricevuta nel Midwest. Come quando a Lafayette, in Indiana, Cribiore e Gabetti arrivano in un albergo e alla scontata domanda «siete italiani?» rispondono con un divertito «no, siamo irlandesi» che consente subito di rompere il ghiaccio. Arrivati per restare in America un periodo fra tre e cinque anni, i Cribiore scoprono di sentirsi a casa oltreoceano e la decisione è di rimanere, mettere radici. Ma per riuscirci bisogna integrarsi e il top manager compie il passo di andare a lavorare in una società americana. È la Warner Brothers di Steve Ross, che aveva conosciuto durante numerosi incontri avuti in precedenza su un investimento specifico. Resta con Ross per un periodo di quattro anni e da lì passa al settore de­150

gli investimenti con Clayton e Dubilier: è uno dei tre partner originali e assieme arrivano a gestire un fondo di 45 milioni di dollari, ovvero il secondo o terzo di tutti gli Stati Uniti a quel tempo. A Wall Street non ve ne sono molti altri e il successo ottenuto gli apre la strada verso la creazione della società Brera e l’arrivo alla Merrill Lynch, dove prende posto nell’ufficio del presidente ad interim al n. 250 di Vesey Street, nell’edificio World Financial Center 4, a due passi da Ground Zero. È da qui che nel settembre 2008 sbarca al quartier generale di Citigroup, al 399 di Park Avenue, con l’incarico di gestire le relazioni istituzionali. L’integrazione dei Cribiore in America passa anche per l’esperienza della moglie Raffaella, studiosa di libri antichi che ottiene incarichi di prestigio dall’Università di Princeton alla Columbia per approdare alla New York University, dove insegna attualmente. È lei che negli ultimi dieci anni firma tre libri che segnano gli studi classici in America: Writings. Teachers and Students in Graeco-Roman Egypt, Gymnastics of the Mind: Greek Education in Hellenistic and Roman Egypt, connessa all’educazione ellenistica e romana in Egitto e, con Roger S. Bagnall, Women’s Letters in Ancient Egypt: 300 BC-AD 800. E l’ultimo volume è uscito per i tipi dell’Università di Princeton con il titolo The School of Libianius in Late Antique Antioch. Milanese di nascita e newyorkese d’adozione, Alberto Cribiore è da oltre quarant’anni legato da un’intesa professionale e personale a Gianluigi Gabetti e torna a volte con la memoria agli anni passati a Pino Torinese, dove giunse dopo aver concluso gli studi all’Università Bocconi, che ancora oggi considera un’ottima scuola. L’altra città in cui ha vissuto è Roma, dove arrivò a otto anni quando il padre ebbe l’incarico di guidare la locale Banca Popolare di Milano. Dieci anni dopo tornò nella città natale per gli studi alla Bocconi, ancora oggi fondamenta della professionalità che ha nel proprio Dna e che suggerisce ai giovani manager italiani come timone per affrontare l’economia globale.

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Columbia Business School Se c’è un posto di Manhattan dove gli italiani sono stabilmente fra i top performers (i più bravi) è la Business School della Columbia University ovvero una delle quattro scuole di economia più quotate degli Stati Uniti assieme alle rivali di Harvard, Wharton e Stanford. Nelle classifiche degli studenti che frequentano i corsi di Master gli italiani compongono percentuali da capogiro – superiori al 60% – all’interno del 10% degli studenti che sommano i migliori voti. Andando a vedere di chi si tratta si trovano cognomi più noti – Draghi, Scaroni, Stanca, Scognamiglio – e altri meno. Di questo secondo gruppo fa parte Silvio Palumbo, classe 1977, che si è laureato in Economia a RomaTre e ha poi lasciato la sua attività d’impresa a Roma per andare a studiare alla Columbia e, ottenuto il Master, adesso gira da un angolo all’altro d’America come consulente finanziario. «Lo sanno tutti che gli italiani sono fra i migliori alla Business School – spiega, bevendo un espresso da Lalo, il caffè dell’Upper West Side dove è stato girato il film C’è posta per te – e il motivo è che nelle nostre scuole e università chi studia materie come Economia e Ingegneria riceve delle basi molto solide» e quando si fa il confronto con gli americani «emergiamo facilmente, come avviene ad altri, ad esempio brasiliani e francesi». Ma allora perché lasciare l’Italia per New York? «Il motivo è che le nostre facoltà danno una formazione soprattutto teorica, non certo pratica, e dunque complicano di molto l’arrivo nel mondo del lavoro, mentre in America l’apprendimento è basato sull’esame di casi specifici e si arriva così a essere preparati su cosa dover fare quando si inizia a lavorare». Ma non è tutto, perché l’altro aspetto che spinge a lasciare l’Italia è la remunerazione. Basti pensare che la società di consulenze McKinsey offre a un laureato della Columbia il seguente bivio: 125 mila dollari annui per lavorare in America e 68 mila euro (più l’auto) se si opta per la sede italiana e al Boston Consulting Group la differenza è quasi simile, fra i ­152

125 mila dollari in America e i 70 mila euro in Italia, senza contare i bonus di fine anno. «A conti fatti per chi esce dalla Columbia e resta qui lo stipendio è oltre il doppio rispetto a quello che avrebbe tornando in Italia» sottolinea Palumbo, secondo il quale «la crisi finanziaria di cui si parla tanto si è fatta sentire ma non troppo» e se anche «la disponibilità di posti forse è diminuita», la remunerazione «è rimasta molto alta, soprattutto nelle banche». È uno scenario che consente a chi si indebita per studiare alla Columbia – due anni di Business School possono arrivare a costare 150 mila dollari – di poter ripagare tutti nell’arco di 24 mesi anche perché «il lavoro non manca». A circa cinque mesi dall’inizio del primo anno di studi avvengono i primi colloqui con le società finanziarie che offrono lavoro, segue l’internship estiva che consente di creare i primi solidi legami e quindi il secondo anno di Master diventa un percorso verso un obiettivo che, in molti casi, è già sicuro. Fra gli italiani che seguono questa strada c’è chi prende prestiti dalla Banca Sella o da altri istituti ma alla fine un po’ tutti decidono di rimanere in America «e soprattutto a New York, dove c’è un’atmosfera culturale unica che consente a tutti di trovare il proprio habitat». Se c’è un consiglio che Palumbo si sente di dare ai giovani che vogliono tentare la sua stessa scommessa è di «studiare bene l’inglese quando si va a scuola, sin dal liceo, passando magari dei periodi di studio all’estero» perché uno dei punti deboli degli italiani è nel ritardo rispetto a molti altri stranieri nella conoscenza della lingua di Shakespeare, non solo parlata ma anche scritta. L’ammissione comunque è dettata dai criteri delle top schools: serve una laurea qualsiasi con ottimo voto, possibilmente da un istituto di prestigio, un punteggio elevato al test Gmat (dal 92° percentile in su), un’esperienza professionale qualificante e un soggiorno per motivi professionali o didattici fuori dal proprio Paese. In concreto questo significa che la combinazione fra una laurea presso Bocconi, Luiss o Politecnico, un’esperienza Erasmus e un lavoro legato a progetti all’estero consentono di aumentare le chance di ­153

entrare al Master di Columbia, che ogni anno ammette circa 900 studenti su oltre 17.000 domande. Il percorso da compiere aiuta a comprendere perché gli italiani alla Business School siano fondamentalmente ex consulenti (McKinsey, BCG, Bain, Booz&Co, Roland Berger ecc.), in quanto spesso sono le stesse società che selezionano i candidati secondo parametri simili (istituto di provenienza, voto, capacità logica, conoscenza delle lingue), facendo dunque già una scrematura per l’ammissione all’ateneo. Tali società di consulenza pagano il Master ai propri dipendenti (McKinsey ammette avanzamenti di carriera solo con un Master in una Business School), per cui gli italiani alla Columbia sono spesso sponsorizzati o finanziati dalla famiglia e quindi solo una minima percentuale si indebita. A prescindere dall’origine, comunque, una volta arrivati al campus nel nord di Manhattan per tutti c’è la Casa Italiana ovvero l’Italian Academy creata nel 1991 e sede di convegni, presentazioni, eventi pubblici ma anche privati come ad esempio i ricevimenti di matrimoni. Fra gli alunni c’è anche chi sceglie di sposarsi nella Cappella di Columbia con festa a seguire nella Casa Italiana dove il catering è molto gettonato. L’imprenditore fuggito dall’Italia Ci vediamo da Sant Ambroeus, al numero 1000 di Madison Avenue, nel bel mezzo del Golden Block, che registra la più alta percentuale di ricchi del Pianeta. Gherardo Guarducci è seduto a uno dei tavoli del suo bar-ristorante, uno dei più quotati di Manhattan, e beve solo acqua minerale. È ancora scosso per essere tornato da poco dal funerale del suocero a cui era molto legato, il cavaliere Gaetano Caltagirone. Guarducci è uno degli imprenditori di maggiore successo nel mercato della ristorazione ma resta un uomo «in fuga». Nato nel 1966 in una famiglia di industriali del tessile di Prato, la sua vita cambia nel 1975 quando ha poco più di otto anni: una banda di sequestratori sardi rapisce il figlio dei ­154

vicini, la famiglia Baldassini, e pochi giorni dopo lo ritrovano fatto a pezzi dentro un tombino. Le indagini sveleranno che i rapitori agivano per conto delle Brigate Rosse, in cerca di fondi per finanziare gli anni di Piombo. La tragedia del giovane massacrato sconvolge i Guarducci. Il capofamiglia, Felice, fa un rapido giro di telefonate e decide l’espatrio, al più presto, nel timore che moglie e figli possano subire presto la stessa fine. Riunisce la famiglia a colazione e dice semplicemente «domani si parte». Non c’è tempo né per pensare né per discutere. Il taglio con Prato, l’Italia, è netto. Si parte per la prima destinazione possibile. È a Edmonton, in Canada, ma per il piccolo Gherardo è, molto più semplicemente, l’«America» della quale in quel momento conosce «solo la lotta fra i cowboy e gli indiani». Niente altro. Lo sbarco a Edmonton è difficile. Gherardo la ricorda come una «specie di Siberia» lontana anni luce dal clima mite della Toscana. Ma non ci sono solo le intemperie a complicare lo sbarco in Nordamerica, vanno male anche gli affari del padre: gli investimenti fatti in petrolio e immobiliare vanno giù a picco. Da quel momento Gherardo inizia a spostarsi senza interruzione: lascia il Canada a quindici anni per la scuola in Svizzera, da dove riparte nel 1984 per andare a completare gli studi in Massachusetts, cedendo alla nostalgia nel 1988 per tentare un ritorno nell’impresa di famiglia – l’Azienda Tessile Pratese – accorgendosi nell’arco di pochi mesi che «lavorare in Italia è impossibile per il peso della politica, le invidie sociali e la miopia dei sindacati». Nel 1990 torna a New York, scommette tutto sul food business e oggi è proprietario dei Sant Ambroeus – ristoranti in stile milanese destinati a clientela medio-alta – di Casa Lever, il quotatissimo ristorante di Midtown su Park Avenue arredato con quadri di Andy Warhol prestati dalle più importanti collezioni del mondo, il cui valore stimato supera i 35 milioni di dollari. Senza contare altri locali in giro per l’America. Successo, matrimonio e figli ne fanno un affermato manager americano ma dentro di sé resta l’adole­155

scente di Prato segnato dalla necessità improvvisa di fuggire dall’Italia, abbandonando il mondo in cui stava crescendo. «La fuga ha pesato sulla mia vita, ho lasciato il mio Paese per colpa dell’insicurezza nelle strade e del sistema politico italiano, dello spettro comunista, e dopo tanti anni ogni volta che torno mi rendo conto che da noi manca l’identità nazionale per liberarci da questi lacci». Ha quattro figli ma ancora non gli ha parlato degli anni di Piombo, per farli crescere «nella libertà». A Manhattan non è il solo «fuggiasco». «Ve ne sono molti come me» assicura. Anche la moglie Ginevra, figlia di Gaetano Caltagirone, «ha dovuto lasciare l’Italia a causa dei magistrati rossi che perseguitavano il padre, quando lei aveva solo otto anni». Se il tentativo di ritorno nel 1988 non funziona è perché, peso della politica a parte, si scontra con una realtà economica che non comprende: «La globalizzazione ha azzerato il vantaggio del tessile italiano, che era produrre qualità a prezzo minore, perché ora c’è la concorrenza di Cina e Turchia che sfruttano la manodopera come da noi è impossibile fare». Ma la scelta di essere andato via pesa ancora: «Ricordo gli anni di Piombo, per me è una memoria fatta di paura, ho perso molto, molti cerchi sono rimasti aperti, gli amici, gli odori della primavera mediterranea, è tutto incompiuto». L’ipotesi di tornare un giorno in Italia non è esclusa ma al momento prevale la sfida di far superare al proprio business la difficile prova della recessione più dura dalla tempesta del 1929. È una scommessa in cui crede. «Se ho scelto di puntare tutto sul cibo è perché le mie emozioni di bambino sono tutte legate alla tavola, dove c’era mio padre, lavoro in questo settore dal 1990 e credo che la ripresa stia arrivando». I Sant Ambroeus, Casa Lever e il Felice Wine Bar sulla Prima Avenue gli consentono di tastare il polso al mercato su più fronti, andando però incontro anche a notevoli rischi. Ma lui ha in testa una «ricetta del successo». Ecco di cosa si tratta: «Per farcela a New York bisogna restare almeno cinque anni, la presenza non può essere estemporanea, quando si decide ­156

che New York è la tua vita si comprende che ciò che conta qui è soltanto l’etica del lavoro, non c’è altro». L’avvocato che conobbe Sindona George Pavia viene da una famiglia ebraica di Genova con le radici a Casale Monferrato e un lontano antenato, Mosè Pavia, era consigliere del papa. La descrizione delle origini è il suo modo per presentarsi sedendo al tavolo dell’ufficio al dodicesimo piano del grattacielo al numero 600 di Madison Avenue, fra 57th e 58th Street, il cuore di Midtown. «Nel 1938, dopo il patto di Monaco sulla spartizione della Cecoslovacchia, mio padre Enrico decise di lasciare l’Italia e portò la famiglia a Londra – ricorda – e quando nel 1940 l’Italia entrò in guerra al fianco di Hitler ci internarono nell’isola di Man, considerando tutti gli italiani dei nemici». Passarono lunghe settimane prima che il comandante si accorgesse dell’ovvio: Enrico Pavia non era solo antifascista ed ebreo ma anche l’ex avvocato del governo di Londra a Genova e non poneva alcuna minaccia alla sicurezza pubblica. Per liberarsi dei Pavia l’ufficiale dovette comunque inventare una «condizione di malattia» in forza della quale fu possibile scarcerarli, consentendogli pochi giorni dopo di essere a bordo della Western Prince che, senza scorta, attraversava l’Atlantico. Al ritorno in Gran Bretagna fu meno fortunata e i sottomarini tedeschi la affondarono. Dopo l’arrivo a New York il capofamiglia lavora per il governo federale mentre Giorgio – divenuto George – studia Giurisprudenza alla Columbia e poi viene arruolato per la Corea, dove però non arriva mai perché l’alto ufficiale che lo ha al comando ne scopre le doti legali, aprendogli la strada del Pentagono, dove sbarca al dipartimento Affari internazionali. Il suo compito è fare rispettare ai generali in Corea la Convenzione di Ginevra ed è per questo che, assicura, «non mi piace Guantánamo, non mi piaceva Bush che l’ha creata e non mi convince neanche Obama perché è favorevole ai tribunali militari che sono as­157

sai dubbi, in quanto gli avvocati devono rispondere sempre ai superiori». Per George Pavia la Convenzione di Ginevra è quanto di più importante sia stato creato per difendere il diritto in zona di guerra, ne parla con grande convinzione fino a infervorarsi: «È uno strumento unico perché fa prevalere l’interesse dello Stato su quello dei militari in zona di guerra». Tolta la divisa prova a tornare in Italia, fra il 1954 e il 1955, e vuole diventare avvocato nella sua Genova ma la legge americana di allora impedisce il doppio giuramento. Di fronte al bivio torna ad attraversare l’Atlantico per creare – assieme ad alcuni soci – a New York lo studio legale che porta ancora oggi il suo nome. È lui a difendere la Fiat, fra gli anni Settanta e Ottanta, da quasi 60 cause di clienti inferociti per le carenze nell’assistenza da parte dell’azienda per cui venne coniato l’offensivo acronimo di «Fix it again Tony» (Aggiustala ancora Tony). «Dopo quelle battaglie dure la Fiat decise di andare via e fu giusto farlo perché il sistema giuridico americano premia il debitore in malafede e anche in ragione del fatto che il maggiore problema era la struttura dell’auto Fiat, troppo piccola per tenere le strade americane». Ma il caso giuridico che più lo ha segnato è stato quello di Michele Sindona. «Fui l’avvocato di Sindona quando il banchiere si opponeva all’estradizione in Italia», racconta come se fosse avvenuto ieri. «Sindona aveva fatto una fusione fra due banche ma la verità è che era nato ladro, ho conosciuto tre-quattro persone come lui nella mia vita, sempre disponibili, facili da trattare, simpatici, rapidi ma farabutti senza etica nel cervello, nati così». Nella causa contro l’estradizione Sindona disse a Pavia che voleva difendersi da solo ma l’espediente non gli servì. L’avvocato è convinto che il caso Sindona serbi ancora oggi verità nascoste. Ad esempio, «ricordo che gli ispettori della Banca d’Italia vennero prima che scoppiasse il caso e non trovarono stranamente un bel nulla» degli illeciti compiuti «da un banchiere che era in affari con la criminalità organizzata e la mafia». Ma lo strapotere di Sindona in tribunale serviva a ­158

poco: «Stava perdendo, l’estradizione ci sarebbe stata e per questo i suoi amici lo uccisero in carcere» assicura l’avvocato. Da allora l’America è cambiata e a New York anche la presenza italiana si è trasformata, indebolendosi molto. «L’Italia oggi da queste parti è soprattutto moda, molte banche se ne sono andate, non ci sono più il Banco di Sicilia, il Banco di Napoli e la Bnl. Anche l’industria è in difficoltà perché indiani, cinesi e tedeschi hanno preso il sopravvento in settori diversi con prezzi più bassi e prodotti forse migliori». Dunque «rimane solo la moda, che ha la forza del gusto». Sono i nomi dei suoi clienti a descrivere la presenza economica italiana: fra le banche c’è Unicredit, mentre nel Made in Italy abbondano i Dolce & Gabbana, Keaton, Brioni, Ferragamo, e una volta c’era anche Fendi. «Gli stilisti e il gusto sono la forza rimasta all’Italia» conclude con un sorriso amaro, perché tutto ciò che dice e fa trasuda di amore per la nazione che ha dovuto abbandonare da piccolo. Compresa la cravatta, fondo blu con fascia tricolore. Dove regna Anna Wintour Sfilate di moda, locali notturni, prodotti di lusso e l’onnipotenza di Anna Wintour. Questa è la New York in cui vive e lavora un chief financial officer italiano che chiede l’anonimato per raccontare la sua esperienza in uno dei mondi dove la competizione è più aspra. Sbarcato a Manhattan nel 2006, vive in un appartamento nei pressi di Times Square e viaggia in continuazione fra Stati Uniti, Canada, Messico e Brasile, ovvero i principali mercati per i prodotti di lusso nell’Emisfero Occidentale. Quando ci incontriamo al bar del Tribeca Grand Hotel, a ridosso di Canal Street, è appena tornato da San Paolo. Ne è entusiasta: «L’economia brasiliana cresce molto, solo la Cina va più forte». Al cameriere che offre i drink più trendy del momento risponde con un cortese gesto della mano: «Solo Coca Cola, grazie». Vivere nel mondo esclusivo del lusso «significa avere profilo basso e stare dietro ­159

le quinte» spiega, sottolineando come «l’America per noi è cruciale in quanto vi registriamo il 20-25% delle vendite», ma per riuscire a destreggiarsi nella rete commerciale «bisogna non farsi distrarre e puntare al sodo». Di cosa si tratta? «Della differenza fra Madison Avenue e Fifth Avenue» risponde, declinando quanto sta avvenendo nelle due zone commerciali di Manhattan: «Madison è una strada dove i ricchi newyorkesi vogliono fare shopping senza mischiarsi con i turisti ma ha subìto un duro colpo dalla crisi finanziaria che ha interessato la fascia alta dei residenti», mentre «Fifth Avenue è tutt’altra aria, regge meglio soprattutto grazie al cambio con il dollaro basso che spinge i turisti a spendere molto». L’equilibrio fra Madison Avenue e Fifth Avenue cambia in continuazione e «solo seguendolo con cura si può riuscire a tenere il passo con le tendenze dei consumatori». Farlo in questi giorni significa «puntare sulle borse di coccodrillo su Fifth Avenue e resistere a Madison Avenue con abbigliamento e pochi accessori». La cartina di tornasole dell’orientamento del mercato sono i prezzi degli affitti: 2000 dollari a squarefoot (equivalente a 0,09 mq) sulla Fifth Avenue a fronte dei 1000 su Madison Avenue, 600 al Meatpacking District e 560 a Soho. Se il Cfo parla di trend, costi e indici dei consumi è «perché in America il lusso è finanza mentre da noi in Italia è creatività». Si tratta però «di un equilibrio esile perché la gamba italiana traballa in quanto i cinesi stanno emergendo, gli mancano oramai solo i grandi designer e quando li avranno per noi sarà una sfida terribile». Sulla piazza di Manhattan ciò che vede è «un consumatore molto attento alla qualità dei servizi, che vuole essere trattato bene e che spende nel tempo», obbligando chi vende a «una cura che in Italia non c’è» perché «da noi il gioco è a fregarsi l’un l’altro, fra chi vende e chi compra, mentre qui l’obiettivo è farsi rispettare». Farsi largo in questo mercato per il Made in Italy non è sempre facile. «Se è vero che gli americani amano la qualità italiana, è vero anche che il ristorante aperto da Giorgio Armani sulla Fifth Avenue non funziona, ed è quasi sempre vuoto, mentre il negozio di Prada ­160

a Soho resta un successo a metà». Le difficoltà sono di tutti e per superarle «bisogna giocare secondo le regole locali» che vedono «le sfilate di moda nel ruolo dei biglietti da visita» mentre «il traino più forte per la pubblicità sono i magazine patinati e le opinioni». Soprattutto se a firmare è una star della moda come Anna Wintour, direttrice di «Vogue», «che fa il bello e il cattivo tempo in qualsiasi stagione». Nel 1988 fu Gucci ad accorgersene, quando Wintour «conobbe Tom Ford e lo lanciò come stilista aiutandoci a risollevarci dalla crisi», o ancora in occasione del siluramento di Alessandra Facchinetti «che a lei proprio non piaceva». Il Cfo incrocia spesso la regina-despota della moda di New York e la giudica «fredda, scostante», ammettendo comunque che «un suo articolo vale più di uno spot in tv», perché chi acquista prodotti di lusso «si fida più dei periodici specializzati che non della tv». Poi ci sono i locali notturni «dove è importante esserci con i prodotti indossati dalle star». I più gettonati sono tutti roof top, ultimi piani con viste mozzafiato sulla città: come la Boom Boom Room all’ultimo piano dello Standard Hotel al Meatpacking District, «che resta il quartiere più trendy del momento», oppure il 230 sulla Fifth Avenue angolo 26th Street. Se sfilate, magazine patinati e locali notturni restano la cornice obbligata del fashion business la novità è invece l’e-commerce, ovvero la vendita online dei prodotti di lusso. «È un vero boom – assicura –, pari all’8-9% delle entrate che nel 2010 hanno toccato un miliardo di dollari» ed è curioso notare come «ad acquistare su Internet spesso sono persone che vivono vicino ai nostri negozi, evidentemente a causa della crisi si vergognano a entrare e acquistare». La conferma viene dal fatto che «sempre più spesso chi viene e compra, al momento di fare il pacco, vuole una busta senza il nostro nome stampato sopra».

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Il petroliere della Terza Avenue Al diciannovesimo piano del grattacielo al numero 805 della Terza Avenue lavora il manager che ha guidato la compagnia energetica Mobil e firmato la fusione con Exxon da cui è nato uno dei giganti del petrolio. Lucio Noto, classe 1938, è un siciliano di Brooklyn. I suoi genitori arrivano dall’isola alla fine dell’Ottocento, dopo il matrimonio vanno ad abitare a Bensonhurst, Brooklyn, e riescono a tirare su la famiglia grazie al lavoro del padre, un presser che si fa spazio nel Garment District, il distretto del tessile di Manhattan, fino a diventare il leader di uno dei sindacati più numerosi. Nel 1945 il padre, originario di Noto, decide di lasciare Brooklyn scommettendo il futuro della famiglia sui sobborghi: si mettono così in macchina, superano per la prima volta il ponte di Washington sull’Hudson e arrivano a Englewood Cliffs, in New Jersey, dove acquistano la casa vittoriana con giardino nella quale Lucio Noto passa la sua adolescenza, facendo il pendolare con Manhattan, dove frequenta il Regis dei gesuiti. La svolta della vita nei sobborghi – destinati a diventare la culla del boom americano nel dopoguerra – è seguita da un altro passaggio drastico: Noto si laurea in Fisica all’Università di Notre Dame, ma non ha alcuna intenzione di proseguire su questa strada e così va alla Cornell University. Nel 1962 si laurea alla Business School e punta in tutt’altra direzione: la giovane compagnia energetica Mobil. Inizia a lavorare quello stesso anno, guadagnando 625 dollari al mese, esprime il desiderio di andare all’estero e viene subito accontentato, proiettato a occuparsi di una società il cui teatro di operazioni è dall’Africa Orientale alla Nuova Zelanda. È l’inizio di una carriera costellata di successi e guadagni tali da rappresentare l’incarnazione dell’American dream. Nel 1966 è a Genova, nel 1967 a Palermo e nel 1968 a Tokyo, dove fa conquistare a Mobil una quota importante del mercato locale. Nel 1973 ritorna in Italia, a Roma, come vicepresidente di Mobil Oil Italiana e sei anni più tardi è in Arabia Saudita, per inaugu­162

rare raffinerie e impianti petrolchimici. A Tokyo ha studiato giapponese, a Genova ha fatto lo stesso con l’italiano – per emanciparsi da un dialetto siciliano che gli rendeva difficile farsi comprendere – e l’Arabia Saudita lo trasforma in un interlocutore di molti leader mediorientali. Nel 1986 il Ceo Allen Murray lo riporta a New York per gestire la pianificazione globale ed è l’inizio della scalata interna all’azienda che lo porta nel 1989, con l’incarico di capo del settore finanziario, a siglare l’accordo per la fusione con Exxon e nel 1994 a essere lui il nuovo Ceo. Lo resta fino al 2001, quando andare in pensione per Lucio Noto significa fondare la Midstream Partners, nonché sommare incarichi di primo piano nel consiglio di amministrazione di Ibm e Philip Morris, la guida di banche nel mondo arabo, i gradi di consigliere di Mitsubishi e una raffica di clienti, riconoscimenti e profitti. Nessuna meraviglia che David Rockefeller nel 1994 pensi a lui come presidente del Consiglio per gli Stati Uniti e l’Italia, del quale è ancora membro attivo anche perché «amo andare spesso in Italia, almeno una volta l’anno vicino Firenze oppure in Sicilia per farla visitare ai miei cinque figli e alle loro famiglie». Ma la vera passione di Noto è il mondo del greggio, che conosce a menadito e che ha visto trasformarsi nell’ultimo mezzo secolo. «La rivoluzione è iniziata con la nascita delle compagnie nazionali come la saudita Aramco o quella di Abu Dhabi e poi si sono aggiunte le innovazioni tecnologiche, grazie alle quali sono possibili fatti una volta inimmaginabili come la chiusura di una falla sottomarina a grande profondità da parte di British Petroleum sui fondali del Golfo del Messico». Ciò che invece «non cambia» è «il fatto che si tratta di un’industria dove il fattore-capitali è prevalente su quello umano, perché mentre servono ingenti risorse per farla andare avanti, bastano trecento persone per far funzionare una raffineria o venti membri di equipaggio per una megapetroliera il cui carico vale miliardi di dollari». Questo equilibrio «è uno dei punti deboli dell’industria del greggio perché impiegando poche persone, politicamente siamo de­163

boli, portiamo pochi voti». Ma ciò non toglie che lo scenario della «fine del greggio», avanzato da diversi esperti del settore, non lo convinca affatto. Anzi, a suo dire «non esiste ancora un sostituto di greggio e gas naturale e nei prossimi venti anni ne serviranno quantità imponenti per sostenere la crescita globale». Di fronte alle ipotesi dello sviluppo di energia «verde», dal solare all’eolico fino alle batterie elettriche, Noto mostra un marcato scetticismo: «L’unica vera alternativa è il nucleare, le altre non sono pratiche e non lo saranno per molto tempo ancora». Ciò non toglie che «scegliere la green economy» si può, «solo che bisogna farlo nella maniera giusta», ovvero «aumentando l’efficienza dei consumi», intervenendo sulle abitudini dei cittadini, «cominciando a spegnere le luci quando la sera si chiude l’ufficio fino a viaggiare in auto Suv più leggere, capaci di consumare di meno». Da qui la visione a breve termine per gli Stati Uniti che «non potranno rinunciare al greggio ma potranno consumarne di meno», riducendo così la dipendenza da nazioni instabili e ostili come il Venezuela di Hugo Chávez e i regimi del Golfo Persico. Lucio Noto parla da Ceo americano, identifica gli interessi della nazione a stelle e strisce e vede all’orizzonte il pericolo peggiore: «Una guerra per la gestione delle risorse del Pianeta, non tanto il greggio quanto quelle minerarie», e a scatenarla «potrebbe essere la Cina, molto aggressiva su questo fronte». La Russia invece «persegue una sua strategia nazionale tesa ad accrescere la dipendenza dell’Europa dalle sue riserve di greggio e gas, ed è ovvio che sia così». E in questo quadro qual è il ruolo dell’Italia? Noto risponde andando con la memoria indietro negli anni. «Quando stavo in Italia mi chiamava Ciriaco De Mita, che prima di guidare il governo era titolare dell’Energia, e mi chiedeva di non alzare il prezzo del gasolio perché altrimenti la gente si sarebbe lamentata con il governo» e poiché all’epoca non c’erano scorte a causa dei prezzi bassi voleva assicurarsi che avremmo rifornito il suo collegio elettorale. L’episodio serve a sottolineare che «in Italia una vera politica energetica non ­164

