Giovani. Vita e scrittura tra fascismo e dopoguerra 8889987960, 9788889987964

In Giovani Daniela Brogi ha raccolto quattro densi saggi già pubblicati tra il 2004 e il 2011 e rispettivamente – ma non

476 36 2MB

Italian Pages 296 Year 2013

Report DMCA / Copyright

DOWNLOAD FILE

Polecaj historie

Giovani. Vita e scrittura tra fascismo e dopoguerra
 8889987960, 9788889987964

Citation preview

dossier 8.

comitato scientifico Martine Bovo Romoeuf, Matteo Di Gesù, Flora Di Legami, Sabrina Ferrara, Franco Manai, Aldo Maria Morace, Michela Sacco Messineo

:duepunti edizioni via Siracusa 35 90141 Palermo

[email protected] www.duepuntiedizioni.it Progetto grafico e impaginazione .:terzopunto.it In copertina: dettaglio da una foto d’epoca (prima metà del X X secolo) Un ringraziamento speciale a Dario De Cristofaro © 2012 :duepunti edizioni – Palermo Tutti i diritti riservati ISBN

978-88-89987-96-4

La collana Dossier adotta un sistema di revisione paritaria (peer review) per la valutazione e la selezione dei testi Il volume è pubblicato con il contributo dell’Università per Stranieri di Siena e con i fondi P R I N (Progetto di Ricerca di Interesse Nazionale) Realismo e modernismo nella narrativa italiana tra Ottocento e Novecento, cofinanziato dal Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca e dall’Università per Stranieri di Siena.

Daniela Brogi

Giovani Vita e scrittura tra fascismo e dopoguerra

:duepunti edizioni Palermo

I N T RO D U Z I O N E E S S E R E G I OVA N I

«Quando ero giovane…»: per spiegare sinteticamente i contenuti del libro, basta pensare quanto è diventata desueta questa espressione, almeno in Italia. Non si usa più, lo si fa con disagio: tutti desideriamo essere e essere percepiti come giovani. Dopo la gioventù, infatti, c’è soltanto la vecchiaia, come se l’età adulta, con le sue funzioni e i suoi diritti, fosse ormai soltanto una terra di mezzo: zona precaria di resistenza di un passato bloccato, senza futuro. E così anche la gioventù è diventata più che altro sinonimo di vitalismo, di combustione immediata e spontanea di energie, senza un progetto di lunga durata; senza un’autonomia. Ma non è stato sempre così. E potrebbe non essere più così. La gioventù, cioè, per molto tempo e in molti casi è stata non tanto una variabile emotiva, una condizione indefinita che prescindesse dalle circostanze anagrafiche, quanto piuttosto un’occasione di entrata in contatto con le possibilità della vita, con la storia, con gli altri. La critica letteraria del ventesimo secolo, per la verità, ha più spesso privilegiato gli usi formali della gioventù orientati nel senso dell’angoscia, della disperazione, del ripiegamento narcisistico anziché dell’investimento oggettuale. E certamente tutto il Novecento europeo è affollato di personaggi giovani in crisi: basti pensare ai protagonisti di Kafka, Tozzi, Mann. Eppure, accanto a questi modelli di gioventù, ce ne sono stati anche altri: disperatamente vitali nella difesa di un progetto di

8

Daniela Brogi

cambiamento. Essere giovani, in questo caso, equivale a essere amici, essere rivoluzionari, andare in guerra, non essere indifferenti: è di questa gioventù che il libro parlerà. Principalmente in due modi: da un lato restituendo spazio e attenzione anche a autori e opere per così dire eccentrici, ossia importanti, ma meno riconosciuti dal canone; dall’altro lato, ricostruendo uno sguardo sulla letteratura che, senza trascurare il testo, definisca al tempo stesso un paesaggio più ampio: abitato, cioè, da autori che per esempio non solo leggevano e scrivevano libri, ma andavano al cinema – magari tutti i giorni – oppure si interessavano alla pittura, assorbivano insomma una sensibilità e una cultura che possono essere definite multimediali malgrado l’assenza della televisione o del computer. Bilenchi, Pavese, Visconti, Cassola, Pasolini sono i protagonisti di quattro percorsi che chiamano in causa anche Rosai, Fortini, Calvino, Fenoglio, la letteratura americana degli anni Trenta, il Neorealismo. Il primo capitolo è dedicato a Romano Bilenchi, che ha raccontato gli incontri e le vicende della propria gioventù in uno dei libri più belli del secondo Novecento: Amici. Il tema di queste pagine è anche uno dei più scabrosi: cosa ha significato esser fascista per Bilenchi e la sua generazione? Provare a rispondere significa fare i conti con il feticcio autoassolutorio del fascismo – e del colonialismo – come rapida parentesi. Nel secondo capitolo entrano in scena due romanzi e un film: Il postino suona sempre due volte, di Cain, e il libro e il film che ad esso si ispirarono: Paesi tuoi, di Pavese, e Ossessione, di Visconti. Recuperando le circostanze di questo incontro, si tenta, più in generale, di riflettere anche su un nuovo modo di accostare la letteratura e le

Introduzione

9

arti visive. Per lo più, infatti, letteratura e cinema sono state messe a confronto in tre maniere principali. La prima di esse riguarda i molti casi in cui il film è la trasposizione cinematografica di un testo letterario preesistente. Una seconda possibilità, meno generosa nei confronti del cinema in quanto arte autonoma, si ha quando i film sono trattati essenzialmente come documenti, testimoni di un certo modo di intendere un tema, o indizi di un senso comune che si è depositato nell’immaginario. Una terza strada, infine, è orientata piuttosto sui casi in cui la letteratura imita il cinema, appropriandosi di linguaggi e possibilità espressive di tipo cinematografico – come la focalizzazione o il montaggio. Ora, oltre a queste tre modalità, che almeno nelle occasioni migliori sono molto proficue, è forse possibile sperimentare una forma diversa, che, anziché lavorare per contrapposizioni e sensi unici (letteratura vs cinema, dalla letteratura al cinema), guardi piuttosto alle reciproche risonanze, perché la cultura lavora non solo dentro le forme e le discipline, ma all’incontro e all’incrocio di esse. Il terzo capitolo di Giovani è dedicato alla letteratura della Resistenza, e in particolare a quello che, assieme a Una questione privata, di Fenoglio, è stato uno dei libri più importanti di quella stagione: Fausto e Anna, di Carlo Cassola. Tanto importante quanto dimenticato: oggetto, in molti casi, di una rimozione che merita di essere ridiscussa – anche rileggendo, per esempio, la prefazione del 1964 al Sentiero dei nidi di ragno. Cosa si può intendere per “letteratura della Resistenza”? Una prima risposta riferisce questa formula a quelle forme di letteratura che hanno preso a tema episodi della Resistenza, facendone materiale di scrittura letteraria

10

Daniela Brogi

(mentre i memoriali e gli epistolari appartengono a una tipologia diversa). Ma nell’espressione “letteratura della Resistenza” il genitivo non ha soltanto un valore oggettivo, ma soggettivo, perché è riferibile, per lo più, all’esperienza biografica degli scrittori, ed è rivelatore, in tal senso, di una peculiarità fortissima del fenomeno: quella per cui la letteratura della Resistenza non solo ci parla della Resistenza, ma è scritta da una generazione di autori che vi prese parte; nei quindici anni successivi al dato storico la letteratura della Resistenza è scritta, nella maggior parte dei casi, da persone che all’epoca della guerra erano “giovani”: ventenni che parteciparono direttamente all’esperienza successivamente rielaborata nelle loro opere. E questo dato, lungi dal riguardare riduttivamente l’ambito della biografia letteraria, o quello dell’ideologia, investe direttamente il campo della poetica. Nella prefazione del 1964 al Sentiero dei nidi di ragno, Calvino scrive che Una questione privata, di Fenoglio (pubblicato postumo nel 1963), fu «il libro che la nostra generazione voleva fare», il romanzo che tutti avevano sognato di scrivere1. La prefazione di Calvino risale al 1964. Cosa era uscito prima di quella data? Ecco una sintetica rassegna delle principali opere narrative che affrontano temi e vicende della Resistenza (le date indicate tra parentesi dopo i nomi degli autori si riferiscono all’anno di nascita degli scrittori): il racconto Il labirinto (1946), di Giorgio Caproni (1912), pubblicato sulla rivista di Muscetta “Aretusa”; Uomini e no (1945), di Vittorini (1908); Cristo si è fermato a Eboli (1945), di Carlo Levi (1902); Il sentiero dei nidi di ragno (1947) e la raccolta Ultimo viene il corvo (1949), di Italo Calvino (1923); Se questo è un uomo (1947), di Primo Levi (1919); La romana

Introduzione

11

(1947), di Alberto Moravia (1907); Prima che il gallo canti (Il carcere e La casa in collina) (1949) e La luna e i falò (1950), di Cesare Pavese (1908); L’Agnese va a morire (1949), di Renata Viganò (1900); I ventitre giorni della citta di Alba (1952), di Beppe Fenoglio (1922); Novelle dal ducato in fiamme (1953) e Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (1957, ma già apparso su «Letteratura» tra il 1946 e il 1947), di Carlo Emilio Gadda (1893); Il sergente nella neve (1953), di Mario Rigoni Stern (1921); Primavera di bellezza (1959), ancora di Fenoglio; Fausto e Anna (1952, mentre La ragazza di Bube è del 1959, ma la vicenda è successiva alla guerra), di Carlo Cassola (1917); Cinque storie ferraresi (1956), di Giorgio Bassani (1916 ). È difficile elaborare categorie interpretative che possano spiegare in modo compiuto un paesaggio così eterogeneo. La stessa espressione “Resistenza”, per esempio, potrebbe rischiare di creare letture riduttive di un fenomeno storico-politico che rappresenta uno dei capitoli più importanti della storia dell’Italia moderna, e che Pavone ha invitato a nominare come periodo di vera e propria “guerra civile”: la medesima formula già impiegata da Fenoglio per indicare i racconti partigiani proposti a Einaudi nel 1949. Una definizione più adatta tanto sul versante storico-politico quanto su quello letterario, perché riesce a comprendere, per esempio, anche testi solitamente relegati al genere della letteratura del campo di sterminio, come Se questo è un uomo. Sempre nella prefazione del 1964 al Sentiero Calvino dichiara che la letteratura della Resistenza nasce dall’intento di salvare la memoria di quell’esperienza2. Il punto è: di quale esperienza si vuol lasciare memoria? Generalmente è un’esperienza del vuoto, dell’assurdo, del silenzio,

12

Daniela Brogi

in cui le ideologie cadono: una sorta di grado zero dell’esistenza, da cui riparte un grado zero del racconto. In questo senso, si può dire che i risultati letterari migliori della narrativa della Resistenza, probabilmente, sono quelli estranei agli argomenti della retorica celebrativa, o, sul versante opposto, dei detrattori della Resistenza. «A poco più d’un anno dalla Liberazione – spiega ancora Calvino nella prefazione del 1964 al Sentiero – già la “rispettabilità ben pensante” era in piena riscossa [...] Fu in questo clima che io scrissi il mio libro, con cui intendevo paradossalmente rispondere ai ben pensanti: “D’accordo, farò come se aveste ragione voi, non rappresenterò i migliori partigiani, ma i peggiori possibili, metterò al centro del mio romanzo un reparto tutto composto di tipi un po’ storti. Ebbene: cosa cambia? Anche in chi si è gettato nella lotta senza un chiaro perché, ha agito un’elementare spinta di riscatto umano, una spinta che li ha resi centomila volte migliori di voi, che li ha fatti diventare forze storiche attive quali voi non potrete mai sognarvi di essere!”». Le narrazioni di guerra più intense non sono mai racconti che ci colpiscono per il loro naturalismo descrittivo: piuttosto spesso sono testi che fanno i conti con il silenzio, con la paura della morte, con la necessità di addomesticare il dolore reinventando un nuovo linguaggio. Se è vero che il linguaggio è anche un modo di dare ordine e significato alla realtà, si può capire come, nel momento in cui l’ordine di quella realtà esplode, in senso tanto letterale quanto metaforico, anche il linguaggio, da parte sua, sentirà l’urgenza di reinventarsi, sperimentando spesso codici orali: «mai si videro formalisti così accaniti come quei contenutisti che eravamo,

Introduzione

13

mai lirici così effusivi come quegli oggettivi che passavamo per essere». Siamo in presenza di un nuovo linguaggio che magari rimodella sempre la stessa storia: un immediato riscontro di questa situazione per esempio è la fatica che di solito prova il lettore a tenere distinte le trame dei vari libri di Fenoglio. La storia è in molte situazioni come detemporalizzata, riportata a coordinate assolute: mitiche, fiabesche, epiche, che sembrano più capaci di nominare la tragedia di una guerra che travolge gli esseri umani, riportandoli traumaticamente a contatto con la fisicità: del dolore, dei corpi dilaniati, delle manifestazioni fisiche dell’orrore (il sudore, l’orina, il sangue). Forse è anche questa brusca situazione di ritorno a ciò che è essenziale che può aiutarci a spiegare la ricorrenza di risorse espressive attinte dal campo della natura e della materia: si pensi a Fenoglio, che descrive l’angoscia di un partigiano con l’immagine di un «oceano di latte frappato». Il corpo e la fisicità (su cui si esercita la violenza, o su cui si registrano sensazioni di contatto con la natura) sono spesso i termini di riferimento per recuperare una vera dimensione umana. (Ancora un esempio da Fenoglio: l’immagine dei fucili tedeschi che fanno rumore come il «frullo di un uccello che si sfrasca» e che affascina al punto che per la suggestione non ti sposti e resti ucciso). Cassola, invece, scelse di raccontare l’esperienza partigiana aggredendo la retorica dell’eroe. Essere giovani, per la generazione di Pasolini, Calvino, Cassola, Fenoglio, significa essere pronti all’azione: abitare in un mondo all’altezza di questo slancio. La guerra, la Resistenza e il dopoguerra scandiscono gli anni di apprendistato dell’età adulta. Come dire che storia privata e storia

14

Daniela Brogi

pubblica giungono all’appuntamento con le scelte essenziali della vita nello stesso luogo e alla stessa ora. Da questa circostanza nasce l’inclinazione a fondare un punto di vista sull’individuo che passi anzitutto per la definizione di un’identità civile. Il quarto e ultimo capitolo, dedicato a Pasolini, chiama in causa la poesia. Anche in questo caso l’opera principalmente discussa, Le ceneri di Gramsci, diventa un’occasione di sguardo e di attraversamento di un’esperienza che riguarda un’intera generazione: l’ultima, per usare ancora Calvino, «che ha creduto in un disegno di letteratura inserito in un disegno di società»3. Alcune idee e pagine di questo libro sono state anticipate nei saggî seguenti: Cronache di una gioventù nera. Romano Bilenchi e il fascismo, in Scrittori italiani tra fascismo e antifascismo, a cura di R. Luperini e P. Cataldi, Pacini Editore, Pisa 2009, pp. 35-74; Tra letteratura e cinema. Pavese, Visconti, e la “funzione Cain”, «Allegoria», 64 (2011), pp. 176-195; Il ritratto dello scrittore da partigiano. Lettura di «Fausto e Anna», in Scrittori italiani tra fascismo e antifascismo, cit., pp. 119-179; Un’estetica passione: la patria di Pasolini, in Letteratura e identità nazionale nel Novecento, a cura di R. Luperini e D. Brogi, Manni, San Cesario – Lecce 2004, pp. 125-177. Tra coloro che, con il loro tempo e i loro suggerimenti, hanno aiutato la scrittura e la pubblicazione di questo libro ringrazio particolarmente Alessio Baldini, Anna Baldini, l’ANPI (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia), Daniele Balicco, Roberto Barzanti, Roberto Bertilaccio, Maria Bilenchi, Stefano Carrai, Pietro Cataldi, Stefano Dal Bianco, Tiziana de Rogatis, Matteo Di Gesù,

Introduzione

15

Raffaele Donnarumma, Gina Ferrara Mori, Damiano Frasca, Guido Furci, Romano Luperini, Giacomo Magrini, Guido Mazzoni, Niccolò Scaffai, Mario Specchio, Roberto Speziale, Monica Vigni. Grazie a Niccolò, che è stato il primo a crederci. Questo libro è dedicato ai giovani studenti e amici che negli ultimi quindici anni hanno riempito di colori la mia vita e le mie ricerche.

Somewhere over the rainbow Way up high There’s a land that I heard of Once in a lullaby Somewhere over the rainbow Skies are blue And the dreams that you dare to dream Really do come true E.Y. HARBURG,

Over The Rainbow

C APITOLO I

CRONACHE DI UNA GIOVENTÙ PERDUTA . ROMANO BILENCHI E IL FASCISMO

La verità è che l’onestà intellettuale è una merce rara, caro Franco. Dei comuni amici, io sarei pronto a giurare solo su quella di Romano Bilenchi. C A R L O C A S S O L A a Franco Fortini, 11 gennaio 1956

1. Una parabola indivisibile – Perché non ha mai scritto un libro su quegli anni, un suo lungo viaggio attraverso il fascismo? – Perché ognuno nasce come può e non come vuole. L’ha detto Paul Valéry, se non sbaglio. R O M A N O B I L E N C H I (da un’intervista rilasciata a Aldo Grandi pubblicata nel 1990) – Con codesto carattere ti rovinerai tutta la vita. R O M A N O B I L E N C H I , Conservatorio di Santa Teresa, 1936-1938

Romano Bilenchi, nato a Colle Val d’Elsa nel 1909, fu fascista: aderì attivamente al fascismo, soprattutto fino a quando esso fu principalmente un movimento; man mano che esso divenne un regime Bilenchi dapprima rimase dentro gli ingranaggi del sistema mussoliniano, e poi passò a una forma di attivo contrasto. Questo lavoro, che è dedicato ad alcuni degli snodi più complessi di tale vicenda, vuol discutere e dimostrare l’importanza di studiare Bilenchi e il fascismo: per ragioni che si affronteranno singolarmente nel corso del discorso, ma che è opportuno nominare subito.

18

Daniela Brogi

Indagare la stagione fascista permette in primo luogo di restituire al discorso critico sull’opera di Bilenchi quell’etica della vita indivisibile che rappresentò uno dei tratti più costanti della scrittura e della vita dell’autore di Conservatorio di Santa Teresa; in secondo luogo può aiutarci a ricostruire una stagione, malgrado tutto, spesso messa tra parentesi o poco guardata4, come se il fascismo e i fascisti appartenessero a un capitolo dell’identità nazionale tanto più ingombrante quanto meno ammesso. Come se la tragedia del fascismo non potesse essere stata accettata nell’immaginario e nella memoria comune se non sotto forma di farsa5. Al contrario di tale tendenza, – e si arriva alla terza ragione di questo studio – la prosa di Romano Bilenchi non racconta mai i fascisti come personaggi ridicoli, come d’altronde non racconta mai gli antifascisti in maniera retorica. Al tempo stesso, le favole o le metafore restano escluse dalla rappresentazione della Resistenza. Il fatto è che tanto l’adesione al fascismo quanto la presa di distanza da esso, l’antifascismo, non furono mai intesi da Bilenchi, né prima né dopo, come questioni formali o anzitutto culturali. In gioco c’era molto di più: sia per l’uomo che per l’autore. Studiare Bilenchi e il fascismo vuol dire allora anche individuare aspetti che possano aiutarci a capire contenuti e forme della sua narrativa – in cima a tutti anche il così citato tema del giovane – cercando di capirne anche i presupposti generazionali, non soltanto esistenziali. Le risonanze simboliche, così potenti, della prosa bilenchiana raccontano un’inquietudine imprescindibile dalla potenza del tempo e della storia. Ripartiamo da un dato che solo apparentemente si pone come un paradosso. Soprattutto a distanza di molti anni,

Cronache di una gioventù perduta

19

talvolta decenni, Bilenchi ha parlato spesso del fascismo e dei fascisti. Ma senza fare tante storie: per esempio, non ha mai raccontato le molte occasioni di collaborazione alla controffensiva dei gappisti fiorentini mettendo il proprio operato al centro dell’interesse; ne scrive in modo obliquo, come per esempio nella prosa di Amici dedicata a Bruno Sanguinetti e a Mario Fabiani6. Eppure si trattò certamente di un’esperienza non meno pericolosa di quella contemporanea della guerriglia partigiana: «parlammo a lungo delle nostre ingenuità e dei nostri errori giovanili e di come, a differenza di altri, eravamo riusciti a salvarci. Ora rischiavamo ogni minuto la vita, ma ci sembrava agendo così di riscattare quegli errori» (A, p. 813). Rispetto a questa attiva adesione7, potrebbe poi sembrare ancor più strano che Bilenchi non abbia mai fatto esercizio di abiura nei confronti del fascismo, se non ci riferissimo a un concetto molto forte di integrità dell’esperienza che Romano Bilenchi non si limitò soltanto a teorizzare, ma praticò con rigore, pagandone il prezzo di molte incomprensioni. Se cerchiamo di raccogliere le prove di questa idea per cui la verità di un individuo, come di un autore, non sta soltanto in un punto, né in una linea retta, ma nell’arco complessivo disegnato da una vita, proprio un passaggio di Amici è illuminante: Elio [Vittorini] stava raccogliendo il materiale per il «Diario in pubblico». Mi chiese se io avrei pubblicato anche gli scritti fascisti oppure no. Gli risposi che avrei pubblicato tutto. Non potevamo fare gli storici di noi stessi, né da noi stessi separare il bene dal male. Per noi personalmente contava la posizione alla quale eravamo giunti dopo una strada così tortuosa e piena di pericoli. Ma i giovani avrebbero dovuto

20

Daniela Brogi

valutare loro il nostro cammino, la nostra esperienza nel suo complesso. Altrimenti essa avrebbe perduto ogni suo valore pedagogico. Elio era perplesso, come colto da uno strano pudore. Fu quella la sola volta che non riuscii a convincerlo8.

«Epopea memoriale» secondo la giusta definizione di Depaoli9, insieme di racconti «“reinventati” dalla memoria che ne articola l’emotività e l’interesse10», Amici vale anche come autobiografia di una generazione. La scrittura procede per sovrapposizione di materiali riorganizzati in una prospettiva spesso lirica ma non per questo labile, o riducibile a un’esperienza individuale. Lungi dal rappresentare un intralcio, l’eco emotiva «articola» le possibilità espressive del ricordo, senza mai compiacersi con la divagazione en artiste o con l’enfasi. Con Amici Bilenchi compie un’operazione antiegotica: risistema il significato e il valore della propria vita attraverso la testimonianza della vita degli altri. Anche Amici, insomma, è una sorta di diario in pubblico: non per l’andamento della prosa o per la struttura, ma relativamente alla volontà di dare importanza alla propria biografia e di trasformarla in racconto11 solo se e perché essa entra in relazione con un destino pubblico ed extraindividuale. La prima edizione di Amici esce nel 1976: a trentasei anni di distanza da quando, nel 1940, Bilenchi, all’epoca trentunenne, era stato espulso dal Partito Fascista. Nell’arco di trentasei anni (1940-1976) accadono e accaddero così tante cose che potremmo davvero parlare di due uomini e di due vite diverse. Ma questo sdoppiamento è impedito proprio dalla prima pagina di Amici, che come ogni inizio svela con particolare chiarezza l’intenzionalità e le strategie del testo. Il narratore sceglie infatti di far

Cronache di una gioventù perduta

21

partire questa autobiografia significativa con Torino 1931. Rileggiamone l’attacco: Nel 1931 mi recai a Torino e vi trascorsi parecchi giorni in compagnia di Mino Maccari e degli amici che egli si era fatti in quella città e che divennero presto anche miei. Con alcuni di essi, con Welso Mucci fino alla sua morte, con Italo Cremona e con Eugenio Galvano mantengo ancora affettuosi rapporti. [A, p. 693]

È un esordio che contiene già tutto: tanto la trama quanto i significati di Amici. La costruzione di una storia e il bilancio complessivo di una vita funzioneranno per tutta l’opera intorno a quattro dispositivi di intreccio fondamentali che ci sono mostrati subito. Il primo di essi è il tempo: quello storico della data (che rimanda alla circostanza individuale dei propri vent’anni e alla storia pubblica del fascismo), ma anche il tempo della rielaborazione della memoria12, che attraverso l’uso della prima persona e l’alternanza verbale («mi recai», «mantengo ancora») dà continuità di significato alla biografia. Il secondo dispositivo attivato è quello di una partenza («mi recai a Torino») – che vale come l’uscita da casa per una grande città e che introduce, in una certa misura, la prospettiva del romanzo di formazione – poi un incontro: con Mino Maccari (1898-1989), a cui sarà significativamente dedicata anche la prosa finale di Amici; e, infine, l’elezione di una forma di vita come l’amicizia a modalità fondamentale di entrata in contatto con i valori dell’esistenza. Il prosieguo del testo perfeziona l’inquadratura messa a punto dall’incipit, e per noi è particolarmente interessante:

22

Daniela Brogi

Maccari stava per cominciare, sul «Selvaggio», la pubblicazione della Vita di Pisto, il primo scritto che davo alle stampe; ne avrebbe conservato la composizione e voleva farne un libretto, l’inizio di una serie che si augurava lunga. [A, p. 693]

Vita di Pisto, l’opera giovanile di Bilenchi, dapprima pubblicata a puntate sul «Selvaggio»13 e poi in volume nel 1931 – il medesimo anno di Spagna veloce e toro futurista di Marinetti –, è un romanzo strapaesano sulla vita del cugino del nonno del narratore: un garibaldino anarchico, donnaiolo e cazzottatore (a tratti ricorda il personaggio del nonno in Moscardino (1922), di Pea). Si tratta della storia di un superuomo esemplare come tanti altri squadristi ante litteram protagonisti di racconti fascisti dell’epoca – e più avanti entreremo maggiormente nei dettagli. Ciò che più conta adesso invece è notare che, malgrado nel 1944 Bilenchi avesse invitato Vallecchi a buttare al macero Pisto14, trent’anni più tardi, dando alle stampe Amici, deciderà invece di recuperarlo alla memoria, non solo ricordandolo come il suo «primo scritto» (con una significativa aggiunta rispetto al manoscritto di Torino 193115) ma, soprattutto, facendo cominciare proprio da lì il romanzo di una generazione costruito dalle prose di Amici. Possiamo dedurne dunque che se gli esiti letterari di Pisto sono, per ammissione stessa dell’autore, mediocri, Bilenchi ha tuttavia scelto di non rimuovere quella vicenda. Non perché sia significativa in sé, ma perché quel testo parla di una stagione complessiva quale quella del fascismo rivoluzionario di cui «Il Selvaggio», dominato dalla personalità di Mino Maccari, fu uno degli organi più importanti e interessanti16. Per l’autore di Amici (1976)

Cronache di una gioventù perduta

23

Pisto fissa, malgrado tutto, il punto di partenza di una parabola esistenziale, letteraria e politica “indivisibile” – recuperando un aggettivo usato da Bilenchi a proposito di Franco Calamandrei17. Indivisibile, ossia da considerare interamente, come Bilenchi aveva consigliato a Vittorini («gli risposi che avrei pubblicato tutto»). Anche per Bilenchi vale quello che proprio il nostro autore aveva scritto di Berto Ricci (1905-1941)18, collaboratore de «Il Selvaggio» e de «Il Bargello», nonché fondatore de «L’Universale», nel Dizionario degli Autori Bompiani: la vita e l’opera di Ricci furono connesse in uno stretto rapporto: in certo senso egli si può considerare un rappresentante tipico di una gioventù intellettuale sconvolta dai suoi errori e dalle sue generose illusioni e protesa, in un tempo in cui la crisi dei vecchi regimi liberali e il loro fallimento erano un triste dato di fatto, verso un confuso mito di “salute”, di rinnovamento “rivoluzionario” e “nazionale”, di riscossa culturale, di Stato “popolare”. I più onesti pagarono di persona questo grave fraintendimento; tra essi fu Ricci, che pagò sino all’estremo, tragicamente inutile sacrificio19.

Soprattutto gli storici, e più di tutti Paolo Buchignani20, hanno davvero discusso del rapporto tra Bilenchi e il fascismo, sottraendo la questione della cultura degli anni Trenta allo statuto di argomento fantasma a cui talvolta l’ha condannata la critica letteraria; (per esempio il libro più importante sulla gioventù fascista, quello di Marina Addis Saba, limitava la ricerca al periodo della guerra fascista 1940-1943)21. Anche Asor Rosa, che a suo tempo aveva affrontato più direttamente la questione, ne aveva parlato essenzialmente per stringere tutta l’argomentazione

24

Daniela Brogi

sul populismo del comunismo postfascista22. Quando invece sarebbe opportuno discutere del fascismo di Bilenchi uscendo da prospettive pregiudiziali, oltre che dallo schema spesso astratto: fascismo versus antifascismo. Proprio le interpretazioni più rigide della contrapposizione di fronti, tra l’altro, hanno mantenuto il presupposto – non solo letterario ma culturale, politico, simbolico – che il fascismo fosse e fosse stata una storia altrui e non, almeno in parte, anche la propria. I saggî raccolti in un volume recentemente curato da Falaschi23 aiutano a capire quanto resti sfuggente quella stagione se continua a essere interpretata con categorie di giudizio così ad excludenda. Bilenchi fu fascista. Bilenchi fu attivamente antifascista. Le due affermazioni sulle prime potrebbero apparire come i due corni di un trasformismo ambiguo; in realtà sono per lo più le espressioni di un bisogno di adesione senza risparmi a forme di vita di gruppo che diventano degli assoluti. La metafora della selva oscura per comprendere il ventennio fascista e i suoi sviluppi successivi resiste insomma fino a un certo punto, e questo vale tanto per il fascismo, quanto per Bilenchi. Il fatto è che il fascismo non è stato una pagliacciata. L’adesione ai miti fascisti24, ai bellissimi inganni del fascismo, per Bilenchi come per moltissimi giovani, nasce, tra l’altro, da una condizione che molte volte è più vicina alla tensione che all’illusione esaltata. Possiamo rifiutarne le premesse ideologiche – nonché le devastanti conseguenze – senza per questo diminuire l’attenzione per una storia che, forse, soltanto quando sarà davvero guardata potrà considerarsi davvero finita. In nota alla prima edizione

Cronache di una gioventù perduta

25

della silloge «Dino» e altri racconti (1942), che comprende sette testi usciti su «L’Universale» tra il 1933 e il 1934 ed è dedicata alla memoria di Berto Ricci, l’autore volle scrivere: Questi racconti scritti nel 1930-1931 furono raccolti più tardi in volume. Ad essi non do altro valore di una materia ed è questa materia, di cui ancora mi preme l’inquietudine, che qui ho voluto riordinare25.

Dentro quell’inquietudine non abitano soltanto stati d’animo irrelati o suggestioni letterarie, ma contraddizioni storiche, politiche e sociali fortissime: le stesse che Pisto lascia in eredità al nipote: «lascio il berretto rosso a mio nipote, perché se lo metta, se ci fosse la guerra, con la Camicia Nera»26. La ricostruzione di Bilenchi fascista non ha dunque un valore solo documentario o strettamente filologico, perché servirà anche a considerare come certi temi abbiano anzitutto, oltre e più che una matrice letteraria o simbolico-esistenziale, una radice politico generazionale27. 2. Gli anni neri In quanto al resto lasciate correre: non sono letterato, sono fascista. R O M A N O B I L E N C H I , Libri del cinquan tenario garibaldino. Il maggiore Leggero, «Il Bargello», IV, 23, 5 giugno 1932 – Rinunziate alla libertà – parve che ci si dicesse, – purché i treni partano in orario, purché le strade non siano più impraticabili, purché si abbiano grandi e molto

26

Daniela Brogi lucidi edifici pubblici, purché, tra l’altro, ci sia una scuola moderna ed efficiente –. A L E S S A N D R O S E T T I , Il fascismo e le scuole medie ed elementari, in Questo era il Fascismo: 20 conferenze alla Radio Firenze, 1945

Bilenchi fu fascista prima – la tessera era «datata 1° gennaio 1922» (A, p. 752) – e antifascista poi. Ma tra i due momenti non si consumò una conversione, se con questo termine si intende un mutamento improvviso e privo di mediazioni, più accostabile all’immagine dell’epifania che a quella della persistente volontà di uscire dal «mare nero della disperazione borghese». Gli anni in cui lo scrittore Romano Bilenchi collaborò con la cultura fascista vanno dal 1931 – quando comincia a collaborare a «Il Selvaggio» – al 1937. Possiamo assumere da un lato i due interventi usciti nel 1937 su «Critica fascista»28 (il secondo dei quali in forma di lettera, non più di articolo, come segnale forte di una distanza dalla redazione), e dall’altro lato la pubblicazione di Anna e Bruno in «Letteratura» (1937)29 come spartiacque netti, rispettivamente politici e letterari, tra la stagione fascista e la sua messa in discussione. Dal 1938 infatti, soprattutto dopo l’alleanza con la Germania nazista e razzista e dopo le vicende della guerra civile spagnola, Bilenchi comincia a militare nel P C I clandestino, tramite il contatto con Bruno Schacherl e Bruno Sanguinetti. Negli anni che precedono questa data, anche il trasferimento definitivo a Firenze, a metà del 1934, dové senz’altro giocare un ruolo di primo piano. L’uscita dall’ambiente strapaesano di Colle di Val d’Elsa, un lavoro fisso e l’ingresso in un mondo intellettuale ancora molto vivace come quello fiorentino degli anni Trenta, introdussero senza dubbio

Cronache di una gioventù perduta

27

contraddizioni che sarebbero divenute sempre più inaggirabili. Soprattutto per un uomo e un autore come Bilenchi, dall’attitudine così costante a scavalcare i recinti, a mettere vicine, attraverso l’esperienza, situazioni letterarie e politiche vissute in maniera tanto più forte quanto meno separata e non conforme, anche a costo di contraddire gli amici più fedeli: Berto Ricci non mise mai piede alle Giubbe Rosse rimanendogli antipatici i solariani e la loro letteratura. Per lui essi erano l’opposto di quello che avrebbe dovuto essere il vero scrittore italiano formatosi su Dante o su Machiavelli e Carducci e sul linguaggio popolare e non sui francesi e gli altri stranieri. Stimava Vittorini come uomo, e fra gli scrittori prediligeva Ungaretti, del quale era molto amico, e Palazzeschi. Invitato da me a una seria lettura, era rimasto colpito dalle qualità e dalle possibilità del giovane Luzi. [A, p. 794]

Negli anni neri che precedono la maturazione del dissenso gli scritti fascisti di Bilenchi si dividono nei due momenti della scrittura creativa e dell’attività giornalistica30. Al primo blocco appartengono Vita di Pisto (1931), Storia dei socialisti di Colle – pubblicato in appendice sul «Bargello» (1932) e in volume nel 193331 – Il capofabbrica (1935)32 e alcuni racconti. L’attività giornalistica33 comincia invece con gli articoli usciti sul «Selvaggio», nel 1931; dopo la presa di distanza da «Il Selvaggio» («è divenuto “Pegaso” con 8 pagine»34) Bilenchi scriverà sul periodico più importante dei G U F , «L’Universale» (nato nel gennaio 1931), tra il 1932 e il 1935; assunto come “redattore” alla «Nazione», nel luglio 1934 (A, p. 929) Bilenchi trasloca a Firenze; dopo la partenza di Berto Ricci

28

Daniela Brogi

per la guerra di Etiopia, e fin quando «L’Universale» non sarà soppresso da Mussolini, Bilenchi dirigerà gli ultimi due numeri; a questa classe di scritti si aggiungono poi gli interventi – i più organici direi – che dal 1932 fino al maggio 1937 Bilenchi pubblicò sul «Bargello». Comune punto di riferimento per Pratolini, Bilenchi e Vittorini, «Il Bargello» era il settimanale della federazione fascista di Firenze fondato nel 1929 e diretto fino al 1934 dal futuro ministro della Cultura Popolare Alessandro Pavolini (1903-1945), a cui alcune pagine di Amici consacrano una fedeltà alla memoria spinta oltre gli estremi: «dinanzi alla morte si comportò da coraggioso. Durante il periodo della repubblica di Salò, quale segretario del partito, venne a Firenze per organizzare i franchi tiratori fascisti», scrive Bilenchi, con la sintassi perentoria di chi ha deciso di sostenere ad ogni costo la responsabilità di un legame elettivo. «C’era già in quegli occhi [nel 1924] la spietata crudeltà di colui al quale vent’anni dopo, alla vigilia della liberazione della sua città, doveva essere riservata la gloria di organizzare i franchi tiratori, incaricati di prendere a fucilate dai tetti le donne che uscivano durante l’emergenza a far provvista d’acqua» avrebbe raccontato Piero Calamandrei35. L’autore di Amici invece prosegue: Un operaio comunista riuscì a rubargli l’automobile con sopra un mitra e sei bombe. Io ho dormito per quindici giorni, gli ultimi dell’occupazione tedesca, su quell’automobile che era stata portata nella tipografia del partito comunista. Ma se mi fossi trovato a combattere contro di lui e in condizioni di poterlo vincere non gli avrei sparato: avrei fatto di tutto per salvarlo. […] Per me l’amicizia è superiore a qualsiasi divergenza politica. [A, p. 774]

Cronache di una gioventù perduta

29

Agli scritti del «Bargello» vanno poi aggiunte le collaborazioni con «Il lavoro fascista» – tra il 1932 e il 1933 – e, tra l’aprile 1933 e l’aprile 1937 – con «Critica Fascista». Dalla fine del 1933, dopo un incontro tra la redazione de «L’Universale» e Galeazzo Ciano, a seguito di «un’accusa di comunismo» (A, p. 751) e di un’evidente strategia di neutralizzazione dei potenziali eversivi del gruppo di Berto Ricci, Bilenchi aveva cominciato a scrivere anche su «Il Popolo d’Italia» (dove pubblica soprattutto nell’arco del 1934: nel 1935 usciranno soltanto tre articoli, di cui due recensioni). Su raccomandazione di Galeazzo Ciano e di Ottone Rosai (A, p. 934) il 15 luglio 1934 Bilenchi è assunto alla «Nazione» di Firenze, dove rimarrà fino al 1943. Espulso dal partito nazionale fascista nel gennaio del 1940 (A, p. 937; un po’ dopo Vittorini) nel 1942 si iscrive al P C I : Anche gli amici di mio padre rimasti fedeli a casa mia, con alcuni dei quali ero rimasto amico, dicevano che ai congressi socialisti ai quali avevano partecipato prima dello scoppio della guerra Mussolini era l’unico vero rivoluzionario. Lui forse ci difendeva e ci proteggeva. Fatto sta che una volta, in occasione del manifesto realista di Ricci, ci fece chiamare dal prefetto Maggioni, un liberale che era stato capo di gabinetto di Facta. Il prefetto ci domandò: «Ma che cosa volete fare? Un altro partito?». Rispondemmo che se fosse stato possibile non ci avremmo pensato due volte. Chissà che cosa riferì al duce; comunque Mussolini ci volle a Roma. Andammo in tredici. C’erano tra gli altri Indro Montanelli, Adriano Ghiron, Berto Ricci, Eugenio Galvano, Roberto Pavese. Mancava Ottone Rosai. Scoprimmo che Rosai non era mai stato iscritto, pur avendo

30

Daniela Brogi

fatto parte, insieme a Bottai, del fascio repubblicano fascista di combattimento. Fummo ricevuti a Palazzo Venezia. Di quell’incontro ricordo alcuni particolari. Mussolini disse a uno di noi, Icilio Petrone: «Ho visto con grande piacere che Trotzkij ha citato un vostro articolo». Si scagliò poi contro i razzisti tedeschi. […] Ricevetti da quell’incontro un’impressione orribile. Era un demagogo. Capii, e lo dissi soprattutto a Ricci, che quell’uomo ci stava prendendo in giro e diceva quelle cose solo perché stavamo davanti a lui. Ci invitò a scrivere tutti sul suo giornale. Volli provare a vedere se avrebbero pubblicato un mio articolo piuttosto pesante. Inviai al «Popolo d’Italia» un pezzo che cominciava così: «Tra i fascisti della marcia su Roma c’era chi lo faceva solo per difendere novantamilalire che aveva in banca». Mussolini lasciò tutto. Solo più avanti cominciarono a respingermi i pezzi che scrivevo. Mi sembrava che Mussolini volesse conservare queste idee di sinistra ma piano piano nacque il sospetto che ci tenesse buoni buoni, come un fiocchettino rosso sulla redingote per far bella mostra di democraticità. Lentamente iniziai a staccarmi finché nel 1940 mi mandarono a chiamare dal gruppo rionale e mi chiesero: «Sei disposto a tutto, tu che sei un vecchio fascista?». «No – risposi –. Quella la data dell’avanguardia, una buffonata. La guerra con i tedeschi non la farò mai. Sono dei razzisti». Avevo scritto un violento pezzo, apparso su «Critica fascista» in forma di lettera perché troppo “duro”. Vi definivo il razzismo come il ritorno all’età delle caverne. Dopo quindici giorni ricevetti una nota nella quale si leggeva: «La vostra iscrizione al partito è da considerarsi come mai avvenuta». Tra la fine del 1940 e gli inizi del 1941, un giorno Bruno

Cronache di una gioventù perduta

31

Schacherl mi domandò se volessi entrare nel Partito Comunista. Risposi affermativamente36.

3. «Largo ai giovani». La generazione di Bilenchi Coetanei, bisogna riconquistare il senso di noi stessi e delle nostre possibilità e dichiararsi rivoluzionari perché figli d’una rivoluzione in marcia. I giovani di Mussolini non debbono avere per ideale una mensa imbandita e una comoda automobile. Credete voi che l’impero ce lo facciano gli australiani? Ce lo dobbiamo conquistare da noi, e abbiamo accettato una tessera dov’è scritto un giuramento terribile. ROMANO BILENCHI , Indifferenza dei giovani, «Critica fascista», IX, 8 (15 aprile 1933)

Perché Bilenchi è diventato fascista? Possiamo sciogliere questo dubbio soltanto risolvendone un altro: cosa voleva dire per Bilenchi essere fascista? Le risposte possibili devono anzitutto provare a liberarsi da due paradigmi a lungo dominanti: il primo consiste nell’idea di un fascismo unico: Non si capisce niente del consenso al fascismo se non si tiene conto di quanto varie furono le immagini che esso seppe dare di sé e con le quali si presentò al paese. Non si dice niente di nuovo ricordando quanto dissimili tra loro, e per certi aspetti inconciliabili, furono figure di spicco, di generazioni diverse, che si presentarono e ancora si presentano come intellettuali fascisti: Giovanni Gentile e Filippo Tommaso Marinetti, Vittorio Cian e Delio Cantimori, Ugo Ojetti e Ardengo Soffici, Camillo Pellizzi e Mino Maccari, Gioacchino Volpe

32

Daniela Brogi

e Curzio Malaparte, Berto Ricci e Carlo Morandi. Questa varietà, che consentiva al fascismo di apparire, al tempo stesso, come un movimento di destra e un movimento di sinistra, fu la condizione stessa del suo consenso37.

Il secondo presupposto che per molto tempo ha impedito di prendere sul serio il ventennio nero è l’idea del fascismo come parentesi e, di conseguenza, come fenomeno di superficie. Al contrario, l’adesione di Bilenchi al fascismo si pose come partecipazione combattiva a un movimento definito proprio da Bilenchi, nel 1934, «più rivoluzionario di Mosca»38: Il Fascismo non è liberalismo, non è comunismo, non è cattolicesimo, non è sagristia o polizia borbonica – come molti vorrebbero – ma R I V O L U Z I O N E , R I V O L U Z I O N E D E L L ’ I T A L I A perché Mussolini così partì e così arriverà39.

Sono toni che sgombrano ogni incertezza: il fascismo totalitario fu (almeno nel senso che riuscì a far credere di essere) una forma di vita tanto antagonistica quanto profonda: «siamo fascisti naturaliter»40. Soprattutto le ricerche storiche di Paolo Buchignani41 possono allora aiutarci a capire come la classica immagine zangrandiana42 del cosiddetto «lungo viaggio» dall’adesione all’allontanamento dal fascismo abbia funzionato, nel corso degli anni, come narrazione spesso ingannevole perché orientata, per l’appunto, a sfruttare la massimo gli effetti di spostamento della metafora, traslando dentro una nebulosa i termini e la natura dell’adesione fascista di molti autori – anche di casa Einaudi, come dimostrano i lavori di Mangoni e Turi43 – poi diventati antifascisti. Le tragedie dell’Italia fascista

Cronache di una gioventù perduta

33

furono anche la realtà pratica di una tragica vicenda generazionale da discutere con serietà; perché il punto è che non si trattò soltanto di retorica, ma di un potente fenomeno di persuasione delle coscienze, oltre che di sconvolgimento della storia44. Recuperiamo un passaggio dal dialogo tra Gobetti e un “Selvaggio” – ovvero Longanesi, il direttore dell’«Italiano» (1926-1942) – pubblicato il 28 gennaio 1926, nove giorni prima della morte di Gobetti: Gobetti – Hai parlato sì, della tua scuola, come tu la chiami, ma del fascismo veramente… Selvaggio – Del fascismo… della prima rivoluzione nazionale. Gobetti – … non ne hai ancora parlato. Selvaggio – Tu vuoi che io ti snoccioli 4 apoftegmi per definirti il fascismo, una teoria per inquadrarlo dentro un sistema filosofico, un programma col P maiuscolo, per elencarlo fra i diversi partiti… Ma io non ci casco. Non ti sei forse ancora accorto che il fascismo è più di un partito? […] Il fascismo è misticismo; ma è impossibile elencarlo in un sistema filosofico45.

La forza del fascismo, negli anni della sua ascesa, fu la forza di un movimento capace di radicarsi non sulla superficie ma nei territori più profondi dell’io giovanile, attraverso la politica ma anche, talvolta soprattutto, attraverso il campo del simbolico. Vita individuale e vita collettiva divengono un unicum, come Bilenchi stesso spiega in un’intervista del 1985 che riecheggia la vicenda del Bottone di Stalingrado (1972): Avevo dodici anni [quasi tredici, in realtà] quando i fascisti fecero la marcia su Roma e nonostante venissi da una

34

Daniela Brogi

famiglia antifascista, per il solo fatto d’essere borghesi, venivamo assaliti, tutte le mattine, da figli di operai, mentre ci recavamo al ginnasio. Una mattina fui anche ferito con una specie di pugnale. Allora per legittima difesa facemmo un gruppetto di ragazzi che finì per divenire d’avanguardia fascista46.

La storia personale, la vicenda dell’io («avevo dodici anni») si riconverte subito, saltando al “noi”, nella storia plurale di un soggetto di classe narrato dapprima come aggredito («venivamo assaliti»), e poi risarcito dall’appartenenza a una controffensiva di gruppo di orientamento avanguardista. È principalmente nella sovrapposizione di questi due livelli, l’individuale e il collettivo, che si realizzò la rivoluzione del fascismo. Essere fascisti significò essere coetanei (questo è il significativo appellativo usato dal giornalista fascista Bilenchi, non “camerati”). Essere fascisti volle dire essere uniti, essere parte di, essere contro, essere dalla parte di Mussolini, che si propose come un capo abilmente capace di profonda fiducia nei confronti delle nuove generazioni; lo testimonia, per rimanere dentro l’esperienza bilenchiana, l’episodio della convocazione a Palazzo Venezia del luglio 1934 (A, pp. 758 e 934), che può rivelarsi molto significativo bel al di là dei territori dell’aneddotica o della rielaborazione stessa di questa circostanza compiuta in Amici, perché il contenuto più vero e più forte raccontato da quel fatto è che Mussolini convoca dei venticinquenni per reclutarli nella redazione del suo principale organo di informazione e di propaganda: «Il Popolo d’Italia». Essere fascisti, allora, volle dire essere al centro, dalla parte del nuovo, del cambiamento; essere tutto questo perché si è giovani.

Cronache di una gioventù perduta

35

Leggiamo infatti, a titolo di esempio, il primo breve articolo con cui Bilenchi esordì su «Il Selvaggio» (i testi apparsi in precedenza erano le puntate di Pisto e il racconto Fatti di Strapaese): Come tutti i buoni fascisti, io saluto a cuore aperto le recenti schiere dei giovani fascisti. In questo periodo di tempo in cui si parla tanto di essi tentando definire e sistemare la loro posizione rispetto ai «vecchi», voglio richiamare l’attenzione su di una eletta e moralmente privilegiata classe di giovani. Per far ciò è d’uopo considerare strettamente il mio ambiente. A Colle, avanti della Marcia su Roma, il Fascio è formato di una trentina di persone. Tra queste, regolarmente iscritti al partito, poiché in paese non esistono avanguardie, una diecina di ragazzi tra gli undici e i tredici anni, tra i quali il sottoscritto. Naturalmente non partecipano a spedizioni e non parteciperanno alla Marcia su Roma, perché sempre in pantaloni corti, ma hanno sentito senza esservi spinti da alcuno, fortemente e subito – quel che più conta – il richiamo di Mussolini, e pronunciano questo nome tremando di fede. Crescono prestando piccoli servigi, come distribuire manifestini, portare ordini e picchiandosi tutti i giorni coi giovani avversari. Qualcuno ha portato per vario tempo i segni delle carezze ricevute. Tutti vivono e si temprano nel calore delle audaci imprese dei «vecchi». Oggi abbiamo ventidue anni di età e nove di anzianità fascista. Non so se in Italia siamo numerosi, ma se ci domandassero: – Siete giovani o vecchi? – risponderemmo: – Giovani e vecchi: questo è il nostro privilegio e la nostra ricompensa47.

L’io che scrive parla a nome di una totalità («come tutti i buoni fascisti») e si rivolge a un destinatario

36

Daniela Brogi

immediatamente qualificato da un’identità di gruppo – una «schiera» – e di età – è una «classe di giovani». Precisamente una settimana prima, l’otto ottobre 1931, su «Gioventù fascista» Mussolini aveva scritto: «Giovani fascisti, ecco due parole che rimbombano nei cuori e riempiono di fierezza le generazioni che ascendono nell’Italia voluta dalle camicie nere». Rielaborando per Amici le vicende di qualche anno più tardi, il 1938, all’epoca dell’apprendistato antifascista, Bilenchi segnala tra le righe un testo («lessi Fascisme et grand capital di Daniel Guérin»: A, p. 802) che fissa alla perfezione quella mitologia della giovinezza di gruppo (come in un fascio, per l’appunto) attraverso la quale Mussolini sedusse le masse e strinse a sé i giovani che votarono plebiscitariamente nelle tornate elettorali del 24 marzo 1929 e del 25 marzo 1934. Recuperiamo un passaggio del libro di Guérin in cui si cita un articolo di Gentizon uscito in «Le Temps», il 26 luglio 1933: il fascismo ha considerato l’adolescenza non soltanto come una fase di passaggio dall’infanzia alla virilità, ma come un periodo particolare, con caratteristiche, esigenze e necessità particolari. Prima del fascismo la giovinezza dell’italiano era, per così dire, una zona intermedia tra l’incoscienza dei bambini e la carriera degli uomini. Il fascismo invece, dandole sue proprie leggi, l’ha valorizzata in quanto tale48.

Avere vent’anni, all’epoca dell’adesione bilenchiana al fascismo, significò essere gli interlocutori privilegiati di un sistema politico che fece dell’opera di irregimentazione e di educazione dei giovani uno dei suoi canali

Cronache di una gioventù perduta

37

privilegiati di costruzione del consenso. Lasciamo la parola a Alessandro Pavolini, su «Il Bargello» del 24 gennaio 1932: Si tratta: primo, di far essere profondamente fascisti gli studenti destinati a formare domani i quadri dell’università; secondo, di dare a costoro non solo la passione dell’insegnamento universitario, la passione scientifica, ma altresì la passione di sentirsi la generazione destinata finalmente a far fascista la università italiana […] Gli studenti non vivono per masse. Vivono – come formazione culturale, e sociale – per nuclei, per amicizie. Credo che il Guf fallirebbe alla sua funzione principale se si contentasse di offrire agli studenti, con le mense e le altre istituzioni d’assistenza, con lo sport, con i tè danzanti, con le feste matricolari, quel tanto di vita largamente collettiva che, aule scolastiche a parte, ogni studente in genere vive. Viceversa, gli sfuggirebbe, allora, quel tanto di vita di gruppo, di discussione, di affinità, di elaborazione d’idee, d’impostazione di fronte al mondo, attraverso il quale gli studenti più significativi si formano, s’affinano, si allenano a far parte effettiva, nelle alte professioni, o nelle cattedre, della cultura nazionale49.

Non si tratta riduttivamente di vita collettiva, ma di «vita di gruppo», connotata in senso battagliero e generazionale: questa fu, per esempio, uno degli elementi più forti di aggregazione e di autorappresentazione delle redazioni de «Il Selvaggio» e de «L’Universale»50, con un elemento forte di novità anche rispetto alla cultura del movimento operaio italiano e del Partito Comunista, dove «un atteggiamento del genere era tutto fuorché scontato»51. Se dall’interno di questo orizzonte riconsideriamo due

38

Daniela Brogi

espressioni così tanto usate e sovrapposte al fascismo in quegli anni ovvero “essere giovani” e “essere amici”, diverrà quasi superfluo osservare che esse rimandano a forme di esperienza e di identità che fissano concetti e significati ben più forti e complessi di quanto non si possa intendere quando si fa riferimento – anche per Bilenchi – alla gioventù o all’amicizia come a semplici temi di matrice psicologica e esistenziale. Dentro l’orizzonte delineato sin qui l’affermazione della gioventù vale infatti prima di tutto come rivendicazione di un sentimento e di un’ansia di vita – è il titolo di una raccolta poetica recensita da Bilenchi nel 193252 – di cui solo quell’età è capace – significa avere il diavolo in corpo, per citare un libro (Le Diable au corps, di Radiguet, 1923) con cui Amici (A, p. 728) ci presenta Bilenchi, diciottenne, ai tavoli del caffè Paszkowski – più tardi Bilenchi amerà molto anche il film di Autant-Lara (1947). Essere giovani, negli anni Venti, significava far parte della generazione che non ha partecipato alla guerra, essere antipassatisti, essere anticapitalisti, essere anticlericali: essere una gioventù senza Dio, secondo il titolo dell’unico romanzo tradotto più tardi da Bilenchi e pubblicato a puntate nel 194653. Tirando le somme allora, dentro questo contesto la rivendicazione della gioventù è in primo luogo espressione di un vitalismo che si infiamma; è, in secondo luogo, una presa di parola al plurale; è, in terzo luogo, un gesto aggressivo, non di ripiego: «nessuna opera che non abbia un carattere aggressivo può essere un capolavoro», come recitava il Manifesto del Futurismo. Essere giovani significa «uccidiamo il chiaro di luna», non essere indifferenti, usare dei codici di contrapposizione frontale. L’insolenza futurista, il teppismo lacerbiano e il fascismo

Cronache di una gioventù perduta

39

parlano un unico linguaggio: «chi ha vent’anni deve sentirsi scosso certamente e prepararsi a menare le mani»: lo scrive Bilenchi su «Il Bargello» nel 193254. Nel 1930 i più affezionati sostenitori e amici di Ottone Rosai (Berto Ricci, Bruno Rosai, Gioacchino Contri, Edoardo Persico, Dino Garrone: in buona sostanza il gruppo che di lì a poco avrebbe fondato «L’Universale») pubblicano un opuscolo antologico Il Rosai che si conclude con un appello Ai giovani che vale la pena citare: Siete artisti, poeti, siete Italiani, siete al principio di tempi nuovi, e dovete essere diritti e severi. Dovete sprezzare le pagliacciate d’ogni specie, la celebrità de’ giornali che è la crusca della gloria, l’arte umiliata a sterile delitto cerebrale e prostituita a guadagno, la bassa consorteria critica e letteraria. Dipenderà da voi la grandezza di questo secolo: siate pronti a sopportare anche la miseria e la fame; siate caldi e ricchi d’umanità, pieni di natura, aperti a tutte le voci della vita55.

Da una parte dunque la protezione del gruppo; dall’altra la protezione di Mussolini, il padre-divo che ha sempre ragione ed è capace di risolvere e spiegare tutto: «Io sono il vostro Capo e sono, come sempre, pronto ad assumermi tutte le responsabilità» titola «Il Bargello» del 23 ottobre 1932. Sul numero del 31 luglio del medesimo anno, nella stessa pagina dove appare la sesta puntata della Storia dei socialisti di Colle, in un articolo intitolato Pensieri di giovane e firmato da Vasco Pratolini si legge: Indubbiamente noi giovani siamo oggetto di una serrata disamina.

40

Daniela Brogi

Da una parte gli ultimi ottocentisti, ormai sulla strada della vecchiezza, per gli anni e con l’anima, non possono comprendere questo fuoco ventenne, la nostra sete di avanzare, di conquistare anche a rischio di rimanere canzonati. Da un’altra parte troviamo consenso, plauso, incoraggiamento, ma è un «Venite, venite piccini… Su, da bravi cosa avete da dire? Eh!? Bricconcelli! Così non va, bisogna rispettare le distanze e le posizioni, e se non altro il Dòtto, ed infine l’Anzianità. Fate così e così. Che? Vi ribellate?… E andate al diavolo allora». Vi è poi una corrente moderata che plaudisce il giovane, lo esalta, lo addita sì, ma in generale, in blocco, in massa, e di conseguenza il genio e la negazione hanno lo stesso attributo (Vita quotidiana). Un uomo solo l’ha compresa questa nostra forza, l’ha serrata nel pugno e sa di poterla lanciare, dove come e quando voglia, ed è certo di trovare in essa tutta la nostra ventenne virilità, la nostra anima fremente ed il corpo granitico votato a Lui, che salvò la Patria e la condusse di nuovo sulle strade della conquista (Mussolini)56.

«Mussolini era l’unico vero rivoluzionario. Lui forse ci difendeva e ci proteggeva»57 racconterà Bilenchi. «Allora per Mussolini mi sarei fatto ammazzare. Non per il fascismo, ma per lui che rimediava sempre agli errori commessi dagli altri»58. È un linguaggio che va inteso alla lettera. Il punto, infatti, è che sarebbe inopportuno continuare a fidarsi di un’espressione spesso usata quale “infatuazione” per indicare l’immaginario fascista, evocando con questa parola l’idea di un’ubriacatura passeggera, di un entusiasmo momentaneo che non tocca l’emotività profonda. Piuttosto, sembra vero il contrario,

Cronache di una gioventù perduta

41

perché Mussolini non fu soltanto l’uomo della forza fisica, come spiegava Jung in un’intervista rilasciata nel 193859, ma il capo rivoluzionario e liberatore, l’alfa e l’omega da cui partono e a cui ritornano tanto l’ideologia quanto l’inconscio politico della gioventù fascista, secondo un processo di identificazione («Lavorare con gli occhi fissi su Mussolini»60) che ebbe i tratti non solo di un’ortodossia, ma di una mistica. Recuperiamo alcuni passaggi di un articolo di Bilenchi del 1932, Mussolini fra i soldati: La stampa estera ha rilevato l’importanza e il significato della presenza del Duce alle grandi manovre. La stampa italiana ha fatto rilevare che non è la prima volta che Mussolini assiste alle manovre militari, sempre con lo stesso spirito di questi giorni. E va bene. Certo è che all’estero, schiaritesi le idee, si comincia a capire chi è il Duce. Tutti hanno adoperato però una parola sbagliata; si è detto che il Duce è stato presente o ha assistito alle manovre. Niente affatto. Il Duce ha partecipato alle manovre. Noi giovani ci teniamo (quando si tratta della persona del Duce, dei suoi atti che sono per noi altrettanti insegnamenti), che si sia chiari e non si fraintenda. Hanno assistito gli addetti militari, i giornalisti, altre persone, mentre Mussolini ha partecipato. «Noi consideriamo questo atto come uno dei più profondamente rivoluzionari di Mussolini. Dopo aver curato l’esercito il Duce scende tra i suoi soldati, semplicemente vestito, scavalcando ogni barriera di posizione, di grado, e marcia alla loro testa cantando «Giovinezza». Il popolo ben capisce e al suo passaggio le mamme hanno proteso verso di Lui i bimbi con la promessa che diverranno suoi soldati61.

42

Daniela Brogi

La “partecipazione” non è soltanto un cliché, o un espediente scenografico ma fissa piuttosto la struttura di una forma di vita, oltre che di linguaggio: quella dell’identificazione simbolica assoluta dell’individuale nell’universale; il Duce non assiste agli eventi e alla vita dei giovani fascisti, ma partecipa, sta all’interno di essi, ovvero al centro dell’io, tanto esterno quanto interno, come un Dio padre. M U S S O L I N I . [sono ancora parole scritte da Bilenchi, nel 1934] una delle vere e più belle vittorie della Rivoluzione Fascista è questa: vi sono uomini che, indipendentemente da tessera e distintivo, hanno acquisito la capacità di sentire Mussolini. Sentire nel senso d’avere assimilato la sua forza, d’esser sicuri del compimento della Rivoluzione, di sapere che con Lui le promesse si avvereranno, d’aver chiarita e compresa la sua personalità nella nostra storia passata e futura, e quindi di servirlo in qualunque modo62.

Essere giovani è sinonimo di partecipare, nel senso di far parte di un tutto («perché per noi nel fascismo c’era tutto»63), ovvero essere universali: Noi fascisti e specialmente noi giovani [Bilenchi nel 1933, su «Il Bargello»] vogliamo anzi dobbiamo essere decisamente universali, altrimenti tradiremmo il fascismo64. L’uomo del fascismo – avevano scritto Mussolini e Gentile alla voce “Fascismo” dell’Enciclopedia Italiana Treccani – è individuo che è nazione e patria, legge morale che stringe insieme individui e generazioni in una tradizione e in una missione che sopprime l’istinto della vita chiusa nel breve giro del piacere per instaurare nel dovere una vita superiore

Cronache di una gioventù perduta

43

libera da limiti di tempo e di spazio: una vita in cui l’individuo, attraverso l’abnegazione di sé, il sacrificio dei suoi interessi particolari, la stessa morte, realizza quell’esperienza tutta spirituale in cui è il suo valore di uomo65.

Fascismo dunque come progetto integrale di vita, tanto pratica quanto spirituale, tant’è vero che Bilenchi stesso, in un intervento del 1934, discuterà l’esigenza di un «fascismo-religione»66. E se «partecipare» è la parola chiave così a lungo ripetuta negli articoli di quegli anni, il suo dispositivo di attuazione e di funzionamento è la spinta a sentirsi aggregati nella costruzione di un’identità radicalizzata. Sbaglierebbe insomma chi, ancora troppo condizionato da una prevalente ricostruzione in chiave comica della logica fascista del gruppo, trascurasse di considerare con attenzione le forme di vita di quell’epoca, perché esse non riguardano, per esempio, soltanto il lavoro degli storici, ma spesso interessano gli stessi studî sulle forme di discorso letterario implicate con quei modi di vita, anche nei casi di autori distaccattisi dai presupposti ideologici del fascismo: «Avevo vent’anni e, nonostante la diversità delle nostre prime esperienze, della nostra formazione culturale ancora in divenire soprattutto per me, quando ci lasciammo era come se ci fossimo conosciuti, fossimo stati amici da sempre» (A, p. 789). E così il bisogno del gruppo, già di ascendenza avanguardistica, della vita per corporazioni – una delle parole a cui il giovane Bilenchi fascista teneva di più – e per amicizie: questo bisogno così voluto, affermato e radicato dalla Weltanshauung littoria, e raddoppiato naturalmente per intensità dall’esperienza della Resistenza, agirà ben oltre l’orizzonte ideologico dell’adesione al

44

Daniela Brogi

regime, come oltre l’orizzonte cronologico della conclusione della guerra. Per esempio, se guardiamo ai modelli di esperienza del mondo fissati dai racconti e dalle narrazioni degli anni Trenta, una delle dominanti che più risaltano è proprio l’amicizia intesa come assoluto, come corazza di protezione, ora offensiva – secondo il linguaggio delle avanguardie e degli arditi; ora difensiva – secondo atmosfere più affini al clima fiorentino e solariano. Raccontare i ventenni degli anni Trenta, anche a distanza di anni, significa molto spesso raccontare la propria gioventù attraverso l’amicizia, intesa non come circostanza sentimentale ma come esperienza più autentica: come quella de Gli amici, il racconto di Dino Garrone uscito su «L’Universale» nel 193167; o l’amicizia tra Alessio e Tarquinio ne Il garofano rosso, di Vittorini (uscito a puntate su «Solaria» fra il 1933 e il 1934); o tra il giovane fascista Marco e il comunista Andrea, ne Il capofabbrica (1935), o come l’amicizia – che rievoca gli anni del «Selvaggio» – raccontata in Tre amici (1988) di Mario Tobino (1910-1991); o ancora in Azorin e Mirò (1948), di Manlio Cancogni (nato nel 1916), dedicato all’amicizia con Cassola68. Malgrado sia stato spesso declinato su posizioni molto diverse, il bisogno di una vita organizzata per nuclei di amicizie non rappresenta dunque, per i coetanei di Bilenchi, un tema di portata metastorica o una modalità soltanto esistenziale, ma vale anche come patto generazionale attraverso il quale il gelo della vita individuale trova occasione di riscatto e di ricostruzione di un’identità. Anche da qui passò l’adesione di Bilenchi al fascismo. Ma di quale fascismo dunque si trattò? Certamente non fu quello dei nazionalisti né quello dei monarchici69. Il

Cronache di una gioventù perduta

45

fascismo a cui il giovane Bilenchi fa riferimento ogni volta che ne discute e ne scrive, è un movimento di contrapposizione su tutti i fronti, a cominciare dalla polemica contro «il carattere sterile dell’antifascismo» liberale dei padri, come scriverà a Franco Calamandrei, uno dei futuri protagonisti della resistenza comunista e dell’attacco di via Rasella; figura centrale di una delle prose di Amici (Franco e Giorgio: pp. 929-942) che più discutono la stagione littoria. Il fascismo per Bilenchi vale sempre, e quando si dice “sempre” s’intende “sempre”, come sinonimo di rivoluzione: Era l’anno 1921, l’anno prima della marcia su Roma. Ero portato verso il fascismo non solo da una sensazione emotiva, ma soprattutto pratica. L’esistenza, cioè, di una forza diversa da quella ormai sconfitta che potesse fare la rivoluzione70.

Fascismo di sinistra, o per meglio dire «fascismo rivoluzionario»71, quello bilenchiano («il comunismo si vince sul piano delle realizzazioni rivoluzionarie»72), perché connotato da un forte antagonismo antiborghese e da un bisogno di militanza all’interno di un movimento73 che sul principio degli anni Trenta trovò la sua sponda ideale nel gruppo dei Selvaggi, sperimentando un ardito mélange di socialismo e strapaesanesimo del tutto in linea con le linoleumgrafie per le copertine de «Il Selvaggio» preparate da Maccari: per esempio quella del 31 luglio 1931 – è il medesimo numero in cui esce la decima puntata della Vita di Pisto. C’è un giovane uomo in abiti da lavoro, dalla sagoma tutta scura, col pugno alzato, corpo atletico e postura combattiva, pronta alla cazzottatura. L’uomo è piantato solidamente a terra e

46

Daniela Brogi

occupa un’abbondante metà del disegno. Accanto a lui, un po’ più in avanti, si trova un tipo anziano, dalla linea appesantita, raffigurato con tecnica opposta di incisione ossia a striature chiare, pettinato e abbigliato secondo un concetto di eleganza vecchia maniera e ritratto in precarissimo e volatile equilibrio perché la linea del corpo è spostata verso l’aria piuttosto che a terra; ha le braccia e una gamba alzate, come chi salta dalla rabbia ma al tempo stesso rischiasse di cadere, vuoi per la posizione instabile, vuoi perché da un momento all’altro potrebbe arrivare una spinta capace di buttarlo giù dall’illustrazione. Sotto il disegno si legge la seguente didascalia: (Di chi vede) – Maledetto Fascio! Quest’anno ho guadagnato cinque milioni di meno! Così non va! L ’ UOMO A SINISTRA (C. s.) – Sono disoccupato, ho la moglie gravida, ma tengo duro! Viva il fascio! IL SIGNORE A DESTRA

La Storia dei socialisti di Colle, uscito a puntate su «Il Bargello» nell’estate del 1932, fissa sia per contenuti che per cronologia il punto più maturo della fusione di fascismo, bolscevismo e strapaesanesimo: Erano passati trenta stupendi primi maggio senza mai piovere e le merende e le sbornie consumate son rimaste proverbiali. Il nome di Marx ed il Chianti andavano molto d’accordo senza che ne soffrisse la reputazione dell’uno e dell’altro. Ogni tanto rompeva la monotonia il solito sciopero. Sempre si era parlato di socialismo, di masse operaie, la fede insomma non veniva mai trascurata74.

