Generazioni Intellettuali. Storia sociale degli allievi della Scuola Normale Superiore di Pisa nel Novecento (1918-1946) [First ed.] 9788876424052

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Generazioni Intellettuali. Storia sociale degli allievi della Scuola Normale Superiore di Pisa nel Novecento (1918-1946) [First ed.]
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LA NORMALE NELLA STORIA 1810-2010

Marco Mondini

Generazioni Intellettuali Storia sociale degli allievi della Scuola Normale Superiore di Pisa nel Novecento (1918-1946)

La presente ricerca è stata realizzata grazie a un contributo della Fondazione Monte dei Paschi di Siena.

© 2010 Scuola Normale Superiore Pisa isbn 978-88-7642-405-2

Sommario

Elenco delle abbreviazioni Introduzione

vii 1

Parte Prima. Gli anni bui Prologo. Smobilitazioni, ritorni e oblio: i normalisti dalla guerra al dopoguerra

15

I. Entrare alla Normale. Reclutamento, selezione e ordinamenti didattici nei primi anni Venti

39

II. Notizie dalla famiglia. Origini sociali e provenienza geografica dei normalisti prima di Gentile 63 III. Vivere alla Scuola Normale 91 1. L’oasi degli studi per una «piccola schiera di gente scelta» 91 2. Gli inermi e gli indifferenti. Il caso Alfieri-Segre e il 1928 alla Normale 105 Parte seconda. I normalisti ai tempi di Gentile I. «Né poveri né ricchi: tutti uguali»

139

II. Vivere alla Normale di Gentile 1. L’ammissione alla nuova Normale 2. Vita pisana. Tra obblighi e studio 3. «E la Normale xè la mia patria…». Lo spirito normalistico tra scambio intellettuale, indisciplina e ironia

167 167 184 201

III. «Avendo sempre in cuore il ricordo degli anni trascorsi...». I normalisti dopo la Normale tra memoria di gruppo e destinazione professionale

219

IV. Attraverso la bufera. I normalisti nel secondo conflitto mondiale

239

Epilogo. «Il triste calvario»: la diaspora e il ritorno

273

Indice dei nomi

307

Elenco delle abbreviazioni

ASNS Archivio Storico della Scuola Normale Superiore di Pisa ACS Archivio Centrale dello Stato in Roma ASLPi Archivio della Segreteria Studenti e Laureati dell’Università di Pisa ASPi Archivio di Stato di Pisa AA Archivio Storico della Scuola Normale Superiore, fondo Anagrafica Allievi (collocazione provvisoria) RA Archivio Storico della Scuola Normale Superiore, Registro degli esami sostenuti dai normalisti (volumi diversi) Cartelle allievi Archivio Storico della Scuola Normale Superiore, fondo Cartelle allievi Elenco 1955 Elenco degli alunni della Scuola Normale Superiore di Pisa dal 1847 al 1955, Pisa 1957 Elenco 1973 Elenco degli alunni della Scuola Normale Superiore di Pisa dal 1847 al 1970, Pisa 1973 Verbali del Consiglio Verbali delle sedute del Consiglio Direttivo della Scuola Normale Superiore dal 1914 all’aprile 1930 Verbali del Consiglio 30-39 Verbali delle sedute del Consiglio Direttivo della Scuola Normale Superiore dall’aprile 1930 al gennaio 1939 Verbali del Consiglio 39-43 Verbali delle sedute del Consiglio Direttivo della Scuola Normale Superiore dall’aprile 1939 al marzo 1943 Verbali del Consiglio 43-49 Verbali delle sedute del Consiglio Direttivo della Scuola Normale Superiore dal novembre 1943 al maggio 1949

Introduzione

Gli studenti universitari sono stati a lungo un soggetto dimenticato negli studi sociali sull’Italia contemporanea. Tenuti a margine dal rinnovamento della storiografia specialistica sulla costruzione e la gestione delle università nell’Italia postunitaria, (che ha privilegiato una prospettiva istituzionale fatta di cronistorie delle facoltà, biografie dei grandi cattedratici, sviluppo delle discipline e analisi della militanza politica e dei gruppi di potere)1, gli studenti sono comparsi raramente, attori di nicchia anche nei volumi monografici dedicati ai singoli atenei2. Perlopiù, ci si è accorti di loro come protagonisti di un associazionismo legato alla militanza patriottica risorgimentale, come elementi irregolari della vita urbana o come professionisti in fieri. Un insieme di approcci che ha fortemente depotenziato lo studio dello studente «per sé», l’analisi del campo della cultura e dell’autorappresentazione del mondo universitario, la visione delle popolazioni studentesche cittadine in quanto soggetti collettivi dotati di una propria

  G.P. Brizzi, Studenti. Una storia ancora da scrivere, in ‘Gaudeamus igitur’. Studenti e goliardia 1888-1923, Bologna 1995, pp. 9-16, e G. Fois, La ricerca storica sull’università italiana in età contemporanea. Rassegna degli studi, «Annali di storia delle università italiane», 3, 1999, pp. 255-6. 2   Mi riferisco ovviamente alla serie degli «Annali di storia delle università italiane», pubblicati a partire dal 1997. Ma è significativa anche l’impostazione data ai due volumi dedicati dal Centro Interuniversitario per la Storia delle Università italiane (CISUI) ad una rivisitazione complessiva della storia universitaria nella penisola italiana dal Medioevo all’età contemporanea e in cui, a fronte di saggi dedicati agli statuti, alle strutture, ai profili della genesi e dell’evoluzione delle facoltà e della didattica, del reclutamento e delle figure sociali dei docenti, si ritrova un solo saggio dedicato alla popolazione studentesca, limitato al XV secolo: S. Bortolami, Gli studenti delle università italiane: numero, mobilità, distribuzione, vita studentesca dalle origini al XV secolo, in G.P. Brizzi, P. del Negro e A. Romano (edd.), Storia delle Università in Italia, Messina 2007, pp. 323-79. 1

2  Generazioni intellettuali

specifica identità e (con significative ma rare eccezioni) l’indagine sui profili e i percorsi sociali degli studenti3. Non stranamente, nel primo (e unico) saggio di insieme sulla popolazione universitaria dall’Unità ad oggi, è stato il legame con il mondo delle professioni a rappresentare il fuoco della ricerca, nel tentativo di cogliere il nesso tra processo di universitarizzazione e mercato dei lavori titolati; un vasto quadro nazionale il cui esempio metodologico e i cui suggerimenti, purtroppo, non sono realmente mai stati seguiti4. Maggior fortuna, gli studenti l’hanno trovata negli studi che hanno spaziato tra il «maggio radioso» e il Ventennio fascista. Protagonisti della rumorosa mobilitazione interventista del 1915, spina dorsale dell’esercito e, ancora di più, della strutturazione della cultura di guerra in quanto scrittori di testimonianza (e, in misura non minore, in quanto ufficiali coinvolti nei gangli della propaganda), infine reduci e animatori dello squadrismo fascista, gli studenti (va da sé, non solo quelli più anziani, ma anche i giovani e i giovanissimi che la guerra non l’avevano vissuta) furono, anche e forse soprattutto in Italia, gli attori di un conflitto generazionale di portata europea: una sorta di controrivoluzione giovanile in cui la parte più acculturata e organizzata delle nuove generazioni, uscita dalle aule universitarie e ancora mobilitata nella piazza, funse da centro propulsore ed elaboratore di

  Per lo studio dell’associazionismo studentesco tra Otto e Novecento: G. Catoni, I goliardi senesi e il Risorgimento. Dalla guerra del Quarantotto al monumento del Novantatre, Siena 1993; L. Pepe (ed.), Universitari italiani nel Risorgimento, Bologna 2002. Per una prospettiva particolare, legata all’autorappresentazione spettacolare dell’identità giovanile e alla genesi dell’esperienza irripetibile della stagione goliardica cfr. in particolare M. Albera, G. Catoni, I goliardi alla ribalta. Canti e spettacoli studenteschi tra Otto e Novecento, e G. Quagliariello, Il mito dello studente nei periodici e nei numeri unici della goliardia, entrambi in ‘Gaudeamus igitur’, pp. 45-8 e 59-66. Per un caso di studio a proposito del rapporto difficile tra studenti e ordine pubblico nelle Università ottocentesche: D. Zanzotto, Le intemperanze morali della comunità studentesca, «Venetica», 10, 2004, pp. 55-72. Per il legame tra istruzione superiore e professioni, una delle prospettive privilegiate dallo studio delle comunità studentesche. 4  A. Cammelli, A. di Francia, Studenti, università, professioni 1861-1993, in Malatesta (ed.), Storia d’Italia. Annali, 10: I professionisti, Torino 1996, pp. 7-77. Il saggio è poi stato ripreso, con ulteriori indicazioni metodologiche, in A. Cammelli, Contare gli studenti. Statistica e popolazione studentesca dall’Unità ad oggi, «Annali di storia delle università italiane», 4, 2000, pp. 9-23. 3

3  Introduzione

simboli e retoriche pubbliche5. Il legame privilegiato instauratosi, in particolare, tra fascismo e mito della giovinezza, e il ruolo centrale giocato poi all’interno del regime dall’organizzazione totalitaria dei giovani, hanno ispirato, soprattutto negli ultimissimi anni, una vasta rilettura della «generazione fascista» e in particolare della gioventù degli atenei, formata, inquadrata, lusingata come fucina della classe dirigente della nuova Italia6. È notevole, tuttavia, che nelle ricerche condotte sul rapporto tra studenti universitari e fascismo abbia sempre prevalso un approccio di storia politica o, per meglio dire, di storia ‘culto-littoriale’. La «nuova guardia» è stata studiata per la sua capacità di associarsi in quanto militanza di una rivoluzione fascista (apparentemente) sempre in movimento, o come luogo di elaborazione di testi e discorsi mitopoietici a proposito di se stessa quale avanguardia del fascismo vero e dei suoi immancabili destini rinnovatori e imperiali: una prospettiva del tutto legittima, ovviamente, volta a completare l’affascinante affresco di insieme proposto a suo tempo da Emilio Gentile a proposito della via italiana al totalitarismo, ma pur sempre una prospettiva limitante7. In effetti, anche quando la dimensione locale della ricerca l’avrebbe consigliato e permesso, ben pochi sono stati i tentativi di capire e raccontare i giovani goliardi anche al di fuori delle strutture del PNF: di chi erano figli, quale era stato il loro iter scolare, da quale contesto socio-geografico provenivano, come erano arrivati all’università e quale strada professionale avrebbero poi preso (o avrebbero voluto prendere) i giovani universitari italiani tra le due guerre8? Questo libro vuole essere, in primo luogo, una risposta ad un tale in-

  Alcune delle letture più stimolanti a proposito di giovane generazione e mobilitazione politica nel primo dopoguerra italiano in B. Wanrooij, Mobilitazione, modernizzazione, tradizione, in G. Sabbatucci, V. Vidotto (edd.), Storia d’Italia, 4: Guerre e fascismo 1914-1943, Roma-Bari 1998, pp. 379-439; P. Dogliani, Storia dei giovani, Milano 2003; A. Gibelli, Il popolo bambino. Infanzia e nazione dalla Grande Guerra a Salò, Torino 2005, specie pp. 181-218. 6   In particolare L. La Rovere, Storia dei GUF. Organizzazione, politica e miti della gioventù universitaria fascista 1919-1943, Torino 2003, e S. Duranti, Lo spirito gregario. I gruppi universitari fascisti tra politica e propaganda (1930-1940), Roma 2008. 7   Il riferimento, naturalmente, è a E. Gentile, Il culto del littorio. La sacralizzazione della politica nell’Italia fascista, Roma-Bari 1995. 8   Si veda ad esempio S. Salaustri, Gli universitari bolognesi tra le due guerre (19191943), Bologna 2009. 5

4  Generazioni intellettuali

terrogativo. Una risposta marcata da un certo grado di provvisorietà, certo, per via delle dimensioni ristrette dell’oggetto preso in esame: gli allievi ordinari della Scuola Normale Superiore tra il primo e il secondo dopoguerra, vale a dire un piccolo insieme di poco più di 400 studenti, rigorosamente selezionati per merito e formatisi in un istituto del tutto eccentrico rispetto al sistema dell’istruzione superiore nazionale. Per quanto la Scuola Normale fosse già allora (come ancora oggi del resto) l’unico istituto di istruzione superiore nella penisola con una vocazione dichiaratamente nazionale, e per quanto (come si vedrà) i suoi allievi provenissero da una vastissima gamma di condizioni sociali, è perlomeno dubbio che questa piccola comunità di giovani studiosi di talento potessero (e possano ancora oggi) essere considerati rappresentativi dell’intera popolazione universitaria italiana. In effetti, lungi dal rappresentare il cuore del sistema dell’alta formazione, e uno dei gangli vitali del funzionamento della macchina statale, alla pari della casa madre francese, l’École Normale Supérieure di rue d’Ulm, la Scuola Normale Superiore di Pisa non è mai riuscita, sin dal contraddittorio inserimento nel sistema universitario del neonato Regno d’Italia, a conquistare non solo una posizione centrale, ma almeno un ruolo definito; nell’aprile 1862 Pasquale Villari, che sarebbe stato il suo primo illustre direttore, ne aveva proposto la chiusura in considerazione della sua «proverbiale nullità»9. La Scuola pisana avrebbe scontato a lungo le aporie del suo statuto: scuola di formazione e reclutamento di professori liceali o istituto di ricerca scientifica e alta cultura, o tutti e due (e, nel caso, come)? Subalterna dell’ateneo pisano o autonoma e con una propria vocazione didattico-scientifica, e in che rapporto con la rete di scuole normali per la preparazione degli insegnanti sparse nel resto della penisola? Tali contraddizioni e incertezze, protratte a lungo, non potevano non avere conseguenze sul prestigio e il funzionamento della Scuola Normale Superiore. All’alba del XX secolo già si scorgevano i segnali di un inquietante declino che si sarebbe manifestato a cavallo del conflitto mondiale: i concorsi, banditi per un numero ormai ridicolmente basso di posti, venivano sempre più frequentemente disertati dai candidati, sempre più spesso studenti mediocri provenienti quasi esclusivamente dalle province confinanti, attratti solo dalla possibilità

  M. Moretti, La Normale di Pasquale Villari (1862-1865), in D. Menozzi, M. Rosa (edd.), La storia della Scuola Normale in una prospettiva comparata, Pisa 2008, pp. 45-67. 9

5  Introduzione

di risparmiare il costo degli studi superiori. La crescente povertà delle risorse a disposizione e la crisi del mestiere di insegnante a cui avrebbe dovuto indirizzare (un fenomeno caratteristico della più generale «crisi della scuola» nell’Italia di primo Novecento) compromettevano le possibilità di rinascita di un istituto il cui discredito non veniva frenato nemmeno dall’evocazione dei nomi degli ex alunni eccellenti, da Giosuè Carducci in avanti, entrati nel pantheon degli spiriti magni della nazione. Poco importa che, peraltro per motivi del tutto privati, a ridosso della prima guerra mondiale tra gli allievi interni della Scuola entrasse un certo Enrico Fermi, o che, contemporaneamente al degrado progressivo delle sue possibilità economiche, transitassero per i corridoi di Palazzo dei Cavalieri, in qualità di professori interni o temporanei, alcuni dei più bei nomi dell’accademia italiana: la crisi della vocazione di palestra nazionale dei futuri educatori delle classi dirigenti rischiò realmente, ad un certo punto, di relegare la Scuola ad un compito periferico. Fu grazie all’opera di Giovanni Gentile che la Normale conobbe il suo rinascimento, e, pur senza ottenere mai un riconoscimento giuridico all’interno del sistema dei titoli e del reclutamento universitari (integrazione che, peraltro, non conosce nemmeno oggi), conquistò se non altro una posizione di prestigio unanimemente (anche se informalmente) riconosciuta. Antico allievo della Normale alla fine dell’800, Gentile sostenne dapprima la sua vecchia alma mater come ministro, poi, dal 1928, iniziò a gestirla direttamente, come Regio Commissario prima e, dal 1932, come direttore. Attento regista di politiche culturali, oltre che rinomato filosofo, Gentile stava vivendo in quegli anni, nonostante la fama di intellettuale di spicco del regime, la delusione personale di vedere la sua grandiosa riforma della scuola e dell’università (i cui principi hanno informato l’istruzione e la formazione italiane fino ad oggi) «ritoccata», e per molti versi tradita, dai ministri fascisti che l’avevano sostituito al dicastero della Pubblica Istruzione, decisi a smantellarne l’opera per motivi che andavano dalla ricerca di consenso tra i genitori, preoccupati della eccessiva severità dei meccanismi di selezione, alle preoccupazioni per le violente proteste degli studenti universitari10. La Normale di Pisa fu, dunque, per certi versi, l’ultimo baluardo dei principi pedagogici

 J. Charnitzky, Fascismo e scuola. La politica scolastica del regime (1922-1943), Milano 1999 (1996). 10

6  Generazioni intellettuali

che avevano animato i suoi programmi per le scuole e le università. Ma fu anche altro. In primo luogo, il tentativo di ridare slancio e trasformare un istituto in cui si potesse realmente coniugare il rigore degli studi con la promozione del merito, la severità della formazione con il rifiuto del privilegio di censo. Un’antica missione, che aveva permesso al giovane studente siciliano, figlio di una famiglia decaduta, di poter accedere ai livelli più alti dell’istruzione sul continente, e che il filosofo, arrivato ai vertici della carriera accademica e politica, aveva intenzione di rilanciare ed elevare a sistema. Fu grazie a Gentile, alla sua capacità di raccogliere nuove risorse e anche al suo legame personale con Mussolini, che la Normale poté rinascere e rafforzarsi: nuovi finanziamenti, una nuova strategia mediatica, una grandiosa politica edilizia, l’attento reclutamento di nuovi docenti, tra cui alcuni giovani brillanti, attirarono in poco tempo una nuova leva di candidati da tutto il paese. La Normale gentiliana riebbe in poco tempo la fama di centro di studi e di formazione di alto livello e unico nel suo genere, di scuola di rigore e di eccellenza. E, non va dimenticato, di scuola aperta a tutti, purché il merito lo consentisse. Lo studente che, negli anni Venti e Trenta, percorreva spesso centinaia di chilometri per arrivare a Pisa a sostenere le prove di ammissione sapeva di andare incontro a quella che era probabilmente la selezione più élitaria del sistema di istruzione superiore italiano dell’epoca. Ma sapeva anche che, se fosse riuscito vincitore, sarebbe stato ammesso in una comunità intellettuale di qualità indiscutibile, dove le differenze di censo e di provenienza sociale e geografica tendevano a scomparire a favore di una percezione fortemente familistica che comprendeva allievi e maestri. Uniti dalla pratica del convitto, che costringeva studenti e professori ad un’intensa vita collettiva, inquadrati dalle rigorose norme del nuovo statuto, gli allievi interni o «ordinari» (i normalisti a pieno titolo, distinti dai vecchi «alunni esterni» e dai «perfezionandi», figure considerate periferiche rispetto alla vera e propria comunità normalistica) venivano accolti in una sorta di isola felice dello studio: liberati dai bisogni materiali, provvisti di ogni comfort pensabile per un ventenne dell’epoca, si chiedeva loro solamente (si fa per dire) di studiare, e di farlo in un contesto di continuo confronto non solo con gli insegnanti ma anche e soprattutto con i compagni11. Le memorie degli allievi dell’epoca ab-

  Secondo la più consolidata delle tradizioni interne, solo gli allievi ordinari, coloro cioè che hanno passato la rigorosa prova del concorso di ammissione al primo anno (per un piccolo numero di candidati provenienti dai corsi universitari e non 11

7  Introduzione

bondano di riferimenti alle interminabili discussioni a proposito degli argomenti di studio, o di uno dei grandi dibattiti filosofici e letterari che fiorivano in quegli anni, iniziate tra un’ora di lezione e l’altra e continuate spesso fino a tarda notte in una delle camere di Palazzo dei Cavalieri (un’abitudine tipicamente normalistica sopravvissuta fino ad oggi). Furono soprattutto queste pratiche di gruppo a generare nella comunità ormai accresciuta dei giovani normalisti (Gentile ne avrebbe voluti fino a cento) la convinzione di essere un’aristocrazia dello studio destinata a tradursi in un’élite del sapere e a cementare una percezione identitaria che porta oggi a parlare effettivamente di una generazione di allievi, formata da coloro che avevano avuto la fortuna di vivere e lavorare nella Scuola protetta e sostenuta dal ‘Senatore’. I giovani della generazione gentiliana erano accomunati da una condizione anagrafica ma prima ancora da un vissuto e da una serie di riti di passaggio (una «comunanza di impronta» come l’avrebbe definita Marc Bloch) che li distingueva da tutti coloro che non avevano mai goduto di quell’esperienza unica, oltre che, in una certa misura, da coloro che li avevano preceduti, membri della grande famiglia della Normale, secondo i codici retorici interni, ma pur sempre di una Normale diversa: un’altra generazione (e non già una «lunga generazione» fascista), insomma, meno numerosa e meno fortunata (per molti mo-

dai licei, anche agli anni successivi), si possono considerare normalisti a tutti gli effetti. Basandomi sul criterio della selezione concorsuale come prova della volontà di entrare a far parte della Scuola (oltre che come rito di passaggio) ho escluso dalla mia ricerca sia gli alunni della Scuola di Magistero, che per un certo periodo fu annessa alla Normale e che venne chiusa nel 1920, sia, a maggior ragione, i perfezionandi, laureati ammessi a partire dal 1927 per un anno (poi due) di specializzazione e avviamento alla ricerca. Benché più tardi il perfezionamento sia diventato parte integrante della struttura didattica della Scuola, e oggi costituisca il suo corso di dottorato, gli allievi perfezionandi continuano a non essere ritenuti normalisti a pieno titolo. In effetti, oltre a non aver mai sostenuto l’esame di ammissione (al perfezionamento si accede per titoli e colloquio) e a non poter vantare gli anni di rigoroso apprendistato allo studio rappresentato dal doppio lavoro (tra esami in facoltà e seminari interni) manca al perfezionando l’esperienza della vita collegiale, che rappresenta la qualità più tipica della Scuola Normale. Per un lungo lasso di tempo, la grande maggioranza dei perfezionandi fu costituita dai migliori allievi ordinari, scelti dai propri docenti e ricompensati con il privilegio di uno dei rari corsi (remunerati) di specializzazione per scienziati e letterati esistenti in Italia. Fino al 1945, i perfezionandi non allievi ordinari furono rarissimi, un motivo in più per non considerarli nel mio campione di allievi.

8  Generazioni intellettuali

tivi) che in questo libro è stata studiata nel suo segmento finale, dalla Grande Guerra alla metà degli anni Venti12. Ammessi e formatisi secondo il più rigoroso dei metodi, i figli della Scuola gentiliana, sopravvissuti ai duri ritmi di lavoro e agli inflessibili meccanismi di selezione interna (perdere il posto alla Normale degli anni Venti e Trenta era tutt’altro che difficile), avrebbero reciso difficilmente i propri vincoli con la famiglia pisana. I diplomati, una volta chiuso dietro di sé il portone della Carovana, rimanevano comunque fortemente legati al ‘Senatore’ (o ‘piccolo padre’), che per molti sarebbe rimasto a lungo un nume tutelare, oltre che al ricordo della propria stagione studentesca e agli antichi compagni di Classe e di anno. Gentile stesso avrebbe favorito la sopravivenza di reti più o meno formali tra i normalisti dopo la Normale: a lui si deve la fondazione della prima società di alumni e sempre sua fu l’idea, nel 1932, del primo censimento degli ex allievi, un fortunato esperimento, replicato sistematicamente una sola volta negli anni Quaranta, dalla cui documentazione, fortunatamente conservata e casualmente ritrovata pochi anni fa, si può imparare molto sul destino dei normalisti dopo la Normale. In effetti, una prosopografia professionale dei normalisti tra le due guerre mondiali può rivelare risultati a prima vista sorprendenti: iper selezionati e solidamente preparati, gli allievi dell’istituto gestito dal più noto intellettuale del regime erano tutt’altro che destinati compattamente alla carriera accademica, a cui accedevano, spesso con lunghissimi tempi di attesa, meno della metà dei diplomati. Naturalmente, si tratta di un dato solo apparentemente bizzarro, che discende direttamente dall’eccentricità della Scuola in un sistema accademico, allora come oggi, decisamente policentrico. Nonostante le ripetute pressioni nel corso dei decenni (anzi, di un secolo e mezzo) infatti, il diploma della Scuola Normale non ha mai avuto alcun valore giuridico ai fini del reclutamento universitario, e, a partire dai primi anni Venti, ha cessato di averne anche ai fini di quello scolastico. A questo si dovrebbe aggiungere che il prestigio dell’augusto direttore

 M. Bloch, Apologia della storia o Mestiere di storico, Torino 1969 (1949), p. 157. Sul problema della «lunga generazione fascista» cfr. C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza, Torino 2006 (1991), pp. 551-60. Più recentemente, a proposito della questione generazionale durante il fascismo, cfr. M. Degli Innocenti, L’epoca giovane e il fascismo, in A. Varni (ed.), Il mondo giovanile in Italia tra Otto e Novecento, Bologna 1998, pp. 143-177, e Id., L’epoca giovane. Generazioni, fascismo e antifascismo, Lacaita 2002. 12

9  Introduzione

non corrispondeva affatto ad una sua reale egemonia sul meccanismo dei concorsi universitari, almeno fuori da Pisa e da Roma, e anche in queste sedi non senza conflitti. Per quanto ciò possa meravigliare, Gentile fece spesso molta fatica per collocare in cattedra i suoi più stretti discepoli: studiosi di spessore come Luigi Russo e Guido Calogero ottennero una posizione solo dopo molte delusioni. I giovani normalisti potevano tutt’al più sperare in un suo sostegno (in quanto ex ministro) per facilitare l’assegnazione di una buona prima sede come professori di liceo (se riuscivano a vincere il concorso per docenti di ruolo) ma, in definitiva, anche tra anni Venti e Quaranta, aver studiato alla Scuola Normale poteva risultare più controproducente che utile nella giungla localistica dei potentati accademici italiani. È a questo punto che emergono nettamente le clamorose differenze tra Palazzo dei Cavalieri e rue d’Ulm. Nonostante i modelli metodologici e tematici di questo libro siano i lavori sulle dinamiche sociali delle Grandes Écoles nel Novecento, e in modo particolare le grandi analisi proposte da Pierre Bourdieu e dai suoi allievi, Generazioni intellettuali è soprattutto la storia della radicale diversità delle due scuole «sorelle», delle loro possibilità e, soprattutto, del loro status13. La Scuola Normale, persino quella di Gentile, fu tutt’altro che il laboratorio di riproduzione di una «nobiltà di stato». Nella costruzione retorica della sua immagine pubblica, che contraddistinse soprattutto gli anni Trenta, sarebbe dovuta essere la fucina degli educatori della nuova Italia fascista. In pratica, poteva solo fornire ai propri allievi una preparazione più ricca e solida, avviandoli poi a quelle professioni che il ristretto mercato del lavoro intellettuale nazionale offriva. Per certi versi, tuttavia, il suo ruolo fu più prezioso (verrebbe da dire più ‘democratico’), perché, lungi dal richiamare soprattutto figli di professori di liceo, cattedratici e quadri superiori, ammessi in virtù di un curriculum scolastico e di un patrimonio culturale familiare più ricco a priori, per farne

  Il punto di riferimento metodologico rimane ovviamente P. Bourdieu, La noblesse d’état. Grandes écoles et esprit de corps, Paris 1989, ma ho utilizzato con grande profitto anche i lavori di C. Charle, e, in particolare, La République des universitaires, Paris 1994. Un inevitabile termine di raffronto sono state le ricerche avviate in occasione del bicentenario dell’ENS: J.F. Sirinelli (ed.), École Normale Superieure. Le livre du Bicentenaire, Paris 1994, e S. Israël, Les études et la guerre. Les normaliens dans la tormente (1939-1945), Paris 2005. Mi pare superfluo aggiungere che il libro si ispira, come oggetto della ricerca e come impostazione, a Sirinelli, Génération intellectuelle. Khâgneux et normaliens dans l’entre-deux-guerres, Paris 1994. 13

10  Generazioni intellettuali

altrettanti cattedratici e quadri superiori, la Scuola pisana selezionò giovani studenti di talento, ma molto spesso di scarse risorse familiari, per farne buoni professori di scuola superiore e, nei casi più fortunati, anche docenti universitari. Come possiamo essere certi di questa sorprendente capacità della Normale, in un’epoca non certo caratterizzata da forte mobilità sociale e da solide strutture di welfare, di funzionare da trampolino di lancio per la promozione sociale di un numero relativamente alto di giovani? Uno dei vantaggi offerti dall’esistenza di una comunità studentesca così compatta e circoscritta, socialmente oltre che temporalmente, è dato dalle sue necessarie relazioni con la complessa macchina della burocrazia universitaria. Allora come oggi, i normalisti erano anche studenti dell’università di Pisa; questo, oltre a comportare il poco ambito privilegio di lavorare il doppio dei propri (fortunati) colleghi della statale, costringeva l’allievo della Normale a depositare anche doppi incartamenti sulla propria condizione e la propria carriera scolastica, doppie domande in carta bollata, doppie istanze (per gli esami, per la laurea, per l’ottenimento dei certificati). Soprattutto, in virtù della propria estrazione sociale solitamente non elevatissima, i normalisti furono anche intensi fruitori della vasta gamma di sovvenzioni, contributi, borse di studio ed esenzioni dalle tasse (che la Normale dell’epoca non rimborsava) offerti dal complicato ma tutto sommato non ingeneroso sistema di assistenza allo studio messo in piedi negli atenei italiani tra anni Venti e Quaranta. La conseguenza fu l’accumularsi di una notevole mole di documentazione, concernente particolarmente le condizioni economiche della famiglia e la professione dei genitori, depositata presso l’archivio dell’Università di Pisa. Gran parte dei dati di cui sono entrato in possesso e delle elaborazioni statistiche presenti nel libro sono dovute all’analitico quadro offerto da questo vasto e a volte disomogeneo materiale archivistico. Ovviamente, molte delle altre tracce istituzionali della vita studentesca dei quattrocento giovani che costituirono le generazioni normalistiche tra le due guerre provengono dall’archivio storico della stessa Scuola Normale, dai fascicoli personali degli allievi (organizzati per volere dello stesso Gentile e poi conservati con meticolosità) dalle schede personali del censimento del 1932, che mi hanno offerto una visuale inedita sui destini professionali di una popolazione studentesca e dai carteggi degli ex allievi illustri donati nel corso degli anni alla Scuola, efficaci testimoni della persistenza, anche al di fuori delle mura del Palazzo della Carovana, di una rete amicale di sostegno e di scambio intellettuale. Tra i più ricchi archivi della memoria di quegli anni, il carteggio di Delio Cantimori

11  Introduzione

e dei suoi amici ha rappresentato una delle vie privilegiate di accesso non solo alle coordinate della vita studentesca, ai problemi del quotidiano e ai dilemmi della generazione gentiliana, ma anche all’habitus di intellettuali in formazione, impegnati, anche da adulti, nella perpetuazione di un cenacolo culturale costantemente fedele allo spirito del convivio giovanile pisano. Non casualmente, mi sono servito delle molte lettere scambiate tra lo storico romagnolo e i suoi vecchi compagni di studio come filo rosso per unire differenti capitoli e aspetti delle vicende degli allievi (ed ex tali) nel corso di quasi vent’anni di storia, dai problemi attinenti agli esami e alle tesi di laurea fino alla necessità di assicurarsi la generosa protezione di Gentile di fronte ai conflitti con le autorità fasciste. I normalisti degli anni 1920-40 non furono dunque, per la gran parte, degli heritiers il cui destino era di perpetuare «l’inégale represésentation des différentes classes sociales dans l’enseignement supérieur» bensì degli homines novi, figli di famiglie spesso di modesta estrazione, appartenenti alla piccola o piccolissima borghesia impiegatizia dei centri urbani di provincia14. Benché insieme a loro ci fossero anche (rari) figli di accademici o proprietari terrieri, la Scuola pisana funse più da laboratorio di promozione sociale che da sancta sanctorum dell’aristocrazia accademica di sangue e di discendenza. Grazie alle risorse finanziarie messe a disposizione dal regime, alla meritocrazia dei suoi esami di ammissione e alla fama del suo spirito selettivo, la Normale consentì al figlio del piccolo funzionario pubblico, del commesso e magari del maestro o del pensionato di diventare professore ma servì poco al figlio del barone universitario per seguire la strada paterna. Una capacità di favorire le speranze e la mobilità sociale dei giovani di ieri che pare quasi incredibile a chi vive nel’immobile Italia di oggi. Padova - Pisa, giugno 2010 M.M.

  Anche in questo caso, in opposizione evidente al sistema del reclutamento accademico francese studiato da P. Bourdieu, J.C. Passeron, Les heritiers. Les étudiants et la culture, Paris 1964. 14

Generazioni intellettuali è il risultato di quattro anni di ricerche finanziate dalla Scuola Normale Superiore di Pisa, mediante un assegno di ricerca per gli anni 2006-10 e il conferimento di un fondo di ricerca ‘Giovani ricercatori’ cofinanziato dal MIUR per gli anni 2008-10. A Daniele Menozzi, coordinatore del gruppo di lavoro sulla storia della Scuola Normale in età contemporanea, sono grato di avermi sostenuto e consigliato in questo intenso periodo di collaborazione (e di essere stato più di qualche volta indulgente rispetto alla mia tendenza a non concentrarmi completamente sulla stesura del libro). Da Mauro Moretti ho imparato quello che so sulla storia delle università e dei loro studenti; gli devo molto per la consulenza scientifica, la paziente revisione del testo e i lunghi anni di lavoro insieme. Nell’autunno 2006, Gilles Pécout mi ha invitato a soggiornare presso l’ENS di rue d’Ulm in qualità di chercheur invité, un periodo in cui ho lavorato con grande profitto sulla storia comparata delle due istituzioni sorelle. Mentre stavo scrivendo il volume, tra l’ottobre 2009 e il gennaio 2010, Jean-François Chanet mi ha offerto la possibilità di insegnare presso il Dipartimento di storia dell’università di Lille 3 ‘Charles de Gaulle’. I mesi (troppo brevi) trascorsi a Lille sono stati un’esperienza unica, sia per il confronto con fonti e bibliografia francesi sulla storia sociale delle istituzioni universitarie, sia, soprattutto, per il contatto con professori e studenti da cui ho imparato molto. A Jean-François, cui mi lega una forte amicizia e una grande stima, sono grato per tutte le lunghe chiacchierate, gli ottimi consigli e un ragguardevole numero di caffè. Il reperimento e l’utilizzo di molti documenti non sono stati sempre impresa facile: Milletta Sbrilli e Maddalena Taglioli, responsabili dell’Archivio Storico della Scuola Normale Superiore, hanno enormemente agevolato le mie ricerche, pur in un momento di trasloco e riordino degli archivi che ha rallentato non poco, in alcune fasi, lo studio della documentazione. Sono inoltre particolarmente grato a Paolo Pezzino, già prorettore dell’Università di Pisa, per avermi facilitato l’accesso ai fondi archivistici dell’ateneo, e a Ilvo Fabbrini, funzionario della Segreteria studenti e laureati dell’Università di Pisa, che mi ha guidato nella consultazione degli oltre 400 fascicoli personali degli studenti del mio campione conservati nell’archivio di ateneo. Generazioni intellettuali è fondamentalmente la storia dei sogni e dei progetti di alcuni giovani di talento. Lo dedico a Guri Schwarz, amico di molti anni, un altro giovane studioso di talento.

Parte prima

gli anni bui

Prologo Smobilitazioni, ritorni e oblio: i normalisti dalla guerra al dopoguerra

Pieno di commozione, purificato nella fede di Trieste, vi porto l’affetto di un’immensità di anime che nelle sofferenze ed umiliazioni mantennero ed elevarono l’animo loro nella lotta; che per anni ed anni, nel dolore, ebbero sempre la forza di sperare e di lottare e che inginocchiate presso le prore dei primi caccia nostri, benedirono il Dio che li aveva fatti vivere fino ad allora […].

Scriveva così, in una delle ultime lettere inviate ai genitori prima di soccombere all’epidemia di influenza ‘spagnola’, Mario Puosi, sottotenente di vascello in servizio sul cacciatorpediniere ‘Audace’, che aveva avuto la ventura di sbarcare tra i primi italiani a Trieste il 3 novembre 19181. Puosi era uno dei 132 studenti, neo laureati, docenti e dipendenti dell’Università di Pisa deceduti nel corso del primo conflitto mondiale. Benché non morto in combattimento, e nemmeno tecnicamente durante le ostilità, la sua figura di decorato per il brillante comportamento nella campagna navale dell’alto Adriatico, per non parlare dell’alto privilegio di essere tra i ‘conquistatori’ di Trieste, ne facevano un protagonista a pieno titolo della falange dei «martiri sul campo dell’onore» che l’ateneo avrebbe celebrato, dapprima attraverso uno dei tanti «monumenti di carta» dei primi anni Venti preposti al ricordo e al cordoglio, e quindi, di lì a quattro anni, con l’erezione del proprio monumento ai caduti nel cortile della Sapienza2. La lettera di

  I caduti dell’Università di Pisa MCMXV - MCMXVIII, Milano s.d. (ma 1920), pp. 123 e 170. 2   Sulla vicenda del monumento ai caduti dell’Università e per una attenta lettura delle sue vicende rimando a F. Caberlin, La Grande Guerra tra commemorazione e mito: il caso dell’Università di Pisa, colloquio discusso presso la Scuola Normale Superiore, a.a. 2007-08, rel. D. Menozzi. Ringrazio sentitamente l’autore per avermi concesso il dattiloscritto inedito. Per la categoria di «monumento di carta» riferita agli opuscoli celebrativi in memoriam, sia individuali che collettivi, che caratterizzarono 1

16  Generazioni intellettuali

Puosi, raccolta in una silloge di testimonianze, aveva come scopo quello di enfatizzare l’eroismo marziale ma anche l’amore filiale e la devozione nei confronti della famiglia ristretta, e di quella assai più ampia (ma non meno pregnante) della Patria. Ancora di più, tuttavia, questi ultimi pensieri «dei nostri santi compagni» dovevano rappresentare, nelle intenzioni degli estensori della prima pubblicazione celebrativa complessiva dei caduti universitari (altre sarebbero seguite negli anni successivi, accompagnando l’ideazione, l’inaugurazione e la gestione simbolica del monumento), il tassello per il rafforzarsi di un’identità comunitaria tra mondo universitario e famiglie degli scomparsi. Attorno all’ateneo, secondo una dinamica tipica del processo del cordoglio collettivo italiano, si andava insomma generando in quel primo dopoguerra una comunità di lutto familiare allargata, al confine tra la memoria istituzionale e quella tipicamente intima del nucleo parentale o dell’associazione amicale, tra elaborazione personale del lutto e pedagogia patriottica3. Il sottotenente di Vascello Mario Puosi, però, non era stato solo uno studente di matematica dell’Università: faceva parte dell’ammissione del 1914 alla Classe di Scienze della Scuola Normale Superiore, appartenenza che condivideva con un unico altro caduto, il sottotenente dei bersaglieri Gioachino Morelli, ammissione del 1913 alla Classe di Lettere, caduto nel novembre 1915 sul Carso durante i combattimenti finali della terza battaglia dell’Isonzo4. Per i caduti normalistici, tuttavia, non ci sarebbe stata nessuna

l’editoria d’occasione, principalmente nell’Italia degli anni Venti, il riferimento è a O. Janz, Monumenti di carta. Le pubblicazioni in memoria dei caduti della Prima guerra mondiale, in O. Janz, F. Dolci (edd.), Non omnis moriar, Roma 2003, pp. 11-44 e, più sinteticamente, Id., Lutto, famiglia e nazione nel culto dei caduti della prima guerra mondiale in Italia, in O. Janz, L. Klinkhammer, La morte per la patria, Roma pp. 63-79. 3   Cfr. J. Winter, Sites of Memory, Sites of Mourning, Cambridge 1995, specie pp. 29-54, e più recentemente Id. Remembering War. The Great War Between Memory and History in the Twentieth Century, New Haven-London 2006, specie pp. 135 e sgg. 4   I caduti dell’Università di Pisa, p. 13. G. Morelli (Montalto di Castro, 31 luglio 1894 - Zona di Guerra, 2 novembre 1915), ammissione di Lettere del 1913 in qualità di aggregato senza sussidio; M. Puosi (Viareggio, 3 ottobre 1897 - Venezia, 13 novembre 1918), ammissione di Scienze del 1914 in qualità di aggregato e come convittore gratuito nel 1915. Per gli estremi della carriera normalistica il riferimento è Elenco degli alunni della Scuola Normale Superiore dal 1847 al 1955, Pisa s.d. (ma 1957), d’ora in avanti Elenco 1955. In entrambi i casi, l’Elenco segnala solamente che Morelli e Puosi non finirono il corso di studi (nel caso di Puosi è anche indicata erroneamente

17  Prologo

commemorazione ufficiale: nessuna orazione sui combattenti e sui martiri e nessuna lapide a ricordo tra le mura di Palazzo dei Cavalieri. Si trattava di un’assenza alquanto bizzarra considerando che nessun istituto di istruzione del Regno, sia pure il più sperduto liceo di provincia, avrebbe omesso negli anni successivi di onorare gli studenti o ex tali immolatisi nell’ultima guerra del Risorgimento, secondo i dettami di una strategia commemorativa, specificamente rivolta alla gioventù della nuova Italia fascista, che trovava il suo cardine nell’exemplum dato dai giovani eroi della «generazione del Carso»5. Il contributo della Normale alla mobilitazione patriottica era stato, certo, modesto in termini numerici assoluti. Durante l’intero arco temporale 1915-18

come data di scomparsa il 1920). Per una registrazione più dettagliata (ma non esente da errori e lacune) del curriculum normalistico cfr. Registro degli esami sostenuti dai normalisti (d’ora in avanti RA), 1897-1929, 2, ad vocem. 5   Mutuo l’espressione da P. Zunino, L’ideologia del fascismo. Miti, credenze e valori nella stabilizzazione del regime, Bologna 1995, p. 104. Che il territorio della scuola costituisse uno degli spazi istituzionalmente deputati alla celebrazione della guerra lo sottolineava del resto, riferendosi al caso degli ordini inferiori dell’istruzione, già Andrea Fava ormai più di vent’anni fa. Cfr. A. Fava, La guerra a scuola. Propaganda, memoria, rito (1915-1940), in D. Leoni, C. Zadra (edd.), La Grande Guerra. Esperienza, memoria, immagini, Bologna 1986, pp. 685-713. Benché, come è noto, non esista un censimento nazionale capillare dei risultati della stagione monumentale di costruzione del ricordo pubblico del conflitto, e benché i primi tentativi in tal senso abbiano privilegiato quasi esclusivamente i complessi funebri maggiori e i principali gruppi scultorei urbani (cfr. C. Cresti, Architetture e statue per gli eroi. L’Italia dei monumenti ai caduti, Firenze 2006) alcune ricerche più mirate su casi di studio territoriali consentono un apprezzabile sguardo di insieme sulla centralità delle scuole (come peraltro di altri edifici pubblici, quali le caserme) quali luogo di elezione per la collocazione dei monumenti ai caduti. Cfr. in questo senso R. Monteleone, P. Sarasini, I monumenti ai caduti della Grande Guerra, in La Grande Guerra. Esperienze, memorie, immagini, pp. 631-62, per quello che riguarda specificamente il territorio ligure; G. Isola (ed.), La memoria pia. I monumenti ai caduti nell’area trentino tirolese, Trento 1997; C. Brice (ed.), La memoria perduta. I monumenti ai caduti della Grande Guerra a Roma e nel Lazio, Roma 1998; G. Salvagnini, La scultura dei monumenti ai caduti in Toscana, Firenze 1999; G. Trevisan, Memoria della Grande Guerra. I monumenti ai caduti di Verona e provincia, Verona 2005; M. Mangiavacchi, L. Vigni, Lontano dal fronte. Monumenti e ricordi della Grande Guerra nel senese, Siena 2007; C. Rigoni, M. Pregnolato (edd.), La memoria della Prima Guerra Mondiale: il patrimonio storico artistico tra tutela e valorizzazione, Vicenza 2008 (con particolare attenzione alla provincia di Treviso).

18  Generazioni intellettuali

erano stati chiamati alle armi 30 normalisti, tra cui si erano contati, oltre ai due caduti, 10 feriti e 4 prigionieri, una partecipazione che faceva della Normale il fanalino di coda della «classifica dell’onore» tra le 21 Università e i 16 Istituti di Istruzione Superiore (l’Istituto di Studi Superiori di Firenze da solo aveva contato oltre 500 mobilitati e 27 caduti) che componevano il variegato mondo della formazione universitaria e scientifica dell’epoca6. Il paragone con i principali istituti universitari europei è ancora più netto: nel gennaio 1922, il nuovo direttore dell’École Normale di rue d’Ulm, Gustave Lanson, avrebbe ricordato i 239 caduti tra gli 833 normaliens, comprendendovi anche gli ex allievi mobilitati, 107 solo tra le classi in corso, un’ecatombe resa ancora più significativa dal fatto che dei 104 superstiti solo sei fecero ritorno a casa senza aver mai subito ferite significative7. Questo altissimo tasso di perdite, quasi la metà dei richiamati per le classi dei

  Cfr. Ministero della Pubblica Istruzione, Le Università e gli Istituti di istruzioni superiore in Italia durante la guerra. Relazione a S.E. il Ministro della Pubblica istruzione (estratto dal Bollettino Ufficiale n. 10, 4 marzo 1920), Roma 1920, tabb. 6 e 12, pp. 44-50. Il fascicolo statistico venne composto con dati richiesti direttamente alle Università e agli Istituti con circolare del Ministro della Pubblica Istruzione del 20 luglio 1919. Copia della circolare si trova in Archivio Storico Scuola Normale Superiore (ASNS), Ministeriali e Lettere diverse, 1919, da Ministero Pubblica Istruzione a Rettori Università e Direttori Istituti Istruzione Superiore, Università durante la guerra; a margine, glossa a matita recante i dati poi trasmessi al ministero. In tutto, durante la Grande Guerra vennero chiamati alle armi 29.062 studenti delle Università regie e libere, a cui vanno sommati 11.148 studenti degli Istituti di Istruzione Superiore (Istituto di Studi Superiore di Firenze, Accademia Scientifico Letteraria di Milano, Regio Istituto Tecnico Superiore di Milano, Scuola Superiore Politecnica di Napoli, Regia Scuola di Applicazione di Bologna, Regia Scuola di Applicazione di Roma, Politecnico di Torino, Scuola Navale Superiore di Genova, Scuola superiore di medicina veterinaria di Milano, Scuola superiore di medicina veterinaria di Napoli, Scuola superiore di medicina veterinaria di Torino, Scuola Normale Superiore di Pisa, Istituti Clinici di Milano, Scuola universitaria dell’Aquila, Scuola Universitaria di Bari, Scuola Universitaria di Catanzaro). Complessivamente, degli oltre 40.200 studenti mobilitati 1.440 morirono, 789 furono i feriti e più di 1600 i decorati (cfr. ibid., tab. 13, p. 51). 7   Le stime sono tratte da Les anciens élèves et élèves mobilisés dans les services armés en 1914-1918, rapporto compilato da Gustave Lanson, datato 27 gennaio 1922, in J.-F. Sirinelli, Génération intellectuelle. Khâgneux et normaliens dans l’entre deux guerre, Paris 1988, p. 28. 6

19  Prologo

ventenni, una percentuale significativamente più alta di molte altre anche se non di tutte le mobilitazioni universitarie nell’Europa della grande Guerra (il King’s College di Londra perse il 15% dei propri studenti al fronte, ma più della metà degli studenti universitari berlinesi arruolatisi nel 1914 morirono entro il primo di guerra), si spiega con alcune concause tipiche dell’adesione al conflitto della «generazione del 1914»8. Più qualificati culturalmente della media dei loro coetanei, considerati (e auto percepiti) come una vera e propria nobiltà di stato, élite sociale e morale a cui veniva demandata la protezione dei valori fondanti della Repubblica e al contempo gruppo fortemente coeso e solidale, i normaliens affollarono i ranghi degli ufficiali subalterni di complemento fin dalle prime settimane del conflitto, guidando all’assalto plotoni e compagnie di fanteria con l’entusiasmo aggressivo e lo sprezzo del pericolo che caratterizzarono ovunque le prime fasi dei combattimenti sul fronte occidentale, vissute in base al mito vetusto (ma non per questo meno efficace) della guerra breve9. Perlo-

  Per un primo sguardo comparativo sul ruolo delle Università e degli studenti nella mobilitazione totale per il primo conflitto mondiale cfr. E. Fordham, Universities, in J. Winter, J.L. Robert (edd.), Capital Cities at War. Paris, London, Berlin 1914-1919, Cambridge 2007, 2, pp. 235-79. 9   Per un’analisi molto convincente dello spirito di gruppo dei normaliens e delle caratteristiche della loro mobilitazione cfr. G. Gemelli, Normalisti e polytechniciens: la guerra organizzata, in V. Calì, G. Corni e G. Ferrandi (edd.), Gli intellettuali e la Grande Guerra, Bologna 2000, pp. 263-306. A proposito dell’esperienza sul campo di battaglia come prima forma della mobilitazione intellettuale in Francia (e in Gran Bretagna) cfr. C. Prochasson, ’14-’18. Retours d’expériences, Paris 2008, pp. 290305. Che le previsioni sull’andamento e i tempi del conflitto fossero clamorosamente errate, sia tra le fila dell’opinione pubblica sia tra gli esperti degli Stati Maggiori, è un dato ampiamente risaputo (cfr. per una sintesi J.-J. Becker, Prévision des états-major et effondrement des plans, in S. Audoin-Rouzeau, J.-J. Becker, Encyclopédie de la Grande Guerre, Paris 2004, pp. 235-46). Di fatto, nell’estate 1914 non esisteva alcuna previsione attendibile sulla durata della guerra, che veniva calcolata nell’ordine delle settimane e dei mesi. L’incapacità di percepire le conseguenze dell’introduzione delle nuove tecnologie sul campo di battaglia – che pure avevano già dato parzialmente prova di sé durante la guerra di Secessione americana e durante la guerra russogiapponese – era uno dei fattori originari dell’iniziale (e apparentemente alquanto ingenuo) entusiasmo che caratterizzò la mobilitazione dei coscritti nelle aree urbane di Francia, Germania e Gran Bretagna, un fenomeno ridimensionato e sfumato dalla storiografia più recente ma non per questo meno significativo. Cfr. una panoramica 8

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più concentrati proprio nei reggimenti di linea, impiegati secondo le dottrine tattiche dell’assalto frontale elaborate dagli Stati Maggiori nella stagione della «metafisica dell’offensiva» (secondo la sprezzante definizione che ne avrebbe dato Charles de Gaulle), equipaggiati secondo i dettami di una moda marziale romantica ed esposti ai rovinosi successi delle nuove armi difensive, i giovani ufficiali universitari francesi (i normaliens pare più di tutti) pagarono lo scarto traumatico tra la realtà della tecnologia bellica moderna e l’immagine ideale e romantica della guerra di revanche assimilata sui testi di scuola, guidando le proprie unità disposte in ranghi ordinati, sciabola sguainata e pantaloni rossi in bella mostra, secondo una tradizione iconografica che ha finito per rappresentare paradigmaticamente lo iato tra realtà del conflitto e «discorso sul conflitto» nell’estate 191410. Di un simile tributo di sangue, alla Scuola pisana non si poteva assolutamente parlare. In primo luogo, perché la Normale era un istituto molto piccolo alla vigilia della guerra. Volendo considerare solo i normalisti a pieno titolo, non cioè gli studenti universitari che frequentavano la Scuola di Magistero annessa, tra 1915 e 1918 Palazzo dei Cavalieri ospitava non più di una ventina di allievi interni, a cui si dovevano aggiungere trenta «aggregati», con o senza sussidio, che non godevano del vitto e dell’alloggio ma erano tenuti ai medesimi obblighi scolastici; complessivamente, con qualche fluttuazione a seconda delle risorse disponibili, del numero dei laureati e degli eventuali abbandoni, l’intero corpo studentesco della Regia Scuola Normale Superiore in Pisa superava ogni anno di poco le cinquanta unità11. All’interno di questa piccola

generale sull’entrata in guerra in Europa in J.-J. Becker (ed.), Les entrées en guerre en 1914, numero monografico di «Guerres mondiales et conflits contemporains», 179, 1995, pp. 4-174, e inoltre J. Keiger, Britain’s Unione Sacrée in 1914, in J.-J. Becker, S. Audoin-Rouzeau (edd.), Les sociétés européennes et la guerre de 1914-1918, Paris 1990, pp. 39-52, e G. Krumeich, L’entrée en guerre en Allemagne, ibid., pp. 65-74. 10   L’ideologia dell’offensive à outrance condizionò fortemente tutta la conduzione del conflitto da parte francese, con disastrose conseguenze soprattutto nella prima fase della guerra, in particolare per gli ufficiali subalterni, esposti in prima linea e forzati a trascinare con l’esempio i propri uomini, in ottemperanza ad una dottrina ancora largamente eroica del comando. Cfr. J.-J. Becker, S. Audoin-Rouzeau, La France, la Nation, la Guerre 1850-1920, Paris 1995, in specie pp. 250 e sgg. sull’influenza della cultura militare prebellica nell’entourage di Joffre. Inoltre cfr. J. Snyder, The Ideology of the Offensive, Ithaca 1984. 11   Per quanto riguarda le diverse categorie di normalisti presenti fino alla riforma

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comunità, poco più della metà dei 56 i giovani allievi maschi in corso soggetti all’obbligo di leva tra 1914 e 1918, entrati tra gli anni 1911 e 1917 e nati tra il 1892 e il 1900, avrebbe pagato l’«imposta del sangue»: alcuni di loro erano stati richiamati ancora prima dello scoppio della guerra (fino alla classe 1895), in base ad una serie di provvedimenti emanati tra l’estate 1914 e la primavera 1915, con l’entrata nel conflitto ormai decisa e con l’esercito ormai sul piede di guerra, destinati ad annullare molti dei privilegi in materia di congedo provvisorio concessi agli studenti, altri avrebbero raggiunto i propri reparti lasciando la Scuola al secondo o al terzo anno12. La bassa percentuale di incorporati e inviati al fronte (o comunque in servizio) sul totale degli aventi obbligo non deve stupire: per antica consuetudine, una classe di leva perdeva, tra riformati e rivedibili, normalmente la metà dei propri appartenenti, dichiarati inidonei (o parzialmente inidonei e

degli ordinamenti voluta da Giovanni Gentile, si rimanda al cap. II. In base ad una norma stabilita ancora del primo Regolamento della Scuola Normale Superiore (art. 4, capo I, Disposizioni Generali del Regolamento del 1862) ogni anno, il numero di posti complessivamente disponibili, e conseguentemente il numero di posti a concorso per le due Classi di Lettere e Scienze, veniva stabilito con apposito decreto ministeriale, su proposta del Consiglio Direttivo. Per gli anni del conflitto, gli alunni della Normale furono: 53 per l’a.a. 1915-16 (Decreto Ministeriale 16 luglio 1915), 51 per l’a.a. 1916-17 (Decreto Ministeriale 21 luglio 1916), 54 per l’a.a. 1917-18 (Decreto Ministeriale 20 agosto 1917), 54 per l’a.a. 1918-19 (Decreto Ministeriale s.d, ma 11 agosto 1918). 12   Sotto il Regno d’Italia, la chiamata alle armi avveniva al compimento del 20° di età. Durante la guerra, soprattutto dopo alcuni rovesci militari che avevano aumentato drasticamente il bisogno di uomini, la chiamata di alcune classi venne tuttavia anticipata. La classe del 1895 fu chiamata alle armi nel dicembre 1915, invece che dal gennaio successivo. I coscritti del 1899 furono richiamati, addestrati e inviati al fronte durante il 1918, quelli nati nel 1900 furono richiamati ma mai impiegati. Il rinvio della chiamata fino al 26° anno di età per gli studenti universitari o delle scuole tecniche e commerciali superiori venne previsto per la prima volta con l’art. 7 della legge 7 giugno 1875, che lo vincolava inizialmente a coloro che avessero presentato domanda come «volontari di un anno», un istituto sopravvissuto fino al conflitto che prevedeva per il coscritto la possibilità di pagare per ottenere un servizio più breve (solo un anno), in un reparto a scelta, con la possibilità di ottenere alla fine del servizio, e previo esame attitudinale, il grado di ufficiale. Per un puntuale regesto delle normative relative alla coscrizione nell’Italia unita cfr. V. Ilari, Storia del servizio militare, 2: La nazione armata (1870-1918), Roma 1990.

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soggetti ad una successiva visita medica) perlopiù per motivi fisici, uno scotto che l’esercito italiano pagava alle cattive condizioni di salute della popolazione13. Tra i normalisti, nonostante il certificato medico di sana e robusta costituzione fosse obbligatorio per presentarsi all’esame di ammissione, le deficienze fisiche erano all’ordine del giorno, anche se si trattava più spesso di «nevrastenie» e crolli nervosi, certificati dal medico interno o da professionisti compiacenti per giustificare il rinvio degli esami previsti dal piano di studi, e non è dunque strano se di questo gruppo di giovani maschi solo una parte fosse atta alle fatiche del servizio in armi. Va tuttavia ricordato, come termine comparativo, che la parallela mobilitazione degli studenti universitari pisani, di cui i normalisti costituivano un sottogruppo, aveva dato ben altri risultati. Complessivamente, l’Università di Pisa aveva inviato sotto le armi 1484 studenti, a fronte di una popolazione che dai 1051 iscritti del 1915 era passata a 1488 per l’anno accademico 1918-19, un contributo pari a due terzi dell’intero corpo studentesco, con un rapporto di 1/10 per i caduti, approssimativamente pari a quello nazionale (650.000 morti su circa 5.200.000 mobilitati dall’esercito e 145.000 dalla marina)14. Come i «cugini» francesi, e allo stesso modo della gran parte degli altri universitari italiani, i 30 normalisti italiani che vestirono effettivamente la divisa avrebbero prestato servizio come ufficiali di complemento, perlopiù nelle armi combattenti, o della Milizia Territoriale, una posizione quest’ultima che avrebbe potuto in qualche caso esentarli dal fronte vero e proprio, purché non appartenessero alla specialità alpina15. All’inizio della guerra, alcuni studenti

  Un fenomeno rilevato da una consolidata tradizione di statistiche antropometriche militari. Cfr. in genere per questo P. Del Negro, La leva militare in Italia dall’Unità alla Grande Guerra, in Id, Esercito, stato e società, Bologna 1979. Per alcuni dati sulle classi richiamate durante il conflitto, cfr. L’esercito italiano nella Grande Guerra (19151918), 1 bis, Allegati, tab. 5 p. 12, «Gettito delle classi di leva dal 1871 al 1895». 14   Dati ottenuti incrociando Le Università e gli istituti di istruzione superiore in Italia, tab. 6 p. 44, e Annuario della Regia Università di Pisa a.a. 1914-1915, Pisa 1914; Annuario della Regia Università di Pisa a.a. 1915-16, Pisa 1916; Annuario della Regia Università di Pisa a.a. 1918-19, Pisa 1919. Le cifre relative a mobilitati e morti sono forzatamente approssimative, essendo ancora oggi impossibile stabilire con certezza alcuni dati. Per un’aggiornata e sintetica riflessione in materia rimando a G. Rochat, La forza alle armi, in M. Isnenghi, D. Ceschin (edd.), Gli italiani in guerra. Conflitti, identità, memorie dal Risorgimento ai giorni nostri, 3/1, Torino 2008, pp. 187-200. 15   In generale, allo scoppio della guerra le classi più giovani (1882-95) confluirono 13

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italiani, ansiosi di arruolarsi, si erano ritrovati a prestare servizio come soldati semplici, come era capitato ad esempio a Paolo Caccia Dominioni (un buon esempio di «volontario» in fuga dalla noia e dagli obblighi dello studio) o a Carlo Emilio Gadda, richiamato con la propria classe e in servizio per due mesi come soldato prima di essere nominato «a domanda» sottotenente nella Milizia Territoriale nell’estate 191516. In altri casi, molto più raramente, gli studenti universitari dei primi anni, specie se di facoltà non tecniche, potevano svolgere un periodo come sottufficiali, ma nella grande maggioranza dei casi, soprattutto dopo il primo anno di guerra, lo status di studente divenne sufficiente per accedere al rango di ufficiali. La penuria di subalterni di complemento di fanteria, falcidiati durante le battaglie di logoramento sul Carso ed esposti a più rischi della media dei soldati, era tale che, a partire dal 1917, la partecipazione ai corsi accelerati per ufficiali di complemento tenuti a Modena e Torino (poi anche a Parma e Caser-

nell’Esercito mobilitato, ossia da mandare al fronte, quelle più anziane (1876-81) nella Milizia territoriale, che avrebbe dovuto garantire il controllo del territorio interno, i presidi delle coste, delle strade e degli impianti strategici e il funzionamento dei servizi. In realtà, tra i quasi 46.000 ufficiali di M.T. nominati tra 1915 e 1918, figuravano anche molti coscritti giovani, spesso esentati dal servizio militare di leva per ragioni di famiglia, che vennero nominati all’inizio direttamente per titoli e merito (normalmente, per censo e titoli universitari), come fu per Gadda (classe 1893), e solo successivamente vennero costretti a seguire un corso di un mese e mezzo, comunque molto più breve dei corsi ‘accelerati’ di tre mesi seguiti dai circa 100.000 ufficiali di complemento delle varie armi. In sostanza, tra le due categorie non esistevano molte differenze nell’impiego – soprattutto per i reparti alpini o di fanteria, in cui gli ufficiali di M.T. venivano impiegati come quelli di complemento in prima linea. Tuttavia, la maggioranza degli ufficiali di M.T., per anzianità, per destinazione casuale o più spesso per raccomandazione, finì per prestare servizio non nell’esercito operante (al fronte) ma nelle retrovie o nell’interno, a cui vennero destinati 108.000 ufficiali e 834.000 soldati. Cfr., per un quadro riassuntivo della posizione e del reclutamento degli ufficiali durante il conflitto, M. Mondini, Ufficiali grigio-verde, in Isnenghi, Ceschin (edd.), Gli italiani in guerra, pp. 201-7. Nell’arco di tutto il conflitto, vennero mobilitati poco più di cinque milioni e duecentomila uomini, 437.000 furono esonerati e se ne dispensò per ragioni di improrogabile necessità 282.000 (impiegati di ministeri e grandi enti, poliziotti, sindaci, ferrovieri, addetti alle comunicazioni, dirigenti e tecnici industriali, agrari, imprenditori). 16  P. Caccia Dominioni, 1915-1919. Diario di guerra, Milano 1993; C.E. Gadda, Giornale di guerra e di prigionia, Milano 1992.

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ta) venne resa obbligatoria per chiunque fosse in possesso di almeno un diploma di scuola superiore, e infine per chiunque fosse almeno iscritto all’ultimo anno di scuola, avendo abbassato il requisito di età da 20 a 18 anni17. In effetti, la moria tra i gradi più bassi dell’ufficialità, per la stragrande maggioranza affidati ai giovani e giovanissimi di complemento, fu una delle caratteristiche dominanti anche per la guerra sul fronte italiano. Dei circa 200.000 ufficiali nominati durante il conflitto nelle diverse categorie, poco meno di 17.000 morirono tra 1915 e 1918. Tra questi, la maggior parte erano subalterni di complemento (forse 12.000), un dato che, benché inferiore alle stime (per molti versi ampiamente ideologiche) emerse tra le due guerre, rende giustizia, almeno parzialmente, al paradigma interpretativo della guerra come avventura dei giovani usciti dalle aule intrisi di idealità risorgimentali e patriottiche che avrebbero guidato alla Vittoria la massa del popolo in armi, in opposizione (piuttosto che in collaborazione) ad un corpo ufficiali di carriera privo di slancio e imboscato nei comandi. Un’immagine che Adolfo Omodeo aveva provveduto a tematizzare nel 1933 e che Piero Pieri avrebbe poi consacrato, enfatizzato (oltre il lecito) e reso quasi scolastica nel fortunato volume del 1965 per Einaudi sulla storia della Grande Guerra, coniando la formula (anch’essa destinata a lunga fortuna) dei «600 mila morti coi 21.000 ufficiali di complemento, fior fiore della nuova classe dirigente, che li avevano guidato al sacrificio»18. In effetti, anche se meno eclatante di quanto si potrebbe immaginare basandosi sulle cifre fornite da Pieri, il sacrificio dei sottotenenti, tenenti e capitani di complemento non deve essere sottovalutato, soprattutto tenendo conto che la percentuale dei caduti non va calcolata sull’insieme del corpo ufficiali mobilitato, che rimase perlopiù al sicuro negli alti comandi, nei comandi territoriali e nei servizi di retrovia, ma su quell’aliquota, non superiore alle ottantamila unità, che costituiva il nerbo degli ufficiali combattenti al fronte, un dato che porta il rapporto tra morti e mobilitati nell’insieme dei «figli della borghesia in armi» a 1:7, un sesto dei quali studenti universitari o di Istituti di istruzione superiore. Di fronte a questi dati, appare ancora con maggiore evidenza quanto il ruolo della Normale nell’«ultima guerra del Risorgimento» sia stato

  Ilari, Storia del servizio militare, pp. 454 e sgg.  A. Omodeo, Momenti della vita di guerra. Dai diari e dalle lettere dei caduti 19151918, Torino 1968 (1933); P. Pieri, L’Italia nella prima guerra mondiale (1915-1918), Torino 1965. 17 18

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marginale, come contributo di uomini certamente, ma anche come parte della mobilitazione patriottica. Palazzo dei Cavalieri non fu teatro di nessuna manifestazione interventista (né, ovviamente, neutralista), e non consta che tra gli allievi – al contrario dell’ambiente battagliero e polemico ricordato da Giovanni Gentile nelle sue memorie di allievo ai tempi delle campagne coloniali – vi fosse alcun segno di quel fervore bellicista che fece degli universitari uno degli attori collettivi più violenti e importanti dell’interventismo e in particolare del «maggio radioso»19. È una marginalità significativa, considerando che normalisti erano stati proprio Adolfo Omodeo e Piero Pieri, che dell’intervento dei giovani sarebbero stati cantori. Ma, va aggiunto, Omodeo era stato un allievo atipico e polemico, entrato nel 1908 e andatosene nel 1909, per tornare nella natia Palermo, severamente criticando l’ambiente chiuso e provinciale di Pisa (di cui avrebbe conservato pessimo ricordo ancora negli anni successivi), mentre Pieri era sì un allievo di Gaetano Salvemini (di cui aveva seguito le conferenze di magistero in Normale), dichiarato interventista democratico e pluridecorato ufficiale alpino, ma anche dai suoi (peraltro frammentari) ricordi autobiografici l’esperienza pisana scomparve o finì per essere citata come una stagione di assai deludente memoria20. Forse, l’imma-

  Sul ruolo degli universitari nel gestire la piazza interventista, cfr. B. Vigezzi, Da Giolitti a Salandra, Firenze 1969, pp. 111-200, e ora anche, con più generale riferimento al ruolo dei giovani nella mobilitazione patriottica, E. Papadia, L’apologia del conflitto: la ‘politica giovane’ in età giolittiana, in A. Baravelli (ed.), La violenza politica tra le due guerre mondiali, «Memoria e ricerca», 13, 2003, pp. 17-36; C. Papa, La mobilitazione studentesca nella propaganda di guerra, in D. Rossini (ed.), La propaganda nella grande guerra tra nazionalismi e internazionalismi, Milano 2007, pp. 138-55. Per quello che riguarda l’ambiente della Normale di fronte alle grandi svolte della politica estera nazionale, cfr. gli accenni di Gentile al clima rissoso tra gli studenti negli anni Novanta dell’Ottocento, quando le discussioni si accendevano attorno ai «luttuosi fatti d’Africa» e agli «appassionati dibattiti intorno alla moralità e al valore politico del Crispi», in G. Gentile, La Scuola Normale Superiore di Pisa, in Opere, 40: La nuova scuola media, ed. H.A. Cavallera, Firenze 1988, p. 236. 20   Sul breve periodo pisano di Adolfo Omodeo (1889-1946), ammissione del 1908, e sull’appannarsi del prestigio della Normale dal primo decennio del Novecento, cfr. R. Pertici, Preistoria di Adolfo Omodeo, in Id., Storici italiani del Novecento, Roma 2000 (numero monografico di «Storiografia», 1999), pp. 57-104. Piero Pieri (1892-1979), ammissione del 1912, fece assai raramente riferimento alla sua vita studentesca, in una produzione già di consueto avara di riferimenti personali (cfr. per qualche spunto 19

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gine tramandata dalla scarna memorialistica sulla Normale del primo decennio del secolo deve essere in parte ridimensionata. Proprio in quegli anni, grazie soprattutto all’impulso del direttore Dini e ad una condizione di relativa disponibilità di risorse, alla Scuola migliorarono sensibilmente le condizioni economiche degli allievi, aumentarono i sussidi e il Consiglio Direttivo si attribuì la facoltà di erogare somme straordinarie, ottenute dalle economie di bilancio, a giovani aggregati particolarmente meritevoli, agevolando non poco la condizione di coloro (come il giovane Luigi Russo) che, pur essendo entrati nella graduatoria di merito per l’ammissione, non avevano in prima istanza ottenuto il posto di convittore gratuito21. Tuttavia, questo miglioramento della vita collegiale e il mantenimento, almeno in alcuni settori, di un alto livello dell’offerta formativa (il 1915 vide alternarsi alle conferenze di Magistero, solo per fare un esempio, studiosi del calibro di Gaetano Salvemini per storia, dello stesso Gentile per filosofia, e di Augusto Mancini per la grammatica greca e latina), non contraddicono l’evidente torpore dell’ambiente normalistico rispetto al problema dell’intervento o della neutralità, e la sostanziale apatia con cui la Scuola e i suoi organi istituzionali vissero gli anni del conflitto. Il basso profilo della comunità maschile degli allievi, fatte salve alcune eccezioni individuali (peraltro non tutte dello stesso segno

La nostra guerra tra le Tofane, Vicenza 1968). In una lettera a Guido Quazza del 1963, Pieri ricordava: «Io vi entrai [in Normale] allievo nell’ottobre 1912, dopo essere stato alla Scuola Militare di Modena dal 1° al 5 settembre ed esserne venuto via perché l’insieme non mi pareva troppo intellettuale. Ebbi maestri il Salvemini, Giotto Dainelli, il Flamini. L’ambiente era allora un po’ chiuso, alla Scuola Normale: bravi o bravissimi giovani, ma spesso molto presuntuosi e saccenti e maldicenti, vita un po’ chiusa e pettegola. Ma poi l’ambiente si venne migliorando e credo che ora sia molto cambiato»; Piero Pieri a Guido Quazza, 14 febbraio 1963, cit. in P. Carlucci, Alla Scuola Normale, in L. Boccalatte (ed.), Guido Quazza. L’archivio e la biblioteca come autobiografia, Milano 2008, pp. 105-23: 105. 21  Cfr. Regolamento approvato con R. decreto del 12 ottobre 1908 n. 649, Pisa 1909, artt. 3, 4, e 7, pp. 10-1, in Appendice, Documenti, 1, per il testo degli articoli riguardanti le nuove disposizioni per gli allievi e per l’esame di ammissione. Il regolamento del 1908 costituisce, come ha giustamente sottolineato Paola Carlucci, un deciso spartiacque per le condizioni di vita degli allievi normalistici. L’aumento del sussidio concesso alla prima categoria di aggregati (da 60 a 75 lire mensili) era già stato varato dal Consiglio Direttivo del 14 gennaio 1907. Il sussidio sarebbe stato aumentato di nuovo solo con le modifiche apportate al Regolamento del 1923.

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ideologico: altro «volontario» del 1915 insieme a Piero Pieri, di cui era compagno d’anno e di Classe, fu Lando Ferretti, che nel primo dopoguerra sarebbe stato un nome non da poco del fascismo pisano, e che avrebbe poi percorso un brillante cursus honorum all’interno del fascismo e dei suoi organismi fino alla radiazione nel 1939, in seguito alla sua opposizione pubblica alle leggi razziali e all’alleanza con la Germania) si potrebbe forse imputare anche al progressivo processo di femminilizzazione della Normale22. Ammesse fin dal 1889, le allieve, che avevano diritto alla posizione di aggregate non potendo essere ammesse al convitto, avevano conquistato in effetti sempre maggiore spazio, giungendo a rappresentare, negli anni del conflitto, tra 1914 e 1918, poco meno della metà degli ammessi (27 su 56)23. La crescita della presenza femminile all’interno dell’università era, però, già da anni un fenomeno marcato, tanto che l’esorbitante aumento della popolazione universitaria dall’inizio del conflitto (da 33.850 iscritti nel 1915 a 62.456 nel 1920) è da imputarsi più all’affluenza di maschi (+ 75%), in cerca di motivazioni per evitare la chiamata al fronte o, più verosimilmente, per ottenere più frequenti licenze per motivi di studio, che a quella delle donne (+ 45%) che avrebbero preso il po-

  Lando Ferretti (Pontedera 1895-1977), ammissione di Lettere del 1912. Decorato due volte al Valor Militare, si laureò con una tesi di guerra (solo orale) nell’aprile del 1917. Subito dopo il conflitto aderì al Fascio di combattimento pisano, da cui fu candidato per le elezioni del 1924 per il collegio di Pisa. Laureato anche in legge a Pavia nel 1928, redattore della Gazzetta dello Sport, presidente del CONI dal 1925 al 1928, direttore dell’Ufficio Stampa del capo del governo, fu membro del Consiglio nazionale delle corporazioni e del Gran Consiglio del Fascismo e luogotenente generale della Milizia oltre ad essere, dal 1931 al 1939, presidente del Premio Viareggio. Nel secondo dopoguerra fu parte attiva del MSI e senatore della Repubblica dal 1953 al 1968. Cfr., per i dettagli del suo curriculum di studi, ASNS, Anagrafica Allievi, b. 1, ad vocem (scheda del 1948); per la sua candidatura nel fascismo pisano, durante la scissione del Fascio cittadino, M. Canali, Il dissidentismo fascista. Pisa e il caso Santini 1923-1925, Roma 1983, pp. 53-4; per una rassegna biografica, F. Pettinelli, G. Grassi, Lando Ferretti. Il giornalista di Mussolini, Pontedera 2005. 23   Dati ottenuti incrociando Elenco 1999, Elenco 1955 e Ra 1912-1929. Complessivamente, dal 1889 al 1929, anno in cui fu loro proibito di entrare a seguito della soppressione dell’alunnato esterno, entrarono in Normale 95 allieve, tra ordinarie e di perfezionamento. Su questo cfr. F. Monceri, Le donne alla Scuola Normale (18891929), in E. Fasano Guarini et al. (edd.), Fuori dall’ombre. Studi di storia delle donne nella provincia di Pisa (secc. XIX e XX), Pisa 2006. 22

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sto» dei maschi, e anche all’interno della Normale le allieve aggregate rappresentavano una presenza costante (erano state 15, ad esempio, solo tra l’ammissione del 1910 e quella del 1913, a fronte di 58 ingressi complessivi)24. La guerra, dunque, aumenta le possibilità per le ragazze di ottenere i primi posti della graduatoria, a fronte di una sempre più scarsa partecipazione dei giovani maschi, già alle armi o in attesa di partire e poco propensi ad affrontare le scomodità e le incognite del concorso, come appare evidente dagli elenchi degli ammessi e dalle loro posizioni di merito, ma non genera la presenza femminile in Normale25. In realtà, sembra essere la Normale nel suo complesso, e non solo la comunità degli studenti, a mantenere un basso di tasso di mobilitazione (morale, se non pratica) di fronte all’ «ultima guerra del risorgimento». Un buon riscontro di quello che sembra un atteggiamento tendenzialmente tiepido (persino distaccato a volte) nei confronti degli eventi è quella cronaca della vita normalistica che sono i verbali del Consiglio Direttivo, il massimo organo di gestione della vita amministrativa, didattica e scientifica della Scuola. Riunito a scadenze non sempre fisse, e comunque molto meno frequentemente di oggi (in tutto fu convocato solo dieci volte tra il 1915 e il 1918, nonostante il regolamento originario prescrivesse una seduta per ogni mese dell’anno scolastico), il Consiglio Direttivo dell’età pre-gentiliana, riformato con il regolamento del 1908, era presieduto di diritto dal Rettore dell’Università, e composto dal Direttore della Scuola, dai professori interni e da un professore ordinario per ognuna delle sezioni della Scuola di Magistero annessa alla Normale (sei complessivamente), la cui nomina spettava alle Facoltà. A partire dall’adunanza del 24 giugno 1915, prima seduta del Consiglio a conflitto iniziato, bisogna arrivare fino alla convocazione del 26 novembre per trovare un

  A. Cammelli, A. Di Francia, Studenti, università, professioni (1861-1993), in M. Malatesta (ed.), Storia d’Italia. Annali, 10: I professionisti, pp. 8-77. 25   Le graduatorie di ammissione negli anni della guerra vedono una presenza femminile assolutamente straordinaria: al concorso del 1915, disponibili 5 posti di convittore e due di aggregati, le ragazze occupavano 5 posti su 12 per Lettere e 2 su sei per Scienze, nel 1916, disponibili 4 posti di convittore e due di aggregato, 6 posti su 8 per Lettere e 3 su 8 per Scienze; nel 1917 1 su 2 per Lettere e tre su 8 per Scienze. Cfr. ASNS, Verbali del Consiglio Direttivo dal 1914 al 1929 (d’ora in avanti Verbali del Consiglio), adunanza del 26 novembre 1915, p. 23; adunanza del 29 novembre 1916, p. 35; adunanza del 12 novembre 1917, p. 45. 24

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minimo accenno allo stato di guerra, relativo ad un alunno, Angiolo Benvenuti, «andato sotto le armi», che non ha potuto completare gli esami normalistici, e all’importante norma, proposta dal Consiglio e approvata da una lettera ministeriale, che prevedeva la conservazione del posto di convittore o di aggregato «a quei normalisti che sono stati chiamati a prestare servizio militare»26. Si deve invece arrivare al 7 luglio 1916 per ritrovare il primo indirizzo commemorativo discusso in seno al Consiglio, quando Gabriele Torelli, ordinario di matematica, in memoria del figlio Ruggero, assistente e libero docente in geometria, ex allievo della Scuola, offre di istituire un premio per la migliore memoria di matematica redatta dagli allievi delle ammissioni 1910-2527. Per il resto, le discussioni del Consiglio vertono sui risultati degli esami degli alunni interni, sull’attribuzione degli incarichi per le conferenze della scuola di Magistero, che vengono affidati a professori dell’Università e che costituiscono in quegli anni una delle parti più stimolanti della didattica normalistica, sulla distribuzione dei sussidi agli alunni aggregati, della convocazione degli esami di ammissione e delle risorse ad hoc stanziate dal ministero, delle modifiche intervenute per gli alunni di magistero e, ovviamente, dei bilanci consuntivi e preventivi. In sostanza, la direzione della Normale affronta la condizione di belligeranza solo quando si tratta di rendere pubblica la decisione di permettere agli alunni sotto le armi «per le circostanze eccezionali dell’anno» di spostare in autunno gli esami, di consuetudine obbligatori nella sessione estiva, o per lamentare la cronica insufficienza dei fondi messi a disposizione del ministero a fronte della vertiginosa spinta inflattiva (e della scarsa efficacia di molti provvedimenti di calmiere dei prezzi), un tema quest’ultimo che occupa quasi per intero anche l’altra fonte di ricostruzione della vita normalistica in guerra, la corrispondenza intercorsa tra direzione, altri istituti e uffici ministeriali28. Paragonato al clima intensamente celebrativo e enfaticamente patriottico che contraddistinse le cerimonie pubbliche dell’ateneo pisano durante tutti gli anni del conflitto, con i discorsi inaugurali per l’inizio dell’anno accademico che acquisivano il sapore di una simbolica partecipazione di tutta la popolazione universitaria alla lotta e ai

  Verbali del Consiglio, pp. 24 e 27.   Ibid., pp. 29-30. Ruggero Torelli (Napoli 1884 - Zona di guerra 1915), ammissione di scienze 1901. Volontario, sergente nel 22° Reggimento fanteria, morì per infarto mentre recava un ordine nelle retrovie. 28   Cfr. in particolare ASNS, Ministeriali e lettere diverse, b. 15 (1915-20). 26 27

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lutti degli studenti al fronte, il clima di understatement di Palazzo dei cavalieri non può non stupire29. Ancora più significativo, tuttavia, è il resoconto della prima seduta subito dopo Vittorio Veneto, tenuta il 16 dicembre 1918. Mentre il discorso inaugurale di David Supino all’università era stato perlopiù improntato all’orgogliosa rivendicazione per la conclusione vittoriosa della guerra, e soprattutto al ricordo di tutti i caduti dell’ateneo e al conferimento delle lauree ad honorem, tributo agli studenti immolatisi per la Patria, il Consiglio della Normale si apriva con la comunicazione e le espressioni di cordoglio per la morte, avvenuta il 28 ottobre, di Ulisse Dini, e con la presentazione del suo successore, il matematico Luigi Bianchi30. Il tutto riassunto in una pagina di verbale, a cui seguivano i rapporti sui nuovi membri elettivi del Consiglio, sulla programmazione delle conferenze di magistero per l’anno accademico entrante, sui rapporti con la Société Mathématique de France, che aveva inviato una lettera auspicando il proseguimento dei buoni rapporti tra gli accademici dei due paesi alleati, e sulla concessione di alcuni locali di pertinenza della Scuola alla prefettura per i servizi della mobilitazione. Il maggior spazio del dibattito interno al Consiglio era quindi riservato al concorso di ammissione, che quell’anno veniva indicato come particolarmente negativo per il bassissimo numero di concorrenti e che, in effetti, inaugurò una stagione di forte crisi di vocazioni per la Normale: Si riferisce che gli esami i quali avrebbero dovuto cominciare il 28 ottobre furono poi rimandati a causa delle condizioni sanitarie al giorno 12 novembre successivo. Scarsissimo fu il numero dei concorrenti, come era da aspettarsi nelle condizioni di guerra, poiché la massima parte di quelli che avrebbero potuto iscriversi alla prova appartenevano alle classi chiamate sotto le armi. Si ebbe pertanto, nella classe di Lettere, un solo concorrente, Vittorio Santoli, che risultò approvato con 51/70; nella classe di Scienze invece i concorrenti furono 5, dei quali 2 soli raggiunsero i due terzi dei voti richiesti […] e furono Luigi Fantappiè con 41/50, Fermi Enrico con 45/5031.

L’argomentazione del Consiglio era, come si vedrà più avanti, una

  Per una rassegna dei discorsi inaugurali del rettore Supino tra 1915 e 1918, pubblicati sotto forma di opuscolo, rinvio alle note di Caberlin, La Grande Guerra tra commemorazione e mito, pp. 29 e sgg. del dattiloscritto. 30   Verbali del consiglio direttivo, adunanza del 16 dicembre 1918, p. 53. 31   Ibid., pp. 55-6. 29

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verità solo parziale. La desertificazione dei concorsi di ammissione non poteva attribuirsi esclusivamente alla mobilitazione delle classi più giovani, in primo luogo perché per tutto il conflitto, ad onta della chiamata anticipata di molte classi, si era sempre registrato un numero forse basso ma mai nullo di concorrenti, e poi perché la sempre più ampia partecipazione delle donne rendeva questa lettura del tutto irrealistica: all’interno della dirigenza della Normale, in realtà, proprio il 1918 fu l’occasione per accorgersi che una stagione, quella della prestigiosa Normale in crescita di D’Ancona, e della conservazione del suo ruolo con Dini, era finita, e che l’istituto si apprestava ad attraversare uno dei periodi più difficili della sua esistenza. Nell’immediato, tuttavia, l’anomalia dell’ammissione 1918 sembrava di relativa importanza, anche perché la Scuola avrebbe dovuto utilizzare molte delle sue ormai scarse risorse per far fronte al ritorno degli allievi smobilitati, che avevano il diritto di occupare nuovamente i propri posti. Dei trenta studenti chiamati alle armi, infatti, solo una parte era riuscita a seguire un curriculum più o meno regolare di studi approfittando delle occasionali licenze o di una posizione sufficientemente defilata (magari perché impiegati nei comandi territoriali), mentre altri erano addirittura riusciti a laurearsi durante il conflitto grazie alle tesi orali «di guerra». Molti normalisti avevano approfittato della speciale normativa emanata durante il conflitto e volta a garantire agli studenti richiamati buone possibilità di non recidere traumaticamente ogni legame con lo studio. Con una serie di decreti legge emanati tra il settembre 1915 e il maggio 1919, agli «studenti militari» veniva riconosciuto il diritto di […] a) [essere] iscritti d’ufficio, cioè senza presentazione di apposita domanda, all’anno successivo a quello in cui erano inscritti nell’anno precedente, previo accertamento delle loro condizioni di militari, e indipendentemente dal fatto che essi [abbiano] dato o superato gli esami. Gli studenti così iscritti d’ufficio erano esonerati dall’obbligo della frequenza alle lezioni e alle esercitazioni. b) Che gli studenti militari i quali avessero chiesta ed ottenuta l’immatricolazione ai corsi universitari fossero parimenti esonerati dall’obbligo della frequenza alle lezioni e alle esercitazioni. c) Che gli studenti sotto le armi potessero prorogare il pagamento delle tasse annuali di iscrizione oltre i termini regolamentari […]. d) Che gli studenti sotto le armi potessero concorrere al beneficio della dispensa dalle tasse di immatricolazione, d’iscrizione e della soprattassa d’esame

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indipendentemente dai voti di merito purché comprovassero di appartenere a famiglia di disagiata condizione economica. e) […]. f) Che fossero dispensati dall’obbligo della frequenza alle lezioni e alle esercitazioni anche gli studenti addetti in modo continuativo agli stabilimenti che attendevano alla produzione del materiale di guerra. g) Che i laureandi sotto alle armi avessero la facoltà di omettere la presentazione e la disputa della dissertazione scritta, sostituendola con la discussione orale di un tema che la Commissione esaminatrice avrebbe assegnato loro dieci giorni prima della discussione. Si è inoltre disposto che gli studenti, i quali nelle sessioni ordinarie e straordinarie dell’anno 1914-15 o dell’anno 1915-16 o dell’anno 1916-17 abbiano conseguito il prescritto titolo di studi medi ed abbiano prestato ininterrotto servizio militare, potessero ottenere l’immatricolazione ai corsi universitari con effetto retroattivo, rispettivamente all’anno accademico 1915-16, 1916-17, 1917-1832.

In questo pacchetto di facilitazioni per gli studenti (che al fronte aveva spesso fatto parlare degli universitari come di un gruppo di imboscati privilegiati) i vantaggi più ricercati erano le periodiche licenze per motivi di studio. Più o meno l’equivalente delle «licenze agricole» concesse ai soldati contadini per potersi occupare dei lavori agricoli, le licenze-studio erano assegnate con maggiore frequenza e (pare), almeno dall’inizio del 1918, dopo la stabilizzazione del fronte e l’introduzione di un più regolare sistema di avvicendamento delle unità e dei permessi voluta da Armando Diaz, con una certa generosità (specie per gli ufficiali non impiegati in unità di prima linea), tanto da costringere il Ministero della Guerra a fare pressioni su quello dell’Istruzione affinché, in sede di esami, i militari avessero la precedenza e potessero tornare con celerità ai propri reparti33. Nonostante questi meccanismi, che rendevano non impossibile proseguire in qualche modo gli studi, ad una pattuglia consistente (per gli standard dell’epoca) di normalisti non era stato possibile tenere minimamente il passo con gli obblighi della Scuola. Infatti, mentre lo studente universitario ordinario si era visto annullare per tutta la durata del conflitto ogni obbligo di frequenza, il rango di normalista prevedeva, se non la presenza fisica costante,

  Università e Istituti di istruzione superiore, pp. 7-8.   ASNS, Ministeriali e lettere diverse, b. 15, da Ministero dell’Istruzione a Rettori Università, Studenti militari ammissione agli esami, circolare non datata (ma giugno 1918). 32 33

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almeno la partecipazione agli esami interni. Per alcuni, vuoi perché fatti prigionieri (come Francesco Collotti e Piero Pieri), vuoi perché impegnati nelle unità di prima linea sui fronti più difficili, vuoi perché degenti negli ospedali avanzati, risultò impossibile presentarsi in Normale per due, anche tre anni. La decisione temporaneamente presa dal Consiglio, di conservare il posto agli studenti richiamati, con una sorta di aspettativa straordinaria, andava formalizzata alla fine delle ostilità, trovando un escamotage per permettere agli allievi smobilitati (alcuni dei quali dell’ammissione del 1912, con l’obbligo di laurearsi nel 1916) di concludere gli studi. Il 29 novembre 1918, Bianchi scriveva perciò al Ministero chiedendo la possibilità di riammettere gli allievi nei loro ranghi di convittori e aggregati, permettendo l’avvio di un anno integrativo supplementare, all’interno del quale era fatto obbligo ai riammessi di concludere l’iter degli esami ordinari, preparando nel contempo la tesi di guerra e la memoria per il diploma. Il gruppo degli «studenti militari» (Bortolotti, Cecchini, Giotti, Lordi, Mammana, Collotti, Pieri, Raniolo, Zerbini)34 avrebbe così costituito

  Enea Bortolotti (Roma 1896 - Firenze 1942), ammissione di Scienze del 1913, laurea 1919, dopo un periodo di insegnamento nelle scuole medie approdò alla cattedra di geometria dell’Università di Cagliari; Gino Cecchini (Viareggio 1896 - Calci 1978), ammissione di Scienze del 1914, laurea 1920, fu direttore dell’Osservatorio Astronomico di Torino fino al 1967; Francesco Collotti (Palermo 1897 - Roma 1957), ammissione di Lettere del 1914, prigioniero di guerra rientrò a Pisa solo nel 1919, laurea 1920 e in legge a Messina nel 1930, dopo alcuni anni di insegnamento nelle scuole medie e come incaricato a Messina, approdò nel 1940 a Trieste, dove è considerato tra i fondatori della facoltà di Lettere, di cui fu preside durante la seconda guerra mondiale; Gino Giotti (Firenze 1896-?), ammissione di Scienze del 1914, divenne dirigente dei servizi ottici delle Officine Galileo di Firenze; Luigi Lordi (Atella 1897-?), ammissione di Scienze del 1914, laurea 1920, insegnò analisi alla facoltà di Economia di Napoli; Gabriele Mammana (Enna 1893 - Napoli 1942), ammissione di Scienze del 1913, laurea 1919, insegnò all’Accademia Navale di Livorno, e poi analisi alle Università di Cagliari, Catania e Napoli; Piero Pieri (Sondrio 1893 - Pecetto Torinese 1979), ammissione di Lettere del 1912, laurea 1919, insegnò storia alle università di Napoli, Messina e poi di Torino; Gabriele Raniolo (Ragusa 1895 - Pisa 1962), ammissione di Lettere del 1914, laurea 1920, insegnò alle scuole medie e poi al Ginnasio di Pisa; Almiro Zerbini (Lucca 1889-?), ammissione di Lettere del 1912, di lui si perdono le tracce dopo il 1924, quando fu rappresentante dell’Associazione Nazionale Combattenti e membro del Fascio di Carrara. Della richiesta originaria partita dalla Normale faceva parte anche Puosi, che morì però qualche giorno dopo. 34

34  Generazioni intellettuali

un gruppo a sé, privilegiato come forma di riconoscenza della Patria (e della Scuola) per il servizio prestato in guerra. Le fonti sono abbastanza avare sul perché questi nove allievi avessero un particolare bisogno di essere formalmente riammessi a Palazzo dei Cavalieri. Benché infatti i registri siano abbastanza disordinati per ciò che concerne quegli anni, esistono altri casi di allievi rimasti lontani e inadempienti agli obblighi normalistici a causa della guerra, rientrati poi ben al di là della scadenza naturale del quadriennio di studi e laureatisi con una tesi orale (privilegio, ricordiamolo, ammesso solo per chi fosse stato arruolato e mobilitato continuativamente durante il conflitto): Giovan Battista Pacella (ammissione di Scienze del 1915), Carlo Grabher (ammissione di Lettere del 1915), Renato Gardini (ammissione di Scienze del 1916), furono tutti richiamati, e passarono gran parte del quadriennio previsto lontano dalla Normale; tutti e tre infine si laurearono con tesi di guerra ben oltre la scadenza teorica del loro periodo di permanenza come allievi, senza perdere il rango di normalista35. Non c’è traccia nella corrispondenza intercorsa tra la direzione della Scuola e gli uffici ministeriali di provvedimenti che abbiano sanato più o meno formalmente anche la posizione degli studenti entrati, a differenza dei nove precedenti, a guerra in corso, benché si possa ipotizzare che il provvedimento di conservazione del posto, cui si era giunti nella prima seduta del Consiglio Direttivo dopo l’ingresso in guerra dell’Italia, non fosse stato giudicato automaticamente retroattivo per gli alunni ammessi prima del 1915-16, e che pertanto si fosse provveduto, a ostilità finite, a fare chiarezza sulla posizione degli allievi ormai teoricamente fuori corso (e quindi anche decaduti). Sostanzialmente, dunque, la Normale non fu interessata neanche dalla lenta smobilitazione che contraddistinse il primo anno di pace. Vari problemi di ordine politico internazionale, di prestigio, di timori per l’ordine pubblico e gli equilibri sociali, avevano infatti suggerito al governo Orlando di non dare corso ad una smobilitazione immediata dell’esercito, tanto che nell’estate 1919 solo poche classi anziane di soldati erano già state mandate a casa. Tuttavia, mentre si tenevano nelle caserme e alle armi oltre 1.500.000 uomini (al 1° luglio 1919), quasi 23.000 studenti ancora in uniforme furono concentrati da marzo nelle città sedi universitarie, ricevendo la possibilità di seguire i corsi universitari e dare esami pur continuando formalmente a pre-

 RA 1897-1929, 2, ad vocem.

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stare servizio come ufficiali36. Si trattava di una scelta in linea con i desiderata ministeriali di non far perdere ulteriore tempo e non far subire ulteriori danni alla «generazione del Carso» ma, per altri versi, si trattò anche di un privilegio costoso e inutile: gli studenti ufficiali (largamente in esubero) continuavano a percepire uno stipendio per un lavoro che non facevano più, e inoltre godevano il vantaggio psicologico di presentarsi agli esami in uniforme, assicurandosi risultati eccellenti anche a fronte di un impegno scarso (come emerge da una puntuale memorialistica). Inoltre, fatto non sempre messo in luce, gli studenti ufficiali in divisa, concentrati in alcune delle piazze urbane più riottose del dopoguerra, contribuirono non poco al crescente tasso di violenza politica, scontrandosi soprattutto con i massimalisti e fornendo precocemente l’immagine di un corpo ufficiali impegnato nella contesa pubblica. Una parte di loro, e tra questi anche alcuni normalisti della classe di Scienze, poterono approfittare dei corsi integrativi messi a disposizione dal Ministero con la legge 23 febbraio 1919 per gli studenti di ingegneria, fisica, chimica, biologia e agraria, e volti a colmare le inevitabili lacune accumulate da chi durante il servizio militare non aveva potuto frequentare laboratori o cliniche. I corsi sarebbero sfociati in una sessione supplementare straordinaria (svoltasi tra il 25 ottobre e il 15 novembre 1919) a cui gli studenti avrebbero potuto partecipare con facoltà di dare un numero di esami a piacere, senza nessuna preclusione relativamente all’anno di corso o alla frequenza, un meccanismo che spiega la rapidità della conclusione di alcune carriere normalistiche di scienze, ad esempio quella di Gino Giotti che, assente per l’intero secondo e terzo anno (1915-17), e rientrato in sede solo nella tarda primavera 1918, poté mettersi in pari con i propri obblighi e laurearsi nel dicembre dell’anno successivo. La smobilitazione studentesca, una parte decisamente trascurata ma non per questo meno importante del farraginoso, elefantiaco e mal gestito passaggio del paese dal «piede di guerra al piede di pace», secondo l’espressione di Nitti, ebbe di fatto termine solo nell’estate 1920, in coincidenza con lo smantellamento della maggior parte delle strutture dell’esercito operante, con la drastica riduzione degli organici e con lo scioglimento definitivo delle ultime grandi unità e degli ultimi alti comandi. Anche per la Scuola Normale, il 1920 rappresentò l’atto conclusivo dello stato di guerra, benché alcune soluzioni tem-

 G. Rochat, L’esercito italiano da Vittorio Veneto a Mussolini, Roma-Bari 2006 (1969), pp. 56-7. 36

36  Generazioni intellettuali

poranee (come la discussione delle tesi di guerra orali) siano rimaste valide fino alla primavera successiva e benché, in realtà, nello stesso momento in cui si cancellavano gli ultimi segni dell’emergenza bellica, si manifestassero ormai evidenti i sintomi di ben altri problemi, di risorse e di immagine, che stavano mettendo a rischio la posizione certa, per quanto eccentrica, conservata fino ad allora dalla scuola pisana. In questo frangente, si smarrì anche l’esigenza di solennizzare in qualche modo il passaggio storico rappresentato dal 1915-18 e di celebrare il compimento del processo unitario che Vittorio Veneto avrebbe dovuto simbolizzare e che i caduti, commemorati e pianti come i migliori figli della nazione, avevano reso possibile. Sarebbero passati quarantacinque anni prima che nelle aule di palazzo dei Cavalieri un ex allievo, vicino ma non appartenente alla generazione del Carso, avesse l’opportunità di rievocare, pubblicamente e solennemente, il ruolo dei normalisti anche nella Grande Guerra. Il 28 settembre 1963, durante la cerimonia del 150° di fondazione della Scuola (una data che ebbe per la Normale il significato di una rifondazione, più che di una semplice celebrazione) Giovanni Sansone, ammesso alla classe di Scienze nel 1906 e presidente della Società fra gli ex normalisti, tenne un discorso che suonava come una silloge dei valori fondanti della comunità. Evocando i grandi accademici formatisi nella Scuola, la vita dei giovani alunni, il rapporto di affetto tra professori e studenti, ma anche i tic, le manie e i vezzi della quotidianità collegiale in oltre mezzo secolo, Sansone enfatizzava ancora una volta quel nesso familistico che, secondo una consuetudine consolidata, costituiva la più diffusa tra le forme retoriche atte a restituire l’identità del mondo normalistico: «questi sono i miei ricordi, ma ogni normalista ha i suoi; questi ricordi creano un vincolo di calda affezione alla Scuola, un amore per tutto il passato ed il presente della Normale»37. La celebrazione del suo ruolo nazionale, tuttavia, non poteva essere limitato all’elenco dei grandi uomini di studi che a Pisa si erano formati; nel passaggio conclusivo del suo intervento, Sansone volle così ricordare i meriti dei normalisti in tutti i campi della vita pubblica, non ultimo, ovviamente, l’impegno per il bene della patria sul campo di battaglia:

 G. Sansone, Celebrazione del 150° anniversario, in Annuario della Scuola Normale Superiore di Pisa, 5 (a.a. dal 1941-42 al 1963-64), p. 24. 37

37  Prologo

La Normale invero non ha soltanto creato letterati e scienziati, ma ha preparato uomini che in tempo di guerra hanno preso il loro posto nella difesa della Nazione e che nella vita politica hanno assunto funzioni e responsabilità ad alto livello. Tra i primi ricordo Eugenio Elia Levi, caduto a Cormons nel 1917, Ranieri Bientinesi, Siro Medici, Paolo Michel, Luciano Orlando, Ruggero Torelli caduti sull’Isonzo; Giuseppe Tafani, al Monte Tomba38.

L’elenco dei martiri offerti dalla Scuola non comprendeva nessun allievo in corso durante il conflitto: nei ricordi di Sansone, i caduti erano quelli dei suoi anni, ammessi tra il 1897 e il 1905, e nessun si era premurato di testimoniare, per un’occasione così solenne, anche il contributo della generazione dei ventenni, proprio coloro che, nel panorama nazionale, la guerra l’avevano più desiderata, più combattuta e più sofferta. Si suggellava così, emblematicamente, il significato del primo conflitto mondiale come non luogo della memoria per la Scuola Normale.

  Ibid., p. 27.

