Gas esilarante
 8882461688,  9788882461683

Table of contents :
GAS ESILARANTE......Page 2
I......Page 3
II......Page 11
III......Page 20
IV......Page 28
V......Page 40
VI......Page 47
VII......Page 51
VIII......Page 57
IX......Page 63
X......Page 71
XI......Page 77
XII......Page 84
XIII......Page 98
XIV......Page 106
XV......Page 115
XVI......Page 121
XVII......Page 130
XVIII......Page 136
XIX......Page 146
XX......Page 153
XXI......Page 160
XXII......Page 167
XXIII......Page 174
XXIV......Page 180
XXV......Page 187
XXVI......Page 191
XXVII......Page 201
XXVIII......Page 207
XXIX......Page 215
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P.G WODEHOUSE

GAS ESILARANTE Titolo originale: Laughing Gas Traduzione di Alberto Tedeschi ISBN 88-8246-168-8 © by The Trustees of the Wodehouse Trust © 2000 Ugo Guanda Editore S.p.A., Viale Solferino 28, Parma

UGO GUANDA EDITORE IN PARMA

I

Avevo appena cominciato a scrivere questa storia, quando un mio amico letterato che aveva passato una notte in baldoria al circolo venne a chiedermi del bicarbonato di sodio. Mi dissi allora che tanto valeva approfittare dell’occasione e sottoporre al suo giudizio i miei tentativi, nei quali non avevo troppa fiducia. Infatti, a parte qualche barzelletta sugli Ebrei, gli Scozzesi e gli Irlandesi, narrata nel salotto del ‘Drones’, e non sempre con successo, non mi era mai accaduto di narrare per intero e coordinatamente una storia. E poi gli intenditori mi hanno detto che tutto sta nel cominciar bene. Allora domandai al mio amico: «Senti, potrei leggerti qualche cosa?» Lui mi rispose: «Se proprio ci tieni...» E io dissi: «Moltissimo! Sto tentando di mettere per iscritto una strana avventura capitatami un anno fa. Per il momento ho progredito ben poco. Sono partito dal mio incontro col fanciullo...» «Quale fanciullo?» «Il fanciullo che ho incontrato» dissi; e presi a leggere come segue: «Il fanciullo era seduto in una poltrona. Io in un’altra. La sua gota sinistra era gonfia; la mia gota sinistra era gonfia. Lui sfogliava il ‘National Geographic Magazine’. Io facevo altrettanto. Insomma eravamo là entrambi. Lui mi sembrava un poco irrequieto, come se il ‘National Geographic Magazine’ non lo assorbisse completamente. Tanto è vero che lo lasciava per un attimo, lo riprendeva per un attimo e lo lasciava per un attimo ancora. Ed è stato appunto in un momento in cui aveva posato la rivista che mi ha guardato e mi ha domandato: «‘Dove sono gli altri?’» A questo punto, il mio amico letterato spalancò gli occhi che fino a quel momento aveva tenuto socchiusi in atteggiamento di dolorosa sopportazione; aveva tutta l’aria di una persona alla quale abbiano cacciato sotto il naso un

pesce morto da parecchi giorni. «E questa mostruosità dovrebbe essere stampata?» domandò. «In forma privata. La metterò nell’archivio di famiglia perché la leggano i miei nipoti.» «Ebbene, se proprio vuoi sapere la mia opinione» disse il mio amico, «quei poveri piccoli non ci capiranno un bel nulla. Per esempio, dove diavolo si svolge l’azione?» «A Hollywood.» «Bravo, allora bisogna dirlo. E quelle poltrone? Che c’entrano? Che razza di poltrone erano? Dove?» «Erano le poltrone di una sala d’aspetto di dentista. Là appunto ho incontrato il fanciullo.» «E chi è questo fanciullo?» «Più avanti, nel racconto, risulta che è Joey Cooley, il piccolo divo, l’idolo delle madri d’America.» «E tu chi sei?» «Io?» domandai stupito, poiché eravamo stati a scuola insieme. «Ma via, mi conosci bene, amico mio! Sono Reggie Havershot.» «Volevo dire che devi presentarti al lettore; non può sapere per intuizione chi sei tu!» «E non sarebbe più efficace lasciarglielo indovinare gradualmente, nel corso della narrazione?» «Affatto. La prima norma alla quale si deve attenere chi si accinge a narrare una storia è quella di rendere evidente e lampante fin da principio il chi, il come, il quando, e il perché. Sarebbe meglio che tu ricominciassi da capo.» Detto questo, prese il bicarbonato e se ne andò. E allora, farò un passo indietro e mi rimetterò all’opera. Il mio nome, come ho già accennato più sopra, è Reggie Havershot, Reginald, John, Peter Swithin, terzo conte di Havershot, se si vuol essere formali, ma Reggie per gli amici. Ho adesso ventotto anni e rotti, e al tempo di cui mi accingo a parlare ne avevo ventisette e rotti. Statura, m. 1,81; occhi castani e capelli che tirano al carota. Notate però che, quando asserisco di essere il terzo conte di Havershot, non intendo dire che lo sono stato sempre. No. Ho cominciato dal nulla e sono salito a poco a poco. Per anni e anni ho tirato avanti così, semplicemente, quale Reginald John Peter Swithin, certo che questo nome

sarebbe stato messo sulla mia lapide funeraria quando fosse venuto per me il momento di possederne una. E in quanto alle probabilità di acciuffare un titolo, sembrava che ne avessi una su cento. Il terreno era abbastanza ingombro di concorrenti allenati e capaci di lasciarmi indietro di parecchi punti. Sennonché... sapete bene come succede; qualche zio se ne va all’altro mondo, alcuni cugini gli vanno dietro... e, a poco a poco, passo passo, prima ancora che ci si renda conto di quello che succede, ci si trova con tanto di corona. Eccomi presentato e, a parte questo, credo di non aver null’altro di interessante da dirvi sul conto del sottoscritto. Ho vinto una volta un premio di pugilato a Cambridge; ma questo è tutto. Insomma, un uomo come tanti altri. Così sarà forse meglio che entriamo in argomento e vediamo subito come mi accadde di trovarmi a Hollywood. Una mattina stavo gustando le uova con il prosciutto nella mia residenza di Londra, quando il telefono squillò; era il caro vecchio Horace Plimsoll che mi pregava di fare una scappata nel suo ufficio per una questione di una certa importanza. «Certamente» risposi. «Certamente!» E mi avviai ben disposto e contento. Mi era simpatico il vecchio Plimsoll. Era l’avvocato di famiglia e in quegli ultimi tempi avevamo avuto occasione di vederci di frequente per tutte le faccende inerenti alla successione. Andai nel suo ufficio e lo trovai, come di consueto, immerso sino al torace in citazioni, parcelle, e via discorrendo... Scostò quella farragine di roba, emerse e mi guardò da sopra gli occhiali. «Buon giorno, Reginald» disse. «Buon giorno» dissi io. Si tolse gli occhiali, li pulì ben bene, e se li rimise. «Reginald» soggiunse fissandomi ancora una volta «voi siete ora il capo della famiglia.» «E... lo so» dissi. «Non vi pare buffo? C’è qualcosa da firmare?» «No, per il momento. Oggi sono stato indotto a chiamarvi per una questione personale. Volevo farvi notare che, quale capo della famiglia, su di voi incombono certe responsabilità che spero non vorrete trascurare. Voi avete dei doveri, ora, Reginald; e questi doveri debbono essere adempiuti a qualunque costo. Noblesse oblige.»

«Oh, oh» mormorai non troppo rallegrato da quell’esordio. Aveva tutta l’aria della stoccata. «E allora sentiamo questa cattiva notizia. Forse uno dei rami collaterali ha bisogno di sostegno?» «Lasciatemi cominciare dal principio» disse il vecchio Plimsoll. Si scrollò dalla manica un atto di citazione. «Sono stato in comunicazione con vostra zia Clara. È preoccupata.» ‘ «Ah, sì?» «Estremamente preoccupata per vostro cugino Egremont.» Naturalmente palesai con suoni inarticolati il mio rammarico, ma non posso dire che fossi sorpreso. Dal momento in cui Egremont è diventato un giovanotto, questa disgraziata zia è stata cronicamente preoccupata per l’individuo in questione il quale è riconosciuto, quasi all’unanimità, come il più eminente sbornione del West End di Londra. Sono anni che tutti ripetono 1 a Eggy come i suoi tentativi di tracannare tutte le bevande alcoliche d’Inghilterra siano inutili, ma lui, imperterrito, non desiste. Naturalmente, anche questo starebbe a dimostrare la sua costanza, la sua tenacia, ma la zia Clara non la vede così e se ne cruccia. «Conoscete le prodezze di Egremont?» Dovetti riflettere un attimo. «Ma... veramente, la sera di una famosa gara di canottaggio gli ho visto trangugiare ben sedici doppi whisky, non so se dopo sia riuscito a superare...» «Sono anni che procura a Lady Clara le più gravi preoccupazioni. E ora...» «Non me lo dite. Lasciatemi indovinare. Ha calcato l’elmetto sugli occhi a un vigile!» «No...» «Ha cacciato delle uova al latte nel tubo dell’aeratore di un ristorante di lusso?» «No...» «Non ha commesso un delitto, spero?» «No. È scappato a Hollywood.» «Scappato a Hollywood?» «Scap-pa-to a Hollywood» disse il vecchio Plimsoll. Non vedevo la ragione di tanto rammarico e glielo dissi. Lui continuò: «Tempo fa, Lady Clara ebbe ragione di impensierirsi della salute di Egremont: infatti lui si lamentava continuamente di avere dei ragni nella schiena, e non riusciva a vincere il tremito delle mani. Allora, per consiglio di

uno specialista di Harley Street, Lady Clara decise di farlo partire per una crociera, uno di quei viaggi per mare, intorno al mondo, sperando che l’aria marina e la possibilità continua di svago...» Vidi subito il punto debole della soluzione. «Quei piroscafi hanno sempre un bar...» «No, no. I baristi avevano ordine formale di non servire nulla a Egremont.» «Non ne sarà stato entusiasta...» «Affatto! Le lettere che mandava a casa e i radiotelegrammi quasi quotidiani erano carichi di lamentele; il loro tono, uniformemente di protesta. Quando poi, nel viaggio di ritorno, il piroscafo toccò Los Angeles, Egremont se la svignò a Hollywood dove si trova ancora.» «Perdiana! E sta bevendo come una spugna, no?» «Non abbiamo prove dirette ed esaurienti in proposito; possiamo nondimeno presumere che tale sia la situazione. Ma non ho ancora detto il peggio; le angosce di Lady Clara non sono provocate da questo.» «No?» «No. Abbiamo ragione di credere... da alcuni passaggi delle sue ultime lettere, che lui pensi al matrimonio.» «Sì?» «Sì. Le sue parole non lasciano alcun dubbio. Si è fidanzato o è in procinto di fidanzarsi con una ragazza di laggiù. E voi sapete, come me, che specie di donne circolino a Hollywood.» «Carine, da quello che mi hanno detto.» «Non dubito che fisicamente siano quali voi le definite. Non credo però che tra loro si possa trovare facilmente la compagna ideale per vostro cugino Egremont.» Non riuscivo a capire. Per mio conto, ho sempre pensato che un uomo come Eggy può dirsi maledettamente fortunato se trova la ragazza disposta a sposarlo. Però non palesai la mia opinione in quel momento. Il vecchio Plimsoll ha un sacro rispetto per tutta la famiglia e probabilmente una dichiarazione di quel genere lo avrebbe addolorato. Mi limitai a domandare quali fossero i suoi propositi. Che c’entravo io? Che cosa credeva che io potessi fare? Assunse l’atteggiamento del gran sacerdote che incita il giovane capo della tribù a nobili gesta. «Diamine, andare a Hollywood, Reginald; e tentare di riportare alla

ragione quel giovanotto sviato. Mettere un freno a tutte queste sciocchezze. Esercitare la vostra autorità di capo della famiglia.» «Chi, io?» «Sì.» «Ehm...» «Non dite ‘ehm’.» «Ah!» «E non dite ‘ah!’. Il vostro dovere è evidente; voi non potete esimervene.» «Ma Hollywood è lontana miglia e miglia.» «Nondimeno io ritengo che voi, quale capo della famiglia, abbiate il dovere di andarci il più presto possibile.» Mi mordicchiai il labbro inferiore. Debbo confessare che non riuscivo a capire perché mai toccasse proprio a me intromettermi, e tentare di mettere fine agli amori di Eggy che, da quanto mi pareva di capire, erano degni di encomio. Vivere e lasciar vivere. E se davvero Eggy desiderava farsi mettere le pastoie, non era il caso di opporsi; ecco come vedevo io la cosa. Del resto, il matrimonio avrebbe potuto benissimo migliorarlo. Era difficile trovare una situazione che, in confronto al suo stato attuale, non avesse possibilità di vantaggi morali per lui. «Ehm...» dissi ancora. Il vecchio Plimsoll stava giocherellando con una matita e con un foglio di carta; a quanto sembrava, stava tracciando un itinerario. «Il viaggio, come voi dite, è lungo, in compenso però è molto agevole. Arrivando a New York prendereste un treno della ‘Twentieth Century Limited’ per Chicago. Là una breve sosta...» Mi alzai di scatto. «Chicago? Volete dire che si passa per Chicago?» «Sì, si cambia treno a Chicago, di là a Los Angeles vi sono appena...» «Ma aspettate un momento» dissi io «la proposta che mi fate comincia ad apparirmi discretamente accettabile. Nominando Chicago mi avete aperto nuovi orizzonti. La riunione per il campionato mondiale di pesi massimi si terrà a Chicago tra una settimana circa.» Esaminai allora la cosa alla luce di questo nuovo fattore; per tutta la vita io avevo desiderato di vedere un match di campionato mondiale e non ero mai stato in condizioni di pagarmi il viaggio. Soltanto ora mi rendevo conto che, avendo ereditato il titolo, con relativo contorno, avrei potuto farlo senza

pensarci sopra. Ed era assurdo che non ci avessi pensato prima! Già... ci vuole sempre un po’ di tempo per abituarsi all’idea che si è entrati nel cammino della prosperità. «Quanto dista Chicago da Hollywood?» «Non più di due giorni di treno, credo.» «E allora non dite altro» dissi; «è cosa fatta. Non penso nemmeno lontanamente di poter riuscire a qualcosa riguardo a Eggy, ma andrò e gli parlerò.» «Benissimo.» Una pausa; compresi che Plimsoll non aveva ancora detto tutto. «E... ehm... Reginald...» «Dite!» «Sarete prudente?» «Prudente?» Tossicchiò e sfogliò distrattamente un codice di diritto feudale. «Per ciò che concerne voi stesso, voglio dire. Quelle donne di Hollywood, come voi stesso avete detto poco fa, hanno delle attrattive notevoli...» Risi di cuore. «Santo Dio!» esclamai. «Nessuna ragazza mi guarderà.» Questo parve urtare il suo rispetto per la famiglia; lui aggrottò le sopracciglia in modo brusco e minaccioso: «Voi siete il conte di Havershot.» «Lo so, ma ciò nonostante...» «E, se non mi sbaglio, c’è stata qualche ragazza che vi ha guardato, in passato.» Sapevo a che cosa voleva alludere. Un paio d’anni prima, a Cannes, mi ero fidanzato con una ragazza di nome Ann Bannister, una giornalista americana che passava le sue vacanze sulla Costa Azzurra, e siccome ero già presunto erede del titolo, la cosa aveva messo in subbuglio gli anziani della famiglia. Doveva esser stato un sollievo per tutti quando il fidanzamento era andato a monte. «Tutti gli Havershot sono stati sempre troppo sensibili e impulsivi. Voi lasciate che il vostro cervello sia dominato dal cuore. Così...» «Va bene, va bene. Sarò prudente.» «Allora non vi dirò altro. Verbum... ehm... sapienti satis. E partirete per Hollywood il più presto possibile?»

«Immediatamente» dissi. Un piroscafo partiva il venerdì. Radunati in fretta due o tre colletti e uno spazzolino per i denti, m’imbarcai. Una breve sosta a New York, due giorni a Chicago e mi trovavo sul treno per Los Angeles, attraversavo a velocità vertiginosa quella zona che si chiama, credo, Illinois. E fu appunto mentre me ne stavo sulla terrazza del vagone- belvedere, la seconda mattina del viaggio, intento a fumare la mia pipa e a pensare agli affari miei, che April June entrò nella mia vita. Nel complesso, se avessi inghiottito mezzo chilo di dinamite e qualche mattacchione me l’avesse fatta esplodere nelle viscere, l’effetto sarebbe stato lo stesso.

II

Queste vetture-belvedere, se non lo sapete, sono in coda ai treni, come le vetture del personale viaggiante nelle ferrovie inglesi. Al di là di una porta trovate una piattaforma con un paio di sedili, vi sedete ad ammirare il paesaggio, del quale, naturalmente, non vi è penuria, perché, come certo vi è noto, di America ce n’è molta, specialmente nelle province occidentali, vastissime, e se prendete un treno per Los Angeles di paesaggio da ammirare ne avrete a volontà. Dunque, come ho già detto, la seconda mattina di viaggio ero seduto sulla piattaforma della vettura-belvedere e ammiravo il paesaggio, quando fui colpito dall’aprirsi improvviso della porta. Ma questo non è esatto e quando passerò alla revisione del mio manoscritto, dovrò correggere e tornire la frase, poiché non intendo dire che la porta mi arrivò sulla testa o qualcosa di simile. Io fui colpito non dalla porta stessa, ma da ciò che vidi apparire quando si aprì, cioè dalla più graziosa ragazza che mai avessi vista in tutta la mia vita. Ciò che di lei subito balzava agli occhi, e con violenza aggressiva, era la fragilità tenera, dolce, malinconica. Un negro, inserviente delle ferrovie, l’aveva accompagnata, portando un cuscino che mise sul sedile in faccia al mio; lei lo ringraziò in modo gentile, tubante, melodioso, tale da farmi arricciare gli alluci dentro le scarpe. Quando vi avrò detto che alla sua dolce fragilità si accompagnavano un paio d’occhioni azzurri, un’‘intelaiatura’ perfettamente modellata e un dolce sorriso lieve che faceva nascere una fossetta sulla guancia destra, voi capirete subito perché due minuti dopo che era entrata in scena, io stringessi disperatamente la pipa, tanto che le mie nocche spiccavano completamente esangui, e respirassi a fatica attraverso il naso. Con la mano libera mi raddrizzai la cravatta, e se avessi avuto i baffi abbastanza lunghi da arricciarli, è fuor di dubbio che me li sarei arricciati. Il negro se ne andò, forse a riprendere il lavoro in grazia del quale ritirava la busta settimanale; lei sedette mollemente come un fiore stanco che si pieghi sullo stelo. Non dubito che abbiate qualche volta visto dei fiori stanchi

piegarsi sullo stelo. Per qualche minuto le cose rimasero a questo punto. Lei annusò l’aria. Io annusai l’aria. Lei guardò il paesaggio che si stendeva all’infinito. Io feci altrettanto. Praticamente avremmo potuto benissimo trovarci in due continenti diversi. Poi, quando già la tristezza di tutto ciò cominciava ad addensarsi sopra di me, come una fitta bruma, la udii cacciare un grido acuto e vidi che si strofinava un occhio. Era evidente, anche per un uomo di scarsa intelligenza, che un carboncino, uno dei tanti che volteggiavano intorno a noi, le si era ficcato in un occhio. E questo risolveva per me il difficile problema di demolire le barriere... non so se rendo l’idea... e di far conoscenza con la mia compagna. Il caso vuole che se vi è un’arte nella quale sono veramente provetto è il cavar roba dagli occhi: carboncini, moscerini, zanzare e via discorrendo. Tirar fuori il fazzoletto fu l’affare di un secondo, e non certo più di due secondi erano passati, quando lei già mi ringraziava, con accenti commossi e io mi schermivo con modestia e, indifferente, disinvolto, mi mettevo in tasca il fazzoletto. Proprio così; pochi secondi prima disperavo di poter mettere le basi di una bella amicizia, e ora mi trovavo in porto. Il fatto strano è che non ero riuscito a vedere nessun carboncino, quantunque dovesse esserci stato sicuramente, poiché lei continuava a dire che ormai si sentiva meglio e mi ringraziava, come ho detto, con grande effusione. Anzi, non sapeva in qual modo esprimermi la sua gratitudine; credo che se l’avessi salvata dai banditi della Manciuria non avrebbe potuto mostrarsi più riconoscente. «Grazie, grazie infinite» disse lei. «Non c’è di che» dissi io. «Son proprio terribili questi carboncini negli occhi.» «Già, e le mosche...» «Già, e le zanzare...» «Già, e i granelli di polvere...» «Già; e non potevo fare a meno di strofinarmi l’occhio.» «Ho ben notato che vi strofinavate l’occhio.» «E dicono che non ci si deve strofinare.» «Già, credo anch’io che non ci si debba strofinare.» «E invece io sono sempre tentata di strofinarmi.» «Già... succede sempre così.»

