Gli dèi di Roma antica. Il "divino" e il "sacro" nell'epoca arcaica della storia romana
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ISBN 978-88-99912-46-8 ©2017 Uno Editori Prima edizione: Novembre 2017 Prima ristampa: Agosto 2018

Tutti i diritti sono riservati

Ogni riproduzione anche parziale e con qualsiasi mezzo, deve essere preventivamente autorizzata dall'Editore.

Copertina: Impaginazione: Editing:

Monica Farinella Caterina Robatto Paolo Battistel, Enrica Perucchietti

Stampa: Litostampa Mario Astegiano, V. Marconi 94/b - Marene (CN)

Per essere informato sulle novità di Uno Editori visita: www.unoeditori.com

o scrivi a: [email protected]

GIAN MATTEO CORRIAS

GLI DÈI DI RoMA ANTICA "

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I L DIVINo E IL sAcRo ' NELL EPOCA ARCAICA DELLA STORIA ROMANA

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INDICE

7

Prefazione

Il

Introduzione

21 21 27 31 33

l

La civitas come orizzonte comune di uomini e dèi La religio romana Tra conservazione e innovazione: il pantheon romano Modalità dell'interazione fra uomini e dèi: i sacra e gli auspicia Costanti nello spirito religioso romano

40 43

Gli dèi e la civitas

2

Dèi senza teologia: fenomenologia e natura delle antiche divinità romane

Natura "personale" delle antiche divinità romane Dèi senza storia e senza volto: assenza di mitologia e aniconismo nella religione romana arcaica Gli dèi del primitivo pantheon romano Una societas divina organizzata e gerarchica Dèi senza volto? Tracce di una possibile fisionomia divina nell'onomastica tradizionale romana

43 47 56 71 72 83 83

3

La concezione romana del sacro

La semantica di sacer attraverso l'etimologia e lo studio delle fonti L'azione cultuale (i sacra), i suoi attori e le sue condizioni Il sacrificium come fulcro dell'intero apparato cultuale Aspetti esoterici della religio romana arcaica Uno sguardo d'insieme (e di sintesi) al culto di Roma antica

93 99 107 126 129

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La religione di Roma antica in prospettiva comparatistica

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5

Una conclusione (?)

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Riferimenti abbreviati agli autori e ai testi classici

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Bibliografia essenziale

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L'autore

Prefazione

In Dei e religione dell'antica Roma 1 il Dr. Corrias ha tracciato un solco che attendeva un seme, ora il seme è arrivato. Da uomo libero qual è, ha introdotto nel terreno, allora preparato, quanto era atteso dalle menti aperte per avviare un percorso che non avrà più pause o blocchi: senza mezzi termini egli dice, con il coraggio della chiarezza, che sono aperti: .

Di questo si tratta infatti: della necessità di rivedere - senza la pre­ sunzione antiscientifica di imporre nuove verità dogmatiche, ma con l'intento di offrire elementi di riflessione sino a ora solo su­ perficialmente accennati - quanto ritenuto dotazione indiscussa, e indiscutibile, della tradizione storico-scientifica in relazione alle antiche religioni, quella romana in primis. Ho scritto "quella romana in primis" perché l'elemento che carat­ terizza questo libro, e che deve affascinare tanto il lettore comune quanto lo studioso accademico, è dato dal lavoro di confronto che l'autore espone, e presenta in modo documentato, tra forme di pensiero religioso tanto antiche quanto lontane tra di loro nello spazio: Roma, ebraismo e bramanesino, tradizionalmente ritenute tanto diverse al punto da non essere compatibili, assumono invece 1 G. M. Corrias, Dei e religione dell'antica Roma, Arkadia, Cagliari 20 1 5 .

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GLI DÈI DI ROMA ANTICA

ai nostri occhi una nuova sorprendente collocazione il cui valore non risiede solo nell'essere nuova ma soprattutto nel suo porsi co­ me strumento di comprensione della storia umana nella sua con­ divisione delle radici che scopriamo essere uguali e onnipresenti. I..:analisi linguistica, storica, documentale, riccamente documenta­ ta, ci restituisce un quadro illuminato da un fascio di luce che non lascerà indifferente nessun lettore, quali che siano la s�a prepara­ zione, i suoi orientamenti, le sue convinzioni. I rapporti tra l'uomo e i cosiddetti dèi (romani, ebraici o induisti che siano) assumono un aspetto che dire affascinante è sminuen­ te: la loro concretezza, il loro sano e chiaro materialismo, il loro corrispondere nella presenza e nella assenza di elementi (dall'ani­ eonismo alle tipologie sacrificali, dalla condivisione della vita quo­ tidiana all'assenza di finalità trascendenti e soteriologiche), ci resti­ tuiscono una storia antica comune, concreta, condivisa, quali che siano le localizzazioni geografiche, le condizioni socio-culturali in cui le varie forme di pensiero si sono strutturate nel tempo. Cosa dire della necessità condivisa tra Oriente e Occidente di avere come scopo prevalente la ''pax deorum"? Che dire della tipologia assolutamente sovrapponibile, sia dal pun­ to di vista dei metodi cruenti che della finalità, dei sacrifici che costituivano l'elemento centrale del rapporto uomo-dio (uso qui il termine dio per pura comodità di comprensione perché non si tratta già del dio inteso nella nostra tradizione) ? Che dire dei primi nomi (cognomina) delle genti latine che ri­ chiamano con una sorprendente chiarezza a caratteristiche fisiche che quelle divinità condividevano, in modo sorprendente, sia nel mondo romano che ebraico? Che dire del perfezionismo formale che Romani, Ebrei e brami­ ni, identificavano come elemento essenziale e garanzia unica del

PREFAZIONE

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"funzionamento" (meccanico) del sacrificio (ivi compreso quello umano presente in tutte e tre le culture analizzate dall'autore) che consisteva sempre nel fornire alla cosiddetta divinità prodotti ali­ mentari di origine animale e vegetale? Che dire della corrispondenza tra il concetto di "feriae" romane e quello dello shabbat ebraico che la tradizone diffusa ci presenta invece come una sorta di unicum nella storia antica? Che dire della condivisa e totale assenza del concetto di "fede" che risulta essere una elaborazione tipicamente cristiana sviluppatasi, afferma l'autore: «in conseguenza della centralità acquisita nella nostra cultura dalle dot­ trine della resurrezione e della redenzione>>?

Che dire della comune assenza di dogmi o di una morale da far risalire a principi assoluti, derivanti da non meglio precisate, anzi assenti, divinità di ordine trascendente? Che dire del concetto di numen che la letteratura ha sempre tra­ visato e che qui l'autore ci restituisce nel suo vero, originario, sor­ prendente e concreto significato? Che dire dell'assoluta assenza di ogni mitologia, che ha invece sem­ pre rappresentato, e ancora rappresenta, la categoria interpretativa utilizzata per leggere il comportamento degli antichi, travisandone la sostanza e la portata? Che dire della comune presenza delle caratteristiche dei cosiddetti dèi che sempre erano «potenti ma non onnipotenti, superiori per forza e sapienza ma non onniscienti»: così le divinità romane come quelle indù e come lo stesso Yahweh biblico e i suoi colleghi rivali? Che dire delle stesse car:ùteristiche fisiche che dovevano avere sia i sacerdoti romani che quelli israeliti?

GLI DÈI DI ROMA ANTICA

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Creda il lettore che queste sono davvero solo alcune delle doman­ de cui il libro fornisce risposte documentate e soprattutto inattese per chi è cresciuto in una tradizione culturale che ha elaborato e sempre presentato come unica, e vera, una storia scritta invece "ad usum

delphini".

L autore

non ha dimenticato di trattare anche gli elementi più pro­

priamente esoterici degli antichi culti ma, anche qui, la chiave di lettura che li illumina sorprenderà non poco. Riportando le parole stesse di Gian Matteo Corrias là dove scrive che: «gli dèi delle religioni arcaiche [

. . .

