Gli assassini per la pace

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ROBERT CHARLES

GLI ASSASSINI PER LA PACE

Longanesi & C., © 1968, Milano Traduzione dall'originale inglese Assassins For Peace di Renato Pera Copyright © Robert Charles 1967

NOTE DI COPERTINA Simon Larren, agente segreto «duro» e grande lanciatore di coltelli, deve catturare a ogni costo l’assassino di un ministro inglese. Ne segue le tracce dall’Inghilterra a Tangeri e infine in un misterioso aeroporto nel deserto del Sahara. Qui scoprirà che non si tratta di un solo assassino, ma di diversi, e tutti molto per bene.

GLI ASSASSINI PER LA PACE CAPITOLO I SCENA PRIMA L’UOMO chiamato Skoda accarezzò il suo fucile con mano da innamorato, provando per esso un calore che non aveva mai provato per nessuna donna. Inquadrò, per la terza volta, nel mirino del cannocchiale il colonnato dell’ingresso del moderno Tempest Club, al di là dei giardini che occupavano gran parte della piazza sottostante. Le sottili ortogonali del cannocchiale si fermarono un attimo sull’ampio torace del portiere dai capelli grigi che attendeva tranquillamente all’ombra dietro i battenti spalancati della porta, e l’uomo dal fucile si sentì attraversare la spina dorsale da un brivido di piacere. Poi, con una certa riluttanza, abbassò l’arma e si allontanò dalla finestra. Skoda prima di allora non aveva mai ucciso un uomo, e ne aveva una voglia matta. Ma quelli che avevano individuato in lui il suo potenziale omicida non lo avevano addestrato per uccidere un qualsiasi portiere. Avrebbe solo dovuto attendere un altro po’. La sera di giugno era ancora calda, e un piccione che veniva da Trafalgar Square andò a posarsi, dopo qualche esitazione, sul prato circondato dalle imponenti facciate di alcuni dei più vecchi palazzi di Londra. Il traffico della città era convulso come al solito, ma penetrava a fatica in quell’angolo tranquillo. C’erano alcune macchine parcheggiate, una Mercedes, una Rolls Silver Phantom e una Jaguar nera scintillante, ma Skoda non le notò nemmeno. Le belle macchine non lo interessavano, ed oltretutto non aveva nemmeno la patente. Tutto quello che voleva si trovava ora tra le sue mani pallide ed ossute.

Restò per un momento a guardare il piccione. L’uccello si lisciò con il becco le piume e poi allungò con scarsa convinzione il collo alla ricerca di cibo. Skoda da ragazzo aveva sparato a molti piccioni, e sapeva che con un sol colpo del suo fucile avrebbe potuto staccargli la testa di netto. L’idea lo tentava, avrebbe potuto essere un’ultima forma di allenamento prima della grande prova. Ma poi ci ripensò e scosse il capo. Dette un’occhiata all’orologio. Erano le sette e cinquantacinque. La sua vittima poteva arrivare da un momento all’altro. Si volse a controllare la porta chiusa a chiave alle sue spalle, ma non pensava affatto che qualcuno potesse entrare. La stanza, e tutto l’attico del palazzo, erano in fase di ammodernamento, e non c’era quindi alcun motivo per preoccuparsi di eventuali visite. Gli operai se n’erano andati da un paio d’ore. Li aveva incrociati per le scale mentre saliva, portando il fucile smontato dentro una cassetta d’attrezzi. Era stato tutto straordinariamente facile; esattamente come gli avevano detto. Sorrise al pensiero, dato che quel Club era selezionato e riservato quasi come il Tempest, e anche nella sua limitata immaginazione riusciva a prevedere la costernazione dei soci e del personale quando avrebbero saputo la notizia. Né lo preoccupavano i particolari della sua fuga. Soci e personale del circolo erano invariabilmente vecchi, afflitti dalla gotta e gonfi di Porto; correndo in fretta e tenendoli a bada col fucile non avrebbe avuto difficoltà ad allontanarsi dal circolo. Doveva perciò solamente scendere in fretta le scale e uscire dall’ingresso dei fornitori, dove avrebbe trovato una veloce macchina che l’avrebbe portato in salvo. Skoda era un irriflessivo che credeva a tutto ciò che gli dicevano. Ed oltre a ciò aveva una illimitata fiducia nel magnifico fucile che gli avevano dato. Attendeva pazientemente. Si irrigidì al rumore di un’automobile, ma quando la vide si rilassò. Era un grosso taxi nero che si era andato a fermare ad un angolo della piazza. Ne uscirono con calma due uomini, che scomparirono nel portone di un palazzo. Il taxi si allontanò. Il piccione grigio abbandonò la sua infruttuosa ricerca di cibo e si librò d’improvviso in aria sbattendo le ali. Fu allora che apparvero due elmetti blu scuro di un poliziotto e di un sergente. I due uomini camminavano lentamente e andarono a fermarsi vicino all’ingresso del Tempest Club. Erano in attesa anche loro. All’apparizione dei due poliziotti Skoda comprese che la sua vittima stava per arrivare e sorrise. Cinque minuti più tardi si udì il rumore di un’altra macchina che si avvicinava. I due poliziotti andarono a sistemarsi ai due lati dell’ingresso e si irrigidirono sull’attenti, mentre faceva lentamente il suo ingresso nella piazza una Wolseley nera. Andò a fermarsi esattamente di fronte al Tempest Club, e il sergente si affrettò ad aprire la portiera posteriore. Dietro di lui il portiere si era materializzato dall’ombra, per poi fermarsi una volta accortosi che non c’era bisogno di lui. Skoda prese fiato lentamente e altrettanto lentamente sollevò la canna del fucile. Per un attimo la macchina gli impedì la visuale dell’uomo alto dai capelli grigi che scendeva, ma appena lo stesso si raddrizzò dirigendosi verso il portone, la testa e le spalle si stagliarono al di sopra del tetto della macchina. Skoda inquadrò nelle

ortogonali del cannocchiale la nuca dell’uomo. Notò appena i due agenti del Servizio speciale che erano usciti anch’essi dall’auto, e dimenticò completamente i due poliziotti irrigiditi sul saluto. Assaporò fino in fondo quel momento di ineffabile piacere, seguendo l’uomo che saliva i tre ampi scalini verso il colonnato dell’ingresso, e poi il suo indice ricurvo premette delicatamente il grilletto. L’improvvisa detonazione violò brutalmente l’assoluta pace di quel tardo pomeriggio d’estate, e l’Onorevole Sir Howard Davies, K.B.E., v.c., M.P. e Primo Ministro di Gran Bretagna morì istantaneamente nel momento in cui il proiettile ad alta velocità del fucile di Skoda gli penetrò nel cranio. Dalla finestra dell’ultimo piano del Bedford Hotel, Andre Jouvert non riusciva a vedere l’ingresso del Tempest Club, ma aveva in compenso un’ottima visuale della finestra spalancata dalla quale Skoda aveva sparato il colpo fatale. E la visuale era oltretutto ravvicinata da un cannocchiale telescopico montato sopra un fucile identico a quello di Skoda. L’unica differenza fra le due armi era che quella di Jouvert aveva applicato alla canna un silenziatore che avrebbe attutito la detonazione. Jouvert notò il sorriso di compiacimento che si dipinse sul viso di Skoda mentre l’eco del primo sparo si smorzava in lontananza, e capì che il suo allievo era stato addestrato alla perfezione. Il colpo era andato a segno. Senza alcuna emozione fece allora fuoco, e uccise l’assassino che l’aveva considerato un maestro e un amico; poi, il suo unico pensiero fu che Skoda era un idiota. Skoda non si era mai chiesto il perché quegli uomini avessero bisogno di lui. Qualcuno più sveglio di lui avrebbe potuto chiedersi perché non avessero utilizzato al posto suo quell’esperto tiratore che lo aveva addestrato, ma non Skoda. E nella massima innocenza aveva creduto che si sarebbero assunti il rischio della sua fuga, ben sapendo che il rumore della detonazione e la traiettoria del colpo l’avrebbero subito fatto individuare dai due agenti del Servizio Speciale che erano le guardie del corpo permanenti del Primo Ministro. Jouvert sorrise nel pensare alla faccia che avrebbero fatto gli agenti dopo avere buttato giù la porta della camera di Skoda. Sicuri di dovere sostenere una colluttazione o più probabilmente una sparatoria, si sarebbero trovati invece di fronte ad un cadavere dall’espressione stupefatta. E per accertare la traiettoria del secondo colpo ne avrebbero impiegato di tempo! In fretta, ma senza precipitazione, Jouvert smontò il fucile e ne sistemò i pezzi dentro una valigia che giaceva spalancata sul letto. Si era già esercitato in quell’operazione diverse volte, e riuscì perciò ad impiegarci meno di trenta secondi. Richiuse la cerniera lampo della valigia, vi applicò un lucchetto e fu pronto per andarsene. Si dette un’ultima controllata allo specchio per una decina di secondi, cercando eventuali macchie di lubrificante. Non ce n’era alcuna, e la cosa lo fece ammiccare allegramente alla sua immagine riflessa. Poi uscì e si richiuse la porta dietro le spalle. Prese a camminare speditamente, ma sempre senza alcuna precipitazione, con la valigetta infilata innocentemente sotto un braccio. Sapeva che da quel momento le auto della polizia avrebbero cominciato il loro carosello davanti all’ingresso

principale dell’albergo dirette verso il luogo del delitto, e decise perciò di allontanarsi da un’uscita secondaria. A pochi metri di distanza era parcheggiata una Mini Morris rosso chiara; vi salì a bordo, e si infilò nel traffico caotico del West End. Mezz’ora dopo Jouvert faceva un dettagliato rapporto ad un uomo robusto e semicalvo di nome Henderson. Stavano tutti e due in piedi in una stanzetta stretta e senza finestre. L’arredamento era composto da un tavolino centrale con tre o quattro sedie, e la nota stonata era costituita da un potente radiotrasmettitore poggiato su un altro tavolo in un angolo. Davanti alla radio era seduto un uomo, con una sigaretta che gli pendeva dal labbro inferiore; accanto alla radio era spalancato un libro tascabile. Non c’era nella stanza nessun altro. Henderson ascoltava il pacato racconto degli avvenimenti che gli faceva Jouvert e, nonostante fosse il supervisore della zona, non riuscì a sopprimere dentro di se qualcosa di molto simile ad un brivido. Poteva anche essere semplice progettare l’assassinio di una persona come aveva fatto lui, oppure uccidere uno sconosciuto come aveva fatto Skoda, ma uccidere a sangue freddo un uomo che si è addestrati personalmente per sei mesi era qualcosa di diverso. E contribuiva a collocare Jouvert in una categoria a sé. Henderson riuscì comunque a non far trasparire i suoi pensieri, e quando Jouvert ebbe terminato, gli chiese: «Sei certo che Skoda sia morto?» Jouvert lo guardò freddamente. «Non c’è dubbio.» Henderson sorrise, forse un po’ troppo in fretta. «Allora la prima parte dell’operazione si è chiusa con successo. Cinque minuti fa hanno interrotto le trasmissioni alla radio per annunciare che il Primo Ministro era stato assassinato.» «Ed ora?» chiese Jouvert. «Ora ce ne stiamo nascosti per un paio di giorni, e poi torniamo a Parigi. Il nostro compito nell’organizzazione per il momento è terminato; adesso tocca agli altri settori.» Si volse verso l’uomo seduto davanti alla radio e gli ordinò: «Chiama Radio Zurigo e annuncia che la fase numero uno è stata completata». L’uomo annuì e si sistemò la sedia davanti all’apparecchio. CAPITOLO II Il, «SULTRY STRIP» SIMON LARREN venne a sapere dell’assassinio del Primo Ministro mentre guardava la televisione nel suo appartamento di Rushlake Terrace. Stavano trasmettendo uno di quei telefilm di spionaggio pieni di colpi di scena, quando le trasmissioni vennero interrotte e apparve il viso sbigottito dell’annunciatore che lesse in fretta la notizia. La prima reazione di Larren fu quella di spegnere immediatamente il rasoio elettrico che aveva in mano, e col quale si stava radendo seguendo al tempo stesso il

programma attraverso la porta aperta del bagno; poi mosse brevi passi verso il televisore. L’annuncio era stato breve; semplicemente che il Primo Ministro, come soleva fare ogni Venerdì sera, si stava recando a cena al suo club, ed era stato ucciso proprio sulla scalinata d’ingresso da un uomo armato di fucile appostato ad una finestra del Centaur Club, esattamente di fronte a quello del Primo Ministro. Tutto qui; l’annunciatore promise ulteriori notizie non appena fossero pervenute, poi l’immagine scomparve e Larren diede sfogo ai suoi nervi mettendosi a bestemmiare. Provava rabbia e disgusto per quell’omicidio inutile, e si rendeva conto allo stesso tempo che anche lui avrebbe fatto le spese del caos e del panico che si era appena scatenato. Larren rientrò nel bagno, accese nuovamente il rasoio elettrico e terminò di radersi. Poi lo rimise nell’astuccio, si tolse l’asciugamani che aveva avvolto attorno ai fianchi e si diresse interamente nudo in camera da letto. Il suo vestito scuro da sera era sistemato in ordine sul letto, ma Larren lo ignorò completamente, comprendendo in anticipo che quella sera ci sarebbero state ben poche occasioni per fare vita di società. Indossò un vestito grigio scuro ad un petto, elegante ma non troppo caro, che sarebbe stato adatto per qualsiasi circostanza, una camicia color crema e una cravatta grigia di seta con righini rossi. Se la stava appunto annodando, quando suonò il telefono. Larren sollevò il ricevitore, sapendo in anticipo che la chiamata veniva da Whitehall e che all’altro capo della linea c’era l’ometto che si faceva chiamare semplicemente «Signor Smith». La sua voce era composta come sempre, pure stavolta si notava una leggera sfumatura di rabbia controllata. «Hai sentito le novità, Larren?» «Cinque minuti fa’», rispose Larren, «Vuole che venga da lei?» «No. Vai a Kingston. Troverai Adrian Cleyton dentro ad un camioncino Austin verde di fronte a Limewood Gardens, alla fine di Sutherland Road. Dai il cambio a Cleyton e fallo venire qui da me.» «Tutto qui?» «Tutto qui. Cleyton ti darà i particolari.» «Scendo subito», rispose Larren, e non aveva nemmeno finito di pronunciare queste due parole che udì il click della conversazione interrotta. Allora rimise il microfono sulla forcella e si rese conto che Smith era rimasto scosso, nei limiti in cui poteva rimanere scosso il suo cervello di ghiaccio. La sicurezza interna della Gran Bretagna era sotto la responsabilità diretta del controspionaggio, e l’assassinio del Primo Ministro avrebbe senz’altro avuto delle sensibili ripercussioni in tutto l’apparato. In ogni caso non era quello il momento per cercare di immaginarsi la confusione che doveva essersi scatenata a Whitehall e Scotland Yard, e Larren tornò in fretta in camera da letto. Impiegò due minuti per terminare di vestirsi, e cinque secondi per decidere di non prendere la Smith and Wesson calibro 38. La fondina ascellare gli dava fastidio, e in ogni circostanza se la sarebbe cavata altrettanto bene con il leggero coltello da lancio che portava nascosto dentro la fodera della giacca all’altezza del petto. Spense il

televisore ed uscì dall’appartamento, raggiungendo in fretta la sua MG bianca parcheggiata davanti al portone. Cinque minuti dopo percorreva Baker Street, voltava in direzione sud e prendeva la strada più diretta per Chelsea Bridge. Perse un po’ di tempo per il traffico ad Hyde Park Corner, ma a parte questo riuscì a sbrigarsi, superando anche spesso i limiti di velocità. Superato il Tamigi, accelerò ancora e prese il rettilineo per Kingston. Gli ci vollero dieci minuti buoni per trovare Sutherland Road, situata in una zona residenziale, e diminuì ancora la velocità finché non localizzò il camioncino Austin verde. Era l’unico camioncino verde parcheggiato in quella via, e Larren gli si accodò con uno stridio di freni, spegnendo subito dopo il motore. Pochi metri più avanti c’era un tranquillo vialetto su cui sorgevano esclusivamente dei villini con giardino, e sul cartello stradale posto all’angolo si leggeva «Limewood Gardens». Larren scese dalla MG e si diresse verso il furgoncino. Si andò a sedere accanto a Cleyton, che l’accolse con un sorriso. Cleyton era più giovane di Larren e aveva la complessione fisica e le movenze di un ballerino classico. I suoi occhi erano scuri e profondi, con delle ciglia quasi da ragazza. Lo si sarebbe potuto scambiare per un timido omosessuale, ma Larren sapeva che era fatto di tutt’altra pasta. Cleyton aveva la forza e l’abilità sufficienti per potere affrontare con buone speranze di vittoria un campione di judo; questo fatto, sommato alle sue indubbie capacità espressive, al suo fascino disarmante ed alla sua conoscenza di almeno sei lingue, lo rendevano uno degli uomini migliori del controspionaggio. Disse calmo: «Ciao, Simon. Non hai perso tempo». «Smith sembrava avere una certa fretta», spiegò Larren. «Vuole che tu torni a Whitehall, Cleyt.» «Lo immaginavo. Ti ha detto altro?» «No, ma credo che sia in relazione con la morte del Primo Ministro. Lo sai che l’hanno ammazzato? Gli hanno sparato sugli scalini del Tempest Club.» «L’ho sentito alla radio», fece Cleyton rabbuiandosi. «Ma non so altro.» «Neanche io. Ma tu che fai qui? Mi hanno detto di venirti a dare il cambio.» «Ordinaria amministrazione», spiegò Cleyton brevemente. «Si tratta di un certo Henry Mallory, che abita al 6 di Limewood Gardens. È membro del Parlamento, ma non è una personalità di rilievo. Appoggia i movimenti per la pace, la campagna per il disarmo nucleare, eccetera. Si alza regolarmente a protestare ogni volta che il governo annunzia lo stanziamento di nuovi fondi per il bilancio della Difesa. Da giovane ha avuto dei legami con il Partito Comunista, ed ora, benché sia passato anima e corpo al socialismo, non perde occasione per unirsi a qualsiasi gruppo estremista che gli prometta L’Eldorado, anche il più irrealizzabile. Di tanto in tanto lo teniamo benevolmente d’occhio, come facciamo sempre con chiunque nella sua posizione cominci a strizzare l’occhio ai movimenti estremisti, ed ultimamente abbiamo avuto motivo di ritenere che si sia messo con gente meno innocua del solito. Smith gli ha fatto controllare il telefono per qualche giorno, ed ha scoperto che faceva strane telefonate nei punti più disparati di Londra. Niente di concreto, ma abbiamo creduto opportuno controllarlo un po’ da vicino. Smith ha deciso perciò di tenerlo d’occhio durante tutte le ventiquattro ore per tre giorni, e di interrompere la

sorveglianza se al termine di questi tre giorni non sarà successo niente. Questo è il secondo giorno.» Parlando, Cleyton porse a Larren una fotografia formato tessera di un uomo vicino alla sessantina. Aveva capelli ancora abbastanza folti, scuri con un po’ di grigio sulle tempie, e un paio di baffi da militare. «È alto un metro e sessantatré e supera gli ottanta chili», aggiunse Cleyton. «È stato tutto il giorno alla Camera dei comuni, ed è appena tornato a casa.» Larren sollevò lo sguardo. «Se è stato alla Camera dei Comuni doveva sapere se il Primo Ministro avrebbe lavorato anche stasera o meno. Ed avrebbe potuto avvertire qualcuno che il Primo Ministro sarebbe andato come ogni Venerdì a cena al club.» Cleyton sorrise. «Possibilissimo, ma personalmente non credo che Mallory abbia niente a che fare con l’assassinio. Per conto mio è l’opera di un individuo isolato, piuttosto che il complotto di qualche movimento politico segreto. Ma finché non saremo sicuri che ogni ufficio di polizia e ogni servizio di sicurezza del Paese abbiano passato al setaccio tutte le organizzazioni e i movimenti politici, non potremo sapere niente di concreto. E Mallory, anche se alla lontana, rientra in queste categorie. Ecco perché Smith vuole che lo si continui a sorvegliare.» «Si sa con che tipo di persone se la faceva ultimamente?» chiese Larren. «Forse, ma Smith non me ne ha parlato. Ma, ripeto, finora non credo ci sia niente di definito. Tutto quello su cui abbiamo da lavorare sono quelle telefonate, e probabilmente si tratta di un falso allarme, esagerato dalle nostre menti contorte. Finora è stato un lavoro di routine, ed ho l’impressione che continuerà ad esserlo fino alla fine. Henry Mallory ne uscirà innocente come un neonato, e probabilmente prenderanno l’assassino del Primo Ministro prima che io sia tornato da Smith per fargli il rapporto.» Le sue stesse parole sembrarono ricordargli che non aveva tempo da perdere, e Cleyton concluse in fretta. «Vive con la moglie e la figlia di ventotto anni. Segnati la gente che lo va a trovare e pedinalo se esce di casa. Sotto il cruscotto ci sono un paio di occhiali e una radio. Di tanto in tanto vai a dare un’occhiata al numero sei, e ogni due ore fai un rapporto per radio. Non credo che avrai molto da lavorare. Per i messaggi, usa il codice: Cane da guardia. Devi chiamare il Cane da guardia capo, e qualificarti come Cane da guardia M. Dove M sta per Mallory.» «Ho capito», rispose brevemente Larren. «Ora prendi la mia macchina e vedi di sbrigarti. E visto che è mia e non di proprietà del governo, non tirarle troppo il collo.» Cleyton sorrise e prese le chiavi della MG, augurando a Larren buona fortuna. Poco dopo la macchina sportiva passò accanto al furgone e accelerò dirigendosi nuovamente verso il centro di Londra. Larren la seguì con lo sguardo finché i fanalini posteriori scomparvero dietro una curva; quindi estrasse dal cassettino del cruscotto gli occhiali per l’osservazione notturna e li inforcò. Senza scendere dal camioncino riusciva ad avere un’ottima visuale di Limewood Gardens, e in particolare del numero sei. Dalle tendine tirate del salone usciva della luce, e gli abitanti del villino stavano presumibilmente preparandosi per la notte.

Larren non riusciva naturalmente a vedere attraverso le tendine, e dopo avere dato una breve occhiata al giardino e ai due villini laterali, rimise le lenti nel loro astuccio di pelle. Proprio davanti al cancello del numero sei c’era un lampione, ed anche senza le lenti sarebbe perciò stato in grado di vedere se qualcuno fosse entrato o uscito dalla casa. Si mise a suo agio nell’abitacolo del camioncino e si apprestò ad una lunga veglia. Fece due rapporti radio, uno alle dieci e uno a mezzanotte, dopo che l’ultima luce si era spenta al primo piano del villino. Alla seconda chiamata gli venne ordinato di sospendere i rapporti senza novità, segno questo che il Cane da guardia capo aveva problemi ben più urgenti da risolvere. Alquanto seccato, concluse tra sé e sé che quel noioso lavoro di sorveglianza che gli avevano affidato non aveva niente a che fare con l’assassinio del Primo Ministro. Gli venne dato il cambio alle sette di mattina, da due falsi operai che si misero a buttare all’aria il marciapiede davanti al numero sei, ma la sera stessa era di nuovo di vedetta dentro il furgone. Gli riferirono che Henry Mallory non aveva lasciato la casa nemmeno una volta, e che l’agente che si era tenuto pronto, nel caso gli operai l’avessero visto uscire, aveva sprecato una giornata inutilmente. La sorveglianza doveva comunque continuare. L’idea di Cleyton che l’assassinio di Sir Howard Davies fosse stato l’opera di un pazzo isolato si era dimostrata sbagliata, e tutto il Paese sapeva già che c’era stato un secondo assassino. I giornali del mattino scrivevano che i due agenti del Servizio Speciale, che seguivano il Primo Ministro come ombre, appena visto cadere Sir Davies, si erano precipitati all’ultimo piano del Centaur Club insieme a due poliziotti, ed avevano trovato il cadavere dell’assassino ancora caldo. Gli esperti di Scotland Yard avevano in seguito stabilito che il colpo era stato sparato dalla finestra della camera 79 del Bedford Hotel, all’ultimo piano, che dava su una delle strade laterali che si immettevano sulla piazza. Solo che, al momento in cui veniva accertato questo particolare, l’assassino aveva già avuto una ora a disposizione per scomparire. Era stato il classico caso di omicidio per procura, con immediata eliminazione dell’intermediario. I giornali portavano anche una foto dell’identikit che gli uomini di Scotland Yard erano riusciti ad ottenere dal personale dell’albergo, letteralmente terrorizzati, insieme ad una descrizione che Larren, come tutti gli altri poliziotti e agenti speciali della Gran Bretagna, sapeva ormai a memoria. Si cercava un individuo dai capelli neri, dal viso stretto e abbronzato, come se avesse trascorso un certo numero di anni ai tropici. Doveva avere circa trentacinque anni e essere alto sul metro e settantacinque. Portava un vestito blu scuro, camicia bianca e cravatta scura, e aveva una valigetta di pelle nera. Accento vagamente continentale, quasi sicuramente francese. I giornali non sapevano altro, e Larren dubitava fortemente che Scotland Yard o il controspionaggio ne sapessero di più. L’unica cosa sicura era che il duplice omicidio era stato molto ben congegnato e non poteva non essere opera di una organizzazione. Di conseguenza erano stati messi sotto strettissima sorveglianza tutti i gruppi e i movimenti estremisti, unitamente ad eventuali estranei simpatizzanti. Ed Henry Mallory, sebbene non fosse una figura di rilievo, rientrava nella lista.

Si era fatta notte e Larren, sorvegliando la casa, si convinceva, come Cleyton, sempre di più che fosse tutta una perdita di tempo. Cominciava a seccarsi, non essendo oltretutto abituato a quel tipo di lavoro sedentario e snervante. Come Cleyton, Larren aveva delle doti particolari che lo esentavano dal lavoro di routine. Era forse l’unico omicida per vocazione alle dipendenze di Smith. Cleyton e gli altri si erano trovati nella necessità di dovere uccidere. ma nessuno di loro l’aveva mai fatto con piacere. Larren lavorava in genere da solo, e aveva come unici alleati il silenzio, il buio e un pugnale. Gli avevano insegnato ad uccidere al Centro Operazioni Speciali durante la guerra, e lì aveva provato per la prima volta quella piacevole sensazione animalesca di affrontare prove mortali servendosi solo del proprio coraggio e della propria abilità. Ora Smith lo impiegava solo per incarichi violenti, ai quali un individuo normale non avrebbe potuto sopravvivere, e finora se l’era sempre cavata. Ma questo lavoro era al di fuori della sua normale attività. Larren si rendeva comunque conto che il Servizio era mobilitato alla caccia degli assassini di Sir Howard Davies, e che se lui si trovava lì era unicamente per liberare da quell’incarico Cleyton, che sul piano investigativo gli era senz’altro superiore. Rassegnato a passare un’altra notte in bianco, rimase comunque all’erta e, due ore dopo, si accorse subito del portone del numero sei che si apriva. Il vialetto fu rischiarato dalla luce proveniente dall’interno e Larren inforcò immediatamente gli occhiali per l’osservazione notturna per studiare l’uomo che si stagliava sulla soglia infilandosi il soprabito. Riconobbe dal viso e, soprattutto, dai baffi l’uomo della foto che aveva in tasca, Henry Mallory. Mallory rimase per qualche istante sulla soglia. Una donna dai capelli grigi, quasi sicuramente sua moglie, gli era alle spalle e lui le diede un breve bacio sulla fronte prima di dirigersi verso il garage. Larren lo vide uscire con la macchina, una grossa berlina che doveva essere una Zodiac o una Zephyr. e decise che la serata tutto sommato si presentava meno noiosa di quanto apparisse a prima vista. Dubitava fortemente che un uomo che baciava la moglie con tanto affetto potesse recarsi a qualche appuntamento di congiurati, ma pensò che in ogni caso il pedinamento avrebbe fatto passare il tempo più velocemente. Rimise allora a posto gli occhiali e informò Cane da guardia capo che si accingeva a seguire la macchina di Mallory. Gli venne risposto di continuare, ma Larren si rese conto che se si fosse lasciato scappare Mallory, per quanto innocente quella sua uscita notturna potesse sembrare, avrebbe passato dei guai. La grossa berlina risalì Limewood Gardens dirigendosi verso di lui e rallentando all’incrocio con la strada principale, sulla quale si immise; i suoi fari illuminarono per un attimo l’interno del camioncino e Larren distolse il viso, per poi voltarsi a prendere nota del numero di targa e accertarsi che si trattava effettivamente di una Zephyr. Appena l’auto svoltò alla prima curva, Larren mise immediatamente in moto il furgone e iniziò il tallonamento, compiendo una conversione ad U. Ristabilì il contatto con la Zephyr in meno di un minuto, dato che Mallory guidava molto lentamente; inoltre il motore del furgone era stato modificato dai meccanici e poteva raggiungere una velocità insospettabile per un veicolo delle sue caratteristiche.

Larren si tenne ad una certa distanza, ponendo altre due macchine tra il camioncino e la Zephyr grigia. Arrivati a Kingston Hill il traffico si fece più intenso, e dato che la maggioranza delle auto si dirigeva verso il centro di Londra c’erano poche possibilità che Mallory si rendesse conto di essere pedinato. Mallory seguì la A3 per quasi tutto il tragitto, e quando infine imboccò il Westminster Bridge Larren gli era sempre alle calcagna. Superarono il Big Ben e passarono accanto a Whitehall; sebbene fossero ormai passate le dieci di sera, le finestre del Parlamento e quelle di Scotland Yard e del Foreign Office erano quasi tutte illuminate. L’espressione di Larren si fece ancora più seria, tutte quelle finestre illuminate gli ricordarono che era in atto una delle più massicce cacce all’uomo della storia d’Inghilterra. Ridusse la distanza con la macchina grigia che lo precedeva, deciso a contribuire nel suo piccolo a quella caccia, anche se nel suo caso si trattava solamente di controllare una remotissima eventualità. Girarono intorno a Trafalgar Square, e all’approssimarsi di un semaforo Larren pose tra il suo furgoncino e la Zephyr un grosso taxi. Proseguirono lungo Charing Cross Road, ma dopo avere superato Shaftesbury Avenue Mallory voltò improvvisamente a sinistra, addentrandosi nel quartiere di Soho. Qualche istante dopo fermò la macchina ad un parcheggio a tempo. Larren imprecò tra le labbra appena comprese che avrebbe dovuto superarlo, ma Mallory non sembrò uscendo dalla macchina prestare eccessiva attenzione al camioncino che gli passava accanto. Larren voltò alla prima traversa a destra, si infilò in un viale con un cartello su cui si leggeva: Parcheggio Privato e sistemò il furgone tra una Sunbeam Rapier e una Daimler dalle dimensioni di un carro armato. Scese, chiuse a chiave e tornò indietro di corsa. La Zephyr grigia era vuota, come la strada in cui era parcheggiata. Larren riprese a correre e raggiunse la prima traversa, voltandosi a guardare a destra e a sinistra. In lontananza si intravedeva una sagoma che poteva essere quella di Mallory, e senza esitare accelerò il passo per portarsi vicino. L’uomo tornava verso Shaftesbury Avenue, e l’insegna luminosa di un locale dette a Larren la conferma che si trattava proprio di Mallory. L’investigatore trasse un sospiro di sollievo e rallentò nuovamente l’andatura. Nei cinque minuti che seguirono i due uomini passarono davanti a bar, jazz club e vetrine piene di riviste e libri semipornografici. Una ragazza ferma davanti a un portone gli lanciò senza sorridere uno sguardo eloquente. Le insegne al neon sopra le teste dei passanti parlavano di paradisi proibiti da assaporare al prezzo di pochi scellini. Due capelloni discutevano davanti all’ingresso di un pub; accanto a loro stava un ragazzo pallido e dalle labbra rosse atteggiate ad un sorriso che nascondeva qualche godimento interiore. Larren annotò mentalmente questi particolari, senza perdere di vista il suo uomo nemmeno per un attimo. Mallory si fermò d’improvviso, guardandosi per la prima volta alle spalle. Larren continuò a camminare lentamente, fermandosi dopo una decina di metri davanti a un portone per accendersi una sigaretta. Poi Mallory riprese a camminare, e l’investigatore guardando con la coda dell’occhio lo vide entrare in un locale che spandeva un fascio di luce gialla sul marciapiede. Al di sopra c’era un’insegna, ma

Larren dal suo punto d’osservazione non riusciva a leggerne le parole. Mallory esitò ancora per un istante, poi scomparve nell’interno. Larren gli concesse due minuti, poi si avvicinò. Ai due lati dell’ingresso erano sistemati due grossi tabelloni zeppi di foto di donne nude sorridenti, e sull’insegna al neon si leggeva: THE SULTRY STRIP

Si fermò soprappensiero. Forse non era poi così strano che un uomo dalla vita coniugale apparentemente felice mostrasse interesse per un locale di strip-tease, pure gli sembrava di cogliere una nota stonata. Il pubblico si compiace spesso di attribuire segrete perversioni agli idealisti appassionati, e nella maggioranza dei casi pecca di superficialità. «Le interessa lo spettacolo, signore? Ingresso continuato. Tutte ragazze meravigliose.» Queste parole vennero pronunciate con un pallido sorriso da un individuo asessuato, rinchiuso dentro il gabbiotto della cassa accanto all’ingresso. Il sorriso era più eloquente delle parole, ma Larren sapeva cosa lo aspettava. Se non avesse dovuto mantenere il contatto con Larren avrebbe tirato dritto; invece entrò e chiese il prezzo. «Quindici scellini, signore. E spesi bene.» Larren si accorse allora che quel viso apparteneva ad un uomo, che cercava oltretutto di stabilire tra loro due un’atmosfera di complicità. Pagò il biglietto e seguì le frecce lungo il corridoio coperto di tendaggi e su una scala di legno. La scala era stretta e in alcuni punti la plastica gialla del muro era venuta via. Di fronte al pianerottolo del primo piano c’era un altro corridoio, e dall’interno giungeva della musica. La scala continuava a salire, e all’inizio, su un cartello scritto con la penna biro si leggeva: AL PIANO SUPERIORE LITTLE NANCY, LA GIOVANE MODELLA

Larren entrò nella sala semibuia, e dall’oscurità emerse un altro giovane dal sesso incerto che gli strappò il biglietto. Alla sua sinistra, al disopra delle teste degli spettatori silenziosi, su una specie di palcoscenico una ragazza dall’aria annoiata si spogliava lentamente, seguendo a modo suo la musica che proveniva da un registratore. Due deboli riflettori la seguivano nella danza, conferendole un’aria quasi spettrale, mentre lei teneva gli occhi fissi sul soffitto. La maggior parte dei vestiti giaceva ammucchiata in disordine su una sedia alle sue spalle, e la ragazza indossava solo un minuscolo slip. Si agitò lentamente carezzandosi il corpo e stringendosi i grossi seni con freddo distacco. Larren le dette appena uno sguardo. Chiuse gli occhi per abituarsi alla penombra, evitando i riflettori del palcoscenico, e si mise a cercare il suo uomo tra gli spettatori. Ma Henry Mallory non c’era. CAPITOLO III VENDESI AMORE LARREN si mosse in silenzio alle spalle degli spettatori seduti e andò a sistemarsi

nello stretto passaggio accanto alla parete. Da quella posizione poteva guardare in

viso tutti gli spettatori, tranne quelli delle prime tre file che ancora gli rivolgevano la schiena. Nessuno gli prestava attenzione, tutti gli occhi erano fissati sul palcoscenico dove la spogliarellista, con la schiena rivolta verso il pubblico, cercava di farsi scivolare tra le gambe il sottile slip. Le spalle e i glutei della ragazza si agitavano spasmodicamente a tempo di musica, mentre lei canticchiava con aria distratta un altro motivetto. Larren continuò a cercare tra la folla, viso per viso, per un altro minuto, ma dovette infine convincersi che Henry Mallory gli era sfuggito. La ragazza sulla scena si volse al termine della sua fatica verso il pubblico, agitando con aria sognante le spalle da una parte all’altra; cercava di coprirsi con le palme delle mani alcuni punti strategici, e così facendo aveva assunto una di quelle pose così sfruttate dalle riviste per uomini. Rimase immobile per qualche istante e infine, contemporaneamente al cessare della musica, allargò le braccia rivelandosi in tutta la sua nudità. Elargì al pubblico uno stanco sorriso, e fu subito sottratta agli sguardi degli spettatori dal calare del sipario. A quel punto Larren aveva già concluso che se nella sala c’era un’altra uscita questa doveva trovarsi al di là del palcoscenico, e che quindi quasi sicuramente Mallory doveva essere salito direttamente al piano superiore, senza nemmeno entrare in sala. Soprappensiero, tornò verso il fondo della sala. Si ricordò del cartello «Giovane modella» che aveva notato sul pianerottolo, ma gli sembrò nuovamente impossibile che Mallory potesse dedicarsi a quel tipo di svaghi. Fece poi un’altra considerazione; era da immaginare che i clienti della «giovane modella» l’andassero a trovare dopo lo spettacolo, e non prima. Il comportamento di Mallory, quindi oltre ad essere in contrasto con il tipo umano, era anche assurdo. Capì allora che il pedinare Henry Mallory non era stato né una perdita di tempo né l’eliminazione di una remota eventualità. Se Mallory era in contatto con qualche organizzazione criminale segreta, quel club sarebbe stato il posto ideale per regolari convegni. Chiunque lo avesse riconosciuto, o anche pedinato, si sarebbe spiegato il suo comportamento, e quello dei suoi compagni con ragioni più banali. E infatti, se Mallory si fosse fermato ad assistere allo spettacolo per una mezz’ora, per poi salire al piano superiore, Larren avrebbe quasi sicuramente pensato ad un incontro galante, limitandosi quindi a aspettarlo in strada per riprendere il pedinamento appena Mallory fosse riuscito. Decise allora che era il momento di andare a fare una visita alla piccola Nancy. Lasciò in silenzio la sala, mentre una voce dietro il sipario annunciava Madeline, una parigina bella e povera, costretta per mantenersi a battere il marciapiede. Il sipario si aprì e apparve una bruna con una stretta gonna nera ed un pullover; alle sue spalle ondeggiava un tendaggio che riproduceva con una certa approssimazione la torre Eiffel, mentre una voce fuori campo sussurrava le parole di Vendesi amore. La canzone era particolarmente indovinata, pensò Larren salendo al secondo piano. Si strofinò le palme delle mani sulla stoffa dei calzoni per asciugarsi il sudore; l’istinto gli diceva che si trovava sulla strada giusta, e si rammaricò per un attimo di non aver preso la Smith and Wesson uscendo di casa.

La scala terminava in un pianerottolo, sul quale si affacciava una porta chiusa. Sopra il campanello si notava un altro biglietto scritto con la penna biro: Giovane modella. Si prega di suonare. Larren suonò il campanello. Dal piano inferiore giungevano le parole della canzone; nella sala Madeline, in una nuvola di fumo, si abbassava la chiusura lampo della gonna. … Vende amore… Amore giovane e intatto… Solo un po’ gualcito… Vende amore… Si udirono dei passi dietro la porta, che infine si aprì. Apparve una bionda, che gli sorrise in una specie di parodia del benvenuto. Era bassa, nonostante i tacchi a spillo, e indossava una gonna stretta sotto una camicetta a sbuffi. «Ciao, caro. Entra.» Larren le rivolse di proposito un sorriso imbarazzato, e mosse qualche timido passo dentro la stanza. Alla sua sinistra c’era un’altra cameretta, e la porta era spalancata; dentro c’erano solamente due poltrone, e non si notavano altre porte. Larren si immaginò che la ragazza lo avrebbe fatto attendere lì; al contrario, lei lo fece entrare in camera da letto. Il mobilio, quanto mai ordinato, era costituito da un letto, due sedie ed un armadio malandato. Su una parete c’era un’altra porta chiusa. Larren capì che, non essendoci altra via di uscita, Mallory doveva essere passato da quella porta. La bionda lo fissava col sorriso stampato ancora sulle labbra e Larren capì che non era la cameriera, come aveva pensato in un primo tempo ma la piccola Nancy in persona. Cominciò a provare un certo imbarazzo. «Sono due sterline, caro», fece lei giovialmente. «Ti va bene?» «Va benissimo.» Larren cercò di prendere tempo mentre tirava fuori il portafoglio. La messinscena stonava leggermente, per la mancanza di una cameriera che ricevesse i clienti come usava in posti del genere. Che Nancy si limitasse ad esercitare la sua professione non v’era alcun dubbio; pure Larren era convinto che una piccolissima minoranza dei suoi clienti, trascurando completamente le sue grazie, entrava in quella stanza solo per riuscire dalla porticina di fronte. Doveva perciò scoprire cosa si nascondeva dietro quella porta. La donna frattanto si era tolta la camicetta, fermandosi poi a guardarlo con aria perplessa. «Che c’è, caro? Non sarai timido, per caso?» Larren esitò, tenendo sempre il portafoglio in mano. «No, solo prudente. Che c’è dietro quella porta?» «Niente. Perché?» Larren esitò nuovamente. «Devo saperlo. Non sono scemo. Lì dietro potrebbe esserci benissimo qualcuno con una macchina fotografica, e io non ho nessuna intenzione di farmi ricattare.» «Ma che vai a pensare?» Larren mosse un passo indietro, recitando sempre la parte del cliente sospettoso. «Aprila», insistette. Prima devo vedere cosa c’è dietro quella porta.»