Cronache di una gioventù perduta

47

Secondo un’affinità di prospettive che avvicina Bilenchi a Berto Ricci più di tutti, la contiguità col bolscevismo («i giovani che avevano pensato come me di poter realizzare una rivoluzione attraverso il fascismo erano filosovietici, ammiratori di Stalin»75), l’equazione fascismo=rivoluzione, l’appello continuo ai giovani a lottare «come gruppo unito» fissano, essenzialmente, le tre costanti degli articoli pubblicati da Bilenchi su «Il Bargello», su «Critica fascista», su «L’Universale» o su «Il popolo d’Italia»76 nella prima metà degli anni Trenta: Ora bisogna che i giovani smettano di sognare situazioni comode, grossi stipendi, poltrone per le borchie d’ottone. Bisogna vivere a tutti i costi nel clima che ci ha creato e che ci crea giornalmente la Rivoluzione fascista. La nostra dev’essere una vita di fede e di emozioni. Qualcuno di voi mi potrebbe chiedere: – Va bene. Ma perché al borghesaccio che vive con troppo comodo, che porta il distintivo e sbraita contro le tasse, non vien fatto un bel nulla? Perché dobbiamo scarnirci in una fede quando quello è apprezzato più di noi? Risponderei: – Se apparentemente, purtroppo è così, non lo è in realtà. La stessa fede che non ha il borghesaccio, è la nostra ricompensa, è la caratteristica che ci distingue da lui. Coetanei, bisogna riconquistare il senso di noi stessi e delle nostre possibilità e dichiararsi rivoluzionari perché figli d’una rivoluzione in marcia. I giovani di Mussolini non debbono avere per ideale una mensa imbandita e una comoda automobile. Credete voi che l’impero ce lo facciano gli australiani? Ce lo dobbiamo conquistare da noi, e abbiamo accettato una tessera dov’è scritto un giuramento terribile. [R. Bilenchi, Indifferenza dei giovani, «Critica fascista», IX, 8 (aprile 1933), pp. 37-38]

48

Daniela Brogi

Leggevo – si cita da un’intervista resa da Fortini negli anni Ottanta –, tra i diciotto e i diciannove anni, un foglio politico, culturale e letterario che veniva pubblicato a Firenze e che si chiamava «L’Universale». Su questo foglio scrivevano degli sconosciuti, tra i quali mi pare di ricordare soltanto Romano Bilenchi, Berto Ricci ed Eugenio Galvano. Erano autori di avanguardia. Indimenticabili, per me, certi versi di Ungaretti che cominciavano: «Per un iddio che rida come un bimbo»77. Quasi una rivelazione del moderno. Una pubblicazione come quella, non solo per la grafica, ma per il timbro, il piglio, somigliava – ora me ne rendo conto – molto di più a certe pubblicazioni sovietiche degli anni Venti – o a quello che sarebbe stato «Il Politecnico» di Vittorini – che non alla cultura ufficiale fascista. Quei fascisti, cosiddetti di sinistra, avevano un atteggiamento nei confronti dell’avanguardia culturale – per esempio francese – molto diverso da quello dell’opinione conservatrice quale si esprimeva nell’architettura cosiddetta «degli archi e delle colonne» oppure in quella parte della pittura novecentesca che si ispirava ai modelli dei nostri frescanti del Quattrocento78. Di questo fascismo rivoluzionario l’autore di Amici retrodata la crisi già al 1932 (A, pp. 905-906) e la ricostruzione è vera a metà, perché Bilenchi scrisse articoli fascisti fino al 193779, anche se, già all’altezza del 1935, càpita di incontrare passaggi di questo tenore: Una cosa schifosa e di cui si fa un abuso ancor più schifoso è quella di dare ad ogni istante dell’antifascista a chi vuol parlar chiaro su certe questioncelle e in buona fede vuol difendere il Fascismo dai parassiti e dai cretini80.

Cronache di una gioventù perduta

49

La circostanza di una crisi in atto è del resto confermata dalla stessa storia testuale de Il capofabbrica, pubblicato nel 1935 ma «scritto fra il 1930 e il 1932»81. «Con Bilenchi noi crediamo in altri giovani come lui d’ingegno e di fede» conclude Pratolini nella recensione pubblicata su «Il Bargello»82, dove Il capofabbrica è celebrato tra i migliori esempi di arte fascista. Rileggiamo un passaggio dalla prima edizione del 1935: – I fascisti hanno fatto male alla gente, hanno bastonato e ucciso. – Erano necessarie le bastonate – rispondeva Marco – in ogni caso abbiamo avuto più morti di voi. Poi faremo bene al popolo. – Non ne parliamo padroncino. – È bene parlarne invece. Sono cattivo io? – No. – Eppure sono fascista sopra a ogni cosa. Andrea sorrideva – se tutti fossero come lei! – Ebbene Mussolini è generoso e buono un milione di volte più di me83.

Senza dubbio si tratta di un testo scritto da un fascista di sinistra: le contraddizioni della posizione politica bilenchiana di quegli anni vivono al massimo in quest’opera. Il capofabbrica realizza la poetica di un «romanzo politico, a sfondo morale ed etico» già discussa da Bilenchi su «Il Popolo d’Italia» nel maggio 1934, quando invitava a scrivere un libro che parli di «persone d’oggi, balilla, avanguardisti, fascisti, contadini, operai, anche in camicia nera» dove la qualificazione di fascista non dovrà venir fuori dall’aver messo in azione questi personaggi, ma dallo

50

Daniela Brogi

spirito, dall’insieme dell’opera stessa», fino ad avvicinarsi alla tecnica dei «narratori sovietici»84. Proprio quest’ultimo aggettivo, così a prima vista straniante, spiega d’altra parte anche come Il capofabbrica sia già un’opera al limite, nel senso che rappresenta un’inquietudine generazionale e politica che non sfuggì neppure ai comunisti: Proprio negli ultimi mesi del 1935 o nei primi del 1936, un esule italiano, Ottavio Pastore, diventato poi senatore della Repubblica, ne parlò [del Capofabbrica] da Radio-Mosca dando al mio scritto il preciso significato che speravo che contenesse, nonostante quella fine addomesticata. Pastore disse che i giovani che, come me, credevano veramente nella giustizia sociale sarebbero, un giorno o l’altro, diventati comunisti. Intanto facessero le loro esperienze e cozzassero contro la dura realtà del fascismo. Dopo questo breve discorso radiofonico fui chiamato al ministero della cultura popolare e rimproverato. Rimproverati furono anche alcuni giovani che avevano recensito il libro richiamando l’attenzione dei lettori sul suo significato sociale. Da Siena il vicequestore venne a chiedermi se possedessi opere di Marx e di Lenin85.

La domanda del vicequestore di Siena non era bizzarra: veniva rivolta a un autore che fin quando consentì al fascio declinò il fascismo in senso anticlassista86, antiborghese e rivoluzionario, portando fascismo e bolscevismo a un pericoloso rapporto di tangenza e di continuità (Vittorini, viveva i medesimi tormenti: A, p. 803). Il punto estremo, sia in senso cronologico che politico, di questo cammino giunge nel 1937 con gli ultimi articoli di «Critica fascista», «che avevano destato un po’ di scalpore, tanto che “Les Temps” aveva parlato di circoli

Cronache di una gioventù perduta

51

stalinisti che “vivevano all’ombra di sua eccellenza Bottai”» (A, p. 803). Sono i testi in cui si auspica «una dottrina sociale costruttiva che rivendicherà, in modo assai migliore del comunismo, le aspirazioni operaie». Citando Gide di Retour de l’U . R . S . S . (1936), riprendendo Trotzkij, Bilenchi scrive che: In quanto dottrina noi non solo respingiamo il comunismo perché abbiamo una storia ed una concezione dell’individuo diverse da quelle russe, ma ci prendiamo il grave compito di superare il comunismo aprendo il varco alla umana, vera civiltà del lavoro […] E solo credendo in questa leva fascista dell’universo che ci sentiamo ortodossamente fascisti87.

L’articolo risale al primo febbraio 1937. Esattamente due mesi dopo, il primo aprile, «Critica fascista» pubblica l’ultimo testo di Bilenchi: un duro intervento a proposito del dibattito sollevato da libro di Giulio Cogni Il razzismo88. Vale la pena di citare più estesamente, visto che si tratta dell’estremo tentativo di dialogo e di identificazione con i camerati: Ognuno ormai dovrebbe sapere che lo scopo del Fascismo […] è la realizzazione della giustizia sociale per il popolo italiano; giustizia sociale base della nuova civiltà del lavoro, civiltà fascista. Il che è un compito grave da tenere impegnate generazioni e generazioni; è la meta che ci avvince di più. Vi fu una giustizia sociale per ogni epoca, per ogni civiltà: anche il liberalismo sbraitava su una sua giustizia sociale. Ora si tratta di dare definitivamente a questa espressione un contenuto e che tale contenuto sia nuovo da improntare il secolo. E di fronte a questo dovere si troveranno le

52

Daniela Brogi

generazioni che nella Rivoluzione si susseguiranno ed il loro valore sarà nello sforzo di far chiaro a se stesse e agli altri quale dev’essere il loro contributo alla realizzazione della giustizia sociale. Quindi perché sventolare dinanzi ai giovani altri miti? È un volerli distrarre dal compito principale. Proprio qui sta il pericolo, camerati di «Critica fascista». I giovani ed i giovanissimi sono influenzabili dalle idee nuove e, non avendo spesso raggiunto una convinzione attraverso sofferenze e conquiste proprie, attraverso profonde esperienze personali, possono credere queste idee nuove un superamento della situazione attuale della Rivoluzione. Spesse volte poi gli avvenimenti internazionali costringono a soste obbligate durante le quali è ancor più facile scorgere il nuovo dove non è. Così sarebbe spiegabile come giovani e giovani potrebbero credere il razzismo un mito oltre la giustizia sociale, un superamento di quella. Il che sarebbe dannoso non essendo il razzismo altro che un ritorno all’età delle caverne89.

Dopo i molti interventi bilenchiani fascisti fin qui estrapolati e riletti, è interessante osservare come i contenuti di quest’ultimo articolo siano pronunciati da una posizione diversa. L’io spregiudicato e appassionato a cui eravamo abituati lascia spazio a un tono impersonale e oggettivato. Non si ha più una parola plurale, ma un punto di vista individuale, separato, ritirato, perplesso, che non afferma a nome di tutti, ma argomenta separatamente, non pronuncia più domande retoriche ma interrogativi reali, delinea scenari al condizionale, si rivolge ancora a un soggetto collettivo – si noti bene: non più quello dei coetanei ma quello dei «camerati» – senza tuttavia presupporre l’identificazione e il riconoscimento come premesse

Cronache di una gioventù perduta

53

implicite del confronto. È venuto meno, in altre parole, il senso di appartenenza a un «gruppo unito» (A, p. 906) come dominante del discorso: non si ha più un io particolare che parla a nome di un noi universale in cui si trasfigura, ma un io che si rivolge a un voi sempre più separato. 4. La vita protesa. Da «Pisto» a «Conservatorio» Sgranchirsi, svegliarsi e vivere, perché il male sta proprio nell’apatia e nel disinteresse che questi giovani mostrano per ogni cosa. ROMANO B I L E N C H I , Coetanei, «Il Bargello», IV, 16, 17 aprile 1932 Fu colto da una grande paura; e dovette lottare a lungo contro fantasmi che si alzavano da ogni luogo prima di essere capace di muoversi. R O M A N O B I L E N C H I , Conservatorio di Santa Teresa, 1936-1938

Proprio la scissione tra io individuale e io collettivo spiega molto la crisi del fascismo rivoluzionario e l’adesione al comunismo clandestino, da intendersi per l’appunto come risposta a un bisogno – anche etico – di continuare a partecipare, di riconoscersi ancora in una militanza di gruppo: l’aggettivo «indivisibile» ritorna, sia pure con un significato diverso, come una delle espressioni più adatte a Bilenchi. Al tempo stesso tuttavia, proprio la scissione tra io individuale e io collettivo operata dalla delusione per Mussolini può aiutarci a capire meglio, assieme alla vicenda politica, certi passaggi o permanenze profonde della

54

Daniela Brogi

scrittura bilenchiana, rendendo una volta di più ragione dell’opportunità di studiare Bilenchi e il fascismo. Soprattutto considerando gli aspetti discussi fin qui, infatti, diventa meno impossibile capire che rapporto ci sia tra i giovani arditi e spregiudicati al centro dei racconti fascisti e gli adolescenti spaventati e taciturni dei capolavori bilenchiani: tra Pisto (1931), per intendersi, e Sergio, di Conservatorio di Santa Teresa – pubblicato nel 1940 ma scritto tra il 1936 e il 1938. Ciò che si vuol dire è che ci sono dei fili nascosti che malgrado tutto legano il protagonista di Vita di Pisto e gli altri giovani che popolano i capolavori bilenchiani. Fili nascosti del resto allusi dallo stesso autore di Amici, che cita proprio Pisto in attacco del suo libro. Ripartiamo allora da Pisto. «Occorre dare un Mito alla gioventù, perché la gioventù ha bisogno di credere ciecamente in qualche cosa e di sentirsi il centro di questa cosa» si legge nella Relazione sulla fascistizzazione dei giovani del 193190. Vita di Pisto, il primo libro di Romano Bilenchi, esce nel medesimo anno: dapprima su «Il Selvaggio», in nove puntate – tra il 31 marzo e i 15 settembre –, e poi in volume – per le edizioni de «Il Selvaggio». In una cornice da fascismo superpaesano che anticipa, per esempio, il film Vecchia guardia (1934), di Blasetti, Pisto, effettivamente, realizza il progetto anzitutto politico91 di offrire un mito alla gioventù – il mito di Strapaese –, assecondando al tempo stesso il bisogno di identificarsi in un leader: In quasi tutti i paesi – si cita da un articolo di Bilenchi apparso su «Il Bargello» nel 193292 – ci sono biblioteche circolanti

Cronache di una gioventù perduta

55

tenute dal Fascio o da altre istituzioni. Ne abbiamo girate parecchie, ma i libri fascisti ne abbiamo trovati sempre pochi. Tutto Brocchi, tutto Gotta e in qualcuno perfino tutto Gentile. Che ne faranno di Gentile gli operai e i contadini? […] Capita allora che l’uomo del popolo che entra in queste sale con l’intenzione di farsi dare un libro per lui (e qui ci vorrebbero Vita di Mussolini, Vita dei Martiri, degli Eroi, dei Gran Capitani, Storie di guerra, ecc.) sente la figliola del sarto che parla con la maestrina dell’ultimo libro di Brocchi, della Vivanti o di Jolanda. Il pover’uomo si stufa e se ne va. Poi anche pei più intelligenti è la stessa storia e allora trovi le opere di Mazzini, di Leopardi, Carducci, Giusti, tutte da tagliare. Occorre riformare queste biblioteche e dar loro specie nei centri industriali e agricoli un indirizzo maggiormente politico. Buttar via i libri di Ferrero, di Cavallotti e De Amicis, ecc e sostituirli con altri più adatti ai tempi […].

Tanto per contenuti quanto per strategie di comunicazione – la pubblicazione a puntate riprende l’idea del romanzo d’appendice – Pisto è un eroe popolare, è l’antimodello di Cuore, come Bilenchi stesso dichiarò su «Il Bargello»: «la mia Vita di Pisto non l’ho scritta per sostituirla a Cuore ma per svegliare i miei coetanei quelli più intelligenti»93. L’ambizione di Pisto è quella di ricostruire un ponte tra le generazioni: rivitalizzare il passato svelando le radici ideali del fascismo e, al lato opposto, trasformando il fascismo nel traguardo morale dell’epopea risorgimentale. Con un ritmo veloce e giocoso che spesso ricorda uno dei primi libri importanti letti dal giovane Bilenchi, e proprio su suggerimento di Mino Maccari (A, p. 726): Il circolo Pickwick, Vita di Pisto narra le avventure strapaesane di un

56

Daniela Brogi

garibaldino – Garibaldi, come si sa, è l’eroe massimo della propaganda fascista (un solo esempio: il film 1860 (1934) di Blasetti). Pisto, cugino del nonno del narratore, sembra una sorta di Renzo Tramaglino fascistizzato e trasformato in ardito: Manzoni del resto è il modello più presente, sia nei moduli e nei tagli narrativi, che nell’inquadratura del racconto. Ripartiamo dall’attacco di Vita di Pisto: Al tempo cui si riferisce il nostro racconto, Colle o Strapaese, come dir si voglia, era molto più bello, più selvaggio di ora. Dove si trova la Piazza principale, vi erano dei campi in parte incolti, in parte coltivati ad orti, con un borro nel mezzo ed una stradaccia che lo fiancheggiava. Il borro era sulle prode ricco di macchie di piante di acacia e di vitalbe. I ragazzi vi andavano a far le «riturate» con la mota e a guazzarci con le gambette ignude come nell’Elsa e a cogliere le more come dietro alle Lellere. […] In questo tempo, che negli annali di Strapaese è ricordato come l’età delle grandi mangiate di cacio pecorino e di baccalà, da paragonarsi all’età dell’oro di tutte le civiltà, la mattina di un 27 Agosto, Pisto era stato, come spesso gli accadeva, richiamato in caserma, che si trovava in via dell’Arringo. […] Convien dire che il nostro uomo aveva circa diciannove anni, era forte e bello, e, benché giovane, dotato di una gran fortuna presso le donne. Che dico: un vero gallo della Checca. Insofferente di ogni disciplina, irruento, cazzottatore, intelligente e testardo, modello degli strapaesani di oggi, strapaesano avanti lettera, procurava noie e grattacapi

Cronache di una gioventù perduta

57

a quei cittadini che in ogni tempo sono purtroppo considerati il fiore di una città o di un paese94.

Vita di Pisto è una sorta di chanson de geste selvatica e selvaggia, che valorizza tutti gli stereotipi dello strapaesanesimo: in senso antropologico (corporatura robusta, virilità precoce e sessualità primitiva e misogina, prossemica primordiale e aggressiva: tutti requisiti valoriali che ritroveremo anche nella recensione di Pratolini a Il capofabbrica95); in senso topografico (con la collocazione di una posizione ai margini che elegge la provincia a patria degli irregolari); in senso sociale: i compagnoni di sbornie, di baldorie, di beffe e di risse contro gli «sbirri» e i «Signori» sono i principali punti di riferimento di Pisto; in senso discorsivo (con l’uso di un’espressività piena di arcaismi, vernacolare e clamorosa, alla maniera delle prose di Rosai, o con il ricorso a un turpiloquio e a un teppismo stilistico di origini lacerbiane); in senso politico (il popolare paesano è l’antidoto onesto ai mali dell’Italia «meschina» e al cosmopolitismo). Ma lo strapaesanesimo è declinato, in un certo senso, anche in senso narrativo, perché la sintassi del racconto corrisponde essenzialmente a una sequenza in ripetizione di aneddoti che confermano una struttura statica, autoreferenziale e conservativa. Il protagonista, che come tutti i picari è un orfano, incarna molti tratti del superomismo squadrista propagandato in quegli anni dalla cultura fascista, tant’è vero che anche per Pisto vale l’aggettivazione usata da Prezzolini nella biografia del duce: «grande energia, fede in se stesso, una specie di barbarie temperata»96. Affine agli avventurieri arcitaliani di Malaparte, o ai modi della

58

Daniela Brogi

Vita di Pizzo-di-Ferro detto Italo Balbo – biografia celebrativa di un uomo del regime, pubblicata dalla Tipografia del Littorio nel 1931 e firmata da Malaparte e Falqui ma molto probabilmente di paternità vittoriniana97 – Vita di Pisto, a guardare bene, prosegue soprattutto il modello di Lemmonio Boreo ovvero l’allegro giustiziere, pubblicato da Ardengo Soffici nel 191298, il medesimo anno della monografia su Rimbaud – di cui tanto Lemmonio che Pisto riecheggiano l’indole spregiudicata e vagabonda. Pisto è un superuomo. Come Fernando, protagonista di un racconto pubblicato da Bilenchi nel 1932. Fernando è un volontario della Prima guerra; soprattutto, come ricorda l’io narrante, è la creatura magica al centro di un ricordo d’infanzia: Non ho altri ricordi precisi all’infuori di questi, forse anche perché, oltre ad essere bambino, non avevo nessuno al fronte: la famiglia dello zio dottore visse per molto tempo della guerra a Ferrara, il babbo era morto senza aver potuto combattere e il nonno era troppo vecchio. E anche quel poco che mi è rimasto in mente è confuso e saltuario; ma una cosa mi ricordo perfettamente e vive ancora in me: il ritorno di Fernando ferito99.

Dopo aver affrontato e superato eroicamente una minaccia di linciaggio da parte di «forse trecento, tra contadini e operai con delle bandiere rosse», Fernando diventa per il bambino protagonista del racconto un superuomo esemplare: «a me Fernando parve quasi un eroe e ne cercai devotamente la compagnia». Questo motivo di una

Cronache di una gioventù perduta

59

figura maschile carismatica guardata con devozione da un io testimoniale giovanissimo che ne celebra il ricordo è praticamente una costante, soprattutto nella scrittura bilenchiana di questi anni. E così a Pisto e a Fernando potremmo aggiungere Guido – dal nome più che eloquente – protagonista del breve racconto 28 ottobre 1922 pubblicato nel 1931, che comincia così: Ricordo che passai la giornata con Guido: s’aveva circa dodici anni, e s’era già regolarmente iscritti al Fascio. Stavo volentieri in compagnia di Guido perché, dato il suo fisico più sviluppato e la sua maggiore libertà e indipendenza, si recava più spesso al Fascio e frequentava con maggiore assiduità i fascisti «grandi»; il fatto poi di averne buscate due o tre volte, e in grande dose, dai comunisti, lo rendeva ai miei occhi un uomo da ammirarsi e rispettarsi100.

Ciascuno di questi eroi procura il senso di protezione, da un lato, e la possibilità di identificarsi in un modello antagonistico aggressivo dall’altro lato. Torniamo allora, per un’ultima volta, all’identikit di Pisto. Tra i suoi connotati essenziali vanno ricordati: l’ostentazione di un carattere toscano nativo orgogliosamente rude, l’antagonismo becero, la “testa calda”, una corporatura contadina e un’attitudine manesca. Come Fernando e Guido, Pisto incarna, in altri termini, la violenza di un personaggio tutto estroverso, che butta completamente fuori il disagio interiore. Pisto, in altre parole, è il modello esteriorizzato ed euforico di un’ansia di consumare la vita, di un bisogno estremo di vitalismo – Pisto ha qualcosa di Lucignolo, il personaggio di Collodi, anche nel senso del fascino che

60

Daniela Brogi

la sua libido ribelle esercita sul lettore; questo modello resiste fin quando io individuale e io collettivo, come si è visto, si saldano nella religione mussoliniana; e invece, una volta consumatosi il divorzio col fascismo rivoluzionario, crollerà e lascerà spazio a un modello disforico di gioventù, opposto all’altro ma ad esso connesso da una profonda e oscura dialettica. Dino, il protagonista dell’omonimo racconto pubblicato su «L’Universale» nel 1933101 e poi ne Il capofabbrica, fissa il punto di incrocio tra questi due modelli che, per quanto possa apparire paradossale, in certo senso nascono da un’unica matrice di «inquietudine»: la medesima che, secondo la dichiarazione dell’autore, legittima la ripubblicazione del racconto nel 1942, nella silloge omonima dedicata alla memoria di Berto Ricci, che è come dire alla stagione dei giovani de «L’Universale». Già il nome del protagonista del racconto è eloquente: ci parla di una generazione. La parabola di Dino, che si chiama come Dino Campana, o Dino Garrone (morti entrambi tragicamente102; o al limite anche come Dino Caponi, il giovane pittore prediletto da Rosai103), può evocare l’idea di una gioventù bloccata da una disperata vitalità e dal senso incombente della morte: Dino [così comincia il racconto] aveva le gambe fini, il torace grosso, la testa grossissima. D’inverno le gambe gli diventavano rosse e sembravano spellate; a Marco da principio quella carne rossa e viva faceva ribrezzo, e questo senso si estendeva a tutta la persona di Dino anche per un odore di selvatico che veniva da lui, acuto. Poi divennero amici104.

Dino è uno dei testi che meglio esemplificano quanto la semplicità bilenchiana sia un grandioso pregiudizio

Cronache di una gioventù perduta

61

critico. Sulle prime infatti lo stile sembra scorrere intorno a uno schema narrativo davvero elementare e che potremmo fissare dicendo che si tratta della storia di un ragazzo rozzo fattosi prete: una storia rimasta a lungo nella memoria di Marco, il protagonista de Il capofabbrica. I passaggi del testo però complicano i significati della vicenda, organizzandoli secondo una specie di meccanismo a scatole cinesi. Dino parla infatti di almeno tre giovani, legati da un sistema di sguardi che si rispecchiano l’uno nell’altro: abbiamo così Marco che guarda Dino che guarda e ammira Aldo. Dino, in questa luce, diventa anche il racconto di un processo di individuazione: il racconto di un io giovanile che si definisce attraverso il riferimento, ora pieno ora deluso, ora euforico ora disforico, a dei modelli e a dei nuclei di amicizie. Dino «sensibile ma pigro», «taciturno e rozzo», è una specie di inetto rinchiuso in un corpo contadinesco; è un contemplatore: va in giro a scrutare gli alberi, «amava i boschi al cadere dell’estate»; Dino è soggiogato dall’esempio del cugino Aldo, raffigurato invece come un lottatore. Aldo è tutto natura e azione, non ha un’interiorità, non ha una storia, al contrario degli altri due giovani; è amato più dei genitori ed è il modello massimo di virilità strapaesana («aveva cinque anni più di Dino, era alto, forte, era ormai un giovanotto»105). Mitizzando Aldo, Dino sviluppa una dipendenza morbosa dal sesso, vissuto esclusivamente come pulsione distruttiva, dapprima sfogata rovesciando le ragazze sull’erba, poi come forma passivo-aggressiva di rivalità con Aldo (a cui, di fatto, Dino sottrae l’amante, immaginando con «vergogna» di essere spiato dal cugino); e ancora eleggendo a oggetto degradato dei propri istinti Noemi («una ragazza guercia e formosa, nipote del prete,

62

Daniela Brogi

derisa da tutti per la sua facilità di soddisfare gli uomini»106). Incapace di ribellarsi ai progetti del padre che vuol farlo studiare in città per trovare un buon lavoro come sarto, Dino «prima di lasciare il paese, andò a salutare Aldo, ma questì lo scacciò di casa»107. Imprigionato nei tormenti di una morfologia cittadina tutta vissuta in silenzio e di nascosto («i nuovi compagni gli si dimostrarono subito ostili. Ridevano del suo vestito nuovo […] tornavano a casa a gruppetti, secondo le amicizie e le simpatie, ed egli era sempre solo»108), Dino riesce a fare nuove amicizie grazie alla protezione e all’aiuto di Marco, il primo della classe, che funge da intermediario del desiderio («Marco ripeteva quei racconti agli altri ragazzi che ben presto avvicinarono Dino, gli vollero bene e lo accolsero nella loro compagnia»109). Da parte sua, Dino assume la funzione di modello nei confronti di Marco rispetto al sesso: «[Marco] avrebbe voluto avere Dino con sé perché lo guidasse nella ricerca di una ragazza: da solo, si sentiva timido e impacciato»110. La vicenda giunge al punto di crisi con la morte di Aldo, che irrompe improvvisamente e misteriosamente nella vita del racconto, come se fosse qualcosa rimasto fin qui nell’ombra e che riaffiora. Senza dare spiegazioni, Dino decide di farsi prete, mentre Marco, che reagisce alla perdita dell’amico cercando di disprezzarlo, di dirgli «qualcosa di cattivo», di picchiarlo assieme ai compagni, nel frattempo «divenne ardito e imparò a cercare le donne senza alcun timore»111. Molti anni più tardi, dice il testo, Marco incontrerà Dino sui Lungarni fiorentini: Però finse di non vederlo. Poi quando fu passato si voltò incerto: il prete camminava diritto guardando il fiume.

Cronache di una gioventù perduta

63

Perfino l’aria parve triste a Marco e le persone gli parvero fantasmi. Quella tonaca sventolava come una bandiera di morte. Il nicchio era un po’ all’indietro, e la mano che reggeva il ramoscello stretta alla persona. Questa fu l’immagine di Dino che Marco portò a lungo nella memoria112.

L’interpretazione di Dino anche nella chiave di un racconto dalle risonanze omosessuali è almeno lecita. In ogni caso, quel senso di rimosso che ritorna alla fine del testo e si fissa nella memoria di Marco crea un effetto complessivo di inquietudine che dice molto anche delle questioni affrontate sin qui. Dino, come Marco, esprime ancora il bisogno forte di riferirsi a un modello: la scomparsa di esso genera la riemersione di quelle paure e quell’affanno di morte che la corazza vitalistica e aggressiva del fascismo rivoluzionario era riuscita a bloccare. Aldo in fondo potrebbe essere considerato come una sorta di nipote di Pisto. Ciò che muta, però, da Pisto a Dino, è la trama testuale complessiva che ricostruisce e organizza la vicenda, spostando il punto di prospettiva dalla posizione eroica e celebrativa del primo caso a una zona più distante. E così alla voce corale che saluta Pisto al grido di «la tua razza non è morta» subentra invece, in Dino, un modo diverso attraverso cui il racconto chiede attenzione per i destini che si consumano in disparte, fuori dal coro (mentre la tonaca nera che svolazza come una bandiera di morte è simbolo ben diverso, per non dire rovesciato, della camicia nera lasciata in eredità da Pisto). Dino appare la prima volta nel 1933: già all’anno precedente l’autore di Amici fa risalire una prima crisi del senso di appartenenza che lo aveva legato al fascismo:

64

Daniela Brogi

La nostra lotta come gruppo unito era terminata nel 1932 quando tutto si era dissolto, le idee più radicali erano diventate proprietà di singoli che da soli, o in due o tre, avevano iniziato un cammino difficile verso la salvezza, tra paure, errori, meschine furbizie, indietreggiamenti, impennate coraggiose. [A, p. 906]113

Così, se in termini strettamente politici, non ci sono dubbi sul fatto che il distacco dal fascismo sarebbe avvenuto più tardi, la scrittura letteraria invece già sfugge: La stesura [di Conservatorio] durò due anni e mezzo, dal ’36 al ’38, e la pubblicazione venne ritardata (1940) per via della censura (il rapporto fra mamma, zia e ragazzo protagonista così com’è descritto non garbava troppo e allora furono tagliuzzate cose senza significato), ma intanto la scrittura mi aveva portato a rompere con il mondo circostante. Era stato come trovare un rifugio, un riparo contro la realtà esterna, che era quella del fascismo nei suoi anni più bui114.

Ormai si insinuano inquietudini di adolescenti che si muovono nel vuoto, che si ritraggono nelle fortezze testuali costruite dalla scrittura – Conservatorio di Santa Teresa rimane, anche per questo, il capolavoro bilenchiano. Sono gli adolescenti che cominciano a mangiare spazio al racconto dei giovani; sono i fratelli più piccoli degli arditi, forse, almeno rispetto all’ansia di vita che li tormenta. Gli adolescenti: le figure più inconciliate di una scrittura che, da un’epoca all’altra, non ha mai smesso di scavare all’indietro, tra le linee di una storia indivisibile.

Cronache di una gioventù perduta

65

5. Una postilla: Bilenchi e Rosai Davanti a un quadro di Rosai non si può né mentire né fingere. R O M A N O B I L E N C H I , 1932

5.1. La posizione di Rosai Ecco un’altra storia indivisibile: Ottone Rosai e Romano Bilenchi, ovvero una delle più belle amicizie raccontate dal Novecento. Rosai è un punto di riferimento centrale della parabola umana, politica, culturale e letteraria di Romano Bilenchi. Sta lì a testimoniarlo proprio un testo come I silenzi di Rosai (1971), che è costruito come un romanzo di formazione: forse l’unico racconto di formazione veramente scritto da Bilenchi. L’autore dei Silenzi ripercorre, attraverso Rosai, le tappe principali della sua infanzia, dell’adolescenza, della gioventù da fascista rivoluzionario, della presa di distanza dal regime, dell’antifascismo gappista e del dopoguerra. I silenzi di Rosai delinea una Bildung all’interno dell’autobiografia di una generazione costruita da Amici115. Al tempo stesso, I silenzi di Rosai, proprio perché contiene, nella prima parte, le pagine più antiche di Amici, uscite già a metà degli anni Cinquanta, può essere considerato, per così dire, il nucleo genetico116, la matrice del racconto significativo di una vita compiuto da Amici: nel senso che comprende già tanto i contenuti fondamentali quanto i procedimenti di selezione e di organizzazione di questi contenuti. Tutto ciò si compie attraverso la cifra di Rosai. Proprio una figura così centrale, d’altra parte, ha corso il rischio di divenire ingombrante per gli studî critici, e

66

Daniela Brogi

perciò è opportuno parlarne ancora: perché, come aveva già osservato Luzi nel 1974, la vicinanza esistenziale e il carisma di Rosai possono facilmente far sfuggire il messaggio culturale «d’insieme»117. Rosai, «padre spirituale» sin dai tempi dell’opuscolo «Il Rosai» (1930) o del primo numero de «L’Universale» (1931) inaugurato proprio in suo nome118. Figura leggendaria, epica, già dal suo ingresso nella famosa prosa bilenchiana, dove si affaccia alla maniera degli eroi virgiliani, ossia preceduto dalla fama: «Udii parlare per la prima volta di Ottone Rosai al mio paese, in casa di Mino Maccari» (A, p. 768). Il punto è che Rosai, bandiera di almeno due generazioni novecentesche, quella di chi, come lui, nato nel 1895, o come Maccari (nato nel 1898) aveva partecipato alla Grande Guerra, e quella di chi, come Bilenchi o Berto Ricci (nato nel 1905) era adolescente all’epoca della Marcia su Roma, Rosai, pittore e scrittore – come Ardengo Soffici o come Lorenzo Viani119 – non fu soltanto un personaggio, ma, soprattutto, una personalità di primo piano, amata più dagli scrittori che dai pittori. Rosai, dunque, e capiterà di ripeterlo, non sta semplicemente per una suggestione figurativa e pittorica, perché fissa, e non soltanto per Bilenchi, il punto di incrocio di una fitta trama di ascendenze culturali e politiche della gioventù degli anni Venti e Trenta: Che cosa significò per me Rosai? [si cita da Pratolini] Probabilmente, a parte il grande artista che era, il debito che io ho verso Rosai, irrazionale come partenza, in seguito mi si rivelò prezioso. Le spiego: mi servì a capire immediatamente quali fossero alcuni dei miei contemporanei in cui riconoscermi; un po’ perché erano amici di Rosai, un po’

Cronache di una gioventù perduta

67

perché li ritrovavo nei libri che Rosai possedeva e mi prestava quando avevo quindici-sedici anni, dico: Jahier, Palazzeschi, Tozzi120.

In questo senso, entra in gioco un’ulteriore ragione di queste riflessioni su Bilenchi e Rosai. Proprio attraverso il legame tra i due autori, attraverso i significati e le forme che esso assunse, è infatti possibile liberare due motivi così decisivi dell’opera bilenchiana quali la gioventù e l’amicizia dalle risonanze metaforiche e metastoriche a cui sono stati troppo unilateralmente o monotonalmente ricondotti. Tanto l’amicizia quanto la gioventù rappresentano infatti per Bilenchi anzitutto dei modi di appartenenza alla vita – potremmo dire anche della storia; sono forme, dunque, comprensibili solo all’interno di un preciso ambiente storico-culturale. Piuttosto che come archetipi, valgono come patti generazionali. Avere vent’anni agli inizî degli anni Trenta – i lavori di Gentile, Mangoni, Nicoletti e Buchignani sono in tal senso preziosissimi –, oppure dire «io sono giovane», o meglio «noi siamo giovani», equivale a dire «noi siamo amici», secondo un’idea di amicizia e di gioventù come condivisione e contrapposizione messa a punto dalle avanguardie, rilanciata dal fasciofuturismo del primo dopoguerra e consolidata in un modello identitario e spesso radicalizzato che va oltre i tempi e le sorti del regime. Da questo punto di vista, il discorso si arricchisce, o si complica, nel senso che se l’amicizia diventa una forma privilegiata di esperienza della vita – come la gran parte delle prose narrative di quegli anni ci raccontano (da Vittorini, Cancogni, Cassola, Tobino, o gli autori di molti racconti solariani ecc.) – l’amico Rosai

68

Daniela Brogi

non vale soltanto come figura tramite; ma funziona pure da paradigma elettivo attraverso il quale Bilenchi, commentando per esempio la pittura di Ottone, spiega, in realtà, anche molte cose della propria scrittura. E viceversa: molti passaggi di Rosai ci aiutano a capire i testi di Bilenchi: tra le poetiche dei due autori si svolge il filo di un’intesa che la consonanza emotiva e sentimentale rafforza ma non esaurisce. Affronterò sinteticamente il primo punto, per discutere successivamente il secondo aspetto riguardante le corrispondenze più forti di poetica, e così giungere, in conclusione, a un terzo punto: quello per cui l’amicizia, ma soprattutto la gioventù, o per meglio dire l’adolescenza, possono essere guardate, anche attraverso Rosai, non solo come stagioni della vita e dell’anima, ma come modi narrativi, procedimenti di formalizzazione dell’esistenza. 5.2. La costellazione Rosai Un passaggio dai rosaiani Ricordi di un fiorentino, edito da Vallecchi nel 1955, descrive abbastanza precisamente l’ibridazione di esperienze molteplici a cui poteva far riferimento un giovane che si identificasse in Rosai: Anarchico, allora? No: ma amante più di tutto di una mia libertà: che è quella dello spirito e dei fatti dello spirito. Ecco perché il futurismo mi trovò quale uno dei suoi più convinti fautori e la guerra del ’15 mi ebbe volontario; e nel primo elenco del primo fascio rivoluzionario figurò il mio nome121.

Anarchismo dunque (cacciato dalla porta delle definizioni ma rientrato dalla finestra della rivendicazione di libertà):

Cronache di una gioventù perduta

69

anarchismo di ascendenza per lo più toscana122 anche se, almeno in questo caso, non vuol dire provinciale; futurismo (il Manifesto Futurista ha la medesima età di Bilenchi): futurismo lacerbiano, essenzialmente123; fascismo rivoluzionario; assieme ad essi, il sentimento di rabbia dei reduci come la passione per la vita di chi è sopravvissuto all’orrore di guerra («Non sono mai stato / tanto / attaccato alla vita»124); il senso del Risorgimento tradito. Ciascuna di queste linee forma, attraverso Rosai, un insieme unico che fa da ponte tra due generazioni e che è paradossalmente sostenuto. Rispetto a tale architettura, appena ci si addentri nei testi e nei documenti appaiono necessarie modalità di sguardo e di discussione critica più laiche, per così dire; modalità che da un lato superino un senso comune forte del nostro paese per cui le logiche culturali di una tragedia come il fascismo sono state forse troppo spesso rielaborate dall’immaginario nella luce della farsa (faccio l’esempio più eclatante: il cinema, dove per lungo tempo il fascista è letteralmente assente, e sarà sdoganato dalle maschere grottesche di Alberto Sordi, Paolo Stoppa, Gino Cervi ecc.); dall’altro lato, in ambito più strettamente letterario, per guardare alla costellazione Rosai è opportuno sperimentare forme di studio e di approccio meno soffocate da etichette fisse e da luoghi comuni, per recuperare invece le reali esperienze che hanno lavorato dentro e dietro alle parole. Anche qui del resto può aiutarci proprio Bilenchi, che sin dal primo intervento su Rosai – una recensione alla mostra fiorentina del 1932125 – prendeva distanza – come già aveva fatto De Chirico nel 1921126 – dalla «storiella del Rosai macchietta fiorentina dipintore di macchiette», ovvero metteva in guardia da quella falsa «semplicità» tante e troppe volte

70

Daniela Brogi

fallacemente declinata non solo sulla pittura di Rosai, ma sulla stessa scrittura dell’autore di Conservatorio. Del resto Bilenchi ci mette sulla buona strada soprattutto quando dedicherà all’autore così rinomato per la parlata becera e così predisposto – stavolta cito da Parronchi – «a sciupare la sua immagine, con un turpiloquio abitudinariamente blasfemo»127, una prosa intitolata in una maniera che più straniante e provocatoria non si poteva: I silenzi di Rosai, tutta orientata a far tacere, per l’appunto, le pregiudiziali, per scavare nel temperamento laconico e «meditabondo» dell’amico. Proprio seguendo il filo di questa diversa attenzione alle situazioni reali celate da formule svuotate dall’uso, varrà allora la pena, proprio attraverso il legame Bilenchi-Rosai, di ripensare a situazioni come il selvaggismo e lo strapaesanesimo – Rosai collabora al «Selvaggio» dal 1926 al 1929; Bilenchi dal 1931, e fa partire da lì l’«epopea memoriale» di Amici. Se infatti recuperiamo i libri scritti, realmente letti e promossi in questo ambito, è possibile affermare che lo strapaesanesimo, non si vuol dire sempre ma almeno nei migliori casi, non fu, se mi si passa il termine, una forma di paesanità al quadrato, ma semmai la radice quadrata di un atteggiamento culturale in buona misura ricostruito, finto, e molto meno provinciale di quanto si creda. Piuttosto che la quintessenza della genuità, il selvaggismo fu anche una forma di travestimento e in quanto tale sostenuto dalla logica della falsicabilità piuttosto che da quella della verificabilità dell’espressione artistica. Da questo punto di vista, i Selvaggi potrebbero anche essere considerati, se non i fratelli – sarebbe un’esagerazione – almeno i cugini dei Pierrot, degli Arlecchini, dei saltimbanchi, degli incendiari, e di tutte le altre maschere del

Cronache di una gioventù perduta

71

maledettismo avanguardista. «Ultimo dio in maschera sur un filo / Teso fra il principio e la fine / Su questo gorgo nero d’umanità che domanderebbe il / bis»128. Essere Selvaggi, allora, non significherebbe così immediatamente essere provinciali. I primi libri importanti letti da Bilenchi, quelli che fissano la sua educazione estetica – come, naturalmente, si dice proprio nei Silenzi di Rosai (A, pp. 769 e 771) – sono Il circolo Pickwick e Le confessioni di un italiano – prestati da Maccari (A, p. 726) –, Tolstoj e Radiguet, appoggiati da Rosai (A, p. 728). Se poi affianchiamo alle parole attraverso le quali guardare o riguardare a questa situazione il termine “teppismo”, ecco che il disegno d’insieme presupposto dalla costellazione Rosai diviene ancor meno scontato. Cito, in buona parte, simmetrie e ricorrenze già ricordate da Nicoletti nella prefazione a Dentro la guerra129: l’Autoritratto in figura di teppista, dipinto da Rosai nel 1912; nel discorso al teatro Costanzi di Roma del 21 febbraio 1913 Papini fa professione di teppismo intellettuale130; Soffici – e torneremo su Soffici – dipinge la Natura morta con teppista nel 1914, il medesimo anno del Notturno teppista di Campana (Campana che, dopo Maccari all’epoca dell’infanzia, è l’altro trait d’union con Rosai all’epoca dell’adolescenza fiorentina: Bilenchi infatti racconta di aver conosciuto Rosai – «un uomo alto e ossuto» – nel 1927, un giorno in cui il pittore propose a Maccari di fare una visita all’autore dei Canti orfici, al manicomio di Castelpulci: A, pp. 770-771131; ma quella visita non avvenne mai132). Sempre nel 1914, il 15 febbraio, «Lacerba» pubblica La canzone del teppista di Rosai, presentata da Soffici133. Il 15 giugno del medesimo anno esce, sempre su «Lacerba» l’Elegia per il povero teppista134 del fiorentino («filofuturista ma non marinettiano»,

72

Daniela Brogi

come ricorda Carpi135) Ugo Tommei: maggiore di un anno di Rosai e suo amico strettissimo, Tommei non tornerà dalla guerra. Rosai gli dedica un ritratto che, al pari di quello dedicato a Campana136, ha più di un motivo in comune con le movenze stilistiche e i tagli narrativi tutti di scorcio di Amici. Vale la pena di citare: Dove è morto Tommei? E come è morto? Domanda che mi sono sentito fare a Firenze, al Fronte e da per tutto. Io stesso ò trovato i suoi fanti e gli ò fatto la stessa interrogazione, ma neanch’uno mi à soddisfatto. – Quale Tommei? L’aspirante? Ah!… ma… chi lo sa! Forse qualche granata, ma non saprei dirle niente perché fu di notte che si perse –. Lo conobbi una sera al caffè delle Giubbe Rosse, dove venne per dare il suo plauso giovanile al Futurismo. Timido, vergognoso, senza punte superbie. Con un cravattino nero a sboffi, i suoi eterni occhiali, una camicia nera all’operaia, vestito di scuro, ma con un cervello ed un animo tanto colorati, come se tutto quel nero servisse a mascherare la sua intelligenza multicolore, per evitare furti ed invidie. Mi feci presto suo amico indivisibile, lo compresi e mi feci comprendere. Ogni sua frase ricopriva un vuoto, ogni suo discorso rispondeva ad un bisogno spirituale. Quante volte discutendo d’arte ci siamo commossi, abbracciati, e ci siamo promessi, collaborando, di tingere il mondo, coi nostri pennelli, con le nostre penne, di colori nuovi!137

La costruzione della scena a partire dallo spunto di una voce esterna ed estranea, su cui inserire, in successione, una profondità di campo che recupera il primo incontro,

Cronache di una gioventù perduta

73

il luogo, alcuni dettagli fisici e cromatici subito capaci di parlarci di un temperamento e di un destino, e infine l’invocazione dell’amicizia come suggello etico di un concetto dell’arte per cui la vita e l’amicizia fanno un corpo unico. Sono, a pensarci, tutti movimenti che contraddistinguono anche l’ingresso di tanti protagonisti di Amici. Tra l’altro, a rendere l’accostamento anche più interessante è la prossimità cronologica tra il primo nucleo di Amici, I pittori (gennaio 1955), e le prose memoriali che Rosai pubblico su «Il Nuovo Corriere» tra il dicembre 1953 e il giugno 1954138. Proprio Rosai proseguirà la poetica del teppismo anche oltre l’esperienza spericolata139 di «Lacerba» e della guerra, compiendo una paradossale saldatura col fascio futurista fiorentino di combattimento, prima, e a seguire col fascismo selvaggio e rivoluzionario. Saldatura che diventa probabilmente più comprensibile, o quantomeno più interessante, se consideriamo che il sinonimo più appropriato di questo teppismo, il termine più utile a capire se non altro gli esiti migliori dell’antagonismo arrabbiato, iconoclasta e contrappositivo del gruppo di Maccari e dei Selvaggi, non è tanto “becerismo” ma “maledettismo”, rimbaldismo, secondo un filo nemmeno troppo nascosto che unisce Campana e Rosai a Rimbaud: a cui Soffici, nel 1911, aveva dedicato la prima monografia italiana e straniera (uno dei libri più letti dai soldati al fronte140); quel Rimbaud autore di un «libretto di poesie» che Marco, il protagonista del Bottone di Stalingrado, «portava sempre con sé»141. All’interno di questo paesaggio, la gioventù non è un tema ma una forma di esistenza: vale anche, e prima di tutto, come gesto contrappositivo e aggressivo, come

74

Daniela Brogi

ansia di vita, come diavolo in corpo (per citare uno dei libri, e dei film prediletti da Bilenchi): siamo giovani, ovvero siamo rivoluzionari, ovvero non siamo indifferenti. Siamo nipoti di Pisto. A ogni costo. Fino al punto di abbandonare il regime, quando Mussolini ha ormai deluso e disatteso ogni entusiasmo142. (Le vicende dell’adesione e della presa di distanza di Bilenchi dal fascismo – come si è visto nei paragrafi precedenti – sono imprescindibili da questa cultura; al tempo stesso, la difesa fino all’ultimo della memoria di questa stagione ha molto a che fare con l’etica della «vita indivisibile»). 5.3. Il compagno segreto Uscii fuori anch’io, andando a dimenticarmi nella grandezza di Roma e a spaventarmi della mia solitudine. O T T O N E R O S A I , 1954

Rosai come costellazione dunque; ma Rosai anche come alter ego silenzioso. Tanto in termini di poetica quanto in termini di scrittura, gli esiti più duraturi dell’ansia di vita e di gioventù, sia per Rosai che per Bilenchi, non saranno però quelli, per così dire, euforici, ma quelli disforici, e anche su questo piano l’affinità tra i due autori va molto più a fondo della pura suggestione figurativa. Recuperiamo due date che cadono nel medesimo anno e che messe a confronto costruiscono un contrasto eloquente. La sera del 29 aprile 1934, per celebrare la conclusione dei Littoriali della Cultura e dell’Arte organizzati a Firenze da Pavolini e Bottai, va in scena, sulle rive dell’Arno e per la regia di Alessandro Blasetti, il

Cronache di una gioventù perduta

75

più colossale esempio di teatro di massa – sono le definizioni de «La Nazione»143 – mai organizzato dal regime: si tratta dello spettacolo «ambiziosissimo e sostanzialmente fallito»144 18 B L , dal nome dell’autocarro della F I A T passato alla storia durante la prima guerra mondiale ed eletto a simbolo del trionfo fascista. In quello stesso anno la casa editrice Vallecchi (la medesima di «Lacerba», della Cronaca dell’Italia meschina ovvero Storia dei socialisti di Colle, con illustrazioni di Rosai, nel 1932, e nel 1940 di Conservatorio) dà alle stampe Dentro la guerra, di Rosai, già uscito a puntate nel 1932 e ampiamente tagliato, ma ciò malgrado considerato «disfattista», «contro la guerra», come ricorda l’autore dei Silenzi di Rosai (A, pp. 796 e 798), e come invece aveva sostanzialmente taciuto Bilenchi stesso, nella recensione pubblicata su «La Nazione» del 17 ottobre 1934145. A distanza di anni, sono piuttosto ovvie le ragioni per cui Amici privilegi l’elemento discordante, fuori dal coro del regime, del libro di Rosai; le pagine di Dentro la guerra che più colpiscono il lettore non sono quelle che celebrano l’eroico vitalismo guerriero, ma certi dettagli episodici giustapposti paratatticamente, che bucano l’attenzione e bloccano la progressione del resoconto eroico nel dolore di un’immagine: La mattina del dodici agosto chiesi a Ferrari di lasciarmi andare a quota 121 a recuperare i morti e egli, elogiando il mio pensiero, acconsentì alla richiesta. Uscito dalle linee mi dirigo verso i reticolati nemici, apparentemente disarmato, ma con una bomba per tasca e una baionetta nascosta sotto i pantaloni. Conosco i miei polli e non mi piacerebbe trovarmi fregato. Infatti, caricatomi sulla schiena il primo cadavere

76

Daniela Brogi

incontrato, mentre mi accingo a tornarmene, una scarica di mitragliatrice riuccide quel morto che piomba a terra come spaventato e obbliga me a trovare un immediato riparo. Non c’è verso di proseguire nell’opera: e tutte le volte rialzi la testa per ritentare, quel macaco di mitragliere senza cuore sputa il suo odio attraverso la bocca della sua mitraglia146.

L’effetto plastico dell’impresa svavalda è presto deviato su particolari che rivelano il lato riverso della guerra, e che affumicano la retorica bellica, perché riempiono di contrappunti visionari le luci troppo forti del combattimento ardito. Soffermiamoci su un altro esempio: un notturno lacerbiano: Da quando eravamo a Oslavia, gli austriaci temevano un nostro colpo mancino e non facevano che lavorare e organizzarsi per essere in grado di difendersi. Infatti la notte era un continuo scrutarci attraverso la luce dei razzi, e i riflettori spostavano i loro coni illuminanti con mosse repentine da un punto all’altro della nostra fronte procurandoci, quando si fosse al coperto, uno spettacolo attraentissimo. I riflettori italiani funzionavano contemporaneamente agli apparecchi nemici e il buio impenetrabile di certe notti, cedendo ai fasci rotanti di luce, pareva lasciarsi accivettare. E essi si rincorrevano tra loro come degli amanti frenetici, strisciandosi, urtandosi e infine compenetrandosi, e a questo punto il pudico buio gli si buttava sopra nascondendo agli occhi curiosi la scena immorale147.

Sulla tela del racconto, le rifrazioni tonali hanno la loro rivincita sulle linee del disegno ancora soltanto pensato dallo sguardo posato sulla tavolozza; la sequenza delle

Cronache di una gioventù perduta

77

figure in chiaroscuro conquista il centro, con l’effetto finale di un senso di solitudine e di assenza. È «l’angoscia di un’anima prigioniera» – per usare una definizione di Savinio del 1933 sulla pittura di Rosai148 – che contrasta non poco con la dominante euforica di un altro libro sulla Grande Guerra come Kobilek, di Soffici. Questa attitudine a comporre la scena inserendo dettagli antienfatici, per parlare della vita che si consuma dentro la guerra e quasi di nascosto, questa scelta di «offuscare le trame su cui si deve poi esercitare con impeto il tesoro delle sue più vive interpretazioni», come scriveva Parronchi, nel 1941, in uno scritto sulla pittura di Rosai per lungo tempo elogiato anche dagli scrittori149, sono tratti di stile e di racconto che possono in realtà aiutarci a capire oltre che l’opera di Rosai anche alcune delle migliori prose composte da Bilenchi agli inizî degli anni Trenta e pubblicate su «L’Universale». Testi che piacevano molto a Rosai150 e dedicati per l’appunto a una realtà mai riprodotta dal vivo, ma dalla memoria, dal passato. Come in un quadro di Rosai: Guardava con intensa meraviglia gli uomini che disegnava come a confrontarli con immagini che avesse nella memoria, ma subito quella meraviglia si tramutava in ansia, in tensione. [A, p. 773] Scoprivo [guardando i disegni di Rosai] che la vita non era un avvicendarsi di fatti casuali ed estranei l’uno all’altro. [A, p. 774] Nessun colore del quadro corrispondeva a quelli che mi apparivano sulla tavolozza. L’ultima volta che andai a trovarlo in via Toscanella gliene chiesi la ragione. «Bene» disse. «Io

78

Daniela Brogi

cerco il colore che è necessario al quadro sulla tela e non sulla tavolozza». [A, p. 775] Ho sempre scritto – stavolta Bilenchi parla di sé, nel 1985 – senza mai sapere prima dove la scrittura mi avrebbe portato. È la verità. Solo alla fine di ogni frase riesco a intuire la successiva151.

Ancora un passaggio dai Silenzi, che può spiegare, attraverso Rosai, la poetica bilenchiana del racconto: Ogni tanto appariva un paesaggio; nel quadro, anticipando la purezza che avrebbe poi raggiunto alla fine dei suoi giorni nei momenti più felici, Rosai era riuscito a fermare gli umori in cui la città e la campagna si ammantavano in un’ora particolare di una particolare stagione e sembrava avere spezzato la catena che teneva legati gli uomini fra loro. Ma era una breve illusione. Alberi, muri, strade, case, ville si scoprivano subito personaggi, al pari degli uomini che figuravano nelle tele vicine, alti, in piedi, o accartocciati su se stessi. Erano anzi personaggi che attraversavano il momento più melanconico della loro esistenza. [A, p. 775]

E le simmetrie spiccano ancor di più se raffrontiamo questo passo con la seguente dichiarazione di poetica resa da Bilenchi nel 1985152: Il racconto è la formula narrativa che ho amato e che ho studiato di più perché mi permette di scegliere e di isolare quei particolari istanti, quando la vita scorre più intensamente. La vita non la senti pulsare sempre nello stesso modo, ma ci sono situazioni o atmosfere che all’improvviso te la rendono piena di significato. […] Nei miei racconti,

Cronache di una gioventù perduta

79

attraverso i diversi personaggi, io ascolto e cerco di ricostruire questi battiti, questo pulsare della vita.

Il sentimento del tempo dunque, come tema principale di silenzioso confronto tra Bilenchi e Rosai (e il richiamo al comune amico Ungaretti vale più di una civetteria). Il sentimento del tempo inteso non tanto come suggestione o evocazione, quanto come espressione asciutta; come composizione dei piani che si distribuiscono sulla «tela» del racconto, «attraverso la ripetizione e l’elementarità degli schemi enunciativi» che «vanno a rafforzare quell’idea di sospensione temporale»153. «Isolare quei particolari istanti» dice Bilenchi di sé stesso; «era riuscito a fermare gli umori» scrive di Rosai. «Cerco di ricostruire»: di nuovo Bilenchi, con espressioni che bene esprimono le tecniche da artigiano della scrittura, come Rosai lo era del colore. La costruzione di questo tempo a cui si allude non mira tanto alla narrazione proustiana della durata, ma all’espressione della materia di cui è fatta l’inquietudine154. E questa tensione non va immediatamente intuita, ma compresa. 5.4. Essere giovani Eri le nostre vie vedute a mente nei mali di gennaio; questo muro di maggio che offre al niente se stesso e noi, Rosai. F R A N C O F O R T I N I , Per un pittore, 1957

Se essere giovani, per Bilenchi, come per Rosai, significa appartenere a una precisa epoca, allora raccontare i

80

Daniela Brogi

giovani, e soprattutto gli adolescenti, significa prediligere, piuttosto che un tema, una forma di esperienza del tempo e della realtà. L’adolescenza, infatti, vale come cronotopo dell’ansia di passaggio, di cambiamento: «il tempo più inquietante è il presente, il momento del cambiamento, l’attimo nel quale qualcosa deve accadere»155 (come il tempo bloccato delle tele senza cielo di molti quadri di Rosai). Ora, quest’ansia di passaggio non ha una valenza solo iniziatica, esistenziale, ma anche storica, come si è visto nella prima parte di questo saggio; e narrativa, come si sta discutendo adesso. L’adolescenza non è un simbolo ma un’invenzione, «un’invenzione poetica»156, secondo le stesse parole dell’autore. Proprio le giunture narrative, i silenzi del testo, costruiti per via di ellissi, di tagli, di montaggio, costruiscono scenari in cui la gioventù, oltre che come contenuto, vale più che altro come dispositivo di racconto. La narrativa bilenchiana predilige l’età giovanile come forma di vita in cui il passaggio tanto atteso non arriva mai, come se l’io fosse imprigionato dentro un’esperienza che non lo fa mai procedere. Piuttosto che altri autori di area tedesca, è Kafka, e in particolar modo l’autore del Castello, ad apparire il modello più avvicinabile alla fortezza testuale costruita dalla trama di Conservatorio di Santa Teresa, dove, per esempio, la sintassi dei capitoli tende a costruire stati di attesa via via delusi; dove il titolo stesso promette, illusoriamente, il racconto di qualcosa – la vita in collegio – che in realtà occuperà poco spazio in questo romanzo che solo riduttivamente potrebbe essere definito un college novel. Rispetto a questo mondo di significati, non sono certo i cosidetti omìni o le orchestrine di Rosai il termine di raffronto più interessante, bensì le curve dei quadri di

Cronache di una gioventù perduta

81

Rosai157, perché esse sono il corrispettivo più forte delle bottiglie polverose di Morandi – per citare un altro collaboratore del «Selvaggio» citato nei Silenzi come uno dei maggiori artisti assieme a Rosai (A, p. 770). Le curve infatti sono una figura mentale, più che fisica: uno spazio fissato dall’inquietudine di cosa ci sarà al di là, oltre quella curva che non si percorre mai, e dietro la quale potrebbe accadere qualcosa che il dolore impedisce di raggiungere. È tempo di concludere, e vale la pena di farlo con un altro passaggio di Rosai, tratto da un intervento intitolato L’essenziale e pubblicato su «Frontespizio» nel 1937. Cito i primi due capoversi, che colpiscono il lettore di Bilenchi per la capacità di definizione di un campo semantico privilegiato: quello del gelo: Sorgerà un artista come una brutta giornata. Una di quelle giornate d’inverno tutte nere, fredde pungenti, dalla pioggia appuntita e frenetica che ti sbatte in faccia e sul corpo a cenciate, quasi fossero lanci a manciate di pruni. Di dolore avrà fatta la vita, continuo, infinito, per non poter giungere a dare con la sua opera la pace a sé né agli altri158.

C APITOLO II

TRA LETTERATURA E CINEMA . PAVESE , VISCONTI , E LA “ FUNZIONE C AIN ” 159

Il cinema mi piace da sempre. Da ragazzo andavo a vedere fino a due film al giorno. A L B E R T O M O R A V I A (Alain Elkann, Vita di Moravia) Ci sono stati anni in cui andavo al cinema quasi tutti i giorni e magari due volte al giorno, ed erano gli anni tra diciamo il Trentasei e la guerra, l’epoca insomma della mia adolescenza. Anni in cui il cinema è stato per me il mondo. I T A L O C A L V I N O, Autobiografia di uno spettatore Di nuovo solo. Ti fai casa di un ufficio, di un cine, di due mascelle serrate. C E S A R E P A V E S E , Il mestiere di vivere, 24 febbraio 1946

1. Il titolo di un romanzo uscito nel 2010 contiene due espressioni di cui via via ci serviremo: si tratta del recente libro di Michel Houellebecq La Carte et le territoire160. Al centro del territorio che guarderemo si trova Ossessione161, film a cui Visconti lavora tra l’estate del 1942 e il 1943 e considerato, assieme a Quattro passi tra le nuvole (1942) di Blasetti e I bambini ci guardano (1943) di De Sica, uno dei punti di rottura più decisivi rispetto alla cinematografia precedente, nonché una prima occasione di partenza della stagione del Neorealismo. Scorreremo questo territorio cercando di costruire una nuova carta, ovvero tentando di ridisegnare, in quanto elementi importanti del paesaggio, aspetti che finora non

84

Daniela Brogi

sono stati molto considerati, oppure sono stati trattati come superfici lisce anziché rilievi, o come dettagli non troppo significativi. Nominerò subito allora altre due regioni da valorizzare, fissando al tempo stesso gli obiettivi di questo lavoro. Vorrei mettere accanto a Ossessione prima di tutto il romanzo a cui il soggetto del film di Visconti si rifà esplicitamente, sia pure senza nominarlo nei credits, ovvero The Postman Always Rings Twice (1934) di James Mallahan Cain (1892-1977). Per la verità, l’accostamento non è nuovo, e in passato è stato già discusso, soprattutto da Micciché162, concentrando però l’attenzione essenzialmente su simmetrie e discontinuità tra i plot delle due narrazioni, e incoraggiando l’idea per cui «il romanzo di Cain funge più che altro da canovaccio per Visconti e i suoi collaboratori»163. L’altra zona che vorrei poi recuperare è quella abitata da un altro libro mai accostato, se non en passant, almeno che io sappia, al film di Visconti. Si tratta del romanzo Paesi Tuoi, scritto da Pavese – come indica il manoscritto – tra il 3 giugno e il 16 agosto 1939 e pubblicato nel 1941. Attraverso questa nuova mappatura la letteratura americana potrà acquisire, anche rispetto al Neorealismo, un’importanza maggiore di quella finora (non) attribuitale: l’America, infatti, non è soltanto l’isola che non c’è, l’orizzonte a cui tende il bisogno vago di esotico, di rinnovamento e di rinascita espresso dalla cultura europea entre-guerre; la letteratura americana non è semplicemente un repertorio di canovacci, ma terra d’origine e di riferimento per un nuovo concetto di narratività: intesa come impasto di stile e immaginario. Questa è

Tra letteratura e cinema

85

l’idea che dalle narrazioni americane arriva alle narrazioni europee; e questa migrazione avviene, in molti casi, passando da territori dove la letteratura vive di scambî continui con il cinema: territori senza frontiere che, come vedremo, portano l’America in Italia anche attraversando la Francia. È stato proprio Pavese, del resto, in un’intervista realizzata pochi mesi prima di morire, a invitarci a ripensare il Neorealismo anche attraverso il cortocircuito tra la narrativa e il cinema americani; l’occasione riguardava «uno dei problemi più discussi della nostra cultura odierna»: [il] cosiddetto influsso nordamericano, cioè non soltanto di me, Cesare Pavese, bensì di quella piccola rivoluzione che, intorno agli anni della guerra, ha mutato – dicono – la faccia della nostra narrativa. Quando si parla di Hemingway, Faulkner, Cain, Lee Masters, Dos Passos, del vecchio Dreiser, e del loro deprecato influsso su noi scrittori italiani, presto o tardi si pronuncia la parola fatale e accusatrice: neo-realismo. Ora, vorrei ricordare che questa parola ha soprattutto oggi un senso cinematografico, definisce dei film che, come Ossessione, Roma città aperta, Ladri di biciclette, hanno stupito il mondo – americani compresi – e sono apparsi una rivelazione di stile che in sostanza nulla o ben poco deve all’esempio di quel cinematografo di Hollywood che pure dominava in Italia negli stessi anni in cui vi si diffondevano i narratori americani. Come avviene che la stessa etichetta definisca con lode una cinematografia e con biasimo una narrativa, che pure sono nate contemporaneamente sullo stesso terreno intriso di succhi nordamericani? 164

86

Daniela Brogi

2. Per Pavese il cinema fu un mestiere di vivere. L’autore di Paesi tuoi era stato un appassionato spettatore fin da giovanissimo; tra il 1927 e il 1930 scrisse tre saggî teorici (attenti alla luce e al movimento come risorse specifiche del linguaggio cinematografico); più tardi tentò anche di scrivere dei soggetti cinematografici; fu collaboratore di sceneggiature (Fuga in Francia, 1949, di Soldati) e fu autore di testi in seguito portati al cinema (un solo esempio: Le amiche, del 1955, di Antonioni, tratto da Tre donne sole). L’esistenza di Pavese è stata riempita dal cinema almeno quanto la letteratura: i suoi personaggi, soprattutto le protagoniste, vanno spesso al cinema165; l’ultimo romanzo, La luna e i falò (1950), dedicato all’attrice di cui si era innamorato Constance Dowling, è abitato in ogni scena dalla memoria della cinematografia americana166: Sei tornato a passar solo, la sera, nel piccolo cine, seduto nell’angolo, fumando, assaporando la vita e la fine del giorno. Guardi il film come un bimbo – per l’avventura, per la piccola emozione estetica o mnemonica. E godi, godi immensamente. Sarà così a settant’anni, se ci arrivi. [Il mestiere di vivere, 22 febbraio 1946]167

A imparentare Ossessione con Paesi tuoi interviene già la storia stessa della diffusione della parola “Neorealismo”, che aveva cominciato a circolare in Italia tra la fine degli anni Venti e gli inizî degli anni Trenta – come calco dal tedesco “Neue Sachlichkeit”168. I primi a usare l’espressione anche in senso letterario furono Arnaldo Bocelli e Umberto Barbaro169 (fondatore, con Luigi Chiarini, del Centro Sperimentale di Cinematografia); la riprenderà poi anche Mario Alicata, che fu anche uno degli sceneggiatori

Tra letteratura e cinema

87

di Ossessione, recensendo su «Oggi», il 19 luglio 1941, proprio Paesi tuoi 170. E la userà soprattutto, come raccontava lo stesso Visconti, il montatore di Ossessione: Fu quando da Ferrara mandai a Roma i primi pezzi del film al mio montatore, che è Mario Serandrei. Dopo alcuni giorni egli mi scrisse esprimendo la sua approvazione per quelle scene. E aggiungeva: «Non so come potrei definire questo tipo di cinema se non con l’appellativo di neorealistico»171.

Ma non è tutto, perché in questo territorio già così ricco c’è un’ulteriore linea che attraversa e avvicina Paesi tuoi e Ossessione: quella di The Postman Always rings Twice. Sarà lo stesso Pavese, infatti, a indicarcela, rispondendo a un’inchiesta, nel 1946: In tempi che la prosa italiana era un «colloquio estenuato con se stessa» e la poesia un «sofferto silenzio», io discorrevo in prosa e versi con villani, operai, sabbiatori, prostitute, carcerati, operaie, ragazzotti. Non mi passa per la testa di vantarmene. Questa gente mi piaceva e mi piace tuttora. […] Hanno detto di me che imitavo i narratori americani, Caldwell, Steinbeck, Faulkner, e il sottinteso era che tradivo la società italiana. Si sapeva che avevo tradotto qualcuno di quei libri. Ne avevo anche tradotti, a dire il vero, di altro genere, e anzi un critico una volta si dolse che invece di farmi influire da Joyce o dalla Stein avessi accolto il rozzo magistero dei primi. Dunque, ho fatto una scelta. Dunque, ho provato simpatia. Dunque c’era in me qualcosa che mi faceva cercare gli americani, e non soltanto una supina accettazione. Di passaggio, l’americano che per il suo «tempo», per il ritmo del narrare

88

Daniela Brogi

mi gravò sulle spalle davvero, nessuno al tempo di Paesi tuoi lo seppe dire: era Cain172.

Un legame riaffermato anche tre anni più tardi, riferendosi al romanzo breve Il carcere (1949), scritto tra il novembre 1938 e l’aprile 1939: Pare strano anche a me [si cita dalla lettera a Emilio Cecchi del 17 gennaio 1949], ma lo scrissi così nel mio primo tentativo di uscire dal mondo di Lavorare stanca e due mesi prima di buttarmi, stimolato dal postino di Cain a Paesi tuoi173.

Ora, è proprio guardando alla zona Cain che possiamo ripensare il territorio da cui arrivano il film di Visconti e il romanzo di Pavese: non tanto per analizzare le singole opere nel dettaglio, quanto per ricostruire una carta di comuni riferimenti e situazioni culturali. Una carta che, senza definire una linea genealogica troppo diretta o sforzata (la grandezza del Neorealismo è stata anche la sua eterogeneità), potrebbe però aiutarci a ricollocare sul territorio dei primi anni Quaranta tanto l’esperienza di Visconti quanto quella di Pavese, donando al paesaggio una nuova profondità di campo. Questa carta sarà utile per restituire spessore o una diversa morfologia a certi luoghi comuni della scrittura pavesiana davvero troppo logorati (l’uso del mito come naiveté, il cosiddetto stile genuino, l’americanismo come esotismo ecc.); o potrà aiutare a riguardare anche alcuni motivi di Ossessione così scomodi, riluttanti alla grammatica più canonizzata dalla critica (letteraria e cinematografica) del Neorealismo (quella grammatica che ha respinto tutti gli aspetti estranei alla definizione di una coscienza collettiva): motivi come

Tra letteratura e cinema

89

l’attenzione rigorosa allo stile, la presenza di tratti onirici e simbolici, o anche il melodramma, o il decadentismo: un aggettivo che in Italia è sempre stato adoperato in senso diminuitivo e moralistico e che, forse non è un caso, è stato usato sia contro Visconti che contro Pavese. 3. Se l’increspatura dei dettagli in un paesaggio meno scontato è l’obiettivo di questa ricerca, il suo presupposto invece è l’idea che anche la relazione tra letteratura e cinema possa essere ridiscussa in modo un po’ diverso dal consueto. Per lo più letteratura e cinema sono stati messi a confronto in tre maniere principali. La prima di esse riguarda i molti casi in cui il film è la trasposizione cinematografica di un testo letterario preesistente (per limitarci a un unico campione emblematico: Senso, di Visconti, tratto dall’omonimo racconto di Boito174). Una seconda possibilità, meno generosa nei confronti del cinema in quanto arte autonoma, si ha quando i film sono trattati essenzialmente come documenti, testimoni di un certo modo di intendere un tema, o indizi di un senso comune che si è depositato nell’immaginario (un esempio, in questo caso, potrebbe essere quello dei B-movies italiani degli anni Settanta che risultano molto utili, a chi volesse occuparsi della narrativa sul “terrorismo”, per cogliere il colore di quell’epoca). Una terza strada, infine, è orientata piuttosto su quello che in un libro appena uscito è stato indicato come “effetto rebound”175, ovvero il caso in cui la letteratura imita il cinema, appropriandosi di linguaggi e possibilità espressive di tipo cinematografico – come la focalizzazione o il montaggio.