] non hanno nulla che vedere con

quella concezione del divino che avrebbe caratterizzato le moderne reli­ gioni dogmatiche e fideistiche»,

affermo che queste stesse religioni leggono quelle antiche alla luce di convinzioni che alle prime non appartenevano e questo libro ce ne dà conto in modo tanto chiaro quanto documentato. Questo lavoro, con i concetti che presenta, può davvero: «aprire una voragine sotto alle consolidate tranquillizzanti certezze che sempre abbiamo avuto sul mondo classico». La storia sarà riscritta. MAURO BIGLINO

Introduzione

Fin da quando abbiamo raccolto per la prima volta in modo siste­ matico i risultati delle nostre ricerche sul culto di Roma antica2, non abbiamo potuto fare a meno di constatare la radicale diffor­ mità della religio romana del periodo monarchico rispetto a quella, generalmente più esplorata e "vulgatà', del periodo propriamente storico. E subito ci è stato possibile percepire una situazione che, per i suoi caratteri specifici, difficilmente potrebbe essere compresa alla luce del «religiose Gehalt der Mythen»3, né tantomeno costret­ ta entro le maglie interpretative delle sistemazioni dottrinali (tutte - si badi - successive rispetto all'arco cronologico cui è riferibile il culto romano arcaico) propriamente definibili come teologiche. I.: approfondimento

della ricerca ci ha consentito di definire tali ca­

ratteri specifici in maniera più perspicua, e di mettere in luce alcu­ ni interessanti aspetti che, per quanto su base sovente indiziaria, a causa della frammentarietà dei dati, sembrerebbero legittimare l'e­ splorazione di ipotesi affascinanti quanto potenzialmente disorien­ tanti, che è nostro intendimento dissodare il più compiutamente e lucidamente possibile, per lasciare poi alla riflessione individuale, nostra e dei lettori, il compito di integrare le informazioni offerte nel quadro interpretativo ritenuto più coerente e persuasivo. 2 Cfr. G. M. Corrias, Dei e religione tkll'antica Roma, cit. 3 l:idea dell'esistenza di un >. A questa precedenza del contesto civile rispetto agli dèi e al loro

cultus corrisponde evidentemente una analoga disposizione della materia nell'esposizione varroniana; ma per comprendere corretta­ mente il significato di una simile istituzione di priorità dell'umano sul divino, ed evitare il fraintendimento che condusse Agostino a ridicolizzare la posizione di chi affermi con tanta spontaneità, e persino sfacciataggine, l'idea per cui gli dèi non sarebbero stati al­ tro che invenzioni umane20, occorre comprendere correttamente il 19

Cfr. Aug., Civ. Dei VI 4, l l s. Su questo aspetto si era pronunciato sarcasticamente anche Tenulliano, che nell'Apo­ logeticum (V l) commentando il «Vetus decretum» per cui l'approvazione di un dio di­ pendeva dal senato, aveva ridicolizzato l'assurda e blasfema pretesa dei pagani per cui (''se un dio non sarà piaciuto all'uomo non sarà dio"), al punto che «homo iam deo propitius esse debebit» ("è l'uomo che dovrà mostrarsi propizio al dio") . 20

GLI DÈI E LA CIVITAS

23

significato di quella institutio civile. In un'iscrizione di età claudia si legge che nella città di Lavinium, la città che la tradizione voleva fondata da Enea una volta sbarcato nelle coste del Lazio, si trovava­ no i «sacra principiorum)), i "sacra degli inizi" del popolo romano e del nome latino21 ; a questo testo fa eco lo storiografo Plutarco, il quale riferisce che, secondo i Romani, a Lavinio stavano «le cose sacre degli dèi p atrii e l'inizio della loro stirpe))22• In che senso però - ci chiediamo - la città di Lavinium costitu­ irebbe il luogo degli «inizi)) religiosi del popolo romano? Come è noto, Enea, sbarcato sulle coste del Lazio, fondò quella città e vi insediò ritualmente i Penati giunti con lui da Troia23• Ora, al di là della fondatezza storica della notizia, che va evidentemente contestualizzata nel quadro della leggenda delle origini di Roma, ciò che ci interessa è proprio il dato "culturale" che essa ci offre: a Lavinio, evidentemente, non ha avuto luogo nessuna teogonia, ma l'installazione del culto di nuove divinità (i dii Penates populi

Romani) in un luogo e in un contesto civile ben definito. In que­ sto senso è ancora più esplicito Ovidio, il quale, a proposito del 1 9 marzo (festa dei Quinquatria, in cui si celebravano i sacra di Minerva) , sostiene che «est illa nata Minerva die)) ("in quel giorno è nata Minervà')24• Lindividuazione del dies natalis della dea non riguarda minimamente l'episodio mitologico (greco) della nascita di Atena dalla testa di Zeus (e sul ruolo del racconto mitologico nel contesto della religio romana arcaica ci soffermeremo nel capi­ tolo successivo), ma concerne l'indicazione del giorno in cui, a suo tempo, fu consacrato ufficialmente il tempio in cui la divinità ve21 Cfr CIL X-I 797. 22 Cfr. Plur., Coriolanus 29, 2. 23 Cfr. Dion. Hai. I 55, 2 - I 57, l; Macr. III 4, I l . 24 Cfr. Ov., Fast. I I I 809-8 1 2.

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GLI DÈI DI ROMA ANTICA

niva onorata, il «dies natalis templi» (''giorno natale del tempio"). Detto altrimenti, nella concezione romana una specifica divinità nasceva in coincidenza con la cerimonia pubblica che ne consacra­ va il tempio e ne sanciva ufficialmente l'ingresso in città. Secondo lo spirito autenticamente romano, il rapporto fra gli dèi e la civitas era dunque strettissimo, e improntato a una reciproca dipendenza, che traeva tuttavia origine da un atto rituale umano attraverso il quale le «res sacrae» erano formalmente (quindi con un atto pubblico dotato di validità giuridica) istituite dalle autorità civili: si tratta - come si è detto - della fondazione di un tempio e di un culto specifico rivolto a una divinità con la quale la civi­

tas stringeva un patto certamente asimmetrico, stante la differente natura dei contraenti, ma nondimeno vantaggioso per entrambe le parti: dalla custodia della pax divom (pax deorum nel latino clas­ sico, e cioè letteralmente "accordo, patto con gli dèi")25 la civitas otteneva sicurezza, stabilità e prosperità, e gli dèi ricevevano invece il culto corrispondente di fatto con onori e giochi pubblici e so­ prattutto - come si vedrà - con la celebrazione dell'atto sacrificale. All'asimmetria nella posizione dei contraenti corrisponde un' ana­ loga asimmetria circa il ruolo degli stessi nella custodia della pax: questa dipendeva infatti esclusivamente dall'uomo, che doveva es­ sere attento a non turbare in alcun modo il dio oppure, quando si fosse verificata una mancanza, cosciente o meno che fosse, a pre­ disporre i mezzi più opportuni per ricreare l'equilibrio originario nel rapporto fra le due parti. Una simile concezione "sociale" del rapporto fra le divinità cittadine e la civitas medesima doveva esse25 Il termine pax, corradicale del verbo paciscor, indica in origine un "patto", un accordo stipulato fra due parti. L'espressione pax divom, in cui la forma arcaica del genitivo è da sola attestazione di antichità, si trova testimoniata in età protorepubblicana (cfr., tra gli altri, Plaut., Merc. 678 anche Lucr., V 1 227; Liv., III 5, 14).

GLI DÈI E LA CI VITAS

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re patrimonio comune indoeuropeo, poiché la troviamo attestata, significativamente con l'impiego di termini dalla radice *pac-, an­ che nella città umbra di Iguvium (la moderna Gubbio) , di cui ci è pervenuto un notevole documento, le tabulae lguvinae, databili tra il III e il I secolo a.C., ma contenenti testi collocabili con certezza alla prima metà del I millennio a.C.26. Una formula di invocazio­ ne suona, ad esempio, così: «fututo foner pacrer pase uestra pople totar iiouinar)) ("siate favorevoli con la vostra pace al popolo della città di Gubbio")27• Questo rapporto di appartenenza civile degli dèi al contesto della città è molto efficacemente sintetizzato da Cicerone, il quale af­ ferma che «una civitas communis deorum atque hominum» (''la stessa civitas è comune agli dèi e agli uomini")28, e poco oltre, nello stesso luogo, aggiunge che: «lege quoque consociati homines cum dis putandi sumus. Inter quos porro est communio legis, imer eos communio iuris est>> (''noi uomini dobbiamo considerarci associati agli dèi anche in virtù della legge. E cer­ to fra coloro tra i quali c'è comunanza di leggi, esiste certamente anche comunanza di diritto").

In un altro luogo lo stesso Cicerone specifica che: «est enim mundus quasi communis deorum atque hominum domus aut urbs utrorumque: soli enim ratione utentes iure ac lege vivunt>> (''il

26

Cfr. A Ancillotti - R Cerri, u tavole di Gubbio e la civiltà degli Umbri, Jama, Perugia 1 996.