«Il mio occhio è rosso?» «No, azzurro.» «Eppure me lo sento arrossato.» «Ma a vederlo è azzurro» la rassicurai e avrei potuto continuare dicendo che era di quella specie di azzurro che si vede nei cieli d’estate o nelle languide lagune, se lei non mi avesse interrotto. «Voi siete Lord Havershot, è vero?» Ero meravigliato. La nostra schiatta è nobile e stimata, ma non avrei mai pensato che fosse famosa. D’altra parte, era assurdo supporre che ci fossimo incontrati prima d’allora e io l’avessi dimenticata. «Sì» dissi, «ma come...?» «Ho visto una vostra fotografia su un giornale di New York.» «Oh! Oh! Già... naturalmente...» Ricordai che avevo visto dei tizi aggirarsi sul ponte, armati di macchine fotografiche, quando il piroscafo era arrivato a New York. «E sapete...» le dissi dandole un’occhiata scrutatrice «anche a me il vostro viso non è nuovo.» «Probabilmente lo avete visto al cine.» «Come?» «Al cinematografo.» «Al... Santo cielo!» dissi. «Siete forse April June?» «Sì.» «Ho visto almeno una dozzina delle vostre pellicole.» «Vi piacciono?» «Le adoro. E dite... avete detto di esser stata a New York in questi giorni?» «Sì, ho preso parte alla presentazione di alcune nuove pellicole.» «Ah, se l’avessi saputo!» «Ma non era un segreto. E perché avreste voluto saperlo?» «Perché... ecco, voglio dire... insomma, quello che voglio dire è che mi son fermato pochissimo a New York... ma se avessi saputo che c’eravate voi... non mi sarei fermato così poco.» «Capisco.» Tacque un attimo per rimettersi a posto una ciocca che si era separata dalla massa dei capelli e svolazzava, poi disse: «C’è molta aria qui, è vero?» «Un po’.» «E se andassimo nel mio scompartimento riservato e io vi preparassi un cocktail?»

«Ottima idea.» «Andiamo, allora.» Mentre ci stavamo dirigendo al suo scompartimento riservato, io riflettevo. Pensavo al vecchio Plimsoll. Faceva presto lui a raccomandarmi d’essere prudente, ma certo non poteva aver previsto una faccenda come quella. Giungemmo nello scompartimento e lei suonò il campanello. Apparve un negro, non quello che aveva portato il cuscino, un altro... e lei con voce amabile chiese del ghiaccio. Il negro se ne andò e allora la ragazza si volse ancora a me. «Non m’intendo molto di titoli inglesi» disse. «No?» dissi io. «No. Nulla mi è più gradito che rannicchiarmi in una poltrona con un buon libro inglese, ma i titoli nobiliari mi lasciano sempre perplessa. Quel giornale di New York ha detto che voi siete il conte Havershot; conte e duca sono la stessa cosa?» «Non precisamente. I duchi sono un gradino più in su.» «E allora, conte è come visconte?» «No. I visconti sono invece un gradino più in giù. Noi conti ci burliamo un po’ di loro. Abbiamo il brutto vizio di guardarli un po’ dall’alto, poveri diavoli...» «E vostra moglie, che cos’è? Una contessa?» «Non ho moglie. Se ne avessi una, sarebbe contessa.» Un’espressione nostalgica e sognatrice passò nei suoi occhi. «La contessa di Havershot» mormorò. «Precisamente, la contessa di Havershot.» «Che cos’è Havershot? Il luogo dove vivete?» «No. Non so con precisione da dove venga il nome di Havershot. La catapecchia di famiglia è a Biddleford, nel Norfolk.» «Bel posto?» «Un discreto rifugio.» «Torri? Merli?» «Moltissimi merli.» «E cervi?» «Parecchi cervi.» «Adoro i cervi.» «Anch’io; ne ho trovati alcuni veramente simpatici...»

A questo punto il negro entrò portando il ghiaccio. April lasciò l’argomento della vita campestre e cominciò ad affaccendarsi per il cocktail. «Spero che vada bene; purtroppo, non è il mio forte fare dei cocktail.» «Buonissimo» la rassicurai. «Eccezionale, proprio degno di voi. Ma, non bevete?» Scosse il capo e sorrise con quel suo sorriso malinconico. «Sono alquanto vecchio stile; non bevo e non fumo.» «Santo cielo! Davvero?» «Sì. Temo di essere proprio eccessivamente alla buona e monotona.» «No, no, perbacco. Affatto monotona.» «Ma lo sono certamente. Potrà sembrarvi strano, dato l’ambiente in cui vivo, ma, in fondo, ho un temperamento semplice e casalingo e adoro cucinare.» «No! Davvero?» «Sì, davvero. I miei amici mi burlano un poco per questo; vengono a prendermi per portarmi a qualche trattenimento e mi trovano sempre in cucina, con un gran grembiulone davanti, intenta a preparare dei manicaretti. Quelli sono i rari momenti in cui mi sento veramente felice.» La guardai con reverenza; ogni sua parola mi confermava nell’impressione che io mi trovavo di fronte a un angelo in forma umana. «E allora, voi vivete solo, soletto a... come si chiama quel paese?» «Biddleford? Non precisamente. Voglio dire che non vi ho ancora eletto il mio domicilio. Ho ereditato la tenuta da poco tempo, ma bisognerà che mi decida a stabilirmici un giorno o l’altro. Al vecchio Plimsoll verrebbe il cardiopalma se non lo facessi. Vedete, Plimsoll è il vecchio avvocato di famiglia e ha delle idee ferme su certe questioni. Il capo della famiglia, secondo lui, deve stare inchiodato al castello.» «Castello? Ma è un castello?» «Certo.» «Un vero castello?» «Sicuro.» «Ed è molto vecchio?» «Decisamente tarlato. Una di quelle rovine che Cromwell ha malmenato alquanto, capite?» Nei suoi occhi passò di nuovo l’espressione nostalgica di pochi minuti prima. «Come dev’essere bello vivere in un vecchio maniero come quello!

Hollywood è terribilmente nuova... e chiassosa.» «E a voi non piace, è vero? Voglio dire... la trovate troppo chiassosa, è vero?» «No, non mi piace. Anzi, mi opprime moltissimo... ma che cosa si può fare? Là vi è il mio lavoro e si deve sacrificare ogni cosa al proprio lavoro...» Sospirò a più riprese e io mi resi conto che mi si offriva, almeno di scorcio, lo spettacolo di una grande tragedia umana. Poi sorrise coraggiosamente. «Ma non parliamo più di me» disse. «Ditemi di voi. È la prima volta che venite in America?» «Sì.» «E perché andate a Hollywood? Andate a Hollywood, suppongo... oppure scendete prima di Los Angeles?» «Oh, no, sono proprio diretto a Hollywood; per affari, si potrebbe dire. E... purtroppo mi trovo di fronte a gravi problemi familiari. Uno dei miei cugini si sta comportando da perfetto imbecille, laggiù. Non vi siete imbattuta in lui, per caso? È un giovanotto alto, dai capelli color stoppa, si chiama Egremont Mannering...» «No.» «Sta a Hollywood e, a quanto mi si dice, progetta di sposarsi. E il mio dubbio, conoscendo bene Eggy, è che la futura moglie sia qualche femminuccia di facili costumi. Nel qual caso è necessario che si corra subito ai ripari. Perciò hanno mandato me.» Lei fece un cenno d’assenso. «Vedo; non mi meraviglia che siate preoccupato. Vi sono a Hollywood delle ragazze assolutamente impossibili. E questo è uno dei fatti che mi rendono l’ambiente tanto sgradevole; ed ecco perché ho pochissime amiche. So bene che la gente mi trova un po’ altera, puritana, ma come si può fare altrimenti?» «Capisco. È un vero problema.» «Piuttosto che confondermi con gente che sento tanto diversa da me, donne che pensano soltanto a divertirsi, preferisco stare sola. E poi, dopo tutto, si è mai soli quando si hanno dei buoni libri?» «Vero.» «E dei fiori?» «Certo.» «E, naturalmente, la propria cucina.»

«Sicuro.» «Ma ecco che stiamo ancora parlando di me: ditemi di voi, invece. È stato soltanto per trovare vostro cugino che siete venuto in America?» «Non soltanto. A dire il vero, mi si è presentata l’occasione di prendere due piccioni con una fava. C’era a Chicago il match per il campionato mondiale di pugilato e io desideravo molto assistervi.» «Vi piace davvero assistere a questi combattimenti?» «So che cosa volete dire» risposi. «Nove volte su dieci è tutta camorra, ma questo no, questo è stato proprio un match genuino. Valeva la pena di fare quattromila miglia, per vedere quella quinta ripresa...» Il ricordo mi emozionava ancora profondamente e dovetti alzarmi per illustrare il racconto con maggior efficacia. «Già da prima, l’incontro era stato abbastanza sensazionale; ma alla quinta ripresa vi garantisco che c’era da andare in visibilio. Il campione è riuscito a cacciare l’altro in un angolo, quindi gli ha sferrato un diretto al naso; lui stesso, però, ne è uscito con un occhio nero. È seguito un corpo a corpo; l’arbitro li ha separati. Il campione ha mollato un uppercut al mento, l’avversario un colpo al basso torace. Altro corpo a corpo. L’arbitro li ha separati. Quindi il campione ha sferrato un destro all’altro il quale è precipitato fuori dal ring... sangue da tutte le parti. Denti e orecchie svolazzavano per l’aria...» A questo punto, mi interruppi, perché lei era svenuta. In un primo momento, vedendola socchiudere gli occhi avevo creduto che volesse ascoltare con maggior attenzione; capivo ora che non era proprio così. Si lasciò andare di fianco, con molta grazia e, quieta quieta, perdé i sensi. Ero veramente smarrito. Nell’entusiasmo suscitato dai ricordi, non avevo tenuto conto dell’effetto che su di un essere tanto sensibile poteva avere la mia narrazione e ora non sapevo che pesci pigliare. Il miglior modo, naturalmente, per far rinvenire una persona svenuta è quello di morderle un orecchio, ma non potevo certo mordere un orecchio a quella creatura divina. A parte ogni altra considerazione, non mi sembrava che ci fosse tra noi sufficiente dimestichezza. Fortunatamente, prima ancora che io mi vedessi costretto ad agire, le palpebre le vibrarono e lei sospirò debolmente. Aprì gli occhi. «Dove sono?» mormorò. Io guardai fuori dal finestrino. «Veramente anch’io sono straniero in queste contrade» dissi. «Ma

suppongo che ci troviamo in qualche parte del Nuovo Messico.» Lei si raddrizzò di colpo. «Oh, mi sento così mortificata!» «Eh?» «Dovete giudicarmi sciocca... svenire così...» «Colpa mia; non avrei dovuto scodellarvi tutti quei particolari impressionanti.» «Ma non è stata affatto colpa vostra. Molte ragazze si sarebbero divertite. Benché io ritenga che vi sia qualcosa di terribilmente non femmineo... Ma continuate, continuate, Lord Havershot, che cos’è accaduto poi?» «No, no, non potrei neppur pensare di dirvelo...» «Ve ne prego...» «Ebbene, per farla breve, lo ha ridotto ai minimi termini e con questo ha compiuto il lavoro della giornata.» «Vorreste darmi un bicchier d’acqua?» Mi gettai sulla bottiglia. Lei sorseggiò in modo delicatissimo. «Grazie» disse. «Mi sento molto meglio. Mi dispiace di essere stata tanto sciocca.» «Non siete stata sciocca.» «Oh, sì, sì. Terribilmente sciocca.» «Niente affatto. Questo episodio anzi valorizza indicibilmente la vostra squisita sensibilità femminile.» Stavo per aggiungere che nella mia carriera non mi era mai capitato di trovare qualcosa di più commovente del modo in cui lei aveva perso i sensi, quando l’inserviente fece capolino dalla porta e annunciò che il pranzo era servito. «Andate, andate» disse lei. «Sono sicura che state morendo di fame.» «E voi non venite?» «Preferisco rimanere qui, sdraiata, a riposare. Mi sento ancora... No, andate pure.» «Mi darei dei calci.» «E perché?» «Perché sono stato tanto sciocco. Contaminare le vostre orecchie in quel modo!» «Ma prego, prego! Andate e mangiate tranquillamente.» «E voi starete proprio bene? «Oh, sì.» «Certo?»

«Certo. Rimarrò sdraiata qui e penserò ai fiori. Lo faccio spesso: mi sdraio un po’ dovunque... e penso ai fiori. Alle rose soprattutto. E questo sembra far tornare tutto bello e profumato intorno a me.» Me ne andai. Poi, mentre stavo divorando la mia bistecca con patate fritte, tra un boccone e l’altro, mi diedi a meditare intensamente. Vidi subito, naturalmente, che cosa era avvenuto: quei sintomi vulcanici erano inconfondibili; il cuore di un giovanotto non si mette a battere così furiosamente per nulla. Questo era finalmente il caso autentico, l’amore di categoria A; mi rendevo conto che quella che avevo scambiata per una forte passione virile, quando mi ero fidanzato con Ann Bannister, era stato soltanto un amore di categoria B. Sicuro, era fuori di dubbio: il vero Amore aveva imposto le sue pastoie seriche a Reginald Havershot. Fino dal primo momento ne avevo avuto il sospetto. Appena posati gli occhi sulla ragazza avevo avuto l’impressione precisa che fosse la mia anima gemella; ogni cosa poi che era accaduta tra noi mi aveva fatto ancora più certo di questo. Era appunto la dolce, tenera, squisita femminilità di lei che si insinuava nell’animo mio e mi dominava. Credo che questo accada sempre a individui forti e bovini come me; istintivamente, noi siamo attratti da tutto ciò che è fragile. Finalmente, con animo cogitabondo ma risoluto, terminai la bistecca e chiesi un dolce di mele e un po’ di formaggio.

III

E vi dirò anche perché ero cogitabondo ma risoluto. Mi ero reso perfettamente conto che quello, come si dice in tutti i romanzi, non era una fine, ma un principio. Insomma, va bene e sta bene innamorarsi così a prima vista; ma con questo non si va molto lontano. Dove, dove, chiedevo a me stesso, sarei potuto approdare? Che cosa mi avrebbe riservato il futuro? In altre parole, quali passi avrei dovuto fare per giungere alla meta desiderata? Era innegabile che se mai avessi voluto arrivare al momento in cui avrei visto i nostri due nomi uniti nelle pubblicazioni e avrei udito il pastore domandarmi: ‘Volete voi Reginald...?’ avrei dovuto affrontare un’impresa piena di difficoltà. In nessun modo quelle difficoltà potevano esser prese alla leggera. Vedete, io mi sono astenuto dal parlarvene fino a ora, ma vi sono certe particolarità nel mio aspetto che mi impediscono di essere ben quotato presso il sesso gentile. Io non sono seducente. Fisicamente ho preso tutto da mio padre, e se mai aveste visto mio padre una volta, capireste che cosa significa. Il mio genitore era un prode soldato e un abilissimo giocatore di polo, ma aveva la faccia di un gorilla, anzi aveva la faccia da gorilla molto più di tanti gorilla che si vedono, tanto che nella cerchia dei suoi amici intimi era affettuosamente soprannominato Consul, il quasi umano. Io sono la sua immagine vivente. E queste cose hanno la loro importanza con le ragazze. Esse rifuggono dall’unire la loro sorte a un individuo il cui aspetto fisico fa temere che da un momento all’altro si arrampicherà su un albero e lancerà noci di cocco a destra e a sinistra. Però era ormai troppo tardi per riparare in qualche modo a tale malanno. Mi rimaneva soltanto la speranza che April June fosse uno di quei rari spiriti che sanno penetrare oltre l’involucro esterno, per così dire, e penetrano fino all’intima essenza. Poiché la mia anima è più che passabile. Certo non oserei affermare che sia una di quelle anime che fanno parlare di sé, ma in ogni modo è un’anima di medio calibro. E, a onor del vero, devo dire che, col passar dei giorni, mi parve di migliorare la mia situazione; sembrava proprio che io facessi progressi;

nessuno avrebbe potuto essere più amichevole e cordiale di April June durante quella mia prima settimana di soggiorno a Hollywood. Facevamo lunghe gite in automobile insieme, nuotavamo insieme, chiacchieravamo a lungo nelle penombre profumate dei giardini. Lei ebbe allora modo di rivelarmi compiutamente quali fossero i suoi ideali e io le narrai tutto quello che poteva interessarla a proposito della vecchia dimora di Biddleford; le dissi come le contesse venissero presentate a corte, come avessero la fortuna di entrare nella tribuna reale ad Ascot e molte altre cose ancora alle quali mi sembrava che si interessasse. E nulla nelle sue maniere mi poteva in alcun modo far temere che provasse della repulsione per me, che sembravo venire direttamente dalla giungla. Insomma, per farla breve, il suo atteggiamento tenero mi incoraggiò tanto che alla fine della prima settimana avevo deciso di gettare il dado e non esitare oltre. L’occasione che scelsi per premere il bottone e quindi mettere in moto tutto il meccanismo, fu un ricevimento che dava nella sua casa a Linden Drive. Mi spiegò che non le piacevano affatto quelle riunioni mondane, che le sembravano quanto mai vuote e insignificanti, ma che una ragazza nella sua posizione sociale aveva l’obbligo di promuoverle, ogni tanto, in casa propria, specialmente dopo un periodo di assenza. Sarebbe stata una di quelle deliziose cene all’aperto, come se ne danno spesso a Beverly Hills; ci si serve a sazietà a un buffet; si consumano le abbondanti provvigioni in qualsiasi punto del giardino o del parco, e poi si completa la festa con un bel tuffo in piscina. La festa doveva cominciare fra le nove e le dieci; io credetti opportuno arrivare alle nove e quarantacinque. Capii subito che mi ero affrettato troppo. Qualche rara coppia si aggirava nei viali e sostava sotto le lanterne multicolori. April stava vestendosi. L’orchestra non aveva ancora cominciato a suonare e da ogni indizio era evidente che il periodo di calma si sarebbe prolungato ulteriormente prima che la veglia prendesse l’animazione desiderata. In queste circostanze mi sembrava che il miglior luogo per passare il tempo fosse vicino alla tavola, dove si allineavano le bottiglie; là avrei potuto attingere coraggio. Pensando a ciò che mi aspettava, volevo sentirmi in forma, e in quel momento non lo ero proprio, dato che buona parte della notte avevo vegliato per il mal di denti. Avvicinatomi alla tavola, vidi subito che la mia idea, per quanto buona,

non era affatto originale: un individuo alto, sottile, dai capelli color stoppa, l’aveva avuta prima di me. Questo tizio se ne stava là, abbarbicato al suo posto, con l’aria ferma e decisa di chi non intende andarsene troppo presto; ordinava continuamente e dava un gran lavoro al barista. E qualcosa di lui, qualcosa della tecnica con la quale alzava e abbassava il bicchiere, mi colpì come stranamente familiare. Sentivo che avevo già visto quei capelli prima d’allora; un attimo, e lui era identificato. «Eggy!» gridai. Fortunatamente Eggy aveva appena vuotato il bicchiere, poiché al mio grido fece un salto in aria, di un buon mezzo metro. Tornato a terra, si protese verso l’uomo che stava dietro il banco e vidi che ansimava. «Dite un po’» domandò con voce bassa e tremante, «non avreste per caso udito una voce?» L’uomo disse che infatti aveva udito qualcuno menzionare delle uova o 2 qualcosa di simile. «Oh, avete sentito anche voi allora!...» «Eggy, vecchio stolto!» dissi io. Questa volta si girò e rimase a fissarmi, il volto impietrito in una smorfia di stupore. «Reggie?» domandò ancora dubbioso. Chiuse e aprì gli occhi due o tre volte, poi protese una mano e, cautamente, mi toccò il petto. Quando le sue dita incontrarono la dura superficie di uno sparato, il suo volto si rasserenò. «Uff!» disse. Chiese al barista un altro whisky e parlò soltanto quando ne ebbe bevuto un lungo sorso. Allora la sua voce fu grave e piena di rimprovero. «Se ancora ci dovessimo conoscere per un milione di anni, Reggie, mio caro, non farmi più uno scherzo simile. Credevo che tu fossi miglia e miglia lontano da qui, e quando ho udito la tua voce profonda e cavernosa... chiamarmi per nome... come se venissi dall’oltretomba... È una delle cose che più temo, udire delle voci’..» disse. «Mi hanno detto che finché questo non capita, tutto va bene; ma che quando si cominciano a udire delle voci, è il principio della fine.» Tremò da capo a piedi e finì in un sorso il suo whisky il quale parve portare a compimento la cura, poiché lui prese subito un atteggiamento molto più normale. «Ma guarda, guarda, guarda!» disse. «Allora sei proprio qui, caro Reggie!