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Capitolo I Entrare alla Normale. Reclutamento, selezione e ordinamenti didattici nei primi anni Venti

Chi erano gli allievi che sarebbero entrati alla Normale negli anni successivi alla Grande Guerra? Da dove venivano, per quale motivo giungevano a Pisa? Prima ancora di rispondere a queste domande, è importante sottolineare che l’architettura amministrativa, didattica e scientifica della Scuola Normale era, allora, estremamente diversa da quella relativamente omogenea e semplice dell’era Gentile. Chi si è occupato fino ad oggi della Normale ottocentesca e liberale ha sovente sottolineato come uno dei fattori di debolezza della scuola pisana fosse la sua natura ambigua e irrisolta. La Normale non era propriamente un istituto di alta formazione scientifica né era esclusivamente un luogo di preparazione per insegnanti. Partecipava, in realtà, ad ambedue questi scopi, sanciti nei suoi diversi statuti, proponendosi al contempo come convitto universitario e laboratorio seminariale, che permetteva ai suoi alunni di raggiungere apprezzati risultati nella ricerca, ma anche come ente professionalizzante, che avrebbe dovuto selezionare e licenziare insegnanti delle scuole medie, sua originaria vocazione1. Di questa ancipite natura avevano dato ragione tutti gli

  Questa ambiguità di fondo accompagnava la Normale pisana fin dalle sue origini. Nel 1865, in una relazione presentata al ministro della Pubblica Istruzione, il primo direttore dell’Italia unita, Pasquale Villari, già sottolineava, non senza orgoglio, che la finalizzazione tecnica della Normale non impediva agli allievi di conseguire notevoli risultati negli studi e nella ricerca, tali da metterli in grado di concorrere vittoriosamente alle borse di perfezionamento in patria e all’estero. Che, del resto, la visione villariana di un istituto non strettamente confinato al ruolo di collegio per futuri insegnanti medi abbia influenzato, anche in contraddizione con l’allora ministro Matteucci, la genesi della Normale unitaria è stato chiaramente sottolineato da Moretti, La Normale di Pasquale Villari (1862-1865), pp. 45-68. Sulla rifondazione e le prime mosse della Scuola dopo la nascita del Regno d’Italia cfr. anche M. Berengo, La rifondazione della Scuola Normale nell’età della destra, in Id., Cultura e istituzioni nell’Ottocento italiano, ed. R. Pertici, Bologna 2004, pp. 149-76 (ed. or. del saggio 1992). 1

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statuti succedutisi dalla rinascita della Normale italiana, e ancora il Regolamento del 1908, l’ultimo prima del conflitto mondiale, aveva ribadito che la Scuola aveva per oggetto «[…] 1. di preparare ed abilitare all’insegnamento delle scuole medie; 2. di promuovere con studi di perfezionamento l’alta cultura scientifica e letteraria […]»2. Tale ancipite finalità si rifletteva in una suddivisione fondamentale degli alunni che frequentavano le lezioni impartite dentro Palazzo dei Cavalieri in due gruppi distinti: una «prima categoria» veniva definita come l’insieme di coloro che tendevano a raggiungere tutti e due i fini proposti dalla e nella Scuola (formazione professionale e scientifica), la seconda era composta da coloro che volevano solo conseguire l’abilitazione all’insegnamento e che pertanto frequentavano le esercitazioni e le conferenze tenute presso le due sezioni della Scuola di Magistero (lettere e scienze) annesse alla Normale3. Nonostante la comunione degli spazi, gli alunni di Magistero, mediamente una quindicina all’anno, non si dovevano confondere con i normalisti propriamente detti e infatti, a differenza di questi ultimi, non erano sottoposti né ad una selezione né a obblighi particolarmente rigorosi: non dovevano superare alcun esame per essere ammessi, ma venivano accolti «per semplice iscrizione», a condizione che il loro curriculum rispettasse alcune norme, stabilite dal Consiglio direttivo, e consistenti nel superamento di tutti gli esami del primo biennio di studi universitari con una media minima di 24/30. Alla fine del corso di due anni, che prevedeva anche un tirocinio pratico presso una scuola, gli allievi avrebbero sostenuto un esame davanti ad una commissione presieduta dal direttore della Normale, consistente in una lezione, su una materia tra quelle previste dai programmi delle scuole superiori, e in un

  Regia Scuola Normale Superiore di Pisa, Regolamento approvato con R. Decreto del 12 ottobre 1908 (d’ora in avanti Regolamento 1908), Pisa 1909, art. 1, p. 9. 3   Istituite con regio decreto 8 ottobre 1876, le Scuole di Magistero dovevano essere attivate nelle facoltà di Scienze e in quelle di Lettere al fine di preparare i docenti medi. Secondo la progettazione originaria (che subì alcune modifiche nel corso degli anni) avevano durata biennale, ci si poteva iscrivere alla conclusione dei primi due anni del corso universitario, dopo il conseguimento della licenza universitaria, e richiedeva la partecipazione a corsi di preparazione e ad esercitazioni che avrebbero dovuto mettere in grado gli studenti di acquisire e padroneggiare le tecniche di insegnamento. Sull’esperimento, le mutazioni e (in generale) il clima di diffidenza che accompagnò le Scuole di Magistero fino alla loro abolizione, cfr. A. Santoni Rugiu, Il professore nella scuola italiana, Firenze 1968, pp. 76-135. 2

41  Parte prima.  Capitolo I. Entrare alla Normale

colloquio su una «memoria» presentata dal candidato, alla fine della quale sarebbe stato rilasciato un «diploma di magistero» abilitante. Nonostante l’apporto delle conferenze della Scuola di magistero fosse tutt’altro che irrilevante nel panorama culturale della Normale a cavallo del conflitto mondiale (nel 1916 insegnavano alle «conferenze» di magistero Gaetano Salvemini, Giovanni Gentile e Augusto Mancini), tanto da essere ricordate da qualche antico allievo come la parte più importante della propria esperienza pisana, gli alunni di Magistero conducevano insomma una vita separata dai dalla comunità normalistica, non condividevano la dimensione del convitto e rappresentarono, fino alla soppressione delle sezioni di magistero voluta da Benedetto Croce nel 1920, una sorta di corpo annesso4. Anche dopo la chiusura della scuola di Magistero e l’estinzione della «seconda categoria», tuttavia, il corpo studentesco riunito in Normale era tutt’altro che omogeneo come posizione e privilegi, e sarebbe rimasto diviso in categorie fino all’avvento di Gentile come Regio Commissario, nel 1928, e alla sua radicale riorganizzazione del reclutamento e degli studi. In origine, nel 1862, gli allievi erano di due tipi: convittori, quelli ammessi per concorso alla sezione di Lettere e filosofia, e aggregati, facenti parte della sezione di Scienze. I primi potevano anche essere, a richiesta, a pagamento, qualora il numero dei posti di convittore gratuito, dipendenti dai finanziamenti erogati annualmen-

  Benché generalmente le scuole di Magistero fossero disprezzate come un esperimento fallimentare nella preparazione degli insegnanti, i cicli di lezione svolti in Normale, tenuti da professori della facoltà di Lettere e di Scienze dell’ateneo pisano, nominati annualmente e modestamente retribuiti, contribuivano in effetti non poco alla ricchezza della didattica normalistica. Nella seduta del 16 novembre 1920, il Consiglio Direttivo, su proposta del Direttore Bianchi, aveva espresso voti al Ministero affinché «le conferenze […] naturalmente insite nel carattere dell’Istituto» venissero mantenute (cfr. Verbali del Consiglio, Adunanza del 16/11/1920 pp. 78-9) e a tal proposito anche Bianchi, privatamente, si era lamentato con Gentile del probabile impatto che il loro venir meno avrebbe avuto sulla Normale (cfr. A. Guerragio, P. Nastasi, Gentile e i matematici italiani. Lettere 1907-1943, Torino 1993, p. 117). Nella primavera successiva, il ministro Benedetto Croce avrebbe risposto che, soppresse le conferenze, la Normale avrebbe potuto sostituirle, come previsto dal Regolamento, con «esercitazioni», strutturate sullo stesso modello delle lezioni di magistero ma totalmente a carico dell’istituto, decisione che spinse il Consiglio, alle prese con una gravissima crisi di bilancio, ad accantonare la questione per non trattarla più. Cfr. Verbali del Consiglio, Adunanza del 17 marzo 1921, pp. 81-2. 4

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te dal Ministero e fissati per decreto prima dell’inizio delle prove, non fosse stato sufficiente a consentire l’ingresso di ogni idoneo, mentre agli aggregati più meritevoli, che non potevano usufruire del vitto e dell’alloggio gratuito, era concesso, se disponibile in bilancio, un sussidio. Nel corso delle successive modifiche statutarie, la separazione tra candidati di lettere e scienze decadde, rimanendo inalterata tuttavia, fondamentalmente per ragioni di bilancio, la distinzione tra allievi interni (a titolo gratuito e più raramente a pagamento), che fruivano di tutti privilegi del convitto, e alunni aggregati (con o senza sussidio), che del normalista avevano il titolo e dovevano rispettare gli obblighi, ma che non potevano fruire dei servizi di vitto e alloggio5. L’assegnazione avveniva in base ai risultati dell’esame di ammissione, per cui i primi classificati fino all’esaurimento dei posti messi a disposizione dal decreto ministeriale acquisivano lo status di interno, mentre agli altri non restava che sperare nell’erogazione dei sussidi per aggregati, o nella possibilità, non remota per i più diligenti, di poter transitare nella categoria superiore l’anno successivo in seguito a vacanza dei posti o a particolari benemerenze. Tuttavia la possibilità di entrare alla Normale a era fortemente influenzata anche dal sesso del partecipante. Le donne, infatti, non erano ammesse al convitto – un’istituzione esclusivamente maschile – né esisteva ancora (e non sarebbe esistita fino al secondo dopoguerra) una «sezione femminile»; le studentesse idonee venivano dunque classificate automaticamente come «aggregate», con sussidio, se meritevoli del punteggio più alto. Si trattava di una distinzione mai ufficializzata a livello di statuto e regolamento, ma neanche mai posta in discussione, che creava ovvie disparità di fatto, anche tenendo conto che, nell’immediato primo do-

 Il Regolamento 1908 disponeva infatti per gli alunni della prima categoria (cioè i normalisti reclutati in seguito ad esame): «Art. 3: Nella prima categoria di alunni vi saranno alunni convittori e alunni aggregati. Con decreto ministeriale un alunno potrà passare da convittore ad aggregato e viceversa, quando il direttore della Scuola, sentito il Consiglio direttivo, ne faccia opportuna proposta al Ministero. Art. 4: Gli alunni della prima categoria saranno convittori a pagamento, aggregati con sussidio e aggregati senza sussidio, nel numero che verrà determinato ogni anno con decreto ministeriale. Art. 5: I posti di alunni convittori gratuiti e di aggregati con sussidio saranno assegnati con norme speciali a quelli che si saranno maggiormente distinti negli esami di ammissione alla Scuola o negli studi fatti come alunni della Scuola stessa». Il successivo Regolamento del 1923 non avrebbe fondamentalmente modificato queste disposizioni, salvo per l’ovvia scomparsa del riferimento alle due categorie di allievi. 5

43  Parte prima.  Capitolo I. Entrare alla Normale

poguerra, l’assegno concesso agli aggregati (75 lire mensili per 8 mesi) era considerato molto basso (e comunque lievemente inferiore alle 80 lire mensili pagate da chi avesse voluto beneficiare del convitto a pagamento)6. Questa cifra non permetteva sicuramente sistemazioni confortevoli in un periodo in cui, a seguito dei meccanismi inflattivi innescati dall’economia di guerra, il costo della vita era aumentato a dismisura (a titolo di esempio: nel giugno 1920 il prezzo politico del pane era di 1,50 lire al chilo; lo stipendio mensile di un funzionario pubblico di grado basso oscillava attorno alle 300 lire a seconda delle indennità; lo stipendio annuale di un archivista capo ministeriale era di 4350 lire, comprensive di indennità familiari, quello di uno dei professori interni della Scuola, oscillante tra le 4150 lire e le 5000)7, anche se forse permetteva agi non troppo dissimili dal rigoroso trattamento riservato agli ospiti di Palazzo dei cavalieri, alloggiati al freddo, in camere prive di riscaldamento, senza acqua calda e assuefatti con maggiore o minore rassegnazione a pasti magri8. L’esiguità del contributo concesso agli aggregati, e le condizioni non certo felici delle strutture logistiche della Scuola, erano del resto il riflesso palese di una condizione finanziaria sempre più critica, che accompagnava, e per certi versi concorreva a causare, il rapido declino dell’istituzione, in quanto a prestigio e soprattutto in quanto a capacità di attirare talenti. Anche volendo limitarsi al periodo dell’immediato dopoguerra, l’incongruità della dotazione della Normale (che, vale la pena ricordarlo, si basava pressoché interamente su fondi ministeriali, non potendo ovviamente imporre rette e non godendo all’epoca di rilevanti entrate da speculazioni o interessi su beni immobili) era ben chiara fin dai primissimi mesi della pace. Si può anzi sostenere che

  Regolamento 1908, art. 6, p. 11.  Cfr. Sommario di statistiche italiane 1861-1955, Roma 1958, pp. 204-5. 8   Tra le non molte memorie dell’epoca, il ricordo delle camere fredde (la Normale non ebbe un impianto di riscaldamento fino alla ristrutturazione del 1932) e dei parchi menu postbellici ricorre sovente. Cfr. ad esempio la vivace descrizione, fatta da Enrico Fermi alla propria moglie, del «baccalà alla Normale» e delle camere gelate in L. Fermi, Atomi in famiglia, Milano 1954, pp. 33-7, o gli accenni al palazzo vasariano «bello sì» ma per nulla confortevole in V. Arangio Ruiz, La Scuola Normale Superiore di Pisa dalla riforma Gentile alla carta della scuola, in Annuario della Regia Scuola Normale Superiore, a.a. 1939-40 e 40-41, Pisa 1941, pp. 7-14, in cui si ricorda l’offerta fatta da Gentile nel 1923 di uno stanziamento, risultato insufficiente, per la costruzione di un primo impianto di riscaldamento. 6

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il primo atto ufficiale del Consiglio Direttivo, all’atto della sua convocazione post-bellica (25 gennaio 1919), fosse proprio rilevare, e premurarsi di segnalare al Ministero, come fosse divenuto impossibile mantenere gli alunni convittori per tutto l’anno accademico senza un contributo straordinario (calcolato in 7000 lire) e come, in ogni caso, si rendesse necessario «a cominciare dall’anno venturo, un accrescimento stabile della Dotazione assegnata, che dovrà raggiungere la somma di lire 10.000 giudicandosi tale accrescimento necessario affinché la Scuola possa continuare a funzionare col numero attuale di alunni, per raggiungere interamente i fini che la Scuola si propone»9. Questa richiesta rappresentava l’inizio di un lungo (e non sempre fruttuoso) contenzioso tra la dirigenza della Normale e il Ministero della Pubblica Istruzione, destinato a durare per tutti gli anni Venti: alle pressanti insistenze rivolte a Roma per l’aumento dei trasferimenti statali, e, in via subordinata, degli assegni mensili destinati agli alunni aggregati (che rappresentavano inizialmente, e fino al 1925, un capitolo di spesa a parte, stanziato ad hoc per gli alunni e non dato in disponibilità alla Scuola, che fungeva solo da cassiere), i vari ministri avrebbero risposto ora positivamente, come in quello stesso 1919, con l’accrescimento anche considerevole del budget corrente, ora, come Benedetto Croce nel 1920, facendo orecchie da mercante10. Il meccanismo inflattivo e il conseguente rincaro del costo dei generi di prima necessità, soprattutto alimentari e combustibili necessari al convitto,

  Verbali del Consiglio, seduta del 25 gennaio 1919, p. 61.   Nel 1919 la dotazione annua della Scuola per le spese correnti e didattiche fu aumentata per l’anno in corso di lire 7.000, con la promessa di un successivo contributo di lire 10.000 annue. Un ulteriore contributo straordinario di lire 4000 venne richiesto per le necessità indotte dall’apertura anticipata dell’istituto al fine di far svolgere i corsi di integrazione, e per la necessità di alloggiare gli allievi «complementari», vale a dire i rientrati dal servizio militare che avevano presentato richiesta di completare gli studi normalistici. Cfr. Verbali del Consiglio, seduta del 28 luglio 1919, pp. 63-4. Cfr. inoltre, per ciò che concerne la disperata situazione finanziaria della Scuola nei primi mesi dell’anno, la lettera del 17 marzo 1919 del direttore Luigi Bianchi a Giovanni Gentile, sollecitato a fare pressioni sul Ministero: «In questo mese ritornano tutti i giovani, compresi i militari, che il Ministero ha giustamente confermato quali alunni convittori a posto gratuito. Ma se non ci assicurano i mezzi finanziari come possiamo mantenerli? Sarebbe veramente deplorevole, per dir poco, che si dovesse arrivare alla chiusura del Convitto per mancanza di mezzi […]»; cit. in Guerragio, Nastasi, Gentile e i matematici italiani, p. 114. 9

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45  Parte prima.  Capitolo I. Entrare alla Normale

erano fondamentalmente responsabili dell’incapacità dell’amministrazione di far fronte, con dotazioni cronicamente insufficienti, ai bisogni minimi della popolazione normalistica, con il risultato di inanellare anno dopo anno bilanci preventivi sempre insufficienti in sede di consuntivo: nell’estate 1920, il Consiglio Direttivo annunciava già un deficit di 3000 lire (su un bilancio complessivo annuo che, solo per la voce stipendi, sfiorava le 50.000 lire), per risanare il quale faceva direttamente appello al ministero11. In particolare, ciò che la Pubblica Amministrazione rifiutava costantemente di adeguare era il contributo per gli studenti: non solo esso era cronicamente insufficiente, soprattutto per gli esterni, ma non si permetteva alla Normale di fruirne qualora gli aggregati avessero perso il posto, per rinuncia o demerito. Ma alle spese per il mantenimento degli allievi, della mensa e del personale, si aggiungevano anche quelle relative all’attività scientifica: donazioni di materiale librario impossibili da rendere accessibili per mancanza dei fondi necessari alla catalogazione, abbonamenti alle riviste da interrompere, materiale didattico che non si poteva rimpiazzare, erano alcune delle principali lamentazioni di una Scuola ormai prossima, se non alla chiusura, come sottolineava il suo direttore, certamente all’affievolirsi decisivo delle caratteristiche di ente culturale, oltre che di alloggio per studenti12. La soppressione della Scuola di Magistero, con la perdita di una notevolissima attività didattica gratuita (sette insegnamenti contro i due tenuti dai professori interni previsti in organico), fu certamente un duro colpo inferto alla stabilità della Normale anche sotto questo profilo (ne sono prova le insistenze per il mantenimento delle conferenze), ma, in definitiva, fu la povertà di risorse destinate dalla Pubblica Istruzione a incidere sulla difficoltà di mantenimento, e magari anche di rilancio, dell’attività della Scuola13.

  Verbali del Consiglio, p. 73. L’indice dei prezzi all’ingrosso e del costo della vita, fatto 1913=1, salì rispettivamente da 4,129 e 2,641 per il 1918 a 4,501 e 2,681 per il 1919 a 5,907 e 3,523 per il 1920. Cfr. Sommario di statistiche italiane, p. 172. La dotazione annua della Scuola, nel 1919 (pari a poco più di lire 25.000) era aumentata rapidamente nel corso degli anni fino al bilancio preventivo del 1922-23=lire 80.000. 12   Sulle precarie condizioni della vita culturale della Normale tra 1919 e 1921, soprattutto legate alla stasi del patrimonio librario e all’impossibilità di sostituire il personale, cfr. Verbali del consiglio, pp. 74 e sgg. 13   Le difficoltà incontrate dalla Normale in questi anni non erano limitate solo al mantenimento degli allievi o alle loro attività culturali, ma certo queste preoccupazioni occupavano una parte ampia delle regolari lamentele inviate al Ministero per 11

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Periodiche elargizioni straordinarie, con la promessa di un adeguamento permanente dei capitoli di spesa, ma anche la convinzione di poter rastrellare fondi ulteriori puntando sulla figura, assai raramente presente in verità, del convittore a pagamento, spinsero la Normale, nonostante tutto, ad aumentare il numero di posti a disposizione, anche in considerazione dell’abbandono del palazzo dei Cavalieri da parte dei «complementari» di guerra, e a proporre per il concorso del 1921-22 lo straordinario (per l’epoca) numero di 19 posti a concorso: solo 8 di essi, tuttavia, avrebbero fruito del titolo di convittore gratuito o di esterno con sussidio, secondo una pratica mai utilizzata (e anche in seguito scoraggiata) di prevedere una classifica ‘larga’, premiando con il titolo di esterno senza sussidio allievi che, eventualmente, avrebbero potuto optare per il pagamento del convitto, una soluzione comunque più economica per uno studente non di Pisa che cercare un alloggio e procacciarsi il vitto in città. In realtà, il titolo di «esterno senza sussidio», che fa la sua comparsa negli elenchi degli allievi solo in alcuni anni, era più che una mera onorificenza: lungi dal tentare la strada, onerosa anche se in misura minore rispetto al mantenimento a proprie spese, del convitto a pagamento, la maggior parte degli esterni senza sussidio di quegli anni contava sul fatto che nei concorsi successivi si sarebbero potuti registrare casi di posti da convittore o da aggregato con sussidio non coperti per mancanza di idonei, o che posti al secondo e terzo anno si sarebbero potuti liberare per decadenza di alunni non in pari con gli obblighi normalistici come in effetti capitò con una certa frequenza nel primo dopoguerra (furono dodici gli allievi di cui è registrata la decadenza dal titolo di normalista, per inosservanza degli obblighi o per rinuncia personale, tra 1919 e 1928). Bruno Mosca, che sarebbe poi divenuto il primo perfezionando della Scuola in Lettere, e Francesco Squarcia, entrati all’ammissione del 1920 come esterni, sarebbero ad esempio stati promossi l’anno successivo ad aggregati con sussidio, mentre Tullio Derenzini, che era entrato nel 1924 per Scienze come aggregato con sussidio, grazie alla mancanza di idonei di lettere, nel disastroso concorso del 1926, sarebbe divenuto

l’insufficienza dei fondi messi a disposizione, o anche per il ritardo nell’accredito di assegni promessi: cfr. ASNS, Ministeriali e lettere diverse, f. 1921. Ancora nel febbraio 1922 il Direttivo richiedeva la restituzione alla Scuola delle conferenze di Magistero, nell’ordine di sette insegnamenti (filologia moderna, filologia classica latina e greca, storia, filosofia, fisica, chimica, scienze naturali), senza tuttavia avere risposta.

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convittore interno14. La posizione di un ammesso nella variegata comunità dei normalisti era in effetti estremamente precaria: non solo si rischiava, ovviamente, di uscirne perdendo il posto, ma anche di scalare la graduatoria, di ottenere una collocazione (e dunque un contributo) migliore, o persino, nei casi che i risultati dei più meritevoli coincidessero con avanzi di bilancio, di ottenere contributi straordinari disposti saltuariamente dal Consiglio Direttivo. Tutto ciò, nel bene e nel male, dipendeva però in ultima istanza dalla situazione economica della Scuola che nel corso dei primi anni Venti andò tendenzialmente peggiorando, toccando probabilmente il fondo proprio nel 1921, allorché, nonostante alcune erogazioni eccezionali (tra cui un prestito dell’Università di 10.000 lire, concesso dal Rettore Pinzani per far fronte alle spese di sostentamento dell’istituto che altrimenti non avrebbe potuto chiudere il bilancio) e la promessa di aumenti nelle contribuzioni statali, la dotazione insufficiente e, soprattutto, l’ormai ridicola quota di finanziamento degli assegni agli studenti, provocò la significativa rinuncia di un idoneo aggregato, a causa della borsa troppo bassa. Fu un segnale d’allarme che si aggiungeva all’ormai cronica emorragia di candidati, e soprattutto di candidati di buon livello per la Classe di Lettere, registrata regolarmente dal Consiglio Direttivo nella seduta autunnale dedicata alla ratifica dei risultati del concorso di ammissione; una situazione che indicava una decisa perdita di capacità attrattiva dell’istituto pisano (a fronte di una contemporanea tenuta del settore umanistico nella geografia disciplinare, e di un residuale trend in crescita di iscritti in valori assoluti, del sistema universitario nazionale) per ciò che riguardava soprattutto le disciplina umanistiche e che aveva indotto a formalizzare la prassi di concedere

  Bruno Mosca (1902-83), laureato in Lettere nel 1924, insegnò al liceo Classico di Tivoli e fu preside al Liceo Scientifico di Chieti, prima di transitare nei ruoli degli Ispettori del Ministero della Pubblica istruzione. Francesco Squarcia (1901-70), perse il posto all’inizio del 1924 per non aver passato l’esame di latino scritto; a lungo insegnante di lettere nel liceo classico ‘Maria Luigia’ di Parma, cofondatore e direttore de Il Raccoglitore, supplemento culturale della Gazzetta di Parma, fu animatore nel secondo dopoguerra, insieme ad un altro normalista, Pietro Viola (1914-84), ammissione di Lettere del 1932, della cosiddetta «Officina parmigiana». Tullio Derenzini (1906-?), nato a Fiume, fisico, laureatosi nel 1928, fu dal 1932 assistente di ruolo a Pisa e libero docente dal 1948; fu poi ordinario all’Accademia Navale di Livorno. Alla sua iniziativa si deve, tra l’altro, il versamento di manoscritti di Fermi all’archivio della Domus Mazziniana di Pisa e il loro parziale riordino. 14

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a Scienze, per non lasciarli vacanti, i posti periodicamente non coperti da idonei di Lettere15. Il segnale non fu lasciato cadere. Dopo aver stigmatizzato questa rinuncia come l’evidente spia di un decadimento della fama della Normale, e aver sottolineato che l’aumento richiesto per i contributi degli allievi avrebbe portato gli assegni mensili da 75 a 150 lire (cifra «ancora ben modesta per le esigenze della vita»), nella seduta del 17 febbraio 1921 il Consiglio «su proposta del Direttore» tornava ad insistere […] dopo la risposta negativa del Ministro del Tesoro a riguardo dell’aumento richiesto degli assegni annui per gli alunni aggregati presso il Ministero dell’Istruzione, mentre si ringrazia per aver questo sostenuto al Tesoro la validità delle ragioni da noi ampiamente esposte, perché siano queste finalmente riconosciute, altrimenti ne risulterebbe la diminuzione del nostro Istituto in confronto di altri che hanno già provveduto ad elevare notevolmente gli assegni conforme alle nuove esigenze della vita16.

Si trattava, tuttavia, di una battaglia persa nell’immediato; solo uno, ma forse non il meno significativo, degli indicatori che avvertivano della progressiva perdita di importanza della Normale, di cui il direttore Bianchi si sarebbe lamentato a più riprese con Gentile (benché la situazione non sia cambiata radicalmente con l’avvento di quest’ultimo al ministero della Pubblica Istruzione, dopo la formazione del primo governo Mussolini)17. Anche la Normale doveva infatti ricadere, nel 1923, sotto la scure dei pesanti tagli che accompagnarono, per alcuni versi solo in forma virtuale, la profonda revisione della pubblica

  È noto che tra 1915 e 1920 il numero degli iscritti al sistema universitario italiano quasi raddoppiò (da 33.850 unità a 62.456), con un sensibile incremento anche a causa dell’iscrizione universitaria come via di fuga dal servizio militare e che fino al 1923 questo trend non invertì la sua rotta. Complessivamente, gli iscritti al comparto umanistico continuarono a rappresentare in quegli anni circa il 40% del totale. Cfr. Cammelli, Di Francia, Studenti, università, professioni: 1861-1993, pp. 7-77. 16   Verbali del Consiglio, pp. 89 e 91. Il riferimento era all’Istituto di Studi Superiori di Firenze che aveva aumentato le borse di studio dei propri alunni. 17   A causa della povertà delle dotazioni, e delle spartane condizioni di vita offerte dalla Normale, si dovette anche rinunciare in quegli anni agli scambi di allievi con l’estero (nella fattispecie con l’ENS parigina) e ad alcune iniziative come la stampa delle tesi più meritevoli. Cfr. Bianchi a Gentile, 3 luglio 1920, in Guerragio, Nastasi, Gentile e i matematici italiani, pp. 116-7. 15

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amministrazione (non solo quella scolastica) sotto la gestione del ministro delle Finanze De Stefani18. Il consiglio direttivo del 5 giugno prendeva così atto della riduzione del 30% della dotazione annua, confortato dalle rassicurazioni di Armando Carlini, professore alla facoltà di Lettere e molto vicino a Gentile, il quale aveva parlato di un ministro non insensibile alla sua vecchia Scuola; ciò non ostante, l’appello del Consiglio affinché il taglio di bilancio avvenisse escludendo le spese per il mantenimento del convitto (pari ai ¾ del bilancio) rimase inascoltato. Come Gentile ebbe a scrivere alla direzione D’altra parte, debbo fare osservare a V. S. come la proposta di aumento del numero degli alunni convittori per l’anno 1923-24, in considerazione della quale la Scuola ha ritenuto che la sua dotazione non possa subire la riduzione generale del 30%, si appalesi, nell’attuale momento, in contrasto con quelle direttive di rigorosa economia a cui occorre attenersi per impellenti ragioni di pubblica finanza, alle quali debbono cedere, nelle gravi condizioni che il bilancio statale attraversa, tutte quelle esigenze che non abbiano carattere di assoluta ed inderogabile necessità ed urgenza19.

Con un bilancio preventivo ridotto a 56.000 lire complessive, il Consiglio non poteva che abdicare non solo all’aumento ma anche alla conservazione dei posti di convittore, mettendo in previsione un bando per allievi ridotto a soli due posti di alunno interno, per giungere ad un complesso di 14 convittori (quando il tetto massimo negli anni precedenti era stato calcolato in 20), annunciando l’interruzione di molti abbonamenti e serie di acquisti per la biblioteca e ventilando addirittura una chiusura anticipata del convitto. Il Consiglio però non dubita che S.E. il Ministro riconosciuta la giustezza delle ragioni suesposte vorrà con un sussidio straordinario di lire 24.000 reintegrare la dotazione che alla Scuola era nel decorso anno stata assegnata. Prega altresì che il sussidio richiesto venga accordato onde poter bandire il concorso per un numero di posti assai maggiore di quello che richiedono le attuali condizioni di bilancio20.

  Sulla stagione dei profondi tagli, ma ancor più dei mutamenti interni al corpo degli apparati pubblici, cfr. G. Melis, Storia dell’amministrazione italiana, Bologna 1996, pp. 294 e sgg. 19   Gentile a Bianchi, 30 giugno 1923, in ASNS, Ministeriali e lettere diverse, f. 1923. 20   Verbali del Consiglio, p. 105. 18

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Come è noto, il legame particolare tra Gentile e la Normale, di cui di fatto l’allora ministro si proponeva già, seppure molto indirettamente, come nume tutelare, fu decisivo per l’attenuazione dei tagli al bilancio. Se, in un primo momento, Gentile stesso aveva dovuto disilludere le speranze di una revisione della politica dei tagli (e ciò sia in ragione di equità verso gli altri istituti di istruzione superiore, sia in considerazione delle «direttive di rigorosa economia a cui occorre attenersi per impellenti ragioni di pubblica finanza»), ben presto, e per canali presumibilmente informali, era giunta alla direzione la notizia della concessione del sussidio straordinario così pressantemente richiesto, invocato dal consiglio di luglio «con cortese sollecitudine» e destinato, seppure non senza ritardi e difficoltà, a sanare una situazione apparentemente senza soluzione21. La più o meno felice conclusione del delicato passaggio finanziario del 1923 (in realtà il bilancio preventivo di 80.000 lire iniziali era destinato a non essere rispettato, a causa di uno stanziamento ministeriale a copertura dei tagli in realtà inferiore di circa la metà al promesso) permise di risolvere urgentemente la questione dei posti a concorso: invece dei due soli posti preventivati all’inizio dell’anno accademico, in Normale poterono entrare nell’autunno 1923 otto allievi, cinque convittori (tra cui, forse non casualmente, Giovanni Gentile Jr.) e tre aggregati con sussidio22.

  I contatti tra la dirigenza della Normale e Gentile, dal primo dopoguerra alla lunga stagione come commissario e direttore, in cui si evidenzia un ruolo fattivo del filosofo-senatore ben prima dell’assunzione della direzione, sono stati ricostruiti da M. Moretti, Gentile e la Normale di Pisa. In margine ad alcuni studi recenti, in C. Xodo (ed.), L’università che cambia, 1: L’università di ieri. Il Novecento secolo dell’Università. Tra continuità e rottura, Padova 2000, pp. 64-90, e da P. Simoncelli, La Normale di Pisa. Tensioni e consenso (1928-1938), Milano 1998, pp. 15 e sgg. 22   Verbali del Consiglio, p. 107. I convittori dell’ammissione 1923 furono Alberto Caccavelli per Lettere, Gilberto Bernardini, Vicenzo Motta, Giovanni Gentile Jr. e Oddino Nardini per Scienze; aggregati Maria Turiani per Lettere, Mario Tognetti e Pio Santini per Scienze. Alberto Caccavelli (1905-?), laurea in lettere nel 1927, fruì di un anno di perfezionamento nel 1927-28; insegnò nei ginnasi e nei licei statali, fu per anni lettore di lingua italiana alle università di Nancy e di Saragozza, poi preside nei licei e infine ispettore al Ministero della Pubblica Istruzione; Gilberto Bernardini (1906-95), laurea in fisica nel 1927, tra i più importanti fisici nucleari italiani fu, tra l’altro, primo presidente dell’INFN e a lungo direttore della Normale dal 1964 al 1977; Vincenzo Motta (1906-?), laurea in analisi matematica nel 1927, dopo aver 21

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L’anno si chiudeva così con un bilancio positivo e, forse per la prima volta dalla guerra, con una prospettiva di rilancio dell’istituto, sempre in larga parte dipendente dalla posizione di potere di Gentile: sempre del 1923 era infatti il nuovo Regolamento, promulgato su proposta del ministro, che modificava23 quello del 1908. Si trattava di aggiustamenti tutto sommato parziali, derivanti in larga parte dalla necessità di adeguare i testi statutari dell’istituto alla scomparsa della scuola di Magistero, e, dal punta di vista del reclutamento e della suddivisione degli allievi, non sostanziali: tuttavia, il nuovo regolamento risolveva almeno uno dei punti in agenda secondo i desiderata della dirigenza normalistica, con l’adeguamento del sussidio per gli aggregati ad una cifra più vicina ai reali livelli di spesa (lire 200), un dettaglio, certamente, che si era però rivelato alquanto importante, non fosse altro

fruito della borsa Lavagna ed essere stato assistente al Politecnico di Torino, divenne docente al Liceo ‘Gioberti’ della stessa città; Mario Tognetti (1903-?), laureato in matematica nel 1927, dopo il conseguimento della libera docenza passò ad insegnare all’Accademia di Livorno; Oddino Nardini (1905-66), laurea in matematica nel 1927, di lui si sa soltanto che, divenuto docente nelle scuole secondarie, militò nelle file del PSDI, con cui si presentò alle elezioni politiche del 1958 per la camera dei Deputati nella circoscrizione di Firenze-Pistoia, senza venire eletto; Maria Turriani (1906-?), dopo la laurea in lettere nel 1927 fu la prima donna a fruire del perfezionamento in Normale; collaborò con Francesco Arnaldi ad alcune edizioni di opere e insegnò poi al liceo ‘Mamiani’ di Roma; Giovanni Gentile Jr. (1906-42), laurea in fisica nel 1927, fu uno dei primi fisici teorici italiani, e fece parte del nucleo di ricercatori dell’Istituto romano di fisica di via Panisperna; giovanissimo vincitore di un concorso a cattedra tenutosi nel 1937 (concorso che fu poi oggetto di non poche polemiche) morì prematuramente per le conseguenze di una banale infezione. Gentile Jr. arrivò terzo all’ammissione del suo anno riportando il punteggio di 43/60, a pari merito con i letterati Caccavelli e Turriani, un risultato non del tutto lusinghiero, che il direttore Bianchi si sarebbe affrettato a giustificare davanti al senatore-ministro come risultato della peggiore preparazione per le materie scientifiche impartita in un liceo Classico. Cfr., sia per la testimonianza epistolare di Bianchi (che non si dovrebbe esitare a definire alquanto servile) sull’ingegno «pronto e di buone premesse», nonostante alcune evidenti lacune, del giovane Gentile, sia per l’ambiente della Normale dei primi anni Venti e la cerchia di amici creatasi attorno alle figure di Giovanni Jr. e Cantimori (che sarebbe entrato l’anno successivo), P. Simoncelli, Tra Lettere e Scienze. Giovannino Gentile (e Cantimori e Majorana), Firenze 2006, specie pp. 13-26. 23   Regia scuola normale superiore di pisa, Regolamento approvato con R. decreto del 18 gennaio 1923 n. 405, Pisa 1924 (d’ora in avanti Regolamento 1923).

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che per questioni di immagine, nell’incidere sulla perdita di appeal della Normale24. Per il resto, la suddivisione delle categorie di allievi (fatto salvo l’ovvia sparizione della vecchia categoria degli iscritti a Magistero) e l’ordinamento degli studi rimanevano sostanzialmente identici: […] Art. 4 Gli alunni saranno convittori a posto gratuito e convittori a pagamento, aggregati con sussidio e aggregati senza sussidio, nel numero che verrà determinato ogni anno con decreto ministeriale. Art. 5 I posti di alunni convittori gratuiti e di aggregati con sussidio saranno assegnati con norme speciali a quelli che si saranno maggiormente distinti negli esami di ammissione alla Scuola o negli studi fatti come alunni della scuola stessa. […] Art. 7 Il corso della Scuola si compone di due anni di studi preparatorii e di due anni di studi normalistici.

Rimaneva inoltre indicata la possibilità (art. 10, che sostituiva il secondo paragrafo del vecchio articolo 7) di istituire per meriti speciali un quinto anno di studi di perfezionamento, da regolarsi con un sussidio straordinario erogato dal Ministero (o individuato su risparmi derivanti da un minor numero di convittori) su proposta del Consiglio Direttivo. E proprio la formalizzazione di un curriculum di perfezionamento da istituirsi presso la Scuola sarebbe divenuta, di lì a breve, una delle questioni centrali all’ordine del giorno: creare posti permanenti per alunni laureati, pagati per un ulteriore corso di perfezionamento e di ricerca nella propria disciplina, avrebbe infatti significato non solo affidare alla Normale la gestione di un istituto del tutto innovativo in Italia, ma anche convogliare sulla scuola pisana risorse finanziarie aggiuntive, con cui rilanciare l’immagine e il prestigio scientifici appannati. Fu durante la seduta del 21 maggio 1924 che venne per la prima volta dibattuta la «proposta della facoltà di Lettere per l’istituzione di posti di perfezionamento presso la Scuola da conferirsi ad alunni ed a studenti dell’Università già laureati», con la proposta inoltrata al ministero per 4 borse post lauream dal valore complessivo di 12.000 lire25. Gentile, in uno dei suoi ultimi atti da

  Ibid., art. 6, p. 9.   Verbali del Consiglio, p. 110.

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ministro prima del passaggio delle consegne a Casati, avrebbe respinto la proposta, per mancanza di copertura finanziaria, ma la prima risposta negativa non fermò il progetto della dirigenza normalistica e universitaria per la costituzione di una Scuola di perfezionamento con sede alla Normale: nella seduta del 17 marzo 1925 e ancora in quella del 17 novembre, i rappresentanti della facoltà di Scienze, il Rettore, Carlini e Bianchi continuarono a tener vivo il progetto, facendo elaborare anche un primo schema di statuto che, inizialmente bocciato dal Consiglio Superiore dell’ordine universitario (gennaio 1926) sarebbe stato poi rivisto e riproposto nella seduta del 5 maggio di quell’anno come parte di una più complessiva revisione del regolamento della Scuola, con l’inserimento di due nuovi articoli (8 e 9) che avrebbero comportato l’emanazione annuale di bandi per posti di perfezionamento «da concedersi in seguito a concorso nazionale per titoli a laureati da non più di due anni nelle Facoltà di Lettere o Scienze»26. I vincitori dei posti messi a bando, da stabilirsi di anno in anno a seconda dei risultati del concorso precedente, avrebbero usufruito di un sussidio annuale di 3.200 lire, una somma non indifferente per l’epoca, pari al doppio del contributo erogato agli alunni aggregati ed equivalente allo stipendio di un impiegato subalterno o, per rimanere nell’ambito della Normale, pari all’indennità del Vice Direttore27. Alla fine del suo corso di studi, come l’alunno ordinario, che avrebbe ricevuto, previo esame finale, un diploma – privato ormai della funzione abilitante, e svuotato di significato, benché il regolamento (non aggiornato) lo prevedesse ancora come titolo per l’insegnamento nelle scuole medie (art. 11) – il perfezionando avrebbe dovuto sostenere una dissertazione davanti ad una Commissione di nomina direttoriale, dopo la cui discussione, se ritenuta degna di stampa, avrebbe potuto ottenere un diploma (art. 15)28. Vale la pena di notare che sia il diploma normalistico ordinario sia il diploma di

  Ibid., p. 133.   Gli stipendi del personale della Scuola vennero stabiliti dal Regolamento 1923, p. 30. 28  Nel Regolamento 1923 il diploma normalistico veniva citato come «diploma di abilitazione speciale all’insegnamento nelle scuole medie». Ovviamente, questa funzione abilitante della Normale si scontrava con la riforma in atto del reclutamento degli insegnanti medi, che, a partire dal 1924, avrebbero potuto accedere ai ruoli solo attraverso concorsi per esami e titoli, una procedura parificata, nella più complessa architettura della riforma Gentile, all’esame di Stato per le professioni posto al ter26 27

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perfezionamento erano di fatto, nel nuovo sistema universitario gentiliano, titoli privi di valore legale: un duro colpo ad una delle ragioni d’essere della Normale (e non sarebbero mancati tentativi, destinati a fallimento, per far riconoscere al titolo normalistico la stessa validità dell’esame di Stato per l’ammissione alla docenza di ruolo), che si trovava così, in quel torno d’anni, a perdere la sua scomoda, ma ormai accettata, identità di istituto abilitante e di formazione per docenti, senza essere, al contempo, ancora pienamente e solo un istituto di ricerca e perfezionamento scientifico29. La costituzione di un corso di perfezionamento, non sarebbe diventata realtà che nel 1927, ormai alla conclusione della stagione più difficile per la Normale, coincidente con la direzione dello sfortunato Luigi Bianchi, e a poco più di un anno dall’avvento di Gentile come commissario30. Era la tappa di un mutamento non lineare e predeterminato dalla Normale «ancipite», in bilico tra vocazione pedagogica e scientifica, a quella futura: un cambiamento o, meglio, un complesso di cambiamenti, che si configuravano ora come reazione alla crisi finanziaria e alla marginalità dell’istituto nel contesto delle riforme che attraversavano la galassia dell’istruzione pubblica in quegli anni (e, va da sé, soprattutto ‘della riforma’ Gentile) ora come tentativo di adeguare il profilo della Scuola rilanciandone l’immagine di laboratorio per l’alta cultura. Che queste dinamiche convivessero non senza confusione lo si può desumere dal bozzetto divulgativo pubblicato proprio in quel 1924 e da considerarsi, a tutti gli effetti, il primo pamphlet divulgativo normalistico, segno, già di per sé, della necessità di ricreare un’immagine compromessa e di ricostruire la fama di una scuola «già celebre e ora sconosciuta», come l’avrebbe poi apostrofata lo stesso Gentile. Recante l’elenco degli allievi fino a quell’anno accademico, il fascicolo

mine del curriculum universitario. Cfr. J. Charnitzky, Fascismo e scuola. La politica scolastica del regime (1922-1943), Firenze 1996, pp. 127 e sgg. 29   Sulla proposta, ovviamente respinta, di parificare il diploma della Normale all’esame di Stato, cfr. la votazione del Consiglio Direttivo nella seduta del 19 marzo 1925 in Verbali del Consiglio, p. 118. 30   La modifica apportata al Regolamento 1923 dal Regio Decreto 24 febbraio 1927 n. 426 (poi ripreso nelle Modificazioni al regolamento per la Regia Scuola Normale superiore di Pisa, R.D. 20 giugno 1929 n. 1043, cui sarebbero state inserite tutte le non poche modifiche apportate da Gentile come commissario neo nominato) riprendeva (art. 7 bis) testualmente gli artt. 8-9 proposto dal Consiglio Direttivo nel 1926 per la costituzione di una Scuola di perfezionamento.

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era preceduto da una introduzione non firmata in cui si rievocavano le glorie dei normalisti illustri e si tracciava un compendio delle virtù e degli scopi dell’allievo del tempo presente: La Scuola conserva anche oggi le sue direttive tradizionali, quella, cioè, di preparare all’insegnamento nelle scuole medie e quella di promuovere con studi di perfezionamento l’alta cultura scientifica e letteraria. In conformità a questo criterio i normalisti delle due classi devono frequentare, rispettivamente, corsi interni di lingua latina e greca, di lingue moderne e di matematiche, sostenendone alla fine gli esami. Del resto, la stessa convivenza degli alunni di Lettere e di Scienze apre alla mente dei giovani più larghi orizzonti, abituandoli a comprendere studi e problemi, pur fuori dal campo in cui si specializzano. […] Gli alunni si dedicano anche, sotto la direzione dei professori, a speciali lavori scientifici soddisfacendo così al secondo scopo della Scuola. Naturalmente, altri coefficienti contribuiscono a formare lo studioso e il maestro. L’orgoglio di una grande tradizione, e la disciplina che inquadra, senza costringere, ricordando soprattutto al giovane l’obbligo di lavorare e mostrandone la possibilità, in un sistema appena regolato, di vita, i vari mezzi di studio, che gli vengono offerti, senza inutili complicazioni, uniti alla guida vigile e assidua degli insegnanti interni e al suo spontaneo sentimento di speciali doveri, sono garanzia, anche per l’avvenire, che all’elenco gloriosamente iniziatosi con Giosuè Carducci e così degnamente continuato, si aggiungano altri nomi che onorino gli studi e la Patria31.

Che la pubblicità non rispondesse totalmente allo stato delle cose, e che anzi la Normale attraversasse ancora un periodo non facile proprio sul versante del reclutamento, lo dimostrava, nel dicembre dello stesso anno, l’amara considerazione espressa da Bianchi durante una seduta del Consiglio, secondo cui i risultati del concorso di ammissione erano stati «non troppo brillanti e scoraggianti soprattutto per la sezione di lettere»32. Una constatazione non certo limitata all’immediato, che Bianchi aveva condiviso certamente con Gentile il quale, ripubblicando nel 1925 il suo saggio del 1908 sulla Scuola Normale e la preparazione degli insegnanti medi in Italia, avrebbe sottolineato il numero relativamente scarso dei candidati, ben inferiore ai 30/35 del testo originario, e postillato in nota: «diminuito sempre più, stranissimamente, in questi ultimi anni, quantunque l’enorme aumento del

  La Scuola Normale Superiore di Pisa, Pisa 1924, pp. 8-10.   Verbali del Consiglio, p. 115.

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costo della vita abbia fatto sentire sempre più vivamente il bisogno di siffatti collegi per studenti»33. Di questo progressivo e apparentemente non gestibile declino si sarebbe data ragione, in molte stagioni successive, parlando di una Normale forse periferica e impoverita, ma ancora salda per la qualità dei suoi allievi, la Scuola dei «pochi ma buoni», che una narrazione idealtipica, già strutturata nella memorialistica interna, ha contribuito non poco ad alimentare. «Gli studenti erano soltanto 15, quasi tutti di prim’ordine» avrebbe rammentato, in un tardo ricordo degli anni Sessanta, Francesco Arnaldi, vice direttore tra 1924 e 1928: «orgogliosi senza iattanza di se stessi, del passato e del presente della loro Scuola – quando vi arrivai ne era uscito da poco Enrico Fermi – trovammo che andava bene così, con studenti pochi ma buoni, la sua ottima biblioteca, il resto delle attrezzature invecchiato»34. C’è, naturalmente, del vero nel ricordo di una comunità di studenti caratterizzati da individualità di spicco: la Normale del primo dopoguerra è l’istituto di formazione non solo di Enrico Fermi, ma di Luigi Fantappié, Gilberto Bernardini e Giovanni Gentile Jr. per Scienze, di Delio Cantimori e Aldo Capitini per Lettere (per non citare che alcuni tra i più illustri allievi), e prima che Gentile la riorganizzi e ne risollevi le sorti, la Scuola pisana ha ancora la forza di attrarre personalità di notevole levatura, come Vittorio Alfieri, Claudio Baglietto o Umberto Segre, tra i primi (e per molto tempo gli unici) attivisti antifascisti nella generazione «littoria» degli allievi35. Ma, al di là di questo pur notevole incrociarsi di talenti, la realtà della Normale pregentiliana è meglio descritta dal ricorrente refrain con cui, nella seduta autunnale, il Direttore commentava in Consiglio i risultati del concorso di ammissione, sottolineando i «pochi e non ottimi concorrenti» (10 novembre 1926) che raramente raggiungevano il doppio dei posti disponibili, e in alcuni anni erano pari o inferiori alle posizioni messe a bando, una dinamica tipica della classe di Lettere, marcatamente segnata da un’evidente mancanza di

 G. Gentile, La Scuola Normale Superiore di Pisa, in Opere, 40: La nuova scuola media, ed. H.A. Cavallera, Firenze 2003 (1988), pp. 192-250, la citazione è a p. 192. 34  F. Arnaldi, Cronaca della Normale (1928-1933), «Rendiconti della Accademia di Archeologia, Lettere e Belle Arti di Napoli», 44, 1969, pp. 61-70 (ora anche «Normale», 1-2, 2009, pp. 16-22). 35   Per una prima ricognizione sul ruolo di questi allievi il rinvio d’obbligo è a Simoncelli, La Normale di Pisa, e Id., Cantimori, Gentile e la Normale di Pisa, Milano 1994. 33

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attrazione della Scuola, e molto meno rilevata per Scienze, che in più casi usufruì dei posti lasciati liberi. La scarsità di idonei potrebbe anche rassicurare sulla persistente severità delle commissioni giudicatrici nel valutare i candidati, interpretazione che farebbe dell’esame di ammissione un filtro qualitativo tale da rendere i normalisti ammessi veramente una ristretta élite di savants. Tuttavia, va rilevato che un’analisi degli esami d’ammissione suggerisce un’interpretazione meno netta (e consolante). Partiamo da un dato numerico: per la sola Classe di Lettere, dal concorso del 1919 a quello del 1928, vennero messi a bando 59 posti, tra convittori gratuiti ed aggregati con sussidio (gli esterni con sussidio non erano previsti come posti a bando, ma concessi agli idonei meritevoli nelle ultime posizioni della graduatoria), per fruire dei quali si presentarono appena 73 candidati; nello stesso periodo, a fronte di 43 posti disponibili per la Classe di Scienze, 69 furono i candidati (tab. 1). Le prove di ammissione al primo anno del cosiddetto biennio preparatorio vertevano, senza particolari mutamenti tra il regolamento 1908 e 1923, per la classe di Lettere […] 1. in un componimento di italiano 2. in una traduzione dal latino 3. in una traduzione dal greco 4. in un componimento sopra un tema di filosofia elementare o di storia. E la prova orale consisterà 1. nella interpretazione di un classico latino e di un classico greco; 2. in quesiti di storia della letteratura italiana e greca; 3. in quesiti di storia e geografia; 4. in quesiti di logica

Per la classe di Scienze le prove scritte consistevano invece in tre dissertazioni, una di fisica e le altre «sulle matematiche elementari», mentre l’orale avrebbe riguardato «matematica elementare» e fisica36.

  Regolamento 1923, art. 18, pp. 17-8. Va segnalato che all’epoca gli esami di concorso potevano svolgersi sia nella sede di Pisa che presso una Università con ambo le Facoltà di Lettere e Scienze. Gli scritti, una volta terminati, sarebbero stati inviati poi a Pisa per la correzione, mentre l’esame orale veniva svolto davanti alla commissione giudicatrice della sede periferica eventualmente scelta. Stante le difficoltà e i costi dei viaggi, furono molti gli studenti delle sedi più lontane (segnatamente la Sicilia, le 36

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I titoli dei temi di ammissione, conservati spesso in modo saltuario e parziale, testimoniano di una scelta non sempre banale da parte delle commissioni giudicatrici: tracce come Causa della fecondità letteraria del ’500 italiano (ammissione del 1920) oppure Paesaggi e personaggi dell’Inferno dantesco (ammissione del 1921), L’umanità dei beati nel Paradiso dantesco (ammissione del 1924) o Storia e poesia nelle tragedie del Manzoni (ammissione del 1926) riflettevano i programmi scolastici, e trovavano facili rispondenze nella preparazione liceale della media dei candidati, ma temi che richiedevano di stabilire Se e dentro quali limiti si possa accettare il concetto di Foscolo che Dante è il primo degli uomini moderni (ammissione 1925), Logica reale e logica formale: alle ragioni della distinzione. Il candidato aggiunga qualche cenno storico e critico (ammissione 1925), Il candidato commenti uno dei seguenti passi a sua scelta: Gli uomini prima sentono senza avvertire, dappoi avvertono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura (Vico); Dovere! Nome sublime e grande che non contiene niente di piacevole implicante lusinghe, ma desidera la sommissione e tuttavia non minaccia niente donde nasca nell’anima naturale ripugnanza e spavento che muova la volontà […] (Kant) (ammissione del 1924) ponevano allo studente problemi di riflessione critica, oltre che di erudizione, non elementari37. Indipendentemente dall’originalità e dal livello di complessità della traccia, il giudizio degli esaminatori non era tenero. Anche se potevano lasciar passare brani di enfasi retorica da parte degli studenti che celebravano, in omaggio al gusto dell’epoca, la virtù e lo splendore degli uomini magni, non esitavano a stroncare con

regioni meridionali e talvolta Bologna e Padova) a scegliere questa modalità, che non assicurava alcun privilegio (ma neanche nessuno svantaggio) dal punto di vista degli scritti, e qualche facilitazione forse agli orali, che comunque avevano importanza minore, essendo le graduatorie decise quasi sempre dai risultati degli scritti (art. 24 del regolamento). Poteva così capitare che candidati con voti molto alti in sede di esame orale venissero poi dichiarati inidonei a Pisa (caso di Corrado De Vita, concorso del 1924, promosso con 45/50 a Bologna, respinto nella graduatoria finale). 37   Una raccolta dei temi di ammissione, con notevoli lacune, è reperibile in ASNS, Esami di ammissione, bb. 49 (1917-19) che contiene solo i processi verbali e la graduatoria dei punteggi, 50 (1920-21), 51 (1922-24); Elaborati (questa serie continua il fondo precedente ma non vi è traccia dei processi verbali), b. 52 (1925-27). Si segnala per il 1926 l’esistenza del solo tema del candidato Pietro Sgroi. La raccolta delle prove di Scienze è sovente più lacunosa. Ho rinunciato comunque aprioristicamente ad una loro analisi non possedendo gli strumenti per capirne l’originalità o la difficoltà.

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espressioni molto severe temi improntati alla banalità o, peggio ancora, privi di contenuto. Così, mentre Ildebrando Imberciadori (ammissione al primo anno 1921) veniva ‘graziato’ di fronte alla chiosa altisonante, banale e pletorica del suo tema su Dante («così sento che Dante è un grande poeta perché è un grande uomo ed una grande coscenza [sic] e umilmente lo amo e lo adoro») e Bruno Mosca non veniva eccessivamente penalizzato di fronte ad un’espressione (pure glossata come «inutile») quale «l’Alighieri scrive la Commedia per redimere il genere umano dalla schiavitù del peccato; l’Ariosto compone il Furioso per dilettare gli uomini. Quante differenze di intenti nei più grandi rappresentanti di due età differenti!», il giudizio su un tema debole che non incontrava l’approvazione dell’esaminatore poteva risultare «arruffato, sconvolto, confuso, ideacce qua e là […]»38. Il rigore dei giudizi nelle commissioni di quegli anni ebbe sicuramente il suo peso nel determinare graduatorie, specie per Lettere, così povere di idonei ma è sulla scarsa qualità dei candidati che bisognerebbe insistere. Benché l’usanza di riportare sui verbali degli esami solo il punteggio complessivo degli idonei, e la conservazione molto parziale degli stessi verbali, renda ogni conclusione provvisoria, infatti, la media assai bassa dei punteggi d’ammissione in alcuni anni (fino al 1923 30/40 per Lettere, poi sale fino a stabilizzarsi sui 35/40) non testimonia certo a favore della preparazione dei candidati39. Ancora di più, tuttavia, è l’analisi del curriculum scolastico, obbligatoriamente presentato insieme alla domanda di ammissione al concorso, che permette di comprendere il livello mediocre degli

  Ildebrando Imberciadori (1902-95), laurea in lettere 1924, poi laurea in legge all’università di Siena nel 1934, a lungo docente nei licei e poi preside del liceo classico di Pisa, fu, tra 1943 e 1947, incaricato di storia del diritto italiano alla Facoltà di Legge pisana. Nel 1922 rifece l’esame per l’ammissione al secondo anno. Il suo tema riportò punti 6,5. Il componimento così malamente stroncato (voto 4) appartiene al concorso 1924. D’altra parte, temi come quello di Cantimori o di Capitini, o anche di studiosi meno illustri come Vasco Nanneli, vedevano i commissari pronunciarsi con giudizi assai elogiativi («idee brillanti e acume critico») e voti anche molto alti. V. Nannelli (1901-?), ammissione 1921, non terminò gli studi, perdendo il posto nel 1923, si laureò solo nel 1929 e insegnò poi al liceo scientifico ‘Galilei’ di Pisa. 39   Ho elaborato le medie dei punteggi degli idonei (non, dunque, degli ammessi, benché di fatto in quegli anni i due gruppi tendessero a coincidere) partendo dalle graduatorie delle ammissioni conservate come coperte di carteggio in ASNS, Istanze di ammissione, bb. 31-34. 38

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aspiranti normalisti. Benché, infatti, solo a partire da Gentile venisse richiesto al concorrente la presentazione di una sintetica presentazione, con l’indicazione delle materie preferite, delle particolari vocazioni e delle letture extra curricolari compiute durante il triennio liceale, già nella domanda standard degli anni Venti la presentazione della pagella dell’ultimo anno di scuola (non sempre conservata, ma molto spesso presente) può aiutare a farsi un’idea40. In un buon numero dei casi disponibili (circa la metà dei sottofascicoli nominativi dei candidati) la media scolastica era assai bassa, oscillando spesso al di sotto del 7, e non era raro che, specialmente i candidati provenienti dagli Istituti Tecnici concorrenti per la classe di Scienze, presentassero voti assai bassi nel gruppo delle materie letterarie41. A fronte di alcune votazioni ovviamente alte (ricorrono le medie di 9/10, le promozioni per merito senza esami, le ‘medaglie d’oro’ di riconoscimento), la falange degli studenti mediocri si aggirava probabilmente sulla metà dei candidati. Anche se una tale lettura è condizionata dalla limitatezza delle fonti seriali disponibili, questa ampia partecipazione di pessimi studenti, su un insieme assai ristretto di candidati, deve essere probabilmente considerata la spia più importante della crisi complessiva della Normale negli anni Venti.

  Documenti come il diploma scolastico o le certificazioni, relativamente costose e difficili da produrre, venivano infatti spesso ritirate dai non ammessi, ma conservate invece nei fascicoli degli ammessi. Ciò non impediva che venissero rimossi o smarriti col tempo, almeno fino all’istituzione di un vero e proprio archivio di fascicoli personali degli allievi a partire dal 1931. Fino a quella data, il materiale cui si fa riferimento è conservato nelle schede personali sempre in Istanze di ammissione, bb. 31-34, sottofascicoli nominativi. 41   Sono riuscito a reperire presso l’Archivio Storico della Scuola Normale la documentazione scolastica con la votazione in 67 fascicoli di 142 candidati del periodo 1919-28; ho integrato parzialmente questo campione con 12 diplomi corredati di voti finali reperiti presso l’Archivio Studenti e Laureati della segreteria dell’Università di Pisa. Da 79 fascicoli personali si evince che: 38 candidati al concorso di ammissione avevano una media dei voti dell’ultimo anno compresa tra 6 e 7; 19 tra 7 e 8 e i restanti tra 8 e 9/10. Vedremo nel prossimo capitolo come queste medie fossero importanti anche in merito alle esenzioni dal pagamento delle tasse scolastiche. Si noti anche che sei posti tra 1926-27 e 1928-29 vennero attribuiti a concorrenti Dalmati, che non seguivano lo stesso iter di ammissione, venivano proposti e non esaminati, e il loro curriculum scolastico non era spesso esaltante. 40

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Tabella 1. Ammissioni 1919/20-1928/29. Concorrenti, posti disponibili, ammessi. Ammessi Posti Posti (totale Concorrenti Concorrenti disponibili disponibili a.a. per la Classe per la Classe comprensivo d’ammissione a bando per a bando per degli ‘esterni di Scienze di Lettere Scienze Lettere senza sussidio’) 1919-20 2 0 2 2 2 1920-21 8 12 4 6 13 1921-22 11 7 4 4 11 1922-23 6 6 3 4 6 1923-24 7 9 6 2 8 10 6 5 9 10 (+1 pfz.) 1924-25 (1) 1925-26 9 12 3 9 9 6 3 3 (+ 1dal) 5 (+ 1dal) 4 + 2 dal 1926-27 (2) 6 + 2dal + 2 1927-28 (3) 4 2 2 (+1 dal) 5 (+1 dal) pfz. 17 + 2dal + 1928-29 6 16 8 (+1 dal) 10(+1dal) 5 pfz. Fonte: elaborazioni da ASNS, Fondo Istanze di ammissione, bb. 31-32; Fondo Esami di ammissione, bb. 49-51. Gli ‘esterni senza sussidio’ compaiono solo in alcuni anni come allievi a pieno titolo della Normale. I posti a bando si riferiscono esclusivamente al numero di posizioni previste per i convittori e gli aggregati con sussidio. (1) Per l’a.a. 1924-25 il risparmio ottenuto non concedendo posti da ordinario venne utilizzato per erogare il primo sussidio di perfezionamento. (2) Benché approvati nel corso della seduta estiva dell’anno accademico precedente, i posti riservati a concorrenti delle province dalmate vennero occupati solo a partire dal concorso del 1926. (3) Al concorso del 1927 vennero erogati due sussidi per posti di perfezionamento ottenuti con i risparmi dal concorso ordinario; lo stesso meccanismo si utilizzò l’anno successivo.

Capitolo II Notizie dalla famiglia. Origini sociali e provenienza geografica dei normalisti prima di Gentile

Un cliché tradizionale e di lungo corso ha spesso dipinto l’École Normale Superieure di rue d’Ulm come il laboratorio di una promozione sociale tutta interna al mondo della formazione e dell’insegnamento, una corsia preferenziale per i figli dei maestri e degli insegnanti dei gradi più bassi delle scuole medie (collèges) per ascendere ai piani nobili della carriera, i grandi licei urbani e le università. Si tratta, ben inteso, di un’immagine ampiamente mitica, che è stata spesso messa in discussione dai più puntuali studi in proposito degli ultimi anni e, in modo molto autorevole, da Pierre Bourdieu, nel corso delle sue ricerche sul sistema delle Grandes Écoles francesi come luogo di riproduzione di una «nobiltà di stato»1. Al contrario, nessuna rappresentazione del genere sembra mai essere stata articolata per la cugina «minore» italiana: le non molte ricerche che si sono concentrate sulla storia della Normale pisana hanno lasciato ai margini l’aspetto sociale del reclutamento e della composizione del corpo studentesco, né peraltro, come si è già avuto occasione di sottolineare, nel panorama della storia universitaria italiana si è mai dedicata troppa attenzione a queste problematiche. Dunque, per quanto la memorialistica interna – e la scarsa pubblicistica – dedicata alla Scuola e alla vita dei suoi studenti abbiano coltivato senza dubbio alcuni topoi deputati alla costruzione di un’immagine centrata sul prestigio

 C. Baudelot, F. Matonti, Les normaliens: origines sociales. Le recrutement social des normaliens 1914-1992, in École Normale Superieure. Le livre du Bicentenaire, pp. 155-90. In particolare, va notato che, nel complesso del periodo, i figli di appartenenti alle professioni intellettuali ammessi all’ENS di rue d’Ulm sono più di un terzo dell’insieme, perlopiù provenienti da famiglie di professori di liceo o, per quasi, il 15%, universitari. È noto, infine, che nel periodo tra le due guerre, la composizione sociale dei normaliens vede crescere sempre di più una rappresentanza dei quadri superiori e della medio-alta borghesia urbana a scapito, ad esempio, degli impiegati. Cfr. anche Israël, Les études et la guerre, pp. 23-34. 1

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e l’unicità dell’esperienza normalistica, tra i quali l’importanza della vita comunitaria, l’amalgama unico delle discipline scientifiche e umanistiche e il rapporto stretto (quasi cameratesco) tra professori e alunni, per non citare che i più ricorrenti, su alcuni aspetti inerenti le origini e le motivazioni della scelta normalistica si può parlare francamente di un bizzarro riserbo. Per esempio, non è impossibile, ma abbastanza raro, ritrovare nel ricordo collettivo degli ex allievi il tema della gratuità della Scuola come motivo di attrazione. La memoria pubblica dei normalisti, non particolarmente fiorente, sembra aver espunto quello che, al contrario, rappresenta una delle peculiarità più caratterizzanti del sistema-Normale: un’offerta didattica e logistica di alto livello senza alcun onere per le famiglie degli allievi (escluso il piccolo gruppo degli interni a pagamento e degli esterni senza sussidio) che rappresentava, specialmente per chi proveniva da famiglie con scarsi mezzi, un’occasione unica, nell’Italia liberale e fascista, per far studiare un figlio. «Era un sogno per me, povero e autodidatta, poter essere studente universitario frequentante», ricordava Aldo Capitini negli anni Sessanta, nelle pagine iniziali della raccolta Antifascismo tra i giovani2. Come è noto, Capitini, nato nel 1899, proveniva da una famiglia modesta: il padre, campanaro comunale a Perugia, l’aveva avviato ad un percorso di studi breve (scuola tecnica e quindi istituto tecnico per ragioniere) con un immediato sbocco professionale, consono alle proprie condizioni sociali. Studente in proprio, appassionato e motivato, anche se affetto dai problemi di una salute fragile, Capitini aveva potuto presentarsi come «esterno» alla licenza liceale solo per l’anno scolastico 1923-24, conseguendo la maturità nella sessione autunnale3. Nel novembre 1924, presentatosi al concorso di ammisione, era riuscito vincitore, distinguendosi tra i (pochi) candidati di un’annata ricordata come ben poco brillante e «scoraggiant[e] soprattutto per Lettere», e classificandosi secondo con

 A. Capitini, Antifascismo tra i giovani, Trapani 1966, p. 16.   Su Capitini esiste una vasta bibliografia, soprattutto per quanto riguarda, ovviamente, lo sviluppo del suo pensiero pacifista. Per quanto concerne la sua biografia faccio riferimento soprattutto a P. Craveri, Capitini, Aldo, in DBI, 18, Roma 1975, pp. 544-56, e C. Cutini (ed.), Uno schedato politico. Aldo Capitini, Perugia 1988. Per i fatti della sua giovinezza e del suo tortuoso iter di studi, oltre alla ricostruzione personale in Antifascismo tra i giovani, pp. 12 e sgg., cfr. anche la lettera olografa inviata alla segreteria della Normale in occasione della sua candidatura al concorso di ammissione in ASNS, Istanze di ammissione, b. 32, f. 1924-25 ‘Lettere’, s.f. Capitini. 2 3

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il punteggio di 35/50 (sui due soli ammessi per la Classe), a due punti da un altro studente di notevoli capacità, elogiato per il suo scritto di italiano, Delio Cantimori, esponente di spicco, quest’ultimo, di una tradizione di mestiere, essendo il padre Carlo preside di scuola superiore4. Per Capitini, la Normale aveva rappresentato dunque l’unica (o, comunque, una delle poche) possibilità di frequentare l’università; non è un caso che, a ricordare con uno spiccato sentimento di gratitudine il collegio «gratuito» dove si poteva vivere e studiare senza preoccupazioni, siano stati perlopiù studenti che, come lui, non avrebbero avuto altre possibilità di continuare gli studi. Così, Carlo Salani, ammissione di lettere del 1930, una lunga storia di povertà familiare e di dure esperienze biografiche alle spalle, che poi avrebbe perso il posto per «indisciplina» dopo le turbolente proteste degli alunni contro il vice-direttore Arnaldi del febbraio 1933, avrebbe ricordato nelle sue vivaci memorie che alla Normale doveva la possibilità di aver «imparato molto, se si pensa che venivo dalla ‘selva’ di Calavorno»5. Per studenti di questa estrazione sociale, la Scuola pisana era un’occasione unica nel contesto nazionale. Lo studente veniva accolto, trovava vitto e alloggio (se interno) o un sussidio (con i limiti di cui abbiamo già parlato); era, insomma, libero dal peso di quelle preoccupazioni della sopravvivenza quotidiana e da quelle servitù della povertà che, come avrebbe ricordato non a caso proprio Gentile, egli stesso rampollo di una famiglia economicamente decaduta e non senza problemi, nell’importante articolo ‘programmatico’ del 1931 apparso sulle pagine degli «Annali della istruzione media»,

  Per il giudizio sull’ammissione del 1924, cfr. Verbali del Consiglio, p. 115. Per le prove di ammissione e i punteggi cfr. il fascicolo succitato in Istanze di ammissione. Anche sulla figura di Delio Cantimori la bibliografia è, notoriamente, molto ampia. Come contestualizzazione biografica, con qualche nota sul padre, cfr. in primo luogo le pagine molto belle (anche se non scevre da giudizi sull’«isolamento» di Cantimori in Normale, come vedremo, non del tutto condivisibili) dedicategli da Simoncelli, Cantimori, Gentile e la Normale di Pisa, pp. 17-28. 5   C. Salani, I luoghi dell’amicizia, Arezzo 1996, pp. 112-3. Su C. Salani (1906-83), ammissione di lettere del 1930, che proveniva da una famiglia poverissima (il padre, già muratore, era invalido per cause di lavoro), giunto anch’egli come Capitini in Normale ad un’età avanzata dopo un percorso di formazione irregolare e infelice al Seminario di Lucca, e che sarebbe poi divenuto una figura notevole, prima della Resistenza e poi della vita culturale ad Arezzo, per poi trasferirsi a Milano, rimando al cap. II, seconda parte, del presente volume. 4

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troppo spesso impedivano a giovani di buone qualità di continuare a studiare. Enfasi non casuale, in uno scritto pubblicato nel quadro di una campagna di rilancio dell’immagine e del ruolo della Scuola pisana, a pochi mesi dalla celebrazione ufficiale (10 dicembre 1932) di quel ‘rinnovamento’ che, esaltando la missione della nuova Scuola, fucina nuovamente illustre dei professori «educatori della nazione», badava contemporaneamente a porre in luce la straordinarietà della sua vocazione interclassista, anzi, quasi specificamente assistenziale, nei confronti dei tanti talenti sprovvisti di mezzi6. Aveva ragione Gentile? In quali termini il sistema degli studi italiani si poteva definire rigidamente classista tra le due guerre, e quanto pesava l’impossibilità delle famiglie di offrire un forte sostegno finanziario rispetto alle possibilità di studio? Un buon punto di partenza per rispondere a questo interrogativo in modo non impressionistico è fare riferimento all’insieme degli oneri dovuti per l’iscrizione, la frequenza, gli esami e la richiesta di certificazioni che formavano il complesso della tassazione universitaria, le cosiddette «tasse scolastiche». Come per il resto del sistema universitario tra le due guerre, anche per ciò che riguarda tasse e soprattasse la legge fondamentale da considerare è il R.D. 30 settembre 1923 n. 2102, provvedimento esecutivo che diede il via alla riforma dell’ordinamento dell’istruzione superiore, più generalmente nota come riforma Gentile dell’Università7. Al suo titolo IV (Degli studenti, degli esami, delle tasse) il decreto 2102 dava vita ad una

  «[…] questi giovani si dedicherebbero agli studi speculativi ma ne sono sconsigliati e distolti dai parenti, dai savi. […] Meglio un impieguccio, un’occupazione qualsiasi che dia da vivere! […] Noi professori universitari vediamo ogni giorno con dolore in quali strettezze si dibattono tanti giovani che hanno saputo resistere ai consigli […] e sono venuti a cercarci. Con quali visi si presentano e con quali vestiti! […] Ora per essi, e per tutti quelli che rischiano di disanimarsi e desistere, ecco, c’è la Scuola Normale. […] E non si è più di peso alla famiglia»; G. Gentile, La R. Scuola Normale Superiore di Pisa e la preparazione dei professori per le scuole medie, «Annali della istruzione media», 8, 1931, pp. 380-85; non casualmente, ancora, questi temi sarebbero riecheggiati nelle pagine del Discorso attribuito a Gentile in occasione dell’inaugurazione dei nuovi locali della Normale (ma in realtà composto solo nel settembre 1933, e aggiunto in limine litis al volume pubblicato per ricordare la cerimonia solenne). 7   Regio Decreto 30 settembre 1923 n. 2102, Ordinamento dell’istruzione superiore, pubblicato sulla «Gazzetta Ufficiale» 11 ottobre 1923 n. 239, ora in Raccolta ufficiale delle leggi e decreti del Regno d’Italia, 1923, 7, Roma 1923, pp. 6028-79. 6

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dettagliata architettura degli obblighi e dei diritti degli studenti che avrebbero avuto accesso al privilegio della nuova istruzione universitaria, un privilegio che poteva costare assai più caro che in precedenza: a partire dall’anno accademico 1923-24, infatti, le tasse universitarie vennero drasticamente innalzate, come peraltro era già avvenuto per le scuole medie, mediamente del 300% (con punte del 500% per alcune lauree) fino a prevedere una spesa variabile tra le 2.675 lire necessarie per conseguire una laurea in lettere quadriennale (la meno cara) e le 5.775 per una laurea in medicina di sei anni (la più cara)8 (tab. 2). Tabella 2. Tasse e soprattasse universitarie previste dalla riforma Gentile. Soprattassa Tasse di Tassa Tassa di Soprattassa Soprattasse annuale per esami immatrico- annuale di laurea o annuale di per esami di laurea o lazione iscrizione diploma iscrizione di profitto di diploma legge 300 700 300 100 50 75 lettere 300 350 300 100 50 75 medicina 300 750 300 100 50 75 scienze 300 350 300 100 50 75 500/600 (la prima cifra per il corso di chimica Scuola di 300 e farmacia, 300 100 50 75 farmacia la seconda per il corso di farmacia) Scuola di 300 800 300 100 50 75 ingegneria Scuola di 300 800 300 100 50 75 architettura Fonte: Art. 54, Tab. G, R.D. 30 settembre 1923 n. 2102. Gli oneri sono quelli dovuti per le Regie Università di categoria A.

  L’andamento delle tasse universitarie non aveva seguito il tasso di inflazione negli anni precedenti, e soprattutto tra 1915 e 1920 (un periodo in cui i salari, specie quelli più bassi, erano sovente quadruplicati per far fronte alla svalutazione reale della lira), rimanendo ferme sostanzialmente al livello del 1910 e aggirandosi mediamente attorno alle 1200 lire annue (ma la Facoltà di Lettere, la più economica, costava 805 lire all’anno). Cfr. Charnitzky, Fascismo e scuola, p. 506, tab. 9. Al relativamente basso costo dell’istruzione superiore rispetto all’aumento delle retribuzioni andrebbe verosimilmente ancorato anche l’aumento massiccio di iscrizioni all’università che, legato al desiderio di evitare i pericoli del fronte da parte della popolazione maschile per tutto l’arco del primo conflitto mondiale, era tuttavia continuato anche per il primo biennio del dopoguerra. 8

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A queste tasse, che venivano versate perlopiù direttamente all’amministrazione dell’ateneo, con l’esclusione di quelle relative al diploma e laurea che venivano devolute direttamente all’erario, si aggiungevano i costi supplementari di bollo per ogni richiesta di certificato; soprattutto, la normativa lasciava libertà alle singole Università di aggiungere contributi ad hoc da far gravare sugli studenti, adottati mediante delibera dei consigli di amministrazione previo parere del Senato accademico9. In effetti, le cifre qui indicate riguardavano il livello minimo di contribuzione studentesca, previsto per le dieci università regie di categoria A, il cui mantenimento era a totale carico dello Stato, mentre altrove, per gli atenei di secondo rango (per cui era previsto solo un contributo ministeriale forfettario normalmente insufficiente) e ancor più per le Libere università, i bilanci sarebbero stati forzatamente integrati ricorrendo anche ai contributi speciali degli studenti10. Tutto questo, senza considerare i costi, forzatamente tutt’altro che contenuti, dei libri, degli spostamenti per gli studenti pendolari, dell’alloggio e del vitto per quelli fuori sede. L’approccio all’istruzione superiore poteva rappresentare, insomma, tra le due guerre, un affare riservato a pochi benestanti, sicuramente al di là delle possibilità non solo di una vasta fascia della popolazione rurale o di buona parte degli ancor ristretti ceti operai, ma anche di un segmento ampio della stessa popolazione impiegatizia (come ha notato ancora recentemente Patrizia Dogliani)11 la cui retribuzione annuale lorda poteva oscillare, negli anni Venti, tra le 5.000 lire dei livelli più bassi della carriera e le 35.000 della dirigenza, con una media di 10.000/12.000 lire (cifra, quest’ultima, che corrispondeva alla retribuzione annua base di un professore di prima nomina delle università regie, a cui andava aggiunta l’indennità accademica fissa senza scatti di anzianità)12. È vero però che l’università disegnata dalla riforma

  Ibid., art. 54.  A ventilare, come inevitabile, il ricorso ad una maggiorazione dei contributi studenteschi per far fronte al depauperamento dei bilanci delle Università di categoria B era ad esempio, sul finire del 1923, Agostino Berenini, rettore dell’ateneo di Parma. Cfr. M. Adorni, L’ateneo parmense tra l’Unità e gli anni Sessanta del Novecento: problemi finanziari, strutture edilizie, spazio urbanistico, «Annali di storia delle Università italiane», 9, 2005 (http://www.cisui.unibo.it/annali/09/testi/13Adorni_frameset. htm; 1/06/2010). 11  P. Dogliani, Il fascismo degli italiani. Una storia sociale, Torino 2008, pp. 162-3. 12   Mi riferisco al personale pubblico dello Stato, per il quale abbiamo dei dati certi. 9

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Gentile prevedeva anche un panorama variegato di sostegni agli studenti meritevoli, ma in condizioni disagiate. Le Casse scolastiche e le Opere Universitarie rappresentavano la prima linea, e il cuore, di un complesso sistema di esenzioni, sussidi, prestiti e contributi particolari destinati a venire incontro alle molte e diverse esigenze di una popolazione universitaria vessata dalla giungla delle tasse, delle soprattasse e delle spese particolari. Prevista dall’articolo 55 del decreto 2102, la Cassa scolastica doveva essere organizzata presso ogni ateneo e ogni Istituto Superiore «allo scopo di fornire ai giovani di disagiate condizioni economiche e più meritevoli i mezzi per far fronte, in tutto o in parte, al pagamento delle tasse, delle soprattasse e dei contributi»13. Il finanziamento della Cassa scolastica era principalmente assicurato dal 10% di tutte le tasse di immatricolazione, oltre che dai versamenti appositi eventualmente devoluti da parte di Enti, di singoli privati o della stessa università; non si trattava dunque, normalmente, di un bilancio particolarmente ricco, e, tuttavia, la «Cassa» rivestiva nell’ambito della vita universitaria un’importanza notevole, essendo la prima destinataria, mediante richiesta direttamente inoltrata al Rettore, di ogni sussidio o compensazione, anche di piccola entità, grazie a cui lo studente poteva sovente far fronte ai pagamenti dovuti. In qualche modo, la Cassa era il «pronto soccorso» degli studenti indigenti, o più semplicemente di chi aveva diritto, per

Cfr. in proposito ISTAT, Sommario di statistiche storiche italiane 1861-1955, pp. 204-5. Per quanto riguarda i salari della popolazione rurale e degli operai, è noto come gli anni Venti e Trenta abbiano rappresentato un periodo di forte decrescita del potere d’acquisto reale dei salari, in gran parte a causa della politica deflazionistica instaurata dal regime, una tendenza accentuatasi tra i due decenni quando, secondo stime che coprono l’arco 1927-34, i salari monetari vennero tagliati tra il 30 e il 40% (simili riduzioni, ma molto più contenute, intervennero anche sui dipendenti pubblici). Cfr. V. Zamagni, Dalla periferia al centro. La seconda rinascita economica dell’Italia, Bologna 1990, p. 399, tab. 10.3. Per quanto riguarda gli stipendi dei professori universitari, nel 1923 essi vennero fissati secondo un doppio parametro di anzianità e di indennità fisse: al professore di prima nomina spettavano dunque 12.000 lire di stipendio base, più 4.000 di indennità accademica. Lo stipendio sarebbe aumentato dopo il triennio, con la conferma in ruolo, a 14.000 lire, e l’indennità «stabilizzata» a lire 6.000; gli scatti di anzianità prevedevano ulteriori aumenti dopo il quinto anno dal conseguimento della stabilità, dopo il decimo e il quindicesimo, fino ad uno stipendio base annuo di 18.500 lire (l’indennità rimanendo fissa). Cfr. R.D. 30 settembre 1923, n. 1202, tab. E, p. 6074. 13   Ibid., art. 55, p. 6057.

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merito e per reddito, a ricorrere ad essa, per aiuti che variavano dal rimborso integrale o parziale delle tasse, al pagamento dei contributi addizionali per il diploma o la laurea, a concessioni particolari relative a momenti di difficoltà. Le norme relative al diritto allo studio prevedevano infatti esenzioni totali o parziali in relazione al reddito, al merito, al reddito e al merito combinati, a seconda della situazione familiare (con una particolare attenzione, a partire dal 1928, alle famiglie numerose), o dell’appartenenza a categorie destinate a particolari privilegi. Benché una definizione schematica dei criteri per l’esenzione dalle tasse non sia possibile, poiché tali norme continuarono ad essere modificate, sia durante il passaggio dalla legislazione Gentile al Testo Unico delle leggi sull’istruzione superiore del 1933, sia successivamente, attraverso modifiche interpretative e correzioni parziali, si può stabilire con un certo grado di approssimazione che essa venisse concessa: quando lo studente poteva vantare elevati meriti di studio relativamente alla scuola di provenienza (media pari o superiore a 8/10) o alla media di profitto degli esami universitari consigliati dalla propria facoltà e previsti nel piano di studio (pari o superiore a 7/10), quando poteva dimostrare di provenire da famiglia bisognosa (la condizione di «nullatenente» certificato poteva annullare o abbassare a seconda degli anni la soglia di merito), quando, infine, poteva dimostrare condizioni di merito sufficienti a garantire un’esenzione per reddito modesto, anche se non al punto di garantirgli la qualifica formale di «povero»14. Per altro, anche le categorie previste per l’esenzione a prescindere dai vincoli di reddito e merito (così come esse venivano poi menzionate nei moduli relativi alla domanda presentata presso le segreterie universitarie) si modificarono costantemente nel periodo tra le due guerre mondiali, soprattutto in seguito a particolari contingenze politiche, ad esempio per favorire i figli dei mobilitati, caduti o resi invalidi nella campagne di Etiopia e Spagna, oppure per riconoscere l’ «italianità» di studenti esteri residenti in zone controllate o annesse al regno d’Italia. Le disposizioni in merito si stabilizzarono solo poco prima del 1940 (per essere poi ancora modificate a conflitto in corso), e prevedevano l’appartenenza a uno dei seguenti gruppi: orfani o mutilati o invalidi di guerra15, stu-

  Legge 24 marzo 1930 n. 454, poi modificata secondo le disposizioni del Testo Unico 1933 (R.D. 31 agosto 1933 n. 1592, artt. 153-6, in Leggi e decreti del Regno d’Italia, 1933, Roma 1933, 5, pp. 5629-807). 15   Limitatamente agli Istituti superiori di scienze economiche e commerciali, e se 14

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denti maltesi, nizzardi e corsi di nazionalità italiana (dopo il 1940), studenti residenti nelle province redente (o Nuove Province), studenti nati nel territorio della provincia di Zara o residenti in Tunisia o nei territori del Dodecaneso16, studenti cittadini stranieri oggetto di particolari scambi bilaterali o sudditi coloniali (esenzione parziale), studenti richiamati alle armi considerati «principale sostegno economico della famiglia», studenti appartenenti alle province annesse o rimpatriati dalle colonie d’oltremare (dal 1940), infine, naturalmente, studenti appartenenti a «famiglia numerosa». A proposito di quest’ultima condizione, particolarmente sensibile, soprattutto in seguito alla campagna demografica lanciata dopo il «discorso dell’Ascensione» del 1927, va notato che la definizione di «famiglia numerosa» era tutt’altro che fissa: inizialmente, per «famiglia numerosa» si doveva intendere un nucleo formato da almeno 7 figli a carico dei capifamiglia dipendenti pubblici, mentre successivamente, la condizione venne estesa a tutti i dipendenti e salariati, anche privati17. È degno di nota il fatto che di tale esenzione approfittassero così tanti studenti da spingere l’amministrazione centrale universitaria a premere per una revisione della normativa. Con la legge 16 giugno 1932 n. 812, venne infatti stabilito che la condizione di «famiglia numerosa» non poteva comunque prevedere l’esenzione totale dalle tasse, se non accompagnata da criteri di merito, e tale modifica venne accolta nella riforma dell’anno successivo. Infine, a guerra ormai in corso, più volte il Ministero dell’Educazione Nazionale richiamò l’esigenza di frenare, con opportuni provvedimenti tesi a limitare il diritto allo studio, il flusso crescente di immatricolati all’Università, frutto di una politica di esenzioni e sussidi giudicata fuorviante e pericolosa, che avrebbe accresciuto eccessivamente la popolazione universitaria18.

non demeritino per profitto, giusta la legge 24 marzo 1930 n. 454 e l’art. 20 R.D. 3 luglio 1930 n. 1176. 16   Leggi 2 luglio 1929 n. 1182 e 1183. 17   Legge 14 giugno 1928 n. 1312 Esenzioni tributarie per famiglie numerose. 18   Cfr. per questo ACS, Min. P. I, Direz. Gener. Istr. Sup., Divisione II, b. 12, f. Dati statistici, dove si collega il «rapido ed eccessivo aumento degli studenti universitari» alle maglie troppo larghe dell’ultima normativa (legge 224/1940) sulle esenzioni e dispense per figli di famiglie numerose (appunto per il Ministro, oggetto: statistiche studentesche, s.d. ma 6 giugno 1942) e b. 171, f. Famiglie numerose, s.f. Dispensa tasse, nota 10 aprile 1943 del Ministero dell’Educazione Nazionale: «I provvedimenti intesi a frenare l’incalzante e pernicioso aumento della popolazione scolastica debbono essere

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A questa vasta platea, la Cassa scolastica, presieduta da un direttorio, che gestiva un bilancio separato da quello ordinario dell’università e in cui sedevano anche due rappresentanti degli studenti nominati dal rettore (o direttore), poteva dispensare aiuti di entità variabile (dipendeva dal regolamento deciso dal singolo ateneo, o Scuola, o Istituto superiore), rispondenti a bisogni molto differenti, ma comunque accomunati dall’immediatezza del bisogno e, ancor di più, dalle limitate risorse a disposizione. Ai fini di interventi più corposi, alla Cassa si affiancava un altro istituto, l’Opera universitaria (o Opera dell’Istituto, nel caso delle Scuola universitarie e degli istituti speciali), prevista dalla legge del 1923 «al fine di promuovere ed attuare l’assistenza scolastica nelle sue varie forme»19. Benché apparentemente identici negli scopi, nella prassi la Cassa scolastica e l’Opera universitaria, (che si affiancava al preesistente e, nel caso di Pisa, assai efficace istituto del Consorzio Universitario, organo misto il cui compito era drenare finanziamenti i grandi interventi edilizi) agivano su piani differenti, la prima attivandosi di fronte a richieste provenienti dai singoli studenti, la seconda, almeno teoricamente, varando piani di azione più ampi nel contesto della vita universitaria cittadina20. In ambedue i casi, non è difficile vedere nel potenziamento strutturale del sistema di assistenza agli studenti bisognosi una via per

generali ed estesi a tutti e non debbono colpire soltanto le famiglie numerose, limitando i benefici tributari già accordati, pei quali non sarebbe opportuno richiedere, come proporrebbe codesta amministrazione, la condizione di un disagio economico e quella di un merito scolastico, in luogo dell’assenza di demerito, senza snaturare la portata e lo scopo delle provvidenze demografiche in esame, in quanto si tratta si tratta di disposizioni intese non soltanto ad assistere, ma a premiare e onorare le famiglie numerose, che debbono sottostare a qualsiasi condizione sociale appartengono, a maggiori oneri in confronto delle altre […]». È notevole che al Ministero dell’Educazione si omettesse (volutamente?) di collegare l’aumento (rapidissimo, come si vedrà più avanti) degli studenti nei primi anni ’40 alla volontà dei giovani maschi italiani di sfuggire alla mobilitazione per la guerra fidando nei privilegi concessi agli universitari. 19   R.D. 30 settembre 1923, n. 1202, art. 56, p. 6058. 20   Sui consorzi universitari, enti morali esistenti dalla fine del XIX secolo e impegnati a coordinare le amministrazioni locali per la raccolta e la gestione di fondi con cui co-finanziare le politiche universitarie, cfr. con particolare riferimento al caso pisano M. Moretti, Questioni di politica universitaria pisana, in B. Henry, D. Menozzi e P. Pezzino, Le vie della libertà: maestri e discepoli nel laboratorio pisano tra il 1938 e il 1943, Atti del Convegno (Pisa, 27-29 settembre 2007), Roma 2008, pp. 15-31.

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l’edificazione di quello «stato sociale fascista» che, iniziata poco dopo la presa del potere, si intensificò progressivamente, fino a rappresentare uno degli aspetti più caratteristici della via italiana al totalitarismo, non solo in quanto ricerca del consenso al regime21, ma in quanto «azione protettrice» intesa al miglioramento fisico, morale ed economico degli assistiti, futuri membri di una nuova, migliore razza italiana22. La costruzione, il mantenimento e il finanziamento di Case dello studente e mense universitarie, così come la costituzione di rendite finanziare a favore di premi e borse di studio per gli studenti più meritevoli, o lo stanziamento di somme atte a rimborsare le riduzioni ferroviarie per i pendolari, facevano parte dei compiti istituzionali delle Opere, benché non mancassero interventi straordinari (di norma configurati come una supplenza della Cassa scolastica, laddove essa risultasse insufficiente) per l’assistenza a studenti appartenenti a categorie particolarmente meritevoli moralmente (bisognosi provenienti dall’estero, dalle Nuove province, orfani di padre caduto in guerra) o piani ambiziosi di edilizia urbana legati allo studio (palestre e sanatori studenteschi). Proprio in relazione all’ampio spettro dei suoi interventi, a partire dall’inizio degli anni Trenta, l’Opera universitaria ebbe uno stretto, e spesso burrascoso, legame con i Gruppi Universitari Fascisti, a cui avrebbe dovuto fornire aiuto finanziario

  Un aspetto già abbondantemente messo in luce da S. Colarizi, L’opinione degli italiani sotto il regime 1929-1943, Roma-Bari 1991. L’insistenza sulle politiche assistenziali negli anni del regime si può classificare senza dubbio tra gli elementi «propositivi», che compongono la diarchia (repressione-protezione) su cui, secondo una recente schematizzazione di Mauro Canali, si sarebbe basata la strategia consensuale del regime. Cfr. M. Canali, Repressione e consenso nell’esperimento fascista, in E. Gentile (ed.), Modernità totalitaria. Il fascismo italiano, Roma-Bari 2008, pp. 56-84. 22   L’architettura dell’assistenza sociale attraverso il ventennio non ha trovato ancora una sua compiuta sintesi. Una contestualizzazione di lungo periodo si ritrova in G. Silei, Lo stato sociale in Italia. Storia e documenti, 1: Dall’Unità al fascismo, ManduriaRoma-Bari 2003. Alcuni contributi, relativi perlopiù ai cambiamenti intervenuti nel campo dell’assistenza sociale vera e propria (con particolare riferimento al passaggio dalla beneficenza privata all’intervento statale) si ritrovano in A. Preti, C. Venturoli, Fascismo e stato sociale, in V. Zamagni (ed.), Povertà e innovazioni istituzionali in Italia. Dal Medioevo a oggi, Bologna 2000. Un panorama abbastanza completo sia dello sviluppo ideologico che dei quadri normativi del sistema assistenziale tra le due guerre è stato recentemente offerto da S. Inaudi, A tutti indistintamente. L’Ente Opere Assistenziali nel periodo fascista, Bologna 2008, specie pp. 19-44. 21

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ma a cui, secondo le frequenti lamentazioni dei vertici gufini, riservava una parte piuttosto insignificante del proprio bilancio. La polemica concernente i finanziamenti mai erogati era tuttavia solo l’aspetto superficiale di uno scontro che riguardava il controllo complessivo dell’assistenza nei confronti della gioventù universitaria, un terreno percepito come fondamentale per la stabilizzazione del consenso nei confronti del regime da parte delle leve della futura classe dirigente. A partire dal 1931, consumatosi favorevolmente lo scontro con la Chiesa e le organizzazioni cattoliche per l’egemonia all’interno del mondo studentesco, i GUF potevano in effetti aspirare alla rappresentanza esclusiva, se non delle idealità degli studenti universitari, certo dei loro bisogni pratici e ricreativi. La tessera del GUF dava infatti diritto ad accedere ad un insieme di diritti e benefici che andavano dai buoni pasto alle facilitazioni per l’acquisto di libri o di dispense, dalle borse di studio «Arnaldo Mussolini» alla fruizione di mense e Case dello studente direttamente gestite dagli universitari fascisti, fino all’esonero, grazie ad una cassa mutualistica privata, da alcune tasse23. A fronte di questa capacità, i GUF rivendicavano l’esclusiva dell’assistenza universitaria, al fine di formalizzare una situazione progressivamente sempre più tangibile di fascistizzazione integrale della vita goliardica. Nulla di strano che la co-presenza delle Opere, enti statali, fino all’inizio degli anni Trenta dipendenti in via esclusiva dal Ministero dell’Educazione nazionale e controllabili solo tangenzialmente da parte del PNF, disturbasse così tanto le ambizioni monopolistiche dei GUF: all’inizio del 1932, il direttorio del PNF preparò un nuovo statuto che avrebbe di fatto reso l’Opera nazionale universitaria un ente alle dirette dipendenze del partito, provvedimento che non ebbe conseguenze solo grazie alla strenua opposizione del ministro, deciso ad impedire un ulteriore depauperamento dell’autorità del proprio dicastero24. D’altra parte, benché l’aspetto politico dell’assistenza ai giovani fosse sicuramente il fattore centrale, non va trascurato il fatto che lo scontro tra Partito e GUF, da un lato, amministrazione ministeriale e università, dall’altra, venne alimentato, in primo luogo, dal desiderio di gestire i patrimoni sempre più ingenti delle Opere, in grado di ergersi a concorrente efficace del GUF grazie a risorse decisamente notevoli all’inizio del secondo decennio del regime. Per far fronte ai propri impegni, ogni Opera universitaria pote-

  La Rovere, Storia dei GUF, specie pp. 200 e sgg.   Ibid., p. 202.

23 24

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va infatti contare su un budget alimentato non solo dai consueti (ma anche aleatori) versamenti di privati o Enti, o della medesima università, quanto, soprattutto, dalla cosiddetta «tasse delle Opere», un tributo annuo imposto a partire dal 1923 ad ogni diplomato o laureato che si iscrivesse ad un albo professionale; una sorta di vitalizio (riscattabile in un’unica tranche forfettaria di 200 lire) che assicurava alle Opere bilanci di tutto rispetto25. Benché l’esatto ammontare delle risorse disponibili non sia facilmente desumibile per i primi anni di vita degli enti, esso può essere calcolato, tra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta, in poco più di un milione di lire annuo26. È proprio in relazione alla loro crescente rilevanza come enti di raccolta fondi e di distribuzione di sussidi – scilicet, come attori importanti e potenzialmente eversivi nel contesto della creazione e del mantenimento del consenso studentesco – che le Opere furono private della loro iniziale autonomia e, a dieci anni dalla loro istituzione, accentrate e poste sotto il controllo di un Comitato Centrale presieduto di diritto non già dal ministro, come sarebbe stato lecito aspettarsi, ma dal segretario del PNF27. Il Testo Unico delle Leggi sull’Istruzione Superiore, nuova carta fondante del sistema che avrebbe rivisto (o perfezionato, o corretto a seconda delle accoglienze ricevute)28 alcune par-

  R.D. 30 settembre 1923, n. 2102, art. 58.   Il calcolo dei proventi su scala nazionale della Tasse delle Opere venne eseguito per ordine ministeriale, nell’ambito di una valutazione complessiva dell’attività e dei patrimoni degli enti di assistenza universitari, nel 1933 (sui dati dell’anno fiscale 1932-33), quando l’ammontare della tassa, nel caso di pagamento forfettario, era di 250 lire. In quel periodo, si calcolò, con l’aiuto dell’ISTAT, in 4750 gli abilitati alle libere professioni e iscritti agli albi obbligati al versamento, per un totale di 1.187.000 lire annue – cifra considerata, in via approssimativa, stabile. Cfr. ACS, Min. P.I., Direz. Gen. Istr. Sup., Divisione IV, 1928-48, b. 6, f. Relazione sulle Opere universitarie, specchio Reddito annuale delle opere, s.d. 27   R.D. 5 giugno 1932 n. 1003. 28   Le polemiche suscitate dall’entrata in vigore della riforma Gentile, sia a livello di scuola che a livello di istruzione superiore, l’opposizione feroce degli ambienti studenteschi (di fronte alla soppressione di alcuni privilegi, come le sessioni d’esame straordinarie) e delle famiglie (soprattutto rispetto all’ispirazione selettiva ed elitaria che animava il progetto gentiliano), infine il progressivo «smantellamento» del disegno riformista in molteplici dei suoi aspetti, a partire dalle dimissioni di Gentile dal ministero, sono stati temi oggetto di una sostanziosa letteratura critica. Mi limito a citare, tra i vari lavori utili come contestualizzazione e come rimandi bibliografici, oltre 25 26

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ti della normativa del 1923, stabiliva (articolo 193) che il Comitato Centrale delle Opere inteso quale organo propulsore e coordinatore dell’attività dei singoli enti, avesse come fini quello di promuovere il coordinamento delle varie forme assistenziali che erano (o sarebbero) sorte per iniziativa delle singole Opere universitarie, di formulare le proposte per la raccolta dei mezzi necessari; di deliberare circa l’assegnazione del provento del contributo (di 25 lire) pagato dagli studenti iscritti, nonché dei contributi annui del Ministero delle Corporazioni e del Partito Nazionale fascista; di promuovere le istituzioni di Case dello studente; di sostenere le varie iniziative dei GUF «ai fini della cultura e dell’educazione politica e sportiva dei giovani», e di favorire l’afflusso degli studenti stranieri, curando altresì l’intensificazione degli scambi tra studenti italiani e stranieri29. Fu a partire dalla loro centralizzazione, che le Opere, sempre più dipendenti sia dall’amministrazione ministeriale che dal Partito, furono assoggettate ad uno stretto controllo anche dal punto di vista dei bilanci, rendendo possibile un utile sguardo sinottico delle loro dotazioni finanziarie. A cavallo tra gli anni Venti e gli anni Trenta, le Opere universitarie degli atenei di categoria A gestivano, in media, entrate dirette, frutto cioè in larga parte delle «tasse sulle opere» e in parte minore di oblazioni varie, per circa 350.000 lire l’anno, ma potevano anche contare su

a coloro che si sono specificamente occupati della Normale nel quadro della politica culturale di Gentile (soprattutto Moretti, Gentile e la Normale di Pisa, dove si espone chiaramente la riduzione progressiva dell’istituto pisano a ‘ridotta’ difensiva dell’ex ministro, a fronte della sua progressiva emarginazione sul piano nazionale), Charnitzky, Fascismo e scuola, specie pp. 193 e sgg., la puntuale biografia di G. Turi, Giovanni Gentile, Torino 2006, la silloge di saggi di M.C. Giuntella, Autonomia e nazionalizzazione dell’università. Il fascismo e l’inquadramento degli atenei, Roma 1992 (specie per ciò che riguarda le violente agitazioni degli universitari di fronte alla riduzione delle sessioni di esami e l’aumento degli oneri contributivi). Per ciò che riguarda specificamente l’università, uno schematico inquadramento generale del dopo-Gentile si può ottenere leggendo G. Ricuperati, Da Gentile a Bottai, in I. Porciani, L’Università tra Otto e Novecento i modelli europei e il caso italiano, Napoli 1994. Per una ricostruzione particolare del percorso della riforma gentiliana, cfr. anche M. Moretti, Scuola e università nei documenti particolari gentiliani, in Giovanni Gentile filosofo italiano, Roma 2004, pp. 77-107. 29   Testo Unico sull’istruzione superiore 31 agosto 1933 n. 1593 (approvato con RD 31 agosto 1933, n. 1592), in Leggi e decreti del Regno d’Italia, 1933, Roma 1933, 5, pp. 5629-807.

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patrimoni diversi, frutto di investimenti in titoli di stato e in rendite derivanti da immobili e terreni, che elevavano la ricchezza di un’Opera fino a cifre di poco inferiori al milione30. Una ricchezza tutt’altro che trascurabile, soprattutto considerando la possibilità, per il Comitato centrale, di esercitare potere decisionale sull’utilizzo dell’intero patrimonio nazionale delle Opere per singole attività: è in questo contesto, nell’ambito di un conflitto per l’utilizzo di fondi pari ad alcuni milioni (tra 1928 e 1934, le entrate dirette di tutte le Opere sul territorio nazionale assommarono a quasi 28.000.000) che si deve situare la parte più rilevante dello scontro tra GUF e Opere stesse (scontro da cui il GUF uscì apparentemente vincitore)31. Natural-

  ACS, Min. P.I., Direz. Gen. Istr. Sup., Divisione IV, 1928-48, b. 6, f. Opera Universitaria, f. Bilanci Preventivi e Consuntivi. 31   ACS, Min. P.I., Direz. Gen. Istr. Sup., Divisione IV, 1928-48, b. 6, f. Relazione sulle Opere Universitarie (bis), e in particolare il seguente appunto a firma del direttore generale dell’Ordine Universitario inviato all’attenzione del ministro da cui si evincono i termini di uno scontro tra esponenti del GUF e amministratori delle Opere concretamente basato sulla gestione di forti cifre, finalizzate tra l’altro all’erezione di appariscenti opere pubbliche: «Questo ufficio ha esaminato assieme con i rappresentanti dei Gruppi Universitari fascisti (console Poli e dott. Battista) i dati relativi alla situazione finanziaria delle singole Opere Universitarie. Le risultanze che sono presso questo ufficio coincidono, con lieve differenza, con le risultanze che sono in possesso dei GUF. I rappresentanti dei GUF hanno dichiarato che per il conseguimento di alcuni fini (costruzione di un Gymnasium che i Gruppi stessi si propongono di creare) hanno bisogno di una somma che si aggiri intorno ai quattro milioni, dei quali due sarebbero dati dal partito ed altri due dovrebbero essere detratti dai fondi accantonati dalle singole Opere. Essi perciò chiedono che da ciascuna Opera sia prelevato il 20% dei fondi accantonati in conformità al prospetto che si allega. L’ufficio non ha mancato di far presenti i motivi che si oppongono a tale prelevamento, motivi che si ritiene doveroso di riassumere qui sommariamente: a) confermando quanto si è già esposto in un altro appunto, occorre avvertire che presso le Opere risulta accantonata una somma complessiva di lire 10.991.913, sulla quale gravano impegni per l’ammontare di lire 9.727.424; cosicché i fondi apparentemente disponibili si riducono a lire 1.264.488. Tale disponibilità è ben lungi dal rappresentare quanto occorre per provvedere all’attuazione delle forme di assistenza che le Opere sono tenute per legge ad attuare b) i rappresentanti dei Gruppi propongono che gli impegni assunti dalle Opere siano dilazionati nel tempo, in modo da consentire il prelevamento dei due milioni da essi richiesti. Occorre però avvertire che il ritardo nell’esecuzione degli impegni non permette il reintegro dei fondi sottratti perché gli introiti annuali non 30

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mente, la ricchezza, e dunque la capacità di intervento delle Opere, variava largamente a seconda delle dimensioni dell’ateneo, che influivano direttamente sul numero di laureati e diplomati iscritti ad albi professionali, soggetti al cespite della tassa, e indirettamente, a seconda del prestigio dell’università, della sua tradizione e della ricchezza della città sede, su eventuali rendite patrimoniali pregresse e su possibili donazioni. Le dieci regie università principali (Bologna, Cagliari, Napoli, Genova, Padova, Palermo, Pavia, Pisa, Roma e Torino) facevano sicuramente la parte del leone: l’Opera di Bologna percepiva in un anno esclusivamente dalla tassa delle Opere 85.000 lire, Roma 115.000, Napoli 126.000, da otto a 12 volte quanto incamerato dall’ateneo di Bari (di categoria B), ma la distinzione in sede primaria o meno non era risolutiva: l’Istituto di Ingegneria di Milano, che aveva realizzato una propria Opera universitaria, contribuiva ad esempio in modo decisivo a fare della sede una delle protagoniste della rete nazionale di assistenza studentesca32. In effetti, delle 74 Opere esistenti sul territorio nazionale agli inizi degli anni Trenta, quelle di sette sedi gestivano da sole i due terzi di quelle «economie» di bilancio (vale a dire, delle risorse non immediatamente impegnate per la ordinaria amministrazione e la sopravvivenza delle Opere stesse) che, devolute al Comitato centrale, sarebbero poi state ridistribuite per le attività più onerose (in particolare, le Case dello studente e il funzionamento degli uffici sanitari) e per gli interventi assistenziali (borse di studio, premi, sussidi per particolari categorie) più importanti33. In questo quadro, Pisa figurava tra le sedi più facoltose, possedendo una delle università più prestigiose della prima categoria ed

sono sufficienti neanche pel normale mantenimento delle singole Opere. Comunque l’Ufficio riferendosi a quanto ha già avuto occasione di esporre ampiamente nell’altro appunto, qui pure delegato, rimane in attesa di istruzioni da parte di VE». La decisione di costringere le Opere universitarie al versamento automatico del 20% delle proprie entrate a favore dei GUF locali venne presa nel luglio 1934, quando si stabilì che una quota pari ad almeno un quinto di tale gettito venisse ogni anno rinviata al Ministero dell’Educazione Nazionale e da questi versata al PNF, con il vincolo di versarla ai Gruppi Universitari Fascisti per opere assistenziali o sportive. Cfr. ibid., f. Gettito presuntivo delle tasse dell’opera, Direzione Generale Istruzione Superiore - Divisione III, appunto per S.E. Il Ministro, 11 luglio 1934. 32   Ibid., specchio dattiloscritto non titolato riassuntivo degli introiti per sede. 33   Ibid., Entrate e spese delle Opere universitarie dal 1928-29 all’aprile 1934 (specchio dattiloscritto).