27 Tab. lguv. Vlb 6 1 (testo e traduzione a cura dell'IRDAU - lstiruto di ricerca e documen­

tazione sugli antichi Umbri, leggibile online sul sito: http://www. tavoleeugubine.it/LE_TAVOLE_DI_GUBBIOIII_tesro/Traduzione.aspx). 28 Cic., Leg. I 23; Fin. III 64.

GLI DÈI DI ROMA ANTICA

26

mondo è come una dimora comune degli dèi e degli uomini ovvero la città di entrambi: infatti solo coloro che usano la ragione vivono secon­ do il diritto e la legge")29,

la situazione di convivenza fra dèi e uomini è qui dichiarata come comune a tutto il mondo, ossia a tutte le civitates del mondo, e la radice comune ne è individuata nella condivisione razionale dello stesso quadro giuridico di riferimento, che dunque include (e al quale dunque sono vincolati) tanto gli uomini quanto gli dèi, e cioè le due parti dell'unica civitas. Tale situazione è certificata dal giurista Ulpiano, secondo il quale la iurisprudentia deve tenere conto della ((summa divisio rerum» (''la somma distinzione fra le cose) : «Summa itaque rerum divisio in duos articulos diducitur: nam aliae sunt divini iuris, aliae humani» (''la somma distinzione fra le cose consiste in due ambiti: infatti alcune cose pertengono al diritto divino, altre a quello umano")30•

Questi due ambiti costituiscono, in una parola, la duplice sfera di pertinenza dello ius publicum romano, che infatti risulta divi­ so in ius humanum e ius divinum: come ancora chiarisce Ulpiano ((publicum ius in sacris, in sacerdotibus, in magistratibus consi­ stit» (''il diritto pubblico verte sui riti sacri, sui sacerdozi e sulle magistrature")31•

29 Cic., Nat. deor. II 1 54. Dig. l, 8, l, pr. 31 Dig. I l , l , 2. 30

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GÙ DÈI E LA CJVJTAS

La religio romana La natura giuridica e civile del

rapporto fra uomini e dèi che si è ap­

pena delineata come caratteristica della sensibilità romana è alla radice di un altro dei tratti peculiari della religiosità di Roma fin dalle sue origini e che - come si è detto - costituisce uno di quegli aspetti che Roma condivide con le altre civiltà politeistiche antiche: lo stretto le­ game di appartenenza che legava le divinità alla civittJS rendeva infatti impossibile la professione di una fede esclusiva, che individuasse dèi autentici e «dèi falsi e bugiardi» (per dirla con Dante); anzi, come ma­ gistralmente sintetizza ancora Cicerone, «Sua cuique civitati religio» (''ogni civittJS ha la sua propria religio") 32 • In questo modo risulta del tutto destituita di fondamento la questione, che pure ha coinvolto gli studiosi fino a epoche piuttosto recenti in minuziose disamine e discettazioni, se i Romani credessero o meno nei loro dèi. [antropo­ logia culturale e la storia delle religioni hanno messo sufficientemente in luce il fatto che l'idea per cui il concetto verbale di fede corrisponda a una capacità distinta e naturale, condivisa universalmente da tutti gli esseri umani, è in effetti da rigettare come infondata: la fede appare piuttosto come un concetto del tutto specifico della cultura cristiana europea, sviluppatosi in conseguenza della centralità acquisita nella nostra cultura dalle dottrine della resurrezione e della redenzione33• Questo dato centrale offre a sua volta una valida spiegazione a due aspetti, sui quali mette conto soffermarsi: l. da un lato il fatto che la lingua latina non possieda un termi­ ne che valga a designare quel complesso di fatti e concetti che costituiscono per noi la religione; 32 Cic., Flacc. 28, 70. 33 Cfr. D. Feeney, Letteratura e religione nell'antica Roma, Salerno Editrice, Roma 1 998, pp. 29-74, ove l'autore offre ampia bibliografia critica sulla questione.

28

GLI DÈI DI ROMA ANTICA

2. dall'altro il fatto, non meno sorprendente dal punto di vista moderno, che nel corso della sua storia e fin dall'età monar­ chica, Roma si sia mostrata quanto mai disponibile all'acco­ glienza entro il proprio pantheon di divinità allogene, secondo le dinamiche di un eclettismo assimilativo davvero singolare nella sua esuberanza34• I..:espressione più generale per indicare l'insieme delle divinità, dei luoghi e delle azioni di culto a esse dedicati è quella - che abbiamo già incontrato - di «res sacrae» (''cose sacre"); comunemente, poi, le azioni rituali che costituiscono l'essenza della religiosità romana sono definite «cultus deorum»35• Il termine religio36 deriva, secon­ do l'etimologia offerta da Nigidio Figulo e poi, sulla sua scorta, da Cicerone37, dal verbo re-legere, nel senso di "considerare di nuovo". Furono poi gli autori cristiani a interpretare il termine come deri­ vato dal verbo religare, nel senso di "unire", "connettere": «Nomen religionis a vinculo pietatis esse deductum, quod hominem sibi Deus religaverit et pietate construxerit» (''Il nome 'religione' deriva dal vinco­ lo della pietà, poiché Dio ha legato a sé l'uomo e lo ha unito con la pierà'')38•

Per quanto ci sia più familiare e consueta, quest'ultima spiegazione etimologica è evidentemente da rigettare, nel contesto che qui si

34 È peralrro interessante osservare il radicale spostamento semantico subito dalla stessa

parola latina fides, designante in origine semplicemente la "lealtà" (nella Roma arcaica venerata come divinità) alla base del "contratto" che legava dèi e uomini in questo mon­ do, e che il cristianesimo avrebbe risemantizzato nel senso, ancora oggi accezione esclu­ siva del sostantivo, di "credenza" religiosa. 35 Cfr. ad esempio. Cic., Nat. deor. I 1 17 e II 8. 36 Cfr. W W Fowler, The Latin history ofthe wordReligio, Clarendon Press, Oxford 1 908. 37 Cic., Nat. deor. II 28; Pro Cluent. 58, 1 59. 38 Lact., lnst. VI 28, 1 2.

GLI DÈI E LA CIVITAS

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sta analizzando: possiamo invece affermare con certezza che il si­ gnificato primitivo di religio è, secondo l'etimologia sopra riferita, quello di "attenzione", "scrupolo". Cicerone poi, nel De inventio­

ne, chiarisce la natura di tale scrupolo: «Religio est quae superioris cuiusdam naturae, quam divinam vocant, curam caerimoniamque effert» (''La religio è ciò che offre premura e azioni rituali alla natura di un essere superiore, che chiamano divinà')39•

Tale dunque il significato originario del termine, che vale di fatto a indicare l'insieme delle pratiche cultuali40 eseguite con meticolosa regolamentazione nei momenti più solenni e in quelli ordinari del­ la vita pubblica dello Stato e di quella privata (ma non per questo meno "istituzionale") della fomilia: «Cumque omnis populi Romani religio in sacra et in auspicia divisa sit, tertium adiunctum sit, si quid praedictionis causa ex portentis et monstris Sibyllae interpretes haruspicesve monuerunt» (''Per quanto tut­ ta la religio del popolo romano si divida nei riti sacri e negli auspici, si potrebbe aggiungere un terzo elemento, se gli interpreti della Sibilla e gli aruspici, nell'intento di predire il futuro, hanno predetto qualcosa a partire dai portenti e dai prodigi")41•

Completamente incentrata sulla pratica cultuale volta a offrire scrupolose «cura caerimoniamque)) (''premura e azioni rituali") agli dèi con cui gli uomini condividevano lo spazio comune del39 Cic., lnv. II 1 6 1 . Il termine caerimonia, conformemente alla sua radice indoeuropea *kwer- ("fare") da cui anche il greco Kpaivw ("compio"), designa specificamente e pro­ priamente l'azione rituale. 40 Quindi religio costituisce l'equivalente esatto di cultus deorum, come attesta ancora lo stesso Cicerone in Nat. deor. II 8: >).