Secoli che non ti vedevo! E che cosa fai di bello a Hollywood?» «Sono venuto per vedere te.» «Davvero?» «Sì.» «Degno di un buon cugino! Bevi, caro! Posso consigliarti in tutta sicurezza questo whisky. Barista, siate tanto generoso da versare un whisky e soda per il mio buon parente e un altro per me.» Tentai di dissuaderlo. «Non berrei proprio più.» «Ma non hai ancora bevuto.» «Se fossi nei tuoi panni, volevo dire. Sei già abbastanza ubriaco.» «A metà ubriaco» rettificò, poiché è assolutamente meticoloso su certi punti. «Vada per ubriaco a metà, ma sono soltanto le dieci.» «Se un uomo non è almeno mezzo ubriaco verso le dieci, vuol dire che non ci mette tutta la buona volontà. Non ti preoccupare per me, Reggie. Tu non conosci ancora le meraviglie di questo clima californiano; è tanto vivificante che, giorno per giorno, ti mette in condizioni di far meraviglie; e sempre senza che il fegato si ribelli. Quando si dice che la California è un paradiso terrestre, si vuol proprio alludere a questo; e perciò ogni giorno dal Middle West e da tutte le parti giungono treni stracarichi di persone ansiose di arrivare il più presto possibile. Scommetto che anche tu sei venuto per la medesima ragione; è vero?» «Sono venuto per vedere te.» «Ah, sicuro! Me l’hai già detto, no?» «Appunto.» «E io non ti ho risposto che era degno di un buon cugino?» «Sì.» «E lo è infatti. Veramente degno di un buon cugino. E dove abiti?» «Ho un bungalow in affitto; in un quartiere che si chiama ‘Giardino delle Esperidi’.» «Lo conosco bene. Hai una cantina?» «Ho una bottiglia di whisky, se è di questo che intendi parlare.» «Precisamente, proprio di questo. Mi farò un dovere di farti visita, non sono mai troppe le oasi per rinfrescarsi. Intanto bevi e fatti coraggio.» Nel frattempo qualcosa mi aveva reso perplesso e ora capivo di che cosa si trattava. Ricordavo che, in treno, April sentendomi parlare di Eggy mi

aveva formalmente e decisamente dichiarato di non conoscerlo; nondimeno, ora lui era là, in casa di lei, e si comportava come un crapulone da operetta. «Che cosa fai qui?» domandai deciso a risolvere questo mistero. «Me la godo un mondo» mi rispose allegramente, «e me la godo ancor di più ora che posso posare gli occhi sul tuo volto onesto. Sono felice di rivederti, Reggie. Più tardi, poi, mi dirai che cosa ti ha indotto a venire in California.» «Non conosci April June?» «April... chi?» «June.» «Che cosa c’entra?» «Domando se la conosci.» «No, ma la conoscerei volentieri, come conoscerei volentieri qualunque amico tuo.» «Questa festa è data da lei.» «Le fa onore.» «Ma non sei stato invitato?» Il suo volto si rischiarò. «Ora capisco. Vedo a che cosa vuoi arrivare. Santo cielo, ragazzo! A Hollywood non c’è bisogno di inviti per andare a una serata. Passeggi per la città fino a quando non vedi dei lampioncini colorati, allora entri. Molte delle mie migliori serate le ho trascorse quale ospite di persone che non avevo mai visto e che non sospettavano neppure che fossi in casa loro. Questa sera, per uno strano caso, non sono un intruso, mi hanno condotto qui. Che nome hai detto? April...?» «April June.» «Proprio così. Ora ricordo; la mia fidanzata è l’agente pubblicitaria di April June; è stata lei a condurmi qui.» Sentii venuto il momento buono per abbordare l’argomento della fidanzata; mi stavo appunto domandando in qual modo avrei potuto cominciare. «Volevo proprio parlarti di questo.» «Di questo cosa?» «Di questo tuo fidanzamento.» Avevo parlato seccamente, con una discreta dose di quella dignità che si addice al capo di una famiglia, poiché la coscienza mi rimordeva un poco. Sentivo infatti che avevo trascurato in modo indegno la missione affidatami

da Horace Plimsoll e da mia zia Clara. Voglio dire che essi mi avevano mandato là per trovare quello scervellato e per ricondurlo sulla retta via; io avevo passato una settimana nella più assoluta tranquillità, senza neppure ricordarmi di lui e, da quando ero disceso dal treno di Los Angeles, mi era assolutamente uscito di mente. Questo dimostra che effetti può produrre l’amore. Eggy ponderò le mie parole. «Fidanzamento?» «Sì.» «Il mio fidanzamento?» «Sì.» «E che cosa c’è?» «Appunto: che cosa c’è?» «Sono l’essere più felice del mondo.» «Ma la zia Clara non lo è.» «E la zia Clara chi sarebbe?» «Tua madre.» «Oh, la madre? Sì, la conosco. Dobbiamo bere alla salute della madre?» «No.» «Come vuoi. Quantunque mi sembri abbastanza scortese. Ebbene, che cosa succede alla madre? Non è il più felice essere del mondo? E perché?» «Perché si cruccia per causa tua.» «Mio Dio, e perché? Io sono felice.» «Come osi dire che sei felice? Dovresti vergognarti di te stesso. Te la svigni a Hollywood e io ti trovo qui a sorbire porcherie, come un aspiratore.» «Non ti pare di darti delle arie, mio caro?» L’accusa era ben diretta, naturalmente; ma mi era sembrato che quello fosse l’atteggiamento adatto alla circostanza. Intendo dire che non si può fare la morale a un cugino senza prendere un po’ il tono del padre nobile. «Arie o non arie, disgusti proprio.» Una pena intensa gli si dipinse sul volto. «Ma è proprio Reginald Havershot che parla?» disse poi; «lo stesso Reginald, mio cugino, il quale due anni or sono, in compagnia del sottoscritto e di Stinker Pomeroy, ruppe ventitré bicchieri al ‘Café de l’Europe’ e fu cacciato fuori schiamazzante e furente...» Lo frenai con un gesto dignitoso. Il mio grande amore mi aveva tanto purificato che disdegnavo intensamente il ricordo di quanto aveva potuto

accadermi due anni prima in un periodo di decadenza morale. «Non pensiamo a questo» dissi. «Voglio sapere qualcosa di questa tua faccenda. Da quanto tempo sei fidanzato?» «Oh, da un po’.» «E intendi sposarti?» «Proprio così, mio caro!» Non c’era molto da ribattere. Il vecchio Plimsoll mi aveva chiesto di esercitare la mia autorità, ma non vedevo davvero in qual modo avrei potuto farlo. Eggy aveva un discreto patrimonio personale. Se anche lo avessi minacciato di liquidare tutti i suoi diritti ai beni di famiglia con uno scellino, mi avrebbe chiesto di mostrargli lo scellino, l’avrebbe intascato ringraziandomi, e avrebbe continuato a fare quello che aveva stabilito. «Ebbene, se proprio vuoi sposarti» dissi «sarà meglio che tu smetta di bere.» Scosse il capo. «Tu non capisci, vecchio mio. Non posso smettere di bere; ho la convinzione che questa ragazza si sia fidanzata con me per redimermi; bella figura le farei fare se mi redimessi da solo! Capisci bene che la scoraggerei. Forse non le interesserei nemmeno più e mi pianterebbe. Bisogna pensare a certe cose, vedi? Secondo me, la tattica sicura, ragionata, è invece di continuare a sborniarsi, con una certa discrezione, fino a dopo la cerimonia; poi, per gradi, divenire astemi e sobri.» Poteva essere una buona idea. Per il momento non avevo tempo di discuterla. «E chi è questa ragazza con la quale ti sei fidanzato?» «Si chiama...» fece una pausa e corrugò la fronte. «Si chiama... Perbacco! Se me lo avessi domandato un’ora fa! Anche mezz’ora! Ah!» fece poi riprendendosi «eccola qui! Ce lo dirà lei.» Fece un cordiale cenno della mano a qualcuno che stava dietro di me. Mi voltai. Una flessuosa ragazza veniva verso di noi attraverso il prato; non mi era possibile vedere se era graziosa o meno, poiché il suo volto era ancora nell’ombra. «Ohilà, Eggy! Eccoti qui» esclamò ricambiando con pari cordialità il cenno di lui. «Me lo immaginavo!» Qualcosa nella sua voce mi fece trasalire e m’indusse a guardarla attentamente quando entrò nella zona di luce. E nello stesso istante, il mio volto fece trasalire anche lei e la indusse a guardarmi attentamente a sua

volta. E rimanemmo così a fissarci a vicenda. Un attimo, e i nostri ultimi dubbi erano scomparsi. Si trovavano di fronte: il sottoscritto e Ann Bannister.

IV

«Ann!...» gridai. «... Bannister !» gridò Eggy battendosi la fronte. «Lo sapevo che mi sarebbe tornato in mente. L’avevo sulla punta della lingua. Ohilà, Ann! Questo è mio cugino Reggie.» «Ci conosciamo.» «Vi conoscete già» «Da molto tempo. Siamo vecchi amici.» «Vecchi amici?» «Vecchissimi amici.» «E allora, evidentemente, bisogna berci sopra. Battista!» «No» disse Ann. «Tu te ne vai subito da questo bar.» «Ma non dobbiamo festeggiare...?» «No.» «Oh!» «Tu te ne vai a fare una passeggiata intorno alla casa, Egremont Mannering, e non torni fino a quando il tuo cervello non sia affilato come un rasoio.» «Il mio cervello è già come un rasoio.» «Allora come due rasoi. Fila!» Ann aveva sempre avuto una certa tendenza al dispotismo; io stesso me n’ero accorto in passato. È infatti una donnina sottile, effervescente, svelta, e dotata in sommo grado di energia e di volontà; capacissima di tenere a bada una folla inferocita. Eggy si allontanò come un agnellino cacciato dall’ovile e noi restammo soli. Tacemmo per un momento; io mi sentivo assalito dai ricordi del passato e suppongo che altrettanto fosse per lei. Tanto per mettere le cose in chiaro, sarà meglio che vi dica subito che cos’è questo passato i cui ricordi ci assalivano. Ann Bannister, come ho già detto, era giornalista e io l’avevo incontrata in un periodo in cui era in vacanza a Cannes. Subito eravamo diventati amici. Io le avevo chiesto di sposarmi. Lei mi aveva detto di sì. E fin qui tutto bene.

Poi, in modo brusco e inaspettato, il fidanzamento era andato a farsi benedire. Fino a un dato momento, il nostro amore sembrava filare alla velocità di centocinquanta all’ora, poi, a un tratto, ci eravamo trovati in panne. Sentite che cos’era accaduto. Una sera eravamo seduti uno a fianco dell’altra sulla terrazza del Palm Beach Casino; guardavamo la luna argentea scherzare con le onde del Mediterraneo, e lei mi stringeva la mano. Io mi protendevo verso di lei, e lei si protendeva verso di me, aspettando quelle espressioni tenere che, a buon diritto, si aspettava da me. E io dissi: «Accidenti, che mal di piedi!» E infatti mi facevano proprio male. Nel momento stesso in cui mi ero proteso verso di lei, mi avevano dato una fitta acuta tanto da farmi sussultare. Avevo inaugurato un paio di scarpe da sera. E voi sapete che cosa sono capaci di fare ai piedi le scarpe di vernice nuove. Certo avrei potuto scegliere un’altra occasione per parlare dei miei tormenti. Lei prese male il mio gemito e parve veramente indignata. Si ritrasse in modo brusco. Allora, tanto per accomodare le cose, mi chinai verso di lei per darle un bacio sulla nuca. L’idea, in se stessa, non era delle più infelici; il brutto è che non mi ricordavo di avere in bocca il sigaro acceso e quando me ne accorsi era ormai troppo tardi. Lei scattò come un gatto scottato e prese a inveire contro di me, dicendo che ero un povero mentecatto e che non intendeva più sposarmi. Il giorno seguente, quando mi presentai a farle visita all’albergo, portando un gran mazzo di fiori e fiducioso che tutto si sarebbe accomodato, mi dissero che era partita. Proprio così: era uscita dalla mia vita. E ora, dopo due anni, ci ritrovavamo. Debbo ammettere che mi sentivo non poco imbarazzato di trovarmi faccia a faccia con quel fantasma dei giorni passati. È sempre imbarazzante rivedere, così, senza il debito preavviso, la fanciulla con la quale si è stati fidanzati. Imbarazzante; e non si sa quale atteggiamento prendere. Se vi mostrate gaio e lieto non è un complimento per lei; e, d’altra parte, se prendete l’atteggiamento dell’inconsolabile, lei ne sarà eccessivamente lusingata e finirà per dire tra sé: ‘Ah, ah! Lo sapevo che il perdermi sarebbe stato un gran dolore per te’. La qual cosa offende l’orgoglio di un uomo. Credo che il trucco migliore sia di mostrare un volto freddo, imperscrutabile, come dicono i romanzieri. Lei, per suo conto, dato che in questi casi le donne hanno maggiore disinvoltura degli uomini, si era già ripresa ed era perfettamente calma.

«Ma guarda!» disse. Il suo vólto era illuminato da un sorriso cordiale, e mi guardava come se io fossi stato un semplice conoscente al quale non si dà grande importanza, ma che, nondimeno, si è lieti di rivedere. «Ma guarda un po’! È strano trovarti qui, Reggie!» Sentii che lei, più di me, aveva saputo prendere l’atteggiamento opportuno. Dopo tutto, il morto passato è il morto passato. Intendo dire che tra noi non vi era più questione di palpiti e di angosce. Al tempo in cui lei aveva troncato la nostra relazione, io ero rimasto abbastanza sconvolto, naturalmente. Non dirò che avessi perduto il sonno e l’appetito, poiché in vita mia ho sempre dormito come un tasso e divorato i miei tre bravi pasti al giorno, e neanche una tragedia di quel genere avrebbe quindi potuto interrompere un’abitudine di tutta la vita. Però il mio andazzo regolare ne aveva un poco sofferto; mi ero sentito cupo, se rendo l’idea, e fuori posto, e abbastanza incline a leggere i sonetti d’amore portoghesi e a fumare eccessivamente. Tuttavia, ora che tutto ciò era sorpassato, ci potevamo incontrare su un terreno di calma e di spontanea amicizia. Parlai anch’io come lei, con serena cordialità. «Sembra strano anche a me, trovarti qui» dissi. «E come stai?» «Benone.» «E i piedi non ti angosciano più?» «No, no.» «Mi fa piacere.» «Ti trovo bene.» E infatti era vero. Ann è una di quelle ragazze che sembrano sempre uscite da un bagno freddo, preso dopo il sonnellino quotidiano. «Grazie, sto benissimo. E che cosa ti conduce a Hollywood?» «Uhm... niente d’importante.» Una breve pausa; eccomi di nuovo imbarazzato. «E allora» dissi «tu sei proprio fidanzata con Eggy?» «Già... Si direbbe quasi che io voglia rimanere nella famiglia...» «Infatti.» «E tu approvi?» Riflettei. «Poiché me lo chiedi» dissi, «in quanto a Eggy io penso che questo sia di

gran lunga il migliore affare che mai abbia fatto in vita sua. Ma tu... ti rendi conto di ciò a cui ti esponi? Non ti sembra di andare, così, sconsideratamente, verso un futuro abbastanza cupo?» «Perché? Non ti piace Eggy?» «Gli voglio bene come a un fratello ed è stato mio compagno d’infanzia. Sennonché, mi sembra che, per usi familiari e domestici, qualcuno leggermente più sobrio di lui ti sarebbe convenuto molto di più!» «Eggy è perfetto!» «Oh... niente da dire. È soddisfatto di sé!» «C’è del buono, in lui!» «Indubbiamente. Molto c’è, e molto ne ingurgita ogni giorno!» «Il solo male è che ha sempre avuto a sua disposizione troppo tempo e troppo danaro. Avrebbe bisogno di lavorare... di avere un’occupazione fissa... Io gliene ho trovata una.» «E lui ha accettato?» «Sicuro che ha accettato.» Ero veramente sbalordito. «Ann, tu sei un portento» dissi. «E perché, signor incredulo?» «Perché sei riuscita a far lavorare Eggy. Quella è un’impresa a cui molti si sono accinti invano.» «Ebbene, ora sarà un fatto compiuto. Comincia a lavorare domani.» «Meraviglioso! Non si può fare a meno di commiserare il disgraziato che gli affida del lavoro... ma insomma è meraviglioso. L’intera famiglia era preoccupata per lui.» «E non me ne stupisco. Non credo che si trovi in circolazione un individuo più atto a preoccupare una famiglia. Immagini tu che cosa sarebbe stata la vita di Giobbe se oltre ai bubboni della lebbra avesse avuto tra capo e collo un Eggy?» Il giardino cominciava a popolarsi e parecchie anime assetate si inoltravano verso il bar come i leoni alla sorgente. Ci allontanammo. «Parlami di te, Ann» dissi. «Stai lavorando accanitamente come sempre, è vero?» «Oh, sì. Sempre sulla breccia... se breccia si può chiamare...» «Che cosa vorresti dire? Non sei soddisfatta?» «Non molto.»

