Giovanni Boccaccio e le donne 8856403277, 9788856403275

Giovanni Boccaccio, il grande narratore che col suo Decamerone ha segnato in modo indelebile la storia della letteratura

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Giovanni Boccaccio e le donne
 8856403277, 9788856403275

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STORIE DEL MONDO 23

MONIKA ANTES

Giovanni Boccaccio e le donne

Traduzione dal tedesco Riccardo Nanini

www.mauropagliai.it

© 2016 EDIZIONI POLISTAMPA Via Livorno, 8/32 - 50142 Firenze Tel. 055 737871 (15 linee) [email protected] - www.leonardolibri.com ISBN 978-88-564-0327-5

Saranno per avventura alcune di voi che diranno che io abbia nello scriver queste novelle troppa licenza usata, sì come in fare alcuna volta dire alle donne e molto spesso ascoltare cose non assai convenienti né a dire né ad ascoltare ad oneste donne. La qual cosa io nego, per ciò che niuna sì disonesta n’è, che, con onesti vocaboli dicendola, sì disdica ad alcuno.1 GIOVANNI BOCCACCIO

1

G. Boccaccio, Decamerone, a cura di U. Bosco, Bietti, Milano 1966, p. 549.

SOMMARIO

Introduzione

pag.

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1. FIRENZE E LA SOCIETÀ MEDIOEVALE FIORENTINA VERSO IL RINASCIMENTO 1.1 Gli ambienti privati 1.2 La struttura familiare 1.3 Come si abitava 1.4 La disposizione della casa 1.5 L’arredamento 1.6 La camera da letto 1.7 Il ruolo dell’uomo 1.8 Il ruolo della donna 1.9 Le pratiche sessuali 1.10 Sintesi

13 13 14 15 17 18 20 20 21 22 23

2 VITA 2.1 Origini e infanzia 2.2 Prime esperienze significative 2.3 Primi approcci letterari 2.4 Il ritorno a Firenze 2.5 La crisi religiosa e gli ultimi anni a Firenze e Certaldo

25 25 26 27 27 28

3. IMMAGINI FEMMINILI 3.1 L’immagine della donna nella Elegia di Madonna Fiammetta, il primo romanzo psicologico femminile Prologo

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3.1.1 Primo capitolo: il morso della serpe e le fatali conseguenze 3.1.2 Secondo capitolo: l’inattesa separazione da Panfilo 3.1.3 Terzo capitolo: lo strazio della gelosia 3.1.4 Quarto capitolo: da innamorata a schiava

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3.1.5 Quinto capitolo: Panfilo si è innamorato a Firenze pag. 3.1.6 Sesto capitolo: il ritorno di Panfilo 3.1.7 Settimo capitolo: Cleopatra e Fiammetta 3.1.8 Capitolo finale: Fiammetta parla con il suo libro 3.1.9 Conclusioni: amore, egoismo, tradimento, emancipazione

3.2 Le immagini femminili del Decamerone 3.2.1 I fruitori 3.2.2 Le tipologie femminili 3.2.3 La donna sottomessa: Lisabetta e il testo di bassilico Commento 3.2.4 La donna impertinente: l’amante nel doglio Commento 3.2.5 La donna astuta: Madonna Filippa Commento 3.2.6 La donna eroica e sovrumana: Gualtieri e Griselda Commento 3.2.7 Sintesi

3.3 Il Corbaccio

40 44 45 47 47 49 49 52 52 53 55 56 58 59 60 60 64 65

3.3.1 Primo capitolo: il colloquio con il salvatore nel laberinto d’Amore 3.3.2 Secondo capitolo: l’amante disperato 3.3.3 Terzo capitolo: un’invettiva contro la donna 3.3.4 Quarto capitolo: la donna, un essere diabolico 3.3.5 Quinto capitolo: l’amore che rende ciechi 3.3.6 Sesto capitolo: la salvezza 3.3.7 Il Corbaccio nell’ottica di un sogno ad occhi aperti junghiano

4. FIAMMETTA, DECAMERONE, CORBACCIO: UN CONFRONTO

68 71 73 75 77 79 82 85

Appendice 89 89

5. ALTRE OPERE 5.1 La fase napoletana 5.1.1 La caccia di Diana (1334), breve poema epico in diciotto canti 5.1.2 Il Filostrato (1335), poema epico in stanze (ottava rima)

8

89 89

Sommario

5.1.3 Il Filocolo (1336-1339), romanzo in prosa 5.1.4 Teseida (1339-1341), poema epico in stanze (ottava rima)

5.2 Gli anni dal 1340 al 1350

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5.2.1 La Comedia delle ninfe fiorentine o Ninfale d’Ameto (1341-1342), romanzo pastorale in versi e prosa 5.2.2 L’amorosa visione (1342-1344), poema epico in terzine (ispirato alla Divina Commedia) 5.2.3 Ninfale Fiesolano (1344-1346), poema epico in stanze (ottava rima)

5.3 Opere della maturità

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5.3.1 Il Trattatello in laude di Dante (1351-1373), una biografia dell’Alighieri 5.3.2 Le Espositioni sopra la Commedia di Dante (1373-1374): le lezioni pubbliche tenute a Firenze sulla Divina Commedia

5.4 Opere in latino 5.4.1 Bucolicum carmen (1349-1367), sedici ecloghe 5.4.2 Genealogia deorum gentilium (1350-1367) 5.4.3 De montibus, silvis, fontibus, lacubus, fluminibus, stagnis seu paludibus, de nominibus maris liber (1355-1375) 5.4.4 De casibus virorum illustrium (1356-1373) 5.4.5 De claris mulieribus (1361-1362)

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6. BIBLIOGRAFIA 6.1 Fonti (tedesco) 6.2 Fonti (italiano) 6.3 Letteratura

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Statua di Giovanni Boccaccio nel cortile degli Uffizi a Firenze

INTRODUZIONE

Quando si è a Firenze, in piazza della Signoria, volgendo lo sguardo a destra, si vede il cortile degli Uffizi, al cui interno sono presenti ventotto statue di note personalità toscane; tra queste, quelle di Dante (1265-1321), Petrarca (1304-1374) e Boccaccio (1313-1375), con le teste ornate da una corona d’alloro. I fiorentini li chiamano le “Tre Corone”, dal momento che con le loro opere hanno fissato i nuovi criteri della poesia in lingua italiana. E se si resta un po’ a passeggiare in questo cortile – che, malgrado i tanti turisti, ha ancora un che di misterioso e seducente – non è difficile pensare ai tre poeti che camminano tra le strade tortuose di Firenze chiacchierando con questo o quello oppure, magari, vagano in perfetta solitudine, presi, con quello che sentono e pensano, in un mondo tutto loro. Questo libro è dedicato a una delle “Tre Corone”, e cioè a Giovanni Boccaccio, che ci ha lasciato una grande quantità di opere letterarie, divenute famose in tutto il mondo e ancora oggi lette e citate. Chi non conosce la creazione più nota di Boccaccio, il Decamerone, che ebbe rapida diffusione ed è spesso stato detto immorale, osceno, licenzioso, irriverente, critico nei confronti della società e ostile alla Chiesa? Nel presente libro cercheremo dunque di analizzare criticamente queste accuse e di presentare anche altre opere di Boccaccio, dedicando particolare attenzione alla sua immagine della donna. In un primo momento un esame della società medioevale toscana mostrerà com’era la vita delle persone e quali erano i fattori che la caratterizzavano; seguirà una breve biografia del poeta. La terza parte del libro prenderà in considerazione tre delle sue opere, allo scopo di mostrare le differenze tra le immagini femminili presenti in Boccaccio e il modo in cui si sono evolute nel corso della sua vita. Si tratta della Elegia di Madonna Fiammetta, del Decamerone e del Corbaccio. Il capitolo finale giungerà a una sintesi conclusiva ricorrendo a una comparazione, mentre l’appendice elencherà altre opere del nostro autore. 11

1.

FIRENZE E LA SOCIETÀ MEDIOEVALE FIORENTINA VERSO IL RINASCIMENTO2

Nel 1348 lo scoppio della peste3 provocò in Italia grandi cambiamenti sociali: nel giro di pochi decenni lo stile di vita delle persone si trasformò profondamente in tutto il mondo occidentale; un mutamento della cultura europea – il cui centro andava dalla metà settentrionale della Francia all’Italia, ma non escludeva la Spagna e la Germania – grazie al quale fu per la prima volta possibile avere una qualche nozione della vita privata delle persone, fino ad allora perfettamente sconosciuta. L’arte ebbe in tutto questo una parte essenziale, dal momento che collocava plasticamente al centro dello spazio la vita concreta e ritraeva la realtà vissuta. Gli artisti si servivano allo scopo di tutte le tecniche a loro disposizione; tra queste la pittura era quella più versatile, e ottenne così ben presto il primato tra le arti, creando le prime immagini di scene domestiche o intime. Guardando alla Toscana mostreremo ora i rivolgimenti e gli sviluppi che sorsero all’inizio del Trecento e ne influenzarono la vita sociale.

1.1 GLI AMBIENTI PRIVATI4 Nel 1314 il francescano veneziano fra’ Paolino disse: «Fagli mestiere a vivere con molti», vale a dire: vivi all’interno della società di un’entità politica, comune o regno che sia. Ma la casa e l’ambiente in

2 Cfr. G. Duby (a cura di), Geschichte des privaten Lebens, vol. II, Vom Feudalzeitalter zur Renaissance, tr. ted. di H. Fliessbach, S. Fischer Verlag, Frankfurt am Main 1990, p. 161. 3 Cfr. D. Herlihy, Der schwarze Tod und die Verwandlung Europas, Wagenbach, Berlin 2007. 4 Cfr. G. Duby (a cura di), Geschichte des privaten Lebens, cit., pp. 161-162.

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cui si viveva erano altrettanto importanti. In Toscana il vicinato era caratterizzato da un tipo particolare di solidarietà, grazie al quale una famiglia poteva estendere i propri contatti a una comunità più grande, una città o un ambiente più vasto, dal momento che in questo modo ci si sentiva più protetti.

1.2 LA STRUTTURA FAMILIARE5 Nel medioevo la “vita privata” era la vita spesa soprattutto in seno alla famiglia. Le dichiarazioni dei redditi – che esistono fin dall’inizio del Trecento – mostrano che in molte città una famiglia era mediamente costituita da quattro persone: erano dunque famiglie piccole, composte da padre, madre e due figli. Un’esiguità dovuta probabilmente all’epidemia di peste che imperversò in Italia a partire dal 1348. Le famiglie degli inizi del secolo erano infatti molto più ampie. A San Gimignano si racconta ancora verso il 1290 che vivessero attorno a ogni focolare sei contadini, il che fa pensare che fossero molte le famiglie che condividevano una casa. Per molti toscani appartenenti al ceto rurale e alla borghesia era normale convivere in una grande famiglia, cioè in una vera e propria “famiglia allargata”, con la compresenza di tre generazioni, oppure in un gruppo di più famiglie nucleari. Secondo uno statuto promulgato nel 1287 a Bologna, la famiglia consisteva di padre, madre, fratelli, sorelle e nuore, ed era organizzata in modo patriarcale, il che significa che i figli maschi portavano in casa le loro mogli, che vi vivevano sotto la tutela del suocero e del marito. Le donne avevano le loro brigate, che si riunivano ad esempio per andare insieme a confessarsi. Quando voleva andare in città o fare un pellegrinaggio, la donna di campagna si metteva insieme ad altre sodali che avevano le stesse intenzioni. Gli scapoli, privi di famiglia, si associavano analogamente ai tre ciechi di Franco Sacchetti6, che si mettevano su una strada di cam5

Cfr. ibid., pp. 162-171. Franco Sacchetti (1330-1400), letterato del primo Rinascimento, autore tra le altre cose – analogamente a Boccaccio – di novelle. Nelle sue Trecentonovelle, alla centoquarantesima, tratta dei tre ciechi in oggetto. 6

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1. Firenze e la società medioevale fiorentina verso il Rinascimento

pagna a mendicare e la sera tornavano alla camera che avevano affittato insieme per spartirsi il ricavato. Anche gli uomini sposati sentivano la necessità di una privacy informale, e la domenica e nei giorni di festa si allontanavano dalla famiglia per andare in campagna: lo descrive un testo ritrovato in una locanda di Pontassieve datato alla fine del Quattrocento, secondo cui sedevano assieme circa trenta contadini, com’era d’uso la domenica sera, per bere, giocare e raccontarsi barzellette. Questi incontri erano per loro l’occasione – come del resto per le loro famiglie – per chiacchierare in tutta confidenza in un ambiente gioviale e fidato.

1.3 COME SI ABITAVA7 Ogni famiglia – grande o piccola, ricca o povera, rurale o urbana che fosse – aveva un modo caratteristico di abitare. In campagna, gli operai e i piccoli proprietari vivevano in capanne di argilla ricoperte di paglia, spesso larghe non più di quattro-cinque metri e lunghe ottodieci. Più solidi i poderi eretti in Toscana dai contadini e dai mezzadri. Per costruirli si utilizzavano pietra viva o mattoni per i muri, con il tetto ricoperto di tegole. Gli edifici avevano un piano superiore e disponevano di solito di una dispensa, una sala o soggiorno, diverse camere da letto e un loggiato. Poiché le case in legno erano spesso vittime di incendi, nel corso del tempo si imposero materiali sempre più refrattari, come i mattoni e la pietra. A Firenze si usavano i mattoni per gli edifici più semplici e la pietra per i palazzi borghesi. A Siena i mattoni erano usati per entrambi i tipi di costruzione. Solo nel Quattrocento iniziò a prevalere la pietra. Vivere in città significava per i meno abbienti doversi accontentare di abitazioni piuttosto primitive. A Firenze, nel 1330, diversi scapoli che erano appena giunti in città vivevano in un’unica stanza. La maggior parte della povera gente abitava in precisi quartieri e strade, e questa tendenza si rafforzò nel XV secolo. Gli artigiani, i mercanti e il “ceto medio”, nella maggior parte delle città italiane e in Toscana in particolare, disponevano di abitazioni 7

Cfr G. Duby (a cura di), Geschichte des privaten Lebens, cit., pp. 173-180.

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spaziose. Vivevano in appartamenti o case che prendevano in affitto oppure possedevano. Consistevano di una sala o soggiorno e di una camera da letto; in molte case c’era anche una cucina, portatavi dal cortile nel corso del tempo. La casa aveva un cortile interno, un giardino, una dispensa, una stalla e un pozzo d’uso privato. Sebbene tra la fine del Trecento e l’inizio del Quattrocento non si fosse smesso di costruire sontuosi palazzi, sempre più spesso si tendeva a ristrutturare edifici già esistenti, dotandoli di aggiunte o modifiche e sovente di collegamenti con le costruzioni vicine. Scritti fiorentini risalenti al periodo che va dal 1380 al 1410 fanno riferimento a palazzi come quelli degli Strozzi, dei Bombeni, dei Capelli e dei Davanzati, dotati di cortili interni e, spesso, di più di dodici stanze, distribuite su tre o quattro piani. Quello dei fratelli da Uzzano, in via Bardi a Firenze, aveva non meno di trenta stanze: nove al piano terra, dieci al primo e undici al secondo. La facciata era in linea con quelle delle case semplici, dalle quali si distingueva solamente per l’accurata lavorazione della pietra e degli ornamenti. Se al piano terra erano già presenti dei negozi, questi vi restavano oppure ne venivano inseriti di nuovi, come è il caso del Palazzo Davanzati, che il proprietario, nella dichiarazione patrimoniale del 1498, definì “palazzo con tre botteghe per la lavorazione della lana”. Dopo il 1440 si costruirono palazzi che rompevano consapevolmente con la tradizione. Ne sono esempi i palazzi Medici (1446), Pitti (1446), Antinori (1456), Strozzi (1489) e Gondi (1490). Intere file di case furono demolite per far posto a questi nuovi, fastosi edifici. Poiché di solito erano isolati e delimitati da strade da due o tre parti, le eleganti facciate di cui essi andavano dotati erano diverse. Si trattava di palazzi ormai privi di botteghe o laboratori ed utilizzati soltanto da privati, con raffinati giardini e cortili protetti da alte finestre, muri possenti e grandi portoni. Un ampio cortile interno fiancheggiato da portici era il centro dell’edificio. La maggior parte della popolazione viveva tuttavia in case ereditate o acquistate, in gran parte vecchie e di foggia e aspetto medioevale. Paradossalmente, grazie alle ristrutturazioni, alle nuove ali e ai sopralzi di cui erano oggetto, le case più vecchie erano non di rado più abitabili, spaziose e ariose dei nuovi palazzi. Avevano tra le dodici e le trenta stanze e offrivano spazio sufficiente alle famiglie allargate, che vivevano in una sorta di comune.

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1.4 LA DISPOSIZIONE DELLA CASA8 In tutta Italia, cioè tra Genova, Firenze e Napoli, pare si facesse una distinzione tra zona giorno e zona notte. A mano a mano che aumentavano gli spazi, le funzioni venivano poi ulteriormente articolate. Nelle vicinanze di Firenze (dove l’evoluzione abitativa era probabilmente analoga a quella delle altre zone d’Italia), i contadini che avevano abbastanza denaro per ampliare la casa spesso non sapevano che cosa fosse più importante: dare più spazio al lavoro o alla sfera privata. Alcuni documenti mostrano che Papino di Piero di Certaldo, a capo di una famiglia di sei persone, nel 1456 aggiunse alla sua salacamera al piano terra una seconda camera da letto e una cella, cioè una dispensa. Un’altra famiglia, composta da quattro persone, disponeva, oltre alla sala-camera, di una dispensa e un forno. Queste due famiglie davano dunque priorità alla zona lavoro. In città agli appartamenti veniva spesso aggiunta una terza stanza rispetto alle due già presenti, ricorrendo a una sottile parete divisoria di legno, argilla o mattoni, in modo da avere uno spazio che servisse da cucina o da camera da letto. Più erano le stanze, più ne aumentava la specializzazione. E più una famiglia era ricca, maggiori erano le pretese. I borghesi più benestanti facevano costruire cortili interni e arcate e facevano ampliare i piani superiori con loggiati dove potersi rilassare al fresco dell’ombra nelle giornate estive. Nel Cinquecento i nobili fiorentini e senesi mostrarono un interesse sempre più vivo per questi loggiati, che si imposero poi anche a Venezia, sotto forma di termanza, liago o coresella e altana, che consentivano la vista sulla laguna.9 I nuovi spazi e comfort erano distribuiti sui diversi piani della casa secondo un disegno assai preciso e ponderato. La dispensa e la stanza della servitù erano al piano terra sotto le volte del cortile, da cui un corridoio sempre a volta – l’androne – portava alla strada. Il giardino, a pianterreno, aveva un accesso agli appartamenti del padrone di casa. Se nel palazzo non c’erano negozi o attività, le stanze rivolte alla strada potevano fungere da camere da letto. Ma la vita quotidiana avveniva soprattutto ai piani alti. 8

Cfr. ibid., pp. 181-183. Termanza, liago, coresella e altana sono termini architettonici che descrivono diverse forme di loggia. 9

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Il primo piano era il piano nobile. Vi si trovavano stanze arredate con particolare gusto, come la camera da letto dei genitori, l’anticamera, a volte un’armeria, lo studio, ma soprattutto la sala grande, che a volte si estendeva per tutta la lunghezza della facciata (come nei palazzi Davanzati, Pazzi, Guadagni e Medici). La regola aveva anche delle eccezioni. Il Palazzo Davanzati aveva una sala grande su ogni piano, alla quale si aggiungevano diverse camere da letto. Spesso la ripartizione delle stanze si ripeteva ad ogni piano. In ogni piano si potevano così comodamente creare delle aree di privacy, indipendentemente dal fatto che l’edificio fosse affittato a più famiglie oppure abitato da una sola famiglia estesa.

1.5 L’ARREDAMENTO10 I mobili confortevoli erano un privilegio di chi abitava in città. In campagna le case erano arredate in modo molto semplice. Un elenco proveniente dal podere del contadino Zanobi di Capannale, nel Mugello, morto nel 1406, fa pensare che quest’uomo fosse relativamente benestante. Aveva degli appezzamenti di terreno e molti attrezzi agricoli, botti e animali da soma e da fattoria. Disponeva inoltre di notevoli scorte di granaglie e vino. Ma l’unico mobile degno di nota posto nell’unica stanza in cui abitava con la moglie e tre figli era un letto di 2,90 metri, provvisto di lenzuola, cuscini e coperte, e qualche cassapanca. Per il resto possedeva soltanto lo stretto necessario per i bisogni quotidiani: casse per le granaglie, due tavoli, alcuni paioli, padelle e tegami. Non c’erano sedie, né lanterne, bacinelle, stoviglie o posate. E anche tenendo conto del fatto che i notai non menzionavano negli elenchi gli oggetti che consideravano privi di valore, come ciotole o vasi, evidentemente Zanobi – nonostante la sua redditizia attività agricola – investiva i suoi risparmi nel lavoro della terra. Erano senz’altro molti i contadini che la pensavano come lui, convinti che i mobili fossero un lusso, ma c’erano casi isolati che si conformavano al gusto di chi viveva in città e spendevano denaro per acquistare cassapanche, bauli, panchine, tavoli, lanterne e altri comfort. I mobili degli artigiani che vivevano in città spesso erano persino presi in prestito. Altre note attestano che un certo Antonio, che lavo10

Cfr. G. Duby (a cura di), Geschichte des privaten Lebens, cit., pp. 183-186.

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rava a Firenze come conciatore – un artigiano medio – possedeva una casa di otto stanze, con quattro camere da letto, e nel suo inventario erano segnati 553 oggetti; la maggior parte erano capi di vestiario, ma non mancavano i mobili. Antonio aveva nove letti (cinque dei quali dotati di materasso), sette panchine per una lunghezza complessiva di quindici metri, altri quattro posti a sedere, due tavoli, un secrétaire, lampade, stoviglie e panni vari. Benché fosse un benessere relativamente modesto, queste famiglie possedevano già i mobili principali, come letti, sedie, tavoli, a disposizione di tutti i membri. I commercianti di tessuti e pellami e i mercanti (mercatores) avevano una posizione finanziaria più solida e disponevano di un mobilio molto vario. Possedevano diversi letti completi di lenzuola, cuscini e coperte, panche lunghe da due a tre metri e mezzo, sgabelli e pesanti tavoli composti da piani di due metri per tre sorretti da cavalletti. Erano mobili di materiale più prezioso rispetto a quello adoperato dai meno facoltosi. Le panche erano di quercia e i tavoli di noce. Nel corso degli anni andò aumentando il numero delle cassapanche e dei bauli. Così, la vedova di un commerciante di pellami aveva in camera da letto dieci diversi mobili di questo genere, dalle grandi cassapanche poste attorno al letto e sui cui coperchi ci si poteva sedere ai cassoni, utilizzati per il corredo di nozze, ai forzieri, fino ai cassoncelli e a pezzi più semplici. Le persone agiate avevano una collezione altrettanto notevole di bauli, cassapanche e cassettine per la biancheria e gli oggetti di valore. Nel Trecento non si parla quasi mai di armadi. Ma le altre cose di uso quotidiano non mancavano di certo: oggetti domestici come lanterne, recipienti, padelle, piatti di ferro, di legno, di rame, di stagno e di ceramica, utensili da cucina e accessori da tavola, insomma, tutto ciò che rendeva più comoda la vita. Nel XIV secolo si impose a mano a mano un arredamento fatto di mobili confortevoli. Particolarmente apprezzate erano le cassapanche, in cui si poteva mettere via e chiudere qualsiasi cosa, contribuendo così a dare un’impressione di ordine e pulizia. I più poveri, che non si potevano permettere le cassapanche, appendevano gli abiti a sbarre fissate a una parete della stanza. Solitamente le provviste erano conservate nella dispensa o volta, oppure in cucina. Ma c’erano anche padroni che volevano avere le loro scorte sempre sotto controllo. Si sa così ad esempio, grazie a ciò che egli stesso registrò, che un ufficiale giudiziario delle vicinanze di 19

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Firenze conservava in soggiorno le granaglie e la carne salmistrata e utilizzava la camera da letto anche da dispensa, sistemando tra le tre statue che usava per la preghiera farina, sacchi di crusca, una botticella di aceto e quattro brocche d’olio. 1.6 LA CAMERA DA LETTO11 Le camere da letto erano tutta un’altra cosa. Erano sempre in uso ed erano luogo di calore e vita. L’utilizzo principale avveniva ovviamente di notte. Succedeva che i servi e i bambini dormissero anche in sala, nelle anticamere o in dispensa, ma era più l’eccezione che la regola. L’importanza della camera da letto è sempre stata sottolineata, ad esempio dall’arte pittorica. Il letto era il pezzo di arredamento più importante sia in città che in campagna. Il talamo era il primo acquisto della giovane coppia di sposi (spesso finanziato dal padre della sposa). Come testimoniano la letteratura, la pittura e gli atti notarili, il letto era l’oggetto di prestigio per eccellenza. Il telaio era di solito di legno, ma a volte anche di terracotta; la larghezza variava tra i 1,70 e i 3,50 metri ed era in media di 2,90 metri. Spesso in questi letti – circondati da cassapanche – dormivano diverse persone. Gli elenchi distinguono diversi tipi di letto: ad esempio la lectica, la lectiera o il lettuccio, e diversi stili, come la lectica nuova alla lombarda. Un buon letto doveva avere le molle, i materassi, le federe, le lenzuola, una coperta, cuscini e a volte anche i piumacci, piccoli cuscini che non si sa con esattezza a che cosa servissero; forse per la nuca. Come accennato sopra, le lenzuola erano conservate in una cassapanca posta vicino al letto. 1.7 IL RUOLO DELL’UOMO12 In Italia era tradizionalmente il marito ad esercitare l’autorità domestica. Un modo di dire molto usato nel Duecento rivela quale fosse l’opinione generale: “A casa sua ogni [uomo] è re” (Quilibet, in domo sua, dicitur rex). 11 12

Cfr. ibid., pp. 186-187. Cfr. ibid., pp. 203-204.