DÈI SENZA TEOLOGIA: FENOMENOLOGIA E NATURA DELLE ANTICHE DIVINITÀ ROMANE

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davanti a questa e a simili forzature volte a postulare nel mondo arcaico romano (ma presso l'umanità arcaica tout-court) un senso del "sacro" che - come si vedrà più specificamente nel capitolo successi­ vo - appare più come una costruzione concettuale della storia delle religioni e dell'antropologia culturale che un dato realmente strut­ turale alla sensibilità religiosa di Roma arcaica: così come in tutte le lingue di origine indoeuropea, anche in latino esiste un termine che vale a designare ognuno di quegli individui divini che manifesta­ no la loro volontà attraverso il loro numen: deus (fem. dea) . Questo termine deriva dall'indoeuropeo *deiuo- (col significato di "celeste", "risplendente", "luminoso") e corrisponde all'indo-iranico devà, al greco 8e6ç, al gallo devo-, all'irlandese dìa, allo scandinavo tìvar, al lituano diewas, all' osco deivai e al veneto zeivos. In tutti i contesti in cui sia possibile precisarne il significato, *deiuo- designa un essere individuale, personale, caratterizzato da precise peculiarità morali e persino fisiche, e da un raggio d'azione limitato.

Dèi senza storia e senza volto: assenza di mitologia e aniconismo nella religione romana arcaica Cosa possiamo dire degli dèi schiettamente e originariamente ro­ mani, del pantheon romano prima che Roma si aprisse alle influen­ ze culturali allogene, prima cioè di dare avvio alla serie di lotte che condusse fin da subito al proprio interno e al proprio esterno, lotte che consentirono da un lato l'emergere di istanze nuove, poiché provenienti da ceti sociali emergenti, dall'altro favorirono il con­ tatto con civiltà diverse, con la cui religio e con i cui dèi occorreva fare in qualche modo i conti?

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GLI DÈI DI ROMA ANTICA

Già prima dell'inizio dei conflitti storicamente documentati, Ro­ ma ebbe da subito una relazione intensa, duratura e particolar­ mente operante con la cultura etrusca, il cui influsso iniziò a eser­ citarsi sulla "teologià' romana fin dall'età monarchica: abbiamo già parlato dell' haruspicina, e possiamo ora aggiungere la prima importante riforma del calendario il quale, proprio sotto l'influs­ so del calendario etrusco, si arricchì dei mesi di gennaio e feb­ braio in quello che è il calendario tradizionalmente attribuito al re Numa. Il principale effetto del contatto con il mondo etrusco consistette tuttavia proprio nell'aprire ampiamente la religione romana a influenze che provenivano da lontano, e in particola­ re dalla Grecia, fornendo il modello delle future interpretationes: Tin-Zeus, Uni-Era, Turan-Mrodite prepararono i Romani alla ricerca di equivalenze che progressivamente si estesero a tutto il

pantheon e promossero l'adozione della sontuosa mitologia greca, che invase la religione romana a partire dal primo secolo della Repubblica e trasformò drasticamente la fisionomia di quelle di­ vinità la cura e la caerimonia offerta alle quali costituiva l'oggetto dell'augusto culto dei padri. Parallelamente, l'introduzione a Ro­ ma delle prime statue per opera di artisti etruschi (formatisi alla scuola dei greci) iniziò a mutare profondamente lo stesso spirito religioso romano arcaico. Ciò che sappiamo, e che dunque possiamo dire della fisionomia e della natura degli dèi autenticamente romani, non alterati e tal­ volta persino annientati dalla marèa greca che sommerse tutto e, soprattutto, travolse progressivamente il "gusto" antico e la cono­ scenza tradizionale, può essere sintetizzato come segue. Il primo dato notevole è un elemento che sembra caratterizzare in modo specifico la religio romana e che, se messo in relazione con la si­ tuazione riscontrabile ad esempio nella "teologia" greca e in quella

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vedica, si configura come una vera e propria singolarità: l'assoluta assenza di ogni mitologia e persino di ogni genealogia divina. Se prescindiamo dai ponderosi apporti greci, gli dèi romani sono to­ talmente privi di storia: non si sa nulla della loro nascita, dei rap­ porti con gli altri dèi, di eventuali amori, guerre, relazioni o con­ tese che li riguardarono e in cui furono coinvolti. Tutta l'esistenza delle divinità romane si concentra e si esaurisce completamente nella celebrazione dell'azione cultuale che, talvolta anche una sola volta nel corso dell'intero anno, li vedeva protagonisti. Questa situazione è tanto più singolare, in quanto è possibile os­ servarla non solamente nella folta schiera degli dèi indigetes, cui ab­ biamo già accennato, ma persino nel caso degli dèi più importanti e più vivi, quelli che nel corso dell'anno ricevevano più frequenti e più sontuosi onori cultuali e che erano titolari di specifici sacer­ dozi: così osserviamo che non avevano una mitologia il sommo Giove, il «padre)) Marte e il problematico Quirino, oggetto di un radicale travisamento che lo portò in età repubblicana a sovrappor­ si allo stesso Marre o addirittura a essere interpretato come Romo­ lo divinizzato; per non parlare poi, ad esempio, di Furrina, titolare nientemeno che di un flaminato, ma della quale già Cicerone mo­ stra di non conoscere né la fisionomia né la pertinenza specifica73, o di Angerona, di Carna e di Carmentis, sulle quali, a differenza di quanto non accada per Furrina, l'indagine può tuttavia giovarsi di alcuni dati che, messi in parallelo con elementi ricavabili per com­ parazione con altri contesti indoeuropei, consentono di illuminare con sufficiente certezza l'antica fisionomia delle tre dee74• 73

Cfr. Cic., Nat. deor. III 46.

74 Su Carna e Carmentis cfr. G. M. Corrias, Dei e religione dell'antica Roma ci t., pp. 55-

59. Su Angerona cfr. G. Dumézil, Déesses latines et mythes védiques, Berchem Bruxelles 1 956, pp. 44-70.

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Il fatto indubitabile dell'inesistenza della narrazione mitologica come strumento di conoscenza dell'interlocutore divino era qual­ cosa che impressionava già la tarda sensibilità romana, che in ge­ nere la ascriveva a vantaggio della patria religio, valutata per questo più pura e rispettosa dell'augusta superiorità degli dèi. Secondo Cicerone, ad esempio: > (''Si erige un altare: qui la rozza contadina porta di sua mano in un piccolo vaso braci prese dal tiepido focolare")220;

e Solino attesta che nell'ultimo giorno di ogni anno, nel mese di marzo, i cittadini riaccendevano il loro focolare prendendo il fuo­ co dalle vestali, che avevano appena riacceso il fuoco di Vesta dopo l'annuale estinzione e il rinnovamento dello stesso221 . Attraverso il fuoco che ardeva accanto all'altare, il sacrificio iniziava dunque con l'invio al dio di incenso e vino: queste due sostanze, «copula­

ta et mixta» («unite e mescolate assieme>>)222, erano inscindibili e indispensabili nell'economia dell'atto sacrificale. Si riteneva infatti che l'incenso avesse la capacità di attirare gli dèi223 e che il vino eguagliasse la potenza divina (si ricordi quanto si è già osservato a proposito della festa dei Vinalia). I...: unione delle due sostanze 2 19 220 22 1 222 223

Cfr. supra p. 55 e nora 88. Ov., Fast. II 645 ss. Cfr. Solin., I 35. Cfr. Arn., VII 26. Cfr. Schol. adAesch., In Timarch. 23, p. 258, ed. Dindorf 1 852.

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produceva, come assicura Teofrasto224, un effluvio soave, che ac­ cresceva le virtù dell'incenso. Il significato di tale gesto rituale era dunque, data la natura dell'offerta, quello di presentarsi al cospetto degli dèi con atteggiamento di omaggio e di sottomissione, sta­ bilendo preventivamente, e con chiarezza, la loro superiorità di rango rispetto ai mortali, per indurii così ad accettare l'invito al banchetto sacrificale assieme agli uomini. Alla praefotio seguiva l' immolatia225• Essa consisteva in tre gesti simbolici compiuti dall'officiante, che anzitutto versava del vino sopra l'animale, quindi lo cospargeva con la mola salsa, il miscu­ glio di farina di farro e muries ("salamoia") preparato dalle Vestali, e infine tracciava col coltello rituale una linea immaginaria tra la fronte e la coda della bestia. Il significato di questi gesti è evidente­ mente quello di consacrare la vittima al dio, di "metterla da parte" destinandola a lui in modo esclusivo, secondo il significato di sacer che si è già analizzato: come si è detto, il vino era considerato so­ stanza divina, e la sua funzione era dunque quella di simboleggiare il trasferimento della proprietà dell'animale dai mortali agli dèi. La farina salata, preparata nell'aedes l&stae, e cioè nella sede del fuoco circolare del sacrificante, aveva il duplice scopo di indicare la provenienza terrestre della vittima e di assolvere, in virtù del tradizionale simbolismo dei cereali, a una funzione propiziatoria. Il simbolismo specifico del grano e degli altri cereali discende dal loro legame particolare con una dea fondamentale del pantheon arcaico romano: Cerere. Cerere è la personificazione della forza vitale, dell'impulso di crescita delle piante e degli animali226: non --

----

224 Teophr., Gli odori 67. 22 5 Cfr., ad esempio, Fest., Pauli epit. p. 97, ed. Lindsay 1 9 1 3; Serv. auer., Ad Aen. X

54 1 .