«Avrei creduto che il lavoro di agente pubblicitaria fosse proprio quello che ci voleva per te.» «Come? Che cosa dici?» «Eggy mi ha detto che sei l’agente pubblicitaria di April June.» «È un po’ prematuro parlarne ora; spero di diventarlo se tutto va bene; per il momento, però, non vi è ancora nulla di stabilito. Tutto dipende da come andranno certe cose...» «Quali cose?» «Oh, una mia idea. Se riuscirò, come spero, ad attuare il mio piano, lei firmerà il contratto. Non lo saprò se non tra un paio di giorni; nel frattempo faccio la governante-dama di compagnia-bambinaia.» «Come?» «Già, non saprei come definire altrimenti il mio lavoro. Hai mai sentito parlare di Joey Cooley?» «Uno dei ‘piccoli divi’, non è vero? Mi sembra infatti che April June mi abbia detto che ha lavorato con lui nella sua ultima pellicola.» «Verissimo. Io ho cura di lui. E cioè, gli faccio compagnia, lo sorveglio e via discorrendo.» «E che cosa ne è stato del tuo lavoro di giornalista? Credevo che tu lavorassi per un giornale o qualcosa di simile.» «Lo facevo fino a poco tempo fa; ero appunto in un giornale di Los Angeles; purtroppo la crisi ha sconvolto ogni cosa. Mi hanno licenziata; mi sono rivolta ad altri giornali, ma non avevano posti da offrirmi. Ho provato a lavorare come collaboratrice occasionale, ma c’è poco da fare in questo senso. Ecco perché mi sono ridotta a fare la governante-dama di compagniabambinaia di Joey Cooley.» Debbo confessare che provai una stretta al cuore; sapevo quanto amasse il suo lavoro. «Credi... sono proprio dispiaciuto...» «Grazie, Reggie. Tu hai avuto sempre buon cuore.» «Non so.» «Certo. Un cuore d’oro. Sono i piedi, se mai, che ti rovinano.» «Oh, insomma! Vorrei che tu la facessi finita con quella solfa!» «Quale solfa?» «La solfa dei miei piedi; è la seconda volta che ne parli. Se tu avessi saputo che tormento mi davano quella sera... Ho creduto che da un momento all’altro scoppiassero come bombe... In ogni modo non è più il caso di

parlarne. Mi dispiace moltissimo che tu passi un così brutto momento...» «Oh, non è poi tanto brutto. Non voglio posare a martire. Sono assolutamente felice. Voglio bene a Joey; è veramente un caro ragazzo.» «Tuttavia deve essere un lavoro abbastanza noioso per te; voglio dire per un temperamento come il tuo che si compiaceva di fiutare qui la notizia, là il mistero...» «Sei gentile a dimostrarmi tanta comprensione, Reggie, ma credo che tutto si rimedierà; sono quasi sicura che la cosa di cui ti ho parlato riuscirà e, quando ciò sarà avvenuto, non mi mancherà il trampolino per rialzarmi.» «Bene!» «Debbo dire, però, che non mancheranno gli inconvenienti. Non sarà tutto rose e fiori il dover trattare con April June e fare l’agente pubblicitaria per lei.» «Come? E perché no?» «È una strega.» Fremetti da capo a piedi, come un ombrello, scosso, dal ciclone. «Una... che?» «Una strega. Un’altra parola forse la dipingerebbe ancor meglio, ma io, per questa volta, mi contento di dire ‘strega’.» Dominai con un certo sforzo il tumulto del mio animo. «April June è la più dolce, la più nobile, la più divina creatura che esista» dissi. «La più affascinante ragazza che si possa incontrare, ed è tanto buona quanto bella. È meravigliosa. É sorprendente. É un sogno, un portento!» «Perbacco!» esclamò. «Che cos’è questo fuoco?» Non c’era ragione che nascondessi la mia passione. «L’amo» dissi. «Come?» «Perdutamente!» «Non può essere!» «È vero. Adoro la terra sulla quale cammina.» «Ma questo si chiama mettersi le dita negli occhi!» «Non so che cosa significhi la tua espressione, in ogni modo, confermo quanto ho detto: adoro la terra sulla quale cammina.» Si astrasse per qualche momento in silenziosa riflessione. Poi parlò con grande disinvoltura. «Grazie a Dio, non c’è speranza che si occupi di te.» «E perché no?» «Tutta Hollywood sa che è riuscita ad accalappiare uno sciocco inglese,

un certo Lord Havershot, il quale se la sposerà.» Un fremito convulso mi scosse in tutta la persona. «Come?» «Sì.» «Ed è una notizia ufficiale?» «Lo credo, almeno.» Sospirai profondamente; i lampioncini colorati mi ballavano dinanzi agli occhi una ridda fantastica. «Sia lodato il Cielo!» dissi. «Sono io quel tale!» «Come?» «Sì. Da quando mi hai visto l’ultima volta, c’è stata molta mortalità nella famiglia; così il titolo è piombato su di me.» Mi fissava con gli occhi sbarrati. «Oh, al diavolo!» esclamò. «Sarebbe a dire?» «È una cosa tremenda!» «Affatto. Io ne sono felicissimo.» Mi afferrò per un braccio. «Reggie, non fare una sciocchezza simile. Non fare lo sciocco!» «Lo sciocco?» «Certo. Ti renderà infelice! Anche se tra pochi giorni la mia vita dipenderà da lei, io debbo avvertirti e fare del mio meglio per aprirti gli occhi. Tu sei un bamboccio buono e semplice e non puoi vedere ciò che salta agli occhi degli altri. Quella donna è velenosa, tremenda! Lo sanno tutti. È egoista, vanitosa, piena di pose. Indifferente... insensibile...» «Insensibile?» «Sicuro.» Risi ancora, mi sembrava proprio assurdo. «Lo credi davvero?» domandai. «È strano che tu possa dire questo, molto strano. Perché le sue qualità più salienti sono proprio la dolcezza, la sensibilità, il temperamento poetico e così via. Permetti che ti narri un fatto avvenuto in treno? Stavo descrivendo la quinta ripresa dell’ultimo campionato di pesi massimi e, quando sono arrivato a parlare del sangue che scorreva, lei ha strabuzzato gli occhi ed è svenuta.» «È svenuta, eh?» «Ha perso i sensi da un momento all’altro, non ho mai visto nulla di più femmineo in vita mia.»

«E a te non è neppure venuto in mente che stesse recitando?» «Recitando?» «Sì. E, a quanto pare, ha attaccato. Tanto è vero che ora tu le vai dietro come un agnellino e beli...» «Non belo affatto!» «In tutti i circoli di Hollywood si dice e si ripete che tu beli e che non ti prendi nemmeno il disturbo di celarlo. Povero Reggie! Si è fatta beffe di te. Quella donna va a tutti gli incontri di pugilato e ne è entusiasta.» «Non ci credo.» «È vero, te lo dico io. Non ti rendi conto che ha fatto tutta una commedia in tuo onore, perché tu sei Lord Havershot? Ecco quello che sta cercando: il titolo. Per l’amor di Dio, Reggie, liberatene finché sei in tempo!» La guardai freddamente e liberai invece il mio braccio dalla sua mano. «Parliamo d’altro» dissi. «Non c’è altro di cui io desideri parlare.» «E allora non parliamo affatto. Non so se tu ti renda conto di quello che stai dicendo, ma, in questo momento, tu diffami una donna... sparli di lei... intacchi il suo buon nome...» «Reggie, vuoi ascoltarmi, sì o no?» «No, non ne ho proprio voglia.» «Reggie!» «Cambiamo argomento». Sospirò leggermente. «Auff!» disse. «Avrei dovuto immaginare che è impossibile far intender ragione a una zucca vuota come la tua... April June!» «Perché dici April June in quel modo?» «Perché non c’è altro modo di dirlo.» «Lascia che ti dica che non approvo affatto il tuo modo di pronunciare ‘April June’... come se tu stessi parlando di un morbo particolarmente ripugnante.» «Mi dispiace, ma continuerò sempre a pronunciare ‘April June’ in questo modo.» Mi inchinai ad angolo retto. «Va bene» dissi con altera freddezza, «fa’ quello che vuoi. Dopo tutto, le inflessioni della tua voce e il tuo modo di parlare riguardano te sola. Ora, visto che la nostra ospite si avvicina e viene verso di noi, mi farò un dovere di andarle a presentare i miei omaggi. Questo ti permetterà di ritirarti in un

angoletto di tua scelta dove potrai continuare a dire ‘April June’ con il tono di voce che preferisci, fino a quando la serata sarà finita e le luci saranno spente.» «Ho altro da fare che occuparmi di quella strega!» Non credetti opportuno ribattere una parola a una simile volgarità. Prima di tutto non sarebbe stato degno di me... e poi, a dire il vero, non trovavo molto da ribattere. Mi allontanai in silenzio. Sentivo gli occhi di Ann inchiodati alla mia nuca, ma non mi voltai. Me ne andai alla ricerca di April, la quale stava salutando gli ospiti; speravo che si lasciasse trascinare lontano dalla folla e mi concedesse qualche parola in privato, tanto che io potessi intavolare il discorso sentimentale che mi stava a cuore. Naturalmente non fu facile, poiché una padrona di casa ha molto da fare la sera di un ricevimento; ma quando finalmente mi parve soddisfatta dell’andamento delle cose e disposta a lasciare gli ospiti a loro stessi, mi impadronii di una tavola in un angolo del parco e indussi lei a seguirmi. Così mangiammo con buon appetito la bistecca, il pasticcio di rognone, e stavamo attaccando il gelato alla vaniglia quando si fece prepotente in me il bisogno di manifestarle il mio stato d’animo. Le insinuazioni di Ann non avevano affatto affievolito la violenza dei miei sentimenti; ero certo e sicuro che si trattava soltanto di maldicenza e calunnia. Guardando quell’adorabile creatura nell’atto di trangugiare così compostamente tante buone cose, mi era impossibile credere che fosse meno che perfetta. Mi armai spiritualmente per l’attacco imminente. Questione di aspettare il momento psicologico e afferrarlo, per così dire, al volo. La conversazione si era portata sul suo lavoro; lei, tra l’altro, mi aveva detto che avrebbe voluto svignarsela in letto abbastanza presto, perché avrebbe dovuto trovarsi alle sei della mattina seguente allo ‘studio’, pronta e truccata, per una ripresa; ora, il solo pensiero che dovesse essere fuori delle coltri a un’ora simile, mi aveva fatto tremare di compassionevole tenerezza. «Alle sei» dissi, «Dio mio!» «Sì... non è una vita comoda. Io mi domando spesso se il pubblico è in grado di rendersi conto dei nostri sacrifici.» «Dev’essere terribile!» «Qualche volta si è un po’ stanchi...» «Però...» ribattei volendo sembrare pratico, «si guadagna molto danaro.» «Danaro!» «E la gloria!»

Sorrise di un sorriso dolce, ascetico, e ingoiò un cucchiaio di gelato. «Il danaro e la gloria non significano nulla per me, Lord Havershot.» «No?» «Oh, no! La mia ricompensa mi viene dal sapere che io apporto della felicità, faccio quanto posso per rallegrare questo povero mondo vecchio e stanco... do alle folle sfiduciate una visione di qualcosa di migliore, di più grande, di più bello.» «Ma è splendido!» dissi io riverente. «Non vi sembro un po’ sciocca a pensare così?» «Sciocca? Sublime!» «Mi fa piacere. Vedete? È una specie di religione per me questa; mi sento quasi una sacerdotessa; penso ai milioni e milioni di vite oscure e misere e dico a me stessa che il lavoro aspro e la pubblicità odiosa sono nulla se io posso portare un raggio di sole in quei cuori desolati. Non ridete di me?» «No, no. Assolutamente.» «Guardate Pittsburg, per esempio. Mi divorano, a Pittsburg. La mia ultima produzione ha fruttato degli incassi di ventimila dollari in una settimana. E questo mi rende felice, molto felice, soltanto perché io penso a tutte quelle povere esistenze squallide di Pittsburg rallegrate in tal modo! E Cincinnati! È stato addirittura un delirio a Cincinnati... anche laggiù l’esistenza è tristissima e monotona.» «Meraviglioso!» Lei sospirò. «Può darsi. E, nondimeno, queste consolazioni non possono bastare. Qualche volta ci si sente tanto soli... e si vorrebbe fuggire da questa vita frivola, falsa... Quanto sarebbe meglio essere una creatura semplice, una buona sposa e madre. Talvolta io sogno lo scalpiccio di piccoli piedi...» Non aspettai oltre. Se questo non era il momento psicologico voleva dire che io non sapevo proprio riconoscere un momento psicologico. Mi protesi verso di lei. ‘Cara’ stavo per dire, ‘fermatemi se è cosa che avete già sentita: Vorreste essere mia moglie?’, quando, improvvisamente, qualcosa mi scoppiò come una bomba nella testa e mi costrinse a lasciare l’argomento. Fu affare di pochi secondi. Dapprima ero tutto passione e sentimento, incapace di pensare a nulla se non al fatto che mi stava dinanzi la creatura amata e che mi disponevo a metterla al corrente di quanto era in me; poi, d’improvviso, mi misi a saltare come un capriolo, con la testa fra le mani e

soffrendo le pene dell’inferno. Sia che accadesse per un fatto spontaneo e naturale, sia che io avessi trangugiato un pezzo troppo grosso di gelato, il mio dente del giudizio aveva cominciato ad affermare i suoi diritti. Da un po’ di tempo ero stato costretto a tenerlo in osservazione e a occuparmi di lui; suppongo, anzi, che avrei fatto bene a prendere un atteggiamento deciso e risoluto senza aspettare che esso infierisse. Voi stessi sapete, però, che cosa accade quando si viaggia. Si esita a mettere la propria dentatura nelle mani di un dentista straniero e si rimanda di giorno in giorno la visita tanto temuta. ‘Fatti coraggio, amico caro’ ci si ripete, ‘tra poco andrai a confidare le tue pene all’esperto maestro che ti ha curato fin da quando eri alto così.’ Poi, naturalmente, da un momento all’altro, il vostro dente si mette a protestare, come stava appunto facendo il mio in quel momento. Ed ecco a che cosa eravamo giunti; un povero disgraziato che si trovi in quelle condizioni non può nemmeno pensare di riversare i suoi sentimenti in seno a una bella fanciulla. Credete a me, l’idea del matrimonio, dell’amore, dei piedini e via discorrendo... mi era completamente passata dal cervello. Con un breve cenno d’addio lasciai April e andai a cercare il farmacista più vicino, con la speranza che potesse procurarmi un sollievo almeno temporaneo. Il giorno dopo, di buon’ora, mi trovavo nella sala d’aspetto di un dentista, in seguito a un appuntamento fissatomi dal dottor I.J. Zizzbaum, l’uomo da cui dipendeva il mio benessere. Eccoci dunque giunti al punto dal quale, se voi ben ricordate, io intendevo cominciare il mio racconto, allorché il mio amico letterato mi aveva indotto a retrocedere per mettere le cose in chiaro. Me ne stavo là, come vi ho detto, seduto in una poltrona. Nell’angolo opposto della stanza, in atto di sfogliare le pagine del ‘National Geographic Magazine’, stava un ragazzetto sul tipo del piccolo Lord Fauntleroy. La sua guancia destra, come la mia, era gonfia; ne dedussi che entrambi aspettavamo, rassegnati, il momento della prova fatale. Notai che era un fanciullo di una singolare bellezza che neppure il gonfiore della gota riusciva ad alterare. Aveva gli occhi grandi ed espressivi e i biondi capelli inanellati. Le lunghe ciglia ombreggiavano gli occhi e li celavano quando fissava lo sguardo sul ‘National Geographic Magazine’. Non ho mai saputo come sia più opportuno agire in circostanze simili; si

deve cioè intavolare la conversazione e parlare di qualunque cosa, magari anche del tempo? O è forse meglio tacere? Stavo appunto ponderando questo quesito, quando il fanciullo parlò per primo. Posò il ‘National Geographic Magazine’ e mi guardò. «Dove sono gli altri?» domandò.

V

Il significato della domanda mi sfuggiva; non riuscivo proprio a capire. Un ragazzo enigmatico, uno di quelli che si esprimono a sciarade... Ora mi stava guardando con aria interrogativa, e io, non potendo far nulla di meglio, lo guardai a mia volta altrettanto interrogativamente. Poi, mirando dritto alla questione, ed evitando le vie traverse, domandai a mia volta: «Quali altri?» «Gli altri giornalisti.» «Gli altri giornalisti?» Mi parve che gli balenasse un’idea. «Ma voi non siete giornalista?» mi chiese. «No.» «E allora che cosa fate qui?» «Sono venuto a levarmi un dente.» Questo parve sorprenderlo e spiacergli; con evidente asprezza dichiarò: «È impossibile che siate venuto a levarvi un dente». «Eppure è vero.» «Ma io sono venuto a levarmi un dente!» Intuii la soluzione possibile. «Forse» dissi, osando avanzare l’idea «noi siamo venuti entrambi a levarci un dente; non ti sembra? Voglio dire, tu uno e io un altro. Dente A e dente B, per essere più chiari.» Il fanciullo era ancora contrariato e mi guardò di traverso. «A che ora è il vostro appuntamento?» «Alle tre e mezzo.» «Non è possibile; c’è il mio.» «E anche il mio! I.J. Zizzbaum è stato molto preciso su questo punto. Ci siamo messi d’accordo per telefono e le parole del dottore sono state tali da non lasciare ombra di dubbio. ‘Alle tre e mezzo’ ha detto Zizzbaum, chiaramente come è chiaro che vedo te.» Il fanciullo prese un atteggiamento più calmo; la fronte di alabastro si spianò e lui smise di guardarmi come avrebbe guardato un lestofante o un

bandito. «Oh! I.J. Zizzbaum!» disse. «Il mio dente invece me lo leverà B.K. Burwash.» Volgendomi, vidi allora che ai lati del salotto in cui ci trovavamo si aprivano due usci. Su uno di questi una targa diceva: I.J. ZIZZBAUM E sull’altro: B.K. BURWASH Il mistero era spiegato. Forse perché erano stati compagni di Università e forse anche per motivi di economia, questi due cavadenti utilizzavano un’unica sala d’aspetto. Rassicurato ormai, e certo che nessuno voleva violare i suoi diritti, il fanciullo era divenuto l’affabilità in persona. Io non minacciavo di essere il rivale capace di prendergli il posto, ma mi limitavo a far la parte del povero disgraziato compagno di sventura. «Vi fa male il vostro dente?» mi domandò allora in tono premuroso. «Un male d’inferno.» «E anche il mio... Ahi!» «Ahi!» «Che male! Questo mio dente è davvero spietato. Sì, signore!» «E anche il mio...» «Scommetto che il mio è peggiore del vostro.» «Non è possibile.» Portò un argomento che evidentemente considerava decisivo. «Io avrò l’anestesia; mi daranno il gas esilarante.» E io di rimando: «Anche a me». «Scommetto che io avrò più gas...» «Non credo...» «Posso scommettere un trilione di dollari.» Temetti che la conversazione prendesse una nota aspra e minacciasse di cambiarsi in alterco; allora, piuttosto che rischiar di litigare, preferii lasciare l’argomento e tornare su un punto che mi aveva incuriosito fin da principio.

Ricorderete che, a un certo momento, avevo creduto che il ragazzo si esprimesse a sciarade; ora mi sarebbe piaciuto sapere che cosa aveva voluto dire. «Forse hai ragione» dissi in tono conciliante. «Ma, scusa, perché hai creduto che io fossi giornalista?» «Perché ne verranno a schiere.» «Sì?» «Certo; e fotografi, e scrittori di romanzi, e cronisti...» «Come? a vederti cavare un dente?» «Già; quando mi levo un dente, è un avvenimento.» «Eh?» «Sicuro; e la notizia apparirà in prima pagina su tutti i giornali del paese.» «Come? La storia del tuo dente?» «Sì. Del mio dente. Quando mi hanno tolto le tonsille, l’anno scorso, l’avvenimento ha sconvolto tutto il mondo civile. Io sono, sapete...» «Un personaggio importante, vuoi dire...» «Lo credo bene! Sono Joey Cooley.» Siccome è una delle regole tassative della mia vita di non andare mai a vedere una pellicola il cui interprete principale sia un ragazzo, non mi era mai accaduto di vedere quella meraviglia in forma umana. Naturalmente conoscevo il suo nome; Ann, se ricordate, mi aveva parlato di lui e anche April June. «Oh! Ah!» dissi. «Joey Cooley?» «Joey Cooley, in persona.» «Ho sentito parlare di te.» «Lo spero!» «Conosco la tua governante.» «La mia... che cosa?» «Via... la tua guardiana, dama di compagnia... se preferisci... Ann Bannister.» «Oh! Ann? È una donnina in gamba, Ann.» «Certo.» «Una perla; e non permettete a nessuno di dire il contrario.» «Non temere.», «Ann è un gioiello; ecco, signore, che cos’è Ann.» «E anche April June mi ha parlato di te l’altro giorno.» «Ah, sì? E che cosa aveva da dire?» «Mi ha detto che tu hai lavorato nella sua ultima produzione.»

