Giuseppe Conte il trasformista. I voltafaccia e i segreti di un premier per caso 8856675765, 9788856675764

Chi è davvero Giuseppe Conte? Come è stato possibile che un anonimo professore universitario sia diventato il premier «b

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Giuseppe Conte il trasformista. I voltafaccia e i segreti di un premier per caso
 8856675765, 9788856675764

Table of contents :
Copertina
L’immagine
Il libro
Gli autori
Frontespizio
GIUSEPPE CONTE IL TRASFORMISTA
1. Il giorno in cui il professore divenne premier
2. Un’anguilla a Palazzo Chigi
3. Il bambino prodigio alla corte del Vaticano
4. Tante parcelle e una capanna
5. Curriculum & affari
6. Innocenti evasioni
7. La caducazione della concessione
8. Il papocchio di Biarritz
9. A star is born
10. L’avvocato delle spie
11. I mille volti di Giuseppi
12. Conte, il camaleonte
13. Lo smemorato di Volturara Appula
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Il libro

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anonimo professore universitario sia diventato il premier «buono per tu e le stagioni», osannato dalle cancellerie europee?

In questi mesi al potere è passato con disinvoltura da destra a sinistra, da

populista ad avvocato dei poteri forti, da ingenuo a spietato. Giuseppe Conte è indubbiamente il presidente del Consiglio più ambiguo e misterioso della storia della Repubblica. Le giravolte, l’astuzia e il linguaggio ingarbugliato ne fanno un simbolo di questi tempi strani, in cui la politica può dire tu o e il contrario di tu o. Ma dietro le poche e, gli abiti sartoriali e la sua riconosciuta cortesia, abita un trasformista scaltrissimo e machiavellico, forse il più fulgido erede di democristiani e dorotei. Maurizio Belpietro, una delle migliori firme del giornalismo italiano, svela con Antonio Rossi o tu i i segreti e i voltafaccia dell’irresistibile carriera del professor Conte. La vicinanza agli ambienti vaticani, fondamentali per la sua ascesa politica. Gli incroci accademici e lavorativi con il suo mentore, il potentissimo Guido Alpa. Le trame internazionali, ordite per la rielezione e far fuori Ma eo Salvini. E poi i rapporti con i servizi segreti e gli 007 americani, mentre esplode il Russiagate. «Giuseppi», il presidente per caso, adesso è pronto a tu o.

Gli autori

MAURIZIO BELPIETRO dirige La Verità, che ha fondato nel 2016, e Panorama. È stato vicedire ore de L’Indipendente e del Quotidiano Nazionale e dire ore de Il Tempo, Il Giornale e Libero. Punto di riferimento nel diba ito politico dei talk show, ha condo o in tv Dalla vostra parte e L’antipatico. Per Sperling & Kupfer ha scri o I segreti di Renzi e Islamofollia. ANTONIO ROSSITTO è inviato speciale di Panorama e collabora con La Verità. Si occupa di politica e inchieste. Ha scri o Sangue blu. Deli i e misteri dell’alta società (Mondadori) e, con Francesco Borgonovo, Bibbiano. I fabbricanti di mostri (Panorama-LaVerità).

Maurizio Belpietro con Antonio Rossi o

IL TRASFORMISTA I voltafaccia e i segreti di un premier per caso

GIUSEPPE CONTE IL TRASFORMISTA

«Oggi ci presentiamo a voi per chiedere la fiducia a favore non solo di una squadra di governo, ma di un proge o per il cambiamento dell’Italia.» GIUSEPPE CONTE , 5 giugno 2018, dal discorso d’insediamento del governo

«Finora ogni difficoltà è stata affrontata e superata con grande coraggio e nell’insegna del desiderio di cambiamento. Questo desiderio accomuna Lega e M5S ed è quello che perme erà al governo di durare cinque anni.» GIUSEPPE CONTE , 31 dicembre 2018, da un’intervista al quotidiano statunitense «America oggi»

«Questo proge o politico segna l’inizio di una nuova, che consideriamo risolutiva, stagione riformatrice.» GIUSEPPE CONTE , 9 se embre 2019, dal discorso d’insediamento del nuovo governo

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Il giorno in cui il professore divenne premier

«Mi dicono che lei sta scrivendo un libro contro di me.» La telefonata è partita dal cellulare di Rocco Casalino, il portavoce di Palazzo Chigi. Mentre rispondo, non immagino certo che mi sarei ritrovato a parlare con Giuseppe Conte. «Il premier vuole ringraziarti per aver pubblicato su “La Verità” una sua intervista» annuncia Rocco, prima di passarmi il presidente del Consiglio. Una cortesia, penso, in linea con lo stile del professore di Diri o prestato alla politica, anzi ai 5 Stelle. Ma capisco subito che le parole del capo del governo hanno un altro obie ivo: sapere se è vero quello che si dice in giro. Da giorni, Le Iene e «La Stampa» fanno rimbalzare una voce nel nostro piccolo mondo antico di cronisti: sta per uscire un libro bomba su Giuseppe Conte. Ora, io non so se quelle che leggerete siano le notizie bomba che cercavano di scoprire i colleghi giornalisti, nella speranza di bruciarci sul tempo. So però che il pomeriggio dell’8 novembre 2019, il presidente del Consiglio mi chiama per reiterare con voce flautata ciò che in qualche modo ci ha già de o nell’intervista concessa a Maurizio Caverzan per il nostro giornale. Occhio a quel che scrivete. Oltre che capo del governo sono un avvocato, le citazioni in giudizio sono il mio pane quotidiano. La telefonata del professore con la poche e, il premier dal baciamano perfe o, l’uomo che ha un vestito di sartoria per tu e le stagioni, non è una minaccia. È solo una precisazione. Quasi un anticipo di re ifica. Per dirla in termini legali: la chiamata è una specie di diffida, un invito a non pubblicare, o per lo meno a pubblicare con cura. Gli argomenti che riguardano il premier, il presunto confli o di interesse e la sua inarrestabile ascesa, sono pericolosi. Da maneggiare con cura. Chi sbaglia, rischia grosso.

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Al preavviso di citazione, rispondo ovviamente con lo stesso garbo usato da Conte: «Presidente, non stiamo scrivendo un libro contro di lei, ma su di lei. Fino a due anni fa lei era un illustre sconosciuto, un ignoto docente universitario, anche se già ben inserito nel mondo della giustizia e del potere. Oggi è uno degli uomini più potenti del paese, a capo di un governo di grandi intese, sopra u o estere. Ed è pure responsabile dire o dei servizi segreti. Per chi fa il nostro mestiere, raccontarla è un dovere». La risposta non deve averlo entusiasmato. Convinto di non essere stato chiaro, a questo punto il professore di Volturara Appula, docente dal linguaggio volutamente paragiuridico e parapolitico, diventa più esplicito: «Si sono scri e tante cose imprecise e non vorrei che altre se ne scrivessero. Capisco che ragioni politiche inducano alla critica, ma gli insulti no». Non so perché Conte usi questo sostantivo: insulti. Forse reputa offensivo che qualcuno scandagli la sua vita privata e la sua carriera universitaria. O forse ritiene che le critiche alla sua persona siano di per sé un oltraggio. Sta di fa o che, al garbo del capo del governo, contrappongo medesima grazia: «Presidente, se avrà la pazienza di riceverci, verificheremo con lei le informazioni, perché non è nostra abitudine insultare nessuno, figurarsi lei». E così mi congedo, prome endo di richiedere un incontro per chiarire i passaggi di una carriera strepitosa, che da un paesino della Puglia ha portato un riservato professore a trasformarsi nel più scaltro dei politici. Tanto scaltro da aver messo tu i nel sacco, nemici e amici. Il duello con l’avvocato del popolo, cominciato al telefono, era dunque rinviato alle prossime se imane. Antonio Rossi o e io avremmo messo sul tavolo le nostre carte, chiedendo a Conte chiarimenti su certi passaggi della sua storia, presente e passata. Su quella carriera costruita con tanta maestria e altre anta fortuna. Ma prima di arrivare all’incontro con Conte e alle domande che gli abbiamo rivolto, devo raccontare quando ho conosciuto il futuro presidente del Consiglio. Ovvero, quando ho avuto la ventura di trovarmi davanti il “professor Nessuno”, come lo appelleranno i giornali, in procinto di diventare qualcuno. La colpa è di quel vecchio brontolone di Giampaolo Pansa, il maestro di tu i noi

p cronisti di cose politiche. Dovete sapere che a maggio del 2018, dopo la vi oria dei 5 Stelle e della Lega, l’autore del Bestiario d’Italia diventa una pentola a pressione che rischia di esplodere. Il trionfo dei partiti più antisistema non lo fa dormire di no e. È preoccupato per le sventure che figuri come Di Maio e Salvini potrebbero causare all’Italia. Dei due, detesta in particolare il capitano leghista, che non manca mai di a accare ogni sabato su «La Verità», il giornale di cui sono dire ore, prendendo a pretesto ogni cosa. Una volta è la ciccia debordante del futuro ministro dell’Interno. Un’altra è la barba mal curata inada a a un leader, o la camicia fradicia di sudore indossata in uno studio televisivo senza aria condizionata. Salvini è la bestia nera del Bestiario. La faccenda rischia di annoiare, più che i le ori, lo stesso Pansa. Una se imana sì e l’altra pure, minaccia di interrompere la rubrica. Così per addolcirlo, come facevo ogni volta che lo sentivo sulle spine, decido di andarlo a trovare. Pansa vive in un paese sperduto della Toscana. Da Milano, serve un viaggio in treno fino a Firenze e poi un prosieguo in auto per un altro paio d’ore, su strade deserte e contorte che a raversano la campagna della Val d’Orcia. Il pranzo è veloce e il discorso laconico, tipico dello stile di Giampaolo. Chiuso l’argomento e rabbonito il domatore del Bestiario, rifaccio il viaggio all’incontrario: due ore di macchina più due ore di treno, con sosta nella sala d’a esa del Frecciarossa, a Santa Maria Novella. E proprio qui, mi capita di conoscere Giuseppe Conte, poche ore prima che diventasse presidente del Consiglio. A dire il vero, cercavo la toile e per problemi idraulici. Mentre mi avvio in tu a fre a verso il bagno, mi scappa però l’occhio su un signore: in piedi, appoggiato al bancone della lounge, sfoglia una copia del «Corriere della Sera». Ha gli AirPods alle orecchie, le cuffie e senza fili che si usano con l’iPhone, ma quando lo saluto dicendogli «Buongiorno professore» si gira di sca o. Non l’avevo mai visto, se non in tv: il giorno in cui s’era affacciato nella sala del Quirinale, appena ricevuto da Sergio Ma arella l’incarico esplorativo per formare un nuovo governo. E poi quando, da quella stessa sala, aveva comunicato di rime ere il mandato dopo il veto

p del presidente della Repubblica (e dell’Europa) su Paolo Savona ministro dell’Economia. Dal vivo sembra un po’ più basso dell’uomo apparso in televisione, ma la poche e è la stessa e la flemma pure. Quel giorno sta rientrando a Roma, dopo una lezione all’università. Sembra già destinato a ritornare nell’anonimato da cui è uscito all’improvviso grazie a Luigi Di Maio, che lo ha scelto per diventare premier di un esecutivo con la Lega. Lui stesso pare rassegnato a una carriera politica stroncata sul nascere. Anzi, prima ancora di nascere. Infa i, dopo avermi riconosciuto, comincia a lamentarsi di come la stampa lo ha maltra ato in quei pochi giorni da esploratore di governo. Passato ai raggi X manco avesse qualcosa da nascondere. Il tra amento, evidentemente, lo ha lasciato tramortito. Non si dà pace d’essere stato rivoltato come un calzino. In particolare, l’ha colpito la faccenda del suo curriculum «gonfiato»: così lo definisce tu a la stampa di sinistra che non vuole un governo 5 Stelle-Lega. E poi le tasse non pagate, che gli sba ono in faccia quasi fosse un mezzo imbroglione. Cerca comprensione, quasi conforto. Vuole sentirsi dire che non ha fa o nulla di male. È vero, si difende, tra le esperienze accademiche ha citato anche i soggiorni brevi in giro per il mondo, ma si tra a di viaggi più che studi. Peccatucci veniali, suvvia. Sopra u o, gli dispiace però di passare come una specie di evasore fiscale: un furbo che dimentica, spesso e volentieri, di pagare le tasse. «Ma io sono sempre impegnato fuori casa» chiarisce. «Le le ere dell’Agenzia delle entrate si sono accumulate.» Cerca di spiegami perché il fisco, lamentando i mancati pagamenti, ha messo le ganasce fiscali a un suo immobile. «Quando me ne sono accorto ho saldato tu o, me endomi in regola con l’erario.» Il senso è chiaro: è stato un errore dovuto alla lontananza da casa, ma poi ha rimediato. Lui è vi ima di un sopruso. Non di Equitalia, ma dei cronisti. Sui suoi trascorsi la «vil razza dannata» non ha mostrato alcun riguardo, scavando con ferocia. «È la stampa bellezza, e tu non ci puoi fare niente» gli faccio capire, pur senza usare la frase di Humphrey Bogart. Il futuro presidente del Consiglio, appreso che il tra amento non ha nulla di

p g pp personale, non sembra sollevato. Ha l’aria del cane bastonato, di chi si rende conto di aver avuto la fortuna a portata di mano e se l’è vista fuggire. Guardandolo, certo non immagino cosa stia per succedere di lì a poche ore. Quell’uomo abba uto appare rassegnato a dividere il suo tempo tra gli studenti universitari e lo studio professionale specializzato in pareri legali. Invece, di lì a breve, diventerà presidente del Consiglio. Il treno che Giuseppe Conte sta per prendere non è il Frecciarossa, il convoglio che lo porta avanti e indietro fra Roma e Firenze. È il treno della vita: un convoglio che lo sta per condurre al vertice del paese. A sedersi al tavolo con grandi della terra, come Donald Trump, Angela Merkel ed Emmanuel Macron. L’anonimo professore, che in quella sala d’a esa nessuno pare riconoscere, è destinato al grande viaggio. Mentre il futuro avvocato del popolo si lamenta per il tra amento ricevuto dalla stampa, Carlo Co arelli ge a infa i la spugna. È il tardo pomeriggio del 31 maggio 2018: anche l’altro professore a cui Ma arella ha affidato l’incarico esplorativo, dopo la prima rinuncia di Conte, comunica al presidente della Repubblica d’aver fallito. Non è riuscito a trovare una maggioranza disposta a votarlo. Il governo tecnico non c’è. L’ex dire ore del Fondo monetario internazionale passa la mano. Dunque si riaffaccia la strana alleanza gialloverde, unico incastro possibile per far nascere un esecutivo. Non so quando Conte abbia ricevuto la chiamata del Colle: se subito dopo il nostro colloquio nella sale a della stazione di Firenze o mentre è in viaggio per tornare a casa. In serata però corre già al Quirinale. Davanti alle telecamere, fa il trionfale annuncio: acce a l’incarico di formare un nuovo governo. Da abbacchiato che era fino a poche ore prima, sullo schermo televisivo appare giulivo. L’avventura di Giuseppi è iniziata. Sarà il premier più trasformista della storia. Una specie di Fregoli della politica. Be’, credo allora che sia arrivato il momento di iniziare il libro su Conte. Cominciando da quando, passati alcuni mesi, mi invita a Palazzo Chigi. Mario Giordano deve intervistarlo per il nostro quotidiano. E il premier vuole che anch’io partecipi all’incontro.

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Un’anguilla a Palazzo Chigi

«Ma voi de “La Verità”, come fate a stare in piedi?» Giuseppe Conte ha appena confermato a me e Mario Giordano la sua fama di uomo ben educato. Ci ha dato appuntamento alle 11 di martedì 18 se embre 2018, nel suo ufficio a Palazzo Chigi. Ed eccolo qui, puntuale come se non avesse altro da fare che concederci un’intervista. A differenza degli altri presidenti del Consiglio che ho avuto modo di intervistare, non ci fa fare anticamera e non finge di avere un dossier da studiare o un capo di stato da incontrare. Renzi, prima di vedermi, aveva sempre una riunione con Ban Kimoon e sul tavolo le pratiche di una grana che da solo, alle sei del ma ino, era stato costre o a studiare. Giuseppe Conte no. Forse non si è già abituato a gestire il potere. E a mostrarlo a comuni mortali e comuni giornalisti. In fondo è a Palazzo Chigi da poco più di tre mesi, con l’intermezzo della pausa estiva. Non è ancora il consumato e scaltro presidente del Consiglio che si prepara a diventare. Nel suo ufficio ci accoglie con cortesia, fresco e inamidato come lo si vede in tv. Sembra perfe amente a suo agio nel ruolo di padrone di casa, seppure sia la casa pubblica del governo. Io e Mario ci accomodiamo sul divano. Lui si siede di fronte, sulla poltrona. Nell’altra prende posizione Casalino, plenipotenziario dell’informazione a 5 Stelle. È stato lui a farmi sapere tramite Giordano, dire ore del TG4 e editorialista per «La Verità», che il presidente avrebbe gradito anche la mia presenza. E dunque ora siamo al cospe o del professore fa o premier. L’inizio è un po’ surreale. Sembra che sia lui a intervistare noi e non il contrario. Vuole sapere come va il giornale. Ma sopra u o vuole capire come mandiamo avanti la baracca. Prima di lui, se ne era stupito anche il so osegretario all’editoria, Vito Crimi. È l’uomo

p g che i 5 Stelle, i quali considerano i contributi a fondo perduto per la stampa una mangiatoia di stato, hanno incaricato di tagliare i viveri alle testate. L’onorevole è certo che una sforbiciata ai fondi me erà i giornali sul lastrico: un risultato che i grillini, nel loro furore anticasta, avrebbero gradito. Che il sentimento nei confronti dei cronisti non fosse d’irrefrenabile amore ne aveva già dato prova proprio Casalino. «Come farete adesso che il vostro giornale chiuderà?» chiese un giorno a Salvatore Merlo, un collega del «Foglio». Per i 5 Stelle, al pari del Parlamento, la stampa doveva essere aperta con l’apriscatole, proprio perché contigua al Potere con la p maiuscola. Del resto, uno dei primi «Vaffa» Beppe Grillo l’aveva rivolto dal palco di Bologna proprio a noi giornalisti. Dunque, Conte e Casalino muoiono dalla voglia di capire come, nel 2018, un quotidiano possa sopravvivere senza fondi dello stato. E senza che un editore paghi il conto, pretendendo in cambio di essere rimborsato dalla politica. Alla domanda rispondiamo in coro: «Semplice, vendiamo copie e abbiamo un po’ di pubblicità: quanto basta per chiudere il bilancio in pareggio». L’intervista a cui ci so opone Conte dura una decina di minuti. Il presidente, spalleggiato dal suo portavoce, vuole sapere tu o: in quanti siamo, chi c’è tra gli azionisti, quanti le ori abbiamo, dove vendiamo di più. Credo che si prepari a prendere le misure, per rendere efficace il taglio dei contributi al se ore. In un certo modo, potremmo diventare un testimonial per giustificare l’assunto grillino: gli editori sovvenzionati non sono capaci di fare il loro mestiere. Oppure, sono dei profi atori. Finito l’accertamento diffusione stampa e concluse le domande del premier, comincia la vera intervista: quella al capo dell’esecutivo della più inedita e pazza maggioranza di governo che l’Italia abbia mai visto. Io sono l’ospite che si è unito all’ultimo momento alla compagnia. Mario, il vero intervistatore, si è però preparato una lista infinita di domande. A cominciare dalla manovra economica, che si preannuncia in salita. I grillini vogliono introdurre il Reddito di ci adinanza. I leghisti fremono per Quota 100 e la Flat tax. Nessuno

sa però dove prenderanno i soldi. E nessuno ha chiaro da dove cominceranno. Bastano le prime parole di Conte per capire come andrà l’intervista. Il presidente del Consiglio, senza perdere il sorriso, ci informa che il governo partirà subito all’arrembaggio: Reddito di ci adinanza, Quota 100 e pure Flat tax. Nessuna di queste riforme avrà la precedenza. Tu e saranno avviate contemporaneamente: «Mai pensato di fare prima una riforma o un’altra». E i soldi? Nessun problema: «Ci sarà un meccanismo di gradualità». Significa che, all’inizio, sceglierete a chi dare il Reddito di ci adinanza, concentrandovi solo sulle pensioni? «Al momento, non mi sento di dare anticipazioni. Mi limito a osservare che l’impa o di questa riforma sarà subito significativo.» Davanti a noi si è appena materializzato il vuoto pneumatico. Conte riba e con garbo alle domande, ma senza dare mai una risposta. Le sue sono piccole lezioni di diplomazia e democristianità. Parla senza dire nulla. Non cade in nessuna delle trappole che Mario gli piazza davanti: so oscrive l’ipotesi delle pensioni di ci adinanza dal 1° gennaio 2019, il resto durante l’anno? «È una possibilità. Diciamo che stiamo valutando le riforme sul piano dell’a uazione temporale.» Insomma, l’antifona è chiara: il premier non ci avrebbe de o una sola parola sulla manovra. Né cosa avrebbe fa o per prima cosa, né quando le tre riforme sarebbero entrate in vigore, né a favore di chi. Più che un presidente del Consiglio, sembra un’anguilla, abile a scivolare dalle mani dell’intervistatore e sgusciare via senza lasciare nella rete nemmeno un’alga. Mario però non si perde d’animo: le pensioni di ci adinanza non sono un invito a evadere i contributi? «Ho le o sui giornali questa obiezione. Ne terremo conto.» E la Flat tax? «Ci sarà.» Comincerete prima dalle persone fisiche o dalle aziende? «Vedremo. È un gioco a incastri». La pace fiscale? «Stiamo valutando le soglie.» Mane e agli evasori? «È una sintesi giornalistica.» Volete essere severi con gli evasori, ma preparate la pace fiscale. «La pace fiscale non è un condono.» Non la disturba fare pace con uno che ha evaso un milione? «Nel quadro di una riforma organica del Fisco, possono

q g p essere considerate varie soglie, che non abbiamo ancora deciso.» Volete tassare le banche? «Non ne abbiamo discusso.» Si parla di tensioni nel governo: ha visto vacillare il ministro Tria? «No, non l’ho mai visto vacillare.» Ha minacciato le dimissioni? «Se il ministro dell’Economia l’avesse fa o, l’avrei saputo.» Il decreto per il ponte di Genova non indica il nome del commissario. Perché? «Non ne abbiamo parlato.» Nel Mediterraneo non ci sono più le navi delle ONG : lo reputa un successo? «Ho grande rispe o per le ONG e per le meritorie a ività che fanno in giro per il mondo.» Certe frasi di Salvini non le danno fastidio? Ha mai pensato che stesse esagerando? «Dico la verità: no.» Vi accusano di essere razzisti e xenofobi, citano Mussolini e Hitler… «Questo governo non è razzista e Salvini non è xenofobo.» Siete giudicati impreparati, si me ono in evidenza errori e gaffe. «Il clima massmediatico non è certo gravido di preziosi consigli.» Così, tra un’“a uazione temporale” e un “clima non gravido”, cominciamo a disperare. La sapone a di Palazzo Chigi ci sta scivolando dalle mani. A ogni domanda, il premier sguscia via senza dire nulla di preciso. Senza mai prendere un impegno: non dico con noi, ma almeno con i le ori. Le frasi sono da manuale del nulla. Capolavori di silenzio stampa durante una conferenza stampa. L’unico momento di imbarazzo si crea quando a bruciapelo, dopo aver ascoltato le non risposte di Conte, gli chiedo della legi ima difesa, cavallo di ba aglia della Lega. «È un tema delicato, cui bisognerà trovare soluzione tra i vari proge i in Parlamento.» Ma farete un disegno di legge o un decreto? A questo punto, per la prima volta, l’aplomb del presidente del Consiglio vacilla. La poche e nel taschino ha un fremito. Conte, per riuscire a trovare una risposta, si aggrappa a Casalino. Il portavoce è già al lavoro: sta chiedendo ad Alfonso Bonafede, il ministro della Giustizia. In effe i, a una velocità incredibile, Rocco digita il quesito sul suo cellulare. Il responso arriva dopo pochi istanti: niente decreto, iter lungo in Parlamento. La bomba, innescata da una domanda ina esa, è stata sminata. Il percorso può proseguire senza altri rischi. E, sopra u o,

incamminandosi verso il nulla. Le danno fastidio due vicepremier così a ivi e presenti anche sul piano mediatico? «Non mi sento per nulla oscurato. Al contrario: l’ho voluto, l’ho posto io come condizione.» E in quel momento, ci appare davanti agli occhi la vivida immagine di Conte, che prende da parte i due e li implora: «Vi prego, potete continuare a farmi ombra?». Quando usciamo da Palazzo Chigi, dopo quasi un paio d’ore, io e Mario siamo ancora tramortiti. A raversiamo piazza Colonna, per dirigerci verso la galleria Alberto Sordi. Ci sediamo ai tavolini di un bar. Ordiniamo un trancio di pizza romana e un bicchiere d’acqua. Mentre aspe iamo, ci guardiamo negli occhi increduli, prima di concludere scorati: «Ma questo è il presidente del Consiglio? In due ore di intervista, non ci ha de o praticamente nulla. A ogni domanda, ha dato una risposta evasiva, opponendo ai quesiti gli arzigogoli da giurista che fanno la fortuna degli studi legali e la sfortuna dei giornali». Siamo sconfortati. Certi di aver fallito la nostra missione. E siamo anche un po’ preoccupati. Il “signor Non so” che abbiamo appena incontrato è il capo del governo di una delle grandi potenze industriali del mondo. Un capo di governo a sua insaputa. Ovviamente, ci sbagliavamo. Il “signor Vedremo” stava solo prendendo il tempo e le misure del suo nuovo incarico. Il meglio lo avrebbe dato dopo aver scaricato quelli che tu i consideravano i suoi padroni. «Il bura ino» come subito l’avevano chiamato i giornali di sinistra, era già al lavoro. Voleva liberarsi dei fili che pretendevano di muoverlo. Ce ne saremmo accorti presto anche noi.

