Gli elisir della scienza 9788806168322

Un viaggio in versi e in prosa nella storia e nelle mitologie della scienza. Un ritratto affascinante dei suoi protagoni

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Gli elisir della scienza
 9788806168322

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Hans Magnus Enzensberger Gli elisir della scienza Einaudi

Saggi 858

Sin dai suoi esordi letterari nei primi anni Sessanta, Hans Magnus En­ zensberger ha rivolto una particolare attenzione ai temi in senso piti am­ pio scientifici e alle biografie di personaggi noti e meno noti della storia, ila Alexander von Humboldt a Giovanni de’ Dondi (a Padova costruì Pa­ strano), da Darwin a Ugo Cerletti (al quale dobbiamo la scoperta dell’e­ lettroshock). Ne sono testimonianza famose raccolte come Mausoleum (che reca il significativo sottotitolo Trentasette ballate tratte dalla storia del progresso, 1979), La fine del Titanic (1990) e, in epoca più recente, un libro ormai leggendario come II mago dei numeri (1997). Scienza e poesia non solo affondano entrambe le loro antiche radici nel mito, ma il loro re-incontrarsi oggi appare più necessario che mai: trop­ po grande e pericoloso è lo iato che separa la riflessione etico-politica da una comunità scientifica che tende a considerare alla stregua di fastidiosi intrusi chiunque ponga critici interrogativi sul suo operato. Volgere uno sguardo attento alla poesia della matematica, della fisica, dell’astrono­ mia - non era stato lo stesso Kant a postulare la necessità di accostare il «cielo stellato» e la «legge morale»? - può tuttavia essere anche un eser­ cizio mentale utile e piacevole per chiunque. Per Gli elisir della scienza, un percorso dai toni ora ironici, ora ammo­ nitori, ora affettuosi, ora autenticamente accorati. Hans Magnus Enzen­ sberger ha assemblato poesie e interventi in prosa, molti dei quali inedi­ ti in Italia. L’esito è un puzzle che offre scorci davvero sorprendenti e che solo un poeta e un intellettuale cosi fuori dagli schemi come lui poteva offrirci. Hans Magnus Enzensberger è nato a Kaufbeuren, in Baviera nel 1929 e vive a Monaco. Fra le sue altre opere nelle edizioni Einaudi ricordiamo: Musica delfiituro (1997), Ma do­ ve sorto finito? (1998), Zigzag (1999) e Più leggeri dell'aria (2001).

ISBN 88-06-16832-0

€21,00

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«La figura dell’idiof savant, dello “scien­ ziato idiota” è impensabile senza il suo pendant, che s’incontra sicuramente an­ che piu spesso: Yidiot lettre, una specie che alligna fra i cultori delle scienze dello spi­ rito, gli artisti e gli scrittori, e che si sente forse anche piu a suo agio, nella sua limi­ tatezza, della sua immagine speculare. Ognuno di noi è notoriamente uno stra­ niero quasi ovunque sulla terra; allo stes­ so modo ognuno di noi è quasi in tutti gli ambiti dello scibile un mezzo o un totale analfabeta. Però ammetterlo è una cosa, un'altra è essere fieri dello status di igno­ rante. Lo studioso di Shakespeare che non ha mai letto una pagina di Darwin, il pit­ tore cui gira la testa nel sentir anche solo parlare di numeri complessi, lo psicoanalisia ehe non sa nulla dei risultati cui è per­ venuto l'entomologo, e il poeta che non è capace di stare ad ascoltare un neurologo senza addormentarsi, sono altrettante fi­ gure involontariamente comiche, non mollo lontane dall’istupidimento per pro­ pria scelta e colpa».

. ....... perlina Claudio l’amiiggiani, Sa/ίία deità me­ ni,»li/ l'i.'G Per gemile concessione dell'artista.

Hans Magnus Enzensberger è nato a Kaufbeuren, in Baviera nel 1929 e attualmente vive a Monaco. Fra le sue opere ricordiamo: Scrittura per ciechi (1964), Ah, Europa! (1989) e, nelle edizioni Einaudi, Palaver (1976), Mausoleum (1979), La fine del Tita­ nic (1990), La grande migrazione (1993), Prospettive sulla guerra civile (1994), Musi­ ca del futuro e II mago dei numeri (1997), Ma dove sono finito? (1998), Zig zag (1999), Piu leggeri dell’aria (2001) e mime Esterhazy (2002).



SAGGI

858

Titolo originale

Die Elixiere der Wissenschaft. Seitenblicke in Poesie und Prosa

© 2002 Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main © 2004 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino

www.einaudi.it ISBN 88-06-16832-0

Hans Magnus Enzensberger

Gli elisir della scienza Sguardi trasversali in poesia e in prosa

Traduzioni di Vittoria Alliata, Anna Maria Carpi, Umberto Gandini e Daniela Zuffellato

Giulio Einaudi editore

Indice

Gli elisir della scienza I. p.

5 7

19 21 25 28 32 35 37

Omaggio a Godei Ponte levatoio fuori servizio ovvero La matematica nell’aldilà della cultura I matematici Gottfried Wilhelm Leibniz Antoine Caritat de Condorcet Charles Babbage Alan Mathison Turing John von Neumann Isotopo

IL 41 44 47 50 52 54 63 65

Giovanni de’ Dondi Jacques de Vaucanson Etienne Jules Marey Frederick Winslow Taylor In memoria di Sir Hiram Maxim Progressi inquietanti Una lepre al centro di calcolo II vangelo digitale

III. 87 88 89

Disegno in bianco e nero Scienza astrale La cattedrale sotterranea

Indice

ιο6 i°7 108 109 117 118 II9

122 I24 I25

Attrattore strano Nozioni più precise su un albero Biforcazioni Ipotesi sulla turbolenza Macchina del clima Astrolabio Tycho Brahe Charles Messier Domande ai cosmologi Teologia scientifica

IV.

I29 Ol I34 136 140 Ι4Ι 157

Bibliografia Carlo Linneo Lazzaro Spallanzani Charles Robert Darwin Il semplice che è difficile da inventare Golpisti in laboratorio Peso atomico 12,011

V. ι6ι 162 164 166 168 169 170 172 174 178 181

Rete neuronaie Sistema limbico Apparato linguale A Cosa dicono i medici Meditazione clinica Sotto la pelle Raimondo di Sangro Ignaz Philipp Semmelweis Ugo Cerletti Wilhelm Reich VI.

'87 [90 192

Bernardino de Sahagùn Thomas Robert Malthus Alexander von Humboldt

Indice

Comunità di ricerca Discipline filosofiche Lo studioso del Rinascimento La pasta sfoglia del tempo. Una meditazione sull’anacronismo Ammirazione Perturbazioni temporalesche negli strati più alti Nell’album degli ospiti del vescovo Berkeley Gli errori Enigma del mondo Nota definitiva sulla questione della certezza Conversazioni sempre più ridotte Modello gnoseologico

195 197 199 200 217 219 221 222 224 225 22Ó 227

VII.

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La poesia della scienza

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Riferimenti bibliografici delle opere diH.M. Enzensberger

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Gli elisir della scienza

There is no science without fancy and no art without facts. VLADIMIR NABOKOV

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Traduzioni·. Vittoria Affiata, pp. 21-34, 41-51, 119-23,131-39,172-98, 227; An­ na Maria Carpi, pp. 5-6, 19-20, 35-38, 52-53, 63-64, 87-88, 106-18, 124-30, 140, 157-71, t99, 217-26; Umberto Gandini, pp. 7-18, 54-62, 65-84, 89-105, 141-56, 231-43; Daniela Zuffellato, pp. 200-216.

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Omaggio a Godei

Teorema di Münchhausen, cavallo, palude e codino, è una delizia, ma non dimenticare: Münchhausen era un bugiardo. Il teorema di Godei a prima vista appare poco appariscente, ma rifletti: Godei ha ragione.

«In ogni sistema sufficientemente complesso si possono formulare frasi che aH’interno del sistema non sono né dimostrabili né confutabili, a meno che il sistema non sia di per sé inconsistente». Puoi descrivere la tua lingua nella tua propria lingua: ma non del tutto. Puoi analizzare il tuo cervello col tuo stesso cervello: ma non del tutto. Ecc.

Per giustificarsi ogni sistema pensabile deve trascendersi, ossia distruggersi.

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«Sufficientemente complesso» o no: la libertà di contraddire è un fenomeno di carenza o una contraddizione. (Certezza = inconsistenza). Ogni pensabile uomo a cavallo, quindi anche Münchhausen, quindi anche tu, è un subsistema di una palude piuttosto ricca di sostanze

E un sottosistema di questo sottosistema è il proprio codino, questa specie di leva per riformisti e bugiardi.

In ogni sistema piuttosto ricco di sostanze quindi anche in questa palude, si possono formulare frasi che all’interno del sistema non sono né dimostrabili né confutabili. Prendile in mano, queste frasi, e tira!

Ponte levatoio fuori servizio ovvero La matematica nell’aldilà della cultura Uno sguardo dall’esterno

I toni sono sempre gli stessi: «Ma per favore! Al diavolo la ma­ tematica». - «Una tortura, già a scuola. Non so proprio come sono riuscito a passare l’esame di maturità». - «Un incubo! Sono davve­ ro completamente negato...». - «L’iva ancora ancora ce la faccio, con il calcolatore. Ma tutto il resto è troppo difficile». - «Formule ma­ tematiche? Veleno per me. Stacco semplicemente la spina». Sono affermazioni che si sentono fare tutti i giorni. Le pronun­ ciano con disinvoltura persone sicuramente intelligenti, colte, con un singolare misto di arroganza e fierezza. Si aspettano ascoltatori comprensivi, e questi non mancano mai. Si è stabilito un consenso generale che determina tacitamente ma in modo massiccio l’atteg­ giamento verso la matematica. A nessuno sembra dar fastidio che la sua esclusione dalla sfera della cultura corrisponde a una specie di castrazione intellettuale. Chi giudica deplorevole questa situazione, chi mormora qualcosa sul fascino e l’importanza, sulla portata e la bellezza della matematica, è considerato un esperto e guardato con stupore; e se si fa riconoscere come un cultore dilettante, passa nel migliore dei casi per uno stravagante che si occupa di uno hobby in­ solito, come se allevasse tartarughe o collezionasse fermacarte vit­ toriani. Molto più raramente si incontrano persone che asseriscono con uguale enfasi che la sola idea di leggere un romanzo, di osservare un dipinto o di andare al cinema causa loro insuperabili tormenti; di aver scrupolosamente evitato dai tempi della maturità ogni contatto con le arti, di qualsiasi specie; che non vogliono che si rammentino loro le prime esperienze con la letteratura o con la pittura. E non capita praticamente mai di sentir pronunciare anatemi contro la musica. Cer-

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to, c’è gente che, probabilmente non a torto, sostiene di non avere orecchio per la musica. L’uno canta a voce tendenzialmente troppo alta e in modo stonato, l’altro non sa suonare uno strumento, e sono pochissimi gli ascoltatori che accorrono ai concerti con la partitura sotto il braccio. Ma chi sosterrebbe seriamente di non conoscere una canzone ? Che si tratti delle Spice Girls o dell’inno nazionale, dei rit­ mi techno o di un corale gregoriano, nessuno è totalmente immune rispetto alla musica. E questo per una buona ragione. La capacità di fare e di ascoltare musica è insita geneticamente; fa parte degli uni­ versali antropologici. Ciò non significa naturalmente che saremmo tutti ugualmente portati alla musica. Come tutte le altre doti e qua­ lità, anche questo aspetto del nostro corredo segue la normale distri­ buzione gaussiana. In una popolazione qualsiasi, il talento estremo è raro quanto la totale sordità musicale, e il massimo statistico è rag­ giunto dalla posizione intermedia. Esattamente lo stesso accade ovviamente con le capacità matema­ tiche. Anche loro sono insite geneticamente nel cervello umano, e an­ che loro si distribuiscono in ogni popolazione esattamente secondo il modello della curva a campana. E dunque una concezione super­ stiziosa quella secondo cui il pensiero matematico sarebbe un feno­ meno raro, un esotico capriccio della natura. Ci troviamo dinnanzi a un enigma. Da che cosa dipende che la matematica sia rimasta nella nostra civiltà qualcosa come un buco ne­ ro, un ambito extraterritoriale in cui si sono arroccati solo pochi ini­ ziati ? Chi vuole semplificarsi la risposta dirà che la colpa è degli stessi matematici. Questa spiegazione ha il vantaggio della semplicità. Inol­ tre conferma il cliché che il mondo dei non addetti ai lavori si è sem­ pre fatto dei rappresentanti professionali della disciplina. Ci si figu­ ra il matematico come un profano sommo sacerdote che custodisce con gelosia il suo particolare Graal. Che volge le spalle alle comuni cose di questo mondo. Preso esclusivamente dai suoi incomprensibi­ li problemi, fatica a comunicare con il mondo esterno. Vive ritirato, considera le gioie e i dolori della collettività umana una fastidiosa sec­ catura e indulge più in generale a una asocialità che confina con la misantropia. A sua volta, con la sua pedanteria logica, dà sui nervi al

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prossimo. E soprattutto tende a una forma di alterigia difficilmente sopportabile. Intelligente com’è - nessuno gli contesta questa qualità - guarda agli sprovveduti tentativi degli altri di concepire questo o quel pensiero con sprezzante condiscendenza. Non gli verrebbe per­ ciò mai in mente di reclamizzare la sua causa. Fin qui la caricatura, che è tuttavia presa fin troppo spesso per oro colato. Il che è ovviamente una sciocchezza. A prescindere dalla loro attività, è da presumere che i matematici si distinguano poco dal­ le altre persone, e conosco uomini e donne del mestiere che sono al­ legri, navigati, arguti e a volte perfino irragionevoli. Senonché, nel cliché, come al solito, c’è un nocciolo autentico. Ogni mestiere ha i suoi rischi, le sue patologie specifiche, la sua déformation professio­ nelle. I minatori soffrono di silicosi, gli scrittori di disturbi narcisi­ stici, i registi di megalomania. Tutti questi difetti si possono ricon­ durre alle condizioni di produzione in cui i pazienti lavorano. Per quel che riguarda i matematici, la loro attività richiede so­ prattutto una estrema e protratta concentrazione. Sono macigni as­ sai resistenti quelli che devono perforare. Non c’è da stupirsi quindi che qualsiasi irritazione proveniente dall’esterno sia colta come una mancanza di riguardo. D’altra parte sono finiti da molto i tempi dei matematici universali dello stampo di un Euler o di un Gauss. Nes­ suno ha oggi più la padronanza di tutti gli ambiti della sua scienza. Questo significa però anche che, nella ricerca, la cerchia dei possibi­ li destinatari si restringe. Lavori che siano veramente originali sono inizialmente capiti solo da pochi colleghi del mestiere; circolano via posta elettronica fra una dozzina di lettori che stanno a Princeton, a Bonn e a Tokyo. E ciò comporta in effetti un certo isolamento. Que­ sti ricercatori hanno da tempo abbandonato il tentativo di rendersi comprensibili agli estranei, e può anche darsi che tale atteggiamento si ripercuota su altri, meno progrediti lavoratori nella vigna della ma­ tematica. Significativo in questo senso è un modo di dire che già la matri­ cola sente usare nel corso d’una qualsiasi lezione sulla teoria delle fun­ zioni o sugli spazi vettoriali. Questa derivazione o quella attribuzio­ ne, si dice, è «banale», e con ciò si chiude il discorso. Ogni ulteriore spiegazione è superflua; sarebbe per cosi dire al di sotto della dignità

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del matematico. Ora è in effetti faticoso e noioso dover ogni volta dipanare da capo ogni singolo elemento di una concatenazione di pro­ ve. Per questo i matematici sono abituati a sorvolare sui passi inter­ medi ricorrenti, ovvero a dare semplicemente per scontata la loro esat­ tezza mille volte verificata. Il che è indubbiamente economico. Senonché influenza il comportamento comunicativo in una direzione molto precisa. Fra gli addetti ai lavori è considerato un interlocuto­ re accettabile solo colui per il quale il banale è banale, si capisce cioè da sé. Tutti coloro cui ciò non si attaglia, e quindi almeno il 99% del­ l’umanità, sono considerati sotto quest’aspetto dei casi disperati, in­ trattenersi coi quali non vale semplicemente la pena. Si aggiunga poi che i matematici non solo si avvalgono, come al­ tri scienziati, di un particolare gergo specialistico, ma anche di un si­ stema di notazione che si distingue dalla consueta scrittura ed è in­ dispensabile per la comunicazione interna. (E anche qui si può par­ lare di un’analogia con la musica, la quale ha a sua volta sviluppato un suo proprio codice). Senonché la maggior parte della persone, non appena vede una formula, è presa dal panico. E difficile dire da do­ ve derivi questo riflesso di fuga, che risulta a sua volta incomprensi­ bile ai matematici. I quali sono infatti del parere che la loro notazio­ ne sia meravigliosamente chiara e molto superiore a qualsiasi lin­ guaggio naturale. Per questo non capiscono nemmeno perché dovrebbero prendersi la briga di tradurre le loro idee in tedesco o in inglese o in italiano. Un simile tentativo equivarrebbe, ai loro occhi, a una grossolana e inammissibile semplificazione. I matematici sarebbero dunque essi stessi responsabili dell’isola­ mento della loro scienza ? Avrebbero essi stessi voltato le spalle alla società e alzato deliberatamente il ponte levatoio di raccordo con la loro disciplina ? Solo chi sottovaluti il problema e la sua portata può semplificarsi a tal punto la risposta. Non è semplicemente ammissi­ bile che si lasci la gatta da pelare a una minoranza di esperti mentre una schiacciante maggioranza rinuncia spontaneamente a far proprio un capitale culturale di immensa portata e di straordinario fascino. Notoriamente l’ignoranza è una potenza celeste d’invincibile for­ za. La maggior parte delle persone sono probabilmente convinte che si possa vivere benissimo senza nozioni matematiche, e che questa

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scienza sia abbastanza insignificante da poterla affidare agli scien­ ziati che la praticano. Molti coltivano addirittura il sospetto che si tratti di un’arte non redditizia, la cui utilità non è affatto evidente. E possibile che si sentano confortati in quest’errore dalle concezioni di taluni matematici che difendono con parole forti la purezza del lo­ ro fare. Come per esempio l’eminente teorico inglese dei numeri God­ frey Harold Hardy, il quale ha reso la seguente, famosa confessione: «Io non ho mai fatto qualcosa che potesse essere “utile”. Nessuna delle mie scoperte ha mai avuto - nel bene o nel male - la benché mi­ nima importanza per il benessere del mondo, ed è un qualcosa a cui ritengo non si potrà mai rimediare. Io ho contribuito a formare altri matematici, però matematici della stessa mia specie, e il loro lavoro è stato, quanto meno fino a quando li ho aiutati a svolgerlo, inutile quanto il mio. Secondo tutti i criteri pratici di misurazione, il valore della mia vita matematica è pari a zero, e all’infuori della matemati­ ca è comunque banale». - Rieccola, la sospetta parolina banale, con la quale è bollato tutto ciò che l’autore disprezza. - «Io ho una sola possibilità», prosegue Hardy, «di sottrarmi a un verdetto di totale banalità, vale a dire che mi si riconosca di aver creato qualcosa che valeva la pena di creare. Che io abbia creato qualcosa è inconfutabi­ le; il problema è solo se valga qualcosa». (A Mathematician’s Apology, Cambridge 1967; [Apologia di un matematico, traduzione di Luisa Saravai, Milano 2002]). Una definizione perfetta! Con una modestia che non si può qua­ si distinguere dalla spocchia aristocratica. Nulla è più estraneo a un matematico come Hardy dell’ambire al riconoscimento del prossi­ mo e dell’appellarsi all’utilità pratica del suo lavoro. E con ciò ha ragione e torto insieme. Il suo atteggiamento è simile a quello di un artista. Esclusivamente dal punto di vista dell’economia aziendale, si sarebbero trovati in difficoltà non solo Ovidio e Bach, ma anche Pitagora e Cantor. Il loro lavoro non avrebbe molto probabilmen­ te fruttato quell’immediata rendita del 15 per cento che passa og­ gi, all’insegna del shareholder value, per norma cogente. Certo, la stragrande maggioranza delle attività umane risulterebbe inutile da questo punto di vista. (Osservazione incidentale: la ricerca mate­ matica fa parte delle prestazioni culturali più a buon prezzo. Men-

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tre si calcola che il nuovo acceleratore di particelle del cern di Gi­ nevra verrà a costare dai quattro ai cinque miliardi, l’Istituto Max Planck per la matematica pura di Bonn, un centro di ricerca di fama mondiale, assorbe solo lo 0,3 per cento del bilancio della società Max Planck. Grandi matematici come Galois o Abel sono stati per tutta la loro vita poveri in canna. Sarebbe difficile trovare dei geni più a buon prezzo). L’autonomia che Hardy rivendica per la sua ricerca di base trova un corrispettivo nelle arti, e non è sicuramente un caso che i criteri estetici non siano estranei alla maggior parte dei matematici. A loro non basta che una dimostrazione sia stringente; ambiscono all’«ele­ ganza». Vi si esprime un senso del bello molto preciso, che ha carat­ terizzato fin dai primordi il lavoro matematico. Il che ripropone nuo­ vamente la sibillina questione del perché il pubblico sappia bensì ap­ prezzare le cattedrali gotiche, le opere di Mozart e i racconti di Kafka, e invece non il metodo della discesa infinita o l’analisi di Fourier. Sotto il profilo dell’utilità sociale, è tuttavia facile confutare le as­ serzioni di Hardy. Un ingegnere che debba calcolare i parametri di un comunissimo motore elettrico, si avvale con la massima ovvietà dei nu­ meri complessi. Wessel e Argand, Euler e Gauss, quando crearono a cavallo fra l’Ottocento e il Novecento le basi teoriche per quest’am­ pliamento del sistema numerico, non potevano minimamente immagi­ narlo. Senza il sistema numerico binarip sviluppato da Leibniz, i nostri computer sarebbero impensabili. Einstein non avrebbe potuto formu­ lare la sua teoria della relatività senza i lavori preliminari di Riemann, e i fisici quantistici, i cristallografi e i tecnici delle comunicazioni si tro­ verebbero con le mani alquanto vuote senza la teoria dei gruppi. L’e­ splorazione dei numeri primi, un ramo della teoria dei numeri di un fa­ scino inesauribile, è da sempre considerata una specialità esoterica. Per un paio di millenni, e quindi non solo dai tempi di Eratostene e di Eu­ clide, le menti migliori si sono occupate di questi numeri estremamen­ te capricciosi, e nessuna di esse sarebbe mai stata in grado di dire a che cosa ciò potesse servire: fino a quando nel secolo appena concluso, im­ provvisamente, uomini dei servizi segreti, programmatori, militari e banchieri hanno capito che si possono fare guerre e affari con le scom­ posizioni in fattori primi e i codici a chiave pubblica.

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L’inopinata praticabilità dei modelli matematici ha un qualcosa di sbalorditivo. Non è affatto chiara la ragione per cui costrutti menta­ li estremamente precisi, concepiti lungi da ogni empiria, in un certo senso come l’art pour l’art, risultino talmente adatti a spiegare e a ma­ nipolare il mondo reale cosi come ci è dato. Più d’uno si è meravi­ gliato della «unreasonable effectiveness of mathematics». Per tempi più pii, quest’armonia prestabilita non era un problema; Leibniz potè ancora sostenere in tutta tranquillità che con l’aiuto della matemati­ ca noi potremmo «acquisire una rallegrante visione delle idee divi­ ne», semplicemente perché il primo matematico fu l’Onnipotente in persona. Oggi i filosofi hanno, in materia, perplessità notevolmente maggiori. L’antica disputa fra platonici, formalisti e costruttivisti sembra insabbiarsi in un grigio pareggio. I matematici, nella loro pras­ si, non si occupano quasi di simili problemi. Si potrebbe cogliere una spiegazione ovvia (che tuttavia non gode di grande favore fra i cu­ stodi della tradizione) nel fatto che sono gli stessi, identici processi evolutivi quelli che hanno prodotto l’universo e il nostro cervello, co­ si che un debole principio antropico provvede affinché noi si ritrovi le stesse regole del gioco nella realtà fisica e nel nostro pensiero. Nel discorso di insediamento che tenne a Tubinga del 1927, Kon­ rad Knopp potè dichiarare trionfalmente che la matematica era «la base di ogni conoscenza e il supporto di ogni superiore cultura». Una formulazione esagerata e patetica, ma non sbagliata. Il fatto è che l’u­ tilità palpabile, l’applicazione tecnica subentrano comunemente solo a posteriori, per cosi dire all’insaputa dei pionieri matematici che, co­ me Hardy, battono rigorosamente le loro strade di cui nessuno può dire a priori dove condurranno. Le mediazioni fra matematica pura e applicata sono spesso difficili da cogliere; e anche questa può esse­ re una ragione per cui il valore posizionale della ricerca matematica è nelle odierne società irrealmente sottovalutato. Del resto non c’è probabilmente altro settore in cui il time lag culturale sia talmente enorme. Il comune grado di conoscenza è arretrato di secoli, e si può anzi affermare tranquillamente che vaste parti della popolazione non sono mai andate oltre lo stato raggiunto dalla matematica al tempo degli antichi greci. Un’arretratezza comparabile nei campi della me­ dicina o della fisica, per esempio, comporterebbe probabilmente ri­

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schi mortali. In modo meno diretto quest’affermazione dovrebbe va­ lere anche per la matematica; perché non c’è mai stata una civiltà che sia stata talmente permeata fin nelle cose di ogni giorno dai metodi matematici, e che ne dipendesse talmente come la nostra. Il paradosso culturale con il quale abbiamo a che fare potrebbe anche essere ulteriormente accentuato. Ci sono cioè degli ottimi mo­ tivi per affermare che viviamo in un periodo d’oro della matematica. In ogni caso, le prestazioni contemporanee sono, in questo campo, sensazionali. Temo che le arti figurative, la letteratura e il teatro usci­ rebbero alquanto malconci da un confronto. Non mi credo capace di motivare più precisamente quest’affer­ mazione. In quanto incorreggibile profano, sono in grado di seguire gli argomenti dei matematici solo per linee estremamente grossolane. Spesso posso considerarmi già contento quando riesco a capire qua­ le sia il loro problema. Anche per me il ponte levatoio di raccordo con la loro isola rimane sollevato. Il che non mi impedisce tuttavia di lan­ ciare qui e là un’occhiata sull’altra sponda. Ciò che mi pare di scor­ gervi mi mette in ogni caso nella condizione di rendere plausibile la mia tesi con un paio di esempi. Probabilmente la maggior parte delle persone non hanno mai sen­ tito parlare del problema del numero di classi. Si tratta di uno dei più difficili enigmi della teoria dei numeri. Formulato nel 1801 da Gauss, è stato definitivamente risolto da Zagiere Gross nel 1983 dopo com­ plessi lavori preparatori. Tanto tempo ci è voluto per dimostrare il cosiddetto teorema della classificazione. Si trattava di ordinare l’in­ finita varietà dei gruppi semplici: i quali portano completamente a torto il loro nome, perché sono di natura maledettamente comples­ sa. Soltanto centottanta anni dopo l’impostazione della teoria dei gruppi, Aschbacher e Solomon ne hanno trovato la chiave di volta. Posso risparmiarmi altre prove. I due teoremi di incompletezza di Godei, che è stato probabilmente il matematico più geniale dello scor­ so secolo, sono sufficientemente noti. E dovrebbe anche essere cir­ colata voce che l’ultimo teorema di Fermat, attorno al quale tre se­ coli si sono inutilmente consumati i denti, è stato dimostrato solo nel­ l’anno 1995 da Andrew Wiles. Vorrei vedere il campionato di calcio che potesse concorrere con simili trionfi, per non parlare delle Do­ cumenta e degli incontri teatrali degli ultimi anni.

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Ciononostante non si registrano esplosioni di entusiasmo da par­ te del pubblico: con il che torniamo alla domanda di partenza delle mie riflessioni. E a questo punto non rimane che un unico capro espia­ torio, e cioè la nostra socializzazione intellettuale; ovvero, per dirla con maggior precisione: la scuola. E il problema non è tanto quello dell’acuto eccesso di pretese di cui quest’istituzione oggi soffre. Le omissioni sono più profonde e hanno radici più antiche. Ci si può chiedere se nei primi cinque anni del curriculum scolastico esista dav­ vero un qualcosa come un’istruzione matematica. Ciò che vi si inse­ gna era in passato perfettamente a ragione definito «far di conto». Ancora oggi i bambini vengono tormentati per anni quasi esclusivamente con una desolante routine, un modo di procedere che risale ai tempi dell’industrializzazione e che è ormai diventato obsoleto. Fi­ no alla metà del ventesimo secolo il mercato del lavoro chiedeva alla maggior parte degli occupati solo tre rudimentali capacità: leggere, scrivere e far di conto. La scuola elementare esisteva per fornire una forza lavoro appena alfabetizzata. Il che spiegherebbe perché si sia imposto e incardinato un rapporto puramente strumentale con la ma­ tematica. Ora io non intendo negare che sia sensato imparare le tabelline, conoscere la regola del tre semplice e far calcoli con le fra­ zioni. Ma tutto questo non ha nulla a che fare con il pensiero mate­ matico. È come se si introducesse la gente alla musica facendola esercitare per degli anni nell’esecuzione delle scale musicali. Il risul­ tato sarebbe probabilmente un odio a vita per quest’arte. Nelle classi scolastiche superiori la situazione, per lo più, non cam­ bia. La geometria analitica è trattata prevalentemente come una rac­ colta di ricette, e lo stesso vale per il calcolo infinitesimale. La con­ seguenza è che si possono ottenere buoni voti senza aver sostanzial­ mente capito nulla di ciò con cui si ha a che fare. Ogni maturando si goda pure la bella promozione, tanto più che non ha la benché mini­ ma influenza sul piano di studi e sulla metodologia didattica. Però poi non ci si deve meravigliare se, alla fin fine, quest’istruzione pro­ muove l’analfabetismo matematico. Quanto al suo scopo funzionale, lo ha da tempo perduto, perché gli standard del mercato del lavoro e della tecnica sono decisamente cambiati negli ultimi decenni. Non c’è sedicenne che veda il perché debba perdere tempo con noiosi cal­

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coli che qualsiasi calcolatore tascabile acquistato in un grande ma­ gazzino può fare più rapidamente e meglio di lui. Il tradizionale insegnamento della matematica tuttavia, non solo annoia, ma fa soprattutto torto all’intelligenza degli allievi. Pare es­ sere un’idea fissa della pedagogia quella che i bambini non siano ca­ paci di pensiero astratto. Mentre si tratta ovviamente di una con­ vinzione infondata. E semmai giusto il contrario. Il concetto dell’infinitamente grande e dell’infinitamente piccolo è, per esempio, immediatamente accessibile a livello intuitivo per qualunque scolaro di nove o dieci anni. Molti bambini sono palesemente affascinati dal­ la scoperta dello zero. Si può sicuramente spiegar loro che cosa sia un valore limite, e la differenza fra conseguenze convergenti e divergenti risulta loro senz’altro evidente. Quanti bambini mostrano un inte­ resse spontaneo per i problemi topologici. Li si può perfino diverti­ re con le questioni elementari della teoria degli insiemi o del calcolo combinatorio a patto di sfruttarne il senso innato per le simmetrie, e cosi via. Probabilmente la loro capacità di assimilazione delle idee matematiche è maggiore di quella di gran parte degli adulti; questi hanno infatti ormai alle spalle il consueto processo formativo. E dei danni che ne hanno derivato i più non si riprenderanno mai. Sarebbe tuttavia scorretto colpevolizzare per il disastro solo gli insegnanti di matematica. Queste persone degne di commiserazione sono non soltanto perseguitate dalle pretese della didattica e delle sue mode, ma devono anche operare al guinzaglio della burocrazia mini­ steriale che prescrive loro piani di studio e obiettivi di apprendimento assolutamente brutali. Forse è colpa dello status di pubblico funzio­ nario se il corpo insegnante - come si è visto in Germania in occa­ sione della cosiddetta riforma ortografica - è incline all’ubbidienza precipitosa e sconsiderata. Un certo timore impedisce a molti di ap­ profittarsi dello spazio di libertà che l’illicenziabilità di fatto loro apre. Esistono tuttavia insegnanti che si oppongono alle ruotine ob­ solete che si pretendono da loro e riescono a comunicare ai loro al­ lievi le bellezze, le ricchezze e le sfide della matematica. I loro suc­ cessi sono di per sé eloquenti. Anche al di fuori del sistema dell’istruzione ci sono sintomi spo­ radici che inducono a sperare che il fondo dell’ignoranza matemati­

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ca sia stato toccato e che il fenomeno abbia cominciato una fase di inversione. Innanzi tutto sembra che qualcosa stia cambiando nel­ l’atteggiamento degli scienziati. L’odierna generazione di matemati­ ci corrisponde meno che mai al cliché del personaggio introverso e appartato. Questa affermazione vale soprattutto per il mondo anglosassone. A favore di un simile cambio di mentalità parlano non solo evidenti motivazioni esteriori come la lotta per i mezzi occorrenti per la ricerca. Esso ha soprattutto motivi interni alla matematica. La co­ siddetta crisi dei fondamenti della prima metà del secolo scorso può aver contribuito al fatto che cominci a imporsi un habitus meno ri­ gido. Si è anche ridotto il distacco tradizionale fra la ricerca pura e quella applicata, da quando i committenti e i beneficiari si sono fat­ ti convincere che dalla ricerca di base si possono trarre profitti più rapidamente che mai. Possibilità del tutto nuove sono state inoltre aperte dalla matematica sperimentale sorretta dai computer, benché i suoi metodi siano stati a lungo esposti al sospetto di scarso rigore. E quanto alla tradizionale spocchia della disciplina, ho l’impressione che sia stata oggi incrinata da una leggera ironia. Più che in passato i matematici sono consapevoli della loro fallibilità; si sono resi conto che la loro cattedrale non sarà mai compiuta e che per quest’opera non può nemmeno darsi un progetto esauriente. Molti di loro sono perfino disposti a parlare con i non-matematici. Non c’è da stupirsi che ciò debba portare a delle difficoltà di com­ prensione. E un buon segno che negli ultimi decenni si siano trovati sempre più interpreti specializzati nel tradurre il linguaggio formale della disciplina in linguaggi naturali. Si tratta di un’impresa estre­ mamente delicata, ma allo stesso tempo molto conveniente. Anche in quest’ambito sono all’avanguardia gli autori anglosassoni. Famosi «pontieri» come Martin Gardner, Keith Devlin, John Conway e Phi­ lip Davis hanno fatto in questo campo del lavoro pionieristico; in Germania si debbono importanti servizi di mediazione resi da perio­ dici divulgativi come «Spektrum der Wissenschaft» e da pubblicisti come Thomas e Gero von Randow. Occasionalmente perfino i mez­ zi di comunicazione di massa si sono impossessati di temi matemati­ ci, come nell’anno 1976 quando Appel e Haken risolsero il problema dei quattro colori, forse più famigerato che rilevante. Il rischio che

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si arrivi a delle deformazioni alla moda, come nel caso delle teorie sul caos e delle ipotesi catastrofiche deve essere evidentemente corso. Qui svolgono una loro parte non solo gli equivoci semantici. L’affa­ re Sokal ha dimostrato quali figuracce si possono fare quando dilet­ tanti incorporano concetti scientifici nel loro gergo approssimato sen­ za sapere di che cosa stanno parlando. D’altra parte è un indizio pro­ mettente che L’ultimo teorema di Fermat, un thriller scientifico assolutamente serio di Simon Singh, sia diventato un bestseller in­ ternazionale. Occorre una certa temerarietà per intraprendere simili tentativi di traduzione in una cultura che si distingue per una profonda igno­ ranza matematica. Non so resistere alla tentazione di citare parte di un dialogo che Ian Stewart, matematico di professione, ha premesso al suo libro Fhe Problems of Mathematics. Un esperto si intrattiene con un immaginario profano. il matematico Si tratta di una delle più importanti scoperte dell’ultimo decennio. il profano Me la può spiegare in parole che siano comprensi­ bili ai comuni mortali ? il matematico Non è possibile. Non può farsene un’idea se non capisce i dettagli tecnici. Come posso parlare di varietà senza preci­ sare che i teoremi di cui si tratta valgono solo se queste varietà sono di dimensione finita, di Hausdorff, paracompatte e senza bordo ? il profano E allora menta un po’. il matematico Non mi si confà. il profano E perché no ? Anche tutti gli altri mentono. il matematico {prossimo a cedere alla tentazione ma in conflitto con l’abitudine di una vita) Ma io devo attenermi alla verità. il profano Certo. Però può distorcerla un poco se in tal modo diviene più comprensibile ciò di cui si occupa. il matematico (scettico, ma spronato dalla sua stessa audacia) Se ci tiene. Azzardo un tentativo. E l’esperimento di un’alfabetizzazio­ ne, un progetto complesso e lungo, ma molto promettente, che do­ vrebbe cominciare in tenera età e che potrebbe procurare ai nostri cervelli fin troppo pigri un certo allenamento e sensazioni di piacere del tutto inusuali.

I matematici

Radici in nessun luogo radicate, illustrazioni per occhi chiusi, nuclei, somme, convoluzioni, fibre: questo bianchissimo fra tutti i mondi coi suoi insiemi, chiusure e intersezioni è la vostra terra promessa. Voi siete orgogliosi di perdervi nell’innumerabile, in quantità di vuote, magre, esterne, in sé dense, trascendenti quantità.

Spettrali conversari tra scapoli: la congettura di Fermat, l’obiezione di Zermelo, il lemma di Zorn.

Da fredde illuminazioni abbacinati sin da ragazzi, avete rifiutato con un’alzata di spalle i nostri piaceri di carne. Poveri di parole, incespicate, obliando voi stessi, sospinti dall’angelo dell’astrazione,

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su campi di Galois e superfici di Riemann, traverso spazi di Hausdorff, nella polvere di Cantor fino ai ginocchi.

Poi, sui quaranta, ve ne state, o teologi senza Geova, calvi e malati di altitudini, in abiti stinti, alle scrivanie vuote, arsi e riarsi, o Fibonacci, o Kummer, o Godei, o Mandelbrot, nel purgatorio della ricursione.

Gottfried Wilhelm Leibniz 1646-1716

Non conosciamo i suoi sentimenti. La periferia si mostra corretta come in ogni perfetto congegno. L’abito del consigliere aulico è adorno di galloni, bottoni, fasce, frange e merletti. Sotto il fil di ferro della parrucca, il circuito stampato, un groviglio assai fitto. Il moto immoto regna sotto la scatola cranica. Registrazione, elaborazione e memorizzazione dei dati: Schedatura delle conoscenze. «Monadiche Auszüge», «Journal des Savants», «Acta eruditorum» Ciò che il mondo perplesso eredita, è un fienile colmo di annali, perizie, aides-mémoires, cataloghi, miscellanee; un guazzabuglio di indici ed indici di indici ed indici di indici di indici...

(Noi del controspionaggio non fummo mai del tutto convinti di L. Certo, è un genio, nessuno glielo contesta. Eppure qualcosa gli manca: e sono proprio gli errori. I suoi «connotati umani», un certo gusto del denaro, una leggera podagra, sono camuffamenti, raffinati nodi nella sua struttura programmata, trucchi per trarci in inganno. E ce l’ha quasi fatta. Prova ne è che in sede di governo fino ad oggi nessuno ha sollevato dubbi. Noi però lo diciamo chiaro e tondo: L. è un prodotto fittizio e presumibilmente presta servizio per una lontana e ignota potenza)

Ma proprio Hannover, dove le abitazioni sono tanto anguste! Questo suo prediligere borghi gretti e contadi della provincia tedesca, malconci e maleolenti,

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onde non dar nell’occhio, dà anzi da pensare. Colleziona fossili e pare anch’egli pietrificato. Invece, frenetico, espande la sua rete, esplora, registra. Incontra ad Amsterdam Spinoza, Newton a Londra, Kircher a Roma, a Basilea i Bernouilli. Interessi cinesi: scambio di corrispondenze con Pechino. Novissima Sinica·, del sistema numerico binario e dell’/ Ching. Colloqui nei parchi sulla pianificazione delle ricerche, trattative nelle cancellerie. Sballottato in carrozza, ronza, come un’intera accademia, per le carraie d’Europa.

(Dai nostri dossier, dice la Cia, risulta quanto segue: Vita privata: inesistente. Interessi sessuali: nulli. Cretinismo emotivo. Il suo rapporto col prossimo è il dibattito, altri rapporti non ne ha. Ciò che irrita inoltre non poco, è la sua insana diligenza. In qualsiasi situazione e luogo, ovunque e sempre, scrive, legge o calcola. Quella sua macchinetta che estrae le radici, l’ha sempre sotto mano. E il cilindro ruota. Come un automa. Come un automa che ha costruito un automa).

I suoi programmi se li scrive da sé. Gli algoritmi sono nuovi: calcolo infinitesimale e delle probabilità. D’arti lulliche s’inebria: un vero e proprio trip: Characteristica universalis.

Che la macchina del mondo, seppur inconsapevole, nondimeno è ragionata, è un presupposto che gli ronza in testa. Trattasi dunque soltanto di estrarla, codesta ragione. O calcoli combinatorii! O sancta simplicitas ! I Ching: si raccolgono un paio di achillee, si procede dividendo gli steli e contando, dividendo e contando e dividendo gli steli e si ottiene l’oracolo, un metodo generale grazie al quale non v’è verità della ragione che non possa esser ricondotta ad una sorta di calcolazione. Sì stabilirebbe al tempo stesso un codice o un linguaggio, in grado di spezzare l’errore e di indirizzare altresì la ragione.

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(Noi però presumiamo che sia nella natura stessa degli automi d’ottimare l’ottimismo. Idea fissa in loro è l’armonia. E la loro coscienza, ch’è felice, la palesa immancabilmente. A parte tutto ciò la commissione si domanda, come mai questo L. abbia scoperto, con duecento anni di anticipo, l’algebra di Boole, e come risposta non trova che un’unica spiegazione possibile: L. è un astronauta meccanico, una sonda ultraterrena).

Formula sentenze metafisiche in quantità del tutto incalcolabili, ed emette una nube di filosofemi che cela la sua padronanza delle scienze padronali: Navigazione, Commercio, Manifatture : i vantaggi di queste cose scaturiscono dalla conoscenza della natura e della matematica. Nello sfruttamento delle miniere metallifere dello Harz sorgono problemi di regolazione idrica: secchielli e ruote dentate, argani e verricelli non bastano. Falla anche il controllo dell’areazione. Egli progetta quindi ingegnosi sistemi di trasporto e per ventilare, pompe e canali d’areazione. Inoltre s’immerge negli enigmi del fosforo, delle colture di colza, delle riforme monetarie; inoltre propone osservatori, bancogiri, colorifici; inoltre pianifica, senza il minimo scrupolo, il sostegno del corso dell’argento e la conquista d’Egitto. (Il Santo Uffizio constata: non vengono da noi condivise le obiezioni che contro di lui si sollevano, in quanto L. è soltanto una macchina, ed esseri superiori, ai quali è stata assegnata la terra come dimora, si servono di lui. Si accalcano e si muovono per il mondo migliaia d’invisibili mani, quelle degli angeli, che delle sue si servono a guisa di guanti e con finalità che noi non supponiamo).

Sovente la verità ci si fa incontro, truccata, indebolita, d’incarnato pallido, dalla scarsa capigliatura, dalle mani fredde, oppure camuffata, addirittura corrotta e mutilata·, dal fare rigido

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e compassato, dal ronzio funzionale e monotono di bambola meccanica, il che riduce il suo valore e rendimento. Sento in bocca un sapore di ferro·, ecco, finalmente egli stesso lo ammette. Fantasia non ne ha. Eppure quando fossimo in grado di svelarla (la verità) sapremmo dalfango trarre l’oro, dalle grotte il diamante e dalle tenebre la luce, evidenziando con massima chiarezza il progresso delle nostre cognizioni. Già, già ! Uno sconosciuto pretende eh ’egli si fosse, negli ultimi giorni, adoprato infine a decifrare il linguaggio degli angeli.

Antoine Caritat de Condorcet

1743-1794

La bontà brillava nei suoi occhi. E per lo più, come Schlemihl apparentemente senza ombra: ragionevole, nobile, onore e vanto della scienza, pur essendo nato aristocratico, tuttavia Γamore per l’umanità lo condusse tosto sul sentiero della rivoluzione. Nel suo ultimo nascondiglio scrisse La luce a due passi dalla morte dell’Illuminismo garantisce a tutti noi che, al chiarore di un moccolo di candela un futuro radioso ci attende. Testa o croce: è davvero un gran peccato che il cittadino marchese perdesse entrambe contemporaneamente. Le nostre condoglianze. D’altronde il terrore è una sorta di trie trac: un gioco stocastico. Per un certo tempo passò per una mente agile e fredda. Ispettore della zecca, Direttore della Navigazione, Segretario Permanente dell’Accademia. Carriera sobria ma poliedrica, memore del benessere collettivo. S’interessava inoltre della teoria delle comete, del problema dei tre corpi celesti e di statistica commerciale. Eppure parrebbe che il suo spirito, perennemente proteso in avanti, le allusioni alle attuazioni anteponga. Aha! Preferisce le allusioni ! Provvedete subito al mandato di cattura.



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Si dà alla macchia, lo condannano a morte. Non c’è da stupirsene. Chi è si virtuoso, si liberale, di si nobile stirpe, generalmente lo si liquida per primo.