vi è mai stata perché hanno sempre avuto il sopravvento i timori della politica», ma ciò non toglie che l’Eni «sia oggi una grande azienda internazionale, che diversifica l’approvvigionamento, investe anche sul gas liquido e pensa al futuro». Se l’Eni ha una debolezza, «è quella che registriamo anche noi americani», ovvero il fatto «che il nostro business non è sexy, gli ingegneri e tecnici più bravi scelgono altri campi e le maggiori compagnie devono affidarsi a contractors esterni, andando incontro ad alti rischi». Noto parla a chiare lettere e il fisico asciutto conferma l’immagine di un manager molto concreto, che non ama i fronzoli. Anche sul legame con la Sicilia è limpido: «Sono orgoglioso di essere siciliano, la mia terra è stata vittima di sette successive invasioni e si è risollevata sempre più forte, sappiamo resistere a ogni tipo di vento, ci rialziamo sempre. E sappiamo stare in piedi». Berlusconi, Sophia Loren e 434 navi Le foto autografe di Silvio Berlusconi accolgono all’entrata chiunque faccia visita al capitano Nicola Arena, Ceo americano di Mediterranean Shipping Company (Msc), ovvero un colosso internazionale del commercio marittimo da 12 miliardi di dollari l’anno, che vanta una flotta di 423 navi container a cui si devono aggiungere 11 navi da crociera, tutte con base nel porto di Genova e otto delle quali sono state inaugurate da Sophia Loren. Nato a Messina nel 1940, formatosi a Genova, ex ufficiale dell’Italia di Navigazione e dal 1988 Ceo della compagnia oggi denominata Msc Usa, Arena si vanta di essere a capo dell’«azienda che somma il maggior numero di cittadini italiani impiegati in Nordamerica in una singola compagnia». Si tratta di oltre 300 laureati in Ingegneria, Legge, Economia e Informatica – su un totale di 1100 dipendenti – che costituiscono la spina dorsale della seconda compagnia navale per traffico di container da e per gli Stati Uniti, seconda solo alla Maersk Line danese. «Chi pensa che gli europei siano perdenti sul ­165

mercato della globalizzazione deve venire a fare visita alla Msc» dice Arena, seduto fra il ritratto di Cristoforo Colombo e la foto di Madre Teresa di Calcutta al ventiseiesimo piano di un grattacielo sulla 37a Strada con vista sull’Empire State Building. È da questa finestra che l’11 settembre 2001 vide crollare le Torri Gemelle investite dagli aerei-kamikaze di Al Qaeda. «Il primo pensiero fu subito alla sicurezza dei nostri tanti dipendenti che risiedono a New York – racconta – ma subito dopo ho avuto paura per la Msc Usa, che allora era concentrata a Manhattan, pensai che avremmo potuto essere distrutti e perdere tutto». Da qui la decisione di correre ai ripari creando dal nulla a Warren, in New Jersey, un centro operativo di informatica capace di «sostituirci in tutto se per caso qualcuno dovesse gettare un’atomica su Manhattan». Gli altri centri informatici della Msc sono a Ginevra, dove c’è il quartier generale guidato dal fondatore Gianluigi Aponte, e a Singapore. Trattandosi di un’azienda che vive sul trasporto di container «la collaborazione con le autorità per prevenire attacchi terroristici per noi è il pane quotidiano». Non c’è agenzia di sicurezza degli Stati Uniti che non abbia occasionali contatti con la Msc e con tutte le altre compagnie di navigazione. Questa è una delle nuove tecniche adottate dalla Homeland Security per scongiurare il rischio di attacchi spettacolari – tipo la spedizione di un ordigno atomico dentro un container. Il capitano Arena è un veterano dei trasporti marittimi così come dello sviluppo dei commerci transoceanici, «non solo con l’Europa ma anche con l’Asia». Il fatto che le aziende americane in questo settore inseguano quelle europee e asiatiche è «un aspetto che molti in Italia o Francia ignorano» ma suggerisce che «è sbagliato pensare che la globalizzazione penalizzi a priori il Vecchio Continente». La verità per Arena è che «trasportare container in ogni angolo del Pianeta, arrivando a compiere 16 transazioni per ogni singola spedizione, è un’imponente operazione che richiede cura, logistica e informatica ma anche creatività. Fronti diversi che gli europei, e soprattut­166

to gli italiani, sanno armonizzare». Sicuro di sé, orgoglioso dei risultati ottenuti, riconoscente per la fiducia che Aponte continua a rinnovargli e sposato con la figlia di una vecchia famiglia cilena – producono vini – che attribuisce la solidità dell’economia nazionale alle riforme realizzate da Augusto Pinochet. Il capitano Arena è una delle persone, aderenti agli Azzurri nel Mondo, che Silvio Berlusconi incontra quando viene a New York. «Quando può ci incontra e parliamo di tutto, è un leader politico con una grande visione, molto legato agli Stati Uniti e con una competenza economica fuori dal comune» assicura Arena, aggiungendo che «la figlia Eleonora a volte viene nel nostro ufficio, in amicizia, anche per parlare dei suoi progetti di lavoro e dei suoi viaggi». Arena dice anche di essere «rimasto impressionato da alcuni esponenti politici italiani come Sandro Bondi e Valentino Valentini», consigliere di politica internazionale del premier. D’altra parte l’invito ricevuto ad ascoltare Berlusconi durante il discorso fatto al Congresso di Washington nel giugno 2006 e le due foto con dedica «all’amico Nicola» sono lì ad attestare un certo legame personale. Il fatto di essere residente a New York da oltre quarantatre anni e di guidare un’azienda americana a forte presenza italiana fa di Arena un cittadino di Manhattan che non cessa mai di pensare a Genova e Messina. E ne ha ricavato una teoria tutta sua sui problemi che frenano lo sviluppo dell’economia italiana. «Se volete scoprire la differenza fra New York e Roma dovete guardare a quella che c’è fra Messina e Genova» sottolinea, ricordando come «quando anni fa andai a chiedere un certificato di nascita all’anagrafe di Messina e uno ‘spicciafaccende’ mi accolse chiedendomi perentoriamente 500 lire in cambio del documento, accogliendomi come se fosse lui il proprietario e gestore esclusivo dell’intero stabile». Queste cose a Genova non succedono e tutto funziona assai meglio anche se però «bisogna riconoscere che, rispetto a New York, Genova deve fare ancora molta strada...».

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Il cassiere della ricerca Che si tratti di un ospedale, dal Mount Sinai al Beit Israel, o di un qualsiasi laboratorio di una delle università di New York, i ricercatori nel campo della medicina sanno che per sviluppare idee e innovazioni hanno bisogno dei grants che vengono elargiti ogni anno dal 6701 di Rockledge Drive di Bethesda, in Maryland, dove in un ufficio open space non troppo diverso da quelli che ospitano il suo staff vive e lavora Antonio Scarpa, ovvero il medico nato nel 1942 a Padova e cresciuto a Venezia che sovrintende alla distribuzione annuale dei fondi per la ricerca scientifica del Center for Scientific Review. La cifra totale è da capogiro e offre un’idea chiara di quanto investano gli Stati Uniti per la salute dei 300 milioni e più di abitanti: 20.206.478.806 dollari. Dalla primavera del 2005 «Tony» Scarpa ha una responsabilità unica al mondo: è in cima alla piramide delle commissioni indipendenti cui il Nih (National Institutes of Health), l’Istituto nazionale della Sanità, affida il compito di decidere quali ricerche mediche finanziare, negli Stati Uniti e in tutto il mondo. Ogni laboratorio del Pianeta, ogni ricercatore e qualsiasi università, può rivolgersi al Centro se è convinto di avere per le mani uno studio, un risultato, anche solo un’intuizione che potrebbe allungare o proteggere la vita. «È una responsabilità che toglie il sonno – confessa Scarpa – perché si tratta di decidere su quali scoperte puntare, quali malattie combattere, in ultima analisi quali pazienti guarire». Scarpa parla a voce bassa, si presenta con quel misto di prudenza e determinazione senza il quale sarebbe impossibile sovraintendere a 500 commissioni, ognuna delle quali conta tra i cinque e i cinquanta componenti. Il criterio che si è dato è quello di favorire le proposte più «innovative» sebbene ammetta che non sempre è facile perché, anche fra gli scienziati del corpo umano, «oggi si tende a far prevalere la conservazione»: percorrere strade già note cercando piccoli progressi anziché scommettere ­168

su sentieri ancora inesplorati. «La scienza e la ricerca negli Stati Uniti sono molto competitive – dice – scegliere è una responsabilità enorme». Scarpa viaggia in continuazione: un convegno a Praga, e poi un tour di cinque giorni in Australia, per risbarcare a Washington a un convegno Italia-Usa sulle biotecnologie. A chi gli chiede in che direzione vada la ricerca medica, risponde con l’analisi della salute degli americani all’inizio del XXI secolo: «La situazione è cambiata, prima in cima alle priorità c’erano le malattie del cuore e del fegato, oggi c’è soprattutto l’obesità». L’urgenza è data dal peso che la sanità pubblica ha sulle casse federali: il 17% del Pil. Gestire la macchina di sostegno alla ricerca medica finanziata dagli Stati Uniti significa vagliare decine di migliaia di richieste di finanziamenti che vengono consegnate alle commissioni, totalmente indipendenti. Le decisioni tornano sul tavolo di Scarpa e il denaro arriva a destinazione. Su oltre 20 miliardi di dollari l’anno 19,9 finiscono in America, 284 milioni vengono distribuiti in tutto il Pianeta. I primi Paesi stranieri in cima alla classifica dei grants elargiti sono Gran Bretagna, Canada, Australia, Sud Africa, Danimarca, Israele, Olanda, Svezia. Italia al nono posto, con 7,132 milioni di dollari: 1,2 milioni più del Ghana. Educato in Italia, proveniente da una famiglia di chirurghi, studente nelle università olandesi e israeliane, dal 1971 sbarcato in America (all’Università di Pennsylvania), Antonio Scarpa ama il suo Paese di origine ma non esita ad ammettere che sul fronte della ricerca molte cose non vanno: «Perché ogni finanziamento dipende dal governo, chi ha un posto vi resta a tempo indeterminato, la distribuzione delle risorse non è competitiva». Scarpa conosce bene la polemica sui cervelli in fuga dalla Penisola e ne dà una lettura a metà strada fra scienza e vita: «In Italia c’è la certezza del posto fisso, qui tutto è incerto, prevale la competizione, bisogna lottare sempre. Chiede enormi sacrifici ma giova alla ricerca scientifica, la cui strada non dipende da alcun governo». Il modello americano insomma è duro ma garantisce risultati. I rivali più temibili? ­169

«Gli asiatici, a cominciare dalla Cina» perché «studiano qui, tornano indietro e stanno creando un modello totalmente nuovo, ma molto simile al nostro». Curare è un lavoro di squadra Al 160 East della 34a Strada basta dire «Silvia» e ti portano da lei. L’entrata del Langone Medical Center della New York University è una via di mezzo fra un porto di mare e un salotto: affollato da mattina a sera, ma ogni particolare è molto curato. L’abbigliamento delle segretarie, il linguaggio delle centraliniste, il colore dei divani, l’ordine sui tavolini e il fatto che tutti, pazienti e dottori, parlino a bassa voce fanno sentire a casa chiunque, per necessità o per caso, si trovi a mettere piede in una delle roccaforti della lotta ai tumori. Al piano terra, davanti agli ascensori, oltre una porta a vetri offuscati, c’è il reparto dove lavora – e praticamente vive – Silvia Formenti, un’oncologa medica e radioterapista che è sia il primario del Dipartimento di radiologia oncologica che la responsabile della ricerca contro il tumore al seno alla Nyu. È una milanese dal fisico asciutto, con il computer disseminato di icone che descrivono gli orizzonti della ricerca più avanzata, come il lavoro di una squadra di oltre 160 persone che lei coordina 24 ore su 24. «Il mio è un lavoro di team, sono medico primario e al tempo stesso responsabile della ricerca come del bilancio, del servizio al paziente – spiega –, e ciò significa dover essere sempre all’avanguardia su più fronti, dalla ricerca in laboratorio alle cure dei pazienti, dalle pubblicazioni alla gestione delle risorse, umane ed economiche». Quello che dirige è uno dei quattro più importanti centri per eccellenza nella lotta ai tumori di New York, in costante gara per ottenere i finanziamenti quadriennali dell’Istituto nazionale di Sanità. Il metodo che si è data è quello di «perseguire il consenso fra i collaboratori» in una squadra che include medici, ricercatori, tecnici radioterapisti, infermieri, specialisti in computer, gestori delle banche dati e una ­170

miriade di altri dipendenti. Laureata in Medicina a Milano con sin dall’inizio la passione dell’oncologia, Silvia Formenti si è fatta le ossa in California, dove arrivò nel 1982 a ventisette anni, sbarcando alla University of Southern California per lavorare in laboratorio, in immunologia dei tumori con una borsa di studio del Cnr. Dopo questa importante esperienza e la decisione di restare e diventare un medico americano, nel County Hospital di Los Angeles, ovvero in prima linea contro l’Aids, che all’epoca era appena iniziato. «Fu un periodo duro, facevo i turni di notte ogni 48 ore, arrivavano cinque o sei ragazzi a serata con gravi polmoniti, spesso morivano la notte stessa, in arresto respiratorio» racconta, ammettendo che l’impatto con «una malattia che all’epoca fu in parte sottovalutata dall’amministrazione Reagan» la portò a «imparare ciò che in Italia non avevo mai fatto, come intubare o resuscitare» persone in fin di vita. Los Angeles è la città dove si sposa con un produttore tv che la fa affacciare sul mondo di Hollywood, nascono tre figli e va a vivere a Santa Monica, da dove ogni giorno fa la pendolare verso il centro oncologico dell’università. Il balzo verso New York arriva nel 2000. Vuole portare i figli a Manhattan – anche per fargli studiare italiano – e l’offerta della New York University le dà la possibilità di costruire un reparto nuovo e al tempo stesso continuare la sua ricerca sul tumore della mammella. Sono Silvia e il suo gruppo che per primi identificano il ruolo del sistema immunitario nella risposta dei tumori alla radioterapia e dimostrano in una serie di esperimenti fondamentali come si possa usare la radioterapia per aiutare la risposta immunitaria contro i tumori. In parallelo, in un campo completamente diverso, Silvia disegna e realizza il primo lettino per la radioterapia prona, che permette alle pazienti di ricevere la radioterapia alla mammella escludendo completamente il cuore e il polmone dal campo radiante. Ma New York le schiude le porte di un mondo nel quale «i pazienti hanno più ansie rispetto alla California, dove spesso tendono a negare i mali che hanno». Sarà forse «per il contra­171

sto del sole e dei grandi spazi della California con la vita immersa nella metropoli di New York» ma Silvia Formenti trova nuove sfide che affronta con accanto Franco Muggia, l’oncologo italiano che le ha già fatto da mentore a Los Angeles. L’imperativo resta quello di «lavorare in team» e «concentrarsi sempre sul miglioramento, sull’eccellenza, mentre al tempo stesso ci si preoccupa di evitare qualunque errore, perché nel nostro lavoro le conseguenze possono essere molto serie». Sulle prospettive della ricerca di base contro i tumori è ottimista perché «qui in America il potenziale è straordinario», mentre lo scetticismo riguarda il persistente distacco «fra quanto avviene nei laboratori e nel settore clinico», in cui a dominare restano i fondi delle case farmaceutiche «senza le quali nessuno ha le risorse per sostenere la ricerca clinica nella sfida ai tumori». I corti circuiti concernono l’alto costo della ricerca clinica, le infinite regolamentazioni. Inoltre, quando lo sviluppo di un nuovo rimedio clinico rischia di minacciare la sopravvivenza di farmaci esistenti, o emergenti, già frutto di stanziamenti molto significativi da parte delle case farmaceutiche, gli ostacoli diventano insormontabili. Ma la mortalità per cancro è diminuita? Di fronte al quesito Silvia Formenti, che guarda sempre l’interlocutore negli occhi muovendo leggermente le dita delle mani, risponde facendo vedere sul computer le statistiche relative ai decessi avvenuti fra il 1970 e il 2003: se quelli causati da malattie cardiovascolari sono in costante diminuzione, nel caso dei tumori la linea invece è piatta. «E la situazione oggi non è mutata, in America come in Italia». Ciò non significa che non vi siano dei progressi ma riguardano «non il numero di morti di cancro, bensì il fatto che le persone con tumori vivono più a lungo. Ad esempio se un uomo a settantaquattro anni scopre di avere un tumore ai polmoni non muore a settantacinque anni come avveniva tempo fa ma arriva a settantasette, settantotto o forse ottant’anni, spesso con buona qualità della vita». Insomma, si vive più a lungo ma non si muore di meno. Citando studi, analisi e ricerche a memoria, Formenti allarga ­172

l’orizzonte a quanto sta avvenendo nella salute di un’umanità che «forse a causa della globalizzazione che fa circolare di più i geni, registra un aumento dell’età media un po’ ovunque, non solo dove la medicina è avanzata come in America o Europa, ma anche nei Paesi più poveri». Il caso che la colpisce di più è il Giappone «dove nel 2020 vi sarà una piccola percentuale di donne arrivate a centoventi anni, una realtà che quando ero bambina non era immaginabile». Il prolungamento della vita è per Formenti la sfida più avvincente per la medicina. Lo spiega così: «Oggi si vive in maniera più diluita, si è giovani più a lungo, trentenni fino a quarant’anni e cinquantenni fino a sessanta, ma il periodo più difficile è dai settant’anni in poi, quando si registra un progressivo calo delle capacità cognitive, ed è proprio questo il terreno dove la neuroscienza potrebbe cogliere i risultati più importanti». Aiutando gli anziani a invecchiare meglio. Quando parla delle sfide future quasi le brillano gli occhi, anche se il linguaggio resta sempre ancorato a termini scientifici e gli aggettivi che adopera sono assai limitati. Ricerca a parte, ciò che più conta nel rapporto fra paziente e dottore è «la capacità del medico di proiettare speranza in qualunque situazione», ovvero una «positività» capace di innescare una simile reazione da parte del paziente. La percezione che il medico è coinvolto, preoccupato ma ottimista, fa cambiare la qualità della vita del paziente, che non si sente più solo nella sua lotta. «Spesso mi capita di incontrare persone meravigliose con malattie orribili – assicura – e se trovano davanti un medico positivo e involved la loro esperienza della malattia cambia drasticamente. Recuperano uno spazio di vita». Non sempre questa interazione avviene perché richiede sia un’innata capacità di empatia da parte del medico che una cultura medica che la incoraggi e faciliti. Silvia oggi cerca di trasmetterla ai suoi residents e fellows, con il suo esempio. «È una legacy che ho imparato in California, quando lavoravo con un’ematologa che si chiama Alexandra Levine e seguivamo insieme i pazienti con l’Aids. Ho capito da lei che si può ­173

essere dei medici diversi, altrettanto scientifici e rigorosi ma al tempo stesso più coinvolti e vicini ai pazienti.» Ama l’America «perché mi ha dato una dimensione nuova, aiutandomi a sconfiggere i pregiudizi sulle apparenze, o altri preconcetti con cui ero cresciuta» ma torna spesso in Italia, dove «continuo a scontrarmi con la realtà di chi dice automaticamente ‘questo non si può fare’ oppure le chiede ‘ma chi te lo fa fare?’». «In America nessuno dice queste cose perché lo slancio è verso le idee, le sfide e l’originalità» aggiunge, sottolineando con rammarico come l’«originalità innata negli italiani» soffra a causa di tali «immobilismi». All’origine di questi difetti nazionali a suo avviso c’è «l’individualismo che regna nella comunità scientifica italiana, dove spesso i più bravi sono immersi in faide e si battono per fazzoletti di spazio o d’influenza, considerando un’onta spostarsi da Livorno a Pavia», ovvero l’esatto contrario della somma fra «mobilità personale» e «lavoro di team», che a New York o a Los Angeles l’ha portata a osservare come «operare in squadra significa essere disposti a sacrifici come scrivere domande di grants o articoli con più firme, dove alla fine le tue frasi pubblicate sono due mentre un altro ne ha dieci». L’altro perno della «cultura protestante che si impone nell’accademia in America» è la disciplina del «protocollo», ovvero un metodo – sia di operare che di condurre un trattamento – frutto di studi aggiornati in continuazione, a cui tutti si rifanno quasi come a un testo sacro. «Il protocol è molto rigido ma consente di far funzionare un ufficio, un laboratorio o una sala operatoria anche in situazione di grande stress» assicura, confessando che durante i frequenti viaggi in Italia si trova spesso a doversi confrontare con «persone che parlano dei dottori come se fossero maghi». Una visione magica e idealizzata della medicina che impedisce il resoconto e la corretta valutazione dei risultati. Per non parlare di quando si trova a spiegare come funziona la Sanità negli Stati Uniti, perché «vi sono persone che idealizzano le cure a Cuba e ritengono che in America chiunque non abbia un’as­174

sicurazione privata rischi di morire per strada». La risposta che dà a tali obiezioni è schietta e articolata: «Ignorano che in America la sanità pubblica esiste, garantisce cure gratis a chiunque abbia meno di diciotto anni, più di sessantacinque anni o un reddito annuale minimo, sotto i 16 mila dollari», senza contare «l’esistenza di ospedali come il Bellevue o il County Hospital di New York dove i pronto soccorso hanno strutture e capacità tali che se Lady D vi fosse stata ricoverata dopo l’incidente lungo la Senna non sarebbe mai morta. Le stesse strutture di pronto soccorso non possono rifiutare le terapie d’urgenza a nessuno, o dare la priorità ai solventi rispetto a chi non lo è». Ma non è tutto: «È difficile per gli italiani capire la mentalità americana, dove ciascuno ha diritto al lavoro ed è responsabile del perseguimento della propria felicità», come recita la Costituzione. «Il concetto di questa responsabilità individuale è molto profondo e spiega perché la società si aspetta che quando una famiglia inizia ad avere un reddito debba automaticamente sottoscrivere una polizza sanitaria: se sceglie di non farlo deve accettare le conseguenze degli ospedali pubblici, con lunghe attese e meno servizi». Sul futuro dell’America è critica ma ancora ottimista e non crede troppo agli scenari di declino. La considera ancora il più riuscito esempio di democrazia. Per spiegarlo racconta un episodio legato alla figlia, studentessa a Berkeley: «La sua compagna di stanza è nata in Cina, è arrivata in California a cinque-sei anni e ha conquistato con i voti una borsa di studio che copre l’intera retta della facoltà di Medicina. Ebbene, è la stessa ragazza che ogni sera mangia gli avanzi di cibo che le portano i genitori, venditori ambulanti di spiedini su un carrettino. In quale altra nazione del mondo nel giro di un’unica generazione si passa dalla miseria a laurearsi a Berkeley?». Fisica teorica fra Lenin e Goldman Sachs Al quinto piano del Dipartimento di Fisica della New York University, al 4 di Washington Place, insegna Massimo Por­175

rati, le cui lezioni sulla gravità quantistica formano studenti corteggiati anche da giganti della finanza come Goldman Sachs. Completo gessato, gemelli d’oro, vocabolario forbito, una passione per le stampe d’epoca e un poster bolscevico alla parete, Porrati riceve nello studio 525, da dove ama gettare l’occhio su Broadway perché «se sono venuto a vivere a New York è perché amo le grandi città, dove l’offerta di tutto è vasta, ma è anche possibile vivere nella stessa riservatezza della campagna inglese». Nato a Genova nel 1961, Porrati è uno delle dozzine di scienziati e ricercatori italiani che a New York si ritrovano nell’Issnaf, l’Italian Scientists and Scholars of North America Foundation creata da Giorgio Einaudi, ex addetto scientifico all’ambasciata a Washington, per trasformare i cervelli in fuga in un ponte di conoscenza e investimenti fra i due Paesi. Per avere idea delle dimensioni del fenomeno basti pensare che, secondo uno studio curato da Riccardo Lattanzi proprio per l’Issnaf, nel 2008 c’erano negli atenei americani 3273 ricercatori e professori italiani con un aumento del 4% rispetto al biennio precedente, per un numero complessivo inferiore solo, fra i Paesi europei, a Germania e Francia. Porrati viene dalla Normale di Pisa, dove studia con Luciano Girardello, docente alla Statale di Milano, interessandosi alla fisica teorica delle alte energie e alla teoria delle stringhe applicata alla teoria quantistica dei campi e alla gravitazione. Si laurea nel 1984, l’anno dopo è al Cern con Sergio Ferrara, uno dei membri permanenti e leader intellettuali della divisione teorica, e lo segue all’University of California a Los Angeles, con tappa seguente a Berkeley. L’Italia gli offre opportunità importanti, e vi torna con successo all’inizio degli anni Novanta, ma nel 1992 cede al richiamo della «grande città» e dal 1992 è professore associato alla Nyu, dove nel 1996 ottiene la cattedra e nel 1998 diventa docente ordinario. Porrati è un fisico che si interessa alla teoria delle stringhe applicata alla teoria quantistica dei campi, modello principe per capire la fisica delle particelle elementari fin dagli anni Trenta ­176

e che ha avuto i successi più grandi nel dopoguerra, quando i problemi legati all’elettrodinamica vennero risolti a partire dal 1948. Ora è impegnato a studiare la «scala di energie che testeremo nei prossimi anni» ma anche quello che ammette essere «il problema più grosso della gravità quantistica, cioè che non sappiamo ancora quali domande porre, per non parlare delle risposte giuste». «Sono interessato a capire cosa dice la teoria della gravità quantistica – sottolinea – soprattutto riguardo agli aspetti legati alla cosmologia e alla teoria delle stringhe». Il fatto di essere uno dei fisici teorici di cui più si parla in città non lo scompone troppo e spiega che «qui o in Italia il lavoro è molto simile e a livello di dottorato si incomincia con studenti finendo con collaboratori». Ma ciò che tiene a sottolineare è come «in America per i fisici teorici vi sono più opportunità di lavoro perché oltre al mondo accademico ci sono anche altre strade, come quella che porta al mondo del lavoro altamente qualificato, che a New York significa anche le banche d’investimento». Proprio così. «Non pochi studenti iniziano a studiare fisica teorica e poi decidono che gli interessa restare a New York e quindi vanno a lavorare a Wall Street» dice, soffermandosi sul fatto che «le cognizioni di fisica apprese sono utili alle grandi istituzioni finanziarie perché a Wall Street cercano non solo persone con conoscenze tecniche del settore ma che sappiano anche come pensare». Dunque Wall Street è interessata alla «cosa più importante che insegniamo» ovvero «come si pensa». Ecco degli esempi: «Insegniamo a pensare a risolvere i problemi, come quando ci si trova di fronte a una questione complicata con tante variabili, come la si affronta? Si risolve il modello nella sua esattezza o lo si scompone per affrontarlo meglio?» oppure «quando si è di fronte a una domanda per cui non si ha una risposta come ci si toglie dall’imbarazzo?». La metà degli studenti avuti lavorano a Wall Street e sono stati assunti dopo colloqui in cui gli hanno fatto domande di logica per vedere se sapevano trovare delle soluzioni. Porrati forma queste giovani leve attorno ­177

agli «interrogativi che ci poniamo dopo Albert Einstein», del tipo «che cos’è la gravità quantistica?». Uno dei successi della fisica negli ultimi anni che più lo appassionano è l’essere riusciti a vedere il relitto del big bang. «Fino agli anni Novanta si era solo visto nell’Universo un riflesso uniforme del big bang, adesso invece abbiamo una mappa dettagliata dell’Universo come appariva poche migliaia di anni dopo il big bang. Per spiegare questa mappa è naturale ipotizzare che quello che noi chiamiamo Universo è solo una parte minuscola di un tutto più grande di almeno 1080 volte (10 seguito da 80 zeri)» spiega, tradendo uno scintillio nelle pupille. La curiosità è per il fatto che «mentre il nostro Universo è diventato ‘freddo’, cioè composto di galassie, ci sono regioni dell’Universo che continuano a espandersi e questo pone domande fondamentali, ad esempio quanto è tipico l’Universo in cui ci troviamo», ovvero se siamo destinati a ridiscutere l’assioma di Copernico, secondo cui «non siamo in un punto specifico dell’Universo e ciò che vediamo attorno a noi non è poi così raro». Teoria a parte, Porrati è molto concreto nell’interessarsi alle scommesse dell’amministrazione Obama per lo sviluppo delle energie alternative. «La fisica può avere un grande ruolo per ottimizzare le risorse che abbiamo e sviluppare nuove fonti di energia o anche solo per analizzare problemi inerenti a fonti di energia» assicura, facendo l’esempio della «pentola di acqua calda sul fornello che per bollire spreca una quantità di energia colossale», al punto che «scaldandola con un motore termico basterebbe un quinto dell’energia». Porrati è uno degli esponenti più noti al mondo della scuola italiana di fisica, famosa nel campo delle particelle elementari dell’alta energia e creata in gran parte da Enrico Fermi e dal suo gruppo. Fermi fu il primo ordinario di fisica teorica in Italia, la sua scuola è continuata nel dopoguerra ed è viva ancora oggi, rispettata a Harvard e Princeton, dove molti docenti e postlaureati vengono dall’Italia, e in particolare dalla Scuola Normale di Pisa. «Nonostante i problemi che affliggono l’università italiana, l’eredità di Fermi vive anche grazie a persone come Raul Gatto, un nome non ­178

familiare come Fermi ma che formò un’intera generazione di fisici teorici» assicura, tradendo però disappunto per il fatto che «la cultura scientifica in Italia non è molto considerata, in parte anche perché il più grande filosofo italiano dell’ultimo secolo, Benedetto Croce, condizionò le discipline intellettuali privilegiando il filone storico-filosofico. Non si apprezza dunque abbastanza il valore intellettuale del filone scientifico». Fra le conseguenze negative per il sistema-Italia c’è la scarsa presenza di accademici nel governo: «Non abbiamo casi come quello di Steven Chu, il docente di Stanford, premio Nobel, che Obama ha nominato ministro dell’Energia» per non parlare di «Tsung-Dao Lee, grande fisico teorico del dopoguerra, che svolse anche un ruolo di contatto importante fra gli Stati Uniti e la Cina comunista». Una certa attenzione per le origini del comunismo internazionale è svelata dal poster dell’era sovietica che campeggia nell’ufficio: raffigura un Lenin degli albori accompagnato da un verso di Majakovskij. «È di un mio amico – si schermisce – in realtà volevo affiggere un poster del primo piano quinquennale in cui si vede Stalin e un paio d’altri leader sovietici, un soldato e un contadino, con sopra scritto ‘2+2=5’: descrive bene il lavoro di un fisico teorico». Le quattro stelle di Lidia Quando si siede a tavola tiene molto alla posizione delle posate, ben distanti e leggermente inclinate verso l’interno. Per lei il tavolo apparecchiato è una sorta di tavolozza di colori. Può farci di tutto. Dispone (o fa disporre) bicchieri, piatti, pane, tovaglioli, bottiglie e pietanze seguendo uno schema che innova in continuazione il pasto, accompagnando l’alternarsi di diversi cibi senza mai distrarre troppo chi li sta consumando. Mi è capitato di mangiare in compagnia di Linda Bastianich da Del Posto, l’ultimo dei ristoranti che ha aperto a New York – nel 2005, con un investimento di oltre tre milioni di dollari – e mi sono ritrovato ad assistere in prima fila allo spettacolo di una donna-manager appassionata di cucina che dall’alto dei ­179

suoi 50 milioni di spettatori in tv è capace, nell’arco di due ore, di descrivere il gulash bavarese confezionato per Benedetto XVI, raccontare l’evoluzione dei sapori delle pietanze italiane in America e spiegare il segreto del proprio successo con la «forza della famiglia», mentre i piatti che si succedono sul tavolo danno concretezza – e spesso sottolineano – quanto afferma. Se il «New York Times» la definisce la «Regina della cucina italiana» assegnando a Del Posto quattro stelle – primo ristorante italiano a ottenere un tale prestigioso riconoscimento dal 1974, quando toccò a Parioli Romanissimo, ora non più in attività – è perché incarna la sovrapposizione fra qualità e stile. La qualità è quella garantita da Mario Batali, lo chef divenuto suo socio in più ristoranti, che il critico culinario del «Times» Frank Bruni ha riassunto così: «Il suo risotto con le barbabietole può mandare fallita la pasta assicurandole un altro quarto di secolo molto solido». Lo stile è invece nell’abitudine di questa donna istriana di sessantaquattro anni – è nata nel 1947 a Pola – di coltivare ortaggi con l’anziana madre Erminia nel giardino di casa a Queens, di girare in continuazione l’Italia in cerca di stimoli e novità, di tenere in piedi un imponente impero editorial-televisivo e di trovare nonostante tutto il tempo per passare la maggior parte delle serate fra i tavoli di Felidia, il ristorante sulla 58a Strada nell’Upper East Side a cui deve la genesi di un successo che l’ha portata a svettare in una metropoli dove i ristoranti italiani sono migliaia e la concorrenza è molto agguerrita. Tutto ciò non sarebbe possibile senza la grinta che viene dal fatto di essere una profuga. Nata nella famiglia Matticchio (o Motika) di Pola, divenuta alla fine della Seconda guerra mondiale territorio jugoslavo, quando ha undici anni viene fatta espatriare in Italia assieme alla madre e alla sorella dal padre Vittorio, che non vede futuro sotto il regime comunista di Josif Broz Tito. Vittorio accetta la condizione della polizia jugoslava di rimanere a Pola come ostaggio in attesa del ritorno dei famigliari ma appena scende la notte fugge anch’egli, rischiando la vita, per raggiungere Trieste. ­180