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1. Firenze e la società medioevale fiorentina verso il Rinascimento

Al padre spettava l’autorità (paterna potestas) sulla moglie, sui figli e sui nipoti. Egli amministrava inoltre la dote della consorte e in alcuni casi anche quella della nuora. Era persino libero di vendere l’una o l’altra, cosa che gli doveva consentire di finanziare gli “insopportabili fardelli” del matrimonio, cioè le spese vive. Grazie alla paterna potestas il padre aveva anche accesso illimitato al contante e alle proprietà dei figli maschi. Gli statuti comunali, come quello della toscana Gello (1373), conferivano all’uomo il diritto di castigare i figli, i fratelli più giovani e le mogli. Ancora nel 1415 uno statuto fiorentino dava il potere al padre e al nonno di sbattere in galera i rampolli ribelli. Moralisti e chierici erano d’accordo sul fatto che potevano dare una vera educazione soltanto quei padri che erano intenzionati a ornare la vita dei loro figli dei costumi più virtuosi (cfr. Palmieri). Giovanni Dominici, autore di un trattato sull’educazione dei fanciulli, pretendeva addirittura che i bambini si rivolgessero ogni volta al padre dicendo messer sì, non parlassero in presenza dei genitori e in seguito a un ordine abbassassero umilmente il capo dinanzi a loro, dando segno in ogni situazione di rispetto verso il padre, al quale dovevano la loro stessa esistenza.

1.8 IL RUOLO DELLA DONNA13 Di regola, quando si sposavano – a sedici o diciotto anni –, le donne erano dai sette ai dieci anni più giovani dei loro mariti. Poiché gli uomini, mercanti o artigiani che fossero, avevano sovente dietro di sé lunghe giornate di lavoro, erano prevalentemente le mogli a occuparsi della casa e dell’educazione dei figli, spesso influenzandoli troppo e facendoli rammollire, come era opinione di alcuni moralisti. Mentre l’uomo con lei non usava mai forme di cortesia, la moglie gli si rivolgeva sempre con il voi. Se il marito possedeva un titolo come messer o maestro, la moglie lo chiamava con questo titolo e gli dava del voi. Spesso anche i figli davano del voi al padre. La camera da letto, come accennato sopra, era il luogo in cui ci si ritirava dopo cena e il marito spiegava spesso alla moglie come doveva

13

Cfr. ibid., p. 211.

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comportarsi, mentre lei lo ascoltava deferente e (secondo Sacchetti) gli lavava i piedi o lo spidocchiava (cosa però, secondo i novellisti, che era d’uso solo tra i contadini). Poi la donna parlava anche delle sue preoccupazioni quotidiane e diceva cose come “non ho nulla da mettermi”, “a te non importa in che stato giro”, “Tizia è vestita meglio di me”, “di Caia la gente ha più rispetto che di me”, “di me la gente ride”, “di che cosa hai parlato con la vicina?”, “e con la serva?” (Fra’ Paolino). A mano a mano si gettava acqua sul fuoco e si parlava della famiglia e dei figli (Alberti). Al momento di coricarsi, in molte famiglie era consueto pregare.

1.9 LE PRATICHE SESSUALI14 I preliminari non erano privi di importanza. Prima di spogliarsi ci si diffondeva in ragionamenti amorosi, e la nudità aveva senza dubbio il suo fascino, anche se di un gentiluomo fiorentino si racconta che riconoscesse la moglie solo quando ne vedeva il volto. Tuttavia per pudore la maggior parte delle donne, quando andava a letto, portava la camicia da notte. La maggior parte dei medici di allora riteneva che una gravidanza priva di complicazioni e un alto indice di natalità dipendessero da un’eccitazione particolarmente alta della donna (farsi ardentemente desiderare), appoggiando così la predilezione, lamentata da San Bernardino,15 per i toccamenti della bocca e con mano fatti per eccitarsi. La verginità delle donne al momento di sposarsi era guardata con molto scetticismo. Se un giovane uomo ben posizionato prendeva una donna, la servitù della casa e della cucina non aveva spesso il minimo dubbio che fosse penetrato nella nera grotta senza spargimento di sangue (Boccaccio). Ma per quanto riguarda le spose borghesi, le serve di cucina avevano probabilmente torto. Poiché erano poste sotto stretta sorveglianza finché non si sposavano – in età relativamente giovane, a sedici o diciotto anni –, le figlie della borghesia aprivano presumibilmente le porte della fortezza della loro virtù solo una volta coniugate. Per queste ragazze, tenute consapevolmente nell’ignoranza, la prima notte di noz14

Cfr. ibid., pp. 212-213. San Bernardino da Siena (1380-1444), francescano canonizzato nel 1450 la cui tomba si trova all’Aquila. 15

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1. Firenze e la società medioevale fiorentina verso il Rinascimento

ze era con tutta probabilità un trauma. In seguito erano libere di applicare ogni concepibile astuzia o malizia. Malgrado la tiepidezza dei moralisti rispetto alla questione, dagli scritti medioevali risulta che erano già note e praticate le posizioni sessuali oggi ampiamente in uso. È ancora Boccaccio a parlarne in una novella del Decamerone (IX,3), dove Calandrino crede di essere incinto e rimprovera la moglie perché durante il rapporto sessuale vuole stare sempre sopra e non sotto di lui. Altrettanto diffusi nelle città toscane, nel Quattrocento, erano, all’interno del matrimonio, i rapporti anali; i religiosi condannavano spesso l’ingenuità delle giovani spose, che si facevano fare tutto ciò che volevano i loro mariti, essendo spesso cresciute fino al matrimonio completamente isolate dal mondo maschile e tenute lontane dalla normale vita sessuale. Anche il sesso anale era probabilmente utilizzato come contraccezione, al posto del coito interrotto, come è evidente da uno sguardo alle statistiche demografiche, secondo cui esso veniva praticato dalle donne di più di trent’anni della piccola borghesia e del ceto artigiano già prima della menopausa, in modo da non avere altri figli. I novellisti lodavano volentieri la prestanza sessuale degli uomini. A onore dei grandi atleti del sesso – preti e monaci – si chiamava l’atto sessuale salmo o pater. Di un monaco si racconta che avesse recitato in una notte sei salmi e al mattino altri due; un classico caso di pio eccesso di zelo… Secondo le convinzioni popolari in fatto di medicina, come da tradizione orale, una donna che volesse avere dei figli non doveva assolutamente muoversi dopo l’atto. Un semplice starnuto avrebbe potuto essere di impedimento al concepimento. Se invece non voleva essere ingravidata, le si consigliava di starnutire con forza e fare grandi movimenti. Nelle capanne dei contadini più miseri, dove spesso esisteva una sola stanza o un solo letto per tutta la famiglia, erano probabilmente in uso tutt’altre pratiche sessuali.

1.10 SINTESI Con questa breve introduzione abbiamo voluto mostrare l’universo medioevale in cui viveva Giovanni Boccaccio nella toscana Certaldo, al momento in cui, quattordicenne, si spostò con il padre alla corte napoletana di Roberto d’Angiò, per conoscerne la vita e gli usi; 23

Giovanni Boccaccio e le donne

vita ed usi che, per quanto in una dimensione completamente diversa, non erano certo più morali di quelli odierni. Va in ogni caso messo in evidenza che con le sue opere Boccaccio è sempre riuscito a penetrare nelle profondità della psiche umana, rivelando con grande efficacia quanto possiamo essere vulnerabili, ma anche aggressivi ed egocentrici, noi esseri umani, quando si tratta di conseguire i nostri fini. Il lettore viene così a sapere, tra le altre cose, come nel Decamerone gli artigiani, le serve, le mogli, le monache, i mercanti e gli esponenti del clero cercassero di aggirare le norme morali, sociali ed ecclesiastiche, e lo facessero con piacere, astuzia, audacia, impudenza e sprezzo del pericolo: che fosse mentendo in confessionale o si trattasse di un religioso che fornica nel suo monastero o in uno femminile, o della moglie che nasconde l’amante in una botte all’inopinato arrivo a casa del marito, o dell’uomo innamorato che riesce a intrufolarsi nella camera da letto di una famiglia per sedurre la figlia del padrone di casa. Tutte situazioni a cui non siamo estranei nemmeno noi oggi, per cui possiamo affermare che con le sue opere – e in particolare, come è ovvio, il Decamerone – Boccaccio era un po’ la stampa scandalistica del medio evo, e nel farlo non aveva peli sulla lingua: da allora ad oggi è cambiato ben poco, sia sul piano morale che su quello sociale. Gli esseri umani continuano ad essere tali, e dunque sempre a rischio di sbagliare in coscienza o davanti alla legge. Ci occuperemo ora in sintesi della vita di Boccaccio e ne mostreremo gli aspetti più significativi. Seguirà l’analisi di tre suoi libri incentrati su figure femminili, che fanno vedere l’intensità con cui egli si è misurato con la psiche e il comportamento delle donne e il ruolo assunto in questo senso dall’uomo.

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2.

VITA

Giovanni Boccaccio (1313-1375) non proveniva né da una famiglia aristocratica, come Dante, né da una intellettuale, come Petrarca, il che spiega forse perché, figlio di un mercante, per tutta la vita si sia sentito minore di loro; un complesso di inferiorità accentuato, poi, dalla nascita illegittima. Per gli uni il padre aveva una relazione con una donna di Certaldo o Firenze; gli altri asseriscono invece che fosse con una francese con cui si vedeva durante i viaggi d’affari, che lo portavano spesso a Parigi; da qui nacque Giovanni, che il padre portò poi con sé a Certaldo. Entrambe le ipotesi sono fino ad oggi mera speculazione.

2.1 ORIGINI E INFANZIA Nonostante si sentisse inferiore per via della nascita illegittima, o forse proprio per questo, Boccaccio nutriva una grande ammirazione sia per Dante che per Petrarca, che divennero per lui modelli letterari, anche se egli compì il suo percorso in tutt’altra direzione. Se Dante si formò e plasmò in Toscana, l’educazione di Petrarca ebbe luogo nella Francia Meridionale. Di Boccaccio sappiamo che si recò giovanissimo (a quattordici anni) con il padre a Napoli, alla corte di re Roberto d’Angiò,16 dove ebbe la sua formazione letteraria. 16 Roberto d’Angiò visse dal 1278 al 1343; fu detto anche Roberto il Saggio, poiché sostenne fortemente alla sua corte le arti e le scienze. Fu protettore di poeti come Petrarca e Boccaccio e artisti come Tino di Camaino, Simone Martini e Giotto di Bondone. Affidò in gran parte il sistema finanziario e le esportazioni di grano, la più importante merce di scambio di Napoli, alle società commerciali e bancarie fiorentine dei Bardi, degli Acciaiuoli e dei Peruzzi, che privilegiava. Oltre ai figli legittimi Carlo (1298-1328), duca di Calabria, e Luigi (1301-1310), Roberto ebbe probabilmente tre figli naturali, tra cui Maria d’Aquino († 1382), cui Boccaccio eresse un monumento immortale sotto il nome di Fiammetta.

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Giovanni Boccaccio e le donne

Il padre di Boccaccio era il mercante Boccaccino di Chelino di Certaldo, nella Val d’Elsa. La madre, come ricordato sopra, restò ignota. Dopo la nascita il padre lo accolse nella sua casa come figlio legittimo; della separazione dalla madre non si sa nulla. Nel 1319 il padre sposò la nobile Margherita de’ Mardoli; nel 1320 nacque il fratellastro Francesco. Nella casa paterna Giovanni ebbe le prime lezioni da Giovanni di Domenico Mazzuoli da Strada, padre dell’umanista e poeta Zanobi da Strada (1312-1361), che a Boccaccio insegnò, tra le altre cose, l’aritmetica, con l’intenzione di formarlo al mestiere di mercante.

2.2 PRIME ESPERIENZE SIGNIFICATIVE Il padre di Boccaccio si recò nel 1327 a Napoli in qualità di agente di banca e di commercio al servizio dei Bardi, dinastia fiorentina di banchieri. Assieme ai Peruzzi, ai Frescobaldi e agli Acciaiuoli, i Bardi erano in quest’epoca i principali finanziatori degli Angioini a Napoli, e avevano praticamente sotto controllo la vita economica del regno. Grazie all’importante e apprezzata posizione del padre, che da consigliere e fiduciario aveva accesso anche al re, il giovane Giovanni poté condurre a Napoli una vita libera e spensierata. Dopo altri anni di apprendistato per diventare bancario e commerciante, il padre – che aveva grandi progetti su di lui – gli fece studiare giurisprudenza. Giovanni ebbe come maestro, tra gli altri, il noto giurista e lirico Cino da Pistoia,17 che insegnava a Napoli nel 1330-1331 e tuttavia non riuscì a conquistarlo alle scienze giuridiche. A Boccaccio interessava la letteratura, e iniziò dunque a studiare i testi di Dante e degli stilnovisti18 e a frequentare giuristi napoletani con un debole per la letteratura e la poesia, a loro volta in contatto con i poeti toscani e Petrarca. Poiché il padre era spesso a Parigi, Giovanni

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Cino da Pistoia visse dal 1270 al 1336. Caratteristico di questo stile, che fiorì soprattutto con Dante e la sua Vita nuova, dove parla del suo amore nei confronti di Beatrice, era il tema amoroso. Anche le liriche di Petrarca, al cui centro c’è l’amore del poeta per Laura, appartengono al dolce stil novo. Petrarca sviluppò inoltre un nuovo stile poetico, il cosiddetto petrarchismo, che divenne molto influente nell’ambito della lirica europea. 18

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2. Vita

poté vivere a Napoli in tutta libertà. Insieme a Niccolò Acciaiuoli, figlio di banchieri della sua stessa età, che farà in seguito una certa carriera politica, si immerse senza esitazioni nella vita della città e della corte napoletana.

2.3 PRIMI APPROCCI LETTERARI Alla sua corte Roberto intendeva dare impulso alle scienze, alle arti e al pensiero umanistico. Vi erano intellettualmente assai influenti i francescani, che incentivarono a loro volta la diffusione della filosofia mondanizzante di Guglielmo di Ockham.19 Il più importante centro intellettuale della città di Napoli era la ricchissima biblioteca reale, nella quale erano soprattutto presenti numerosi codici di lirica, epica e prosa francese. Qui il giovane Boccaccio fece una prima viva conoscenza della letteratura d’Oltralpe, profondamente impressionato dalla sua perfezione formale ed eleganza di linguaggio. Studiò però al contempo gli scrittori antichi e la letteratura del suo tempo, quella di Dante e degli altri stilnovisti, e questo spiega perché compose i primi scritti letterari (in particolare sonetti) sia in latino che in italiano. Si dice che a corte Boccaccio si fosse innamorato di Maria dei Conti d’Aquino, figlia illegittima di re Roberto, e che avesse sempre messo al centro delle sue opere letterarie il grande amore per questa donna (che chiamava Fiammetta), pur senza parlare mai in modo esplicito di questa liaison.

2.4 IL RITORNO A FIRENZE Probabilmente Boccaccio tornò a Firenze da Napoli nell’inverno 1340-1341, per ragioni personali. Il padre, ora vedovo, si era ammalato ed era andato in rovina per via del fallimento delle banche; aveva dunque bisogno, per sopravvivere, dell’aiuto del figlio. A tutto ciò si aggiungevano disordini politici in Toscana, causati dalla perdita di fiducia dei cittadini nei magnati regnanti e nella loro avventurosa e dispendiosa politica espansionistica. 19

Guglielmo di Ockham (1288-1347) fu un noto filosofo, teologo e scrittore ecclesiastico esponente della scolastica in epoca medioevale.

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Giovanni Boccaccio e le donne

Per il giovane Boccaccio andare da Napoli a Firenze (ora ha 27 anni) è molto doloroso. Nella Elegia di Madonna Fiametta, secondo capitolo, descrive Napoli come «lieta, pacifica, abondevole, magnifica, e sotto ad un solo re»; Firenze è invece «tutta in arme, e in guerra, così cittadina come forestiera, che fremisce di superba, avara e invidiosa gente fornita, e piena di innumerabili sollecitudini».20 Si può dunque ben immaginare quanto fosse difficile per Boccaccio, dopo il formidabile soggiorno a Napoli, vivere in una città politicamente e socialmente così instabile come Firenze, nella quale – se si escludono un prolungato soggiorno a Ravenna e a Forlì e qualche altro viaggio – dovette vivere per tutta la vita, finché non si ritirò fino alla morte a Certaldo. A ben poco gli servì frequentare singoli letterati come Giovanni Villani, Francesco da Barberino e Antonio Pucci per mitigare il disagio che sentiva nella città guelfa, la cui vita intellettuale era controllata dalla severa ortodossia dei domenicani. Benché non abbia mai cessato di dedicarsi a un ampio pubblico, alcune delle opere che nascono in questa fase, come la Commedia delle ninfe fiorentine o L’amorosa visione, sono evidentemente scritte per un’élite intellettuale. Va però soprattutto segnalato come l’intera produzione fiorentina di Boccaccio, compresa la sua grande raccolta di novelle, il Decamerone, debba molto alle riflessioni del primo umanesimo, cioè al circolo di poeti ed eruditi formatosi attorno a Petrarca, come Zanobi da Strada e Francesco Nelli.

2.5 LA CRISI RELIGIOSA E GLI ULTIMI ANNI A FIRENZE E CERTALDO Già poco dopo la comparsa del Decamerone Boccaccio ebbe probabilmente serie remore morali, addensatesi sempre più fino a farsi crisi religiosa. Il ruolo costruttivo ed educativo delle sue novelle gli appariva forse sempre meno convincente, eventualmente anche per via della varietà e severità delle critiche mossegli. Egli aspirava al contempo – presumibilmente non solo a causa della missione politica che condusse presso papa Innocenzo VI, che risiedeva ad Avignone – ad

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Cfr. G. Boccaccio, Elegia di Madonna Fiammetta, a cura di M. P. Mussini Sacchi, Mursia, Milano 1987, pp. 75-76.

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2. Vita

essere ammesso al sacerdozio, cosa che gli fu concessa nel 1360. Resta ignoto il modo in cui lo praticò. In questo contesto va menzionato anche il misterioso ammonimento consegnatogli nella primavera del 1362 da un certosino, Pietro Patroni, che sul letto di morte aveva predetto a Boccaccio una fine spaventosa nel caso in cui non avesse fatto penitenza e ritrattato i propri scritti; una minaccia che di tanto in tanto portava Boccaccio all’idea di dare alle fiamme il Decamerone. Fu, ancora, soprattutto Petrarca, che nel frattempo gli divenne grande amico, a rasserenarlo, spiegandogli che a suo parere le novelle non violavano né la dignità dell’autore né il pudore del lettore. È difficile comprendere oggi le proporzioni di quella crisi. Ma è senz’altro vero che esprimeva percorsi e contrasti non solo di natura personale, ma anche caratteristici di un’epoca. Il conflitto interiore di Boccaccio tra gli interessi umanistici e mondani da un lato e, dall’altro, l’appello sempre più pressante alla Chiesa, e dunque l’interesse per le tematiche religiose (a cui va ricondotta anche la sempre maggiore frequentazione di Dante), va visto tenendo conto della tensione tra cristianesimo tardo medioevale e primo umanesimo. Per quanto riguarda i rapporti con Dante, Boccaccio è considerato uno dei suoi migliori conoscitori trecenteschi. Aveva familiarità con la maggior parte delle opere del poeta e ne aveva ricopiato con le sue stesse mani molte, tra cui la Vita nuova, alcune lettere, le ecloghe e la Divina Commedia, quest’ultima addirittura più volte. Così facendo, e con propri scritti e commenti, egli contribuì in modo assai determinante alla diffusione e alla comprensione di Dante nella sua epoca. Aveva la possibilità di avvalersi di informazioni di contemporanei che avevano conosciuto Dante di persona, come Giovanni Villani, Dino da Pistoia, Sennuccio Del Bene, Andrea di Leone Poggi, Piero di Giardino e altri. La madre della sua matrigna, Lippa de’ Mardoli, era forse imparentata con Beatrice. Basandosi sulla conoscenza concreta di diversi dettagli, Boccaccio scrisse la prima biografia completa di Dante, considerata una delle migliori in assoluto assieme a quella di Leonardo Bruni. L’opera, la cui prima versione è del 1352 (e a cui seguirono due versioni sintetiche nel 1360), è nota da allora con il titolo Trattatello in laude di Dante. In questo scritto, denso di ammirazione per il grande poeta, Boccaccio sviluppa tra l’altro la teoria dell’origine comune di poesia e teologia, che hanno un «medesimo suggetto e quasi una cosa si possono dire», sottolineando che «la teo29

Giovanni Boccaccio e le donne

logia niuna altra cosa è che una poesia di Dio, e dunque bene appare, non solamente la poesia essere teologia, ma ancora la teologia essere poesia».21 Per Boccaccio il poeta è un visionario, un poeta vates. Nasceva così l’idea del poeta theologus, figura che diventerà determinante nei secoli seguenti al di là della critica dantesca e verrà ripresa soprattutto in ambito neoplatonico da Marsilio Ficino (1433-1499) e Cristoforo Landino (1424-1498). La più significativa critica dantesca composta da Boccaccio furono le Esposizioni sopra la Comedia di Dante, che restarono però incompiute e furono il risultato della sessantina di lezioni pubbliche che tenne su incarico della Repubblica di Firenze nella chiesa di Santo Stefano della Badia dall’ottobre 1373 fin circa al gennaio 1374, davanti a un pubblico in gran parte popolare. Le Esposizioni mostrano inoltre con chiarezza come Boccaccio non sia più l’uomo medioevale capace di cogliere pienamente il rigore teologico e la tensione escatologica22 che caratterizzano la Commedia. Nel commento egli appare invece non di rado perplesso di fronte alle complesse tematiche e strutture dell’opera, facendo sostanzialmente scivolare le proprie interpretazioni – che tendono a distinguere il senso letterale da quello allegorico – in un moralismo di comodo che era familiare anche a chi lo ascoltava. I suoi ultimi due decenni sono caratterizzati non solo dalla densa attività filologica e poetica e dai rapporti sempre più stretti con Petrarca, ma anche dal coinvolgimento negli eventi politici di Firenze e dintorni. Già all’inizio degli anni ’50 aveva svolto alcune mansioni su invito del comune: nel 1351 fu plenipotenziario presso Luigi di Baviera e nel 1354 presso papa Innocenzo VI ad Avignone, allo scopo, in particolare, di opporsi alle ambizioni dell’imperatore Carlo IV.23 Sempre nello stesso anno Boccaccio organizzò a Certaldo la vittoriosa resistenza contro la Grande Compagnia di Fra’ Moriale. Nel dicembre 1360 entrò nelle spire di un fallito colpo di Stato ghibellino, feroce-

21 Cfr. M. Hardt, Geschichte der italienischen Literatur. Von den Anfängen bis zur Gegenwart, Artemis & Winkler Verlag, Düsseldorf-Zürich 1996, p. 177. 22 L’escatologia è la dottrina che tratta degli eventi della fine del mondo così come descritti nella Bibbia. 23 Carlo IV (1316-1378) fu re dei romani e di Germania, re di Boemia e imperatore del Sacro Romano Impero. Apparteneva alla stirpe dei Lussemburgo ed è considerato uno degli imperatori più importanti del Basso Medioevo.

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2. Vita

mente represso dagli Albizi e dai Ricci. Furono diversi gli amici, come Niccolò de Bartolo del Buono, a trovarvi la morte. Boccaccio stesso fu allontanato dagli uffici pubblici per quattro anni, e vi si poté reinsediare solo dal 1365. Boccaccio non smise di cercare di tornare nella sua amata Napoli e conquistarvi una posizione sicura. Vi si recò così nel 1355, nella speranza di ricoprire il posto di segretario reale che occupava in precedenza Zanobi da Strada, ma le circostanze politiche lo costrinsero a tornare a Firenze. Su invito dell’amico Niccolò Acciaiuoli, che nel frattempo era diventato reale siniscalco, si trasferì ancora una volta a Napoli nel 1362, ma l’accoglienza fu fredda e l’alloggio modesto. Offeso e indignato, nel marzo 1363 lasciò dunque la città e sfogò la sua rabbia nei confronti di Acciaiuoli in una polemica lettera indirizzata a Francesco Nelli. Si tratta della Epistula XII, redatta in latino ma di cui è conservata soltanto una traduzione in volgare. Boccaccio cercò ancora il conforto di Petrarca, che soggiornava a Venezia, e si ritirò infine nella più tranquilla Certaldo, dove visse, in grande modestia, dal 1361 in poi. Poiché il suo stato di salute non faceva che peggiorare, all’inizio del 1374 dovette sospendere le lezioni pubbliche fiorentine sulla Divina Commedia; morì a Certaldo sessantaduenne, in isolamento e solitudine, il 21 dicembre 1375.24

24

Cfr. M. Hardt, Geschichte der italienischen Literatur, cit., pp. 177-178.

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3.

IMMAGINI FEMMINILI

Ci concentreremo ora su tre opere, alla ricerca delle immagini femminili che Boccaccio vi presenta. Si tratta di immagini molto variegate: da un lato rivela grande ammirazione e venerazione per le donne, ma dall’altro – ad esempio nel tardo Corbaccio – non cela una misoginia di drastica radicalità.