Era la ragazza, ora, ad esitare. Le era scomparso il sorriso ed era chiaramente imbarazzata. La porta doveva essere importante. «Senti, caro, smettila di preoccuparti.» Riapparve il sorriso di circostanza. «Non c’è niente. Anzi, se vuoi ho da farti vedere delle belle fotografie. Forse potrebbero aiutarti.» Strizzò un occhio e andò ad aprire un cassetto dell’armadio. La nuca della ragazza era completamente scoperta mentre si dava da fare per tirare fuori un pacco di fotografie, e Larren decise immediatamente il da farsi. Se avesse sbagliato il colpo e la donna avesse gridato, non sarebbe mai riuscito a convincere la polizia di non essere un maniaco sessuale, ma aveva troppa pratica in quell’esercizio per sbagliare. Fece un passo avanti, colpì la ragazza col taglio della mano tesa, e la piccola Nancy gli cadde svenuta tra le braccia, sparpagliando in terra una pioggia di foto oscene. Larren l’adagiò sul letto, poi s’immobilizzò con i sensi all’erta. Si udiva solamente la musica proveniente dal basso, e la cosa lo rassicurò. Si diresse allora verso la porta chiusa e rimase ad ascoltare; poi cominciò a girare lentamente la maniglia. Non era chiusa a chiave e la porta si aprì. Sapeva di avere agito in silenzio ed era sicuro che un eventuale ascoltatore avrebbe potuto sentire solo la conversazione iniziale, pure si mosse con cautela. Ogni passo a quel punto era un rischio, ma al di là della porta c’erano solo buio e silenzio, quindi non avrebbe dovuto correre alcun pericolo varcando la soglia. Gli andò male. Mentre apriva una stretta fessura per scrutare nel buio, la porta venne d’improvviso spalancata dall’interno. Larren cercò di tirarsi indietro, ma il suo assalitore fu più veloce. Ebbe una rapida immagine del viso abbronzato dietro il manganello che calava sul capo, poi il colpo lo prese tra gli occhi e Larren si sentì piombare nel buio più profondo. *** Henderson si ritirò dallo spioncino dal quale aveva controllato fino ad allora le mosse di Larren e della Piccola Nancy, e allungò una mano verso l’interruttore accendendo la luce. Accanto a lui Henry Mallory se ne stava con le spalle appoggiate al muro; più in là l’addetto alla radio sedeva assorto davanti all’apparecchio. Sulla soglia, a gambe larghe, Andre Jouvert li osservava tranquillo, giocherellando con noncuranza con il manganello nero. «Portalo dentro», ordinò Henderson seccamente. «Andrews, dagli una mano.» Il marconista si tolse la cuffia e andò accanto a Jouvert per aiutarlo a trascinare nell’interno il corpo di Simon Larren. Lo voltarono sulla schiena; aveva gli occhi chiusi e dalla ferita che si era aperta sulla sua fronte scorreva lungo il sopracciglio un rivoletto di sangue. «E la ragazza?» «Nancy!» Henderson uscì dalla stanza e andò ad osservare la figura immobile sul letto. «Lasciamola qui», disse. «Trovarsi nel suo letto le gioverà al risveglio. Chiudi a chiave la porta nel caso venissero altri clienti, e togli i due cartelli.» Jouvert annuì; si infilò il manganello sotto la cintura e indossò la giacca, per poi eseguire gli ordini. Henderson tornò nella stanza dove

Simon Larren giaceva ancora immobile sul pavimento. Mallory era pallido ed atterrito. «Te l’avevo detto», fece. «Te l’avevo detto che c’era qualcuno che mi seguiva. Ci hanno già scoperto.» «E tu te lo sei portato fin qui.» Henderson cercò di controllare la rabbia che provava, ma non riuscì a nascondere il suo disgusto. «Potresti averci fregati tutti, solo per non essere riuscito a ragionare con calma.» Mallory mosse qualche passo indietro, impaurito dal tono della voce di Henderson. «E cosa volevi che facessi?» chiese. «Volevi che mi facessi acchiappare mentre voi ve la svignavate tranquillamente. Prima del lavoro mi sono tenuto in disparte, ma ora che è finito ho diritto di mettermi in salvo come tutti voi, e…» Fece un altro passo indietro, notando l’espressione infuriata di Henderson, e andò a sbattere contro Andrews immobile dietro le sue spalle. Provò un tuffo al cuore, aspettandosi di essere colpito. Henderson riuscì nuovamente a controllarsi, e disse calmo: «Non avevi nessun bisogno di fuggire. Anche se avessero avuto dei sospetti, non avrebbero potuto provare niente contro di te. Ieri non ci siamo neanche visti. È stato il tuo silenzio a darci la certezza che Davies sarebbe andato come al solito al Tempest Club. Eri pulito al cento per cento, e ora sei in questo guaio.» Si interruppe, passandosi una mano nervosamente tra i capelli color sabbia. «Dagli un’altra occhiata», disse. «Sei sicuro che è l’uomo che ti seguiva?» Mallory si aggiustò il bavero della giacca, come se si preparasse a pronunciare un discorso ai Comuni, e fece un passo avanti. Guardò Larren per la seconda volta e annuì. «È lui. Mi controllava da un furgone verde parcheggiato vicino a casa mia. Mi aspettavo qualcosa del genere, o forse sono loro che si sono messi troppo in vista. Stamattina davanti a casa mia c’erano alcuni operai, e la cosa mi ha insospettito. Tiravano il lavoro troppo per le lunghe, e oltretutto non c’era nessuno a dirigerli. Quando se ne sono andati, sono salito al piano di sopra, ho preso un binocolo e mi sono messo dietro le tendine per vedere chi avesse preso il loro posto. Ho visto quest’uomo nel furgoncino, e dopo un’ora era ancora lì. Allora ho avuto la certezza, e ho deciso di venire da voi.» Fece una pausa. «Ho pensato… ho pensato di poterlo seminare in mezzo al traffico.» «Pezzo d’idiota!» esclamò Henderson. «Perché non te ne sei andato invece a Westminster, come fai tutti i giorni. Col Parlamento riunito in seduta straordinaria per la morte del Primo Ministro sarebbe stata la cosa più logica da fare. Devono aver notato la tua assenza, e di conseguenza ti hanno messo un uomo alle calcagna.» «Ma per l’amor di Dio, ti rendi conto in che stato d’animo ero? Dopo quello che è successo ieri, non avevo il coraggio di presentarmi ai Comuni.» Mallory urlò quasi le ultime parole, facendo coraggiosamente un passo avanti. «Dopo quello che ho fatto, non avrò più il coraggio di sedermi in Parlamento. Mi rendo conto che era necessario farlo, ma odio me stesso per avervi preso parte. Ecco perché ho bisogno di scappare, di ricominciare da qualche altra parte.» Si interruppe, per voltarsi verso Jouvert che tornava. Henderson guardò l’uomo del quale anch’egli aveva un po’ di paura, e

Jouvert annuì brevemente. Fece cadere i due cartelli sul tavolo e rivolse lo sguardo al corpo di Larren. «L’avete perquisito?» «No.» Henderson scosse lentamente il capo. «Anzi, fallo ora.» Jouvert annuì nuovamente e si inginocchiò accanto al corpo di Larren. Gli mise una mano sotto l’ascella, e sembrò sorpreso di non trovare nessuna fondina, ma quando estrasse il portafoglio di Larren andò a sfiorare con le dita il manico del coltello nascosto accanto alla tasca interna. Lo prese e fece un fischio d’ammirazione, bilanciando la lama sul palmo della mano. «Molto bello», osservò. «E ben nascosto, quasi non me ne accorgevo. L’amico sembra un professionista.» Si sollevò in piedi, piantò il coltello sul tavolo e cominciò ad esaminare il contenuto del portafoglio. Trovò la foto di Henry Mallory e la passò ad Henderson. L’uomo la guardò per un momento. «Allora non c’è dubbio. L’amico, come lo chiami tu, era proprio sulle tracce di Mallory.» «Te l’ho già detto», disse Mallory disperatamente. «Sono arrivati fino a me. Devi farmi uscire dall’Inghilterra.» Henderson lo guardò un attimo, riconoscendo sul viso dell’uomo i segni del panico. Aveva tracce di sudore agli angoli della bocca, e i baffi di taglio militare sembravano meno rigidi del solito. Mallory era letteralmente terrorizzato. «Benissimo», disse Henderson. «Ci prenderemo cura noi dell’amico. Dopodiché penso che dovremmo riuscire a farti raggiungere il Marocco.»

CAPITOLO IV L’INCENDIO E IL CORAGGIO «… DOPODICHÉ penso che dovremmo riuscire a farti raggiungere il Marocco.» Larren, cercando con enorme fatica di riprendere conoscenza, riuscì vagamente ad afferrare queste parole di Henderson. Si sentiva il cervello simile ad una sperduta landa primordiale dove le luci dell’alba cercassero di scacciare l’oscurità della notte. Lottò contro la sofferenza della nascita, una sofferenza che rimbombava nel suo cranio come il battaglio di una enorme campana, ma l’istinto animale per la sopravvivenza era insopprimibile. Il suo cervello si sollevò dalle profondità dell’incoscienza e la seconda voce gli giunse meno annebbiata attraverso intangibili confini. «Sta rinvenendo. Faremmo meglio a legarlo prima che diventi troppo vivace.» Alle parole di Jouvert, Henderson abbassò lo sguardo e annuì. «Andrews», ordinò, «porta un po’ di quei fili elettrici.» Il marconista, senza alcuna espressione sul viso glabro e con una cicca nuovamente incollata al labbro superiore, obbedì. Prese dal tavolino accanto alla radio un rotolo di filo e un paio di pinze. Jouvert gliele tolse di mano. «Lo lego io», disse il francese. «Non mi fido molto di questo tipo.» Andrews non sollevò alcuna obiezione per quell’implicito dubbio sulla sua abilità. Lui si interessava solamente di radio. E, a parte questo, non si sarebbe nemmeno

sognato di protestare o discutere con Jouvert. Rimase a guardarlo tagliare due lunghi pezzi di filo elettrico e con questi legare saldamente i polsi e le ginocchia di Larren. Per maggiore sicurezza, poi, Jouvert legò un’estremità del filo ai pollici del prigioniero e ne assicurò l’altra estremità attorno ai piedi. Tecnicamente, come dovette ammettere Andrews, era un lavoro molto ben fatto. Larren rinvenne completamente mentre lo legavano, ma era ormai troppo tardi per abbozzare una qualsiasi forma di resistenza. L’enorme battaglio continuava a risuonargli nel cranio, ed ogni colpo sembrava una martellata, ma per fortuna i colpi cominciarono gradualmente a diminuire. Un piede sconosciuto gli fece cambiare posizione per assumerne una strana, né sul dorso né sul fianco, a causa delle braccia che aveva legate dietro la schiena, e infine riuscì con qualche sforzo ad aprire gli occhi. Al secondo tentativo riuscì a farli stare aperti, e cominciò a scrutare le facce che lo osservavano dall’alto con la massima indifferenza. Riconobbe subito il suo uomo, ma a quel punto Mallory non aveva più alcuna importanza. Si impresse invece nella memoria gli altri tre volti. Rivolse scarsa attenzione ad Andrews, avendo lo stesso un che di assente che lo avrebbe fatto classificare sempre come l’ultima ruota del carro; ed anche adesso aveva un’espressione completamente disinteressata, limitandosi ad attendere le decisioni degli altri. Henderson apparteneva invece a tutt’altra categoria; aveva un fisico massiccio e gli si leggeva sul volto una ira a stento repressa. Doveva essere un pezzo grosso, si capiva subito. Ma abbandonò l’esame di Henderson appena il suo sguardo cadde su quel viso abbronzato che aveva visto troppo tardi dietro il manganello. L’uomo corrispondeva alla descrizione che aveva fatto di lui il personale dell’albergo. I capelli scuri, il viso stretto e abbronzato, quei lineamenti gallici che tradivano la sua origine francese si accordavano in pieno con l’identikit che Larren aveva visto sulle prime pagine di tutti i quotidiani; e seppe in quel momento che si trovava in presenza del secondo assassino nell’omicidio di Sir Howard Davies. «Bene, ora che ci hai guardato a sufficienza perché non cominci a dirci chi sei?» Larren spostò nuovamente lo sguardo su Henderson. Il cervello gli si era ormai snebbiato completamente, e riuscì perciò a dare alla sua voce un tono appropriato alla circostanza. «Che diavolo significa? Volete ricattarmi? Me l’aspettavo. Quella ragazza lì fuori…» «Smettila», gli ordinò Jouvert. Gli mostrò la foto di Mallory che aveva trovato nel portafoglio. «Abbiamo già scoperto questa. E, come se non bastasse, nella parete c’è uno spioncino. Abbiamo visto quello che hai fatto a Nancy, e l’hai fatto anche troppo bene.» Larren imprecò dentro di sé, rendendosi conto dell’errore che aveva commesso nel portarsi dietro la fotografia. Bluffare a quel punto sarebbe stato sciocco, e rispose seccato: «Sicché c’era uno spioncino. Scommetto che ve la spassate un mondo a guardare le coppie a letto. Sembrate anche i tipi.» Henderson disse calmo: «Non fartelo chiedere un’altra volta. Chi sei?»

«Si chiama Simon Larren», rispose Jouvert altrettanto calmo. Estrasse dal portafoglio di Larren la patente di guida e la mostrò ad Henderson. «Ma potrebbe chiamarsi in mille altri modi. Oltre agli spicci, qui dentro non c’è altro.» Henderson dette un’occhiata alla patente, senza prenderla in mano. Poi abbassò di nuovo lo sguardo. «Sicché ti chiami Larren. Il nome non mi dice niente; per chi lavori?» «È un detective.» Mallory parlò per la prima volta, e la sua voce rivelava ancora tracce di panico. «È di Scotland Yard. Ve l’avevo detto che erano arrivati fino a me.» «Non è un poliziotto.» Il tono della voce di Henderson azzittì Mallory. «Se fosse un poliziotto avrebbe qualche documento di riconoscimento e non andrebbe in giro con quel coltello. E non è nemmeno del Servizio Speciale; deve stare ancora più in alto.» Spostò nuovamente lo sguardo su Larren. «Chi sei?» «Membro della Chiesa d’Inghilterra», rispose Larren tranquillo. Jouvert gli allungò un gran calcio allo stomaco. Larren contrasse i muscoli per l’improvviso dolore, e il fiato gli uscì tra i denti come se lo stessero soffocando. «Più rispetto, giovanotto», fece Jouvert. «Non mi piacciono i furbi.» «Tutto sommato», intervenne Henderson, «per chi lavori esattamente non ha poi molta importanza. Quello che conta è sapere come hanno fatto ad arrivare fino a Mallory e, soprattutto, cosa hanno scoperto; ma da lui non credo che caveremo molto. Non sembra un chiacchierone.» «Tutti sono chiacchieroni», disse piano Jouvert. «L’ho imparato nella Legione Straniera. In Algeria facevamo parlare, e urlare, anche gli arabi più cocciuti. Per alcuni bastava che cominciassimo ad allargargli le narici; per altri ci voleva un po’ più di tempo. È solamente una questione di tecnica.» Staccò dal tavolo il coltello di Larren e ne provò leggermente col pollice il filo della lama. Mallory fece un passo indietro, assumendo un’espressione terrorizzata quando i suoi occhi si posarono sul viso abbronzato di Jouvert. Ma fu l’unico a fare qualche movimento. Andrews aveva sempre la stessa aria disinteressata, e la sigaretta spenta gli pendeva dal labbro superiore. Henderson era pensieroso. Larren era immobile, ma non staccava i suoi occhi da quelli di Jouvert. Il francese si volse infine verso Henderson, e riprese nel suo tono pacato. «Credo che riusciremo a farlo parlare.» «No!» Era Mallory. «Non sopporto di veder torturare la gente. E poi non servirebbe a nulla. Ora dobbiamo pensare solamente ad andarcene di qui. Dobbiamo uscire da…» La voce gli si smorzò in gola appena vide lo sguardo di Jouvert, ma fu Henderson a parlare. «Falla finita, Mallory. Sono io a dare gli ordini qui.» Si volse verso Jouvert e proseguì. «Non ho alcun dubbio che riusciresti a farlo parlare, ma non ha più importanza. Abbiamo portato a termine il nostro lavoro ed ora dobbiamo pensare solo alla fuga. Dobbiamo lasciare Londra immediatamente, invece di rimanere qui altri due giorni secondo i vecchi piani.» Dette un’occhiata a Larren e aggiunse: «Se i suoi colleghi sapessero quello che sa lui, a quest’ora saremmo già al fresco. Il fatto che

l’amico sia solo significa che si limitava a pedinare Mallory, e finché lui non torna a fare rapporto noi siamo tranquilli. Questa stanza non ci serve più, perciò la distruggeremo con lui dentro.» Mallory era impallidito nuovamente. «Che significa? Vuoi dire che…?» «Vuoi stare zitto, Cristo!» esplose Henderson. «Se ci troviamo in questa situazione è unicamente per colpa tua, perciò taci. Andrews, pigliatelo tu e uscite dall’altra porta. Assicuratevi che il posto non sia controllato, e poi portate la macchina davanti all’ingresso. Io e Jouvert scenderemo appena terminato.» Andrews annuì. «Bene, capo. Venga, signor Mallory, muoviamoci.» Mallory esitò, ma Andrews lo prese per una spalla e lo sospinse delicatamente. L’anziano uomo politico aveva un’aria distrutta, e si fece condurre fuori della stanza attraverso una porticina che si apriva sulla parete di fronte. Andrews, davanti a lui, aveva estratto una automatica, e, appena la vide, Mallory impallidì se possibile ancora di più. Appena la porta si chiuse dietro di loro Henderson disse: «Mettigli del nastro adesivo sulle labbra. Visto che non vuol parlare, in questa maniera non avrà modo di ripensarci. Estrasse anch’egli un’automatica e la puntò in direzione della ferita sulla fronte di Larren. «E non farti venire in testa l’idea di metterti a gridare prima che ti imbavagliamo; moriresti all’istante.» Tenne la pistola puntata mentre Jouvert tagliava due fasce di nastro adesivo da un tavolo e le premeva in croce sulla bocca di Larren. Alla fine se la rimise in tasca. «Prendi le bombe incendiarie», disse. «Ne sistemeremo una qui e una nell’altra stanza.» Abbassò di nuovo lo sguardo su Larren e gli spiegò freddamente: «Eravamo da tempo preparati a questa soluzione. Sapevamo che alla fine avremmo dovuto abbandonare questa stanza, distruggendo la radio e ogni altra traccia della nostra presenza. Tu ci hai semplicemente fatto anticipare questa decisione di un paio di giorni.» «E la ragazza?» Jouvert aveva pronunciato queste parole mentre con assoluta calma armeggiava intorno alla radio. Aveva un tono di voce completamente distaccato, considerando la questione unicamente dal punto di vista tecnico. Henderson lasciò Larren e si diresse nella stanza accanto per dare un’occhiata al corpo ancora senza conoscenza della Piccola Nancy. Poi tornò e disse tranquillo: «La lasceremo qui. È ancora svenuta, e in ogni caso sarebbe sempre in grado di descrivere le nostre facce. Perciò, sa troppo.» Jouvert annuì e si allontanò dal tavolo della radio, accanto al quale aveva sistemato una delle due bombe, per andare a sistemare l’altra nella stanza accanto. «Sarà senz’altro uno spettacolo divertente.» Henderson approvò e si volse nuovamente verso Larren. «Questi aggeggi funzionano alla perfezione», disse. «Non fanno una grande esplosione e mandano a fuoco tutto. E il panico che seguirà giù in sala impedirà sia ai pompieri che alla polizia di venire su a spegnere in tempo l’incendio. Come vedi, abbiamo preso in considerazione tutti i particolari.» Tornò Jouvert.

«Ho collegato i cavi», disse in fretta. «Ci resta solo un minuto.» Si diresse alla bomba accanto alla radio e accese la miccia. Henderson dette un’ultima occhiata circolare alla stanza, poi i due uomini uscirono di corsa dalla porta, sbattendosela alle spalle. Larren udì il rumore della chiave che girava nella serratura e poi il rumore dei passi che si allontanavano. Percepì subito dopo, chiaramente, il sibilo della miccia che bruciava. Cominciò allora a divincolarsi disperatamente, dando calci al pavimento con i piedi uniti. Così facendo riuscì solo a farsi penetrare ancora più in profondità nella carne i cavi che lo serravano, e dovette concludere amaramente che Jouvert lo aveva legato così bene da non lasciargli alcuna possibilità di fuggire senza un aiuto esterno. Riuscì comunque ad allontanare dalla sua mente il panico, e sebbene si rendesse conto che le sue probabilità di salvarsi erano pressoché nulle, pure l’istinto di sopravvivenza gli fece fare altri tentativi. Si avvicinò strisciando al tavolo in centro alla stanza, voltandogli le spalle in modo da potere stringere una delle gambe con le dita. Con uno sforzo voltò nuovamente il corpo, dando uno strattone alla gamba del tavolo e facendoselo ruzzolare sulla schiena. Così facendo sbatté violentemente la fronte sul pavimento, ma non sentì quasi il dolore. Sembrava impossibile che i sessanta secondi non fossero ancora trascorsi, e cercò di sistemarsi meglio che poté sotto l’esile riparo del tavolo. Poi la prima bomba esplose nella stanza accanto, con un rumore soffocato, lanciando una lingua di fuoco attraverso la porta aperta. Larren si rannicchiò mezzo soffocato dietro il tavolo, e subito dopo esplose la seconda bomba, distruggendo all’istante la radio. *** Gli spettatori in sala non si accorsero nemmeno delle prime volute di fumo, confuse a quelle di innumerevoli sigarette. Sul palcoscenico, al ritmo ovattato dei tamburi di una musica afrocubana, una giovane negra si spogliava con mosse veloci e sensuali. La musica aveva attutito le deboli esplosioni delle due bombe, e nessuno tra il pubblico si rendeva quindi conto del pericolo incombente. Poi qualcuno cominciò a tossire, distogliendo per un attimo l’attenzione dal palcoscenico e notando subito quell’eccesso di fumo. Il giovanotto che strappava i biglietti fece un salto verso l’uscita gridando «Al fuoco!», appena vide le prime lingue di fuoco che lambivano il soffitto, e si precipitò immediatamente per le scale cercando di raggiungere l’uscita. Dietro il palcoscenico, la spogliarellista che era stata annunciata come Madeline, e che si chiamava invece Annie Goss, era immersa nella lettura di un romanzetto rosa aspettando che venisse nuovamente il suo turno. Udì le grida in sala nello stesso momento in cui le prime, acri vampate di fumo le penetravano nelle narici e nei polmoni. In preda al terrore, corse a guardare attraverso una fessura della tenda e

vide la folla, fino ad un attimo prima assorta in un eccitato silenzio, ammassarsi confusamente urlando verso l’uscita. Per qualche istante fu incapace di compiere il minimo movimento. La negra sul palcoscenico, immobilizzata anch’essa dal panico, lanciò infine un urlo, raccolse in fretta i vestiti e, stringendoseli sul corpo seminudo, sparì dietro la tenda. Alcuni spettatori capirono che in quella direzione doveva esserci un’altra uscita e la seguirono di corsa. Annie Goss udì le sue colleghe che le urlavano di mettersi in salvo, ma passato lo choc il suo primo pensiero non fu per lei. «Nancy!» gridò. «Dove sei, Nancy?» Si guardò attorno disperata in cerca di aiuto, e allo stesso momento irruppero sul palcoscenico i primi spettatori spingendola da parte e mandandola a finire a gambe levate. Rimase in terra come ubriaca, cercando come poteva di evitare i piedi che la calpestavano. La sala era piena di fumo, e i colpi di tosse riuscivano quasi a superare d’intensità le urla di terrore. Attorno a lei si svolgeva una vera e propria lotta, combattuta a calci, pugni e spinte, per guadagnare una delle due uscite; poi i due riflettori che illuminavano la scena si spensero e il caos divenne indescrivibile. Ciononostante il club si stava vuotando, anche se lentamente. Annie Goss si risollevò in piedi, tossendo e lacrimando. Era ancora in preda al terrore, quando si ricordò di Nancy. Sapeva che Nancy era al piano superiore. Scese in sala e corse verso l’uscita principale, mischiandosi all’ultimo gruppo di spettatori. La marea la spingeva per le scale verso l’uscita, ma in qualche maniera la ragazza riuscì a districarsi a salì faticosamente al piano superiore. La porta sul pianerottolo era in fiamme, ma il pensiero della ragazza in pericolo le fece dimenticare ogni precauzione e con una spallata si aprì la strada nella stanza. Si pose istintivamente un braccio davanti agli occhi alla vista delle fiamme, ma attraversò di corsa la stanza. Giunta accanto al letto, afferrò per le spalle la Piccola Nancy e cominciò a scuoterla. «Nancy! Nancy, per l’amor di Dio!» Le sue urla coprirono per un attimo il frastuono dell’incendio, ma la bionda sul letto rimase immobile. Cercò allora di sollevarla, ma non riuscì. Impazziva di paura, non poteva più respirare e capiva che stava per morire insieme a Nancy. Poi si accorse dell’altra porta aperta. Lasciò Nancy e si precipitò nell’altra stanza, cercando una finestra dalla quale potere chiedere aiuto. Ma non ne trovò, e la delusione la fece cadere in ginocchio singhiozzando. Fu allora che vide Simon Larren. Il tavolo che lo aveva protetto dall’esplosione della bomba era in preda alle fiamme, e lui scalciava per allontanarsene il più possibile. Stava per svenire, e quasi non credette ai suoi occhi alla vista della ragazza con la camicetta in fiamme. Anche Annie si accorse infine che la camicetta andava a fuoco, e se la tolse in fretta urlando di dolore. Poi si precipitò su Larren, cercando freneticamente di

slegarlo; si ruppe quasi tutte le unghie prima di rendersi conto che in quella maniera non ce l’avrebbe mai potuto fare. Disperata, gli strappò infine il cerotto dalle labbra. Larren prese a tossire, attaccandosi immediatamente a quella debolissima speranza di salvezza. «Le pinze», disse, e non era nemmeno sicuro se in quel frastuono la ragazza fosse riuscita a sentire la sua voce. «Erano sul tavolo. Devono essere cadute sul pavimento.» Forse non lo aveva nemmeno udito, ma i suoi occhi trovarono per terra le pinze di Jouvert e le afferrò. Le usò maldestramente, ma erano affilate e in pochi secondi Larren fu libero. L’agente fece appello alle ultime riserve di energia e si alzò debolmente in piedi, attirando la ragazza accanto a lui. La porta era in preda alle fiamme e si aprì al primo calcio; poi, d’improvviso, Annie Goss si staccò da lui. «Nancy», lo pregò debolmente. «Ti prego, prendi Nancy!» Larren si ricordò della ragazza che aveva messo fuori conoscenza: corse verso il letto e la sollevò caricandosela su una spalla. Poi, sbandando leggermente sotto il peso, tornò da Annie Goss. Le pose un braccio intorno alla vita, incurante delle piaghe che la martoriavano, e cominciarono insieme a farsi strada tra le fiamme per l’uscita adoperata da Henderson. Alle loro spalle, in un fragore apocalittico, crollò il soffitto della stanza. Trovarono le scale che Larren non riusciva quasi più a respirare ed Annie era come svenuta. Poi i sensi abbandonarono anche lui, e cadde faccia in terra lungo gli scalini trascinandosi dietro le due ragazze. Terminarono la loro caduta in una stradina laterale, tre corpi inanimati più vicini alla morte che alla vita. Sopra di loro il cielo era illuminato da una cascata di scintille, e in lontananza si udiva la sirena di un’autobotte che si avvicinava.

CAPITOLO V VAGHE TRACCE LARREN rinvenne per la seconda volta mentre lo trasportavano su una barella, e prese a dibattersi debolmente. Sul marciapiede opposto si era ammassata un’enorme folle, trattenuta da un cordone di poliziotti. La strada era piena di auto della polizia e dei vigili del fuoco. Da un marciapiede all’altro si allungavano, intersecandosi, i tubi degli idranti, ed erano state già innalzate un paio di scale. Le due ragazze che Larren aveva messo in salvo erano già nell’ambulanza. «Calma, vecchio mio. Non ti agitare.» L’infermiere aveva parlato piano, ma in tono deciso, premendo una mano sulla spalla di Larren mentre due suoi colleghi sollevavano la barella. Larren tentò di mettersi a sedere, ma la testa gli girava e aveva il petto sconvolto da incontenibili colpi di tosse. Aprì la bocca per immettere la maggiore quantità d’aria possibile, e provò una fitta ai polmoni. Gli occhi gli

bruciavano come se avesse dei carboni ardenti sotto le palpebre, e presero immediatamente a lacrimare. «Calmati, ora», ripeté l’uomo dal camice bianco. «È passato tutto.» Larren si liberò della mano dell’infermiere e sollevò la coperta grigia che lo copriva. La barella oscillò e si rovesciò quasi, appena lui riuscì a mettersi a sedere. Il barelliere di fronte a lui volse il capo, urlandogli qualcosa, ma Larren si aggrappò al camice dell’infermiere accanto a lui e con uno sforzo enorme si alzò in piedi. Per un momento non riuscì a parlare, poi, con un ulteriore sforzo, disse: «È… è importante.» Aveva la bocca secca come i polmoni, ed ogni sillaba che pronunciava era una nuova sofferenza, ma si fece forza e proseguì. «Devo telefonare… è importante.» «C’è tempo. Niente è importante.» L’uomo era seriamente arrabbiato, e cercò di togliersi dal camice la mano che lo stringeva. Larren cocciutamente aumentò la stretta, e un poliziotto, richiamato dalla scena, si avvicinò. «Cos’ha questo qui?» Il tono della sua voce lasciava trasparire uno scarso rispetto per i frequentatori dei locali di strip-tease, e Larren provò un senso di sconforto. Il poliziotto gli pose con decisione una mano sulla spalla. «Andiamo, signore, torni sulla barella.» Larren guardò la mano coperta dal guanto nero sulla sua spalla, e poi nei freddi occhi sotto l’elmetto. Si rese conto che il poliziotto era forse più cocciuto di lui, e si accorse allora per la prima volta dell’auto nera della Squadra Omicidi parcheggiata a qualche metro di distanza. Disperato, tornò alla carica. «Mi ascolti. L’uomo che state cercando per l’assassinio del Primo Ministro è uscito da quel locale meno di dieci minuti fa.» Gli occorse una gran fatica per dare un tono chiaro e convincente alla sua voce; riuscì a pronunciare un’altra frase. «Se n’è andato in macchina con altri tre uomini.» I freddi occhi del poliziotto si fissarono sui suoi. «Ne è sicuro?» «Maledetto!» sbottò Larren. «Chiami il suo centralino. Gli faccia chiamare Whitehall 010, e poi…» venne assalito da un altro scoppio di tosse, e poi continuò debolmente, «e poi l’interno 00.» II poliziotto lo guardò per un altro istante, e infine si decise. «Portatelo in macchina», disse all’infermiere. Questi esitò, ma il poliziotto si era già diretto di corsa alla macchina della Squadra Omicidi; allora si decise, fece passare un braccio di Larren attorno alle spalle e lentamente si avvicinarono a loro volta all’auto. Il poliziotto parlava concitatamente in un radiotelefono. Riferì le parole di Larren e terminò chiedendo il numero di Whitehall. Attese un intero minuto, poi si volse verso Larren e gli porse il microfono. Dall’auricolare usciva una voce piatta e priva di inflessioni. «Identificatevi, prego.» Larren inspirò profondamente. «Parla Cane da guardia M, per Cane da guardia capo. Mallory si è appena messo in contatto con un uomo, quasi sicuramente lo stesso che stiamo cercando in relazione all’assassinio del Primo Ministro. Io mi trovo vicino al Sultry Strip Club, a Soho. Se

ne sono andati con una auto circa un quarto d’ora fa, insieme ad altri due uomini. Non so di che marca sia l’auto, o dove siano diretti, ma penso che stiano lasciando la città, quindi disponete immediatamente dei blocchi stradali.» Proseguì con la descrizione di Andrews e Henderson, e aggiunse alcuni particolari di quello che era avvenuto. L’equipaggio dell’auto della polizia e l’infermiere lo osservavano in silenzio, e Larren si rese conto di avere compromesso in quel modo il sistema di chiamate Cane da guardia, oltre al numero di telefono, ma ambedue potevano essere cambiati senza eccessiva difficoltà. Doveva a qualunque costo trasmettere quel messaggio, anche se non si faceva eccessive illusioni di potere ormai raggiungere risultati positivi. Terminò il messaggio comunicando il nome dell’ospedale in cui lui e le ragazze stavano per essere condotti, e ridette il microfono al poliziotto. Ormai non c’era altro che potesse fare, e d’improvviso tornò a sentirsi male. Lo accompagnarono all’ambulanza. La Piccola Nancy giaceva immobile sulla barella accanto alla parete sinistra, sempre svenuta e coperta da un plaid, mentre l’altra era distesa faccia in giù sulla barella di fronte, contorcendosi per il dolore delle ustioni nonostante la morfina che le era stata somministrata. Larren le si andò ad inginocchiare accanto, e lei aprì un attimo gli occhi. «È stato molto generoso quello che ha fatto, signorina», le disse piano. Fece una pausa soprappensiero, poi le chiese: «Ma perché lo ha fatto?» La ragazza fece uno sforzo per scacciare le lacrime dagli occhi, e la bocca cominciò a tremarle senza che riuscisse e controllarla. Infine disse: «L’ho fatto per Nancy.» Si accorse dello stupore che le sue parole avevano provocato in Larren e assunse un’espressione triste. Proseguì amaramente. «Immagino che la cosa la sorprenda, trattandosi solo di una lurida puttana. Ma Nancy è mia sorella… è tutto quello che ho.» Poi volse il viso e riprese a piangere sconsolatamente. Larren tacque, guardandola commosso fino all’inverosimile. Poi si sorprese a pensare che forse quello era stato l’unico particolare che Henderson non aveva preso in considerazione. *** Nonostante le sue proteste, Larren venne trattenuto in ospedale per il resto della notte e quasi tutto il giorno seguente. Dietro istruzioni della polizia gli venne assegnata una camera singola, e subito dopo il suo arrivo ricevette la visita di Adrian Cleyton. Il collega si fece raccontare i fatti per filo e per segno, e lo assicurò che la caccia a Mallory e agli altri tre si era intensificata. La visita fu breve, e dopo che Cleyton se ne andò i medici dell’ospedale ritennero opportuno mettere Larren fuori combattimento per quattordici ore mediante una massiccia dose di sedativi. Al suo risveglio urlò ai medici una massa di improperi e infine, era Domenica sera, venne dimesso. Ovviamente non si era del tutto ristabilito, e il petto gli faceva ancora male, ma per fortuna il suo sistema nervoso, robustissimo, non aveva risentito dello choc. Le ferite sulle mani e sul viso gli bruciavano ancora, ma tutto sommato i guai

peggiori li aveva passati il suo vestito. Fece una vaga promessa di recarsi ogni giorno all’ospedale per le medicazioni, poi telefonò alla moglie del suo portiere a Rushlake Terrace e la convinse a portargli degli abiti nuovi del suo guardaroba. Alle sei in punto era a rapporto a Whitehall. Smith lo ricevette nel suo ufficio invaso dai libri e gli lanciò un’occhiata dubbiosa. «Avresti fatto meglio a rimanere a letto, Larren. Hai un’aria terribilmente malandata.» Larren scosse il capo. «E sono malandato. Ma visto che sono anche l’unico a conoscere le facce degli amichetti di Mallory, penso di potere ancora servire a qualcosa.» Smith sorrise, e lo guardò per un attimo come uno zio orgoglioso del nipote. Era un ometto basso e panciuto, che indossava di preferenza vestiti a righine e bombetta, confondendosi, volutamente, con le migliaia di impiegati della City che avevano gli stessi suoi gusti in fatto di abbigliamento. Fuori di questo ufficio nessuno avrebbe soffermato lo sguardo su di lui, perché il vero Smith si nascondeva dietro i suoi occhi grigi, ed il resto era solo una maschera anonima. «Forse hai ragione», disse. «Pare che tu sia andato a sbattere proprio sul muso a quei signori, perciò ci sei ancora utilissimo. Dopo il tuo messaggio di ieri sera mi sono messo in contatto con il Servizio Speciale di Scotland Yard ed hanno bloccato tutte le strade di uscita dalla città. Ma c’è voluto del tempo, e se non si sono fermati in città devono essere riusciti a passare attraverso la rete. Avremmo sicuramente ottenuto migliori risultati se ci avessi potuto dire su che tipo di macchina viaggiavano.» «I risultati sarebbero stati ancora migliori se li avessi addirittura arrestati», osservò Larren con sarcasmo. «Purtroppo non mi è stato possibile.» «Non ce l’ho con te.» Smith sorrise di nuovo, e per lui la cosa equivaleva ad un elogio. «E oltretutto abbiamo la loro descrizione e sappiamo grosso modo quello che succedeva in quel locale, grazie a Nancy Goss, la prostituta che hai tirato fuori dall’incendio.» Sorrise per la terza volta, e Larren osservò che quel giorno il suo principale era stranamente pieno di sorrisi. «Non le abbiamo detto naturalmente che era stato uno dei nostri a metterla fuori combattimento, ma abbiamo invece sottolineato il fatto che Henderson e Jouvert l’avevano volutamente abbandonata lì perché morisse. Dopodiché, ci ha detto i loro nomi e tutto quello che sapeva. «Ce n’erano altri sei che si riunivano nella sua stanza sopra il club, e nonostante siano senz’altro pesci piccoli ce li siamo lo stesso fatti descrivere insieme a tutto quello che la ragazza ricordava di loro. Pare che gli incontri si siano svolti ogni quindici giorni durante i tre mesi che hanno preceduto l’assassinio del Primo Ministro. Non adoperavano parole d’ordine o accorgimenti del genere, e Henderson o Andrews si limitavano a controllare attraverso lo spioncino prima di fare entrare i loro complici. «L’ultima di queste riunioni ha avuto luogo dieci giorni prima dell’uccisione del Primo Ministro, e tre giorni prima Henderson si è andato a stabilire lì

definitivamente. Andrews gli serviva come fattorino oltre che come marconista. Fu allora che entrò in scena Jouvert, insieme con un uomo chiamato Skoda, sicuramente quello che abbiamo trovato morto dopo avere ucciso il Primo Ministro.» Smith, serio e assorto, fece una pausa e Larren comprese che il suo principale doveva avere esaurito la sua provvista giornaliera di sorrisi. «Questo è tutto quello che ci ha potuto dire Nancy Goss. Il proprietario del night, come puoi immaginarti, è scomparso e Scotland Yard sta cercando di rintracciarlo. Sembra che Henderson e i suoi uomini si servissero dell’uscita laterale per raggiungere la camera vicina a quella di Nancy, e di conseguenza né le spogliarelliste né i camerieri avevano la minima idea di quello che succedeva al piano di sopra.» «Come sta l’altra ragazza?» chiese Larren. «Annie Goss? È conciata male. Si è provocate delle ustioni peggiori delle tue o di quelle di Nancy tentando di entrare in camera della sorella. È più che sicuro che dovrà abbandonare la carriera di spogliarellista. La gente non paga per andare a vedere delle cicatrici.» Divenne più umano e disse quasi sottovoce: «Sei stato molto fortunato, Larren. Il coraggio lo si trova nei posti più impensati.» Larren annuì leggermente mortificato, cosa che gli succedeva piuttosto di rado. Poi chiese: «Altre piste su cui poter lavorare?» «Nulla di concreto», rispose Smith. «Qualche vaga traccia ce l’ha data Nancy Goss. Da alcuni brani di conversazione, uditi dagli uomini che passavano per la sua stanza, sembra che la sigla della loro organizzazione fosse APP, anche se la ragazza non sa dirci di quali parole queste tre lettere siano le iniziali. Inoltre, una volta ha sentito Henderson lamentarsi per avere impiegato tre ore per arrivare in auto a Londra, un’altra volta ha parlato di un ingorgo di traffico a Cheltenham, dal che si dovrebbe dedurre che arriva da qualche città del Gloucestershire. Abbiamo trasmesso questa informazione alla polizia locale, ed hanno iniziato le ricerche in tutto il territorio della Contea. Sorvegliano, in particolare, ogni casa isolata e ogni albergo o pensione dove siano segnalati gruppi di forestieri.» Fece una pausa, poi concluse. «Quando le probabilità sono contro di noi, bisogna sempre fare affidamento sul vecchio, buon poliziotto di campagna che, conoscendo tutti in paese, nota ogni faccia nuova.» Larren guardò Smith e disse lentamente: «Forse, stando così le cose, farei meglio ad andare anch’io nel Gloucestershire. Avranno sicuramente bisogno di me per eventuali identificazioni, nel caso riescano a mettere le mani su Henderson e soci.» «Vuoi dire che non ti vuoi perdere la sparatoria.» Smith gli restituì freddamente lo sguardo. Poi, con scarsa convinzione, annuì. «Ma forse hai ragione. Dovrei lasciare la cosa all’Ufficio Speciale e alla polizia locale, ma viste le circostanze, e con un assassino come Jouvert, preferisco mandare te. Ma ricordati che lo voglio vivo.»

CAPITOLO VI AL BUIO IN SILENZIO LARREN partì quella sera stessa sulla sua MG bianca, e a mezzanotte si ritrovava nel

Gloucestershire. Il suo arrivo era stato preannunciato da Smith, e venne subito ricevuto dal commissario capo Parker, il più elevato in grado dei due uomini dell’Ufficio Speciale che partecipavano alle ricerche insieme alla polizia locale. Larren ripeté nuovamente tutto quello che sapeva sui quattro uomini del Sultry Strip, ma non ebbe in cambio novità di rilievo. La giornata era passata ascoltando i rapporti dei poliziotti di servizio o controllando falsi allarmi che provenivano da ogni parte della Contea, il tutto senza risultati apprezzabili. Si basavano sempre sulle vaghe informazioni ottenute da Nancy Goss e, come osservò amaramente Parker, il fatto che Henderson fosse una volta venuto a Londra passando da Cheltenham non voleva dire necessariamente che si nascondesse in quella Contea. Poteva, per esempio, essere andato a trovare un amico. Larren si rese conto che Parker aveva ragione, ma in quelle circostanze non gli rimaneva che aspettare sperando che le ricerche dessero i loro risultati. Rimase lì due giorni, dormendo in un albergo vicino alla Centrale di polizia che Parker aveva eletto a suo quartier generale. L’attesa lo innervosiva, ma contribuiva se non altro a farlo riprendere dal trauma dell’incendio. Dormì moltissimo, conoscendo il giovamento apportato in determinate circostanze dal sonno, quando non vi è altro da fare e in vista di giorni movimentati; ma era completamente sveglio quando la caccia cominciò a dare i primi risultati. Una telefonata lo fece precipitare alla Centrale di polizia, dove trovò Parker insieme al suo assistente dell’Ufficio Speciale, l’ispettore Rowlands, e ad un gruppetto di funzionari della polizia locale. Al suo ingresso nella sala delle riunioni Parker sollevò lo sguardo, spostando sulla sedia i suoi cento chili. Il suo viso squadrato lasciava trapelare una certa soddisfazione quando disse: «Credo che li abbiamo trovati, Larren.» Si alzò in piedi dirigendosi ad una carta a grande scala della Contea appesa ad una parete. «Ci è pervenuto un rapporto da un paesino, Bowington. Si trova qui, appena dentro i confini della Contea. Sembra che ad un paio di chilometri dal paese ci sia una grossa fattoria, chiamata Larkspurs. È rimasta disabitata per un anno dopo la morte del vecchio proprietario, ma sei mesi fa è stata venduta. I nuovi proprietari si vedono molto raramente e nessuno sembra sapere niente di loro; questo particolare ha insospettito gli agenti del posto, già messi in stato di allarme dalle nostre istruzioni. Ci hanno inviato un rapporto, dal quale sembra che i proprietari di una villa delle vicinanze abbiano udito fermarsi una auto a Larkspurs nelle prime ore di Domenica mattina, e che la fattoria da allora è abitata.» «La cosa sembra promettere bene», osservò Larren.