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Il bambino prodigio alla corte del Vaticano

Se il futuro dei grandi uomini si vede dal loro passato, allora il radioso futuro di Conte sembrava già scri o. «Era bello, maturo, intelligente e piaceva molto alle ragazze.» Si sa: gli alunni, come i figli, so’ piezz’ ‘e còre. E a Filomena De Ni is, che insegnava matematica al liceo classico di San Marco in Lamis, il giovane Giuseppe è proprio rimasto nel cuore. «Aveva un’intelligenza fervida. Me lo ricordo bene: un ragazzo brioso.» Ma anche prudente e accorto: un democristiano in calzoncini. «Per un certo periodo, mi chiedeva sempre se poteva affacciarsi alla finestra» ricorda ancora l’ex professoressa dell’istituto nel Foggiano. «Io gli domandai il motivo: mi spiegò che stava venendo a scuola con una moto, e quindi voleva controllare che non gliela rubassero.» Veniamo però al dunque: sgobbava tanto? «Era molto intelligente. Magari non studiava molto, ma sapeva sempre districarsi nei problemi. Rispondeva ai quesiti di matematica prendendo i discorsi un po’ alla larga.» Capito il tipo? Anche da giovine o era un asso del cincischiare. Entusiastiche pure le reminiscenze di Vi oria Macchiarola, ex insegnante di francese alle scuole medie: «Altro che novellino! Giuseppe è uno tosto, a scuola prendeva tu i dieci!». Lo conosce da sempre, quel geniaccio del nostro premier. «L’ho tenuto in braccio da piccolo. Se penso a dov’è arrivato, ancora mi emoziono… Amava lo studio. Era un bambino prodigio: intelligente, serio, riservato, sempre garbato, mai esuberante, controllato.» Non è mica finita qui: «È stato uno studente modello, aiutava i compagni in difficoltà». Mancano le stimmate, ma il percorso verso la beatificazione è avviato: «Se si è assunto un impegno, sa di avere possibilità e sopra u o capacità per farlo» prosegue Macchiarola. «Ma non è

p p p p g amico del protagonismo.» E qui il tempo potrebbe aver sbiadito i ricordi della donna, perché l’egolatria del presidente del Consiglio è piu osto manifesta. «Ho fiducia cieca in lui» prosegue però la professoressa, incurante dell’iperbole. «E glielo dirò appena possibile. Poi gli chiederò di portare un po’ di luce all’Italia e Volturara Appula.» Ovvero il paesino di 467 anime, in provincia di Foggia, dove il premier nasce l’8 agosto del 1964. Il padre Nicola, ora in pensione, è all’epoca segretario comunale. La madre Lillina, diminutivo di Maria Pasqualina, insegna invece alle scuole elementari. C’è anche la sorella Maria Pia, di un anno più grande. Giuseppe «è nato in casa grazie a un’ostetrica marchigiana» riferisce la signora Vi orina, loquace amica di famiglia. «I Conte sono persone stupende, riservate, molto religiose e di sani principi.» E poi quel Giuseppe… «Il fiore all’occhiello di una famiglia veramente perbene.» L’ardore degli abitanti del borgo pugliese è condiviso con San Giovanni Rotondo, dove i Conte si trasferiscono prima che i figli comincino le scuole. Nel paese noto per custodire le spoglie di Padre Pio, di cui è devotissimo, il giovane Giuseppe cresce e prospera negli studi. E non solo. Antonio Placentino, suo sedicente miglior amico, ne rievoca le abilità sportive: «Giuseppe, di tanto in tanto, veniva a giocare a calce o o calcio a undici con noi. Era un regista, uno alla Fabio Capello. Se la cavava abbastanza bene». Prova ne darà, molti anni più tardi, in Umbria, alla vigilia della batosta alle elezioni regionali dell’autunno 2019. Durante un’improvvisata gara con il re del cachemire, Brunello Cucinelli, il capo del governo comincia a palleggiare con destrezza. Quindici tocchi, felpati e consecutivi. Con Arturo Parisi, tra i fondatori dell’Ulivo, che sul «Foglio» coglie al volo la metafora del temporeggiatore: «Se ci fosse una gara tra premier, Conte sarebbe il più grande palleggiatore di tu i i tempi». A calcio prome e. Ma pure in classe è formidabile: «Studiava moltissimo. Ed era molto riservato: di una riservatezza assoluta» ricorda Placentino. E poi sapeste come s’abbigliava! «È sempre stato elegantissimo, anche a scuola era impeccabile.» Ma si svagava, ogni tanto? «Una pizza in compagnia, nulla di particolare» ragguaglia l’amico. Era religioso? «Molto. Andava spesso al santuario di Padre

g p Pio.» E la politica? «Da ragazzo, non lasciava trasparire nessuna simpatia.» Sebbene abbia poi rivelato propensioni di sinistra. Prima di venire folgorato da tu o l’arco parlamentare. Nell’ordine: 5 Stelle, Lega, PD ed ex DC . Tra un calcio al pallone, una pizza con gli amici e i pomeriggi chino sui libri, il giovane Conte arriva all’esame di maturità. Lo supera brillantemente. E a dicio ’anni saluta gli amati genitori e parte con la valigia di cartone alla volta della capitale. A Roma, Conte s’iscrive alla facoltà di Giurisprudenza della Sapienza. La passione del Diri o gli scorre già nelle vene. Ma la famiglia non è facoltosa. Così Giuseppe fa domanda per entrare a Villa Nazareth, blasonato collegio universitario ca olico. Negli anni, come docenti o visitatori, ha accolto i padri della patria più democristiani della storia: Aldo Moro, Giulio Andreo i, Francesco Cossiga, Oscar Luigi Scalfaro, Romano Prodi e Sergio Ma arella. I legami di Villa Nazareth con il Vaticano sono stre issimi. Viene fondata nel secondo dopoguerra da monsignor Domenico Tardini. Accoglie studenti meritevoli e bisognosi, in particolare del Sud. Poi la guida passa ad Antonio Samorè, protagonista della diplomazia della Santa Sede. E poi al cardinale Achille Silvestrini, capofila dell’ala sinistra nel papato di Giovanni Paolo II. E, fino alla sua recente morte, fedelissimo amico del premier. Tu o comincia nel lontano 1983. Conte, in un’intervista a Luca Telese su «Panorama», rivela i retroscena di una frequentazione che si dimostrerà cruciale nella sua ascesa politica: «Tu o iniziò perché mia madre leggeva “Famiglia Cristiana” con cura quasi maniacale, dalla prima all’ultima riga» ricorda il capo del governo. «Lesse di un collegio ca olico, dove si poteva accedere con un concorso che si sarebbe dovuto celebrare di lì a breve. Non eravamo poveri, perché avevamo due stipendi. Ma mia sorella studiava già a Milano, e non navigavamo nell’oro. Mamma pensò che potesse servire, e così mi disse: “Partecipa!”.» L’imberbe matricola universitaria parte dunque per Roma. Sostiene la prova d’ammissione. È in quell’occasione che incrocia Silvestrini: «Un maestro, un uomo fortemente carismatico e un

portatore di kerigma, che è il termine greco con cui si indica la capacità quasi profetica di guidare e annunciare la via.» All’epoca, la dire rice dell’istituto è la professoressa Angelina Groppelli, una suora laica paolina. «Fu proprio lei a esaminarmi» informa Conte. Ed è ancora lei ad annunciargli la lieta novella: aveva superato l’esame. «Mi spiegò però che in quella sessione qualcuno aveva più bisogno economico. E che la missione prioritaria della stru ura era assistere i più poveri.» Passa qualche anno. Groppelli si rifà viva. «Lei non si era dimenticata di me. Con una puntualità e una sicurezza incredibile, esa amente dopo qua ro anni, mi telefonò e disse: “Conte, tu o bene? Si è laureato?”. Effe ivamente m’ero appena laureato, e avevo iniziato a fare l’assistente all’università. Mi propose di collaborare.» Lui acce a. «Per un bel sentimento» filosofeggia «che Max Horkheimer definisce “la nostalgia del totalmente altro”. Sentivo di aver sfiorato quel mondo, volevo tornarci.» Conte diventa tutor degli studenti e cura le relazioni con alcune università straniere, in particolare americane. Viene così nominato membro del Board of Trustees del Cardinal Tardini Charitable, che finanzia Villa Nazareth. Ed entra nel comitato scientifico del collegio, incarico che manterrà fino alla nomina a Palazzo Chigi. È proprio grazie alle sue entrature ecclesiastiche che, a giugno 2016, incontra per la prima volta Bergoglio, in visita pastorale nel collegio ca olico. Nelle immagini, pubblicate dal magazine «Il mio papa», si vede un raggiante professor Conte che stringe la mano a Francesco. Assieme al futuro premier, ci sono il figlio Niccolò, che all’epoca ha 8 anni, immortalato mentre riceve la carezza papale, e l’allora moglie Valentina Fico, l’avvocato dello stato da cui divorzierà poco più tardi. Insomma, bisogna rituffarsi nelle ere democristiane per riscovare un altro presidente del Consiglio con relazioni tanto salde e ramificate oltre Tevere. Conte è un pupillo di Silvestrini. Ma è amico anche del cardinale Pietro Parolin, segretario di stato vaticano, pure lui ex dire ore di Villa Nazareth. Un ruolo adesso occupato da monsignor Claudio Celli, già a capo dell’APSA , l’organismo che

gestisce il patrimonio economico della Santa sede. Anche lui, chiaramente, è in splendidi rapporti con Conte. Relazioni, discrezione e potere terreno. Villa Nazareth, nell’imponderabile e giusto momento, diventa il celeste alleato. Il 23 maggio 2018 Ma arella dà a Conte l’incarico, poi sfumato, di formare il governo. Il giorno dopo, il collegio diffonde un comunicato che tracima vicinanza e ammirazione. «Il giovane Giuseppe Conte partecipò nel 1983 al concorso di ammissione per entrare a far parte del nostro collegio universitario» ricorda una nota ufficiale. «La sua amicizia con il cardinale Silvestrini, e con tu i noi, risale a quei giorni ed è cresciuta nel tempo. Conte non ha fa o mai mancare a Villa Nazareth l’apporto della sua amicizia e della sua rilevante capacità accademica: prima come tutor degli studenti e poi professionale. Oggi il professor Conte è membro del comitato scientifico del collegio universitario e continua a esserci vicino con competente dedizione e affe o.» È il messaggio urbi et orbi a chi continua a prendere tempo: lui è uno di noi. A differenza di quel demonio di Salvini, che brandisce in pubblico il rosario e rimanda indietro i barconi pieni di immigrati. È papa Francesco, a giugno 2019, a chiarire da che parte sta la Chiesa. I giornali scrivono che avrebbe negato l’udienza al leader della Lega. Il pontefice nega. E rilancia: «Nessuno del governo, ecce o il premier Conte, ha chiesto udienza. Perché si deve chiedere alla segreteria di stato: Conte l’ha chiesta ed è andata come da protocollo. È stata una bella udienza. Conte è un uomo intelligente, un professore, sa di che cosa parla. Dal vicepremier e da altri ministri non ho ricevuto richieste». Silenzi e rimandi, dalle parti della Santa Sede, valgono più di mille parole. Due mesi dopo Gualtiero Basse i, presidente della CEI (Conferenza Episcopale Italiana), ammonisce i ca olici: non devono «me ersi in fila dietro ai pifferai magici di turno». Una frase sibillina: a chi mai si riferirà il prelato? Al leader leghista, ovviamente. Poi arriva la crisi politica: la più auspicata nella storia dal Vaticano. E indovinate per chi prega il Regno dei cieli? Per il pio Giuseppe o il perfido Ma eo? Così, nelle se imane cruciali,

ripartono le grandi manovre. Il partito del Vaticano non ha remore: Conte deve rimanere a Palazzo Chigi. Il premier viene incaricato, per la seconda volta, da Ma arella. È il 29 agosto 2019. Quel giorno, quasi un segno del destino, muore il prelato che gli è stato sempre accanto: il cardinale Silvestrini, scomparso a 95 anni. Un gigante della diplomazia vaticana. Il ministro degli Esteri della Santa Sede, che aveva gestito pure le complesse relazioni con i paesi sovietici. Due giorni dopo, si tiene il suo funerale nella Basilica di San Pietro. Partecipano venti cardinali, tra i quali Parolin. C’è papa Francesco, ovviamente. E c’è anche Conte. Al termine della funzione, la sala stampa vaticana verga una nota: «Questo pomeriggio, a margine delle esequie del cardinale Achille Silvestrini, il Santo Padre Francesco ha incontrato brevemente per un saluto il presidente del Consiglio incaricato, Giuseppe Conte, e con lui ha ricordato con affe o la figura del cardinale». Una banale velina? Forse. O magari il bisbiglìo a chi continua a tentennare. Sei giorni più tardi, il premier succede a se stesso. Lui sa come gira il mondo. E sopra u o conosce il Vaticano. Riecco porti riaperti, misericordia e carità. Fiat lux: e luce sia. Il devoto Giuseppe è ancora l’uomo giusto.

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Tante parcelle e una capanna

Quando gli danno dello «sconosciuto avvocato», Conte trasecola. «Ma se ho centinaia di clienti…» si sfoga con i collaboratori più fidati. Ed è pure diventato ordinario a soli 38 anni. Ha ragione da vendere, il premier. Nelle università italiane, storicamente asfissiate da baronie e familismo, si arriva in media a scalare il gradino più alto della carriera accademica quasi all’età della pensione. I docenti di prima fascia con meno di quarant’anni, certifica l’ultimo rapporto del ministero dell’Istruzione, sono appena 20 su 12.975: meno dello 0,2 per cento. State allegri, italiani: in quel laghe o dalle acque cristalline ha nuotato anche l’anguilla di Palazzo Chigi, docente di Diri o privato all’Università di Firenze. Onore al merito: il figlio del segretario comunale di San Giovanni Rotondo ha tagliato il traguardo quasi imberbe, più rapido di un centometrista. A o obre 1988, il ventiqua renne Conte si laurea in Giurisprudenza alla Sapienza di Roma. Titolo della tesi: Inadempimento prima del termine. Votazione: 110 e lode. Qualche anno più tardi è già cultore della materia di Diri o civile. Ma la vera ascesa comincia quando, dopo aver vinto l’apposito concorso, ad aprile 1998 viene nominato ricercatore di Diri o privato a Firenze. Da quel momento brucerà tu e le tappe: in poco più di qua ro anni scalerà ogni ve a accademica. A giugno 2000 vince il concorso per professore associato. Il posto viene bandito dalla Seconda Università di Napoli. Nella commissione ci sono Raffaele Rascio, della Federico II, il più prestigioso ateneo campano, e Giovanni Furgiuele, che sarà vicino di stanza di Conte all’Università di Firenze. Rascio e Furgiuele, meno di due anni più tardi, si ritrovano di nuovo insieme in una commissione. Di nuovo nella Seconda Università di Napoli. Sempre per un concorso, ma da ordinario. E,

p p p ancora una volta, il prescelto è il giurista di Volturara Appula. Tra i cinque docenti che lo giudicano c’è anche Guido Alpa. Insegna Diri o civile alla Sapienza di Roma ed è un celebratissimo avvocato italiano. La sua presenza in quella commissione cela un’accusa di favoritismo che il presidente del Consiglio rifiuterà con sdegno. Perché Alpa e Conte non sono legati solo da reciproca stima e sicura fiducia: i due nel 2002, poco prima di quel concorso, decidono di aprire insieme uno studio professionale. Anzi, una semplice condivisione di spazi, derubricherà il premier. Di certo, però, a quel tempo, esaminatore ed esaminato già collaborano proficuamente. Come dimostra l’incarico affidato a entrambi il 29 gennaio 2002 dal Garante per la privacy, all’epoca Stefano Rodotà. E Alpa, ricostruisce «La Verità», l’1 marzo 2002 è indicato commissario a Napoli: appena un mese dopo aver acce ato quel mandato. Per farla breve: non c’è un confli o d’interessi? Talmente plateale, assaltano i più barricaderi, da invalidare quel concorso? Per scoprirlo, bisogna consultare i documenti ufficiali e incrociare le date. La prima cosa da fare è leggere tu i gli a i del concorso vinto da Conte. Ci armiamo di pazienza e chiediamo lumi al ministero dell’Istruzione. Il 3 o obre 2019, alle 16.40, inviamo all’apposito ufficio una generica richiesta, senza specificare quale sia «la procedura di valutazione comparativa» che ci serve. Siamo fortunati. Passa appena un minuto. Alle 16.41 risponde la dirigente preposta: «Gentilissimo, le chiedo di fornire cortesemente un recapito telefonico utile». E poi dicono che i superburocrati schivano i giornalisti. Per velocizzare i tempi, chiamiamo il numero in calce al messaggio di posta ele ronica. La responsabile del dipartimento, una ferrata avvocatessa, mostra rara cortesia: «Mi mandi i de agli del bando che state cercando. Faremo tu o il possibile. Certo, si tra a di un vecchio concorso, magari le carte si trovano sepolte nei nostri archivi, ma abbiate fiducia». Aggiunge però un consiglio: «Forse, per sveltire i tempi, sarebbe meglio chiedere dire amente all’ateneo interessato: loro, a differenza nostra, dovrebbero avere quei documenti a portata di mano».

Acce iamo il suggerimento. Chiamiamo subito l’ex Seconda Università di Napoli, oggi riba ezzata Luigi Vanvitelli, che ha la sede centrale a Caserta. La responsabile del se ore che si occupa dei contra i dei docenti ci tra a con sufficienza. Magari ha già intuito l’arcano. Comunque, c’invita a parlare con il re ore. E che cosa c’entra il Magnifico locale? «È lui che parla con i giornalisti» informa la dirigente. Mah. L’antifona sembra chiara. L’allerta “calende greche” comincia a lampeggiare sulla nostra inchiesta. Ritelefoniamo allora alla solerte dirigente del ministero che tanto c’aveva impressionato. Una, due, tre volte. Niente da fare. Le riscriviamo, invano. Dopo un paio di se imane, chiama una collaboratrice del suo ufficio: «Ci dispiace, ma gli a i che ci avete richiesto non sono in archivio. Vi consigliamo di riconta are la Vanvitelli». Come nel gioco dell’oca, siamo tornati alla casella iniziale. Niente di nuovo: è la vita dei cronisti. Tante porte in faccia, fino a quando non si riesce a me ere un piede nell’uscio. In questo caso, urge però una consulenza. Telefoniamo a un’amica. Guida gli uffici amministrativi di una delle più importanti università italiane: i suoi consigli potrebbero esserci d’aiuto. Ci spiega che i colleghi campani sarebbero obbligati a darci quegli a i. Meglio però, in ossequio alla legge che garantisce l’«accesso civico» ai ci adini, inviare un formalissimo e ufficiale messaggio di posta certificata. Seguiamo l’indicazione. Il 5 novembre 2019 scriviamo alla Vanvitelli. Visto che si tra a dei documenti di un’amministrazione pubblica, chiediamo gentilmente di poterli visionare. In caso di mancata risposta entro trenta giorni, segnaleremo il caso all’autorità competente. La velata minaccia non sembra sortire alcun effe o. Meglio di un orologio svizzero, alla scadenza dei termini di legge, il 4 dicembre 2019 la Vanvitelli replica con una telegrafica PEC . Ci informa di aver chiesto preventiva autorizzazione «ai sogge i controinteressati»: solo tra commissari e partecipanti al concorso sarebbero undici persone. Tu i, a questo punto, dovranno dare il loro assenso all’eventuale invio dell’incartamento. Campa cavallo. E, comunque, la Vanvitelli ci tiene a so olineare che il perentorio

termine per la loro risposta, quei famosi trenta giorni, viene temporaneamente sospeso. Noi tapini! Come abbiamo pensato, anche soltanto per un momento, di poter trionfare su commi, codicilli e dilazioni? Per di più, la richiesta riguarda il presidente del Consiglio. Ovvero, seppur indire amente, il grande capo dell’immarcescibile burocrazia italica. Poveri illusi. Non resta che tentare l’ultima carta: quella della disperazione. Chiedere dire amente a Palazzo Chigi, raccontando le nostre tribolazioni. Sorpresa. Qualche giorno più tardi, gli agognati documenti di quel concorso sono sulla nostra scrivania. Il primo foglio del fascicolo è una le era d’accompagnamento inviata dalla Vanvitelli: «Si trasme ono le copie degli a i richiesti, relativi alla procedura in ogge o». Il destinatario della missiva è la persona che ha richiesto quel plico. Sarà stato il premier, pensiamo subito. Le accuse di scarsa trasparenza, d’altronde, lo inseguono dal giorno della sua prima nomina. Invece, no: curiosamente, gli a i di quel concorso sono stati richiesti da Alpa. È a lui, quindi, che vengono spediti. Il professore, poi, deve aver girato quel malloppo cartaceo alla presidenza del Consiglio. È l’ennesima prova delle cointeressenze? Lo studio legale in comune viene aperto all’inizio del 2002. Proprio mentre Alpa si appresta a giudicare il suo pupillo. In un’intervista al «Secolo XIX», il luminare chiarirà: «La commissione era stata estra a a sorte: era composta da me e altri qua ro membri. Data la mia giovane età, non ne ero il presidente. Conte ebbe l’unanimità dei giudizi positivi. Anche se non lo avessi votato, avrebbe avuto qua ro voti, e i restanti candidati ne ebbero zero: avrebbe vinto ugualmente. Tu e le illazioni sul concorso sono infondate». Ora, sorvoliamo pure sulla “giovane età” del docente, che all’epoca viaggiava intorno alle 55 primavere e aveva già una laurea honoris causa conferita dalla Complutense di Madrid. Alpa però, in quell’intervista, assicura di essere finito in quel collegio per puro accidente. Una modalità che, in effe i, allontanerebbe ogni malevola insinuazione. Peccato che dai documenti risulti il contrario. Alpa viene ele o, non sorteggiato. Ed è perfino il più votato tra i

gg p p commissari: 54 preferenze. Non solo: il sito ecaserta scrive che il ca edratico è stato commissario nell’ateneo campano «una e una sola volta, cioè quando al concorso partecipò Giuseppe Conte». Se fosse vero, sarebbe un ulteriore indizio dell’intrigo? Ben 54 designazioni, quindi. E alle sue spalle, con 39 preferenze, c’è ancora Furgiuele. Morale: Conte diventa ordinario anche grazie agli entusiastici giudizi dell’allora vicino di studio professionale e del venturo vicino di stanza in facoltà. I loro voti contano come quelli degli altri, certo, ma dai giudizi traspare una stima incondizionata nei confronti del giovane (lui sì…) Conte. Dopo aver esaminato la produzione scientifica del discepolo, Alpa argomenta: «Le monografie e i contributi presentati, concernenti temi di notevole difficoltà, esprimono una solida preparazione tecnica associata a una vasta e brillante prospe iva storico-sociale e le eraria, un uso sapiente delle categorie dogmatiche e del metodo comparatistico ai fini dello studio del Diri o civile, e l’a enzione per una pluralità di interessi». Fino alla solenne indicazione conclusiva: «Il candidato merita un giudizio di piena maturità scientifica, sì da poter essere collocato in una posizione eminente ai fini del presente concorso». Non meno strabiliante il verde o a cui giunge Furgiuele: «Sicuro e pieno giudizio positivo in ordine al particolarmente elevato livello di maturità scientifica». Alle 9.30 del 13 luglio 2002, assieme agli altri tre membri, i due giuristi si ritrovano nel dipartimento di Diri o comune patrimoniale dell’Università Federico II. È il momento del verde o. Dopo una breve discussione, si procede alle valutazioni. Qua ro candidati non o engono nemmeno una preferenza. Conte invece fa l’en plein: cinque voti su cinque. Con la stessa percentuale bulgara, viene dichiarato idoneo anche Carlo Vendi i, figlio di Antonio, già ordinario di Diri o commerciale proprio alla Federico II di Napoli. Due plebisciti. Ciascun commissario, annota il verbale finale, prima del voto «dichiara di non avere relazioni di parentela o affinità fino al quarto grado con i candidati e che non sussistono cause di astensione di cui all’articolo 51 del Codice di procedura civile». E che cosa prevede la succitata norma? Il giudice deve astenersi dal giudizio se ha un interesse personale. Insomma, quando rischia di