226 Cfr. G . M. Corrias, Dei e religione dell'antica Roma, ci t., pp. 50-55.

LA CONCEZIONE ROMANA DEL SACRO

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a caso la sua vittima sacrificale tipica è la scrofa, la più prolifica tra le femmine, a lei immolata durante la festa dei Cerialia227• Il no­ me Ceres è peraltro riconducibile alla radice indoeuropea *ker-, da cui deriva l'antico verbo latino cereo e la sua evoluzione creo {con l'incoativo cresco) . Il significato del verbo è chiaro, e implica il con­ cetto di "crescità', "spinta evolutiva vitale". A questa stessa radice si può collegare il sostantivo cerebrum {cervello), che designa pro­ priamente la sostanza vitale e generativa (lo sperma) che, secondo la concezione fisiologica arcaica comune a tutte le civiltà di origine indoeuropea, era contenuta nel cranio (che presso i Romani era, non a caso, la sede specifica del Genius di ogni individuo228) e si trovava diffusa in tutto il corpo: nel midollo spinale, nelle ginoc­ chia (che "si sciolgono" quando l'individuo muore), nel grasso ad­ dominale (l' omentum), e nel sudore229• Questa specifica pertinenza di Cerere ne giustifica con tutta evidenza lo stretto legame con la spiga di grano, e con il chicco (il «seme») in particolare, evidente­ mente assimilato al capo, se è vero che: «prima Ceres docuit turgescere semen in agris, l falce coloratas subse­ cuitque comas. [ . . . ] Diva potens frugum sylvis cessabat in altis; deci­ derant longae spicea serra comae>> ("Cerere per prima insegnò ai semi a inrurgidire nei campi e tagliò con la falce le chiome colorate. [ . . ] La dea .

signora delle messi indugiava nelle alte foreste; la corona di spighe era caduta dalla sua lunga chiomà')23°.

227 Cfr. Ov., Fmt. IV 4 1 3. 228 Cfr. G. M. Corrias, Dei e religione dell'antica Roma, cit., pp. 1 0 1 - 1 03. 229 Cfr. R. B. Onians, Le origini della cultura europea, Adelphi, Milano 1 998, pp. 1 54 n. 2; pp. 1 57- 1 58; 28 lss; p. 210 n. 9; pp. 222ss. 230 Ov., Amores III 10, 1 1 -36. Si noti ancora che una ghirlanda per il capo formata da spighe di grano intrecciate costituiva l'offerta peculiarmente riservata a Cerere: cfr. Ti­ bull., I l , 1 5ss; Ov., Met. X 433; Hor., Carm. saec. 30.

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Infine, dopo la consacrazione, il sacerdote simulava ciò che real­ mente i victimarii sarebbero stati chiamati a compiere, l'uccisione dell'animale per scannamento. In questo modo erano stabilite la consacrazione della vittima al dio (attraverso il vino), la sua origine terrestre e la destinazione propiziatoria del sacrificio, offerto a van­ taggio della collettività che sacrificava (attraverso la mola salsa) , ed era simbolicamente compiuto l'atto supremo del sacrificio, ossia l'uccisione dell'animale. Gli atti sacrificali successivi non sono quasi mai riferiti dalle fonti scritte: ne abbiamo invece chiare testimonianze nelle fonti icono­ grafiche. Probabilmente i Romani ritenevano che l'abbattimento, la dissezio­ ne e la cottura della vittima non fossero degni di essere descritti con ampiezza, poiché erano affidati al personale subalterno. Sappiamo tuttavia con certezza che la porzione riservata agli dèi erano gli exta, ovvero le viscere, che dovevano essere perfette, pena la non validità del sacrificio231• In particolare, la parte del corpo della bestia ritenuta imprescindibile nel sacrificio era l' omentum, il grasso addominale che avvolge le viscere, il quale era interamente bruciato sull' altare232. Una volta offerta al dio la parte a lui riservata, il rito si concludeva con la consumazione della porzione profana della bestia da parte dei sacerdoti233• In sintesi, nella sua complessità liturgica di cui sopra abbiamo ten­ tato una sintetica ricostruzione, il sacrificium non è altro se non la formalizzazione di quel gesto di offerta di cultus (''cura", "attenzio­ ne") rivolta agli dèi, attraverso la quale da un lato gli uomini li ren23 1 Cfr. Geli., IV 6, 6. Cfr. anche Dion. Hai. VII 72. 232 Cfr., ad esempio, Pers., II 47. 233 Cfr. Serv. , AdAen. VI 253.

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devano propizi donando loro quanto li gratificava e rimarcando al tempo stesso la differente gerarchia di natura e di ruolo esistente fra le due parti, dall'altro li invitavano a unirsi al consesso umano condividendo il bene alimentare offerto con gli uomini, che pren­ devano parte al banchetto cibandosi della porzione profana della vittima, e a custodire la pax, l'accordo in virtù del quale la società umana otteneva per sé benevolenza, protezione e prosperità. Ci soffermeremo nel capitolo quarto sulle stringenti analogie riscon­ trabili tra le modalità cultuali tipicamente romane e quelle proprie di altre culture indoeuropee (in primis di quella vedica), e sulle analogie non meno cogenti che sussistono fra il culto romano (e gli altri culti indoeuropei) e quello ebraico, segnatamente in relazione all'atto sacri­ ficale, nel quale si rendono manifeste delle affinità a tal segno puntuali e pervasive da non poter essere trascurate né certo sottovalutate. Li­ mitiamoci per ora a questa semplice segnalazione, procedendo, nello studio del sacro e delle sue manifestazioni tipicamente romane, in una direzione finora sostanzialmente inesplorata, e che invece - proprio per questo - riteniamo meritevole di un'attenzione speciale234•

Aspetti esoterici della religio romana arcaica È infatti idea comunemente e pacificamente accettata - e dunque mai argomentata attraverso le fonti - che tutti i fenomeni ricondu­ cibili all'ambito misterico-iniziatico attestati nel contesto religioso romano siano fatti esclusivamente allogeni e dunque originaria234 Riassumeremo nelle pagine seguenti i risultati dei nostri studi sull'esoterismo roma­

no già presentati nel volume G. M. Corrias, Esoterismo e culti misterici nell'antica Roma, cit., con qualche integrazione e qualche precisazione ulteriore.

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mente del tutto estranei all'indole religiosa romana, strettamente

essoterica e aliena da ogni esoterismo235• Occorre precisare che l'im­ piego che qui facciamo del termine esoterismo, che potrebbe pre­ starsi ai fraintendimenti anche più grossolani, si limita all'accezione tecnica che esso ha assunto nell'ambito degli studi storico-religiosi, secondo cui esso connota una dottrina (e un culto a essa collegato) che disponga dei seguenti caratteri distintivi fondamentali236: l. la credenza nell'esistenza di una "tradizione" ininterrotta che implica la trasmissione diretta e personale di cognizioni spi­ rituali e metafisiche per via iniziatica; 2. la credenza nella confluenza di tutte le tradizioni dottrinali; 3. la credenza nell'esistenza di una precisa corrispondenza ana­ logica fra macrocosmo e microcosmo; 4. la credenza nell'esistenza di stati molteplici dell'essere che emanano, in verticalità discendente, dal Principio metafisico alla manifestazione corporea individuale; 5. la credenza nella possibilità per gli iniziati che posseggano le opportune qualificazioni intellettuali e spirituali di risalire all'inverso l'asse degli stati molteplici dell'Essere fino al ri­ congiungimento con il Principio, ricongiungimento adom­ brato generalmente con la metafora dell'«uscita dal Cosmo» o con quella della «morte e resurrezione» iniziatiche; 6. l'impiego di un corredo di simboli e di riti come "supporto" al percorso iniziatico di evoluzione spirituale. 23 ' In questo senso, ad esempio, si pronuncia icasticamente Renato Del Ponte (R. Del Ponte, La religione dei Romani, cit., p. 244): «La religione romana non ha conosciuto a ogni livello né rivelazioni, né libri sacri, né speciali vie iniziatiche di salvezza». 23 6 Sul significato tecnico del termine esoterismo negli studi storico-religiosi ci siamo soffermati in G. M. Corrias, Esoterismo e culti misterici nell'antica Roma, cit., pp. 7-9.