La famiglia si ritrova, assieme ad altri profughi istriani e dalmati, nella Risiera di San Sabba – ex campo di internamento nazista – e nei primi tempi sopravvive perché Erminia fa la cuoca e Vittorio l’autista. È grazie al soccorso di alcuni enti di beneficenza cattolici americani che riescono ad acquistare i biglietti per raggiungere New York, dove vanno a vivere ad Astoria, nel Queens. Lidia fa la cameriera a tempo pieno e incontrerà Felice Bastianich, che sposerà nel 1966 e con il quale ha i due figli Joseph e Tanya. La coesione famigliare consente di comprendere il segreto del metodo di Lidia, perché ognuno ha un ruolo nell’azienda che oramai si estende ben oltre i confini di New York, da Filadelfia a Kansas City. Con Felice apre prima due ristoranti nel Queens e poi, nel 1981, Felidia (una sintesi di Felice e Lidia), mentre a inaugurare Becco nel Distretto dei Teatri è Joseph, trader di Wall Street, assieme a Batali, proprio come avviene per Esca sulla 43rd Street. Tanya invece, laureata in Storia dell’arte, gestisce Lidia’s Esperienze Italiane, ovvero i tour per americani che vogliono immergersi nell’origine dei prodotti culinari del Bel Paese. E il marito di Tanya, Corrado Manuali, è il legale che affianca con premura Lidia in una miriade di circostanze: dalle maratone per firmare libri (ne ha scritti sei, tutti best seller) ai fan in fila nelle librerie alla promozione dei nuovi sughi nei supermercati, dal debutto della pasta Lidia, destinata ai mercati del Midwest, fino alla sigla dei contratti per le trasmissioni tv che hanno portato alla produzione in proprio dello show Lidia’s Family Table, che vanta 50 milioni di spettatori negli interi Stati Uniti. E nel quale lei invita, di volta in volta, quattro generazioni di Bastianich per parlare di cibo. «Ciò che mi distingue dalla concorrenza e che spiega perché riesco a continuare a crescere su più fronti è la scelta di aver delegato ai miei figli» sottolinea seduta a uno dei tavoli di Del Posto, il ristorante sulla 10th Avenue, al confine con il Meatpacking District, creato ancora una volta in tandem fra il figlio Joseph e Batali e affidato allo chef americano Mark Ladner. ­181

Se la grinta personale traspare dalla premura con cui rimette le posate sempre nella stessa posizione – portata dopo portata – come dalla cura che richiede al personale nella preparazione dei piatti, per svelare la sua idea di cucina bisogna aspettare che venga servito un piatto di spaghetti conditi con pesce e jalapeño. Lidia crede anzitutto nei «prodotti italiani», nei sapori della tradizione e nei marchi «che dovrebbero essere tutelati dall’Italia per evitare imitazioni» e considera la cucina italiana «diversa» da quella italoamericana, che è «tutt’altra cosa» perché «frutto dell’arrivo di immigrati poveri che cucinavano ciò che avevano ricordando i piatti d’origine per confezionarli con quanto era disponibile sul posto». Si spiega così «l’abbondanza di peperoni» come il chicken alla parmigiana o la pasta con le meatballs che hanno generato «una nuova tradizione». Ma se per oltre un secolo l’impronta americana ha modificato i piatti italiani «siamo passati a una nuova fase» grazie all’arrivo in America – e anzitutto a New York – negli ultimi vent’anni della cucina italiana vera e propria, con l’apertura di numerosi ristoranti «dove si può mangiare oggi proprio come si fa a Roma, Napoli, Palermo o Milano». Si tratta di Le Cirque di Sirio Maccioni, dove l’avvocato Gianni Agnelli amava mangiare la paillard, San Domenico – oggi SD26 – di Tony May, Da Silvano su Avenue of Americas, Via Quadronno e l’Antica Bottega del Vino di Paolo della Puppa, Teodora sulla 57a Strada e Barbetta, il locale piemontese nel Distretto dei Teatri di proprietà di Laura Maioglio, figlia di un antifascista obbligato a lasciare l’Italia durante l’ultima guerra nonché moglie del Nobel per la Medicina Günter Blobel. Felidia è stato uno dei protagonisti di questa svolta, ma ora Lidia con Del Posto punta a intraprendere un’altra strada, presentando piatti di cucina tradizionale italiana arricchiti dai sapori del Made in Usa. È l’esatto contrario della cucina italoamericana, perché qui i piatti italiani non vengono soffocati ma esaltati dagli ingredienti locali: la pasta al dente condita con il jalapeño piccante regala un gusto particolare al pari del gazpacho in coppette bordate con polvere di capperi o della bistecca «vecchia di 130 giorni» – come piace ai ­182

cowboy del West – servita come una tagliata di manzo. «Questi piatti dimostrano che la cucina italiana possa conservare la propria tradizione, arricchendola di novità provenienti da altre tradizioni». Parola di regina, con quattro stelle. Il mercante del cibo Varcando la soglia del numero 200 della Fifth Avenue si entra in una nuova dimensione del cibo italiano a Manhattan. In uno spazio di 7000 mq vi sono 14 ristoranti immersi in mercati di carne, pesce, formaggi, pasta e verdure con 20 chef e 400 dipendenti a offrire ai newyorkesi la possibilità di consumare in 600 posti a sedere gli stessi prodotti doc che sono in vendita su dozzine di banchi e scaffali. La sovrapposizione nello stesso spazio della realtà del mercato tipico delle piazze italiane con l’alta cucina nasce dall’intesa fra Oscar Farinetti, creatore di Eataly, Lidia Bastianich, la regina indiscussa del cibo italiano in America, lo chef Mario Batali, titolare di alcuni dei ristoranti più gettonati della Grande Mela, e una coppia di giovani ex manager di Wall Street, Alex e Adam Saper, che hanno scelto di voltare le spalle all’alta finanza dopo aver visitato Eataly a Torino. Joe Bastianich, figlio di Lidia nonché socio di Farinetti assieme ai Saper e Batali, è il titolare della ristorazione e riassume così la scommessa che li accomuna: «Offrire nello stesso spazio tanto il tavolo che il prodotto, puntando a innovare la cultura del cibo dei newyorkesi, lasciandosi alle spalle la dipendenza dalle pietanze preparate». Se gli immigrati italiani di fine Ottocento portarono in America una cucina che fu obbligata a scendere a compromessi con i prodotti locali e dagli anni Ottanta New York ha progressivamente riscoperto i sapori originali del Made in Italy adesso Eataly conta di farle compiere un balzo in avanti, catapultando il meglio dei prodotti della tradizione lì dove la Fifth Avenue si incrocia con Broadway. Basta varcare l’entrata, proprio davanti al Flatiron Building, per accorgersi di cosa si tratta. Sulla sinistra il bar del caffè Lavazza, subito dopo l’agrogelateria, poi i dolci e la pasticceria ­183

fino ad arrivare nella piazza sulla quale la mozzarella viene fatta a mano, da dove si può scegliere se procedere verso la zona della carne, del pesce, della pasta o dei prodotti vegetali. È un percorso non solo nel cibo ma nell’identità e nella storia italiana, accompagnato da 320 cartelloni sulla filosofia di Eataly – che molto deve allo Slow Food di Carlo Petrini – a partire dal fatto che nessuno ha ragione a priori, né il cliente né il venditore. Ad avvalorare l’impressione di trovarsi nel Bel Paese vi sono gli angoli dove Unicredit consente di ritirare dollari adoperando bancomat italiani, dove il megaschermo e gli iPad della «Stampa» permettono di essere costantemente aggiornati su cosa avviene nel mondo, dove Alpitour offre alla clientela la possibilità di andare a visitare le aree di origine dei prodotti in vendita e dove Lidia Bastianich tiene le sue seguitissime lezioni di cucina sulle tv via cavo americane. «Dopo Torino e Tokyo apriamo a New York perché questa è la capitale del mondo – spiega Oscar Farinetti, impegnato a seguire gli ultimi dettagli del megaprogetto – con 8 milioni di abitanti, dove ogni anno vengono 45 milioni di turisti dei quali 500 mila italiani». L’intenzione è «offrire ai newyorkesi un luogo dove incontrare il meglio della qualità dei cibi nostrani e agli italiani un posto dove sentirsi a casa anche al di là dell’Atlantico». Il tutto condito da un «ristorante della birra» con vista mozzafiato sui grattacieli di Midtown, 1000 metri quadri di cucine sotterranee e un negozio-cantina dei vini, a fianco dell’entrata sulla 23a Strada, di dimensioni sorprendenti anche in una metropoli abituata a confezionare record. Alla base di tutto c’è l’approccio al cibo di Farinetti, cinquantasette anni, che si definisce un «mercante del XXI secolo», basato sui «contrasti apparenti fra l’informalità dell’ambiente e l’autorevolezza dei prodotti, fra l’orgoglio della tradizione e l’ironia nel presentarsi, fra la furbizia di un’azienda di indubbio successo economico e l’onestà nei confronti del cliente». Farinetti riesce anche a essere più newyorkese dei newyorkesi: uno dei cartelli spiega infatti che in qualsiasi prodotto c’è il «50% in meno di sale» con una riduzione doppia ­184

rispetto a quanto richiesto dal sindaco Michael Bloomberg ai ristoranti. Ogni mattina i primi a fare la spesa saranno gli chef per acquistare sui banconi i prodotti destinati a essere cucinati per gli avventori, dando vita a un ciclo di acquisti-consumiacquisti destinato a continuare fino a tarda serata nei locali che l’architetto Carlo Pignone – lo stesso che ha firmato Eataly a Torino – ha realizzato adattando stucchi e marmi neoclassici dell’originale Toys Building della Grande Mela alle necessità della città del gusto Made in Italy. Pochi isolati più a sud, Farinetti ha il suo ufficio in un loft dove con Joe Bastianich e i fratelli Saper è proiettato verso un orizzonte che unisce New York, Torino, Bra, Barolo, Novello e Alba – luogo natale del fondatore di Eataly – per rappresentare la fusione fra il mercato globale e le singole realtà locali che lo rendono possibile. Ed è da queste stanze che Farinetti coordina anche la rete di operazioni top secret che hanno reso possibile lo sbarco sulla Fifth Avenue: a cominciare dalle fattorie del Montana dove sei anni fa fece arrivare lo sperma della razza bovina piemontese al fine di produrla in loco attraverso incroci sempre più pregiati, ovviando all’impossibilità di importare negli Stati Uniti carne straniera.

Le arti

Lo scrittore di Ocean City Gilet, cravatta, sciarpa e cappello sempre in ordine, Gay Talese è lo scrittore italoamericano di maggiore successo negli Stati Uniti. Vive in un’elegante palazzina della 61a Strada nell’Upper East Side, assieme alla moglie Nan Ahern, una veterana dell’editoria newyorkese che, fra l’altro, è stata l’editor di tre libri di Oriana Fallaci. Si sono sposati al Campidoglio nell’estate del 1959, quando Talese era stato mandato a Roma dal «New York Times» per seguire Federico Fellini che vi stava girando La dolce vita. «Quell’estate a Roma batteva il cuore dell’industria del cinema mondiale – racconta – in Via Veneto c’erano Fellini, Visconti, Rossellini, Sergio Leone. Era come essere nel Rinascimento nella stagione di Michelangelo e Leonardo da Vinci». La foto del matrimonio in Campidoglio campeggia in un ripiano lasciato libero dai libri, fra il salotto e la cucina. Talese la prende in mano e racconta come avvenne: «Stavamo assieme già da due anni, ero a Roma e decisi che era arrivato il momento, chiamai Nan e quando arrivò andammo in Campidoglio. Siamo entrambi cattolici ma la scelta fu di non sposarci in chiesa per non accettare i codici imposti dal Vaticano». Più che la fede per Talese, classe 1932, conta essere figlio di una famiglia di meridionali. Padre e madre provenivano entrambi da Maida, in Calabria, arrivarono a New York per strade diverse e diventarono una famiglia a Brooklyn. «La schiacciante maggioranza degli immigrati italiani in America ­186

venne dal Sud come risultato della disgregazione della società meridionale in seguito all’Unità d’Italia» dice Talese, seduto nel salotto con davanti un bicchierino di cognac. È un tema che ha studiato a fondo e al quale ha dedicato il libro autobiografico Unto the Sons, pubblicato da Random House nel 1992 e uscito in Italia presso Rizzoli con il titolo Ai figli dei figli: «Il Sud era una società molto strutturata, le grandi città erano Palermo e Napoli, aveva un’aristocrazia e una classe contadina nelle quali ognuno, ricco o povero, aveva un suo posto, conosceva qualcun altro ed era in grado di gestire la propria vita con l’ambizione di progredire». Il gioiello di questo Sud pre-Unità «era Napoli, una vera capitale da quattrocento anni, da quando Colombo aveva scoperto l’America». Tutto ciò fu spazzato via dall’unificazione: tradizioni, gerarchie sociali, modi di vita, forme di sussistenza. «Fu uno sconvolgimento imponente e spinse molti a emigrare in America, incluso mio padre Joseph». La conseguenza di questa disgregazione sociale fu che «chi arrivava in America portava con sé un’identità insulare». Gli immigrati meridionali «non si sentivano italiani e neanche campani, siciliani, calabresi o pugliesi perché si riconoscevano solo nei loro paesi, villaggi, d’origine». Nel caso dei genitori di Talese, «vivevano a Brooklyn in un universo diviso fra chi proveniva da Catanzaro, Cosenza e Reggio Calabria». Era una geografia ristretta, che escludeva ogni identificazione con l’Italia e ostacolava i contatti con l’America. «Gli italiani immigravano e nascevano in grandi agglomerati urbani come Boston, Brooklyn e Filadelfia che erano realtà ibride perché il suolo era americano ma tutto il resto parlava una miriade di dialetti dell’ex Regno delle Due Sicilie». È da questo mondo che i genitori di Talese si staccano quando al padre, per ragioni di salute, viene suggerito di andare a vivere in prossimità dell’Oceano. La scelta cade su Ocean City, in New Jersey, dove Joseph Talese, che di professione fa il sarto, apre un negozio di abbigliamento in pieno centro. Il Talese Township Shop si impone rapidamente come il posto dove uomini e donne possono acqui­187

stare vestiti della migliore fattura. «Mio padre era un ottimo sarto mentre mia madre era molto brava a socializzare con le clienti». A Ocean City i Talese sono l’unica famiglia italiana e formarsi in quest’ambiente fa sì che Gay cresca «in un mondo dove si parlava solo inglese». «Questa è stata la mia prima fortuna» aggiunge, spiegando come «la seconda è stata crescere dentro un negozio di abbigliamento, dove andavo ogni pomeriggio fino all’età di diciassette anni» perché «ascoltavo i colloqui con i clienti, la cura con cui mia madre trattava ognuno di loro, che esprimeva un mondo diverso, tentando di comprenderlo». Talese è convinto che «è stato proprio grazie a questa esperienza che sono diventato un buon giornalista e uno scrittore di successo» dando vita anche allo stile del New Journalism, ovvero l’uso di tecniche narrative per descrivere fatti di cronaca. Il suo articolo più citato è Frank Sinatra ha il raffreddore, ma Talese è egualmente affezionato a descrizioni di Dean Martin e Joe DiMaggio. «Devo la mia fortuna alla lingua inglese e a quanto appresi in quel negozio a Ocean City, frutto della scelta dei miei di lasciare Brooklyn» voltando le spalle a un passato che li imprigionava. Ma non è tutto, perché «il negozio si trovava a livello della strada e nel palazzo, oltre ai numerosi magazzini, c’era anche al primo piano la nostra casa, dove si cenava assieme ogni sera». Nella memoria di Talese «la differenza fra il piano terra e il primo piano» è rimasta bene impressa perché «mentre al mattino in negozio mio padre vestiva il sindaco e i principali uomini d’affari locali, la sera invece quando parlava con noi esprimeva ben altri sentimenti». Il motivo era la Seconda guerra mondiale, iniziata da qualche tempo, che vedeva l’Italia schierata fra i nemici dell’America con i due fratelli di Joseph Talese arruolati nell’esercito di Mussolini. Il sarto modello si sentiva diviso fra le due patrie e a volte la tensione tracimava, «come avvenne in occasione del bombardamento americano dell’Abbazia di Montecassino, mio padre andò su tutte le furie» e distrusse tutti gli aeroplanini giocattolo che il figlio aveva accumulato. Ciò non toglie il fatto, osserva il ­188

giornalista-scrittore, che «migliaia di italoamericani servirono nell’esercito alleato che liberava l’Italia dal nazifascismo» creando con i loro sacrifici «un vincolo di sangue fra gli immigrati e gli Stati Uniti che fino a quel momento non c’era». Il conflitto mondiale si è così rivelato «un acceleratore per l’integrazione degli italoamericani» con la conseguenza di «portarli verso il partito repubblicano allontanandosi dai democratici per i quali avevano votato sin dai primi arrivi in America». La svolta conservatrice degli immigrati per Talese «ha anche un’altra spiegazione nella forte opposizione degli italiani per un governo onnipotente che entra nelle vite dei cittadini». Si tratta anche di una «conseguenza dell’opposizione all’invadenza dello Stato unitario che travolse il Sud» e porta oggi «la maggioranza degli italoamericani a sostenere la necessità di un governo minimo», che è poi la piattaforma tradizionale dei repubblicani. Ma a tormentare Talese c’è il fatto che tale integrazione, «ha schiuso agli italoamericani le porte del mondo degli affari, ma altrettanto non è avvenuto nella letteratura come nel giornalismo». Basta leggere qualsiasi giornale americano «per accorgersi che i giornalisti di origine italiana sono assai pochi» mentre sul fronte della narrativa l’unico altro nome di spicco è di Don DeLillo, un altro newyorkese. Anche per questo Talese sente di essere, a settantotto anni passati, un caso unico reso possibile «grazie a quel negozio dei miei a Ocean City». Il toro di Manhattan Il toro di bronzo da 3200 kg che si trova nel parco di Bowling Green del Financial District rappresenta la prosperità di Wall Street ed è stato scolpito da Arturo Di Modica, siciliano di Vittoria, classe 1941, in una casa-laboratorio al numero 54 di Crosby Street che ha letteralmente costruito con le sue mani. Di Modica scolpisce da quando, ancora adolescente, andava nella bottega del mastro carrettiere del ­189

suo paese, dove lavorava il legno d’ulivo, contribuendo a dare le forme a personaggi dei pupi siciliani. Al padre quella passione di intagliare non piaceva troppo e un giorno gli tirò una sedia addosso. Ancora adolescente, Di Modica lascia così, con poche lire in tasca, Vittoria per Firenze, dove resta dodici anni, studia, si perfeziona e finisce per scontrarsi con gli interessi delle gallerie che vogliono imporgli cosa produrre e come esporlo. Quando nel 1971 gli si presenta l’occasione di una mostra a New York varca l’Oceano con un viaggio che gli cambia la vita. A Manhattan trova un mondo dell’arte dove «gli scultori creano e sono liberi di esporre». È la possibilità di essere indipendente che lo spinge a restare. La sua prima casa è al 127 di Grand Street ma la sfida è costruirsene da solo una nuova di zecca, capace di essere anche un laboratorio. Identifica il terreno a Crosby Street, che oggi significa Soho, mette su una palizzata e inizia a costruire: trova, porta e monta tutto da solo. Calce, travi, mattoni. Lavora di notte. In canottiera. Alza l’edificio piano per piano. Acquista in New Jersey quattro crick per carri armati per sostenere il tetto, che si alza ogni notte qualche centimetro in più. Poi con alcuni lavoratori ispanici finisce l’opera, scavando due piani sottoterra. È in questo ambiente da lui creato dal nulla che matura la convinzione di voler «aiutare New York» quando nell’autunno del 1987 il crollo dei mercati travolge Wall Street e getta la metropoli nell’incubo del peggio. «Pensai al toro perché è il simbolo della prosperità, lavorai senza risparmi, ci misi tutto quello che avevo per acquistare i materiali». Fino a quando la notte del 15 dicembre di quell’anno porta il toro gigante con una gru proprio davanti all’entrata della New York Stock Exchange. È una maniera per spronare i mercati a riprendersi, la città a risollevarsi. Ma all’indomani la metropoli viene colta di sorpresa e i tabloid mettono il misterioso toro in copertina. All’italoamericano Richard Grasso, che nel 1988 diventa presidente della Borsa, il colpo di mano però non piace troppo. E ordina di fare spostare il toro, che sva­190

nisce nel nulla. Di Modica non si dà per vinto, si getta alla ricerca del manufatto non facile da nascondere e setaccia la città fino a trovarlo in un deposito della polizia a Queens. Deve pagare una multa salata per riscattarlo ma versa quanto serve e torna alla carica. «Il braccio di ferro con Grasso fu duro – ricorda –, voleva a tutti i costi che scolpissi anche un orso, che per la finanza simboleggia i mercati al ribasso, ma io non volevo farlo, per me contava la prosperità». Il compromesso viene suggellato con la scelta di Bowling Green Park come nuova sistemazione, dove si trova ancora oggi ed è quotidianamente accarezzato da code di turisti che vi si vogliono far fotografare accanto, sopra e sotto convinti che porti fortuna. Per Di Modica è stato l’inizio della stagione dei tori: dell’originale ne esistono sei copie, acquistate di recente dal filantropo britannico Joe Lewis, poi ne ha scolpiti altri – diversi per colore e posizione delle zampe – per l’Expo di Shangai e ora sta lavorando al terzo set, destinato alla Mosca di Vladimir Putin. «New York, Shangai e Mosca è un triangolo di prosperità che deve essere anche di pace» sottolinea, identificando nei suoi tori un elemento fortemente simbolico «capace di unire il mondo». L’altro valore in cui Di Modica crede è «la memoria del passato come fonte di ricchezza della Sicilia». È questa la ragione per cui appena può torna a Vittoria per lavorare al «progetto dei miei sogni»: due cavalli bronzei giganti, ognuno alto 30 metri, destinati a comporre un’unica scultura nella valle dell’Ippari, attraverso cui far passare l’omonimo fiume. Nelle pance di ognuno degli equini vi sarà un museo storico, l’uno di Ragusa e l’altro di Vittoria. «La Sicilia sta morendo, i Paesi del Terzo Mondo ci stanno rubando lavoro e benessere – dice spiegando i motivi che lo spingono –, l’unica maniera per salvarla è attirare il turismo, rivalutando la storia del passato, che è la nostra ricchezza». Quando i cavalli saranno posizionati nella valle lungo il fiume, Di Modica prevede di organizzare «grandi show di battaglie navali fra vascelli identici a quelli degli antichi Romani e antichi Greci», consentendo ­191

alla «mia valle di attirare gente da tutto il mondo e quindi di rinascere». Per questo acquista terreni al fine di avere spazio sufficiente per i cavalli, finanzia la sua scuola d’arte internazionale, costruisce strutture, scolpisce. Con la stessa passione che lo porta a realizzare porte bronzee a Hong Kong, fontane a Kuala Lumpur e tori a Shangai. «Lavoro in Asia, vivo a New York e amo la mia Sicilia» ripete gesticolando mentre sta seduto a un tavolino di Cipriani a West Broadway, il ristorante che lui stesso ha disegnato e in parte contribuito a far nascere quindici anni fa creando con le proprie mani sgabelli di ferro, panche e tavoli che ancora oggi fanno parte dell’arredamento. Il locale con le tendine gialle al 376 di West Broadway è «la mia seconda casa» e il legame col proprietario Giuseppe Cipriani «strettissimo». Quando non lavora nella sua nuova casa al 253 di Church Street è qui che passa il tempo, bevendo niente altro che tè. Lo stabile di Crosby Street l’ha venduto pochi anni fa dopo non essere riuscito a coronare un progetto ambizioso: aveva investito 1,2 milioni di dollari per creare nei piani sotterranei un pub dove gli artisti di Manhattan potessero incontrarsi, esporre le proprie opere e parlare con il pubblico in maniera informale. Fabbricando oggetti di ogni tipo e dimensione per arredare i diversi ambienti. Ma all’ultimo momento il comune di New York gli ha negato il permesso decisivo per aprire i battenti «e sapete allora cosa ho fatto? Gli ho detto che erano degli animali e poi sono tornato a casa, mi sono chiuso dentro e ho distrutto con le mie mani tutto quello che avevo costruito, tutto». Tanto intensa era stata la passione nel costruire, quanto lo è stata quella nel distruggere. E ora, superata la soglia dei settant’anni, vive facendo la spola fra Church Street e le fonderie del Wyoming dove stanno nascendo i nuovi tori del XXI secolo. La ricetta per l’Oscar Robert De Niro ha in comune con lui il fatto di avere una moglie nera e dei figli mulatti. L’ultimo Natale lo hanno pas­192

sato assieme, conversando dei film di Bernardo Bertolucci e della sovrapposizione fra valori e identità di America e Italia. È solo un tassello della vita newyorkese di Antonio Monda, nato a Velletri nel 1962, ma consente di gettare lo sguardo su identità e passione dell’unico italiano capace di far conversare informalmente sotto lo stesso tetto a Manhattan come a Capri registi, attori, scrittori e personaggi della cultura con le radici nei due universi a cui lui appartiene. Se la «Book Review» del «New York Times» gli ha dedicato un ritratto è perché nella sua casa Philip Roth ha incontrato Al Pacino, Salman Rushdie ha conosciuto Roberto Saviano e Renzo Piano ha pranzato con Meryl Streep. «Mi piace mettere assieme persone diverse, di livello» spiega seduto sul divano del suo salotto nell’Upper West Side, richiamandosi alla lezione appresa dal padre Dante «che mi diceva ‘se tu mi dai una cosa e io te ne do un’altra, alla fine dello scambio ne abbiamo una ciascuna, invece se tu mi dai un’idea e io te ne do un’altra alla fine ne abbiamo due’, inventando un proverbio cinese». Antonio Monda crede nello scambio di idee, nell’apprendimento reciproco, gli piace parlare di temi alti in maniera leggera, sommando profondità e leggerezza. È uno stile che fa sentire a proprio agio chi vive assediato dalla celebrità e lui lo ripropone anche alla New York University, dove insegna cinema da diciassette anni e dal 2003 gli è stata assegnata una cattedra a vita. «In classe ho un approccio antiaccademico perché credo molto al valore della conversazione» spiega, sottolineando come anche il festival che organizza ogni anno a Capri con Davide Azzolini facendo incontrare scrittori italiani e americani si chiama Conversazioni perché «prendiamo temi importanti come diritti umani, identità e memoria declinandoli in maniera che tutti possano comprenderli». Al Lincoln Center ogni inizio di estate Monda organizza il Festival del cinema italiano, che è arrivato all’undicesima edizione, sommando la presentazione di 120 pellicole, una trentina delle quali, grazie a questo trampolino, sono state distribuite negli Stati Uniti. È uno degli architetti del Festival ­193

del cinema di Roma, curando grandi eventi con personaggi come Al Pacino, Francis Ford Coppola, i fratelli Coen, Meryl Streep. Considera l’America «una madre adottiva che è severa ma mantiene ciò che promette», dove «difficilmente si viene presi in giro» e nei diciassette anni che vi ha passato «non c’è mai stato un momento di noia, neanche nelle difficoltà, e non c’è mai stata mancanza di chiarezza». La capacità di far dialogare Italia e Stati Uniti si articola su più binari seguendo lo stesso copione. All’università, nel corso Autori di Hollywood affronta il rapporto fra arte e industria, discutendo con gli studenti la possibilità per un attore di «fare reddito» inserendosi fra il produttore e il mercato. Attori e registi che invita a parlare agli studenti sono gli stessi fratelli Coen, David Lynch e Spike Lee, che poi vanno a pranzo da lui, partecipano ai festival che organizza, intervista per «Repubblica», racconta nei suoi libri e presenta nelle retrospettive. Alla fine ciò che si crea è un rapporto di fiducia che consente a Monda di mischiarsi a loro. Da qui la possibilità di guardare al cinema italiano in maniera spassionata. «La situazione è molto brutta perché ci solo tre o quattro registi di livello internazionale, Paolo Sorrentino in primis ma anche Matteo Garrone, Paolo Virzì ed Emanuele Crialese, ma la tragedia è che intorno a loro non c’è un’industria solida». La causa di tale debolezza la individua nel fatto che «in un momento di difficoltà il nostro cinema per sopravvivere si è fatto finanziare dalla tv e ciò ha prodotto conseguenze negative, perché da un lato ha cambiato linguaggio, visto che non si può usare troppo nudo, violenza o campi lunghi, e dall’altro ha creato un’industria che vive di finanziamenti altrui, non cercando fondi suoi». È questa morsa che «nel giro di venti-venticinque anni ha distrutto il cinema che primeggiava nel mondo ai tempi della Dolce vita». La conseguenza è che «gli americani identificano l’immagine dell’Italia e quindi il suo cinema con il racconto di qualcosa di rétro, consolatorio, semplificato» per questo ad avere successo sono stati Nuovo Cinema Paradiso, Il postino e La vita è bella, ovvero «tutti ­194

film sul passato con bambini come protagonisti o con scenari incantevoli». L’Italia di oggi invece, con i suoi tormenti e contraddizioni, come quella raccontata da Gomorra, «non piace, finisce per raggiungere solo una nicchia di pubblico». Insomma, «per sfondare in America, il cinema italiano deve proporre un modello vecchio perché l’Italia di oggi non interessa». Da qui il fatto che «gli unici due registi che hanno una carriera internazionale sono Gabriele Muccino, che fa film con Will Smith, e Paolo Sorrentino, che gira con Sean Penn fra l’Irlanda e New York». È questa cornice a spiegare la difficile corsa agli Oscar delle nostre pellicole, resa ancor più ardua dal fatto che i produttori stentano a fare ciò che serve per farsi conoscere a Hollywood ovvero «investire risorse e fare lobbying». «Per prevalere nella corsa agli Academy Awards bisogna parlare, convincere, mandare dvd, brochure, mobilitarsi con il massimo delle risorse» spiega, lamentando il fatto che «sono poche le società italiane a farlo» senza contare che «c’è anche chi affronta questa sfida senza distributori americani, andando incontro a imprese impossibili». Ecco perché «il periodo aureo risale agli anni in cui la Miramax prese Nuovo Cinema Paradiso, Il postino e La vita è bella mentre negli ultimi anni neanche film come Gomorra sono arrivati alle nomination dell’Oscar». Per invertire la china la ricetta che Monda suggerisce è «fare un salto con coraggio, investimenti e pionierismo». L’esempio che gli viene in mente è quello del «titanico e controverso» Dino De Laurentiis, «che si è totalmente reinventato in America» perché quando sbarcò a Hollywood lo fece «prendendo il più bravo regista del momento, Sydney Pollack, il migliore attore, Robert Redford, per i Tre giorni del condor e poi reclutò Al Pacino per Serpico». La forza di De Laurentiis è stata quella di «giocare in America con le regole americane» puntando ad avere il meglio, senza rifugiarsi in scuse o cercare scorciatoie. E il cinema americano? «Dopo una fase di flessione degli incassi, c’è un ritorno, ma coincide con un cambiamento importante perché il boom del digitale causa la morte di dvd e vi­195

deocassette e fra le grandi case di produzione di Hollywood c’è panico, non hanno più un prodotto fisico da mettere sul mercato, avvolgendolo nella pubblicità». Senza contare i «gravi danni causati dalla pirateria». La strada per uscirne è «l’alta tecnologia» come quella a cui James Cameron è ricorso per confezionare Avatar «perché un film del genere lo devi per forza vedere su un grande schermo, la versione taroccata rende assai di meno, non è la stessa cosa guardarlo sul pc o sull’iPhone». Riguardo ai temi, «i film di guerra sono in calo, a parte l’eccezione di The Hurt Locker vincitore degli Oscar nel 2010, perché a differenza di quanto avvenne con il Vietnam oggi i conflitti sono ancora in corso e il pubblico si comporta in maniera diversa». Si registra invece «il ritorno ad altri stili come evidenziato dalla scelta dei fratelli Coen di fare Western». Ma ciò che più lo colpisce sono «i giovani attori come Ann Hathaway e Jake Gyllenhaal, fra i venti e i trenta anni che dominano al botteghino confermando il cinismo di Hollywood, che appena invecchiano i talenti si affretta a sostituirli». Cinema e cultura a parte, le altre passioni di Monda sono la fede e la moglie Jacquie. La fede è nella definizione che dà di se stesso: «Cattolico apostolico romano». Non ama fare proselitismo ma negli atti tenta di testimoniare la propria fede. «Il papa è il mio papa, la domenica vado a messa, prego al mattino e alla sera perché l’unica casa vera che ho è questa». E ciò lo porta a non dare eccessivo peso a tutto il resto perché «la fede mi consente di avere un distacco da ciò che faccio, rivelandosi un elemento di forza visto che se dai troppa importanza ai fatti materiali rischi di affondare». Anche Jacquie è cattolica, proviene da una famiglia protestante dell’alta borghesia giamaicana con un nonno reverendo, e dal matrimonio celebrato nel 1991, nel giorno del 499° anniversario della scoperta dell’America, sono nati tre figli. È Jacquie, abile nel confezionare piatti italiani e giamaicani, ad aver coniato uno stile culinario che fa di casa Monda un tassello unico del melting pot newyorkese. È su questo sfondo di diversità e contraddizioni che Monda riflette su ciò che i protagonisti delle ­196