90

Daniela Brogi

Ora, oltre a queste tre modalità, che almeno nei casi migliori sono molto proficue, è forse possibile sperimentare una forma diversa, che anziché lavorare per contrapposizioni e sensi unici (letteratura vs cinema, dalla letteratura al cinema) guardi piuttosto alle reciproche risonanze, perché la cultura lavora non solo dentro le forme e le discipline, ma all’incontro e all’incrocio di esse. Lavorare sulle interferenze insomma: espressione con cui qui si designa lo sguardo attento alle relazioni, piuttosto che l’occhio socchiuso smarrito nella rêverie. Lavorare sulle interferenze di linguaggi, ovvero non andare a caccia dei contenuti, ma interrogarsi sui territori e le forme in cui si impiantano. Per esempio, ragionare di Neorealismo in termini di stile, di costruzione di prospettive, di modi narrativi: proprio come intendeva fare Pavese, per esempio, quando rimandava a Cain per il «tempo» e il «ritmo del narrare»; oppure rimescolare le genealogie e le parentele, per esempio riconsiderando che le scenografie decadenti del Gattopardo possono essere, oltre che quelle riproposte da Visconti nell’omonimo film, quelle ripensate da Tomasi di Lampedusa, durante la scrittura del romanzo (1954-1957), attraverso la suggestione di Senso: non il libro stavolta, ma il film realizzato da Visconti (1954)176. Incrociare allora significa, per citare un ulteriore riferimento, pensare che gli scenari della narrativa pavesiana nascono nel medesimo territorio in cui intanto il cinema si interroga attorno a nuovi modi di sperimentare e raccontare il legame tra individui e paesaggio. Lo farà De Santis in un famosissimo articolo che risale allo stesso anno di pubblicazione di Paesi tuoi, ma intanto già due anni prima, sul numero 68 della rivista «Cinema» (25 aprile

Tra letteratura e cinema

91

1939) Michelangelo Antonioni aveva pubblicato un articolo intitolato Per un film sul fiume Po 177, accompagnato da nove scatti fotografici – il documentario sarà girato nel 1943 e completato al montaggio nel 1947. Certamente lo specifico formale letterario e quello cinematografico non sono sovrapponibili; d’altra parte, proprio lavorando sugli scarti o sui punti di non aderenza, si possono raggiungere considerazioni importanti, che riguardano le zone dell’immaginario come quelle della narratività. E se questo è vero in generale, per l’epoca e le opere del Neorealismo lo diventa doppiamente perché il territorio di cui stiamo ricostruendo la carta appare, a guardarlo, abitato dalle continuità piuttosto che dalle fratture create nei decenni successivi dallo specialismo. Questa fluidità di confini è spiegata nel modo migliore proprio dalla risposta data da Pavese, in occasione della vittoria del Premio Strega (24 giugno 1950) assegnato a La bella estate (1949), alla domanda su quali autori viventi apprezzasse di più: per me il miglior narratore contemporaneo è Thomas Mann e, tra gli italiani, Vittorio De Sica178.

Del resto, anche se non ne parlò mai direttamente, è probabile che lo stesso Calvino, esordiente nel 1947 con un libro (Il sentiero dei nidi di ragno) tutto costruito attorno al punto di vista di un bambino (Pin) sulla guerra, sia stato impressionato dall’uso così insistito, tanto scenico che drammaturgico, dell’infanzia nel cinema neorealista. Mi limito a citare gli esempi più noti: I bambini ci guardano (1943), Roma città aperta (1945) – pensando soprattutto all’ultima scena – Sciuscià (1946), Ladri di

92

Daniela Brogi

biciclette (1948). Seguendo questa indicazione, è possibile anche proiettare sulla scena iniziale del Sentiero dei nidi di ragno179, tra i vicoli della vecchia città ligure in cui è ambientata una parte della storia, la memoria cinematografica dell’adolescenza dell’autore: Circolavano anche i film francesi, certo, che si manifestavano come qualcosa di completamente diverso, dando allo spaesamento un altro spessore, un aggancio speciale tra i luoghi della mia esperienza e i luoghi dell’altrove (l’effetto chiamato “realismo” consiste in questo, avrei capito poi), e dopo aver visto la Casbah di Algeri in Pépé le Moko [1937] guardavo con altri occhi le vie a scale della nostra città vecchia180.

4. La vicenda di The Postman Always Rings Twice, come quelle raccontate in Paesi tuoi e Ossessione, sviluppa lo scheletro narrativo di un fattaccio di cronaca nera: un adulterio che degenera in una perversa monomania, fino a far sboccare il desiderio in pulsione di morte. James M. Cain – scrisse Vittorini su «Omnibus», nel maggio 1938 – affronta e risolve problemi molto scabrosi senza lasciare che il lettore si accorga del problema e veda il problema prima di essere arrivato in fondo al libro. Cain non dà che facce e fatti da vedere, e non permette di vedere o intravedere altro181.

In un’intervista rilasciata nel 1977 per la nota rubrica The Art of Fiction di «Paris Review»182, James Cain spiega: I can remember the beginning of The Postman. It was based on the Snyder-Gray case, which was in the papers about

Tra letteratura e cinema

93

then. You ever hear of it? Well, Grey and this woman Snyder killed her husband for the insurance money. Walter Lippmann went to that trial one day and she brushed by him, what was her name? Lee Snyder. Walter said it seemed very odd to be inhaling the perfume or being brushed by the dress of a woman he knew was going to be electrocuted. So the Snyder-Grey case provided the basis.

Vi è dunque un triangolo morboso dagli esiti tragicamente fatali, come accadeva, e il rimando non è innocente, in Le Jour se lève (Alba tragica) di Marcel Carné, 1939: dove il marito era un tipo rozzo; la donna una figura maledetta, una creatura di perdizione, e l’amante portato dalla passione al crimine era un operaio. Il punto, la novità forte, però, è che i tratti morbosi sono compressi nell’azione, facendo sparire il sentimentalismo dalle didascalie e dai dialoghi: il “ritmo del narrare” lavora di economia, di riduzione all’essenziale. In The Postman la storia è narrata in prima persona da Frank Chambers, un vagabondo di ventiquattro anni che lungo una strada della California si ferma in una stazione di servizio con distributore di benzina, locanda e ostello: Mi buttarono fuori dal camion verso mezzogiorno. C’ero saltato sopra la notte, giù al confine, e appena steso sotto il telone, nel fieno, mi ero addormentato. Sonno ne avevo un bel po’, dopo tre settimane a Tia Juana, e dormivo ancora quando si fermarono a uno slargo per far freddare il motore183.

La stazione è gestita dalla sensuale Cora e dal suo vecchio marito Nick Papadakis, soprannominato “il greco”. Tra Frank e Cora scoppia l’attrazione, e presto i

94

Daniela Brogi

due decidono di uccidere il marito di lei per stare insieme184. Travolti dalla passione, i due amanti si divorano, in senso fisico come metaforico: c’è qualcosa di cannibalistico, ancor prima che sessuale, nel modo in cui si consuma il primo amplesso: I took her in my arms and mashed my mouth up against hers… “Bite me! Bite me!” I bit her. I sunk my teeth into her lips so deep I could feel the blood spurt into my mouth. It was running down my neck when I carried her upstairs185.

Fallito un primo tentativo di omicidio, Frank e Cora fanno ubriacare il greco, lo colpiscono e simulano un incidente stradale. Comincia il processo, in cui è incolpata soltanto Cora; i due amanti cominciano ad accusarsi reciprocamente, ma, grazie all’abilissimo difensore, Cora è scagionata. La nuova vita sta arrivando, ma Cora muore in un incidente di macchina. Frank è arrestato con l’accusa di aver ucciso prima il greco e poi Cora (che come rivelerà l’autopsia era anche incinta). Il libro si conclude con Frank, ormai nel “braccio della morte”, che ammette di non aver mai desiderato nulla nella propria vita, se non Cora. Anche la narrazione di Paesi tuoi è condotta in prima persona, da Berto: un irregolare «già scottato e di città»186, come Frank. Berto è un meccanico disoccupato «andato in malora per aver schiacciato un ciclista»187. Per un mese ha condiviso la cella con Talino, un goffo contadino che è stato accusato di aver dato fuoco a una casa (la Grangia).

Tra letteratura e cinema

95

Talino è stupido, ma pare anche furbo. Sono due irregolari, due balordi, come i tanti protagonisti dei libri americani tradotti da Pavese. Per le vie di Torino, una volta usciti di prigione, Berto non riesce a liberarsi di Talino, che insiste perché Berto lo accompagni al paese – sembra l’unica condizione perché possa affrontare il padre. Berto riesce a liberarsi di Talino lasciandolo in un bordello ma, dopo un incontro sessuale con la donna di un amico ancora in carcere, si decide a raggiungere Talino alla stazione; al paese Berto potrà occuparsi della trebbiatrice nel periodo della mietitura. Alla fine del lungo tragitto in treno i due compiono un tratto di strada a piedi e Berto, guardandosi intorno, resta turbato dalla scoperta del paesaggio misterioso e sensuale della campagna. Arrivato alla cascina Berto conosce il vecchio padre di Talino, Vinverra, la madre e le quattro sorelle; Berto è attratto da Gisella, la più giovane delle sorelle, diversa nei modi da tutte le altre. Berto si ambienta con la vita della cascina, e intanto scopre che Talino ha veramente incendiato la Grangia, per ragioni oscuramente legate a una morbosa gelosia nei confronti di Gisella. Berto e Gisella cominciano una relazione. Mentre si svolgono i lavori della mietitura, Gisella si reca al pozzo per attingere acqua e la offre a Berto. Talino ha una reazione feroce e le pianta il tridente nel collo, corre a nascondersi nel fienile e riesce a scappare, ma ritornerà il giorno dopo. Mentre ancora Gisella agonizza, il capofamiglia decide di riprendere la mietitura. Talino verrà arrestato dai carabinieri mentre Berto decide di andarsene. Scritto nel 1939 e apparso nel 1941 (l’anno successivo all’entrata italiana in guerra), Paesi tuoi è il primo testo

96

Daniela Brogi

narrativo pubblicato da Pavese (nel 1936 era uscita la raccolta poetica Lavorare stanca), che in questo decennio è stato il più importante traduttore della letteratura americana188: Più che libri – scrive Pavese nel 1945 – conoscemmo uomini, conoscemmo la carne e il sangue da cui nascono i libri. Nei nostri sforzi per comprendere e per vivere ci sorressero voci straniere […]. Laggiù noi cercammo e trovammo noi stessi. Dalle pagine dure e bizzarre di quei romanzi, dalle immagini di quei film, venne a noi prima la certezza che il disordine, lo stato violento, l’inquietudine della nostra adolescenza e di tutta la società che ci avvolgeva, potevano risolversi e placarsi in uno stile189.

«Placarsi in uno stile», dice Pavese, di nuovo riferendosi a romanzi e a film senza far distinzioni ma come ai termini di un’unica ricerca intorno ai modi in cui narrare «il disordine, lo stato violento, l’inquietudine». E lo fa con chiarezza di sguardo su una narrativa che invece – tanto in senso letterario quanto cinematografico – è stata per lo più schiacciata sui temi, senza dare troppa attenzione alle forme. Quando invece, come scrisse Bazin nel 1948 a proposito degli autori neorealisti paragonandoli a Faulkner, Hemingway, Malraux, Dos Passos, lo stile è dinamica del racconto190: ritmo del narrare, per l’appunto, recuperando l’espressione già citata di Pavese. Proprio assecondando questo orientamento, riprendiamo l’attacco di Paesi tuoi – dove la sintassi nervosa e veloce produce l’effetto di un’esistenza continuamente esposta anche ai gesti e alle parole degli altri – e confrontiamolo con il campo lungo e il campo medio con cui

Tra letteratura e cinema

97

comincia Ossessione; subito è evidente come a far significato sia anzitutto il “ritmo del narrare”, che diventa una qualità dello sguardo: Cominciò a lavorarmi sulla porta. Io gli avevo detto che non era la prima volta che uscivo di là e che un uomo come lui doveva provare anche quello, ma ecco che si mette a ridere facendo il malizioso come fossimo uomo e donna in un prato, e si butta sotto braccio il fagotto e mi dice: – Bisognerebbe non avere mio padre (Paesi tuoi)191. 1 C . L . Attraverso il cristallo anteriore della cabina di un camion, che procede piuttosto rapidamente, vediamo la strada asfaltata. Fin dall’inizio dell’inquadratura comincia la musica. Sulla destra della strada si stendono delle coltivazioni e qualche casa, entrambe allungate in una pianura piatta. Sulla sinistra una superficie d’acqua più simile a un fiume largo che a un lago. Cominciano a scorrere i titoli di testa. […] 2 C . M . La M . D . P ., piazzata all’altezza della strada, inquadra dal basso il camion che è entrato in campo di profilo da destra. Il camion si arresta sul bordo della strada. Sentiamo il suono del clacson. La portiera del guidatore si apre. La faccia di questi si sporge dalla cabina e porta una mano alla bocca. Primo camionista: Ehi! Rifornimento! […] [Ossessione]192

L’azione è sostanza: espressione unica e primaria di una psiche che non viene analizzata, ma è tutta spostata sui gesti. Nondimeno, questa tecnica così scarnificata non va fraintesa o scambiata per semplificazione: ciascuno dei

98

Daniela Brogi

gesti compiuti dai protagonisti di Cain, Pavese, Visconti, è carico di ambivalenze; anche per questo i racconti son così carichi di sensualità e violenza, ma entrambi, appunto, non sono codici scenografici, ma espressivi. Ripercorriamo in sintesi il plot di Ossessione: il vagabondo Gino Costa – che per quasi tutto il corso del film indossa un cappello alla Jean Gabin – si ferma presso un ristoro per viaggiatori nella bassa padana, divenendo l’amante di Giovanna, moglie dell’ignaro Bragana, anziano proprietario dello spaccio. Gino non sopporta questa situazione e propone alla donna di fuggire con lui. Giovanna accetta, ma quasi subito, spaventata, rinuncia e torna a casa da sola, mentre Gino parte per Ancona, dove intende imbarcarsi per dimenticarla. Ma sul treno fa amicizia con un artista girovago, “lo Spagnolo”, che lo aiuta a pagare il viaggio e lo ospita nella sua camera d’albergo. Gino non si imbarca più, ma trova lavoro con il suo nuovo amico alla Fiera di Maggio; durante i giorni di fiera, Gino incontra ancora Giovanna e il marito, venuto ad Ancona per partecipare ad un concorso canoro per dilettanti. Gli ex amanti immediatamente sono presi dalla passione, e decidono di uccidere Giuseppe simulando un incidente stradale. Il piano funziona, ma l’incidente insospettisce la polizia. Dopo il delitto, i rapporti tra i due amanti si fanno tesi; Giovanna riscuote l’assicurazione sulla vita del marito e riapre la trattoria insieme a Gino, che però, schiacciato dal rimorso e inconciliato con una vita che sente rubata, lascia la donna e se ne va a Ferrara, dove fa amicizia con Anita, una ballerina-prostituta dolce e comprensiva. Rivede quindi nuovamente Giovanna, che gli dice di essere incinta; riconciliatisi, i due amanti cercano allora di fuggire, ma

Tra letteratura e cinema

99

la macchina finisce fuori strada, Giovanna muore e Gino viene arrestato dalla polizia. Jack, Berto, Gino: ciascuno di loro è un vagabondo, un “tramp”. Lo spazio, il cronotopo in senso bachtiniano, che dà significato e energia ai loro destini è la strada, il tempo/luogo dell’avventura, dell’indefinizione – e intanto si ripensa, per l’importanza drammaturgica della strada, pure al capolavoro di Karl Grüne (Die Strasse, 1923). E poi ci sono Cora, Gisella, Giovanna: donne oscure e sensuali, dal passato cupo, con cui i tre eroi stabiliscono relazioni border line. Non sono storie corali; l’ambiente, come accadrà negli scenari zavattiniani, ancor prima che un dramma sociale racconta una condizione di tormento, e questa tragedia si svolge nella cornice di una campagna primitiva, un mondo rurale inaccogliente (preannunciando l’uscita di Ossessione, Antonio Pietrangeli parlava di «umanità spoglia, scarna, avida, sensuale e accanita»193). Il mondo sociale a contatto più stretto con la natura, in Paesi tuoi e Ossessione, ricorda quello di Of Mice and Men (1937), di Steinbeck, tradotto da Pavese nell’anno che precede la stesura di Paesi tuoi. È, infatti, un mondo abitato da un’umanità contadina disgregata e disgregante, che esprime anzitutto un senso di respingimento, sottolineato da Pavese già nel possessivo di distanza usato nel titolo Paesi “tuoi”. Il paese, il paesaggio, non sono spazî calligrafici, ma, come nei narratori americani, diventano per così dire fatti personali, perché raccontano una fatica alla vita e perché la rappresentano estrovertendola, ossia attraverso una natura raccontata dai suoi elementi primordiali: acqua, aria, terra, fuoco; sono ambienti che il linguaggio fa esistere attraverso un’estetica del sensibile.

100

Daniela Brogi

Pensiamo all’arsura immediatamente comunicataci dalla polvere e dalla luce accecante del paesaggio guardato dall’interno di un camion nella prima scena di Ossessione. In Paesi tuoi il paesaggio entra in scena al tramonto, ma anche in questo caso la luce non decora, non è un dettaglio vago, ma taglia la scena orientandone il significato drammatico; la narrazione vive dello sguardo fisico dei personaggi: Poche miglia a sud di Soledad [si legge nell’attacco di Of Mice and Men tradotto da Pavese] il Salinas capita sotto le falde dei colli, dove scorre verde e profondo. L’acqua è anche tiepida, perché è sgusciata sfavillando sulle sabbie gialle nel sole, prima di giungere alla stretta pozza194. Mi guardavo bene intorno, per sapere all’occasione ritornare e saltare sul treno. Ma treno, ferrata e stazione, era tutto sparito. – Sono proprio in campagna, – mi dico, – qui più nessuno mi trova. || Cammina e cammina per quella bassa, cominciamo a vedere dietro le piante una collina che cresce. – È ancora lunga? – Meno male che il sole calava e pigliava di fianco le gambe di Talino e i paracarri e la polvere, e le indorava, come i fari di un’auto di notte. Poi usciamo dalle piante e si vede un collinone tutto vigne e cascine e boscoso, e pelato sulla punta195. Ci sono dei sentimenti che l’uomo non può esprimere, sembra avvertirci Renoir [si cita dall’intervento di De Santis, Per un paesaggio italiano, pubblicato nell’aprile 1941], e allora bisogna ricorrere a tutto ciò che lo circonda per riuscire ad esprimerli. Così il viaggio che i prigionieri francesi compiono da una regione tedesca ad un’altra, nella Grande Illusion (1937), è dato dal trasformarsi graduale del paesaggio sotto

Tra letteratura e cinema

101

gli occhi dei prigionieri stessi; e la lite fra due fuggiaschi, affamati, spossati, mentre hanno quasi raggiunto il confine svizzero, diventa più raccapricciante in un paesaggio invernale arido e desolato196.

Le Langhe e la Pianura Padana non sono un paesaggio statico: nel racconto di Pavese e di Visconti, come già in The Postman, diventano esistenze espressive in senso stilistico (per esempio attraverso la costruzione del campo: attraverso l’uso e l’angolazione della macchina da presa in Visconti, attraverso la sintassi mobile che allarga lo sguardo di Berto in Pavese); non sono scenografie o sfondi dell’azione, ma concorrono «a determinare il dramma dei protagonisti» – riprendendo l’espressione da Per un paesaggio italiano di Giuseppe De Santis, dove si insiste proprio sulla funzione drammaturgica, anziché documentaristica e decorativa, del paesaggio. 5. Una prima traduzione italiana di The Postman fu pubblicata a puntate, nel 1940, sul quindicinale romano «Panorama»197; la prima pubblicazione in volume risale al 1945 (con traduzione di Giorgio Bassani, Bompiani); al 1946 risale la terza delle sei versioni cinematografiche del romanzo di Cain198. A iniziare era stato Le Dernier tournant, dell’autore belga Pierre Chenal, che quasi sicuramente Visconti aveva visto, come testimoniano certe somiglianze di scene e di inquadrature (e una lettera di Alicata199). Le Dernier tournant era stato presentato alla sala Marivaux di Parigi il 17 maggio 1939, ma non uscì in Italia perché fu quasi subito ritirato dalla circolazione nella Francia occupata dai nazisti, in quanto firmato da

102

Daniela Brogi

un regista ebreo. Chenal – il cui vero cognome era Cohen – fuggì in Argentina pochi mesi dopo, per scampare alle persecuzioni razziali200. Il tema e il motivo di Ossessione, scriveva Aristarco nel 1943, inaugurando una lettura del Neorealismo spesso rischiosamente schiacciata sul naturalismo, «sono identici a quelli de La Bête humaine [Renoir, 1938]»201, ma il modello di Zola, che pure è forte, forse può essere riguardato secondo uno schema di parentela meno esclusivo. Rispondendo a una intervista di Jacques DoniolValcroze e Jean Domarchi202, Visconti così spiega la nascita del progetto di Ossessione: […] ho incominciato a scrivere delle sceneggiature. Tra le altre, l’adattamento di un racconto di Verga [L’amante di Gramigna]. Dovetti presentare il mio progetto al ministero fascista. Fu rifiutato col pretesto che si trattava di una storia di briganti. […]. Fu allora che ho trovato tra le mie vecchie carte la traduzione dattiloscritta in francese che Renoir mi aveva ceduto di un romanzo di James Cain, Il postino suona sempre due volte. Credo provenisse da uno scambio tra lui e Duvivier. Ho adattato questa storia coi miei collaboratori d’allora, De Santis, Alicata e Puccini [conosciuti da Visconti a casa di Carl Koch, l’assistente di Renoir che portò a termine Tosca203]. E questa fu la sceneggiatura di Ossessione204.

Visconti lavorò a Roma con Renoir nella primavera del 1940 alla sceneggiatura e come aiutoregista di Tosca (1941), ma aveva già collaborato con il regista francese in Les Bas-fond (1936) e per la regia e i costumi di Une Partie de campagne (1936). Inoltre, il regista di Ossessione aveva lavorato come stagiaire anche nel film precedente di

Tra letteratura e cinema

103

Renoir Toni (1934, inedito in Italia per la censura fascista)205. Ispirato a un fatto di cronaca, anche Toni è la torbida storia di un delitto passionale: una donna spagnola (Josefa: un personaggio fisicamente molto somigliante a quello interpretato da Clara Calamai in Ossessione) uccide il marito e ne lascia incolpare il proprio amante (Toni, un immigrato italiano, un giramondo disperato), per poi confessare il delitto, dopo che quest’ultimo è stato ucciso durante la fuga. Mario Alicata in una lettera a Pio Baldelli, scrive: Luchino propose di rifare in italiano Il postino suona sempre due volte, che egli aveva visto ridotto in francese (tutti gli altri di noi non conoscevano il film)206. Leggemmo il romanzo, chi più chi meno. Poi, insieme, ne ricavammo il tema centrale: una bella giovane, sposa di un marito anziano e brutto, che si innamora di un giovane capitato per caso nel loro esercizio, e poi l’assicurazione, l’assassinio e la morte per incidente durante la fuga207.

Ecco invece la testimonianza di De Santis, aiutoregista di Visconti in Ossessione: prima di lasciare Roma, Renoir consegna una riduzione del Postino chiama sempre due volte, da cui forse avrebbe voluto trarre egli stesso un film. Visconti riesce a procurarsi la traduzione in francese del romanzo di Cain [di Sabine Berritz, pubblicata da Gallimard nel 1936], che uscirà in italiano soltanto nel dopoguerra. La trama era interessante, ma ci accorgiamo subito che i testi nelle nostri mani non servivano un granché per un’ambientazione italiana e così cominciamo a scrivere Palude, il film che poi diventerà

104

Daniela Brogi

Ossessione. E finiamo col ritrovarci tutti in quella che diventerà la nostra America, la grande Pianura Padana attorno a Ferrara, dove, tra l’altro, grazie a Solaroli, riusciamo finalmente a procurarci, da Giorgio Bassani [il futuro traduttore del romanzo], una copia del romanzo di Cain nell’originale inglese208.

6. Perché Renoir ha in mano una riduzione di The Postman? Cosa ci racconta questo dettaglio? Si tenterà un’ipotesi alla fine di questo lavoro. Per adesso torniamo alla carta che stiamo tracciando. Seguendo le linee del disegno, abbiamo visto come Cain sia intercettato da Visconti anche attraverso Duvivier, Renoir, Chenal. D’altra parte, la Pianura padana piuttosto che ai paesaggi del cinema francese rimanda agli scenari naturali soffocanti e sovrastanti delle grandi narrazioni americane tradotte in quegli anni, principalmente da Pavese. Sono paesaggi che subito, come in Paesi tuoi e Ossessione, sfruttano la luce come dispositivo di costruzione della scena; paesaggi che fan sentire ancora di più la solitudine, trasmettendo ai personaggi di Jack – in The Postman –, Berto – in Paesi tuoi – e Gino, in Ossessione, il senso di un tragico soliloquio. Ora, quest’aria di famiglia è in un certo senso impercepibile e incomprensibile se – come in buona misura è stato fatto – la letteratura e il cinema dell’epoca neorealista continuano a essere guardati e studiati in ambiti distinti, che sradicano le opere dalle continuità del territorio di provenienza. Come ha scritto Micciché, Ossessione fece improvvisamente diventare vecchio tutto quello che c’era prima. Ma proprio questa sua grande risorsa fu immediatamente

Tra letteratura e cinema

105

percepita e censurata dal regime fascista, così attento, così abile a orientare, controllare e filtrare il consenso attraverso la cultura. Proiettato per la prima volta al cinema Apollo di Ferrara il 17 maggio 1943 Ossessione fu ritirato dal Ministero della Cultura Popolare, e tornò in sala soltanto alla fine della guerra, nell’aprile 1945209. Anche un’altra opera importantissima nel territorio ricostruito dalla nostra carta fu censurata: si tratta della famosa antologia curata da Vittorini Americana (1941). La censura fascista contesta le note critiche di Vittorini e sequestra l’antologia, che Bompiani rimette in circolazione l’anno successivo, senza gran parte delle note, e con una prefazione di Emilio Cecchi (autore, nel 1939, del libro di viaggio America amara210). La presentazione di Cecchi comincia così: L’inizio della guerra 1914-1918 trovò i lettori di tutto il mondo a testa china sui romanzi russi. E l’inizio della nuova guerra, nel 1939, li ha trovati a testa china sulle novelle e sui romanzi americani211.

Sia pure edulcorata nei toni, l’introduzione mette immediatamente in rilievo, come si vede, la centralità del nuovo immaginario narrativo americano: un immaginario la cui intersezione continua tra linguaggio scritto e linguaggio visivo è rilanciata, sfogliando le pagine di Americana, dai ricchi inserti con immagini firmate dai più importanti fotoreporter americani: gli scatti di Evans anzitutto (con ventisette fotografie: «probabilmente all’origine della iconografia di Ossessione»212), ma anche foto tratte dalle riviste «Life» e «Look». (Pochissimi anni più tardi, nel 1945, avviando l’esperienza del «Politecnico»

106

Daniela Brogi

Vittorini avrebbe riproposto, con un’impaginazione modernissima, la medesima attenzione al racconto per immagini213). Attraverso la narrativa americana la scrittura guarda alla realtà, sperimentando possibilità di sguardo e forme di racconto figurativo essenzialmente nuove, e provenienti appunto dalla fotografia e dal cinema. Ora, questo cortocircuito espressivo tra la narrativa e il cinema prodotto anzitutto dal confronto con le opere letterarie e cinematografiche americane non è solo un’esperienza italiana; e soprattutto non è comprensibile dentro uno spazio circoscritto o dentro singoli circuiti culturali e disciplinari. Tutto questo, infatti, produce un territorio così granulare e nel medesimo tempo così articolato che una carta capace di collocare, accanto a Visconti e Cain anche Pavese, può creare orientamenti di spazio e di significato interessanti. Paesi tuoi, Americana, Ossessione: tutte e tre queste opere risalgono all’epoca in cui, tra il 1938 e il 1945, il fascismo impedì la circolazione del cinema americano in Italia. D’altra parte, nessuna delle tre è pensabile al di fuori di un territorio abitato anche dalla narrativa americana. Il fatto è che questo incrociarsi di contatti e interferenze è il risultato di molteplici esperienze espressive che s’incontrano molto di più di quanto possa spiegare una mappa dei contatti e dei prelievi puntuali. L’impasto di stile e immaginario con cui stiamo lavorando è fatto di mondi che si sovrappongono continuamente. Così, la letteratura italiana e francese arriveranno alla letteratura americana anche attraverso il cinema, mentre intanto anche il cinema entra, esce e ritorna dalla letteratura (pensiamo alle risonanze di The Great Gatsby – 1925 – o di Absalom,

Tra letteratura e cinema

107

Absalom – 1936 – con Citizen Kane – 1941214); oppure passa i confini attraverso di essa – esattamente come i suoi autori: se il cinema americano, all’epoca della lavorazione di Ossessione, non può entrare in Italia, circolano intanto Cain e tutte le grandi narrazioni americane da cui arriva l’uso abbagliante della luce per raccontare l’inquietudine (che casomai il cinema hollywodiano raccontava più spesso con il noir). Torniamo per esempio all’autore di Paesi tuoi, che fin dal 1931 aveva proposto ad Arrigo Cajumi un saggio sul cinema americano. Il cinema è per lui, oltre che consuetudine, toccasana della giovinezza e «intossicazione»215, soprattutto una finestra sulla narrativa americana. Rileggiamo l’attacco del saggio del 1933 su Dos Passos: Non credo di essere stato il solo in Italia a cercare il mio primo Dos Passos per la scossa provata alla visione della «Folla» [King Vidor, 1928]216.

O l’inizio del saggio su Faulkner del 1934: Il romanzo di William Faulkner (Sanctuary, Cap and Smith, Nuova York 1931), che sta per diventare di moda, attraverso la versione francese e il film «Perdizione» [St. Roberts, The Story of Temple Drake, 1933]217.

La traduzione francese di Sanctuary risale al 1933, (il medesimo anno in cui André Malraux riceve il prix Goncourt per La condition humaine), e i romanzi di Faulkner colpirono molto anche Jean-Paul Sartre, Albert Camus (che lo definì il più grande romanziere americano e portò sulla scena Requiem for a Nun), e in generale tutta la

108

Daniela Brogi

cultura francese degli anni Trenta e Quaranta. Per i giovani Faulkner è un Dio, scrisse Sartre nel 1939 (le date continuano a parlarci: è l’estate della stesura di Paesi tuoi) a proposito di The Sound and the Fury218. Proprio Malraux fu l’autore della famosa prefazione all’edizione francese di Sanctuaire (e Faulkner possedeva una copia della Condition Humaine dedicatagli da Malraux nel 1935), che si chiude così: «c’est l’intrusion de la tragédie grecque dans le roman policier»219. Nella vicenda di Sanctuary il destino, il Fato, si impone sulle esistenze dei protagonisti e, dietro di loro, su quella del paese americano. Nel 1957 anche Camus adopera questa chiave. I romanzi di Faulkner risolvono il difficile problema del linguaggio nella tragedia moderna: «comment faire parler à des personnages en veston une langue qui soit assez quotidienne pour être parlée dans nos appartements et assez insolite pour rester à la hauteur d’un destin tragique?». Proprio lo stile staccato, le frasi interrotte, le ripetizioni e i movimenti all’indietro, gli incisi e le subordinate a cascata ci offrono un esempio moderno e per niente artificiale del soliloquio tragico, che precipita la voce del personaggio negli abissi della sofferenza e del passato oscuro220. L’autore di Sanctuary aveva viaggiato in Europa e soggiornato a Parigi tra il 1925 e il 1926; i suoi critici hanno sottolineato come certe tecniche faulkneriane del montaggio, o certe tecniche di costruzione del racconto per immagini, nascano proprio dalla visione ammirata dei film di Griffith o di Ejzenštejn – al quale, per esempio, molto deve un romanzo come The Wild Palms (1939). Ma tra i molti registi apprezzati da Faulkner ce ne interessa particolarmente uno: Renoir (nel 1945 lavoreranno assieme a

Tra letteratura e cinema

109

Hollywood, per la sceneggiatura di The Southerner)221. Renoir: proprio colui che, come abbiamo visto, aveva procurato a Visconti il testo di The Postman. 7. Riguardando il territorio attraverso la carta di riferimenti, di rispondenze e di incroci ricostruita fin qui, il nome di Faulkner fa tornare in vita anche la definizione di Pavese come «Faulkner delle Langhe» collaudata da Contini nell’Introduzione alla Cognizione del dolore222. Contini ha in mente «la compenetrazione gergale e regionale di monologo interiore e di color locale», eppure l’espressione può acquistare maggior profondità (probabilmente la profondità di partenza) e disvelare, attraverso l’attenzione alla forma, una maniera complessiva di costruire il racconto che libera la lingua di Pavese dalle zavorre critiche della particolarità dialettale: «dalle pagine dure e bizzarre di quei romanzi, dalle immagini di quei film, venne a noi la prima certezza che il disordine, lo stato violento, l’inquietudine della nostra adolescenza e di tutta la società che ci avvolgeva, potevano risolversi e placarsi in uno stile», aveva scritto, per l’appunto, Pavese. E scrive ancora, ritornando proprio su Faulkner, dopo l’articolo del 1934, il 28 maggio 1940 – a nove mesi dalla stesura di Paesi tuoi: Le immagini di Faulkner (Sanctuary) sono modi di dire dialettali e immaginosi – tipo «a l’è fol côme na vaca ‘n bici» –. Per es.; gli occhi del vecchio sordo «come voltati all’interno e mostranti il deretano dei globi» o Temple che pensa di diventare uomo e sente l’impressione di un tubo che rivolta come il dito di un guanto – flop! – Sono insomma l’immagine elisabettiana: «Fate is a spaniel we cannot beat it from us». Sono

110

Daniela Brogi

immagini narrative, non contemplative, che sostituiscono all’oggetto un’evidenza espressiva; le immagini che creano la lingua (ad-ripare, arrivare)223.

Parole e immagini ricreano un territorio dove gli autori ripensano come raccontare attraverso «immagini narrative, non contemplative», intanto che leggono romanzi e vanno al cinema. The Postman Always Rings Twice, Paesi tuoi e Ossessione possono dunque ritrovare collocazione in una “carta del territorio” più interessante. Al suo interno trova coerenza di sistema anche il gesto di Renoir che passa a Visconti la traduzione francese di The Postman.

C APITOLO III

IL RITRATTI DELLO SCRITTORE DA PARTIGIANO : « FAUSO E ANNA », DI C ARLO C ASSOLA *

La guerra partigiana è descritta benissimo, è – come sempre tu sai fare – un quadro d’una fedeltà impressionante. E anche le reazioni di Fausto sono vere; ma ciò non toglie che non le posso soffrire, che non consento. ITALO CALVINO a CARLO CASSOLA, 5 febbraio 1958 Si chiacchiera da venti anni sulla Resistenza, ciò che fu, che avrebbe dovuto essere, che non fu ecc., ma intanto l’unico libro che l’abbia descritta, fatta vivere, è Fausto e Anna di Cassola. E naturalmente hanno detto che era un libro fascista. R O M A N O B I L E N C H I , Bello, chi l’ha scrit to?, «La Fiera Letteraria», XLII, 40 (5 ottobre 1967)

1. «Fausto e Anna» e la narrativa della Resistenza Possiamo affermarlo senza paura di sbagliare: guardando al paesaggio nel suo insieme, le narrazioni più indimenticabili della Resistenza, quelle che più hanno colpito l’immaginario collettivo, sono quelle raccontate dal grande cinema italiano neorealista. Questo dato, naturalmente, non va trasformato in un pronunciamento estetico inappellabile. Né significa, per esempio, che manchino romanzi importanti sugli eventi successivi all’Otto * Per le citazioni da Fausto e Anna uso la sigla FeA, che rimanda a C. Cassola, Racconti e Romanzi, a cura e con saggio introduttivo di Alba Andreini,

112

Daniela Brogi

Settembre, ma il fatto è che, mentre per il cinema è possibile parlare di un’intera stagione di capolavori, come se, al di là dei risultati individuali, il linguaggio cinematografico fosse più congeniale, di per sé, al racconto dell’esperienza della guerra di Liberazione, nel campo della prosa si registrano piuttosto casi isolati come Il sentiero dei nidi di ragno, Fausto e Anna, Una questione privata, Il partigiano Johnny, I piccoli maestri: tutti testi, a parte quello di Calvino, stesi da autori la cui biografia ha in qualche modo seguito un analogo destino di solitudine, di eccentricità. Se poi guardiamo alle ragioni di tale fenomeno, uno degli aspetti importanti da considerare riguarda la capacità di espressione di uno shock come la guerra che, molto più di un discorso di parole, può avere un discorso per immagini. E così la sequenza di Anna Magnani che viene abbattuta a colpi di mitra mentre rincorre il camion di tedeschi che hanno appena arrestato il suo uomo ci consegna la scena madre della narrativa della Resistenza: non solo perché ci commuove, ma perché quella morte così improvvisa, così insensata, blocca il nostro sguardo, e ci racconta come l’orrore, in un attimo, può azzerare tutta una vita. «Quasi emblema, ormai, l’urlo della Magnani, / sotto le ciocche disordinatamente assolute, / risuona Mondadori, Milano 2007 (il testo seguito è quello della prima edizione: Einaudi, Torino 1952). Alla fine delle citazioni si segnala la Parte del romanzo, seguita dai numeri di capitolo e di pagina; il corsivo dei passi citati è mio. Impiego la medesima sigla – seguita unicamente dal rinvio alla pagina – anche per far riferimento ai materiali critici e filologici a cura di Andreini. Grazie a Luca Lenzini e Elisabetta Nencini, ho direttamente consultato il carteggio Cassola-Fortini presso l’Archivio Fortini della Biblioteca della Facoltà di Lettere dell’Università degli Studî di Siena. Ho potuto rintracciare molti dei testi su cui ho lavorato grazie all’aiuto di Ilaria Betocchi, responsabile del Prestito Interbibliotecario della medesima istituzione.

Il ritratto dello scrittore da partigiano

113

nelle disperate panoramiche, / e nelle occhiaie vive e mute / si addensa il senso della tragedia»224. È vero però che questa potentissima capacità di racconto del cinema non vale in senso assoluto, perché resistono, malgrado tutto, forme di esperienza che solo una narrazione di parole cattura così bene. Una di esse è quella raccontata nel ventiseiesimo capitolo della Parte Terza di FeA. Siamo verso la metà di giugno del 1944, a pochi giorni dalla Liberazione di Roma e dallo sbarco in Normandia; solo qualche settimana ancora e gli Alleati sarebbero arrivati in Toscana, dove è ambientato il romanzo; la vicenda si svolge nelle zone tra la Maremma e l’Alta Val di Cecina; la ritirata tedesca è in pieno corso, ma proprio questo fu il periodo in cui si consumarono, com’è noto, alcuni degli scontri e dei massacri di civili più violenti. Fausto, il protagonista del romanzo di Cassola, da alcuni mesi è entrato in una brigata partigiana. Una notte, mentre assieme a ventisette compagni sta andando a piazzare dell’esplosivo sotto un ponte (sulla statale Montieri – Massa Marittima225), improvvisamente, a una svoltata, Fausto si trova faccia a faccia con la guerra: su una strada che fino a un centinaio di metri prima era stata protetta da un bosco ma che adesso invece corre tra un prato e una scarpata brulla, sbucano tre automezzi tedeschi e immediatamente parte il fuoco. A un tratto gli spari cessano. I partigiani, confusi, restano ad ascoltare per conoscere il risultato. «Urli e lamenti: questa fu la risposta. Per dieci secondi i partigiani rimasero fermi in silenzio ad ascoltare gli urli e i lamenti dei tedeschi massacrati» (FeA, III, XXVI, 436). «Massacrati» dice il testo, e lo ripete poco sotto, secondo un atteggiamento di condanna della violenza che orienta buona parte del

114

Daniela Brogi

racconto; nondimeno, un aggettivo così enfatico, in questo caso, contiene e amplifica anche il terrore di chi, all’improvviso, si rende conto di aver ucciso qualcuno226. Il fuoco riparte, e di nuovo cessa. I partigiani cominciano a chiamarsi, a gridare. Sono «smarriti»: per l’angoscia di quanto è appena accaduto, ma anche perché stanno correndo un pericolo enorme. Si sa: appena arriveranno i soccorsi tedeschi i superstiti saranno immediatamente uccisi. (Proprio questo episodio, che come la gran parte del romanzo recupera fatti realmente vissuti da Cassola, è stato spesso impiegato per spiegare l’origine di una rappresaglia tedesca contro un’ottantina di operai della miniera di Niccioleta, nei pressi di Massa Marittima, e più di altre cento persone, tra civili e partigiani227. Un eccidio che, come i molti altri che si consumarono in Toscana in quel mese, diventa storicamente comprensibile se smontiamo la frase fatta della «ritorsione punitiva», per riferirci piuttosto alla strategia del terrore freddamente perseguita dal comando generale germanico). Anche se non ha mai ucciso nessuno fino a questo momento, Fausto, come i suoi compagni, conosce la ferocia della guerra. E sa che dove passano i nazifascisti resta solo terra bruciata. Insomma: ci sarebbe solo da scappare prima che si può, perché il partigiano «”rischia” qualcosa di molto diverso rispetto a chi forza un blocco e a chi pratica il contrabbando. Egli rischia non solo la propria vita, come ogni combattente regolare. Sa, e non fa niente per evitarlo, che il nemico lo considera al di fuori di ogni diritto, legalità e onore»228. Fausto però non scappa, ma fa qualcosa che, in un certo senso, tradisce l’idea che fino a questo punto il lettore si era fatta di lui. Per ragioni che indagheremo più avanti, l’autore di FeA compie infatti una

Il ritratto dello scrittore da partigiano

115

sorta di sabotaggio continuo della vicenda partigiana del suo eroe. Concentrando il fuoco del racconto sulla spirale di dubbi che risucchia il personaggio in una condizione permanente di colpa e di tormento, la voce narrante tende a depistare l’attenzione sull’insicurezza di Fausto, con il risultato di produrre un’apparenza complessiva di incapacità all’azione, e lasciando sullo sfondo la realtà effettiva della storia narrata. In questo caso, per esempio, il comportamento di Fausto non ha nulla di fragile, e assomiglia piuttosto a quello di un eroe: anche se è arrabbiato per come sono andate le cose e maledice «il momento in cui era andato partigiano» (FeA, III, XXVI, 439), invece di darsi alla fuga, come gli altri, Fausto rimane accanto a un compagno assurdamente colpito dal “fuoco amico”, Chiodo, che sanguina ovunque e ha tutta l’aria di essere spacciato («muoio, Fausto… muoio…» – dice tutte le volte che riesce a parlare). Le condizioni disperate di Chiodo potrebbero al limite rappresentare un motivo in più per non star lì ad aspettare di essere ucciso. Ma Fausto resta: anche se è disperato resta, conforta Chiodo, chiede aiuto; mentre un altro partigiano dichiara di andare a cercare un mezzo di trasporto e si dilegua velocemente, come chi ha tutta l’aria di non tornare più, Fausto realizza che gli toccherà rimanere da solo col ferito per chissà quanto tempo, e viene preso dal panico. Sfilano quattro, cinque ombre di fuggiaschi e Fausto tenta inutilmente di fermarli, finché, usando un tono risoluto, blocca un partigiano, Canguro, e lo costringe a promettere che non abbandoneranno Chiodo, «qualunque cosa accada»: Chiodo, che da qualche minuto taceva, ricominciò a gemere. Prima fu solo un gemito, e poi prese la forma di parole:

116

Daniela Brogi

«Fausto, Fausto, muoio… Non mi lasciare, muoio…» «No, no. Sta’ calmo. Non è nulla, guarirai, sta’ calmo, Chiodo» e gli fece una carezza. «Non mi lasciare, Fausto…» «Non ti lascio, non aver paura. C’è anche Canguro, lo vedi. Ora viene Maestro col barroccino, e ti portiamo via. Stai tranquillo, caro» disse Fausto disperato, e gli premette la mano sui capelli. E Chiodo si calmò. […] [FeA, III, XXVI, 439]

Passano le ore, mentre arrivano in lontananza i lamenti strazianti dei tedeschi che stanno morendo. Fausto capisce che, se gli aiuti non arrivano in tempo, «si sarebbero trovati in una situazione tragica». Canguro invece appare tranquillo, si rimette agli ordini di Fausto, sembra non avere paura, come non si ha paura accanto a un capo: «egli non pensava a nulla, c’era Fausto che pensava per lui» (FeA, XXVI, 441). È a questo punto che arriva la scena che più ci interessa. Più che una scena, potrebbe essere definita un “fermoimmagine”, eppure, malgrado l’espressione, rimanda a qualcosa che solo un racconto di parole può esprimere. Lasciamo spazio al testo: Poi, per un bel pezzo, tacquero entrambi. Anche i tedeschi tacevano, e Chiodo continuava a essere assopito. Ogni tanto mugolava qualcosa, e tornava ad assopirsi. Canguro non pensava a nulla: aspettava. In Fausto invece la tensione dell’attesa si allentò, e i suoi pensieri divagarono. Pensava che Chiodo era stato sul punto di essere acquistato dalla “Juventus” e che somigliava all’attore tedesco Luis Trenker…

Il ritratto dello scrittore da partigiano

117

I suoi pensieri divagavano, ma la sua anima continuava a essere schiacciata dal dolore e dalla disperazione. [FeA, III, XXVI, 441-442]229

Siamo all’inferno: in mezzo ai corpi uccisi dei compagni, con Chiodo che sembra sul punto di spirare, mentre in lontananza i tedeschi agonizzano, e da un momento all’altro potrebbe arrivare la morte anche per il protagonista. Tutto intorno c’è un silenzio di tomba. Canguro, come si capirà più avanti, non dà segni di reazione perché è scioccato, e il ricordo di quella situazione non lo lascerà mai più. E qui accade quello che difficilmente potremmo vedere al cinema: tutto è immobile eppure tutto è, al tempo stesso, in movimento. La coscienza di Fausto percepisce, in simultanea, immagini e impulsi di segno opposto: la sua anima è schiacciata dal dolore; la sua mente sorveglia la realtà; ma al tempo stesso il suo pensiero divaga, fa una capriola al di sopra dell’orrore, cerca un punto di fuga dalla morte. E lo trova nel ricordo di un dettaglio futile sepolto nella memoria: «pensava che Chiodo era stato sul punto di essere acquistato dalla “Juventus” e che somigliava all’attore tedesco Luis Trenker…». Sembra assurdo, paradossale, ma a pensarci è una scena dai contenuti potenti. Proprio attraverso questa deviazione dalla corrente degli eventi, il personaggio di Fausto riafferma la sua soggettività, rivendica un diritto all’esistenza contro l’intrusione della vita. Il mondo dell’interiorità e di un tempo ritrovato dalla memoria ristabiliscono una vitalità divagando dal mondo esteriore del male e della disperazione. Non è fuga: è istinto di sopravvivenza. All’azione del trauma della guerra, che il cinema neorealista ha messo in scena così portentosamente,

118

Daniela Brogi

fa seguito la reazione dei pensieri che tentano di gestire, di rielaborare questo trauma, secondo un movimento in simultanea di pause, di passaggi, di proiezioni tra passato e presente che, malgrado tutto, nessun testo come un racconto di parole può far rivivere meglio. Anche il protagonista del romanzo più bello della Resistenza – Una questione privata – costruisce un punto di fuga dalla guerra divagando, e questa non è l’unica simmetria tra il libro di Cassola e quello di Fenoglio. Entrambi i protagonisti sono posseduti da un amore nutrito principalmente di ossessioni mentali e letterarie («Lo sai che se cesso di pensarti, tu muori istantaneamente?»230). Scoprire cosa è veramente successo tra il suo miglior amico e la donna di cui è innamorato diventa per Milton l’unica paradossale forma di resistenza: «la verità su Fulvia aveva la precedenza assoluta, anzi esisteva essa sola»231. In realtà, le differenze tra i due romanzi sono molte, ed è opportuno nominare almeno le più eclatanti: attraverso la passione per Fulvia, Milton inscena un sentimento di fedeltà all’esistenza che la narrazione afferma in maniera così anarchica e assoluta da trasformare la condizione del personaggio in un destino epicocavalleresco: la questione di Milton diventa la questione del lettore. Anche noi, assieme a Milton, cerchiamo somewhere over the rainbow232. L’amore per Anna invece è, prima di tutto, lo schermo su cui il romanzo di Cassola proietta i limiti di Fausto. Il punto di vista da cui si racconta la vicenda non è solidale col personaggio: la vicenda del protagonista di FeA è una vicenda di isolamento: all’interno come all’esterno del testo. Ciò nonostante, è come se il romanzo di Cassola e quello di

Il ritratto dello scrittore da partigiano

119

Fenoglio stessero dalla medesima parte: quella lontana dalle «parole d’ordine vittoriniane»233, opposta alla retorica dei «ricordi di vita partigiana», e questo spiega anche perché, almeno fino a un certo punto, i due autori abbiano condiviso un medesimo destino editoriale di sfortuna. Attraverso la guerra solitaria di Fausto e di Milton, Cassola e Fenoglio narrano la Resistenza interrogandosi anzitutto sul valore esistenziale di quella tragedia storica: un’esperienza di grandezza e solitudine, per usare le parole di un saggio scritto da Cassola nel 1973, come introduzione al Meridiano di Thomas Hardy234: uno degli scrittori più amati da Cassola, l’autore di Tess of the d’Ubervilles, il romanzo che Milton aveva regalato a Fulvia, «dissestandosi per una quindicina» (Una questione privata, cap. II)235. Dopo un’analoga vicenda di tentativi falliti e di porte chiuse236, Cassola e Fenoglio debuttano come autori Einaudi nel medesimo anno e nella medesima collana: nel 1952, nei famosi «Gettoni», pubblicando rispettivamente FeA (numero otto della collana; il numero nove sarà Il visconte dimezzato, di Calvino) e I ventitré giorni della citta di Alba (numero undici). Entrambi i testi saranno stroncati dalla sinistra ufficiale, accusati di «gretta acredine filistea»237. Fenoglio, com’è noto, muore nel 1963, poco tempo prima dell’uscita, non per Einaudi ma per Garzanti, di Una questione privata. All’anno successivo, il 1964, risale un testo che aprirà una forbice definitiva tra i romanzi sulla Resistenza scritti da Cassola e da Fenoglio: la Prefazione di Calvino alla nuova edizione de Il sentiero dei nidi di ragno. Citata, a legittimo titolo, in ogni lavoro sulla narrativa della Resistenza, la prefazione rappresenta a tutt’oggi un testo dai contenuti poco valorizzati non

120

Daniela Brogi

tanto in quanto «autobiografia d’una generazione», o testimonianza del «clima generale238 del dopoguerra, ma in quanto documento fondamentale di storia della critica letteraria, soprattutto per due insiemi di ragioni. In primo luogo perché il testo ci parla, ancor più del momento storico che descrive, dell’epoca in cui viene scritto, ovvero degli inizî degli anni Sessanta: siamo al di là della stagione della guerra fredda, in un periodo in cui si comincia a guardare in modo nuovo alla Resistenza, secondo un atteggiamento dove «si coglie tutta la distanza tra la stagione delle memorie e della vittoria, ossia l’immediato dopoguerra, e quella del ripensamento e del sentimento dell’inutilità, che ha inizio grosso modo dopo la metà degli anni Cinquanta, quando viene scritto il Partigiano Johnny»239; al tempo stesso, si è ormai sfaldato il «processo di introiezione della cultura dello schieramento», di cui aveva parlato lo stesso Calvino nel suo intervento alla Commissione culturale del P C I del luglio 1956240. Siamo in presenza di uno spirito così mutato da far giungere Calvino a scrivere cose che difficilmente avrebbe ammesso dieci anni prima, all’epoca dei giudizi stroncatori su FeA241. Riconsiderando le tematiche del Sentiero, l’autore parla persino della «smania di innestare la discussione ideologica nel racconto242 (a proposito delle riflessioni di Kim nel capitolo nono del Sentiero). È, insomma, l’epoca di un gusto nuovo; e di un nuovo modo di guardare all’esperienza della Resistenza di cui si ha un riscontro nell’uscita, sempre nel 1964, di un romanzo dal taglio così antieroico come I piccoli maestri – ma il principio regolativo degli eroi a rovescio di Meneghello, il codice dell’ironia, è del tutto assente in Cassola. (Un’altra storia, che qui si può solo sottintendere, senza per questo

Il ritratto dello scrittore da partigiano

121

sottovalutarla, riguarda poi l’influsso enorme esercitato dalla cinematografia sulla messa a punto di questo nuovo sguardo sul passato bellico: mi limito a ricordare titoli come La Grande Guerra, di Monicelli e Il generale Della Rovere, di Rossellini – entrambi del 1959; La lunga notte del ’43, di Vancini, e Tutti a casa, di Comencini (1960); Il federale (1961), di Luciano Salce, o La marcia su Roma, di Dino Risi, del 1962). La Prefazione 1964 al Sentiero ci parla, insomma, della trasformazione del contesto ideologico e letterario della cultura italiana. Vi è però una seconda importante serie di ragioni per cui la nuova prefazione al Sentiero fa epoca e ha un valore critico decisivo. Con questo testo, divenuto così celebre e citato nel corso degli anni, Calvino – come già è stato osservato243 – fissa in una sorta di dogma l’identità tra letteratura della Resistenza e Neorealismo. Ma c’è di più: la Prefazione 1964 fissa il canone dei temi e degli autori della Resistenza: «avevamo vissuto la guerra, e noi più giovani […] non ce ne sentivamo schiacciati, vinti, “bruciati”, ma […] depositari esclusivi d’una sua eredità»244. Proviamo allora a indicare i requisiti più importanti di questo presupposto di appartenenza: la tensione morale del racconto245; la guerra come esperienza vitale e umana fondamentale piuttosto che come esperienza di morte; l’entusiasmo e la «spavalda allegria» come tonalità dominante del discorso; l’affinità coi moduli della narrazione orale e con la corrente del neorealismo; la conformità – più di schieramento che di sostanza – con un «realismo [che] doveva essere il più possibile distante dal naturalismo» (siamo nel 1964: il medesimo anno in cui Renato Barilli pubblica La barriera del Naturalismo246); la centralità del paesaggio; l’importanza di una scrittura il più possibile

122

Daniela Brogi

staccata dai rischi dell’autobiografismo, più attenta alle verità collettive che a quelle private («l’ultima generazione non ha tempo di costruirsi il dramma interiore: ha trovato il dramma esteriore perfettamente costruito»247); e, sul fronte degli autori, il richiamo alla famosa linea genealogica «I Malavoglia, Conversazione in Sicilia, Paesi tuoi», che trova rigoglio e compimento araldico nella «stagione che va dal Sentiero dei nidi di ragno a Una questione privata»248. Fenoglio ormai è morto; Cassola è come se lo fosse: con La ragazza di Bube (1960) e con l’ostracismo che ne seguì249 è fuori, definitivamente, dal canone della narrativa della Resistenza. A più di mezzo secolo dalla prima edizione di FeA, dopo la riproposizione, nei Meridiani, e per le cure di Andreini, dei Racconti e romanzi di Cassola, vale allora la pena di rileggere – o leggere davvero – questo romanzo, liquidato troppo velocemente per i suoi contenuti poco allineati con la vulgata ufficiale dei racconti sulla Resistenza: Dopo il secondo rancio aveva preso l’abitudine di portarsi sul crinale, e fumarsi una sigaretta in vista di San Ginesio. L’ultimo sole arrossava il bastione di case e i picchi sottostanti. “Ho ventisette anni” pensava Fausto. Gli pareva che la banale constatazione mettesse ordine nelle confuse vicende della sua vita. “Ho ventisette anni e sono un partigiano della 93° brigata Garibaldi”. Cominciò a montarsi con nomi e frasi: “Dodici anni fa portavo ancora i calzoni corti. Ora indosso un’uniforme, porto un’arma a tracolla e faccio la guerra. Quante cose sono accadute in questi dodici anni!”. Gli faceva piacere pensare che tante cose fossero accadute nella sua vita. Si mise a enumerarle. Aveva amata una donna, ma lei si era stancata della sua gelosia e aveva sposato un altro. “Mi sono laureato. È

Il ritratto dello scrittore da partigiano

123

scoppiata la guerra. Sono diventato comunista.” Ma quest’ultima asserzione manifestatamente non corrispondeva a verità, e Fausto si affrettò a correggerla: “Ho creduto per un momento di essere comunista, ma poi mi sono accorto che non lo ero”. Cos’era allora? “Sono un partigiano. Non sono nulla, assolutamente. Sono un uomo. Vivo, amo. Ma che cos’è la vita? Che cos’è l’amore? “Ho ventisette anni” ripeté; ma con quella frase non riusciva più a far presa sulla complicata vicenda di eventi e di sentimenti che fluivano in lui e intorno a lui. [FeA, III, XXIV, 431-432]

2. Storia di «Fausto e Anna» Gl’impegni che, come si dice, oggi uno scrittore deve assumere di fronte alla società, alla cultura ecc., mi spaventano alquanto. Non credere che lo dica per posa, ma sono cosciente della limitatezza dei miei mezzi e, del resto, i libri che amo di più sono libri “minori”, [aggiunto a mano: «libri che non hanno un’ambizione culturale,»] come per esempio Dublinesi, che ho letto e riletto non so più quante volte, mentre non ho mai sentito l’impulso di prendere in mano Ulisse. […] Ti confesso che la recensione a Fausto e Anna su “Comunità” mi amareggiò molto. Mi sembrò ingiusta; e sebbene sappia che molti altri hanno giudicato il libro in quel modo, penso tuttora che abbiate sostanzialmente torto». CARLO CASSOLA a FRANCO FORTINI, 31 agosto 1955

2.1. Carlo Cassola era nato nel 1917, come il suo amico Franco Fortini. I principali testi scritti prima di FeA sono due raccolte di racconti brevi uscite nel 1942 – Alla

124

Daniela Brogi

peri feria e La visita 250; e i primi racconti lunghi: Baba, Rosa Gagliardi (risalgono entrambi al 1946), e Il taglio del bosco (1949)251. FeA è dunque il primo romanzo di Cassola; «il mio solo romanzo autobiografico» – ricorderà spesso l’autore –, ed è dalla spiegazione di questo dato che occorre ripartire per comprendere la genesi del libro. Due eventi tragici, uno pubblico e uno privato, sono infatti all’origine della stesura: la Resistenza; e, nel 1949, la morte della moglie, alla quale è dedicato il romanzo. «Alla memoria della mia Rosa», si legge in esergo, e l’espressione solo apparentemente è da sorvolare, perché piuttosto introduce, attraverso il termine «memoria», la parola chiave per capire le strategie del testo. FeA è un libro scritto da un uomo di trentacinque anni che intende risistemare, attraverso il ricordo, il significato e il peso delle due vicende che più hanno condizionato la sua vita. La scrittura, nelle intenzioni dell’autore, non vale come testimonianza, ma come spietato esame di coscienza: così deliberato da sconfinare nell’ipercorrettismo, tanto la narrazione è impegnata a mortificare ogni rischio di autocelebrazione: Ne abbiamo passate tante» disse, «passeremo anche questa.» E cominciò a tirar fuori i suoi ricordi di vita partigiana: disarmo di fascisti e di tedeschi, requisizioni di viveri, rastrellamenti ai quali era sfuggito per miracolo, atti di sabotaggio. Fausto lo ascoltava con la pazienza con cui si ascoltano sempre i racconti dei combattenti (sono racconti che non interessano e che annoiano, ma nessuno ha mai avuto il coraggio, da che mondo è mondo, d’interrompere un combattente quando fa il racconto delle sue peripezie e delle sue prodezze). [FeA, III, XXV, 434]

Il ritratto dello scrittore da partigiano

125

È un passaggio che colpisce: spiega molto bene alcune strategie testuali di FeA sulle quali torneremo; intanto però vale la pena di osservare che il brano citato sembra perfetto per dar ragione, definitivamente, ai molti lettori che a suo tempo accusarono FeA di «aver diffamato la Resistenza»252. C’è però un dato forte, pesante, con cui non si è mai misurato questo genere di critica tranchante (e l’espressione va intesa nel senso più letterale possibile visto che, a più di mezzo secolo, questo lavoro è il primo studio interamente dedicato a FeA). Il dato è questo: quelle stesse peripezie e prodezze raccontate di solito dai reduci di combattimento e messe a distanza sia dall’eroe che dallo scrittore di FeA, appartengono precisamente al genere di peripezie e prodezze di cui il partigiano Carlo Cassola fu protagonista. Leggiamo una fonte storica: [una volta che la compagnia partigiana si fu accampata] criterio generale di utilizzazione delle forze fu che, rimanendo una parte di esse negli accampamenti con il compito di avvistamento e di protezione, l’altra parte dovesse eseguire azioni di sabotaggio e militari; le squadre si sarebbero alternate, naturalmente, nello svolgere i due compiti. Gli uomini pratici di esplosivi (fra cui due ex prigionieri di guerra inglesi) furono, però, riuniti in una squadra chiamata E (esplosivi); caposquadra fu nominato il Ten. Carlo Cassola ‘Giacomo’; vice caposquadra il S. ten. Sandro Contini Bonacossi ‘Vipera’: “Ambedue [si cita dalla Relazione sull’attività svolta dalla 23° Brigata Garibaldi «Guido Boscaglia»] si distinsero per la perizia con la quale assolsero il compito di istruire gli uomini, di preparare gli esplosivi e montare le armi”. Alcuni esplosivisti, oltre che ad azioni di sabotaggio, parteciparono anche a combattimenti contro i tedeschi253.

126

Daniela Brogi

In qualità di Caposquadra della Seconda Compagnia della 23° Brigata Garibaldi254 – il distaccamento «Guido Boscaglia»255 – Cassola partecipò a molte azioni importanti e pericolose, svolgendo anche incarichi di stretta collaborazione coi capi della Brigata: sappiamo, per esempio, che dopo l’arrivo degli Alleati nelle zone presidiate dalla sua Compagnia fu Cassola a recarsi a Roma, assieme a due Comandanti di Brigata, per chiedere l’autorizzazione di continuare a combattere256. Né l’affiliazione politica al P C I e la provenienza marxista-proletaria della maggior parte dei compagni di battaglia257 produsse, sul piano della prassi, le oscillazioni e i contraccolpi narrati più tardi in Fausto e Anna: «finché c’era da combattere il fascismo, finché questa era la principale finalità dell’azione politica, chiunque la combattesse andava bene, qualunque fosse il motivo per cui lo combatteva. Non sarò quindi io a sminuire l’apporto comunista all’antifascismo»258. Molti degli episodi di vita partigiana descritti in FeA hanno un immediato riscontro nella realtà storica della Resistenza. Quello che però non è affatto passato, dall’esperienza diretta alla riscrittura letteraria di quell’esperienza, è proprio la dimensione epica di quel sentimento di condivisione della battaglia259: «ci affratellava il pericolo. Correvamo gli stessi rischi. Se avessero messo le mani su di noi, i nazifascisti non sarebbero stati a guardare che io ero un professore e gli altri degli operai […]»260. (E non sempre era vero, perché le ritorsioni contro i prigionieri borghesi potevano essere molto più cruente, come ci racconta anche FeA261). Malgrado partecipi ad azioni eroiche, il protagonista di FeA non è mai rappresentato come un personaggio altomimetico; il registro dominante del racconto è quello della constatazione262,

Il ritratto dello scrittore da partigiano

127

dell’osservazione senza partecipazione: la Resistenza non è narrata ma descritta. Tra la vita interiore di Fausto, da un lato, e le sorti della guerra, dall’altro lato, si consuma una disarmonia piuttosto che una coincidenza. Già in Baba (1946), dove per la prima volta Cassola recupera il vissuto della Resistenza (il racconto sarà ripreso pressoché integralmente in FeA263), questa idea dell’esistenza come senso continuo della disarticolazione dell’io in parti discordanti, era stata presa alla lettera, convertita in sintassi narrativa, perché il protagonista dapprima prende la decisione di “andare nei partigiani” (§XII) e poi invece si rifugia a Roma (§XIV), senza che il racconto offra alcun elemento di raccordo tra questi due eventi, che vengono semplicemente disposti in sequenza, evitando ogni spiegazione264. Baba esce a puntate sul «Mondo» nell’estate 1946. Commentando quell’anno Cassola scriverà: Smobilitai. Cominciai col dimettermi dal Partito d’Azione pochi giorni prima delle prime elezioni democratiche, quelle del 2 giugno 1946. Cercai di convincermi che solo la letteratura faceva per me. Alla letteratura mi dedicai con impegno265.

«Cercai di convincermi che solo la letteratura faceva per me»: non siamo in presenza di un autore che indulge a pose ermetiche attardate, compiacendosi di una prosa che si appaga di se stessa, ma di uno scrittore che si rivolge solo alla letteratura, accantonando il resto, per punto di «impegno». Chi è andato nei partigiani, continua a vivere e muore da partigiano, odiando chi non parteggia266. L’anno dopo, nel 1947, Cassola incontra Luciano Bianciardi, con il quale condividerà, per tutti gli anni

128

Daniela Brogi

Cinquanta, una stagione di intensa militanza politica, con il Movimento di Unità popolare: «Luciano e Cassola stavano sempre in giro con una macchinetta a fare comizi. Uno [Cassola] sbraitava sempre, era molto impulsivo, l’altro, Luciano, parlava disteso, ironico»267. Insomma: stando alle dichiarazioni e alle testimonianze, la personalità del protagonista di FeA, così costellata di scelte impulsive, di passioni represse e di rifiuti volontaristici, recupera non pochi tratti dell’autore (che, non dimentichiamolo troppo, combatteva piazzando esplosivi). Anche questo tipo di rispondenza autobiografica può contribuire a far dialogare due mondi che sembrerebbero così lontani come la realtà storica della partecipazione attiva di Cassola alla Resistenza e la realtà letteraria di un racconto così orientato – impegnato sarebbe il sostantivo migliore – all’understatement268. La scrittura diventa il campo decisivo di combattimento tra questi due antagonisti; mentre la memoria, intesa come riconsiderazione, ricostruzione dell’esperienza a distanza di tempo, agisce come detonatore decisivo per far saltare in aria la trama dei fatti, delle sicurezze politiche («smobilitai»), e delle date storiche. Leggiamo alcuni passi di una lettera a Fortini: Tu una volta mi hai detto di esser nato l’8 settembre del ’43. Nello stesso tuo senso, io potrei dire di esser nato il 23 marzo del ’49, quando morì mia moglie (naturalmente anche l’8 settembre con quel che seguì aveva rappresentato una bella scossa). Ma la scossa decisiva fu la morte di mia moglie. Allora tutto il passato mi sembrò disgustoso, e decisi di diventare un altro uomo. Anche un altro scrittore, quindi. Non volevo più aver niente a che fare con l’adolescente che

Il ritratto dello scrittore da partigiano

129

ero stato fino ad allora. […] Mi sembrò che avesse ragione mia moglie che non credeva in me come scrittore perché, diceva, mi mancava il cuore. In questo stato d’animo scrissi «Fausto e Anna»269.

Adesso diventa chiaro perché la definizione di FeA come romanzo autobiografico scritto in memoria della moglie sia il cuore del problema. I riscontri della storia personale – la morte di un amore, la Resistenza – non agiscono soltanto sui materiali di FeA ma, soprattutto, sulla trasformazione di quei materiali in un dispositivo metaforico, ovvero in un testo letterario. A questo livello, la perdita della moglie si rovescia sull’esperienza della guerra, orientandone un ripensamento in chiave critica ed espiatoria: «tutto il passato mi sembrò disgustoso». Attraverso gli strumenti principali della trama e del punto di vista narrativo Fausto («l’adolescente che ero stato fino ad allora») sarà sottoposto a una messa in discussione spietata, condotta dall’autore anche a costo di realizzare una contraffazione del proprio contributo alla Resistenza. Sembra che nessuno lo abbia notato finora: forse l’indizio più piccolo e nascosto, ma significativo, di questo processo di rimescolamento delle carte è rappresentato dal camuffamento di un numero: quello più importante e più indimenticabile di tutti per un partigiano, ossia il numero della propria brigata. Il tenente Carlo Cassola, con lo pseudonimo di “Giacomo”, aveva combattuto nella 23° Brigata. Il personaggio Fausto Errera, con lo pseudonimo di “Topo”, farà parte della 93° Brigata270. La scrittura di FeA si pone dunque per Cassola come atto deliberato di riaffermazione di una verità controcorrente:

130

Daniela Brogi

contro se stesso, contro il senso comune, ma anche contro le parole d’ordine schierate dalla cultura italiana degli anni Cinquanta, tanto in politica, quanto in letteratura: nella seconda parte di Fausto e Anna, come mostro l’impegno dell’intellettuale nella Resistenza? O come un disimpegno di fatto o come un impegno di tipo morale, che i marxisti chiamano moralistico e quindi condannano. I marxisti intendono per impegno una consapevolezza etico-politica che in Fausto non c’è mai […]. La critica ideologica commette sempre l’errore di non dare nessuna importanza alla storia personale: per essa l’individuo è un accidente trascurabile, esiste solo la società. Le cose stanno esattamente all’opposto, esistono solo gl’individui, ciascuno con la sua storia personale, diversa da quelle degli altri271. […] «dopo Proust e Joyce non si può tornare a scrivere come nell’Ottocento» mi diceva Bilenchi. Il neorealismo ci chiedeva appunto questo, di tornare a scrivere come i naturalisti di fine Ottocento. Non ce la sentivamo proprio di sostituire Proust e Joyce con Zola e Bourget. Accadde così che quello che scrivevamo non fosse preso in considerazione. Io ho accumulato una decina di rifiuti editoriali per racconti come Baba, Rosa Gagliardi, Le amiche, Il taglio del bosco e per un romanzo come Fausto e Anna […]272.