3.1 L’IMMAGINE

DELLA DONNA NELLA

ELEGIA

DI

MADONNA FIAMMETTA,

IL

PRIMO ROMANZO PSICOLOGICO FEMMINILE

A leggere il romanzo si potrebbe pensare che Boccaccio e Sigmund Freud si siano consigliati a vicenda, tanto riescono entrambi a focalizzare e interpretare la psiche umana, e in particolare quella femminile. Possiamo dunque considerare la Elegia di Madonna Fiammetta, tra le altre cose, come il primo romanzo di psicologia del profondo sorto all’interno della nostra cultura, dal momento che tratteggia un’immagine molto ampia della psiche femminile, e il lettore ha in più occasioni l’impressione di leggere un testo dei nostri giorni. Boccaccio scrisse questa famosa elegia dal 1343 al 1344, che è con tutta probabilità uno sguardo retrospettivo sul grande amore nutrito per la figlia illegittima del re angioino, che egli conobbe durante il soggiorno alla corte napoletana. Qui, a differenza delle opere precedenti, egli non è più il narratore, ruolo che cede alla protagonista, Fiammetta appunto. Con grande spontaneità formale e linguistica essa parla dei suoi sentimenti e delle sue pene d’amore, essendo stata abbandonata da Panfilo (verosimilmente lo stesso Boccaccio). Attraverso letture, racconti e dialoghi fittizi, Fiammetta cerca di dimenticare le proprie sofferenze, nella speranza che l’amato torni presto da lei. Per vie traverse viene tuttavia 33

Giovanni Boccaccio e le donne

a sapere tre cose, che la portano alla totale disperazione e quasi a desiderare la morte. La prima notizia è che Panfilo si è sposato; la seconda che egli non tornerà, dal momento che ha una relazione con una giovane donna; la terza, infine, che Panfilo è tornato a Napoli, ma la cosa si rivelerà falsa, poiché si tratta solo di un omonimo. Analogamente alla stampa scandalistica, Boccaccio inserisce in quest’opera elementi molto avvincenti e di attualità, invertendo al contempo il rapporto che aveva con Fiammetta: non fu lui, infatti, a lasciarla, ma il contrario. La modernità di questa elegia traspare poi dal modo di comportarsi del marito di Fiammetta, capace di rendersi conto delle sue sofferenze, benché incapace o restio ad andare oltre le apparenze. Con grande amabilità e condiscendenza egli mostra grande comprensione per le sue pene e le dà il permesso di partecipare a un pellegrinaggio, un pellegrinaggio, per paradosso, che le dà la speranza di recarsi nella città dell’amato, Firenze, e rivederlo. Fiammetta pensa e agisce non diversamente da come pensa e agisce una donna dei nostri tempi, non essendo condizionata da alcuna norma religiosa o morale. Per vanificare l’anticonformismo di Fiammetta sul piano personale e sociale, Boccaccio inserisce in questo libro anche degli elementi di carattere mitologico25 e mitiga così – nell’ottica borghese dell’epoca – gli ardimenti erotici di una donna emancipata, o ne elimina l’aspetto provocatorio. Analizzeremo ora questa elegia, in modo da presentare l’immagine femminile altamente differenziata a livello di psicologia del profondo che Boccaccio delinea già nel Trecento, con tutta l’intensità con cui si è immedesimato nella psiche della donna e nelle sue strutture. La forma e il contenuto del romanzo, come abbiamo già detto, sono una novità assoluta nel panorama letterario dell’epoca, in particolare per il fatto che Boccaccio non descrive Fiammetta come una donna desiderata da un uomo, ma parla esattamente del contrario: è lei che desidera un uomo, narrando e sviscerando senza riserve quello che le è successo. 25 Per l’Elegia di Madonna Fiammetta Boccaccio si ispirò probabilmente alle Eroidi di Ovidio, nelle quali diciotto note figure femminili dei miti antichi, come Penelope, Elena, Fedra e altre, lamentano in lettere fittizie l’infedeltà dei loro mariti o amanti e intendono convincerli a tornare.

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3. Immagini femminili

Il lettore si chiede così che cosa abbia spinto Boccaccio a servirsi di una forma narrativa inconsueta come questa e, ancora più provocatoriamente, di una trama simile. Boccaccio ha forse scritto questa elegia nel momento in cui, ritornato a Firenze per prendersi cura del padre impoveritosi e ammalatosi, volle metabolizzare le sue pene e la sua profonda vulnerabilità componendo un romanzo; si vedeva in tutta la sua sofferenza e tutto il suo fallimento e proiettava questo aspetto su Fiammetta, in modo da dare sfogo ai suoi sentimenti feriti senza mostrarsi in prima persona. Il libro consta di un prologo e di otto capitoli, che ora prenderemo in esame. Prologo26 Fiammetta spiega nel prologo di volersi rivolgere espressamente alle donne e non agli uomini, dal momento che da questi non si aspetta che uno schernevole riso. Ciò che le donne possono leggere nel libro, prosegue, non sono favole greche ornate da molte bugie; non sono lotte troiane macchiate di sangue, ma battaglie amorose, stimolate da molti disiri, che l’hanno resa donna tra le più infelici. Nel linguaggio odierno diremmo che il libro tratta delle pene e dello stress d’amore. È un tema ricorrente, che fin dall’antichità non ha perso di attualità e che Boccaccio è uno dei primi autori a descrivere nell’ottica di una donna che dà libero sfogo ai propri sentimenti e rischia di soccombere per l’amore e la passione che la animano. Come inizia questo amore? Inizia in una chiesa, dove Fiammetta, nel corso di una funzione, incontra l’uomo della sua vita e se ne innamora immediatamente; il famoso amore a prima vista, dunque, che la inguaia definitivamente. Tutto ciò che contava fino a quel momento è scomparso: il marito, lo status sociale, gli ambienti che frequenta. In testa ha un unico pensiero: “Chi è quest’uomo? Come si chiama e quando mi apparterrà?”.

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G. Boccaccio, Elegia di Madonna Fiammetta, cit., pp. 27-29.

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Giovanni Boccaccio e le donne

3.1.1 Primo capitolo: il morso della serpe e le fatali conseguenze Qui Fiammetta parla in primo luogo del suo matrimonio, riuscito finché non incontra il nuovo amante e si scopre incapace di controllarsi, benché convinta di essere felicemente sposata: Io ero unico bene e felicità singulare del giovine sposo, e così egli da me era igualmente amato, come egli mi amava.27

In seguito, ricorrendo ad allegorie bibliche, descrive il sogno che fa, grazie al quale comprende che nella sua vita è avvenuto un mutamento fondamentale: è seduta su un prato ornato di magnifici fiori, che raccoglie e mette tra i capelli, quando all’improvviso spunta dall’erba una serpe, che le guizza davanti e la ferisce sotto il seno sinistro. Per domarla e scaldarla Fiammetta stringe la serpe al seno, ma questa è inflessibile: continua a bere il suo sangue e torna a nascondersi tra le piante.28 Fiammetta capisce che le è successo qualcosa: il suo corpo non è più quello di prima. È gonfio e infiammato. Si è innamorata ed è pronta a dire di sì all’adulterio. Le donne, infatti – dice – hanno gli stessi diritti degli uomini: Essi medesimi mariti amano le più volte avendo moglie: riguarda Giasone, Teseo, il forte Ettore e Ulisse. Dunque non si fa loro ingiuria, se per quelle leggi che essi trattano altrui, sono trattati essi; a loro niuna prerogativa più che alle donne è conceduta.29

3.1.2 Secondo capitolo: l’inattesa separazione da Panfilo Fiammetta e Panfilo sono avvinti in un’infinita ebbrezza erotica. Non si capisce bene perché i due riescano ad amarsi del tutto indisturbati; forse le serve e la balia di Fiammetta sanno di questa relazione e organizzano concretamente i loro incontri in modo che 27

Ibid., p. 32. Boccaccio fa uso qui in forma modificata del racconto biblico del peccato originale, secondo cui Eva è indotta dal serpente a mangiare del frutto proibito e a offrirne ad Adamo, per cui Dio punisce entrambi cacciandoli dal paradiso. Fiammetta è dunque paragonabile all’Eva biblica, poiché l’una e l’altra desiderano qualcosa di proibito. 29 G. Boccaccio, Elegia di Madonna Fiammetta, cit., pp. 57-58. 28

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3. Immagini femminili

nessuno li sorprenda. È poi piuttosto stupefacente il modo in cui Boccaccio descrive il comportamento del marito, che da un lato è ridotto a personaggio secondario – se ne parla solo quando Fiammetta ha bisogno di lui – e dall’altro non reagisce da marito sospettoso, geloso, scettico, ma come una sorta di amico, da uno che è sempre a sua disposizione e le dà incondizionatamente aiuto e sostegno. Già poco dopo il loro incontro sono costretti a separarsi per la prima volta: Panfilo deve lasciare Fiammetta per assistere e curare il padre malato e povero. Al momento di comunicarglielo, Fiammetta ha una reazione aggressiva e frustrata: La pietà del vecchio padre preposta a quella che di me dei avere mi sarà di morte cagione, e tu non amatore, ma nemico, se così fai. […] Lascia riposare il tuo padre; e così come, tu non con lui, lungamente è vivuto, se gli piace, per innanzi si viva, e se non, muoiasi.30

Questo passo la inscena dunque come grande egoista, incapace della minima comprensione per la decisione di Panfilo. È interessante, poi, che gli sconsigli di recarsi a Firenze, dal momento che è una città, al contrario di Napoli – come le ha detto e ripetuto – che lui non ama affatto: Certo, carissimo signor mio, assai possenti cagioni sono le già dette da doverle seguire, e rimanerti, considerando ancora dove tu vai; ché, posto che colà vadi ove nascesti, luogo naturalmente oltre ad ogni altro amato da ciascuno, nondimeno, per quello che io abbia già da te udito, egli t’è per accidente noioso, però che, sì come tu medesimo già dicesti, la tua città è piena di voci pompose e di pusillanimi fatti, serva non a mille leggi, ma a tanti pareri quanti v’ha uomini, e tutta in arme, e in guerra, così cittadina come forestiera, fremisce, di superbia, avara e invidiosa gente fornita, e piena di innumerabili sollecitudini: cose tutte male all’animo tuo conformi. E quella che di lasciare t’apparecchi [sc. Napoli] so che conosci lieta, pacifica, abondevole, magnifica, e sotto ad un solo re: le quali cose, se io alcuna conoscenza ho di te, assai ti sono gradevoli; e oltre a tutte le cose contate, ci sono io, la quale tu in altra parte non troverai.31

30 31

Ibid., pp. 73, 74. Ibid., pp. 75-76.

37

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Queste considerazioni di Fiammetta rispecchiano con molta chiarezza il pensiero di Boccaccio, che a Napoli si trovava molto bene e ne sottolineava la vita piacevole, al contrario di Firenze, città di lotte di tutti contro tutti, dove ciascuno è coinvolto in intrighi politici ed economici. 3.1.3 Terzo capitolo: lo strazio della gelosia Benché Panfilo le abbia scritto di essere giunto a Firenze sano e salvo, speranzoso di tornare presto da lei, Fiammetta è tormentata da profonda gelosia, poiché teme che si innamori di un’altra donna: Panfilo ora nella sua città, piena di templi eccellentissimi e per molte e grandissime feste pomposi, visita quelli, li quali senza niuno dubbio trova di donne pieni, le quali sì come io ho molte fiate udito, ancora che bellissime sieno, di leggiadria e di vaghezza tutte l’altre trapassano, né alcune ne sono con tanti lacciuoli da pigliare animi, quanti loro. Deh, chi può essere sì forte guardiano di se medesimo, dove tante cose concorrono, che, posto che egli pure non voglia, egli non sia almeno per forza preso alcuna volta? E io medesima fui per forza presa. E oltre a ciò che cose nuove sogliono più che l’altre piacere. Adunque è leggier cosa che egli a loro nuovo ed esse a lui, e possa ad alcuna piacere, e a lui similmente alcuna piacerne.32

Con queste parole Fiammetta pensa forse al primo incontro con Panfilo in chiesa, timorosa che a Firenze possa accadere qualcosa di simile e che egli si innamori di un’altra. Alla fine del capitolo Fiammetta torna a dare sfogo a tutta la sua ira nei confronti degli uomini: Le lagrime e’ giuramenti e le promessioni de’ giovini non sono ora di nuovo arra di inganno futuro alle donne. Essi generalmente sanno prima fare queste cose che amare: la loro volontà vagabunda li tira a questo; niuno n’è che non volesse piuttosto ogni mese mutare dieci donne che essere dieci dì d’una. Essi continuamente credono e costumi nuovi e nuove forme trovare, e gloriansi d’avere avuto l’amore di molte.33

La gelosia di Fiammetta arriva a farle dire, alla fine:

32 33

Ibid., pp. 89-90. Ibid., pp. 105-106.

38

3. Immagini femminili

Rimanti d’amarlo, e dimostra che con quell’arte che egli ha te ingannata tu abbi ingannato lui.34

3.1.4 Quarto capitolo: da innamorata a schiava Per consolarsi Fiammetta si reca a passeggiare in un monastero femminile per distrarsi un po’ e parlare con le monache. Quando arriva incontra un mercante che vuole vendere qualcosa alle monache. Una giovane sorella, molto graziosa, gli chiede se il suo sia l’accento di Firenze, se venga da lì. Al suo sì gli domanda se conosca il suo concittadino Panfilo. La risposta è di nuovo affermativa. La monaca gli chiede poi se sappia come sta, e il mercante risponde: […] Egli è assai che il padre, non essendogli rimaso altro figliuolo, il richiamò a casa sua. […] Il dì medesimo che io mi partii, vidi con grandissima festa entrare di nuovo in casa sua una bellissima giovine, la quale, secondo che io intesi, era a lui novellamente sposata.35

Non è solo Fiammetta a reagire assai sconcertata alla notizia. Anche la monaca abbassa gli occhi sgomenta e arrossisce, il che turba anche Fiammetta e le fa venire in mente certi pensieri. Fiammetta è combattuta tra la voglia di vendicarsi e l’irresistibile brama dell’amante. Passa notti insonni e anche il suo aspetto mostra la sofferenza di cui è vittima. Il cuore oscilla tra cieco odio e profondo desiderio di Panfilo. Anche il marito nota che in lei c’è qualcosa che non va; le propone di andare a fare una cura a Baia.36 È a lungo esitante ma si dice infine d’accordo; la sua sofferenza tuttavia non fa che aumentare, essendovisi recata più volte con Panfilo. I ricordi tornano vividi, e con essi il desiderio di lui. Quando il marito si rende conto che nemmeno la cura può aiutarla, i due lasciano Baia e tornano a Napoli, dove il disagio di Fiammetta non è passato inosservato. Sono in particolare i giovanotti a notare in lei un cambiamento d’aspetto:

34

Ibid., p. 106. Ibid., pp. 108, 109. 36 Baia, nel Golfo di Napoli, era una delle residenze estive di Roberto d’Angiò. 35

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Deh, guarda quella giovine, alla cui bellezza nulla ne fu nella nostra città simigliante, e ora vedi quale ella è divenuta! Non miri tu come ella ne’ sembianti pare sbigottita, quale che la cagione si sia? […] Altri intra sé dimandavano: ‘Deh, è questa donna stata inferma?’, e poi a se medesimi rispondevano: ‘Egli mostra di sì, sì è magra tornata e iscolorita; di che egli è gran peccato, pensando alla sua smarrita bellezza’.37

Ma non sono gli uomini gli unici ad accorgersene. Anche le donne percepiscono la metamorfosi d’aspetto di Fiammetta, e c’è una, in particolare, che la ferisce: O Fiammetta, dov’è fuggita la vaga bellezza del viso tuo? Dove l’acceso colore? Quale è la cagione della tua palidezza? Gli occhi tuoi, simili a due mattutine stelle, ora intorniati di purpureo giro, perché appena nella tua fronte si scernono? E gli aurei crini con maestrevole mano ornati per addietro, ora perché chiusi appena si veggono senza alcuno ordine? Dilloci, tu ne fai senza fine maravigliare.38

Dopo aver brevemente risposto che la bellezza, come è noto, è qualcosa di effimero, Fiammetta scoppia in lacrime e, nella sua grande disperazione, prega Dio di ridarle Panfilo: A te, a cui niente s’occulta, è manifesto a me per niuna maniera potere uscire della mente il grazioso amante né li preteriti accidenti, del quale e de’ quali la memoria a sì fatto partito mi rieca con gravi dolori, che già per fuggirli mille modi di morte ho dimandati; li quali tutti un poco di speranza, che di te m’è rimasa, m’ha levati di mano.39

Fiammetta è talmente disperata che ha sentito già più volte il desiderio di smettere di vivere e liberarsi dalle sofferenze, e si affida ora all’ultima speranza, quella divina. 3.1.5 Quinto capitolo: Panfilo si è innamorato a Firenze Di un servitore che era stato a Firenze ed è tornato a casa sua, Fiammetta viene a sapere che ha incontrato anche Panfilo. Quando gli chiede come sta e se tornerà presto a Firenze, il servo le spiega:

37

G. Boccaccio, Elogio di Madonna Fiammetta, cit., pp. 134, 135. Ibid., pp. 159-160. 39 Ibid., p. 163. 38

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3. Immagini femminili

Madonna, e a che fare tornerebbe qua Panfilo? Niuna più bella donna è nella terra sua, la quale oltre ad ogni altra è di bellissime copiosa, che quella la quale lui ama sopra tutte le cose, per quello che io da alcuno intendessi; ed egli, secondo che io credo, ama lei; altramente io il reputerei folle, dove per addietro savissimo l’ho tenuto.40

La notizia, chiaramente, la stravolge. Si è avverato ciò che temeva. A Firenze Panfilo si è innamorato di una donna bellissima. Quando chiede al servo come viva con la sua giovane consorte, la risposta è: Niuna sposa è a lui; e quella, la quale non ha lungo tempo ne fu detto che venne nella sua casa, non a lui, ma al padre è vero che venne.41

La notizia accende in lei un intenso desiderio di vendetta. Augura a Panfilo che la nuova amante lo abbandoni, allo stesso modo in cui era accaduto a lei. La notte i pianti e i singhiozzi di Fiammetta svegliano il marito coricato di fianco a lei, che le dice: O anima mia dolce, qual cagione a questo pianto così doloroso nella quieta notte ti muove? Qual cosa, già è più tempo, t’ha sempre malinconica e dolente tenuta? Niuna cosa, che a te dispiaccia, dée essere a me celata. È egli alcuna cosa, la quale il tuo cuore disideri, che per me si possa, che dimandandola tu, fornita non sia? Non se’ tu solo mio conforto e bene? Non sai tu che io sopra tutte le cose del mondo t’amo? E di ciò non una pruova, ma molte ti possono far vivere certa. Dunque perché piagni? Perché in dolore t’affliggi? Non ti paio io giovine degno alla tua nobiltà? O reputimi colpevole in alcuna cosa, la quale io possa ammendare? Dillo, favella, scuopri il tuo disio: niuna cosa sarà che non s’adempia, solo che si possa. Tu, tornata nell’aspetto, nell’abito e nelle operazioni angosciosa, mi dài cagione di dolorosa vita, e se mai dolorosa ti vidi, oggi mi se’ più che mai apparuta. Io pensai già che corporale infermità fosse della tua palidezza cagione; ma io ora manifestamente conosco che angoscia d’animo t’ha condotta a quello in che io ti veggio; per che io ti priego che quello che di ciò t’è cagione mi scuopra.42

40

Ibid., p. 166. Ibid., p. 167. 42 Ibid., pp. 172-173. 41

41

Giovanni Boccaccio e le donne

Come accennato all’inizio, è difficile capire il comportamento benevolo e premurosissimo del marito di Fiammetta. È solo il grande amore per la moglie a renderlo così empatico e comprensivo, oppure c’entra lo stato d’animo di Boccaccio, che nella vita avrebbe desiderato imbattersi in persone capaci di compassione e aiuto nei confronti delle sue profonde crisi? Oppure, ancora, si immedesimava nel ruolo del marito, nella speranza di riavere la sua Fiammetta “con le buone”? Il marito di Fiammetta ha in ogni caso un ruolo inconsueto in questo romanzo, dal momento che funge più da psicologo o psicoterapeuta che da coniuge, soprattutto se si pensa che nel Trecento i mariti non erano particolarmente comprensivi nei confronti di una moglie in crisi emotiva, data l’ancora scarsa sensibilizzazione della psiche maschile all’epoca. Per tener nascosta la verità Fiammetta ricorre a una menzogna, e gli dice che è stata la crudele morte del fratello a sconvolgerla completamente: le immagini di questa morte le ritornano sempre in mente e la fanno prorompere in pianto. Ma tormentata dai sensi di colpa dice tra sé: Il tuo marito, più debito ad offenderti che ad altro, s’ingegna di confortarti, e colui che ti doveria confortare, non cura d’offenderti. Ohimè! or non era egli bello come Panfilo? Certo sì. Le sue virtù, la sua nobiltà e qualunque altra cosa non avanzavano molto quelle di Panfilo? Or chi ne dubita? Dunque perché lui per altrui abandonasti? Qual cecità, quale traccutanza, quale peccato, quale iniquità vi ti condusse?43

La balia cerca di calmarla, suggerendole di lasciare Panfilo, ma Fiammetta ne è incapace. Si incollerisce sempre di più verso la sua presunta amante e immagina di dirle: O pessima femina, tu dovevi bene, la sua faccia mirando, pensare che egli senza donna non era; dunque, se ciò pensasti, che so che ’l pensasti, con quale animo procedesti a tòrre quel che d’altrui era? Certo con nemico animo, avviso; e io sempre come nemica e occupatrice de’ miei beni ti seguirò e sempre, mentre ci viverò, mi nutricherò della speranza della tua morte; la quale io non comune priego che sia come l’altre, ma, posta in luogo di pesante piombo o di pietra nella concava fionda, tu sia intra li nemici gittata, né al tuo lacerato corpo sia dato o 43

Ibid., p. 175.

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3. Immagini femminili

fuoco o sepultura, ma, diviso e sbranato, sazii gli agognanti cani, li quali io priego che, poi che consumate avranno le molli polpe, delle tue ossa commettano asprissime zuffe, acciò che, rapinosamente rodendole, te di rapina dilettata in vita dimostrino.44

Il passo, mettendo in mostra i sentimenti di Fiammetta, rivela come l’essere umano possa ridursi a non avere più scrupoli, voglioso soltanto di vendetta e di annientare o giustiziare l’avversario – in questo caso l’avversaria – che lo ha ferito e umiliato. E ancora una volta bisogna chiedersi che cosa abbia spinto Boccaccio a fare di Fiammetta una donna tanto insensibile e bramosa di vendetta. Era forse ciò che provava lui verso Fiammetta quando lei lo lasciò per un altro? Era forse per lui una furia capace di annientarlo? Quando Fiammetta le dice di non riuscire più a vedere vie d’uscita e di sperare che il marito la uccida, la balia cerca ancora di riportarla con i piedi per terra, usando tutto il buon senso di cui è capace: Il giovine, il quale tu ami, senza dubbio secondo l’amorose leggi, come tu lui, te dee amare; ma se egli nol fa, fa male, ma niuna cosa a farlo il può costrignere. Ciascheduno il beneficio della sua libertà, come gli pare, può usare. Se tu fortemente ami lui, tanto che di ciò pena intollerabile sostieni, egli di ciò non t’ha colpa, né giustamente di lui ti puoi dolere.45

E dice ancora a Fiammetta, e lo stesso si direbbe in fondo anche oggi: Così s’usa oggi nel mondo, che ciascuna persona cerca il suo vantaggio, e senza altrui riguardare, quando il trova sel piglia comunque puote. […] Chi tratta altrui secondo che egli è trattato, forse non falla soperchio, anzi usa il mondo secondo li modi altrui. Il servare fede a chi a te la rompe, è oggi reputata mattezza, e lo ’nganno compensare con lo ’nganno si dice sommo sapere. […] Dunque più pazientemente le tue pene sostieni, poiché meritamente più d’altrui che di te non t’hai a dolere.46

È sorprendente che sia proprio la balia di Fiammetta, una donna che immaginiamo semplice, a dire parole come queste, con tanta 44

Ibid., p. 180. Ibid., pp. 185-186. 46 Ibid., pp. 187, 188. 45

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Giovanni Boccaccio e le donne

franchezza e chiarezza da assomigliare a quelle che si userebbero oggi. Qui si vede poi quanto Boccaccio sia innovatore, tanto da trasporre questo approccio, in modo ancora più provocatorio, all’opera che scriverà dopo questa: il Decamerone. Ma le umane considerazioni della balia non possono essere d’aiuto a Fiammetta, che ha in cuore di suicidarsi e riflette sui diversi metodi possibili per farlo: pugnalarsi, avvelenarsi, darsi fuoco o gettarsi dal tetto del suo palazzo. I dubbi tornano però ad assalirla: se si suicidasse non potrebbe più rivedere Panfilo, se questi volesse tornare da lei. Quando infine stabilisce di gettarsi dal tetto del palazzo, la balia, che ha evidentemente intuito qualcosa e la tiene d’occhio, riesce a bloccarla. Alla fine le viene il desiderio e il bisogno di fare un pellegrinaggio, in modo da recarsi dall’amato Panfilo e poterlo rivedere. Come c’era da aspettarsi, alla sua richiesta il marito si mostra d’accordo, ma le propone di aspettare la fine dell’inverno e l’inizio della primavera.