g p q essere imparziale. È il caso di Alpa? L’Autorità nazionale anticorruzione, con la delibera 209 del 2017, chiarirà: nei concorsi universitari c’è incompatibilità quando tra un commissario e un candidato esiste «una comunione di interessi economici» di particolare intensità e sistematicità. Ossia, quando c’è «un vero e proprio sodalizio professionale». Tu o risolto, quindi? Forse. Due anni dopo, l’ANAC viene interpellata sul caso specifico da Silvio Ulisse, un avvocato pesarese. L’organismo, guidato dal magistrato Raffaele Cantone, si pronuncia il 10 aprile 2019, a ingendo al solito burocratese: «Riguardando la segnalazione dei fa i molto risalente nel tempo e, in quanto tali, nemmeno modificabili più in autonomia, il consiglio dell’Autorità, ritenendo preclusa qualunque possibile valutazione nel merito, ne ha disposto l’archiviazione». Una conclusione un po’ pilatesca. Visto che su quel concorso non si possono più me ere le mani, meglio lavarsi le mani. Torniamo allora al primo parere dell’ANAC . L’Anticorruzione scrive: c’è incompatibilità se c’è un «sodalizio professionale». E Conte e Alpa, all’epoca del concorso, a loro dire condividono solo spazi comuni. Sarebbero gli antesignani dello spopolante coworking. Spulciando tra gli archivi giuridici, si scopre però che, il 29 gennaio 2002, esaminatore ed esaminato ricevono un prestigioso incarico in comune: la difesa dell’Autorità per la protezione dei dati personali, al tempo guidata da Stefano Rodotà. Il presidente del Consiglio è allora un arrembante associato, mentre il suo esaminatore è già un accademico con i controfiocchi. Rodotà decide di assegnare a entrambi il ricorso: una controversia che vede contrapposta l’autorità da lui presieduta alla Rai. Viene dunque spedito il mandato. Gli avvocati sono due, ma l’indirizzo è soltanto uno: via Sardegna 38, Roma. È la prima sede condivisa da mentore e allievo, prima del trasferimento in piazza Cairoli. Ma perché inviare un’unica le era se, come spergiurano gli interessati, si tra a di incarichi distinti e non c’è nessuna associazione professionale tra loro? Il premier replicherà con sufficienza e ardore:

così va il mondo degli studi legali. Basta chiedere a qualsiasi collega o praticante. Ben meno usuale sembra il documento scovato dalla trasmissione televisiva Le Iene e pubblicato da «La Verità». È un proge o di parcella datato 21 gennaio 2009. E riguarda proprio quella causa. La richiesta di fa ura, firmata sia da Alpa che da Conte, viene inviata al Garante della privacy. L’«importo complessivo richiesto», solo per il giudizio di primo grado, è di 26.830,15 euro. Il saldo, scrivono i due avvocati, potrà avvenire su un conto corrente aperto in una filiale genovese di Banca Intesa. È quello di Alpa. L’iban è il suo. E Conte? Non ha visto un euro. Del resto, persino in famiglia si lamenterebbero della sua scarsa a enzione per il denaro: «Sono poco venale» spiegherà di fronte alle telecamere di Mediaset. Insomma, per quel comune patrocinio il futuro presidente del Consiglio non fa ura un centesimo. Eppure, come emerge dalle carte processuali, si sarebbe perfino sobbarcato l’onere di presenziare a quasi tu e le udienze. Non importa. Lui, in quella causa, era solo una longa manus. Sarebbe stato il collega, in realtà, a impostare la difesa e a redigere gli a i determinanti per il ricorso. Niente paura, però. Il premier si rifarà, seppur parzialmente, in seguito. Nei gradi successivi dello stesso ricorso saranno entrambi a fa urare. Lo confermano gli archivi del Garante, aggiornati al 12 dicembre 2019, che siamo riusciti a consultare: il 25 luglio 2018, mentre Conte è a Palazzo Chigi da quasi due mesi, riceve un compenso di 6.270 euro. I servigi di Alpa vengono invece retribuiti un po’ meglio, con 7.978 euro, il 27 novembre 2019: curiosamente, è proprio il giorno in cui incontreremo il premier a Palazzo Chigi. Nella stessa data, il noto ca edratico incasserà altri 9.707 euro, per una comune difesa assunta a o obre del 2010. In questo caso, però, sarà il presidente del Consiglio a o enere qualcosina in più: 9.979 euro. La cifra era stata saldata, pure stavolta, nell’estate 2018, mentre era già a Palazzo Chigi. A questo punto, urge il pallo oliere: Conte e Alpa, negli ultimi anni, solo dall’Autorità per la protezione dei dati personali hanno avuto complessivamente o o incarichi. Sempre insieme. Cheek to cheek, guancia a guancia, cantava Frank Sinatra. Il primo

g g p affidamento, come abbiamo visto, è del 29 gennaio 2002. Il secondo risale al 2009. Un paio sono del 2010. Qua ro vengono conferiti tra il 2011 e il 2016. E basta incrociare date e nomi, per scoprire che quel primo proge o di parcella potrebbe non essere l’unico a doppia firma. Il 16 dicembre 2014 il Garante liquida ai due professionisti i compensi per altri tre di questi o o mandati. Il primo pagamento è per una causa assegnata a entrambi il 14 gennaio 2009. Il secondo riguarda il protocollo 22471/76231 del 24 o obre 2011. Il terzo è per una tutela conferita il 19 luglio 2012. Conte chiede complessivamente 9.335 euro. Praticamente la stessa cifra o enuta da Alpa, che incassa 9.367 euro. Anche stavolta, quindi, le somme liquidate sono pressoché uguali. Nulla da eccepire. Incuriosisce però la data. Le sei fa ure, tre a testa, sono saldate il 16 dicembre 2014. Quindi, azzardiamo, probabilmente sono state presentate insieme, come avvenuto già nel 2009. Eppure, il premier so olinea che gli incarichi sono distinti. Ma allora perché vengono liquidati lo stesso giorno? Si tra a di altre parcelle congiunte? L’elenco completo delle «tutele in giudizio» affidate dall’autorità, non lo specifica. In compenso rivela che Conte e Alpa sono due assi pigliatu o: su 13 cause conferite ad avvocati esterni negli ultimi anni, se ne aggiudicano, come abbiamo già visto, ben o o. Ovviamente non ci sono solo le difese in nome e per conto del Garante. Servirebbe un elenco completo dei processi in cui i due hanno lavorato insieme. Ma nessuno dei due ci tiene a fornirlo. Così bisogna a ingere alla banca dati delle sentenze, che però contiene decisioni emblematiche e di scuola, cioè utili ai colleghi avvocati. Una goccia nell’oceano. Eppure in quella goccia giuridica i nomi di Alpa e Conte si ritrovano insieme spesso. Nel 2006 rappresentano Craft, la società che ha breve ato i tutor, contro Autostrade, accusata di aver contraffa o il loro breve o industriale. Nel 2013 difendono l’ospedale San Giovanni di Roma in una causa per la gestione del servizio di mensa. E nel 2014 i due si alternano nella difesa della Granarolo, il famoso gruppo alimentare. Sono indizi di un “sodalizio”? Nemmeno per sogno: eravamo solo coinquilini, ripete Conte fino alla noia. Lo stesso fa Alpa, del resto.

q p p Nell’ultima intervista concessa, si sfoga: «Vogliono colpire me per colpire il premier». Il rapporto tra i due «è un’associazione casuale di immagini e parole». Peggio: una fake news. Il ca edratico però confessa: «Rivelo una cosa: mi chiama la domenica, per chiedermi come sto, come mi vanno le cose. Non gli do nessun consiglio, non ne ha bisogno». E la politica? «Non ne parliamo mai. Anche perché la pensiamo diversamente, io sono sempre stato socialista e morirò socialista.» Comunque, «tu e le illazioni sul concorso sono infondate». Altro non rimane che confidare nella buona fede di entrambi. Nessuna associazione professionale. Ma c’è un particolare che complica il quadro. E non è affa o di scarso rilievo. Perché è lo stesso Conte ad aver seminato dubbi su dubbi. Nell’autunno 2013 invia alla Camera dei deputati il suo smisurato curriculum per concorrere all’elezione nel Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa. Il futuro capo del governo, lasciando poco spazio all’immaginazione, scrive di sé: «Dal 2002 ha aperto con il prof. avv. Guido Alpa un nuovo studio legale dedicandosi al Diri o civile, societario e amministrativo». Così, il 18 se embre 2013, assieme ai membri laici delle magistrature speciali, il professore viene scelto per la rinomata carica. Si dime erà a marzo 2018, soltanto dopo aver acce ato la candidatura come ministro della Pubblica amministrazione in un ipotetico governo grillino. Ancora ignaro che il fato avrà in serbo per lui qualcosa di ben più sbalorditivo: la guida di due governi. E persino d’opposta foggia: il primo di centrodestra e il secondo di centrosinistra. All’epoca questa sembra però un’ipotesi fantascientifica, sebbene l’avvocato goda già di trasversali e insospe abili appoggi. Quel 18 se embre 2013, oltre ai 5 Stelle, lo sostengono pure i futuri alleati democratici. Del resto, la simpatia è reciproca. Ma eo Renzi lo confermerà anni dopo a Gian Antonio Stella sul «Corriere della Sera»: «Conserviamo ancora i suoi messaggini di lode per il nostro governo». Tu i vogliono il professore per l’ambito ruolo. E lui, grazie al suo insigne curriculum, o iene l’incarico con un plebiscito. Nell’aula di Montecitorio, in quella tiepida ma ina di fine estate, siedono 417

q p onorevoli: 383 votano a suo favore. Un trionfo. Solo che, in mezzo allo stuolo di referenze protocollate alla Camera, c’è n’è una che rischia di mandare la sua carriera a carte quaranto o: lo studio aperto insieme ad Alpa. È vero? O magari è una millanteria, come quei neolaureati che imbelle ano i trascorsi per impressionare i recrutatori. In questo caso non si tra erebbe però di un’innocente bugia. C’era in lizza una poltrona pubblica. Giuridica, per di più: la nomina nell’organo di autogoverno della giustizia amministrativa. Conte ha gonfiato le sue referenze? È una delle domande che ci riprome iamo di fargli a Palazzo Chigi.

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Curriculum & affari

«A prescindere da quanto si è vissuto, il curriculum dovrebbe essere breve.» Di fronte ai versi di Wislawa Szymborska, premio Nobel per la Le eratura, al premier italiano non resterebbe che impallidire. «È la sua forma che conta, non ciò che sente. Cosa si sente? Il fragore delle macchine che tritano la carta.» Giuseppe Conte non ha però seguito le liriche indicazioni della poetessa polacca. Lui, con i suoi sterminati CV , ha disboscato intere foreste. La prova lampante arriva appunto a se embre 2013, con l’invio delle sue referenze alla Camera dei deputati. In lizza, come abbiamo già visto, c’è l’ambito posto di membro del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa. Dodici pagine, più fi e della bruma pavese. Dalla maturità classica, o enuta «con votazione di sessanta/sessantesimi», all’ultima fatica editoriale del tempo. È la curatela, insieme al solito Alpa, di un volume sulla disciplina del contra o di compravendita, per cui compila diciasse e succose facciate. Davanti a cotanto sapere, cos’altro possono fare i tramortiti deputati? Ovvio: ratificare la nomina di Conte, peroratissima dal Movimento. Il parlamento è però ignaro delle iperboli nascoste tra quello stuolo di esperienze. Come lo studio con Alpa: aperto davanti ai deputati e richiuso di fronte ai giornalisti. Ma non è l’unica ampollosità, in mezzo a quella gragnola di titoli e poltrone. Il curriculum annovera 24 incarichi accademici e ben 37 mansioni scientifiche, come la «so ocommissione» per riformare l’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi. O la partecipazione a 67 convegni. Tra cui quello, nel 2006, dallo scoppie ante intento: «Il condominio: i contra i per una migliore manutenzione». Per non parlare della caterva di

pubblicazioni. Nell’elenco brillano persino le se e pagine e vergate per un tomo dall’incidentale sapore autobiografico: Il difficile equilibrio tra l’essere e l’avere. Un cursus honorum talmente onorevole da far sorgere, agli albori della sua nomina a premier, qualche sommesso dubbio: non è che il professore avrà un tantino esagerato? La prima, clamorosa, smentita giunge nientemeno che dal «New York Times». Conte, nel suo CV , scrive di aver «soggiornato per periodi non inferiori a un mese presso la New York University, per perfezionare e aggiornare i suoi studi». Allora «la vecchia signora in grigio», come viene chiamato il quotidiano statunitense, interpella Michelle Tsai, portavoce dell’ateneo. E la donna rivela laconica: «Una persona con questo nome non risulta in nessuno dei nostri registri». Il giornale americano teorizza però una via d’uscita. Conte potrebbe aver seguito corsi brevi: quelli, in effe i, durano appena due giorni. O forse ha solo svolto ricerche autonome. E così, a suffragare quest’ultima tesi, un’anonima manina me e in giro alcune e-mail scri e dall’allora candidato a Palazzo Chigi. I destinatari sono il bibliotecario e il professor Mark Geistfeld, conta ato da Conte per parlare del proge o di un libro. Il docente gli risponde che lo aspe a nella sua stanza, la «room 411 A». Il mistero dunque è risolto. Quei maldicenti dei giornalisti si sciacquino la bocca prima di seminare inutili dubbi. Certo, resterebbe un de aglio da chiarire. La e-mail è del 2014. Il curriculum viene invece presentato alla Camera diversi mesi prima, a se embre 2013. Peggio: circoscrive l’esperienza accademica nella Grande Mela dal 2008 al 2012. Insomma, come dicono i veneti, xe pèso el tacòn del buso: la toppa è peggio del buco. Altre voci lasciano perplessi. Conte, ad esempio, sostiene di aver «soggiornato all’Université Sorbonne di Parigi per a ività di ricerca scientifica nell’estate dell’anno 2000». Indicazione, a dire il vero, un pochino vaga. La Sorbona non ha una sola sede. Corsi, ed eventuali studi, andrebbero meglio definiti. E comunque, anche nelle banche dati dell’università parigina, il suo nome non risulterebbe. E a vacillare sarebbero pure altri periodi trascorsi all’estero. Come quelli svolti, a se embre 2001, in Inghilterra: nel Girton College, a qualche

chilometro dalla blasonatissima Cambridge. Sfortuna però vuole che, so olinea l’agenzia «Reuters», proprio nel frangente indicato resta chiuso per ferie. E la permanenza alla Duquesne University di Pi sburgh? «Non è presente nell’archivio come studente, non ha quindi mai frequentato alcun corso ufficiale» spiegano gli americani. La dire rice dell’ufficio comunicazioni dell’ateneo, Bridget Fare, conferma però la presenza di Conte: come coordinatore di un programma di scambi con Villa Nazareth. Serpeggiano dubbi anche a La Valle a. Conte scrive di avere insegnato all’Università di Malta «nell’estate 1997 nell’ambito del corso internazionale di studi intitolato European Contract and Banking Law». Ma pure lì, rivelano ancora i quotidiani, non c’è traccia. Noi, invece, stavolta ci perme iamo di spezzare una lancia a favore del premier. Alpa, dal 2000 al 2007, è stato un docente dell’ateneo maltese. Che, nel 1999, apriva intanto a Roma una succursale italiana: la Link, fondata dall’ex ministro dell’Interno, Vincenzo Sco i, e futuro epicentro del Russiagate. Ovvero l’intrigo che, vent’anni dopo, coinvolgerà suo malgrado pure l’a uale presidente del Consiglio. Insomma, quel curriculum formato extralarge diventa una slavina. Di Maio però derubrica: «Non sanno più cosa inventarsi». Il professore sbucato dal nulla, del resto, è ormai il cavallo vincente dei grillini. Eppure, a ben rileggere quelle mirabolanti imprese accademiche e lavorative, i dubbi sostanziali si sommano a quelli formali: Conte non è forse l’emblema dell’a iguità con i poteri forti, che il Movimento voleva scardinare? Grandi studi legali, incarichi pubblici, lobby imprenditoriali, finanza e Vaticano. Il giurista è la perfe a impersonificazione dell’establishment sempre detestato dai 5 Stelle. Non a caso, nella dichiarazione dei redditi presentata nel 2017, si piazza al secondo posto tra gli esponenti dell’ex governo gialloverde, alle spalle della collega Giulia Bongiorno. L’imponibile di Conte è di 370.314 euro, lontanissimo da sobrietà e decrescita felice decantati dai suoi patrocinanti politici. E fra i beni posseduti, c’è persino una Jaguar XJ6 del 1996. Gli consigliamo di tenerla in garage, ben sorvegliata:

g g g g Beppe Grillo, in uno dei suoi raptus ambientalisti, potrebbe distruggerla a martellate. Non c’è una riga in quel curriculum che sembri personificare l’ideologia del Movimento. Dopo essersi laureato con una tesi di cui è stato correlatore «il banchiere delle privatizzazioni», Natalino Irti, il suo percorso incrocia quello degli studi legali con parcelle a sei zeri: Renato Scognamiglio; Gianni, Origoni, Grippo & Partners; l’immancabile Alpa. Per non parlare degli incarichi pubblici. Consulente legale della Camera di commercio di Roma. Poi esperto della Banca d’Italia. Per passare dalla nomina, in epoca berlusconiana, a consigliere di amministrazione dell’Agenzia spaziale italiana, storico carrozzone di stato. E la Confindustria, con cui i grillini si sono sempre guardati in cagnesco? Be’, Conte pure lì è di casa. Difa i sedeva nella commissione cultura dell’associazione degli imprenditori e ha insegnato alla Luiss, controllata dall’associazione industriali. È anche l’unico italiano nel Board of Trustees della John Cabot University, ateneo americano con sede a Roma. Poi, come abbiamo già visto, risulta membro di un altro Board of Trustees: quello del Cardinal Tardini Charitable Trust, che finanzia Villa Nazareth. Senza dimenticare la nomina nell’organismo di controllo del comitato per la candidatura di Roma delle Olimpiadi del 2020, rinominate da Grillo «le Olimpiadi dei costru ori». Fiorentissima, ovviamente, pure l’a ività professionale. I trascorsi di Conte pullulano di sensazionali clienti pubblici: tipo le Ferrovie. O l’Alitalia: la sua «assistenza legale per giudizi di opposizione allo stato passivo» gli ha fru ato quasi 43.000 euro. Ha difeso, dall’accusa di danno erariale, anche un ex dirigente della Croce rossa italiana. Tra gli assistiti spicca poi Giuseppe Saggese, il creatore di Tributi Italia, la società che per un ventennio circa ha rastrellato le imposte di molti comuni. Fino a quando l’imprenditore non viene accusato di fare lucrose creste sulle gabelle. Niente di male, ci mancherebbe. Ogni legale appende la toga dove meglio crede. E l’avvocato del popolo ha un illustre passato da avvocato dei potenti. Solo che, una volta issato alla guida del governo, lo scarto tra proclamazioni e intendimenti diventa formidabile.

A questo punto, dobbiamo però tornare all’indimenticabile no e in cui tu o ebbe inizio. La trionfale carriera politica di Giuseppe Conte comincia la sera del 28 febbraio 2018. A Dimartedì, il talk show di Giovanni Floris su La7, si presenta come d’abitudine Di Maio. Stavolta però è accompagnato da qua ro aspiranti baldi ministri. Uno è Pasquale Tridico, a uale presidente dell’INPS . L’altro è Lorenzo Fioramonti, oggi ministro dell’Istruzione. Poi c’è Alessandra Pesce, ora so osegretaria alle Politiche agricole. Infine spunta il professor Giuseppe Conte, candidato a guidare la Funzione pubblica. Affe ato, tranquillizzante e do orale. È uno stimato docente di Diri o privato all’università di Firenze, dove Alfonso Bonafede è stato suo assistente. Ed è proprio il futuro ministro della Giustizia a segnalarlo a Di Maio. L’avvocato, a dire il vero, quella volta in tv non fa grandi proclami. Racconta di essersi avvicinato ai 5 Stelle qua ro anni prima. E ora, come un civil servant, vuole me ere al servizio del paese la sua competenza giuridica. Tu avia, mentre si dice pronto a servire l’Italia, è in procinto di servire altri clienti. Come un signore di nome Raffaele Mincione. Ovvero, un finanziere impegnato in una ba aglia piu osto complicata per il controllo di Banca Carige: il principale istituto di credito della Liguria. È lui il cliente che finirà per me erlo più in imbarazzo. Gennaio 2019: il governo stanzia un fondo da 1,3 miliardi di euro per l’istituto genovese. Il PD , dai banchi dell’opposizione, urla al confli o d’interessi. Chiede a Conte di astenersi nel consiglio dei ministri che approva il cosidde o salva-Carige. E perché mai? So o accusa finisce, ancora una volta, l’amicizia con Alpa, già consigliere d’amministrazione della banca genovese dal 2009 al 2013 e poi consulente legale di Mincione. Ma dal passato emergono rapporti anche tra il finanziere italo-inglese e lo stesso Conte. Poco prima di diventare premier, l’allora avvocato firma un parere pro veritate per conto della società Fiber 4.0, di cui Mincione è presidente. I compagni dem, futuri alleati, si scatenano. A denunciare l’inopportunità di un capo del governo al servizio di un banchiere sono proprio gli a uali alleati di Conte: i parlamentari del PD . Dal

turborenziano Luigi Mara in, a uale capogruppo di Italia viva, ad Alessia Morani, adesso so osegretario allo Sviluppo. Da Simona Malpezzi, che parla di «strane coincidenze», a Michele Anzaldi, che scomoda addiri ura la solita ANAC . L’Autorità anticorruzione si affre i ad aprire un’indagine, grazie. Il nome di Mincione rispunta fuori nell’autunno 2019. Il finanziere viene coinvolto nell’ultimo scandalo scoppiato in Vaticano: uno “spericolato” acquisto immobiliare a Londra. Di mezzo ci sono i soldi dell’Obolo di san Pietro: invece di venire investiti dal Vaticano in opere pie, sarebbero utilizzati per spregiudicate operazioni finanziarie. La maxi inchiesta del promotore di giustizia della Santa Sede si concentra, in particolare, sui 200 milioni di euro serviti per rilevare un immobile di lusso a Londra. Il fondo d’investimento tacciato di scorribande fa capo a Mincione, anche se è foraggiato dalla segreteria di stato vaticana. Si chiama Athena Global Opportunities. Ed è, guarda caso, pure il principale azionista della Fiber 4.0, che nella primavera 2018 comincia a comprare quote di Retelit, una società privata che possiede o omila chilometri di fibra o ica in Italia. Mincione ne vorrebbe il controllo, ma viene sconfi o da una cordata straniera. La Fiber 4.0 decide quindi di andar per carte bollate. Così, per rovesciare il tavolo, chiede una consulenza a Conte. Lui non si esime. Il 14 maggio 2018 consegna il suo parere pro veritate: il voto degli azionisti, spiega, «poteva essere annullato se Retelit fosse stata collocata so o le regole della golden power, che perme ono al governo di bloccare il controllo straniero di compagnie considerate strategiche a livello nazionale». Ed è quello che accade poche se imane dopo. L’esecutivo, guidato dal primo ministro Conte, esercita proprio la golden power, sollecitata dall’avvocato Conte. Il premier si difende: «Non conosco Mincione e non ho preso parte alla riunione che deliberò l’esercizio dei poteri su Retelit». E poi, aggiunge: «Chi poteva immaginare che sarei diventato presidente del Consiglio?». Già, chi? Torniamo allora al 14 maggio 2018. La sera prima di firmare quella consulenza, il giurista incontra Salvini e Di Maio in un

albergo di Milano. Una riunione che prelude alla sua ascesa a Palazzo Chigi. Insomma, quel consulto viene inviato due giorni dopo l’informale investitura da parte di Lega e 5 Stelle. È vero, è stato tu o rocambolesco. Certo, fra il finanziere e il premier non risultano incontri. Il fondo di Mincione non è neppure riuscito a scalare Retelit. E il parere dell’avvocato Conte, tra l’altro, non ha ribaltato il voto. Resta però il groviglio: si può passare, senza nemmeno una sgualcitura, dalla difesa dei potenti a quella del popolo? No. A meno di essere il più rutilante trasformista mai apparso sulla scena politica italiana.