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essendo anche sede di tre Istituti Superiori (Ingegneria, Agraria e Medicina Veterinaria) dotati di Opere autonome, benché i proventi «ordinari», legati cioè ai contributi dei laureati, fossero spesso incostanti negli anni: complessivamente, le entrate pisane frutto della tassa delle Opere oscillavano, tra l’inizio e la metà degli anni Trenta, dalle 30.000 lire del bilancio preventivo 1932-33 alle 90.000 lire del consuntivo 1933-3434. Tale voce si riferiva però esclusivamente ai contributi pagati dai nuovi professionisti; in realtà il bilancio dell’Opera universitaria era notevolmente più ricco, testimoniando una capacità di raccolta fondi (o, più verosimilmente, l’esistenza di patrimoni edilizi e terrieri pregressi) che si smarcavano dalla realtà locale dei (pochi o molti) professionisti vincolati al contributo. In una relazione del 1935, il rettore di Pisa poteva infatti comunicare al Ministero, non senza una certa soddisfazione, di poter confermare la chiusura del bilancio per l’anno accademico decorso con un consuntivo di circa 350.000 lire di entrate (e di uscite), cifre che atenei anche più grandi situati in città più ricche, come Padova, facevano fatica a vantare35. La Relazione dell’anno XII costituisce un ottimo esempio di quali fossero le politiche assistenziali messe in campo concretamente dall’Opera in una sede medio – grande come Pisa: un terzo delle spese complessive e la quasi totalità delle uscite calcolate come ordinarie (circa 100.000 lire annue) erano destinate a sussidi a singoli studenti e borse di studio, un’altra parte consistente nel sostegno alle strutture della vita quotidiana degli universitari (mensa universitaria, casa dello studente), sempreché queste ultime non dovessero ancora essere costruite, un impegno che assorbì per numerosi esercizi finanziari le risorse della maggior parte delle sedi36. A Pisa, l’andamento di bilancio particolarmente favorevole della metà degli anni Trenta aveva consentito di intervenire per finanziare opere diverse (come l’istituzione di un ambulatorio gratuito per studenti privi di assistenza medica). L’Opera universitaria poteva, ad esem-

  ACS, Min. P.I., Direz. Gen. Istr. Sup., Divisione IV, 1928-48, b. 6, f. Opera Universitaria, f. Bilanci Preventivi e Consuntivi, Università di Pisa - Bilancio consuntivo anno 1933-34. 35   Ibid., da Università degli Studi di Pisa a Ministero dell’Educazione Nazionale, Bilancio preventivo e consuntivo anno 1934-35 (XII) (comprensivo anche dell’Opera di Medicina e Veterinaria aggregata come facoltà a partire dal 1° novembre 1934), 26 maggio 1935 (d’ora in avanti Relazione anno XII). 36   Ibid., p. 2. 34

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pio, così investire una cifra considerevole (105.000 lire nel bilancio 1933-34) per sostenere le spese relative ai Collegi pisani, sia per le spese di gestione che per l’istituzione di borse di studio ordinarie e di perfezionamento, ma anche garantire un efficace sostegno alla numerosa schiera degli studenti pretendenti a qualche facilitazione o sussidio37. In effetti, nello stesso momento in cui segnalava il massiccio ruolo dell’Opera nella politica delle «grandi opere» di prestigio a favore della struttura universitaria (si ricordi che, al debutto degli anni Trenta, solo sette altre sedi, oltre a Pisa, avevano una Casa dello studente funzionante, e altrettante l’avevano in costruzione), il rettore doveva lamentare anche la continua emorragia di fondi per sostenere il gran numero di contributi individuali erogati dalla Cassa scolastica a favore di una massa sempre crescente di postulanti. Una dispersione di risorse, dannosa e potenzialmente pericolosa per i fini statutari dell’Opera, garantire cioè grandi interventi, più visibili al pubblico e prestigiosi: In sussidi individuali, ad integrazione della Cassa scolastica, sono state erogate ben lire 35.900. È questo uno dei punti più delicati del bilancio e dell’attività dell’Opera. È grande fortuna poter disporre di apposito fondo per soccorrere i molti casi dolorosi e pietosi che si presentano fra la studentesca, ma sarà bene essere estremamente rigorosi in proposito, perché è molto meglio soccorrere adeguatamente pochi casi veramente gravi piuttosto che polverizzare somme notevoli in un grande numero di piccoli sussidi di efficacia relativa. Bisogna soprattutto reagire all’aumento continuo delle domande di sussidio e distruggere la convinzione che basti chiedere per avere qualche cosa. Cosa imprevista nella gestione di quest’anno è stato l’invito fatto dal Ministero, al quale era doveroso uniformarsi, di rifondere le tasse agli orfani di guerra e metà delle tasse ai figli d’Italiani all’estero. Ciò è costato all’Opera lire 20.800, somma molto forte in relazione ai suoi mezzi e che è stata sottratta ad altre urgenti necessità più specifiche dell’Opera stessa. È da augurare che si provveda a tali esenzioni con apposito provvedimento di legge, perché il loro contraccolpo, mentre è grave per le Opere universitarie, sarebbe invece intollerabile per i bilanci universitari38.

  ACS, Min. P.I., Direz. Gen. Istr. Sup., Divisione IV, 1928-48, b. 6, f. Opera Universitaria, f. Bilanci Preventivi e Consuntivi, specchio riassuntivo nazionale delle destinazioni dei fondi per l’a.a. 1933-34. 38   Relazione anno XII, p. 1. 37

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Benché frutto di una stagione più avanzata rispetto all’oggetto specifico di queste pagine, la Relazione dell’anno XII fotografava una realtà poco dissimile da quella degli anni Venti: già poco dopo la loro nascita, le Opere universitarie dovettero interpretare il ruolo di fondo di riserva della Cassa scolastica per gli interventi a favore dei singoli studenti, che, infatti, si rivolgevano in prima istanza alla Cassa – come parte integrante dell’amministrazione universitaria per quanto riguardava gli oneri contributivi per lo studio – e quindi all’Opera, senza tuttavia mai distinguere veramente tra le funzioni di una e dell’altra. Veramente netta rimaneva solo la distinzione di un primo livello burocratico, quello della richiesta di dispensa, parziale o totale, che lo studente avanzava all’inizio dell’anno accademico in relazione alle tasse di iscrizione e/o di frequenza. In caso di risposta negativa, lo studente avrebbe poi potuto invocare l’assistenza della Cassa (e quindi dell’Opera) per un sussidio che coprisse, parzialmente o totalmente, l’ammontare dei contributi pagati – di fatto un rimborso per cause di comprovato disagio nella condizione familiare – e parimenti avrebbe potuto rivolgersi alla Cassa (o all’Opera) per ulteriori sussidi che coprissero altre spese ordinarie dell’amministrazione (la tassa per il diploma, ad esempio) o, in casi estremi e molto rari, il vitto e l’alloggio. È evidente che queste ultime voci riguardavano molto raramente i normalisti, e che quindi fondazione ed esistenza degli enti per il diritto allo studio nell’Italia fascista sembrerebbero riguardare poco la Scuola Normale. Tuttavia, occorre precisare che, come sarebbe invece stato peculiare della Normale repubblicana, quella liberale e fascista non provvedeva anche al pagamento o al rimborso delle tasse universitarie, offrendo esclusivamente, nella forma del convitto per gli interni, il vitto e l’alloggio, oppure il sussidio per gli esterni. Gli allievi della Scuola, dunque, avevano la facoltà di presentare domanda alla segreteria universitaria per la dispensa dal pagamento delle tasse, e, in subordine, per il rimborso di esse, o di uno dei diversi contributi pagati nel corso degli studi, oltre naturalmente a poter presentare anche richieste relative a sussidi straordinari, ad esempio, per l’acquisto dei libri o il pagamento dei viaggi; un diritto esercitato pressoché sempre, indipendentemente dal fatto che il reddito della famiglia d’origine fosse più o meno alto, e confidando nei titoli di merito per evitare almeno in minor parte le esose pretese dell’amministrazione. Nascevano di qui quei fascicoli personali caratterizzati dalle Notizie familiari, vale a dire l’insieme dei dati relativi al reddito,

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alle eventuali rendite, alle proprietà, alla composizione del nucleo familiare, che oggi restituiscono una fotografia sorprendentemente dettagliata della popolazione normalistica tra le due guerre39. Da

 Il Certificato delle condizioni economiche della famiglia dello studente, il cosiddetto «modello 18», rilasciato dall’Università e obbligatorio per poter presentare alla segreteria amministrativa qualsiasi domanda inerente dispense, esenzioni, contributi e rimborsi, è, per tutti gli anni Venti e Trenta, il più comune documento utilizzato a tale scopo (benché non l’unico: per uso interno, nelle comunicazioni da ufficio ad ufficio o come pezza giustificativa in riferimento ad una pratica già avviata, poteva essere utilizzato il «modello azzurro», composto da un solo foglio, più succinto). Il «modello 18», composto da un unico foglio su quattro facciate, presentava i dati anagrafici relativi allo studente e alla sua posizione nell’ateneo rispetto al corso di studio scelto e all’anno (pagina uno), quindi i dati relativi alla composizione delle famiglia (pagina due), con ogni membro indicato in base al suo ruolo in seno al nucleo (capo famiglia, coniuge del capo famiglia, fratelli dello studente a carico dei genitori e non, parenti conviventi a carico e non) e con l’eventuale indicazione della professione (a volte veniva indicata solo la professione del padre, la madre venendo etichettata semplicemente come «lavoratrice» o «atta a casa»; dettagli maggiori sulla figura della madre venivano forniti solo in caso di decesso del capo-famiglia o di sua inabilità al lavoro). La terza pagina era normalmente riservata alle informazioni relative al (o ai) reddito/i della famiglia, che fossero da lavoro dipendente o autonomo, o rendite finanziarie, da terreni o immobili. È necessario precisare che la compilazione del certificato era affidato il più delle volte allo studente stesso, o al capo famiglia, e che il reddito veniva quindi di fatto autocertificato, ma che l’amministrazione provvedeva, apparentemente quasi sempre, o, perlomeno, sempre in occasione di una domanda presentata per la prima volta, a richiedere informazioni agli uffici erariali territoriali, ai municipi o anche alle stazioni dei Carabinieri. Da questo incrocio di dati provenienti da fonti così diverse, e sovente con intenti diversi, nasce gran parte del fascino e della ricchezza delle Notizie familiari (come il Certificato venne ribattezzato alla fine degli anni Venti). Mentre, infatti, il più delle volte, dalla lettura dei certificati emerge evidente l’intenzione del dichiarante di minimizzare il reddito familiare e di dipingere a tinte più fosche del necessario le condizioni della famiglia (non è raro imbattersi in commenti manoscritti in cui si evidenzia lo stato miserevole di un immobile di proprietà, o le difficoltà improvvise del lavoro del capo-famiglia, o le difficili condizioni di salute di uno o più parenti che hanno provocato enormi spese non previste), dai diversi enti pubblici chiamati a accertare le dichiarazioni dello studente e dei suoi familiari, trapela un ventaglio assai ampio di «interpretazioni» benevole circa i livelli di ricchezza effettiva, piuttosto il ricorso brutale alle rilevazioni fiscali. Per quanto riguarda le Notizie soprattutto dei primi anni Venti (un numero 39

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un punto di vista sociale, il normalista dell’età pre-gentiliana (fino all’ammissione del 1928) proveniva sostanzialmente dalla fascia piccolo borghese della società italiana, con una buona rappresentanza anche delle professioni manuali: i vincitori dei posti erano in maggioranza figli di dipendenti pubblici di medio o basso livello, di impiegati privati, di insegnanti delle scuole medie, e, in percentuale minore, di lavoratori, specializzati o meno, come capimastri, falegnami, o manovali (tab. 3).

relativamente esiguo, stante anche la cattiva condizione della documentazione conservata presso l’Archivio Studenti e Laureati della segreteria universitaria di Pisa e i non infrequenti smarrimenti dei fascicoli negli anni passati), periodo in cui i moduli sono più scarni di informazioni, le autorità e gli enti cui veniva fatta richiesta di confermare la dichiarazione sulla ricchezza familiare potevano dichiarare, come ad esempio l’amministrazione ferroviaria di Carrara, che un proprio impiegato magazziniere percepiva «un misero guadagno» (f. 23864, Baccini Danilo, ammissione di Lettere 1921) o avallare, come il preside del liceo classico ‘Carducci’ di Grosseto, la richiesta di dispensa di un proprio ex allievo «per le disagiate condizioni della famiglia» pur in assenza dei requisiti di merito (f. 17370, Pirrone Manlio, ammissione di Lettere 1922). Pirrone, nato a Palermo (1904) ma studente liceale a Grosseto all’epoca dell’ammissione, era uno dei normalisti «antifascisti» ricordato a più riprese da Capitini, parte di quel circolo di ispirazione crociana in cui sarebbero poi maturati i più giovani (e più noti) Alfieri e Segre. Dopo la laurea conseguita nel 1926, Pirrone passò all’insegnamento liceale, divenendo infine preside del liceo scientifico di Arezzo e quindi del liceo classico di Prato, senza per altro rinunciare al lavoro nel campo della storia della filosofia (sua la cura di un volume della Nuova Italia dedicato all’Etica Nicomachea di Aristotele che conobbe un certo successo tra anni Cinquanta e Sessanta). In breve, benché sicuramente i requisiti di legge costituissero un condizionamento per il destino di istanze presentate dagli studenti (le domande respinte per redditi troppo alti lo comprovano), è anche possibile leggere, nella presenza di lettere commendatizie dei sindaci o dei presidi, di raccomandazioni delle tenenze dei Carabinieri, e persino degli uffici provinciali dell’Erario, una tendenza alla valutazione caso per caso, se non alla «trattativa» delle singole situazioni di disagio più o meno evidente. Inoltre, come si evidenzia nel caso dei normalisti (e particolarmente, come si vedrà, dei normalisti post 1928), la presenza di un autorevole interlocutore del rettore alla direzione della Scuola faceva sì che le istanze degli allievi venissero sempre considerate con un occhio di riguardo, quando non sostenute direttamente da Gentile con lettere indirizzate al rettore.

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Tabella 3. Origini sociali degli allievi della Scuola Normale (da a.a. 1919-20 ad a.a. 1928-29) a seconda della professione del capo-famiglia40. Numero di Aggregati Percentuale Categoria studenti parziali approssimata Insegnanti scuole medie e presidi 11 Docenti Universitari 1 Maestri e direttori didattici 2 Area insegnamento 14 12,5% Capimastri, operai specializzati e manovali 8 Contadini e piccoli proprietari 1 Commessi settore privato 1 Artigiani 5 Negozianti 2 Area lavoro manuale e piccolo impiego 17 15% Impiegati pubblici (compresi i quadri) 12 Dirigenti pubblici 1 Pensionati pubblici (già funzionari o 3 dipendenti) Polizia / Forze Armate 2 Area impiego pubblico 18 16% Liberi professionisti41 8 Quadri privati 3 Possidenti agricoli 5 Artisti 1 Poveri (certificati) senza altra indicazione 2 Senza dichiarazione / non reperiti42 20 Fonte: elaborazione di dati da Archivio Studenti e Laureati Università di Pisa, Fascicoli nominativi degli studenti (da f. 15363 ‘Federighi’ a f. 33673 bis ‘Varese’).4142

  Si intende che in caso di decesso del padre, il ruolo di capo-famiglia veniva attribuito alla madre (che godesse o meno di una pensione di reversibilità). Ho considerato la professione paterna qualificante anche laddove il padre sia deceduto durante gli studi dell’allievo. 41   Sotto questa voce sono stati registrati avvocati, medici, procuratori legali e un veterinario. 42   A fronte degli 88 allievi entrati alla Scuola Normale tra 1919 e 1928 (si ricordi che l’89°, Antonio Nannini, ammissione Lettere 1921, rifiutò il posto a concorso concluso; la sua registrazione come allievo è dunque forse formalmente corretta, e come tale viene segnalato in ingresso in tutti gli elenchi degli allievi, ma non prese mai posto a Palazzo dei Cavalieri), presso l’Archivio Studenti e Laureati sono conservati 71 fascicoli, tra cui 6 non riportano alcuna dichiarazione relativa allo stato di famiglia (in numero limitato di questi casi, l’identificazione dell’origine sociale è stato risolto ricorrendo a fonti bibliografiche diverse). I rimanenti sono risultati introvabili; alcuni non compaiono negli elenchi del materiale conservato e devono essere considerati perduti, 4 sono registrati come depositati presso l’Archivio di Stato di Pisa, fondo Università di Pisa - III versamento, ma non mi è stato possibile reperirli. 40

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Va tuttavia rilevato che non sempre la qualifica professionale che accompagnava lo stato di famiglia restituisce un’idea precisa delle condizioni economiche di partenza degli studenti. In primo luogo, infatti, le professioni a reddito fisso – come gli impiegati pubblici – godevano di un benessere reale fluttuante, relativo alla situazione macroeconomica contingente, per cui un applicato municipale poteva vantare un potere d’acquisto modesto nell’immediato dopoguerra, a causa del processo inflattivo, e relativamente buono fino alla fine degli anni Venti, prima della svolta deflazionistica del regime, che impose anche agli statali alcune privazioni (seppure in misura minore dei salariati privati). Si tratta di una contestualizzazione fondamentale nel considerare l’impatto delle spese universitarie sui bilanci familiari, che spiega una tendenziale contrazione della ricchezza (dichiarata e percepita) dei nuclei di provenienza degli allievi normalisti, e, allo stesso tempo, può concorrere a spiegare la diversità di strategie assunte dall’amministrazione universitaria relativamente alle dispense e ai rimborsi della Cassa e dell’Opera. Nella prima parte del periodo 191928, una rendita annua di 12.000 lire poteva essere considerata come eccessiva per concedere qualsiasi tipo di dispensa o rimborso delle tasse, anche a fronte di una difficile situazione familiare, e «nessuna disagiatezza [sic]» si riscontrava ad esempio per un nucleo familiare monoreddito con proventi complessivi di 13.000 lire, che doveva così affrontare interamente le spese imposte43. Successivamente al 1930, una domanda molto simile poteva essere respinta con un reddito di

  ASLPi, f. 15509, Giglioli Irene, 1923. Irene Giglioli (Napoli 1911 - Pisa ?), dopo una breve esperienza come assistente alla cattedra di archeologia a Pisa transiterà nei ruoli delle scuole medie inferiori; era orfana di padre, già insegnante, ma la madre godeva di una rendita mista (in parte costituita dalla reversibilità della pensione del marito) considerata superiore alla soglia concessa per le esenzioni; f. 15913, Imberciadori Ildebrando (Castel del Piano-GR, 1902-95), proveniente da un’antica famiglia di borghesia campagnola, suo padre era perito rurale, con un reddito complessivo, comprensivo di alcune rendite, non superiore alle 13.000 lire. Dopo la laurea (1925), cui aggiunse una seconda laurea in legge conseguita a Siena nel 1934, Imberciadori avrebbe proseguito la carriera di insegnante nelle scuole superiori, terminandola come preside del liceo classico di Pisa, dove ebbe anche, tra 1944 e 1947, un incarico universitario come insegnante di Storia del Diritto Italiano. Attivo studioso di storia della Toscana dell’agricoltura, fu anche presidente dell’Accademia dei Georgofili. Su di lui cfr. D. Barsanti, La figura e l’opera storica di Ildebrando Imberciadori, in Id (ed.), Studi in memoria di Ildebrando Imberciadori, Pisa 1996, pp. 11-33. 43

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poco inferiore a 10.000 lire, una soglia ritenuta viceversa più che accettabile per concedere almeno il beneficio di un’esenzione parziale solo tre o quattro anni prima, in un nucleo familiare dalle caratteristiche omogenee e in eguali condizioni di merito44. D’altra parte, molto spesso assumere la qualifica professionale del capo famiglia come esclusivo indicatore dell’agiatezza o meno della famiglia di origine di uno studente, può semplicemente essere fuorviante. Anche nell’Italia degli anni Venti, la composizione del reddito non era sempre lineare. Una famiglia, benché di condizioni relativamente modeste quanto a introiti da lavoro dipendente, poteva vantare rendite di terreni o di piccoli immobili – la cui dichiarazione era peraltro prevista dai regolamenti universitari e il cui possesso andava naturalmente a definire l’indicatore di reddito. Soprattutto, l’occupazione del pater familias poteva non essere l’unica fonte di salario; anche in un paese in cui il lavoro femminile veniva sempre più scoraggiato dalle politiche familiari e familistiche del regime e in cui, dopo la parentesi della guerra, le donne stentavano a trovare uno spazio professionale adeguato, era tutt’altro che raro imbattersi in stati di famiglia in cui la madre (o le sorelle) dello studente dichiaravano un reddito, a volte piccolo, proveniente da lavori saltuari o ausiliari (ricamatrici domestiche, operaie a cottimo nel settore tessile, pensionanti) o da uno degli spazi scolastici che non si erano chiusi all’impiego delle donne dopo la svolta «maschilista» del 1923 e soprattutto del 1926 (maestre elementari, più raramente insegnanti nei ginnasi): si trattava sovente di introiti considerati complementari a quello principale dell’uomo-lavoratorepadre, ma, frequentemente, e soprattutto dopo i tagli salariali imposti a partire dal 1930, si trattava anche di un contributo decisivo per il mantenimento del tenore di vita della famiglia45. Era sulla base di questi redditi totali dunque, e non solo sulla collocazione lavorativa del padre, che gli studenti venivano classificati per reddito, e ammessi o meno ai privilegi delle esenzioni: una suddivisione che permette

  Ibid., f. 19019, Imperatori Giorgio, ammissione di Lettere 1931.   Il regio decreto 9 dicembre 1926 n. 2480 escludeva le donne dai concorsi per le cattedre di latino, greco, lettere, storia e filosofia nei licei classici e scientifici, oltre che dall’insegnamento di italiano e storia negli istituti tecnici. Due anni dopo, le donne sarebbero state escluse dall’accesso alla carriera dirigenziale nelle scuole di ogni ordine e grado. Per ciò che riguarda la condizione femminile nell’Italia tra le due guerre, e in particolare per l’involuzione della situazione occupazione, cfr. V. De Grazia, Le donne nel regime fascista, Venezia 1993. 44 45

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anche di tracciare un quadro meno impressionistico delle condizioni sociali medie del «gruppo normalistico» (tab. 4). Tabella 4. Origini sociali degli allievi della Scuola Normale (da a.a. 1919-20 ad a.a. 1928-29). Reddito medio degli ammessi alla Scuola per anno. Reddito approssimato Reddito approssimato Reddito medio di riferimento 1 di riferimento 2 delle famiglie Anno di Dirigente pubblico Commesso di provenienza ingresso (consigliere amministrazione approssimato (in lire) ministeriale)46 pubblica 191947 ? 12.500 7000 1920 5600 1921 6300 1922 6400 1923 8900 1924 9500 1925 9200 21.000 10.800 1926 10.400 1927 11.000 1928 10.100 22.600 (1930) 10.700 (1930) Fonte: elaborazione di dati da Archivio Studenti e Laureati Università di Pisa, Fascicoli nominativi degli studenti (da f. 15363 ‘Federighi’ a f. 33673 bis ‘Varese’).4647

Benché ancora non del tutto nitida, la fotografia basata sulla media dei redditi reperibili consente di legittimare una visione del gruppo allievi 1919-28 come prodotto di un segmento sociale definito sia per professione che per ricchezza. Se ciò che stupisce di primo acchito, ad esempio in riferimento all’ENS francese, è la sottorappresentazione dei figli dell’élite della docenza (e soprattutto dei professori universitari), quello che deve essere sottolineato è piuttosto l’esistenza di un solido cespite di riferimento per il reclutamento degli studenti della Normale: un’area di piccola borghesia impiegatizia pubblica, confinante con la fascia bassa dei ceti lavoratori, con una forte ma non preponderante rappresentanza del mondo dell’insegnamento. Un panorama assai diverso da quello della mitica immagine di promozione sociale interna dell’École di rue d’Ulm, ma una differenza che non deve stupire, stante il ruolo profondamente diverso giocato da

  I redditi di riferimento vengono forniti per quinquennio. Cfr. Sommario di statistiche storiche, pp. 204-5. 47   Per il 1919 una stima non è significativa, poiché vennero ammessi solo due allievi alla classe di Scienze. Urbano Federighi, f. 15363, figlio di un operaio muratore con un reddito dichiarato di l. 50 al giorno, e Achille Lardi, f. 16103, il cui padre era ingegnere capo presso l’amministrazione provinciale di Perugia. 46

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queste due istituzioni nell’ambito di mondi universitari assai lontani tra loro48. Redditi modesti quelli alle spalle dei normalisti prima di Gentile, dunque, anche se quasi mai davvero bassi, e lontani dagli agi della buona società, dei rampolli delle dinastie accademiche o dei figli del mondo degli affari. Del resto, anche la provenienza geografica indica una vocazione della Normale a reclutare piuttosto nei piccoli centri o nelle città di medie dimensioni, e a prediligere attraverso tutti gli anni Venti una dimensione ancora più regionale che nazionale, piuttosto che a privilegiare gli esponenti delle classi agiate urbane. Le origini geografiche degli allievi, infatti, raccontano di una netta prevalenza di studenti provenienti dal centro Italia (37, la metà dell’insieme) di cui solo 5 non dalla Toscana, di una rappresentanza di settentrionali falsata dall’afflusso, dopo il 1926, di un folto gruppo di studenti (12) delle Nuove province, allettati dalle facilitazioni concesse per l’ammissione (prima solo ai ‘dalmati’, poi anche agli altoatesini), e, soprattutto, di una quasi totale assenza di allievi provenienti dalle grandi città universitarie. Roma, Napoli e la stessa Firenze, il cui ateneo pure non era tra quelli di prima categoria, quasi non inviavano studenti alla Scuola, e si dovette attendere il 1930 prima di trovare un normalista di Milano (tab. 5). Una Normale, dunque, tutta chiusa sulla sua piccola dimensione locale, altro segno di un declino apparentemente inarrestabile? A ben vedere, sul piano della provenienza già si ritrovano, sul finire degli anni Venti, i segnali di un mutamento in atto, o, perlomeno, dell’attenzione alla necessità di cambiare: le facilitazioni ai «nuovi italiani», intanto, articolano un primo, seppure provvisorio, circuito nazionale di candidati e ammessi, un rilancio su scala nazionale che, come vedremo, sarà al centro delle nuove politiche gentiliane. Piuttosto, spicca in quegli anni l’assenza di allievi che abbiano scelto la Normale abbandonando città sedi a lavoro volta di atenei prestigiosi:

  Benché la prospettiva comparata tra ENS parigina e Scuola pisana sia sempre molto utile, e proprio per evitare indebite assimilazioni, è chiaro che la distanza tra i due istituti in raffronto al peso detenuto nei rispettivi «campi del potere intellettuale» nazionali è abissale. Rimando per questo a quanto ho sostenuto in apertura del mio intervento su Nobiltà di stato? Considerazioni su origini sociali, promozione e destinazione professionale dei normalisti tra le due guerre, in Menozzi, Rosa (edd.), La Storia della Scuola Normale Superiore di Pisa in una prospettiva comparata, pp. 83-92, e alla discussione che ne seguì. 48

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la Scuola pisana non era dunque in grado ancora di sottrarre a Roma, a Napoli, a Torino, a Padova e a Bologna gli studenti migliori? Pare proprio che il fascino di Palazzo dei Cavalieri non avesse fatto ancora breccia tra chi poteva permettersi di restare nella propria città di residenza e di usufruire in loco di una valida offerta educativa, una spia, questa sì, di un appeal ancora deficitario, perlomeno rispetto all’immagine (ampiamente mitica) della Normale «di Fermi» già casa dei cervelli migliori del paese49. Tabella 5. Origini geografiche dei normalisti in base ai luoghi di residenza. Nord

Di cui di cui Nuove Centro Toscana Province

Sud

Isole

estero

Normalisti provenienti da

29

12

37

32

11

9

1

Luoghi di residenza: città principali

16

7

20

16

8

4

0

Luoghi di residenza: sedi universitarie di categoria A (esclusa Pisa)

0

0

1

0

4

1

0

Fonte: elaborazione di dati da Archivio Studenti e Laureati Università di Pisa, Fascicoli nominativi degli studenti (da f. 15363 ‘Federighi’ a f. 33673 bis ‘Varese’) e da ASNS, Istanze di ammissione, da bb. 31-33.

 L’idea che la Scuola Normale dell’immediato dopoguerra fosse comunque in grado, con i brandelli del proprio prestigio, di forzare giovani romani (o milanesi o bolognesi) a lasciare le proprie sedi, è abbastanza bizzarra. Certo, Pisa godeva ancora della fama di ottima sede, soprattutto per gli studenti di Scienze, ma, come peraltro è esplicitamente dichiarato nella biografia curata dalla moglie, la scelta da parte di Fermi di venire a Pisa non era dettata dalla volontà di studiare in una sede migliore della facoltà di scienze di Roma (all’epoca all’avanguardia), quanto, soprattutto, dal desiderio di lasciare la casa familiare dopo la tragedia della morte del fratello. Fu per il desiderio di allontanarsi da Roma, che Fermi prese la strada di Pisa, una facoltà considerata molto buona e soprattutto una città in cui, se avesse vinto il concorso alla Normale, avrebbe potuto dimorare gratuitamente, come gli aveva suggerito l’ingegner Amidei, un amico di famiglia. D’altra parte, è noto che Fermi rimase per molti versi isolato nell’ambiente normalistico e che le sue capacità vennero largamente ignorate a Pisa. Cfr. Fermi, Atomi in famiglia, specie pp. 14-28. 49

Capitolo III Vivere alla Scuola Normale

1. L’oasi degli studi per una «piccola schiera di gente scelta» Delle due immagini tipiche che la memorialistica ha tramandato a proposito della Normale tra le due guerre, culla precoce dell’antifascismo o tranquilla isola di alti studi avulsa dal contesto politico del paese, è quest’ultima a caratterizzare, in modo quasi esclusivo, la stagione pre-gentiliana. Il periodo che si chiude nel 1928, proprio con l’unico, e ben noto, episodio di irruzione del conflitto fascismo-antifascismo tra le mura di Palazzo dei Cavalieri (l’arresto, in aprile, di tre allievi cui farà seguito, di lì a poco, la morte del direttore Bianchi e l’avvento di Gentile come commissario) pare segnato da una concorde apoliticità, non tanto e non solo dei docenti quanto, soprattutto, degli allievi. Una piccola comunità, quella normalistica degli anni Venti, di cui il vice direttore dell’epoca, Francesco Arnaldi, evocava quarant’anni dopo l’atmosfera tranquilla, raccolta, quasi familiare – un idillio spezzato proprio dai turbamenti del ’28 e, apparentemente, mai più ricomposto: La vita della Scuola Normale di Pisa, in cui ero entrato come professore interno nel novembre 1923, diventandone un anno dopo anche vicedirettore, sino all’aprile del 1928, era stata tranquilla. Gli studenti erano soltanto 15, quasi tutti di prim’ordine, con contrasti profondi tra di loro, ma non di carattere esplosivo […]. Quella pace quasi polverosa, quell’apparente letargo furono turbati, appunto nell’aprile del ’28, da un incidente che parve ed era, dati i tempi, gravissimo […]1.

Già ricordata come una delle testimonianze più interessanti sulla Normale alla fine degli anni Venti, il testo di Arnaldi è peraltro suffragato anche da Aldo Capitini, un altro importante attore, nel se-

  Arnaldi, Cronaca della Normale, p. 16.

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condo dopoguerra, del canone antifascista della Normale, insieme, come vedremo, a Luigi Russo e alla stessa generazione dei normalisti degli anni Trenta. Benché intento a fornire un ritratto il più possibile «impegnato» (in senso antifascista) del gruppo di allievi entrati con lui, o attorno a lui radunatisi tra 1924 e 1933, Capitini non poteva che confermare, con pochi anni di anticipo rispetto ad Arnaldi (e peraltro in aperta polemica, anche personale, con il suo ex vicedirettore), la preponderanza, tra gli studenti della «vecchia» Normale, di una sostanziale indifferenza rispetto all’involuzione dittatoriale della politica italiana e, ancor più, rispetto all’opposizione morale al regime: «debbo dire che gli studenti della Normale, allora una trentina, […] erano alcuni fascisti, altri antifascisti […] e i più inerti o indifferenti», avrebbe scritto in introduzione alla raccolta Antifascismo tra i giovani, ricordando una situazione di apatia ideologica destinata ad essere turbata apparentemente solo dall’avvento della generazione gentiliana, più numerosa e brillante2. Lo stereotipo della scuola pisana come torre d’avorio isolata, improvvisamente risvegliata dalla creazione di reti giovanili più o meno solidamente votate ad un’opposizione morale o militante al regime, si è del resto costruito negli anni successivi al conflitto mondiale in modo tutt’altro che coerente, e a volte radicalmente contraddittorio. Altre memorie hanno differentemente datato, come si vedrà, lo spartiacque tra la generazione dei normalisti olimpicamente chiusi «nella loro incontaminata cultura», la cui persistenza un affidabile testimone come Mario Manacorda attestava ancora per gli anni Trenta, e l’avvento dei normalisti «politici» (vale a dire attivamente antifascisti), occasionalmente collocati tra gli allievi degli anni 1932-36 e quelli del 1936-403. Pur tra tutte queste varianti, tuttavia, pare ragionevole affermare che il 1928, con lo scandalo degli arresti di Vittorio Enzo Alfieri e Armando Sedda (allievi interni) e di Umberto Segre (esterno con sussidio), abbia rappresentato effettivamente

  Capitini, Antifascismo tra i giovani, p. 17.  M.A. Manacorda, Testimonianza, in F. Frassati (ed.), Il contributo dell’Università di Pisa e della Scuola Normale Superiore alla lotta antifascista ed alla guerra di Liberazione, Pisa 1989, pp. 139-50. I testi raccolti in quel volume, pubblicato come atti del convegno omonimo tenuto a Pisa nel 1985, costituiscono la più significativa silloge di testimonianze proprio della generazione normalistica degli anni Trenta. L’immagine che ne scaturisce, pur essendo imperniata sullo stesso codice retico della Normale come laboratorio di un precoce riscatto politico e di una compiuta estraneità al regime della gioventù formatasi nella scuola fascista, non è sempre coerente. 2 3

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uno spartiacque nella vita e nella memoria collettiva della comunità studentesca normalistica: prima di tale data, l’immagine che ci è stata tramandata è quella di un istituto sordo alle vicende del Paese, avulso dai turbamenti del dopoguerra, immune, come si è visto, persino dalla rimembranza sacrale del conflitto. Gli allievi entrati negli anni Venti paiono insomma attraversare quasi tutto il decennio vivendo in una sorta di oasi apolitica, completamente assorbiti dalla vasta trama di obblighi che lo status di allievo della Normale prevede. Ma quali erano questi doveri, e come si organizzava la vita dello studente della Scuola prima delle riforme del 1929-32 e della costruzione di un assetto che, per molti versi, è sopravvissuto intatto fino ad anni recenti? In effetti, prima che il nuovo statuto degli anni Trenta stabilizzasse – con pignoleria quasi militaresca – i doveri comunitari, disciplinari e di studio dell’allievo, in ossequio ad una concezione pedagogica di Gentile per la quale egli stesso utilizzava (non casualmente) il termine «milizia»4, il regolamento del 1923 stabiliva come obblighi didattici, in un unico articolo, la frequenza dei corsi previsti dal piano di studi della facoltà e la partecipazione alle conferenze e alle eventuali esercitazioni all’interno della Scuola. Tipicamente normalistico era la formalizzazione del ruolo degli studenti anziani, appartenenti al secondo biennio, cui veniva demandato il compito di seguire i «giovani […] degli anni preparatorii nelle loro conferenze e nei loro lavori» e di preparare per essi «lezioni speciali da stabilirsi d’accordo col direttore della Scuola»5. Il modello seminariale era facilitato dalle ristrette dimensioni della popolazione studentesca: la dimensione «familiare», così spesso richiamata come una delle caratteristiche peculiari del modello collegiale pisano, sarebbe stata non casualmente al centro della visione di Gentile, il quale, più di ogni altro, e in larga parte motivato dai propri ricordi studenteschi, ne avvertiva l’importanza6. Lo stretto rapporto tra studenti giovani e «anziani» (i laureandi o

  La «milizia della scuola», sintagma che riassume bene la visione etica che Gentile assumeva per i compiti di formazione della Scuola Normale, e formula con cui chiosava, non casualmente, il suo Pentalogo del normalista. Cfr. per questo Simoncelli, La Normale di Pisa, p. 48 e, per una contestualizzazione più ampia, cap. I, parte II del presente volume. 5   Regolamento 1923, art. 10. 6  Il richiamo ad un’atmosfera intima e familiare ritorna sovente nei discorsi dedicati da Gentile alla Normale: «mi pareva che lì avrei trovato un’altra famiglia», in Gentile, La Scuola Normale Superiore di Pisa (1908), p. 218. 4

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«fagioli») era, più che nel resto del mondo universitario, naturalmente favorito dai ritmi e dagli spazi del convitto. Il tutoraggio da parte dei più vecchi era speculare al legame pressoché amicale instaurato con alcuni docenti, attorno a cui gli studenti, come discepoli, si riunivano al pari di «una famiglia», nelle parole che Tristano Bolelli avrebbe usato per commemorare, molti anni dopo, Giorgio Pasquali, che a partire dal 1931 era diventato una figura di riferimento di quell’ambiente informale ed affettuoso così spesso ricordato7. Proprio nelle testimonianze degli ex allievi entrati attorno a quegli anni, la figura dell’allievo anziano, compagno e maestro, assume un suo rilievo particolare. Carlo Cordié, ammesso come interno di lettere al finire di quella stagione, fisserà anni dopo, in pagine destinate a rifondare un ruolo pubblico della Scuola repubblicana, l’immagine assai efficace della «catena ininterrotta» della tradizione normalistica, una comunità definita dal suo passato, a partire dalle gloriose memorie ottocentesche in avanti, e tesa ad un futuro altrettanto nobile. In questa prospettiva ideale, l’anziano è il tutore e il mediatore tra ogni giovane normalista e la storia della Scuola: «ognuno ha avuto, di solito, una guida in un anziano e attraverso di lui si è collegato col vivo corpo della tradizione»8. Cordié, certo, ed era il primo ad ammetterlo, aveva avuto

  Manacorda, Testimonianza, p. 143; «Intorno a Pasquali i Normalisti formavano una famiglia e ciascuno si prendeva cura di lui. Andavano a riceverlo alla stazione, spesso uscivano insieme dopo ore ed ore di lavoro comune, facevano qualche volta una piccola ‘orgia’ (anche se si beveva latte egli chiamava orgia una lieta riunione di amici), si chiacchierava di tutto». T. Bolelli, Giorgio Pasquali alla Scuola Normale, «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Classe di Lettere e Filosofia», 22, 1953, pp. 1-4. Giorgio Pasquali (Roma 1885 - Belluno 1952), ordinario di letteratura greca a Firenze, dal 1931 fu incaricato di filologia classica in Normale. Sui rapporti tra alcuni dei docenti di Lettere e gli studenti più anziani ancora nella seconda metà degli anni Venti, cfr. la vivida descrizione del pittoresco clima delle lezioni (e del dopo lezione) instaurato da Augusto Mancini E. Carli, Inventario pisano, Milano 1977, pp. 112 e sgg. 8  C. Cordié, Il centocinquantesimo anniversario della Scuola Normale Superiore di Pisa, «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Classe di Lettere e Filosofia», 33, 1963, pp. 163-74. Il testo è la riproduzione di una trasmissione radiofonica andata in onda sul canale Radio-RAI il 29 aprile 1963. C. Cordié (Gazzadda Schianno VA 1910 - Firenze 2002). Ammissione di Lettere del 1928, poi anche perfezionando nel 1932-33. Francesista e comparatista, dopo varie esperienze come supplente nelle scuole medie, alcune borse e vari incarichi in Francia e a Milano (dal 1942) per l’in7

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la ventura di avere come guida un formidabile allievo e perfezionando quale Delio Cantimori, figura di spicco anche nel contesto di una stagione eccezionale per la qualità e lo spessore morale ed intellettuale degli allievi, che avrebbe visto confrontarsi (e a volte contrapporsi) nel palazzo dei Cavalieri personaggi destinati a brillanti curricula accademici, o ad altrettanto rilievo nel contesto politico e culturale della nazione (si pensi alla singolarità di Aldo Capitini)9. Cantimori si sarebbe rivelato negli anni non solo un fattore di coagulazione della sociabilità normalistica, in grado di mantenere i contatti con una rete estremamente ampia e diversificata di allievi o ex tali, ma anche un attento interprete di tutti i ruoli tradizionalmente attribuiti al «buon normalista»: anziano sagace in grado di guidare i più giovani, giovane studioso in carriera al centro di una galassia di amici e compagni dispersi per l’Italia (e l’Europa) dopo la laurea, professore di scuola ammirato capace di affascinare i propri studenti, indirizzando i più promettenti al concorso di ammissione. Subito dopo l’anno di perfezionamento (1928-29), Cantimori aveva infatti vinto il concorso a cattedra per l’insegnamento di storia e filosofia nelle scuole medie superiori, destinato come prima nomina alla sede non proprio agevole (nella tradizione delle ‘prime nomine’ nella scuola italiana) di Cagliari10. La

segnamento di letteratura francese, nel 1955 divenne professore di ruolo di Lingua e letteratura francese prima a Messina e poi alla facoltà di Magistero di Firenze, dove rimase fino al pensionamento. Fu uno degli esponenti di spicco di quel circolo di amici e sodali di Cantimori (nella classe di Scienze, soprattutto Giovanne Gentile Jr., a Lettere Claudio Varese, Carlo Ludovico Ragghianti e altri) attivi alla Normale (o intorno ad essa, come Giuseppe Dessì) tra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta, in sintonia e a volte in contrasto con l’altro polo di pensiero e di inquietudini rappresentato da Aldo Capitini e da Claudio Baglietto. A loro si deve la maggior parte della produzione memorialistica e delle riflessioni autobiografiche sulla Pisa studentesca e intellettuale di quegli anni. Per alcune notizie biografiche, e per un primo approccio alla costituzione e alle dinamiche del circolo cantimoriano negli anni pisani e successivamente, cfr. Id., Premessa, in Tre note su Giuseppe Dessì, «Critica Letteraria», 1, 1988, pp. 49-110, e C. Varese, Introduzione a G. Dessì, La scelta, Milano 1978, pp. 7-26. 9  C. Cordié, L’alunno perfezionando Delio Cantimori (Scuola Normale Superiore di Pisa 1929-29), «Rivista di studi crociani», 12, 1975 pp. 205-12 e 303-312, e 13, 1976, pp. 53-71. 10  Per questa fase della vita di Delio Cantimori si rimanda, in primo luogo, a Simoncelli, Cantimori, Gentile e la Normale di Pisa, pp. 17-28. Ivi anche il testo

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città sarda non era certo la scelta migliore per un giovane studioso: a nuocergli soprattutto, come avrebbe scritto nella domanda di trasferimento redatta di lì a due anni, il clima e l’assenza di strutture a cui appoggiarsi per continuare quegli studi che di lì a qualche tempo (dopo due borse di studio che gli resero possibile, tra l’altro, un lungo soggiorno europeo dal settembre 1933 al settembre 1934) gli avrebbero valso, su offerta di Gentile stesso, il posto di assistente all’Istituto Italiano di Studi Germanici a Roma, posizione che lo libererà definitivamente dalle pastoie dell’insegnamento scolastico11. Cantimori si

della sua domanda di trasferimento. A proposito del trauma delle «prime sedi», notoriamente le più disagevoli, nelle regioni più isolate della Penisola, spesso teatro di veri e propri drammi per i neo nominati docenti, cfr. A. Scotto di Luzio, Il liceo classico, Bologna 1999, pp. 63-80, e Id., La Scuola degli italiani, pp. 19-31. 11  I periodi di insegnamento di Cantimori furono in realtà relativamente brevi e discontinui. Nell’autunno 1928, subito dopo la laurea e prima di vincere il perfezionamento, insegnò come supplente presso il Liceo Classico pareggiato ‘Emanuele Repetti’ di Carrara, chiamato direttamente dal preside Danilo Baccini, normalista, già studente di Manara Valgimigli con cui si era laureato nel 1925. Dal settembre 1929 all’ottobre 1931 fu in servizio, come docente straordinario, al liceo classico ‘Dettòri’ di Cagliari, per poi trasferirsi al liceo classico ‘Foscolo’ di Pavia, dove rimase tuttavia poche settimane, avendo vinto una borsa di studio che gli permise di soggiornare a Basilea (dicembre 1931-giugno 1932). Tornato a Pavia per l’anno scolastico 1932-33, vinse la borsa dell’Accademia d’Italia-Fondazione Volta che gli consentì di assentarsi per un intero anno (settembre 1933-settembre 1934) e di intraprendere il suo famoso viaggio negli archivi europei alla ricerca di quei materiali che sarebbero poi confluiti in Eretici italiani del Cinquecento (prima edizione: Milano 1939). Allo scadere di quest’ultima borsa, Cantimori approdò all’Istituto Italiano di studi germanici. Di qui, dopo un altro soggiorno estero a Lipsia e Dresda (agosto-settembre 1936) e alcuni incarichi di insegnamento, Cantimori si sposterà a Messina (1939), prima sede dopo la vittoria nel concorso a cattedra di Storia moderna, e quindi, a conclusione di una carriera decisamente fulminante e fortunata, giocatasi all’ombra dell’autorevole protezione di Gentile, a Pisa, per ricoprire la cattedra creata ad hoc in Normale (e che avrebbe tenuto fino al 1948). Su questa vicenda, che creò non poche frizioni in Normale, soprattutto con il vice-direttore Arangio-Ruiz, cfr. soprattutto Simoncelli, Cantimori, Gentile e la Normale di Pisa, pp. 109 e sgg. Uno dei più completi profili biografici su Cantimori, con una particolare attenzione ai materiali sopravvissuti della sua attività didattica, è quello, datato ma ancora fondamentale, di G. Miccoli, Delio Cantimori. La ricerca di una nuova critica storiografica, Einaudi, Torino 1970. Per quello che riguarda Danilo Baccini (La Rotta PI 1903-?), ammissione di Lettere 1921, percorse una lunga carriera

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sarebbe lamentato a più riprese dell’isolamento cui la mal sopportata sede cagliaritana lo costringeva: «estraneo» a tutto ciò che lo circondava, come avrebbe scritto in una lunga lettera all’amico intimo Giovannino Gentile12, annoiato e rinchiuso in se stesso («vernaccia, noia e studio», come l’avrebbe apostrofato ironicamente Claudio Varese), isolato rispetto ad un ambiente sociale percepito come alieno13. Isolato era certamente (benché non tanto quanto successivamente si è creduto, e i frequenti scambi epistolari e i contatti anche lavorativi con i suoi corrispondenti normalistici ed ex tali lo testimoniano), ma, pur nel suo breve periodo cagliaritano, interrotto peraltro appena possibile da viaggi sul continente, il Cantimori professore liceale interpretò il suo ruolo di comunicatore del prestigio e del fascino della Normale, oltre che di mediatore di sapere, rendendosi parte della vasta schiera di «grandi insegnanti dei Licei che la sezione di Lettere e Filosofia ha dato», anello di collegamento tra la scienza pura prodotta e discussa all’interno della «piccola schiera di gente scelta» e i giovani studenti di scuola, in attesa di essere guidati ed educati. Un ruolo, quello dell’insegnante «operante» fuori dagli istituti accademici, che egli stesso avrebbe onorato, in modo complementare rispetto al testo di Cordié, in occasione delle celebrazioni ufficiali del 150° anniversario della fondazione della Scuola pisana14. Tra i pochi studenti con cui si aprì in quel periodo, risalta particolarmente il legame instaurato con il futuro scrittore Giuseppe Dessì. È nota l’amicizia molto stretta che avrebbe legato poi Dessì al conterraneo Claudio Varese, un altro dei protagonisti della cerchia cantimoriana, testimoniata da un lungo e denso epistolario estremamente rivelatore della solidità dei legami

sempre nell’ambito della dirigenza scolastica. Dopo la presidenza del liceo di Carrara, che tenne fino almeno al 1932, e dopo un periodo presso le Scuole Italiane in Perù, divenne provveditore agli studi, a Campobasso (dove viene ricordato per la particolare attività nell’apertura di nuove scuole all’inizio degli anni Sessanta) e a Roma. 12   Da Cantimori a Giovanni Gentile Jr., Cagliari 18 maggio 1930, in Simoncelli, Cantimori, Gentile e la Scuola Normale, p. 26. 13  La lettera, risposta ad una missiva di Cantimori da Cagliari che non ci è pervenuta, è in ASNS, Fondo Cantimori, f. Claudio Varese, da Varese a Cantimori, Genova 26 dicembre 1929. 14  D. Cantimori, Conferenza per la Classe di Lettere e Filosofia in occasione del 150° anniversario della Scuola Normale Superiore, «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Lettere e Filosofia», 33, 1963, pp. 155-61. Il testo riporta la conferenza tenuta presso la Sala degli Stemmi il 28 settembre 1963.

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creatisi tra gli studenti pisani e rimasti poi particolarmente stretti nei decenni successivi, sia sul versante dello scambio intellettuale (Varese e Cordié, in particolare, furono destinatari e commentatori degli scritti di Dessì), sia su quello del sostegno concreto, in termini di aiuti economici nei momenti di disagio e di favori per le diverse carriere15. Studente irrequieto e irregolare, brillante ma in possesso di una formazione del tutto discontinua e nutrita più che altro di letture personali, Dessì fu affascinato dal giovane professore che gli schiudeva un mondo, quello pisano, dipinto come culla di una cultura umanistica ampia e aperta che in Sardegna gli sarebbe stata preclusa: «è stata per me una gran fortuna aver incontrato Cantimori sulla mia via. È un uomo superiore a quanti ho conosciuto e sarà per me un’ottima guida, un maestro nel vero senso della parola»16. Fu proprio Cantimori a presentare al giovane Dessì Claudio Varese, coetaneo ma, in quanto già laureato a Pisa, normalista e perfezionando, allo stesso tempo anche guida per una più adeguata educazione letteraria17. Il professore non ancora trentenne, dalle «mani grandi e bianche, ben curate ed eloquenti», che a scuola aveva colpito i propri studenti per l’insegnamento vasto e ben poco convenzionale, oltre che per il carattere a volte rigido e introverso18, e il poco più giovane perfezionando, che affascinava conversando di un mondo culturalmente lontano e privilegiato, funsero così da tramite tra la «comunità di studi, di sollecitazioni e di scambi intellettuali», di cui entrambi sentivano ancora fortemente il richiamo, e il brillante neofita, cui la Normale avrebbe aperto un orizzonte lontano dal provincialismo cagliaritano e dalla tradizionale via di fuga di Roma19. Nel binomio Dessì-Varese, pur in un contesto così lontano

 M. Stedile, Giuseppe Dessì - Claudio Varese. Lettere 1931-1977, Roma 2002. Giuseppe Dessì (Cagliari 1909 - Roma 1977), figlio di un ufficiale di carriera, aveva avuto un iter scolastico molto tormentato. Dopo alcune bocciature al ginnasio aveva abbandonato gli studi regolari, per re-iscriversi infine al liceo di Cagliari solo nel 1929, occasione in cui incontrò Cantimori, suo professore di storia e filosofia. Per la giovinezza di Dessì cfr. F. Linari (ed.), Diari (1926-31), Roma 1993. Materiali differenti, ma pur sempre molto interessanti per il circolo pisano, sono stati recentemente messi in luce da F. Nencioni (ed.), A Giuseppe Dessì. Lettere di amici e lettori con un’appendice di lettere inedite, Firenze 2009. 16   Ibid., p. 141. Nota datata 10 maggio 1930. 17  D. Cantimori, Conversando di storia, Bari 1967, p. 137. 18  G. Dessì, Il professore di liceo, «Belfagor», 3, 1967, pp. 307-10. 19   Varese, Introduzione, pp. 9 e 15. 15

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da Pisa e così eccentrico dal punto di vista curriculare, Cantimori aveva insomma ricreato l’effetto ideale della coppia allievo giovane-allievo anziano, basata su un rapporto contemporaneamente di «maître et camarade», come lo stesso Dessì avrebbe affermato, con felice definizione, in una lettera della vecchiaia20. Come è noto, Dessì non entrò mai in Normale, impossibilitato a superare lo scoglio dell’esame di ammissione a causa delle troppe lacune specialmente in latino e greco, materie fondamentali per l’accesso alla classe di Lettere, che l’interesse e il sostegno privato di Cantimori e Varese non erano riusciti a colmare21. Tuttavia, il futuro romanziere lasciò comunque la Sardegna per trasferirsi a Pisa, ammesso con una retta privilegiata in un collegio religioso, e a Pisa si laureò in lettere nel 1936 per divenire, da quel momento in poi, un punto di riferimento e un prezioso osservatore ‘esterno’ del gruppo normalistico dei suoi amici e coetanei: gli anni pisani, poi immortalati come quelli della formazione, sarebbero rimasti sempre legati alle figure dei maestri-compagni e grazie a Dessì, come vedremo, la qualità e il significato del «cameratismo pisano» di quegli anni ci sono stati tramandati22. Nonostante il parziale insuccesso in questo caso, il ruolo giocato dal giovane professore liceale rientrava a pieno titolo nella tradizionale attività degli ex normalisti inseriti nell’insegnamento secondario. Sempre Cantimori avrebbe spinto un suo giovane allievo di Carrara a ten-

 «Con il povero carissimo Delio [Cantimori] non c’è mai stata la confidenza che ho avuto con te, e che ci deve sempre essere, credo col vero maestro, che deve essere maître et camarade allo stesso tempo», da Dessì a Varese, Roma 1 gennaio 1974. Claudio Varese (Sassari 1909 - Roma 2002), ammissione di Lettere 1928 al terzo anno, aveva passato il concorso in Normale dopo due anni alla facoltà di Lettere di Cagliari. Dopo la laurea in lettere conseguita cum laude nel giugno 1930, fu allievo perfezionando (ottobre 1930-giugno 1931) e borsista a Berlino (1933-34). Dopo un lungo periodo di insegnamento nelle scuole secondarie, e il conseguimento della libera docenza nel 1948, transitò nei ruoli universitari, insegnando prima ad Urbino come comandato (dal 1956) e poi ottenendo la cattedra di Letteratura italiana alla facoltà di Magistero di Firenze. 21  Dessì avrebbe inizialmente ritenuto di poter ritentare l’esame nel 1933, per entrare direttamente al III anno, ma non si presentò mai, fondamentalmente per timore di un insuccesso a causa della sua debolezza in greco. Cfr. ASNS, Fondo Cantimori, f. ‘Dessì’, da Dessì e Varese a Cantimori, Villacitro 16 settembre 1932. 22  F. Dessì Fulgheri, Testimonianze, in La poetica di Giuseppe Dessì e il mito della Sardegna, Cagliari 1986, specie pp. 308 e sgg. 20

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tare il concorso (con esito questa volta favorevole) durante il suo anno di insegnamento a Pavia23, adempiendo dunque, sia pure per il breve lasso della sua carriera, alla missione operante degli insegnanti usciti dalla Scuola o, almeno, all’immagine che di essi è stata tramandata: attivi chierici di quel sapere diffuso dall’«albero glorioso della Scuola Normale» in «tutte le scuole medie e superiori d’Italia, con centinaia di insegnanti e di studiosi tutti riconoscibili, in generale, a certi lineamenti di famiglia», secondo la formula adottata da Gentile nel discorso, ad un tempo programmatico e propagandistico, volto ad illustrare lo spirito della nuova Normale, fedele alla sua tradizionale missione di formazione dei buoni professori di scuola ma contemporaneamente votata all’educazione della gioventù di una nuova Italia fascista24. Non può sorprendere, in effetti, che le conversazioni di Cantimori o di Cordié possano aver riecheggiato, in modo a volte pedissequo, le parole d’ordine che Gentile aveva voluto e saputo rilanciare, facendone la bandiera della «sua» Scuola rinnovata. La «piccola schiera di gente scelta», la «catena ininterrotta» evocata da Cordié, richiamavano da vicino la figura tipicamente gentiliana della «famiglia normalistica», proposta sia negli interventi pubblici, volti a costruire l’immagine del rinnovato istituto pisano, sia in testi apparentemente più anodini, ma non meno significativi e pregnanti, come la commemorazione carducciana del 1935, con il patetico ricordo della «memoria familiare» degli allievi passati da trasmettere ai più giovani come pegno ed eredità25. Una pratica discorsiva forse poco attenta al dato concreto relativo alle vie del reclutamento normalistico, o, perlomeno, al suo mutare. In effetti, se dopo l’avvento di Gentile e il rapido incremento degli allievi (e quindi dei diplomati destinati a percorrere in buona parte, anche solo temporaneamente, la via dell’insegnamento secondario), la diffu-

 Giorgio Bedini (Carrara 1911-?), ammissione di Lettere 1930, non avrebbe avuto comunque troppo fortuna: la sua carriera normalistica si chiuderà infatti l’anno successivo non avendo riportato una media sufficiente agli esami interni. Cfr. Verbali del Consiglio ’30-’39, seduta 14 dicembre 1931. Bedini si sarebbe in seguito trasferito dal corso di laurea in filosofia alla facoltà di Giurisprudenza. Cfr. ASLPi, f. 23311 ‘Bedini Giorgio’. 24   G. Gentile, Discorso del sen. Giovanni Gentile Direttore della Regia Scuola Normale Superiore, «Annuario della Regia Scuola Normale Superiore di Pisa», I, 1934-35, pp. 14-22. 25   Cfr. G. Gentile, Carducci e la Scuola Normale di Pisa, in Id., La nuova scuola media, pp. 361-3. 23

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sione del prestigio e del fascino della Normale in una platea più vasta e diversificata di aspiranti dovette probabilmente molto alla rete degli ex normalisti divenuti docenti, prima del 1928 si può ragionevolmente dubitare, almeno allo stato delle attuali conoscenze, dell’importanza di questo fattore26. Gli ammessi dal 1919-20 fino al concorso 1928-29, l’ultimo prima delle riforme statutarie, provenivano infatti da 39 scuole differenti, tra Licei-ginnasi, Istituti tecnici e (dopo il 1923-24) Licei scientifici, con un altissimo tasso di dispersione per provenienza: quasi tutti gli istituti scolastici mandarono infatti un solo studente alla Normale, sette almeno due e solo due scuole, l’Istituto tecnico di Firenze e il ‘Pacinotti’ di Pisa, raggiunsero una quota significativa di ammessi (rispettivamente, sei e cinque)27. Allo stesso modo, va sottolineato, dalle fonti a nostra disposizione appare difficile suffragare l’idea, anch’essa ampiamente pervasiva e diffusa, della intima convivialità all’interno della comunità normalistica. Perlomeno, appare legittimo chiedersi se l’immagine dei normalisti riuniti la sera in piccoli gruppi nelle camere di Palazzo dei Cavalieri, intenti a discutere animatamente su questo o quel tema di studio (o anche non di studio), o, più ludicamente, impegnati nelle canoniche gite fuori porta, in bicicletta verso la Lucchesia o verso le Apuane, non sia piuttosto un riflesso di quel clima camerate-

 Tra le due guerre, come si vedrà in dettaglio più avanti, il comparto dell’insegnamento scolastico attirava quasi la metà dei normalisti. Va subito rilevato però che, trattandosi di dati derivati dall’inchiesta sulla collocazione degli ex allievi voluta da Gentile, riproposta subito dopo la guerra e continuata saltuariamente fino agli anni Sessanta, la fotografia della collocazione professionale dei normalisti andrà accolta con prudenza: tralasciando infatti alcune figure liminari tipiche dell’università italiana dell’epoca (professori di ruolo al liceo incaricati di insegnamento in un ateneo), non è affatto detto che il personale universitario non di ruolo (assistenti, borsisti, perfezionandi presso diversi enti) non approdasse infine all’insegnamento secondario. Dati provvisori e metodologia dell’inchiesta sono esposti in Mondini, Nobiltà di Stato? Considerazioni su origini sociali, promozione e destinazione professionale dei normalisti tra le due guerre, in La storia della Scuola Normale Superiore di Pisa in una prospettiva comparativa, pp. 83-92. 27   Rilevazioni da ASNS, Istanze e documenti di ammissione, bb. 28-32. Va aggiunto che, a causa del frequente ritiro della documentazione da parte dei non ammessi (e a volte anche degli interni), la registrazione delle scuole di provenienza non è possibile per l’insieme dei candidati. Inoltre, in 13 casi gli ammessi erano già iscritti all’Università (nel qual caso l’indicazione della scuola di provenienza è assai rara), e in altri dieci non è stato possibile stabilire con certezza l’istituto di provenienza. 26

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sco tipico della generazione, più numerosa, rumorosa e goliardica, degli anni Trenta. Gli allievi degli anni Venti, in effetti, erano ingabbiati in una somma di articoli disciplinari del regolamento che sembravano lasciare loro ben poco spazio per una vita al di fuori delle mura della Scuola. Benché, a differenza del primitivo regolamento disciplinare della Normale granducale e unitaria, su cui avrebbe ironizzato Cordié durante il discorso del 150°, e del successivo regolamento interno promulgato nel ’32, che avrebbe fissato orari e contegno degli allievi con la maniacalità degna di una caserma, i regolamenti novecenteschi non insistessero esageratamente sulle norme di comportamento dei convittori, il normalista non godeva certo di una grande libertà: il rientro serale entro le 22:00 (ora di chiusura del portone di accesso) era vincolante, alla pari del divieto di assentarsi dalla città senza permesso del Direttore, una norma che sarebbe rimasta teoricamente in vigore fino alla fine del XX secolo, così come per molti decenni si sarebbe mantenuto il divieto assoluto di ingresso nel Convitto degli estranei28. Va da sé che tutte queste norme potevano essere (come sarebbero state anni più tardi quelle ben più opprimenti volute da Gentile) oggetto di insofferenza e di tentativi di elusione, ma, a differenza di quanto sarebbe stato registrato nella memorialistica della generazione successiva, pare che i più quieti normalisti dei primi anni Venti non avessero seri motivi per attuare strategie trasgressive e che questo avesse come conseguenza il loro isolamento dalla vita studentesca della città. In effetti, è solo Enrico Fermi ad avere tramandato, attraverso i suoi racconti alla moglie, il ricordo di una stagione pisana allegra, fatta anche di scherzi, amicizia e peripezie goliardiche (alcune delle quali quasi gli costarono l’espulsione dall’ateneo), ma si trattava di una dimensione del tutto sconosciuta all’ambiente più cupo e meno vitale dei normalisti, a cui il futuro nobel era trascinato dall’amico fraterno Rasetti (pisano ma non normalista), animatore della società «dell’Antiprossimo» e delle sue beffe29. Quello che traspare da altri ricordi, come quelli (rari) di Cantimori, o le lettere di Giovanni Gentile Jr., è piuttosto la sensazione di un tendenziale isolamento, sia rispetto all’ambiente universitario sia all’interno delle stesse mura della Normale, e un incombente atmosfera di solitudine, che doveva beninteso cogliere alcuni più che altri, ma che appariva comunque come la nota dominante della piccola comunità degli anni Venti. «Ho trovato la salvezza da quest’ambiente, ora

  Regolamento 1923, artt. 42 e sgg.   Fermi, Atomi in famiglia, pp. 23-43.

28 29

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che vi sono solo, rinchiudendomi ancora di più; sto diventando (coi pisani) più legnoso che non fossi quando arrivai», si confidava, nel 1927, il giovane allievo Cantimori all’amico intimo e ormai ex allievo Giovannino Gentile, in una lettera che è tra le rare testimonianze in prima persona del suo periodo di studente che non dovrebbe essere letta come la prova di una natura assolutamente scontrosa, quanto come la testimonianza di un contesto non facile per i rapporti umani; infatti, di lì a poco, per il Cantimori perfezionando (malinconico, ma non certo misantropo)30 e poi «in esilio» come professore, il milieu dei camerades si sarebbe rivelata rete amicale di tutt’altro spessore31. La vita ritirata, del resto, sembrava una caratteristica per i convittori. Da un lato, vanno infatti considerate le deprimenti confessioni del giovane Gentile, che nelle sue lettere si intratteneva, in modo quasi patologico, sulla bellezza della sua «gioiosa solitudine» e sulla sua solipsistica immersione negli studi, che preferiva ai «cari compagni» decantati poi nella corrispondenza con Cantimori32. Dall’altro, ci sono le osservazioni di un ironico «esterno» come Enzo Carli che rivelano la marginalità, quasi l’auto esclusione dei normalisti, «condiscepoli studiosissimi» e ammirati per la loro erudizione, ma estranei ai gruppi protagonisti della dinamica vita burlesca (il «Crocchio di Goliardi spensierati» o «l’Associazione ex Guardie della Cecca») di una goliardia che a Pisa era, nella seconda metà degli anni Venti e prima dell’egemonia incontrastata e opprimente della ritualità fascista dei GUF, ancora in piena effervescenza33. Il ritrovarsi nelle camere e discutere di argomenti di alto interesse scientifico poteva del resto affascinare, soprattutto considerando che

  Sulle malinconie (ma non certo il radicale isolamento, come sostiene Simoncelli a più riprese) di un Cantimori più maturo cfr. cordié, L’alunno perfezionando Delio Cantimori, specie pp. 303-12. 31  Cantimori a Giovanni Gentile Jr., Pisa 17 dicembre 1927, in Simoncelli, Cantimori, Gentile e la Normale di Pisa, pp. 18-9. 32   Sulle malinconiche ubbie del figlio di Gentile cfr. P. Simoncelli, Tra scienza e lettere. Giovannino Gentile (e Cantimori e Majorana). Ricostruzioni e polemiche, Firenze 2006, specie pp. 15 e sgg. 33   Carli, Inventario pisano, pp. 122-3. E. Carli (Pisa 1910 - Siena 1999), storico dell’arte, allievo di Marangoni all’Università, professore e ambiente di cui lasciò nelle sue memorie uno straordinario ritratto, non fu mai normalista, benché studente estremamente brillante ed amico di molti di loro (tra cui Ragghianti). Era, tra l’altro, figlio di Plinio Carli (1884-1954), insegnante a Pisa e già normalista (Lettere 1904). 30

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queste discussioni, sempre più spiccatamente interdisciplinari col passare degli anni, offrivano moltissimo a chi proveniva da un ambiente scolastico provinciale e da curricula di studi lacunosi. L’allora giovane allievo di filosofia Cordié avrebbe ricordato poi con piacere e malinconia l’istituzione dell’Accademia dei Normalisti, detta «del Sabato Sera», presieduta nell’ultimo scorcio degli anni Venti dal brillante ma sfortunato Fausto Meli, laureando in filosofia e allievo di Giuseppe Saitta, riunita tradizionalmente attorno a due allievi anziani, di Lettere e di Scienze, in un aula del secondo piano, a dibattere problemi culturali. Di certo, non si può dire che queste aggregazioni interne testimoniassero la capacità dei normalisti di organizzarsi una vita anche all’esterno del Palazzo, nemmeno nei giorni del fine settimana tradizionalmente liberi da impegni di frequenza e di studio34. A favore di queste tendenza al ritiro negli studi, va detto, giocavano certamente gli obblighi cui i normalisti dovevano rassegnarsi per non perdere il posto. Fino alla modifica parziale del regolamento introdotta nel 1929, con la formalizzazione dei colloqui interni come fulcro della formazione scientifica e delle fatiche didattiche del normalista (un istituzione che conserva la sua validità ancora oggi), il normalista, per conservare il titolo e il diritto al convitto (o all’assegno per gli aggregati) doveva faticare teoricamente meno dei suoi colleghi futuri. Doveva evitare in sostanza di prendere meno di 24/30 ad ogni esame sostenuto in facoltà (i cosiddetti «esami speciali» collegati ai singoli insegnamenti), alle esercitazioni, ai corsi ed esami interni (dopo il 1925, anche ai lettorati di lingua), senza che fosse previsto alcun obbligo di media, quella del 27 venendo introdotta solo anni più tardi; obbligo a cui si aggiungeva il vincolo di rispettare i piani di studio «consigliati» (in pratica, obbligatori) dalle facoltà e di completare gli esami previsti nella sessione estiva35. Che tale onere non fosse proprio una sinecura

  cordié, L’alunno perfezionando Delio Cantimori, p. 307. Fausto Meli (Roma 1908 - Trapani 1931). Ammissione di Lettere 1925. Laureatosi cum laude in filosofia nel giugno 1929 con uno studio sugli antecedenti di Spinoza in Italia, dopo un periodo come assistente volontario alla cattedra di filosofia teoretica aveva trovato impiego come docente presso l’Istituto Magistrale di Trapani, morendo poi improvvisamente nello stesso anno. In memoria, verrà pubblicato il volume Spinoza e due antecedenti italiani dello spinozismo (Sansoni, Firenze 1934), con una prefazione dello stesso Saitta. 35   Regolamento 1923, art. 10. Si noti che il regolamento non stabiliva l’esatto voto da riportare negli esami, deciso dal Consiglio Direttivo con un deliberato modificabile su sua decisione (come infatti capiterà in anni successivi). 34

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è testimoniato, più ancora che dal numero di normalisti che persero il posto tra il 1919 e il 1929 (dodici), dalle sempre più frequenti domande di posticipare ad ottobre gli esami, motivando con problemi di salute o di famiglia l’impossibilità di soddisfare a tutti i propri obblighi nei tempi previsti dal regolamento o addirittura, in alcuni casi, di rifare un esame interno (specialmente quelli di lingua). A tale richiesta il Consiglio Direttivo acconsentiva, a volte senza problemi, più spesso reiterando la minaccia di non permetterlo ulteriormente, una pratica che può essere considerata spia, più che di una rilassatezza del rigore interno (sono in fine dei conti gli anni in cui il livello qualitativo dei candidati è mediamente basso, ma in cui si evita anche di coprire tutti i posti disponibili, se all’esame non si presentano allievi in possesso di alcuni requisiti minimi) di un riconoscimento del reale onere rappresentato dalla scadenza di luglio36. La «vita monastica» del normalista, che riaffiora più volte nella memorialistica, spesso con toni calorosi e di rimpianto per il livello culturalmente alto delle discussioni (specie letterarie), poteva essere, insomma, una condizione quasi obbligata: le riunioni serali nelle stanze del palazzo, a leggere e studiare insieme, un’antica consuetudine destinata a sublimare l’impossibilità di godere della sociabilità studentesca37. 2. Gli inermi e gli indifferenti. Il caso Alfieri-Segre e il 1928 alla Normale Il 23 aprile 1928 Vittorio Enzo Alfieri, Armando Sedda e Umberto Segre vennero arrestati a Pisa su richiesta delle questure di Parma e Genova, in seguito all’ondata di provvedimenti repressivi che avevano attraversato il paese, e particolarmente le regioni settentrionali, dopo il fallito attentato a Vittorio Emanuele III a Milano. La bomba fatta esplodere il 12 aprile alla fiera di Milano, pur lasciando illeso il re, aveva provocato 18 vittime, tra cui tre soldati e nove tra donne e bambini, sollevando, per la dimensione inusitata della violenza e per il carattere antidinastico dell’operazione, un corale sdegno nelle fila dell’opinione pubblica. Benché la matrice del gesto non sia mai risultata chiara agli investigatori, le indagini si indirizzarono ovviamente

  Verbali del consiglio, seduta 21 giugno 1926, p. 139.   Ne diede conto, ad esempio, G. Gentile Jr. in un articolo apparso sul periodico giovanile romano Gli arrisicatori nel 1928 e di cui ha dato notizia Simoncelli, Tra scienza e lettere, p. 16. 36 37

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(anche se non esclusivamente) in direzione delle superstiti reti antifasciste: la pista anarchica, seguita dai Carabinieri, quella delle cellule dell’antifascismo intellettuale di area repubblicana e socialista, privilegiata dalla polizia milanese, e quella comunista, cui si dedicarono in particolare gli uffici politici investigativi della Milizia, convergevano nella decisione, più o meno esplicita, di sfruttare l’occasione per annientare ciò che restava dell’opposizione al regime38. Come i precedenti attentati a Mussolini, anche la strage di Milano venne sfruttata per perfezionare l’architettura normativa dello stato dittatoriale e per consolidare, sull’onda dell’emozione, il consenso tra le masse. Se la scoperta del presunto complotto Capello-Zaniboni nel novembre 1925 era stato il pretesto per rendere esecutive le misure di repressione contro l’opposizione parlamentare (con l’immediato scioglimento del PSU) e contro la Massoneria, e se l’attentato Zamboni nel 1926 aveva giustificato l’emanazione dei provvedimenti governativi «per la difesa dello Stato», con la soppressione finale di ogni forma di libertà politica e di espressione (in ambedue i casi, sventolando il vessillo del ritorno all’ordine dopo gli scoppi incontrollati di violenza da parte delle squadre della Milizia), la strage di Milano legittimò un ulteriore giro di vite e una vasta operazione di polizia che portò all’incarcerazione di oltre 500 «sospetti» (una cifra frutto di una stima assai prudente) e allo spiegamento, per la prima volta su vasta scala, dell’apparato poliziesco organizzato nel biennio precedente39. I tre giovani normalisti, in particolare, vennero arrestati perché in contatto con il gruppo della rivista antifascista Pietre, la cui redazione, dopo una prima stagione genovese, si era riorganizzata a Milano attorno a Lelio Basso e, tramite lui, attorno al gruppo meneghino della «Giovane Italia», un’associazione segreta generata nella galassia del dissenso clandestino dell’area liberale e socialista40. Il contatto con Pietre era originato precisamente da Um-

  Una dettagliata ricostruzione dell’evento e del suo significato per l’organizzazione della repressione poliziesca nell’Italia fascista in M. Franzinelli, I tentacoli dell’OVRA. Agenti, collaboratori e vittime della polizia politica fascista, Torino 2000, pp. 77-90. 39   B. Della Casa, Attentato al duce. Le molte storie del caso Zamboni, Bologna 2000; C. Giacchin, Attentato alla fiera. Milano 1928, Milano 2009. 40   L’intera vicenda è stata ricostruita in dettaglio da Simoncelli, La Normale di Pisa, pp. 18-24 e 159-74. Sull’appartenenza di molti dei collaboratori di Pietre al campo magmatico del liberal-socialismo (lo stesso Basso del resto proveneniva all’epoca dall’esperienza gobettiana di Rivoluzione Liberale) cfr. G. Marcenaro (ed.), «Pietre». Antologia di una rivista 1926-1928, Milano 1973. 38

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berto Segre che, con Enrico Alpino, altro futuro normalista dal «netto antifascismo liberale» e dall’«ortodossia crociana»41 (peraltro anche lui arrestato e poi ammonito nel 1928), faceva parte della prima direzione, formata da studenti, in parte di Lettere e in parte di Economia, gravitanti attorno a Carlo Rosselli42. Per Segre, all’epoca parte dell’attivo circolo «crociano» all’interno della Scuola Normale, circolo di cui Alfieri era allo stesso tempo il membro più noto e quello più pubblicamente già esposto per la polemica innescata da un suo articolo del 192643, Pietre poteva rappresentare un veicolo efficace di diffusione di

  Varese, Introduzione, p. 10.  Umberto Segre (Cuneo 1908 - Milano 1969). Ammissione di Lettere del 1927 al terzo anno dopo un biennio di studi a Genova. Dopo l’espulsione, si trasferì all’Università di Torino, dove si laureò in filosofia nel 1929. Dopo un periodo di insegnamento in Francia, insegnò come supplente e in alcuni istituti privati milanesi, subendo tuttavia l’ostracismo delle istituzioni in quanto sospetto antifascista (fu arrestato ancora) e privo della tessera del PNF, fino all’emanazione delle leggi razziali nel 1938, quando fu definitivamente estromesso da qualsiasi forma di insegnamento. Nel 1940 venne nuovamente arrestato. Nel 1943, riparò in Svizzera con la moglie. Tornato in Italia, aderente al Partito d’Azione, fu impegnato nei primi anni della Repubblica da una non facile militanza a sinistra. Ottenne nel 1949 la libera docenza, e nel 1954 l’incarico di Storia delle dottrine economiche alla facoltà di Lettere di Milano. Solo nel 1958 ottenne l’insegnamento di Filosofia Morale. Sulla sua biografia cfr. in primo luogo Umberto Segre. Un antifascista scomodo, Atti del convegno (Milano, 15 dicembre 1999), «Italia contemporanea», 220-221, 2000, pp. 551-621. Vittorio Enzo Alfieri (Parma 1906 - Pejo TN 1997). Ammissione di Lettere del 1925. Dopo l’espulsione, si trasferì all’università di Milano dove si laureò nel 1929; nonostante i tentativi compiuti, i suoi precedenti di antifascismo (e la sua vicinanza a Croce) gli impedirono durante tutta la durata del regime non solo di avere incarichi all’università, ma anche di proseguire una stabile carriera nell’insegnamento secondario. Destituito nel 1936, venne richiamato in servizio solo dopo il 25 luglio. Incaricato di storia della filosofia alla Bocconi di Milano dal 1946, fu poi, dal 1957 ordinario all’Università di Pavia. Enrico Alpino (Alessandria 1904 - Genova 1969). Ammissione di Lettere del 1930. Pur essendo risultato idoneo già al concorso del 1929, fu penalizzato dalla soppressione dei posti di esterno decisa con la revisione dello Statuto. Entrò dunque al secondo anno con il concorso seguente. Perdette tuttavia il posto nel1931 a causa di un insufficiente votazione e non si ripresentò più al concorso per motivi di salute. Dopo la guerra fu provveditore «politico» agli studi a Genova (1947-51), poi docente di ruolo nelle scuole secondarie e assistente alla Facoltà di Magistero dell’ateneo. 43  Nel secondo volume dell’annata 1926 della rivista Ricerche religiose, Alfieri, 41 42

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posizioni dichiaratamente crociane di lettura della storia risorgimentale italiana, da ricollegare alla Storia d’Italia dal 1871 al 1915 che proprio all’inizio di quell’anno era stato pubblicato, suscitando, come ricordava lo stesso Alfieri, consensi ed entusiasmo tra i normalisti non gentiliani (e non fascisti)44. Si trattava, beninteso, di posizioni ristrette ad

all’epoca studente appena entrato al secondo anno, aveva pubblicato una recensione estremamente imprudente ad un articolo di Gentile, Avvertimenti attualisti, apparso su il Giornale critico della filosofia italiana del gennaio di quell’anno. L’intervento (L’attualismo e la religione, 1: Premessa polemica, «Ricerche religiose», 2, 1926 pp. 440-3), che si inseriva nel più vasto e pubblico dibattito tra crociani e gentiliani a proposito del carattere religioso dell’attualismo, conteneva in effetti termini abbastanza irriverenti (si invitava Gentile a non «tenere il piede in due staffe» per «fare all’amore coi cattolici», e si definiva Armando Carlini, allora ordinario di Filosofia Teoretica, «poveretto»), considerando anche che l’autore era uno studente alle prime armi che si rivolgeva, all’interno di un contesto pubblico estremamente delicato, ad uno dei più importanti filosofi (e uno dei più potenti intellettuali) del panorama italiano. Il tono scanzonato di Alfieri passò sicuramente il segno, tanto da dare origine non solo ad una risposta piccata (per quanto servile) di Ugo Spirito (Rassegna di studi sull’idealismo attuale, «Giornale critico della filosofia italiana», 7, 1927, pp. 315-20) ma anche ad un provvedimento disciplinare interno. Nella seduta del Consiglio Direttivo del 10 novembre 1926, Alfieri veniva dichiarato colpevole di «aver mancato di rispetto ad un suo professore, il prof. Carlini, in una inopportuna pubblicazione», ed il Consiglio, dopo aver espresso il suo profondo dolore per la sconsideratezza di uno scolaro che «non [ha] sentito tutta la sconvenienza di usare espressioni che non esita a chiamare ineducate a proposito di un dissenso di pensiero con un suo Maestro», lo ammoniva a non ricadere mai più nel medesimo errore, comminandogli un richiamo formale (cfr. Verbali del Consiglio, pp. 145-6). Va da sé che, per quanto non espressamente richiamata, l’offesa più grave non era quella fatta a Carlini, ma a Gentile medesimo, eminente protettore della Scuola, che infatti era stato prontamente contattato dal direttore Bianchi per informarlo dei provvedimenti che di lì a poco sarebbero stati presi (la lettera di Bianchi a Gentile, del 4 novembre, è citata in Simoncelli, La Normale di Pisa, p. 18, nota 20). Sulla vicenda, in cui intervenne lo stesso Cantimori, in pesante polemica con il suo compagno di Normale e in difesa delle ragioni dell’attualismo (Note filosofiche, I: L’idealismo attualista, la religione e il futurismo filosofico, «Il Pensiero», 42, 1926 p. 3), cfr. Cordié, L’alunno perfezionando, pp. 310-2; Pertici, Mazzinianesimo, fascismo, comunismo, p. 33, nota 30 e, da ultimo, M. Feo, Un normalista intemperante e una lettera di Benedetto Croce sequestrata dalla polizia, «Normale», 2, 2000, pp. 24-8. 44   R. Bottoni, Un ebreo antifascista 1925-1945, in Umberto Segre. Un antifascista

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un’opposizione culturale al regime, un «antifascismo degli intellettuali» come l’avrebbe definito Francesco Collotti, ex normalista della generazione della Grande Guerra in una sua lettera a Gentile, senza che gli allievi pisani avessero nulla a che fare non solo con gli attentatori di Milano ma nemmeno, come peraltro fu ampiamente comprovato anche nel corso dell’indagine e dalla perquisizione delle loro stanze in Normale, con la rete attiva, «eversiva», della militanza antifascista45. Per Segre, come per Alpino e gli altri fondatori della rivista, si trattava in primo luogo di testimoniare un’adesione di fondo, anche se non sempre lucida, al magistero gobettiano, e di rendere pubblica la propria insofferenza verso le scelte sempre più provinciali o ipocrite e contraddittorie (il riferimento ai gentiliani e al compromesso con i cattolici era esplicito) del panorama culturale (e specialmente filosofico e letterario) dell’Italia fascista; sarà la direzione di Basso ad imprimere al foglio una svolta più esplicitamente «politica»46. Questo non escludeva la decisione e la consapevolezza dell’opzione antifascista – molto radicale ad esempio in Alpino, che proveniva da una famiglia già perseguitata per motivi politici – ma ne limitava la portata, e, va da sé, avrebbe anche potuto limitare i danni del coinvolgimento dei giovani allievi nella gigantesca retata della polizia47. Come venne dichiarato anche in sede di Consiglio direttivo, non solo a carico di Armando Sedda non era emerso alcunché, tanto che sarebbe stato rilasciato di lì a poco, ma il questore di Pisa aveva assicurato che dalle indagini si poteva assolutamente escludere qualsiasi attività politica clandestina svolta all’interno della Scuola e nella città, mentre il prefetto avrebbe dichiarato pochi mesi dopo che la colpa di Segre risiedeva nei «sentimenti antifascisti» riscontrabili dalla sua corrispondenza e che non aveva svolto «attività politica di sorta» a Pisa (del resto, l’unica prova materiale a sostegno della militanza antifascista di Alfieri era una copia dello statuto del Partito liberale e un pamphlet di Turati rinvenuti durante una

scomodo, pp. 551-76; V.E. Alfieri, Memoriette antifasciste del 1928, «Il Cantonetto. Rassegna letteraria bimestrale», 35-36, 1988, pp. 27-35. 45   La missiva di Collotti a Gentile del 27 maggio 1928, appassionata e polemica, in cui si sollecitava un intervento a favore dei giovani arrestati, è citata in Simoncelli, La Normale di Pisa, p. 23. 46   V. Santoro, Andare oltre il romanticismo. L’avventura di «Pietre» (1926-28), «Critica letteraria», 134, 2007, pp. 137-64. 47  Sull’intransigente posizione di Alpino cfr. il ricordo affettuoso di U. Segre, Ritratto di un antifascista: Enrico Alpino, «Il Lavoro», 15 ottobre 1969.

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perquisizione risalente al 1925)48. Tuttavia, il contesto normativo in cui gli arresti del 1928 erano avvenuti era quello di uno Stato ormai compiutamente trasformatosi in dittatura, in cui operavano apparati tipici di un regime totalitario. Nel gennaio 1927 si era insediato formalmente il Tribunale Speciale per la difesa dello Stato, punta di diamante del più vasto meccanismo di controllo e repressione organizzato nel biennio precedente. Mentre sotto l’abile guida di Arturo Bocchini si andavano organizzando i nuovi apparati di polizia politica previsti dal Testo Unico delle leggi di Pubblica Sicurezza promulgato nel novembre 1926 (e di lì a poco si sarebbe dato conto pubblicamente della nascita dell’OVRA), il numero dei fascicoli personali aperti al Casellario politico centrale sotto la voce «sovversivi» aumentava in modo vertiginoso, fino a sfiorare le 100.000 unità e i condannati al confino, una misura di pubblica sicurezza non sconosciuta all’Italia liberale, ma certamente molto più raramente eseguita, cominciavano a ingrossare le fila di un esercito di deportati all’interno del paese che, al 1943, avrebbe contato 13.000 membri49. In un tale quadro, l’oggettività della colpa (l’appartenenza attiva dei due studenti alla «Giovane Italia» non venne mai nemmeno dimostrata) e la sua proporzionalità rispetto alla condanna diventavano fattori del tutto relativi, senza contare il fatto che le disposizioni del Testo Unico davano la possibilità alla pubblica sicurezza e alla magistratura di agire con fermi, arresti e procedure

 Per le dichiarazioni del questore di Pisa cfr. Verbali del Consiglio, p. 170. La dichiarazione del prefetto su Segre del 18 luglio 1928 è in ACS, Casellario Politico Centrale (CPC), f. ‘Segre Umberto’, da Prefetto Pisa a Ministero dell’Interno - Direz. Generale di P.S. Casellario Politico Centrale, 18 luglio 1928; il documento è citato parzialmente in Simoncelli, La Normale di Pisa, p. 161. Per l’inesistenza di prove tangibili sul coinvolgimento di Alfieri anche nell’associazione «Giovane Italia» cfr. la sintesi della situazione in ACS, CPC, f. ‘Alfieri Vittorio Enzo’, da Prefetto Parma a Ministero dell’Interno - DGPS Casellario Politico Centrale, 31 ottobre 1928. A. Sedda (Gavoi SS 1909-?). Ammissione di Lettere del 1927. A parte la sua frequentazione con il gruppo cantimoriano e la sua frequente presenza nei carteggi di Dessì, Varese e Cordié, non ho reperito notizie dettagliate. Terminò regolarmente il curriculum di studi normalistico. Cfr. parte seconda, cap. II, nota 83 del presente libro. 49  Cfr. A. Acquarone, L’organizzazione dello stato totalitario, Torino 1995 (1965), pp. 47-110; A. Dal Pont, S. Carolini, L’Italia al confino 1926-1943. Le ordinanze di assegnazione al confino emesse dalle Commissioni provinciali, 4 voll., Milano 1983; A. Dal Pont, Uno strumento di ricerca per lo studio dell’antifascismo: i fascicoli dei sovversivi del Casellario politico centrale, «Storia contemporanea in Friuli», 18, 1988, pp. 181-95. 48

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a carattere restrittivo (dalla semplice ammonizione alla detenzione per periodi più o meno lunghi, al confino) anche solo in funzione preventiva nei confronti del reato ipotizzato, in un rovesciamento dei principi giuridici che avevano informato, dalle riforme dei codici della fine del secolo precedente, l’opera poliziesca e giudiziaria, segnando uno spartiacque poco enfatizzato ma reale tra stato liberale e «stato di polizia» fascista50. Per questo, in primo luogo, la situazione di Alfieri e Segre, divenne fin da subito preoccupante, nonostante il contegno ottimista e rassicurante tenuto da quest’ultimo anche dopo la traduzione al carcere di S. Vittore; per questo e, va da sé, ancor di più per l’inquietante ombra che l’incriminazione e la più che probabile condanna dei due allievi avrebbero potuto gettare sulla Scuola Normale, ancora in fase di uscita dagli anni bui e pronta per un rilancio (di risorse, di prestigio, di ruolo) che, grazie all’appoggio di Gentile, era da tempo in fase progettuale51. I piani di ingrandimento della Scuola, agli atti già dal 1926, con la proposta della scuola di perfezionamento, avevano preso piede più concretamente proprio all’inizio del 1928 quando, all’interno del Consiglio Direttivo, Carlini aveva esplicitamente fatto riferimento all’ampliamento della Scuola come via privilegiata per rispondere «agli attacchi che vengono rivolti contro la Normale» per la sua incapacità di rinnovarsi. Ad essere proposta esplicitamente per la prima volta era la visione di una nuova Scuola decisamente molto simile all’idea gentiliana di «grande Normale», con la creazione di una sezione di Legge, un disegno accolto da più perplessità e ostilità che favore52. Era stato il direttore Bianchi, in uno dei suoi ultimi interventi prima della morte, a guidare il fronte dei «conservatori», ostili al cam-

  G. Verni, Il perfezionamento dello stato di polizia, in M. Palla (ed.), Lo Stato fascista, Milano 2001, pp. 359-426. 51   Il «tutoraggio» esercitato da Gentile sulla Normale del primo dopoguerra è un fatto noto. Simoncelli ne ha documentato la traduzione in un vasto e dettagliato disegno di potenziamento proprio a partire dall’inizio del 1928, in coincidenza con un successo in chiave tattica nel controllo della vita accademica pisana (la nomina di Carlini a rettore), ma senza rilevare l’aspetto di ripiegamento di Gentile stesso sulla Scuola pisana come ultimo possibile baluardo per la sua più vasta idea di riorganizzazione degli studi e di riproposizione dei propri ideali pedagogici che stavano invece vivendo una fase evidente di arretramento sul territorio nazionale, a causa del progressivo smantellamento della riforma scolastica del 1923. Cfr. Simoncelli, La Normale di Pisa, pp. 20 e sgg.; Moretti, Gentile e la Normale di Pisa, pp. 81-2. 52   Verbali del Consiglio, seduta del 16 febbraio 1928, pp. 164-6. 50

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biamento e soprattutto all’ingrandimento della Scuola fino ad assorbire altri indirizzi di studio; una posizione a difesa del modello tradizionale (che Carlini aveva definito senza mezzi termini «antiquato»), che non poteva peraltro negare l’esigenza di «fare qualcosa» per rafforzare e innovare l’istituto. Da quella data, al centro delle discussioni del Consiglio sarebbe stata non la possibilità o meno di rimodernare la Normale ma la direzione da far intraprendere ai progetti per una sua doverosa riorganizzazione, come il Consiglio deliberava nella seduta di marzo, non stranamente contemporanea a degli appunti di Gentile a proposito delle risorse necessarie per una radicale ristrutturazione logistica e per una nuova politica pubblicitaria53. La detenzione dei normalisti cadde, nel bel mezzo di questi progetti, come un fulmine a ciel sereno, con il rischio non solo di attenuare la benevolenza degli ambienti di governo (e di Mussolini personalmente) per i progetti in corso, benevolenza su cui Gentile per primo contava per reperire i fondi necessari, ma anche di complicare la posizione di Gentile medesimo, di Carlini e di tutta la Normale all’interno dei delicati equilibri della politica (non solo accademica) pisana. Per quanto riguarda i rapporti tra Gentile e l’establishment del potere governativo, un atteggiamento benevolo era infatti tutt’altro che scontato: la posizione del filosofo ed ex ministro era tutt’altro che solida, come è noto, e soprattutto dopo l’assunzione del ministero dell’Istruzione Pubblica da parte di Giuseppe Belluzzo, che, pregiudizialmente ostile alla riforma del 1923, estraneo per nascita e formazione (era un ingegnere) al mondo intellettuale, avrebbe portato avanti una politica di continui ritocchi nel tentativo di sovvertire, per quanto possibile, l’architettura scolastica e universitaria pensata da Gentile54. Al contrario, è vero che gran parte dei risultati conseguiti sul terreno delle politiche universitarie, dalla difesa a spada tratta (per quanto a volte solo sul piano retorico) della riforma alle risorse e agli incentivi per il progetto della nuova Normale, dipendevano dal rapporto personale mai incrinato tra il filosofo e il capo del governo; un rapporto che non si può considerare però fatto di accondiscendenza a senso unico (secondo la testimonianza di De Begnac,

  Dell’appunto, risalente al marzo 1928, dà notizia Simoncelli, La Normale di Pisa, p. 22. 54   Charnitzky, Fascismo e scuola, pp. 249-63; Turi, Giovanni Gentile, pp. 404 e sgg. Sulla posizione tutt’altro che solida di Gentile all’interno del campo del potere fascista, cfr. ora A. Tarquini, Il Gentile dei fascisti. Gentiliani e antigentiliani nel regime fascista, Bologna 2009. 53

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Mussolini qualche anno dopo avrebbe definito la Scuola Normale come «un nido di vipere» inutile)55. Di qui, presumibilmente, la prudenziale presa di distanza istituzionale dai due allievi, sancita da una dichiarazione solenne del Consiglio il quale Deplorando che tre suoi alunni siano sospettati di mene contrarie al regime e che su questa gloriosa Istituzione gravi pur l’ombra di un tristissimo episodio; riafferma la propria fede e la propria disciplina alle direttive del Governo Nazionale; delibera ad impedire che altri giovani della Scuola possano anche lontanamente abusare dell’ospitalità loro concessa, che quanti sono e saranno alunni della Normale debbano fare una promessa solenne colla formula seguente: prometto di osservare lealmente, colla disciplina della Scuola, la disciplina spirituale della Nazione fascista, e di servire la Patria con umiltà nel lavoro e nello studio; [delibera] che fino a quando non sia precisata la posizione dei tre incriminati anche nel caso di un eventuale scarcerazione essi non possano rientrare nella Scuola […]56.

Con tre anni di anticipo sul giuramento di fedeltà al regime imposto ai professori universitari, e cinque anni prima dell’obbligo di iscrizione al PNF imposto per la partecipazione a tutti i concorsi pubblici (ivi compresa la selezione per la Normale), la Scuola proclamava così il suo allineamento pubblico e solenne (quanto non ufficialmente richiesto) alle idealità e agli indirizzi politici della dittatura, precedendo di molto la formale fascistizzazione integrale dell’università57. Ce n’era abbastanza per concordare con Capitini (risultato simpatizzante con gli arrestati, ma non coinvolto direttamente) il quale chiosava l’episodio, lapidariamente, ricordando che «la Normale si portò malissimo con i due valentissimi giovani», che si laurearono altrove»58. Al contrario, Arnaldi, testimone autorevole in seno al Consiglio, avrebbe poi sentenziato che «la Normale in quell’occasione si comportò bene,

  Y. De Begnac, Taccuini mussoliniani, ed. F. Perfetti, Bologna 1990, pp. 392 e sgg. Le conversazioni tra De Begnac e Mussolini, come è noto, si svolsero a partire dal 1934 e non sono singolarmente databili, dunque l’affermazione a proposito della Normale gentiliana segue di alcuni anni gli episodi citati, ma l’aneddoto mi pare comunque significativo di una protezione accordata non a scatola chiusa. 56   Verbali del consiglio, pp. 170-1. 57  Sul giuramento per i docenti cfr. H. Goetz, Il giuramento rifiutato. I docenti universitari e il regime fascista, Milano 2000 (1993). 58   Capitini, Antifascismo tra i giovani, p. 16. 55

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e non soltanto, come fu scritto, gli studenti, compresi quelli che non amavano Alfieri: quando nel Consiglio direttivo qualcuno propose di espellere gli arrestati, chi scrive, figlio di un magistrato, osservò che non erano ancora dei condannati, e Luigi Bianchi appoggiò senza esitazioni la tesi del giovane vicedirettore»59. Dal punto di vista della correttezza giuridica, non vi è dubbio, la Normale non poteva rimproverarsi nulla: la direzione decise infatti di sospendere ogni decisione relativamente alle posizioni scolastiche degli arrestati fino al completo chiarimento della situazione, vale a dire fino all’emanazione dei provvedimenti definitivi da parte dell’autorità giudiziaria o di polizia60. In sede privata, invece, Armando Carlini scrisse a Segre in carcere una missiva dai toni assai duri sottolineando il «danno procurato dalla vostra inconsideratezza (spero che ancora così si possa qualificare la vostra colpa) all’Università, alla Scuola Normale soprattutto, oltre che a voi stessi. Mi scrivete che avete quasi la certezza che ne uscirete presto e bene: questo è quanto ci auguriamo tutti, per voi e per noi. Nell’attesa, come non abbiamo preso ancora nessun provvedimento (scolastico) contro di voi, così neppure possiamo prenderne in vostro favore. Di questa opportunità vi renderete conto […]»61. A temperare la presa di distanza ufficiale e personale delle gerarchie accademiche, valse forse l’interessamento personale di Gentile, sollecitato da Francesco Collotti e da una patetica lettera firmata a quattro mani dagli stessi Segre e Alfieri62, interessamento che ebbe probabilmente un qualche

  Arnaldi, Cronaca della Normale, p. 17.   Verbali del consiglio, seduta del 25 maggio 1928, p. 172. 61   Da A. Carlini a U. Segre, 26 maggio 1928, in Bottoni, Un ebreo antifascista, p. 4. 62   Dopo aver descritto le dure condizioni di vita in carcere e avergli scritto di un saggio su Montaigne che avrebbe voluto inviargli, Segre si rivolgeva a Gentile per chiedergli solidarietà e per spiegare le ragioni della sua situazione: «[…] Sono qui, nelle mie stesse condizioni, molti altri studenti, e professori, anche universitari: fra gli altri studenti, legati a me da salda amicizia, e, in questo momento, dalla comune accusa — di non avere cioè mai celato i nostri sentimenti chiaramente liberali, pur senza manifestare tuttavia una effettiva attività politica — vi sono un suo bravo scolaro del 3° anno di filosofia, Pilo Albertelli, e un mio compagno carissimo della Normale, Vittorio Enzo Alfieri, del quale Ella ricorderà un saggio su L’Attualismo e la religione comparso sulle Ricerche religiose del Buonaiuti nel gennaio dell’anno scorso: saggio che meritò ad Alfieri una prima lavata di capo dal Giornale Critico, per le intemperanze verbali delle quali con troppa evidenza peccava, ma poi, nel fascicolo di luglio, una buona recensione di Ugo Spirito, il quale ebbe a riconoscervi 59 60

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peso nell’attenuare le conseguenze penali dell’arresto, benché, in definitiva, la scarcerazione del solo Alfieri, insieme ad altri tre arrestati (e forse anche la mitigazione della sua condanna), fosse dovuta più all’intervento di Benedetto Croce attraverso Filippo Marinetti63. Nell’immediato, la sorte di Alfieri fu migliore: dopo l’arresto provvisorio e il rilascio, infatti, subì la diffida semplice (il provvedimento fu datato 6 luglio 1928), che lo etichettava come «antifascista» e lo trasformava in un oggetto di sorveglianza continua, ma non subì per il momento ulteriori provvedimenti di polizia. Alfieri dovette, in ogni modo, lasciare la Normale e trasferirsi negli ultimi giorni di ottobre a Milano, dove si iscrisse al quarto anno della facoltà di Lettere e dove, secondo i rapporti della vigilanza, si impegnò a mantenere un comportamento il più possibile tranquillo e lontano dalla politica64. Iniziava tuttavia in quel momento una lunga via crucis in cui il giovane studente, con una forte vocazione all’insegnamento, avrebbe conosciuto e scontato il peccato di essere reputato antifascista e di voler, contemporaneamente, lavorare nel campo dell’insegnamento pubblico. I «professori di domani», per usare una sua espressione enfatica indirizzata a Gentile in un telegramma del 1924, potevano anche fruire della (molto relativa) tolleranza del regime per i giovani sventati incorsi in peccati di opinione, ma avrebbero poi sperimentato i rigori della dittatura nella difficoltà di ritagliarsi una posizione socialmente e professionalmente sicura nella scuola dell’Italia fascista65. Subito dopo

un non volgare interessamento per i problemi del nostro idealismo, e un tentativo, anche se imperfetto e limitato, di ripensarli personalmente […]»; Bottoni, Un ebreo antifascista, p. 5. 63   Simoncelli (in La Normale di Pisa, p. 24) non fa cenno di questa ulteriore mediazione, mentre riporta parzialmente la lettera di Segre e Alfieri a Gentile del 25 maggio. 64   ACS, CPC, f. ‘Alfieri Vittorio Enzo’, da Prefettura Parma a Ministero Interno CPC, 31 ottobre 1928, Alfieri Vittorio Enzo studente antifascista. Non rimane traccia della vicenda, invece, nelle delibere del Consiglio Direttivo. Ai sensi dell’art. 166 del Testo Unico della legge di P.S. del 1926 la diffida «a non svolgere attività politica in contrasto con le direttive del Governo» non implicava provvedimenti restrittivi ma prevedeva automaticamente una sanzione di maggior rigore se si veniva ulteriormente denunciati, oltre, ovviamente, a comportare l’apertura di un fascicolo a proprio nome al CPC. 65   «Noi professori di domani sperammo che una scuola risanata da voi e Lombardo Radice si facesse degna del santo nome di educatori», come un giovanissimo Alfieri

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la laurea (novembre 1929, con una tesi sulla teoria della storiografia di Dilthey, che ebbe la valutazione piuttosto mediocre di 105/110), infatti, Alfieri aveva intrapreso non la strada dell’insegnamento, ma quella del «libero studioso», come egli stesso l’avrebbe definita, forte anche dell’assunzione presso la casa editrice Mondadori in qualità di direttore dell’ufficio editoriale di Milano66. Si trattava di una posizione economicamente solida, che avrebbe permesso tra l’altro al giovane di sposarsi con la fidanzata Giuseppina Todaro (anche lei incorsa nella diffida a causa del coinvolgimento nella rivista Pietre) e di risedere a Milano, città considerata ottima per le possibilità di studio67. Tuttavia, non erano passati che pochi mesi quando il lavoro nell’editoria cominciò a sembrare al giovane neo-laureato un «peso opprimente» che rendeva impossibile lo studio, mentre si faceva sempre più strada l’idea di ritornare all’insegnamento, una «via maestra» di vita suggerita da una forte vocazione: sarebbe stato possibile, chiedeva ad un Cantimori individuato come interlocutore più affidabile (perché vicino a persone particolarmente influenti per quel settore) accedere ai concorsi per le cattedre di lettere nelle secondarie, o ci sarebbero state «noie gravi»68? Nel 1930, Alfieri riuscì in effetti ad insegnare, sia pure nella città di Messina e in posizione inizialmente precaria: e a Messina (città della fidanzata) rimase con incarichi di insegnamento presso il liceo classico tra il 1930 e il 1933, salvo una parentesi, nella primavera-estate del 1930, di nuovo stipendiato dalla Mondadori sede di Verona, dove Alfieri si occupò delle collane stampate presso l’Officina Bodoni, che dal 1927 si era trasferita nella città veneta69.

scrisse appunto a Gentile il 1° luglio 1924 all’indomani delle dimissioni da questi dal Ministero della Pubblica Istruzione, in Simoncelli, La Normale di Pisa, p. 168. 66  ASNS, Fondo Cantimori, da Alfieri a Cantimori, Verona 18 maggio 1929. L’assunzione a Mondadori era stata comunicata a Cantimori con una cartolina datata Verona, 1° maggio. 67  Sulla diffida di Giuseppina Todaro cfr. ACS, CPC, b. 64, f. ‘Alfieri Vittorio Enzo’, da Prefettura Messina a Ministero Interno, 2 ottobre 1928, Todaro Faranda Pina oppositore regime. 68  ASNS, Fondo Cantimori, da Alfieri a Cantimori, cartolina datata Verona, Natale 1929. 69   ASNS, AA, b. 1, scheda Alfieri V.E. (1959); ACS, CPC, da Prefettura Parma a DGPS CPC, 11 gennaio 1935, Alfieri Vittorio Enzo antifascista. Si noti che nel rapporto della prefettura di Parma il trasferimento a Messina del 1929 è correttamente indicato come provvisorio (Alfieri rimase nella città il tempo di sposarsi), e solo

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L’insegnamento fu sicuramente per Alfieri il compimento di una scelta sentita fortemente: «la scuola non mi ha deluso, non mi deluderà; che la mia vita ha riacquistato un significato, un valore, una luce. Che importa se mi tocca di studiare la storia, seriamente e pazientemente, come non l’avevo mai studiata? Meglio, anzi! Che importa se la scuola finora non mi ha lasciato tempo libero per nessun lavoro mio, neppure per buttar giù un articolo o una piccola recensione? A poco a poco l’equilibrio di lavoro si ristabilirà», scriveva pochi giorni prima del Natale 193070. Si sarebbe potuto trattare di una soluzione di vita per certi versi esemplare, quella del giovane normalista formato alla missione dell’ insegnamento secondo i migliori dettami della tradizione della Scuola e degli ideali pedagogici gentiliani, ma il marchio di antifascismo, e la difficoltà di ottenere una posizione di ruolo senza l’iscrizione al PNF (un provvedimento che venne formalizzato per legge in realtà solo nel maggio 1933) dovevano rendere enormemente più difficile la parabola biografica dell’insegnante-Alfieri. Un tentativo di far scordare l’ombra della propria opposizione giovanile al regime, del resto, era già stato fatto durante gli anni messinesi: non solo il «sospettato» non aveva più dato motivo di rilievi o richiami, ma si era iscritto all’Associazione fascista degli insegnanti, impegnandosi in opere assistenziali promosse dal PNF locale, avviando una pratica nicodemita che avrebbe caratterizzato anche gli anni successivi71. Nel novembre 1933, trasferitosi a Modena dopo aver finalmente vinto un concorso a cattedra, Alfieri iniziò ad insegnare presso l’Istituto Magistrale, e, nello stesso periodo, cominciò l’affannosa ricerca di una via per ottenere l’iscrizione al PNF72. La rete degli appoggi normalistici, fondamentalmente incentrata sull’asse Cantimori-Gentile, si sarebbe rivelata, da questo punto di vista, la più sensibile alle sue richieste, benché anche l’efficacia di questa sia stata relativa. Tra 1934 e 1935 lo

l’anno seguente si trasferì stabilmente per insegnare. Questi spostamenti hanno tratto in inganno evidentemente Simoncelli, che anticipa al 1929 il trasloco da Milano a Messina (La Normale di Pisa, p. 169). Sull’Officina Bodoni cfr. G. Mandersteig, L’Officina Bodoni: i libri e il mondo di un torchio 1923-77, Verona 1980. 70  ASNS, Fondo Cantimori, da Alfieri a Cantimori, Messina 21 dicembre 1930. 71   Sul nicodemismo come chiave di interpretazione del comportamento di Alfieri (e, vedremo, anche di Segre) cfr. Simoncelli, La Normale di Pisa, p. 169. 72   La prima notizia esplicita di richiesta dell’iscrizione al Partito è del 1934, ma si fa accenno a tentativi compiuti fin dall’anno prima. Cfr. ASNS, Fondo Cantimori, da Alfieri a Cantimori, Modena 6 dicembre 1934.