3.1.6 Sesto capitolo: il ritorno di Panfilo Ciò che Fiammetta ha sempre desiderato finalmente si realizza: la balia le racconta di essere stata al mare la mattina presto e che un giovane uomo era saltato fuori dalla barca e le era finito addosso. Quando gli aveva chiesto da dove venisse, il giovane aveva risposto di venire dall’Etruria, e in particolare dalla città più raffinata del paese. La balia aveva pensato che fosse un concittadino di Panfilo e gli aveva chiesto di lui: Disse che egli con lui ne sarebbe venuto, se alcuno piccolo impedimento non l’avesse tenuto, ma che senza fallo in pochi dì qua sarebbe. In questo mezzo, mentre queste parole avevamo, li compagni del giovine tutti in terra scesi con le loro cose, ed egli con esso loro, si partirono. Io, lasciato ogni altro affare, con tostissimo passo, appena tanto vivere credendomi che io te ’l dicessi, qui ne venni ansando, come vedesti, e però lieta dimora, e caccia la tua tristizia.47

Alla notizia della balia Fiammetta è euforica e torna ad essere sia interiormente che esteriormente la Fiammetta che era: 47

Ibid., pp. 209-210.

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3. Immagini femminili

Che più? Io con meco insieme rinnovai ogni cosa, e nella prima bellezza e stato quasi mi ridussi tutta, tanto che le vicine donne, e li parenti, e il caro marito n’ebbero ammirazione, e ciascheduno in sé disse: ‘Quale spirazione ha di costei tratta la lunga tristizia e malinconia, la quale né per prieghi, né per conforti mai per addietro da lei si potè cacciar via? Questo non è meno che gran fatto’.48

Ma purtroppo non è di Panfilo che si tratta. Quando la balia incontra il giovane dopo l’arrivo sulla spiaggia e gli chiede come stia suo padre, questi risponde di essere venuto al mondo dopo la sua morte, e dunque di non averlo mai conosciuto. Le dice poi di non essere mai stato in quel luogo e di avere intenzione di restarvi solo per breve tempo. Quando gli chiede come si chiami, il nome che proferisce è simile, ma non è quello del sospirato Panfilo. Per Fiammetta è ovviamente un duro colpo: Levata, quasi furiosa, le liete robe mi trassi, e li cari ornamenti riposi, e gli ordinati capelli con inimica mano trassi dell’ordine loro, e senza niuno conforto a piagnere cominciai duramente, e con amare parole a biasimare la fallita speranza e li non veri pensieri avuti dell’iniquo amante […].49

3.1.7 Settimo capitolo: Cleopatra e Fiammetta Nel settimo capitolo Boccaccio torna a fare un excursus nell’antichità, paragonando il destino di Fiammetta a quello di molte donne dell’epoca, condannate a sopportare grandi sofferenze; eppure nessuna – fa dire a Fiammetta – ha tanto patito quanto lei. Persino il destino di Cleopatra non fu tanto grave quanto il suo: Sono ancora molti che crederebbero Cleopatras reina d’Egitto pena intollerabile e oltre alla mia assai maggiore avere sofferta, però che prima veggendosi col fratello insieme regnante e di ricchezza abondante, e da questo in prigione messa, senza modo si crede dolente; ma questo dolore futura speranza di quel che avvenne l’aiutò agevolmente a portare. Ma poi di prigione uscita e divenuta di Cesare amica, e da lui poi abandonata, sono chi pensano ciò da lei con gravissimo affanno

48 49

Ibid., p. 213. Ibid., pp. 218-219.

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essere passato, non riguardando essere corta noia d’amore in colui, o in colei, il quale a diletto si può tòrre ad uno e darsi ad uno altro, come essa mostrò spesse volte di potere.

È una nuova, assoluta dichiarazione d’amore di Fiammetta per Panfilo, che è e resta il suo unico, grande amore: Ma cessi Iddio che in me mai tale consolazione possa avvenire! Egli non fu né fia giammai, da colui in fuori di cui io ragionevolmente esser dovrei, chi potesse dire, o possa, che io mai fossi sua, o sia, se non Panfilo; e sua vivo e viverò; né spero che mai alcuno altro amore abbia forza di potermi il suo spegnere della mente. Oltre a ciò, se ella di Cesare rimase sconsolata nel suo partire, sarebbero, chi non sapesse il vero, di quelli che crederebbero ciò esserle doluto; ma egli non fu così; ché, se essa del suo partire si doleva, d’altra parte con allegrezza avanzante ogni tristizia la racconsolava l’esserle rimaso di lui uno figliuolo e il restituito regno. Questa letizia ha forza di vincere troppo maggiori doglie che non sono quelle di chi lentamente ama, come io già dissi che ella faceva. Ma quello che per sua gravissima ed estrema doglia s’aggiugne, è l’essere stata moglie d’Antonio; il quale ella con le sue libidinose lusinghe avea a cittadine guerre incitato contro il fratello; quasi di quelle vittoria sperando, aspirava all’altezza del romano imperio, ma venutale di ciò ad un’ora doppia perdita, cioè quella del morto marito, e della spogliata speranza, lei dolorosissima oltre ad ogni altra femina essere rimasa si crede. E certo, considerando sì alto intendimento venire meno per una disavventurata battaglia, quale è il dovere essere generale donna di tutto il circuito della terra, senza aggiugnervi il perdere così caro marito, è da credere essere dolorosissima cosa; ma ella a ciò trovò subitamente quella sola medicina che v’era a spegnere il suo dolore, cioè la morte; la quale ancora che rigida fosse, non si distese però in lungo spazio, però che in piccola ora possono per le poppe due serpenti trarre d’un corpo il sangue e la vita.50

Poi Fiammetta, come era accaduto nel prologo, torna ancora una volta a rivolgersi alle donne, dicendo loro che ora tacerà, non scorgendo che due strade davanti a sé. La prima è la morte; la seconda è tornare tra le braccia di Panfilo.

50

Ibid., pp. 231-232.

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3. Immagini femminili

3.1.8 Capitolo finale: Fiammetta parla con il suo libro Nel capitolo Fiammetta parla ancora una volta con il suo libro, dicendogli che deve passare di mano in mano, in modo che lo leggano più donne possibile. Pensa in particolare a due gruppi di donne: del primo fanno parte quelle a cui è successo lo stesso che è accaduto a lei; vanno consolate e va detto loro che non sono sole ad affrontare il destino. Il secondo è fatto di quelle che ancora non conoscono, come Fiammetta, esperienze negative nell’amore e nella vita di coppia; vanno messe in guardia dagli uomini, in modo che siano loro risparmiate grandi sofferenze. Nell’ultimo passaggio Fiammetta si rivolge ancora al libro, dicendogli che deve vivere pur avendo dovuto sopportare tanto dolore; augura dunque alle donne di entrambi i gruppi – a quelle che soffrono e a quelle felici – di far loro e non dimenticare il suo destino.

3.1.9 Conclusioni: amore, egoismo, tradimento, emancipazione Il tema di fondo di questo libro, come abbiamo accennato nell’introduzione, è l’amore, e in particolare l’amore erotico, che Boccaccio affronta con modalità molto variegate ma che non è affatto diverso dai modi di vederlo e sognarlo. Al centro del libro c’è Fiammetta, una donna sposata che tradisce il marito con un altro (Panfilo) finché non viene a sapere che questi la tradisce a sua volta, finendo col nutrire forti desideri di vendetta, pur essendo a sua volta infedele al marito e non vedendo in ciò nulla di male. Pur coniugata, Fiammetta si prende sorprendentemente il diritto di tradire il marito con un altro, convinta com’è che ciò che gli uomini fanno da sempre – tradire le mogli – vada consentito anche alle donne. Ma suo marito, a quanto pare, non lo fa. Egli – come abbiamo detto più volte – è descritto come una persona mitissima e affettuosissima, desiderosa di far uscire Fiammetta dalla profonda crisi che l’attanaglia e non cessa di offrirle sostegno e aiuto. Fiammetta persegue invece i propri fini – riavere il suo Panfilo – con estremo egoismo, e finisce per perdere la bussola della sua emotività. E quando viene a sapere che l’amato si è innamorato di una donna bellissima, la ucciderebbe, se potesse, senza provare il minimo senso di colpa.

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Ma dovrebbe farlo, poiché è convinta di essere l’unica ad avere il diritto di possedere Panfilo e che questi non abbia alcuna colpa della nuova situazione, essendo stato sedotto e non potendosi più controllare. Per Fiammetta, insomma, la colpa non è di Panfilo, ma della sua nuova amante. Leggendo i giornali e le riviste di oggi troviamo storie simili ogni giorno. Di solito si tratta di coppie famose, visto che la gente nutre più interesse verso il jet-set che verso le persone “normali”. Ma in questi casi bisognerebbe chiedersi che cosa risvegli l’interesse, e spesso anche lo scandalo, nel leggere che l’attore A o l’attrice B si sono separati dal partner e hanno iniziato una nuova relazione. È ancora forte, dentro di noi, il desiderio che l’amore duri “finché morte non vi separi”? Oppure ci sentiamo invece – riconoscendoci nell’una o nell’altra persona citata dalla stampa scandalistica – in qualche modo colti in flagrante? Come è noto, sono sempre meno i giovani che si sposano; si preferisce invece la convivenza ed evitare eventuali divorzi. Eppure, per molti chiedere romanticamente la mano, sposarsi, fare figli e passare tutta la vita insieme è ancora un ideale sublime. D’altra parte, dobbiamo anche prendere atto del fatto che il nostro modo di vivere e lavorare ha subito forti mutamenti: non solo gli uomini, ma anche le donne sono altamente coinvolte nella vita professionale. Spesso non ci si vede per giorni, e magari solo per breve tempo, e quindi – per forza di cose – si comunica e si sta insieme, spesso, di meno. Boccaccio contrappone ciò che afferma Fiammetta a quello che dice la sua balia, che non cessa di tentare di riportarla con i piedi per terra e sa sapientemente leggere l’atteggiamento femminile e maschile nelle cose d’amore. È senz’altro doloroso – spiega così a Fiammetta – essere traditi da un uomo o da una donna, ed è anche una faccenda assai amara e odiosa; eppure non si può obbligare nessuno ad amare un’altra persona. La balia dà voce insomma a qualcosa che è spesso al di fuori della nostra capacità di gestire la sfera razionale e quella delle emozioni: innamorarsi è un’irruzione che blocca ogni tentativo di autodominarsi, finché non arriva il momento in cui subentra la cosiddetta “normalità”. È comunque interessante che Boccaccio, con l’elegia di Fiammetta, sia il primo autore ad aver parlato con tanta chiarezza della questione dell’amore fisico e dell’innamoramento, distanziandosi così da 48

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Dante e Petrarca e dalla loro concezione puramente spirituale dell’amore. Ne daranno ora ulteriore prova le immagini femminili del Decamerone.

3.2 LE IMMAGINI FEMMINILI DEL DECAMERONE 3.2.1 I fruitori Nel proemio51 Boccaccio dice esplicitamente al lettore chi sono i fruitori del suo libro: è un libro scritto per le donne, e cioè per le donne che amano e tengono l’amorose fiamme nascose, alle quali, a differenza degli uomini, non è dato distrarsi andando a cavallo o a pesca, misurandosi con i giochi o gli affari in caso di pene d’amore o malinconia. Le attività da fare fuori casa sono loro vietate. Nella prefazione a Giovanni Boccaccio: Poesia dopo la peste, Kurt Flasch scrive in merito alla situazione della donna nel Trecento: Con drammatica durezza Boccaccio illustra la sorte delle donne nel XIV secolo: rinchiuse in case buie, crescono sotto la dura oppressione di un uomo; nel caso che il padre muoia precocemente (questa era la regola […] se si considera quanto fosse breve la vita media di un uomo del XIV secolo), le figlie debbono obbedire ai fratelli, che le trattano con la stessa durezza e, in alcuni casi, non esitano a uccidere l’uomo che, senza il loro permesso, abbia osato avvicinarle. Quale sia l’uomo adatto viene deciso in base a interessi economici, e non in base a quello che gli uomini giudicano come il disorientato sentimento di una donna. […] Se infine si sposano, le donne passano dal potere discrezionale del padre e dei fratelli a quello del marito: anche in questo caso vivono rinchiuse nel buio delle case e vengono loro negate quelle distrazioni con le quali possono invece consolarsi gli uomini quando hanno sfortuna in amore.52

Nel XIV secolo, la donna che leggesse e decidesse da sé che cosa leggere aveva un che di inquietante. Kurt Flasch si riferisce qui a Lichtstadt Florenz (“Firenze, città di luce”), un libro di Ludwig Curtius 51 G. Boccaccio, Decameron, a cura di U. Bosco, cit., pp. 17-19. Il Decamerone fu scritto dopo l’epidemia di peste scoppiata attorno al 1348. 52 K. Flasch, Poesia dopo la peste. Saggio su Boccaccio, tr. it. di R. Taliani, Laterza, Roma-Bari 1995, pp. 21-22.

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che spiega come questa osannata e luminosa città tenesse al buio le sue donne anche nel XIV e XV secolo. Non mancarono, certo, i tentativi di migliorarne il livello di istruzione. Alcuni riformatori intendevano persino consentir loro l’accesso alla scienza, che parlava latino, ma nessuno si preoccupava di come fossero duramente sottomesse agli uomini ed emarginate nelle buie stanze delle torri. Non è dunque sorprendente che Boccaccio dedichi il Decamerone alle donne, perché lo leggano – senza il permesso degli uomini – e possano forse anche divertirsi con l’una o l’altra storia. Le donne del Rinascimento, un libro di Margaret L. King, conferma il quadro offerto sopra da Flasch e Curtius sulle donne del Trecento e Quattrocento italiano: La donna che si sposava, volente o nolente, doveva stabilire un rapporto con il marito regolato da obblighi contraddittori. Da una parte ci si aspettava che fosse una compagna per il coniuge. Dall’altra era anche sua succube e oggetto delle restrizioni impostele dal marito e dalle altre autorità maschili.53

Benché a piccolissimi passi, nel Quattrocento ci si sforzò di concedere maggiori diritti alle donne e di considerare in modo nuovo il matrimonio e i rapporti di coppia, articolando questi sforzi anche sul piano pubblico. Leon Battista Alberti (1404-1472), uno degli umanisti più autorevoli ed eclettici, scrive infatti nel trattato Della famiglia: Puossi l’amor tra moglie e marito riputar grandissimo, però che se la benivolenza sorge da alcuna voluttà, el congiugio ti porge non pochissima copia d’ogni gratissimo piacere e diletto; se la benivolenza cresce per conversazione, con niuna persona manterrai più perpetua familiarità che colla moglie.54

Ma i sogni di Leon Battista Alberti sono ancora ben lontani; Boccaccio prova pietà per le donne del suo tempo, di cui conosce e comprende il destino. Confessa apertamente di aver sopportato, per amore, diverse pene e sofferenze, ma molte persone gli hanno alle-

53 M. L. King, Le donne del Rinascimento, tr. it. di L. Nencini, Laterza, RomaBari 1991, p. 42. 54 .

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viato queste sofferenze e lo hanno assistito. Ormai le passioni sfrenate si stanno a mano a mano estinguendo. Si è fatto più maturo, un buon punto di partenza per essere d’aiuto alle donne isolate e infelici. Le sue cento storie sono concepite come una specie di terapia poetica. Le donne amanti le possono leggere senza il permesso dei loro signori e senza essere messe alla berlina. I pensieri volano liberi e nessun estraneo può metterci becco. Al termine del Decamerone Boccaccio torna a parlare delle donne e della loro situazione, sottolineando molto apertamente di non scrivere il libro per i filosofi del suo tempo, bensì per le donne cui non è stato possibile studiare ad Atene, Bologna o Parigi. Le sue lettrici hanno tempo. Leggano il Decamerone per far passare il tempo e la malinconia. Chi non ha tempo non lo prenda nemmeno in mano; chi studia filosofia a Parigi o a Bologna non ha bisogno di coglierne il senso a partire da favole. Per un pubblico colto avrebbe potuto essere più sintetico, ma per le indolenti mogli dei ricchi mercanti fiorentini il libro non è eccessivamente lungo. Le sue considerazioni finali sono palesi. Al centro di tutto c’è la donna, alla quale è ancora vietato l’accesso all’università; in secondo luogo, l’attenzione si focalizza sui ricchi mercanti di Firenze, che critica senza risparmiarsi, le cui donne si annoiano rintanate nelle loro case senza sapere come ammazzare il tempo. Qui Boccaccio allude con una certa sottigliezza al rapporto tra la sua poesia e la filosofia, quando scrive provocatoriamente che i filosofi non hanno bisogno di questo libro e giustifica, rispetto ai propri avversari, gli attacchi mossigli di non voler che lusingare le donne e andar dietro alle loro ciance e frasche.55 Dovrebbe piuttosto andare sul Parnaso, gli dicono,56 o lavorare per guadagnarsi il pane: gli servirebbe certamente di più.

55 Cfr. G. Boccaccio, Decameron, a cura di U. Bosco, cit., p. 206: “[…] Dicono che io farei più saviamente a starmi con le Muse in Parnaso che con queste ciance mescolarmi tra voi. […] Hanno detto che io farei più discretamente a pensare dond’io dovessi aver del pane che dietro a queste frasche andarmi pascendo di vento”. 56 Parnaso: catena montuosa della Grecia Centrale, cima delle muse e regno della poesia.

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3.2.2 Le tipologie femminili Non si può certo parlare, nel Decamerone, di un’unica immagine femminile, dal momento che le donne che vi compaiono hanno atteggiamenti troppo diversi per poterle riassumere in un quadro omogeneo. Le storie, tuttavia, descrivono sempre atteggiamenti femminili ricorrenti, inquadrabili in quattro gruppi: – la donna sottomessa, che subisce il dominio del mondo maschile; – la donna impertinente, capace di venire rapidamente a capo di una situazione sgradevole e che invece domina il mondo maschile; – la donna intelligente, che si impone al mondo maschile dominante ricorrendo alla ragione e al linguaggio; – la donna che agisce in modo eroico e sovrumano, completamente sottomessa a un uomo. Presenteremo ora quattro storie che rispecchiano gli atteggiamenti appena descritti.

3.2.3 La donna sottomessa: Lisabetta e il testo di bassilico Sotto la guida di Filostrato, il quarto giorno Filomena narra la quinta storia, quella di Lisabetta e il testo di bassilico (IV/5).57 La storia ha luogo in Sicilia, a Messina, dove vivono tre fratelli beneficiari, alla morte del padre, di una ricca eredità e fanno una vita da rispettati mercanti. La sorella Lisabetta, ancora nubile, si innamora di Lorenzo, che lavora per i fratelli. Poiché la differenza di ceto è troppo grande, questi decidono di uccidere Lorenzo. Lo portano con un pretesto fuori città, lo ammazzano e lo seppelliscono. A lei spiegano che è fuori Messina per seguire un loro affare. Lisabetta, molto sofferente per l’assenza dell’amato, non fa che piangere e si ammala. Una sera Lorenzo le appare in sogno, raccontandole quello che è successo e dove si trova. La ragazza si mette così in cammino per cercarlo, e infine lo trova e ne prende con sé la testa, che avvolge in un asciugatoio, non potendo trasportare le spoglie intere. Una volta tornata a casa mette la testa in un vaso di fiori, aggiungendo della terra e piantandoci del basilico, che innaffia ogni giorno con le sue lacrime. Quando 57

G. Boccaccio, Decameron, a cura di U. Bosco, cit., pp. 233-236.

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vengono a sapere dai vicini che Lisabetta siede tutto il giorno davanti al testo di bassilico bagnandolo di lacrime, i fratelli glielo sottraggono. Scoprono la testa di Lorenzo e decidono di sotterrarla di nuovo. Poi stabiliscono di lasciare Messina e recarsi a Napoli, per evitare le chiacchiere della gente e nascondere le tracce del loro efferato atto. Lisabetta perisce tutta sofferente per la morte dell’amato Lorenzo. Commento Alla lettura o all’ascolto la storia appare in un primo momento piuttosto irrealistica, macabra. Ma se le si dà il tempo di sedimentarsi, il conflitto tra i fratelli e la sorella che descrive è sintomatico di quanto Boccaccio afferma sulla situazione femminile nel Trecento: non sono i confusi sentimenti di una donna, bensì gli interessi di bottega a stabilire se essa possa mettersi o meno con un uomo. Possiamo senz’altro affermare che Boccaccio non ha inventato la storia di sana pianta, ma ha tratto ispirazione da alcuni elementi. Secondo Vittore Branca si è ispirato alle Metamorfosi di Apuleio,58 che nell’ottavo libro menzionano una storia simile. Si può tuttavia supporre che Boccaccio abbia adattato questo spunto a lui noto alla situazione e al contesto del suo tempo: quella di Lisabetta è la condizione di una ragazza del XIV secolo italiano costretta a sottomettersi agli obblighi di cui Boccaccio parla nell’introduzione: alla mercé dei fratelli nel bene e nel male, priva della possibilità di scegliere liberamente. Questi decidono di “eliminare” Lorenzo nel modo più drastico – uccidendolo – senza informarla o discutere con lei di questa relazione, visto che gli interessi economici confliggono con la differenza di censo. Lo spietato mondo degli affari che elimina tutto ciò che gli è estraneo viene contrapposto al mondo dei sentimenti incarnato da Lisabetta; una ragazza che dà spazio alle proprie emozioni e si innamora di un uomo che è estraneo al ricco mondo in cui vivono i suoi fratelli; una ragazza che non conosce barriere sociali e che ama Lorenzo al punto da fare qualcosa che ha dell’incredibile: staccarne la testa dal corpo e metterla in un vaso. Qualcosa che non ha niente di logico. Co58 Id., Decamerone, a cura di V. Branca, vol. I, Einaudi, Torino 1992, p. 526, dove la nota 3 afferma: “[…] Piuttosto, per la tragica apparizione di Lorenzo, il B. si ricordò probabilmente di qualche pagina di uno scrittore da lui amato e sfruttato, Apuleio (Metamorfosi, VIII 8 e anche IX 31)”.

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pre la testa di terra e ci mette delle piante, simbolo di vita e sopravvivenza. Il cordoglio per la morte dell’amato è tale da essergli fatale: il corpo cede e la vita cessa per la sua perdita. Diversissimi i fratelli. Di scrupoli per quello che hanno fatto non si parla mai, anzi: occultano il delitto lasciando Messina alla chetichella e facendo a pezzi la vita della sorella. Un vero e proprio manifesto di spregiudicatezza. Non c’è nulla che conti, nemmeno la vita di una sorella di sangue. Conta mantenere la facciata all’esterno, fingere che il mondo – il ricco mondo dei tre fratelli mercanti – resti intatto. È certo eccessivo affermare che Boccaccio volesse in questo modo far vedere o mettere alla berlina il comportamento dei ricchi commercianti fiorentini, anche se alcuni elementi lo potrebbero confermare. Parla infatti di San Gimignano e di Pisa, città per lungo tempo nemiche, che potrebbero simboleggiare i conflitti che la storia descrive. Il padre dei tre fratelli è originario di San Gimignano, mentre Lorenzo è di Pisa. Branca spiega che furono molti i ricchi mercanti toscani che si recavano in Sicilia per i loro commerci, come il padre dei tre fratelli di Lisabetta, che vi divenne molto ricco.59 Al quarto giorno si raccontano altre due storie, altrettanto macabre: Fiammetta racconta del Cuore nella coppa (IV,1),60 in cui il principe di Salerno uccide l’amante della figlia e le fa mandare il cuore di lui su una coppa d’oro. Essa lo innaffia di acqua avvelenata, la beve e muore. Verso la fine della giornata Filostrato narra del Cuore mangiato (IV,9),61 in cui un marito dà da mangiare alla moglie il cuore dell’amante. Quando capisce che cosa sta facendo, la moglie si butta da un’alta finestra e viene seppellita assieme a lui. Boccaccio tiene fede alla promessa che aveva fatto per il quarto giorno, cioè da un lato parlare di persone il cui amore ebbe una fine 59 Ibid., p. 527, nota 1: “Esistevano effettivamente, nel Duecento-Trecento, a Messina varie colonie commerciali di mercanti di San Gimignano, la turrita cittadina non lontana di Siena, che aveva una fiorentissima Arte della lana: tanto che nel 1296 Carlo II chiedeva ai sangimignanesi aiuti contro i nemici, anche per tutelare gli interessi di tali colonie […]. È stata notata anche una curiosa coincidenza: i mercanti sangimignanesi Ardinghelli alla metà del Duecento si trasferirono da Messina a Napoli, come i fratelli di Lisabetta (o meglio come doveva essere uso naturale e comune […]”. 60 Id., Decameron, a cura di U. Bosco, cit., pp. 211-218. 61 Ibid., pp. 248-250.