Parker sorrise nuovamente. «C’è di più. Stamattina si è presentato alla fattoria il lattaio, nella speranza di aggiungere un altro cliente alla sua lista. È stato mandato via a male parole, e lui è corso subito alla polizia a riferire. La descrizione che ha dato dell’uomo che gli ha aperto corrisponde a quella di Andrews.» Allontanandosi dalla carta geografica Parker concluse: «Io e l’ispettore Rowlands stiamo andando a Bowington; ci accompagnerà l’ispettore Gracey come rappresentante della polizia della Contea. Abbiamo anche bisogno di lei, Larren, per le identificazioni.» Gracey, un uomo alto e austero, aggiunse in tono dubbioso: «Sono stato autorizzato dal Ministero dell’Interno ad adoperare le armi in caso di necessità, ma non sono sicuro se la stessa autorizzazione valga anche per lei, Larren, in quanto non si trova esattamente sotto il mio comando.» Larren sorrise ed aprì la giacca mettendo in mostra la Smith and Wesson calibro 38 sotto la sua ascella sinistra. «Di questo non si preoccupi, ispettore», disse. «Ci ha pensato il mio ufficio ad equipaggiarmi a sufficienza.» Gracey non sembrava del tutto convinto, poi anche Parker sorrise. «Diamo per scontato che Larren abbia il porto d’armi. Andiamo, le auto ci attendono.» *** Un’ora dopo Simon Larren era appoggiato al cofano di un’auto nera della polizia, ferma in una strada di campagna distante circa un chilometro dalla strada privata che portava a Larkspurs. Parker, Rowlands e Gracey erano insieme a lui, e al gruppo si era aggiunto il capo della polizia di Bowington. Avevano tenuto un’ultima riunione alla stazione di polizia del paese, ed ora attendevano che due squadre di agenti, agli ordini di due sergenti, completassero l’accerchiamento della fattoria. La notte era buia e senza luna, e in cielo brillavano pochissime stelle. La campagna intorno a loro era fittamente alberata e, attraverso la foresta, gli agenti avanzavano per chiudere l’accerchiamento intorno alla casa. Le condizioni atmosferiche e ambientali erano quelle che Larren preferiva per agire. Le ore notturne erano le migliori per lavorare al coperto. Alcune ore prima la polizia di Gloucestershire era riuscita a rintracciare l’agente immobiliare che aveva curato la vendita di Larkspurs sei mesi prima, e la descrizione che aveva dato del compratore corrispondeva perfettamente ad Henderson. Giunta la notizia a Bowington, Larren e Parker non ebbero bisogno d’altro per convincersi che gli abitanti della fattoria erano proprio gli uomini che Stavano cercando. Alcuni agenti della polizia locale avevano tenuto d’occhio la casa fin dal sorgere dei primi sospetti, ed erano pronti a giurare che nelle ultime ore nessuno degli abitanti era uscito. Passarono quindici minuti, poi Parker guardò l’orologio e disse calmo: «L’accerchiamento a quest’ora dovrebbe essere completato. Cominciamo ad avvicinarci.» Tornarono alle auto ferme lungo la strada e partirono lentamente. Passarono accanto ad un muretto alto circa un metro e mezzo che correva intorno ai

terreni annessi alla fattoria, poi apparve davanti a loro l’ingresso della stradina privata. Qui le auto, che fino a quel momento avevano proceduto a fari spenti, si fermarono e ne uscirono rapidamente gli occupanti. In tutto erano sette: Laarren, i due dell’Ufficio Speciale, l’ispettore di Bowington, Gracey e due dei suoi migliori sergenti. Il pesante cancello di ferro, affiancato da due alti pilastri, era chiuso ma senza lucchetto: lo aprirono, e presero a camminare sulla sottile ghiaia del sentiero. Non soffiava un alito di vento e gli alberi intorno erano silenziosi. L’unico rumore che si sentiva era quello sordo provocato dai loro passi sulla ghiaia. Il sentiero girò a sinistra, e al termine della curva la sagoma della casa si stagliò un centinaio di metri più avanti. Era una grossa costruzione di forma quadrata, immersa nell’oscurità. Avrebbe potuto essere in stile georgiano, tudoriano o elisabettiano, ma in quel buio se ne intravedevano a fatica anche i comignoli. Gli unici segni di vita venivano dalle due finestre del piano superiore, dalle spesse tendine tirate, dalle quali passava uno spiraglio di luce. Assomigliavano a due mostruosi occhi quadrati di una enorme maschera buia. Arrivarono all’ingresso e attesero in silenzio mentre Parker suonava il campanello. Larren, alle spalle di Parker, era come gli altri in preda ad una forte tensione nervosa, nessuno poteva prevedere quello che sarebbe avvenuto nei minuti seguenti. Non approvava questo ingenuo attacco frontale, ma così aveva deciso Parker e lui non aveva l’autorità necessaria per opporsi. Se si trovava lì era unicamente per compiere una identificazione. L’eco del campanello si spense in lontananza, si ristabilì per qualche istante un silenzio assoluto, poi Parker stava per allungare nuovamente il braccio verso il pulsante quando udirono avvicinarsi dei passi, seguiti dal clic di un interruttore elettrico. La porta si aprì infine lentamente. Era Andrews. Dal labbro superiore gli pendeva l’immancabile sigaretta, ma stavolta stringeva nella destra una piccola automatica nera. Spalancò la bocca lasciando cadere la sigaretta, e sollevò la canna della pistola. «La polizia!» Andrews lanciò l’allarme mentre Larren spalancava completamente la porta con una spallata. Si udì uno sparo, seguito immediatamente dall’urlo di dolore di uno dei poliziotti. Poi le dita di Larren si chiusero attorno al polso di Andrews e glielo torsero violentemente. La pistola cadde sul pavimento, e un sinistro di Larren colse Andrews nelle costole, mandandolo a finire tra le braccia di Parker. Larren estrasse allora dalla fondina la Smith and Wesson e prese ad avanzare nell’atrio. Alle sue spalle Rowlands, l’altro ispettore dell’Ufficio Speciale, si contorceva sul pavimento premendosi con le mani la ferita allo stomaco. Pagava lo scotto comune a tutti i poliziotti, costretti ad attendere che qualcuno spari loro addosso prima di potere fare uso delle armi. Ma Larren non aveva di questi scrupoli. Spalancò una porta che dava su un ampio salone. Su due pareti si aprivano altrettante porte, e in fondo si notava una scalinata. Ricordandosi delle finestre illuminate che aveva visto da fuori, Larren capì che gli altri dovevano trovarsi al piano superiore. All’inizio delle scale si vide venire incontro due figuri, ma erano

sconosciuti e disarmati. Col calcio della pistola ne mise uno fuori combattimento, e l’altro preferì fare dietrofront appena vide arrivare Parker e gli altri. Gracey lanciò un ordine e uno dei due sergenti si lanciò all’inseguimento. L’altro teneva fermo Andrews, mentre Gracey si univa a Parker. Larren vide stagliarsi in alto la sagoma di Henderson e prese a salire i gradini tre alla volta. Henderson fece fuoco e Larren si gettò di lato, sentendosi schizzare sul viso le schegge di legno del corrimano. Incespicò a cadde sulle ginocchia mentre Henderson sparava nuovamente. Sollevò la Smith and Wesson mirando alle gambe, ma l’altro fu più svelto e scomparve nel corridoio. Larren ebbe allora un attimo di esitazione, indeciso se lanciarsi dietro ad Henderson, cosa che in quelle condizioni sarebbe equivalsa ad un suicidio. Dietro di lui Parker urlava ad Henderson di arrendersi, mentre Gracey a colpi di fischietto faceva intervenire gli agenti che circondavano la casa. Henderson sembrava essersi volatizzato, né si vedeva traccia di Mallory e di Jouvert. Larren si immobilizzò, poi prese a salire velocemente le scale a zigzag. Correndo, sparò un paio di colpi attraverso la porta da dove era scomparso Henderson, allo scopo di tenerlo indietro mentre lui raggiungeva il pianerottolo; ma fu uno spreco di munizioni perché in cima alla scale non c’era nessuno. Poi la stanza che dava sul pianerottolo saltò in aria in una nube di fuoco, e l’esplosione lo catapultò in fondo alle scale. Larren, trovandosi perfettamente illeso, capì che doveva essersi trattato di un’altra bomba incendiaria del tipo di quelle che avevano mandato a fuoco l’intero secondo piano del Sultry Strip Club. Ma non c’era tempo per rammaricarsi della nuova beffa; Parker e Gracey gli passarono accanto correndo, seguiti dai due sergenti che avevano infine estratto le pistole e, almeno a giudicare della loro espressione, sembravano decisi ad adoperarle. Si rialzò e corse ad unirsi al gruppetto. Arrivati in cima alle scale dovettero ritirarsi per il fuoco che aveva invaso il corridoio; di Henderson, ovviamente, nessuna traccia. Parker e Gracey entrarono nella prima stanza a destra e Larren in quella a sinistra. Era completamente vuota, ma in fondo si vedeva un’altra porta e Larren la apri, certo che Henderson doveva essere fuggito da quella parte. Si trovò in un altro stretto corridoio e lo percorse fino in fondo; dal fumo alle sue spalle comprese che doveva avere superato la stanza in fiamme. Il suo uomo doveva essere davanti a lui. L’ambiente era completamente immerso nell’oscurità, e Larren estrasse correndo una torcia elettrica. La luce della torcia illuminò un corridoio; al termine, una rampa di scale portava al piano inferiore; Larren si sporse dalla ringhiera e diresse il raggio della torcia in basso. Non tardò molto ad individuare Henderson, che vistosi scoperto riprese a sparare. Il colpo andò a vuoto, alle sue spalle si spalancò una porta e i raggi di altre torce lo inquadrarono, inchiodandolo al muro. Rimase così per un momento, simile ad un attore rimasto intrappolato fra le assi di un palcoscenico marcio, poi dall’alto venne acceso un lampadario che illuminò completamente la scena. Un massiccio sergente e due poliziotti, accorsi al richiamo del fischietto di Gracey, impedivano con la loro presenza qualsiasi possibilità di fuga per Henderson. Il

fuggitivo, come un animale braccato, sollevò disperatamente lo sguardo e vide apparire alle spalle di Larren Parker e Gracey, che lo illuminarono con le loro torce elettriche. Sparò allora altri due colpi, uno in direzione di Larren e l’altro in direzione dei tre poliziotti alla sua sinistra; poi si infilò una mano in tasca, e la estrasse subito dopo mettendosi qualcosa in bocca. Larren si accorse subito dell’espressione di agonia che si era dipinta sul volto dell’uomo, e incurante della pistola che Henderson stringeva ancora in pugno si precipitò giù per le scale. Gli saltò addosso e ambedue caddero sul pavimento, mentre i tre poliziotti correvano a dargli man forte; ma a quel punto Henderson, con un rantolo soffocato, esalava l’ultimo respiro. Larren si rialzò ansando leggermente, mentre sopraggiungeva Parker e Gracey. Parker guardò il corpo immobile di Henderson, poi disse piano: «Cianuro?» Larren annuì. «Si, cianuro… o qualcosa di altrettanto letale.» Sollevò lo sguardo. «Nessuna traccia degli altri due?» Parker scosse il capo. «Non ancora, ma gli uomini del cordone hanno già iniziato le ricerche, mentre altri spengono l’incendio. Pare che in quella camera che volevano distruggere ci fosse un’altra trasmittente.» In quel momento si udì dal di fuori un grido, seguito immediatamente da un secco colpo di fucile. Larren, imprecando, si lanciò verso la porta esterna, seguito di corsa dagli altri. Corse lungo la fiancata della casa, in direzione della zona dalla quale era giunto il rumore dello sparo, e vide altri poliziotti correre davanti a lui. Alle sue spalle Gracey lanciò una domanda, e uno degli agenti si fermò a rispondere. «Ne abbiamo individuato uno, signore. È uscito da una delle finestre sul retro, fuggendo in direzione degli alberi. Si è trovato di fronte quelli del cordone, e ha fatto fuoco colpendone uno. Ha un fucile.» «Jouvert», esclamò Larren. «Era quello che temevo.» Nel buio, sulla destra, si udì un’altra fucilata, e subito dopo un altro urlo di dolore dette a Larren la conferma dei suoi timori. Seguì una gran confusione; Larren riprese a correre, poi una voce sovrastò le grida: «È nella serra!» La voce era quella di uno dei sergenti di Bowington, e le fece eco quella di Parker: «Circondatela. Ma, per l’amor di Dio, non vi avvicinate troppo.» Un attimo dopo apparve la massiccia figura del sergente, e nell’oscurità Larren evitò per un pelo di scontrarvisi; dall’altra direzione sbucarono Parker e Gracey. Il sergente, senza fiato per la corsa, disse: «La serra è da quella parte, signore, nel mezzo di quella radura. Deve essersi diretto lì dopo essersi accorto che dall’altra parte c’erano troppi uomini. Ora è completamente circondato, ma non so come faremo a snidarlo.» Anche Gracey respirava a fatica per la corsa. «Potremmo fare una irruzione», disse. «La maggior parte degli agenti sono armati.»

«Di pistole», gli ricordò Parker. «Quell’uomo ha un fucile.» «E allora che facciamo?» chiese Gracey. Al posto di Parker rispose Larren. «Ci penso io. Voi non fate esporre troppo gli agenti, ma assicuratevi che non vi siano falle nel cordone e fate appostare gli uomini armati. A Jouvert ci penso io.» Gracey lo guardò indeciso. «Non è lavoro che possa fare un uomo solo.» «Lo è diventato», rispose Larren. «Se cercate di stringere il cerchio intorno alla serra riuscirete solo a perdere altri agenti. Jouvert è un esperto, li abbatterebbe uno alla volta come se fossero papere del tiro a segno. Anch’io, a mio modo, sono un esperto. Sono stato addestrato proprio per queste situazioni, e ho più probabilità di farcela di tutti voi.» Seguì qualche istante di silenzio, poi Parker disse: «Ha ragione, Gracey. Ho sentito parlare del suo Servizio. Sarebbe compito nostro, ma penso sia meglio lasciare fare a lui.» Gracey respirò profondamente e approvò. «Va bene. Sergente, faccia il giro del cordone lentamente e dica agli uomini di stare al coperto e di non esporsi inutilmente. Abbiamo già avuto abbastanza perdite.» Attese che l’uomo salutasse e scomparisse nel buio, poi aggiunse: «Che altro possiamo fare per lei, Larren?» Larren scosse il capo. «Dipende tutto da me, a questo punto. Se venisse qualcun altro, Jouvert avrebbe maggiori possibilità di sentirci avvicinare.» Gracey non sembrava del tutto convinto. «Buona fortuna», disse. Larren sorrise, e alzò gli occhi verso la scura coppa del cielo. Non si vedeva neanche una stella, e questo gli facilitava le cose. Poteva muoversi in silenzio, e soprattutto al buio, e gli bastava. Di fortuna, comunque, ne aveva un gran bisogno. CAPITOLO VII VERSO TANGERI LARREN impiegò più di mezz’ora per portarsi a distanza utile dalla piccola serra;

preferì procedere adagio, anche se la notte buia e la fitta vegetazione gli fornivano un’ottima copertura. Il silenzio tutt’intorno era completo, e la tensione si era fatta quasi palpabile. Gli agenti del cordone erano stati avvertiti di non fare il minimo rumore che potesse rivelare la loro posizione, e attendevano immobili fra gli alberi. Sulla sinistra l’oscurità avvolgeva nuovamente Larkspurs; il principio d’incendio era stato completamente domato, e tutte le luci erano state spente per facilitare il compito a Larren. Riuscì infine a distinguere la serra, una ventina di metri più avanti. Dall’interno non proveniva alcun rumore da mezz’ora a quella parte. Poi, all’improvviso, si udì un suono di vetri infranti; quasi sicuramente Jouvert doveva avere spaccato un vetro col calcio del fucile per potere puntare l’arma verso l’esterno. Larren si chiese se quell’attesa spasmodica non stesse a poco a poco logorando i nervi di Jouvert. L’assassino, rannicchiato in quell’ultimo rifugio, doveva avere vista e udito all’erta. Dalla vetrata principale aveva un angolo di visuale pressoché

completo, ma fino all’ultimo momento non poteva sapere con esattezza da che parte sarebbe venuto l’attacco. A quel pensiero Larren sorrise involontariamente, anche se le possibilità erano contro di lui. Rimase perfettamente immobile per altri cinque minuti, cercando di individuare con esattezza la conformazione esterna della serra, della quale riusciva solo ad intravedere la sagoma. Le pareti laterali erano di cemento fino ad un metro da terra, e di vetro fino al soffitto. Le altre due sembravano completamente di cemento, ma su quella posteriore doveva sicuramente esserci una finestrella. Il tetto era di tegole, interrotto da tre file di finestroni. Aguzzando le orecchie percepì due volte dei movimenti dall’interno, non sufficienti per localizzare la posizione di Jouvert; il fatto, tuttavia, che l’uomo si spostasse in continuazione era un chiaro sintomo della sua agitazione. La sparatoria di mezz’ora prima doveva averlo scosso notevolmente, e da allora attendeva un attacco frontale che non arrivava mai. Strisciando lentamente come un cobra attraverso la vegetazione Larren cominciò a portarsi sul retro della serra. Non aveva alcuna fretta, e si muoveva centimetro per centimetro tastando con la mano il terreno davanti a lui per togliere foglie o ramoscelli che frusciando avrebbero rivelato la sua presenza. Aveva tutto il tempo che voleva. L’avvicinamento si svolse nel massimo silenzio e, quando infine si fermò accanto al retro della serra, Larren ebbe la certezza pressoché matematica che Jouvert non aveva il minimo sospetto di averlo alle spalle. Allora lentamente si alzò in piedi e, tenendosi con le spalle al muro, prese ad avvicinarsi alla finestrella. Esitò per un momento. Aveva la Smith and Wesson nella fondina sotto il braccio sinistro e il coltello sistemato nel fodero della giacca. Ma Smith voleva Jouvert vivo, e ora che Henderson era morto l’assassino diveniva ancora più importante. Con una certa riluttanza decise perciò di lasciare le armi al loro posto. Se ne stette ancora qualche istante al riparo dell’oscurità pressoché totale, aspettando in ascolto, poi si volse e allungò le mani afferrando il bordo del tetto. Si assicurò prima sommariamente che le tegole sostenessero il suo peso, poi si sollevò. Strisciò con i vestiti e la punta delle scarpe alla parete, e rimase immobile con il bordo del tetto all’altezza dello stomaco. Quindi, ignorando qualsiasi precauzione, saltò sul tetto e di lì, proteggendosi il viso con le braccia, piombò nella serra attraverso il lucernario. Atterrò in un’esplosione di vetri infranti e udì immediatamente l’urlo di sorpresa di Jouvert. Urtò con la spalla contro il calcio del fucile, e subito dopo una pallottola andò a infrangersi contro la vetrata alle sue spalle, all’altezza dell’orecchio. Altro scroscio di vetri, poi mentre Jouvert sparava un altro colpo alla cieca, riuscì al buio ad abbrancarlo e caddero uniti sul pavimento, urtando una fila di vasi che caddero insieme a loro con enorme fracasso. Larren riuscì infine a strappare di mano il fucile all’avversario, torcendolo violentemente e spaccandogli l’indice, rimasto infilato tra il grilletto e il ponticello protettivo. Fuori si udirono sibilare i fischietti degli agenti, e il cordone cominciò a stringersi inesorabilmente attorno alla serra. Il terrore sembrò accrescere le forze di Jouvert. Larren era più alto e più pesante di lui, ma non riusciva ad averne ragione.

Continuarono a. lottare avvinti strettamente, facendo cadere altri vasi e piante; poi Jouvert riuscì a divincolarsi, e ne approfittò per tirare un calcio in faccia a Larren e slanciarsi verso la porta. Larren fu pronto a rialzarsi e, con un perfetto placcaggio, afferrò Jouvert per le ginocchia sbattendolo nuovamente in terra. Cadendo, il francese riuscì ad assestare un altro calcio in faccia a Larren, che restò per un attimo intontito. Stava per rialzarsi nuovamente per riprendere l’inseguimento di Jouvert, quando lo udì emettere un grido soffocato. Il francese barcollò un attimo, poi cadde e rimase immobile. Un minuto dopo la porta venne spalancata dall’esterno, e la scena fu illuminata dalle torce elettriche degli agenti. Larren era inginocchiato per terra, fra i resti di quella che era stata la serra. Ansava debolmente e perdeva sangue da una ferita che si era procurata alla fronte rompendo il lucernario. Davanti a lui giaceva Jouvert. Sul suo viso abbronzato era ancora dipinta una incredula espressione di dolore. Un grosso frammento di vetro gli attraversava la gola da parte a parte. Larren si sollevò lentamente in piedi, aiutato da Gracey, materializzatosi come per incanto dietro alla fila di torce elettriche. Arrivò anche Parker, che andò a fermarsi accanto al cadavere. «Jella fottuta!» esclamò. «Peggio di così non poteva andarci.» «Abbiamo ancora Andrews», disse Gracey. «Lui, almeno, è vivo.» «Anche se parlasse, non credo avrebbe molto da dirci.» Larren si era un po’ ripreso e non sembrava avere più bisogno di aiuto. Guardò Parker e aggiunse: «Ma ne ho contati solo tre. Mallory che fine ha fatto?» «Non ne abbiamo trovato traccia», rispose Parker. «È scomparso.» *** L’alba era spuntata da poco quando Larren rivide Smith a Whitehall. Il capo del Servizio era inappuntabile come sempre, e nulla in lui lasciava capire che era stato svegliato con urgenza mezz’ora prima. Appena entrò Larren sollevò lo sguardo dal tavolo, e senza preamboli disse: «Avrei dovuto capirlo che mandando lei non avrei più rivisto Jouvert vivo». «È stato un incidente», rispose Larren amaro. «Io ho fatto quello che ho potuto.» «Quando ci si mette lei si verificano sempre degli incidenti, e mortali per giunta. Si sieda.» Larren sedette e rimase in attesa. Smith pose un dito grassoccio su un rapporto dattiloscritto sul suo tavolo. «È appena arrivato da Scotland Yard. Parker ha mandato in laboratorio il fucile di Jouvert, e hanno eseguito una prima perizia balistica. Hanno sparato un colpo di prova, e i graffi sulla pallottola corrispondono perfettamente a quelli del proiettile rinvenuto sul cranio di Skoda. Questo sta a significare senza ombra di dubbio che Jouvert era il secondo assassino.» «Allora il caso è chiuso?» Più che un’affermazione era una domanda, Larren sapeva che la soluzione del caso era ancora lontana da venire.

«Non esattamente.» Smith fece una pausa, poi continuò. «Alcune cose mi lasciano sconcertato. Abbiamo scoperto gli assassini del Primo Ministro, ma non abbiamo trovato uno straccio di movente. Quella era gente organizzatissima. Perché l’hanno fatto? Da escludere eventuali moventi politici, dato che sotto l’attuale governo del Vice Primo Ministro il sistema è rimasto in tutto simile al precedente. Non hanno provocato un’elezione generale, ed apparentemente non hanno ottenuto dal delitto vantaggi economici. E allora, quale è il movente?» Larren tacque. Non aveva considerato quell’aspetto del problema, e non sapeva quindi cosa rispondere. Smith si alzò di scatto, segno evidente che era preoccupato, e prese a camminare nervosamente. Si fermò contro la parete opposta, e Larren dovette voltarsi appena riprese a parlare. «I fatti sono questi. Jouvert e Skoda erano assassini su commissione. Sono stati pagati per assassinare Sir Howard Davies da un misterioso movimento del quale conosciamo solamente le iniziali APP. C’erano delle radiotrasmittenti a lunga portata sia al Sultry Strip che nel Gloucestershire, il che significa che si tenevano in contatto con stazioni straniere. Anzi, è più che probabile che agissero seguendo le direttive proprio di queste stazioni straniere. Ma perché? Cosa c’è dietro a tutto questo?» Larren chiese lentamente: «Andrews parlerà?» «Parlerebbe se lo dessero in mano a qualcuno come lei. Ma purtroppo ce l’ha la polizia. Certo Parker lo striglierà, a dir poco, anche perché non ha ancora digerito completamente la morte dell’ispettore Rowlands, colpito allo stomaco proprio da Andrews. Ma Parker e soci restano dei poliziotti, e in quanto tali hanno la tendenza di prendere la legge alla lettera. Mai maltrattare i prigionieri, anche se sono degli assassini.» D’improvviso cambiò argomento. «Cosa pensi che sia successo a Henry Mallory?» Larren rimase un attimo a riflettere. «Probabilmente l’hanno ucciso. Era in preda al panico, e oltretutto non ne avevano più alcun bisogno. Per loro sarebbe stata la cosa più logica da fare.» «Giustissimo. Ma a Larkspurs non c’era traccia di lui, e sebbene la polizia del Gloucestershire stia facendo delle ricerche con i cani poliziotto ho i miei dubbi che riusciranno a trovarlo. Per me, Mallory è ancora vivo.» «Dove?» Smith lo fissò. «In Marocco. Hai detto tu stesso che la prima volta che sei rinvenuto al Sultry Strip stavano parlando di garantirgli la fuga.» «È vero», ammise Larren. «Ma per me Henderson stava solo cercando di calmarlo. Non credo che parlasse seriamente.» «Non ne sarei così sicuro», replicò Smith. «Devi tenere presente che Henderson non poteva prevedere che l’avremmo rintracciato così presto a Larkspurs. Deve avere pensato che avrebbe potuto lasciare Londra tranquillamente, e tutti i pericoli sarebbero allora svaniti. Non credo che abbia corso il rischio di uccidere Mallory in Inghilterra. Uccidere qualcuno significa anche doversi sbarazzare di un cadavere, fare scomparire tracce di sangue eccetera. Più pratico per loro fare prima espatriare clandestinamente Mallory, magari in Marocco, e poi ucciderlo. A Tangeri, o in posti simili, il ritrovamento del cadavere di Mallory creerebbe minori complicazioni.»

«È possibile», disse Larren lentamente. «Dalle radiotrasmittenti sappiamo che avevano contatti all’estero, e alcuni elementi ci portano all’Africa Settentrionale. Ho sentito Jouvert parlare dell’Algeria e della Legione, perciò è sicuro che doveva trovarsi là prima che la Legione Straniera venisse sciolta. Ma c’è una cosa che non quadra. Se avevano modo di inviare Mallory in Marocco, perché non ci sono andati anche loro?» «Forse il loro compito in Inghilterra non era ancora terminato. Ma non ne sono convinto. Hanno preferito probabilmente starsene al sicuro finché non si calmavano le acque. Ricordiamoci che l’identikit di Jouvert era sulla prima pagina di tutti i giornali inglesi, e sul novanta per cento di quelli europei. Mallory poteva espatriare tranquillamente, mentre Jouvert sarebbe stato riconosciuto all’istante.» Smith riprese posto dietro la scrivania, segno che stava per concludere. Larren chiese: «E allora, che facciamo?» «Le indagini continuano. L’Ufficio Speciale cercherà di far parlare Andrews, scavando allo stesso tempo nel passato di Henderson e di Jouvert. Noi, invece, applicheremo i nostri sistemi.» Lo guardò negli occhi e concluse. «Ma penso che qui potremo fare a meno di te, Larren. Perciò prenderai l’aereo di mezzogiorno per Tangeri, e lavorerai lì con il nostro agente locale. Se Henry Mallory è stato mandato in Marocco, Tangeri è il posto più indicato per scomparire. È compito tuo farlo ricomparire.» *** Quando Simon Larren lasciò Whitehall pioveva, ma in Svizzera il cielo era di un azzurro terso e le rade nuvole erano bianche come i picchi alpini che brillavano al sole del mattino. Le placide acque del lago di Zurigo scintillavano come una manciata di zecchini sparsi su della seta celeste, e a nord del lago i tetti rossi e le sottili guglie della città si stagliavano contro il sole del nuovo giorno. L’insieme era incantevole, ma gli uomini riuniti nella villa sul lago alla periferia della città avevano altri pensieri per la testa. L’ampia vetrata alle loro spalle si affacciava direttamente sul lago e il sole aveva invaso il salone. Erano in cinque, seduti attorno ad un tavolo. Sembrava una piccola riunione d’affari, ognuno aveva davanti a sé un tampone di carta assorbente e un portacenere di cristallo, ma stranamente nessuno aveva carta e penna, o qualsiasi altra cosa che servisse a prendere appunti. Quattro di loro ascoltavano il quinto che parlava. L’oratore era alto e magro, con i capelli prematuramente bianchi. Si chiamava Raab, ed era conosciuto nell’ambiente bancario di Zurigo come uno dei più qualificati esperti finanziari viventi. Oltre a quella lussuosa villa ne possedeva diverse altre, tutte arredate con lo stesso gusto un po’ eccentrico. Era il titolare inoltre di una dozzina di compagnie che estendevano i loro interessi in tutto il mondo, e controllava il pacchetto azionario di un mucchio di altre. Possedeva uno yacht a Cannes, un aereo privato, una Rolls-Royce e una Mercedes. Era considerato uno degli uomini più ricchi del mondo e aveva, o poteva comprarsi, letteralmente tutto.

Ora stava osservando ad una ad una le quattro facce verso di lui. Collard, il belga; Lemmer, un altro svizzero; Neuman, il tedesco di Dortmund; e l’uomo di colore, dal naso aguzzo, che spiccava tra gli altri europei, Khalil, sul cui passaporto libico si leggeva «industriale». Anche loro erano ricchissimi e, nel caso di Lemmer e Collard, potevano essere considerati maghi della finanza. Ma in quel momento non si occupano di alta finanza, materia che conoscevano così bene e che li aveva accomunati. Il denaro, e i sistemi per farlo aumentare, erano ora dei fattori assolutamente irrilevanti. Sedevano invece come rappresentanti di quella organizzazione alla quale avevano voluto dare la sigla APP. La voce di Raab era calma e controllata, la voce di un uomo che non aveva bisogno di alzarla per concentrare l’attenzione su di sé. Disse piano: «La situazione è questa, signori. La sezione inglese della nostra organizzazione è stata sgominata. Il capo settore è morto, e la stessa fine ha fatto l’assassino francese che il nostro buon amico Khalil ci aveva tanto raccomandato. I servizi inglesi di sicurezza sono stati incredibilmente veloci dopo la morte del loro Primo Ministro, sebbene io sia dell’idea che il fattore fortuna ha giocato un ruolo importantissimo nei loro confronti.» Fece una pausa per eventuali osservazioni, e si udì la voce gutturale di Neuman. «Non ha alcuna importanza. La sezione inglese aveva portato a termine il suo compito. Non ci era più di alcuna utilità.» Gli altri approvarono, e Lemmer aggiunse: «In ogni caso, ora è troppo tardi per fermarci. L’operazione deve essere portata a termine.» Raab sorrise. «Devo quindi desumere che siete tutti d’accordo?» Tutti chinarono il capo in segno di assenso, e Raab si alzò in piedi. «In tal caso», disse, «considero la seduta sciolta. È ancora troppo presto perché vi possa offrire da bere. Faccio portare del caffè. Entro tre giorni dovremmo poterci riunire per brindare al nostro completo e assoluto successo.» CAPITOLO VIII UN FANTASMA DEL PASSATO SIMON LARREN tornò al suo appartamento di Rushlake Terrace e si concesse qualche

ora di sonno prima di riprendere la sua MG bianca e recarsi all'aeroporto di Londra. Aveva come unico bagaglio una valigetta e, avendo rovinato due vestiti in quattro giorni, indossava un paio di pantaloni scuri e una giacca sportiva chiara. Non era la sua tenuta preferita, e calcolò che se gli avvenimenti avessero mantenuto quel ritmo affannoso in pochi giorni il suo guardaroba si sarebbe esaurito. Si appisolò subito dopo il decollo e venne svegliato dalla hostess quando l’aereo fece scalo a Bordeaux. Fu costretto ad attendere un quarto d’ora circa nella sala transito dell’aereo, prima di ripartire, e stavolta Larren rimase sveglio fino a Madrid. Osservò pigramente dal finestrino le montagne della Spagna centrale che sbucavano dallo spesso tappeto delle nuvole, con i picchi dentati che sembravano protendersi

quasi volessero afferrare l’aereo. Poi i monti scomparvero alle spalle dell’aereo, che attraversò la distesa di nuvole sbucando nell’ampia vallata che circonda Madrid, puntando il muso in direzione dell’aeroporto, a Nord Est della città. Ci fu un’altra sosta per il rifornimento, e ancora una volta le hostess guidarono i passeggeri verso il bar e la sala transito. Stavolta si doveva sostare per quarantacinque minuti, e la maggior parte dei viaggiatori decisero di fare uno spuntino al ristorante. Larren seguì il gruppo distrattamente, chiedendosi, come aveva fatto ad intervalli per tutta la mattinata, cosa potessero significare le lettere APP. Non notò la ragazza dai capelli biondo rame ferma sulla soglia davanti a lui. Era intenta a frugare dentro una borsetta blu scuro che si intonava perfettamente con l’abito che indossava, e la urtò facendola quasi cadere. Larren riuscì ad afferrare al volo la borsetta prima che cadesse, e sorrise un po’ impacciato. «Mi scusi. Ero soprappensiero. Non…» Le parole gli morirono in gola appena l’ebbe guardata. La ragazza aveva gli occhi color nocciola chiaro sotto delle lunghe ciglia, e dei lineamenti delicati e austeri insieme. Il sole le brillava sui capelli biondo rame che portava sciolti sulle spalle. Era un volto che sembrava emergere dai suoi ricordi, un volto che sembrava cancellato dal tempo e che ora tornava a vivere come un fantasma del passato. «Cosa c’è?» Aveva una voce fredda, che pure lasciava trapelare una nota di interesse, una bella voce, né affabile né riservata. E contribuì a rompere l’incantesimo, perché non era decisamente l’allegra e armoniosa voce di Andrea. Né avrebbe potuto esserla, perché Andrea era da tempo sepolta in un cimitero di Parigi. Larren si rese conto che aveva gli occhi ancora fissi su di lei e che con la mano le stringeva ancora la borsetta quando lei cercò di togliergliela dalle mani. «Mi spiace», ripeté ancora. «Mi ha ricordato una persona.» Lei rise nervosamente. «Non è molto originale, come sistema.» Attese che anche lui sorridesse, poi il suo viso cambiò lentamente espressione. «Forse sono stata scortese. Le ricordo veramente qualcuno?» «In una maniera impressionante.» Si sentì d’improvviso a disagio. «Ma è morta tanti anni fa. Mi spiace di averla spaventata.» «Non ha importanza.» Fece una pausa, notando l’esitazione di Larren, e poi volse lo sguardo verso il ristorante dove gli altri passeggeri stavano lentamente occupando tutti i tavoli. Tornò a guardarlo e disse: «Viaggio sola, e se vuole sedere al mio tavolo mi farà piacere». Sorrise, e aggiunse candidamente: «Ho impressione che in caso contrario starebbe tutto il tempo a fissarmi mentre mangia, e la cosa mi farebbe stare più a disagio che l’averla accanto a me». Larren esitava ancora, consapevole che la ragazza gli aveva preso di mano l’iniziativa. A stretto rigore era in servizio, e Smith non avrebbe approvato una simile conoscenza occasionale, pure la straordinaria rassomiglianza di quella ragazza con Andrea lo incuriosiva. Sorrise a sua volta e disse:

«Forse ha ragione, probabilmente starei tutto il tempo ad osservarla. Le prometto che la guarderò il meno possibile.» Le aprì la porta e la seguì dentro il ristorante fino al tavolo vuoto indicato dal cameriere. Camminando notò che i movimenti della ragazza non avevano la grazia composta di quelli di Andrea, e che i suoi seni erano leggermente più sviluppati. La rassomiglianza era sbalorditiva guardandola di fronte. Sedendosi lei sollevò lo sguardo, conscia di essere stata attentamente osservata mentre lo precedeva al tavolo, ma non disse nulla finché lui non ebbe ordinato le consumazioni e il cameriere non si fu allontanato. Infine chiese: «Era sposato con quella donna?» Larren annuì col capo, lieto che il suono di quella voce gli confermasse che non si trovava di fronte ad Andrea. «Vuole parlarmi di lei?» Larren volse lo sguardo verso la vetrata, dalla quale si poteva vedere il loro Vanguard che li attendeva sulla pista, con una grossa autobotte di rifornimento ferma accanto all’ala sinistra. Pensò ad Andrea e al cantiere a nord di Ankara dove si erano conosciuti. In quel periodo lui era un ingegnere che lavorava alle dipendenze di una ditta inglese alla costruzione di un impianto idroelettrico commissionato dal governo turco, e lei era una giornalista. Si erano immediatamente innamorati, sorpresi ambedue dall’intensità e dalla subitaneità di quel sentimento, e sei mesi dopo erano marito e moglie. Seguì l’unico periodo di assoluta felicità che Larren avesse mai passato nella sua vita. Tre anni di amore completo, goduti momento per momento da un uomo che aveva trascorso tutta la sua esistenza nella solitudine. Prima, la solitudine dell’agente segreto costretto a vivere in territorio occupato dal nemico potendo contare unicamente sulle proprie capacità; poi, a guerra terminata, la solitudine del reduce che torna a casa e trova che la famiglia e le conoscenze più care sono scomparse per sempre. Aveva deciso allora di tornare a fare l’ingegnere civile, e nel corso dei suoi frequenti soggiorni all’estero, molto tempo dopo, aveva conosciuto Andrea. Poi un giorno, per caso, avevano incontrato un vecchio collega di Larren del tempo di guerra. La sera stessa c’era stata una sparatoria, l’uomo era morto e Andrea aveva fatto la stessa fine. Larren aveva personalmente ucciso i responsabili del duplice omicidio, seguendo per due anni le loro tracce attraverso l’Europa e in Estremo Oriente. Per far ciò aveva dovuto rimettersi in contatto con il controspionaggio inglese, e aveva infine deciso di riprendere a lavorare per loro. Ed ora, ancora una volta, si trovava a rivivere quei tre brevi anni che avevano caratterizzato tutta la sua esistenza, lasciandogli in fondo all’animo un vuoto incolmabile. Sembrò notare per la prima volta la ragazza al suo fianco, che attendeva ancora pazientemente la risposta alla sua domanda. La guardò negli occhi, e dovette nuovamente fare fatica per convincersi che dietro quel viso che conosceva così bene c’era una sconosciuta. Forse in seguito, ammesso che ci fosse stato un seguito, avrebbe potuto parlarle di Andrea, non adesso. Disse piano: «No. Preferirei non parlarne. Non le dispiace?» «Ma no, naturalmente.» Gli toccò per un attimo la mano, ritirandola all’arrivo del cameriere.