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Innocenti evasioni

Serve i, sciacalli, infami, boia, pennivendoli, saccentoni, pu ane e fru-fru con la dissenteria mentale. Chissà se, nonostante i modi affe ati e gli impeccabili completi, in fondo in fondo il premier non concordi con Beppe Grillo, ormai suo mentore politico. I giornalisti? «Li mangerei per il gusto di vomitarli» confessa il fondatore dei 5 Stelle. Ecco, fin lì l’elegante Conte certo non arriverebbe. Però nel tempo ha imparato a odiare cordialmente la categoria. I sospe i di confli o d’interesse aleggiano sull’universo accademico e professionale del premier. Ma dall’armadio del professore escono altri scheletri, sebbene ormai ripiegati con cura. Come quelli fiscali. A partire dalla temutissima Equitalia. A marzo del 2011, l’Agenzia delle entrate è costre a a chiedere una sostanziosa ipoteca legale sulla prestigiosa casa romana del giurista: «Per la complessiva somma di 24.600 euro, a garanzia del proprio credito di 49.200 euro». Non proprio bruscolini. IVA , multe, previdenza: le pendenze sono varie ed eventuali. Cosa diavolo è successo? Semplice: quello che accade a uno stuolo di connazionali. Non ha saldato alcune spesucce con l’erario. Mancati versamenti IRPEF , IRAP , IVA . E i sostanziosi oboli dovuti alla Cassa nazionale di previdenza forense: quella a cui sono iscri i gli avvocati. Più qualche multa stradale e sanzioni accessorie. Ma come? Un uomo tanto sollecito e galante? Insomma, un bel giallo. Deflagrato, in rapida sequenza, poco dopo le polemiche sul suo ipertrofico curriculum: proprio alla vigilia del suo, inaspe ato, primo incarico. Così il suo commercialista, Gerardo Cimmino, è costre o a fornire lumi: «L’agenzia ha mandato le comunicazioni via posta, ma nello stabile romano del professore il portiere non c’è. La cartolina è stata probabilmente smarrita» racconta. «Se il

contribuente non si presenta, e non porta i giustificativi della dichiarazione, iscrive al ruolo l’IRPEF sulla dichiarazione non presentata. Quando il professore se ne è accorto, ha saldato ogni pendenza. Bastano qua ro o cinque ritenute mancanti sulle fa ure per arrivare a quella cifra. Può succedere a chiunque. Non si sono aperte procedure penali. È stata solo una questione fiscale.» È vero: può succedere a tu i di finire nell’infernale girone dell’erario. Aggiungeteci poi i mitologici disservizi postali. Due grandi classici delle geremiadi all’italiana. Conte è l’ennesima vi ima del diabolico sistema delle notifiche? Può darsi. Del resto, è quello che racconta, scorato, durante il nostro primo incontro alla stazione di Firenze, nel giorno in cui riceve l’incarico da Ma arella. Ma anche lui è costre o a provare il brivido del pignoramento, che ha guastato i sonni di tanti ci adini. La sua abitazione romana viene così, seppur per un frangente, ipotecata. La casa è grande centotrenta metri quadri. Si affaccia su via Giulia, un’elegante strada della capitale. Conte la compra a 34 anni, nel 1999, per 450 milioni di vecchie lire. Un o imo affare. Oggi l’immobile vale molto di più. Ed Equitalia è solo un bru o ricordo: a novembre 2011, dopo aver pagato l’intera cartella, viene cancellata quell’odiosa ipoteca. Insomma, la solita malede a combinazione di sfortuna e burocrazia. Vabbè, dimenticanze. Che però diventano incoerenze quando, nell’autunno 2019, sul far della Finanziaria, il bis-presidente annuncia a più riprese una lo a senza quartiere agli evasori, consapevoli o meno. Del resto, è il tempo del risca o dal giogo leghista. Bisogna vellicare il “giacobinismo grillino”. Ridare in pasto allo smarrito ele orato dei 5 Stelle il sempre amato tintinnio di mane e. Conte, dunque, avverte: carcere agli evasori. Già, e cosa c’entrano le sue smemoratezze? Poco, forse. Ma la contingenza dovrebbe portare a un supplemento di riflessione: quanto può diventare labile il confine tra errore e dolo? Ai giallorossi, poco importa: in galera, in galera. Proprio dove forse sarebbe finito, con le nuove norme, anche Cesare Paladino, titolare del Grand Hotel Plaza di Roma. E, occasionalmente, padre di

Olivia, fidanzata del presidente del Consiglio. L’imprenditore non avrebbe versato al Comune, dal 2014 al 2018, la tassa di soggiorno pagata da ogni turista. Accusato di peculato, Paladino ha pa eggiato un anno e due mesi. Sia chiaro: la figlia non è mai stata indagata. Con i guai del padre non c’entra nulla. Figuriamoci il compagno premier: il loro rapporto affe ivo non è mai stato nemmeno ufficializzato. Però queste due vicende raccontano l’ennesimo scarto tra fa i e parole, intendimenti e risultanze. Le mille facce dell’evasione, alla fine, hanno anche il volto di Conte e Paladino. Con tu i i distinguo del caso, ovviamente. Incoerenze? Forse. Per un’ampia vulgata di detra ori del premier sarebbero quisquilie, in confronto a un’altra storia che riemerge dal suo passato. S’intreccia con il controversissimo metodo Stamina, ideato da Davide Vannoni, salito alla ribalta qualche anno fa. Prome e di guarire una moltitudine di mala ie per cui la scienza non ha ancora trovato rimedio: dal morbo di Parkinson alla SLA , passando per rarissime patologie infantili. La cura consiste in misteriose terapie a base di cellule staminali mesenchimali: prelevate dal midollo dei pazienti, lavorate e poi rinfuse. Il metodo è avversato da tu a la comunità scientifica. La più agguerrita è Elena Ca aneo. Che di converso, proprio per le sue ricerche sulle staminali, viene ele a senatrice a vita ad agosto 2013. Nessuna scientificità e nessuna efficacia, spiega in quel periodo. Proprio mentre Beppe Grillo e i 5 Stelle diventano i più fervidi sostenitori politici del metodo di Vannoni. Sul blog del comico viene data ampia pubblicità alle proteste pro Stamina. In Parlamento il pentastellato Andrea Cecconi, capogruppo della Commissione affari sociali arriva a dichiarare: «Il Movimento ritiene che il metodo sia efficace». È in quel periodo che Conte avrebbe avuto i primi conta i con il Movimento, culminati a se embre 2013 con l’indicazione del professore per il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa. Qualche mese prima, Conte comincia ad assistere la famiglia di Sofia, la bambina di tre anni diventata il simbolo della ba aglia per far inserire il controverso protocollo nella sanità

pubblica. Soffre di leucodistrofia metacromatica, una mala ia degenerativa terminale che porta a progressiva paralisi e cecità. Ed è in cura con il metodo Stamina negli ospedali civili di Brescia. Un collegio di giudici, a Firenze, blocca però la seconda infusione. Non è l’unico parere negativo sul metodo di Vannoni. A maggio 2012 i NAS , inviati proprio a Brescia dall’Agenzia italiana del farmaco, trovano un laboratorio «assolutamente inadeguato sia dal punto di vista stru urale, sia per le ca ive condizioni di manutenzione e pulizia». Mentre la procura di Torino apre alcune inchieste sulla Stamina Foundation. La madre di Sofia vuole però che la figlia prosegua la cura. «È migliorata so o diversi aspe i e sopra u o ha avuto salva la vita.» Conte presenta quindi un ricorso per continuare le cure compassionevoli. Viene accolto, con qualche riserva. «La soddisfazione per il risultato raggiunto» spiega Conte il 13 marzo 2013 «è offuscata dalla comunicazione del dire ore generale dell’azienda ospedaliera bresciana, che puntualizza che l’impegno è soltanto per questa seconda infusione, escludendo di poter procedere a successivi interventi.» Il futuro avvocato del popolo aggiunge: «Eravamo fiduciosi, con i genitori di Sofia, che si fosse definitivamente affermato un principio di civiltà giuridica: il diri o della piccola Sofia e di tu i coloro che versano in grave pericolo di vita». Non sembrano le parole di un difensore d’ufficio, ma di un legale che ha sposato una nobile causa: la vita di Sofia. E il meno nobile metodo di Vannoni. «La situazione che ci viene a ualmente prospe ata ripropone una inacce abile interruzione del tra amento terapeutico» prosegue Conte. Fino all’arringa finale: «Chiedo a tu e le autorità, ai responsabili sanitari e ai nostri interlocutori di assumersi la responsabilità, in scienza e coscienza, di assicurare a Sofia il celere completamento del tra amento terapeutico già iniziato». Frasi che suonano come un chiaro appoggio al metodo Vannoni. Anche se i genitori della bambina smentiranno ogni illazione. Caterina Ceccuti, la madre di Sofia, al «Corriere della Sera» spiega:

«Il professor Conte dimostrò una grande sensibilità alla causa, perché non volle nulla in cambio. Lo fece pro bono: penso che si sentisse toccato, avendo pure lui un figlio della stessa età. Acce ò anche per il fa o che la cura era somministrata da un ospedale pubblico, e che c’erano le basi per la continuità terapeutica: la bambina aveva già iniziato la terapia». Il rapporto tra Conte e Stamina non si esaurisce però con le cause legali. Mentre prosegue la ba aglia giudiziaria della famiglia di Sofia, il 26 giugno 2013 viene presentata la fondazione Voa Voa, che annuncia il primo beneficiario dei propri finanziamenti: l’associazione di Vannoni. I promotori sono i genitori di Sofia. Assieme a loro, in prima fila, c’è Gina Lollobrigida, che me e all’asta alcuni suoi gioielli. Il ricavato sarà destinato alla ricerca di nuove terapie per mala ie rare e incurabili. E tra i componenti del comitato, scrive l’edizione fiorentina di «Repubblica», c’è pure «l’avvocato Giuseppe Conte». Dopo la condanna della comunità scientifica e del ministero della Salute, arrivano le indagini della magistratura. A marzo 2015 Vannoni, accusato di associazione a delinquere e truffa, pa eggia una pena di un anno e dieci mesi. Non potrà più somministrare la sua cura. Il guru viene però arrestato due anni dopo, mentre sta per lasciare l’Italia. Lo accusano di aver continuato a curare i pazienti in Georgia per aggirare i divieti: i tra amenti arrivavano a costare anche 27.000 euro. A gennaio 2019 il processo viene trasferito da Torino a Roma. Ma Vannoni muore a dicembre 2019. Sofia, la bambina simbolo di questa grande illusione, è scomparsa invece due anni prima. Suo padre, qualche giorno dopo, parla con il «Corriere della Sera»: «La nostra non è stata e non sarà mai una ba aglia per il metodo Stamina. Davide Vannoni è un millantatore e nulla ha inventato. Noi insieme a Sofia, continueremo a ba erci per aiutare le decine di migliaia di bambini affe i da patologie neurologiche rare e le loro famiglie a non essere più invisibili». La straziante storia della figlia riemerge qualche mese più tardi, a maggio 2018. Quando il suo ex avvocato è in procinto di diventare primo ministro. Con un nugolo di dem pronti a caricare a testa bassa. «Niente stregoni.» «Prenda le distanze.» «Che posizione ha

g p sui vaccini?» Ma Conte guarda e passa. Tu o è perdonato. La sua fortuita corsa per Palazzo Chigi è in diri ura d’arrivo.

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La caducazione della concessione

«Entrando per la prima volta in quest’aula e nel parlarvi oggi, avverto pesante la responsabilità per ciò che questo luogo rappresenta.» Che quel giorno, a Palazzo Madama, le cose sarebbero andate per le lunghissime, s’era intuito dai preamboli. È il 6 giugno 2018 quando Conte consegna ai posteri la sua accorata richiesta di fiducia al Senato. Una concione già negli annali: un’ora e undici minuti ne i. Il discorso più lungo della storia repubblicana. Più lungo di quello che servì a Giovanni XXIII per aprire il Concilio Vaticano II. Ecco un assaggio: «Personalmente, ritengo più proficuo distinguere gli orientamenti politici in base all’intensità del riconoscimento dei diri i e delle libertà fondamentali della persona.» Traduzione? Chissà. È il giorno dell’autoproclamazione ad avvocato del popolo. Celebrata, di converso, con una caterva di ridondanti prolissità. Perché, quanto ad arzigogoli, il nostro premier non lo ba e nessuno. Eppure, con un lampo d’autocritica, sembra perfino intuire i rischi di prolissità: «Presentarsi oggi nel segno del cambiamento non è quindi un’espressione retorica o propagandistica, ma una scelta fondata sulla necessità di aprirsi al vento nuovo che soffia da tempo nel paese». È un barlume in un profluvio di parole: 5.934 per l’esa ezza. In ve a al podio c’è “cambiamento”, ripetuto ben qua ordici volte. Srotolando il suo discorso, c’è però tu o lo scibile: «Me eremo fine al business dell’immigrazione», «comba eremo la corruzione», «rescinderemo il legame tra politica e sanità», «aumenteremo fondi, mezzi e dotazioni per garantire la sicurezza in ogni ci à», «contrasteremo con ogni mezzo le mafie», «potenzieremo la legi ima difesa». Quando? Come? Perché? Si vedrà. Un elenco

g infinito, concluso dal partecipato commiato: «Il vostro voto di oggi sarà parte della storia del paese». Quanto a enfasi, quasi riecheggia «la storia mi assolverà» di Fidel Castro, che non a caso detiene il record mondiale per il discorso più lungo mai pronunciato: se e ore e dieci minuti. L’Avana, 1986: congresso del Partito comunista. Altri tempi, altre latitudini, altri regimi. Venendo ai nostri giorni, e limitandoci alla sfera continentale, la verbosità di Giuseppi non ha eguali. Ma che volete farci? Al pari di tanti acclamati legali, il presidente del Consiglio ama sentir echeggiare le sue perifrasi. Diventate un marchio di fabbrica, al pari della poche e bianca nel taschino della giacca: a qua ro punte, nelle occasioni formali, o a tre, quando si sente più malandrino. E come il ciuffo pendulo sull’ampia fronte, che gli dona quell’effe o sbarazzino da centravanti di borgata. O gli impeccabili completi scelti dal sarto Paolo Di Fabio: punto perfe o di blu, bo oni in corno o madreperla e, ça va sans dire, asole aperte fa e a mano. «Un giorno Trump mi ha chiesto di un mio abito e gli ho suggerito il mio sarto napoletano» si pavoneggia il premier. «Da allora abbiamo costruito un rapporto.» E quel ridondante giuridichese venato di democristianità? Al momento, pare che non glielo invidi nessuno. Certo, il premier prome eva bene fin dagli esordi. Ma il meglio l’ha certamente dato in corso d’opera. Inarrivabile resta la «caducazione della concessione» sfoderata in più occasioni contro Autostrade, so o processo per il crollo del ponte Morandi a Genova. La prima volta, ne parla pochi giorni dopo la tragedia. L’ultima, a o obre 2019: «È in corso il procedimento per la caducazione della concessione, all’esito del quale non faremo sconti ai privati e perseguiremo l’interesse pubblico» reitera Conte. Con la famiglia Bene on, che controlla la società, stavolta si fa finalmente sul serio? Macché. «La procedura» aggiunge il premier «è complessissima e bisogna acquisire tu e le perizie, le valutazioni e le controdeduzioni.» Insomma, pure stavolta, si vedrà. Perché le ampollosità verbali nascondono quasi sempre traccheggiamenti e scaltrezze. Come l’Azzeccagarbugli di Manzoni: «All’avvocato bisogna contare le cose chiare» spiega Renzo nei Promessi sposi. «A lui poi tocca di imbrogliarle.» E l’aneddotica del

p p g premier è ormai sterminata. Interrogato a fine 2018 dal «Corriere della Sera» sulla tra ativa a Bruxelles per il debito italiano, Conte rimescola sogge o, verbo e predicato: «Non credo che, affidata a un tono più dialogico, questa soluzione avrebbe ricevuto solo per questo il pieno sostegno della Commissione europea». Ma se il tono è «dialogico», la soddisfazione resta massima per «aver coagulato» i partner. E quando, sulla Libia, rischia d’essere scavalcato da Salvini, dice che il dossier lo coordinerà personalmente: «In modo da evitare iniziative che potrebbero sogge ivizzare il confli o». Ma non si tra a soltanto del mutuato linguaggio legalese o accademico. Conte è ben oltre. Ha disso errato quel dire e non dire dei più consumati esponenti della Democrazia Cristiana. È nel desueto che si nasconde l’inghippo. Nella «caducazione della concessione, perché non possiamo aspe are i tempi della giustizia». Proprio mentre quei tempi, consapevolmente, diventano eterni. E quando il reddito di ci adinanza esclude alcune categorie e non convince la Lega, Conte rassicura: «Alcune applicazioni giurisprudenziali lasciano una qualche incertezza che bisogna diradare». Ma nelle segrete stanze, ovviamente, spalleggia i 5 Stelle. Manca giusto la «supercazzola prematurata con scappellamento a destra». Solo che al posto del conte Masce i di Amici miei c’è il Conte di Palazzo Chigi. Immaginate dunque i premier dell’Unione, chiamati a decidere sulla procedura d’infrazione per debito eccessivo dell’Italia. Alla buon’ora, ricevono la le era del governo. E scoprono, increduli, che della manovra non si parla. Regole, manovre, decimali. Uffa, che barba. E poi, che importa? L’Italia, si legge, è a un punto di svolta: «Una fase costituente di governo delle nostre società e delle nostre economie». Mica bruscolini, eh: meditate euroburocrati, meditate. Perché noi, i vostri bistra ati cugini, stiamo facendo «una riflessione approfondita su come assicurare un effe ivo equilibrio tra stabilità e crescita, tra riduzione e condivisione dei rischi. Sono poli diale ici, ma devono essere valutati insieme, devono essere tra loro adeguatamente bilanciati». Ha tentato di incantare tu i, il nostro premier parolaio. A partire dai contraenti del contra o di governo. Con loro, il meglio l’ha dato il 3 giugno 2019, in una conferenza stampa a Palazzo Chigi: proprio

g g p g p p a un anno esa o dalla nascita dei gialloverdi. Il momento è doloroso e cruciale. Lì fuori divampano baruffe tra Di Maio e Salvini. Ma per fortuna c’è il presidente del Consiglio. È lui a ergersi al di sopra delle parti. Suggerisce a Lega e 5 Stelle di «uscire dagli schemi limitati delle campagne ele orali e dei proclami lanciati a mezzo stampa». Risalito in ca edra, ai somarelli spiega: «Disegnare il futuro del paese è cosa un po’ diversa dal soddisfare le piazze infotelematiche, dal collezionare like nella moderna agorà digitale». Eppure è proprio Conte, nel tentativo di dirimere le controversie, a rivelare il suo mo o: «Sobri nelle parole, operosi nelle azioni». Insomma, come se Cristiano Malgioglio esortasse a vestirsi austeramente. Giuseppe “il sobrio” chiede comunque di sme erla, una volta per tu e. Basta «indugiare nelle polemiche a mezzo stampa, nelle provocazioni coltivate per mezzo di veline ai quotidiani, nelle freddure sparate a mezzo social». Su, finitela con l’«eccesso di verbosità, dei perenni e costanti confli i comunicativi che pregiudicano la concentrazione sul lavoro». E poi arriva il lampo. «Cos’è il genio?» ragionava, ancora in Amici miei, il Perozzi. «È fantasia, intuizione, colpo d’occhio e velocità d’esecuzione.» E così, durante l’accorato ultimatum, Conte la bu a lì: «Logomachia». È a quel punto che gli incolti alleati si ridestano dal torpore. Logomachia? Non resta che riacciuffare i cellulari e cercare l’astruso termine. Dicesi logomachia: «Disputa, questione sull’uso e il valore delle parole, o che verte sulle parole più che sui fa i». Talmente soddisfa o dell’effe o sorpresa, Conte rispolvera la parola qualche mese dopo, il 10 se embre 2019, quando al Senato si vota sul suo reincarico. Un discorso che, a so olineare la solennità del momento, costella di altre pepite semantiche. La prima: genetliaco. Ovvero, compleanno di persone illustri. Il termine viene usato per fare gli auguri alla senatrice a vita Liliana Segre, che quel giorno compie 89 anni. A seguire, il presidente del Consiglio reincaricato annuncia di farsi «latore» dell’Osservatorio contro l’istigazione all’odio razziale. Poi è il turno della solita logomachia, mentre fa la sua trionfale entrata nel lessico contiano la «monade»: conce o preso a prestito dal filosofo tedesco Leibniz, per ribadire la

p p p necessità di aprirsi e collaborare. Primi rumoreggiamenti d’aula. Ma il premier non arretra. L’Africa? È «un territorio ferace di prospe ive». Ossia, fertile. E quando un mormorio risale dai banchi, il professore sembra voler accarezzare le testoline di quei ciucchi: «Non abbiate paura delle parole». Prendete esempio da lui, piu osto. Divenuto in un anno e mezzo il re incontrastato delle tenebre verbali. Tornano in mente le acrobazie linguistiche di Arnaldo Forlani, illustre antenato diccì di Conte. «A preside’ s’accorge che nun sta dicendo niente?» lo interruppe una volta il più impertinente dei cronisti. Ma, con un lampo d’ironia, il “coniglio mannaro” l’incenerì: «Ah, sapessi carissimo: potrei andare avanti così per delle ore».