«Ah... vi ha detto questo? Ha detto proprio così?» Rise ironicamente e corrugò la fronte, irritato; credendo di lasciar cadere un’informazione di nessuna importanza, avevo forse toccato un argomento scabroso. Continuò: «Che faccia tosta, quella donna. La sua ultima produzione... eh? Sappiate che è lei che ha lavorato nella mia ultima produzione». Rise ancora e in modo beffardo; le mani che tenevano il ‘National Geographic Magazine’ tremavano come se fosse in preda a una forte emozione. In breve si calmò e riprese l’aspetto normale. «Allora voi conoscete quella vipera?» domandò. Questa volta toccava a me tremare e io lo feci con la debita violenza e mi misi a tremare come una gelatina. «Come hai detto?» «Vipera.» «Hai forse detto Vipera’?» «Vipera, ho detto; prendetela come volete, è sempre un pallone gonfiato, una stupida.» Mi irrigidii, sdegnato. «Tu parli della donna che amo» dissi. Incominciò a dire qualcosa, ma io alzai una mano freddamente e ingiunsi: «Taci, ti prego!» Dopo di che, il silenzio regnò di nuovo. Lui leggeva il suo ‘National Geographic Magazine’ e io leggevo il mio; continuammo così per qualche minuto. Poi io dissi a me stesso: ‘Suvvia, facciamola finita!’, e decisi di porgere il ramoscello d’olivo. Era troppo stupido che due disgraziati, in procinto di farsi levare un dente, stessero lì a leggere il ‘National Geographic Magazine’ invece di chiacchierare piacevolmente e cercare di dimenticare la dura prova che li attendeva. «Così... tu sei Joey Cooley» dissi. Lui accolse quel mio ramoscello con lo spirito benevolo con cui gli era porto. «Non avete mai detto cosa più vera» mi rispose cordialmente. «Mi chiamo proprio Joey Cooley; e sono detto anche ‘l’idolo delle Madri Americane’. E voi chi siete?» «Mi chiamo Havershot.» «Inglese, è vero?»

«Appunto.» «Siete da molto tempo a Hollywood?» «Da una settimana circa.» «E dove abitate?» «Ho preso in affitto un bungalow al Giardino delle Esperidi.» «Vi piace Hollywood?» «Molto.» «Dovreste vedere Chillicothe nell’Ohio.» «E perché?» «Io vengo appunto di là; e là vorrei essere anche adesso. Proprio così, signore, nella mia cittadina di Chillicothe.» «Soffri di nostalgia?» «Eccome!» «Ma insomma qui tu non stai male, è vero? Ti diverti...» Il suo volto si rabbuiò ancora una volta. Avevo toccato la corda falsa. «Chi? Io? Niente affatto.» «E perché no?» «Vi dirò io il perché! Perché sono quasi un galeotto, un individuo con il numero sulla giacchetta! Non starei peggio se mi avessero mandato a Caienna! Sapete che cosa ha fatto il vecchio Brinkmeyer quando abbiamo stipulato il contratto?» «No, che cosa ha fatto?» «Vi ha introdotto sottomano una clausola nella quale era detto che io dovevo vivere in casa sua, in modo che lui potesse sorvegliarmi!» «E chi è questo Brinkmeyer?» «Il proprietario della Casa per la quale lavoro.» «E non ti piace stare col signor Brinkmeyer?» «Non è di lui che mi lamento. È un buon diavolo... ma sua sorella!... È lei che lo consiglia e gli fa fare quello che vuole... Avete mai sentito parlare di Simon Legree?» «Sì.» «Ebbene, Beulah Brinkmeyer vale Simon Legree. E sapete che cos’è uno schiavo?» «Certo.» «Un disgraziato, oppresso, insultato, calpestato, che ha sempre torto. Ecco quello che sono io! Santo cielo, che vita! Volete sapere una cosa?» «Che cosa?»

«Non mi permettono di giocare, perché potrei farmi male; non posso avere un cane, perché potrebbe mordermi; non posso andare in piscina, perché potrei annegare. E questo è niente. Sentitene un’altra: non posso mangiare canditi perché potrei ingrassare.» «Ma parli seriamente?» «Serissimamente! È detto nel mio contratto: ‘la seconda parte contraente, l’artista, dovrà astenersi dal mangiar gelati, cioccolato, caramelle, dolci alla crema... e tutto ciò che va sotto il nome di pasticceria, comprese le noci farcite, i mostaccioli, le marmellate, ogni alimento che contenga zucchero e miele!’ Vi pare possibile che quel cretino del mio avvocato abbia lasciato introdurre una clausola simile?» Debbo ammettere che ero commosso. Gli Havershot sono noti e riconosciuti come buoni mangiatori; io, per mio conto, oltre che mangiare volentieri, provo un senso di pena se qualcuno mi dice che non può mangiare quello che vuole e quanto vuole. So per certo che all’età di quel povero figliolo mi sarei sentito privato dei beni della vita se mi avessero precluso il cammino della pasticceria. «Mi meraviglio che non pianti lì tutto.» «Non posso.» «Forse ami troppo la tua arte?» «No, affatto.» «Non ti fa piacere portare il sole e la gioia nelle squallide vite di Pittsburg e Cincinnati?» «Non m’importa nulla che Pittsburg vada in malora; e altrettanto dicasi di Cincinnati.» «Allora, forse, il danaro e la gloria ti compensano di queste che potrebbero chiamarsi incresciose privazioni?» Rise di gusto; doveva avere del danaro e della gloria la stessa povera opinione che ne aveva April. «A che cosa servono il danaro e la gloria? Non posso mangiarli, vi sembra? Vorrei soltanto poter dare un calcio a tutto e andarmene a Chillicothe dove i cuori della gente sono puri e gli uomini semplici. In questo momento vorrei essere a casa mia! Con mia madre... Dovreste sentire come fa il pollo alla meridionale, mia madre! E, povera donna, chi sa come sarebbe contenta di avermi con sé! Ma non posso andarmene, debbo restare qui! Ho un contratto di cinque anni e si può esser certi che non mi mollerebbero facilmente.»

«Capisco.» «Sono un disgraziato, una vittima nelle loro mani, un pulcino nella stoppa... Ma volete che vi dica una cosa? Conto i giorni, aspetto. Crescerò anch’io come tutti, e quando sarò cresciuto... Corpo di Bacco!» «Come?» «Ho detto ‘Corpo di Bacco!’ Voglio fare a Beulah il naso a focaccia.» «Picchieresti una donna?» «Sicuro che picchierei una donna! Sì, signore, avrà il fatto suo. E ci sono almeno sei direttori che voglio sistemare per le feste, e tutta una banda di ispettori e critici. E il mio agente pubblicitario! Vi garantisco che voglio conciarlo a dovere. Sì, signore! E poi, a dire il vero» concluse, «voi fareste fatica a trovare qualcuno che io non voglia conciare a modo mio. Sì, signore! Una focaccia per naso a tutti quanti! E ho tutti i nomi scritti in un taccuino...» Tacque cogitabondo e io non sapevo che dirgli. Nessuna parola che venisse da me, avrebbe potuto mai alleviare le pene di quel fanciullo infelice. Un banale: ‘Animo, via, ragazzo!’ era davvero poca cosa di fronte al dramma di quel cuore esulcerato. In ogni modo, quasi a togliermi d’imbarazzo e a troncare ogni dubbio, la porta si aprì e ne scaturì una farragine di persone concitate: uomini, donne, qualcuno armato di macchina fotografica, altri senza, e l’atmosfera divenne così greve e carica di domande incalzanti, di sorrisi e d’inchini che a fatica si poteva respirare. Me ne restai là tranquillo a leggere il ‘National Geographic Magazine’. Finalmente una donna, vestita di un lungo camice bianco, apparve sulla soglia e annunciò che il dottor B.K. Burwash stava affilando le armi e preparandosi; la folla concitata si scaraventò nel gabinetto dentistico desiderosa di continuare l’intervista fino all’ultimo momento. E non molto dopo, un’altra infermiera, in camice bianco, venne a dirmi che il dottor I.J. Zizzbaum sarebbe stato lieto di ricevermi. Allora, raccomandandomi l’anima a Dio, la seguii e feci il mio ingresso, titubante, nel teatro dell’operazione.

VI

I.J. Zizzbaum si rivelò un uomo cupo e tetro. Aveva tutta l’aria di un dentista afflitto da un segreto dolore. Come tutta risposta al mio cordiale ‘buon giorno’, fece un cenno della mano e additò la sedia sulla quale dovevo prendere posto. Era, secondo ogni apparenza, energico e taciturno. Io, invece, mi sentivo quanto mai loquace... sono sempre così quando mi trovo rinchiuso in una stanza con un massacratore di dentature. Ritengo, d’altra parte, che a voi accada la medesima cosa: ci s’illude sempre che se si riuscirà a intavolare una conversazione, l’altro si interesserà all’argomento e si distrarrà tanto da dimenticare il lavoro a cui si accingeva per ingolfarsi in una bella chiacchierata. Cominciai subito la manovra. «Salve! Salve! Salve! Eccomi qui. E come va? Ma che bella giornata, è vero? E debbo sedere qui? Benissimo. E appoggiare il capo? Benone. E aprire la bocca? Molto bene.» «Aprite di più, per favore» disse Zizzbaum in tono triste. «Benone. Tutto in ordine? Siamo pronti per somministrare il gas esilarante. Magnifico. Ma sapete...» dissi, alzando il capo «che sono anni e anni che non mi danno più questo gas? Non avevo più di dodici anni, l’ultima volta. In ogni modo, ero ancora in collegio e quando si è in collegio non si può essere che molto giovani. E, parlando di ragazzi, indovinate chi ho visto nella vostra sala d’aspetto. Nientemeno che il piccolo Joey Cooley. Non è strano? E anche lui deve avere l’anestesia, e gli devono somministrare questo gas. Com’è piccino, è vero?, il mondo!» M’interruppi sbalordito. Non ci sarebbe stato nemmeno bisogno della smorfia dolorosa che apparve sul volto di Zizzbaum per farmi capire che avevo mancato di tatto ed ero stato maldestro. Perbacco, mi sarei preso a calci volentieri. Poiché, improvvisamente, avevo capito come mai quel giorno I.J. Zizzbaum non era il solito giovialone il cui riso e i cui motti erano l’anima della riunione annuale dei dentisti. Meditava sulla sorte malvagia e si doleva che il premio ambito da ogni dentista, l’orgoglio cioè di poter estrarre un bicuspide a Joey Cooley, fosse toccato proprio al suo concorrente: B.K.

Burwash. Indubbiamente aveva spiato ansioso il mormorio dei giornalisti, lo scatto delle macchine fotografiche, le stridenti interiezioni degli scrittori, e tutti quei suoni vari non gli avevano certamente fatto piacere; anzi, erano quelle le prove inconfutabili che l’amico Burwash avrebbe avuto il piacere di vedere il proprio nome in prima pagina su tutti i giornali, sarebbe divenuto il beniamino di mezza umanità, mentre lui, I.J. Zizzbaum, povero disgraziato, non aveva altra prospettiva se non quella della mia misera ricompensa. Tutto ciò era più che sufficiente per avvilire il più effervescente dei dentisti; e io, dal mio canto, mi sentivo veramente afflitto per lui. Mi scervellai per cercare un argomento che gli rialzasse il morale e gli riportasse il sorriso sulle labbra, ma riuscii a ricordare soltanto che alcune recenti scoperte nel bacino del Congo avevano messo in luce non so bene che cosa. La fonte alla quale avevo attinto era il ‘National Geographic Magazine’. Questo non parve rallegrarlo molto; probabilmente le sue sorti non erano legate in alcun modo a quelle del bacino del Congo, così come quelle di molta altra gente. Si accontentò di sospirare profondamente, spalancò ancor più la mia bocca, scrutò l’abisso che gli si parava dinanzi, sospirò ancora, come se quanto aveva visto non lo soddisfacesse molto e fece un cenno all’assistente, perché si avvicinasse con la bombola del gas. E allora, dopo un breve interludio durante il quale io ebbi l’impressione di essere soffocato mediante un lento processo, perdetti i sensi. Non so se vi sia mai accaduto di sottoporvi a questo genere di anestesia. In caso affermativo, ricorderete che vi sono degli svantaggi, oltre a quello che viene dalla sensazione che la vostra giovinezza sia troncata per ostruzione della trachea. Per esempio, gli incubi e le visioni. L’ultima volta che mi avevano somministrato il gas, avevo avuto la sensazione che qualcuno mi ficcasse in acqua e la precisa impressione di essere straziato dai pescicani. Anche questa volta la scena era bizzarra, ma non altrettanto lugubre. I pescicani non apparivano e la parte principale la faceva il piccolo Joey Cooley. Mi sembrava cioè che entrambi ci trovassimo in una stanza molto simile all’anticamera del dentista, soltanto era un poco più grande, ma, come in quella, vi erano due porte, l’una di fronte all’altra. Sulla prima si leggeva:

I.J. ZIZZBAUM e sull’altra: B.K. BURWASH E il piccolo Cooley ed io ci sospingevamo a vicenda tentando di entrare dall’uscio di Zizzbaum. Ma, santo cielo, ogni cretino avrebbe capito che non era giusto. Io tentavo di persuadere il piccolo prepotente e continuavo a dire: ‘Non spingere, amico mio... tu sbagli strada...’ Inutile! Lui spingeva ancora di più. Infine mi cacciò in una poltrona, mi impose di starmene lì seduto e di leggere il ‘National Geographic Magazine’; poi aprì la porta che ci eravamo contesa ed entrò. Dopo di che, tutto si perse in una nebbia, e quando la nebbia si diradò, io ero ancora in una poltrona, che però era una poltrona di dentista. Mi resi conto che mi ero svegliato dall’anestesia. La prima cosa che vidi fu Zizzbaum nel bianco camice; mi sorrideva amabilmente. «E allora, omettino» mi disse con voce paterna, «ti senti bene?» Stavo per domandargli come diavolo gli veniva in mente di chiamarmi omettino, poiché gli Havershot, quantunque socievoli, hanno la loro dignità, quando mi accorsi che non eravamo soli. Anzi, la stanza era affollata. Vi era anche Ann Bannister, la quale mi stava a fianco, né questo mi dispiacque. Se mai aveva avuto sentore della mia operazione e se un po’ del vecchio amore e dell’affetto di un tempo le palpitava ancora in seno e lei desiderava essermi vicina nell’ora del cimento, ebbene... non c’era niente di male. Sentivo che era un atto generoso. Ma, invece, mi infastidiva la presenza di tutti gli altri. Insomma... gli estranei non hanno il diritto di gironzolare intorno a un povero diavolo quando questi si fa levare un dente. Allora, più che mai, si ha diritto a starsene soli! E ce n’era una valanga, e io avevo l’impressione vaga di averli già visti in altre circostanze. Erano maschi e femmine, alcuni armati di macchina fotografica e altri senza. Mi raddrizzai un po’ irritato. Mi sorprendeva che Zizzbaum li avesse lasciati entrare, e stavo per dirglielo - vi garantisco che non avrei moderato i termini - quando feci una strana scoperta, mi accorsi cioè che l’individuo in camice bianco non era Zizzbaum, bensì un essere

completamente diverso. Stavo per indagare su questo, quando scoprii ben altro, e fu cosa che mi fermò il fiato nella strozza per un momento e mi fece esclamare: «Perbacco!» Debbo dire che, entrando dal dentista, io portavo un elegante completo grigio, delle calze di un grigio azzurro, intonate con la cravatta e in perfetta armonia con le scarpe di camoscio. E ora, Giove potente, che io sia fulminato se non avevo addosso dei pantaloncini sportivi e dei calzerotti. Mi avvenne di intravedere il mio volto nello specchio e trovai che era un volto di eccezionale bellezza, incorniciato di riccioli biondi. Gli occhi che si fissavano nei miei erano larghi, espressivi e avevano lunghe ciglia. «Accidenti!» gridai. E via, ditemi voi; chi non lo avrebbe gridato? Compresi subito quel che era accaduto. Joey Cooley e io avevamo avuto l’anestesia nello stesso istante e, a causa probabilmente di un errore prodottosi mentre noi ci aggiravamo simultaneamente nella quarta dimensione, se così si chiama, vi era stato un imprevisto scambio. Quel piccolo sciocco impetuoso si era ficcato a forza nel mio corpo, e io, non avendo altro luogo in cui rifugiarmi, ero andato a finire nel suo. Colpa sua, naturalmente; colpa di quel cretino! E glielo avevo detto di non spingere.

VII

Rimasi lì, immobile, a guardare la mia immagine nello specchio; allora il tizio in camice bianco (presunsi che fosse B.K. Burwash), lo stesso che mi aveva chiamato ‘omettino’, si fece avanti. «Vuoi questo, eh?» mi disse con la solita aria paterna, porgendomi una scatoletta di cartone. Continuai a sbarrare gli occhi; non avevo tempo e voglia di occuparmi di scatolette di cartone, stavo ancora tentando di adattarmi a quel colpo di scena. Riconoscerete con me che tutta quella faccenda era tale da levare il fiato. Certo avevo letto anch’io delle storie nelle quali succedevano pressappoco cose del genere, ma non avevo mai pensato che si dovesse mettere in bilancio, in un programma di vita vissuta, una tale eventualità. Lo so, lo so, si dice e si ripete che al mondo si deve essere preparati a tutto; ma... accidenti! E poi, per di più, era stata una cosa improvvisa! Nelle storie vi era sempre in primo piano uno scienziato sinistro che rimestava tra le provette, oppure un mago egiziano che faceva incantesimi, e la magia, per realizzarsi, impiegava settimane e mesi. Che, se poi si voleva un servizio celere, bisognava ricorrere all’anello magico o a qualcosa di simile. In entrambi i casi, il risultato non veniva fuori così, di colpo. «Il dente» spiegò Burwash, «forse vuoi conservarlo.» Distratto ficcai in tasca la scatoletta e il mio gesto scatenò un coro di proteste tra la folla. Sembravano tutti impazziti. E gridavano simultaneamente. «Ehi!» «Non lo mettete via...» «Vogliamo fotografarvi mentre lo guardate...» «Come se ci meditaste sopra...» «Tenetelo in mano e sorridete...» «Come se diceste a voi stesso: ‘Ma guarda... guarda!’» «Non avete niente da dire alla stampa?...» «Che cosa pensate della situazione politica?» «Il Presidente ha la vostra stima incondizionata?»

«Quale sarà l’avvenire dello schermo?» «Dateci un messaggio per il popolo americano... qualcosa di spiritoso e di affettuoso...» «Ehi, dite. Che cosa preferite mangiare il mattino a colazione?» Avevo sempre riconosciuto ad Ann Bannister del carattere e della fermezza; allora, in quella contingenza, mi commosse. S’impadronì della situazione in un attimo e cominciò a cacciarli fuori con la violenza del ciarlatano che, sistematosi nella pubblica piazza, è deciso a fare i suoi affari. «Ehi!» gridò. «Non potete lasciare in pace questo povero ragazzo? Che modo è questo di affliggerlo in un momento simile? Vi piacerebbe che lo facessero a voi?» L’individuo che aveva chiesto un messaggio per il popolo americano dichiarò che se tornava al giornale senza quel fatidico messaggio, perdeva il posto. Ma Ann non si lasciò commuovere. «Vi darò io il messaggio» disse «vi darò tutto quello che volete... Ma ora andatevene.» E continuò a cacciarli fuori e finalmente, con la forza del suo potere volitivo, riuscì a vuotare la stanza e rimanemmo soli, io e Burwash. «Una bella confusione...» disse Burwash. «Ma... sono gli svantaggi della celebrità.» E parlando sorrideva, col sorriso luminoso, soddisfatto, del dentista il quale sa che, oltre alla discreta ricompensa, quel giorno si è guadagnato un migliaio di dollari di pubblicità gratuita. Io non mi sentivo affatto in animo di partecipare alla sua gioia. Passato il primo attimo di sbalordimento, ero veramente preoccupato. Capivo bene che mi ero ficcato in un serio pasticcio. E mi spiego: la vita è già abbastanza difficile così com’è. Nessuno quindi ha voglia di aggravare la sconfinata complessità delle cose prendendosi il gusto di cambiarsi con un ragazzetto dai calzoncini corti e dai riccioli d’oro. Bel pasticcio, se quello stato di cose avesse minacciato di durare a lungo! Tanto per cominciare, bisognava perdere ogni speranza di condurre April June all’altare. Poteva, una ragazza come lei, mostrarsi in chiesa con un fanciulletto in calzoncini corti? E poi, che cosa avrebbero detto i miei amici del ‘Drones’ se un bel giorno mi fossi presentato loro con i riccioli d’oro ricadenti sulle spalle? Non l’avrebbero mandata giù a nessun costo. Il ‘Drones’, è vero, è un circolo dalle vedute molto larghe, ma, garantito, questa non me l’avrebbero passata.