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scambio epistolare con il vecchio compagno di Normale si intensificò, moltiplicando sia le occasioni di lavoro editoriale e pubblicistico (fu Cantimori, con la mediazione di Gentile padre, ad attivare il contatto con Federico Gentile, ottenendo così una collaborazione fissa con la rivista Leonardo) sia quelle di riavvicinamento al circolo gentiliano: del febbraio 1935 cominciava così, ad esempio, la sua collaborazione con Il Giornale critico della filosofia italiana. E proprio Gentile si rivelò, nella corrispondenza alfieriana, il naturale regista di una trama di intercessioni, mediazioni, favori, comunemente richiesti da tanti normalisti, che andavano dalle ovvie pressioni sul PNF per la concessione della tessera, alle richieste al ministero per favorire il trasferimento della moglie (anche lei, fino al 1935, precaria) alla sede di Modena73. Per quanto restasse intimamente crociano, e per quanto i rapporti con Croce non fossero diradati, Alfieri coltivò insomma con intensità le possibilità, offertegli dal suo network culturale pisano, di sanare una condizione di inferiorità, percepita e rinfacciata, oggettivamente (e moralmente) insostenibile, e di adeguarsi a quel clima di conformismo che richiedeva non tanto l’abbandono della critica intima e privata, ma la manifestazione di un consenso esteriore mai vacillante o sospetto: si poteva continuare ad essere «afascisti», avrebbe detto Mussolini durante il discorso dell’Ascensione, ma solo dimostrando di essere al contempo «cittadini probi ed esemplari»74. Insomma, sarà meglio non pensarci più a questo ingresso per la porticina di servizio. Iscritto, sia pure all’ultima ora, potrei restare nella scuola; non iscritto, finirò per andarmene volontariamente, non perché sia necessario, ma perché col mio carattere non si può rimanere in queste condizioni di inferiorità. Io ho bisogno di controbattere, di smascherare la pigrizia di certi insegnanti, di impedire certe porcherie o asinerie; e non posso farlo, perché mi chiudono la bocca rinfacciandomi che non sono iscritto, e io debbo rodermi e schiattare. La mia posizione di inferiorità mi pesava sin da quando l’iscrizione non era ancora obbligatoria; quando a Messina facevo tutte quelle polemiche, aiutavo Barilà a provocare inchieste, venivano ispettori chiamati da noi, ecc., ma io mi sentivo anche allora rinfacciare che non avevo diritto di parola. Sì, bisogna che io trovi una via per lasciare l’insegnamento. Se mia moglie quest’anno vincerà i concorsi, se riesce a sistemarsi bene, io, forse, pianto in

  Simoncelli, La Normale di Pisa, p. 170 per le lettere di Alfieri a Gentile.  E. Susmel, D. Susmel (edd.), Opera omnia di Benito Mussolini, Roma 1951-80, 22, p. 371. 73 74

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asso la baracca anche senza aver nessun altro mestiere. Alla peggio andrò a Milano a fare lezioni provate; il lavoro libero non mi mancherebbe certo75.

In tutto questo armeggiare per uscire dall’emarginazione cui la condanna del 1928 l’aveva relegato, Alfieri non avrebbe mancato di dimostrare alcuni scatti di orgoglio, attraverso la rivendicazione di una diversità non solo subita, di una dignità «un po’ prostituita, un po’ avvilita, ma non morta e defunta», da sbandierare di fronte ad una massa di colleghi (insegnanti, certo, ma anche studiosi) che al fascismo avevano aderito solo per calcolo di carriera, come avrebbe sottolineato in una lettera densa di livore, alla notizia che, stante la sua situazione di vigilato in odore di oppositore militante, gli era preclusa per il momento anche la strada universitaria76. Può, a prima vista, sembrare strano che proprio a Cantimori, capofila riconosciuto del «fascismo intelligente» nella Normale degli anni Venti e Trenta, Alfieri potesse rivolgersi contestando così intensamente la meschineria dell’apparato del partito e il rigore della persecuzione, ma l’apparente paradosso si risolve considerando almeno due fattori tipici non solo del rapporto di amore-conflitto tra i due vecchi compagni di studio, ma in genere di tutta l’«amicizia normalistica» In primo luogo, il senso di appartenenza alla comunità normalistica, nutrito di un rispetto intellettuale che aveva, già negli anni delle schermaglie dialettiche nella Scuola, fatto aggio sulle rivalità, sia politiche che culturali. Cantimori, con cui Alfieri si era scontrato con toni anche assai pesanti durante la polemica sulle riviste del 1926, rappresentava senza dubbio il normalista perfettamente integrato nel sistema, brillante studioso, avviato ad una fulminea carriera, fascista convinto in grado di legittimare la sua adesione con una solida riflessione storica, in cui al retroterra dell’educazione intrisa di motivi risorgimentali e mazziniani si univa la convinzione che il fascismo non solo avrebbe continuato il Risorgimento ma, secondo una formula ampiamente di successo all’epoca, l’avrebbe inverato, compiendo una rivoluzione politica e sociale al tempo stesso; al contrario, Alfieri si era già distinto come irregolare rispetto alle tendenze dominanti della cultura accademica, e precisamente in virtù del suo decantato crocianesimo, così marginale e sospetto77. Ma

 ASNS, Fondo Cantimori, da Alfieri a Cantimori, Modena 20 maggio 1935.   Ibid., da Alfieri a Cantimori, Modena 23 dicembre 1934. 77   Sull’itinerario politico cantimoriano il rinvio d’obbligo è Pertici, Mazzinianesimo, fascismo, comunismo, specie pp. 106 e sgg. sugli appunti relativi anche alla visione 75 76

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il dissidio tra i due compagni, che nel Palazzo dei Cavalieri avevano animato non poche discussioni accese, ed è questo un elemento che non può essere trascurato, si nutriva anche di una complicità che traspariva fin dai giorni dell’espulsione, e che veniva testimoniata non solo dall’instancabile attività di Cantimori in favore dell’amico più sfortunato, ma anche dagli occasionali favori ricambiati: fu Alfieri nel 1930 a procurare a Cantimori gli incarichi di traduzione presso l’Officina Bodoni, senza dimenticare ovviamente che fu ad Alfieri che Cantimori dovette il contatto con Benedetto Croce78. Era la solidarietà tra compagni ed amici, «lontani e diversi», come avrebbe scritto Alfieri in una lettera molto affettuosa, divisi da caratteri indubbiamente spigolosi (da cui la tradizionale arroganza normalistica debordava), ma pur sempre molto vicini: Mio caro Cantimori, grazie. Tu hai certamente appreso da Segre che io, negli ultimi tre o quattro giorni passati a Pisa, ho avuto un vivo desiderio di venire da te; ma non ho osato (il tuo carattere ha le sue asprezze e il mio le sue timidezze), eppoi quei giorni mi passarono in un attimo, fra il trasloco, le visite ufficiali ed altre cose. E allora io non ero nemmeno sereno, e non lo sono stato, fin che Segre non è uscito anche lui. Non ti voglio e non ti posso parlare di altro. Già, sarebbe inutile. Solo, ci tengo a dirti che ti voglio bene ancora, che ti ho combattuto perché ti ho stimato e ti stimo (senza ironia!…) e a farti gli auguri più vivi e affettuosi per la tua vita. Sì, siamo lontani e diversi. Che io, però, non sia più, o quasi più, il ‘Socratino’ di una volta, qualcuno potrebbe testimoniare, e forse soprattutto Segre; ma questo non importa. Ancora infiniti auguri a te, e non a te solo79.

La solidità del legame tra Cantimori e i suoi ex compagni di Normale non fu mai messa in dubbio e, come vedremo, fu la base di una fitta rete di contatti, scambi e aiuti che dovrebbe far ripensare alle molte letture dello storico romagnolo come di un personaggio isolato. In questo caso, tuttavia, le conoscenze e l’attività mediatrice di Cantimori, non solo verso Gentile, poterono poco, almeno per quanto riguardava l’affaire dell’iscrizione al partito, tema centrale e pressoché

«sociale» della rivoluzione fascista; inoltre G. Sasso, D. Cantimori. Filosofia e storiografia, Pisa 2005, specie pp. 2-52. 78   Su cui cfr. B. Croce, Lettere a Vittorio Enzo Alfieri. 1925-1952, Milazzo 1986. 79  ASNS, Fondo Cantimori, da Alfieri a Cantimori, Parma 12 novembre 1928.

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esclusivo delle lettere per tutto l’anno 193580. La vigilanza su Alfieri, mai venuta meno, lo qualificava del resto pur sempre come persona al centro di amicizie sospette, perlopiù dell’ambiente crociano (ambiente qualificato come nettamente ostile al regime, e quindi pericoloso), e questo avrebbe portato infine, nel gennaio 1936, alla sua dispensa dal servizio per motivi politici, «per aver avuto rapporti con organizzazioni avverse al Fascismo […] e per avere ad onta di taluni atti di apparente adesione al Regime, mantenuto un atteggiamento ad esso contrario». Dispensa che all’inizio venne accolta come una sorta di riconoscimento sul campo, e che venne trionfalmente e imprudentemente annunciata a Croce con una lettera in cui Alfieri affermava, con toni roboanti, ad un tempo il suo amore per l’insegnamento, il suo disprezzo per il regime che lo escludeva dalle sue scuole e il suo orgoglio di «uomo libero» in procinto di tornare ai propri studi senza distrazioni: La prima risposta che diedi al mio preside fu che me ne dispiace per la scuola, non per me: per la scuola, che un professore come me, a questi chiari di luna, non lo troverà facilmente; ed io sono, lo confesso, come un amante ingannato e tradito dalla sua bella e che tuttavia continua ad amarla. Sono stupido, lo confesso, ma ho amato la scuola di profondo amore. Ma ora basta. Se questo amore stesso o esagerate preoccupazioni economiche mi spingessero in questo decisivo momento a compiere un atto di viltà dovrei dire di me stesso: et propter vitam vivendi perdere causam. No, mio caro, mio venerato amico e maestro. Non rinnegherò il Signore per la terza volta come San Pietro: due volte bastano e anche di quelle sento ancora il rossore e il rimorso. […] Del resto, ero già così stanco di questa vita che da tempo meditavo, e Voi lo sapere, di lasciare l’insegnamento e se ancora non avevo dato le dimissioni era perché mia moglie era stata mandata lontana di qui. […] In questi potrò, liberato dalle fatiche della scuola, finire il commento a Lucrezio, le note agli Stoici dello Zeller, i due volumi dell’Algavotti […]. Ho da fare articoli e recensioni […]. Se vorrò, avrò lezioni private da non sapere come liberarmene […]. Qui tutti mi conoscono e mi vogliono bene, specialmente i giovani […]. Spero di non avere da importunare né Voi né il Casati con richieste di aiuti […]81.

Di imprudenza, certo, si può benissimo parlare. Intercettata naturalmente dalla censura, la lettera di Alfieri, colma di apprezzamenti

  Ibid., Alfieri a Cantimori, 5, 26 maggio e 26 settembre 1935.   ACS, CPC, b. 64, f. ‘Alfieri Vittorio Enzo’, Alfieri a Croce, Modena 17 gennaio 1936, copia dattiloscritta. 80 81

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ironici sul regime e professante un rivendicato senso di superiorità, venne letta soprattutto come un manifesto pubblico di perdurante antifascismo; Alfieri venne allontanato con foglio di via da Modena e costretto a riparare a Milano82. Il trasferimento coatto, la perdita del lavoro, le condizioni economiche non facili della coppia ad onta dei molti lavori rivendicati come fonte di reddito in una missiva fin troppo ottimistica (non si dimentichi del resto la modesta condizione della famiglia di origine di Alfieri), e forse anche un senso di declassamento rispetto al proprio status istituzionale di professore («vivere, bene o male, si può anche insegnando privatamente, ma far scuola sul serio non si può altro che nella scuola dello Stato», come avrebbe scritto in una lettera del marzo 1937), costrinsero Alfieri a più miti consigli, tanto da spingerlo, con uno di quei capovolgimenti di fronte caratteristici della sua personalità spesso contraddittoria, a implorare da Gentile una nuova mediazione per un riesame della sua posizione in sede ministeriale83. Ma neppure l’intercessione del potente ex ministro (che, peraltro, proprio dal ministro in carica, De Vecchi, era stato estromesso dalla direzione della Normale), ed una supplica inviata direttamente a Mussolini, poterono sanare la decisione: Alfieri sarebbe rimasto escluso dall’insegnamento scolastico fino al governo Badoglio, che nel settembre 1943 ne sancì il richiamo in servizio annullando i provvedimenti di epurazione per motivi politici. Di fatto libero professionista, impiegato poi dalla casa editrice Garzanti a Milano, mentre sua moglie poté continuare ad insegnare nelle scuole secondarie84, l’«ultimo allievo di Croce», come avrebbe amato autodefinirsi negli anni successivi, avrà in realtà ben poco tempo per tornare alla sua vocazione scolastica: assegnato all’Istituto magistrale di Bergamo nel 1943, poté assumere servizio solo dopo la guerra, impegnato come partigiano combattente fino all’armistizio. Dopo un anno come presidente reggente, insegnò per qualche tempo presso il liceo scientifico Da Vinci di Milano per

  Ibid., da Divisione di Polizia Politica a DGPS, 25 aprile 1936.   Simoncelli, La Normale di Pisa, p. 172. Per quanto riguarda l’origine sociale, Alfieri era figlio di un fabbro ferraio rimasto poi disoccupato; i suoi studi scolastici, prima alle scuole tecniche poi al liceo ‘Romagnosi’ di Parma furono pagati da conoscenti di famiglia. Cfr. ASNS, Istanze di Ammissione, b. 32, f. 1925-26 Classe di Lettere, s.f. ‘Alfieri’. 84   ACS, CPC, b. 64, f. ‘Alfieri Vittorio Enzo’, da Prefettura di Milano a Ministero Interno DGPS CPC, 28 febbraio 1942. 82 83

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passare infine, nel 1949, in qualità di incaricato, all’insegnamento universitario alla Bocconi. La vicenda personale di Umberto Segre era stata più difficile inizialmente, ma avrebbe avuto in comune con il destino dell’ex compagno di Normale l’obbligo di scontare una persecuzione continua nel tempo, che l’avrebbe costretto per tutta la durata del regime a professioni di conformismo, senza che queste valessero a trarlo fuori dai margini della vita pubblica. Nella perquisizione del suo alloggio pisano, nel corso delle indagini dell’aprile 1928, la polizia aveva infatti rinvenuto molta corrispondenza «di carattere culturale e filosofico orientata a teorie crociane e anche di contenuto politico evidentemente avverso al Regime»85. Dall’esame della corrispondenza, la questura di Pisa aveva messo in risalto il legame del giovane a Pietre, un fatto peraltro già noto da tempo, ma aveva anche avuto il sospetto che alla rivista, e quindi alla «Giovane Italia», potesse essere affiliata la fidanzata di Segre, Elena Cortellessa, compagna di università a Genova. Fu nel corso della perquisizione ai danni di quest’ultima che venne reperita, tra l’altro, una lettera privata del 1927, in cui, discutendo sui meriti e le colpe del fascismo, Segre compiva un’analisi serrata della natura e delle derive del regime. Non era soltanto, come pure sarebbe stata giudicata dalla polizia dell’epoca, una missiva ingiuriosa per il capo del governo; era anche un testo denso di appunti tutt’altro che ingenui sulle pecche di una rivoluzione promessa ma incompiuta, in primo luogo, sulle premesse teoriche contraddette del rinnovamento nazionale a cui si abbeveravano i luoghi comuni della retorica pubblica, e sulla degenerazione di un movimento trasformato da velleitario e romantico rinnovamento ad artefice di uno stato illiberale caratterizzato da una violenta illegalità permanente e dall’egemonia dei corrotti, dei ladri, dei prepotenti e dei meschini: […] Lei mi ha scritto delle cose comuni (identità di fascismo ed italianità, equivoco che pone come antinazionale ed extranazionale tutto ciò che non è fascismo; concezione dello Stato. Ella deve pur aderirvi poiché infine è tutto ciò che vi è di pensiero, se pur falso, nel fascismo. Imperialismo, dogmatica, antidialettica; gretta visione del partito, tutta rivolta all’organizzazione im-

  ACS, CPC, b. 4733, f. ‘Segre Umberto’, rapporto riassuntivo e scheda personale della Prefettura di Torino, 12 giugno 1929. Questo rapporto comprende, con poche varianti, quello della Prefettura di Pisa trasmesso al Ministero dell’Interno - DGPS CPC il 18 luglio 1928. 85

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mediata imposta ad uno Stato agitato da una crisi delle più gravi che non è ancora perita ecc.). Vuole che provi a combattere le poche affermazioni sue che hanno un’apparenza di solidità logica? […] 1° Lei confondeva fascismo con patriottismo e italianità. Non le confonde tuttora? Pare di sì; 2° Non trova che il suo bilancio sul fascismo è cosa ben meschina? Il fascismo ha fatto del male e del bene: c’è – dice Lei – più bene che male, dunque io sono fascista. Ma che cosa è il fascismo? Se è soltanto una reazione essenzialmente borghese al comunismo, allora Le dirò che in una reazione di ideale c’è ben poco: è un fatto pratico che deve esaurirsi in se stesso. Non è stato così: e perché? Per questo, che alla testa del fascismo c’era un ambizionismo [sic] circondato da ambiziosi volitivi che ad uno ad uno si sono ‘fatti una posizione’, una serqua di arrivisti – Lei me lo riconosce – di ben poca coscienza: e fra questi gli illusi, e i pochi in buona fede; e i tanti, indifferenti, che seguono il codazzo, come fanno di solito gli italiani. Ma un partito non è solo questo, o non dovrebbe essere questo soltanto: e allora si è dispiegato quello che Le ho detto: una romanticheria fatta da superuomo e imperialismo, di giovinezza sguaiata e in intelligente [sic] e di gaffes di politica estera […] e si è finito con un parlamento di burattini e una carica podestarile che è la cosa più contraria allo spirito italiano. 3° Le lascio tutta la sua stima per il Capo. Io certo non lo stimo, perché stimo anzitutto i galantuomini. […] E certo non mi persuadono le disquisizioni di Gentile nel suo volume Che cosa è il fascismo […] e la critica, anche qui, ci viene dal più potente ingegno del secolo: da Benedetto Croce dei suoi Elemento di Politica. È inutile che io Le ripeta che il fascismo è anacronismo, è medievalismo, è oscurantismo […]. Per questo e per altre ragioni (non ultima questa: che un ebreo fascista in buona fede è inconcepibile) io sono e sono stato sempre a mio rischio antifascista: rischio piccolo, finora: in pratica qualche schiaffo, e qualche chiara e pubblica minaccia di radiazione dall’Università […]. Io non sono socialista, ma, coerentemente al mio idealismo, non posso che essere liberale, sono per lo Stato dialettico e non per questa sorta di Stato ipocritamente etico, dove chi può ruba e ammazza e chi non può la paga per tutti. […] Comprendo il suo amor patrio. Io penso a volte che la patria non l’ho avuta finora e che forse non l’avrò mai; e che la mia patria in realtà non è neppure l’Italia e forse più di altri mi sento cives mundi, come tanti ebrei, come tanti socialisti, come i primi cristiani. […] Ora Lei pensi che le ho scritto con tutta franchezza, e segua pure il suo Duce, finché crede, io resterò coi vinti, poiché non mi sento di stare coi vincitori […]86.

  Ibid., da Umberto Segre a Elena Cortellessa, copia dattiloscritta dell’originale, Genova 25 settembre 1927. 86

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È significativo che la censura poliziesca abbia individuato nel solo riferimento a Mussolini come «non galantuomo» il capo di imputazione in base al quale procedere; in ottemperanza alla legge sulle attribuzioni del Capo del Governo del 1925 (una delle norme più applicate negli anni della dittatura) i termini individuati come offensivi verso la sua persona prevedevano infatti una reclusione da sei a trenta mesi oltre ad una forte ammenda, reato per il quale Segre venne condannato in prima istanza il 14 agosto dal tribunale di Savona, competente per territorio, a cinque mesi di reclusione e ad una multa di 416 lire87. Nella lunga lettera a Elena Cortellessa, in effetti, si ritrovano molti degli spunti polemici che sarebbero stati propri, nel decennio successivo, anche della generazione dei giovani delusi dall’imborghesimento e dalla meschinità degli apparati di potere. Naturalmente, la professione esplicita di antifascismo (e di adesione ad una prospettiva idealista, liberale e crociana) di Segre lo poneva su posizioni molto distanti dai protagonisti del «lungo viaggio» di Zangrandi, i «delusi in buona fede» degli anni Trenta che dopo aver vissuto dall’interno l’illusione del fascismo rivoluzionario avrebbero dato vita all’immagine consolatoria postbellica del più o meno precoce approdo all’antifascismo88. Di fatto, il giovanissimo studente di primo anno rivendicava un’estraneità all’Italia fascista che, per quanto meno rara all’epoca che, ad esempio, all’inizio degli anni Trenta, rappresentava comunque un’espressione di dissenso di radicalità inusitata, che, apparentemente, all’inizio non gli venne contestata (se non in modo molto blando) ma che avrebbe costituito di lì a molti anni la base di un impianto accusatorio per-

  Legge 24 dicembre 1925 n. 2263, in G.U. 29 dicembre 1925 n. 301, art. 9: «Chiunque commette un fatto diretto contro la vita, l’integrità o la libertà del capo del governo è punito con la reclusione non inferiore a quindici anni, e, se consegue l’intento, con l’ergastolo. Chiunque con parole o atti offende il capo del governo è punito con la reclusione o con la detenzione da sei a trenta mesi e con la multa da lire 500 a lire 3000». 88  La difesa della «buona fede» della generazione dei ventenni e trentenni rappresenta un filo rosso che unisce una vasta memorialistica sorprendentemente omogenea, da G. Spinetti, Difesa di una generazione, Roma 1948, a R. Zangrandi, Il lungo viaggio attraverso il fascismo, Milano 1998 (1947). Un quadro interpretativo assai analitico sulle dinamiche giustificatorie della generazione dei Littoriali è offerto oggi da La Rovere, Storia dei GUF, pp. 3-12, a cui si aggiunga S. Duranti, Lo spirito gregario. I gruppi universitari fascisti tra politica e propaganda (1930-1940), Roma 2008. 87

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sistente, che gli avrebbe reso la vita pressoché impossibile fino alla conclusione del conflitto89. Segre, in effetti, non scontò le pena comminatagli per ingiurie a Mussolini, ricompresa nel condono condizionale concesso in occasione del Natale. Ancora in carcere a Savona, venne deferito alla Commissione provinciale per l’assegnazione al confino in quanto ritenuto colpevole di associazione alla «Giovane Italia», e proposto per cinque anni di confino; scarcerato, nel frattempo, e trasferitosi a Torino in settembre, fu raggiunto lì dalla notizia che la pena, commutata nel frattempo in ammonizione per intervento del Ministero, era stata ulteriormente ridotta a semplice diffida, un ammorbidimento della sentenza dovuto probabilmente a pressioni esterne (Gentile intervenne sicuramente, ma non è impossibile escludere, oltre alla mediazione di Croce, anche un favore ottenuto dal padre, già consigliere della prefettura), che risparmiarono al giovane studente, la cui compromissione con l’antifascismo militante era suffragata da sufficienti indizi, conseguenze potenzialmente molto peggiori90. Tuttavia, non era pas-

  Colarizi, L’opinione degli italiani sotto il regime, specie pp. 3-14, sulle grandi scansioni dell’opinione pubblica rispetto al regime. 90  ACS, CPC, f. ‘Segre Umberto’, rapporto della Prefettura di Torino, p. 2. La prefettura di Pisa e quella di Genova si rimbalzarono durante tutta l’inchiesta la responsabilità dell’attività antifascista dell’imputato: secondo il prefetto pisano, parere concordato come abbiamo visto col questore, Segre non aveva svolto a Pisa attività antifascista o politica di sorta, secondo il prefetto di Genova, l’attività di dissenso dello studente L’intervento di Gentile dovette svolgersi tra la metà di luglio (quando la prefettura di Pisa parlava ancora di probabile condanna esecutiva all’ammonizione) e agosto (quando fu scarcerato e spedito con foglio di via a Torino). A differenza della diffida, l’ammonizione (artt. 164-176, capo III del T.U. delle Leggi di P.S. del 1926) prevedeva la possibilità per l’autorità di pubblica sicurezza di comminare al condannato, secondo le disposizioni di un’apposita Commissione provinciale per l’ammonizione, una vasta gamma di provvedimenti restrittivi, dall’impossibilità di circolare dopo una certa ora alla proibizione di frequentare luoghi pubblici; una volta comminata l’ammonizione durava due anni. A fronte del rischio di confino, del resto, non si capisce il tono della lettera di Santino Caramella a Croce il 13 luglio 1928, che evoca le imprudenze di Segre, il quale continuava a scrivere dal carcere lettere dense di apprezzamenti sui giudici e sul regime che venivano regolarmente lette, come un’aggravante della sua situazione. Segre era certamente un imprudente, ma la sua situazione penale poteva risolversi decisamente peggio. Si tenga presente che il nome di Segre era già stato fatto in qualità di noto antifascista associato a Carlo Rosselli 89

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sato nemmeno un anno dalla sua liberazione, che Segre ricadeva nelle mani della giustizia per aver firmato, insieme a vari altri studenti e docenti dell’ateneo torinese, una lettera di solidarietà a Croce dopo il suo voto contrario al Concordato nella seduta del Senato del 24 maggio 192991. Recidivo, già segnalato, Segre rischiava di incorrere in questa occasione in una sanzione ben più pesante; fu ancora una volta l’intervento personale di Gentile presso Mussolini a salvarlo dalla condanna al confino per tre anni, che la Commissione provinciale aveva già deciso e che stava per rendere esecutiva, allorché il condannato venne liberato condizionatamente «d’ordine di S.E. il Capo del Governo» e sottoposto nuovamente a diffida92. Fino a quel momento, Segre aveva goduto dei privilegi di una protezione indubbiamente generosa. Tuttavia, la sua condizione di duplice diffidato, marchiato dal segno di un impenitente antifascismo, gli rendeva ormai impossibile dedicarsi alla carriera che più di tutte rappresentava il naturale sbocco della sua vocazione, l’insegnamento. Alla stessa stregua di Alfieri, ma in condizione tutto sommato peggiore per la sua recidività, Segre esperiva ora il vicolo cieco di una condizione liminare, tra libertà e interdizione al lavoro, in cui i rigori della dittatura e la sensibilità del dittatore all’intercessione del «suo» filosofo l’avevano gettato. Già dopo la conclusione dell’istruttoria del 1928, improvvisamente libero, del resto, aveva scritto a Gentile per porgere i propri ringraziamenti, e in quell’occasione aveva lucidamente fatto riferimento alla sua futura situazione di estromesso dai concorsi a cattedra per le scuole, destinato a mantenersi e ad aiutare la famiglia ricercando un qualsiasi «impiego editoriale di concetto», per il quale, sottotesto, chiedeva ancora (secondo una consuetudine tipica dei normalisti dell’epoca) l’intercessione del potente interlocutore93. Impossibilitato a procurarsi una posizione lavorativa in Italia, e non convinto di un impiego nell’editoria (Croce l’aveva raccomandato all’editore Formiggini), Segre tentò allora la strada dell’estero: alla fine del 1929, grazie alle raccomandazione di Croce, di Arturo Farinelli,

nell’ambito della campagna denigratoria contro quest’ultimo da parte della stampa fascista nel 1926 a Genova. Cfr. Bottoni, Un ebreo antifascista, p. 551. 91   Turi, Giovanni Gentile, pp. 425 e sgg. 92   ACS, CPC, f. ‘Segre Umberto’, annotazione 4 luglio 1929. 93   La mancata risposta a questa lettera del settembre 1929 coincide con l’interruzione del rapporto epistolare fino al febbraio dell’anno seguente. Cfr. Bottoni, Un ebreo antifascista, p. 556.

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ispanista, ordinario a Torino e membro dell’Accademia d’Italia, e pare dello stesso Maurice Blondel, ottenne il posto di lettore d’italiano ad Aix-en-Provence94. Fu a questo punto del suo già complicato curriculum, che Segre conobbe fino in fondo gli ostacoli posti a chi, nella sua condizione, doveva ricorrere alla benevolenza del potere: la sua richiesta di passaporto per la Francia venne infatti respinta, e il prefetto di Torino, Maggioni, confermò il suo diniego in una nota riservata al Ministero degli Interni in cui dichiarava che, per i noti precedenti e attuali sentimenti antifascisti, al prof. Umberto Segre «giovane di buona cultura ed intelligenza» non era opportuno concedere la cattedra in un’università francese per motivi politici95. Lo stesso giorno, tuttavia, giungeva alla direzione generale della Pubblica sicurezza un appunto del capo ufficio stampa di Mussolini, Lando Ferretti, in cui si concedeva l’autorizzazione all’espatrio. Le due note si incrociavano così nei meandri della burocrazia, lasciando Segre – e Gentile, cui l’ex normalista si era prontamente rivolto al primo rifiuto di concedergli il passaporto – in uno stato di incertezza che si può desumere bene dalla corrispondenza intercorsa tra i due e ripresa proprio in occasione del mancato rilascio del passaporto96. Era stato infatti proprio Gentile a suggerire di rivolgersi direttamente a Mussolini, con una lettera personale, per scavalcare le resistenze della burocrazia ordinaria. Nella storia del Ventennio, le lettere personali a Mussolini hanno costituito quasi un genere epistolare a parte: benché solo parzialmente studiate, esse rappresentano certamente uno dei punti di osservazione più interessanti sul rapporto diretto, ad un tempo clientelare e paterno, instaurato tra la figura del Duce e gli italiani, versione nostrana del «capo carismatico» e fondamento di un culto personalistico attorno a cui ruotavano, pur senza esaurirsi, il culto del littorio e la mistica fascista, almeno fino all’era Starace, quando il «culto del Duce» fu potenziato fino a raggiungere forme grottesche ben note97. Rispetto al codice

  Ibid., telegramma da Ministero Affari Esteri a DGPS, 24 febbraio 1930. Cfr. anche per la dinamica del posto ad Aix, Bottoni, Un ebreo antifascista, p. 557. 95   Ibid., da prefetto Maggioni a Ministero Interni, direzione scuole italiane all’estero, 3 febbraio 1930. 96   Ricostruita in Simoncelli, La Normale di Pisa, pp. 162 e sgg. 97   C. Cederna (ed.), «Caro Duce»: lettere di donne italiane a Mussolini, Milano 1989; L. Luna (ed.), «Caro Duce ti scrivo»: lettere di ascolani a «S.E. Benito Mussolini», Teramo 1987; M. Franzinelli, Il clero del duce: il consenso ecclesiastico nelle lettere a Mussolini, Ragusa 1998; I.N. Orvieto, Lettere a Mussolini: gli ebrei italiani e le leggi 94

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retorico usuale, la lettera con cui Segre si rivolse a Mussolini aveva la caratteristica di non evocare mai un presunto legame affettivo tra sé e il «duce» degli italiani, come si sarebbe piuttosto potuto ritrovare nelle suppliche di coloro che, sfruttando i meccanismi emotivi del vincolo di patronage, miravano ad attirare il potente interlocutore nella rete dei legami biunivoci tra il cliente devoto, reverente e sottomesso, e il protettore, autorevole, caritatevole e obbligato ad assicurare tutela98. Piuttosto, dopo aver esplicitato la propria richiesta di passaporto per l’impiego in Francia a causa delle difficoltà prodotte dalla questura di Torino, e aver rimembrato i propri trascorsi giovanili, Segre professava a Mussolini la sua posizione leale, non, ovviamente, di antifascista, ma di critico sincero dei presupposti teorici del fascismo stesso: […] V.E. ricorderà forse, per essermi venuto generosamente in aiuto, il mio comportamento politico di questi ultimi anni. Nell’aprile del 1928 fui arrestato con l’accusa di appartenere ad un’associazione segreta: accusa dalla quale fui prosciolto e che in verità non avevo in alcun modo meritato. Sennonché, durante l’istruttoria compiuta dalla Polizia, fu trovata una mia lettera nella quale, diciottenne, scrivevo nella forma più strettamente privata […] alcune critiche ai presupposti teorici del Fascismo, e mi lasciavo sfuggire, con un errore che ora riconosco pienamente, un giudizio morale negativo su questo movimento squisitamente politico. Perciò, fui processato per oltraggio a V.E. e, sebbene in grazia del condono da Lei concesso nel Natale 1927, io non abbia dovuto scontare la pena di cinque mesi di reclusione, la condanna fu iscritta al casellario giudiziario, e resta ora, e resterà, per me, come un peso, e un intralcio a collocarmi in Italia, non solo nell’insegnamento pubblico – essendo io laureato in Filosofia – ma anche in impieghi privati adeguati alla mia preparazione. Successivamente, nel maggio 1929, ebbi a sottoscrivere una lettera al sena-

antiebraiche, num. monog. «La Rassegna Mensile di Israel», 1, 2003. Sul culto del duce, che non fu mai assoluto all’interno dell’establishment fascista, in realtà nemmeno negli anni Trenta, cfr. in primo luogo, ovviamente, E. Gentile, Il culto del littorio, Roma-Bari 1995, pp. 263-97, e, con particolare riferimento alla gestione staraciana e alle dinamiche relative al culto della «bontà mussoliniana», S. Lupo, Il fascismo, Roma 2000, specie pp. 376-88. 98   S.N. Eisenstadt, L. Roniger, Patron-Client Relations as a Model of Structuring Social Exchange, «Comparative Studies in Society and History», 12, 1980, p. 42, e G. Roth, Potere personale e clientelismo, Torino 1990 (1987).

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tore Benedetto Croce nella quale, con altri studenti torinesi, si riconosceva nel Croce il filosofo della dialettica, colui che ci aveva indotto a concepire la vita spirituale e morale come lotta e battaglia, e non come ritiro o come otium. Per questa lettera, che era una pura adesione al Croce filosofo e uomo di cultura, fui nuovamente tratto in arresto; e, condannato al confino, fui invece dopo pochissimi giorni graziato dall’E.V. Questo, Eccellenza, il mio passato politico; del quale vorrei che Ella credesse la caratteristica più sincera: per un lato un radicato moralismo dal quale la mia coscienza non ha saputo allontanarsi; per altro, un’esigenza tutta filosofica e critica di personale esame dei presupposti teorici del Fascismo. Ora che mi sono aperto a Lei con tutta lealtà, eccellenza, mi permetta di rinnovarle la mia domanda. Il posto al quale sono stato chiamato dalla fiducia della Facoltà di Lettere di Aix, e soprattutto dall’illustre filosofo dell’azione Maurice Blondel, è per me una sorta d’ancora di salvezza: è la modesta occupazione di insegnante che, dandomi l’indipendenza dalla famiglia che ogni giovane sente di doversi conquistare, mi concederà di seguire con ogni forza i miei studi filosofici, e di servire come potrò e saprò il mio Paese, cercando di farne apprezzare la cultura e la letteratura. D’altra parte, la mia coscienza non solo mi consente liberamente ma mi impone di assumere di fronte all’E.V. l’impegno formale e assoluto di astenermi da qualsiasi atto politico, da qualsiasi contatto coi fuoriusciti e di essere, in una parola, un cittadino degno di questo nome […]99.

Nel suo testo, Segre mescolava abilmente gli elementi di una tipologia virile molto cara all’immagine pubblica del fascismo (franchezza, lealtà, coraggio personale) con il timbro del pentimento e del ravvedimento del bravo e disciplinato italiano, intenzionato a fare ammenda dei propri torti di giudizio e impegnato a contribuire alla costruzione all’estero di un’immagine gratificante della nuova Italia mussoliniana («servire come potrò e saprò il mio Paese»); l’autore forniva, infine, una rappresentazione di sé sufficientemente edulcorata («accusa che non avevo in alcun modo meritato») e piegata al cliché dell’intemperanza giovanile come origine delle sue lettere polemiche, da apparire degna di clemenza, soprattutto avendo alle spalle la rassicurante figura di Gentile. Non sarà l’ultima volta in cui Segre si troverà costretto a riaffermare con forza, più che un’adesione nicodemita al regime, una rinuncia ad interessarsi alla politica, anch’egli obbligato a rifugiarsi

  ACS, CPC, b. 4733, f. ‘Segre Umberto’, da Umberto Segre a Mussolini, Roma 27 gennaio 1930 (sottolineature nel testo). 99

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nello spazio del conformismo proprio degli a-fascisti, probi e buoni cittadini, in cui i meccanismi di repressione del regime confinavano coloro che non si piegavano alla professione di un fascismo militante100. Il suo umiliante «impegno formale e assoluto» a disinteressarsi completamente alla vita pubblica e al dissenso al regime (di cui pure non doveva ignorare il fiorire in Francia, vista la familiarità nel riferirsi al fuoriuscitismo), impegno puntualmente corrisposto durante il soggiorno francese, verrà ribadito veementemente nel dicembre 1931 in una lettera al console generale italiano a Parigi, cui Segre si era rivolto per ottenere un allentamento nelle misure di sorveglianza strette attorno a lui. Trasferitosi a Parigi, dove seguiva corsi alla Sorbona e dove si manteneva come istitutore in una scuola privata, Segre si riteneva ormai evidentemente abbastanza sicuro della sua buona condotta da rivolgersi al console, sottolineando di aver rispettato scrupolosamente la propria promessa di astenersi da qualsivoglia contatto con i fuoriusciti e da ogni attività di indole politica, dichiarando di non meritare l’assidua vigilanza e la persecuzione poliziesca umiliante, soprattutto durante gli spostamenti all’interno della penisola in occasione delle vacanze, e rivendicando infine la benevolenza di «S.E. il Capo del governo» come titolo di merito101. L’interpellanza era stata presentata al consolato parigino preceduta da una raccomandazione estranea, questa volta, alla cerchia normalistica, ma interna a quella parentale: il cugino di Segre era infatti console italiano a Spalato, un funzionario di buon livello e sufficientemente importante per poter garantire almeno un occhio di riguardo. Per quanto «professa[sse] ancora sentimenti antifascisti», secondo un rapporto dell’occhiuta squadra di sorveglianza della polizia politica102, Segre, forse anche per un ulteriore appoggio della segreteria particolare del duce, venne così infine accontentato: le misure a suo carico furono ridotte e l’iscrizione alla «rubrica di frontiera», che comportava un’attenzione poco gradita e pratiche eccezionali ad ogni passaggio di confine, cancellata nel marzo 1932103. Sembrava

  Cfr. ancora per questo Canali, Repressione e consenso nell’esperimento fascista, pp. 77-9. 101   Ibid., da Umberto Segre al Console generale d’Italia a Parigi, Parigi 21 dicembre 1931, copia dattiloscritta. 102   Ibid., telegramma da Ministero Affari Esteri - Ufficio I a Ministero Interno CPC e p.c. Regio Consolato Marsiglia, 12 febbraio 1931. 103   Ibid., da Prefetto Torino a Ministero Interno e vari uffici, 30 marzo 1932. Cfr. anche Simoncelli, La Normale di Pisa, pp. 166-7. 100

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che il peso delle condanne del 1928 e 1929 potesse ormai essere trascurabile. Nel giugno 1932 Segre, tornato definitivamente in Italia, e dopo aver tentato senza risultato la via del collocamento nel mercato editoriale, attraverso l’aiuto di Luigi Russo e mediante anche contatti familiari con Isaia Levi, direttore della Zanichelli, ottenne un primo impiego come supplente presso il liceo classico Dettori di Cagliari, vecchia sede di Cantimori, che anche in quell’occasione funse da mediatore e consulente per il vecchio compagno di Normale. L’incarico cagliaritano si rivelò una sistemazione potenzialmente stabile: docente sicuramente molto più preparato della media dei colleghi, dotato di un curriculum irregolare ma di prestigio, Segre si rivelò un ottimo professore, benvoluto dal preside che si adoperò per procurargli la nomina in ruolo. Per ottenere la stabilizzazione, Segre avrebbe dovuto però iscriversi per tempo al PNF per poi presentarsi, con qualche speranza, ai concorsi a cattedra per i posti disponibili, tra cui la cattedra del ‘Dettori’, iscrizione che, stante i precedenti, e nonostante l’intercessione sia del Console generale a Parigi sia del prefetto di Cagliari, che avevano attestato la buona condotta del «giovane veramente serio, studiosi e meritevole di ogni aiuto», gli venne inizialmente negata104. Ancora una volta, come per il caso di Alfieri, il destino professionale del giovane ex normalista veniva segnato dalla capacità di mobilitare una rete di conoscenze e contatti prossimi alla sfera del potere, in grado di consentire, attraverso l’iscrizione al Partito, di cancellare la «macchia infamante» del giovanile antifascismo. È una storia, in effetti, straordinariamente speculare, quella di Alfieri e Segre – e, come vedremo, non solo di loro due – ex antifascisti, votati ora al conformismo pubblico e alla ricerca della stabilizzazione all’interno del sistema scolastico. Anche in questo caso, chiamato a fungere da collegamento verso coloro che potevano facilitare la concessione dell’ambita tessera fu, tra gli altri, l’amico Cantimori, con cui la corrispondenza riprese fitta; anche in questo caso, la riammissione del reprobo nelle fila dei militanti sani della nazione fascista fu tutt’altro che lineare. Nonostante l’assenza di rimarchi sul suo contegno e l’indicazione di una vita dedicata esclusivamente agli studi, la concessione della tessera nel 1934 fu un provvedimento solamente provvisorio: dopo il grave attacco di emottisi che lo costrinse a rinunciare al concorso di quell’anno e a rifugiarsi per cure a Bressanone, Segre

  Ibid., da Consolato generale di Parigi a Ministero Affari Esteri 25 febbraio 1933 e Prefettura di Cagliari a Ministero dell’Interno DGPS - AGR, 17 luglio 1933. 104

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venne infatti raggiunto dalla notizia di essere stato sospeso dal Partito, in attesa di una revisione della sua situazione politica antecedente il 1929105. Era la pratica e amara chiusura di una vicenda destinata a non concludersi positivamente: combattuto tra i problemi di salute che lo costringevano a lunghe cure e la precarietà professionale, Segre fu obbligato a rifugiarsi nelle supplenze (di cui annunciava persino gioiosamente la ripresa agli amici nell’estate 1935) e poi nell’insegnamento privato, disperando di poter rientrare in una scuola pubblica che tra l’altro, proprio tra ’35 e ’36, sperimentava un ulteriore giro di vite all’insegna della fascistizzazione integrale imposta dalla duplice gestione di De Vecchi, al Ministero, e di Starace alla segreteria del PNF106. Il rifugio nell’intimo dell’ex militante antifascista, chiuso nella dimensione di un’opposizione «esistenziale» e privata al regime, servì dunque a ben poco, come a poco servì il contatto continuo con la rete dei camarades la cui influenza, ormai messosi in disparte il potente Gentile, pareva non avere più influenza107. A Milano, sempre in cerca di un’occupazione più stabile, e sempre ridotto ad operare nei pochi spazi liberi che la legislazione fascista sull’ammissione agli apparati pubblici gli concedeva, Segre approdò alla fine del 1935 per riunirsi (e vivere per un certo tempo nella stessa casa), l’anno successivo, al vecchio compagno Alfieri, esule forzato anche lui nella grande città. La parabola comune dei due giovani esponenti dell’antifascismo studentesco, perseguitati dalla propria incapacità di sopravvivere al di fuori di quella dimensione dell’insegnamento pubblico a cui la Normale li aveva formati e una indubbia vocazione li avevano condotti, ed emarginati in modo più o meno definitivo dalla sfera pubblica, si concludeva così nella grande città, anonima e più libera per dei perseguitati, luogo di

  La sua vicenda è in effetti tutt’altro che terminata favorevolmente come lascia intendere Simoncelli, La Normale di Pisa, p. 168. Cfr. invece un resoconto dettagliato in Bottoni, Un ebreo antifascista, pp. 560 e sgg. 106  ASNS, Fondo Cantimori, Alfieri a Cantimori, Zoldo Alto 1 agosto 1935. La gestione di de Vecchi, anche se breve, comportò un’ulteriore riduzione degli spazi di manovra per i docenti considerati scarsamente affidabili o poco leali nei confronti del regime. Cfr. Charnitzky, Fascismo e scuola, pp. 316-7. 107   Gentile, che vide nel 1935-36 un declino della propria influenza a causa della nomina di De Vecchi al Ministero, si era in effetti defilato, abbandonando sia il caso Segre che quello Alfieri, così come racconta Cantimori in una sua lettera del 15 marzo 1935 conservata nell’Archivio Segre e citata in Bottoni, Un ebreo antifascista, p. 569, nota 118. 105

134  Generazioni intellettuali

densi contatti culturali, di reti di amicizie, di fervida vita editoriale e pubblicistica, ma, comunque, di forzato esilio interno, nel contesto di una società e di un campo intellettuale in cui la sensazione dominante non era più solo di estraneità, ma di precarietà esistenziale: […] la fierezza, direi quasi la ferocia morale che ci voleva in tutti, dai ‘liberali’ agli anarchici, per resistere, per ricordarsi ogni giorno, al primo risveglio, che si era antifascisti, e che nelle prossime ore, le ore di veglia quotidiana, al lavoro, allo studio, alla fabbrica, si sarebbe dovuto rammentare tutto un codice di cautele e di resistenze, di silenzi e di sfide, senza cui la parte migliore dell’uomo sarebbe caduta nell’abiezione e nella disistima di sé. Il caso di coscienza era continuo, come l’ansia; s’era sostenuti dalla certezza di appartenere a una piccola comunità, dalla quale si faceva solo troppo presto a decadere se si fosse commesso, non diciamo un cedimento, ma un errore, un passo involontariamente falso […]. Se un uomo non poteva sopportare che ad un altro fosse imposto il silenzio, minacciato il posto, ricattata la famiglia; se dinanzi a questa vista egli incominciava ad attenuare certi comuni rapporti quotidiani carichi di ambiguità, si riduceva a una ristrettissima, silenziosa e arrischiata cerchia di amici ‘garantiti’ da un atteggiamento della coscienza, in lui riconoscevano un antifascista […]. Quante volte, durante il lungo assedio del ventennio, nel cerchio della famiglia, ci si sentiva umiliati della propria impotenza, della discriminazione implicita o esplicita, della inibizione accettata e della repressione quotidiana. Non sono iscritto al partito, dunque non posso fare pubblici concorsi. Non mi sarà negato almeno, di insegnare ad esempio nelle scuole private. Ma che magra consolazione. Il fatto che sarò meno obbligato a salutare romanamente, non mi dispensa ad esempio dal far studiare la storia su certi testi, o dal dover affrontare, con gli studenti di maturità, gli elementi di dottrina fascista […]108.

All’assedio, vittorioso contro gli inermi esponenti del vecchio antifascismo (e per Segre, ancora più amaro e pericoloso dopo il 1938, e l’ulteriore emarginazione delle leggi razziali), all’isolamento dalla società urbana percepita a tutti i livelli come ostile, spia, nemica, ossessione di cui darà efficace testimonianza Alvaro nel suo Quasi una vita, si contrapponeva specularmente l’attendismo di coloro che Capi-

  F. Artusio [pseudonimo di U. Segre], Il lungo assedio, «L’Astrolabio», 30 aprile 1965, ora in Umberto Segre. Una figura di intellettuale antifascista, Stradella 1998, pp. 3-14. 108

135  Parte prima. Capitolo III. Vivere alla Scuola Normale

tini avrebbe etichettato come inerti, vale a dire la grande maggioranza della comunità normalistica109. Con l’eccezione della solidarietà privata degli amici e compagni, e tra costoro i più convinti fascisti come Cantimori, l’episodio del 1928 sembrò in effetti non scuotere affatto la Scuola dal suo torpore polveroso, se non per i suoi riflessi negativi da un punto di vista politico. Nell’immediato, e a livello locale, la polemica del presunto antifascismo alla Normale agitò soprattutto le acque dei rapporti non buoni tra GUF locale, guidato da Morello Morelli, assistente di chimica, e mondo accademico pisano, accusato dai gufini di essere solo superficialmente transitato al fascismo, e di coltivare al proprio interno, se non proprio un atteggiamento di fronda, certo un entusiasmo molto tiepido per il regime110. In una città che, alla fine degli anni Venti, vedeva l’organizzazione universitaria fascista non ancora saldamente attestata in posizione egemone, e che trovava nei più illustri membri dell’ateneo e della Normale persone protette da amicizie influenti a Roma ed estremamente restie a farsi attirare nell’orbita di una fascistizzazione integrale, gli arresti del 1928 avevano piuttosto scoperchiato il vaso di Pandora dei mai chiariti rapporti tra gerarchie civili e organi di partito, specialmente se a capo di questi vi erano personaggi intemperanti come Morelli. La richiesta di espulsione immediata dei due studenti, avanzata all’indomani dell’arresto, era stata respinta dal Consiglio Direttivo con parole inneggianti allo spirito di gerarchia e di obbedienza insufflato dal fascismo nella vita nazionale, un evidente richiamo al dovere di rispettare le distanze e di non immischiarsi nelle decisioni dei vertici del mondo universitario che Morelli e i gufini non avevano particolarmente gradito: [Il Consiglio Direttivo] Crede suo obbligo, in risposta ad una lettera del Segretario politico del Gruppo Universitario fascista, dichiarare che quando saranno noti i risultati dell’inchiesta iniziata dalle Autorità, il Consiglio Direttivo farà senza false e pericolose pietà tutt’intero il suo dovere, che comprende lo stato d’animo degli studenti fascisti dell’Università e la loro generosa reazione, ma deve nello stesso tempo rammentare ai giovani in nome degli ideali fascisti e di quel principio di gerarchia, che è merito precipuo del Fascismo aver riaffermato

  C. Alvaro, Quasi una vita. Giornale di uno scrittore, Milano 1950, pp. 52-3.   P. Nello, «Il Campano». Autobiografia politica del fascismo universitario pisano 1926-1944, Pisa 1983. 109 110

136  Generazioni intellettuali

e valorizzato, che essi non possono turbare l’opera del Consiglio Direttivo e venir meno al rispetto che essi devono ai loro Maestri111.

Non per questo si potrà dire che la Normale abbia preso una posizione favorevole ai suoi studenti colpiti dalle misure di polizia, né, peraltro, si può affermare che gli altri studenti abbiano reagito in qualsivoglia maniera, oltre ai vincoli di affetto e di solidarietà che oggi riemergono dalle corrispondenze. La comunità degli allievi si segnalò anzi in quell’occasione come particolarmente silenziosa e inattiva, come non sarebbe stata invece di lì a qualche anno in occasione di eventi molto meno gravi (ma con una composizione del corpo studentesco assai diversa, sia per numero che per personalità presenti). Era, del resto, la stessa comunità silenziosa e tranquilla per la quale non esistono tracce di discussioni o proteste in occasione della marcia su Roma, o dell’assassinio Matteotti, fatto che, ad esempio, nella città universitaria genovese, come ha ricordato proprio Segre, aveva suscitato ben altre reazioni e molto rumore. Il piccolo gruppo della gente scelta si dimostrava inerte, quanto i pochi attivisti tra di loro si erano rivelati inermi di fronte alla macchina del regime. Né, parlando di quella che avrebbe dovuto essere la data di nascita dell’antifascismo alla Normale, si può dimenticare che tra le prime firme del rinato Il Campano, la rivista del fascismo studentesco, si trovavano, impegnati a scrivere del nuovo ruolo dei giovani nella fascistizzazione della cultura, Giorgio Radetti e Claudio Varese: «Le Università pullulano ancora di quei tali studenti cui S.E. Turati minacciò una sequela di sacrosantissimi calci», proclamava il primo nel numero del dicembre 1929, nelle stesse settimane, cioè, in cui, sfuggito agli stessi calci, Umberto Segre cercava la via dell’esilio in Francia112.

  Verbali del Consiglio, p. 171.  G. Radetti (Fiume 1909 - Trieste 1976), Ammissione Lettere 1927, perfezionamento 1928-29, storico della, filosofia, fu tra i protagonisti della rinascita della facoltà di Lettere di Trieste, dove fu a lungo ordinario. Per la partecipazione dei normalisti alla vita de Il Campano, se ne veda l’antologia in Nello, «Il Campano», specie pp. 57-61. 111 112

Parte seconda

i normalisti ai tempi di gentile

Capitolo I «Né poveri né ricchi: tutti uguali»

L’aria di questa Scuola noi la respirammo fin dai primi giorni che ci venimmo: qualcuno da lontane provincie, giovinetto ignaro del mondo, sgomento dell’ignoto, della lontananza dai suoi, timido, quasi smarrito. Giungemmo, e ci trovammo in mezzo a compagni più provetti, esperti già della vita che ci attendeva, pronti a stenderci la mano, a comunicarci le loro soddisfazioni per gli studi già fatti, per quelli in corso […]. Né poveri né ricchi: tutti uguali, perché tutti liberi da cure materiali. Ai servizi, al vitto, c’era chi pensava per noi. E non ci chiedeva nulla in compenso, anzi, ci veniva incontro, se noi si aveva bisogno di qualche cosa che ci facilitasse negli studi […]. Piena libertà spirituale in animi sgombri da ogni prosaica cura della vita d’ogni giorno […]. Libertà spirituale, che è il terreno in cui mette radice quel puro e disinteressato e irresistibile e ombroso amore del sapere, che è il gran ceppo d’ogni rigogliosa vegetazione ideale, della disciplina della ricerca e dello slancio della scoperta […]; il gran ceppo di questo albero glorioso della Scuola Normale, che ha esteso i suoi rami per tutte le scuole medie e superiori d’Italia, con centinaia di insegnanti e di studiosi tutti riconoscibili, in generale, a certi lineamenti di famiglia. Insegnanti ingenuamente votati alla scuola, alieni da ogni servile querimonia intorno all’inadeguato riconoscimento sociale della loro opera, lieti solo delle soddisfazioni che ogni maestro ricava dallo stesso affetto del suo insegnamento nell’intelletto e nel cuore dei giovani e perciò nell’anima della Patria; studiosi sinceramente disposti a vedere il maggior premio del sapere nel sapere stesso. Tutti, perciò, artefici illustri o modesti del patrimonio morale più squisito e più prezioso della vita nazionale.

Così Giovanni Gentile indicava, nel 1933, nel testo del suo discorso dedicato all’inaugurazione della nuova Scuola Normale, la ragion d’essere di un istituto che aveva sempre avuto come suo compito tradizionale, e avrebbe avuto ancor di più dopo la sua rifondazione, la formazione di un corpo di insegnanti e studiosi reclutati indipendentemente dal reddito e dalla provenienza culturale e geografica1. Il discorso di   Discorso del Sen. Giovanni Gentile Direttore della R. Scuola Normale Superiore, in

1

140  Generazioni intellettuali

Gentile non era, come è stato fatto notare, la copia fedele di quello tenuto a braccio il 10 dicembre 1932, giorno dell’apertura ufficiale dei locali della Normale ampliata. Le tensioni che avevano accompagnato la non nomina alla direzione e l’esordio della sua lunga stagione alla guida della Scuola, dopo la morte di Luigi Bianchi nel giugno 1928, l’effervescenza studentesca che aveva raggiunto punte pericolose nel conflitto esplicito con il vice direttore Arnaldi, e il crescente sfavore manifestato dalla locale Federazione fascista nei confronti di quest’ultimo, infine i casi più eclatanti di non allineamento (se non altro alla retorica pubblica del regime) di alcuni allievi (Sassano e soprattutto Baglietto) e di alcune figure emblematiche come Capitini, erano tutti punti di frizione tra la Normale reale e quella ideale, proposta come fulcro di una rinascita scientifica e pedagogica dell’Italia fascista, che Gentile avrebbe cercato di ricomprendere e sublimare abilmente nel testo programmatico consegnato alle stampe solo nel settembre 19332. Al di là delle polemiche sottese, tuttavia, il discorso gentiliano si configurava soprattutto come la sintesi più elaborata di un programma di rilancio, sul piano dell’immagine prima ancora che su quello delle risorse, ormai avviato ed affidato, già a pochi mesi dalla nomina a Regio Commissario, ad una coerente (e inusitatamente intensa) strategia comunicativa, in grado di pubblicizzare ampiamente i primi risultati della nuova gestione, e, certo, anche di tacitare (più o meno definitivamente) gli avversari politici, soprattutto a Roma, che avevano opposto resistenza all’ascesa del filosofo alla guida dell’istituto pisano3.

Università degli Studi di Pisa, Inaugurazione dei nuovi locali della R. Scuola Normale Superiore, Pisa 1933, ora in Annuario della R. Scuola Normale Superiore di Pisa, 1 (a.a. 1934-35), Pisa 1935, pp. 14-22: 20. 2   Simoncelli, La Normale di Pisa, pp. 104-12. 3   In un passo iniziale, squisitamente politico, del suo discorso inaugurale, Gentile aveva ricordato il voto unanime dei magnati pisani, in primis il podestà Buffarini Guidi e il rettore Carlini, nel chiamarlo, dopo la morte di Bianchi, ad «un servigio che era per se stesso un invito gratissimo al mio cuore di vecchio alunno […]». La nomina di Gentile, che per il prestigio dell’uomo e le facilmente intuibili influenze future sul destino dell’ateneo pisano, sarebbe stata ben accetta anche ai vari elementi del fascismo locale (e che di fatto coincise anche con una riappacificazione tra il riottoso GUF cittadino e l’ambiente accademico), fu osteggiata in primo luogo in ambiente ministeriale, e precisamente dal neo ministro Giuseppe Belluzzo, appena succeduto a Fedele, avversario della riforma del 1923 e timoroso di possibili resurrezioni del potere di Gentile. Cfr. per questo, oltre alla cronaca minuta proposta da Simoncelli,

141  Parte seconda.  Capitolo I. «Né poveri né ricchi: tutti uguali»

Nel luglio 1929 l’articolo Una scuola celebre e sconosciuta aveva già posto pubblicamente le linee guida della rifondazione di una Normale che si voleva rinnovata e rinvigorita: la Scuola, carica di onori e glorie antiche, ma dimenticata dall’opinione pubblica, doveva assumere un ruolo guida all’interno del sistema dell’istruzione pubblica, garantendo ai giovani più meritevoli, indipendentemente dalle condizioni di partenza, l’accesso ad una formazione d’eccellenza finalizzata alla preparazione degli studiosi e dei futuri insegnanti della nuova Italia fascista4. «La Scuola Normale è un seminario […] che ha insieme forma di convitto e scuola; in cui lo Stato accoglie gratuitamente i migliori giovani che hanno vocazione per l’insegnamento e li mantiene e sostiene materialmente e moralmente agevolandone gli studi con ogni maniera di sussidi e conforti […]», insisteva Gentile al centro del suo articolo, sottolineando come la gratuità dell’istituto, insieme ovviamente alla vocazione dei giovani agli studi e alla didattica, era la più affidabile garanzia per la Normale di attirare gli elementi migliori, avviandoli al ruolo professori, o di attori del rinnovamento della vita culturale per coloro che sarebbero arrivati alla meta suprema della docenza universitaria, facendo con ciò della Scuola «il semenzaio degli educatori per le classi dirigenti della nuova Italia»5. Non è difficile riconoscere sottotesto i richiami all’esperienza personale del giovane siciliano, figlio di una famiglia borghese decaduta, giunto a Pisa negli anni finali del secolo precedente con la sensazione di emanciparsi da una provincia remota, che conservava il ricordo nitido delle difficoltà nel proseguire gli studi superiori per i giovani senza mezzi di fortuna, e dei non meno gravosi sacrifici per avviarsi, destreggiandosi tra raccomandazioni personali, prime sedi disagiate e magri stipendi iniziali, al

La Normale di Pisa, pp. 26 e sgg.; Charnitzky, Fascismo e scuola, pp. 211 e sgg.; Turi, Giovanni Gentile, pp. 488-9, e ora le osservazioni molto efficacemente contestualizzate di Tarquini, Il Gentile dei fascisti, specie pp. 128-30. Il nome di Gentile come possibile nuovo direttore fu pubblicamente fatto nel corso della seduta del Consiglio Direttivo del 29 giugno 1928, su istanza di Carlini, dopo il rifiuto addotto da Gaetano Scorza, allievo di Bianchi, direttore del comitato matematico del CNR e candidato della classe di Scienze. Cfr. Verbali del Consiglio, pp. 178-9. Sulla figura di Scorze, cfr. Guerraggio, Nastasi, Matematica in camicia nera, specie pp. 168-72. 4   G. Gentile, Una scuola celebre e sconosciuta, «Il Corriere della Sera», 17 luglio 1929, ora in Id., La nuova scuola media, pp. 341-3. 5   Ibid., p. 343.

142  Generazioni intellettuali

mestiere di insegnante6. L’insistito richiamo alla necessità di assicurare tutto il sostegno pubblico possibile ai diplomati dei licei desiderosi di accedere alla carriera di insegnante faceva il paio con l’urgenza di ridare a questa professione (anzi, a questa missione) un prestigio perduto: «richiamare gli uomini alla scuola» appariva un compito imprescindibile per restituire allo status di professore un congruo appeal sociale, e, come è noto, il termine «uomini» non era qui usato in senso neutro7. Sulla posizione di Gentile a proposito dell’incapacità delle donne di essere dei buoni insegnanti a livello superiore molto è stato scritto: certo, la sua visione della femminilizzazione della professione docente («l’invasione», come la definiva) come uno degli indicatori dello scadimento della scuola italiana era una convinzione radicata, ribadita nettamente nell’articolo del ’29 («[…] questa professione […] è […] ormai quasi per tre quarti venuta alle mani delle donne. Le quali hanno per insegnare qualità preziose […] ma in generale difettano di taluni dei requisiti che sono essenziali all’educazione virile che deve formare il carattere nell’età dell’adolescenza»), nel discorso inaugurale del ’33 («senza pretendere che le porte della scuola rimangano chiuse all’attività didattica muliebre, la quale è certamente efficacissima, per le sue stesse qualità specifiche, non solo nell’età infantile ma fino alla prima adolescenza, noi abbiamo pensato che questa nostra Scuola che presume di procurare all’insegnamento medio e superiore […] gli insegnanti spiritualmente e tecnicamente più preparati, dovesse limitare la sua scelta agli uomini […]»)8 e, in forma più sistematica, ancora in un volume di un anno dopo («[le donne] non hanno e non avranno mai né quella animosa generosità del pensiero né quella ferrea vigoria spirituale che sono le forze superiori, intellettuali e morali, dell’umanità»)9. D’altra parte, tale posizione deve anche essere contestualizzata in un quadro più complessivo: quello di un discorso pubblico, tipico già degli anni precedenti il conflitto, assai critico verso la debordante presenza muliebre nel sistema scolastico, e ancor più di una generale politica avviata dal regime, nel tentativo di limitare (e, se possibile, invertire) il trend di modernizzazione del ruolo della donna in Italia. La discriminazione di genere nella scuola era, in effetti, l’aspetto speculare di

 Sul giovane Gentile, il dissesto economico della sua famiglia di origine e le difficoltà nell’aspirazione iniziale ad una cattedra, cfr. Turi, Giovanni Gentile, pp. 82-9. 7   Gentile, Una scuola celebre e sconosciuta, p. 343. 8   Id., Discorso, p. 21. 9   Id., La donna nella coscienza moderna, Firenze 1934, p. 25. 6

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una presenza sempre più forte delle donne all’interno delle università (10,5% dell’insieme degli studenti nel 1921, 12,4% nel 1925, 15,5% nel 1936, 21,9% nel 1941); una presenza però confinata fondamentalmente all’interno dei corsi di laurea letterari (tra il 40% e il 60% delle iscritte tra anni Venti e Trenta) e, in minor parte, di scienze matematiche. Da qui le laureate uscivano per divenire, prevalentemente, professoresse nelle scuole secondarie (benché solamente in classi femminili), giungendo fino a quote del 90% di insegnanti o aspiranti tali sull’insieme delle laureate, e ad una sproporzione di due docenti donne per ogni maschio, un fenomeno che e minacciava seriamente le possibilità degli uomini nel mercato del lavoro scolastico, soprattutto nei gradi inferiori10. Tale sistema scolastico a spiccata dominanza femminile, ulteriormente rinvigorito durante la Grande Guerra per l’assenza dei maschi adulti richiamati, venne duramente attaccato dalla riforma gentiliana del 1923, benché fosse stato proprio Gentile ad abrogare formalmente la clausola che escludeva la presenza di professoresse in scuole maschili o miste11. La drastica riduzione degli istituti magistrali, considerati uno dei fulcri dell’accesso femminile all’insegnamento, fu solo il primo passo della progressiva e rapida riduzione degli spazi dell’occupazione femminile nel comparto dell’istruzione pubblica: nel 1926 le donne furono escluse dalle cattedre di lettere, latino, greco, storia e filosofia nei licei classici e scientifici, e due anni dopo dalla possibilità di diventare capi di istituto nelle scuole medie, figure che proprio Gentile aveva riportato in auge quali guide morali e tutori dell’ordine delle nuove scuole, «scolte che rispettano come cosa sacra con militare devozione, con obbedienza pronta, assoluta ed incondizionata, la consegna ricevuta»12. Le politiche antimoderne del fascismo a proposito della donna ebbero un successo solo relativo, non

 Sul crescente numero di ragazze iscritte alle università cfr. Cammelli, Di Francia, Studenti, pp. 34-8, tabb. 7 e 8. Sull’insegnamento come sbocco professionale femminilizzato cfr. M. Raicich, Liceo, università, professioni: un percorso difficile, in S. Soldani (ed.), L’educazione delle donne: scuole e modelli di vita femminile nell’Italia dell’Ottocento, Milano 1991, pp. 147-83; le donne continuavano tuttavia ad essere marginalizzate rispetto ai vertici della gerarchia scolastica: all’inizio del secolo, si contavano 1362 direttori didattici contro 480 direttrici, 790 presidi contro 51 presidi donne, cfr. De Grazia, Le donne nel regime fascista, pp. 207-9 e 265-8. 11   Raicich, Liceo, p. 172. 12   Circolare ai provveditori del 25 maggio 1923, cit. in Turi, Giovanni Gentile, p. 332. 10

144  Generazioni intellettuali

riuscendo ad impedire né la crescente acculturazione delle ragazze né la mobilitazione lavorativa femminile, parzialmente generata anche come risposta agli effetti della crisi economica avvertiti in Italia all’inizio degli anni Trenta, in ruoli non solamente provvisori né ausiliari, i soli ammessi ufficialmente come adatti alla fanciulla «ricca di figli, parca di bisogni» dell’iconografia pubblica13. Ciò non ostante, in quanto punta di diamante della misoginia «indecisa» e incompleta del regime, non vi è dubbio che la visione gentiliana della missione del professore come luogo di elezione delle virtù virili colpì nel profondo l’Università e, va da sé, la Scuola Normale, che della femminilizzazione dell’istruzione superiore era stata per molti versi un luogo di elezione. Ammesse fin dal 1889 (mentre l’ENS parigina rimase a lungo un istituto esclusivamente maschile) mediante la formula dell’aggregato esterno con o senza sussidio, le donne avevano infatti aderito con entusiasmo alla possibilità loro offerta di essere formate e abilitate all’insegnamento in un istituto di prestigio gratuito (benché la condizione di esterne non garantisse gli indubbi vantaggi dei convittori): 95 studentesse furono così ammesse fino al 1929 (12 solo tra le ammissioni del 1919 e del 1928), divise quasi esattamente a metà tra allieve di Lettere e di Scienze (50 contro 45 nel complesso, 5 a 7 per il campione 1919-28), in linea con i colleghi maschi per quanto riguardava altri parametri, quali la condizione sociale e la provenienza geografica (per 1/3 toscana), benché la loro collocazione professionale, come vedremo, fosse quasi inevitabilmente, e con rare eccezioni, destinata a risolversi in carriere più modeste nei gradi dell’insegnamento ginnasiale o medio14.

  Dogliani, Il fascismo degli italiani, p. 120.  Elaborazioni su Elenco 1973 e dati raccolti in ASLPi e ASNS. Per quanto riguarda le destinazioni professionali dei normalisti rinvio infra, cap. III. Anticipo subito che del gruppo delle allieve del 1919-28 le due sole note discordanti per quanto riguarda il modello di carriera di basso profilo delle normaliste riguardano Maria Turriani (Pievefosciana LU 1906-?), ammissione di Lettere 1923, che fu la prima (e unica) perfezionanda in Lettere della Scuola prima dell’esclusione delle donne (1927-28), e che poi insegnò al prestigioso liceo classico «Mamiani» di Roma, e Maria Luisa Santoli Chiti (Pistoia 1902-? ma dopo 1983), ammissione di Lettere 1920, sorella dell’altro normalista Vittorio Santoli, la quale assunse dopo la seconda guerra mondiale la carica di preside di una scuola media di Pescia (PT) e fu poi autrice di un antologia di letteratura italiana per le scuole. Irene Giglioli fu invece per breve tempo assistente alla cattedra di archeologia, prima di transitare nei ruoli della scuola media. Cfr. ASNS, AA, b. 2, ss. Turriani, Maria e Santoli Chiti, Maria Luisa. 13 14

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La volontà inclusiva sotto il profilo sociale, insomma, si accompagnava ad una volontà esclusiva dal punto di vista del genere, coerente rispetto alla visione più generale della funzione scolastica secondo Gentile, anche se non per questo meno foriera di conseguenze, psicologicamente oltre che professionalmente, negative per le escluse, sulla cui professione di inadeguatezza come topos della retorica epistolare ci sarebbe, del resto, molto da dire15. Riscoperta della vocazione e am-

  L’interruzione del reclutamento femminile non causò alcuna protesta esplicita, nemmeno da parte delle allieve ancora in corso (a cui fu concesso di terminare gli studi); un gesto in tal senso sarebbe stato inconcepibile per l’epoca. Tuttavia, la posizione psicologicamente subordinata delle allieve all’interno del più generale contesto della Normale rappresenta, di per sé, un dato sintomatico, desumibile proprio dalle lettere che, più o meno brevi, sovente accompagnavano le schede del «censimento» normalistico voluto da Gentile nel 1932. La postura epistolare femminile, più spiccatamente caratterizzata da formule ossequiose e da proteste di indegnità di quanto si possa ravvisare nelle epistole accompagnatorie dell’insieme degli ex normalisti, enfatizzava percorsi biografici e lavorativi più ritirati nel privato, meno ambiziosi e, naturalmente, ripiegati sulle esigenze di madre/sposa piuttosto che su quelle di un’improbabile continuità nell’attività di studio o scientifica. In generale, la normalista si dichiarava sempre inadeguata rispetto alla magnificenza della vita intellettuale di cui era stata, pur per un breve periodo, parte: «[…] mi sento alquanto umiliata a riempire la scheda inviatami, dei miei titoli modestissimi rispetto a quelli delle celebrità uscite dalla R. Scuola Normale Superiore di Pisa. […] Dal 1928 ho interrotto la mia carriera di assistente universitaria a Milano, sposandomi col dott. Ferrarin. Nel 1930 avendo egli vinto un posto di ruolo al ginnasio superiore di Caltanisetta l’ho seguito in questa città […]»; da Beatrice Rossi a G. Gentile, 13 ottobre 1932; «Subito dopo cominciai ad insegnare» come scriverà Maria Campetti, normalista dell’ammissione di Scienze 1914 (perdente posto nel 1917 per insufficienza nella media degli esami) «riproponendomi di continuare a dedicarmi per quanto le mie capacità l’avessero permesso ai miei studi. Ma proprio quando appena di ruolo sarei stata più libera senza il pensiero dei concorsi, mi sposai ed ebbi subito due bambini. L’E.V. può capire la magra figura che fanno i miei titoli, tra quelli comunicati dagli altri ex-normalisti. Dedico alla famiglia tutto il tempo che mi rimane libero dall’occupazione della scuola, e credo di interpretare così nel modo migliore i doveri che mi impone ora la mia condizione di mamma […]»; da M. Campetti a G. Gentile, Mantova 21 febbraio 1933; in altri casi, il sentimento di appartenenza ad una comunità familiare di intellettuali, superiore e lontana dalla modesta condizione professionale raggiunta, poteva fare aggio sul senso di inadeguatezza: «Illustre Maestro, grazie, grazie di cuore! La Normale si è ricordata anche di me, ed io, plaudendo e bene augurando, mi affretto a inviare la scheda. L’ho ricevuta stamane, a scuola, e il 15

146  Generazioni intellettuali

pliamento del bacino di reclutamento dei futuri insegnanti divennero, del resto, punti fermi non solo degli interventi personali del commissario – futuro direttore. Nel 1931, gli «Annali dell’istruzione media» ospitarono un intervento del vicedirettore Arnaldi, La R. Scuola Normale Superiore di Pisa, che riprendeva in modo pedissequo le parole d’ordine del programma gentiliano, enfatizzando l’immagine di una Scuola in grado nel futuro di permettere a chiunque, purché meritevole, di entrare tra le fila di un’élite non solo del sapere, ma anche della società («l’orgoglio del figlio professore»): La Normale è aperta a tutti, poveri e ricchi, a quelli che avranno la forza di diventare domani maestri, e a quelli che avranno la serietà e l’energia sufficiente per dare alla cultura e alla scuola tutto quello che possono dare. Ma tutti devono avere e comunicare alle loro famiglie l’orgoglio della propria missione, devono spezzare questa uggiosa tradizione per cui il professore è l’ingenuo, che non sa vivere, il proprietario di una ricchezza che nel mondo non conta perché non può essere valutata, non dico a denari, ma neppure a valori socialmente apprezzabili16.

Frutto di una ben ponderata e coerente attività propagandistica, l’articolo di Arnaldi, verrà più tardi rilanciato ancora da Gentile che

candido foglio mi è sembrato insieme saluto e monito. Quanta luce, quanto fervore di propositi e di opere ci viene ancora dalla nostra carissima Normale! Ognuno di noi, al suo posto di lavoro, sia pure il più umile, nella scuola e per la scuola, si sente come investito e vivificato da quella medesima luce, da quel medesimo fervore. Sentiamo, noi normalisti, di appartenere ad una sana e lieta famiglia, i cui figli, anche lontani, non si sentono dispersi e dimenticati, ma accompagnati sempre, confortati, vigilati, direi quasi, dalla memoria buona della Normale, la comune ‘madre alma’. Vorrei poter esprimere, Maestro, tutta la mia commossa gratitudine»; da Maria Righetti a G. Gentile, Teramo, 11 ottobre 1932, entrambe in ASNS, AA, b. 1, ss. Campetti, Maria; Righetti, Maria; Rossi, Beatrice. Per un riferimento metodologico a proposito dei caratteri specifici della scrittura epistolare femminile, cfr. G. Antonelli, M. Palermo, D. Poggio Galli e L. Raffaelli (edd.), La scrittura epistolare nell’Ottocento, Siena 2009. In generale, il quadro più ampio e stimolante sull’epistolografia è quello offerto recentemente da A. Petrucci, Scrivere lettere. Una storia plurimillenaria, Roma-Bari 2008, in particolare, per ciò che concerne il fenomeno del ricorso massiccio ala lettera come forma di comunicazione sociale dopo la Grande Guerra, cfr. pp. 133 e sgg. 16   F. Arnaldi, La R. Scuola Normale Superiore di Pisa, «Annali dell’istruzione media», 7, 1931, pp. 325-32: 331-2.

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preferirà insistere sulla formazione degli insegnanti di scuola media in quanto «educatori della nazione e formatori della coscienza nazionale» (ribadendo anche la necessità di un miglioramento economico), ma che soprattutto riproporrà il valore della Normale in quanto crocevia di promozione sociale: la gratuità e l’alta offerta formativa assicurati a Pisa (ma, va da sé, più il primo elemento che il secondo) saranno infatti nell’immaginazione del rifondatore della Normale la via principale per eliminare quelle preoccupazioni, quegli ostacoli e quei bisogni materiali che impedivano ai diplomati bravi ma di scarsi mezzi di percorrere l’accidentata (e poco retributiva) strada della carriera scolastica17. A questo fine, in primo luogo, Gentile avrebbe indirizzato la sua opera di rinnovamento e rafforzamento, in un contesto certamente non semplice, ma agevolato dal legame personale con Mussolini, soprattutto per quanto riguardava le ingenti risorse finanziarie da reperirsi per il mantenimento di un corpo studentesco raddoppiato e per le straordinarie operazioni edilizie in vista dell’«aggiunta» al palazzo vasariano: «questo è anche il pensiero del Capo del Governo», come chiosava Gentile per l’appunto nel suo articolo del 1931 «e il suo alto consenso sta a garantire lo sviluppo da me auspicato della Scuola Normale Superiore di Pisa»18. L’abbondanza di mezzi, la protezione del dittatore e il proprio prestigio personale avrebbero permesso poi un rinnovamento non solo materiale, ma anche statutario e didattico di largo respiro, che avrebbe portato l’istituto pisano a rappresentare concretamente un laboratorio di eccellenza, in cui sarebbe cresciuta una generazione di allievi di straordinaria levatura, destinata a ricoprire posizioni di primo piano nella vita culturale e pubblica tra gli anni Trenta e la Repubblica, e sulle cui vicende individuali e collettive molte pagine sono state spese19. Quanti di questi studenti fossero i figli di un’Italia povera,

  Gentile, La R. Scuola Normale Superiore di Pisa e la preparazione dei professori medi, pp. 384-5. 18   Ibid., p. 385. Per i primi stanziamenti straordinari di 124.000 lire per le prime spese urgenti, e per l’aumento di dotazione, garantiti già nell’ottobre 1928 cfr. Simoncelli, La Normale di Pisa, p. 30. 19   La generazione degli anni Trenta è, costantemente centro degli studi dedicati alla Normale e all’ambiente pisano, che siano opere di ricostruzione di insieme finalizzate a costruire (Il contributo dell’Università di Pisa e della Scuola Normale Superiore ala lotta antifascista) o, almeno parzialmente, suffragare (Le vie della libertà) l’immagine del milieu studentesco pisano come culla dell’antifascismo, sia che siano gli scritti di testimonianza della genesi e del diffondersi dell’opposizione giovanile al regime, che 17

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che non avrebbero potuto altrimenti percorrere la strada degli studi, è una domanda che è rimasta invece inevasa. In effetti, l’ampia pubblicità data alla Scuola (e alla sua gratuità), il rilancio della sua immagine, che molto dovette al credito di un direttore come Gentile, uomo forte della cultura del regime (sebbene, come abbiamo visto, molto meno forte rispetto alle rivalità e agli odi interni al fascismo stesso) e l’insistenza sulla qualificazione della professione di insegnante, per la quale la Normale sembrava rappresentare una via privilegiata, portarono ad un afflusso molto più ampio e vario di candidature. Il programma, formalmente presentato da Gentile al Consiglio Direttivo della Scuola durante la sua prima seduta in qualità di Regio Commissario – non potendo a norma di regolamento essere direttore in quanto non professore a Pisa – prevedeva che in futuro la Normale avrebbe potuto accogliere un centinaio di allievi, benché, nelle condizioni reali del novembre 1928, nonostante la sistemazione di altri alloggi e l’avvio dei lavori di sistemazione degli impianti per rendere il vecchio palazzo una dimora moderna, l’insieme dei convittori in Palazzo dei Cavalieri non potesse superare le trenta unità20. Se, ancora per l’ammissione del 1928, che pure aveva visto l’entrata a Pisa di un folto gruppo di studenti (tra cui alcuni dei protagonisti della vita normalistica all’inizio degli anni Trenta, come Cordié, Ragghianti e Perosa) e di ben 5 allievi perfezionandi, il numero dei candidati aveva di poco superato quello dei posti disponibili, già a partire dall’anno accademico successivo il trend si invertì, rivelando, più di ogni altro indicatore, la bontà della campagna a stampa voluta dalla direzione: nel 1929, al primo concorso di ammissione svolto secondo la modifica normativa, che aveva cancellato l’alunnato esterno e la concorrenza femminile, furono presentate 31 domande a fronte di 11 posti interni, con un rapporto più che doppio tra posizioni disponibili e candidature che sarebbe parso straordinario anche solo l’anno prima21. L’anno successivo, a conferma di una

in essi Pisa appaia come luogo di origine ed elaborazione della resistenza o sede di un gruppo particolarmente attivo nella resistenza «dei colti» (Capitini, Antifascismo tra i giovani, e Zangrandi, Il lungo viaggio attraverso il fascismo). 20   Verbali del Consiglio, seduta del 28 novembre 1928, p. 183. 21   Verbali del Consiglio, seduta 31 ottobre 1929, pp. 194-5, e ASNS, Domande di ammissione, b. 78, ff. Classe di Lettere e Classe di Scienze 1929-30. Si noti che uno dei concorrenti (e degli ammessi) era Ragghianti, che aveva perso il posto per aver riportato un voto insufficiente nell’esame interno di lingua latina, e che sarebbe rientrato al secondo anno.

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dinamica ormai innescata, a fronte di 21 posti furono presentate 56 candidature, una crescita rapida di domande che avrebbe toccato l’apice alla presentazione delle istanze per il concorso del 1933, subito dopo la grancassa pubblicitaria per l’inaugurazione della «nuova» Normale, allorché la segreteria ricevette 105 candidature (70 di Lettere e 28 di Scienze) a fronte 28 posti interni messi a bando (11 a Scienze e 17 a Lettere), spia non solo di una ormai diffusa conoscenza della Scuola e delle sue attrattive, ma anche di una capacità di fascinazione del percorso letterario assai più pronunciata rispetto alla classe di Scienze, fosse questo da attribuirsi alla figura del direttore-filosofo o a dinamiche legate ad una più massiccia vocazione degli aspiranti studenti di lettere, tradizionalmente indirizzati alla carriera dell’insegnamento, per il «semenzaio dei futuri educatori della nazione»22. L’apertura dei concorsi e l’alluvione di domande che ne seguì non modificarono radicalmente il quadro sociale dei candidati e degli ammessi che era già stato tipico degli anni Venti, ma accentuarono senz’altro alcune delle caratteristiche più salienti. La Normale divenne la meta, sempre di più, di una popolazione di aspiranti allievi provenienti da famiglie che, pur senza poter essere definite tecnicamente povere, vivevano tuttavia la quotidianità di un reddito modesto, spesso senza la possibilità di affrontare le spese richieste dai percorsi dell’istruzione superiore, ivi compreso quello più a buon mercato della laurea in Lettere, il cui costo, limitatamente alle tasse universitarie di frequenza (poco meno di 2.900 lire annue), rimase peraltro pressoché invariato fino agli anni Quaranta23. Dei 325 studenti ammessi come allievi ordinari nell’«era Gentile», tra 1929 e 1944, solo 3 presentarono in effetti la certificazione di «nullatenente», ma, specularmente, solo due fornirono come indicazione dello status fiscale quella di «benestante», dicitura assai rara perché escludeva a priori ogni possibilità di ricevere qualsiasi esenzione dagli oneri universitari (in modo più prudente, altri normalisti avrebbero fatto riferimento al proprio padre nella documentazione di rito qualificandolo come «possidente» o «proprietario terriero», etichette più vaghe, che spaziavano dal proprietario di appezzamenti modesti al possidente in senso stretto). Tra questi estremi, si ritrovavano le varie condizioni professionali delle famiglie degli allievi, una congerie ancora più diversificata degli anni precedenti, a testimoniare

  Verbali del Consiglio, seduta 12 novembre 1933, s.p.; ASNS, Domande di ammissione, bb. 79 (1931-32) e 80 (1933-34). 23   Charnitzky, Fascismo e scuola, tab. 9 p. 506. 22

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che il maggiore afflusso di giovani portava con sé anche una crescente differenziazione sociale: figure precedentemente non rappresentate nella vita normalistica, come i giornalisti, o poco rappresentate, come gli ufficiali delle Forze Armate o i commercianti, divennero parte integrante del mondo sociale di provenienza dei normalisti gentiliani (tab. 6). Tabella 6. Origini sociali degli allievi della Scuola Normale (da a.a. 1929-30 ad a.a. 1943-44) a seconda della professione del capo-famiglia24. Numero di Aggregati Percentuale Categoria studenti parziali approssimata Insegnanti scuole secondarie e presidi 23 Docenti Universitari 7 Maestri e direttori didattici 9 Area insegnamento 39 12% Capimastri, operai specializzati e manovali 17 Contadini e piccoli proprietari 10 Commessi settore privato 2 Artigiani 13 Negozianti, commercianti al minuto 20 Area lavoro manuale e piccolo impiego 62 19% Impiegati pubblici 24 Dirigenti e funzionari pubblici 11 Pensionati (già funzionari o dipendenti 15 pubblici) Polizia / Forze Armate/corpi armati dello 10 Stato Area impiego pubblico 60 18,5% Liberi professionisti25 31 Quadri e impiegati privati 18 Possidenti agricoli 10 Artisti 2 Giornalisti 2 Area impiego privato e professioni 63 19% liberali Benestanti 2 Altre professioni 5 Poveri (certificati) senza altra indicazione 3 Orfani 35 10,7% Senza dichiarazione / non reperiti 50 Fonte: elaborazione su dati tratti da ASLPi, 325 ff., da f. 18513 Acquaviva Antonio a f. 36831 Pocherra Walter.25

 Valgono anche in questo caso le avvertenze relative all’indeterminatezza della fonte, relativa all’autocertificazione di molti stati lavorativi e di famiglia, e all’impossibilità di verificare 27 fascicoli personali, non reperiti nell’archivio della segreteria universitaria, mentre per altri 23 il fascicolo non riporta alcuna indicazione utile relativamente a posizione lavorativa e reddito. 25   Comprende avvocati e procuratori legali, ingegneri che esercitano libera professione, medici, farmacisti e liberi professionisti senza ulteriore indicazione. 24

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Un dato che emerge subito da questa fotografia della situazione è l’alto numero di coloro che dichiaravano, nello stato di famiglia, la propria condizione di orfano, di uno dei genitori (normalmente il padre) o anche di entrambi (10,7% del totale degli allievi). Si tratta di un fenomeno del tutto caratteristico di quella generazione di normalisti, che fino al 1928 aveva investito un numero estremamente limitato di casi: un’analisi più dettagliata del gruppo degli orfani fa inoltre risaltare come un terzo (12) fosse rappresentato da orfani di guerra, secondo una dinamica demografica che vedeva, tra la fine degli anni Venti e l’inizio del decennio successivo, arrivare al livello degli studi superiori i figli dei caduti della Grande Guerra, parte di quella vasta comunità di circa 350.000 bambini, di cui solo una parte, i «figli di guerra» generati dall’ondata di stupri dell’invasione del 1917-18 nel Veneto orientale, è stata oggetto di qualche attenzione da parte della storiografia26. Facilitati dalle disposizioni per il diritto allo studio che erano seguite alle leggi del 1917, prima codificazione normativa in relazione all’assistenza e alla tutela per le famiglie dei caduti, gli orfani erano una categoria particolarmente interessata ai vantaggi offerti da un’istituzione selettivamente meritocratica, ma se non altro completamente gratuita, come la Normale, in grado di assicurare non solo la prosecuzione degli studi, ma anche una qualifica di alto livello per una professione pubblica sicura27. Da questo punto di vista, non deve sembrare strano che, subito dopo i figli di caduti, fosse il gruppo degli orfani figli di impiegati del settore pubblico ad essere il secondo sottogruppo più rappresentato, e, in particolare, coloro il cui genitore superstite, quasi sempre la madre, era maestra o professoressa (otto individui). D’altra parte, ancora una volta, la definizione delle identità sociali attraverso la mera etichetta professionale, non restituisce un’immagine sufficien-

  Cfr. soprattutto Gibelli, Il popolo bambino, pp. 101-18.  La legge 18 luglio 1917, n. 1143, Per la protezione e l’assistenza degli orfani di guerra, e il successivo regolamento approvato con decreto 30 giugno 1918, n. 1044 prevedevano la nascita di organizzazioni, anche a livello locale, per l’assistenza ai figli dei caduti per cause di guerra. Con regio decreto 19 aprile 1923, n. 850 all’Associazione nazionale famiglie caduti in guerra fu riconosciuta la rappresentanza esclusiva degli interessi materiali e morali delle famiglie dei caduti in guerra. L’erezione in ente morale dell’Associazione avvenne tuttavia solo con il regio decreto 7 febbraio 1924, n. 230. L’Associazione venne istituita come Opera nazionale con la legge 26 luglio 1929, n. 1397, seguita dal regolamento approvato il 13 novembre 1930.  26 27

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temente nitida delle condizioni reali, in primo luogo perché non necessariamente la ricchezza reale del nucleo familiare corrispondeva ai guadagni derivanti dal mestiere paterno. La proprietà di beni immobili fruttiferi poteva, si è già fatto notare, corrispondere ad entrate anche radicalmente superiori allo stipendio o al salario derivante dalla professione dominicale, ma va anche considerata la possibilità che la madre o le figlie conviventi esercitassero un’attività redditizia, una situazione tutt’altro che infrequente negli anni Trenta, nonostante le continue campagne di emarginazione del lavoro femminile varate dal regime e l’avvio di una legislazione discriminatoria (ampiamente disattesa)28. In ambedue i casi, e anche non tenendo in considerazione casi di dichiarazione mendace o solo parzialmente esatta (che pure risultano agli atti), il reddito familiare annuo netto, risultante dalla documentazione presentata all’ateneo, e l’aspettativa di reddito data dalla collocazione paterna potevano divergere29. Una lettura più attenta dei dati relativi

  Negli anni Trenta le donne rappresentavano comunque mediamente il 40% degli addetti sia in agricoltura che nel terziario, e più di un terzo nel settore industriale. Cfr. De Grazia, Le donne nel regime fascista, tab. 2 p. 249, senza tener conto del lavoro a tempo parziale o semi-clandestino, cui le famiglie ricorsero soprattutto dopo la crisi economica, per cui cfr. Dogliani, Il fascismo degli italiani, pp. 116-20. 29  Sebastiano Aglianò, normalista dell’ammissione di Lettere 1936, riportò per esempio come professione del padre «pescatore», aggiungendo che era disoccupato a causa di un’invalidità civile; tuttavia, un rapporto della prefettura di Siracusa ribaltava completamente il quadro, definendo il padre non solo pescatore ma «proprietario benestante di tre immobili». D’altra parte, il padre di Liano Petroni, ammissione del 1940, dichiarava come mestiere di fare il falegname, ma guadagnava 30.000 lire nette annue, uno dei redditi più alti di tutta la generazione del 1929-43. Cfr. ASLPi, f. 23408, Aglianò Sebastiano e f. 23931 Petroni Liano. Aglianò (Siracusa 1917 - Siena 1982), ammissione di Lettere del 1936, dopo la laurea ebbe incarichi di docenza nelle scuole superiori toscane e fu per anni preside del liceo scientifico ‘Galilei’ di Siena, nella cui università insegnò infine letteratura italiana presso la facoltà di Magistero. Studioso di Foscolo e Dante, fu autore, tra l’altro, del libro Che cos’è questa Sicilia? Riedito da Sellerio nel 1996. Petroni (Montecarlo LU 1921 - Bologna 2006), ammissione di Lettere del 1940, esponente tipico dei «normalisti di guerra», dovette interrompere gli studi a causa del conflitto, laureandosi e diplomandosi solo al fine del 1945; fu uno dei primi borsisti di scambio del dopoguerra con l’ENS di rue d’Ulm, dove si perfezionò, e a Parigi insegnò poi nelle scuole medie italiane. Ritornato in seguito in Italia, percorse una fortunata carriera all’università di Bologna, dove dal 1965 fu ordinario di lingua e letteratura francese. 28

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ai redditi dichiarati, laddove essi siano in effetti disponibili, permette però di confermare un’impressione già emersa considerando la generazione dei normalisti degli anni Venti, vale a dire che, se non si può ovviamente escludere la presenza di allievi rampolli di famiglie agiate, e in rari casi decisamente ricche, è tuttavia la fascia dei redditi modesti, e talora del tutto insufficienti a far fronte a qualsiasi spesa non relativa alla sopravvivenza, a costituire la parte preponderante del cespite di reclutamento dei futuri educatori nazionali. «Nella Scuola occupa una posizione particolare perché è l’unico che venga da una famiglia ricca», osservava alla fine del 1937 un testimone attento come Karl Eugen Gass descrivendo un laureando di Lettere «e perciò gode di un’assoluta indipendenza, che gli consente di vivere come gli pare e piace», un privilegio di censo che, a dar retta ai dati patrimoniali in nostro possesso, non era affatto comune30. Nonostante la scarsità di fonti con indicazioni precise in termini monetari inviti alla prudenza rispetto a conclusioni troppo sommarie (molti dei fascicoli personali depositati riportano solo dati generici, quali «reddito modesto» o «minimo», o non ne riportano affatto), si può infatti ragionevolmente affermare che la Normale gentiliana accoglieva molto più frequentemente i figli (e gli orfani) della piccola e piccolissima borghesia impiegatizia, del pubblico impiego e, in proporzione significativa ma non preponderante, i figli dei docenti delle scuole secondarie, più che i rampolli dei liberi professionisti, dei proprietari terrieri o dell’élite (anche da un punto di vista stipendiale)31 dei professori universitari (tab. 7).

  K.E. Gass, Diario pisano 1937-38, Pisa 1989 (1961), p. 180. Karl-Eugen Gass (191244), studioso di romanistica, giunse come borsista di scambio in Normale nell’autunno 1937 e vi rimase fino alla primavera 1938; un soggiorno intenso, per luoghi visitati, persone conosciute e usanze annotate di cui ha lasciato testimonianza nel suo diario. Morì in battaglia sul fronte occidentale. Il normalista cui si riferisce era Antonino d’Andrea (Messina 1916), ammissione di Lettere del 1934, dopo la laurea fu assistente e poi supplente (nell’a.a. 1944-45) di Guido Calogero presso la cattedra di storia della filosofia, nel 1949 si trasferì in Canada, per assumere la cattedra di Letteratura italiana alla McGill University di Montreal, dove dal 1986 è stato emerito. Per la sua esperienza normalistica cfr. A. d’Andrea, Filosofia e autobiografia. Un diario al passato, Fiesole 1998. 31  Che i docenti universitari degli atenei di primo rango costituissero, negli anni tra le due guerre, anche dal punto di vista stipendiale, un’aristocrazia, sia rispetto ai docenti di scuola secondaria che all’interno della corporazione degli universitari, non vi è ovviamente alcun dubbio. La rivalutazione stipendiale, basata fondamentalmente sul meccanismo dell’anzianità, faceva sì, che per fare un esempio concreto, Luigi Russo nel 30

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Tabella 7. Origini sociali degli allievi della Scuola Normale (da a.a. 1929-30 ad a.a. 1943-44), redditi medi approssimati32.33 Reddito approssimato di Reddito approssimato di riferimento 2 Reddito medio delle riferimento 1 Anni di famiglie Commesso di provenienza Dirigente pubblico ingresso approssimato amministrazione (in lire) (direttore di sezione 33 pubblica ministeriale) 1929 11.000 1930 13.500 22.600 10.700 1931 11.000 1932 10.800 1933 9.300 1934 11.500 1935 13.400 19.100 9.700 1936 15.000

1939, tutt’altro che anziano nei ruoli (era straordinario dal 1927, ordinario dal 1930), potesse dichiarare un reddito annuo netto di 30.000 lire, vale a dire il doppio di un docente di liceo a fine carriera. Cfr. f. 39183, Russo, Carlo Ferdinando. Per la ricostruzione della carriera di Russo, cfr. Simoncelli, Cantimori, Gentile e la Normale di Pisa, pp. 29-60. Per un’analisi più approfondita dello status sociale dei professori universitari, con alcune considerazioni stimolanti, cfr. A. Zannini, Stipendi e status sociale dei docenti universitari. Una prospettiva storica di lungo periodo, «Annali di Storia delle Università», 3, 1999, consultabile in: http://www.cisui.unibo.it/frame_annali.htm (01/06/2010). 32   Il calcolo dei redditi si basa su una media ponderata della ricchezza annua netta complessiva dei nuclei familiari come indicata nella documentazione presentata alla segreteria dell’Università di Pisa. Dei 276 fascicoli (su 325) che contengono i documenti patrimoniali, solo in 187 casi si sono ritrovate certificazioni precise. Per le indicazioni più generiche (ma ricorrenti), quali «nullatenente», «reddito modesto» e «reddito minimo», si è scelto di adottare un indicatore di ricchezza approssimativo, ma verosimile: «minimo» < lire 5000 annue, modesto < lire 8000 annue, mentre «nullatenente» era una condizione certificata per legge, per cui si può ipotizzare una reale situazione a reddito reale nullo (o quasi), adottando i debiti moltiplicatori familiari. La quantificazione monetaria di reddito minimo o modesto, naturalmente, è del tutto arbitraria, e dovrebbe essere rivalutata nel corso degli anni; tuttavia va sempre tenuto conto dell’impatto delle politiche deflazionistiche del fascismo (che bloccarono o fecero decrescere gli stipendi e i salari a partire dal 1927 e fino agli aumenti decretati dopo il 1936) e dell’aggancio di questi indicatori ad alcuni redditi più o meno stabili attraverso il decennio: 5000/6000 lire era il valore di una pensione per gli orfani di caduti in guerra tra anni Venti e Trenta; 8000 lire era il salario netto annuo di un operaio meccanico alla metà degli anni Trenta; 15000 lire la retribuzione annua di un cancelliere di tribunale nel 1930 (o di un professore di ruolo di liceo con il massimo dell’anzianità). 33   I redditi di riferimento vengono forniti per quinquennio. Cfr. ISTAT, Sommario di statistiche storiche, pp. 204-5.

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1937 1938 1939 1940 1941 1942 1943

16.300 11.800 13.300 17.600 18.500 14.500 20.000

25.500

12.900

32.300

17.400

Fonte: elaborazione su dati tratti da ASLPi, 325 ff., da f. 18513 Acquaviva Antonio a f. 36831 Pocherra Walter.

Se questa composizione sociale della popolazione normalistica fosse o meno un unicum nella situazione universitaria dell’epoca, non è domanda a cui sia facile dare una risposta, in assenza di serie statistiche continuate e affidabili a proposito del dato sociale nell’istruzione scolare e superiore nell’Italia tra le due guerre34. A titolo di comparazione, tuttavia, si può citare l’unico rilevamento compiuto dall’Istituto centrale di statistica sugli studenti universitari dell’anno accademico 1931-32, quando gli iscritti alle facoltà di Lettere e Filosofia e di Scienze erano, rispettivamente, 2.247 e 3.322 (tab. 8)35. Tabella 8. Composizione sociale degli iscritti alle Facoltà di Lettere e Scienze nell’a.a. 1931-32 (dati forniti in percentuale). Professione del padre Facoltà di Lettere Facoltà di Scienze Proprietari terrieri/benestanti 6 11 Industriali 3 8 Professioni liberali 30 26 Maestri, ragionieri e geometri 6 4 Impiegati 28 25 Commercianti 9 11 Militari 4 2 Artigiani/operai 3 3 Contadini/fittavoli 5 4 Pensionati e altre occupazioni 6 6

Benché le categorie utilizzate per quell’inchiesta fossero diverse (e sostanzialmente più rozze) di quelle proposte per la composizione sociale del corpo studentesco normalistico (l’ICS non comprese come   A proposito dell’assenza di indagini approfondite sulla popolazione universitaria cfr. A. Cammelli, Contare gli studenti. Statistica e popolazione studentesca dall’Unità ad oggi, «Annali di storia delle Università», 4, 2000, consultabile in: http://www.cisui. unibo.it/home.htm (10/06/2010). 35  I risultati dell’indagine sono riportati in Istituto Centrale di Statistica, Indagine sugli studenti iscritti nelle Università e negli Istituti superiori nell’anno accademico 1931-32, in Statistiche intellettuali, 13, Failli 1936; mi servo della rielaborazione ad opera di Barbagli, Disoccupazione intellettuale e sistema scolastico, p. 206, e di Charnitzky, Fascismo e scuola, p. 524 tab. 21. 34

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categoria a sé stante i docenti di ogni ordine, ed evidentemente non ritenne di calcolare a parte gli orfani di uno o entrambi i genitori), si può rilevare come la Normale rispettasse alcune tendenze presenti già nella composizione degli studenti delle facoltà letterarie e scientifiche: la scarsa rilevanza di giovani provenienti dalle fasce più basse del mondo lavorativo, qualificati come figli di contadini/fittavoli e artigiani/operai (meno dell’8% del totale nazionale, anche se la fusione di questi due gruppi, come si è visto, potrebbe essere un’operazione illegittima dal punto di vista del reddito reale) possono essere facilmente spiegabili come la tradizionale riluttanza (o impossibilità) delle famiglie dei salariati ad affrontare le spese del curriculum universitario, un percorso reso ancora più difficile, del resto, dalla ristrutturazione dei percorsi scolastici dopo il 1923. Nonostante la costruzione del sistema premiale e di sussidi abbia infatti garantito – anche contrariamente alle aspettative del regime – un aumento rapido della popolazione universitaria tra anni Venti e Trenta (da 45.000 studenti nel 1925 a 65.000 nel 1935, quando per la prima volta si superò il numero di iscritti anteriori al 1923), furono soprattutto i ceti medi e impiegatizi urbani ad approfittarne, secondo una consueta strategia di investimento sul capitale culturale che avrebbe dovuto garantire, mediante l’acquisizione del titolo di studio, l’accesso ad una posizione sociale e ad una remunerazione più sicura; una «corsa al pezzo di carta» di ampia portata negli anni antecedenti e immediatamente seguenti la guerra, anche a causa del basso costo degli studi, che Gentile aveva cercato di impedire, o almeno di frenare, mediante la sua riforma36. Non può quindi sorprendere come, sul piano nazionale, fossero proprio i ceti impiegatizi e medi a rappresentare i gruppi più solidamente rappresentati nelle due facoltà (più di un terzo dell’insieme): benché le aspettative di impiego fossero sostanzialmente ridotte (specie per i laureati in materie letterarie), e coincidessero con l’insegnamento, si trattava comunque di posizioni non disprezzabili per chi veniva magari da situazioni liminari tra benessere e disagio. Inoltre, si trattava pur sempre di una professione sicura raggiungibile con un costo decisamente limitato rispetto ad altri percorsi formativi lunghi e dispendiosi. Infi-

 L’acquisizione del titolo scolare come chiave di accesso anche ai gradi inferiori della «nobiltà di stato» non è solo, ovviamente, un fenomeno italiano. Cfr. Bourdieu, La noblesse d’état, specie pp. 406 e sgg. Per quello che riguarda la popolazione universitaria italiana e le sue dinamiche cfr. Cammelli, di Francia, Studenti, università, professioni, p. 21 tab. 2. 36

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ne, era un mestiere relativamente più aperto alle donne, ancora fondamentalmente estromesse dalle professioni liberali, e agli «uomini nuovi» senza fortune proprie; ovviamente, non considerando tra le possibilità la docenza universitaria37. Un’altra possibilità di comparazione che la rilevazione nazionale del 1931 non consente, è quella relativa alla provenienza degli iscritti da famiglie di impiegati solo nel settore pubblico, ivi comprendendo tutte quelle categorie professionali, dal macchinista in servizio presso le ferrovie dello Stato all’impiegato delle poste, dal sottufficiale dell’esercito al comandante di marina allo scrivano ministeriale, che in Normale rappresentavano in quegli anni una quota notevole di famiglie di origine (18,5%) e che, sommate ai docenti di ogni ordine (anche loro, dopo tutto, dipendenti pubblici), rappresentavano più del 30% dell’insieme degli allievi interni. Ipotizzando, senza purtroppo averne la certezza, che la voce ‘impiegati’ prevista dall’ICS per gli iscritti a Lettere possa essere suddivisa in due parti uguali per il pubblico impiego e quello privato, e sommando a questa percentuale il personale militare (4%) e una frazione di almeno un terzo della voce ‘maestri, ragionieri e geometri’ (6%), si otterrebbe comunque una somma pari al 20% della popolazione della facoltà su scala nazionale, sensibilmente inferiore a quella ammessa alla scuola pisana. In ogni caso, è soprattutto la massiccia presenza della categoria degli orfani provenienti da nuclei legati al pubblico impiego e sovente al mestiere dell’insegnante, dei pensionati già pubblici e dei docenti di scuola, che fa pensare alla Normale come ad un luogo dove l’obiettivo ideale del programma gentiliano, vale a dire l’inveramento di una tradizione di lungo corso che aveva visto la Scuola come crocevia di promozione sociale per i figli dei redditi modesti, venisse realmente rispettato. Certo, la definizione di disagio economico e di reddito modesto dipendeva comunque dal periodo e da una somma di variabili indipendenti dal reddito (numero di figli, proprietà) che potevano intervenire per complicare un quadro, apparentemente semplice, desumibile dalla semplice indicazione della professione paterna – la qual cosa invita anche a considerare con cautela le conclusioni sovente troppo nitide sull’università italiana formulate in base ai dati di una rilevazione rimasta peraltro isolata38. Un reddito annuo netto di

  Non casualmente, i figli di impiegati sono i meno rappresentati nella facoltà più lunga e costosa (Medicina). Cfr. Charnitzky, Fascismo e scuola, p. 524 tab. 21. 38   Da questo punto di vista, sono troppo netti i rilievi di Barbagli, Disoccupazione intellettuale e sistema scolastico, specie pp. 206 e sgg., a proposito del carattere esclusivo 37

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11.000 lire nel 1931, pari ai guadagni di un medico condotto e ufficiale sanitario in provincia di Messina, poteva portare a respingere una domanda di esenzione parziale dalle tasse scolastiche per «non riscontrata disagiatezza», ma nello stesso anno uno stipendio annuale di poco meno di 9.000 lire percepito da una maestra elementare vedova, con cinque figli a carico, in provincia di Sassari, avrebbe comportato l’attribuzione di un certificato di povertà, e l’esenzione totale da ogni tassa; come abbiamo già avuto occasione di notare, non solo il sistema delle certificazioni era più che elastico, ma anche quello delle concessioni, pur basandosi su principi sempre validi, era affidato molto alla discrezionalità dei gerenti della Cassa scolastica o dell’Opera, che valutavano caso per caso39. In genere, tuttavia, gli allievi ammessi nella stagione gentiliana, come i loro predecessori più anziani, presentavano i requisiti fondamentali per avere diritto di inoltrare, con buone speranze di accoglienza, richieste di esenzioni almeno parziali, rimborsi di alcune soprattasse o sussidi di varia natura. Sempre generalmente parlando, è anche il caso di sottolineare che il più delle volte sussidi ed esenzioni erano importanti per la possibilità dello studente di continuare a studiare, poiché la Normale dell’Italia fascista non garantiva affatto, al contrario di quella repubblicana (fino a tempi molto recenti), la copertura dei molti e diversi balzelli imposti dalla burocrazia dell’ateneo e non pagava (ovviamente) i libri e i viaggi (fatto salvo il diritto dello studente ad una riduzione sui biglietti ferroviari); in sintesi, la convinzione che il normalista fosse completamente esente da ogni «cura materiale», secondo l’ideale ritratto di Gentile, era quanto-

del sistema dell’istruzione italiano dopo il 1923. Come spesso si è ripetuto, non vi è dubbio che il sistema della scuola e soprattutto il filtro di selezione per l’università fossero in qualche misura classisti, nel senso che i costi da sostenere per una buona parte della popolazione delle campagne, soprattutto a causa della concentrazione degli istituti di istruzione superiore in poche grandi città, erano inaccettabili. D’altra parte, Barbagli non sembra notare la grossolanità delle categorie statistiche che utilizza, il fatto che l’esclusione (tendenziale e non assoluta) di contadini e operai dalla formazione accademica non significava automaticamente il monopolio dei titoli di studio da parte della borghesia urbana e le radicali differenze che attraversavano le diverse facoltà e scuole universitarie. 39   ASLPi, f. 17122 Petralia Stefano e f. 17868 Sedda Armando. Stefano Petralia (Antillo ME 1909 - Bologna ?), ammissione Scienze 1927, laureato in fisica nel 1931 si trasferì a Bologna, dove percorse poi la carriera accademica fino a diventare ordinario presso la facoltà di Medicina.