«conversazioni» di Italia e Stati Uniti cercano quando si incontrano: «Entrambi vogliono smentire gli stereotipi dell’altro, il grande personaggio americano vuole non solo l’Italia raccontata in maniera comoda ma anche quella più fresca, energetica e diversa, così come l’italiano non si accontenta dell’immagine dell’America rozza, violenta, fatta solo di pistoleri e cowboy». Gli esempi che gli vengono in mente sono episodi recenti. «Jonathan Franzen quando è venuto a Capri mi ha detto che in realtà voleva conoscere Napoli per capire se era davvero una città tutta camorra e spazzatura, così come Roberto Saviano mi ha chiesto di incontrare Nathan Englander per esplorare un possibile denominatore comune fra un discendente di immigrati russi che è nato a Long Island e chi viene da Casale del Principe». Sul palcoscenico Bribestown, ovvero Tangentopoli, è andato in scena un paio di anni fa a Manhattan, in un teatro di avanguardia del Lower East Side. Fra aneddoti di «bustarelle» – termine sempre pronunciato in italiano – e riferimenti al «buon giudice Di Pietro» il lavoro di Mario Fratti racconta la storia di uno degli indagati di Tangentopoli che, inseguito da una serie interminabile di mandati di cattura, decide di lasciare tutto e di rifugiarsi sull’isola della Laguna dove si trova il cimitero di Venezia, in una cappella in marmo poco distante dalla tomba di Ezra Pound. Il politico corrotto spiega al pubblico quella che è stata finora la sua vita: non tangenti ma «compromessi inevitabili» al fine di far costruire strade, palazzi e ricevere appalti; nessun rimorso perché «così andavano le cose»; autoapprezzamento per quello che si è fatto per «il Paese e la società». C’è anche una vera e propria teorizzazione di tangentopoli che gli spettatori newyorkesi ascoltano incuriositi: «Più soldi ho, più beni acquisto, più favorisco la produzione, più posti di lavoro creo» dice il personaggio interpretato da Dave DeChristopher, precisando di aver «sempre speso mol­197

to». Nella cappella mortuaria arredata con divano rosso e comodino d’epoca il politico-tangentista inizia la sua nuova vita, grazie all’aiuto del guardiano del cimitero, un giovane ex musicista che ebbe quel lavoro proprio in virtù di una sua raccomandazione di alcuni anni prima. Il guardiano a lui devoto si trasforma in un efficiente segretario personale: si occupa di mantenere pulita e in ordine la cappella-abitazione, respinge i curiosi che si avvicinano al cimitero, lo aggiorna sulle vicende giudiziarie in corso e, soprattutto, gli garantisce il quotidiano arrivo su un puntuale taxi della Laguna delle sue numerose e giovani amanti. Il sottotitolo del lavoro è appunto Avventure erotiche a Venezia perché il politico corrotto, pur obbligato all’esilio nel cimitero, non rinuncia alla passione per i vizi, a cominciare dalle donne e dal sesso. Il luogo non è tuttavia molto adatto alle avventure romantiche e allora il giovane ex musicista si incarica di ridisegnare la mappa dell’isola individuando fra lapidi e steli mortuarie anfratti e grotte adatte a incontri a luci rosse. Il tentativo ha a tal punto successo che il tangentista, oltre a soddisfare le sue voglie sessuali moltiplicando fantasie e incontri, spinge il guardiano a trasformare il cimitero in un luogo di appuntamenti a pagamento al servizio dell’intera Laguna, con tanto di registro degli «ospiti» e tariffe differenziate «da tomba a tomba». Più costoso l’incontro in una nicchia sotterranea, più economico quello a cielo aperto. Il via vai di clienti e prostitute fa venire alla luce il senso per gli affari del politico decaduto e l’intraprendenza del giovane guardiano che stringono assieme un patto, grazie al quale riescono perfino ad assumere i figli della coppia sepolta nella camera mortuaria, a cui garantiscono uno stipendio non indifferente affidandogli in cambio il ruolo di «fantasmi», incaricati di aggirarsi attorno alle coppie che vogliono essere osservate durante i loro incontri. Fanno parte del nuovo business anche foto a pagamento per i clienti che le richiedono. La commedia erotica e irriverente andata in scena al La MaMa, nel Lower East Side di Manhattan, evo­198

ca provocatoriamente a più riprese nei dialoghi personaggi dell’Italia pubblica come «Mr C» e «Mr B». Ciò che distingue Bribestown è l’impronta irriguardosa e imprevedibile di Fratti, commediografo nato all’Aquila e arrivato a New York nel 1963, anno dal quale vive sempre nello stesso appartamento sulla 55a Strada. Si tratta di due piani con terrazzo appollaiato fra i grattacieli di Midtown, e vista sull’ex moschea siriana divenuta il City Center, dove Fratti vive circondato da libri, cartelloni, premi e cimeli di una vita sul palcoscenico segnata da successi e incassi. I maggiori dei quali arrivarono con Nine, il musical che lanciò nel 1982 rifacendosi a 8 1/2 di Federico Fellini, in maniera tale da mietere cinque Tony Awards e sommare 729 spettacoli a Broadway, remake esclusi. Fratti, classe 1927, crede nell’imprevedibilità come ricetta per avere successo nel Distretto dei Teatri di Manhattan. «Per scrivere un copione che funziona bisogna avere in mente la storia e sapere da subito come finisce – assicura –, possibilmente con un colpo di scena che il pubblico non dimenticherà». Fra le dozzine di lavori che ha firmato si trova così una collezione di svolte drammatiche e repentine delle trame: dalla giovane donna che accetta la corte dell’uomo più anziano e ci va a letto per poi chiedergli di sposarsi con la madre, anziana e meno bella, alla donna attempata che mente alle amiche sulla falsa morte del figlio, all’unico fine di iscriversi a un club per suicidi, per poi dover ricorrere allo stesso figlio, vivo e vegeto, per toglierla dagli impicci in cui è finita a colpi di menzogne. «La commedia è una struttura, ha bisogno di una complessa architettura – sottolinea – si inizia con l’idea della storia, si aggiunge il finale e poi si costruisce tutto quello che sta in mezzo». Docente di teatro alla Columbia e all’Hunter College, ai suoi studenti indica quattro maestri ovvero «Pirandello per la maschera che ognuno di noi ha, Bertolt Brecht per la lotta politica, Arthur Miller per l’avidità e Tennessee Williams per la poesia». Proprio Williams viveva nella casa dirimpetto a quella di Fratti, scrivevano guardandosi dalla finestra «poi un giorno lui morì strozzato dal tappo ­199

della bottiglia che si era scolato». Se cita i mostri sacri è per stimolare i giovani e convincerli a scommettere su un teatro che «in America si può intraprendere e veder coronare dal successo» perché «qui se si è alle prime armi bastano 20-25 mila dollari per mettere su uno spettacolo Off Broadway» senza contare che «è il migliore posto al mondo per i musical». E l’Italia? «È un Paese dove i produttori preferiscono le opere di autori stranieri a quelli italiani in ragione di leggi che favoriscono economicamente tali scelte» e il risultato è «che i nostri autori non li conosce nessuno». Per provarlo mostra un foglio fotocopiato con i nomi di 39 commediografi italiani «che distribuisco in continuazione per far sapere che il teatro italiano ancora esiste ed è vivo, vivace, anche se non trova le strade per esprimersi». L’altra amarezza affiora nel parlare degli «italoamericani che vanno a teatro per vedere lavori che li riguardano assai meno di quanto fanno i neri e gli ebrei con le rispettive produzioni» e questa «lontananza fra gli italiani di New York e il teatro» si spiega, a suo avviso, «per il fatto che padri e nonni degli immigrati di oggi erano contadini e non intellettuali» e dunque «preferiscono guardare la tv piuttosto che andare a teatro». Arrivato al momento dei saluti, sulla porta, Fratti getta l’occhio sulla foto ritratto di Katharine Hepburn regalando al visitatore un finale inatteso: «Mi desiderava, corteggiava, voleva stare con me... ma era più vecchia di dieci anni e rifiutai». Una star nell’Oak Room Per onorare il nonno e sottolineare la propria eredità italiana Lady Gaga sceglie la Oak Room dell’Hotel Plaza con vista sul Central Park. Il motivo è la scomparsa di Giuseppe Germanotta a ottantotto anni, dopo una lunga sofferenza causata dal morbo di Parkinson. La nipote Stefani entra assieme alla nonna Angeline in una delle sale più frequentate dai vip della Grande Mela. Si fa anticipare solo da un post autografo su Twitter: «Una Manhattan perfetta per una persona perfetta, I ­200

love you Giuseppe». Se ha scelto questo luogo è perché proprio qui, quando era bambina, i nonni la portavano a mangiare spendendo i risparmi messi da parte per farle passare qualche ora da autentica regina. È una finestra sulle origini umili nel New Jersey da cui proviene, dove il padre e la madre Cynthia Bissett, di origine francese, componevano quella che Lady Gaga definisce «una famiglia della classe medio-bassa». Rispetto ai sacrifici che si facevano in casa, la Oak Room con specchi antichi, grandi lampadari, pareti in boiserie e camerieri in livrea era un triplo salto in avanti, una maniera per dimostrare di credere in un futuro migliore. «In questa sala ho tante memorie felici della mia infanzia» esordisce Lady Gaga, nata nel 1986 come Stefani Joanne Angelina Germanotta, raccontando della «carica» e dell’«energia» che trasse da quegli anziani italoamericani che le trasmisero la grinta con cui gli immigranti erano arrivati in America all’inizio del secolo. La stessa grinta alla quale lei oggi attribuisce la fulminea scalata al mondo dello spettacolo, capace di fare ombra a Madonna. Per l’occasione Lady Gaga si presenta nella Oak Room con un’immagine che esalta il successo raggiunto da regina del pop: è una donna delle caverne, con indosso una pelliccia da cavernicola adornata da una cascata di gioielli falsi tenuti assieme da reti da pescatori e una lunga parrucca bionda che scende lungo il corpo, lasciandolo in gran parte scoperto. Lei canta tutti motivi che evocano nostalgia per la figura del nonno capostipite come Someone to Watch Over Me, Ev’ry Time We Say Goodbye a The Very Thought Of You. Attraversa di slancio il confine fra la tristezza personale e lo stile burlesco che l’ha trasformata in una star. Così, dopo aver ricordato il nonno e parlato in pubblico alla nonna, grida nel microfono di aver ingerito «talmente tanta tequila da potermi far varcare il confine più velocemente di Speedy Gonzales», rivolgendosi all’orchestra per chiedere ai musicisti di «fare ciò che dovete senza distrarvi guardandomi troppo il didietro». Giuseppe Germanotta, detto Joseph, era nato a Jersey City sul lato opposto dell’Hudson davanti al Distretto finanziario ­201

di Manhattan e inseguendo lavori sempre precari si era poi spostato attraverso il «Garden State» passando per località come Elizabeth e Montville, abitate all’epoca in gran parte da immigrati italiani, fino alla Seconda guerra mondiale quando andò a combattere in Europa per poi tornare e svolgere un’attività da «business autodidatta» dalla quale Lady Gaga assicura di aver tratto ispirazione. La chiesa a cui più è legata è quella di San Pio X, proprio a Montville, dove il funerale si è svolto e alla quale ha destinato gran parte delle offerte ricevute per la scomparsa del nonno. Il legame con il quale descrive così: «È vero, non parlo spesso della mia vita privata ma ero davvero molto legata a lui, quando stava male piangevo tutti i giorni e per lui durante un tour a Nottingham, in Inghilterra, ho cantato Speechless, ovvero ‘senza parole’». Alle esequie a San Pio X Lady Gaga è andata con indosso per una volta abiti molto convenzionali – un tailleur nero con gonna sotto il ginocchio e velo sul capo – accompagnata dal padre Joseph e dalla sorella Natali, con i quali poi ha seguito la sepoltura nel cimitero cattolico di Gate Heaven, a East Hanover. Anche se poi il vero saluto a Giuseppe è avvenuto nella Oak Room. Le ballerine di Broadway Ore 17.30, l’appuntamento è al Café Luxemburg sulla 70th Street e Broadway. Per le ballerine di Broadway è come essere a casa perché questo è uno dei locali dove, a tarda sera, si rifugiano dopo la fine dello spettacolo. Vanessa Van Vranken entra con un giubbotto di pelle nera, mentre Kristin Piro ha uno scialle chiaro sulle spalle. Vanessa ha un carattere espansivo, mediterraneo, ride e gesticola in continuazione ed è alta 1 metro e 69 mentre Kristin ha un riserbo anglosassone, con gli occhi sempre rivolti verso il basso ed è alta almeno 20 centimetri di più. Sono amiche per la pelle. E lo sono diventate facendo le ballerine sui palcoscenici di Broadway. Vanessa, a dispetto del cognome olandese, ha una mamma che fa Lecoco e viene da una famiglia di New Orleans con le origini a Pa­202

lermo, ha girato l’America e l’Europa interpretando più ruoli nel corpo da ballo del musical Chicago. Kristin Piro, cresciuta in New Jersey in una famiglia napoletana, nasce invece come ballerina grazie a Saturday Night Live e West Side Story e ora è nel cast di Catch Me If You Can che ha debuttato all’inizio del 2010, portando a Broadway la trama del film con Leonardo DiCaprio che sbancò il botteghino. Le due ballerine hanno vite incrociate come spesso avviene a Broadway fra chi riesce a far prevalere l’amicizia sulla rivalità. Vanessa ha i capelli rossi, è arrivata a trentatre anni passando attraverso molti fidanzati e ora dice che la sua stagione migliore sul palcoscenico sta finendo, per questo ha deciso di tornare in Louisiana e investire nell’azienda di famiglia i risparmi messi da parte. Kristin invece è bruna, di anni ne ha venticinque, per la critica è una «nascente star dei musical», di fidanzati ne ha avuti pochi, e dice con un sorriso tenue di «non sapere cosa mi aspetta negli anni a venire». Entrambe mangiano poco: un’insalata di tonno divisa in due e niente alcol. La rigida dieta è la condizione di vita per chi inizia a danzare da bambina e sceglie di farlo come professionista arrivata alla frontiera dei sedici-diciassette anni. Si sono incontrate a Tampa, Florida, in occasione di uno show di Chicago e poi l’amicizia è decollata a New York, dove vivono a due passi dal Lincoln Center. Ma come si diventa ballerine a Broadway? «Per passione e a patto di avere una grande resistenza perché si affrontano provini a non finire, la resistenza fisica è fondamentale» dice Kristin. «Il momento più difficile è quando si viene scartati» aggiunge Vanessa, «perché in gioco ci sei tu, il tuo corpo, sei tu che balli e canti, il no è a te e a niente altro». Se è la determinazione a consentire di fare i primi passi, magari in campeggi dai nomi come «Theatre Camp», il salto avviene quando si aderisce al sindacato Actors’ Equity Association, perché da quel momento «per cercare un’audizione basta controllare il loro sito Internet». Proprio così. Adesso parlano una sovrapponendosi all’altra: «Sul sito c’è la lista delle audizioni, c’è scritto se chiedono di danzare o ballare, uno ­203

si presenta e aspetta l’esito, ti dicono subito se sei accettata o meno». Essere presa per un musical di Broadway significa guadagnare circa 1600 dollari a settimana, tanto per il periodo delle prove che per lo spettacolo vero e proprio, entrando in una compagnia «dove si sta sempre assieme, ogni giorno dalle 10 del mattino alle 6 di sera» racconta Vanessa, ammettendo che «le storie d’amore fioccano» ma con un problema alla base. «Troppe donne e pochi uomini, soprattutto perché 9 maschi su 10 sono gay». Per quelli che sono straight – cioè etero – «è un vero spasso», continua Vanessa, perché «vanno a letto ogni sera con una ragazza diversa, gli uomini che fanno altri mestieri non hanno capito nulla...». Ma il rapporto sessospettacolo si ferma qui. Kristin rigetta l’immagine-pregiudizio che bisogna essere sexy e maggiorate per avere successo: «Vero nulla, avere un seno grande, come se fosse fatto di carta, serve se quella è la parte che cercano, altrimenti è vero l’esatto contrario, ciò che conta non è l’apparenza ma se le tue fattezze sono quelle che corrispondono al copione». L’identità italiana c’è ma resta sullo sfondo. Ne parlano accennando dei sorrisi. Per Kristin è «nel mangiare e nella famiglia». Il cibo è «mangiare ogni anno i maccheroni prima del tacchino durante il pranzo del Giorno del Ringraziamento» mentre la famiglia «è parlare con i miei genitori più volte al giorno mentre i miei coetanei che non sono italiani non lo fanno mai e anzi... spesso quando parlano con i genitori non fanno che dire bugie». Per Vanessa cibo italiano invece è il rum cake come a New Orleans chiamano il babà. «Essere italiano significa conoscere onore, rispetto e lealtà» aggiunge Vanessa, sottolineando l’importanza del termine «lealtà». L’insalata è finita ma le due ballerine oramai parlano della loro italianità a ruota libera. È come se si fossero scongelate. Vanessa dice «i miei genitori parlano a voce alta quando porto i miei ragazzi a casa, e a volte mi fanno fare brutta figura» e Kristin ricorda che «ho imparato ad amare la danza quando i miei genitori ballavano balli napoletani a casa, ero molto piccola ma mi piaceva». Del contestato reality show Jersey Shore entrambe ­204

non dicono molto. «Macché pregiudizi anti-italiani – osserva Vanessa –, si tratta di cafoni del New Jersey che si coprono di gioielli e profumi solo perché sono tanto vicini a ciò che non riescono a raggiungere, Manhattan». Con il Café Luxemburg che si popola, con tavoli pieni e camerieri in affanno, c’è ancora tempo per parlare di «cosa significa essere una star». «Una star è un’attrice o un attore che diventa modello per altri, la mia star è Rachelle Rak, l’ho vista ballare anni fa, continuo a ispirarmi a lei, vorrei che un giorno fosse un’altra ragazza a ispirarsi a me» assicura Kristin. Il teatro più piccolo del mondo Al 319 di Bowery Street, nell’East Village di Manhattan, sorge una palazzina biancastra di quattro piani dove fino al 2009 ha avuto sede il più piccolo teatro dell’opera del mondo nonché l’unico in tutti gli Stati Uniti capace di sostenersi solo grazie alla vendita dei biglietti al botteghino. L’Amato Opera Theatre si trovava a metà strada fra una stazione di benzina e il club Cbgb, una delle culle della musica rock d’America. Entrare era facile perché la porticina di legno verde sotto la scritta «Amato Opera» era sempre accostata. Varcandola ci si trovava di fronte a quella che appariva come una bottega d’artigiano, disseminata di oggetti di ogni tipo, con di fronte una ripida scalinata e una piccola stanza sulla sinistra. I gradini portavano al secondo piano, dove l’impiegata Irene Kim Freydel offriva caffè caldo ai visitatori, gestiva la contabilità con un paio di volontari e faceva compagnia a una taciturna costumista. Ancora qualche gradino e si arrivava in un loft che ospitava quanto era rimasto degli allestimenti teatrali adoperati a partire dal 1948, quando a iniziare l’avventura artistica fu il maestro di canto Anthony Amato, un tenore nato nel 1920 a Minori, provincia di Salerno, dove amava tornare appena possibile «per assaggiare i limoni». Per incontrare «Tony» Amato bisognava scendere le scale, tornare alla striminzita entrata e quindi percorrere un minicorridoio ­205

irregolare che portava nel sotterraneo, ovvero la sala del teatro, che nella parte più larga misurava non più di 25 metri. Quanto bastava per far sedere 107 spettatori, non uno di più. I falegnami erano riusciti a creare nel fondo sala anche un piccolo bar, adornato con i manifesti degli spettacoli: Le nozze di Figaro, Rigoletto, Madama Butterfly, Falstaff e molti altri ancora. Capelli bianchi, mani coperte di polvere, camicia aperta, sorriso solare e occhi piccoli tanto celesti quanto veloci. L’incontro con Amato avvenne mentre scendeva da un palcoscenico largo 7 metri, dove era intento ad allestire la scenografia della Forza del destino assieme a Mr Kim, marito di Irene. «Qui gli spazi sono davvero ristretti, la scenografia è essenziale e non la possiamo modificare molto – spiegò – ma consente di valorizzare gli attori, i gesti, i dettagli, la recitazione perché quando un teatro è piccolo ciò che più gli spettatori osservano sono i tratti del viso, le singole mosse». Rispondendo all’interrogativo su come fosse stato possibile mantenere in piedi un teatro dell’opera in spazi così angusti, Amato affermava che proprio questo era il segreto della fama acquisita: «Per avere successo bisogna essere piccoli» perché ciò consente di «mantenere alta la qualità, curare ogni dettaglio, non banalizzare o generalizzare nulla». L’avventura di Amato inizia subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale. È un giovane e apprezzato maestro di canto – mentre la moglie Sally è un soprano – e da lui si recano numerosi soldati reduci dal conflitto, chiedendo di poter essere introdotti all’opera. Si tratta di una sfida che lo avvince e il Congresso gli dà una mano a realizzarla approvando il GI Bill, la legge che prevede aiuti economici per l’integrazione sociale e lavorativa dei veterani che una volta tornati in patria hanno trovato i loro precedenti posti di lavoro occupati da donne. «È incredibile pensare a quanti talenti canori c’erano allora nell’Us Army», ricordava parlando dei suoi primi studenti. Gli aiuti federali consentono ad Anthony, affiancato dalla moglie, scomparsa nel 2000, di allestire la prima produzione nella chiesa di Pompei, all’an­206

golo fra Bleecker Street e Carmine Street, con un Barbiere di Siviglia, seguito la settimana seguente dalla Cavalleria rusticana e poi ancora dai Pagliacci. I soldati-cantanti piacciono ai newyorkesi e gli spettacoli si spostano da un angolo all’altro di Manhattan, dall’auditorium Kaufman al centro Y sulla 92a Strada, fino a quando nel 1951 il teatro apre i battenti al 159 di Bleecker Street, dove lo spazio consente di ospitare 299 spettatori e le produzioni si succedono per 50 settimane l’anno, con un successo di pubblico che porta le compagnie a effettuare tour anche nelle città del New England. Nel 1959 lo stabile deve però essere chiuso e, dopo un breve periodo itinerante, l’Amato Opera Theatre torna ai suoi spettatori nel 1964 grazie all’edificio al 319 di Bowery Street. «Mi venne donato da un appassionato di opera – raccontava Amato – era un anziano simpaticissimo ebreo che abitava proprio sotto il mio studio, sentiva sempre le canzoni e un giorno venne da me proponendomi di regalarmi questa piccola sede, e io accettai». Da allora fino al 2009 il «teatro dell’opera più piccolo del mondo», come viene chiamato dai newyorkesi, ha ospitato durante ogni stagione almeno cinque opere, ognuna delle quali con spettacoli protratti per cinque settimane facendo ruotare da sei a dieci cast di attori differenti. Questo avveniva perché per i giovani attori di Manhattan solcare il minipalcoscenico – con sotto lo spazio per un massimo di sette orchestrali – significava entrare nella storia della recitazione d’America. Tony Amato non amava troppo i complimenti e si limitava a dire che la sua storia è come tante altre in America. Ma quando gli si chiedeva di parlare della recitazione canora, allora non aveva argini: «L’Italia ha la scuola del Bel Canto la cui qualità più importante è la spontaneità ma in quanto a tecnica sono meglio tenori e soprani americani. I tedeschi? Non li dirigerei mai, loro e l’opera sono due cose a parte». Con appena cinque impiegati – due fissi e tre part-time – Tony Amato è riuscito per anni a tenere i conti del bilancio in pareggio nonostante i prezzi bassi – appena ­207