«Non si tollerano qui simili pagliacciate...» ecco, in poche parole, che cosa mi avrebbe detto il comitato. Non c’è da meravigliarsi, quindi, se io non mi sentivo in animo di sfarfallare e vezzeggiare con il bonario dentista. «Lasciamo stare ora gli svantaggi della celebrità, caro signor Burwash» dissi un po’ seccato, «ne parleremo in un altro momento. Ora, invece, ho qualcosa di molto importante da comunicarvi. Sappiate che ci troviamo di fronte a un avvenimento spaventoso, e che se non si corre subito e con le dovute misure ai ripari accadranno dei guai seri... E so quello che dico.» «Va bene, va bene, appoggiatevi qui e riposatevi.» «Non voglio appoggiarmi e non intendo riposare. Ora ho da dire qualcosa d’importante.» E stavo appunto per fare le mie brave dichiarazioni, quando la porta si aprì ed entrò una donna; mi sembrava abbastanza sconvolta, e fece il suo ingresso tempestando e soffiando fuoco e fiamme dalle narici. «Quante storie!» gridò. «Non li posso sopportare. Come se il ragazzo non fosse già abbastanza presuntuoso!» Era alta, tipo pesi medi, severa d’aspetto, e aveva tutta l’aria di una direttrice di casa di pena per donne. Che tale non fosse il suo ufficio nella vita, mi fu provato dal fatto che Burwash le rivolse la parola chiamandola signorina Brinkmeyer, e io ne dedussi allora che doveva essere la donna che il piccolo Cooley cordialmente aborriva. «Credo che il nostro ometto stia bene, ora, signorina Brinkmeyer» disse Burwash. Lei accolse le parole amabili con una smorfia di disgusto e disprezzo; capivo bene perché il piccolo Cooley non la poteva soffrire. E neanche a me piaceva, le mancava totalmente quel qualcosa di vago e indefinibile che si suol chiamare ‘fascino’. «Certo che sta bene... E perché non dovrebbe star bene?» B.K. Burwash confessò che ogni volta che dava l’anestesia a un paziente, era sempre in ansia. Questo parve esasperarla ancor più. «Auff! Che sciocchezze! Anche l’anestesia. Quando io ero bambina non c’era bisogno di tutte queste storie... Mio padre mi legava il dente con una stringa, legava questa alla maniglia della porta e chiudeva la porta violentemente. E i giornali non ne parlavano, grazie a Dio! Tante cerimonie per un dentino che non gli avrebbe mai fatto male, se il signorino non avesse mangiato dolciumi di nascosto, pur sapendo che la clausola B del contratto

glielo vietava. Ma voglio andare a fondo di questa faccenda dei dolci. C’è qualcuno che glieli passa di contrabbando... Saprò ben io chi è. Quello lì ha più malizia di un reggimento di scimmie...» Cominciavo a indispettirmi; stavo appunto tentando di risolvere il problema che mi stava di fronte, e quella voce interrompeva le mie meditazioni, poiché era una voce aspra, stridente, il cui timbro faceva pensare a una sega elettrica. Rivolto alla donna feci un gesto d’impazienza. «Non parlate tanto!» dissi seccamente. «Come hai detto?» «Ho detto: Non parlate tanto! Come posso pensare con tutto questo baccano? Per l’amor di Dio, benedetta donna, piantatela un momento e lasciatemi meditare.» La mia frase, nonostante non avessi voluto fare dell’umorismo, fece ridere di gusto Burwash; la signorina Brinkmeyer, invece, si imporporò e respirò faticosamente. «Mi piacerebbe prenderti sulle ginocchia e darti una bella sculacciata.» «Per favore» dissi altero, «non mettiamoci a giocare.» Sennonché allora mi venne un pensiero che mi fece apparire meno tragica la situazione: ricordai ciò che il piccolo Cooley mi aveva detto comunicandomi quel che avrebbe voluto fare quando fosse stato ‘grande’. Ebbene, ora era abbastanza grande e grosso per qualunque impresa. Nella mia famiglia, gli uomini del ramo al quale io appartengo, hanno sempre avuto un fisico molto sviluppato, né io sono diverso dagli altri. Allorché mi davo al pugilato, a Cambridge, pesavo la bellezza di novantotto chili. Feci una bella risata di cuore, la prima che veramente mi fosse venuta spontanea da un po’ di tempo e dissi: «Donna! Badate a voi, invece di minacciare gli altri. Non ve ne rendete conto, siete in pericolo, in grave pericolo; il vendicatore vi è alle calcagna! Non si può prevedere quando colpirà... ma è certo che accadrà un giorno, e tra breve... Allora del vostro naso sarà fatta una focaccia. E tenete presente che la mia comunicazione è ufficiale». B.K. Burwash si rannuvolò turbato. «Spero di non aver esagerato nella dose...» rifletté ad alta voce. «Non mi piacciono questi discorsi; si direbbe che il ragazzo sia in delirio, tanto più che i suoi modi sono stati strani fin da quando si è riavuto...» La signorina Brinkmeyer scartò di colpo questa ipotesi. «Sciocchezze, smancerie! Non ha il delirio, ve lo dico io. Parla così per

offendere.» «Credete proprio?» «Ma sicuro! Vi è mai capitato di occuparvi di un piccolo attore, sciocco, vanitoso, scipito, il quale si crede qualcuno, soltanto perché una folla di donne idiote vanno a vederlo al cinematografo e smaniano che è carino, dolce e ingenuo?» Burwash disse di non aver mai fatto quest’esperimento. «E io invece ho dovuto occuparmene per un anno e ormai lo conosco.» Il che parve rassicurare il dentista dubbioso. «Credete allora che non vi sia ragione di preoccuparsi?» «Certo che no!» «Mi conforta. Temevo che non fosse più lui...» «Purtroppo è lui...» «Ah !» esclamai sorridendo, colpito dall’ironia di quel dialogo. «È strano che voi diciate questo... Strano davvero, perché invece non sono proprio più io.» Mi sembrava di aver scelto meravigliosamente il momento opportuno per fare la mia dichiarazione; e l’argomento non avrebbe potuto essere introdotto con maggior chiarezza. «Signora» cominciai «e voi, B.K. Burwash, preparatevi a una sorpresa. Se non prendo un granchio fenomenale, quello che sto per dire vi farà restare allibiti.» «Oh! Sta’ zitto.» «Il poeta Shakespeare ha detto giustamente che vi sono in terra e in cielo più cose di quante ne contempli la nostra filosofia. Ora, una di queste cose si è rivelata or ora in questa stanza. Vi interesserà senza dubbio sapere che, dato un imprevisto incrocio di fili nella quarta dimensione...» «Falla finita con questa scemenza e vieni via.» «Ma io ho da dire qualche cosa. Per farla breve, allora, dato, come ho già detto, uno sbaglio nella quarta dimensione... e notate che io la chiamo la quarta, ma potrebbe benissimo essere la quinta... sono un po’ ottenebrato in materia di dimensioni...» «Sarai ottenebrato a dovere se comincerò a scuoterti io, come so che ti scuoterò. Non ho più pazienza da perdere con te. Vieni via!» E andai via. Se poi voi trovate che fui debole, vi risponderò che anche il monumento al Principe Alberto sarebbe andato via, precisamente come feci io, se la signorina Beulah Brinkmeyer gli si fosse attaccata a un polso e

avesse tirato come fece allora. Lasciai la sedia, come il turacciolo lascia la bottiglia sotto lo sforzo energico di un cameriere che sappia fare il suo lavoro. «Oh... bene, bene» dissi rassegnato all’inevitabile. «Addio, Burwash.» A onor del vero, non mi dispiaceva affatto di essere stato interrotto nel bel mezzo della mia dichiarazione. La Ragione, tonnata al suo trono, mi aveva avvertito che ero in procinto di far la figura dell’imbecille. Da tutti i racconti in cui si narra che un Tizio è andato a prendere dimora nel corpo di un Caio, risulta evidente che le dichiarazioni, le spiegazioni non servono a nulla; assolutamente inutili, perdita di fiato. Per quanto l’eroe del racconto si sforzi di parlare, di dire, gli altri non credono a una sola parola. Decisi quindi di fare il taciturno e rinunziare a ogni tentativo di mettermi nella luce giusta di fronte al pubblico. E per quanto penoso potesse essere tacere su un soggetto sul quale avevo tanto da dire, conclusi che il silenzio era ancora la miglior tattica. Così mi accontentai di annunciare che se avesse continuato a scuotermi, io mi sarei ammalato, e seguii la signorina Brinkmeyer alla porta. Non avevo un’aria molto baldanzosa, poiché, è bene che lo confessi, mi sentivo preoccupato e a disagio. Come avrei potuto rendere sopportabile la vita con quella vecchia aguzzina? Davvero, paragonandola a Simon Legree, il piccolo Cooley si era rivelato profondo conoscitore di caratteri. Inoltre lei mi sembrava avere molte delle meno piacevoli qualità del defunto capitano Bligh, comandante del Bounty. In strada ci attendeva un’automobile sontuosa che condusse via entrambi: lei sospirante e sbuffante, come se la mia compagnia la soffocasse, io accigliato e meditabondo, adagiato sui cuscini. Dopo un po’ la vettura entrò in un largo viale e si fermò di fronte a una grande villa bianca.

VIII

Casa Brinkmeyer, alla quale intuii che eravamo giunti, era evidentemente una delle più eleganti di Hollywood. Vi si presentavano subito dinanzi vasti tappeti di verde, campi di tennis, piscine, pergolati, tre giardinieri, cervi in ferro battuto, tavole di ping-pong e altri indizi di ricchezza. Che se poi tutto ciò non fosse sufficiente a dimostrarvi che il padrone di casa aveva quattrini a iosa, la miglior prova era costituita dal maggiordomo inglese che era venuto ad aprir la porta in risposta alla strombazzata dell’autista. Non ci si può offrire il lusso di un maggiordomo inglese, a Hollywood, se non si è pezzi grossi; la gente di poca importanza si deve rassegnare ai Giapponesi e agli emigrati delle Isole Filippine. La vista di quell’uomo fu per me come uno squarcio di cielo della mia patria; aveva una bella faccia di luna piena, due occhi che vi ricordavano l’uva spina; era, insomma, un esemplare stupendo della razza dei maggiordomi e io, divorandolo con gli occhi, cessai di temere di essere caduto tra i selvaggi. La sua presenza mi avrebbe alleviato alquanto la pena di vivere con la signorina Brinkmeyer. Purtroppo non mi fu permesso di pascermi della vista di lui quanto avrei voluto, poiché la mia compagna, o guardiana, o carceriera che dir si voglia, si impadronì ancora della mia mano e mi trascinò a passo svelto, finché non raggiungemmo un salotto vasto, dal soffitto basso e dalle grandi finestre che davano su un patio. In quel salotto non vi era che un individuo tarchiato, grasso, provvisto di occhiali cerchiati di tartaruga. Per il fatto che se ne stava rovesciato su un divano, come se fosse in casa sua, arguii che era in casa sua davvero e che, in altre parole, era il mio ospite, il signor Brinkmeyer, sotto la cui personale giurisdizione avrei dovuto vivere. Una volta di più il piccolo Cooley aveva dimostrato di aver giudicato acutamente. Mi aveva detto infatti che quell’uomo era un simpatico esemplare di vecchio bonaccione, e alla prima occhiata riconobbi che veramente doveva esser tale. L’aspetto del signor Brinkmeyer mi piacque subito. Naturalmente, dopo aver passato un po’ di tempo con sua sorella, non

ero propenso a fare il difficile sull’aspetto della gente, anzi sarei per dire che in quel momento chiunque mi sarebbe piaciuto. Comunque mi parve un buon diavolo. E le sue prime parole confermarono la mia impressione. «Ah! Eccoti qui! È andato tutto bene? E come ti senti?» La signorina Brinkmeyer fece schioccare la lingua. «Ora, per l’amor di Dio, non cominciare. Certo che sta bene. A sentirvi discorrere sembrerebbe che gli avessero amputata una gamba. Mi fate perder la pazienza con tutte queste smancerie!» «Ma perché? Ha fatto forse delle smancerie?» «Non parlo di lui; dico di tutti quei giornalisti... e di quelle donne stupide. Auff! Sembrano tante galline!» «Gli hanno fatto delle smancerie?» «Sì, in modo disgustoso.» «Buona pubblicità» azzardò Brinkmeyer in tono deferente. La signorina arricciò il naso. «Ma è male per lui.» «Male per lui, ma bene per gli incassi.» «Non me ne importa. Mi fanno rabbia. Lo viziano troppo. Come se non fosse già vanitoso e gonfio.» Il signor Brinkmeyer mi stava esaminando attraverso gli occhiali, come un gufo benevolo. «Non è più gonfio come prima.» «Eh?» «Dicevo che mi sembra che il gonfiore se ne sia andato.» «Quello sì, grazie a Dio.» Allora io, desideroso di respirare in un’atmosfera di benevolenza e di bonomia, le dissi che era gentile a compiacersene. Lei mi rispose di star zitto. «Infatti non ha più l’aria di avere gli orecchioni» continuò. «Sarà ritornato normale quando verrà il momento di scoprire quella statua.» «Sì» rispose Brinkmeyer, e mi pare in tono molto triste. «Lo credo anch’io.» Persistendo nella tattica di voler mettere ognuno a suo agio, domandai di quale statua stavano parando. Lei mi rispose di star zitto. «E così non dovremo nemmeno rimandare la festicciola delle Madri del Michigan.» «Quali Madri del Michigan?» Per la terza volta, lei mi disse di star zitto; non era facile tenere in piedi

una conversazione con quella donna. «Se avesse avuto ancora quell’aspetto di zucca matura, non si potevano ricevere, e Dio sa che cosa avrebbero detto dopo aver fatto tanta strada. Ora il gonfiore è quasi scomparso e certamente starà benone domani.» Rifletté un istante e aggiunse: «Bene come sempre, questo piccolo rospo». Questa non potevo passarla davvero. «Mi sembra che ciò sia estremamente offensivo» dissi. Per la quarta volta, mi disse di star zitto. Poi, attaccatasi al mio polso, nel solito grazioso modo, mi trascinò fuori a forza, su per le scale e in una stanza da letto al primo piano. Cacciatomi dentro, mi disse di coricarmi e di dormire. Stentavo a credere alle mie orecchie. «Dormire?» «Devi fare il tuo sonnellino del pomeriggio, no?» «Ma, perbacco...» «Oh! Sta’ un po’ zitto!» disse, ed era la quinta volta. Poi si precipitò fuori e chiuse la porta dietro di sé. Debbo confessare che risi piuttosto amaramente. Dormire! Ne aveva di buone quella donna... dormire... Come se avessi tempo da buttar via! Il compito che mi stava dinanzi era esaminare la situazione e, se possibile, trovare che diavolo si poteva fare; poiché è certo che qualche cosa si doveva fare e nel minor tempo possibile. Non dovevo dormire, ma riflettere. Il che, sedutomi sul letto, cominciai subito a fare. Né so quanto a lungo meditai, ma è certo che non fu per poco e avrei potuto così continuare all’infinito, senza nemmeno mangiare un boccone, se nel corso delle mie meditazioni non mi fossi alzato dal letto e non fossi andato verso la finestra. Nell’attimo stesso in cui giunsi alla finestra, un piano d’azione mi si parò dinanzi, chiaro ed evidente. Vedevo allora ciò che avrei già dovuto vedere: la mia prima mossa doveva tendere a stabilire un contatto col piccolo Cooley che si portava a spasso il mio corpo, e avere un colloquio con lui. Non m’illudevo che lui potesse suggerire una soluzione pratica alle nostre difficoltà, non essendo un mago egiziano; ma, se non altro, speravo che potesse darmi qualche indicazione utile per la mia nuova vita. Mi parve allora che il miglior modo di incontrarlo fosse di andare al mio bungalow nel Giardino delle Esperidi e vedere se mai lui vi si fosse recato. Gli avevo detto che vivevo là e, se non aveva dimenticato le mie parole, là doveva andare, o prima o poi. Noi Havershot siamo uomini d’azione, anche se trasformati in fanciulli

dai riccioli d’oro, impomatati e violentemente profumati. Mi prese allora il desiderio imperioso di essere fuori, all’aria libera, e mi sentii inchiodato, confinato in quella stanza. Soffocato, vorrei dire. Pochi centimetri sotto la finestra, vi era il tetto di una specie di serra e da quel tetto al giardino non vi era che un salto. Trenta secondi più tardi ero nel giardino e altri trenta secondi dopo, libero, nella strada correvo verso casa mia. Non saprei dire veramente se mi sentissi molto sicuro di trovare il piccolo divo nel bungalow, e infatti non c’era e il luogo era deserto. Dovunque si trovasse, in quel momento, Joey Cooley, non se ne stava certo a meditare quietamente in una poltrona, sullo stato delle cose, nel Giardino delle Esperidi. E, visto ciò, mi sembrò che non vi fosse altro da fare se non attendere; mi sedetti in una poltrona e cominciai a meditare. Ora, erano tali e tante le cose a cui dovevo pensare, in merito agli avvenimenti che si erano prodotti, che si direbbe fosse difficile al mio pensiero divagare dal nocciolo della questione. No, signori. Divagavo maledettamente. Ero seduto appena da due minuti, che già il mio pensiero aveva abbandonato la situazione attuale e contemplava, con una specie di amara intensità, l’immagine realistica di gelati alla vaniglia, croccantini, cannoli, torte di riso, torte di cioccolato e pasticcini di ogni genere. Né sembrava che potessi davvero pensare ad altro. Facevo uno sforzo terribile per distrarmi dai croccanti e paff! cadevo nei cannoli. Poi, subito, non appena i cannoli erano scomparsi dall’orizzonte, precipitavo nei gelati alla crema... Non mi era mai capitata una cosa simile; voglio dire che non mi accadeva da molti anni di pensare con tenerezza e commozione a quel genere di commestibili. Invece, in quel momento, cannoli e gelati stavano danzando una vera e propria sarabanda davanti ai miei occhi e io sentivo che avrei dato le cose più preziose per poterne gustare a sazietà. Poiché, dai giorni beati del collegio, non avevo mai più sentito una simile fame. Anzi, fame non è neppure la parola; ero ridotto allo stato di una tenia sfrattata. Capii allora di quanta imprevidenza avevo peccato, allorché, come Reginald, conte di Havershot, non avevo tenuto in casa abbondanti provviste, in vista di una simile eventualità. Avrei dovuto pensare che, un giorno o l’altro, può accadere di essere trasformati in un fanciullo di dodici anni, e che, non essendo la cosa né eccezionale né inverosimile, era bene provvedere finché si era in tempo e si avevano i mezzi.