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Il papocchio di Biarri

La grande metamorfosi avviene a orno alla metà di luglio 2019. Il “signor Nessuno” comincia a spingere i 5 Stelle ad appoggiare Ursula von der Leyen al vertice della Commissione europea. E sopra u o, si me e di traverso alle richieste della Lega, facendo balenare un’intesa tra grillini e sinistra. A quel punto, l’a acco frontale a Salvini fa compiere il miracolo. L’aura dell’erede di Alcide De Gasperi irradia il premier. Da «pupazzo» diventa «bura inaio». Su «Repubblica», Eugenio Scalfari profetizza: «Ora Conte, democristianamente, può succedere a se stesso e cambiare maggioranza come la poche e nel taschino». Del resto, è già evidente che il professore non finirà come Cincinnato, il console che, diventato di atore obtorto collo, prima conduce i Romani al trionfo sugli Equi e poi torna a coltivare il suo campicello. No, è chiaro che il giurista non ha alcuna intenzione di rime ere piede nelle aule universitarie. Ha scoperto dai sondaggi il suo buon gradimento. Comincia a convincersi di essere davvero l’uomo della provvidenza. È lui quindi il padre dei giallorossi? Figuriamoci: non riesce nemmeno a scegliere i ministri più importanti. Quelli, in effe i, li indica Ma arella. Ma anche il mite capo dello stato, a dire il vero, non può essere considerato il vero babbo del pargolo. Già, ma allora di chi è figlio il governo? Il papà non è Luigi Di Maio e nemmeno Nicola Zingare i. O Beppe Grillo, quello che più s’è speso per la riconferma del premier. L’esecutivo allora è figlio di NN, nomen nescio, insomma nessuno? No, quest’ircocervo tecnico-politico un papà e una mamma ce li ha. Anzi, in linea con i tempi moderni, ha sesso indefinito e più genitori. Le tracce di dna sparse qua e là ci consentono dunque di ricostruire con precisione l’albero genealogico del mostricia olo partorito da 5 Stelle e Partito democratico.

p I primi indizi vengono seminati tra il 24 e il 26 agosto, al G7 francese di Biarri . Il premier uscente arriva all’incontro come un’anatra azzoppata, mentre in patria PD e 5 Stelle si dilaniano sulla nascitura alleanza. Ma in quel vertice Conte o iene trasversali ed enfatici appoggi dai leader mondiali. Gli sperticati osanna hanno uno scopo: allontanare da Palazzo Chigi lo spietato sovranista e antieuropeista Salvini. Occasione ghio issima. Da cogliere al volo. Quando mai si ripresenterà una contingenza tanto favorevole? È stato stavolta lo stesso Capitano, con discutibile tempismo e strategia, a farsi da parte. Giù con i salamelecchi planetari, quindi. Talmente sperticati da surclassare i tentennamenti di dem e grillini. Via libera: Conte è il garante dei fragili equilibri dell’Unione. Roma ratifichi, grazie. Sarebbe però ingeneroso non dare meriti all’allora ammaccato primo ministro. A Biarri gioca superbamente le sue carte, sciorinando quel cinismo mascherato da bonarietà, oggi diventato il suo tra o identificativo. Non solo perché, con scelta estetica mai vista nella storia dei consessi mondiali, arriva in Francia con il figlio Niccolò, di dieci anni. Ma perché si allinea al vento franco-tedesco contro i dazi di Donald Trump. È sulle sponde della deliziosa ci adina francese che nasce il nuovo Conte. Nella patria dei surfisti europei, il professore dimostra di saper domare gli insidiosi cavalloni della politica, saltando agilmente da un’onda all’altra. Dalla marea gialloverde a quella giallorossa. Aloha. Quale sarebbe stata l’antifona a Biarri si capisce chiaramente fin dalla conferenza stampa d’esordio. Il primo a parlare è il presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk: «Giuseppe Conte è stato uno dei migliori esempi di lealtà in Europa» si sbilancia l’aitante ex primo ministro polacco. «È sempre difficile difendere gli interessi nazionali e trovare soluzioni europee. Ma su di lui posso dire soltanto cose positive. E poi ha un gran senso dell’umorismo.» Urrà! Alla fine del summit, il 27 agosto 2019, arriva perfino l’endorsement di Trump. Tra i suoi tweet ma utini ne dedica uno, partecipatissimo, al primo ministro italiano. Proprio mentre a Roma, la tela della nuova alleanza viene tessuta di giorno e disfa a di no e. «Comincia a

me ersi bene per il rispe atissimo primo ministro della Repubblica italiana, Giuseppi Conte» cingue a il presidente americano. «Ha rappresentato l’Italia in modo poderoso al G7. Ama molto il suo paese e lavora bene con gli USA . Un uomo molto talentuoso, che spero resti primo ministro!». Rispe atissimo, poderoso, talentuoso. Insomma, Giuseppi. L’involontaria storpiatura diventa quasi il marchio dell’ondivago Conte. Giuseppi: a rimarcare che fin lassù l’hanno nuovamente riassiso americani, tedeschi, francesi ed euroburocrati. Un refuso che lascia ancora aperta una selva di interrogativi: perché il machiavellico Trump s’è spinto a cotanto sostegno? E per di più a disdoro di Ma eo Salvini, sovranista come lui e sempre prodigo di elogi nei riguardi del tycoon statunitense? Le ipotesi sono svariate. Simpatia umana, vassallaggio tricolore, riconferma dell’atlantismo. Ma nei mesi seguenti, a queste possibilità se ne aggiunge un’altra: il Russiagate. Ossia, aver messo a disposizione degli 007 statunitensi l’intelligence italiana. Ai giorni in cui Trump dà la sua decisiva benedizione a Giuseppi risalgono altri decisivi indizi biologici. Come la telefonata di Angela Merkel al PD : probabilmente sul telefono di Paolo Gentiloni. La cancelliera, rivela «Repubblica», avrebbe de o all’ex premier che il governo «va fa o a ogni costo, perché serve a fermare i sovranisti». Del resto, i rapporti tra Merkel e Conte sono consolidati. Emergono a febbraio 2018, in un clamoroso fuorionda. Le telecamere scorgono i due, mentre parlo ano durante una pausa del vertice di Davos. Frasi frammentate, tono colloquiale. Conte spiega la linea dura di Salvini, allora ministro dell’Interno, contro l’immigrazione: «Lui chiude tu o. Non c’è spazio. Per me è differente. Ti ricordi di Malta? Quando ho de o: “Donne e bambini li prenderò con l’aereo”». Come voleva Juncker, aggiunge. Merkel chiede però lumi sul domani, malcelando perplessità. E il premier italiano, solerte: «Ma li prendiamo, certo. Certo! Ma Angela, non preoccuparti. Sono molto determinato. La mia forza è che se io dico: “Ora la sme iamo!”, loro non litigano». Dal siparie o derivano due corollari. Il primo: già all’epoca, nonostante l’acclarata marginalità, il primo ministro

italiano si sentiva Napoleone. Il secondo: l’a eggiamento, piu osto condiscendente, verso i tedeschi. Così sei mesi più tardi, mentre il governo barcolla, la cancelliera chiama Gentiloni. E il futuro commissario europeo per la concorrenza, il 31 agosto 2019 si lancia in un accorato tweet: «Non pretendo uno sprint,» esordisce felpato come al solito «ma un’accelerazione gioverebbe. Alle possibilità di risolvere la crisi e sopra u o alla dignità della politica». C’è però Di Maio, che continua ad alzare il prezzo. E c’è Renzi, che inciucia per non rinunciare alle poltrone. Poco importa. Quisquilie. Conta ancor meno che Zingare i, segretario del PD , possa perdere la faccia. Solo pochi giorni prima, dichiarava tetragono: «Discontinuità vuol dire che non vogliamo e non possiamo entrare in un governo che abbia Conte premier». Con i grillini, neppure un caffè. È costre o invece a trangugiare tu o. Come Fantozzi che, a cena dalla contessa Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare, è obbligato a ingollare un tordo intero, mimando a gran gesti di gradire la pietanza. Eh sì: il papocchio viene concepito proprio a Biarri . Le cancellerie europee, al vertice francese, realizzano il loro piano. E il debito pubblico? E l’IVA che rischia di aumentare? Non c’è da angustiarsi. A tu o c’è rimedio. Basta allentare i cordoni della borsa: opzione sempre preclusa a Salvini il cerbero. Un’altra traccia genetica si trova dunque nell’intervista del commissario europeo al Bilancio, Günther Oe inger. Pure il falco UE , in quei giorni, rilascia una serie di confortanti dichiarazioni. Il politico tedesco giudica molto positivamente il reincarico a Conte. Aggiunge che Bruxelles «è pronta a fare qualsiasi cosa per facilitare il lavoro del governo italiano, quando entrerà in carica, e per ricompensarlo». La traduzione del linguaggio euro-burocratico è chiara: se bu ate fuori l’orco leghista, non ve ne pentirete. Potete persino indebitarvi un po’ di più. Ma come? Non era indispensabile ridurre il deficit? I conti pubblici italiani non me evano a repentaglio l’Europa? Balle. Bastoni messi fra le ruote del governo gialloverde, per farlo deragliare. Così, dal suo le o di dolore, vista l’operazione subita

all’epoca, si fa vivo perfino il baldo Jean-Claude Juncker, presidente dell’UE . Ancora degente, si spertica in lodi su Conte arrivando a benedire la sua metamorfosi. Il mondo alla rovescia, insomma. Nella foga laudatoria, lo paragona addiri ura ad Alexis Tsipras. Un precedente ardito. Per farsi eleggere, il premier greco prima promise ai greci fuoco e fiamme contro Bruxelles. E dopo, ahiloro, fu costre o a me er a ferro e fuoco Atene. Insomma, tu o lascia supporre che a decidere la nascita del Conte bis siano stati gli euroburocrati e le cancellerie forestiere. Del resto, accadde lo stesso ai tempi del governo Monti. Con una manovra esterna al Parlamento, si decise di far fuori Silvio Berlusconi e sostituirlo con il re ore della Bocconi. All’epoca, gli sponsor del ribaltone furono Nicolas Sarkozy e Angela Merkel, con la sponda di Giorgio Napolitano. La scorsa estate uno dei principali artefici sarebbe stato invece Macron, con la solita cancelliera. L’«operazione Ursula», cioè l’elezione della nuova presidente della commissione UE , è solo il banco di prova. Poi il resto sarebbe stato perfezionato a Biarri , convincendo anche Trump. Fino all’endorsement del presidente USA a favore di Conte. Una regia perfe a per un governo in prove a. Nessun padre né madre naturali. Ma tanti interessati padrini. Un governo transgender che, guarda caso, è benede o pure dal papa. Perché i populisti, cioè i politici che danno la parola al popolo, fanno più paura dei governanti LGBT : di genere incerto, ma di poteri sicuramente forti. Morale: prima, per i giornalisti, era un «presidente per caso» e «una marione a nelle mani dei 5 Stelle». Dopo essersi messo di traverso a Salvini, il presidente del Consiglio diventa però uno statista di prim’ordine. Un furbo di tre co e, capace di ba ere il ministro dell’Interno non con una maggioranza, ma addiri ura con due. Così il premier «fantoccio» («Le Monde»), «il re travicello» («Huffington Post»), «il bura ino di Salvini e Di Maio» (Guy Verhofstadt), all’improvviso diventa un turbopresidente del Consiglio, autorevolissimo e forte. Anzi, il traghe atore dei grillini. Conte, infa i, scrive Paolo Mieli sul «Corriere della Sera», «è stato capace di trascinare con sé il frastornato movimento ponendosi in

sintonia con l’establishment italiano, quello europeo, l’intero mondo economico e il Quirinale». Doveva essere il governo del cambiamento, come era stato definito nei titoli d’inizio del film. Invece, grazie a Conte, s’è trasformato nel governo della conservazione. Piena sintonia con quelli che contano. Vuol dire solo una cosa: non si cambia niente, ma si conserva tu o. E come c’è riuscito quel campione di Conte? Semplice: ha offerto una seconda vita politica ai grillini, alle prese con la tagliola del doppio mandato. A partire dal leader, Di Maio. Chi di regolamento ferisce, di regolamento perisce. Invece, oplà: da gialloverdi a giallorossi. Elezioni vade retro. Qui è in gioco la vita degli italiani. Ecco dunque l’unità nazionale: il volemose bene in cambio del mantenimento della poltrona. Beato chi gli crede. Perché il ribaltone, anzi il governo dell’ammucchiata, ha avuto il consenso di tu i, ma proprio tu i: establishment, economia, Quirinale, Chiesa, magistratura e anche opinione pubblica internazionale. Ma non degli ele ori. I quali contano meno del due di picche. La maggior parte degli italiani, la scorsa estate, dopo l’avventata crisi di governo aperta da Salvini, avrebbe preferito andare alle urne. Ma cosa volete che ne sappia il popolo bue? C’è una finanziaria da approvare, lo spread che incombe e i precari equilibri europei. Fidatevi: meglio rinviare a data da destinarsi. Ci pensiamo noi al vostro bene. Per fortuna c’è un padre della patria disposto a immolarsi nuovamente per la democrazia: Giuseppe Conte da Volturara Appula. Torniamo allora al maggio 2018. A quando lo sconosciuto giurista esce, per la prima volta, fuori dal cilindro pentastellato. Sarà lui, lasciano trapelare gli alleati, il futuro premier. Ecco, ripensandoci, forse in quel momento avremmo dovuto dar re a a uno che lo conosce davvero bene: «Giuseppe ha fa o un errore a entrare in politica, ma è troppo ambizioso». Parola di Nicola Conte, o uagenario padre del premier dei due mondi.

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A star is born

A star is born, ma non è Lady Gaga. Sì, è nata una stella. A rileggere le cronache del discorso di Conte a Palazzo Madama, sembra che finalmente una luce abbia rischiarato il firmamento parlamentare. Conte randella Salvini nel suo giorno d’addio? Applausi a scena aperta, come per tu i quelli che sputano in faccia al ministro dell’Interno. Fino a ieri, bastava picchiare in testa Silvio Berlusconi. Gianfranco Fini, prima di dichiarare guerra al Cavaliere, era solo un fascistone. All’improvviso, la sua ba aglia al capo di Forza Italia gli valse una medaglia al valore: «Partigiano della libertà». Da fantoccio di Salvini e Di Maio a valoroso condo iero pronto a sfidare i barbari. Anche il premier si trasforma in un indomito eroe. Le cronache del 29 agosto 2019, il giorno successivo alla richiesta della fiducia al Senato, restano una pietra miliare del giornalismo repubblicano. Il professore impacciato diventa prode osannato, tu o nello spazio di un ma ino. Nei mesi precedenti, quando era considerato ancora un parvenù grilloleghista, avevamo le o su di lui qualsiasi cosa. Conte “signor Nessuno”, Conte taroccatore di curriculum, Conte imbucato ai vertici internazionali, Conte foglia di fico, Conte poche e dei 5 Stelle, Conte cameriere di Palazzo Chigi. Salvo fare ironie, di lui nessuno s’era mai curato. Se non per paragonare la sua inamidata presenza a quella dei manichini della Upim. L’hanno deriso in ogni modo, consegnando agli italiani l’immagine di un prestanome. Poi arriva la più ina esa delle crisi. E così, pure la Lady Gaga di Luigi Di Maio, all’improvviso può salire sul palcoscenico e cantare le sue strofe. La platea giornalistica è in deliquio: bene, bravo, bis. Mentre la hit diventa tarantella: «Chi ha avuto, ha avuto. Chi ha dato, ha dato. Scurdámmoce ‘o ppassato».

pp Ma gli archivi, purtroppo, restano. Il presidente del Consiglio, prima di duellare con il leader della Lega, godeva presso i giornalisti di minor considerazione di un usciere in servizio a Palazzo Chigi: «L’ectoplasma, il politico per procura, il professore con un quasi curriculum» lo definisce «Repubblica». Tre mesi dopo il suo insediamento a Palazzo Chigi, aggiunge: «Quando Conte acce ò di fare il premier per procura capimmo che sarebbe stato il pupazzo di Di Maio e Salvini, il vice dei suoi vice». E giù con un’interminabile sequela di irrisioni: «Una lucida armatura vuota», «leader supplente», «il “quo vado” di Zalone», «una personalità drammatica della nuova Italia nazionalpopulista», «premier ectoplasma», «cade o dell’accademia», «professore dimezzato», «il bura ino che quasi quasi diventa Pinocchio». Perfino Eugenio Scalfari, il fondatore del quotidiano romano, affonda gli artigli: «Conte è un gentile e ben rappresentato bura ino, i cui fili sono mossi dai due bura inai che se lo sono inventato». L’allora dire ore, Mario Calabresi, lo liquida invece come «l’azzeccagarbugli nazionale». Tu a la pa uglia delle prime firme del quotidiano non si esime: «Elemento ornamentale», «premier altrui», «vicepresidente dei vicepresidenti», «presidenticchio», «capo del governo per procura». Anche il se imanale fiancheggiatore di «Repubblica», «L’Espresso», non si tira indietro. Un crescendo rossiniano: «Conte Zelig», «il presidente esecutore», «il premier fantasma», «l’uomo invisibile», «Pinocchio tra il ga o Di Maio e la volpe Salvini», «il primo presidente del Consiglio di cui non si conosce un’idea». Fino a suggellare: «Conte non esiste, parla pochissimo, non decide nulla». Su un altro fronte, quello del «Corriere della Sera», Beppe Severgnini verga cose simili: «Il professor Conte non ha alcuna esperienza di amministrazione. Niente, nada, nothing, nichts, rien… È come se la Marina militare affidasse la portaerei Cavour a un caporale degli alpini, magari bravissimo». E il dire ore, Luciano Fontana, so oscrive, lanciando un appello al premier medesimo: «Se ci sei ba i un colpo». Hanno infierito tu i. Trasformando l’avvocato del popolo in una figura tragica della commedia italiana. Era un pezzo d’arredamento. La perfe a sintesi della vecchia ba uta di Winston Churchill

p pronunciata contro il suo storico rivale, il laburista Clement A lee: «Arriva davanti a Downing Street una Morris vuota e ne scende A lee!». Era questa la considerazione di cui godeva il nostro premier. Poi però la musica è cambiata: il motive o è diventato una marcia trionfale. Deposto il vichingo nordista ed emersi i democratici, Conte si trasforma in una specie di moderno paladino della nazione. Un uomo esperto e rassicurante a cui affidare, senza esitazioni, le sorti del paese. L’ectoplasma è succeduto a se stesso: il quasi premier d’un tra o è diventato premier. E cosa dicono i tanti e feroci nemici della carta stampata? Il giorno delle sue dimissioni in Senato, «Repubblica» scrive di un Salvini selvaggio domato da «un torero feroce e gentile». E, in vista del reincarico, rilancia: «Oggi quel presidente che era vice dei suoi vice è diventato il padrone, a riprova che il so ovalutato è il vero protagonista di questo nostro tempo instabile». Francesco Merlo, editorialista principe di largo Foche i, ragguaglia: «Ha vinto coltivando il formalismo come un tic nervoso, un’ossessione, con le giacche di sartoria, la colonia al limone, la lacca nera sui capelli, i gemelli ai polsi, la geometria della poche e a qua ro punte, insomma la cura di sé come ossessione psicosomatica. Conte ha imposto l’aria tranquilla, serena, conversativa, amabile e indulgente anche mentre al Senato picchiava Salvini, spiegando con una mitezza da barbiere in contropelo al suo ex alleato tu o quello che i suoi nemici gli avevano invece urlato». Così il bura ino s’è animato all’improvviso di vita propria, uccidendo Salvini e oscurando Di Maio. Quando Conte riceve l’incarico di formare un nuovo governo, ancora su «Repubblica», Massimo Giannini arriva a descrivere «la miracolosa metamorfosi» immaginandolo sospeso a mezz’aria tra Moro e Rumor. «È diventato suo malgrado un grande statista prêt-à-porter.» Sulla «Stampa» segnalano perfino il mutamento di postura e la trasformazione del linguaggio. «Nel giro di poco più di un anno» scrive il quotidiano sabaudo «il (vis)Conte dimezzato, vorace le ore di Calvino, è diventato un Conte raddoppiato il cui destino – se tu i i tasselli si me eranno magicamente a posto – potrebbe rivelarsi sorprendente,

g p p p facendogli immaginare una salita al Colle. Non tanto per ricevere mandati, quanto per distribuirli.» Non è ancora amore, ma quasi. Perché è «impossibile odiare Giuseppe Conte, più facile so ovalutarlo». L’uomo è «abile, furbo, educato, mai divisivo». E già che ci siamo, è pure «innamorato del figlio». «Passare da Salvini a Zingare i» scrive ancora la «Stampa» «dalla fiducia sul decreto sicurezza bis al no allo stesso decreto in un amen senza pagare pegno è una possibilità concessa – direbbe Grillo – a pochi Elevati.» Anche il «Corriere della Sera» è in brodo di giuggiole. Il premier, nelle pagelle stilate a fine crisi, guadagna un rotondo se e. Ecco le motivazioni: «Lascia al palo Di Maio e Salvini che hanno creduto di poterlo manipolare. Per riuscire non è de o che sia indispensabile non avere macchie di sugo sulla crava a e non masticare con la bocca aperta, però aiuta». Il quotidiano milanese accosta Conte nientemeno che al mister Wolf di Pulp Fiction, quello del «risolvo problemi». Un trionfo. Giudizio che segue un’insuperabile ritra o: «Solida credibilità politica e umana», «stile fa o di vari ingredienti: pazienza e spirito di sacrificio, competenza e autonomia», «standing conquistato sul campo anche sui tanti complicati tavoli internazionali», «doti di qualità, pazienza, temperanza». Da ectoplasma a plasmatore di nuove maggioranze. Da bura ino a bura inaio. Da vice dei suoi vice a presidentissimo. Da avvocato del popolo ad avvocato delle élite. Da portavoce di Saddam Hussein a portabandiera dell’orgoglio nazionale. Da isolato in Europa ad applaudito in Europa, per di più benede o da Trump. Da grande mediocre a grande mediatore. Una metamorfosi che rimarrà agli a i, nelle raccolte della carta stampata. Un quasi giornalismo, una quasi informazione, ma anche una quasi bugia, una furbizia all’italiana. Una “quasità”. E un pressappoco: la vera rappresentazione dell’arcitaliano che, dall’alto del suo castello di carta, tu o sa e tu o prevede. Evviva. A star is born. È bastato a accare Salvini e contribuire a un ribaltone. I severissimi giudizi sul premier marione a improvvisamente si capovolgono. Aver fa o una giravolta, passando da un governo spostato verso destra a uno che pende a sinistra, senza nemmeno cambiare pe inatura o tintura, gli ha consentito di

p g ascendere nell’Olimpo dei padri della patria. Tu o è perdonato. Anche le capriole e le contraddizioni. Finalmente, è nata una stella. Adesso splende in cielo, nel firmamento degli statisti all’italiana.

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L’avvocato delle spie

Non sappiamo se Giuseppe Conte sia un appassionato dei film di James Bond. O se abbia voluto mantenere per sé la delega ai servizi segreti convinto che, piu osto che lasciarlo ad altri, sia sempre meglio avere il controllo degli 007. Sta di fa o che il presidente del Consiglio s’è tenuta ben stre a la responsabilità dell’intelligence: sia nel suo primo governo gialloverde, sia quando il rosso ha soppiantato il colore dei padani. Hanno fa o il contrario, passando la strategica mansione a ministri o so osegretari, quasi tu i i suoi predecessori: Ma eo Renzi, Silvio Berlusconi e Massimo D’Alema. Conte, invece, no. Forse ha pesato la conoscenza con Gennaro Vecchione, il generale della Finanza voluto alla guida dell’AISI , l’agenzia italiana di controspionaggio. Con un suo uomo, cioè di piena fiducia, il premier magari ha creduto di avere il totale controllo di informazioni e operazioni riservate, riducendo al minimo il rischio che da sempre hanno le faccende so o copertura. Con il senno di poi, s’è rivelato un errore. Più che me ersi al riparo dai pericoli di qualche affare deviato, il capo del governo si è esposto. C’ha messo la faccia. È possibile che, quando prese la decisione di tenere per sé la delega sui servizi, il primo ministro non si sia neppure reso conto in quale guaio si stesse cacciando. Ma questo non può essere certo un alibi. Non siamo in America, dove CIA , FBI e agenzie di sicurezza rispondono dire amente al presidente. Nel nostro ordinamento non esiste licenza di uccidere e neppure di rapire. Lo ha dimostrato il caso dell’imam egiziano Abu Omar. Nel 2013 un’intera squadra di 007 italiani venne indagata dalla Procura di Milano, e dunque “bruciata”, per aver dato appoggio logistico al

sequestro di un estremista islamico. L’operazione, coordinata dal capocentro della CIA di stanza a Roma con la collaborazione di altri agenti, venne scoperta e perseguita da un mastino in toga come Armando Spataro. Il magistrato non esitò a me ere so o interce azione i telefoni degli 007, che vennero persino pedinati. Se i piani alti non ci avessero messo una pezza, il governo con il segreto di stato e il presidente della Repubblica con la grazia, Spataro avrebbe messo dentro tu i: 007 italiani, agenti della CIA e capi dei servizi. Se abbiamo fa o questa premessa è perché crediamo che la decisione di Conte sia stata una grossa ingenuità. Tenere per sé il controllo dei servizi segreti, senza frapporre uno schermo fra gli operativi e la presidenza del Consiglio, lo espone a grandi rischi. Una scelta che le vecchie lenze della politica non avrebbero mai fa o. Hanno imparato con il tempo a evitare le trappole. Fiutano a distanza l’odore dei guai. Quando, appena ele o, s’impunta per essere il comandante in capo dell’intelligence, il premier non immagina le conseguenze. E non pensa nemmeno che questa decisione l’avrebbe portato a rispondere a domande imbarazzanti. All’epoca, Joseph Mifsud è uno sconosciuto. Ancor meno noti sono i risvolti italiani del Russiagate, una spy story che avrebbe interessato i servizi segreti americani, famosi per non andarci troppo per il so ile. E sopra u o pronti a ogni cosa pur di o enere quello che l’autorità politica reclama. Anche a costo di uno spiacevole corollario: me ere nel mirino un alleato come l’Italia. A Conte, che presto sarebbe stato affe uosamente ribatezzato Giuseppi per poi essere ricevuto alla Casa Bianca, non vengono in mente nemmeno gli illustri precedenti: gli Stati Uniti erano già arrivati a spiare gli alleati, carpendo le conversazioni di Angela Merkel e altri leader europei. No, Giuseppi allora è troppo inebriato dal nuovo ruolo. Non rifle e su queste quisquilie. Eppure queste quisquilie, ovvero i preponderanti interessi americani, presto sarebbero tornati d’a ualità. Per bussare con insistenza alla porta di Palazzo Chigi. Tu o inizia da un misterioso e ignoto professore maltese, classe 1960. Joseph Mifsud vive a Swieqi, una ci adina a nord est dell’isola

mediterranea. Si specializza in scienze dell’educazione in patria, prende una seconda laurea a Padova e o iene un do orato a Belfast. Verso la fine degli anni Novanta comincia a lavorare per l’Università di Malta, fino a dirigere l’ufficio internazionale dell’ateneo. È qui che comincia la sua ascesa. Ed è in quel momento che l’oscuro professor Mifsud inizia a tessere la sua tela di relazioni, fino al punto di autodefinirsi «figura chiave per l’ingresso di Malta nell’Unione europea». Dal 2006 al 2008 è capo di gabine o del ministro degli Affari esteri della Valle a. Poi, viene ele o presidente dell’Università EuroMediterranea con sede in Slovenia. Nel 2009 diventa presidente del consorzio universitario di Agrigento: incarico per cui, anni dopo, la Corte dei conti lo condannerà in contumacia a risarcire 40.000 euro di danno erariale. Nel 2010 entra in conta o con Meseuro, fondato dall’europarlamentare PD Gianni Pi ella e dall’ex ministro del governo Berlusconi Mario Mauro. Durante un convegno organizzato proprio dal centro studi, davanti a politici come Renato Schifani e Massimo D’Alema, è lo stesso Pi ella a tesserne le lodi: «Il coinvolgimento del professor Mifsud e dell’Università di Agrigento rappresenta un contributo di altissimo valore». È la riprova di come, ormai, il docente maltese sia perfe amente inserito nei giri giusti, quelli che contano in Italia e all’estero. Ma poi succede qualcosa, forse sempre a causa della gestione dei fondi. Il governo della Valle a allontana Mifsud dall’Università di Malta. E il professore lascia anche l’ateneo sloveno. Così, l’uomo che presto a irerà l’a enzione degli Stati Uniti trasferisce i suoi interessi nel Regno Unito. Qui comincia il suo pellegrinaggio accademico: Into Uea Llp, London Academy of Diplomacy (LAD ), infine l’Università scozzese di Stirling. Insomma, un vortice di ca edre e incarichi. E ancora una volta, proprio in Scozia, spunta Pi ella assieme all’ex ministro degli Esteri maltese, Michael Frendo, e al membro dell’intelligence britannica, Claire Smith. Alla LAD risultano ricercatori Stephan Roh, oggi legale di Mifsud, e il saudita Nawaf Obaid, ritenuto molto vicino a John Brennan, ex capo della CIA .