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sfortunata e dall’altro scrivere per le donne amanti, e lo fa in due sensi. Le novelle mostrano brutalmente che cosa succede a una donna che non rispetta le leggi cui deve sottostare. Gli uomini la eliminano. 3.2.4 La donna impertinente: l’amante nel doglio Sotto la guida di Dioneo, Filostrato racconta il settimo giorno la seconda storia, quella dell’amante nel doglio (VII,2):62 Il marito di Peronella, un giorno, torna inaspettatamente a casa dal lavoro. Per Peronella è una catastrofe: a casa c’è Gianello, il suo amante. Lo nasconde in tutta fretta in una botte e apre al marito che sta bussando impaziente alla porta. Mentre entra, Peronella lo rimprovera a gran voce di non essere al lavoro e darle abbastanza di che vivere. Avrebbe potuto benissimo sposarsi con un altro, gli dice, ma purtroppo ha scelto lui, un buono a nulla. Le occasioni non le sono mancate, e le altre donne se la passano molto meglio, perché si possono sollazzare con l’amante mentre il marito è al lavoro. Alla fine il marito riesce a spiegarle perché è tornato in anticipo: ha trovato un acquirente per la botte che giace ormai da tempo inutilmente in casa. L’acquirente vuole addirittura pagarla cinque ducati ed è già arrivato. Peronella continua a lamentarsi e sostiene che il prezzo è troppo basso. Dice al marito di essere riuscita a vendere il doglio per sette ducati, a un uomo che lo sta già ispezionando per controllare se li valga. L’acquirente venuto con il marito, allora, se ne va, mentre Gianello esce dalla botte fingendo di non aver sentito nulla di quanto detto in precedenza, molto sorpreso di vedere il marito di Peronella. A questi spiega di voler comprare il doglio solo se ben pulito, e Peronella intima al marito di entrarvi per pulirlo per bene. Una volta entrato, la moglie vi si china sopra per controllare la pulizia e spiegargli come fare. Gianello ne approfitta per soddisfare le sue esigenze sessuali con Peronella, concludendo proprio nel momento in cui il marito ha finito di pulirlo per bene e sta uscendo dal doglio. Gianello verifica a sua volta che sia tutto in ordine e dà soddisfatto al marito di Peronella i sette ducati, facendogliela trasportare fino a casa sua.

62

Ibid., pp. 343-346.

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Commento La storia introduce un nuovo ambiente sociale. Lasciamo il ricco mondo dei mercanti e giungiamo tra i ceti napoletani più umili, costretti a lavorare duramente per guadagnarsi il pane quotidiano. Il marito di Peronella fa il muratore, e i due devono badare al centesimo per sopravvivere. La storia appare piuttosto autentica, perché cita sia il nome dell’amante, Gianello, che quello della strada della città, Avorio, in cui Peronella abita e tradisce ogni giorno il marito, e dunque offre apertamente tutte le coordinate necessarie. Il marito tradito, in questa storia, resta curiosamente anonimo, forse per elevarlo a prototipo. Boccaccio ci presenta questa storia come una burla o beffa.63 Anche se di ceto basso, a Peronella non mancano certo le parole per scampare la rischiosissima situazione in cui si trova. Mentre l’amante è nascosto nella botte, al marito dice con incredibile sfacciataggine: Marito, marito, egli non ci ha vicina che non se ne maravigli e che non facci beffe di me, di tanta fatica quanta è quella che io duro: e tu mi torni a casa con le mani spenzolate, quando tu dovresti essere a lavorare.

Poi si mette a piangere, ma gli dice subito con tono di rimprovero: Oimé, lassa me, dolente me, in che mal’ora nacqui, in che mal punto ci venni! ché avrei potuto avere un giovane così da bene e nol volli, per venire a costui che non pensa cui egli s’ha menata a casa! L’altre si danno buon tempo con gli amanti loro, e non ce n’ha niuna che non abbia chi due e chi tre, e godono e mostrano a’ mariti la luna per lo sole; e io, misera me! perché son buona e non attendo a così fatte novelle, ho male e mala ventura: io non so perché io non mi pigli di questi amanti come fanno l’altre! Intendi sanamente, marito mio, che se io volessi far male, io troverrei ben con cui, ché egli ci son de’ ben leggiadri che m’amano e voglionmi bene e hannomi mandato proferendo di molti denari, o voglio io robe o gioie, né mai mel sofferse il cuore, per ciò che io non fui figliuola di donna da ciò: e tu mi torni a casa quando tu dei essere a lavorare!64

63 La beffa è una particolare forma di novella in Boccaccio. Un altro bell’esempio di beffa riuscita è VII, 9, Il pero incantato: Lidia, moglie di Nicostrato, ama Pirro, il quale – prima di dar credito all’amore di lei – pretende da lei tre prove, che essa supera: arriva a sollazzarsi con Pirro alla presenza di Nicostrato, convincendo il marito che ciò che ha visto non è mai accaduto. 64 G. Boccaccio, Decamerone, cit., p. 344.

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Vediamo dunque che Peronella, con grande abilità linguistica, si atteggia a grande moralista, che deve spiegare al marito che “gioiello” gli sia stato dato in moglie, mentre lei l’ha preso per pura modestia. È colpa sua, gli dice, se non può divertirsi, mentre molte altre donne, quando i mariti sono al lavoro, se la spassano. Ma non è tutto. Alla fine il lettore si trova davanti al culmine della sfrontatezza: mentre il marito è nella botte per pulirla, Peronella si permette di darsi con Gianello ai piaceri della carne. Ecco come Boccaccio descrive la situazione: E mentre che così stava e al marito insegnava e ricordava, Giannello, il quale appieno non aveva quella mattina il suo disidero ancor fornito quando il marito venne, veggendo che come volea non potea, s’argomentò di fornirlo come potesse; e a lei accostatosi che tutta chiusa teneva la bocca del doglio, e in quella guisa che negli ampi campi gli sfrenati cavalli e d’amor caldi le cavalle di Partia assaliscono ad effetto recò il giovinil desiderio; il quale quasi in un medesimo punto ebbe perfezione e fu raso il capo del doglio, e il marito uscitone fuori.65

Contenuto e linguaggio della novella sono eloquenti, e paiono confermare ciò che era convinzione di molti contemporanei di Boccaccio, e cioè che il Decamerone non fosse letteratura, ma un ammasso di storie oscene prive di qualsivoglia morale. Ma non è proprio così. Come possiamo vedere da altre opere, Boccaccio potrebbe benissimo servirsi di un linguaggio e di una trama meno drastici. Dobbiamo quindi supporre che fosse sua precisa intenzione descrivere le vicende di Peronella e Gianello in modo tanto esplicito e crudo, usare questa burla per provocazione. Una provocazione sottilmente enunciata per bocca di Filostrato, che spiega, prima di iniziare il racconto: Chi dubita dunque che ciò che oggi intorno a questa materia diremo, essendo risaputo dagli uomini, non fosse lor grandissima cagione di raffrenamento al beffarvi [sc. voi donne], conoscendo che voi similmente, volendo, ne sapreste fare?66

È evidente che gli uomini, spiega, continueranno a tradire le loro mogli anche se venissero a sapere di essere a loro volta traditi. Sappiano dunque che anche le donne sono capaci di tradire i loro mariti,

65 66

Ibid., pp. 345-346. Ibid., p. 343.

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e senza nemmeno che lo vengano mai a sapere, come è il caso del marito di Peronella, che ingenuamente dice: O Iddio, lodato sia tu sempre, ché, benché tu m’abbi fatto povero, almeno m’hai tu consolato di buona e onesta giovane di moglie! Vedi come ella tosto serrò l’uscio dentro, come io ci uscii, acciò che alcuna persona entrar non ci potesse che noia le desse.67

Impossibile trovare un modo più efficace per mostrare l’ottusità degli uomini convinti della fedeltà assoluta delle loro mogli. Soprattutto dopo la pubblicazione delle opere della maturità (in particolare il Corbaccio68) si è rimproverato a Boccaccio di essere misogino, ma questa burla non lo conferma affatto, anzi: egli rivela di avere grande comprensione e simpatia per la situazione delle donne nella società, e si mette senza incertezze, pur in modo implicito, dalla loro parte.

3.2.5 La donna astuta: Madonna Filippa Sotto la presidenza di Elisa, Filostrato racconta il sesto giorno la settima storia (VI,7).69 È ambientata a Prato, dove Madonna Filippa, una nobile dama, è imputata perché sorpresa dal marito tra le braccia dell’amante. Per questo crimine la legge prevede la morte sul rogo. Per quanto parenti e amici le consiglino di negare il fatto, è sua precisa intenzione riconoscere l’adulterio. Una volta davanti a lui, Filippa chiede al giudice che cosa voglia che lei faccia. Il podestà è così colpito dalla sua bellezza, dal suo nobile aspetto e dalla sua intelligenza da averne compassione. E tuttavia le deve chiedere se ciò che sostiene il marito corrisponda a verità. L’adulterio, la informa poi, è punito con la morte. È dunque vera l’accusa o no? Madonna Filippa, senza il minimo segno di nervosismo e con voce ferma, risponde che Rinaldo è suo marito e l’ha sorpresa con Lazzarino, che ama profondamente. È un fatto, dice, che non vuole assolutamente negare. A suo parere, tuttavia, le leggi sono state fatte per tutti, uomini e donne, ma questa legge è 67

Ibid., p. 344. Id., Il Corbaccio, a cura di G. Natali, Mursia, Milano 1995. 69 Id., Decameron, a cura di U. Bosco, cit., pp. 323-325. 68

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applicata soltanto alle donne, alle quali non è stato chiesto di accettarla. Per Madonna Filippa si tratta dunque di una legge ingiusta. Prima che si esprima e la condanni a morte, essa prega il podestà di chiedere al marito se gli si sia data ogni volta che egli lo desiderasse. Rinaldo dice un sì senza riserve. Madonna Filippa prosegue: se ha sempre avuto tutto quello che voleva, lei che cosa avrebbe mai dovuto fare con ciò che avanzava? Sarebbe stato un peccato darlo in pasto ai cani. Molto meglio che ne tragga vantaggio un gentiluomo. Dopo le sue parole, i presenti in sala le danno ragione, finché il podestà non modifica la crudele legge e limita la pena di morte alle donne che si danno alla prostituzione. E così si conclude la storia: […] Rinaldo, rimaso di così matta impresa confuso, si partì dal giudicio; e la donna lieta e libera, quasi dal fuoco risuscitata, alla sua casa se ne tornò gloriosa.70

Commento Madonna Filippa viene descritta come una donna straordinaria, che colpisce per la bellezza, ma anche per l’aspetto elegante e per l’intelligenza e il coraggio. Pur consapevole che l’adulterio è punito con la morte, si presenta audace e decisa di fronte al podestà per riconoscere pubblicamente ciò che ha fatto. Un ulteriore segno della fiducia di sé di cui si nutre è che sia lei a rivolgersi al giudice, e non il contrario; per l’epoca si trattava senz’altro di qualcosa di inusitato. Il podestà si mostra molto colpito prima ancora che Madonna Filippa faccia la sua confessione, e ne ha tanta pietà da pensare a come esserle d’aiuto: Il podestà, riguardando costei e veggendola bellissima e di maniere laudevoli molto, e, secondo che le sue parole testimoniavano, di grande animo, cominciò di lei ad aver compassione, dubitando non ella confessasse cosa per la quale a lui convenisse, volendo il suo onor servare, farla morire.71

La sua è una strategia vincente: la prima cosa che dice è che la legge è ingiusta, essendo stata fatta solo dagli uomini. Nessuno ha chiesto il parere delle donne, anche se le riguarda direttamente. La seconda 70 71

Ibid., p. 325. Ibid., p. 324.

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questione che pone si riferisce ai doveri coniugali, che – come conferma il marito – ha completamente soddisfatto. La domanda provocatoria che ne segue – che fare del resto del suo amore? – le porta tante simpatie, anche tra la gente in sala, che il giudice si sente legittimato ad assolverla e a modificare la legge. Una prassi certamente irrituale, ma che rivela come una donna abbastanza coraggiosa nel dar voce a ciò che le sta a cuore non debba limitarsi a un ruolo subalterno. Madonna Filippa, insomma, è in qualche modo latrice di emancipazione, che si batte in modo che l’uomo e la donna siano uguali davanti alla legge e che alla fine riesce a spuntarla. Non possiamo dire se qui sia la voce di Boccaccio a parlare. Ma evidentemente c’è qui una donna che riesce a imporsi davanti alla somma istanza giudicante, dominata dagli uomini.

3.2.6 La donna eroica e sovrumana: Gualtieri e Griselda Sotto la guida di Panfilo, Dioneo racconta la decima e ultima storia del Decamerone (X,10):72 Dopo molti tentennamenti, Gualtieri, marchese di Galuzzo, decide di sposare la contadinella Griselda. Gualtieri sottrae a Griselda un maschietto e una femminuccia appena nati, che porta a un parente di Bologna che li allevi. A lei dice però che saranno uccisi, essendo essa di umili origini e basso ceto. Griselda, che prima di sposarsi aveva dovuto giurare fedeltà al marito in tutto ciò che dice e fa, si piega al suo destino e accetta senza protestare la decisione, in apparenza crudele, di Gualtieri. Reagisce poi allo stesso modo quando egli le comunica l’intenzione di separarsi da lei per sposare una donna di ceto più elevato e le ordina di preparare le nozze. Soltanto dopo aver constatato che Griselda esegue senza alcuna riserva anche questo ordine, accogliendo la ragazza – che in realtà è sua figlia – come nuova sposa di lui, Gualtieri le spiega tutto e l’accetta come moglie. Commento Gualtieri e Griselda provengono da due mondi molto diversi. Se Gualtieri è marchese ed è membro dell’aristocrazia feudale, Griselda è una guardiana di pecore,73 di ceto umilissimo.

72 73

Ibid., pp. 538-546. Ibid., p. 541.

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La storia ci racconta che i sudditi non fanno che chiedere, o quasi costringere, Gualtieri a contrarre matrimonio. Ma lui non vuole: preferisce di gran lunga uccellare e cacciare. Ed è molto scettico nei confronti del matrimonio. Possiamo dire, quindi, che le motivazioni che lo spingono a sposarsi sono di natura più razionale che emotiva. Gualtieri parla d’amore solo quando Griselda ha superato le sue prove: Io sono il tuo marito, il quale sopra ogni altra cosa t’amo74. Nel saggio Frauentugend und Adelsethos in Boccaccios GriseldaNovelle, Volker Kapp spiega che parlare d’amore sul piano teorico avrebbe turbato la logica interna di questa novella, dal momento che avrebbe preteso che alle intenzioni del marchese di mettere a così dura prova Griselda venissero date motivazioni di ordine psicologico.75 Ma data l’assenza, come abbiamo visto, di questa motivazione in Gualtieri, bisogna cercarla su un altro piano. La novella spiega all’inizio che Gualtieri è senza moglie e senza figliuol,76 e ha passato quindi il tempo non facendo altro che uccellare e cacciare;77 i suoi progetti futuri non prevedono affatto l’idea di prender moglie o d’aver figliuoli.78 Per il narratore egli è dunque molto savio,79 cosa che negli studi è stata spesso considerata una critica. Ma se si tiene conto della tradizione misogina in cui è inserita, questa affermazione non va certo intesa in senso ironico, bensì come un riconoscimento all’intelligenza del marchese. Si tratta di una lode, secondo Kapp, che rispecchia la diffusa opinione dei teologi ed eruditi dell’epoca secondo la quale lo stato di vita celibe era superiore a quello coniugale.80 Rifiutando l’idea di sposarsi, Gualtieri si mette dunque implicitamente sullo stesso piano degli uomini più saggi del suo tempo, e per dare forza al proprio punto di vista elenca tutta una serie di argomentazioni contro il matrimonio. Innanzitutto la difficoltà di trovare qualcuno chi co’ suoi custumi ben si convenga.81 Basti pensare al gran numero e al74

Ibid., p. 545. V. Kapp, Frauentugend und Adelsethos in Boccaccios Griselda-Novelle (Decameron X, 10), “Archiv für das Studium der Neueren Sprachen und Literaturen”, 219 (1), 1982, pp. 89-108, qui p. 97. 76 G. Boccaccio, Decameron, a cura di U. Bosco, cit., p. 539. 77 Ibid. 78 Ibid. 79 Ibid. 80 V. Kapp, Frauentugend…, cit., p. 99. 81 G. Boccaccio, Decameron, a cura di U. Bosco, cit., p. 539. 75

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la dura vita di chi si è unito alla donna sbagliata. Né è affidabile il criterio della scelta dei genitori, che non possono garantire pienamente per il carattere delle figlie: E il dire che voi vi crediate a’ costumi de’ padri e delle madri le figliuole conoscere, donde argomentate di darlami tal che mi piacerà, è una sciocchezza, con ciò sia cosa che io non sappia dove i padri possiate conoscere, né come i segreti delle madri di quelle: quantunque, pur conoscendoli, sieno spesse volte le figliuole a’ padri e alle madri dissimili.82

Secondo Kapp abbiamo a che vedere con topoi tradizionali della riverenza maschile, riportati all’unico scopo di “mondare Gualtieri dalla macchia del matrimonio volontario, escludendo fin dall’inizio una motivazione di ordine emotivo”.83 In base a queste argomentazioni, Gualtieri decide di sposarsi per via di influssi esterni – nello specifico, i suoi vassalli –, giustificando così la motivazione che per la scolastica è la causa principalis del matrimonio: si sposa per avere dei figli. Per reagire al timore dei sudditi di restare senza signor84 nel caso che muoia, egli sacrifica il suo supremo interesse personale: la saggezza. Gualtieri diviene così il “caso paradigmatico della scelta di sposarsi esclusivamente per avere dei figli”.85 Sullo sfondo misogino che Gualtieri ha reso sua principale regola di vita va vista anche l’unione con Griselda, “giuridicamente individuata come matrimonio morganatico,86 nel quale il coniuge di ceto inferiore resta escluso dal clan del partner di ceto più elevato”.87 Dal momento che la prole rappresenta “il punto nevralgico di una tale unione”, la nascita del primogenito deve per forza comportare, agli oc82

Ibid. V. Kapp, Frauentugend…, cit., p. 99. 84 G. Boccaccio, Decameron, a cura di U. Bosco, cit., p. 539. 85 V. Kapp, Frauentugend…, cit., p. 100. 86 Il matrimonio morganatico è un matrimonio regolarmente celebrato sul piano civile e su quello ecclesiastico, nel quale la moglie non gode di uguaglianza e dunque di tutte le conseguenze giuridiche di un matrimonio. Di solito, la moglie e i figli non diventavano membri della famiglia, non avevano diritto al nome, al titolo e al blasone né al patrimonio del marito o padre o della sua famiglia, e, nel caso questi facesse parte di una casa regnante, i figli non potevano accampare diritti per la successione al trono. 87 V. Kapp, Frauentugend…, cit., p. 102. 83

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chi di Gualtieri, che Griselda sia messa alla prova: benché ne riconosca l’alta virtù nascosta sotto i poveri panni e sotto l’abito villesco,88 a causa della diffidenza, riconducibile alla tradizione misogina, che lo caratterizza – secondo la quale è nel matrimonio che la donna manifesta la sua vera natura – egli deve “sospettarla di tirannia, in modo da dimostrare pubblicamente che il sospetto è infondato”.89 A Griselda vuole così insegnar d’esser moglie e a se stesso creare perpetua quiete.90 Gualtieri, insomma, si presenta come un saggio che, mettendo alla prova la moglie, ne dimostra la virtù,91 e così facendo pone anche se stesso in una luce molto positiva, essendo stato l’unico, nella sua saggia previdenza, a riconoscere le qualità nascoste di Griselda, orgoglioso dunque di poter dar vanto che niuno altro sia che, sì com’io, si possa di sua moglier contentare.92 E le reazioni dei suoi seguaci, alla fine, gli danno ragione: Savissimo reputaron Gualtieri, come che troppo reputassero agre e intollerabili l’esperienze prese della sua donna, e sopra tutti savissima tenner Griselda.93 Non è tanto Griselda, quindi, a porsi al centro della novella, quanto piuttosto Gualtieri. Il narratore, Dioneo, offre un contributo alla comprensione della novella che gli studi meno recenti hanno spesso ignorato ma che pure è fondamentale. Tenendo conto del fatto che la critica lo considera unanimemente il portavoce94 di Boccaccio o addirittura un suo alter ego95, l’analisi di questa figura ci mette evidentemente in contatto con l’autore stesso, cioè Boccaccio. 88

G. Boccaccio, Decameron, a cura di U. Bosco, cit., p. 541. V. Kapp, Frauentugend…, cit., p. 102. 90 G. Boccaccio, Decameron, a cura di U. Bosco, cit., p. 545. 91 Id., Decameron, tr. ted. e cura di P. Brockmeier, Reclam, Stuttgart 1988. Brockmeier fa notare che Gualtieri fa uso di argomenti “piuttosto non convenzionali o non adeguati al rango”, dal momento che mette al posto del criterio di nascita quello della conoscenza degli uomini: “Nell’ambito di un ordinamento patriarcale, questo è un nobile che predilige un principio di conoscenza sperimentale” (pp. 394 ss.). 92 G. Boccaccio, Decameron, a cura di U. Bosco, cit., p. 545. 93 Ibid. 94 V. Kapp, Frauentugend…, cit., nota 32 p. 98. 95 André Jolles, ad esempio, vi vede una “immagine dell’autore”, richiamandosi a una lettera scritta dal giovane Boccaccio (Ep. II) in cui questi si definisce spurcissimus Dionaeus, che Jolles traduce “lubrico discendente di Dione o Venere” (Introduzione a G. Boccaccio, Dekameron, tr. ted., a cura di A. Jolles, Insel-Verlag, Frankfurt am Main-Leipzig 1999, p. LVII). 89

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Sono già le prime parole con cui Dioneo introduce la storia a mostrare in che ottica leggere la novella: egli osserva infatti all’inizio di voler raccontare ai suoi ascoltatori di un marchese, in una vicenda che è non cosa magnifica ma una matta bestialità.96 “Bestia” e “bestialità”, secondo Bertelsmeier-Kierst, sono i termini più negativi che il Decamerone conosce, usati per parlare di persone particolarmente rozze, come Cimone, il cui nome significa appunto “bestia”: la bestialità è l’opposto assoluto dell’umanità, che è il fondamento della civiltà. Le “bestie umane” sono estranee all’azione civilizzatrice della società, sono rozze, prive di cultura, e vivono come animali in campagna, al di fuori della civiltà urbana.97 Dioneo, nella sua ottica, è critico anche nei confronti dell’apprezzamento – certamente da non sottovalutare alla luce delle tradizioni misogine – dello stile di vita del marchese: nella società del Quattrocento, uccellare e cacciare non sono attività che si possano considerare utili o ragionevoli. Quella che Boccaccio fa qui è una critica all’aristocrazia tipica dell’umanesimo e della sua epoca, una critica che riscontriamo, in forma analoga, in Poggio: Alcuni ritengono di poter conservare la nobiltà ereditata dagli avi cacciando e uccellando, e si dicono nobili per l’ozio e perché evitano ogni attività, sottolineando la nobiltà dei loro antenati e le insegne della loro stirpe. Ma un tale fervore di oziosi e pigri per il cacciare e uccellare non odora più di aristocrazia di quanto non lo facciano le stalle e voliere di questi animali. Sarebbe certo più lodevole coltivare la terra secondo i costumi di certi avi e dei primi uomini anziché andare in giro fuori di sé per i boschi e le montagne come fanno gli animali.98

3.2.7 Sintesi In sintesi possiamo dire che nel Decamerone Boccaccio offre un’immagine assai eterogenea delle donne, che include molti aspetti del comportamento femminile. Le donne che presenta vivono e agiscono 96

G. Boccaccio, Decameron, a cura di U. Bosco, cit., p. 539. Secondo Dante, che qui segue l’etica di Aristotele (Etica nicomachea), si tratta di uno dei tipi di cose che vanno evitate: la malitia, l’incontinentia e la bestialitas (citato da P. Brockmeier in G. Boccaccio, Decameron, cit., p. 395). 98 Gian Francesco Poggio Bracciolini (1380-1458), De nobilitate, Basel 1538, p. 71, citato da P. Brockmeier in G. Boccaccio, Decameron, cit., p. 395. 97

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in un mondo dominato dagli uomini, eppure riescono sovente ad essere autonome e a compiere libere scelte. Non manca tuttavia, d’altra parte, nemmeno la donna che è sottomessa o finisce per sottomettersi al mondo maschile, anche se in questi casi risuona sempre, da qualche parte, una critica implicita. Il successo del libro è senz’altro dovuto anche alla capacità dell’autore di adattare i modelli mitici, in parte antichi, che utilizza al contesto e ai problemi del suo tempo, e questa è una testimonianza di come le radici della formazione della coscienza moderna affondino anche e soprattutto in Boccaccio, e anche e soprattutto nella prospettiva di una nuova immagine femminile.