23 dollari per una prima fila, quasi un quinto del costo a Broadway – perché gran parte dell’impegno per mandare avanti il teatro ha continuato a ricadere sulle sue spalle. I prezzi bassi sono stati la firma di Amato, da sempre convinto dell’importanza di insegnare, divulgare e dunque rendere accessibile l’opera ai più: nel 1964 un biglietto costava 1,80 dollari, nel 1975 3-4 dollari e sono rimasti fissi a quota 23 fino alla chiusura. L’ultimo bilancio annuale si aggirava attorno ai 380 mila dollari, fanalino di coda nella città dei teatri di Broadway, ma il fascino che lo circondava ne ha fatto uno dei simboli della città: non a caso dall’epoca di Abe Beame ogni sindaco si è fatto fotografare lungo le ripide scale che restano nella memoria dei newyorkesi innamorati dell’arte della recitazione. La regista afroitaliana Con una nonna siciliana e l’altra discendente dagli schiavi, Kym Ragusa ha le origini in mondi distanti che tenta di ricongiungere in qualche maniera con la propria passione per il cinema e per la scrittura. Nata a Manhattan nel 1966, Ragusa ha la mamma afroamericana e il padre italiano, cresce assieme alle nonne che si odiano l’un l’altra e si immerge così in un universo segnato dai reciproci pregiudizi. La scelta che fa è quella di dedicarsi a ricostruire come tutto è iniziato, nel tentativo di rimettere assieme i tasselli di un mosaico famigliare che appare impossibile da completare. Scopre così che il nonno Luigi e la moglie Gilda lasciano Messina a metà Novecento diretti in America assieme ai due figli – incluso il padre di Kym – insediandosi in una delle aree più povere e malfamate nel Bronx. Il padre tenta di uscire dalla povertà andando a studiare alla Columbia University, che è a ridosso di Harlem, ed è qui che incontra la futura moglie. Iniziano a frequentarsi, vanno a lavorare saltuariamente negli stessi posti per avere dei soldi in tasca e si innamorano. Ma Luigi e Gilda non ne vogliono sapere, si oppongono alla relazione ­208

sentimentale e impongono al figlio di interromperla. A Gilda i neri non piacciono mentre Miriam, nonna materna, non gradisce gli italiani perché li considera «immigranti poveri» e di «classe troppo bassa» per la figlia. Insomma, il problema non è il colore della pelle ma lo status sociale, il livello di ricchezza. L’opposizione delle famiglie è radicale ma non riesce a impedire la nascita di Kym, che avviene circondata dal segreto. Poi arriva la guerra in Vietnam a far andare via il padre e così la piccola cresce con la famiglia della madre. Anche perché quando il padre torna dalla guerra è troppo dipendente dall’eroina per potersi occupare di lei. Il risultato è che l’incontro di Kym con i nonni paterni avviene quando oramai lei è una afroamericana adolescente, molto consapevole di cosa significhi il colore della sua pelle. E per i nonni si tratta di una sorpresa, in quanto il figlio non gli aveva mai confessato di aver avuto una figlia dalla giovane nera che frequentava. Ironia della sorte vuole che Kym Ragusa si trovi a dover andare a vivere proprio con i nonni siciliani nella loro casa di Maplewood in New Jersey e ciò la porta a frequentare scuole di bianchi, immergendosi in una cultura siciliana della quale ignorava praticamente tutto. A Maplewood Kym si trova spesso in situazioni laceranti, come quando la nonna le confessa di temere il trasloco dei vicini bianchi perché non sa se saranno sostituiti da una famiglia afroamericana. Il risultato è un conflitto di identità che la porta alla scelta di dedicarsi agli studi figurativi dopo il liceo, per dedicarsi al tema della convivenza interrazziale. È questa strada che la porta a realizzare il documentario Fuori-Outside e a scrivere The Skin Between Us, un libro autobiografico, tradotto in Italia con il titolo La pelle che ci separa, nel quale racconta la difficoltà di definire la sua identità scoprendo di avere radici così differenti ma altrettanto proprie. E nel 1999 decide di andare a fondo del problema e parte per Messina, da dove ricostruisce la genesi del «viaggio bianco» che ha portato i propri nonni paterni a sbarcare nel Bronx e avere una nipote afroamericana, proprio come i nonni materni hanno ­209

alle spalle il «viaggio nero» sulle barche che trasportavano gli schiavi dall’Africa Occidentale. Oggi Kym Ragusa vive a Brooklyn e assicura di sentirsi al tempo stesso afroamericana e italiana «anche se i due termini sembrano proprio non coincidere». Carnegie Hall, alla ricerca di nuove voci Al 161 West della 56a Strada c’è la Stage Entrance di Carnegie Hall, il tempio della musica classica di New York sulla Settima Avenue, costruito a fine Ottocento come molti simili teatri in Europa e divenuto negli anni un’autentica fabbrica della musica. Ogni anno ospita circa 800 spettacoli nelle sue tre sale grazie al lavoro di una task force di 200 dipendenti, con un bilancio di quasi 90 milioni di dollari sostenuto in gran parte dai fondi pubblici garantiti della Città di New York, che ne è proprietaria. Passato il piccolo portone color marrone si arriva in un corridoio alle cui pareti ci sono gli spartiti firmati da giganti come Ludwig van Beethoven, si salgono pochi gradini e ci si trova nel maestoso e al tempo stesso raccolto Isaac Stern Auditorium: 2804 posti che, visti dal palcoscenico, assomigliano a un grande salotto con l’acustica perfetta. È da qui che dirige Alberto Veronesi, direttore musicale dell’Opera Orchestra di New York, milanese di nascita, a cui spetta pianificare gli spettacoli, scegliere il personale e gli artisti, condurre le prove e, come lui stesso dice, «vendere i biglietti» perché da queste parti «il successo si misura con gli incassi». L’orchestra di Veronesi, una delle quattro di New York, conta 70 elementi e 80 coristi, e la sua scommessa è dirigerla riuscendo a moltiplicare gli incassi rinnovando la tradizione che la distingue: «Trovare nuove voci». «Se la lirica è in crisi – dice seduto nella platea della più raccolta Zenken Hall, dove si esibiscono spesso i pianisti – è perché negli ultimi anni si è dato più spazio ai registi che alle voci, all’allestimento che alla musica». Per invertire questa tendenza l’Orchestra dell’Opera di New York si presenta come il luogo più adatto perché ­210

Eve Queler, che la fondò nel 1971 e che ha diretto l’orchestra fino all’arrivo di Veronesi, ha fatto debuttare giovani artiste poi divenute stelle come Renée Fleming, Vivica Genaux e Deborah Voigt. Da qui l’impegno del maestro italiano nelle selezioni, le master class e i concerti di prova in una costante «ricerca delle voci». Ma come si fa a trovare una voce? Ecco come risponde: «Alla base di chi canta deve esserci passione e musicalità ma poi io cerco sempre quattro qualità, gli acuti, l’intonazione e la capacità di fare pianissimo e fortissimo perché solo in questa maniera si può raggiungere la massima espressività di colori». Insomma, «per fare la musica a Carnegie Hall servono grandi star come Placido Domingo ma anche nuove voci». Riguardo all’opera, Veronesi crede nel «realismo musicale» italiano, che si richiama al verismo di fine Ottocento e porta sul palcoscenico «fatti reali» come è riuscito a Nicola Sani con Il tempo sospeso del volo, sull’omicidio del giudice Falcone, che intende portare a Carnegie Hall. Ciò che distingue questo tempio della musica, nelle cui fondamenta si possono ancora osservare le rocce originali di Manhattan, è che l’opera si presenta sotto forma di concerto, concentrandosi sulle voci. Oltre l’80% del tempo di Veronesi è dedicato alla conduzione ed è quando arriviamo nella Weill Recital Hall, una sala mobile che può assumere più dimensioni dove avvengono gli spettacoli di jazz o per ragazzi, che parla della «ricerca costante del mistero della musica» che lo accompagna nel suo percorso fatto di «colore e suggestione» in una New York «che dopo Berlino è l’altra capitale della musica del mondo». L’architetto del «New York Times» Camicia bianca, maglione grigio e tono di voce bassa, Renzo Piano descrive il suo gioiello architettonico entrando e uscendo dalla torre trasparente all’angolo fra 8ª Avenue e 41ª Strada, dove ha costruito la nuova sede del «New York Times». «Ciò che distingue questo edificio è la trasparenza» spiega ­211

parlando dall’esterno della lobby di entrata, circondata da pareti di vetro che consentono di gettare lo sguardo in ogni direzione. Il palazzo di 52 piani sorge in uno degli angoli più trafficati di Manhattan, di fronte alla stazione di Port Authority che vede transitare ogni giorno milioni di persone e vetture. Grattacielo di vetro, metalli riciclati e trovate hi-tech che si integrano con quanto avviene attorno. «Da dentro si vede fuori e da fuori si vede dentro» riassume l’architetto genovese, classe 1937, parigino d’adozione e newyorkese di diritto, sommando il nuovo «New York Times» alla Morgan Library, il Whitney Museum e il campus della Columbia University progettato per Harlem. L’integrazione fra «il dentro e il fuori» diventa spettacolare salendo al quattordicesimo piano, dove c’è la caffetteria, o al terzo dove si trova il cuore della redazione. I giornalisti scrivono e mangiano praticamente dentro la città. I redattori dalle scrivanie vedono le scritte pubblicitarie scrostate risalenti agli anni Sessanta che invitano ad andare in vacanza alle Bahamas o alle Bermuda e, se gettano lo sguardo verso il basso, si trovano di fronte a un tappeto di taxi, autobus e quant’altro popola le strade della metropoli. Dentro l’edificio, che Piano ha progettato in 24 mesi e realizzato in 37 passando attraverso oltre 8000 disegni, non ci sono muri né pareti che bloccano la vista. L’idea della trasparenza, spina dorsale del giornalismo anglosassone, si rispecchia nell’entrata dove chi arriva viene accolto dal tic tac di vecchie macchine da scrivere che fuoriesce da 560 piccoli schermi digitali sui quali è possibile leggere in diretta quanto i redattori stanno scrivendo sui computer. Basta avvicinarsi per scorgere firme più o meno famose come anche passaggi su Ahmadinejad, Hillary Clinton o Michael Jackson, anche se il computer che controlla il flusso di notizie fa ben attenzione a tutelare gli scoop dell’indomani. Attaccato alla lobby, nel cuore del grattacielo, Piano ha scelto di posizionare un giardino con otto betulle del New Jersey, gli unici alberi di questo tipo presenti a Manhattan. Tutto intorno un giardino giapponese, con muschio verde, trasforma le betulle in uno ­212

spazio verde che si riflette in ogni angolo della newsroom del giornale diretto da Bill Keller, che si articola su tre piani. Sul lato opposto della lobby c’è il Times Center, un complesso di sale con grande auditorium destinato a diventare un’agorà del pensiero e delle arti in cui ospitare eventi di cultura per fare della «Gray Lady» – la Signora in grigio, com’è soprannominato il giornale – un luogo dove si vede e ascolta ciò che poi si leggerà seduti in poltrona. Se la vecchia sede sulla 43ª Strada era uno dei più tradizionali edifici di pietra risalenti a prima dell’ultima guerra, quella nuova somma molteplici innovazioni: dalla «pelle vibrante», costituita da 360 mila profili di ceramica che filtrano la luce solare, all’uso del 75% di acciaio riciclato «pari a qualche centinaio di Bentley», dal marmorino veneziano arancione acceso delle pareti d’entrata trattato con antiche tecniche artigianali ai più raffinati sistemi di sicurezza garantiti dalla trasparenza. Lo studio della protezione dell’edificio è stato uno dei momenti che più hanno definito la genesi della nuova sede. Nel 2000 il progetto di Piano aveva prevalso sui concorrenti Norman Foster e Frank Gehry, ma dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 si affacciò la possibilità di ridiscuterlo se non addirittura azzerarlo. In quei giorni l’architetto era a New York, il 14 settembre si trovò «nella cena di compleanno più triste che abbia mai fatto» con Arthur Sulzberger e Michael Golden, i vertici della proprietà, e insieme presero la decisione di andare avanti, senza modifiche, con una scelta che sommava architettura e filosofia. «La maggior sicurezza viene dalla trasparenza perché vedere consente di osservare, capire cosa avviene, prevenire – spiega Piano –, non a caso oggi le banche i caveau non li mettono sottoterra». Alzare barriere e nascondersi è qualcosa che all’architetto non piace per ragioni che svelano una visione del mondo: «Sono per il dialogo, la tolleranza e la comprensione, perché solo così si può sconfiggere il terrorismo. Servono soluzioni politiche, non militari, altrimenti l’opacità ci porta a finire nei bunker». Nasce così la torre trasparente del «New York Times», disseminata di scale ­213

rosso vivace – «il colore che stimola l’immaginazione» – nella quale la redazione si sviluppa in un unico ambiente su tre piani. Piano definisce questo spazio la bakery (panificio) delle notizie dove ogni redattore ha i propri computer e scrivania, ma è immerso in un vasto open space che ruota attorno al giardino di betulle e ha come limite il cielo. Spostarsi verso altri piani usando l’ascensore significa passare attraverso corridoi bianchi sulle cui pareti piccoli schermi digitali mostrano in rapida successione foto scelte a caso dall’archivio del quotidiano. «Il grattacielo di Torino è figlio di questa torre del ‘New York Times’, perché entrambi si integrano nel tessuto cittadino» termina Piano, secondo cui le recenti polemiche italiane nascono da una «diffidenza verso il futuro» che lui comprende ma chiede anche di superare: «Non si tratta di un mostro, fa parte della città, dai solai fino all’auditorium, e non bisogna averne paura». Il designer dei pezzi unici Al quinto piano dell’isolato su Broadway, fra Spring e Prince Street, c’è lo studio-laboratorio rettangolare disseminato di creazioni colorate dove il designer e architetto Gaetano Pesce immagina e lavora. Nato a La Spezia nel 1939 in una famiglia con le radici a Este, Padova, Venezia e Firenze, è arrivato a New York nel 1981, dopo aver vissuto a Helsinki, Londra e Parigi. Viaggia in continuazione fra Europa, Asia e Americhe e se ha scelto Manhattan per vivere e Soho per creare è «perché New York è una città in costante movimento, dove la gente lavora e fa sacrifici in continuazione, inseguendo sogni e progetti, mentre altrove, da Londra a Venezia, la gente è seduta, appagata, non lavora il sabato e la domenica, ricevendo spesso i clienti quasi con fastidio». L’«eterno movimento» è ciò che invece distingue New York «che risponde al modello originale di città ovvero un posto dove la gente viene per avere dei servizi, sempre, a qualsiasi ora del giorno e della notte». Da qui il fatto che è il luogo migliore per pensare e rea­lizzare ­214

i «lavori innovativi» a cui si è dedicato da quando nel 1972 creò per Cassina la Sedia Golgotha in fiberglass e resina oggi esposta al MoMA, Museum of Modern Art. A Osaka il suo Organic Building nel 1993 inaugurò le pareti ricoperte da vegetazione verticale mentre la serie di poltrone Up del 1969 è il fiore all’occhiello, immortalato da una foto sul muro dell’ufficio che vi ritrae Salvador Dalí. «I miei clienti sono dei visionari – dice, seduto su una poltrona con struttura rigida e schienale morbido – e il mio credo è nei pezzi unici, perché lo standard è roba vecchia». È convinto che i «materiali hanno umore» e nel suo laboratorio li studia e modella affinché sia in grado di sfruttarli per creare «non oggetti in serie ma tutti pezzi differenti». A renderlo possibile è l’«alta tecnologia» che consente di «esaltare la creatività italiana» offrendo alle aziende per cui lavora la possibilità di «consegnare a ogni singolo cliente un oggetto unico al mondo». È in quest’idea di «unicità», possibile grazie al modellamento di materiali e sostanze, che Pesce identifica la «risposta alla sfida che viene dalla Cina» per il semplice fatto che «loro imitano gli oggetti, producono in grandi numeri e standardizzano la produzione, mentre noi possiamo rispondere lì dove loro non riescono, creando prodotti sempre unici». Pesce segue un percorso creativo tutto suo, fondato sulla volontà di «seguire e comprendere i processi in corso». Eccone un esempio: «Il 75% del Pianeta oggi non è istruito, si tratta di persone che lavorano in maniera imperfetta e con livelli di istruzione medio-bassi, da questo ho tratto l’idea della possibilità di creare prodotti ‘malfatti’, come ad esempio i vasi con difetti che diventano qualità». Da qui la possibilità di far lavorare alla manodopera non qualificata dei «prodotti imperfetti», tutti uno diverso dall’altro, assai meno costosi dei «prodotti perfetti» sul mercato ma in grado di diventare comunque oggetti di valore. «Il futuro è nella diversità» aggiunge, facendo l’esempio dei «jeans con i buchi, tutti uno diverso dall’altro, che costano 1500 dollari al paio mentre quelli normali si possono acquistare per appena 50 dollari». Dietro questo legame fra ­215

design e creatività c’è un’idea di «democrazia fondata sulla diversità e dunque opposta ai modelli estetici che c’erano in Urss dove tutto era sempre uguale, forzatamente identico». È «lo standard a essere totalitario» così come «la tv è contro la diversità perché obbliga tutti a vedere lo stesso programma a differenza del computer che invece è interattivo». Da qui l’idea di apprendimento che ne consegue. Pesce ha insegnato architettura a Parigi, Strasburgo, San Paolo, Hong Kong, Canton e New York traendone l’idea che «le scuole devono spingere gli studenti a pensare con la loro testa, a essere curiosi e creativi nei laboratori di ricerca, andando incontro a sperimentazioni capaci di generare oggetti nuovi». Come fu il centro Pompidou a Parigi, «che all’inizio venne considerato uno scempio ma ora nessuno riesce a farne a meno». Ma qual è la definizione di «oggetto nuovo» da cui tutto si origina? «Un oggetto che sia ottimista, allegro, sensuale, colorato – risponde – e dunque in grado di farci vivere meglio». Guarda con scetticismo alle mode del momento, a cominciare dall’architettura sostenibile o ecocompatibile, perché dice di sentirsi «circondato dal conservatorismo di chi pensa e fa sempre le stesse cose». L’esempio che indica è quello dei grattacieli di New York «tutti uguali, diritti, tagliati, totalitari» ai quali mancano le «forme organiche» che a suo avviso potrebbero «rigenerare la città, imprimendole nuova vitalità». In mente ha in particolare il progetto della ricostruzione del World Trade Center. Mostra uno a uno i disegni del progetto che aveva proposto alla città e nel quale crede con forza sebbene sia stato scartato. Si basa sulla ricostruzione delle Torri Gemelle abbattute dai kamikaze di Al Qaeda ma con una significativa aggiunta: un cuore gigante alto 27 piani che le unisce ospitando musei, centri di cultura e centri di riflessione con vista panoramica su Manhattan. L’immagine di un grande cuore rosso fuoco appollaiato nel cielo di New York richiama il simbolo dell’«I love NYC» stampato sulle magliette più vendute di Manhattan, ma per Gaetano Pesce ciò che più conta è la ­216

rivoluzione architettonica rappresentata dall’affermazione di «forme riconoscibili» genesi delle metropoli del XXI secolo. Il pensiero di Pesce va anche oltre architettura e urbanistica perché la visione dell’importanza dei «pezzi unici» lo porta a elaborare la necessità di «rigenerare il sistema democratico» andando incontro alla necessità di «valorizzare i singoli cittadini» mettendoli in grado di avere voce in capitolo sulle attività dei leader politici, superando la fase dell’«espressione politica di massa» che ha segnato il Novecento. Declinando tale approccio Pesce parte con l’immaginare un «governo decentrato» i cui ministeri siano dislocati «non tutti nella capitale ma nelle città più importanti» come potrebbe avvenire in Italia «portando a Milano il ministero dell’Economia o a Torino quello del Lavoro» secondo uno schema che immaginò per la prima volta nel 1983 esponendolo a Gianni Agnelli, che se ne appassionò al punto da farlo poi elaborare come studio alla Fondazione Agnelli. «Decentrare il potere politico significa in ultima istanza ridare potere decisionale ai cittadini-elettori – aggiunge, parlando seduto al ristorante veneto Antonucci, nell’Upper East Side – e dunque perché non ipotizzare che ognuno di noi possa, diciamo una volta alla settimana, votare per email sui rappresentanti politici che ha eletto per rinnovargli o negargli la fiducia data?». In questa maniera il legame fra eletto ed elettore verrebbe costantemente rinnovato «consentendo alle nuove tecnologie di aumentare la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica» e dunque rimediando «alla realtà di sistemi politici sempre meno popolari perché gestiti da gruppi di eletti che si trasformano in casta potendo gestire il potere per periodi di quattro o cinque anni senza dover rendere conto a nessuno di cosa fanno». È lo stesso approccio che lo porta a scrivere al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, per suggerirgli di modificare lo spazio da cui pronuncia il messaggio di fine anno «non più con alle spalle un ambiente che parla di prestigio e stili passati, remoti e formali, ma da un luogo vivo e rappresentativo dell’Italia che guarda al futuro» come ­217

potrebbero essere «una fabbrica della Brianza, una bottega dove si perpetua la creatività italiana, un laboratorio Made in Italy, un atelier della moda o una fabbrica a Modena dove nascono le prestigiose e mitiche automobili italiane». La sovrapposizione fra politica e designer diventa palese nel progetto Sessantuna, ovvero i 61 tavoli – un numero che si richiama al 1861, l’anno dell’unificazione – creati da Pesce per Cassina in maniera da essere altrettanti tasselli della mappa dello Stivale, uno diverso dall’altro e con specifiche caratteristiche geografiche. Per sottolineare che è l’unicità delle singole differenze che può oggi rigenerare gli Stati nazionali. Reinventare Picasso Al quinto e sesto piano del 980 di Madison Avenue, proprio davanti all’Hotel Carlyle, Larry Gagosian ha il quartier generale della più grande e ricca galleria d’arte contemporanea del mondo. Il suo braccio destro dal 2005 è una torinese elegante, sexy e con molta grinta, Valentina Castellani, classe 1966, che alle pareti del suo ufficio tiene in bella mostra due disegni di Andy Warhol raffiguranti un’elegante scarpa da donna del 1956 e il simbolo della falce e martello, risalente al 1976, quando, dopo il viaggio di Nixon in Cina, l’autore si mise a disegnare ritratti di Mao. Castellani assicura di «aver sempre avuto la passione dell’arte», anche se ci è arrivata per caso: si laurea in archeologia greca a Torino, trova solo lavori precari e nel 1997 lascia l’Italia per Londra con una «scelta d’amore» – segue l’uomo che sposerà quattro anni dopo – che la catapulta in una delle capitali dell’arte contemporanea, dove Sotheby’s la prende per uno stage e poi la assume al Dipartimento di arte contemporanea. Sotheby’s e Christie’s sono le maggiori case d’aste, ognuna ha sedi principali a Londra e New York, e la competizione consiste nel mettere assieme aste di opere d’arte a cui corrispondono dei cataloghi. I settori che tirano di più, arte moderna e contemporanea, hanno due aste l’anno a New York e due a Londra e il compito degli «esperti» è cercare le ­218

opere per realizzarle, corteggiando i collezionisti per convincerli a mettere in vendita ciò che hanno. Gagosian fa concorrenza a Sotheby’s e Christie’s perché sull’arte contemporanea non ha rivali potendo sommare tre gallerie a New York – quella a Madison Avenue più due a Chelsea –, due a Londra, una a Los Angeles, Roma, Parigi, Atene e Hong Kong, oltre a un piccolo ufficio a Ginevra. Un impero sostenuto da un bilancio top secret stimato in cifre da dieci zeri. È in questa cornice di concorrenza che Gagosian, nel 2002, invita a pranzo Valentina Castellani proponendole un’offerta economica «irrifiutabile» al fine di strapparla a Sotheby’s. In realtà la casa d’aste rilancia, ma «seguendo l’istinto» Valentina cambia casa. Da quel momento è una dei sei directors della sede di New York, una veste che le consente di operare su entrambi i mercati dell’arte contemporanea: quello primario, composto da artisti che si affidano alla galleria per essere sul mercato, e quello secondario, fatto di delicate trattative con i collezionisti che possiedono opere d’arte di grande valore. Per avere un’idea di cosa si tratta bisogna considerare che nel portafoglio «primario» di Gagosian ci sono artisti come Richard Serra e Jeff Koons mentre in quello «secondario» spiccano gli accordi siglati con le famiglie di Piero Manzoni e Pablo Picasso per realizzare mostre ad hoc. Di queste si è occupata Castellani, diventando l’interfaccia dei discendenti dei grandi artisti. I risultati sono stati la prima retrospettiva di Manzoni in America nel 2009 che aggiudicandosi il premio del Guggenheim come migliore mostra in esposizione ha messo in evidenza il cambiamento di equilibri in atto che vede le gallerie, dotate di maggiori risorse, potersi permettere iniziative più costose – per assicurazioni e trasporti da pagare – rispetto ai musei. E poi le due esposizioni della produzione di Picasso negli ultimi anni di vita – Mosqueteros a New York, gli Anni mediterranei a Londra – che sono riuscite a rivoluzionare il modo con cui critica e collezionisti guardano a questo periodo. «Lavoro con la famiglia Picasso grazie al ­219

fatto che abbiamo rapporti con gli eredi, ci prestano le opere o ce le fanno vendere» racconta Castellani, descrivendo il labirinto dei parenti del pittore spagnolo che ha avuto quattro figli da tre donne diverse. Dalla prima moglie Ol’ga Chochlova ebbe un figlio che morì nel 1975, lasciando tutto alla figlia Marina e al nipote Bernard. Marie-Thérèse Walter, la ragazza di diciassette anni con cui ebbe una storia molto romantica quando lui, ancora sposato, ne aveva quarantacinque, gli diede una figlia che si chiama Maya. E poi c’è Françoise Gilot, dalla quale ha avuto Claude e Paloma. Ognuno di costoro ha ereditato numerose opere, visto che Picasso morì a novantadue anni dopo aver dipinto fino all’ultimo giorno di vita, lasciando circa 2000 quadri, anche se una parte servirono per pagare le tasse di successione e creare il Museo Picasso di Parigi. «Ogni volta che tratto con loro emerge il fatto che sono persone sensibili e riservate, molto particolari per avere ereditato un nome enorme, ma non agiscono come famiglia perché sono figli di madri diverse, sebbene tutti accomunati dal desiderio di valorizzare l’opera del loro avo». Le diverse collezioni comunque si assomigliano e bilanciano perché sono composte da lotti di quadri che, al momento dell’apertura del testamento, vennero estratti a sorte. «Lavorare con loro significa sempre tentare di reinventare il messaggio artistico di Picasso» e ciò avviene con delle riunioni di brainstorming nelle quali Castellani può giovarsi di un consigliere di lusso, quel John Richardson – anni ottantasei, gay dichiarato nonché molto legato a personaggi come Mick Jagger e il duca di Windsor – che conobbe Picasso, ne diventò amico e sta ora terminando di scriverne una monumentale biografia. Fu così che nel 2009 nacque l’idea di una mostra sui Mosqueteros per rivalutare gli ultimi vent’anni di vita nei quali Picasso disegnava moschettieri richiamandosi a Goya, Rembrandt o altri artisti, come anche la mostra londinese sugli Anni mediterranei per descrivere un artista che, pur isolato nel Sud della Francia, non ignorava negli anni Sessanta quanto stesse avvenendo nel mondo – dall’arte concettuale alla pop art e ­220

alla minimal art – continuando a credere soprattutto nella pittura. «In questa maniera abbiamo ottenuto un duplice risultato, trovare un interessante taglio critico all’opera e al tempo stesso rivalutare sul mercato alcune opere delle quali si pensava invece valessero assai meno» afferma Castellani, la cui competenza su Picasso è dimostrata dalle altre mostre in arrivo. Nel caso di Piero Manzoni il metodo applicato non cambia: incontri con la famiglia, intesa con l’esperto più competente sulla piazza – Germano Celant – e reinterpretazione dell’opera per sorprendere le critiche e attirare gli acquirenti. Dentro Gagosian comunque di burocrazia ce n’è poca, i sei direttori lavorano in team gestendo ognuno alcuni artisti e Valentina Castellani nel suo carnet di «mercato primario» ha due italiani di casa a New York, Francesco Vezzoli, «che vuole trasformare la nostra galleria sulla 21a Strada in una chiesa», e l’altoatesino Rudolf Stingel, del quale una mostra è stata curata da Francesco Bonami nella primavera del 2011. «In questi rapporti la difficoltà viene dal fatto che l’artista mette tutto se stesso nel lavoro, sono persone sensibili, gestire un artista significa indirizzarlo sulle scelte e discutere i progetti con lui, dal punto di visto critico e del mercato» riassume Castellani, specificando comunque che «sono difficoltà piacevoli grazie alle quali si creano rapporti interessanti, costruttivi». Larry Gagosian è un autodidatta, ha iniziato vendendo poster sulla spiaggia di Los Angeles ed è diventato il più importante gallerista del mondo, che si sposta in continuazione in aereo privato o elicottero. Esserne il braccio destro significa spesso essere precipitati in vortici di responsabilità a molti zeri. In un’occasione ha chiesto a Castellani di andare a vedere un Car Crash di Andy Warhol in Italia dandole «carta bianca» ma chiedendole di «vedere in fretta il risultato». Il Car Crash di Warhol, in una collezione, costava decine di milioni di dollari. Castellani era lì e Gagosian stava al telefono a migliaia di chilometri di distanza. «Mettiti davanti al quadro ­221

e decidi se vale o meno» lui le disse a bruciapelo. L’acquisto vi fu e si rivelò un ottimo investimento ma di quanto avvenne allora Castellani ricorda soprattutto la sensazione che ebbe dentro: «Gli accordi da decine di milioni di dollari ti danno una scarica di adrenalina notevole». Il maggior grattacapo in questo momento viene dalla tendenza del mercato dell’arte contemporanea. Fino al 2008 aveva raggiunto livelli di autentica follia, con opere vendute prima ancora di averle in galleria, come avvenne a una scultura di Koons che un collezionista acquistò per 4 milioni di dollari e tre mesi dopo rivendette a 8 milioni, netti, liberandosene senza averla in verità mai posseduta. Le novità positive arrivano invece dai nuovi compratori che sono russi, cinesi e qualche volta anche del mondo arabo. Possiedono immense quantità di denaro e acquistano arte perché puntano a essere accettati nei club di ricchi «entrando a far parte di un mondo che vuole essere molto glamour». La crisi, dopo il crollo di Lehman Brothers nel settembre 2008, ha penalizzato soprattutto gli artisti giovani, che avevano avuto prima prezzi inflazionati a causa del mercato, mentre ora i collezionisti rimasti comprano con cautela, cercano nomi noti inossidabili come Warhol e Koons. Stando con i piedi ben piantati in terra ed evitando rischi. In tale cornice l’arte italiana «è sottovalutata» assicura Valentina. Se nel dopoguerra Piero Manzoni, Lucio Fontana e Alberto Burri si impongono come grandi artisti e per i prezzi alti delle loro opere, il loro livello non raggiunge mai quello degli americani, sostenuto da un mercato dove i collezionisti sono più ricchi e acquistano soprattutto opere di connazionali. D’altra parte il MoMA, fondato nel 1929, acquista da subito gli espressionisti astratti, artisti quali Pollock e De Kooning i cui prezzi sono ora stellari. «A indebolire l’arte contemporanea in Italia è la debolezza economica del Paese» spiega Castellani, pur sottolineando che «l’arte italiana è molto apprezzata nel mondo». «Certo – aggiunge – gli artisti contemporanei devono uscire dall’Italia per essere apprezzati ­222

e valutati, non è un caso che Vezzoli e Stigler vivano o passino molto tempo a New York, come anche Maurizio Cattelan, perché questa è la città dove l’esposizione resta maggiore». Ciò non toglie che in Italia ci siano «artisti che possono essere molto bravi come Roberto Cuoghi, Diego Perrone e Paola Pivi, che adesso vive in Alaska, ma il fatto di essere italiani non li ha aiutati». In Italia vi sono invece collezioni belle e storiche, anche grazie all’attività del gallerista torinese Gian Enzo Sperone, che negli anni Sessanta per primo ha portato la pop art in casa nostra. Miuccia Prada aprirà nel 2013 un museo e ha già una propria fondazione e Patrizia Sandretto da parecchi anni ha aperto a Torino uno dei primi musei dedicati esclusivamente all’arte contemporanea, con importanti opere di Damien Hirst e Cattelan. A dimostrazione che in generale gli italiani hanno sempre collezionato e con gusto. E continuano a farlo. Una matita per lo skyline Remsen Street è una stradina di Brooklyn Heights che porta alla passeggiata con vista sulla baia dell’Hudson. Da sinistra a destra l’occhio corre attraverso il ponte di Verrazzano, Governors Island, Staten Island e la Statua della Libertà, con sullo sfondo le gru di Bayonne e quelle di Port Elizabeth, fino ai grattacieli di Downtown Manhattan, che appaiono quasi a portata di mano oltre le acque dell’East River. Matteo Pericoli li guarda uno a uno, li riconosce e ne parla come se fossero suoi parenti stretti. Poi in mezzo al grappolo ne identifica tre «nuovi». «Sono quello giallo-nero, la torre di Santiago Calatrava davanti al ponte di Brooklyn e in lontananza la vetta del Building 7, il primo ricostruito a Ground Zero». Se conosce a memoria lo skyline di Manhattan è perché lo ha disegnato per intero, fra il 1998 e il 2001, quando pubblicò con Random House Manhattan Unfurled (in italiano tradotto da Leonardo Internazionale con il titolo Manhattan svelata), ovvero due disegni di oltre 11 metri ciascuno di minuzioso ­223