La sensazione è che Mifsud si sia avvicinato a quella zona grigia che potremmo definire il covo delle spie. Infa i, nell’autunno del 2015, succede qualche cosa che ci interessa da vicino. Il docente maltese entra nel London Centre of International Law Practice, una stru ura dire a dall’avvocato sudanese Nagi Idris. Il legale diventerà visiting professor alla Link: l’università di Roma, dove guarda caso finirà anche Mifsud. Un ateneo fondato da Enzo Sco i, assai frequentato da politici e servizi di sicurezza. A Londra, alla corte di Idris, ai primi di gennaio 2016 arriva intanto George Papadopoulos: un esperto di temi energetici che, poco dopo, viene selezionato per entrare nel team della campagna presidenziale di Donald Trump. A tal proposito Idris e la sua condire rice, Arvinder Sambei, consigliano a Papadopoulos di andare a Roma. Alla Link, alcune persone avrebbero potuto aiutarlo con Trump. E qui rientra in gioco Mifsud. È lui, secondo Idris, che può aiutare il miliardario americano a sconfiggere la sua contendente: Hillary Clinton. Vi state chiedendo che cosa c’entra Giuseppe Conte con questo bislacco giro accademico? Un po’ di pazienza. Stiamo arrivando al punto. Ovvero, l’improvviso endorsement di Trump a favore di Giuseppi. Proprio nel bel mezzo della crisi di governo più pazza del mondo: mentre Salvini, dopo aver ritirato l’appoggio leghista all’esecutivo, chiede nuove elezioni. Prima di arrivare al nostro premier, dobbiamo però tornare a Papadopoulos. Il futuro consulente di Trump giunge a Roma il 12 marzo 2016. Vede subito Mifsud. Il professore maltese gli dice di avere o imi rapporti con la Russia. Addiri ura gli prome e un incontro con la nipote di Vladimir Putin. Il rendez-vous avviene il 24 marzo nella capitale britannica. Solo che la bellissima ragazza non si chiama Olga Putinova. Il suo nome è Olga Polonskaya, e ovviamente non c’entra nulla con il capo del Cremlino. Poche se imane dopo, il professore maltese torna alla carica. Prome e altri conta i importanti all’amico americano. E sopra u o giura di avere «migliaia di e-mail comprome enti di Hillary Clinton», raccolte dai russi. L’arma segreta per far fuori la candidata democratica.

Papadopoulos ne parla con un diplomatico occidentale in un bar di Londra: l’australiano Alexander Downer. È lui poi a raccontare all’FBI della soffiata a Papadopoulos. Ma l’esca lanciata da Mifsud forse fa abboccare qualcuno dell’entourage di Trump. La tesi, sostenuta dai democratici, innesca quindi un’indagine di controintelligence, aperta a luglio 2016: il “Russiagate”. Mosca ha aiutato il tycoon durante la sua campagna ele orale? E chi ha dato a Mifsud le mail della Clinton? A condurre l’inchiesta è il procuratore speciale Robert Müller. Qualche mese dopo, Trump viene ele o presidente degli Stati Uniti. E, dopo due anni di indagini, Müller ge a la spugna. Prima, lascia però ai posteri un rapporto in cui ricostruisce l’intrigo. E Trump, incassato il proscioglimento, vuole vederci chiaro. Adesso è lui a capo dei servizi segreti. Cosa c’è dietro quest’intreccio di professori e spie? Chi ha tentato di incastrarlo? Il docente maltese era al servizio dei russi? È il momento in cui finalmente entra in scena il nostro Giuseppi, agente so o copertura di 5 Stelle e PD . A maggio 2019 si è da poco conclusa la campagna ele orale per le Europee. Il successo di Ma eo Salvini ha travolto Luigi Di Maio e rischia di spazzare via il governo. La Lega ha raddoppiato i voti. Il Movimento li ha dimezzati. Come nei vasi comunicanti, la prima è salita risucchiando i voti del secondo. Tu i chiedono a Salvini di staccare la spina e andare alle elezioni. Il ministro dell’Interno non sembra ardere dalla voglia di far cadere il governo, ma si capisce che il clima è diverso. L’azionista di maggioranza dell’esecutivo è cambiato. Ora comanda il leghista. A Palazzo Chigi sca a l’allarme rosso: se le cose non vanno come vuole il Capitano su Flat tax, sicurezza e autonomia, il mandato di Conte rischia di essere agli sgoccioli. Il premier in pubblico si mostra tranquillo, ma i toni della furibonda campagna ele orale tra Lega e 5 Stelle hanno lasciato il segno. Anzi, hanno proprio scavato un solco. I giornali cominciano a scrivere che presto l’avvocato del popolo tornerà a fare l’avvocato a tempo pieno. Verrà rispedito a Firenze. Con un biglie o di sola andata. La fine della legislatura avrebbe inevitabilmente, come conseguenza, anche la fine della carriera

politica della poche e dal volto umano. Mentre però tu i immaginano che l’esecutivo abbia i giorni contati, il presidente del Consiglio riceve una di quelle richieste che non si possono rifiutare. Arriva da gente che conta. Gli americani vogliono sapere tu o ciò che c’è da sapere sul tentativo di incastrare Trump. Ossia, la faccenda delle e-mail di Hillary Clinton e i conta i con i russi. L’inquilino della Casa Bianca sta preparando le munizioni per la rielezione. E sospe a che Mifsud non abbia agito da solo, ma con le coperture di gente autorevole e potente, sia in America che in Europa. Trump, insomma, vuole scoprire chi sono stati i bura inai del Russiagate. Ha un sospe o, neppure troppo nascosto. Dietro l’intrigo, potrebbe esserci l’ex presidente statunitense Barack Obama e magari qualche suo amiche o nel vecchio continente. In pratica, The Donald pensa alla manina dei servizi segreti americani, ma anche a quella di qualche agenzia di spioni europea, con l’avallo del relativo governo. E molto di quel che si è scoperto ruota intorno a Roma: dal professore che ha ele o la capitale a suo teatro operativo, all’università della Ci à Eterna che ha eccellenti rapporti con politici e 007. Insomma, è scontato che il capo della Casa Bianca bussi alla porta di Palazzo Chigi. L’a orney general di Trump, William Barr, a erra in Italia il 15 agosto 2019. È in compagnia del procuratore John Durham. Il viaggio non passa dai normali canali, ma da quelli politici. Gli USA chiedono di avere le informazioni di cui sono in possesso i servizi italiani, anche perché nel fra empo Mifsud è scomparso. Nessuno sa che fine abbia fa o il professore. Rapito? Fuggito? O gli è capitato qualcosa di peggio? Sono in pochissimi quelli a conoscenza della spy story che interessa agli americani. Certo non il ministro dell’Interno e neppure il capo politico del Movimento 5 Stelle. Chi invece sa tu o, o per lo meno conosce il curioso interesse di Trump, è Conte. Il premier, come de o, ha mantenuto la delega sui servizi. Così autorizza Gennaro Vecchione, l’uomo che lui stesso ha voluto ai vertici delle agenzie di sicurezza, a incontrare gli emissari di Trump. La nostra

intelligence deve raccontare ogni particolare agli americani. Già, ma gli 007 italiani sono a conoscenza di eventuali responsabilità politiche in questo pasticcio organizzato per inguaiare Trump? E cosa sanno di Mifsud e del Russiagate? Niente, dirà Conte il 23 o obre 2019 al COPASIR , il Comitato parlamentare per la sicurezza. Ormai è nata la nuova alleanza fra 5 Stelle e PD , che ha evitato le elezioni e salvato la sua poltrona. L’audizione viene secretata. Ma il premier, in conferenza stampa, anticipa un sunto della sua linea difensiva: «La nostra intelligence è completamente estranea» spiega ai giornalisti. «Ci sono stati due incontri: uno il 15 agosto e l’altro il 27 se embre» rivela. «Io non ero presente ma sono stato informato.» Il primo, aggiunge, si è svolto nella sede del DIS , il dipartimento della presidenza del Consiglio che coordina la sicurezza nazionale: «È servito a definire preliminarmente il perimetro della collaborazione». Al secondo, spiega ancora, hanno partecipato i dire ori di AISE e ed AISI : «È servito a chiarire che, alla luce delle verifiche fa e, la nostra intelligence è estranea a questa vicenda. Questa estraneità ci è stata riconosciuta. Insomma, «la vicenda non ha leso interessi nazionali». Nessuno però ha voglia di chiedere al premier perché, se davvero non sono riusciti a o enere nessuna informazione utile, Barr e Durham hanno intrapreso due viaggi a Roma. Forse i nostri agenti non erano stati chiari la prima volta? O c’è dell’altro che resta da scoprire? Sta di fa o che proprio in quei giorni, mentre gli uomini di Trump fanno su e giù dall’America, The Donald trova tempo di me ere il becco nella crisi italiana. Il 28 agosto 2019 si augura, via Twi er, che Giuseppi rimanga presidente del Consiglio. È stato un viatico per avere informazioni dai nostri agenti? O, magari, pieno appoggio nella caccia ai presunti autori dell’intrigo? Mistero. Fa o sta che per Renzi e Zingare i, i nuovi alleati dei grillini, Conte doveva fare le valigie. Invece si rime e comodo a Palazzo Chigi. Il biglie o di ritorno per Firenze finisce in coriandoli. Pericolo scongiurato. Il premier, che appena poche se imane prima giurava di essere un uomo per una sola stagione, all’improvviso scopre di essere impermeabile alle stagioni. Adesso può avviarsi

verso l’autunno della Repubblica, pronto a mangiare il pane one e forse anche i 5 Stelle. Certo, gli americani continuano a dare la caccia a Mifsud, l’uomo del mistero. Il professore potrebbe chiarire chi e perché ha provato a inquinare la campagna ele orale americana. Così, si scopre che Mifsud non è morto. Non è neppure scappato. Si è soltanto nascosto: prima in un paesino delle Marche, poi non si sa. E quando il suo avvocato comincia a parlare, vengono fuori tanti de agli che riguardano la Link, la misteriosa università fondata da Sco i, un ex ministro dell’Interno soprannominato “Tarzan” per il suo continuo aggrapparsi a tu e le liane correntizie della variegata DC . Il semisconosciuto ateneo gode di improvvisa ribalta a maggio 2018, con la nascita del governo gialloverde. Elisabe a Trenta, nominata ministro della Difesa, insegna proprio alla Link. Ha frequentato invece il master in Intelligence, primo del genere in Italia, il suo so osegretario, il grillino Angelo Tofalo, che poi diventerà membro del COPASIR . Viene bazzicata insomma da grillini, ministri, so osegretari e agenti con mille identità. Cominciano a definirla «l’università dei 5 Stelle e delle spie». Sco i, furibondo, annuncia querele: «Tu e falsità». Eppure dalla Link, che trado o in italiano significa “collegamento”, in un modo o nell’altro sono passati molti dei nomi coinvolti nel Russiagate. Basta, per esempio, dare un’occhiata agli stimati conferenzieri invitati a partecipare al convegno sulla globalizzazione organizzato a Roma l’8 e il 9 maggio 2017 insieme all’università di Tor Vergata. So o lo sguardo compiaciuto di Sco i, sfilano professoroni e prossimi ministri, come Giovanni Tria. Ma anche i futuri protagonisti di una delle spy story più misteriose degli ultimi tempi. Tra gli invitati c’è Mifsud, ovviamente. Così come Idris, l’avvocato di origine sudanese che a Londra lo me erà in conta o con Papadopoulos. E c’è l’ex ministro maltese Frendo. Ma a scorrere la lista dei partecipanti si scorge anche il nome di un noto giurista della Sapienza che, un anno dopo, balzerà agli onori delle cronache. È il chiarissimo professor Alpa.

Il maestro del premier non ha però solo rapporti occasionali con l’ateneo di Sco i. Siede nel consiglio editoriale di Eurilink University Press, la casa editrice dell’ateneo di Sco i. Tra le pubblicazioni c’è un corposo volume dall’impegnativo intendimento: «Gestire un piccolo business al passo con i tempi». La prefazione è affidata a due presunti esperti del ramo. Uno è Gianni Pi ella, l’europarlamentare del PD . L’altro è Joseph Mifsud, il professore maltese sparito nel nulla.

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I mille volti di Giuseppi

Forse, il primo ad aver capito tu o è stato Donald Trump. Mentre era in corso una crisi di governo che sembrava inestricabile, il presidente americano twi a un elogio del presidente del Consiglio. Lo chiama Giuseppi. Tu i ironizzano, e noi fra questi, me endo in luce la poca dimestichezza dell’inquilino della Casa Bianca con il premier italiano. Ci sbagliavamo, in particolare i giornalisti. Nessuno, tranne l’uomo dal ciuffo arancione, il più odiato fra i 45 presidenti degli Stati Uniti, aveva capito che di Conte non ce n’è uno solo. Ne esistono per lo meno due, o magari qua ro. Come le stagioni che, nella politica, si alternano più in fre a di autunno, inverno, primavera ed estate. Sì, Giuseppi. Al plurale. Improvvisamente, il 20 agosto 2019, diventa chiaro anche a Ma eo Salvini. Il leader della Lega aveva so ovalutato il giurista scelto per mediare fra 5 Stelle e Lega. Forse lo considerava davvero una specie di arbitro, sistemato a Palazzo Chigi per dirimere le beghe fra i grillini e i suoi. Sta di fa o che, dopo la pausa di ferragosto, Conte si presenta in Parlamento. Ed è proprio in quel momento che, durante la replica alla mozione di sfiducia presentata dalla Lega, il ministro dell’Interno se ne rende conto: l’uomo che aveva sempre reputato un mediatore, anzi una specie di travet messo lì da Di Maio e dai pentastellati, è in realtà un capo politico coi fiocchi. Certo, il premier non è uomo immediatamente classificabile. I suoi tra i e le sue gesta restano sfuggenti. Si nascondono dietro un giuridichese e un formalismo da professore. Ma la metamorfosi dell’avvocato del popolo è in corso da tempo. E non certo dal giorno in cui il leader leghista dichiara chiusa l’esperienza del governo gialloverde. «Conte il bura ino», come lo chiamavano i giornali di

g g sinistra e perfino alcuni politici europei, da tempo ha deciso di correre da solo. Ha già rescisso i legami con la casa madre e con quell’alleato scomodo che stava svuotando il serbatoio ele orale dei 5 Stelle. Nessuno sa dire dei suoi rapporti con Beppe Grillo. Né quante volte si siano davvero incontrati e parlati, prima della crisi aperta dal capitano leghista. Una cosa però è certa: mentre tu i nel 2018 seguono le mosse di Salvini e Di Maio, la grande stampa non si cura di Giuseppe Conte. Di Maio tenta di consolidare la leadership dentro il Movimento, schivando i colpi della corrente movimentista di Alessandro Di Ba ista e dell’ala sinistra capeggiata da Roberto Fico. Ma paradossalmente i suoi nemici interni non sono Dibba e neppure il presidente della Camera. Né c’è da temere qualche sgambe o da No Tav, No Tap e No Ilva. Il ministro dello Sviluppo in quei mesi non si rende conto che, mentre si arraba a per non finire so o le ruote del Carroccio, qualcuno si adopera più di lui e meglio di lui. Pronto a giocarsi tu e le carte di cui dispone, pur di non ballare una sola estate. Eh già, perché fin da quando varca la soglia di Palazzo Chigi, Giuseppe Conte capisce una cosa: per sopravvivere e durare a lungo, ha in mano un’unica carta, la mediazione. Dovrà trovare un’intesa davanti a qualsiasi problema. Non pensa però di fare da mero conciliatore fra Salvini e Di Maio. No, diventare arbitro tra i due non è la sua massima aspirazione. Per il suo futuro, il neo ele o presidente del Consiglio sogna altro: usare al meglio l’arte di far quadrare il cerchio. Per dirla con Aldo Moro, che ha segnato la storia repubblicana ed è stato per anni punto di riferimento della Democrazia cristiana, Conte è un uomo da «convergenze parallele». È un diccì pronto a unire gli opposti: a me ere insieme ciò che appare diviso. Ma anche un politico pronto a dire una cosa e dopo a fare l’esa o contrario. Ad annunciare una «caducazione della concessione», per poi tra are col concessionario da far caducare: e non per togliergli la gestione dei caselli, ma per discutere su come affibbiargli Alitalia. Giuseppi, l’uomo dai mille volti, è colui che brucia ArcelorMi al in piazza. Prome e che sarà inflessibile come le barre che escono dal laminatoio dell’Ilva. Ma dopo qualche se imana, passata a rischiar

p q p di mandare in fumo la più grande acciaieria d’Europa, si adopera per far risorgere dalle ceneri il gruppo franco-indiano. Basta rinnegare tu o. Concedendo non solo l’immunità penale chiesta all’inizio da ArcelorMi al, ma anche la cassa integrazione per migliaia di persone. E visto che ci siamo, per convincere gli stranieri a fare marcia indietro, aggiunge perfino il regalo prenatalizio: un aiutino di stato. Eh, sì. Conte è un uomo dal pugno di ferro in un guanto di velluto. Allo stesso tempo, è anche un pugno di velluto in un guanto di ferro. Pardon, di la a. Per rendersi conto di questa straordinaria capacità di ada arsi a ogni situazione, rimangiandosi quanto de o poco prima, basta rileggere le dichiarazioni disseminate in meno di due anni al governo. A cominciare da quelle rilasciate all’inizio, quando il tema dei temi, cioè lo scoglio contro cui la nave gialloverde rischiava di andare a sba ere, erano le grandi opere, meglio sintetizzate come Tav: il treno ad alta velocità tra Lione e Torino. I 5 Stelle ne avevano fa o una bandiera, raccogliendo il consenso degli ambientalisti in Val di Susa e nel resto d’Italia. Il destino del tunnel fra Piemonte e Francia era dunque lanciato su un binario morto. L’analisi tra costi e benefici non poteva che essere contraria all’opera. La commissione incaricata di redigere il papello era presieduta da un professore arcinemico della Tav e presidiata da studiosi poco entusiasti di vedere scavato un nuovo buco nella montagna. Il treno ad alta velocità per Lione, con i 5 Stelle al governo, sembrava destinato a non partire mai. Il convoglio, a eso per trent’anni o giù di lì, non avrebbe effe uato una sola corsa. E invece no. All’inizio Giuseppi, in versione invernale, dichiara di non vedere l’utilità di una simile opera: fosse stato per lui, non avrebbe inaugurato neppure un cantiere in Val di Susa. Nemmeno quello per fare i carotaggi. Ma poi arriva l’altro Giuseppi, quello subentrato in estate. Appare già meno definitivo e più possibilista, a prescindere da vantaggi e svantaggi. Sì, Conte considera l’opera inutile. Ma, già che c’è, per non non perdere il treno e la poltrona con una crisi di governo, manda avanti a passo lento i bandi per assegnare i lavori. È vero che l’opera costa

p p g p troppo ed è superflua, come dicono i tecnici nominati all’uopo, ma alla fine non si sa mai: meglio non essere tranchant. Sopra u o, è preferibile non tranciare sul nascere una bella carriera politica. E così la Tav, da proibita, d’un tra o diventa possibile. Anche perché, nel fra empo, i costi da sopportare per dire no sono lievitati e dire sì appare più conveniente. Alla fine, la Tav porta addiri ura dei giovamenti: quasi metà dell’opera è finanziata dall’Europa e anche i francesi sono chiamati a me ere mano al borsellino. Bastano pochi mesi per l’inversione di ro a: da contrario («Fosse per me i lavori non sarebbero mai cominciati»), il premier diventa possibilista. Infine, si schiera a favore. Da No Tav a Sì Tav, nello spazio di pochi mesi: un voltafaccia da avvocato del popolo, da legale pronto a ribaltare linea difensiva in base ai nuovi elementi emersi nel diba imento. Un uomo di diri o, ma anche di rovescio. Abile a dribblare il codice così come con il pallone, esperto financo nel palleggio calcistico. Del resto, un anticipo di ciò che sarebbe accaduto con la Tav si era già avuto con il Tap, il gasdo o che doveva a raversare l’Adriatico e approdare sulle coste pugliesi. Alla comunità salentina non era mai piaciuto. Durante la campagna ele orale del 2018, i 5 Stelle raccolgono i consensi di tu i quelli che volevano impedire l’opera. Anzi, in quello scampolo d’inverno, il Tap è uno degli argomenti più diba uti nei comizi e negli incontri. Barbara Lezzi, una delle pasionarie grilline, si schiera con foga contro il proge o. Risultato: passate le elezioni, fa o il governo e superata l’estate, già a o obre risulta chiaro che l’opera non sarebbe mai stata fermata. L’argomento usato da Conte per giustificare la capriola è lo stesso poi impiegato con la Tav: lo stop «comporterebbe costi insostenibili, pari a decine di miliardi». Fino a pochi mesi prima era possibile opporsi al gasdo o che doveva collegare il Mar Caspio all’Italia. Sarebbe bastato vincere le elezioni per riuscirci. Dopo il voto, diventa impossibile: «Abbiamo fa o quello che si poteva, non lasciando nulla di intentato» dice al popolo l’avvocato del popolo. «Ora è arrivato il momento di operare le scelte necessarie e di me erci la faccia.» Cioè la sua, quella del risolutore delle missioni impossibili. «Se avessimo riscontrato profili

p p di illegi imità non avremmo esitato ad assumere i conseguenti provvedimenti, compresa la decisione di interrompere i lavori.» Solo che, purtroppo, adesso «non è più possibile intervenire sulla realizzazione». Come userà fare anche successivamente, Conte lascia intravedere qualche contentino per la giravolta. Ovvero, da buon avvocato, un risarcimento danni per il disagio patito. «Non perché penso che bisogna compensare quella comunità. Chi ritiene di aver subito una ferita, quella ferita la manterrà sempre e non si accontenterà di una misura compensativa.» Però, diciamo, un po’ di soldi aiutano a lenire il dolore. La carta dei risarcimenti Conte la giocherà anche nel caso dell’Ilva, in un pasticcio tu o merito dei giallorossi. All’inizio di se embre 2019 la crisi dell’acciaieria non è ancora esplosa, ma qualcosa è già nell’aria. Per far digerire l’accordo con il gruppo franco-indiano, il presidente del Consiglio annuncia l’alta velocità per il Sud: «Sull’Ilva non si poteva fare di più» giura per rabbonire i comitati, decisi a far chiudere lo stabilimento di Taranto costi quel che costi, anche la disoccupazione. «Mi piange il cuore se penso alle polveri che me ono a repentaglio la salute. Di Maio è riuscito a o enere un miglioramento delle condizioni. Non era possibile annullare la gara.» Così, dopo aver minacciato sfracelli e azioni giudiziarie, Conte passa ai risarcimenti e alle offerte, prome endo compensazioni, cedendo su tu a la linea, dicendo sì allo scudo penale, all’aiuto di stato e pure ai licenziamenti. Insomma il ritornello è sempre lo stesso, cantato prima con la Tap e poi con la Tav. All’inizio è una dichiarazione di guerra, poi d’impotenza. Così si arriva al rilancio, a suon di vantaggi e opere risarcitorie, per far digerire la sconfi a. Nel caso dell’Ilva è il pieno assorbimento degli occupati, addiri ura anticipando gli interventi ambientali. E in sovrappiù, c’è pure la Tav per il Mezzogiorno. «Quando vado a trovare i miei genitori a Foggia, entro in un’altra dimensione: dobbiamo lavorare per l’alta velocità nel Sud.» Questo giura mentre il Conte due è appena nato. I Cinque Stelle decidono però di cancellare l’immunità penale per ArcelorMi al. E il gruppo franco-indiano saluta tu i.