3.3 IL CORBACCIO Il Corbaccio è l’ultima opera di Boccaccio scritta in volgare, redatta, secondo le ipotesi più recenti, tra il 1363 e il 1365. Fu incoraggiato a comporla dal lungo soggiorno a Venezia presso Petrarca e da una lettera di questi (Seniles V,2) che gli consiglia di guardare al proprio futuro – in particolare a quello di letterato – con serenità e fiducia in se stesso. Nasce così il Corbaccio, una poesia in prosa nata, secondo la confessione iniziale, con la riflessione sopra gli accidenti del carnale amore, nella quale si alternano considerazioni in forma trattatistica e passi e dialoghi in stile narrativo.99 Non è chiaro che cosa intenda il titolo, che da un lato potrebbe significare qualcosa di simile a “flagello” (in base al termine spagnolo corbacho) e dall’altro è anche un dispregiativo di “corvo”, eventualmente inteso come simbolo negativo dell’amore che accende i sensi e acceca. “Corbaccio” potrebbe anche legarsi al nome del poeta, che intendeva forse riconoscersi in questa parola, vista la comunanza in entrambi i vocaboli delle ultime due sillabe. Ma forse con questa parola a prima vista negativa Boccaccio voleva esprimere qualcosa di positivo, avendo essa in sé due idee attinenti alla sfera dell’emotività: il termine latino medioevale cor e quello volgare bac(c)io. Si può insomma soltanto speculare su ciò che Boccaccio volesse dire con questo titolo. Forse era sua intenzione creare anche una sim99

G. Boccaccio, Il Corbaccio, cit., p. 5.

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biosi tra negativo e positivo, dal momento che si considerava un prigioniero dell’amore carnale, combattuto per tutta la vita tra flagello e bellezza. Nella finzione dell’opera, il protagonista ama una bella vedova, che lo respinge per via dell’età e del basso ceto. Profondamente ferito, questi si ritira in un luogo deserto, dove a un certo punto gli appare in sogno, sotto forma di spirito, il defunto marito della vedova, che gli spiega di essere stato mandato dalla Vergine Maria per liberarlo dal laberinto d’Amore che Boccaccio, nel libro, chiama più volte porcile di Venere. Nel Corbaccio Boccaccio fa un ritratto feroce delle cattive abitudini e dei vizi amorosi che si celano dietro il bello e seducente aspetto delle donne, spingendo infine il protagonista a scrivere un’invettiva contro l’ipocrita e ignobile vedova. L’opera andrebbe così collocata nella tradizione della letteratura misogina, dal momento che intende smascherare l’apparente rispettabilità delle donne per mostrarne le vere intenzioni e rivelarne la natura di calcolatrici di insaziabile cupidigia. Una “demitizzazione” della donna che Boccaccio coltiva ricorrendo a descrizioni e dialoghi di carattere satirico e sarcastico, in un linguaggio pregno di volgarità e retorica e di infinita aggressività e schiettezza. Il realismo e la maestria stilistica del Corbaccio ricordano diversi passi del Decamerone. È difficile dire in che misura dietro questa rampogna contro le donne si celi un mutamento psichico dell’autore o un autentico intento morale; si può tuttavia supporre che Boccaccio abbia accolto con favore l’occasione di tornare un’ultima volta alla questione della cosiddetta bellezza femminile, il filo rosso di tutta la sua vita. L’opera può essere anche vista, di conseguenza, come una sorta di “canto del cigno” di Boccaccio, ritiratosi dalla dimensione dell’amore e delle sue illusioni ed ora, da solo a Certaldo, a tirare le somme della propria vita con riflessioni molto critiche e amare. Anche quest’opera ebbe grandi ripercussioni. Fu in particolare la figura della vedova a ispirare molti scrittori, come l’Aretino,100 che la utilizzò per il suo ritratto della cortigiana.

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Pietro Aretino (1492-1556), letterato e poeta del Rinascimento, noto tra l’altro per la sua produzione letteraria di carattere pornografico.

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L’ottica odierna consente anche di interpretare il libro nel senso di un sogno psicoanalitico: Boccaccio descrive la disperata situazione del protagonista come un sogno ad occhi aperti junghiano, facendo uso dell’archetipo della Bella Addormentata.101 Ecco che gli appare uno spirito mandato da Dio che si presenta come il defunto marito della vedova di cui il sognatore si era innamorato, causa delle sue sofferenze. In un lungo colloquio sognatore e spirito discutono dell’angosciosa e disperata situazione del primo, sotto forma di catarsi. Al momento di svegliarsi dal suo straziante sogno il sognatore si sente come liberato, tornato in armonia con se stesso, poiché ha mentalmente elaborato ciò che è accaduto e sa, grazie allo spirito, come comportarsi in futuro. È quindi opportuno dare ora uno sguardo più ravvicinato all’opera, mostrando quanto il Corbaccio si distanzi dall’Elegia di Madonna Fiammetta, nella quale Boccaccio rivela una grande attitudine all’immedesimazione nella psiche femminile, che descrive grandiosamente. Ora, invece, il poeta presenta una “resa dei conti” con l’amore e le donne particolarmente sconcertante, dimentica com’è di ogni tolleranza, tanto da spingere a chiedersi che cosa sia mai successo a quest’uomo nel corso degli anni e perché mai diventi, da amico, nemico delle donne. C’entrano forse le delusioni patite da Boccaccio nel corso della vita per una o più donne? Egli ebbe, a quanto pare, diversi figli naturali, segno, evidentemente, che aveva anche una vita privata, di cui pure non si sa quasi nulla. Si sa solamente che soffrì molto per la morte della figlia naturale Violante, per la quale portò il lutto per molti anni. Fino ad oggi non si riesce dunque a spiegare quale sia la ragione di questa invettiva, dal momento che non si sa se egli fu vittima di profonde delusioni dovute a una donna oppure sia diventato misogino con l’avanzare dell’età, se si pensa in particolare che prese gli ordini e

101 Cfr. Carl Gustav Jung (1875-1961). Nella terapia junghiana, il sogno è considerato l’indicatore più importante dell’inconscio. Nell’inconscio si superano i problemi di ordine psichico ricorrendo ad archetipi. A differenza dell’interpretazione dei sogni di Sigmund Freud, per Jung l’inconscio non va inteso soltanto a livello individuale, ma anche a livello collettivo. Secondo Jung, i miti e le favole tramandati da tutte le culture sono radicati in sogni e visioni individuali, che nella loro plasticità sono al contempo espressione dell’inconscio collettivo.

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si ritirò poi a Certaldo, tormentato da grandi dubbi morali sulla disinvoltura letteraria che aveva messo in mostra nel Decamerone. Forse si trattò del profondo segno lasciato da una donna. Nel leggere come non faccia che deridere le nobili origini dell’odiata vedova protagonista, si ha l’impressione che gli sia forse stata rinfacciata l’origine borghese, o addirittura la nascita illegittima. Ma forse egli divenne preda di scrupoli di natura religiosa, che lo chiamavano alla conversione e alla penitenza; a Certaldo si era legato ad ambienti religiosi che lo spinsero a rivedere il suo modo di pensare. Nel Corbaccio, in ogni caso, invoca molto spesso i celesti e condanna le proprie opere giovanili, come Il Filocolo, la storia d’amore tra Florio e Biancofiore, che tradusse in italiano per l’amata Fiammetta e vedeva certo rispecchiare la propria. Una vita un tempo contraddistinta da avventure e inni all’amore si trasforma. Egli percorre ora la via dell’ascesi, della penitenza e della contrizione, alla ricerca – dopo aver pensato anche al suicidio – di una nuova vita. Intraprenderemo ora un’ampia analisi del Corbaccio. Essendo il testo narrato alla prima persona, l’io narrante sarà identificato con la persona di Boccaccio, che diventa così il narratore o “sognatore”. Si può infatti supporre, come accennato all’inizio, che il libro abbia forti tratti autobiografici, benché Boccaccio non ne faccia mai parola.

3.3.1 Primo capitolo: il colloquio con il salvatore nel laberinto d’Amore Prima di iniziare a scrivere il Corbaccio, il protagonista prega Dio, chiedendogli di dargli la forza necessaria per raggiungere la vera conoscenza. Segue un’analisi molto franca e personale, dove l’io narrante riflette sulla propria vita: Non è ancora molto tempo passato, che ritrovandom’io solo nella mia camera, la quale è veramente sola testimonia delle mie lagrime, de’ sospiri e de’ rammarichii, siccome assai volte davanti avea fatto, mi avvenne che io fortissimamente sopra gli accidenti del carnale amore cominciai a pensare. E molte cose già trapassate volgendo, e ogni atto e ogni parola pensando meco medesimo, giudicai che senza alcuna mia colpa io fossi fieramente trattato male [sic!] da colei, la quale io mattamente per mia singulare donna eletta avea, e la quale io più assai che

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la mia propria vita amava e oltre ad ogni altra onorava e reveriva. E in ciò parendomi oltraggio e ingiuria, senza averla meritata, ricevere, da isdegno sospinto, dopo molti sospiri e rammarichii, amaramente cominciai, non a lagrimare solamente, ma a piangere. E in tanta d’afflizione trascorsi, ora della mia bestialità dolendomi, e ora della crudeltà trascutata di colei, che un dolore sopra un altro col pensiero aggiugnendo, estimai che molto men grave dovesse essere la morte che cotal vita, e quella con sommo disidero cominciai a chiamare […].102

Queste parole mostrano che il protagonista è giunto alla fine delle sue forze. Non si augura che la morte, in modo da veder finire le sue pene. Ma dopo molti pianti ha improvvisamente un’intuizione: Deh stolto! Che è quello a che il poco conoscimento della ragione, anzi più tosto il discacciamento di quella, ti conduce? Or se’ tu sì abbagliato che tu non t’avegghi che mentre tu estimi altrui in te crudelmente adoperare, tu solo se’ colui che verso te incrudelisci? Quella donna, che tu senza guardare come, incatenata la tua libertà e nelle sue mani rimessa, t’è, sì come tu di’, di gravi pensieri misera e dolorosa cagione. Tu se’ ingannato: tu, non ella, ti se’ della tua noia cagione. Mostrami dov’ella venisse a isforzarti che tu l’amassi. Mostrami con quali armi, con qual giurisdizione, con qual forza ella t’abbia qui a piagnere e a dolerti menato,o ti ci tenga!103

È interessante che Boccaccio crei qui un’inversione dell’Elegia di Madonna Fiammetta, dove la protagonista è vittima di infinite sofferenze e la balia le parla della libertà e spontaneità dell’amore. Boccaccio ribadisce questa considerazione nel Corbaccio: Come vuoi tu che alcuno ami quello che non gli piace? Dunque se tu ti se’ messo ad amare persona a cui tu non piaci, non è, se mal te ne segue, la colpa della persona amata, anzi è tua, che sapesti male eleggere.104

Segue un’altra profonda analisi di come ha agito fino ad ora; Dio chiede infine al narratore di dimenticare ogni cosa negativa e dare un nuovo volto alla propria vita, e questi afferma:

102

G. Boccaccio, Il Corbaccio, cit., pp. 5-6. Ibid., pp. 6-7. 104 Ibid., p. 7. 103

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Questo pensiero, siccome io arbitro, dal piissimo Padre de’ lumi mandato, quasi dagli occhi della mente ogni oscurità levatami, in tanto la vista di quegli aguzzò e rendé chiara, che a me stesso manifestamente scoprendosi il mio errore, non solamente, riguardandolo, me ne vergognai, ma da compunzione debita mosso, ne lagrimai e me medesimo biasimai forte […].105

Rinvigorito, il narratore lascia la sua camera, esce e si intrattiene fino a tarda sera con altre persone, finché non torna a casa, va a letto e fa un sogno. Nel sogno si vede mentre cammina all’interno di un paesaggio meraviglioso, che vorrebbe guardare più da vicino perché lo rende euforico. Ma all’improvviso cambia ogni cosa: al posto dei bellissimi fiori tutt’intorno a lui vede pietre, cardi, spine e sterpaglia selvatica, cinti da montagne rocciose. Poi gli si alza davanti una fitta nebbia, finché non si fa sempre più buio. Ha la sensazione di trovarsi all’inferno. La paura aumenta al percepire i ruggiti e ululati delle fiere. Persa quasi ogni speranza di sfuggire a questa valle infernale, ecco giungere inaspettatamente un uomo, di una sessantina d’anni di età, vestito di una veste rossa, che gli si avvicina e dice: Qual malvagia fortuna, qual malvagio destino t’ha nel presente diserto condotto? Dove è il tuo avvedimento fuggito, dove la tua discrezione? Se tu hai sentimento quanto solevi, non discerni tu che questo è luogo di corporal morte e di perdimento d’anima, che è molto peggio? Come ci se’ tu venuto? Qual tracutanza t’ha qui guidato?106

Il sognatore gli risponde: Siccome io stimo, il falso piacere delle caduche cose, il quale più savio che io non sono già trasviò molte volte e forse a non minore pericolo condusse, quivi, prima che io m’accorgessi dov’io m’andassi, m’ebbe menato, là dove in amaritudine incomportabile e senza speranza alcuna, da poi che io mi ci vidi, che è sempre stato di notte, dimorato sono. […] Se sai, m’insegni com’io di luogo di tanta paura pieno partir mi possa; dalla quale già sì vinto mi sento che appena conosco se io o vivo o morto mi sono.107

105

Ibid., pp. 10-11. Ibid., p. 18. 107 Ibid., p. 19. 106

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In un dialogo successivo si comprende che la persona con cui parla il sognatore è il marito abbandonato della donna che amava, che gli si presenta non in carne ed ossa, ma sotto forma di spirito, e lo riconosce: E se io fossi colui che io già fui, per certo non aiuto ti presterei, ma confusione e danno, siccome a colui che ottimamente l’hai meritato. Ma per ciò che io, poi che della vostra mortal vita sbandito fui, ho la mia ira in carità trasmutata, non sarà alla tua dimanda negato il mio aiuto.108

Il dialogo seguente assume tratti fortemente religiosi, rivelando alcuni parallelismi con la Divina Commedia: al sognatore lo spirito dice di essere stato mandato da Maria, la madre di Gesù, che il sognatore ha sempre venerato molto e alla cui grazia ha sempre creduto; essa ha dunque chiesto allo spirito di essere suo messaggero, per salvarlo in nome di lei. Quando il sognatore chiede dove si trovi, lo spirito gli spiega che si trova nel laberinto d’Amore; vuole tirarlo fuori da lì. Ma ciò, dice lo spirito, è possibile soltanto se parlano con estrema franchezza e senza pregiudizi. Lo spirito chiede dunque al sognatore di raccontargli senza sensi di colpa come conobbe la sua vedova. 3.3.2 Secondo capitolo: l’amante disperato110 Il sognatore viene a sapere della vedova grazie a un amico che gliene aveva parlato con toni entusiasti e gli aveva detto come fosse non solo estremamente intelligente e colta, ma anche fisicamente molto attraente; tutti sono colpiti dalla sua grazia, leggiadria e intelligenza. Poco dopo riesce anche a trovarla, scoprendola nel luogo menzionato dall’amico, insieme ad altre donne, seduta su una panchina davanti a una casa. Porta, come le altre, un abito nero, anche se il suo è dotato di strisce bianche,111 cosa che, come nota il sognatore, le dona particolarmente. Quando lo spirito gli chiede se le abbia confessato il suo amore, il sognatore risponde di sì: le scrive una lettera, assicurandole che non 108

Ibid., p. 20. Ibid., pp. 20-34. 110 Ibid., pp. 34-50. 111 Nel medio evo era normale che donne sposate e rimaste vedove portassero abiti neri, spesso integrati da applicazioni bianche come nastri ecc. L’abito nero potrebbe però anche essere un’allusione al corbaccio. 109

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c’è nulla che desideri di più che fare la sua conoscenza. Nella lettera di risposta lei gli chiede chi sia e gli dice di apprezzare gli uomini che hanno in sé senno e prodezza e cortesia.112 Il sognatore le manda allora una seconda lettera, ma non riceve risposta. Quando lo spirito gli chiede che cosa lo abbia spinto ad augurarsi la morte più ardentemente di ogni altra cosa, il sognatore cita un gran numero di motivi alla base della sua profondissima disperazione. Tutto – dice allo spirito – iniziò quando rivide all’improvviso davanti agli occhi il luogo in cui si era perdutamente innamorato della vedova, rivivendo ogni ricordo negativo e ogni ferita: il fatto che raccontò subito ad altri che si era innamorato di lei, il rimproverarsi di essersi fatto traviare dai racconti del suo amico senza sincerarsi da sé, prima di innamorarsene, delle qualità in apparenza positive di questa donna; e di esservisi sottomesso completamente annullando la propria volontà. Lei, poi, lo tradì con un altro,113 e gli mostrò la sua lettera; fu questi a scrivere la risposta e a raccontare ad altri qualsiasi cosa, tutto quello che gli veniva in mente, per ridicolizzarlo in combutta con lei. La vedova, da parte sua, non perdeva occasione per parlar male del sognatore, e quando questi le passava accanto lo indicava e diceva alle altre donne: Vedi tu quello scioccone? Egli è mio vago.114 A queste parole lo spirito lo rimprovera, dicendogli che vorrebbe parlare con lui di due cose: quanti anni abbia e quanto sia sapiente, visto che entrambe le cose avrebbero potuto aiutarlo a controllarsi o regolarsi meglio nell’agire:

112

G. Boccaccio, Il Corbaccio, cit., p. 40. Ibid., pp. 42-43. Il testo recita: “Uno, il quale, non perché egli sia, ma perché gli pare essere, i suoi vicini chiamano ‘il secondo Absalone’, è da lei amato. Al quale essa, per più farglisi cara, ha le mie lettere palesate e con lui insieme me a guisa d’un beccone ha schernito”. Su Assalonne, il Konstanzer Kleines Bibellexikon (Christliche Verlagsanstalt, Konstanz 1991, p. 15) scrive: “Assalonne (terzo figlio di Davide), uomo di figura attraente e principesca clemenza, che mostrava però anche un carattere dai tratti caparbi e dispotici. Per vendicare l’onore della sorella Tamàr fece uccidere il fratellastro Amnòn e dovette fuggire a Ghesùr. Grazie all’intervento di Ioab ci fu una riconciliazione tra Assalonne e Davide. Quattro anni dopo Assalonne iniziò la sua rivolta, minuziosamente preparata, contro Davide. Si fece proclamare re a Ebron. Dopo i primi successi fu sconfitto nella foresta di Èfraim, vicino al Giordano. Durante la fuga i capelli gli si incastrarono tra i rami di un terebinto, e fu colpito a morte contro la volontà di Davide (2 Sam 13-19). 114 G. Boccaccio, Il Corbaccio, cit., p. 43. 113

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[…] Se le tempie già bianche e la canuta barba non m’ingannano, tu dovresti avere li costumi del mondo; fuori delle fasce già sono degli anni quaranta e già son venticinque cominciatoli a conoscere. E se la lunga esperienza delle fatiche d’amore nella tua giovanezza tanto non t’avea gastigato che bastasse, la tiepidezza degli anni, già alla vecchiezza appressatisi, almeno ti doveva aprire gli occhi a farti conoscere là dove questa matta passione, seguitando, ti doveva far cadere, e oltre a ciò, mostrarti quante e quali fossero le tue forze a rilevarti. La qual cosa se con estimazione ragionevole avessi riguardata, conosciuto avresti che dalle femmine nell’amorose battaglie gli uomini giovani, non quelli che verso la vecchiezza calano, sono richiesti; e avresti veduto le vane lusinghe, sommamente dalle femmine disiderate, ne’ giovani, non che ne’ tuoi pari, star male.115

Segue poi un passo in cui lo spirito allude al passato del sognatore, cosa che mostra ancora una volta con chiarezza i forti tratti autobiografici del libro. Lo spirito gli dice infatti: Gli studi adunque alla sacra filosofia pertenenti infino dalla tua puerizia più assai che il tuo padre non avrebbe voluto ti piacquero, e massimamente in quella parte che a poesia appartiene; la quale per avventura tu hai con più fervore d’animo che con altezza d’ingegno seguita. Questa, non menoma tra l’altre scienze, ti doveva parimente mostrare che cosa è amore e che cosa le femmine sono e chi tu medesimo sii e quel che a te s’appartiene.116

E lo spirito chiede di nuovo al sognatore se i suoi studi letterari non gli abbiano mostrato come siano realmente le donne che si definiscono tanto volentieri dame, ma ben poco lo sono.

3.3.3 Terzo capitolo: un’invettiva contro la donna117 Il capitolo è una spietata invettiva contro la donna, estrema e radicale come non ne esiste l’uguale. Non ci si può non chiedere che cosa possa aver spinto Boccaccio a scriverla in questa forma, dopo aver mostrato nel Decamerone e nell’Elegia di Madonna Fiammetta di saper comprendere così bene le donne, e che cosa abbia causato in lui que115

Ibid., pp. 45-46. Ibid., pp. 48-49. 117 Ibid., pp. 50-78. 116

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sto voltafaccia. Fu davvero una profonda frustrazione per le esperienze subite con le donne? O ha voluto cimentarsi, ancora una volta, con un genere letterario del tutto nuovo, che facesse eventualmente il bilancio della sua vita o che egli riteneva necessario alla luce della sua nuova ispirazione religiosa? In ogni caso, quest’opera è più di una provocazione sulle donne, ed è strano che le donne non si siano quasi espresse a riguardo, anche se, certo, poche sapevano leggere, e ancora meno scrivere. Citeremo ora alcuni brani di questo feroce capitolo, che gettano una luce del tutto nuova sull’autore, continuando a domandarci – senza speranza di risposta – che cosa lo abbia mai spinto a farlo. Anche se a dire queste sconcertanti cose è il marito della sua ex amante, lo spirito che incontra nel laberinto d’Amore, si può supporre che per bocca di lui Boccaccio dia voce ai suoi stessi pensieri e sentimenti. Ecco come inizia: La femmina è animale imperfetto, passionato da mille passioni spiacevoli, e abominevoli pure a ricordarsene, non che a ragionarne. Il che se gli uomini raguardassero come dovessero, non altrimenti andrebbono a loro, né con altro diletto o appetito, che all’altre naturali e inevitabili opportunità vadano […]. Niuno altro animale è meno netto di lei; non il porco, qualora è più nel loto convolto, aggiugne alla bruttezza di loro. E se forse alcuno questo negar volesse, riguardinsi i parti loro, ricerchinsi i luoghi segreti, dove esse, vergognandosene, nascondono gli orribili strumenti li quali a tor via li loro umori superflui adoperano.118

Lo spirito dice poi che le donne sono abilissime a ridurre a bestia l’uomo che le ami e le desideri, e questi è così stupido da non notarlo. È tanto aggressivo nei confronti delle donne da dire al sognatore che non gli basterebbe un anno per elencare tutte le cose negative che le riguardano, come ad esempio che la donna è calcolatrice. Con apparenze sapientemente dosate come il trucco e i vestiti, essa tenta di conquistare l’uomo che si è scelta. E se riesce infine, con molte astuzie e perfidie, ad appropriarsene e a farsi sposare, si trasforma in una despota, gettandosi a capofitto sulle sue ricchezze e litigando in continuazione con i suoi servi, le sue domestiche, i suoi amministratori e i 118

Ibid., pp. 50-51.

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suoi fratelli. Spesso rimprovera al marito di avere relazioni con altre donne, anche se lei stessa non perde occasione di tradirlo con altri uomini. Esce infatti intabarrata di notte passando sui tetti per recarsi dall’amante. Altre donne nascondono al marito gli amanti in ceste o casse. Altre sono a letto con l’amante accanto al marito. Delle gravidanze che spesso ne risultano si liberano in diversi modi. Oltre a svariati metodi abortivi, molte donne subito dopo il parto abbandonano i neonati nei boschi per non rivelare la gravidanza. Spesso però le donne rifilano di nascosto il figlio di un altro uomo al marito, in modo da non perdere il proprio status sociale. Inoltre si ritengono più intelligenti degli uomini e sostengono che tutte le cose buone sono femminili: le stelle, le muse, le virtù e le ricchezze, e lo spirito aggiunge sprezzante: Egli è così vero che tutte son femmine, ma non pisciano.119 Lo spirito rimprovera inoltre alle donne di paragonarsi inopportunamente a Maria, il che è errato per il fatto che la Vergine, a suo parere, è in una posizione di particolare onore, mentre la donna in generale è fornita di tutte le qualità negative. In confronto l’uomo è in una condizione molto più elevata, che fonda sulla sua origine da Adamo. Al termine del capitolo lo spirito fa ancora una volta appello al sognatore di essere consapevole di ciò che vale e non farsi mettere i piedi in testa da una donna che lo fa sprofondare nell’abisso. Proprio lui, più di altri uomini, dovrebbe, in ragione della sua cultura e delle considerazione tributatagli, dominare e non essere dominato. Tutti i regni e i principati, tutti gli uffici spirituali e secolari sono infatti riservati agli uomini e non alle donne, afferma supponente.

3.3.4 Quarto capitolo: la donna, un essere diabolico120 Nel capitolo lo spirito non fa che parlare della donna che fu sua moglie, spiegando al sognatore che essere abietto, calcolatore, corrotto, infinitamente superbo e impostore sia in tutte le sue sfaccettature. Si trattava per entrambi del secondo matrimonio. Lei sosteneva di avere nobili origini e lo enfatizzava con insistenza, anche se non ne portava la minima prova. Si atteggiava a signora e voleva impadronirsi del patrimonio di lui, che questi dopo qualche tempo le lasciò

119 120

Ibid., p. 68. Ibid., pp. 79-104.

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rendendosene schiavo. Tutti gli sforzi di lei erano tesi a fare impressione agli altri sia attraverso l’aspetto esteriore che con la sua supposta nobiltà, al fine di ottenerne la simpatia. Lo spirito racconta poi per filo e per segno al sognatore quanto fosse importante, per lei, curare il proprio aspetto e tutto ciò che faceva a tal fine. […] Costei, estimando che l’aver bene le gote gonfiate e vermiglie, e grosse e sospinte in fuori le natiche (avendo forse udito che queste sommamente piacevano in Alessandria, e per ciò fossero grandissima parte di bellezza in una donna), in niuna cosa studiava tanto quanto in fare che queste due cose in lei pienamente fossero vedute; nel quale studio queste cose intervennero alle spese di me, che talor digiunava per risparmiare. Primieramente, se grosso cappone121 si trovava, de’ quali ella molti con gran diligenzia faceva nutricare, convenia che innanzi cotto le venisse; e le pappardelle col formaggio parmigiano similmente. Le quali non in iscodella, ma in un catino, a guisa del porco così bramosamente mangiava come se pure allora dopo lungo digiuno fosse della torre della fame fuggitasi. Le vitelle di latte, le starne, i fagiani, i tordi grassi, le tortole, le suppe lombarde, le lasagne maritate, le frittelle sambucate, i migliacci bianchi, i bramangieri, de’ quali ella faceva non altre corpacciate che facciano di fichi, di ciriege o di poponi i villani quando ad essi s’avvengono, non curo di dirti.122

Così facendo, afferma lo spirito, e pienamente di divenire paffuta e naticuta le venne fatto.123

Dubita che da quando è morto sia dimagrita per aver troppo digiunato per il bene della sua anima. Ma l’aspetto non era solo una questione di cibo. Faceva di tutto per vestirsi e truccarsi in modo pacchiano, preparando unguenti e procurandosi erbe medicinali e il sangue di ogni animale possibile. La casa era ricolma di distillatori, tegami, vasi di vetro, e lei si imbrattava di pomate come una meretrice.