ritratto dell’isola vista da fuori, dai fiumi che la circondano, uno del lato ovest, l’altro del lato est. Incluse le Torri Gemelle, disegnate quando erano ancora in piedi. «Era impossibile cancellarle, sia dal disegno che dal libro che era ormai finito e già stampato, e pronto a essere pubblicato nel giro di qualche settimana», ricorda. Prima di lui nessuno aveva descritto così Manhattan e per riuscirci ha circumnavigato l’isola più volte con i battelli, osservandola da ogni possibile angolo, girando in motocicletta e scattando centinaia di foto per costruire una memoria di immagini diverse degli stessi edifici. È grazie a queste foto che poi usava la matita per tracciare un ritratto della metropoli che definisce «democratico», perché «include tutte le costruzioni, non solo quelle più note e popolari, e non solo le più ‘belle’». A dieci anni dal debutto in libreria Manhattan Unfurled resta uno dei libri su New York più venduti in città e sugli scaffali di Barnes&Noble e Borders è sempre a fianco di Manhattan Within – Il cuore di Manhattan nell’edizione italiana uscita presso Bompiani –, che descrive la città dal di dentro grazie a un disegno lungo 10 metri di tutti gli edifici che danno sul Central Park così come appaiono a chi si trova dentro il parco. «Farsi indietro è la condizione ottimale per vedere» spiega Matteo – vissuto a New York per tredici anni, oggi fa il pendolare con Torino – «perché Manhattan è molto egocentrica, ti avvolge, ti acceca, ti travolge con un amore passionale che obbliga ad allontanarsi se la si vuole descrivere e capire meglio». Nasce così la scelta di salire a bordo della Circle Line potendola guardare da lontano «nel silenzio dell’acqua del fiume», arrivando alla conclusione che «non c’è un punto di vista ottimale». Il metodo di lavoro che ne scaturisce è di «scattare moltissime foto e procedere a piccoli passi nel disegno» considerando «solo un piccolo tratto di skyline per volta». È la genesi di quella che definisce una «ricerca ontologica di ciò che c’è» al fine di «cogliere il tutto di una città in termini di percezione dei luoghi». La mole di foto, stampate o studiate sul computer, nasce dalla necessità di «osservare lo ­224

stesso edificio in più dimensioni e da più punti di vista perché oltre alle tre tradizionali ce n’è una quarta che conta, il tempo». Sotto questo aspetto per Pericoli la conoscenza di una creazione architettonica assomiglia a quella di un libro «perché solo se si passa del tempo a sfogliarne e leggerne tutte le pagine, una a una, si riesce davvero a capire i significati che comprende. Così è l’architettura, che va vissuta dall’inizio alla fine». È un approccio al disegno basato sulla convinzione che «ogni tratto di matita avviene per un motivo e ha un suo significato intrinseco» che va oltre «l’aspetto della visualità, ma è legato al pensiero». Il paragone fra disegno e scrittura, l’idea che ogni linea celi una particolare interpretazione e un suo pensiero, fa sì che Pericoli, milanese classe 1968, sia un artista che punta a descrivere New York «nella sua totalità, non a pezzettini, senza fare preferenze, basandosi sulle percezioni che noi tutti abbiamo di ciò che ci circonda». Quando il progetto Manhattan Unfurled inizia, nel 1998, Matteo è arrivato a New York da tre anni, è la sua passione ma non immagina di trasformarla in libro. Ci lavora sopra senza pensare a cosa diventerà. «Non sapevo neanche se sarei mai riuscito a finire lo skyline del lato ovest perché arrivato davanti alla 72a Strada mi sono trovato di fronte a grattacieli e prospettive che non sapevo come disegnare». La svolta arriva grazie alla motocicletta, «allora rara in città come fosse un cavallo», perché gli consente di allontanarsi ancor più, inoltrandosi nel New Jersey, e di raccogliere più prospettive. «Quando arrivai alla fine pensai che altri avessero fatto qualcosa di simile in passato, ma in realtà così non era e fu quell’assenza di precedenti e opere simili a dare forza al mio lavoro». Pericoli manda più lettere, lo propone a più editori, e l’unico a rispondere – dopo sei mesi – è Paul Goldberger del «New Yorker», che lo invita a fargli visita portando con sé lo sterminato disegno. «Quella fu la prima volta che lo srotolai tutto, proprio come si può fare con una Torà, e Goldberger ne fu colpito, e si mise a chiamare tutti gli altri negli uffici del ‘New Yorker’ a venire a vedere, come fosse ­225

un mercato, e ognuno cercava l’angolo che più gli era famigliare». È questa la svolta che gli schiude le porte dell’editoria americana portandolo a esplorare gli altri confini della città, quelli che si vedono da Central Park come anche dalle sue finestre disegnate nel libro The City Out My Window. La molla per quest’ultimo balzo risale al 2004, quando Matteo e la moglie Holly, originaria del New Jersey, lasciano la loro casa sulla 102a Strada nell’Upper West Side per traslocare nel Queens. Prima di andare via lui decide di «portarsi via la veduta che avevo dalla nostra finestra». «Feci il disegno per portarmi via la vista che corrispondeva alla percezione della mia città e questo attaccamento morboso alla mia vista mi ha fatto accorgere che in realtà molti altri avevano lo stesso rapporto con le rispettive finestre». Da qui il libro con i disegni di 63 viste su New York, tentando ancora una volta di «vedere dall’interno» una metropoli a cui Pericoli ammette di «dovere almeno il 75% di me». Soprattutto per avergli instillato l’«indipendenza di pensiero quando ci si pone di fronte a ogni tipo di problema. Chiunque arrivi in questa città è obbligato a rimettere in discussione le proprie conoscenze perché ci sono sempre altre 50 o 5000 persone che fanno, pensano e dicono ciò che fai, pensi e dici tu». Lo «street dog» di Solita È nato nell’Upper West Side, ama l’Alphabet City, la sua casa è a Solita e gli piace il vento forte che soffia dall’Hudson perché gli ricorda che Manhattan è un posto di mare «dove uno si può alzare al mattino e fare vela o andare in barca». Lapo Elkann è un newyorkese trapiantato in Italia ma appena può torna in una città che descrive così: «È composta di villaggi, ogni area è un suo mondo, non è divisa fra Uptown e Downtown come molti dicono perché ci sono mille posti diversi». Se ha scelto di affittare casa a Solita – il quartiere a Sud di Little Italy – è «perché è una zona cruda, non leccata come il Meatpacking District troppo artefatto, oramai ripulito» e ­226

se è innamorato del Lower East Side è a causa di Alphabet City «che una volta era una delle aree più pericolose e adesso è disseminata di ristoranti vegetariani e giapponesi, tai chi, piccole panetterie, fotografi alternativi, locali underground, ovvero l’America meno convenzionale, quella vera». Nella geografia di Manhattan di Lapo c’è di tutto. Il ristorante Silvano e il Bar Pitti, quasi porta a porta sulla Sesta Avenue, proprietà di due toscani in costante concorrenza – anche sportiva – fra loro, come i rispettivi avventori perché «da Silvano si mangia coach ma meglio che da Pitti, anche se lì il cibo è di business e sei sempre sicuro di incontrare belle ragazze». Il MoMA, dove Paola Antonelli, la curatrice del design, ha fatto entrare la «@». L’ufficio di Henry Kissinger su Park Avenue, dove ha lavorato anni fa. Il caffè da Saint Ambroeus su Madison Avenue e il cappuccino da Via Quadronno sulla 73a Strada. Bobo Vieri e Paolo Maldini, entrambi pendolari newyorkesi come lui. Sirio Maccioni e i figli «fighetti» con il suo Le Cirque. Il nuovo San Domenico, SD 26, a Madison Square Park. L’ex titolare dell’agenzia di modelle ID Model Paolo Zampolli, «a cui piace tutto fuori misura, macchina grandi e donne altissime». Il ristorante Rao’s, «buonissimo, dove trovi i mafiosi». Mauro e Marco LaVilla, i gemelli filmografi canadesi che in un cortile di Bank Street lavorano a un documentario di 90 minuti sulla storia della Juventus intitolato Black and White Stripes, nel quale si racconta l’epopea di una squadra capace di «unire una nazione» per onorare la memoria del padre napoletano Rosindo, un tifoso sfegatato della Vecchia Signora che si è fatto seppellire a Montreal avvolto in un drappo bianconero. Maurizio Marchiori, promotore della Triennale a New York, e soprattutto l’amico Giuseppe Cipriani, nel cui locale a West Broadway «vedi tutti gli europei». «Il vantaggio di New York è che qui tutti sono nessuno – dice, prendendo papaia condita con il limone e succo di carota sui tavolini dello Standard Hotel – le persone più famose del mondo vivono come gente normale, puoi incontrare Martin Scorsese da Starbuck senza ac­227

corgertene, parlare con l’homeless o il tassista bengalese, sei un essere umano e niente altro, nessun’altra città al mondo ti dà questo». Era questo aspetto di New York che piaceva al nonno Gianni Agnelli «che quando veniva qui andava a passeggiare a Central Park, andava nei musei, mangiava hot dog per strada e si sentiva più libero». È un sentimento che oggi lui condivide perché «in Italia la gente come me è felice ma vive nascosta» mentre a Manhattan Lapo può guidare una Ferrari bianca decappottabile lungo la Sesta Avenue e nessuno lo nota, se non un portapacchi in bicicletta che gli si avvicina gridando «bella macchina, fra dieci anni anche io ne avrò una simile». L’episodio riassume «perché mi sento a casa, qui a New York non c’è invidia ma competizione, tutti vogliono fare meglio degli altri, sempre, non pensano a demolire il prossimo ma a superarlo, ecco perché quando si va a dormire c’è sempre la sensazione di perdere tempo, se in una città europea si vive 18 ore al giorno, qui 24 non bastano mai, è come doparsi di vitamine». Fra i newyorkesi che apprezza c’è Rudy Giuliani, «il sindaco che ha rivoltato la città come un calzino con una grinta che sarebbe bello vedere anche nei nostri politici», poi il rabbino Arthur Schneier della Park East Synagogue «perché se vuoi incontrare il presidente degli Stati Uniti è lui che può farcela» e Ivanka Trump, la figlia del miliardario Donald sposata all’editore Jared Kushner, che definisce una «bellissima iena che si intende molto di ciò che fa». Il suo primo ricordo di New York, dove sono nati anche il padre Alain e il fratello John, è di «quando ero molto piccolo, trovavo la città gigantesca e volevo sempre andarci». E oggi può dire «che mi ha dato tantissimo, mi ha consentito di aprire gli occhi sul bene come sul male perché ti può offrire il meglio e il peggio che c’è al mondo, i migliori professori del mondo ma se sei in una fase distruttiva della vita anche droga e prostituzione in quantità tali che possono ucciderti». Proprio a New York Lapo è venuto dopo il periodo della riabilitazione, viveva vicino Times Square e andava al Bar Pitti. ­228

Le esperienze fatte in molti e diversi «villaggi di New York» lo portano a definirsi «curioso di quanto avviene sulle strade di questa metropoli» ovvero uno street dog che è riuscito a emanciparsi dal «lato borghese franco-italiano che tende a farti stare seduto sulle tue abitudini». E quando si trova da queste parti Lapo confessa di sentire «l’orgoglio di essere italiano», parla di un «forte patriottismo che mi viene dal di dentro» e immagina in continuazione nuovi prodotti per Italia Independent, il brand di design creato partendo da un paio di occhiali che adesso conta oltre quattrocento creazioni e punta a sbarcare in Brasile e Asia. Il guru delle modelle Fuori dalla porta del loft su Gramercy Park ha una copia argentata del toro di Wall Street, dentro i quadri di De Chirico con cui è cresciuto, una tv digitale di insolite dimensioni domina il salone e a coprire un intero angolo ci sono una dozzina di foto con Bill Clinton, che chiama «il mio presidente». Paolo Zampolli, milanese classe 1970, è l’italiano di Manhattan di cui si legge spesso su Page Six, la pagina dei gossip del «New York Post» seguita dall’America intera, dove si narra delle sue feste sugli esclusivi roof cittadini, dei compleanni celebrati al Provocateur e soprattutto della sua abilità nel gestire centinaia di modelle, fra le più ricercate di New York. Il titolo di «guru delle modelle» se l’è guadagnato sul campo creando nel 1997 l’agenzia ID che ne gestiva 1200 in tutto in mondo. «Le modelle devono girare il mondo, non sono stanziali – racconta, sorseggiando champagne con lo sguardo sempre sul blackberry –, noi avevamo una sede in Brasile dove le trovavamo e poi le spostavamo in continuazione da Miami a Berlino, da Parigi a Milano, tenendone sempre una settantina a New York». Il business per anni ha prodotto dollari e conoscenze nel mondo dei vip – da Bill Clinton ai sovrani del Golfo fino a Shimon Peres a Donald Trump – ma poi «la crisi finanziaria del 2008 ha cambiato tutto» e le richieste ­229

di modelle mozzafiato per grandi eventi sono andate a picco. Proprio Trump lo ha spinto verso l’immobiliare. Zampolli, che prima di arrivare in America nel 1994 vendeva giocattoli con l’azienda di famiglia, ha seguito il consiglio ma ha trovato una formula tutta sua per entrare sul mercato. «Ho pensato che le modelle sarebbero potute diventare delle ottime broker immobiliari». E così ha fatto: selezionando «quelle più adatte a questo lavoro», affidandogli un portafoglio di case da affittare o vendere a prezzi alti. «Essere belle aiuta a vendere qualcosa di bello» assicura Zampolli, che in questa maniera è riuscito a mettere a segno colpi come l’«acquisto di un palazzo a 8,6 milioni di dollari poi rivenduto a 10,1 milioni». A completare il suo irrituale stile di broker c’è l’aver messo a disposizione delle modelle-venditrici strumenti utili a gestire una clientela vip: barche ed elicotteri con cui portare i possibili acquirenti a «osservare» appartamenti e palazzi «dal di fuori». Questo inedito business model si basa sulla convinzione che «anche la modella ha interesse a fare altro nella vita, guardando al futuro quando non potrà più sfilare ogni sera in passerella». È una formula che ha guadagnato l’attenzione di canali tv come Msnbc e Bbc, catapultando Zampolli sotto i riflettori per essere riuscito a ritagliarsi un posto al sole in un mercato immobiliare che resta in affanno. «Non c’è dubbio che la crisi ci sia e si senta ma New York resta la capitale del mondo, tutti vengono qui, vogliono abitarci o viverci per un po’ e io sono in grado di fargli vedere alcune delle proprietà più belle e accattivanti in circolazione» assicura, precisando che il suo portafoglio conta molto sui clienti della famiglia reale saudita a cominciare dagli Abd El-Aziz, discendenti del fondatore dell’impero wahabita. Sposato ad Amanda Ungaro, che definisce l’«ultima delle otto donne a cui mi sono legato», Zampolli è diventato papà nel 2010, gira per New York in Rolls Royce e appena può va a cenare dall’amico Giuseppe Cipriani su West Broadway, il ristorante con le tendine gialle che al piano di sopra ha un locale a luci basse popolato da modelle. A suo avviso la città è ­230

«in continua espansione» e individua le aree più trendy, tanto per la vita notturna come per gli immobili, nel «West Chelsea, estensione del Meatpacking District, Lower East Side e Williamsburg a Brooklyn». A chi gli chiede di definirsi risponde dicendo: «Sono un guerriero che insegue il sogno di contribuire a creare un mondo migliore». Per spiegare di cosa si tratta mette le mani in tasca e tira fuori un passaporto celeste con le insegne delle Nazioni Unite. Lo ha ottenuto grazie alla United Nations Association Brazil, di base a San Paolo, che lo ha nominato «Ambassador at large» al Palazzo di Vetro, affidandogli la missione che più lo appassiona: «Mettere assieme governo brasiliano, la compagnia energetica Petrobras e l’Onu per consentire a 54 Paesi africani di produrre energia alternativa». I primi progetti a cui lavora si trovano in Angola e Mozambico. «Sono convinto che sia l’Africa la nuova frontiera dell’energia rinnovabile» sottolinea, spiegando che «i concorrenti con cui mi trovo a duellare sono gli investimenti cinesi in Africa». Al Palazzo di Vetro gli capita spesso di incrociare un altro italiano che sovrappone immobiliare e diplomazia, ovvero Daniele Bodini che è rappresentante permanente di San Marino ed è considerato fra gli italiani di maggiore successo economico a New York. «Lui possiede 2000 appartamenti, vive in una casa da 20 milioni di dollari sulla Fifth Avenue e passa i weekend con il Segretario Generale dell’Onu, insomma è già arrivato mentre io sono solo ai primi passi, ma averlo come modello da seguire è avvincente, stimolante» assicura. L’esempio negativo che invece ha davanti agli occhi è Raffaello Follieri, il giovane imprenditore di San Giovanni Rotondo condannato a quattro anni e mezzo di carcere per una megatruffa. «Gli avevo detto che stava sbagliando tutto, soprattutto a causa di regali troppo vistosi alla fidanzata e a viaggi troppo frequenti su jet privati, ma non mi ha voluto ascoltare, neanche quando gli feci sapere che l’Fbi lo stava cercando per arrestarlo» sottolinea, lamentando il fatto che «personaggi come lui rovinano l’immagine degli italiani a New York». ­231

Il paparazzo di Harlem Fra italiani e afroamericani a New York non sempre corre buon sangue. C’è la memoria di scontri fra bande etniche a Brooklyn e nel Bronx, ci sono le tensioni economiche fra diversi ceti sociali con opposte fedeltà politiche e vi sono perduranti pregiudizi, come quelli che vedono alcuni italiani adoperare il termine dispregiativo di mulignan (melanzana) per i neri ricevendo risposte disseminate di epiteti altrettanto razzisti. Da qui la diversità della scommessa di Gilberto Petrucci, romano di Trastevere classe 1939, che ha aperto a Harlem tre ristoranti italiani assieme alla moglie Amie, di origine etiope nonché abile manager nell’essere riuscita a convincere il quartiere più afroamericano di New York a sostenere l’investimento economico sul Made in Italy. Il Gran Piatto d’Oro è al 1429 della Fifth Avenue, fra la 116a e la 117a Strada, nel bel mezzo di Harlem, e Petrucci è convinto che «il futuro di New York sia qui, vicino alle strade intitolate a Martin Luther King e Malcolm X» perché «la qualità di vita migliora, vi vengono ad abitare persone di ogni razza e provenienza, c’è grande religiosità, il valore degli immobili è in ascesa, i consumi sono più alti che in passato e i problemi della criminalità sono oramai alle nostre spalle». Gilberto e Amie hanno fatto del Gran Piatto d’Oro e degli altri due ristoranti poco distanti un punto di incontro fra tradizione italiana e comunità afroamericana. Nei locali ospitano eventi dei Rotary di quartiere, cori gospel e musical che celebrano la lotta contro la segregazione razziale, come nel caso della prima milionaria afroamericana Sarah Breedlove, offrendo cibi che vanno dal «pollo alla Sophia Loren» ripieno di mozzarella e prosciutto, alla «racchetta», una cotoletta con l’osso impanata con sopra pomodori e rucola. Si tratta della stessa cucina che fino al 2002 Petrucci ha offerto ai clienti del Bocconcino, il ristorante al 168 di Sullivan Street aperto nel 1980, ovvero l’anno seguente allo sbarco a New York, quando decise di abbandonare l’Italia e la profes­232

sione del paparazzo che aveva contribuito a creare. «Il mio primo scatto lo feci nel 1959 da Meo Patacca, immortalando la principessa Soraya con Raimondo Orsini – racconta –, facevo parte dei fotografi d’assalto, poi a Via Veneto incontrammo Federico Fellini e fu lui che con il film La dolce vita scelse di rappresentarci nel fotografo di nome Paparazzo che ha dato nome alla professione». Fazzoletto blu al collo sotto la camicia celeste, anello dorato, baffetti ben curati e forte accento romano, Petrucci ricorda quegli anni come «un periodo nel quale fare il fotografo significava qualità e inventiva», non celando il disprezzo verso «i paparazzi di oggi che vanno addosso ai personaggi che inseguono, quasi fino a causarne la morte, per non parlare di quelli come Fabrizio Corona, un vero delinquente che scatta solo per ricattare». Definisce Rino Barillari «un mio allievo» e conserva un legame indissolubile con la Città Eterna, inseguendo il progetto di «realizzare una corsa per bighe romane al Circo Massimo», di cui parlò la prima volta di persona con Charlton Heston pochi mesi dopo l’uscita del film Ben Hur nel 1959. «La immagino come un grande Palio capitolino, con i 24 quartieri di Roma ognuno con la propria biga e milioni di turisti di ogni parte del mondo che ogni anno arrivano per assistere a uno spettacolo epico che gli consente di rivivere i fasti della Roma Imperiale». È un progetto che gli fa brillare gli occhi, di cui assicura di «aver parlato con tutti i sindaci degli ultimi anni senza alcun esito» e nel quale crede per «far affluire ingenti capitali stranieri risollevando la mia città che ha bisogno di investimenti urgenti per rilanciarsi». Superata la soglia dei settant’anni, l’ex paparazzo di Via Veneto oggi ristoratore ad Harlem dice di «vivere proiettato verso il futuro, con la passione per le sfide impossibili da vincere». Ma nella sua memoria vi sono anche cronache del passato disseminate di episodi inediti di New York. L’apertura del Bocconcino ad esempio avvenne grazie a una piccola società creata con due partner, uno dei quali era «Elena la greca», moglie di un luogotenente di Vincent Gigante detto «The Chin» (Il mento), che nel 1981 sostituì Anthony Salerno alla guida del clan dei Genovese, di­233

ventando uno dei boss più feroci della mafia di New York. A lui viene anche addebitato il piano fallito nel 1986 di assassinare il rivale John Gotti, boss dei Gambino. Quando parla di Gigante, Petrucci si passa la mano sul mento con un gesto che evoca ancora il timore per il boss che si affermò fra i Genovese gestendo proprio il Greenwich Village dove il Bocconcino si trovava. «I Genovese avevano il loro club a Sullivan Street – racconta Petrucci – e i loro ragazzi venivano a mangiare da noi, Gigante passava al mattino e mi ordinava dieci o venti bistecche, specificando che dovevano essere molto erte, di sostanza, perché i suoi boys avevano bisogno di molta energia in corpo». Una volta a cena arrivarono i Gambino e presero il tavolo poco distante dai Genovese. «Ero a Roma, Elena mi chiamò trafelata, temeva avvenisse il peggio – racconta Petrucci – allora le dissi di tenerli d’occhio, farli mangiare e aggiornarmi ogni cinque minuti, così fece e tutto andò liscio. Per fortuna nessuno di loro fece la mossa che avrebbe potuto scatenare il finimondo». Era lo stesso locale frequentato dalle stelle di Hollywood che lui aveva fotografato negli anni di Roma: da Barbra Streisand a Sophia Loren, a Frank Sinatra. «Venivano da me perché mi conoscevano oppure arrivavano per caso e gli ricordavo dove c’eravamo visti» dice, tradendo una palpabile soddisfazione nell’essere riuscito a tracciare una linea di continuità fra la Dolce Vita e i tavoli del Village. Fra gli avventori più assidui c’era anche Giulio Andreotti, che «passava da noi sempre l’ultima giornata dei suoi viaggi ufficiali, spesso assieme alla moglie», ma tiene a precisare che «non incontrò mai i Genovese e altra gente simile». Antonio Di Pietro invece «veniva a mangiare da noi al tempo di Mani Pulite». L’esperienza fatta lo mette in condizione di parlare con una certa sicurezza della «New York by night» che, a suo dire, si divide in questo inizio di XXI secolo «fra i locali dove si mangia bene e quelli dove gira troppa cocaina». Ne parla a tavola con uno dei suoi clienti più assidui, Bob Guccione Jr, figlio dell’omonimo fondatore della rivista «Penthouse», che da parte sua aggiunge: «Esistono due ‘New York by night’ che vivono una parallela all’altra, una è ­234

effimera e ruota attorno ai locali più trendy che hanno una vita media di tre mesi e devono il successo alle donne bellissime che li frequentano, mentre l’altra è perpetua, costante, basata sulla qualità del cibo che offre e delle persone che la frequentano. Sono due città, una velocissima e l’altra immobile, che rendono New York unica, sera dopo sera». E l’ex paparazzo sbarcato a Harlem sente di averle vissute entrambe, anche se in momenti diversi della sua vita. Yogi «the Great» Parla del padre come di un uomo che «conosceva solo il lavoro duro», aveva modi di dire e fare mutuati «from the Old Country» e chiedeva ai figli soprattutto di «portare i soldi a casa» per aiutare la numerosa famiglia ad andare avanti a St Louis, in Missouri, dove nacque nel 1925. Lawrence Peter Berra, detto Yogi, è il campione dei campioni di baseball. Un’autentica leggenda vivente. Quando entra in una qualsiasi sala il pubblico si alza di scatto dedicandogli interminabili standing ovation. Avviene nelle serate di gala della Niaf al Washington Hilton della capitale federale – dove spesso riceve omaggi, onori e premi – come sul parterre del Giants Stadium di New York. Superata la soglia degli ottantacinque anni, Yogi Berra conserva grinta e sarcasmo ma ha spesso bisogno che qualcuno lo porti per mano perché cammina con qualche difficoltà. Ma appena arriva al microfono torna il brillante protagonista degli «Yogi-ism», le battute agrodolci con un fondo di verità che lo hanno reso famoso quanto le giocate di baseball. Come nel caso di «It ain’t over ’til it’s over» (non è finita fino a quando non è finita) coniato sul campo di gioco per rispolverare il carattere della squadra e diventato uno dei motti più citati da leader politici come sui giornali sportivi e nei talk show della domenica mattina. Oppure «When you come to the fork in the road, take it» (quando arrivi a un bivio sulla strada, prendilo) per far capire che le difficoltà vanno affrontate di petto, senza troppe esitazioni e qualsiasi scelta può portare sempre al raggiungimento di un ­235

successo. Se dal 1972 Yogi Berra è nella Hall of Fame dello sport più popolare degli Stati Uniti è perché si tratta di uno dei soli quattro giocatori che può vantare di aver vinto per tre volte l’ambito titolo di Most Valuable Player della American League, come è anche uno dei soli sei allenatori ad aver vinto le World Series di baseball tanto con squadre dell’American League che della National League (i due campionati nazionali, le cui vincenti si affrontano poi per il titolo mondiale). Gran parte della sua carriera è avvenuta con indosso la maglia striata degli Yankees: come catcher (ricevitore) dal 1946 al 1963, come allenatore e manager dal 1963 al 1964 e poi ancora dal 1976 al 1983. Ha militato e guidato anche i Mets, sempre di New York, e gli Astros, di Houston. Alle sue imprese negli stadi d’America è dedicato un museo nell’ateneo di Montclair, nel New Jersey. Ripercorrere la sua vita significa entrare nelle viscere dell’immigrazione italiana. Va a scuola fino alla quinta elementare, cresce parlando un inglese «spezzato» dal dialetto dell’Old Country e appena può corre a fare sport: gioca per strada a pallone con italiani, tedeschi e irlandesi, si intrufola nelle palestre per imparare il pugilato, gli piace vedere l’hockey, resta lontano dal basket solo a causa dell’altezza mediterranea – 1,72 cm – e l’incontro con il baseball arriva a quattordici anni, quando lavora con il fratello Mike in una fabbrica di scarpe «per portare a casa i famosi soldi dei quali mio padre non cessava mai di parlare». All’inizio il baseball è solo un gioco come gli altri, poi inizia ad appassionarsi, esce prima dalla fabbrica per provare in mezzo alla strada e, sempre con Mike, trova la maniera per allenarsi sui campi della American Legion Ball, dove riesce a giocare a sedici anni. Mettendosi in testa che da grande sarebbe arrivato alle World Series. Sono i tempi della Grande Depressione, a casa Berra i soldi scarseggiano, il padre preme affinché lui continui a lavorare e il braccio di ferro famigliare si interrompe solo per l’arrivo della Seconda guerra mondiale. A diciotto anni appena compiuti Berra è arruolato nella Us Navy, di stanza della base di Norfolk in Virginia, e la grinta continua a uscirgli fuori dai pori. Si offre volontario ­236

per gli Amphibis anche se non sa bene di cosa si tratti. Ma lo scopre in fretta: si tratta di essere su una barca piccola e veloce, costruita con legno e metallo, armata con dodici missili per lato e cinque mitragliatrici calibro 50. L’addestramento è duro e quando arriva il D-Day il marinaio Berra è sulle rocket boats a cui il generale Dwight Eisenhower ha ordinato di stare «a non più di trecento metri dalla spiaggia» per colpire le prime linee di difesa dei tedeschi incaricate di bloccare i soldati che danno inizio alla liberazione dell’Europa. «Iniziavamo sparando il primo missile, se andava a bersaglio facevamo seguire gli altri, anche tutti assieme» racconta, descrivendo scene di guerra «nelle quali stavamo sempre in mezzo al fumo» sotto il fuoco tedesco. A guerra finita torna a St Louis ma il bisogno di danaro della famiglia è tale che il padre condivide adesso la scommessa di puntare sul baseball, visto che gli Yankees sono disposti a pagare i 500 dollari al mese inseguiti da Berra, che avrebbe ricevuto il soprannome «Yogi» da un compagno di squadra durante la pausa di una partita. Il resto è la storia del baseball del dopoguerra: cinque anni in squadra con l’inseparabile Joe DiMaggio, per quindici anni nella selezione degli All Star, campionati vinti, trofei, onori fino all’ultima giocata il 9 maggio del 1965 per poi incanalare una seconda vita di trionfi come manager e allenatore. Il mondo dello sport di New York pullula di nomi italiani – dal pitcher Tommy Lasorda al reporter Sal Paolantonio, dalla giovane tennista Beatrice Capra al cestista Andrea Bargnani – ma per tutti l’unico «The Great» è Yogi.