A questo punto, così come aveva già fa o ad agosto, il presidente del Consiglio cambia registro. Ancora una volta, Conte da concavo si fa convesso. Anzi, a punta. Da avvocato della difesa si trasforma in rappresentante della pubblica accusa. Prima sembrava quasi scusarsi per aver dovuto mandar giù gli stranieri, lasciando accesi gli altiforni. Poi all’improvviso, quando a voler spegnere la fabbrica sono gli stranieri perché si sentono traditi, il premier sfodera gli artigli, minacciando una durissima ba aglia legale: «C’è un contra o da rispe are e saremo inflessibili, non si può pensare di cambiare una strategia imprenditoriale adducendo a giustificazione lo scudo penale». Solo pochi mesi addietro, lo liquidava come una regole a sulla quale, a differenza di Luigi Di Maio, non era disposto a impiccarsi. Addiri ura, s’era fa o garante con ArcelorMi al per preservare lo scudo da un’azione della magistratura. Eppure, a novembre 2019, quello scudo diventa una scusa. Anzi, un trucco per non onorare gli impegni. E dunque una scorre ezza, che giustifica un’azione della magistratura contro il gruppo franco-indiano. Sempre così. Flu uante come un vascello durante la tempesta. La linea ondivaga del premier s’è vista anche sugli F35, altro cavallo di ba aglia dei 5 Stelle. Per il Movimento, tagliare l’ordine di acquisto degli aerei prodo i dall’americana Lockheed, in collaborazione con gli inglesi della Bae Systems e l’aiuto dell’italiana Leonardo, era un imperativo. Anzi, era un modo per finanziare il Reddito di ci adinanza. Ogni volta che nei talk show qualcuno si opponeva all’onerosissimo sussidio pubblico per tu i, Luigi Di Maio replicava con sicumera: per reperire i fondi sarebbe stato sufficiente annullare il contra o che ci impegnava a comprare i 90 cacciabombardieri. Così il governo avrebbe avuto fra le mani un tesore o di 14 miliardi, da spendere per le politiche sociali. Niente paura. Anche in questo caso Conte è già all’opera. Pronto a smussare angoli, levigare accordi e lucidare avverbi. Per poi estrarre dal cappello magico il coniglio e superare gli ostacoli. Un salto in alto degno di un canguro gigante, più che di un leporide. Pure stavolta, il presidente del Consiglio si appella al passato, cioè agli

impegni che ci vincolano e impediscono al suo governo di divincolarsi. Lo schema è lo stesso ado ato con il Tap, la Tav, l’Ilva e così via: ad impossibilia nemo tenetur. Volevamo cambiare, ma non si può. «Come sapete è un programma che è stato deliberato nel 2002» spiega in una conferenza stampa alla Casa Bianca, con al fianco il suo nuovo amico, Donald Trump. «Quindi è un arco di tempo notevole, quando si ragiona per quanto riguarda le esigenze di sicurezza e difesa.» Cioè, si fa o non si fa? «Noi siamo anche qui a valutare responsabilmente questo dossier. Assumeremo tu e le scelte in modo oculato, ponderato alla luce delle a uali necessità.» Traduzione dal legalese: la commissione costi-benefici è già all’opera. Stavolta c’è da sfornare un parere che giustifichi l’ennesimo voltafaccia, ossia la prosecuzione dell’accordo «con il nostro partner, l’amministrazione Trump». I 5 Stelle insorgono per la capriola del premier? Tranquilli, Conte tiene la porta aperta pure alla rinegoziazione. Come per la «caducazione della concessione» c’è sempre una parolina o un cavillo che lascia intravedere uno spiraglio: per affermare una cosa, ma pure il suo contrario. Se fossimo in presenza di Walter Veltroni, diremmo: il contra o vale, «ma anche no». Con Di Maio o Renzi aggiungeremmo la formula sfoderata durante la manovra economica: si tra a di una decisione «salvo intese». Al cospe o dell’avvocato del popolo, ci tocca riformulare: l’accordo è confermato, ma al popolo si fa credere che è rinegoziato. Astuzie linguistiche e giuridiche. Furbizie da navigato professore, capace di galleggiare nel mare della pubblica amministrazione senza mai finire nelle secche o contro gli scogli. E a proposito di mare, un altro capolavoro di funambolismo arriva sulle navi delle ONG . Con il governo gialloverde, il presidente del Consiglio condivideva le decisioni di Salvini. Si diceva pronto all’incriminazione, firmando decreti sicurezza e provvedimenti per evitare gli sbarchi. In epoca giallorossa, il Conte bis sposa invece la linea dell’Europa, per riaprire i porti e i centri di accoglienza. «Perché provocare era inutile» delucida dopo il summit di Malta. «Non dobbiamo rinunciare al diri o di regolare gli ingressi nel

nostro paese e a comba ere l’immigrazione clandestina.» Ma dobbiamo anche «recepire i rilievi del presidente della Repubblica». Un colpo al cerchio e uno alla bo e. Anzi, due colpi da Conte. L’Houdini che, con qualche contorsione linguistica e giuridica, si libera dalle catene delle promesse. Uno degli ultimi esempi dell’abilità funambolica del presidente del Consiglio lo si è avuto anche sul Mes, il Meccanismo europeo di stabilità. Di fronte alle critiche della Lega, il premier all’inizio mostra i muscoli. Risponde con puntiglio alle contestazioni di Salvini. Ma poi si palesa il rischio di una crisi di governo. Pure Di Maio sembra poco propenso a dire sì alla riforma del fondo salva stati. Così Conte me e da parte la baldanza per accontentarsi della sostanza, ovvero un rinvio della firma, prendendo tempo e anche un po’ di fiato. Qualche se imana in più, in cambio di qualche giravolta. Pari e pa a. Ma in fondo, perché stupirsi? Leo Longanesi diceva che la coerenza è la virtù degli imbecilli. E Giuseppe Conte di certo non è un imbecille. Anzi, i Giuseppi sono molto svegli. A dire il vero, forse troppo.

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Conte, il camaleonte

Le corna stanno bene su tu o, recita il titolo di un libro campione di vendite. E anche Giuseppe Conte sta bene su tu o. Le cronache ce lo raccontano a suo agio con Massimo D’Alema, ma pure con Giorgia Meloni. Persino con Silvio Berlusconi s’è scappellato, assicurandogli che le sue opere sono nei libri di storia. Perfino a Maurizio Landini, gran capo della CGIL , ha garantito di essere completamente d’accordo. Come faccia un premier ad andare a bracce o con gli opposti non si sa. L’unica cosa che si capisce è che il presidente del Consiglio dice di sì a chiunque incroci. Dimostrando così di essere disponibile, oltre che alle maggioranze variabili, anche alle idee intercambiabili. Da indossare a seconda delle circostanze. Sì, Giuseppi sta bene su tu o. Calza a pennello su qualsiasi maggioranza: centro, destra, sinistra. E perfino con gli extraparlamentari: e non intendiamo gli scalmanati sessanto ini che cinquant’anni fa prendevano d’assalto il Palazzo, ma i poteri forti che il Palazzo lo tengono in pugno, decidendo le cose che contano. Sì, Giuseppi va proprio bene con tu i. Sa abbinare i colori degli abiti, scegliere un guardaroba impeccabile da statista, fare l’inchino come un vero gentiluomo e genufle ersi davanti alle eminenze vaticane. A Bruxelles prome e che rispe erà i conti e procederà sulla strada del rigore economico. A Landini assicura che condivide le preoccupazioni dell’arcigna Fiom: cambierà la Fornero e aumenterà salari e pensioni. Allo stesso tempo, mentre omaggia Sua Eccellenza, s’impegna a vigilare sui temi etici che stanno a cuore alla Chiesa. Salvo poi riprome ere a quelli di Liberi e uguali che su eutanasia, diri i gay e gender sarà più flessibile rispe o al passato oscurantista.

Conte è favorevole alla Via della seta che piace ai cinesi. Ma è anche amico di Donald Trump, che la Via della seta la vuole chiudere. Concavo e convesso, a seconda di quel che serve. Bisogna ricevere Vladimir Putin? Allora l’Italia diventa alleata della Russia, disponibile a rivedere le sanzioni contro Mosca. A Roma arriva Emmanuel Macron con la sua Brigi e? Il tempo di un baciamano alla première dame e Giuseppe è pronto per la Legion d’onore, massimo riconoscimento concesso dalla Francia agli amici di Parigi. Giù il cappello, dunque. Non ci resta che lodare l’astuzia con cui, in meno di due anni, ha imparato a dribblare le insidie della politica. Gabbando tu i. Era considerato unanimemente un passacarte. All’improvviso, s’è dimostrato un furbo di tre co e. Uno che ha messo nel sacco il capo politico dei 5 Stelle e pure quello della Lega, riservando a entrambi la sorpresa di una sua rinascita: da avvocato del popolo ad avvocato di se stesso. Sì, Conte sta proprio bene su tu o. A rendersene conto non sono stati solo il ministro degli Esteri pentastellato e l’ex ministro dell’Interno. Se n’è accorto anche Renzi: pensava che il professorino di Firenze fosse «indegno di rappresentare il paese». Oggi si rende conto che il suo vero nemico non è Salvini, nonostante ne parli in continuazione. No, l’uomo da abba ere per l’ex Ro amatore è il presidente del Consiglio: l’unico che gli può scippare la leadership centrista. Conquistando voti a sinistra, ma anche fra i 5 Stelle. È lui che Renzi teme più d’ogni altro. Manco fosse una delle sue puntute poche e, il redivivo premier ha indossato il nuovo abito giallorosso, rime endo nell’armadio quello gialloverde. E domani potrebbe sostituire perfino Italia viva, il partito renziano, con una pa uglia di “responsabili”, pronti a tu o pur di conservare lo scranno. In tal caso, le corna le porterà per una volta Renzi. Non ci resta dunque che rovesciare la massima di Giulio Andreo i: «Il potere logora chi non ce l’ha». Perché, nel caso di Giuseppi, il potere aiuta pure chi ce l’ha. Il potere ha aiutato Conte a diventare il nuovo Conte. Ovvero un uomo politico scaltro e anche un po’ spregiudicato, capace di succedere a se stesso. È passato, senza soluzione di continuità, da un governo di destra a uno di sinistra, da uno che impone sanzioni alle

g

p ONG a uno che aiuta le ONG . Conte ha imparato che si fa politica mentendo: agli ele ori innanzitu o, e agli alleati in secondo luogo. Con un certo cinismo, da premier del cambiamento è diventato il premier della conservazione. La UE , che all’inizio era nemica, ora è amica. E da uomo che doveva rompere gli schemi, s’è trasformato nel guardiano di quegli stessi schemi. In altre parole: è diventato un Monti con il fazzole o nel taschino, ma più furbo e abile a tessere la tela. S’è persino fa o incoronare imperatore dei 5 Stelle dalla pia aforma Rousseau, grazie alla benevolenza di Beppe Grillo. Una maggioranza bulgara del 79% l’ha ormai designato suo unico e degno erede. Un highlander della Prima Repubblica come Paolo Cirino Pomicino lo definisce un “doroteo”. Così, trent’anni dopo, riappare l’immagine di Mariano Rumor, Emilio Colombo, Flaminio Piccoli. E di tu i i chierici della sagrestia democristiana, che gestivano il potere per il potere. Una corrente che, più d’ogni altra, ha incarnato la Balena Bianca. Quell’enorme cetaceo che per mezzo secolo è stato capace di inghio ire qualsiasi cosa: il boom e l’autunno caldo, gli scandali e le riforme, il Sessanto o e il terrorismo. Fino a Mani pulite. Non sappiamo ancora se Conte sia il nuovo Rumor o il novello Colombo. Oppure, ancora, se sia la sapone a con cui la classe politica si vuole lavare la coscienza. Ma il presidente del Consiglio è certamente un doroteo. La sua politica è quella democristiana, che tanto andò per la maggiore nella Prima Repubblica. La prova plastica c’è stata lo scorso o obre, quando accorre ad Avellino, la piccola Atene dello scudo crociato. L’occasione, del resto, è imperdibile: i cento anni dalla nascita di Fiorentino Sullo, pluridecorato padre irpino della diccì. Regista dell’evento: Gianfranco Rotondi, vicepresidente dei deputati di Forza Italia e inconsolabile nostalgico dell’era in cui il cetaceo scudocrociato riempiva lo specchio di mare della politica. Bisognava vederlo dal vivo, il nostro camaleontico premier: sornione, felpato e accorto. Eccolo, abbigliato e suadente come al solito, che scalda dal palco i cuori, sfoderando il meglio della sua ars

retorica: «Il mio nuovo umanesimo» scandisce con impareggiabile autostima «trae nutrimento dal ca olicesimo democratico». L’a empata platea è in deliquio: «Serve una rinnovata presenza dei ca olici, un potente risveglio dal torpore. Rimane a uale l’invito di Sturzo a essere “liberi e forti” e a impegnarsi in politica». Fino all’impareggiabile: «Più che di una rinnovata Democrazia cristiana, parlerei di una rinnovata democrazia dei cristiani». Oplà. Invertendo l’ordine dei fa ori, il risultato non cambia. Un capolavoro lessicale. Ma il premier si spinge oltre: «Lo stato deve avere l’uomo al centro». Già: e non ci sono più nemmeno le mezze stagioni, sapete? Democristianese. Purissimo. Gli astanti, dopo infru uosi decenni alla ricerca di un degno gonfaloniere, non hanno più dubbi: Giuseppi è uno di loro. Gerardo Bianco, veterano della Prima Repubblica, non crede ai suoi occhi: «Presidente, lei ha de o che si ispira a Moro e vuole raccoglierne l’eredità: benissimo, avrà la solidarietà degli uomini che stavano accanto a Sullo». Lo scudo crociato vigila su tu i: tra vescovi e preti, nella sala in prima fila ci sono l’ex presidente del Senato Nicola Mancino e Clemente Mastella, in trasferta dal suo feudo beneventano. «Questa è la sua casa, presidente» dice commosso Giuseppe Gargani, già plurideputato e pluriministro. L’inossidabile novantunenne Ciriaco De Mita, appena riele o sindaco della vicina Nusco, gongola: «Ha capito che la DC è l’unico pensiero che sopravvive». Il sigillo è dell’organizzatore della reunion, Rotondi: «Dopo venticinque anni di silenzio del ca olicesimo politico, abbiamo riconosciuto una certa musica in lei. Avevamo bisogno di un maestro e le auguriamo di essere l’uomo della solidarietà nazionale!». «È uno di noi» dice il sempreverde De Mita. «Uno di noi, Giuseppe uno di noi» intonavano appena due giorni prima, il 12 o obre 2019, gli ele ori pentastellati durante la festa per i dieci anni del Movimento, di fronte al gongolante Grillo. Deposto Di Maio e i “Vaffanculo days”, adesso spera d’aver messo al sicuro la successione. Dovunque vada, Conte si mimetizza: indossa i panni e diventa un altro. Furbo, rapido e ineffabile. S’è insinuato nella

voragine di potere spalancata tra la Seconda e la Terza Repubblica. Adesso sguazza felice in quelle acque limacciose. È la perfe a esemplificazione di un altro mo o andreo iano, cui l’accomuna il culto per il potere: «So di essere di media statura, ma non vedo giganti a orno a me». Di media statura, ma guizzante come un’anguilla dei Sargassi. Non pensate però che il premier alterni solo le simpatie scudocrociate a quelle grilline. Finito nell’angolo per l’uso dell’intelligence italiana, messa al servizio degli 007 statunitensi, Conte si lascia andare a un arditissimo paragone: «Non sono servo di nessuno. Io sono sempre lineare. Sono più duro di Craxi a Sigonella». Ecco, appunto. Nel pantheon di Giuseppi mancava giusto Be ino. L’episodio a cui si riferisce risale al 1985. È il diniego dell’ex primo ministro socialista all’allora presidente USA , Ronald Reagan, di consegnare il diro atore della nave Achille Lauro dove fu assassinato un ebreo americano. Segue la più grave crisi diplomatica nel secondo dopoguerra tra i due alleati. E nella base di Sigonella si trovano l’uno contro l’altro armati i carabinieri italiani e i marines statunitensi. Fino a sfiorare lo scontro. Eppure, a confronto con il terribile Conte, l’ex segretario del PSI sarebbe stato quasi una mammole a. «Ma mi faccia il piacere…» infilza, rispolverando la celeberrima ba uta di Totò, Stefania Craxi, senatrice di Forza Italia e figlia di Be ino. «Quelle azioni» ricorda «rispondevano a una ben precisa strategia di politica internazionale. Cosa c’entra Sigonella con un affare di spionaggio e di asservimento come questo?» Domanda che lo scorso o obre si sono posti avversari (e non) di Giuseppi. Intervistato dal «Foglio», Salvini insolentisce l’arcinemico: «Penso che Craxi si rivolterebbe nella tomba. Lui a Sigonella la schiena non la piegò. Conte ha fa o il contrario. Tra Craxi e Conte esiste un abisso, sono il giorno e la no e. La verità è che ormai il presidente del Consiglio ha perso la testa, è capace di dire qualunque cosa». Democristiano, craxiano, grillino. E, perché no, anche piddino. Ma purtroppo per lui quell’area è già strapiena: Zingare i, Franceschini, Calenda. Meglio il centro, allora. Alla ricerca dei delusi moderati:

forzisti, renziani e post-diccì. Il sempre vagheggiato centro di gravità permanente. La verità però nel suo caso è impalpabile. Lui è oltre, semplicemente non incasellabile. E poi si eleva ben al di sopra della politica tricolore: piena di mezzucci e mezze cartucce. John Fi gerald Kennedy, ecco lui sì che è modello a cui ispirarsi. «Scrivetemi come se ogni messaggio costasse dieci euro: vi aiuterà a concentrare il pensiero», si leggeva sullo status WhatsApp di Conte a giugno 2018, mentre il Quirinale lo issava per la prima volta a Palazzo Chigi. Frase accompagnata da una foto, con citazione dell’ex presidente americano: «Every accomplishment starts with the decision to try». Ovvero, “qualsiasi impresa comincia con la decisione di provare”. E lui non solo c’ha provato. Ma è disposto a qualsiasi cosa pur di rimanere in sella. Ecco il prosaicissimo motivo della sua continua altalena ideologica. Il premier, dal giugno 2018 a oggi, è riuscito a passare da una liana all’altra con l’agilità di un cercopiteco. Convenienza, perfe amente combinata con la resilienza. «Andreo i è una volpe ma tu e le volpi, prima o poi, finiscono in pellicceria» diceva Craxi del solito Divo Giulio. E Conte non ha nessuna voglia di finire in pellicceria. O meglio, nelle affollate aule universitarie frequentate fino a ieri. Vuoi me ere con i pomposi summit, le alchimie politiche e le vecchie e sbaciucchianti? No. Giuseppi, al di là delle ovvietà periodicamente rifilate ai media, di tornare a quella vitaccia non ha alcuna intenzione. Il treno veloce da Roma a Firenze, i ricevimenti con gli studenti mocciose i, le pallosissime lezioni in aula… Mai più. «Siamo un paese senza memoria» diceva Pier Paolo Pasolini. E meno male, si frega le mani il professore salentino. Prima a capo di un governo di centrodestra, poi di centrosinistra, infine di sinistrissima. Ma cosa vuoi che importi agli smemorati ele ori? Conte è l’Ercolino sempre in piedi: il misirizzi che la Galbani regalava ai fedeli clienti negli anni Sessanta, con le sembianze dell’a ore Paolo Panelli. È come Leopoldo Fregoli, l’inventore del trasformismo in teatro, che in uno spe acolo riusciva a interpretare oltre cento personaggi. Diceva che con i suoi 800 costumi e le sue 1.200 parrucche avrebbe ricoperto la Tour Eiffel. Fregoli non si

p p g cambiava solo d’abito velocemente, ma era in grado di cambiare postura, accento e voce in un a imo. «Nelle sue interpretazioni» scriveva il «New York Times» nel 1984 «può apparire come l’ideale di bellezza femminile, e pochi secondi dopo si presenta sul palco come un barcollante ubriacone.» Conte è tu i. È Andreo i, Craxi, Moro e Rumor. Ed è Grillo, Di Maio e perfino Renzi. Già a gennaio 1883, sul periodico bolognese «Don Chiscio e», Giosuè Carducci scriveva: «Bru a parola a cosa più bru a. Trasformarsi da sinistri a destri senza però diventare destri e non però rimanendo sinistri». Non s’era mai visto un premier che, senza soluzione di continuità, passasse da un governo di destra a uno di sinistra. Riuscendo a non spe inarsi i capelli e nemmeno a gualcire l’abito di sartoria. La lacuna è stata colmata: doppio salto carpiato e, voilà, abbiamo un capo del governo double face. Può indossare il completo gialloverde, ma se è necessario anche un vestito giallorosso. È sufficiente rivoltare le idee, come per i tessuti bicolore: verde da un lato e rosso dall’altro. Un presidente del Consiglio con la poche e intercambiabile. Nel primo tempo della partita indossa una maglia. Nel secondo tempo quella della squadra avversaria. Nel mentre, finge di fare l’arbitro e si scalda a bordo campo come riserva della patria. Pardon, della Repubblica. Del resto, con una voce dal sen fuggita, Conte l’ha già ratificato a gennaio del 2019. Ai giornalisti che lo pungolavano sull’autonomia chiesta da alcune regioni, l’impe ito premier replica: «Io sono, quale presidente della Repubblica, garante della coesione nazionale». Un lapsus. Ma quando i cronisti gli fanno notare la svista, lui sornione prosegue il ragionamento, senza fare un plissé. Imperturbabile, come sempre. Un lapsus sì, ma freudiano. Del resto, l’elezione del nuovo capo dello stato è fissata per il 2022. Nessuno riesce a immaginare quali smo amenti ci saranno stati nella politica italiana da qui ad allora. Ma Conte non sarà tornato all’anonima vita accademica in cui è rimasto confinato per un trentennio. Giuseppi: trasformista, palleggiatore, poderoso, diabolico, democristiano, spietato. Adesso è pronto a tu o.