121 I capponi sono galletti castrati all’età di dodici settimane e messi all’ingrasso. Hanno una carne piuttosto delicata, bianca e grassa, e un eccellente sapore. 122 G. Boccaccio, Il Corbaccio, cit., pp. 84-85. 123 Ibid., p. 86.

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E poi era ossessionata dal sesso. L’uomo è un vero uomo soltanto se la sua lancia per sei o per otto aringhi o per dieci in una notte non si piega in guisa che poi non si dirizzi.124 Provava in particolare attrazione per gli aristocratici, e non perdeva occasione per parlare diffusamente delle sue nobili origini. Adorava raccontare, e soprattutto i fatti degli altri. Era ben al corrente di che cosa stesse facendo il re di Francia o quello d’Inghilterra, se i siciliani avessero avuto un buon raccolto, se la regina Giovanna la notte precedente avesse dormito con il re, che cosa avessero stabilito i fiorentini per la loro città e molte altre cose. Lo spirito aggiunge sprezzante: […] Se quello è vero che questi fisichi dicono, che quel membro il quale l’animal brutto, l’uccello o ’l pesce, più esercita, sia più piacevole al gusto e più sano allo stomaco, niun boccone deve mai essere più saporito né migliore che la lingua di lei, la quale di ciarlare mai non ristà, mai non molla, mai non rifina: dàlle! dàlle! dàlle! dalla mattina insino alla sera; e la notte ancora, io dico, dormendo, non sa ristare. E chi non la conoscesse, udendola della sua onestà, della sua divozione, della sua santità e di quelli di casa sua favellare, crederebbe per certo lei essere una santa, e di legnaggio reale; e così in contrario, a chi la conosce, l’udirla la seconda volta, e talora la prima, è un fargli venir voglia di recer l’anima.125

Benché, come ricordato all’inizio, metta in bocca queste parole tanto spietate allo spirito, cioè al fu marito della vedova, si può supporre che Boccaccio, nei panni del sognatore, le condivida e veda questa donna allo stesso modo. Anche se avesse voluto solamente scrivere un’invettiva, un libello, i lettori non possono non domandarsi che cosa lo abbia spinto a farlo, quali fossero i suoi intenti e motivi per fare una descrizione tanto eccessiva di una donna. 3.3.5 Quinto capitolo: l’amore che rende ciechi126 All’inizio del capitolo lo spirito torna a rimarcare di voler salvare l’anima ferita del sognatore, affinché questi lasci la valle delle insidie e della morte. Ma tutto ciò, afferma lo spirito, può accadere soltanto 124

Ibid., p. 102. Ibid., p. 105. 126 Ibid., pp. 105-117. 125

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se il sognatore fa completa ammenda dei propri errori, passandoli in rassegna e prendendone le distanze sia dentro che fuori di sé, per iniziare così una vita davvero nuova. Lo spirito gli dice inoltre che tutto questo non è un farmaco che il medico possa somministrare: è lui stesso a dover cambiare, se vuole liberarsi dalle sofferenze dell’anima. Lo spirito torna curiosamente, spietato e perentorio, a criticare con asprezza colei che fu sua moglie, in modo che il sognatore capisca che l’amore lo ha reso cieco nel vero senso della parola. Ciò che egli vedeva in questa donna, infatti, non era la realtà, bensì un’illusione, come è il caso, ad esempio, della freschezza del viso: La quale [bellezza], essendo artificiata e simile alle mattutine rose parendo, con teco molti altri naturale estimarono; la quale se a te e agli altri stolti, come a me, possibile fosse stato d’avere, quando la mattina del letto usciva, veduta, prima che posto s’avesse il fattibello, leggermente il vostro errore avreste riconosciuto.127

Poi è la volta del corpo di lei, che – gli rivela – in realtà era un essere mostruoso, perfettamente in grado di occultare i propri difetti fisici, in modo che nessun estraneo potesse notarlo. I suoi seni (bozzacchioni) non si vedevano, nascosti com’erano da bende bianche. Erano pesantissimi e tanto allungati da raggiungere l’ombelico. Se a Firenze fossero di moda come a Parigi i cappucci, lei potrebbe gettarseli graziosamente sulle spalle, alla maniera francese.128 Del corpo di lei dice ancora: Cotanto o meno alle gote, dalle bianche bende tirate e distese, risponde la ventraia, la quale di larghi e spessi solchi vergata come sono le toricce, pare un sacco voto, non d’altra guisa pendente che al bue faccia quella pelle vota che gli pende dal mento al petto; e per avventura non meno che gli altri panni quella le conviene in alto levare, quando secondo l’opportunità naturale vuole scaricar la vescica, o secondo la dilettevole, infornare il malaguida.129

E della sua vulva: La bocca, per la quale nel porto s’entra, è tanta e tale, che quantunque il mio legnetto con assai grande albero navicasse, non fu già 127

Ibid., p. 109. Ibid., p. 112. 129 Ibid., pp. 112-113. 128

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mai, qualunque ora l’acque furono minori, che io non avessi potuto, senza sconciarmi di nulla, ad un compagno, che con non minore albero di me navicato fosse, far luogo. […] Io mi tacerò de’ fiumi sanguinei e de’ crocei che di quella a vicenda discendono, di bianca muffa faldellati, talvolta non meno al naso che agli occhi spiacevoli, per ciò che ad altro mi tira il preso stile.130

Alla fine del capitolo lo spirito esorta il sognatore a tornare a se stesso, riconoscere la propria cecità e guardare in faccia alla realtà, per uscire dal laberinto d’Amore o porcile di Venere. 3.3.6 Sesto capitolo: la salvezza131 È il capitolo con cui Boccaccio chiude la sua invettiva, e nel quale lo spirito continua a esprimersi in modo ostile nei confronti della moglie, affinché anche il sognatore riconosca finalmente con che donna calcolatrice ha a che fare. Lo spirito gli racconta delle sue condizioni di salute, andate via via peggiorando, fino a morire. Fu una morte assai repentina, che non gli consentì di regolare le questioni finanziarie e intestare il patrimonio ai figli, sicché la moglie – che mostrava di provare grande sofferenza per questo lutto improvviso – divenne sua unica erede. In realtà – prosegue lo spirito – si rallegrava molto della sua ricca vedovanza, potendo così dedicarsi ancora al richiamo dei sensi. Si trasferì in una casa nei pressi della chiesa per soddisfare le sue voglie con il clero. Ecco come lo descrive lo spirito: Uscita adunque di casa, così coperta se n’entra nella chiesa; ma non vorrei che tu credessi che ella per udir divino oficio o per adorar v’entrasse, ma per tirar l’aiuolo, per ciò che, sappiendo ella, già è lungo tempo, che quivi d’ogni parte della nostra città concorrono giovani e pro’ e gagliardi e savi come le piacciono, di quella ha fatto uno escato, come per pigliare i colombi fanno gli uccellatori.132 […] Tutta si tritola, quando legge Lancelotto o Tristano o alcuno altro con le lor donne nelle camere segretamente e soli ragunarsi, sì

130

Ibid., pp. 113-114. Ibid., pp. 117-154. 132 Ibid., pp. 120-121. 131

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come colei alla qual pare veder ciò che fanno, e che volentieri, come di loro immagina, così farebbe, avvegna che ella faccia sì che di ciò corta voglia sostiene.133

Torna poi a parlare al sognatore senza peli sulla lingua, esortandolo a pentirsi di ciò che ha fatto e sperare nella salvezza. Da spirito, gli spiega, osservò una notte come la moglie giacesse con un amante e gli leggesse, durante il godimento dei sensi, la prima lettera d’amore del sognatore, ridendone entrambi e stabilendo di scrivervi una risposta e attendere così una nuova missiva del malcapitato, destinata a diventare nuovo oggetto di scherno. Il sognatore non ricevé nessun’altra lettera, poiché l’amante temeva che la vedova, a lungo andare, potesse tornare a innamorarsi di questi e mettesse l’altro alla porta. Lo spirito gli parla poi dei suoi studi e dei suoi talenti: […] Se così se’ sdegnoso come dimostri nell’altre cose, non d’essere stato schernito o forse rifiutato piagnerai e lamentara’ti, ma d’averti a modo ch’un nibbio lasciato adescare e pigliare alle busecchie.134

Al termine lo spirito tocca il punto forse più sensibile del sognatore, le sue non nobili origini: Ma non sai tu qual sia la vera gentilezza e quale la falsa? Non sai tu che cosa sia che faccia l’uomo gentile e qual sia quella che gentile esser non lo lascia? Certo sì che io so che tu il sai; né niuno è sì giovinetto nelle filosofiche scuole che non sappia noi da un medesimo padre e da una madre tutti avere i corpi e l’anime tutto equali da un medesimo Creatore; né niuna cosa fe’ l’un gentile e l’altro villano, se non che, avendo ciascun parimente il libero arbitrio a quello operare che più gli piacesse, colui che le virtù seguitò fu detto gentile, e gli altri, in contrario, seguendo i vizi, furon non gentili reputati; dunque da virtù venne prima gentilezza nel mondo. Vieni ora tu tra’ suoi moderni e ancora tra’ suoi passati cercando e vedrai quante di quelle cose e in quanti tu ne troverai che facciano gli uomini gentili. […] La gentilezza non si può lasciare in eredità, se non come le virtù, le scienze, la santità e così fatte cose; ciascun conviene che la si procacci, e acquistila chi aver la vuole. Ma che che stato si sia negli altri, dirizza un poco gli occhi in colei di cui parliamo, che così gentil cosa ti pare; e chi ella

133 134

Ibid., p. 123. Ibid., p. 137.

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sia al presente o nel preterito stata sia, riguarda: se io non errai, vivendo seco, e se bene quel che di lei poco innanzi ragionai raccogliesti, ella ha tanto di vizio in sé che ella ne brutterebbe la corona imperiale. Che gentilezza adunque ti può da lei esser gittata al volto, o rimproverata non gentilezza? In verità, se non che parrebbe che io lusingar ti volessi, assai leggermente e con ragioni vere ti mostrerei te molto esser più gentile che ella non è, quantunque degli scudi de’ tuoi passati non si veggano per le chiese appiccati.135

Ed ecco che cosa consiglia infine lo spirito al sognatore poco prima di liberarlo dal laberinto d’Amore: A voler de’ falli commessi satisfare interamente, si conviene a quel che fatto hai operare il contrario; ma questo si vuole intendere sanamente. Ciò che tu hai amato ti conviene avere in odio; e ciò che tu, per l’altrui amore acquistare, t’eri a dover far disposto, a fare il contrario. Sì che tu odio acquisti, disporre e far ti conviene; e odi come, acciò che tu stesso, male intendendo le parole da me ben dette, non t’ingannassi. Tu hai amata costei, perché bella ti pareva, perché dilettevole nelle cose libidinose la speravi. Voglio che tu abbi in odio la sua bellezza, in quanto di peccare ti fu cagione o essere ti potesse nel futuro; voglio che tu abbi in odio ogni cosa che in lei in così fatto atto dilettevole estimassi; la salute dell’anima sua voglio che tu ami e disideri; e, dove per piacere agli occhi tuoi andavi disiderosamente dove veder la credevi, che tu similmente questo abbia in odio e fugghitene; voglio che della offesa fattati da lei tu prenda vendetta; la quale ad un’ora sarà a te e a lei salutifera.136

Poi il sognatore, liberato da ogni sofferenza, segue lo spirito su un sentiero illuminato e dice: Sopra la sommità della quale poi pervenuti fummo, quivi il cielo aperto e luminoso per tutto veder mi parve, e sentire l’aere dolce e soave e lieto, e veder le piante verdi e i fiori per le campagne, le quali cose tutto il petto, delle passate noie afflitto, riconfortarono e ritornar nella prima allegrezza. Laonde, sì come allo spirito piacque, io mi rivolsi indietro a riguardare il luogo del quale tratto m’avea; e parvemi non valle, ma una cosa profonda infino in inferno, oscura e piena di

135 136

Ibid., pp. 140-141. Ibid., p. 145.

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notte e di dolorosi rammarichii. E avendomi detto me essere libero e potere di me fare a mio senno, tanta fu la letizia che io sentii, che vogliendomigli a’ piè gittare e grazie rendergli di tanto e tal beneficio, esso e il mio sonno ad un’ora si dipartiro.137

Il libro si conclude con una chiosa che descrive il risveglio del sognatore, che racconta: Risvegliato adunque e tutto di sudore bagnato trovandomi, non altrimenti che sieno gli uomini faticati e che se col vero corpo la montagna salita avessi che nel sogno mi parve salire, maravigliatomi forte, sopra le vedute e udite cose cominciai a pensare; e mentre meco ad una ad una repetendo l’andava, e esaminando se possibile fosse così essere il vero come mi pareva avere udito, assai ne concedetti verissime, come che poi quelle che per me allora conoscere non potea, da altrui poi informatone, essere non meno vere che l’altre trovassi. Per la qual cosa, non altrimenti che spirato da Dio, a dovere con effetto della misera valle uscire mi dispuosi.138

Il sognatore parla infine ancora una volta con il libro – come fa Fiammetta –, consigliando ai giovani maschi di non esporsi ai pericoli in modo sconsiderato e impulsivo e ringraziando la Vergine Maria di averlo fatto uscire dal labirinto. Poi scongiura insistentemente il libro di non cadere mai nelle mani di donne cattive, in particolare di colei che ogni demonio di malvagità trapassa.139

3.3.7 Il Corbaccio nell’ottica di un sogno ad occhi aperti junghiano Abbiamo detto in precedenza che una delle immagini principali del sogno ad occhi aperti junghiano è il motivo della Bella Addormentata: il sognatore è convinto di dover svegliare una fanciulla che dorme in un castello e di doverla portar via. Nel Corbaccio la strada che vi ci porta è resa disagevole dalle sterpaglie, dall’oscurità e dalle pene; il sognatore, insomma, non riesce ad 137

Ibid., pp. 153-154. Ibid., p. 154. 139 Ibid., p. 156. 138

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arrivare direttamente a lei. Tutte le sofferenze che patisce provengono dalla sua fantasia e speranza di essere amato, ma quella dell’amante stessa è una presenza indiretta, di cui si trascura la prospettiva perché sono i desideri del sognatore il centro di tutto; sognatore che viene dunque liberato dai tormenti solo quando spezza ogni catena che lo lega e si dà nuovi obiettivi. Quando alla fine ce la fa, l’oscurità e la valle dei tormenti sono acqua passata, e il futuro promette un’esistenza nuova e luminosa. Uno dei meccanismi tipicamente medioevali del Corbaccio è che la liberazione del sognatore ha luogo grazie alla dimensione religiosa e non, come suggerirebbero Freud e Jung, tramite un processo di maturazione nei rapporti con la donna. È quindi comprensibile che oltrepassare l’offesa e l’onta passi, per il sognatore (alias Boccaccio), per l’invettiva lanciata verso la figura femminile. L’amore si trasforma in amore di Dio, il rapporto con le donne in misoginia.

83

4.

FIAMMETTA, DECAMERONE, CORBACCIO: UN CONFRONTO

L’Elegia di Madonna Fiammetta è incentrata su una donna che viene abbandonata da un uomo ed è tanto disperata da pensare al suicidio. La balia, per fortuna, riesce a dissuaderla, dicendole che non si può pretendere da un’altra persona – nello specifico da un uomo – che ricambi il proprio amore. Dopo mille sofferenze Fiammetta se ne convince e si arrende al suo destino. Al termine si rivolge direttamente al libro: la sua speranza è che lo leggano molte donne e si guardino così dagli uomini volubili, infedeli e malvagi, evitando di cadere nelle loro trappole. Il Corbaccio capovolge completamente l’Elegia di Madonna Fiammetta. Il protagonista – il sognatore – si è innamorato di una donna che non ricambia il suo amore, e non fa che schernirlo e deriderlo. Si dispera al punto di voler togliersi la vita, proprio come Fiammetta. In sogno è precipitato nel laberinto d’Amore, dove incontra uno spirito che gli rivela di essere il fu marito della sua amata e lo rende edotto, in un lungo colloquio, di quanto spregevoli siano le donne, e in particolare quella di cui il sognatore si è perdutamente innamorato. Lasci perdere le donne, gli intima, perché sono cattive, calcolatrici e avide. Fu lui a sbagliare nell’innamorarsi di questa donna, gli spiega, dal momento che non si può pretendere di essere corrisposti. Quando il sognatore dà mostra di capirlo, lo spirito lo porta sul sentiero della liberazione, e questi torna tutto purificato sulla terra ringraziando Maria di averlo sostenuto e liberato dalle donne. Come Fiammetta, al termine si rivolge al libro e gli chiede che siano in molti i giovani uomini a leggerlo, e sappiano così quanto possono essere malvagie e diaboliche le donne. Non sappiamo che cosa abbia spinto Boccaccio a scrivere questi due libri in forma speculare. Stupisce, in ogni caso, che sviluppi immagini femminili così contraddittorie, tenendo conto del fatto che il Decamerone offre un’immagine femminile ancora diversa, che non 85

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farebbe mai pensare che avesse difficoltà nei rapporti con le donne. Anzi, all’inizio del libro dice che è proprio per loro che lo scrive, affinché lo leggano per passatempo, non potendo, a differenza dei maschi, andare a caccia o fare ogni altra cosa. Mentre nell’Elegia di Madonna Fiammetta e nel Corbaccio il tema si incentra esclusivamente sull’“uomo” e sulla “donna” e sulle loro caratteristiche più negative, il Decamerone, come sappiamo, è piuttosto variegato, e tratta della felicità, del genio, del denaro, della religione e dell’amore, il “motore” che può tenere unito, o anche diviso, il mondo. Mentre poi le novelle del Decamerone sono caratterizzate da un forte realismo e una grande normalità, da un atteggiamento sommamente liberale e cosmopolita e da uno spiccato senso dell’umorismo, l’Elegia e il Corbaccio rivelano qua e là una psiche umana eccessivamente insoddisfatta e angusta. Se da un lato descrive la situazione di Fiammetta e le sue difficoltà con grande empatia e assiste al suo lungo e infelice cammino con un atteggiamento assai comprensivo, nel Corbaccio Boccaccio descrive le sofferenze di un uomo che ama e il cui amore non è corrisposto con molta aggressività e grandi accuse nei confronti delle donne, poiché si sente offeso e deriso e impossibilitato a difendersi in qualunque modo. L’approccio psicologico che è loro proprio rendono comunque questi due libri molto più adatti ai nostri tempi che al medio evo, che era ben lungi dall’occuparsi di ciò che sentono le donne e nel quale l’uomo poteva fare le sue scelte senza tenerne minimamente conto. Con l’Elegia di Madonna Fiammetta e il Corbaccio, insomma, Boccaccio crea un genere letterario del tutto nuovo per il suo tempo, e con questi e il Decamerone egli mette in rilievo aspetti letterari inediti sia sul piano dei contenuti che su quello dello stile. Quello che non si può dire è se sia misogino o meno, o se la sua misoginia – più che esplicita nel Corbaccio – sia una reazione tardiva del suo spirito. Fu, forse, soltanto una profondissima ferita dovuta a una donna, cui pensò di reagire scrivendo un libro. È un’ipotesi di qualche fondamento, anche tenendo conto del fatto che Boccaccio era figlio illegittimo e privo di nobili natali.

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APPENDICE

5.

ALTRE OPERE140

Questo libro, come accennato nell’introduzione, fa riferimento alla recezione dell’Elegia di Madonna Fiammetta, del Decamerone e del Corbaccio. Della creazione letteraria di Boccaccio fanno parte moltissime altre opere, del cui contenuto vogliamo ora brevemente trattare in ordine cronologico, fatta eccezione per gli scritti redatti in latino.

5.1 LA FASE NAPOLETANA 5.1.1 La caccia di Diana (1334), breve poema epico in diciotto canti Questa lirica in terzine, con diciotto brevi canti ciascuno di cinquantotto (e una volta sessantuno) versi, vide la luce negli anni ’30. Assomma elementi danteschi, in particolare della Vita nuova, e gli antichi miti di Ovidio, e si rivolge con un lungo elenco di nomi alle donne leggiadre della corte angioina, tutte chiamate alla gran corte della divina Diana.

5.1.2 Il Filostrato (1335), poema epico in stanze (ottava rima) Nel proemio Boccaccio afferma che il nome significa Uomo vinto e abbattuto d’amore, probabilmente uno pseudonimo della sua stessa persona. La protagonista ha nome Filomena, nome greco che si richiama presumibilmente a Fiammetta, l’amante lontana di Boccaccio

140 Poiché gli storici della letteratura forniscono diverse date di composizione delle opere di Boccaccio, quelle qui presenti possono non coincidere con quelle di altri studi. Sui contenuti cfr. M. Hardt, Geschichte der italienischen Literatur, cit., pp. 148-183.

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che in quel periodo aveva lasciato Napoli e si era ritirata in montagna per rilassarsi. Più ancora che nella sua prima opera troviamo qui un riferimento autobiografico, che pure non è stato fino ad oggi chiarito. Boccaccio afferma di essersi ispirato alle antiche storie e soprattutto a modelli francesi: il Roman de Troie di Benoît de Sainte-Maure, in versi, e una prosa anonima analoga, di cui il poeta era a conoscenza grazie alla versione in volgare di Binduccio dello Scelto (1322). Anche la citata Historia di Guido delle Colonne, che affronta le medesime tematiche, si diffuse grazie alla volgarizzazione di Filippo Ceffi (1324). Boccaccio sfronda in gran parte questa storia d’amore dalle stilizzazioni cavalleresco-feudali e da schemi d’azione e personaggi fissi, ponendola al centro di una lirica che mette a punto una dottrina erotica borghese di straordinaria modernità, capace di unire tratti elegiaco-sentimentali a caratteri di cinico e licenzioso realismo. La giovane vedova Criseida resta da sola nella Troia assediata dopo che il padre, il sacerdote Calcàs, prevedendo la sicura caduta della città, vi è fuggito. Troilo, figlio minore di Priamo, a un banchetto si innamora della bella e distinta vedova, senza farsi tuttavia troppe speranze. Ma Pandaro, nipote di Criseida e suo amico, lo incoraggia a dichiarare il suo amore a Criseida, che è vedova e disia.141 Grazie al suo intervento i due godono insieme per qualche tempo di gioie d’amore descritte con una certa crudezza e lascivia. Grazie a uno scambio di prigionieri, Criseida ha l’occasione di recarsi dal padre nello schieramento greco, dove è consegnata a Diomede, che gliela porta e subito si infatua di lei. Boccaccio narra qui con molta efficacia le strategie messe in campo da Diomede, i cui sforzi nei confronti dell’estroversa e risoluta vedova sono presto coronati da successo. Una volta venuto a sapere dell’infedeltà di Criseida, Troilo si getta nei tumulti della battaglia ed è ucciso da Achille. Con il Filostrato Boccaccio si ricollega alla Vita nuova dantesca, al cui centro c’è ancora l’idealizzazione dell’amore, ed enfatizzando l’amore fisico dissolve queste strutture. Lo fa in particolare esaltando il decisionismo di Criselda, alla quale dà voce apparentemente pudica rivelando somma abilità psicologica e servendosi di sprezzante reali-

141

Filostrato, II,27.