I consueti epiteti dal repertorio degli elogi e necrologi: «ingegnoso», «sensitivo», «marito e padre affettuoso». Certo, certo. Solo che la cantilena della pietà lascia irrisolte innumeri questioni. Per esempio quella del fiocco bianco tra i capelli: è vero che la sua mamma lo votasse per bigotteria alla Madonna, e che egli frequentasse prelati fino all’età di quindici anni, in cuffia e crinolina, sempre immerso in preghiera ? Vi è forse qualche rapporto, e quale, tra queste voci e il fatto che questo timido, roseo e distinto personaggio, diventasse il precursore dei più rudi tecnocrati ? Nel regno dell’esperienza è la probabilità che governa·, ovvero arte politica, volontà del popolo, commercio e industria, non sono che una sorta di trie trac cui conviene applicare modelli matematici. Danni emergenti e lucri cessanti diventano calcolabili, e gli sciamani della teoria ci insegnano d’ora in poi I vantaggi che ottiene colui che sa calcolare il proprio gioco rispetto a tutti coloro che al contrario si affidano all’istinto o alla routine. Dobbiamo ringraziarlo per le catene di Markov e per il principio minimax: al cittadino marchese noi stringiamo la mano. Precedette la ghigliottina. Se fosse tuttavia vero che nella sua cella lo trovarono ucciso da una forte dose di veleno che da tempo seco recava, quali conseguenze trarne

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in rapporto alla sua tavola storica del progresso del genere umano ? Spruzzi di bianco filosofale, frasi morbide come ovatta. Le scrisse dunque col veleno già in bocca? Raccomandiamo cautela in caso di inalazione. La barbarie è per sempre sconfitta. Un fluido ingenuo ci penetra nelle narici, e noi ci chiediamo come stanno in realtà le cose, se questa sua filosofia è scaramanzia, profumato sarcasmo, giaculatoria, monomania oppure bluff ?

Charles Babbage 1792-1871

Di carattere alquanto bizzarro. Massiccio, irascibile, goffo: un inasprito scapolo dalle orecchie dolenti. Brandendo alto un bastone insegue una frotta di monelli, trombettieri e suonatori d’organetto. Al vedere la nipote indietreggia: un telaio da ricamo sulle pallide ginocchia da bambina. Nessun biografo allude a questi infocati sogni di macchine a vapore e riccioli d’oro.

Una volta, tenuto per mano dalla mamma, scorse in un palazzo illuminato a giorno in Hanover Square, un automa di Vaucanson (la danzatrice meccanica), e il rotismo si mise in movimento. Un brusio nella testa del ragazzo, un sommesso, pervicace brusio. Per settant’anni il meccanismo non cessò mai di ruotare. Compiti: calcolare la relativa frequenza delle diverse cause di rottura dei vetri non convessi delle finestre; precisare quante probabilità sussistano, che un uomo risusciti dalla morte (Soluzione: 1 : 1012); sistemare ventimila aghi gettati alla rinfusa in una cassa, in guisa tale, che le loro punte tutte siano rivolte nella medesima direzione; trovare un metodo che consenta, di qualsivoglia creazione della natura e dell’umano zelo, di riprodurre facsimili. I suoi viaggi attraverso l’Europa in una carrozza che si era disegnata da sé,

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in cui poteva dormire e cucinare le uova, i cui cassetti contenevano progetti d’ingegneria, marsine e telescopi, e inoltre un clistere. La sua spedizione sul Vesuvio, una fiala con sali aromatici, un bastone da passeggio disintegratosi tra le fiamme: reminiscenze delle passeggiate di Spallanzani e memorie del Romanticismo. Ma quando il povero Tennyson gli inviò i suoi versi (Every minute dies a man I Every minute one is bom), egli gli consigliò, nella prossima edizione del Suo eccellente poema, di correggere l’erroneo calcolo come segue : «Ogni minuto nascono uno virgola uno sei sette esseri umani».

Tra breve inventerà una macchina per scrivere romanzi, asserì Emerson. E l’altro, di riscontro: il mercato suino di Padova e la Piera del libro di Lipsia: lo stesso identico serraglio. L’automa, che in vece di quella costruì, non emetteva letteratura ma logaritmi. Ogni qualvolta il congegno imbattuto si fosse in una radice immaginaria, lo avrebbe annunciato suonando un campanello.

Nel milleottocentotrentaquattro, l’anno del Messaggero dell’Assia, Charles Babbage, nevrotico ossessivo, fellow della Royal Society, fondatore del calcolo meccanico, concepì la scheda perforata. La fabbricazione di uno spillo la suddivise in sette tappe successive: Tendere Trafilare Appuntire Torniare Munire di capocchia Stagnare e Imballare, e le spese per i salari le valutò con estrema precisione a un milionesimo di penny. A parecchi tiri di schioppo dal camino di Mister Babbage sedeva un comunista nel British Museum; verificò il calcolo e accertò che era in effetti esatto. Era una sera di nebbia. Dai torchi e dagli ingranaggi delle industrie emanava un sommesso, ininterrotto ronzio.



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Le grandi opere incompiute: Il Capitale e la macchina analitica. Otto lustri vittoriani. Il primo computer digitale, senza valvole, senza transistor. Pesante cinque tonnellate, grande come una stanza, un rotismo d’ottone, di stagno e d’acciaio, azionato da molle e da pesi, capace di qualunque calcolo, in grado di giocare a scacchi, di comporre sonate, e non solo: di simulare ogni procedimento di trasformazione dei rapporti tra un numero infinito di elementi.

Covando progetti che invadono un intero piano, ho convertito l’infinità dello spazio, come richiesto dalle condizioni del problema, in infinità di tempo, portando a termine una macchina calcolatrice la cui portata è illimitata. In quell’istante appare sulla soglia dell’officina Lady Lovelace e, velata, c’illustra lo scopo di queste ruote e viti e assi a camme: Egli tesse sulla sua macchina disegni algebrici, cosi come il telaio di Jacquard tesse fiori e fogliame. (Era figlia di Byron). Ed era si straordinariamente bella nelle sue compiute parti (la macchina), quando fummo costretti a interromperne la costruzione. La spesa aveva ormai raggiunto le ventimila sterline, e poiché per portarla a definitivo compimento se ne preventivavano il doppio, si lasciò perdere la cosa.

Immobile giace da allora, come un mammut, un capriccio dell’evoluzione, un fossile del futuro, al pianterreno del Museo di Kensington. Una fabbrica che tutte le fabbriche in sé contiene. Un rudere.

Il gemito degli organetti, che a Mr Babbage, fellow della Royal Society, trapana i timpani, è governato da un programma. Una serie di schede perforate

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suona la solfa, stabilisce il cottimo e memorizza la percentuale dei malati.

Il rotismo, messo in moto nel cervello di un bambino di otto anni dalla vista di un’argentea danzatrice. Mi chiedo se, nel corso della mia vita, ho mai trascorso un giorno felice.

Un sommesso ronzio in cui ogni grido soffoca.

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Alan Mathison Turing 1912-1954

Ë cosa certa, che non lesse mai un giornale; che i suoi guanti di la­ na se li lavorava a maglia da sé; che costantemente perdeva valige, li­ bri, cappotti; e che, qualora interrompesse a tavola il suo caparbio mu­ tismo, irrompeva in uno stridulo balbettio o rideva gracchiando. I suoi occhi erano di un blu sfavillante e inorganico, come il vetro dipinto.

Bene. Immaginiamo ora un automa universale A in grado di si­ mulare qualsiasi altro automa An. A è una scatola nera in cui viene in­ trodotto un nastro di carta di lunghezza infinita; per la macchina que­ sta banda è il mondo esteriore. Essa è suddivisa in campi, ciascuno dei quali è o vuoto o marcato con un segno. Ora immaginiamo che A legga pazientemente un campo dopo l’altro, spostando di volta in vol­ ta la banda avanti o indietro di un campo, e/o cancellando e/o mar­ cando un segno; questo apparecchio lo chiameremo, in onore del suo inventore, una macchina di Turing. Sappiamo inoltre che prese molta cura a isolarsi; che vestiva da straccione, viaggiava in terza, dormiva nelle locande. Evidentemen­ te si dava da fare per togliersi di mezzo. Una notte, nella sua casa di campagna, una catapecchia, come in un romanzo di Agatha C., per sbaglio forse, si avvelenò con il cianuro di potassio. Ogni riferimen­ to a persone esistenti o esistite è puramente casuale.

È inoltre assodato, che ogni automa specifico, sia che calcoli le or­ bite dei satelliti, sia che scriva mazurche o che produca a sua volta automi, non è che una condizione An di A. Ciò vale anche nel caso che An sia grande il doppio o x-volte più complicato di A.

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Le ruote dentate se le fabbricava da sé, al tornio, in cantina. Di­ sgustato dai pubblici mezzi di trasporto percorreva spesso parecchie mi­ glia a piedi. Radio e altri apparecchi soleva ripararli con lo spago. Il servizio segreto lo apprezzava perché sapeva interpretare qualunque codice. A dir vero, era affetto da frequenti svenimenti, per lo più sen­ za causa apparente.

Siamo perfettamente consapevoli che è impossibile specificare a priori e senza lacune, quali soluzioni l’automa può e quali non può fornire. In ogni sistema chiuso di una certa complessità vi sono pro­ posizioni indeterminabili. Può sembrare bizzarro, ma il fatto è che la prova non può essere fornita che dalla prova. Del resto noi ritenia­ mo che l’automa universale abbia una portata infinita, e che non sia mai stato costruito.

A parte ciò soleva pedalare sotto la pioggia; in tali occasioni tro­ vava pratico attaccarsi alla cintura un orologio da cucina e indossare una maschera antigas; quello per essere sempre puntuale, questa per timore del raffreddore da fieno, in quanto soffriva d’asma; questo, quantomeno, è un tratto umano, tranquillizzante. Per quale motivo evitò sempre di toccare la pelle di altre persone, di qualunque sesso, noi lo ignoriamo assolutamente. Per quanto concerne però la macchina di Turing, proponiamo di fa­ re un esperimento. Uno di noi - lo chiameremo B - si collega ad essa (tramite terminale e telescrivente). C, un censore, sorveglia il dialogo. A simula una persona e lo stesso vale per B; ora tocca a C decidere quale dei due è la persona e quale la macchina. Questo schema di espe­ rimento lo chiameremo, in onore del suo inventore, gioco di Turing.

Si possono realizzare capolavori nell’arte degli automi anche senza aver eseguito o azionato un’unica macchina, cosi come si possono repe­ rire metodi per calcolare l’orbita di un astro che nessuno ha mai visto. (Condorcet). Ogni volta, quindi, che la macchina si rivela tale (sia compiendo

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un errore, sia, all’inverso, non compiendo un errore), essa emenda il proprio programma. Essa apprende continuamente. Sorge la doman­ da, come finirà la partita. Noi non rispondiamo a questa domanda, tuttavia riteniamo che il gioco possa durare molto a lungo e che non sia mai stato giocato.

Pare comunque impossibile tacitare quelle voci secondo le quali di tanto in tanto lo si vedrebbe, lui o il suo simulacro, specie in alcu­ ne umide giornate d’ottobre, nei pressi di Cambridge, attraverso i campi di stoppie, correre nella nebbia secondo un imprevedibile iti­ nerario a zig-zag.

John von Neumann 1903-1957

Doppio mento, faccia di lunapiena, camminando vacilla un comico dev’essere o un rappresentante generale di moquette, un bonvivant membro del Rotary.

Guai però se Jancsi di Budapest incomincia a pensare ! E inesorabile il tic-tic che gli fa nel cranio il suo morbido processore, uno sfarfallio gli attraversa la memoria, fulmineo sputa fuori equazioni balistiche. A Eichmann e Stalin ha dato scacco matto in tre mosse: Gottinga - Cherbourg, Cherbourg - New York, New York - Princeton. In prima classe ha lasciato la zona di pericolo di morte. Gli bastava poco, quattr’ore di sonno, tanta panna sullo strudel al papavero e un po’ di conti correnti in Svizzera.

Anche chi non ha mai sentito parlare di lui (e sono i più) col mouse in pugno aziona la sua algebra combinatoria. E per quanto concerne l’intelligenza artificiale: senza la sua oggi forse sarebbe

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ancora una trovatella senza dimora. Non conta se si tratta di una partita ai dadi o di un uragano, di automi fertili o tabelle del tirassegno, il gesso fra le dita fa fatica a stargli dietro, cosi veloce è la sua rete neuronaie. Scarabocchia gli spazi di Hilbert, maniacale nello schizzare anelli e ideali. Senza limiti opera con operatori illimitati. La cosa principale: soluzioni eleganti per indune il pianeta a danzare.

Un vecchio bimbo prodigio, interfaccia col servizio segreto. Rombando atterrano gli elicotteri sul suo prato. «Fat man» su Nagasaki: matematica pura. La guerra come droga. Non ci può essere un’arma troppo grossa. Sempre di buon umore al lunch con gli ammiragli. In realtà era timido, e ci sono enigmi davanti ai quali la sua scatola nera fa cilecca. L’amore, ad esempio, la stupidità, la noia. Pessimismo = peccato contro la scienza. Energia in pillole, controllo del clima, eterna crescita Trasformare l’Islanda in un paradiso tropicale: non c’è problema. Il resto è ciancia. Poi la gita aziendale su un’altra isola, in doppiopetto e occhiali affumicati: Bikini. «Operazione Bivio». Il test era riuscito. Dieci anni ci sono voluti al cancro da radiazioni per disinnescare le sue sinapsi.

Isotopo

Terzaroliamo tranquillamente gli ombrelli! Il prossimo diluvio universale sarà contenuto. Il vecchio sistema - maggiori e vacche sui pali ad alta tensione, il corri corri all’Ararat, alle associazioni alpine, la fodera del piumino che si lacera, panico fra gli stagnini e sfacciate colombe con o senza ramo d’ulivo - tutto questo è risultato inefficace: dall’arca sono sempre scesi gli stessi giusti e a dispetto degli affogati hanno emesso prestiti convertibili e papi al valore nominale.

Oggi negli Urali e in Arizona girano a branchi i premi Nobel impegnati ad ampliare il raggio d’azione per risparmiare i malleoli delle signore. Fiducia regna nei laboratori, dalle fessure delle porte irrompe un umore, una lebbra, umida e umana, al sicuro da bombe, morte e incidenti, grassa, un rauco velo di sudore.

Finito è il tempo degli esperimenti, dai pori del mondo emana da tempo un diluvio arido, e noi affoghiamo, in fila agli sportelli dei biglietti, in ginocchio nello iodio e fra orologi a cucù.

II.

Giovanni de’ Dondi 1318-1389

Giovanni de’ Dondi da Padova per tutta la vita costruì un orologio.

Un assoluto prototipo, insuperato per quattrocento anni. Un meccanismo plurimo, di ruote ellittiche e dentate, connesse ad ingranaggio, e il primo bilanciere: un’inaudita struttura. Sette quadranti mostrano la postura dei cieli e le mute rivoluzioni d’ogni pianeta. L’ottavo, il meno appariscente, segna l’ora, il giorno e l’anno: A.D. 1346. Forgiò di propria mano: una macchina celeste, inutile e industre come i Trionfi, un orologio verbale che fabbricò Francesco Petrarca.

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Hans Magnus Enzensberger

A qual uopo sciupate il tempo vostro con il mio manoscritto, se a grado non siete di rifarlo? Sorgere e tramontar del sole, congiunzioni dell’orbita lunare, Feste mobili e fisse. Una calcolatrice, eppure, ancora e sempre il cielo. D’ottone, d’ottone. Sotto questo cielo noi ancora viviamo.

La gente di Padova non badava alla data. Un golpe dopo l’altro. Carri d’appestati sul selciato. I banchieri pareggiavano il bilancio. Scarseggiavano i viveri. L’origine di quella macchina è problematica. Un computer analogico. Un menhir. Un astrarium. Trionfi del tempo. Sopravanzi. Inutili e industri come un poema d’ottone.

Guggenheim non mandava a Francesco Petrarca l’assegno a fine mese. De’Dondi non aveva contratti col Pentagono.

Gli elisir della scienza

Altre belve. Altre parole e ruote. Eppure il medesimo cielo. In questo Medioevo noi ancora viviamo.

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Jacques de Vaucanson 1709-1782

Il pubblico era sceltissimo. Un fruscio attraversò le toilettes di seta: fantastico! Un vero capolavoro: l’anatra meccanica. Era incantato anche Diderot. L’automa sguazzava, ancheggiava nell’acqua: Qual delicatezza in ogni sua parte!

Scintillavano al sole, le ali, quattrocento parti mobili ciascuna. Un tremolio metallico, uno schiamazzare di latta e di lacca. L’artista arrossisce. Umile, grazioso, con un che di maldestro. Ma quanto piu grande e complessa è una macchina, tanto maggiore è il numero dei nessi tra i suoi singoli elementi; quanto meno sono noti tali nessi, tanto più poliedrico sarà il nostro giudizio.

Bravo ! Il cardinale de Fleury abbraccia dopo il vernissage l’artefice, e subito lo mette a capo delle manifatture di seta di Lione. Cosa accade dunque quando la macchina è in tutto e per tutto infinita? Strano, come il nuovo ispettore s’apparta. Non consulta nessuno, disegna febbrile.

Gli elisir della scienza

Il sogno della ragione genera mostri·. macchine per costruire macchine. Il telaio automatico, azionato dall’alto da un’unica ruota idraulica tramite infinite catene. Perfezione, economia. Spianato ilfil di ferro, tagliato in pezzi sempre eguali, curvato ad ogni estremità in egual maniera; un gancio, sempre uguale, riceve ilfilo che formerà la maglia successiva. Dall’arcolaio alla gualchiera un complesso industriale integrato, luce diffusa, aria condizionata: un progetto d’inaudita eleganza. (Tra la rendita e l’ingegno esiste un certo numero di nessi).

D’ora in poi gli operai di Lione passano ogni ora diurna della vita in un gigantesco giocattolo che funge da prigione: impegnati ciascuno a ripetere un semplice gesto sempre uguale ma sempre più in fretta e più perfetto. Cosa accade dunque quando i tessitori oppongono resistenza? Rompete gli arcolai ! Lapidate chi ci succhia il sangue!

Per punire la plebe ribelle, fabbrica un asino capace di tessere una stoffa a fiorami. E cosi via. {Colui che agli uomini

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novelli lumi apporta, aspettarsi deve le angherie).

Indi Jacquard. Jacquard fu il prossimo, con le sue schede perforate. Progressi, barricate. I massacri erano inevitabili.

Anche l’anatra fu perfezionata: Alfine beccava i grani, digerendoli con cura, e il tanfo, che pervade ora la sala, è intollerabile. Vorremmo all’artista esprimere la gioia che la sua magica invenzione a noi tutti ha recato.

Etienne Jules Marey 1830-1904

La sua droga erano i fatti. Sempre corretto, figlio di vinaio della Còte d’Or, corpulento, positivista in colletto duro e pincenez, abbottonato guata, immobile, da dietro il suo arnese ogni moto, a caccia della fuggevole preda: il linguaggio dei fenomeni stessi, un fantasma. In Rue de l’Ancienne Comédie stavolta lo spettacolo è nuovo. Il professore affitta palcoscenico, sala, guardaroba, ripostigli frettolosamente addobbati: il salottino con il pianoforte, l’officina meccanica e finanche (raggiungibili da scalette a chiocciola) studio, letto e archivio. Resta una vasta superficie libera, la pista lustrata e fiammante, sulla quale, innanzi a drappi neri e bianchi, sui dondoli, dai cavi, alla luce artificiale, si esibiscono i fatti.

La colomba fissata a un’asta della giostra vola da sola o vien fatta volare ? La traccia del suo ondeggiare è invisibile; pur l’insegue, pneumaticamente guidata tra una farragine di tubi e di tamburi, una punta d’acciaio; grezza zigrina la carta negrofumata. Ciò che li scrive e disegna e da sé si misura, non è che un’allucinazione, denominata «natura».

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Campioni di matematica eleganza, rapporti tra frequenza e tono muscolare, tra temperatura e pressione: ondulazioni, oscillazioni, salti. Ogni variabile della locomozione: La machine animale. Nell’aria e nell’acqua. L’anguilla, il pianista, i molluschi, il cuore di salamandra: la trattrice, la cissoide; curve chiuse e secanti, linee di rigurgito; vortici, traiettorie, diagrammi... Insomma, «il mondo»

è un’illusione ottica: nulla vediamo «cosi com’è» e ciò che a noi si mostra, in realtà si cela. Sempre più sottili le trappole, più astratte le armi, più ingegnosi gli strumenti. Il fisiologo mira con la mitragliatrice fotografica: sedici volte al minuto si apre il diaframma, e sullo sfondo del sipario nero il gabbiano bianco lascia un ’immensurata luminescente immagine. Maneggia, progetta, costruisce la prima cinepresa del mondo. Non perché vuol filmare: perché vuole vedere. Sugli Champs-Elysées un uomo smonta dal sellino della sua bicicletta: nessuno sa in che modo. Solo il rallentatore lo mostra. Quindi lui lo inventa. Il suo teatro si riempie di astrofisici, dottori, luminari delle scienze. (Laggiù in fondo alla sala, inosservato, siede un certo Edison, capitalista). Per studiare un insetto, debbo costruire insetti. E lo scienziato diventa demiurgo: falsifica cuori astratti, uccelli elicodinamici, macchine che respirano. Attraverso il parquet cerato striscia il facsimile di un serpente. Il volo del gabbiano lo foggia nel bronzo. Che animale fantastico: un aleggiare quadridimensionale, un moto coagulato, una stasi scorrente. Il tempo, reso afferrabile.

Gli elisir della scienza

Folle, nelle cui mani le cose diventavano artefatti, idolatra della scienza dello sfruttamento, agnello di candore, pioniere del terrore taylorista, inavvertito avo di Hollywood, accidentalmente, artista, inventore suo malgrado, Mallarmé per isbaglio, genio della riproduzione: immobile ci scruta l’occhio del Grande Osservatore, violaceo, un’iride cieca di bromuro d’argento.

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Frederick Winslow Taylor 1856-1915

Cosi solerti sono soltanto i matti. 5/, mamma. Coscienziosamente riempie le zuccheriere, si spazzola gli abiti, suona il pianoforte, puntualmente si fa il suo bagno freddo, si ripulisce bene il piatto, e l’erba sotto le magnolie la falcia orribilmente spesso. Emerge dal sonno madido di sudore. A tredici anni quindi si confeziona una barda in cuoio e infilza chiodi di legno nel letto. Il sognatore, non appena si rivolta sulla schiena, si punge e si sveglia prima che la paura lo colga.

Un prigioniero. Il pronome lo non compare nei suoi scritti. Astemio, non fuma, niente tè né caffè. Un’esistenza interamente dedicata al benessere dei lavoratori. Si, mamma. Bethlehem è il nome del primo monopolio dell’acciaio. Più durezza, più solerzia nello sgobbo e nel risparmio ! Pochi lacchè furono cosi coraggiosi. Aizza i cottimisti contro l’indolenza. Dobbiamo diventare amici'. (Lavoro e capitale). Chissà come mai non l’hanno accoppato questo fachiro che li apostrofava: - Voi non dovete pensare! più che altro deprimente. Su col ritmo, a me il cronometro. Ogni manovra è buona per spaccare, frantumare la classe. Vivisezione, indispensabile subordinazione delle masse. (Lenin lo ammira). La nostra asse chiodata è la produzione. Ci predica il profeta

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la scienza della profilatura, laminatura, trafilatura, la scienza della trasmissione a cinghia, la scienza del murare, dello spazzolare, e del suonare il piano, necessariamente sfruttate al massimo grado, e la scienza della mortificazione delle carni. Ecco quali sono:

i prossimi compiti della potenza sovietica : i migliori sistemi di sorveglianza, le piu. prodigiose conquiste! Si, mamma. Dentro casa, nella fattoria, in ogni chiesa, in tutti gli uffici governativi. Lo sfruttamento della scienza diventa scienza dello sfruttamento. Sempre sano e normale·, informe sonnecchia seduto, insonne su cumuli informi di cuscini. Un’automa sociale. Tutta la vita impotente. Si, mamma. In una foto ingiallita lo si vede, un uomo bovino e dalle palpebre pesanti, indossare una camicetta rosa e una gonna a ruches.

Oltre a ciò martelli a pressa, migliaia di brevetti. Il miglior angolo per tagliare bandoni di acciaio superrapido. La massima produttività deve diventare ilproponimento di ogni individuo. Vive molto appartato, coltiva rose e in punto di morte carica scrupolosamente il proprio orologio.

In memoria di Sir Hiram Maxim 1840-1916

I.

Sulla via di scuola, nel fossato, l’urlo di un aereo a bassa quota, poi nugoli di polvere a sinistra, davanti, a destra, muti, e soltanto dopo un po’ il martellare del cannone di bordo. L’ammirazione restava entro certi limiti.

π.

Più tardi, molto più tardi, lui emerge dalla vecchia enciclopedia. Un figlio di contadini. La fattoria in una landa selvaggia, minacciata dagli orsi. Ma ne è passato del tempo. A quattordici anni apprendista carradore: 16 ore al giorno, quattro dollari al mese. S’arrangiava come ottonaio, pugile, fabbricante di strumenti, e gridava: 10 sono un inventore cronico ! e aggiustava trappole per topi e bigodini e costruì una giostra pneumatica. 11 suo aereo a vapore, peso della caldaia 1200 libbre, tre tonnellate d’acqua potabile, si frantumò sotto il proprio peso. Nemmeno il suo surrogato del caffè fu un successo

Gli elisir della scienza

Solo la grande esposizione di Parigi, fantasmagoria di fili incandescenti e lampade ad arco, fruttò la legion d’onore e l’illuminazione.

III.

Tre anni dopo il principe di Galles potè assistere negli scantinati di Hatton Garden a un preciso miracolo: caricava, puntava, otturava, staccava, apriva, espelleva il bossolo, caricava e puntava, da sé, a ripetizione, e la frequenza - favolosa! La frequenza: dieci colpi al secondo, fuoco continuo. La canna a rinculo! E’ geniale, esclamò il Duke of Cambridge, mai più la guerra sarà quella che fu ! Un’arma d’inaudita eleganza, La nomina a cavaliere arrivò a giro di posta.

IV.

Naturalmente oggi che questa conquista è disponibile in ogni cortile di scuola, è difficile sentire ciò che senti lui allora: la gioia elementare di un mammifero barbuto con 270 brevetti. In ogni caso noi, cent’anni più giovani di lui, giacevamo come morti sul ciglio della strada.

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Progressi inquietanti Sull’opera di Sigfried Giedion «L’era della meccanizzazione»

Era una mattina senza nuvole dell’autunno 1785 quando il mec­ canico trentenne Oliver Evans, un uomo tarchiato dal colorito vio­ laceo, lungo il Redclay Creek, nei boschi del Delaware, mise in fun­ zione un marchingegno alto tre piani, di legno e ferro, che aveva co­ struito con le sue mani: un mulino senza mugnaio, il primo impianto di produzione completamente automatico del mondo. Il complesso sistema di argani, nastri trasportatori, elevatori a tazze e viti conti­ nue era tenuto in movimento dal peso stesso della sostanza da maci­ nare. Continuativamente e senza intervento di mano umana, il fru­ mento era trasportato, rovesciato, macinato, raffreddato, vagliato, confezionato in sacchi e caricato. Il mulino che quel giorno si mise in movimento cigolando e sba­ tacchiando in un angolo appartato nel Nuovo Mondo, deve essere ap­ parso ai contemporanei come l’aborto di un cervello malato. Alcuni tecnici del mestiere, chiamati a esprimere il loro parere su quell’im­ pianto automatico vuoto di presenza umana, lo definirono «un tra­ biccolo che non merita l’attenzione di un uomo sensato». Duecento anni dopo, in presenza di circa cinquanta milioni di disoccupati nelle aree industriali del mondo, dovremo prendere evidentemente un po’ più sul serio l’opera in cui Oliver Evans aveva investito la sua vita. Sulla figura dell’inventore non sappiamo molto, se non che era un provetto carrozzaio, un uomo rozzo, un asociale, un iracondo auto­ didatta che non aveva mai visto da dentro una scuola superiore. Pa­ re che da giovane avesse progettato un nuovo apparecchio per la car­ datura della lana e del cotone; inoltre inventò la prima, utilizzabile macchina al mondo per fare il ghiaccio; e a Philadelphia, che era al­ lora ancora un piccolo e bucolico insediamento umano, presentò un

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giorno agli sbalorditi cittadini un’escavatrice anfibia. Il veicolo, che pesava quindici tonnellate, aveva sul dorso una macchina a vapore ad alta pressione ed era provvisto di una pompa, di una ruota a pale e di un nastro continuo che trasportava secchi. Possiamo figurarci l’in­ ventore che, fiero al volante, dirige la sua informe vettura fino al­ l’approdo delle navi, solleva con il movimento di una leva le quattro ruote e si avvia navigando a vapore verso valle fino a quando scom­ pare alla nostra vista a una svolta del fiume Delaware.

Il mulino senza mugnaio, di cui si sono conservati solo alcuni di­ segni di costruzione, propone tutta una serie di quesiti. In che circo­ stanze fu realizzato quell’enigmatico oggetto ? Quali erano i suoi pre­ supposti ? Qual era il suo scopo ? E che conseguenze ebbe ? Oliver Evans era morto da tempo e il suo mulino si era sfasciato da un bel po’ quando qualcuno si accinse finalmente a dare una ri­ sposta a queste domande. Era in corso la seconda guerra mondiale quando uno studioso svizzero di nome Sigfried Giedion scrisse un li­ bro sulla meccanizzazione nel mondo. Giedion era, esattamente co­ me Evans, un outsider, un uomo cocciuto che ragionava con la pro­ pria testa, e proprio come Evans in anticipo sui tempi. Un indizio in questo senso è il dato di fatto che ci sono voluti trentacinque anni perché il suo libro, pubblicato nel 1948 negli usa e in Inghilterra, fos­ se (ri)tradotto nella lingua dell’autore. Giedion era nato nel 1888, figlio di un industriale del settore tes­ sile di Brno. La sua carriera scientifica è davvero inconsueta. Studiò ingegneria meccanica e storia dell’arte, una combinazione di interes­ si che dovette apparire scandalosa ai suoi colleghi. Ancor più sor­ prendente fu il rapporto fra teoria e prassi che Giedion pose alla ba­ se del suo lavoro. Poiché i prodotti dell’industria svizzera del mobi­ le non gli piacevano, fondò un’azienda, fece progettare, realizzare e commerciare sedie, lampade e tavoli migliori. Anziché riversare nei seminari universitari le sue conoscenze di storia dell’arte - si era lau­ reato con Wòlfflin - le ampliò negli atelier dei surrealisti. L’appas­ sionato interesse per l’architettura e l’urbanistica non si espresse so­ lo nei suoi scritti, ma lo avvicinò a Bauhaus e allo studio Le Corbu­ sier. Fu ricercatore e imprenditore, tecnico e giornalista, organizzatore

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e storico, reporter e archeologo insieme. La sua attività dovette spa­ ventare profondamente i professori del suo tempo, perché insidiò i loro sacri principi. Non c’è dunque da stupirsi che le università sviz­ zere gli abbiano dato solo dopo la seconda guerra mondiale, e con molta riluttanza, la possibilità di trasmettere il suo sapere; correva l’anno 1948 quando Giedion, a un’età in cui altri pensano a diven­ tare docenti emeriti, consegui a Zurigo la libera docenza.

«Finora si è scritto troppo sulle scienze e troppo poco sulle arti meccaniche. Ciò ci ha sollecitati a rivolgerci agli artigiani. Ci siamo dati la briga di andarli a trovare nelle loro officine, di interpellarli, di fare disegni sulla base delle loro indicazioni o di farci dare dei pro­ memoria da loro. Spesso ci siamo anzi dovuti procurare i macchina­ ri, azionarli, metterci mano noi stessi, diventare per cosi dire ap­ prendisti e realizzare prodotti scadenti per mostrare ad altri come se ne fanno di buoni. Ci siamo in tal modo convinti dell’ignoranza in cui ci si trova di fronte alla maggior parte degli oggetti d’uso quoti­ diano, e della necessità di uscire da quest’ignoranza». Bisogna risalire fino al progetto (1750) à&WEncyclopédie di Di­ derot per trovare un precedente del modo di procedere di Giedion. Quando si accinse al suo lavoro pionieristico, spulciò prima le bi­ blioteche nella speranza di potersi basare sulle ricerche di predeces­ sori. «Mi sono però ben presto accorto che era impossibile. Per am­ pi settori non esistevano lavori preliminari. Per esempio, non mi è stato possibile trovare una sola esposizione su procedure tanto rivo­ luzionarie come lo sviluppo della catena di montaggio o l’introdu­ zione del comfort meccanico e dei suoi apparecchi nel nostro am­ biente più immediato. Sono dunque dovuto risalire alle fonti». Queste fonti primarie erano tuttavia introvabili nelle varie bi­ blioteche universitarie. Facevano parte degli scarti effimeri della so­ cietà industriale. Come un detective, Giedion dovette rovistare nei cestini dei rifiuti del diciannovesimo secolo per recuperare il mate­ riale pubblicitario, le descrizioni di brevetti e i cataloghi di vendita di ditte da tempo scomparse; e dove le fonti stampate non gli basta­ rono, trovò altri mezzi per arrivare al materiale di cui aveva bisogno. Inviò per esempio centinaia di questionari ai costruttori americani di

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vasche da bagno e di impianti igienici. Quando risultò necessario, lo studioso divenne, come Diderot, un reporter, un «apprendista». Si guardò in giro negli stabilimenti di produzione della grande azienda costruttrice di macchine agricole McCormick, provò in una fattoria della Nuova Inghilterra una trebbiatrice di nuova concezione e stu­ diò la meccanizzazione degli abbattimenti nei macelli di Chicago. Ma torniamo per un momento a Oliver Evans, al mugnaio che in un certo senso rese superfluo se stesso... Il suo mulino non è ovvia­ mente caduto dal cielo. Alcuni suoi elementi costruttivi si possono far risalire fino all’antichità, come per esempio la catena di tazze, che era utilizzata in oriente, dalla Cina fino all’Egitto, per l’irrigazione. Lo storico dell’arte Giedion è perfino in grado di esibire un disegno di Pieter Breughel nel quale si vede come nel 1561, in Olanda, si scavò un canale: l’immagine riproduce chiaramente il modo in cui la catena di tazze - o noria - fungesse da scavatrice. In una raccolta di tavole tecniche del tardo Rinascimento, Giedion trova una «mac­ china per sollevare l’acqua mediante la vite d’Archimede». Di nuo­ va specie e sensazionali non sono dunque, nella realizzazione di Evans, le singole parti; nuova è la loro integrazione in un congegno che esclude l’uomo in quanto produttore. Passo dopo passo, Giedion spiega come questo principio si sia im­ posto nel corso dell’evoluzione tecnica. Scova documenti che mo­ strano una manifattura di biscotti in Inghilterra, una fabbrica di mac­ chine utensili in Svizzera, il sistema di adduzione a flusso continuo nei macelli di Chicago: antesignano della catena di montaggio di Ford e dei percorsi di costruzione a ciclo continuo e totalmente automa­ tizzati nell’odierna industria automobilistica. Piu difficile è rispondere alla domanda che cosa in sostanza in­ dusse Evans, «spirito solitario e profetico», a inventare e a costrui­ re il suo «mugnaio di legno». In America, verso la fine del diciotte­ simo secolo, non esisteva una vera e propria industria. C’era abbon­ dante disponibilità di mano d’opera a poco prezzo. Il calcolo capita­ listico o addirittura una spinta alla razionalizzazione non possono dunque essere addotti per spiegare il progetto di Oliver Evans. Al suo lavoro manca ogni motivazione economica o sociale. L’intrapre­

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se per spavalderia? Costruì un giocattolo per nessun’altra ragione se non perché gli sembrò tecnicamente concepibile ? Oppure vi era in­ sita, inespressa e oscura, un’utopia: l’abolizione del lavoro? Questa è una domanda che Evans non si pose e alla quale, alla fin fine, nep­ pure Giedion è in grado di dare una risposta. E assodato invece che l’idea di escludere l’uomo dal processo di produzione affiorò inizialmente come un costrutto dilettantesco sen­ za uno scopo mirato, come geniale ghiribizzo. Giedion definisce le imprese pionieristiche di questo genere «invenzioni di scorta», e può dimostrare che costituiscono piu una regola che un’eccezione. L’idea che il suo automa avrebbe reso superfluo non solo il lavoro, ma anche il lavoratore, non sfiorò il mugnaio di Philadelphia. Dietro quella bio­ logica e quella storica si delineano i tratti di una terza evoluzione, di una evoluzione degli strumenti tecnici che si dipana inconsapevol­ mente esattamente come le prime due. L’inventore non è altro che il suo cieco esecutore.

La storia naturale della tecnica assomiglia a una enorme giungla quasi inesplorata. Sigfried Giedion non pretende di misurarla e di cartografarla per intero; si limita ad aprire alcune piste, a titolo esem­ plificativo, in un territorio sconosciuto. E sottolinea di continuo co­ me si trovi a dover scrivere una «storia anonima», i cui protagonisti si possono solo eccezionalmente identificare. L’inventore come eroe scompare in una folla imperscrutabile di artigiani e perfezionisti meticolosi, oscuri uomini d’affari e ingegneri. E proprio nella ca­ pacità di rilevare il dettaglio inappariscente, che tende a sfuggire, che si rivela quanto valga uno storico e fino a quale profondità attinga il suo sguardo diagnostico. «Anche in un cucchiaino da caffè si rispec­ chia il sole», dice Giedion in una massima che meriterebbe di di­ ventare famosa. Anche la serratura ha una sua storia, e poi la carne, il ghiaccio, il pane; e l’autore l’insegue dai tempi del gotico fino al presente. Non si fissa dunque affatto sul processo industriale in senso stretto, e non si occupa solamente di certe moderne innovazioni come il vagone-let­ to o l’inseminazione artificiale. E la percezione storica a conferire al­ le sezioni longitudinali che Giedion incide nelle vicende della mieti­

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tura, dei sedili, del bagnarsi e della cottura un fascino singolare. A volte capita di avere l’impressione che Giedion si perda nella molti­ tudine delle banalità. In mezzo a un’analisi dei mobili brevettati del diciannovesimo secolo, ci si imbatte per esempio in una rapsodia de­ dicata all’amaca, e li per li non risulta molto chiaro che senso abbia quest’inno a un oggetto di arredamento degli indiani d’America. Ben presto emerge però che Giedion sottolinea la leggerezza, la mobilità e l’eleganza dell’amaca per polemizzare contro i mobili pesanti, im­ ponenti e invadenti del «gusto dominante» e per contrapporre le ca­ pacità degli inventori anonimi alla dittatura dei tappezzieri. E vede qui all’opera uno specifico modo di pensare americano. Per rendere plausibile questa considerazione, confronta l’amaca con i mobiles di Alexander Calder. Paragoni altrettanti audaci, che superano ogni con­ fine, si trovano a ogni passo del libro. Uno schizzo di Paul Klee è col­ locato accanto a un fotomontaggio di Frank Gilbreth, esperto statu­ nitense della razionalizzazione, che mira a far capire, scomponendo­ la, la complessa articolazione di un movimento; e la sedia brevettata da un inventore francese ritorna in un collage di Max Ernst. Basta anche soltanto sfogliare questo pesantissimo libro per ren­ dersi conto che vi si è applicata una rara intelligenza visiva. Giedion ha sviluppato un tipo di libro illustrato che è tanto istruttivo quanto divertente. Riesco a figurarmi un lettore che si accontenti di esami­ nare le oltre cinquecento illustrazioni. Le didascalie sono concepite in modo talmente elegante e preciso da potergli dare sicura soddisfa­ zione. In questo senso Stanislaus von Moos ha perfettamente ragio­ ne quando, nella sua postfazione, definisce L’era della meccanizza­ zione il «roman illustré della cultura industriale».

Sigfried Giedion non ci evita le alate visioni di storia dell’arte, le ottusità della tecnologia e le lamentazioni della critica culturale. Ci avvicina a una straordinaria quantità di materiali. Il rispetto che ha per i dati di fatto lo colloca a ridosso del positivismo. Ma se, ciò no­ nostante, non scade nella banalità delle minuzie, nel mero fervore collezionistico, ciò dipende dal fatto che non scambia l’obiettività con la rinuncia al proprio pensiero. Il suo è un positivismo fantasti­ co, erratico e interessato; persegue sempre un intento pratico.

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Alla sua opera si è talora rinfacciata la lacunosità. In effetti Giedion ha semplicemente omesso ampi settori del suo tema. Sotto que­ sto profilo, il difetto più vistoso del libro è quello di non soffermar­ si sull’industrializzazione del sapere. Non vi compaiono la tecnica della stampa e il cinema, il telefono e la macchina calcolatrice. Non illustra nemmeno la meccanizzazione dell’armamento, della medici­ na e del traffico. Senonché queste obiezioni al metodo seguito da Giedion non tengono conto che egli non mira alla completezza, ma pro­ cede per esempi. Rimane il problema del «punto di vista» di quest’autore, una que­ stione che in Germania continua ad apparire ineludibile e che alla fin fine va a sfociare nella pretesa che chiunque si esprima pubblicamente debba inchiodarsi da sé alla croce di una qualche ideologia. Però con Giedion, sotto quest’aspetto, ci si troverà in difficoltà. E ben vero che negli anni venti e trenta si impegnò molto operosa­ mente a favore del «progetto modernità», soprattutto nei campi del­ l’arte e dell’architettura. Fu per decenni segretario del ciam, un in­ fluente gruppo di architetti i cui membri di spicco si chiamavano Gro­ pius, Le Corbusier e Alvar Aalto. Si spiega cosi l’avversione per l’ornamento che condivide con Loos e con i funzionalisti. Anche nel­ l’Era della meccanizzazione questa bête noire della modernità ha un ruolo importante; vi compare sotto la definizione di «gusto domi­ nante». Si riferisce, come Giedion dice in una ispirata osservazione, «a quei fenomeni transitori che assorbono le sensibilità delle masse similmente a quelle imitazioni [di vacche] che accolgono nell’insemi­ nazione artificiale il seme del toro». Giedion si impegnò dunque a favore delle tesi del modernismo; tuttavia, con ciò, non sottoscrisse una dottrina. Il disprezzo per la storia, la cieca fede nel progresso, lo sciocco culto delle macchine e il vuoto ottimismo - tratti che deformarono fin dall’inizio la nuova ar­ chitettura e che divennero idee fisse nei suoi epigoni - gli erano to­ talmente estranei. Nella sua introduzione del 1948 si legge: «Epoche future non capiranno questi atti di distruzione, quest’uccisione del­ la storia». La frase si riferisce alla perdita di memoria dell’industria statunitense, ma potrebbe adattarsi anche al «gusto dominante» che ha improntato in Europa la ricostruzione dopo la seconda guerra mon-

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diale. Giedion capi meglio della maggior parte dei suoi compagni di strada l’abissale ambivalenza della meccanizzazione. Non volle tra­ sfigurare il dilemma dell’industrializzazione, ma articolarlo nel mo­ do più chiaro possibile. Altri gli rinfacciano di non essere stato filosoficamente del tutto all’altezza delle sue stesse idee. D’accordo, quando chiede che sia fi­ nalmente superato «il baratro fra il pensare e il sentire», l’appello ap­ pare ingenuo e sprovveduto, e quando sostiene che la meccanizza­ zione sarebbe «neutrale. Tutto dipende da come la si usa», arretra dietro le sue stesse convinzioni. Le sobrie intuizioni di questo scritto hanno la loro portata mag­ giore là dove l’autore diventa specifico; là dove indaga storicamente la contraddizione fra meccanizzazione e sostanza vivente. L’affron­ ta dapprima in un modo relativamente innocuo, e cioè dai tentativi di produzione industriale del pane. Nella prima metà del dicianno­ vesimo secolo risultò che la farina e l’impasto erano elementi estre­ mamente sensibili che opponevano una singolare resistenza allo sfrut­ tamento industriale. Giedion descrive minuziosamente gli ostinati tentativi degli ingegneri di infrangere questa resistenza. Questa lot­ ta per il pane si è protratta a lungo. Negli Stati Uniti, notoriamente, hanno vinto i tecnici; in Europa la definitiva soppressione del pane artigianale non è tuttora riuscita. Giedion compie poi un passo ulteriore nel tentativo di esporre la storia della «conduzione aziendale scientifica». I pionieri degli studi sul tempo e sul movimento, da Taylor fino al sistema mtm, hanno verificato fino a che punto il corpo umano «può essere trasformato in un meccanismo». Giedion non esita a seguire fin nel macello la ra­ zionalità che è qui all’opera. Anche per procedere alla cattura, alla sospensione, all’uccisione, alla depilazione e alla scuoiatura degli ani­ mali gli ingegneri si trovarono a combattere contro la riluttanza del «materiale organico». Ed è questa la ragione per cui, a tutt’oggi, non esistono impianti di macellazione totalmente automatizzati. Ciono­ nostante, la tecnica dell’uccidere ha fatto enormi progressi; e si è «pa­ lesata alla grande durante la seconda guerra mondiale quando interi strati di popolazione, resi inermi come il bestiame da macello appe-

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so a testa in giù al nastro trasportatore, sono stati eliminati con un’in­ differenza perfettamente assimilata». Con questo modo di guardare alle cose, che mira al nocciolo strutturale della nostra civiltà, Giedion si lascia di molto alle spalle tutti i dibattiti sul come venire a capo del­ l’accaduto che erano usuali negli anni cinquanta. La sua conclusione, giusta quanto vana, è: «La meccanizzazione deve fermarsi davanti alla sostanza viva... Lo impone un’imposta­ zione che si discosta radicalmente dall’idolatria della produzione». Con questa frase, scritta quaranta e più anni fa, lo storico della ci­ viltà industriale pervenne a un postulato centrale di tutti i movimenti ecologici.

Pare vigere tuttora la regola secondo cui occorrono decenni pri­ ma che nella bottega delle scienze sociali si capiscano finalmente le cose. Nel frattempo lo storico è diventato storico egli stesso. Sigfried Giedion, morto nel 1968, è - come Norbert Elias e Walter Benjamin - un antropologo che ci insegna a leggere le viscere della nostra ci­ viltà. Non dispone di una teoria esaustiva. Lungi da lui l’idea di «de­ rivare» l’avvenire dal passato. L’interpretazione allegorica non è affar suo. Sono proprio l’apertura e la mobilità del suo pensiero, in cui l’imprevedibile non è liquidato, a costituire l’attualità e l’utilità dei suoi insegnamenti.

Una lepre al centro di calcolo

La macchina più veloce, struttura parallela, sui mille megaflop, non ce la fa a star dietro al suo cervellino. Il labbro di sopra che trema e sussulta nella luce al neon, i grandi occhi piantati sullo schermo, in preda al panico, stambura sul linoleum grigio. Poi - sono le tre del mattino e l’ultimo fisico del plasma è andato a casa salta per aria e si slancia a zig zag fra monitor e rantoli di stampanti per il locale abbandonato.