LA CONCEZIONE ROMANA DEL SACRO

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Ora, l'affermazione di un carattere essoterico esclusivo del sistema cultuale romano si pone, con tutta evidenza, in perfetta consonan­ za

con l'immagine che, sulla base dell'analisi dei documenti, anche

noi in questo studio siamo andati tratteggiando della sensibilità religiosa di Roma arcaica. In questo contesto esegetico, la nascita e lo sviluppo di due delle più antiche forme cultuali di matrice misterica rintracciabili a Roma (e segnatamente il culto eleusino di Demetra, Core e lacco e il culto di Dioniso/Bacco, entrambi accolti a Roma in età protorepubblicana) sono normalmente in­ quadrati entro le coordinate più ampie di quel noto processo di assimilazione della cultura greca che la civiltà romana, a partire dai suoi primi contatti con l'Italia meridionale in occasione delle guerre sannitiche prima e della guerra tarantina poi, assorbì tan­ to in profondità da risultarne gradualmente, ma inesorabilmente, trasformata fin nelle strutture più profonde. Ebbene, ciò che un'attenta analisi documentale consente invece di evincere, è che se dei culti indiscutibilmente misterici sono stati acquisiti a Roma dalla Grecia attraverso il noto meccanismo dell' interpretatio, che ha costituito la principale dinamica di evolu­ zione della fisionomia del pantheon romano arcaico, ciò è accadu­ to proprio per il fatto che, analogamente a quanto accadeva nella religione Greca e in quella vedica, la religio romana doveva avere, accanto al complesso apparato cultuale che la caratterizzava e di cui abbiamo già discusso presentandone lo spirito, le peculiarità, le modalità e le finalità, anche delle espressioni autenticamente eso­ teriche, certo collaterali e opzionali rispetto al primo, che hanno reso possibile quel meccanismo di interpretatio (ossia di assimila­ zione dei caratteri e del culto di divinità greche a caratteri e culto propri di divinità romane) che altrimenti sarebbe stato privo della

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GLI DÈI DI ROMA ANTICA

possibilità di attuarsi nonché, più drasticamente, di materiale a cui applicarsi. Abbiamo parlato di espressioni religiose marginali e opzionali237, e teniamo a sottolinearne, appunto, la marginalità e l' opzionalità rispetto all' onnipervasività e all'obbligatorietà delle pratiche rituali del grande culto ufficiale di Stato che costituisce l'essenza e la somma manifestazione dello spirito religioso romano. Ma le fonti testimoniano con lampante chiarezza dell'esistenza e, sebbene con lamentevole scarsezza di dettagli, persino delle dina­ miche rituali di alcuni culti, ribadiamolo, apertamente misterico­ iniziatici (ossia esoterici, nel senso sopra chiarito) , di cui offriremo a seguire una sintetica esposizione. Prima che, nel III secolo a.C., il culto eleusino di Demetra venisse adottato a Roma, la dea Cerere, antica divinità romana che - come si è accennato - presiedeva alla fecondità delle specie viventi e alla loro perpetuazione sulla terra, era anche legata a un luogo, sacro e terribile insieme, il mundus, e a un particolare rito che in esso ve­ niva celebrato. Come abbiamo visto, con il termine mundus alcune fonti designano la fossa che avrebbe costituito il centro rituale di fondazione della città di Roma238; ma lo stesso termine viene uti­ lizzato, con esplicita attribuzione a Cerere («mundus Cereris)): "il

mundus di Cerere"239), per designare un luogo ipogeo collocato proprio entro il recinto del tempio di Cerere (alquanto simile, pe­ raltro, alla «grotta dell'Ade)) ove giungeva al suo apice la prima fase, quella luttuosa e funebre che si riferiva al rapimento di Persefone da parte di Plutone, dei misteri di Eleusi240), che tre volte all'an23 7 Così a proposito dei culri misterici tout-court si esprime, sorrolineandone soprattutto

il carattere di opzionalità rispetto al culto ufficiale dello Stato, Cfr. W Burkert, Antichi culti misterici, Laterza, Roma-Bari 1989, p. 18. m Cfr. Plut., Rom. IX-XII.

239 Cfr, Fest., p. 273, ed. Lindsay 1 930.

24° Cfr. Tert., Ad nat. II 7, l S.

LA CONCEZIONE ROMANA DEL SA CRO

lll

n o veniva aperto e diventava il teatro d i una liturgia misteriosa e avvolta nell'oscurità. Varrone ricollega il mundus al concetto di

puritia, tramite l'analogo derivato munditia24 1 : attraverso tale base semantica fu possibile anche l'assimilazione con il greco KOUJ.lÉW ("adornare") e KOUJ.I.Oç ("universo")242• Macrobio invece identifica direttamente il mundus come «deorum inferum et tristium [ . ] ianua)) (''porta degli dèi inferi e malvagi")243. . .

È poi Festo a proporre esplicitamente, sulla scorta di Catone, una identificazione diretta fra mundus-cosmo e mundus-pozw: in un passo del suo De verborum significatione, egli annota che, a detta di Catone (il figlio del Censore), il mundus prendeva il suo nome da quello del mundus-cosmo, poiché la sua forma era analoga, secondo la testimonianza di chi vi era penetrato, a quella della volta celeste244; lo stesso Festo informa altresì che esso era dotato di un ambien­ te sotterraneo consacrato agli dèi Mani (i tremendi "buoni", come suggerisce l'antinomica e apotropaica etimologia del loro nome, e cioè la confusa folla degli abitanti divini dell'altro mondo, di cui i Romani non si fecero mai una rappresentazione organica, prima che l'introduzione di Dispater e Proserpina trasformasse questo caotico e indistinto coacervo d'ombre in un regno ordinato)245, che rimaneva chiuso per la maggior parte dell'anno, eccetto in occasione di alcune festività in onore di queste divinità infere, durante le quali era nefa­ sto svolgere attività politiche, militari e persino private. [assenza di dettagli sullo svolgimento delle azioni rituali che avevano luogo nel

mundus Cereris non consente di formulare ipotesi sufficientemente 24 1 Cfr. Varr., Sat. Men. 420. 242 Cfr., ad esempio, Plin., Nat. hist. II 8. 243 Macr., I 16, 1 8. 244 Cfr. Fest., p. 273, ed. Lindsay 1 930. 245 Sui Mani cfr. G. M. Corrias, Dei e religione dell'antica Roma, cit., pp. 53-55; 1 04-1 07.

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GLI DÈI D I ROMA ANTICA

fondate; ci pare tuttavia che il significato più evidente dell'apertura del mundus sia la creazione di un collegamento fra realtà superiore e realtà inferiore, collegamento che doveva avere, a sua volta, un legame con la germinazione e la vita, stante la tutela di Cerere sotto cui l'atto rituale e il luogo in cui esso si celebrava erano posti: la creazione cioè di un passaggio dalla vita alla morte e viceversa246• Ora, crediamo che proprio questo aspetto costituisca l'indizio più interessante della probabile natura iniziatica del rito: la vita che esso era infatti volto a garantire non può - a nostro modo di vedere - che essere di natura iniziatica (il superamento della dimensione immanente e la rinascita alla vita qualitativamente superiore del Principio trascendente), ciò che precisamente costituisce la ragione di ogni esoterismo. Una significativa conferma di ciò ci pare giungere dal modo in cui Festo, nel passo citato, definisce il culto che si celebrava nel mundus Cereris: «occulta et abdita religio» ("cerimonia occulta e segretà'), facendo evidentemente allusione proprio al carattere iniziatico della stessa. Nei misteri di Eleusi, a Demetra erano associate altre due divini­ tà: la figlia Proserpina (Core, la "fanciullà' per antonomasia) e il fanciullo lacco, l' «archegeta» (''somma guida") dei misteri, dalle fonti interpretato come ipòstasi del dio Dioniso247. Dioniso era a sua volta titolare, in Grecia, di un fortunatissimo culto misterico autonomo dai caratteri marcatamente orgiastico-entusiastici, che penetrò profondamente in Italia e a Roma certamente dalla Magna