L’interruzione servì a Larren per ritrovare un certo equilibrio, e non appena il cameriere si fu nuovamente allontanato le sorrise cordialmente dicendole: «Considerato che siamo ambedue inglesi, direi che siamo stati abbastanza sbrigativi. Non ci siamo nemmeno presentati. Mi chiamo Simon Larren.» «E io…» esitò per una frazione di secondo, e in altre circostanze Larren l’avrebbe subito notato. Ma ancora colpito dalla impressionante rassomiglianza della ragazza con Andrea non vi fece caso. Lei terminò in fretta: «E io Jenny Norwood.» Si stabilì fra loro due, appena presero a mangiare, un’atmosfera quasi riservata, e Larren si rese conto che la ragazza si stava pentendo per avere seguito l’impulso di invitarlo al suo tavolo. Prese allora a parlare del volo, del tempo e delle attrattive della Spagna, senza però riuscire ad abbattere quella intangibile barriera di diffidenza che si era venuta a creare tra di loro. Lei si era offerta come confidente e, sebbene ora cercasse di non darlo a vedere, era rimasta seccata dal suo rifiuto. Il loro reciproco imbarazzo fu comunque di breve durata, perché appena terminato di pranzare salirono nuovamente sull’aereo riprendendo i loro posti distanti l’uno dall’altro. Si salutarono amichevolmente, ma con un certo sollievo da ambedue le parti. Anche lei si recava a Tangeri, ma Larren non le propose di rivedersi. La rassomiglianza della ragazza con Andrea cominciava ad infastidirlo, e non poteva permettersi in quelle circostanze di correre dietro a fantasmi. Il passato era passato, e a nulla serviva cercare di farlo rivivere con una ragazza che aveva lo stesso viso di sua moglie morta. *** Meno di un’ora dopo il Vanguard sorvolava la rocca di Gibilterra, giungendo immediatamente in vista della baia di Tangeri. Atterrarono all’aeroporto e, dopo le inevitabili formalità doganali, furono ammessi in Marocco. Larren preferì non servirsi dell’autobus della compagnia, volendo evitare di trovarsi nuovamente faccia a faccia con Jenny Norwood, e prese un taxi. Si fece portare al Taza Hotel, nella città nuova, e secondo le istruzioni si fece dare la camera 36. Rimasto finalmente solo nella stanza, lasciò la valigia e si allargò il nodo della cravatta con un senso di sollievo, perché, sebbene fosse quasi sera, la temperatura era vicina ai trentacinque gradi. Si recò a dare un’occhiata al bagno e alla doccia e si accertò sommariamente che nella stanza non vi fossero microfoni, prassi per lui abituale ogni volta che per lavoro prendeva alloggio in albergo. Poi disfece la valigia, togliendo da un apposito scompartimento il coltello da lancio e sistemandolo nella giacca. Richiuse la valigia sentendo bussare alla porta. Andò ad aprire e si trovò di fronte un uomo sorridente che indossava un vestito estivo grigio chiaro, una camicia color crema e un papillon a pallini rossi e grigi. Portava inoltre un bastone da passeggio e una paglietta calata sulle ventitré. Era di carnagione scura, ma dai lineamenti decisamente europei, e sul suo labbro superiore spiccavano un paio di baffetti sottilissimi. Lo sconosciuto lo guardò cordialmente e disse: «Lei è Monsieur Larren, oui? Mi chiamo Jacques Chevalier. Posso entrare? Larren si scostò per farlo passare. Il visitatore entrò, togliendosi il cappello e

infilandolo su un attaccapanni. Si volse appena Larren chiuse la porta, e cominciò con la destra a giocherellare con il bastone. «Non sono parente del famoso Maurice», ammise sorridendo. «Ma il cognome Chevalier comporta una certa responsabilità, e dovendolo quindi dividere con il mio quasi omonimo ho rinunciato da tempo a distinguermi esteriormente da lui.» Larren ricambiò il sorriso. «Poteva far coppia con lui, allora. Ma cosa posso fare per lei, Monsieur Chevalier?» Il francese gli puntò contro la canna da passeggio. «L’importante è quello che io posso fare per lei. Sono il suo contatto a Tangeri.» Larren lo guardò freddamente. Chevalier fece un gesto annoiato. «Sempre sospettosi, voi inglesi. Alle cinque di stamane lei si trovava con il nostro amico Smith, anzi le citerò esattamente le sue ultime parole: ‘ Penso che qui potremo fare a meno di te, Larren. Perciò prenderai l’aereo di mezzogiorno per Tangeri e lavorerai lì con il nostro agente locale. ’ C’est bien?». Larren si fece una risata e gli porse la mano: «C’est bien». Si strinsero cordialmente la mano, poi Chevalier andò a sistemarsi comodamente in una poltrona. Poi, come ripensandoci, infilò una mano nella tasca della giacca ed estrasse un’automatica. Per un attimo Larren si irrigidì, poi Chevalier scoppiò a ridere e gli lanciò la pistola. «È una Smith and Wesson», disse. «Smith mi ha detto che sei abituato a questo tipo di arma. Escludo che tu abbia corso il rischio di affrontare il controllo bagagli con una pistola in valigia.» «Esatto.» Larren soppesò l’arma, verificò che fosse carica e l’infilò in tasca. «Hai pensato a tutto.» Chevalier sorrise. «Siamo a Tangeri. Chi può pagare qui può trovare tutto.» «Anche un certo Henry Mallory? Riusciresti a trovarmelo?» Ah, sì.» Chevalier prese a piegare la canna con le mani. «Tra le mie istruzioni c’era anche una descrizione di questo Mallory, e i miei, diciamo così, contatti in città stanno già facendo delle ricerche. Se Mallory è a Tangeri, posso trovarlo.» Puntò nuovamente la canna. «Ma tu non credi che Mallory sia a Tangeri. Sbaglio?» «Diciamo che hai quasi ragione. Ho l’impressione che Mallory sia stato ucciso in Inghilterra, ma c’è sempre la probabilità che sia fuggito qui o quanto meno in Marocco. Ed eccomi qua.» «E se è qui e riusciamo a trovarlo, come ci regoliamo?» «Dobbiamo tenerlo d’occhio», rispose Larren. «Vedere con chi si mette in contatto, o meglio chi si mette in contatto con lui. Arrestarlo non sarebbe di alcun giovamento, in quanto potrebbe parlarci solo del settore inglese dell’organizzazione, che ormai non ci interessa più.» «Ho capito. E una volta che qualcuno si mette in contatto con lui, ammesso che prima riusciamo a trovarlo, cosa pensi che succederà?»

«Sono certo che Henry Mallory è destinato ad essere ucciso. Ormai non serve più, e sappiamo che l’organizzazione per cui ha lavorato è spietata, quindi la cosa più logica è che muoia. Perciò, anche se è riuscito ad arrivare fin qui ed è ancora vivo, credo che alla fine morirà. Noi non dovremo interferire in alcun modo, ma dobbiamo limitarci a seguire gli assassini per risalire alla base.» Chevalier socchiuse gli occhi. «Ho una sorella», disse, «che una volta andava a letto con un maggiore dell’esercito inglese. Mi diceva che gli inglesi sono terribilmente freddi, che la temperatura del loro sangue non supera mai i dodici gradi centigradi. Ora mi rendo conto di cosa volesse dire.» Riaprì gli occhi. «Ma immagino che nel nostro caso non ci sia altra soluzione.» Larren assentì e chiese: «Se Mallory è a Tangeri, quanto ci vorrà per rintracciarlo?» «Dipende dalla maniera in cui è arrivato in Marocco e dal nascondiglio che si è trovato.» Chevalier si sporse in avanti sorridendo. «Ma non siamo troppo pessimistici. Dovrei saperlo entro domani, o al massimo tra qualche giorno. I miei contatti sono sparsi per tutta la città. Naturalmente, se non è qui ma a Casablanca, a Fez o a Marrakech la cosa comincia a diventare più complicata. Lo troverei lo stesso, ma ci vorrebbe più tempo.» Il francese si alzò in piedi e continuò: «Ma non lo troverò standomene seduto qui. Devo andare ad oliare gli ingranaggi, come diresti tu. Ho degli amici che potrebbero già avere le informazioni che cerchiamo.» «Vengo anch’io?» «No, tu no. Alcuni dei miei amici diffidano degli stranieri; diventerebbero ciechi e muti, specie se ti scambiassero per un poliziotto. Capisci cosa intendo dire, vero?» «Naturalmente.» Chevalier sorrise. «Non mi sembri molto convinto, ma stavolta devi avere pazienza e lasciare la cosa nelle mie mani. Finché non trovo Mallory non puoi far nulla, perciò ti consiglierei di passare il pomeriggio visitando le bellezze di Tangeri. Nella Medina troverai uomini che ti venderanno hashish, marijuana, o anche la loro sorella se lo chiedi al posto giusto. Tangeri non è più porto franco, ma riserva ancora delle sorprese piacevoli a chi le sa scoprire. Mi spiace di non poterti fare da guida, ma ho idea che avrò una serata piuttosto piena.» Riprese la paglietta, se la sistemò sulla testa con l’angolazione preferita dal suo famoso omonimo, e uscì sorridendo allegramente. «Non ti preoccupare sul come metterti in contatto con me», disse una volta superata la soglia, «perché sarò io a mettermi in contatto con te, come disse il produttore all’aspirante attrice». CAPITOLO IX UNA SOFFITTA DELLA MEDINA Lo scintillante Chevalier si presentò l’indomani mattina presto. Vestiva come il giorno precedente, ma la sua camicia color crema era stata lavata di fresco ed aveva sul viso un sorriso di soddisfazione. Salutò Larren, si tolse il cappello e lo lanciò

nuovamente sull’attaccapanni. Mentre Larren chiudeva la porta, sprofondò in una poltrona e incrociò le ginocchia. «Bene, hai assaporato le delizie e i peccati della corrottissima Tangeri?» Larren sorrise. «No. Mi sono comprato una cartina della città e ho cercato di familiarizzarmi con le vie principali. Sono poi tornato subito qui, nel caso tu mi avessi cercato.» «Voi inglesi», fece Chevalier con aria di disapprovazione. «Sempre così meticolosi. Se anche avessi trovato Mallory ieri sera avrei lasciato un paio di uomini per tenerlo d’occhio. Potevi fare il turista, una volta che ne avevi la possibilità. Le guide non ti hanno proposto di condurti da certe parti?» «Me l’hanno proposto, ma ormai sono cresciuto. I divertimenti me li scelgo da me e quando voglio io. Non ho bisogno di guide arabe.» «Altra caratteristica inglese deteriore. Siete troppo prudes.» Chevalier era troppo cordiale per essere offensivo e Larren si limitò a sorridere. «Veniamo agli affari. Sei riuscito a localizzare Henry Mallory?» «Ma naturalmente.» Chevalier si strinse nelle spalle con aria indifferente. «Per quale altro motivo mi troverei qui a quest’ora impossibile? Il tuo signor Mallory è a Tangeri da quarantotto ore. È arrivato da Parigi martedì mattina con un volo della Air France, ed occupa un appartamento da quattro soldi nella Medina.» Larren lo guardò e poi disse lentamente: «Allora Smith aveva ragione, sono riusciti a farlo uscire dall’Inghilterra. Come hai fatto a trovarlo così presto?» «Non poi tanto presto», fece Chevalier con noncuranza. «Avevo la sua descrizione già da ieri a mezzogiorno, quando mi hanno avvisato del tuo arrivo da Londra, e avevo subito iniziato le ricerche. Questo diciassette, anzi diciotto ore fa. Rintracciarlo non è stato difficile. Ho amici al porto ed all’aeroporto, gente dalla vista acuta ma dalla memoria labile, che va curata di tanto in tanto con biglietti di banca. E uno dei miei amici all’aeroporto si è ricordato di un inglese, che corrispondeva completamente alla descrizione che gliene avevo fatto io, arrivato martedì mattina. Un altro mio amico si è messo in contatto con il conducente dell’autobus dell’aeroporto e con i tassisti che erano all’aeroporto quella mattina. Uno dei tassisti ha portato in città quell’inglese e l’ha lasciato al Grand Socco, la grande piazza ai margini della Medina. Tra le guide arabe della zona c’è un altro mio amico, avrà forse cercato di venderti marijuana se sei passato da quelle parti, e mediante lui sono riuscito a sapere il posto dove l’inglese è andato ad abitare.» Sorrise flettendo la canna. «Conviene avere amici, non ti sembra? Anche se non è gente che sarei orgoglioso di presentare in società.» «D’accordissimo. Ma sei sicuro che questo inglese sia Henry Mallory?» Chevalier si strinse nelle strette spalle. «Tutto corrisponde, anche i baffi. Non ha neanche avuto il buon senso di raderseli. E se fosse qui come turista sarebbe sceso in qualche albergo, non in una catapecchia della Medina.» Puntò la canna. «L’identificazione finale tocca a te.» Larren spostò la canna con un dito. «Preferirei che non me la puntassi più contro», disse calmo. «Ho l’orribile sensazione che possa uscirne fuori la lama di un pugnale.» Chevalier scoppiò a ridere. «Hai letto troppi romanzi di spionaggio, amico mio. Questa è una normalissima canna da passeggio.

Ma», la fletté amorevolmente, «a volte può rivelarsi efficace come una spada. Un colpo assestato al posto giusto con questa, può storpiare un uomo per tutta la vita.» Larren sorrise. «Ti credo sulla parola. Quando mi fai dare un’occhiata a Mallory?» «Tout de suite!» Chevalier si alzò e fece schioccare le dita. «Ho la macchina qui sotto.» Larren prese la giacca dall’armadio e lanciò a Chevalier la sua paglietta. Il francese l’afferrò al volo e se la calzò sul capo in un sol colpo. «Bene», disse Larren. «Andiamo.» Uscirono dall’albergo e Chevalier gli fece strada verso una grossa Citroen grigioazzurra parcheggiata accanto al marciapiede. Salirono, e mettendo in moto Chevalier disse con una punta di orgoglio: «Ce l’ho solo da un mese. È il modello di quest’anno. Arriva ai centottanta all’ora, il che corrisponde a circa centoventi delle vostre inutili miglia inglesi. Bella macchina, oui? Francese, naturalmente.» «Molto bella», rispose Larren, adagiandosi contro il sedile di pelle. «Dimmi, Jacques, che copertura hai qui a Tangeri?» Chevalier sorrise, e i denti gli brillarono sotto i baffetti scuri. «Sono il proprietario di un night-club. Ma non ti ci porto finché questo affare non sarà concluso. Mai mischiare gli affari con gli affari.» Prese l’Avenue d’Espagne, il lungo viale fiancheggiato da palme che seguiva l’insenatura della baia fino al porto e alla vecchia Medina. Il sole era alto, e i riflessi del cielo e del mare, la spiaggia dorata, il verde chiaro delle palme e il bianco accecante delle case fecero socchiudere gli occhi a Larren. Donne velate e arabi avvolti in lunghi barracani fissavano l’auto che scivolava silenziosamente, ma i loro occhi erano privi di espressione. Era solo un’altra auto straniera nella marea dei taxi di marca americana che giravano per le strade in cerca di clienti. «Vivo a Tangeri da dodici anni», disse Chevalier. «In quel periodo non era difficile far soldi, specialmente per la gente sveglia e con pochi scrupoli. E, a modo mio, sono stato sveglio e i miei scrupoli sono stati sempre molto relativi. Poi nel 1956 Tangeri terminò di essere zona internazionale ed entrò a far parte del regno del Marocco, e mi resi conto immediatamente che le possibilità di una volta sarebbero presto svanite. Riuscii anche a prevedere che Tangeri sarebbe divenuta la mecca dei turisti che è adesso, ed ho comprato un night-club in società. Il mio socio era avanti negli anni, ed aveva bisogno di qualcuno che si prendesse la parte più pesante e delicata del lavoro, infine preferì ritirarsi. Ora vive tranquillamente con la moglie nella Francia meridionale. «Sicché, sono un rispettabile uomo d’affari, che ha però mantenuto certi vecchi contatti allacciandone nel contempo dei nuovi e socialmente più qualificati. Per il mio passato e per la mia attuale posizione sono una persona di estrema utilità, come hanno avuto modo di constatare sia il servizio segreto francese che quello inglese. Mi pagano periodicamente proprio perché mantenga questi contatti e di tanto in tanto, ad esempio come ora, mi fanno giocare all’agente segreto.» Larren sorrise. Avrebbe potuto osservare che Chevalier non era assolutamente il tipo da fare certe cose per gioco, ma non voleva raccogliere l’implicito invito del francese stuzzicandone la vanità.

Lasciarono la litoranea ed entrarono nel Grand Socco. Parcheggiarono l’auto in una piazza, proprio di fronte alla snella torre di una moschea. La torre, nella sua parte terminale, era ricoperta da un mosaico colore azzurro e marrone, e la moschea era bianca con il tetto verde. Sugli altri lati della piazza si affacciavano dei negozietti ricolmi di mercanzie, e le mura erano interrotte dagli archi che immettevano nella Medina. «Da questo punto conviene andare a piedi», disse Chevalier uscendo dall’auto. Larren lo segui, ed entrarono nella città vecchia attraverso uno degli archi a ferro di cavallo. Presero una stradina in discesa, dai marciapiedi pressoché impraticabili per la calca e le cassette di frutta che i negozietti non riuscivano a contenere. Più avanti si aprivano botteghe di articoli di pelletteria e souvenirs, e alcuni bar dove arabi dai lunghi mantelli bevevano tè alla menta dentro minuscole tazzine. Le donne che incrociavano erano invariabilmente avvolte in lunghi mantelli bianchi, che lasciavano scoperti solamente gli occhi vigili e attenti. Si allontanarono dal vicolo, e poco dopo Chevalier si fermò davanti ad una robusta porta dal disegno moresco. Larren lo guardò con aria interrogativa. Il francese sorrise e percosse il battaglio della porta. «Non ti preoccupare, amico mio, non ti sto portando in camera di Mallory. Siamo arrivati, ma lui non abita qui.» Larren continuava a non capire, ma lasciò che il francese si godesse quell’atmosfera di mistero che aveva voluto creare. La porta si socchiuse, e apparve il volto velato di una donna che appena li vide tolse la catena e li fece entrare. Dentro faceva abbastanza fresco, e Chevalier prese a salire una scalinata di legno. Il sole tornò ad accecarli appena giunsero sulla terrazza. Un giovane arabo vestito dimessamente all’europea si voltò a guardarli, e riconobbe il francese. Allora andò loro incontro e Larren vide che aveva in mano un binocolo. «Questo è Abdullah», disse Chevalier, «uno dei miei amici più fidati. Se può interessarti, ma ne dubito, ha una sorella molto bella.» Abdullah sorrise. «Vendo anche eroina, e a buon mercato.» «Un delinquente abituale», proseguì Chevalier con aria triste. «In gioventù forse non hanno saputo prenderlo per il suo verso.» Gli prese il binocolo di mano, chiedendogli con tono indifferente: «L’inglese è sempre lì?» Abdullah annuì enfaticamente. «Non ha lasciato la sua stanza. Il vecchio Yacoub gli ha portato da mangiare su un vassoio.» «Tres bon!» Chevalier si avvicinò al muretto che circondava la terrazza e vi poggiò sopra i gomiti puntando il binocolo. I tetti circostanti si alzavano ad altezza irregolare, ma per la maggior parte si trovavano più in basso della loro terrazza, e quindi da dove si trovavano potevano avere una discreta visuale della città vecchia. Sulla destra Larren distinse il minareto e la moschea della vecchia Casbah, alle spalle della quale brillava

il mare. Sulla sinistra e leggermente spostata all’indietro rispetto a loro c’era la moschea del Grand Socco, e subito dopo gli edifici della città nuova. Chevalier rimase un momento immobile, poi porse il binocolo a Larren. «In quella direzione. È quella finestra con le persiane bianche che si vede tra quei due palazzi.» Larren puntò il binocolo nella direzione indicata dal dito di Chevalier, e un attimo dopo inquadrò la finestra con le persiane bianche spalancate contro il muro. Non riuscì dapprima a distinguere niente dell’interno, poi mise a fuoco la figura dell’uomo sdraiato sulla schiena su un vecchio letto metallico. Dovette aspettare due o tre minuti prima che l’uomo muovesse il capo, mentre il sole gli picchiava con violenza sulla nuca scoperta. Finalmente si mosse e Larren riconobbe immediatamente i baffi grigi che aveva visto per l’ultima volta al secondo piano del Sultry Strip, a Londra. Abbassò il binocolo e disse lentamente. «Non c’è dubbio, Jacques. È Henry Mallory.» Chevalier sorrise soddisfatto e gli tolse di mano il binocolo ridandolo ad Abdullah. Poi si appoggiò con la schiena al muro e disse: «E ora che l’abbiamo trovato aspettiamo che lo facciano fuori, oui?» Anche Larren andò ad appoggiarsi al muro. «È proprio quello che succederà, ne sono sicuro. Mi meraviglio anzi che Mallory sia ancora vivo.» «Forse se ne meraviglia anche lui», suggerì Chevalier. «È probabile che si sia reso conto delle intenzioni dei suoi soci, rendendosi irreperibile appena arrivato a Tangeri. Ed ora è lì che si nasconde.» Larren tacque pensieroso. «È possibile», concesse. «Ma parto dal presupposto che qualcuno di questa APP riesca infine a trovarlo. Da ora in poi io resterò qui con Abdullah o almeno…» Alzò lo sguardo al cielo e lo riabbassò immediatamente sorridendo. «Mi sistemerò nella stanza qui sotto. Voglio essere a portata di mano appena succederà qualcosa.» Fece una pausa, poi chiese. «Quanto ci vorrà per raggiungere a piedi la casa di Mallory?» «Meno di due minuti. Ci si arriva quasi direttamente da un vicolo che parte da dietro quell’angolo. Abdullah te lo mostrerà.» «Bene.» Larren sorrise. «Questo significa che appena Mallory riceverà dei visitatori, potrò fare in tempo a seguirli quando se ne andranno.» «È probabile.» Chevalier non sembrava convinto e Larren lo osservò con aria interrogativa. Il francese continuò: «Ho un piano migliore.» «Cioè?» Chevalier si infilò una mano in tasca ed estrasse un pesante accendisigari d’oro. «Nient’altro che questo, amico mio. Dentro questo accendino c’è un piccolo apparato a transistor che lancia impulsi radio. Ora, se riusciamo a fare in modo che Mallory trovi questo accendino e se lo infili in tasca, saremo in grado di localizzarlo ogni momento. E c’è di più. Se verrà ucciso, cosa questa molto probabile, gli assassini Io perquisiranno sicuramente per togliergli di dosso tutto ciò che potrebbe servire ad identificarlo, e così facendo troveranno l’accendino. È di oro massiccio e costa un mucchio di soldi, quindi do per scontato che se ne impadroniranno. In questa

maniera, grazie agli impulsi radio dell’accendino, potremo seguirli tranquillamente. Non ti sembra migliore come idea?» «Direi di sì. Ma come facciamo, anzitutto, a far prendere l’accendisigari a Mallory?» «Non dovrebbe essere difficile. La sua stanza è proprio sopra al bar di Yacoub, e anche se il nostro uomo finora non ha mai lasciato la casa, pure ogni sera scende al bar per farsi un bicchierino. Un francese ubriaco potrebbe poggiare l’accendino sul banco del bar, accanto a lui, e poi dimenticarselo, sperando che Mallory se lo infili in tasca. Se stasera sarà ancora vivo varrà la pena di tentare; se poi si rivela una persona onesta e lo restituisce a Yacoub, posso sempre tornare a riprendermelo. Non ci avremmo rimesso niente.» «Hai una fantasia fertilissima, ma se il tuo piano funziona mi semplificherà le cose notevolmente. Io resterò qui mentre tu pensi a Mallory.» «Abdullah rimarrà con te. Io tornerò prima a casa per mettere a punto l’apparato radio. Poi prenderò un taxi lasciando la Citroen parcheggiata nel Grand Socco, nel caso tu ne avessi improvvisamente bisogno. Ecco le chiavi.» «Grazie.» Si diressero verso la porticina della terrazza, quando Abdullah afferrò il francese per un braccio. «L’inglese… ha una visita.» Chevalier si fermò e riprese il binocolo di mano all’arabo. Non andò ad appoggiarsi al muro, ma rimase lì in piedi. Rimase immobile per qualche istante, poi disse lentamente: «È una donna. Credi che l’organizzazione possa avere mandato una donna per ucciderlo?» «Tutto è possibile», osservò Larren. Si fece passare il binocolo e tornò a sua volta a puntarlo sulla finestra dalle persiane bianche spalancate. Dapprima riuscì a vedere solamente Mallory. L’uomo era in piedi di fronte alla porta, e sul suo viso si leggeva un’espressione di assoluto stupore. Ma si vedeva che aveva riconosciuto la sua visitatrice e la cosa, anche se lo sorprendeva, non sembrava spaventarlo, quindi chiunque fosse quella donna non doveva rappresentare per lui un pericolo. Poi la donna entrò nel raggio visivo del binocolo, e fu la volta di Larren a provare un vero e proprio tuffo al cuore per la sorpresa. Aveva di nuovo davanti agli occhi quel viso che gli ricordava in maniera sorprendente la sua Andrea. Il viso della ragazza che all’aeroporto di Madrid gli si era presentata come Jenny Norwood. CAPITOLO X NON IMMISCHIARSI NEGLI OMICIDI IL bar di Yacoub era piccolo e disadorno, con tre tavolini malandati e alcune sedie

di vimini. Il banco era costituito da una larga lastra di marmo, slabbrata ai margini, e Yacoub serviva gli avventori indossando una djellabah grigia di macchie ed un fez rosso. Sulle pareti, come unico ornamento, un vecchio calendario, una stinta reclame della Coca-Cola ed una foto in cornice di re Hassan. I clienti erano in maggioranza

arabi, seduti a chiacchierare ai tavolini con le tazzine di tè alla menta posate davanti a loro. Sul muro dietro il banco Yacoub aveva ammonticchiato delle cassette di bibite analcoliche, oltre a qualche bottiglia di birra per gli eventuali clienti infedeli. Henry Mallory se ne stava da solo in un angolo del bar, e la birra davanti a lui lo classificava immediatamente, se non fossero bastati i suoi caratteri somatici, come infedele. Sentiva un gran bisogno di qualcosa di più forte, ma Yacoub non ne aveva e lui non osava avventurarsi in altri bar. Aveva paura anche a starsene lì, ma soffriva di claustrofobia e non riusciva a passare un’intera giornata dentro la sua stanza. In quei tre giorni il suo viso rubizzo aveva perduto molto del suo colore e appariva proprio quello di un uomo terrorizzato a morte. Si irrigidì automaticamente quando la tenda alle sue spalle venne tirata facendo tintinnare gli anelli sull’asse di sostegno. Si voltò e vide entrare un ometto che indossava un vestito grigio chiaro e una paglietta sul capo. L’uomo, ubriaco a prima vista, barcollò e prese a battere sul banco con una canna da passeggio. «Cognac», ordinò. «Dopodiché dovrebbe indicarmi la maniera per uscire da questo dedalo di vicoli, in modo da arrivare al porto.» Yacoub si chinò in avanti. «Abbiamo solamente birra», disse. «Birra o tè alla menta.» Chevalier ammiccò come un gufo. «Ma io voglio del cognac.» Il vecchio prese a grattarsi la porzione di fronte lasciata scoperta dal fez. «Qui c’è solo birra», ripeté. Chevalier prese a fissarlo, del tutto incurante degli arabi che avevano smesso di chiacchierare e gli lanciavano sguardi di disapprovazione. Poi crollò le spalle e allargò le braccia con aria sconsolata. «E va bene… mi dia una birra.» Yacoub lo servì con deliberata lentezza. Chevalier lo pagò, bevve e subito dopo storse il viso per il disgusto. Volse lo sguardo e vide Mallory. «Bonjour!» gli gridò allegro. «Ecco un altro turista.» Si diresse, sempre barcollando ed appoggiandosi al banco, verso di lui e gli si sedette accanto. «Come le sembra questo posto? Tangeri, città del vizio e del peccato… e non si trova nemmeno un bicchiere di cognac.» Bevve un altro sorso di birra e tornò ad occuparsi di Mallory. «Vorrei poter tornare a bordo; almeno lì hanno un bar decente. Ed io che ero convinto che Tangeri fosse il migliore scalo della crociera. Puah!» Posò il bicchiere e si frugò in tasca alla ricerca del portasigarette. «Ho bisogno di fumare per togliermi il sapore di quella robaccia. Vuole una sigaretta?» Mallory esitò. Aveva sperato, standosene solo in disparte, di non essere disturbato da nessuno, ma ora non poteva rischiare di provocare incidenti mostrandosi scortese. Abbozzò un debole sorriso ed accettò una sigaretta. «Grazie.» Chevalier prese a sua volta una sigaretta e si rimise in tasca il portasigarette. Poi estrasse l’accendino ed accese le due sigarette. Dopodiché posò l’accendino sul banco e sollevò nuovamente il bicchiere. «Casablanca era meglio», disse. «Molto meglio di Tangeri. Anche Tenerife e Las Palmas erano bei posti. Ma ora si torna a Marsiglia…» Parlava fittamente, infilando

nel discorso particolari di una immaginaria crociera ad uso e consumo di Mallory, che si limitava a fare di tanto in tanto dei commenti di circostanza. Continuò a chiacchierare per altri dieci minuti, poi scolò la birra e lanciò un’occhiata all’orologio. «Oh, mais non!» esclamò disperato. Guardi che ora è. Devo tornare a bordo entro mezz’ora.» Afferrò Mallory per un braccio. «Presto, mi dica che strada devo fare per andare al porto. Ho paura di essermi smarrito.» Mallory lo guardò, confuso e spaventato al tempo stesso dell’attenzione che il francese stava richiamando. Rispose balbettando: «Sulla sinistra… credo. Andando sempre diritto dovrebbe arrivare ad una grossa piazza, e lì prendere un taxi. Le converrebbe fare così.» «Ah, merci Monsieur! Scappo.» Gli dette una pacca di ringraziamento sulla spalla e si volse barcollando dirigendosi verso la portiera. Lì giunto, abbozzò con un braccio una specie di saluto circolare e scomparve. Henry Mallory trasse un sospiro di sollievo e decise di tornare immediatamente in camera sua. Fece per voltarsi, e notò il costoso accendino d’oro ancora posato sul banco. Esitò un attimo, poi lo prese e corse alla porta uscendo in strada. Ma non v’era traccia del francese ubriaco. La confusione di Mallory aumentò. Era fondamentalmente un uomo onesto ed in circostanze normali avrebbe consegnato senza pensarci l’accendino ad un poliziotto, ma ora aveva seri motivi per evitare qualsiasi contatto con la polizia. Pensò allora di darlo a Yacoub, ma se il francese stava per imbarcarsi era da escludere che potesse tornare a riprenderselo, quindi gli sembrava inutile fare un regalo simile al vecchio arabo. Considerò poi che le sue finanze stavano assottigliandosi paurosamente di giorno in giorno. Concluse che valeva la pena per una volta tralasciare certi scrupoli morali ed accettare il dono del destino e intascò l’accendino, per fare subito dopo ritorno nella sua stanza. *** Settanta metri più in là, sulla terrazza, Simon Larren era appoggiato al parapetto ed osservava il cielo stellato. Sotto di lui gli stretti, oscuri vicoli della Medina erano avvolti nel silenzio e completamente deserti. Abdullah l’aveva lasciato un momento, ed era solo con i suoi pensieri. La stanza occupata da Mallory era al buio, e il binocolo, in quel momento inutile, pendeva dalle mani di Larren. Gli restava solo da sperare che Chevalier riuscisse a portare a termine il suo incarico, ed aveva una gran fiducia nelle capacità del francese. Rilassato, si godeva il fresco della notte dopo il caldo torrido ed asfissiante della giornata. Tornò col pensiero al viso che gli era apparso ancora una volta come una reincarnazione della sua Andrea, e fu ripreso dalle emozioni di una volta che credeva seppellite nel passato. Varie volte durante la giornata l’aveva osservata con il binocolo vedendola discutere con Mallory, sebbene non riuscisse lontanamente ad immaginare cosa si stessero dicendo. Sembravano ambedue pallidi e preoccupati, ed

una volta il viso della ragazza si era inondato di lacrime. Mallory l’aveva allora baciata delicatamente sulla fronte, tenendola stretta, e Larren aveva provato una fitta di qualcosa molto simile alla gelosia. La sua presenza era un mistero, pure la ragazza ora divideva la stanza di Mallory, nonostante le discussioni della giornata. Larren, anche se in quel momento non la vedeva, capiva che doveva essere lì, e il pensiero si rifiutava di abbandonarlo. Dopo che Andrea era morta lui aveva conosciuto molte altre donne, ma nessuna aveva avuto per lui alcuna importanza. Erano state semplicemente dei corpi da godere. Ora si rendeva conto che la sua carica potenziale di affetto, sopita per tutti quegli anni, stava per essere risvegliata, ma sembrava che ormai fosse troppo tardi. Gli anni trascorsi nel controspionaggio gli avevano lasciato troppe tracce di sangue sulle mani. Restò in silenzio a meditare, e fu quasi contento quando udì dei passi per le scale e la porticina della terrazza si aprì, rivelando la sagoma ormai familiare di Chevalier. Il francese gli si avvicinò sorridendo. «Monsieur Mallory ha ingoiato l’esca», sussurrò. «Mi ha seguito fuori del bar con l’accendino in mano, ma una volta sicuro della mia scomparsa ha ceduto alla tentazione e se l’è infilato in tasca.» Estrasse qualcosa che a prima vista sembrava una radio a transistor tascabile, e premette un interruttore. Si udì immediatamente un debole segnale ad intermittenza, e su un piccolo quadrante un ago prese a tremare orientandosi in direzione del bar di Yacoub. «Eccellente», mormorò Chevalier. «È tornato in camera sua e la trasmittente funziona a perfezione. Ora potremo seguire Mallory dovunque vada, senza farci vedere.» «Sempre che tenga l’accendino continuamente in tasca», osservò Larren. «Ma naturalmente. Non possiamo contare unicamente sull’accendino. Continueremo a controllarlo da qui ogni giorno, e la notte metterò un uomo a tenere d’occhio il bar da un vicolo vicino; è uno dei molti parenti di Abdullah. L’accendino è solo una misura supplementare.» Chevalier sorrise orgogliosamente osservando il quadrante, e poi girò la manopola del volume al minimo per evitare che il rumore attirasse l’attenzione di qualcuno. «Ci sono altre novità», aggiunse quasi casualmente. «Londra ha risposto alla tua richiesta di informazioni su quella ragazza che si fa chiamare Jenny Norwood. Un cameriere del mio night-club mi aspettava qui sotto con un messaggio, che mi ha consegnato appena sono tornato dal bar di Yacoub. Sembra che esista veramente una Jenny Norwood, e che sia la nipote di Henry Mallory. Comunque, il nostro amico Smith ha intensificato le ricerche, scoprendo che la vera Jenny Norwood attualmente si trova a casa sua a Croydon. L’hanno interrogata, ed ha ammesso che la ragazza che viaggia con il suo passaporto è la cugina, cioè la figlia di Henry Mallory, Barbara.» Chevalier fece una pausa, poi riprese. «Barbara Mallory deve avere capito che lei e la madre sarebbero state tenute d’occhio dall’Ufficio Speciale nel caso il padre avesse tentato di mettersi in contatto con loro, ed ha perciò usato per raggiungerlo il passaporto della cugina. Le due ragazze hanno apparentemente la stessa età, e si

somigliano abbastanza. La cosa seccante è che se Mallory sarà ucciso, anche la figlia farà la stessa fine.» Larren inclinò il capo lentamente. Il suo viso non tradiva alcuna emozione, ma gli sembrava che intorno al cuore gli si fosse fermata una specie di fredda ragnatela. *** La notte trascorse senza altre novità. I segnali radio si mantennero della stessa intensità, l’ago sul quadrante rimase puntato nella stessa direzione, e il cugino di Abdullah che controllava l’uscita del bar non dette notizie. Larren dormì sulla terrazza, dove faceva più fresco che in casa, ma più che dormire si limitò a dormicchiare. All’alba era completamente sveglio, e riprese a controllare Mallory mediante il binocolo. Un’ora dopo apparve Abdullah, fresco e riposato per dargli il cambio. Ma Larren rimase sulla terrazza, provando una certa riluttanza a cedere il binocolo al giovane arabo. Attraverso le lenti vedeva Barbara Mallory dormire su un vecchio letto, mentre il padre era sdraiato in terra accanto a lei. Erano ambedue completamente vestiti, ma nonostante ciò Larren si sentiva leggermente a disagio nel turbare la loro intimità, e non aveva il coraggio di cedere il binocolo ad un arabo che vendeva la sorella. Abdullah, completamente disinteressato, si andò ad accoccolare sotto il parapetto accendendosi una sigaretta puzzolente. Infine Barbara Mallory si alzò a sedere sul letto. Assunse un’espressione addolorata nel vedere il padre che dormiva in terra, poi si alzò completamente e si diresse ad un lavabo situato all’altro lato della camera. Appena cominciò a togliersi la camicetta Larren abbassò il binocolo, e prima di riprendere l’osservazione concesse alla ragazza cinque minuti per la toeletta. Quando lo risollevò, Barbara si era rivestita, e scuoteva il padre per una spalla. Larren passò allora il binocolo ad Abdullah. Subito dopo arrivò Chevalier, portando le ultime edizioni dei giornali inglesi, alcuni panini al prosciutto ed una bottiglietta di caffè. Fecero colazione, poi il francese si scusò con Larren perché doveva riandarsene subito. Doveva sistemare alcuni affari concernenti il suo locale, ma promise di tornare entro un’ora per fare il suo turno di osservazione. Uscito Chevalier, Larren puntò nuovamente il binocolo in direzione della camera di Mallory. Vide che Barbara stava per uscire, e sembrava che stesse rassicurando il padre su qualcosa. Larren si rammaricò di non saper leggere il movimento delle labbra, e continuò ad osservare finché la ragazza baciò il padre sulla guancia e si chiuse la porta dietro le spalle. Mallory tornò allora a sedersi sul letto; sembrava invecchiato di venti anni ed aveva il corpo scosso da un leggero tremore. Larren fu tentato per un attimo di mandare Abdullah a pedinare la ragazza, ma abbandonò subito l’idea. Per lui solo Mallory era importante. Continuò ad osservarlo per qualche minuto, ma Mallory si era sdraiato sul letto e giaceva lì immobile. Il sole del Nord Africa picchiava con una certa intensità, e sulla terrazza non era ormai rimasto nemmeno uno spicchio d’ombra. Il cielo azzurro e le pareti bianche

delle case circostanti mandavano dei riflessi accecanti negli occhi stanchi di Larren, che decise di fare una pausa. Abdullah sembrava non sentire nemmeno il caldo, e Larren lo invidiava. Gli cedette il binocolo e scese dabbasso. Bevve il caffè che gli aveva portato Chevalier, e mangiò qualche panino. Era sicuro che se fosse accaduto qualcosa Abdullah l’avrebbe avvertito, perciò cominciò a dare una scorsa ai giornali. Erano del giorno precedente, e la maggior parte delle pagine riguardavano i preparativi per il funerale del Primo Ministro; Larren si accorse con sorpresa che era già trascorsa quasi una settimana dall’assassinio di Sir Howard Davies. Era Venerdì, ed il funerale era previsto per il pomeriggio del giorno successivo. Vi erano numerose fotografie del feretro avvolto in un drappo, sistemato dinanzi alla navata centrale della cattedrale, oltre ad una lunghissima lista di teste coronate d’Europa, Primi Ministri e Capi di Stato convenuti da tutto il mondo per prendere parte alle esequie. Il Presidente degli Stati Uniti sarebbe arrivato quella notte da New York, e Zuchev, il Capo del Soviet Supremo, l’indomani mattina da Mosca. I giornali sottolineavano il fatto che avessero voluto intervenire personalmente, invece di inviare un rappresentante. Larren scorse in fretta i giornali e li mise da parte, riflettendo sulle conseguenze che in certi casi poteva avere una semplice pallottola. Non ultima tra queste conseguenze era la sua presenza a Tangeri in quel momento. Il corso dei suoi pensieri lo riportò al lavoro che stava svolgendo, e decise che era ora di ridare il cambio ad Abdullah. Prese a salire le scale, sbattendo le palpebre per il sole. Poi, d’improvviso, l’ombra di Abdullah si stagliò in cima alle scale. «Venga, presto» sussurrò il giovane. «Sta accadendo qualcosa.» Larren fece gli ultimi gradini a quattro a quattro, e corse al parapetto riprendendo il binocolo. Si inginocchio ed impiegò qualche istante per mettere a fuoco il binocolo, e per inquadrare la camera di Mallory. Due uomini erano entrati nella stanza, due arabi vestiti all’europea. Uno era rimasto di guardia accanto alla porta, mentre l’altro si era avvicinato all’inglese e gli stava parlando lentamente. Mallory dava le spalle alla finestra e non si riusciva quindi a scorgerne il viso, ma dall’atterrita immobilità del suo corpo Larren comprese che il momento che attendevano era arrivato. Inquadrò allora nuovamente le facce degli arabi per imprimersele indelebilmente nella memoria, poi si voltò verso Abdullah. «Resta qui e continua a guardare» ordinò. «Appena Chevalier torna raccontagli tutto quello che è successo. Io corro davanti al bar per seguire quei due appena usciranno.» Abdullah annuì energicamente. «D’accordo.» Larren gli ridette il binocolo e si precipitò nuovamente per le scale. In pochi secondi scese in strada, e lì cominciò a correre zigzagando all’impazzata tra la folla di arabi stupefatti e di donne velate. Perse secondi preziosi a causa di un asino carico di

due grossi panieri, ma ciononostante riuscì ad arrivare davanti al bar di Yacoub in meno di due minuti. Ansimante, andò a nascondersi all’angolo di un vicolo. Non dovette attendere a lungo. Passò un altro minuto, poi si aprì la porta del bar. L’arabo che era rimasto accanto alla porta della camera di Mallory uscì in strada, riparandosi con una mano gli occhi dal sole, seguito subito dopo dal suo compagno, che si annodava con tutta calma la cravatta. Si allontanarono senza accelerare il passo. Voltarono ad un angolo, dirigendosi verso il Grand Socco, e appena scomparvero alla vista Larren attraversò la strada ed entrò nel bar. L’interno sembrava una caverna oscura; distinse di fronte a sé la rampa di scale e prese a salirla. Yacoub stava fra i tavoli vuoti con una scopa in mano; vedendolo si fermò, poi scosse il capo e riprese le pulizie. Larren giunse sul pianerottolo e andò a fermarsi dietro la porta di Mallory. Era socchiusa, e la aprì lentamente, tenendo una mano nella tasca della giacca con le dita serrate attorno alla Smith and Wesson che Chevalier gli aveva dato. Ma non ve ne era alcun bisogno. Henry Mallory era solo nella stanza, ed era decisamente morto. Larren entrò ed andò ad inginocchiarsi accanto al cadavere. L’ex membro del Parlamento giaceva sulla schiena accanto al vecchio letto metallico, e aveva ancora dipinta sul volto una espressione di angoscia. Le tracce di polvere da sparo attorno al foro della pallottola, all’altezza del cuore, indicavano che era stato ucciso a bruciapelo, e quasi sicuramente con una pistola munita di silenziatore. Larren prese allora a frugargli le tasche, prevedendo di riuscire a raggiungere gli assassini prima che arrivassero al Grand Socco. Non trovò nulla che servisse ad identificare il morto, ed un sorriso di soddisfazione gli increspò le labbra appena accertò che l’accendino d’oro di Chevalier era sparito. Decise di andarsene, e stava per ritirare la mano dalla tasca interna della giacca di Mallory quando udì un rumore sulla soglia alle sue spalle. Il nuovo venuto trasalì, e Larren portò istintivamente la mano alla Smith and Wesson. Si voltò di scatto, appoggiandosi su un ginocchio, e si trovò faccia a faccia con Barbara Mallory. Aveva le spalle appoggiate al muro. Gli occhi nocciola erano sbarrati per l’orrore e la bocca le tremava violentemente, ma per uno strano motivo la pistola puntata all’altezza degli occhi di Larren era perfettamente immobile.