Stavo appunto censurando aspramente il mio passato, poiché non tollero gli uomini sventati e imprevidenti che non pensano al domani, quando fui scosso da un rumore di passi che si avvicinavano alla porta d’ingresso. «Reggie!» qualcuno chiamò. Riconobbi la voce. Era quella di mio cugino Egremont. Mi aveva promesso infatti di venire a collaudare la mia cantina e c’era da aspettarsi che non lasciasse passare molto tempo. «Reggie, vecchio briccone, sei in casa?» Insomma, lo sapete bene anche voi; ci sono dei momenti in cui non si ha proprio voglia di ricevere gente. Eggy, come avevo già detto ad Ann, è un ragazzo che mi piace e per il quale ho un vero senso di amicizia; in parecchie occasioni, come quella della famosa serata di Capodanno alla quale lui stesso aveva fatto allusione, ero stato lietissimo della sua compagnia; ma ora non ne sentivo proprio nessun desiderio. Prevedevo, oltre tutto, che il fatto di trovare un fanciullo dai riccioli dorati, là dove aveva previsto di incontrare un cugino dai capelli color carota, lo avrebbe sorpreso e indotto a una quantità di domande e di tediose indagini che in quel momento non mi sentivo proprio di sopportare. Così, per evitare il fastidioso incontro, sgusciai cautamente e silenziosamente giù della poltrona, anzi mi nascosi dietro quella, certo che quando avesse visto che non c’era nessuno se ne sarebbe andato. Avevo avuto una bella trovata! Se appena appena avessi conosciuto meglio mio cugino, avrei saputo che Eggy non è tipo da lasciare una stanza dove si trovano delle bottiglie di whisky scozzese, soltanto perché quella stanza è vuota. Fate che ci siano le bottiglie e state pur certi che del padrone di casa Eggy non si preoccuperà. Entrò baldanzoso e se ne andò al mobiletto bar, come il piccione viaggiatore ritorna al nido. Io non ero in posizione da vederlo, ma potevo benissimo udire un gorgoglio musicale e poi il rumore della deglutizione; un altro gorgoglio musicale e un’altra deglutizione; un terzo gorgoglio musicale... Non avevo certo bisogno di vedere per capire quel che stava facendo: aveva già trincato due volte e si preparava a trincare la terza. Sennonché, sembrava disposto a indugiare un poco. La sete era stata acquietata e ora poteva assaporare il nettare centellinando. Lo udii vagare per la stanza, poi lo sfregamento di un fiammifero e una nuvoletta di fumo che saliva al soffitto rivelarono che aveva trovato anche i miei sigari.

Un momento dopo accadde ciò che avrei dovuto prevedere. Eggy si avvicinò alla poltrona e vi si sprofondò con un grugnito di voluttà. Era quella la sola poltrona comoda di tutta la stanza, naturale quindi che l’avesse presa di mira subito. Ed ecco a che cosa eravamo giunti: lui comodamente e serenamente pronto per una graziosa e tranquilla siesta pomeridiana, e io rannicchiato contro la parete, prigioniero. Se fossi stato il ‘Trattato Navale’ chiuso nella cassaforte dell’Ammiragliato, non sarei stato custodito più gelosamente. Quella era una situazione capace di far aggrottare la fronte a un disgraziato e indurlo a pensare a qualche rimedio... Ed ero appunto intento a studiare una soluzione, quando qualcuno bussò alla porta d’ingresso.

IX

«Avanti!» gridò Eggy. Io, naturalmente, non potevo vedere chi entrava in risposta a quell’invito, ma dal fatto che Eggy si era alzato dedussi che il visitatore doveva essere di sesso femminile. Non è probabile che il nostro Eggy si disturbi e si alzi da una comoda poltrona per accogliere un maschio. E, d’altra parte, la voce che parlò mi disse che le mie congetture non erano sbagliate. Era una voce autoritaria, ferma, ma decisamente femminile. «Buon giorno» disse quella voce. «Buon giorno» disse Eggy. «Siete il proprietario di questo bungalow?» «Oh, no!» «Sembra però che vi siate messo a vostro agio.» «Oh... non c’è niente di male. Il bungalow appartiene a un tizio che si chiama Elavershot, e io sono suo consanguineo... vale a dire che sono suo cugino.» «Capisco.» «E in suo nome... poiché sono sicuro che lui non farebbe altrimenti, se fosse presente, posso offrirvi un sorso?» «Un... che?» «Un bicchierino. Vi consiglierei il whisky scozzese.» «Intendete forse consigliarmi liquori?» «Appunto, questa è l’idea.» «E allora, permettetemi di dirvi, signor...» «Mannering.» «Allora, permettetemi di dirvi, signor Mannering, che io non bevo liquori. Sono venuta qui per una sottoscrizione a favore del Tempio della Nuova Alba.» «Il... come avete detto?» «Non avete mai sentito parlare del Tempio della Nuova Alba?» «No, a quanto ricordo.» «E non avete mai sentito parlare di suor Lora Luella Stott?»

«No. E chi è?» «È la donna che salverà la California dallo stagno infetto dell’alcool.» «Santo Dio!» Il tono di Eggy mi diceva chiaramente che l’argomento gli interessava. «C’e uno stagno di alcool da queste parti? Che paese meraviglioso l’America! Quando si dice i vantaggi della civiltà. E... vorreste dire che si può andare là liberamente ad abbeverarsi?» «Parlavo in senso figurato.» «Ecco: sapevo che c’era il trucco!» esclamò Eggy deluso. «Suor Luella sta convertendo la California alla vera temperanza.» «Che orrore!» Una pausa. Il silenzio fu rotto dalla donna, e dalle parole successive dedussi che lei aveva fissato intensamente Eggy e lo aveva esaminato a dovere, perché disse: «Oh, avete un aspetto tremendo!» Eggy disse allora che non vi era bisogno di entrare in considerazioni personali. E lei ribatté che, invece, il bisogno c’era e anche impellente. «Siete lì, tremolante, e i vostri occhi sembrano quelli di un pesce. E il vostro colorito poi...!» «È il migliore che abbia» ribatté Eggy un po’ seccamente. «Sì, e sarà sempre il migliore che potrete avere finché continuerete a macerare nello stagno di cui vi ho parlato. Sapete che cosa state bevendo?» «Thistle Bianco.» «No, nera rovina. Volete sapere che cosa farebbe suor Lora Luella Stott se fosse presente?» «Che cosa?» «Vi strapperebbe il bicchiere di mano.» «Oh!» fece Eggy, e non potrei dire se nell’interiezione oltre alla meraviglia vi fosse anche un certo timore. «Davvero?» «Sì, lo farebbe e avrebbe ragione, perché anche un povero relitto umano come voi, merita di essere salvato.» «Relitto umano?» «Proprio così» «Oh !» fece Eggy. Un’altra pausa. «Ditemi» cominciò Eggy con una certa alterigia nella voce, «ditemi soltanto questo, signorina...» «Prescott.»

«Ditemi soltanto questo, signorina Prescott. Siete per caso sotto l’impressione... vi sareste per caso cacciata in testa... sareste per caso tanto inesperta in fatto di stile da ritenere che adesso io sia sbronzo?» «Se per sbronzo intendete...» «Intendo sbronzo. Ascoltate» disse Eggy con discreta fermezza. «C’era una volta una cincibiricciaccola... C’era una volta una cincibiricciaccola che aveva centocinquanta cincibiricciaccolini... E tutti e centocinquanta cincibiricciaccolavano... Che cosa ne dite?» Io per mio conto non avrei trovato nessuna risposta, la donna invece la trovò e subito. «Puff! Molto adatti per i bambini, ma non significano proprio nulla questi stupidi scioglilingua!» «Posso dire anche questo: stupidi scioglilingua! Visto? Ed eccone un altro: Sopra la panca la capra campa; sotto la panca la capra crepa. Avete sentito? Non mi incaglio. E voi avete osato fare delle insinuazioni sul mio stato.» «Puff!» continuò la donna. «Il solo fatto che voi potete dire tutto questo, prova che siete in cattivo stato. Avete ormai passato la fase in cui la lingua gioca dei brutti scherzi e andate diritto diritto verso l’abisso. So quel che dico: anche mio padre beveva per notti intere e si vantava di poter dire qualunque cosa, a qualsiasi ora del giorno o della notte, per quanto ubriaco fosse, e senza sbagliare una sillaba. Ma sapete che cosa diceva il medico? ‘Quella è soltanto una stazione intermedia... Voi siete un rapido che non si ferma più ormai alle stazioni intermedie. Ma, amico mio, badate al capolinea!’» «Capolinea?» «Già, voleva dire che quando avrebbe cominciato ad avere delle visioni...» «Non parliamo di visioni.» «E a udire delle voci...» «E non parliamo di udire voci!» ingiunse Eggy. «E invece è proprio di questo che io intendo parlare. Qualcuno deve avere l’energia sufficiente per salvarvi, per tirarvi fuori dal precipizio. Vi parlo come un’amica. Voi dovreste ringraziarmi in ginocchio per l’avvertimento che vi do. Ascoltatemi, se non cambiate rotta immediatamente correte il rischio di precipitare; conosco i sintomi. Mio padre si è ravveduto dopo che ha incontrato un coniglietto rosa che gli ha chiesto un fiammifero... Capite? E

a voi accadrà qualcosa di simile, se non vi frenate in tempo. Pensateci, pensateci. Ma, insomma, io non posso star qui tutto il pomeriggio a parlare con voi; ho anche le mie sottoscrizioni. Cosa ne direste di una piccola donazione per questa buona causa?» «Puff!» ribatté Eggy argutamente ripagandola con la sua stessa moneta. «Non ci contavo» disse lei; «me ne vado, ma voi pensate bene a ciò che vi ho detto.» A questo punto capii che si era allontanata perché udii la poltrona mandare uno scricchiolio quando Eggy vi si sprofondò di nuovo. E mi giungeva il rumore del suo respiro pesante. Ora credo che, durante quella conversazione, benché avessi ascoltato attentamente parola per parola, ciò che suol chiamarsi subconscio avesse compiuto in me un discreto lavoro, a mia insaputa; infatti, quando rivolsi ancora un pensiero ai miei affari personali, mi accorsi di avere in proposito delle vedute totalmente mutate. Mi ero allontanato dal primo giudizio ed ero conscio ormai che, evitando Eggy, avevo commesso un vero e proprio errore di tattica. Il desiderio pungente, famelico, dei cannoli, delle torte, del marzapane e di ogni altra grazia di Dio mi assillava ancora; evidentemente bisognava provvedere. Eggy, in quella circostanza, anziché essere la solita peste, poteva benissimo costituire un appoggio. Non è milionario, ma ha una discreta rendita, e certo, abbordandolo convenientemente, poteva offrirmi un cannello di zucchero filato. Mi alzai, quindi, con l’intenzione di abbordarlo. Notate che ora, guardando retrospettivamente, mi rendo benissimo conto della inopportunità del momento; allora non ci pensai. Non avevo altra idea che di procurarmi ciò che mi stava a cuore. E così, come già vi ho detto, mi alzai. L’elemento con il quale intendevo mettermi in contatto era ancora riverso sulla poltrona e respirava a fatica e rumorosamente. Allora la mia testa emerse dietro la sua; mi trovavo nella posizione giusta per indirizzare le mie parole all’orecchio sinistro di lui. «Eggy!» dissi. Ricordo che una volta, ancora bambino, non saprei dire per qual motivo, ma forse solo a scopo di gioco, mi nascosi in una nicchia nello scalone del Castello di Biddleford e feci ‘bubu’ a un domestico che saliva portando un vassoio sul quale c’erano un sifone, una caraffa e dei bicchieri. La leggenda dice che nel Castello di Biddleford si aggiri un fantasma detto della Donna

Piangente. Il cameriere fece un salto in aria e andò a toccar terra nel vestibolo, due rampe più sotto, su una pelle di tigre. Io, per mio conto, ho sempre ritenuto questo il massimo rendimento che un’emozione poteva dare, sempre, fino al giorno in cui mi alzai quietamente dietro la poltrona sulla quale era seduto mio cugino e dissi: ‘Eggy’. La reazione del mio congiunto non fu immediata quanto lo era stata quella del cameriere; questi si era librato in aria istantaneamente come se avesse avuto le ali di una colomba; Eggy, invece, rimase impietrito a guardare dinanzi a sé, senza muovere muscolo. Poi il suo capo fece un giro di novanta gradi e i nostri occhi si incontrarono. Quello fu il momento nel quale lui si accinse all’azione; allora, dopo un esordio alquanto lento, si concesse un genuino slancio di velocità. Un grido acuto gli sfuggì dalle labbra e quel grido risuonava ancora nell’aria quando io mi trovai solo. Nonostante lui fosse adagiato nella poltrona, quando la necessità di muoversi gli si era presentata, Egremont Mannering riuscì a scaraventarsi fuori dalla porta in meno di un quarto di secondo. Mi precipitai alla finestra e guardai fuori cautamente; ero ansioso di sapere dove il caro ragazzo era atterrato. Data la velocità con la quale era partito, mi sembrava impossibile che fosse ancora in California; invece, con mia grande sorpresa, me lo trovai là, a pochi metri di distanza. Con lui c’era una fanciulla in abito canarino e quando la udii parlare, capii che era la persona venuta a farci visita. Forse si era appena avviata per andarsene, quando quel grido disperato l’aveva indotta a ritornare per vedere cosa fosse accaduto. Eggy le si aggrappava al braccio con la frenesia disperata del naufrago che si aggrappa al filo di paglia. Fra parentesi, dirò che l’aspetto di quella creatura mi stupì e non poco. Dalle parole e dal tono della voce mi ero aspettato di vedere qualcuno sul tipo di Beulah Brinkmeyer; era invece graziosa, se pure un poco austera. Appunto: aveva tutta l’aria della figlia del vicario la quale gioca a hockey e sermoneggia i parrocchiani allorché essi intendono sposare la sorella della loro defunta moglie. «E ora che cosa c’è?» disse lei. Eggy continuò ad aggrapparsi al suo braccio. «Uh!» disse. «Là, là dentro.» «Che cosa c’è là dentro?» «Un brutto folletto. Ha tirato fuori la testa da dietro lo schienale della mia poltrona; un bel tipo di sfrontato, mi ha detto: Eggy, amico caro... sono

venuto a prenderti!’» «Davvero?» «Ve lo garantisco. ‘Sono venuto a prenderti, Eggy, amico caro...’ E mi è sembrato un po’ troppo confidenziale, no? Io non l’ho mai visto né conosciuto.» «Siete sicuro che non fosse un coniglietto rosa?» «No, no, no. Era un folletto. Credete che non sappia riconoscere un folletto quando mi viene fra i piedi?» «Che specie di folletto?» «Della peggiore specie; a prima vista non mi è piaciuto affatto.» La fanciulla strinse le labbra. «Ve lo avevo detto!» «Sì, ma come potevo prevedere che mi sarebbe accaduto così, da un momento all’altro? È stato appunto il carattere improvviso della cosa che mi ha scombussolato. Quel briccone di folletto è apparso senza una parola di preavviso.» «E che cosa volevate che facesse? Volevate che mandasse una lettera per presentarsi e annunciarsi?» «‘Sono venuto a prenderti, Eggy’ ha detto e con voce affettata, odiosa. ‘Ehi! Ehi! Eggy! Sono venuto a prenderti!...’ Ditemi voi che cosa debbo fare.» «Ve lo debbo proprio dire quello che dovete fare?» «Eh, visto che lo voglio sapere! ‘Eggy! Vieni...’ ha detto.» «Potete fare soltanto una cosa: venire con me da suor Lora Luella Stott e mettervi nelle sue mani.» «E quella se ne intende di folletti?» «I folletti sono il suo forte.» «E ha una cantina?» «Come?» «Certo! Ora ho bisogno di un cordiale, di qualche cosa che mi rianimi... e ne ho bisogno subito. È inutile che venga da questa Stott se non può fornirmelo.» La fanciulla lo fissava incredula. «Ma... non vorrete dirmi che avreste il coraggio di bere dei liquori dopo quello che è avvenuto...» «Non c’è mai stato un momento nella mia vita nel quale un bicchiere mi fosse più indispensabile. Certo che berrò dei liquori; e ne berrò un secchio

intero.» «Dunque, non intendete affatto rinunciare a bere?» Questa volta toccava a Eggy aver l’aria dell’incredulo; la ragazza aveva precedentemente parlato come se non potesse credere alle sue orecchie, e ora era lui che parlava come se non potesse credere alle sue. «Rinunciare a bere? In un momento come questo? Quando ogni nervo del mio corpo è stato strappato dagli ormeggi e attorcigliato? Che idea stravagante! Non riesco a capire come una ragazza intelligente come voi possa accarezzare simile idea. Non vi rendete conto che questa scena penosa mi ha scosso, scosso profondamente? I miei nervi vibrano e gemono come i rami di un albero sbattuto dal vento. Non credo che vi rendiate perfettamente conto di quanto la scena è stata orrenda. ‘Eggy...’ ha detto. ‘Eggy, sono venuto a prenderti, amico mio!’» Lei fece un gesto di disperazione, come una brava figlia di vicario che ha rintracciato sintomi di erastianismo tra i parrocchiani. «Ebbene, fate quello che volete; agite come credete. La pelle è la vostra...» «Odio quest’espressione...» «Però, quando ne avrete bisogno... e ne avrete bisogno presto, più di quanto non possiate immaginare... ricordate che il Tempio della Nuova Alba è pronto ad accogliervi. Nessun relitto umano è tanto indegno da non potervi trovare rifugio.» E se ne andò lasciando Eggy con un palmo di naso. Lui, dopo un’occhiata dubbiosa al bungalow e dopo un momento di esitazione, come se considerasse l’opportunità di tornare indietro e bere un altro sorso di whisky, si decise ad andare a cercare il suo nettare altrove. E io, dopo avere aspettato Cooley per un altro quarto d’ora, me ne andai a mia volta; mi arrampicai facilmente sulla tettoia della serra e mi ritrovai nella mia camera più vuoto e più affamato di prima. E, come si vedrà, ero giunto proprio in tempo, perché mi ero appena sdraiato sul letto, che la chiave girò nella serratura e mi apparve la signorina Brinkmeyer. «Hai fatto il tuo sonnellino?» domandò. Questo insistere sul sonnellino proprio mi esasperava. «No» dissi, «non l’ho fatto.» «E perché no?» «Avevo troppa fame.»

«Ma, figliolo benedetto, se avevi fame, perché non hai suonato il campanello? Ora ti faccio portare la cena.» La signorina Brinkmeyer se ne andò e dopo poco apparve un cameriere; mi sembrò che fosse delle isole Filippine, e immaginate la mia emozione quando vidi che sul vassoio che portava non c’era nulla più di qualche misero biscotto, di un bicchiere di latte e di un piattino di immonde prugne. Tentai di convincere quell’individuo vantandogli i pregi delle bistecche, delle cotolette, ma non mi riuscì di strappargli dalla bocca che qualche sconnesso ‘Scusi, sì’ e ‘Benissimo, certo!’ e ‘No, forse, anche!’, tanto che, con un gesto stanco, lo congedai. Poi feci piazza pulita del contenuto del vassoio e mi sprofondai nelle mie meditazioni. Le ombre della sera cadevano, e quando già stavano cadendo da un pezzo, udii dei passi nel corridoio. Un momento dopo, l’uscio si aprì e Ann Bannister entrò.

X

Ann era veramente splendida; la vista del suo volto cordiale, per chi, udendo aprire l’uscio si aspettava di vedere apparire la signorina Brinkmeyer, fu come la manna nel deserto. Quel volto mi riscaldava il cuore, e non mi vergogno di dire che in quel momento il mio cuore aveva proprio bisogno di essere riscaldato. Quelle prugne mi avevano messo a dura prova. Ann mi sorrise come a un caro compagno. «Ciao, Joey» disse, «come ti senti?» «Molto vuoto» risposi. «Ma per il resto stai bene?» «Benissimo.» «Non hai male dove c’era il tuo dentino?» «Affatto, grazie.» «Sono contenta. Ebbene, è stata una giornata di lancio.» «Eh?» «Diamine, con tutti quei giornalisti, maschi e femmine...» «Già.» «E sai, ho dato loro il materiale che richiedevano. A dir la verità, sarebbe stato il lavoro del tuo agente pubblicitario, ma era occupato e assorto nella faccenda delle Madri del Michigan, così io mi sono presa la libertà di intervenire prima che ti dilaniassero. Ho detto loro che possono affermare che il Presidente ha la tua completa fiducia. Ho fatto bene?» «Certo.» «Meno male; non conoscevo il tuo atteggiamento in fatto di politica. E poi volevano sapere quali sono le tue opinioni sull’avvenire dello schermo; io allora ho risposto che tu intendevi dichiarare e rendere di dominio pubblico che, secondo te, le sorti dello schermo erano sicure e ben tutelate in mano di uomini come T.P. Brinkmeyer. Ho pensato che non era male dare una verniciatura al vecchio Brinkmeyer. Tu gli sei affezionato e, d’altra parte, non spiacerà nemmeno alla signorina Brinkmeyer che, non dimenticarlo, dal giorno in cui gli hai messo un rospo nel letto, non ti ha in grazia.»