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meno esagerata, sempre che non si volesse confinare il concetto di vita materiale al solo vitto e alloggio. Per tutto il resto – e non è nemmeno il caso di parlare qui delle piccole spese che potevano essere richieste ad esempio da un minimo di vita sociale fuori dal palazzo dei Cavalieri – lo studente doveva sopperire con soldi propri, non venendo ovviamente prevista neanche quella modesta somma che sarebbe stata concessa, nella seconda metà del ’900, a titolo di «contributo didattico» per i minuti bisogni dell’allievo, una delle consuetudini accolte con più gioia dai normalisti di tutte le generazioni successive40. Impossibilitato anche, sempre dal Regolamento, a tenere lezioni private o conferenze pagate (va da sé, in via ufficiale), al normalista che volesse far fronte ai costi della vita studentesca senza volere (o potere) ricorrere al patrimonio familiare restavano solo due strade: vincere uno dei (rari) premi accademici, messi a bando dalla Normale (il premio «Zerboglio», concesso triennalmente al miglior laureato in lettere e filosofia di tutta la Scuola, o il premio «Michel», concesso alla migliore tesi di matematica presentata ogni anno da un normalista) o dall’Università medesima, essere fruitore di qualche borsa di studio concessa, ad esempio, a figli di dipendenti pubblici (ma il regolamento vietava la fruizione di rendite o borse di eccessiva entità) o ricorrere, infine, alle strutture per il diritto allo studio dell’ateneo. «Supplico codesta on. Opera universitaria di prendere in esame la mia domanda e di considerare la situazione difficilissima in cui vengo a trovarmi improvvisamente ora, non essendomi stato concesso il sussidio per le tasse dalla Cassa scolastica», scriveva nel maggio 1937 Carlo Morelli, a cui l’ateneo aveva respinto un ulteriore domanda di sussidio, giudicando sufficiente lo status di normalista e il godimento di una borsa di 1500 lire concessagli, in quanto figlio di un dipendente delle ferrovie, dall’Opera nazionale delle FF.SS., una dei molteplici enti assistenziali che, consule il regime, erano sorti negli anni precedenti. […] sono 900 £ che dovrei chiedere alla mia famiglia, senza che questa abbia assolutamente la possibilità di procurarmele, date le disagiatissime condizioni

 Le analitiche prescrizioni per l’allievo interno si desumono dal Regolamento interno, pubblicato in «Bollettino ufficiale del Ministero dell’educazione nazionale», 8 maggio 1934, n. 19, e ora anche in Annuario 1934-35, pp. 94-124. È vero che molte delle disposizioni discilinari del regolamento caddero nel vuoto, ma questo non venne comunque mai modificato, e, soprattutto, non si previde mai la concessione di emolumenti di nessun tipo agli studenti. 40

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economiche in cui si trova da lungo tempo; ed intanto non posso prendere le firme di frequenza né presentarmi agli esami. E che le condizioni siano veramente disagiate, risulta da quanto segue: mio padre è applicato presso le Ferrovie dello Stato, con l. 850 di stipendio mensile; e da queste bisogna sottrarre le 120 £ al mese che sono la mercede della donna di servizio che è costretto a tenere essendo rimasto vedovo pochi anni fa con 4 figli a carico, tutti più giovani di me […]. Le spese per far studiare me ed i miei fratelli, quelle della lunga malattia di mia madre […] un infortunio occorso a mio padre, le cui cattive condizioni di salute richiedono continue attenzioni, hanno portato la mia famiglia veramente sull’orlo della rovina. Se non avessi vinto il concorso alla Normale, non sarei stato certamente in grado di continuare gli studi […]41.

Proveniente da una famiglia giudicata, secondo le categorie proposte dall’ICS, e in base alle considerazioni censitarie degli enti per l’assistenza studentesca, come non disagiata, Morelli evidenziava con le sue parole tuttavia lo iato che poteva separare le esigenze della vita reale di un universitario fuori sede dalle classificazioni teoriche. Benché, ovviamente, non si possa non tenere conto anche di una certa dose di enfasi retorica – il tono epistolare della supplica prevedeva d’altra parte proprio questo, e si tratta di un canone retorico comune a tutte le missive inviate a quel fine – non vi è dubbio che il quadro che emerge dalle non poche lettere indirizzate dagli allievi al rettore di Pisa, in cui si protestava per la mancata concessione di un sussidio o si richiedeva un’esenzione maggiore, restituisce un immagine più vivida della quotidianità dei normalisti e dei loro problemi più stringenti42. In effetti, è proprio di una catena costituita dalla preghiera del postulante e dalla mediazione del potente, accordata in base ai meccanismi elementari della clientela, che questo tipo di lettere parlano, con l’insistito rifiuto dell’impersonale e astratta entità burocratica e delle

 ASLPi, f. 24999 Morelli Carlo. Carlo Morelli (Trieste 1917 - Trieste 2007), ammissione Scienze 1936, dopo la laurea in fisica nel 1940 ritornò a Trieste dove lavorò all’Istituto geofisico. Prese la libera docenza nel 1948, dal 1953 fu straordinario a Bari e si trasferì nuovamente a Trieste nel 1963, dove fondò, tra l’altro, l’Osservatorio di Geofisica Sperimentale. 42   A proposito del linguaggio della supplica nell’Italia contemporanea, cfr. anche le osservazioni avanzate in sede di introduzione da A. Gibelli in C. Zadra, G. Fait (edd.), Deferenza, rivendicazione, supplica: le lettere ai potenti, Atti del seminario, Treviso 1991, pp. 1-13. 41

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sue regole, un fenomeno caratteristico di tutta la storia dei contatti epistolari nella galassia «familistica» del mondo studentesco pisano. Di fronte alla domanda di uno studente per un sussidio non concesso, poteva essere direttamente la figura paterna a tentare la via della lettera, ad un tempo umile e «ardita richiesta» e appello ai proclami retorici «giovanilisti» del regime (e forse addirittura proprio ai testi gentiliani, ammesso che lo scrivente ne fosse a conoscenza) in nome della grandezza della patria: Perché si vuol togliere la possibilità ad un bravo giovane di continuare negli studi? Egli era pur sempre il primo della classe, non era mai secondo a nessuno, era citato ad esempio a tutti, ha fatto l’esame di maturità scientifica con voti 9/10, ha concorso per un posto gratuito alla R. Scuola Normale Superiore di Pisa riuscendo il primo vincitore […], solamente così gli era possibile iscriversi all’Università. […] Ora questo bravo figliolo che tutto ha fatto e dato per la famiglia, si trova nella situazione di non poter continuare gli studi unicamente per mancanza di denaro. Questo è mostroso [sic]! È un dolore tremendo per un padre! Mi permetto a ripetere che le mie condizioni finanziarie sono disastrose, e che se non mi riesce avere l’esonero delle tasse, esonero che per merito e povertà gli dovrebbe spettare, o altro equivalente aiuto, il figlio rischia di dover rinunziare alla continuazione degli studi. È mai possibile che questo succeda? Io penso di no. Non e [sic] certo l’intendimento del Governo, che tanto fa per aiutare in tutto queste precoci intelligenze, per valorizzarle nell’interesse della patria, alla quale certamente daranno tutto per tutto. Per quanto sopra, prego la S.V. Ill.ma di avere la bontà di riesaminare la posizione del mio povero figliolo e di aiutarmi se possibile come meglio crederà. Chiedo infinite scuse per il mio ardire, e nella speranza di essere esaudito, ringrazio coi migliori ossequi43.

La strada della mediazione personalistica, d’altra parte, non si limitava all’appello al potente, destinatario della supplica: l’intervento della direzione della Normale, che solitamente si rivolgeva al retto-

  Da Carlo Morelli sr. a Rettore Università di Pisa, 24 maggio 1937, in ASLPi, f. 24999 Morelli Carlo. Sulla genesi e le aporie della politica di «largo ai giovani» del fascismo negli anni Trenta cfr., per un inquadramento di più lungo periodo, B. Wanrooij, Mobilitazione, modernizzazione, tradizione, in G. Sabbatucci, V. Vidotto (edd.), Storia d’Italia, 4: Guerre e fascismo 1914-1943, Roma-Bari 1998, pp. 379-439, per un approfondimento in particolare relativo alla ricezione da parte degli ambienti giovanili Duranti, Lo spirito gregario, specie pp. 53-93. 43

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rato per segnalare benevolmente questo o quel caso più meritevole di attenzione, era una costante nelle trattative per ottenere qualche beneficio. Nel maggio 1938, Chiavacci in persona allegava una propria «vivissima raccomandazione» alla richiesta inoltrata da un allievo di Lettere che aveva perduto l’assegno della Cassa scolastica a titolo di rimborso delle tasse, per aver presentato un piano di studi difforme da quello standard della facoltà, consigliato ma obbligatorio se si voleva accedere ai contributi di ateneo44. Anche in questo caso, la richiesta del figlio era accompagnata da una vibrante missiva paterna: Non posso nasconderle quanto ciò mi abbia stupito e addolorato […] perché il rifiuto all’esonero dalle tasse colpisce un giovane che sarebbe invece meritevole di un premio, in quanto anche l’anno scorso nei cinque esami sostenuti ha preso cinque 30, di cui due con lode. Io poi credevo che la S.V. lasciandomi l’anno scorso la speranza che quest’anno le cose sarebbero andate diversamente si fosse bene persuaso delle ragioni economiche per le quali l’esonero fu richiesto. Mi permetta che io gliele riconfermi: sono un insegnante di scuole medie, e niente altro, con carico di famiglia (moglie e tre figli: milita dunque a mio favore anche la questione demografica) senza altre risorse che il suo modestissimo stipendio. E se penso a quello che conta oggi il mantenimento di una famiglia e dei figli, dovrei dire non modestissimo ma poverissimo! Non sono neppure insegnante di lettere o di matematica, e perciò viene a mancarmi persino la risorsa delle lezioni private. […] Veda, Ill.mo Sig. Rettore, e perdoni se oso ancora privatamente il Lei e non il Voi ufficiale, veda se Le è possibile ritornare su la questione, od ottenere almeno per mio figlio un corrispondente sussidio dell’Opera universitaria. Il prof. Bentivoglio, che mi conosce bene, può fornirle informazioni precise: creda che sono effettivamente povero ed ho estremo bisogno di aiuto. Conto sulla ben nota generosità e nobiltà del Suo animo, oltre che sulla Sua illuminata saggezza […]45.

  ASLPi, f. 25360 Roncaglia Aurelio. Roncaglia (Modena 1917 - Roma 2001), ammissione Lettere 1935, dopo la laurea conseguita nel 1939 e il diploma di licenza discusso con Giorgio Pasquali si perfezionò a Firenze con Michele Barbi e a Roma. Dopo la guerra, in cui combatté come ufficiale di fanteria, e una parentesi come funzionario del Ministero dell’assistenza postbellica, conseguì la libera docenza a Trieste (1948) e fu poi ordinario a Pavia e a Roma ‘La Sapienza’. La lettera di Aurelio Roncaglia al rettore è del 16 maggio 1938, il biglietto di raccomandazione a firma di Chiavacci è datato 17 maggio 1938. 45   Ibid., da Gino Roncaglia a Rettore Università di Pisa, 18 maggio 1938, sottolineature nel testo. 44

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Testo ricco di richiami canonici espliciti, alcuni più franchi (la povertà estrema, il numero di figli che meriterebbe un’attenzione particolare in ottemperanza alle direttive del regime sulle politiche demografiche) altri più adulatori (il riferimento alla generosità personale e saggezza), la lettera di Roncaglia padre può illustrare bene la condizione tipica di un rappresentante del pubblico impiego preoccupato di conservare non tanto la possibilità di sopravvivere, quanto il decoro indispensabile al proprio status, assicurato da un equilibrio patrimoniale fragile e potenzialmente minacciato da spese suppletive (quali quelle relative alle tasse del figlio), benché lo scrivente non fosse esattamente «solo» un professore di scuola media, e, anzi, l’impiego di insegnante fosse più che altro un ripiego per assicurare un reddito stabile46. Il mantenimento dei figli allo studio poteva rappresentare un problema sia per gli emolumenti modesti, sia per coloro che, in nome dello status, interrompevano o proibivano l’occupazione degli altri membri della famiglia: ancora una volta, era la condizione lavorativa della donna ad entrare nel calcolo delle effettive possibilità del nucleo familiare, e non può sorprendere che, ancora alla fine degli anni Trenta, gli uomini di condizione impiegatizia, con uno stipendio moderatamente congruo, fossero normalmente sposati a donne disoccupate, o «atte a casa» secondo la dicitura delle dichiarazioni censuarie, in conformità all’immagine angelica e conservatrice della donna-sposa-madre: Ora la S.V. On.le vorrà considerare la mia situazione finanziaria alquanto critica dovendo provvedere all’ a carico [sic] oltre del predetto mio figlio Nicola, che per frequentare una scuola lontano dalla residenza viene a costarmi non indifferentemente, anche di altro figlio frequentante quest’anno il I° corso di Istituto Superiore nonché di altra figlia e moglie attendenti a casa. Di più recentemente dovetti sobbarcarmi altri oneri gravosi per il matrimonio di altre due figlie. In tali condizioni mi vedo costretto di fare appello alla S.V. Onle perché, esaminata la posizione di mio figlio e le condizioni finanziarie, veda se riesce possibile venirmi in aiuto con lo ammettere il predetto ragazzo al beneficio della esenzione anche parziale delle tasse o in difetto di concedermi

  Gino Roncaglia (1883-1968), fu infatti un musicologo di discreta fama, oltre che compositore, autore di numerosi volumi dedicati a figure eminenti della storia musicale italiana, socio di molte accademie musicali nazionali ed europee e personalità attiva nella vita culturale modenese. 46

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un sussidio che valga in parte a mettermi in condizione di affrontare le prime impellenti spese […]47.

Capo tecnico presso un’officina delle FFSS, l’autore della lettera aveva dichiarato nel 1933 un reddito annuo netto di 12.500 lire, superiore alla media della generazione dei normalisti di quell’ammissione e considerabile, per l’epoca, uno stipendio discreto. Tuttavia, le spese per il mantenimento di tutta la famiglia, figli agli studi e moglie casalinga, per non parlare di uscite gravose ma inevitabili per il prestigio familiare, come il costo di un matrimonio e la costituzione della dote delle figlie, potevano minacciare lo stato di benessere raggiunto, per sostenere il quale, essendo impensabile (per questioni di decoro, o per insufficienza dei titoli scolari posseduti) che la coniuge trovasse un’occupazione, si ricorreva senza pudore all’aiuto pubblico48. Vero è che ho ottenuto quest’anno un posto alla R. Scuola Normale, ma per la mia famiglia la spesa per le tasse riesce gravosa, tanto più che ho un altro fratello che frequenta il R. Istituto tecnico di Rimini, un’altra sorella pure a carico dei miei ed essendo la mia famiglia uscita da poco da circostanze dispendiose quali il maritaggio [sic] di due mie sorelle49.

Ottenere il posto alla Scuola Normale, dunque, costituiva la condizione necessaria, ma forse non sufficiente per i figli di un vasto segmento sociale, perennemente in bilico tra benessere e disagio, per continuare gli studi alla ricerca di quel titolo che avrebbe garantito poi (o almeno così si sperava) l’occupazione sicura: «[…] unica soluzione restava per me quella di tentare il concorso alla Scuola Normale, onde cessare di essere un peso alla mia povera famiglia», chiosava un allievo di Lettere

  Da Pietro Rumine a Rettore Università di Pisa, 14 novembre 1933, in ASLPi, f. 19100 Rumine, Nicola. 48  La massiccia presenza di donne sul mercato del lavoro negli anni Venti e Trenta non contraddice la diffusione di strategie della distinzione nel ceto medio e impiegatizio per le quali si prevedeva che le «signore» non potessero lavorare, se non, forse, come insegnanti e limitatamente agli anni giovanili. Cfr. De Grazia, Le donne nel regime fascista, pp. 260 e sgg., e Dogliani, Il fascismo degli italiani, pp. 102-8. 49   Nicola Rumine a Rettore Università di Pisa, 19 dicembre 1933, in ASLPi, f. 19100 Rumine, Nicola. Rumine (Messina 1914-?), ammissione di Scienze 1933, perse il posto l’anno successivo e si trasferì alla facoltà di Scienze Matematiche Fisiche e Naturali di Bologna. 47

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a seconda guerra mondiale ormai in corso, lamentando le tristi condizioni che lo costringevano a supplicare un ulteriore aiuto dell’ateneo: Non ho in tasca, questo momento, che 150 lire, cento delle quali mi dovrebbero servire per tornare a casa durante le vacanze pasquali. Non posso assolutamente mandare a chiedere a mio padre la somma necessaria perché non l’ha né saprebbe dove trovarla, a rischio di indebitarsi maggiormente. Chiedete in proposito, se volete, informazioni al mio Comune. Non possediamo un metro quadrato di terra, se non al cimitero; non un soldo in banca […]; non una dimora nostra personale […]. Giudicate voi e decidete secondo la vostra coscienza50.

Anche scontando l’impostazione retorica dello scritto, le difficoltà descritte in questa lettera dovevano essere comuni a molti normalisti, la maggioranza dei quali, occorre sottolinearlo, non provenivano né da Pisa né dalla Toscana. I nati e residenti in un’area relativamente vicina dalla città, anzi, rappresentavano poco più di un quinto del totale, suggerendo che, rispetto alla stagione pre-gentiliana, anche l’origine territoriale del corpo studentesco fosse variata (tab. 9). Benché comunque viziato dagli studenti provenienti dalle (ormai ex) Nuove Province (Trieste, Zara, Dalmazia, Trento e Bolzano), che continuavano a rappresentare un gruppo a se stante molto forte (44 presenze), in virtù delle agevolazioni loro mantenute a norma di statuto, il dato sulla provenienza degli allievi settentrionali (100) indica infatti che anche i nati in province a forte presenza di sedi universitarie prestigiose (26 provenivano da Bologna, Milano, Torino e Padova) vedevano ora nella Normale un percorso che valeva la pena tentare. Lo stesso può dirsi, sia pure in proporzioni minori, per coloro che venivano da città del centro Italia ma non toscane (11 normalisti erano residenti a Roma) e dal Sud (14 provenienti da Napoli o Palermo). Rispetto alla situazione degli anni Venti, la Normale si proponeva dunque veramente come un istituto a vocazione nazionale, in grado di attirare candidati da un territorio sempre più ampio e, ancor di più, anche da un campo sociale sempre più vasto, proponendosi efficacemente come un laboratorio di promozione sociale, oltre che culturale.

  ASLPi, f. 23843, Capodaglio Elio. (Recanati 1923), ammissione Lettere 1942, interrotti gli studi nel 1943 non tornò più a Pisa, laureandosi infine in lettere a Roma nel 1945. Insegnante nelle scuole medie e nel liceo classico di Recanati, è stato a lungo consigliere e assessore nella regione Marche, militando nelle fila del PSI. 50

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Tabella 9. Provenienza geografica dei normalisti (a.a. 1929/30-1943/44)51. Di cui Di cui dalle Sud e Nord Centro dalla Estero Nuove isole Toscana Province Normalisti provenienti 144 44 101 76 69 11 da Luoghi di residenza: 26 0 31 20 14 0 sedi universitarie Fonte: elaborazione di dati da Archivio Studenti e Laureati Università di Pisa, Fascicoli nominativi degli studenti, 325 ff., da f. 18513 Acquaviva Antonio a f. 36831 Pocherra Walter.

  Confrontandomi con numeri molto più grossi ho scelto un criterio differente rispetto alla costruzione della tabella relativa alle origini geografiche dei normalisti prima del 1929. Ho considerato distintamente solo la provenienza dalle città sedi di atenei, accorpando le città secondarie e i piccoli centri anche per l’area centro/ toscana, e calcolando insieme sud e isole. Gli undici allievi provenienti da una sede universitaria non toscana dell’Italia centrale provenivano tutti da Roma. 51

Capitolo II Vivere alla Normale di Gentile

1. L’ammissione alla nuova Normale Subito dopo la sua nomina a Regio Commissario, Gentile non iniziò solo a concretizzare le promesse di sostegno finanziario avute da Mussolini e dagli ambienti politici pisani: erano passati poco più di tre mesi dalla sua nomina quando, con l’inizio del 1929, grazie fondamentalmente al suo impulso, cominciarono e prendere forma alcune modifiche dell’assetto normativo e didattico della Scuola che il nuovo Statuto e il nuovo regolamento avrebbero poi recepito e fissato. Già nella seduta del Consiglio direttivo del 26 novembre 1928, ultima dell’anno e prima alla presenza di Gentile, subito dopo aver suggerito il traguardo ideale del «centinaio di studenti» come cifra simbolica di una Normale «rinnovata» e aver comunicato l’avvio dei lavori necessari all’ammodernamento della sede, il Commissario aveva posto all’ordine del giorno la discussione sugli obblighi degli studenti perfezionandi, figure ancora incerte per status, liminari e mal integrate nella didattica e nella vita scientifica della Scuola1. Nel gennaio 1929, il Direttivo avrebbe ripreso il tema degli obblighi degli studenti, da un lato istituzionalizzando il «colloquio», o tesi interna, come prova discriminante per l’ammissione al secondo, al terzo e al quarto anno, dall’altra rivedendo i doveri didattici degli allievi in ottemperanza alle modifiche intervenute negli ordinamenti delle facoltà: una revisione che mirava a spostare il baricentro dell’attività di studio dell’allievo verso la Scuola, a discapito delle facoltà, senza tuttavia permettere alcun calo di rendimento dei normalisti sul fronte degli esami universitari, anzi, rendendo ancora più stringenti e chiari gli obblighi per conservare il posto2. Infine, nella seduta successiva, tenuta solo nell’ottobre 1929, il Commissario rendeva note le modifiche interve-

  Verbali del consiglio, p. 185.   Ibid., seduta del 16 gennaio 1929, pp. 186-9.

1 2

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nute al regolamento della Scuola ad opera di un regio decreto sollecitato ed ottenuto prima dell’estate3. Si trattava di cambiamenti profondi, benché non statutari, che Gentile non aveva discusso con i consiglieri, ma che si era limitato a comunicare, a distanza di quattro mesi dalla pubblicazione del testo di legge, tralasciando peraltro di convocare il Consiglio, anche solo pro forma, per nove mesi: non c’erano dubbi sull’intenzione del Commissario di gestire nel modo più personalistico possibile la transizione dalla vecchia alla nuova Scuola, limitando al massimo il ricorso alle pratiche assembleari. Con il decreto estivo, Gentile aveva intanto ottenuto che a partire dal nuovo concorso di ammissione per l’anno accademico entrante scomparisse la figura dell’alunno esterno, aggregato con sussidio o meno, venisse esclusa per le donne la possibilità di concorrere, si abolisse la consuetudine di poter sostenere le prove di esame in sedi diverse da Pisa e si fissasse definitivamente la tabella delle prove di concorso, riducendo le prove scritte per il primo anno a due (erano quattro nel 1923, poi tre) e prevedendo un colloquio orale generale sul programma di materie letterarie4. Tale complessiva sistemazione degli ordinamenti interni sarebbe stata confermata, e sostanzialmente non modificata, dall’approvazione del nuovo statuto del 1932 e dal regolamento del 1933, destinati a disciplinare, in via pressoché definitiva, le norme e le procedure di ammissione alla Scuola per i decenni a seguire5. Non si trattava, certamente, di una rivoluzione copernicana rispetto all’impianto tradizionale dell’istituto. Piuttosto, coerentemente allo spirito dell’impostazione gentiliana, la nuova Normale avrebbe dovuto raccogliere l’eredità della vecchia, perpetuandone gli aspetti positivi e più prestigiosi e dismettendo, al contrario, il retaggio della «piccola» istituzione ereditata dall’Italia liberale. Questo significava, in sintesi, non solo aumentare il numero

  Ibid., seduta del 31 ottobre 1929, pp. 189-91. R.D. 20 giugno 1929 n. 1043, Modificazioni al regolamento per la R. Scuola Normale Superiore di Pisa, in G.U. 1° luglio 1929 n. 151, pp. 3094-6. 4   Verbali del consiglio, seduta del 31 ottobre, p. 190. I titolari di posti da aggregato, ivi comprese le ragazze, mantenevano in via transitoria il diritto al posto. 5  Il Regolamento interno, che doveva specificare e rendere attuativi alcuni provvedimenti relativi alla vita collegiale, alla disciplina e all’amministrazione della Scuola, venne pubblicato sul Bollettino Ufficiale dell’Educazione Nazionale solo l’8 maggio 1934, ma era stato promulgato il 2 ottobre 1933 e reso operativo fin dall’inizio dell’anno accademico. Cfr. Verbali del consiglio ’30-’39, seduta 2 ottobre 1933. 3

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degli allievi, ma anche rendere più compatta la comunità normalistica, eliminando le differenze di categorie che rendevano il piccolo gruppo degli allievi un insieme poco omogeneo, con privilegi e obblighi diversi, ma soprattutto poco controllabile, in quella sua parte non minoritaria che viveva al di fuori del Palazzo dei Cavalieri. L’amalgama sociale e culturale che Gentile stesso aveva sperimentato in quanto convittore, e che avrebbe dovuto rappresentare la quidditas della comunità normalistica nel suo progetto ideale, si poneva all’origine dell’abolizione dell’alunnato esterno, così come le riserve relative all’influenza delle donne sull’educazione virile avevano già causato l’estromissione delle diplomate dal concorso6. D’altra parte, i provvedimenti del 1929-32 andavano incontro ad istanze che non erano appannaggio solamente del nuovo Commissario e che, si ricorderà, erano già state contemplate dai progetti di riforma interna ventilati dagli ultimi consigli della direzione di Bianchi, anche se non c’è dubbio che furono la determinazione e le possibilità politiche di Gentile a garantire la soluzione relativamente rapida di tutti i nodi problematici posti dalla rifondazione economica, didattica e scientifica dell’istituto. In particolare, l’ordinamento didattico venne semplificato e razionalizzato sulla base di un percorso unico degli allievi ordinari attraverso i quattro anni di studio previsti per le due classi, formalizzando così il superamento di quella crisi di identità e di vocazione, oltre che di risorse, che aveva attanagliato l’istituzione a cavallo della Grande Guerra, che Gentile aveva vissuto nella sua veste di Ministro e che non era stata minimamente alleviata dal varo del regolamento del 1923. A partire dal Regio Decreto legge 28 agosto 1931, infine, la Normale si liberò definitivamente del suo ambiguo e soffocante legame di dipendenza dall’Università conquistando la propria autonomia giuridica, amministrativa, e disciplinare nella veste di Istituto di istruzione superiore, titolo condiviso con l’Istituto Orientale di Napoli, l’Istituto Superiore Navale e l’Accademia di educazione fisica di Roma7. All’autonomia si accompagnava un forte intervento dello Stato per rinsaldare una dotazione la cui esiguità era stata oggetto di continue recriminazioni da parte delle direzioni di età liberale, senza che le continue promesse di interventi da parte del Ministero

  Discorso del sen. Giovanni Gentile direttore della R. Scuola Normale Superiore, in Annuario 1934-35, p. 21. 7   R.D. legge 28 agosto 1931 n. 1227, pubblicato sulla «Gazzetta Ufficiale» 8 ottobre 1931 n. 233, ora in Annuario 1934-35, pp. 30-3. 6

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producessero molto di più che contributi straordinari e adeguamenti di importanza relativa. Era impensabile, naturalmente, che l’istituzione propagandata attraverso i media come fiore all’occhiello della formazione universitaria della nuova Italia potesse soffrire delle medesime ristrettezze del decennio precedente. Alla Normale gentiliana lo Stato accordava così una generosa assegnazione di 400.000 lire annue (più del doppio degli altri Istituti attivati con la stessa legge), aumentata poi fino a quasi 600.000 nel corso degli anni; una dotazione di base, a cui si aggiungevano contributi minori ma non irrilevanti del Comune, del Consorzio universitario pisano e dell’ateneo stesso (importanti soprattutto per i congrui extra stipendiali grazie ai quali Gentile poté realizzare molte delle sue chiamate di prestigio per i nuovi docenti normalistici), oltre a rendite e interessi derivanti da titoli o immobili di proprietà8. Fu grazie a questo solido sostegno che il progetto ambizioso di aumento rapido del corpo studentesco fino a cento unità poté essere perseguito, anche se mai completamente raggiunto: i 31 allievi ordinari iscritti alla Scuola dell’anno accademico 1929-30 divennero 45 l’anno successivo, 62 nel 1931-32, 81 nel 1932-33, fino a raggiungere i 91 nel 1933-34, anno in cui, comprendendo anche i quattro perfezionandi e i tre borsisti stranieri, la Normale toccò con 98 unità il limite della sostenibilità logistica e finanziaria in termini di popolazione studentesca (poi rapidamente diminuita fino ad assestarsi attorno agli ottanta ordinari più sei/sette perfezionandi e borsisti) (tab. 10)9.

  Bilancio di previsione per l’esercizio finanziario 1934-35, in Annuario 1934-35, pp. 281-4. Il bilancio complessivo della Normale sarebbe pressoché raddoppiato alla fine del decennio, fino a prevedere entrate per 1.297.000 lire, comprendendo però anche i contributi per il mantenimento dei Collegi Mussolini e Medico. Cfr. Bilancio di previsione per l’esercizio finanziario 1940-41, in Annuario della R. Scuola Normale Superiore (collegio universitario) e degli annessi Collegi Mussolini di Scienze Corporative e Collegio nazionale medico di Pisa, 4 (a.a. 1940 e 1940-41), Pisa 1941, (d’ora in avanti Annuario1939-40 e 1940-41), s.p. 9   Dati statistici, tav. II, Alunni studenti, laureati e diplomati nell’ultimo quinquennio, in Annuario ’34-’35, p. 272; Dati statistici, tav. II, Alunni studenti e diplomati dell’ultimo quinquennio, in Annuario ’39-’40 e ’40-’41, s.p. 8

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Tabella 10. Allievi ordinari, perfezionandi e borsisti stranieri iscritti alla Scuola Normale in età gentiliana. Anni Ordinari Ordinari Perfezionandi Perfezionandi Stranieri Stranieri accademici Lettere Scienze Lettere Scienze Lettere Scienze 1929-30 19 12 2 1 0 0 1930-31 28 17 2 1 0 0 1931-32 40 22 1 0 0 0 1932-33 54 27 3 2 2 0 1933-34 62 29 2 2 3 0 1934-35 62 30 1 1 4 0 1935-36 54 26 2 2 2 0 1936-37 48 26 2 2 3 0 1937-38 43 26 4 2 3 1 1938-39 46 30 2 1 2 1 1939-40 47 30 3 0 2 0 1940-41 43 28 1 0 0 0 1941-42 40 29 2 0 3 0 1942-43 38 27 0 0 0 0 Fonte: Elaborazioni da Dati statistici, tav. II, Alunni studenti, laureati e diplomati nell’ultimo quinquennio, in Annuario ’34-’35 e Annuario ’39-’40 e ’40-’41 e ASNS, b. 27, f. F, Relazione sull’anno accademico 1941-42, s.d.

Per entrare a far parte di questa comunità in crescita, il diplomato aspirante al primo anno (esclusivamente alla maturità classica, per Lettere, o scientifica, per la classe di Scienze)10 o lo studente già iscritto all’università e che intendeva entrare al secondo o terzo anno, doveva affrontare un esame meno tortuoso (anche se non più facile) dei suoi predecessori, ma anche soddisfare un complesso di norme ideologicamente e moralmente decisamente più invasive. Fino al 1933, in effetti, la Normale si poteva ancora considerare un’istituzione formalmente apolitica nel suo reclutamento: né le modificazioni del 1929 né il regio decreto del 1931 avevano sollevato il problema del credo politico dei candidati come requisito fondamentale. Fu solo con il Regolamento interno, che venne introdotta l’obbligatorietà dell’iscrizione alla Gioventù italiana del Littorio (GIL), o direttamente al PNF, come prerequisito per l’iscrizione al concorso: ne avrebbe fatto fede un certificato di militanza «in data non ante-

  Come è noto, la riforma del 1923 aveva riordinato il sistema scolastico istituendo, tra l’altro, il liceo scientifico, sulle ceneri del precedente (fallimentare) esperimento del liceo moderno e incorporandovi le sezioni di fisica-matematica degli Istituti Tecnici: la maturità scientifica consentiva l’accesso all’Università, con l’esclusione delle facoltà di Lettere e Legge. Licei Classici e Scientifici divennero dunque, a partire dal nuovo Statuto, le uniche scuole da cui fosse concesso di tentare il concorso di ammissione alla Scuola. Cfr. Charnitzky, Fascismo e scuola, p. 117 e grafico 7 p. 531. 10

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riore a un mese dalla presentazione della domanda»11. Non è difficile leggere questa (tardiva) presa di posizione rispetto all’ortodossia fascista dell’istituzione come una risposta, di portata forse più tattica che strategica, agli avvenimenti che avevano scosso la Scuola nel corso di quell’anno, e che avevano già portato all’allontanamento di Capitini, all’espulsione «degli otto santi» e al cambio della guardia alla vicedirezione: la direzione doveva riaffermare l’allineamento del «semenzaio degli educatori della nazione» al regime, di fronte ad alcuni casi eclatanti di dissenso, protesta o semplicemente disordine12. Il che non vuol dire affermare semplicemente che, al di fuori del testo del Regolamento, la vita alla Scuola fosse libera da vincoli di ossequio, almeno formale, alla dittatura. Le prescrizioni più vessatorie (l’obbligo del saluto fascista, per esempio, sancito all’art. 58) erano liberamente ignorate, ma il desiderio (o, meglio, ordine) della direzione che tutti gli allievi fossero iscritti al GUF datava almeno un anno prima del testo regolamentare: nelle settimane immediatamente precedenti l’inaugurazione dei nuovi locali, la convocazione degli allievi da parte di Gentile e la comunicazione dell’obbligo dell’iscrizione come prerequisito per poter restare alla Scuola, pure in assenza di ogni riferimento normativo vincolante nel nuovo Statuto, destò qualche inquietudine ma pochissima opposizione tra gli studenti13. Come avrebbe riferito il vicedirettore Arnaldi in una lettera a Gentile nel febbraio successivo, non vi erano stati tra gli allievi «casi patologici», tranne «uno solo. Un Sassano di Spezia […]», che aveva rifiutato l’iscrizione al GUF per lealtà morale al fratello Fidia, noto militante comunista, condannato a 10 anni dal Tribunale speciale14. Il giovane allievo ligure avrebbe pagato la sua coerenza (l’unico, in effetti, di tutto il gruppo degli allievi) con l’espulsione dalla Normale, pudicamente ricordata nella documentazione ufficiale come rinuncia volontaria al posto «per motivi personali»15. Sola vittima dell’informale (per ora) allineamento della nuova Scuola gentiliana all’ortodossia fascista, Sassano non poté fruire di alcun sostegno particolare dopo la sua uscita da Palazzo dei Cavalieri, né dell’affettuosa (anche

  Regolamento interno, in Annuario ’34-’35, art. 38 p. 105.   Cfr. per la cronaca delle tensioni a sfondo politico di quei mesi Simoncelli, La Normale di Pisa, soprattutto pp. 99 e sgg. 13   Salani, I luoghi dell’amicizia, p. 115. 14   La lettera di Arnaldi a Gentile è citata da Simoncelli, La Normale di Pisa, p. 105. 15   Verbali del Consiglio ’30-’39, seduta del 13 marzo 1933, s.p. 11 12

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se non sempre costante) attenzione che la direzione avrebbe riservato in quegli anni ad altri fuoriusciti più o meno illustri, «politici» come Segre e Alfieri, o «disciplinari» come Carlo Ludovico Ragghianti e Carlo Salani. Interrotti definitivamente gli studi per mancanza di soldi, costretto a cercare immediatamente un’occupazione nell’industria privata per aiutare la famiglia squassata dalla carcerazione del fratello, Sassano avrebbe ricordato, molti anni dopo, il dolore provato all’abbandono di quell’istituzione che «costituiva per me l’unica via per completare gli studi ai quali mi aveva portato una istintiva e appassionata inclinazione», pur nella fiera consapevolezza di «non essere venuto meno allora, sia pure al prezzo di una dolorosa rinuncia, al mio dovere di uomo libero»16. Inutile aggiungere che l’obbligo di iscrizione alle organizzazioni giovanili del PNF fu scrupolosamente rispettato e fatto rispettare, benché il certificato allegato alle istanze dei candidati recasse in molti casi una data di iscrizione alla GIL di poco anteriore all’estate, e benché fossero ben pochi gli aspiranti normalisti pronti a far valere come titolo aggiunto benemerenze acquisite militando tra gli avanguardisti17. Altra portata ebbe invece un’altra norma originale prevista per la presentazione delle candidature a partire dal concorso del 1932: oltre ai documenti di rito da accludere alla domanda, infatti, gli aspiranti (sia al primo, che al secondo e terz’anno) avrebbero dovuto inviare a partire dal concorso di quell’autunno una «breve nota da cui risulti

 Da I. Sassano a Direzione Scuola Normale Superiore, 14 settembre 1948, in ASNS, AA, b. 2, s. ‘Sassano, Italo’. I. Sassano (La Spezia 1912-?), ammissione Lettere 1932, lasciò la scuola nel marzo successivo; negli anni Quaranta era impiegato presso una ditta di Milano. 17  Cfr. ad esempio ASNS, Cartelle Allievi, f. ‘Ciancio, Antonio’ e ‘Maurangelo, Pasquale’, che accludono alla propria presentazione come nota di merito il servizio prestato come allievo scelto avanguardista il primo e come capo centuria, il secondo (peraltro iscritto alla GIL da oltre dieci anni). A. Ciancio (Catania 1919-?), ammissione Lettere 1937, richiamato alle armi durante la seconda guerra mondiale, si laureò in letteratura tedesca a Pisa nell’ottobre 1941; fu ufficiale di collegamento con gli Alleati per i ministri Orlando, Casati e Jacini. Nel dopoguerra, insegnò nelle scuole superiori e si laureò in legge all’Università di Milano; passò poi all’amministrazione centrale, diventando dirigente presso il Ministero dell’Industria. P. Maurangelo (Bisceglie 1921), ammissione Lettere 1938, richiamato alle armi nel 1941, terminò il curriculum normalistico nel 1942 senza diplomarsi laureandosi nel 1943. Negli anni Sessanta era professore di scuola secondaria. 16

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l’indirizzo degli studi fatti e le […] speciali tendenze» (art. 52 dello Statuto)18. Nella maggior parte dei casi, la «nota» si rivelò in effetti una striminzita, banale indicazione dei programmi scolastici seguiti, e spesso addirittura un noioso elenco delle letture compiute durante il triennio liceale (per i maturati classici) o dei principali temi affrontati in matematica e fisica (per gli scienziati). Per un certo numero di allievi, tuttavia, lo spazio della «nota» era l’occasione di esprimere, in modo più o meno adulatorio, le cause profonde che sollecitavano la scelta della Normale, o di elencare i particolari titoli di merito acquisiti durante il periodo liceale. Soprattutto gli aspiranti a Lettere, si esercitavano in una convincente versione contemporanea della lettera di motivazione: molto raramente, questa includeva il minimo accenno al valore economico dell’ammissione alla Scuola19, mentre affioravano qua e là, e in particolare nelle note di chi intendeva studiare filosofia, accenni nemmeno tanto velati alla lettura dei testi gentiliani, o alla predilezione per lo studio della filosofia nella sua accezione idealistica, o ancora alla convinzione che fosse questa la disciplina egemone nel campo delle lettere e per la comprensione del mondo. Nel corso dei suoi studi compiuti sempre con lodevole profitto si è interessato in modo speciale della filosofia, perché tale disciplina ha considerato fondamentale come quella che meglio soddisfa le esigenze di uno spirito bisognoso di rendersi conto delle ragioni che hanno profondamente contribuito a determinare gli orientamenti della vita e del pensiero di ogni tempo. Compreso della importanza della filosofia greca, dalla quale pensa che non possa

  Statuto 1932, art. 52, pp. 56-7.  Anche se talvolta questa motivazione affiorava in «note» autobiografiche meno adulatorie. Ad esempio: «Fin dalle classi inferiori ebbe passione per le Scienze Matematiche, specialmente per la geometria, e nelle classi di R. Liceo Scientifico, studiando i primi elementi di geometria analitica e di analisi, sentì ancor più ingrandirsi la sua passione per lo studio delle scienze matematiche. Anche lo studio della fisica, specialmente di quella parte riguardante le nuove teorie della costituzione della materia, e pure gli studi di chimica e geologia, gli hanno ispirato il vivissimo desiderio di sempre più approfondire i detti studi. Essendo a conoscenza che in detta Scuola potrebbe più sicuramente e più profondamente seguire i suoi studi universitari e, date inoltre le condizioni finanziarie della sua famiglia, ha deciso di partecipare al concorso indetto presso suddetta Scuola nella classe di Scienze […]»; in ASNS, Cartelle Allievi, f. ‘Cappetti, Ilio’ 18 19

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prescindere chi voglia studiare il processo evolutivo del pensiero umano, ha dedicato particolare cura allo studio della lingua greca20. Interessato da sempre ai problemi filosofici, in particolare alla visione posta dall’Idealismo […] il candidato non ha altro interesse che quello di soddisfare le sue più intime esigenze spirituali […] rifiuta il frazionamento dell’attività dello Spirito in accordo con le più moderne tendenza dell’attualismo nazionale […]21. Seguendo tale inclinazione alle materie classiche e alla filosofia, consigliato anche dai professori Giuseppe Cammeli e Francesco Muggini che ha avuto per insegnanti, aspira a completare gli studi letterari e filosofici in codesta Regia Scuola Normale Superiore di cui conosce le gloriose tradizioni […]22. Il candidato giunto al Liceo Classico quando già cominciava a farsi strada in lui il bisogno di vedere chiaro in sé e nella storia si appassionò subito allo studio della filosofia; precorrendo lo svolgimento dei programmi, compì da solo la «scoperta» dell’idealismo e si accorse di avere trovato nella filosofia dello spirito lo strumento più valido per interpretare il corso delle umane vicende. Dei più importanti autori della letteratura italiana ha letto le opere principali; il problema del Machiavelli lo ha particolarmente interessato, sulla poesia e sull’oratoria ne I Promessi Sposi si è alquanto indugiato studiando ciò che i Maestri avevano scritto sull’argomento […]. Riguardo al decadentismo, non è sicuro di avere smesso del tutto l’atteggiamento polemico per assumere

 ASNS, Cartelle Allievi, f. ‘Barbieri Ricciotti Guido’. G. R. Barbieri (Filadelfia CA 1914-?), ammissione Lettere 1933. Da non confondere con il più noto Guido Barbieri (1911-85) noto epigrafista latino. Del primo si sa che terminò gli studi normalistici regolarmente, si laureò nel 1937 e insegnò poi nelle scuole secondarie, come titolare della cattedra di latino e greco al liceo classico di Vibo Valentia. 21   Ibid., f. ‘Visalberghi, Aldo’. A. Visalberghi (Trieste 1919 - Roma 2007), ammissione Lettere 1937. Tra i più importanti studiosi di pedagogia dell’Italia novecentesca, in Normale studiò in particolare con Calogero, di cui risentì l’influenza e che gli fece conoscere l’opera di Dewey, di cui sarebbe stato poi il mediatore in Italia. Dopo la guerra, nella quale combatté tra i più attivi membri delle formazioni partigiane di GL, e dopo un soggiorno negli Stati Uniti, insegnò alle università di Milano, Torino e dal 1962 fu ordinario di pedagogia a Roma Sapienza. 22   Ibid., f. ‘Bongi, Vincenzo’. V. Bongi (Firenze 1920-46), ammissione Lettere 1938. Studente di letteratura latina, fu richiamato alle armi nel 1941. Laureato e diplomato nel 1942. Morì per malattia subito dopo la guerra. 20

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quello rigorosamente storico. Degli autori greci e latini ha studiato meno di quel che avrebbe desiderato: ha cercato di comprenderne l’individuale valore e le particolari caratteristiche sulla scorta delle ‘Storie’ del Marchesi e del Rostagni. Di storia etico-politica ha letto quel che ha potuto e, venendo a Pisa, ha dovuto interrompere lo studio della Storia del Risorgimento dello Spellanzon. Alla storia della filosofia si è dedicato con passione: i volumi del De Ruggiero sono stati suoi assidui compagni e per penetrare il fenomeno del cristianesimo, ha osato perfino affrontare (o, temerarietà giovanili!) le opere dell’Omodeo. Il candidato nel complesso dei suoi studi ha cercato sempre di sviluppare il senso storico e critico23.

Oltre a costituire un interessante spaccato sulla preparazione dei maturati liceali degli anni Trenta e sui programmi di insegnamento scolastici di quegli anni, le note autobiografiche dei candidati, di cui questi quattro esempi di lettere restituiscono un campionario sufficientemente vario, ci illuminano sulle strategie di comunicazione messe in atto dagli studenti per figurare nel migliore dei modi possibili di fronte ai loro esaminatori: l’enfasi sul prestigio conclamato della Scuola, il riferimento (sottotesto, ma evidente) alla fama del suo direttore scelto come intellettuale di riferimento dalla generazione dei diplomati tra le due guerre (inutile dire che il nome di Croce non compare mai esplicitamente in queste note), infine l’evocazione dei propri docenti come auctoritates preposte ad indirizzare le scelte dei figli dell’élite culturale del liceo, secondo una visione della punta di diamante della scuola italiana particolarmente cara a Gentile, furono tutte pratiche retoriche dispiegate con convinzione nelle «note» autobiografiche più discorsive. Ad esse si affiancarono, in modo sempre più insistente man mano che ci si avvicinava alla guerra, presentazioni in cui si rivendicavano meriti particolari, connessi al fiorire di manifestazioni a sfondo politico culturale tipico degli anni Trenta, e in particolare, dopo il 1934, agli Agonali della cultura e dell’arte comunali e provinciali organizzati nei licei a cura dell’ONB24. Così, Scevola Mariotti, futuro

  Ibid., f. ‘Patrono Giuseppe’. G. Patrono (Brindisi 1918-?), ammissione Lettere 1938. Non terminò il curriculum normalistico, perdendo il posto nel 1941 per non aver sostenuto l’esame interno di tedesco, né rientrò più alla Normale, nonostante l’intenzione annunciata in una lettera alla direzione di far valere la propria qualifica di combattente per accedere ai posti riservati nella sezione Partigiani e Reduci del 1946. 24   Sui Littoriali e Agonali universitari (o pre-Littoriali) esiste oggi una dettagliata letteratura, sia dal punto di vista organizzativo che sotto il profilo più complessivo del 23

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illustre latinista, allievo ordinario irrequieto dalla salute cagionevole, elencava, insieme agli altri documenti e titoli di studio presentati all’atto dell’ammissione la tessera di riconoscimento rilasciatagli nel 1935 in qualità di corrispondente della rivista Giovanissima, rivista di educazione fascista la cui partecipazione era riservata agli studenti liceali, e sulle cui pagine Mariotti vantava alcuni articoli, e l’invito del comitato provinciale dell’Organizzazione Nazionale Balilla di Pesaro come vincitore degli Agonali scolastici dell’anno XV, mentre il giovane Edoardo Taddeo inviava come titolo aggiuntivo i premi conseguiti al concorso Premio Poeti del Tempo di Mussolini di Lucca25. Né, d’altra parte, era sempre possibile separare l’elogio retorico delle glorie culturali della «prestigiosa Scuola Normale», dai più alti destini della Patria fascista, di cui la Scuola pisana si proponeva come cuore della vita intellettuale e palestra ideale di formazione dei futuri educatori, secondo il canone della propaganda gentiliana che in alcune «note» riecheggiava, a riprova del suo successo e della diffusione della campagna a stampa degli anni Trenta: Aspiro a conseguire l’alto privilegio di entrare nella R. Scuola Normale di Pisa perché è questo l’unico istituto d’Italia in cui, per la gloria delle tradizioni e per le favorevoli condizioni di raccoglimento da essa create ai pochi e scelti giovani che vi si ammettono, è possibile studiare sul serio, senza oppressione di folla, senza dispersione di energie fisiche e psichiche. Quale che debba essere, comunque, il mio più specifico curriculum, o prevalentemente filologico – sanscrito greco latino – o prevalentemente filosofico – storia della

loro significato a fronte dell’inquadramento culturale della gioventù. Cfr. in primo luogo La Rovere, Storia dei GUF, pp. 265-79. Minore è stata l’attenzione agli Agonali scolastici. Cfr., per una testimonianza di un certo interesse, E. Masina, Il prevalente passato. Un’autobiografia in cammino, Soveria Mannelli 2000, pp. 213-5. 25  ASNS, Cartelle Allievi, f. ‘Mariotti, Scevola’. S. Mariotti (Pesaro 1920 - Roma 2000), ammissione Lettere 1937. Ebbe un curriculum normalistico molto tormentato; in congedo per malattia nel 1938-39, dopo ripetute assenze, fu anche sospeso per motivi disciplinari. Rinunciò al posto nel 1940. Si laureò nel marzo 1945 a Firenze; dopo un periodo di insegnamento al liceo ‘Mamiani’ di Urbino, assunse la cattedra a Roma ‘La Sapienza’. Il fratello Italo (1928) fu anch’egli allievo della Scuola ma solo al perfezionamento, e docente universitario di filologia classica. Ibid., f. ‘Taddeo, Edoardo’ (Montevarchi, 1920). Perse il posto nel 1941 essendo stato bocciato all’esame interno di inglese. In seguito, ha insegnato per molti anni lingua e letteratura italiana a Salonicco e all’Istituto italiano di cultura di Atene.

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filosofia e problemi filosofici – ho già ben chiaro in mente che l’assorbimento dei succhi vitali che gli studi e i maestri mi porgeranno serviranno a nutrire ed arricchire la mia humanitas affinché io possa austeramente prepararmi ad essere nella Scuola una forza viva; nell’esame e nella interpretazione dei testi e nella comprensione della vita e dei suoi grandi e gravi enigmi un degno cultore delle discipline spirituali; nella consapevolezza e nell’adempimento dei doveri verso la Patria e lo Stato un cittadino di romane virtù […]26.

Purtroppo, non ci è dato sapere quanto esattamente queste autopresentazioni incidessero sul risultato degli esami, mancando il termine comparativo delle lettere di coloro che non erano stati ammessi; stante la maggioritaria presenza di note anodine, con semplici elenchi delle letture previste durante il percorso liceale, si potrebbe presumere poco. Come poco, certamente, per non dire nulla, influivano tentativi, rari ma pur documentati, di far valere conoscenze e appoggi di natura politica di fronte all’inappellabile bocciatura all’esame di ammissione (e, in taluni casi, anche di fronte all’espulsione successiva per demerito). Eppure, almeno una volta, la supplica diretta a Mussolini perché intervenisse personalmente valse a modificare l’esito dell’esame, a riprova che, di fronte al benevolo dispensatore di risorse grazie alle quali viveva la nuova Normale, anche il proverbiale rigore degli esaminatori poteva attenuarsi: Mariano Delli Santi sarebbe stato ammesso alla Scuola eccezionalmente, pur essendo stato estromesso dalla lista degli aventi diritto al posto, in seguito ad una patetica lettera indirizzata direttamente al Duce nella quale lo scrivente lamentava di essere stato escluso dall’ambito traguardo, pur essendo stato dichiarato idoneo, in quanto classificatosi 17° a fronte di 14 posizioni di allievo disponibili per la Classe di Lettere: E così è venuta meno, per il sottoscritto, ogni speranza d’avviarsi a quegli studi per i quali egli ha sempre avuta una spiccata tendenza e predilezione, giacché le disagiate condizioni economiche della sua famiglia, il cui capo è quasi costantemente disoccupato, non gli consentono per mancanza di mezzi di potersi mantenere fuori di casa. Né gli può giovare la vicinanza della R. Università di Bari, essendo questa sprovvista della facoltà che gli interessa.

  Ibid., f. ‘Pappacena, Roberto’. R. Pappacena (Lanciano CH 1923), ammissione Lettere 1940. Dopo aver perso il posto nel 1943, si laureerà a Napoli, concorrendo senza successo per il perfezionamento. Entrato nei ruoli dell’insegnamento secondario, diventerà poi preside di scuola a Cortina d’Ampezzo dove risiede tutt’ora. 26

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In tale condizione e conoscendo quanto interessamento V. Eccellenza spiega ed ha sempre spiegato in favore della gioventù studiosa, lo scrivente si è fatto ardito di rivolgerle la presente, nella speranza che il cuore generoso del Duce non negherà il suo valido aiuto a chi in lui ha avuto fede, concedendogli di poter frequentare – in via eccezionale – quella scuola dalla quale è stato escluso per una rigida limitazione di posti. Con sentimenti e saluti fascisti27.

Un intervento del genere era destinato a non ripetersi; altra questione erano invece le suppliche inviate a personalità politiche per evitare la decadenza da normalista in seguito a fallimenti agli esami o a provvedimenti disciplinari, ma esse non ebbero mai corso, benché ne sia rimasta traccia negli archivi. In genere, tuttavia, il livello degli esami, anche a fronte dell’afflusso ormai costante di candidati, si mantenne sempre molto elevato. Se, infatti, la meccanica del concorso era stata semplificata, sia per l’unicità della sede che per la diminuzione delle prove, il rigore degli scritti e del colloquio si mantenne e, anzi, si innalzò comparativamente, rispetto agli anni dei concorsi deserti28. Gli studenti dovevano dimostrare negli scritti non solo padronanza perfetta dei programmi liceali, ma anche chiarezza espressiva, originalità e la capacità di dimostrare un’argomentazione convincente di analisi testuale o storia letteraria. Per i candidati di primo anno, l’eliminazione di una prova specifica di storia aveva certo escluso il rischio di poter dare vita a componimenti ideologicamente pericolosi, o, al contrario, di dover ricorrere alla piaggeria e alle pratiche retoriche più trite del regime; tuttavia, la vita dell’aspirante normalista non era facile nelle sei ore dedicate agli scritti. Anche presupponendo che se la cavasse con la versione di latino (o di greco, se candidato al terzo anno), i temi di italiano prevedevano una solida formazione filologica oltre che storico-letteraria, in ottemperanza allo spirito del liceo classico gentiliano, e lo studente non poteva semplice-

  Ibid., f. ‘Delli Santi, Mariano’. M. Delli Santi (Barletta 1918-?), ammissione Lettere 1937. Perderà il posto nel 1940 per non aver sostenuto uno degli esami di lingua interna, dopo di che non sono state reperite ulteriori notizie. 28   Per l’ammissione al primo anno della classe di Lettere, le prove scritte erano il componimento di italiano e la versione di latino, e il colloquio verteva sul programma di materie letterarie della maturità classica; per il primo anno di Scienze, un’esposizione scritta, accompagnata da un esercizio, di fisica, e una a scelta tra matematica, chimica e scienze naturali, oltre ad un colloquio orale sul programma della maturità scientifica o classica a seconda della scuola di provenienza. Cfr. Statuto 32, art. 55 e 56, pp. 58-9. 27

180  Generazioni intellettuali

mente cavarsela con uno stile disinvolto: i titoli non sempre erano particolarmente «scolastici» e prevedibili, aderenti magari all’esperienza dello studente liceale e alle abitudini dei commenti in classe sui grandi classici della letteratura italiana, e ciò non faceva che aumentare per il candidato il rischio di un componimento troppo libero, considerato «fuori tema» perché privo di buoni riferimenti ai manuali e delle citazioni testuali ritenute fondamentali per un buon voto (tab. 11). Tabella 11. Titoli delle prove per i candidati al I, II e III anno della Classe di Lettere (1932-39). Anno dell’esame di concorso

1932

I anno

Italiano: Le prime due strofe del Furioso in relazione con l’argomento del poema; Latino: Versione da Tito Livio (XLV, Cap. 37)

II anno

Italiano: La figura di Ermengarda nel coro «Sparse le trecce morbide»;

III anno Italiano: Il primo sonetto del Canzoniere del Petrarca in relazione coll’intera raccolta; Latino: Versione da Seneca (Epistole a Lucilio, 54);

Filosofia: Il principio della Latino: Versione da Tacito personalità in Kant; (ANN., XIII, 34§ 10-36); Tedesco: Versione dalle Vorlesungen dello Schlegel. (V. pag. 96-7 ed. A. Moretti) Italiano: Confrontare l’Imitazione «Lungi dal proprio ramo» del Leopardi con l’originale «La feuille» dell’Arnaud (Testi a disposizione);

1933

Italiano: Esposizione critica del sonetto del Carducci «Pur nell’ombra de’ tuoi lati velami»;

Italiano: Esposizione critica di una novella del Decameron ‘Testo a disposizione’;

Latino: Versione da Tacito (Historiae, IV, 34). Componimento «De Cicerone epistularum scriptore»;

Greco: Versione da (De falsa Latino: Versione da Latino: Versione da Plinio Demostene Sant’Agostino (De civitate (Paneg. ad Traianum, 30 e legatione, § 177-181); Dei, VIII, 3). 31, § 1-4) Filosofia: Esporre i motivi fondamentali della filosofia critica di Kant e porre in rilievo le parti che furono più feconde nel pensiero a lui successivo; Tedesco: Versione da un brano dei Colloqui con Eckermann del Goethe.

181  Parte seconda.  Capitolo II. Vivere alla Normale di Gentile

Anno dell’esame di concorso

I anno

II anno

III anno Italiano: Il concetto di virtù e fortuna nell’umanesimo e nel rinascimento; Latino: Versione da Seneca (Epistole a Lucilio, 96);

1934

Italiano: Il sentimento del medioevo nella poesia di Giosuè Carducci (Volume completo delle Poesie a disposizione);

Italiano: La descrizione delle peste nel Decamerone e nei Promessi Sposi (Testi a disposizione);

Greco: Versione da Luciano pe"i; pevndou", § 1-5;

Filosofia: Quali particolari nuove forme storiche concrete assumono i Latino: Versione da S. Latino: Versione da eterni del (De Civitate Dei, problemi Cicerone (Philippica, XII, 5, Agostino pensiero dopo Hegel e III, 28) § 11-14) quali soluzioni esse trovano nelle varie correnti idealiste; Tedesco: Versione da un brano di Novelle di Goethe; Inglese: Versione da un brano di Locke

1936

Italiano: Il sonetto autoritratto dell’Alfieri. Il candidato ne faccia un’analisi e ne prenda occasione per discorrere della Vita scritta da esso e di qualche tragedia delle più significative. Come conclusione, il candidato cerchi di delineare il significato storico, l’importanza e il limite dell’opera alfieriana nella storia della letteratura italiana e del Risorgimento della Nazione. Latino: anno Tito Livio libro 21 c. 7 Consul in campo – c. 8,1 Bellum iusserunt

Italiano: Romanticismo e Risorgimento. Il candidato mostri le interferenze che vi furono tra la letteratura del primo ottocento e il movimento politico che portò al riscatto della Nazione Latino: Cicerone la lettera 13 del quinto libra dell’Epistula ad familiares Quamquam ipsa consolatio litterarum

182  Generazioni intellettuali

Anno dell’esame di concorso

1937

I anno Italiano: Analisi critica di un qualche romanzo posteriore ai Promessi sposi Latino: Versione da Tito Livio.

II anno

III anno

Italiano: Il riflesso della novellistica e nel gusto boccaccesco nella letteratura del Cinquecento; Latino: Versione da Tacito Italiano: La letteratura latina nel ‘400;

1938

Italiano: L’accento Italiano: I miti, cari anche religioso e l’accento a Dante, del valore e della poetico dei Promessi Sposi; cortesia nelle novelle del Decameron; Latino: Versione da Tito Livio. Latino: Versione da Tacito.

Latino: “Quibus potissimum fontibus utamur ad Augusti renovationem rei publicae indagandam” Greco: Versione da Aristotele

1939

Italiano: Il Comune italiano quale fonte di ispirazione della lirica carducciana Latino: Versione da Tito Livio

Italiano: “Il passato a ricordarsene è più bello del presente, come il futuro a immaginarlo. Perché? Perché il solo presente è la sola immagine del vero; e tutto il vero è brutto”. Così il Leopardi annotava nel suo Zibaldone il 18 agosto 1821. Mostrate quale posto abbia questo concetto nella poetica dello Scrittore e com’esso sveli uno dei motivi più profondi e costanti della sua ispirazione;

Italiano: Presagi e motivi romantici nell’opera dell’Alfieri, con particolare riguardo alla Vita e alle Rime. Latino: Versione da Tacito, Annali;

Latino: Versione da Seneca, Ep. A Lucilio Fonte: elaborazioni dei titoli da ASNS, Fondo Elaborati, bb. 54-6029.

All’orale, infine, il candidato poteva provare l’inquietante sensazione di discutere del programma di filosofia in presenza di Giovanni Gentile, anche se per onestà (e per consuetudine con programmi che vertevano soprattutto sui grandi nomi del pensiero classico) i commissari prediligevano questioni di storia della filosofia antica. In ogni caso,

  Ringrazio la dottoressa Maddalena Taglioli per la collaborazione nell’organizzare il materiale di questo fondo non ancora riordinato. 29

183  Parte seconda.  Capitolo II. Vivere alla Normale di Gentile

parlare dei dialoghi di Platone di fronte a colui che era considerato uno dei più importanti filosofi viventi poteva essere un’esperienza terrorizzante, emozionante o persino esaltante, in caso di successo, come Carlo Salani ebbe la ventura di sperimentare nel 193030. Per altri studenti, magari provenienti da sperduti ginnasi-licei della provincia, affrontare il colloquio con nomi perlopiù solo letti sulle pagine dei manuali poteva significare invece rendersi conto dell’abisso che separava l’insegnamento scolastico dal pensiero filosofico elaborato ai massimi livelli: poteva trattarsi di un trauma sconfortante, in cui l’aspirante normalista perdeva tutto d’un tratto la propria sicumera, e con essa ogni speranza, o anche di un salutare bagno d’umiltà senza gravi conseguenze, come capitò a Cinzio Violante nel 1939, arrivato a Pisa da Andria completamente digiuno delle nozioni base sul principale dibattito filosofico italiano (non aveva mai letto Croce), ma in compenso ben preparato sui fondamentali della cultura letteraria classica e soprattutto della storia medievale, grazie anche ad un professore di storia e filosofia, neanche a dirlo, ex normalista31. A questa via crucis di prove facevano eccezione gli studenti destinatari dei posti riservati ai «dalmati», confermati dallo Statuto e assegnati non tramite concorso, ma tramite segnalazione, e proposti da una commissione apposita riunita al Liceo ‘D’Annunzio’ di Zara e presieduta dal capo del medesimo istituto. Si trattava degli unici normalisti immuni dal severo vaglio delle commissioni orali e all’inserimento nella graduatoria degli idonei che, altra novità gentiliana, era ora assai più ampia dei posti effettivamente a bando. Ai pochi fortunati cui la somma dei punti di ogni commissario, a volte per sottili calcoli di decimali, permetteva di entrare nella rosa degli ammessi, le porte della Scuola si schiudevano subito, specie se gli studenti provenivano da lontano, magari da un paesino del Sud o dalle città delle province settentrionali: poteva allora capitare che l’elenco dei privilegiati, appeso nel tardo pomeriggio dell’ultimo giorno di esame, nell’androne ancora non illuminato di Palazzo dei Cavalieri, venisse consultato alla luce dei cerini dal gruppo di coloro che non si erano rivelati troppo impazienti per attendere la comunicazione ufficiale, o che non potevano permettersi il viaggio di ritorno senza conoscere l’esito dell’esame32.

  Salani, I luoghi dell’amicizia, p. 111.  C. Violante, Una giovinezza espropriata, Pisa 1998, pp. 42-3. 32   È il vivido ricordo lasciato da Violante, Normalisti ieri e oggi, «Normale», 1, 1998, pp. 3-6. 30 31

184  Generazioni intellettuali

[…] con i nostri piccoli bagagli salimmo, quasi al buio, lo scalone che conduce al secondo piano, alla sala del Gran Priore, e che immette poi al lato nuovo del Palazzo, dov’erano allora le camere di noi matricole. La Scuola ci incuteva grande soggezione. […] Finita la cena, ci fermammo un poco nella camera di uno di noi a commentare, sommessamente, gli eventi di quella lunga giornata e a ricapitolarne le impressioni. Poi ci ritirammo nelle nostre camere, subito a studiare fino a tardi: eravamo ansiosi di avanzare i primi passi in quella misteriosa via della scienza che si era aperta. Quella austere camerette destinate al riposo e allo studio erano proprio le celle di noi monaci laici, come avremmo poi sempre sentito ricordare dal prof. Russo, ex normalista di tempi ancor più remoti33.

Attraverso questo informale ma importante rito di passaggio, lo studente veniva ammesso pienamente a quella confraternita a cui avrebbe avuto diritto di partecipare per quattro anni. 2. Vita pisana. Tra obblighi e studio I regolamenti gentiliani descrivevano un quadro rigoroso dal punto di vista disciplinare, tanto che non si fa fatica a capire l’insofferenza dimostrata da uno studente anagraficamente anziano (e già transitato dall’esperienza della vita militare) come Carlo Salani per il clima «non dirò seminaristico, ma arretrato» che la direzione, e il vicedirettore Arnaldi, prediligevano e avevano, sulla carta, imposto34. Ma era davvero così opprimente e militaresco l’ambiente della nuova Normale? La concezione che Gentile aveva di quella da lui stesso denominata «milizia della scuola» (e non a caso l’espressione era affiorata in un appunto manoscritto in cui aveva formulato il «pentalogo» ideale del futuro allievo) era certamente di una professione caratterizzata da una vocazione e da un codice etico intransigenti: il normalista si preparava a ricoprire un ruolo chiave nella costruzione di una nuova Italia, quello dell’educatore, concepito in modo radicalmente difforme, innovativo e molto più motivato di quanto fosse per la precedente classe docente italiana giudicata, perlopiù ripetitiva, noiosa e poco brillante, e a questa missione, più che mestiere, doveva essere addestrato35. Gli

  Ibid., p. 4.   Salani, I luoghi dell’amicizia, p. 117. 35  Il Pentalogo del normalista, in cui Gentile rifletteva sulla necessità di svecchiare il 33 34

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ideali pedagogici di Gentile, richiamati più volte nei suoi interventi, prevedevano effettivamente che dalla Normale uscissero «insegnanti ingenuamente votati alla scuola», come il neo-direttore aveva sottolineato nel suo discorso inaugurale, «studiosi di primo ordine, letterati, scienziati e filosofi insigni» destinati a svecchiare il sistema educativo nazionale dai pedanti, una convinzione personale sulla cui sincerità non è dato di dubitare, e che sarebbe stata formalizzata nello Statuto del 1932 inserendo un articolo che prevedeva il dovere, per gli allievi, di assumere «l’obbligo di dedicarsi all’insegnamento o alla carriera scientifica» (art. 64)36. Sarebbe interessante dibattere le basi giuridiche di un vincolo del genere: da un punto di vista documentale, non è stato finora possibile rinvenire tracce di impegni sottoscritti dagli studenti in tal senso, né, del resto, la Normale aveva probabilmente la possibilità di vincolare i propri allievi con un contratto professionale che legasse i contraenti all’insegnamento pubblico, una carta che avrebbe contraddetto del resto i presupposti normativi del sistema di reclutamento nazionale a cattedre degli insegnanti, oltre che suscitare perplessità (a dir poco) negli altri atenei del Regno37. Nessun dubbio vi è invece sul rigore con cui Gentile avrebbe voluto applicare questo vincolo, benché esso fosse di natura più morale che contrattuale: quando, nel 1933, Michele Maccarrone, punto di riferimento dei giovani normalisti cattolici38, di ritorno da Friburgo dove aveva fruito di una borsa di perfezionamento, annunciò che avrebbe lasciato la Scuola per vestire l’abito talare, Gentile reagì con una lettera seccata e «sgarbata» (come il futuro monsignore avrebbe ricordato ancora anni più tardi) in cui equiparava la vocazione religiosa del giovane ad un tradimento: […] non posso nasconderle che, se non posso dire che mi abbia sorpreso, poiché sapevo poco delle sue precedenti tendenze, mi lascia tuttavia perples-

metodo di insegnamento avviando ala docenza solo i giovani più motivati e sensibili, per evitare di formare una classe docente noiosa, ripetitiva e pigra, risale all’estate 1929. Cfr. Simoncelli, La Normale di Pisa, p. 48. 36   Statuto 32, p. 62. 37  Si ricorderà che la riforma Gentile (R.D. 6 maggio 1923, Ordinamento dell’istruzione media e dei convitti nazionali) fissava come uniche vie di accesso alle cattedre degli Istituti medi di primo e secondo grado i concorsi per titoli ed esami, speciali per le sedi di primaria importanza e generali per quelle periferiche (artt. 3-4). 38   Arnaldi, Cronaca della Normale, p. 20.

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so e poco contento della risoluzione che ella mi annunzia. Poiché essa non corrisponde alla speranza con cui io avevo voluto che ella andasse a Friburgo; e non corrisponde certo all’impegno che ella ricorderà di aver assunto un giorno verso la Scuola Normale, di dedicarsi all’insegnamento nelle Scuole dello Stato. Poiché la Scuola Normale non ha lo scopo di favorire gli studi e la formazione spirituale dei giovani che vincono il concorso e vi possono essere ammessi se non per farne buoni professori delle pubbliche scuole39.

Vocazioni spirituali a parte, comunque, l’esistenza del normalista era costellata da una selva di obblighi vincolanti, che rendevano la frequenza della Scuola un impegno assai più stringente rispetto ai suoi predecessori. Gli allievi del corso ordinario delle due Classi dovevano ora seguire le lezioni e le esercitazioni delle rispettive facoltà, secondo un piano di studi concordato e approvato dalla direzione, e i corsi interni della loro classe, suddivisi in corsi «ordinari», normalmente obbligatori per gli studenti del primo biennio, e in seminari, riservati agli allievi del terzo e quarto anno, ai perfezionandi e ad eventuali esterni giudicati meritevoli mediante una valutazione dell’idoneità scientifica (art. 78); inoltre, erano obbligatori gli insegnamenti di lingua straniera (inglese, francese, tedesco) (artt. 10-11). I seminari (art. 12) erano costituiti da conferenze ed esercitazioni «a carattere scientifico» tenute regolarmente ogni anno da professori appositamente nominati dal Consiglio direttivo, e spesati dalla Scuola. A questi insegnamenti curricolari si aggiungevano una serie di conferenze «straordinarie» tenute da specialisti di diverse materie invitati dalla direzione e, naturalmente, obbligatorie (art. 65) anche per gli alunni di perfezionamento. Questi ultimi avevano obblighi ovviamente diversi, che consistevano nella frequenza facoltativa di alcuni corsi interni o in università, obbligatoria di un seminario interno, e nella preparazione di una disser-

  La lettera, dell’11 ottobre 1933, è citata in Simoncelli, La Normale di Pisa, p. 114. M. Maccarrone (Barcellona Pozzo di Grotta 1910 - Roma 1993), ammissione Lettere 1928. Laureato in storia nel 1932, alla fine dell’anno di perfezionamento in Germania decise di farsi sacerdote. Frequentò poi la facoltà di teologia dell’Università lateranense, dove si laureò nel 1940, e dove poi insegnò teologia e soprattutto storia ecclesiastica, materia di cui diventò un riconosciuto specialista, fino ad assumere, tra le altre, la carica di presidente del Pontificio Comitato di Scienze Storiche e la direzione della Rivista di Storia della Chiesa in Italia. Cfr. per la sua biografia ASNS, AA, b. 2, s. ‘Maccarrone, Michele’, per un suo profilo scientifico cfr. P. Zerbi, ‘Ecclesia in hoc mundo posita’. Studi di storia e di storiografia medievale, Milano 1993, pp. 672-82. 39

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tazione (art. 13). Nel complesso, la didattica interna venne dunque riorganizzata e potenziata, grazie soprattutto alle risorse finanziarie aggiuntive cui Gentile poté ricorrere per vincere la resistenza di alcuni dei professori di cui desiderava il trasferimento a Pisa, e che accettarono dopo la promessa di ulteriori compensi. Grazie a queste disponibilità, già nel 1930, la Normale poté rinnovare ed ampliare notevolmente i propri insegnamenti: grazie ad una serie di chiamate incrociate tra la Scuola e le facoltà pisane, e ad alcuni incarichi straordinari, già nel 1930 la classe di Scienze avrebbe acquistato Leonida Tonelli, quella di Lettere Giorgio Pasquali, che avrebbe tenuto in Normale un seminario famoso destinato a restare, fino alla sua morte, uno dei laboratori di eccellenza della filologia italiana, e poi ancora Gaetano Chiavacci, giunto nel 1933 come professore interno di Pedagogia, Luigi Russo, che dal 1934 vi avrebbe tenuto il seminario di Letteratura italiana, Guido Calogero, che terrà il corso di Storia della Filosofia dal 1935, e Cantimori stesso, interno per storia moderna, dal 194040. Nel 1930, per citare un esempio antecedente la formalizzazione statutaria del nuovo assetto, alla Scuola si tenevano i corsi interni (seminariali) di filologia classica, papirologia, filologia moderna e matematica, di lingua inglese, francese e tedesca, e inoltre si erano tenute conferenze, tra gli altri, di Manara Valgimigli, Aldo Ferrarino, del generale Giuseppe Boriani, dell’onorevole Carlo Delcroix, del generale Angelo Gatti e di Giacomo Devoto, una pattuglia consistente di oratori, rimborsati delle spese di viaggio e compensati in modo non eccessivamente ricco (450 lire a testa) ma, nel complesso, oneroso per un istituto di non grandi dimensioni41. Gentile, cui i soldi non mancavano in questa fase di avvio della sua rifondazione, dava vita con ciò ad un’offerta didattica senza precedenti, richiamando la ricchezza della Normale pre-1923, allorché la soppressione delle conferenze di magistero aveva drasticamente impoverito la qualità e la quantità degli insegnamenti interni. A differenza di quell’epoca, però, non mancava nella nuova

  Per la rivoluzione della didattica in Normale grazie ai mezzi e alle pressioni di Gentile, cfr. Simoncelli, Cantimori, Gentile e la Normale di Pisa, pp. 45-60, per le vicende relative alla chiamata pisana di L. Russo, e pp. 115-9 per quella di Cantimori. Per l’insegnamento di G. Pasquali, cfr. il commosso ricordo di T. Bolelli, Giorgio Pasquali (1885-1952), in Annuario ’41-’42 e ’63-’64, pp. 68-71; per la stagione pisana di Calogero cfr. in prima istanza S. Zappoli, L’insegnamento pisano di Guido Calogero e la Scuola dell’uomo, in Henry, Menozzi, Pezzino, Le vie della libertà, pp. 123-33. 41   Verbali del consiglio ’30-’39, 25 febbraio 1933. 40

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programmazione un compiaciuto ammiccamento al potere politico, con la chiamata nel prestigioso palazzo dei Cavalieri di nomi molto noti delle Forze Armate (Boriani e Gatti) e famosi eroi della Grande Guerra (Delcroix) a fianco di alcuni dei maggiori esponenti dell’aristocrazia accademica (Pavolini sr., Devoto), ancorché, specialmente i militari, fossero destinati a ben magra figura davanti al pubblico certamente disciplinato e silenzioso, ma esigente e critico, degli allievi42. Che fosse questa la motivazione, o che i politicamente illustri ma scientificamente imbarazzanti conferenzieri avessero assolto il compito di dare lustro ideologico alla nuova Normale (magari allontanando qualche sospetto di troppo a proposito della fronda antifascista degli allievi), certo è che la teoria degli oratori non accademici si interruppe bruscamente, per non essere più ripresa. I resoconti dell’attività scientifica della Scuola, riportati nei verbali del Consiglio Direttivo e nelle sintesi degli Annuari, testimoniano della ricchezza e dell’interesse accademico delle conferenze, tenute da specialisti italiani e stranieri su un ventaglio di temi che spaziavano dalla prolusione di Giuseppe Ungaretti su La fantasia di Petrarca alla lezione per la classe di Scienze tenuta da George Birkhoff di Cambridge sul problema ristretto dei tre corpi, dalle finanze delle democrazie antiche e moderne (Andrea Andreades, dell’Accademia di Atene, 12 aprile 1935) ai nuovi indirizzi di

 Angelo Gatti (1875-1948) e Giuseppe Boriani (1868-1943) erano entrambi ufficiali di carriera che avevano militato ad alti livelli durante la prima guerra mondiale; il primo, come ufficiale superiore dello Stato Maggiore di Cadorna, il secondo come generale di divisione e poi comandante di Corpo d’Armata, incarico con il quale ebbe ai suoi ordini tra l’altro le truppe ceche in Italia. Ambedue si erano riconvertiti in conferenzieri esperti dopo il conflitto, dispiegando, soprattutto il primo, una verve retorica nazionalista e (ovviamente) filofascista proporzionale solamente alla propria conclamata ignoranza in quasi tutti i campi del sapere (i suoi articoli su Il Corriere della Sera sono ancora oggi una divertente lettura per comprendere bene la scarsa, per non dire nulla, preparazione dell’ufficiale italiano dell’epoca). Carlo Delcroix (18961977), ufficiale subalterno dei bersaglieri durante la prima guerra mondiale, perdette la vista e l’uso delle mani per un incidente; fondatore dell’Associazione invalidi e mutilati, era considerato dal regime uno dei simboli viventi dell’interventismo e dell’entusiasmo patriottico. Al contrario, Paolo Emilio Pavolini (padre di Alessandro, esponente di spicco del fascismo fiorentino e poi della RSI) era uno dei più importanti filologi ed esperti di lingue orientali dell’università italiana (insegnava sanscrito a Firenze), mentre Giacomo Devoto era già all’epoca, seppure molto giovane (era nato nel 1897) uno dei principali glottologi del paese. 42

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ricerca nella teoria del calcolo (Mauro Picone, indubbiamente uno dei più prestigiosi matematici italiani dell’epoca, ordinario a Roma, 10-11 maggio 1935), alle lingue nazionali della penisola iberica (Ernst Gamillscheg dell’università di Berlino, 5 maggio 1937) al ciclo di quattro lezioni sulla poesia popolaresca nel Quattrocento tenuto da Fausto Torrefranca nel maggio 193943. In tutti i casi, si trattava di occasioni uniche per gli allievi per farsi un’idea delle ricerche più avanzate, o semplicemente dei temi di fondo del dibattito culturale internazionale, un contributo prestigioso e originale ricordato ancora a distanza di anni come una apprezzata particolarità normalistica44. Nell’anno accademico 1934-35, la didattica interna era ordinata su due corsi interni cattedratici (pedagogia insegnata da Chiavacci, filologia Classica da Pasquali) e cinque seminari (grammatica latina tenuto da Mancini, filologia classica dallo stesso Pasquali, filologia romana da Casella, letteratura italiana da Russo e papirologia da Medea Norsa, incaricata dal 1933 e unica donna, insieme alla lettrice di inglese Beatrice Giglioli, ad insegnare alla Scuola) per la classe di Lettere, un corso ordinario (matematiche complementari, tenuto da Giovanni Ricci) e i seminari di Leonida Tonelli su Teoria delle funzioni di variabili reali e Esercitazioni di analisi per quella di Scienze45. L’anno successivo, infine, una più generale riorganizzazione dei piani di studio delle facoltà universitarie (Regio Decreto 28 novembre 1935 n. 2044), spinse la Normale a rivedere ulteriormente gli obblighi dei propri alunni in relazione agli impegni universitari: per mantenere il diritto al posto interno, i letterati avrebbero così dovuto sostenere quattro esami annuali entro luglio il I anno, quattro entro luglio il II anno (oppure tre,

  Conferenze tenute alla Scuola durante l’anno accademico (1933/34-1940/41), in Annuario ’34-’35, pp. 80-1, Annuario ’36-’37 e ’37-’38, pp. 128-129, Annuario ’39-’40 e ’40-’41, pp. 88-9. 44   Manacorda, Testimonianza, in Frassati (ed.), Il contributo dell’Università di Pisa, p. 144. 45   Annuario ’34-’35, p. 209, tavola sinottica degli insegnamenti impartiti. M. Norsa (Trieste 1877 - Firenze 1952), dopo aver studiato a Vienna e all’Istituto di Studi Superiori di Firenze, città dove finì per stabilirsi, ottenne la libera docenza e cominciò ad insegnare dal 1925 all’Università di Firenze e dal 1933 alla Scuola Normale. G. Ricci (Firenze 1904- Milano 1973), normalista dell’ammissione di Scienze del 1921, fu chiamato giovanissimo (1928) a tenere un corso di matematica complementare come professore interno di ruolo. Insegnò in Normale fino al 1936, anno in cui fu chiamato all’Università di Milano. 43

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se biennali), cinque entro il luglio del III anno (più il temibile esame biennale di latino scritto) di cui uno di lingua straniera, mentre gli scienziati avrebbero dovuto semplicemente adeguare il proprio piano di studi a quello previsto dalla facoltà di Scienze per ottenere la dispensa delle tasse46. Si trattava di un impegno decisamente notevole, a fronte anche di una partecipazione ai corsi e ai seminari della Scuola in cui veniva richiesta non solo una frequenza nominale, ma una attività costante e critica, favorita da una discussione relativamente più libera rispetto ai corsi tradizionali ex cathedra. Le «esercitazioni» potevano essere così luoghi familiari, dove «ognuno teneva a far bella figura ma la bella figura non si poteva fare solo sgobbando. Era una prova decisiva di qualità reali, non appiccicate, in cui cultura sensibilità, personalità, prontezza d’ingegno, capacità critica dovevano confluire», come il seminario di filologia di Pasquali ricordato da Bolelli47, o laboratori in cui si sfogavano i dibattiti più accesi sui temi all’ordine del giorno nel campo culturale italiano, come ricordava, tra l’ironico e il malinconico, Claudio Varese nel 1931, evocando al lontano Cantimori le discussioni accesesi nelle aule normalistiche sulla Filosofia dell’arte di «Babbo Regio Commissario»48. Infine, le lezioni seminariali apparivano come momenti di notevole libertà nel rapporto tra allievi e professori: riservati agli studenti più anziani e ai perfezionandi, e spesso arricchiti dalla presenza dei colleghi, come le esercitazioni di filologia italiana tenute da Alfredo Schiaffini tra 1937 e 1939, questi incontri potevano assumere un tono persino troppo cameratesco per un osservatore esterno, in cui l’informalità e la colloquialità favorivano uno scambio di opinioni altrimenti impensabile49. In ogni caso, erano momenti di notevole impegno intellettuale: il livello di approfondimento filologico, oltre che di inquadramento critico nel contesto della tradizione storico-filosofica, richiesto dalle lezioni di Chiavacci sui testi platonici (ad esempio nell’a.a. 1935-36) o spinoziani (a.a. 1936-37) era notoriamente altissimo50. Dal febbraio 1935, Calogero tenne un

  Verbali del consiglio ’30-’39, seduta del 31 gennaio 1936.   Bolelli, Giorgio Pasquali, p. 70. Sull’ambiente confidenziale, ma anche sull’altissimo livello scientifico, del seminario di Pasquali, cfr. la testimonianza di Gass, Diario pisano, p. 74. 48  ASNS, Fondo Cantimori, da C. Varese a D. Cantimori, 10 febbraio 1931. 49   Gass, Diario pisano, pp. 106-7. 50   Programmi dei corsi anno accademico 1935-36, e Anno accademico 1936-37, in 46 47

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affollato seminario in cui i normalisti potevano confrontarsi per la prima volta con elementi di filosofia del linguaggio e con i testi di Cassirer. Gli allievi svolgevano le loro esercitazioni sotto forma di relazioni personali su temi specifici, attorno alle quali si accendevano dibattiti (anche vivaci) dei quali resta traccia nei registri didattici, e che, negli anni che si avvicinavano al conflitto, potevano anche prendere la forma di dibattiti su figure scomode nel campo culturale dell’Italia fascista, ma consuete nella Normale gentiliana: tali, ad esempio, furono le sedute dedicate ai problemi di estetica e gnoseologica crociane, e, ancor di più, nell’autunno 1938, un vivace ciclo di lezioni su «la storia come pensiero e azione. Croce ed il significato storico della necessità», svolto parallelamente al corso di pedagogia, la Scuola dell’uomo, tenuto alla facoltà di Lettere51. Come le ore di Calogero, anche quelle di Cantimori sarebbero presto divenute, e sarebbero state lungamente ricordate, come occasioni di un confronto molto più libero e anticonvenzionale del solito, con materie tradizionalmente poco presenti alla Scuola. Rientrato a Pisa alla fine del 1940 come primo professore interno di Storia, una posizione creata appositamente per lui e che aveva richiesto persino una modifica dello Statuto, con la sottrazione di uno dei posti di ruolo a Scienze, Cantimori aveva inizialmente tenuto un seminario di esercitazioni sul Cinquecento italiano e uno, breve, di metodologia storiografica sull’opera di Johann Droysen52. Nell’anno accademico 1941-42, tuttavia, la scelta del seminario si sarebbe rivelata nettamente più originale, persino dirompente tenuto conto dei tempi: «il socialismo utopistico da Babeuf al 1848». Si trattava di un tema che era certamente coerente al nuovo indirizzo delle esigenze e della sensibilità ideologica dello storico (l’interesse per il socialismo umanitarista di Proudhon e per il primo Marx ante 1848 era, del resto, vivo già da alcuni anni)53, e che rappresentava solo la prima tappa di una ricerca che avrebbe tradotto poi nei seminari tenuti alla Scuola tra la fine del conflitto mondiale e l’immediato dopoguerra. Tuttavia, non è difficile ritrovare anche in quelle lezioni un percorso interpreta-

Annuario ’35-’36 e ’36-’37, pp. 75-7. 51  ASNS, Classe di Lettere, Registri delle lezioni, Guido Calogero, e Zappoli, L’insegnamento pisano di G. Calogero, pp. 128-9. 52   Sulla chiamata di Cantimori a Pisa e il suo non facile rientro (in conflitto con il vicedirettore Arangio Ruiz) cfr. Simoncelli, Cantimori, Gentile e la Normale di Pisa, pp. 109-22. 53   Pertici, Mazzinianesimo, fascismo, comunismo, pp. 99 e sgg.

192  Generazioni intellettuali

tivo che poteva suggerire agli allievi una visione estremamente critica (per usare un eufemismo) nei confronti dell’esistente situazione politica54. Non è necessario pensare che questi corsi diventassero laboratori di un’elaborazione ideologica antifascista per i giovani allievi, una tappa del «lungo viaggio» attraverso guerra e dittatura che sarebbe maturato più lentamente di quanto si potrebbe superficialmente pensare; al contrario, le più recenti riflessioni sull’evoluzione del pensiero cantimoriano e sul suo avvicinamento a posizioni «cospirative» prossime al PCI, pure assodato, spingono a pensare ad un ruolo politicamente neutro del giovane storico all’interno della Normale55. Come ha ricordato Alessandro Natta in una sua testimonianza, del resto, il carattere di Cantimori era improntato alla prudenza e al distacco da possibili legami personali compromettenti con gli allievi, un contegno apparentemente impolitico che non divideva con Calogero, giudicato (anche dalla direzione) provocatoriamente pericoloso: Quando alla Scuola Normale è tornato Cantimori, la sua è stata una presenza di valore straordinario, per il campo di interessi e di ricerche in cui egli era ormai un maestro affermato. È il momento in cui passa, nella sua attività di storico, dagli eretici del Cinquecento al filone dell’illuminismo, del giacobinismo, che deve essere inteso come uno dei terreni della rivoluzione culturale contro il fascismo. I richiami alla Rivoluzione francese e al Risorgimento azionista sono degli elementi importanti per capire le basi culturali dell’antifascismo di tipo liberalsocialista. Cantimori, un grande maestro, un grande studioso, era il più legato ai comunisti, ma aveva una cautela estrema. Non era uomo di impegno attivo, era un grande studioso e aveva i modi tipici dello studioso. Calogero, invece, è stato il più vicino e il più stimolante per noi, per la sua professione esplicita di antifascismo. Io sono stato legatissimo a Cantimori, sono stato vicino a lui per un anno, ma non sono mai riuscito a farmi dire che non solo era antifascista ma anche comunista. Invece Calogero è sceso in campo chiaramente e quindi ci ha aiutato di più, per stimoli culturali. […] Calogero elabora i programmi, i progetti, le idee, i manifesti del

  Sulla maturazione in Cantimori degli interessi per il socialismo utopista e, ancor prima, per Gracco Babeuf, in una parabola considerata coerente agli originari studi sugli eretici cinquecenteschi, cfr. Sasso, Delio Cantimori, specie pp. 237 e sgg., laddove tuttavia si sottolinea come questo nuovo filone di studi non possa non essere messo in relazione «al profilarsi, dinanzi ai suoi occhi e dentro di lui, del fallimento del fascismo, e della rivoluzione, anche sociale, che avrebbe dovuto esserne attuata». 55   Ibid., p. 94. 54

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’40 e del ’41, ma viene anche a fare le scritte sui muri con noi, nel ’40, al momento della guerra. Questo per sottolineare la differenza fra Russo (al quale non avremmo mai chiesto di fare una cosa del genere) e Calogero. […] Ma anche Calogero ha avuto delle difficoltà. Per esempio, Gentile – pur nella sua liberalità – non gli ha mai permesso di pernottare alla Scuola Normale, mentre Pasquali, che veniva da Firenze, lo faceva sempre. Ma Pasquali non era pericoloso […] mentre Calogero era un agitatore. Cioè, era sceso nel campo della politica vera e propria. Infatti nel ’42 è stato arrestato, mentre nessuno di questi altri grandi intellettuali ha avuto questa sorte56.

Cantimori, in effetti, non era parte integrante del gruppo liberalsocialista, né lo sarebbe diventato prima del suo trasferimento a Roma, e prima dunque che nell’ambiente maturasse appieno, ormai avvicinandosi la fine della prima parte della guerra e il collasso del regime, un movimento antifascista organizzato, nato dalle ceneri del primo sparuto «gruppo di studio» messo in piedi, consule da lontano Capitini e con la partecipazione dello stesso Calogero, all’interno della generazione di allievi del 1936-4057. Il contegno estremamente prudente e persino distaccato di Cantimori, ricordato anche da altri, si spingeva fino alla freddezza, scoraggiando i troppo entusiasti giovani che tentavano di trascinarlo in conversazioni compromettenti su quegli stessi soggetti (tra cui la tradizione premarxistica) che affioravano invece come elementi delle sue lezioni. Fuori dall’aula, e lontano dagli argomenti delle sue ricerche, intimorito forse dal clima di opprimente continua sorveglianza e di delazione diffusa che aleggiava nell’Italia

 A. Natta, Da Imperia alla Normale di Pisa un percorso antifascista, «Storia e Memoria», 4, 1995, pp. 113-37. Alessandro Natta (Imperia 1918-2001), ammissione Lettere 1936. Laureatosi con una tesi su Cuoco nel 1940, e più tardi ammesso al perfezionamento, fu per breve tempo assistente volontario di Luigi Russo, che gli affidò uno dei corsi alla facoltà di Pisa. Richiamato alle armi e inviato nella zona d’occupazione dell’Egeo, fu preso prigioniero dai tedeschi a Rodi dopo l’8 settembre, e inviato in un campo di prigionia in Germania. Percorse poi una lunga carriera politica, come deputato del PCI e suo segretario. 57   A. Russi, Testimonianza, in Frassati (ed.), Il contributo dell’Università di Pisa, p. 197. Antonio Russi (Napoli 1916 - Pisa 2005), ammissione di Lettere al secondo anno nel 1936, dopo la guerra fu a lungo negli Stati Uniti (a Princeton, in particolare, nel biennio 1949-51, dove strinse amicizia con Einstein). Rientrato in Italia, insegnò per molti anni estetica alla facoltà di Lettere di Pisa e Letteratura moderne e contemporanee in Normale. 56

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dell’epoca, il giovane professore era distaccato, persino brusco. Anche nei rari casi in cui concesse una confidenza maggiore, e in cui si spese personalmente nel legame con uno degli allievi, il rigore e la quantità di lavoro richiesti da Cantimori restavano sempre altissimi, e il livello delle ricerche e delle dissertazioni presentate, anche in piena guerra e avvicinandosi il 1943, molto elevato: L’esperienza di quei seminari per tutti coloro che vi partecipavano fu insieme momento di maturazione culturale e di maturazione politica […] rappresentavano […] il richiamo costante a rifuggire dalla discettazione astratta (e chi ha conosciuto Cantimori ricorda bene quale fosse la sua polemica, la sua beffa di fronte alle discussioni puramente teoriche e di metodo), il richiamo a un impegno sistematico nella ricerca filologica, anche erudita58.

Nonostante la diversità del loro atteggiamento pubblico di fronte al regime, che avrebbe portato Cantimori ad attraversare indenne la guerra, evitando di esporsi, mentre avrebbe condotto Calogero in carcere (insieme a Capitini e Ragghianti) a seguito degli arresti del 1942 volti a smantellare la rete liberalsocialista, la presenza in Normale dei due era accomunata proprio dall’intensa attività didattica e dal lavoro svolto all’interno di quei corsi comunemente ricordati, dagli allievi della generazione 1936-40 e della guerra, come l’esperienza più esaltante, ma anche più impegnativa, di un ambiente di studio e ricerca severo «soprattutto per la rigidità […] con cui ci si chiedeva di adempiere ai nostri obblighi universitari e soprattutto all’iter selettivo degli esami e dei colloqui interni, che erano molto ben calibrati al fine di eliminare chi non si rendesse di questo privilegio, fino in fondo, occasionalmente, degno»59. Anni più tardi, nella sua lunga e fortuna-

  F. Ferri, Testimonianza, in Frassati (ed.), Il contributo dell’Università di Pisa, pp. 224-5. Franco Ferri (Roma 1922 - Stromboli 2007), ammissione di Lettere del 1941, fece parte della generazione dei normalisti di guerra che più degli altri furono travolti dalle contingenze belliche, dal richiamo alle armi e dalla chiusura della Scuola. Partigiano attivo nella resistenza romana, arrestato e torturato, dopo la liberazione di Roma si arruolò con l’esercito regolare combattendo nel Gruppo ‘Cremona’. Dopo la guerra, fu per un certo tempo impiegato presso l’ambasciata di Polonia, poi membro del comitato centrale del PCI, direttore dell’Istituto Gramsci e docente all’Università di Messina. 59   M. Spinella, Testimonianza, in Frassati (ed.), Il contributo dell’Università di Pisa, p. 120. Mario Spinella (Varese 1918 - Milano 1994), ammissione di Lettere del 58

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ta stagione storiografica del secondo dopoguerra, quando l’autorità e la fama di Cantimori erano già incontestabili, il rigore disciplinare e disciplinante del suo seminario normalistico era ancora immutato: tenuto nelle prime ore della mattina, costringeva i normalisti, ordinari o perfezionandi, a sforzi continui per riuscire a seguire l’eloquio del professore, contorto e denso di riferimenti spesso sconosciuti, e a lunghi, imbarazzati silenzi di fronte a questioni a cui nessuno, salvo Cantimori stesso, sapeva dare risposta: Non era sempre facile seguire quelle lezioni: tanto più che esse abbordavano, di solito, temi poco consueti, momenti storici e filoni di pensiero che i normalisti incontravano spesso qui per la prima volta, e che apparivano generalmente distanti dai percorsi di conoscenza seguiti finora: personaggi, istituzioni e tradizioni intellettuali a Monaco di Baviera, quella società politica e il cattolicesimo bavarese dell’Ottocento! In più, non erano neanche comode quelle riunioni, perché Cantimori fissava di regola le sue lezioni alle 8 di mattina e molti normalisti, a quell’ora, erano ancora assonnati o lenti di riflessi. […] Cantimori parlava lentamente, si fermava spesso e faceva delle domande; ma raramente qualcuno rispondeva; di solito, si vedevano i normalisti a testa bassa, in lunghi silenzi, sui quali incombeva la domanda di Cantimori, fino a che era lui stesso a dare la risposta […]60.

Benché il clima degli altri corsi potesse essere differente (quello dell’ «esplosivo» Russo è stato sovente ricordato come più vivace e infor-

1936. Laureato nell’ottobre 1940 con una tesi sul Guicciardini, poi per alcuni mesi ad Heidelberg con una borsa di studio, viene arruolato nel 1941; nel 1942 è inviato sul fronte russo in qualità di sergente di complemento; scampato al disastro dell’ARMIR entra nel 1943 nella Resistenza. Dopo la guerra è dirigente alla Scuola Centrale del PCI di Bologna, attività politica a cui alterna una fortunata carriera di scrittore e critico (il romanzo Lettera da Kupjansk, ispirato alla memoria della campagna di Russia, vinse il premio Viareggio nel 1987). 60   M. Mirri, A Pisa, al seminario di Cantimori, «Normale», 1-2, 2004, pp. 8-12. Mario Mirri (Cortona 1925), ammissione al perfezionamento di Lettere 1948. Giovanissimo partigiano (membro del gruppo dei «piccoli maestri» della resistenza vicentina), dopo la laurea in filosofia all’Università di Padova arrivò a Pisa per un anno di perfezionamento in storia. Ha insegnato poi storia moderna e storia della storiografia presso la facoltà di Lettere di Pisa, dove attualmente è emerito. I ricordi accennati nell’articolo citato si riferiscono al seminario dell’anno accademico 194849 su La cultura romantica di fronte agli studi di storia ecclesiastica.

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male), non c’è dubbio che il carico di lavoro richiesto agli allievi fosse sempre notevole, anche solo per preparare la relazione seminariale che, secondo la consuetudine, avrebbero poi esposto al professore e ai colleghi. La forma seminariale, poi, portava con sé anche l’ulteriore problema di vincere la naturale ritrosia dei più giovani a tenere lezione in prima persona, con il costante timore di non essersi preparati a sufficienza o di dire qualche «fesseria (in Normale questi sbagli ti si appiccicavano addosso e te li rinfacciavano poi continuamente) […]»; una palestra di formazione eccezionale, insomma, sconosciuta ad altre realtà accademiche61. Alla somma dei corsi interni, dei seminari specialistici, dei lettorati e, ovviamente, degli esami universitari, che era obbligatorio superare al primo appello della sessione estiva prendendo almeno 24/30 (benché «per gravi e giustificati motivi» si potesse ottenere, previa delibera del Consiglio direttivo, lo spostamento di uno o più esami alla sessione autunnale), si aggiungeva infine la prova, esclusivamente normalistica, del «colloquio». Il colloquio, o tesi interna, era stato da poco formalizzato, dopo che, da alcuni anni, si era intensificata la consuetudine di far svolgere agli allievi dissertazioni da discutere durante i corsi di esercitazione. Nel 1929, il Consiglio Direttivo aveva stabilito, al fine di «fomentare e controllare l’attività di studio degli alunni» di sottoporli «durante l’anno accademico e normalmente entro il mese di aprile» ad una prova orale, riservata agli allievi dei primi tre anni: «la prova consisterà in un colloquio che l’alunno dovrà sostenere con una commissione composta dai professori della facoltà e dal professore interno; in questo colloquio l’alunno dovrà principalmente rendere conto degli studi personali compiuti ed inoltre dimostrare la buona conoscenza dei programmi svolti fino a quel giorno di alcuni corsi seguiti negli studi universitari […]»62. Nasceva così un istituto che avrebbe caratterizzato da allora in poi la vita scientifica dei normalisti, diventando in breve il principale impegno dell’anno accademico, e scandendone anzi la durata in «prima» del colloquio (il tempo da dedicare alle ricerche apposite e ai corsi interni) e «dopo» il colloquio, da marzo/aprile in avanti, quando ci si poteva dedicare alla rapida e intensa preparazione degli esami universitari, secondo un ciclo dello studio rimasto pressoché inalterato fino ai nostri giorni63. La preparazione della tesi interna assorbiva in effetti

  Ibid., p. 10.   Verbali del Consiglio, seduta del 16 gennaio 1929, pp. 186-7. 63   L’istituto del colloquio interno venne ripreso integralmente dal nuovo Statuto: 61 62

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tutto il tempo lasciato libero dalla frequenza dei corsi interni, dei seminari e dei corsi universitari (in epoca di frequenza obbligatoria), un tempo estremamente ridotto, a dar retta a tutte le fonti disponibili, che costringeva già all’epoca i normalisti a seguire un ritmo di lavoro massacrante, insostenibile per gli esterni, trasformandosi in studiosi notturni, secondo un altro costume tradizionale: La prima colazione del mattino era fissata alle sette e mezza; ma già alle otto iniziavano le lezioni interne di Lingue straniere, e questo era precisamente l’orario scelto da Paul Kristeller per il tedesco. Dalle nove all’una passavamo in Sapienza per i numerosi corsi biennali previsti in quella sede; all’una tornavamo alla Scuola per la seconda colazione, ma già alle due riprendevano le lezioni in Sapienza fino alle sei del pomeriggio, mentre dalle sei alle otto di sera si svolgevano i seminari e le lezioni interne della Normale […]. Alle otto si cenava e alle otto e mezza si usciva: a passeggio o al caffè o a cinema, teatri, concerti. Si rientrava alle dieci e mezza, quando il portone veniva chiuso. Lo studio vero e proprio, per la preparazione di tesi, colloqui, esami, si svolgeva quindi dalle dieci di sera alle prime ore dopo la mezzanotte64. Alle otto c’erano lezioni, o di lingue o dei seminari. Per esempio, i seminari di Pasquali, di latino e di greco, il martedì e il mercoledì: il martedì pomeriggio, alle cinque o alle sei, si faceva quello di latino, quello di greco si faceva alle otto di mattina del mercoledì. […] Poi si andava all’università per frequentare i corsi normali dell’anno. […] Si passava praticamente all’università l’intera mattinata, si tornava per l’ora di colazione. Il pomeriggio c’erano alcune lezioni all’università, poi magari alle cinque altri seminari alla Normale fino alle sette. Alle sette si usciva, magari con i professori a fare due passi […]65.