Brutta vigliacca, cinquanta milioni di anni » più vecchia di noi! Scampata alla sete di sangue dei cacciatori, ai battipali,

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al gas, al virus, impassibile, imprevedibile scarta di qua e di là. Arriva a balzi dall’eocene e ci sorpassa dritta a un futuro irto di nemici, ma nutriente e gustoso come il dente di leone.

Il vangelo digitale Profeti, beneficiari e spregiatori

I. Le capriole della teoria. C’è sempre voluto molto tempo prima che l’umanità cominciasse a rompersi la testa sui media di cui disponeva. Prima il linguaggio poi la grammatica, la retorica, la linguistica, la filosofia del linguag­ gio; prima la scrittura - poi la riflessione sulla forma scritta; prima la moneta - poi la numismatica. La teoria arranca dietro ai suoi ogget­ ti. E cosi è stato per alcuni millenni. Anche sui media più recenti si è riflettuto solo con il dovuto ri­ tardo. Si sono sviluppati in un certo senso spontaneamente, alle spal­ le della società. Nessun filosofo ha accompagnato gli inventori im­ provvisati, pazienti e pignoli, i matematici lontani dal mondo, i mo­ desti ingegneri e i geni misconosciuti che li hanno impostati. Le implicazioni dell’invenzione fatta da Gutenberg sono state attenta­ mente analizzate soltanto nel ventesimo secolo, quando questa «ma­ gia nera», l’arte della stampa, era già sulla via del tramonto. Quan­ do si profilò il telegrafo, non furono gli accademici, ma i militari e gli speculatori che ne capirono l’importanza. Altrettanto inosservati ven­ nero al mondo la fotografia e il cinematografo. Daguerre e Talbot, i fratelli Lumière, Etienne Marey e Georges Méliès realizzarono la lo­ ro impresa in atelier e laboratori costruiti da loro stessi, in fienili e nelle fiere, non nei locali delle università. Molto prima che Kracauer scrivesse le sue opere di teoria cinematografica, lo stato maggiore te­ desco aveva sollecitato la fondazione dell’uFA1 perché aveva capito quali possibilità questo medium apriva alla propaganda. Il lungimi1 Universum Film AG, Società cinematografica per azioni Universum [N.d.T.'].

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rante testo La radio come mezzo di comunicazione di Brecht fu pub­ blicato nel 1932, in un momento cioè in cui le urla di Hitler risuo­ navano già in tutta Europa. Le facoltà filosofiche liquidarono questo lavoro, esattamente come i testi di Walter Benjamin, con un ostina­ to silenzio. Ancora negli anni cinquanta l’interesse delle università relegava al ruolo di appendice delle facolta di lettere le cosiddette «scienze dell’informazione» che pure si occupavano di un medium vecchio di trecent’anni. E quando Marshall McLuhan, nel 1962, su­ scitò finalmente qualche scalpore con la sua teoria della televisione, il relativo apparecchio era già da tempo in metà dei soggiorni. Ovviamente non sono mai mancati quelli che sentivano il bisogno di ammonire ed esortare. La critica culturale è più antica della sua de­ nominazione. Ne possiamo individuare tracce anche nell’antichità. Il mito della caverna di Platone ne è l’irraggiunto modello. Ogni me­ dium è seguito come un’ombra dal sospetto dell’aberrazione e del­ l’inconsistenza. Difficilmente può sfuggire l’interesse politico che ha motivato ogni dito levato in segno di monito. L’alfabetizzazione mi­ nacciò il privilegio dell’informazione degli studiosi e dei dotti, e ogni nuovo medium ha esposto a pericolo, agli occhi dell’autorità, la mo­ rale dei sudditi. Già nel diciottesimo secolo si diffidava dal leggere ro­ manzi con gli stessi argomenti che sono oggi addotti contro la televi­ sione. Questa specie di critica non ha, da allora, guadagnato in rigo­ re. Il gesto con cui sbandiera certi «valori» ricorda quello del poliziotto di pattuglia che alza la paletta rossa per chi ha infranto il codice stra­ dale. Che si possa frenare la diffusione dei media in questo modo è inverosimile, se non altro perché la critica non manifesta alcun inte­ resse degno di nota per i dati di fatto. Chi per esempio sostiene che, guardando la televisione, ci si diverte da morire, prescinde compietamente dal terrorismo della pubblicità e dalla coazione alla ripetizione dei programmi che non promettono davvero alcun divertimento, ma solo una noia altamente concentrata; e non sembra neppure notare che gli incidenti mortali davanti al televisore sono rari rispetto alle vittime dei kalashnikov, delle automobili e di altre armi. Si tratta, in questi casi, di forme della critica dei media che sono da attribuire al­ la sfera della letteratura dozzinale più che a quella della scienza. Quanto alla teoria, negli ultimi decenni si è in effetti preparata a

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compiere il grande balzo in avanti. Da quando circola voce che l’industria del sapere è diventata il settore chiave della fine del ventesimo se­ colo, la scienza della comunicazione e dei media è considerata un am­ bito accademico e pubblicistico in crescita. (Come lo si debba delimi­ tare è poco chiaro quanto la relativa concettualità. Ogni discorso sull’«industria culturale» appare nel frattempo obsoleto. Si può porre l’accento anche sulla dimensione tecnica e parlare di media elettroni­ ci. Chi, come Peter Glotz, non ha dimenticato l’economia politica, pre­ ferirà l’espressione «capitalismo digitale». Probabilmente le svolte epo­ cali esperiscono il loro definitivo battesimo sempre solo post festum). La rincorsa affannosa della teoria ha portato a risultati notevoli. Lon­ tane fasi della storia dei media sono state analiticamente indagate e com­ prese nelle loro implicazioni solo in tempi recentissimi. In Germania so­ no stati soprattutto i lavori di Friedrich Kittler e Jochen Hörisch a mo­ strare a quali esiti possono condurre simili ricerche. Non dovrebbe stupire che alla nuova disciplina si sia volta una schiera alquanto varie­ gata di adepti. Germanisti delusi, sociologi sbadati, giornalisti ambi­ ziosi, filosofi più o meno seri, scrittori più o meno competenti, qui e là perfino l’uno o l’altro naturalista hanno tentato di trovare l’aggancio con quelle tecniche dalle quali erano stati tanto a lungo preceduti. L’ac­ celerazione dei media ha però nel frattempo raggiunto anche i suoi teo­ rici. Lo zelo che ostentano li induce fin troppo spesso a compiere pre­ cipitosi salti in avanti, proprio come se dovessero rimediare a un erro­ re penoso. Non basta loro raggiungere la prassi, la vorrebbero anticipare. Per questo la loro riflessione propende alla prognosi. La maggior parte dei futurologi sa fin troppo bene che la vita punisce per lo più anche chi arriva troppo presto, ma preferisce tacere delle proprie figuracce. Che i profeti dei media si presentino in doppia formazione non sorprende. Le due fazioni seguono un familiare modello di storia del­ le religioni: da una parte troviamo gli apocalittici, dall’altra gli evan­ gelisti. Del resto il progresso tecnico ha assunto sotto più di un profi­ lo l’eredità delle religioni rivelate. Salvezza e dannazione, benedizio­ ne e maledizione sono cose che gli àuguri, dai tempi dell’Illuminismo, non leggono più nelle Sacre Scritture, ma nelle viscere della civiltà tecnica. Entrambe le categorie di profeti hanno in comune un sotto­ tono singolarmente soddisfatto, per non dire trionfante.

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Gli evangelisti digitali non si accontentano più dell’antica lieta no­ vella della perfettibilità dell’uomo. Solo i più ingenui di loro scorgo­ no nel villaggio globale la soluzione ai nostri problemi. Comunicazio­ ne e connessione in reti universali, democrazia elettronica diretta, ac­ cesso uguale per tutti a ogni specie di informazione, eliminazione delle gerarchie, sfruttamento durevole delle risorse, in breve omeostasi e armonia sono alcune delle loro promesse. Rammentano, nella loro man­ canza di memoria, l’euforia nucleare del periodo postbellico, quella che scorgeva nel cosiddetto sfruttamento pacifico della scissione nu­ cleare la soluzione di tutti i problemi energetici. Come allora, anche oggi questa specie di esperti gode del benvolere di gruppi economici finanziariamente robusti, e i risultati delle loro ricerche non si distin­ guono quasi dalle comunicazioni di un’agenzia di pubbliche relazioni. Tuttavia gli evangelisti più recenti non si accontentano di queste filantropiche visioni. La loro lungimiranza va oltre l’orizzonte della specie. Perdono la pazienza dinnanzi all’imperfezione dell’uomo. In fondo già l’aspettativa di vita di un comunissimo cacciavite supera la nostra, e un calcolatore sufficientemente grande immagazzina un’in­ concepibile quantità di dati più rapidamente e in modo più sicuro del­ la nostra gracile memoria. Di conseguenza i fanatici fra gli evangeli­ sti aspettano con ansia i prossimi passi dell’evoluzione. Innanzi tutto si tratta di emancipare l’uomo dall’esperienza immediata, organicamente condizionata. Al posto dello spazio vitale sudicio dovrebbe su­ bentrare, primo gradino verso la liberazione dal proprio corpo, l’igienicamente ineccepibile cyberspazio. Oswald Wiener esortò fin dal 1969 al miglioramento della Mitteleuropa, opera alla quale i successi­ vi profeti non hanno avuto molto da aggiungere. Il cyborg, una chi­ mera fatta di uomo e di macchina, è il prossimo passo logico verso Γautoeliminazione della specie. Alla fine il compito di sostituire in­ teramente il decrepito genere umano dovrebbe spettare ad automi avanzati, non affetti dalla pecca della mortalità. Macchine di tal fat­ ta porranno fine anche allo scompiglio dettato dalla sessualità; sono infatti in grado di riprodursi in modo irreprensibilmente asettico. Quest’obiettivo altruista era stato annunciato già decenni fa dai pio­ nieri più militanti dell’intelligenza artificiale. I tanti soldi per la ri­ cerca gettati al vento, la caparbia irrisolvibilità del problema mente-

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corpo, i molti fallimenti in cui sono sfociate le loro promesse sono tutte cose che non scuotono la soddisfazione in cui si crogiolano i di­ segnatori di scenari. I profeti sono sempre immuni dai dati di fatto. E in ciò che consiste il loro fascino. La frazione apocalittica non è invece sospetta di alcuna simpatia con la grande industria. E indipendente dai finanziamenti indiretti, ri­ nuncia alle sovvenzioni e proclama i suoi terrificanti messaggi a pro­ prie spese e a proprio rischio e pericolo. Ci assicura che la fine, senza che nessuno di noi se ne sia accorto, è già cominciata. Il filosofo dei media Paul Virilio ci comunica che siamo da tempo diventati mutanti e che viviamo in uno stato di «frenetica stasi». Abbiamo smarrito lo spazio e il tempo. Le sue tesi sono superate da quelle di Jean Baudril­ lard, secondo il quale tutto ciò che riteniamo reale è in realtà da tem­ po scomparso. I nostri media hanno ormai abolito ogni possibilità di distinguere fra l’apparire e l’essere. Il mondo è ridotto a una simula­ zione. Appare quindi risolto anche l’interrogativo sul senso delle cose. Anche le asserzioni degli apocalittici si distinguono per l’intonazione trionfante. Hanno lo charme del definitivo. Nel loro radicalismo è in­ sita l’arroganza di chi è al di là di tutte le illusioni e ha capito benissi­ mo l’abbaglio cui soggiacciono tutti gli altri. Anche in questi casi si ri­ vela un vantaggio che la filosofia dei media, quando si eleva a siffatte altezze, non abbia più alcun bisogno di attenersi ai dati di fatto. Non ho l’intenzione di fare la concorrenza ai profeti. Non ho da offrire voli filosofici. Mi accontento di alcune considerazioni sparse. E, nel farlo, confido che common sense e teoria non debbano com­ portarsi come cane e gatto. Occasionalmente potrebbero perfino dar­ si reciprocamente una mano.

2. Il valore d'uso come elemento frenante.

Solitamente i media tecnici precorrono non solo la teoria ma an­ che la prassi. Una delle ragioni per cui tanti fra i loro inventori sto­ rici morirono in un qualche ospizio perseguitati dai creditori, sta nel fatto che non capirono il valore d’uso delle loro opere, anzi, che que­ sto non li interessò particolarmente. Gutenberg, quando creò la stam-



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pa a caratteri mobili, non aveva certo in mente i depliant spediti per posta e i giornali scandalistici. Voleva solo stampare una bella Bib­ bia. Pare che Bell abbia inizialmente pensato alle persone con pro­ blemi d’udito quando gli venne l’idea della telefonia, ed Etienne Marey sviluppò la sua cinepresa per studiare lo svolgersi dei movimenti di animali; Hollywood era totalmente estranea ai suoi pensieri. I nuovi media sono sempre alla ricerca di bisogni sconosciuti. Si nota una curiosa autonomia nei loro pionieri. Quando certi ingegne­ ri, programmatori, appassionati del fai-da-te, mettono a punto qual­ cosa, sono interessati esclusivamente alle qualità dei loro giocattoli. Considerano il potenziale utente un fastidioso ignorante. I massoni della tecnica elaborano, esattamente come quelli che si occupano di medicina, un linguaggio segreto, un gergo che mira a garantir loro il sapere di cui dispongono. Fu cosi già fra gli stampatori di libri, i quali avevano certi loro spiccati riti iniziatici. Altrettanto fieri dell’in­ comprensibilità delle descrizioni dei loro prodotti sono stati gli spe­ cialisti di hi-fi, e gli ingegneri informatici e gli sviluppatori di soft­ ware hanno spinto agli estremi questa specie di autoreferenzialità. Mentre i media di una volta erano ancora relativamente pratica­ bili - chi è padrone dell’alfabeto, sa senza’altro cavarsela con ogni li­ bro -, il grado d’astrazione delle invenzioni più recenti si è talmente accentuato che la loro utilizzazione non è più comunicabile senso­ rialmente. I sistemi d’impiego degli odierni calcolatori sono inacces­ sibili all’utente normale, e perfino al tecnico del servizio d’assisten­ za mancano le necessarie conoscenze matematiche per capire che co­ sa sta facendo. Non ha altra risorsa che un pragmatico repertorio di trucchi e può, nel migliore dei casi, cambiare questo o quell’altro mo­ dulo. Per chi li usa, non sono un mistero solo i circuiti stampati che so­ no alla base del tutto. Egli si vede confrontato anche con una com­ plessità che non ha alcun riguardo per ciò di cui ha bisogno, e con ca­ pacità che può solo in minima parte sfruttare. I manuali che gli sono forniti, per ciò che concerne la loro comprensibilità, potrebbero an­ che essere stati concepiti da marziani. La ricerca di scopi per i mezzi disponibili, e che aumentano espo­ nenzialmente, assume a volte forme grottesche. La lista elettronica

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delle vivande dovrebbe sostituire il cameriere, il frigorifero multi­ mediale dovrebbe fare da solo la spesa, la presunta casa intelligente provvedere alle pulizie mediante gli ultrasuoni, e cosi via. Un’industria che si sottomette alla fantasia dei suoi ingegneri ub­ bidisce da un lato alla legge dell’accelerazione frenetica; ma si ac­ colla anche, dall’altro, il rischio dei blocchi più singolari. Indizi di questa pigrizia strutturale sono presenti in ogni soggiorno. Le no­ stre case si riempiono di una crescente quantità di casse metalliche. Chi vuole ascoltare musica, deve montarsi una torre fatta di tuner, amplificatore, box, lettore di cd e registratori di diverse dimensio­ ni. Anche il televisore partorisce sempre più cuccioli; ha bisogno di diversi videoregistratori, decoder, antenne satellitari. Telefoni, se­ greterie telefoniche, fax ingombrano la scrivania, e il calcolatore pre­ tende il corredo di un’intera famiglia di casse fatta di stampanti, mo­ dem, alimentatori, scanner e altro, ciascuna delle quali richiede lo studio di un manuale d’impiego di cento pagine. Lo stato del cosid­ detto settore multimediale si può desumere dall’intrico dei cavi nel quale incespica la donna delle pulizie. Nella realtà, non si può dav­ vero parlare di una fusione, tecnicamente possibile - dei media elet­ tronici. Se i costruttori d’automobili avessero preteso dai clienti di se­ guire un corso accelerato del loro idioma tecnologico prima di po­ tersi sedere al volante, non saremmo mai arrivati agli ingorghi per­ manenti nelle nostre strade. I media digitali escludono con la loro ostilità verso gli utenti due terzi della popolazione dal loro impie­ go. Ed è inutile interrogarsi sul senso economico di questo sabo­ taggio. Obiezioni di tal genere non possono mettere in discussione il po­ tenziale avveniristico dei media. Dimostrano solo che il processo del­ la loro adozione è lungo, complesso e pieno di ostacoli. Come nelle precedenti fasi della storia dei media, ci vorrà del tempo prima di riu­ scire a capire in che cosa il nuovo è utile e in che cosa no. Inducono alla speranza, in questo senso, i dodicenni, molti dei quali trascura­ no il gergo dell’industria e, senza degnare di un’occhiata i manuali inutilizzabili, saggiano di testa loro a che cosa possa servire la nuo­ vissima e scintillante scatola metallica che è loro offerta.

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3. La città-rete.

«Perciò in questo luogo fondiamo una città I e chiamiamola Mahagonny I ossia: città-rete! I Come rete sia distesa a catturare I uccelli mangerecci. I Altrove si pena e si lavora, I qui ci si diverte. I Poiché tale è la voglia degli uomini: I niente soffrire, tutto godere. I Questo è il seme dell’oro». L’ambigua promessa di Brecht, risalente all’anno 1929, ha nel frat­ tempo assunto un significato che l’autore non poteva immaginare. Come nel caso della telegrafia, anche in quello di Internet sono stati i militari e i servizi segreti a capire per primi a quali scopi si potesse utilizzare l’invenzione di alcuni pazienti campioni del bricolage tele­ matico. Poi sono venuti gli scienziati del cern di Ginevra e hanno creato, inizialmente per le loro necessità, il World Wide Web. Da al­ lora la rete si è estesa in modo esplosivo. Anche qui i teorici sono ri­ masti alle calcagna della prassi, benché non siano mancati i tentativi di sorpassarla. Però il vero evangelista della rete è il capitale. Mai in precedenza tanto denaro era stato investito tanto rapidamente in un medium. Società telematiche che per anni non avevano fatto altro che accumulare enormi perdite sono state trattate in Borsa a prezzi astro­ nomici. Il loro valore di mercato ha superato quello di molti gruppi industriali multinazionali. La grande rete è diventata la mecca degli investitori. Non sono state tuttavia solo le future rendite da sogno a dar le ali alla fantasia. Anche sugli effetti sociali dei nuovi media è stato scritto molto. In un testo del 1970, a suo tempo molto citato e che oggi salta però all’occhio soprattutto per il suo tono apodittico, si afferma: «Nella loro forma attuale, apparecchiature come la televi­ sione o il cinema [...] non servono alla comunicazione ma al suo im­ pedimento. Non consentono un’interazione fra emittente e rice­ vente. Questo dato di fatto non è tuttavia tecnicamente motivabile. Anzi: la tecnica elettronica non conosce una contrapposizione di principio fra emittente e ricevente. [...] L’immagine spaventosa con­ cepita da George Orwell, d’una monolitica industria del sapere, è la prova d’una concezione non dialettica e obsoleta dei media. La

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possibilità di un controllo totale di simili sistemi da parte di un’i­ stanza centrale non va situata nell’avvenire ma nel passato. [...] Le quarantene dell’informazione quali furono imposte dal fascismo e dallo stalinismo oggi sono possibili solo al prezzo di una deliberata regressione industriale». E infine: «I nuovi media sono, per loro struttura, egalitari. Mediante una semplice procedura d’inserimen­ to, ognuno può parteciparvi; i programmi in sé sono immateriali e riproducibili a volontà». Ben detto per un’epoca in cui non si parlava ancora di Internet. Senonché il tentativo dell’autore di sopravanzare la prassi dei media portò a una serie di aspettative che oggi sembrano ingenue. All’im­ maginaria rete del futuro furono attribuite - in netto contrasto con i vecchi media - utopiche possibilità. Il poeta non aveva dubbi sulle sue potenzialità emancipatorie. In perfetta sintonia con la teoria marxiana, coltivava una fiducia illimitata nella famosa «evoluzione delle forze produttive», variante materialistica della triade cristiana costituita da fede, speranza e carità. Oggi soltanto gli evangelisti del capitalismo digitale giurerebbero su simili promesse. Ma forse, trent’anni dopo, è necessario un certo più sobrio distacco. Giusta era tuttavia in queste prognosi la distinzione fra media cen­ tralmente pilotati e decentralmente concepiti. Basta considerare i ca­ si estremi per comprendere il significato politico di questa distinzio­ ne. Da una parte c’è l’editto, il messaggio imperiale, che presume un dislivello fra chi impartisce l’ordine e chi è tenuto a ubbidire; dal­ l’altra il «dialogo non autoritario» fra partecipanti d’uguale diritto. In questo senso la rete è in effetti un’invenzione utopica: ha abroga­ to la differenza fra emittente e ricevente. Non esiste più un’istanza centrale che potrebbe essere in grado di controllarla. I media decentrati non sono comunque una novità storica, e la di­ stinzione fra comunicazione unilaterale e reciproca è relativa. Senza feedback non se la cava nemmeno un comandante militare. Un buon esempio di questa indeterminatezza è offerto anche da uno dei pri­ mi media: il denaro. Ai suoi inizi la moneta soggiace totalmente, co­ me i simboli della sovranità e l’immagine del sovrano, alla centrale istanza che la batte. Poi però prende a circolare al di fuori d’ogni con­ trollo fra chi partecipa al mercato. Anche la posta inizialmente servi

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soltanto alla comunicazione fra sovrani privilegiati, fino a quando, dopo un lungo viavai, si è imposto il suo uso pubblico. Un sistema postale accessibile a tutti esiste in Europa da quattro secoli, e alla sua globalizzazione si è arrivati piu di cent’anni fa, e precisamente con la creazione dell’Unione postale mondiale nel 1874. Al più tardi con la messa in opera del primo cavo sottomarino per la telefonia fu in­ stallata anche la prima rete internazionale. Tutte queste innovazioni minacciarono il monopolio dell’informazione dei governi e innesca­ rono tenaci conflitti per il controllo dei media. La censura epistolare è in questo senso un esempio classico. Più tardi non solo le autorità, ma anche altri utenti e profittatori poterono allacciarsi ai centralini di distribuzione della telecomunicazione. Tecniche di cifratura d’ogni specie furono la risposta alle intercettazioni. Banchieri e stati mag­ giori mettevano in codice i loro messaggi, e la controparte tentava di decifrarli. Oggi gli hacker, le imprese di software e i servizi segreti si disputano, in concorrenza fra di loro e con i metodi avanzati della teoria dei numeri, il dominio sulle banche dei dati. Ciò che alla fin fine rende tuttavia impossibile ogni controllo non sono tanto le tecniche sempre più raffinate di cifratura, quanto il me­ ro volume del traffico. Non c’è filtro che possa impedire che le istan­ ze di censura collassino sotto l’overkill delle informazioni. Vengono a sapere troppo, non troppo poco. Ogni ipotetica spia all’ascolto soffocherà a causa di una qualità es­ senziale della corrente dei dati, e cioè della sua travolgente banalità. Il 99,999 per cento - a dir poco - di tutti i messaggi interessano tutt’al più coloro che li ricevono. Anche sotto questo profilo la profezia del­ la forza emancipatrice dei nuovi media è dunque ingannevole. Non a tutti viene in mente qualcosa, e non tutti hanno qualcosa da dire che potrebbe interessare il prossimo. La tanto conclamata interatti­ vità trova qui il suo limite. Lo si è desunto molto presto dall’esempio costituito dai radioa­ matori che vanno annoverati fra i pionieri delle telecomunicazioni. Si scambiavano con passione le loro posizioni e parlavano delle pre­ stazioni tecniche dei loro apparecchi. Ma, al di là di ciò, avevano ben poco da comunicarsi: similmente agli innumerevoli graffittari i cui in­ terventi si limitano di solito ad annunciare «Io sono io» o altre ba­

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nalità. Anche i canali televisivi aperti, con i quali si sperimentò negli anni settanta del secolo appena concluso, mostrarono raramente al­ tro che banale presenzialismo e sprovveduto esibizionismo, una ten­ denza che ha trovato nei talkshow interattivi e nelle chatroom il suo coronamento. Mentre i pionieri del web, sorretti dall’idealismo elettronico, avevano pensato a un medium per il dialogo non autoritario e gra­ tuito, il capitale, nella sua atarassia simile a quella degli dei, ha col­ to presto le opportunità di sfruttamento che la rete gli offriva in en­ trambi i sensi: arrivare da un lato al controllo economico del traf­ fico dei dati, e commercializzarne dall’altro i contenuti. Da allora l’inquinamento della rete da parte della pubblicità è costantemen­ te aumentato. Anche dalla parte degli utenti la globalizzazione mostra alcune al­ tre facce della sua medaglia. E vero che in migliaia di homepage trion­ fano la stravaganza e la dissidenza. Non c’è nicchia, micromilieu, mi­ noranza che non trovi nella rete una sua collocazione. La pubblica­ zione, che ai tempi di Gutenberg era il privilegio di pochi, è diventata un elettronico diritto dell’uomo all’insegna del motto: samizdat per tutti. Ciò spiega la paura del potere al cospetto della rete nelle società dittatorialmente impostate come l’Iran o la Cina. Tuttavia, e contemporaneamente, Internet è un eldorado per cri­ minali, intriganti, truffatori, terroristi, psicopatici sessuali, neona­ zisti e pazzi. Qualsiasi setta e qualsiasi culto vi trova il proprio co­ modo appagamento. Finalmente i redentori del mondo e i satanisti possono connettersi. Non c’è da stupirsi che in mezzo a questi grup­ pi diffusi in tutto il globo si annidi la paranoia e che le teorie di con­ giura fioriscano e prosperino fra i loro innumerevoli indirizzi. Poi­ ché non esiste un centro, ognuno si può illudere di essere, come il ragno nella sua rete, l’ombelico del mondo. In sostanza, il medium interattivo non è una maledizione ma neppure una benedizione; ri­ specchia molto semplicemente le condizioni psichiche dei suoi par­ tecipanti.

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4. Calcolo dei profitti e delle perdite.

La domanda su come si debbano valutare le promesse del capita­ lismo digitale è alquanto scabrosa, e chi azzarda una risposta rischia in ogni caso, qualunque sia il suo responso, di rimediare una pessima figura. L’incertezza comincia già li dove si tratta di fare solo un calcolo puramente economico. Negli Stati Uniti è da tempo in corso una vi­ vace disputa sulla questione se le rivoluzioni della tecnologia del­ l’informazione abbiano in effetti portato a quegli alti vantaggi in termini di produttività di cui i loro profeti sognavano. E assodato che alcuni dei settori immediatamente coinvolti hanno potuto regi­ strare enormi tassi di crescita. Meno evidenti sono i risultati per l’e­ conomia statunitense nel suo complesso. Non sempre agli enormi investimenti corrispondono aumenti di efficienza e di profitti. In molti casi di tratta di cambiali tratte sul futuro. Alla domanda non si può rispondere in modo esaustivo senza ricorrere a calcoli tal­ mente complessi e ambigui che tanto varrebbe consultare i fondi del caffè. L’esperienza d’ogni giorno giustifica in ogni caso un certo scetti­ cismo. Tutti conoscono il discorso dell’ufficio senza carte, e ognuno sa che le nuove tecniche hanno, all’incontrario, comportato uno sper­ pero senza precedenti di questo prezioso materiale. Semplici proce­ dure di prenotazione che sono svolte mediante i computer tendono a ritardare di settimane, e non appena nelle banche, negli uffici di viaggio o delle società di assicurazione sciopera il calcolatore centra­ le, il personale si ritrova disarmato e sprovveduto dinnanzi agli scher­ mi vuoti. Chi tenta di chiamare una delle cosiddette hotline, deve aspettarsi risposte da parte di metalliche voci computerizzate e lun­ ghe liste di attesa, ed è inoltre afflitto da una pestilenziale spazzatu­ ra musicale. Per ciò che riguarda la precarietà della tecnica digitale, il millennium bug ha offerto nel 2000 un saggio significativo. Si sono spesi centinaia di miliardi per ovviare all’ottusità di programmatori che non erano stati capaci di pensare a quel che sarebbe accaduto po­ chi decenni dopo.

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Sono leciti i dubbi anche per ciò che concerne lo smantellamento delle gerarchie. Non si può ovviamente imputare alla tecnica che sot­ to questo profilo il tutto si riduca, per lo più, a vuote chiacchiere do­ menicali. Dipende piuttosto dalla tenace capacità di resistenza di co­ loro che dispongono del potere e delle poltrone, i quali sono disposti a far valere i punti di vista economici solo quando si tratta di «liqui­ dare» gli altri. Anche la capacità intellettuale dei media digitali consente solo va­ lutazioni molto provvisorie, e anche qui il giudizio tende a risultare ambiguo. A ogni magnificenza che hanno da offrire corrisponde una perdita fatale. E un qualcosa che comincia già dalle comuni autode­ scrizioni. «La comunicazione è tutto», ci si sente dire, e s’incespica ovunque in definizioni come «società del sapere» o «società del­ l’informazione», le quali lasciano tuttavia, e per buone ragioni, im­ precisato ciò di cui stanno parlando: di conoscenza? di pubblicità? di semplici dati? di blabla? Tutti questi concetti sono deboli di pet­ to. Ovviamente è possibile affermare che l’informazione si definisce, secondo la teoria di Shannon, come l’entropia di una grandezza che si realizza in n eventi con probabilità p1...pn, però Dio solo sa quan­ to questa definizione non abbia niente a che vedere con ciò che cer­ chiamo quando vogliamo sapere qualcosa. Prendere lucciole per lanterne ovvero semplici dati per informa­ zioni sensate produce singolari illusioni. Un esempio relativamente semplice è costituito dal dizionario. Si può affermare con buona ra­ gione che le enciclopedie, più sono nuove, più sono ricche di conte­ nuto, più sono impraticabili. Ciò dipende dal fatto che le nozioni che offrono sono suddivise e spartite, in misura crescente, in lemmi sem­ pre più piccoli, fino a quando le informazioni sono ridotte a pochi bit. Al posto dei nessi subentra il link che invita, tramite i clic del mouse, a un’infinita ricerca del contesto. Al confronto, certi vecchi diziona­ ri come [’Encyclopaedia Britannica del 1911 sono meraviglie di capa­ cità di spiegazione. Vi si trovano per esempio, sotto lemmi come elec­ tricity, song oppure anarchism, lunghe e nello stesso tempo stringate trattazioni di qualificatissimi esperti i quali forniscono sullo stato del­ le conoscenze di allora tutte le informazioni desiderate. I nuovi me­ dia hanno invece da offrire solo schegge e frattaglie di dati.

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Altrettanto problematica è la quantità in sé del materiale attingi­ bile dalla rete: ammesso e non concesso che ci siano informazioni uti­ li, scovarle nel mucchio inconcepibilmente grande di cascami elet­ tronici è un’impresa titanica. Naturalmente anche questa marea di informazioni da molti criticata non costituisce una novità. E da tem­ po che la maggior parte di noi ha a disposizione non troppo pochi, ma troppi input. Come unica possibile difesa si prospetta un’ecolo­ gia dello scansare alla quale ci si dovrebbe esercitare fin dalle scuole elementari. Ovviamente anche coloro che fanno funzionare la rete hanno capito il problema e sviluppato motori di ricerca sempre più raffinati. Nel frattempo ce ne sono tanti che occorrono dei meta-mo­ tori di ricerca per riuscire a trovare il filtro giusto. Tutto ciò nulla cambia al dato di fatto che l’evoluzione della specie ci ha corredati di un apparecchio che sarà difficile superare: il miglior motore di ri­ cerca è tuttora il cervello. Un’altra questione è costituita dall’accesso generalizzato e illimi­ tato alla rete, indubbiamente uno dei suoi maggiori pregi. Anch’esso è tuttavia conseguito al prezzo di gravi svantaggi. Internet ha de­ finitivamente liquidato il concetto di «originale» che era già stato gravemente compromesso da precedenti media. E difficile stabilire chi sia l’autore di una e-mail o di un messaggio web. Però con l’au­ tore scompare anche l’autorità. Non solo ognuno può pubblicare, ma chiunque può teoricamente intromettersi nel testo dell’altro, copiar­ lo, integrarlo, riscriverlo, plagiarlo e falsificarlo. Le password e i li­ miti di accesso si possono aggirare, come dimostra la prassi, con gli stessi metodi sui quali si basano. Anche un ulteriore pregio della rete di calcolatori, la sua illimita­ ta capacità di immagazzinamento, ha i suoi lati d’ombra. La freneti­ ca velocità d’innovazione ha infatti come conseguenza che il tempo di dimezzamento dei supporti di archiviazione decresce. I National Archives di Washington non sono più in grado di leggere le annota­ zioni elettroniche risalenti agli anni sessanta e settanta del Novecen­ to. Gli apparecchi che occorrerebbero per farlo sono da tempo estin­ ti. Gli specialisti che potrebbero convertire quei dati adattandoli agli attuali format sono rari e costosi, tanto che la maggior parte di quel materiale deve essere considerata perduta. Evidentemente i nuovi

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media dispongono di una memoria corta, tecnicamente limitata. Fi­ nora non sono state neppure ravvisate le implicazioni culturali di que­ sto dato di fatto. È da presumere che il tutto tenda a far si che si pos­ sa ricordare sempre di più per un tempo sempre meno lungo.

5. Un po’ di economia politica.

La lotta di classe ha notoriamente conosciuto tempi migliori. Per qualche tempo almeno, ha vinto il capitalismo, digitale o no. Con ciò non sono stati eliminati i vecchi conflitti, i quali continuano a veri­ ficarsi, però solo in modo molto spicciolo e sparso, come se i salaria­ ti avessero fatto proprio il comandamento neoliberale della privatiz­ zazione. Si può parlare di lotte di classe molecolari, che si svolgono su ogni specie di palcoscenici secondari. Ma vi è anche un’ulteriore complicazione. I conflitti economici di spartizione sono da qualche tempo sovrastati da una nuova specie di meccanismi culturali di esclusione. Finora il capitale culturale era sem­ pre stato suddiviso analogamente alla stratificazione economica del­ le classi sociali. La borghesia disponeva della cultura superiore e di quel sistema d’istruzione che ne rafforzava l’egemonia; la piccola bor­ ghesia investiva nell’istruzione dei suoi rampolli per migliorarne le possibilità di ascesa; i lavoratori specializzati acquisivano qualifica­ zioni che ne garantivano il posto di lavoro; e i non qualificati dove­ vano accontentarsi del minimo vitale a livello culturale. Questa spar­ tizione specificamente connessa con i ceti sociali è ora finita. Ognu­ no di noi conosce l’uomo d’affari analfabeta e il tassista laureato. L’istruzione, ovvero ciò che per tale s’intende, non è piu correlata con la struttura del reddito o con lo standard di vita. Si potrebbe di­ re che si sono formate, trasversalmente rispetto ai ceti economici, le classi d’informazione, le cui prospettive future non si possono più ri­ durre a nessun denominatore comune. A parte ciò, il regime dominante opera sulla base di un catalogo delle virtù del tutto nuovo, che mette fuori corso ogni altro prece­ dente codice morale. Sono premiate qualità e comportamenti che in precedenza passavano semmai per sospetti. La flessibilità è conside­

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rata la virtù cardinale. Si pretendono inoltre capacità di imporsi, mo­ bilità e costante disponibilità al rapido apprendimento. Chi non rie­ sce a reggere il passo, è messo da parte. Il collegamento con lo stato della tecnologia dei media è eviden­ te. Ipoteticamente da questi accenni si potrebbe desumere una nuo­ va struttura sociologica. Si esita a parlare di un’analisi delle classi, perché le frazioni che si delineano sono in sé molto disomogenee. Di una coscienza di classe in un qualsiasi senso tradizionale non si può in ogni caso più parlare. Si tratta semmai di diversificazioni funzio­ nali. Ricorro quindi a tipicizzazioni che sono simili a quelle delle fa­ vole. Ne risulta, grosso modo, il quadro che segue. In cima alle società digitali svettano i camaleonti. Assomigliano al tipo che David Riesman decenni fa ha descritto come eterodiret­ to, solo che non si tratta di conformisti passivi, ma di workaholics estremamente dinamici. Una condizione essenziale del loro successo è che non abbiano niente a che fare con la produzione materiale. So­ no agenti, sensali, mediatori, avvocati, consulenti, gente dei media, intrattenitori, manager scientifici, manager finanziari e manager del­ l’informazione. Il loro campo non è quello dell’hardware ma il puro software. Questa forma esistenziale trova la sua espressione più astrat­ ta nei gruppi finanziari, perché qui il prodotto è puramente virtuale. Anche nell’industria dei computer, nelle telecomunicazioni e nei set­ tori affini non conta più da tempo l’apparecchio tangibile e concre­ to, ma il know-how. Brillanti scienziati abbandonano le università, fondano aziende e trasformano il loro sapere in brevetti. Tutte que­ ste attività hanno in comune il fatto di essere parte di quella sfera che un tempo si chiamava sovrastruttura. E qui ormai che si fanno i pro­ fitti di cui le industrie tradizionali possono solo sognare. La classe emergente dei camaleonti ha già sviluppato propri meccanismi di re­ clutamento. Le persone altamente dotate che dispongano delle qua­ lità richieste non si dedicano più alla politica o all’insegnamento, ma divengono imprenditori di software. Una seconda classe alla quale si possono accordare rilevanti pos­ sibilità di sopravvivenza è quella dei ricci. Ciò che li contraddistin­ gue è proprio la mancanza di flessibilità. La loro patria è il guscio del­ le istituzioni che continua a offrire ai sedentari un rifugio sicuro. Il

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sistema dei funzionari che allignano negli uffici, nelle amministra­ zioni, nei partiti, nelle associazioni, nei sindacati, in camere e casse di ogni specie, locali, nazionali e internazionali, in sintesi la tanto di­ sprezzata burocrazia si è finora dimostrata tetragona a tutte le mo­ dificazioni della società del lavoro. La domanda di regolamentazioni aumenta inevitabilmente con l’accrescersi della complessità. Non è dunque il caso di preoccuparsi per l’avvenire dello sterminato eserci­ to che si dedica a questi compiti. Invece è da presumere che diminuirà ulteriormente il numero di tutti gli altri detentori di un posto di lavoro. Li si potrebbe riassu­ mere nell’emblema del castoro. I settori classici della produzione si riducono a causa dell’automazione, della razionalizzazione e del tra­ sferimento in aree di bassi salari. Nell’agricoltura questo processo è ormai talmente progredito che l’intero settore può essere mantenuto in vita solo grazie a massicce sovvenzioni. La quarta classe si potrebbe definire una sottoclasse se questo con­ cetto non fosse troppo generico. Non le si può trovare un animale che le funga da totem, per la semplice ragione che la natura non conosce le specie superflue. Si tratta infatti delle persone che non si adatta­ no al catalogo delle virtù del capitalismo digitale e di cui, dal punto di vista di quest’ultimo, si può quindi fare a meno. Costituiscono, in­ dubbiamente anche nei paesi ricchi, una parte crescente della popo­ lazione. Nelle dimensioni mondiali sono in ogni caso la stragrande maggioranza. Sicuramente esistono in questo esercito composto di milioni e mi­ lioni di persone anche dei volontari, ovvero individui che hanno de­ liberatamente scelto di sottrarsi alla pressione che impone il succes­ so nella società dei consumi. Tuttavia questa è un’opzione di cui so­ lo pochissimi dispongono. Presume uno stato sociale intatto e una sana autoconsapevolezza. Sicuramente esistono i virtuosi dell’uscita dall’agone, i quali trovano da raggranellare quel poco o tanto che ser­ ve loro per campare fra le pieghe e le giunture del regime capitalistico, e sarebbe ridicolo misurarli con il metro di una morale del lavoro che è comunque fuori corso, se non altro per carenza di posti di la­ voro sicuri. Normalmente la sorte di coloro che sono dichiarati su­ perflui è tutt’altro che invidiabile. La maggior parte dei disoccupati,

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di coloro che chiedono asilo, degli individui senza formazione pro­ fessionale, delle donne che tirano su da sole i figli - l’elenco potreb­ be proseguire - trovano tutt’al più occupazioni sottopagate a tempo determinato, si arrangiano con il lavoro nero o con la prostituzione, oppure si volgono alla carriera criminale. Il capitalismo digitale - per attenerci a questa definizione - non può che accentuare queste tendenze. Una vasta parte della popola­ zione semplicemente non è all’altezza delle sue richieste. Il che ri­ sulta non solo dalle barriere che filtrano l’accesso - non tutti riesco­ no ad arrivare alla Harvard Business School o al mit -, ma consegue anche molto banalmente dalla regola della normale distribuzione di Gauss. Nei paesi del cosiddetto terzo mondo (ma il secondo che fine ha fatto?) un’integrazione della maggioranza nella circolazione eco­ nomica globale è in ogni caso impensabile. Le conseguenze politiche di questo sviluppo sono imprevedibili.

β. Al di qua dei media.

Ceci riest pas une pipe. René Magritte, il teorico della conoscenza fra i pittori, ha preso in giro con questo suo dipinto famoso tutti quel­ li che scambiano la riproduzione di una pipa per una pipa. Ma è ser­ vito a poco. Gli evangelisti digitali non si stancano di sostenere che i nuovi media hanno eliminato la differenza fra realtà e simulazione. Un simile grado di inesperienza delle cose nel mondo è ovviamente concepibile solo nei seminari di studio, nei laboratori e nei film di fantascienza. Che queste ingenue teorie sulla simulazione godano di tanta po­ polarità ha tuttavia motivi anche molto concreti e banali. Come av­ viene in altre professioni, anche i lavoratori dei media soffrono di ce­ cità aziendale. Si esprime, in questo caso, in una cosi vasta e ampia autoreferenzialità che riesce loro difficile guardare al mondo ester­ no. La sopravalutazione del proprio ruolo li induce a scambiare il mon­ do dei media per la realtà. Questo autoinganno li compensa della eva­ nescenza della loro produzione ed è entro questi limiti indispensabi­ le per l’idea che hanno di sé.

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È un qualcosa che si può notare anche nel giornalismo classico. Il fatto che anche il migliore dei giornali diventi nell’arco delle 24 ore carta straccia è un’offesa narcisistica che deve essere compensata con il darsi delle arie. Certe riunioni di redazione assomigliano quindi a riunioni di governo nel corso delle quali si parla dell’articolo di fon­ do deU’indomani come se ne dipendessero le sorti della nazione. Si ha spesso l’impressione che i giornalisti, nello svolgere il loro lavoro, non rivolgano quasi il pensiero ai lettori; ciò che conta è il giudizio dei concorrenti, un target minuscolo dal quale dipende però la loro carriera. Di analoghe perdite del senso della realtà soffre anche la pubblicità. I cosiddetti creativi vorrebbero passare a ogni costo per artisti. Gli art-director ambiscono ai premi destinati ai designer. Sen­ za alcuna considerazione per la realtà, i pubblicitari seguono un cul­ to della giovinezza che è economicamente insensato, perché la pira­ mide delle età e la distribuzione della capacità di acquisto parlano tutt’altri linguaggi. Le cose vanno analogamente in tutti gli altri me­ dia. Lo slogan dell’uri pour l’art trova qui una tarda eco nel principio le médium pour le mèdium. Un’ulteriore illusione che quasi tutti i lavoratori dei media colti­ vano è la convinzione che la gente creda in ciò che fa o dice. Anche questo fatale errore li induce alla autosopravalutazione. Sicuramen­ te è esistito una volta un pubblico che giudicava attendibile ciò che era scritto nero su bianco. Però sono tempi passati. Gli odierni spet­ tatori, lettori, consumatori sono ormai irrimediabilmente smagati nel senso che, di fronte ai media, accantonano semplicemente la que­ stione della verità. Ne risulta uno scetticismo insuperabile. Praticamente ogni lettore del quotidiano «Bild» sa che questo giornale non è un medium dell’informazione ma dell’intrattenimento. Sempre che vi si comunichi qualcosa, la notizia è o inventata o irrilevante. Lo stesso discorso vale ovviamente per la stragrande maggioranza dei programmi televisivi. Quanto alla pubblicità, è considerata comun­ que, fin dalla prima occhiata, bugiarda. Che l’offerta dei media, del tutto a prescindere da questa scetti­ ca riluttanza da parte dei consumatori, sia ugualmente e appassiona­ tamente utilizzata è un qualcosa che disorienta gli studiosi della ri­ cezione. Ciò dipende dal fatto che lavorano quasi esclusivamente con

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metodi quantitativi e non sanno quindi dire nulla di convincente su esiti che non siano statisticamente rilevabili. Il consumo di porno­ grafia fa aumentare gli stupri oppure funge, al contrario, come sfogo degli istinti ? Le scene di violenza che la televisione tanto ama sono da considerare responsabili della criminalità giovanile oppure no ? Non è il caso di stupirsi che le risposte dei ricercatori siano estremamente contraddittorie. Se la tesi della simulazione fosse vera, ci si potrebbe in ogni caso risparmiare la domanda: l’omicidio del film gial­ lo o del videogioco e l’omicidio davanti alla propria porta di casa sa­ rebbero la stessa, identica cosa. Anche se le chiese sono vuote e le fattorie si trasformano in case per vacanze, ci sono parecchie considerazioni che suggeriscono di la­ sciare che le chiese continuino a esistere nel villaggio globale. I me­ dia hanno un ruolo centrale nell’esistenza umana, e il loro rapidissi­ mo sviluppo porta a cambiamenti che nessuno può davvero valutare. Dovremmo in ogni caso abbandonare al ridicolo che meritano i pro­ feti dei media che ci predicono l’apocalisse o la redenzione da ogni male. La capacità di distinguere una pipa dalla raffigurazione di una pipa è vastamente diffusa. Chi scambia il cybersex con amore, è ma­ turo per il manicomio. Della pigrizia del corpo ci si può fidare. Il mal di denti non è virtuale. Chi ha fame, non si sazia con le simulazioni. La propria morte non è un evento mediale. Ma si, certo che esiste una vita al di qua del mondo digitale: ed è l’unica che abbiamo.