Il lutto della moglie è l’evento scatenante di questa rivendicazione di individualità, che matura ed esplode con la morte della persona amata, ma certamente arriva da una storia di solitudini e da una poetica molto più lontane, e produce un ribaltamento di prospettiva del tutto “fuori

Il ritratto dello scrittore da partigiano

131

canone”: poco convincente se resta una didascalia d’autore273, molto più interessante e originale quando invece si riconverte in tecnica di composizione dei piani narrativi. Rileggiamo, per esempio, questo inizio di capitolo: Fausto seppe che Anna si era sposata qualche mese dopo. Egli seguiva con appassionato interesse le vicende della guerra: sperava con tutta l’anima che la buona causa, la causa della libertà e della giustizia, avrebbe trionfato. [FeA, II, X, 302]

Non sempre il lettore di FeA potrà apprezzare l’amalgama delle «vicende della guerra» con fatti storicamente irrilevanti (come la notizia del matrimonio di Anna in attacco). Questa ridefinizione dei rapporti di misura tra la storia pubblica e la vicenda personale produce un’idea della vita come flusso, piuttosto che come una scala preordinata di eventi, che la scrittura asseconda con uno stile tanto più complesso quanto più insospettabile – anche perché tutto giocato su un effetto apparente di iperreferenzialità, di logoramento per usura, tanto la lingua è abbassata fino ai suoi gradi più logori («la vera riuscita dello stile è la sua scomparsa»274). Torniamo, per esempio, al periodo di partenza: «Fausto seppe che Anna si era sposata qualche mese dopo»: dove le funzioni più significative attivate dal testo non sono di tipo linguistico, ma semantico-narrativo, perché l’andamento così piano del discorso per un verso mima il personaggio (la maschera di impassibilità attraverso la quale Fausto dissimula il dolore); per l’altro verso orienta la prospettiva di racconto: l’ultima posizione e l’aggettivo indefinito dell’indicazione temporale («qualche mese dopo») interrompono il cursus deciso dei primi due

132

Daniela Brogi

elementi («Fausto seppe // che Anna si era sposata»), ne sciolgono la tensione, e disegnano un’immagine a profilo perso degli eventi e dei pensieri del protagonista sul fondale del tempo. Altre volte invece, questo medesimo senso di fuga, di scivolamento sul nastro della vita che accade, si ottiene attraverso la composizione del periodo per via di segmenti melodici (per lo più settenari e ottonari) scanditi dagli accenti e dalle pause sospensive della virgola, come in questo finale di capitolo: «Fausto rimase immobile, come uno che abbia perdúto la memoria, mentre calava la sera» (FeA, I, XIII, 215). È una sorta di «metafisica della banalità»275 dell’esistenza e della Resistenza quella che via via si affaccia in FeA276 e che, anche negli anni successivi, rimarrà una costante, come, per esempio documenta questa testimonianza della vita partigiana sul massiccio boscoso del Berignone, resa da Cassola nel 1979: Noi, che da partigiani abbiamo percorso in lungo e in largo Berignone, ci saremmo dovuti dire che il nostro primo dovere era conservare ogni ciottolo, ogni filo d’erba, ogni costone di bosco vicino, ogni paese lontano […].

D’altra parte, vale la pena di ricordare il contesto effettivo di entrata in contatto con la morte da cui partiva questa protesta per le «ragioni della vita». Per comprenderne la disperata vitalità, anche per accantonarne certe ingenuità ma, soprattutto, per capire perché molte parti del racconto della Resistenza contenute in FeA resistono alla prova del tempo, e fanno di questo romanzo (assieme a I

Il ritratto dello scrittore da partigiano

133

vecchi compagni – 1953 – e a La ragazza di Bube – 1960) uno dei testi più belli di quella stagione. Leggiamo un altro passaggio della rievocazione cassoliana del 1979: Eravamo venuti alla macchia prima di tutto per quello, per difendere le ragioni della vita di fronte a chi le negava, per innalzare le nostre gioiose bandiere davanti ai gagliardetti col teschio… Se un fascista spagnolo aveva gridato: «Viva la morte!», noi avremmo potuto gridare: «Viva la vita!» […] Politica e vita erano per noi la stessa cosa da partigiani. Ci angustiava tutti il pensiero che, finché non fossero arrivati gli alleati, saremmo stati costretti a vivere in quelle macchie. Che ci proteggevano, ma anche c’imprigionavano. Guardavamo con desiderio la campagna che si estendeva al di là della macchia in cui eravamo rinchiusi, e le masse biancastre dei paesi dove non saremmo potuti andare. // Ignoravamo che il medesimo sentimento d’impotenza ci avrebbe preso in seguito […] Erano curiose queste grandi macchie. Stando lassù, ti stavano tutte intorno. // Se guardavi vicino, vedevi solo bosco; ma se guardavi lontano, allora la campagna scivolava via silenziosa, vedevi perfino qualche paese, che il giorno era una macchia bianca e la sera una cascata di lumicini. Ti sarebbe dovuto bastare per non sentirti solo; invece avvertivi più che mai la tua condizione di recluso […] I giovanotti la sera si aggiravano nelle vie principali, tra le luci dei negozi, guardando le ragazze che passavano. “Beati loro” pensavamo. Magari quelli invidiavano noi, che eravamo già alla macchia, perché avevano intenzione di compiere il nostro stesso passo: mettersi fuori dalla legge277.

Dietro all’inquadratura di questa scena c’è lo sguardo di uno scrittore, che recupera un leitmotiv della letteratura

134

Daniela Brogi

resistenziale (Calvino, Pavese, Viganò, Fenoglio, Zanzotto sono alcuni esempi), ovvero l’opposizione simbolico-spaziale città (cronotopo dei fascisti) versus bosco (cronotopo dei partigiani, situato ora in collina, ora in montagna)278. Cassola però non rielabora questo schema secondo la tipologia più ricorrente di un’antitesi irriducibile: piuttosto lo trasforma in una specie di sdoppiamento angoscioso di cui lo scrittore privilegia, anziché la funzione ideologica, la funzione d’intreccio. Si raccontano, infatti, due solitudini – quella dei partigiani tra le macchie e quella dei giovanotti rimasti in città – che si scrutano al buio. Ciascuna di queste due forme di esistenza è imprigionata da quello stesso mondo che la protegge, e guarda all’altra con invidia; sono due solitudini distanti nello spazio e nei modi di vita, eppure si somigliano: per età e per un’ansia di riempire il vuoto che, malgrado tutto, le accomuna. Dopo l’Otto Settembre il partigiano Carlo Cassola non ebbe dubbi né successivi ripensamenti sul fatto che l’antifascismo fosse la parte giusta da cui combattere questo vuoto279. Lo scrittore volle però risistemare questa esperienza all’interno di un universo fittizio che la caricasse di risonanze emotive e di dubbi esistenziali a cui non sempre l’ideologia trova una risposta: «una spiegazione storica non soddisfa mai completamente: non ti dà il senso umano di una vicenda»280. Sul piano dell’ideologia, questa posizione naturalmente rivela molti lati deboli, ma, sul piano della tecnica narrativa, spesso si traduce in una forte capacità di comunicare la dimensione umana, perfino corporea della vita da partigiano: avvicinabile, per intensità espressiva, a certi racconti di Calvino – molto più belli di un testo troppo sopravvalutato come Il Sentiero – o ai grandi romanzi di Fenoglio281.

Il ritratto dello scrittore da partigiano

135

Leggendo le scene partigiane di FeA, più di una volta si pensa che le incertezze del personaggio, piuttosto che da una mancanza di passione o di interesse, siano provocate da una paura, ovvero, da un desiderio incapace di esprimersi ma non per questo meno forte, anche se tutto compresso. Quarant’anni più tardi, pochi anni prima di morire, rievocando quella stagione Cassola parlerà della Resistenza come momento di massima esperienza del «sentimento […] vivissimo» dell’«amore per gli altri»: La Resistenza mi fece capire che, ai fatti individuali, si aggiungono quelli degli altri: visti finalmente come altri e non come antagonisti. Di qui la mia maturazione, negli anni del dopoguerra, come scrittore. Mi riuscì finalmente scrivere i primi romanzi: il primo, pubblicato nel ’52, s’intitolava Fausto e Anna 282.

È da questà intensità di sguardo, anche da qui, e dalla scelta di raccontare la prosa, piuttosto che la poesia della guerra di Liberazione, che arrivano alcune delle pagine letterarie più originali della narrativa della Resistenza, nonché le occasioni di autentiche dichiarazioni di amore per la vita partigiana: La stagione messasi ora decisamente al bello contribuiva anch’essa a rinfrancare gli animi, a diffondere un senso di fiducia. Con tutto ciò Fausto era sempre dell’idea di andarsene. Aspettava il ritorno di Nello, ma ogni mattina la sua attesa veniva delusa. Finalmente, la mattina del quarto giorno [dall’arrivo di Fausto al campo partigiano], Nello ricomparve. «Vengo via con te» gli disse Fausto appena lo vide. E andò a

136

Daniela Brogi

cercare Giulio per comunicarglielo. Ma strada facendo trovò Giovanni, raggiante perché la guida gli aveva portato una lettera della madre. Volle che Fausto la leggesse. In un italiano tutto sgrammaticato la povera donna ripeteva per quattro pagine che stava bene e la sorella pure e che Giovanni non stesse in pensiero per loro e non si cacciasse nei pericoli. «Sei contento, ora?» gli chiese Fausto. «Sì, ma cosa credi?» rispose Giovanni. «Lo dice per farmi star tranquillo. Tutto per colpa di quei delinquenti» esclamò alzandosi di scatto e con un’espressione che Fausto non gli conosceva. Andarono a prendersi il rancio e sedettero sullo zoccolo della carbonaia. Torno torno altri partigiani erano intenti come loro a mangiare. Fausto aveva gli scarponi infangati, l’orlo dei calzoni sfilacciato, uno schizzo di fango sul dorso della mano, i polpastrelli delle dita ruvidi per la polvere. Il suo sguardo si posò sugli altri partigiani, anch’essi stracciati, infangati e polverosi. Dieci, venti volte Fausto si portò il cucchiaio alla bocca, e improvvisamente sentì che quella sera non sarebbe andato via, né domani, né tra qualche giorno, né mai; che sarebbe stato con quegli uomini fino alla fine, che non si poteva vivere diversamente da così, che la vita consisteva solo in quelle semplici operazioni: mangiare nella gavetta, bere al fiasco, fumare e dormire in terra». [FeA, III, XIII, 383-384]

2.2. In una nota del 12 novembre 1953 – tratta dal taccuino inedito Appunti 1952-58 e riportata all’attenzione da Alba Andreini – Cassola scrive: Quando mi si aprì la possibilità di scrivere FeA? Forse nel 1948, quando pensai appunto a un romanzo basato sul

Il ritratto dello scrittore da partigiano

137

contrasto tra l’amore di Anna per Fausto e quello di Anna per Miro. Mi pare proprio di aver pensato a questo contrasto; ma allora le inibizioni mi impedivano di scrivere un simile romanzo283.

La stesura di FeA comincia nell’ottobre 1949, a sei mesi dalla morte della moglie (23 marzo)284, ed è la prima opera importante scritta dopo questa perdita, assieme a un altro dei testi migliori di Cassola: il racconto lungo Il taglio del bosco285. «Mi sembrò – si cita ancora dalla lettera a Fortini del 28 novembre 1961 – che avesse ragione mia moglie che non credeva in me come scrittore perché, diceva, mi mancava il cuore». Mettendo insieme questi dati e confrontando il progetto del 1948 con l’edizione di FeA pubblicata nel 1952, si può dunque congetturare che la ricollocazione di poetica provocata dalla scomparsa di Rosa Falchi e dalla relativa crisi abbia sbarrato la trama ideata nel 1948, che era centrata «sul contrasto tra l’amore di Anna per Fausto e quello di Anna per Miro», e poneva dunque il personaggio femminile al centro delle due linee narrative che funzionavano da muri portanti del racconto (Anna e Fausto vs Anna e Miro). La trama di FeA 1952 si sposta invece soprattutto su Fausto, assecondando un bisogno di messa in discussione del personaggio che non è mai stato considerato dai detrattori di FeA, a partire da Calvino286. L’atteggiamento prevalente di antipathos da cui si narra il protagonista agisce però, oltre che sulla caduta degli amori di Anna come epicentro della storia, sulla scelta di raccontare la Resistenza, modulando su Fausto – Fausto e Anna vs Fausto e la Resistenza – il progetto originario di una logica narrativa binaria:

138

Daniela Brogi

Vi facevo il processo a me stesso, cioè a Fausto: presentandolo in due esperienze fallimentari: un’esperienza amorosa (che fallisce per sua colpa, per la sua incapacità di abbandonarsi al sentimento) e l’esperienza dell’impegno politico durante la Resistenza. Qui però finivo quasi per dar ragione a Fausto, per lo meno dargli ragione nei confronti dei comunisti, e questo mi attirò i fulmini di “Rinascita”, prima per mano di un critico [Manacorda], poi di Togliatti stesso. L’accusa era di aver diffamato la Resistenza. Me la fecero anche altri, anche dei non comunisti. Mi amareggiò molto, anche se ero convinto di aver ragione287.

La prima edizione di FeA esce il 29 febbraio 1952: nel medesimo anno di Umberto D. (De Sica). Siamo esattamente a metà dei “Dieci inverni”288 – e, salvo poche eccezioni come quelle di Luzi e De Robertis289, raccoglie per lo più letture sfavorevoli, quasi esclusivamente riferite ai risvolti ideologici del racconto e abbastanza disinteressate alla sua qualità letteraria290. Su questo orientamento ebbe sicuramente un peso rilevante lo schieramento di «Rinascita», prima con la stroncatura di Manacorda291, e poi coi giudizi liquidatori usati da Togliatti in risposta alla replica dell’autore292. Malgrado tutto però Cassola continuerà a credere nel libro: per alcuni anni pensa a un seguito di FeA («intitolato 1950 […] sarebbe un romanzo sugli intellettuali» spiega il 15 ottobre 1956 a Calvino293); progetta di ristamparlo; e, a partire dal giugno 1957, avvia il rifacimento: «[l’ho] riveduto quest’estate, portandovi molte modifiche, dividendolo in capitoli anziché in parti, facendo tagli ecc. Mi pare che ci abbia guadagnato molto», scriverà a Bilenchi l’otto marzo 1958294. La nuova edizione di FeA uscirà il 15 luglio 1958 – il medesimo anno

Il ritratto dello scrittore da partigiano

139

del Gattopardo295 e del Premio Nobel a Pasternak – nei «Supercoralli» Einaudi, ma anche stavolta il libro non decolla: nei sei mesi successivi venderà meno di mille copie: un quarto della cifra raggiunta dal racconto Il soldato, pubblicato da Feltrinelli; mentre due anni più tardi La ragazza di Bube, soltanto nei quindici giorni a ridosso del Premio Strega, arriverà a diecimila copie296. Proprio il successo di Bube e delle opere che arrivano dopo garantiranno però a Cassola una popolarità che retroagisce anche sulla produzione precedente, e assicura la sopravvivenza editoriale di FeA. Negli anni successivi il romanzo sarà infatti ristampato più volte, sempre seguendo il testo dell’edizione 1958, sia da Einaudi, che da altre case editrici297. Le differenze più significative tra la prima e la seconda edizione di FeA riguardano la struttura, che nell’edizione 1958 sarà diversamente riconfigurata attraverso le giunture della divisione in parti e in capitoli; potremo discuterne meglio dopo aver recuperato la vicenda di FeA. Prima di passare più direttamente all’analisi dell’opera, è tuttavia importante segnalare una circostanza testuale che è strettamente intrecciata alla recente uscita (2007) del «Meridiano» Mondadori dei Racconti e Romanzi di Carlo Cassola, scelti, curati e introdotti da Alba Andreini – il medesimo testo usato in questo lavoro su FeA. «Coerentemente con la prospettiva genetico-evolutiva in cui si sono disposti i testi» (FeA, p. CXXXII), a cinquantacinque anni di distanza, la prima edizione 1952 viene infatti riproposta come unica versione di FeA, e si avvia plausibilmente a diventare, dopo mezzo secolo di oblio, il testo di riferimento per le prossime stagioni di lettori. Ora, se

140

Daniela Brogi

confrontiamo le due edizioni di FeA, l’opzione di Andreini è convincente, dal momento che il testo del 1952 – ne indagheremo i motivi più avanti – è un romanzo più bello. Colpisce però che gli apparati del «Meridiano» non esplicitino questa preferenza, invocando piuttosto tre ordini di ragionamento appartenenti, ma solo a colpo d’occhio, alla classe dei colori neutri. In primo luogo, infatti, si usa l’argomento della volontà d’autore, che lascia il dubbio di essere impugnata con un eccesso di disinvoltura per un testo – FeA 1958 – pubblicato trent’anni prima della morte di Cassola (1987)298; in secondo luogo Andreini nomina il problema pratico delle «ovvie ragioni di spazio»; e in terzo luogo la curatrice rimanda a «l’interesse storico per un testo non più disponibile nelle edizioni correnti». Naturalmente sono giustificazioni plausibili, ma forse non sufficienti a far comprendere una scelta così forte – si vorrebbe quasi dire appassionata. Da cinquant’anni l’edizione circolante di FeA era quella del 1958. Consegnare al «Meridiano» l’edizione 1952, di fatto, non equivale soltanto a restituire attenzione a un’edizione lungamente trascurata ma potrà significare, in prospettiva, scegliere di leggere – canonizzare insomma – un altro testo. 3. Il titolo e la vicenda di «Fausto e Anna» (1952) Perché un romanzo dia il senso della vita, bisogna che il protagonista sia la vita stessa, cioè il tempo che scorre. Se il tempo serve solo per far accadere una storia, è su questa che si concentrerà l’attenzione del lettore, e il romanzo non darà il senso della vita, o lo darà solo di passata. C A R L O C A S S O L A , Grandezza e solitudine di Thomas Hardy, 1973

Il ritratto dello scrittore da partigiano

141

FeA ricostruisce la vicenda di fallimento, sia privato che pubblico, di un intellettuale: è un «processo», come dichiarò lo stesso autore, ma è un processo senza avvocato difensore: Con Anna Fausto era felice, a patto di non parlare; quando infatti apriva bocca, diceva ogni sorta di sciocchezze, avvertiva che erano tali, s’irritava, e per cancellare quella penosa impressione, ne diceva delle altre: simile al giocatore, che più perde e più s’intesta a voler giocare». [FeA, I, XXII, p. 247]

L’autore ha già pronunciato, al di fuori del testo, un giudizio di condanna sul personaggio: alla retorica narrativa tocca il compito di rendere esecutivo il verdetto. E così il brano appena citato non è un passaggio collocato nel flusso della narrazione, ma un capoverso in attacco di capitolo: isolato dunque come un blocco marmoreo su cui sia iscritta una verità inappellabile. Questo procedimento per esclusione di sfumature e di attenuanti aiuta a spiegare anche la geometria squadrata del titolo originario di Anna e i comunisti, usato per tutto il tempo della trattativa editoriale, perfino nel contratto299. La donna che Fausto non riesce ad amare, da un lato, e i comunisti con cui Fausto non stabilirà mai un’intesa definitiva, dal lato opposto, sono infatti i termini di riferimento di questa sorta di procedimento istruttorio contro il personaggio. A poche settimane dall’uscita del libro – nel gennaio 1952 – e su richiesta di Calvino300, l’autore scelse però il nuovo titolo di Fausto e Anna, che mantiene la funzione distintiva e separatrice della congiunzione, ma rafforza, attraverso l’allusione a una relazione di coppia suggerita dall’uso dei nomi personali, un’idea già esposta

142

Daniela Brogi

dieci anni prima, quando aveva scritto che compito dello scrittore è rappresentare il senso dell’esistenza, che è la «coesistenza dei sessi»301. Dove, come riscontreremo dalla trama di FeA, la parola che ha più sostanza rispetto al sistema di significati costruito dal romanzo – e più in generale dalla narrativa cassoliana – è il termine “coesistenza”. Fausto e Anna appartengono infatti a due mondi che coesistono, per l’appunto: solo occasionalmente riescono a incontrarsi e a comunicare302, prigionieri come sono di un destino di reciproca irriducibilità. La struttura di FeA 1952 si articola in tre Parti e un Epilogo, rispettivamente composti di ventotto, diciannove, quarantuno e sette capitoli interni. Per riassumere FeA è utili riferirsi alla categoria di “trama”303, intesa come logica narrativa che taglia trasversalmente il piano della fabula e quello dell’intreccio, liberandoli dai recinti del formalismo, e mettendo in connessione dinamica il mondo narrato e quello della storia che lo narra. Il modo in cui la trama fa entrare gli eventi dentro il racconto appare infatti, in questo «primo romanzo»304 di Cassola, la strategia epressiva privilegiata dei significati del testo. Così, come con un procedimento ad occhio di bue attraverso il quale l’operatore cinematografico attacca a illuminare progressivamente il centro dell’immagine strappandola all’oscurità, FeA comincia a prendere forma e senso sottraendo al telo nero della notte e della coscienza («Era tutto buio.»: FeA, I, I, p. 173) i pensieri di Anna, una bella ragazza di sedici anni e mezzo che trascorre le vacanze di Natale presso la zia e la cugina a San Ginesio, un piccolo borgo situato a ridosso della strada che da Castelnuovo di Val di Cecina conduce a

Il ritratto dello scrittore da partigiano

143

Massa Marittima305 [raffrontando le notizie testuali coi dati storici e con la geografia dei luoghi sono propensa ad affermare che la località a cui ci si riferisce sia Gerfalco306]. Tornata a casa, a Volterra, alla fine dell’estate Anna conosce Fausto (FeA, I, VII). Figlio di un avvocato con lo studio a Roma, Fausto si è appena diplomato al liceo, non sa ancora quale Facoltà scegliere, e concentra i propri astratti furori sull’improvvisa decisione «di scrivere, di diventare un letterato, un poeta» (FeA, I, IX, p. 199). Intanto il due ottobre [1935] «è giunta l’ora della Grande Adunata» con cui Mussolini dichiara guerra all’Etiopia. «Si rividero l’estate seguente» (FeA, I, XI, p. 207), e dopo qualche giorno Fausto si dichiara («Sono innamorato di lei, ecco tutto»: FeA, I, XI, p. 208). Anna è contenta, e così arrivano i primi e unici giorni di gioia e di baci; al ritorno di un mese trascorso a San Ginesio, Anna è sempre più convinta che Fausto, che è continuamente attraversato da tensioni e da cadute dell’umore, non la ami, tanto più che professandosi contrario per principio al matrimonio, poiché «è un’istituzione borghese», il giovane non coglie le allusioni di Anna all’opportunità di un fidanzamento («Egli sentiva il fascino del matrimonio, e, insieme, il fascino della religione; ma continuava a credere che la famiglia e la chiesa fossero i due cancri dell’umanità. // E Anna non riuscì a strappargli nessuna promessa riguardo al futuro»: FeA, I, XXII, p. 248). La carta estrema giocata da Anna, quella dell’ingelosimento, segna un punto di non ritorno nella relazione perché, ossessionato dall’immagine di un bacio a tradimento che Anna ha ricevuto durante la vacanza estiva a San Ginesio, Fausto, rientrato a Roma, sprofonda in una spirale di parossismo: scrive ad Anna lettere sempre più violente («Le proibì di

144

Daniela Brogi

andare a San Ginesio, le proibì di uscir sola, le proibì di tingersi; le avrebbe proibito volentieri di respirare, di vivere»; FeA, I, XXIV, p. 259), va tutti i giorni al bordello e fissa sulla fidanzata fantasie sadico-aggressive307, fino ad arrivare a darle della «puttana»: succede una prima volta e Anna non dimentica ma prova a perdonare; succede una seconda volta e Anna decide che «tra lei e Fausto tutto era finito». Mentre l’ultima lettera di Fausto si consuma nella «cenere», si chiude la Parte Prima del romanzo (FeA, I, XXVIII, p. 270). Proprio attraverso la trama, il protagonista invisibile ma onnipresente della Parte Seconda di FeA è il tempo, che scava nella vita e nel destino degli individui come uno scalpellino nascosto – e nascosto perché il movimento si compie tutto dietro un effetto apparente di immobilità: precisamente quello della vita che un giorno non ci ricorderemo più. E così, molto più che nelle altre due parti del romanzo, il racconto dei fatti è anzitutto racconto di come i due protagonisti passano il tempo, entrando nelle forme della vita adulta. A procurare questo senso di scorrimento meccanico della pellicola contribuiscono due principali procedimenti. Quello più immediatamente riconoscibile è quello più semplice, e consiste nella riduzione altissima del tasso d’intreccio del racconto: dopo la rottura, la narrazione mima la separazione di Fausto da Anna raccontando distintamente gli eventi che accadranno ai due giovani: senza creare linee di intersezione, ma distribuendoli in tre blocchi di testo (paragrafi I - I X : Anna; paragrafi X - XV : Fausto; paragrafi XVI - XIX : Anna). L’altro procedimento attraverso il quale la scrittura procura un effetto per accumulo dei giorni, i mesi, gli anni

Il ritratto dello scrittore da partigiano

145

che scorrono, consiste nella gestione – tanto più elaborata quanto più impercettibile – della “durata” del discorso narrativo, che calibra via via modalità diverse di rapporto tra temporalità diegetica (tempo della storia) e temporalità del racconto, attraverso sommari, ellissi, pause e scene tenuti uniti da un’idea assolutamente relativa del tempo: dove più che l’unità di misura della linea retta sembrano contare i giri lungo il cerchio della vita che si ripete; e si disperde. Così, quasi senza che il lettore se ne accorga, la Parte Seconda di FeA narra eventi accaduti in un periodo molto ampio perché trascorrono ben sette anni – tra la fine dell’autunno 1936 e la fine della primavera 1943. Trasferitosi con la famiglia a Grosseto a seguito di una promozione, «verso Natale» il padre di Anna comincia a portare in casa «un giovanotto di ventitré anni, figlio di un suo vecchio amico»: è Miro, impiegato al Consorzio Agrario, che non corteggia Anna, al punto quasi quasi di indispettirla (ma suscitandone, in realtà, la vanità). Dopo parecchi mesi, arriva la dichiarazione: Anna «finì per rispondergli di sì» e «presa dal nuovo amore, ben presto si dimenticò di Fausto» (FeA, II, I, p. 273). Negli otto capitoli successivi la scrittura fa scorrere senza sorprese la giostra monotona di un fidanzamento tra due giovani di una cittadina di provincia nell’Italia degli anni Trenta: le gite in campagna in compagnia della cugina, arruolata per non lasciare mai soli i due fidanzati; i bisticci; i conflitti di vedute con la madre e con la zia; le passeggiate «su e giù per la via principale» di Grosseto; l’andata alla messa; i primi impacciati discorsi attorno a una sessualità repressa per «diciotto mesi» dall’habitus («[Miro] era molto soddisfatto di aver rispettato la fidanzata.

146

Daniela Brogi

Perché, se la fidanzata non fosse stata pura, il matrimonio avrebbe perso tutta la sua attrattiva»: FeA, II, VIII, p. 299). A un mese dalle nozze, nell’ultimo giorno di vacanze a San Ginesio [siamo dunque alla fine dell’estate 1938] Anna saluta la propria gioventù («– Allora, addio – disse quando fu in cima alla salita, voltandosi a salutare i castani rimasti alle sue spalle. Rise della sua uscita e, tranquilla e fiduciosa, si avviò a casa.»: FeA, II, IX, p. 302). Il lettore tornerà in contatto con Anna soltanto sette capitoli dopo, eppure nel frattempo saranno passati più di quattro anni e mezzo e, a livello diegetico, i capitoli X-XV, nell’arco dei quali si narrano le vicende di Fausto. «All’indomani della disfatta francese» (FeA, II, X, p. 302) [siamo dunque nel giugno 1940] «scartata l’idea di entrare nello studio paterno» Fausto vince un concorso per l’insegnamento in «un piccolo centro della Liguria» [a Sarzana, come scopriremo molto più avanti, da un inciso: FeA, III, I, p. 339]. Qui Fausto passerà il tempo facendo sfoggio del proprio status («ora invece che tutti lo chiamavano “professore”, “signor professore”, non poteva reprimere un moto intimo di compiacimento»: FeA, II, X, p. 304); seducendo la figlia dell’affittacamere; giocando a poker; e abbandonandosi «sempre più alla corrente di quella vita mediocre e grossolana» (FeA, II, XIII, p. 317) da cui, giunto ormai ai venticinque anni [gennaio 1942], tenterà di riscattarsi attraverso la scelta, tutta volontaristica, della conversione religiosa. Pochi giorni dopo «il bombardamento di Grosseto del «26 aprile del ’43», Anna sfolla a San Ginesio assieme alla madre e alla figlia Lucia, «venuta al mondo quindici mesi prima» [ovvero intorno alla fine del gennaio

Il ritratto dello scrittore da partigiano

147

1942308, dopo tre anni dal matrimonio], mentre Miro, richiamato già da un anno e caporalmaggiore, riesce a sistemarsi presso il Distretto di Bologna. « Ormai tutto è stabilito nella mia vita, non può cambiar nulla. […] Domani: devo cancellarla dal vocabolario questa parola»: sono gli ultimi sconsolati pensieri di Anna, sul bordo finale della Parte Seconda. È il modo dell’analisi, dove il rapporto tra tempo del racconto e tempo della storia è sbilanciato a favore del primo termine, a prevalere nella Parte Terza: la più corposa (quarantuno capitoli, per un totale di centonovantanove pagine, secondo il testo originale309, contro le centoventiquattro della Prima Parte e le settantasette della Seconda Parte). In un arco di tempo relativamente poco lungo – dai fatti successivi all’Otto Settembre 1943 alla liberazione di Volterra del luglio 1944: dieci mesi dunque – si raccontano scene e passaggi che rendono FeA, a dispetto di una tradizione critica quasi sempre ostile, uno dei documenti letterari più importanti della Resistenza. Come all’inizio del romanzo, si attacca con una scena che mette a fuoco un personaggio che esce dal buio, ma stavolta si tratta di Fausto, che pochi giorni dopo la fine del regime badogliano raggiunge Volterra, dove si trovano i suoi genitori. «Ma la gente che intenzioni ha? […] Non possiamo mica aspettare passivamente l’arrivo degli angloamericani»: mezza giornata dopo il suo arrivo, è con questa domanda, rivolta a un collega professore conosciuto l’estate prima (FeA, III, I, p. 338) che Fausto dà inizio alla sua nuova vita. Il professore infatti lo mette in contatto con il piccolo gruppo di antifascisti della zona e «col rappresentante dei comunisti», l’alabastraio Baba, un vecchio compagno condannato nel 1929 a sette anni di

148

Daniela Brogi

carcere dal Tribunale Speciale fascista. Una domenica pomeriggio [siamo nell’autunno del 1943] Fausto chiede a Baba di lavorare con loro: agisce «improvvisamente» e «inconsciamente», dice il testo, ma per una spinta alla prassi che la «disciplina di partito» di Baba tiene a freno [furono, nella realtà storica, i mesi della linea “attendista” del P C I ]: «sembrava a Fausto che Baba si muovesse nel campo delle astrazioni. La realtà presente era l’organizzazione della resistenza ai tedeschi e ai fascisti, erano i partigiani» (FeA, III, II, p. 345). Proprio tramite i contatti di Baba, dopo aver accettato di far parte del Comitato Militare (FeA, III, III, p. 350), Fausto aggancia una formazione di partigiani stanziata nella zona del Monte Voltrajo e dipendente «dal Comitato di Liberazione, ma nello spirito, nella sostanza, […] tipicamente marxista e proletaria» (FeA, III, V, p. 356). Alla madre, spaventata dalla voce che lui sia «il capo dei comunisti», Fausto, per puro istinto adolescenziale di ribellione, risponde «che non era il capo, ma che era comunista» (FeA, III, VI, p. 358); mentre con un compagno del Comitato Militare protesta che «il comunismo non può farci nulla con la morte» (FeA, III, VI, p. 360). La scelta di Fausto di «andare nei partigiani» [nella primavera del 1944, dopo la strage del due aprile sul Montemaggio] nasce da un fuoco incrociato di contraddizioni, di dubbi («– cosa mi trattiene? – pensava. – Devo dirgli, ora, subito: Baba, non vado; non voglio rischiar nulla per i partigiani.»); di paure («– Baba, io non posso andare. Un partigiano può trovarsi nella condizione di dover uccidere. E io non voglio farlo – »: FeA, III, XI, p. 373); e perfino di risentimenti («Io vado dunque tra i partigiani perché ho paura del loro disprezzo? Ci vado perché è questo che essi si aspettano da me? – […]

Il ritratto dello scrittore da partigiano

149

Sentì di essere legato a loro, e giunse a odiarli. Dal profondo dell’anima insorgeva contro questo vincolo, come altre volte era insorto contro il vincolo familiare» (FeA, III, XII, pp. 377-378). La vita al campo per molti aspetti esaspera questo stato di inconciliazione: i partigiani sono squallidi e sporchi; tra i comandanti di brigata si trovano comunisti ortodossi che disprezzano la base, per esempio l’«aristocratico» Claudio (FeA, III, XV); un contadino, catturato come una presunta spia, durante l’interrogatorio è ucciso a tradimento, con una pugnalata alla nuca (FeA, III, XVII). Sempre più insofferente per l’accampamento di Monte Voltrajo [nella realtà, si tratta del Monte Berignone], Fausto è contento per l’incarico di predisporre il nuovo alloggio della formazione, recandosi al Monte Capanne (FeA, III, XVIII-XX), un luogo dalla conformazione geofisica più sicura e più adatta a ricevere i lanci degli alleati [nella realtà, la zona montuosa denominata “Le Carline”310]. Dalla cima del monte Fausto contempla San Ginesio, «il paese di Anna» (FeA, III, XX, p. 413; già pochi giorni prima il suo pensiero si era rifugiato nella sicurezza di essere ancora amato: FeA, III, XVI). L’emozione dei lanci alleati, la crescita della formazione («ogni giorno affluivano alla Brigata non meno di quindiciventi uomini»: FeA, III, XXI), assieme alle notizie della liberazione di Roma [4 giugno 1944] e dello sbarco alleato in Francia [6 giugno] e alla «baldoria» di canti che ne segue: tutto questo rende «bella e piacevole» la vita nel nuovo accampamento. Ma due nuovi fatti riaccendono in Fausto il senso di inappartenenza all’ideologia comunista, e lo avvicinano, tramite uno studente di legge entrato nella brigata, al Partito d’Azione. Il primo episodio riguarda l’esecuzione di un maresciallo dei carabinieri accusato di

150

Daniela Brogi

collaborazionismo, fucilato a sorpresa senza «dargli il tempo di raccomandarsi l’anima a Dio» (FeA, III, XXIII, p. 427); nel secondo caso di tratta della «farsa sacrilega» con cui l’altro comandante di brigata, Giulio, travestito da sacerdote si mette a benedire i partigiani usando gli abiti di un prete repubblichino fuggito al Nord (FeA, III, XXIV, p. 429). È al centro di una così «complicata vicenda di eventi e di sentimenti che fluivano in lui e attorno a lui» (FeA, III, XXIV, p. 432) che precipita «la terribile esperienza della guerra», trovando Fausto «completamente impreparato» (FeA, III, XXV, 435). Partito dal campo in missione notturna, per piazzare dell’esplosivo sotto un ponte, mentre assieme ad altri ventisette partigiani percorre una carrozzabile a circa due ore di marcia dalla strada Castelnuovo-Massa, Fausto «improvvisamente» si trova in pieno combattimento contro una macchina e due camion pieni di tedeschi (FeA, III, XXVI). Per curare un compagno ferito Fausto, assieme ad altri due partigiani, trova riparo a San Ginesio; mentre l’amico viene curato, Fausto riceve ospitalità nella cucina di una casa di fronte: «stava anche lui per alzarsi e andarsene, quando sentì dei passi per le scale: // – Di’ un po’ zia… – fece Anna entrando nella stanza: vide Fausto, e si fermò» (FeA, III, XVIII, p. 449). Nei capitoli che seguono il «groviglio» dei sentimenti privati fa un corpo unico con la successione serrata di scelte e di azioni da compiere nell’emergenza della situazione; così, «circondato dall’ammirazione generale», Fausto manda notizie al campo, organizza il Comitato di Liberazione, pernotta a casa della famiglia di Anna, fa la conoscenza di Miro, il marito di Anna, e lo incarica di rappresentare il Partito d’Azione nel Comitato (FeA, III, XXXI, p. 465), partecipa alle riunioni. Dopo aver

Il ritratto dello scrittore da partigiano

151

rivelato ad Anna di averla pensata ogni giorno (FeA, III, XXXIII, p. 471), prima di andare a dormire, rimasto solo con lei, la bacia. Secondo un «ordine perentorio» del comandante di brigata, la mattina dopo Fausto riaccompagna il compagno ferito al campo, e qui riceve una notizia che lo precipita nuovamente nei dubbi laceranti dell’adesione alla lotta partigiana: «ottantatré minatori della Niccioleta erano stati fucilati dai tedeschi per rappresaglia» [il massacro si consumò il 13 e il 14 giugno 1944]. Stavolta l’esperienza introduce un principio di asimmetria nella girandola di rimorsi che da sempre tormenta il personaggio: «sentiva che, malgrado tutto, egli era orgoglioso di aver fatto il partigiano» (FeA, III, XXIV, p. 476). Eppure anche questo sentimento non basta a far trovare la pace, a sottrarre Fausto alle cadute di un’emotività messa continuamente alla prova dalla successione serrata degli eventi dei giorni successivi: un’altra azione a Travale (FeA, III, XXXV-XXXVI); l’esecuzione di due tedeschi feriti (FeA, III, XXXVII); il funerale di Cannone, un partigiano di solo diciotto anni: «i partigiani si schierarono per rendere al compagno l’estremo saluto. Via via che la bara passava, le braccia si tendevano. Anche Fausto, per la prima e l’ultima volta in vita sua, salutò col pugno chiuso»: FeA, III, XXXIX, p. 495; le discussioni con Baba e con gli altri partigiani comunisti. «La sera era calata. Fausto non pensava più a nulla. Guardava i lumi di San Ginesio, tremolanti nell’oscurità; ricordò i baci di Anna, e sentì rinascere la speranza» (FeA III, XLI, p. 508). La «gioia fanciullesca» per l’arrivo degli alleati introduce, nel primo capitolo dell’Epilogo di FeA (p. 511), il tempo – brevissimo – del vero idillio tra i protagonisti del romanzo.

152

Daniela Brogi

Spedito a San Ginesio, per fare da intermediario con gli alleati, Fausto arriva «che era già buio» e bussa alla porta di Anna. Finalmente soli: mentre Anna prepara la cena, «Fausto la aiutò ad apparecchiare e, ogni volta che le capitava vicino, l’abbracciava e le dava un bacio sulla guancia o sui capelli […] – Sei mai stata felice così? – / – Mai – rispose Anna. / – Vedi com’è strano – disse Fausto. – Per gli altri questa è una notte angosciosa, e per noi, è il più bel momento della nostra vita – » (Epilogo, II, pp. 514515). Un momento, per l’appunto: perché Anna dovrà passare la notte da una vicina che ha paura di rimanere sola. L’arrivo degli alleati, il mattino dopo [gli alleati arrivarono a Gerfalco il 30 giugno 1944], segna per Fausto il passaggio da un senso iniziale di euforia alla vergogna: «seduti sulla groppa dei loro bestioni, i carristi masticavano il chewing-gum. Erano ben vestiti, rasati, con le facce riposate: come se, invece di combattenti, fossero comparse raccolte lì per girare la scena di un film di guerra. I poderosi carri armati destavano l’ammirazione generale. // A un tratto Fausto si sentì meschino, ridicolo» (Epilogo, IV, p. 521). Anche stavolta la trama non racconta le scene più spettacolari tramandate dalla vulgata sulla Resistenza (anzitutto quella cinematografica), ma il controcampo di una storia più sgradevole: la rabbia dei partigiani che speravano in un arrivo trionfale in paese e che, in una pagina straordinaria, trovano ascolto solo in un sergente che «disse di aspettare e tornò poco dopo con un sacco pieno di scatolette […] e, deposto il sacco, se ne andò» (Epilogo, V, p. 523); la scena umiliante in cui un semplice tenente della M.P., la polizia militare americana, ingiunge l’immediato disarmo e lo scioglimento della brigata (p. 524). In mezzo al «pieno sfacelo» dell’organizzazione

Il ritratto dello scrittore da partigiano

153

partigiana Fausto scorge Nora, la cugina di Anna, che gli sta venendo incontro. Nora, che sa tutto, gli chiede di rinunciare ad Anna, perché è sposata: « – se lei le vuole veramente bene, non deve più vederla…– // – È vero – rispose Fausto. E, quasi senza volerlo, aggiunse: – Arrivederci – e le tese la mano, come per attestargli la sua simpatia e la sua gratitudine» (Epilogo, VI, p. 526). Le parole rivolte a Nora sono doppiamente definitive, perché sono anche quelle con cui il personaggio esce di scena. Seduti sul gradino di casa, «a godersi il fresco della sera», Anna, il marito e la figlia pronunciano le battute conclusive del racconto: «– su, moglie, a letto – disse Miro alzandosi in piedi. Anche Anna si alzò. Mirò spinse la porta ed entrò in cucina». In perfetta rima con l’incipit, il finale del romanzo ripropone l’oscurità come asse focale della storia narrata: «Prima di seguirlo, Anna diede un’ultima occhiata fuori. Era tutto buio. Non c’era nessuno» (Epilogo, VII, p. 528). 4. Le due edizioni del romanzo Fausto e Anna fu scritto nel ’49 e pubblicato nel ’52. Lo ripresento ora ai lettori con alcune modifiche rispetto alla prima edizione. In particolare, ho mutato la struttura del romanzo, e l’ho altresì ridotto di mole, operando alcuni tagli. Accingendomi a questo lavoro di revisione, ho tenuto presenti gli appunti di ordine letterario che mi furono mossi dai critici e anche dai semplici lettori. Ebbi, allora, anche critiche di altra natura; ci fu addirittura chi mi accusò di aver diffamato la Resistenza. Di queste accuse non ho tenuto conto alcuno, perché continuo a ritenerle assolutamente prive di fondamento. C.C. // 1958 N O T A D E L L ’ A U T O R E , in Fausto e Anna, Einaudi, Torino 1958

154

Daniela Brogi

Abbandonata l’idea di una prosecuzione del romanzo, il passaggio dall’edizione 1952 all’edizione 1958 di FeA non si pone – come scrive Cassola a Calvino il 1° novembre 1957311 – come un «vero e proprio rifacimento», ma piuttosto come un «restauro»: una sorta di lavoro filologico, insomma, onde ricostruire nella sua genuinità la posizione mentale da cui nacque il romanzo, espungendo, modificando e riscrivendo le parti che con quella non sono in chiave312.

Accanto alla «ricerca di un lessico più neutro ed essenziale» e meno toscaneggiante313, il raffronto tra i due testi indica due direzioni principali di intervento: quella della risistemazione del racconto in una struttura più compatta, e quella del taglio di alcune parti, particolarmente quelle cronachistiche, più esposte alle critiche ricevute dalla prima edizione del romanzo314. Per quanto riguarda la ristrutturazione dell’impianto complessivo dell’opera, le tre Parti (formate da 28, 19 e 41 paragrafi, contrassegnati con numero romano) + Epilogo (7 paragrafi) di FeA 1952 sono riconfigurate in due Parti di analoga lunghezza e di identica intelaiatura: entrambi si compongono di cinque capitoli, suddivisi in paragrafi indicati con numero romano. Alla fine del testo si legge una Nota dell’Autore 315. Ecco, di seguito l’indice di FeA 1958, con l’aggiunta, tra parentesi, delle principali corrispondenze con la struttura e coi contenuti dell’edizione 1952:

Il ritratto dello scrittore da partigiano

155

PARTE PRIMA

(10§§ → §§1-10 FeA ’52, Parte I). (13§§: i primi 9 → §§11-19 FeA ’52, Parte I; il §10 come §20 FeA ’52, Parte I, fino a p. 243 («non voglio più sentirti»; i §§ 11-13 → §§ 21-23 FeA ’52, Parte I). III. ROTTURA (5§§ → §§ 24-28 FeA ’52, Parte I). IV. ANNA TROVA LA SUA STRADA (9§§ → §§ 1-9 FeA ’52, Parte II). V. RITORNO A SAN GINESIO (4§§ → §§ 16-19 FeA ’52, Parte II). I. L’INCONTRO II. AMORE

PARTE SECONDA VI. UN ALTRO AMORE (12§§: i primi 5 → §§1-5 FeA ’52, Parte III; §6 → §6 FeA ’52, Parte III, col taglio dei primi due capoversi; per i §§ 7-9 → §§7-9 FeA’52, Parte III; per il §10 → §10 FeA ’52, Parte III, col taglio dell’ultima frase e, dopo uno stacco tipografico → §11 FeA ’52, Parte III; per il §11 → §12 FeA ’52, Parte III; per il §12 → §13 FeA ’52, Parte III, con il taglio delle canzoni dei partigiani). VII. UN’ALTRA ROTTURA (10§§: §1 → §15 FeA ’52, Parte III, col taglio di p. 388; §2-4 → §16-18 FeA ’52, Parte III; §5 → §19, a parte il primo capoverso; §§ 6-8 → §§20-22 FeA ’52, Parte III; §9 → §23 FeA ’52, Parte III, tranne gli ultimi capoversi (sulla strage di Montemaggio); §10 → §24 FeA ’52, Parte III). VIII. L’ESPERIENZA DELLA GUERRA (3§§: §1 → §25 FeA ’52, Parte III, tranne il primo capoverso; §§2-3 → §26-27 FeA ’52, Parte III). IX. ANNA RITROVATA (13§§: §§1-10 → §§28-37 FeA ’52, Parte III; §§11-13 → §§39-41 FeA ’52, Parte III). X. ANNA PERDUTA (7§§ → §§1-7 FeA ’52, Epilogo). NOTA DELL’AUTORE

156

Daniela Brogi

Sul piano della struttura, l’aumento delle giunzioni macrotestuali produce un’architettura più robusta, mentre sul piano della trama l’indice di FeA 1958 inverte il ritmo narrativo fluido di FeA 1952. Ne consegue l’effetto generale di una scrittura più indirizzata verso un significato, anche grazie alla segnaletica dei titoli di capitolo. Proprio la successione dei titoli propone infatti una mappa del testo orientata a rafforzarne le linee guida. E così questa nuova nominazione del paesaggio permette di riconoscere subito la ripresa, nella Parte Seconda dedicata all’esperienza partigiana, della sequenza “incontro/amore/rottura/perdita” che già organizzava i contenuti della storia nella Parte Prima del romanzo – quella dedicata alla relazione con Anna – e rafforza la specularità tra le due parti sotto il segno del fallimento di Fausto. Al tempo stesso, proprio grazie ai titoli degli ultimi due capitoli della Parte Seconda (“IX. Anna ritrovata”; “X. Anna perduta”) l’esperienza privata sorpassa, in termini di enfasi narrativa, l’esperienza della guerra, arrestando e smentendo l’idea di un rapporto di forza paritario tra il polo degli amori (Parte Prima) e quello delle armi (Parte Seconda). Eppure, sarebbe riduttivo parlare di una preferenza del tema amoroso contro quello bellico. Il punto sembra un altro, e ha a che fare con la «posizione mentale da cui nacque il romanzo» e con cui si sistemano «in chiave» tutti gli altri motivi. In tal senso, guardando al paesaggio messo in quadro dall’Indice e dalle titolazioni di FeA 1958, possiamo risalire a un’intenzionalità narrativa particolarmente attenta a rafforzare l’effetto di ripetizione di alcuni nuclei profondi, nonché un’immagine di circolarità, piuttosto che di linearità, della storia. Di nuovo dunque, si ha la conferma che il vero tema di FeA

Il ritratto dello scrittore da partigiano

157

è quello della memoria – la «posizione mentale» per l’appunto – da cui la scrittura riesplora i destini, con movenze proustiane quasi troppo dichiarate dall’aggettivazione (Anna ritrovata, Anna perduta). 5. Oltre l’Ermetismo e il Neorealismo Essenziale [nel Neorealismo] era per esempio che il romanziere accumulasse fatti di sangue, come facevano i mediocri romanzieri americani presi a modello. Ricordo una vignetta di Maccari sul Mondo di Pannunzio. Si vedeva un romanziere neorealista e sullo sfondo i personaggi del suo romanzo. Le donne avevano tutte un aspetto vizioso e degradato; gli uomini erano tutti in procinto di ammazzare o di ammazzarsi: “Ancora un paio di morti e ho finito il romanzo” pensava soddisfatto il romanziere neorealista. CARLO C A S S O L A , Chi si rivede, il romanzo, «Epoca», 6 settembre 1975

«Chi mi ha messo insieme ai neorealisti ha fatto solo una confusione grossolana (fra il ’46 e il ’51, quando imperava il neorealismo, io ho collezionato undici rifiuti da parte di editori)», scrive Cassola in una lettera conservata al Centro Studî Fortini e datata 26 marzo 1959. Malgrado la cronaca d’ambiente sia uno dei registri più attivi in FeA, Cassola ha ragione a dire che non è un narratore neorealista. Di questa programmatica estraneità sono indicativi, in FeA, da un lato la presa di distanza dalla retorica degli “eroi del nostro tempo”; e, dall’altro lato, e soprattutto, l’uso di forme narrative più sperimentali. FeA è, infatti, “scarsamente avvincente” – per riprendere un

158

Daniela Brogi

giudizio denigratorio espresso a suo tempo da Natalia Ginzburg316. Le relazioni tra i personaggi sono descritte in maniera antidrammaturgica, ovvero secondo un taglio della storia che preferisce il tempo della distanza alle occasioni di incontro e che, in tal senso, piuttosto che alle narrazioni neorealiste, fa talvolta ripensare al primo film di Michelangelo Antonioni: Cronaca di un amore (1950), perché anche qui si racconta un amore in due tempi, a distanza di sette anni, che raddoppiano il senso di fallimento di una storia, anziché risolverlo; e anche qui la minuziosa verisimiglianza sociologica serve non tanto alla raffigurazione d’ambiente quanto a far risaltare, oggettivandola, la solitudine con cui i protagonisti attraversano la corrente della vita. Quello di Fausto e Anna è un amore consumato soprattutto nell’assenza: tanto dell’esperienza quanto delle parole. «– Come va? – disse Fausto. / – Non c’è male, e lei? – rispose Anna»: sono, per esempio, le prime battute che si rivolgono i personaggi quando finalmente si ritrovano: FeA; III, XXIX, 449. Né i momenti di svolta sono riferibili a una parabola naturalistica della vicenda, ovvero a un inizio, uno svolgimento e una fine puntuali e fattuali; a fare racconto sono le situazioni più che le circostanze esteriori. Gli eventi narrati delineano una sorta di cronistoria famigliare della piccola borghesia dell’Italia fascista, per quanto riguarda la vita privata che fa da sfondo all’amore tra i due protagonisti. Mentre, sul versante della vita pubblica, la storia della Resistenza narrata in FeA è un susseguirsi di sequenze e di eventi uniti, potremmo dire, per asindeto, ovvero senza che il racconto assecondi un principio di selezione e di organizzazione della storia per gerarchie di importanza e di significato. Il risultato

Il ritratto dello scrittore da partigiano

159

d’insieme, soprattutto per quanto riguarda l’edizione 1952 di FeA, è quello di una trama giocata su un effetto continuo di opacità e di mancanza di contorni definiti: del racconto come dell’esistenza. Motivi liberi e motivi legati, fatti ordinari ed eventi straordinari, si dispongono su una superficie increspata di piani e contropiani, secondo un’intenzionalità narrativa che a tratti ricorda il «concetto lirico della prosa»317 della scrittura tozziana. Come nell’autore di Tre croci – ristampato nel 1979 proprio con introduzione di Cassola318 – si ha un modulo romanzesco diverso dal frammentismo narrativo primonovecentesco, perché, malgrado l’assenza di un’organizzazione drammatica degli eventi, il racconto non corrisponde a un ordito di lasse autoconcluse. La punteggiatura dei paragrafi e delle parti crea un susseguirsi di ellissi e di interruzioni che nell’insieme definiscono una trama: «non il punto fermo ma la vita che è moto doveva essere l’oggetto della mia scrittura»319. «Con gran gioia ho ricevuto FeA» – scrive Calvino a Cassola il 16 gennaio 1958 (riferendosi al dattiloscritto definitivo della seconda edizione)320. Nell’arco delle medesime settimane, mentre l’autore del Barone rampante (1957) è impegnato nella rilettura di FeA, Cassola invece si dedica al Dottor Zivago: «mai un libro appena uscito mi aveva dato tanta commozione e tanto conforto – scrive il 17 gennaio –. Sono subito entrato nella schiera di chi lo considera il più bel romanzo del secolo. E mi pare che indichi la strada per l’avvenire»321. «Anch’io, che non ho mai scritto di critica, vorrei scrivere qualcosa» (a Bilenchi, 30 gennaio)322. Nell’aprile successivo, proprio su iniziativa dell’autore di FeA323, la rivista «Il Ponte» pubblica un

160

Daniela Brogi

Dibattito sul «Dottor Zivago», e i giudizi di Cassola lettore di Pasternak ci aiutano a ricostruire l’identikit dell’autore di FeA («un minuscolo caso Zivago» come lo definisce lo stesso Cassola324): Vorrei per lo meno provarmi a demolire una falsa opinione che credo abbia fatto schermo a molti, inducendoli, magari inconsapevolmente, a rifiutare a priori il romanzo di Pasternak. L’opinione a cui mi riferisco è questa: che il romanzo sia un genere letterario, con delle strutture fisse, o per meglio dire fissate, fissate appunto dai grandi scrittori dell’Ottocento325.

Seguono immediatamente due esempi delle nuove strategie del romanzo novecentesco sperimentate dal Dottor Zivago, e, di fatto, operanti anche in FeA: l’uso del paesaggio come dispositivo narrativo forte del racconto («la natura è, con la storia, il maggior protagonista»)326; e lo statuto sfocato del personaggio: Il Dottor Zivago non ha personaggi, non ha centro, non ha unità, non ha uno svolgimento coerente, ma solo se si rimane fermi agli schemi romanzeschi dell’Ottocento. La verità è che talune strutture del romanzo ottocentesco sono inaccettabili, ormai. Né gli esperimenti di un Joyce, o anche di uno scrittore di terz’ordine come Dos Passos, sono da considerare semplici fumisterie. Quegli esperimenti furono dettati dalla necessità di creare nuove dimensioni, nuove possibilità espressive per il romanzo, che era finito, non dimentichiamolo, nella palude del naturalismo327.

Questa affinità con una scrittura che vada oltre le frontiere del naturalismo ottocentesco, come del neorealismo, trova,

Il ritratto dello scrittore da partigiano

161

testualmente parlando, uno dei campi di applicazione più fertili proprio nella costruzione di FeA, nella sua cosiddetta assenza di «uno svolgimento coerente». In tal senso, proprio come Il dottor Zivago, il romanzo di Cassola appare decisamente lontano dalle strutture e dai temi del romanzo di formazione, a cui invece lo avvicinerà Fortini nella prefazione all’edizione francese (1961)328. Tutt’al più, volendo proprio usare la categoria del Bildungsroman, si può farlo rovesciandola: il racconto segue il percorso inverso di una parabola di formazione, perché non cambia niente dal punto di vista della scontentezza alla vita di Fausto. Inoltre, i movimenti scanditi dalla vicenda sono, piuttosto che acquisizioni, scatti, scarti, che smantellano le pregiudiziali del personaggio sull’amore e sulla storia. Rispetto al primo momento in cui Fausto entra in scena, tutto il racconto procede per un accumulo di fatti che non renderanno mai dinamico il suo tormento e la sua condizione di essere strappato dalla felicità (e questo vale per FeA, ma in buona misura vale anche per l’intera poetica di Cassola, che parlerà a lungo dei medesimi spazî e dei medesimi personaggi). Ma il problema è forse a monte: il romanzo di formazione presuppone un’idea lineare e progressiva di tempo che è molto diversa da quella configurata in FeA, dove si ha un tempo inteso come sovrapposizione continua di piani narrativi diversi. 6. Le verità e le bugie di Fausto Nell’ottobre cominciai Fausto e Anna. Avevo ripudiato la mia poetica giovanile e mi rivolgevo a nuovi contenuti. C A R L O C A S S O L A , lettera a F R A N C O F O R T I N I , 2 dicembre 1961

162

Daniela Brogi

Rispetto alle questioni considerate fin qui, vanno ridiscusse anche le ripetute dichiarazioni d’autore intorno alla premeditata rottura col passato compiuta da FeA. Nell’arco dell’opera cassoliana, questo primo romanzo fissa infatti un punto di intermediazione tra principî di rinnovamento e recuperi di modi della scrittura già sperimentati nei racconti brevi del decennio precedente e solo a metà appartenenti a una fase “giovanile” definitivamente conclusa. La Scoperta di Joyce329 aveva segnato il passaggio più importante di questa stagione: Io avevo preso la decisione di diventare uno scrittore a diciott’anni, nell’estate del ’35 [ovvero nella stessa epoca in cui ha inizio la vicenda raccontata in FeA]. […] In Joyce scoprii il primo scrittore esistenziale; il primo scrittore cioè che si occupasse di mettere in luce la bellezza dell’esistenza. Però non diventai un imitatore di Joyce. Pensai che si dovesse mostrare la bellezza del mondo non attraverso il racconto di una infanzia privilegiata come quella di Stephen Dedalus ma attraverso la rappresentazione dei casi ordinari della vita330. La lettura decisiva per noi fu rappresentata da Dublinesi e Dedalus. Sulla base di questa lettura nell’inverno 1936-37 ci formammo la nostra poetica, la poetica del subliminare. La visita e Paura e tristezza furono per me il collaudo di questa poetica. [e infatti La visita deve molto a un testo come An encounter di Joyce]. A questo punto (marzo del ’37, avevo vent’anni esatti) posso considerare chiuso il periodo della mia formazione. Cosa c’entra l’ermetismo? Assolutamente nulla. Io probabilmente nel ’37 non sapevo nemmeno che esistesse331.

Joyce dunque, che si pone come nume tutelare degli anni di apprendistato alla vita da scrittore, apparterrà,

Il ritratto dello scrittore da partigiano

163

inevitabilmente, anche al sistema di riferimenti che FeA, in quanto «processo al passato», intende liquidare. Tant’è vero che, come già attesta il racconto Scoperta di Joyce, all’autore di Dubliners il romanzo si richiama ogni volta che l’autore, lavorando dietro la facciata di uno stile apparentemente “semplice” e “immediato”, vorrà invece insinuare una luce critica sulle velleità estetiche del suo eroe e, più in generale, sul suo bisogno di configurarsi una vita a priori332. Emblematico, in tal senso, il passaggio in cui si racconta la “scoperta” della vocazione letteraria del protagonista: è la prima volta che Fausto e Anna si trovano da soli; dapprima passeggiano, poi si appoggiano alla spalletta di un viale, e mentre Fausto sta pensando di far colpo ripetendo alcune frasi sentite da Dino, il suo amico pittore, Anna, come se intercettasse le sue intenzioni, gli domanda: «La vedo spesso insieme con Dino Rossi. Dipinge anche lei?». «No, io non dipingo… scrivo» rispose Fausto. Aveva mentito quasi involontariamente; ma un attimo dopo già non la considerava più una menzogna. Subitamente aveva deciso di scrivere, di diventare un letterato, un poeta. La bugia gli aveva rivelato qual era la sua nuova ambizione, maturatasi durante l’estate attraverso i discorsi di Dino Rossi e le letture fatte. [FeA, I, IX, p. 199]

La scelta della scrittura dunque come punto di perfezione di una bugia e, dietro di essa, di un falso sé con manie di grandezza che, nel prosieguo del racconto, l’autore rappresenta in tutta la sua miseria: Tornarono indietro senza quasi scambiare una parola. Si separarono prima di rientrare in città [Volterra]; e Fausto fu

164

Daniela Brogi

quasi contento di lasciare Anna, per poter restare solo coi suoi pensieri. Tornò indietro percorrendo a gran passi il viale, e prima di arrivare in fondo aveva già concepito un racconto, pieno di polemica contro la borghesia. Protagonista un poeta, cioè un uomo superiore, che è incompreso dai suoi simili e che a sua volta li disprezza. Si fermò perché gli era venuto in mente un altro racconto in cui fosse fatto il confronto tra una prostituta e una donna che si è sposata per interesse, a tutto vantaggio della prima, naturalmente. Nuovi orizzonti gli si aprivano davanti, ed egli camminava a gran passi, felice. [Ibidem]

Sovversivismo piccolo-borghese, superomismo di periferia («un poeta, cioè un uomo superiore»), conformismo strapaesano: l’estetica di Fausto giunge ai limiti della caricatura. Per sortire questo effetto il significante va a braccetto col significato: il monologo interiore infatti è la strada espressiva più congeniale alle ipertrofie di Fausto, alla sua incapacità di oggettivarsi; grazie alla focalizzazione interna, il narratore lascia la parola al personaggio, dando libero sfogo ai suoi delirî di autorappresentazione, e, solo alla fine, giustiziandolo a freddo col colpo velenoso di un solo avverbio in coda della frase («naturalmente»). E dall’altra parte c’è Anna, che malgrado sia attratta dal fascino «cittadino» di Fausto e dalla sua posizione sociale, non per questo si confonde: «Fausto parlava pressoché a caso, e viceversa Anna lo ascoltava attentamente e pesava ogni sua parola» (FeA, I, XII, p. 211), né si lascia intimidire dai suoi sfoggi di cultura: «Dimmi qualcuno che non è idiota.» «James Joyce» rispose Fausto.

Il ritratto dello scrittore da partigiano

165

«Gems Giois? E chi è» fece Anna incuriosita. «Un grande scrittore. Il più grande scrittore che sia mai esistito.» «Io non lo avevo mai sentito nominare.» «Tu sei una povera ignorante.» «Questo si sa.» […] «Vorrei esser nato orfano» disse Fausto. «Io non ho che te» aggiunse dopo un momento, melodrammaticamente. «Non ho che te e qualche amico, qualche consolatore: James Joyce…» «Come?» fece Anna sorpresa. «È tuo amico questo famoso Gems… come si chiama?» «Tutti gli artisti sono amici e consolatori. La loro arte consola gli uomini, ma gli uomini non li riconoscono e li crocifiggono. Poi, dopo che li hanno crocifissi, li mettono sugli altari. Capisci quello che voglio dire?» aggiunse col solito tono falso.

Fausto è continuamente «falso» con Anna, perché invece di «abbandonarsi» sente sempre il bisogno di recitare una parte: quando la bacia («– Ecco, io la sto baciando – pensava Fausto; “ma che cosa provo? –»: FeA, I, XIII, p. 214); quando le parla; quando invece di abbracciarla la scruta per scovare i suoi difetti fisici (FeA, I, XIV, p. 215); quando deve separarsi da lei e simula disinvoltura («M’annoierò senza di te – disse Fausto con sufficienza»: FeA I, XIV, p. 216)333; quando le scriverà delle lettere. Eppure Fausto ama veramente Anna – che invece vive una «momentanea infatuazione» (FeA, I, XV, p. 217). Ma il problema è che il personaggio non smette mai di osservarsi; non vive: studia le pose migliori per vivere. Da parte sua, la voce narrante

166

Daniela Brogi

non ne perdona una a Fausto, fino a condannarlo esplicitamente («se dunque c’era qualcosa che non andava, la colpa risaliva unicamente a Fausto»: FeA, I, XIX, p. 236). Per quanto inerme a contrastarlo, nel corso del racconto tuttavia Fausto imparerà a conoscere il demone dell’intellettualismo che gli ingombra la vita. Se fosse stato il protagonista di un romanzo di formazione ottocentesco, avrebbe potuto procedere dal pensiero all’atto, intraprendendo un percorso di automiglioramento. Ma Fausto è un personaggio novecentesco, e la scoperta della propria inettitudine, anziché aiutarlo, lo sfavorisce, perché lo precipita in uno stato definitivo di frustrazione: urtò un giovanotto [Fausto si trova a Roma]. «Scusi» disse. Ma quel naso aquilino, quelle lentiggini, quegli occhietti a spillo non gli erano nuovi. Si voltò a guardarlo. Ora ricordava: era De Mattei, suo compagno di scuola in quarta ginnasio. De Mattei era un ripetente, portava i calzoni alla zuava e fumava. Una mattina giocavano a palla a volo nel cortile della scuola. Fausto aveva sbagliato un pallone facilissimo, dando così la vittoria alla squadra avversaria. De Mattei, irato, gli era andato contro minaccioso. Fausto, impaurito, era arretrato e arretrando era inciampato ed era caduto all’indietro. E De Mattei lo aveva preso a calci. Rosso di vergogna per il ricordo, Fausto se ne tornò nella stradetta sporca e solitaria, che gli pareva lo specchio della sua vita. Uno dopo l’altro, richiamò alla memoria i soprusi di cui era stato vittima da parte dei compagni di scuola e di gioco. Era stato un ragazzo debole e pauroso, e i compagni lo avevano sempre disprezzato e svillaneggiato.

Il ritratto dello scrittore da partigiano

167

Ora Fausto vedeva chiaro nelle proprie ambizioni intellettuali e letterarie. Erano nate da un desiderio di rivalsa. A lui il destino non aveva concesso “il piacere della salute maschia e violenta”, come la chiama Joyce, e gli altri ragazzi lo avevano sempre disprezzato e svillaneggiato. Da quel complesso d’inferiorità erano nate le sue aspirazioni a essere un uomo superiore. I calci di De Mattei avevano fatto nascere i suoi atteggiamenti antiborghesi e la sua “vocazione” letteraria. [FeA, I, XXVI, p. 263]

Allo stesso modo della vicenda d’amore, anche l’esperienza della guerra sarà raccontata attraverso il filtro delle “colpe” del protagonista. Come con Anna, anche coi comunisti partigiani il personaggio non sarà mai capace di agire in sintonia con l’esperienza, tanto la sua mente è disturbata dal rumore di sottofondo dei pensieri e dei trasognamenti. Ecco, per esempio, come Fausto comincia a frequentare i “vecchi compagni” di Volterra attraverso i quali aggancerà una formazione partigiana: siamo nel settembre 1943, a pochi giorni dalla caduta del regime badogliano; accompagnato da un suo amico professore, Fausto fa la conoscenza del «vero Baba», un comunista storico condannato nel 1929 dal Tribunale Speciale, e si siedono al bar del paese – all’Italiano, dice un inciso, facendo respirare, come tanti altri dettagli imboscati, quell’aria locale della provincia fascista che soltanto il cinema, ma soltanto dieci anni più tardi, non agli inizî degli anni Cinquanta, ci avrebbe raccontato. A Calvino procurava fastidio, come ammise lui stesso: «il disagio che dà una vecchia fotografia» che si preferisce strappare, per non turbare il senso di rinascita a cui ci si affida ogni volta che si sente il bisogno di riscrivere il romanzo della propria vita334.