Non è naturalmente necessario pensare che tutti i normalisti rispettassero appieno gli orari serrati della giornata di studio descritta da Russi. Benché le scadenze dei pasti fossero rigorosamente osservate per volere espresso della direzione (e soprattutto durante la vicedirezione del pedante Vladimiro Arangio Ruiz), i ricordi di quegli anni abbondano non solo di accenni ai piccoli vantaggi goduti dagli studenti anziani e dai laureandi (i «notturni»), che recuperavano le ore

«Oltre gli esami di concorso […] presso la Scuola si tengono i seguenti esami: a) esami annuali di profitto; b) colloqui c) esami di diploma» (art. 67). 64   Russi, Testimonianza, p. 239. 65   C.A. Ciampi, Da Livorno al Quirinale. Storia di un italiano, Bologna 2010, p. 31.

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di fatica poltrendo la mattina (e facendosi portare la colazione in camera dalle matricole «diurne»), ma anche di furfanteschi stratagemmi degli allievi più smaliziati per evitare il più possibile le incombenze onerose delle frequenze giornaliere66. In ogni caso, ci sono pochi dubbi su almeno due fatti: il primo, che il normalista che avesse seguito pedissequamente la tabella di marcia delle lezioni interne avrebbe avuto mediamente almeno sei ore settimanali di frequenza obbligatoria più i corsi di lingua oltre ai corsi esterni in facoltà, con ciò eliminando la possibilità di studiare di giorno, se non nei giorni festivi (tab. 12); il secondo, che se gli obblighi mattutini erano, appena possibile, disattesi dagli allievi più pigri, le notti erano universalmente dedicate ad estenuanti maratone di studio, tanto che studiare «da mezzanotte in poi» era la norma generale, e che il pigiama era considerato la tenuta di studio più tipica del normalista67. Tabella 12. Un esempio di orario normalistico: l’organizzazione dell’anno accademico 1936-37. Insegnamenti lunedì martedì mercoledì giovedì venerdì sabato LETTERE CORSO ORDINARIO Pedagogia 18-19 18-19 18-19 (G. Chiavacci) Filologia Classica 18-19 8-9 (G. Pasquali) Francese I 8-9 8-9 (P. Mascarel) Francese II

19-20

Tedesco I (O. Kristeller) Tedesco II (lettere)

19-20 8-9

8-9

8-9

8-9

8-9

Tedesco II (scienze) Inglese I (B. Giglioli)

17-18

17-18

17-18

Inglese II

18-19

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18-19

LETTERE SEMINARI Grammatica greca e latina (A. Mancini) Filologia Classica (G. Pasquali) Storia della critica (L. Russo)

  Violante, Normalisti ieri e oggi, p. 4.   Gass, Diario pisano, pp. 179-81.

66 67

19-20

19-20

15-16 17-18

15-16 9-10 11-12

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Filosofia (G. Calogero)

14-15

Papirologia (M. Norsa) SCIENZE CORSO ORDINARIO Matematiche complementari I 8-9 (S. Cinquini) Matematiche complementari II SCIENZE SEMINARI Teoria delle funzioni (L. Tonelli) Analisi e geometria 18-19 (L. Tonelli)

16-18

11-12 11-12

8-9

17-18 18-19

Fonte: Anno accademico 1936-37, Orario delle lezioni, Annuario ’37-’38 e ’38-’39, pp. 62-3.

«Essere normalista era un privilegio», dunque, come avrebbe ricordato Mario Spinella68, ma un privilegio che andava scontato anche allora con un impegno, in termini di tempo e di qualità dello studio, incomparabilmente più alto dei propri coetanei: la ricompensa era, oltre al mantenimento del posto alla Scuola, la possibilità di accedere, ancora studenti, alla collaborazione stretta con studiosi del calibro di Cantimori, o alla pubblicazione del proprio lavoro, caso tutt’altro che infrequente per i migliori colloqui interni, destinati alla stampa sui rilanciati Annali della Scuola. Il che non implica, ovviamente, che ogni obbligo venisse assolto con lo stesso entusiasmo. Immersi nella marea delle frequenze, dello studio per gli esami, della partecipazione ai seminari e dei colloqui, i normalisti riservavano tradizionalmente poco tempo e poco entusiasmo ai lettorati di lingua, il cui superamento era tuttavia vincolante al passaggio di anno. Dopo una serie di infortuni più o meno rientrati per la benevolenza del Consiglio Direttivo, l’irrigidimento statutario del 1938 (quando, nel contesto di un allineamento della Scuola ai piani di studio della facoltà, fu limitato l’informale diritto a rinviare uno o due esami alla sessione autunnale e fu imposto agli alunni il superamento di due esami di lingua interni) comportò la decadenza del posto di un gruppo di studenti, tra cui Pietro Omodeo, figlio di Adolfo, il quale intervenne personalmente presso Russo perché si facesse mediatore per un riesame della situazione. L’espulsione del 1939 fu clamorosa. Non tanto perché la decadenza fosse un evento straordinario nella Normale gentiliana, tutt’altro. Gli

  Spinella, Testimonianza, p. 119.

68

200  Generazioni intellettuali

infortuni agli esami e le reprimende disciplinari che ogni tanto colpivano gli studenti più irrequieti, provocavano ogni anno un’emorragia di posti, che venivano compensati con l’ammissione di nuovi allievi (o anche degli espulsi che ritentavano il concorso): nel solo 1930, ad esempio, ben 13 interni avevano perduto il posto, tra cui Ragghianti espulso per indisciplina e, generalmente, in media due o tre studenti venivano bocciati (o prendevano meno di 24/30) ad un esame universitario o interno. Tuttavia, sembrava inaudito che allievi con ottime medie potessero venire cacciati per un’insufficienza al lettorato di lingua, considerato una sorta di formalità, un semi-esame di poca importanza: «questi insegnamenti di lingue» come avrebbe scritto Luigi Russo, in uno spaccato convincente della gerarchia attribuita alle varie prove del curriculum normalistico: […] non sono stati mai eccessivamente presi sul serio, e per il contatto troppo familiare dei lettori con gli alunni nella vita della Scuola, e perché si è determinato, senza che alcuno lo dicesse, questa communis opinio che gli esami interni avevano più un carattere esplorativo che propriamente discriminativo e decisivo. Si dà agli esami interni lo stesso valore dei colloqui: ora i colloqui nella maggioranza riescono efficaci, per l’impegno che ci mettono i singoli insegnanti e per gli interessi che essi suscitano negli scolari. Ma gli esami di lingua, come le lezioni, lasciano un po’ sorda la scolaresca: i lettori o non hanno sufficiente autorità morale o invero il lo sapere linguistico è troppo grammaticale e disperso perché prenda veramente i giovani. Come risolveva il problema il Chiavacci? Annegandolo in una generale indulgenza, ed evitando che i nodi venissero al pettine; non si negava quasi a nessuno il 24 e si perpetuava il non fare, e il prendere scarsamente sul serio tali esami69.

Gli episodi di indisciplina e di contestazione del vicedirettore Arangio-Ruiz portarono ad un altro momento di calor bianco nello scontro, costantemente latente, tra volere disciplinante della direzione e comunità studentesca (Gentile minacciò di far sgomberare la Normale dalla polizia), ma furono anche l’ennesimo episodio in cui le gerarchie normalistiche si adoperarono per cercare di mitigare i rigori disciplinari del loro stesso regolamento, appellandosi al ministero (inutilmente: l’esecuzione inflessibile degli oneri didattici venne confermata, gli

  Luigi Russo a Giovanni Gentile, 14 giugno 1939, in R. Pertici, A. Resta (edd.), Carteggi di Luigi Russo, 1: Luigi Russo - Giovanni Gentile 1913-1943, Pisa 1997, pp. 288-9. 69

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espulsi rimasero fuori dalla Scuola, e solo pochi poterono ritentare il concorso)70. La Normale, dunque, minacciava severità e ammoniva, salvo poi comportarsi come una matrigna indulgente? Per quello che riguardava i doveri dello studio, si è detto, non tanto. Sotto il profilo delle regole relative alla vita comunitaria, invece, accusate a più riprese dai giovani allievi di voler trasformare la permanenza nel convitto in una sorta di residenza monacale, la situazione degli anni Trenta si caratterizzò per i suoi ricorrenti momenti conflittuali, per le contestazioni e per la tendenza complessiva all’evasione e all’elusione dei regolamenti. La vita comunitaria dei normalisti di Gentile sembra insomma essere stata molto più goliardica e indisciplinata di quanto il direttore avrebbe voluto. 3. «E la Normale xè la mia patria…». Lo spirito normalistico tra scambio intellettuale, indisciplina e ironia «Penso alle sere di Pisa, quando s’andava fuori, dopo una giornata operosa, a portare la nostra fiduciosa giovinezza e il nostro desiderio, sempre infantile, verso le bimbe di Pisa», scriveva Carlo Ludovico Ragghianti a Giuseppe Dessì nell’estate 193671. Quando redige questa lettera, Ragghianti è un giovane critico d’arte ormai noto, avviato verso una brillante carriera ostacolata solo dal suo intransigente antifascismo; la nostalgia degli anni studenteschi e dello stretto legame con la cerchia amicale normalistica (Claudio Varese, Baglietto, Enrico Alpino, Carlo Cordiè) affiora come tema dominante nelle lettere scambiate con Dessì, che di quel circolo era il testimone esterno e, in qualche modo, l’archivio storico. Come nelle sue lettere, del resto, anche in quelle degli altri allievi, ormai sparpagliati in tutta la penisola, avviati a carriere scolastiche e universitarie più o meno lineari, Pisa riappare in continuazione, e non solo come teatro delle tradizionali imprese giovanili e goliardiche (fra cui una vita amorosa sempre meno taciuta), ma anche come luogo ideale di una portentosa dimensione cameratesca, perduta con l’abbandono della città, e di cui si cercherà ossessivamente il recupero, quando, per caso o per scelta, alcuni

  P. Omodeo, Testimonianza, in Frassati (ed.), Il contributo dell’Università di Pisa, p. 250. 71   C.L. Ragghianti a G. Dessì, 9 agosto 1936, cit. in Nencioni, A Giuseppe Dessì. Lettere di amici e lettori con un’appendice di lettere inedite, p. 10. 70

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membri del cenacolo normalistico si ritroveranno in qualche città, a generare una «seconda Pisa». Sarà così ad esempio per Ferrara, luogo di «coronamento e conclusione della vita pisana, cioè della giovinezza» come la definirà lo scrittore sardo molti anni dopo, dove attorno a Dessì che lì insegnava si ritroveranno, nel corso degli anni Trenta, alcuni appartenenti alla comunità pisana, tutti più o meno entrati nei ruoli della docenza secondaria, tra cui Varese e Mario Pinna, in un rinnovato circolo che avrebbe compreso, tra gli altri, anche il giovane Giorgio Bassani72. Pisa era e sarebbe sempre rimasta, del resto, soprattutto un luogo dello spirito: il teatro del tempo perduto da ritrovare, magari nei frequenti incroci coi vecchi compagni del «contubernio pisano», per motivi di studio o di concorso a Roma73, mentre qualsiasi lontananza era percepita come un «esodo» forzato che impediva il contatto, le parole, le «confessioni» tra gli amici74. « Delle persone che vi sono nessuna forse sa di me, o perché non mi ricorda o perché non mi ha mai conosciuto» scriverà così Aldo Corasaniti ad Alessandro Perosa nel dicembre 1948 «ma confido che il cortile silenzioso, le finestre contate e ricontate a cui appare qualche volta un viso stanco di normalista studioso, la biblioteca, i libri che portano segni di consentimento o di attenzione impressi da scolari sconosciuti anni e anni prima di noi già stati normalisti, il refettorio dove si discute o si scherza ad alta voce (si cantano ancora i carmina famosi?) e ci sono sempre dei ragazzi che arrivano quando i professori hanno già cominciato a mangiare, tutte queste cose confido che abbiano preso e conservato per sempre qualcosa di me»75. Questo ricordo idilliaco condiviso, un basso continuo nella memo-

 G. Dessì a C. Varese, 23 ottobre 1945, in Dessì-Varese. Lettere, p. 240. M. Pinna (Orghistiri 1912 - Viareggio 1997), ammissione Lettere 1932. Fu per alcuni anni docente di ruolo al Liceo Classico Ariosto di Ferrara; divenne poi docente universitario insegnando letteratura spagnola a Padova. 73   Ibid., Varese a Dessì, 23 aprile 1933, pp. 67-8. 74   C. Cordié, Tre note su Giuseppe Dessì (il poeta lirico, l’epistolografo, il critico letterario), «Critica letteraria», 1, 1988, pp. 49-55. 75  ASNS, Cartelle allievi, f. Corasaniti Aldo, lettera ad A. Perosa, s.d. (ma dicembre 1948). A. Corasaniti (S. Sostene CA 1922), ammissione di Lettere 1939, dopo la laurea in filosofia e il diploma nell’estate 1945, studiò legge a Roma, dove si laureò nel 1949. Percorse poi la carriera in magistratura, percorrendone tutti i gradi, fino a divenire giudice costituzionale e presidente della Corte (1991-92). È stato in seguito anche senatore della Repubblica. 72

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rialistica normalistica, sembra in stridente contraddizione con quella selva di norme stringenti che, nei testi normativi del periodo gentiliano, attribuiscono alla vita collegiale una veste miliziale – o da caserma come viene qualificata qualche volta. In effetti, la lettera del Regolamento interno, più ancora che lo statuto (che in effetti si limitava a stabilire l’ovvia necessità per gli allievi di «risiedere nella Scuola» e l’obbligo di «tenere costantemente ed in ogni occasione una condotta irreprensibile, evitando qualsiasi atto o impegno che possa nuocere al prestigio della Scuola», art. 74) prevedeva di ingabbiare gli allievi secondo ritmi orari e abitudini particolarmente severi. Al di là delle regole di ordine politico e didattiche di cui si è già fatta menzione, infatti, gli allievi avrebbero dovuto svegliarsi tutti alle 7:30 e osservare un rigoroso silenzio dopo le 22:30, ora in cui il portone del palazzo veniva chiuso impedendo l’accesso e l’uscita a chiunque, secondo quanto stabilito dalla tabella degli orari annessa al regolamento e che gli alunni si impegnavano a rispettare all’atto dell’ammissione. Le ore dei pasti erano rigidamente stabilite, così come il contegno da tenere secondo una formula testuale che era un capolavoro di stile militaresco: La mensa è imbandita per tutti indistintamente nella sala apposita, nelle ore stabilite dall’orario. A ciascun alunno viene assegnato il posto dalla direzione. Gli alunni convenientemente vestiti entrano nella sala per la porta prospiciente al corridoio delle aule di lezione, immediatamente dopo il caposala, e si siedono ai loro posti, conservando negli atti, nella conversazione, nel tono della voce e nella eventuale manifestazione dei propri desideri un contegno corretto. Alla fine del pasto quando il capo-sala si alza tutti gli alunni devono alzarsi e rimanere in silenzio al proprio posto, finché egli non sarà uscito. Ogni alunno è tenuto ad osservare la massima puntualità alla mensa, e dovrà giustificare con seri motivi gli eventuali ritardi. Levate il mense non si fornisce più il pasto a nessuno. […] Per giustificati motivi è permesso ad un alunno assentarsi dal pasto purché chieda il permesso alla segreteria tre ore prima dell’ora della mensa76.

Il formalismo esasperato previsto per i pasti in comune era coerente ad un quadro disciplinante complessivo in cui gli allievi sarebbero stati instradati a quel «signorile comportamento» e quella «serietà morale» che avrebbero dovuto interiorizzare in quanto futuri educatori: una piccola comunità delle buone maniere per la cui costruzione il re-

  Regolamento interno, artt. 47 e 48, p. 108.

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golamento voluto da Gentile non risparmiava prescrizioni analitiche fin nei minimi particolari. In effetti, sarebbe forse più facile ricordare cosa gli allievi potevano più che elencare ciò che non potevano fare. Il normalista degli anni Trenta non avrebbe potuto approfittare della sociabilità studentesca serale o notturna, andare a teatro o al cinema, se gli spettacoli terminavano dopo le 10:30, salvo particolari autorizzazioni della direzione accordate con una certa parsimonia (soprattutto durante la vicedirezione di Arangio-Ruiz); non avrebbe potuto alzarsi all’ora voluta, né parlare, né ritrovarsi nei corridoi o spostarsi da una stanza all’altra dopo il silenzio (termine che l’estensore del regolamento derivava direttamente dal vocabolario delle caserme), segnalato, come la sveglia, da una campana interna. I normalisti non avrebbero potuto giocare o schiamazzare nei corridoi e nei locali della Carovana, dove doveva vigere sempre una contegnosa tranquillità; non potevano ricevere persone nelle proprie stanze, e comunque mai all’interno della Scuola, se non nelle sale all’uopo previste e in appositi orari; non potevano pernottare fuori dalla Scuola e mai, in ogni caso, allontanarsi da Pisa senza chiedere autorizzazione al direttore, autorizzazione accordata, al di fuori delle vacanze, solo per gravi motivi (e normalmente su richiesta dei genitori); non potevano inoltre assumere incarichi quali lezioni private o supplenze, né pubblicare saggi, o testi di conferenze tenute, senza l’assenso della direzione77. In compenso, essi avrebbero dovuto dividersi in gruppi, secondo l’ordine stabilito dalla direzione, con a capo alunni anziani scelti dal direttore, responsabili della condotta di ogni gruppo e mediatore delle esigenze e dei desideri degli studenti; i gruppi avevano l’obbligo di intervenire in forma ufficiale, collettivamente e con le insegne studentesche, alle solennità pubbliche cui la Scuola era chiamata a partecipare78. Gli allievi avevano altresì l’obbligo di intervenire a tutte le manifestazioni del GUF (secondo la formula limitativa «quando ciò non sia incompatibile con gli obblighi assunti rispetto agli studi»), di rispettare le norme della buona condotta «morale, civile e politica», la cui vigilanza era di competenza della stessa direzione, che poteva, a suo insindacabile giudizio, espellere gli allievi qualora uno di questi requisiti venisse meno, una formula che sarebbe stata utilizzata per evitare (o limitare) nuovi imbarazzanti casi come quelli del 192879. Nel complesso, un’attività

  Ibid., artt. 49-69, pp. 108-12.   Ibid., artt. 55-57, pp. 110-1. 79   Ibid., art. 72, p. 114. 77 78

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prescrittiva maniacale, che giungeva fino a stabilire il corredo minimo dell’allievo, il numero di capi di biancheria e il tipo di vestiti che era fatto obbligo possedere (e tra cui non mancava ovviamente una camicia nera per i sabati e le altre festività fasciste). Una maniacalità il cui paragone si può ritrovare solo nei convitti nazionali militarizzati – un esperimento di istruzione media a basso costo per i ceti poveri partita negli anni Ottanta del XIX secolo e abortita prima dell’inizio del XX – e il cui fine ultimo può essere inteso forse solo leggendo nell’insieme delle norme il tentativo di Gentile di fissare un livello alto di decoro, sia dal punto di vista dell’immagine che da quello della disciplina, del «semenzaio dei futuri educatori della nazione»80. Viene da chiedersi, a questo punto, come potesse svilupparsi quella vita goliardica amabile e densa di divertimento e bei ricordi che sarebbe poi stata vagheggiata così a lungo negli epistolari e nei diari della generazione degli anni Trenta. Una prima risposta, forse la più ovvia e intuitiva, anche se non del tutto esauriente, è che la comunità normalistica interpretava ben poco alla lettera, e con molta ironia, i rigorosi obblighi del regolamento interno, tanto che più che da uno «spirito monacale», secondo i desiderata della direzione, si può tranquillamente affermare che la Normale gentiliana fosse pervasa da una forte joie de vivre degli studenti, una carica vitale condita di arguzie, umorismo e spirito di undestatement che sarebbe parsa incredibile ai più cupi normalisti della generazione di Fermi (e tra cui proprio Fermi era, in fondo, l’eccezione). Disincantati e ironici, soprattutto di fronte alla celebrazione pubblica del prestigio della Scuola e dei propri alti destini, erano, in primo luogo, gli anziani ammessi ancora alla fine degli anni Venti, i membri del cenacolo cantimoriano e corrispondenti di Dessì, da Varese a Ragghianti a Cordiè, che avevano vissuto l’inizio della stagione gentiliana e che alle matricole, c’è da credere, offrivano ben pochi esempi di quella rigida disciplina che avrebbe dovuto rappresentare lo stile della «nuova Normale». Come avrebbe scritto Varese a Cantimori, in alcune lettere inviate a cavallo tra l’insediamento di Gentile in Normale e il suo corso di perfezionamento, i normalisti erano tutt’altro che pronti a riconoscersi nella retorica (a volte un po’ tronfia) dell’aristocrazia intellettuale della nuova Italia, che veniva propinata regolarmente, all’interno della Scuola, dalle gerarchie

  Sull’esperimento dei convitti nazionali militarizzati cfr. G. Conti, L’educazione nazionale militare nell’Italia liberale: i convitti nazionali militarizzati, «Storia contemporanea», 6, 1992, pp. 939-1000. 80

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dell’istituto, e di cui gli allievi erano pronti a farsi beffe anche (anzi, forse soprattutto) davanti ai più giovani, quasi come si trattasse di un salutare rito iniziatico. Ti allineo in questa lettera tutte le notizie più o meno fresche che possono interessare e soddisfare la tua nostalgia curiosa e affettuosa di ancien éléve ecc. Sono entrati e rientrati dieci normalisti: tre nuovi di Lettere e con essi, anzi in testa ad essi, Ragghianti e Villa. Pescani è il despota tremendo della paviduccia schiera (!) delle matricole. Le mobilitazioni si susseguono ad un ritmo perfettamente artistico: Arnaldi ci ha ammannito un grazioso discorsino tutto illuminato del bagliore dei nostri immancabili futuri destini. Sgroi si laurea in letteratura greca, su Aristofane, credo; Pescani su San Girolamo. Radetti parla di un Francesco Riccio e Sedda di Lelio Socino; Nesti è a Zurigo […]. Saitta mi chiese di te e mi chiese Arnaldi (ti dipinsi lieto entusiasta di Cagliari, dei sardi in genere e delle sarde magre in ispecie). Io rimpiango i tempi passati – contro ogni buon uso e ogni buona tradizione normalistica – nell’ozio più mesto e profondo. Cordié, Sedda […] e Sgroi non hanno mutato di una linea il loro carattere. Baglietto si è laureato con 110 e lode; […] Giacomini si laurea stasera. Nella tua camera si è annidata la cavalletta Crivellucci; ed io mi sono appartato nella camera di Derenzini. Caccavelli insegna a Lucca. Beati di tutto ciò, credo di aver detto anche troppo. Pisa noiosa, fastidiosa grigia più che mai: andai ad un Rigoletto abbastanza buono. La Scuola Normale è sempre la Scuola Normale vivaio di ingegni ecc. come ha ripetuto anche quest’anno la matricola che è cascata nella beffa del discorso di Ricci […]81.

 ASNS, Fondo Cantimori, C. Varese a D. Cantimori, Pisa 16 novembre 1929. Pietro Pescani (Zara 1908-?), ammissione di Lettere del 1926 (posti per Dalmati), laureato in lettere nel 1930, fu poi a lungo docente al Liceo Classico Petrarca di Trieste. Vincenzo Villa (Urbisaglia 1911-?), ammissione di Lettere del 1929 al secondo anno. Dopo la laurea, fruì di un anno di perfezionamento, in gran parte trascorso a Monaco con una borsa di scambio. Fu poi docente al Ginnasio Liceo classico di Pisa (raccomandato per una supplenza da Gentile in persona) e quindi continuò la carriera di professore di ruolo nelle scuole secondarie, insieme ad incarichi di insegnamento universitari (da ultimo, presso la Bocconi di Milano). Piero Sgroi (altrove anche Sgroj) (Pisa 1910 - Messina 1980), ammissione di Lettere del 1926. Allievo di Arnaldi, e da lui indirizzato ad un periodo di perfezionamento a Francoforte, Sgroi uscì dalla Scuola già apprezzato per le sue doti di grecista. Percorse una rapida carriera nelle scuole secondarie della Sicilia, dove aveva studiato (pur essendo nato a Pisa era di un’antica famiglia del notabilato messinese), finendo per insegnare al Liceo classico ‘La Farina’, ma fu anche insegnante incaricato all’università di Palermo e apprezzato traduttore e 81

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Se hai in mente, come puoi, di diventare qualcosa di più di un professore magari universitario, dovrai lavorare chissà quanto e infischiarti di presidi, di conversazioni pseudo interessanti […]. Io che accenno a predicarti il lavoro non faccio niente di speciale: se non altro mi sono meritata una predica di Gentile che mi ha esortato ad essere più giudizioso in seguito ad episodi di divertentissimi. I più rappresentativi normalisti hanno (abbiamo) fatto cose indegne. Capitini (che tra parentesi è stato per un momento bersagliato come gerarca della Normale, poveretto) ed io assistenti come siamo non facciamo niente mentre Baglietto fa due lezioni alla settimana, spiega Kant e spiega Gentile. Al seminario di Carlini Sedda fa il crociano, Carlini espone il suo sistema e ci legge la sua recensione alla ‘Filosofia dell’Arte’ di Babbo Regio Commissario, per la quale bolle grande battaglia nella Normale letteraria-filosofica […]. Che vita fai? Io non sapendo bene che cosa fare non faccio niente neppure quegli articoli che forse la magnanimità di Babbo e Vice-Babbo potrebbe accettare nella Rivista della Normale che come sai prende il posto degli Annali […]. Scrivimi, dimmi se ti son passati del tutto gli entusiasmi per codesta Cagliari in cui ti stai annoiando parecchio; cerca di venire per Pasqua dalle nostre parti e di farti dare poi una cattedra quassù […]82.

Come si evince da queste lettere, del resto, non bisogna supporre che l’ironia (e spesso l’autoironia) mordace degli allievi si accompagnasse realmente ad una sorta di lassismo di fronte al rigore degli obblighi scientifici, né tantomeno ad una qualche forma di disconoscimento della propria identità di gruppo. Lo spirito della rete amicale, di cui Cantimori rimase a lungo un referente, anche durante il breve esilio cagliaritano e negli anni successivi, si nutriva piuttosto di un intenso scambio intellettuale che, benché alimentato soprattutto dai grandi dibattiti propri delle discipline letterarie, in quegli anni si estendeva anche ad alcuni dei colleghi di Scienze, dando vita a quel mito dell’osmosi culturale tra le due classi che è, ancora oggi, uno dei grandi tòpoi retorici dell’identità normalistica. Un’invincibile avversione per l’autocelebrazione istituzionale pareva però essere un tratto comune

critico di letteratura greca (a lui si deve, tra l’altro, la cura di un’importante edizione de La guerra del Peloponneso di Tucidide). Amedeo Giacomini (1905-?), ammissione di Scienze del 1925. Figlio di un altro normalista (A. Giacomini, ammissione di Scienze del 1891), dopo la laurea si perfezionò al CNR (1930-31) e fruì della borsa Kirner nel 1932. Nel secondo dopoguerra divenne direttore dell’Istituto di Elettroacustica del CNR di Roma. 82   Ibid., Pisa 10 febbraio 1931.

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del cenacolo pisano. Allo stesso modo in cui un compagno particolarmente saccente sarebbe stato oggetto di goliardiche rappresaglie (capitò a Sedda, noto per le sue fanfaronate)83, una cartolina illustrata in circolazione negli anni Trenta inneggiante alla Scuola come fucina dei «migliori» veniva sarcasticamente glossata84. Un understatement che si legava, però, solidamente, alla consapevolezza di essersi forgiati, durante gli anni gioiosi della vita «innaturale e collegialesca», come ristretta comunità di colti, grazie soprattutto all’influenza di quei compagni (Capitini e Baglietto, per esempio) di cui negli scambi epistolari spesso affiorava il ricordo, legato alle infinite discussioni e alle lunghe tradizionali passeggiate sui Lungarni, in cui si ragionava e discuteva come moderni filosofi peripatetici. Un magistero di cui il normalista avrebbe portato il segno per tutta la vita, e che non bisognava far sfigurare, tenendo per tutta la vita alto il livello del proprio impegno intellettuale: «tu hai certo ragione a farmi certe volte, tante volte vergognare di me e della mia leggerezza» scriverà Varese, immerso in una stagione di apatia, a Cantimori che l’aveva rimproverato della sua inerzia «ma io non so pensare né ragionare e nemmeno usare fantasia ma soltanto immaginazione; mi ricordo qua e là del passato e non so fare altro»85. «Quanto a me, tutto ciò è vivo nel mio cuore» come avrebbe confessato ancora al segretario Perosa il da poco ex allievo Corasaniti: Talvolta desta letizia e gratitudine, per quello che ho avuto e che è tutto

  Sedda era famigerato nel gruppo di amici pisani per aver sostenuto di aver letto tutti i libri possibili. Invitato a dare prova della sua cultura scrivendo un saggio su un filosofo inventato apposta da Dessì e altri, compose un testo di fantasia, con tanto di note e bibliografia, che poi fu pubblicato su Il Campano. L’aneddoto è raccontato da Dessì Fulgheri, Testimonianze, p. 308; ma cfr. anche C. Varese a Dessì, Bruxelles 29 luglio 1933, in Stedile, Giuseppe Dessì - Claudio Varese. Lettere 1931-1977, pp. 80-1. «Discorsi di Sedda» era diventata un’espressione colloquiale per indicare argomentazioni poco serie e inverosimili. Cfr. ibid., Varese a Dessì, Cagliari 2 ottobre 1933, pp. 85-6. 84  ASNS, Fondo Cantimori, da Carlo Cordiè a Cantimori, Torino 13 agosto 1935, cartolina illustrata, retro: veduta della Regia Scuola Normale Superiore di Pisa, «per i migliori studenti delle Facoltà di Lettere e di Scienze dell’Università di Pisa», glossata da Cordiè a mano con la scritta «non è vero». A fianco, una freccia con un’altra glossa: «su questo portone avvenne il nostro primo incontro». 85  ASNS, Fondo Cantimori, Varese a Cantimori, Cagliari 8 ottobre 1934. 83

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buono. Talvolta desta amarezza perché non ho dato nulla alla Scuola. Il sogno di tutti noi, creda pure (e del resto Lei lo sa, perché è stato normalista prima di me) è stato di fare qualcosa di buono perché la Scuola ne riportasse maggior lustro e perché i nuovi normalisti sapessero che non avevano invano fatto parte della Scuola. Di essa non abbiamo, credo, mai pensato che fosse una Chiesa e d’altra parte non tutti siamo stati chierici, anche se tutti abbiamo sentito e professato la ‘religione degli studi’. Ma non le dirò la profonda commozione che mi prese quando rividi a Roma, alla Scuola di matematica, Marchetti e Barsotti fra gli assistenti universitari ed essi mi parlarono di altri normalisti, ancor più vecchi, e che io non conoscevo, i quali avevano proprio allora conseguito la cattedra universitaria. Non esagero davvero se affermo che mormorai fra me e me come una preghiera, volta non so a chi; chiesi perdono per avere poco e ringraziai per quelli che avevano fatto molto. Tra il poco e il molto, del poco e del molto la Scuola vive. Possa vivere così in noi la forza di non tradirla!86

Questo intimo senso del dovere di fronte ai difficili obblighi scientifici e di studio, spronati dalla volontà di non demeritare di fronte al giudizio degli amici, tanto quanto dalla necessità di non perdere posto e privilegi, alimentava il senso di appartenenza alla koinè degli allievi normalisti; ma rigoroso impegno negli studi, amore del sapere e entusiasmo critico non procedevano affatto di pari passo con l’ossequio alla paranoica meticolosità delle prescrizioni regolamentari da cui era teoricamente afflitta la vita collegiale. Anzi. La memoria collettiva tramandataci dalla generazione degli anni Trenta abbonda di colorite descrizioni di una intensa vita notturna che contraddiceva radicalmente le militaresche imposizioni di orario volute da Gentile: nel diario di Gass campeggiano solenni dormite dei laureandi e dei perfezionandi, che, infischiandosene della sveglia, iniziano la giornata poco prima del pranzo, gozzovigliano gran parte della giornata e studiano intensamente nelle ore notturne, incontrandosi con i compagni nei corridoi e nelle stanze improvvisando accese discussioni in pigiama, la «consueta tenuta da lavoro» del vero normalista87. In barba alle regole che lo vietano, gli anziani descritti dal giovane borsista tedesco organizzano tranquillamente festini notturni a base di the, rum e dolci nelle stanze, non si peritano di personalizzare le proprie camere prelevando oggetti di arredo altrove e coloro

 ASNS, Cartelle allievi, f. Corasaniti, lett. cit.   Gass, Diario pisano, pp. 178-9.

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che rimangono nel Palazzo per il Capodanno 1937-38, celebrano la solennità con discrete libagioni, «danze sciamaniche» e urla selvagge nei corridoio deserti, terrorizzando il portiere88. Che non si trattasse di episodi isolati, e che la goliardia interna giocasse un suo ruolo nella costruzione dell’identità di gruppo, si desume dal resto dai continui richiami all’ordine cui fu costretto persino un vicedirettore indulgente come Chiavacci, ricordato (e a volte criticato dal successore ArangioRuiz) per il suo rapporto affettuoso con gli studenti. Pare che proprio in quel 1937-38, mentre il borsista Karl Gass annotava sul suo diario gli usi di quella bizzarra ma eccellente comunità giovanile, la tradizionale sequela di scherzi, vessazioni e imposizioni a danno delle matricole abbia toccato vertici ritenuti intollerabili dalla direzione, producendo una prima ammonizione pubblica e poi una più minacciosa lettera di richiamo affinché gli «abusi nei consueti scherzi ai matricolini», gli schiamazzi e i giochi notturni, cessassero immediatamente: «altrettanto sono stato sempre indulgente con voialtri, quanto sono poco disposto a tollerare che si continui su questo tono», avvertiva Chiavacci in una missiva manoscritta di cui si sono purtroppo persi i destinatari (ma indirizzata certamente al gruppo degli «anziani»)89. La vita notturna dei normalisti dell’epoca, del resto, non doveva limitarsi alla goliardia interna: benché matricole e allievi più disciplinati fossero costretti a rinchiudersi nelle proprie camere dopo le 22:00 (dopo la mezzanotte il giovedì e la domenica), una comunità di giovani maschi esuberanti lontani dal controllo repressivo dei genitori non poteva essere facilmente costretta alla vita ascetica. Così, benché non si abbia motivo di dubitare che, perlopiù, la vita dei normalisti fosse «conforme alla tradizione, una vita severa di studio», di lunghe conversazioni fatte di «poesia, di filosofia, di storia, di musica, di arti, di scienze, di cinema; di cultura insomma»90, è anche necessario arrendersi all’evidenza di una vita quotidiana che, almeno per qualcuno, era anche altro. Intanto, una sociabilità notturna, alternativamente fatta di spettacoli teatrali, appuntamenti conviviali ai caffè e bevute, consumata al di fuori del palazzo, rientrando ben dopo l’ora prevista grazie a stratagemmi apparentemente noti a tutti (come una provvidenziale scala a pioli utilizzata da un’intera generazione di studenti o la

  Ibid., pp. 158-9.  ASNS, b. 21, Corrispondenza, 1937, f. H, lettera manoscritta non datata. Il precedente richiamo affisso in bacheca era stato del 19 novembre 1937. 90   Manacorda, Testimonianza, p. 144. 88 89

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proverbiale finestra lasciata socchiusa ricordata dal futuro presidente della Repubblica Ciampi)91. Ma anche una vita esterna luogo di una sessualità vissuta nel modo ritenuto più consono al giovane maschio maggiorenne dell’epoca, usufruendo del postribolo: «quasi tutti i normalisti lo frequentano abitualmente; ci vanno in gruppo, e a tavola è il loro principale argomento di conversazione»92. Assente dalla vita della Scuola, la donna negli anni Venti e Trenta è anche – secondo un uso che appare assai bizzarro al tedesco Karl Gass – del tutto estranea alla vita sociale cittadina la sera, e oggetti estranei le donne (con l’esclusione delle prostitute) rimangono per tutti gli studenti, tanto che invano si cercherà, nella memorialistica, l’accenno a relazioni amorose «ufficiali» o ad avventure importanti che scandiscano gli anni pisani, con l’eccezione del «fidanzato», Frugoni, confidente di Gass e giudice critico (e un po’ bigotto) della dedizione dei suoi compagni al mercato del meretricio, e delle occasionali avventure vissute dal giovane D’Andrea, che tratta le sue conquiste «con fare cinico e blasé»93. Alla interpretazione critica e ironica dello spirito miliziale della nuova Normale, tuttavia, si aggiunse anche, soprattutto nel decennio 1930-40, una resistenza più esplicita, sia individuale che collettiva, ai provvedimenti più restrittivi e alla volontà disciplinante della direzione, che accese occasionali (ma profondi) conflitti tra gli allievi e il vicedirettore, che di Gentile faceva le veci; solo nei casi più gravi quest’ultimo, richiamato da Roma, intervenne, per sanzionare con durezza i comportamenti giudicati più inaccettabili. Assente Gentile, in effetti, il comportamento dei tre vicedirettori che si avvicendarono in quegli anni (Francesco Arnaldi, fino al 1933, Gaetano Chiavacci, fino al 1938, e Vladimiro Arangio-Ruiz) fu piuttosto improntato ad una tendenziale acquiescenza nei confronti delle forme più innocue di irriverenza goliardica e di scarsa deferenza verso gli aspetti più grotteschi del Regolamento, un’indisciplina fisiologica e normalmente non preoccupante, che i tre gestori della Scuola vollero il più delle volte persino celare al direttore. Gli allievi potevano così, senza timore di eccessive reprimenda, marinare costantemente le lezioni di scherma prescritte

  Spinella, Testimonianza, p. 120, e Ciampi, Da Livorno al Quirinale, p. 32.   Gass, Diario pisano, p. 91. 93   Ibid., p. 90. Arsenio Frugoni (Parigi 1914 - Bolgheri 1970). Ammissione di Lettere del 1933, laurea 1937, poi perfezionando per l’a.a. 1937-38, è stato uno dei più importanti medievisti italiani. Ha insegnato storia medievale presso la Scuola Normale e, dal 1962, all’Università di Roma La Sapienza. 91 92

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(che rimasero una trascurata sinecura), evitare la costituzione dei gruppi e la nomina dei capi-gruppo (di cui non vi è traccia nella documentazione, nelle cronache e nella memorialistica) e persino evitare molte delle corvée imposte dalla ritualità fascista, mentre l’identità collettiva normalistica, e infine lo stesso amore per la Scuola, si esplicitava sovente in burle e lazzi diretti ai professori (e specialmente allo stesso vicedirettore) impensabili secondo la lettera regolamentare: «e la Normale xè la mia patria! E mona Arnaldi xè il mio primo amor!» cantavano Carlo Salani e i suoi amici nei corridoi di ingresso della Scuola nell’anno accademico 1932-33, ironizzando non senza efficacia sulla pruderie cattolica, sulla puntigliosità del galateo e sull’inflessione veneta del vicedirettore Arnaldi, per l’appunto nato nella friulana Codroipo94. A questi sfoghi sistematici, tuttavia, si aggiunsero nel corso degli anni alcuni casi di più radicale conflitto tra allievi (e addirittura gruppi di allievi) e la leadership della Normale, soprattutto ad opera di alcuni studenti più esuberanti o determinati di altri. Fu, questo, il caso terminato con l’espulsione di Carlo Ludovico Ragghianti nel dicembre 1931, quasi alla fine del suo quarto anno, a seguito di uno dei tanti convivi notturni nelle camere, esplicitamente proibiti ma sostanzialmente tollerati, sfociato in un alterco con Capitini, da poco nominato segretario economo della Scuola e preposto, tra gli altri compiti, anche alla sorveglianza del comportamento nel convitto95. Evento ancora più bizzarro, se si tiene conto che era stato proprio Capitini, all’epoca della sua permanenza ala Scuola come allievo, a organizzare alcune delle più famose riunioni notturne della tradizione normalistica, creando quei gruppi di discussione in cui anche Baglietto si sarebbe formato96. In realtà, l’espulsione di Ragghianti non ebbe alcuno sfondo politico (a meno che non si voglia intendere come ideologica la sua malcelata o per nulla celata antipatia verso Arnaldi, che a sua volta detestava il giovane irruente lucchese) ma fu la conclusione di una serie di manifestazioni sempre più rumorose di indisciplina che il gruppo di allievi da lui capitanati (Sedda, Alpino, Matteo Sortino, Giovanni Dantoni) aveva messo in atto nei corridoi della Scuola, dando vita a partite di calcio nei corridoi e rumorose corse notturne su

  Salani, I luoghi dell’amicizia, p. 112.   Si veda la ricostruzione dell’accaduto in Simoncelli, La Normale di Pisa, pp. 63-4. 96   Capitini, Antifascismo tra i giovani, pp. 20-1. 94 95

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e giù per i piani del palazzo dei Cavalieri97. Sorpreso durante uno di questi convegni notturni, Ragghianti scontò sicuramente il suo pessimo carattere, l’insofferenza dimostrata a più riprese per la pretese di Arnaldi di mantenere una certa disciplina all’interno del palazzo e le offese a Capitini, che Gentile stesso volle difendere nella sua dignità e nella sua autorità punendo severamente il giovane allievo, peraltro senza che questo compromettesse minimamente la sua carriera scientifica98. Ancora, ben poco di ideologico ci fu nell’altro grave caso di conflitto disciplinare tra direzione ed allievi, che portò alla cosiddetta «cacciata degli otto santi» nel 1933. Non vi è dubbio che l’ambiente normalistico fosse in fibrillazione in quei mesi, per la clamorosa decisione di Claudio Baglietto di non tornare in Italia (ottobre 1932) al fine di sottrarsi al servizio militare, rinunciando così in nome della coerenza ideologica ad una promettente carriera accademica sotto l’ala di Gentile medesimo, e per la collegata cacciata di Capitini (dicembre 1932), a causa della sua decisione di non prendere la tessera del PNF per non esprimere (nemmeno formalmente) l’adesione al regime. Questi due casi clamorosi di dissenso, che turbavano la rifondazione della Normale gentiliana, affidata per la larghezza di mezzi finanziari alla generosità delle più alte sfere della politica fascista, avevano sicuramente messo in allarme la direzione, ed elevato il clima tensione all’interno delle mura di Palazzo dei Cavalieri, una tensione esistente anche tra gli allievi, e di cui l’amicizia tra Ragghianti, ormai ex alunno e rabbioso sostenitore dell’opzione per l’esilio di Baglietto, e Cantimori, capofila prestigioso dei fascisti convinti, avrebbe fatto (almeno temporaneamente) le spese99. Tuttavia, come uno dei principali prota-

 Cfr. Verbali del Consiglio ’30-’39, seduta del 10 dicembre 1931. Lo stesso anno perse il posto anche Enrico Alpino, ma per insufficienza negli esami normalistici. M. Sortino (S. Stefano AG 1910-?), ammissione di Lettere 1928, laureato in letteratura italiana nel giugno 1932, divenne poi docente presso il Liceo Classico di Sciacca. G. Dantoni (Scicli RG 1909 - Catania 2005), ammissione di Scienze del 1909, laurea in matematica nel 1933, perfezionando 1932-33. In seguito, ordinario di matematica all’Università di Catania. 98  Non ha quindi alcun senso attribuire a questo provvedimento un carattere politico, come pretendono Tomasi, Sistoli e Paoli (in La Normale di Pisa, p. 175), che vedrebbero nell’espulsione di Ragghianti una misura repressiva contro l’antifascismo in Normale. 99   Simoncelli, La Normale di Pisa, pp. 86-7. Si trattò di una rottura sicuramente profonda, causata soprattutto dal tono graffiante di Ragghianti, e dall’inossidabile 97

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gonisti, Carlo Salani, avrebbe ben sottolineato, la rivolta di un gruppo particolarmente folto di studenti contro Arnaldi, la costituzione di una provocatoria «Altra direzione», finalizzata a mettere in ridicolo le prescrizioni disciplinari dispensate (pare con eccessiva prodigalità) dallo stesso vicedirettore, e infine, l’ammutinamento esploso nei corridoi della Scuola la sera della festa delle matricole, tradizionale occasione carnevalesca ricca di motti e scherzi nei confronti dei professori, allorché gli allievi percorsero armati di fiaccole il palazzo cantando inni che celebravano la «morte della libertà», per scontrarsi poi verbalmente con Arnaldi medesimo e il professore interno Ricci, non avevano alcun intento di sfida politica. Gli allievi si opponevano alla precettistica minuta della direzione, alla soffocante tendenza a privare gli studenti di alcuni spazi di vita sociale esterna (ad esempio negando permessi per rincasare più tardi la sera) e, in generale, alla disciplina «pretesco-casermistica» che, certo, era anche il riflesso di un opprimente conformismo dei costumi più generalmente imposto alla società italiana dell’epoca, in particolar modo in tema di rapporti gerarchici e moralità sessuale. Il «disagio» dei normalisti era dunque, come avrebbe testimoniato Mario Spinella, l’espressione di un’insofferenza più vasta, di cui il sovente ridicolo vicedirettore era la più immediata personificazione, attribuire a questa ribellione strisciante un carattere di presa di posizione ideologica sembra perlomeno forzato100. Arnaldi, tra l’altro, era tutt’altro che il capofila del fascismo ortodosso a Pisa. Pubblicamente cattolico, si era adoperato come mediatore all’epoca del «caso dei distintivi» (primavera 1931), allorché l’ostentazione da parte di alcuni allievi iscritti alla federazione universitaria cattolica (FUCI) dei propri distintivi, aveva spinto Gentile (attraverso il fidato vice) a fare pressioni per rimuovere un possibile scandalo: la rete cattolica alla Scuola era infatti particolarmente solida, sotto la guida di Michele Maccarone (poi, negli anni successivi, di Vittore Branca) pur senza coltivare alcuna velleità di contestazione antifascista, ma in quei mesi, quando la tensione tra Chiesa e Regime trovò un momento di recrudescenza nell’aspro conflitto tra fascismo universitario e organizzazioni cattoliche, il mantenimento dei simboli cattolici addosso ai normalisti poteva assumere il significato di una aperta sfida proprio

(all’epoca), tetragono fascismo di Cantimori. Ma l’analisi del loro scambio epistolare (in ASNS, Fondo Cantimori) testimonia che il rapporto sarebbe ripreso ben presto. 100   Spinella, Testimonianza, p. 146.

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all’interno del «semenzaio degli educatori» della nuova Italia101. «Sono stati tutti avvertiti che alla Scuola non solo non si deve fare dell’antifascismo, ma fare onestamente tutto lo sforzo per comprendere il fascismo e immedesimarsi delle necessità spirituali ch’esso afferma» aveva scritto all’epoca Arnaldi a Gentile, dimostrando, se non altro, un’acquiescente devozione alla volontà del suo superiore e benefattore (accademico)102. Nonostante questa adesione all’indirizzo gentiliano (o forse, anche a causa di essa), Arnaldi era rimasto tuttavia nell’occhio del ciclone della contestazione locale da parte dell’ala dura del fascismo, che gli rimproverava un ingresso tardivo tra le fila dei sostenitori del regime, persino una sua ritrosia a manifestare più che un ossequio formale al regime, manifestato secondo le accuse in più occasioni attraverso un comportamento poco benevolo nei confronti delle autorità del partito e delle loro più o meno dirette raccomandazioni relative alla vita universitaria e all’andamento della Normale stessa. La sconfitta, inaspettata, ad un concorso a cattedra di letteratura latina che avrebbe dovuto finalmente regolarizzarne la posizione accademica (Arnaldi non era ancora professore universitario, ma solo ‘comandato’ a Pisa in quanto professore interno della Normale) fu l’occasione per gli studenti di mettere alla berlina il poco amato vicedirettore, attacco che venne eseguito nel modo più clamoroso possibile, attraverso la pubblicazione di un ‘numero unico’ goliardico che si faceva beffe della batosta concorsuale103. Contemporaneamente, il povero Arnaldi, depresso e ammalato, venne anche convocato davanti ad un ‘consiglio di disciplina’ della federazione fascista pisana per discolparsi dei presunti sgarbi commessi nei confronti di gerarchi locali, di presunti accenni ad una sua mancanza di rispetto nei confronti del nome del duce e per rispondere di delazioni anonime nei suoi confronti104. Di fronte a questo personaggio, sicuramente non particolarmente coraggioso, né antifascista o polemico nei confronti del regime, ma nemmeno suo fervido propagandista, è difficile dare credito all’interpretazione, condivisa e diffusa dallo stesso Capitini, di un’opposi-

  Sulla crisi del 1931 e sulle sue conseguenze a proposito dell’autonomia e della operatività della FUCI cfr. M.C. Giuntella, La FUCI tra Università e Azione Cattolica dal concordato alla crisi del 1931, in Ead., Autonomia e nazionalizzazione dell’Università, pp. 231-74. 102   Arnaldi a Gentile cit. in Simoncelli, La Normale di Pisa, p. 58. 103   Ibid., p. 106. 104   Arnaldi, Cronaca della Normale, p. 21. 101

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zione «ideologica» degli studenti, che avrebbero identificato nel vicedirettore una personificazione della dittatura e della lotta alla libertà. Piuttosto, pare più verosimile la testimonianza di Salani, testimone di uno scontro in cui a prevalere furono le ragioni di astio personale degli allievi nei confronti di una vita collegiale gestita con mano eccessivamente ferma e con ossequio esagerato alla forma e alla disciplina: Non sopportavo certe pretese, come quella di andare la mattina per prima colazione a tavola vestiti di tutto punto, tirare di scherma (io mi rifiutai di farla…), rincasare la sera dopo cena alle dieci, faticare per avere un permesso per fine spettacolo teatrale ecc. Certo, non erano limitazioni importanti, lo comprendo soprattutto ora […]. Ma tant’è, io dichiarai guerra a questo sistema di disciplina per me poco aperto. E trovai compagni che la pensavano come me. Cominciarono così una serie di schermaglie fra noi e la direzione con aspetti, se si vuole, anche comici e di sapore paragoliardico. […] La protesta che, con i suoi limiti, non mancava di qualche ragione, prese forza e consistenza, ma non ci trovò tutti d’accordo105.

La spaccatura all’interno del corpo studentesco fu, anch’essa, tutt’altro che ‘politica’. Tra i firmatari di una lettera di solidarietà con i colpiti dalla sospensione, che venne recapitata a Gentile appena rientrato a Pisa, c’era, tra gli altri, Piero Viola, che sarebbe stato l’unico normalista a partire effettivamente volontario per la campagna d’Etiopia, un giovane fascista entusiasta, che avrebbe solo dopo l’inizio della guerra dato il via al suo personale «lungo viaggio» prima di approdare alla militanza nel PCI e, del resto, tra gli espulsi il solo Lo Bue sarebbe stato (a posteriori) identificato come un simpatizzante liberal-socialista106. Solidarietà, comunque, parziale (a questa lettera aderì circa un terzo degli allievi), e certamente non in grado di mutare il corso degli eventi, disciplinarmente già deciso prima ancora che Gentile giungesse da Roma. Dopo la «cacciata» degli otto, ribattezzata «degli otto santi», che proclamarono in un ultimo guizzo di goliardia la nascita «dell’Antinormale» in una trattoria delle Piagge, Salani ed altri quat-

  Salani, I luoghi dell’amicizia, p. 117.   P. Viola (Parma 1914-84), ammissione di Lettere del 1932. Schieratosi contro il fascismo a guerra in corso, scappò dall’Italia e si rifugiò in Svizzera, da dove rientrò per combattere tra i partigiani comunisti dopo il settembre 1943. Dopo la liberazione tornò a Parma, dove insegnò al Liceo Scientifico ‘Marconi’, collaborando anche ai periodici locali. 105 106

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tro suoi compagni (Andrea Fradelli del quarto anno, Claudio Claudi, Francesco Lo Bue e Antonio Pedrini del primo) vennero definitivamente espulsi, altri tre sospesi e Dantoni costretto a dare le dimissioni (l’espulsione dal corso di perfezionamento avrebbe comportato la perdita anche del posto di assistente universitario)107. Ma, com’è noto, fu anche la conclusione del rapporto tra Arnaldi e la Normale: ormai screditato di fronte agli studenti, perseguitato dall’ostilità del fascismo locale, il vicedirettore dovette ben presto cedere il posto a Chiavacci, contattato da Gentile già in quei giorni, che di lì a poco, vincitore di un concorso universitario, avrebbe sostituito il «conte veneto» alla conduzione effettiva della Scuola. Gli eventi del 1933 rappresentarono l’acme delle turbolenze disciplinari dell’era gentiliana; un tornante tanto grave da trovare ampio spazio nelle discussioni del Consiglio direttivo, che avrebbe attribuito la colpa di questa espulsione di massa all’aumento improvviso del numero di allievi presenti, non più temperati nei propri comportamenti e indotti al rispetto delle tradizioni, come da consuetudine, dall’ammaestramento degli ‘anziani’ ridotti ad una minoranza dell’insieme. Si trattava di una lettura forse semplificatrice, ma che sarebbe stata ripresa anche in molti luoghi della memorialistica: il pericolo di scollamento della comunità dovuta all’estendersi rapido del numero dei presenti era tuttavia, almeno in questo caso, forse più una scusa che un dato di fatto, anche solo considerando che l’attore iniziale della sfida alla direzione (per un permesso di rientro negato) era stato proprio un ‘anziano’, Fradelli, che il capofila della rivolta era stato un altro ‘anziano’, Salani, e che tra i firmatari della lettera di solidarietà (a loro volta tutti colpiti da qualche provvedimento punitivo, sebbene di minore entità) c’erano alcuni tra i migliori allievi, laureandi e perfezionandi, della

  Andrea Fradelli (Zara 1910 - Piacenza ?), ammissione di Lettere del 1930, dopo la guerra, terminata in un campo di prigionia tedesco, rientrò in Italia e insegnò al Liceo ‘Gioia’ di Piacenza. C. Claudi (Serrapetrona MC 1914 - Roma 1959), ammissione di Lettere del 1932, allievo di Chiavacci, dopo l’espulsione dalla Normale si trasferì a Firenze, dove si laureò e dove frequentò l’ambiente letterario che si riuniva a ‘Le Giubbe Rosse’, iniziando una intensa ma breve attività poetica. Dopo essere stato cacciato dall’insegnamento liceale che aveva trovato a Macerata, passò un lungo periodo di prostrazione fisica e mentale, da cui di fatto non si riprese più. F. Lo Bue (Tripoli 1914 - Torre Pellice 1955), ammissione di Lettere del 1932. Dopo l’espulsione dalla Normale, divenne professore al Collegio valdese di Torre Pellice (1938) e poi pastore (1940). Attivo nella Resistenza, fu anche membro del Partito d’Azione. 107

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Scuola108. Solo anni più tardi, ormai alla vigilia della guerra, la Normale avrebbe rivissuto un evento di simile portata, quando, nel 1939, dodici allievi furono espulsi per insufficienza nei lettorati interni, sollevando la reazione collettiva degli anziani e dei laureandi che affrontarono il vicedirettore, Arangio-Ruiz, particolarmente detestato dagli studenti per la pignoleria nel seguire i regolamenti interni, ingiungendogli di appellarsi a Gentile per far rientrare i perdenti posto109. La reazione del direttore fu, se possibile, ancora più dura che in passato, con la minaccia di far sgomberare a forza la Normale e di farla chiudere; un provvedimento talmente clamoroso da rappresentare potenzialmente una sconfitta della sua immagine pubblica, tanto che l’ordine rientrò e che, mercé la mediazione di Russo, la direzione si adoperò poi (invano, come sappiamo) per far riammettere almeno alcuni dei bocciati. In realtà, a pagare quest’ultima fiammata di turbolenza studentesca, furono soprattutto i membri del corpo docente: i lettori di francese e di tedesco, che non vennero riconfermati (ma nel caso di tedesco, pesava anche la sua forzata sostituzione di Kristeller a causa delle leggi razziali), e Lamberto Cesari, allievo di Tonelli e giovane incaricato interno di matematica, che proprio l’anno precedente era stato chiamato, e che venne sacrificato in nome di una sua apparente incapacità nel tenere la disciplina tra i propri studenti110. A poche settimane dall’invasione tedesca della Polonia, e a meno di un anno dall’entrata in guerra dell’Italia, che avrebbe comportato per molti allievi il richiamo alle armi, l’interruzione degli studi, e l’avvio della «diaspora normalistica», la comunità studentesca dava ancora una volta prova di saper agire come gruppo compatto al fine di stemperare, e se possibile annullare, i rigori del regolamento gentiliano, a fronte di una direzione, in fondo, tutt’altro che autocratica nei momenti più delicati del rapporto con gli allievi. La nuova Normale, concepita disciplinarmente come una caserma, si era rivelata molto più vivace, turbolenta e piena di vita di quanto la lettura dei suoi testi normativi avrebbe potuto far pensare. Merito, in gran parte, della costruzione di un’identità di gruppo solida da parte di una più numerosa comunità di giovani maschi; un senso del gruppo che avrebbe caratterizzato da allora la rete amicale normalista, destinata ad agire anche dopo l’uscita dal palazzo della Carovana.

  Verbali del Consiglio ’30-’39, seduta del 17 marzo 1933.   Lo racconta P. Omodeo nella sua Testimonianza, p. 250. 110   Verbali del Consiglio ’39-’43, seduta del 1° luglio 1939, pp. 8-9. 108 109

Capitolo III «Avendo sempre in cuore il ricordo degli anni trascorsi…». I normalisti dopo la Normale tra memoria di gruppo e destinazione professionale

Nel 1935 in un collegio dell’Alta Italia, fra il Grappa e le colline asolane, giunsero alcuni laureati dell’Università di Pisa: Valentino Chiocchetti, Carlo Salani, Giuseppe Modena e Sergio Terzolani. A questi si aggiunsero l’anno successivo Tullio Savino e Giuseppe Dessì. Tranne quest’ultimo, tutti erano stati alunni interni della Scuola Normale. […] Per me, che provenivo da una scuola rigidamente conformista, quale il ginnasio della mia città, l’incontro con i nuovi professori fu un impatto sconcertante e liberatorio. Alla lezione fredda, convenzionale, mnemonica, essi sostituivano il colloquio, anzi il dibattito, preoccupati di suscitare in noi, attraverso dubbi e problemi, il bisogno della ricerca. E le discussioni aperte in classe continuavano non solo nei corridoi e nei cortili della scuola, ma anche in casa loro dove noi ci recavamo a trovarli quasi ogni giorno. Il discorso ritornava di frequente sulla Scuola Normale con un riferimento quasi mitico nel loro ricordo e nella nostra immaginazione1.

Il radunarsi di questo piccolo gruppo di normalisti e studenti pisani, giovani professori supplenti e incaricati all’istituto ‘Filippin’ di Paderno del Grappa, fu un evento alquanto bizzarro, favorito certamente da un reclutamento dei docenti basato su norme private, su cui i pisani

  E. Nicolini, Testimonianza, in Frassati (ed.), Il contributo dell’università di Pisa, pp. 93-4. Giuseppe Modena (Oppeano 1911 - Verona ?), ammissione di Lettere 1930, laurea in lettere 1934, negli anni Settanta docente di ruolo al Liceo ‘Maffei’ di Verona. S. Terzolani (Mozzano LU 1911 - Mogadiscio 1940), ammissione di Lettere 1931, perse il posto in seguito ad un’insufficienza negli esami universitari nel 1933 (al contrario di quanto riportato negli elenchi successivi degli allievi); nel 1940 morì in Africa, ma non è stato possibile capire, dalla documentazione conservata presso la Scuola, se per cause di guerra o meno. T. Savino (Roma 1914 - Ferrara ?), ammissione di Lettere 1931, laurea giugno 1935, fu a lungo insegnante di latino e greco al Liceo ‘Ariosto’ di Ferrara, dove ebbe come preside Pasquale Modestino, come lui membro del Centro di Orientamento Spirituale fondato da Capitini. 1

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più anziani potevano intervenire per favorire gli amici senza occupazione e privi di una collocazione nell’assai più rigido sistema dell’istruzione pubblica. Ma l’evocazione di quel piccolo mondo quieto, durato poco più di un anno scolastico, testimonia anche molto bene l’incrociarsi, nella generazione degli anni Trenta, di un forte spirito comunitario con la tradizionale vocazione all’insegnamento che rappresentava, per la stragrande maggioranza degli ex allievi, lo sbocco professionale naturale. Questo non significa che tra i normalisti pregentiliani non esistesse già un certo esprit de corps. Le lettere accompagnatorie allegate alle schede del «censimento normalistico» voluto dalla direzione nel 1932, sono spie molto utili per capire come l’affetto per la propria alma mater e il sentimento di continuità e di tradizione che animava, del resto, tutta l’opera dell’ex allievo Gentile, fossero elementi tutt’altro che rari anche tra coloro che avevano ricevuto il loro diploma prima del 1928, o addirittura alla fine del XIX secolo. «Avendo sempre in cuore il ricordo degli anni trascorsi in fervore di studi nella Regia Scuola Normale», avrebbe scritto il professor Guido Torrese (classe del 1911), «sento nell’animo prorompere vivo l’affetto per quelli che a me furono Maestri […]», mentre lo storico Pietro Silva (classe del 1906) proclamava il proprio orgoglio «di aver appartenuto alla gloriosa Scuola» e Natale Vianello (classe del 1887), uno dei più vecchi allievi viventi a rispondere all’appello del ’32, ricordava «la gloriosa tradizione della nostra Scuola, che ha dato alla Nazione tanti uomini eminenti nelle lettere e nelle scienze», a cui i giovani dovevano ispirarsi volgendo «gli occhi ai nomi dei loro predecessori»2. Ciò che contraddistingueva, dunque, la comunità dei normalisti del «dopo

  G. Torrese (Chieti 1892 - Roma 1969), ammissione di Lettere del 1911, dopo aver studiato alla Normale con Gentile e Salvemini, nel 1917 si stabilì a Viareggio, lavorando nel settore bancario e svolgendo incarichi di insegnamento. Dopo la guerra, a cui non prese parte, fu un attivo militante socialista (fu tra i fondatori della Camera del lavoro di Chieti), e per questo subì rappresaglie di natura politica, che gli impedirono di fatto l’accesso ai ruoli dell’insegnamento fino al 1934. Nel secondo dopoguerra, entro nel PCI da cui si dimise negli anni Cinquanta. Si trasferì a Roma e insegnò al liceo ‘Augusto’ fino al 1964. Pietro Silva (Parma 1887 - Roma 1954), ammissione di Lettere del 1906, è stato uno dei più importanti storici della scuola economico-giuridica, e poi della storia diplomatica tra le due guerre. Ha insegnato all’università di Roma. N. Vianello (Venezia 1863 - Genova 1943), ammissione di Lettere del 1887, fu a lungo docente nei licei classici, poi ispettore scolastico a partire dal 1910 fino alla pensione (1928). 2

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1928» dai loro predecessori non era tanto l’esistenza di questa identità collettiva, più o meno saltuariamente evocata in alcune (rare) occasioni pubbliche, quanto la promozione di un particolare esprit normalien pisano di cui la nuova Normale, consule Gentile, si era fatta mallevadrice, fungendo ad un tempo da agenzia della memoria e da regia di networks (perlopiù informali) tra le classi di allievi, così solidi da sopravvivere alla cesura della laurea e del diploma, e all’abbandono di Pisa3. Sull’importanza del filosofo siciliano nel varo di alcune fondamentali politiche identitarie vi sono pochi dubbi. Fu lui, ad esempio, a volere la fondazione di una Società degli ex allievi che avrebbe dovuto rappresentare non solo un ideale punto di ritrovo tra gli ex ma una sorta di associazione di alumni ante litteram, in grado di coadiuvare l’esistenza della Scuola e di sostenere in modo diffuso nella penisola gli ambiziosi programmi didattici gentiliani. Nel novembre 1933, la Società sarebbe stata formalmente rilanciata allo scopo «di favorire lo svolgimento del programma della Scuola stessa per la preparazione degli insegnanti delle Scuole medie e superiori, per la difesa di queste Scuole e per l’incremento degli studi italiani»4. Ancora, fu Gentile l’ideatore del «censimento» dei normalisti, lanciato nel 1932 mediante una imponente operazione di recupero dei nominativi degli allievi transitati da Palazzo dei Cavalieri a partire dalla sua fondazione (e presumibilmente viventi). Gli ex normalisti vennero raggiunti, nelle settimane antecedenti l’inaugurazione dei nuovi locali, da una lettera circolare che li invitava a riempire un formulario prestampato, indicando i dati relativi alla nascita, al periodo degli studi normalistici, alla laurea e ala successiva occupazione. Il «censimento […] di tutti i vecchi alunni ad ispirazione ed augurio per i nuovi», come recitava la circolare del 1932, si presentava come un’iniziativa del tutto originale per l’epoca, che mirava non solo a raccogliere dati anagrafici da far confluire nel primo elenco degli allievi, ma anche a definire i contorni della «comunità normalistica» al di fuori della Normale, quella galassia operante di studiosi, accademici ma anche (e per certi versi soprattutto) di professori di scuola, inseriti nei gangli vitali del sistema edu-

  Per la nozione di «agenzia della memoria» come promotori delle politiche identitarie (una prospettiva applicata soprattutto ala storia delle identità nazionali ottocentesche e a quella della rimembranza postbellica) cfr., in primo luogo, J. Gillis, Memory and Identity: The History of a Relationship, in Id. (ed.), Commemorations. The Politics of National Identity, Princeton (NJ) 1994, pp. 3-25. 4   Verbali del consiglio ’30-’39, seduta del 17 novembre 1933. 3

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cativo nazionale, a cui Gentile, nei testi della sua retorica pubblica, aveva del resto più volte fatto riferimento5. Le due iniziative ebbero, già nel breve periodo, esiti differenti. La Società degli ex allievi, benché funzionante, non ebbe praticamente alcun rilievo, né nella vita della Scuola né fuori di essa, e solo dopo la rifondazione del secondo dopoguerra avrebbe giocato un ruolo, per la verità notevole, come luogo di discussione sugli assetti della Normale repubblicana e come efficace attore di pressione in vista di alcune strategie messe in atto dalla direzione6. Il censimento gentiliano, invece, oltre a fornire una quantità di materiale prezioso per lo storico, ebbe il pregio di rivitalizzare i legami tra la Scuola e molti ex allievi, informando questi ultimi del rinnovamento in atto, invitandoli a prendere parte attiva alle iniziative in corso (vennero tutti invitati all’inaugurazione del 1932, benché fossero pochi in realtà a poter presenziare) e spingendoli a rimettersi direttamente in contatto, attraverso la mediazione del segretario, con il direttore o con i vecchi compagni di corso. Si trattava della ricreazione di una fitta rete epistolare, destinata a sopravvivere alla cacciata di Capitini e a trovare in Alessandro Perosa un ancor più infaticabile regista, tant’è che si dovette quasi certamente alla sua iniziativa se la direzione della Normale, passata la bufera della guerra, riesumò l’iniziativa, varando un nuovo censimento nel 1948 (parzialmente ripreso poi dieci anni più tardi)7. Una rete da cui emergevano le immagini affettuose di una Scuola come luogo idilliaco di una vita studiosa, colma di affetti e protetta, come aveva ricordato Corasaniti; una quieta isola di raccoglimento, il cui ricordo così prezioso veniva coltivato soprattutto dai più giovani che avevano sperimentato la guerra, la traumatica interruzione degli studi e la diaspora dei maestri e dei com-

  Un esemplare della circolare è reperibile in ASNS, Corrispondenza, 1936-37, b.

5

21.   P. Carlucci, Il Senato della Scuola Normale Superiore, «Normale», 2, 2008, pp. 20-3. 7   A. Perosa (Trieste 1910 - Firenze 1998), ammissione di Lettere 1928, fu allievo ordinario e di perfezionamento della Scuola fino al 1933, allorché subentrò a Capitini come segretario, un incarico che tenne per vent’anni (con alcune lunghe assenze durante l’ultima fase del conflitto mondiale e fino al provvisorio ritorno di Capitini) e che fece di lui il vero mediatore tra la Normale gentiliana e quella postbellica. A partire dal 1945 fu incaricato di Letteratura umanistica a Pisa, fu poi docente di Filologia medievale e umanistica a Cagliari (1955-59) e quindi a Firenze, dove insegnò fino al pensionamento nel 1980. 6

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pagni di studio. «Ritornare alla vita degli studi» era, come vedremo parlando dei normalisti attraverso la bufera del 1940-45, un imperativo categorico, che poneva in netto contrasto la vita tormentata dai problemi materiali e dalle insoddisfazioni della vita professionale con il mondo «di tranquillità, di studio e di meditazione» della vita alla Scuola, l’ «oasi, buon ritiro» vagheggiata, in senso più politico, anche nelle memorie di Alessandro Natta8. La Normale, nell’intreccio di lettere che, nel corso di quegli anni sarebbero state accluse ai fascicoli personali, sarebbe rimasta sempre la «nutrice», cui si deve la riconoscenza che si ha verso la madre prodiga di attenzioni9, l’alma mater vagheggiata dagli studenti che «rimpiangono con nostalgia i tempi trascorsi tra le mura di Palazzo Cavalieri è per chi ci è rimasto e ancora ci vive un motivo di soddisfazione e di incitamento e ben fare affinché questa istituzione, che è di noi presenti ma ancor più di quanti nel passato vi sono usciti e sono ora disseminati nelle varie scuole d’Italia, sempre più riceva incremento e lustro nell’estimazione degli uomini colti del nostro Paese»10, l’isola di tranquillità degli affetti e dei ricordi giovanili, infine, retta con severità ma amore dal «piccolo padre», di cui negli anni passati si rimpiangerà amaramente la fine crudele pur senza mai averne condiviso il pensiero politico11. Tuttavia, il dipanarsi di queste reti epistolari-assistenziali, più o meno formalizzate, tra la Scuola e i gli ex allievi, fu solo una parte dei legami che in quegli anni si vennero stringendo tra i normalisti al di fuori della Normale, e che delineano la genesi di una comunità sempre più dotata di un’identità spiccata, ad un tempo amicale e professionale. Il più famoso tra questi

  C. Violante a A. Perosa, 16 dicembre 1945, in ASNS, AA, b. 1, s. Violante, Cinzio. Sulla figura di Violante e sulle origini di questo breve ma intenso scambio epistolare con Perosa, rimando a M. Mondini, Ritornare alla vita degli studi. Uno scambio epistolare tra Cinzio Violante, Alessandro Perosa e Luigi Russo (1945-48), «Normale», 2, 2009, pp. 21-4. A. Natta, Una scuola di antifascismo (1955), in Capitini, Antifascismo tra i giovani, pp. 176-7. 9   Alfonso Irace a A. Perosa, 9 marzo 1943, in ASNS, Cartelle allievi, f. Irace. A. Irace (Pimonte NA 21 aprile 1918 - Perugia ?), ammissione di Lettere 1938, dopo la laurea nel 1943 e una borsa a Gottinga, da cui rientrò fortunosamente in Italia nell’estate di quell’anno. Dopo alcune difficoltà, dopo la guerra iniziò la carriera dell’insegnamento nelle scuole secondarie, fino a diventare docente al liceo classico di Perugia. 10  Da A. Perosa ad A. Corasaniti, 5 febbraio 1948, in ASNS, Cartelle allievi, f. Corasaniti. 11   Da Irace a Perosa, 1° ottobre 1945. 8

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networks, e sicuramente anche il più caratteristico, fu certamente quello articolatosi a cavallo tra anni Venti e Trenta attorno all’asse Baglietto – Cantimori – cerchia degli amici pisani, un complesso di rapporti di cui molto si è detto, anche in queste pagine, ma da cui emerge anche una forte componente di solidarietà professionale (e, per certi versi, clientelare) perlopiù trascurata da coloro che se ne sono occupati fino ad oggi. La vicenda della rinuncia a tornare da parte di Baglietto, il suo volontario esilio e le fratture ideologiche, solo a stento ricomposte, anche tra gli amici pisani, avevano certo lasciato una traccia profonda sulla Normale. Ma non bisognerebbe confondere lo scandalo suscitato dalla presa di posizione radicale del giovane filosofo, disposto a gettare alle ortiche una carriera promettente e la vita in patria per seguire le sue convinzioni di non violenza ispirate alla più ortodossa lezione di Capitini, con l’isolamento nei confronti dei colleghi di Normale, persino quelli più sinceramente aderenti al regime. Baglietto era forse personaggio troppo seducente da un punto di vista intellettuale, o anche solo umanamente molto benvoluto, per allontanare da sé, con la sua scelta, confidenti e compagni, e del resto è noto che un primo scambio molto intenso, pochi mesi dopo il «gran rifiuto» e la scelta di rifugiarsi in Svizzera, Baglietto l’ebbe con Basilio Manià, fascista convinto e volontario nella campagna di Spagna (l’unico), a cui l’esule neofita scrisse della sistemazione a Basilea, ma anche chiese delle ripercussioni del suo gesto all’interno della Scuola12. Con Cantimori, il carteggio presentò sempre un carattere non solo di scambio intellettuale, ma anche di profondo interessamento pratico. Fu Cantimori, nell’autunno del 1934, a procacciare all’amico, ad esempio, una collaborazione come traduttore per la casa Sansoni, che fu per molti mesi, insieme alle lezioni private, la maggiore fonte di reddito per il giovane esule13. Oltre a questa mediazione, e ad altre collaborazioni minori, l’aiuto di Cantimori si tradusse, almeno una volta, in una of-

  B. Manià (Fiume 1909 - Pavia 1939), ammissione di Scienze 1926, laurea in matematica 1930. Considerato uno dei più brillanti matematici del suo tempo, e indubbiamente uno dei personaggi più caratteristici della sua generazione normalistica, Manià si suicidò a Pavia, dove era diventato da poco, giovanissimo, ordinario di analisi, per motivi probabilmente di ordine sentimentale. Per la corrispondenza tra lui e Baglietto cfr. Simoncelli, La Normale di Pisa, pp. 124-7. 13  ASNS, Fondo Cantimori, cartolina postale, da C. Baglietto a D. Cantimori, 20 settembre 1934; lettera da Baglietto a Cantimori, 5 novembre 1934. 12

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ferta di aiuto economico personale, causato dalle continue difficoltà di Baglietto, impossibilitato dalle ristrettezze finanziarie a trovare una sistemazione stabile e costretto a vagare di pensione in pensione a Basilea risparmiando sui magri emolumenti, in difficoltà soprattutto durante le vacanze estive, quando gli veniva meno il sostegno delle ripetizioni che dava ai figli di alcune famiglie della borghesia locale. La generosa profferta di sostegno fu graziosamente rifiutata: «per ora io non bisogno urgente, sarà probabilmente per quest’estate, quando mi mancheranno le lezioni. Per ora ti prego ricordarti delle 230 lire del libraio che io devo assolutamente pagare, l’ho già fatto aspettare tre anni. Grazie anche dell’offerta di traduzioni, per ora non potrei perché per alcuni mesi ho ancora il romanzo. Tutto dipende da dove io sarò tra alcuni mesi. Se non fossi più qui mi mancherebbero le lezioni e allora mi sarebbe molto utile aver da tradurre»14. Più insistente fu invece la richiesta di una mediazione per la traduzione e la pubblicazione in Italia dell’opuscolo di un influente avvocato svizzero che avrebbe potuto rappresentare uno sponsor per l’eventuale scelta di una carriera accademica da parte di Baglietto: «lo mando a te pregandoti di fare il possibile, anche perché l’avvocato Wettstein è una persona abbastanza importante e mi potrebbe essere utile, come pure forse a te. Come vedrai, nell’opuscolo di politica di partito non c’è niente, dev’essere fatto per essere pubblicato anche in Germania»15. Richiesta insistente, anche se mai evasa, che Baglietto poneva, certo, con tutte le dovute cautele («di politica non c’è niente») rispettando le differenze di vedute estremamente marcate con l’amico; la rete della solidarietà normalistica funzionava, ma senza che ciò significasse il venir meno delle fratture ideologiche. La rete cantimoriana, tuttavia, non avrebbe funzionato solo per l’eclatante caso di Baglietto. Come sovente già segnalato, attorno al normalista più anziano del «contubernacolo pisano», ritornato alla vecchia sede in qualità di «Vice-padre (se il Senatore è il pater) dei normalisti», come avrebbe scritto Carlo Cordié, si articolava una attiva galassia di contatti amicali, intellettuali, certamente, ma anche (e in certi casi soprattutto) professionali16. Proprio Cordié, del resto, era stato uno degli amici più beneficati dalla costante premura con cui Cantimori aveva svolto la sua opera di consulente e soprattutto

  Ibid., da Baglietto a Cantimori 6 febbraio 1936.   Ibid., da Baglietto a Cantimori, cartolina postale 21 luglio 1937. 16   Ibid., da C. Cordié a Cantimori, 22 settembre 1937. 14 15

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di mediatore con il potente «Senatore» (Gentile) che, anche dopo la sua precoce rinuncia alla guida del ministero, nonostante alcuni periodi critici (soprattutto durante la gestione De Vecchi) e il persistere di molte avversità, godeva ancora di sufficiente autorità e prestigio all’interno delle segreterie ministeriali per poter, ad esempio, favorire il trasferimento in una sede più ambita, evitando agli ex normalisti i lunghi anni di esilio nelle «prime sedi» di provincia, i centri sprovvisti di buone biblioteche e di collegamenti con i capoluoghi universitari, particolarmente dure per chi continuava a inseguire il sogno di una carriera scientifica. Ancora studente, Cordié, nel 1930, aveva collaborato, su proposta dell’amico Delio, agli infiniti lavori di schedatura che avrebbero contribuito, nel corso di alcuni anni, al Dizionario di latino medievale pubblicato poi a cura di Arnaldi, e per la cui preparazione a Pisa era stata istituita una delle «Officine» (l’altra era a Napoli): un incarico mal retribuito (come avrebbe scritto in una lettera scherzosa e densa di riferimenti alla invidiabile posizione di dipendente regolarmente stipendiato del professore liceale Cantimori), che costringeva ad un lavoro defatigante e che gli aveva rubato molto tempo libero durante diversi mesi, ma pur sempre una fonte di reddito, per lo squattrinato studente, senza risorse familiari, «in cattive acque» e che si autodefiniva «una fregata a secco»17. Anni più tardi, si sarebbero presentati invece i problemi professionali più seri: partecipante ad un concorso a cattedre per le scuole secondarie, e apparentemente vincitore di un ruolo per materie letterarie per Istituti tecnici, Cordié ricorreva all’amico perché accertasse personalmente al Ministero la notizia non ancora trasmessa in via ufficiale, e perché, nel caso, si adoperasse personalmente, attraverso conoscenze romane, o si facesse ambasciatore presso Gentile di una richiesta per una sede più consona all’attività di ricerca in letteratura francese che l’ex normalista avrebbe voluto continuare: «ti ricordo sempre e mia moglie non fa che parlare della tua bontà, che sta per diventare una cosa prevedibile nella mia famigliola. Ora ti vorrei chiedere: è possibile ottenere per sede Torino? Ovvero Pinerolo, Asti, e altre città vicino a Torino? Vorrei lavorare di francese, comprendi […]. Io poi sono terzo, e questo può bastare? Nostro Santo di famiglia, puoi fare per noi qualcosa? Comunque noi ti ringraziamo sempre […]. Il Senatore non ci può nulla?»18. Mediazione non facile, certo. L’inerzia della burocrazia romana, che gestiva in

  Ibid., da Cordié a Cantimori, 3 aprile 1930.   Ibid., da Cordié a Cantimori, cartolina postale, 13 agosto 1935.

17 18

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modo assolutamente centralistico tutte le pratiche del personale della Pubblica Istruzione, rendeva difficile ottenere qualcosa, anche muovendo gli «amici romani» di Cantimori. Più volte, nei mesi successivi, le lettere scambiate tra Asti e Roma sarebbero state inframmezzate da giudizi poco lusinghieri sull’amministrazione ministeriale, sui suoi ritardi e sul totale disprezzo verso il merito e le esigenze dei professori, e della vita dei dipendenti in generale: Mi scuserai se torno a disturbarti, ma devi anche comprendere in che situazione mi trovo. Entro domenica devo accettare o no a Biella (luogo commerciale, diabolico e distante tre ore almeno di qui: 20.000 abitanti e figurati che biblioteca) una supplenza per poche centinaia di lire. Il posto sembra che non ce lo dia il Ministero. Puoi mandarmi un espresso entro sabato, in modo da sapere che cosa fanno quei signori? Non sai proprio nulla? Passiamo ad altro. […] Mia moglie, tempo fa che la vidi ad Alessandria dove è sempre ospitata dagli zii, mi supplicò di scriverti, che tu ci «avresti salvati». Certo la situazione non è lieta. Tra un mese e mezzo circa nascerà il bimbo, non abbiamo pronta per lui casa né nulla. Non possiamo approfittare dell’ospitalità generosa degli zii. Ma a Biella, con quel magro stipendio, come si farà? Gli amici ci danno, lo dico senza retorica, la forza ed il cuore di andare avanti. […] Addio acro. Mi rivolgo a te da lontano. Qui non ho nessuno. Non so vivere senza conversare, scambiare idee ecc. Vorrei solo con un po’ di buona serietà redimermi dai cattivi concetti che vi siete un tempo fatti su di me, per le mie esuberanze, per la mia scarsa disciplina19.

In modo simile agli altri epistolari della generazione pisana degli anni Trenta (quello più analizzato, tra Dessì e Varese, ne fornisce un esempio paradigmatico), anche la conversazione a distanza tra Cantimori e i suoi corrispondenti si nutriva fondamentalmente di un costante dialogo intellettuale, in cui convivevano notizie e commenti sul dibattito culturale dell’Italia contemporanea, informazioni bibliografiche e critiche, evocazioni sul bel tempo perduto quando, negli anni studenteschi, il circolo normalistico si nutriva di idee scambiate, di parole e di incitamenti allo studio e alla ricerca. Ma, rispetto al carteggio Dessì-Varese, quello tra Cantimori e Cordié (uguali considerazioni varrebbero anche per le lettere con Ragghianti, con Varese stesso, con Alfieri, come si è già visto) era anche pervaso da un costante affastellarsi di messaggi, richieste e preoccupazioni per l’avvenire occupazio-

  Ibid., da Cordié a Cantimori, s.d., ma fine agosto-metà settembre 1935.

19

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nale, che forse non diminuiva la tensione letteraria del «patto epistolare», ma che certamente restituisce oggi un’idea alquanto precisa di un dialogo assai meno lirico di quello esistente tra il romanziere Dessì e l’amico-critico Varese20. Raggiunto dalla confortante notizia ufficiale della sua vittoria al concorso a cattedra, che gli permetterà di veder diradare le nubi sul suo futuro e di poter riunire la famiglia, Cordié raggiungerà virtualmente Cantimori poche settimane più tardi, arricchendo il contatto con frequenti riferimenti al comune discorso culturale (recensioni promesse ma non ancora apparse, segnalazioni di libri pubblicati), senza far venir meno tuttavia la nota dominante dell’inquietudine professionale (in questo caso, riferita al comune amico Varese): «cerca di sapere se ha vinto (come è augurabile, non ostante le burocrazie) il concorso. Possa anch’esso trovare un po’ di raccoglimento e di possibilità di buon lavoro. Ti sembra? È la cosa più umana e più giusta che possa toccare un po’ a tutti noi»21. Un filo rosso della conversazione ben testimoniato dalla continuazione del carteggio, perlopiù sempre incentrato su favori chiesti, ottenuti, scambiati e su mediazioni con personaggi autorevoli per facilitare mutamenti di sede e avvicinamenti ai centri della produzione culturale: «ricorro a te per aiuto. Come del resto tu mi avevi già consigliato a suo tempo. Perciò ti disturbo. Ricordo dunque che ho fatto ad aprile domanda di trasferimento anche quest’anno: per Torino Istituti tecnici superiori, cattedra di Italiano e storia. Sono ivi alcune cattedre vacanti, almeno due. Io sono ad Asti, R. Istituto Tecnico commerciale e per geometri, cattedra suddetta. Ho chiesto anche eventualmente di passare ai Magistrali, stessa cattedra. Puoi ricordarmi al Senatore per tale cosa? Così mi è duro vivere. Non posso lavorare come è necessario. Aiutami tu che lo puoi […]»22. Questa dimensione di mediazione clientelare interna alla rete cantimoriana rappresentò una delle caratteristiche più tipiche dello spirito di gruppo della generazione gentiliana, alimentata dal costante rinvio alla comune matrice culturale, al legame inscindibile instaurato negli anni pisani e alla Normale come ricorrente termine di riferimento della propria attività (trasferitosi a Milano a insegnare in una «scuoletta di ragionieri», Cordié si lamentava di essere afflitto per l’impossibilità «di non poter inviare nessuno a fare il concorso

  Sul carattere del «patto epistolare» amicale tra Varese e Dessì cfr. M. Stedile, Introduzione a Id., Giuseppe Dessì - Claudio Varese. Lettere 1931-1977, pp. 11-48. 21  ASNS, Fondo Cantimori, da Cordié a Cantimori, 20 settembre 1935. 22   Ibid., da Cordié a Cantimori, 11 luglio 1937. 20

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per la Normale»)23. Né, del resto, si deve supporre che questo legame di solidarietà amicale non fosse biunivoco. Ritrovatosi direttore della Casa editrice Leonardo all’inizio degli anni Quaranta, Cordié coinvolse Cantimori, oramai storico affermato e docente in Normale, in diverse iniziative editoriali, offrendogli la cura di un certo numero di volumi in una collana (provvisoriamente definita «rara») di autori del pensiero italiano contemporaneo e risorgimentale, «un’impresa fatta in tutto e per tutto per la cultura», con un taglio assai ambizioso e non divulgativo24. Si trattava di un’offerta vantaggiosa (almeno dal punto di vista economico), che incontrò tuttavia le resistenze del destinatario, apparentemente tanto insoddisfatto delle condizioni contrattuali da avanzare rilievi offensivi in una lettera (di cui purtroppo non è stata ritrovata copia) all’amico-editore, il quale peraltro prontamente replicò in termini piuttosto duri25. Il litigio tra i due si sarebbe ben presto ricomposto; già qualche settimana dopo, il carteggio riprendeva con l’illustrazione dei dettagli di un possibile accordo per l’edizione di volumi sintetici riguardanti la Riforma, e con l’offerta di una possibile traduzione di testi di narratori tedeschi moderni e contemporanei. Era evidente che l’irritante comportamento di Cantimori aveva trovato una sua spiegazione e che il corso dell’amicizia aveva ripreso il suo andamento consueto, fatto ovviamente non solo di rapporti di lavoro e di sostegno vicendevole ma anche (e a volte soprattutto) di un legame di profonda affinità, quasi fraterno a tratti: richiamato dall’esercito per una visita che l’avrebbe potuto rendere abile al servizio attivo, in pieno conflitto mondiale, Cordié si congedava tra il serio e il faceto nominando Cantimori «esecutore testamentario dei manoscritti fo-

  Ibid., da Cordié a Cantimori, 12 aprile 1942.   Ibid. Non ho trovato notizie che confermino la reale pubblicazione di questi volumi, se non altro a cura di Cantimori. 25   «Poiché tu parli di offese, tengo a dirti, in qualità di Direttore della Casa, che la tua cartolina del 28 giugno è offensiva per noi come per qualunque casa editrice. Migliori condizioni non potevano esserti fatte quanto al compenso o alle copie: tutto il resto che lamenti è formulario del contratto tipo nazionale. L’Amministratore, che è un chimico e attualmente sotto le armi, non poteva escogitare per te formule speciali, già che studiosi e letterati ben abituati a fare contratti non hanno trovato niente a ridire. […] Quanto al tuo dirmi, da infastidito, di piantarla con frasi che tanto non fanno effetto, lo considero suggerito, come quelle per la Casa, da un momento di malumore. Però, dopo tutto, anche se mi duole, conosco meglio così il tuo modo di pensare e di agire»; da Cordié a Cantimori, 1° luglio 1942. 23 24

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lenghiani», alla cui pubblicazione attendeva ormai dal 193726. Allo stesso modo, confidenze, collaborazione professionale, richieste di aiuto e evocazioni dei legami dell’antico gruppo collegiale, si andavano intrecciando negli stessi anni nelle conversazioni epistolari tenute tra le diverse sedi di lavoro di Cantimori e i vecchi amici sparsi per l’Italia e l’Europa. Tra di loro, spiccava Ragghianti, irritante e suscettibile, che farciva le sue lettere con resoconti impietosi dei litigi avuti con amici e colleghi e che chiedeva all’antico compagno di farsi testimone non solo dei dissidi all’interno della piccola comunità normalistica (e ce ne furono alcuni, anche profondi, attraverso gli anni)27 ma anche di alcuni, delicati conflitti apertisi sul versante accademico o editoriale, tra cui, non ultimo, quello alquanto acerbo con Federico Gentile a proposito della ventilata soppressione nel 1941 della rivista Critica d’Arte28. Più diplomatico, e incline alla rievocazione malinconica del passato pisano, Varese, che a volte firmava anche le lettere di Ragghianti, avendo i due l’occasione di incrociarsi a Firenze o Roma, fu per molti anni, già da allievo, uno dei corrispondenti più assidui, e a lui si devono alcune delle testimonianze epistolari più precise e intime sulla vita quotidiana e goliardica del gruppo. Subito dopo la sua laurea, tuttavia, il tono delle lettere mutò, includendo in esse molti riferimenti alla non facile situazione professionale e alla difficoltà di arrivare persino a poter vantare la sicurezza di una cattedra scolastica; una scelta giudicata obbligatoria, per assicurarsi un minimo di sicurezza sociale, ma anche ingrata e inappagante, per chi coltivava i sogni

  Da Cordié a Cantimori, 24 agosto 1942. Il lavoro di edizione di Cordié rifluirà definitivamente poi nel testo da lui curato delle Opere di Teofilo Folengo, NapoliRoma 1968. 27   Ad esempio, la rottura che vide il distacco di Varese da Capitini nell’estate 1936: «Ti assicuro che nonostante gli anni e i tempi ho avuto un rigurgito di anticapitinismo, come se fossimo ancora alla Normale a pugnare […]»; Stedile, Giuseppe Dessì - Claudio Varese. Lettere 1931-1977, p. 136. 28  ASNS, Fondo Cantimoti, da C.L. Ragghianti a Cantimori, 30 novembre 1941. Critica d’arte, che Ragghianti aveva fondato nel 1935 e diretto insieme a Bianchi Bandinelli, doveva essere sostituita con un nuovo periodico dal titolo Proporzioni, mentre Ragghianti progettava di trasformare Emporium, esistente già dal 1895 e di cui aveva assunto la direzione, in una «rivista di cultura non solo specialistica di critica d’arte moderna e contemporanea», per la realizzazione della quale chiedeva la collaborazione proprio di Cantimori. Critica d’arte venne poi in effetti sospesa nel 1943. 26

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della ricerca accademica29. Molto più di altri, in effetti, Varese metteva in luce la distanza che pareva intercorrere tra le aspirazioni a cui li aveva condotti la coscienza di appartenere ad un gruppo scelto, di studenti prima e di intellettuali poi, e la prospettiva di un impiego grigio nei ruoli della scuola media, magari precario e costretto a quelle sedi di provincia che rappresentavano, secondo un dato ormai ben noto, la morte della vita culturale: «sei da parecchio tempo senza scrivermi e penso che ti vada adattando alla nuova vita che ti invidio tanto più che mi si apre la prospettiva di anni e anni di professorato, supplente a Cagliari od ordinario a Castrovillari, a Noto, a Nuoro: porto con me la medaglietta della laurea e ne guardo la data! 1930, scrollando malinconico e sospiro la testa come un vecchio che abbia fallito la propria giovinezza mi occupo sempre e sempre inutilmente di me, pur sapendo che se riuscissi a dimenticarmi, a dimenticare tutto questo, e a collocarmi in qualche altra cosa, sarebbe vantaggio, fortuna, tornaconto, per me»30. Si trattava di un’insoddisfazione destinata a svanire, pare, a contatto con le prime serie esperienze didattiche, alcune supplenze a Cagliari nel 1934, che diedero all’inquieto ex normalista la sensazione di aver trovato, finalmente, una disciplina e un ordine «borghesi» nella vita quieta e regolare del professore31. Appagata la «smania borghese della posizione purchessia», nella prosa di Varese ricompariva continuo il riferimento al «contubernacolo» pisano, come metro di paragone dell’attività, della soddisfazione del proprio lavoro e di sé, dove le virtù operose degli amici (specie degli iperattivi Ragghianti e Cordiè, e dell’«arrivato» Cantimori) delineavano i confini di un modello ideale di vita: «vi invidio tutti quanti, come siete più seri, più attivi di me, come credete alle cose dello spirito», come avrebbe scritto in una lettera a Dessì dettata dallo sconforto e dalla constatazione di non essere più riuscito a ritrovare il gusto della ricerca, dello studio, della produzione intellettuale originale32. Ulteriore testimonianza dell’importanza detenuta, nel discorso collettivo elaborato dai normalisti appartenenti alla generazione tra le due guerre, dalla memoria dei circuiti studenteschi originari, ma anche dalla forte identità in quanto comunità intellettuale, la corrispondenza tra

  Ibid., da Varese a Cantimori, 8 marzo e 14 maggio 1933.   Ibid., da Varese a Cantimori, 17 dicembre 1934. 31   Da Varese a G. Dessì, 17 febbraio 1935, in Stedile, Giuseppe Dessì - Claudio Varese. Lettere 1931-1977, p. 114. 32   Ibid., da Varese a Dessì, 2 agosto 1935, p. 121. 29 30

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Varese e Dessì (e Cantimori, e Ragghianti e gli altri) dipingeva anche una situazione professionale tutto sommato bizzarra, se valutata con i metri accademici odierni (o, meglio, di qualche anno fa). Gli allievi di quella che si riteneva la più prestigiosa istituzione formativa universitaria dell’Italia fascista, diretta dall’intellettuale più in vista all’interno del regime, faticavano – salvo alcune brillanti eccezioni – a collocarsi persino nei ruoli scolastici, vivendo lunghe trafile e anni di instabilità prima di poter aspirare ad una posizione universitaria che, peraltro, alcuni non menzionavano mai, quasi avessero staccato del tutto l’attività culturale dalla sua legittimazione accademica. Si trattava, naturalmente, di una situazione paradossale solo in apparenza. In primo luogo, perché la Normale non rappresentava affatto, per la maggior parte dei suoi ex allievi, una corsia preferenziale verso la cattedra, a fronte di una situazione del reclutamento universitario in Italia tradizionalmente centrifuga. La nomina ministeriale delle commissioni di concorso, in voga fino agli inizi del ’900, non aveva di fatto portato ad una centralizzazione delle promozioni accademiche; la riforma Gentile, che era tornata ad attribuire al ministro una forte influenza sulla scelta dei commissari, era poi stata manomessa dalla revisione voluta nel 1925 ad opera del neo-ministro Fedele, dopo di che il localismo delle commissioni si era esasperato, prevedendo le norme tra anni Venti e Trenta una forte preponderanza della facoltà locale nella selezione della rosa di eleggibili all’interno della quale il ministro della Pubblica Istruzione avrebbe poi selezionato i cinque commissari. Negli anni Trenta, infine, il meccanismo di nomina delle commissioni sarebbe tornato rigidamente nelle mani del titolare del dicastero, senza che tuttavia, in generale (come si evince ad esempio bene dalle corrispondenze di un personaggio accademicamente al centro di cordate e opposizioni, come Gentile) si potesse individuare, all’interno dei meccanismi di cooptazione dell’élite accademica, un fattore chiave al di fuori dell’influenza delle varie e litigiose cordate clientelari33. In questo contesto, emergeva ancora di più come non solo la Scuola pisana

  Il sistema concorsuale universitario italiano non ha attirato l’interesse di molti studiosi. Per un primo inquadramento dei meccanismi di base del reclutamento universitario cfr. I. Porciani, M. Moretti, Il reclutamento accademico in Italia. Uno sguardo retrospettivo, «Annali di storia delle Università italiane», 1, 1991, pp. 11-39; un panorama riassuntivo della storia dei concorsi universitari, letta come dialettica irrisolta tra tendenze centripete e centrifughe della cooptazione, con esempi divertenti tratti da alcuni casi concorsuali particolarmente eclatanti, è offerto da S. Gaffi, 33

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non rappresentasse un elemento cardine e formalmente riconosciuto del mondo universitario nazionale, ma non venisse nemmeno considerata un centro di formazione particolarmente prestigioso, ai cui allievi potessero essere riservati trattamenti particolari. Almeno dal punto di vista del reclutamento del corpo docenti, la Normale gentiliana era tutt’altro che un «semenzaio» nazionale; piuttosto, si direbbe, un corpo eccentrico e marginale. Di fronte a questa situazione, l’influenza personale di Gentile, di cui allievi ed ex allievi si erano valsi con così tanto profitto nell’ambito della più malleabile amministrazione scolastica, poteva ben poco34. Nonostante la sua visibilità all’interno delle iniziative di regime, e il suo legame personale con Mussolini (o, forse, proprio per la sua ingombrante ubiquità nel campo accademico), Gentile era tutt’altro che un regista indisturbato della vita scientifica e universitaria tra anni Venti e Quaranta. Con l’eccezione di Roma, sede della sua università, e di Pisa, dove il secondo quinquennio degli anni Venti vide la realizzazione di un asse egemonico tra Normale e ateneo che avrebbe retto fino alla seconda metà degli anni Trenta, gli allievi di Gentile, e i seguaci dell’idealismo gentiliano anche in settori diversi dalla filosofia, erano tutt’altro che sicuri di occupare posizioni importanti, e persino di accedere alla cattedra. Al contrario, la «crisi dell’attualismo», di cui Gentile stesso (ma anche Luigi Russo) parlarono (e quasi menarono ironicamente vanto) a più riprese, passava anche attraverso l’isolamento dei pochi gentiliani che avevano avuto accesso all’insegnamento universitario. Francesco Collotti, Gaetano Chiavacci, Vladimiro Arangio-Ruiz, per non citare che alcuni esempi clamorosi, subirono gli effetti di una campagna di ostracismo (che colpì duramente anche il fidato Francesco Arnaldi quando tentò il concorso a cattedra), e ottennero una posizione solo dopo vari tentativi andati a vuoto. Armando Carlini, che a Gentile doveva la nomina per chiamar fama nel 1922 e fondamentalmente il rettorato

Considerazioni sulla grandezza e decadenza dei concorsi universitari, «Quaderni di storia», 71, 2010, pp. 77-110. 34   Ancora una volta è opportuno ribadire come i favori dispensati da Gentile non riguardassero il conseguimento o meno del ruolo, per raggiungere il quale era necessario passare attraverso le forche caudine dei concorsi a cattedra decretati dal Ministero, ma avessero come oggetto l’ottenimento di alcune supplenze o, ancor di più, e come ricordato in molteplici luoghi, l’assegnazione di sedi meno disagiate. Cfr. ad esempio la lettera di ringraziamento per il trasferimento da M. Turriani a Gentile, 13 ottobre 1932, in ASNS, AA, b. 2, s. Turriani, Maria.