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Lo smemorato di Volturara Appula

«Scusate, ma il signorino qui aveva de o alle tre…» È il primo pomeriggio del 27 novembre 2019. Giuseppe Conte entra sornione nella sale a di Palazzo Chigi indicando Rocco Casalino, il suo portavoce. «Ho 15 minuti di ritardo e mi scuso» dice mentre prepara calorose stre e di mano. Il premier è stato di parola. Come promesso, ci ha concesso l’intervista. Certo, forse sperava in un colloquio più informale. Quando intuisce che perfino le sue prime parole sono finite in un memo vocale, sembra sbigo ito: «Ma che fa, registrate pure i saluti? Questa è deformazione professionale. E che diamine!». Si alza di sca o e afferra lo smartphone, appoggiato sul tavolino: «Ecco, siamo qui con il presidente del Consiglio che s’è appena scusato per il ritardo…» scandisce nel microfono con intonazione da telecronista. Il siparie o distende gli animi. Casalino sorride. Accanto a lui, c’è il segretario particolare di Conte. Si chiama Andrea Benvenuti ed è un do orando di Diri o privato a Firenze. Nonostante il delicatissimo ruolo che riveste, ha appena 27 anni. È cordiale, alto e segaligno. È stato lui a intra enerci amabilmente durante l’anticamera. Incuriositi dalla sua giovane età, per ingannare l’a esa gli abbiamo chiesto dei suoi trascorsi: «Lavoravo nel famoso studio Alpa in piazza Cairoli» ci ha rivelato dopo qualche esitazione. Insomma, l’assistente più fidato del premier era un altre anto fidato collaboratore del suo onnipresente mentore. Tu e le strade di Conte portano ad Alpa? Sarà questo, ovviamente, uno degli argomenti principali dell’intervista. Ma prima, da vero gentiluomo, il primo ministro non dimentica i convenevoli. Come molti narcisi, parla spesso di sé in terza persona: «Il dire ore Belpietro è stato il primo giornalista a incontrare il

p p g presidente del Consiglio» riferisce a portavoce e segretario particolare. Così comincia a ripercorrere il fortuito incontro nella stazione ferroviaria di Firenze, il giorno della sua nomina a capo del governo. «Adesso i giornali non li leggo più» informa. Gli facciamo notare che dicevano lo stesso anche Silvio Berlusconi e Margaret Thatcher, «per evitare dispiaceri». Conte userebbe lo stesso stratagemma. «Ma vi pare possibile che si siano occupati per giorni del cesso del presidente del Consiglio?» prorompe. Be’, però ventiseimila di ristru urazione non sono quisquilie: ha preteso perfino una doccia con o o bocche e… «Mi rifiuto, dai. Fa male al giornalismo.» Com’è noto, non ama la categoria. «State facendo un dossier contro di me, raccogliendo le peggiori cose. Ma io vi darò un contributo per parlare male» prome e. Invano. Perché nel corso della chiacchierata, durata un paio d’ore, il premier sfodererà piu osto massicce dosi di sicumera, fiducia e autostima. Ogni gesto e parola di Conte tracimano vanità. Quello in cui dife a, a suo dire, sono invece le facoltà mnemoniche. «Non ricordo bene le date» preme e. Il so otesto è evidente: non mi chiedete di essere puntuale e circoscrivere gli eventi. La memoria è corta. Una premessa che potrebbe sembrare un’arguzia, utile a evitare de agli e circostanze. Cominciamo, dunque. E partiamo da Alpa, il famoso avvocato con cui la sua carriera s’incrocia di continuo. Il tema del primo quesito è quasi d’obbligo: il famigerato concorso all’Università Vanvitelli di Caserta. Conte, però, con un inaspe ato preambolo, marca debita distanza: «Si dice impropriamente che Alpa sia il mio maestro. Il mio maestro, in realtà, è stato Giovanni Ba ista Ferri, della scuola giuridica romana. Mi sono laureato con lui e sono diventato il suo assistente. Solo quando ho vinto il posto di ricercatore a Firenze ho incontrato Alpa. Quindi non sono stato un suo allievo. Poi è nata questa opportunità: lui aveva uno studio a Genova, con Tomaso Galle o, ma cercava un appoggio a Roma. Decise allora di aprire uno studio professionale anche qui. E lo fece con me, visto che mi conosceva». Le date, a cui il presidente del Consiglio è tanto allergico, sono però fondamentali. Proprio in quel periodo, Alpa viene ele o nella

p p q p p commissione d’esame che nominerà Conte ordinario. Non è un enorme confli o d’interessi? Il premier comincia a spazientirsi: «Tra noi non c’è mai stata un’associazione, né formale e neppure di fa o. Non ci dividevamo i proventi. Eravamo solo coinquilini». Lei però, nel curriculum inviato anni dopo alla Camera dei deputati, scrive: «Dal 2002 ha aperto con il prof. avv. Guido Alpa un nuovo studio legale dedicandosi al Diri o civile, societario e fallimentare». Il primo ministro si rabbuia: «È chiaro che, messa così, sembra che abbiamo aperto uno studio professionale insieme». Già. E l’ha messo nero su bianco, persino in un a o ufficiale. «In realtà, avrei dovuto scrivere che eravamo coinquilini.» Quindi ha infiocche ato? Alza le spalle: «Sì, il curriculum è un po’ infiocche ato». Lo dice come se fosse la cosa più naturale del mondo. Immemore che proprio quel curriculum gli ha garantito un’ambitissima poltrona: membro del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa. Assomiglia un po’ al famoso smemorato di Collegno, che del passato non ricordava nulla. Ma noi non demordiamo. Lo studio in comune ha visto la luce prima o dopo il concorso? «Guardate, come vi ho de o, le date non le ricordo.» Noi, invece, sì: Alpa viene ele o nella commissione a marzo 2002. A quel tempo, lavoravate già gomito a gomito? Segue qualche altro tentennamento, poi pesca la reminiscenza: «La sostanza è che, in costanza di concorso, effe ivamente c’era un rapporto di coinquilinaggio». Ricorrendo al solito giuridichese, alla «costanza di concorso» e al «coinquilinaggio», il premier dunque conferma: il luminare e l’associato decidono di aprire e condividere uno studio. E poco dopo il luminare, Alpa, è nominato nella commissione che farà dell’associato, Conte, un giovane e baldo docente ordinario, appena trento enne e già sul gradino più alto della carriera universitaria. Il premier derubrica. Ma a noi la circostanza, assieme al curriculum «infiocche ato», sembra dirimente. Insistiamo, ancora una volta. Se lei ha un rapporto così stre o con un collega, che poi la giudicherà, a noi viene in mente solo una cosa: il confli o d’interessi. «Ma non è una collaborazione professionale!» sbo a Conte. Gli ricordiamo che, prima del concorso, insieme avevano già difeso insieme il Garante della privacy. «Io avevo i miei clienti: pochi. Alpa

p y p p invece ne aveva tantissimi. Sì, qualche volta siamo stati insieme in un collegio difensivo. Ma l’ANAC ha chiarito che questo non crea confli i d’interesse. Pure l’Ilva, per fare un esempio, ha un collegio di dieci difensori, ma non c’è fra loro un’associazione.» Il paragone, ovviamente, non regge: nessuno ha giudicato l’altro in un concorso. L’obiezione non viene raccolta. L’anguilla prova abilmente a scivolare via. «C’è la forma e c’è la sostanza» facciamo notare. Guardiamo Casalino. Sbuffa come una vaporiera. Tiriamo fuori l’ultima intervista concessa da Alpa al «Secolo XIX». In quel concorso – ha assicurato al quotidiano genovese – è stato sorteggiato. È un de aglio utilissimo a rimarcar distanza. Ma le carte che abbiamo consultato smentiscono i ricordi di Alpa. In realtà, venne ele o con un plebiscito: 54 voti. «Ha de o un’inesa ezza» conferma Conte, prima di partire al contra acco. «Faccio a voi una domanda: quanti voti servivano per diventare ordinario?» Tre su cinque. «E io quanti ne ho presi?» Cinque. «Dunque, voi avete un concorso che nel 2002 ha designato ordinario questo fessacchio o, oggi presidente del Consiglio. All’unanimità. E Alpa non era nemmeno a capo della commissione…» Anche se era certamente il membro più noto e influente. «Vi rivelo una cosa» continua spazientito. «Quando mi sono laureato alla Sapienza, tu i gli assistenti avevano cognomi illustri: c’era pure la figlia di Giuliano Amato… Io ero l’unico che non aveva un parente noto, nell’università o nella politica. Tanto che, poco prima di quel concorso, ce ne fu un altro in cui il so oscri o ritirò la domanda» Perché? «Non erano maturi i tempi…» risponde, anzi non risponde, recuperando lo smalto scudocrociato. Il contra acco del presidente del Consiglio sembra confermarci l’arcinoto: per insegnare all’università, ieri come oggi, bisogna avere un santo in paradiso. «Tu i, quella volta, ritenevano che io avessi scri o più degli altri.» Quindi non ha partecipato perché non aveva gli appoggi giusti? «Allora, a enzione» prende tempo. «La vicenda è complessa. I commissari mi chiamarono: “Conte, perché ha ritirato la domanda?”.» Già, perché? «Per un discorso interno di scuola. Non volevo… Ma a cosa state alludendo?»

Vogliamo chiarire. I giornalisti fanno domande. E noi non siamo venuti a prendere il caffè. Conte rimarca: «Perché sussista il confli o d’interessi ci dev’essere cointeressenza economica. Sono stato uno dei primi giuristi che ha scri o di privacy. Stefano Rodotà, che all’epoca era il Garante, lo apprezzò molto. Per questo, il giovane Conte venne chiamato ad affiancare Alpa». È l’unica causa che avete fa o assieme? La risposta la conosciamo già: no. Solo l’Autorità per la privacy ha dato ai due altri se e incarichi. «Non ve lo so dire» riba e però questa volta. «Dicono che sono un avvocato sconosciuto, ma di cause ne ho fa e migliaia. Come faccio a ricordarle? Impossibile.» Il clima è tu ’altro che disteso. Il premier è abituato a circumnavigare, con successo, a orno a ogni domanda. «Ma anche senza il voto di Alpa, avrebbe vinto comunque il concorso» osserva Casalino. Però la presenza di Alpa è curiosa, ricordiamo eufemisticamente. «Ma non era neppure il mio maestro!» esplode Conte. Ritiriamo fuori il ritaglio mostrato prima: l’intervista ad Alpa. È intitolata: Il mio allievo Conte è neutrale, ma prima o poi dovrà schierarsi. «Quindi state facendo un discorso di opportunità! È un concorso del 2002. Non è stato impugnato da nessuno. Tra me e Alpa non ci sono conti correnti in comune. Perché state rimestando? Cosa volete sostenere? Qual è la notizia? Che nel 2002, di fronte ai veri scandali universitari, in un concorso un coinquilino giudica l’altro? Questo sarebbe scandaloso? Ma che notizia è? Dov’è lo scandalo?» Casalino suggerisce una risposta: «L’insinuazione è che, senza Alpa, lei non avrebbe fa o carriera…». Prima di poter dire la nostra, Conte ria acca: «Il mondo universitario è tale che, se io fossi stato un cazzaro o un raccomandato, l’avrebbero saputo tu i. Il mondo accademico è così. Non basta essere ordinari. Ci sono professori di fascia A, quelli bravi, e professori di fascia B, i raccomandati e i super raccomandati. Alpa, certo, poi è diventato un punto di riferimento per me. C’è anche un’amicizia personale…». Nella solita intervista, dice che vi sentite ogni domenica. «Ci sentiamo ogni tanto. Ma quello che voglio dire è: non è il mio maestro, ma mi ha arricchito tanto.» Lo guardiamo perplessi. «Non c’è mai stato un conto corrente comune» aggiunge Conte, cogliendo il nostro

gg g g sce icismo. «Le regole del mondo universitario sono ciclicamente so o a acco. I concorsi pubblici si devono svolgere, sostengono molti, senza contaminazioni, conoscenze e confli i. Ma questo non può funzionare. Chi frequenta il mondo universitario lo sa: tu i conoscono tu i. Ci si incontra ai convegni, alle conferenze e in tribunale.» Insomma, siamo dei petulanti rompicoglioni. Questo deve pensare di noi il capo del governo. Gli ricordiamo che s’era lamentato dei giornalisti ancor prima di conoscerli. Mentre era ancora un aspirante premier, avevano tirato fuori la storia di Equitalia, costre a a pignorargli la casa per le pendenze con il fisco. «Qualcuno ha persino scri o che sarei passibile di condanna…» aggiunge lui. E poi, rivolto a Casalino: «Sègnale queste cose, che dopo…». Conte vi manda il conto? «Se farò qualcosa, sarà da semplice ci adino, quando non sarò più presidente del Consiglio» aggiunge riferendosi a probabili e prossime querele. «Non mi potete togliere questa prerogativa.» Interveniamo: le critiche vanno acce ate. «Qui c’è il mio portavoce» replica pronto, indicando Casalino: «Portavoce, mi hai mai sentito dire: “Questa critica non l’acce o?”». Domanda retorica. Rocco spalleggia e rilancia, aggiungendo l’ultimo aneddoto: «No, anzi. Ieri ho mandato una re ifica al «Giornale», che aveva scri o una falsità su di me. Aggiungevo che volevo procedere per vie legali. Ma quando ho mostrato la nota al presidente, lui m’ha de o subito: “Ma cosa scrivi? Ma quali vie legali? Cancella subito”. Io, invece, per le vie legali andrei sempre. Mi diverte…». Il capo del governo chiarisce: «Non si può far causa so o l’ombrello di Palazzo Chigi». Dunque, l’avvocato Conte aspe erà che i tempi maturino: come il cinese lungo la riva del fiume. «Mi riserverò di valutare. La critica ci sta: anche quella più aspra, sferzante e sarcastica. Addiri ura, quando mi imitano… dite voi… non vi guardo.» Si copre gli occhi con una mano, gira il volto verso di noi e domanda a portavoce e segretario particolare: «Mi sono mai urtato?». Gli interpellati, ovviamente, scuotono la testa. Quella è satira, obie iamo, dimenticando quanto si prenda sul serio il premier. «Gli insulti sono

q p p diversi. M’hanno dato del cameriere, del bura ino, del prestanome. Eppure, vi dirò: l’epiteto, persino offensivo, lascia il tempo che trova. Se però scrivono inesa ezze, io faccio un video per chiarire e il giorno dopo replicano con altre due o tre falsità, be’ questa non è critica.» Chiusa l’ennesima parentesi sulla stampa, torniamo al pignoramento di Equitalia. «Capita nelle migliori famiglie. Quell’indirizzo era privo di portiere. Ci vivevamo io e la mia ex moglie. Io uscivo la ma ina e tornavo la sera. E la mia allora consorte non era più precisa di me. Ogni tanto arrivavano le cartelle, ma non c’è mai stata evasione.» Le altre accuse, in quel periodo, sono arrivate per aver difeso il metodo Stamina. Se n’è pentito? «Io non ho mai incontrato Vannoni. Mentre insegnavo a Firenze, è venuta da me una coppia di giovani fiorentini. Speravano che la figlia potesse continuare le cure. Da professionista non mi sono posto il problema dell’efficacia del metodo, ma solo di dare una possibilità a una famiglia disperata. Vi dirò di più: quando ci fu poi il clamore mediatico, io non l’ho sfru ato per avere visibilità. Non ho mai speculato.» L’altro intrigo, riemerso negli ultimi mesi, è il parere pro veritate firmato dall’avvocato Conte su Retelit, un’azienda partecipata dal fondo Fiber 4.0, a sua volta riconducibile al finanziere Raffaele Mincione. Poco dopo, sulla questione, si sarebbe pronunciato il governo gialloverde. Non era il caso di rifiutare l’incarico? «Mi è stato affidato prima della nomina. Adesso, ho riguardato le date e ho visto le coincidenze. Probabilmente ho firmato l’a o venerdì, domenica m’hanno proposto di fare il premier e il parere è partito lunedì. Ma io lavoravo come una bestia. Avevo in piedi centinaia di situazioni professionali.» L’hanno pagata quindicimila euro: se lo ricorda? «Figuratevi… Io non mi ricordo nemmeno cosa ho mangiato a pranzo.» Si ricorderà, almeno, chi le chiese la disponibilità per guidare il governo gialloverde. «Mi telefonò Di Maio: “Giuseppe, ti chiederei la cortesia di venire a Milano”. Io ero in spiaggia. Gli domando perché. “Ti vorrei fare conoscere Salvini?” Ti ricordi, Rocco?» Casalino aggiunge un retroscena: «C’era stata una riunione. Il Movimento

gg g aveva scelto Conte. La Lega, invece, puntava sull’economista Giulio Sapelli. Quella fu una furbata. Eravamo consapevoli che lui era di un altro livello. “Me iamoli subito indire amente a confronto” pensammo. “Così si evidenziano la genialità di uno e la follia dell’altro”. Era un modo per me ere in imbarazzo la Lega». La riunione per selezionare il candidato alla presidenza del Consiglio viene fissata nel pomeriggio del 13 maggio 2018. «Allora, sentite questa» racconta Conte. «Io a erro a Milano in tarda ma inata. Mi viene a prendere in aeroporto l’autista e mi porta in quest’albergo in centro a Milano, accanto al Duomo, dove ho prenotato una stanza. Nel pomeriggio, arrivano Di Maio e Salvini.» Il leader dei 5 Stelle è accompagnato da Vincenzo Spadafora, poi nominato so osegretario alla presidenza del Consiglio e ora ministro per le Politiche giovanili e lo Sport. Con il capo del Carroccio c’è invece Giancarlo Giorge i, l’eminenza grigia del partito. Lo scopo di questa riunione informale è, appunto, far conoscere il candidato del Movimento ai due leghisti. Conte prosegue: «Dopo aver fa o quest’incontro, mi dicono: “Adesso dobbiamo vedere Sapelli. Come facciamo senza che ci vedano tu i?”. Io replico: “Non c’è problema. Vi presto la mia stanza. Devo solo verificare una cosa…”. Chiamo in portineria. Chiedo se fanno vedere la partita della Roma con la Juventus anche nella hall. La risposta è affermativa. Io scendo e loro possono usare la stanza». Adesso ci racconta del Russiagate? Alla domanda segue qualche a imo di silenzio. «Dite di Salvini a Mosca?» controba e il premier, malcelando ingenuità. No, quella è Moscopoli. Ha invece mai conosciuto Joseph Mifsud, il professore maltese sospe ato di spionaggio? «Ma state scherzando?» E ha incontrato il ministro della Giustizia americana, William Barr? «Né Barr né nessun altro. Ho dato la delega a Vecchione. Ma non gli ho mica de o: “Rispondi a tu o quello che ti chiedono”. Del resto, la richiesta americana è stata cauta e prudente: “Vorremmo informazioni sull’operato della nostra intelligence e ci piacerebbe definire il perimetro di questa collaborazione”. È stato uno scambio di cortesie istituzionali. La prima riunione, appunto, è servita a definire il perimetro d’ingaggio.»

g gg Perché ha tenuto la delega ai servizi segreti? «C’è una ragione precisa. Il presidente del Consiglio ha comunque la responsabilità di tu o il comparto. Un’eventuale delega non mi me eva al riparo dalle responsabilità. A quel punto lì, il giurista che è in me ha fa o una riflessione: “Se ne devo comunque rispondere, dovrei nominare un alter ego, oppure un fratello. Ma non li ho. Allora ho preferito tenermi la rogna. Immaginate se ci fosse stato un altro al posto mio, senza contezza dei rischi e della complessità politica e giuridica… Chissà che casino sarebbe successo su Barr!» Quindi l’agente speciale Conte, immodestamente, ha colto subito il pericolo? «Ho la capacità d’inquadrare i rischi delle cose. Io sono terribile come avvocato! I miei collaboratori avevano calcolato il 90% di vi orie.» Scopriamo uno spietato principe del foro. «No, sono di una corre ezza unica. Ma ho alle spalle una vita di studio intenso e grande determinazione. Meglio non avermi contro…» A suo dire, l’avrebbe dimostrato pure oltreconfine. «Hanno imparato a rispe armi. Ero appena arrivato. Ero l’ultimo. Pensate al primo Consiglio europeo: non sapevo neanche come muovermi. Invece, siamo rimasti lì tu a la no e, a litigare con Merkel e Macron. Non in modo velleitario, ma con argomentazioni giuridiche. Alla fine, sono dovuti stare zi i.» A quel punto, sarebbe scoppiato l’amore. E quanto è contato, proprio al momento della rinascita del governo, l’appoggio delle cancellerie europee? «Mah, per me è difficile valutarlo.» S’introme e Casalino: «Per il Movimento, e ci me o la testa nel fuoco, zero. Per il PD , forse è stato più importante il suo mondo: Prodi, la Chiesa…». Il G7 di Biarri è stato però un trionfo, replichiamo. Ed è qui che egolatria e vanità prendono il largo. A vele spiegate. «Per un premier dimissionario come me, andare al vertice non era una gran cosa, anche psicologicamente. Ma tu Rocco, che eri lì con me, mi hai visto sfiduciato o depresso?» Rocco scuote la testa. Conte riprende il filo, gongolante: «I colleghi non mi evitavano. Anzi, mi apprezzavano e mi stimavano. Però, diciamocela tu a: è un fa o personale». Già, diciamocela tu a: l’Europa ha tifato giallorosso? «Mah, solo l’ultimo giorno, a un certo punto, era un po’ cominciata a circolare la

cosa. E qualcuno ha de o: “Ci piacerebbe che tu rimanessi primo ministro”.» Chi? «Dal premier indiano, Narendra Modi, al presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk…». Per non parlare di Donald Trump… «Quando stavamo andando via, mi chiamò: “Giuseppe, devi rimanere in politica”. Ma fidatevi, è più un fa o personale. Lui non aveva nemmeno motivi per andare contro Salvini.» A parte Moscopoli. Conte abbassa la voce, fino a trasformarla in un sussurro: «Trump di Moscopoli se ne strasba e. Lo staff magari è a ento a certe cose, ma lui… Dovreste conoscerlo Trump…» bu a lì, come se parlasse di uno stravagante vicino di casa. «La prima volta che ci siamo visti, mi ha preso da parte: “Giuseppe, sei simpatico. Cosa posso fare per te? Vieni a trovarmi negli Stati Uniti. Facciamo una grande visita di stato”.» Fino all’ormai celebre cingue io: l’augurio che Giuseppi resti premier. «Prima di partire, mi ha de o: “Ti faccio un tweet, ti faccio un tweet…”» Casalino aggiunge un aneddoto: «Al primo G7, appena ele o, c’era uno spe acolo a no e fonda. Chiunque voleva sedersi accanto a Trump. Lui invece chiese al presidente di stare accanto lui. Hanno chiacchierato tu a la sera». Non rimane che fare ammenda. Non c’eravamo accorti di avere a Palazzo Chigi un protagonista dei consessi internazionali, ammirato e inseguito dai leader della terra. Come sul fronte interno, d’altronde. I 5 Stelle sono ormai ai suoi piedi. Parla spesso con Beppe Grillo? «Rarissimamente. Recentemente abbiamo discusso un paio di volte dell’Ilva. Lui è molto interessato alle transazioni energetiche e alle nuove tecnologie. Ha sempre idee innovative. È davvero stimolante scambiarsi idee sulla società del futuro. Mi piace. Senza offendere nessuno: è quello nel Movimento che ha la visione più strategica.» Ma almeno nei giorni della crisi agostana vi sarete sentiti spesso… «Credo mai.» Nemmeno un incontro? Eppure è ormai un suo fan sfegatato. «L’ultima volta l’ho visto a Napoli, alla festa del Movimento. E poi il giorno della presentazione dei ministri, durante la campagna ele orale. Era sera. Giusto qualche minuto…» Ben più assidui sono invece i rapporti con Luigi Di Maio, ma qualcosa s’è ro o. «No, assolutamente.» Si sono invertiti i ruoli: prima era lui che guidava, ora è Conte. Prima era lei in ombra,

p g adesso è il contrario. «Sono ruoli completamente diversi. Io sono molto a ento a non interferire nelle vicende interne del Movimento. Che poi possa fare d’ispirazione è un altro conto.» Il passaggio dunque è compiuto: da bura ino a bura inaio. «No, bura inaio no. Non mi riconosco. Che bura inaio? In modo opaco, intendete? Mai. Non sarei più credibile come presidente del Consiglio. È ovvio che, in un momento di transizione per il Movimento, colga grande simpatia e fiducia da parte di buona parte dei parlamentari dei 5 Stelle. E lo si vede anche… A Napoli la gente con me è stata calorosissima. Questo mi fa piacere. E credo pure sia nell’interesse di tu i che guardino a me con simpatia e fiducia. Però, a enzione: sarebbe assolutamente deleteria una mia azione intrusiva. Non funzionerebbe. Dopo qualche se imana, i nodi verrebbero al pe ine. Significherebbe deviare il ruolo del presidente del Consiglio. Entrare a piè pari nelle vicende di una forza politica. E poi, perché? Perché Di Maio ha qualche difficoltà come leader? Peggio. Paradossalmente, potrei interloquire con il Movimento se non ci fossero questi retroscena. Ora, a maggior ragione, mi devo astenere.» Casalino è più esplicito: «Diciamocela in maniera nuda e cruda. Un gruppo parlamentare, che vuole colpire Luigi, cerca un altro al suo posto. Insomma, capisco che qualcun altro voglia me ere lui. Questo però non significa né che sia disponibile, né che si stia muovendo in tal senso». Nessuno dei due lo amme erà mai. Conte, una volta smessa la casacca giallorossa, potrebbe indossare quella ocra del Movimento. Per adesso è costre o a fare il padre nobile. Ma la sua appartenenza politica sembra ormai chiara. A meno che il fato non gli riservi l’ennesima, sbalorditiva, sorpresa: il Quirinale. «Vedremo…» commenta Casalino alzando gli occhi al cielo. «Ma mi volete già imbalsamare?» ci domanda Conte. All’inizio dell’intervista, volevano sapere il titolo di questo libro. Prima del commiato, con l’ultima domanda, diamo un indizio al premier: si reputa un trasformista? «Allora, vi invito a prendere i discorsi e ragionamenti che facevo ai tempi del Conte uno. Poi, confrontateli con quelli del Conte due. Vedrete che non sono cambiato.» Scoppiamo a ridere. «Eh, lo so. Voi non mi credete.

pp Ditemi però una frase contraddi oria. Prendiamo il sovranismo. Per me, il sovranismo vuol dire che il popolo è sovrano…» Ma lei era orgogliosamente populista! L’obiezione viene seppellita dai convenevoli. Conte ci accompagna fino all’ascensore. I saluti finali confermano la sua riconosciuta cordialità. Vigorose stre e di mano. Il camaleonte sogghigna. Volta le spalle e sparisce tra gli stucchi di Palazzo Chigi.

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Sommario

Copertina L’immagine Il libro Gli autori Frontespizio GIUSEPPE CONTE IL TRASFORMISTA 1. Il giorno in cui il professore divenne premier 2. Un’anguilla a Palazzo Chigi 3. Il bambino prodigio alla corte del Vaticano 4. Tante parcelle e una capanna 5. Curriculum & affari 6. Innocenti evasioni 7. La caducazione della concessione 8. Il papocchio di Biarri 9. A star is born 10. L’avvocato delle spie 11. I mille volti di Giuseppi 12. Conte, il camaleonte 13. Lo smemorato di Volturara Appula Copyright