CAPITOLO XI LA FIGLIA DEL MORTO LARREN rimase perfettamente immobile, rendendosi conto di trovarsi in quel

momento più vicino alla morte di quanto non vi si fosse mai trovato nel corso della sua carriera movimentata. Rimase accoccolato accanto al cadavere di Mallory, e trattenne il respiro guardando per la prima volta negli occhi la figlia del morto. Stringeva ancora nella destra la Smith and Wesson, ma comprese che sarebbe morto all’istante appena avesse provato a puntarla. Barbara Mallory era immobile come lui, e solo il viso le si contraeva tremando, a causa delle lacrime che non riuscivano a

sgorgare. Aveva indosso quello stesso vestito blu con cui lui l’aveva vista per la prima volta, e le nocche delle dita attorno al calcio della pistola si erano sbiancate. Rimasero ambedue completamente immobili per più di un minuto, la ragazza impietrita dallo choc e lui per paura di rompere quel sottile velo di silenzio dal quale sembrava dipendere la sua vita. Poi Larren trasse il respiro e prese ad abbassare lentissimamente la Smith and Wesson. Quando fu arrivata accanto al pavimento, allargò le dita e la lasciò cadere sul pavimento. Barbara sobbalzò leggermente, per tornare subito dopo immobile. Larren disse piano: «Non l’ho ucciso io, se è questo che sta pensando. L’ho trovato morto.» «L’ha ucciso lei!» Le parole le uscivano dalle labbra simili a piccole esplosioni, e una volta che la diga del silenzio si era rotta sembrava difficile fermarle. «Mi ricordo di lei. Era sull’aereo, a Madrid mi ha raccontato una storia idiota e io le ho creduto come una stupida. Ed era di lei che mio padre aveva paura, era da lei che si nascondeva. Si è servito di me per rintracciare mio padre. L’ha ammazzato lei. Assassino!» Fece un passo avanti, e Larren si irrigidì istintivamente. Poi la ragazza riuscì a trovare un certo controllo, e gli occhi le si inondarono di lacrime, mentre gli chiedeva amaramente: «Perché l’ha ucciso? Perché?» «Non l’ho ucciso io», ripeté Larren, e d’improvviso il convincerla divenne per lui importantissimo. E non tanto perché la sua vita era legata in quel momento a quell’unica speranza, quanto perché non riusciva più a sopportare l’espressione accusatrice dei suoi occhi. Disperatamente, continuò a spiegare: «È vero che lo stavo seguendo. Mi hanno fatto partire da Londra proprio per seguirlo. Ma quando ho parlato con lei a Madrid non avevo assolutamente idea di chi lei fosse. Non mi sono servito di lei… e soprattutto non ho ucciso suo padre.» Si accorse che se non altro la ragazza lo stava ascoltando, anche se sembrava tutt’altro che convinta, e capì che avrebbe dovuto faticare per giustificare la sua presenza in quella stanza e in quel momento. Continuò cocciutamente: «Suo padre era membro di una organizzazione estremista, della quale si conosce solamente la sigla APP. Si tratta della stessa organizzazione responsabile dell’assassinio di Sir Howard Davies, e suo padre era anche lui coinvolto nella morte del Primo Ministro. Ecco perché è dovuto fuggire dall’Inghilterra, ed ecco perché mi hanno incaricato di rintracciarlo. Ma i suoi compagni l’hanno trovato prima di me, e l’hanno ucciso.» «Non le credo.» La voce della ragazza era spietata. «Sapevo che stava fuggendo da qualcosa, e sapevo che temeva per la sua vita. Perciò mi aveva dato questa pistola, vedendomi arrivare si era spaventato anche per la mia vita. Ma affermare che fosse coinvolto nella morte del Primo Ministro è una sporca bugia. Non crederò mai a nulla di simile.» «Ma è così.» Larren cominciava a sudare. «Forse non si era perfettamente reso conto dei loro piani, ma è stato suo padre a rivelare all’organizzazione che quel

giorno Sir Howard Davies si sarebbe sicuramente recato a cena al Tempest Club.» Era più che convinto della completa colpevolezza di Mallory, ma in quel momento certe verità andavano smussate. «Appena saputa la verità, deve essersi ribellato. Ecco perché è fuggito ed ecco perché è stato ucciso.» La ragazza sembrò per un momento indecisa, e Mallory insistette. Disse lentamente: «Stia a sentire, non abbia paura. Le avvicinerò piano piano la mia pistola; ne odori la canna, e sentirà che non ha sparato di recente.» «No!» Tornò a puntare l’arma in direzione della fronte di Larren, che si immobilizzò. Disse in tono isterico: «Se prende quella pistola, mi sparerà sicuramente. Lei non è che uno sporco assassino, e non ha più diritto di vivere. Ha appena ucciso l’uomo migliore di questo mondo, e sarò io ora ad ucciderla.» Stava per premere il grilletto, e Larren credette di vedere l’ombra della morte dietro le spalle della ragazza. Ma l’ombra scomparve, e al posto della sua falce l’aria fu attraversa dal sibilo provocato da una canna da passeggio. La pistola volò elegantemente dalle mani di Barbara Mallory andando a finire sul pavimento, e Chevalier le pose una mano sulla bocca, impedendole di gridare e tenendola ferma. «Ho fatto bene a tornare presto come ti avevo promesso», osservò. «Sembra che senza di me tu non riesca a cavartela.» Larren emise un grosso sospiro, vergognandosi leggermente del tremore che sentiva alle ginocchia mentre si rialzava in piedi. «Grazie, Jacques. Ricordami di offrirti da bere, se riusciamo a trovarne il tempo.» «Prenderò un cognac, e di marca», lo mise in guardia il francese. Barbara prese a divincolarsi tra le sue braccia, e lui aumentò la stretta. «Ma Mademoiselle Mallory è una complicazione non prevista Che ne facciamo?» Larren esitò. «Abbiamo perso anche troppo tempo. Dovremo portarcela dietro.» Chevalier aggrottò le sopracciglia. «Non sarebbe meglio darle una botta in testa?» «No. Servirà solamente a farci lanciare dietro la polizia appena rinverrà, e questa sarebbe una complicazione ancora più antipatica. Oltretutto…» capì che quella decisione richiedeva altre giustificazioni, «potrebbe aiutarci. In macchina la faremo parlare.» Chevalier lo guardò dubbioso, e Larren cominciò a chiedersi se lui stesso non si sarebbe comportato diversamente se quella ragazza non avesse somigliato tanto ad Andrea. Poi il francese annuì. «Benissimo, portiamocela dietro. Dirò a Yacoub che Mallory si sente poco bene e non deve essere disturbato per nessun motivo finché non saremo di ritorno. Se ci va bene, dovrebbe tenersi lontano da questa camera per qualche ora.» Larren provò un senso di sollievo e sorrise, poi raccolse da terra le due pistole e prese dalle braccia di Chevalier la ragazza, che nel frattempo si era spaventata a morte. Comunque appena il francese le tolse la mano dalla bocca, non gridò. Larren le disse brevemente:

«Non le faremo alcun male, ma lei può aiutarci a trovare gli uomini che hanno ucciso suo padre. Mi creda, per una volta.» Barbara continuò a tacere, ma non oppose altra resistenza e si fece docilmente condurre fuori dalla stanza. Chevalier intascò la chiave dopo aver chiuso la porta alle sue spalle, e tutti e tre scesero le scale. Uscirono velocemente in strada, dopo che Chevalier ebbe scambiato qualche parola col vecchio arabo dietro il banco, e la ragazza non si era ancora ripresa dal suo stato di confusione mentale. Presero a camminare velocemente tra i vicoli brulicanti di gente, con il francese in testa, e uscirono dalla Medina arrivando in breve alla piazza del Grand Socco. La Citroen era parcheggiata dove la avevano lasciata. Chevalier sedette al volante, mentre Larren si sistemò sui sedili posteriori accanto a Barbara. La ragazza, appena Larren le lasciò il braccio, andò a rincantucciarsi in un angolo del sedile. Ma non tentò di aprire lo sportello e fuggire, limitandosi ad osservarlo con occhi tristi mentre estraeva di tasca il piccolo ricevitore di impulsi. Larren girò la manopola e sorrise di soddisfazione nell’udire chiaramente i segnali intermittenti. Attese che l’ago si orientasse, poi disse: «Più o meno verso sud-est, Jacques. Credo che stiano uscendo da Tangeri sulla Rue de Fez.» Chevalier mise in moto e la Citroen si mosse lentamente. Si volse a chiedere: «Che vantaggio hanno su di noi?» «Non più di cinque minuti. Li avrei raggiunti immediatamente, se la signorina Mallory non mi avesse interrotto.» Chevalier accelerò, guidando con estrema abilità tra le strade di quella città che conosceva così bene. Si infilava in ogni spazio lasciato aperto dalla corrente del traffico, e riuscì ad evitare di un soffio un carretto sbucato da una stradina laterale. Raggiunsero in breve tempo il rettilineo della Rue de Fez. «Che dice l’ago?» chiese, tagliando la strada ad un ciclista che portava sul manubrio un blocco di ghiaccio. «Andiamo verso sud, o sempre verso sudest?» «Sudest.» «Allora non vanno a Rabat», osservò Chevalier. «Forse si dirigono verso Tetouan. Lo sentivo che quella gente veniva da fuori. Se fossero stati di Tangeri avrebbero trovato Mallory molto prima.» Larren rimase zitto, evitando ogni commento che avesse potuto distrarre il francese dalla guida. Girarono a sinistra sul Boulevard Moulay Youssef, poi a destra, entrando in Place d’Europe. Uscirono quindi dalla città, prendendo la strada per Tetouan. I segnali del ricevitore erano nitidissimi, e l’ago del quadrante era puntato in avanti. Una volta usciti in aperta campagna, Larren si rilassò e lanciò un rapido sguardo alla ragazza. Barbara si era abbastanza ripresa, e sebbene ancora agitata, sembrava avere perduto parte del timore iniziale. Larren capì che stava per rivolgergli delle domande, e la prevenne chiedendole: «Suo padre le aveva parlato degli uomini che gli stavano dando la caccia?» Lei lo guardò, e Larren ebbe per un momento la certezza che si sarebbe rifiutata di rispondergli voltandosi dall’altra parte. Ma si sbagliava. «Non mi ha detto granché. Volevo aiutarlo, ma lui era restio a confidarsi con me. Mi ha detto che in Inghilterra si era messo nei guai, ma questo lo sapevo già da

quando erano venuti a cercarlo in casa degli agenti. La sua foto poi era finita su tutti i giornali, ma la polizia diceva di cercarlo unicamente perché era scomparso.» Inghiottì a vuoto e concluse: «Se la cosa aveva a che fare con la morte del Primo Ministro… allora deve essersi trattato di uno sbaglio colossale. Per avere la sua collaborazione, quella gente deve averlo ingannato con qualche storia.» Larren preferì non controbattere, ritenendo inutile in quel momento ed in quelle circostanze distruggere l’immagine che la ragazza conservava del padre appena ucciso. Preferì rivolgerle un’altra domanda. «Le ha detto come ha fatto a lasciare l’Inghilterra ed a giungere fino a Tangeri?» «Degli amici gli hanno fatto attraversare la Manica su una piccola imbarcazione. Gli hanno anche dato un passaporto intestato ad una altra persona, e a Parigi è riuscito a prendere un aereo. Ma una volta giunto a Tangeri si è reso conto che non poteva più fidarsi di quella gente. Era semplicemente terrorizzato, perciò invece di andare ad abitare all’albergo prestabilito si è trovato quella stanzetta nella Medina. Si nascondeva lì, senza sapere assolutamente come uscire da quella situazione.» Distolse improvvisamente il volto, e sebbene tacesse Larren capì che stava piangendo. Provava compassione per quella ragazza, e in un certo senso anche per il padre, che aveva fatto quella fine dopo essere fuggito braccato dagli ex compagni di fede. Henry Mallory si era in un certo senso scavato la fossa da solo e non avrebbe potuto fare che la fine che aveva fatto. Larren le dette il tempo di riprendersi nuovamente, poi tornò a chiederle: «Come sapeva dove trovarlo?» Barbara Mallory rispose lentamente ma senza esitazione. «Ci aveva mandato una lettera. Non direttamente a noi, perché temeva che venisse intercettata dalla polizia. L’ha spedita a mia cugina, che me l’ha consegnata subito. Voleva solo comunicarci che stava bene, e che non avremmo dovuto preoccuparci per lui. Non diceva dove si trovava, ma la lettera aveva un francobollo marocchino ed era stata impostata a Tangeri, quindi non c’è voluto molto per capire dove si trovasse.» «E la cugina che ha ricevuto la lettera era la vera Jenny Norwood, immagino», fece Larren. «Lei si è fatta prestare il suo passaporto ed è venuta a cercare suo padre.» Annuì. «Non è stato molto difficile. Qualche anno fa mio padre aveva fatto una viaggio a Gibilterra con altri colleghi del Parlamento, e di lì si era spinto per un paio di giorni fino a Tangeri. Era capitato nel bar di Yacoub dopo essersi smarrito nella Medina, gliene avevo sentito parlare. Ho pensato che se non si fidava ad andare in albergo si sarebbe diretto verso l’unico posto che conosceva, ed ho chiesto ad una delle guide del Grand Socco di condurmi là.» Larren cominciò a provare un certo rispetto per quella ragazza che gli sedeva accanto. «Cosa sperava di fare?» «Cercare di aiutarlo, non so come. Appena mi sono resa conto che temeva di venire scoperto, ho cercato di convincerlo ad andarsene. Stamane sono stata alla stazione per farmi dare l’orario dei treni per Rabat e Casablanca; non sapevo a quanto sarebbe servita quella fuga, ma era in ogni caso meglio che rimanere in quella camera ad aspettare. Pensavo che se fossi riuscita a condurre mio padre in un posto più sicuro, sarei riuscita a farlo parlare.»

Tacque nuovamente, e Larren capì di averle rivolto anche troppe domande. La lasciò al suo dolore e prese a riflettere, quando d’improvviso Chevalier ruppe il silenzio. «C’è una macchina davanti a noi. Ho l’impressione che si tratti proprio dei nostri amici.» Larren alzò gli occhi e vide davanti a loro una grossa decapottabile americana che sollevava una nuvola di polvere. Era ancora molto distante, ma si intravvedevano le sagome del guidatore e dei due passeggeri. Accese il ricevitore, e si accorse che gli impulsi avevano raggiunto la massima intensità. Abbassò il volume e disse: «È senz’altro la loro auto». Chevalier rallentò per mantenere inalterata la distanza tra le due macchine. Larren continuò a guardare da dietro la sua spalla, ma si rese ad un tratto conto che Barbara Mallory aveva fissato lo sguardo sul piccolo ricevitore che teneva in mano. «Cos’è quell’aggeggio?» chiese. «Come fa a segnalarci gli uomini davanti a noi?» «È un ricevitore», spiegò Larren. «Riceve impulsi da un trasmettitore nascosto in un accendisigari d’oro. Quegli uomini si sono preso l’accendisigari dopo avere ucciso suo padre ed averglielo trovato indosso.» La ragazza spostò lo sguardo su Chevalier. «Allora è lui l’uomo che ieri sera ha dimenticato l’accendino al bar. L’ha lasciato là di proposito.» Larren vide gli occhi della ragazza riempirsi di orrore, ma oramai era troppo tardi per cercare di rimediare all’errore commesso. Imprecò dentro di sé e fu incapace di replicare. «Lei non solo aveva trovato mio padre, ma lo teneva anche d’occhio.» La voce le tremava. «Ha continuato a tenerlo d’occhio, aspettando che lo uccidessero, e gli ha messo addosso questo affare per poi potere seguire i suoi assassini. Lei voleva che lo uccidessero. Avrebbe potuto impedirlo, ma non lo ha fatto.» Si mise ad urlare istericamente. «Mio Dio, lei non è un essere umano!» Larren la colpì con uno schiaffo, maledicendosi per il gesto ma rendendosi conto che non c’era altra maniera per calmarla. La guancia della ragazza si arrossò immediatamente, e Barbara Mallory cadde riversa sullo schienale del sedile. Continuava a fissarlo con gli occhi inondati di lacrime, e fu giocoforza per Larren mentire nuovamente. «Non volevamo che lo uccidessero», esclamò, vergognandosi per la bugia. «Volevamo solamente tenerlo d’occhio per poterlo seguire appena usciva. Pensavamo che ci avrebbe condotto dai suoi amici, e non potevamo immaginare che avrebbe fatto quella fine. Se gli assassini si sono impadroniti dell’accendino è stato solo un caso.» Lei non disse nulla, ma continuò a fissarlo. Larren avrebbe voluto distogliere lo sguardo, ma capì che l’unica maniera per convincerla era sostenerlo. Poi il panico abbandonò lentamente il suo sguardo pietrificato, e Larren si accorse che la ragazza cominciava a credergli. La cosa lo tranquillizzò, ma non valse a fargli passare la vergogna che provava dentro di sé. Si riudì la voce di Chevalier. «L’auto sta rallentando. Lasciano la strada.» Larren rivolse la sua attenzione sulla strada e notò la decapottabile che rallentava inoltrandosi sulla sinistra. Non c’era né strada né

sentiero, e la macchina prese a sobbalzare sui campi; poi cominciò ad inerpicarsi per una collina, si stagliò in cima per un attimo ed infine scomparve alla vista. Chevalier aveva rallentato automaticamente, ed andò a fermarsi nel punto dove l’altra auto aveva lasciato la strada principale. Spense il motore e guardò le tracce lasciate sull’erba dai pneumatici della decapottabile. «Faremmo meglio a lasciare la Citroen qui se vogliamo scoprire dove sono andati», disse lentamente. «Se li seguiamo in macchina ci metteremo troppo in vista.» Larren annuì ed uscì dalla macchina insieme al francese, raccomandando a Barbara Mallory di rimanere lì senza muoversi. I due presero poi a seguire le tracce dei pneumatici della decapottabile. Chevalier a titolo precauzionale aveva tolto le chiavi della Citroen, ed a piedi la ragazza non avrebbe potuto fare molta strada. Era quasi mezzogiorno, il sole picchiava implacabile e i due uomini erano abbondantemente sudati. Avvicinandosi alla sommità della collinetta procedettero con maggiore cautela, ed infine si sdraiarono in terra strisciando sullo stomaco. Giunti in cima si fermarono fianco a fianco, ansando leggermente; Larren spinse lo sguardo in avanti e lo spettacolo che si offrì ai suoi occhi lo riempì di una rabbia impotente. Davanti a loro si apriva un’ampia radura a forma di conca, e sul fondo di questa conca c’era la decapottabile. Ma accanto all’auto c’era anche un aereo da turismo. Il sole si rifletteva sulla fusoliera rossa e bianca, e le ali di un bianco metallico sembravano due specchi brillanti. Larren lo classificò come un modello della serie Piper, quasi sicuramente un Piper Cherokee. Accanto all’aereo c’erano quattro uomini che conversavano animatamente tra di loro. Uno di loro era evidentemente il pilota, e gli altri tre erano gli occupanti della decapottabile. L’aereo stava per decollare con i due assassini, mentre l’autista avrebbe riportato in città l’auto. Larren si mise ad imprecare ad alta voce. Chevalier lo guardò e disse piano: «Non tutto è ancora perduto, amico mio. A mezz’ora da qui c’è un altro aereo che viste le circostanze potrebbe tornarci utile. Se ci sbrighiamo forse riusciremo a decollare prima che quella gente esca dal raggio d’azione del trasmettitore.» Larren lo fissò: «Dici sul serio?» «Ma naturalmente. Conosco un inglese che possiede un vecchio Fairchild Argus. Si guadagna la vita affittando l’aereo a turisti per voli sopra la baia; e mi è già stato d’aiuto in altre circostanze. Di solito il serbatoio dell’Argus è sempre pieno, e se il mio amico non è già in volo sono sicuro che ci aiuterà.» Larren sembrava esitare. Chevalier proseguì: «Non abbiamo scelta. Anche se prendessimo la Citroen e facessimo una specie di carica, avremmo scarse possibilità di fermarli. Ed in ogni caso quello che a noi interessa è seguirli fino alla loro base. D’altra parte, rischiamo di farceli sfuggire se riescono ad uscire dal raggio di azione della trasmittente prima che troviamo l’aereo. È una specie di gioco d’azzardo.» Larren prese in considerazione le due alternative. Era quanto mai improbabile che fossero riusciti ad impedire al Cherokee di decollare, ed anche se avessero catturato l’autista della macchina probabilmente sarebbe stato loro di scarsissimo aiuto, se non

era addirittura un autista di professione noleggiato per quel lavoro. Si decise immediatamente e prese a scendere il fianco della collina. «Rischiamo», disse. «Nella speranza che il tuo amico non ci lasci a terra.» «I miei amici non mi abbandonano mai», rispose con aria indignata Chevalier. Rifecero la strada a precipizio e raggiunsero correndo la Citroen. CAPITOLO XII IN VOLO SUL DESERTO «COME si chiama questo pilota?»

Larren fece questa domanda mentre Chevavalier, dopo una conversione ad U, riprendeva la strada per Tangeri guidando come un folle. Aveva la paglietta inclinata sulla fronte fino a coprirgli gli occhi, e rispose distrattamente concentrando l’attenzione sulla strada. «Si chiama Gerry Powell. È un ex pilota della RAF, dove è rimasto otto anni prima che suo padre morisse, lasciandogli una sommetta con la quale si è comprato l’Argus. È stato di base a Gibilterra tre anni durante la vita militare, e da lì andava spesso in licenza a Tangeri. La città gli è piaciuta, così il clima e la popolazione, ed ha deciso di tornarci. Si trova qui solo da pochi mesi, e non si è ancora ambientato completamente. Comunque si trova bene, ed è questo quel che conta.» «Come hai fatto a conoscerlo?» «Alla solita maniera. Una sera è venuto al mio locale, ed ho subito capito che la sua conoscenza mi sarebbe stata utile. Abbiamo fatto amicizia, e di tanto in tanto gli procuro dei clienti. Lui in cambio mi fa qualche piacere.» Fece un sorrisetto. «Io tolgo le pulci a te, e tu le togli a me, è il caso di dirlo.» Riportò l’attenzione sulla strada e Larren tacque, anche perché stavano rientrando a Tangeri. Il francese curvò a destra, superò le stradine della periferia e portò la macchina sul lungomare. Tangeri si stendeva alle loro spalle mentre si dirigevano verso Cap Malabata, di cui si scorgeva in lontananza il faro. A metà dell’insenatura della baia Chevalier fermò improvvisamente la Citroen con uno stridio di pneumatici. Poi imboccò un vicoletto sulla destra che si allontanava dal mare. Larren andò a finire sballottato su Barbara Mallory, ma la ragazza, a parte un lieve sospiro, rimase silenziosa. Taceva con aria assente da quando lui e Chevalier erano tornati di corsa in macchina; Larren le aveva subito comunicato le loro decisioni ma lei non aveva fatto alcun commento. Dopo un chilometro circa Larren intravide in lontananza l'aeroporto. Era un semplice piazzale, piuttosto ampio, interrotto da due palazzine ad un piano, una manica a vento ed un piccolo aereo al centro. Sul cancello era affisso un grosso cartello su cui si leggeva: POWELL. VOLI TURISTICI Seguiva una lista dei prezzi per i voli da una ora e da mezz’ora, ma Larren non si curò di leggerli, tutto preso ad osservare il vecchio Fairchild Argus. Paragonato al Piper Cherokee che aveva visto prima sembrava piuttosto malandato, oltre che di

modello più antiquato. Se fossero riusciti a decollare in tempo, non dava l’idea di essere in grado di poter raggiungere l’areo con a bordo gli assassini di Henry Mallory. Ma Chevalier non sembrava affatto deluso. Inchiodò la Citroen davanti ad una delle due palazzine, che era poi l’ufficio prenotazioni, e saltò fuori dalla macchina. Un giovane arabo dall’aria sorpresa, somigliante vagamente ad Abdullah, li guardava dalla veranda, insieme ad un individuo alto e biondo. Quest’ultimo portava un paio di blue jeans ed una camicia sportiva bianca, e nonostante le braccia ed il viso abbronzatissimi, tutto in lui rivelava l’inglese. I capelli biondi e lunghi insieme agli occhi azzurri gli conferivano un’aria quasi da studente. Doveva essere sulla trentina, e sorrideva come una persona soddisfatta della vita, almeno fino a quel momento. «Jacques», sorrise allegro. «Quale cattivo vento ti porta qui a disturbare la mia pace? Non dirmi che mi hai trovato qualche cliente!» «Non proprio». Chevalier lo raggiunse sulla veranda e gli pose amichevolmente una mano sul braccio. «Gerry, si tratta di una cosa importante. Quanto ci impieghi per decollare?» Powell si strinse nelle spalle. «È solo una questione di minuti. Il serbatoio è pieno. Mancano solo i clienti.» «Allora prendici a bordo. Ti spiegheremo quando saremo su.» «Va bene, ma perché tutta questa premura?» «Gerry. ogni secondo è di importanza vitale. Non perdiamo tempo, fidati di me.» Powell sembrava esitare, ma notando l’inconsueto tono di voce di Chevalier si decise in fretta. «Hamid», ordinò al giovane arabo. «Io faccio un giro con questi signori. Pensa tu a tutto finché non torniamo.» Poi entrò nell’ufficio e si infilò una giacca a vento ed un berretto da pilota. Per farlo sbrigare Chevalier lo portò via quasi di peso dalla veranda. Larren li stava aspettando sempre tenendo Barbara per un braccio. Il problema di cosa fare di lei non era stato ancora affrontato, ma non era quello il momento di pensarci. Chevalier sembrò rabbuiarsi nel vedere che la ragazza veniva con loro, ma non fece alcun commento. Attraversarono di corsa il campo. L’aereo aveva quattro posti, e Larren andò a sistemarsi insieme alla ragazza nei sedili posteriori. Chevalier sedette accanto a Powell, e Hamid corse a togliere i tacchi da sotto le ruote. Poi si allontanò di corsa mentre Powell metteva in moto l’aereo e lo portava su di giri. Infine si mossero fino al limite della pista per avere più spazio possibile per il decollo. «Farà qualche sobbalzo», avvertì. «Ma solamente perché è un aereo leggero. Una volta in aria sarà come andare in autobus.» L’avvertimento era diretto a Barbara, ed era probabilmente una forma abituale per i passeggeri che volavano per la prima volta. La ragazza non dette neanche a vedere di averlo udito, e sembrava ormai rassegnata a tutto. Powell le lanciò uno sguardo incerto, poi tornò a concentrarsi sui comandi. L’erba della pista cominciò a scorrere velocemente sotto di loro, e il suono del motore non era dei più rassicuranti. Le ruote si sollevarono per poi toccare

nuovamente terra, e per sollevarsi infine definitivamente mentre l’areo prendeva a salire. Dalla sinistra si godeva una stupenda veduta dall’alto di Tangeri, e della baia dalle onde leggermente increspate, sulle quali un grosso ferry boat si dirigeva lentamente verso lo stretto, in direzione di Algeciras. «Allora», fece Powell allegro. «Volete dirmi si o no dove diavolo stiamo andando?» Larren sorrise, sebbene cominciasse a disperare di raggiungere il Piper. Tornando verso Tangeri i segnali del ricevitore erano scemati rapidamente, ed ora taceva del tutto. Continuava a fissare l’ago del quadrante e restava in attesa di un miracolo. «Si diriga verso l’interno, in direzione Sud Est, e tenga la manetta del gas tirata al massimo.» Powell lo guardò dubbioso, ma obbedì senza fare domande. Se non altro, pensò Larren, non era uno di quegli inglesi che prima di fare qualsiasi cosa pretendevano di essere presentati. Il pilota corresse la rotta dell’Argus ed inforcò un paio di occhiali da sole. Chevalier si assunse il compito di spiegare quello che era accaduto, e quindi della assoluta necessità di entrare in contatto con il Cherokee che doveva trovarsi davanti a loro nel cielo sconfinato. Il viso di Powell assunse una espressione seria quando il pilota comprese che stavano inseguendo due assassini. Si voltò per rivolgere delle espressioni di circostanza a Barbara Mallory, ma la ragazza rimase in silenzio, limitandosi a guardare fuori del finestrino. Sorvolarono la radura dove avevano visto il Piper, ma ovviamente non v’era più traccia né dell’aereo né della grossa macchina americana. Riprendendo quota Larren contrasse le labbra, mentre il ricevitore continuava a tacere. Il cielo davanti a loro era vuoto, e la terra sembrava un complicato mosaico verde e marrone. Se non fosse stato per la mancanza dei lunghi filari di oliveti, poteva sembrare la Spagna. Chevalier terminò l’esposizione dei fatti, e Larren chiese: «Che speranze abbiamo di raggiungere l’aereo davanti a noi?» «Poche, ho paura», rispose Powell. «Gli aerei non sono come le automobili, non devono seguire una strada o girare agli angoli. Se è decollato verso Sud Est è probabile che si mantenga su quella rotta. Quello che conta è la velocità. Il Cherokee è molto più veloce di questo Argus, e se quei tipi avevano fretta, abbiamo scarsissime speranze di ripescarli. In caso contrario… be’, dovremmo farcela. Più o meno, che vantaggio hanno su di noi?» «Direi un venticinque minuti», rispose Chevalier. «Non di più.» «Son molti.» «Ma non deve raggiungere l’aereo», gli ricordò Larren. «Mi basta che riesca a entrare nel raggio d’azione della trasmittente, e poi seguirli da lontano.» Continuarono a volare per un’altra mezz’ora, superando la città di Tetouan, cinquanta chilometri a Sud di Tangeri. Le speranze di Larren diminuivano ad ogni minuto che passava, e si aspettava da un momento all’altro che Powell si dichiarasse sconfitto. Ma il pilota tirava avanti imperterrito, portando il piccolo aereo al limite delle sue possibilità. Chevalier sembrava aver perduto per una volta la sua naturale allegria, e sedeva nervosamente accanto al pilota, mentre Barbara continuava tranquillamente a seguire con lo sguardo l’ombra dell’aereo sotto di loro. Poi, d’un

tratto, il ricevitore che Larren teneva incollato all’orecchio cominciò ad emettere deboli segnali. «Ci siamo», esclamò, e i due uomini davanti a lui si voltarono sorridenti. Il viso di Chevalier sembrava sprizzare gioia da tutti i pori, mentre Powell appariva sollevato. «Era ora», osservò il pilota. «Se avessimo continuato ancora un po’ a questa velocità, le vibrazioni mi avrebbero fatto saltare in aria l’aereo.» Tolse un po’ di gas e chiese: «In che direzione?» Anche l’ago aveva ripreso a muoversi, e Larren si affrettò a consultarlo. «Si sono spostati verso Est», rispose. «Corregga la rotta anche lei, e le dirò quando raddrizzarla.» Powell eseguì immediatamente. «Bene così. Sono proprio davanti a noi.» Powell ridusse ulteriormente la velocità, e i segnali della ricevente si fecero nuovamente deboli ed indistinti. Dinanzi a loro non si vedeva traccia del Cherokee rosso e bianco, ma non avevano alcun bisogno di vederlo. Sapevano che era lì. Il volo continuò per altre tre ore, mentre il sole cominciava a calare alle loro spalle e l’ombra dell’aereo al suolo ora li sopravanzava. Superarono la catena dei monti dell’Atlante, dai costoni coperti di pini, ulivi e querce. La bellezza dello spettacolo sembrò svegliare Barbara dal suo letargo doloroso, ma la ragazza continuò a tacere. Sapeva ora che Larren non aveva ucciso suo padre, ma sapeva anche che avrebbe potuto prevederlo e ciò nonostante non aveva mosso un dito per impedirlo. Larren, dal canto suo, capiva che la ragazza avrebbe potuto dargli altre notizie interessanti, ma non aveva il coraggio di farle altre domande, almeno non in quel momento. Le montagne passarono, e il suolo sotto di loro si trasformò presto in deserto. I souk e le kasbah, piccoli agglomerati di casette scure o bianco sporco, riunite attorno a macchie di alberi o di palme da dattero, cominciarono a scomparire, ed infine rimase solamente la sconfinata distesa di sabbia giallastra. L’Argus sorvolava il Sahara, e la ricevente trasmetteva i deboli segnali che indicavano come il Cherokee si trovasse ancora davanti a loro, in qualche parte del cielo. Powell sembrava preoccupato, e ruppe infine il lungo silenzio che si era stabilito tra di loro. «Sembra che i nostri amici stiano puntando dritto sull’Algeria» disse. «E se supero il confine potrei trovarmi nei guai. In ogni caso, tra un po’ sarò costretto a tornare indietro se non voglio rimanere senza carburante.» «Non le basterebbe tenersi a distanza utile da qualche aeroporto dove potere fare rifornimento in caso di necessità?» chiese Larren. «Amico mio, gli aeroporti non sono stazioni di servizio», fece Powell voltandosi. «Sono sottoposti a regolamenti internazionali, e non dimentichiamo che io ho la licenza solo per fare voli turistici sulla baia di Tangeri.» «Giusto», ammise Larren. «Ma Jacques le ha detto perché è per noi così importante non perdere contatto con quell’aereo. Appartiene ad un’organizzazione della quale si conosce soltanto la sigla, APP, la stessa responsabile dell’assassinio del Primo Ministro d’Inghilterra. Ecco perché è assolutamente indispensabile che seguiamo quella gente fino alla loro base.» «Okay», rispose Powell. «Non mi accusate di scarso patriottismo. Volevo solo che foste al corrente della mia situazione. Se supero la frontiera ed atterrerò in un altro

aeroporto mi troverò nei guai, e voi insieme a me. E leggendo i romanzi di spionaggio ho imparato che voi agenti segreti, o come diavolo vi fate chiamare, non ci tenete a mettervi troppo in vista.» Larren notò come Powell non avesse accennato al fatto che la sua licenza di volo, e di conseguenza la sua fonte di vita, avrebbero corso seri pericoli, e provò un nuovo rispetto per il pilota. Rispose calmo: «A questo punto non ci possiamo più tirare indietro. Non possiamo sapere cos’altro quella gente abbia intenzione di fare, e se li perdiamo ora non abbiamo più speranza di fermarli». Powell si strinse nelle spalle. «Sputatemi in un occhio e datemi dello stupido», disse. «Arriveremo fino in fondo.» Sotto di loro ora non vi erano che dune di sabbia. Tutto era immobile, ad eccezione dell’ombra dell’Argus che superava vallate e promontori. Il sole era calato quasi completamente alle loro spalle, ma il caldo era ancora opprimente. Si udivano solo il rumore del motore e, quasi impercettibile, il suono della piccola ricevente. Volarono per un’altra mezz’ora, prima che Powell rompesse nuovamente il silenzio per dire: «Lasciamo in questo momento il Marocco ed entriamo in Algeria». Larren era pensieroso. «Jouvert, uno degli uomini che abbiamo catturato in Inghilterra, era stato in passato in Algeria con la Legione Straniera, ma non sappiamo esattamente dove e quando.» La cosa non suscitò commenti, e ricadde il silenzio. Niente sotto di loro indicava che avevano oltrepassato una frontiera, e la distesa del deserto si perdeva a vista d’occhio. Un’altra ora trascorse lentamente, e altri duecento chilometri di deserto passarono sotto di loro come una vecchia pellicola ingiallita. Poi Chevalier chiese: «Gerry, quanta benzina ci è rimasta?» «Ancora per quattrocento chilometri circa, ma solo per duecento se devo scendere ad un aeroporto marocchino.» «Non pensavo che si sarebbero spinti così lontano», osservò Larren. «Che autonomia massima ha quel Cherokee?» «Circa milleduecento chilometri», rispose Powell. «Leggermente inferiore a quella dell’Argus. Ma se decidono di scendere a fare rifornimento, siamo nei guai.» Chevalier era accigliato, espressione insolita per lui, segno che stava pensando. Disse lentamente: «In questo caso il Cherokee deve avere fatto il pieno nei pressi di Tangeri prima di prendere a bordo quei due. La cosa potrebbe aiutarci a rintracciarli nel caso fossimo costretti a tornare indietro». «Potrebbero avere fatto rifornimento a Quezzane», disse Powell, «o a Tetouan, o anche a Tangeri. Dipende tutto da…» «Un momento», lo interruppe Larren. «Credo che ci siamo.»

Powell e Chevalier si voltarono a guardarlo, abbassando subito lo sguardo sulla ricevente che aveva in mano. Il segnale intermittente stava aumentando sensibilmente d’intensità. «Sono atterrati.» Powell riportò la sua attenzione sui comandi e tolse il gas. L’aereo cominciò a perdere quota e la terra prese ad avvicinarsi. I segnali erano adesso nettissimi e Larren ridusse il volume. L’Argus era a centocinquanta metri dal suolo e i tre uomini presero a scrutare dai finestrini. «Eccoli!» Powel con un colpo di pedale spostò l’aereo sulla sinistra. Larren ebbe una rapida visione di un gruppo di case sulla linea dell’orizzonte, e davanti a loro la sagoma bianca e rossa del Cherokee, che a quella distanza assomigliava ad un giocattolo. Ripresero quota, fecero un ampio giro e si lasciarono le case alle loro spalle. «Non credo che ci abbiano visto», disse Powell, senza distogliere l’attenzione dai comandi. «Che facciamo?» «Vada avanti», gli rispose Larren. «Ho notato delle colline sulla sinistra, e se ci teniamo bassi dovremmo riuscire ad atterrare senza farci notare. Aspetteremo finché il sole non sarà calato completamente, e poi andrò a farmi una passeggiata da quelle parti per vedere cosa diavolo sta succedendo.» CAPITOLO XIII LO SCIMITAR POWELL sembrava non gradire troppo quel tipo di atterraggio, e continuò a volare in cerchio intorno alla zona prescelta per controllare meglio la natura del terreno. Si era fatto più serio, e sedeva rigido ai comandi. Infine tolse nuovamente gas, e si preparò ad atterrare. Videro venirsi incontro le colline, blocchi di calcare rossiccio erosi da migliaia di tempeste di sabbia. Dietro le colline notarono una striscia di terreno, cosparso di massi anche di grosse dimensioni. Sembrava una specie di isola, in mezzo a quella marea di sabbia. Powell cercò disperatamente una radura pulita, ma fu infine costretto a riprendere quota. «Non mi piace questo posto», fece dubbioso. «Forse cercando meglio potrei trovarne uno migliore; basterebbe solo uno di quei massi per farci ribaltare, e oltretutto mi sembra di avere notato anche delle zone di sabbia.» Guardò alle sue spalle e aggiunse: «Non ci proverei né per soddisfazione personale né per soldi.» Larren rispose lentamente. «Lei sa i rischi e sa anche i motivi. Deve decidere.» Powell sorrise. «Tipico scaricabarile. Lei deve lavorare a Whitehall.» Guardò Chevalier. «Jacques, si tratta anche del tuo osso del collo. Che ne pensi?» Chevalier si appoggiò allo schienale, spostandosi dagli occhi la paglietta. Disse semplicemente:

«Gerry, ho una gran fiducia nella tua bravura e ti seguirei anche se provassi ad atterrare sulla gobba di un cammello zoppo». «E i candidati al suicidio diventano due.» Powell volse nuovamente il capo. «Resta solo lei, signorina. Vuole che atterri?» Barbara Mallory lo fissò calma, come se non avesse afferrato bene la situazione, poi interruppe il suo lungo silenzio e disse: «Non mi interessa, signor Powell. Quegli uomini hanno ucciso mio padre mentre Larren e il suo amico se ne stavano a guardare. Se riesce ad atterrare e ci sarà una sparatoria, probabilmente si uccideranno a vicenda. Mi divertirò a guardare.» «Due suicidi ed una menefreghista. Bella compagnia che mi sono scelto!» notò Powell sorridendo. Poi eseguì una virata e tornò verso le colline. Per la seconda volta l’aereo scese fino a sfiorare la striscia di terra, con Powell che controllava disperatamente la natura del terreno. Non sembrò particolarmente soddisfatto, e infine disse: «Ci siamo. Faccio un altro giro e provo ad atterrare. Voglia Allah l’Onnipotente avere pietà di un povero infedele.» Nessuno gli rispose, e l’areo riprese quota, compiendo un altro giro. Le colline rosse corsero loro incontro nuovamente, poi Powell tolse il gas completamente e portò la cloche tutta in avanti. Chevalier sedeva completamente immobile, e Larren si sentiva le palme delle mani inondate di sudore. Barbara aveva inclinato la testa in avanti chiudendo gli occhi, ma dalla rigidità del suo corpo si capiva che non era completamente rassegnata. L’Argus toccò finalmente terra, compiendo due o tre sobbalzi. Le ruote gemettero, mentre i sassi schizzavano contro la fusoliera. I quattro passeggeri si sentirono spingere in avanti, e Powell si serrò le labbra tra i denti mentre armeggiava disperatamente con i comandi. Ci fu un altro sobbalzo quando la ruota posteriore toccò terra, poi l’aereo prese ad ondeggiare sollevandosi su una ruota sola e per un attimo Larren pensò che lo schianto sarebbe stato inevitabile. Si volse allora verso Barbara, le prese il capo e se lo appoggiò contro il torace, in un tentativo istintivo di proteggerla. Ma in qualche modo Powell riuscì a tenere l’areo in piedi ed a farlo fermare, progressivamente e senza altri scossoni. La mano del pilota era ferma quando girò la chiavetta del contatto, ma tremava violentemente quando la ritirò. Powell si appoggiò allo schienale e chiuse gli occhi. Il rombo del motore decrebbe lentamente fino a spegnersi, e il silenzio del deserto li circondò da ogni lato. Larren si sentiva la gola secca, e si ricordò di stringere ancora il capo di Barbara contro il petto solo quando lei accennò a muoversi. Allora spostò il suo corpo, evitando di soffocarla completamente; il primo suono che si udì fu un leggero colpo di tosse da parte della ragazza. Lo guardò esitante, ma si capiva che era ancora piena di ostilità nei suoi confronti. Volse il capo e riprese a tossire. Chevalier fu il primo a parlare. «Atterraggio eccellente», disse. «Ora non ci resta che aspettare che la gentile hostess ci porti dell’aranciata e del caffè.» Powell riaprì gli occhi.