90

5. Altre opere

smo. Ma la “morale” è evidentemente condensata nei consigli dati al termine dall’autore ai giovani amanti: ci si guardi dall’avventatezza femminile! Il Filostrato è l’opera giovanile di Boccaccio di cui si dispone della maggior parte di manoscritti e che ebbe un impatto di particolare rilievo sulla letteratura italiana, soprattutto quella rinascimentale. In Inghilterra divenne tra l’altro modello del poema epico in versi di Chaucer Troylus and Criseyde (1383-1385), che recepì in parte letteralmente i testi di Boccaccio, e di Shakespeare. In Francia Loys de Beauvau (ca. 1410-1462) scrisse il Livre de Troilus ispirandosi a sua volta al Filostrato di Boccaccio. 5.1.3 Il Filocolo (1336-1339), romanzo in prosa La prima opera in cui Boccaccio dà mostra delle proprie abilità letterarie è il Filocolo, il primo romanzo in prosa della letteratura italiana. L’opera, che impegna il giovane autore per molti anni, nasce probabilmente tra il 1336 e il 1339. È un lungo romanzo dal titolo sintomatico (Filocolo è un nome grecizzato che significa più o meno “l’amante carico di fatiche”), che consta di cinque volumi e narra la storia di Florio e Biancofiore, amanti separati in giovane età che alla fine, dopo faticose ricerche e innumerevoli avventure, si riuniscono più puri e saggi. Tema principale dell’opera è il periglioso girovagare di Florio alla ricerca dell’amata Biancofiore, che lo porta in lungo e in largo per il Mediterraneo, a tratti con il nom de plume di Filocolo. A causa di un naufragio Florio capiterà tra l’altro a Napoli, dove conoscerà la bella Fiammetta e il suo amante Caleone (da identificare presumibilmente con lo stesso Boccaccio). Il romanzo si ispira direttamente a Floire et Blancheflor, romanzo sorto attorno alla metà del XII secolo in Francia e diffusosi poi in tutta Europa. Di questo movimentato e turbolento poema epico in prosa è invece modello, sul piano strutturale, il romanzo ellenistico-bizantino nello stile delle Etiopiche di Eliodoro (III secolo d.C.), un impianto letterario capace di influenzare per secoli, al di là del Filocolo, la letteratura italiana in prosa fino ai Promessi sposi di Manzoni (1785-1873). La novità del Filocolo è la fusione di temi, motivi e personaggi provenienti da mondi diversissimi, che la rendono un’opera molto 91

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godibile. L’Ars amatoria di Ovidio (43 a.C.-14 d.C.) è percepibile sottotraccia tanto quanto la Tebaide di Stazio (40-90 d.C.), i Farsalia di Luciano (39-65 d.C.) o altri testi classici. Boccaccio utilizza nella sua opera anche motivi e forme della letteratura coeva, come la Historia destructionis Troiae di Guido Giudice (Guido delle Colonne, † dopo il 1287), diffusa in diverse versioni, basata a sua volta sul Roman de Troie, oppure il Roman du Castelain de Coucy e de la Dame Fayel, creato attorno al 1285 dal poeta piccardo Jakemon Sakesep, detto anche Jakemes. Boccaccio si ispirò inoltre a Dante, a Petrarca e agli stilnovisti, ma soprattutto alla narrativa francese, come i romanzi di Chrétien de Troyes e in particolare il suo Gligès (materiale di origine greco-orientale), che lo aiutarono a conferire ampiezza psicologica ai suoi personaggi principali (nonostante vistosi tratti stereotipi) e una vita interiore e una coscienza articolate in angoscianti soliloqui o movimentati dialoghi. Da questo punto di vista, dopo i primi tratti psicologizzanti presenti in Ovidio, Chrétien è per l’autodidatta Boccaccio l’esempio più significativo, fino a quel momento, di una prosa di carattere psicologico-analitico. Pare dunque che Boccaccio sia il primo ad aver ripreso il modo di procedere di Chrétien, sempre con l’ambizione di creare, grazie all’affinamento e all’escavazione dei personaggi, una distanza rispetto alla prosa comune. Dobbiamo a questo sforzo analitico del giovane Boccaccio il fatto che il suo romanzo giovanile accolga in sé alcuni elementi del Bildungsroman, dal momento che la lunga e stentata odissea di Florio alla ricerca dell’amata mostra una vita di grandi sofferenze che, al termine di svariati travagli, sfociano in un lieto fine (il matrimonio a Roma). Florio può così succedere al padre, il re Felice, nella sua veste di principe divenuto umanamente e culturalmente più maturo e ormai convertito al cristianesimo. 5.1.4 Teseida (1339-1341), poema epico in stanze (ottava rima) Boccaccio dedica ancora questo poema epico, scritto probabilmente tra il 1339 e il 1341 in ottave rimate secondo il modello dell’Eneide, alla “sua” Fiammetta, personaggio di cui, come abbiamo già notato, non rivela mai l’identità reale. Gli eroi di quest’opera ancora una volta molto ampia (dodici volumi) sono Arcita e Palemone, che Teseo tiene prigionieri alla corte reale di Atene. I due si innamorano entrambi di Emilia, la sorella della regina, della quale sono schiavi. Dopo qualche tempo Teseo li92

5. Altre opere

bera Arcita, a condizione che non entri mai più ad Atene. Ma dopo lunghe peregrinazioni per tutta la Grecia Arcita, sotto il falso nome di Penteo, ritorna alla corte ed è riconosciuto. Si riaccende la strenua rivalità con Palemone per i favori della bella Emilia. Con una compagnia di caccia Emilia interviene nel bel mezzo di un duello tra i due giovani, invocando la mediazione di Teseo. Questi stabilisce che i rivali si presentino al torneo: il vincitore avrà la mano della fanciulla. Arcita, che prega Marte di assisterlo, è vincitore; ma Venere, protettrice di Palemone, manda una Furia che impaurisce a tal punto il cavallo di Arcita da farlo cadere, mortalmente ferito. Questi, morente, prega Teseo, che sta accorrendo a lui, di dare in moglie l’ancora vergine amata a Palemone. L’aspetto più significativo e innovativo è qui certamente la scelta dell’ottava rima (ab, ab, ab, cc), forma strofica che non sappiamo se inventata direttamente da Boccaccio oppure assunta da qualcun altro. Boccaccio è in ogni caso il primo, nella letteratura italiana, a far uso di questa innovazione formale, che raffina sul piano artistico e gli consente di esercitare un forte influsso sulla produzione successiva, soprattutto quella del Rinascimento: Poliziano, Boiardo e Ariosto, ad esempio, che furono tra i lettori più attenti della Teseida.

5.2 GLI ANNI DAL 1340 AL 1350 5.2.1 La Comedia delle ninfe fiorentine o Ninfale d’Ameto (13411342), romanzo pastorale in versi e prosa La Comedia delle ninfe fiorentine, detta spesso anche Ninfale d’Ameto o semplicemente Ameto, è un poema idillico-allegorico in prosa e terzine, la prima opera scritta dopo il ritorno a Firenze e Certaldo. La forma prosimetrica142 dell’opera, scelta ispirandosi alla Vita nuova di Dante, unisce sette racconti, declamati da sette ninfe e inseriti in una trama generale, struttura che anticipa a tratti il capolavoro di Boccaccio ed è quindi detta “piccolo Decamerone”. L’autore riconosce qui di essere non poeta, ma piuttosto amante, per cui vorrebbe, con l’aiuto di Venere e la benevolenza di Cupido e desiderando la sua onesta, vaga, lieta e graziosa amante, cantare la gran bellezza delle donne.143 142 143

Una miscela di prosa e poesia. Comedia delle ninfe fiorentine, II,43-54.

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Ne è protagonista il pastore Ameto, che si aggira cacciando per i colli dell’Etruria, tra Sarno (Arno) e Mugnone. Tornando dalla sua battuta si imbatte in un gruppo di ninfe che si accingono a fare il bagno nel fiume, e si accende di ardente amore per Lia, che ne è la guida. Il nome, la descrizione e molti altri tratti alludono al Purgatorio dantesco e mostrano così gli intenti allegorici dell’opera. Guardando alla purificazione narrata nell’ultimo canto del Purgatorio e alla Vita nuova – guidata da idee analoghe – Ameto e Lia rappresentano la catarsi dell’uomo in stato di natura e ancora grezzo grazie all’intervento della donna nobile e all’aiuto della dea dell’amore. Come Dante nei confronti della sua Beatrice, Boccaccio utilizza a sua volta sovente il termine grazia o graziosa in riferimento a Lia, che tuttavia non definisce più l’eros trascendente, metafisico, di Dante, bensì la bellezza, grazia e benevolenza immanenti alla donna amata, che Boccaccio osserva con le sue caratteristiche fisiche. Il giorno della festa di Venere le ninfe incontrano Ameto e altri pastori. Sotto la guida di Ameto, sedute in cerchio sotto un alloro, ogni ninfa racconta la storia del suo amore. Particolarmente toccante sul piano narrativo ed elegante su quello stilistico è la sesta storia, che narra dell’incontro tra la graziosa donna Fiammetta e il suo focoso amante Caléon. Dimentico del suo bisogno di purificazione, Ameto arde dal desiderio di essere nei panni dell’amante di quella ninfa e rivive nell’immaginazione le sue sensazioni. E mentre le ninfe raccontano, Ameto con occhio ladro riguarda l’aperte bellezze di tutte quante. […] Egli, mirandole effettuosamente con ardente disio, in se medesimo fa diverse imaginazioni concordevoli a’ suoi disii.144 Di fronte a tanta istintuale carnalità e a una fantasia che si accende in molteplici scene di vivido erotismo, il senso allegorico cristianeggiante che Boccaccio si sforza di appiccicare impallidisce. Quel che resta è una poesia idilliaco-mondana che attinge a una profonda conoscenza dei testi e dei miti dell’antichità, i cui ritratti di ninfe e pastori prendono di mira la società fiorentina coeva con allusioni ancora oggi solo in parte decifrate. Ma al contempo si tratta del primo poema pastorale in lingua italiana, le cui sensuali immagini, idilli rurali e toni delicati anticipano a tratti la lirica rinascimentale. Allievi sono stati tanto Sannazaro con la sua Arcadia quanto Lorenzo de’ Medici con le sue liriche o Ariosto con il suo sommo epos, e le stesse arti figurative ne hanno tratto spunto. 144

Ibid., XXVIII.

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5. Altre opere

5.2.2 L’amorosa visione (1342-1344), poema epico in terzine (ispirato alla Divina Commedia) L’amorosa visione è un poema didascalico in terzine che risale presumibilmente agli anni 1342-1344 e che Boccaccio rielabora verso il 1355-1360. È costituito da cinquanta canti di 88 versi ciascuno, ad eccezione del quarantaquattresimo, che ne ha 85. Ha la forma lirica dell’acrostico,145 con la ripetizione, dunque, delle parole dei tre sonetti introduttivi nelle iniziali del sonetto successivo. Boccaccio dedica ancora una volta l’opera all’amata Fiammetta, alla quale dà il nome più neutrale di Madama Maria. I nomi e i personaggi di questo poema didascalico nascondono intenti crittografici da parte dell’autore. Più esplicitamente che nel Ninfale d’Ameto Boccaccio cerca di avvicinarsi in questa visione al filone cristiano-allegorico della Vita nuova e della Divina Commedia. Il testo narra alla prima persona il sogno di un poeta (ancora una volta, con tutta probabilità, lo stesso Boccaccio) che passeggia in un paesaggio desertico vagheggiando l’amata Fiammetta, quando ad un tratto gli si avvicina una donna graziosa che lo conduce a un nobile castello. Può scegliere di entrarvi percorrendo una porta stretta oppure una porta larga. La prima porta alla vita; l’altra a ricchezze, dignità, ogni tesoro, gloria mondana.146 Il poeta decide di passare per la porta larga. Entrando vedono un grande castello, con splendidi affreschi e immagini di antichi miti, ma anche uomini coevi, come il re di Napoli e il padre di Boccaccio. Una sala intera è dedicata alla dea Fortuna, raffigurata come la suprema autorità sui destini umani (ma ancora sottomessa, in Dante, al Dio cristiano). Malgrado tutti i capolavori e la maestosità del maniero, il poeta non può però reprimere le sue mondane e materiali esigenze: ciò che desidera più di ogni altra cosa è prendere la sua Fiammetta tra le braccia e appartarsi con lei. Segue un altro sogno, in cui il poeta sta quasi per realizzare i suoi desideri: raggiunto un luogo ameno, inizia ad amoreggiare con l’amata, che però nel tenero abbraccio del poeta si addormenta. La scena si interrompe con la fine del sogno: il girovago si accomiata dall’ac-

145 L’acrostico è una forma, di solito in versi, i cui inizi (lettere nelle parole seguenti o parole nei versi seguenti) letti di seguito assumono un senso, come ad esempio un nome o una frase. 146 L’amorosa visione, III.

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compagnatrice, che gli si promette completamente a condizione che resti un uomo virtuoso. L’amorosa visione rivela forti contrasti tra gli elementi pagani e quelli moderni, che nemmeno la successiva rielaborazione riesce a superare. L’opera ha però forse ispirato Petrarca nella redazione dei Triumphi.

5.2.3 Ninfale Fiesolano (1344-1346), poema epico in stanze (ottava rima) L’opera si differenzia visibilmente dalla precedente. Si presume risalga al 1344-1346. Il Ninfale fiesolano è un poema in 473 ottave, scritto in stile popolare e incentrato sul pastore Africo e la ninfa Mensola. È ambientato in antica epoca pagana, sui colli dell’attuale Fiesole (sopra Firenze), dove Diana vigila severamente sul gruppo di vergini che le è stato affidato. In un giorno di maggio il giovane pastore Africo osserva le ninfe dal suo nascondiglio. Quando vi scorge la quindicenne Mensola se ne innamora subito, ma non sa come avvicinarla. In sogno Venere gli consiglia di travestirsi da ragazza usando una gonna sottratta alla madre e sedurre così Mensola. Si unisce dunque alle ninfe che si accingono a fare il bagno, in attesa che si tolgano le vesti e le armi. Quando sono tutte in acqua si spoglia anche lui, come un lupo rapace che percuote alla gran turba degli agnelli,147 e si avventa su Mensola, che si oppone con veemenza ma non gli può impedire di afferrarla e avvilupparla in un abbraccio. Una scena chiave che Boccaccio descrive con disinvoltura e visibile compiacimento, in uno stile comico-realistico e avvalendosi di metafore ed eufemismi erotici. Africo, afflitto dai sensi di colpa dopo aver sedotto Mensola, esce dall’acqua e decide di togliersi la vita gettandosi in un fiume che prenderà il suo nome. Alla sua morte Mensola scopre di essere incinta. Nasconde la gravidanza, ma alla nascita del figlio Pruneo è sorpresa da Diana, e riesce appena a sottrarlo all’ira della dea. Per punizione Diana trasforma la “peccatrice” in un fiume, che si chiamerà Mensola. Ma il poema pastorale, con la sua dimensione etimologica, termina con una riconciliazione. L’orfanello Pruneo è amorevolmente cre-

147

Ninfale fiesolano, 240.

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5. Altre opere

sciuto dai genitori di Africo e diventa in seguito siniscalco presso Attalante, che si sposta in Toscana con i suoi eserciti ed erige Fiesole sui colli di Diana. Attalante scioglie le ninfe dai loro voti e le fa sposare ai suoi soldati. Le famiglie a cui danno origine si dedicheranno alla coltivazione di quelle terre, e la discendenza di Pruneo fonderà sull’Arno la città di Firenze. Il poema ha lasciato aperte molte questioni. Come è possibile che un Boccaccio, mai avaro nelle opere precedenti di accorgimenti retorici, complesse contaminazioni stilistiche e interpretazioni allegoriche per dar prova della sua vasta cultura umanistica, scriva un poema epico in semplici ottave e in un linguaggio popolare, impermeabile alla tentazione di sciacquarlo nel fiume dell’umanesimo? E come mai uno come lui, zelante cantore della realtà e sensualità dell’amore, dell’innocente o almeno innocuo piacere dei sensi, in questi versi su Africo e Mensola non fa che parlare di peccato, infliggendo al protagonista un senso di colpa che lo porta a scoprirsi “seduttore” e ad uccidersi? Queste notevoli discrepanze e tutta una serie di ulteriori contraddizioni hanno spinto alcuni critici a mettere in dubbio la paternità di Boccaccio. L’autenticità e la datazione dell’opera, in effetti, non sono nemmeno oggi fuori discussione. Non è escluso, come sostengono C. Muscetta ed altri critici, che questa metamorfosi di linguaggio e atteggiamento sia un modo ponderato, programmatico di Boccaccio per riorientarsi. Come si è accennato sopra, le sue opere precedenti patiscono incongruità tematiche, dissonanze formali e ambizioni troppo alte e che non reggono alla prova dei fatti. Il filone erotico va a confliggere continuamente con i tentativi di elevarlo a un piano allegorico-metafisico ed emulare così il grande Dante. Vi si aggiungono problemi di ordine formale, come la difficoltà d’uso di una sintassi ipotattica differenziata nella ristrettezza metrica dell’ottava. Sembra insomma plausibile che Boccaccio, a un certo punto, sia divenuto consapevole dei propri limiti contenutistici e formali. Da questo punto di vista, con il suo stile semplice e popolare, la rinuncia agli orpelli retorici, alle citazioni classiche e all’opulenta erudizione umanistica e l’utilizzo di elementari tecniche narrative e una sintassi semplice, spesso paratattica, l’opera rappresenta una novità assoluta, che mette in particolare risalto l’anima e il carattere dei personaggi. La riduzione dell’apparato retorico, stilistico e allegorico esalta la chiarezza e finezza del tratteggio e il ruolo assunto nella trama dall’elemento naturale, ben poco considerato fino a questo mo97

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mento in ambito letterario. Le scene sono realistiche e uniscono felicemente intimità erotica e arte psicologica, rivelando un Boccaccio che sta affinando sempre più l’arte di sposare la narrazione di elementi erotici alla sintesi novellistica. Un breve passo (dodicesimo capitolo) di questo poema pastorale – si tratta della “conquista” da parte di Africo dell’amata Mensola – può ora illustrare l’abilità di Boccaccio di unire la tensione erotica a un drammatico realismo: E tutte l’altre ninfe molto in fretta uscir dell’acqua, a’ lor vestir correndo; né però niuna fu che lì sel metta, ma coperte con essi via fuggendo, ché punto l’una l’altra non aspetta, né mai indietro si givan volgendo; ma chi qua e chi là si dileguoe, e ciascuna le sue armi lascioe. Africo tenea stretta nelle braccia Mensola sua nell’acqua, che piangea, e baciandole la vergine faccia, cota’ parole verso lei dicea: – O dolce la mia vita, non ti spiaccia se io t’ho presa, ché Venere iddea mi t’ha promessa, cuor del corpo mio; deh, più non pianger, per l’amor di Dio! – Mensola, le parole non intende ch’Africo le dicea, ma quanto puote con quella forza ch’ell’ha si difende, e fortemente in qua e ’n là si scuote dalle braccia di colui che l’offende, bagnandosi di lagrime le gote; ma nulla le valea forza o difesa, ch’Africo la tenea pur forte presa. Per la contesa che facean si desta tal che prima dormia malinconoso, e, con superbia rizzando la cresta, cominciò a picchiar l’uscio furioso; e tanto dentro vi diè della testa, ch’egli entrò dentro, non già con riposo,

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5. Altre opere

ma con battaglia grande ed urlamento e forse che di sangue spargimento.148

Il poema di Africo e Mensola servirà da modello ad oltre tre secoli di poesia pastorale italiana ed europea, dedita al tema in modo a volte idillico, a volte contemplativo, a volte elegiaco e in seguito con crescente manierismo. L’ampio e assai ramificato impatto dell’opera ebbe il suo apice durante il Rinascimento, con l’enorme popolarità delle tematiche mitologiche e pastorali. Si sono ispirati al Ninfale fiesolano – che possiamo dunque considerare opera rinascimentale ante litteram – Lorenzo de’ Medici, Poliziano e molti altri. Giosuè Carducci (1835-1907) dirà che basta quest’opera a garantire a Boccaccio gloria imperitura.

5.3. OPERE DELLA MATURITÀ 5.3.1. Il Trattatello in laude di Dante (1351-1373), una biografia dell’Alighieri Boccaccio fu uno dei migliori conoscitori di Dante del Trecento. Conosceva la maggior parte delle opere del poeta, e ne aveva copiate molte con le sue mani, tra cui la Vita nuova, alcune lettere, le ecloghe e la Divina Commedia (e questa addirittura più volte). Così facendo, e grazie alle sue pubblicazioni e ai suoi commenti, contribuì notevolmente a diffondere e spiegare Dante, durante e oltre la sua epoca, avendo poi la possibilità di ricorrere alle informazioni di contemporanei che lo avevano conosciuto di persona, come Giovanni Villani, Cino da Pistoia, Sennuccio Del Bene, Andrea di Leone Poggi, Piero di Gardino e altri. La madre della sua matrigna, Lippa de’ Mardoli, era forse parente di Beatrice. A conoscenza di molte e varie informazioni, Boccaccio scrisse la prima biografia completa di Dante, considerata, insieme a quella di Leonardo Bruni, una delle migliori in assoluto. L’opera, la cui prima redazione completa è del 1352 (nel 1360 seguiranno due versioni brevi), ha assunto il titolo di Trattatello in laude di Dante ed è caratterizzata dall’ammirazione per il grande poeta. Boccaccio vi sviluppa tra l’altro la teoria dell’origine comune di poesia

148

Cfr. .

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e teologia, che hanno un medesimo suggetto e quasi una cosa si possono dire. La teologia – afferma – niuna altra cosa è che una poesia di Dio, e dunque bene appare, non solamente la poesia essere teologia, ma ancora la teologia essere poesia. Per Boccaccio il poeta è un visionario, un poeta vates. Nasceva così l’idea del poeta theologus, che nei secoli seguenti assumerà un ruolo di rilievo al di là della critica dantesca e verrà recuperata soprattutto nell’ambito del neoplatonismo di Marsilio Ficino e Cristoforo Landino. 5.3.2 Le Espositioni sopra la Commedia di Dante (1373-1374): le lezioni pubbliche tenute a Firenze sulla Divina Commedia L’opera più importante che Boccaccio ha scritto sul sommo poeta sono le Espositioni sopra la Commedia di Dante, un commentario che Boccaccio poté scrivere, a causa della malattia e della morte, solo fino al diciassettesimo canto dell’Inferno. Esse sono il risultato delle circa sessanta lezioni pubbliche tenute da Boccaccio, per conto della Repubblica di Firenze, dall’ottobre 1373 a circa il gennaio 1374 nella chiesa di Santo Stefano della Badia, davanti a un pubblico fiorentino in gran parte popolare. In questo stesso commentario, che era evidentemente una prima stesura, in parte provvisoria, è riconoscibile la grande ammirazione per Dante. Boccaccio, d’altronde, non è più nemmeno l’uomo medioevale capace di cogliere il rigore teologico e la tensione escatologica della Divina Commedia, disorientato com’è dalla complessità dei contenuti e delle strutture; le sue interpretazioni, che si limitano a distinguere tra senso letterale e senso allegorico, sfociano sostanzialmente in un comodo moralismo, probabilmente congeniale ai suoi stessi ascoltatori. Le opere latine di Boccaccio citate nell’indice non verranno qui analizzate e non sono quindi elencate in bibliografia.

5.4. OPERE IN LATINO 5.4.1 Bucolicum carmen (1349-1367), sedici ecloghe Boccaccio dedicò l’opera all’umanista Donato degli Albanzani. Le ecloghe, scritte in esametri, si collocano nella tradizione allegorico-bucolica cui ricorsero già Dante, Giovanni del Virgilio e Petrarca; in esse l’autore ha inserito molte allusioni biografiche e relative al suo tempo.

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5. Altre opere

5.4.2 Genealogia deorum gentilium (1350-1367) Raccolta di racconti mitologici antichi in quindici libri. 5.4.3 De montibus, silvis, fontibus, lacubus, fluminibus, stagnis seu paludibus, de nominibus maris liber (1355-1375) Ampio catalogo di elementi geografici che compaiono nella letteratura classica. 5.4.4 De casibus virorum illustrium (1356-1373) Raccolta di episodi della vita di personalità famose segnate dal destino. 5.4.5 De claris mulieribus (1361-1362) Raccolta di biografie moralizzanti di donne famose dell’antichità e del medio evo.

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6.

BIBLIOGRAFIA

6.1 FONTI (TEDESCO) Giovanni Boccaccio, Fiammetta, Elibron Classics, 2006 Id., Das Dekameron, Insel Verlag, Frankfurt am Main-Leipzig 1999 Id., Decameron. 20 ausgewählte Novellen, tr. ted. e cura di Peter Brockmeier, Reclam, Stuttgart 1988 Id., Meistererzählungen aus dem Decamerone, Diogenes Verlag, Zürich 1995 Id., Männer und Frauen, Geschichten aus dem Decameron, tr. ted. di Kurt Flasch, Wien 1997 Id., Giovanni Boccaccio. Poesie nach der Pest. Der Anfang des “Decameron”, Dieterich’sche Verlagsbuchhandlung, Mainz 1992 (Poesia dopo la peste. Saggio su Boccaccio, tr. it. di Rosa Taliani, Laterza, Roma-Bari 1995) Id., Das Labyrinth der Liebe – Il Corbaccio, Kessinger Legacy Reprints

6.2 FONTI (ITALIANO) Giovanni Boccaccio, Elegia di Madonna Fiammetta, a cura di Maria Pia Mussini Sacchi, edizione integrale commentata, Mursia, Milano 1987 Id., Decameron, introduzione di Umberto Bosco, note di Domenico Consoli, Bietti, Milano 1966 Id., Decamerone, nuova edizione a cura di Vittore Branca, vol. I, Einaudi, Torino 1987 Id., Il Corbaccio, a cura di Giulia Natali, edizione integrale commentata, Mursia, Milano 1992

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6. Bibliografia

6.3 LETTERATURA Apuleio, Der goldene Esel, Metamorphosen, latino-tedesco, Stuttgart 1963 Dominique Barthélemy, Georges Duby (a cura di), Geschichte des privaten Lebens, vol. II, Vom Feudalzeitalter zur Renaissance, tr. ted. di Holger Fliessbach, S. Fischer Verlag, Frankfurt am Main 1990; La vita privata, vol. II, Dal Feudalesimo al Rinascimento, tr. it., Laterza, Roma-Bari 1993 (orig.: Histoire de la vie privée, vol. II, De l’Europe féodale à la Renaissance, Éditions du Seuil, Paris 1983) Jacob Burckhardt, Die Kultur der Renaissance in Italien, Reclam, Stuttgart 1988 Ernst Robert Curtius, Europäische Literatur und Lateinisches Mittelalter, Francke Verlag, Tübingen-Basel 1993 Manfred Hardt, Geschichte der italienischen Literatur, Artemis und Winkler, Düsseldorf-Zürich 1996 David Herlihy, Der schwarze Tod und die Verwandlung Europas, tr. ted. di Holger Fliessbach, Wagenbach, Berlin 2007 (The Black Death and the Transformation of the West, Harvard University Press, Cambridge (Mass.)-London 1997) Volker Kapp, Frauentugend und Adelsethos in Boccaccios GriseldaNovelle (Decameron X,10), “Archiv für das Studium der Neueren Sprachen und Literaturen”, 219 (1), 1982 Margaret L. King, Frauen in der Renaissance, tr. ted. di Holger Fliessbach, Deutscher Taaschenbuchverlag, München 1998; Le donne del Rinascimento, tr. it. di Lucia Nencini, Laterza, Roma-Bari 1991 (orig.: Women of the Renaissance, The University of Chicago Press, Chicago-London 1991) Konstanzer Kleines Bibellexikon, Christliche Verlagsanstalt, Konstanz 1991

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Finito di stampare in Firenze presso la tipografia editrice Polistampa Marzo 2016