Graecia, fino ad assumere una diffusione straordinariamente am­ pia e capillare, come risulta dalle proporzioni del celebre scandalo 246 Notiamo che l'atto della catabasi (la discesa agli inferi) è ambage del viaggio mistico­ iniziatico che ha numerose attestazioni nel mondo antico, dal già citato mito di Demetra e Core alle numerose discese agli inferi narrate nell'Epopea di Gilgamesh, nell'Odissea, nell'Eneide, nel Beowu/f, nelle Metamoifosi di Apuleio, e persino negli Atti degli Apostoli. 247 Cfr. Suid., >, la cui natura è quindi ine­ quivocabilmente esoterica e iniziatica; dall'altro il fatto che i testi citati attribuiscono a questo culto la specifica finalità di garantire la conservazione di Roma e del suo imperium contro i nemici. Si tratta - come è evidente - della medesima finalità generale di tutto l'esuberante apparato cultuale essoterico, del quale anzi esso sembre­ rebbe costituire il complemento, o forse, come ancora è possibile desumere dalle fonti, ilfondamento esoterico: in un passo tràdito da Agostino, Varrone spiega l'origine delle due arche ritrovate nel 1 8 1 a.C. sul Gianicolo, una delle quali, vuota ma recante un'iscrizione col nome del sovrano, era quella del re Numa Pompilio, mentre l'altra racchiudeva alcuni libri nei quali sarebbero state contenute la dottrina segreta e le «cause» dei riti istituiti da Numa. Di questi preziosi libri tuttavia, dopo che li ebbe letti, il pretore Quinto Pe­ tilio dispose l'immediata distruzione, perché il loro contenuto fu giudicato sconvolgente. Citiamo il passo agostiniano per esteso: > (sub voce), p. 304. 329 Cfr. E. A. Havelock, Dike. La nascita della coscienza, Laterza, Roma-Bari, 1 98 1 , pp. 287-306.

ISO

GLI DÈI DI ROMA ANTICA

dotta in termini funzionali, significa in concreto che il greco arcaico è totalmente incapace di astrazione e persino di concettualizzazione in senso stretto, e appare invece legato in modo esclusivo alla descri­ zione di una precisa e determinata circostanza effettiva. Non esistono

-

è vero - testimonianze testuali così alte della civiltà

romana; ma ci sentiamo di poter affermare senza la paura di allon­ tanarci troppo dal vero che la lingua latina arcaica deve aver con­ diviso con quella greca quella caratteristica incapacità di definire la realtà attraverso processi cognitivi di astrazione, che gli studi di psicolinguistica hanno chiarito appartenere universalmente a tutte le culture a oralità primaria. In uno studio ormai classico, Oralità

e scrittura330, Walter Jackson Ong parte da una descrizione della psicodinamica dell' oralita, per studiare quali conseguenze abbia provocato su di essa l'affermarsi della cultura scritta331 • Secondo lo studioso statunitense, la scrittura non è un semplice supporto verbale alternativo all' oralità, ma una dimensione che, sebbene la presupponga indispensabilmente, ne amplia e ne trascende radical­ mente il campo specifico di possibilità. Essa infatti determina (ov­ viamente quando si affermi come modalità generale e pervasiva di produzione e fruizione linguistica, il che avvenne in Grecia proprio a partire all'epoca di Platone e a Roma soltanto nel III secolo a.C.) una vera e propria ristrutturazione cognitiva e crea le condizioni per la nascita del pensiero razionale astratto, analitico, sequenziale, classificatorio ed esplicativo, che sostituisce la logica contingente, situazionale, denotativa, paratattica, aggregativa e ridondante tipica delle culture orali. Una fondamentale conferma di questo stato di 330 W. J. Ong, Oralità e scrittura. Le tecnologie &Ila parola, Il Mulino, Bologna 1986. 33! Cfr. Ibidem, pp. 39-57.

LA RELIGIONE DI ROMA ANTICA IN PROSPETTIVA COMPARATISTICA

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cose è fornita dall'etnologia, in particolare dai notevoli esperimenti condotti da Alexander Romanovich Luria negli anni Trenta - i cui risultati sono da Ong riferiti332 - da cui, in sintesi, emerge in parti­ colare che «una moderata conoscenza della scrittura è sufficiente a creare grandissime differenze nei processi mentali» e che: «una cultura orale semplicemente non riesce a pensare in termini di figure geometriche, categorie astratte, logica formale, definizioni, o anche descri­ zioni inclusive o auto-analisi articolate che derivano rutte non semplice­ mente dal pensiero in sé, ma dal pensiero condizionato dalla scrittura>>333•

Per estendere il quadro entro coordinate più universali, possiamo almeno accennare al fatto che la dinamica che si è ora osservata può trovare, ad esempio, un significativo parallelo nella "rivoluzione della scritturà' verificatasi in Cina subito dopo la rivoluzione "eticà' imposta dal confucianesimo, ossia nel corso del V secolo, alla fine dell'epoca delle «Primavere e Autunni», quando in seguito a una rivoluzione sociale che portò la classe subalterna degli shi a imporsi sull'aristocrazia tradizionale, cui usurpò anche la competenza esclu­ siva della scrittura, ebbe origine la fiorente tradizione logica della «scuola delle forme e dei nomi», che proprio per il suo specifico carattere razionalistico fu bersaglio privilegiato degli strali metafi­ sici dello Zhuang-zi, capolavoro del taoismo334• In questo senso la rideterminazione logico-cognitiva avviata dall'imporsi della cultura scritta nelle varie regioni del mondo è, a tutti gli effetti, inquadra­ bile come uno degli aspetti più significativi di quella rivoluzione 332 Cfr. Ibidem, pp. BOss.

333 Cfr. Ibidem, pp. 81 e 86. 334 Cfr. A. Cheng, Storia delpensiero cinese, Mondadori, Milano 2010, pp. 1 3 1 ss.

assiale che le differenti culture del mondo conobbero intorno al VI secolo, e di cui abbiamo già tratteggiato i caratteri più generali. Questa lunga digressione ci riporta d'impeto alle riflessioni da cui siamo partiti, fornendoci un ulteriore, e riteniamo efficacissimo, strumento d'analisi; se - come pare sia accaduto realmente - le culture arcaiche sono effettivamente caratterizzate dall'incapacità

cognitiva strutturale di: «pensare in termini di [

. . .

] categorie astratte, logica formale, definizioni,

o anche descrizioni inclusive o auto-analisi articolate che derivano tutte non semplicemente dal pensiero in sé, ma dal pensiero condizionato dalla scrittura»,

come si può anche soltanto immaginare che quelle culture abbiano concepito l'idea di un dio trascendente, assoluto, infinito, eterno, onnipotente e onniscente? Lanalisi psicolinguistica conferma in­ somma quanto già era emerso dall'analisi testuale: gli dèi delle reli­ gioni arcaiche, e dunque di quella romana, non hanno nulla a che vedere con quella concezione del divino che avrebbe caratterizzato le "moderne" religioni dogmatiche e fideistiche.

5

Una conclusione (?)

A una prima conclusione, in realtà, siamo già arrivati. La ribadia­ mo qui in maniera estremamente sintetica: gli dèi di Roma anti­ ca, analogamente agli dèi come si possono descrivere attraverso lo studio di altri apparati cultuali arcaici, non erano esseri "divini", se attribuiamo a questo aggettivo quello specifico significato che esso ha assunto nelle lingue delle culture moderne. Ma affermare questo, e dunque affermare che gli dèi erano esseri materiali, cor­ porei, limitati (sebbene molto più potenti dell'uomo) , specializzati nell'espletamento di un compito spesso anche alquanto preciso, caratterizzati da un'indole e addirittura da un aspetto fisico ben delineabili, forse persino mortali, che vissero a stretto contatto con gli esseri umani costringendoli a un culto molto esigente e artico­ lato; ebbene, affermare ciò significa anzitutto aprire una voragine sotto alle consolidate tranquillizzanti certezze che sempre abbiamo avuto sul mondo classico, e in secondo luogo significa dare adito a un altro interrogativo, ancora più problematico e destabilizzante: dunque chi erano gli dèi romani? Da diversi anni Mauro Biglino, sviluppando intuizioni e tesi già offerte a proposito del mondo sumero-accadico da Zecharia Sitchin, sta portando avanti una lettura letterale del testo bibli­ co, da cui emerge un'ipotesi suggestiva quanto sconcertante: gli Elohim (Yhwh era solo «uno dei tanti)), l'Elohim di Israele) erano