III.

Disegno in bianco e nero

sul modello di Hermann Weyl

Il gesso bianco che ho in mano, signori, è fatto, come sapete, di molecole. Le molecole sono fatte di particelle, carica, massa, strangeness e spin: tracce che si dissolvono nella camera a bolle e scompaiono, in mano a me, in queste formule senza fine che voi conoscete o non conoscete, signori, e che io traccio qui alla lavagna col gesso, col gesso, col gesso.

Scienza astrale

Il suo mondo fatto di nulla o quasi di fantomatiche superstringhe nello spazio decidimensionale, strangeness, colour, spin e charm però quando ha mal di denti, il cosmologo; quando sfreccia sulla pista di St. Moritz; mangia patate in insalata o va a letto con una signora che non crede ai bosoni; quando muore, le fiabe matematiche evaporano, le equazioni si sciolgono e lui rientra dal suo aldilà in questo aldiquà di dolore, neve, piacere, patate in insalata e morte.

La cattedrale sotterranea Avvicinamento a un santuario della fisica

La strada per Ginevra. In una zona di campagna a nordovest del­ l’aeroporto di Meyrin, situata in parte in Svizzera e in parte in terri­ torio francese, si trova una della più grandi, anzi forse la più ambi­ ziosa costruzione espressa dalla nostra civiltà. Profondamente incas­ sato sotto villaggi, chiese, campi e locande, non lontano da Les Délices, il lussuoso eremitaggio di Voltaire a Fernay, scorre un tun­ nel circolare lungo 27 chilometri, mentre in superficie ci sono labo­ ratori, edifici amministrativi, torri di raffreddamento e giganteschi capannoni di montaggio a disturbare il bucolico idillio. Committen­ te ed esercente di quest’impianto distribuito su 602 ettari è l’orga­ nizzazione europea per le ricerche nucleari, il cern, fondato nel 1954 da dodici Stati membri: è entrato in esercizio nel 1957 e da allora è ininterrottamente cresciuto. Oggi sono già venti le nazioni che con­ tribuiscono al bilancio annuale di poco inferiore al miliardo di fran­ chi svizzeri; la Repubblica federale tedesca, con una partecipazione prossima al 23 per cento, è lo sponsor maggiore. Quali Stati non-membri sono comunque interessati all’impresa Israele, Giappone, Russia, India, Canada, gli Stati Uniti e la Turchia. Il cern dà lavoro a circa 2700 fra fisici, ingegneri e tecnici, collabora con cinquecento uni­ versità e istituzioni di ottanta paesi e consuma piu energia elettrica di una città di media grandezza. Ma non sono questi superlativi a caratterizzare l’istituzione, ben­ sì la sua finalità. E questa è talmente esoterica che alla maggior par­ te dei contribuenti riuscirebbe difficile comprenderla. La parolina nu­ cleare che compare nell’acronimo cern, induce a pensare che si trat­ ti dell’energia nucleare o addirittura di armamento atomico, scopi con i quali il cern non ha assolutamente niente a che fare. Ciò di cui qui

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ci si occupa è pura ricerca di base. Con la definizione fisica delle par­ ticelle il suo obiettivo è descritto solo inadeguatamente. Perché alla fin fine si tratta della penetrazione nella zona più intima della mate­ ria, oltre che dell’origine e dell’evoluzione dell’universo. Le poche pagine che seguono non intendono sostituire un corso base di fisica avanzata. Vogliono essere solo un tentativo di descri­ vere una singolare istituzione. Non si parlerà delle questioni solle­ vate e dei risultati conseguiti nel corso di decennali sperimentazio­ ni, ma dei loro presupposti. Osservare una coorte di cosi raffinati osservatori è un affare delicato. Dopo tutto si tratta di ispezionare una meraviglia della nostra epoca, il suo ciclo vitale e la sua proble­ matica.

L’accelerazione dell’accelerazione. Quando il fisico inglese Joseph John Thompson analizzò nel 1897 i raggi catodici, un lavoro che portò alla scoperta dell’elettrone, utilizzò un acceleratore che un buon mec­ canico gli avrebbe potuto approntare in un paio di giorni. Nel 1928 il norvegese Rolf Wider0e inventò un apparecchio che portò alcune particelle a energie superiori a quelle della scissione nucleare. Due an­ ni dopo Ernest Lawrence costruì il primo ciclotrone. In questa mac­ china le particelle erano tenute da un campo magnetico lungo un per­ corso a spirale e accelerate da un oscillatore ad alta frequenza. Il pri­ mo modello aveva dimensioni modeste: il diametro era di soli undici centimetri. Nel frattempo anche la fisica teorica aveva fatto progressi enormi, e negli anni trenta la ricerca era arrivata alla conclusione che, oltre alla gravitazione e alla forza elettromagnetica, esistono altre due energie elementari, la debole e la forte. Furono previste e poi sco­ perte sempre nuove particelle subatomiche. All’elettrone e al proto­ ne si unirono via via il neutrone, il mesone π e il mesone μ, il posi­ trone e il neutrino. Verso la fine degli anni cinquanta saltarono fuo­ ri altre particelle «esotiche». La situazione divenne sempre più imperscrutabile; i fisici parlavano di uno zoo di particelle e l’esigen­ za d’una teoria unitaria divenne urgente. Contemporaneamente aumentarono anche le potenzialità speri­ mentali e quindi le pretese rivolte alla tecnica. Il primo sincrotrone, inventato da Edwin McMillan, entrò in esercizio nel 1952 presso il

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Brooklyn National Laboratory di New York. In un anello di forti ma­ gneti, i protoni poterono essere accelerati a una velocità prossima a quella della luce, e si raggiunsero energie di 3 GeV (gigaelettronvolt), alte quanto l’irradiazione cosmica. Era finita l’età delle tecniche ar­ tigianali e dell’atmosfera intima dei laboratori di Rutherford e Hahn. Il primo protosincrotrone pesava ormai 2 mila tonnellate. Il trionfo delle cattedrali. Le prime università furono fondate in Eu­ ropa occidentale nella seconda metà del xn secolo. In quello stesso pe­ riodo si levarono nel cielo, nella Francia settentrionale, le prime cat­ tedrali gotiche, costruzioni che oscurarono quanto l’architettura del­ l’Occidente aveva espresso fino a quel momento. Uno dei primi e più significativi di questi edifici sorse a Reims, e non passò neppure un secolo che ne furono eretti altri, altrettanto audaci, in Germania, Ita­ lia, Inghilterra, Spagna e Portogallo. Furono imprese molto dispen­ diose. I migliori costruttori e artisti lavorarono per decenni, per se­ coli a queste opere straordinarie. Molti di quegli esperti erano tal­ mente ricercati che dovettero spostarsi da un paese all’altro. I relativi cantieri furono probabilmente le industrie più grandi e dispendiose dell’epoca. I primati della tecnica erano all’ordine del giorno. In questo modo si determinò in tutta Europa una gara; non ci fu sovrano, vescovado, importante convento che volle rimanere arre­ trato rispetto ai grandi modelli. In molti luoghi furono costruite chie­ se rispetto alle cui dimensioni il numero degli abitanti delle relative comunità era decisamente scarso. Nessuno trovò tuttavia da ridire su questa forma di spesa collettiva. La questione del valore d’uso delle cattedrali, per non dire della loro utilità economica, non si pose nep­ pure. Per un paio di secoli gli abitanti di Chartres e di Salisbury, di Friburgo e di Burgos, di Praga, di Milano e di centinaia di altre città scorsero in quelle costruzioni protese verso il cielo l’espressione di­ venuta pietra delle loro energie spirituali. Un’analogia. Chi a cento metri di profondità sotto la contea di Gex, non lontano da Ginevra, ha visto quello che a tutt’oggi è il più grande acceleratore lep, impostato cioè per produrre la collisione di elettroni e positroni, non dimenticherà facilmente lo spettacolo. I

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quattro rivelatori cilindrici grandi come case - aleph, Delphi, opal e L3 - in cui sono state registrate, misurate, vagliate ed elaborate mi­ lioni di collisioni di particelle subatomiche, si levavano in enormi ca­ verne. Quegli ambienti sotterranei evocavano la navata centrale di una cattedrale, anche se erano riti e misteri di tutt’altra specie quel­ li di cui i loro sommi sacerdoti si occupavano. «E un’analogia che viene spontanea», mi ha detto Christopher Llewellyn-Smith, l’allora direttore generale del cern. «È evidente che il nostro progetto ha una dimensione spirituale. Ha a che fare con la nostra sensibilità, con la questione relativa alla nostra collocazione nel­ l’universo. Noi lavoriamo attorno a nuove forme di energia e di ma­ teria, e con gli elementi fondamentali di cui consistiamo». I pragma­ tici potrebbe forse giudicare un lusso queste ricerche, perché non ren­ dono alcun utile immediato e concreto. Però non è questo il loro scopo. La domanda sarebbe fuori posto, esattamente come lo sarebbe nel ca­ so di un duomo. «A uno dei miei colleghi è stato chiesto una volta, da un deputato al Congresso, in che cosa la sua scienza contribuisse alla difesa degli Stati Uniti, e lui ha risposto: “In niente. Contribuisce tutt’al piu a far si che questo paese abbia qualcosa da difendere”».

U;%z gara a caccia di quark e di neutrini. La costruzione del lep co­ minciò nel 1983 e durò sei anni. L’impianto era allora il più grande progetto edilizio sotterraneo d’Europa. Costò 800 milioni di euro: una spesa sopportata dai paesi, allora dodici di numero, che si erano mostrati disposti a fondare e a finanziare il cern. Un’impresa, dun­ que, che non è da attribuire alla Comunità europea. Fin dal loro av­ vio, le istituzioni di Bruxelles hanno costantemente ubbidito a crite­ ri di opportunità politica e agli interessi dell’economia. Non si può parlare, tuttora, di una politica culturale e scientifica europea. In una situazione del genere è quasi un miracolo che si sia potuto realizzare un progetto unico come il cern. Molti fisici riguardano oggi con una certa nostalgia a quegli esor­ di. La loro ricerca di base era entrata, dopo la seconda guerra mon­ diale, in una febbrile fase di sviluppo. Un po’ ovunque nel mondo si costruirono nella seconda metà dello scorso secolo macchine sempre più costose.

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Dopo il pionieristico progetto di Brookhaven (1952), fu l’Unione Sovietica a realizzare a Dubna, presso Mosca, quello che risultò allo­ ra (1957) l’acceleratore di massima energia, superato solo due anni do­ po dal CERN. Segui, nel 1967, lo Stanford Linear Accelerator della Ca­ lifornia. Nel 1983 entrò in funzione presso il Laboratorio Fermi di Chicago il Tevatron, un concorrente immediato per gli europei. (Gli architetti che progettarono l’edificio centrale di questo laboratorio si ispirarono, come modello, alla cattedrale di Beauvais, del xin secolo, con le sue due torri e il coro). Nel 1992 entrò in esercizio l’anello Hera presso il centro di ricerche amburghese desy; oggi vi si vorreb­ be costruire un gigantesco acceleratore lineare del costo di miliardi, un’idea che probabilmente non è nemmeno più finanziabile. Altri pro­ getti sono stati realizzati in Giappone e in Italia. Grandi impianti per le ricerche sul neutrino sono stati costruiti sotto il Gran Sasso, pres­ so il super-osservatorio di Kamiokande in Giappone, in Canada, ne­ gli Stati Uniti e nell’Antartide. La competizione internazionale per la grande ricerca ha trovato il suo primo limite a Waxahachie, nel Texas, dove è stata avviata la costruzione di un Superconducting Supercolli­ der. Dopo che vi erano già stati investiti oltre sei miliardi di euro, il Congresso americano ha tirato il freno e bloccato il progetto. Ciò che teneva costantemente sotto pressione tutti questi impianti di ricerca erano gli enormi sforzi dei teorici. I molti esperimenti han­ no bensì comportato sorprese che nessuno si aspettava. Il cosiddetto zoo delle particelle, la scoperta del charming quark e del bottom quark, del leptone tau e di altre particelle ha posto la teoria dinnan­ zi a problemi che sono stati risolti solo con il famoso modello stan­ dard. Grosso modo dal 1976 però, quasi tutte le scoperte decisive so­ no state previste dalla teoria. Oggi sono all’ordine del giorno soprat­ tutto la ricerca dei bosoni di Higgs e di indizi a sostegno della esattezza della supersimmetria; poi vengono gli studi sulla cosiddetta lesione CP e la fisica degli ioni pesanti (quark-gluone-plasma). Solo raramen­ te gli sperimentatori possono sperare in un colpo di fortuna casuale; quello detto trial anà error non è un metodo molto promettente, con­ siderato il dispendio di mezzi finanziari che ognuno di questi esperi­ menti richiede. Solo chi conosce le domande precise da porre ha qual­ che speranza.

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La comunità. La pianta organica comprende 2700 posti. Ma di questi collaboratori, 450 lavorano nell’amministrazione, 271 sono operai specializzati, 930 i tecnici, quasi 1000 gli ingegneri e gli altri scienziati, mentre solo 90 sono indicati come fisici teorici o speri­ mentali. Anche fra questi, tuttavia, soltanto 30 sono research physi­ cists permanenti, i quali costituiscono in un certo senso la facoltà del cern; gli altri, più giovani, hanno solo contratti a tempo. Questo noc­ ciolo duro di meno di tremila collaboratori garantisce l’infrastruttura per la ricerca. Ma fondamentale per l’intera impresa è una comu­ nità estremamente mobile, la scientific community dei ricercatori di punta di tutto il mondo che lavorano per il cern. Stiamo parlando di seimila fisici di ottanta paesi che soggiornano ogni anno a Ginevra per periodi più o meno lunghi. Questa tribù di sciamanti cittadini del mondo non costituisce solo una benvenuta clientela per le compagnie aeree; i componenti di questo invisible college sono anche in continuo contatto fra loro per scambiarsi informazioni. Non a caso è a un ricercatore del cern di nome Tim Berners-Lee, uno scienziato britannico dei computer, che il mondo deve il World Wide Web. Il protocollo di Internet è nato perché la comunità dei fisici aveva bisogno di veloci collegamenti d’alta capacità e ben con­ nessi fra di loro. (Nel 1995 Chris Llewellyn-Smith ha fatto notare che il solo Web, espresso in dollari, valeva più di tutte le somme che gli Stati membri avevano investito nel cern dall’epoca della sua fon­ dazione in poi. Non si è tuttavia mai, nemmeno minimamente par­ lato di diritti di sfruttamento di quest’invenzione: ciò che BernersLee ha inventato, è stato messo gratuitamente a disposizione del mon­ do. Lo stesso vale per le molte altre applicazioni nei campi della medicina e dei semiconduttori, della chimica e della geologia che so­ no risultate per cosi dire come sottoprodotti della fisica delle particelle. La ricerca di base ha una sua propria economia che si sottrae a priori a ogni calcolo. Nessuno sa se, quando e in che modo può dare vantaggi praticamente sfruttabili. Il fatto che i suoi protagonisti con­ siderino una questione secondaria questo spin-off sempre possibile ma per principio imprevedibile è una circostanza che innervosisce ov­ viamente tutti i finanziatori).

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In singolare contrasto con l’alta fluttuazione degli iniziati è l’o­ rizzonte temporale della maggior parte dei progetti di ricerca. Un esperimento di media portata dura da cinque a dieci anni e richiede un bilancio di milioni e milioni di euro. Grandi progetti come ΓATLAS, per la realizzazione dei quali sono necessari rilevanti inve­ stimenti particolari, devono prevedere tempi di preparazione che si aggirano sui vent’anni. In tal modo un unico esperimento può tra­ dursi nell’impresa della vita di un fisico. La rete scientifica che si è costituita attorno al cern ha anche al­ tre particolarità. Perfino negli anni più freddi della guerra fredda i ricercatori del blocco orientale hanno collaborato qui senza la ben­ ché minima frizione con i loro colleghi occidentali. Giapponesi e fran­ cesi, russi e indiani si capiscono senza fatica in una lingua franca che suona come l’inglese ma che è assolutamente incomprensibile per i non addetti ai lavori, come dimostra una qualsiasi e-mail ripescata dal cestino: «Concerning NAN-93. We have reprocessed all dst’s of c-meson run and minimum bias and repeat all our procedures with new oxpr and OXMCX. The results are the following: 1) Main conclusion about huge yield of Phi is confirmed. The branching ratio of Phi-pi(-) is in agreement with Crystal Barrel result on Phi-pi(o). 2) The yield of omega-pi(-) is increased on 25 per cent and now completely coincide with old Bizarri result». Sorprendente per chiunque abbia avuto il privilegio di osservare dall’interno un istituto universitario tedesco, è l’atteggiamento che connota i rapporti fra gli scienziati coinvolti. Certo, non sono loro estranee le risapute rivalità; le loro ambizioni sono notevoli; e ciò che conta sono, come ovunque, le priorità, i mezzi per la ricerca e il pre­ stigio. Tuttavia sorprende quanto sia distesa l’atmosfera. Si sorvola sulle gerarchie. I rapporti fra clan che coltivano stili di lavoro molto differenti - teorici, sperimentatori, ingegneri - sembrano rilassati. Nei dibattiti prevale un tono gradevole, anglosassone. Considerato il bilancio miliardario, salta inoltre all’occhio un cer­ to culto per ciò che è logoro e consunto. Sono privilegiati gli indu­ menti vecchi, possibilmente lisi. Le automobili di lusso sono inter­ dette come ogni altro status symbol. Le mense ricordano quelle de­



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gli anni cinquanta. Da molti edifici si stacca l’intonaco. Ricercatori di fama mondiale siedono, in mezzo a un mare di carta, a scrivanie di masonite in uffici minuscoli che qualsiasi impiegato d’una società di assicurazione giudicherebbe un insulto. Anche l’architettura esprime questa ostentata rinuncia al lustro esteriore. I padiglioni, gli edifici amministrativi e i magazzini distri­ buiti nell’area del cern starebbero benissimo in una qualche zona in­ dustriale d’Europa. Sotto questo aspetto il confronto con la catte­ drale è sbagliato. Ammesso e non concesso che si possa parlare di un’estetica, allora questa è un’estetica puritana. E quindi la colloca­ zione nella protestante Ginevra risulta una scelta felice. Lilliput a Brobdingnag. Nel mondo della fisica delle alte energie le grandezze inimmaginabili sono ricorrenti. Ci si imbatte in persone che operano con le potenze di dieci, come io15 o io-23, con la stessa disinvoltura con cui una cameriera si occupa dei prezzi di una bistecca o di un boccale di birra. Va aggiunto che le dimensioni estremamen­ te piccole e quelle estremamente grandi vi sono paradossalmente in­ trecciate. Perché quanto più è piccola la particella che deve essere in­ dagata, tanto piu grande, anzi enorme, è la spesa che deve essere fat­ ta per produrla e analizzarla. Un economista, a questo punto, parlerebbe forse di utilità marginali decrescenti, ma l’apparente pa­ radosso ha un motivo molto convincente. E infatti lo stesso nostro universo a fissare le misure. Nella ricerca torna l’antichissima idea che il microcosmo e il macrocosmo si corrispondano specularmente. Fisica delle particelle e cosmologia sono in rapporto fra loro come le due facce di una stessa medaglia. Nel corso degli esperimenti del cern si imitano e si indagano con mezzi estremi eventi che si sono svolti 15 miliardi di anni fa, poco dopo il big bang, e dunque in un certo senso all’inizio dei tempi; i relativi echi sono oggi colti dagli astrofi­ sici nelle stelle di neutroni o nelle radiazioni di fondo. La radiazione cosmica, gli sciami di neutrini e i buchi neri sono interpretabili solo alla luce di nozioni alle quali perviene la fisica delle alte energie.

I signori degli anelli. Nella quasi cinquantennale storia del cern si manifesta una tendenza alla crescita inarrestabile. La più vecchia e

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tuttora indispensabile macchina, entrata in funzione nel i960, è il primo protosincrotrone (ps) del mondo. Con la sua circonferenza di 600 metri, che oggi appare modesta, era allora il più grande accele­ ratore della terra. Il gradino successivo è rappresentato dalla costru­ zione di un anello con energia molto più elevata e con una circonfe­ renza undici volte maggiore. Questo superprotosincrotrone (sps) fu completato verso la metà degli anni settanta. Passarono solo pochi anni fino al successivo e grande balzo in avanti. Con il lep, il Large Electron Positron Collider lungo 27 chilometri, che è al lavoro dal 1989, il CERN si è collocato di nuovo in una posizione di preminenza mondiale. La macchina è il logico sviluppo degli impianti preceden­ ti. Positroni ed elettroni sono prodotti mediante procedure separate, immagazzinati, accelerati a una velocità di 22 GeV nei due anelli più vecchi, il ps e lo sps, e quindi sparati gli uni contro agli altri nel nuo­ vo, grande collider. Le particelle vi ruotano in un tubo d’alluminio rivestito di piom­ bo, tenuto a bassissima temperatura, nel quale c’è un vuoto quasi as­ soluto. Sono condotti e riuniti in fasci da oltre 5 mila magneti e ac­ celerati mediante campi d’alta frequenza fino a una velocità che è su­ periore al 99 per cento di quella della luce. In quattro punti la loro densità è accresciuta con forti magneti, tanto da aumentare il grado di probabilità che collidano. Grandi rivelatori cilindrici, con 500 mi­ la canali elettronici l’uno, registrano poi i complessi prodotti di di­ sgregazione di questi «eventi». Questa immensa macchina era stata appena completata, che i si­ gnori degli anelli si sono accinti a impostare il passo successivo, un progetto che dovrebbe eclissare ogni precedente. I primi piani risal­ gono agli anni 1989/90. Da allora si lavora a un impianto ultimativo al quale è stato dato il nome di Large Hadron Collider (lhc). (La de­ nominazione «adroni» comprende un’intera schiera di particelle pe­ santi; oltre che dei protoni e dei neutroni, si tratta di svariati meso­ ni, delle due Xi e della Lambda. Il nome deriva dal greco άδρός, che vuol dire qualcosa come forte, grande, grasso o adulto. Con la loro bizzarra nomenclatura i fisici hanno avuto poca fortuna; ha l’aria di essere capricciosa e disorientante quanto lo zoo di particelle che essi dovrebbero domare).



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Si tratta - e come potrebbe essere diversamente - di un progetto superlativo. Lo si desume già dall’energia cinetica della macchina pre­ vista: 14 TeV, ovvero 14000000000000 elettronvolt. Per tranquil­ lizzarlo, si fa sapere al visitatore che un qualsiasi moscerino raggiun­ ge in volo un TeV, ma che l’energia, nel nostro caso quattordici vol­ te maggiore, dovrà essere concentrata nell’LHC su una sezione trasversale che è io12 più piccola di un moscerino. Mille e duecento magneti lunghi quindici metri l’uno provvedono a intensità di cam­ po senza precedenti. Cavi superconduttori raffreddati con elio liqui­ do forniscono intensità di corrente di 12 000 ampere a una tempera­ tura inferiore ai 2 Kelvin. E cosi via nel fantastico viaggio non ver­ so il centro della terra, ma verso l’irraggiungibile origine dell’universo alla quale i ricercatori vogliono avvicinarsi con I’lhc fino a un bilionesimo di secondo. I fisici sono sicuri che, per effetto delle collisioni all’interno del­ la macchina, potranno essere osservati fenomeni del tutto nuovi. For­ se porteranno alla scoperta del bosone Higgs che i teorici hanno da tempo previsto; forse si arriverà sulle tracce del mistero costituito dalla supersimmetria; oppure salteranno fuori cose completamente inaspettate che capovolgeranno tutte le teorie finora formulate. Da anni più di cinquemila scienziati e ingegneri lavorano a que­ sto progetto. Molti di loro non si sono mai incontrati personalmen­ te, scambiano i loro piani via Internet. Ciò vale anche per le aziende di tutto il mondo che forniscono l’equipaggiamento. Le esigenze po­ ste alla tecnica di punta sono estreme, molti componenti dovranno essere sviluppati ex novo, e ogni tessera di questo mosaico dovrà com­ baciare perfettamente con le altre. Il costo era stato inizialmente cal­ colato in due miliardi di franchi svizzeri, al quale si sarebbe dovuto aggiungere un massimo di 0,8 miliardi per gli esperimenti. Ma poi, fin dal 1995, queste cifre hanno dovuto essere ritoccate verso l’alto, e oggi si parla di una spesa di 3,5 più 1,5 miliardi. Oltre ai venti Sta­ ti membri, dovrebbero partecipare al finanziamento anche Stati Uni­ ti, Russia, India, Canada, Giappone e Israele. Cercatori di tracce. Il capannone all’aperto in cui si sta realizzan­ do l’impianto assomiglia a un cantiere navale, oppure a un hangar in

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cui potrebbero trovar posto due Jumbo. Sono al lavoro meno di 30 persone. Le pesanti gru sono ferme. C’è un’atmosfera distesa ma an­ che estremamente concentrata. Al centro svettano già i pilastri an­ golari cilindrici di un colosso lungo 45 metri, ognuno di loro laccato di rosso minio e alto sei piani. In questo capannone sta nascendo atlas, uno dei quattro rivelatori che rappresentano per cosi dire gli organi sensoriali del collider. Anche in questa combinazione si pale­ sano le dimensioni paradossali del progetto: da un lato l’imponenza monumentale del rivelatore, dall’altro il suo compito che consiste nel­ lo scovare tracce di «eventi» subatomici che sono talmente minuscoli da poter essere osservati solo indirettamente, atlas rileverà quasi un miliardo di collisioni al secondo. La corrente di dati che si dovrà poi elaborare è di una imponenza inconcepibile. Corrisponde alla quan­ tità di informazioni che si otterrebbe se ognuno dei sei miliardi di abitanti della terra facesse contemporaneamente venti telefonate. A più livelli il rivelatore filtra e scarta entro due microsecondi quei da­ ti, e sono la maggioranza, che non interessano i ricercatori. La «quo­ ta di centri validi» è all’incirca di 1 : 10000000000. Un solo risul­ tato di collisione su dieci miliardi è dunque immagazzinato per la va­ lutazione e poi analizzato off-line dai fisici di tutto il mondo. Nonostante questa radicale riduzione, si prevede un flusso di infor­ mazioni annuale di almeno un milione di gigabyte che la ricerca do­ vrà via via esaminare. La capacità di calcolo richiesta per ogni espe­ rimento corrisponde a quella di parecchie centiniaia di migliaia di odierni personal computer. Il corredo tecnico di un rivelatore è impressionante. Nel com­ plesso, l’apparecchio ha ben più di dieci milioni di componenti. Tan­ te sue parti costituenti hanno nomi esotici: pixel-strips e siliconstrips, tracker di irraggiamento, magneti solenoidi, calorimetri e spettrometri di massima precisione. Per i tecnici che si occupano di semiconduttori, magneti, gas, alta tensione, vuoti, protezione dai rag­ gi e crioeletttronica, senza dimenticare i meccanici di precisione, il progetto costituisce una formidabile sfida. Nel capannone si notano i logo di ditte da alcune dozzine di paesi. Il Kazakistan, la Cina e Israe­ le sono della partita esattamente come la cittadina di Deggendorf, in Baviera. Sembra impossibile ed è in ogni caso misterioso che la col­

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laborazione di tanti fornitori possa essere coordinata al punto che mi­ lioni di componenti combacino poi fra di loro. Ufficialmente il rive­ latore doveva essere calato per cento metri nella sua caverna sotter­ ranea nel 2003, ma le scadenze non sono state rispettate. Aria di crisi. Fino a un paio d’anni fa il singolare mondo interno del CERN sembrava ancora ordinato. Allora non si sentiva parlare di problemi economici. Sembra che Carlo Rubbia, premio Nobel e fino al 1993 direttore generale, nell’annunciare già in occasione dell’i­ naugurazione del LEP la successiva, vertiginosa tappa d’ampliamen­ to, il Large Hadron Collider, abbia sostenuto con sfrenato ottimismo che il progetto si sarebbe potuto finanziare attingendo esclusivamente al bilancio del cern. La spesa complessiva era allora calcolata ancora attorno ai 2,8 miliardi di franchi svizzeri, e si pensava di poter con­ cludere la realizzazione prima del 2000. Ora non occorre essere un esperto per intuire che, nel caso di imprese di queste dimensioni, ogni preventivo dei costi è una fata morgana e ogni scadenzario un’illu­ sione. Oggi si calcola che l’importo della spesa risulterà almeno dop­ pio e che il progetto sarà pronto nel migliore dei casi solo nel 2007; i primi risultati non si avranno prima del 2008-2010. Intanto però il management per la prima volta incontra resisten­ ze e obiezioni, e precisamente da due parti. Innanzi tutto ci sono le critiche che vengono dall’interno. Il nuovo impianto assorbe più del 90 per cento di tutte le risorse. Si è dovuto smontare il lep, ovvero il maggiore acceleratore in funzione: dal novembre del 2000 è fuori esercizio. Questa scelta è risultata inevitabile dal momento che non si poteva pensare alla costruzione di un’altra galleria; I’lhc approfit­ terà dunque dei 27 chilometri di tunnel del suo predecessore. In tal modo sono però venute meno, e continueranno a venir meno per pa­ recchi anni, le potenzialità sperimentali che hanno fatto del cern uno dei primi istituti di ricerca del mondo. Per gli esperimenti in corso, come la realizzazione dell’antimateria con il deceleratore di antipro­ toni, rimane disponibile solo una parte infinitesimale del bilancio. L’opposizione parla di stasi e di rischio di monocoltura. Il manage­ ment si sarebbe accorto troppo tardi del rincaro del progetto dell’LHC, e non avrebbe adottato contromisure adeguate. Gli Stati membri han­

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no reagito duramente al ritardo. La conseguenza è che, probabil­ mente, tutte le attività che non hanno a che fare con il Grande Col­ lider dovranno essere accantonate e che non si potrà nemmeno pen­ sare ai progetti successivi. Si tratta, in quest’ultimo caso, di una pe­ sante ipoteca sul futuro, poiché impianti del genere vanno ideati e progettati con decenni di anticipo. L’agitazione fra i collaboratori ha perfino portato, per la prima volta in quasi cinquant’anni, a una protesta organizzata. E ben vero che scienziati e ingegneri non sono molto portati alle iniziative sin­ dacali, però esiste una Staff Association che qualche tempo fa ha in­ detto un suo primo sondaggio. Agli interpellati è stata sottoposta la seguente alternativa formulata con abbondante ingenuità: «É il ca­ so che il management cambi la sua condotta e la sua strategia per ov­ viare alla crisi di bilancio e per garantire a medio e a lungo termine il futuro dell’organizzazione - si o no?» Gli zoologi parlano, in presenza della crescita incontrollata di una specie, di un «lussureggiare», e i matematici sanno che ogni funzio­ ne esponenziale dovrà prima poi collidere con la realtà. Che i signo­ ri degli anelli abbiano preteso troppo ? Che abbiano sottovalutato i problemi che ora piombano loro addosso ? É possibile che siano sta­ ti preda della megalomania? No, la spiegazione della crisi non si può semplificare in questo modo. Sono profondi mutamenti nella storia della scienza e nella politica economica quelli che stanno creando grat­ tacapi agli allegri custodi del Graal di Ginevra.

Paradigmi e mode. I tempi dell’eterno boom postbellico sono fini­ ti, e non solo in Europa. Ovunque i politici parlano di disoccupazio­ ne, di minaccia di recessione e della necessità di risparmiare. Le dot­ trine neoliberali impazzano. Per la politica scientifica ciò significa do­ versi concentrare prevalentemente sulle ricerche applicate, dalle quali si sperano vantaggi nella competizione globalizzata. Ogni ministro delle finanze scuote la testa quando gli si chiedono soldi per una ri­ cerca di base che non promette alcuna immediata utilità. I viziati manager di Ginevra non si aspettavano un simile, brusco cambiamento del clima’. Non avevano mai pensato di dover usare il tamburo per reclamizzare la loro attività. «Agli occhi del pubblico»,

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dice un ex collaboratore, «la nostra bottega è sempre apparsa come un’orchestra continuamente intenta alle prove e che però non dà mai un concerto, limitandosi a distribuire ogni tanto alla stampa qualche spartito. Nessuno ascolta la musica sublime che si esegue qui». I po­ litici hanno colto questo aspetto evidentemente poco gradito e ten­ dono a chiudere il rubinetto. Non sono comunque solo problemi di comunicazione quelli con i quali il cern si trova a dover combattere, ma anche e soprattutto i profondi cambiamenti che si possono osservare da qualche tempo nel­ l’ecosistema delle scienze. Negli anni dopo la seconda guerra mon­ diale la fisica è stata, incontestata, la scienza di punta. E possibile che proprio il suo grado di maturazione abbia condotto alla situazio­ ne odierna, nella quale si vede scalzata dalla propria posizione di pre­ minenza dalle scienze che si occupano della vita. Ciò dipende evi­ dentemente dalle eccitanti promesse che vengono dalle relative di­ scipline. Le nuove biotecnologie allettano prospettando enormi profitti futuri, anche se non è ancora chiaro quanto sarà lungo il per­ corso dalla ricerca al mercato. In ogni caso i laboratori di biologia at­ tirano importanti investimenti. Scienza e industria vi si fondono in un unico complesso. Ogni scoperta è immediatamente garantita con brevetto e capitalizzata. Il contrasto con la fisica delle particelle non potrebbe essere mag­ giore. Mentre i biologi stanno ancora trafficando attorno al loro pec­ cato originale, la fisica atomica lo ha ormai alle spalle. La bomba ato­ mica e le catastrofi di Harrisburg e Cernobyl sono già storia. Non sappiamo invece ancora quali guasti arrecheranno alla vita umana la biologia molecolare e la biomedicina. I fisici delle alte energie possono assicurare quanto vogliono di non occuparsi di armi atomiche né di centrali nucleari, ma rimane il fatto che non sono popolari. Sono passati di moda. I loro giganteschi macchinari, che vent’anni fa erano ancora considerati sexy, oggi non fanno piu notizia. Non possono promettere di guarire i malati, di pro­ lungare la vita o di migliorare addirittura la specie umana. E non han­ no mai sostenuto che le loro conoscenze possano fruttare soldi. La ri­ cerca di base, quale è praticata al cern, non dà lavoro agli avvocati specializzati in brevetti. Ciò che scopre è a disposizione di tutta l’u­

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manità. Ed è proprio questa classica impostazione scientifica che ri­ schia ora di esserle fatale. Qualche supposizione. Si può avere l’impressione che la fisica pos­ sa guardare a un passato più lungo e brillante’ rispetto alla biologia che, ai tempi di Galilei e di Newton, neppure esisteva ancora come scienza esatta. L’evoluzione biologica e la riproduzione sessuale so­ no state esplorate solo nel diciannovesimo secolo, e le basi della ge­ netica sono state gettate soltanto nel ventesimo. (La fusione fra ovu­ lo e spermatozoo è stata osservata la prima volta appena nel 1875, e solo nel 1883 i cromosomi sono stati individuati come portatori del­ la sostanza ereditaria). Non è dunque probabilmente un caso che le scienze della vita portino oggi ancora tracce del guscio d’uovo di un materialismo di cui la fisica si è sbarazzata al più tardi con la formu­ lazione della teoria dei quanti. La maggior parte dei fisici d’oggi è sconcertata dall’ingenuità gnoseologica e dalle concezioni riduzionistiche di tanti biologi. L’antica concezione della materia è da tempo fuori corso. «Nessuno sa che cosa sia veramente la massa», «Più a fondo penetriamo, più svaniscono le particelle che studiamo», «A ogni progresso della teoria il cosmo mi appare più enigmatico»: sono frasi che si sentono dire ogni giorno dai teorici del cern. Sarebbe dav­ vero auspicabile che certi biomedici, che certi ricercatori che si oc­ cupano del cervello si rendessero altrettanto conto dei limiti delle lo­ ro capacità di conoscenza. Può darsi dunque che sia proprio il filosofico time lag della biolo­ gia a procurarle l’attuale alta congiuntura e a renderla tanto compa­ tibile con l’economia. La Borsa non si interessa dell’unificazione del­ le quattro energie, dell’incompiutezza del modello standard o della questione di dove sia andata a finire l’antimateria nell’universo. E non glielo si può rimproverare. Come si spiegano, nell’infinitamente piccolo, certe violazioni del principio di simmetria che sono state sco­ perte nel 1964 e che continuano a costituire un enigma? Esistono davvero i bosoni di Higgs, come pretende la teoria ? E vero che a ogni particella corrisponde un partner supersimmetrico ? Di che cosa con­ siste la materia oscura che è nello spazio ? E infine: perché c’è qual­ cosa e non invece niente ? Antichissime domande tornano in forma

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nuova. E incerto se si potrà trovare una risposta convincente. In ogni caso, il tentativo di rispondere non frutta denaro: anzi. Come dimo­ stra il CERN, l’impresa risulta troppo cara da sostenere per la comu­ nità mondiale. Se l’umanità possa permettersi il lusso di interrogarsi sulla for­ mazione del mondo in cui vive è un qualcosa su cui si può essere di diverso parere. Molto induce a pensare che il capitalismo potrà so­ pravvivere solo fino a quando potrà far conto sull’esistenza di com­ portamenti umani che si sottraggano alla sua logica. L’aria è tuttora un bene di cui, per lo più, si può godere gratis. Pare che ci siano città in cui non si chiedono soldi per metter piede in un parco. Qua e là ci sono pensieri che sono trasmessi non a pagamento. Non tutte le re­ lazioni amorose sono espresse in palanche e centesimi, e il traffico di bambini e (finora almeno) di organi umani soggiace a limitazioni estra­ nee all’economia di mercato. Non potrebbe dunque darsi che anche il problema di che cosa tenga insieme al suo interno il nostro cosmo possa essere formulato senza badare alla rendita che ci si potrebbe aspettare dalle risposte ? Quando Friedrich Dürrenmatt negli ancora spensierati giorni del 1976 visitò il centro di Ginevra, si domandò «se il cern non potes­ se alla fin fine rivelarsi un istituto di ricerche metafisiche, anzi teo­ logiche». «Per inverosimile e paradossale che appaia», gli rispose un fisico, «ha rappresentato la cosa di gran lunga più sensata che l’Eu­ ropa abbia finora espresso, anche se in apparenza è la più insensata, situata com’è nella speculazione mentale, nell’avventura, nella cu­ riosità in sé». Una macchina metafisica dunque, il cui futuro sembra a rischio. Con quali mezzi, se e quando il Grande Collider, la più grande cat­ tedrale sotterranea della fisica, sarà mai realizzato, è ancora scritto nelle stelle. Una magra consolazione può essere colta nella circostan­ za che anche il duomo di Colonia è stato un bel un giorno completa­ to. Però, per arrivarci, ci vollero purtroppo cinquecento anni.

Oltre che sulle pubblicazioni ufficiali del cern, questo resoconto si basa soprattutto sulle seguenti fonti: p.c.w. davies, Super/orza -.ver­ so una teoria unificata dell’Universo, Milano 1986; gordon fraser,

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e Inge sellevÂG, Nel mistero dell’universo. Viaggio ai confini del tempo e dello spazio per comprendere gli enigmi del cosmo, Novara 1995; Murray gell-μανν, Il quark e il giaguaro. Avventure nel semplice e nel complesso, Torino 1996; chris llewellyn-smith, «The Large Hadron Collider», in «Scientific American», luglio 2000; e Steven Weinberg, Il sogno dell’unità dell’universo, Milano 1993. Die Erzählung vom cern di Friedrich Dürrenmatt è compreso nel volume Politik. Essays, Gedichte und Reden, Zürich 1980. Per le interviste e le informazioni sui retroscena sono grato, oltre che a Chris Llewellyn-Smith e a Nigel Calder, soprattutto a Klaus Winter e a Rolf Landua. L’autore risponde da solo di tutte le sue osservazioni e specula­ zioni. EGIL LILLEST0L

Attrattore strano

Minuti, ore, giorni curvo sul parapetto, sopra milioni di irrisolvibili equazioni, guardo il ciclone nell’occhio e lui guarda me; verde calcare, bianca di spuma fruscia la chiara materia, ipnotizzata va in tondo, la schiuma di brillanti, in gorghi ricorrenti che mai ricorrono;

e sopra tutto, felpato, nella spuma, nella luce, caracolla, danza qualcosa di bagnato, bruno, che danza ma non affonda, caracolla un orso di pezza.

Nozioni più precise su un albero

La betulla bianca laggiù, macchiata di sole. Non ti muovere. Osserva le varianti: da verde a verde, da opaco a lucido, la foglia nella lamina fogliare è più scura che sotto sopra. Nulla si ripete. Ogni nervatura un rivolo come la brezza sulla pelle. L’insieme traballa, si rizza, immutato quasi, non del tutto.

Oscilla, danza, bordeggia, «quantità patologiche», funzioni senza derivata, percorsi instabili nello spazio delle fasi. Piegare il vento che le piega, le foglie, ammaestrarlo a produrre vortici spettrali che tu non vedi. Lascia che il tuo debole cervello faccia calcoli finché non trema, non stride, non crolla, non capitola davanti al vortice dei fenomeni e non si rizza di nuovo, come la betulla bianca sotto i tuoi occhi, immutato quasi, non del tutto.

Biforcazioni

Tutto quello che si suddivide, si dirama: delta fulmine polmone, radici, sinapsi, frattali, alberi genealogici e alberi decisionali; tutto quello che si accresce e insieme riduce non si può capire, contiene già troppe cose per questo cervellino di passero, quest’anello qualsiasi in una serie infinita che si sviluppa dietro le spalle di colui che invece di pensare viene pensato, sviluppato, suddiviso, diramato.