168

Daniela Brogi

Leggiamo dunque cosa accade al tavolino di quel bar: Il barista servì i caffè, poi il professore disse: «L’amico Errera [Fausto] è dell’opinione che si debba far qualcosa. Parlavamo dianzi… Tu che ne pensi Baba?» Baba non batté ciglio. «Già» fece Fausto, «io penso che, per esempio, potremmo cercare delle armi e nasconderle. […] Voi che intenzioni avete?» chiese a Baba. «Aspettiamo gli ordini del Partito» rispose Baba. Fausto non seppe come replicare, e si stabilì il silenzio. Tuttavia restarono seduti intorno al tavolo; sentivano il bisogno che la conversazione rinascesse, su un altro argomento. Fausto si fece forza e disse: «Io mi ricordo di quando lei fu condannato dal Tribunale Speciale. Ero un ragazzo, allora: avevo tredici anni [«dodici anni» secondo l’edizione 1958, che corregge la data del processo, svoltosi nel 1929335]. Mi ricordo proprio di quando dissero in casa: Baldini ha avuto sette anni». Baba teneva la faccia china sul bicchiere del caffè. «Sette anni!» esclamò goffamente Fausto. «Sette anni sono parecchi.» Baba alzò leggermente la faccia: «Se li avessi dovuti far tutti sarebbero stati parecchi. Ma con l’amnistia che avemmo, passarono abbastanza presto.» «Aveste un’amnistia?» «L’amnistia del Decennale» rispose Baba, e parve sorpreso che Fausto non lo sapesse. In realtà Fausto aveva seguito con grande interesse e, bisogna pur dirlo, parteggiando in pieno per gl’imputati, il processo al Tribunale Speciale; ma poi se n’era completamente dimenticato. Semmai, altri comunisti avevano occupato la sua fantasia, i comunisti russi, Lenin, Trotzkij e Stalin. Molto aveva fantasticato sulla scena di un film, nella quale

Il ritratto dello scrittore da partigiano

169

si vedeva in funzione un tribunale rivoluzionario: dei cinque che lo componevano, quattro avevano capigliature arruffate, barbe incolte o baffi ispidi, occhi lampeggianti; il quinto, seduto in un angolo, era un tipo completamente diverso: con la faccia rasata e l’occhio velato, non parlava, né si muoveva, solo fumava con gesti lenti e misurati. Quando Fausto fantasticava di essere un bolscevico, o comunque un rivoluzionario, e di partecipare a una riunione, sceglieva per sé il posto d’angolo, e si sentiva dotato di un potere straordinario, fatto d’immobilità e di silenzio… [FeA, III, I, pp. 339-340]

È banale, ma solo apparentemente: in letteratura non conta cosa è successo, ma cosa si racconta che è successo. Se scavalcassimo il medium dell’intenzionalità narrativa, ci occuperemmo di sociologia – come fecero all’epoca molti detrattori di FeA – piuttosto che di letteratura. Nella scena appena letta, così com’è costruita, l’interesse di Fausto per il comunismo è presentato essenzialmente come una rielaborazione di materiali emotivi: un ricordo da ragazzo e una fantasticheria suggerita da un film. Anche le pagine successive insisteranno sulla «natura impressionabile» (p. 342) e sulla mente romanzesca di Fausto, offuscando le azioni oggettivamente coraggiose e costruttive compiute dal personaggio: come – nel brano citato – l’iniziativa di contattare i partigiani, fare qualcosa, procurarsi delle armi. Il capitolo seguente continua a svolgere il filo dell’immaginazione melodrammatica come tonalità dominante del racconto: un pomeriggio Fausto esce di casa tutto contento del suo aspetto, perché indossa «un trench»: «antiquato tutto risvolte, ganci e campanelle» (FeA, III, II, p. 342), commenta il narratore, ma per il personaggio il trench è l’oggetto iniziatico336 che

170

Daniela Brogi

gli consente, evidentemente, di identificarsi con le icone maschili della cinematografia dell’epoca (Casablanca risale all’anno prima della scena raccontata, al 1942): «prima di uscire, s’era specchiato lungamente, provando tutte le posizioni: staccandosene solo quando lo specchio gli aveva reso un’immagine seducente. Ora, camminando, l’aveva davanti agli occhi» (FeA, III, II, p. 342). Il racconto declina alla lettera il narcisismo del protagonista. Ma c’è un punto importante da mettere a fuoco, e ci aiuta proprio il proseguimento di questa scena. Uscito di casa, Fausto attraversa la campagna: Brevi folate spazzavano l’aria. Rapidamente [Fausto] scese nella vallata. Davanti alla villa Ormanni risuonavano delle voci femminili; ma Fausto tagliò prima, prendendo un viottolo solitario in mezzo ai castagni. Lo fece per precauzione. Niente giustificava in realtà una simile precauzione, all’infuori del fatto che indossava quel trench, un trench che si addiceva a uomini coinvolti in vicende pericolose. [FeA, III, II, p. 343]

Facendo di tutto per ammirarsi, per mettere in scena un ritratto di sé, Fausto guarda se stesso per guardarsi dal mondo. Il narcisismo in gioco non riguarda solo il livello superficiale della vanità ma il modo in cui certe forme di amor proprio conducono alla solitudine, alla morte. Schermandosi dietro alle ragioni del trench, Fausto preferisce il «viottolo solitario» al richiamo delle «voci femminili». La mente si contrappone all’eros, gli sbarra la strada («tagliò prima»), giunge in qualche modo alla repressione del sesso, talora anche alla sessuofobia. E non è un caso, perché succede sempre: era accaduto con

Il ritratto dello scrittore da partigiano

171

Anna, ed era accaduto anche prima, a Roma, quando il protagonista era andato in un bordello senza consumare ma solo «per osservare da vicino il fenomeno della prostituzione» (FeA, I, XXVI, p. 264. Del resto, nell’arco della vicenda narrata Fausto si concederà dei rapporti sessuali soltanto in situazioni di degradazione337). D’altra parte, sarebbe sbagliato trasformare la paura dell’esperienza espressa dal personaggio in un rifiuto dell’esperienza tout-court messo in scena dal romanzo, finendo, su questa strada, per sovrapporre l’autore al suo eroe. Con le vicende della guerra infatti Fausto ripete il medesimo fallimento vissuto con Anna («mi sembrò che avesse ragione mia moglie che non credeva in me come scrittore perché, diceva, mi mancava il cuore..»). Ma così come Fausto ama moltissimo Anna, malgrado sia, tra i due, quello incapace di abbandonarsi, anche con l’esperienza della guerra di Liberazione a fianco di partigiani per lo più comunisti Fausto è incapace di trasporto, e ne soffre moltissimo, ma l’assenza di convinzione, se guardiamo al paesaggio complessivo costruito dalla narrazione (ricordandoci, per esempio, che la parte dedicata alla guerra è la più lunga), diventa un argomento in più per confermare l’importanza di quell’esperienza, non per negarla. Perché il punto è che non è il modo in cui Fausto vive la Resistenza ad essere falso: è complesso, spesso falso – e subito segnalato da un narratore implacabile – il modo in cui essa viene «ricapitolata», ovvero sempre riportata a un’istanza romanzesca, dal protagonista: Un’ora dopo, seduto sul crinale, fumando una sigaretta, e avendo di fronte la vallata già tutta in ombra e le case e le rocce di San Ginesio rosate dall’ultimo sole, Fausto

172

Daniela Brogi

ricapitolava i propri pensieri. Gli pareva quel giorno, nella pur tumultuosa discussione con Baba e con Piero, di aver fatto molti passi innanzi nella conoscenza di se stesso, dei moventi delle proprie azioni, e della sua posizione rispetto agli altri. Gli pareva ora di aver sotto gli occhi un preciso schema della sua vita. La sua natura egoistica, a diciotto anni, fa di lui un intellettuale. Egli si estrania dal proprio ambiente (ambiente piccolo-borghese di città; ideali di questo ambiente: una posizione sociale rispettabile e un certo grado di cultura). Dunque, egli tende a uscire dal proprio ambiente, e a questo punto incontra Anna. Anna è una piccoloborghese di provincia (senza volerlo, Fausto adopera la terminologia marxista, divenutagli familiare in quei mesi attraverso le snervanti discussioni con Baba). Ama Anna, ma in modo puramente egoistico, e Anna si allontana da lui. Lui, Fausto, si trova nuovamente solo. E solo rimane per tutti quegli anni, finché conosce Baba e gli altri operai e per un momento si attacca a loro… [FeA, III, XLI, pp. 507-508]

Mentre, malgrado le stroncature del P C I , il personaggio di Baba – già presente nel racconto omonimo e nei Vecchi compagni (1952) – è forse il ritratto di comunista più bello, più intenso della letteratura italiana. Baba è l’operaio – alabastraio – diventato comunista; è l’antimodello di Claudio, il medico psichiatra Comandante di Distaccamento. Claudio è un intellettuale – come Fausto – a cui il romanzo non perdona l’intransigenza ideologica, ma soprattutto è l’incarnazione, esasperata fino all’eccesso, di ciò che in un articolo del 1956 Cassola denuncerà come il togliattismo: è l’aristocratico che disprezza la base338, che considera i partigiani usando le medesime parole usate nei Promessi sposi per descrivere la folla milanese in tumulto, ovvero

Il ritratto dello scrittore da partigiano

173

come una «marmaglia indisciplinata facile a lasciarsi prendere dal panico» (FeA; III, XV, p. 392): Tornando verso l’accampamento assieme al fido Martora, Fausto cercava di rendersi conto dell’impressione prodottagli da Claudio. “Era accuratamente sbarbato e pettinato; ha le mani curate; è medico; non fuma; non beve; disprezza profondamente l’umanità; è fautore del pugno di ferro…” A un tratto capì: “È un tedesco. È un nazista”. Sì, era una definizione che calzava a pennello. [FeA, III, XV, p. 393]

La parabola politica e umana, perfino la fisionomia di Baba è il rovescio di quella di Claudio; appare tanto più eroica quanto meno è enfatizzata. Nessun lettore di FeA potrebbe augurarsi un amico migliore di Baba, e Fausto è il primo a saperlo, perché malgrado lo aggredisca in continuazione, gli vuole bene come a un padre buono, lo paragona a Napoleone, ogni volta torna a cercarlo: Baba invece era sempre lo stesso, col cappello calato sugli occhi, il vestito pataccoso, la cravatta sfrinzellata e la barba di una settimana. Fausto l’abbracciò. Poi lo condusse in cucina a rifocillarsi. Gli disse: «Dormirai con me» e gli fece mettere la roba nel capanno accanto alla sua. Insomma non lo lasciò respirare. «Quanti tedeschi hai ucciso?» gli chiese Baba sorridendo. «Non te l’ho detto che sono incapace di uccidere?» rispose Fausto, anche lui sorridendo. [FeA, III, XVI, p. 394]

Quando un prigioniero sarà pugnalato a tradimento è con Baba che Fausto si sfogherà, pronunciando frasi spietate, che nemmeno pensa davvero («mi vergogno di essere un

174

Daniela Brogi

partigiano»: FeA, III, XVII, p. 402), e che per esempio saranno implicitamente smentite appena Fausto si confronterà con il dolore di un contadino a cui è stato ucciso il figlio ventenne (FeA, III, XIX, p. 411); ma questa è anche l’occasione per lasciar parlare Baba, che a tutti i titoli fa un discorso da protagonista. Le pagine della discussione con Baba sono le più dure, quelle che più disturbarono molti lettori di FeA: «Maledetto il giorno che sono venuto a fare il partigiano» disse Fausto. «Ci sei venuto di tua spontanea volontà» replicò Baba freddamente. «Sì, è vero… Ma no, aspetta, sono contento di esser venuto; perché ho imparato una cosa…» «Quale?» «Che comunista è sinonimo di assassino.» Baba lo guardò coi suoi occhi buoni e scosse tristemente il capo. “Perché l’ho offeso?” pensò Fausto. Ed ebbe rimorso, tuttavia non aggiunse nulla, mentre Baba, dal canto suo, si era chiuso in un cupo silenzio. «Be’… torniamo indietro?» disse finalmente Fausto. Baba fece un cenno di assenso. Tornarono indietro e per quella sera non scambiarono più una parola. [FeA, III, XVII, p. 404]

Ma le parole di Fausto furono intese come un pronunciamento definitivo di condanna che appartiene più al personaggio che alla logica complessiva del racconto: Una mattina [mentre Fausto si trova nella nuova postazione partigiana] egli indugiava sul letto di eriche, quando

Il ritratto dello scrittore da partigiano

175

Maggiorelli, che si stava infilando i pantaloni, lo chiamò alla finestra: «Arrivano! Vieni a vedere!» Fausto corse alla finestra. Una lunga fila indiana stava risalendo il prato. Venivano avanti gli uomini, poi una mezza dozzina di muli su cui avevano caricato il bagaglio, finalmente, in coda, un uomo a cavallo, che Fausto non tardò a riconoscere per Baba. Scesero a riceverli. Erano stanchi morti, dopo la camminata, che era durata l’intera notte. Fausto si avvicinò a Baba, che stava smontando da cavallo. «Salve» gli disse. E aggiunse sorridendo: «Sembravi Napoleone, che cavalca in mezzo alla sua Grande Armée». «Mi sono fatto male a un piede» rispose Baba come per giustificarsi. «Ma che piede… è che non ce la fai a camminare. Te lo dicevo che non era vita per te?» e così scherzando cercava di fargli dimenticare e di dimenticare lui stesso quelle parole, che comunista è sinonimo di assassino. [FeA, III, XX, p. 414]

7. La funzione Dedalus Nei nostri sforzi per comprendere e per vivere ci sorressero voci straniere; ciascuno di noi frequentò ed amò di amore la letteratura di un popolo, di una società lontana, e ne parlò, ne tradusse, se ne fece una patria ideale… C E S A R E P A V E S E , «Unità» di Torino 20 maggio 1945

Malgrado non sia stata quasi mai discussa, l’extralocalità tra autore ed eroe, in FeA, è una categoria fondamentale:

176

Daniela Brogi

per capire le strategie romanzesche dell’opera, anche per non fraintenderla. FeA è un romanzo autobiografico, ma ciò non vuol dire che sia l’autobiografia di Carlo Cassola, perché Fausto rimane anzitutto un personaggio fittizio attraverso il quale l’autore compie il proprio ritratto as a young man: «non volevo aver più niente a che fare con l’adolescente che ero stato fino ad allora»339. Ma proprio questa esecuzione sommaria del passato può aver contribuito in molti casi a depistare la critica: non solo perché ha creato omologie troppo strette tra l’ideologia del personaggio e quella dell’autore, ma anche perché ha compromesso l’attenzione all’effettiva importanza della «funzione Dedalus»340 sulla scrittura di FeA. Joyce infatti non è solo l’autore feticcio attorno al quale Fausto costruisce il proprio culto della letteratura come privilegio e come esercizio di emozioni, ma è anche, per l’autore di FeA, un maestro di tecniche della narrativa. «Ingenuo è il personaggio, non l’autore»341. In particolar modo, direi che la poetica del «subliminare»342 «inventata nel lontano biennio 1936-37 insieme al confrére Manlio Cancogni»343 è negata e respinta come estetica – come dimostrano i ripetuti attacchi rivolti dalla voce narrante di FeA al protagonista – ma non come strategia di composizione del testo. Perché il punto è che non l’epifania ma la morfologia del racconto rappresenta l’eredità più duratura della lezione di Joyce. La rete di fatti costruita da FeA – ma il discorso vale anche per un testo come Il soldato (1958) – significa se stessa, piuttosto che rimandare ad altro: non si squarcia mai per lasciar miracolosamente passare, attraverso una maglia più larga, una luminosa perla di significato. Nondimeno, l’uso della trama come flusso sconnesso, recuperata anzitutto dai tre

Il ritratto dello scrittore da partigiano

177

testi iniziali di Dubliners, è il principale dispositivo narrativo e semantico di FeA. Oltretutto, ci può sostenere in questa direzione di lettura la trascrizione compiuta da Giovanni Falaschi344 di alcune cartelle del Fondo Cassola non datate ma ascrivibili ai primi anni Sessanta e dedicate a un sommario degli «elementi della narrazione subliminare». Essa infatti consente in primo luogo di attestare i dati innegabili di una lunga fedeltà; in secondo luogo – e si tratta dell’aspetto più interessante in questa sede – di ritrovare, mettendoli a confronto con il testo, i punti essenziali della retorica narrativa di FeA. Ripercorriamo i più significativi: una descrizione dei luoghi che, anziché essere funzionale all’ingresso dei personaggi sulla scena, deve essere fine a se stessa; il racconto di azioni incongruenti345; il passaggio da un personaggio all’altro, o da una sequenza narrativa all’altra, regolato secondo un movimento assimilabile alla tecnica cinematografica della messa a fuoco su un secondo piano che prende la scena346; il fermoimmagine su dettagli «subliminari»; l’uso di frasi «discorsive» – come le chiama Cassola – che condensano in un enunciato una parte della storia non raccontata («ad Anna fu resa la sua vecchia camera. La signorina Lucia, venuta al mondo quindici mesi prima, dormiva con la nonna»: FeA, II, XVI, p. 322); infine, l’alternanza dei tempi verbali come espediente per fissare, dentro la serialità quotidiana espressa dell’imperfetto, l’accaduto puntuale. Proprio questa dialettica di durata versus progressione, immobilità versus movimento, fissa uno dei tratti costanti della narrativa di Cassola, scavalcando recinzioni storiografiche che col nostro autore valgono a poco, tant’è vero che Il film dell’impossibile, uno scritto del 1942, sarà ricollocato come prefazione

178

Daniela Brogi

della raccolta di racconti del 1962 La visita. Riprendiamone alcuni passaggi: Il fondamento della bellezza di un quadro, di una stampa, di una fotografia è lo stesso: l’immobilità del personaggio. Immobilità apparente piena di moto sostanziale. Perché il personaggio immobile ha tutte le possibilità di movimento intatte, cioè tutte le possibilità di vita intatte. La sua immobilità allude al movimento, la sua mancanza di vita alla vita, l’assenza del tempo al fluire del tempo. E lo stesso vale per un paesaggio, che potrà essere teatro di qualsiasi vicenda. Partendo dunque da visioni ferme, cioè da quadri, stampe e fotografie, io volli viceversa descrivere la vita di quei personaggi o le vicende che si potevano svolgere in quei luoghi. Animare una stampa, cioè far muovere e vivere i suoi personaggi, è, appunto, tentare un film dell’impossibile347.

«Immobilità apparente piena di moto sostanziale»: uno degli esempi migliori di questo lavoro accurato sulle forme che si cela dietro l’apparente semplicità della scrittura di Cassola è offerto proprio dall’incipit di FeA: Era tutto buio. Non si udivano rumori di sorta. “Mio Dio, saranno appena l’una o le due” pensò Anna. Non poteva più pensare a dormire. La sera aveva rifiutato una coperta in più offertale dalla zia, senza considerare che tra Volterra e San Ginesio vi è uno sbalzo di trecento metri. [FeA, I, I, p. 173]

Si parte da un fermoimmagine tipico della poetica cassoliana della cinematografia dell’impossibile: il fotogramma di una donna in un interno, forse, si potrebbe

Il ritratto dello scrittore da partigiano

179

congetturare, affacciata a una finestra. Si attacca infatti con un dettaglio paesaggistico, messo in primo piano con funzione simbolico-espressiva piuttosto che figurativa («Era tutto buio»), e che si dilata attraverso il rimando impersonale al campo sensitivo di qualcuno («Non si udivano rumori di sorta»). Finora il tempo raccontato è immobile, grazie all’uso dell’imperfetto; ma la frase successiva introduce, col passato remoto, un’azione precisa “Mio Dio, saranno appena l’una o le due” pensò Anna (FeA, I, I, p. 173). Per inciso, non è una frase buttata lì: potrebbe essere intesa come la frase-emblema del personaggio, visto che attorno ad Anna, ovvero attorno ai suoi pensieri e alle sue scelte («Non poteva più pensare a dormire»), ma anche attorno a quello che Anna rappresenta per Fausto, si esprime il tema più forte del romanzo: il riferimento al tempo che scorre348. Che subito si rovescia in principio formale, perché è attraverso il flashback, ovvero attraverso il movimento all’indietro della memoria, che il testo comincia a darci le coordinate dell’azione: «La sera aveva rifiutato una coperta in più offertale dalla zia, senza considerare che tra Volterra e San Ginesio vi è uno sbalzo di trecento metri». Così il vero protagonista di FeA, diventa il tempo: ora come tessuto strappato di situazioni unite per contiguità o compresenza, ma non per armonia, recuperando la lezione di Joyce; ora come esperienza introspettiva e memoriale: come tempo evocato piuttosto che come tempo vissuto, recuperando particolarmente la lezione di Proust. A procurare questi due effetti, come già si è potuto riscontrare recuperando la vicenda del romanzo, contribuisce in buona misura lo scarto fortissimo,

180

Daniela Brogi

paradossale, che FeA – mi riferisco soprattutto all’edizione 1952 – stabilisce tra il piano della cronologia e il piano della temporalità. Il primo livello, quello lineare e determinabile della cronologia, corrisponde al “tempo della storia” – come ci indica Genette; a livello delle macrostrutture, è misurabile con l’arco di anni che trascorrono tra l’estate 1935 e l’estate 1944 – ma, come si è visto, il lavoro di ricostruzione della cronologia è in buona parte da compiere ex post, perché il testo è avarissimo di indicazioni esplicite. Il secondo livello invece, quello della temporalità, in FeA è antilineare e indeterminabile; né si limita, direi, a ciò che Genette intende per tempo del racconto. Piuttosto, riguarda l’effetto di configurazione narrativa del tempo costruita, per così dire, dal lavoro di taglio dell’opera, e si realizza principalmente attraverso due strategie: la riduzione massima dell’intreccio e del tasso di interesse delle singole sequenze, per via dell’accumulo di episodi che non sembrano rispettare un principio di selezione; e la regolazione della velocità narrativa sui due opposti moduli della scena (TR = TS ) – che procura soprattuto l’idea della stasi – e dell’ellissi (TR =0), che lascia nascosti i movimenti invisibili, ma non per questo assenti, della vita che trascorre: «la parte affiorante di un iceberg è appena un decimo dell’intera massa; e così dev’essere una narrazione, i nove decimi bisogna che rimangano nascosti»349. E vale la pena di precisare che il livello sommerso della vicenda non riguarda tanto il protagonista, quanto piuttosto le vite degli altri: Anna, Baba, Chiodo, Nora. Che rimangono “altri”, per l’appunto: non ineffabili, ma inafferrabili350 E lo stile va dietro a questa «caduta della comunicazione», grazie all’uso, sia nel parlato che del

Il ritratto dello scrittore da partigiano

181

narrato, di strutture morfosintattiche espressive del silenzio, come per esempio i discorsi diretti ridotti asciugati al massimo, le frasi sospese nel vuoto, la frantumazione dei dialoghi per via di ellissi, interiezioni, pause351. Se a questa immagine della durata narrativa come un gioco di specchi tra ciò che è visibile e ciò che è nascosto riavviciniamo le circostanze autobiografiche da cui prende vita il testo, FeA potrebbe in un certo senso essere inteso anche come il romanzo di Fausto e di Anna, il racconto delle vicende che nel fluire della coscienza Fausto recupererà per tutta la vita, fissandole non solo come passaggi decisivi, ma come pieghe, interstizi di un’occasione di felicità oscurata per sempre. E così, se è vero che la circostanza e i modi con cui un personaggio entra nel racconto sono sempre significativi, perché ci dicono subito a che titolo e come quella figura si muoverà dentro la storia, è interessante rilevare che, mentre l’elemento metaforico di Anna è il buio, Fausto invece appare la prima volta – in attacco di capitolo (FeA, I, V, p. 185) – sotto la suggestione visivo-simbolica del vento con cui si era chiuso il capitolo precedente: «[ad Anna] le pareva veramente che qualcosa fosse passato per sempre, portato via dal vento che soffiava nella piccola fotografia scompigliando le sottane e capelli». Preannunciato da questa immagine, e con un passaggio repentino di angolatura che fa pensare a un taglio di tipo cinematografico: è così che arriva Fausto, sùbito colto con gesto nervoso: «Fausto passeggiava in su e in giù per il tratto pianeggiante della stradicciola»; sùbito «in qualche modo insoddisfatto, inquieto». Il fatto è che, a differenza degli effetti di rivissuto prodotti dalla memoria e dalla scrittura quando procedono all’indietro, il nastro della vita non è

182

Daniela Brogi

più riavvolgibile, e, senza mostrare di dircelo, FeA mette in forma proprio questa verità. E ce la ripete di continuo: «torniamo indietro?» chiede Fausto ad Anna la prima volta che riesce a rimanere da solo con lei (FeA, I, IX, p. 197); e anche quando si rincontreranno dopo un anno, Fausto ripeterà le medesime parole (FeA, I, XI, p. 207) che, a pensarci, riassumono tutto un destino: «“Torniamo indietro?” propose Fausto. // Anna scosse il capo: “È tardi per me. Tanto ci rivedremo, no?”»352. Così Anna, che era emersa dal buio in attacco del romanzo, sulla soglia finale compie un movimento speculare e contrario: non più di uscita ma di ritorno alle tenebre. Eppure il cerchio non è rotondo: l’immagine di circolarità suggerita dalla corrispondenza tra le prime e le ultime parole del romanzo è più un’ombra che una sostanza, perché il finale nega tutte le possibilità di svolgimento dell’inizio: «Anna diede un’ultima occhiata fuori. Era tutto buio. Non c’era nessuno» (FeA, Epilogo, VII, p. 528).

C APITOLO IV

UN ’ ESTETIC A PASSIONE : LA PATRIA DI PASOLINI *

1. «Popolo», «nazione», «Italia», «patria», «bandiera»: queste espressioni così riprese in occasione del centocinquantenario dell’Unità d’Italia, sono parole chiave anche per una ricognizione sul rapporto tra cultura letteraria e coscienza nazionale353. La persistenza stessa di tali termini ci aiuta a capire meglio fino a quando e in che modi l’identità nazionale è sentita come un dubbio significativo. Tra il 1958 e il 1959 Pier Paolo Pasolini scrive un testo esemplare di un modo di intendere l’identità nazionale come tema strettamente pertinente alla parola poetica: Alla mia nazione Non popolo arabo, non popolo balcanico, non popolo antico, ma nazione vivente, ma nazione europea: e cosa sei? Terra d’infanti, affamati, corrotti, governanti impiegati di agrari, prefetti codini, avvocatucci unti di brillantina e i piedi sporchi, funzionari liberali carogne come gli zii bigotti, una caserma, un seminario, una spiaggia libera, un casino! * Per i rimandi ai testi pasoliniani si usano le seguenti sigle: B = P.P. Pasolini, Bestemmia. Tutte le poesie, a cura di G. Chiarcossi e W. Siti, con prefazione di G. Giudici, Garzanti, Milano 1995 (1993), voll. I-IV [B I, B II, B III, B IV]; RR = Romanzi e racconti, 1946-1961, a cura di W. Siti e S. De Laude, Mondadori, Milano 1998, vol. I [RR I]; SLA = Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti e S. De Laude, Mondadori, Milano 1999, t. I [SLA I] e T. II [SLA II]; SPS = Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti e S. De Laude, Mondadori, Milano 1999.

184

Daniela Brogi

Milioni di piccoli borghesi come milioni di porci pascolano sospingendosi sotto gli illesi palazzotti, tra case coloniali scrostate ormai come chiese. Proprio perché tu sei esistita, ora non esisti, proprio perché fosti cosciente, sei incosciente. E solo perché sei cattolica, non puoi pensare che il tuo male è tutto il male: colpa di ogni male Sprofonda in questo tuo bel mare, libera il mondo. [B I, p. 555]

Alla mia nazione equivale alla declamazione di una solitudine in pubblico. L’indignazione morale, la postura aggressiva354 isola la voce poetica, ma non la separa dal mondo circostante, semmai rilancia una pretesa di riconoscimento e di ascolto anche più forti, secondo un rapporto di reciproca implicazione tra individuo e collettività che l’aggettivo possessivo del titolo, la struttura drammatica del testo e l’uso diretto e incalzante del tu richiamano esplicitamente. Alla mia nazione parla insomma di una situazione storica in cui poteva ancora avere senso che un poeta rivendicasse la centralità del proprio discorso in nome di una funzione civile. Per capire che idea di sé fissa la parola poetica è utile considerare, oltre ai temi e alle forme, la strategia d’insieme a cui rimanda la collocazione del componimento. Anche in questo senso Alla mia nazione è un documento esemplare, perché è uno dei sedici Nuovi epigrammi raccolti nella seconda tranche della seconda sezione de La religione del mio tempo (1961). Basta scorrere i titoli dei Nuovi epigrammi (I. A Krusciov; II. Alla bandiera rossa; III. Ai letterati contemporanei; IV. A Bertolucci; V. A Costanzo; VI. A Titta Rosa; VII. A Luzi; VIII. A Chiaromonte;

Un’estetica passione

185

IX. Alle campane di Orvieto; X. Ancora a Gerola; XI. A G.L. Rondi; XII. Al principe Barberini; XIII. Ai nobili del circolo della caccia; XIV. A Bompiani; XV. Alla mia nazione; XVI. A uno Spirito) per ricostruire lo spazio sociale e culturale della poesia pasoliniana: dirigenti politici, letterati, editori e poeti sono i destinatari di una parola proveniente dalla voce di un intellettuale, ancor prima che di un poeta, che si assume, senza nemmeno discuterlo, il compito di dialogare intorno ai destini generali dell’umanità: «regna la morte: ma io non sono morto, e parlerò» (A uno spirito, in B I, p. 556, v. 18). 2. Vale la pena di ricordare, per chiarezza del discorso, le date più significative della biografia di Pasolini: nasce nel 1922 a Bologna; dal 1942 al 1949 vive in Friuli, a Casarsa («piacevole e tragico esilio in cui compiere i gesti del mio narcisismo355»). Nel 1950 si trasferisce a Roma, dove risiederà fino al momento della morte, nel 1975. La data di nascita, in particolare, è fondamentale: Pasolini ha vent’anni all’epoca del secondo conflitto bellico. Come quella di tutti gli altri appartenenti alla medesima generazione, la sua vita è divisa in due dalle vicende della guerra e della Resistenza. La storia spinge di schianto l’adolescenza al passaggio nella linea d’ombra della maturità: Avevamo vent’anni e oltre il ponte oltre il ponte che è in mano nemica vedevam l’altra riva, la vita, tutto il bene del mondo, oltre il ponte. Tutto il male avevamo di fronte, tutto il bene avevamo nel cuore,

186

Daniela Brogi

a vent’anni la vita è oltre il ponte, oltre il fuoco comincia l’amore356.

La Resistenza si pone come prova totale che richiede un’adesione non meno totale degli uomini357. Il senso epico dell’esistenza di cui ci parla il romanzo più importante di quegli anni, Il partigiano Johnny – Fenoglio è nato nello stesso anno di Pasolini –, è l’effetto di una precisa situazione di emergenza storica, che trasforma la percezione del mondo e dell’esperienza, creando le condizioni di una coincidenza forte tra vita e destino: Senza la guerra [si cita dalla lettera del ventotto novembre 1943 scritta dal ventiquattrenne Giaime Pintor al fratello Luigi] io sarei rimasto un intellettuale con interessi prevalentemente letterari: avrei discusso i problemi dell’ordine politico, ma soprattutto avrei cercato nella storia dell’uomo solo le ragioni di un profondo interesse, e l’incontro con una ragazza o un impulso qualunque alla fantasia avrebbero contato per me più di ogni partito o dottrina. [...] Soltanto la guerra ha risolto la situazione, travolgendo certi ostacoli, sgombrando il terreno da molti comodi ripari e mettendomi brutalmente a contatto con un mondo inconciliabile358.

I conflitti essenziali sono immediatamente vissuti come conflitti di tutti e viceversa, come sembra dirci la morte stessa di Guido Pasolini, fratello diciannovenne di Pier Paolo, partigiano ucciso dai partigiani nel febbraio del 1945359. Chiamato alle armi pochi giorni prima dell’otto settembre e sfuggito avventurosamente alla prigionia tedesca, Pasolini d’ora in poi declinerà l’impegno in senso anzitutto culturale («educare: sarà questo il più alto

Un’estetica passione

187

– ed umile – compito affidato alla nostra generazione», aveva scritto già nel 1942360), assecondando una «divorante ansia didattica» iscritta nella sua stessa biografia di figlio di un militare e di un’insegnante (due professioni largamente coinvolte nel processo di formazione dell’individuo e della società361). E tuttavia, se la scelta di una militanza intellettuale lo preserva dagli esiti fatali a cui andarono incontro i molti ventenni che si unirono alle formazioni partigiane, non per questo Pasolini si sottrae al modo tragico di intendere la libertà «che vive solo in quanto è vissuta drammaticamente»362. Da qui deriva il perseguimento continuo – quasi ossessivo – di un esame di coscienza in pubblico. Da qui si sviluppa un’etica della responsabilità individuale363 che, pur nelle differenze, sembra essere il marchio indelebile di tutta la generazione di Pasolini. È proprio rispetto a questo bisogno di significati generali che trascendano le soglie particolari della vita privata che la morte tanto discussa di Pasolini si può anche intendere come il modo più oscuro, ma al tempo stesso più cristallino nella sua figuralità sacrificale, di ricongiungere il proprio destino a quello del fratello ucciso. 3. Andrea Zanzotto ha detto di Pasolini: «crisi pubblica e crisi privata si ritrovavano per lui coniugate insieme, a ogni incrocio e svolta, erano il chiasmo e l’ossimoro crocifiggente364». L’intreccio continuo di storia e psicologia, e l’immediata trasformazione di quest’ossimoro crocifiggente in materia di scrittura rendono l’opera di Pasolini incomprensibile al di fuori del contesto in cui è nata. Ma se questo è vero, si potrà allora aggiungere che poche figure,

188

Daniela Brogi

come quella di Pasolini, aiutano a ricostruire così bene il campo politico e culturale di provenienza. Uno dei momenti più intensi di scambio tra storia pubblica e storia privata risale all’ultima vera fase novecentesca di tensione tra letteratura e identità nazionale, ovvero al dopoguerra e alla stagione successiva degli anni Cinquanta. Ancora una volta, l’esperienza di Pasolini è interna a un orizzonte culturale che riguarda tutta la generazione degli intellettuali di quegli anni; ecco come Natalia Ginzburg ha descritto lo spirito di quei tempi: Era, il dopoguerra, un tempo in cui tutti pensavano d’essere dei poeti, e tutti pensavano d’essere dei politici; tutti s’immaginavano che si potesse e si dovesse anzi far poesia di tutto, dopo tanti anni in cui era sembrato che il mondo fosse ammutolito e pietrificato e la realtà era stata guardata come di là da un vetro, in una vitrea, cristallina e muta immobilità […]. Nel tempo del fascismo, i poeti s’erano trovati ad esprimere solo il mondo arido, chiuso e sibillino dei sogni. Ora c’erano di nuovo molte parole in circolazione, e la realtà di nuovo appariva a portata di mano; perciò quegli antichi digiunatori si diedero a vendemmiarvi con delizia. E la vendemmia fu generale, perché tutti ebbero l’idea di prendervi parte; e si determinò una confusione di linguaggio fra poesia e politica, le quali erano apparse mescolate insieme365.

Il periodo successivo alla stagione delle «belle bandiere / degli Anni Quaranta»366 è quello della guerra fredda e dei conflitti delle forze politiche nazionali, il periodo in cui si preannunciano le prime avvisaglie del boom economico. Una rapida rassegna delle opere più importanti uscite nell’anno successivo al ventesimo Congresso Sovietico e ai

Un’estetica passione

189

fatti di Polonia e Ungheria offre una sintesi efficace della vivacità della cultura italiana di quel momento: una fase di sperimentazioni, fiducia, prese di posizione, illusioni che di lì a poco muteranno radicalmente. Nel 1957 infatti esce Dieci inverni (1947 – 57) di Fortini; Le ceneri di Gramsci di Pasolini; Diario in pubblico di Vittorini; il Pasticciaccio di Gadda; (al 1957 risale pure Il cavaliere inesistente di Calvino, che due anni prima aveva pubblicato il saggio Il midollo del leone). Ma il 1957 è anche l’anno in cui Pasolini pubblica Ragazzi di vita e finisce di scrivere Una vita violenta. A quest’epoca – per la precisione al decennio tra il 1948 e il 1958 – risalgono inoltre gli interventi critici raccolti in Passione e ideologia (1960), «il libro dei sogni belli degli anni Cinquanta»367. Nel 1993 Fortini ha scritto di quel periodo: Quanto in lui [Pasolini] e in me si agitò in quelle occasioni non può non apparire alcunché di incomprensibile, quasi al confine della mania, per un giovane di oggi. Ma non eravamo né pazzi né fanatici. Eravamo, a poco più di dieci anni dalla fine della Seconda Guerra, nel cuore del secolo, ancora ricchi di qualcosa che – scrisse Pasolini – ci faceva piangere guardando Roma città aperta. Le lacrime non sono affatto un buon criterio di giudizio. Eppure mi piacerebbe sapere che cosa possa oggi far piangere un uomo di trent’anni, che tanti allora Pier Paolo ne aveva. E a uno o due di quei giovani anche vorrei dire: come si impara una lingua straniera, cercate di capire la lingua nostra, solo in apparenza simile a quella che ogni giorno impiegate conversando o pensando368.

Perché Fortini parla di una lingua straniera, tanto lontana e incomprensibile, per un lettore di oggi, come può esserlo

190

Daniela Brogi

una lingua di cui si ignorano l’alfabeto e le strutture grammaticali? Il contesto storico e biografico sembra spiegare le ragioni più forti di questa distanza. Per Fortini, che è nato nel 1917, la guerra, la Resistenza e il dopoguerra scandiscono gli anni di apprendistato dell’età adulta. Come dire che storia privata e storia pubblica giungono all’appuntamento con le scelte essenziali della vita nello stesso luogo e alla stessa ora. Da questa circostanza nasce l’inclinazione a fondare un punto di vista sull’individuo che passi anzitutto per la definizione di un’identità civile. Al contrario delle generazioni successive, in primo luogo quella dei «sedicenti giovanotti della neoavanguardia», Fortini, come Pasolini, proviene da un modello intellettuale inteso come dialettica tra destino individuale ed evento collettivo369, e che vive la militanza come conflitto di forze, travaglio morale, «profondo / e ingenuo sforzo di rifare la vita» (Le ceneri di Gramsci, vv. 13-14, in B I, p. 222), piuttosto che come contrapposizione della letteratura alla società. In altre parole, le condizioni di esistenza di quella cultura letteraria che oggi appare così straniera coincidono con una delle ultime occasioni storiche in cui i due campi del discorso poetico e dell’impegno politico erano ancora percepiti come i due momenti di una dialettica, di una lotta per l’egemonia. 4. Officina, la rivista fondata da Pasolini nel 1955 assieme a Francesco Leonetti e Roberto Roversi, e pubblicata fino al 1959370, è un prezioso documento per chi intenda seguire la raccomandazione di Fortini. «Vivevamo in un altro mondo, questa è la realtà» dirà giustamente Pasolini per commentare l’esperienza di quegli anni:

Un’estetica passione

191

noi di «Officina» non avevamo previsto, con la stessa chiarezza, direi quasi esistenziale con cui l’hanno prevista, credo, alcuni sedicenti giovanotti della neoavanguardia, l’avvento del neocapitalismo [...] Ma soltanto, sia loro che noi abbiamo previsto tutto questo in senso puramente nominale [...] perché io vi sfido a dirmi chi l’ha previsto il cambiamento radicale e totale della realtà, quella sociale e politica, morale e religiosa, culturale, in cui noi parliamo [...]371.

E ancor più giusto è l’esempio usato per chiarire i termini di questa alterità: vi inviterei a ricordare che la causa, esterna sì, ma in fondo poi fattuale, per cui Officina ha cessato le pubblicazioni, è stato un epigramma contro il papa. Allora il papa aveva il potere di far chiudere una rivista letteraria, ecco372.

Siamo dunque in presenza di un orizzonte d’attesa del discorso poetico all’interno del quale non solo un papa aveva il potere di far chiudere una rivista, ma, è giocoforza dedurlo, un papa e, per metonimia, la morale comune potevano sentirsi seriamente minacciati da un epigramma uscito su un fascicolo letterario. In altre parole, la scrittura letteraria godeva ancora di un credito sociale. È proprio vero quello che ci ricorda Fortini: il flusso della storia ha trasformato quel mondo in un paesaggio sfocato e lontano, in «dieci anni d’ingiallite audacie», come ha scritto Pasolini in Una polemica in versi (1956, in B I, p. 269, v. 127). L’«ingenuità» è l’espressione più ricorrente nei giudizi retrospettivi con cui Pasolini ha siglato la stagione di «Officina»373. Effettivamente, la rivista rispecchia tutte le contraddizioni, le novità e i ritardi di un destino

192

Daniela Brogi

intellettuale italiano in bilico tra vecchio e nuovo: aperto cioè ai nuovi fermenti della cultura, ma senza soluzione di continuità rispetto ai tradizionali modelli di centralità e di autonomia del campo letterario. Questa ambiguità è chiaramente individuabile fin dalla prima pagina del numero inaugurale della rivista, che si apre con un saggio di Pasolini su Pascoli: Si consideri la stupenda possibilità di «descrizione» che presenta il fenomeno stilistico pascoliano, per un gruppo di ideologi, come è il nostro, che si definisce fuori dal campo d’una morale ontologicamente letteraria, tipica del Novecento. «Descrizione» anzitutto oggettiva, da laboratorio (se impostata secondo il folgorante schema di Contini, delle sue categorie letterarie del «monolinguismo» – petrarchistico – e del «plurilinguismo») e poi, per una sua intima forza paradigmatica, soggettiva e di tendenza. E ciò nel senso che si può fondare una revisione di tutta l’istituzione stilistica novecentesca (da farsi in gran parte risalire appunto alla ricerca pascoliana)374.

Dunque innovazione, neo-sperimentalismo – per usare il mot d’ordre della rivista – ma nel segno di Pascoli e sotto la benedizione della stilistica continiana: «non abbiamo mai operato alcuna identificazione tra spirito innovatore e sperimentalistico: il neo-sperimentalismo, come abbiamo tentato di dimostrare, tende semmai a essere epigono, non sovversivo, rispetto alla tradizione stilistica novecentesca»375. L’impegno a ricostruire un’identità letteraria lavorando sulle macerie della tradizione nazionale appare, a distanza, la tendenza dominante di «Officina» e trova proprio in

Un’estetica passione

193

Pasolini il suo promotore più convinto. Del resto, l’orientamento per un’identità letteraria che valga anzitutto nel senso di “eredità culturale” e che perciò sia tutta interna ai confini dell’italianità è coerente con il recupero della poesia popolare e dialettale compiuto da Pasolini in quegli stessi anni (l’Antologia della poesia popolare esce nel 1955). Il progetto di rifondare un’egemonia legittimata dalla tradizione – «Eredi» era il titolo inizialmente pensato per «Officina» – si conferma poi nel canone di autori messo su, volta per volta, dalle monografie collocate nella rubrica di apertura «la nostra storia». Al saggio su Pascoli con cui si apre il numero della prima serie (che va dal maggio 1955 all’aprile 1958376) fanno seguito i lavori su Leopardi, Manzoni, Serra, il neo-sperimentalismo, la Scapigliatura, e i crepuscolari. L’alternativa al novecentismo consiste, essenzialmente, nella reinvenzione di una tradizione377 risorgimentale378 e prenovecentesca che rimuove la cultura internazionale della crisi379: «non c’erano in “Officina” né disobbedienza, né estremismo: c’era la calma della ragione che ricostruisce380». La ricostruzione avviene su più fronti, eppure, come osserva Ferretti, l’istanza di rinnovamento non intacca, al fondo, la centralità dell’istituto letterario, nonché del suo campo espressivo più tradizionale, vale a dire il discorso poetico: C’è [...] in «Officina» una diffusa spinta di esigenze morali e politiche, di istanze extraletterarie, insomma: il rapporto cultura-società, il gramscismo, la lingua della poesia come fatto comunicativo, il plurilinguismo come democratizzazione della letteratura, eccetera. Ma questa totalità extraletteraria (in funzione antinovecentesca) ha pur sempre nel poeta e nella poesia il suo momento unificante (dichiarato

194

Daniela Brogi

anche nel retro di copertina) e tende perciò a risolversi e reidentificarsi in una diversa totalità letteraria in fondo381.

«Testi e allegati», la rubrica dedicata alla ricerca letteraria382, effettivamente ricostituisce uno scenario eclettico ma a forte predominanza poetica383. La preferenza per le forme più tradizionali dell’espressione letteraria sembra confermare la scelta programmatica di un neosperimentalismo epigono, piuttosto che sovversivo. Nondimeno, se ragioniamo soltanto in termini di innovazione versus tradizione rischiamo di non cogliere i tratti più vivaci, per quanto inconciliati, dell’esperienza poetica di cui ci parla «Officina». La rivista infatti raccoglie, tra redattori e collaboratori, un’intera generazione (per molti aspetti l’ultima) di poeti-narratori: Leonetti, Roversi, Pasolini, Volponi (nato nel 1924), Fortini (che dopo Agonia di Natale, del 1948, si cimenterà nuovamente con la narrativa nel 1963, con Sere in Valdossola). Evidentemente si tratta di un dato forte. Proprio il tema di letteratura e identità nazionale può aiutarci a spiegarlo, nel senso che può aiutarci a discutere che idea di militanza passi attraverso la scelta del genere di scrittura. La doppia partita giocata da un’intera generazione di intellettuali tanto sul versante della poesia quanto su quello della prosa è rivelatrice di un bisogno di espressione integrale del linguaggio letterario, sull’onda di un’istanza altrettanto marcata di socializzazione del discorso: Qual è stata la funzione di «Officina»? Vincere il residuo mito novecentesco […] e ricostituire una nozione di poesia come prodotto storico e culturale, criticamente descrivibile e riferibile, anche nei suoi momenti di angoscia più sprofondati

Un’estetica passione

195

nelle tenebre dell’intimo, o di altrettale gioia: poiché non c’è emozione psicologica che non sia nel contempo sociologica. Questo, s’intende, era un problema critico: ma esso operava anche nell’interno stesso dei prodotti in versi, nei redattori di «Officina» anche in quanto poeti. Spesse volte questo problema – o nell’insieme o nei suoi aspetti particolari – si faceva proprio oggetto, o contenuto, di quei versi. [SLA II, p. 2293]

La posta in gioco – secondo la testimonianza di Fortini – era riuscire a scrivere di tutto: c’era la diffusa inebriante impressione che fosse possibile scrivere di tutto, e cioè coprire, con un’abbondante produzione di versi, un vasto arco di generi extralirici: l’epigrammatico, l’epico, il drammatico, il moralistico, il narrativo, il didascalico, il satirico, eccetera384.

Contro l’ontologia del novecentismo, in cui il principio di individuazione del soggetto passa tutto per una soggettività che trascende il sociale, parla di se stessa e in nome di se stessa, si afferma un bisogno di oggettivazione del soggetto, una necessità di sconfinamento nel «vasto arco di generi extralirici». Il principio d’individuazione dell’io poetico passa per la socialità; l’identità si costruisce premendo verso il fuori. Lotta frontale alle chiusure della parola poetica dunque, come si legge in un articolo pubblicato da Pagliarani su «Ragionamenti» nel 1957385. Da qui deriva non solo l’alternanza di esperienze poetiche e narrative, ma un ripensamento complessivo dei confini tra i due codici. Ecco uno dei passaggi più importanti dell’intervento pasoliniano La libertà stilistica, uscito su «Officina» nel 1957:

196

Daniela Brogi

Poiché, nell’incosciente erede di istituti sociali, filosofici o stilistici, il mondo si era ridotto a oggetto di poesia, e quindi di un’apparentemente sconfinata libertà linguistica, è chiaro che in seguito alla crisi, e alla rinuncia di quel mondo pieno e concluso – avanzante, all’infinito, solo sul fronte interiore – la lingua che era stata portata tutta al livello della poesia, tende ad essere abbassata tutta al livello della prosa, ossia del razionale, del logico, dello storico, con l’implicazione di una ricerca stilistica esattamente opposta a quella precedente386.

Rispetto alla linea antiprosaica dell’ermetismo e della poesia pura, si riafferma la tendenza verso una poesia che sia più vicina al livello «del razionale, del logico, dello storico» e che individua nel poemetto narrativo il genere più consentaneo387 al bisogno d’infrangere la continuità tra il poetare e l’illogico388. Tuttavia, abbassare la poesia al livello della prosa significa tante cose: può voler dire stabilire «un rapporto di reciproca umiliazione tra lingua letteraria e linguaggio comune»389, nello spirito di una radicale sperimentazione antipoetica e antilirica, come quella compiuta da Pagliarani; ma può anche voler dire – ed è questo il caso di Pasolini – dotare i testi di una struttura narrativa e argomentativa rimanendo comunque all’interno della tradizione, vale a dire riconfermando, per via degli istituti retorici e stilistici, un’idea alta di poesia che trova nell’eloquenza e nell’asincronismo di metro e sintassi le sue conferme più dirette. L’abbassamento della poesia alla prosa opera dunque secondo uno spirito di eversione piuttosto che di sovversione, di eccentricità piuttosto che di distruzione del centro: senza tradire il sogno di una posizione privilegiata del soggetto, di una purezza lirica da cui la parola letteraria possa monologare – sia

Un’estetica passione

197

pure ex centrum – sull’impurità della storia, declamare la sua solitudine in pubblico. Solo i testi di Trasumanar e organizzar (1971) affonderanno definitivamente la fiducia in un antagonismo eroico della funzione poetica che trova, proprio in temi come «popolo», «nazione», «civiltà», «Italia», «patria», «bandiera» alcune delle sue occasioni espressive privilegiate. 5. Nella sua prima accezione, come spiega il dizionario Battaglia, il lemma «patria» designa «il luogo in cui sono nati e vissuti gli antenati e i genitori, e in cui si è nati, acquisendo con la nascita l’appartenenza alla comunità che vi è stanziata e divenendo partecipi, più o meno consapevolmente, del patrimonio culturale che in tale ambito locale è venuto componendosi col succedersi delle generazioni». Ancor prima del significato politico-istituzionale (declinato ora in senso rivoluzionario, ora in senso nazionalistico) conquistato dalla parola in età moderna, e sancito dall’articolo cinquantadue della Costituzione italiana («la difesa della Patria è sacro dovere del cittadino»), il concetto di patria ha un valore culturale: fissa un’eredità, ovvero l’insieme di particolarità attraverso le quali la memoria collettiva classifica e tiene in riuso la propria identità390. Al tempo stesso, la patria definisce un modo dell’autorappresentazione. La patria, in tal senso, rimanda a più elementi di natura antropologica, affettiva, e talvolta anche psicologica, che nell’insieme formano un campo simbolico abbastanza diverso da quello riguardante il concetto di nazione391. Proprio queste differenze possono aiutarci a studiare i modi in cui Pasolini affronta il tema della patria e quello di nazione. Attorno ad essi i testi pasoliniani costruiscono

198

Daniela Brogi

infatti un sistema semantico bipolare. La patria, come principio sorgivo, momento primario di identità, rimanda subito al nucleo simbolico della madre, che nel sistema pasoliniano si traduce nella purezza di una dimensione regressiva dell’io non ancora raggiunta dalla storia e presuppone un’adesione emotiva e poetica di tipo assoluto. A distanza di oltre vent’anni la scrittura pasoliniana documenta l’immutata tenuta di tale assunto: Del resto si può credere poeticamente nella patria, come si può credere poeticamente in Dio. È una fede che, imitando la vera, la equivale: ed è forse il più nobile mezzo per conquistarla. Noi siamo orgogliosi di una siffatta fede nella patria. [Ragionamento sul dolore civile, 1942, in SPS, p. 23] oh patria – oh ciò che rassicura l’identità – [Progetto di opere future, 1963, da Poesia in forma di rosa, in B, II, p.824, v. 226]

Il popolo che appartiene a questo paesaggio ne condivide i medesimi tratti di identità incontaminata e inviolabile. Il popolo «non si svela, si canta»: Ah, non è il tempo della storia, questo, della vita non perduta, non sono questi gli alti, incolori luoghi di una patria divenuta coscienza oltre la memoria. Ma dove meglio riconoscerli che in questi antichissimi incanti in cui son più vicini? Fossili

Un’estetica passione

199

d’un’esistenza che ai commossi occhi, non si svela, si canta? Dove meglio capire, intera, la natura che deve farsi nazione, l’ombra che s’avvera nella chiarezza? […] [L’umile Italia, 1954, in B I, p. 208, vv. 111-124]

L’antitesi degli ultimi due versi citati («l’ombra che s’avvera / nella chiarezza») dà intensità retorica a un pensiero poetico che procede di continuo per giustapposizione di contrasti; nel medesimo tempo, l’antitesi rafforza, anche senza nominarlo direttamente, il senso di un’opposizione semantica tra le due unità lessicali dei versi precedenti: «natura» e «nazione». Così da un lato si ha il sistema di corrispondenze: «vita non perduta» = «patria» = «memoria» = «antichissimi incanti» = «natura». Dall’altro lato, invece: «tempo della storia» = «incolori / luoghi» = «coscienza» = «nazione». In questo secondo caso, siamo sul versante del «paterno stato traditore» – come si legge nel poemetto Le ceneri di Gramsci (B I, p. 228, v. 132), ovvero, sul versante opposto a quello della madre. È qui che scatta il principio di identificazione con la legge del padre, che nel sistema psicologico pasoliniano equivale alla perdita dell’altro polo e dunque alla cancellazione di sé. La nazione, in quanto coscienza divenuta chiara a sé stessa, vale allora come momento inevitabile di crescita, ma anche come minaccia sempre ambiguamente considerata: E ogni giorno affondo nel mondo ragionato, spietata istituzione

200

Daniela Brogi

degli adulti – nel mondo da secoli arenato al suono di un Nome: con esso m’imprigiono nello stupendo dono ch’è ormai solo ragione [La scoperta di Marx, 1949, in B I, p. 411, vv. 37-45]

6. In una prima redazione del Canto I della Divina Mimesis Pasolini sigla i propri rapporti col P C I con delle parole che enucleano il senso di un’intera vicenda esistenziale e poetica: sempre disperatamente anticonformista (lo sanno cani e porci) ero, in fondo, conformista – mi difendevo così, povera anima – ma di un conformismo fatale che era, infine, paura e bisogno di farmi perdonare392.

Il primum del discorso letterario di Pasolini ha la sua radice in un bisogno psicologico di espiazione che viene esplicitamente nominato, con una indifferenza così plateale per le trappole della retorica («mi difendevo così, povera anima») da lasciare confuso il lettore, che resta sempre incerto se rubricare questa ipertrofia dell’io sotto la voce dell’ingenuità o sotto quella del vittimismo malizioso. Come ha scritto Walter Siti «l’egocentrismo di Pasolini ha una qualità, e un’innocenza, che lo rendono irresistibile; come lo è, spesso, quello dei bambini»393. La realtà diventa subito proiezione di un disagio dell’interiorità («scosso / dalla paura di non essere abbastanza

Un’estetica passione

201

puro»: Quadri friulani, B I, p. 221, vv. 191-192). Quanto più la spinta psicologica è cogente e quanto più blocca l’individuo nelle sue paure, tanto più spinge verso la socialità: per esprimersi, l’io ha continuamente bisogno di essere accettato. Questa paradossale compresenza di stasi e di movimento si pone come l’asse paradossale dell’intero corpus pasoliniano, che si compone di una serie inalterata di temi e immagini archetipiche che ritornano costantemente; ma nel medesimo tempo, proprio per contrastare questa immobilità, attraversa momenti forti di strappo e di rottura sperimentale. Del resto, si tratta di una dicotomia psicologico-stilistica molto affine a quella che Pasolini riscontrava in Pascoli, nel saggio inaugurale di «Officina»394, quando parlava della coesistenza, solo apparentemente contraddittoria, di «una ossessione tendente patologicamente a mantenerlo sempre identico a se stesso, immobile, monotono e spesso stucchevole, e uno sperimentalismo che, quasi a compenso di quella ipoteca psicologica, tende a variarlo e a rinnovarlo incessantemente». Di questa affinità elettiva con la poetica pascoliana sono ancor più rivelatrici le battute finali del saggio, quando si legge che l’inconciliabilità tra i due momenti dell’ossessione e dello sperimentalismo si risolve con il prevalere del primo termine sul secondo, di modo che «l’allargamento linguistico è sempre in funzione della vita intima e poetica dell’io, e, quindi, «della lingua letteraria nel suo momento centralistico e in definitiva ancora tradizionale»395. C’è un motivo unificatore che attraversa ossessivamente l’opera pasoliniana, ed è il bisogno di riportare ogni forma di conoscenza e di esperienza del mondo a una modalità di innamoramento:

202

Daniela Brogi

Ma perché costringermi ad odiare, io che quasi grato al mondo per il mio male, il mio essere diverso – e per questo odiato – pure non so che amare, fedele e accorato? [Récit, 1956, da Le ceneri di Gramsci, B I, p. 240, vv. 95-98] Solo l’amare, solo il conoscere conta, non l’aver amato, non l’aver conosciuto [...] [Il pianto della scavatrice, 1956, da Le ceneri di Gramsci, B I, p. 243, vv. 1-3]

Che poi ci si innamori del popolo, delle origini, della patria, della scrittura degli altri, del cinema, di un fanciullo, o di se stesso, diventa un fatto secondario rispetto alla spinta iniziale a vivere l’altro come oggetto di passione396 (con le annesse patologie della frustrazione e del delirio sentimentale). In questo senso, si capisce perché il discorso letterario, anche nei momenti di più serrato impegno civile, si rovescia subito in discorso estetico: siamo all’interno di un pensiero poetico che non si è mai allontanato, essenzialmente, da un modo soggettivo e psicologico di ragionare della storia e dei conflitti di classe. «Difenderò sempre la qualità esistenzial-sacrificale della tua poesia» scrive Fortini in una lettera del 1961397, rilevando una postura cristologica del discorso poetico pasoliniano che opera con una particolare ricorrenza all’interno del campo semantico della patria, del popolo, dell’Italia: Se potessi parlare, direi che vorrei avere la rogna:

Un’estetica passione

203

per assomigliare a uno di loro [Ogni tram ha un ragazzo romano che brucia, 1950, in B IV, p. 1069]

Più da discutere sembra invece il giudizio fortiniano per cui Pasolini alla voce popolo «recita non senza bravura la parte della contraddizione»398. In una lettera del 1970 a Walter Siti Pasolini scrive: Altra cosa vecchia, da cui da vent’anni la mia vita è funestata, è il rimprovero di possedere certe nozioni sbagliate, di cui il critico conosce la giusta versione, ma che non me la dice: le nozioni di «popoli», di «sottoproletariato», di «storia», di «ragione» ecc. ecc. Rimproverandomi l’uso reprobo di queste nozioni, sembri rivolgerti a una cerchia, in cui tra voi vi capite al volo, senza bisogno di perdere tempo a parlarne399.

Pasolini non recita la contraddizione, piuttosto la vive sulla propria pelle, con un parossismo psicologico-stilistico che procura subito un effetto di recitato ma che senza dubbio ha una matrice autentica: di secondo grado ma vera. Un’identità ambigua non sempre coincide con un’identità falsa. Ed è precisamente negli interstizi che si aprono tra questi due campi di possibilità che si trovano il punto di forza e il punto di debolezza della poesia pasoliniana: Comunicato all’Ansa (Propositi) Ho bevuto un bicchier d’acqua alle tre di notte mentre Arezzo aveva l’aria di essere assolutamente indipendente.

204

Daniela Brogi

Una volta decisa l’omissione dei principali doveri (di poeta, di cittadino) i miei versi saranno completamente pratici (benché io sappia bene che senza Dio la pratica è surrealistica) Come dice Euripide: «La democrazia consiste in queste semplici parole: chi ha qualche utile consiglio da dare alla sua patria?» Così, i miei consigli saranno di folle moderato. Dopo la mia morte, perciò, non si sentirà la mia mancanza: l’ambiguità importa fin che è vivo l’Ambiguo. [B II, p. 917]400

7. Il nodo inestricabile di psicologismo ed estetismo intorno al quale Pasolini stringe il concetto di patria opera già, compiutamente, nel poemetto L’Italia (1949), apparso la prima volta nell’Antologia della poesia italiana 1909-49 (curata da Spagnoletti per i tipi di Guanda nel 1950) e poi riproposto come quinta sezione de L’usignolo della chiesa cattolica (1958). Già agisce, infatti, lo schema dominante del discorso sulla patria, che si sviluppa a partire dalla valorizzazione delle bellezze naturali ed artistiche del paese, secondo un movimento di ondulazioni analogiche in cui si fondono il paesaggio dell’anima e quello della storia. Così, alle figure delle rondini e dei fanciulli, celebrati come emblemi di purezza naturale ed esistenziale, si accompagna la ripresa del tipico stilema romantico della carrellata a volo d’uccello sul paesaggio appenninico, che moltiplica le risonanze sentimentali e poetiche del pensiero della patria:

Un’estetica passione

205

L’Italia ha una sola mattina di vita, e i secoli cantano con le allodole dell’alba sul fanciullo padano che non conosce la sera. Già l’Appennino arrossa le sue ombre e sotto il sole quasi tiepido lungo le rive azzurro chiare del Reno le immondizie cominciano a odorare... Sul Tagliamento adolescenti assonnati si lavano ormai leggeri tra voli di rondini; un’ombra compare sull’altra riva nel sole e chiama con voce d’angelo il barcaiolo. [B I, p. 381, vv. 3-13]

La percezione incantata della natura fa tutt’uno con la contemplazione elegiaca della propria infanzia. I contorni della patria privata e quella pubblica si confondono e sfumano nella magia delle origini: La tua salute, Italia nata con il sole, ama solo i fanciulli che non t’amano chiusi in un corpo di viole che non lascia spiare se la loro Lingua è solo un sogno... [vv. 26-29] In un borgo del Friuli era nata la sua anima confusa con un muro umido e una macchia d’erba nera d’acqua, la sua anima che si credeva sola e ballava coi passeri, con le farfalle. [vv. 42-46]

206

Daniela Brogi

Lo spazio della patria sconfina subito nell’orizzonte del simbolico. All’interno di questa dimensione, gli unici gesti possibili sono quelli dell’eroismo puerile: Tu, Italia, troppo inquieta o tranquilla?, non senti, dormendo, l’usignolo della pazzia... Sfida qualcuno il tuo sonno di saggia nazione! e arso dal suo coraggio, nel volontario esilio del balcone aperto sul cielo, egli trema al miracolo del paese notturno che la prima luna del creato inargenta. [vv. 138-144]401

La realtà di cui si parla abita i territori dell’anima, è una proiezione dell’io. A essa si guarda attraverso un sapere magico e miracoloso che costruisce l’immagine di un’Italia senza italiani, contemplata misticamente, senza che diventi un problema politico. Gli altri membri di questo circolo semantico, difatti, sono fratelli in quanto accomunati da una parentela simbolica piuttosto che sociale e civile. Da qui nasce il massimo effetto di condensazione metaforica del discorso poetico, a cui corrisponde una struttura frammentata del testo, che si compone di un collage d’impressioni e di situazioni vissute dal soggetto e presentate come tracce preziose di una storia individuale dal valore emblematico e antagonistico. La posizione in cui si trova l’oggetto poetico corrisponde invece a una condizione di particolarità periferica, cioè tenuta ai margini della storia, che Pasolini situerà diversamente: ora negli spazî individuali dell’interiorità, ora nella campagna friulana, ora nelle borgate romane, ora nel terzo

Un’estetica passione

207

mondo, ma che equivarrà sempre a uno stato di marginalità eccentrica dagli attributi assoluti e metastorici. In questo senso, le prove più originali sono proprio quelle in cui Pasolini si misura in modo più sperimentale con questa diversità. Per esempio, sul finire degli anni Quaranta, i testi in dialetto pubblicati nella raccolta Dov’è la mia patria (Casarsa, Edizioni dell’Academiuta, 1949): diciotto poesie contraddistinte da un uso meno manieristico della catena analogica, e in cui il discorso, grazie all’uso del dialetto, riconquista un’originalità espressiva tante volte assente dai testi iperletterari in lingua. Rileggiamo il componimento che dà il titolo alla raccolta: Dulà ch’a è la me patria Si clamaràia italia? ciantaràni tal so grin miliòns di muàrs tal so grin, i ciantaràiu tal so grin? – italia, nòn lusìnt? No, fantàt! La gnoransa, la pasiensa, li passiòns, li passiòns sensa amòur. No, fantàt! La gnoransa, la pasiensa, li passiòns. Sinc àins di lementàrs, mil àins di lavòur bestemis e ombrena

208

Daniela Brogi

di pensadis rudis, patria! Scuela, bestemis e ombrena, e cròus dal lavòur dut pierdùt ta la gnoransa, la pasiensa, l’italia e i mil àins di lavòur. No, fantàt! La patria a è par me na sèit sierada ta un sen àrsit dal sec. Nissùn a no ama i me mil àins di lavòur, la me patria a è ta la me sèit di amòur. No, fantàt! D O V ’ È L A M I A P A T R I A . Si chiamerà italia? / Canteranno nel suo grembo / milioni di morti, nel suo grembo? / canterò nel suo grembo? / – italia, nome lucente? / No, giovane! / L’ignoranza, / la pazienza, / gli scontenti, / gli scontenti senza amore. / No, giovane! / L’ignoranza, / la pazienza, / gli scontenti. / Cinque anni di elementari, / mille anni di lavoro / bestemmie e ombra / di pensieri grezzi, / patria! / Scuola, bestemmie e ombra, / e la croce del lavoro / tutto perso nell’ignoranza, / la pazienza, l’italia / e i mille anni di lavoro. / No, giovane! / La patria è per me una sete / chiusa in un petto bruciato dall’arsura. / Nessuno ama i miei mille anni di lavoro, / la mia patria è nella mia sete di amore. / No, giovane! [B III, pp. 163-164]

Siamo nel 1948, negli anni delle «belle bandiere»: la ridefinizione di un’identità della patria compiuta a partire dalla periferia friulana e dal punto di vista delle masse contadine ha una funzione civile storicamente connotata

Un’estetica passione

209

e proposta come alternativa radicale alla retorica del ventennio fascista. Allo stesso modo per cui l’uso del dialetto già sperimentato nel primo libro pasoliniano, Poesie a Casarsa (1942), si poneva anche come gesto di insubordinazione al nazionalismo di regime402. Ma se la data di composizione aiuta a recuperare il campo socioculturale dal quale nascono le poesie, altrettanto emblematica è la data in cui Pasolini sceglie di dare una visibilità nazionale ai testi dialettali scritti negli ingenui anni friulani. La meglio gioventù (1941-1953) esce nel 1954 per Sansoni; L’usignolo della chiesa cattolica, che raccoglie le poesie scritte tra il 1943 e il 1949, è pubblicato da Longanesi nel 1958. A distanza di anni dalla fuga da Casarsa e dal trasferimento a Roma, dopo l’uscita di Ragazzi di vita (1955) e delle Ceneri (1957) e nel pieno della stagione di «Officina», Pasolini realizza una consapevole operazione culturale di «reinvenzione della tradizione», ovvero sceglie di riattualizzare i contenuti sentimentali della poesia in dialetto, testimoniando l’accanita volontà di difendere, almeno sul piano letterario ed estetico, un modello ideale della patria e della cultura popolare che la storia smentisce di giorno in giorno. La patria, sempre di più, corrisponde a un esercizio di vagheggiamento della patria. Come in tutti gli altri testi che compongono la raccolta, in Dulà ch’a è la me patria l’autore della poesia affida l’enunciazione a un soggetto sociale diverso dall’io lirico, costruendo una trama drammatica a più voci che senza dubbio orienta in senso dialogico l’impianto compositivo del libro. Tuttavia questo incontro con la parola altrui continua ad operare in senso monologico piuttosto che pluridiscorsivo, perché si risolve in un insieme di lingue diverse che vengono usate per nominare l’oggetto

210

Daniela Brogi

dall’interno della coscienza soggettiva e individuale del poeta. Con la conseguente esclusione di ogni percezione del mondo diversa da quella dell’io lirico: «la me patria a è ta la me sèit di amòur» («la mia patria è nella mia sete di amore»). Anche in questo caso la patria si conferma come cronotopo dell’interiorità: orizzonte spaziale e temporale in cui confini tra soggetto e mondo, io e altro si confondono, ovvero non escono mai dalla dimensione esistenziale, oppure vengono subito interiorizzati. Il movimento verso l’altro, per quanto vissuto sinceramente, non crea mai uno scarto vero, una compiuta soluzione di continuità rispetto alla coazione a rimanere sempre identico a se stesso. Il massimo risultato di incontro con l’alterità si compie secondo una dinamica unilaterale che consiste nell’avvicinamento massimo dell’altro a sé, anche se tutto questo accade nello spirito di un progetto filantropico – civile che fino alla fine degli anni Cinquanta Pasolini vive con disperata vitalità. Come ha scritto Golino «il marxiano “sogno di una cosa” – riforma della coscienza, rivoluzione, palingenesi sociale – secondo Pasolini era anche e soprattutto il sogno di un mondo da educare a propria immagine e somiglianza, era l’intreccio vissuto di pedagogia, eros, letteratura»403. La poesia La scoperta di Marx (1949) è un documento eloquente dell’appassionato esercizio di riconversione dell’ideologia alla misura di una dimensione psicologica e soggettiva404. Anzitutto ha importanza lo speciale rilievo conferitole dall’autore, con la scelta di pubblicare il testo come sezione conclusiva del libro L’usignolo della chiesa cattolica; in secondo luogo il titolo originario della poesia era La ricerca di mia madre. Ricercare la madre e scoprire Marx rappresentano infatti i due momenti

Un’estetica passione

211

reciprocamente implicati di un pensiero incapace di rielaborare le scissioni e che sa uscire dalla dialettica solo giustapponendo i due termini, per via dell’ossimoro. Così sul piano dell’ideologia l’io assume l’oggettivazione di sé e l’uscita dal narcisismo come condizione fondante della maturità «che forza la coscienza e modella il dovere» (B I, p. 411, vv. 47-48); sul piano della psicologia e della poetica, invece, questo passaggio dal polo della madre al polo della storia è vissuto come rinuncia e tradimento di sé. Al punto che l’io saprà risarcirsi soltanto per via estetica, ossia attribuendo alla storia i medesimi caratteri di passione assoluta che contraddistinguono la relazione madre/figlio: [...] Come sono caduto in un mondo di prosa s’eri una passeretta, un’allodola, e muto alla storia – una rosa – o madre giovinetta era il tuo cuore? in questo ordine manifesto da te il mondo mi accetta? [...] Ma c’è nell’esistenza qualcos’altro che amore per il proprio destino.