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GLI DÈI DI ROMA ANTICA

in realtà individui appartenenti a una specie superiore, venuti sulla Terra da un "altrove" non meglio definibile, che avrebbero attuato una sistematica occupazione e una spartizione del Pianeta, con­ trollandolo attraverso la raffinata tecnologia di cui disponevano. Non possiamo evidentemente spingerei oltre questa sintetica in­ dicazione, che in ogni caso non restituisce neanche l'ombra delle meticolose indagini testuali offerte dallo studioso nelle sue nume­ rose pubblicazioni. In che misura questa teoria potrebbe essere applicata al contesto della religio romana non sapremmo dire con certezza, soprattutto perché, a differenza degli Israeliti, i Romani di epoca arcaica non hanno lasciato nessuna testimonianza neppure vagamente parago­ nabile all'Antico Testamento. Certo, la puntualità dei parallelismi e delle analogie che abbiamo segnalato nel precedente capitolo non può lasciare indifferenti, e dovrà pur significare qualcosa. A complicare ulteriormente le cose, resta inoltre l'incognito sulla reale natura e sulle reali finalità di quei culti di tipo misterico­ iniziatico di cui abbiamo rintracciato e presentato gli indizi più co­ genti, e dei quali abbiamo stabilito, con un buon grado di certezza, la piena integrazione entro il sistema del culto pubblico. La stessa situazione, Roma la condivide con l'India vedica, dove, a parte il voluminoso corpus esoterico degli Ara1Jyaka, l'effetto immediato del rito sacrificale è sempre descritto come una nascita iniziatica del sacrificante. Abbiamo affermato, nel corso della nostra esposi­ zione, di credere alla buona fede degli antichi misti che, a quanto chiariscono le fonti, individuavano nel percorso rituale iniziatico una via di superamento effettivo dello stato di esistenza individua­ le e contingente attraverso l'acquisizione di una "vità' nuova, tra­ scendente, in unione con il Principio metafisica. Ebbene, dobbia-

UNA CONCLUSIONE (?)

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mo onestamente ammettere che, al netto della nostra fiducia nella buona fede di quegli uomini, non sapremmo dire cosa realmente corrisponda a essa, e il buon senso ci insinua la considerazione che fin troppo spesso la buona fede si rivela mal riposta. Concludiamo dunque così, senza una vera e propria parola con­ clusiva. Crediamo di esserci spinti fin dove era sensato farlo, e la­ sciamo volentieri alla meditazione individuale dei lettori il compi­ to di integrare e comporre le informazioni che abbiamo offerto nel quadro esegetico complessivo che riterranno più soddisfacente. Di una cosa possiamo dirci sicuri: l'adagio ciceroniano per cui «anti­ quitas proxume accedit ad deos» (''gli antichi si sono accostati da vicino agli dèi")335 è certamente più che una semplice espressione metaforica.

335 Cic., Leg. II 27.

Riferimenti abbreviati agli autori e ai testi classici

I nomi degli autori, i titoli delle opere greche e quelli greci di opere latine sono riportati in italiano. Aug. [Agostino di Ippona]

Civ. Dei [De civitate Dei] Arn. [Arnobio, Disputationes adversus Nationes] Cato [Marco Porcia Catone]

Agr. [De agri cultura] Catuli. [Gaio Valeria Catullo, Carmina] Cic. [Cicerone]

Acad. pr. [Academica priora] Calp. Pis. [In Lucium Calpurnium Pisonem] Div. [De divinatione] Dom. [Pro domo sua] Fin. [De finibus bonorum et malorum] Flacc. [Pro Fiacco] Inv. [De inventione] Leg. [De legibus] Leg. agr. [De lege agraria] Nat. deor. [De natura deorum] Phil [Philippicae] Rep. [De Re publica]

1 58

GLI DÈI DI ROMA ANTICA

[Corpus Inscriptionum Latinarum, Berlino 1 863ss, consultabile online all'uRL: http:/l cil.bbaw.de/cil_en/index_en.html] CIL

Clem. Alex. [Clemente Alessandrino]

Protr. [Protrettico] Dig. [Digesto] Dion. Hal. [Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane] Fest. [Pompeo Pesto, De verborum significatione] Fest. , Pauli epit. [epitome del De verborum significatione redatta da Paolo Diacono] Gell. [Aulo Gellio, Noctes Acticae] Hist. Aug. [Scriptores Historiae Augustae]

Hel l&rus [ Vita di Elio l&ro] ps.-Hom. [pseudo Omero]

AdAphrod. [Inno ad Afrodite] Hor. [Orazio]

Carm. saec. [Carmen saeculare] Ep. [Epistole] Epod. [Epòdi] Od. [Odi] Serm. [Satire] Ioh. Lid. [Giovanni Lido]

Mens. [De mensibus] Lact. [Lattanzio]

Inst. [De divinis Institutionibus]

RIFERIMENTI ABBREVIATI AGLI AUTORI E AI TESTI CLASSICI

Liv. [Tito Livio, Libri ab Urbe condita] Lucr. [Lucrezio, De rerum natura] Macr. [Macrobio, Saturnalia] Nonius [Nonio Marcello, De compendiosa doctrina] Oros. [Paolo Orosio, Historiae adversus paganos] Ov. [Ovidio]

Amores Ep. Ex. Pont. [Epistulae ex Ponto] Fast. [Fasti] Met. [Metamoifosi] Pers. [Aulo Persio Fiacco, Satire] Plaut. [P lauto]

Merc. [Mercator] Mi!. [Mi/es gloriosus] Poen. [Poenulus] Trin. [ Trinummus] Truc. [ Truculentus] Plin. [Plinio il Vecchio]

Nat. hist. [Naturalis historia] Plut. [Plutarco]

Caes. [ Vita di Cesare] C. Gracc. [ Vita di Gaio Gracco] Coriolanus [ Vita di Coriolano] Num. [ Vita di Numa] Rom. [ Vita di Romolo]

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GLI DÈI Dl ROMA ANTICA

Syll. [ Vita di Silla] Quaest. Rom. [Questioni romane] Polib. [Polibio, Storie] Pomp. [Sesto Pomponio]

Orig. iur. [De origine iurisfragmentum] Prop. [Properzio, Elegie] Quint. [Quintiliano, lnstitutio oratoria]

Schol. ad Aesch. [Scholia ad Aeschinem] In Timarch. [Contro Timarco] Sen. [Lucio Anneo Seneca il Vecchio]

Controv. [ Controversiae] Serv. [Servio]

AdAen. [ Commentarium ad Vergilii Aeneida] Ad. Georg. [ Commentarium ad Vergilii Georgica] Ad. Ecl. [ Commentarium ad Vergilii Eclogas] Serv. auct. [Servius auctus]

Ad Aen. [ Commentarium ad Vergilii Aeneida] Solin. [Gaio Giulio Solino, Collectanea rerum memorabilium] Strab. [Strabone, Geografia] Suid. [Suidas, Lexicon] Tac. [Tacito]

Ann. [Anna/es]

RIFERIMENTI ABBREVIATI AGLI AUTORI E Al TESTI CLASSICI

Teophr. [Teofrasto]

Gli odori Tert. [Tertulliano]

Ad nat. [Ad nationes] Spec. [De spectaculis] Tibull. [Tibullo, Elegie] Val. Max. [Valerio Massimo, Facta et dieta memorabilia] Varr. [Marco Terenzio Varrone]

Ling. Lat. [De lingua Latina] Re rust. [De re rustica] Sat. Men. [Saturae Menippeae] Verg. [Virgilio]

Aen. [Eneide] Georg. [Georgiche] Ecl. [Bucoliche]

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L'autore

Gian Matteo Corrias

(Oristano, 1 977). Dopo aver conseguito nel

2002 la laurea in Filologia Umanistica all'Università degli Studi di Firenze, si è addottorato nel 2006 in Civiltà dell'Umanesimo e del Rinascimento presso la stessa Università occupandosi dell'opera di Lorenzo Valla e di Leon Battista Alberti. Da settembre 2004 a giugno 2005 ha seguito il corso di Litterature Néolatine tenuto dalla professoressa P. Galand-Hallyn all' École Pratique des Hautes Etudes di Parigi. Autore di numerose pubblicazioni di ambito storico e filologico, ha pubblicato per la casa editrice Arkadia i volumi Dei e religione

dell'antica Roma (20 1 5) ed Esoterismo e culti misterici nell'antica Roma (20 1 6) ; nella rivista «Monti Prama», di cui ora è direttore di redazione, ha pubblicato vari contributi relativi soprattutto allo studio del simbolo.