«Mi dispiace, Jacques, ma non puoi mettere il mio Argus sul piano della BOAC.» Sorrise ed aprì lo sportello. «Scendiamo a sgranchirci le gambe. Mi sento come una sardina in scatola.» Scesero uno per uno dall’aereo, appoggiandosi all’ala e gettando lo sguardo verso le colline che si alzavano ad un paio di centinaia di metri da loro. Barbara fu l’ultima a scendere, dopo avere esitato a lungo. Larren stava già studiando la strada migliore per superare le colline, e dopo un momento si rivolse a Powell. «Secondo lei, a che distanza ci troviamo dal punto dove ha atterrato il Cherokee?» «Direi un dieci o dodici chilometri.» Larren prese ad osservare la palla incandescente del sole che calava ad occidente. «Sarà notte molto prima che riusciamo ad arrivare fin là», disse. «Direi di cominciare a muoverci. Se io e Jacques non torniamo prima dell’alba voi partite pure ed andate a riferire quello che è accaduto.» «Un momento», disse Powell. «Io e Jacques abbiamo fatto una specie di accordo. Se io lo aiuto, ho diritto alla mia parte di divertimento. A parte questo, ho avuto l’impressione che quel Cherokee sia atterrato su di un vero aeroporto. Una di quelle costruzioni mi è sembrata una torre di controllo. In questo caso dovreste avere ancora bisogno di me; gli aerei e gli aeroporti sono il mio mestiere.» Larren sorrise perché era esattamente quello che si aspettava da Powell. «Benissimo», disse. «Saremo lieti del suo aiuto. Ma prima farà meglio a sintonizzare la radio di bordo ed a mostrare alla signorina Mallory il funzionamento. Se non torniamo nessuno dei tre, potrà sempre chiedere aiuto.» Powell si rivolse alla ragazza. «Che ne dice? Se la sente di adoperare una radio se le spiego come si fa?» Barbara lo guardò e annuì lentamente. Powell le rivolse un sorriso d’incoraggiamento e la aiutò a risalire in cabina. La seguì, e prese a spiegarle le lunghezze d’onda e i segnali di chiamata, mentre Larren e Chevalier rimanevano giù ad aspettarlo. Il pilota li raggiunse dopo qualche minuto, infilandosi la giacca a vento che aveva tenuto accanto a sé per tutta la durata del volo. Larren si infilò una mano in tasca e gli porse la pistola. «La prenda», disse, «in caso la nottata dovesse movimentarsi. Io e Jacques siamo già armati, questa pistola era della Mallory.» Powell la guardò. «Allora direi di ridargliela. Servirà a farla stare più tranquilla, se deve passare tutta la notte da sola nel deserto. E in ogni caso…» strinse il pugno e sorrise, «me la cavo meglio con questo. Se ci sarà da sparare lascerò fare a voi esperti.» Larren esitò, tornando infine verso l’aereo dove Barbara sedeva silenziosamente in cabina. Le porse la pistola. «Non credo che avrà necessità di usarla», la rassicurò, «ma non si può mai sapere.» Lei lo guardò incerta, e il sole al tramonto le accese riflessi rossi sui capelli. Aveva gli occhi quasi spalancati, e in quel momento la rassomiglianza con Andrea era impressionante. Larren sentì rimescolarsi il sangue, e maledisse le circostanze che avevano creato quel muro di ostilità tra lui e la ragazza. Barbara prese infine

l’automatica e la posò sul sedile accanto a lei. Evitò di guardarlo e disse a Powell con voce pacata. «D’accordo. Aspetterò fino a domani mattina, e se non sarete ancora tornati lancerò quel messaggio come lei mi ha insegnato. Non si preoccupi per me.» Powell le sorrise, e Simon Larren si allontanò lentamente. I tre uomini si diressero verso le colline, e Barbara Mallory li seguì con lo sguardo. Poi abbassò gli occhi sulla automatica sul sedile accanto a lei. Ricordava in quel momento suo padre che insisteva perché la prendesse, e provò un enorme sollievo a trovarsi sola. Almeno, finalmente, avrebbe potuto piangere. *** I tre uomini impiegarono meno di venti minuti per giungere in cima alle colline. Il sole era già tramontato e in cielo brillavano le prime stelle. Chevalier ansimava leggermente, ma era l’unico a risentire le conseguenze dell’arrampicata. Sotto di loro si stendeva nuovamente il deserto. Al buio non si riusciva a distinguere in lontananza, ma Larren si era portato dietro la piccola ricevente, che continuava ad emettere i suoi segnali regolarmente. Si fermarono solo per decidere la direzione e poi cominciarono a scendere con Larren in testa, seguito da Powell e Chevalier nell’ordine. Ora si muovevano più svelti, e non impiegarono più di dieci minuti per raggiungere il deserto. Trovarono un’altra fascia di terreno solido, ma era breve e poco dopo calcarono la sabbia del deserto. Furono costretti a rallentare nuovamente il passo. Camminarono per altre due ore. La notte si era rinfrescata e le stelle erano ora più chiare; il deserto sembrava una distesa argentea e le sue dune davano l’impressione delle onde di uno strano mare pietrificato. I segnali della ricevente li guidavano con una certa precisione, pure Powell si aiutava di tanto in tanto con le stelle, ricordandosi che al ritorno nessun segnale li avrebbe guidati verso l’aereo. Il silenzio era interrotto di tanto in tanto da qualche imprecazione, quando qualcuno di loro inciampava in qualche sasso, ed infine Larren diminuì il volume della ricevente, che mandava dei segnali di intensità sempre maggiore. Erano tre uomini particolarmente efficienti, e sebbene il marciare sulla sabbia si facesse sentire sui muscoli delle gambe, non erano particolarmente provati. Una volta Chevalier, che era più basso e meno robusto degli altri due, mostrò segni di stanchezza. La distanza era inferiore a quella che Powell aveva previsto, e dopo circa otto chilometri di deserto si arrampicarono su una duna più alta delle altre e intravidero in lontananza le sagome delle case. Si fermarono un momento a riposare, e poi ripresero la marcia prudentemente. Le case si avvicinarono, ed infine al chiarore lunare si accorsero che Powell aveva visto bene. Si trovavano nei pressi di un aeroporto. Il pilota indicò la torre di controllo che sovrastava le altre costruzioni, e sulla sinistra le due sagome di due grossi hangar. Larren sussurrò: «Ma a che serve un aeroporto in pieno deserto?» Powell si fermò un attimo, sollevandosi con un dito il berretto sul capo.

«Forse era abbandonato. Voglio dire, prima che gli attuali occupanti ne prendessero possesso. Se guardate sulla destra, vedrete lo scheletro di un pilone. Probabilmente serviva di sostegno per un’antenna radar. Forse era in funzione durante la campagna del Nord Africa… o l’adoperavano i Francesi prima di concedere l’indipendenza all’Algeria.» Tacquero per un momento, poi ripresero a camminare lentamente. Di comune accordo, si diressero verso sinistra per porre un’altra duna tra loro e l'aeroporto, poi lentamente presero a salire. Giunti in cima, cominciarono a strisciare sullo stomaco, ed ebbero immediatamente una vista completa della pista e delle palazzine. Powell si spinse nuovamente dietro il berretto, grattandosi il capo sovrappensiero. «E ora che facciamo?» chiese. «Quella pista è stata allungata di recente, si vede il punto dove comincia il cemento fresco. Ma perché? Non dovrebbero avere bisogno di una pista così lunga per atterrare e decollare con un piccolo Cherokee.» «Avviciniamoci», consigliò Chevalier. «Forse riusciremo a scoprirlo.» Uno per uno cominciarono a discendere la duna. Le stelle brillavano in cielo, e i tre uomini per non esporsi troppo si tennero chinati mentre si avvicinavano alla pista, accoccolandosi a volte al riparo delle dune e strisciando sui gomiti e sulle ginocchia quando non c’era alcun riparo. Arrivarono ad un centinaio di metri dalla palazzina più vicina, poi Larren fece segno di fermarsi. Spense la piccola ricevente ormai inutile e se la infilò in tasca. Quando estrasse nuovamente la mano, la luce della luna illuminò la Smith and Wesson. Disse sottovoce: «Andiamo prima a dare un’occhiata a quei due hangar. Sono curioso di vedere cosa c’è dentro. Tu Jacques resta qui, e coprici in caso succedesse qualcosa.» Chevalier annuì. Ansava ancora per la lunga marcia sulla sabbia, e faceva quel lavoro da abbastanza tempo per capire l’importanza dell’uomo di riserva. Sorrise e disse: «Prudenza, amici miei. Qui non siamo a Tangeri, non posso contare sulle mie amicizie e da solo anche Jacques Chevalier ha i suoi limiti.» «Cercheremo di non destare il can che dorme», promise Larren. Guardò Powell, che gli fece un cenno d’intesa, ed insieme presero a correre verso il più vicino dei due hangar. Chevalier li seguì con lo sguardo, poi estrasse da una tasca la sua automatica e con la massima calma prese a controllarne il funzionamento. Larren e Powell dovettero percorrere gli ultimi cinquanta metri che li separavano dall’hangar strisciando sullo stomaco come serpenti, ma si accorsero presto con un certo stupore che il posto non era guardato da sentinelle. Giunti nella zona d’ombra dell’hangar si rialzarono in piedi, e cominciarono con la massima cautela ad avvicinarsi alla porta. Dall’interno non proveniva alcun rumore, e la loro sorpresa si accrebbe nel constatare come la porticina laterale non fosse chiusa a chiave. Larren scivolò nell’hangar, seguito a spalla da Powell, e vennero ambedue avvolti subito dall’oscurità. Si chiusero la porta dietro le spalle e rimasero in silenzio ad ascoltare, poi Larren estrasse di tasca una minuscola torcia elettrica. Il sottile ma potente raggio della torcia cominciò a scandagliare l’hangar, svelando poco dopo la snella sagoma del Piper Cherokee. L’aereo si trovava esattamente al centro dell’hangar, col muso rivolto verso la porta, pronto ad essere utilizzato. Larren

continuò l’esplorazione, ma non trovò altro che utensili da meccanico ed alcuni fusti di carburante. «Andiamo a dare un’occhiata all’altro capannone», mormorò Powell. Larren annuì e spense la torcia. Uscirono dall’hangar chiudendosi silenziosamente la porta dietro le spalle, poi, correndo curvi, raggiunsero l’altro capannone distante una cinquantina di metri. Si fermarono nuovamente accanto ad una delle pareti, confondendosi nell’ombra, ma non c’era nessuno in vista, e un momento dopo Larren spostò la sua attenzione sulla porta. Ma stavolta era chiusa da un lucchetto. L’investigatore cedette la Smith and Wesson a Powell. Poi estrasse dalla fodera della giacca il suo piatto coltello da lancio, e con la punta prese a lavorare sulle viti del lucchetto. Erano arrugginite e dure da rimuovere, e Larren dovette procedere lentamente per non lasciare sulla superficie dei graffi che avrebbero potuto rivelare la loro presenza. Per fortuna il legno della porta era piuttosto malandato, e appena le viti cominciarono a muoversi non fu difficile farle uscire completamente. L’operazione richiese diversi minuti, ma infine la sbarra venne via e Larren poté aprire la porta. Entrarono, e nuovamente Larren si fece luce con il raggio della minuscola torcia. Videro immediatamente un altro aereo, ma di ben diverse dimensioni. Il muso arrotondato era almeno due volte quello del Cherokee, e ai due lati della fusoliera erano fissate due potenti turbine a reazione. Le ali erano leggermente spostate all’indietro, dando all’aereo l’apparenza di un animale pronto a scattare. Larren udì Powell trasalire per la sorpresa, e per un momento rimasero tutti e due silenziosi. Il raggio della torcia continuò a spostarsi sull’aereo, mettendo in luce sulla superficie della loro scoperta assolutamente inattesa le insegne della marina inglese. Ma la sorpresa più grande la provarono appena la torcia si fermò su uno dei due missili fissati sotto le ali. Powell mormorò: «È un caccia della Marina. Uno Scimitar Vickers-Supermarine. E quegli affari sotto le ali sono missili Bullpup aria-terra, con testata nucleare. Ma, in nome del cielo, che ci fa qui?» Larren non sapeva dare una risposta, ma anche se avesse potuto darla non ne avrebbe avuto il tempo. D’improvviso tutte le luci dell’hangar vennero accese contemporaneamente, e alle loro spalle una voce sardonica disse: «L’aereo pensa solo ai casi suoi, vecchio mio. Ma quello che è più importante è che cosa, in nome del cielo, fate voi qui?» CAPITOLO XIV L’UOMO DI ZURIGO LARREN si voltò di scatto facendo perno sul tallone sinistro, tenendo il coltello da

lancio in posizione tra le dita. Era stata una mossa istintiva, compiuta con notevole rapidità. Ma con la stessa rapidità aprì poi le dita lasciando cadere il coltello sul pavimento. Anche Powell aveva in un primo tempo sollevato la Smith and Wesson, ma ebbe anch’egli il buon senso di lasciarla cadere. Ambedue alzarono lentamente le mani.

L’uomo che aveva parlato era giovane ed aveva dei lineamenti delicati. Era alto attorno al metro e settantacinque, con una corporatura quasi femminile. Aveva denti bianchissimi e regolari, ed il naso era qua e là spellato dal sole. Sorrideva, ma l’espressione dei suoi occhi non era decisamente cordiale. Indossava l’uniforme blu dei piloti della Marina, sul petto gli brillavano le ali del distintivo da pilota e dal cerchio di tessuto dorato che portava su ambedue le braccia si capiva che era un sottotenente. La grossa Luger che stringeva in pugno non era comunque in dotazione alla Marina, né erano marinai i tre uomini alle sue spalle armati di pistola mitragliatrice. Larren disse lentamente: «E voi chi sareste?» Il sorriso dell’uomo in uniforme si allargò. «Mi chiamo Goodhart, sottotenente Peter Goodhart, e quello che state ammirando è il mio aereo personale. Ora tocca a voi rispondere alle mie domande. Chi siete?» Larren non rispose, e prese a considerare in silenzio l’uomo di fronte a lui. L’espressione di Goodhart e l’orgoglio con il quale aveva pronunciato il suo nome e grado lo classificavano immediatamente come un narcisista, senza però quella natura allegra e gioviale che caratterizzava un timo come Jacques Chevalier. Goodhart doveva avere un’altissima considerazione di sé stesso, ed una piuttosto bassa, se non del disprezzo vero e proprio, del mondo che lo circondava. Neanche Powell rispose. Aveva voltato il capo per ammirare nuovamente lo Scimitar, cogliendone tutte le caratteristiche tecniche. Disse lentamente: «Serbatoi esterni, notevole autonomia. Dovrebbe raggiungere i millecinquecento chilometri l’ora, vero Goodhart? Due Bullpup, radiocomandati se ho visto bene, con una gittata di oltre tre chilometri al momento del distacco dall’aereo. Abbastanza efficace, l’insieme. Che intendi fartene?» Goodhart rispose amichevolmente: «Hai l’aria di essere un pilota, considerato anche quel giaccone che indossi. Devo concludere che siete venuti con un aereo. Dov’è? E che siete venuti a fare da queste parti?» Larren e Powell non risposero. I tre uomini dietro Goodhart si mossero, avvicinandosi con le pistole mitragliatrici puntate. Due di loro erano arabi ed indossavano le caratteristiche djellabahs e i sandali da deserto, il terzo era europeo, piuttosto robusto, con indosso una giacca a vento e un paio di pantaloni scuri. Il suo viso tradiva la sua origine mediterranea. Disse con voce roca: «Sistemi per farli parlare ce ne sono tanti». Goodhart lo guardò bonario. «Questo è Borrelli», disse. «Qui è il capo zona; conoscendolo bene, è un ottimo figliolo.» Dal tono di Goodhart si capiva come Borrelli fosse tutt'altro che un ottimo figliolo, ma l’uomo non reagì, limitandosi a serrare le labbra. Larren capì che per qualche motivo Goodhart doveva godere di una certa autorità, non sembrandogli Borrelli il tipo da prendersi gli insulti senza reagire. «Voi due, alzate le mani sul capo e tenetele ferme», ordinò Borrelli. «Aziz, raccogli quel coltello e quella pistola.»

Larren e Powell obbedirono, ed uno dei due arabi avanzò prudentemente per raccogliere le loro armi. Seguì il silenzio. Goodhart non fece altre domande, e sia lui che Borrelli sembravano attendere qualcosa. Poi improvvisamente giunse alle loro orecchie il rumore di una sparatoria a qualche distanza. I colpi cessarono come per incanto, e gli occhi di Goodhart brillarono di soddisfazione. «Credo che tra un po’ verrete raggiunti dal vostro amico», disse. «Forse speravate che potesse aiutarvi, ma purtroppo vi abbiamo visti prima che vi separaste. Per catturarvi abbiamo aspettato che il vostro amico venisse circondato. Non volevamo che prendesse il volo nel caso vi foste messi a sparare.» «E bravo il tesoruccio di mamma», fece Powell. Goodhart lo fissò, e i suoi occhi si incupirono. Irrigidì le mascelle, e per un attimo Larren pensò che con quella frase poco opportuna Powell si fosse guadagnato un colpo di Luger in fronte. Poi Borrelli ordinò: «Basta così. Aziz, vai avanti. Lorsignori sono pregati di seguirlo, e non cercate di fare i furbi. Avete tutti e due una schiena abbastanza larga, e costituireste un ottimo bersaglio.» Aziz ubbidì prontamente. L’altro arabo e Borrelli si spostarono da una parte, e dopo un attimo di esitazione Goodhart si unì a loro. Larren e Powell non ebbero altra scelta che seguire Aziz fuori dell’hangar. Oltrepassando la porta Larren mormorò: «Vacci piano, Gerry. Il tesoruccio di mamma non scherza.» Powell fece segno di aver capito inclinando il capo e non rispose. Superata la porta Aziz si fermò tenendoli a bada con la pistola mitragliatrice, e furono costretti anche loro a fermarsi in attesa che uscissero all’aperto gli altri tre. Borrelli spense le luci dell’hangar e richiuse la porta, poi i prigionieri furono fatti marciare sulla sabbia verso la palazzina dell'aeroporto. Dal deserto arrivò un altro gruppo di uomini armati, e tra di loro si notava l’inconfondibile sagoma di Chevalier. Il piccolo francese doveva avere perso nella lotta la sua paglietta, e teneva un braccio accostato al petto stringendo le labbra. Aveva ai due lati due arabi armati, e giunto a distanza ravvicinata Larren notò che dietro di lui venivano i due uomini che avevano seguito in macchina e in aereo fin da Tangeri: gli assassini di Henry Mallory. «Mi spiace, amici miei». Chevalier aveva un’espressione triste. «Sembrerebbe che vi abbia lasciato nei guai.» Borrelli fece una risatina. «Puoi dirlo, amico.» Poi, rivolto ai due arabi: «Bel lavoro, Ricard. Tu ed Hassim lavorate bene insieme.» I due assassini sorrisero soddisfatti. I due gruppi si unirono, dirigendosi insieme verso una palazzina illuminata che sorgeva accanto alla torre di controllo. Larren e i suoi due amici vennero fatti entrare, e dalla pedana che si vedeva in fondo alla sala capì che quel locale doveva una volta essere adibito a conferenze o lezioni teoriche. Ora sembrava una specie di centro operativo, pieno di sedie, tavolini, libri, riviste e portacenere. I prigionieri furono fatti fermare in centro alla sala e fatti voltare lentamente, Larren e Powell ancora con le

braccia sollevate al di sopra del capo. Borrelli si appoggiava al bordo del tavolo ed aveva abbassato la pistola. Hassim e Ricard se ne stavano da una parte uno accanto all’altro, come due gemelli ben educati, tenendo ambedue la destra infilata nella tasca dei pantaloni. Goodhart giocherellava con la sua Luger, e gli arabi si erano allontanati restando in attesa. «Aziz», ordinò Borrelli, «vai ad informare il signor Khalil che abbiamo la situazione sotto controllo, e che abbiamo catturato tre stranieri che curiosavano accanto agli hangar. Immagino che vorrà assistere al loro interrogatorio.» Aziz annuì ed uscì silenziosamente dalla stanza. Dopodiché nessuno più parlò, e Goodhart andò a sistemarsi comodamente in una poltrona. Powell guardò le macchie di sangue che si allargavano sul braccio ferito di Chevalier, e infine chiese: «Mentre aspettiamo, non si può fare qualcosa per quel braccio?» «Certo che si può», rispose Borrelli. «A suo tempo glielo strapperemo.» Powell si irrigidì per la rabbia e Larren gli lanciò un’occhiata ammonitrice. Un eventuale atto inconsulto da parte del pilota non sarebbe stato loro di alcuna utilità. Powell sembrava effettivamente sul punto di mettersi a menare le mani, e per cercare di salvare la situazione Larren chiese a Goodhart: «Non deve essere stato facile impadronirsi di quello Scimitar. Come avete fatto?» Sorrise e aggiunse: «Do naturalmente per scontato che l’ideatore e il realizzatore dell’impresa sia stato lei.» «Esatto, vecchio mio, sono stato proprio io. L’ho semplicemente rubato.» Goodhart, tornato personaggio di primo piano, sorrideva nuovamente. «Sono giunto alla conclusione che lo Scimitar avrebbe servito una causa più giusta con L’APP che con la Marina.» «Va bene, ma come ha fatto ad impadronirsene?» Si udì la voce di Borrelli. «Basta con le domande. Sa già anche troppo.» «Smettila, Borelli!» esclamò Goodhart, seccato di essere interrotto proprio all’inizio del suo show. «Una volta che hanno visto l’aereo il danno è fatto. Quindi, non ha alcuna importanza se gli dico come sono andate le cose.» Riportò lo sguardo su Larren chiedendogli: «Si ricorda quello Scimitar che si disintegrò in aria circa sei mesi fa durante un volo di addestramento? Fu un fatto abbastanza misterioso, perché nessuno è riuscito a spiegarsi le cause dell’incidente, ed essendo lo stesso avvenuto sopra l’Atlantico non è stato possibile esaminare i rottami.» Larren ricordava solo vagamente, ma Powell era tutt’orecchi, e fu lui a rispondere alla domanda di Goodhart. «Ne ho sentito parlare», disse. «Era decollato da una portaerei in manovra in Atlantico, a Nord delle Canarie. L’avevano seguito sul radar fino ad un certo punto. Poi era per un attimo scomparso dallo schermo, era riapparso subito dopo per saltare poi improvvisamente in aria.» Goodhart annuì. «Questo è tutto quello che si è riusciti a vedere sullo schermo radar della portaerei, ma non è esattamente quello che è accaduto. Quello Scimitar è lo stesso che avete visto poc’anzi nell’hangar, ed io ero il pilota. Quello che hanno visto esplodere sullo

schermo non era altro che un vecchio Avrò Anson che avevamo comprato per quattro soldi.» Sorrise e continuò a spiegare. «Avevamo progettato tutto nei minimi particolari, tanto che abbiamo dovuto attendere dei mesi prima che la portaerei uscisse in operazioni in un’area dove il nostro piano poteva essere attuato. Non è semplice riuscire a far incontrare in volo due aerei dalla velocità e dalle caratteristiche così differenti. Comunque, per nostra fortuna, ricevetti i piani operativi per quel volo con molte ore di anticipo, ed ho avuto il tempo di fornire a terra per radio i dati per l’operazione. Dopodiché mi sbarazzai della trasmittente che mi avevano dato, nel caso che dalla portaerei avessero intercettato il mio messaggio. Il vecchio Anson era fermo da una settimana all'aeroporto di Safi, sulla costa atlantica del Marocco, apparentemente per delle noie al motore, ed era infine decollato molte ore prima di me per potere giungere in tempo all’appuntamento nel cielo. «Al termine della prima parte del mio volo, quando avrei dovuto virare per fare ritorno sulla portaerei, vidi l’Anson proprio al di sotto di me, che volava secondo i piani a pelo dell’acqua per sottrarsi all’osservazione radar. Al momento prestabilito, contemporaneamente, io scesi in picchiata col mio Scimitar, portandomi a mia volta a pelo dell’acqua, mentre l’Anson prendeva quota. Dalla portaerei gli schermi radar mi persero per un momento di vista, e il puntolino che riapparve subito dopo non era lo Scimitar, come credevano, ma l’Anson. Saltò in aria immediatamente, mentre io mi allontanavo, sempre tenendomi fuori osservazione, verso la costa. Risalii finalmente ad alta quota, e venni ad atterrare qui.» Larren e Powell avevano ascoltato in silenzio. Alla fine Powell chiese: «Che fine ha fatto il pilota dell’Anson?» Goodhart si strinse nelle spalle. «È stata una cosa triste. Pensava di avere a disposizione tre minuti tra l’accensione del congegno esplosivo e l’esplosione stessa, sufficienti per lanciarsi con il paracadute. Gli avevamo anche detto che sarebbe stato raccolto da un idrovolante che avrebbe incrociato nella zona, fuori della portata dei radar, proprio a questo scopo, ma ovviamente non c’era alcun idrovolante e l’esplosione è stata istantanea.» Negli occhi di Powell, fissati su quelli dell’uomo in uniforme, si leggeva il disgusto. Il suo naturale atteggiamento scanzonato era scomparso completamente, e sembrava nuovamente sul punto di esplodere. Larren se ne accorse in tempo, ed intervenne prontamente. «Ma dopo il decollo dall’aeroporto di Safi, l’Anson doveva essere atteso da qualche parte. Come avete fatto a giustificare la sua scomparsa?» «Ve l’ho detto, era tutto previsto nei minimi particolari.» Goodhart incrociò tranquillamente le gambe, posandosi in grembo la Luger. «In quell'aeroporto c’era un secondo Anson. Non era adatto all’operazione rendez-vous, ma poteva benissimo arrivare fino a Tangeri, dove era atteso il primo Anson. Aveva sigla e segni di identificazione identici a quello che abbiamo fatto saltare in aria, e per quello che ne so io adesso dovrebbe ancora volare al suo posto. Come vede, non c’era alcuna sparizione da spiegare. Gli uomini che hanno organizzato tutta l’operazione hanno delle disponibilità economiche, e quindi tecniche, pressoché illimitate, ed hanno

pensato a tutto. Del piano generale neanche io conosco tutti i dettagli, ma finora ha funzionato tutto alla perfezione e la Marina non sospetta nemmeno che io sia vivo, o che lo Scimitar sia ancora intatto. Ci credono tutti e due polverizzati in fondo all’Atlantico.» «Credo di capire», disse Larren. «Ma perché tutto questo? Che bisogno aveva L’APP dello Scimitar? E perché lei ha acconsentito di prestarsi al loro gioco, con i rischi connessi a quel tipo di operazione?» Goodhart sorrise. «Questo, vecchio mio, non deve interessarle.» Larren esitò, chiedendosi se poteva continuare a stuzzicare la vanità del pilota. Poi si accorse dell’espressione ostile negli occhi di Borrelli, e preferì rinunciare. Borrelli aveva fino a quel momento lasciato parlare Goodhart perché effettivamente al punto in cui stavano le cose la storia dell’aereo non aveva più alcuna importanza, ma sarebbe senz’altro intervenuto se il pilota, cominciando dall’inizio, avesse cominciato a soffermarsi sui progetti immediati dell’associazione. Larren abbandonò il filo dei suoi ragionamenti all’aprirsi della porta. Riapparve Aziz, seguito da un alto arabo dal naso adunco, che indossava un immacolato abito bianco. Aveva delle braccia piuttosto lunghe, e i polsini della sua impeccabile camicia di seta erano uniti da due gemelli d’oro massiccio, mentre al collo portava una piccola cravatta a farfalla. I suoi capelli erano neri e ricciuti, e gli occhi scuri e penetranti. Le labbra erano una sottile fessura sotto il naso adunco. Su incarico di Raab e degli altri capi dell’associazione, Khalil era giunto in volo da Zurigo due giorni prima per assumere il controllo delle ultime fasi dell’operazione. Seguì un momento di rispettoso silenzio, e Larren si rese conto di trovarsi infine faccia a faccia con uno dei responsabili di quella misteriosa organizzazione che fino a quel momento conosceva unicamente dalle iniziali. Guardò il viso crudele e capì di avere a che fare con un uomo ricco e potente. La potenza dell’arabo la si leggeva negli occhi ossequiosi dei presenti, e solo un uomo che poteva permettersi di gettare un vestito al giorno poteva indossare un abito come quello. Borrelli, che fino a quel momento era rimasto appoggiato al tavolino, si raddrizzò, e Goodhart si alzò immediatamente dalla poltrona nella quale stava sprofondato. Khalil li ignorò completamente, concentrando la sua attenzione ad uno ad uno sui tre prigionieri; fissò infine lo sguardo su Borrelli. La sua voce era calma e non tradiva alcun particolare stato d’animo, pure aveva un tono che lasciava capire come non si sarebbe abbassato a parlare con nessuno al di sotto del capo zona. «Hanno già parlato?» Borrelli scosse il capo. «Non ancora, signor Khalil. Ma fino a questo momento non abbiamo usato alcun metodo persuasivo.» Khalil guardò nuovamente i prigionieri, da Chevalier a Powell, e infine a Larren. Senza mutare assolutamente espressione disse semplicemente: «Uccidili.» Borrelli sbarrò gli occhi. Khalil sollevò un braccio puntandolo di seguito contro i tre uomini.

«Uccidili», ripeté inesorabile. «Qui e adesso.» Borrelli esitò per un attimo, poi annuì. Sollevò la pistola mitragliatrice, appoggiandosela ad un fianco. La stanza vibrò appena la prima raffica colpì Chevalier, e la seconda Powell che stava per abbozzare un movimento. I due uomini caddero sul pavimento, e il viso di Borrelli era rigato di sudore mentre puntava l’arma contro Simon Larren. CAPITOLO XV LO STERMINIO «ALT!»

Si udì l’ordine di Khalil quando il dito di Borrelli si stava già contraendo sul grilletto per sparare l’ultima raffica, e l’uomo abbassò lentamente l’arma, voltandosi esterrefatto a guardare l’arabo dall’immacolato vestito bianco. «Ma, signor Khalil… mi aveva detto…» «Lo so quello che ti ho detto. Ora cambio gli ordini.» Khalil chinò lo sguardo sui due cadaveri, poi fissò gli occhi sul viso pallidissimo di Larren. Disse: «Non c’è nulla di più adatto per fiaccare la resistenza psichica di un uomo dell’uccidergli gli amici davanti agli occhi. Mettetelo di fronte alla morte che sta per fare, fermatelo proprio alle soglie dell’eternità, e lo choc lo indebolirà ancora di più. Come hai già capito, Borrelli, voglio sapere come e perché questi uomini si trovano qui. Ma a noi basta che parli uno solo, ed ho proprio l’idea che ora il nostro sopravvissuto vorrà cooperare.» Larren rimase in silenzio. Guardò i due uomini ai suoi piedi, col cuore gonfio di amarezza. Chevalier, dopo una mezza piroetta, era caduto rotolando sulla schiena. Il suo corpo si era immobilizzato e la camicia era zuppa di sangue. I suoi occhi, ancora sbarrati, erano pieni di sorpresa e di orrore per quella morte brutale e inattesa. Powell era caduto ai piedi del francese, con la bocca deformata dall’agonia e le mani serrate attorno allo stomaco. Il berrettuccio da pilota era rotolato lontano, e nella morte l’inglese sembrava ancora più giovane ed innocente. Larren guardò nuovamente i loro visi, e passato lo stupore del primo momento, si sentì assalire da una sorda rabbia. Erano stati due uomini maledettamente in gamba. Non conosceva nessuno dei due da molto tempo, ma l’affinità dei loro caratteri li aveva fatti familiarizzare immediatamente come vecchi amici. E ora, nel giro di pochi secondi, erano due corpi inerti. Lo choc del primo momento era passato, essendosi Larren trovato spesso in simili situazioni tragiche, ma la cieca rabbia era rimasta. Per sua fortuna né Khalil né Borrelli in quel momento lo guardavano negli occhi. Se l’avessero fatto, l’avrebbero ucciso senza por tempo in mezzo. Larren riportò lentamente lo sguardo su Khalil, sforzandosi di cambiare espressione. In quel momento avevano il coltello dalla parte del manico, e conveniva pazientare.

«Comincia», ordinò Khalil a Borrelli. «Ora puoi interrogarlo.» Borrelli fece qualche passo in avanti, fermandosi a gambe spalancate davanti a Larren e puntandogli la pistola mitragliatrice allo stomaco. «Allora, tanto per cominciare dicci come ti chiami e come hai fatto ad arrivare fin qui.» Larren sudava innaturalmente. «Credo di non ricordare», disse Larren. «Devo aver avuto uno choc. A volte gli choc provocano l’amnesia.» Borrelli lo guardò, e dietro le sue massicce spalle Larren vide Khalil sollevare le sopracciglia. Poi Borrelli ordinò: «Perquisitelo… e perquisite anche quei due. Servirà a non farci perdere altro tempo.» Fece un passo indietro, e subito Aziz e un altro arabo si avvicinarono a Larren cominciando a frugargli le tasche. Altri due si inginocchiarono accanto ai due cadaveri sul pavimento. Posarono sul tavolo il contenuto delle tasche, e Borrelli prese ad esaminarlo. «Una patente di guida», disse, «intestata a Jacques Chevalier, con un indirizzo di Tangeri. È quello più piccolo con i baffi. Poi un brevetto di pilota, rilasciato a Gerard Michael Powell, ed alcuni depliants pubblicitari della Powell, Voli turistici. Altro indirizzo di Tangeri.» «L’avevo detto che quel tipo con la giacca a vento doveva essere un pilota», commentò Goodhart. «Si sentiva da come parlava.» Borrelli spostò lo sguardo su Larren. «Sembra che tu non abbia documenti di riconoscimento. È significativo già di per se stesso. Questo che cos’è?» Socchiuse gli occhi sollevando la piccola ricevente che Aziz aveva trovato in tasca a Larren. Assunse un’espressione stupefatta, dopodiché Khalil fece qualche passo avanti e gliela strappò di mano, rabbuiandosi immediatamente. Girò con le sue lunghe dita una manopola, e udì i segnali intermittenti. L’ago del quadrante era puntato inesorabilmente contro i due arabi. «Sicché… siete stati voi a portarli qui. La trasmittente deve essere addosso ad uno di voi due; ecco come hanno fatto a seguire il Cherokee fin da Tangeri.» I due uomini presero ad agitarsi nervosamente. «Deve esserci un errore», disse debolmente il più alto dei due. «Non è possibile.» Borrelli aveva già puntato contro di loro la pistola mitragliatrice. «Maledetti idioti!» urlò. «Via le mani dalle tasche, svelti. E non provate a fare scherzi. Aziz, perquisiscili.» «Ma è pazzesco», disse il più alto dei due. «Non…» «Chiudi il becco, Ricard. Fai come ti ho detto.» I due arabi, lentamente, estrassero le mani dalle tasche, e rimasero perfettamente immobili, irrigiditi dalla paura, mentre Aziz si muoveva svelto dietro di loro e vuotava le loro tasche. Trovò l’accendino d’oro di Chevalier sul secondo uomo. Khalil lo prese tra le dita e lo aprì, facendo cadere sul tavolo la trasmittente in miniatura. Alzò gli occhi verso Borrelli.

«Bene, Hassim.» La voce di Borrelli non faceva presagire nulla di buono. «Dove l’hai preso?» Hassim fece un passo indietro, e la sua voce mentre rispondeva era velata di terrore. «L’ho trovato sul cadavere di Henry Mallory, l’uomo che ci avevi ordinato di uccidere. Ci avevi detto di non lasciargli indosso nulla che servisse a farlo identificare, e ci siamo presi anche l’accendino. Come facevo a sapere che dentro c’era una trasmittente?» «Ti avevo detto di distruggere ogni possibile mezzo di identificazione sul cadavere, non di prendertelo come un ladro di polli. Era un amo, e tu hai abboccato. Ci hai messo tutti nei guai per volere fare il furbo. Dovrei…» Borrelli non riuscì a terminare la frase, perché alle sue spalle risuonò un colpo di pistola. L’arabo che stava minacciando vacillò, cadendo subito dopo cadavere sul pavimento, con un buco rosso al posto dell’occhio sinistro. Il capo zona si volse e vide che Khalil aveva sparato con la stessa pistola di Hassim, posata sul tavolo insieme al contenuto delle tasche dei due. Khalil disse calmo: «Questa è la ricompensa degli sciocchi. Uno sciocco nell’organizzazione è più pericoloso di una dozzina di nemici in gamba.» La sua voce tradiva leggermente l’ira che gli aveva fatto uccidere quell’uomo con le sue stesse mani, e parlando fissava l’altro negli occhi. Ricard inghiottì a vuoto, e rispose: «Non lo sapevo, signor Khalil. Hassim non mi aveva detto di essersi tenuto l’accendino. Mallory aveva un passaporto falso, ed insieme al portafoglio l’abbiamo consegnato all’autista di Tangeri dicendogli di sbarazzarsene. Pensavo che Hassim gli avesse consegnato anche l’accendino.» Seguì un attimo di silenzio, durante il quale la vita di Ricard rimase appesa ad un filo, poi Khalil si voltò lasciando cadere la pistola sul tavolo. Era tornato calmo come se nulla fosse accaduto, ma cessò di servirsi di Borrelli come portavoce e si rivolse a Larren direttamente. «A questo punto credo di capire. Lei è evidentemente inglese, un poliziotto o un agente speciale. Quando i suoi colleghi hanno sgominato la nostra sezione inglese devono avere scoperto che Mallory sarebbe fuggito in Marocco. Lei è arrivato a Tangeri, e il fatto che Mallory ci sia sfuggito subito dopo il suo arrivo deve avere fatto sì che lei lo scoprisse prima di noi. Gli ha sistemato addosso la piccola trasmittente nella speranza di seguirlo, o addirittura ha capito che nel caso venisse ucciso i suoi assassini non avrebbero saputo resistere alla tentazione di prendersi l’accendino. Ed ha seguito Ricard ed Hassim qui in Algeria.» Fece una pausa. «È sufficientemente esatta la mia ricostruzione?» Larren incontrò per un attimo il suo sguardo, e rispose: «È abbastanza convincente». «Se non altro non lo nega.» Khalil sorrise e continuò. «Credo di avere salvato la vita all’uomo sbagliato. La morte dei suoi amici non l’ha resa cooperante come speravo. Ma d’altra parte ho l’impressione che lei sappia più di quanto gli altri due sarebbero stati in grado di dirmi.» Larren si strinse nelle spalle.

«Non c’è altro da dire. Ha indovinato tutto.» «Non tutto», rispose Khalil calmo. «Ad esempio, non so ancora se lei è riuscito o meno a tenere informati i suoi capi sulle sue scoperte e sui suoi spostamenti. Non sono nemmeno sicuro se eravate solo in tre, e non abbiamo ancora trovato l’aereo con il quale siete arrivati. Come vede, potrebbe ancora essermi d’aiuto.» «Ma mi è venuta l’amnesia», gli ricordò Larren. «Non avreste dovuto provocarmi uno choc così violento.» Khalil emise un lungo sospiro, ma prima che rispondesse intervenne Goodhart. «Il loro aereo deve essere da qualche parte in direzione nord-est, quasi sicuramente si trova dietro quelle collinette rosse ad una decina di chilometri da qui, verso l’interno.» Khalil lo fissava corrucciato, e il pilota spiegò: «Sono arrivati a piedi all'aeroporto venendo da quella direzione, e in ogni caso non avrebbero potuto atterrare in un qualsiasi posto del deserto, tra le dune. Per atterrare avevano bisogno di terreno solido, e quello è l’unico posto dal quale si possa arrivare a piedi fin qui.» «Ma naturalmente», disse Khalil sorridendo. «Avrei dovuto capirlo. Può trovarsi solamente dietro quelle colline.» Borrelli disse in fretta: «Prendo la Land Rover, signor Khalil, e un paio di uomini. Andiamo a dare un’occhiata in quella zona.» «No», rispose l’arabo seccamente. «Sei il capo zona, e qui potrei avere bisogno di te. Voglio offrire a Ricard una possibilità di riabilitarsi trovando quell’aereo. Se c’è qualcuno, portamelo qui; ma in ogni caso l’aereo deve essere distrutto. Mi sono spiegato?» «Sì, signor Khalil.» Ricard sembrava decisamente sollevato, e fece qualche passo avanti riprendendosi l’automatica che si trovava ancora sul tavolo dove Aziz l’aveva posata. Passò accanto al cadavere di Hassim, ma non ebbe il coraggio di guardarlo. Borrelli incaricò due arabi di accompagnarlo, e Simon Larren seguì i loro preparativi con il cuore in gola. Aveva sperato che Barbara Mallory, non vedendoli tornare l’indomani mattina, avrebbe chiesto aiuto per radio, ma ora le sue speranze stavano per svanire definitivamente. Non poteva in nessun modo impedire che Ricard e i due arabi uscissero alla ricerca dell’aereo, e si augurò solo che il suo viso non tradisse il suo stato d’animo quando l’attenzione di Khalil si rivolse nuovamente su di lui. L’arabo rimase per un po’ pensieroso, e infine disse: «Credo che faremmo bene a mettere questo signore al sicuro per il momento, finché non sapremo su di lui qualcosa di più. Inoltre, finché Ricard non sarà tornato, voglio una sentinella davanti ad ogni hangar; ci penserai tu, Borrelli. Più tardi lo interrogherai di nuovo, e cercherai di scoprire quello che non ci ha ancora detto, in particolare se ha avvisato i suoi colleghi. Chiudetelo in cella e fategli buona guardia.» Borrelli annuì. 192 «Sì, signor Khalil.» *** Larren fu portato in un’altra palazzina, che si rivelò essere l’edificio delle prigioni del vecchio aeroporto, usato per l’ultima volta durante la seconda guerra mondiale.