212

Daniela Brogi

È un calcolo senza miracolo che accora o sospetto che incrina. La nostra storia! morsa di puro amore, forza razionale e divina. [B I, pp. 410 e 413, vv. 19 – 27 e 82 – 90]

«Morsa / di puro amore»: L’usignolo della chiesa cattolica si conclude con un ossimoro violento, come violento può essere un amore senza mediazioni che si alimenta di funzioni assolute e inibisce ogni mutamento. Ci si rinnova, ma non si può mai cambiare405. 8. «Perché il libro delle Ceneri di Gramsci continua ad esercitare una attrazione così forte, ogni volta che lo si riapre, nonostante le debolezze, le volgarità, le approssimazioni, le gesticolazioni, quel tanto di istrionico che sembra inseparabile dai suoi vocativi dalle sue digressioni?» si chiedeva Fortini nel 1959406, a due anni dalla pubblicazione della più famosa raccolta poetica di Pasolini. A distanza di quasi mezzo secolo l’interrogativo resiste ancora, e si ha l’impressione che ciò accada perché non sono né i temi né le forme ma anzitutto le contraddizioni intellettuali ed esistenziali di cui ci parlano quei versi a generarne «l’attrazione così forte»: [...] Ma io, con il cuore cosciente di chi soltanto nella storia ha vita,

Un’estetica passione

213

potrò mai più con pura passione operare, se so che la nostra storia è finita? [Le ceneri di Gramsci, in B I, p. 235, vv. 304-307]

In questo senso Le ceneri di Gramsci non è soltanto una raccolta di poemetti ma una raccolta – poemetto: guardati come parti di un intero, gli undici testi che compongono il volume costruiscono la trama drammatica di un progetto ideologico mancato, e, nel contempo, di una vicenda autobiografica incapace di uscire dai percorsi concentrici dell’io. È proprio nella sua funzione di testimonianza integrale di un’epoca e di un destino in crisi che risiede il contenuto di verità più duraturo delle Ceneri. Di questo travaglio il componimento che dà il titolo al libro fissa il momento di massima tensione: qui i gradi più alti di elaborazione formale e di figuralità poetica si incontrano con il momento di spannung della parabola narrativa della raccolta. La funzione centrale della poesia è confermata pure dalla collocazione editoriale del testo – come già ha osservato Cerami407 –, che infrange l’ordine cronologico rispettato in tutti gli altri casi. La sequenza costruita dall’indice infatti è: 1. L’Appennino (1951); 2. Il canto popolare (1952-1953); 3. Picasso (1953); 4. Comizio (1954); 5. L’umile Italia (1954); 6. Quadri friulani (1955); 7. Le ceneri di Gramsci (1954) – che, secondo la data di composizione avrebbe dovuto trovarsi in sesta posizione –; 8. Recit (1956); 9. Il pianto della scavatrice (1956); 10. Una polemica in versi (1956); 11. La terra di lavoro (1956). Increspando il flusso diacronico l’indice dunque svela subito la posizione di sfasatura attribuita al poemetto Le ceneri di Gramsci. Così da una parte si ha il nucleo dei primi sei testi, composti nella prima metà degli anni Cinquanta, quando

214

Daniela Brogi

ancora l’ardore nostalgico per una patria in cui «tutto è preumano, e umanamente gioisce» (L’Appennino, B I, p. 183, v. 171) poteva ancora essere al centro della prassi civile e poetica. La serie semantica «popolo» = «gioventù» = «innocenza» = «canto» agisce qui come sistema fisso, connotato dagli attributi assoluti della verità e della purezza (declinati anche nella variante ossimorica dell’innocenza impura): Improvviso il mille novecento cinquanta due passa sull’Italia: solo il popolo ne ha un sentimento vero: mai tolto al tempo, non l’abbaglia la modernità, benché sempre il più moderno sia esso, il popolo, spanto in borghi, in rioni, con gioventù sempre nuove – nuove al vecchio canto – a ripetere ingenuo quello che fu. [Il canto popolare, 1952-1953, in B I, p. 185, vv. 1-9] [...] Assente è da qui il popolo: il cui brusio tace in queste tele, in queste sale, quanto fuori esplode felice per le placide strade festive, in un comune canto ch’empie rioni e cieli, borghi e valli, lungo l’Italia, fino all’Alpi, spanto per declivi falciati e gialli frumenti – nei paesi della smarrita Europa – dove ripete i balli

Un’estetica passione

215

e i cori antichi nell’antica aria domenicale... [...] [Picasso, 1953, in B I, pp. 195-196, vv. 142-153] [...] Più è sacro dov’è più animale il mondo: ma senza tradire la poeticità, l’originaria forza, a noi tocca esaurire il suo mistero in bene e in male umano. Questa è l’Italia, e non è questa l’Italia: insieme la preistoria e la storia che in essa sono convivano, se la luce è frutto di un buio seme. [L’umile Italia, 1954, B I, p. 209, vv. 131-140]

Anche quando la mitografia del popolo si confronta con la storia questo incontro presuppone la persistenza utopistica della purezza immobile della preistoria. È all’interno di questo circolo magico che il «buio seme» foriero di luce dell’Umile Italia può tramutarsi nell’«allegro seme» d’imminente riscossa del finale del Canto popolare: Ragazzo del popolo che canti, qui a Rebibbia sulla misera riva dell’Aniene la nuova canzonetta, vanti è vero, cantando, l’antica, la festiva leggerezza dei semplici. Ma quale dura certezza tu sollevi insieme d’imminente riscossa, in mezzo a ignari

216

Daniela Brogi

tuguri e grattacieli, allegro seme in cuore al triste mondo popolare? Nella tua incoscienza è la coscienza che in te la storia vuole, questa storia il cui Uomo non ha più che la violenza delle memorie, non la libera memoria... E ormai, forse, altra scelta non ha che dare alla sua ansia di giustizia la forza della tua felicità, e alla luce di un tempo che inizia la luce di chi è ciò che non sa. [Il canto popolare, B I, pp. 187-188, vv. 73-90]

«La luce di chi è ciò che non sa»: di nuovo, il popolo appartiene a un disegno messianico di salvezza che lo trascende. Il discorso poetico coniuga il massimo impegno civile con il massimo stato di annullamento mistico: è solo con questi necessari presupposti che il popolo può riscattarsi e conquistare il rango di «sottoproletariato sulle soglie della coscienza di classe», come spiega Pasolini stesso per chiosare i versi conclusivi de Il canto popolare408. Ma questa immagine finalmente dinamica del popolo genera, per la verità, soltanto un movimento apparente, perché l’invito marxiano all’analisi della coscienza non chiara a se stessa409 è reinterpretato secondo i moduli dell’adesione nostalgico sensuale a un’idea di patria intesa come prima natura incosciente e felice: e se / di voi non sapete far storia, nati

Un’estetica passione

217

per privilegio alla storia, come potete farla di una patria condannata nel suo popolo, all’umiliazione, stupenda, d’essere pura natura? [Comizio, vv. 124-128, nella redazione uscita su «Botteghe oscure»410]

L’«umiliazione» di chi sta in basso è depurata di ogni connotazione storica e sociale per caricarsi dell’attributo esotico dello stupore, reso più enfatico dalla pausa sintattica dell’inciso e dalla posizione in enjambement. L’io poetico introietta l’oggetto dentro spirali narcisistiche di uno sguardo desideroso di trasalimenti mistici411. Come per i protagonisti del romanzo scritto tra il 1949 e il 1950 e pubblicato nel 1962, Il sogno di una cosa, la riscossa del popolo passa per la strada sentimentale e morale piuttosto che per quella «più subita che cercata» della fede comunista412. A questo gruppo di testi tutti interni a una concezione figurale del popolo e della patria si affianca, dall’altra parte, il secondo nucleo formato da Le ceneri di Gramsci e dai quattro poemetti conclusivi della raccolta, tutti risalenti al 1956, quando il confronto con l’ideologia ha ormai gettato l’ombra della contraddizione sugli slanci del primo blocco di componimenti: «L’ora è confusa, e noi come perduti la viviamo...», mi mormoravi, amaro, disilluso di ciò che hai avuto per dieci anni dentro, così chiaro che tra mondo e mente quasi era un idillio:

218

Daniela Brogi

e ha la tua stanchezza – un po’ volgare – una smorfia di vecchio figlio di immigrati meridionali affamati e vili dietro il cipiglio di poveri arrivati, d’ingenui dottrinari. Hai voluto che la tua vita fosse una lotta. Ed eccola ora sui binari morti, ecco cascare le rosse bandiere, senza vento. [...] [Una polemica in versi, 1956, in B I, p. 265, vv. 25-38]

L’estetica passione della patria muta intonazione. Perde i tratti assertivi dei primi testi («È necessità / liberarsi soffrendo, ma / lottando soffrire, la storia»: L’umile Italia, B I, p. 211, vv. 187-189) per diventare ora lucida presa di coscienza, ora amara elegia, di un mondo ormai improponibile. Il progetto di ricostruire un’identità nazionale si fondava sull’ingannevole compromesso tra storia e preistoria di cui questi testi mettono in scena i passaggi più deboli: del mio paterno stato traditore nel pensiero, in un’ombra di azione – mi so ad esso attaccato nel calore degli istinti, dell’estetica passione; attratto da una vita proletaria a te anteriore, è per me religione la sua allegria, non la millenaria sua lotta: la sua natura, non la sua

Un’estetica passione

219

coscienza; è la forza originaria dell’uomo, che nell’atto s’è perduta, a darle l’ebbrezza della nostalgia, una luce poetica: ed altro più io non so dirne, che non sia giusto ma non sincero, astratto amore, non accorante simpatia... [Le ceneri di Gramsci, B I, p. 228, vv. 132-146]

Solo in quanto sovradeterminato da uno sguardo pieno di astratte risonanze religiose il popolo si riscatta dalla sua miseria. Il poemetto Le ceneri di Gramsci si identifica con i contenuti più veri dell’intera raccolta a cui dà il nome proprio perché è con questo testo che emerge con più chiarezza la parabola negativa percorsa dal libro. Essa riguarda non solo l’oggetto della poesia, ma la posizione fallace da cui il soggetto si illude di guardare il mondo: Come i poveri povero, mi attacco come loro a umilianti speranze, come loro per vivere mi batto ogni giorno. Ma nella desolante mia condizione di diseredato, io possiedo: ed è il più esaltante dei possessi borghesi, lo stato più assoluto. Ma come io possiedo la storia, essa mi possiede; ne sono illuminato: ma a che serve la luce? [Le ceneri di Gramsci, B I, p. 228, vv. 147-156]

220

Daniela Brogi

Ma se la forza di questi versi consiste nel loro grado di verità, questa verità è tanto più autentica in quanto è doppiamente declinata. Da un lato essa nomina l’angoscia di una scoperta, ovvero l’inclinazione a voler guardare il popolo soltanto a condizione di investirlo di un proprio bisogno narcisistico e feticistico. Dall’altro lato, questi versi denunciano l’incapacità di superare tale modo, ovvero di rielaborare la delusione e di cambiare. In altri termini, il passaggio dalla dimensione del mistero a quella della storia scandisce, fatalmente, le tappe di un destino di disamoramento che immediatamente si rovescia in un destino di caduta della conoscenza: Uomini e ragazzi se ne tornano a casa – sotto festoni di luci ormai sole – verso i loro vicoli, che intasano buio e immondizia, con quel passo blando da cui più l’anima era invasa quando veramente amavo, quando veramente volevo capire. [Il pianto della scavatrice, B I, p. 246, vv. 71-77]

Anche la scelta di chiamare diversamente il libro, che fino alla primavera del 1954 doveva titolarsi L’umile Italia 413, rispecchia il passaggio progressivo a una scrittura più consapevole di sé. Il nuovo titolo Le ceneri di Gramsci svolge infatti una triplice funzione: nomina l’argomento centrale, ne orienta il senso e allude allo schema del discorso. In primo luogo il titolo rimanda al contenuto del libro e, in particolare, alla visita al sepolcro

Un’estetica passione

221

di Gramsci narrata nel poemetto omonimo. Al tempo stesso, il titolo ha una funzione metaforica, perché la vicenda scandita dagli undici poemetti ripercorre, in figura, le fasi progressive di un’utopia in cenere. Ma la forza paradigmatica del titolo consiste anche nel fatto che Le ceneri di Gramsci ci parla, sempre per metafora, della situazione tipo inscenata dal discorso poetico: un io che riflette, si mette in discussione, assevera, davanti a qualcosa che rischia di perdersi – un’ipotesi di civiltà, la cultura popolare, le radici antiche della patria, una fede politica. I tratti più marcati di questa entità in cenere sono l’immobilità e l’incapacità di parola: Umana la luna da queste pietre raggelate trae un calore di alte passioni... È, dietro il loro silenzio, il morto ardore traspirato dalla muta origine: il marmo, a Lucca o Pisa, il tufo a Orvieto... [...] Se ognuno sa, esperto, l’ingenuo linguaggio dell’incredulità della insolenza, dell’ironia, nel dialetto più saggio e vizioso, chiude nell’incoscienza le palpebre, si perde in un popolo il cui clamore non è che silenzio. [L’Appennino, B I, p. 176. vv. 16-22, e p. 184, vv. 97-102]

222

Daniela Brogi

[...] La libertà non ha voce per il popolo cane. E il popolo canta. [Il canto popolare, B I, p. 187, vv. 71-72] [...] Tra i clamori cammino muto, o forse sono muti essi, nella tempesta che ho nel cuore. [Comizio, B I, p. 202, vv. 89-91] Qui il silenzio della morte è fede di un civile silenzio di uomini rimasti uomini [...] [Le ceneri di Gramsci, B I, p. 224, vv. 51-52] [...] questi operai, che muti innalzano, nel rione dell’altro fronte umano, il loro rosso straccio di speranza. [Il pianto della scavatrice, p. 263, vv. 421-423]

Che si tratti di un sepolcro, di un’ideologia, o di un’antropologia contadina o sottoproletaria, resta immutata la sua condizione simbolica di identità in consunzione e tagliata fuori dalla storia che il poeta descrive, alla stregua di un fossile, con spirito filologico. Il medesimo spirito filologico che si riconverte dal campo letterario a quello politico, come Pasolini scrive su «Officina» nel 1957: Questo stesso spirito filologico presiede dunque anche all’atteggiamento politico, al difficile, doloroso e anche umiliante atteggiamento d’indipendenza, che non può accettare nessuna forma storica e pratica di ideologia, e che

Un’estetica passione

223

insieme soffre come d’un rimorso, d’un indistinto e irrazionale trauma morale, per l’esclusione da ogni prassi, o comunque, dall’azione. Non per nulla, sul Croce amato e odiato, sul Gobetti, su qualsiasi altro, domina nella nostra vita politica lo spirito di Gramsci: del Gramsci «carcerato», tanto più libero quanto più segregato dal mondo, fuori dal mondo, in una situazione suo malgrado leopardiana, ridotto a puro ed eroico pensiero. [SLA I, pp. 1236-1237]

Il ritratto di Gramsci ha il valore di un’autodefinizione: tanto più libero quanto più segregato, l’io poetico si vive come «puro ed eroico pensiero» emarginato da ogni prassi ma capace di rovesciare questa condizione di esilio in eroica indipendenza di espressione. La lacerazione del soggetto («un indistinto e irrazionale trauma morale») diventa il termine di confronto attraverso il quale resiste la capacità di descrizione del reale. Per via di questo paradosso si spiega anche l’intonazione particolare dei poemetti raccolti nelle Ceneri. Tutti i testi infatti assecondano un duplice movimento di soggettivazione e di oggettivazione del discorso: la scrittura poetica è piegata, nel medesimo tempo, a una funzione massima di referenzialità e di evocatività. La situazione inizialmente indicata dal titolo designa quasi sempre una vicenda realistica e puntuale (un paesaggio, un quadro di Picasso, un comizio, una mostra di pittura la visita a un cimitero, una scavatrice, una polemica tra critici, un viaggio in treno) che viene però strappata al contesto narrativo disteso, per diventare occasione drammatica di un bilancio personale assunto poi, per sineddoche, ad emblema di una condizione universale. L’alternanza continua di forme transitive e forme intransitive del linguaggio si riscontra poi anche nell’uso del

224

Daniela Brogi

genere: i codici della comunicazione raziocinante e didascalica, propri del poemetto, si riconvertono in significanti di una verità anzitutto sentimentale ed estetica414. In continua oscillazione tra i modi elocutori della protesta civile e quelli della confessione elegiaca, il discorso delle Ceneri effettivamente indugia in «attitudini descrittive e morbosamente autobiografiche di sapore dannunziano-crepuscolare»415 che più di una volta – soprattutto nella prima parte del libro – creano l’effetto di una sensualità posticcia: Nelle chiuse palpebre d’Ilaria trema l’infetta membrana delle notti italiane...molle di brezza, serena di luci...grida di giovanotti caldi, ironici e sanguinari...odori di stracci caldi, ora bagnati...motti di vecchie voci meridionali...cori [...] Sotto le sue palpebre, nel suo sonno, incarnata, la terra alla luna ha un vergine orgasmo nell’argenteo buio che sulla frana dell’Appennino sfuma scosceso verso coste dove imperla il Tirreno o l’Adriatico la spuma. [L’Appennino, B I, pp. 178-179, vv. 77-83 e 96-101]

D’altra parte, tali esiti sono coerenti, come già si è osservato, con un progetto di scrittura poetica epigono

Un’estetica passione

225

piuttosto che sovversivo: impegnato a portare la poesia al livello della prosa operando essenzialmente sui contenuti, cioè senza ridiscutere i canoni formali dello stile alto416. Per il quale resiste, «solido come un quarzo, un senso di venerazione»417 che opera in recisa controtendenza rispetto alle sperimentazioni del linguaggio poetico modernista418. Così, mentre la lingua dei romanzi scritti nello stesso giro di anni delle Ceneri è ricca di sperimentazioni dialettali e gergali, in poesia Pasolini resta «bestia da stile»419: la spinta dal letterario all’extraletterario resta tutta interna al rigoroso mantenimento degli scarti che tradizionalmente separano il discorso poetico dagli altri linguaggi: il monolinguismo e i dettati tradizionali della terzina. Anche se poi si opera con una maniera tutta originale di mettere in tensione l’endecasillabo, secondo una dialettica continua di violazione e riconferma, di fuga e di riavvicinamento420, che riproduce, sul piano metrico e stilistico, un modo anzitutto esistenziale, oltre che ideologico, di oscillare tra la pulsione di superegotico adeguamento ai modelli e la spinta alla loro corrosione. 9. «Tu ti perdi nel paradiso interiore, // e anche la tua pietà gli è nemica»: i due versi finali dell’ultimo poemetto delle Ceneri – La terra di lavoro (1956) – chiudono, con tono perentorio, ogni possibilità di dialogo sociale tra l’io poetico e il popolo (B I, p. 278, vv. 138-139). «La Rivoluzione non è più che un sentimento» scrive Pasolini nel risvolto di copertina di Poesia in forma di rosa (1964), una raccolta in cui la mitologia di una tradizione popolare italiana tornerà in scena solo in quanto oggetto di consapevole regressione

226

Daniela Brogi

o, più spesso, come ingiallito referente di un modello di letteratura impegnata ormai tramontato: [...] Così, mentre mi erigevo come un verme, molle, ripugnante nella sua ingenuità, qualcosa passò nella mia anima – come se in un giorno sereno si rabbuiasse il sole; sopra il dolore della bestia affannata, si collocò un altro dolore, più meschino e buio, e il mondo dei sogni si incrinò. «Nessuno ti richiede più poesia!» E: «È passato il tuo tempo di poeta...» «Gli anni cinquanta sono finiti nel mondo!» «Tu con le Ceneri di Gramsci ingiallisci, e tutto ciò che fu vita ti duole come una ferita che si riapre e dà la morte!» [Appendice. La mancanza di richiesta di poesia, in Poesia in forma di rosa, B II, p. 700, vv. 14-26]

Alla consueta drammatizzazione enfatica si accompagna la lucida coscienza della fine di un’esperienza non solo poetica ed esistenziale, ma storica, perché gli anni Cinquanta fissano la caduta irreversibile di ogni progetto di egemonia letteraria dell’identità nazionale: «Nessuno ti richiede più poesia!». Il senso di inattualità più opprimente non è quello che riguarda i temi e le forme particolari della scrittura pasoliniana, ma quello che investe la poesia tout-court – come rivela il titolo stesso del componimento: La mancanza di richiesta di poesia. Da qui la scelta, spesso teatralmente provocatoria, di un

Un’estetica passione

227

habitus antagonistico, di una rabbia distruttrice «che diventa – sono parole di Pasolini – passione di demolire certe idee fisse e punti fermi degli anni Cinquanta, anzi addirittura una vera e propria abiura»421. Con quel particolare desiderio di declamare la propria solitudine in pubblico che è precisamente la postura poetica di cui abbiamo cominciato a parlare leggendo Alla mia nazione, all’inizio di questo capitolo. E anche se la vocazione a un risarcimento estetico («questa abiura va letta come si legge una poesia»422) resta la dominante di un modo poetico che sul piano della scrittura letteraria convince a metà, proprio la passione di demolire farà di Pasolini, sul piano dell’analisi intellettuale, uno dei saggisti più grandi della cultura italiana del secondo Novecento423. A questo punto infatti la figura dell’intellettuale corsaro si pone quasi come sbocco obbligato per chi abbia smesso di credere di rigenerare il mondo ma, allo stesso modo di un eretico condannato all’abiura, continui a considerare quel modello di palingenesi come l’unico realizzabile: Non avevo invece davanti a me che lui, un piccolo poeta civile degli Anni Cinquanta, come egli amaramente diceva: incapace di aiutare se stesso, figurarsi un altro. Eppure era chiaro che al mondo – nel mio mondo – non avrei potuto trovare – benché così misera, così, come dire, paesana, così timida – altra guida che questa. [La Divina Mimesis, canto I, 1963]424

La passione civile continua ad aggrapparsi a una prospettiva etica, ma è sganciata dai destini generali e nazionali. E poiché questo legame era stato spesso l’esito di una conciliazione sforzata, gridata, le conseguenze, in termini di lucidità del discorso, per più di un aspetto sono migliori,

228

Daniela Brogi

più franche. Con il passaggio dalla passione dell’ideologia all’ideologia della passione la coerenza non si gioca più sul versante ideologico ma su quello esistenziale, che, nel caso di Pasolini, rimane certamente quello più autentico: Perciò io vorrei soltanto vivere pur essendo poeta perché la vita si esprime anche solo con se stessa. Vorrei esprimermi con gli esempi. Gettare il mio corpo nella lotta. [Poeta delle Ceneri, B, IV, p. 920]425

10. «Perché il libro delle Ceneri di Gramsci continua ad esercitare una attrazione così forte, ogni volta che lo si riapre?». In chiusura, vale la pena di riproporre, ancora una volta, l’interrogativo fortiniano, per tentare di articolare una risposta comprensiva delle questioni discusse sin qui. La forza di quei versi non investe infatti soltanto l’ambito estetico o quello dell’individualità creatrice. Piuttosto essa rimanda a un’alterità di codici tra cultura letteraria e identità nazionale, tra discorso poetico e discorso sociale che il lettore di oggi vive ormai come una condizione normalizzata, ma che l’autore e i testi delle Ceneri rappresentano come un’emergenza drammatica che la scrittura sente il bisogno di fronteggiare, con un «profondo / e ingenuo sforzo di rifare la vita» (Le ceneri di Gramsci, vv. 13-14, in B I, p. 222). È questa, a veder bene, l’ultima circostanza storica in cui la parola poetica si vive ancora come espressione di una militanza civile e, come tale, confida in una credibilità sociale. È questa, tra l’altro, l’ultima stagione in cui termini come “popolo”, “nazione”,

Un’estetica passione

229

“patria”, “Italia” sono parole piene di contenuto: hanno una funzione espressiva che il linguaggio parodistico della generazione immediatamente successiva della neoavanguardia smentirà in toto. La morte del «piccolo poeta civile degli anni Cinquanta», da questo punto di vista, coincide con la crisi di un modello complessivo di « società con cui ci si possa mettere in rapporto attraverso la poesia». Si cita dalle lucide battute di risposta preparate da Pasolini, qualche mese prima della morte, alla stregua di «un testamento spirituale-intellettuale», per un giornalista inglese: No, non scrivo più poesie da due o tre anni. Questo non me lo sarei mai aspettato. Ho cominciato a scrivere infatti a sette anni d’età, e ho scritto senza interruzione fino appunto a due o tre anni or sono. Perché non scrivo più? Perché ho perduto il destinatario. Non vedo con chi dialogare con quella sincerità addirittura crudele che è tipica della poesia. Ho creduto per tanti anni che un destinatario delle mie «confessioni» e delle mie «testimonianze» esistesse. Mi sono dunque ora accorto che non esiste. [...] La poesia richiede che ci sia una società (ossia un ideale destinatario) capace di dialogare con il povero poeta. In Italia una tale società non c’è. C’è un buon popolo ancora simpatico (specie là dove non arrivano i giornali e la televisione) e una piccola élite di borghesi colti e disperati. Ma una società con cui ci si possa mettere in rapporto attraverso la poesia non c’è. (Lo dico perché un poeta deve avere delle illusioni, ma quando le perde non deve illudersi di averle ancora). [SPS, p. 856; c.m.]

Pochi poeti e intellettuali hanno fatto i conti, in maniera altrettanto radicale, con la caduta di ogni forma di dialogo

230

Daniela Brogi

civile attorno alla poesia. Ogni volta che vorremo ridiscutere le contraddizioni di questa caduta, e recuperarne il testamento, torneremo a riaprire le Ceneri di Gramsci.

N OT E

Introduzione Essere giovani 1. I. Calvino, Prefazione 1964 al Sentiero dei nidi di ragno, in Id., Romanzi e racconti, edizione diretta da C. Milanini, a cura di M. Barenghi e B. Falcetto, prefazione di J. Starobinski, vol. I, pp. 1201-1202. 2. Ibidem, p. 1203. 3. I. Calvino, Saggi 1945-85, a cura di M. Barenghi, Torino, Einaudi 1995, tomo secondo, p. 2828. Capitolo I Cronache di una gioventù perduta 4. Cfr. N. Bobbio, La cultura e il fascismo, in Fascismo e società italiana, a cura di G. Quazza, Einaudi, Torino 1973, per esempio a pp. 229-232. Tra i molti studî rimando ai lavori fondamentali di L. Mangoni, L’interventismo della cultura. Intellettuali e riviste del fascismo, Laterza, Roma-Bari 1974; E. Gentile, La via italiana al totalitarismo, N I S , Roma 1995; S. Luzzatto, Il corpo del duce, Einaudi, Torino 1998. Per una ricostruzione del dibattito dagli anni Settanta a oggi sulla cultura fascista cfr. anche V. Zagarrio, L’immagine del fascismo. La re-visione del cinema e dei media nel regime, Bulzoni, Roma 2009, pp. 109 ss. e passim. 5. Pensiamo, a titolo di esempio, alla memoria della guerra. Se guardiamo al discorso più potente di quella memoria, il cinema neorealista, in molti casi è lecito chiedersi: che fine hanno fatto i fascisti? Ci sono i nazisti, ci sono i partigiani, ci sono gli alleati (il soldato nero di Paisà, di Rossellini). I fascisti, a parte poche eccezioni – Anni difficili (1948), di Luigi Zampa, Fuga in Francia (1948), di Mario Soldati (dove il personaggio del fascista è principalmente raccontato dall’amore filiale) – arrivano più tardi, e per lo più interpretati da maschere grottesche: come Alberto Sordi (Amori di mezzo secolo, 1953); o in film interpretati da Totò (Destinazione Piovarolo, 1955, di Domenico Paolella; Siamo uomini o caporali, di Mastrocinque, 1955, con Paolo Stoppa nei panni del fascista); più tardi arriva Ugo Tognazzi ne Il federale, di Luciano Salce

232

Daniela Brogi

(1961) e in La marcia su Roma, di Risi (1962); Gino Cervi in Anni ruggenti, di Luigi Zampa (1962). La lunga notte del ’43, di Vancini (1960) è uno dei pochi esempi di trattamento non comico del ventennio. 6. Cfr. R. Bilenchi, Un comunista, in Amici, in Id., Opere, a cura di B. Centovalli, M. Depaoli e C. Nesi, prefazione di M. , Rizzoli, Milano 1997, pp. 902-918. (D’ora in poi rimanderò a quest’opera usando la sigla A). Sono vicende a cui si allude soprattutto in Cronache degli anni neri, a cura di Romano Bilenchi, con la collaborazione di Marta Chiesi, Editori Riuniti, Roma 1984. Comprende, come introduzione datata giugno 1983, il racconto Il duca, gli altri e una rivista, e i testi già apparsi nella sezione Documenti di «Società», nei numeri 1-2 e 3 del 1945, 6 e 7-8 del 1946, e 2 del 1947. Attraverso l’organizzazione tipografica degli spazî, l’indice appare scandito in cinque sezioni: le prime tre comprensive di altri testi; la quarta e la quinta con un unico testo. I testi sono: Firenze sotto i fascisti e i nazisti che raccoglie “Vita dei gappisti”, “Nel covo di Carità”, “Ricordi di un allievo ufficiale”, “Una notte con cinque condannati a morte”, “Fucilazioni alle cascine”; Italiani in Jugoslavia, con “Otto mesi con i partigiani di Tito”, “La divisione Garibaldi”, “Prima nomina in Croazia”, “Lettera di un fascista”; Internati e profughi, che comprende “A fianco dell’Elas”, “Da Smirne a Firenze”, “Nauclares de la Oca”, “Mauthausen”, “I lager di ufficiali”, “Lettere dall’Austria”; La strage di Civitella (Civitella in Val di Chiana, 29 giugno 1944); Storia di un antifascista. 7. Testimoniata per es. anche nella recente autobiografia di Bruno Schacherl, Come se, Cadmo, Fiesole 2002. 8. R. Bilenchi, Vittorini a Firenze, in A, p. 824. L’episodio raccontato risale al 1956-1957: Bilenchi è appena uscito dal P C I . Vittorini a Firenze fu scritto tra il 1972 e il 1975. 9. Cfr. R. Bilenchi, Opere, cit., p. 1065. 10. R. Bilenchi, Due ucraini ed altri amici, con un’appendice a cura di F. Bagatti, Rizzoli, Milano 1990, p. 134. 11. «Tutti i fatti di Amici […] sono veri e vissuti da me in prima persona, e tutte le persone che vi compaiono hanno il loro vero nome e cognome. Eppure si tratta di racconti, non di saggi, né di pura memorialistica»: R. Bilenchi, La gioia di leggere, in Le parole della memoria. Interviste 1951-1989, a cura di L. Baranelli, prefazione di R. Luperini, Edizioni Cadmo, Firenze 1995. 12. «Il presente come tempo narrativo in Bilenchi tende a non esistere» osserva P. Cataldi in Rileggere Bilenchi, Atti delle giornate di studio, Colle di Val d’Elsa, 28-29 novembre 1999, a cura di L. Lenzini, Cadmo, Firenze, p. 113. 13. Il primo numero del settimanale era uscito a Colle di Val d’Elsa (Siena) il 13 luglio 1924, a un anno e mezzo dalla Marcia su Roma, su iniziativa del

Note

233

commerciante di vini Angiolo Bencini – personaggio di spicco dello squadrismo agrario – con la collaborazione grafica di Mino Maccari. Nel 1925 Maccari ne assume la direzione, lo trasforma in quindicinale e sposta la redazione a Firenze. Diverranno collaboratori della rivista Ardengo Soffici, Ottone Rosai e Achille Lega. Successivamente «Il Selvaggio» si trasferisce a Siena (1929), a Torino (1930) e infine a Roma (1932). Sia pure in modo alterno le pubblicazioni proseguirono sino al 1943 contando sulla collaborazione di Malaparte, Soffici, Morandi, Rosai, Ricci, oltre a intellettuali aderenti a «La Ronda» e a «L’Italiano». Lo spostamento del settimanale a Torino ha a che fare con la biografia di Malaparte, che si era trasferito da Napoli, dove dirigeva «Il Mattino», a Torino per dirigere «La Stampa» (fino al gennaio 1931), e chiamò pure Maccari. Nato come foglio politico a sostegno dello squadrismo (con il motto “marciare e non marcire”) «Il Selvaggio» fu attivo promotere del nazionalismo italico e rurale di “Strapaese” e di una certa mitologia picaresca del fascismo. Quando il fascismo si trasformò in Regime la rivista divenne un foglio prevalentemente culturale ed artistico e la satira, che in origine è un elemento contrappositivo avanguardistico, diverrà poi una zona di rifugio, una riserva indiana della creatività che dissente subendo spesso sequestri e censure. 14. In una lettera del febbraio 1944 Bilenchi avrebbe chiesto a Vallecchi di ritirare il libro e buttarlo al macero: cfr. Gloria Manghelli, Amici: Bonsanti, De Robertis, Loria, Vallecchi, «Il Viesseux» (maggio-agosto 1990), 8, numero monografico dedicato a Bilenchi, pp. 99-105. Bilenchi avrebbe scritto: «Io rifiuto questo libro esclusivamente per ragioni letterarie, alle quali oggi tengo più che ad ogni altra cosa». Sul medesimo tema cfr. pure A. Dolfi, Bilenchi e gli anni trenta (sulle tracce di un’iscrizione generazionale), in Bilenchi per noi, Atti del convegno di studî (Firenze, Palazzo Medici-Riccardi, 23-24 maggio 1991 – Colle di Val d’Elsa, Teatro dei Varii, 25 maggio 1991), Vallecchi, Firenze 1992, p. 29. Sempre sulla presa di distanza da Pisto cfr. Ritratti su misura di scrittori italiani, a cura di E.F. Accrocca, Sodalizio del libro, Venezia 1960, p. 80: «subito li ho sentiti così estranei [Pisto e la Cronaca dell’Italia meschina], da non poterli più riconoscere». «Pressato da passioni politiche folli, e caduto in un ambiente a me non congeniale, penso di aver avuto un’involuzione dalla quale mi sono liberato con i racconti di Il capofabbrica»: R. Bilenchi, I miei rapporti con Tozzi, in Per Tozzi, a cura di C. Fini, Editori Riuniti, Roma 1985, p. 405. 15. Secondo la segnalazione contenuta nelle Note ai testi in R. Bilenchi, Opere, cit., p. 1066. 16. Si veda anche questa testimonianza di Guglielmo Petroni in Un’ambigua e vitale polivalenza, in «L’Italiano» (1926-1942), a cura di Bruno Romani e

234

Daniela Brogi

Calimero Barilli, presentazione di Guglielmo Petroni, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1976): «Da Lucca tre giovani,Arrigo Benedetti, Mario Tobino e io stesso, agli inizî della loro carriera letteraria, si orientarono volentieri tutti e tre verso «l’Italiano» e «Il Selvaggio», non che non ci fossero altri riferi-menti, ma perché altri fogli culturali, sui quali anche scrivevamo, pur non mancando di indicazioni degne di attenzione ed in molti casi più valide di quelle delle due riviste strapaesane, per la maggior parte rimanevano bloccati nell’esercizio della letteratura, mentre «l’Italiano» e «Il Selvaggio», nel loro disordinato impegno con la triste realtà del paese e coi “fatti” contenevano evidentemente qualcosa che trovava consonanza, non solo nelle aspirazioni all’arte e alla letteratura, ma anche in quella necessità dei più giovani di sentirsi comunque presenti alle cose che succedono, per non dire agli impegni civili». Ho recuperato l’indicazione in A. Rossi, I Selvaggi: vocazione al ritratto, in La narrativa nella Toscana del Novecento, a cura di G. Gerola, Atti del Convegno Firenze, 12-14 maggio 1982, Vallecchi, Firenze 1984, pp. 116-117. 17. «La vita è indivisibile anche attraversando con patimento fino allo strazio la disperazione borghese»: R. Bilenchi, Prefazione, in F. Calamandrei, La vita indivisibile: diario 1941-47, nota introduttiva di S. Calamandrei, Giunti, Firenze 1998, p. 14. 18. Cfr. P. Buchignani, Un fascismo impossibile. L’eresia di Berto Ricci nella cultura del ventennio, il Mulino, Bologna 1994. 19. R. Bilenchi, Berto Ricci, in Dizionario Bompiani degli Autori di tutti i tempi e di tutte le letterature, vol. IV, Bompiani, Milano 1956, p. 1907 (seconda edizione, 1987). 20. P. Buchignani, La rivoluzione in camicia nera. Dalle origini al 25 luglio 1943, Mondadori, Milano 2007. 21. M. Addis Saba, Gioventù italiana del Littorio. La stampa dei giovani nella guerra fascista, Feltrinelli, Milano 1973. 22. A. Asor Rosa, Dalla prima alla seconda guerra mondiale: interventismo, fascismo, antifascismo, in Scrittori e popolo (1965), Einaudi, Torino 1988, pp. 73127. Né la prospettiva cambia, nella sostanza, in Id., Lo Stato democratico e I partiti politici, in Letteratura italiana, I: Il letterato e le istituzioni, Einaudi, Torino 1982, p. 553, per es. sul becerismo di Rosai. 23. Cfr. per es. L. La Rovere, Un «viaggio non finito». Giaime Pintor e il postfascismo: un’ipotesi interpretativa, in Giaime Pintor e la sua generazione, a cura di G. Falaschi, manifestolibri, Milano 2005, p. 238: sull’interpretazione dominante per lungo tempo, tanto sul fronte crociano che socialcomunista, del fascismo come «una semplice parentesi della storia nazionale». Si parla anche di «gabbia ferrea del paradigma antifascista»: p. 238. Oppure, cfr. a

Note

235

p. 249, quando si cita G. Turi, Casa Einaudi, il Mulino, Bologna 1990, p. 9: anche gli intellettuali che alla caduta del fascismo si presentarono come gli alfieri dell’antifascismo non nascevano dal nulla, ma provenivano, in un certo senso, dall’interno del regime. E a p. 251 si parla di zona grigia compresa tra il fascismo e l’antifascismo militanti. 24. Cfr. anche P.G. Zunino, La repubblica il suo passato. Il fascismo dopo il fascismo, il comunismo, la democrazia: le origini dell’Italia contemporanea, il Mulino, Bologna 2003, pp. 133 ss. su come la gioventù fascista non avesse motivo di dubitare che il fascismo non fosse il migliore dei mondi possibili e soprattutto, destinato a durare a lungo. 25. R. Bilenchi, Dino e altri racconti, Vallecchi, Firenze 1942, p. 118. La raccolta comprende: La fabbrica; Il nonno di Marco; Due vedove; Le nonne; I pazzi; Dino; La mamma. 26. R. Bilenchi, Vita di Pisto, «Il Selvaggio», VIII, 14 (15 settembre 1931), p. 56. 27. Molto giusta, in tal senso, l’osservazione di Carlo Bo, nel 1940, a proposito di Conservatorio (riportata in Romano Bilenchi da Colle di Val d’Elsa a Firenze. Immagini e documenti, a cura di V. Scheiwiller, Scheiwiller, Milano 1991, p. 10), quando parla della «assoluta non letterarietà del lavoro: questo passare senza l’idea di reazione, questo non cedere mai alle naturali pretese del tema testimoniano l’altezza e l’integrità del suo discorso e la forza di resistenza contro qualunque forma di divertimento». 28. R. Bilenchi, Fascismo e bolscevismo. Appello ai polemisti, «Critica fascista», XV, 7 (1° febbraio 1937), pp. 99-101; Id., Piccola guardia. Ai camerati di «Critica fascita», «Critica fascista», XV, 11, (1° aprile 1937), p. 173. A proposito della genesi dei due articoli cfr. R. Bilenchi, Amici, cit., p. 803. 29. «Letteratura», I, 3 (luglio 1937), pp. 51-70. La raccolta Anna e Bruno fu pubblicata nel 1938, nella Collezione di «Letteratura» della casa editrice fiorentina Parenti. Degli otto racconti compresi nel volume soltanto Mio cugino Andrea e Un delitto erano inediti, mentre gli altri sei (Una cena, Il bambino, Terzetto, Il capitano [col titolo Morte di Angelica], La casa, Anna e Bruno erano già usciti in rivista o su quotidiano tra il 1933 e il 1937. Per ulteriori informazioni cfr. la nota ai testi in R. Bilenchi, Opere, cit., p. 987. 30. Al 1938 risale però anche la pubblicazione, curata assieme a Berto Ricci, dell’epistolario di Dino Garrone. 31. R. Bilenchi, Cronaca dell’Italia meschina ovvero Storia dei socialisti di Colle, prefazione di C. Pellizzi, disegni di O. Rosai, Collezione del «Bargello», Vallecchi, Firenze 1933.

236

Daniela Brogi

32. R. Bilenchi, Il capofabbrica, Edizioni di «Circoli», Roma 1935. 33. Per la rassegna completa delle pubblicazioni bilenchiani in periodici negli anni dell’adesione fascista rimando alla Bibliografia approntata da Benedetta Centovalli in R. Bilenchi, Opere, cit., pp. 1079-1084. 34. Si cita dalla lettera di Bilenchi a Gioacchino Contri del 13 giugno 1932 riportata in A. Nozzoli, Su Bilenchi e «Il Bargello», «Il Viesseux», 8, maggioagosto 1990, p. 71. 35. M. Franzinelli, Squadristi – Protagonisti e tecniche della violenza fascista. 1912-1922, Mondadori, 2003, p. 248. 36. R. Bilenchi, Le parole della memoria, cit., pp. 154-155. Il brano è tratto da Autoritratto di una generazione, a cura di Aldo Grandi, Abramo, Catanzaro, 1990. 37. R. Vivarelli, Fascismo e storia d’Italia, il Mulino, Bologna 2008, p. 125. 38. R. Bilenchi, Universalità del Fascismo. I nemici della Rivoluzione, «Critica fascista», 1, 1° novembre 1936, pp. 3-5. 39. R. Bilenchi, Punti, «Universale», 9, 10 maggio 1934, p. 3. 40. U. Alfassio Grimaldi, Prefazione, in M. Addis Saba, Gioventù italiana del littorio, Feltrinelli, Milano 1973, p. 13. 41. «Il “viaggio” compiuto da una generazione di giovani dal fascismo al comunismo non è un “lungo viaggio” come ha scritto Zangrandi, ma un viaggio breve da un totalitarismo all’altro»: P. Buchignani, La rivoluzione in camicia nera, cit., p. 354. Ha dato un contributo forte allo smantellamento di questa posizione anche Luisa Mangoni (Il fascismo, in Letteratura Italiana, vol. I: Il letterato e le istituzioni, Einaudi, Torino 1982, pp. 521-548), quando ha ricostruito gli scambî forti tra la casa editrice Einaudi e gli ambienti fascisti, in particolare con Bottai e la sua rivista. 42. R. Zangrandi, Il lungo viaggio attraverso il fascismo: contributo alla storia di una generazione, Feltrinelli, Milano 1963. 43. L. Mangoni, Il fascismo, cit. e G. Turi, Casa Einaudi, il Mulino, Bologna 1990, p. 9: anche gli intellettuali che alla caduta del fascismo si presentarono come gli alfieri dell’antifascismo non nascevano dal nulla, ma provenivano, in un certo senso, dall’interno del regime. Di Turi cfr. pure Il fascismo e il consenso degli intellettuali, il Mulino, Bologna 1980 e Lo Stato educatore. Politica e intellettuali nell’Italia fascista, Laterza, Roma-Bari 2002. 44. Rispetto a questa impostazione del problema, la testimonianza di Giame Pintor, per quanto significativa, resta più orientata all’autobiografia intellettuale che alla ricostruzione storica: «Lo stato totalitario moderno è una macchina che si muove con poche leve e pochissime persone. Chi non è in possesso di queste leve potrà svolgere una azione più o meno feconda,

Note

237

ma è destinato a spezzarsi appena giunto a un certo limite, è condannato a restare irrimediabilmente lontano dalla iniziativa politica. In Italia lo stato fascista era una macchina che funzionava malissimo i suoi congegni erano rozzi e imperfetti, e a ciò si deve se, a differenza di quanto avvenne in Russia o in Germania, larghe sfere della vita pubblica rimasero in sostanza immuni dalla sua azione» G. Pintor, Il sangue d’Europa, a cura di V. Giarratana, Einaudi, Torino 1975, p. 166. 45. Che cosa è il fascismo – ovvero la teoria storica del brigantaggio, «L’Italiano», I, 2 (28 gennaio 1926). 46. Il Romano fiorentino, a cura di G.F. Colombo, «Il Sabato», 25 maggio 1985; adesso in R. Bilenchi, Le parole della memoria. Interviste 1951-1989, a cura di L. Baranelli, prefazione di R. Luperini, Cadmo, Firenze 1995, p. 148. 47. R. Bilenchi, Giovani della prima ora, «Il Selvaggio», VIII, 16 (15 ottobre 1931), p. 68. 48. D. Guérin, Fascismo e gran capitale, ErreEmme, Roma 1994, p. 132; la prima edizione del testo – quella letta da Bilenchi – risale al luglio 1936 ; la prima traduzione italiana uscirà nel 1956. 49. In «Il Bargello», IV, 4 (24 gennaio 1932-X), p. 1. Sui GUF cfr. L. La Rovere, Storia dei G U F . Organizzazione, politica e miti della gioventù universitaria fascista. 1919-1943, Bollati Boringhieri, Torino 2003. 50. Cfr. Anche Giorgio van Straten, Bilenchi e i giovani, in Bilenchi per noi, cit., p. 213. E anche in seguito, prosegue van Straten, in Bilenchi è «rimasta profonda la convinzione che i giovani rappresentassero sempre una diversità rispetto alle generazioni precedenti e che per questa loro diversità andassero valutati». 51. Ibidem, p. 214. 52. R. Bilenchi, Poesie di un giovane, «Il Bargello», IV, 37 (11 settembre 1932), p. 3. Il libro è di Gino Magno, Ansie di vita, All’Insegna del Portanova, Alessandria 1932. 53. Ö. Von Horváth, Jugend ohne Gott (1938) (Gioventù senza Dio, trad. it. di R. Bilenchi, prefazione di M. Specchio, Associazione Amici di Romano Bilenchi, Colle di Val d’Elsa 1999). Il ritrovamento della traduzione, uscita a puntate dal 18 aprile al 25 maggio 1946 sul «Pomeriggio», edizione serale de «La Nazione del Popolo», si deve a Benedetta Centovalli. 54. R. Bilenchi, Corpo di guardia. 66. Fatti del giorno, «Il Bargello», IV, 32 (7 agosto 1932), p. 3. 55. Il Rosai, Tipografia L’Economica, Firenze [1930?]. 56. V. Pratolini, Pensieri di giovane, «Il Bargello», IV, 31 (31 luglio 1932), p. 3. 57. R. Bilenchi, Le parole della memoria, cit., p. 154.

238

Daniela Brogi

58. R. Bilenchi, Due ucraini ed altri amici, cit., p. 140. 59. G. Jung, Diagnosi dei dittatori, in Jung parla. Interviste e incontri, a cura di W. McGuire e R.F.C. Hull, Adelphi, Milano 1995. L’intervista (reperibile on line: http://www.stormfront.org/forum/showthread.php?t=470189) è citata anche in M. Belpoliti, Il corpo del capo, Guanda, Milano 2009, pp. 18-20. 60. R. Bilenchi, Insegnamenti di Mussolini, «L’Universale», V, 7 (10 aprile 1935), p. 1. 61. R. Bilenchi, Mussolini fra i soldati, «Il Bargello. Settimanale della Federazione Fiorentina dei Fasci di Combattimento», V, 36 (3 settembre 1933-XI), p. 1. 62. R. Bilenchi, Punti, Mussolini, «L’Universale», IV, 8 (25 aprile 1934), p. 1. 63. R. Zangrandi, Il lungo viaggio attraverso il fascismo, cit., p. 42. 64. R. Bilenchi, “Piede di casa” e sviluppi fascisti, «Il Bargello», V, 15 (9 aprile 1933), p. 1. 65. La voce esce nel 1932, nel primo opuscolo separato dell’Enciclopedia Italiana Treccani (1929-1937). Adesso si può leggere in B. Mussolini, Scritti e discorsi, voll. 12, Hoepli, Milano 1934-1939, vol. VIII, p. 68. 66. R. Bilenchi, Ogni classe parassita e dannosa allo Stato dovrà essere eliminata, in Contributo per una nuova cultura, «Il Saggiatore», IV, 6-7-8, (agostoottobre 1933), pp. 376-378; sull’argomento cfr. L. Mangoni, Il fascismo, cit., pp. 542 e passim. 67. D. Garrone, Gli amici, «L’Universale», 3 settembre 1931, pp. 8-9. 68. Cfr. anche questa testimonianza di Cassola in La generazione degli anni difficili, a cura di E.A. Albertoni, E. Antonini e R. Palmieri, Laterza, Bari 1962, p. 89: «fino a diciott’anni non ho avuto interessi intellettuali di nessuna specie. Fu nell’estate del ’35 che cominciai a occuparmi di letteratura, arte, cinema, politica, tutto in una volta. In arte ero per le tendenze di avanguardia più spinte, in politica concepii una riforma radicale della società e mi mescolai alle attività dei cosiddetti fascisti di sinistra, e più precisamente all’attività del gruppo Zangrandi, di cui facevano parte anche Alicata, Zevi, Alatri, ecc.». 69. Cfr. R. Vivarelli, Fascismo e storia d’Italia, cit., pp. 168-169. 70. Si cita da un’intervista pubblicata in A. Grandi, I giovani di Mussolini, Baldini&Castoldi, Milano 2001, p. 305. 71. Cfr. P. Buchignani, La rivoluzione in camicia nera, cit., pp. 5 ss., per la distinzione tra “fascismo rivoluzionario” e “fascismo di sinistra”. Ma cfr. pure G. Santomassimo, Giaime Pintor nel viaggio della «generazione perduta», in Giaime Pintor e la sua generazione, a cura di G. Falaschi, manifestolibri, Roma 2005, p. 123 quando parla dell’importanza di prendere sul serio il cosiddetto «fascismo di sinistra».

Note

239

72. Si cita dal penultimo articolo apparso su «Critica Fascista», XV, 7 (1° febbraio 1937). 73. Cfr. R. Bilenchi, La ghisa delle Cure e altri scritti 1927-1989, a cura di Giorgio van Straten, Cadmo, Fiesole 1997, p. 10: «essere parte di un movimento è la condizione per incidere veramente nella vita degli uomini: questo mi pare il senso più profondo dell’impegno di Romano Bilenchi. / Allo stesso tempo, però, la sua militanza è sempre stata fondamentalmente eterodossa, incapace, cioè, di accettare dogmi e ideologie, di adeguarsi ai conformismi. La sua capacità critica, cioè, la sua funzione di scrittore e di intellettuale si è sempre esercitata, con coraggio e determinazione fino al rischio personale, dall’interno dell’azione e non dalle distanti colline del giudizio distaccato. “Siamo compromessi anche noi”: così si conclude il suo articolo Verità per la rivoluzione pubblicato sul «Popolo d’Italia» nel 1934 […]. Una frase che può essere collocata al centro dell’idea bilenchiana di politica. Le responsabilità vanno assunte fino in fondo, nel pieno della lotta, senza mai tirarsene fuori. / Così si spiega anche buona parte del fascismo di Bilenchi: come voglia di rottura verso il democraticismo parolaio e vuoto di gran parte del liberalismo e del socialismo italiano del dopoguerra». 74. R. Bilenchi, Storia dei socialisti di Colle, «Il Bargello», IV, 26 (26 giugno 1932), p. 3; fu pubblicato in volume nel 1933 (Cronaca dell’Italia meschina ovvero Storia dei socialisti di Colle), con prefazione di Camillo Pellizzi e disegni di Ottone Rosai, per la «Collezione del “Bargello”», stampata da Vallecchi. 75. Cfr. A, pp. 906-907: «Per noi la Russia era l’unico paese del mondo che avesse cancellato lo Zar, i nobili, i padroni, e le loro appendici: quindi costituiva l’esempio di quello che avremmo dovuto fare». E cfr. pure Le parole della memoria, cit., p. 139: «Eravamo fascisti a certi patti. Questa posizione fu chiarita da Ugo Spirito nel 1932 a un congresso di corporazioni a Ferrara: il fascismo doveva essere il bolscevismo italiano». Per l’influsso di Ricci sul binomio di fascismo e bolscevismo cfr. P. Buchignani, La rivoluzione in camicia nera, cit., p. 220 e Id., Un fascismo impossibile. L’eresia di Berto Ricci nella cultura del ventennio, il Mulino, Bologna 1994. 76. Cfr: Verità per la rivoluzione, «Il popolo d’Italia», 20 febbraio 1934; adesso si può leggere anche in R. Bilenchi, La ghisa delle Cure e altri scritti 1927-1989, cit., pp. 43-48. La collaborazione a «Il Popolo», su invito del duce stesso, era cominciata alla fine dell’anno precedente: sul numero del 30 dicembre 1933 era infatti apparso Insegnamenti di Mussolini. E prosegue fino all’estate 1935 – con la recensione al Soldato postumo di Marcello Gallian del 20 agosto 35. 77. Sono i versi iniziali della poesia del 1934 Senza più peso, dedicata a Ottone Rosai e raccolta in Sentimento del Tempo: «Per un Iddio che rida come un

240

Daniela Brogi

bimbo, / Tanti gridi di passeri, / Tante danze nei rami, // Un’anima si fa senza più peso, / I prati hanno una tale tenerezza, / Tale pudore negli occhi rivive, // Le mani come foglie / S’incantano nell’aria... // Chi teme più, chi giudica?» (G. Ungaretti, Vita d’un uomo. Tutte le poesie, a cura di L. Piccioni, Mondadori, Milano 1982 (1969), p. 195). 78. Cfr. A. Grandi, I giovani di Mussolini, Baldini&Castoldi, Milano 2001, pp. 289-290. 79. Anche attraverso la prefazione scritta nel 47 al Garofano si può dire che «a tutto il 1939, l’antifascismo di Vittorini non era assolutamente antifascismo politico se si considera come specifica forma della politica l’organizzazione»: G. Falaschi, Realtà e retorica. La letteratura del neorealismo italiano, G. D’Anna, Messina-Firenze 1977, pp. 17 ss. 80. R. Bilenchi, Punti, «L’Universale», V, 3 (10 febbraio 1935), p. 3. 81. Nota dell’autore, in R. Bilenchi, Il capofabbrica, Vallecchi, Firenze 1972, p. 103. Quattro capitoli del romanzo (Dino, I pazzi, Il nonno di Marco, Storia di due vedove) erano già usciti su «L’Universale» e su «La Nazione» tra il 1933 e il 1934: cfr. R. Bilenchi, Opere, cit., p. 971. 82. V. Pratolini, Letteratura del tempo nostro. R. Bilenchi, «Il capofabbrica», «Il Bargello», 9 giugno 1935, p. 3. 83. R. Bilenchi, Il capofabbrica, Edizioni di «Circoli», Roma 1935, pp. 150-151. 84. R. Bilenchi, Principi d’arte fascista. Ai littoriali della cultura e dell’arte, «Il Popolo d’Italia», 109 (9 maggio 1934), p. 3. 85. Nota dell’autore, in R. Bilenchi, Il capofabbrica, in Opere, pp. 63-64. 86. R. Bilenchi, Punti, «L’Universale», IV, 20 (30 ottobre 1934), p. 1: «[…] 28 ottobre. Ore 4 e mezzo del mattino. // Buffet della stazione. Tre operai dormono stanchi, vestiti male, con rozze camicie nere. A un altro tavolo tre giovani con le camicie nere di seta in compagnia di due signorine, ordinano uno spuntino. A un tratto uno dei giovani comincia a prendere I piatti e a spaccarli, per divertimento, sapendosi, in virtù dei soldi di suo padre, intangibile. Mentalità di troppe persone questa! Se il gesto lo avesse compiuto un operaio, questi sarebbe stato forse anche arrestato. È tempo che si dia un taglio a certi costumi. In Regime Fascista il popolo non andrebbe offeso da gente che porta la camicia nera. Mussolini parla un altro linguaggio». questa parte dell’articolo è citata anche in A, p. 935. 87. R. Bilenchi, Fascismo e bolscevismo. Appello ai polemisti, «Critica Fascista», XV, 7 (1° febbraio 1937). L’articolo si può leggere anche in La ghisa delle cure, cit., pp. 59-61. 88. G. Cogni, Il razzismo, Bocca, Milano 1937. 89. R. Bilenchi, Piccola guardia. Ai camerati di «Critica fascista», «Critica

Note

241

fascista», XV, 11 (1° aprile 1937), p. 173. In Amici (pp. 803-805) Bilenchi racconta di un libretto tratto dai due articoli commissionato dall’Istituto di cultura fascista e spedito a Roma ma smarrito o trattenuto nei passaggi postali. 90. Cfr. G. Manacorda, Letteratura e cultura del periodo fascista, Principato, Milano 1976, p. 164. Ma su questi temi, e per un’analisi di Pisto, cfr. anche G. Gigliozzi, La metafora pietrificata. Studi sulle strutture narrative degli anni Trenta, Bulzoni, Roma 1987. 91. Ecco la premessa in attacco della prima puntata: «Le ragioni che ci fanno pubbicare questo scritto di un giovanissimo, non sono di ordine letterario né artistico. Ci preme, fra tante discussioni sui giovani, presentare piuttosto dei documenti genuini e diretti, sui quali ci sarebbe poi modo di ragionare. Amiamo i sintomi e le testimonianze, più che le accademie e le giostre giornalistiche. È questa dunque testimonianza dell’orientamento e della formazione spirituale di uno dei nostri fratelli minori: che tale – e dei migliori – è Romano Bilenchi»: «Il Selvaggio», VIII, 5 (31 marzo 1931), p. 20. 92. R. Bilenchi, Corpo di guardia. 83. Libri e biblioteche. I I ., «Il Bargello», IV, 39 (25 settembre 1932), p. 3. 93. R. Bilenchi, Tempo di revisione. «Quel pugnale nel cuore», «Il Bargello», IV, 49 (4 dicembre 1932), p. 3. 94. R. Bilenchi, Vita di Pisto, «Il Selvaggio», VIII, 5 (31 marzo 1931), p. 20. 95. «Noi giovani abbiamo radici nella realtà, ci siamo forgiati lo spirito su Oriani e la carne colle cazzottate, le fatiche militari e sui corpi caldi delle donne italiane (se qualcuno di noi non ha retto allo sforzo continuerà sui ginocchi ma nelle prime linee»: V. Pratolini, Settimanale dei libri. Letteratura del tempo nostro. R. Bilenchi: «Il Capofabbrica», «Il Bargello», VII, 23 (9 giugno 1935), p. 3. 96. G. Prezzolini, Benito Mussolini, Formiggini, Roma 1925. Cito però da P. Buchignani, La rivoluzione in camicia nera, cit., pp. 71 e 406. 97. L. Greco, Censura e scrittura. Vittorini, lo pseudo-Malaparte, Gadda, Il Saggiatore, Milano 1983, pp. 13-50, e 45 ss per i rimandi a Pisto. 98. A. Soffici, Lemmonio Boreo, Libreria de «La Voce», Firenze 1912; qui però si cita dall’edizione Vallecchi del 1943. Il libro di Soffici narra la storia di un trentenne che, dieci anni prima, a vent’anni, dopo la morte del padre era partito di casa, lasciando madre e zia che sembrano le sorelle Materassi, «per cercare, fra genti straniere, in paesi muti per la sua anima, in città sterminate e feroci, quello che non aveva ancora trovato – sé stesso». (p. 19). Tornato a casa per dare la propria forza al suo popolo, Lemmonio legge per settimane, ma è nauseato da tutto (letteratura, arte, filosofia, critica d’arte), e alla fine sceglie di esser lui l’uomo della sua immaginazione (p. 54), perché, come spiegherà al suo primo arruolato, Zaccagna, «non basta avere un’idea esatta

242

Daniela Brogi

della giustizia […] per farla valere ci vuol la forza» (p. 99). Riparte, fa vari incontri e alla fine, così si conclude, arriva in città. Lemmonio ricorda Pisto anche per la postura: camminata a testa alta, a torace aperto: «Sentiva come se ogni colpo d’occhio fosse per lui una ripresa di possesso della sua terra, anzi una nuova conquista» (p. 18). 99. R. Bilenchi, Il ritorno di Fernando, «Il Portanuova», I, 4 (25 aprile 1932). Ma adesso si può leggere anche in Romano Bilenchi: da Colle val d’Elsa a Firenze:immagini e documenti, a cura di V. Scheiwiller, Scheiwiller, Milano 1991, pp. 57-59. 100. «Il Selvaggio», VIII, 17 (30 ottobre 1931). 101. E ripubblicato in volume, dapprima nel Capofabbrica (1935), e poi in «Dino» e altri racconti (1942). 102. Di Garrone Bilenchi firma la cura dell’epistolario, assieme a Berto Ricci: Lettere di Dino Garrone, raccolte a cura di B. Ricci e R. Bilenchi, Vallecchi, Firenze 1938. 103. «[…] Umanità, calore, vita, ecco ciò che Rosai può vendere a tutti. Se tu lo trovi nel suo studio in mezzo a quei ragazzi che vanno da lui a pitturare, o accanto al suo Dino, ti accorgi che ha la potenza di prendere un ragazzo e di restituirlo artista, di trasmetterti la sua passione, di capovolgere un uomo»: R. Bilenchi, La ghisa delle Cure e altri scritti, 1927-1989, cit., p. 30. 104 R. Bilenchi, Dino, in Il capofabrica, in Opere, cit., p. 27. 105. Ibidem, p. 30. 106. Ibidem, p. 31. 107. Ibidem, p. 32. 108. Ibidem, p. 33. 109. Ibidem, p. 34. 110. Ibidem, p. 36. 111. Ibidem, p. 37. 112. Ibidem, p. 38. 113. E prosegue: «Gli altri si erano accorti di noi? mi chiedeva Mario. Ad alto livello sì, in alcuni ambienti intellettuali sì. Ma l’antifascismo attendista e borghese pensavo che non ci potesse sopportare e riteneva, nel suo odio impotente, noi giovani responsabili della perpetuazione del fascismo. Un mio amico, Mario Luzi [che nell’introduz a Opere dichiara di aver conosciuto Bilenchi nel 1934], che conosceva bene alcuni di noi, come ha poi detto, ci considerava, già allora, “comunisti in nuce”»: Un comunista, in A, p. 906. 114. Si cita da un articolo pubblicato sul «Corriere della sera», 23 ottobre 1985 (Bilenchi: scrivendo sfuggivo al fascismo), e poi in Opere complete, cit., p. 1131. 115. La pubblicazione delle prime parti de I silenzi di Rosai risale al 1955,

Note

243

quando esce su «Rinascita» (XII, 1 (gennaio 1955), pp. 33-34) la prosa I pittori, che equivale ai primi due paragrafi di Via Toscanella nei Silenzi, dedicati ai giorni «felici» dell’infanzia a Colle di Val d’Elsa e alla vita liceale a Firenze. A questa prima uscita seguirà la pubblicazione in quotidiani e riviste di altre parti de I silenzi, variamente chiamate, fino al testo completo edito nel 1971 da Pananti, poi ripreso in Amici. La prima edizione di Amici – intitolata Amici. Vittorini, Rosai e altri incontri – esce per Einaudi nel 1976. Al 1988 risale l’edizione definitiva, per Rizzoli (a cura di Sergio Pautasso e con prefazione di Gianfranco Contini). Il testo da cui si cita è tratto da R. Bilenchi, Opere complete, a cura e con introduzione di Benedetta Centovalli. Cronologia, note ai testi e bibliografia a cura di B. Centovalli, M. Depaoli e C. Nesi, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 2009. 116. Già Nicoletti parla de I Silenzi di Rosai come «fulcro dell’intero libro» in Bilenchi incontra Rosai, in I miei amici pittori. Romano Bilenchi e l’arte contemporanea, Catalogo della Mostra. Museo di San Pietro 27 novembre 1999 – 9 gennaio 2000, a cura di M. Ciccuto e L. Lenzini, Cadmo, Fiesole 1999, p. 13. 117. M. Luzi, Una testimonianza, in Ottone Rosai oggi. Atti del Convegno Firenze 17-19 marzo 1974, Vallecchi, Firenze 1975, p. 103. 118. «Rosai – si cita da un articolo di Ricci del 1931 – nell’Universale non è un collaboratore, né quel che si dice un redattore; tanto meno ne è il responsabile. Rosai è così in alto nella stima, nell’amore dei due giovani che insieme a lui fondarono questo giornale, e tanto egli ha fatto più di loro in tutti i campi e in tutti i sensi, e di troppa parte della propria vita essi gli sono debitori, per pensare a parità stupide e assurde. Egli non è un compagno, non un condirettore o altro di simile, ma è il padre spirituale dell’Universale e dei suoi uomini» (cfr. B. Ricci, Lo scrittore italiano, prefazione di I. Montanelli, Ciarrapico Editore, Roma 1986, p. 82). «Il “padre spirituale” dell’ “Universale” era Ottone Rosai. Anche di Rosai ho seguito con passione la vicenda umana, attratto e respinto allo stesso tempo, in quanto Rosai non riuscendo a liberarsi dalla croce che portava addosso odiava non questa sporca società ma la vita»: R. Bilenchi, Un narratore deve essere per prima cosa un poeta, in Le parole della memoria. Interviste 1951-1989, a cura di L. Baranelli, prefazione di R. Luperini, Cadmo, Firenze 1995, p. 28. 119. «Viani è stato il maestro di tutti noi», dice Rosai nel 1930: cfr. M. De Micheli, Carattere e immagine di Ottone Rosai, in Ottone Rosai oggi, cit., p. 10. Ma si veda pure questa testimonianza: «semmai, pur ritenendomi molto inferiore a Tozzi, penso di appartenere alla sua stessa famiglia, di cui fanno parte anche Rosai e Viani: di coloro cioè che hanno rifiutato il bozzetto e il

244

Daniela Brogi

provincialismo che soffocavano i drammi più atroci e hanno cercato di scavare nel tragico mistero della vita»: R. Bilenchi, I miei rapporti con Tozzi, in «Il Nuovo Corriere di Siena», 30 novembre 1983, e poi in Romano Bilenchi: da Colle val d’Elsa a Firenze:immagini e documenti, a cura di V. Scheiwiller, Scheiwiller, Milano 1991, pp. 71-76. 120. Cfr. F. Camon, Il mestiere di scrittore, Garzanti, Milano 1973, p. 35. 121. O. Rosai, Ricordi di un fiorentino, Vallecchi, Firenze 1955, p. V I I I (il corsivo è mio). 122. Cfr. A, pp. 799-800: «[Nel 1934] Ciano mi disse: – Ti piacerebbe fare il giornalista? In fondo sarebbe il lavoro più vicino ai tuoi interessi. Ti raccomanderò a Egidio Favi, proprietario della “Nazione” di Firenze. […] Dopo pochi giorni fui chiamato a Firenze da Favi. Mi disse: «Ho avuto una lettera di Galeazzo Ciano che la riguarda. Ho proprio bisogno di un redattore giovane e lo stavo cercando. Lei non ha l’aria di essere un uomo di Ciano. Lui e suo padre posseggono “Il Telegrafo” e non sono contenti. Me ne fanno di tutti i colori e vogliono prendermi “La Nazione”, ma ho chi mi protegge e non cederò». Tacque per un attimo, poi aggiunse: «In questi giorni ho chiesto informazioni sul suo conto e ho letto il suo libretto. Lei non è un fascista, è un anarchico e a me sta bene così!». Ma anche per l’assunzione alla «Nazione» sembra aver contato soprattutto il tramite di Rosai: «Credo che l’intervento di Ciano abbia avuto un certo peso, ma a decidere la mia assunzione fu certo Ottone Rosai del quale ero amico e che conosceva fino dall’infanzia Bruno Micheli, redattore capo del giornale e uomo di fiducia del proprietario» (Nascita di un uomo contro, «Corriere della Sera», 31 dicembre 1989). 123. Cfr. gli articoli di M. Verdone (Rosai e «Lacerba», pp. 129-139) e di F. Bellonzi (Il futurismo di Rosai, pp. 141-153), in Ottone Rosai oggi, cit. 124. G. Ungaretti, Veglia (1915), in Id., Vita d’un uomo. Tutte le poesie, a cura di L. Piccioni, Mondadori, Milano 1969, p. 25. 125. In «Cronache», I, 10 (ottobre 1932). Adesso si può leggere in R. Bilenchi, La ghisa della Cure e altri scritti. 1927-1989, a cura di G. van Straten, Cadmo, Firenze 1997, pp. 29-31. 126. Cfr. A. Parronchi, Ottone Rosai, «Le arti», III, 1 (ottobre-novembre 1940), p. 28. 127. Cfr. O. Rosai, Via Toscanella e altri scritti, a cura di A. Parronchi, Editori Riuniti, Roma 1994, p. X . 128. Sono versi tratti dall’ultima strofa della poesia di Soffici, Noia, pubblicata su «Lacerba» il 13 marzo 1915: «Vestito da clown allora / Infarinato dipinto / Con un ciuffo scarlatto e un cuore / Verde fra ciglio e ciglio / Poter ballare / Cantare / Ridere / Ultimo dio in maschera sur un filo / Teso fra il

Note

245

principio e la fine / Su questo gorgo nero d’umanità che domanderebbe il / bis.»: cfr. A. Soffici, B I F § Z F +18 Simultaneità e chimismi lirici, Vallecchi, Firenze 1919, p. 33. 129. O. Rosai, Il libro di un teppista, a cura di G. Nicoletti, Editori Riuniti, Roma 1993, p. X I e passim. 130. «[…] Io sono un teppista, è arcivero (verissimo!). M’è sempre piaciuto rompere le finestre e i coglioni altrui (vocio enorme) e vi sono in Italia dei crani illustri, che mostrano ancora le bozze livide delle mie sassate (proteste, alcune signore si alzano). Non c’è, nel nostro caro paese di parvenus, abbastanza teppismo intellettuale. Siamo nelle mani dei borghesi, dei burocratici, degli accademici, dei posapiano, dei piacciconi (gridio confuso). Non basta aprire le finestre – bisogna sfondar le porte. Le riviste non bastano ci voglion le pedate (approvazioni ironiche)»: G. Papini, Il discorso di Roma, «Lacerba», I, 5 (1° marzo 1913), p. 37. 131. «A te consiglio I Canti Orfici di Dino Campana, usciti or ora da Vallecchi», scrive Maccari a Bilenchi il 19 giugno 1928: cfr. R. Bilenchi, M. Maccari, Il gusto della fucileria. Lettere 1927-1982, con un’Appendice di testi di R. Bilenchi e M. Maccari, a cura di M.A. Grignani e N. Trotta, introduzione di M.A. Grignani, postfazione di R. Barzanti, Cadmo, Firenze 2010, p. 29. 132. Lo testimonia Rosai stesso, nell’articolo La trincea, i lungarni e i debiti d’una fabbrica di mobili, pubblicato sul «Nuovo Corriere» il 31 dicembre 1953: «In un mio tentativo di vederlo [Campana], fui minacciato, da uno dei tanti medici di quell’Istituto, d’esser trattenuto anch’io là dentro». 133. «C A N Z O N E T E P P I S T A . – Troppo idillio, questa nostra Firenze, boudoir degli amori internazionali, mecca dei vagabondaggi miliardari; poche paure; poco veleno; manca il sinistro dietro le cantonate a lumi spenti. Amico Rosai, pittore e becero, ricantaci qualche cosa che faccia pensare alla possibilità d’una teppa, a un lirismo bordelliere ed ergastolano»: cfr. «Lacerba», II, 4 (15 febbraio 1914), p. 61. 134. «Lacerba», II, 12 (15 giugno 1914), pp. 185-186. 135. Per Tommei e Lacerba cfr. U. Carpi, L’estrema avanguardia del Novecento, Editori Riuniti, Roma 1981, pp. 44-53 e, sul teppismo futurista toscano, soprattutto p. 51. 136. «La testa di Campana aveva del sogno, qualcosa delle antiche deità. Così lo vidi la mattina che con Soffici entrammo nel piccolo stambugio di quella ch’era allora la tipografia Vallecchi in Via Nazionale. Seduto in un divano ricoperto d’incerato nero un uomo con una barba e dei capelli giallastri ci guarda dal fondo svagato e dolce di due occhi azzurri. // Chiede: – Siete voi Soffici? –. // E, ad una risposta affermativa, si alza balbettando e

246

Daniela Brogi

offrendo una mano grassoccia rubensiana che Soffici stringe nella sua tutt’ossuta. Di me non si preoccupa dopo aver visto sul mio volto l’età di chi non si prende sul serio; avevo allora diciott’anni. // È un uomo tarchiato, dalle spalle quadrate, di collo corto, molto dimesso. Non ha colletto, porta la camicia sbottonata e dall’apertura s’intravedono sboffi di pelo abbruciacchiato sul petto e una pelle rosea-bronzata che gli sale fino sul viso. Da una tasca tirò fuori una mangiata [sic] di carta gialla. Quell’affollato mucchio di carte lo dette dopo a Soffici perché vedesse di farne un libro»: O. Rosai, Taccuini, in Nient’altro che un artista: lettere e scritti inediti, a cura di V. Corti, Traccedizioni, Piombino 1987, pp. 466-467. 137. Ibidem, p. 468. 138. Si tratta dei seguenti testi: Pagine di memorie. La trincea, i lungarni e I debiti d’una fabbrica di mobili (31 dicembre 1953); Pagine di memorie (28 gennaio 1954); Gli omìni si fanno uomini (14 febbraio 1954); Via San Leonardo (7 marzo 1954); Pagine di memorie. Circolava di nascosto una riproduzione di «Guernica» (2 aprile 1954); Pagine di diario. Incontri quasi clandestini negli anni della guerra (5 giugno 1954). 139. Cfr. l’articolo pubblicato il 23 settembre 1953 sul «Nuovo Corriere»: O. Rosai, Alle Giubbe Rosse, su «Lacerba» e nelle strade la spericolata storia del futurismo a Firenze, che ora si può leggere anche in Autobiografia di un giornale. «Il Nuovo Corriere» di Firenze 1947-1956, a cura di F. Bagatti, O. Cecchi, G. van Straten, prefazione di R. Bilenchi, Editori Riuniti, Roma 1989, pp. 171- 174. 140. Tutti i ventenni di quella stagione lessero quel libro: cfr. per es. E. Montale, Quaderno genovese, a cura di L. Barile, con uno scritto di S. Solmi, Mondadori, Milano 1983, p. 14: l’otto febbraio 1917 Montale invia alla libreria de «La Voce» lire 5,30 per acquistare l’Almanacco, Rimbaud di Soffici e i Saggi di Serra. 141. R. Bilenchi, Opere complete, cit., p. 526. 142. Cfr. la testimonianza di Adriano Seroni sull’ambiente delle Giubbe Rosse: «ricordo la presenza continua, quotidiana, di Montale. Fumava sigarette Nazionali spaccandole a metà per ragioni economiche. Non si era voluto iscrivere al Partito fascista ed era stato cacciato dalla direzione del gabinetto letterario Viesseux. Rammento le discussioni letterarie e non. Qualche volta capitava anche Vittorini. Soltanto che anche in quelle occasioni l’elemento più politicizzato era un vecchio cameriere di nome Cesare, che estrinsecava il suo antifascismo magari facendo credito a letterati in disgrazia. Difficilmente si andava oltre. La frase politicamente più diretta l’ho sentita pronunciare da Ottone Rosai che era stato un ex squadrista: –

Note

247

Anni fa ho pensato: ci vorrebbe un omino che salvasse il Paese. Poi ho creduto che quell’omino ci fosse. Adesso debbo dire che ci vorrebbe un omino che gli sparasse –»: si cita dall’intervista a A. Seroni in A. Grandi, I giovani di Mussolini, Baldini&Castoldi, Milano 2001, pp. 263-264. 143. «La Nazione», 29-30 aprile 1934, p. 5. 144. Cfr. J.T. Schnapp, 1 8 B L . Mussolini e l’opera d’arte di massa, Garzanti, Milano 1996. Ma si può leggere pure la testimonianza in T. Kezich – A. Levantesi, Una dinastia italiana. L’arcipelago Cecchi–d’Amico tra cultura, politica e società, Garzanti, Milano 2010, pp. 326-329. Dove si cita anche il resoconto dello spettacolo fatto da Eugenio Montale in una lettera a Lucia Rodocanachi: «Ieri sera sono stato al 18BL, spettacolo di masse con 2000 attori, cannoni mitragliatrici, aereoplani e apoteosi a Littoria. C’erano 20 000 spettatori. Dietro di me c’era la Gianna (Manzini) con S.E. Bontempelli e Bino Sanminiatelli. A ogni colpo di cannone sveniva e S.E. e l’altro dovevano farle aria coi fazzoletti e dirle parole dolci. Era presente tutta l’Europa, ma lo spettacolo è stato un fallimento, ci sono stati anche dei fischi e i gerarchi erano pallidi e furibondi». 145. Il testo adesso in R. Bilenchi, La ghisa delle cure, cit. pp. 49-55. 146. O. Rosai, Dentro la guerra (1932), cit. p. 76. 147. Ibidem, p. 89 148. Cfr. I miei amici pittori. Romano Bilenchi e l’arte contemporanea, cit., p. 113. 149. Cfr. per es. A. Gatto, Ottone Rosai, Vallecchi, Firenze 1941, p. 37. 150. Cfr. la lettera del 7 ottobre 1933 di Rosai a Bilenchi: «[…] Ho letto le tue novelle nell’«Universale» e mi sono piaciute»; E anche questa lettera – datata Firenze 24-4-35 – XIII: «Caro Bilenchi, il tuo Capofabbrica è bellissimo. Ti confesso che dal capitolo Mamma in giù mi ha commosso. La secchezza dei primi capitoli diviene via via respiro nei capitoli che seguono fino alla comprensione umana, all’amore, alla religione. Bravo Bilenchi. E non il maestro col tono da maestro ti dice così ma l’uomo che soffre per gli uomini che soffrono. Ti abbraccio // Tuo Ottone» [entrambe le lettere a p. 366 di Ottone Rosai: Quattro lettere inedite a Romano Bilenchi, a cura di P. Mazzucchelli, in «Strumenti critici», n.s., IV, settembre 1989, fascicolo 3; quest’ultima lettera sul Capofabbrica anche in O. Rosai. Nient’altro che un artista, a cura di V. Corti, p. 217. I racconti a cui Rosai si riferisce sono Il nonno di Marco («L’Universale» IV, 4 (1934)); I pazzi, (ibidem, III, 8 (1933)); Dino, (ibidem, III, 1 (1933)), poi confluiti con altri testi ne Il Capofabbrica, Edizioni di «Circoli», Roma 1935. 151. Si cita dall’intervista rilasciata a Pino Corrias che ora si legge in Le parole della memoria, cit., p. 147.