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pisano nel 1927, si schierò nel 1937 addirittura con i suoi avversari, dopo una serie di screzi e affronti esternati sulle pagine delle riviste di filosofia35. Lo stesso accidentato percorso di Russo per sfuggire ai ruoli dell’insegnamento secondario e ottenere la cattedra, una via crucis in cui Gentile ebbe un ruolo decisivo, fu un’ottima dimostrazione della relativa debolezza del Senatore di fronte alle camarille tradizionali dell’accademia italiana36. L’impossibilità della Normale di dispensare titoli che facilitassero formalmente l’accesso alla docenza, da un lato, e la sua marginalità nell’intreccio delle clientele accademiche, dall’altro, spiegano in parte come mai la destinazione professionale degli ex allievi, anche di quelli dell’era gentiliana, fosse tutt’altro che esclusivamente accademica, e come, anche nella scelta della carriera scolastica, fossero non poche le difficoltà incontrate per superare i concorsi a cattedra ed ottenere l’ambito titolo di «ordinario» (l’attuale docente di ruolo a tempo indeterminato). D’altro canto, è opportuno ricordare come la vocazione professionalizzante della Scuola, ribadita a più riprese dallo stesso Gentile, mirasse molto più alla formazione di un corpo docente di alto livello per le scuole secondarie piuttosto che alla preparazione dei futuri docenti universitari: una meta contemplata, ma non enfatizzata come dominante, come si è visto, sia nei testi pubblici e programmatici che nello stesso Statuto («di promuovere anche con studi di perfezionamento l’alta cultura scientifica e letteraria»). Gli «educatori» della nazione, il cui addestramento era il vero scopo della Scuola Normale, erano, per quanto riguardava Gentile, i docenti delle scuole superiori, e fondamentalmente dei due licei, e solo in misura minore gli universitari, coerentemente del resto ai ristretti numeri di professori di ruolo nelle università dell’epoca. Non deve stupire, dunque, scoprire che fu l’impiego nel mondo scolastico (insegnamento e, in parte, dirigenza di istituti) a rappresentare l’opzione professionale più tipica delle generazioni normalistiche tra le due guerre, molto di più delle collocazioni, del tutto marginali anche se magari in linea con la preparazione offerta dalla Classe di Lettere, nell’editoria, nelle biblioteche o nelle

  Cesa, I nemici di Giovanni Gentile, specie pp. 149-51.   Luigi Russo avrebbe infine ottenuto la cattedra fiorentina nel 1927 dopo essere risultato primo nella terna vincente degli idonei ad un concorso bandito dall’Università Cattolica di Milano l’anno precedente, e dopo aver inutilmente tentato altri due concorsi. Cfr. Pertici (ed.), Luigi Russo - Giovanni Gentile 1913-1943, specie lettere nn. 70, 71 e 78, pp. 135-49. 35 36

235  Parte seconda.  Capitolo III. I normalisti dopo la Normale

Soprintendenze alle Belle Arti, un fatto che avrebbe senz’altro rallegrato il «rifondatore» della Scuola (tab. 13). Poco meno della metà degli immatricolati tra gli anni accademici 1919-20 e 1943-44 furono in effetti assorbiti definitivamente dal sistema scolastico, un po’ di più dei futuri professori o ricercatori universitari e molto di più di altre scelte professionali, come ad esempio la politica a tempo pieno (in pratica, la quasi totalità dei 16 normalisti che percorsero strade non riconducibili né all’insegnamento né alla ricerca), opzione che conobbe un certo successo solo tra gli esponenti della generazione della guerra. D’altra parte, non si deve ritenere che la figura dell’insegnante superiore venisse percepita sempre come un ripiego, considerato che una buona parte dei normalisti trattenutisi nelle scuole ottenne prima o poi una delle ambite cattedre dei Ginnasi-Licei governativi (la rete delle scuole principali del Regno, collocate nei più importanti centri urbani), meta professionale considerata, almeno fino all’immediato secondo dopoguerra, di un certo prestigio37. Non è un caso che, in un numero non limitato di occasioni, la posizione di ruolo nel triennio di un Ginnasio-Liceo governativo (e dopo la riforma del 1923, benché in forma minore, presso un Liceo scientifico) coincidesse con la libera docenza universitaria, e in non pochi casi con qualche forma di incarico (o di assistentato) che poteva preludere all’ingresso, a diverso titolo, nei ranghi accademici. Una liminarità, quella tra accademia e liceo, tipica della situazione italiana almeno fino agli anni Sessanta, che consentiva a molti studiosi di poter sopravvivere, in assenza di dottorati, contratti e assegni di ricerca, fino alla possibilità di un concorso a cattedra nel proprio ateneo. Molti normalisti seguirono questa lunga (e topica) trafila, spesso transitando da docenze saltuarie ad un insegnamento di ruolo, per accedere poi a qualche cattedra di un liceo cittadino, contemporaneamente ottenendo la libera docenza e l’affidamento di un incarico accademico; dopo un’attesa di alcuni anni, infine, si sarebbe potuta schiudere la possibilità di una cattedra nella facoltà all’interno della quale si prestava servizio come assistente volontario, o professore incaricato. Fu la via crucis percorsa, con rassegnazione, da alcuni dei protagonisti più in vista della Classe di Lettere degli anni Venti e Trenta: Alfieri, Segre, Alpino, Varese, Cordié, lo stesso Cantimori, furono tutti, chi più chi meno, obbligati a mantenersi nei modi più disparati prima di poter aspirare ad una docenza

  Per alcuni accenni al ruolo dei docenti e alla rete dei Licei governativi cfr. Scotto di Luzio, Il liceo classico, pp. 123-42. 37

236  Generazioni intellettuali

accademica. Non sempre e non per tutti questa attesa fu coronata da successo; per molti, certamente, la situazione fu sbloccata dagli sconvolgimenti portati, anche nel sistema delle Università, dal secondo conflitto mondiale, dalla caduta del regime e dalla guerra civile, eventi in grado non solo di cancellare l’ostracismo politico subito da alcuni dei meno avveduti antifascisti della prima ora, ma anche di favorire carriere per la scomparsa di alcuni cattedratici o l’epurazione, tra 1943 e 1948, di altri38. Per motivi molto simili, del resto, il numero dei normalisti ritenuti all’interno dei ranghi universitari, perlopiù secondo le indicazioni desumibili dalle schede di rilevamento del 1932 e del 1948, potrebbe risultare leggermente sovradimensionato. In tale insieme figuravano in effetti all’epoca molti giovani laureati che godevano di qualche borsa di perfezionamento in Italia o fuori da essa, alcuni assistenti volontari privi di altra occupazione, alcuni lettori di italiano in atenei esteri, privi di inquadramento stabile ma, comunque, attivi in un’occupazione universitaria: un gruppo complessivamente non molto numeroso, di cui non si sono ritrovati dati successivi agli anni Quaranta, e che avrebbe benissimo potuto confluire, almeno in qualche caso, nel sistema scolastico. È infatti probabile che, in modo speculare ai loro compagni più fortunati, alcuni siano approdati infine all’insegnamento secondario, lasciando le incertezze della posizione

  Alcuni esempi: Vittorio Alfieri fu riammesso nei ruoli scolastici alla caduta del fascismo (estate 1943), ma solo nel 1945-46 poté rientrare a Milano per prendere servizio, ottenendo contemporaneamente l’incarico all’Università Bocconi che avrebbe tenuto fino al conseguimento dell’ordinariato all’ateneo di Pavia; Enrico Alpino, ostracizzato dalla carriera pubblica perché privo della tessera del PNF, fu nominato nel 1945 provveditore agli studi a Genova «per meriti politici», e sarebbe stato in seguito assistente incaricato all’università di Genova; Carlo Cordié fu incaricato di Lingua e Letteratura Francese all’Università di Milano dall’a.a. 1942-43. Il problema del reale impatto dell’epurazione dai ruoli universitari dopo il 1943 attende ancora uno studio analitico, e alcuni dati sono disponibili solo per alcuni casi locali (Napoli e Bologna, per esempio). In generale, si è spesso utilizzato il caso delle Università come elemento per l’ipotesi della «mancata epurazione» nell’Italia post fascista; un approccio più recente al problema ha però ribaltato il giudizio sui meccanismi di rimozione e di marginalizzazione degli aderenti al PNF e dei militanti fascisti facenti parte della Pubblica Amministrazione durante il passaggio alla Repubblica. In particolare questa è la tesi di H. Woller, I conti con il fascismo. L’epurazione in Italia 1943-1948, Bologna 2008, su cui cfr. anche la ricostruzione di insieme di P. Allotti, Studi recenti sull’epurazione nel secondo dopoguerra, «Mondo contemporaneo», 1, 2008, pp. 149-68. 38

237  Parte seconda.  Capitolo III. I normalisti dopo la Normale

accademica per una prima immissione nel quadro delle supplenze, arrivando infine alla cattedra di ruolo o alla dirigenza (un gradino, quest’ultimo, precluso alle donne). Bisognerebbe, certo, sottolineare che, per coloro i quali, magari dopo aver esperito alcuni anni di assistentato volontario o persino di libera docenza, non ascendevano agli allori universitari, e si trattava della grande maggioranza dei maschi e della quasi totalità delle ex allieve, rimaneva poco più del malcelato orgoglio di aver fatto parte di una élite di formazione. Come per l’ammissione ai ruoli, o per ciò che riguardava la promozione alle cattedre universitarie, il sistema scolastico di età liberale o fascista (e, del resto, anche quello repubblicano) non valutava per nulla come titolo né la frequenza della Scuola né, tantomeno, il suo diploma, un pezzo di carta tanto difficile da raggiungere quanto, di fatto, privo di ogni valore. Le lamentele degli ex normalisti si fecero sentire a più riprese, specie dopo la salita di Gentile al soglio direttoriale, ma senza che nessun riconoscimento formale in tal senso venisse mai adottato. Al normalista diplomato che non era riuscito ad affrancarsi dal ruolo scolastico poteva insomma restare, al massimo, la compiaciuta consapevolezza di far parte della schiera di «educatori della nazione» di cui il maestro Gentile aveva rivendicato pubblicamente in così tanti luoghi l’importanza. Un onore tanto roboante quanto impalpabile, e forse non sufficiente per colmare la sensazione di misconoscimento da parte degli ordini scolastici e di inferiorità nei confronti dei vecchi compagni che avevano spiccato il volo verso l’empireo dell’accademia. Come avrebbe scritto il professor Natale Vianello nel dicembre 1932, la rassegnata schiera dei «modesti lavoratori che non attinsero la vetta della celebrità», i docenti di scuola, erano consci di aver servito al meglio la «coltura nazionale, portando nella scuola, nei laboratori, negli uffici quell’abito di severa disciplina e di amore dello studio a cui s’erano avvezzati negli anni dei loro studi», ma covavano il timore di essere dimenticati nelle celebrazioni della Normale patria di scienziati e poeti illustri. Vianello, vecchio professore in pensione, rivendicava la «non piccola benemerenza della nostra Scuola» nell’aver licenziato generazioni di provetti professori e dirigenti scolastici, una proclamazione enfatica del tutto in linea con le pratiche discorsive della retorica gentiliana sull’eredità e i fini della Scuola rinnovata come fucina dei nuovi maestri della nazione. Tuttavia, non vi è molto di cui stupirsi se durante le celebrazioni pubbliche del 1932, mentre si glorificava la grandezza degli spiriti nobili, da Carducci a Fermi, come cifra caratteristica dell’illustre schiera degli ex allievi, si preferiva glissare sui nomi degli umili docenti e presidi che, per contro, in un gesto

238  Generazioni intellettuali

collettivo di riconoscimento, avevano affollato con le proprie schede personali e le proprie missive patetiche e affettuose l’archivio della segreteria durante il primo censimento degli ex allievi39. Tabella 13. Impieghi finali degli allievi ordinari e perfezionandi della Scuola Normale Superiore immatricolati negli anni 1919-43. Numero Percentuale Settore di impiego di occupati sull’insieme Scuola (compresi docenti non di ruolo e capi di isti156 48% tuto) di cui Ginnasi-Licei governativi (in seguito Ginna33,2% (del si-Licei classici di capoluoghi provinciali) e Licei 108 totale) scientifici di cui liberi docenti o incaricati di insegnamento presso un’Università Università (compresi assistenti, borsisti italiani ed esteri e perfezionandi presso diversi enti) Editoria, Biblioteche, Soprintendenze Altre professioni Disoccupato Totali

37

23,7% (dei docenti di scuola)

145

44,6%

6 16 2 325

1,8% 5% 0,6% 100%

Fonte: elaborazioni da ASNS, AA, bb. 1-2, 522 ss.; ASNS, Cartelle allievi (anni 1932-43); ASLPi, 404 ff., da f. 14435 Bonomi Maria a f. 27655 Verde Raffaele. Le percentuali sono arrotondate.

  N. Vianello a G. Gentile, 10 dicembre 1932, in ASNS, AA, b. 2, s. Vianello Natale. 39

Capitolo IV Attraverso la bufera. I normalisti nel secondo conflitto mondiale

Il 15 dicembre 1946, Luigi Russo inaugurava il primo anno normalistico regolare del secondo dopoguerra. La Scuola, sgomberata nel settembre 1945 dalle truppe Alleate che l’avevano occupata, era già attiva da un anno oramai; il primo concorso di ammissione si era svolto nell’autunno 1945 (dopo esser stato revocato nel 1944), ma la vita dell’istituto era stata tutt’altro che tranquilla, stretta tra le esigenze di una ripresa rapida della normalità collegiale e scientifica, le drammatiche restrizioni di bilancio e la dispersione di molti allievi in corso, alcuni dei quali scomparsi nel turbinio del conflitto mondiale e della guerra civile. Con l’inaugurazione del 1946, Russo celebrava dunque, pur con molti problemi (prima fra tutte l’insufficiente dotazione statale), il ritorno alla vita della Scuola: celebrava la sua opera di «direttore della guerra», incaricato di reggere le sorti della Normale e dell’Ateneo dalla liberazione di Pisa, l’infaticabile impresa, sua e dei suoi collaboratori, di ricostruzione, riassestamento e reperimento delle risorse, celebrava, infine, il ritrovarsi della «famiglia normalistica» che poteva riunirsi ora ricordando i propri caduti1. A partire da Gentile, il ricordo del cui omicidio fu una scelta coraggiosa e contestata, per finire con gli studenti caduti durante tutte le fasi del conflitto (e da ambo le parti), l’elenco dei morti normalistici era offerto all’«infinito cordoglio» e alla pietà dei presenti, come monumento attorno a cui organizzare una memoria collettiva, a fronte della diaspora seguita alla crisi del 1943 e dei conflitti ideologici culminati nella guerra civile che rischiavano di spaccare anche la comunità normalistica. Non si trattava certo di un’opzione scontata, e infatti non da tutti venne compresa e accettata2. «Monumento di carta» alla comunità normalistica e ai suoi lutti,

 L. Russo, La Scuola Normale Superiore (1944-46), ora in Id., ‘De vera religione’. Noterelle e schermaglie (1943-48), Torino 1949, pp. 50-71. 2   Il coraggio dell’eulogia in onore di Gentile inserita nel discorso inaugurale del 1946 non sfuggì a Delio Cantimori quando, nel 1963, si trattò di mettere mano alle 1

240  Generazioni intellettuali

dunque, ma allo stesso tempo occasione per fondare un nuovo canone identitario, quello della comunità normalistica impegnata nell’antifascismo prima e nella resistenza poi, a partire dalla vicenda personale, ampiamente messa in luce, del suo nuovo direttore. L’importanza del discorso del 1946, come atto di rifondazione ideale di una nuova storia della Normale dopo la stagione dell’emergenza del 1944-45, è fuori di dubbio. Per molti versi, la prolusione inaugurale di Russo fu omogenea e speculare, per importanza simbolica e retorica, al testo di Gentile preparato sulla falsariga del suo intervento all’inaugurazione dei nuovi locali della Scuola nel dicembre 1932. Come per il discorso gentiliano, anche il testo di Russo dato alle stampe fu verosimilmente una versione parziale di quanto pensato e pronunciato: una scaletta dattiloscritta («breve cronaca»), inserita tra gli appunti e l’elenco dei dati statistici e finanziari di cui si sarebbe servito per illustrare la grave situazione materiale della Scuola nei primi mesi del dopoguerra, rivela in effetti che ancora prima di enfatizzare il suo ruolo di primo direttore a-fascista (e per questo perseguitato e costretto alla fuga nel settembre 1943), Russo avrebbe voluto soffermarsi sulla «Scuola durante il periodo fascista e atteggiamento dei suoi professori e studenti»3. Fu, tuttavia, la sorte degli allievi in corso ad occupare la parte retoricamente più importante del testo pubblicato: quella dozzina di morti «nella guerra di liberazione […] i morti in guerra […] i dispersi […] i morti per malattia», testimoni «dell’indirizzo liberale e democratico che ha covato sempre nella nostra Scuola» e del prezzo che la piccola comunità degli intellettuali e degli educatori pisani aveva saputo pagare per il paese4.

celebrazioni del 150°; l’aspetto originale della scelta di Russo nell’unire i caduti durante la guerra di liberazione a quelli del conflitto 1940-43, oltre ai morti che avevano vestito la divisa di repubblichino, sarebbe stata rilevata con scandalo, ancora quarant’anni più tardi, da Pietro Omodeo, il quale ricordava come fosse apparso incredibile agli studenti che un normalista avesse potuto scegliere la militanza dalla parte della RSI. È appena il caso di rilevare che nell’Annuario del 1963 non vi è alcuno spazio dedicato alla commemorazione dei caduti del 1940-45. Cfr. Annuario 1942/421964/64, pp. 20 e sgg. 3  ASNS, Corrispondenza, 1942-48, b. 27, f. A, Breve cronaca. L’appunto, dattiloscritto, è conservato insieme ad altri fogli sparsi, riguardanti la preparazione del discorso, e contenenti l’elenco dattiloscritto dei morti durante la guerra, uno specchio della situazione economica e alcune glosse manoscritte a proposito degli allievi. 4   Russo, La Scuola Normale Superiore, pp. 68-71.

241  Parte seconda.  Capitolo III. I normalisti dopo la Normale

È opportuno soffermarsi su un dato, posto in nota alla conclusione della versione a stampa del discorso: «ben venti sono i morti della famiglia normalistica in questo ultimo triennio», calcolando tra di essi anche gli allievi del Collegio Mussolini e del Medico, «una famiglia non numerosa che prima della guerra si aggirava intorno alle ottanta o novanta persone»5. Si tratta di un’indicazione che potrebbe apparire nettamente in contrasto con la sottorappresentazione dei giovani normalisti di fronte all’olocausto generazionale del primo conflitto mondiale, un’orgogliosa rivendicazione del sacrificio dei giovani alunni degli anni Quaranta di fronte al basso profilo tenuto tra 1915 e 1918, quando i due caduti del piccolo gruppo degli arruolati (metà degli aventi obbligo), avevano indicato chiaramente la (comparativamente) scarsa rilevanza dello slancio patriottico in nome della «più grande Italia»6. Eppure, una considerazione più attenta di alcuni dati deve indurre alla prudenza, sfumando l’opposizione schematica di un forte impegno sotto le bandiere nel secondo conflitto opposto ad una corsa al disimpegno e all’imboscamento nel primo. Sappiamo infatti che, nonostante i provvedimenti coercitivi che a partire dalla primavera 1941 coinvolsero gli studenti universitari in tutta Italia, il contributo normalistico alle campagne del 1940-43 fu non solo modesto, ma proporzionalmente persino più basso del 1915-18. Alla fine del 1942, durante il momento di massima incidenza del reclutamento nella penisola, solo 18 allievi sui 64 in corso, vale a dire meno di un terzo, erano sotto le armi e in servizio attivo, perlopiù concentrati al terzo anno, a cui bisognerebbe aggiungere almeno altri sei allievi arruolati successivamente, di cui tre direttamente nelle fila della Repubblica Sociale Italiana7. Che questo scarso contributo si possa oggi leggere in chiave ideologica, come una sorta di rifiuto alla «guerra fascista», è opinabile. Il relativo disimpegno dei normalisti dall’esperienza reale del fronte, un comportamento palese fino al settembre 1943 (e tutto sommato

  Ibid., p. 71, nota 1.   Cfr. parte prima, cap. I. 7  ASNS, Corrispondenza, 1942-48, b. 27, f. A, Relazione sull’anno accademico 1941-42, da D. Cantimori a Ministero dell’educazione nazionale, 30 marzo 1943. Ho incrociato i dati della relazione statistica (l’ultima che è stato possibile ritrovare nell’archivio storico della Scuola) con quanto si può desumere dall’invio dei curricula politico-militari, obbligatori per poter rientrare in Normale dopo il 1944, e depositati presso i fascicoli personali degli allievi. Cfr. ASNS, Cartelle allievi, anni 1942-43 e 1943-44. 5 6

242  Generazioni intellettuali

non particolarmente mutato dal deflagrare della guerra civile) fu, più che altro, il risultato di condizioni esterne alla Scuola e alle eventuali scelte politiche degli allievi. Fu, in primo luogo, la conseguenza visibile della più vasta incapacità della dirigenza mussoliniana di mobilitare le proprie risorse umane e intellettuali per il conflitto, della disastrosa gestione da parte dell’esercito e delle strutture statuali della programmata mobilitazione civile, e, infine, della più vasta e complessiva renitenza degli studenti universitari al sacrificio in nome delle maggiori glorie dell’Italia fascista. Ciò non si porrebbe in conflitto (anzi, parrebbe esserne un fattore di sostegno) con il «canone antifascista» della Normale, canone di cui il discorso di Russo nel 1946 non fu che il primo elemento costitutivo e che si sarebbe strutturato nel tempo attorno ad alcuni testi più o meno fortunati e destinati a larga circolazione. A partire dall’aspro dibattito innescato dall’ex allievo Luciano Bianciardi sulle pagine di Comunità nel 1954 a proposito della presunta decadenza della Scuola, a cui reagirono Ragghianti e Cantimori, fino alle memorie di Capitini, raccolte in volume nel 1966 e che raccoglievano tanti interventi del decennio a proposito della Normale «oasi di antifascismo» (per usare le parole di un altro ex allievo, Alessandro Natta, nel 1955), l’immagine pubblica dell’istituto pisano come di una scuola in cui si erano formati fin dagli anni Trenta gli spiriti liberi ostili al regime si organizzò come una variante particolare del «lungo viaggio attraverso il fascismo» della generazione dei ventenni universitari che dentro il fascismo erano cresciuti8. Ancor meglio, il «lungo viaggio» di Zangrandi trovò nei giovani studenti pisani, allievi della Normale e dei collegi, alcuni dei suoi protagonisti più importanti. Elementi di primo piano nella mobilitazione culturale della gioventù durante il ventennio (normalisti furono molti vincitori dei Littoriali dell’arte e della cultura, normalisti furono i redattori dei periodici universitari fascisti a Pisa), gli allievi della Scuola comparivano nella sua ricostruzione non solo come i pionieri di una resistenza culturale al conformismo di regime, secondo una declinazione della Normale quale «isola» morale fatta propria da Capitini, ma anche come alcuni tra i più attivi promotori delle prime forme di opposizione politica, già al tramonto degli anni Trenta. Formatisi nell’ambiente del liberalsocialismo di Calogero, influenzati dall’eredità morale in-

  Il dibattito a proposito dell’intervento di L. Bianciardi su Comunità, già richiamato, è ora in R. Pertici (ed.), Un dibattito del 1954-55 sulla Scuola Normale Superiore, «Normale», 1, 1999, pp. 24-37. 8

243  Parte seconda.  Capitolo III. I normalisti dopo la Normale

transigente di Capitini e dei suoi epigoni, o cresciuti all’ombra della superstite influenza cattolica, i normalisti erano, seppure in misura minore dei cugini del «Mussolini», destinati a rappresentare nella memoria generazionale proposta da Zangrandi non solo la fronda studentesca alla piaggeria e all’appiattimento delle coscienze ma anche il risveglio critico e il dissenso a cavallo tra la guerra di Spagna e le leggi razziali9. Tuttavia, la costruzione di questa fortunata immagine pubblica – non casualmente replicata e corroborata da una folta memorialistica a quarant’anni di distanza, in occasione del convegno dedicato al contributo dell’Università di Pisa e della Normale alla resistenza – va oggi perlomeno sfumata, e riportata nell’alveo di un dissenso studentesco che, fino alla guerra e soprattutto al collasso del regime nel ’43, non si tradusse mai in aperta militanza antifascista. Allo stesso modo, del resto, Palazzo dei cavalieri non fu mai terreno di scontro di radicali antagonismi ideologici. Come la letteratura e la memorialistica sulla vita collegiale pisana hanno ampiamente dimostrato, le opposte scelte di campo furono limitate ad isolati casi particolari: il filonazismo di Otto Hibler, l’allievo altoatesino, proveniente da una famiglia devotamente fascista, ma arrestato nel 1935 per propaganda pangermanista a favore della riunione del Sud Tirolo al Reich, era destinato a rimanere un unicum, tanto quanto l’aperta professione di comunismo (fatta però da Parigi) di Ermenegildo Moretti, poi volontario nelle brigate internazionali in Spagna, che, peraltro, pur venendo sovente ricordato come la prova dell’ostilità al fascismo internazionale da parte della comunità studentesca normalista, normalista non era, se non in senso allargato, essendo allievo del ‘Mussolini’10. Naturalmente, vi sono pochi dubbi che su entrambi i lati di Piazza dei Cavalieri, alla Scuola e al

  Zangrandi, Il lungo viaggio attraverso il fascismo, specie pp. 233-8, 498-500. Non vi è dubbio tuttavia che l’attivismo degli studenti del ‘Mussolini’ spicchi molto di più rispetto alle forme di critica e dissenso coltivate all’interno del mondo studentesco normalistico. L’elenco dei normalisti partecipanti e vittoriosi ai Littoriali, così come quello di coloro che presero parte a Il Campano, il periodico del GUF di Pisa, si trovano in Nello, «Il Campano», pp. 363-99. 10   Sul caso di Hibler e di Moretti (Gallarate 1918) cfr. la ricostruzione assai dettagliata di Simoncelli, La Normale di Pisa, pp. 174-94. O. Hibler (Brunico 1915-?), ammissione di Lettere del 1934. Entrato in Normale senza concorso grazie ai posti riservati ai residenti alloglotti in Alto Adige, Hibler venne dichiarato decaduto dalla qualità di normalista poco dopo la sua assegnazione al confino, nel maggio 1935. Venne liberato per intercessione personale di Mussolini nel 1936 e rientrò a Brunico; 9

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Collegio, sul finire degli anni Trenta, fosse palpabile il fermento di un’intera leva di giovani studenti poco o nulla persuasi degli indirizzi del regime, più o meno votati al dissenso e comunque in odore di fronda. Era questa «opposizione goliardica» a rendere possibile quel curioso fenomeno di dissenso interno infiltratosi nello stesso giornale del fascismo universitario pisano, Il Campano, sulle cui pagine un piccolo gruppo di normalisti e collegiali attaccavano, in modo più o meno esplicito, le gerarchie del partito e la propaganda ufficiale con articoli affatto ortodossi, esprimendo, pur nella pluralità di posizioni derivante dalle spaccature interne al GUF cittadino, tutte le divergenze rispetto al regime maturate alla fine degli anni Trenta dagli esponenti più giovani del mondo studentesco11. La memorialistica, d’altra parte, abbonda di evocazioni di un clima irrequieto, popolato di gruppi più o meno ramificati formati da allievi dediti a riunioni notturne di sapore cospirativo, che nel 1938 diedero vita nelle stanze della Carovana al «gruppo di studio» antifascista auspicato e promosso in absentia da Capitini. Casomai, si potrebbe discutere su quanto fossero stati i giovani collegiali del ‘Mussolini’ a spingere verso una più aperta presa di posizione antifascista, rispetto al dibattito più teorico che innervava (apparentemente) le «inquietudini di antifascismo» dei giovani di Scienze e Lettere, una prospettiva (non casualmente) evocata nella memorialistica degli ex collegiali rispetto alla più canonica e ortodossa versione, proposta ad esempio nella ricostruzione classica di Alessandro Natta, di una primazia da parte dei normalisti nell’embrionale attività clandestina pisana12. Che tra i due gruppi di giovani ci fossero o meno delle

si iscrisse quindi all’Università di Padova, ma non è stato possibile reperire ulteriori notizie. 11   Il Campano riprese le pubblicazioni nel febbraio 1940 dopo un silenzio di tre anni (che di fatto permise al suo gruppo redazionale di non dover prendere posizione né relativamente alla guerra di Spagna né a proposito delle leggi razziali) con un comitato composto da Oberdan Fraddosio (Collegio Mussolini) e Aldo Visalberghi e Mario Spinella (Scuola Normale). Cfr. Nello, «Il Campano», pp. 231-3. 12   Per la scansione proposta da Natta dell’inizio di un’attività clandestina in Normale, più decisa di quella dei colleghi «mussoliniani», cfr. Natta, Una scuola di antifascismo, pp. 15-6, e, al contrario, per una versione che accredita ai collegiali una maggiore decisione nelle discussioni interne al fronte del dissenso, E. Rosini, L’ala dell’angelo. Itinerario di un comunista perplesso, Roma 2003, pp. 43-6. C. Luporini, Testimonianza, in Frassati (ed.), Il contributo dell’Università di Pisa, specie pp. 80-1; Russi, Testimonianza, p. 197.

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differenze nette nei motivi ispiratori dell’antifascismo e nelle sue modalità di espressione, rimane però chiaro che, fino al collasso del regime, questa opposizione si tradusse quasi esclusivamente nella cospirazione interna declinata in un denso dibattito intellettuale sulle possibilità di superamento del regime e sulle forme verso cui indirizzare una nuova Italia. Né, del resto, questo ribollire cospirativo, a cavallo tra la fronda e l’opposizione politica vera e propria, era sconosciuta alle autorità: l’avvertimento del federale di Pisa a Vladimiro Arangio-Ruiz, di lì a poco vice-direttore e quindi reggente delle sorti disciplinari della Scuola e dei Collegi, a proposito dell’atteggiamento turbolento, e ben poco incline ad una ortodossa devozione al regime, che allignava tra gli studenti della Scuola e del «Mussolini», atteggiamento noto e comunicato a Roma attraverso una relazione «riservata», doveva segnalare quanto l’irrequietezza dei giovani pisani fosse conosciuta, anche se, per certi versi, tollerata (del resto, Mussolini si era sfogato già precedentemente con termini non dissimili, deprecando la «subdola opposizione al fascismo» radicata alla Scuola)13. Alla fine di quel 1938, certo, le autorità pisane avevano indizi concreti per sospettare ragionevolmente che nei collegi pisani non si praticasse efficacemente l’ortodossia del «credere e obbedire»: proprio in quelle settimane si erano registrati alcuni incidenti imbarazzanti, per quanto lievi, limitati agli screzi con gli studenti tedeschi in un’atmosfera resa più tesa dalla promulgazione delle leggi razziali. L’indirizzo antiebraico preso ormai pubblicamente, a partire dall’estate precedente, dal regime, non aveva avuto conseguenze formali sul corpo allievi normalisti (tra cui non figurava nessun elemento che poteva ricadere sotto la scure della nuova legislazione), mentre tra le fila dei docenti avrebbe comportato, di lì a poco, l’esclusione forzata e drammatica di Oscar Kristeller, a cui era affidato all’epoca il lettorato di tedesco14.

 Vladimiro Arangio-Ruiz, che subentrava a Chiavacci come vice-direttore, fu convocato dal prefetto e dal federale del PNF di Pisa nei primi giorni del dicembre 1938. Cfr. Simoncelli, Cantimori, Gentile e la Normale di Pisa, pp. 96-8. Sulle perplessità di Mussolini a proposito della fronda antifascista nei collegi pisani cfr. De Begnac, Taccuini mussoliniani, p. 392. 14   Sui tempi della campagna antisemita in Italia, antecedenti la stesura e l’emanazione delle leggi razziali, cfr. tuttavia il quadro cronologico offerto da M. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, Torino 2000 e, più in dettaglio per le dinamiche della normativa e delle sue conseguenze in particolare nel campo scolastico e universitario, cfr. A. Capristo, Il decreto legge del 5 settembre 1938 e le altre 13

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Tuttavia, sia che si trattasse della popolarità (da molti testimoniata) di Kristeller tra gli studenti, sia che l’irruzione della discriminazione razziale nel mondo universitario, in modo ancora più repentino e drastico di altri settori della vita pubblica, avesse effettivamente originato un momento di dissenso radicale tra gli allievi, non vi è dubbio che l’anticipazione della legislazione antiebraica e i suoi decreti attuativi per scuole e università, in settembre, ebbero come riflesso un moto di sdegno degli allievi, espresso attraverso manifestazioni di solidarietà al professore colpito, e con l’ostracismo dei rappresentanti in Normale del Reich (i borsisti di scambio Müller ed Ellawanger), insultati platealmente in mensa durante un tentativo di inneggiare alla magnificenza della Germania hitleriana15. Secondo un paradigma consolidato nella storiografia italiana dunque, anche in Normale l’antifascismo sembrava aver messo radici al tornante delle leggi razziali, punto di non ritorno di un progressivo distaccarsi dei giovani (attraverso la parentesi frondista e non ideologica che Omodeo avrebbe bollato come «afascismo amorfo») generato, a dar retta alla maggior parte della memorialistica, dalla delusione nei confronti di un regime lontano dalle promesse «giovanilistiche», pericolosamente incline a seguire l’avventurismo hitleriano e impegnato in una campagna aggressiva, quella di Spagna, lontana dagli entusiasmi suscitati dall’impresa etiopica16. Ci sarebbe, naturalmente, molto da discutere sulla portata generale della scansione del 1938 come momento del distacco

norme antiebraiche nelle scuole, nelle università e nelle accademie, «La rassegna mensile di Israel», numero monografico in occasione del 70° anniversario dell’emanazione della legislazione antiebraica fascista, ed. M. Sarfatti, 2, 2007, pp. 131-68. Sul caso di Kristeller, cfr. Simoncelli, Cantimori, Gentile e la Normale di Pisa, specie pp. 61-88. 15   Sull’ostilità manifestata ai due borsisti «nazisti» cfr. soprattutto il ricordo di L. Baccolo, Ricordi della Scuola Normale di Pisa, «Belfagor», 20, 1965, pp. 730-8. L. Baccolo (Savigliano 1913-92), ammissione di Lettere al perfezionamento 1937-38. Fu un rarissimo caso di allievo perfezionando che non era stato anche ordinario. Subito dopo il perfezionamento, divenne professore di ruolo in lettere presso il liceo ‘Pellico’ di Cuneo. Insegnò per tutta la sua vita nei licei, sviluppando tuttavia anche una sua produzione scientifica, soprattutto nel campo della francesistica (fu, tra l’altro, uno dei riscopritori di De Sade in Italia). 16   Per alcune proposte della memorialistica in questo senso cfr. M. Spinella, L’antifascismo nella Scuola Normale Superiore di Pisa (1945), ora in Capitini, Antifascismo tra i giovani, pp. 170-6, e più recentemente Luporini, Testimonianza, p. 83; Manacorda, Testimonianza, pp. 145-6; Omodeo, Testimonianza, p. 248.

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generazionale (e, più in generale, dell’opinione pubblica) rispetto al regime, una lettura alquanto benevola dell’impatto delle leggi razziali sull’insieme degli italiani che la storiografia più recente ha messo perlomeno in dubbio, ricordando puntualmente il ruolo protagonista dei giovani universitari nella propaganda e nella mobilitazione antisemita (ed antiborghese) dell’ultimo fascismo17. Tuttavia, almeno per quanto riguarda il limitato mondo normalistico, sembra effettivamente che le proteste inscenate alla fine del 1938 manifestassero l’insofferenza dei futuri «educatori della nazione» per la piega presa dalle politiche interne dell’Italia fascista. Per il federale Ceccanti, del resto, presunto estensore della relazione riservata sull’infedeltà dell’ambiente normalistico, la palestra dei futuri maestri del popolo era ambigua e sorda agli appelli della disciplina anche a prescindere da questi (più eclatanti) episodi, visto che in tale relazione non si faceva cenno alla pessima reazione di fronte alla promulgazione delle leggi razziali18. Proprio su questo punto conviene fermare l’attenzione: a quali «ambiguità» e mancanza di coerenza nei confronti dell’educazione fascista faceva riferimento il federale nel rivolgersi ad Arangio-Ruiz? Era possibile che in modo più o meno indiretto volesse accennare ai catacombali nuclei cospirativi degli allievi (su cui peraltro l’azione disciplinare e puntigliosa del nuovo vice-direttore influì ben poco)? In effetti, se la fronda normalistica avesse raggiunto, già nella seconda metà degli anni Trenta, e in particolare a cavallo della guerra civile spagnola, un livello di allarmante (per il regime) concretezza, c’è da supporre che una qualche traccia sarebbe stata lasciata dall’occhiuta sorveglianza delle sezioni di polizia politica, per non parlare della vigilanza esercitata dall’OVRA che, coerentemente con le altre forze di pubblica sicurezza, fin dall’inizio degli anni Trenta, aveva moltiplicato i propri infiltrati e informatori negli ambienti considerati tradizionalmente più inquieti e pericolosi: stranieri residenti nel Regno, operai, intellettuali e, ovviamente, studenti19. Al contrario, in un contesto quale quello dell’Italia tra 1930 e 1938, in cui il numero dei sorvegliati, degli inter-

  A proposito del ruolo dei GUF nella mobilitazione antisemita cfr. le osservazioni di La Rovere, Storia dei GUF, pp. 321-49, e Duranti, Lo spirito gregario, pp. 309-62. 18   Simoncelli, La Normale di Pisa, p. 192. 19   A proposito della riorganizzazione della sorveglianza da parte dell’OVRA, della Direzione della Polizia Politica della Pubblica Sicurezza e dei servizi di sorveglianza dell’Arma dei Carabinieri sul territorio nazionale cfr. Franzinelli, I tentacoli dell’OVRA, pp. 229-51. 17

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cettati e degli schedati ammontava a decina di migliaia di unità, e in cui il mondo studentesco, sempre sospettato di essere la culla della sovversione e del dissenso (ad onta dell’ortodossia gufina), era uno dei principali ambienti sotto controllo, è del tutto sorprendente come gli studenti pisani comparissero solo in rarissime occasioni nei rapporti polizieschi, e i normalisti mai. In una cornice quale quella toscana, in cui l’attivismo dei superstiti membri dei vecchi partiti era in continuo riflusso e in cui parevano assenti nuclei superstiti di antifascismo, ad essere colpiti da arresti e denunce per critiche e offese contro il partito o il capo del governo, e, nei primi mesi della guerra di Spagna, per aver inscenato manifestazioni spontanee di appoggio ai lealisti repubblicani (o anche solo per essersi arrischiati a parlare troppo francamente in qualche locale pubblico), erano piuttosto gli operai della Piaggio, qualche contadino, qualche artigiano dei paesi della provincia: gli studenti pisani erano assenti dalle relazioni periodiche, apparentemente inquadrati nelle organizzazioni giovanili e lontani da ogni attività politica20. Ancora alla fine degli anni Trenta, in effetti, le inquietudini del mondo studentesco erano lontane dall’essere considerate pericolose forme di dissenso e le riunioni cospirative all’interno del Palazzo dei Cavalieri, di cui, come testimoniava il federale pisano, evidentemente qualcosa trapelava all’esterno, dovevano essere ritenute minacce abbastanza innocue all’interno di un più generale quadro studentesco peraltro formalmente inquadrato all’interno dell’associazionismo giovanile. Pericolosi potevano essere tutt’al più i maestri, di cui si sospettava, e non a torto, un’adesione al fascismo tutt’altro che entusiasta e, non a caso, il federale di Pisa aveva insistito nel 1938 a parlare piuttosto di elementi poco sicuri all’interno del corpo docenti e, in particolare, di coloro cui era affidata la sorveglianza quotidiana sui giovani allievi (Perosa, ad esempio)21. Parallelamente, tuttavia, i giovani allie-

  ACS, Min. Int., DGPS, G 1 (1912-45), b. 225, ff. Pisa. Relazioni trimestrali sulla situazione politico-sociale. La documentazione contenuta nel faldone si arresta in effetti al 1938. A titolo di comparazione, si può ricordare che nell’elenco degli ammoniti e dei diffidati della provincia di Pisa non comparivano studenti universitari. Cfr. Tognarini, Antifascisti e perseguitati, pp. 251-3. Più in generale, sugli umori dell’opinione pubblica (in particolare di quella operaia) durante la guerra di Spagna, cfr. Colarizi, L’opinione degli italiani, pp. 226-34. 21   Il nome di Perosa, alla stessa stregua di Bastianelli per il «Mussolini», compare nella lettera inviata da V. Arangio Ruiz a Gentile il 15 dicembre 1938, in cui il colloquio col federale è riassunto, non si sa quanto fedelmente. La relazione ufficiale, di 20

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vi si segnalavano per un’adesione a dir poco tiepida ai doveri e agli entusiasmi che avrebbero dovuto contraddistinguere le giovani generazioni nei confronti delle politiche internazionali della nuova Italia. Le guerre del fascismo, che avrebbero dovuto rappresentare il momento dell’impegno dei giovani gufini nella costruzione di una nazione più grande, rispettata e prospera, in ossequio alle più consuete parole d’ordine della propaganda, ma che soprattutto avrebbero dovuto costituire la prova del fuoco di una generazione che non aveva conosciuto l’avventura marziale, furono disertate dai giovani che avrebbero poi dovuto essere, negli intendimenti, i migliori maestri della stessa nuova nazione fascista. Non si trattò, è il caso di sottolinearlo, di una deliberata politica della dirigenza della Scuola, la quale in effetti si limitò ad intervenire, paternamente dissuadendo, nei confronti di tre allievi che avrebbero voluto presentare domanda per l’arruolamento volontario nei legionari spagnoli: due di loro, di cui rimane sconosciuto il nome, ritornarono a più miti consigli dopo un colloquio con Chiavacci, sollecitato da Gentile a spegnere gli ardori bellici dei due studenti, un terzo, Pietro Viola, sarebbe stato l’unico allievo della Normale a militare volontario in Africa Orientale22. Come sarebbe successo per il caso successivo della Spagna, allorché non ci fu alcun anelito di volontarismo all’interno di Palazzo dei Cavalieri, la Scuola non aveva però scoraggiato formalmente le domande di arruolamento (né sarebbe stato ufficialmente pensabile); al contrario, nella seduta del 4 novembre 1935 il Consiglio Direttivo aveva deliberato di adeguare la normativa per gli allievi che prestavano (o che avessero prestato eventualmente) servizio in Africa Orientale al caso di guerra, conservando il posto che sarebbe stato ripreso all’atto del congedo23. Tuttavia, è evidente che la febbre nazionalista che percorreva il mondo studente-

cui il nuovo vicedirettore aveva preso visione, non è stata ritrovata. Cfr. Simoncelli, Cantimori, Gentile e la Normale di Pisa, p. 97. 22   La lettera di Chiavacci a Gentile del 30 marzo 1935 è citata da Simoncelli, La Normale di Pisa, p. 145 nota 63. Pietro (o Piero) Viola (Parma 1914-84), ammissione di Lettere del 1932, laureato nel 1936; fu, tra l’altro, secondo classificato al Convegno di Critica Letteraria ai Littoriali del 1934. Fu poi attivo militante antifascista, costretto all’espatrio fino al 1943. Dopo la guerra, insegnò al liceo scientifico ‘Marconi’ di Parma. Parte del suo materiale, ma senza nulla di rilevante per quanto riguarda il periodo studentesco, è conservato presso l’Archivio dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età contemporanea, Fondo Pietro Viola, b. 1. 23   Verbali del Consiglio ’30-’39, seduta del 4 novembre 1935.

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sco italiano arrivava particolarmente smorzata in Piazza dei Cavalieri, specialmente quando era l’adesione giovanile ad essere in discussione. Il volontariato, nel caso della campagna etiopica, fu infatti un fenomeno ampio e caratteristico, che contraddistinse l’unica campagna bellica veramente popolare e ampiamente condivisa promossa dal regime fascista: delle 80.000 domande di arruolamento presentate da volontari (esclusi cioè i militari in servizio attivo già inquadrati nei reparti dell’esercito regolare e i richiamati delle quattro classi che vennero utilizzate per completare i reparti inviati in Africa), 50.000 furono soddisfatte, e gli incorporati inviati in colonia inquadrati in reparti della Milizia Volontaria24. Tra questi, i giovani universitari giocarono un ruolo numericamente importante, se non in assoluto rispetto alla forza mobilitata per la campagna, di certo relativamente alle dimensioni del corpo studentesco del 1935. Delle 5000 domande presentate, secondo le fonti del regime, dagli universitari di tutto il paese, beninteso, solo una parte minoritaria venne accolta, vuoi per la scarsa preparazione dei volontari, vuoi per le difficoltà di inquadrare in reparti combattenti soggetti che avrebbero dovuto rivestire, per consuetudine, il ruolo di ufficiali, ma il numero delle richieste di arruolamento rimane comunque impressionante. Gli studenti che effettivamente combatterono sul fronte etiopico furono inquadrati nelle divisioni di Camicie Nere, e molti di essi militarono nel battaglione ‘Curtatone e Montanara’, impegnato sul fronte meridionale somalo. Furono questi 830 universitari a rappresentare, insieme alla Centuria ‘Principe di Piemonte’ schierata sul fronte settentrionale (la cui forza era tuttavia minore, e che perdette ben presto il carattere di reparto operativo), la punta di diamante del volontariato goliardico e gufino nella costruzione dell’impero25. Tra di essi, furono arruolati 36 volontari dell’università pisana, a fronte di 352 domande presentate, di cui 53 accolte; una partecipazione di tutto rispetto per un ateneo la cui popolazione studentesca superava di poco le 1500 unità, che dimostrava come l’entusiasmo giovanile per l’avventura africana fosse tutt’altro che un’invenzione della propaganda26. Si trattava, però, di una rappresentanza del tutto disomogenea: tra i convinti sostenitori del giovanilismo combattente in camicia nera, spiccavano infatti gli allievi di giurisprudenza,

 G. Rochat, Le guerre italiane 1935-43, Torino 2005, pp. 32-47.   Duranti, Lo spirito gregario, pp. 166-7. 26   Annuario della Regia Università di Pisa per l’anno accademico 1936-37, Pisa 1937, pp. 13-20. 24 25

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medicina e legge, ma mancavano quasi del tutto i letterati, benché proprio di Lettere fosse l’unico normalista che avrebbe raggiunto l’Africa Orientale. Il ruolo giocato dai normalisti durante la leva fascista dell’Impero fu, insomma, del tutto marginale, come sarebbe stato anche per la «crociata antibolscevica» in Spagna, in cui gli studenti volontari provenienti da tutta la penisola furono probabilmente in numero minore – ma non certo assenti – rispetto alla più conclamata (e ufficiale) impresa africana27. Impresa fascista per eccellenza, guerra di civiltà opposta alla marea montante del comunismo internazionale, l’intervento spagnolo suscitò al di là dei numeri e della minore visibilità della presenza studentesca, un indubbio successo interno quanto a strategia della comunicazione: i giovani legionari in Spagna erano i nuovi crociati, e, se cadevano, i nuovi martiri dell’idea di un fascismo internazionale che veniva evocata nei rituali appelli ai caduti che scandivano l’apertura degli anni accademici successivi. «I combattenti per l’ideale di Civiltà e Giustizia» ricorderà il segretario del GUF di Pisa Giovanni Lugo all’apertura dell’anno 1937-38 «sono i degni continuatori della falange eroica che, dal Risorgimento al Fascismo, in queste aule alimentò il suo amore di Patria», evocando così una parabola ideale che accomunava gli studenti volontari del 1848 ai giovani in camicia nera28. Un richiamo simbolico a cui i normalisti si sottrassero pressoché integralmente e che non lasciò traccia nelle cronache ufficiali della Scuola: la Normale non previde provvedimenti per eventuali volontari, non menzionò la campagna spagnola come tornante fondamentale della civiltà europea, a differenza di quanto avrebbe fatto l’ateneo nel quadro istituzionale del’inaugurazione

  Sui «legionari» italiani impegnati in Spagna dal 1936 al 1939 si sa ancora relativamente poco, e il discredito caduto su di loro nel dopoguerra, quando furono perlopiù liquidati come poveri mercenari in cerca di fortuna, non ha favorito le analisi quantitative. Con l’eccezione di alcuni casi di studio locale, le percentuali di universitari volontari in Spagna, e il loro numero complessivo, non sono dunque ancora a nostra disposizione. Per una recente riconsiderazione sulla composizione dei volontari legionari cfr. G. Ranzato, Volontari italiani in Spagna: identità e motivazioni, in G. Ranzato, C. Zadra e D. Zendri, ‘In Spagna per l’idea fascista’. Legionari trentini nella guerra civile spagnola, Rovereto 2008, pp. 11-28. Ivi anche, per l’ottimo modello di studio sulla composizione dei legionari provenienti dal Trentino, lo studio di D. Zendri (pp. 29-46). 28   Annuario della Regia Università di Pisa per l’anno accademico 1937-38, Pisa 1939, p. 14. 27

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dell’anno accademico, rimase, in sostanza, sorda alla diana bellica, dell’Impero e della crociata, pur così pervasiva nel resto del mondo universitario29. Ad una richiesta ministeriale di alcuni anni dopo, in cui si richiedeva di indicare per un Albo d’oro dei volontari di guerra il numero e i nominativi degli studenti dell’istituto caduti in combattimento «in questa [di Spagna] gloriosa Campagna», non si poteva infine che rispondere, forse in modo un po’ imbarazzato, che «nessuno studente di questa Scuola ha preso parte alla suddetta campagna»30. Ripiegata su se stessa e apparentemente tetragona agli sconvolgimenti del mondo esterno, la Scuola che avrebbe dovuto formare i maestri della nuova Italia fascista appariva insomma davvero una «torre d’avorio» di «incontaminata cultura», in cui la vita scorreva silenziosa e metodica, con gli allievi assorbiti dalla loro incondizionata dedizione alla ferrea disciplina dello studio, secondo le coordinate di un’immagine pubblica che, nel secondo dopoguerra, ebbe meno successo di quella della Normale laboratorio di maestri dell’antifascismo (da Capitini a Calogero) e fucina di giovani spiriti contestatori31. Tra gli artefici di quest’ultima, Luciano Bianciardi, che in Normale sarebbe poi entrato come parte della coorte dei «reduci e partigiani» ammessi con concorso riservato a partire dal dicembre 1945, fu poi molto esplicito nel riportare alla scansione della guerra di Spagna (piuttosto che delle leggi razziali, come altri) la presa di coscienza della comunità studentesca normalistica, persino di quei fascisti convinti che avevano plaudito alla campagna etiopica da posizioni di «sinistra», in nome di una velleitaria declinazione popolare e rivoluzionaria del fascismo. «Ma la guerra di Spagna aprì loro gli occhi e li fece avvertiti del carattere reazionario del fascismo. L’assassinio dei Rosselli, e la morte in carcere di

  Tra gli ex allievi, l’unico noto volontario in Spagna fu Basilio Manià, allievo ordinario di scienze tra 1926 e 1930, che si arruolò quando era già professore ordinario di analisi all’università di Pavia. Considerato uno dei matematici più promettenti della sua generazione, si suicidò, forse per amore, nel 1939. Su B. Manià (1909-39) si vedano le righe dedicategli, per l’amicizia che lo legava a Baglietto nonostante il fascismo convinto, in Simoncelli, La Normale di Pisa, p. 126. 30  ASNS, Corrispondenza, 1941, b. 25, f. I (Varie), da Direzione Scuola Normale a Ufficio centrale notizie famiglie militari, 11 gennaio 1941. 31   Spinella, Testimonianza, p. 147. Spinella riprese in quell’occasione alcuni topoi relativi alla «quiete» della vita normalistica negli anni Trenta già evocati nel suo più noto intervento del 1945 dedicato a Il liberalsocialismo alla Scuola Normale di Pisa, «Risorgimento», 4, 1945 (ora anche in Capitini, Antifascismo tra i giovani, pp. 170-6). 29

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Antonio Gramsci completavano il quadro» scrisse in un polemico articolo del 1954 dedicato alla Normale postbellica «così gli anni della guerra trovarono la Normale quasi totalmente schierata all’oppo­si­zio­ ne»32. Alla guerra i normalisti arrivarono, avrebbe ricordato Natta, divisi fra l’attendismo inerte della rete liberalsocialista all’interno della Scuola, che alla guerra guardava come ad un’occasione che avrebbe comportato la fine del regime, ma che ancora non sapeva risolversi ad agire se non aspettando l’evoluzione degli eventi, e lo smarrimento, o persino l’indifferenza, della maggior parte della comunità studentesca33. Un’indifferenza agevolata dalla mancanza di qualsiasi rottura traumatica tra il prima e il dopo, tra la pace, la neutralità e l’intervento del giugno1940 a fianco della Germania. Certo, è indubbio che una minoranza degli studenti politicamente più critica, e ideologicamente più lucida, abbia colto al volo l’occasione della dichiarazione di guerra, con le roboanti proclamazioni della propaganda sulla certezza della vittoria e l’invincibilità delle forze dell’Asse, per ostentare la propria presa di distanza, con gesti a volte eclatanti: il canto corale della Marsigliese in mensa, la sera in cui la radio dette la notizia della caduta di Parigi, fu forse l’atto più straordinario della rivolta morale degli allievi, e ancora più straordinario il fatto che il ligio vicedirettore ArangioRuiz non abbia sanzionato in alcun modo il gesto34. Altra sorte avevano avuto, nel maggio 1940, gli studenti Mario Casagrande, accusato di «dileggio all’indirizzo di un annunzio giornalistico» recante (trionfalisticamente) la notizia dell’entrata delle truppe tedesche in Belgio e Olanda, a cui era stata immediatamente revocata la tessera del PNF e che pertanto era stato prontamente sospeso dalla Scuola (ma sarebbe stato riammesse di lì a poco), e Scevola Mariotti, che aveva investito «con frasi mordaci alcuni suoi compagni che ritornavano da una celebrazione patriottica», anch’egli sospeso a tempo indeterminato; in entrambi i casi, i due allievi erano stati puniti per evitare che l’istituto

  Bianciardi, La Scuola Normale di Pisa, p. 30. L. Bianciardi (Grosseto 1922 Milano 1971), ammissione «Reduci e partigiani» per la classe di Lettere del 1945. Dapprima insegnante di liceo nella città natale, fu poi a Milano, dove fece parte dello staff della neonata cada editrice di Giangiacomo Feltrinelli. Della sua produzione di scrittore rimangono soprattutto tre romanzi: Il lavoro culturale, L’integrazione e l’ultimo, considerato il suo capolavoro, La vita agra. 33   Natta, Una scuola di antifascismo, pp. 190-1. 34   Spinella, Testimonianza, p. 127. 32

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potesse essere messo «in cattiva luce nell’ambiente cittadino» dalle bravate antipatriottiche dei due, e per evidenziare anche quanto tali azioni fossero disapprovate «da tutta la massa studentesca»35. Nel clima teso del conflitto mondiale, nelle settimane di maggior scoramento per l’apparente inarrestabilità della macchina da guerra tedesca, e ormai consapevoli che Mussolini avrebbe portato di lì a poco il paese in guerra, gli scatti polemici dei normalisti dovevano apparire senza dubbio preoccupanti alla direzione della Scuola, e precisamente per l’immagine che essi potevano proiettare su un ambiente già in odore di fronda al regime. Il plateale dissenso dei normalisti, e il tutto sommato contenuto scandalo suscitato, possono tuttavia essere meglio compresi se contestualizzati in un clima di progressiva divaricazione tra ampi settori della popolazione e regime fascista: le settimane che avevano preceduto la Blitzkrieg del 1940 sul fronte occidentale erano stati costellati dai rapporti della polizia politica e dell’OVRA a proposito di un crescente dissenso nei confronti della ormai prevedibile discesa in campo a fianco di Hitler, e il coro unanime dell’avversione nei confronti dei tedeschi, e il conseguente crescere delle simpatie nei confronti di Gran Bretagna e Francia già durante la parentesi della drôle de guerre, avevano finito per destare non poche preoccupazioni ai livelli più alti del regime36. L’impopolarità della guerra, corroborata del resto dalla ridicola prestazione sul fronte alpino contro una Francia già battuta, e ancor più dai bombardamenti navali e aerei cui l’Italia fu sottoposta a partire dai primi giorni del conflitto senza che la flotta e la Regia Aereonautica si dimostrassero in grado di difendere il territorio nazionale, era un sentimento sempre più diffuso tra gli Italiani, un’insofferenza di cui alcuni gesti clamorosi, come quelli messi in atto dagli studenti pisani, erano soltanto un epifenomeno. La polemica di alcuni normalisti era insomma tutt’altro che una manifestazione isolata di dissenso, anche se restava indubbiamente un gesto coraggioso in un’Italia controllata in modo sempre più paranoico dall’occhiuta polizia del regime37. Tuttavia, non solo i due allievi non ebbero conseguenze di rilievo, né da parte della polizia né all’interno della Scuola (Casangrande, rientrato nei ranghi, fu ammesso l’anno successivo al

  Verbali del Consiglio ’39-’43, seduta del 20 maggio 1940, pp. 23-4.   Colarizi, L’opinione degli italiani sotto il regime, pp. 329 e sgg. 37   A proposito dell’aumento drastico di arrestati e denunziati dall’OVRA per le critiche rivolte al regime o le offese al Capo del Governo, cfr. Franzinelli, I tentacoli dell’OVRA, p. 386. 35 36

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posto di perfezionamento, mentre Scevola Mariotti avrebbe presentato le proprie dimissioni successivamente per motivi di salute), ma lo scalpore per l’aperto dissenso nei confronti dell’Asse non sembrò uscire dal circolo delle mura pisane, come avrebbe fatto invece all’inizio del 1943, quando la denuncia della consorteria studentesca (ormai dichiaratamente antifascista) detta ‘la Tabaccheria’ avrebbe investito direttamente tutta la Scuola38. In effetti, nonostante la polizia politica avesse intensificato la sorveglianza negli ambienti studenteschi, ritenuti (non a torto) i più inclini a manifestazioni aperte di critica politica o di indisciplina, né la Normale né l’Università pisana comparvero, fino al 1943, tra gli atenei ritenuti possibili laboratori di dissenso o di cospirazione: un rapporto riservato del febbraio 1941 a proposito del diffondersi di un movimento studentesco antifascista nella penisola riportava arresti e condanne al confino di un vasto numero di docenti superiori e studenti universitari, colpevoli a vario titolo di aver mosso critiche a Mussolini, di aver dipinto la situazione dell’Italia in guerra come disperata durante una lezione o di aver aggredito studenti del GUF durante manifestazioni di propaganda, identificando gli atenei di Genova, di Napoli, di Milano e persino di Roma come covi degli universitari più riottosi o, persino, come culle di organizzazioni antifasciste39. Va detto, che la protesta studentesca durante la guerra (o, almeno, quella di cui ci è rimasta memoria negli archivi) non fu esclusivamente di natura politica, anzi. Una delle più clamorose agitazioni studentesche, che assunse a tratti il carattere di vera e propria ribellione violenta e che comportò una reale mobilitazione degli apparati repressivi, scoppiò nella cittadella universitaria di Roma a pochi giorni dalla dichiarazione di guerra a Francia e Gran Bretagna, quando migliaia di studenti occuparono alcuni istituti e vennero a contatto con drappelli della Pubblica Sicurezza chiamati dal rettore. Motivo della clamorosa protesta era certamente la guerra, ma non si trattava né di una manifestazione di entusiasmo in vista della futura lotta contro le democrazie decadenti, né di una (impensabile, peraltro) dichia-

  Simoncelli, Cantimori, Gentile e la Normale di Pisa, pp. 144-5.   ACS, Min. Int., PS, AAGGRR, 1941, b. 6, f. Movimento studentesco, appunto dattiloscritto 7 febbraio 1941. Si noti che nella versione manoscritta, corretta e rivista, l’estensore del rapporto aveva sottolineato come «la classe studentesca fosse esposta in quanto tale [al diffondersi di idee sovversive] perché esposta più di altre a riunioni collettive, nelle aule scolastiche o nelle manifestazioni» dove gli studenti potevano senza pericolo scambiarsi idee e pensieri. 38 39

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razione di dissenso: gli studenti romani, come avrebbero fatto i loro colleghi napoletani poco dopo, reclamavano piuttosto a gran voce il loro diritto, in nome dell’emergenza bellica, a sostenere gli esami avendo garantita la sufficienza, per non rischiare di rimanere indietro con gli studi in caso di richiamo40. Non era nemmeno pensabile che si trattasse di un isolato caso di disfattismo da parte di giovani poco disciplinati, considerato che tra i molti arrestati e diffidati figuravano noti esponenti dei GUF e figli di gerarchi del fascismo romano o delle famiglie della buona società della capitale. Alcuni squadristi della vecchia guardia e giovani in vista della Gioventù Italiana del Littorio, del resto, vennero denunciati nelle stesse settimane per essersi presentati (in uniforme) alle sessioni universitarie o agli esami di maturità come privatisti, pretendendo di essere promossi in vista della futura situazione eccezionale, e minacciando presidenti di commissione o docenti che non avessero aderito ai loro desiderata; episodi sintomatici che si sarebbero ripetuti sovente anche nei mesi successivi, benché il caso più bizzarro sia stato probabilmente quello di una giovane camicia nera, richiamata in una legione mobilitata, e presentatasi ad un esame di lingua inglese rifiutandosi di pronunciare una sola parola nella lingua del nemico41. L’immagine di questa turbolenta, disordinata e ben poco marziale risposta della gioventù del Ventennio alla decisione di affidare il futuro dell’Italia «imperiale» alle armi è stata, di norma, oscurata dall’ufficialità delle fonti universitarie e fasciste, piuttosto concordi nel restituire l’idea di una generazione di ventenni formatisi grazie al’educazione paramilitare del partito e pronti ad offrirsi spontaneamente per combattere. La cifra di 75.000 universitari volontari appartenenti ai GUF come dimostrazione dell’entusiasmo ideologico del fascismo goliardico di fronte al conflitto, proposta ancora in anni recenti da La Rovere, appare tuttavia una stima molto lontana dalla reale adesione del mondo studentesco alla guerra e, come ha dimostrato analiticamente anche Giorgio Rochat, frutto più che altro di un’esagerata valutazione di fonti esclusivamente interne al PNF42. In realtà, gli studenti universitari

  ACS, Min. Int., PS, AAGGRR, 1940, b. 28, f. Agitazioni studenti, rapporto dattiloscritto 4 maggio 1940. 41   ACS, Min. Int., PS, AAGGRR, 1942, b. 51, f. Agitazioni studenti, che contiene in realtà molti rapporti dell’inizio del 1941. 42   Per la valutazione proposta da La Rovere del volontariato universitario all’inizio del conflitto cfr. La Rovere, Storia dei GUF, pp. 362-3. Per una serrata critica alle 40

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italiani non furono all’inizio del conflitto, né furono mai nel prosieguo della guerra, in grado di ricoprire quel ruolo centrale che avevano giocato i loro padri durante la prima guerra mondiale. Come aveva già notato lucidamente Federico Chabod, la marziale Italia fascista ebbe dalla sua combattiva gioventù militarizzata una risposta alla guerra molto meno efficace e continuativa della giovane generazione studentesca dell’Italietta liberale: nel 1915, i ventenni non erano stati solo il motore dell’agitazione interventista, ma erano anche stati in prima fila nel volontariato di guerra, avevano ricoperto in massa il ruolo di ufficiale subalterno e avevano rappresentato una parte proporzionalmente altissima dei caduti43. Benché sia il ruolo dei volontari che quello della «giovane borghesia alle armi» durante il 1915-18 sia stato ampiamente esagerato dai contemporanei (e da Chabod medesimo) non vi è dubbio che, nel 1940-43, gli studenti offrirono alla conduzione del conflitto un contributo di gran lunga minore. I «giovani di Mussolini» non vennero fondamentalmente mobilitati all’inizio del conflitto: il regime e i vertici militari, arroccati sulla petizione di principio della «guerra breve» avevano disatteso le norme sulla mobilitazione generale della nazione in guerra, mettendo sul piede di guerra solo una parte dell’esercito, richiamando un numero limitato di classi e non facendo decadere i numerosi privilegi di esenzione e rinvio del servizio militare goduti da varie fasce della popolazione, tra cui, in primis, gli studenti44. Questo privilegio si rivelò talmente prezioso, e apparentemente inattaccabile, da spingere moltissimi giovani in età di leva a presentare domanda di iscrizione all’università nell’anno accademico 1940-41, con la sola speranza di procacciarsi una via di uscita dal richiamo alle armi: nell’arco di due anni accademici le iscrizioni di studenti maschi agli atenei italiani raddoppiarono, passando dai complessivi 85.000 immatricolati del 1939-40 (tra cui 67.000 maschi, e di questi 21.000 iscritti al primo anno) ai quasi 146.000 del 1941-42, tra cui 113.00 maschi (37.600 matricole)45. È forse troppo schematico concludere

fonti fasciste e il rinvio alle più autorevoli fonti militari sul problema cfr. G. Rochat, I volontari di Mussolini, in N. Labanca (ed.), Fare il soldato. Storia del reclutamento militare in Italia, Milano 2007, pp. 123-40. 43   F. Chabod, L’Italia contemporanea 1918-1948, Torino 1961, p. 103. 44   Sulle norme, già stabilite negli anni Venti, che inquadravano la mobilitazione generale in caso di guerra, e sula loro disattesa nel 1940-41, cfr. Rochat, Le guerre italiane, pp. 239-58. 45   Le cifre, tratte dall’Annuario statistico italiano, sono citate in Rochat, I volontari

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che fossero i figli della classe dirigente a cercare nell’iscrizione universitaria una scusa per non partire per il fronte; in realtà, come si è visto, il disposto delle norme sulle esenzioni dalle tasse universitarie (riformato peraltro all’atto dell’entrata in guerra) era tale che anche buona parte dei figli dei ceti medi, e persino in alcuni casi delle famiglie operaie o contadine, potevano permettersi il lusso dell’iscrizione, se non altro, al primo anno, per motivi di merito o di reddito. In ogni caso, era evidente che la corsa all’iscrizione universitaria aveva uno sfondo di disimpegno, sia da parte dei più giovani, sia per quello che concerneva la futura classe dirigente già alle soglie della laurea: benché un calcolo anche approssimativo sia difficile, infatti, e non sia mai stato nemmeno tentato, è notevole il ricorrere di doppie lauree (o, se non altro, di doppie iscrizioni) proprio tra gli studenti all’ultimo o penultimo anno nel 1940-41. Tra i soli normalisti, indubbiamente un campione statisticamente poco rappresentativo ma comunque interessante, non furono pochi: almeno cinque letterati delle classi 191620 (soggette a mobilitazione e richiamo) si iscrissero a giurisprudenza nel 1940 o nel 1941, e almeno quattro scienziati si reiscrissero ad un altro corso di laurea o ad ingegneria. Del resto, come avrebbe scritto Carlo Morelli nel gennaio 1941, l’iscrizione ad un corso di laurea era obbligatoria, visto che l’Esercito non concedeva il privilegio del rinvio a chi era esclusivamente laureando o specializzando: […] mi trovo ancora sotto le armi, nonostante tutti i tentativi fatti per uscirne, ma per fortuna oggi è giunta dal ministero una circolare che invita a sostituire con i nuovi prossimi aspiranti i sottotenenti trattenuti o richiamati che sono studenti universitari […] per fare immediatamente la domanda di licenza illimitata mi occorre un certificato della segreteria universitaria in cui compaia la mia iscrizione e frequenza ad una Università (non ai corsi di specializzazione) […] Vi prego dunque caldamente di dirmi: 1° se potete iscrivermi al IV anno di fisica […] 4° se potete rilasciarmi subito il certificato di cui ho bisogno […]46.

Si trattava di una situazione insostenibile, più per l’immagine che per la reale necessità di alcune decine di migliaia di studenti nelle

di Mussolini, p. 133. 46   ASLPi, f. 24999 ‘Morelli Carlo’, da Morelli a Segreteria Università di Pisa, 25 gennaio 1941.

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fila dell’Esercito mobilitato (il quale non avrebbe saputo cosa farsene). Nel giugno 1942, un «appunto per il ministro» a proposito delle statistiche studentesche per l’anno in corso sottolineava come «il rapido ed eccessivo aumento degli studenti universitari» di quell’anno fosse dovuto all’indebito utilizzo della legge 224 del 1940 sugli esoneri dalle tasse scolastiche a beneficio delle famiglie numerose, che aveva provocato un aumento eccezionale di iscrizioni all’università con l’esplicito scopo di imboscarsi47. La volontà della dirigenza fascista di ridurre in tempi rapidi il numero degli studenti si scontrava però con l’inopportunità, a causa del «carattere popolare» delle norme sugli esoneri e i sussidi universitari, di procedere con una generale revisione in senso restrittivo, un dibattito che vide i diversi ministeri e gerarchi in conflitto tra di loro e che, in definitiva, non fu risolta prima della caduta del regime48. Nell’impossibilità di impedire l’accesso agli atenei almeno ai giovani meno abbienti, e deciso a cancellare il privilegio «poco simpatico», come avrebbe dichiarato lo stesso Mussolini, di quindicimila studenti solo a Roma e centomila in Italia sottratti ai loro doveri, il regime ricorse ad una formula di straordinaria portata mediatica, ma di nessuna sostanza: con la circolare 10 febbraio 1941 venne concesso a tutti gli studenti universitari in età di leva la rinuncia al rinvio e, contemporaneamente, si concesse a tutti l’arruolamento volontario e collettivo su iniziativa delle organizzazioni fasciste a cui appartenevano49. Fu un provvedimento che mutò drasticamente la vita di alcune migliaia di studenti dell’epoca, che si videro proiettati improvvisamente nella vita di caserma, e che suscitò molti malumori, ma che non ebbe invece alcuna ripercussione sostanziale, né dal punto di vista dell’efficienza militare delle forze armate, né dal punto di vista dell’adesione dei giovani alla guerra fascista: nella stragrande maggioranza dei casi, si trattava infatti di individui che non avevano avuto alcuna intenzione di partecipare allo sforzo bellico, che non ne facevano mistero e la cui qualifica di ‘volontario’, che conservavano all’atto dell’arruolamento, attirava solamente disprezzo. Limitandosi ad accentuare la distanza tra un altro segmento della popolazione e la scelta del conflitto, anche dal punto di vista propagandistico la scelta di Mussolini fu dunque, piuttosto, un fiasco, come sarebbe stato rile-

  ACS, Min. Pub. Istr., DGIS, Div. II, b. 12, f. Dati statistici.   ACS, Min. Pub. Istr., DGIS, Div, II, b. 172, f. Esoneri diversi. 49  G. Rochat, Qualche dato sugli ufficiali di complemento nell’esercito nel 1940, «Ricerche storiche», 3, 1994, pp. 607-30. 47 48

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vato anche da una relazione riservata dell’OVRA a proposito dello spirito pubblico nei confronti della guerra: Come ho avuto l’onore di comunicare separatamente, le manifestazioni fatte dagli studenti del GUF per richiedere l’arruolamento volontario e la dichiarazione di revoca del privilegio relativo al rinvio del servizio militare a studii ultimati hanno troppo apertamente tradito l’ispirazione e la costrizione ufficiosa, perché troppo numerose sono state le dichiarazioni private degli stessi studenti costretti a parteciparvi ed ancor più diffuse le espressioni di ostilità delle famiglie interessate a tale provvedimento. Indice di tale stato d’animo è la viva impressione prodotta dal recentissimo ordine di precettazione degli iscritti alla classe 1921 che comprende molti studenti universitari ed alcuni delle scuole medie. In contrasto con l’esaltata spontaneità delle manifestazioni studentesche da parte della stampa ed autorità locali, è appena il caso di rilevare che dal dicembre ad oggi due sole sono state le domande di arruolamento volontario degli studenti universitari del Distretto di Modena, e che il totale di analoghe domande nel territorio del VI Corpo d’Armata (che comprende le città universitarie di Bologna, Modena, Ferrara ed Urbino) è a tutt’oggi di n. 250 circa. Nonostante gli insinceri resoconti dei quotidiani che si sforzano di sviluppare ed infervorare le manifestazioni di saluto ai soldati partenti pel fronte, devesi riconoscere che la massa del pubblico si mantiene fredda, seguendoli piuttosto con senso di commiserazione per la loro sorte che con sentimenti di incitamento e virile coraggio per la grandezza del dovere loro domandato. Ogni famiglia che annovera congiunti tra i partenti è portata ad indagare e rilevare che troppi altri uomini delle stesse classi di leva dei veramente combattenti, stanno ancora tranquilli ai loro posti privilegiati e ciò determina una convinzione di ingiustizia, chiudente gli animi in sordi rancori, che si identificavano un tempo nella lotta di classe e che attualmente convergono nell’ostilità al Regime50.

Va inoltre sottolineato come, una volta incorporati, queste decine di migliaia di studenti non venissero quasi mai avviati al fronte. Rispolverando infatti una vetusta consuetudine risalente alla Grande Guerra, che prevedeva il dovere per tutti coloro che erano in possesso di un titolo di studio superiore di partecipare ai corsi per diventare

  ACS, Min. Int., DGPS, Segreteria del capo della polizia (1940-43), b. 1, f. Relazioni settimanali sullo spirito pubblico zone OVRA, s.f. 9.4, da ispettore generale Mariano Norcia a Senise, 18 febbraio 1941. 50

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ufficiale, Mussolini decise nel 1935 di rendere obbligatoria per tutti i giovani tenuti al servizio militare in possesso di un diploma di studi superiori la frequenza dei corsi Allievi Ufficiali di Complemento, anche in eccedenza ai bisogni delle forze armate51. Il risultato di questo vincolo, non superabile nemmeno per ragioni di servizio, fu che gli universitari, volontari per forza, dovettero essere impiegati tutti in qualità di allievi ufficiali con lo scopo di formare dei sottotenenti; decine di migliaia di sottotenenti che non avrebbero mai potuto trovare impiego nei reparti mobilitati, anche in considerazione del fatto che la messa sul piede di guerra dell’esercito era parziale e che centomila ufficiali subalterni non avrebbero potuto trovare ragionevolmente posto nemmeno in Forze Armate decisamente più grandi di quelle italiane. In effetti, gli studenti universitari incorporati come sottotenenti a partire dal febbraio 1941 avrebbero rappresentato un diciottesimo dell’esercito al momento della sua forza massima nel primo anno di guerra (novembre 1940), ma erano in esubero anche rispetto alle forze mobilitate al massimo dello sforzo militare italiano nella primavera 1943 (tre milioni di soldati e 146.000 ufficiali). Poiché, inoltre, i corsi AUC erano già saturi, per la massa di questi ‘volontari universitari’ si dispose un trattamento speciale: i più anziani (classi 1915-17) furono incorporati solo il 1° luglio 1941 in qualità di soldati semplici e inviati a reparti rimasti sul territorio nazionale dove fruirono di un avanzamento di carriera per anzianità passando da graduati ad allievi sergenti ad allievi ufficiali e diventando infine sottotenenti nell’estate 1942, senza aver mai lasciato la caserma. Gli studenti nati negli anni 1918-19 seguirono lo stesso iter, venendo però arruolati solo in dicembre. I nati delle classi 1920-22, infine, furono incorporati e rimandati perlopiù a casa, in attesa di essere destinati ai reparti nel corso del 1942; la maggior parte di costoro era ancora in attesa di partire alla fine di quell’anno52. In definitiva, una gran parte degli studenti universitari italiani non rivestì l’uniforme, e una parte ancora maggiore non partì mai per il fronte, esperienza riservata ad un parte minoritaria di quella gioventù che era stata, secondo l’ideale di una razza rinnovata e guerriera, addestrata per anni al combattimento, a partire dall’infanzia e fino ai campi addestrativi dei GUF. Che le fonti ufficiali tentassero di celare questo sorprendente iato tra l’immaginario dello studente cresciuto a «libro e moschetto» e la realtà di un

  Rochat, I volontari di Mussolini, pp. 128-9.   Ibid., p. 134.

51 52

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mondo studentesco fondamentalmente imboscato non deve sorprendere. Del resto, i dati da poter offrire alla stampa e all’opinione pubblica apparentemente non mancavano: proprio l’Università di Pisa poteva vantare, ad esempio, nell’autunno 1940, la cifra record di 375 studenti (ossia poco meno del 20% di tutti gli iscritti) che si erano offerti volontari, dimostrando con il loro ardore, come avrebbe sottolineato il rettore Evaristo Breccia, l’entusiasmo della città di Pisa per la guerra53. Ma la reale partecipazione ai combattimenti degli studenti, a fronte di queste roboanti cifre teoriche, fu comunque scarsa: per quanto i ventenni si potessero offrire volontari, l’esercito non poteva impiegarli, se non marginalmente, nei reparti combattenti, senza tener conto dell’insofferenza dimostrata costantemente, anche negli anni Quaranta, dalle gerarchie militari verso ogni forma di volontarismo (come la paradossale vicenda dei «giovani fascisti» di Bir El Gobi avrebbe ampiamente dimostrato)54. Inutile aggiungere che, sia che fossero ancora fascisti convinti, sia che avessero ormai perduto ogni illusione a proposito del regime (come lo scrittore Luigi Meneghello, compagno di lotta partigiana del futuro perfezionando Mario Mirri), sia che fossero già convinti di un necessario rovesciamento del regime (come il normalista Alessandro Natta), quasi tutti questi studenti-ufficiali erano completamente impreparati al comando, e del tutto incapaci di far fronte ad una guerra moderna55. Fu in questo contesto che gli allievi della Normale ancora alla Scuola vissero o, meglio, perlopiù non vissero la guerra fino al 1943: della sparuta pattuglia (anche in rapporto alle dimensioni ridotte della comunità della Scuola, composta però interamente da maschi adulti in età di leva) dei richiamati alle armi, pochissimi furono effettivamente inviati al fronte in reparti operativi, e non casualmente il ricordo del conflitto come esperienza combattente è rimasto un elemento marginale nel ricordo collettivo dei normalisti. Considerato che la campagna sul fronte greco era già terminata (grazie all’in-

  Relazione inaugurale dell’anno accademico 1940-41, in Annuario della Regia Università di Pisa per l’a.a. 1940-41, consultato in http://biblio.adm.unipi.it:8081/archiviofoto/entity.jsp?entity=Inaugurazione%20a.a.%201940-1941 (20/05/2010). 54   Sull’incapacità più generale dell’Italia fascista di mobilitare e utilizzare al meglio le proprie risorse umane, e sul rifiuto degli ufficiali di carriera di accettare ogni forma di partecipazione volontaria, cfr. comunque M.G. Knox, Alleati di Hitler. Le Regie Forze Armate, il regime fascista e la guerra del 1940-43, Milano 2002. 55  A. Natta, L’altra resistenza. I militari italiani internati in Germania, Torino 1997. 53

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tervento dei tedeschi in aprile) quando la chiamata alle armi degli universitari divenne effettiva, i normalisti in corso combatterono sostanzialmente su due dei fronti principali impegnati da truppe italiane fino all’8 settembre: il fronte russo (estate 1941-inverno 194243) e quello dell’Africa settentrionale (fino al gennaio 1943), dove cadde Enrico Legnani. Pochi altri vennero impiegati inquadrati in reparti di presidio sul territorio nazionale, in Sardegna o in Corsica (dove peraltro ebbero l’occasione di battersi nella rapida campagna contro i tedeschi nel settembre 1943, come Renzo Nuti e Italo Troiani, che rimase ucciso), o in comandi e centri logistici dislocati sui fronti minori (Carlo Azeglio Ciampi, laureato il 27 maggio 1941, si ritrovò prima che finisse l’anno sottotenente nel corpo automobilistico, sul fronte albanese), mentre la maggioranza rimase in caserme cittadine o ai corsi AUC fino al termine del conflitto56. Il fronte russo fu certamente il più impegnativo: furono sicuramente combattenti nell’ARMIR Mario Spinella, all’epoca sergente di fanteria, Marcello Aurigemma, Nicola De Donno, Paolo Nesbeda e Giorgio Chiodoni, che vi morì, prigioniero in un campo di concentramento sovietico57.

  C.A. Ciampi (Livorno 1920), ammissione di Lettere del 1937. È probabilmente il più famoso tra i normalisti della generazione della guerra. Nel 1941, dopo una borsa di studio in Germania e la laurea, fu incorporato e inviato in Albania. L’8 settembre 1943 era in Italia per un permesso, evento che gli permise di sottrarsi alla cattura e di entrare in clandestinità nelle fila del Partito d’Azione. Cfr. Ciampi, Da Livorno al Quirinale, pp. 46-62. 57   R. Nuti (Siena 1914 - Siena ?), ammissione di Lettere 1932. Dopo la laurea in lettere classiche, insegnò al liceo ‘Piccolomini’ di Siena, di cui, dopo la guerra divenne preside. I. Troiani (Livorno 1918 - Corsica 1943), ammissione di Lettere 1937. Venne incorporato nel Regio Esercito subito dopo la laurea in lettere. M. Aurigemma (Roma 1920-97), ammissione di Lettere del 1938. Fu chiamato alle armi nel 1941; riuscì a tornare dal fronte russo e si laureò in letteratura italiana nel febbraio 1943. In seguito frequentò l’Istituto di Studi Superiori di Napoli e fu docente di ruolo nelle scuole secondarie, prima di divenire ordinario di Letteratura italiana all’Università di Roma. N. De Donno (Maglie LE 1920-2004), ammissione di Lettere del 1938. A causa dell’interruzione degli studi per la guerra, si laureò solo nel 1946, insegnando poi nelle scuole secondarie in Puglia e presso l’Università di Bari, e svolgendo anche un’intensa e apprezzata attività di poeta dialettale. P. Nesbeda (Trieste 1921 - USA ?), ammissione di Scienze del 1939. dopo la laurea in matematica nel dicembre 1943, e la fine della guerra, si perfezionò in Francia e si trasferì poi negli USA dove insegnò a Princeton e Washington. G. Chiodoni (Milano 1920 - Russia 1943), ammissione 56

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Il destino di questi ‘volontari per forza’ e combattenti fu alquanto sintomatico delle incertezze, e anche delle sperequazioni, che caratterizzarono la mobilitazione giovanile per la guerra tra 1940 e 1943: incorporati con lentezza, avviati casualmente ai reparti combattenti, trasferiti improvvisamente da un fronte all’altro, i pochi normalisti (realmente) in armi vissero la bufera del conflitto in modo molto più drammatico della grande maggioranza dei loro coetanei, come sarebbe stato ricordato poi nelle memorie burocratiche depositate presso la segreteria della Scuola alla fine della guerra: Prestai servizio militare di istruzione nel 51° reggimento di fanteria in Perugia fino al giugno 1941 quando, sergente, fui trasferito al VI Btg. Artiglieria contraerea in Croazia. Rimpatriato nel settembre per essere ammesso al corso AUC rimasi fino al febbraio 1942 alla scuola AUC di Ravenna, donde uscii col grado di sottotenente. Fui assegnato al 140° reggimento di fanteria, mobilitato in difesa costiera. Nel giugno 1942 fui trasferito al LXIII Btg. Artiglieria anticarro, in Russia, e raggiunsi immediatamente il reparto. In dicembre dello stesso anno, durante la dolorosa ritirata invernale, fui ferito alla gamba sinistra e, nell’impossibilità di ricovero immediato in ospedale (ricovero avvenuto solo un mese dopo), partecipai ai combattimenti della sacca di Cercovo e soffersi, per fame freddo perdita di sangue, congelamento di III grado agli avampiedi. Sfuggito con pochi alla morsa dell’esercito Russo e rimpatriato, subii a Firenze (Ospedale militare di Careggi) l’amputazione bilaterale delle falangi dei piedi nel marzo 1943. In aprile sopportai nello stesso ospedale altra operazione chirurgica per un ascesso da congelamento che mi ridusse in fin di vita. Trasferito nel luglio 1943 al Centro ortopedico per Mutilati ‘Putti’ di Bologna soffersi il 31 agosto l’ulteriore amputazione bilaterale dei metatarsi. In quell’ospedale, otto giorni dopo, fui sorpreso dall’armistizio, immobilizzato a letto. Fui tagliato fuori da ogni contatto coi miei, Uscitone per sospensione di cura in dicembre, ricevetti nel febbraio 1944 comunicazione della riapertura della Scuola Normale, ma non potei, come era mio desiderio, raggiungere Pisa, perché già in marzo rientravo in ospedale a Bologna a com-

di Lettere del 1939. Era al II anno del corso ordinario quando fu arruolato e inviato alla Scuola centrale di alpinismo ad Aosta per diventare ufficiale alpino. Partito per il fronte russo inquadrato nella divisione ‘Julia’, venne catturato durante la ritirata dell’inverno 1942-43; ferito, morì di malattia nel marzo successivo in un campo di prigionia. E. Legnani (Bologna 1921 - Tobruk 1941), ammissione di Lettere 1939. Cadde in combattimento davanti a Toburk, dove comandava un caposaldo difensivo, durante la prima offensiva britannica in Libia.

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pletare le cure. Ne fui definitivamente dimesso il 31 agosto 1943, né più mi presentai ad Enti militari della RSI58.

Certo, la casualità e la passività di fronte al proprio destino militare non connotarono il comportamento di tutti i giovani allievi di fronte al conflitto. Qualche studente, come Enrico Legnani, insistette per essere avviato in prima linea, probabilmente spinto a ciò da quello stesso complesso di entusiasmo generazionale, senso del dovere e disaffezione per la retorica dell’«armiamoci e partite» che sembrava contraddistinguere i vari strati della cosiddetta classe dirigente italiana tra 1940 e 1943, secondo un ritratto reso celebre dall’allora ufficiale di carriera Nuto Revelli59. Legnani, che avrebbe incontrato la morte sul fronte africano, fu un raro esempio di normalista di cui ci sia giunto un «monumento di carta», una lunga missiva vergata dal padre, costruito secondo le più consuete coordinate retoriche dell’entusiasmo patriottico e del valore guerriero: Abbiamo spesso pensato a Voi, e alle giornate certamente tra le più liete della sua vita, che il nostro caro ha trascorso in quell’ambiente ed in quella città che hanno lasciato in lui cari ricordi e nostalgia e rimpianti. Come saprete, seguendo il suo puro e generoso impulso, dopo vari mesi di peripezie, riusciva a coronare la sua aspirazione di partecipare in forma attiva alla difesa dei destini della Patria. Purtroppo sono giunti presto per noi i giorni angosciosi della vana attesa delle sue notizie. La sua ultima lettera è del 17 novembre del ’41. Il 18 dello stesso mese si scatenava la violenta offensiva nemica arginata e contenuta dal valore, dall’eroismo e dal supremo sacrificio dei nostri cari. Egli comandava il 5° centro di fuoco del 14° caposaldo sul fronte est di Tobruk. Un compagno e collega, il sergente universitario Franco Bernardi di Prato, che con lui nello stesso caposaldo aveva partecipato alla battaglia, scrivendo a dei comuni amici, recò la terribile e dolorosa notizia che il nostro caro era caduto mentre, incurante del fuoco nemico, incitava i suoi soldati alla difesa. […] Come vedete non c’è più nulla che ci lasci qualche speranza e con lui, credetemi, se ne è andato anche tutto il nostro avvenire, tutta la

 ASNS, Cartelle allievi, De Donno Nicola, da De Donno a Perosa, 30 giugno 1945.   N. Revelli, La guerra dei poveri, Torino 1979. Revelli, all’epoca giovanissimo subalterno di fanteria alpina, denunciava nelle sue memorie la disorganizzazione della preparazione militare, la parzialità della mobilitazione e soprattutto la vigliaccheria dei gerarchi fascisti e degli ufficiali imboscati nei servizi e nei comandi, ansiosi di evitare il fronte. 58 59

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nostra gioia, tutto il nostro sole. Perché io credo che Voi abbiate avuto tempo di apprezzarne le doti di mente, ma soprattutto quelle del suo animo grande di idealista puro. È partito con grande entusiasmo e dal fronte, malgrado fosse sottoposto ad ogni sorta di disagi e sacrifici, ci scriveva lettere dove mai si è smentito. Io so che aderendo alla sua volontà ho dato a Lui (come ebbe egli stesso a dirmi prima di partire) la più grande soddisfazione della sua vita. Ciò che anche se non ci ha alleviato l’intenso dolore, ci ha riempiti d’orgoglio, è stata una lettera del suo comandante di battaglione, capitano Bientinesi Ernesto […] nella quale esalta le virtù militari del nostro adorato figliolo annunciandoci anche di averlo proposto per una ricompensa al valor militare per il suo comportamento, poiché «ancora prima del fatto d’armi del 21 novembre Avevo scorto in lui le più belle qualità che si possono riscontrare in un vero soldato e in un vero Italiano e cioè entusiasmo, calma nel pericolo e valore». I suoi fanti gliene parlavano sempre con affetto e così i suoi superiori e colleghi. Non sappiamo, ma non credo che nostro figlio abbia lasciato nulla lì alla Scuola, ma se vi fosse qualche scritto, qualche suo ricordo, vi sarò grato se aveste modo di farcelo avere. Anche per l’Università di Pisa non so se ci sia da fare qualche cosa se me ne informaste ve ne sarò grato. Come pure vi sarò grato se lo ricorderete ai suoi compagni ed in particolare a coloro che lo compresero e lo amarono. Eccovi quanto mi avete chiesto e quanto vi dovevamo, e nel contempo vi prego di credere alla riconoscenza mia, di mia moglie e di mia figlia per quanto a suo tempo avete fatto per il nostro adorato figliolo60.

Sacrifici isolati a parte, tuttavia, il conflitto dei normalisti fu soprattutto una lunga attesa, fino allo sfacelo dell’esercito seguito all’armistizio. Alcuni furono incorporati tardivamente, e poi subito rispediti a casa in licenza per cause mediche, come Vincenzo Bongi (che morirà infatti pochi mesi dopo la conclusione del conflitto)61, o più semplicemente per la palese impossibilità di gestire un numero esorbitante di ufficiali, come Augusto Livi. Altri furono trattenuti nelle caserme sparse sul territorio nazionale fino al collasso dell’8 settembre, quando i più si rifugiarono presso le case natie sopravvivendo in «posizione irregolare» fino alla liberazione, come Torello Torelli, Italo Gabrielli,

 ASNS, Cartelle allievi, Legnani Enrico, Ivo Legnani a V. Arangio-Ruiz, 11 gennaio 1943. 61   V. Bongi (Firenze 1920-46), ammissione di Lettere del 1938. Venne incorporato per poche settimane alla fine del 1941 e poi rinviato a casa per una lunga licenza per malattia. Nuovamente incorporato, fu in degenza presso l’ospedale militare di Chiareggi. Si laureò e sostenne l’esame di licenza nel 1942. 60

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Sergio Matteoni, Leonardo Lazzari o Mario Baratto, imboscati in comandi privi di pericolo e assegnati a compiti di ufficio62. Altri ancora non furono nemmeno mai richiamati perché nei ruoli della Marina da guerra, che abbisognava di pochi elementi cosicché molti allievi alle armi esperirono la guerra più che altro come un «non evento», qualcosa di simile alla «guerra mai avvenuta» del 1939-40 per la massa degli allievi dell’ENS parigina63. Altri ancora, infine, come Alessandro Natta, Cinzio Violante o Francesco D’Amato, vissero successivamente l’esperienza dell’«altra resistenza»: impiegati in reparti di occupazione nel quadrante greco o in Francia, senza la possibilità offerta ai colleghi rimasti in Italia di sfuggire alla cattura tedesca durante il caos del «tutti a casa», vennero imprigionati insieme ad altri 30.000 ufficiali e più di 500.000 soldati italiani, dividendo la sorte dei militari internati che rifiutarono la collaborazione con il Reich e con la rinata Repubblica Sociale Italiana64. Natta ha lasciato, nelle sue memorie di guerra redatte alla metà degli anni Cinquanta ma pubblicate solo molto più tardi, un resoconto lucido e impietoso della durezza del trattamento, delle sevizie inflitte dai guardiani agli ex alleati, della tortura psicologica delle continue offerte di collaborazione da parte di gerarchi e militi del fascismo repubblichino, evocando al contempo il clima di unione morale e persino di intenso dibattito culturale sorto nei campi, soprattutto ad opera di giovani ufficiali di complemento provenienti dalle professioni intellettuali, impegnati, oltre che a sopravvivere, a tenere vivo il ricordo dei momenti epici e grandiosi della storia nazionale e ad elaborare progetti sul futuro dell’Italia postbellica. La continuità con il Risorgimento fu uno dei primi topoi retorici ad affiorare tra gli intellet-

  Solo in pochi casi, allievi ed ex allievi della Scuola furono effettivamente impiegati al meglio, nel tentativo di sfruttare le loro competenze specialistiche. Giulio Battistini (Pisa 5 aprile 1912-2004), ammissione di Scienze del 1930, espulso nel 1932 per insufficienza ad un esame, fu ad esempio richiamato in servizio nella Marina il 5 giugno 1940 come ufficiale di complemento e assegnato, su incarico dello Stato Maggiore, allo studio sulla possibilità di utilizzare «armi magnetiche» in vari laboratori in Italia e in Germania. Sarà poi docente universitario e a lungo deputato e poi deputato regionale della DC. Cfr. ASNS, AA, b. 1, s. Battistini Giulio. 63  Israël, Les études et la guerre, pp. 40-6. 64   Per ciò che riguarda le vicende degli Internati Militari nei campi di prigionia tedesca cfr. in primo luogo G. Schreiber, I militari italiani internati nei campi di concentramento del Terzo Reich, Roma 1992, e G. Hammermann, Gli internati militari italiani in Germania 1943-45, Bologna 2004. 62

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tuali in uniforme rinchiusi nei campi, un legame morale con un’altra stagione di resistenza la cui evocazione, affidata al letterato Natta, gli consentiva di svolgere nel campo di prigionia e in senso antifascista la funzione educatrice a cui era stato preparato dalla Scuola Normale (finanziata e ingrandita grazie al favore del duce del fascismo): […] il colonnello Imbriani mi pregò di fare una conferenza per tenere su il morale dei compagni di prigionia. Nella fredda baracca del nostro primo Lager dissi tutto ciò che ricordavo di Carlo Cattaneo, delle 5 giornate, del glorioso ’48. […] Tenere su il morale significava comprendere la necessità, per la resistenza antitedesca e antifascista – a qualche mese dall’8 settembre – di ricercare lontano le ragioni per divenire qualche cosa di serio e unitario. Così nacque un po’ dovunque l’impegno della riscoperta e della riaffermazione dei valori risorgimentali, della conoscenza della realtà economica e sociale del nostro paese, del contatto e del dibattito sul pensiero politico dell’Europa moderna, in modo da mutare in giudizio critico la ribellione sentimentale contro il fascismo […]65.

Una spinta etica a continuare il proprio «mestiere» di professore, persino nelle durissime condizioni della prigionia che sarebbe stata fatta propria anche dallo scienziato Francesco D’Amato, impegnato a tenere conferenze di botanica nel Lager dove era stato rinchiuso dopo essere stato catturato in Francia, e che definiva la fedeltà alla propria vocazione educativa, a quella missione del sapiente cui i normalisti erano stati avviati e a cui non sarebbero, di fatto, mai venuti meno66. E, ancora, un intimo nesso tra il proprio mestiere di storico, nutrito di capacità critica, di lucido amore per il vero e di rifiuto della rozza menzogna propagandistica, avrebbe animato Cinzio Violante, uno dei testimoni più significativi tra i normalisti internati, non fosse altro che per l’intransigenza dimostrata di fronte alle pressioni tedesche per la collaborazione in veste di «lavoratore volontario». All’epoca giovanissimo allievo della classe 1921, arruolato al suo II anno, Violante percorse la non rapidissima trafila di formazione dell’AUC universi-

  Natta, L’altra resistenza, pp. 41-2.   ASNS, AA, s. D’Amato Francesco. F. D’Amato (Grumo d’Appula BA 1916 Pisa ?), ammissione di Scienze del 1936. Laureato in biologia nel 1939, poi assistente di ruolo in botanica all’Università di Pisa fu arruolato come subalterno in artiglieria e catturato durante la disgregazione della IV armata. Dopo varie borse di studio all’estero, fu ordinario di botanica negli atenei di Bari e Pisa. 65 66

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tario, fino ad essere avviato, nell’aprile 1942 (vale a dire quattordici mesi dopo l’arruolamento) ad un distaccamento di artiglieria di presidio a Kalamata, nel teatro di operazioni greco. Si trattava di una zona di impiego relativamente tranquilla fino all’8 settembre, quando lo sfacelo dei comandi e il mancato coordinamento di una qualsiasi forma di resistenza alle forze tedesche produssero il collasso dell’armata di occupazione italiana: il 12 settembre, il sottotenente Violante veniva catturato e avviato ai campi di detenzione, prima in Polonia e poi in Germania. Solo negli ultimissimi anni della sua vita, Violante tradusse in un breve volume autobiografico (Una giovinezza espropriata) i propri ricordi relativi alla prigionia, raccontando senza troppa enfasi le sevizie patite da chi, come lui, non solo si era rifiutato di arruolarsi nelle fila della RSI ma anche di piegarsi al servizio lavorativo «volontariamente» richiesto agli ufficiali (i quali, in base alla Convenzione di Ginevra, non possono essere obbligati a lavorare in cattività). L’opposizione alla richiesta tedesca poteva significare, nel migliore dei casi, la persistenza di un durissimo regime di malnutrizione e di negazione delle più elementari forme di assistenza all’interno dei Lager, nel peggiore, torture fisiche, maltrattamenti, e spesso la morte. Nel canone memoriale degli ex IMI, il rifiuto del collaborazionismo da parte della maggioranza degli ufficiali (e dei soldati) prigionieri, poteva essere dovuto ad un vasto ventaglio motivi: la fedeltà al giuramento prestato di obbedienza al Re e allo Statuto, l’odio antitedesco o antifascista, il sentimento di dignità personale. Nelle memorie di Violante, la convinzione della lealtà al proprio dovere era strettamente legato alla visione storica dell’identità e della continuità nazionale, rispetto a cui la guerra fascista e l’occupazione tedesca parevano una mostruosa e traumatica rottura, alla «scoperta» della politica grazie ai compagni di prigionia, alla convinzione, acquisita nel corso del suo stesso servizio militare, del torto radicale del fascismo, in quanto dittatura, prima e del regime-fantoccio della RSI ora, e ad un sentimento di «humanitas» che lo spingeva a vedere nel nazionalsocialismo (la «matta bestialitade teutonica», come la definirà in una lettera del dicembre 1945)67 un nemico non solo dell’Italia, ma dell’intera civiltà europea. Un complesso di motivazioni fatte risalire al rigore della formazione normalistica, alla libertà delle sue discussioni e, certo, non da ulti-

 ASNS, Cartelle allievi, Violante Cinzio, da Violante ad A. Perosa, 16 dicembre 1945. La ricostruzione dello scambio epistolare tra Violante e Perosa e il testo integrale delle lettere, in Mondini, Ritornare alla vita degli studi, pp. 21-5. 67

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mo al non conformismo del suo clima culturale, sia tra le pareti delle aule durante i seminari dei maestri più liberi e critici verso l’esistente situazione politica, come Calogero e Cantimori, sia nel chiuso delle stanze, dove si rafforzavano le discussioni notturne cospiratorie tra gli studenti: Come immagine emblematica della posizione di moltissimi studenti e professori dell’Università pisana di fronte allo scoppio della guerra, mi è rimasto in mente l’atteggiamento impassibile di Guido Calogero – quel fatidico pomeriggio del 10 giugno 1940 – nella sua decisione di proseguire gli esami di Storia della Filosofia, nell’aula IX, dove si era appena spenta l’eco della lettura che egli aveva fatta, nel suo corso, della Filosofia della pratica di Croce, e delle discussioni che ne erano seguite con noi alunni. Eppure gli studenti pisani, quando la Patria – sia pure sotto il dominio della dittatura fascista – li chiamò alle armi, fecero il loro dovere militare, molti portando certo nel nuovo impegno di combattenti uno spirito tutto diverso da quello dell’ideologia ufficiale che una propaganda incolta e banale cercava di imporre alla guerra, moltissimi traendo dalla stessa esperienza bellica l’occasione che rendeva finalmente operanti, vive, attuali, tante lezioni apprese nelle aule universitarie68.

Tuttavia, l’etica della resistenza di Natta, Violante o D’Amato sarebbe stata caratteristica più che altro della seconda parte del conflitto mondiale, dopo lo spartiacque del 1943, il crollo del regime e il dirompere della guerra civile nel Paese. Fino a quella data, la bufera della guerra avrebbe colpito solo pochi degli allievi, e la Scuola avrebbe continuato a vivere relativamente al sicuro, al riparo dai rischi e dalla maggior parte delle privazioni, in una apparente continuità priva di traumi col tempo di pace. Anche per l’istituzione, insomma, il conflitto al suo inizio sarebbe parso soprattutto un «non evento». I problemi, i disagi, le distruzioni della guerra con l’inizio della campagna strategica di bombardamenti (che avrebbe duramente colpito Pisa nella primavera-estate del quarto anno di guerra) e, non da ultimo, il venir meno dell’autorevole guida di Gentile, colpito dall’ostracismo politico del nuovo gabinetto «afascista» dopo il 25 luglio, sarebbero venuti dopo, intrecciandosi, anzi, tutti insieme in un rapido e drammatico precipitare degli eventi che avrebbero portato il Palazzo dei Cavalieri, svuotata dei suoi studenti sfollati e abbandonato dalla maggior parte

  Violante, Una giovinezza, pp. 48-9.

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dei professori, ad essere occupato, dai tedeschi prima e dalle truppe statunitensi poi, e la Scuola Normale sull’orlo della sparizione. Un orizzonte sconosciuto, ancora nel 1941 e nel 1942, quando la direzione, ad opera dei due vicedirettori, Arangio-Ruiz, e Cantimori, inviava al Ministero dell’Educazione Nazionale le relazioni di rito sull’attività svolta nel corrente anno accademico. Meticolosamente riempite di indicazioni sulle pratiche amministrative, le celebrazioni scientifiche, le manifestazioni cittadine, la situazione della didattica e la modalità dei concorsi in atto, le relazioni testimoniano ancora oggi della apparente lontananza della guerra dalla quotidianità della Scuola e dei suoi studenti il cui numero, si segnalava solamente, era diminuito a causa dei richiami alle armi, fatto che aveva però avuto il positivo risultato di causare un avanzo notevole di bilancio69. L’anno successivo, il molto più stringato rapporto firmato da Delio Cantimori, che aveva sostituito Arangio-Ruiz, ufficialmente per il cronico stato di cattiva salute di quest’ultimo, avrebbe recitato, in modo laconico, che «nulla da segnalare [c’era] per il personale della Scuola. Uno studente è stato dichiarato disperso in battaglia nella difesa di un fortino della piazzaforte di Tobruk nel novembre 1941»70. Nei giorni in cui Cantimori stendeva la relazione, la crisi del Paese, e contemporaneamente quella della Scuola, si avvicinavano a grandi passi, ma a Pisa la cittadella degli studi viveva ancora nell’illusione di una tranquillità immutabile.