Ipotesi sulla turbolenza

Il pluralismo non risparmia niente. Neppure il futuro ne è al ri­ paro. In tutte le lingue naturali, come se fosse una cosa ovvia, futu­ ro è un nome senza plurale, come il passato e il presente, di cui la maggior parte di noi continuano a credere che avvengano una sola volta. Se invece pensiamo a ciò che ci aspetta, ci gira la testa. Abbia­ mo smarrito la capacità di esprimere al singolare ciò che ancora non è. In questo senso non abbiamo troppo poco futuro davanti a noi, o addirittura nessun futuro come vorrebbe farci credere il polveroso slogan No future, ma troppo futuro, o meglio: troppi. Il futuro è or­ mai impensabile come idea omogenea. Ogni riflessione che gli si ri­ servi si divide come un albero delle decisioni ramificato all’infinito, produce una varietà alla quale non possiamo sottrarci e di cui non possiamo però neanche venire a capo. Tutti questi possibili futuri sono in gara fra loro e sgomitano a più non posso per farsi largo nella ressa. Il che sminuisce ciascuno di loro e ne compromette la dignità. E da presumere che la molto lamentata scomparsa dell’utopia abbia la sua causa in questa autorelativizzazione del possibile. Non perché non ci venga più in men­ te nulla, ma perché l’offerta di immagini del futuro va al di là del­ la nostra capacità di comprensione, i progetti disponibili ci appaio­ no, non importa se ottimisti o pessimisti, non vincolanti, per non dire banali. La futurologia è la scienza dei fondi di caffè. Attribuisce al pro­ prio materiale i modelli e le strutture che ci vuol vedere e poi li legge; è in tal modo che a Marte sono stati attribuiti i canali e alla luna una faccia. Questa procedura psichedelica si può basare su un tacito ac­ cordo con le nostre quotidiane proiezioni. Ë divertente vedere come

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il termine matematico si incroci con quello psicoanalitico senza che nelle relative discipline si accenda una lampadina. Il pluralismo del futuro fa ormai parte dell’arredo della norma­ lità. Chiunque guardi «al di là della punta del naso» - e chi potreb­ be farne a meno ? - sviluppa inevitabilmente intere serie di scenari che non solo sono incongruenti fra loro, ma addirittura si escludo­ no a vicenda. Lo stesso individuo che è persuaso dell’imminenza di una catastrofe di portata mondiale, sottoscrive senza batter ciglio un’assicurazione sulla vita con scadenza a trent’anni. L’oscillare qui e là fra l’era dell’Acquario e l’apocalisse, fra la new age e il conteg­ gio della pensione, fra il nirvana e la consulenza finanziaria è di­ ventato da tempo un fenomeno di massa. Degli scenari più grosso­ lani, quelli in cui s’annida la superstizione, è facile ridere; però an­ che fra le persone che si ritengono perfettamente sensate il futuro va soggetto a congiunture i cui alti e bassi sarebbe difficile spiegare razionalmente. La guerra nucleare in Europa, fino a pochi anni fa un incubo ossessivo, è praticamente scomparsa dalla fantasia collet­ tiva. Al suo posto è evocato, in innumerevoli versioni, il tracollo eco­ logico. In tal modo perfino l’inconcepibile appare come una mera va­ riante, e l’estinzione della specie umana come materiale da gioco uti­ lizzabile a piacimento. Anche le «visioni» del tracollo ubbidiscono al ciclo di sfrutta­ mento da parte dei media. La loro totalità è apparente; la definitività che pretendono lascia spazio ad altre che a loro volta si prospettano come altrettanto uniche ed esclusive: tutto cambierà perché prossi­ mamente l’economia mondiale collasserà, perché l’intelligenza artifi­ ciale sostituirà il soggetto pensante, perché epidemie incontenibili renderanno superflue tutte le altre catastrofi, perché la tecnica ge­ netica porrà fine all’uomo e cosi via. Senonché non c’è da fidarsi nemmeno del pessimismo. E non so­ lo perché il mensile e puntuale pagamento della rata del mutuo con­ tratto per la casa lo correda di una tacita ma tenace riserva. Ma an­ che perché quello stesso cittadino adulto che è convinto dell’inarre­ stabile inquinamento della terra, dello scioglimento delle calotte polari, dell’esaurirsi delle risorse, si aggrappa contemporaneamente all’ideologia del technologicalfix e si aspetta l’invenzione liberatoria,

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il siero salvifico, il semplice trucco che risolverà una volta per sem­ pre tutti i problemi energetici. La coesistenza di ciò che è inconciliabile impazza anche al livello degli esperti. Gli economisti possono passare benissimo per i pionie­ ri della moderna divinazione. Da sempre, per nulla turbati dalle smen­ tite che subiscono dalla realtà, fanno, seri seri, il loro oroscopo all’e­ conomia. Il marxista ortodosso calcola la data in cui si sfascerà defi­ nitivamente il capitalismo, il consulente finanziario inaffidabile prevede su prospetti di carta patinata il prossimo rialzo in Borsa. En­ trambi trovano un pubblico fiducioso. Le loro prognosi hanno una sola cosa in comune: l’incrollabile certezza con cui sono prospettate. Su questo punto il Club di Roma è perfettamente d’accordo con la lobby dell’energia nucleare, esattamente come il meteorologo con il demografo: ognuno ha appaltato il futuro, il suo futuro tutto per sé. L’altro posto sull’altalena è riservato al destinatario di questi sfor­ zi. I media lo espongono a un continuo saliscendi di allarmi cata­ strofici e inviti a rimaner tranquillo, e a lui non rimane quasi altra scelta che quella di abituarsi al precario equilibrio fra il panico e l’a­ patia. Il common sense, che crede nella capacità di arrangiarsi, si im­ munizza alla lunga contro le istruzioni di comportamento che sono celate nelle profezie positive come in quelle negative. Chi torna su­ gli scenari del futuro delineati negli anni cinquanta, sessanta, settanta del secolo passato, dovrà ammettere che il sano buon senso, pur nel­ la sua limitatezza, non se l’è cavata peggio di tutti i think tank del mondo. Sono dunque esperienze molto concrete quelle che hanno tolto il terreno sotto i piedi alla filosofia della storia. L’ingenuità di tutte le teorie, che alla fin fine non sono altro che versioni secolarizzate del­ la storia della salvazione, è diventata eclatante anche per chi ha po­ ca dimestichezza con il pensiero speculativo. Poco importa che si pre­ sentino in abito «progressista» o «conservatore»: la fiducia che han­ no in sé è molto scossa, e ci si accorge che non fanno ormai altro che amministrare il loro stesso lascito. Il fatto sorprendente e memorabile è che in questa situazione è so­ prattutto una certa fazione delle scienze «esatte» a dover avanzare nuove proposte, prendendo congedo dalla sua stessa tradizione, e cioè

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dal dogma del calcolo preciso. Dalla termodinamica, dalla teoria evo­ luzionistica e dalla teoria dei sistemi, ma anche dalla matematica e dal­ la fisica teorica sono venuti spunti che potrebbero forse condurre fuo­ ri dai vecchi vicoli chiusi. Si tratta di nuovi paradigmi dell’auto-orga­ nizzazione, di strutture dissipative e di logiche non lineari. Una cosa quanto meno ne è emersa senza ombra di dubbio: che l’evoluzione di sistemi complessi non può per principio essere prevista con precisio­ ne. Il loro svolgimento è influenzato in modo decisivo da eventi sin­ golari, spesso altamente improbabili. Minuscoli input possono deter­ minare trasformazioni su larga scala, mentre d’altra parte grandezze molto rilevanti sono talora assorbite dinamicamente senza che questo determini incontrollabili turbolenze. Naturalmente tutto ciò si può esprimere anche in termini più semplici: si potrebbe sostenere cioè che la scienza è sulla buona strada di reintegrare il caso nei suoi antichi di­ ritti metafisici. D’altra parte, non si caverebbe alcun vantaggio dalla ricaduta in un mondo concettuale prescientifico. Piu interessante è chiedersi se questi nuovi modi di pensare si pos­ sano applicare anche ai processi sociali. I loro inventori si manten­ gono sotto questo profilo riservati, presumibilmente non solo perché non si sentono competenti, ma anche perché li spaventano le impli­ cazioni ideologiche di simili trasposizioni. Non hanno nessuna voglia di farsi fare a pezzi dalla politica. Viceversa i sociologi e i campioni della critica sociale, fin dai tempi della loro vittoriosa polemica con­ tro il socialdarwinismo, e dunque da cent’anni, dànno per scontato che dalle scienze naturali non vi sia nulla da imparare. Questa riser­ va si è da tempo irrigidita, a sinistra, in un divieto di pensare. Solo negli ultimi tempi ci si è accostati prudentemente alla domanda se si possa riflettere o meno sulle possibili omologie fra processi fisici, bio­ logici e sociali. E dire che è proprio la situazione delle società più ricche a sugge­ rire e sollecitare oggi simili indagini. Hanno rinunciato all’idea della pianificazione. Potenti e impotenti, singoli e gruppi perseguono co­ me prima i loro obiettivi particolari, però il movimento del tutto si sottrae alle loro intenzioni, anzi, addirittura alla loro capacità di im­ maginazione. A nessuno verrebbe in mente di escogitare un «piano quinquennale» per tradurlo in realtà, per non parlare di obiettivi an-

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che più lontani. Si è smesso anche di prospettare o addirittura di pre­ scrivere ad altri, a terzi, per esempio al terzo mondo, strategie di svi­ luppo alla Rostow. Con ciò sono state liquidate anche quelle ipotesi di congiure, un tempo tanto amate, che vedevano il processo storico pilotato da centri misteriosi e onnipotenti; e la ricerca di un sogget­ to della storia, vuoi rivoluzionario vuoi evoluzionario, si è rivelata in­ fruttuosa. Un’istanza in grado di pilotarli centralmente non è più ravvisabi­ le in questi paesi «avanzati»; si potrebbe anzi addirittura sostenere che si tratta di società acefale: e sarebbe l’ironica resurrezione d’uno stato che gli etnologi ritengono di aver scoperto nei popoli preistori­ ci. Evidentemente ciò non significa che in questi insiemi il potere, la ricchezza e le opportunità siano distribuiti più equamente o addirit­ tura in modo giusto. Significa solo che alla dissoluzione di rapporti di ceto e di classe ben strutturati e gerarchicamente articolati sta subentrando un equilibrio instabile e dinamico che si riproduce e cam­ bia di continuo senza alcun ordine. Governi e partiti hanno da tem­ po cessato, in contesti del genere, di «definire le linee guida della politica» o addirittura di fungere, come nelle antiche metafore fisio­ logiche, da testa, cervello o sistema nervoso centrale del tutto; speri­ mentano tutt’al più, per tenersi a galla, una specie di controllo or­ monale per impedire che le turbolenze oscillino al punto da diventa­ re catastrofiche. Ma nemmeno a questo compito sembrano capaci di far fronte. Là dove tentano di prendere di petto le risultanti di un processo sociale non pianificato, falliscono regolarmente: «Politicamente questa cosa non è fattibile», usano allora dire i funzionari. Tuttavia non solo lo Stato ha perduto la capacità d’imporsi: an­ che il potere economico, nonostante e anzi forse proprio a causa del­ la sua elevata concentrazione, non è più, come un tempo, monoliti­ co e duraturo. Monumenti come i Krupp, dinastie come quelle dei re delle ferrovie e dei capitani d’industria, sono ormai anacronistici. I grandi gruppi multinazionali di oggi sono resi precari all’estremo da turbolenze imprevedibili, crisi, crolli, take-over, fluidi rapporti di proprietà, improvvise scalate o scorrerie. Esattamente come il capi­ tale internazionale è quotidianamente spostato attorno al globo me­ diante transazioni bilionarie, e come il valore delle valute è accerta-

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to stocasticamente nel contesto di un permanente esperimento elet­ tronico, anche il potere economico soggiace, simile a enormi ma pre­ carie meduse, a un incontrollabile floating, a una rapida successione di salite e discese, crescite e deperimenti. In un regime dinamico che cambia continuamente in ipercicli au­ tocatalitici ci sono però anche zone di indolenza e di resistenza che vengono sistematicamente sottovalutate da politici e tecnocrati. Ab­ biamo visto - per esempio nella Germania occidentale e (forse in mo­ do anche più stupefacente) in Spagna - società cambiare radicalmente in brevissimo tempo, fin nei loro tratti apparentemente incorreggi­ bili, fino al loro inconscio collettivo (ammesso che esista qualcosa del genere); e d’altra parte abbiamo visto anche come siano falliti tutti i tentativi di appiattire e uniformare la loro varietà. Anche al cambia­ mento sono posti dei limiti che si sottraggono alla prevedibilità. E cosi progetti come quello di abolire il pane artigianale o certi modi di scrivere vanno a urtare contro una resistenza difficilmente spiegabi­ le ma evidentemente tenace; e sistemi parziali come la cosiddetta fa­ miglia ristretta si sono mostrati, contro ogni previsione, molto resi­ stenti. Questa combinazione di accelerazione e inerzia, dissoluzione e ca­ pacità di resistenza rende il tutto ancora più imperscrutabile. E ipo­ tizzabile che simili ambivalenze espongano il processo in misura cre­ scente a grandezze d’influenza quantitativamente minime ma che si manifestino nel momento e al posto giusto. L’improvviso supera­ mento di soglie critiche ha un ruolo sempre più importante non solo nell’ecologia ma anche nella politica. E in tal modo avanza in una nuova luce un vecchio e penoso argomento che i marxisti avevano ri­ tenuto da tempo liquidato: il «ruolo della personalità nella storia». L’emergere di un Saddam Hussein o di un Pol Pot può costare la te­ sta a milioni di persone; se si manifesta uno zar illuminato, le conse­ guenze sono imprevedibili; se un pazzo dovesse insediarsi alla Casa Bianca, non avremmo più bisogno di romperci a lungo la testa sul­ l’avvenire del nostro sistema pensionistico; e non osiamo neppure pensare che cosa accadrebbe se un geniale fondatore di religione si impossessasse dei media. Anche a chi non abbia smarrito il piacere di formularle, deve essere chiaro che le ipotesi sul futuro possono es-

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sere scompaginate tutte e in qualsiasi momento da un minimo fatto­ re X che inneschi la folgorazione.

La maggior parte di noi è sicuramente in grado di consolarsi fa­ cilmente della fine della filosofia della storia. Ciò non significa però che potremmo cavarcela senza prospettive di vita, strategie, «piani». La conseguenza è che la forbice fra la concezione teorica e la prassi di vita deve aprirsi sempre di più. Se in ciò cui (alquanto alla legge­ ra) ho tentato di accennare c’è qualcosa di esatto, ne deriva un mo­ dello comportamentale che non può più pretendere alcuna validità generale. L’unica risorsa che ciascuno di noi avrà a disposizione sarà quella di assecondare le proprie ipotesi, e anche queste soggiacciono a una inespressa riserva: mi comporto e agisco come se fra i futuri continuamente oscillanti potessi trovare il mio. Correndo il rischio che possa essere presa per una confessione (e le confessioni sono notoriamente interessanti solo per chi le fa), vor­ rei fare anch’io una di queste ipotesi. Considero una pessima strate­ gia quella flessibilità da ogni parte richiesta ed esaltata, e che è stata un po’ per volta elevata al rango di una virtù cardinale. Il semplice automa sociale, che reagisce sempre e soltanto alle condizioni pre­ senti, non perde solo l’ultimo resto di controllo sulla propria sorte, ma arriverà anche sempre troppo tardi. La lepre sarà sempre sicura dell’irrisione del riccio che ha voluto rincorrere. Però anche la solu­ zione inversa vale di giorno in giorno di meno. Chi crede che biso­ gna avventarsi «frontalmente» contro il sistema, da solitario com­ battente, conservatore o rivoluzionario che sia, soggiace - se la mia descrizione non è sbagliata - a un’illusione; perché un simile com­ portamento è sensato solo quando si disponga di prospettive future obiettivamente stringenti (quando si conosca cioè «il senso della sto­ ria»). La questione se occorra nuotare seguendo la corrente o contro di essa, mi sembra obsoleta perché presume un’intollerabile semplifica­ zione. Mi sembra più redditizia la procedura del velista che bordeg­ gia sia col vento in poppa che con quello che lo investe da prua. Un simile modo di incedere, trasposto nella società, richiede estrema at­ tenzione e stoica incredulità. Chi vuole raggiungere anche solo il pros-

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simo obiettivo, deve far conto, passo dopo passo, su mille impreve­ dibili fattori senza potersi affidare a nessuno di loro. Però la presen­ za di spirito da sola non basta. Nessuno che voglia sottrarsi all’idio­ zia della contemporaneità può permettersi di aver paura dell’anacro­ nismo. Una certa cocciutaggine, che rinunci però alle motivazioni estreme, può essere utile.

Macchina del clima

Errato! È una vecchia cucina e non una macchina. Fuma, bolle, arde e si congela. Lunatica e instancabile, è la tempestosa cuoca, rimane invisibile, non vuole che si curiosi nelle sue pentole, ci lava, cuoce al vapore e arrostisce, impreca e schiuma. Oh, le bastano acqua e gas per cucinare ! Povera scienza, che con frecce rosse e blu, misuratori, calcolatori e sonde interpreta i suoi fondi di caffè ! Ricette segrete, basate sulla posizione degli astri, dipendenti dal letame, dalla lordura, dalla pappa dei vulcani. Puntuale, per magia la cuoca fa comparire il riso, l’aneto, la vaniglia Imprevedibile mesta nel mondo col suo gigantesco cucchiaio.

Astrolabio

Timpano, madre e limbo: parole d’ottone, in disuso. Chi mai saprebbe con alidada, ragno e regolo determinare l’altezza del sole, ore boeme e babilonesi e la posizione degli astri a mani nude ? Sul planisfero è incisa l’immagine del globo terrestre, azimut, almucantarat e orizzonte, e sopra di esso s’inarca un tenue reticolo di passerelle ai cui estremi si scorgono Aldebaran, Rigel, Antares e Vega. Capovolti, zodiaco e quadrato d’ombra consentono di fissare oroscopi, stabilire l’altezza di torri e montagne. Un calendario, un sapiente orologio stellare, un oracolo, un computer analogico che dorme al museo - un ferro vecchio per astronomi che non vedono più niente. Solo schemi in colori falsati sullo schermo e interminabili colonne di cifre. Sempre più in fondo, in sempre più remote galassie guarda la scienza diventata cieca.

Tycho Brahe 1546-1601

Dietro freddi, arroganti occhi giace, sotto la calva volta cranica, questo pallido tessuto delicato, un impasto elettrico. Capricci dell’evoluzione. Vedi ad esempio il narvalo. Ha due denti: minuscolo l’uno, l’altro invece, sempre il sinistro, cresce a spirale, cresce per metri e metri; solchi e nervature lo adornano, attorcigliato a sinistra, sempre e soltanto a sinistra. Lo scarabeo, l’unicorno, il mammut: pure chimere. Prendi altresì questa belva rapace: il Gransignore, che tredicenne scrolla le spalle a pernici, levrieri e cacce alla volpe; alla sua classe volge la schiena e lo sguardo al sole, che si eclissa. Inquietudine, spleen, lusso della precisione: attraverso l’Europa intera i suoi servi gli portano un quadrante; dodici metri di diametro, quercia e ottone.

Si strofina il naso, mutilato in un duello scaturito da controversie matematiche: un’artefatta protuberanza dorata. Strofina le sue carni rossicce su una contadinotta: undici bastardi. Non c’è tempo per l’amore. In sua vece, astratti bottini: il Sapere, a tutti i costi. La notte di San Martino del 1572 brilla, più viva di Venere (credetti di dover dubitare dei mìei semi). BCas, la Stella Ticonica. Una supernova, stavolta capriccio del cosmo. Dunque anche le eterne sfere del cielo mutano. Gli sciamani d’Europa interpretano l’infernale presagio: eccidi, pestilenze, apocalissi. Egli invece misura, preciso al minuto, calcola margini d’errore: De Stella Nova. Una nuova chimera, costosa: radioriflettori, torsi di plasma,

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Big Science. Sorge la nuova isola dei beati: Venere nell’0resund, bianche scogliere di Hveen, una Citera della scienza. Stravaganze; cupole a bulbo, torri cilindriche, astrolabi, sfarzosi meccanismi d’orologeria, automati allegorici, tipografie.

Il solo colossale planetario costa cinquemila fiorini. Il mammut invece si è estinto e gli unicorni non esistono più. Il Re di Scozia banchetta coi dotti. In cantina i prigionieri percuotono le sbarre di ferro: plebaglia! Sotto il tavolo rannicchiato il giullare, un nano che sbava verità: Sono gli altri a patire la fame! Dal basso un sordo fragore, il re sbraita, la Fenice dell’Astronomia tossicchia e, con lieve fruscio, il meccanismo a orologeria tiene in moto la macchina del mondo. Le cantine del Castello d’Uraniborg sono un’unica gabbia. In vent’anni la testa d’uovo incide sul suo globo d’ottone 777 segni: ogni croce una stella fissa, ogni stella un mezzadro vessato. Noia e megalomania. Un litigio col sovrano e il divo lascia la Danimarca. Una carovana: nano, servi, bastardi e assistenti. Tavole planetarie.

Ma prima d’ogni cosa gli strumenti. Sono smontabili poiché un Astronomo dev’essere cosmopolita ; l’ignoranza dei re impedisce loro infatti di apprezzarne appieno il valore. Un visionario accoglie il visionario, Rodolfo di Praga. Un fiume d’oro, un fiume d’ospiti, un manicomio brulicante di ciarlatani, adulatori e alchimisti. Col secolo nuovo giunge a Praga un plebeo, siede almanaccando in fondo al tavolo. Uno screanzato, questo Keplero. Denaro non ne ha, sestanti nemmeno, aggredisce il suo sire come un cane rabbioso, ruga e ruba. Quello, bramoso fino all’ultimo alito d’oro, carne e di sfarzo, giace in delirio; questo, oscuro e metodico, va decifrando dati, va partorendo le sue inaudite equazioni,

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e ottenebra la luce del morto, per sempre. Due mutanti. Sapere, chimerizzando, senza sapere perché. Il tessuto grigio scandisce l’evoluzione. Capricci delle proteine. Unicorni. Vedi ad esempio il narvalo e quel suo dente. Azzardiamo spiegazioni già fruste. Un’arma: ma contro cosa? Uno strumento: ma per che cosa? L’arnese di un rituale che non sappiamo?

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Charles Messier 1730-1817

M. La lettera M sulla mappa del cielo: M 42 in Orione; M 57, la nebulosa nella lira; anche le Pleiadi, M 45; e la nuova stella dei cinesi, la supernova, M 1: incandescenti nubi di gas, bombe cosmiche, fonti radio. ΑΙ-Sûfi, falco celeste! O Swedenborg, sognatore extragalattico Costui invece: disponibile, meticoloso, modesto. Un morto di fame. A ventun’anni reca con sé a Parigi una garbata calligrafia e nulla di più. Cinquecento franchi l’anno, gratis vitto e alloggio. Delisle gli fece ricopiare la sua pianta di Pechino

e i suoi disegni della Grande Muraglia. Un ignorante. La sua prima cometa la cercò diciotto mesi invano: i calcoli di Halley erano imprecisi (perturbazioni dovute alla massa di Giove). Il re lo avrebbe poi chiamato ilfuretto delle comete.

Una volta sua moglie lo derubò di un’intera notte: era in punto di morte. Egli pianse le comete che si era perso. Mentre a Londra il vecchio LIerschel i suoi enormi rifrattori fondeva, poliva e montava, lui vegliava alla lucerna, sprovvisto di teorie. Un ignorante. Occhi aguzzi, orologio a pendolo. Un piccolo quadrante, un misero telescopio (sette pollici). Tutto qui. Non dormiva. Cercava. Eclissi, macchie solari.

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Una notte d’autunno di duecento anni fa notò nei pressi di Zeta Tauri un fioco bagliore.

Una cometa che cometa non era, poiché non si muoveva. L’apparizione, una galassia, lo disturbò. Vide, fece uno schizzo, non capi nulla. Membro della Royal Society, delle accademie di Pietroburgo, Berlino, Stoccolma e infine Parigi. Un contabile, un copista. Quanto fu cieco! Sotto la sua finestra incedevano cortei e processioni, matrimoni e funerali. Lungo la rue Saint-Jacques ferveva la storia. Le prostitute adescavano, piovevano colpi, le tirate avvampavano e si estinguevano: virtù, terrore e bene. Cieco e sordo. La penna scricchiolava. L’olio divenne scarso. Del re decapitato non senti la mancanza, né dei birrai e delle lavandaie, degli accalappiatopi e dei banchieri che l’equanime scure tranciò. Gli astronomi si erano dati alla fuga. Ne trovò uno solo, Bochard de Saron, l’amico di Laplace. La Conciergerie puzzava d’urina.

Nella sua cella questi gli calcolò la traiettoria d’una cometa, prima di salire al patibolo. E il vecchio prosegui, senza sonno né soldi, inosservato e gottoso, la sua vita all’Hòtel de Cluny. La città era oscura. Fame, paura, usura e inflazione. Un quarto d’ora di silenzio, poi di nuovo raschia la penna. Catalogue des nébuleuses et des amas d’étoiles que l’on découvre parmi les étoiles fixes. Testardo, placido e incurante come un bambino. Soltanto una lettera ci ricorda di lui. M era un ignorante. Due milioni d’anni luce distante

passa una galassia, piu lentamente che noi. M 31. Quando lo smog lo consente, quando prescindo dal riverbero di Manhattan e dalla storia, la scorgo, minuscola, a occhio nudo, nel cielo nordico, tra Mirach, Sirrah e Schedir, nell’Andromeda.

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Domande ai cosmologi

Se è nata prima la luce o invece la tenebra; se da qualche parte non c’è nulla, oppure se, andando voi avanti cosi, resta qualcosa, della buona vecchia materia, oltre un’overdose di matematica?

Mi sapete dire se le 22 dimensioni hanno un fondamento o potrebbero essere anche di più ? se l’aldilà è il buco di un tarlo e a quanti universi paralleli devo prepararmi a far fronte ? Con reverenza io sto a sentire le vostre fiabe esatte, voi sommi sacerdoti. Quante domande. A chi, se non a voi, ultimi moicani della metafisica, devo rivolgerle ?

Teologia scientifica

Probabilmente è solo uno dei tanti. A volte sarà stanco, un po’ distratto. Un lavoro pesante, questa serie di esperimenti, incommensurabilmente tanti. Si, in via di principio lui sa tutto ma naturalmente non può curarsi dei dettagli: reattori che si surriscaldano, nubi di plasma, campi relativistici. Alla fin fine non siamo gli unici.

Solo dopo un’eternità riprende in mano il test. Nel suo occhio gigante si rispecchia il nostro universo. Ma allora noi saremo già passati. Peccato. Probabile che da un puro punto di vista scientifico gli saremmo interessati. Una novità che purtroppo non si mantiene, e passa inosservata perché lui era occupato altrove, questo Dio. Ceravamo e dormiva.

IV.

Bibliografia

Questo è scritto per te. Circonvoluzioni sotto la corteccia, lettere, segni che tremano dietro le tempie, percorsi di formiche.

Non ci vuole arte. Circuito stampato, comuniSmo dei polipeptidi, primule elettroniche, allodole, tutto programmato.

Prendi e leggi, vecchio suicida. Manifesti genetici, permutazioni, gorgheggi. Ogni cristallo un chef d’oeuvre. A costruire occhi di libellula non ci vuole arte, ma gli imperi hanno una struttura più semplice

Queste ortiche potrebbero essere di Proust: un sistema con feed-back di secondo grado, ultrastabile.

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Prima che il libro arrivi nelle tue mani forse per leggere sarà già troppo buio. Se le libellule se la caveranno senza di noi non sappiamo.

Getta via il libro e leggi.

Carlo Linneo 1707-1778

Una follia diversa dalla nostra: la follia di un classico. Chiara, asciutta e laconica. A quei tempi era tutto più piccolo. Lui era quasi un nano, nervoso, irrequieto, turbolento, eppure lo sguardo color d’ambra sotto la greve parrucca era penetrante e gelido : ogni carattere accidentale dev’esser ricusato. Collezionare, definire, denominare. Non V ’è oscura somiglianza che non sia stata escogitata ad onta della scienza. Lame terminologiche immerse nelle carni di un mondo cieco e palpitante per estrarne il sempreguale. Inventari, nomenclature, repertori. La natura, un rettangolo atemporale, un immoto reticolo. Incisioni colorate a mano, tavole sinottiche e genealogiche. Nel turbine delle apparenze il linguaggio è un punto fisso. Una grammatica del misurabile: sottile come un capello, profondo come un ombelico, conformato a vulva, torto come un padiglione auricolare. Classifica, minuzioso e «sensato». Notte e giorno al lavoro, senza perdere un attimo finché rimase a Nppsala. In un paese parco, nel Settecento più misero, un’arida gioventù, senza soldi per le suole, vitto da piatti estranei, letto sempre freddo, sotterfugi per titoli e talleri. Infine la fuga nell’inabitabile. Laddove quasi nulla più vive, egli riprende vita. Lapponia 1745: Visto estate e inverno in un sol giorno, attraversato nuvole, investigato la fine del mondo,

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il giaciglio notturno del sole. Nel freddo sboccia il suo cuore secco. Cladonia, tundra, artica libertà.

Poi di nuovo i cortigiani, i giardini e le anticamere. Sogni satanici, fantasticaggini, «sensata» oscurità. Negli occhi d’ambra lampeggia la follia. Immota. Infine professore, medico personale della regina {mano felice nella cura delle malattie di petto), presidente dell’accademia. Poi la stella polare su fascia nera. Tutto troppo tardi. Dissensi, diffidenza, umide serate trascorse nelle serre, poi l’apoplessia. Gli ultimi quattro anni li trascorre semi invalido, in triste debilitade di corpo e di mente. Nessuno sapeva che egli, che reperito avea si tante prove della divina provvidenza tra i fenomeni naturali, da molti anni raccogliesse simili esempi nei destini degli esseri umani, che anche i miracoli e i peccati obbedissero alla tassonomia. Manie persecutorie. Fisime e ossessioni. Accanto all’histoire admirable des plantes, la storia naturale delle malattie e delle perversioni: Nemesis divina, il libro occulto, conservato in apposita custodia, pieno di pronostici, auspici, presagi. Letture per Strindberg. Teologia empirica. Lo scienziato come delatore di Dio.

Tutto ha un suo ordine: piromania lussuria infanticidio tradimento perfidia e veneficio. Melandro, professore in teologia, briga e intriga in concistoro finché d’un tratto, alle sei di sera, la sua testa ruota verso la schiena. S’accascia, lo ricoverano, ma il di di guarigione ei più non vede. Iddio è un rettangolo atemporale, le sue rappresaglie un reticolo immoto: forca fuoco defenestrazione capo mozzato impiccagione. La signora Psilanderhjelm, corriva e licenziosa, giace con un cortigiano di Stoccolma. Colpita d’infermità al basso ventre, muore di li a poco. L’aprono e trovano in luogo del bambino un sasso.

Tutto viene cosi alla luce. Il peccatore marcisce da vivo. Un’esistenza piuttosto uniforme. Le punizioni

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colleziona, definisce, denomina. Processo minuzioso e «sensato» come il meccanismo della riproduzione: stame sepali e polline seme pistillo e ricettacolo. Systema sexualis·. un’ossessione mortale. La vita non esiste, esistono soltanto degli esseri viventi. Si rattrappisce il venerando vegliardo e rimugina immoto d’una divina vendetta che seguirebbe la logica. «Sensata». Insensata. «Sensata». Nella sua follia non v’è posto per «noi».

Il fiore che porta il suo nome, Linnaea borealis L., è insignificante, minuscolo e quasi interamente bianco.

Lazzaro Spallanzani

1729-1799

L’abate, uomo irascibile, piccolo mento, occhi penetranti, temperamento elettrico, nondimeno pingue, scala il Vesuvio, raschia il suolo del cratere, onde la fresca lava incorporare

nel suo famigerato gabinetto, insieme a budella, aborti, vermi in bottiglia. Puzza di spirito, di carne putrida. Ai caustici, rancidi fumi, si mescola vapore di zolfo. Medita una categoria di domande mai poste prima d’allora e agisce, per rinvenir risposta, funzionalmente: funzionalmente manovra osteoclàste, scalpelli, aghi incandescenti. Dove vola

il pipistrello accecato ? Il cervello della mucca mattata, i muscoli del cane morto, e il polmone della donna annegata, sotto la campana di vetro respirano ancora, per ore e ore. Eureka!

gridai, sopraffatto da questa inaspettata felicità. Si amputi la salamandra, si scaccino i mosconi, si amputi si amputi si amputi, si amputi ancora: le ricrescono coda, gambe e mascelle, anche per la quinta volta ? Il lombrico lo si tagli in lungo e in largo in cinque pezzi. Lo si decapiti. Le conseguenze di tali procedimenti si accertino con estrema cura.

Piu ne approfondirete lo studio, più questa creatura Vi parrà feconda in maraviglie. Ne sprigionerete ignoti aspetti, si sorprendenti che d’ora innanzi dovrà esclamarsi : bello come un lombrico.

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Le sue polemiche sono temibili. Spietato rancore in note a piè pagina, biechi battibecchi. Gli scienziati si spiano l’un l’altro come scorpioni, pungono all’improvviso e si rosolano poi ingordi al sole del trionfo.

Riflesso sperimentale: Dei traffici gastrici degli uomini e di diverse varietà ammali. Prendi una spugna, lega la medesima a un filo, ingoiala, pigliati il succo gastrico dal ventre.

Strappa a un gatto dopo il pasto lo stomaco, cuci l’organo, mettilo a bagno in acqua calda e dimostra quindi sul tavolo la digestione dei cadaveri. Nulla di piu bello e di piu nuovo. Un secolo illuminato. Eppure lo infestano i mosconi. L’abate è un maniaco. Copula rospi con salamandre: mostruose congiunzioni. Dalla femmina squartata estrae le uova, indi ammazza i maschi, ne stilla lo sperma e fa procreare i morti. Alla vista di cotanto spettacolo s’invola la mia fantasia. (Lo stesso anno a Parigi, Réaumur costruisce una mamma artificiale}. Masturba un cane e ne inietta a una cagna lo sperma. Posso dire in tutta sincerità, che mai nessuna cosa procurato mi avea una si viva voluttà. L’animale figlia. (Presto lo segue anche la prima donna).

Pingue, di temperamento elettrico, dal mento piccolo tali descrizioni non rivelano un gran che, non più della nostra nausea. La gelatina fermentata puzza, la melma stagna verdognola nella fiala, sgorga Y inaspettata felicità, e sui ferri imbrattati siedono le mosche. Funzionalmente l’uomo persegue la sua impresa, una specie animale, che marcia allegramente in avanti. Eureka!

Le conseguenze di tali procedimenti si accertino con estrema cura.

Charles Robert Darwin 1809-1882

L’uomo che non volle mai. La terra sotto ai piedi gli dava il mal di mare. «Precursore», «sovvertitore», «geniale», «un titano» lui non volle, si oppose, sin dall’inizio, con tutti i mezzi, nausea, emicrania, ipocondria.

La scuola, nient’altro che un vacuo. Fa lo scemo. Mediocre e pigro per beffa. Lo studio ripugnante, un’insostenibile noia, tempo perso. Nulla capisce di matematica, dimentica i classici, rimane ignorante come un maiale circa la politica, la storia e la filosofia. Pretenderebbero che diventasse medico: non può vedere il sangue. Vorrebbero farne un curato: non sa il latino. Buono a nulla. Si astiene da tutto, indugia, evita sempre di trarre conseguenze, incapace di farsi avanti coi gomiti.

Il matrimonio: terribile spreco di tempo. Bambini: tutto sommato meglio di un cane. Da qualsiasi divertimento gira alla larga: il divertimento è la peggior cosa.

Gli elisir della scienza

Poi il famoso giro del mondo: quasi controvoglia, quasi per svista. A bordo giace ore intere sul tavolo di navigazione. Vertigine, fiacchezza. Raccoglie problemi, dati, preparati. Le sue convinzioni le tiene per sé. Un pomeriggio legge Malthus (comepassatempo)·, palpitazioni, brividi violenti, e nel cervello una tempesta elettrica. Da allora fu perso. Il resto è evoluzione:

L’Origine delle specie nasce e si sviluppa, «naturalmente», senza sosta, una nuova specie d’idee, in un processo che sgretola colui che sgretola, gradualmente, pian piano, e inesorabilmente. Indietreggia, si sposa, s’installa in un remoto villaggio, evita viaggi, socialità, si schermisce: pensionato a trentatre anni.

La mia testa si è tramutata in una specie di macchina, destinata a macinare valanghe di fatti per trasformarle in leggi generali.

Sette anni Sui banchi coralliferi, struttura e localizzazione. Ventun anni Sulle abitudini e i movimenti delle piante rampicanti. Otto anni Sui cirripedi (due volumi sulle specie viventi e due su quelle fossili). Il guscio si trasforma in un robusto edificio che protegge il corpo a guisa di corazza.

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Della mia vita successiva non vi è dunque, eccezion fatta per le mie pubblicazioni, nulla da riferire.

Ordine del giorno: massimo quattro ore di lavoro, quindi la visita alle serre. Lunga siesta, avvolto in uno scialle, sul sofà. Cambio d’abito. Dopo cena qualcuno al piano suona un notturno. Si va a letto presto. Insonnia: Le sue notti erano pessime, spesso giaceva sveglio o sedeva eretto.

(Cfr. a quindici miglia [in linea d’aria] un altro invalido che controvoglia e senza sosta lavora per sovvertire: epatalgia, nausea, foruncolosi; debole come una mosca, insonne, tormentato dall’ eccessivo cacasangue·. Io sono una macchina, condannata a ingoiare libri, per poi riversarli, sotto forma diversa nel letamaio della storia). Infiniti dettagli, accumulati come calcare corallifero in cassetti, cartelle, scartoffie. Povero diavolo, commenta il suo giardiniere, sta li in piedi a fissare per minuti interi un girasole. Se solo avesse qualcosa da fare, gli farebbe un gran bene.

Dolorosa atrofia. Sensazione di essere totalmente essicato.

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Non resta altro che la scienza. Tanto peggio. A volte la odio.

Non vuole, non volle mai, eppure vota la vita intera alla «natura» con Usuo grossolano spreco, il suo infimo acciarpamento e la sua orrida ferocia·, metodico come un contabile o un lombrico. La formazione dell’humus tramite l’attività dei vermi, con osservazioni circa le loro abitudini·. frutto di un’attività di cinquant’anni. Nella storia del mondo piu significativi di quanto non si pensi, essi macinano la terra nel loro ventriglio per trasformarla in humus a tonnellate, in silenzio e senza sosta.

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Il semplice che è difficile da inventare

Nulla contro il microprocessore, ma senza l’acqua come ce la caveremmo ? Che cos’è mai una sonda su Giove al confronto del cervello di una mosca ? Come si affannano *» questi topi di laboratorio intorno ai cloni ! Però scopare è ben meglio. E il dente di leone come sa farlo: lieta, inarrivabile eleganza ! Mai nella vita, cari premi Nobel, ammettetelo, su, avreste inventato una cosa simile.

Golpisti in laboratorio A proposito della piu recente rivoluzione nel mondo delle scienze

Or non è molto si lamentava da parte di tanti la perdita delle uto­ pie che, dai tempi della loro invenzione, passavano per una manna celeste per la parte pensante dell’umanità. Dai semplici e pii deside­ ri, questi progetti per il miglioramento globale della nostra sorte si distinguevano per la loro forma razionale. Le utopie sono state, tut­ te quante, cianografiche europee per la fondazione di società ideali nelle quali non dettasse più legge l’uomo vecchio e risaputo ma l’Uo­ mo Nuovo. Tutti i tentativi di realizzarle hanno fatto, prima o poi, una fine miseranda; come, da ultimo, nell’anno mirabili 1989. La psichiatria ci insegna quanto sia facile che una fase depressiva si volga in una maniacale, e viceversa. Ci sono elementi che induco­ no a ritenere che una simile, repentina svolta sia osservabile non so­ lo nei pazienti individuali, ma anche nei grandi collettivi. Negli an­ ni Settanta e Ottanta del secolo da poco concluso era sembrata pre­ valere la depressione. Si delineavano un po’ ovunque scenari di tracollo. La guerra fredda, con i suoi blocchi e i suoi conflitti per interposti paesi, aveva portato alla paralisi della politica mondiale. Si paventa­ vano catastrofi ambientali d’ogni specie. Il Club di Roma profetiz­ zava l’esaurirsi entro brevissimo tempo di tutte le risorse non rinno­ vabili. Si parlava dell’inverno nucleare. Gli umori apocalittici non di­ lagavano soltanto sugli schermi del cinema hollywoodiano e sui domestici televisori. Le società occidentali si erano però, evidentemente, abituate trop­ po presto all’idea del tracollo. Perché, ben prima del volger del seco­ lo, è subentrata la fase maniacale. Stavolta non è stata però la filoso­ fia della storia a offrire promesse di redenzione; né si sono fatti avan­ ti con un nuovo progetto per l’umanità un partito o un’ideologia

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politica; anzi, il collasso del comuniSmo ha lasciato dietro di sé un vuoto ideologico che nessuna vecchia o nuova sinistra è stata capace di colmare. Le nuove utopiche promesse sono venute dagli istituti di ricerca e dai laboratori delle scienze naturali, e non ci è voluto molto perché la scena fosse dominata da un fantastico ottimismo. Tutti i temi del pensiero utopico sono tornati in auge quasi dall’oggi al domani: com­ presa la vittoria su ogni manchevolezza e limite della specie, dalla stu­ pidità al dolore e alla morte. D’un tratto molti si sono messi a dire che la realizzazione del per­ fezionamento genetico dell’uomo, la fine delle obsolete forme della generazione, della nascita e della morte, l’abrogazione della biblica maledizione del lavoro grazie all’impiego dei robot, l’eliminazione di incresciose insufficienze umane per effetto dell’evoluzione dell’in­ telligenza artificiale erano solo questione di tempo. Antichissime fan­ tasie d’onnipotenza hanno trovato cosi un nuovo rifugio nel sistema delle scienze“’. L’impulso non viene tuttavia dalla totalità della produzione scien­ tifica. Si delinea piuttosto, sempre più chiaramente, la posizione ege­ monica di alcune, poche discipline che dispongono delle risorse de­ cisive come il denaro e l’attenzione, mentre altre, come la teologia, lo studio della letteratura, l’archeologia e purtroppo anche la filoso­ fia hanno un ruolo ormai solo marginale per non dire decorativo. So­ no tollerate, anzi apprezzate appunto per quell’innocuità che è loro attribuita da parte dello Stato e dell’economia. Stando cosi le cose, non è certo da loro che è il caso di aspettarsi promesse utopiche. Anche certune discipline delle scienze naturali, come la geofisica o la meteorologia, conducono un’esistenza alquanto grama all’ombra delle scienze di punta. Ruolo che, nel ventesimo secolo, era stato del­ la fisica teorica. Nel frattempo le è subentrata, assieme all’informa­ tica e alla scienza della comunicazione, la biologia. La quale «ha non solo eliminato la distinzione fra ricerca di base e ricerca applicata, ma è ora anche la scienza contemporaneamente capitalistica e rivoluzio­ naria par excellence. La biotecnologia è la tecnologia di base del pros­ simo grande ciclo economico» (Claus Koch)b). E evidente che in un cosi profondo cambiamento del sistema seien-

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tifico non si riesca a fare a meno di ambizioni ideologiche. Se in pas­ sato l’eliminazione di tutti i mali era stata una questione di compe­ tenza di sciamani e guaritori, oggi lo è di biologi molecolari e di ge­ netisti; e dell’immortalità non parlano più i preti, ma i ricercatori'1. Le nuove utopie sono illustrate all’opinione pubblica con campa­ gne promozionali senza precedenti. E non per caso predominano gli scienziati statunitensi. L’ottimismo endemico, lo spirito missionario e la posizione egemonica della superpotenza usa forniscono il relati­ vo sfondo ideologico. La vecchia e cara fede nella ricerca scientifica, della quale fino a poco tempo fa nessuno voleva sentir parlare, cele­ bra cosi la sua trionfale rinascita. Non tutti gli scienziati possono o vogliono identificarsi in questo loro novello ruolo redentore, perché è in contraddizione con tutte le tradizioni dello «scetticismo organizzato» (Robert Merton)d), del prin­ cipio della prova e della distaccata prudenza. D’altra parte la situa­ zione oggettiva delle istituzioni scientifiche è in brevissimo tempo ra­ dicalmente cambiata. Il distacco fra la ricerca e il suo sfruttamento economico si è talmente ridotto che dell’indipendenza di cui la scien­ za si vanta non è rimasto più moltoe). I giganteschi investimenti nell’attività di ricerca devono dare frut­ ti il più rapidamente possibile; quelli che erano un tempo studiosi au­ todeterminati diventano quindi comproprietari e imprenditori di un complesso economico-industriale in fase di crescita tumultuosa che dà lavoro ad avvocati specializzati in brevetti, a banche, a guru del­ le Borse e ad agenzie di pubbliche relazionif). I flussi di denaro, che siano fatti di capitale azionario o di sovvenzioni, accentuano la con­ correnza e la pressione mediatica. Chi non vuole rimetterci, deve pro­ mettere più di ciò che può mantenere. Una fase maniacale si contraddistingue notoriamente per la per­ dita sistematica del senso della realtà. Non meraviglia dunque che siano rimosse le esperienze storiche fatte con l’utopia e non siano pre­ si in considerazione i fallimenti. Forse che il «materialismo dialetti­ co» non era considerato nell’Unione Sovietica una base scientifica in­ confutabile, per tacere delle fantasie eugeniche del Premio Nobel Hermann Joseph Muller? Chi si ricorda ancora delle promesse di fe­ licità fatte dall’industria atomica negli anni cinquanta e sessanta del-

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lo scorso secolo? L’energia nulceare passava per la chiave d’accesso al paese della cuccagna dell’energia e non si prevedevano complica­ zioni d’alcun genere. E come la mettiamo con l’intelligenza artificia­ le, i cui profeti, già trent’anni fa, promettevano per la fine del mil­ lennio macchine che avrebbero dovuto superare di gran lunga tutte le prestazioni del nostro cervello ? Nessuno confronta oggi queste pre­ visioni con il misero risultato degli investimenti miliardari, con quel­ le tartarughe elettroniche che faticano a salire una scala. E mentre la stampa saluta con grandi titoli ogni progresso, specialmente della ri­ cerca medica, i rischi e gli effetti collaterali che nuocciono agli affa­ ri, fino a quando non assumono proporzioni catastrofiche, sono re­ legati fra le notiziole nelle pagine dedicate alla scienza. Malgrado tutto ciò, la credulità del pubblico e l’incorreggibilità dei desideri appaiono inattaccabili. Riesce sempre più difficile di­ stinguere la big science dalla science-fiction. Non è certo un caso che una parte dell’odierna generazione di ricercatori, specialmente negli Stati Uniti, definisca il suo orizzonte culturale ricorrendo a serie te­ levisive come Star Trek1’. Eppure si farebbe torto al genere se gli si attribuisse l’ottimismo scellerato dello schieramento Frankenstein, perché nella storia della science-fiction prevale da gran tempo il par­ tito delle utopie negative che prospettano per l’avvenire tutti gli im­ maginabili orrori. Non può sorprendere d’altra parte che gli evange­ listi dell’intelligenza artificiale, della tecnica genetica e infinitesima­ le prediligano una lettura unilaterale di queste visioni. In una fase maniacale, che si distingue appunto per la sua avven­ tatezza, le contestazioni e le obiezioni non possono ovviamente eser­ citare effetti duraturi. Anche la politica risulta disorientata e impo­ tente di fronte al connubio scientifico-industriale; la cui strategia è semplice: mira con disinvoltura al fait accompli al quale la società de­ ve rassegnarsi, e poco importa l’aspetto che hanno questi fatti com­ piuti. Con altrettanta disinvoltura ogni opposizione è liquidata come attacco alla libertà di ricerca, oscurantistica ostilità verso la scienza e la tecnica, e superstiziosa paura del futuro. Sono quegli stessi modi di mettere le mani avanti e di mentire op­ portunisticamente ai quali siamo stati abituati dai politici di partito e dai lobbysti. Non hanno niente a che vedere con una discussione

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razionale. Mirano a screditare coloro che obiettano. E non sono af­ fatto soltanto gli ignoranti o gli spregiatori delle scienze a diffidare delle sensazionali promesse dell’utopia. Chi se ne vuole convincere, non ha che da conversare per una sera, a quattr’occhi, con ricercato­ ri competenti di altre discipline, e constaterà che il cristallografo, l’astrofisico, il topologo sono profondamente infastiditi dall’arroganza boriosa dei loro colleghi. Anche nel mondo delle scienze biologiche esiste poi una maggioranza silenziosa che vede in pericolo la conce­ zione che ha di sé e le proprie norme. Senonché espone le sue riser­ ve con tanta discrezione da non trovare quasi ascolto presso il pub­ blico controllato dai media. Non manca mai, in questo contesto in fragoroso sviluppo, un ac­ cenno agli intenti umanitari di cui, da Campanella a Stalin, ogni pro­ getto utopistico si è sempre vantato. La coltura dei pezzi di ricambio per l’uomo è spacciata per un imperativo terapeutico, il disco rigido garantirebbe l’immortalità della coscienza, il desiderio di avere figli è prospettato come un diritto umano assoluto, e via di questo passo. La più che comprensibile ambizione dei genitori di avere figli perfetti dovrebbe incentivare l’evoluzione della specie, e perfino l’abolizio­ ne dell’uomo sognata dai campioni dell’intelligenza artificiale, servi­ rebbe a un superiore scopo evoluzionistico: una versione del darwi­ nismo che lo stesso Darwin non avrebbe probabilmente giudicato di­ vertente. Alla fantasia, in ogni caso, non sono posti limiti11’. La verità nascosta salta fuori al più tardi quando, a simili moti­ vazioni, si aggiunge anche la preoccupazione per i santi posti di la­ voro e per la capacità concorrenziale dello «Standort Deutschland», dell’« azienda Italia» e cosi via. Nel suo complesso, questo modo di procedere assomiglia a una se­ rie di tentativi di golpe a freddo con l’obiettivo di annullare tutti i processi decisionali democratici. La scienza combinata con l’industria si profila come una forza superiore che dispone dell’avvenire della so­ cietà. E in procinto di generare una terza natura, una procedura che si svolge essenzialmente come un processo naturale, con la differen­ za però che il necessario impiego d’energia non proviene dall’am­ biente ma dal capitale privo di qualsiasi vincolo. I più tracotanti fra

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questi personaggi spiegano a chiunque li stia ad ascoltare che non so­ no affatto disposti ad accettare limitazioni da parte della legge. Pro­ clamano molto apertamente l’intenzione di andare a proseguire la lo­ ro attività, in caso estremo ed esattamente come i riciclatori di de­ naro sporco e i trafficanti di armi, in quelle parti del mondo dove gli scrupoli sono sconosciuti e non ci sono da temere sanzioni'). Questa offensiva è accompagnata dai lamenti di rito per la scarsa accettazione da parte dell’opinione pubblica (che non è però mai in­ terpellata quando si tratta di prendere decisioni rilevanti) e per il sen­ sazionalismo della stampa (come se non fossero stati, viceversa, pro­ prio gli imbonitori delle tecnologie futuristiche a imparare a stru­ mentalizzare i media per i loro scopi). E cosi, ogni volta che un parlamento sta per occuparsi di questioni biopolitiche, ecco che vengono esibiti in televisione pazienti sicura­ mente compassionevoli che soffrono di rare malattie ereditarie. Chi se la sente di negar loro il necessario aiuto ?n Chi non è disposto a esprimere ammirazione per un’industria che è pronta a investire mi­ liardi per alleviare la loro sorte, anche se soltanto in un lontano av­ venire ? Senonché certi imperativi terapeutici sarebbero più credibi­ li se si volgessero alla cura di malattie come la malaria o la tuberco­ losi di cui, anno dopo anno, muoiono milioni di persone, ma la lotta contro le quali non fa quasi progressi. Qui la tanto evocata pondera­ zione dei beni non sembra svolgere alcun ruolo. Sorge a ragione il so­ spetto che non conti tanto il giuramento ippocratico quanto un pro­ getto considerevolmente più promettente: la manipolazione della spe­ cie. Il concetto di responsabilità, di cui già in politica si abusa grave­ mente, si riduce qui a una banale commedia. E ciò non vale solo per i ciarlatani e i millantori della categoria; a costoro è in ogni caso estra­ nea l’idea di dover motivare o addirittura rispondere di qualcosa. E il problema non si può ridurre alla solita e molto citata pecora nera. Nem­ meno gli scienziati che si attengono rigorosamente alle norme della lo­ ro corporazione sono infatti in grado di garantire per le conseguenze del loro operato. E ciò dipende dal fatto che queste conseguenze so­ no per principio imprevedibili. Benché nessuno possa più rivendicare per sé l’innocenza storica del monaco agostiniano Gregor Mendel,

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qualsiasi matematico respingerebbe anche oggi, a ragione, la pretesa di verificare tutti i risultati della sua ricerca, prima di pubblicarli, in relazione alle applicazioni che potrebbero trovare in futuro da parte di servizi segreti, apparati militari o organizzazioni criminali1 . Per­ manendo le attuali forme di civiltà, ogni anche minima acquisizione di conoscenza scientifica risulta irrevocabile, e produce un’incontrol­ labile quantità di complicazioni. Viceversa, con ugual diritto, i difen­ sori del connubio scientifico-industriale fanno notare la totale dipen­ denza di queste forme di civiltà e di progresso dai frutti della ricerca passata e odierna. Che nessuno all’infuori di alcuni settari sia dispo­ sto, quando il problema concretamente si pone, a rinunciare agli eli­ cotteri da salvataggio, alla risonanza magnetica nucleare o agli anti­ biotici, rappresenta l’altra faccia di questa inevitabilità. Già per tutti questi motivi i dibattiti correnti sulla politica bio­ tecnologica, a prescindere dalle loro qualità scolastiche, dànno l’im­ pressione di essere singolarmente ingenui e sprovveduti. Di tutti i co­ mitati, le commissioni e i consigli d’esperti che spuntano un po’ ovun­ que colpisce che, alla forza dei fatti che fissa quotidianamente le sue norme, non hanno da opporre altro che le loro opinioni. Mentre gli uni si profilano come meri lobbysti dei rispettivi gruppi d’interesse, gli altri tentano, con motivazioni alterne, di salvare il salvabile. An­ che il legislatore, incerto fra riserve radicate e imperativi della con­ correnza globale, è capace solo di decisioni ad hoc che, nel momento stesso in cui sono annunciate, sono già travolte da nuove possibilità d’intromissione della scienza. E un dato di fatto che non esiste più un consenso etico attorno ai problemi fondamentali che riguardano l’esistenza umana. Le discus­ sioni sulla cosiddetta morte attivamente assistita e sulle possibilità della selezione genetica dovrebbero aver convinto di questa diagno­ si anche i più ingenui. Di conseguenza, ognuno si vede relegato in una posizione sprovvista di ogni conforto morale. Non può più dele­ gare tutta una serie di decisioni esistenziali ad alcuna istanza vinco­ lante. Nei momenti in cui sono in ballo i suoi interessi vitali elemen­ tari, non può fare affidamento né sulla politica né sulle religioni con­ solidate. Ciò implica un aggravio di responsabilità al quale la maggior parte degli uomini non potrà probabilmente far fronte.