Di tutto il complesso rimanevano in piedi solamente le palazzine e i due hangar, e la cella in cui venne rinchiuso sembrava solida e resistente come se fosse stata appena ultimata. Borrelli si chiuse dietro le spalle la pesante porta d’acciaio e infilò la chiave nella serratura della cella, mentre Larren scrutava l’interno attraverso la griglia. Borrelli sorrise ironicamente, e lanciò la chiave ad uno dei due arabi armati che erano con lui. «Questo dovrebbe servire a non farti venire idee», disse. «Per maggiore sicurezza, comunque, lascio questi due amici a farti compagnia.» Impartì in arabo alcune istruzioni ai due uomini e si allontanò tenendo la pistola mitragliatrice poggiata su una spalla. Larren rimase ancora qualche minuto dietro la griglia ad osservare i due arabi. Poi si voltò e prese ad ispezionare la cella, avvolta nell’oscurità. Era quadrata, con le pareti lunghe appena tre metri, e completamente vuota; mancavano anche il letto, e il catino. Da un’alta finestrella protetta da inferriate di giorno proveniva un po’ di luce, ma era troppo sollevata dal suolo perché ci si potesse affacciare. Fece il giro delle pareti, provandone di tanto in tanto la solidità con un calcio, e infine si buttò a sedere in terra, cercando di concentrarsi. Per un po’ la sorda rabbia che lo invadeva gli impedì di dare un filo logico ai suoi ragionamenti, e non riuscì a liberarsi dell’immagine dei cadaveri di Powell e di Chevalier raggomitolati sul pavimento, morti sol perché Khalil aveva creduto di scuoterlo e renderlo più docile in quella maniera. Poi pian piano riuscì a calmarsi. Non c’era modo di far resuscitare i suoi amici. Doveva concentrarsi sulla fuga e, soprattutto, sulla maniera di informare Smith della piega presa dagli avvenimenti. Appoggiò il capo contro la fredda parete alle sue spalle, osservando il soffitto scuro della cella, poi d’improvviso i suoi pensieri vennero interrotti e tutti i suoi sensi vennero messi all’erta da un debole suono che si udiva al di là della parete. Il suono si ripeté subito dopo, e stavolta Larren fu in grado di riconoscerlo come un lamento di un uomo, o di un essere subumano. Ne ebbe la certezza accostando l’orecchio alla parete. Nella cella accanto c’era qualcuno. Nella mezz’ora che seguì i lamenti aumentarono d’intensità, come se il prigioniero invisibile stesse sprofondando nel delirio. Prese ad emettere una rapida serie di suoni gutturali, e sebbene Larren non riuscisse ad afferrare le parole riconobbe la lingua, avendo per un certo periodo di tempo dovuto studiare il tedesco prima di essere paracadutato nell’Olanda occupata dai nazisti, nel lontano 1944. I movimenti dalla cella accanto si fecero sempre più irrequieti, e Larren rimase perfettamente immobile cercando di interpretare un numero di parole sufficienti a dare un senso compiuto agli incomprensibili vaneggiamenti che provenivano dalla cella accanto. Poi, improvvisamente, la voce si alzò di tono esprimendosi in perfetto inglese. «Non potete farlo. È un assassinio! È un assassinio in massa… assassinio… assassinio… ASSASSINIO!…» La voce, che era divenuta completamente isterica, continuò a ripetere la parola accusatrice. Poi si udì del movimento nel corridoio davanti alle celle, il rumore di una

pesante porta che veniva spalancata, delle urla aldilà della parte e infine, fortunatamente, il silenzio. Larren si sollevò in piedi e raggiunse con un balzo la griglia della porta. Vide nel corridoio illuminato le due guardie arabe con le armi spianate, e poi Borrelli che usciva dalla cella accanto. Teneva le labbra serrate, e aveva in mano una siringa ipodermica con un lungo ago. Fece segno ad uno dei due arabi di’ richiudere la porta, poi si accorse che Larren lo osservava. «Non ti disturberà più per tutto il resto della notte», disse. «Ma non ti preoccupare, non l’ho avvelenato. Era solo un sedativo.» Larren lo vide allontanarsi nuovamente, e si accorse di avere le nocche delle dita completamente bianche.

CAPITOLO XVI UN’AMICA OSTILE NELLA cabina del vecchio Fairchild Argus, Barbara Mallory tremava raggomitolata per il freddo del deserto. Erano passate tre ore da quando era rimasta sola, ed aveva ormai esaurito tutte le sue lacrime. Da principio aveva deciso che se i tre uomini non fossero tornati non gliene sarebbe importato nulla, ma ora che il freddo le penetrava nelle ossa sperava che l’attesa terminasse presto. Indossava una gonna e una camicetta leggera indicatissime per il caldo afoso della giornata, ma del tutto insufficienti per il freddo della notte. Da dietro i vetri della cabina intravedeva in lontananza le scure sagome delle colline che si stagliavano alla luce delle stelle, e da qualche tempo aveva preso a scrutarle con ansia nella speranza di vedere le ombre dei tre uomini che tornavano. Distogliendo lo sguardo, si trovava davanti i numerosi quadranti e interruttori del pannello del pilota. Non sentiva nessun debito di riconoscenza nei confronti dei tre uomini che l’avevano condotta fin lì, e se fosse stata in grado di pilotare l’aereo li avrebbe abbandonati nel deserto senza pensarci su. Aveva diverse volte provato a girare le manopole e gli interruttori, rinunciandovi però immediatamente. Si rendeva infatti conto che, anche se fosse riuscita ad avviare l’aereo si sarebbe subito dopo andata a schiantare contro le colline. E nonostante la profonda tristezza che provava, non nutriva ancora propositi suicidi. Il freddo si fece più intenso, e lo stare seduta e immobile lo rendeva ancora più insopportabile. Cambiò diverse volte posizione sul seggiolino, poi d’improvviso decise che non aveva alcun motivo per starsene seduta lì. Se fosse salita sulla cima delle colline per andare incontro ai tre uomini, il movimento avrebbe sicuramente attenuato il freddo, e avendo sempre l’aereo in vista non avrebbe corso il pericolo di perdersi. Aprì lo sportello della cabina e con un salto fu a terra. In piedi accanto all’ala dell’aereo esitò un attimo, guardandosi intorno. Poi estrasse da sotto il sedile

l’automatica che le aveva dato il padre, richiuse la porta della cabina e si avviò in direzione delle colline. Lì giunta, prese ad arrampicarsi lentamente, nonostante il chiarore delle stelle riducesse le possibilità di caduta illuminando tutti gli appigli e le fenditure. Aveva osservato durante il giorno le colline e sapeva che non nascondevano alcun pericolo; riusciva inoltre ad allontanare la paura ancestrale della notte e della solitudine stringendo saldamente in pugno la pistola. L’esercizio le portò un notevole giovamento, e quando raggiunse la cima non tremava più. Si fermò, mentre una leggera brezza le scompigliava i capelli. Sotto di lei si stendeva nuovamente il deserto, ma in lontananza non si vedeva ancora tornare nessuno. Si volse a guardare nuovamente l’Argus, simile ad un grosso uccello solitario in attesa, ed era indecisa se tornare indietro o proseguire. Non aveva nessuna intenzione di rinchiudersi nuovamente a battere i denti dal freddo dentro la cabina, ma allo stesso tempo non voleva perdere di vista l'aeroplano. Poi d’improvviso udì in lontananza il debole rumore di un motore che si avvicinava. Barbara volse le spalle all’Argus, prendendo a scrutare nell’oscurità al di là delle colline. Dopo qualche momento intravide l’incerta sagoma di una Land Rover che avanzava tra le dune. Pensò per un attimo che i suoi compagni avessero rubato la jeep, ma per maggiore sicurezza si inginocchiò per osservare meglio. La Land Rover le passò vicino, e anche se dentro c’erano in effetti tre uomini la ragazza si accorse immediatamente che erano sconosciuti. La jeep uscì dalla sua visuale, superando le colline. Il suono del motore non si spense mai completamente, e quando aumentava d’intensità veniva a trovarsi proprio alle sue spalle. Barbara prese a ridiscendere la collina, avvicinandosi all’Argus, poi si nascose dietro un grosso macigno e rimase in attesa. Vide riapparire la Land Rover ed avvicinarsi all’aereo; andò a fermarsi proprio dietro il timone e i tre uomini saltarono a terra. Li guidava un individuo alto vestito all’europea, e da come muoveva la mano destra si capiva che era armato. Spalancò il portello dell’Argus e guardò dentro, mentre i suoi compagni, avvolti in djellabahs lunghe fino ai piedi, simili a camicie da notte, si tenevano dietro a lui con in mano qualcosa che ricordava da vicino lo Sten. Parlottarono tra di loro per un po’, poi i due arabi si misero le armi in spalla e tornarono alla Land Rover. Scaricarono un grosso bidone e lo portarono fin dentro la cabina dell’Argus, poi uno dei due sali a bordo e tolse il tappo del bidone per farne uscire il contenuto. Il vento soffiava in senso contrario, ma anche se non poteva sentirne l’odore Barbara fu sicura che si trattava di petrolio. L’arabo scese infine dall’aereo, e l’uomo che li guidava accese un fiammifero e lo lanciò dentro la cabina. Vi fu un boato soffocato, e il muso dell’Argus fu immediatamente avvolto dalle fiamme. Non passò molto tempo che le lingue di fuoco si propagarono su tutta la superficie dell’aereo. L’Argus andò a fuoco rapidamente, illuminando i tre uomini che si allontanavano di corsa verso la Land Rover. Poi presero fuoco i serbatoi dell’aereo, e il piccolo Argus sembrò disintegrarsi letteralmente. Spentasi l’eco fragorosa dell’esplosione, dai resti bruciacchiati si alzò verso le stelle una lunga spirale di fumo.

Barbara, che al fragore dell’esplosivo aveva chiuso gli occhi serrandosi le orecchie con le palme della mani, prese a tremare violentemente. Rimase ancora per qualche tempo raggomitolata in terra, e quando infine osò sollevare il viso vide che l’incendio dell’aereo si era spento quasi completamente. Volse lo sguardo verso la Land Rover e istintivamente si gettò di nuovo in terra, vedendo che la jeep stava tornando verso le colline e i due arabi che sedevano dietro scrutavano con le armi puntate il deserto intorno. Rimase perfettamente immobile, non osando nemmeno respirare e pregando in cuor suo che i tre non decidessero di scendere dall’auto per cercare più minuziosamente. Li udì fare avanti e indietro per due volte, ma non risollevò il capo finché il rumore del motore non si spense in lontananza. Allora cominciò a sollevarsi in piedi con la massima cautela, e appena le fu possibile riprese a scrutare il deserto. Lo scheletro contorto emanava ancora una sottile striscia di fumo, e Barbara ringraziò in cuor suo il freddo della notte ed il destino che le avevano fatto abbandonare l’aereo prima che arrivassero gli incendiari. Non essendo rimasto nulla di riconoscibile non aveva alcun motivo per tornare all’aereo, quindi riprese a salire la collina. Poteva ancora percepire in lontananza il rumore del motore e quando giunse in cima vide la sagoma della Land Rover sparire dietro le dune. L’ultima eco del motore si spense, e Barbara rimase sola nella notte, intirizzita dal freddo reso anche più pungente dalla paura. L’arrivo dei tre uomini che avevano dato fuoco all’Argus si spiegava in una sola maniera, e cioè che Larren, Powell e Chevalier erano stati catturati, ed ora si trovavano prigionieri, se addirittura non erano già stati uccisi. Non poteva attendersi aiuto da nessuno, ora era completamente sola. Cercò di pensare, e giunse ad una sola conclusione. Non poteva rimanere sulla cima della collina, perché la mattina dopo quel posto sarebbe diventato un vero e proprio forno e lei sarebbe morta di sete. Doveva muoversi, seguendo sulla sabbia le tracce dei pneumatici della Land Rover. Una speranza debolissima, ma era sempre meglio che rimanere lì ad aspettare la morte, quindi cominciò a scendere lentamente la collina. Prese a camminare tra le dune, finché non trovò le tracce della jeep; allora le seguì camminando nella sabbia. *** Avanzava più lentamente dei tre uomini che l’avevano preceduta, ed impiegò quasi tre ore per giungere in vista del vecchio aeroporto. Al riparo di una duna, osservando le palazzine, le caddero le ultime tenuissime speranze che le erano rimaste. Si era aggrappata all’idea che al termine del suo cammino avrebbe trovato una cittadina o un villaggio dove poter chiedere aiuto, e la delusione che provò nel vedere dove si trovava fu fortissima. Rimase per lungo tempo inginocchiata sulla sabbia, in preda ai più cupi pensieri, poi lentamente cominciarono a tornarle le energie. Cercò di concentrarsi, e capì che a quel punto le rimaneva un’unica, esilissima speranza, e cioè che Simon Larren e i suoi due compagni non fossero morti ma semplicemente prigionieri. Se così fosse

stato forse avrebbe potuto riuscire a liberarli, mettendosi poi tutti e quattro in salvo. Aveva pochissime possibilità di successo, ma non vi era altra alternativa. Si accorse che stava per sorgere l’alba, e quindi le rimaneva poco tempo per agire. Stringendo in pugno la piccola automatica, alla quale affidava in quel momento tutte le sue speranze, si mosse in direzione delle palazzine accanto alla torre di controllo. Il chiarore delle stelle, che le aveva fino ad allora rischiarato la strada, ora poteva rivelarsi pericoloso. Il cuore le batteva fino a farle male, e per la prima volta, dal momento in cui aveva scoperto in terra il cadavere del padre, capì che voleva con tutte le sue forze continuare a vivere. Camminò sulle mani e sulle ginocchia per tenersi il più chinata possibile, rovinandosi sulla sabbia le calze, e diverse volte cadde riversa in terra coprendosi il viso con le braccia, in attesa che le tornasse un po’ di coraggio; la pistola che stringeva in pugno era per lei in quei momenti come la cannuccia di paglia per l’uomo che sta per annegare. Avvicinandosi alle palazzine udì delle voci che si esprimevano in arabo, ma riuscì a non farsi vedere. Il cielo frattanto impallidiva, e le stelle scomparivano progressivamente. Si avvicinava l’alba, e la cosa giocava in suo favore perché le guardie poste da Borrelli, non attendendosi più alcuna intrusione dall’esterno, avrebbero diminuito la loro sorveglianza. Una volta due arabi armati di pattuglia le passarono a sei o sette metri di distanza, ma Barbara si appiattì dietro una duna e riuscì a non farsi scorgere. Raggiunse il muro della palazzina più vicina e vi si appiattì contro, spaventata e ancora non del tutto sicura che nessuno l’avesse vista. Era in uno stato di estrema tensione e si aspettava che da un momento all’altro dall’angolo sbucassero degli uomini per catturarla, ma non successe nulla. Prese fiato, si fece coraggio e lentamente cominciò a strisciare fino al limite del muro per guardare dall’altra parte. Vide altri due arabi armati che si dirigevano verso la torre di controllo, e immediatamente appiattì il suo viso sulla sabbia. Quando rialzò gli occhi i due erano spariti, e facendosi nuovamente coraggio prese ad esaminare le due palazzine. Una era di forma rettangolare, con tre finestrelle alte da terra e protette da inferriate, e la vista delle sbarre fece balenare immediatamente alla ragazza l’idea della prigione. Se almeno uno dei tre uomini che in quel momento avrebbe potuto aiutarla era ancora vivo, era lì che doveva cercarlo. Si guardò intorno per accertarsi che non ci fosse nessuno in vista, poi decise di correre il rischio di alzarsi in piedi ed entrare nella palazzina. Tutta la sua prudenza iniziale sembrava scomparsa, ma il cuore le batteva ad una velocità doppia del normale. Stava per albeggiare e prima che il coraggio la abbandonasse di nuovo decise di agire. Svoltò l’angolo del fabbricato, e la fortuna volle assisterla nuovamente non facendole trovare nessuno in vista. A quel punto era troppo tardi per eventuali ripensamenti, e quindi si diresse abbastanza decisamente verso la porta. Si chinò per spiare attraverso una fessura, e vide due arabi seduti sul pavimento del corridoio, proprio davanti alle porte delle celle. Fumavano in silenzio, e tenevano le armi appoggiate alla parete accanto a loro. Barbara non tardò a capire che se le celle erano sorvegliate dovevano evidentemente contenere dei prigionieri, e

senza pensarci su spalancò la porta puntando la pistola contro i due arabi. «Mani in alto!» Le sue stesse parole le parvero così ridicole che le sembrò impossibile che i due uomini potessero prenderle in seria considerazione. Invece la guardarono impietrita dalla sorpresa, e se solo avessero sorriso lei sarebbe sicuramente scoppiata in lacrime gettando la pistola. Poi, lentamente e a malincuore, le due guardie sollevarono le mani sopra il capo. Barbara rimase stupita nel vederli obbedire quasi come erano rimasti stupiti i due nel vederla entrare, e sentì tornarle un po’ di coraggio. Si chiuse la porta dietro le spalle e avanzò nel corridoio, poi d’un tratto vide apparire dietro la griglia di una cella il viso di Larren. Le tremava la voce quando puntò la pistola contro uno dei due uomini ordinandogli: «Apri quella porta. Fallo uscire.» L’arabo esitava. Si inumidì le labbra nervosamente e la guardò in viso, per poi abbassare lo sguardo sulla pistola. Poi lentamente si alzò in piedi. Infilò una mano dentro una delle ampie tasche della djellabah, e la ragazza seguì ogni suo movimento finché non lo vide estrarre una grossa chiave. Poi, senza una parola, l’arabo si avvicinò alla porta e infilò la chiave nella toppa. Larren uscì spingendo l’uomo da una parte e prendendo da terra le due pistole mitragliatrici. Se ne mise una in spalla, e puntò l’altra contro i due uomini. «Grazie, signorina Mallory. Grazie, grazie tante.» Barbara Mallory non gli rispose, e andò a poggiarsi alla parete chiudendo gli occhi. L’automatica le pendeva dalla mano, e per un momento era tornata ad essere una donna e singhiozzava in silenzio. CAPITOLO XVII LA TERRIBILE VERITÀ LARREN si voltò a guardarla e capì che i nervi della ragazza, tenuti fino a quel momento in estrema tensione, stavano per crollare; purtroppo, in quel momento, non poteva dedicarsi a lei come avrebbe voluto, non poteva permettersi di perdere quell’insperato margine di vantaggio voltando le spalle ai due arabi. Tenendoli sempre a bada con la pistola mitragliatrice li fece entrare nella cella dalla quale era appena uscito. I due cercarono di prendere tempo, agitandosi nervosamente, ma si affrettarono ad ubbidire appena lessero nei suoi occhi una fredda determinazione. Larren li seguì nella cella e ordinò loro di mettersi faccia al muro, colpendoli subito dopo con un preciso colpo assestato con il calcio dell’arma e mettendoli in condizione di non nuocere. Li guardò cadere soddisfatto, poi si voltò e vide che Barbara, che aveva nel frattempo ritrovato un po’ di sicurezza, lo stava fissando dalla soglia. «Era… era proprio necessario?» gli chiese la ragazza a bassa voce. «Hanno ucciso Chevalier e Powell», rispose Larren cupo. «Li hanno stesi in terra esattamente come avevano fatto con suo padre. Crede ancora che avrei dovuto trattarli diversamente?»

206 Lei lo guardò. «Ma perché? Powell era solamente un pilota. Non ha fatto che portarci qui. Perché hanno ammazzato lui, ed hanno lasciato lei vivo?» La sua voce aveva un inequivocabile tono di accusa, e Larren capì che la ragazza avrebbe preferito mille volte trovare lui morto e Gerry Powell ancora vivo. Se non altro considerava il pilota un essere umano. La cosa gli dette enormemente fastidio, e Larren capì che anche in quella situazione precaria la ragazza gli stava ancora a cuore. Rispose calmo: «L’uomo che comanda qui ha voluto che rimanesse vivo uno di noi tre per farlo parlare, e il caso ha voluto che scegliesse me. Ha ucciso gli altri due sotto i miei occhi, per indebolire la mia resistenza e convincermi a parlare.» Barbara lo guardò negli occhi e disse amaramente: «Ma ha scelto il tipo sbagliato, vero? Lei non ha un cuore da potere indebolire con certi spettacoli». Larren esitò. «Diciamo piuttosto che in queste cose ho una certa esperienza», rispose infine. La ragazza abbassò lo sguardo, e il dialogo non aveva a quel punto più alcuna ragione di continuare. Larren andò ad inginocchiarsi accanto ai due arabi e li perquisì, trovando infine due chiavi fissate ad un anello. «C’è un uomo nella cella accanto», spiegò velocemente. «Stanotte delirava, ma credo che sappia cosa sta succedendo. Devo provare a farlo parlare.» Barbara non rispose, ma si fece da parte mentre lui riusciva in corridoio. Lo seguì, gli vide aprire la porta della cella accanto ed entrò dopo di lui. A differenza di quella di Larren, in questa c’era un letto. Era poggiato alla parete, e su di esso si vedeva una sagoma indistinta ricoperta in una coperta scura. Larren la sollevò, e abbassò lo sguardo sul viso inondato di sudore di un uomo malato. Sembrava sui sessanta; aveva pochi capelli grigi appiccicati al cranio e il viso ricoperto da una barba ispida. Teneva gli occhi chiusi e respirava pesantemente. Larren aggrottò le sopracciglia e dopo una pausa sollevò completamente la coperta. Si accorse allora che l’uomo aveva la gamba sinistra troncata di recente, e la coscia era fasciata strettamente da alcune bende intrise di sangue. Riportò lo sguardo su Barbara. «Sono venuti degli uomini a distruggere il nostro aereo?» le chiese. Annuì. «Gli hanno dato fuoco. Io morivo di freddo a starmene chiusa in cabina, così ad un certo punto mi sono messa a camminare fino alla cima della collina per vedere se arrivavate. Ecco perché non mi hanno visto.» Larren riabbassò lo sguardo sul vecchio. «Allora è inutile che cerchi di farlo uscire di qui. Non saprei dove portarlo. Lei farebbe meglio a tornare di guardia sul corridoio, mentre io cerco di farlo rinvenire. Crede di farcela?»

Barbara sembrava incerta; aveva ripreso il controllo dei suoi nervi ma era ancora spaventata, e capiva che anche se aveva ritrovato e liberato Larren i suoi guai erano ancora ben lungi dall’essere risolti. Il buio era scomparso completamente, e la loro fuga sembrava ancora più irrealizzabile, non potendo neanche l’esperienza e l’abilità di Larren compiere dei miracoli. Infine annuì e tornò in corridoio aumentando la stretta sull’automatica. Larren prese immediatamente a darsi da fare sull’uomo privo di sensi. Non sapeva ancora come farlo rinvenire o che cosa l’uomo avrebbe potuto dirgli; ma al punto in cui era arrivato sarebbe stato sciocco non cercare di saperne di più. Fu costretto a trattare il vecchio piuttosto rudemente, scuotendolo e a volte anche schiaffeggiandolo. L’uomo si lamentava, agitandosi ogni tanto, ma senza riprendere conoscenza. Larren cominciò a sudare, imprecando sottovoce. Continuò i suoi tentativi per altri cinque minuti, ma dovette infine arrendersi. L’iniezione di Borrelli doveva essere efficace al cento per cento, l’uomo svenuto sarebbe rimasto in quello stato almeno altre due ore. Allora si rialzò lentamente in piedi, allontanandosi dal letto. Era convinto che i vaneggiamenti febbrili del vecchio sullo sterminio in massa avevano a che fare con lo Scimitar rubato, ma non trovava alcun modo di far rinvenire il prigioniero prima che l’iniezione di Borrelli terminasse il suo effetto. Doveva studiare qualcos’altro. Rimase per un po’ indeciso sul da fare poi d’improvviso riapparve Barbara. «Due uomini stanno venendo da questa parte», disse in fretta. «Sono tutti e due arabi, ed ho l’impressione che debbano dare il cambio alle due sentinelle.» Larren fece una smorfia preoccupata e si affrettò a ricoprire il vecchio, poi prese la pistola mitragliatrice ed uscì in corridoio. Attraverso una fessura della porta d’ingresso riuscì a vedere i due arabi che si avvicinavano. Cercò disperatamente una soluzione. Avrebbe potuto tenerli a bada appena fossero entrati, per poi metterli fuori combattimento come aveva fatto con gli altri due. Ma non avrebbe risolto nulla, perché non vedendo tornare le guardie che erano smontate, Borrelli si sarebbe insospettito e avrebbe mandato degli altri uomini a vedere cosa stava succedendo. Non avrebbe in ogni modo potuto evitare che suonasse l’allarme entro cinque minuti. Restava solo una cosa da fare. Larren corse a chiudere a chiave la seconda cella, poi entrò insieme a Barbara dentro l’ultima. Le premette la schiena contro il muro, facendole segno di tacere, e rimase in attesa con la pistola mitragliatrice spianata. Udì il rumore della porta esterna che veniva spalancata, e poi i commenti meravigliati dei due arabi non appena si accorsero che il corridoio era vuoto. Poi uno dei due scoprì che la porta della prima cella era aperta e lanciò un grido; si udì il rumore dei loro sandali che entravano nella cella, altre espressioni di stupore nel trovare i compagni stesi sul pavimento e Larren sparito, ed infine uno di loro si precipitò fuori lanciando l’allarme. Nell’ultima cella Larren si tenne lontano dalla griglia della porta, ed attese che l’arabo tornasse seguito da altri uomini. Tra le loro voci agitate che riempivano il corridoio si distingueva quella autoritaria di Borrelli.

Larren volse il capo e vide alle sue spalle Barbara che lo guardava spaventata. Fece con la mano un gesto verso il basso e le si premette per proteggerla. Fuori, Borrelli riuscì ad imporre il silenzio ed ordinò seccamente: «Ricard, vai all’hangar principale e avverti Goodhart e i suoi uomini. Digli che il prigioniero è fuggito e che potrebbe tentare di sabotare lo Scimitar. Poi prendi degli uomini e tornate dietro a quelle colline dove avete distrutto l’aereo. È probabile che sia diretto lì, convinto di trovare l’aereo. Io cercherò nell’altra palazzina. Tu sbrigati; quando Khalil verrà a sapere queste novità saranno guai.» Larren udì Ricard allontanarsi, poi i passi pesanti di Borrelli avvicinarsi lungo il corridoio. Le mano che stringevano la pistola mitragliatrice erano inondate di sudore, ma Larren decise infine di dare una occhiata dietro la griglia per vedere cosa stava succedendo. Purtroppo stava per essere scoperto. Aveva fatto male i suoi calcoli e Borrelli era abbastanza perspicace da controllare anche la terza cella: tra un attimo sarebbe entrato. Ma i passi di Borrelli si fermarono, e Larren comprese che voleva per il momento andare a controllare l’altro prigioniero. «Se non altro Hegler è ancora qui», fece Borrelli. «È già qualcosa. Il nostro amico fuggitivo ha deciso che era più importante salvare la sua pelle che quella degli altri.» Larren lo sentì accertarsi che la porta della cella fosse ben chiusa, e poi tornare verso la prima cella. «Aziz, prendi un paio di ragazzi e portate questi due idioti addormentati al posto di pronto soccorso. Gettategli addosso un bel secchio d’acqua e cercate di farli rivenire. Qualcuno deve avere aiutato l’inglese a fuggire, e voglio sapere come sono andate le cose.» Ci fu un tramestio mentre i due arabi svenuti venivano portati via, poi i rumori nel corridoio cessarono con l’allontanarsi di Borrelli e dei suoi uomini. Larren fece passare degli altri minuti, poi guardò Barbara e si portò un dito alle labbra alzandosi in piedi. Passò tenendosi curvo sotto la griglia della porta all’altra parete e infine si sollevò gettando un’occhiata di fuori. Solo allora emise un breve sospiro di sollievo, nel vedere il corridoio vuoto. Borrelli non si era preoccupato di mettere un uomo a guardia del prigioniero malato. Aiutò Barbara ad alzarsi e le disse: «Tutto a posto. Borrelli mi crede in pieno deserto, e per il momento siamo al sicuro. Oltretutto non sa nemmeno che vantaggio io abbia su di loro. Ci resta un po’ di tempo per prendere una decisione prima che si renda conto che ci troviamo proprio sotto il suo naso.» Lei sembrava dubbiosa. «Quei due che ha messo fuori combattimento gli diranno che era giorno fatto quando io sono venuta a liberarla. Borelli capirà cosi che lei non può trovarsi troppo lontano.» «Di questo non si preoccupi. La botta che gli ho dato li farà dormire per un bel po’ di ore, e quando si sveglieranno non dovrebbero avere le idee molto chiare.» Barbara abbassò lo sguardo e disse a bassa voce: «Ma anche in questo caso, che possiamo fare?» Larren si appoggiò al muro e sorrise. «Ce ne resteremo qui ancora un po’ finché Ricard e i suoi amici non si saranno allontanati nel deserto. Se non altro, saranno in meno. Poi cercherò un’altra volta di far parlare il vecchio. Dopodiché, suoneremo ad

orecchio.» Indicò la pistola mitragliatrice e concluse: «Con un po’ di fortuna e con l’aiuto di queste dovremmo riuscire ad arrivare all’hangar del Cherokee.» Negli occhi di Barbara sembrò accendersi un bagliore di speranza. «È capace di pilotarlo?» «No. Ma potremmo servirci della radio.» «E a che ci servirebbe. Appena ci prendono, ci uccidono. Moriremo anche se riusciremo a lanciare un messaggio.» La vide voltarsi con gli occhi nuovamente accigliati. Il suo profilo e il bagliore dei suoi capelli gli ricordavano ancora una volta Andrea, facendogli accrescere il desiderio di proteggerla e metterla in salvo. Allora appoggiò la pistola mitragliatrice alla parete e la fece voltare prendendola gentilmente per una spalla. «Mi dispiace tanto per te, Barbara.» Le dava del tu per la prima volta. «Vorrei tanto offrirti una speranza alla quale aggrapparsi. E anche se non abbiamo speranze, devo lo stesso provare a raggiungere quella radio.» Proseguì raccontandole dello Scimitar e di tutto quello che sapeva sull’organizzazione, e concluse dicendo: «Come vedi, anche se non so esattamente cosa intendano fare, capisco che si tratti di qualcosa di terribile che potrebbe anche costare numerose vite umane. Un esempio lo abbiamo già avuto con tuo padre, Powell e Chevalier. Per non parlare di Sir Howard Davies e di quelli che hanno organizzato e portato a termine il suo assassinio.» Lei lo ascoltò in silenzio, e infine disse lentamente: «Credo di capire. Mi spiace di essermi comportata da egoista. Cercherò di aiutarti se…» Non terminò la frase, e rimasero ambedue in ascolto mentre di lontano giungeva il rombo di un motore. Larren prese la sua arma e uscì in corridoio, andando ad affacciarsi ad una delle finestre. Barbara lo seguì immediatamente, ed andò ad appoggiarsi contro la sua spalla. Duecento metri più avanti il piccolo monoplano bianco e rosso rullava tranquillamente sulla pista. Poi prese velocità, e si librò nel cielo azzurro. «Maledizione», esclamò Larren sottovoce. «Se ne servono per cercarci. Non avevo preso in considerazione questa possibilità.» Gli occhi di Barbara esprimevano eloquentemente lo sconforto in cui la ragazza era piombata. «Ora non abbiamo più speranza di servirci della radio. È finita.» «Non ancora.» Larren era uno di quegli uomini che accettavano solo la morte come sconfitta. «Prima che cada la sera dovranno tornare. Se saremo ancora liberi, potremo provare stasera. Frattanto cerchiamo un’altra volta di far rinvenire Hegler, o come diavolo Borrelli l’ha chiamato.» Non attese risposta ed andò ad aprire la porta della seconda cella. Barbara rimase per un momento silenziosa, poi tornò a guardare fuori della finestra il Piper Cherokee che volteggiava nel cielo. Infine seguì Larren nella cella. L’uomo sul letto dormiva ancora profondamente, e non potevano fare altro che aspettare. *** Rimasero nella cella per un’altra, lunghissima ora. Dal di fuori giungevano grida ed esclamazioni in arabo degli uomini di Borrelli che proseguivano la caccia

all’uomo, e diverse volte gli uomini passarono accanto al fabbricato delle celle. Ogni volta che si avvicinavano Larren e Barbara si immobilizzavano, pregando che a nessuno venisse in mente di cercare di nuovo nelle celle. Infine le ricerche diminuirono di intensità, e il pensiero che a quel punto Borrelli si fosse convinto che il prigioniero fosse fuggito nel deserto ridiede a Larren una certa fiducia. Uscì in corridoio e con la massima cautela andò a guardare fuori dalla finestra e attraverso le fessure della porta. Sembrava che gli uomini incaricati delle ricerche fossero stati richiamati, e decise che era il momento di dedicarsi ad Hegler. Nell’ultimo quarto d’ora l’uomo si era mosso ed aveva mugolato qualche incomprensibile parola, ed ora c’era forse qualche possibilità di fargli riprendere conoscenza. Larren lo trattò di nuovo duramente, scuotendolo per le spalle e schiaffeggiandolo di volta in volta. La testa grigia si agitava avanti e indietro sul cuscino e l’uomo cominciava a lamentarsi debolmente. Lo spettacolo impressionò Barbara, che non volle però intervenire. Larren ripeté diverse volte il nome del vecchio, anche alzando la voce, cercando di svegliarlo. Il corpo dell’uomo prese allora ad agitarsi e i lamenti si fecero più acuti. Larren continuò quel trattamento per altri dieci minuti, ed alla fine il vecchio aprì gli occhi. Spalancò anche la bocca, ma non emise alcun suono, e Larren abbassò lentamente la mano che stava per colpire un’altra volta. «Va tutto bene, Hegler.» Parlò dolcemente, non potendo più permettersi le maniere rudi. «Siamo amici. Abbiamo solo cercato di farla rinvenire, tutto qua. Borrelli le ha dato un sonnifero per farla stare calmo.» Barbara si avvicinò. Non disse nulla ma sorrise debolmente, e la sua presenza sembrò rassicurare l’uomo sul letto. Il vecchio passò lo sguardo da Larren a Barbara, poi strinse gli occhi per concentrare i pensieri. Quando li riaprì, disse debolmente: «Chi siete?» «Mi chiamo Larren. Sono un agente del controspionaggio britannico. Do la caccia alla gente che la tiene prigioniera qui.» «Allora lavora contro gli Assassini Per la Pace?» «APP: Assassini Per la Pace. Ecco cosa significano quelle tre lettere», disse Larren lentamente. «Vuol dire che non lo sapeva? Non sa cosa stanno per fare?» Il corpo del malato si agitò convulsamente sotto la coperta e la sua mano scheletrica si aggrappò al polso di Larren. Si sollevò a sedere e prese a balbettare: «Stanno per uccidere… Uccidere… Sarà un assassinio in massa!» «Calma ora, calma.» Larren costrinse il vecchio a sdraiarsi nuovamente sul letto. «Mi parli di questi Assassini Per la Pace. Chi sono? Che cosa vogliono fare?» Hegler lo guardò con aria allucinata, cercando di liberarsi dalla pressione delle sue mani, poi sembrò lentamente tornare in sé. Si calmò e prese a parlare lentamente, con voce roca, come se stesse recitando qualcosa imparato da lungo tempo a memoria nella speranza che qualcuno fosse un giorno venuto a liberarlo.

«Gli Assassini Per la Pace sono un’organizzazione di fanatici. La comandano cinque degli uomini più ricchi d’Europa. Hanno tanti di quei soldi che cercare di aumentarli è per loro un problema del tutto irrilevante. Hanno deciso di creare un mondo migliore. Considerano le Nazioni Unite e gli altri organismi internazionali del tutto insufficienti per i loro scopi, e sono convinti che la responsabilità della attuale situazione internazionale sia da addebitare in blocco ai capi di stato che hanno anteposto ridicole questioni di prestigio nazionale e personale alla pace nel mondo. Perciò hanno deciso di eliminare questi capi di stato e di governo, e in maniera tale che possa difficilmente essere dimenticata dai loro successori. Quando ciò avverrà gli Assassini Per la Pace lanceranno al mondo una specie di proclama, annunciando nuove eliminazioni in massa per quei leaders che non vorranno assoggettarsi al loro potere. Ogni Presidente o Primo Ministro che a loro giudizio fomenterà nuove guerre, calde o fredde, o solleverà questioni di orgoglio nazionale, sarà immediatamente ucciso.» Hegler chiuse gli occhi e reclinò il capo sul guanciale, e in un primo tempo Larren ebbe l’impressione che avesse nuovamente perso conoscenza. Poi capì che l’uomo stava semplicemente cercando di raccogliere le energie, per proseguire. Allora disse: «So già del caccia che hanno rubato e so come hanno fatto a prenderselo. Quando se la sente, riprenda da lì.» Hegler tacque per un altro minuto, e infine riaprì gli occhi. «Sa dello Scimitar. Avevano bisogno di me proprio a causa dell’aereo. Come lei ha saputo, mi chiamo Hegler. Sono un tecnico tedesco. Lavoravo al Cairo per il governo di Nasser quando sono stato rapito da due arabi di nome Hassim e Ricard, che mi hanno portato qui. Avevano bisogno di qualcuno che provvedesse alla sistemazione ed al montaggio sull’aereo di due serbatoi supplementari di carburante, oltre che per la manutenzione ordinaria e per la messa a punto delle turbine dei due missili. Non so ancora come abbiano fatto a sapere il mio nome, sta di fatto che il lavoro che mi affidavano era identico a quello che svolgevo al Cairo. Ho lavorato per loro fin quando non ho scoperto i loro piani. Saputa la verità, la mia vita non ha più avuto per me alcuna importanza e ho cercato di fuggire. Hassim e Ricard mi hanno trovato, e mi hanno sparato nelle gambe riportandomi qui.» Larren conosceva già la risposta alla domanda che stava per rivolgergli, ma dovette lo stesso ascoltarla dalla voce di Hegler. Era pallidissimo, e provava un senso di freddo allo stomaco quando gli chiese: «Cos’hanno intenzione di fare con lo Scimitar, Hegler? A cosa servono quei due missili Bullpup?» Gli occhi di Hegler si riempirono di terrore. Disse lentamente: «L’assassinio del Primo Ministro inglese era solo il primo passo. Ogni testa coronata d’Europa, e ogni capo di governo si troverà a Londra per presenziare ai funerali. Si raccoglieranno per la funzione funebre nella Cattedrale di San Paolo: questo è l’obiettivo dello Scimitar.» Larren capì che l’uomo sul letto non mentiva, e in breve comprese qualcosa che probabilmente nemmeno Hegler aveva afferrato. E cioè che era sabato, e che i funerali avrebbero avuto luogo a Londra di lì a poche ore.

Fu proprio in quel momento che dalla pista dell'aeroporto si udì improvvisamente il rombo assordante dei due reattori dello Scimitar che venivano avviati. CAPITOLO XVIII INCUBO INTERMINABILE SULLA pista, lo Scimitar assomigliava ad una freccia pronta ad essere scoccata. I freni aerodinamici lo tenevano immobile, mentre il fragore assordante dei due reattori riempiva l’aria torrida. Il boato si fece più intenso, ed infine l’aereo prese a muoversi lentamente verso la estremità della pista. Lì giunto, compì sempre lentamente un mezzo giro su se stesso e infine si fermò, riducendo al minimo i motori. Rimase così cinque minuti, poi d’un tratto l’aereo si mosse nuovamente, aumentando progressivamente d’intensità, mentre i motori portati di nuovo al massimo, ruggivano accendendo bagliori incandescenti dietro le turbine. Infine si sollevò da terra prendendo decisamente quota, simile ad un proiettile luminoso diretto verso il sole. Simon Larren assistette al decollo, incapace di fare qualcosa per impedirlo. Seguì l’aereo in cielo finché la vista glielo consentì, poi distolse lo sguardo. Barbara Mallory gli stringeva un braccio, ma lui non si era nemmeno accorto della pressione affannosa delle sue dita. In quel momento pensava che, se lo Scimitar non fosse stato fermato in qualche modo, nel giro di tre ore si sarebbe trovato sulla verticale di Londra, proprio nel momento in cui sotto l’ampia cupola della cattedrale di San Paolo si sarebbero svolti i solenni funerali di Sir Howard Davies. Scosse il capo, tenne per qualche istante chiusi gli occhi che gli dolevano e tornò nella cella di Hegler. Barbara lo seguì, osservandolo inginocchiarsi nuovamente accanto al letto. «Hegler», disse cupo, «è possibile? È possibile che Goodhart riesca a raggiungere Londra senza essere individuato?» Hegler annuì debolmente. «È possibile. Volerà verso nord tenendosi sempre sul Mediterraneo, poi sorvolerà i Pirenei fino al Canale d’Inghilterra. Anche se seguirà una rotta abbastanza tortuosa, non dovrà percorrere una distanza superiore ai 2500 chilometri. Lo Scimitar, con i serbatoi supplementari che io ho fatto montare, dispone di una autonomia anche superiore…» Ebbe il petto sconvolto da un attacco di tosse. Quando, infine, riuscì a schiarirsi la gola, riprese: «Potrebbe essere intercettato dai radar sorvolando la Spagna, ma in quel tratto volerà ad altissima quota e se riuscirà a non farsi scoprire arriverà tranquillamente su Londra. Si creerà una certa confusione sorvolando l’Inghilterra, perché l’aereo batte le insegne inglesi. Non rispondendo alle richieste di identificazione, in pochi minuti può superare le difese costiere e arrivare a Londra.» Larren non poteva ancora crederci. «E Goodhart? come crede di farla franca dopo avere sganciato i due missili? Dovrebbe rimanergli pochissimo carburante.» Hegler sembrava spossato, ma trovò la forza di rispondere anche a quella domanda.