248

Daniela Brogi

152. Ibidem. 153. G. Nicoletti, Bilenchi, «Racconti», in Letteratura Italiana. Le Opere, vol. IV Il Novecento, II La ricerca letteraria, Einaudi, Torino 1996, p. 90. Ma cfr. anche C. Martignoni, Modi della narrazione in Bilenchi, «Autografo», n. s., I, 28-29 (1994). 154. Per un approfondimento dello stile bilenchiano mi limito qui a rimandare, oltre che ai lavori di Martignoni e Nicoletti sopra citati, agli interventi contenuti in Nove pezzi per «Conservatorio». Omaggio a Romano Bilenchi, a cura di B. Centovalli, Cadmo, Firenze 2004. 115. Memoria d’immaginazione [9 marzo 1979], intervista a cura di A. Dolfi, «Il contesto», VI, 4-5-6 (1981), ora in Le parole della memoria, cit., p. 91. 156. Ibidem. 157. Qualche esempio: La via di Santa Margherita a Montici, 1933 (Firenze, Galleria d’Arte Moderna); Paese, 1934 (Firenze, Collezione Biagiotti, esposto alla Mostra di Palazzo Strozzi, maggio-giugno 1960, cfr. il Catalogo a cura di P.C. Santini, Vallecchi, Firenze 1960); Via San Leonardo, 1935 (Firenze, Collezione Masciotta), 1938 (Firenze, Collezione Lapiccirella) e 1952 (Prato, Collezione Bigagli). 158. O. Rosai, Opere dal 1911 al 1957, presentazioni di E. Ciantelli e G. Morales, introduzione di C.L. Ragghianti, mostra e catalogo a cura di P.C. Santini, Firenze, Palazzo Strozzi, 13 novembre-18 dicembre 1983, Vallecchi, Firenze s.d. A p. 12 lo scritto di Rosai L’essenziale, pubblicato su «Frontespizio», 4 (1937). Si parla anche di «essenza irraggiungibile della vita, che non dipende per nulla dal mutare del mondo» e che si può raggiungere solo attraverso il dolore. Capitolo II Tra letteratura e cinema 159. Una prima versione di questo lavoro è stata preparata in occasione del Seminario Litterature et cinema Neorealiste. Histoire d’une politique de/par l’immage, École Normale Superieure, Paris (gennaio 2011) (gli Atti sono in corso di stampa, a cura di Guido Furci, per Editions de la rue d’Ulm, Paris). Ho capito meglio alcune delle idee qui sviluppate anche grazie alle discussioni con Anna Baldini, Giacomo Magrini e Niccolò Scaffai. 160. M. Houellebecq, La Carte et le Territoire, Flammarion, Paris 2010. 161. Cfr. L. Visconti, Ossessione, trascrizione del film di E. Ungari, con la collaborazione di G.B. Cavallaro; nota introduttiva di R. Renzi, Cappelli, Bologna 1977; L. Micciché, Il Neorealismo cinematografico italiano, Marsilio,

Note

249

Venezia 1975; Id., Visconti e il Neorealismo. Ossessione, La terra trema, Bellissima, Marsilio, Venezia 2006; G. Moneti, Neorealismo fra tradizione e rivoluzione, nuova immagine editrice, Siena 1999; A. Farassino, Neorealismo, storia e geografia, in Neorealismo. Cinema italiano. 1945-1949, a cura di A. Farassino, EDT , Torino 1989; B. Torri, Il caso «Ossessione», in Centro Sperimentale di Cinematografia: Storia del cinema italiano, vol. VI, 1940-1944, a cura di E.G. Laura in collaborazione con A. Baldi, Marsilio, Venezia 2010, pp. 176-183. 162. In Visconti e il Neorealismo…, cit., pp. 37 ss. 163. A. Bencivenni, Luchino Visconti, Il Castoro, Milano 1994, p. 14. 164. C. Pavese, La letteratura americana e altri saggi, Einaudi, Torino 1990 (1951), pp. 263-264. 165. E il cinema lo ripagherà – ma sarebbe un’altra storia – con gli adattamenti tratti dalle sue opere: oltre a Le amiche (1955), di Michelangelo Antonioni, Danièle Huillet e Jean-Marie Straub hanno realizzato tre adattamenti dei Dialoghi con Leucò: De la nuée à la résistance (1978); Ces Rencontres avec eux (2006); Le Genou d’Artemide (2008), realizzato da Straub. 166. Su Pavese e il cinema si veda L. Ventavoli, Il cinema di Pavese, in Cesare Pavese e la “sua” Torino, Lindau, Torino 2007; l’Introduzione di L. Ventavoli e il testo L’ultimo «mestiere» di Mariarosa Masoero in C. Pavese, Il serpente e la colomba. Scritti e soggetti cinematografici, Einaudi, Torino 2009; N. Lorenzini, Lavoro, città, spaesamento: sul set di «Lavorare stanca», «Letteraria» 2 (2009), pp. 101-104 (per le parentele tra i personaggi chapliniani e quelli delle poesie di Pavese); F. Prono, Pavese e il cinema, Bonanno, Acireale-Roma 2011. Al 2011 risale il documentario di Andrea Icardi, Il cinema secondo Pavese (dedicato però essenzialmente ai soggetti cinematografici preparati tra il marzo e il giugno 1950, e al rapporto tra Pavese e l’attrice americana Constance Dowling) prodotto dalla Fondazione Cesare Pavese (che si può vedere anche qui: http://www.youtube.com/watch?v=H9t5_nFBfjI). 167. C. Pavese, Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950, edizione condotta sull’autografo a cura di M. Guglielminetti e L. Nay, nuova introduzione di C. Segre, Einaudi, Torino 2000 (1952), pp. 309-310. Perfino prima del suicidio Pavese sarebbe andato al cinema, a vedere Les Enfants du paradis (Marcel Carné, 1945). 168. Il nome deriva dalla mostra organizzata dal critico G.F. Hartlaub, che nel 1925 riunì nella Kunsthalle di Manheim, di cui era direttore, l’opera di circa trenta artisti accomunati, sia pure nelle differenze, dal rifiuto programmatico del soggettivismo espressionista. 169. Cfr. G.P. Brunetta, Umberto Barbaro e l’idea di neorealismo (1930-1943), Liviana, Padova 1969.

250

Daniela Brogi

170. La parola “Neorealismo” comincia a circolare intorno al 1933, all’interno della polemica tra contenutisti (neorealisti) e formalisti. Per esempio il 23 settembre 1934 Francesco Jovine scrive che ad una letteratura vuota di contenuto e ridotta a vana esercitazione retorica si oppone una letteratura che trae dalla realtà presente le proprie ragioni di vita. E tuttavia, secondo Jovine, «per sfuggire alla retorica della pura forma i neo-realisti minacciano di crearne un’altra: quella del puro contenuto»: cfr. Neorealismo. Poetiche e polemiche, a cura di Claudio Milanini, il Saggiatore, Milano, 1980, pp. 7-8. Per il dibattito sul Neorealimo cfr. anche G. Taviani, Tra Verga e Zola: Visconti e il dibattito sulla rivista “Cinema”, in Il verismo italiano fra naturalismo francese e cultura europea, a cura di R. Luperini, Manni, San Cesario – Lecce 2007, pp. 55-81. 171. «Rinascita», 24 aprile 1965; cfr. anche M. Corti, Neorealismo, in Il viaggio testuale, Einaudi, Torino 1978, p. 29. 172. C. Pavese, La letteratura americana e altri saggi, cit., pp. 222-223. Cfr. pure C. Bonnetin, «Paesi tuoi» et «Le facteur» de Cain, «Levia gravia», 1 (1999). 173. C. Pavese, Lettere 1926-1950, a cura di L. Mondo e I. Calvino, Einaudi, Torino, 1968, vol. II, p. 633. 174. Per cui rimando al saggio di Clotilde Bertoni, Dalla pagina allo schermo: il senso sospeso di un racconto, in C. Boito, Senso, Manni, San Casario – Lecce 2002. 175. F. Ivaldi, Effetto rebound. Quando la letteratura imita il cinema, Felici, Pisa 2011. 176. Raccolgo in questo caso uno spunto importante di S.S. Nigro dal suo Il principe fulvo, Sellerio, Palermo 2012. 177. M. Antonioni, Per un film sul fiume Po, «Cinema», XVII, 68 (25 aprile 1939), pp. 254-257. 178. Da Confessioni di scrittori. Interviste con sé stessi, E R I , Torino 1951. Ma il giudizio è ribadito anche nella chiusa della già citata Intervista alla radio (in La letteratura americana e altri saggi, cit., p. 267). 179. «Per arrivare fino in fondo al vicolo, i raggi del sole devono scendere diritti rasente le pareti fredde, tenute discoste a forza d’arcate che traversano la striscia di cielo azzurro carico. // Scendono diritti, i raggi del sole, giù per le finestre messe qua e là in disordine sui muri, e cespi di basilico e di origano piantati dentro pentole ai davanzali, e sottovesti stese appese a corde; fin giù al selciato, fatto a gradini e a ciottoli, con una cunetta in mezzo per l’orina dei muli. // Basta un grido di Pin, un grido per incominciare una canzone a naso all’aria sulla soglia della bottega, o un grido cacciato prima che la mano di Pietromagro il ciabattino gli sia scesa tra capo e collo per picchiarlo, perché dai davanzali nasca un’eco di richiami e d’insulti. // – Pin! Già a

Note

251

quest’ora cominci ad angosciarci! Cantacene un po’ una, Pin! Pin, meschinetto, cosa ti fanno? Pin, muso di macacco! Ti si seccasse la voce in gola, una volta! Tu e quel rubagalline del tuo padrone! Tu e quel materasso di tua sorella! (I. Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, in Id., Romanzi e racconti, cit., p. 6). 180. I. Calvino, Autobiografia di uno spettatore, in F. Fellini, Quattro film, Torino, Einaudi 1974, pp. XXIII - XXIV . Su Calvino e il cinema si veda pure V. Santoro, Calvino e il cinema, Quodlibet, Macerata 2011. Mentre, continuando a invertire le direzioni obbligate imposte dallo specialismo, anche Il sentiero, da parte sua, potrebbe aver lasciato qualche traccia tra gli scugnizzi di quartiere in Proibito rubare (1948) di Comencini. 181. E. Vittorini, Diario in pubblico (1957), Einaudi, Torino 1980, p. 88. Vittorini riparlerà di Cain anche in una nota dell’edizione sequestrata di Americana: «James Cain, fra tutti, ha sentito a fiuto che, pur per raccontare una storia psicologica, doveva dissimulare, rendere irrintracciabile, rarefarlo, il procedimento della psicologia»: ibidem, p. 140. 182. Il testo si può leggere qui: http://www.theparisreview.org/interviews /3474/ the-art-of-fiction-no-69-james-m-cain. 183. J. Cain, Il postino suona sempre due volte (1934), trad. it. di F. Salvatorelli, Adelphi, Milano 1999, p. 9. 184. «To demonstrate the animal impact of their encounter, Cain has them meet on page 5, make love on page 15, and plot to murder her obese, middleaged Greek husband on page 23. In the tyical Cain novel, a man and a woman set out on a dangerous adventure. The object? For the man: the woman. For the woman: money»: D. Madden, Cain’s Craft, The Scarecrow Press, Inc. Metuchen, N.J. & London, 1985, p. 10. 185. Cfr. P. Skenazy, James M. Cain, The Continuum Publishing Company, New York, 1989, p. 25. 186. C. Pavese, Paesi tuoi, in Id., Tutti i romanzi, a cura di M. Guglielminetti, Einaudi, Torino 2000, p. 6. 187. Ibidem. 188. Il 20 giugno 1930 Pavese si era laureato in Lettere con una tesi dal titolo Interpretazione della poesia di Walt Whitman. Nel novembre 1930 si accorda con Bemporad per la traduzione di Il nostro signor Wrenn di Sinclair Lewis. È l’inizio del lavoro di traduttore che solo la morte interromperà (al 1950 risale la traduzione, con De Bosis, della Civiltà nella storia di Toynbee). Tra le opere americane più importanti tradotte: Moby Dick di Melville, nel 1932, e Riso nero di Sherwood Anderson; nel 1935, Il 42o parallelo, di Dos Passos; nel 1937, sempre di Dos Passos, Un mucchio di quattrini, inoltre Uomini e topi, di Steinbeck, e l’Autobiografia di Alice Toklas di Gertrud Stein;

252

Daniela Brogi

tra il 1940 e il 1941, Benito Cereno, di Melville e Tre esistenze della Stein; nel 1942, Il borgo di Faulkner; nel 1948, una scelta di tredici brani di Whitman (Specimen Days). Su Pavese e la letteratura americana cfr. anche A. Battistini, Ancora su Pavese e il “grande laboratorio” della letteratura americana, «Critica Letteraria», 4 (2002), pp. 831-855; C. Antonelli, Pavese, Vittorini e gli americanisti. Il mito dell’America, Edarc, Firenze 2008; N. Turi, Declinazioni del canone americano in Italia tra gli anni Quaranta e Sessanta, Bulzoni, Roma 2011, e G. Remigi, Cesare Pavese e la letteratura americana. Una «splendida monotonia», Olschki, Firenze 2012. Mentre è ormai datato il testo di D. Fernandez, Il mito dell’America negli intellettuali italiani dal 1930al 1950, S. Sciascia, Caltanissetta-Roma 1969. 189. C. Pavese, Ritorno all’uomo, «L’Unità» di Torino, 20 maggio 1945; ora in Id., La letteratura americana e altri saggi, cit., p. 197. 190. A. Bazin, Le Réalisme cinématographique et l’école italienne de la Libération, in Id., Qu’est-ce que le cinéma? (1958), Editions du Cerf, Paris 1987 (traduzione parziale in Che cos’è il cinema, Garzanti, Milano 1999 (1972)). 191. C. Pavese, Paesi tuoi, cit., p. 3. 192. L. Visconti, Ossessione, trascrizione del film di E. Ungari, cit., pp. 13-14. 193. A. Pietrangeli, Analisi spettrale del film realistico, «Cinema», 146 (25 luglio 1942), pp. 393-394, ma riprendo la citazione dall’articolo di A. Costa, Tra autarchia ed eclettismo…, cit., p. 146. La risposta di Pavese alla recensione di Alicata del 10 luglio 1941 offre un’ulteriore conferma a questa nuova idea non decorativa ma narrativa del paesaggio e dei personaggi che si muovono al suo interno: «[…] C’è qualche stonatura là dove parafrasi il mio mondo – né i miei tramps viaggiano a sbafo; né le mie donne sono bionde. Ciò non è una pedanteria, perché tu dai in questo modo un tono godereccio e “ozioso… ridente… acceso” che è lontanissimo dalla realtà […]»: cfr. C. Pavese, Lettere 1926-1950, cit., vol. I, p. 399. 194. J. Steinbeck, Uomini e topi, trad. it. di C. Pavese (1938), Bompiani, Milano 2011, p. 5. 195. C. Pavese, Paesi tuoi, cit., p. 17. 196. G. De Santis, Per un paesaggio italiano, «Cinema», VI, 116 (25 aprile 1941), p. 292; ora in Id., Verso il neorealismo. Un critico cinematografico degli anni Quaranta, a cura di C. Cosulich, Bulzoni, Roma 1982, pp. 42-45. Una parte dell’articolo si può leggere anche in P. Noto – F. Pitassio, Il cinema neorealista, Archetipolibri, Bologna 2010, pp. 73-75. Ma cfr. anche A. Costa, Tra autarchia ed eclettismo: invenzione del paesaggio italiano, in Storia del cinema italiano, vol. VI, cit., pp. 137 ss. 197. La rivista «Panorama. Enciclopedia delle attualità», ha la direzione e

Note

253

redazione a Roma, via Vittorio Veneto 108, e l’amministrazione a Milano. Fondata nel 1939 da Gianni Mazzocchi, direttori lo stesso Mazzocchi e Rafaele Contu, collaboratori Alberto Moravia, Elsa Morante, Giovanni Comisso, Luigi Comencini, Francesco Pasinetti, Irene Brin, Indro Montanelli, Gino Visentini. Dal 12 luglio 1940, diventa direttore responsabile Emilio Ceretti, e la proprietà al Gruppo Editoriale Milanese. Alberto Moravia, uno dei collaboratori di «Panorama», era presente alle riunioni di casa Visconti mentre si preparava Ossessione e, secondo Mario Alicata (Moravia ha sempre negato, ma Micciché lo ritiene plausibile), avrebbe collaborato nella sceneggiatura del film (queste notizie possono essere recuperate anche qui: http://ricercavisconti.wordpress.com/2009/02/22/origini-di-ossessione-renoirchenal-visconti-ed-il-postino-di-james-m-cain/). 198. Le Dernier tournant (1939), di Pierre Chenal (dove la battuta finale del prete: «Courage mon fils, le jour se lève» (assente nel romanzo di Cain) riecheggia il titolo del contemporaneo film di Carné; Ossessione (1943), di Luchino Visconti. The Postman always rings twice (1946) di Tay Garnett. The Postman always rings twice (1981) di Bob Rafelson, con Jack Nicholson nel ruolo di Frank. Szenvedély (Passion, 1998), di György Fehér. Buai laju-laju (Swing My Swing High, My Darling, 2004), di U-Wei Haji Saari. 199. Cfr. più avanti, nota 207. 200. Pierre Chenal non era uno sconosciuto in Italia, e di questo film si era già parlato sulla rivista «Tempo» del 9 novembre 1939, che aveva pubblicato due pagine di fotografie del film e una notizia firmata A.L. (Alberto Lattuada). 201. E così prosegue: «anche in Ossessione una donna spinge l’amante ad uccidere il marito. E alla crudezza del violento amore carnale è vincolata l’evidenza spietata delle inquadrature (il potentissimo finale, ad esempio), la descrizione nuda – e insistita – degli umili e perduti personaggi, della minuta cronaca dei loro quotidiani gesti ed azioni, la descrizione scheletrica di certi ambienti (la bettola e la birreria, la fiera e la camionabile). […] La verità, qui, diventa verosimiglianza artistica. La vicenda, che ha un preciso rapporto con il materiale radunato, si tramuta – ripeto – in umana poesia. Ed è questo film, – altra cosa da precisare – italiano, nonostante le evidenti influenze neorealiste francesi: e non solo perché la vicenda è ambientata a Ferrara ed Ancona (un’ambientazione riuscita: alla quale hanno contribuito la fotografia di Tonti e il sonoro: i rumori sono sapientemente scelti e messi in rilievo, come il cigolio delle porte; la musica di Rosati è efficace e talvolta usata opportunamente per contrappunto). […] Ossessione mi sembra – ed avrò contro di me ancora una volta il pubblico –

254

Daniela Brogi

il nostro film più significativo di questi ultimi tempi; e pertanto destinato a rimanere nella storia del cinema»: G. Aristarco, Ossessione, «Corriere Padano», 8 giugno 1943; cfr. S. Carpiceci, Documenti, in Storia del cinema Italiano, vol. VI, cit., p. 633. 202. Cfr. «Cahiers du cinéma», 93 (marzo 1959), pp. 1-10. 203. Cfr. A. Bencivenni, Luchino Visconti, cit., p. 13; ma la vicenda di Renoir e Tosca è raccontata anche da G. De Santis in Verso il Neorealismo, cit. 204. Il corsivo è mio. Cfr. anche G. Ferrara, Luchino Visconti, Seghers, Paris 1963. 205. G. De Vincenti, Jean Renoir. La vita, i film, Marsilio, Venezia, 1996, p. 125 n. 206. Finita la seconda guerra mondiale, l’ICI ricominciò a distribuire Ossessione, ma la Gladiator Film, casa di produzione della versione di Pierre Chenal denunciò per plagio Visconti e la sua casa di produzione, chiedendo il sequestro del negativo e di tutte le copie in circolazione. La vertenza andò avanti fino a quando «il 25 giugno 1956 il tribunale di Milano, con propria definitiva sentenza, respinse l’accusa e prosciolse Visconti. Il giudice istruttore si era avvalso, nell’istruire il processo, della consulenza di Luigi Chiarini, che, a sua volta, era ricorso alla collaborazione di Filippo Sacchi e di Aldo Vergano. Per chiarire la complessa questione – riporta la stampa dell’epoca – i tre “esperti” prepararono esaurienti relazione citando, a loro volta, pareri di critici francesi, fra cui quello di Georges Sadoul per il quale, mentre Ossessione era un incontestabile capolavoro, il film di Chenal era mediocre» (L. Micciché, Visconti e il neorealismo, Marsilio, Venezia 1990, p. 30 n). 207. P. Baldelli, I film di Luchino Visconti, Lacaita, Manduria 1965. 208. Il corsivo è mio. Cfr.anche Rosso fuoco. Il cinema di Giuseppe De Santis, a cura di S. Toffetti, Museo Nazionale del Cinema, Lindau, Torino 1996. Per quanto riguarda la copia procurata da Bassani potrebbe trattarsi, con buona probabilità, dell’edizione europea pubblicata da The Albatros (Hamburg-Paris-Bologna) nel 1934. 209. Il 22 aprile 1945 Ennio Flaiano scrisse su «Domenica»: «Ossessione è un film che arriva sugli schermi dopo tre anni dal suo ultimo giro di manovella. Nel cinema tre anni sono la decrepitezza. E arriva quando tutte le esperienze del verismo francese sembrano essersi concluse con un voto di sfiducia nell’esistenza, quando lo stesso spettatore che trovava in quelle espressioni un correttivo al diffuso ottimismo del suo tempo, si trova ora disperatamente a corto di ottimismo e langue in attesa che Shirley Tempie o Deanna Durbin partoriscano i loro teneri enfants prodiges»; poi in E. Flaiano, Lettere d’amore al cinema, Rizzoli, Milano 1978; Id., Ombre fatte a macchina, a cura di C.

Note

255

Bragaglia, Bompiani, Milano 1996, p. 85. Sul travagliato iter della distribuzione del film cfr. anche G. Rondolino, Promozione e uscite di «Ossessione», in Storia del cinema Italiano, cit., pp. 180-181; e, soprattutto, i materiali su Il “caso Ossessione” raccolti e risistemati da Stefania Carpiceci nella preziosa sezione Documenti della medesima opera, pp. 623-641 (l’intervento di Flaiano a pp. 638-639). 210. Cfr. E. Cecchi, America amara, Sansoni, Firenze 1946 (quinta edizione). In questo famosissimo libro di viaggio Cecchi aveva parlato della letteratura americana (Dos Passos, Wilder, Faulkner, Miller, Steinbeck) soprattutto nel capitolo intitolato Chi cavalca una tigre non può più scendere (pp. 123-131); ma si era occupato anche di cinema nei capitoli I “gangsters e il cinema” (pp. 164-167) e Stanchezza del cinema americano (pp. 167-175), sulla crisi cinematografica del 1938. 211. Americana. Raccolta di narratori dalle origini ai nostri giorni, a cura di Elio Vittorini, con una introduzione di Emilio Cecchi, Bompiani, Milano 1942, p. I X . 212. P. Noto – F. Pitassio, Il cinema neorealista, cit., p. 21; L’immagine fotografica, 1945-2000 – Mezzo secolo d’Italia nelle sue foto più rappresentative, a cura di U. Lucas, in Storia d’Italia, «Annali», 20, Einaudi, Torino 2004; B. Grespi, The influence of American Photography on Italian Neorealism, in The Modern Image: Intersections of Photography, Cinema and Literature in Italian Culture, a cura di G. Minghelli, in L’anello che non tiene, «Journal of Modern Italian Literature», University of Wisconsin, Madison 2008-2009. 213. Di questa attenzione testimonia anche il progetto dell’edizione illustrata di Conversazione in Sicilia realizzato nel 1953 per Bompiani in collaborazione con Luigi Crocenzi. Per ulteriori notizie cfr. E. Vittorini, Conversazione illustrata, a cura di M. Rizzarelli, Bonanno, Catania 2007. 214. Cfr. B. Kawin, Faulkner and Film, Frederick Ungar, New York 1977, pp. 145-146. 215. È un’espressione di Massimo Mila ricordata da Ventavoli in Il serpente e la colomba, cit. p. X X V I I n. 216. C. Pavese, John Dos Passos e il romanzo americano, «La Cultura» (gennaio-marzo 1933); ora in Id., La letteratura americana e altri saggi, cit., p. 105. 217. Ibidem, p. 149. 218. J.P. Sartre, Le Bruit et la Fureur. La Temporalité chez Faulkner, «La Nouvelle Revue Francaise» (luglio 1939), poi in Id., Situations, I, Gallimard, Paris 1966 (1947), pp. 70-81. 219. W. Faulkner, Sanctuaire, trad. fr. di R.N. Raimbault e H. Delgove, edizione curata da M. Gresset, prefazione di A. Malraux, folio, Paris 2010, p. 11.

256

Daniela Brogi

220. A. Camus, Avant-propos à la traduction du roman de Faulkner par M.-E. Coindreau (1957), in Id., Œuvres complètes. III: 1949-1956, edizione diretta da Raymond Gay-Crosier, Gallimard, Paris 2008, pp. 850-853: 852. La traduzione a cui si riferisce il testo è Requiem pour une nonne, pubblicata da Gallimard nel 1957. 221. J. Blotner, Faulkner: A Biography, Vintage Books, New York 1991; G.D. Phillips, Fiction, Film, and Faulkner: The Art of Adaptation, University of Tennessee Press, Knoxville 1988. 222. G. Contini, Quarant’anni d’amicizia, Einaudi, Torino 1989, pp. 15-35. Ma il testo è consultabile anche on line, qui: http://www.gadda.ed.ac.uk/Pages/resources/archive/classics/continicognizione.php 223. C. Pavese, Il mestiere di vivere, cit., p. 185. Capitolo I I I Il ritratto dello scrittore da partigiano 224. P.P. Pasolini, La religione del mio tempo, in Id., Bestemmia. Tutte le poesie, a cura di G. Chiarcossi e W. Siti, con prefazione di G. Giudici, Garzanti, Milano 1995 (1993). 225. Riscontrando le fonti storiche direi che il racconto rielabora l’operazione di sabotaggio compiuta nella notte tra il 14 e il 15 giugno 1944, quando, secondo la Relazione sull’attività svolta dalla 23° Brigata Garibaldi “Guido Boscaglia”, «l’8° Squadra della 2° Compagnia, elementi della squadra E [di cui faceva parte Cassola] e della Squadra Comando si dirigono verso il ponte di Riotorto (sulla strada Montieri-Massa M.ma) per minarlo. Vicino al ponte vengono raggiunte [sic] da tre camions tedeschi; non appena a tiro le macchine vengono investite di fuoco delle nostre armi automatiche e dal lancio di bombe a mano. La macchina di testa cerca di individuare, manovrando il fare, la posizione dei nostri uomini, uno dei quali viene ucciso (Tamburini Gino) e uno ferito (“Corvo” Cardellini Gino) [dunque “Chiodo” in FeA]. Nello scontro 17 S.S. rimasero uccisi. Fu presa prigioniera una donna russa della Guardia Armata di Montieri che fu consegnata insieme ai prigionieri tedeschi agli Alleati. // All’alba i tre camions immobilizzati furono avvistati da aerei Alleati che li bombardarono distruggendoli»: cfr. Cfr. B. Ticciati, Il Partigiano Torre (Ciaba), pubblicazione a cura dell’A N P I . e del Comune di Volterra, Volterra 2007, pp. 77-78. 226. «E per coprire gli urli e i lamenti, simultaneamente com’era cessato, ricominciò il fuoco. Ora era nata in tutti una furia frenetica di farla finita con quel massacro. Stringendo i denti, sparavano un caricatore dietro l’altro, come forsennati» (FeA, III, XXVI, p. 436).

Note

257

227. Ottantatre minatori secondo FeA; settantasette secondo le fonti storiche. Il 13 e 14 giugno 1944 il Comando tedesco stanziato a Massa Marittima (Grosseto), nell’imminenza della ritirata verso Nord, decise il sequestro e la distruzione dei macchinari della miniera di Niccioleta, a pochi chilometri da Massa Marittima. Appena seppero la notizia, i minatori si opposero, organizzando turni di guardia e picchetti per difendere il proprio posto di lavoro. L’azione di “Giacomo”/Cassola e dei suoi compagni partigiani recuperata in FeA III, XXVI, rientrava nel piano complessivo di mobilitazione antinazista. I fascisti locali presentarono al Comando tedesco la lista dei minatori di guardia alla miniera: i tedeschi prelevarono e trucidarono i minatori e un altro centinaio di persone, tra partigiani e civili. Cfr. Paolo Pezzino, Storie di guerra civile. L’eccidio di Niccioleta, il Mulino, Bologna 2001; P. De Simonis, Guida ai luoghi delle stragi nazifasciste in Toscana, Carocci, Roma 2004; e le informazioni e i materiali contenuti nel sito ufficiale della Federazione Regionale Toscana delle Associazioni Antifasciste e della Resistenza: www.resistenzatoscana.it/. 228. C. Schmitt, Teoria del partigiano (1963), Adelphi, Milano 2005, p. 47. 229. Cfr. anche FeA, III, VII, p. 362: «Entrò un giovane che Fausto conosceva: non quale comunista però, ma come giocatore di calcio. E anche gli aveva dato nell’occhio in passato per una spiccata rassomiglianza con l’attore tedesco Luis Trenker». 230. B. Fenoglio, Una questione privata, in Id., Opere, edizione critica diretta da M. Corti, volume primo, tomo I I I , a cura di M.A. Grignani, Einaudi, Torino 1978, p. 2059. Ma sui modi di messa in forma dell’esperienza della guerra sperimentati da Fenoglio cfr. anche G. Pedullà, La quarta marcia: Fenoglio e il romanzo, in B. Fenoglio, Tutti i romanzi, a cura di G. Pedullà, Einaudi, Torino 2012, pp. V - X X I X . 231. Ibidem, p. 2030 232. «Ora il cuore gli batteva, le labbra gli si erano di colpo inaridite. Sentiva filtrare attraverso la porta la musica di Over the Rainbow. Quel disco era stato il suo primo regalo a Fulvia. Dopo l’acquisto era stato tre giorni senza fumare»: B. Fenoglio, Una questione privata, cit., p. 1944. «Il racconto – si cita dalla lettera di Fenoglio a Garzanti dell’otto marzo 1960 – ha un suo leitmotiv musicale nella celebre canzone americana Over the Rainbow, che costituisce […] la sigla musicale del disgraziato, complicato amore letterario del protagonista Milton (nome di battaglia) per Fulvia (coprotagonista femminile la quale però appare e vive soltanto nella memoria di Milton impegnato fino al collo nella guerra partigiana). Per quanto precede, il titolo potrebbe essere, se non Le pare troppo canzonettistico, Lontano dietro le nuvole o, se

258

Daniela Brogi

vogliamo addirittura in inglese, Far behind the clouds»: B. Fenoglio, Lettere (1940-1962), a cura di L. Bufano, Einaudi, Torino 2002, pp. 133-134. 233. «Quando Vittorini assunse, intorno al ’45, la direzione del nuovo corso letterario italiano, fui talmente contrario a questo nuovo corso, che per cinque anni non lessi nulla di ciò che si scriveva in Italia. Io non ho mai, non dico letto, ma nemmeno visto un numero di Politecnico! In quegli anni scrissi cose (Rosa Gagliardi, Il taglio del bosco, FeA) che non avevano niente a che vedere con le parole d’ordine vittoriniane»: è un passo dell’intervista a Cassola pubblicata sulla «Fiera Letteraria» del 13 aprile 1975, e riportato in R. Bertacchini, Carlo Cassola, Le Monnier, Firenze 1977, p. 12 n. 234. Th. Hardy, Romanzi, a cura di C. Cassola, Mondadori, Milano 1973. La Prefazione (Grandezza e solitudine di Thomas Hardy) si legge alle pp. XI-LXI. 235. B. Fenoglio, Una questione privata, cit., p. 1948. 236. Il 4 settembre 1948 Silvio Guarnieri propone dei racconti di Cassola alla Einaudi; un paio di settimane più tardi anche Bilenchi – amico di Vittorini – ne patrocina la pubblicazione. Eppure Einaudi li rifiuta, dopo averli fatti passare al vaglio di Natalia Ginzburg che li trova «sfocati, scarsamente avvincenti», come Pavese riferirà a Guarnieri, precisando da parte sua: «a me è mancato il tempo per leggerli. Appartengono alla onesta e noiosetta letteratura da rivista. Non interessano nessun vero lettore»: cfr. L. Mangoni, Pensare i libri. La casa editrice Einaudi dagli anni trenta agli anni sessanta, Bollati Boringhieri, Torino 1999, p. 417 n. 237. È una della formule usate nella recensione dell’«Unità» a I ventitre giorni della città di Alba, come si ricorda in B. Fenoglio, Una questione privata, a cura di M.A. Grignani, Einaudi, Torino 1994, p. X I I I . 238. I. Calvino, Prefazione 1964 al Sentiero dei nidi di ragno, cit., p. 1185. 239. A. Casadei, Romanzi di Finisterre. Narrazioni della guerra e problemi del realismo, Carocci, Roma 2000, p. 75. Ma della nuova immagine della Resistenza che «può cominciare ad affacciarsi a metà degli anni Sessanta grazie all’allentamento dei precetti della letteratura impegnata che avevano egemonizzato il panorama italiano dal 1945 al 1955», cfr. anche A. Baldini, Il comunista. Una storia letteraria dalla Resistenza agli anni Settanta, U T E T , Torino 2008, p. 112 e passim. 240. «Se una volta avevamo delle obiettive, storiche limitazioni alla nostra libertà, più che giustificarle, allora le negavamo in noi stessi, le rimuovevamo da noi. Non potevamo neanche ammettere per un momento di non essere liberi»: cfr. L. Mangoni, Pensare i libri, cit., p. 860. 241. Anche la battaglia sul fronte interno alla «cultura di sinistra» – scrive Calvino nella Prefazione – «ora pare lontana. Cominciava appena allora il

Note

259

tentativo d’una “direzione politica” dell’attività letteraria: si chiedeva allo scrittore di creare l’“eroe positivo”, di dare immagini normative, pedagogiche di condotta sociale, di milizia rivoluzionaria»: I. Calvino, Prefazione 1964 al Sentiero dei nidi di ragno, cit., p. 1193. Ma per ricostruire il clima dell’epoca vale la pena di citare anche questo passaggio della lettera del 30 gennaio 1953 in cui Calvino scriveva a Cassola a proposito dei Vecchi compagni (appena uscito nei “Gettoni”, n. 19): «Lei sa che io non ho amato Fausto e Anna, che m’era parso troppo effuso e vago. Questo è diverso; e le dico che vorrei piacesse anche ai miei compagni di Partito, perché pur nel suo asciutto pessimismo mi pare abbia una contenuta morale e una verità rare». La lettera, che è conservata nell’incartamento Cassola dell’Archivio Einaudi, è trascritta da Luisa Mangoni in Pensare i libri, cit., p. 676 n. 242. I. Calvino, Prefazione 1964 al Sentiero dei nidi di ragno, cit., p. 1189. 243. Cfr. G. Pedullà, Una lieve colomba, in Racconti della Resistenza, a cura di G. Pedullà, Einaudi, Torino 2005, pp. VI - VII . 244. Cfr. I. Calvino, Prefazione 1964 al Sentiero dei nidi di ragno, cit., p. 1185. 245. Sull’assunzione della dominante morale a discriminante del testo cfr. anche I. Calvino, Tre correnti del romanzo italiano d’oggi (1960), in Id., Saggi 1945-1985, t. I , p. 67: «sia in Cassola che in Bassani il romanzo nasce dal contrasto tra l’elemento epico e tragico, di tensione morale che la Resistenza ha rappresentato nelle esistenze individuali e nella storia collettiva, e l’elemento lirico, elegiaco del tempo che tutto seppellisce, addormenta, cancella; ed è questo secondo elemento il vero vincitore». 246. R. Barilli, La barriera del Naturalismo, Mursia, Milano 1964. 247. Sono parole di Giaime Pintor citato da Calvino nello scritto che rielabora le risposte all’inchiesta sulla «generazione degli anni difficili» apparsa in sei puntate tra il 1959 e il 1960 sulla rivista milanese «Il Paradosso»: cfr. La generazione degli anni difficili, cit., pp. 77-78. 248. I. Calvino, Prefazione 1964 al Sentiero dei nidi di ragno, cit., p. 1202. 249. Per ricostruire l’episodio della plateale messa sotto accusa pasoliniana, in occasione del conferimento del Premio Strega a La ragazza di Bube, e per il fuoco incrociato di «ostilità quasi persecutorie» scatenato dalla Neoavanguardia con la famigerata definizione di Cassola come «novella Liala», si rimanda a A. Andreini, in FeA, pp. X V ss. Vale la pena di ricordare almeno che, nella medesima circostanza in cui Cassola veniva incriminato per l’uccisione del «corpo ideologico» del «Realismo», proprio Pasolini partecipava alla macchina organizzativa del Premio Strega come sostenitore del Cavaliere inesistente. 250. C. Cassola, Alla periferia, Edizioni de «Il fiore», Narrativa II , Firenze 1942; Id., La visita, Parenti, Firenze 1942. Ambedue le raccolte confluiranno

260

Daniela Brogi

in La visita, Einaudi, Torino 1962. Per ricostruire la koinè culturale fiorentina di queste prime due raccolte cfr. la testimonianza di Bilenchi in Amici (Opere, a cura di B. Centovalli, M. Depaoli e C. Nesi, Bompiani, Milano 1997, pp. 872-873): «Portai io ad Alessandro [Bonsanti] il primo libro di Carlo Cassola, una raccolta di brevi racconti, La visita. Nonostante che alcuni amici rimanessero perplessi, Bonsanti dette ragione a me nel sostenere che negli scritti di Cassola c’era una novità, sia pur piccola, la quale non veniva soffocata dalla palese influenza di Joyce sul giovane scrittore e in un mese pubblicò il volume». 251. Baba uscirà subito sul «Mondo»; Rosa Gagliardi invece sarà pubblicato nel 1956 su «Botteghe oscure». Il taglio del bosco sarà pubblicato per la prima volta nel 1953 (Fabbri, Milano), in una raccolta omonima comprendente anche i due racconti La moglie del mercante e Le amiche. 252. Secondo l’espressione usata nella Nota dell’Autore inserita nella seconda edizione del romanzo: C. Cassola, Fausto e Anna, Einaudi, Torino 1958, p. 311: «Fausto e Anna fu scritto nel ’49 e pubblicato nel ’52. Lo ripresento ora ai lettori con alcune modifiche rispetto alla prima edizione. In particolare, ho mutato la struttura del romanzo, e l’ho altresì ridotto di mole, operando alcuni tagli. // Accingendomi a questo lavoro di revisione, ho tenuto presenti gli appunti di ordine letterario che mi furono mossi dai critici e anche dai semplici lettori. Ebbi, allora, anche critiche di altra natura; ci fu addirittura chi mi accusò di aver diffamato la Resistenza. Di queste accuse non ho tenuto conto alcuno, perché continuo a ritenerle assolutamente privi di fondamento. // C. C. // 1958». 253. P.G. Martufi, La tavola del pane. Storia della 23° Brigata Garibaldi «Guido Boscaglia», 2° edizione, A N P I , Siena 2006, pp. 48 e 51. Si veda anche I. Tognarini, Là dove impera il ribellismo, E S I , Napoli 1988, vol. II, pp. 565572. Ai compagni di brigata Cassola dedicherà il racconto Ultima frontiera. 254. Cfr. P.G. Martufi, La tavola del pane, cit., pp. 77 e passim. 255. La Squadra, formata da dieci-venti uomini, era l’unità minore; tre Squadre formavano una Compagnia o Distaccamento; tre Compagnie un Battaglione; tre Battaglioni una Brigata; tre Brigate una Divisione. 256. Cfr. P.G. Martufi, La tavola del pane, cit., p. 62. 257. Cfr. R. Battaglia, Storia della Resistenza Italiana, Einaudi, Torino 1964; P. Secchia, Il Partito comunista italiano e la guerra di liberazione 1943-1945: ricordi, documenti inediti e testimonianze, Feltrinelli, Milano 1971. 258. C. Cassola, Conversazione su una cultura compromessa. Intellettuali e politica dal fascismo agli anni settanta, E / O , Roma 1997, p. 36. È il testo di un’intervista a cura di Antonio Cardella del 1977.

Note

261

259. E questa circostanza creò molte critiche tra gli stessi partigiani, come attestano le testimonianze storiche: sembrò a molti che Cassola avesse voluto «accentuare e sottolineare, nella sua condanna della guerra, i lati inevitabilmente più impietosi della lotta partigiana, raffigurando ingiustamente come pazzi sanguinari alcuni dei protagonisti delle vicende della brigata. Altrove, accennando troppo rapidamente a fatti realmente verificatisi, ne avrebbe svisato completamente la dinamica, presentando, ad es., la strage di Monte Maggio come dovuta alle troppe tracce lasciate con imprudenti requisizioni nelle fattorie dei dintorni (cfr. Test. [Testimonianza] V. Menchini). Inoltre, Cassola-Fausto sembra stranamente ignorare che gli “indumenti” dei lanci, distribuiti a questo o a quel partigiano a seconda delle necessità, non venivano certo a costituire una divisa militare [cfr. FeA, III, XXXVII, pp. 488-489]. Nessuno poteva davvero credere che i partigiani fossero in divisa, e per di più nella divisa inglese: «la divisa» de partigiani garibaldini era, se mai, il fazzoletto rosso»: cfr. P. Martufi, La tavola del pane, cit., p. 51 n. 260. C. Cassola, Una ragazza del popolo, in Non ho dimenticato, Marsilio, Venezia 1981, p. 7. 261. «– Io non ho nulla in contrario [risponde Baba alla proposta di Fausto di entrare nei partigiani], e nemmeno gli altri, immagino. Ma considera che l’intellettuale rischia di più dell’operaio: se a un operaio dànno dieci anni, a un intellettuale ne dànno venti –» (FeA, III, II, p. 345). 262. Di una realtà «che non si deve interpretare, ma solo constatare» aveva già parlato nella sua recensione Mario Luzi: Fausto e Anna, «Il Mattino dell’Italia centrale», 26 aprile 1952, p. 3; Id., Il romanzo di Cassola, «L’Approdo», I, 2 (aprile-giugno 1952), pp. 96-97. I testi confluiranno in parte nell’Introduzione all’edizione B U R (Milano 1975, pp. 5-9). Proprio a p. 8 dell’Introduzione Luzi parla anche di un motivo centrale ma che rimarrà essenzialmente isolato, ovvero il tema dell’«insincerità» di Fausto. 263. Anche Baba è un personaggio intensamente autobiografico: allude infatti a “Ciaba”, nomignolo popolaresco di Nello Bardini (1905-1971), operaio autodidatta di Volterra, comunista e antifascista condannato nel 1930 a sei anni di reclusione dal Tribunale Speciale. Liberato due anni dopo per l’amnistia concessa dal regime in occasione delle celebrazioni del decennale della presa del potere fascista, fu nuovamente arrestato dopo l’otto settembre 1943 e condannato a tre mesi dal Tribunale Militare. Dal 10 maggio al 20 luglio 1944 partecipò alla lotta nella seconda compagnia della sesta squadra della X X I I I Brigata Garibaldi. Cfr. B. Ticciati, Il Partigiano Torre (Ciaba), cit. E cfr. pure la prosa Baba e Lidori in C. Cassola, Mio padre, Rizzoli, Milano 1983, pp. 47-49.

262

Daniela Brogi

264. C. Cassola, Baba, in Il taglio del bosco. Racconti lunghi e romanzi brevi, Einaudi, Torino 1975 (nona edizione), p. 34. 265. C. Cassola, Conversazione su una cultura compromessa, cit., p. 62. 266. «Odio gli indifferenti. Credo come Federico Hebbel che “vivere voglia dire essere partigiani”. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. // L’indifferenza è il peso morto della storia. […] odio chi non parteggia, odio gli indifferenti»: A. Gramsci, Indifferenti, «La città futura», 11 febbraio 1917, p. 1, ora in Id., Scritti giovanili. 1914-1918, Einaudi, Torino 1958, pp. 78 e 80. 267. P. Corrias, Vita agra di un anarchico. Luciano Bianciardi a Milano, Baldini & Castoldi, Milano 1996, p. 70. Ma si veda anche la testimonianza di Cassola a p. 61: «ci dicevamo che il mondo era tutto da rifare: vent’anni di fascismo, la guerra, una restaurazione in piena regola, ora toccava a noi metterci le mani e raddrizzare il mondo. Da dove si doveva cominciare? Nessun dubbio: bisognava lavorare proprio lì, in provincia. C’era tutto da fare, cambiare la letteratura, cambiare la politica, cambiare la gente». 268. Cfr. in tal senso anche il tono asciutto della prosa I pericoli peggiori corsi da partigiano in C. Cassola, Mio padre, Rizzoli, Milano 1983, pp. 53-54. 269. La lettera risale al 28 novembre 1961, e i passaggi riportati sono stati direttamente trascritti dal testo originale, conservato presso il Centro Fortini; vedi anche A. Andreini (FeA, p. L X X X V I I I ) riporta ampie porzioni del testo. 270. Sia nella prima (C. Cassola, Fausto e Anna, Einaudi, Torino 1952, p. 296 [FeA, p. 416] che nella seconda edizione del romanzo (p. 210): «La mattina dopo arrivò Claudio a cavallo, e provvide alla ripartizione del materiale tra la sua formazione e quella di Giulio, divenute rispettivamente 1° e 2° compagnia della 93° brigata “Garibaldi”». 271. F. Camon, Il mestiere di scrittore, Milano, Garzanti 1973, pp. 83-84. A pensarci, è una dichiarazione che rovescia di cent’ottanta gradi quella a suo tempo pronunciata da Calvino, quando aveva scritto che Il sentiero era «nato anonimamente dal clima generale d’un epoca». 272. C. Cassola, Chi si rivede, il romanzo, «Epoca», 6 settembre 1975, p. 75. Le dichiarazioni attribuite a Bilenchi trovano conferma in un passaggio di Bilenchi stesso: «Pound mi disse che ero troppo giovane per aver scritto un romanzo e che in ogni modo, dopo l’Education sentimentale, romanzi non se ne erano più scritti e non se ne sarebbero più potuti scrivere. “Lei” gli risposi “ha un’idea un po’ statica del romanzo. E Radiguet, Fournier, Mauriac, Kafka e Joyce?»: cfr. R. Bilenchi, Rapallo 1941, in Amici, cit., p. 708.

Note

263

273. L’esempio più eclatante è il seguente passaggio in FeA 1952 cassato nell’edizione 1958, certamente anche a causa delle polemiche suscitate: «Se ne tornarono verso il campo. Sullo spiazzale incontrarono Piero, e, aspettando il rancio, si misero a parlare con lui. Il discroso finì sull’esecuzione del maresciallo, e Fausto disse: “Del resto, non era forse così colpevole da meritare la morte”. “Tu dimentichi quello che hanno fatto a noi” rispose Piero. “Dimentichi i nostri compagni del Montemaggio. S’erano arresi, avevano invocato pietà: erano ragazzi sotto i vent’anni… E vorresti lasciarli invendicati?”. (Sul Montemaggio, nel luogo stesso dell’esecuzione, i contadini avevano provveduto a dar sepoltura alle salme. Diciotto croci di legno sorgevano ora lungo il viottolo, all’ombra dei castagni. Sulle fosse stava già rinascendo l’erba. E da tutto – dalle fosse, dalle croci, dall’erba, dall’ombra dei castagni, dallo stormire delle foglie – spirava un grande senso di pace.)»: FeA, III, XXIII, pp. 428-429. 274. «Un linguaggio troppo finito, perfetto, rischia di inamidare la narrazione e soprattutto di fermare quel flusso del tempo che io ritengo essenziale». È una dichiarazione di Cassola riportata da Manlio Cancogni in Carlo Cassola. Atti, cit., p. 236. Sia pure rivolto a un altro romanzo lo studio linguistico su Cassola più interessante è quello di Luciano Giannelli, che giustamente riporta la “cosidetta semplicità” cassoliana a istanze espressive piuttosto che dialettali (La lingua di Cassola. Un’analisi sintattica e testuale de «La ragazza di Bube», in Carlo Cassola. Atti, cit., pp. 79-102). 275. «Leggo il finale [di Guerra e pace – si cita da un appunto del 22 ottobre 1953, contenuto nel manoscritto inedito Appunti 1952-58, trascritto da A. Andreini in FeA, p. X C I I I ]. La vita ordinaria, familiare, risalta senza dubbio in modo straordinario e i piccoli fatti di cui s’intesse non paiono banali, proprio perché viene dopo la guerra. […] il capitolo finale di Guerra e pace è, nell’ambito della grande narrativa ottocentesca, il solo esempio di quella metafisica della banalità, di quella metafisica della vita familiare che ha costituito per tanto tempo per me l’unico oggetto di ricerca e di rappresentazione». 276. Vale essenzialmente anche per FeA questa considerazione di Auden su Hardy eletta da Cassola a pista di lettura preferenziale nell’Introduzione al Meridiano dei Romanzi di Hardy: «il suo modo di guardare la vita da una grande altezza…vedere la vita di un individuo legata non solo alla vita sociale di un certo luogo e di un certo tempo, ma all’intera storia umana, alla vita sulla terra, alle stelle» (p. X X V I I ; ma cfr. anche p. X X I X a proposito del rifiuto di occuparsi della società per occuparsi invece della sostanza della vita).

264

Daniela Brogi

277. P. Martufi, La tavola del pane, cit., pp. 114-115. 278. L’esperienza della guerriglia partigiana – come osservava Giovanni Falaschi in un passaggio purtroppo poco ripreso – costrinse i combattenti a istaurare un rapporto molto più stretto con l’ambiente fisico in cui operavano e che spiega l’importanza e la funzione centrale dello spazio nella narrativa della Resistenza: G. Falaschi, Realtà e retorica. La letteratura del neorealismo italiano, G. D’Anna, Messina-Firenze 1977, pp. 56-57. 279. «La guerra provocò nella sua coscienza una svolta netta. Senza rinnegare gli anni del disimpegno (quando non voleva nemmeno che si accennasse alla politica) si sentì pienamente coinvolto pensando, come me, che dalle sorti del conflittto dipendessero non solo quelle dell’Italia ma della civiltà. E che per questo bisognava che la sconfitta del nazismo e dei suoi alleati, in primo luogo l’Italia fascista, fosse totale e definitiva»: M. Cancogni, Una testimonianza, in Carlo Cassola. Atti del Convegno (Firenze, Palazzo Medici-Riccardi 3-4 novembre 1989), a cura di G. Falaschi, Becocci, Firenze 1993, p. 49. 280. C. Cassola, Il santo dell’Amiata, «Il Mondo», IV, 11 (15 marzo 1952), p. 5. Si cita da un articolo inchiesta su un barrocciaio di Arcidosso visionario, nato nel 1834. 281. Un esempio: la scena in cui Fausto scambia le occhiate di una contadina per ammiccamenti maliziosi (FeA, III, XVIII, p. 408), quando invece la donna, come scoprirà più tardi, lo aveva scambiato per un ladro. 282. C. Cassola, Cecina e Volterra, in Mio padre, cit., pp. 60-61. 283. Cfr. FeA, p. 1769 ss., per la ricostruzione puntuale dell’iter editoriale del romanzo. 284. «Nel ’49 una sconvolgente vicenda privata precipitò la crisi: ripudiai il passato, compresa la mia poetica, compreso l’insegnamento che avevo tratto da Joyce, compreso tutto o quasi tutto quello che avevo scritto fino ad allora. Trovavo mostruoso di essermi mutilato per tanti anni, e disumana una poetica che mirava solo a esprimere l’emozione esistenziale […] Il processo al passato fu la materia del mio primo romanzo, che è anche il mio solo romanzo autobiografico: FeA» (FeA, p. 1770; sono passaggi che Andreini trascrive dalle note del 12 novembre 1953 riportate nel taccuino inedito Appunti 1952-58. 285. Einaudi non pubblica Il taglio del bosco, giudicato da Pavese «un bozzetto fuciniano» (recupero la notizia da R. Esposito, Come leggere «La ragazza di Bube» di Carlo Cassola, Mursia, Milano 1978, p. 17). 286. Le perplessità più volte espresse da Calvino tanto nel corso della trattativa editoriale con Einaudi (per cui cfr. L. Mangoni, Pensare i libri, cit., pp. 673 ss; e A. Andreini, in FeA, pp. 1771 ss.), quanto negli anni successivi,

Note

265

sono riconducibili essenziamente a due livelli di critiche: l’accusa di aver lasciato troppo spazio alla cronaca (Calvino a Cassola, 12 e 23 luglio 1951); e «l’astensione dal giudicare i pensieri e gli atti del protagonista», secondo una «posizione morale» duramente stigmatizzata da Calvino: «in fondo il libro potrebbe intitolarsi “come si diventa democristiani”. Resta un impegno narrativo piuttosto serio, ma noioso. Il mio parere è dunque contrario» (Calvino a Muscetta, 17 luglio 1951: cfr. I. Calvino, I libri degli altri. Lettere 1947-1981, a cura di G. Tesio, con una nota di C. Fruttero, Einaudi, Torino 1991, p. 52n). Proprio l’eccesso di cronachismo, più volte ripreso da Calvino, poté invece rappresentare il requisito più corrispondente (malgrado «qualche piccola riserva»: Foà a Cassola, 21 settembre 1951: cfr. L. Mangoni, Pensare i libri, cit., p. 674 n) alla poetica documentaria dei «Gettoni». Se ne ha un riscontro nella lettura del risvolto a FeA preparato da Vittorini: «Vi sono divesi gradi di realtà a cui ci si riferisce, scrivendo. Ve n’è uno massimo che porta gli scrittori a correggere o arricchire quello che si sa di fondamentale sull’uomo. Ve n’è uno minimo che porta soltanto ad afferrare i colori di un’epoca, di un anno, di una stagione. E ve n’è uno non massimo e non minimo che permette di cogliere tutto quanto dell’animo umano nasce e muore ad ogni variazione dei tempi. Rappresentare un tal grado di realtà significa fare la cronaca psicologica di un’epoca. […]». 287. Si cita dalla lettera dell’otto febbraio 1966, trascritta da A. Andreini in FeA, p. X C I . 288. Per la valenza storiografica dell’espressione fortiniana cfr. R. Luperini, Il Novecento, Loescher, Firenze 1981, pp. 393 ss. 289. M. Luzi, Fausto e Anna, cit.; G. De Robertis, Fausto e Anna, «Il Nuovo Corriere», 29 maggio 1952 (poi in Id., Altro Novecento, Le Monnier, Firenze 1962, pp. 522-526). 290. Si possono rileggere, a titolo di esempio, i giudizi di Calvino riportati nella lettera a Ottiero Ottieri del 31 ottobre 1952, dove, riferendosi a un altro libro uscito nei Gettoni, Il vento nell’oliveto, di Seminara, Calvino scrive: «[…] gran parte della critica lo intese come esposizione delle idee dell’autore, con alti elogî da parte clericale, con accuse e stroncature da sinistra. Lo stesso è successo a un libro scritto con lo stesso sistema, «Fausto e Anna» di Cassola. Nel primo caso (anche in base a quel che so di Seminara) sostengo tuttora d’aver ragione io, nel secondo caso (anche perché il libro non mi piace) sono piuttosto dalla parte di quelli che l’attaccano»: I. Calvino, Lettere 1940-1985, a cura di L. Baranelli, introduzione di C. Milanini, Mondadori, Milano 2000, p. 358. 291. G. Manacorda, La battaglia delle idee. «I gettoni», Torino, Einaudi, 1952, «Rinascita», IX, 3 (marzo 1952), pp. 186-187. Ecco la parte dell’articolo

266

Daniela Brogi

riguardante FeA: «nel suo grosso romanzo FeA [Cassola] ci narra dell’adolescenza e dell’innamoramento di questi due giovani, della rottura delle loro relazioni dovuta alla stramberia psicologica di Fausto che ama e insulta la sua ragazza, come più tardi si abbandonerà alle facili voglie della figlia della padrona di casa o alle suadenti parole del collega professore di religione, ed infine militerà tra i partigiani coprendoli di disprezzo. E su questa attività partigiana il libro si dilunga un bel po’ per giungere, attraverso una dialettica subdola […] alla conclusione che i partigiani erano un branco di fifoni e di assassini, che i tedeschi erano poveri figli di mamma, che la unità antifascista non è mai in sostanza esistita dato il gravoso e maltollerato predominio dei comunisti tra le file antifasciste. Fa parte delle «nuove tendenze» anche questa? O non son questi i più usuali e ingenerosi e triviali argomenti che circolano per l’Italia democristiana e che qualunque giornaletto neofascista quotidianamente ripete? Fra l’altro il libro del Cassola […] tira via per le sue più che quattrocento pagine in una maniera piatta e uniforme che non riesce a prender vita e colore nemmeno quando l’argomento offrirebbe lo spunto ad una prosa sottile e serrata». 292. C. Cassola, Lettera al Direttore, «Rinascita», IX, 4 (aprile 1952), p. 248. Ecco il testo: «Signor Direttore, nel numero di marzo di Rinascita, e precisamente nella rubrica “La battaglia delle idee”, Giuliano Manacorda si occupa del mio romanzo FeA in termini tali che credo mio diritto e anzi mio dovere reagire. // Il Manacorda non si limita infatti a delle considerazioni letterarie, ma esprime un diffamatorio giudizio politico sul romanzo e quindi, implicitamente, sulla mia persona. Anzi proprio questo giudizio politico costituisce il nocciolo della sua critica; e le considerazioni letterarie sono introdotte solo alla fine con un «fra l’altro» che è tutto indicativo di una mentalità. // Ma, a scanso di equivoci, dico subito che il Manacorda è padronissimo di restar fermo a un canone di letteratura propagandistica, con funzioni subalterne nei confronti delle ideologie politiche. Ed è anche padronissimo di assegnare alla “letteratura della Resistenza” un compito apologetico, agiografico e fumettistico. Ma non è per nulla padrone di insultare chi dell’arte ha un diverso concetto. // Dato che il mio romanzo abbraccia nell’ultima parte il periodo della lotta partigiana, il Manacorda avrebbe potuto magari rimproverarmi di non aver approfittato dell’occasione per fare della propaganda politica. In tal caso mi sarei limitato a rispondergli che la propaganda antifascista è da farsi in altra sede (e in effetti io la faccio quando scrivo sui giornali: vedi la mia collaborazione al Mondo, da due anni a quest parte). Ma con la più bella faccia tosta del mondo il Manacorda mi accusa di aver denigrato la Resistenza, di aver fatto miei gli argomenti

Note

267

antipartigiani della propaganda neofascista. E allora devo rispondergli che la sua è una bassa e ridicola calunnia: che non sarà presa sul serio da nessuno e varrà solo a tirargli addosso il discredito di tutte le persone oneste». «Sei anni fa – replicava Togliatti in conclusione dell’editoriale di risposta alla lettera di Cassola (ibidem, p. 250) –, veniva ancora considerato scrittore e artista chi presentava la Resistenza come una grande cosa, quale essa davvero è stata, nell’animo e nell’azione dei suoi combattenti che in essa si trasfiguravano. Oggi il Cassola ci dice che se ci avesse presentato la Resistenza in questo modo, cioè com’essa è davvero stata, avrebbe fatto propaganda politica, invece, quando sui partigiani e antifascisti che passano nel suo libro ha ammucchiato quel poco di spazzatura che ha potuto. Atteggiamento «tutto indicativo di una mentalità»? Non sappiamo. Atteggiamento, però, che il critico ha il dovere di sottolineare e di condannare». 293. Cfr. FeA, p. 1778. 294. Ibidem, p. 1779. 295. «L’ultima volta che ci telefonammo – ricorda Bilenchi a proposito di Vittorini – fu per discutere e benevolmente insultarci a proposito del Gattopardo. Infatti gli avevo scritto una lettera con la quale lo invitavo a leggere una buona volta quel romanzo»: R. Bilenchi, Vittorini a Firenze, in Amici, in Id., Opere, cit., p. 827. 296. Cfr. FeA, pp. 1783 e 1801. 297. Cfr. FeA, p. 1839: dopo i volumi del 1952 e del 1958, FeA sarà ristampato da Einaudi fino al 1972, secondo l’edizione del 1958; pubblicato da Mondadori nel 1966 e, per gli Oscar, nel 1971; con prefazione di Giorgio Bàrberi Squarotti, Edito-Service S.A., Ginevra 1972; con introduzione di Mario Luzi, Rizzoli, Milano 1975, che riprende il testo rivisto per la ristampa Einaudi del 1973; a cura di Miriam Galiberti, Sansoni, Firenze 1979. 298. Tanto più che, come segnala A. Andreini (FeA, p. 1786) «nell’archivio di Cassola si conserva una copia [di FeA], indicata dall’autore come “definitiva”, di un esemplare dell’edizione 1958 su cui sono apportate a mano correzioni, in gran parte ricavate dall’editore 1973, oltre a qualcuna nuova, che conferma le precedenti nella ricerca di un lessico più neutro ed essenziale, oltre che nel senso della correttezza linguistica (anche delle parole straniere)». 299. Esposto nella mostra Abitare e scrivere la Toscana: la vita e i libri di Carlo Cassola, a cura di A. Andreini, Fortezza di Montecarlo, Lucca, 4 ottobre-21 dicembre 2008. 300. «[…] Poi vorrei che ci dicesse se il titolo Anna e i comunisti è definitivo: ho paura che sia un titolo estremamente anticommerciale»: cfr. la lettera di

268

Daniela Brogi

Calvino a Cassola del 9 gennaio 1952 citata da Alba Andreini in FeA, p. 1775. 301. «Una volta discorrevamo tra amici (tutti più o meno aspiranti scrittori; nessuno di noi aveva ancora pubblicato un libro): discorrevamo appunto sui titoli dei libri. Io dissi soltanto questo: che per parte mia un libro non lo avrei mai intitolato Gli indifferenti. Un titolo simile dà un’indicazione, opera una limitazione; assume inoltre una posizione morale. // Ebbene io ho preteso che questa indicazione, limitazione, posizione morale non fosse non dico nel titolo, ma nemmeno nel libro. Il libro doveva consistere solo del nesso esistenza-coesistenza dei sessi. Nessun contenuto psicologico o morale era tollerato»: C. Cassola, Storia e geografia, un racconto già presente in La visita (1942), e poi ripubblicato nel Supercorallo Einaudi comprendente tutta la produzione giovanile – sotto il titolo La visita (1962); il testo qui citato è tratto dall’edizione Einaudi, Torino, 1982, p. 101. 302. Cfr. V. Spinazzola, Il vitalismo represso di Carlo Cassola, in C. Cassola. Atti, cit., pp. 159-190. 303. Cfr. P. Brooks, Trame. Intenzionalità e progetto nel discorso narrativo (1984), Einaudi, Torino 1995. 304. «Romano [Bilenchi] dopo aver letto Baba, m’invitava a farne un romanzo, con la considerazione che uno scrittore deve sfogare i propri umori, e anche i propri malumori. Io seguii il suo consiglio alcuni anni dopo, quando scrissi il mio primo romanzo, FeA. Romano lo lesse manoscritto, e anche lì mi fu di grande aiuto coi suoi consigli»: C. Cassola, Mio padre, cit., p. 27. 305. Ricostruisco il dato confrontando le mappe del territorio con le indicazioni fornite dal romanzo (FeA, III, XX, 413). 306. Fu qui per esempio (cfr. La tavola del pane, cit., pp. 61-62) che si svolse realmente l’incontro tra i partigiani della 23° Brigata e gli alleati narrato in FeA, Epilogo, III, IV e V. 307. «Continuamente fantasticava su come si sarebbe comportato: quando l’avesse rivista. Finalmente si fermò su un disegno: l’avrebbe trascinata di nuovo nel bosco del seminario, ma questa volta non si sarebbe limitato ai baci. Stava ore intere a immaginarsi la scena: se gli avesse resistito, l’avrebbe presa a forza. A Renée, la prima ragazza con cui era andato [nel bordello], chiese se è possibile a una donna resistere alla violenza. Renée rispose di sì e, certamente inventando, disse che una volta lei, col semplice espediente di stringere i ginocchi, aveva impedito a un bruto di possederla. […] “Può stringere i ginocchi quanto vuole” pensava Fausto, “glielo farò vedere io a quella cagna…” (perché ormai la qualificava così, nella sua gelosia bestiale). E, quel che è peggio, simili espressioni cominciarono a passare nelle lettere» (FeA, I, XXVII, pp. 266-267).