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In ogni caso, fino a quando il singolo sarà libero di scegliere di non fare uso delle conquiste che il complesso scientifico-industriale gli promette, quindi in una fase di trapasso, gli rimarrà se non altro la possibilità di dire: fate pure, ma senza di me. Finora almeno è an­ cora consentito cavarsela senza uteri in affitto, trapianti eterologhi, cloni, selezione prenatale e impianto di chip cerebrali1’. Chiunque scelga questa strada di legittima difesa deve tuttavia essere consape­ vole del prezzo da pagare per tale rifiuto, e anche questo è probabil­ mente più facile da dire che da fare. Chi tuttavia si illude che queste scelte individuali sfocino nella tol­ leranza reciproca, e chi crede che le idee utopiche di molti scienziati e dei loro alleati economici possano imporsi senza attriti e senza violen­ za, soggiace a un’illusione. Tutte le esperienze storiche dicono il con­ trario. Non solo le inevitabili delusioni, che seguono come un’ombra l’euforia d’ogni fase maniacale, porranno limiti al fatalismo progressi­ sta"’’. Anche là dove la ricerca industriale registra successi effettivi, so­ no da prevedere gravi conflitti. Al più tardi quando emergeranno i pri­ mi danni collaterali del processo scientifico e verranno a galla i grandi e imprevisti rischi, la minoranza ridotta al silenzio si ribellerà. Ed è stra­ no che i protagonisti del processo non vi siano minimamente preparati. Non occorre in fondo molta fantasia per prevedere che i primi contrac­ colpi provocheranno una mobilitazione militante, di cui gli episodi di Wackersdorf e del Wendland1 non sono che pallide anticipazioni. Se già gli animalisti sono capaci di reazioni terroristiche, che forme assu­ merà la resistenza quando non saranno più in ballo solo rischi astratti e conflitti per interposta persona, ma la propria pelle, la capacità di ge­ nerare, la nascita e la morte ? E sicuramente ipotizzabile che certe ri­ cerche diverranno allora possibili solo in ambiti di massima sicurezza e che ci sarà un ragguardevole numero di scienziati che, asserragliati in fortificazioni armate, dovranno temere per la propria vita"’. Con ciò non è ovviamente detto che una minoranza pronta a tut­ to potrebbe fermare il processo o addirittura invertirlo. Alla fin fine 1 A Wackersdorf era prevista la costruzione di un impianto di riciclaggio di scorie radioat­ tive, che non fu però mai realizzato; nel Wendland, in Bassa Sassonia, si trova invece Gorleben, dove è situato un deposito di scorie nucleari. In entrambe le zone esistono forti movi­ menti ecologisti [N.d.T.].

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l’utopia della totale padronanza della natura e dell’uomo fallirà, co­ me tutte le passate utopie, non per opera dei suoi avversari ma a cau­ sa delle proprie contraddizioni e della propria megalomania. Finora l’umanità non ha mai detto volontariamente addio alle sue fantasie d’onnipotenza. Solo quando la presunzione avrà fatto il suo corso, la presa d’atto dei propri limiti prenderà necessariamente, e presumi­ bilmente a un prezzo catastrofico, il sopravvento. E allora avrà di nuovo un’opportunità anche una scienza che potremo rispettare e con cui potremo convivere.

Appendice Al loro primo apparire, queste poche pagine hanno suscitato una forte eco. Oltre a una marea di lettere di approvazione, non solo di non addetti ai lavori, ma anche di scienziati competenti, sono giunte vee­ menti reazioni da parte di illustri rappresentanti della corporazione, reazioni caratterizzate soprattutto dal tono offeso. E non di rado si co­ glie anche una sfumatura di innocenza perseguitata. Evidentemente, sono proprio le star della ricerca scientifica a non avere confidenza con le regole del gioco del dibattito democratico. Sotto questo aspetto, ha trovato conferma la diagnosi secondo cui c’è la tendenza a sbarazzar­ si con disinvoltura di ogni obiezione definendola « attacco alla libertà di ricerca, oscurantistica ostilità verso la scienza e la tecnica, e super­ stiziosa paura del futuro». Sorprende che proprio una scienza che si era a suo tempo profilata come avversaria dei dogmi religiosi, assuma un atteggiamento addirittura vaticano non appena si vede esposta a ri­ lievi critici. Accampa, nel far ciò, un’autorità specialistica, dubitare della quale sarebbe aprioristicamente fuori luogo. Gli studiosi citati a conferma di certe perplessità, vengono liquidati e considerati alla stre­ gua delle ben note «pecore nere» che esisterebbero ovunque. Si nega­ no per principio dipendenze da interessi finanziari e, contro ogni evi­ denza, ci si attiene alla finzione di una pura logica della ricerca. Mi sembra perciò necessario documentare in dettaglio ciò che emi­ nenti personalità del mondo scientifico hanno detto su questi pro­ blemi. Quelli via via menzionati sono esponenti di stimate istituzio-

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ni della grande ricerca. Deliberatamente si è attinto a informazioni che non soggiacciono ad alcun riserbo e sono anzi accessibili a qual­ siasi lettore di giornali.

a) «Tutti noi siamo stati creati dall’Onnipotente, però adesso i creatori diventiamo noi... Spero moltissimo che il primo clone umano sia realizzato in Israele». Avi Ben-Abraham, studioso della riproduzione a Tel Aviv, in «Der Spiegel» η. 24, 2002. La nascita del clone umano è attualmente in fase di preparazione, da par­ te di Ben-Abraham e della ditta Abaclon, a Cesarea, a nord di Tel Aviv. b) «Le scienze non hanno un pubblico che meriti questo nome». Claus Koch, in «Gegenworte. Zeitschrift für den Disput über Wissen», edito dall’Accademia delle Scienze di Berlino e del Brandeburgo, fase. 3, primavera 1999. c) «Noi disporremo del potere di vita e di morte [...]. La clonazione terapeutica ci permetterà di ringiovanire il nostro corpo, di conservargli una funzionalità qua­ si infinita. E io ne sono anche personalmente interessato. Contrariamente alla maggior parte delle persone, non considero auspicabile neppure una sia pur lon­ tana morte». Ray Kurzweil, conversazione con Jordan Mejias, in «Frankfurter Allgemeine Zei­ tung», 3 luglio 2000. Kurzweil è uno degli esponenti di punta della ricerca sulla clonazione presso il mit. «Una medicina estesa a livello molecolare potrebbe eliminare quasi tutte le ma­ lattie, riparare cellule guastate dall’AIDS o dal cancro, e forse invertire addirittu­ ra gli effetti del processo di invecchiamento. La realizzazione di un ambiente pu­ lito sarebbe quasi un gioco da ragazzi». K. Eric Drexler secondo Robert A. Freitas, System Builders, in «Frankfurter All­ gemeine Zeitung», 18 settembre 2000. Drexler è stato docente alla Stanford Uni­ versity e al mit. Attualmente è Senior Research Fellow dell’Institute of Mole­ cular Production e fondatore del Foresight Institute (http://www.foresight.org). Fornisce informazioni piu ampie sulle sue visioni in Engines of Creation e (assie­ me a Chris Peterson e a Gayle Pergamit) in ILnbounding the Euture. Secondo que­ sti testi, i cosiddetti assembler potrebbero acquisire a costi incredibilmente bassi l’energia solare, guarire il cancro e i comuni raffreddori mediante il rafforzamento del sistema immunitario, liberare completamente l’ambiente dalle sostanze noci­ ve, realizzare supercomputer tascabili e praticamente ogni altra cosa a costi bas­ sissimi, rendere i voli spaziali ovvii e semplici come lo sono oggi i voli intercon­ tinentali, e infine anche richiamare in vita specie estinte. d) Cfr. Robert K. Merton, La sociologia della scienza - Indagini teoriche ed empiri­ che, Milano 1981. e) «Un altro motivo cogente a favore delle nuove tecnologie è l’aspettativa econo-

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mica del profitto e delle Borse che solleciterà anche nei prossimi decenni lo svi­ luppo tecnologico. Qui governano Wall Street e la New Economy. [...]. In un mon­ do regolato dalla concorrenza è un imperativo economico battere queste strade». Ray Kurzweil, Der Code des Goldes, in «Frankfurter Allgemeine Zeitung», 17 giugno 2000. f) Secondo James A. Thomson, notissimo esperto di cellule staminali del Wiscon­ sin, e di Oliver Briistle, docente di neuropatologia all’università di Bonn, dalle cellule staminali embrionali dell’uomo dovrebbe derivare un enorme, avveniri­ stico mercato per la terapia di malattie ritenute finora inguaribili. «Le basi per stabilire chi in futuro trarrà vantaggio da questo mercato sono po­ ste adesso. Già oggi possono approfittarsene coloro cui sia riuscito il bel colpo di fissare certe linee cellulari embrionali. Cosi Thomson, per esempio, che ha fatto ampiamente proteggere le sue linee cellulari embrionali umane mediante brevet­ ti validi in ogni parte del mondo. Qualche interessato si è sentito dire nel Wi­ sconsin: “Prima di consentirle di mettere le mani su questo materiale, dovrà tra­ smetterci la proprietà dei suoi primi cinque risultati”. I diritti di sfruttamento hanno prezzi salati, e la WiCell, la ditta di Thomson, diverrebbe partecipe di tut­ ti i successivi profitti [...]. (Oliver) Briistle ammette francamente che anche l’importazione di cellule stami­ nali embrionali gratuite da Israele sarebbe per lui soltanto un ripiego. Perché, non appena concluso il lavoro accademico su quelle, si dovrebbero poi spartire i profitti derivati dai risultati. Meglio dunque disporre di proprie linee cellulari, e ancor meglio controllare l’intero processo, dall’embrione umano, passando attra­ verso l’acquisizione di cellule staminali, fino all’impianto dei tessuti sostitutivi nel cervello dei pazienti. Una fantasia d’onnipotenza ? Può darsi, tuttavia Briistle l’ha già messa su carta tre anni fa. Il 18 dicembre 1998, attraverso l’ufficio legale Vossius di Monaco di Baviera, ha presentato all’Ufficio europeo dei brevetti una ri­ chiesta che è stata registrata con il numero EP1040185. Nella richiesta di bre­ vetto Briistle rivendica i diritti su tutte le cellule e le procedure su cui si sta tan­ to vivacemente disputando in Germania. [...]. É onesto e normale che i ricercatori si facciano brevettare i frutti del loro lavoro. [...]. Però il brevetto di Briistle va di molto pili in là: estende la rivendicazione all’intero ambito dell’acquisizione delle cellule staminali embrionali e della loro coltivazione per farne cellule ner­ vose, dalla coltura delle cellule fino al cervello del paziente, dal topo fino all’uo­ mo, dalla coltura fino ai cloni terapeutici». Christian Schwägler, Die Geister, die sie riefen. Hintergründe der politischen Durchsetzung der Embryonennutzung - Eine Erforschung der Forscher, in «Frank­ furter Allgemeine Zeitung», 16 giugno 2001; anche in Christian Geyer (a cura di) Biopolitik, Die Positionen, Frankfurt am Main 2001, pp. 164-76. «Jim Davis sa ciò che vuole: tutto. “Tutti i geni e tutte le loro variazioni, tutte le proteine e tutte le loro variazioni, tutte le funzioni, tutte le possibili applica­ zioni, e questo in tutto il mondo”. Il vicepresidente dell’Human Genome Scien­ ces (hgs) del Maryland dice che non parla volentieri di brevetti, perché preferì-

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see che gli siano riconosciuti. La hgs è fra le società che, al mondo, praticano la più aggressiva politica in materia di brevetti, e mette in tal modo gli altri sotto pressione, inducendoli a fare altrettanto oppure a diventare pagatori di diritti di sfruttamento a favore della hgs. Per richiedere un brevetto, Davis non aspette­ rebbe mai fino al momento in cui i suoi ricercatori abbiano compiuto un’inven­ zione. “Quando cerchiamo un principio attivo, cominciamo con cento o mille ge­ ni, e non sappiamo ancora quale, alla fine, ci condurrà a un prodotto”, dice. La conseguenza logica, dal suo punto di vista, è: “Cerchiamo di ottenere un brevet­ to per tutti i mille geni”. Di ogni gruppo di ricercatori fa perciò parte un avvo­ cato specialista in brevetti che elabora continue richieste e le inquadra nel pro­ cesso di ricerca. La soluzione migliore, dice Davis, è avere il “pieno controllo” sui geni e le proteine brevettate. Il suo sogno: “Chiunque volesse sfruttarle com­ mercialmente, dovrebbe pagarci i diritti”. Davis non considera un ostacolo le de­ scrizioni di funzioni che coloro che vagliano le richieste di brevetti richiedono con crescente insistenza: se non esistono dati concreti, ebbene allora si spaccino ai verificatori “supposizioni a caso”... La hgs ha già ottenuto 172 brevetti gene­ tici. Sul numero delle richieste preferisce tacere». Die Krebsfresser von San Diego. Cyber-Medizin und mA-Revolution : Eindrücke von der Bio 2000, der größten Genmesse der Welt, und ein Panorama des Großen Traums der universellen Heilung, in «Frankfurter Allgemeine Zeitung», 30 giugno 2001. g) Romanzi e film di fantascienza sono expressis verbis citati come fonti d’ispirazio­ ne, fra gli altri, da Moravec, Bill Joy, Rodney Brooks, Yudkowsky, Robert Frei­ tas, Jeremy Rifkin. (Vengono menzionati, fra gli altri, Jules Verne, Isaak Asimov, Heinlein, la serie televisiva Star Trek di Gene Roddenberry, H.G.Wells, Kurt Vonnegut, Michael Crichton, William Gibson, Arthur C.Clarke, 2001 - Odissea nello spazio di Stanley Kubrick, i film Matrix e Terminator).

h) «E del resto indifferente che cosa fanno certe persone, perché saranno presto scartate e lasciate indietro come il primo stadio di un razzo. Esistenze infelici, morti spaventose e progetti falliti sono parti integranti della storia della vita da quando c’è vita in terra. Ciò che alla lunga conta è quel che rimane... Ci interes­ sa ancora davvero che i dinosauri si siano estinti ? In questo senso anche la sorte degli uomini sarà del tutto priva d’interesse per gli intelligentissimi robot del fu­ turo. L’umanità sarà considerata un esperimento fallito». Hans Moravec, Robot: Evolution from Mere Machine to Trascendent Mind. Mora­ vec è docente alla Carnegie Mellon University e al mit. (Similmente si sono espressi lo studioso della clonazione Marvin Minsky del mit, il nano-tecnologo Eric Drexler e Max More). «Nel 2019 i computer supereranno il test di Turing, vale a dire si comporteranno in una qualsiasi conversazione come esseri umani, senza essere riconoscibili come com­ puter. Verso l’anno 2029 si potrà “scannerizzare” il cervello umano e lo si potrà du­ plicare in un computer: e sarà l’inizio di una vita “eterna” impiantata nei chip». Ray Kurzweil, The Age of Spiritual Machines, New York 1999.

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i) «Domanda: che cosa succederebbe se il governo federale [tedesco] vietasse sem­ plicemente il suo lavoro ? Risposta: (...). Non affronterei una decennale controversia costituzionale, poco ma sicuro. O accetto una simile democratica decisione, oppure vado all’estero». Oliver Brüstle, in «Frankfurter Allgemeine Zeitung», 13 giugno 2001. j) «Un tempo gli scienziati e i medici posati e seri si lasciavano solo malvolentieri definire visionari e rivoluzionari. Oggi il comportamento è radicalmente cam­ biato, quanto meno fra i ricercatori che si occupano delle cellule staminali em­ brionali. In considerazione delle illimitate promesse terapeutiche, anche nell’o­ pinione pubblica predomina un’euforia tale che si presta sempre meno attenzio­ ne alle argomentazioni critiche. Chi dubita delle promesse o avanza addirittura obiezioni etiche non farebbe altro - come si sente dire e si legge sempre più spes­ so - che prolungare le sofferenze dei malati». Rainer Flöhl, Embryonale Stammzellen - ein Mythos, in «Frankfurter Allgemeine Zeitung», 5 luglio 2001; anche in Christian Geyer (a cura di), op. cit., pp. 229231· «La ricerca sulle cellule staminali embrionali umane (è) sempre motivata con il profitto economico che si prospetta. Ma si tratta di utopie, perché i profitti eco­ nomici presumono successi terapeutici, e questi finora sono mancati. Anzi: i ten­ tativi terapeutici fin qui intrapresi si sono risolti in una serie di devastanti in­ successi. Lo ha riconosciuto anche Bernd Wegener, esponente dell’industria far­ maceutica: “Attualmente [...] si diffondono molte tesi che non reggono ad alcuna verifica. Cosi, per esempio, non è stato ancora neppure in linea di massima di­ mostrato, da nessuna parte, che dalla ricerca sulle cellule staminali si possa de­ rivare, anche solo fra dieci anni, un qualsiasi farmaco”. [...]. I nostri pazienti hanno diritto a una esposizione oggettiva e concreta dei problemi medici al po­ sto di promesse miracolistiche. Alcuni dei ricercatori impegnati sulle cellule sta­ minali sottolineano queste promesse miracolistiche con prospettive del tutto infondate di guarigione, citando il morbo di Parkison, il diabete, certe forme di epilessia e il morbo di Alzheimer. Il minimo che si possa dire è che simili argo­ mentazioni a sostegno dei propositi scientifici vanno definite poco serie. In pas­ sato certe promesse miracolistiche avrebbero comportato la fine della carriera scientifica». Volker Herzog, direttore dell’Istituto di biologia cellulare dell’Università di Bonn, in «Frankfurter Allgemeine Zeitung», 7 settembre 2001. k) «Quando lo scorso anno alcuni scienziati australiani hanno modificato geneticamente il virus dei vaiolo dei topi, il loro intento è stato quello di mettere a pun­ to un sistema per arginare quanto meno la riproduzione dei piccoli roditori. E invece, al posto della sterilità, è venuta la morte: il virus geneticamente modi­ ficato è risultato non solo mortale, ma anche resistente a ogni vaccinazione. Involontariamente, quegli scienziati hanno messo a punto una micidiale arma bio-

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logica che si potrebbe insinuare facilmente anche nel virus del vaiolo umano. Al più tardi dalla pubblicazione, lo scorso novembre, dei risultati delle loro ricerche sul journal of Virology, i dettagli dei loro esperimenti - che si possono inoltre cer­ care e leggere anche in Internet - sono liberamente accessibili anche a coloro che utilizzano le ricerche di tecnica genetica per scopi militari. Dalla Russia fino al­ l’India, passando per il Pakistan, la Cina e certi Stati del Medio Oriente come l’Iraq, l’Iran e Israele, la frequenza di consultazione del rapporto ha rivelato in­ teresse non solo da parte di istituzioni civili di ricerca. [...] Come negli anni Ottanta il Sudafrica, pare che oggi Israele - e solo per fare un esempio - lavori a Nes Tsiona anche alla messa a punto di armi mediante modi­ fiche genetiche. [...] Israele è un gigante della biotecnologia. Il paese è all’avan­ guardia anche nel settore della ricerca sulle cellule staminali, per lavorare sulle quali non esistono li da loro limiti di legge. E alle tecniche genetiche non si de­ dicano in Israele solamente i civili. [...] Da tempo sono stati geneticamente modificati anche nel laboratorio britannico per le armi biologiche di Porton Down gli agenti patogeni del carbonchio; e so­ no d’interesse militare anche i funghi-killer, quelli creati negli Stati Uniti, in teoria, per essere impiegati per distruggere le coltivazioni latino-americane da cui si derivano le sostanze stupefacenti. Mai in precedenza è stato più semplice sviluppare armi biologiche. E in misura crescente la ricerca civile di base e la ri­ cerca offensiva militare tendono a confondersi. Perché con l’ausilio della ricer­ ca di base i militari possono produrre, fra le armi biologiche, anche resistenze contro i vaccini esistenti. [...] Mark Wheelis della Federation of American Scientists afferma a questo propo­ sito, in uno studio sui futuri pericoli delle armi biologiche scritto per il britan­ nico International Information Security Service (ISIS): “I sistemi agricoli si ba­ sano in misura crescente su monoculture in spazi ridotti di piante geneticamen­ te identiche. L’alta densità di vegetazione offre le condizioni ideali per la diffusione di malattie delle piante, e la somiglianza genetica delle piante indi­ viduali renderebbe facilmente realizzabile il pendant agricolo di una etnobomba”. In un futuro prossimo, facendo leva sugli studi sul genoma, si potrebbero mettere a punto, nell’ambito di programmi militari, armi biologiche di specie nuova per distruggere in modo mirato le basi alimentari di un paese. Malcolm Dando, l’esperto britannico in materia di armi biologiche che insegna all’Uni­ versità di Bradford, in una conferenza sull’abuso della genetica per scopi mili­ tari tenuta a Dresda, ha in ogni caso recentemente espresso questa opinione: “Considerati i più recenti progressi della genomica, sarebbe irresponsabile rite­ nere che tali tecniche non possano confluire prima o poi in programmi offensi­ vi”. Non solo l’Iraq ha sviluppato funghi ustilaginali del frumento (del genere teletta), altri agenti patogeni di malattie del frumento e del riso, funghi come la Sclerotinia sclerotiorum che fanno marcire le piante alimentari. [...]. Esperti del settore come Dando ammoniscono: “I virus sui quali si fanno ricerche divengo­ no sempre più virulenti e piu patogeni, tanto che i confini fra la ricerca genetica

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terapeutica e la ricerca offensiva mirante alla messa a punto di armi biologiche cominciano a confondersi”. [...] Al giubilo per la decifrazione del genoma uma­ no potrebbe perciò seguire l’offensiva del riarmo in provetta». Udo Ulfkotte, Genkode Exitus, in «Frankfurter Allgemeine Zeitung», 19 giugno 2001. l) «Ci saranno ricercatori che impianteranno chip in tessuti animali e umani, e in­ durranno neuroni a crescere e a collegarsi con il chip. Il collegamento neuronaie diretto fra uomo e macchina sta per diventare una realtà... E verrà forse il mo­ mento in cui simili impianti diverranno obbligatori... Per effetto di queste evo­ luzioni, diverremo degli ibridi, in parte uomo e in parte macchina». Rodney A.Brooks, Das Fleisch und die Maschine, in Frank Schirrmacher (a cura di), Die Darwin AG, Köln 2001, pp. 121 sg. Brooks è docente al mit e direttore dell’Institute of Artificial Intelligence. m) «La clonazione del tipo di quella che ha portato alla pecora scozzese Dolly è pie­ na di insidie. Non solo perché molti animali vengono al mondo morti o malfor­ mati tanto da spegnersi poi già dopo poche settimane. Anche molti cloni appa­ rentemente sani contengono evidentemente difetti genetici occulti. Ne riferisco­ no i ricercatori statunitensi che lavorano assieme a Rudolf Jaenisch presso il Whitehead Institute of Biomedicai Research di Cambridge (Massachusetts) nel­ l’ultimo numero del periodico “Science”». «Klonen birgt genetische Risiken», breve notizia pubblicata in «Frankfurter Allgemeine Zeitung», 7 luglio 2001. «Riuscire a stabilire il ruolo di un gene nella rete di interazioni è al di là delle ca­ pacità degli odierni metodi. Se si dovesse accertare l’onnipresenza di interazioni epistatiche fra dozzine di geni, si dovrà probabilmente dare addio anche ad altre speranze. [...] Uno screening genetico per malattie croniche risulterebbe tenden­ zialmente inaffidabile, impreciso ed enormemente costoso». Thomas Weber, Schattenspiele im Kem, in «Frankfurter Allgemeine Zeitung», 22 giugno 2001. «Le esperienze finora raccolte ammoniscono alla prudenza. Pazienti con il mor­ bo di Parkinson che speravano in un sollievo dall’impianto di cellule cerebrali em­ brionali umane sono stati ulteriormente e gravemente danneggiati. In alcuni ma­ lati cui erano stati somministrati simili preparati cellulari sono insorti, dopo due o tre anni, gravi disturbi motori. Uno dei medici partecipanti all’esperimento ha definito devastanti gli effetti collaterali non eliminabili. [...] Nel complesso la terapia genetica, nel caso dell’uomo, non ha corrisposto alle aspettative. Si è sperimentato sull’uomo troppo presto, mettendo vite a repenta­ glio. L’imperativo è stato allora: “Tornare in laboratorio”. Non si dovrebbero di­ menticare queste deludenti esperienze nella pratica delle cellule staminali». Rai­ ner Flöhl, Embryonale Stammzellen cit.; anche in Christian Geyer, op. cit., pp. 229-231.

n) Un antesignano del bio-terrorismo può essere considerato, con la sua campagna del terrore protrattasi per 17 anni, il cosiddetto UNA-Bomber Theodore Kaczynski. Kaczynski era un matematico. {.Drawing Life : Surviving the Dnabomber, New York 1997)·

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«Per paura di ulteriori attacchi, Smith si è asserragliato, nel suo istituto univer­ sitario alla periferia di Edimburgo, in una specie di fortezza della ricerca biolo­ gica. Severe misure di sicurezza garantiscono davanti alle porte sempre sbarrate che possano entrare nell’edificio pubblico a più piani solo le persone autorizza­ te. Ci si sforza di non dare l’impressione di vivere in un bunker, eppure il pa­ drone di casa non può cancellare la sensazione che qui ci si sia arroccati, anzi ad­ dirittura barricati rispetto a un qualcosa». Joachim Müller-Jung su Austin Smith, docente di medicina della riproduzio­ ne dell’università di Edimburgo, in «Frankfurter Allgemeine Zeitung», 8 set­ tembre 2000.

Peso atomico 12,011

Che ciò che è nero o bianco o trasparente, duro o molle, fa fuliggine o luce, ciò con cui forgiamo, brilliamo, scaldiamo e scriviamo debba essere una cosa e solo quella,

che possa stringere io6 svariati connubi, fare favi, cancelli, catene, anelli, nodi, cappi e viti, perché li inspiriamo, perché voliamo, perché soffochiamo e che nulla di ciò che vive, vive senza questo nessuno, tranne quelli che vogliono sapere tutto, ci sarebbe mai arrivato, e adesso non sappiamo che cosa dobbiamo farne di questo saperlo.





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V.

Rete neuronaie

Pensa a un baobab, un gigante tutto rami, e popolalo, mentalmente, di migliaia di piccolissime scimmie; immaginati come s’arrampicano, penzolano, come, aggrappate fra loro, volteggiano di ramo in ramo; finché non si lasciano cadere, fiutano il vento, s’accoppiano, s’assopiscono pensa, o povero pensatore! Poi di nuovo saltano, a folle rapidità, schizzano come scintille, caracollano e precipitano; o stanno li buone, cosi, fiacche, trasognate, a grattarsi, fino al prossimo attacco. - Guai a chi volesse descrivere tutto ciò!

Ridi, spaventati, stupisciti, ma smetti, prima di diventare pazzo, di stare li a pensare sul pensare.

Sistema limbico

È vecchio, è molle, non concepisce se stesso, non sa cosa significhi limbus, cosa sia un sistema.

Fra volta e travi un pre-inferno, piccolo piccolo. Corno di Ammone, cinta, amigdala: un’oscura memoria che non può ricordarsi di se stessa.

Incontrollabile controlla paura piacere pulsioni omicide ossessioni. I suoi cappi, le sue fibre un fascio di cavetti in fondo al cervello, intra ed extra muros.

Flussi striscianti, combustioni senza fuoco, corti circuiti. Difettucci in rapido aumento.

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Un urto nella guida, e già si vendica. Un impulso elettrico e si scatena come una furia.

Alcuni miliardi di cellule nell’oscurità. Il genere umano, un gomitolino fra inizio e amnesia.

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Apparato linguale

Il tuo strano, accidentato blabla, protratto per decenni, e il blabla degli altri sussurri, borbogli, ansiti, balbettìi mulinelli e folate nel mare dell’aria:

il più agile fra i muscoli, la lingua da sola - immaginati una lingua isolata che si contorce sul tuo piatto la lingua da sola non lo fa. Sospirare, borbottare, gridare, straparlare «Qui la sua voce soave», «Zu Befehl», «London Interbank Offered Rate», o roba più complicata come Corano o cosmologia:

nulla si fa senza mantice, prolunghe, casse di risonanza; cartilagini ruotano, si rovesciano; ventole s’alzano e abbassano, apritori e occlusori si tendono e rilassano, fibre, membrane sono stimolate, sempre avanti cosi, all’interno,

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nell’ignoto, è un lavoro, un lavoro, dentro, in te; una canna bouchée, un apparato linguale, imprevedibile, non facile da capire, un caotico oscillatore, sempre avanti cosi, sinché capirete o sino a quando il fiato vi mancherà.

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A

Prima di dire B, aspetta, tendi l’orecchio, rifletti su ciò che hai detto. Una vocale di poca importanza mette in moto molte cose. Una volta aperta la bocca, porti le tue spoglie mortali a operazioni di complessità cosmica: cateratte di stimoli, calcoli, turbolenze, alle spalle di colui che è Io - per tacere del cervello che non parla e irride a ogni scienza.

Diversamente da tutti gli altri hai detto A. Non per la prima volta, milioni di volte l’hai emesso questo suono, a gola spiegata, sconnesso in tutti i toni, sussurrato, palatale, cantato, represso, davanti al dottore, stupefatto, sopraffatto, angosciato nulla dicente, a rigore, e non una sola volta

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ti sei, a rigore ripetuto.

La tecnica confrontata con te è pasticcio, ciarpame, rifiuto. Tu non hai idea di come sei perfetto se non quando ti va giù la voce, hai il singhiozzo, hai il cancro. La capacità primordiale di adorare l’hai smarrita. Un omega non è in vista.

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Cosa dicono i medici

Il manovrare oscuro, un’improvvisa pressione sulla zona dello stomaco può essere di grande aiuto.

Manuel Garcia, professione insegnante di canto, fu il primo (1855) che vide vibrare in uno specchio le proprie corde vocali. Tutto ciò che arriva alla bocca consente un’occhiata nel profondo epiglottide, mantici linguali, la piccola buca cieca che si apre e chiude.

I medici sanno: paralisi morbida e paralisi rigida sono due paia di maniche.

I medici dicono: cuore e reni, quando non fanno male sono muti.

Meditazione clinica

Sulla scala mobile, in spiaggia, allo specchio del barbiere: ovunque handicappati, pazienti, bisognosi di cure, ma nessuno è malato o deficiente. Estinti sono gli infermi. Non si parla più di colpi apoplettici, di groppi cardiaci e flatulenze. Dove sono finiti la cancrena senile, la febbre miliare e la podagra ? Anche le piaghe non sono eterne. Parole tremende andate perse: luparia, vermi del cranio e croup. Senza sosta il reattore dell’evoluzione cerca nuove soluzioni, nuovi flagelli. Anche i danni diventano meno gravi, di anno in anno. Lebbra della faringe e rosolia non possono tenere il passo con agenti patogeni più avanzati. Non c’è più lista nera che segnali timpanismo, capelli di strega e tigna. Trionfante la scienza s’inchina sul più immacolato dei letti e mormora la sua preghiera funebre.

Sotto la pelle

Questo buio universo sotto la pelle, in cui non si pensa ma si pompa, ribolle, impasta, lavora, mentre tu dormi: plutonica agitazione, terra e maremoto, chimica in grande, catastrofi in solido involucro.

La tua giungla interna è arcaica, ramificata, di strano colore, bagnata e bollente. La zuppa primordiale produce parassiti. Un bizzarro brulicare prospera, muta e torna a estinguersi.

Intere ere geologiche all’acceleratore, e tu non ne sai nulla.

Tu giaci li piatto, respiri, assente, cieco, anestetizzato.

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Soltanto l’operatore osserva con la sonda sullo schermo l’enorme tumulto degli organi.

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Raimondo di Sangro 1710-1771

Oggi ancora i fabbricanti di bare di San Domenico favoleggiano di lui, corvi che guazzano nella segatura, mormorano leggende di cadaveri scomparsi, ballate commiste di magia e di industria. Ah, le invenzioni sgorgate dal ribollente cervello del nostro principe, sono da tempo disperse ! Necessiterebbe un intero trattato per descriverle tutte con precisione. Si rinchiuse per anni e anni. Nei suoi forni la materia fantasticava mille metamorfosi. Emerse, un giorno, con fuochi d’artificio. Sul palcoscenico pirotecnico le fiamme mostrarono incantate visioni di palazzi, loggiati, alberi, zampilli e cascate esplodere in cielo, mentre i razzi simulavano artificialmente il cinguettio degli uccelli. Esitando tra l’utile e il prodigioso, come un aruspice antico, bizzarro e acuto ingegno, sbiadisce l’ametista in diamante, cuoce dal marmo il lapislazzuli, dalla resina il marmo; dalla luparia, che qui cresce in grandi quantità, fabbrica seta finissima, anche cappelli e pelle per calzature, e anche carta. Di piu, da una pianta, nessuno può pretendere. Cinque colori stampati da una sola lastra e con un solo procedimento (ma noi non crediamo a tutto);

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un carro nettunico costruito in tal guisa da navigare autonomo e maestoso sui flutti del mare senza l’uso di visibili meccanismi o forze motrici;fu per il re causa d’enorme stupore veder passeggiare sull’acqua la vettura (non nutriamo dubbio alcuno). Pari a una droga era questa sua scienza. Dal cinabro e dal mercurio, da oro e madreperla iacea sgorgare il sangue dei martiri, in colori psichedelici. Alcuni dicono: Conosceva il sistema per rendere dolce l’acqua di mare. Fu dunque un ciarlatano ? Briciole per topi di biblioteca. «Storia della civiltà». Muffa in potpourri. Eppure nella cripta del maestro si erge innanzi a noi una prova: i due scheletri, avviluppati in una rameosa rete d’arterie, cadaveri metallizzati, enigmatici, violetti, preparati fin nei più esili vasi capillari della cornea e dei reni. Unica certezza è che costoro capitarono vivi tra le sue mani. Fu dunque un mostro ? Come un’allegoria di marmo egli si erge, avvolto in una marmorea rete, davanti al suo palazzo. Ma chi è quell’angelo al suo fianco, quel genio con la fiaccola, colui che lo vela o svela, dalla sua follia lo libera o in essa lo attorciglia ? Chi è in questa luce torva e abbagliante il negromante? Chi l’illuso? Chi l’illuminato? Chi l’impostore?

Ignaz Philipp Semmelweis 1818-1865

Da ogni sua parola e suo gesto emanava un’infinita bontà d’animo. La clinica ostetrica di Vienna era allora la più grande del mondo. Qual stupenda occasione ogni mattina potere nell’obitorio sezionare quei freschi cadaveri di donne! Con rara perseveranza perseguiva codeste sue singolari ricerche. Era parecchio calvo, di mentalità infantile e ingenua, e adiposo alquanto. La mortalità, compresa tra il diciotto e il trentasei per cento, impresse nel suo cuore un turbamento inestinguibile. Pure, come un delirio ardeva la ciarda sulle piste da ballo. Lui danzava di gioia, e tre volte per sera, tanto febbrile si sentiva, si cambiava la biancheria. Solo in seguito l’avrebbero afflitto quelle tetre ubbie che rendono l’esistenza si poco invidiabile.

Pareri di clinici illustri sulla genesi della febbre puerperale (a scelta): grumi sanguigni ; tanfi

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acquitrinosi; letali effetti di frutti marci; miasmi; carenti sfiatatoi; prossimità d’obitori e pozzi neri; accumulo di latte ; svariati influssi d’origine cosmica e tellurica. Ovvero un superstizioso farfugliare. Tutto era dubbio, era mistero, salvo il grande numero di morti.

Meditabondo, assistente provvisorio, nato in provincia. Timido per lo più. Eppure a tutte le facoltà di medicina del mondo io dico : Lorsignori insegnano Tenore! E colpa dell’aria appestata, è colpa del veleno necrotico, della purulenta, cancrenosa, tumida piaga, colpa dei putrefatti brandelli di cadavere, delle marcescenti stoffe, delle spugne, della biancheria, dei cucchiai, delle forbici, degli orinali e dei forcipi;

è colpa del dito unto, della penetrante, morturiera mano palpatrice, si, è la mano del medico che uccide ! Basta un’oncia di cloruro di calce, un’oncia sola in un secchio di acqua, per porre fine al veneficio. Sovente osservava quella sua mano vistosamente carnosa e destra, e scoppiava in lagrime, e smarrita la padronanza di se stesso, si vedeva costretto a intenompere la lezione.

Le commissioni si riuniscono, non trovano nulla. C’è chi ride. Prevale l’opinione prevalente.

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In clinica si continua a morire. Le armi dei mafiosi sono settiche: l’untuosa perizia e il secco rescritto, la statistica falsificata, l’ottusa paralizzante omertà. Di codesto massacro Ella, egregio Consigliere, è partecipe! Cosi, dalle ostilità fatteglisi innanzi oltremodo esasperato, egli scrive confuso, offensivo, maldestro, divaga, si ripete, incappa in circoli viziosi: La strage, scrive, deve cessare, e affinché la strage cessi, io farò la guardia. Assassini, scrive (A tutti gli ostetrici!), definisco coloro che infrangono le mie regole, in quanto agiscono alla guisa di criminali. Ovunque vede spie, fantasmi. I suoi amici non lo riconoscono. L’angoscia lo rende obeso, sembra deforme. (Il termine fantasma indica nella scienza medica un artificiale o naturale bacino femminile rivestito in cuoio, utilizzato nell'insegnamento della tecnica operatoria). Per le vie di Budapest affigge manifesti: Vi metto in guardia dai medici!

Contegno infantile, stravaganze: si aggira svestito per la stanza e distratto poggia i piedi sul tavolo,

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dal che il suo stato di ottenebramento si rivelava ormai inconfondibile. Alle sue spalle nel corridoio sghignazzano. Sarà dunque in ogni tempo annoverato tra i massimi benefattori dell’umano genere e deplorata ognora sarà la triste sorte cui era destinato.

Sono le due del pomeriggio. Un’orda di nemici lo insegue. Li vede distintamente, neri come le mosche nelle loro redingote, mentre fugge nella sala d’anatomia. Sulla lastra di marmo un cadavere. Afferra il bisturi, smembra il corpo, lancia la carne, fruga nelle viscere, minaccia, si taglia, lo disarmano, muore dopo tre settimane d’agonia. Ma non fu cosi. Questi sono sogni, esagerazioni! In realtà era una bella e pacifica domenica di luglio ed egli li segui spontaneamente. Solo verso sera oppose resistenza. Sei guardie riuscirono a malapena a tenerlo a freno. Camicia di forza, cella buia. Della ferita settica al dito medio si accorsero troppo tardi. Un’infezione sanguigna: non potè dunque assistere al trionfo della propria dottrina.

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Ugo Cerletti 1877-1963

I.

E mi recai al mattatoio (ed ero Direttore dell’Ist. Neurobiol. di Mi­ lano) e vidi i crani dei maiali tra le pesanti morse di metallo (e il mio stu­ dio in via Savoia) e la leva dell’interruttore (e i miei bronzi antichi sul­ lo scrittoio) e osservai come gli ammali crollassero privi di coscienza e s’irrigidissero (e Prof, di Neuropsichiatria Univ. Bari Univ. Genova Univ. Roma) e come dopo un paio di secondi fossero colti da convul­ sioni (e inventore di un detonatore ad accensione ritardata per l’arti­ glieria e Γ aereonautica) e pensai di disporre qui di un materiale estre­ mamente prezioso per i miei esperimenti (e le mie onorificenze e meda­ glie d’oro) e decisi di identificare la dose la tensione e il metodo adatti a procurare la morte dei maiali (e Près. Soc. It. Psich.) e diedi loro delle scariche elettriche nel cranio da diverse parti (e Membro Onor. della Comm. di Biol, e Med. del C. N. R.) e nel tronco per parecchi minuti (e candidato al Premio Nobel) e mi accorsi che raramente gli animali soccombevano quando la corrente traversava loro la testa (e la mia go­ vernante di casa e il mio accendisigari da tavolo in cristallo di Mura­ no) e che dopo uno spasimo violento giacevano immobili per alcuni mi­ nuti (e Dr. h. c. Sorbonne, Parigi) e che poi si rialzavano con estrema fatica (e Dr. h. c. Rio de Janeiro e San Paolo e Montreal per ricerche d’avanguardia sul gozzo e sul cretinismo) e tentavano infine di scap­ pare II. E avvertii i mìei assistenti di non lasciarsi sfuggire le persone adatte all’ esperimento (e W il Duce) e il 15.4.1938 il prefetto di Roma mi fe­ ce consegnare un individuo da tenere in osservazione (e il Fascismo s’è

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innalzato sopra le spoglie putride della Dea Liberta) e cito ora dalla sua lettera d’accompagnamento (e Italiani! Camerati! Legionari!): «S. E., di professione ingegnere e di anni 39 e fermato alla stazione centrale e sprovvisto di biglietto valido e evidentemente non in possesso delle sue piene facoltà mentali» (e inestinguibili ovazioni) e scelsi questo indivi­ duo per il mio primo esperimento umano

III.

E gli applicai due elettrodi alle tempie (e le principali indicazioni so­ no schizofrenia e paranoia) e decisi di cominciare con una corrente al­ ternata di 80 volt e 0,2 secondi (e alcolismo e tossicomania e depres­ sione e malinconia) e i suoi muscoli s’irrigidirono (e i principali effet­ ti collaterali sono amnesia e nausea e panico) ed egli s’inalberò (e questa è la tipica «posa del burattino» descritta da von Braunmühl) e s’accasciò ma senza perdere conoscenza (e le principali complicazioni sono fratture del femore del braccio della mascella e della colonna vertebrale) e si mise a cantare a voce altissima (e disturbi cardiaci ed emorragie interne) e poi tacque e non si mosse piu

IV.