Mappe dei luoghi visitabili

Manhattan 1 East Harlem Ascione Pharmacy, farmacia, 2268 1st Avenue angolo 117th Street, 59. Gran Piatto d’Oro, ristorante 1429 Fifth Avenue tra 116th & 117th Streets, 232. Morrone Bakery, panificio-pasticceria, 324 Luis Munoz Marin Boulevard, 59. Our Lady of Mount Carmel, chiesa, 448 Luis Munoz Marin Boulevard, 59. Patsy’s Pizzeria, trattoria-pizzeria, 2287 1st Avenue angolo 118th Street, 59. Rao’s, ristorante, 455 East 114th Street angolo Pleasant Avenue, 60-61, 227. Rex’s, gelateria, 1st Avenue angolo 118th Street, 59. 2 Upper East Side Antica Bottega del Vino, ristorante, bar, enoteca, 5 East 59th Street, 182. Antonucci Cafe, ristorante, 170 East 81st Street, 217. Bella Blu, ristorante, 967 Lexington Avenue angolo 70th Street, 14 Columbus Citizens Foundation, centro culturale, 8 East 69th Street, 17, 89-90, 138. Felice Wine Bar, ristorante, 1166 1st Avenue angolo 64th Street, 156. Felidia, ristorante, 243 East 58th Street, 180-182. Gagosian Gallery, galleria d’arte, 980 Madison Avenue tra 76th & 77th Streets, xi, 218-219, 221. Le Cirque, ristorante, 151 East 58th Street, 147, 182, 227. Sant Ambroeus, bar e ristorante, 1000 Madison Avenue angolo 79th Street, 154-156. Via Quadronno, ristorante, bar, 25 East 73rd Street tra Madison & 5th Avenue, 182, 227. 3 Upper West Side Café Lalo, caffè, 201 West 83rd Street, 152. Café Luxemburg, 200 West 70th Street, 202, 205. Citarella, salumeria-gastronomia, 2135 Broadway angolo 75th Street, 55. Grom, gelateria, 2165 Broadway angolo 76th Street, 55. New Pizza Town, pizzeria, 2196 Broadway angolo 78th Street (Verdi Square), 55-56. Salumeria Rosi Parmacotto, salumeria-tavola calda, 283 Amsterdam Avenue (Verdi Square), 54, 56-57. 4 Midtown Casa Lever, ristorante, 390 Park Avenue, 155-156. De Gustibus Cooking School at Macy’s, scuola di cucina con degustazione, 151 West 34th Street, 56. Giorgio Armani, ristorante, 717 5th Avenue, 160. Marea, ristorante, 240 Central Park South (Columbus Circle), 56. 5 Sutton Place Teodora, ristorante, 141 East 57th Street, 182. 6 Theater District Barbetta, ristorante, 321 West 46th Street, 182. Becco, ristorante, 355 West 46th Street, 181. John D. Calandra Italian American Institute, City University of New York, conferenze, seminari, biblioteca, 25 West 43rd

Street, xii, 48-49, 91. Esca, 402 West 43rd Street, 181. Rockefeller Foundation, centro culturale, conferenze, 420 5th Avenue, 123, 125. Scarpetta, ristorante, 355 West 14th Street angolo 9th Avenue, 56. 7 Flatiron District 230 Fifth, ristorante, lounge bar, night club, 230 Fifth Avenue angolo West 26th Street, Madison Square, 161. Eataly, gastronomia, ristoranti, caffè, pasticceria, 200 Fifth Avenue, 183. SD26, ristorante, wine bar & lounge, 19 East 26th Street, Madison Square Park, 182. 8 Meatpacking District Boom Boom Room, The Standard Hotel, lounge bar, 848 Washington Street, 161. Del Posto, ristorante, 85 10th Avenue, xiii, 56, 179, 180-182. Provocateur, caffè e night club, 18 9th Avenue, 229. 9 Greenwich Village Bar Pitti, ristorante, 268 Avenue of the Americas, 227-228. Casa Italiana Zerilli-Marimò, New York University, mostre, conferenze, seminari, 24 West 12th Street, 44, 94, 103-104, 154. Da Silvano, ristorante, 260 Avenue of the Americas, 182. Kestè Pizza e Vino, ristorante-pizzeria, 271 Bleecker Street, 101. Tiro a Segno of New York, club, 77 MacDougal Street, 42-43. 10 Noho Museum of the American Gangster, museo di storia della criminalità organizzata, 80 St Mark’s Place, 46. 11 Soho Cipriani Downtown, 376 West Broadway tra Spring & Broome Streets, 192, 227, 230. Prada, boutique di alta moda, 575 Broadway, 160. Tribeca Grand Hotel, 2 Avenue of the Americas, 159. 12 East Village Albert’s Hairstylist, negozio del barbiere Alberto Bonanno, 201 East 16th Street, 47. Amato Opera Theatre, 319 Bowery, 205-207. East Village Visitors Center, centro informazioni e visite guidate, 75 East 4th Street, 46. John’s, ristorante, 302 East 12th Street, 44-46. 13 Little Italy Albanese Meats & Poultry, macelleria, 238 Elizabeth Street, 39. Caffè Napoli, bar, 191 Hester Street angolo Mulberry Street, 97, 99. Italian American Museum, museo degli italiani a New York, 155 Mulberry Street, 36. Matilda, ristorante, 647 East 11th Street, 94. Most Precious Blood Church, chiesa (Feast of San Gennaro), 109 Mulberry Street, 79, 81. 14 Financial District Charging Bull, scultura di Arturo Di Modica, Bowling Green, 189-191.

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Bronx e Queens 1 Belmont Addeo Bakery, panificio, 2372 Hughes Avenue, 19. Biancardi’s, macelleria, 2350 Arthur Avenue, 19. Borgatti’s Ravioli & Egg Noodles, pasta all’uovo, 632 East 187th Street, 19. Casa della Mozzarella, 604 East 187th Street, 21, 24. Cosenza’s Fish Market, pescheria, 2354 Arthur Avenue, 24. Cuba Cigar, sigari e tabacco, 2384 Hughes Avenue, 22. El Sureño, tavola calda, 2319 Hughes Avenue, 23. Gurra Café, ristorante, 2325 Arthur Avenue, 22. La Casita Poblana, ristorante, 620 East 186th Street, 22. Madonia Brothers Bakery, panificio-pasticceria, 2348 Arthur Avenue, 18-19, 23, 123. Mario’s, ristorante, 2342 Arthur Avenue, 19. Mexico Sports Center, abbigliamento e articoli sportivi, 608 Crescent Avenue, 23. Our Lady of Mount Carmel Church, chiesa, 627 East 187th Street, 24. Our Saviour’s Church, 2317 Washington Avenue, 24. Randazzo’s Seafood, pescheria, 2327 Arthur Avenue, 24. Retail Market, supermercato e pasticceria, 2344 Arthur Avenue, 19, 21-22. Teitel Brothers, drogheria-salumeria, 2372 Arthur Avenue, 19. Zero Otto Nove, trattoria-pizzeria, 2357 Arthur Avenue, 21, 24. 2 Flushing St Mel’s Church, chiesa, 2820 154th Street, 83. 3 Corona The Lemon Ice King of Corona, gelateria, 5202 108th Street, 30. Parkside, ristorante, 107-01 Corona Avenue, 30, 61. 4 Middle Village Colombo’s, frutta e verdura, 7549 Metropolitan Avenue, 28. 5 Ridgewood L’Aroma del Caffè, bar, 2235 Greene Avenue angolo Forest Avenue, 24. Our Lady of the Miraculous Medal Church, 6281 60th Place angolo Bleecker Street, 26, 76. 6 Fresh Pond Valentino’s, frutta, verdura, salumeria e tavola calda, 6664 Fresh Pond Road, 26. 7 Ozone Park Don Peppe, ristorante, 135-58 Lefferts Boulevard, 61.

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Brooklyn e Staten Island 1 Williamsburg Bamonte’s, ristorante, 32 Withers Street, 61. Our Lady of Mount Carmel Church, chiesa (Dance of the Giglio), North 8th Street angolo Havemeyer Street, 77-78. 2 Greenpoint Fortunato Bros, 289 Manhattan Avenue, 30-31. 3 Sunset Park Johnny’s Pizza, pizzeria, 5806 5th Avenue, 32-34. Our Lady of Perpetual Help, 526 59th Street, 32. Papa John’s Pizza, pizzeria, 5804 5th Avenue, 32-34. Scotti’s Pizza, pizzeria, 5616 5th Avenue, 34. 4 Bensonhurst St Rosalia-Regina Pacis Church, chiesa, 1230 65th Street, 72, 75. 5 Dyker Heights Toyland, quartiere famoso per gli addobbi natalizi, 12th Avenue/84th Street, 35-36. 6 Bay Ridge Caffè Italia, bar, 6921 18th Avenue (Cristoforo Colombo Boulevard), 36. 7 Massapequa Café Gondola, bar, 7549 Metropolitan Avenue, Massapequa, Long Island (fuori cartina), 29. 8 Rosebank Garibaldi-Meucci Memorial Museum, museo nella fabbrica di candele di Antonio Meucci, con cimeli dell’inventore e del suo ospite Giuseppe Garibaldi, 420 Tompkins Avenue, 62. Grotto of Our Lady of Mount Carmel, santuario, 36 Amity Street, 62-63. St Joseph’s Church, chiesa, 171 Saint Mary’s Avenue, 63. St Mary’s Church, chiesa, 1101 Bay Street, 63.

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Indici

Indice dei luoghi di origine degli italiani a New York*

Agrigento: Maria Bartiromo («Money Honey»), giornalista economica e conduttrice televisiva, 134. Alba (Cuneo): Oscar Farinetti, imprenditore, 185. Alcamo (Trapani): Stella, cuoca in una tavola calda, 26. Amalfi (Salerno): Nicholas Scoppetta, viceprocuratore generale ed ex Fire Commissioner, 6. Avellino: Nicholas DiMarzio, vescovo della diocesi BrooklynQueens, 69. Balestrate (Palermo): Antonino Colombo, commerciante di frutta e verdura, 28. Bari: insediamento a East Harlem, 58. Caccamo (Palermo): Joseph Scelsa, accademico, 37; Carlo Gambino, boss mafioso, 72. Campobasso: Nicholas DiMarzio, vescovo della diocesi BrooklynQueens, 69. Casale Monferrato (Alessandria): George Pavia, avvocato, 157. Castellammare del Golfo (Trapani): Francesco Aluzzo, titolare di bar, 25; Santino Battiata, ristoratore, 55; Carlo Gambino, boss mafioso,

73; Gaetano Messina, caposcalo Alitalia, 112. Castelvetrano (Trapani): Joe Bonura, titolare di bar-caffè, 29. Catania: Salvo Arena, avvocato, 145. Corleone: Ronald Marino, sacerdote, vicario per i migranti, 72. Cosenza: Alberto Bonanno, barbiere, 47. Cropani (Catanzaro): Gabriella Basile, studentessa di Italian Studies alla Rutgers University, 107. Cuneo: Celestino Migliore, arcivescovo, 67. Enemonzo (Udine): Giandomenico (Gianni) Picco, funzionario delle Nazioni Unite, 107. Enna: Ronald Marino, sacerdote, vicario per i migranti, 72. Este (Padova): Gaetano Pesce, architetto e designer, 214. Faeto (Foggia): Anthony Julian Tamburri, direttore del John D. Calandra Italian American Institute, 48. Fasano (Brindisi): Eugene Nardelli, giudice della Corte d’Appello di New York, 14. Firenze: Arturo Di Modica, scultore, 190; Gaetano Pesce, architetto e designer, 214.

* L’indice elenca i luoghi di nascita o di provenienza familiare (genitori, nonni ecc.), di lavoro o di studio delle persone citate nel volume.

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Genova: George Pavia, avvocato titolare di uno studio legale, 157; Nicola Arena, capitano, top manager, 165; Massimo Porrati, fisico, docente universitario, 176; Renzo Piano, architetto, 212. Godrano (Palermo): Vincent Barbacci, titolare di gelateria, 30. L’Aquila: Mario Fratti, commediografo, docente di teatro, 199. La Spezia: Gaetano Pesce, architetto e designer, 214. Latina: Francesca, cameriera clandestina a Manhattan, 51. Lercara Friddi (Palermo): Charles «Lucky» Luciano (Salvatore Lucania), boss mafioso, 46. Lucca: Edmund Giambastiani, («Admiral G»), ammiraglio, vicecapo degli Stati Maggiori Congiunti, 12; Cesare Casella, ristoratore, titolare di una salumeria-gastronomia, 54. Maida (Catanzaro): Gay Talese, scrittore, 186. Melfi (Potenza): George Grasso Jr, First Deputy Commissioner del Dipartimento di polizia, 7. Merì (Messina): Matilda Raffa Cuomo, patrona di organizzazioni di beneficenza, moglie di Mario e madre di Andrew, 132. Messina: Antonio Ciappina, giornalista, 95; Nicola Arena, capitano, top manager, 165; Kym Ragusa, scrittrice e regista di documentari e cortometraggi, 208. Milano: Mariuccia Soncini ZerilliMarimò, baronessa, fondatrice della Casa Italiana della New York University, 103; Federico Mennella, top manager, 140; Alberto Cribiore, finanziere e top manager, 151; Silvia Formenti, primario di radiologia oncologica al Longone Medical Center della New York

University, 170; Alberto Veronesi, direttore d’orchestra, 210; Matteo Pericoli, architetto, illustratore e autore, 225; Paolo Zampolli, imprenditore e immobiliarista, 229. Minori (Salerno): Anthony (Tony) Amato, tenore, maestro di canto e impresario teatrale, 205. Montemarciano (Ancona): Edmund Giambastiani, («Admiral G»), ammiraglio, vicecapo degli Stati Maggiori Congiunti, 12. Napoli: Nicholas Scoppetta, viceprocuratore generale ed ex Fire Commissioner, 6; Salvatore De Cicco, commerciante, 24; Ciro Silvestri, ristoratore, 97; Maria Bartiromo, («Money Honey»), giornalista economica e conduttrice televisiva, 134; Charles Gasparino, giornalista economico e conduttore televisivo, 137, 139; Federico Mennella, top manager, 141; Kristin Piro, ballerina, 203. Nocera Superiore (Salerno): Mario Cuomo, governatore dello Stato di New York, 126. Noci (Bari): Peter Pace, generale, capo degli Stati Maggiori Congiunti, 12. Nola (Napoli): Philip (Felice) Manna, animatore della Festa del Giglio presso la chiesa di Our Lady of Mount Carmel, Brooklyn, 78. Noto (Siracusa): Lucio Noto, top manager e imprenditore, 162. Padova: Antonio Scarpa, medico, direttore del Center for Scientific Review, 168; Gaetano Pesce, architetto e designer, 214. Palermo: Alessandro Fava, commesso in un negozio di alimentari, 24; Vanessa Van Vranken, ballerina, 202-203.

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Parma: Giovanni Lanzarotti, chef di un circolo privato, 44. Partanna (Trapani): Tony Mulè, animatore della comunità italiana a Fresh Pond, Queens, 26. Pino Torinese (Torino): Alberto Cribiore, finanziere e top manager, 149. Pisa: Massimo Porrati, fisico, docente universitario, 176. Pola (oggi Pula, Croazia): Linda Matticchio Bastianich, ristoratrice, autrice di bestseller di gastronomia, conduttrice televisiva, 180. Polizzi Generosa (Palermo): Moe Albanese, macellaio, 39. Polla (Salerno): insediamento a East Harlem, 58. Prato: Gherardo Guarducci, imprenditore nella ristorazione, 154. Raito (Vietri sul Mare, Salerno): Giovanni Porcelli, sergente di polizia in pensione, presidente della Columbus Association, 5. Regalbuto (Enna): Vito Spampinato, pensionato, parrocchiano di Our Lady of the Miraculous Medal, nel Queens, 77. Roma: Silvio Palumbo, consulente finanziario, 152; Umberto Piperno, rabbino, 86; Gilberto Petrucci, ex fotografo, ristoratore, 232. Salerno: Roberto Paciullo, ristoratore, 21; Nicholas DiMarzio, vescovo della diocesi Brooklyn-Queens, 69. San Giovanni Rotondo (Foggia): Raffaello Follieri, immobiliarista, 231. Santa Croce di Magliano (Campobasso): Carl Paladino, uomo d’affari e politico, 131. Santa Margherita di Belice (Agrigento): Filippo Barone, commerciante, 26. Sarno (Salerno): Raymond Odierno, generale, comandante dell’Us

Army Joint Forces Command, 14; insediamento a East Harlem, 58. Saviano (Napoli): fratelli Fortunato, titolari di una pasticceria a Brooklyn, 31. Senigallia (Ancona): Peter Madonia Jr, manager della Rockefeller Foundation, 125. Settefrati (Frosinone): Anthony Julian Tamburri, direttore del John D. Calandra Italian American Institute, 48. Torino: Valentina Castellani, direttrice di una galleria d’arte contemporanea, 218. Torre del Greco (Napoli): Franco Zerlenga, americanista, 99. Torretta (Palermo): Cecilia, anziana abitante del quartiere Belmont, nel Bronx, 22; Battista Caruso, parrocchiano della chiesa di Our Lady of the Miraculous Medal, nel Queens, 77. Tramonti (Salerno): Mario Cuomo, governatore dello Stato di New York, 126. Tregiovo in Val di Non (Trento): Fabio Flaim, diacono nella parrocchia Our Lady of the Miraculous Medal, nel Queens, 76. Trento: Al (Italo) Barozzi, sacerdote missionario, viceparroco della chiesa di St Mel, nel Queens, 82. Trieste: Umberto Piperno, rabbino, 86. Velletri (Roma): Antonio Monda, giornalista, regista, critico e storico del cinema, docente universitario, 193. Venezia: Antonio Scarpa, medico, direttore del Center for Scientific Review, 168; Gaetano Pesce, architetto e designer, 168. Vittoria (Ragusa): Arturo Di Modica, scultore, 189.

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Indice dei nomi

Abd El-Aziz, fondatore dell’impero wahabita, 230. Addeo, famiglia di fornai, 19. Agnelli, Gianni (Giovanni), avvocato, imprenditore, 182, 217, 228. Ahern, Nan, editor, moglie di Gay Talese, 186. Ahmadinejad, Mahmud, presidente della Repubblica islamica dell’Iran, 212. Albanese, Mary, moglie di Vincenzo e madre di Moe, 39. Albanese, Moe, macellaio, 39-40. Albanese, Vincenzo, padre di Moe, 39. Albertini, Stefano, direttore della Casa Italiana Zerilli-Marimò, 104. Allen, Woody (Allan Stewart Königs­­ berg), regista, sceneggiatore e attore cinematografico, 147. Aluzzo, Francesco, titolare di bar, 25. Amato, Anthony (Tony), tenore, maestro di canto e impresario teatrale, 205-207. Amato, Giuliano, premier e leader politico, 94. Amato, Sally, soprano, moglie di Anthony, 206. Amelio, Gil (Gilbert Frank), informatico, top manager, 134. Amoroso, agente di polizia caduto l’11 settembre 2001, 5. Amoroso, Alex, studente di Italian Studies alla Rutgers University, 107.

Andreotti, Giulio, premier e leader politico, 147, 234. Andreotti, Lamberto, top manager, xii, 143, 147-148. Andretti, Mario, pilota automobilistico, 147. Andropov, Jurij, premier sovietico, 108. Antonelli, Paola, designer e architetto, curatrice del MoMA, 227. Antonini, Maurizio, diplomatico, xvi. Aponte, Gianluigi, imprenditore e armatore, 166. Aquaro, Vincenzo, funzionario delle Nazioni Unite, 111. Arbore, Renzo, uomo di spettacolo, cantante e musicista, 31, 55. Arcuri, Michael (Mike), uomo politico, 117. Arena, Nicola, capitano, top manager, 165-167. Arena, Salvo, avvocato, 145. Armani, Giorgio, stilista e imprenditore, 160. Auriana, Lawrence, top manager, 138. Baldacci, David (David B. Ford), scrittore, 49. Baldassini, famiglia, 154. Baldwin, Alec, attore cinematografico, 56. Barbacci, Vincent, titolare di gelateria, 29-30.

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Barbera, Antonio, ex autista dell’avvocato Gianni Agnelli, xvi. Barbetta, Antonio, barbiere, parrocchiano di Our Lady of the Miraculous Medal, 77. Bargnani, Andrea, cestista, 237. Barillari, Rino, fotografo, 233. Barone, Filippo, commerciante, 26. Barone, Louis (Louie Lump Lump), membro di una famiglia mafiosa, 60. Barozzi, Al (Italo), sacerdote missionario, viceparroco della chiesa di St Mel, nel Queens, xiv, 82-85. Bartiromo, Carmine, ristoratore, nonno di Maria, 134. Bartiromo, Josephine, madre di Maria, 134. Bartiromo, Maria («Money Honey», giornalista economica e conduttrice televisiva, xi, 90, 134-137. Bartiromo, Theresa, sorella di Maria, 134-135. Bartiromo, Vincent, padre di Maria, 134. Bartolotta, Paul, chef, 56. Basile, Gabriella, studentessa di Italian Studies alla Rutgers University, 106-107. Basile, Salvatore, nonno di Gabriella, 107. Basilone, John, sergente dell’esercito americano combattente nella Seconda guerra mondiale, 14. Bastianich, Felice, ristoratore, marito di Lidia, 181. Bastianich, Joe (Joseph), ristoratore, figlio di Felice e Lidia, 181. Bastianich, Tanya, figlia di Felice e Lidia, 181. Bastianich Matticchio, Lidia, ristoratrice, autrice di bestseller di gastronomia, conduttrice televisiva, 90, 179, 181, 183-185. Batali, Mario, chef e imprenditore, 180-181, 183. Batistuta, Gabriel, calciatore, 115.

Battaglia, Giuseppe, pensionato, 27. Battiata, Santino, ristoratore, 54-57. Bazoli, Giovanni, banchiere, 103. Beame, Abe (Abraham David), sindaco di New York, 208. Beddia, Robert, pompiere morto a Ground Zero, 6. Benedetto XVI (Joseph Ratzinger), papa, 67-69, 71, 86, 112, 116, 179. Benfaremo, fondatori di una gelateria, 30. Benigni, Roberto, attore, comico regista e sceneggiatore cinematografico, 112, 116. Bennett, Tony (Anthony Dominick Benedetto), cantante, 59. Benvenuti, Nino, pugile, 31. Berardi, Amato, uomo politico, 98. Berghof, Herbert, attore e insegnante di teatro, 101. Berlusconi, Eleonora, figlia di Silvio, 167. Berlusconi, Silvio, premier e leader politico, 84, 115, 165, 167. Berra, Mike (Michael), fratello di Lawrence, 236. Berra, Yogi (Lawrence Peter), giocatore di baseball, 235-237. Bersani, Pierluigi, leader politico, 94. Bertolucci, Bernardo, regista, sceneggiatore e produttore cinematografico, 193. Bezos, Jeff (Jeffrey Preston), imprenditore e top manager, 146. Biagi, Marco, giuslavorista e docente universitario, 10. Biancardi, famiglia di macellai, 1920. Bissett, Cynthia, madre di Lady Gaga, 201. Bivona, Graziella, conduttrice radiofonica e attivista politica, 9899. Bizzi, gruppo immobiliare, 139, 146.

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Blobel, Günter, premio Nobel per la Medicina, 182. Bloomberg, Michael, sindaco di New York, 6, 64, 69, 81, 123-125, 184. Bocelli, Andrea, cantante, 115. Bodini, Daniele, immobiliarista, 139, 231. Bonami, Francesco, critico d’arte e curatore, 221. Bonanno, clan mafioso, 61, 81. Bonanno, Alberto, barbiere, 47. Bondi, Sandro, uomo politico, 167. Bongiovanni, Angelo, manager, 44. Bonolis, Paolo, conduttore televisivo, 115. Bonura, Joe, titolare di bar-caffè, xvi, 29. Bonura, Rita, Office Manager di Fiat Finance North America, xvi. Borgatti, famiglia di pastai, 19-20. Bossi, Umberto, leader politico, 84. Botte, John, agente di polizia, 7. Brademas, John, rettore della New York University, 103. Brecht, Bertolt (Eugen Berthold), drammaturgo, regista teatrale e poeta, 199. Breedlove, Sarah, imprenditrice, 232. Brezˇnev, Leonid, premier sovietico, 108. Bruni, Frank, giornalista e critico gastronomico, 180. Bucchino, Gino, uomo politico, 98. Burke, Adrian, giudice, 127. Burri, Alberto, pittore e scultore, 222. Bush, George H.W., presidente degli Stati Uniti, 128. Bush, George W., presidente degli Stati Uniti, 11-12, 129, 157. Calabresi, Guido, giurista e docente universitario, 140. Calandra, John D., uomo politico, 47.

Calatrava, Santiago, architetto, 223. Calcaterra, Regina, avvocato e donna politica, 118. Caltagirone, Gaetano, imprenditore edile, 154, 156. Calvelli, John, ex assistente del parlamentare Eliot Engel, 119. Cameron, James, regista, sceneggiatore e produttore cinematografico, 196. Campese, Gino, titolare di pizzeria, 34. Capeci, Jerry, blogger e scrittore, 32. Capellino, Emma, nonna materna dell’ammiraglio Edmund Giambastiani, 11. Capra, Beatrice, tennista, 237. Caputo, presidente dell’Italian Wine and Food Institute, 4-5. Carciotto, Orazio, commerciante alimentare, 24. Carfagna, Mara, donna politica, 94. Caruso, Battista, parrocchiano di Our Lady of the Miraculous Medal, 77. Caruso, Enrico, tenore, 42. Cascio Ferro, Vito, boss mafioso, 10. Casella, Cesare, ristoratore, titolare di una salumeria-gastronomia, 54-57. Casini, Pierferdinando, leader politico, 115. Castellani, Valentina, direttrice di una galleria d’arte contemporanea, 218-222. Castro, Gregorio, commerciante, 23. Cattelan, Maurizio, artista, 223. Cavalli, Roberto, stilista, 90. Cecchi, Emilio, scrittore, 49. Cecilia, anziana abitante del quartiere Belmont, nel Bronx, 22. Celant, Germano, critico e teorico d’arte, 221. Cˇernenko, Konstantin, premier sovietico, 108.

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Chávez, Hugo Rafael, presidente del Venezuela, 164. Chen, Stephanie, studentessa di Italian Studies alla Rutgers University, 105. Chiomenti, studio legale e finanziario, 145. Chochlova, Ol’ga, ballerina, prima moglie di Pablo Picasso, 220. Chrusano, Larry, collector presso il Verrazzano Bridge, 65. Chrysantopoulos, Anna, studentessa di Italian Studies alla Rutgers University, 106. Chu, Steven, fisico, premio Nobel, docente universitario, 179. Churchill, Winston, premier britannico, 18, 112. Ciampi, Carlo Azeglio, presidente della Repubblica, 94. Cianfaglione, Quintino, presidente del Comites di New York e del Connecticut, 98. Ciappina, Antonio, giornalista, 9597. Ciappina, Cindy, moglie di Antonio, 97. Cipriani, Giuseppe, ristoratore e imprenditore, 192, 227, 230. Circelli, Al, membro di un clan mafioso, 60. Cirri, agente di polizia caduto l’11 settembre 2001, 5. Civiletti, Pasquale, scultore, 55. Civili, Patrizio, funzionario delle Nazioni Unite, 111. Clapton, Eric, cantante, chitarrista e compositore, 113, 115. Clayton, Eugene, finanziere, 151. Clinton, Bill, presidente degli Stati Uniti, 60, 115, 120, 129, 229. Clinton Rodham, Hillary, avvocato e donna politica, 118, 212. Coen, Ethan Jesse, regista e sceneggiatore cinematografico, 194, 196. Coen, Joel David, regista e sceneggiatore cinematografico, 194, 196.

Colaninno, Roberto, imprenditore, 142. Colao, Vittorio, top manager, 143. Collovati, Fulvio, calciatore, 116. Colombo, Antonino, commerciante di frutta e verdura, 28-29. Colombo, Cristoforo, navigatore, 21, 23, 88, 165, 187, 252. Colosimo, Augusta, nonna di Gabriella Basile, 107. Coluccio, Rocco, familiare del titolare di una pizzeria, 33-34. Comuniello, Anthony, studente di Italian Studies alla Rutgers University, 106. Conant, Scott, chef, 56. Conte, Paolo, cantante e compositore, 55. Copernico (Mikołaj Kopernik), astronomo e cosmologo, 178. Coppola, Francis Ford, regista e sceneggiatore cinematografico, 71, 92, 194. Corleone, Vito, personaggio del film Il padrino, 81. Corona, Fabrizio, fotografo e imprenditore, 233. Corsi, Edward, uomo politico, 58. Cosenza, famiglia di pescivendoli, 19. Covello, Leonard, educatore, 60. Crialese, Emanuele, regista e sceneggiatore cinematografico, 194. Cribiore, Alberto, finanziere e top manager, 147, 149-151. Cribiore, Federico, figlio di Alberto e Raffaella, 149. Cribiore, Martina, figlia di Alberto e Raffaella, 149. Cribiore, Raffaella, docente universitaria, moglie di Alberto, 149, 151. Criscitelli, Perry, presidente dell’associazione Figli di San Gennaro, 81. Croce, Benedetto, filosofo, 179.

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Cruise, Tom, attore cinematografico, 54. Cuoghi, Roberto, artista, 223. Cuomo, Andrea, padre di Mario e nonno di Andrew, 126. Cuomo, Andrew, governatore dello Stato di New York, xiii, 41, 117118, 130-131, 133. Cuomo, Immacolata, moglie di Andrea e madre di Mario, 126. Cuomo, Mario, governatore dello Stato di New York, xi, 17, 31, 120, 122, 126-131. Cuomo Raffa, Matilda, patrona di organizzazioni di beneficenza, moglie di Mario e madre di Andrew, 31, 131-132. D’Alema, Massimo, leader politico, 94, 104, 115. D’Alessio, Gigi (Luigi), cantante, 31. Dalia, Gaspare, parroco, 59. Dalí Domenech, Salvador, pittore e scultore, 215. D’Allara, agente di polizia caduto l’11 settembre 2001, 5. D’Amato, Al (Alfonse Marcello), avvocato e uomo politico, 120. D’Angelo, Nino (Gaetano), cantante, 31. Daniele, Pino, cantante e compositore, 115. Dante Alighieri, poeta e scrittore, xii, 96, 100-101, 103-104. Dava, cantante, 23. D’Avanzo, Leo, cognato di Harold Angelo Giuliani e zio di Rudolph Giulani, 127. De Benedetti, Carlo, imprenditore, 143. de Blasio, Bill (William), Public Advocate, 117. De Chirico, Giorgio, pittore, 229. DeChristopher, Dave (David), commediografo, 197.