 ASNS, Corrispondenza, 1944-48, b. 27, Relazione sulla attività svolta durante l’anno accademico 1940-41, 13 febbraio 1942, p. 2. In realtà, le considerazioni di ArangioRuiz erano solo parzialmente esatte. Il numero degli allievi ordinari era infatti solo lievemente mutato o addirittura aumentato rispetto ad alcuni anni dell’anteguerra (69 nel 1937-38, 76 nel 1938-39, 77 nel 1939-40, 71 nel 1940-41); ad essere venuti meno erano i perfezionandi e i borsisti stranieri (rispettivamente 6 e 3 nel 1937-38, uno nel 1940-41), la cui sparizione tuttavia era dovuta molto più al venir meno dei fondi statali che alla situazione di guerra. 70   Relazione sull’attività svolta durante l’anno accademico 1941-42, 30 marzo 1943, p. 4. 69

Epilogo «Il triste calvario»: la diaspora e il ritorno

Il voto del gran Consiglio del Fascismo la notte del 25 luglio e il crollo del regime; le forzate dimissioni di Giovanni Gentile, improvvisamente inviso al nuovo governo badogliano; il pesante bombardamento di Pisa del 31 agosto, che ridusse la città in macerie, e il contemporaneo insediamento di Luigi Russo a nuovo direttore, carica tenuta per pochi giorni fino a che, l’8 settembre, l’occupazione tedesca della città non lo spinse a rifugiarsi in clandestinità; infine, la nomina a direttore di Leonida Tonelli da parte di Carlo Alberto Biggini, nuovo ministro dell’Educazione Nazionale di Salò. Sono queste le coordinate fondamentali di una «crisi del ’43» che travolse la Scuola, rischiando a più riprese di minarla dalle fondamenta e di non permetterne la sopravvivenza. L’intreccio di conflitto politico e rivalità accademiche, gelosie personali ed emergenze di guerra che contraddistinse le dinamiche istituzionali della Normale in quei mesi sono state da tempo messe in evidenza. Molto meno chiaro è ancora oggi il destino di quegli studenti che, non ancora mobilitati, avevano condotto fino a poche settimane prima una vita tutto sommato estranea allo sconvolgimento mondiale, e che sarebbero stati sbalzati d’improvviso nel pieno della violenza di guerra, su uno dei fronti più tormentati di un paese diventato campo di battaglia di eserciti stranieri e terreno di guerra civile. La crisi del ’43 vide, prima di tutto, l’improvviso e per molti versi inaspettato collasso del sistema gentiliano di governo e di protezione della Scuola. La clamorosa sfiducia manifestata da Leonardo Severi, ministro dell’educazione nel gabinetto Badoglio, nei confronti di Gentile, additato in una lettera pubblicata sul Giornale d’Italia quale servo della tirannia e «traditore», si accompagnò alla rottura del circolo di allievi e collaboratori attorno a cui la Normale degli anni Trenta e Quaranta si era organizzata: ai numerosi attestati di solidarietà, anche insospettabili, che il rozzo siluramento da parte del nuovo governo aveva provocato, si sovrapponevano infatti il defilarsi di Cantimori, già da alcune settimane tetragono agli appelli del vecchio maestro af-

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finché riassumesse la funzione di vicedirettore a presidio della Scuola, e di Russo, il cui ostinato silenzio, in quelle turbolente settimane, non poteva non riallacciarsi palesemente alla volontà di non pregiudicare politicamente la già ventilata candidatura alla direzione1. Compromesso dalla scoperta della rete liberalsocialista nei mesi precedenti, Russo aveva brigato, proprio attraverso Gentile, affinché gli venisse restituita la tessera del PNF ritirata ai primi di aprile per i sospetti a suo carico; già dai primi di agosto, tuttavia, convinto che il vecchio direttore fosse «giustamente esautorato», rivendicava la naturale linea di successione da Gentile al più autorevole ordinario di lettere interno, cioè se stesso, liquidando aspramente la velleitaria proposta di Aldo Capitini e sottolineando l’opportunità della propria scelta anche a fronte delle «esigenze della Scuola» e degli «umori favorevolissimi per la mia persona nel mondo universitario pisano, tra i giovani e tra i miei colleghi»2. In questo delicato frangente, le rivalità interne al circuito gentiliano si erano andate radicalizzando. Arangio-Ruiz, ormai decaduto de facto dalla carica di vicedirettore a causa delle sue precarie condizioni di salute, si scontrava in modo sempre più virulento con Russo (che, come primo atto da direttore, l’avrebbe ufficialmente giubilato) e con Cantimori, ‘vice’ facente funzioni, nettamente ostile alla pignola e rigorosa gestione della vita collegiale del suo predecessore, e per questo tanto amato dagli allievi, almeno quanto Arangio-Ruiz era stato detestato. Nelle molte lettere di lamentela che quest’ultimo aveva indirizzato a Gentile, lo «spirito normalistico» di marca cantimoriana era stato dipinto a tinte fosche, come un misto di eccessiva libertà concessa agli allievi relativamente agli orari, alla vita notturna all’interno del collegio e alle (rumorose) manifestazioni goliardiche (e a volte anche di colore politico): appoggiato da Pasquali e Perosa, Cantimori andava gestendo, tra la primavera e l’estate del 1943, una Scuola in cui, con sommo orrore del pignolo ormai ex vicedirettore, gli alunni potevano «schiamazzare come vogliono, strafregarsene delle regole, dell’orario, dell’educazione, bolscevicare come vogliono»3. Ci

  Sulla vicenda della lettera di Severi e sulle conseguenti dimissioni di Gentile cfr. Turi, Giovanni Gentile, pp. 548-9. Sulle ultime tappe del rapporto tra Russo e Gentile cfr. Pertici (ed.), Luigi Russo - Giovanni Gentile 1913-1943, lettere 200-207, pp. 328-34. 2   Russo a De Ruggiero, 8 agosto 1943, cit. in SIMONCELLI, Cantimori, Gentile e la Normale di Pisa, p. 160. 3   Arangio-Ruiz a gentile, 6 giugno 1943, ibid., p. 148. 1

275  Epilogo

sono pochi dubbi sul carattere pedante ed eccessivamente rigoroso del vecchio vice di Gentile, ma è possibile forse sospettare anche che, a cavallo di quelle settimane decisive, mentre la guerra volgeva ormai al peggio per l’Italia, si approssimava lo sbarco in Sicilia e la campagna di bombardamento strategico degli Alleati toccava il suo culmine cominciando a colpire anche i centri ferroviari e industriali del Centro e del Nord, i giovani normalisti fossero più irrequieti del solito. La cronaca ufficiale della Scuola, raccolta nei verbali dei consigli direttivi, tace purtroppo sul periodo marzo-novembre 1943, per il quale pare non esistano resoconti delle discussioni e dei provvedimenti presi all’interno di Palazzo dei Cavalieri4. In base alla memorialistica, dopo gli arresti di Calogero, Capitini e Ragghianti, nel 1942, il comitato clandestino di ispirazione liberalsocialista ancora attivo alla Scuola, guidato da Russi e Giorgio Piovano, lungi dal sciogliersi, intensificò la propria attività cospirativa unendosi ai gruppi socialisti, comunisti e cattolici del pisano e promuovendo, in una sorta di pre-CLN locale, un’intensa attività di contropropaganda e volantinaggio contro il regime tra Pisa, Lucca e Livorno5. Fu questo nucleo di studenti ad animare la plateale manifestazione antifascista del 25 luglio 1943, quando, dopo aver arringato una piccola folla di studenti e operai dal balcone del Palazzo della Carovana, Russi e Piovano si unirono al corteo inneggiante alla caduta del regime e alla fine della guerra, che di lì a poco si sarebbe scontrato violentemente con polizia e carabinieri; una mossa pericolosa, viste le draconiane disposizioni del governo Badoglio in merito all’ordine pubblico, che costarono 17 morti e molti arresti in tutta la penisola6. La consueta chiusura per le vacanze estive, il defilarsi di Cantimori, ufficialmente per ragioni di salute, e

  Esistono due volumi che raccolgono i verbali del Consiglio Direttivo a cavallo del secondo conflitto mondiale: il primo (Verbali del Consiglio ’39-’43) contiene i resoconti delle sedute fino al 17 marzo, il secondo (Verbali del Consiglio ’43-’49) parte dalla seduta del 24 novembre 1943. 5   Russi, Testimonianza, p. 199. 6   Giorgio Piovano (Torino 1920-2008), ammissione di Lettere del 1928, laureato nel 1942 fu poi perfezionando nell’a.a. 1942-43. Dopo la guerra transitò nelle fila del PCI. Insegnò per alcuni anni nelle scuole superiori, ma si dedicò soprattutto alla politica militante (fu senatore) e alla poesia (una sua raccolta vinse il premio Viareggio). Sulla repressione delle manifestazioni popolari scoppiate un po’ dovunque in Italia ordinata da Badoglio cfr. E. Aga Rossi, Una nazione allo sbando. L’armistizio italiano del settembre 1943 e le sue conseguenze, Bologna 2003, p. 74. 4

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la lontananza di Arangio-Ruiz, richiamato in servizio da Gentile affinché qualcuno di autorevole potesse essere fisicamente presente a Pisa, fecero sì che, proprio nei giorni più caotici, la Normale rimanesse praticamente svuotata, sia degli studenti, perlopiù ripartiti per le proprie case, sia del personale. Il 30 agosto veniva data ufficialmente comunicazione delle dimissioni di Gentile, a cui avrebbe fatto seguito l’insediamento di Luigi Russo al vertice della Normale e dell’Università. Ma la città in cui il nuovo direttore assumeva, per conclamata fiducia politica, la guida contemporanea e straordinaria della Scuola e dell’ateneo, era ora una città in ginocchio. Il 31 agosto si era registrato il primo bombardamento massiccio del nucleo urbano da parte di uno stormo di B17 statunitensi, un’incursione volta a colpire soprattutto lo scalo ferroviario e il distretto industriale, ma che ferì in modo irreversibile tutta la città: le stime della prefettura parlarono di poco meno di 1000 morti, un numero pari di feriti, 500 abitazioni distrutte e almeno il doppio danneggiate7. La guerra, percepita fino a quel giorno dai residenti come ancora lontana, rese improvvisamente Pisa un luogo pericoloso in cui risiedere: molti lasciarono le loro abitazioni, e moltissimi studenti, avvisati delle distruzioni e timorosi di altre incursioni (che avvennero con regolarità in dicembre e nell’agosto successivo) si rifiutarono di ritornare in sede. Fu questo l’inizio vero e proprio della diaspora studentesca (e normalistica). Se la guerra combattuta al fronte, con il richiamo parziale degli studenti e il mantenimento di molti degli incorporati in guarnigioni dislocate sul territorio nazionale (dunque con la possibilità di continuare a dare esami), aveva inciso fino a quel momento in modo solo relativo sulla continuità della vita urbana ed accademica, le distruzioni subite nella fase centrale del conflitto rappresentarono un’interruzione traumatica della storia contemporanea pisana, di cui Università e Normale subirono le conseguenze. Per quanto riguarda quest’ultima, apparentemente la crisi del ’43, precipitata con la fuga di Russo dopo l’8 settembre e la lunga vacanza del posto di direttore, venne chiusa dalla nomina di Leonida Tonelli a direttore, dopo che Gentile aveva declinato la proposta della nuova Repubblica Sociale. Si trattava di un’investitura che comportava più oneri e rischi che

  M. Praticelli, L’Italia sotto le bombe. Guerra aerea e vita civile 1940-45, RomaBari 2009, e E. Ferrara, E. Stampacchia, Il bombardamento di Pisa del 31 agosto 1943. Dalle testimonianze alla memoria storica, Pontedera 2004. 7

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prestigio, e che Tonelli accettò più che altro per senso del dovere8. La situazione che il nuovo direttore si trovò ad affrontare infatti alla prima convocazione del nuovo Direttivo, il 24 novembre, era poco meno che disperata: l’evocazione di Gentile come perenne nume tutelare delle sorti dell’istituto, in apertura di riunione, non poteva nascondere, neanche nel tono burocratico del verbale, l’irregolarità e il caos che regnavano nella dirigenza (con Arangio-Ruiz che rivendicava il reintegro alla vicedirezione, e il nuovo direttore che dava invece corso alla nomina di Landolino Giuliano), e nel corpo docenti, stante l’assenza dei due ordinari di lettere più prestigiosi (Cantimori e Russo) che meglio rappresentavano la Normale gentiliana. Ma, prima di tutto, era la scomparsa degli allievi a segnare il rapido e preoccupante disgregarsi della comunità normalistica. Gli effetti disastrosi dei bombardamenti alleati sulla sicurezza, sulla qualità della vita cittadina e sul sistema dei trasporti, avevano svuotato Pisa (nell’estate 1944 gli abitanti scenderanno a 40.000) e allontanato gli allievi in corso e i futuri candidati; per non parlare degli studenti meridionali, sorpresi in vacanza dall’armistizio e dall’avanzata degli Alleati nel sud della penisola, e ormai impossibilitati a raggiungere nuovamente la Toscana. Lo stesso Palazzo dei Cavalieri era stato occupato dai te-

  Tonelli era tutt’altro che vicino al fascismo locale, e la sua opera fu in effetti fondamentale per salvare il salvabile, soprattutto nelle settimane turbolente del passaggio del fronte nella zona di Pisa. Nonostante questo gli venisse riconosciuto sia all’interno della Scuola (Russo gli affidò l’incarico di relazionare sui mesi della sua direzione ringraziandolo pubblicamente per il suo lavoro) e dalle principali autorità italiane e alleate, inevitabilmente nel dopoguerra gli vennero mosse numerose critiche, che accelerarono probabilmente la morte nel 1946. Su questo cfr. Simoncelli, Cantimori, Gentile e la Normale di Pisa. Il figlio Giorgio (1928-78), ammissione di Lettere del 1945, entrò alla Scuola quando direttore era di nuovo Luigi Russo. Fu, il suo, un percorso difficile (soffriva di continui disturbi) e reso ancora più problematico da scontri ripetuti con la direzione (che nel 1947 lo sospese per un intero anno accademico) causati in larga parte dal suo carattere riottoso, dimostrato dai toni insofferenti e arroganti delle lettere che sono rimaste. Nonostante le sue mancanze disciplinari, tuttavia, Russo e i suoi successori si prodigarono in attenzioni e raccomandazioni per borse di studio e di scambio che, dal 1949 al 1952, gli permisero di perfezionarsi in Francia, Germania e a Praga e, infine, di partire per gli Stati Uniti. Il sospetto che questo favore fosse sostenuto anche dal ricordo del padre è avvalorato dal ruolo giocato dalla madre, che in almeno un caso scrisse personalmente a Perosa per sollecitare appoggi e lettere di presentazione. 8

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deschi nell’autunno, e trasformato in caserma per 150 ufficiali fino a dicembre9 quando, dopo reiterati interventi di Tonelli direttamente presso il Comando tedesco di Pisa, la Scuola venne restituita, severamente danneggiata, ai legittimi occupanti10. Tali erano i danni subiti, e talmente scarse furono in quelle condizioni le domande per l’ammissione 1943-44 (sette in tutto, più una al Collegio Medico), che Tonelli richiese al ministero l’autorizzazione a revocare il concorso di quell’anno («data la situazione attuale che impedisce al concorso di essere veramente nazionale»), indicando come data di riapertura della Scuola il gennaio del 194411. Una proposta considerata ancora eventuale, visto che la situazione dei normalisti in corso, sparpagliati in tutto il Paese e in alcuni casi irreperibili, era talmente caotica che il Direttivo decise di diramare a tutti gli allievi «una circolare per conoscere i nominativi di coloro sui quali effettivamente la Scuola potrà contare in caso di riapertura»12. Il censimento degli studenti ancora viventi e reperibili e la valutazione delle singole situazioni, in rapporto con gli obblighi regolamentari in Normale e all’Università, fu di fatto l’attività che avrebbe impegnato maggiormente l’amministrazione della Scuola a partire da quella data e fino al secondo dopoguerra. La cessazione repentina e disastrosa del conflitto, l’armistizio, il collasso delle Forze Armate nelle quali erano incorporati alcuni studenti, la perdita di contatto con le province di provenienza di altri, l’impossibilità di spostarsi da un capo all’altro della penisola sia nel territorio già «liberato» che in quello sotto occupazione tedesca o sotto controllo della RSI, erano motivazioni che si sovrapponevano nel rendere oggettivamente problematico il semplice riavvio in ritardo della didattica e dell’attività scientifica: «questi giovani, che hanno prestato servizio militare per periodi di tempo di varia durata, presenteranno dei curricula studiorum molto diversi l’uno dall’altro, sia per quanto concerne la carriera degli esami universitari, sia […]

  Si noti che, sebbene nelle cronache ufficiali e dell’istituzione sia stata conservata la versione di un’occupazione da parte di ufficiali tedeschi, nelle minute elaborate da Luigi Russo per il discorso inaugurale del 1946 è riportata invece la dicitura: «durante l’anno repubblichino fu occupata per più di un mese da un gruppo di ufficiali italiani che avevano aderito al nuovo governo. Tale gruppo era alle dipendenze di un comando germanico». Cfr. Breve cronaca. 10   Verbali del Consiglio ’39-’43, pp. 32-3. 11   Ibid., p. 3. 12   Ibid., p. 4. 9

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per gli obblighi interni», sosteneva unanime il Direttivo della Scuola, invocando la possibilità di accordare agli studenti, anche non arruolati, il privilegio di rimandare praticamente sine die obblighi ed esami, senza decadere dallo status di studente e senza incorrere in sanzioni, già concesso ai combattenti impossibilitati a presentarsi per cause di guerra13. Lo stesso Ministero dell’Educazione Nazionale di Salò, del resto, aveva disposto all’inizio di ottobre la possibilità, per tutti gli studenti universitari, di poter dare esami in sede diverse da quelle di iscrizione, un provvedimento di cui molti non avrebbero immediatamente fruito, sia perché ancora richiamati alle armi sia perché impiegati coattivamente nelle organizzazioni del lavoro o «per altre ragioni», come pudicamente indicava il Direttivo (vale a dire, perché in clandestinità a causa della posizione irregolare davanti alla RSI o ai tedeschi), ma che avrebbe comunque informato la vita studentesca (e normalistica) per i due anni successivi14. Fu questo, in effetti, il segnale di un’emergenza che non si poteva superare con l’ottimistica volontà del governo repubblichino – che del resto avrebbe cessato nemmeno un anno dopo di avere giurisdizione su Pisa e la Toscana – e l’ammissione di una diaspora incontrollabile anche degli studenti rimasti in Italia, che avrebbero dovuto tentare di portare avanti i propri studi come meglio potevano e dove potevano. Ma che proporzioni aveva assunto la dispersione dei normalisti? Secondo i dati più attendibili, nel corso del 1944, a fronte di 56 allievi in corso regolarmente iscritti a Lettere e Scienze, solo 13 studenti si potevano considerare regolarmente presenti15. Molti allievi anziani, in età di leva, paventavano sicuramente la possibilità, tutt’altro che remota, di essere arruolati a forza nelle fila repubblichine o nelle organizzazioni del lavoro, molti semplicemente rimasero presso le famiglie per non correre troppi rischi in un viaggio che li avrebbe portati verso

 Cfr. circolare 20 febbraio 1941 n. 278 da Ministero Educazione Nazionale a Rettori Università e Direttori Istituti Universitari, Studenti universitari. Applicazione dell’art. 149 del Testo Unico, in cui si ricorda che, in base alle disposizioni vigenti, gli studenti universitari che «a causa del servizio militare prestato nell’attuale conflitto vengano a trovarsi nell’impossibilità di sostenere esami» vengono sospesi dai propri obblighi, e che per loro non si prevede la cessazione dallo status di studente fino al termine del conflitto. 14   Circolare 3 ottobre 1943 cit. in Verbali del consiglio ’39-’43, p. 23. 15  ASNS, Corrispondenza 1942-48, b. 27, Dati statistici (il foglio fa parte delle minute preparatorie per il discorso di Russo del 1946). 13

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il fronte; molto più spesso, queste circostanze si intrecciavano, come sarebbe stato evocato, in modo un po’ criptico, da Carlo Runti e Licio Amodeo, due allievi di scienze originari di Trieste, nella risposta all’invito di Perosa a tornare per la riapertura dei corsi: Egregio dottore In possesso della Vostra lettera del 7 u.s. Vi avvertiamo che non è nostra intenzione di venire a Pisa, alla Scuola Normale, date le precarie condizioni sia delle comunicazioni che della città stessa. Come anche Voi saprete, qui a Trieste finora è tutto calmo. Inoltre sono stati aperti presso l’Università locale dei corsi per gli studenti di chimica, che per ragioni di forza maggiore non possono raggiungere le proprie Università. Così ci è data la possibilità di frequentare tali corsi pur rimanendo a Trieste. A queste ragioni si aggiungono, come comprenderete, anche altre. Speriamo ad ogni modo di poter venire per l’epoca degli esami od anche prima (circostanze permettendo) e di sostenere sempre regolarmente gli esami16.

Le matricole ammesse in gennaio, dopo che Biggini aveva rifiutato la proposta di rinviare il concorso di ammissione, erano una sparuta pattuglia: appena 5 allievi per Lettere e due per Scienze, peraltro non immuni, nonostante la giovane età, dai rischi della mobilitazione totale. Marino Raicich, classe 1925, che «ad onta della situazione eccezionale» era sceso da Fiume per essere ammesso alla Scuola, non poté frequentare che da gennaio a luglio: terminato l’anno scolastico, e risalito a Fiume per ricongiungersi con la famiglia, venne arruolato a forza nell’Organizzazione Todt e trattenuto dai tedeschi fino all’aprile 194517. Altri, come Bruno Moretti, non avrebbero praticamente messo piede alla Scuola fino alla liberazione di Pisa, consigliati dalla stessa amministrazione della Scuola di non rischiare il viaggio di andata e

 ASNS, Cartelle allievi, f. Runti Carlo, da Runti e Amodeo a Perosa, 17 gennaio 1944 (sottolineato nel testo). C. Runti (Trieste 1922), ammissione di Scienze del 1940. Pochi mesi dopo la lettera citata, si iscrisse a Farmacia, perdendo dunque il posto. Percorse poi una brillante carriera accademica che lo portò a divenire preside della sua facoltà presso l’ateneo pisano, prima di dedicarsi alla storia della musica, campo in cui ottenne notevoli successi. L. Amodeo (Trieste 1923-?), ammissione di Scienze del 1941. Si laureò e diplomò alla Normale nel 1946, ma non sono state reperite notizie successive. 17  ASNS, Cartelle allievi, f. Raicich Marino. Da M. Raicich a Consiglio Direttivo Scuola Normale Superiore, s.d. (ma autunno 1945). 16

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ritorno nella Toscana bombardata e percorsa dalle truppe d’occupazione tedesche, e invitati a prendere contatto con i pochi studenti rimasti in città (dell’ammissione del gennaio 1944, Walter Pocherra fu tra i pochi a rimanere, e funse da punto di contatto per gli altri) per sistemare le questioni burocratiche relative all’università18. Infine, qualcuno incappò fatalmente nelle maglie dell’arruolamento nell’esercito della RSI. Un incidente tutto sommato raro, evitato dalla maggior parte dei diciannovenni e ventenni dell’Italia centro settentrionale (dalla metà ai tre quarti dei coscritti tra 1943 e 1944, a seconda delle regioni) ricorrendo a più o meno valide ragioni sanitarie, aderendo alle organizzazioni civili del lavoro, dandosi alla macchia, intrecciando tutte queste strategie di sopravvivenza, come il futuro matematico Aldo Andreotti19, o più semplicemente (capitò anche questo) attendendo senza dare troppo nell’occhio, chiuso in casa e fiducioso che anche le norme del nuovo fascismo sarebbero state interpretate benevolmente a favore degli studenti. è ciò che capitò al giovane Francesco Mei, che avrebbe poi scritto costernato a Perosa nel dicembre del ’44 di non poter tornare in Normale perché impegnato a sottrarsi ai reclutatori in camicia nera i quali, incredibile ma vero, avevano annunciato di infischiarsene del suo status di futuro educatore della nazione20. Arrigo Bortolotti, normalista figlio d’arte (suo padre era stato

  Ibid., ff. Moretti Bruno e Pocherra Walter. B. Moretti (Montevarchi AR 1924), ammissione di Lettere del 1944. Dopo aver ottenuto un congedo per malattia per l’a.a. 1945-46, perse il posto non avendo completato l’iter di esami del quarto anno. Insegnò in seguito nelle scuole medie di Montevarchi divenendo vicepresidente dell’Accademia Valdarnese. W. Pocherra (La Spezia 1925-?), ammissione di Lettere del 1944. Seguì regolarmente il curriculum normalistico fino al suo ultimo anno; nel 1947 subì una sospensione di sei mesi, alla fine della quale non si ripresentò alla Scuola. Laureato in lettere nel novembre dello stesso anno, si laureò poi in legge nel 1951. 19   A. Andreotti (Firenze 1924-80). Renitente alla chiamata alle armi della sua classe in autunno, fu incorporato nella Todt e avviato al lavoro «volontario» in Germania, ma riuscì a scappare una volta giunto a Milano, da dove, grazie alla mediazione di un parente rappresentante del CLNAI, riparò in Svizzera. Sarebbe ritornato in Italia il 28 aprile 1945. Cfr. ASNS, Cartelle allievi, f. Andreotti Aldo, da Andreotti a Consiglio Direttivo Scuola Normale, 15 giugno 1945. 20  ASNS, Cartelle allievi, f. Mei Francesco. Fa Mei a Perosa, 26 dicembre 1944: «Pur essendo infatti già stato richiamato come studente della classe 1923 fin dall’ottobre precedente non mi sono mai presentato per i miei sentimenti politici all’esercito 18

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uno degli allievi che avevano vissuto il primo conflitto mondiale), aveva invece fruito del permesso di non raggiungere Pisa a causa delle frequenti incursioni aeree, il cui timore lo aveva persino spinto ad annunciare la propria rinuncia al posto. Calmato da un paterno invito di Perosa e invitato a desistere dal suo proposito, sfollato poi nel modenese con la famiglia, Bortolotti venne incorporato nella primavera del 1944 dallo «pseudo esercito repubblichino», da cui avrebbe disertato il 20 maggio per unirsi ai partigiani, facendo in tempo a combattere e a rimanere ferito durante la liberazione di Firenze21. Una modalità, quella di accettare l’arruolamento (normalmente per timore delle rappresaglie sui familiari) per poi disertare unendosi alle formazioni partigiane o riparando in zone sicure, usuale tra quei giovani, soprattutto delle classi 1923-25, che furono bersaglio dei bandi di arruolamento di Graziani e che i (pochi) normalisti coscritti a Salò, o transitati dalle file del Regio Esercito in quelle dell’esercito repubblichino, misero in atto massicciamente e con una certa fortuna. In questo modo, quasi tutti gli allievi sopravvissuti alla guerra ebbero modo di presentare un «curriculum scientifico-militare» inappuntabile, dal punto di vista della nuova dirigenza antifascista reinsediatasi dopo il settembre 1944 in Palazzo dei Cavalieri. Quasi tutti, certo, ma non tutti. Una rara eccezione fu l’allievo di Scienze Fiorenzo Chieppi, arruolato alla fine del 1943 nella divisione «Monterosa», la grande unità di Alpini in forza alla RSI, dove avrebbe militato senza interruzione fino alla fine del conflitto. Alla fine del conflitto, il suo fu l’unico cur-

fascista, e anzi, pensai, poiché nei primi tempi il rigore non era molto, di venire anche a Pisa e, in caso che l’esito del concorso fosse felice, di restare alla Scuola Normale. Quando però poi, al ritorno a casa dopo il concorso, si ebbe il richiamo di tutta la classe 1923, studenti e non studenti (ciò che non mi permetteva più la scappatoia di dirmi studente e quindi non richiamato) e contemporaneamente il rincrudimento delle pene per i renitenti alla leva […] non stimai più prudente di tornare a Pisa […] e stessi così nascosto […] fino al sospirato giorno della liberazione anglo-americana». Per un inquadramento generale della renitenza alla leva repubblichina da parte dei giovani delle classi 1923-25 cfr. S. Peli, Storia della Resistenza in Italia, Torino 2006, pp. 71-3. Per un caso di studio molto dettagliato di una zona di reclutamento propinqua a Pisa cfr. ora M. Fiorillo, Uomini alla macchia. Bande partigiane e guerra civile. Lunigiana 1943-45, Roma-Bari 2010. 21  ASNS, Cartelle allievi, f. Bortolotti Arrigo. A. Bortolotti (Bologna 1925), ammissione di Lettere del 1943. Figlio di Enea (1846-1942), si laureò nel 1947, insegnando poi nelle scuole superiori di Firenze.

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riculum a menzionare esplicitamente l’appartenenza alle forze regolari della repubblica collaborazionista, un fatto che tra l’altro era stato oggetto di una fitta corrispondenza con la segreteria della Normale a partire dall’estate 1944, allorché Chieppi, libero dal periodo di addestramento, meditava di mettersi in pari con gli esami per terminare il proprio corso di studi. Proprio quei mesi, tuttavia, quando i pochi studenti in posizione regolare con le autorità fasciste e tedesche potevano pensare a riprendere gli studi, rappresentarono il momento più cupo della diaspora normalistica. A partire dai giorni successivi alla presa di Roma (giugno 1944) e dalla fine dello stallo del fronte davanti a Monte Cassino, la Toscana si ritrovò non più solo bersaglio di bombardamenti, ma anche fronte della guerra terrestre: mentre i normalisti venivano nuovamente divisi in «liberati» (a sud della linea Gotica), e «occupati» (a nord), la regione diventava terra di incursioni, guerriglia, agguati e rastrellamenti, in un contesto di estrema insicurezza, caratterizzato dalla sempre maggiore durezza della repressione antipartigiana attuata dai tedeschi22. Di fronte ad uno scenario ormai deteriorato, Tonelli decise di non far sostenere la discussione del tradizionale colloquio interno previsto in aprile, una sorta di campana a morto sulla continuità dell’attività accademica; nella stessa sessione, veniva concesso agli studenti che ne facevano richiesta «adducendo come giustificazione la situazione generale dovuta allo stato di guerra» di rinviare di un anno il conseguimento del diploma di licenza23. Abbandonata completamente dagli studenti all’inizio dell’estate, la Normale doveva ancora vivere tuttavia la fase più dolorosa del suo calvario. I bombardamenti incessanti, le operazioni alle sue porte, l’occupazione dei tedeschi in attesa di ripiegare sulle postazioni della Linea Verde, avrebbero reso in poche settimane Pisa, «inerte, spezzata, smozzicata, sgretolata, misteriosamente paurosa di mine e di ordigni di guerra, improvvisamente buia nelle sue spalancate macerie», una quinta teatrale da incubo in cui si muovevano «rari abitanti frettolosi e dimentichi» come avrebbe dichiarato Russo24. Alla fine di luglio, la Scuola venne rioccupata dai tedeschi, che vi bivaccarono per alcuni giorni apprestandola a difesa, per una eventuale, e mai messa in pratica, resistenza

  M. Battini, P. Pezzino, Guerra ai civili. Occupazione tedesca e politica del massacro. Toscana 1944, Venezia 1997. 23   Verbali del Consiglio ’43-’49, p. 30. 24   L. Russo, L’università di Pisa riaperta. Discorso inaugurale tenuto a Pisa il 25 novembre 1944, in Id., ‘De vera religione’, p. 32. 22

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strada per strada all’interno del centro cittadino: cacciati i custodi, il palazzo fu devastato dai soldati e subito dopo saccheggiato anche da parte della popolazione civile che rubò quanto poteva essere utile o vendibile al mercato nero. La Biblioteca, fortunosamente, si salvò, benché, per precauzione, Tonelli avesse già provveduto a far mettere in salvo i manoscritti più preziosi, i cataloghi e alcune collezioni di riviste presso la Certosa di Calci25. La conquista della città da parte di truppe statunitensi, il 2 settembre, pose fine solo parzialmente ai pericoli per il patrimonio della Scuola, e non consentì affatto il ritorno alla normalità: Palazzo dei Cavalieri venne infatti occupato, prima in via provvisoria da reparti alleati, poi in via permanente da soldati americani, che non comunicarono alcuna data per la sua restituzione, costringendo il personale della Normale e i pochi studenti ancora residenti in città o nei dintorni a rifugiarsi nel palazzetto del Collegio Puteano26. Fu la perdita, di fatto a tempo indeterminato, della sua sede principale, e la considerazione di Russo, ripetuta quasi con le stesse parole utilizzate da Tonelli un anno prima, a proposito dell’impossibilità di svolgere una selezione veramente nazionale, essendo l’Italia del Nord «ancora in mani nemiche», a spingere la nuova direzione a compiere il passo che solo l’imposizione del ministero repubblichino aveva impedito in precedenza, vale a dire l’annullamento del concorso ordinario e di perfezionamento per l’anno 1944-4527. Un’interruzione certamente traumatica (era la prima volta che accadeva dalla fondazione del Regno d’Italia), resa inevitabile dalla precarietà logistica e finanziaria (il budget, rimasto pressoché invariato dal punto di vista contabile rispetto agli anni d’anteguerra, era del tutto insufficiente anche ai bisogni minimi del convitto), dalla dispersione del personale amministrativo e docente (Alessandro Perosa, memoria storica della Scuola e vero regista della gestione didattica figurava irreperibile, richiamato alle armi e bloccato a nord del fronte; Cantimori era impossibilitato a raggiungere Pisa a causa delle interruzioni nei trasporti) e, ancor di più, dalla necessità di fare chiarezza sulla posizione degli studenti che, nei mesi successivi, avessero avuto la possibilità di ritornare, e sulla cui sorte, stante l’emergenza bellica, si sarebbe dovuto decidere, seguendo la prassi consolidata sotto la gestione Tonelli, caso per caso, provvedendo, a domanda dei singoli allievi, a sanare le eventuali irregolarità

  Verbali del Consiglio ’43-’49, pp. 34-5.   Russo, La Scuola Normale Superiore, p. 55. 27   Verbali del Consiglio ’43-’49, p. 35. 25 26

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nel curriculum normalistico (mancanza di esami, assenza prolungata, necessità di rinviare discussioni di tesi e diploma) e a regolarizzare le carriere scolastiche. In concreto, ciò avrebbe comportato l’obbligo per gli allievi di presentare, per ottenere il reintegro a pieno titolo alla Scuola, un’istanza diretta al Consiglio Direttivo, in cui si specificavano le circostanze che avevano comportato l’allontanamento da Pisa e l’impossibilità di assolvere gli obblighi, seppur minimi, previsti durante l’ultimo biennio del conflitto, oltre ad un piano di studi dettagliato che consentisse al Consiglio di valutare la possibilità dello studente di recuperare (e in che modo) il tempo perduto28. Un resoconto non privo di rischi e ambiguità. Il gruppo dei richiamati avrebbe potuto giustificare l’assenza invocando semplicemente come causa di forza maggiore il proprio mantenimento in servizio anche dopo l’8 settembre, specificando presso quali reparti aveva militato, se aveva combattuto con i partigiani o si era semplicemente nascosto fino alla fine delle ostilità; i non richiamati, ed erano la maggioranza, avrebbero invece dovuto giustificare il proprio allontanamento con fondati motivi, a rischio di essere dichiarati decaduti dal rango di normalista per inadempienza ai propri obblighi. In realtà, per tutti l’invio del proprio «curriculum scolastico – militare», come sarebbe stato definito, comportava comunque qualche rischio: quale peso avrebbe potuto avere l’ammissione di aver disertato dal Regio Esercito durante il collasso del settembre ’43? E se l’allievo aveva fatto parte delle Forze Armate della RSI sarebbe stato riammesso non essendoci indicazioni di sorta da parte della direzione? In definitiva, ciò che successe in quell’anno di limbo, tra il riavvio di un’attività virtuale nella Normale «provvisoria» alla fine del 1944, la restituzione della Carovana nel settembre successivo e la riapertura ufficiale della Scuola in novembre, fu il varo di una informale ed elastica commissione di epurazione per gli allievi, la cui attività fu molto più lunga e analitica di quella ufficialmente insediata per l’Università, la quale, in Normale, si sarebbe fondamentalmente limitata a revocare l’incarico del bibliotecario promosso senza concorso «per alta protezione fascista» nel 193429. Non è invece

 «Poiché in precedenza era stato fissato il criterio dell’esame di ogni singolo curriculum, presentandosi vari casi, che non potevano essere risolti con disposizioni di carattere generale, il direttore prospetta per ogni alunno, rientrato in sede, la sua particolare posizione scolastica precisando gli obblighi per gli anni futuri in base alle richieste degli interessati»; Verbali del Consiglio ’43-’49, p. 68. 29   Ibid., p. 38. 28

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rimasta traccia, negli archivi, di una discriminazione formale da parte della direzione della Scuola nei confronti di chi aveva militato in reparti di Salò. Il pattern retorico-epistolare dell’arruolamento coatto per evitare vendette sui propri familiari e poi della diserzione alla prima occasione, dovette essere sufficiente per evitare reprimenda di ogni natura, come testimoniato dai casi di almeno altri due allievi esaminati in una sessione apposita del Direttivo nel gennaio 1945, in forza alla RSI e riammessi senza problemi30. Nulla si sa invece dell’eventuale ufficiosa emarginazione subita da Chieppi, l’unico combattente della RSI sopravvissuto alla guerra che non avesse denunciato come forzata la sua militanza, ad opera di un milieu studentesco caratterizzato dalla folta presenza degli ammessi alla sezione ‘Reduci e partigiani’. È un fatto, tuttavia, che Chieppi si dimise volontariamente nel novembre 1945 (e non perse il posto nel ’43, come riportato nelle registrazioni istituzionali), proiettando perlomeno il sospetto di una non formalizzata, ma non per questo meno determinata, epurazione studentesca31. Per la maggior parte dei vecchi allievi, tuttavia, la possibilità di una discriminazione politica non si pose o, comunque, non fu il primo pensiero. A preoccupare i superstiti erano piuttosto questioni più minute, ma non meno fondamentali, come la sanatoria delle irregolarità rispetto al rigido statuto gentiliano (nemmeno i pochissimi rimasti nella zona pisana potevano vantare il rispetto di tutte le vecchie norme) e la regolarizzazione degli esami sostenuti fuori sede, privilegio di cui non solo i richiamati ma anche i moltissimi sfollati avevano massicciamente fruito su tutti e due i lati del fronte. Semplificando, le

 ASNS, Cartelle allievi, ff. Petroni Liano e Conti Roberto. Liano Petroni (Montecarlo LU 1921), ammissione di Lettere del 1940. Arruolato nel 14° reparto distrettuale di addestramento della RSI a Lucca alla fine del 1943, riuscì, dopo alcuni tentativi, a farsi ricoverare in un ospedale militare, dimesso dal quale, in giugno, si nascose fino al passaggio del fronte dalla zona di Lucca. Dopo varie borse di perfezionamento all’estero (tra cui una all’ENS di Parigi nel 1946-48) diventerà poi ordinario (e ora emerito) di letteratura francese a Bologna. Roberto Conti (Firenze 1923 - Firenze 2006), ammissione di Scienze del 1941, arruolato all’inizio del 1944 venne destinato come scritturale a Firenze, dove rimase fino alla liberazione. Sarà poi ordinario di matematica a Catania e Firenze. 31   Ibid., f. Chieppi Fiorenzo. Da Chieppi a A. Perosa (e poi a segreteria Scuola Normale) Pasqua 1944, 24 maggio 1944, novembre 1945. F. Chieppi (Biella 1923-?), ammissione di Scienze del 1942. Non è stato possibile reperire ulteriori informazioni su di lui, salvo l’impiego come insegnante nelle scuole superiori a Pavia. 30

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situazioni di tutti gli allievi che intendevano riavere il proprio posto in Normale rientravano in quattro categorie: coloro che, anche prima dell’estate 1944 (ma in numero maggiore dopo quel momento) erano rimasti a nord del fronte, isolati rispetto a Pisa, e si erano iscritti provvisoriamente in qualche sede universitaria settentrionale dando degli esami; coloro che, per ragioni identiche, si erano ritrovati a sud, nel territorio già «liberato», e avevano potuto continuare gli studi nelle università meridionali (la sede di Bari richiamò un numero particolarmente alto di studenti «fuori sede»); coloro che, in clandestinità per evitare il richiamo alle armi, o perché già entrati nella Resistenza o arruolati nei Gruppi di combattimento dell’Esercito del Sud, passarono i mesi tra il 1943 e l’estate 1944 senza potersi muovere liberamente, e quindi non frequentarono alcuna sede universitaria; coloro infine che, rientrati dall’estero, sovente dalla prigionia, spesso in condizioni sanitarie precarie, poterono iscriversi inizialmente solo presso la sede della città in cui erano ricoverati per accertamenti e, in quanto ancora trattenuti sotto le armi, non liberi di muoversi. Un esempio tipico di vicenda del primo gruppo fu vissuta da Alberto Tenenti, destinato a diventare uno dei maggiori storici modernisti italiani, all’epoca un giovanissimo (classe 1924) allievo di Lettere. Entrato nel 1942, era riuscito fortunosamente (grazie all’inserimento nei ruoli della leva di mare) ad evitare il richiamo alle armi e a frequentare la Scuola per quasi due anni, fino all’estate del ’44, allorché, raggiunta la famiglia per le vacanze, venne coinvolto insieme ad essa dal’inasprirsi della guerra in Toscana: Alla metà di giugno sono tornato a casa […] fra Montecatini e l’Arno, dove eravamo sfollati da Viareggio. In luglio gli americani giunsero sull’Arno ma non si decidevano a passarlo, sicché la vita nella zona immediatamente a nord di esso divenne sempre più difficile a causa dei rastrellamenti, dei sequestri e delle distruzioni operate dalle truppe tedesche. Così verso la metà di agosto i miei si videro costretti a partire: io purtroppo non avevo la possibilità di rimanere solo ed essi non potevano fare senza di me. Così ci si stabilì ad Alessandria e mi si presentò subito la necessità di sostenere fuori sede i rimanenti esami del secondo anno. Prima di lasciare la Normale del resto il dott. Perosa aveva fatto sapere per mezzo di me ad alcuni miei compagni di regolarsi appunto in tal modo. Dal momento però che mi venne concesso portai in massima parte i programmi di Pisa […] Adesso sono iscritto a Pavia al terzo anno e non essendo stato soggetto agli obblighi militari ho potuto seguire abbastanza i corsi che mi riguardavano. Appena avvenuta la liberazione dell’Italia settentrionale ho preso seriamente in considerazione

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l’eventualità di tornare a Pisa. Non le dico infatti con quanta gioia rivedrei la cara Normale non mai dimenticata. Che però la Scuola sia aperta e funzioni è per noi quassù una cosa niente affatto sicura e di cui non ci possiamo accertare. Inoltre da un lato mi pare che le conseguenze di un simile spostamento non sarebbero favorevoli allo studio, dall’altro non credo che lo spirito dei doveri che abbiamo verso la Scuola mi obblighi a compierlo. Infatti mentre rimanendo qui riuscirei a dare tutti a giugno gli esami di questo anno, venendo a Pisa ne potrei sostenere uno o due. Non so poi se essendo già iscritto qui, potrei iscrivermi di nuovo là o se sarei ancora in tempo. Per queste ragioni, a cui si aggiunge il mio stato di salute non buono e l’impossibilità di venire giù con la famiglia, con mio dispiacere ho deciso di terminare qui l’anno32.

Nella lettera che il giovane Tenenti scrisse a pochi giorni dalla fine della guerra trasparivano tutte le perplessità che animavano i gruppi, sparsi in tutta la penisola, della diaspora normalistica: sarebbe stato possibile tornare alla Scuola senza troppi sacrifici rispetto al proprio iter di studi, ormai avviato in qualche altra sede? A quale costo, affettivo, economico e scientifico, si sarebbe potuta intraprendere nuovamente la strada per Pisa, senza avere notizie certe dello stato della Normale e delle sue possibilità? E, infine, conveniva, anche dal punto di vista delle prospettive di lavoro, tornare all’alma mater normalistica, ora che la felice stagione gentiliana era finita? Agli interrogativi più pressanti, in quei mesi di ritorno graduale alla normalità, avrebbe provveduto a rispondere proprio Alessandro Perosa, rientrato ormai pienamente nelle sue funzioni di segretario dopo la parentesi del richiamo alle armi, e regista della paziente opera di ricreazione di una rete (perlopiù epistolare) che, nell’arco di alcune settimane, avrebbe riannodato i legami tra la comunità studentesca e la Scuola pisana. Memoria storica degli anni passati, in grado di gestire e utilizzare gli archivi della segreteria che aveva di fatto organizzato lui stesso, grazie anche ai suoi legami spesso affettuosi con molti studenti Perosa fu il vero responsabile di un febbrile lavorio di raccolta dati, corrisponden-

 ASNS, Cartelle allievi, f. Tenenti Alberto, da Tenenti a Segreteria Scuola Normale, 24 maggio 1945. A. Tenenti (Viareggio 1924 - Parigi 2002), ammissione di Lettere del 1942. Si laureò nell’estate del 1946. L’anno successivo usufruì di una borsa a Parigi e poi a Besançon. Fu l’inizio di un lungo rapporto con la Francia, che sarebbe diventata pochi anni più tardi, quando passò a lavorare presso la VI sezione dell’EPHE, la sua patria scientifica di adozione. 32

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za, fornitura di informazioni, assicurazioni e consigli a cui, con tutta probabilità, si deve il ritorno della gran parte degli allievi a Pisa. Pochi giorni dopo aver ricevuto la lettera di Tenenti, ad esempio, era lui a rispondere al giovane storico, illustrando la situazione della Scuola e chiarendogli i passi formali necessari al suo ritorno: Si ricordi che entro ottobre Lei dovrà mettersi in pari colla Normale. A tale scopo Lei bisognerà che mi spedisca al più presto una relazione diretta al Consiglio direttivo della Scuola dalla quale risulti il suo curriculum scolastico e militare e siano indicati, colle rispettive votazioni, gli esami universitari finora sostenuti […]. E non dimentichi di essere esplicito circa le sue intenzioni future; sarebbe bene che entro ottobre Lei fosse in pari cogli esami del terzo anno. Quanto agli esami interni, Lei potrà completarli durante il prossimo anno. Ma di tutto ciò deciderà il Consiglio33.

La redazione di decine di lettere come questa, rivolte a tutti gli studenti in vita e reperibili, a cui Perosa scrisse per fornire, suggerimenti pratici e ricordare date di scadenza, attività condotta in precarie condizioni logistiche, senza assicurazione alcuna per il futuro (la nomina a segretario era in forse, in quei mesi, visto che da più parti si gridava allo scandalo per l’illecita rimozione di Capitini nel 1932) e sotto la pressione dei miracoli amministrativi compiuti per permettere al convitto di funzionare con fondi ridotti, fu in effetti un’impresa straordinaria, resa possibile da uno spiccato senso del dovere coniugato ad un amore per la sua Scuola che ne facevano, come è stato ricordato, un perfetto funzionario di sapore asburgico al servizio della rinascita della Normale34. Naturalmente, non tutte le situazioni erano relativamente lineari come quella di Tenenti che, da un punto di vista formale, avrebbe solo dovuto ritrasferire la propria iscrizione all’università originaria. Quest’ultima era, in effetti, una procedura assai consueta nella stagione della guerra e dell’immediato dopoguerra, quando la circolazione degli studenti attraverso tutta la penisola era facilitata da una burocrazia resa più elastica dalle «cause di guerra». Ma non sempre il ritorno a Pisa era semplice, per le complicazioni e le lentezze che caratterizzavano specialmente le amministrazioni universitarie meridionali, per la difficoltà nell’interrompere corsi ed esami avviati in quelle sedi, più povere di in-

  Ibid., da Perosa a Tenenti, 11 giugno 1945.   Russo, La Scuola Normale Superiore, p. 59.

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segnamenti e molto meno prestigiose, ma ricordate sovente per le facilitazioni concesse agli studenti sfollati in sede di esami (e anche di laurea: fu infatti proprio in questo periodo che fiorirono le «lauree di guerra» orali, concesse in base ad una legislazione che riprendeva gli usi del primo conflitto mondiale) e, infine, per la nebulosità dei passi da compiere per riprendere il proprio posto in Normale35. Si prenda il caso di Donato Moro, anche lui classe 1924, ma parte del gruppo rimasto a sud del fronte. Isolato dopo l’8 settembre in Puglia, Moro si iscrisse a Bari al II anno di lettere, sostenendo alcuni degli esami del suo corso di studi, ma rimandando i biennali fondamentali di latino e di letteratura italiana «pensando di poter tornare alla Normale e all’ateneo pisano». Passato all’anno successivo, dovette però lasciare l’università barese, in cui non era possibile seguire il secondo biennio della laurea in lettere, trovandosi impossibilitato improvvisamente a continuare il proprio curriculum studentesco, e venendo inoltre, all’inizio del 1945, richiamato alle armi dal Regio Esercito, condizione che gli rendeva impossibile il progetto di tornare a Pisa. […] e sia pure perché, anche se non avessi dovuto assolvere i miei obblighi di leva non mi sarei potuto portare a Pisa per le difficoltà che in questi tempi si incontrano. […] Perciò come centro molto più vicino ed accessibile, ho chiesto il trasferimento dall’università di Bari a quella di Roma tanto per non perdere l’iscrizione al terzo anno. Ma se potessi tornare a Pisa anche per ottobre p.v. lo farei con molto piacere. Desidererei quindi sapere se, delineatasi una situazione alquanto più chiara, mi fosse permesso tornare alla Scuola Normale. […] Se io posso tornare ancora alla Scuola Normale mi è permesso di sostenere ora gli esami a Bari? Se sostengo [lì] il biennale di italiano, potrò poi discutere la tesi in questa materia a Pisa nell’anno venturo? […] Prego il chiarissimo Consiglio Direttivo, intanto, che voglia comprendere a pieno la mia situazione e la voglia giustificare, tenendo conto

 La possibilità per gli studenti di laurearsi con una dissertazione solamente orale, su un tema «assegnato fino a dieci giorni prima dell’esame», faceva parte del pacchetto di agevolazioni concesse con la circolare 2776 del 13 agosto 1942 riservata agli studenti richiamati alle armi nell’a.a. 1942-43. Benché non esistano studi in proposito, pare che queste facilitazioni siano state successivamente indebitamente estese anche agli studenti non incorporati. Cfr. Ministero dell’educazione nazionale, Direzione generale Ordine Universitario, Circolare prot. N. 2776. Disposizioni a favore degli studenti richiamati alle armi, 13 agosto 1942. 35

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come tutti gli avvenimenti straordinari, avvenuti in questo periodo, si siano necessariamente ripercossi nell’ambito della vita individuale36.

Diversa era ancora, inoltre, la prospettiva di coloro che tornava agli studi dopo periodi più o meno lunghi e duri di totale assenza: assenza dalle aule universitarie, assenza dai libri, assenza, spesso, da una qualsiasi forma di vita civile. Da un lato, vi furono i vecchi allievi entrati nella Resistenza come partigiani combattenti (o dichiarati tali dopo la guerra), nove studenti che, tra la fine del 1943 e il maggio 1945, avevano trascorso periodi diversi tra le montagne o nelle campagne, combattendo o semplicemente sfuggendo ai tedeschi. Non per tutti, va da sé, il rischio e l’esilio dal mondo universitario aveva avuto la stessa intensità: per Giuseppe Torresin, entrato in clandestinità nell’autunno del ’43, e Giulio Bollati, imboscatosi a Milano in un’azienda per evitare l’arruolamento ed entrato tra i partigiani della zona parmense solo nel marzo ’45, le esperienze, le privazioni e il distacco dai libri furono evidentemente molto differenti37. Il primo doveva ammettere, dopo due anni di guerra combattuta, che «ho frequentato solo il I anno […] ma non ho altre firme né corsi per ulteriori esami. In questi due ultimi anni non ho potuto neanche iscrivermi all’Università. D’altra parte esami ad Ottobre è ben difficile che possa darne considerata la ruggine al cervello e le difficoltà di applicarmi con calma allo studio»38, il secondo, pur dichiarando di non aver sostenuto esami nel 1944, contava di dare almeno sei esami tra l’ottobre 1945 e

 ASNS, Cartelle allievi, f. Moro Donato, da Moro a Consiglio Direttivo Scuola Normale, 29 aprile 1945. 37   Giuseppe (Bepi) Torresin (Venezia 1924-2004), ammissione di Lettere del 1942. A causa della guerra e di non buone condizioni di salute, ritardò molto gli studi, laureandosi solo nel 1948 con Pasquali, ma ottenne poi l’anno successivo il posto di perfezionamento. Nello stesso 1948, vincitore di una borsa di scambio, trascorse alcuni mesi in Danimarca, paese con il quale era destinato ad intrattenere rapporti durevoli, ritornandovi come lettore nel 1962 e con una posizione permanente infine nel 1968, presso l’istituto di studi antichi e medievali dell’università di Aarhus. Guido Bollati (Parma 1924-96), ammissione di Lettere del 1942. Indubbiamente uno degli intellettuali più importanti dell’Italia repubblicana, figura di spicco del campo editoriale, lavorò a lungo per la casa Einaudi. Nel 1987 acquistò la casa editrice Boringhieri fondando la nuova Bollati Boringhieri. 38  ASNS, Cartelle allievi, f. Torresin Giuseppe. Da Torresin a Perosa, s.d. (ma settembre 1945). 36

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febbraio, laureandosi al più tardi nella prima sessione utile dell’anno accademico successivo39. In entrambi i casi, Perosa suggeriva di presentarsi personalmente in sede, invitava a discutere dei progetti per il futuro, proponeva soluzioni mediando tra le esigenze degli allievi (nel caso dei triestini, si spinse fino a raggiungerne alcuni nella città isolata dal resto dell’Italia dopo la breve occupazione da parte jugoslava) e i vincoli normativi della Scuola, peraltro sempre aggirati e piegati, per unanime decisione di Russo e del direttivo, alle contingenze straordinarie del momento. In effetti, agli studenti venne chiesto perlopiù solamente di rientrare il più rapidamente possibile a Pisa, restando la frequenza del convitto l’unica conditio sine qua non per la riammissione al grado e ai privilegi del normalista. Un vincolo non sempre facile da rispettare per gli appartenenti all’ultimo gruppo di normalisti della diaspora: gli internati all’estero che ritornarono in Italia lentamente dopo la sconfitta della Germania, fossero essi catturati e deportati dai tedeschi per motivi politici o perché attivi nella Resistenza, o fossero i superstiti degli IMI rastrellati dopo l’8 settembre. Al primo gruppo appartenne Enrico Magenes, che sarebbe poi divenuto uno dei più importanti matematici italiani. Richiamato alle armi nell’estate 1943, alla notizia dell’armistizio, in licenza a Milano, entrò immediatamente nella lotta clandestina, diventando il primo segretario del CLN della zona di Pavia. Arrestato nel gennaio 1944, condannato dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato, detenuto a lungo nei carceri di Pavia e Milano, fu poi consegnato ai tedeschi, che lo deportarono, in quanto prigioniero politico, nei campi di concentramento di Bolzano, Flossenburg e Dachau, dove sopravvisse, terminando però la guerra in disastrose condizioni di salute. Solo nel luglio 1945 venne rimpatriato, ma, costretto a ritirarsi in un luogo di cura montano per curare una forma seria di pleurite, dovette posticipare il proprio ritorno a Pisa e allo studio, uno sforzo che gli sembrava impossibile ancora per lungo tempo. Mi è stato molto caro ricevere notizie dalla Normale, di cui ho sempre sentito viva la nostalgia nei lunghi mesi di prigionia e di esilio. Dopo tanto tempo di assenza e soprattutto dopo la brutale esperienza dei campi di concentramento, mi trovo ancora un po’ disorientato. Sono esperienze, quelle che ho passato, che solo dopo un po’ di tempo si possono meditare in serenità d’animo.

  Ibid., f. Bollati Giulio. Da Bollati a Consiglio Direttivo Scuola Normale Superiore, 13 luglio 1945. 39

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È necessario [?] i ricordi sconvolti dalle passioni, riordinare le idee, esaltando quanto si è manifestato, nella miseria e nella sofferenza, essenziale per la propria vita interiore ed eliminando quello che si è rivelato superfluo. Anche per quanto riguarda i miei studi di matematica devo riallacciare i fili sparsi un po’ ovunque. Il coraggio e l’entusiasmo non mi mancano, anzi sono più forti di prima. Purtroppo la salute ancora un po’ malferma non mi permette di riprendere subito; anzi, sono stato obbligato ad allontanarmi in un paesetto di montagna a far vita tranquilla. Per questo non so se presentare subito un piano di lavoro, anche se a grandi linee. Lo farò appena potrò riprendere contatto con i libri al mio ritorno a Pavia. In ogni caso spero di poter rimettermi a studiare veramente nell’ottobre. Le mie intenzioni sono ad ogni modo di proseguire nei miei studi senza fare, se appena è possibile, cose affrettate e quindi malfatte. Le sarei intanto grato se volesse farmi sapere quali sono le condizioni che la Normale può farmi, tenendo presente che il mio arresto risale all’8 gennaio 1944, e le eventuali disposizioni generali riguardanti la vita della Normale40.

Magenes rientrò in effetti in Normale nel 1946, riprendendo i «fili sparsi» degli studi e della vita. Non tutti avrebbero potuto farlo. Tra i «salvati» della diaspora, alcuni non sarebbero più rientrati alla Scuola, avendo deciso, sull’onda delle contingenze e dei bisogni del momento, di cambiare corso di studi, lasciando le scienze per l’ingegneria, le lettere per la giurisprudenza, alla ricerca di una professione più immediatamente remunerativa e di una stabilità che il mestiere di intellettuale non pareva più in grado di assicurare. Altri, che avrebbero voluto riallacciare la trama interrotta della giovinezza, non avrebbero potuto farlo, ostacolati dai vincoli normativi, dalle difficoltà di spostamento, da una spossatezza che a volte non era soltanto fisica. Così Cinzio Violante, rimpatriato dopo la drammatica esperienza del campo di prigionia e ricoverato all’ospedale militare di Catania da cui, alla fine del 1945, scriveva a Perosa: È mio vivissimo desiderio laurearmi a Pisa e diplomarmi presso la Scuola Normale, ed è pure mio ardente desiderio tornare a frequentare la Scuola Normale perché il mio spirito, prima di riprendere la lotta della vita, ha asso-

  Ibid., f. Magenes Enrico. E. Magenes (Milano 1923), ammissione di Scienze del 1941. Laureatosi nel 1947 e perfezionandosi poi nel 1948. È stato in seguito ordinario a Pavia, direttore del laboratorio di Analisi numerica del CNR, direttore dell’UMI, socio dei Lincei. Le notizie sulla sua guerra e detenzione sono contenute in una lettera al Consiglio Direttivo inviata nell’ottobre 1945. 40

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luto bisogno di un periodo di tranquillità, di studio e di meditazione dopo gli orrori visti e dopo le sofferenze fisiche e morali passate. Purtroppo non posso rientrare alla Normale che fra un anno, quando la mia salute ed il servizio militare me lo permetteranno. Trovandomi intanto in Catania, desidererei cominciare a liberarmi di qualche esame (i meno importanti) presso questa Università. Le esprimo per questo la preghiera, di cui ho già parlato al prof. Giuliano di chiedere per me al consiglio direttivo della Scuola Normale l’autorizzazione a dare alcuni esami presso questa Università, tenuto conto delle mie particolari condizioni di salute e della mia posizione militare. Questo potrebbe aiutare moltissimo la mia faticosa ripresa ed affrettare il mio ritorno alla vita degli studi, alla ‘Umanitas’ [sic], dopo lo spettacolo orrendo e la dolorosa personale esperienza della ‘matta bestialitade’ teutonica. Mi scusi tanto, dottore, della lunghissima lettera e dei miei indecifrabili caratteri: scrivo stando a letto. La ringrazio moltissimo di quanto ha fatto e farà per me. Tutte queste prove di solidarietà e di comprensione mi ridanno fiducia negli uomini e nella vita41.

Bloccato a Catania dalla fragilità del fisico, impossibilitato a raggiungere Pisa per stabilirvisi, in ottemperanza alle regole della burocrazia militare che lo obbligavano a periodiche visite all’ospedale di degenza, e, infine, vistosi negare, la possibilità di continuare a sostenere tutti gli esami universitari a Catania per poi dare in Normale i soli esami interni e la tesi di diploma (un’opzione che avrebbe violato radicalmente lo statuto del 1932), Violante fu costretto in effetti ad abbandonare la Scuola, decadendo formalmente dallo status di normalista che avrebbe riconquistato entrando (fortunosamente) al perfezionamento del 1948. Sarebbe stato, tuttavia, uno dei pochi a non riottenere, dopo l’esilio forzato, il proprio posto perduto. Se per lui il «ritorno alla vita» coincise con la scoperta dell’Istituto ‘Croce’ di Napoli, dove avrebbe studiato nel 1947-48, per la maggior parte dei suoi compagni d’anno la giovinezza riprese lì da dove era stata interrotta, dalle stesse stanze, dagli stessi professori, dal ritrovare dopo anni una comunità riformatasi quasi per intero: un «lungo ritorno», quello alla vita degli studi, ai progetti e alla formazione, cui la storiografia sul secondo dopoguerra non ha fino ad oggi concesso l’attenzione dovuta42. Il 1946 rappresentò, così, il vero e proprio inizio per una nuova generazione di norma-

  Ibid., f. Violante Cinzio, let. cit. Per l’intera vicenda di Violante e i testi integrali delle lettere cfr. Mondini, Ritornare alla vita degli studi, specie pp. 22-4. 42  Violante, Una giovinezza espropriata, p. 97. Per gli studi sul reducismo 41

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listi: fu in quell’anno che la popolazione studentesca tornò ai livelli dell’anteguerra dopo i larghi vuoti causati dalla diaspora di guerra. Se nel 1944-45 la Scuola ospitava appena 15 studenti di Lettere (su 27 iscritti) e 5 di Scienze (su 12), all’inizio del 1946 Palazzo dei Cavalieri era abitato da 50 allievi regolarmente in corso (30 di Lettere, 20 di Scienze), senza contare i 34 ammessi alla sezione straordinaria «Reduci e Partigiani» i quali, benché non normalisti a pieno titolo (in effetti non avevano diritto al diploma alla fine degli studi), furono comunque attori importanti di quella stagione di transizione che fu la Normale della direzione Russo43. L’ammissione, tra il dicembre 1945 e il gennaio seguente, di questo folto gruppo di studenti, sulla base di un esame che uno di loro definì «molto sommario», aveva avuto, inizialmente, fini più economici che culturali44. Nel maggio 1945, il Ministro della Pubblica Istruzione Vincenzo Arangio-Ruiz aveva diramato ai rettori delle Università e ai Direttori degli Istituti di Istruzione Superiore una lunga circolare a proposito del problema relativo alla «ripresa degli studi da parte degli studenti reduci dalla prigionia, dai campi di internamento, dal servizio militare, dalla lotta per la libertà, degli sfollati, dei sinistrati, degli ebrei: degli studenti insomma che per varie ragioni attinenti allo stato di guerra e alla politica del passato regime non hanno potuto seguire normalmente il loro corso di studi ed ora domandando che sia loro consentito di recuperare il tempo perduto»45. Si trattava non già di gestire delle sessioni di esami agevolate o di provvedere, secondo una consuetudine avviata nel primo dopoguerra e rispettata puntualmente anche durante gli anni del secondo conflitto, a delle promozioni di massa o a delle «lauree di guerra» sbrigative per i reduci, quanto, piuttosto, di istituire dei corsi integrativi, destinati ad aprire prima del tradizionale inizio dell’anno accademico, permettendo agli studenti di accelerare la ripresa degli studi. Nelle settimane successive, la direzione Russo rilanciò l’idea, proponendo al Ministero l’istituzione di una sezione integrativa annessa alla Scuola, o, nel peggiore dei casi, la possibilità di ospitare per tutto l’anno gli studenti reduci in modo tale da

e il dopoguerra cfr. A. Bistarelli, La storia del ritorno. I reduci italiani del secondo dopoguerra, Torino 2007. 43   Dati statistici. 44   Bianciardi, La Scuola Normale di Pisa, p. 30. 45  ASNS, Corrispondenza 1942-44, b. 27, f. A, da Min. P.I. a Rettori Università, 24 luglio 1945.

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permettere «di riprendere contatto con i maestri, di poter frequentare le biblioteche, di respirare quell’atmosfera collegiale che in ogni tempo ha costituito il segreto fascino e successo pedagogico del nostro Istituto»46. Non si era ancora all’idea di costituire una sezione speciale per allievi esterni, una sorta di corpo separato dalla comunità degli ordinari e dei perfezionandi che avrebbe ricordato da vicino la tradizione pregentiliana dell’alunnato esterno, ma, in nuce, la proposta della direzione della Normale conteneva già la sostanza del compromesso con il Ministero che sarebbe poi stato raggiunto. La Scuola era in profonda sofferenza finanziaria, occorrevano stanziamenti straordinari, immediati e congrui, che potevano essere almeno parzialmente ottenuti aprendo Palazzo dei Cavalieri per un periodo più lungo del consueto, e addirittura varando dei corsi supplementari, purché a questo sforzo si accompagnasse l’elargizione di somme adeguate. Fu l’inizio di una trattativa giunta a conclusione nell’autunno dello stesso anno, quando al Consiglio Direttivo fu presentata la proposta di una convenzione, da stipularsi con il Ministero dell’Assistenza Post Bellica, per l’accoglienza «in base ad una selezione compiuta mercé regolare concorso [di] un certo numero di giovani studenti reduci e assimilati dalle facoltà di Giurisprudenza, Lettere e Filosofia e Scienze, che abbiano dovuto interrompere gli studi a causa della guerra»47. Nacque così ufficialmente la «Sezione Reduci e Partigiani della Scuola Normale Superiore», un vantaggioso affare per la gestione Russo (anche grazie alla mediazione di Calogero, nominato inviato ad hoc dal Ministero) che avrebbe, in pratica, raddoppiato il proprio finanziamento statale e, al contempo, anche un’intelligente operazione di immagine, che avrebbe riproposto la Normale come scuola di prestigio e selettiva, ma nel contempo democratica, aperta alle necessità della «generazione giovane provata dalla guerra», e dunque lontana dall’istituto retto dal «fascista» Gentile, degna di maggiori attenzioni da parte dei governi della nuova Italia48. Per essere ammessi al concorso, i candida-

  Ibid., da Vicedirettore Chiarugi a Ministro Pubblica Istruzione, 24 agosto 1945.   Verbali del Consiglio Direttivo ’43-’49, seduta del 18 ottobre 1945, p. 96. 48   Ibid. Il preventivo del finanziamento ordinario pubblico per la Normale nel 1945-46 era di poco inferiore ai 2.000.000 di lire. L’accoglienza, calcolando solo gli studenti di Lettere e Scienze, di 35 studenti al costo di 4000 lire mensili a studente avrebbe portato nelle casse della Scuola 1.680.000 lire. Per le lamentele allo scarso interesse dimostrato dai primi gabinetti dell’Italia antifascista nei confronti della Scuola cfr. ibid., pp 80 e sgg. 46 47

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ti avrebbero dovuto dimostrare di essere studenti, iscritti o in procinto di iscriversi per il 1945-46 ad uno qualsiasi degli anni di una facoltà di Lettere e di Scienze (o di Legge, per la sottosezione che faceva capo al Collegio Mazzini), di avere la qualifica di militari reduci, partigiani combattenti, semplici patrioti, ex deportati civili o IMI, e di versare in condizioni economiche tali da giustificare l’esenzione dalle tasse scolastiche. Alla valutazione della qualifica di partigiano e reduce (che, come è noto, era stata concessa con una certa liberalità nel dopoguerra)49 avrebbe pensato un’apposita Commissione presieduta dal Direttore della Scuola e composta da un membro del Ministero per l’Assistenza post bellica e da un professore dell’Università di Pisa, così come presieduta dal Direttore era anche la Commissione giudicante del concorso, composta da sei professori (due per Facoltà) appartenenti all’ateneo pisano e nominati su proposta dello stesso Direttore. Russo si assicurava in questo modo che il concorso speciale non servisse come corsia preferenziale per saturare la scuola di elementi realmente inidonei o sgraditi per diversi motivi alla direzione, mentre la caratteristica di partigiano o reduce fu trattata in modo quantomeno elastico50. Ai giovani così ammessi si aggiunsero naturalmente anche gli allievi del concorso regolare, bandito per 16 posti ordinari (otto per classe, che diventeranno poi nove) e per quattro di perfezionamento. Complessivamente, un’affluenza improvvisa e inaspettatamente numerosa, resa possibile, oltre che dal forte incremento dei fondi disponibili, dagli spazi mai del tutto sfruttati di Palazzo dei Cavalieri. Questi due gruppi, vicini per età (la maggioranza dei «Reduci e partigiani» era nata tra 1925 e 1926, gli ammessi regolari erano perlopiù del 1927, con qualche giovanissimo del ’28 e qualche anziano del ’26) erano tuttavia molto diversi sia per provenienza curriculare che, molto spesso, per preparazione a attitudine. I «regolari» uscivano quasi tutti da

 Alla fine del conflitto, furono presentate oltre 630.000 domande per il riconoscimento di «partigiano combattente», «caduto per la libertà», mutilato e invalido per la lotta di Liberazione o «patriota», il grado più basso nella selva di titoli onorifici coniati dopo il maggio 1945. È sintomatico che meno di 160.000 domande siano state respinte. Cfr. per tutta la questione della definizione e del riconoscimento dell’etichetta di partigiano G. Schwarz, Pacificazione e democratizzazione: dal collasso dello Stato alla nascita della repubblica antifascista, in M. Mondini, G. Schwarz, Dalla guerra alla pace. Pratiche e retoriche della smobilitazione nell’Italia del Novecento, Verona 2007, p. 142. 50   Ibid., p. 98. 49

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un iter lineare di studi, vantavano una solida preparazione attestata da ottime medie scolastiche, e quasi nessuno aveva vissuto l’esperienza della guerra diretta o della traumatica interruzione della giovinezza. I «partigiani» avevano in molti casi (non in tutti) fatto realmente parte delle squadre combattenti o avevano vissuto la prigionia o erano comunque superstiti di vicende che li avevano sovente non solo costretti ad una maturità improvvisa e drammatica, ma anche ad una sopravvivenza costellata di sacrifici. Questo spiega, almeno parzialmente, gli esiti perlopiù deludenti, dal punto di vista qualitativo, degli studenti «partigiani»: sui 35 ammessi al convitto, in generale provenienti da curricula scolastici largamente inferiori alla media dei vecchi normalisti, 8 persero il posto prima di arrivare alla laurea, quasi tutti entro il primo anno di frequenza; gli esami interni, limitati ai corsi di lingua, diedero risultati deludenti, e mediocri furono spesso le votazioni delle lauree, mentre frequenti furono le richieste di congedi di malattia, i permessi, le assenze non giustificate51. I profili irregolari degli ammessi testimoniavano del resto la disomogeneità del gruppo: in mezzo a coetanei delle matricole ordinarie si poteva trovare un anziano come Francesco Lolli (classe 1918). Ufficiale IMI, aveva rifiutato di collaborare con i tedeschi venendo duramente punito durante la prigionia; trasferitosi da Legge a Scienze Politiche a Biologia aveva deciso (come avrebbe scritto in una lettera a Russo) di tentare l’avventura della Classe di Scienze alla Scuola, avventura terminata però l’anno successivo a causa della stroncatura all’esame di inglese. Insieme a lui, non era difficile ritrovare studenti improbabili con medie universitarie prossime al 18 o incapaci di superare l’ostacolo del primo esame52. Benché popolata anche da personaggi di notevole spessore culturale, come Luciano Bianciardi, Daniele Ponchiroli (che fu l’unico a transitare poi tra gli allievi regolari), Renzo Federici, Pietro Pucci o Gianfranco Capriz (che avrebbe poi vinto il perfezionamento nel 1948), la sezione «reduci» fu dunque, nel complesso, un esperimento disciplinarmente e scientificamente malriuscito, dalla vita stentata (la Normale non aveva del resto interesse a prolungarne l’esistenza con propri fondi, e quelli del Ministero per l’assistenza giunsero in modo altalenante a partire dall’anno successivo) e mai replicato53. Tuttavia, nei

  Cfr. ASNS, Concorso riservato a studenti reduci, partigiani e assimilati, 1945-46.   Ibid., ff. Lolli Francesco, Calosci Enzo, Papperini Archimede. 53  D. Ponchiroli (Viadana Po MN 1924-79), ammissione Reduci e Partigiani 1945, ammissione di Lettere al III anno 1947. Nel novembre 1947 partecipò, su 51 52

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ricordi di quegli anni, l’intrecciarsi alla Carovana di esperienze e origini così differenti non fu un’esperienza negativa, né gli allievi della sezione «Reduci e partigiani» furono visti solo come un corpo estraneo. Al contrario, come ha scritto ancora recentemente Franz Brunetti, matricola di Lettere dell’ammissione 1945, era proprio l’incontro tra gli anziani, i nuovi entrati regolari (tra cui non mancavano comunque giovanissimi già veterani della resistenza, come Mazzino Montinari)54 e i «reduci» a conferire alla Normale di quegli anni una dimensione originale di laboratorio etico e politico, oltreché di didattico e scientifico, caratterizzata un clima […] di grandi speranze e di grandi passioni, con l’arrivo simultaneo mediante un concorso riservato, voluto da Luigi Russo, di partigiani e reduci (fra tutti Luciano Bianciardi) che avevano dovuto interrompere i loro studi a causa della guerra, si respirava un’aria diversa dalla tradizione: studio assiduo e totalizzante certo, ma confronto aperto di idee. I loro racconti ci davano una sensazione diretta della tragicità della guerra e dello spreco immane di tanti progetti di vita coltivati da chi vi partecipò. Ai reduci si aggiungevano nei racconti i nostri ‘anziani’ che tra il ’43 e il ’45, in modi diversi ma tutti parimenti drammatici, avevano fatto la loro esperienza di guerra o nei campi di concentramento nazisti, come Enrico Magenes, o nelle attività cospirative urbane come Franco Ferri, che fece parte dei Gap romani guidati da Pietro

consiglio della direzione della Normale che lo aveva avvisato per tempo, al concorso per allievi ordinari del III anno, riuscendo vincitore. Dopo la laurea in lettere cum laude nell’estate 1949, fu a Parigi con una borsa di scambio, e per rimanerci rinunciò al posto di perfezionamento. Su consiglio e raccomandazione di Bollati, entrò come redattore presso Einaudi, dove fu per molti anni uno degli elementi più preziosi della redazione. Su questo cfr. il ricordo affettuoso in G. Davico Bonino, Alfabeto Einaudi. Scrittori e libri, Milano 2003. R. Federici (Correggioverde MN 1921-90), ammissione Reduci e Partigiani 1945. Laureatosi nel 1947, fu poi critico d’arte, collaboratore e divulgatore per Paese sera e docente di storia dell’arte nei corsi biennali di Magistero a Firenze. G. Capriz (Gemona UD 1925), ammissione Reduci e Partigiani per Scienze 1946. Dopo il perfezionamento, concluso nel 1949, ha inaugurato una brillante carriera internazionale. È attualmente emerito di matematica presso l’Università di Pisa. P. Pucci (Modena 1927), ammissione Reduci e Partigiani 1945. Dopo la laurea in filosofia nel 1949, si trasferì negli Stati Uniti, dove ha insegnato alla Cornell University. 54   M. Montinari (Lucca 1928 - Firenze 1986), ammissione di Lettere del 1945. Filologo germanista, è considerato uno dei più grandi esperti di Nietzsche.

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Amendola; o sui vari fronti partigiani, come Bepi Torresin, commissario politico di una Divisione GL nella Venezia Giulia, a contatto con i partigiani sloveni di Tito. La Scuola Normale Superiore svolse di fatto allora accanto ai programmi di formazione ad alto livello di scientificità – il suo compito statutario – anche un’azione di sollecitazione etico-politica, per usare un termine ormai desueto. I docenti, pur con differenti collocazioni politiche, dimostravano una comune sensibilità postresistenziale. Un atteggiamento condiviso anche dagli studenti55.

Esula dagli obiettivi di questo lavoro proporre una rilettura del secondo dopoguerra, delle nuove tensioni politiche e culturali che si stavano organizzando attorno alla Normale di Russo ad opera dei governi democristiani ansiosi di normalizzare quella che era ritenuta una pericolosa culla della cultura di sinistra, in una pressoché speculare rappresentazione delle pressioni e dei conflitti subiti o superati quindici anni prima da un’altra Normale, quella di Gentile, ad opera del regime fascista. Non vi è dubbio invece che la direzione Russo sia rimasta, nel’immagine degli allievi, un momento straordinario, sia per la storica partecipazione degli studenti alla gestione della Scuola, attraverso la neonata Commissione interna (peraltro non sempre incline ad operare in perfetta armonia con la direzione, nemmeno con i suoi membri più ideologicamente affini come Cantimori)56 guidata inizialmente da Bepi Torresin, sia per il frizzante (a dir poco) contesto di dibattito politico interno ad una comunità studentesca che, nonostante le rappresentazioni più tarde, era tutt’altro che monoliticamente comunista57. Una direzione «epica», come la ricorda Brunetti, in cui gli allievi studiavano in un’atmosfera di «ritrovata libertà» e di discussione aperta con un’èquipe accademica di tutto rispetto (oltre a Cantimori, Luporini, Russo e Perosa, era rientrato anche Capitini) e in cui riscoprivano anche il gusto della vita goliardica: osterie, bevute, inni e vita notturna erano il campo elettivo di quel «vero spirito toscano» che fu Bianciar-

  F. Brunetti, Il nostro professore Cesare Luporini, «Il Ponte», 11 novembre 2009, pp. 65-71. F. Brunetti (Giovinazzo BA 1927), ammissione di Lettere del 1945. È attualmente emerito di filosofia morale all’Università di Pavia. 56   Che infatti ne serbò un ricordo pessimo per «l’abuso ridicolo e irresponsabile delle proprie funzioni». Cfr. la lettera di risposta a Bianciardi in «Comunità», 27, 1954, pp. v-vi. 57   Bianciardi, La Scuola Normale, p. 31. 55

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di58, mentre all’interno di Palazzo dei Cavalieri ripresero le tradizionali «sevizie» ai più giovani, come vennero definiti gli scherzi (forse trascesi) a danno del giovane Tonelli, che costarono la sospensione a Tenenti e Bortolotti – segnale di un regime disciplinare forse allentato e meno oppressivo, ma comunque saldamente in mano al Direttore59. Il rapporto tra Russo e i suoi studenti, del resto, fu per molti versi simile, quanto a profondità, a quello tra Gentile e i suoi più stretti allievi (nonostante tutta la differenza tra le due personalità). Ad un’attività davvero notevole di protezione, raccomandazione e tutela che il Direttore dispiegò a favore dei normalisti fece pendant la corale dimostrazione di solidarietà della comunità degli allievi in occasione del suo siluramento nel 1948, quando a Palazzo dei Cavalieri si sfiorò l’ammutinamento60. Nonostante il suo carattere passionale, intollerante di ogni pur minima arroganza e mancanza di rispetto, lo portasse a volte a veri e propri scontri con gli alunni più intemperanti (alcuni scambi epistolari roventi ne sono ancora oggi testimonianza)61, e nonostante abbia in qualche occasione agito in modo perlomeno ambiguo per favorire l’ammissione o la carriera di suoi protetti (Ponchiroli dovette all’intervento personale del direttore sia il posto nella sezione «reduci», per cui pare non avesse i requisiti, sia il posto come allievo ordinario), non vi è dubbio che Russo abbia ripercorso con energia quel ruolo di «regista» dell’avvenire dei normalisti anche fuori dalla Normale che era stato proprio del suo antico maestro, intervenendo presso qualsiasi conoscenza politica o accademica potesse giovare per risolvere lo spettro assai ampio di problemi dei suoi studenti, dalla for-

  Lettera di F. Brunetti all’autore, 6 giugno 2009.   Verbali del Consiglio ’43-’49, seduta del 6 dicembre 1945, p. 156. 60   Carlucci, Dopo Gentile, pp. 79-80. 61   Si veda ad esempio il conflittuale, ma alla fin fine benevolo, rapporto con La Penna, aiutato nell’ottenimento di una borsa in Francia, raccomandato direttamente per i concorsi a professore di scuola (pur senza fortuna), ma anche molto severamente richiamato all’ordine dopo una lettera estremamente impertinente a proposito delle complicazioni inerenti la pubblicazione della sua tesi di laurea. Che La Penna fosse uno studente propenso all’indisciplina era peraltro dimostrato da un episodio antecedente, in cui era stato formalmente richiamato dopo essersi scontrato verbalmente con una commissione d’esame universitaria che non gli aveva conferito la lode. Cfr. ASNS, Cartelle allievi, f. La Penna Antonio, in particolare da Preside Liceo Classico di Lucca a Russo, 1° ottobre 1946 e S. Pellegrini a Russo, 4 ottobre 1946; inoltre cfr. da Russo a La Penna, minuta dattiloscritta s.d. (ma inizi 1948). 58 59

302  Generazioni intellettuali

nitura di medicine alla posizione lavorativa paterna62. Una strategia di ricreazione di un’immagine – quella pubblica della Normale e dei normalisti – ma anche di un personaggio, Russo medesimo, direttore della Normale non più fascista, di cui il discorso inaugurale del 1946, con cui si è iniziato a ritrovare la storia dei normalisti attraverso la guerra, fu uno dei momenti più rilevanti. All’interno del discorso, l’elenco dei caduti, che ne doveva essere la chiosa e la parte più significativa, fungeva da risposta alla necessità, già stabilita solennemente un anno prima, di celebrare «tutti i normalisti […] caduti nella lotta contro i nazifascisti» e di ricordare e segnalare «i nomi di coloro che combatterono nelle file partigiane o furono deportati per motivi politici». Celebrazione generazionale, di una famiglia di giovani intellettuali che doveva essere ricordata per il suo impegno nella lotta contro la tirannia e per la libertà, la prolusione inaugurale del 1946 fu anche il momento della pietas comunitaria verso i propri caduti e della ricomposizione dei conflitti ideologici nel segno del cordoglio collettivo: questo non riguardò solo il ricordo commosso di Gentile ma anche il ricordo «degli avversari della libertà», due studenti della Normale e del Mussolini caduti indossando la divisa della RSI, citati, avrebbe sottolineato Russo nel suo testo pubblico, in nome «della giustizia, della misericordia». Non vi è dubbio che la figura di Romualdo Calzecchi, alunno della classe di Scienze dell’ammissione 1940, morto in un incidente nel 1944 quando era sottotenente pilota nell’aeronautica repubblichina, abbia messo in crisi la coerenza del quadro celebrativo dei normalisti antifascisti. Una lettera della madre, in risposta ad una missiva non conservata, testimonia che a tre settimane dal discorso Russo aveva chiesto notizie sulla vita del giovane ex allievo, sulle cause della sua adesione alla Repubblica dopo l’8 settembre e sulle circostanze della morte. Il resoconto che ne seguì fu il breve riassunto di molte biografie dei «giovani di Salò»: la cattura da parte dei tedeschi, la liberazione dopo la richiesta di collaborazione, la volontà di non tradire l’onore militare e il senso di vergogna per il tradimento, il compianto affettuoso della madre per un figlio universalmente ricordato come giusto, buono, pio e benvoluto da tutti coloro che l’avevano conosciuto63. Il

  Cfr. la raccomandazione (riuscita) per il trasferimento del padre di un alunno, dipendente dal Ministero delle Finanze in ASNS, Cartelle allievi, f. Marsiglia Benedetto, da Russo a M. Scoccimarro Ministro delle Finanze, 11 gennaio 1946. 63  ASNS, Cartelle allievi, f. Calzecchi Romualdo, da Lena De Filippi a Luigi Russo, 9 dicembre 1946. 62

303  Epilogo

ritratto di un nemico imperfetto, chiuso con la raccomandazione di volerlo ricordare ai suoi antichi compagni, se possibile dato il carattere «ufficiale», cioè politico, dell’occasione: «non so, sig. Direttore, se dopo quanto le ho esposto Ella vorrà, o volendolo potrà, per contingenti ragioni politiche, comprendere mio figlio nella sua commemorazione, che avrà presumo carattere ufficiale […]». Certo, rispetto all’intenzione originaria, l’inserimento di Calzecchi (e di Pezzato, ex allievo del Mussolini fucilato dai partigiani), strideva nettamente con il suo alter-ego retorico, Corso Ricci da Volterra, che di Calzecchi era stato compagno d’anno e di Classe, e che morì, insieme al fratello, alla vigilia della liberazione della città per l’esplosione di una mina piazzata dai tedeschi. Vero e proprio eroe consapevole della Resistenza, Ricci era la figura esemplare da commemorare, e il suo necrologio ufficiale fu infatti registrato, caso raro ma non unico di «monumento di carta» normalistico, nelle cronache ufficiali dell’istituzione, secondo i crismi classici del giovane martire guerriero: Fondò il partito d’azione, fu perseguitato dai fascisti prima, dai repubblichini poi, finché fu arrestato nel marzo 1944 imputato di aver diffuso opuscoli di propaganda antifascista. Sopportò i 23 giorni di carcere con fermezza e stoicismo, continuando nella sua opera di propaganda anche fra il personale carcerario. Uscito dal carcere e diffidato, dovette allontanarsi a più riprese da Volterra. Man mano che gli alleati si avvicinavano alla città intensificò la sua opera come facente parte del CLN che stava organizzando la difesa della città per il passaggio della guerra. Intanto i repubblichini erano fuggiti; sembrava di poter cominciare a respirare aria di libertà. Prima della loro fuga avevano murate nella caserma della milizia ingenti quantità di munizioni e del tritolo, allo scopo di provocare al momento opportuno un vero disastro. Fu appiccato il fuoco al palazzo Inghirami a contatto con la caserma; molti volenterosi accorsero per domare l’incendio e fra i primi Corso Ricci che, dopo aver sofferto e lottato, offrì con slancio l’appassionata opera sua per la salvezza della sua città. L’incendio era domato quanto una terribile esplosione tutto travolse, tutto sommerse. I tedeschi, a coronamento del crimine organizzato dai repubblichini, fecero esplodere la mina a tritolo predisposta nella caserma e ciò prima che i generosi si fossero messi in salvo. Era il 1° luglio 194464.

Al sacrificio di Ricci facevano seguito, nel discorso di Russo, altri due martiri appartenenti all’ex «Mussolini», Pinardi e Spolidoro. Ma

  Per la minuta: ibid., f. Ricci Corso.

64

304  Generazioni intellettuali

l’elenco risultava comunque, alla fine, piuttosto sproporzionato rispetto agli intenti iniziali: per mano di chi erano morti in effetti i «martiri» della Scuola? Quattro erano caduti vestendo l’uniforme del Regio Esercito e della Regia Marina, due nella guerra «fascista» (Legnani a Tobruk nel 1942, Chiodoni in Russia nel 1943) due combattendo contro i tedeschi dopo l’8 settembre (Troiani in Corsica, Sauro Squeo nell’affondamento della corazzata ‘Roma’), uno (Berti) durante il bombardamento alleato di Pisa del 31 agosto ’43, uno militando nelle fila della RSI (Calzecchi), e gli altri per malattia65. Forse, la scomparsa (per altro incidentale) di un allievo «collaborazionista» e l’esecuzione di un altro potevano bastare ad accreditare l’idea di due casi isolati di fanatismo traviato, la cui giusta punizione riabilitava l’onore di tutta la comunità normalistica, in una versione su scala ridotta di quel processo di epurazione che, come ha ricordato ancora recentemente Tony Judt, fu prima di tutto un’esigenza di ordine simbolico nell’Europa del dopoguerra66. Ma se l’intento di Russo, con la sua commemorazione dei caduti, era quello di rilegittimare la Scuola pisana agli occhi dell’Italia uscita dalla guerra, cancellandone la nomea di laboratorio di un’intellettualità finanziata dal regime e compiendo così la strategia di reinserimento della Normale e dei normalisti nel circuito etico (prima ancora che culturale) dell’antifascismo, il consuntivo del sacrificio era, alla prova dei fatti (e nonostante un montaggio testuale indubbiamente abile), ampiamente insufficiente: la maggioranza dei normalisti non aveva scelto la strada della lotta, quanto, piuttosto, quella della «casa in collina», del ritiro nel privato, del disimpegno67. Gli allievi degli ultimi anni gentiliani non erano saliti in montagna, compatti nella decisione di espiare la propria adesione convenzionale, i propri titoli di littore, le cariche all’interno dei GUF, gli articoli roboanti sui

  Breve cronaca. Si noti che, mentre nelle minute è riportata correttamente la morte di Italo Troiani nei combattimenti in Corsica dopo l’8 settembre, nella versione a stampa del discorso di Russo ci fu un’evidente confusione, attribuendo a Troiani e Chiodoni l’identica causa di morte. 66   T. Judt, Dopoguerra. Com’è cambiata l’Europa dal 1945 ad oggi, Milano 2007 (ed. or. 2005), specie pp. 54-81. 67   R. Liucci, La tentazione della casa in collina. Il disimpegno degli intellettuali nella guerra civile italiana (1943-45), Milano 1999. Un quadro più generale a proposito delle strategie di reinserimento generazionale dopo il 1945 in L. La Rovere, L’eredità del fascismo. Gli intellettuali, i giovani e la transizione al postfascismo, Torino 2008, specie pp. 258-78. 65

305  Epilogo

giornali, e i «piccoli maestri» pisani si erano rivelati un gruppo sorprendentemente piccolo. Tanto piccolo quanto grande sarebbe stato il mito della giovane generazione intellettuale, passata attraverso il «lungo viaggio» e risorta, nel fuoco della guerra civile, ad un nuovo, unanime antifascismo militante, che anche sugli allievi della Normale si sarebbe costruito.

Indice dei nomi

Acquarone A., 110n Adorni N., 68n Aga Rossi Elena, 275n Aglianò Sebastiano, 152n Albera M., 2n Alfieri Vittorio Enzo, 56, 83n, 92, 105, 107, 107n, 108, 108n, 109, 109n, 110n, 111, 114, 114n, 115, 115n, 116, 117, 117n, 118, 118n, 119, 119n, 120, 120n, 121, 121n, 122, 122n, 127, 132, 133n, 173, 234, 235n Allotti P., 235n Alpino Enrico, 107, 107n, 109, 109n, 201, 212, 213n, 234, 235n Alvaro Corrado, 135n Amendola Pietro, 300 Amodeo Licio, 280, 280n Andreades Andrea, 188 Andreotti Aldo, 281, 281n Antonelli G., 146n Arangio Ruiz Vladimiro, 43n, 191n, 197, 200, 203, 210, 211, 218, 233, 245, 245n, 247, 248n, 271, 271n, 274, 277, 294 Arnaldi Francesco, 51n, 56, 56n, 65, 91, 91n, 113, 140, 146, 146n, 172, 172n, 185n, 206, 211, 212, 213, 214, 215, 215n, 217, 233 Audoin-Rouzeau Stephane, 19n, 20n, Aurigemma Marcello, 263n Babeuf François-Noël, 191 Baccini Danilo, 83n, 96n, Baccolo L., 246, 246n Badoglio Pietro, 273, 275, 275n Baglietto Claudio, 56, 95n, 140, 201, 212, 213, 224, 224n, 225, 225n

Baratto Mario, 267 Baravelli Andrea, 25n Barbagli M., 155n, 157n Barbi Michele, 162n Barbieri Ricciotti Guido, 175n Barsanti D., 85n Barsotti Iacopo, 209 Bassani Giorgio, 202 Basso Lelio, 106, 109 Battini Michele, 283 Battistini Giulio, 267n Baudelot F., 63n Becker Jean – Jacques, 19 n., 20n, Bedini Giorgio, 100n Belluzzo Giuseppe, 140n Berengo Marino, 39n Berenini Augusto, 68n Bernardi Franco, 265 Bernardini Gilberto, 50n, 56 Berti Luciano, 304 Bianciardi Luciano, 242, 242n, 252, 253n, 294n, 298, 300n Bianchi L., 30, 33, 41n, 44n, 48, 53, 54, 55, 111, 114, 140 Biggini Carlo Alberto, 273 Bientinesi Ranieri, 37 Birkhoff George, 188 Bistarelli A., 294n Bloch Marc, 7, 8n Blondel Maurice, 128 Boccalatte L., 26n, Bocchini Arturo, 110 Bolelli Tristano, 94, 187n, 190 190n Bollati Giulio, 291, 291n, 292n Bongi Vinenzo, 175n, 266, 266n, Boriani Giuseppe, 187, 188, 188n Bortolami S., 1n

308  Generazioni intellettuali

Bortolotti Arrigo, 281, 282, 282n, 301 Bortolotti Enea, 33, 33n, 282n Bottoni R., 108n, 127n, 128n, 133n Bourdieu Pierre, 9, 9n, 11n, 63, 156n, Branca Vittore, 214 Breccia Evaristo, 262 Brice Cathrine, 17n, Brunetti Franz, 299, 300, 300n, 301n Buffarini Guidi Guido, 140n Caberlin Francesco, 15n, 30n Caccavelli Alberto, 50n, 206 Caccia Dominioni Paolo, 23, 23n Calì Vincenzo, 19n, Calogero Guido, 9. 153n, 187, 190, 191, 191n, 192, 193, 194, 252, 270, 275, 297 Calzecchi Romualdo, 302, 302n, 303, 304 Cammelli A., 2n, 28n, 48n, 142n, 155n, 156n Cammelli G., 175 Campetti Maria, 145n, 146n Canali M., 27n, 73n, 131n Cantimori Carlo, 65 Cantimori Delio, 10, 51n, 56, 59n, 65, 65n, 95, 95n, 96, 96n, 97, 97n, 98n, 99, 99n, 100, 102, 103, 108n, 116, 116n, 117, 117n, 118, 119, 119n, 120, 120n, 132, 133n, 135, 187, 190, 190n, 191, 191n, 192, 192n, 194, 195, 204, 207, 208, 213n, 214n, 224, 224n, 225, 225n, 226, 226n, 227, 227n, 228n, 229, 229n, 230, 230n, 231, 231n, 232, 234, 239n, 241n, 242, 243n, 270, 271, 273, 274, 275, 277, 300 Capello Luigi, 106 Capitini Aldo, 56, 59n, 64, 64n, 65, 65n, 83n, 91, 92n, 95, 95n, 113, 113n, 140, 148n, 172, 193, 194, 207, 208, 212, 212n, 213, 215, 222, 222n, 224, 230n, 242, 246n, 252, 252n, 274, 275, 300 Capodaglio Elio, 165n Cappetti Ilio, 174n Capristo A., 245n Capriz Gianfranco, 298, 299n

Caramella S., 126n Carducci Giosué, 5, 55, 236 Carli E., 94, 103, 103n Carlini Armando, 49, 53, 108n, 111, 111n, 112, 114, 114n, 140n, 207, 233 Carlucci Paola, 26n, 222n, 301n Carolini S., 110n Casagrande Mario, 253, 254 Casati Alessandro, 121 Catoni G., 2n Cattaneo Carlo, 268 Craveri P., 64n Cecchini Gino, 33, 33n, Cederna C., 128n Cesa Claudio, 234n Cesari Lamberto, 218 Ceschin Daniele, 22n Chabod Federico, 257, 257n Chanet Jean-François, 12 Charle Cristoph, 9n Charnitzky J., 5, 54n, 67n, 76n, 133n, 141n, 149n, 155n, 157n, 171n Chiavacci Gaetano, 162, 187, 189, 190, 210, 211, 233, 245n Chieppi Fiorenzo, 282, 283, 286, 286n Chiocchetti Valentino, 219 Chiodoni Giorgio, 263, 263n, 304, 304n Ciampi Carlo Azeglio, 197n, 211, 211n, 263, 263n Ciancio Antonio, 173n Claudi Claudio, 217, 217n Colarizi Simona, 73n, 126n, 248n, 254n Collotti Francesco, 33, 33n, 109, 109n, 233 Conti Giuseppe, 204n Conti Roberto, 286n Corasaniti Aldo, 202, 202n, 208, 222, Cordié Carlo, 94, 94n, 95n, 97, 98, 99, 99n, 100, 103n, 104, 104n, 108n, 148, 201, 202n, 204, 206, 208n, 225, 226, 226n, 227, 227n, 228, 228n, 229, 229n, 234, 235n Corni Gustavo, 19n, Cortellessa Elena, 123, 124n, 125

309  Indice dei nomi

Croce Benedetto, 44, 108n, 115, 118, 120, 121, 121n, 122, 127, 130, 176, 183 Cutini C., 64n D’Amato Francesco, 267, 268, 268n, 270 D’Andrea Antonino, 153n, 211 Dal Pont A., 110n Dantoni Giovanni, 212, 213n Davico Bonino G., 299n De Begnac Y., 112, 113n De Grazia Victoria, 86n, 142n, 152n, 164n De Gaulle Charles, 20 De Donno Nicola, 263, 263n, 265n Degli Innocenti Maurizio, 8n Delcroix Carlo, 187, 188n Della Casa B., 106n Delli Santi Mariano, 178, 179n Del Negro Piero, 1n, 22n, Derenzini Tullio, 46, 47n, 206 De Ruggiero Guido, 176 Dessì Giuseppe, 97, 97n, 98, 98n, 99, 99n, 201, 201n, 202, 202n, 204, 208n, 219, 228n, 231n, 232 Dessì Fulgheri F., 99n, 208n De Stefani, 49 De Vita Corrado, 58n De Vecchi Cesare M., 122, 133, 133n, 226 Devoto Giacomo, 187, 188n Diaz Armando, 32 Di Francia A., 2n, 28n, 48n, 142n, 156n Dini U., 30, 31, Dogliani Patrizia, 3n, 68, 68n, 144n, 152n Dolci Fabrizio, 16n Droysen Johann, 191 Duranti Simone, 3n, 125n, 161n, 247n, 250n Einstein Albert, 193n Eisenstadt S. N., 129n Fabbrini Ilvo, 12, Fait G., 160n Fantappié Luigi, 30, 56 Farinelli A., 127

Fasano Guarini Elena, 27n Fava Andrea, 17n., Fedele Pietro, 232 Federici Renzo, 298, 299n Federighi Urbano, 87n. Feo Michele, 108n Ferrandi G., 19n Ferrara E., 276n Ferretti Lando, 27, 27n, Fermi Enrico, 5, 30, 56, 89, 89n, 102, 102n, 204, 236 Fermi Laura, 43n, 89n Ferrarino Aldo, 187 Ferretti Lando, 128 Ferri Franco, 194n, 299 Fiorillo M., 282n Fois G., 1n Folengo Teofilo, 230n Fordham E., 20n, Formiggini Angelo Fortunato, 127 Fradelli Andrea, 217, 217n Fraddosio Oberdan, 244n Franzinelli Mimmo, 106n, 128n, 247n, 254n Frassati Filippo, 92n, 189n, 193n, 194n, 219 Frugoni Arsenio, 211 Gabrielli Italo, 266 Gadda Carlo Emilio, 23, 23n, Gaffi S., 232n Gamillscheg Ernst, 189 Gardini Renato, 34 Gass Karl Eugen, 153, 153n, 190n, 198n, 209, 209n, 210, 211, 211n, Gatti Angelo, 187, 188, 188n Gemelli G., 19n, Gentile Emilio, 3n, 129n Gentile Federico, 118, 230 Gentile Giovanni, 5, 6, 7, 8, 9, 25, 41, 48, 49, 50, 50n, 51, 52, 54, 54n, 55, 56n, 60, 66, 66n, 83n, 88, 93, 93n, 96, 100, 100n, 108n, 111, 111n, 112, 112n, 115, 115n, 117, 118, 127, 128, 138, 138n, 140, 140n, 141, 141n, 142, 142n, 145, 145n, 146n, 147, 147n, 148, 149, 156, 158, 167, 168, 169, 170, 176, 182,

310  Generazioni intellettuali

185, 185n, 187, 200, 203, 209, 213, 215, 218, 220, 221, 222, 226, 232, 233, 234, 234n, 236, 239, 239n, 240, 248n, 273, 274, 274n, 275, 276, 300, 301 Gentile Giovanni Jr., 50, 50n, 51n, 56, 97, 97n, 102, 103, 103n, 105n Giacchin C., 106n Giacomini Amedeo, 207n Gibelli Antonio, 3n, 151n, 160n Giglioli Irene, 85n, 144n Gillis J., 221n Giotti Gino, 33, 33n, 35 Giuliano Landolino, 277 Giuntella Maria Cristina, 76n, 215n Goetz H., 113n Grabher Carlo, 34 Gramsci Antonio, 253 Guerragio A., 41n, 44n, 48n, 141n Hammermann G., 267n Henry B., 72n, 187n Hibler Otto, 243, 243n Ilari Virgilio, 21n, 24n Imberciadori Ildebrando, 59, 59n, 85n Imbriani Francesco, 268 Imperatori Giorgio, 86n, Inaudi S., 73n Irace Alfonso, 223n Isnenghi Mario, 22n., Isola Gianni, 17n, Israël S., 9n, 63n, 267n Janz Oliver, 16n Judt Tony, 304, 304n Klinkhammer Lutz, 16n Knox M. G., 262n Kristeller Paul, 197, 218, 245, 246, 246n Krumeich Gerd, 20n La Penna Antonio, 301n La Rovere L., 3n, 74n, 125, 177n, 247n, 256, 256n, 304n Labanca Nicola, 257n Lardi Achille, 87n Lazzari Leonardi, 267, Legnani Enrico, 263, 264n, 265, 266n, 304 Levi Eugenio Elia, 37

Levi Isaia, 132 Linari F., 98n Livi Augusto, 266, Lolli Francesco, 298, 298n Luna L., 128n Lupo Salvatore, 129n Luporini Cesare, 300, 300n Lanson G., 18 Leoni Diego, 17n, Liucci R., 304n Lo Bue Francesco, 216, 217, 217n Lordi Luigi, 33, 33n Lugo Giovanni, 251 Luporini C., 244n Maccarone Michele, 185, 186n, 214 Magenes Enrico, 292, 293, 293n, 299 Malatesta Maria, 2n, 28n Mammana Gabriele, 33, 33n Mandersteig G., 117n Manià Basilio, 224, 224n, 252n Mayorana, 51n Manacorda Mario A., 92, 92n, 189n, 210n, 246n Mancini Augusto, 40 Marcenaro G., 106n Marinetti Filippo, 115 Mariotti Scevola, 176, 177, 177n, 253, 255 Marx Karl, 191 Masina E., 177n Matonti F., 63n Matteoni Sergio, 267 Matteotti Giacomo, 136 Maurangelo Pasquale, 173n Mei Francesco, 281, 281n Meli Fausto, 104, 104n Melis Guido, 49n Meneghello Luigi, 262 Menozzi Daniele, 4n, 12, 15n, 72n, 88n, 187n Miccoli Giovanni, 96n Mirri Mario, 195n, 262 Modena Giuseppe, 219, 219n Modestino Pasquale, 219n Monceri F., 27n Mondini Marco, 23n, 101n, 223n, 269n, 294n, 297n

311  Indice dei nomi

Monteleone R., 17n, Montinari Mazzino, 299, 299n Morelli Carlo, 159, 160n, 161n, 258, 258n Morelli G., 16n Morelli Morello, 135 Moretti Bruno, 280, 281n Moretti Ermenegildo, 243, 243n Moretti Mauro, 4n, 12, 39n, 50n, 72n, 76n, 111n, 232n Moro Donato, 290, 291n Mosca Bruno, 46, 47n, Motta Vincenzo, 50n Muggini Francesco, 175 Mussolini Arnaldo, 74 Mussolini Benito, 6, 48, 113, 113n, 122, 125, 126, 127, 128, 129, 130n, 147, 177, 178, 233, 254, 255, 259, 302, 303 Nannelli Vasco, 59n, Nannini Antonio, 84n, Nardini Oddino, 50n, 51n Nastasi P., 41n, 44n, 48n, 141n Natta Alessandro, 192, 193n, 223, 223n, 242, 244, 253, 253n, 262, 262n, 267, 270 Nello Paolo, 135n, 136n, 243n Nencioni F., 98n, 201n Nesbeda Paolo, 263, 263n Nicolini E., 219n Nitti F. S., 35n Norcia Mariano, 260n Norsa M., 189n Nuti Renzo, 263, 263n Omodeo Adolfo, 24, 24n, 25, 25n, 176, 199 Omodeo Pietro, 199, 201n, 218, 246n Orlando Luciano, 37 Orvieto I. N., 128n Pacella Giovan Battista, 34 Palermo M., 146n Palla Marco, 111n Papa Catia, 25n Papadia Elena, 25n Pappacena Roberto, 178n Pasquali Giorgio, 94, 94n, 162n, 187, 187n, 189, 190, 190n, 193, 197, 274

Passeron J. C., 11n Patrono Giuseppe, 176n Pavolini Paolo Emilio, 188, 188n Pavone Claudio, 8n Pécout Gilles, 12 Peli Santo, 282n Pepe, 2n Perfetti Francesco, 113n, Perosa Alessandro, 148, 202, 202n, 222, 222n, 223n, 248, 248n, 269n, 274, 280n, 281, 281n, 282, 282n, 283, 288, 289, 289n, 291n, 293, 300 Pertici Roberto, 25n, 38n, 108n, 119n, 191n, 200n, 234n, 242, 274n Pescani Pietro, 206 Petralia Stefano, 158n Petroni Liano, 152n, 286n Petrucci Armando, 146n Pettinelli F., 27n Pezzino Paolo, 12, 72n, 187n, 283n Picone Mauro, 189 Pieri Piero, 24, 24n, 25, 25n, 27, 33, 33n, Pinna Mario, 202 Piovano Giorgio, 275, 275n Pirrone Manlio, 83n., Platone, 183 Pocherra Walter, 281, 281n Ponchiroli Daniele, 298, 298n Porciani Ilaria, 76n., 232n Praticelli M., 276n Prizzi G. B. 1n Proudhon Pierre-Joseph, 191 Prochasson Cristoph, 19n, Pucci Pietro, 298, 299n Puosi Mario, 15, 16, 16n Quagliariello Gaetano, 2n Quazza Guido, 26n Radetti Giorgio, 136, 136n Ragghianti Carlo Ludovico, 148, 148n, 173, 194, 200, 201, 201n, 204, 206n, 212, 213, 213n, 227, 230, 230n, 231, 232, 242, 275 Raicich Marino, 143n, 280, 280n Raniolo Gabriele, 33, 33n Ranzato Gabriele, 251n Rasetti Franco, 102,

312  Generazioni intellettuali

Resta A., 200n Revelli Nuto, 265, 265n Ricco Corso, 303, 303n Ricci G., 189, 189n, 214 Riccio Francesco, 206 Ricuperati G., 76n Righetti Maria, 146n Rochat Giorgio, 22n, 35n, 250n, 257n, 259n, 261n Romano A., 1n Roncaglia Aurelio, 162n Roncaglia Gino, 162n, 163, 163n Rosa Mario, 88n Rosini E., 244n Rosselli Carlo, 107n Rossi Beatrice, 145n, 146n Roth G., 129n Rumine Nicola, 164n Rumine Pietro, 164n Runti Carlo, 280, 280n Russi Antonio, 193n, 197n, 275, 275n Russo Carlo Ferdinando, 154n Russo Luigi, 9, 92, 132, 153n, 184, 193, 193n, 200, 200n, 218, 233, 234, 234n, 239, 239n, 240, 240n, 242, 273, 274, 274n, 276, 277, 277n, 278n, 279n, 283, 283n, 284, 289n, 294, 295, 298, 300, 301, 301n, 302, 302n, 304 Sabbatucci Giovanni, 3n, 161n Saitta Giuseppe, 104, 104n Salani Carlo, 65, 65n, 172n, 173, 183, 183n, 184, 184n, 212, 212n, 214, 216, 216n, 219 Salaustri S., 3n Salvemini Gaetano, 25, 26, 26n, 40, 220n Sansone Giovanni, 36, 36n Santini Pio, 50n Santoro V., 109n Santoni Rugiu A, 40n Santoli V., 30 Santoli Chiti Maria Luisa, 144n Sassano Fidia, 172 Sassano Italo, 140, 172, 173n Sasso Gennaro, 192n Savino Tullio, 219, 219n

Sbrilli Milletta, 12 Sarasini P., 17n, Sarfatti Michele, 245n Schiaffini Alfredo, 190 Schreiber G., 267n Schwarz Guri, 297n Scoccimarro M., 302n Scorza Gaetano, 141n Scotto di Luzio A., 96n, 234n Schwarz Guri, 12 Sedda Armando, 92, 105, 158n, 206, 207, 212 Segre Umberto, 56, 83n, 92, 105, 107, 107n, 109, 109n, 111, 120, 123, 123n, 125, 126, 126n, 128, 129, 130, 130n, 131, 131n, 132, 134, 134n, 136, 173, 234 Senise Carmine, 260n Severi Leonardo, 273 Sgroi Pietro (o Piero), 58n, 206n Silei Giovanni, 73n Simoncelli Paolo, 50n, 51n, 56n, 65n, 95n, 103n, 105n, 106n, 108n, 111n, 112n, 115n, 116n, 117n, 122n, 128n, 131n, 133n, 140n, 147n, 154n, 172n, 184n, 185n, 186n, 187n, 191n, 212n, 213n, 224n, 245n, 246n, 249n, 252n, 255n, 274n Sirinelli F., 9n, 19n, Sistoli Paoli N., 213n Snyder J., 20n Socino Lelio, 206 Soldani Simonetta, 143n Sortino Matteo, 212, 213n Spinella Mario, 194n, 199n, 211n, 214, 214n, 244n, 246n, 252n Spinetti G., 125n Spirito Ugo, 114n Spolidoro Rurik, 303 Squarcia Francesco, 46, 47n Squeo Sauro, 304 Stampacchia E., 276n Starace Achille, 128, 133, Stedile M., 98n, 231n Supino David, 30 Susmel E., 118n

313  Indice dei nomi

Susmel D., 118n, Taddeo Edoardo, 177, 177n Tafani Giuseppe, 37 Taglioli M., 12, 182n Tarquini A., 112n, 141n Tenenti Alberto, 287, 288, 288n, 289, 289n, 301 Terzolani Sergio, 219, 219n Todaro Giuseppina, 116, 116n Tognetti Mario, 50n, 51n Tomasi T., 213n Tonelli Giorgio, 277n Tonelli Leonida, 187, 189, 218, 273, 276, 277, 277n, 278, 283, 284, 301 Torelli G., 29, 37 Torelli R., 29, 29n Torelli T., 266, Torrefranca Fausto, 189 Torrese Guido, 220, 220n Torresin Giuseppe, 291, 291n, 300 Troiani Italo, 263, 263n, 304, 304n Turi G., 76n, 112n, 127n, 142n, 274n Turriani Maria, 50n, 51n, 144n, 233n Ungaretti Giuseppe, 188 Varese Claudio, 95n, 97, 97n, 98, 98n, 99, 99n, 107n, 135, 190, 190n, 201, 202, 202n, 204, 208, 208n, 228n, 230, 230n, 231, 231n, 232, 234 Varni A., 8n

Verni G., 111n, Vianello Natale, 220, 220n, 236 Vidotto Vittorio, 3n, 161n Vigezzi Brunello, 25n, Villa Vincenzo, 206n Villari Pasquale, 4, 38n, Viola Pietro (anche Piero), 47n, 216, 249, 249n Violante Cinzio, 183, 183n, 198n, 223n, 267, 268, 269, 269n, 270, 270n, 293, 294, 294n Visalberghi Aldo, 175n, 244n Vittorio Emanuele III di Savoia, 105 Wanrooij Bruno, 3n, 161n Winter Jay, 16n, 19n, Woeller H., 235n Xodo C., 50n Zadra Camillo, 17n, 160n, 251n Zamagni Vera, 69n, 73n Zamboni Anteo, 106 Zangrandi Ruggero, 125, 125n, 148n, 242, 243, 243n Zannini A., 154n Zanzotto D, 2n Zappoli S., 187n, 191n Zendri D., 251n Zerbi P., 186n Zerbini Almiro, 33, 33n Zunino P., 17n

Finito di stampare nel mese di dicembre 2010 in Pisa dalle Edizioni ETS Piazza Carrara, 16-19, I-56126 Pisa [email protected] www.edizioniets.com