E naturalmente tutto ciò rappresentava per me un notevole peso emo­ tivo (e secondo Reil [1803] la tortura non dannosa è una necessità per l’arte medica) e conferii con i miei assistenti circa Γopportunità di una pausa (e secondo Squire [1973] si ignora la durata dell’amnesia) e l’uo­ mo ci ascoltò e improvvisamente con voce alta e solenne disse: «Non fa­ telo un’altra volta. E la morte» (e secondo Sogliano [1943] il tratta­ mento può essere ripetuto senza problema alcuno sino a cinque volte nello spazio di dieci minuti) e confesso che il coraggio mi venne meno (e secondo Kalinowski et al. [1946] occorre sempre tener pronti cinture e legacci per i casi in cui il paziente diventa violento e pericoloso) e do­ vetti farmi forza per non cedere a quel sentimento superstizioso (e se­ condo Sakel et al. [1965] manca purtroppo tuttora una giustificazione scientifica dell’elettroshock) e poi presi animo e gli diedi ancora una sca­ rica di no volt

ι8ο

Hans Magnus Enzensberger V.

E da allora nei loro reparti isolati con indosso i loro pigiama si ar­ rampicano sui loro lettini di ferro bianco smaltato (e non potremo mai dimenticare la sua impresa pionieristica) e si beccano un’iniezione e se resistono un’altra iniezione (e Usuo contributo al progresso scientifico) e quattro infermieri afferrano loro mani e piedi (e il suo ardore crea­ tivo) e tappano loro la bocca con un tubo di gomma e calcano le fred­ de placche cromate sulle tempie (e la sua inappagabile sete di sapere) e nei mattatoi non si odono più mugolìi e muggiti e squittii (e il suo au­ tentico umanesimo) e poi il capo dà loro una bella scossa (e una giusti­ ficazione scientifica di tutto ciò manca purtroppo tuttora) e poi vengo­ no meno e poi si ridestano e poi sono obliterati

Wilhelm Reich 1897-1957

Quella volta, nell’estate del ’37, pare fosse stato quasi felice. Notti bianche, in barca nel fiordo di Oslo, oppure insieme a Sigurd a Nie e ad Arnulf nel Teatercafè, davanti all’acquavite dorata: il violinista suonava il Bolero di Ravel, gli avventori bisbigliavano: È lui! Certo che avevano ragione, certo che era matto, uno storpio che si scagliava contro il mondo, si scagliava contro gli amici, costringendoli alla fuga: confessioni, nero su bianco (oh ombra di Stalin) strappava dalle loro bocche (traditori),

e i fogli li chiudeva a chiave nello scrittoio. (Si, possiamo anche chiamarla paranoia). Tra mille anni mi comprenderete. Cosa significa dopotutto: un ribelle ? Avrebbe preferito essere tra coloro che sorridono. Come un bambino che acchiappa una mosca e avvicina al pugno chiuso l’orecchio: ciò che stringeva in mano palpitava e sembrava vivere. Esso guizzava. L’Es. Pure nessuno voleva credergli. Ecco quindi le prove! Contatori Geiger, cronometri, microscopi. Il Faraday dell’orgasmo, un guru, un dilettante, giunse alla seguente diagnosi: È l’amore che provoca ogni cosa, esso è misurabile, di colore azzurro, muove gli astri, le rane, le nubi. (Quel fremito nella sua testa di bambino non scomparve mai.

Una proprietà nella Bucovina. Falò, carrettiere polverose, il rumore delle trebbiatrici. Nella villa, misteri d’alcova, un suicidio nello stagno delle carpe, e poi, per tutta la vita, quel prurito sotto la pelle, l’eczema del ricordo).

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Hans Magnus Enzensberger

Amava l’uniforme verde, galloni e speroni dell’asburgico impero, amava garofani, diplomi, onoranze, il suo camice bianco, si vedeva in sogno incedere attraverso la Porta di Brandeburgo, in trionfo, su un cavallo bianco, al suono dei clarinetti di Ravel. Sotto lo stendardo del marxismo·, quaderni ingialliti. Sul serio lottava contro l’oppressione, fu anche d’aiuto a molti, ma quando sua figlia di due anni intonò O Tannenbaum, la schiaffeggiò e prese a cantare MIntemazionale.

Il seguito fu solo gergo, science-fiction. Bolle vitali contro la peste emotiva. Vegeto-bio-orgon-energetica, ovvero: L’orgasmo è l’orgasmo è l’orgasmo. Le donne rimasero cuoche, dattilografe, cavie. Fuori celluloide, dentro lana di vetro, trucioli di ferro. Prese d’aria nel coperchio. L’accumulatore raccoglie la forza miracolosa, i raggi della salvazione. Eccitati prendono posto ragazze e studenti nel feretro eretto. L’esperimento comincia.

Il polso è più rapido, il termometro sale: una prova! appende ovunque la scritta: It can be done! Le radiazioni dell’amore avviano motori, portano la pioggia e curano tutto: il cancro, la schizofrenia, le tracce della bomba a idrogeno... Poi però muoiono i topi in cantina, sbattendo gli occhi arrossati gli allievi strisciano fuori dalle scatole, e vomitano, chissà perché tutto è andato storto, e quando lui si agita, ricompare l’eczema, e beve smisuratamente, e fuma,

e tossisce, squassato da attacchi cardiaci, mentre le invenzioni gli vengono sottratte, le donne lo tradiscono, e teme incendi, spie, temporali e rapitori. Ridono di lui, lo zittiscono a morte. Di chi la colpa?

E la mafia degli scienziati, è la caccia alle streghe {ciarlatano, pornografo giudeo), sono i bolscevichi, da ogni parte spuntano agenti, è una congiura, si minacciano perquisizioni domiciliari, i libri vengono bruciati: blackout.

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Dal cosmo il nemico sopraggiunge con dischi volanti, i loro scappamenti anneriscono i monti, ammorbano tutto. top secret ! Chiacchiere. Se non intervenisse lui con le sue armi miracolose... La prima battaglia per la conquista dell’universo... Lui, lo scopritore, condotto in manette, rifiuta di fornire qualsiasi informazione. La sua arringa è caotica, s’inceppa, infine ammutolisce. Oh dottor Mabuse ! Oh maniaco della redenzione ! Oh Rosacroce del coito ! Oh venditore ambulante della scienza ! Oh ventriloquo di Cristo !

Oh infermo infermiere deH’umanità! Oh mistico tecnocrate! Oh cabalista da film dell’orrore! Oh rudere di liberatore! Sulla prigione incrociano i bombardieri, stonati, terribilmente stonati suonano presso la tomba i clarinetti, è stato tutto invano.

VI.

Bernardino de Sahagùn 1499-1590

A ottant’anni il lume dei suoi occhi si fiacca. Lettera del Consiglio delle Indie al Viceré. Editto del Consiglio Supremo dell’Inquisizione agli arcivescovi di México e Oaxaca. Trattasi di opere miscredenti e inutili, che distornano dalla fede e la minacciano. I manoscritti vengono dispersi. La scuola decade. Il vaiolo stermina gli Indios. A volte egli stesso si chiede che vita è stata la sua: quella di un corvo sul campo di battaglia, o quella di un custode. A stento va decifrando, su copie illegali, ciò che un tempo i suoi allievi scrivevano e schizzavano. Gli arcaici segni, rigidi ed estranei. Un altro mondo, cristallino come un preparato di resina colata. E le sue labbra articolano a rilento. Legge: II presagio Tu dieci anni prima dello sbarco spagnolo, fu il primo segno. Come una lingua di fuoco fu in cielo, come una fiamma, come faville nel crepuscolo. Ardeva ampia alla base, aguzza in alto. Ogni sera, per un anno intero. E quando appariva, s’udiva un gran clamore, tutti gridavano, tutti si tappavano la bocca con la mano, tutti atterrivano, tremavano, attendevano, temevano. La vita la trascorre domandando. Ammira le macerie. Le vittime del massacro (provetti filosofi

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e astrologò di straordinaria arguzia, eleganti, esperti in ogni sorta d’arte meccanica') s’ingegna a renderle loquaci. Tutto ciò non è che una scienza, rigorosa e novizia. Metodologia non ne esiste. Il primo è lui.

Inventa l’inchiesta: test e questionari, interviste, controllo incrociato, lavoro d’équipe. I suoi alunni se li addestra da sé: glossari, grammatiche e regole di trascrizione. Scala anche i vulcani. Ma non è ciò che vede ad avere valore. Ai superstiti chiede, agli ultimi Aztechi, un monte cos’è? Loro dettano, gli altri scrivono: Il monte E una cosa alta, a punta;sopra appuntita, s’appunta in cima, s’innalza eretta; si fa conica, rotonda; un monte tondo, basso; con tante rocce, roccioso ; erto, ricco di crepe, roccioso; di terra; con alberi ; erboso ; con erbe; con acque; arido; dentato; con gole; con caverne; dentro ci sono gole, blocchi di pietra. Io salgo, io mi arrampico sul monte. Io vivo sul monte. Io sono nato sul monte. Nessuno può diventare monte. Nessuno si tramuta in monte. Infine anche il monte si sbriciola. Nahuatl: ogni cosa ha un gusto diverso, altri colori, nomi, articolazioni. Dal dio del sole al moscerino: un altro mondo. (Cosa significa l’espressione «Un altro mondo» ?) Storia universale delle cose di Nuova Spagna. L’interessa in costoro (e quindi in noialtri) non certo quel che si può paragonare ma tutto ciò che egli non comprende. Una scienza che considera gli esseri umani come Qualcosa d’Altro. E questo incomprensibile che atterrisce e al tempo stesso è l’unica speranza.

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Il primo antropologo ha una paura infernale di quelli che interroga, dei loro (e nostri) sacrifici, bugie, idolatrie. Per trecent’anni il suo lavoro giace proibito e muffo nel buio dell’archivio.

La caverna Li si allarga, li si allunga e sprofonda, si apre, si restringe. E un posto stretto, un posto di ristrettezza. Li è impervio, scabro. E un posto terribile, un posto di morte, un posto di buio. Li si rabbuia, si oscura. La sua bocca è spalancata, la sua gola. È una gola vasta, una gola stretta. Prendo domicilio nella caverna. Entro. Ci sono. Sono nella caverna.

Quando approdò, giovanissimo frate questuante, cappuccio bruno e cordone bianco, a Veracruz, il bagno di sangue c’era già stato. Ora tutto giace in terra sparpagliato e non ν’è cosa eretta. Smantellate le piramidi, devastati gli acquedotti, è impossibile poggiar piede su terra messicana senza calpestare degli indigeni i cadaveri. Il massacro è di «per sé comprensibile». Va dedotto, nel suo complesso, di tutto punto, dalla seconda natura, dall’avidità e lo zelo, mediati, non vi pare, ci capiamo credo fin troppo bene, dalla condizione di classe e dall’economia. Qualora l’espressione «Un altro mondo» significhi qualcosa, significa un qualcosa che non possiamo dedurre.

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Thomas Robert Malthus 1766-1834

Chi non mangia da molto tempo, è troppo debole, per parlare, fruga tra i rifiuti, non poeta. Ciò che sappiamo della fame, proviene dalla bocca dei sazi; quindi, molto non è. Mai fu uomo più lieto·, d’estate barca a remi, d’inverno coi pattini sullo stagno paesano. In cinquantanni non una sola volta lo vidi perdere la calma.

Paffuto, indolente, contraddisse con voce ferma la felicità. La sua felicità? La felicità. Non era più un’zdea nuova in Europa : guerre non ve ne saranno piu, niente crimini, niente giurisdizione, niente governi; inoltre non vi sarà né malattia né dolore, né malinconia né rancore. Risposta: quella padronanza sul mio intelletto, che mi avrebbe consentito, senza evidenza alcuna, di credere in ciò che desideravo, non l’ho mai raggiunta. (Saggio sul Principio della Popolazione in riferimento a ogni futuro miglioramento della Società con alcune note circa le Speculazioni dei Signori Godwin e Condorcet) Dolce di carattere, tenero di cuore. Genio e sregolatezza non erano cosa sua. Viveva onestamente della sua sinecura, ma il trattato di Süßmilch Dell’Ordine Divino nelle Trasformazioni del Genere Emano non lo tranquillizzò. Prese a compulsare annuari statistici, abbandonò la canonica, parti per la Russia e altre destinazioni. Tutta l’Europa atterri al risultato. Monotone affermazioni: questa infinita sequela di comuni malattie ed epidemie, di carestie, pestilenze, sommosse e cataclismi.

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Il pastore delle anime pie di Albury s’infervora e si sdegna dei godimenti lussuriosi, degli artifici contro natura, delle passioni perverse-, eppure il suo trattato è il primo a calcolare la naturale violenza insita negli uteri e nei testicoli, cosi come il fisico studia velocità e portata di un proiettile in ambienti di diversa densità·, tutto ciò è necessariamente cosi e non muterà mai.

Svergognato sicofante della classe al potere, ignominiosa, infame dottrina, cinismo, orrida blasfemia-, facile a dirsi, ma oggi come allora il tempo di duplicazione si aggira sui trent’anni, oggi come allora vale: Pt = Poert.

Ammettiamo pure che i suoi calcoli fossero troppo approssimativi. Una cosa però sapeva: tutto cresce, aumenta, sempre più. Anche la crescita cresce, anche la fame cresce, anche la paura. Con le sue gote rosate sedeva, fregandosi le mani, davanti a una tazza di tè, facendosi porgere i suoi muffin da una rosea signora, sempre la stessa, che egli, modesto e ritroso, amava una volta al mese: un impavido cuor di coniglio, un simulatore che, per un’intera vita, finse di essere sano. Tra i profeti della catastrofe, mai fu uomo piu. lieto.

Alexander von Humboldt 1769-1859

Fuori, oleografiche e cerulee, le remote vette, le palme, gli ignudi selvaggi; dentro, nell’ombra della frondosa capanna, pareti addobbate di pelli e felci giganti, un ara dalle piume variopinte seduto sul basto, sullo sfondo il compagno con in mano un bocciuolo e una lente d’ingrandimento, sulle casse di libri profuse orchidee, sul tavolo affastellati, diospiri, carte geografiche, strumenti: l’orizzonte artificiale, la bussola, il microscopio, il teodolite, e in tutto il suo splendore d’ottone, il sestante dalla scala d’argento; al centro, radioso, sulla sua sedia pieghevole, il festeggiato geognosta seduto nel suo laboratorio, nella giungla, oleografica, sulle sponde dell’Orinoco. Come neve fonde la terra incognita sotto al suo sguardo. Sugli ultimi ghiacciai, sugli ermi crinali, lancia la sua rete di curve e coordinate. Misura la declinazione magnetica, l’azimut solare, la salinità e l’azzurrità del cielo. Increduli gli indigeni stanno a guardare. Che gente straordinaria è questa, che percorre il mondo alla ricerca di piante e delfieno altrui, da confrontare con il proprio fieno ! Perché Vi lasciate divorare dai flebotomi, allo scopo di misurare una terra, che a Voi non appartiene? Stranieri sono, eretici e matti. Imperturbabile comunque, come il chierico l’incensiere, dondola l’esploratore la sua bottiglia di Leida. Nato al lume della cometa di Messier, galvanizza le rane, appone a se stesso gli elettrodi ed espone le sue Supposizioni circa l’eccitazione delle fibre nervose e muscolari. Poi va a caccia

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di tempeste magnetiche in Amazzonia e di aurore boreali in Siberia: cavalca piroghe, slitte e vaporiere, amache e diligenze. Diagramma interi paesi come fossero miniere. Per i crateri ardenti, che appassionatamente scala, misura e palpeggia, nutre, vulcanista e vulcanologo, un’autentica mania. Isolato e impaurito rimembra i fanciulli che gli piacquero. Per lo più erano miti e miseri. Ma lui li incoraggiava e taceva. Le tormentose notti le trascorreva scrivendo. Svariate osservazioni sul basalto. Sulle foreste di cincona. Memoria sulle correnti marittime. Sugli aborigeni d’America e i loro monumenti tuttora superstiti. Conferenze su... Contributi a... Aforismi da... e Vedute di... Annuncio provvisorio di una capsula di salvataggio. Sui limiti inferiori delle nevi eterne. Delle temperature reperite in diverse regioni della zona torrida a livello del mare. A proposito di pesci elettrici. Quest’uomo è una completa, semovente accademia. Sale fino ai più alti strati dell’aria, e poi s’inabissa, in una campana di ferro, con un folle britannico di nome Brunel, fino a toccare il fondo del Tamigi.

L’ho sempre ammirato; oggi lo idolatro. Perché nessuno come lui sa esprimere le sensazioni che i primi passi sulla terra dei tropici suscitano nell’anima. Più tardi tuttavia, dopo colazione, Darwin si disse alquanto deluso: l’ho trovato assai allegro, ma troppo ciarliero. In verità, su cosa poggi la sua grandezza, è poco chiaro. Dormiva solo tre o quattro ore, era vanesio, entusiasta, inoffensivo, perennemente occupato. Squisito ballerino, dal minuetto all’animalito. Marsina blu, bottoni dorati, un gilè giallo, calzoni a righe, foulard bianco, cappello nero e logoro : Usuo guardaroba era rimasto fermo ai tempi del Direttorio. Allora era una celebrità: Difficilmente l’apparizione di un privato riuscì a suscitare tanto scalpore. Parigi è in sospeso: la nuova classe non si fida ancora della propria vittoria. Illusorio dopo il Terrore sboccia un classicistico candore, prima che il ferigno ruggito del broker riempia la Borsa di frenesia, di alti e bassi, e che un aperto, svergognato, diretto, arìdo sfruttamento infesti il pianeta... Un momento di chiarezza, pulito e omogeneo. La borghesia si dà per esemplare e distaccata

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come il metro campione, alla cui determinazione anche il nostro eroe porta il suo obolo percorrendo, con i ferri del mestiere, il meridiano Dunkerque-Barcellona. (Come sempre paga i costi di propria tasca). Poi vinse la reazione. Ritorno alla tedesca miseria. Cameriere segreto, lettore, ossia lacchè alla corte di Potsdam. Si rinchiuse a Berlino, una città piccola, spiritualmente desolata, meschina e maligna. In questo deserto di sabbia pieno di poliziotti, pensava sovente ai tropici. Cos’avevano di si seducente ? A che pro sopportare tanto: insetti, liane, pioggia, umidità e gli sguardi infastiditi degli indiani? Non per via dello stagno, della juta, del caucciù, del rame. Lui era un sano, che inconsapevole con sé trascinava la malattia, un disinteressato ambasciatore del saccheggio, un mero corriere, che non capiva di essere venuto ad annunciare la distruzione di tutto ciò che nei suoi Ritratti della natura, fino all’età di novant’anni, appassionatamente dipinse.

Comunità di ricerca

O profeti che le spalle al mare volgete, che volgete le spalle al presente, o pacati stregoni che guardate al futuro, o sciamani poggiati ancora e sempre al parapetto basta un tascabile sfogliato per caso per capire che tipi siete ! Leggere i segni nelle ossa, nelle stelle, nei cocci, per il benessere della comunità, leggere nelle budella ciò che è stato e ciò che ci attende o Scienza! che tu sia benedetta, benedetto il tuo piccolo lumino, un po’ bluff un po’ statistica: indici di mortalità, tetti monetari, crescente entropia...

Fate pure! Queste illuminazioni sulfuree sono meglio di niente, ci intrattengono nella caligine del pomeriggio estivo: rotoli di carta freschi dal computer, campioni da laboratorio, scavi, pronostici secondo il metodo di Delfo - bravi ! Benedetto sia il provvisorio ! Provvisoriamente c’è ancora dell’acqua potabile, provvisoriamente la pelle respira e ascolta, la tua pelle, la mia - persino la vostra, legnosi negromanti, respira ancora, noncurante del concorso di ruolo, delle note a piè pagina e della piramide degli impieghi

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provvisoriamente la fine («un’incessante catastrofe naturale minutamente disseminata») non è ancora definitiva - è un fatto confortante Perciò nel fine settimana, cari complici, - davanti alla Terranova sporadici iceberg, sull’Europa centrale temporali estivi, sulfureo il nebuloso orizzonte com’è bello scappar fuori dagli istituti! Un po’ di vita nel fine settimana, per quel che può voler dire, provvisoriamente beninteso, e senza valore prognostico.

O voi eternamente assetati di conoscenza, mi fate pena quando poi vi vedo nella dacia, nel casale irlandese, a Curzola, volgere le spalle al mare e pacati disinnestare i cervelli - possa in ogni caso la fiaccola non spegnersi durante il ping-pong ! Continuate pure cosi! Io vi benedico.

Discipline filosofiche

Che siamo in gamba è pura verità. Ma lungi dal cambiare il mondo, facciamo apparire sul podio conigli dal nostro cervello, conigli e colombe, sciami di colombe candide che assidue cacano sui libri. Che la ragione è ragione e non ragione, per intender ciò non è necessario essere Hegel, è sufficiente uno sguardo allo specchietto. Ci mostra cinti di mantelline azzurre a godè, tempestate di stelle d’argento, con in testa un cappello a punta. Ci raduniamo in cantina, tra schede ormai archiviate, per il congresso hegeliano, tiriamo fuori le nostre sfere di cristallo, gli oroscopi, e ci mettiamo al lavoro. Perizie sappiamo brandire, pendolini, relazioni; facciamo girare i tavoli, ci interroghiamo: in quale misura è reale ciò che è reale ? Compiaciuto sogghigna Hegel. Gli dipingiamo un paio di baffi. Già somiglia a Stalin. Il Congresso danza. Non c’è un vulcano a perdita di vista. Discrete le guardie montano la guardia. Con tutta calma estrae il nostro apparato fisico, come bastoni dal sacco, frasi che colpiscono nel vivo, e noi ci diciamo: nell’animo di ogni poliziotto si nasconde un angelo custode dietro al quale si nasconde un poliziotto. Abracadabra! Spieghiamo, come un enorme fazzoletto, la teoria, mentre davanti all’istituto asserragliato i signori in trench-coat aspettano composti.

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Fumano, non utilizzano l’arma di servizio e sorvegliano i posti in organico, i fiori di carta e la candida sconfinata coltre d’escrementi di colombo.

Lo studioso del Rinascimento

Un astrologo di stelle spente. Sotto il paralume verde a Princeton, New Jersey, scrive il seguito di codici perduti, prudente come una spia, all’erta come un falsario. Come un amante eccitato si accomoda, da dentro, a contatto di pelle, nel guanto caldo della tradizione, nella corteccia di cervelli morti.

Il suo latino non fatica a tener botta in conviti che durano notti a Firenze e Bologna fra pittori, matematici, cardinali, immersi in conversari saturnini. Poi spegne la luce, apre la barriera magnetica e va sul freeway verso casa nel bagliore dei vapori di sodio dei fanali a elle.

La pasta sfoglia del tempo.

Una meditazione sull’anacronismo

Il mondo non è che una continua altalena. Tutte le cose oscillano senza posa. Non descrivo l’essere. De­ scrivo il passaggio. E una registrazione di diversi e mutevoli eventi e di idee incerte e talvolta contrarie. Non soltanto il vento delle circostanze mi agita secondo la sua direzione, ma in più mi agito e mi turbo io stesso per l’instabilità della mia posizione; e, a guardar bene, non ci troviamo mai due volte nella stessa condizione. MICHEL DE MONTAIGNE

Il progresso, di per sé, ha conosciuto certamente tempi miglio­ ri; tuttavia al plurale continua, più che mai, a prosperare. Fra i suoi profeti non troviamo soltanto agenti dei media e del settore pub­ blicitario. Esso gode di costante considerazione anche fra scienziati ed economisti, fra tecnici e medici. Procede a piccoli passi ma avan­ za sempre più rapidamente in tutte le direzioni: un processo che nessuno osa controllare e tanto meno mettere seriamente in dub­ bio. Mentre le vecchie avanguardie politiche e artistiche si sono ormai congedate, gli avventisti della tecnica, del tutto indifferenti di fron­ te alle catastrofi del xx secolo, si lasciano andare senza alcun ritegno ai loro sogni utopistici. Il loro isterico ottimismo non conosce limiti, neppure quello dell’autoconservazione. Le loro visioni, infatti, non mirano più al solo miglioramento della specie umana, bensì alla sua autodistruzione, e questo a vantaggio di prodotti che dovrebbero, co­ si credono, essere di gran lunga superiori a ogni organismo vivente. Questo gaio masochismo ricorda i tempi in cui l’Atomium di Bruxel­ les pareva inaugurare un futuro radioso. Tuttavia i fondamentalisti della modernità non sono soli al mon­ do. Lontano da queste sette radicali si diffonde un senso di disagio. Non solo i perdenti nella sfida del progresso, ma anche i più accorti

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fra i funzionari del mondo economico guardano al processo della glo­ balizzazione tecnica con sentimenti a dir poco contrastanti. E la ragione è molto semplice. Con l’aumento della velocità, infat­ ti, si moltiplicano anche le non-contemporaneità. L’avanzare freneti­ co delle varie forme di progresso crea, giorno dopo giorno, una schie­ ra sempre più folta di ritardatari. La maggioranza se l’è ormai lasciata alle spalle. Ma non si tratta più, come ai tempi della modernità eroica, dell’ottusa maggioranza di «eterni passatisti», intenta a negare la sua adesione a una qualche avanguardia autoproclamatasi tale. Distinzio­ ni di questo tipo non servono più a niente. Perché anche i rappresen­ tanti dei trend più moderni sono soliti cadere in contraddizioni quan­ to mai strane. Lo specialista della teoria dei sistemi sceglie di abitare in una casa vecchia. L’esperto di armamenti ama soprattutto andare al­ l’opera. La militante decostruttivista soffre di mal d’amore e il chipdesigner scopre di avere un debole per la filosofia buddhista. Natural­ mente potremmo liquidare queste tendenze considerandole mere com­ pensazioni, increspature superficiali. Ma questa tesi viene smentita dal fatto che i «residui del passato» paiono proliferare in modo altrettan­ to incontrollabile quanto i progressi della tecnica. Contro ogni volere degli interessati e senza alcun riguardo per le loro preferenze ideologi­ che, il vecchio rinnegato trova espressione in una quantità di sintomi somatici, psichici e culturali. E da questo possiamo trarre un’unica con­ clusione: l’epoca in cui era ancora possibile credere che una vita al pas­ so con i tempi fosse comunque vivibile è evidentemente finita. Il tanto discusso postmoderno fu uno dei sintomi citati e tuttavia non è stato in grado di comprendere la dinamica profonda propria della non-contemporaneità. Già la formula con la quale è entrato in scena mostra quanto sia rimasto vincolato al pensiero sequenziale: ovvero a quello schema secondo il quale un’epoca - o un episodio succede a un’altra sostituendosi a essa, per poi, come su una catena di montaggio, far posto quanto prima a quella successiva. É in que­ sto concetto straordinariamente semplice che sopravvive il dogma centrale della modernità, un dogma che è riuscito a superare tutti gli sconvolgimenti e i dubbi interiori del secolo. E difficile stabilire come e quando questa idea della successione si sia affermata nel pensiero storico-filosofico. La famosa querelle des anciens et des modernes del 1687 potrebbe forse valere come punto di riferimento. La controversia fra epoca antica e moderna si è amplia-

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ta sempre piu finché lo scontro fra il tramandato da una parte, e il nuovo e rivoluzionario dall’altra, fra tradizione e modernità, è dive­ nuto un fenomeno del tutto ovvio, un aut aut destinato a intrapren­ dere, dapprima in ambito culturale, ma assai presto anche in quello politico, una lunga carriera che perdura tutt’oggi. L’efficacia di tale modello doveva essere indubbiamente allettan­ te; perché da questo momento in poi ogni singolo individuo si trovò a compiere una semplice scelta. Non doveva fare altro che sostenere una delle due parti, Vancien régime o la rivoluzione, la tradizione o il progresso, l’Uomo Vecchio o l’Uomo Nuovo, la destra o la sinistra, che già si era conquistato quel che viene definito una Weltanschauung o un punto di vista ben fondato. Intere schiere di ingegni hanno esau­ rito ogni loro energia affrontando tali opposizioni; ma non solo: mi­ lioni e milioni di individui hanno pagato la loro scelta con la vita. L’al­ ternativa di fronte alla quale si trovava l’umanità era di una sempli­ cità disarmante. Il disordine del mondo era stato ridotto a uno schema binario. Pareva esistessero soltanto due opzioni, non di più: ogni sin­ golo individuo, da quel momento in poi, o era in testa o era in coda.

«Cos’è il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; quando invece devo spiegarlo, non lo so più». Come Sant’Agostino, cosi tutti i fi­ losofi si sono scervellati sul significato del tempo, dilungandosi in elu­ cubrazioni infinite alle quali, ultimamente, partecipano anche astro­ fisici e cosmologi. Ma per quanto le loro teorie siano, per la maggior parte, acute e complesse, non sono tuttavia riuscite a confutare la più banale delle concezioni del tempo. Essa allinea tutto quel che è ac­ caduto, accade o accadrà lungo un rettilineo e considera il presente come un punto vagante che separa nettamente il passato dal futuro. E una teoria di una semplicità quasi invidiabile che sfocia direttamente in tautologie del tipo: quel che è stato è stato. Chi condivide una tale concezione dovrà comunque capitolare già di fronte alla que­ stione della possibilità del ricordo; e a maggior ragione lo sconvolgerà la non-contemporaneità del presente. L’anacronismo, se vogliamo attenerci ai nostri vocabolari e dizio­ nari, rappresenta una «violazione del corso del tempo, della sua suc­ cessione cronologica», l’«errato ordinamento temporale di pensieri, fatti e persone», oppure, per dirlo in termini ancora più convincenti, e in inglese: «anything done or existing out of date, hence, anything which was proper to a former age, but is out of harmony with the pre-

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sent». Il leggero tono di critica, per non dire di accusa, che traspare da queste parole, è evidente. Povero chi, senza rendersene conto, si azzarda a violare il corso del tempo, a inserire le sue idee nella pro­ spettiva sbagliata o addirittura ad agire o pensare in termini out of date, e quindi in contrasto con il presente. Un tale atteggiamento tur­ ba in modo intollerabile l’armonia dei tempi moderni. In questo modo si converte, del tutto innocentemente, in legge obiettiva una delle ossessioni della modernità. E per colui che se ne fa portavoce, la sottomissione a una certa data deve essere diventata a tal punto una seconda natura che non l’avverte nemmeno più. Pare non riesca a formulare il minimo pensiero né intraprendere alcunché senza aver prima dato un’occhiata al calendario per verificare quali siano i trend «del momento». Se questi zombi esistano davvero in car­ ne e ossa è comunque tutto da verificare. Da quando le avanguardie storiche hanno perso d’attualità, anche al di fuori dell’ambito politi­ co, gli ultimi a volerci persuadere che esiste una vita in perfetta si­ multaneità con il segnale orario trasmesso dalle stazioni radio a mo­ dulazione di frequenza e dal segnale radio DCF77 di Brunswick, sono probabilmente disc-jockey, riviste patinate e manager multimedia. Tutto ciò fallisce già per una questione ineluttabile. E quasi imba­ razzante citarla. Le origini del nostro codice genetico risalgono a milio­ ni e miliardi di anni fa; soltanto una parte minimale è dovuta aU’ominazione, che è un’evoluzione comparativamente tarda. Il nostro strumen­ tario somatico e psichico, per non parlare del sostrato di ciò che determina la nostra coscienza, è quindi inesorabilmente vecchio. Altrettanto stra­ tificata risulta l’evoluzione culturale; e anche in questo caso il patrimo­ nio piu recente svolge un ruolo relativamente secondario. La «violazio­ ne del corso del tempo», rinnegata dal discorso della modernità, non co­ stituisce quindi un’eccezione, bensì la regola. Ciò che di volta in volta rappresenta il nuovo, è solo un sottile strato che galleggia su inson­ dabili abissi di possibilità latenti. L’anacronismo non è quindi un er­ rore evitabile, bensì una condizione essenziale dell’esistenza umana.

Si prenda un pezzo di pasta per dolci di forma quadrata, si pren­ da un matterello e si lavori la pasta fino a ridurla alla metà della sua altezza iniziale e al doppio della sua larghezza. Si tagli poi a metà il rettangolo ottenuto e si disponga la parte destra su quella sinistra. E ora si ricominci daccapo, stendendo la pasta una seconda vol­ ta, dividendola in due parti e sovrapponendo di nuovo queste ulti-

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me. Si otterrà cosi un terzo quadrato, grande come quello iniziale. Soltanto che ora è costituito da quattro strisce orizzontali.

Questa operazione può essere ripetuta all’infinito. Ha un bel no­ me scientifico. Viene definita la «trasformazione del fornaio» e il suo risultato è una pasta sfoglia di qualità davvero speciale. A ogni nuovo passo la struttura iniziale si fa più complessa. Al de­ cimo, la pasta ha raggiunto l’altezza di due alla decima sfoglie, e al ventesimo si arriva a ben 1048576 strati sottilissimi. Ovviamente, a questo punto, qualsiasi pasticcere più o meno esper­ to obietterà che è impossibile mettere in forno una pasta bidimensio­ nale. Una difficoltà, questa, facilmente superabile. Dovremmo soltan­ to sostituire il quadrato con un cubo e il tutto si presenterebbe cosi:

Le caratteristiche topologiche della trasformazione, che risulta possibile anche in qualsiasi dimensione superiore, non cambierebbe­ ro; per questioni di semplicità ci soffermeremo quindi sul quadrato bidimensionale.

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E se questo modello matematico - inizialmente solo per curiosii a e, perché no, per divertimento - lo applicassimo al tempo, o meglio, in termini piu precisi e più modesti, al tempo storico, ponendolo co­ me alternativa al modello lineare stabilito dalla fisica classica? Non ci resta che provare. La struttura a pasta sfoglia rivela alcune carat­ teristiche sorprendenti, irriconoscibili a prima vista. Come si com­ porta un qualsiasi punto x sul quadrato originario, se applichiamo sul­ la pasta la «trasformazione del fornaio»? Questo punto A, che può essere un granello di zucchero o un’uvetta, si sposta qua e là trac­ ciando percorsi bizzarri, per esempio cosi:

A„ = (0,840675437; 0,840675437)

Un secondo punto B, vicinissimo ad A, si allontana velocemente da quest’ultimo e inizia un percorso completamente diverso.

B„ = (0,846704216; 0,846704216)

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Entrambe le traiettorie paiono del tutto casuali, sebbene siano il risultato di un rigoroso processo deterministico. E conoscendo tutti i dati relativi alla situazione di partenza è senz’altro possibile calco­ lare il loro movimento. Ma visto che siamo abituati a utilizzare il sistema decimale, e non quello binario, sarà più semplice per noi, invece che dimezzare la pa­ sta, suddividerla di volta in volta in dieci strati, da ciascuno dei qua­ li ricaveremo poi il rispettivo quadrato. Se ora stabiliamo che il lato della superficie iniziale corrisponda a I, possiamo definire ogni suo punto tramite due frazioni decimali: la prima di queste coordinate indicherà la distanza dal lato sinistro e la seconda quella dalla base. Un semplice trucco ci permette ora di mettere da parte il matte­ rello e di simulare con una semplice calcolatrice tascabile i bizzarri salti compiuti dai punti A, B, C... Il primo punto Ao lo definiremo con l’aiuto di un meccanismo pro­ babilistico; generando due numeri casuali otteniamo ad esempio i se­ guenti valori: 719260839 e 061492. Dalle rispettive frazioni decimali ricaveremo poi le coordinate di Ao, e cioè: 0,719260839 e 0,061492... E una cosa da nulla, sulla base di queste cifre, calcolare poi i suc­ cessivi movimenti compiuti dal punto prefissato Ao, a ogni nuovo stadio della «trasformazione del fornaio». A tal scopo dobbiamo solamente togliere, di volta in volta, la prima cifra decimale dal primo numero e inserirla, nel posto analogo, nel secondo. In tal modo otterremo tutte le posizioni consecutive di: 0,719260839 ... 0,19260839 ... 0,9260839 ... 0,260839 ... 0,60839 ··· 0,0839 ··· 0,839 ···

0,39 ■··

0,061492 ... 0,7061492 ... 0,17061492 ... 0,917061492 ... 0,291706149 ... 0,629170614 ... 0,062917061 ... 0,806291706 ...

(Ao) (At) (A2)

(A3) (A4) (a5) (A6)

(A7)

(I matematici chiamano questo trucco «trasformazione di Ber­ noulli», dal famoso scienziato svizzero che l’ha inventata). Sulla su­

Gli elisir della scienza

207

perficie del quadrato, il percorso descritto dal punto A si presenta quindi cosi:

e:

.... 1... .... ....

... ... ... .... ... ... ...qX sUv ... ... 1: ... ... ... t... .....Ls : 1 1 i

... ... ... .....

*A0

A„ = (0,719260839; 0,06x492)

Conoscendo le coordinate iniziali con sufficiente esattezza (sia che si tratti di frazioni periodiche oppure che il numero casuale presen­ ti, dopo la virgola, numerose cifre), possiamo continuare questo gio­ co all’infinito, e cioè prevedere tutti i futuri movimenti dei punti A, B, C... Ma cosa accade se conosciamo soltanto una delle sue coordinate, se le informazioni di cui disponiamo sono quindi incomplete ? In que­ sto caso la traiettoria, come negli esempi seguenti, si presenta arbi­ traria e al posto di un processo calcolabile, subentra il caso. Diventa allora impossibile, per l’osservatore, prevedere i movimenti compiu-

2o8

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ti dai singoli punti sul quadrato iniziale. (Lo stesso paradosso si pro­ pone già nel corso dei calcoli compiuti dal meccanismo probabilisti­ co che ha fornito i valori iniziali; anche quest’ultimo, infatti, opera sulla base di un programma strettamente definito e produce, ciono­ nostante, valori imprevedibili). Matematici quali George Birkhoff, Vladimir Arnol'd e Stephen Smale hanno dimostrato che il «gioco della pasta sfoglia» non è un semplice divertimento, bensì un procedimento grazie al quale si pos­ sono riprodurre numerosi processi reali, ad esempio nel campo della meccanica celeste, della fisica delle transizioni di fase, della dinami­ ca dei fluidi e della meccanica quantistica. Forse potrebbe essere applicato anche alla struttura del tempo sto­ rico, alle sue stratificazioni e pieghe, alla sua irritante topologia. An­ che in questo caso, partendo da un passato inteso in termini lineari, non siamo in grado di trarre conclusioni sul futuro. Sappiamo per esperienza che gli effetti delle nostre azioni, a parte i nostri passi più immediati, rimangono a noi sconosciuti. L’estrapolazione fallisce. La futurologia interpreta i fondi del caffè. Prognosi congiunturali e fi­ nanziarie a lunga scadenza si rendono puntualmente ridicole quanto i responsi profetici pronunciati dagli uomini politici. Come nell’ambito della fisica, l’impossibilità di fare previsioni at­ tendibili non annulla comunque la causalità. Anche ciò che è impre­ vedibile risulta predeterminato; soltanto che noi, non solo a causa di una trasmissione del sapere inevitabilmente carente, ma anche per questioni di principio, non possediamo mai una conoscenza comple­ ta di tutte le possibili premesse.

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1

... ...

Bo

... *

.

.... :...... i .....:..... : ,....i....

....

... ... ... .....

:

/T

...

;

...

: .... 1.....

B„ = (0,628313499; 0,912880)

L’uomo contemporaneo, ormai un veterano in fatto di moderniz­ zazione, rimane sbalordito. C’è sempre qualcuno che turba l’armo­ nia del presente, l’accordo perfetto della contemporaneità. Intere so­ cietà si mostrano davvero cocciute. Molti paesi, invece di procedere sull’unica possibile via di sviluppo, si rifiutano di seguire le tenden­ ze dettate dal presente nonché i consigli suggeriti dal Fondo mone­ tario internazionale. Sottosviluppati, come purtroppo sono, non vo­ gliono proprio capire che per loro raggiungere lo standard degli Sta­ ti Uniti non è altro che una questione di tempo. Minoranze dalle vedute quanto mai limitate si ostinano, in tutti i continenti, a segui­ re ideologie anacronistiche. Menti incorreggibili, per giustificare le loro rivendicazioni, si richiamano a battaglie combattute diversi se­ coli fa e radunano centinaia di migliaia di proseliti intorno a vessilli dalle parvenze medioevali. Nessuna conquista dell’età moderna è esente dal pericolo di potere, improvvisamente, dissolversi nel nulla; vi sono territori nei quali è scomparso addirittura lo Stato quale quin­ tessenza dell’ordine. Persino sul comuniSmo non è ancora stata det­ ta l’ultima parola. Certo, lo slogan del pattume della storia, nel qua­ le i suoi sostenitori intendevano relegare gli avversari, si rivolge ora contro gli stessi comunisti; sono loro, ormai, a essere considerati dei ritardatari senza speranza, e non piu dei precursori; tuttavia non è detto che la situazione non cambi. Ma il distacco da consuetudini obsolete non ha fatto grandi pas­ si nemmeno nel cuore delle metropoli. Torna a diffondersi la super­ stizione, da tempo ormai smascherata e smentita, come se l’Illumi-

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nismo non fosse mai esistito. Quanto era stato liquidato celebra il suo ritorno, nel piccolo e nel grande, in modi apparentemente scon­ nessi. E cosi, mobili che fino a poco tempo prima sarebbero finiti nella spazzatura, sono in vendita in costosi negozi d’antiquariato. I canti gregoriani, che i più, appena vent’anni fa, avrebbero disde­ gnato con un’alzata di spalle, compaiono ora nelle hit-parade del­ l’industria discografica. Non vi è quasi nessun soggetto, per quanto isolato e screditato, che non venga prima o poi presentato al ballo in maschera della cultura, avvolto nella lucentezza abbagliante dell’ul­ timissima novità. In breve, la «violazione del corso del tempo, del­ la sua successione cronologica», non è un inconveniente evitabile, bensì un dato di fatto ineluttabile. Se accanto alla concezione lineare del tempo, come viene conce­ pito dalla fisica classica, riusciamo a immaginare una struttura del tempo storico complementare, ci risulterà forse più facile compren­ dere gli scarti della storia. La memoria, nella pasta sfoglia, non rap­ presenta una linea continua; è discreta. L’impasto, secondo il modello previsto dalla «trasformazione del fornaio», si dissolve in un nume­ ro infinito di punti saltellanti che, in modo del tutto imprevedibile, si allontanano l’uno dall’altro per tornare poi, nessuno sa quando né per quali vie traverse, nuovamente a incontrarsi. In questa maniera si giunge a una serie incommensurabile di contatti fra stratificazioni storiche diverse. Ma dal momento che si tratta di un sistema dinamico, non po­ trà mai ripetersi una situazione del tutto identica. Il punto saitei-

Gli elisir della scienza

2rI

lante non tornerà mai, o soltanto nel più improbabile dei casi, esat tamente nella stessa posizione, ma si allontanerà quasi sempre, al­ meno in termini infinitesimali, da quella iniziale. Inoltre finirà sein pre in un ambiente trasformato. L’incontro fra diverse stratifica­ zioni storiche non porta quindi al ritorno dell’uguale, bensì a una interazione reciproca dalla quale, puntualmente e da entrambe le parti, scaturisce qualcosa di nuovo. In questo senso, quindi, non è solo il futuro a essere imprevedibile. Anche il passato è soggetto a un continuo mutamento. Agli occhi di un osservatore che non di­ spone di una visione d’insieme dell’intero sistema, esso si trasfor ma incessantemente. Chi considera plausibile questo modello, nell’anacronismo non ve­ drà più un motivo di scandalo, bensì il momento essenziale di un mon­ do proteiforme. E invece di negarlo, troverà più conveniente fare i conti con la sua realtà e, dove possibile, renderlo produttivo a pro­ prio vantaggio. In ogni caso non si lascerà illudere dal fatto che, per sfuggire alle pieghettature della struttura del tempo, possa bastare un semplice sforzo di volontà. Dipende proprio dalla complessità di questa struttura se ogni gior­ no, sia nel bene che nel male, ci sorprende con ricadute ed eventi ina­ spettati, e se la storia, prima o poi, ha semplicemente sabotato tutti i progetti lineari, progressisti o conservatori che fossero. E ancora: nessun reazionario è mai riuscito a ricondurre il mondo allo stato, più o meno immaginario, di un qualche bel tempo antico, né rivoluzioni politiche, tecniche o culturali hanno eliminato una volta per tutte i potenziali pericoli nascosti nella mostruosa pasta del tempo. E sono soprattutto gli ingegneri del corpo e dell’anima a soffrire maggior­ mente per questo atteggiamento renitente della realtà: il mutuo scam­ bio fra epoche diverse rappresenta per costoro solo una sorta di ot­ tusa opposizione alle loro univoche visioni. Al pensiero lineare, tut­ tavia, non sono legati solo gli spiriti riformatori, irrimediabilmente ottimisti rispetto al futuro, ma anche i loro avversari, che operano utilizzando previsioni speculari. Anche gli apocalittici, infatti, credono a un futuro chiaramente definibile, che non prevede alcun genere di rotta a zig zag né ammette fenomeni di non-contemporaneità. Il loro pessimismo è altrettanto ottuso e privo di fantasia quanto l’ottimismo che caratterizza la I azione del progresso inarrestabile.