«Goodhart è pazzo. Non gli interessa affatto salvare la pelle. Porterà l’aereo sulle coste orientali facendolo precipitare in mare, in un punto prestabilito dove crede di trovare degli uomini dell’organizzazione che dovrebbero portarlo in salvo.» Il vecchio parlava con sempre maggiore difficoltà, ed infine si accasciò esausto sul letto. Larren decise di lasciarlo riposare, e si allontanò. Non aveva altre domande da fargli; doveva assolutamente cercare di lanciare un messaggio. Hegler lo seguì per un momento con lo sguardo, poi reclinò il capo su un lato. Chiuse gli occhi, premette il viso sul cuscino e ripiombò nel sonno artificiale dal quale era stato svegliato. Barbara gli si inginocchiò accanto e gli tastò il polso e le tempie. «È svenuto di nuovo», disse. «Ha la febbre altissima.» Larren fissava con aria assente la parete, poi sembrò udire le parole della ragazza e si voltò a guardarla. Infine abbassò lo sguardo su Hegler e disse: «Lasciamolo. Ci ha detto tutto quello che poteva dirci, e noi non possiamo fare più niente per aiutarlo. L’ho fatto rinvenire quando l’effetto del sonnifero non era ancora passato, quindi prima che si risvegli dovrà passare dell’altro tempo.» Barbara esitò, poi si alzò in piedi e gli venne vicino. La sua ostilità nei confronti di Larren era completamente scomparsa, perché alla fine era riuscita a rendersi conto della pericolosità della gente che stavano combattendo e della necessità di combatterla stando uniti. Gli toccò un braccio, dicendogli: «Simon, come facciamo a fermarli? Possiamo fermarli, vero? Non si tratta solamente di tutti quei Capi di Stato… ci sarà anche la Regina e tutta la famiglia reale. Ma la Cattedrale sarà piena di gente, e anche fuori ci saranno migliaia di persone, donne e bambini, uomini che hanno fatto la fila tutta la notte. Migliaia e migliaia. E Goodhart lancerà quei due missili. Dobbiamo impedirlo, Simon. Dobbiamo. Dobbiamo!» Larren le passò un braccio attorno alla vita, ponendole l’altra mano sulla bocca per farla tacere. La ragazza aveva gli occhi sbarrati e si agitava freneticamente nella sua stretta. «Barbara, smettila di gridare», le sussurrò. «Non fare l’isterica. Ti prego, non fare l’isterica!» Attese che la ragazza chiudesse gli occhi e si abbandonasse contro di lui, e infine proseguì. «Fino a questo momento sei stata meravigliosa, Barbara. Mi hai fatto uscire da quella cella quando ormai avevo perduto ogni speranza, quindi cerca di essere meravigliosa ancora per un altro po’. Se diventi isterica non riuscirei nemmeno a pensare ad una soluzione.» La ragazza riaprì gli occhi e annuì debolmente, e quando Larren le tolse la mano dalla bocca, sussurrò quasi vergognandosi: «Mi spiace, Simon. È stato sciocco da parte mia, ma non succederà più. Ma… ma noi che facciamo? Che possiamo fare?» «Dobbiamo avere pazienza e aspettare; staremo qui e aspetteremo, pregando che quel Cherokee ritorni prima che siano trascorse le tre ore. Perché Peter Goodhart non è l’unico a cui piaccia giocare all’eroe, e quando quel Cherokee tornerà devo

assolutamente raggiungere quella radio e lanciare un messaggio, anche se per fare questo dovrò uccidere tutti gli uomini di questo aeroporto.» *** E attesero, attesero mentre col passare dei minuti le speranze di riuscire a trasmettere il messaggio diminuivano inesorabilmente. Il sole brillava alto nel cielo, e la loro cella era diventata una specie di forno incandescente. Erano ambedue inondati di sudore e tacevano, scrutando il cielo e aspettando; sapevano che ogni minuto che passava faceva avvicinare di quindici chilometri lo Scimitar e il suo carico mortale alla destinazione finale. Nell'aeroporto continuava a svolgersi ancora una certa attività, e la paura di essere scoperti stava portando i loro nervi, già duramente provati, ad uno stato di esasperazione. Da un momento all’altro Borrelli avrebbe potuto ricordarsi di non avere ispezionato la terza cella nella fretta di organizzare le ricerche del fuggiasco; o Khalil, che a quell’ora doveva essere a conoscenza degli avvenimenti, poteva ordinare di perquisire nuovamente l'aeroporto da cima a fondo. Doveva necessariamente verificarsi uno di quei due casi, perché quando gli uomini sguinzagliati nel deserto fossero tornati a mani vuote, Khalil o Borrelli sarebbero stati costretti ad adottare una di quelle soluzioni. Larren poteva solamente sperare che tornasse per primo il Piper Cherokee con la sua radio. La prima ora passò, e Larren calcolò che Goodhart doveva trovarsi in quel momento al di sopra delle coste spagnole, mentre a Londra la gente ammassata lungo il percorso del corteo funebre avrebbe visto muoversi lentamente l’affusto di cannone sul quale giaceva la salma di Sir Howard Davies, avvolta nella bandiera nazionale, per il suo ultimo viaggio. Larren si raffigurò la scena chiudendo gli occhi, ma non ebbe il coraggio di immaginarsi quella successiva di Goodhart che lanciava i due missili sulla folla inerme. L’attesa si fece sempre più spasmodica, e per la decima volta Larren si asciugò il sudore dalla fronte e controllò il funzionamento delle due pistole mitragliatrici che aveva tolto alle guardie. Avevano tutte e due il caricatore pieno, e se avesse agito con rapidità, avendo oltretutto dalla sua il fattore sorpresa, avrebbe dovuto riuscire a farsi largo fino al Cherokee, se fosse tornato in tempo. Passò un’altra ora, e Barbara sembrava essere giunta al limite della sopportazione. Era pallidissima, aveva il viso contratto e inondato di sudore, e Larren cercò di tranquillizzarla passandole un braccio attorno alle spalle. Lei non protestò, anzi dopo un momento gli poggiò il capo sulla spalla. Rimasero poggiati alla parete in modo da non perdere di vista il corridoio, e Larren stringendola a sé la guardò in viso. Gli sembrava di stringere nuovamente la sua Andrea, e capiva che in altre circostanze avrebbe potuto amare quella ragazza. Ma le circostanze erano quelle che erano, e dovette rendersi conto che la seconda ora era passata e che in quel momento Goodhart stava sorvolando le verdi acque del Golfo di Biscaglia. Se fosse riuscito a superare la Spagna senza essere individuato, avrebbe avuto la strada per Londra praticamente spalancata.

Sul letto Hegler dormiva tranquillamente. Sembrava che l’avere raccontato quell’orribile storia fosse servito a calmarlo, togliendogli dalla coscienza quel peso angoscioso. Larren lo guardò con invidia. I minuti della terza ora presero a scorrere uno dopo l’altro, e Larren piombò nello sconforto più amaro. Era ormai mezzogiorno, e il caldo della cella si era fatto insopportabile. Sia lui che Barbara si erano tolti la giacca, e le loro camicie erano zuppe di sudore. Si sentiva la sua appiccicata alla schiena, e gli sembrava di avere la bocca piena di cenere. Aguzzò le orecchie nella speranza di percepire il rumore del Cherokee che tornava, ma il silenzio intorno era pressoché assoluto e dovette convincersi che a quel punto l’aereo sarebbe tornato troppo tardi. Il dramma avrebbe avuto luogo senza che lui potesse far nulla per impedirlo. Poi Barbara sollevò il capo. «Simon, si sta risvegliando», disse con voce roca. Larren la guardò e capì che si riferiva ad Hegler. Il tedesco non si era mosso, ma l’effetto dell’iniezione di Borrelli doveva essersi esaurito perché si era svegliato tranquillamente come aveva dormito. Teneva gli occhi aperti, e li guardava come se li vedesse per la prima volta. Larren si avvicinò al letto e disse piano: «Come si sente?» «Sto meglio.» La voce di Hegler era lenta ma chiara. «Mi fa ancora male la gamba, ma ormai mi ci sono abituato. Che succede?» «Niente», rispose Larren. «Goodhart deve trovarsi a due terzi del cammino, ma non possiamo fare nulla per fermarlo finché non torna quel Cherokee. Mi stanno cercando dall’aereo nel deserto.» «Ho capito.» Hegler chiuse gli occhi, poi d’improvviso li spalancò nuovamente. «Anzi no, non capisco. Perché aspetta il Cherokee? Vuole servirsene per fuggire?» «No», disse Larren stanco. «A bordo c’è una radio. Se riesco a raggiungerla posso cercare di lanciare un messaggio in modo che la RAF possa intercettare lo Scimitar.» «E perché aspetta proprio il Cherokee? Nella torre di controllo c’è un’altra radio.» Larren lo guardò sbalordito, sentendosi immediatamente un perfetto idiota. «Cos’ha detto?» «La torre di controllo.» Hegler sembrava stupito. «È evidente che nella torre di controllo deve esserci una radio. Serviva per tenersi in contatto con i loro capi a Zurigo.» Larren ricordò la grossa trasmittente che aveva visto al Sultry Strip, e quell’altra a Larkspurs nel Gloucestershire, e si maledisse per non averci pensato prima. Certo che c’era una radio nella torre di controllo. Era evidente. Era così evidente, e lui era così concentrato nel pensiero di servirsi della radio del Piper Cherokee, da tralasciare completamente quella possibilità. Il pensiero di avere sprecato tutto quel tempo lo fece star male; si riprese pensando che allora tutto non era ancora perduto. Si voltò a guardare la ragazza e sussurrò in fretta: «Barbara, sono stato un maledetto idiota ma ora non c’è tempo da perdere in recriminazioni. Tu resta qui con Hegler, io vado alla torre di controllo.» Lei respirò profondamente e lo afferrò per un braccio mentre stava per allontanarsi. «Simon, non puoi andare da solo.» «Certo che posso. È lavoro mio.»

«Ma non da solo, Simon.» Nella sua voce c’era una determinazione che lui non aveva mai notato prima. «Non puoi andarci da solo, cerca di capirlo. Anche se riuscissi ad arrivare alla radio, avresti sempre di bisogno di qualcuno che ti copra le spalle mentre trasmetti il messaggio.» Larren la guardò in viso e si sentì attraversare da un’ondata di tenerezza. Provò a replicare. «Ma non tu…» «E chi, allora? Hegler? Non può muoversi, solo io posso aiutarti.» Aumentò la sua stretta. «Non capisci, Simon? Non ha importanza se sono uomo o donna, non l’avrebbe nemmeno se fossi un bambino. Sono in grado di adoperare una pistola, quindi devi lasciarmi venire.» Larren continuò a fissarla, e comprese che Barbara aveva ragione. Si tolse allora dalla spalla seconda pistola mitragliatrice, e gliela porse dicendo: «D’accordo, Barbara, prendila e fanne buon uso. Se vedi arrivare qualcuno non fermarti a pensare che è un uomo, sparagli. Non dimenticarlo. Non esitare a pensare nemmeno per un attimo se anche lui ha pensieri ed emozioni. Fai conto che quelli lì fuori non siano uomini, ma bidoni. Bidoni che camminavano, privi di anima, ma che ti uccideranno se tu non ucciderai loro. Convinciti di questo, e ce la farai.» Lei annuì lentamente. «Me lo ricorderò, Simon. Sono solo degli sporchi bidoni che hanno ucciso mio padre. Posso farcela.» Larren la fissò negli occhi ed ebbe fiducia nella ragazza; poi, alle loro spalle, Hegler disse: «Da qui arrivate direttamente alla torre di controllo. L’unica vostra speranza è di entrare dalla porta principale. Sulla sinistra troverete una scalinata, e in cima c’è la cabina radio. Ci saranno due uomini davanti alla porta, e almeno altri due nella stanza. Non saprei proprio dirvi quanti ce ne saranno prima delle scale. Correte più che potete; tutto quello che posso fare io è pregare per voi.» *** Fuori dell’edificio delle celle sembrava di trovarsi in una fornace. Larren si fermò un attimo, accecato dal bagliore del sole che si rifletteva sui muri bianchi delle palazzine e sulle dune, e imprecò sottovoce. Si rinfrancò, notando con un senso di sollievo che l’elevatissima temperatura esterna aveva fatto rintanare al coperto tutti gli uomini di Borrelli. Si volse a guardare Barbara, che era rimasta sulla soglia. Teneva le palpebre socchiuse ma gli fece un segno d’intesa, stringendo la pistola mitragliatrice in mano. Larren trasse un profondo respiro, e presero a correre insieme verso la torre di controllo. Prima della torre, ad un centinaio di metri, c’erano due palazzine. Raggiunsero la prima quasi senza fiato, ma nessuno li aveva visti. Si appiattirono contro il muro e presero a strisciare, chinandosi sulle ginocchia per passare sotto l’unica finestra. Dall’interno provenivano delle voci, ma Larren non volle correre il rischio di

sollevare il capo per accertare l’identità degli uomini. Si sollevò nuovamente appena giunto all’angolo, e sentì Barbara premerglisi contro. La palazzina successiva era la stessa nella quale era stato condotto con Powell e Chevalier per l’interrogatorio, ed al ricordo i suoi lineamenti si indurirono. Poi, sempre seguito da Barbara, riprese la corsa. Nessuno dei due volle guardarsi intorno. Correvano come mai avevano corso prima, concentrando tutti i loro sforzi nel tentativo di sbrigarsi il più possibile. Dinanzi a loro si ergeva una vera e propria barriera di calore, che insieme alla sabbia molle rendeva la corsa più difficoltosa. Si aspettavano di udire da un momento all’altro il primo grido d’allarme, ma giunti al muro della seconda palazzina il silenzio tutto intorno era ancora completo. Il cuore di Larren batteva all’impazzata e i suoi polmoni erano esausti. Le mani che stringevano la pistola mitragliatrice erano sudate, così come il suo viso. Barbara non si trovava in migliori condizioni, e il suo respiro affannoso era sottolineato dal ritmico sollevarsi ed abbassarsi del suo seno sotto la camicetta. Rimasero immobili per un momento, increduli ambedue di non essere ancora stati scoperti, e presero poi a strisciare nuovamente contro il muro. Chinandosi sotto la finestra udirono anche stavolta delle voci, e ancora una volta le ignorarono. Giunsero all’angolo della palazzina e si sollevarono in piedi. A quel punto solo quaranta metri di sabbia li separavano dall’edificio della torre di controllo. Era una costruzione a due piani di mattoni rossi, con in cima la cabina radio, riconoscibile dall’esterno per l’ampia vetrata. Accanto alla torre, la pista d’atterraggio si stendeva come un lungo, immobile fiume d’argento. Larren diresse lo sguardo verso la porta d’ingresso, immaginando che le guardie si trovassero all’interno. Lungo il muro, sulla sinistra, si apriva la porta della sala convegno, e capì che se l’avessero scoperto troppo presto si sarebbe trovato tra due fuochi, e Barbara con lui, senza alcuna speranza di salvezza. Preferì non pensarci, e riprese a correre in direzione della torre di controllo, con la ragazza alle calcagna. Si trovavano a metà percorso, quando avvenne l’inevitabile. Dalla porta d’ingresso della torre giunse un grido di stupore, e subito dopo apparve un arabo con l’arma spianata. Larren fece partire un colpo che squarciò il silenzio del deserto, e l’arabo si abbatté in terra dopo una breve piroetta. I due continuarono la corsa, stavolta a zigzag, e subito dopo apparve la seconda sentinella, che fece partire una raffica. I colpi passarono vicinissimi a Larren, che rispose immediatamente al fuoco. Il secondo arabo, colpito a morte, cadde accanto al cadavere del compagno. Alle spalle di Larren si udì un confuso vociare, poi dalla porta della sala convegno uscì un gruppo di uomini. Larren li ignorò, cercando disperatamente di guadagnare la porta della torre; Barbara Mallory invece si volse e lasciò partire una lunga raffica che abbatté i primi e fece ritirare precipitosamente dentro gli edifici gli altri. Poi riprese a correre. Larren nel frattempo, scavalcati i due cadaveri che giacevano in terra, superò con un balzo la porta. Si appiattì subito sul pavimento, e aprì il fuoco contro due arabi stupefatti che morirono prima di avere il tempo di opporre una reazione. Trovò subito la scala sulla sinistra e prese a salirla di corsa, mentre dalla porta sopraggiungeva Barbara. In quattro salti fu al primo piano, proprio nel momento in

cui appariva la tozza sagoma di Borrelli, con in pugno un piccolo Sten. Borrelli al vedere Larren ebbe un attimo d’esitazione, e quell’attimo gli costò la vita. Larren si ricordò di Powell e di Chevalier e della promessa che aveva fatto, e provò quasi un godimento fisico nell’uccidere il suo avversario. Borrelli cadde sul pavimento, ruzzolando poi lungo le scale. La porta della cabina radio era spalancata e Larren la attraversò con un salto, tuffandosi subito dopo in terra stringendo la pistola mitragliatrice con le due mani, mentre sul suo capo passavano alcune raffiche, sparate dai due operatori radio. Allora rotolò su un fianco, e prima che i due potessero abbassare la mira lasciò partire una sventagliata alle gambe, allo scopo di non danneggiare l’impianto radio. I due operatori caddero urlando di dolore, e Larren fu immediatamente su di loro, allontanando con un calcio le loro armi. Uno svenne per la sofferenza, l’altro per il preciso calcio alla nuca sferratogli da Larren. A quel punto la cabina radio era in sue mani, e si voltò per attendere Barbara. La ragazza era ancora al pianterreno e teneva a bada gli assalitori sparando attraverso la porta. Aveva avuto la prontezza di spirito di raccogliere le armi delle due prime guardie, e le aveva sistemate a tracolla sulle spalle. Si affacciò sulle scale, urlandole di salire. Lei si volse e subito dopo vacillò, portandosi una mano allo stomaco. Larren lasciò partire una lunga raffica attraverso la soglia, sopra il capo della ragazza, poi gettò l’arma oramai scarica e prese lo Sten caduto dalle mani di Borrelli. Ignorando le furiose raffiche che provenivano dall’esterno, si precipitò nuovamente al piano terreno e afferrò Barbara prima che cadesse. Lei gli si abbandonò contro, e insieme risalirono lentamente alla cabina radio. Larren imprecava sottovoce, e ogni tanto, sempre sostenendo la ragazza, si voltava per lasciar partire qualche raffica di Sten. Entrati nella cabina, abbandonò Barbara per respingere gli assalitori che stavano per invadere il pianterreno, e dopo qualche istante il rumore dei colpi si placò. Allora si volse e vide che la ragazza stava appoggiata alla parete, con un’espressione di sofferenza dipinta sul volto. Era pallidissima e stringeva i denti per il dolore. Teneva ancora la pistola in mano, ma la sinistra contratta sullo stomaco era inondata di sangue. Larren posò lo Sten e stava per strapparsi la camicia per farne delle fasce, quando la ragazza lo fermò dicendogli debolmente: «No, Simon, non c’è tempo. Vai alla radio mentre io cerco di tenerli a bada. Devi trasmettere quel messaggio!» Larren esitò, ma la ragazza si mosse verso la porta, appoggiandosi al battente e togliendosi di spalla le due pistole mitragliatrici. Sollevò lo sguardo su di lui, e anche nell’agonia riuscì a non far tremare la sua voce. «La radio, Simon. Presto.» Larren si dedicò allora alla radio. Infilò la cuffia, si sedette e cominciò a parlare nel microfono cercando di sintonizzarsi girando una manopola. Alle sue spalle risuonarono nuovamente degli spari, ma Barbara ebbe ancora la forza di reagire.

Decise allora di ignorare completamente quello che avveniva dietro di lui, e si mise alla ricerca di una lunghezza d’onda, lanciando nel frattempo il segnale internazionale di soccorso. «Mayday… Mayday… Mayday… Per l’amor di Dio, è un’emergenza… Mayday… Mayday… Mayday…» Continuò a ripetere queste parole per cinque lunghi minuti, mentre Barbara gli proteggeva le spalle. Ogni tanto delle pallottole vaganti penetravano nella stanza, andando a conficcarsi nelle pareti o mandando in frantumi l’ampia vetrata, ma senza colpirli. Si voltò a guardare la ragazza accoccolata accanto alla soglia e capì che non avrebbe resistito ancora a lungo. Poi, d’improvviso sentì gracchiare dentro la cuffia. «Vostro Mayday ricevuto… Vostro Mayday ricevuto… Siamo un aereo da trasporto della Royal Air Force in volo da Gibilterra a Malta. Identificatevi e dateci la vostra posizione. Passo.» Larren trasse un sospiro di sollievo, e prese a parlare più lentamente e chiaramente che poté. Si identificò e segnalò la sua posizione approssimativa, aggiungendo che la Sezione Controspionaggio di Whitehall avrebbe dato ulteriori ragguagli su di lui. Il lontano pilota dell’aereo da trasporto sembrava incredulo e gli rivolse altre domande, ma l’urgenza nella voce di Larren lo fece presto desistere, e interruppe la comunicazione per trasmettere il suo messaggio. Larren si alzò lentamente togliendosi la cuffia. L’intensità dei colpi era nuovamente scemata, come se gli uomini dabbasso si fossero resi conto che il messaggio era ormai stato lanciato. Barbara era piegata in due sulla soglia, sempre con la pistola mitragliatrice in pugno, ma quando lui le pose un braccio sulla spalla l’arma le cadde andando a rimbalzare contro il muro. Il davanti della sua camicetta era completamente inzuppato di sangue, aveva sangue sulle mani e sulle braccia ed anche ai suoi piedi si era formata una piccola pozza di sangue. Ma il viso era bianchissimo, e i suoi seni si muovevano impercettibilmente quando si accasciò sul pavimento. Larren posò lo Sten e le sollevò dolcemente il capo. Per la seconda volta nella sua vita l’emozione lo stava soffocando, e le sfiorò la fronte con un bacio, sussurrandole: «Andrea. Ti prego, non un’altra volta, Andrea.» Poi lei aprì gli occhi e fece ondeggiare i capelli color rame volgendo il capo. «Mi chiamo Barbara», disse debolmente. Poi, raccogliendo le ultime forze in un attimo di lucidità, mormorò: «Povero Simon. Mi dispiace tanto.» Larren la vide chiudere gli occhi, poi d’improvviso si udì un confuso rumore di passi per le scale accompagnato dagli spari di Khalil e dei suoi uomini. Simon Larren depose in terra la ragazza e prese il suo Sten. Nei suoi occhi gelidi brillava nuovamente una incontrollabile smania di uccidere. CAPITOLO XIX I CIELI DI LONDRA

A, LONDRA era una bella giornata di giugno, e i marciapiedi di Whitehall e dello Strand erano pieni di gente silenziosa. La maggior parte di loro aveva atteso tutta la notte armati di coperte e thermos, ed ora stava per avere inizio il corteo funebre. La bara, da Westminster Hall dove era rimasta fino a quel momento, era stata lentamente trasportata fino all’affusto di cannone in attesa ed ora stava per cominciare il suo ultimo viaggio. Nel cielo, una squadriglia di Lightnings della Royal Air Force volteggiava in formazione chiusa per rendere il suo omaggio, essendo stato Sir Howard Davies pilota da caccia durante le epiche giornate della battaglia d’Inghilterra, e quello costituiva l’ultimo saluto da parte dei figli dei vecchi commilitoni. Il boato dei reattori passava alto sulla grande città in lutto, e quando si spense in lontananza l’affusto di cannone si mosse, seguito dal corteo. Da Parliament Square, il corteo raggiunse Whitehall e il bianco obelisco del Cenotaffio. Una leggera brezza faceva tremolare l’Union Jack che ricopriva la bara, e l’immensa folla venne percorsa da un brivido d’emozione. Milioni di cuori erano affranti, e milioni di occhi erano gonfi di lacrime non versate. Lo spettacolo era estremamente solenne, commovente e maestoso. A millesettecento chilometri di distanza, nel Mediterraneo, l’ufficiale comandante la base aerea di Malta leggeva una copia del messaggio trasmesso dal pilota di uno dei suoi aerei da trasporto in volo da Gibilterra. Impallidì e, augurandosi in cuor suo che si trattasse solo di un fantastico scherzo, ordinò che il messaggio venisse inoltrato con precedenza assoluta al Ministero dell’Interno. *** Nello stesso tempo lo Scimitar di Goodhart sorvolava l’Atlantico, quasi a pelo dell’acqua, diretto verso l’imboccatura del Canale d’Inghilterra. Era riuscito a superare senza essere individuato la Spagna prima di scendere dalla quota di quindicimila metri, ed ora si confondeva quasi con le acque dell’Atlantico per nascondersi il più possibile da un’eventuale osservazione aerea. Il sottotenente Peter Goodhart sedeva tranquillo al suo posto di pilotaggio, e non sembrava provare alcuna particolare emozione. Era un pilota particolarmente abile, aveva assimilato con profitto tutte le nozioni impartitegli dai piloti istruttori della Marina, e sorrideva avvicinandosi al suo bersaglio. Non si vedeva come strumento nelle mani di una banda di fanatici, anzi era convinto di passare alla storia. Appena lanciati i due missili, per un verso o per l’altro, avrebbe infatti cambiato il corso della storia. Ricordandosi di come lo aveva chiamato Powell, il pilota morto, fece una smorfia di disappunto. Da quel giorno in poi nessuno avrebbe più osato considerarlo un tesoruccio di mamma. Quella era la radice di tutte le sue deviazioni mentali. Il padre era morto che lui aveva appena quattro anni, e Goodhart era stato allevato da una madre dominatrice e possessiva. Qualunque cosa lui si accingesse a fare, lei insisteva per essergli di aiuto e guida, stroncandogli ogni iniziativa e precludendogli qualsiasi forma di indipendenza. Una volta, quando lui frequentava ancora le elementari, la madre, infuriata, aveva preso a schiaffi un maestro che aveva osato punirlo con delle

bacchettate. Da quel giorno, i compagni con genitori meno possessivi l’avevano immediatamente soprannominato «tesoruccio di mamma». E il marchio gli era rimasto. I bambini sono per natura trasandati, e il fatto che lui fosse sempre inappuntabile contribuiva ad alienargli le amicizie. Anche alle scuole superiori la madre, pur tenendosi nell’ombra, aveva continuato ad interessarsi in maniera morbosa di lui, e il marchio di «mammone» gli era stato nuovamente appiccicato come un’etichetta indelebile. Terminati gli studi fu lei, anzi il suo denaro, e le sue conoscenze, a procurargli un ottimo impiego. Stava diventando un’ossessione. Ma arruolarsi nell’Aeronautica della Marina era stata iniziativa sua, l’unica che potesse prendere in maniera autonoma. La madre aveva subito una specie di choc, ma la decisione del figlio non aveva minimamente intaccato la sua tenacità da bulldog: non passava giorno che non inviasse al figlio lunghissime lettere, quasi a ricordargli della sua esistenza. E così il danno era fatto; la Royal Navy poi, senza volerlo, aveva aggiunto quell’addestramento tecnico che faceva di lui lo strumento mortale di una banda di spostati. Goodhart doveva fare qualcosa, doveva concludere qualcosa che uscisse dal controllo diretto o indiretto della madre e dei suoi superiori della Marina, l’autorità dei quali aveva in certo modo sostituito quella materna. Lui, Peter Goodhart, era qualcuno, e l’avrebbe dimostrato con un gesto che l’avrebbe reso famoso nei secoli a venire. In quel momento ne aveva i mezzi e l’occasione. Era un uomo del destino. Stava per entrare nel Canale, ed era ora di riprendere quota prima di entrare in collisione con qualche imbarcazione. Sorrise tirando a sé la cloche e portando l’aereo quasi in assetto verticale. Il sole si rifrangeva sotto la fusoliera e sui missili Bullpup fissati alle ali, poi lo Scimitar raggiunse la velocità massima di milletrecento chilometri l’ora dirigendosi verso le coste dell’Inghilterra. *** Il sole splendeva ancora su Londra. L’affusto di cannone seguito dal corteo aveva superato Trafalgar Square, aveva percorso lo Strand, dai marciapiedi pieni di folla triste, aveva superato Fleet Street e saliva lentamente per Ludgate Hill. Davanti all’ampia scalinata della Cattedrale di San Paolo il corteo si fermò e si fecero avanti i portantini per sollevare il nobile fardello. All’interno, di fronte alla navata centrale, il mondo si era dato convegno per rendere l’estremo omaggio. I Grandi erano in attesa, le teste coronate d’Europa, i Capi di Stato e i Primi Ministri. Qui, l’Occidente piangeva insieme all’Oriente, Zuchev, Primo Ministro sovietico, era in piedi accanto al Presidente degli Stati Uniti. Il russo dai duri lineamenti indossava l’uniforme sovietica di Maresciallo dell’Aria, essendo anch’egli stato pilota da caccia durante la seconda Guerra Mondiale. Era legato per questo da vecchia amicizia con Sir Howard Davies, e aveva voluto recarsi personalmente ai suoi funerali. Il loro legame aveva contribuito ad allentare la tensione internazionale da quando Zuchev era salito al potere, e anche da questo punto di vista la scomparsa di Sir Davies apriva delle grosse incognite.

*** A Whitehall, nell’imponente edificio del Ministero degli Interni, un altro Maresciallo dell’Aria stava leggendo il sintetico rapporto appena pervenuto dalla base aerea di Malta. Impallidì alle prime righe. Esitò un attimo, pensando di mettersi in contatto con il Controspionaggio per accertarsi che quel Larren fosse una attendibile fonte di informazioni, ma poi comprese che il ritardo avrebbe potuto essere fatale. Allora decise di assumersi tutte le responsabilità, e afferrò il telefono facendosi mettere in contatto con il Comando della più vicina squadriglia da caccia. *** Quattro minuti dopo, una formazione di sei caccia Hunter da intercettazione si sollevava da una base nel sud est dell’Inghilterra. Erano equipaggiati con cannoncini Aden da 30 millimetri, ed avevano fissati sotto le ali due missili aria-aria Firestreak. Se fossero partiti solo quattro minuti prima sarebbero arrivati in tempo, e i loro perfezionatissimi Firestreak con testata ad infrarossi a ricerca di calore avrebbero raggiunto il loro bersaglio. Ma sebbene gli Hunter sviluppassero una velocità superiore a quella dello Scimitar, Goodhart era ormai sul cielo d’Inghilterra e la tragedia si stava per compiere. *** Mentre sorvolava il Surrey alla massima velocità, Peter Goodhart non immaginava nemmeno di avere evitato per un pelo di trovarsi muso a muso con una formazione di Hunters. Ma sapeva di essere stato individuato dai radar costieri, non avendo ottemperato ad un messaggio radio con il quale gli si chiedeva di identificarsi. La voce dell’operatore sembrava stupita, e Goodhart sorrise tra sé immaginando la confusione creata dall’aereo sconosciuto con le insegne inglesi. Avrebbero preso affannosamente delle misure d’emergenza, ma ormai lui aveva quei minuti di vantaggio che gli erano necessari. Superata la costa era sceso di quota e ora volava nuovamente quasi toccando il suolo. A quella quota nulla avrebbero potuto contro di lui i missili antiaerei Bloodhound, ed aveva troppo vantaggio per potere essere intercettato dai caccia. Era a tre minuti dal suo bersaglio. *** Nell’ampia navata centrale della Cattedrale di San Paolo echeggiarono le prime tristi note dell’organo: il servizio funebre incominciava. Le personalità avevano gli occhi fissi al suolo. Fuori la folla attendeva, silenziosa ed immobile. *** Al Ministero degli Interni il Maresciallo dell’Aria sembrava invecchiato di un migliaio di anni. Le Basi costiere avevano accertato che un caccia Scimitar si dirigeva su Londra a velocità d’attacco, e il Maresciallo sapeva che gli Hunter a quel punto non avrebbero fatto più in tempo ad intercettarlo.

Ma aveva ancora una carta da giocare. La squadriglia dei Lightning per il servizio d’onore sulla cattedrale era ancora in aria, e il Lightning era l’aereo più veloce d’Inghilterra, potendo raggiungere la velocità supersonica di duemilaseicento chilometri l’ora. *** I tre minuti che seguirono furono i più importanti nella frustrata esistenza di Peter Goodhart. Dietro la maschera d’ossigeno teneva la bocca contratta in un sorriso spasmodico, e gli occhi gli brillavano per il trionfo. Sapeva che a missione compiuta sarebbe quasi sicuramente morto, perché non era mai stato così sciocco da credere nell’ottimistico piano di fuga messo a punto dall’APP. Ma non gli interessava. Solo quel momento cruciale aveva per lui importanza, e sapeva anche che nel caso i Bullpup non avessero per qualche motivo funzionato, avrebbe dovuto andarsi a sfracellare con l’aereo sulla cupola della cattedrale. Era arrivato a tal punto di esaltazione. Londra, con la sua massa scura, e con il Tamigi in lontananza, gli apparve d’improvviso di fronte. Il fiume gli apparve per la prima volta blu, di solito era azzurro. Inondata dal sole di giugno la città sembrava più luminosa e pulita, e la cosa gli parve di buon auspicio. L’imponente cupola della Cattedrale di San Paolo si stagliava contro il cielo. La sua mano si posò sull’interruttore di lancio dei Bullpup. Entro pochi secondi si sarebbe trovato a distanza di lancio. Dette un ultimo sguardo al cielo sgombro di nuvole prima di concentrarsi sulla cattedrale, poi il sorriso gli si gelò sulle labbra nello scorgere sei sagome argentee che puntavano su di lui. *** Il capo squadriglia che comandava il Lightning di testa iniziò una breve picchiata, subito imitato dagli altri componenti, appena vide sotto di sé lo Scimitar. Dovendo effettuare dei semplici passaggi sopra la cattedrale gli aerei erano disarmati, ma non ebbero alcuna esitazione a puntare contro il caccia di Goodhart. Se solo fossero riusciti ad allontanarlo per qualche minuto, avrebbero completamente eliminato il margine di vantaggio che aveva sugli Hunters. *** Nella cabina dello Scimitar, Peter Goodhart si mise a gridare come un bambino. Aveva riconosciuto le sagome dei Lightning supersonici, e sapeva di non potere competere con loro. Tolse la sinistra dall’interruttore di lancio dei missili, e cercò disperatamente di porsi fuori tiro dal primo caccia. Socchiuse gli occhi ed inarcò il corpo, in attesa da un momento all’altro della raffica che l’avrebbe abbattuto. Ma non vi fu alcuna raffica. Il Lightning gli passò vicinissimo con un frastuono infernale, ma senza sparare un colpo. Riaprì gli occhi e vide un altro aereo che puntava su di lui; evitò anche questo, e nemmeno stavolta il pilota adoperò le armi di bordo. Allora capì la situazione. La squadriglia era disarmata, dovendo effettuare

semplicemente un servizio d’onore. Scoppiò in una risata isterica, e riportò lo Scimitar in direzione della cattedrale. Venne affrontato dal terzo Lightning, ed anche stavolta riuscì a schivarlo all’ultimo momento. Con tutti quegli zig-zag si era allontanato di diverse miglia dal suo bersaglio, ma ora che i Lightning si erano dimostrati innocui poteva portare a termine la missione. Nei cinque minuti che seguirono venne combattuta sul cielo di Londra una singolare battaglia aerea. A Goodhart era tornato completamente il coraggio, ed ora non esitava più a servirsi del suo cannoncino Aden da 30 millimetri, per tenere gli avversari ad una certa distanza. I sette aerei compirono pericolose acrobazie, mentre la squadriglia cercava di allontanare lo Scimitar dal bersaglio senza entrare nel campo d’azione delle sue armi di bordo. Ma non vi fu nulla da fare; Goodhart si trovò nuovamente in vista della cattedrale, e la sua mano corse nuovamente al comando di lancio dei missili. *** Il comandante della squadriglia dei Lightning, dopo aver ripreso quota, si rese conto che gli Hunter non avrebbero più fatto in tempo ad intercettare lo Scimitar, una volta che la sua squadriglia non era riuscita a tenerlo lontano per il tempo necessario. Solo un sacrificio avrebbe potuto evitare la tragedia, e con una preghiera il pilota raccomandò la sua anima a Dio e iniziò un’ultima picchiata a velocità supersonica. Goodhart udì il boato del Lightning che infrangeva la barriera del suono, e per una frazione di secondo ne intravide la sagoma che si abbassava ad incredibile velocità. Poi i due aerei entrarono in collisione ed esplosero, in un caos di fumo e di fiamme. Sopra di loro, gli altri componenti della squadriglia assistettero pallidissimi al sacrificio del loro comandante. Poi, da sud est, videro apparire le sagome degli Hunter intercettatori. Nella Cattedrale di San Paolo si spegnevano in quel momento le ultime note del servizio funebre. CAPITOLO XX CONFERENZA FINALE UN’ORA dopo il drammatico messaggio radio di Simon Larren, sulla pista dell'aeroporto sperduto nel deserto atterrò un aereo carico di soldati algerini. Il governo di Algeri era stato informato della situazione da Whitehall, e dato anche che il Presidente algerino si trovava presente ai funerali di Sir Howard, le autorità locali non persero tempo ad agire. I soldati appena scesi dall’aereo incontrarono pochissima resistenza. Il maggiore che li comandava corse immediatamente con un plotone verso la torre di controllo, e in tre minuti ebbero ragione degli occupanti. I capi, un europeo con una giacca a vento, e un alto arabo dal naso adunco che indossava un elegantissimo vestito bianco, ora inzuppato di sangue, giacevano cadaveri ai piedi delle scale che portavano alla cabina radio.

Il maggiore algerino si precipitò per le scale stringendo in pugno una carabina automatica, seguito dai suoi uomini, e si fermò sulla soglia della cabina radio. Dentro c’era un uomo inginocchiato in terra accanto al cadavere di una ragazza. L’uomo era immobile, con le spalle curve, e non sollevò lo sguardo. Accanto a lui si vedevano uno Sten e quattro pistole mitragliatrici, e nella stanza l’aria era impregnata dall’odore di cordite, sangue e morte. Il maggiore si volse e impartì un ordine, e un momento dopo un ufficiale medico salì per le scale. Depose in terra la sua valigetta, si inginocchiò e scosse poi il capo nel constatare l’enorme quantità di sangue che era uscita dalla ferita allo stomaco della ragazza. Non provò nemmeno a tastarle il polso, e guardò Larren. «Non c’è più nulla da fare, mi spiace.» Parlava in francese, con voce calma e rammaricata. «Si sarebbe salvata se si fosse arrestata l'emorragia. Ora è troppo tardi.» Larren sollevò lentamente il capo e guardò l’estraneo di fronte a lui. L’eco delle sue parole gli si ripercuotevano nella mente. «Se si fosse fermata in tempo l’emorragia.» Rispose amaramente. «Lo so… ma non c’era tempo.» Si sollevò in piedi, e il maggiore gli si avvicinò per aiutarlo. Lui rifiutò l’aiuto con un cenno del capo, poi guardò l’ufficiale in viso. «Ritengo che li abbiate catturati tutti», disse. «Borrelli e Khalil, i due capi, sono morti. L’unico ancora in grado di guidarli è un certo Ricard, e credo che abbia perduto la sua fedeltà alla causa da quando gli hanno ucciso l’amico.» Si interruppe, per poi proseguire lentamente. «In una delle celle c’è un uomo in pessime condizioni, di nome Hegler. Risponderà lui a tutte le vostre domande.» Il maggiore assentì, e cominciò ad impartire degli ordini. Avanzarono due soldati per sollevare il corpo di Barbara, ma Larren li fermò. Raccogliendo le forze, si inginocchiò nuovamente e la sollevò tra le sue braccia. Rimase per un momento immobile, poi si diresse verso le scale, e quando parlò un nodo di pianto gli attraversava la voce. «Perché non è successo a me invece che a lei? Io sono un assassino… un macellaio. Io sono il cane idrofobo che liberano quando ci sono da combattere degli altri cani idrofobi. Perché non è successo a me?» Ma non ebbe alcuna risposta. *** Quello stesso giorno, a Zurigo, il Consiglio Supremo dell’APP tenne la sua ultima sessione. Si era riunito con procedura d’urgenza nella sala convegno di uno dei numerosi uffici di Raab, e fu ancora una volta Raab a presiedere la riunione. Stavolta erano solo in quattro, e la poltrona di solito occupata da Khalil era vuota. Raab si alzò in piedi, controllandosi come sempre, con un tono di voce calmo e pacato. Parlò come se si rivolgesse all’assemblea degli amministratori di una grossa società per azioni. «Signori», esordì lentamente. «Penso siate tutti al corrente delle notizie che si sono sparse per il mondo nelle ultime ore. Il sottotenente Goodhart non è riuscito a portare a termine la sua missione. Il suo Scimitar è entrato in collisione sul cielo di Londra con un Lightning inglese. Nobile gesto, lo riconosco, che ha però mandato a monte

una nobile causa. La nostra sezione algerina è stata catturata, e sembra che il nostro amico Khalil sia stato ucciso.» Fece una pausa, poi riprese. «Signori, siamo stati sconfitti. La nostra organizzazione è stata sgominata, e non passeranno molte ore prima che la polizia risalga fino a noi. Quello che abbiamo tentato di realizzare ci ha messo contro tutte le polizie di questa terra, ed anche con le nostre notevoli risorse non credo che al punto in cui sono precipitate le cose abbiamo molte possibilità di salvezza. Ed in ogni caso, io non proverò nemmeno a fuggire. Non sarei capace di trascorrere il resto della mia vita come un animale braccato, né intendo sottopormi al disonore di un tribunale, e di una sicura condanna a morte.» Sorrise. «Come vedrete, signori, ho pensato anche per voi.» Si risiedette lentamente, e i suoi tre soci posarono gli occhi sulla lucida automatica sul tavolo davanti a lui. L’avevano notata appena erano entrati nella sala, e neanche in quel momento riuscivano a credere in quello che Raab diceva. Poi Lemmer si alzò in piedi, e prese a dire con voce tremolante: «Ma, Raab…» Non terminò la frase, e rimase come incantato a guardare Raab che, sempre sorridendo, si portava l’automatica alla tempia. La mano non gli tremava minimamente, e premette il grilletto con una certa delicatezza. Il rumore dello sparo e il vedere Raab cadere fulminato immobilizzarono per un attimo i tre. Poi Lemmer si alzò e prese a correre in direzione della porta, seguito immediatamente da Collard, il belga. Solo Neumann restò al suo posto, con lo sguardo ancora fisso sulla pistola che era caduta nuovamente sul tavolo. I due si precipitarono per le scale, ignorando l’ascensore e spingendo di lato alcuni impiegati stupefatti e atterriti dal rumore dello sparo. Erano giunti a metà strada quando udirono una seconda esplosione, che stava ad indicare come Neumann, nella sua teutonica determinazione, avesse preferito seguire l’esempio di Raab. L’eco dello sparo non fece che spronare i due, che ripresero immediatamente la loro corsa disperata verso l’uscita. Lemmer, che era in testa, si fermò giunto al piano terra, e Collard che lo seguiva andò quasi a sbattergli contro, immobilizzandosi subito dopo a sua volta. Sui loro volti si dipinse un’espressione a mezza strada tra il dispetto e la rassegnazione. Attraverso l’ampia vetrata che dava sulla strada avevano visto due efficienti poliziotti svizzeri che con aria decisa correvano nella loro direzione. FINE