De Cicco, Salvatore, commerciante, 24. de Cuéllar Pérez, Javier, segretario generale delle Nazioni Unite, 109110. De Kooning, Willem, pittore e scultore, 222. De Laurentiis, Dino (Agostino), produttore cinematografico, 195. DeLillo, Don (Donald Richard), scrittore, 49, 189. della Puppa, Paolo, ristoratore, 182. Del Piero, Alessandro, calciatore, 115. Del Vecchio, gruppo industriale, 142. De Mistura, Staffan, funzionario delle Nazioni Unite, 111. De Mita, Ciriaco, premier e leader politico, 164. de Niro, Robert, attore, regista e produttore cinematografico, 21, 192. DeSapio, Carmine Gerard, uomo politico, 121-122. de Tomassi, Furio, presidente dell’Unione funzionari italiani nelle organizzazioni internazionali, 111. DiCaprio, Leonardo, attore e produttore cinematografico, 203. Dickens, Charles, scrittore, 35. DiLeonardo, Satei, studentessa di Italian Studies alla Rutgers University, 106. DiMaggio, Joseph (Joe), giocatore di baseball, 18, 188, 237. DiMarzio, Nicholas, vescovo della diocesi Brooklyn-Queens, xiv, 69-71. Di Modica, Arturo, scultore, xii, 189-191. DiNapoli, Thomas, State Comptroller, 117. Dinkins, David, sindaco di New York, 18, 119. Di Piazza, Tony (Antonio), vicepre-

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sidente del Comites di New York e del Connecticut, 27-28, 98. Di Pietro, Antonio, leader politico, 84, 197, 234. Disney Walt, disegnatore, autore di fumetti, animatore, produttore del cinema d’animazione, 35. Dobbs, Lou, conduttore televisivo e giornalista, 135. Domingo, Placido, tenore, 115, 211. Dreshaj, Leonel, imprenditore albanese-americano, 22. Dreshaj, Nusha, profuga kosovara, madre di Leonel, 23. Drina, negoziante di Tirana, 23. Dubilier, Martin, finanziere, 151. Dukakis, Michael, uomo politico, 129. Einaudi, Giorgio, fisico, 176. Einstein, Albert, fisico, scienziato e pensatore, 177. Elena, detta «la Greca», moglie di un gangster, 233-234. Elkann, Alain, scrittore e giornalista, 228. Elkann, John, imprenditore, 228. Elkann, Lapo, imprenditore, 226229. Engel, Eliot, uomo politico, 117, 119. Englander, Nathan, scrittore, 197. Esfandiyari Bakhtiyari, Soraya, prin­ cipessa, 233. Fabrizio, Maria, moglie di Angelo Grasso e nonna di George Grasso, 8. Facchinetti, Alessandra, stilista, 161. Fahd bin Abd El-Aziz al Saud, re dell’Arabia Saudita, 109. Faisal Saud Al, ministro degli Esteri dell’Arabia Saudita, 7, 109. Falcone, Giovanni, magistrato, 211. Fallaci, Oriana, giornalista e scrittrice, 186.

Farinaro, Guido, soldato scelto dei marines caduto in Vietnam, 12. Farinetti, Oscar, imprenditore, 183185. Fatucci, Don, personaggio del film Il padrino, 81. Fauci, Anthony, immunologo, 43. Fava, Alessandro, commesso in un negozio di alimentari, 24. Favilli, Giuseppe, diplomatico, xvi. Federici, Anthony, ristoratore, 30. Fellini, Federico, regista e sceneggiatore cinematografico, 186, 199, 233. Fermi, Enrico, fisico, scienziato e docente universitario, 178. Ferrara, Ciro, calciatore e allenatore, 116. Ferrara, Eric, docente universitario, 46. Ferrara, Sergio, fisico, docente universitario, 176. Ferraro, Geraldine, avvocato e donna politica, 128. Ferretti, Dante, designer, 54. Fiano, Andrea, giornalista economico, 5. Fiano, Edo, sopravvissuto di Auschwitz, padre di Andrea, 5. Filangieri, Gaetano, filosofo illuminista, 16-17. Fini, Gianfranco, leader politico, 94, 104, 115, 143. Fiorina, Carly, top manager, 134. Flaim, Fabio, diacono nella parrocchia Our Lady of the Miraculous Medal, nel Queens, 76. Fleming, Renée, soprano, 211. Foley, deputato, 121. Follieri, Raffaello, immobiliarista, 138, 231. Fontana, Lucio, pittore, 222. Ford, Gerald, presidente degli Stati Uniti, 128. Ford, Tom (Thomas Carlyle), stilista, 161. Formenti, Silvia, primario di ra-

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diologia oncologica al Longone Medical Center della New York University, 170-173. Formigoni, Roberto, uomo politico, 94. Fortunato, Mario, impresario edile, 30-32. Fortunato, Michele, pasticciere, 3032. Fortunato, Salvatore, sarto, 30-32. Foster, Norman, architetto, 213. Foxman, Abraham, direttore nazionale della Anti-Defamation League, 41. Francesca, cameriera clandestina a Manhattan, 51. Franklin, Benjamin, pensatore e uomo politico, 16-17, 60, 112. Franzen, Jonathan, scrittore, 197. Fratti, Mario, commediografo, docente di teatro, 197-200. Freydel Kim, Irene, impiegata all’Amato Opera Theater, 205. Fromm, Erich, filosofo, 101. Gabetti, Gianluigi, finanziere e dirigente industriale, 149-151. Gagosian, Larry, gallerista d’arte contemporanea, xi, 218-219, 221. Gallotti, Nicola, top manager, 144145. Gambino, clan mafioso, 39, 73, 122, 234. Gambino, Carlo («Boss dei Boss»), boss mafioso, 72-73. Ganci, Peter («Chief Ganci»), capo del Dipartimento dei pompieri, 3-4, 6. Gandolfini, famiglia del serial televisivo The Sopranos, 45. Garibaldi, Giuseppe, generale, patriota e condottiero, 42-43, 62. Garrone, Matteo, regista, sceneggiatore e produttore cinematografico, 194. Gasparino, Charles, giornalista eco-

nomico e conduttore televisivo, xi, 137-139. Gassman, Vittorio, attore teatrale e cinematografico, 103-104. Gates, Bill (William Henry), informatico, imprenditore, 60. Gatto, Raul, fisico, docente universitario, 178. Gazi, cantante, 23. Gehry, Frank, architetto, 213. Genaux, Vivica, mezzosoprano, 211. Gennaro, santo, xiii, 79-81. Genovese, clan mafioso, 45, 60, 81, 233-234. Germanotta, Angeline, moglie di Giuseppe e nonna di Lady Gaga, 200. Germanotta, Giuseppe, nonno di Lady Gaga, 200-201. Germanotta, Joseph, padre di Lady Gaga, 202. Germanotta, Natali, sorella di Lady Gaga, 202. Giambastiani, Edmund («Admiral G»), ammiraglio, vicecapo degli Stati Maggiori Congiunti, xii, 11, 90. Gigante, Vincent («The Chin»), boss mafioso, 81, 233-234. Gilot, Françoise, pittrice, compagna di Pablo Picasso, 220. Giordano, Basilio, uomo politico, 98. Giovanni Paolo II (Karol Wojtyła), papa, 69, 86. Girardello, Luciano, fisico, docente universitario, 176. Giuliani, Harold Angelo, padre di Rudy, 126. Giuliani, Rudy (Rudolph), sindaco di New York, xi, 17, 27, 57, 120, 126-130, 228. Giuliani D’Avanzo, Helen, moglie di Harold Angelo e madre di Rudy, 126. Goldberg, Whoopi (Caryn Elaine

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Johnson), attrice, sceneggiatrice e produttrice cinematografica, conduttrice televisiva e scrittrice, 56. Goldberger, Paul, critico di architettura, 225. Golden, Michael, imprenditore, 213. Gomes de Jesus, Carlos Alberto, calciatore, 114. Gotti, John, boss mafioso, 39-40, 47, 50, 234. Goya y Lucientes, Francisco, pittore, 220. Graffagnino, Joseph, pompiere morto a Ground Zero, 6. Graham, Lindsey, uomo politico, 13. Granata, Francesco, top manager, 143. Grasso, famiglia, 8. Grasso, Angelo, nonno di George Jr, 7-9. Grasso, George Jr, First Deputy Commissioner del Dipartimento di polizia, 7-9. Grasso, George Sr, padre di George Jr, 8. Grasso, Luigina, prozia di George Jr, 8. Grasso, Dick (Richard), presidente della Borsa di New York, 135, 137-138, 190. Greenspan, Alan, economista, a capo della Federal Reserve, 137. Grosser, Donato, direttore di rivista, 87. Guarducci, Felice, imprenditore tessile, padre di Gherardo, 155. Guarducci, Gherardo, imprenditore nella ristorazione, 154-155. Guarducci Caltagirone, Ginevra, figlia di Gaetano Caltagirone e moglie di Gherardo Guarducci, 156. Guccione, Bob (Robert) Jr, editore, 234. Gyllenhaal, Jake (Jacob), attore cinematografico, 196.

Hagen, Uta, attrice e insegnante di teatro, 101. Hahan, Tommy, impiegato, 36. Harriman, Averell, governatore dello Stato di New York, 64. Hathaway, Ann, attrice cinematografica, 196. Hepburn, Katharine, attrice cinematografica, 200. Heston, Charlton, attore cinematografico, 233. Hirst, Damien, artista, 223. Hitler, Adolf, cancelliere e leader politico, 122, 157. Hudson, Henry, navigatore, 64. Iacocca, Lee, top manager, 42, 134. Infante, agente di polizia caduto l’11 settembre 2001, 5. Jackson, Michael, cantante, musicista e uomo di spettacolo, 212. Jackson, «Scoop» (Henry Martin), uomo politico, 18. Jagger, Mick (Michael Phillip), cantante e musicista, 115, 220. Johnson, Lyndon, presidente degli Stati Uniti, 122. Keller, Bill (William), giornalista, 213. Kelly, Ray, capo della polizia, 7. Kennedy, famiglia, 41. Kennedy, Bob (Robert), leader politico, 65, 131. Kennedy, John Fitzgerald, presidente degli Stati Uniti, 17, 65, 120, 122. Kennedy, Kerry, attivista per i diritti umani e scrittrice, figlia di Bob, 131. Kennedy, Ted (Edward), uomo politico, 13. Kennedy Skakel, Ethel, vedova di Bob Kennedy, 131. Kerik, Bernard, comandante della polizia, 7, 130.

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Khomeini, Ruhollah, ayatollah, 109. King, Martin Luther, predicatore e attivista per i diritti umani, 232. Kissinger, Henry, uomo politico, 54, 227. Koch, Ed (Edward), sindaco di New York, 20, 119, 122-125, 128. Koons, Jeff, scultore, 219, 222. Kovner, Victor, avvocato e consigliere politico, 119, 133. Krasic´, Miloš, calciatore, 116. Kushner, Jared, editore, 228. La Barbera, Ignazio, trafficante di alcolici, 46. LaCorte, John, presidente dell’Italian Historical Society, 64-65. Ladner, Mark, chef, 56, 181. Lady Gaga (Stefani Joanne Angelina Germanotta), cantante e showgirl, xi, xii, 200-202. LaGuardia, Fiorello, sindaco di New York, 17, 19, 42-43, 57, 59, 121, 124. Lancieri, Pasquale «Patsy’s», proprietario di pizzeria, 58. Langone, agente di polizia caduto l’11 settembre 2001, 5. Langone, Kenneth, imprenditore, 138. Lansky, Meyer, gangster, 46. Lanzarotti, Giovanni, chef di un circolo privato, 44. La Russa, Ignazio, uomo politico, 94. Lasorda, Tommy (Thomas Charles), giocatore di baseball, 237. La Spina, Gabriella, studentessa di Italian Studies alla Rutgers University, 105. Lattanzi, Riccardo, ingegnere elettronico, ricercatore, 176. Laurino, Maria, scrittrice, 119. LaVilla, Marco, regista di documentari e cortometraggi, 227. LaVilla, Mauro, regista di documentari e cortometraggi, 227.

Lazio, Rick (Enrico Anthony), avvocato e uomo politico, 118, 131. Lee, Sandra, conduttrice televisiva, 131. Lee, Spike (Shelton Jackson), regista, sceneggiatore, attore e produttore cinematografico, 194. Leke, cantante, 23. Lenin (Vladimir Il’icˇ Ul’janov), leader e teorico politico, 175, 179. Leonardo da Vinci, artista e inventore, 42, 83, 186. Leone XIII (Gioacchino Pecci), papa, 59. Leone, Sergio, regista e sceneggiatore cinematografico, 186. Lepke, Louis, gangster, 46. Letterman, David, conduttore televisivo e produttore, 47. Levine, Alexandra, ematologa, 173. Lewis, Joe, uomo d’affari e filantropo, 191. Lincoln, Abraham, presidente degli Stati Uniti, 17, 22. Lindsay, John, sindaco di New York, 127. Lippman, Jonathan, presidente della Corte Suprema di New York, 17. LoCicero, John, uomo politico, 120123. Lombrone, famiglia di Toyland (Dyker Heights), 35. Loren, Sophia (Sofia Scicolone), attrice cinematografica, 18, 136, 165, 232, 234. Lovati Cottini, Gianfranco, possidente, 140. Luciano, Charles «Lucky» (Salvatore Lucania), boss mafioso, 18, 30, 44-46. Lupo, Ignazio, boss mafioso, 46. Luthman, Lauren, studentessa di Italian Studies alla Rutgers University, 105-106. Lynch, David, regista, sceneggiato-

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re e produttore cinematografico, 194. Macchiarola, Frank, uomo politico, 119. Maccioni, Sirio, ristoratore e imprenditore, 147, 182, 227. MacMahon, Lloyd, giudice, 127. Madonia, famiglia di fornai, 20. Madonia, Benedetto, mafioso, 46. Madonia, Josephine, moglie di Peter Sr e madre di Peter Jr, 125. Madonia, Mario, padre di Peter Sr, 18. Madonia, Peter Jr, nipote di Mario e figlio di Peter Sr, manager della Rockefeller Foundation, 20-21, 123-125. Madonia, Peter Sr, proprietario di panificio, 18. Madonna (Louise Veronica Ciccone), cantante e showgirl, 48-49, 60, 147. Maffei, Dan, uomo politico, 117. Magnani, Marco, docente universitario, xvi. Maioglio, Laura, ristoratrice, 182. Majakovskij, Vladimir, poeta e drammaturgo, 179. Malagodi, Giovanni, leader politico, 102. Malcolm X ( Malcolm Little), attivista per i diritti civili, 232. Maldini, Paolo, calciatore, 116, 227. Mameli, Goffredo, patriota e poeta, 28, 104. Mancini-Corleone, Vincent, personaggio del film Il padrino, 81. Mandelbaum, Allen, dantista, 101. Manero, Tony, personaggio del film Saturday Night Fever, 50. Manfredi, Nino (Saturnino), attore e regista cinematografico, 112, 116. Manna, Philip (Felice), animatore della Festa del Giglio presso

la chiesa di Our Lady of Mount Carmel, Brooklyn, 77-79. Mantica, Carlo, docente universitario, xvi. Mantineo, Andrea, giornalista e direttore di periodico, 95. Manuali, Corrado, avvocato, genero di Lidia Bastianich, 181. Manzoni, Piero, artista, 219, 221222. Mao Zedong, presidente della Repubblica popolare cinese, 218. Maranzano, Salvatore, boss mafioso, 45. Marcantonio, Vito, uomo politico, 58-59, 121. Marchionne, Sergio, top manager, 143. Marchiori, Maurizio, top manager, 227. Marino, Ronald, sacerdote, vicario per i migranti, xiv, 72-75. Maroni, Roberto, uomo politico, 94. Martin, Dean (Dino Paul Crocetti), cantante e attore, 188. Massa, Eric, uomo politico, 117. Masseria, Joseph («Joe il Boss»), boss mafioso, 45. Mastella, Clemente, leader politico, 94. Mattei, Enrico, uomo politico e imprenditore pubblico, xvi. Matticchio (Motika), Erminia, madre di Lidia Bastianich, 180. Matticchio (Motika) Vittorio, padre di Lidia Bastianich, 180. Maurizio, capo cameriere di ristorante, 24. May, Tony (Antonio Magliulo), ristoratore, 182. Mazza, agente di polizia caduto l’11 settembre 2001, 5. Mazzini, Giuseppe, patriota e leader politico, 62. McCain, John, uomo politico, 13, 64.

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McGovern, George, uomo politico, 15. Mel, santo, 83. Mennella, Federico, top manager, 140-143. Messina, Bianca, figlia di Gaetano, 116. Messina, Castrenze, padre di Gaetano, 112. Messina, Francesca, moglie di Castrenze e madre di Gaetano, 112. Messina, Gaetano, caposcalo Alitalia, 112-116. Messina, Isabella, figlia di Gaetano, 116. Messina, Marco, figlio di Gaetano, 116. Meucci, Antonio, scienziato e inventore, 62. Meyer, Gerald, storico, 58. Michelangelo Buonarroti, pittore, scultore e architetto, 186. Migliore, Celestino, arcivescovo, 66-68. Milione, Vincenzo, ricercatore universitario, 91-92. Milito, Diego Alberto, calciatore, 115. Miller, Arthur, drammaturgo, 199. Miniaci, John Jr, figlio del titolare di una pizzeria, 33. Miniaci, John Sr, titolare di pizzeria, 32, 34. Miniaci, Louie, figlio del titolare di una pizzeria, 33. Miriam, nonna di Kym Ragusa, 209. Modugno, Domenico, cantante, 80, 89. Molinari, Guy, presidente del comitato del borough di Staten Island, 131. Monda, Antonio, giornalista, regista, critico e storico del cinema, docente universitario, 193-196. Monda, Dante, padre di Antonio, 193.

Monda, Jacquie, moglie di Antonio, 196. Mondale, Walter, uomo politico, 128. Morandi, Gianni, cantante, 31. Moratti Brichetto, Letizia, donna politica e manager, 104, 143. Morello, Giuseppe, boss mafioso, 46. Morrone, agente di polizia caduto l’11 settembre 2001, 5. Moses, Robert, presidente del Triborough Bridge and Tunnel Authority, 64. Mozilo, Angelo, top manager, 138. Muccino, Gabriele, regista e sceneggiatore cinematografico, 195. Muggia, Franco, oncologo, 171. Mulè, Tony, animatore della comunità italiana a Fresh Pond, Queens, 26-28. Müller, Gerd, calciatore, 114. Murray, Allen, top manager, 162. Mussolini, Benito, leader politico, 43, 188. Napolitano, Giorgio, presidente della Repubblica, 84, 94, 217. Nardelli, Eugene, giudice della Corte d’Appello di New York, 14-18. Nardelli, Robert Louis (Bob), top manager, 134. Nardelli, Vito, padre di Eugene, 18. Nigro, Dan (Daniel), capo dei pompieri, 3-4. Nixon, Richard M., presidente degli Stati Uniti, 218. Noto, Lucio, top manager e imprenditore, 142, 161-165. Obama, Barack, presidente degli Stati Uniti, 41, 84, 130, 133, 157, 178-179. Occhetto, Achille, leader politico, 104. O’Connor, John, cardinale, 18.

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Odierno, Anthony, figlio di Raymond, 14. Odierno, Basilio, nonno di Raymond, 14. Odierno, Raymond, generale, comandante dell’Us Army Joint Forces Command, 13-14. Orsini, Raimondo, principe, 233. Osama bin Laden, leader di Al Qaeda, 3, 42. Pace, Peter, generale, capo degli Stati Maggiori Congiunti, 12-13. Pacino, Al (Alfredo James), attore, regista e produttore cinematografico, 19, 193-195. Paciullo, Roberto, ristoratore, 21. Padre Pio, vedi Pio da Pietrelcina. Paladino, Carl, uomo d’affari e politico, xiii, 118, 130-133. Palminteri, Chazz (Calogero Lorenzo Palminteri), attore, regista, sceneggiatore cinematografico e commediografo, 21. Palmisano, Samuel, top manager, 138. Palumbo, Silvio, consulente finanziario, 152-153. Panariello, Giorgio, attore e conduttore televisivo, 31. Pannella, Marco, leader politico, 94. Paolantonio, Sal, reporter, 237. Parker, Sarah Jessica, attrice cinematografica, 147. Pascale, Vincenzo, italianista e docente universitario, xvi , 104. Pataki, George, governatore dello Stato di New York, 18, 118. Pat, ex agente di sicurezza, 42-43. Patrizio, santo, 83. Pavarotti, Luciano, tenore, 18, 30, 83. Pavia, Enrico, avvocato, padre di George, 157. Pavia, George, avvocato titolare di uno studio legale, 157-158.

Pavia, Mosè, consigliere del papa, 157. Pelé (Edson Arantes do Nascimento), calciatore, 112, 114. Pellegrino, Frank («Frankie No»), ristoratore, 60-61. Penn, Sean Justin, attore, regista, sceneggiatore e produttore cinematografico, 195. Pera, Marcello, filosofo, docente universitario e uomo politico, 94. Peres, Shimon, premier israeliano, 229. Pericoli, Holly, moglie di Matteo, 226. Pericoli, Matteo, architetto, illustratore e autore, xi, 223-226. Pernicone, Joseph Maria, vescovo, 19, 70. Perrone, Diego, artista, 223. Persichilli, Angelo, giornalista, 99. Pertini, Sandro, presidente della Repubblica, 18, 29. Pesce, Gaetano, architetto e designer, xi, 214, 216-218. Petraeus, David, comandante delle truppe americane in Iraq, 13. Petrini, Carlo, gastronomo, 184. Petrosino, Joe (Joseph), poliziotto, 5, 9-10, 41, 48. Petrucci, Amie, moglie di Gilberto, 232. Petrucci, Gilberto, ex fotografo, ristoratore, 232-234. Pezzulo, agente di polizia caduto l’11 settembre 2001, 5. Piacentini, Diego, top manager, 146. Piano, Renzo, architetto, xi, 193, 211-214. Picasso, Bernard, figlio di Marina e pronipote di Pablo, 220. Picasso, Claude, figlio di Pablo, 220. Picasso, Marina, nipote di Pablo, 220. Picasso, Maya, figlia di Pablo, 220. Picasso, Pablo, pittore e scultore, xi, 218-221.

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Picasso, Paloma, stilista e designer, figlia di Pablo, 220. Piccirilli, Attilio, scultore, 22. Picco, Giandomenico (Gianni), funzionario delle Nazioni Unite, xii, 107-112. Pignone, Carlo, architetto, 185. Pinochet, Augusto, generale, presidente del Cile, 166. Pio da Pietrelcina (Francesco Forgione, Padre Pio), religioso e santo, 26-27, 74, 78-79, 81. Piperno, Umberto, rabbino, 86-87. Pirandello, Luigi, drammaturgo e scrittore, 103, 199. Piro, Kristin, ballerina, 202-205. Pivi, Paola, artista, 223. Plumeri, Peter, studente di Italian Studies alla Rutgers University, 106. Polizzotto, Alfred, uomo d’affari, 35. Polizzotto, Florence, moglie di Alfred, 35. Pollack, Sydney, regista, attore e produttore cinematografico, 195. Pollock, Jackson, pittore, 222. Pope, Generoso, uomo d’affari, 90. Porcelli, Giovanni, sergente di polizia in pensione, presidente della Columbus Association, 5-6, 9-10. Porrati, Massimo, fisico, docente universitario, 175-178. Pound, Ezra, poeta e scrittore, 197. Prada, Miuccia, stilista e imprenditrice, 223. Prezzolini, Giuseppe, scrittore, 49. Prodi, Romano, premier e leader politico, 93, 115. Protkin, Fred, musicologo, 103. Putin, Vladimir, premier sovietico, 191. Puzo, Mario, scrittore, 92. Quitana, Ana, studentessa di Italian Studies alla Rutgers University, 106.

Rabito, Anthony («Fat Tony»), membro di un clan mafioso, 61. Raffaello Sanzio, pittore, 83. Ragusa, Gilda, moglie di Luigi e nonna di Kym, 208. Ragusa, Kym, scrittrice e regista di documentari e cortometraggi, 3, 191, 208-210. Ragusa, Luigi, nonno di Kym, 208. Rak, Rachelle, ballerina, 205. Ramiro, ristoratore messicano, 23. Randazzo, famiglia di pescivendoli, 19. Rao, Charles, ristoratore, 60. Rao, Vincent («Uncle Vinnie»), ristoratore e chef, 60-61. Raso, Joseph, presidente della Niaf, 92. Ratzinger, papa, vedi Benedetto XVI. Reagan, Ronald, presidente degli Stati Uniti, 120, 128-129, 171. Redford, Robert, attore e regista cinematografico, 195. Rembrandt, Harmenszoon van Rijn, pittore, 220. Renis, Tony (Elio Cesari), cantante, compositore e produttore discografico, 115. Rice, Condoleezza, donna politica, 137. Richardson, John, storico dell’arte, 220. Riggio, Leonard, imprenditore e manager, 134, 138. Rizzo, Salvatore, proprietario della scuola di cucina De Gustibus, 56. Rizzuto, famiglia di Toyland (Dyker Heights), 35. Rockefeller, David, banchiere, 140, 163. Rockefeller, John Davison, imprenditore e filantropo, 17. Rockefeller, Nelson, governatore dello Stato di New York, 64. Rooney, Elisabeth, studentessa di

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Italian Studies alla Rutgers University, 105-106. Roosevelt, Eleanor, moglie di Franklin Delano, 120, 122-123, 132. Roosevelt, Franklin Delano Jr, figlio di Franklin Delano ed Eleanor, uomo politico, 122. Roosevelt, Franklin Delano, presidente degli Stati Uniti, 17, 43, 112, 132. Rossellini, Roberto, regista, sceneggiatore e produttore cinematografico, 186. Rossotti, Alfred, membro del club del Tiro al Segno, 43. Rossotti, Charles, membro del Club del Tiro al Segno, 43. Ross, Steve, top manager, 150. Roth, Philip, scrittore, 193. Rumsfeld, Donald, uomo politico, 12. Rushdie, Salman, scrittore, 193. Rutelli, Francesco, leader politico, 94, 104. Saddam Hussein, presidente dell’Iraq, 10, 13, 109. Salerno, Anthony, boss mafioso, 233. Saliba, Jessica, studentessa di Italian Studies alla Rutgers University, 105. Sandretto Re Rebaudengo, Patrizia, collezionista d’arte, 223. Sani, Nicola, compositore, 211. Saper, Adam, imprenditore, 183, 185. Saper, Alex, imprenditore, 183, 185. Saviano, Roberto, scrittore, 32, 193, 197. Scalia, Antonin, giudice della Corte Suprema di Washington, 15, 18. Scarpa, Antonio, medico, direttore del Center for Scientific Review, 168-169.

Scarpelli, George, impiegato comunale, 65. Scelsa, Joseph, accademico, 36-38, 40-41. Schneier, Arthur, rabbino, 87, 228. Schumer, Chuck (Charles Ellis), uomo politico, 34. Scoppetta, Nicholas, viceprocuratore generale ed ex Fire Commissioner, 6. Scorsese, Charlie, artigiano, padre di Martin, 40. Scorsese, Martin, regista, sceneggiatore e produttore cinematografico, 40, 103, 227. Scott, Winfield, generale, 103. Seigel, Bugsy, gangster, 46. Serra, Richard, scultore, 219. Shahzad, Faisal, terrorista pakistano-americano, 7. Shultz, George, uomo politico, 109. Silvestri, Ciro, ristoratore, 97, 99. Sinatra, Frank, cantante e attore, 18-19, 31, 59, 79-80, 89, 131, 188, 234. Sindona, Michele, banchiere, 157158. Smith, Will (Willard Christopher), attore, rapper e produttore cinematografico, 195. Snooki, personaggio del serial televisivo Jersey Shore, 93. Sorrentino, Paolo, regista e sceneggiatore cinematografico, scrittore, 194-195. Spampinato, Vito, pensionato, parrocchiano di Our Lady of the Miraculous Medal, nel Queens, 77. Spata, famiglia di Toyland (Dyker Heights), 35. Spencer, Diana («Lady D»), principessa di Galles, 175. Sperone, Gian Enzo, gallerista, 223. Stabile, Francesco, banchiere, 36. Stalin (Iosif Vissarionovicˇ Džugašvili), leader politico, 179. Stallone, Sylvester, attore, sceneg-

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giatore e regista cinematografico, 84, 137. Steinberg, Jonathan, uomo d’affari, 136. Steinberg, Saul, finanziere, 136. Stella, cuoca in una tavola calda, 26. Steve, ex agente di sicurezza, 42-43. Stingel, Rudolf, artista, 221. Straci, Ron (Ronald), ristoratore, 60. Streep, Meryl (Mary Louise), attrice e produttrice cinematografica, 193-194. Strehler, Giorgio, regista teatrale, 103. Streisand, Barbra, cantante, attrice, regista e produttrice cinematografica, 234. Sulzberger, Arthur, imprenditore, 213.

Tozzi, Umberto, cantante, 80. Travolta, John, attore, cantante e ballerino, 50. Tremaglia, Pierantonio Mirko, uomo politico, 98. Tremato, Charles, veterano dell’Us Army e studente di Italian Studies alla Rutgers University, 105, 107. Tricarico, Donald, sociologo, 49-51. Trump, Donald, imprenditore, 228230. Trump, Ivanka, figlia di Donald, 228. Tsung-Dao Lee, fisico, premio Nobel, docente universitario, 179. Tyler, Harold, uomo politico, 128.

Talese, Gay, scrittore, xi, 65, 186189. Talese, Joseph, sarto, padre di Gay, 187-188. Talò, Francesco, console italiano a New York, 87, 97. Tamburri, Anthony Julian, direttore del John D. Calandra Italian American Institute, xii, 48-49, 51. Tardio, Daniel, capitano dei pompieri, 4. Teitel, famiglia di droghieri, 19. Teresa di Calcutta, Madre (Anjeza Gonxhe Bojaxhiu), religiosa, fondatrice di una congregazione, 165. Thompson, William, uomo politico, 64. Thomson, Todd, top manager, 136. Tito (Josif Broz), maresciallo, presidente della Jugoslavia, 180. Tonellotto, Walter, sacerdote, 70. Tornatore, Giuseppe, regista cinematografico, 103. Toscani, maggiore dell’Esercito, 43. Totti, Francesco, calciatore, 115.

Vaccara, Stefano, giornalista, 98. Vaccari, Laura, funzionaria delle Nazioni Unite, 111. Valenti, Umberto, gangster, 45. Valentini, Valentino, uomo politico, 167. Van Vranken, Vanessa, ballerina, 202-205. Vasquez, Sachelle, studentessa di Italian Studies alla Rutgers University, 106. Veltroni, Walter, leader politico, 94. Vendola, Nichi (Nicola), leader politico, 94. Verdi, Giuseppe, compositore, 55. Veronesi, Alberto, direttore d’orchestra, 210-211. Verrazzano, Giovanni da, navigatore, 64. Vezzoli, Francesco, artista, 221. Vieri, Bobo (Christian), calciatore, 227. Vigiano, agente di polizia caduto l’11 settembre 2001, 5. Virzì, Paolo, regista, sceneggiatore e produttore cinematografico, 194.

Uffner, George, gangster, 46. «Uncle Vinnie», vedi Rao, Vincent. Ungaro, Amanda, top model, 230.

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Visconti, Luchino, regista e sceneggiatore cinematografico, 186. Viscusi, Enzo, top manager, xvi. Vittorio Emanuele II, re d’Italia, 48. Voigt, Deborah, soprano, 211. Walter, Marie-Thérèse, amante di Pablo Picasso, 220. Walters, Barbara, giornalista e conduttrice televisiva, 136. Warhol, Andy (Andrew Warhola Jr), artista, 155, 221-222. Welch, Jack (John Francis), uomo d’affari e scrittore, 135. White, Michael, chef, 56. Williams, Tennessee (Thomas Lanier Williams), drammaturgo, 199.

Wintour, Anna, giornalista, 159, 161. Wojtyła, papa, vedi Giovanni Paolo II. Wonder, Stevie, cantante e compositore, 113. Zampolli, Paolo, imprenditore e immobiliarista, 227, 229-230. Zerilli-Marimò, Guido, manager, 102. Zerilli-Marimò Soncini, Mariuccia, baronessa, fondatrice della Casa Italiana della New York University, 102-104. Zerlenga, Franco, americanista, xiii, 99-101.