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Nessun modello formale può dare risposta all’interrogativo di co­ me si manifesti l’interazione fra le diverse stratificazioni del tempo storico e di quali trasformazioni produca l’anacronismo. Quando si tratta di questioni di contenuto, la trasformazione di Bernoulli vie­ ne meno e non abbiamo altra risorsa che l’esperienza. Una serie di esempi, di dimensioni sia microscopiche che macro­ scopiche, potrebbe forse fornirci, se non una risposta complessiva, almeno un primo indizio. Alcuni di essi, in fondo, sono oggetto tan­ to di studi approfonditi quanto di feroci controversie. La forma più celebre dell’anacronismo è rappresentata dal Rina­ scimento. Nessuno sa esattamente come deve essere datato. A uno sguardo piu approfondito il concetto si dirama in una varietà di for­ me. Si parla allora di Prerinascimento, di primo, alto e tardo Rina­ scimento; alcuni hanno fatto addirittura riferimento a un Rinasci­ mento dei Carolingi o degli Ottoni e lo stesso concetto, infine, è sta­ to spesso utilizzato per definire fenomeni di tutt’altra natura. Ciononostante è fuori di dubbio il fatto che in Europa, dopo se­ coli contrassegnati da tutt’altre tendenze, molta gente si sia dedica­ ta ai classici con incredibile energia, leggendone i testi, studiandone la filosofia, imitandone l’architettura, in breve, riallacciandosi a una tradizione in gran parte dimenticata e ormai «superata». Anche i re­ visionisti più incalliti, secondo i quali il Rinascimento non è altro che una semplice ipotesi, non dubitano del fatto che una tale interazio­ ne si sia realmente verificata. In seguito, tutti i possibili movimenti contrassegnati da una sor­ ta di risveglio spirituale, sono stati battezzati con il nome di Rina­ scimento, richiamandosi non di rado a tradizioni nazionali come nel caso del Rinascimento «irlandese» o «catalano». In ciascuno di que­ sti casi è stato violato, senza alcuno scrupolo, «il corso del tempo». Mentre la rinascita gode per lo più di ottima fama, l’atavismo, in­ vece, viene considerato una deviazione particolarmente riprovevole dal regolare corso della storia. Tale concetto, coniato nel 1901 dallo studioso di botanica Hugo de Vries, designa originariamente soltan­ to «ritorni individuali a stati tipici di lontani antenati». Oggi, svin­ colato dal contesto biologico, viene utilizzato soprattutto per bolla­ re con un marchio d’infamia una serie di impulsi che, più o meno vio­ lentemente, si oppongono al processo della modernizzazione. La stampa, in questi casi, ama parlare di un ritorno ai tempi bui, come

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se quelli odierni fossero particolarmente luminosi; e il Medioevo, in tali occasioni, deve fungere abitualmente da sfondo scuro. L’atavi­ smo rappresenta, per cosi dire, il negativo del Rinascimento. I giudizi sull’interagire fra stratificazioni del tempo antiche e mo­ derne, sono fra loro discordanti; da un lato prevale la reminiscenza di presunte risorse presenti nella storia e, dall’altro, il timore della barbarie che, per motivi difficilmente spiegabili, viene localizzata proprio nel passato. Non è facile resistere alla tentazione di giudicare l’anacronismo dal punto di vista morale. Ma forse il suo cattivo esempio consiste proprio nel fatto che tali critiche lo lasciano del tutto indifferente. La pasta sfoglia del tempo racchiude appunto tutte le possibilità, sia positive che negative, all’interno di un magma topologico che non ammette alcuna chiara distinzione. Come il punto saltellante nella «trasformazione del fornaio» non torna quasi mai alla sua posizione iniziale, cosi anche l’anacronismo, del resto, non arriva mai a coincidere con le sue mire reali. Porta piut­ tosto alla luce un terzo aspetto, mai esistito prima, e lo fa in tutti i gradi e le forme di metamorfosi possibili, che variano dal malinteso alla ripetizione, dalla revisione all’autoinganno, dall’appropriazione produttiva al falso. Per questo motivo neanche il cosiddetto «ritorno alle origini», che gode ovunque di grande popolarità, raggiungerà mai il suo obiettivo. Il fascino esercitato dal Medioevo cristiano sul Romanticismo, come tutte le utopie volte al passato, ha mancato il bersaglio. Nessuno confonderà una cattedrale del xni secolo con una chiesa neogotica, una facciata palladiana con un tempio romano. Tutte le religioni han­ no visto nascere movimenti che intendevano ripudiare il presente cor­ rotto per tornare alla purezza originaria dei fondatori. I movimenti fondamentalisti, sorti alla fine del xx secolo fra cristiani, induisti, ebrei e musulmani ne rappresentano gli esempi più estremi. Ben lon­ tani dal volere restaurare antiche forme di vita religiosa, sono in realtà interamente influenzati dalla crisi della modernizzazione; in altre con­ dizioni non sarebbero nemmeno concepibili. Sembra proprio che il malinteso costituisca addirittura la condizio ne necessaria dell’atteggiamento anacronistico. E il meccanismo della proiezione svolge in questo processo un ruolo decisivo. La percent ua

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le di Rinascimenti immaginari, cosi come la distanza fra i punti di con­ tatto all’interno della pasta sfoglia, può essere più o meno alta. Partendo da una formula di Eric Hobsbawm, alcuni storici ingle­ si hanno studiato il fenomeno della invention of tradition, una prassi politica che giunse alla massima fioritura nel corso del xix secolo. Al fine di legittimare la loro esistenza, governi e partiti, fautori dello status quo e rivoluzionari, hanno per cosi dire simulato stretti rap­ porti con la tradizione. Sia che si trattasse della cerimonia dell’inco­ ronazione della monarchia britannica, della divulgazione di costumi popolari spacciati per antichissimi, di martiri nazionali o di rivolu­ zionari eroici, il ruolo svolto dall’immaginazione, in tutti questi ca­ si, era comunque considerevole. Non tutti gli interessati riuscirono a essere cosi sinceri come l’ideologo svizzero Gonzague de Reynold, un cattolico conservatore, che invitò i suoi connazionali a «riallacciarsi alle antiche tradizioni nonché, in caso di necessità, a inventarle». Dall’imitazione alla contraffazione il passo è breve. Tuttavia, an­ che se viene superata questa soglia, il contatto con il tempo antico rappresenta la premessa necessaria per il buon esito dell’operazione. Qualsiasi truffa necessita, per avere successo, di un nucleo di verità; allo stesso modo anche il falsario deve possedere una conoscenza del passato quanto mai esatta. Quando lo scozzese James Macpherson scrisse i suoi canti ossianici, entusiasmò l’intera Europa. Aveva fat­ to passare la sua opera per una traduzione dal gaelico e datato il fit­ tizio testo originale al ni secolo. La presunta reliquia venne creduta autentica per diversi anni. E questo ebbe conseguenze di vasta por­ tata. Il falso di Macpherson dette avvio a una rinascita della cultura celtica alla quale lo studio della storia scozzese e irlandese deve im­ pulsi di primaria importanza. Quando alcuni settori del movimento studentesco si rifecero, nel 1968, alla rivoluzione permanente di Trockij e all’idea bolscevica del partito di quadri, diedero luogo, involontariamente, a una parodia; al contempo però, quello stesso movimento risvegliò tradizioni della sinistra europea ormai dimenticate. L’anacronismo può risultare pro­ duttivo anche nelle sue forme più stravaganti. Tuttavia sarebbe addirittura audace sostenere la stessa cosa per le sue espressioni più fuggevoli e banali, che si sono imposte sotto le in­ segne del postmoderno. Questo ballo in maschera delle nostalgie, avrà fine in un prossimo futuro? Nessuno può saperlo. In ogni caso l’o­

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pera di riciclaggio su scala industriale è deprimente. Retro, remake, recycling: cosi si definiscono le diverse strategie del saccheggio e del logoramento culturale. L’emozione, di fronte a questo mercato delle pulci ideologico e artistico, sarà limitata. L’anacronismo commercia­ le evita tutto ciò che ha importanza. Vuole solo sostituire il punto saltellante con il calcolo. E incapace di inventare qualcosa di nuovo perché non è aperto al conflitto, a quella «violazione» che rende ap­ punto produttiva l’interazione con gli strati più antichi della strut­ tura del tempo. Si potrebbe cosi supporre che anche l’anacronismo abbia conosciuto tempi migliori, anzi che corra il rischio, esso stes­ so, di diventare un fenomeno anacronistico. Ma anche questo sarebbe soltanto un giudizio affrettato: un ten­ tativo di prevedere l’imprevedibile, destinato quindi, come ogni sfor­ zo analogo, inevitabilmente a fallire. L’inaspettato residuo non può essere eliminato in nessun modo. E qui parlo, senza alcuna presun­ zione, ma nemmeno vergogna, per esperienza personale. Perché, se esiste un personaggio anacronistico par excellence, è proprio quello del poeta. Nessun personaggio è stato dato cosi spesso per morto quanto lui. Qualsiasi economista potrebbe facilmente dimostrare che quest’atti­ vità, secondo le leggi del mercato, non dovrebbe nemmeno esistere. E quanto ai teorici dei media, che da decenni ormai sognano la fine della scrittura e la morte della letteratura, essi hanno raggiunto un numero elevatissimo e la loro esultanza nei confronti della contem­ poraneità non trova limiti. Jochen LIòrisch, uno dei più assennati, ha paragonato la lettera­ tura alle banconote: «Sono entrambe virtuali, entrambe praticano una coltura alternata molto discutibile sul piano morale, nonché un’at­ tività di scambio universale praticamente con tutto (il denaro tra­ sforma ogni cosa in merce e la letteratura in un suo argomento), en­ trambe simulano (o meglio fingono), entrambe sono elementi della galassia Gutenberg ed entrambe diventano, nell’epoca mediale, fe­ nomeni anacronistici». Ma il Terminator non si ferma qui. Continua con un virtuoso volteggio: «Vale piuttosto il seguente pronostico [!]: il futuro del libro di fiction è proprio nel suo anacronismo, anche per quanto riguarda la forma esteriore. La comunicazione sarà affidata, anche in futuro, al testo scritto; l’informazione ai media elettronici».

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Finora, comunque, questo fenomeno continua ostinatamente a esistere, out of harmony with the present, come dice bene il diziona­ rio. A dispetto di ogni possibile redditività, esso ricompare nei luo­ ghi più inaspettati, uvetta immaginaria nella pasta sfoglia del tempo, di cui nessuno può prevedere la traiettoria futura.

La massima è tratta dal libro II, cap. i (Sull’incostanza del nostro agire) e dal libro III, cap. 2 (Delpentirsi) dei Saggi di Montaigne (2 voli., Milano 1982). Il celebre passo delle Confessio­ ni di Agostino si trova nel libro XI, par. 14 (Torino 1966). Le definizioni dell’anacronismo provengono dal Meyers Enzyklopädisches Lexikon e dall’ Oxford English Dictionary del 1971. La descrizione della «trasformazione del fornaio» segue soprattutto il saggio di Ivar Ekeland Le calcul, l’imprévu, Paris 1984 (trad. it. Il calcolo, l'imprevisto. Il concetto di tempo da Keplero a Thom, Milano 1985). Un’altra interpretazione ci viene fornita da Ilya Prigogine e Isabelle Strengers in La Nouvelle Alliance, Paris 1979 (trad. it. La nuova alleanza. Metamorfosi della scienza, Torino 1993)· Fondamentale è il testo di V. Arnol'd e A. Avez, Ergodic Problems of Classical Mechanics, New York 1968. Gonzague de Reynold viene citato da Christoph Keller nel saggio Der Homo alpinus helveticus, in «Passagen», n. 19, Zürich 1995. Di Jochen Hörisch è l’arguto testo Kopf und Zahl. Die Poesie des Geldes, Frankfurt am Main 1996. I diagrammi relativi alla trasformazione della pasta sfoglia sono di Klaus Meyer e Jan Riemer.

Ammirazione

Di meravigliarsi dalla testa ai piedi, di tremare sostiene lui; che un sacro brivido lo percorre, che ciò che prova si può solo esprimere in parole di caso in caso:

che gli è capitato di vedere una fonditrice con trentamila parti mobili, nessuno sa più enumerarle, meno che mai riprodurle mestieri scomparsi, abilità estinte che però fischia, gracida, butta fumo, imperturbata; anche l’apparato psichico della nonna, immobilizzata in poltrona, produce ora come allora dietro la fonte sgualcita avidità, gelosia, trappole, euforia; oppure il papavero, papaver somniferum, bianco-grigio, un’immancabile macchia violetta nel fondo, e mai sbaglia a contare: corona, calice, frutti, mazzi di filamenti, labbra di ferite, tutto alla seconda potenza; e da ultimo il muscolo costrittore, spesso, sostiene, gli viene in mente, fa il suo lavoro, via liscio, e cioè, quando è stato squisito, quattro per quattro per cinque: tutto ciò fragile, delicato mentre basterebbe un calcio, un grano di sabbia, un foro, una scheggia di granata o un milligrammo di atropina.

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Quanto più capisce nel dettaglio, sostiene, e lui capisce parecchio - basta un richiamo alla banca dati: autosintesi di anticorpi nel topo neozelandese, tremolo e vibrato nel piano ben temperato, supersimmetrica teoria quantistica dei campi, ecc. tanto meno, sostiene, capisce il complesso, a volte però è l’inverso; perciò non gli resta, prima di addormentarsi, che rabbrividire.

Una spiegazione non arriva. Puro piacere evidentemente non è; tutti accampano di essere stanchi, stremati, e non vogliono piu saperne; lui lo capisce, ma non lo convince. Al contrario, contro questo fervore non c’è medicina, e non se ne vede la fine. Vorrei avere, sogghigna, la vostra energia! E con voce più roca, inceppandosi giura che ci considera disperatamente invincibili, dalla formica sino all’ultimo chirurgo genetico.

Che lui per parte sua è bloccato, per Pammirazione dimentica perfino di mangiare, e si affida, coi brividi, all’entropia.

Perturbazioni temporalesche negli strati più alti

A guardarli da questi picchi calcarei sono imponenti tutti questi fatti che prescindono da me, ma non viceversa. Micro e macro, dalla flora intestinale alle galassie, fin dove l’occhio spazia e ancora al di là. Schiacciante, sebbene i particolari mi siano ignoti, per es. cosa sia il fulmine, non ne ho idea, niente capisco dell’abracadabra dei fisici, per non parlare dei folli discorsi dei filosofi.

Differenze di potenziale, legami omeopolari, biforcazione - il messaggio mi arriva, ma un nubifragio è poi un’altra cosa.

Io sono a bagno in un temporale d’ignoranza. Rinfrescante. Cosa che non si può dire dell’essere dell’essente. Venerare in pace l’insondabile d’accordo, però mi verrebbe più facile se i corifei tenessero chiuso il becco.

Cosa sia il monte io non saprei dire.

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Però sul monte ci sto. Il fulmine può fare a meno di me. Mi viene addosso e basta. Basta cosi.

Nell’album degli ospiti del vescovo Berkeley

Tacitamente il mondo mi assicura che c’è, paziente, momentaneo, che c’è sempre di nuovo: la polvere, sfavillante nella calura, il martello che colpisce il pollice, il gatto coi suoi artigli, anche quella nuvola in fuga lassù che a nessuno è tanto facile copiare dal vero. Non chiede di voi, cari mistici, non si esprime quando voi per l’ennesima volta 10 considerate un’illusione visiva. «Costruttivismo», borbottio di filosofi, fantasticherie sulla fisica, «un pugno di quark e nulla più», 11 lascia perdere. Non vi bada, il mondo, coi suoi occhi di gatto. Vi lascia dire, paziente, finché non tira fuori gli artigli, indugia un poco a giocare con voi, si scorda di voi, e resta dov’era.

Gli errori

Un mio amico, Berlino Est, Leipziger Straße, Accademia Tedesca, ha di recente dischiuso alla ricerca un campo assolutamente nuovo: la linguistica degli errori. Si, sembra ci sia parecchio da fare. Da profano non posso permettermi giudizi, eppure ho Limpressione che gli errori si moltiplichino: topi bianchi, albini con gli occhi rossi, che si arrampicano l’uno addosso all’altro, su letti e poltrone, e figliano sempre più topi bianchi.

Discorsi allo sportello della banca, opinioni sulla banda dei quattro, direttive per il futuro del genere umano. Falsa coscienza, dicono i filosofi. Ma se non fosse che questo. Frenare o accelerare, pantaloni con o senza risvolti, la tua morale o la mia. Chi si crede nel giusto è già condannato. Liberarsi a badilate da una montagna di badili sempre più arrugginiti, a mani nude - temo

Gli elisir della scienza

non abbia senso. Tutto sbagliato, probabilmente anche questa frase. Se si sta per un po’ in ascolto delle proprie parole, come rimbombano dentro la testa viene voglia di chiudere gli occhi come un bambino piccolo, tapparsi le orecchie e meglio ancora non dire più niente. Ma sarebbe un errore.

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Enigma del mondo

Zone grigie, impegno, fracasso sono indispensabili ? Perché h = 6,625 x 10 34 ) ' s> e nemmeno un tantino di più ? Quanti gli dei, se pur ci sono ? Di dove quest’improvviso buon umore dentro la vasca da bagno ? Incoercibile stupidità: troppo piccolo il cervello dei primati, o troppo grosso ? Strano, qua e là c’è sempre ancora una farfalla senz’imposta di consumo. Un perenne sorgere, defungere, logorare se stessi, e altri, ma a qual fine ? Perché «io» e a che pro ? Per favore, a che serve quest’eterno far domande ? A che pro sempre fedeli e leali, e perché no ? Di chi è la colpa dei progressi inarrestabili ? Anche prima del big bang c’erano già tante depressioni ? E come la mettiamo con lo sport, l’odio e il denaro ? Perché, non ce n’è meno, o di più ? E perché, piuttosto, non c’è un bel nulla ?

Nota definitiva sulla questione della certezza

Ci sono enunciati. Ci sono enunciazioni che sono vere. Ci sono enunciazioni che non sono vere. Ci sono enunciazioni delle quali non si può decidere se siano vere o false. Ci sono enunciazioni delle quali non si può decidere se l’enunciazione che non si può decidere se siano vere o false sia vera o no, ecc.

Conversazioni sempre più ridotte

«Beato colui che non procede sul cammino degli empi... » Il tatto suggerisce di cambiare argomento.

«Il senso della vita...» Penoso scivolone ! «Bisogna sovvertire tutte le relazioni in cui l’uomo è un essere degradato... » Sbadigli, imbarazzo, risa. Invece genomi su misura, immortalità sul disco rigido o scienza! o ecstasy! o eutanasia! Miracoloso sonnifero quando la Borsa va sottoterra!

Modello gnoseologico

Ecco una grossa scatola con la scritta scatola. Se l’apri, trovi dentro una scatola con la scritta scatola tratta da una scatola con la scritta scatola. Se l’apri intendo dire questa scatola, non quella -, trovi dentro una scatola con la scritta E cosi via, e se tu procedi in tal guisa, troverai dopo infiniti sforzi un’infinitamente piccola scatola con una scritta cosi minuscola che per cosi dire

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alla vista s’evapora. E una scatola che solo nella tua immaginazione esiste. Una scatola assolutamente vuota.

VII.

La poesia della scienza Un poscritto

La matematica è una poesia di idee. ARMAND BOREL

I.

Chacun devient idiot à sa façon - ognuno diventa idiota a suo mo­ do. Questa massima è di Peter Esterhazy, rampollo d’una princi­ pesca famiglia, il quäle ha illustrato la sua affermazione in modo brillante, trasformandosi inizialmente in un matematico, poi in un giocatore di calcio e alla fine in un famoso romanziere. Può darsi che, nel formulare quell’asserzione, si sia rifatto a un’ingiuria clas­ sica del diciottesimo secolo. Allora gli accademici si insolentivano definendosi l’un l’altro idiot savant. Anche oggi a ogni studioso do­ vrebbe venire in mente l’uno o l’altro collega cui questa caratteriz­ zazione si attaglierebbe. La comparsa in massa degli idioti specia­ lizzati è probabilmente una conseguenza inevitabile della specializ­ zazione nelle scienze. Perfino all’interno d’ogni singola disciplina sono aumentate le difficoltà di comprensione. Nessuno osa affer­ mare di avere una visione precisa della situazione della ricerca in tutti i campi delle scienze esatte. E il pur diffuso discorso sull’interdisciplinarietà non potrà nascondere il nesso fra accumulo di sa­ pere e ottusità. Tanto meno può sorprendere che da lungo tempo ormai non si possa più parlare, a proposito delle discipline umanistiche e delle scienze naturali, per non dire delle arti, di un comune orizzonte cul­ turale. La famosa tesi di P. C. Snow sulle due culture è stata supera­ ta dalla realtà. Di fronte al progredire delle differenziazioni, si po­ trebbe oggi parimenti parlare di tre, cinque oppure cento culture. Sot­ to questo profilo, la diagnosi formulata nel 1959 dal fisico e romanziere inglese si è rilevata, nel regime del pluralismo babilonico, troppo ot­ timistica.

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2.

La figura deVd idiot savant, dello «scienziato idiota», è impensa­ bile senza il suo pendant, che s’incontra sicuramente anche più spes­ so: l’zdzo/ lettré, una specie che alligna fra i cultori delle scienze del­ lo spirito, gli artisti e gli scrittori, e che si sente forse anche più a suo agio, nella sua limitatezza, della sua immagine speculare. Ognu­ no di noi è notoriamente uno straniero quasi ovunque sulla terra; allo stesso modo ognuno di noi è quasi in tutti gli ambiti dello sci­ bile un mezzo o un totale analfabeta. Però ammetterlo è una cosa, un’altra è essere fieri dello status di ignorante. Lo studioso di Shake­ speare che non ha mai letto una pagina di Darwin, il pittore cui gi­ ra la testa nel sentir anche solo parlare di numeri complessi, lo psi­ coanalista che non sa nulla dei risultati cui è pervenuto l’entomo­ logo, e il poeta che non è capace di stare ad ascoltare un neurologo senza addormentarsi, sono altrettante figure involontariamente co­ miche, non molto lontane dall’istupidimento per propria scelta e colpa.

3· Ovviamente non è sempre stato cosi. Per convenirne, non oc­ corrono conoscenze storiche particolarmente profonde. Non è un segreto che la filosofia, la poesia e la scienza, alle origini, procede­ vano tenendosi per mano. La loro radice comune è il mito. L’a­ stronomia, ai suoi inizi, era una pratica magica, inscindibilmente legata all’astrologia. Furono i filosofi presocratici a fondare la fisi­ ca in Europa. Empedocle è l’autore di una cosmologia poetica; e Pi­ tagora di Samo, al quale la matematica deve leggendari teoremi, era un mistico. Considerazioni molto simili valgono anche per gli inizi del pen­ siero scientifico in India. La matematica sacrale dei Sulvasutra ri­ sale al primo millennio avanti Cristo. Anche in Mesopotamia, Egit­ to e Cina la religione, la filosofia, la scienza e la poesia erano inse­ parabili.

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4· Nel suo grande poema De rerum natura, Lucrezio percorre l’in­ tero orizzonte scientifico del suo tempo. «Vuole», si legge in Ita­ lo Calvino, «scrivere il poema della materia ma ci avverte subito che la vera realtà di questa materia è fatta di corpuscoli invisibili. E il poeta della concretezza fisica, vista nella sua sostanza perma­ nente e immutabile, ma per prima cosa ci dice che il vuoto è al­ trettanto concreto che i corpi solidi. [...] Al momento di stabilire le rigorose leggi della meccanica che determinano ogni evento, egli sente il bisogno di permettere agli atomi delle deviazioni impre­ vedibili dalla linea retta, tali da garantire la libertà tanto alla ma­ teria quanto agli esseri umani. La poesia dell’invisibile, la poesia delle infinite potenzialità imprevedibili, cosi come la poesia del nulla nascono da un poeta che non ha dubbi sulla fisicità del mon­ do».



La tradizione della poesia didascalica, fondata dagli antichi, è so­ pravvissuta al Medioevo ed è tornata a rifiorire nel Rinascimento. I poeti, i pittori, gli architetti e i filosofi di quel tempo hanno ri­ preso avidamente le ricerche scientifiche dei loro contemporanei. Spesso, come in Cardano, Dürer e Leonardo, quest’interesse è an­ dato di pari passo con la produzione artistica. Giordano Bruno e Cy­ rano de Bergerac non tracciavano confini fra poesia e scienza. Fin ben dentro il diciottesimo secolo non si può di fatto parlare di una separazione di queste due sfere. Per la sua monumentale Enciclope­ dia, Diderot allacciò una fruttuosa alleanza con il matematico d’A­ lembert. Lichtenberg - al quale dobbiamo, fra l’altro, l’invenzione della fotocopia - era un fisico di vaglia, e Goethe era appassionato di problemi geologici, botanici e fisiologici, per non parlare di quel­ la sua singolare e grande impresa che è la Teoria dei colori. Una del­ le sue ultime significative poesie didascaliche è la Metamorfosi delle piante, un progetto incompiuto. Perfino ai romantici era estranea la netta separazione fra l’ambito scientifico e quello letterario. Auto­

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ri come Ritter, Carus e Chamisso hanno lavorato essi stessi come na­ turalisti, e V Allgemeines Brouillon testimonia degli ampi studi mate­ matici, chimici, fisici e biologici di quel Friedrich von Hardenberg a noi comunemente noto come Novalis.

6.

Tutto induce a ritenere che il grande scisma fra le scienze natu­ rali da una parte, e le arti e le discipline umanistiche dall’altro sia stata una tipica invenzione del diciannovesimo secolo. La progressi­ va specializzazione del sapere e il suo isolarsi nell’attività universi­ taria, lo svilupparsi del gergo scientifico e la vittoria del positivismo sono cause e insieme sintomi di quest’evoluzione. La tendenza al ri­ duzionismo di molti studiosi delle scienze naturali, accoppiata spes­ so con una certa presunzione, può aver contribuito a far insorgere reazioni allergiche nell’ambito delle arti e delle discipline umanisti­ che. Questo dissidio fra fratelli in casa dell’intellighentsia si è pro­ tratto fin troppo a lungo e, come sempre in casi analoghi, gli atteg­ giamenti ostili dei partecipanti a simili tenzoni si condizionano a vi­ cenda. L’idiot savant e l'idiot lettré si assomigliano più di quanto non sospettino.



Stando cosi le cose, non c’è da stupirsi che l’antica poesia di­ dascalica, forse a scapito della letteratura, si sia praticamente estin­ ta nel diciannovesimo secolo. Il suo epitaffio è stato scritto da Flau­ bert. E intitolato Bouvard e Pécuchet. In questo progetto profon­ damente ironico di prosa enciclopedica è esposto in modo impietoso lo scisma della cultura. Il risultato è una figuraccia che non rispar­ mia nessuno, nel senso che i deplorevoli eroi di Flaubert imperso­ nano gli idioti complementari delle due parti: «E cosi tutto gli si è spezzato fra le mani». L’increscioso affare Sokal, degli anni no­ vanta del secolo appena concluso, appare come un’eco lontana del loro concitato indaffararsi, una figuraccia di paragonabile levatu­

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ra che ha fruttato al teatrino della decostruzione non poche sde­ gnate pernacchie.

8.

Potrebbe tuttavia darsi che il secolo diciannovesimo stia per con­ cludersi anche sotto quest’aspetto. Inavvertitamente prima, poi però sempre più evidentemente, sembra che si sia voltata pagina. Si pro­ filano nuovi sconfinamenti. Forse la letteratura è in procinto di af­ francarsi dalla minorità scientifica di cui è essa stessa responsabile. Uno dei primi che non ha voluto rassegnarsi al ruolo di idiot lettré è stato Raymond Queneau. Non solo ha curato, per la Pléiade, la pub­ blicazione di un’enciclopedia scientifica e ha scritto un libro sulla piu recente matematica {Bords), ma esistono di lui anche una Piccola co­ smogoniaportatile (1950) e una poesia che si basa su un modello com­ binatorio {Centmille milliards de poèmes). Nell’opera di Primo Levi, che di professione era un chimico, la scienza ha un ruolo centrale. Dalla Summa technologiae di Stanislav Lem si desumono non solo am­ pie conoscenze degli ambiti dell’informatica e della cosmologia, ma l’opera dà saggio anche di stupefacenti intuizioni prognostiche. L’ar­ cobaleno della gravità di Thomas Pynchon è impensabile senza un’am­ bizione polistorica che comprenda anche lo stato della ricerca scien­ tifica.

9· Anche taluni lirici si sono emancipati dallo schema del dicianno­ vesimo secolo e hanno capito che la poesia può occuparsi di tutto ciò che accade. Lo sciocco equivoco che debba servire solo come spe­ cialista per l’espressione di sentimenti è a sua volta un’eredità del diciannovesimo secolo che sta gradualmente ammuffendo. Sempre più poeti tematizzano nei loro scritti idee scientifiche. Inger Chri­ stensen, probabilmente la maggior poetessa danese attuale, si rifà nel suo epico Alfabeto alla teoria dei numeri e all’analisi combinato­ ria; più precisamente questa poesia si basa sulla sequenza di Fibo­ nacci. Nel lavoro di Durs Grünbein la fisiologia e le scienze neuro-

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logiche hanno un ruolo essenziale, e l’autrice britannica Lavinia Greenlaw si fa ispirare per le sue poesie da idee tratte dalla biolo­ gia, dalla teoria della comunicazione e dalla storia della scienza. Ec­ co qualche esempio di queste interazioni:

io.

Lars Gustafsson, Discussioni Vecchi manuali d’acustica ci suggeriscono curiosi esperimenti:

ci si rechi in un cortile assolutamente simmetrico delimitato su ogni lato da muri che siano ad angolo retto fra di loro; ci si collochi poi in uno degli angoli e si spari un colpo di pistola. C’è un punto in cui il rumore è inudibile.

Hai raggiunto il nodo acustico: l’occhio non lo percepisce. Si dispongano tre persone in un certo rapporto angolare attorno alla superficie completamente piatta d’un lago e si inducano a gridarsi l’un l’altra a un determinato ritmo: «Qui». Non passerà molto tempo che il «qui qui qui» risuonerà da ogni parte, ininterrottamente e nessuno non potrà più distinguere la propria dalle voci degli altri.

Che leggiadra antifona !

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E un piccolo orologio elettrico messo sotto una campana di vetro (una pompa ne risucchi l’aria) non si ode alla fin fine davvero piu.

Si conferma cosi il sospetto che il medium portante non sia affidabile, che, stranamente, possa agire di testa sua.

Di testa sua, di testa sua. Il tempo che ancora rimane è sempre molto breve. Soltanto chi è molto solo emette suoni. L’inverno è molto freddo. Tutte le barche sono prigioniere del ghiaccio.

E col bel tempo pattini, slitte rosse con un rumore come di piccoli orologi sotto 1’«ermetica campana di vetro». Zitto, qualcuno parla, sei tu o sono io ? Eco, leggiadra ninfa dalla voce storpia!

II.

Alberto Bianco, Teoria dell’evoluzione Che certe cose da cert’altre derivino, per capir questo non abbiamo bisogno di calcolo né d’alcun genere di teorie. Che nell’infinita rete delle modificazioni vi siano esseri che discendono da altri esseri, è talmente palmare che ci si domanda: com’è possibile che vi sia sempre ancora qualcuno che dubita della teoria dell’evoluzione?

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«L’uomo», dice Shakespeare, e Milton lo ripete, «è un capolavoro». Quando però vediamo come la nuvola si muta in pioggia, e la pioggia in grandine e la grandine in fanghiglia si comincia seriamente a dubitar di tutto.

12. Miroslav Holub, Un pianto lontano

Il 6 luglio 1885, in Alsazia, un cane rabbioso assali Joseph Meister di 9 anni e gli inferse quattordici morsi.

Meister fu il primo paziente che Pasteur potè salvare con il suo vaccino, con tredici dosi del virus attenuato. Pasteur mori dieci anni dopo d’un colpo apoplettico. Meister entrò come portiere al servizio dell’istituto Pasteur. Quando ne ebbe cinquantacinque, uccise sé e un intero branco di poveri cani quando ci fu l’aggressione dei tedeschi. Solo il virus è sopravissuto.

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Chi può dire quanto avvenire abbiano simili incontri fra la poe­ sia e la scienza ? Si tratta solo di conoscenze occasionali, o si profila qui un congedo dall’idiot lettré e un ritorno alla poesia intelligibile! Una fuggevole occhiata ai rapporti di forza potrebbe già rendere scet­ tici. Mentre la poesia è un medium minoritario, le scienze naturali so­ no assurte al rango di superpotenza culturale. Perciò ogni incontro di questo genere dà l’impressione di un confronto impari. Tuttavia un simile giudizio sarebbe affrettato, unilaterale e su­ perficiale. D’accordo, i poeti che manifestano un interesse un po’ più profondo per le scienze hanno una rilevanza solo marginale. La que­ stione assume però un aspetto diverso se si inverte la direzione dello sguardo e, anziché soffermarsi sulla scienza nella poesia, si cerca la poesia nella scienza.

Μ· Il grande teorico dei numeri inglese Godfrey H. Hardy, cui nes­ suno potrebbe rinfacciare di avere una visione soft del sapere, nella sua Apologia di un matematico narra di una visita che fece a un gene­ tista amico suo di nome Steve Jones, che era evidentemente esperto di letteratura perché gli citò, fra l’altro, Samuel Taylor Coleridge, poeta del romanticismo inglese, il quale usava seguire le lezioni di chimica alla Royal Institution. Quando qualcuno gli domandò per­ ché si desse questa pena, Coleridge avrebbe risposto: «Per arricchi­ re la mia riserva di metafore». E Hardy commenta: «Mi è parso che Jones disapprovasse questo uso di nozioni scientifiche; avrebbe pre­ ferito un metodo più stringente. D’altra parte: che cosa sarebbe la scienza senza le sue metafore?» In effetti ogni relazione scientifica - e non c’è progresso della ricer­ ca che potrebbe cavarsela senza una comunicazione linguistica - si ba­ sa sul discorso metaforico. Tutti i tentativi dei logici, da Leibniz fino al Circolo di Vienna, di ridurle a calcoli formali sono alla fin fine falliti. Il linguaggio naturale si è rivelato un medium tanto indispensabile quan­ to flessibile. E, proprio nell’impiego che ne hanno fatto, i matematici e

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gli scienziati dell’età moderna hanno dimostrato un’ammirevole capa­ cità di verbalizzare i loro concetti, le scoperte e le ipotesi. La loro pro­ duzione di metafore testimonia di un talento poetico invidiabile.

15·

Nell’astronomia, nella cosmologia e nella fisica incontriamo faco­ le e sciami, corone, venti solari, la luce zodiacale, il rumore cosmico di fondo, radiazioni frenate, la singolarità iniziale, campi, buchi ne­ ri (un’espressione di cui siamo debitori a J. A. Wheeler), nubi co­ smiche, orizzonti, giganti rosse, nani bianche, raggi cosmici, pulsar, galassie nane, ammassi, nebulose a spirale, cunicoli spazio-tempora­ li, radiazioni di corpo nero, il rumore bianco, stringhe e superstringhe, lo spazio curvo, dimensioni arrotolate, rotture di simmetria, fa­ miglie di particelle, annichilazioni, particelle confinate, strangeness, effetti tunnel, schiuma quantica e quark1 (cosi denominati da Mur­ ray Gell-Mann che ha ripreso il termine dal Finnegans Wake di James Joyce: e si distinguono in strange, top, bottom, up, down e charm, ol­ tre che in quark rossi, verdi e blu). La matematica conosce radici, fibre, germi, fasci, schiere, invi­ luppi, nodi, lacci, curve, raggi, bandiere, tracce, intersezioni, corpi e sottocorpi, generi, scheletri, ideali massimali, principali e nulli, anel­ li, punti isolati, gruppi semplici, cammini aleatori, il punto di fuga, gruppi liberi finitamente liberati, varietà, insiemi vuoti, modelli om­ belicali, cuspidi di ponti, la coda di rondine, filtri, nodi infiniti, trec­ ce, la polvere di Cantor, il diamante di Hodge, gli stukas, farfalle e tori...

16.

La tentazione di proseguire con queste elencazioni è grande. Si potrebbe andare avanti per pagine intere, anche con esempi tratti da altre discipline. Persino chi non ha la benché minima idea di che co­ sa significhino questi termini, ammetterà l’audacia con cui le scien' In tedesco il Quark è anche un latticino simile alla «ricotta» [N.d.T.].

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ze hanno conquistato nuovo terreno linguistico, ed è fuor di dubbio che si servano, nel farlo, di tecniche poetiche. Come Karl Weierstraß - che ha rifondato la teoria delle funzioni ellittiche - sapeva già più di cent’anni fa, «un matematico che non sia contemporaneamente anche un po’ poeta non sarà mai un mate­ matico completo». Niels Bohr, a sua volta, ha detto della fisica dei quanti che è un esempio di come si possano comprendere benissimo i processi fisici senza che sia possibile parlar di loro diversamente che per immagini e metafore; poiché la sua scienza non si occupa della natura, ma di ciò che gli uomini possono dire della natura, le tecniche letterarie sa­ rebbero un’importante parte costitutiva della fisica.

17·

Punti di vista estetici non sono mai stati estranei alla matematica e alla fisica teorica. La semplice prova non è mai bastata loro; i mi­ gliori hanno sempre cercato soluzioni eleganti, per non dire sublimi. Sotto questo profilo il positivismo ha peccato molto. Soffriva di un difetto cronico: non aveva fantasia. Il che ha avuto conseguenze an che sul piano gnoseologico e metodologico. Molto induce a ritenere che le scienze naturali si accingano a con gedarsi dai dogmi del diciannovesimo secolo. Il materialismo ( lassi co si trova, come il suo substrato, in dissoluzione. Nella cosmologia e nelle scienze neurologiche le idee speculative, che non consentono alcuna immediata verifica sperimentale, non sono pili tabu. Perfino i matematici, da Godei in poi, si confrontano con l’ambiguità delle loro possibilità di conoscenza, e nella fisica dei quanti l’impensabile è d’ordinaria amministrazione. Anche a costo del pericolo di irritare qualche difensore «inflessibile» dello status quo, si può arrischiare l’affermazione che la scien­ za più avanzata è diventata la forma contemporanea del mito. Per co­ si dire alle spalle della loro stessa ideologia, tornano nelle loro con­ cezioni, in una forma nuova e inavvertita dalla maggior parte dei ricercatori, tutte le domande delle origini, ovvero i sogni e gli incu­ bi dell’umanità. Le loro metafore non sono che l’espressione lingui­ stica di questa mitopoiesi.

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ι8. La poesia della scienza non è palese. Scaturisce da strati più profondi. E una questione aperta se la letteratura sia in grado di pra­ ticarla alla stessa altezza. Alla fin fine, al mondo può essere indiffe­ rente dove si manifesti la forza d’immaginazione della specie, purché continui a restare viva. Quanto ai poeti, possano questi brevi cenni dimostrare che non si può fare a meno della loro arte. Invisibile co­ me l’isotopo che serve alla diagnosi e alla misurazione del tempo, inap­ pariscente eppure difficilmente rinunciabile come un microelemen­ to, la poesia è all’opera anche là dove nessuno l’immagina.

Fonti Italo Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Milano 1988. Alan Sokal e John Bricmont, Transgressing the boundaries: Toward a Transforma­ tive Hermeneutics of Quantum Gravity, in «Social Text» 46/47, Cambridge (Massa­ chusetts) 1996 [trad.it. di F. Acerbi e M. Ugaglia, Imposture intellettuali, Milano 1999I· Niels Bohr (secondo John Canaday), The Nuclear Muse. Literature, Physics and the First Atomic Bombs, Madison 2000. Lars Gustafsson, Diskussioner, in En resa till jordens medelpunkt och andra dikter, Stockholm 1966. Alberto Blanco, Teorìa de la evolución, in Elcorazón del instante, Mexico, D. F.: Fondo de Cultura Economica 1988. Miroslav Holub, Un pianto lontano, dal manoscritto di una traduzione inglese.

Integrazioni «Se si considera che uno scienziato come John Locke poteva essere contempo­ raneamente un economista, un politologo, un filosofo e un medico, e disponeva di un sapere per il quale si dovrebbe mobilitare oggi un’intera flotta di specialisti, di­ venta chiaro quale straordinario cambiamento sia avvenuto da allora. [...] L’esteti­ ca e la conoscenza non facevano ancora parte di sfere diverse. L’istruzione, l’arte e

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la scienza erano strettamente connesse. [...] Era ovvio che un uomo come Galilei in­ dirizzasse i suoi scritti ai ‘profani colti’ a corte, alla curia e alle università. Voleva con­ vincere ed essere capito, con mezzi scientifici ed estetici. [...] Che Galilei sia stato il genio scientifico che svetta sull’età moderna nonostante le sue inclinazioni letterarie e politiche? Scopri le lune di Giove benché o perché l’arte e la scienza coesistevano ai suoi tempi ancora indivise?» (Bodo von Greiff, Hat Galilei seine Zeit verschwendet?, in «Gegenworte. Zeitschrift für Disput über Wissen» fase. 7, Berlin 2001).

«La metafora reclama un’originalità in cui siano radicate non solo le province private e oziose della nostra esperienza, i mondi dei peripatetici o dei poeti, ma an­ che gli aspetti scientifici estraniati dal gergo specialistico dell’impostazione teorica» (Hans Blumenberg, Ausblick auf eine Theorie der Unbegrifflichkeii). «Nelle scienze naturali [...] il rimando alla funzione orientatrice della cognizione della metafora è spesso respinto o, nel migliore dei casi, ritenuto propaganda delle scienze dello spirito. Se nella fisica è usuale il ricorso a immagini come “onda” e “par­ ticella”, lo si interpreta per lo più come una sciatteria del linguaggio corrente che si dovrebbe eliminare mediante un’esatta terminologia e una descrizione formale. Non potrebbe invece essere che immagini metaforiche svolgano anche qui un ruolo costi tutivo nel processo della conoscenza? [...] E se la metafora fosse l’ultimo elemento di connessione fra le due (Snow), tre (Lepenies) o infinitamente tante (Feyerabend) culture scientifiche? In tal caso ne sa rebbe la loro lingua franca. Anche critici come Kay confermano questa supposizio­ ne quando, basandosi sulle loro riserve, non fanno altro che proporre una metafora migliore, come per esempio: si dovrebbe leggere il genoma “molto piu come una poe­ sia che come un’istruzione per l’uso”. Perché ciò sia, si dovrebbe tuttavia rivivifi­ care l’arte di leggere poesie» (Gerald Hubmann, Von der Notwendigkeit der Metapher in «Gegenworte. Zeitschrift für Disput über Wissen» fase. 7, Berlin 2001; Lily E. Kay, Who Wrote the Book of Life: A History of the Genetic Code, Stanford 2000).

Sulla tendenza nella letteratura anglosassone, si vedano inoltre: Michael Frayn, Copenhagen (fisica dei quanti); Martin Amis, La freccia del tempo (cosmologia, Mi­ lano 1993); Margaret Drabble, The Peppered Moth (genetica); Philip Pullman, Que­ ste oscure materie (fisica, Milano 2000); David Lodge, Pensieri, pensieri (scienza del­ la cognizione; Milano 2002). Il critico John Lanchester osserva a questo proposito: «Quarantadue anni dopo la denuncia da parte di C. P. Snow della barriera fra le ar­ ti e le scienze, si ha proprio l’impressione di avere ora a che fare con una crescente osmosi frale scienze naturali e l’arte». «New York Review of Books», fase. 13, New York 2001.

Riferimenti bibliografici delle opere di H. M. Enzensberger

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Hans Magnus Enzensberger, Zukunftsmusik, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1991 (trad. it. Musica delfuturo, Einaudi, Torino 1997): Die Mathematiker [i matematici], Ein Hase im Rechenzentrum [Una lepre nel centro di calcolo], Seltsamer Attraktor [Attrattore strano], Limbisches System [Sistema limbico], Zungenwerk [Apparato linguale], Bewunderung [Ammirazione], In höheren La­ gen gewittrige Störungen [Perturbazioni temporalesche negli strati più alti, in Musi­ ca delfuturo con il titolo Turbolenze nelle fasce piu alte], Hans Magnus Enzensberger, Kiosk. Heue Gedichte, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1995: Zur Erinnerung an Sir Hiram Maxim 1840-1916 [ln memoria di Sir Hiram Maxim 18401916], Näheres über einen Baum [Nozioni piu precise su un albero], Bifurkationen [Biforcazioni], Neuronales Netz [Rete neuronaie], A [A],Was die Ärzte sagen (Co sa dicono i medici], Klinische Meditation [Meditazione clinica], Unter der Haut [Sot­ to la pelle], Der Renaissanceforscher [Lo studioso del Rinascimento]. Hans Magnus Enzensberger, Zickzack. Aufsätze, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1997 (trad. it. Zig zag. Saggi sul tempo, il potere e lo stile, Einaudi, Torino

1999): Vom Blätterteig der Zeit. Eine Meditation über den Anachronismus [La pasta sfoglia del tempo. Una meditazione sull’anacronismo], Hans Magnus Enzensberger, Leichter als Luft. Moralische Gedichte, Suhrkamp Ver­ lag, Frankfurt am Main 1999 (trad. it. Piu leggeri dell’aria. Poesie morali, Ei­ naudi, Torino 2001): John von Neumann 1903-1957, Astrale Wissenschaft [Scienza astrale], Wissenschaftli­ che Theologie [Teologia scientifica], Das Einfache, das schwer zu erfinden ist \ llsem­ plice che è difficile da inventare].

Testi inediti: Zugbrücke außer Betrieb oder Die Mathematik im Jenseits der Kultur[Ponte levatoio fuori servizio ovvero La matematica nell’aldilà della cultura]', Unheim­ liche Fortschritte [Progressi inquietanti]', Das digitale Evangelium Propheten, Nutz­ nießer und Verächter [Il vangelo digitale. Profeti, beneficiari e spregiatori]·, Die un­ terirdische Kathedrale [La cattedrale sotterranea]·, Klimamaschine [Macchina del clima]·, Astrolabium [Astrolabio]; Fragen an die Kosmologen [Domande ai cosmologi]; Putschisten im Labor. Über die neueste Revolution in den Wissenschaften [Gol­ pisti in laboratorio. A proposito della più recente rivoluzione nel mondo delle scien­ ze]·, Atomgewicht 12,011 [Peso atomico 12,011]; Bischof Berkeley ins Stammbuch [Nell’album degli ospiti del vescovo Berkeley]; Welträtsel [Enigma del mondo]; Endgültiges zur Frage der Gewißheit [Nota definitiva sulla questione della certezza]; Immer kleiner werdende Unterhaltungen [Conversazioni sempre piu ridotte]; Die Poesie der Wissenschaft:ein Postskriptum [La poesia della scienza Un poscritto].

Stampato per conto della Casa editrice Einaudi presso la Estroprint, Tezze sul Brenta (Vicenza) nel mese di marzo 2004

c.L. 16832 Ristampa 0123456

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