Note

269

308. Nel capitolo ventinove della Parte Terza (p. 454), che racconta gli eventi della metà del giugno 1943, Anna dichiara che la figlia ha «due anni e cinque mesi». 309. C. Cassola, Fausto e Anna, Einaudi, Torino 1952. 310. Ricostruisco il dato sulla base delle testimonianze riportate in La tavola del pane, cit., pp. 135-136. 311. Cfr. FeA, p. 1778. 312. Ibidem. 313. FeA, p. 1786. 314. Proprio in linea con suggerimento di Calvino (23 luglio 1951) a «riscattare il più possibile il romanzo dalla cronaca» (la lettera è direttamente trascritta dall’incartamento Cassola dell’Archivio Einaudi e riportata da Luisa Mangoni in Pensare i libri, cit., p. 674 n). 315. È il testo riportato in epigrafe di questa sezione. 316. Cfr. L. Mangoni, Pensare i libri, p. 673 n. 317. Secondo un’espressione di Tozzi a proposito di Con gli occhi chiusi citata da Cassola in Il romanzo moderno, Rizzoli, Milano 1981, p. 53. 318. F. Tozzi, Tre croci, Rizzoli, Milano, 1979 (l’introduzione di Cassola è alle pp. I - X ; adesso si può leggere in Il romanzo moderno, cit., pp. 147-154, dove si trova anche Tozzi dimenticato, pp. 155-158). A Tozzi Cassola dedica anche la prefazione all’edizione Vallecchi (Firenze 1979) di Adele. 319. Cfr. C. Cassola, Il film dell’impossibile in FeA, p. 1744. 320. La lettera è riportata da A. Andreini in FeA, p. 1778, e non è compresa in I. Calvino, Lettere, cit., dove invece è possibile leggere la lettera del 5 febbraio successivo (pp. 540-543), contenente i giudizi di Calvino relativi alla nuova edizione. 321. Il passaggio è tratto da una lettera a Piccioni riportata da A. Andreini in FeA, p. C I I . 322. Ibidem. 323. «Cassola specifica di voler “mantenere la discussione nell’ambito letterario” perché finora la critica si è «più che altro occupata del significato ideologico, politico, ecc. del romanzo” (a Pampaloni, 5 marzo 1958)»: FeA, p. C I I . L’intervento redazionale che inaugura la discussione pubblicata su «Il Ponte» recupera quasi alla lettera questa intenzione: «Il Ponte», XIV, 4 (aprile 1958), p. 527. 324. Nella lettera a Foà del sei dicembre 1958, riportata da A. Andreini in FeA, p. L X I V : «quando [FeA] uscì nel 1952, si scatenò una piccola polemica (e non soltanto da parte comunista: mi si accusava di aver scritto un romanzo diffamatorio sulla Resistenza. Un minuscolo caso Zivago, insomma». Anche

270

Daniela Brogi

il risvolto all’edizione 1958 firmato da Giuseppe De Robertis accosta la somiglianza di disegno e di spirito di FeA col libro di Pasternàk. 325. Ibidem. 326. Al paesaggio, inteso come dispositivo anzitutto narrativo piuttosto che decorativo, è dedicato bel saggio di Giuseppe Nava, Il paesaggio, in Carlo Cassola. Atti del Convegno, cit., pp. 63-77. 327. «Il Ponte», XIV, 4 (aprile 1958), p. 530. 328. C. Cassola, Fausto et Anna, trad. it. di Philippe Jaccottet, con una prefazione di F. Fortini, Seuil, Paris 1961 (il testo di Fortini è datato settembre 1960). «Non è questo un bildungsroman – aveva scritto Luzi (Fausto e Anna, cit., p. 8) – […] se non fosse che Fausto acquista infine una rassegnata coscienza della sua confusione»; «questa testimonianza di uno sguardo, che non “sa” nulla al di là di ciò che gli cade sotto, finisce con l’essere una testimonianza angosciosa, non lontana, allora, quanto a impostazione, da quella del Camus de L’Etranger: Ma, per Cassola, nel senso di un’impotenza di fronte a un fluire di eventi, che è anche accettazione dell’insensatezza di essi, e dello spreco che essi rappresentano per l’uomo. Deriva di qui la sostanziale immobilità della condizione di Fausto»: cfr. G. Bàrberi Squarotti, Prefazione, in FeA, Edito-Service S.A., Ginevra 1972, p. I X . 329. Recupero il titolo di un racconto autobiografico risalente probabilmente alla seconda metà degli anni Quaranta e pubblicato nell’edizione 1962 della raccolta La visita: C. Cassola, Scoperta di Joyce, in Id., La visita, cit., pp. 200-205. 330. C. Cassola, Il mio cammino di scrittore, Pananti, Firenze 1984, p. 12. Cassola lesse Joyce tra il 1935 e il 1936; Joyce era arrivato in traduzione italiana nel 1933, con la traduzione completa di Dubliners e la versione pavesiana di Dedalus. 331. F. Camon, Carlo Cassola, in La moglie del tiranno, Lerici, Roma 1969, pp. 108-109. Sull’importanza della lettura di Dedalus all’interno della cerchia letteraria anni Trenta si veda anche la testimonianza di Romano Bilenchi in Amici (cfr. Opere, cit., pp. 930-931): «un professore di letteratura italiana che godeva di larga fama e che non perdeva occasione di punzecchiarci sui testi “sacri”, come diceva lui, del Novecento, un giorno a Forte dei Marmi invitò a casa sua Franco [Calamandrei] e me e ci chiese se Joyce, che lui chiamava Jòice, fosse veramente un grande scrittore. Noi gli dicemmo che Dedalus era il romanzo, ma anche più di un romanzo, l’opera poetica fondamentale del secolo e che aveva ispirato tutti noi». 332. Cfr. C. Cassola, Storia e geografia, in La visita, cit., p. 99: «Io volevo configurarmi una vita a priori: una vita eccezionalmente nuda e statica, che

Note

271

mai smarrisse la coscienza della sola cosa per me valevole: il fatto di esistere (con ciò che questo comportava, coesistenza dei sessi e poi attività di scrittore). Io me la configuravo, questa vita: la vedevo, la costruivo nelle mie spossanti fantasie». Dove, attraverso passaggi come questo, il racconto discredita il personaggio, secondo un atteggiamento semmai ingenuo perché sin troppo esplicitamente fiducioso nell’ammissione di colpa, ma in ogni caso autolimitativo: le fantasie sono, per l’appunto, «spossanti». A maggior ragione, dunque, colpisce come Alberto Asor Rosa, in un saggio che ha fatto epoca nella storia della sfortuna critica di Cassola, prescinda completamente da questa intenzionalità narrativa così attraversata da ombre, usando piuttosto il brano appena citato alla stregua di una diretta verità d’autore, e secondo un atteggiamento di presa alla lettera dei testi, specialmente quelli letterari, che proprio la critica marxiana dell’ideologia ci insegna a evitare. Ecco infatti la chiosa di Asor Rosa al passaggio cassoliano: «E quando si scrive volontà, s’intende esattamente quello che la parola significa: lo sforzo di costruire, partendo da uno schema aprioristicamente escogitato, le forme e i modi della propria vita. Non dovremo più dimenticare la natura aprioristica, volontaria, di questa operazione»: cfr. A. Asor Rosa, Scrittori e popolo. Il populismo nella letteratura italiana contemporanea (1965), Einaudi, Torino 1988, pp. 239-240. L’esecuzione sommaria di FeA che procede da questo genere di corollari si può leggere alle pp. 249-253 – dove, pour cause, non figura citato nessun esempio testuale. 333. «E venne l’ultimo pomeriggio, quello in cui dovevano dirsi addio. In Anna il dolore per il distacco aveva cancellato ogni altra preoccupazione: il suo Fausto partiva, ed ella sentiva che questo le procurava un grande dolore, un dolore insopportabile. […] Fausto invece era contento di partire. Anna gli aveva dato una fotografia con dedica, ed egli pensava che l’avrebbe collocata sul suo scrittoio. I suoi potevano pensare quello che volevano: era sicuro che non gli avrebbero fatto domande. E pensava che quella fotografia gli sarebbe bastata»: FeA; I, XXIII, p. 252. 334. «Il libro potrebbe esser letto come un Bouvard et Pécuchet della nostra generazione (sia pure in chiave triste anziché satirica), con tanta meticolosità vi sono registrate le idées reçues, i modi di conversazione, le abitudini sia della piccola borghesia provinciale, sia della gioventù intellettuale, sia del sovversivismo comunista-anarchico di certe regioni italiane, e fin le battute dei giornali umoristici, le barzellette grasse, i libri letti nei vari ambienti… Una bazza per i futuri storici del costume! Ma che ce ne importa degli storici? Noi viviamo e loro s’arrangeranno poi a travare i documenti della nostra vita; mica dobbiamo dar loro la pappa fatta. Dunque il problema mio

272

Daniela Brogi

leggendo il romanzo era capire fino a che punto il “fastidio” di vedermi ritirati fuori ambienti, frasi, giornate, moti d’animo, così vicini ancora nei miei ricordi (perché la biografia di Fausto – nei dati esteriori almeno – è forse quella di tutta la nostra generazione: certo la storia di tutti i giovani provinciali sotto l’ultimo fascismo) era un fastidio poetico, catartico, e fino a che punto invece non era il disagio che dà una vecchia fotografia». La lettera, datata 12 luglio 1951, non è presente nel «Meridiano» delle Lettere di Calvino, ma si può leggere in FeA, pp. 1771-1773. 335. C. Cassola, Fausto e Anna, Einaudi, Torino 1958, pp. 146 e 147. 336. Sul motivo del trench cfr. anche pp. 365, 377 e 380. Cfr. Manlio Cancogni, Azorin e Mirò (1948), a cura di S. Caltabellotta, introduzione di S. Veronesi, Fazi Editore, Roma 1996, p. 34: «Nei primi anni della loro amicizia non ci furono avvenimenti di rilievo. Vivevano, scrivevano, ed ebbero anche qualche donna. Erano relazioni passeggere che servivano di pretesto al bisogno della fantasia. Così, ad esempio, aspettare all’appuntamento una qualunque ragazza, chiusi nell’impermeabile e con la tesa del cappello abbassata sugli occhi, fumando con indifferenza la sigaretta, era una cosa molto subliminare. L’amore, la ragazza stessa, avevano importanza secondaria». 337. Al bordello – FeA, I, XXVI, p. 264, e a Sarzana, quando ha una relazione con la figlia dell’affittacamere: FeA, II, XII-XIII. Ma cfr. a tal proposito anche la vicenda dell’ingelosimento per Anna, quando le aveva scritto che era una «puttana» (FeA, I, XXVII). È vero che nell’Italia raccontata da FeA – un’Italia così sgradevole, così da dimenticare per chi voleva favorire l’onda della rinascita – la sessuofobia è, prima ancora che una patologia individuale, un tema di fondo della morale sessuale dell’epoca, come per esempio rivelano i dibattiti che accompagnarono l’applicazione della Legge Merlin (1958). «Quel che è peggio, cattivi pensiri, soprattutto pensieri lussuriosi, facevano capolino proprio nei momenti di raccoglimento, per esempio quando pregava»: FeA, II, XV, p. 321. Oppure cfr. FeA, II, XVII, pp. 329-330 per il disgusto di Anna per l’amplesso. Questo romanzo ci parla dell’apprendistato sessuale della gioventù italiana degli anni Cinquanta come pochi altri libri. 338. «E si lanciò in una violenta requisitoria nella quale, ben presto, furono coinvolti tutti. Cialtroni erano, per cominciare, i partigiani; cialtrone Mario, cialtrone Giulio; cialtroni i Comitati, non solo quelli dei paesi, ma anche quelli di Volterra, Pisa e Firenze; cialtroni i borghesi; cialtroni in modo specialissimo gli angloamericani… I soli che si salvassero erano, a quanto poté capire Fausto, l’esercito russo, Stalin e i capi del Partito comunista italiano» (FeA, III, XV, 391; ma cfr. anche ibidem, p. 392). 339. Si cita nuovamente dalla lettera a Fortini del 28 novembre 1961.

Note

273

340. L’unico studio dedicato all’influsso di Joyce, orientato in una direzione diversa da quella di questo lavoro perché dedicato principalmente alla poetica dell’epifania, e in ogni caso ricco di informazioni e di belle idee è il saggio di Gianni Turchetta, Il giovane Cassola e il giovane Joyce, in Studi vari di lingua e letteratura italiana in onore di Giuseppe Velli, «Quaderni di Acme», 41, Istituto Editoriale Universitario Cisalpino, Milano 2000, t. I I , pp. 855-871. 341. C. Cassola, Romanzo, in M. Luzi – C. Cassola, Poesia e romanzo, Rizzoli, Milano 1973, p. 142. 342. Cfr. R. Macchioni Jodi, Cassola, La Nuova Italia, Firenze 1967, p. 2: «l’amicizia con Manlio Cancogni nacque dalla scoperta di questa affinità di fondo: eravamo entrambi due «subliminari». Il nome lo trovò Cancogni e, a distanza di tanti anni, devo dire che era singolarmente azzeccato: subliminare significa infatti sotto la soglia, cioè sotto la soglia della coscienza pratica». 343. A. Andreini in FeA, p. X X I I I . 344. G. Falaschi, «Umili esistenze» in umili carte, in Carlo Cassola. Atti, cit., p. 107. 345. Giustamente Bàrberi Squarotti (nella prefazione all’edizione 1972 di FeA, cit., p. V I I I – l’unico testo che avesse finora considerato, sia pure in modo generale, senza affondi testuali particolarmente precisi, la retorica narrativa di FeA) parla di «arbitrarietà degli episodi». 346. Per esempio nel capitolo XIX della Parte Prima: fino alla fine del capitolo precedente si erano narrate le vicende di Anna durante il suo soggiorno estivo a San Ginesio. Il capitolo diciannovesimo parte in medias res, attaccando con l’inquadratura di un casuale frammento di discorso tra Fausto e Anna: «Fausto faceva ad Anna il resoconto di una serata: // – E poi c’era quella baldracca della nobildonna Diana che ha tirato fuori un gioco in francese.» (FeA, I, XIX, 233), e soltanto due pagine dopo il racconto ci svela, in maniera indiretta e casuale, che è la prima volta che i due giovani si rincontrano dopo il ritorno di Anna: «Non sai dirmi nulla di più gentile il primo giorno che ci rivediamo dopo oltre un mese?». 347. C. Cassola, Il film dell’impossibile, in La visita, cit., p. 7. Alba Andreini ha ricostruito la genesi e la vicenda editoriale del testo, riproponendolo in FeA, pp. 1742-1745. 348. Si veda, in tal senso, anche il finale della Parte Seconda: FeA, II, XIX, p. 336. 349. C. Cassola, Il romanzo, cit., pp. 138-139. Ma già Renato Bertacchini (in Carlo Cassola, Le Monnier, Firenze 1977, p. 166) aveva segnalato questa ripresa da Hemingway dal concetto di narrazione iceberg. 350. Cfr. questo inserto recuperato da A. Andreini (FeA, p. X X V ) dal

274

Daniela Brogi

dattiloscritto inedito Il romanzo moderno: «Mentre la preoccupazione di un romanziere sociale, volto a mostrarci la vita, è penetrare a fondo nell’animo del personaggio, svelarcene tutte le pieghe, la mia preoccupazione di narratore esistenziale era opposta: i personaggi, volevo che restassero nel vago, che ne fosse mostrato il meno possibile». Come già rivelava il racconto Una visita, proprio la visita è spesso l’espediente narrativo migliore per questo tipo di strategia: FeA comincia con una visita ed è pieno di visite. Studiare questi aspetti aiuta anche a contrastare uno dei luoghi comuni più radicati: la cosidetta semplicità dei personaggi di cassola. Si veda per esempio il risvolto di copertina dell’edizione 1958, che riprende la recensione del 52 di G. De Robertis (Fausto e Anna, cit.): «FeA, in cui il lettore ritroverà la semplicità e l’umana umiltà che costituiscono l’inconfondibile dono di Cassola, è un romanzo d’amore […]». 351. Cfr. su questi aspetti anche E. Testa, Lo stile semplice, Einaudi, Torino 1997, pp. 217 ss. 352. È una sorta di leitmotiv del romanzo: per esempio, si era incontrato anche nel finale della seconda parte (FeA, II, XIX, p. 335), quando Nora dice ad Anna che se tornasse indietro si sposerebbe. O in FeA, III, XVII, p. 404, quando Fausto, dispiaciuto di aver offeso Baba, gli propone di tornare indietro. Capitolo I V Un’estetica passione 354. Cfr. Letteratura, identità, nazione, a cura di M. Di Gesù, :duepunti edizioni, Palermo 2009. Molto interessante per discutere l’immaginario dell’identità italiana S. Patriarca, Italianità. La costruzione del carattere nazionale, Laterza, Roma-Bari 2010. M. Belpoliti, Settanta, nuova edizione, Einaudi, Torino 2010. 355. Cfr. A. Tricomi, Pasolini: gesto e maniera, Rubbettino, Catanzaro 2005. 356. La citazione è tratta da una testimonianza di Pasolini raccolta nel video Pasolini racconta Pasolini (curato da G. Sica per la regia di G. Barcelloni) allegato alla monografia di G. Jori, Pasolini, Einaudi, Torino 2001. 357. La strofa fa parte della canzone scritta da Italo Calvino e musicata da S. Liberovici per il gruppo Cantacronache. Cfr. Cantacronache. Un’avventura politico–musicale degli anni Cinquanta, a cura di E. Jona e M.L. Straniero, Torino, D D T e Scriptorium associati, 1995, pp. 133-134. 358. R. Luperini, Il Novecento, t. I I , Loescher, Torino 1981, p. 681. 359. G. Pintor, Doppio diario1936–1943, a cura di M. Serri, Einaudi, Torino 1978, pp. 199-202.

Note

275

360. «E in questo triste sguardo d’intesa, / per la prima volta, dall’inverno // in cui la sua ventura fu appresa, / e mai creduta, mio fratello mi sorride, / mi è vicino. Ha dolorosa e accesa, // nel sorriso, la luce con cui vide, / oscuro partigiano, non ventenne / ancora, come era da decidere // con vera dignità, con furia indenne / d’odio, la nuova nostra storia: e un’ombra, / in quei poveri occhi, umiliante e solenne... // Egli chiede pietà, con quel suo modesto, / tremendo sguardo, non per il suo destino, / ma per il nostro... Ed è lui, il troppo onesto, // il troppo puro, che deve andare a capo chino? / Mendicare un po’ di luce per questo / mondo rinato in un oscuro mattino?» (Comizio, 1954, in Le ceneri di Gramsci, B I, pp. 202-203, vv. 105-121). 361. Filologia e morale, in SPS, p. 18. 362. E. Golino, Pasolini: il sogno di una cosa. Pedagogia, eros, letteratura dal mito del popolo alla società di massa, il Mulino, Bologna 1985, p. 5. 363. La posizione, «Officina», 6 aprile 1956; ora in SLA I, p. 627. 364. «Ogni volta che si è stati testimoni o attori di un’epoca storica ci si sente presi da una responsabilità sociale»: la frase è tratta dalla prefazione a Il sentiero dei nidi di ragno (1947), scritta dall’autore nel 1964 (I. Calvino, Prefazione 1964 al Sentiero dei nidi di ragno, cit., p. 1191). 365. A. Zanzotto, Pedagogia, in Aure e disincanti nel Novecento letterario, Mondadori, Milano 1994, p. 144. 366. N. Ginzburg, Lessico famigliare, in Opere, vol. I., Mondadori, Milano 1986, p. 1065. 367. «E, su tutto, lo sventolio, / l’umile, pigro sventolio / delle bandiere rosse. Dio!, belle bandiere / degli Anni Quaranta! / A sventolare una sull’altra, in una folla di tela / povera, rosseggiante, di un rosso vero, / che traspariva con la fulgida miseria / delle coperte di seta, dei bucati delle famiglie operaie / – e col fuoco delle ciliege, dei pomi, violetto / per l’umidità, sanguigno per un po’ di sole che lo colpiva, / ardente rosso affastellato e tremante, / nella tenerezza eroica d’un’immortale stagione!» (da Le belle bandiere, in Poesia in forma di rosa, B II, p. 743). 368. L’espressione è di Walter Siti, nell’introduzione a RR, p. X L I V . 369. F. Fortini, Attraverso Pasolini, Einaudi, Torino 1993, p. X . 370. Cfr l’Allegato di Fortini ai Versi pubblicato sul numero 3 di «Officina» (settembre 1955); adesso in G.C. Ferretti, «Officina». Cultura, letteratura e politica negli anni cinquanta, Einaudi, Torino 1975, pp. 179-184. 371. Il gruppo redazionale comprese, fin dai primi numeri, anche Angelo Romanò, Gianni Scalia e Franco Fortini. Per questa e tutte le altre indicazioni sulla rivista cfr. G.C. Ferretti, «Officina». Cultura, letteratura e politica negli anni cinquanta, cit.

276

Daniela Brogi

372. P.P. Pasolini, È scomparsa dalla mia vita, intervento pronunciato alla libreria Croce di Roma il 23 maggio 1975, ora in SLA II, pp. 2822-2824. 373. Ibidem. 374. Cfr. anche La reazione stilistica: «Officina è stata inutile» (SLA II, p. 2292). 375. P.P. Pasolini, Pascoli, «Officina», 1 (maggio 1955); ora in SLA I, p. 997. 376. P.P. Pasolini, La libertà stilistica, «Officina», 9-10 (giugno 1957); ora in SLA I, p. 1229. 377. Della seconda serie, pubblicata da Bompiani, usciranno soltanto due numeri nella primavera del 1959. 378. Cfr. E.J. Hobsbawm – T. Ranger, L’invenzione della tradizione (1983), Einaudi, Torino 1987. A sua volta indirettamente ricordato da G. Bollati nel libro dal bel titolo manzoniano L’italiano. Il carattere nazionale come storia e come invenzione, Einaudi, Torino 1983. 379. Cfr ad esempio l’articolo di G. Scalia, Un paradigma: l’attualità di De Sanctis, «Officina», 1 (maggio 1955), ora in in G.C. Ferretti, «Officina». Cultura, letteratura e politica negli anni cinquanta, cit., pp. 151-154. 380. Sulla mancata attenzione all’europeismo cfr anche F. Fortini, Contro un’idea di lirica moderna, «Officina», n. s., 1, (marzo-aprile 1959), ora in G.C. Ferretti, «Officina». Cultura, letteratura e politica negli anni cinquanta, cit., pp. 363-367; e in tal senso cfr. anche le considerazioni di Ferretti nel saggio introduttivo, a p. 31. 381. P.P. Pasolini, Una rivista polivalente, in G.C. Ferretti, «Officina». Cultura, letteratura e politica negli anni cinquanta, cit., p. 472. 382. Ibidem, p. 71. 383. Nella nuova serie la rubrica sarà ribatttezzata «Testi e note». 384. Ecco la rassegna dei testi d’autore pubblicati: NUMERO 1, MAGGIO 1955: «Testi e allegati» (=TA): R. Roversi, Il margine bianco della città (Oltre le vecchie mura, Il cavallo, Domenica sul Po, «Golden Smoked Herrings»); F. Leonetti, La nuda primavera (I pensieri notturni, Per la strada, L’alluvione, Un borghese, Canzone sul violino, Il cammino nella città, Congedo); «Bozzetti e scherme» (= BS): F. Leonetti, Due versi sulle viole; «Appendice» (= A): C.E. Gadda, Il libro delle Furie (I). NUMERO 2, LUGLIO 1955: TA: P.P. Pasolini, I campi del Friuli; A: C.E. Gadda, Il libro delle Furie (II). NUMERO 3, SETTEMBRE 1955: TA: A. Bertolucci, Fogli di un diario delle vacanze; F. Fortini, Versi (Metrica e biografia, Ai poeti giovani, American Renaissance, I destini generali); A: C.E. Gadda, Il libro delle Furie (III). NUMERO 4, DICEMBRE 1955: TA: M. Luzi, Conversazione durante il viaggio; G.

Note

277

Caproni, La piccola porta; G. Bassani, Poesie del ’46 (Saluto, De Profundis, I carbonai, Emilia, Lasciando Marina di Cervia); A: C.E. Gadda, Una lettera 1940. NUMERO 5, FEBBRAIO 1956: TA: C. Sbarbaro, Scampoli; P. Volponi, La vita; C. Vivaldi, Partendo da Imperia; M. Ferretti, Falloforia del Principe (Falloforia del Principe, Ballata interrotta, Daltonismo, Anch’io sono il mare, Raucedine 1955: la vostra angoscia è la mia felicità, Dalla «Ode a un amico»); A: C.E. Gadda, Il libro delle Furie (IV). NUMERO 6, APRILE 1956: TA: R. Roversi, Il tedesco imperatore, Periferia. NUMERO 7, NOVEMBRE 1956: TS: C.M. Rebora, Canti dell’infermità; F. Leonetti, da Le miserie e La vita comune (La disperata fatica, Invettive, La follia, Sentimento dell’uomo in mezzo alla natura, La messa di mezzogiorno, Scritto in un margine); P. P. Pasolini, Una polemica in versi; «La cultura italiana»: L. Sciascia, La sesta giornata. NUMERO 8, GENNAIO 1957: TA: S. Penna, Solfeggio, La lezione di estetica; A. Romanò, Il fiume; P. Volponi, Le catene d’oro; F. Fortini, Al di là della speranza; A: I. Calvino, I giovani del Po. NUMERO 9-10, GIUGNO 1957: TS: P.P. Pasolini, La libertà stilistica; Piccola antologia neo-sperimentale: A. Arbasino (L’apprendista Tebaide), E. Sanguineti (Erotopaegnia), E. Pagliarani (Due trascrizioni: I. Sogno di bambino ebreo, II. Vicende dell’oro), B. Rondi, (Il dialetto), M. Diacono (Razionamento), M.L. Straniero (Poema dei giorni lavorativi), M. Ferretti (Due poesie: In trattoria, Primo ritorno dall’università); A. Bertolucci, Primi versi d’un racconto; L. Erba, «Super flumina»; R. Roversi, La raccolta del fieno; A: I. Calvino, I giovani del Po (II-III). NUMERO 11, NOVEMBRE 1957: TS: G. Ungaretti, Cantetto senza parole; F. Leonetti, Nuovo saggio (L’inizio, Mattino, Le cave di marmo, I cristiani); E. Sanguineti, Una polemica in prosa; A: I. Calvino, I giovani del Po (IV). NUMERO 12, APRILE 1958: «La nostra storia»: F. Leonetti, Due versi sulla rivoluzione; TS: P.P. Pasolini, da «La religione del mio tempo»; R. Roversi, Pianura padana; BS: [probabilmente Leonetti], Il diavolo nella firma; A: I.Calvino, I giovani del Po (V). NUOVA SERIE, NUMERO 1, MARZO-APRILE 1959: «Testi e note» (= TN): A. Bertolucci, Piccola ode a Roma; P.P. Pasolini, Umiliato e offeso (Epigrammi: A Costanzo, A Gerola, Ai critici cattolici, A dei piccoli potenti, A Page, Ai radicali, Al principe, A me, A C.P., A J.D., A un figlio non nato, A Barberi Squarotti, A Cadoresi, Ai redattori di «Officina», Alle case degli antichi, Alla Francia, A un papa; A. Romanò, Una domenica a Villa Carlotta; F.L[eonetti], La paura (Nota per Volponi); Dell’immobilità del mutamento (Un verso di Luzi).

278

Daniela Brogi

2, MAGGIO-GIUGNO 1959: TN: F. Leonetti, Un atto di rinuncia, L’ira, La liquidazione; F. Fortini, Nuovi consigli (A critico di poco più giovane), (Ringraziamenti di Santo Stefano), (Alla stazione di Minsk), (Un’altra attesa), (Distici per materie plastiche), (Per Roland Barthes). 385. La citazione è tratta da una testimonianza riportata in G.C. Ferretti, «Officina». Cultura, letteratura e politica negli anni cinquanta, cit., p. 56. 386. E. Pagliarani, Ragione e funzione dei generi, «Ragionamenti», II, 9 (1957), pp. 250-252. L’articolo, a cui rimanda anche Pasolini in La libertà stilistica (SLA I, p. 1235), adesso si può leggere nella ristampa anastatica di «Ragionamenti», con saggio introduttivo di M.C. Fugazza e testimonianze di L. Amodio, F. Fortini, A. Guiducci, R. Guiducci, F. Momigliano, Gulliver, Milano 1980. 387. «Officina», 9-10 (giugno 1957); adesso in SLA I, p. 1235. A questo proposito cfr anche la testimonianza di Pasolini nella già citata raccolta di filmati di repertorio: «si è cercato di ridurre la poesia alla prosa, cioè di riempire la poesia di contenuti nuovi, che non fossero né la poesia, né una generica e superficiale denuncia sociale, ma un’ideologia più profonda, totale e completa, una vera visione del mondo». 388. «Appare chiaro come oggi i poeti tendano a trasferire nel linguaggio poetico le contraddizioni presenti nel linguaggio di classe [...]. Strumento di questa operazione è il genere poemetto»: E. Pagliarani, in Ragione e funzione dei generi, cit., p. 252. 389. Si cita ancora da La libertà stilistica (SLA I, p.1233). 390. W. Siti, Il realismo dell’avanguardia, Einaudi, Torino 1975, p. 102. 391. Su memoria e identità nazionale cfr. anche il saggio introduttivo di Ezio Raimondi, in Letteratura e identità nazionale, Bruno Mondadori, Milano 1998, pp. I X - X X . 392. Di diverso parere è invece E. Galli della Loggia, che tratta i due concetti di “patria” e di “nazione” come intercambiabili (La morte della patria, Laterza, Roma-Bari 1996). 393. Trascritta da W. Siti dagli inediti pasoliniani conservati al Vieusseux e riportata nell’introduzione a RR I, p. C X X I X . 394. Ibidem, p. X V I . 395. SLA I, p. 1000. 396. SLA I, pp. 1005-1006. 397. «Noi non avevamo altro da dire che la nostra passione letteraria» si legge nei capoversi d’esordio dell’articolo La posizione, uscito sul numero 6 di «Officina» (1956) (SLA I, p. 623). Su questo motivo cfr. anche F. La Porta, Pasolini. Uno gnostico innamorato della realtà, Le Lettere, Firenze 2003. NUOVA SERIE, NUMERO

Note

279

398. Attraverso Pasolini, cit., p. 119. 399. Ibidem, p. 654. 400. P.P. Pasolini, Lettere 1955-1975, a cura di N. Naldini, Einaudi, Torino 1988, p. 675. 401. Pubblicata su «Nuovi Argomenti» (gennaio-marzo 1969), la poesia fa parte della raccolta Trasumanar e organizzar. 402. Ma si vedano anche i versi de L’Italia dolente: «Cara patria ferita, / ferita dal tuo nemico, / il tuo pianto è ben antico. // Io sono fanciullo / eppure mi duole il cuore / del tuo squallido dolore, / cara patria ferita.» (B IV, p. 816). 403. G. Jori, Pasolini, cit., p. 9. 404. E. Golino, Pasolini:il sogno di una cosa. Pedagogia, eros, letteratura dal mito del popolo alla società di massa, cit., p. 23. 405. Merita attenzione, a tale riguardo, anche l’epigrafe, tratta da Gor’kij. «Io so che gli intellettuali nella gioventù sentono realmente l’inclinazione fisica verso il popolo e credono che questo sia amore. Ma questo non è amore: è meccanica inclinazione verso la massa». 406. Si veda, in questo senso, anche la poesia d’apertura della raccolta Roma 1950. diario (All’insegna del pesce d’oro, Milano 1960): «Adulto? Mai – mai, come l’esistenza / che non matura – resta sempre acerba, / di splendido giorno in splendido giorno – / io non posso che restare fedele / alla stupenda monotonia del mistero. / Ecco perché, nella felicità, / non mi sono abbandonato – ecco / perché nell’ansia delle mie colpe / non ho mai toccato un rimorso vero. / Pari, sempre pari con l’inespresso, / all’origine di quello che io sono.» (B III, p. 297). 407. F. Fortini, Attraverso Pasolini, cit., p. 29. 408. V. Cerami, Le ceneri di Gramsci, in Letteratura italiana. Le Opere, vol. IV: Il Novecento, t. I I : La ricerca letteraria, Einaudi, Torino 1996, p. 658. 409. Nella lettera del 3 settembre 1955 a Franco Fortini (in P.P. Pasolini, Lettere 1955- 1975, cit., p. 117). 410. «Il nostro motto dev’essere dunque: riforma della coscienza non per mezzo di dogmi, ma mediante l’analisi della coscienza non chiara a se stessa, o si presenti sotto forma religiosa o politica. Apparirà allora che il mondo ha da lungo tempo il sogno di una cosa…» (K. Marx, da una lettera a Ruge, da Kreutznach, settembre 1843). Pasolini riprese il passo per titolare il romanzo Il sogno di una cosa, dopo averlo sentito citare da Fortini; per una dettagliata ricostruzione della vicenda cfr. G. Santato, Pier Paolo Pasolini. L’opera, Neri Pozza Editore, Vicenza 1980, pp. 96-97. 411. Riportato da W. Siti nel saggio Oltre il nostro accanito difenderla compreso nell’edizione Einaudi delle Ceneri di Gramsci (Torino 1981, p. 164).

280

Daniela Brogi

412. Nel medesimo senso cfr anche i vv. 53-57 del primo movimento della Scavatrice. «[...] Stupenda e misera / città che mi hai fatto fare // esperienza di quella vita / ignota: fino a farmi scoprire / ciò che, in ognuno, era il mondo» (B I, p. 245). 413. Sono le parole usate da Pasolini medesimo, nel risvolto di copertina del romanzo: cfr. SLA II, 2391. Ma, a proposito delle declinazioni sentimentali dell’ideologia si veda anche il brano di Una vita violenta (quando Tommaso rimette a posto la bandiera rossa con cui dei ragazzini si erano messi a giocare): «Non era successo niente: una borgata allagata dalla pioggia, qualche catapecchia sfondata, dove ci stava della gente, che, nella vita, ne aveva passate pure di peggio. Ma tutti piangevano, si sentivano spersi, assassinati. Solo in quel pannaccio rosso, tutto zuppo e ingozzito, che Tommaso ributtò lì a un cantone, in mezzo a quella calca di disgraziati, pareva brilluccicare, ancora, un po’ di speranza» (RR, p. 1178). Tra l’altro, il passo richiama immediatamente il passaggio analogo di Quadri friulani (B I, pp. 215 – 6, vv. 62-68): «E poi le canzoni, i poveri bicchieri / si vino sui tavoli dentro la buia / osteria, le chiare faccie dei festeggeri // intorno a noi, i loro certi occhi sui / nostri incerti, le scorate armoniche / e la bella bandiera nell’angolo più // in luce dell’umido stanzone». 414. Cfr. W. Siti, Oltre il nostro accanito difenderla, cit., p. 165. 415. F. Fortini, Attraverso Pasolini, cit., pp. 27-28. 416. A. Giuliani, Le ceneri di Gramsci, «Il Verri», 4 (1957), poi in Immagini e maniere, Feltrinelli, Milano 1965, p. 90; si può leggere adesso anche in P. Voza, Tra continuità e diversità: Pasolini e la critica, Liguori, Napoli 2000 (nuova edizione riveduta e ampliata), pp. 92-94. 417. Su questi aspetti cfr. anche A. Asor Rosa, Pasolini, in Scrittori e popolo (1965), Einaudi, Torino 1988, pp. 309 ss. 418. L’espressione è di Pasolini, ed è usata nell’intervista sulla poesia rilasciata a F. Camon (Il mestiere di poeta, Lerici Editore, Milano 1965, p. 197). 419. Recupero e declino sulla poesia pasoliniana le riflessioni di Alfonso Berardinelli sul metodo critico di Pasolini: «come critico di poesia è, direi, un autore centrale nella seconda metà del Novecento: è un critico antimodernista, che ha contribuito a far emergere, da Pascoli a Penna, tutta una serie di fenomeni di resistenza del linguaggio poetico italiano alla modernizzazione in chiave avanguardistica, L’antipatia di Pasolini per i futuristi, e soprattutto per D’Annunzio, lo ha portato a relegare in secondo piano una particolare koiné, quella del cosmopolitismo lirico, che agisce sia negli ermetici che nei Novissimi, e che può essere definita, anche, gergo della modernità» (A. Berardinelli, La poesia verso la prosa, Bollati Boringhieri, Torino 1994, p. 91).

Note

281

420. A. Zanzotto, Aure e disincanti nel Novecento letterario, cit., p. 157. 421. Cfr. W. Siti, Saggio sull’endecasillabo di Pasolini, «Paragone», 270 (1972), pp. 39-61; e V. Cerami, Le ceneri di Gramsci, cit., pp. 675 ss. Ma indicazioni importanti sull’ambigua compresenza, nel discorso poetico pasoliniano, dei due diversi principî della costruzione omogenea e della decostruzione provengono anche dal saggio di P.V. Mengaldo, Lettura di una poesia di Pasolini, in La tradizione del Novecento, Terza serie, Einaudi, Torino 1991, pp. 199 e passim. 422. F. Camon, Il mestiere di poeta, cit., p. 196. 423. Ibidem. 424. L’intervento intitolato Marxisants e uscito, nel 1959, sul secondo numero della nuova serie di «Officina», è un documento chiaro di questa lucidissima capacità di descrizione e di anticipazione degli eventi: «È un dato di fatto: noi scriviamo per la borghesia; il colloquio avviene con essa: colloquio angoscioso perché essa non risponde: agisce, rifiuta, impone. E, nel caso che importa, non si tratta più di una borghesia reazionaria e cattolica: ma di una borghesia americanisante [...] questa borghesia neocapitalistica richiederà con sempre maggiore insistenza al letterato una funzione sacerdotale, a concrezione della metastoricità del reale, una figura di «guida spirituale» [...] Bisognerà convincerlo [l’avversario] che lo scrittore non è uno specialista, un tecnico di stile, non è un deputato al sacerdozio [...]» (SPS, pp. 89-91). 425. P.P. Pasolini, La Divina Mimesis, Einaudi, Torino 1975, p. 16. 426. Il testo è apparso per la prima volta nel 1980, su «Nuovi Argomenti», e secondo le indicazioni di E. Siciliano Pasolini concepì questi versi come la risposta «sul proprio lavoro a un intervistatore statunitense».

INDICE DEI NOMI

Accrocca, Elio Filippo, 233 n. 14 Addis Saba, Marina, 23, 234 n. 21, 236 n. 40 Alatri, Paolo, 238 n. 68 Albertoni, Ettore Adalberto, 238 n. 68 Alfassio Grimaldi, Ugoberto, 236 n. 40 Alicata, Mario, 101-103, 238 n. 68, 252 n. 193, 253 n. 197 Alighieri, Dante, 27 Amodio, Luciano, 278 n. 386 Anderson, Sherwood, 251 n. 188 Andreini, Alba, 111-112, 122, 136, 139-140, 259 n. 249, 262 n. 269, 263 n. 275, 264 n. 284, 265 nn. 286-287, 267 n. 298, 268 nn. 299-300, 269 nn. 320-321, 270 n. 324, 273 nn. 343 e 347, 274 n. 350 Antonelli, Claudio, 252 n. 188 Antonini, Ezio, 238 n. 68 Antonioni, Michelangelo, 86, 91, 158, 249 n. 165, 250 n. 176 Arbasino, Alberto, 277 n. 384 Aristarco, Guido, 102, 254 n. 201 Asor Rosa, Alberto, 23, 234 n. 22, 271 n. 332, 280 n. 417 Bagatti, Fabrizio, 232 n. 10, 246 n. 139 Baldelli, Pio, 103, 254 n. 207 Baldi, Alfredo, 249 n. 161, 258 n. 239 Baldini, Alessio, 14 Baldini, Anna, 14, 248 n. 159, 258 n. 239 Baranelli, Luca, 232 n. 11, 237 n. 46, 243 n. 118, 266 n. 290 Barbaro, Umberto, 86, 249 n. 169 Bàrberi Squarotti, Giorgio, 267 n. 297, 270 n. 328, 273 n. 345, 278 n. 384 Barberini, Urbano, 185 Barcelloni, Gianni, 274 n. 356 Barile, Laura, 246 n. 140 Barilli, Calimero, 234 n. 16 Barilli, Renato, 121, 259 n. 246 Barthes, Roland, 278 n. 384

Barzanti, Roberto, 14, 245 n. 131 Bassani, Giorgio, 11, 101, 104, 254 n. 208, 259 n. 245, 277 n. 384 Battaglia, Roberto, 260 n. 257 Battistini, Andrea, 252 n. 188 Bazin, André, 96, 252 n. 190 Bellonzi, Fortunato, 244 n. 123 Belpoliti, Marco, 238 n. 59, 274 n. 354 Bencini, Angiolo, 233 n. 13 Bencivenni, Alessandro, 249 n. 163, 254 n. 203 Benedetti, Arrigo, 234 n. 16 Berardinelli, Alfonso, 280-281 n. 419 Berritz, Sabine, 103 Bertacchini, Renato, 258 n. 233, 274 n. 349 Bertolucci, Attilio, 184, 277-278 n. 384 Bertoni, Clotilde, 250 n. 174 Betocchi, Ilaria, 112 Bianciardi, Luciano, 127, 262 n. 267 Bilenchi, Romano, 8,14, 17-81 passim, 111, 130, 138, 159, 232 nn. 6 e 8-12, 233 nn. 1415, 234 nn. 17 e 19, 234 nn. 25-29 e 31, 236 nn. 32-34, 34, 36 e 38-39, 237 nn. 4648, 50, 52-54 e 57, 238 nn. 58, 60-62, 64 e 66, 239 nn. 73-74, 240 nn. 80-87 e 89, 241 nn. 89 e 91-95, 242 nn. 99 e 102-114, 243 nn. 115-117, 244 nn. 119 e 125, 245 n. 131, 246 nn. 139 e 141, 247 nn. 145, 148 e 150, 249 nn. 153-154, 258 n. 236, 260 n. 250, 262 n. 272, 263 n. 272, 267 n. 295, 268 n. 304, 270 n. 331 Blasetti, Alessandro, 54, 56, 74, 83 Blotner, Joseph, 256 n. 221 Bo, Carlo, 235 n. 27 Bobbio, Norberto, 231 n. 4 Bocelli, Arnaldo, 86 Boito, Camillo, 89, 250 n. 174 Bollati, Giulio, 276 n. 378 Bompiani, Valentino, 105, 185 Bonnetin, Claudine, 250 n. 172

284

Daniela Brogi

Bonsanti, Alessandro, 233 n. 14, 260 n. 250 Bontempelli, Massimo, Bottai, Giuseppe, 30, 51. 74. 236 n. 41 Bragaglia, Cristina, 255 n. 209 Brin, Irene, 253 n. 197 Brocchi, Virgilio, 55 Brooks, Peter, 268 n. 303 Brunetta, Gian Piero, 249 n. 169 Buchignani, Paolo, 23, 32, 67, 234 nn. 18 e 20, 236 n. 41, 238 n. 71, 239 n. 75, 241 n. 96 Bufano, Luca, 258 n. 232 Cain, James Mallahan, 8, 14, 83-85, 90, 92, 98, 101, 103-104, 106-107, 250 n. 172, 251 nn. 181-185, 253 n. 198 Cajumi, Arrigo, 107 Calamai, Clara, 103 Calamandrei, Franco, 23, 45, 234 n. 17, 271 n. 331 Calamandrei, Piero, 28 Calamandrei, Silvia, 234 n. 17 Caldwell, Erskine Preston, 87 Calvino, Italo, 8, 10, 11-14, 83, 91, 111-112, 119-121. 134, 137-138, 141, 154, 159, 167, 189, 231 nn. 1 e 3, 250 n. 173, 251 nn. 179180, 258 n. 238, 259 nn. 241-242, 244245 e 247-248, 262 n. 271, 265 nn. 286 e 290, 268 n. 300, 269 nn. 314 e 320, 272 n. 334, 275 nn. 357 e 364, 277 n. 384 Camon, Ferdinando, 244 n. 120, 262 n. 271, 270 n. 331, 280 n. 418, 281 n. 422 Campana, Dino, 60, 71-73, 245 nn. 131-132 e 136 Camus, Albert, 107-108, 256 n. 220, 270 n. 328 Cancogni, Manlio, 67, 176, 263 n. 274, 264 n. 280, 272 n. 336, 273 n. 342 Cantimori, Delio, 31 Caponi, Dino, 60 Caproni, Giorgio, 10, 277 n. 384 Cardellini, Gino, 256 n. 225 Carducci, Giosuè, 55 Carné, Marcel, 93, 249 n. 167, 253 n. 198 Carpi, Umberto, 72, 245 n. 135 Carpiceci, Stefania, 254 n. 201, 255 n. 209 Casadei, Alberto, 258 n. 239

Cassola, Carlo, 8-9, 11, 13, 44, 67, 111-182 passim, 238 n. 68, 256n. 225, 257 n. 227, 258 nn. 233-234, 259 nn. 241, 245 e 249, 260 nn. 250, 252-253 e 258, 261 nn. 259 e 262, 262 nn. 263-265, 267-268, 270 e 272, 263 nn. 274 e 276, 264 nn. 279-280, 282 e 285, 265 nn. 286 e 290, 226 nn. 291-292, 267 nn. 293 e 298, 268 nn. 299302 e 304, 269 nn. 309, 314, 317-319 e 323, 270 nn. 326 e 328-331, 271 n. 332, 272 n. 335, 273 nn. 340-342, 344 e 347, 274 nn. 349-350 Cataldi, Pietro, 14, 232 n. 12 Cavallaro, Giovan Battista, 248 n. 161 Cecchi, Emilio, 88, 105, 255 nn. 210-211 Cecchi, Ottavio, 246 n. 139 Centovalli, Benedetta, 232 n. 6, 236 n. 33, 237 n. 53, 243 n. 115, 248 n. 154, 260 n. 250 Cerami, Vincenzo, 213, 279 n. 408, 281 n. 421 Ceretti, Emilio, 253 n. 197 Cerroni, Domenico (Domenico Cadoresi), 278 n. 384 Cervi, Gino, 69, 232 n. 5 Chenal, Pierre, 101-102, 104, 253 nn. 198 e 200, 254 n. 206 Chiarcossi, Graziella, 183, 256 n. 224 Chiarini, Luigi, 86, 254 n. 206 Chiaromonte, Nicola, 184 Chiesi, Marta, 232 n. 6 Cian, Vittorio, 31 Ciano, Gian Galeazzo, 29, 244 n. 122 Ciantelli, Enrico, 248 n. 158 Ciccuto, Marcello, 243 n. 116 Cogni, Giulio, 51, 240 n. 88 Coindreau, Maurice-Edgar, 256 n. 220 Collodi, Carlo, 59 Colombo, Gian Franco, 237 n. 46 Comencini, Luigi, 251 n. 180, 253 n. 197 Comisso, Giovanni, 253 n. 197 Contini Bonacossi, Sandro, 125 Contini, Gianfranco, 192, 243 n. 115, 256 n. 222 Contri, Gioacchino, 39, 236 n. 34 Contu, Rafaele, 253 n. 197 Corrias, Pino, 247 n. 151, 262 n. 267

Indice dei nomi Corti, Maria, 250 n. 171, 257 n. 230 Corti, Vittoria, 246 n. 136, 247 n. 150 Costa, Antonio, 252 nn. 193 e 196 Costanzo, Mario, 278 n. 384 Cremona, Italo, 21 Croce, Benedetto, 223 Crocenzi, Luigi, 255 n. 213 d’Amico, Silvio, 247 n. 144 D’Annunzio, Gabriele, 281 n. 420 De Bosis, Adolfo, 251 n. 188 De Chirico, Giorgio, 69 De Micheli, Mario, 243 n. 119 De Robertis, Giuseppe, 138, 233 n. 14, 265 n. 289, 270 n. 324, 274 n. 350 De Santis, Giuseppe, 90, 100-103, 252 n. 196, 254 nn. 203 e 208 De Sica, Vittorio, 83, 91, 138, 274 n. 336 De Simonis, Paolo, 257 n. 227 De Vincenti, Giorgio, 254 n. 205 Delgove, Henri, 255 n. 219 Depaoli, Massimo, 20, 232 n. 6, 243 n. 115, 260 n. 250 Di Gesù, Matteo, 14, 274 n. 354 Diacono, Mario, 277 n. 384 Dolfi, Anna, 233 n. 14, 248 n. 115 Domarchi, Jean, 102 Doniol-Valcroze, Jacques Raymond, 102 Dos Passos, John Roderigo, 85, 96, 107, 160, 251 n. 188, 255 nn. 210 e 216 Dowling, Constance, 86, 249 n. 166 Dreiser, Theodore, 85 Duvivier, Julien, 102, 104 Ejzenštejn, Sergej Michajlovič, 108 Elkann, Alain, 83 Erba, Luciano, 277 n. 384 Evans, Walker, 105 Fabiani, Mario, 19 Facta, Luigi, 29 Falaschi, Giovanni, 24, 177, 234 n. 23, 238 n. 71, 264 nn. 278-279, 273 n. 344 Falqui, Enrico, 58 Farassino, Alberto, 249 n. 161 Faulkner, William Cuthbert, 85, 87, 96, 107-109, 252 n. 188, 255 nn. 210. 214 e 218-219, 256 nn. 220-221 Favi, Egidio, 244 n. 122 Fehér, György, 253 n. 198

285

Fellini, Federico, 251 n. 180 Fenoglio, Beppe, 8-11, 13, 118-119, 122, 134, 186, 257 nn. 230 e 232, 258 nn. 232, 235 e 237 Fernandez, Dominique, 252 n. 188 Ferrara, Giuseppe, 254 n. 204 Ferretti, Gian Carlo, 193, 276 nn. 370-371 e 379-381 Ferretti, Massimo, 277 n. 384 Fini, Carlo, 233 n. 14 Flaiano, Ennio, 254-255 n. 209 Fortini, Franco, 8, 17, 48, 112, 123, 128, 137, 157, 161, 189-191. 194-195, 202, 212, 262 n. 269, 270 n. 328, 273 n. 339, 275 n. 369, 276 nn. 370-371 e 380, 277 n. 384, 278 nn. 384-385, 279 nn. 407 e 409, 280 nn. 410 e 415 Fournier, Alain, 263 n. 273 Franzinelli, Mimmo, 236 n. 35 Fruttero, Carlo, 265 n. 286 Fugazza, Maria Chiara, 278 n. 386 Furci, Guido, 15, 248 n. 159 Gadda, Carlo Emilio, 11, 189, 241 n. 97, 277 n. 384 Galiberti, Miriam, 267 n. 297 Galli della Loggia, Ernesto, 278 n. 392 Gallian, Marcello, 239 n. 76 Galvano, Eugenio, 21, 29, 48 Garnett, Tay, 253 n. 198 Garrone, Dino, 39, 44, 60, 235 n. 30, 238 n. 67, 242 n. 102 Gatto, Alfonso, 247 n. 149 Gentile, Emilio, 231 n. 4 Gentile, Giovanni, 31, 42, 55, 67 Gentizon, Paul, 36 Gerola, Gino, 185, 234 n. 16, 278 n. 384 Ghiron, Adriano, 29 Giannelli, Luciano, 263 n. 274 Giarratana, Valentino, 237 n. 44 Gide, André, 51 Ginzburg, Natalia, 158, 188, 258 n. 236, 275 n. 366 Giudici, Giovanni, 183, 256 n. 224 Giuliani, Alfredo, 280 n. 416 Giusti, Giuseppe, 55 Gobetti, Piero, 33, 223 Golino, Enzo, 210, 275 n. 362, 279 n. 404

286

Daniela Brogi

Gor’kij, Maksim, 279 n. 405 Gotta, Salvator, 55 Gramsci, Antonio, 14, 189-190, 202, 212213, 217, 219-223, 226, 228, 230, 262 n. 266, 275 n. 360, 279 n. 408, 280 nn. 411 e 416, 281 n. 421 Grandi, Aldo, 17, 236 n. 36, 238 n. 70, 240 n. 78, 247 n. 144 Greco, Lorenzo, 241 n. 97 Grespi, Barbara, 255 n. 212 Gresset, Michel, 255 n. 219 Griffith, David Llewelyn Wark, 108 Grignani, Maria Antonietta, 245 n. 131, 257 n. 230, 258 n. 237 Guarnieri, Silvio, 258 n. 236 Guérin, Daniel, 36, 237 n. 48 Guglielminetti, Marziano, 249 n. 167, 251 n. 186 Guiducci, Armanda, 278 n. 386 Guiducci, Roberto, 278 n. 386 Harburg, Edgar Yipsel, 16 Hardy, Thomas, 119, 140, 258 n. 234, 263 n. 276 Hartlaub, Georg Friedrich, 249 n. 168 Hemingway, Ernest, 85, 96, 274 n. 349 Hobsbawm, Eric, 276 n. 378 Houellebecq, Michel, 83, 248 n. 160 Huillet, Danièle, 249 n. 165 Icardi, Andrea, 249 n. 166 Ivaldi, Federica, 250 n. 175 Jaccottet, Philippe, 270 n. 328 Jahier, Piero, 67 Jolanda (Maria Maiocchi), 55 Jona, Emilio, 275 n. 357 Jori, Giacomo, 274 n. 356, 279 n. 403 Jovine, Francesco, 250 n. 170 Joyce, James, 87, 130, 160, 162-165, 167, 176, 179, 260 n. 250, 263 n. 272, 264 n. 284, 270 nn. 329-330, 271 n. 331, 273 n. 340 Jung, Carl Gustav, 41, 238 n. 59 Kafka, Franz, 7, 80, 263 n. 272 Kawin, Bruce, 255 n. 214 Kezich, Tullio, 247 n. 144 Koch, Carl, 102 Krusciov, Nikita Sergeevic, 184 La Porta, Filippo, 279 n. 397

La Rovere, Luca, 234 n. 23, 237 n. 49 Lattuada, Alberto, 253 n. 200, 274 n. 354 Laura, Ernesto G., 249 n. 161 Lee Masters, Edgar, 85 Lega, Achille, 233 n. 13 Lenin (Vladimir Il’ič Ul’janov), 50, 168 Lenzini, Luca, 112, 232 n. 12, 243 n. 116 Leonetti, Francesco, 190, 194, 276-278 n. 384 Leopardi, Giacomo, 55, 193 Levantesi, Alessandra, Levi, Carlo, 10 Levi, Primo, 10 Lewis, Harry Sinclair, 251 n. 188 Liala (Amalia Liana Cambiasi Negretti Odescalchi), 259 n. 249 Liberovici, Sergio, 275 n. 357 Longanesi, Leopoldo, 33, 209 Lorenzini, Niva, 249 n. 166 Loria, Arturo, 233 n. 14 Luperini, Romano, 14-15, 232 n. 11, 237 n. 46, 243 n. 118, 250 n. 170, 265 n. 288, 275 n. 358 Luzi, Mario, 27, 66, 138, 184, 242 n. 113, 243 n. 113, 261 n. 262, 265 n. 289, 267, n. 297, 270 n. 328, 273 n. 341, 277-278 n. 384 Luzzatto, Sergio, 231 n. 4 Maccari, Mino, 21-22, 31, 45, 55, 66, 71, 73, 157, 233 n. 13, 245 n. 131 Macchioni Jodi, Rodolfo, 273 n. 342 Machiavelli, Niccolò, 27 Madden, David, 251 n. 184 Maggioni, Luigi, 29 Magnani, Anna, 112 Magrini, Giacomo, 248 n. 159 Malaparte, Curzio (Kurt Suckert), 32, 5758, 233 n. 13, 241 n. 97 Malraux, Andrè, 96, 107-108, 255 n. 219 Manacorda, Giuliano, 138, 241 n. 90, 266 nn. 291-292 Manghelli, Gloria, 233 n. 14 Mangoni, Luisa, 67, 231 n. 4, 236 nn. 41 e 43, 238 n. 66, 258 nn. 236 e 240, 259 n. 241, 265 n. 286, 269 nn. 314 e 316 Mann, Thomas, 7, 14, 250 nn. 170 e 174 Manzini, Gianna, 247 n. 144

Indice dei nomi Marinetti, Filippo Tommaso, 22, 31 Martignoni, Clelia, 248 nn. 153-154 Martufi, Pier Giuseppe, 260 nn. 253-254 e 256, 261 n. 259, 264 n. 277 Marx, Karl, 46, 50, 200, 210 280 n. 410, 281 n. 424 Masoero, Mariarosa, 249 n. 166 Mastrocinque, Camillo, 231 n. 5 Mauriac, François Charles, 263 n. 272 Mazzini, Giuseppe, 55 Mazzocchi, Gianni, 253 n. 197 Mazzucchelli, Paola, 247 n. 150 McGuire, William, 238 n. 59 Melville, Herman, 251-252 n. 188 Menchini, Velio, 261 n. 259 Meneghello, Luigi, 120 Mengaldo, Pier Vincenzo, 281 n. 421 Micciché, Lino, 84, 104, 248 n. 161, 253 n. 197, 254 n. 206 Micheli, Bruno, 243 n. 119, 245 n. 122 Mila, Massimo, 255 n. 215 Milanini, Claudio, 231 n. 1, 250 n. 170, 266 n. 290 Miller, Henry Valentine, 255 n. 210 Minghelli, Giuliana, 255 n. 212 Momigliano, Francesco, 278 n. 386 Mondo, Lorenzo, 250 n. 172 Moneti, Guglielmo, 249 n. 161 Monicelli, Mario, 121 Montale, Eugenio, 246 nn. 140 e 142, 247 n. 144 Montanelli, Indro, 29, 243 n. 118, 253 n. 197 Morales, Giorgio, 248 n. 158 Morandi, Carlo, 32 Morandi, Giorgio, 81, 233 n. 13 Morante, Elsa, 253 n. 197 Moravia, Alberto, 11, 83, 253 n. 197 Mucci, Welso, 21 Muscetta, Carlo, 265 n. 286 Mussolini, Benito, 28-30, 32, 34-36, 3942, 47, 143, 238 nn. 60-62, 65 e 70, 239 n. 76, 240 nn. 78 e 86, 241 n. 96, 247 nn. 142 e 145 Naldini, Nico, 279 n. 400 Nay, Laura, 249 n. 167 Nencini, Elisabetta, 112

287

Nesi, Cristina, 232 n. 6, 243 n. 115, 260 n. 250 Nicholson, Jack, 253 n. 198 Nicoletti, Giuseppe, 67, 71, 243 n. 116, 245 n. 129, 248 nn. 153-154 Nigro, Salvatore Silvano, 250 n. 176 Noto, Paolo, 252 n. 196, 255 n. 212 Nozzoli, Anna, 236 n. 34 Ojetti, Ugo, 31 Ottieri, Ottiero, 265 n. 290 Pagliarani, Elio, 195-196, 277 n. 384, 278 nn. 386 e 388 Palazzeschi, Aldo, 67 Palmieri, Renato, 238 n. 68 Paolella, Domenico, 231 n. 5 Papini, Giovanni, 71, 245 n. 130 Parronchi, Alessandro, 70, 77, 244 nn. 126-127 Pascoli, Giovanni, 192-193, 201, 276 n. 375, 281 n. 419 Pasinetti, Francesco, 253 n. 197 Pasolini, Guido, 186 Pasolini, Pier Paolo, 8, 13-14, 183-230 passim, 256 n. 224, 259 n. 249, 274 nn. 355356, 275 nn. 362 e 369, 276 n. 372, 375 e 381, 277 n. 384, 278 nn. 384, 386 e 387, 279 nn. 397-398, 400, 403-404, 407 e 409, 280 nn. 410, 413 e 415-419, 281 nn. 419, 421 e 425-426 Pasternak, Boris Leonidovič, 139, 160, 270 n. 324 Pastore, Ottavio, 50 Patriarca, Silvana, 274 n. 354 Pautasso, Sergio, 243 n. 115 Pavese, Cesare, 8, 11, 14, 29, 83-110 passim, 134, 249 nn. 164 e 166-167, 250 nn. 172-173, 251 nn. 186 e 188, 252 nn. 188189, 191, 193-195, 255 n. 216, 256 n. 223, 258 n. 236, 264 n. 285 Pavese, Roberto, 29 Pavolini, Alessandro, 28, 37, 74 Pavone, Claudio, 11 Pea, Enrico, 22 Pedullà, Gabriele, 257 n. 230, 259 n. 243 Pellizzi, Camillo, 31, 235 n. 31, 239 n. 74 Penna, Sandro, 277 n. 384, 281 n. 419 Persico, Edoardo, 39

288

Daniela Brogi

Petrone, Icilio, 30 Petroni, Guglielmo, 233-234 n. 16 Pezzino, Paolo, 257 n. 227 Phillips, Gene, 256 n. 221 Piccioni, Leone, 240 n. 77, 244 n. 124, 269 n. 321 Pietrangeli, Antonio, 99, 252 n. 193 Pintor, Giaime, 186, 234 n. 23, 236-237 n. 44, 238 n. 71, 259 n. 247, 275 n. 359 Pintor, Luigi, 186 Pitassio, Francesco, 252 n. 196, 255 n. 212 Pratolini, Vasco, 28, 39, 49, 57, 66, 237 n. 56, 240 n. 82, 241 n. 95 Prezzolini, Giuseppe, 241 n. 96 Prono, Franco, 249 n. 166 Proust, Marcel, 130, 179 Puccini, Gianni, 102 Quazza, Guido, 231 n. 4 Radiguet, Raymond, 38, 71, 263 n. 272 Rafelson, Bob, 253 n. 198 Ragghianti, Carlo Ludovico, 248 n. 158 Raimbault, René-Noël, 255 n. 219 Raimondi, Ezio, 278 n. 391 Ranger, Terence, 276 n. 378 Rebora, Clemente Maria, 277 n. 384 Remigi, Gabriella, 252 n. 188 Renoir, Jean, 100, 102-104, 108-110, 254 nn. 203 e 205 Renzi, Renzo, 248 n. 161 Ricci, Berto, 23, 25, 27, 29-30, 32, 39, 4748, 60, 66, 233 n. 13, 234 nn. 18-19, 235 n. 30, 239 n. 75, 242 n. 102, 243 n. 118 Rigoni Stern, Mario, 11 Rimbaud, Arthur, 58, 73, 246 n. 140 Risi, Dino, 1221, 232 n. 5 Roberts, Stephen, 107 Rodocanachi, Lucia, 247 n. 144 Romani, Bruno, 233 n. 16 Romanò, Angelo, 267 n. 371, 277-278 n. 384 Rondi, Brunello, 277 n. 384 Rondi, Gian Luigi, 185 Rondolino, Gianni, 255 n. 209 Rosai, Bruno, 39 Rosai, Ottone, 8, 29, 39, 57, 60, 65-75, 7781, 233 n. 13, 234 n. 127, 235 n. 31, 237 n. 55, 239 nn. 74 e 77, 242 nn. 102 e 115, 243

nn. 115-119, 244 nn. 121-123 e 126-127, 245 nn. 129 e 132-133, 246 nn. 136, 139 e 142, 247 nn. 146 e 149-150, 248 n. 158 Rossellini, Roberto, 121, 231 n. 5 Rossi, Aldo, 234 n. 16 Roversi, Roberto, 190, 194, 276-277 n. 384 Ruge, Arnold, 280 n. 410 Sacchi, Filippo, 254 n. 206 Sadoul, Georges, 254 n. 206 Salce, Luciano, 121, 231 n. 5 Sanguinetti, Bruno, 26 Sanguineti, Edoardo, 277 n. 384 Sanminiatelli, Bino, 247 n. 144 Santato, Guido, 280 n. 410 Santini, Pier Carlo, 248 nn. 157-158 Santomassimo, Gianpasquale, 238 n. 71 Santoro, Vito, 251 n. 180 Sartre, Jean-Paul, 107-108, 255 n. 218 Savinio, Alberto, 77 Sbarbaro, Camillo, 277 n. 384 Scaffai, Niccolò, 15, 248 n. 159 Scalia, Gianni, 276 nn. 371 e 379 Schacherl, Bruno, 26, 31, 232 n. 7 Scheiwiller, Vanni, 235 n. 27, 242 n. 99, 244 n. 119 Schmitt, Carl, 257 n. 228 Schnapp, Jeffrey Thompson, 247 n. 144 Sciascia, Leonardo, 277 n. 384 Secchia, Pietro, 260 n. 257 Segre, Cesare, 249 n. 167 Serandrei, Mario, 87 Seroni, Adriano, 247 n. 142 Setti, Alessandro, 26 Sica, Gabriella, 274 n. 356 Siciliano, Enzo, 281 n. 426 Siti, Walter, 183, 200, 256 n. 224, 257 n. 368, 278 nn. 390 e 393, 280 nn. 411 e 414, 281 n. 421 Skenazy, Paul, 251 n. 185 Soffici, Ardengo, 31, 58, 66, 71, 73, 77, 233 n. 13, 241 n. 98, 244 n. 128, 245 nn. 128 e 136, 246 nn. 136 e 140 Soldati, Mario, 86, 231 n. 5 Solmi, Sergio, 246 n. 140 Sordi, Alberto, 69, 231 n. 5 Spagnoletti, Giacinto, 204 Specchio, Mario, 15, 237 n. 53

Indice dei nomi Spinazzola, Vittorio, 268 n. 302 Spirito, Ugo, 239 n. 75 Stein, Gertrude, 87, 251-252 n. 188 Steinbeck, John Ernst, 87, 99, 251 n. 188, 252 n. 194, 255 n. 210 Stoppa, Paolo, 69, 231 n. 5 Straniero, Michele Luciano, 275 n. 357, 277 n. 384 Straub, Jean-Marie, 249 n. 165 Tamburini, Gino, 256 n. 225 Taviani, Giovanna, 250 n. 170 Tesio, Giovanni, 265 n. 286 Testa, Enrico, 274 n. 351 Ticciati, Brunello, 256 n. 225, 262 n. 263 Titta Rosa, Giovanni, 184 Tobino, Mario, 44, 67, 234 n. 17 Toffetti, Sergio, 254 n. 208 Togliatti, Palmiro, 138, 267 n. 292 Tognarini, Ivan, 260 n. 253 Tognazzi, Ugo, 231 n. 5 Tomasi di Lampedusa, Giuseppe, 90 Tommei, Ugo, 72, 245 n. 135 Torri, Bruno, 249 n. 161 Totò (Antonio De Curtis), 231 n. 5 Toynbee, Arnold Joseph, 251 n. 188 Tozzi, Federigo, 7, 67, 233 n. 14, 243-244 n. 119, 269 nn. 317-318 Trenker, Luis, 116, 257 n. 229 Tricomi, Antonio, 274 n. 355 Trotta, Nicoletta, 245 n. 131 Trotzkij, Lev (Lev Davidovič Bronštein), 30, 51, 168 Turchetta, Gianni, 273 n. 340 Turi, Gabriele, 32, 235 n. 23, 236 n. 43 Turi, Nicola, 252 n. 188 Ungaretti, Giuseppe, 27, 48, 79, 240 n. 77, 244 n. 124, 255 n. 214, 277 n. 384 Ungari, Enzo, 248 n. 161, 252 n. 192 U-Wei Haji Saari, 253 n. 198

289

Valéry, Paul, 17 Vallecchi, Attilio, 22, 68, 233 n. 14 van Straten, Giorgio, 237 n. 50, 239 n. 73, 244 n. 125, 246 n. 139 Vancini, Florestano, 121, 232 n. 5 Velli, Giuseppe, 273 n. 340 Ventavoli, Lorenzo, 249 n. 166, 255 n. 215 Verdone, Mario, 244 n. 123 Vergano, Aldo, 254 n. 206 Viani, Lorenzo, 66, 243 n. 119 Vidor, King Wallis, 107 Viganò, Renata, 11, 134 Visconti, Luchino, 8, 14, 83-84, 87-90, 98, 101-104, 106, 109-110, 248 n. 161, 249 nn. 161-163, 250 n. 170, 242 n. 192, 253 nn. 197-198, 254 nn. 203-204 e 206-207 Visentini, Gino, 253 n. 197 Vittorini, Elio, 10, 19, 23, 27-29, 44, 48, 50, 67, 92, 105-106, 189, 232 n. 8, 240 n. 79, 241 n. 97, 243 n. 115, 246 n. 142, 251 n. 181, 252 n. 188, 255 nn. 211 e 213, 258 nn. 233 e 236, 265 n. 286, 267 n. 295 Vivaldi, Cesare, 277 n. 384 Vivanti, Annie, 55 Vivarelli, Roberto, 236 n. 37, 238 n. 69 Volpe, Gioacchino, 31 Volponi, Paolo, 194, 277-278 n. 384 von Horváth, Ödön, 237 n. 53 Voza, Pasquale, 280 n. 416 Whitman, Walt, 251-252 n. 188 Wilder,Thornton Niven, 255 n. 210 Zagarrio, Vito, 231 n. 4 Zampa, Luigi, 231-232 n. 5 Zangrandi, Ruggero, 236 nn. 41-42, 238 nn. 63 e 68 Zanzotto, Andrea, 187, 275 n. 365, 281 n. 420 Zevi, Bruno, 238 n. 68 Zunino, Pier Giorgio, 235 n. 24

INDICE Introduzione Essere giovani

7

Capitolo 1 Cronache di una gioventù perduta: Romano Bilenchi e il fascismo

17

Capitolo 2 Tra letteratura e cinema. Pavese, Visconti, e la “Funzione Cain”

83

Capitolo 3 Il ritratto dello scrittore da partigiano: Fausto e Anna, di Carlo Cassola

111

Capitolo 4 Un’estetica passione: la patria di Pasolini

183

NOTE

231

INDICE DEI NOMI

283

DOSSIER

1 B R U N O C U M B O , La città di vita di Matteo Palmieri. Ipotesi su una fonte quattrocentesca per gli affreschi di Michelangelo nella Volta Sistina, 2006. 2. B E R A R D I N E L L I , C O Z Z O , P E C O R A , D I G E S Ù , L I C A U S I , D E I D I E R , Z A R C O N E , Il saggio critico. Spunti, proposte, riletture, a cura di Michela Sacco Messineo, 2007. 3. MORACE , PUPINO , SOLE , DI LEGAMI , BERTONCINI , RANDO , DI GIOVANNA , D I G E S Ù , S A C C O M E S S I N E O , V I O L A , Z A R C O N E , Il romanzo e la storia. Percorsi critici, a cura di Michela Sacco Messineo, 2008. 4. D I G R I G O L I , S O L E , B E L L I N I , D A L M A S , C O N O S C E N T I , S A N G U I N E T I , D I D I G E S Ù , S A C C O M E S S I N E O , P A T T A V I N A , J O S S A , Letteratura, identità, nazione. Percorsi critici, a cura di Matteo Di Gesù, 2009. 5. M I C H E L A S A C C O M E S S I N E O , L’aurea lontananza. Itinerari e forme del narrare in Nino Savarese, 2010. 6. L’ultima seduzione di Francesco Orlando, a cura di Salvatore Nicosia, con testi di Francesco Orlando, Gioacchino Lanza Tomasi, Mariolina Bertini, Salvatore Nicosia e Simona Corso, 2011. 7. A M B R A C A R T A , Il cantiere Italia: il romanzo. Capuana e Borgese costruttori, 2011. 8. D A N I E L A B R O G I , Giovani. Vita e scrittura tra fascismo e dopoguerra, 2012.

POSIZIONI

0.1 A L F A N O , C O R T E L L E S S A , D A L M A S , D I G E S Ù , J O S S A , S C A R P A , Dove andiamo? Nuove posizioni della critica, 2011. 1. D O M E N I C O S C A R P A , Uno. Doppio ritratto di Franco Lucentini, 2011. 2. D A V I D E D A L M A S , Il Saggio, il Gusto e il Cliché. Per un’interpretazione di Mario Praz, 2012. 3. Y V E S C I T T O N , Future umanità. Quale avvenire per gli studi umanistici, postfazione di Isabella Mattazzi, 2012.

Finito di stampare nel mese di ottobre 2012 per i tipi della Universal Book srl – Rende ( C S ) per conto di :duepunti edizioni – Palermo