«Come?» «E perché dici ‘come’?» «Ma io ho proprio messo un rospo nel letto della signorina Brinkmeyer?» «Non te ne sarai scordato, spero. Certo che ce l’hai messo! Ed è stata una cosa divertente, quantunque la signorina non abbia riso come noi.» Mi mordicchiai un poco le labbra; non sarebbe eccessivo dire che ero sgomento. Assumendo l’identità di quel benedetto ragazzo, mi ero messo in un bel gioco. Se mai c’è stato un ragazzo con un passato burrascoso, questo era Joey Cooley. Nessuna meraviglia, quindi, se in alcuni ambienti non godeva di molta popolarità; io mi stupivo soltanto che nessuno fino allora gli avesse fatto la festa. Non avevo neppure potuto sospettare che quella casa, la cui atmosfera era, apparentemente almeno, così serena, fosse in realtà un ambiente tanto agitato. Quel piccolo furfante era un vero pericolo pubblico, né mi sorprendeva ora che la signorina Brinkmeyer si fosse attaccata al mio polso e avesse tirato come se desiderasse avere tra le mani il mio collo invece del mio polso. Non posso dire che quella donna mi fosse simpatica, ma in ogni modo capivo il suo punto di vista e seguivo facilmente il suo processo mentale. «Ho creduto che una verniciatina al vecchio la raddolcisse un poco. Sei d’accordo?» «Certo» risposi. Ero disposto a qualunque cosa atta a raddolcire l’atmosfera di quell’ambiente. «Poi mi hanno chiesto un messaggio per il popolo americano e io ho detto: ‘Abbiate coraggio, perché la prosperità è a pochi passi’. Non era una meraviglia di discorso, ma in quel momento non ho potuto trovar di meglio. Senza contare che ‘La prosperità è a pochi passi, dice Joey Cooley’ non farà brutta figura come titolo di prima pagina.» «Affatto!» «Poi ho telefonato all’ufficio centrale della ‘Società Prugne Perfecto’ e ho dichiarato che tu attribuisci il merito del tuo successo al fatto che a ogni pasto mangi le ‘Prugne Perfecto’.» Questa mi sembrava un po’ grossa. «A ogni pasto?» «E come, non è vero?» «Io? A ogni pasto?» domandai tremante. Lei inarcò un sopracciglio. «Non ti capisco, questa sera, Joey. Hai dei modi strani; si direbbe che tu

sia inebetito. Prima non ricordavi di aver messo un rospo nel letto della signorina Brinkmeyer, mentre quella è stata la tua principale impresa della settimana scorsa; ora poi, fai le meraviglie per la faccenda delle prugne. Non credo che tu ti sia destato bene da quando ti hanno somministrato quel gas; gli effetti continuano... hai bisogno di fare un buon sonno. Meglio che tu te ne vada a letto subito.» «A letto? A quest’ora?» «Ma è la tua ora solita; non venirmi a dire che hai dimenticato anche questo! Su, andiamo, ti farò fare il bagno.» Avreste ragione di credere che, dopo tutto quanto era accaduto, io fossi corazzato contro ogni emozione; ahimè! non era vero. A quelle tremende parole, mi parve che tutto oscillasse attorno a me, e fissai Ann come se mi si fosse annebbiata la vista. Benché mi avesse detto che faceva da governantebambinaia a Joey Cooley, non avevo mai pensato che le loro relazioni fossero tanto intime. Il pudore, che è intrinseco alla mia natura, si ribellò. «No!» gridai. «Non fare lo sciocco.» «No, mai!» «Ma devi fare il bagno!» «Non in tua presenza.» Sembrava sbalordita; indubbiamente una situazione così tesa non si era mai verificata. «Puoi portare anche la tua ochetta nella vasca.» Respinsi immediatamente il tentativo di corruzione. «È inutile tentarmi con i balocchi» dissi, risoluto. «Non mi farò lavare da te.» «Oh! Andiamo.» «No, no, mille volte no!» La cosa era arrivata a un punto morto. Lei mi fissò implorando, io sostenni il suo sguardo con fermezza: l’uscio si aprì ed entrò la signorina Brinkmeyer. «È ora che tu faccia...» «Non cominciate» l’interruppi. «...il bagno» concluse. «Gliel’ho detto anch’io» disse Ann. «E allora perché non lo fa?» Ann esitò; evidentemente non voleva mettermi nei guai davanti al gran

capo della tribù, e io le fui grato di questo gentile pensiero. Tanto che risposi per lei: «Non voglio». «Non vuoi?» La Brinkmeyer cacciò fuori uno dei soliti ruggiti. «Qui non si tratta di volere, si tratta di...» «Di pudore» tuonai, troncandole la parola in bocca. «È tutta questione di principio. Ognuno ha le proprie norme di vita. Contro il bagno, come bagno» dissi valendomi di una locuzione del vecchio Horace Plimsoll «non ho nulla da dire, anzi, sarei lietissimo di farlo, ma quando mi si domanda di trasformare la cosa in una specie di orgia babilonese...» La signorina Brinkmeyer guardò Ann. «Ma di che cosa sta parlando?» «Non capisco; è buffo, questa sera.» «Non mi diverte affatto!» «È strano, voglio dire.» «Non c’è nulla di strano» sbuffò la signorina Brinkmeyer; «me lo voleva far credere anche quello sciocco dentista; cercava anzi di convincermi che era puro delirio e io gli ho risposto che il ragazzo era né più né meno che la solita peste. E così è anche ora.» Io pronunciai il mio ultimatum; fui cortese, ma adamantino. «Farò il bagno» dissi, «ma varcherò la soglia della stanza da bagno solo!» «Già, così invece di entrare nella vasca, sguazzerai un po’ con le mani nell’acqua, e ci vorrai dare ad intendere che hai fatto il bagno.» Accolsi l’insinuazione con il silenzioso disprezzo che meritava. Presi il pigiama ed entrai nella stanza da bagno richiudendo la porta dietro di me. Il solo modo di trattare con le donne è agire decisamente e prontamente, quando ancora esse stanno discutendo. Una donna è sempre in condizioni di inferiorità di fronte al fatto compiuto. Mi parve che la Brinkmeyer gridasse parecchie coserelle e tutte di carattere offensivo; fortunatamente il rumore dell’acqua coprì la sua voce. Feci colare l’acqua per un bagnetto principesco e mi calai dentro esultante. Ora potevo udire ciò che la Brinkmeyer stava gridando: mi diceva qualcosa sulla necessità di strofinarmi bene dietro le orecchie, ma io non le prestai alcuna attenzione. Non ci si mette a discutere di queste cose con le donne. Forse, per effetto della lunga, buona immersione, uscii dal bagno dopo venti minuti con il sistema nervoso completamente a posto. E il mio senso di

benessere fu aumentato dalla constatazione che la Brinkmeyer non c’ingombrava più con la sua presenza. Molto probabilmente, annichilita dalla mia ferma condotta, aveva battuto in ritirata. Non restava che Ann a occuparsi di me, il che lei fece, debbo dirlo a onor del vero, in modo affettuoso e materno. Avevo sempre avuto dell’affetto per Ann, anzi vi era stato un tempo, come vi ho detto, nel quale l’avevo amata; sennonché, nei miei rapporti con lei, mi era sembrato che fosse, non direi aspra, ma un po’ troppo energica e autoritaria come lo sono tante ragazze americane che provvedono alla loro esistenza; questo mi pareva costituire un difetto. Le mancava, cioè, quella specie di dolce, morbida tenerezza che mi aveva incantato in April June. In quel momento, invece, avrebbe potuto essere l’ispiratrice di quella poesia che dice: ‘Tu sei il mio angelo custode...’ e avrebbe meritato che la si glorificasse senza restrizione. Come vi ho detto, mi sorprendeva. Mi accomodò le coltri continuando ad ammonirmi affettuosamente. «Sei un pazzerello, caro Joey. Che cosa ti ha preso questa sera?» «Nulla... sto benone.» «Credo che tu abbia soltanto voglia di scherzare; sei un buffoncello, è vero? Uno di questi giorni, però, se continui a prenderti gioco della signorina Brinkmeyer, vedrai che razza di scapaccioni ti somministra! Anzi mi sorprende che non l’abbia fatto anche oggi.» Quelle parole mi fecero un effetto salutare e riconobbi che c’era del vero. Pensandoci bene e rivedendo la scena di poco prima, ricordavo di aver notato che le mani della nostra generalessa si erano contratte due o tre volte come se le pungesse vaghezza di scappellottarmi. «Uh...» dissi. «Sì, se fossi in te, andrei più cauto; frena questo tuo amore per lo scherno. Il male è che tu, mio caro, hai troppo sviluppato il senso del ridicolo e il tuo motto è: ‘Nulla vale quanto una bella risata!’ Su, buona notte, caro.» «Buona notte.» «Stai bene?» «Benone.» «È meglio che ti addormenti subito. Domani sarà una giornata laboriosa...» Mi diede un’occhiata che, nonostante io non ne comprendessi la ragione, mi parve molto significativa. «Giornata laboriosa, è vero?» «Molto» risposi, non volendo rivelare la mia ignoranza. «Tutto è fissato per domani sera.»

«Ah, sì?» «Sì. Buona notte.» Mi baciò in fronte, e uscì lasciandomi in preda a profonde meditazioni. Uno dei maggiori svantaggi della nuova situazione, mi sembrava l’impossibilità assoluta di afferrare neppure la metà di quanto accadeva intorno a me e di quanto mi veniva detto. Un bel guaio, naturalmente, ma in ogni modo, un guaio che doveva essere affrontato. Giacqui in letto, pensoso, guardando la finestra che intanto si era trasformata in un rettangolo d’un turchino cupo, con due stelle in mezzo. E mentre fissavo così, le due stelle scomparvero; un corpo si era frapposto tra esse e me e io udivo il fruscio di due gambe che scavalcavano il parapetto. Accesi la luce; c’era una persona nella stanza. Un giovane grande e grosso che indossava un abito di flanella grigia e le cui caviglie erano inguainate in un paio di calze grigio-azzurre che armonizzavano perfettamente con la cravatta e si perdevano in eleganti scarpe di camoscio marrone. Insomma, per farla breve, mi stava di fronte il terzo conte di Havershot in persona. «Perbaccone!» disse questi con tono soddisfatto. «Eccoci qui finalmente.»

XI

La prima cosa che mi colpì di questa nuova e riveduta edizione del piccolo Joey Cooley, fu che lui non aveva affatto l’aria di rammaricarsi di quanto era avvenuto. Il recente colpo di scena non gli aveva fatto alcuna impressione; era assolutamente calmo e tranquillo, direi anzi indifferente. Se ne venne verso il mio letto e si sedette come se non avesse un pensiero al mondo. Ritengo che, in realtà, la spiegazione sia in questo: a Hollywood ci si abitua a prendere con calma qualunque cosa e dopo un po’ di tempo che si è vissuti là, nulla impressiona o stupisce, nemmeno il fatto di svegliarsi e trovarsi nel corpo di un altro. Tutt’al più ci si accontenta di dire: ‘Oh, il corpo di un altro? Ma guarda, guarda, guarda!’, e si tira avanti. Infatti le prime frasi del nuovo arrivato non trattarono dell’errore fatale, bensì della mia cera. «Prugne» disse dando un’occhiata ai noccioli e facendo una smorfia di disgusto. «Me l’aspettavo. Non credo che ci sia al mondo un altro ragazzo che abbia mangiato più prugne di me. Amico mio, te le lascio volentieri!» Aggiunse a bassa voce qualcosa a proposito di spinaci, poi tirò fuori dalla tasca del petto della giacca un cono di gelato dall’aria stanca e avvilita e con un colpetto di dito fece saltar via un po’ di polvere. Quello spettacolo mi commosse profondamente e ogni parte del mio essere si protese verso quel cono. «Ih! Fammi dare una leccatina!» gridai con voce vibrante di emozione. Me lo passò senza esitare; se fosse stato Sir Philip Sidney di fronte al soldato ferito, non avrebbe potuto mostrare maggior generosità. «Certo» disse affabilmente, «te lo do anche tutto. Ti sembrerà strano, ma non mi piacciono più come un tempo i gelati. Un tempo avrei potuto mangiarne tanti chili quanto peso; ora, invece, non hanno più nessun fascino per me. E lo stesso dicasi dei cannoli, del marzapane, delle torte...» Lo interruppi con un grido appassionato. «Finiscila!» «Eh?» «Non mi nominare certe cose; credi che io sia fatto di marmo?»

«Scusa.» Una pausa di silenzio durante la quale io terminai il gelato. «Perdiana! Sei proprio un gioiello» disse squadrandomi. «E anche tu sei un gioiello!» ribattei squadrandolo a mia volta. «Insomma, siamo due gioielli» continuò lui amabilmente. «Ma dimmi un po’, come credi che sia avvenuto tutto questo? È stata una vera sorpresa per me. Mi sono svegliato nell’altra stanza, di fronte a un dentista che mi porgeva uno specchio e mi diceva di risciacquarmi; mi sono accorto allora di non essere più io, bensì un’altra persona. Ho guardato nello specchio e ho visto che ero te. Ti garantisco che mi è venuta voglia di ridere.» «Io non ci vedo niente di ridicolo.» «Forse hai ragione; in quel momento, però, avrei riso di gusto. Perbacco! ho detto a me stesso, qui c’è stato un errore. Hai un’idea di come la cosa sia avvenuta?» Esposi la mia teoria e dissi che credevo vi fosse stato uno scambio nella quarta dimensione; mi sembrò che lui accettasse l’ipotesi. «Proprio così; credo che tu abbia ragione. Non si può mai sapere che cosa ci riserbi il fato.» «In ogni modo, non ha importanza alcuna sapere come sia avvenuto; sta di fatto che la cosa è molto irregolare, e io vorrei sapere come diavolo faremo a rimediare.» «Non credo che possiamo farci nulla.» «Potremo sempre fare delle dichiarazioni.» «Come? Dire alla gente che tu sei me e io sono te? Possiamo anche farlo, se non ti fa niente essere messo in manicomio.» «Credi che questa sarebbe la conclusione?» «E tu non lo credi?» «Potrebbe anche darsi» dissi dopo aver riflettuto; «sì... capisco quel che intendi dire.» Indubbiamente aveva ragione; quel ragazzo era un acuto, perspicace pensatore. A gente che si prende il gusto di fare certe dichiarazioni e comunichi notizie così sbalorditive, si assegna per dimora il manicomio. Capisco che gli ascoltatori non si sarebbero limitati all’incredulità, che non si sarebbero accontentati di zittirci; ci avrebbero messo la camicia di forza e ci avrebbero ficcato in celle imbottite. «E poi» disse lui «io non ho fretta. Questa che mi è capitata è un’ottima cosa, e sto bene!»

Nonostante io fossi in debito verso di lui per quel cono di gelato, trovai che i suoi modi erano quanto mai indisponenti. Era un po’ troppo sfrontato! «Ah, sì? Ti ci trovi bene, dunque?» «Certo. Ho sempre desiderato essere ‘grande’ e ora lo sono. Che bellezza! Per me la situazione non potrebbe essere migliore.» Il mio malumore aumentò; quella disinvoltura e quell’indifferenza mi esasperavano. Possibile dunque che quel benedetto ragazzo non avesse pensiero che per se stesso? «Ah, non potrebbe essere migliore?» «Proprio così.» «Per te, certo...» «È proprio a me che penso.» «Allora, vedi se ti riesce di pensare a me per un momento.» «A te?» «Sì, a me. Se vuoi sapere la mia opinione, ti dirò che sono oltremodo stanco e nauseato di questa storia; anzi, ho la certezza assoluta che a me sia toccata in sorte la parte peggiore. Vivevo felice e contento, partecipavo agli onori della nobiltà britannica, mangiavo bene, dormivo meglio, avevo una rendita e riuscivo persino a ottenere qualche successo al gioco del golf. E poi, cos’è accaduto? A un tratto, senza nemmeno che io fossi consultato in proposito, sono stato trasformato in un ragazzo che è ritenuto insolente perché rifiuta di farsi lavare da una donna e la cui posizione sociale sembra simile a quella di un malfattore che stia scontando cinque anni di galera a Dartmoor o in un luogo analogo. Ordini a destra, ordini a sinistra... mi ficcano in automobile, mi gettano fuori... mi trascinano per le scale, mi scaraventano in camera...» «Vedo che hai avuto il bene di conoscere la cara vecchia amica.» «E come!» «Ti ha forse afferrato per il polso e tirato?» «Sicuro!» «Infatti. Aveva l’abitudine di afferrarmi per il polso e tirare con tutte le sue forze. Ha molta energia quella signorina; credo che segua un regime per irrobustirsi.» «E non energia soltanto; mi sembra che ci sia anche del risentimento; è chiaro che la tua faccia non le va a genio.» «Ecco, a dire il vero, non siamo mai stati amiconi.» «E perché?»

«Non lo so.» «Io lo so bene, invece. Perché tu non hai mai fatto nulla per conciliartela, perché non ti sei mai data la pena di usare tatto e dolcezza con lei. Una maggiore arrendevolezza da parte tua, un maggior spirito di collaborazione, e lei avrebbe potuto essere una seconda madre per te. Per esempio, le hai mai portato una mela rossa?» «No.» «Vedi?» «E perché lo avrei fatto?» «Per propiziartela: questo è un sistema conosciutissimo. Domandalo a qualunque bambino dell’asilo... Sarebbe stata una cosa semplicissima portarle una mela rossa, e tu avresti dovuto pensarci. Invece...» dissi amaramente «te ne vai in giro distribuendo rospi e ficcandoglieli persino nel letto.» Lui arrossì un poco. «Sì, è vero.» «Vedi, dunque?» «Non è poi una gran cosa. Tra amici, cos’è un rospo più o un rospo meno?» «Puff!» «Me ne duole.» «È troppo tardi adesso per dolertene; tu l’hai inasprita e amareggiata.» «E anche lei ha amareggiato me, non credi? Tutte quelle prugne e quegli spinaci!» «Puff!» dissi abbastanza risentito. Poi entrambi tacemmo. Lui strusciò i piedi a terra e io guardai fisso dinanzi a me. «Insomma, ormai siamo giunti a questo...» disse guardando il mio orologio da polso. E poi: «Sarà ora che me ne vada... Prima però bisogna che mettiamo in chiaro qualcosa. Tu hai detto che ti chiami Havershot, è vero?» «Sì.» «E come si scrive?» «Lo puoi vedere in un biglietto da visita nella giacca che hai indosso.» Tirò fuori uno dei miei biglietti e lo lesse. «Perbacco!» fece allora. «Tu sei dunque un Inglese illustre?» «Infatti! O per dir meglio, lo ero.» «Ho sempre creduto che i nobili inglesi fossero degli individui allampanati e spauriti; nel cinematografo, almeno, sono sempre così.» «Sì, ma io ho fatto molto sport, di ogni genere, e perciò i miei muscoli si

sono sviluppati.» «Allora tu saresti un atleta?» «Precisamente; ed è appunto perciò che non mi rassegno a questo scambio. Guarda questo braccio» dissi mostrandogli l’arto in questione. «Che c’è che non ti soddisfa in quel braccio?» «Che non mi soddisfa? Che avvenire ho io con simili braccia? Se si tratta di pugilato o di rugby con queste braccia mi è chiusa ogni strada... Quanto al cricket non potrò mai concludere nulla di buono. Tutt’al più potrò permettermi di fare un po’ di golf, restando sempre a un livello molto basso.» «Che c’entra?» «Centra, perché penso a ciò che mi accadrà tra pochi anni, quando andrò alla scuola superiore. Credi forse che mi faccia piacere la prospettiva di diventare un esserino striminzito e insignificante che non saprà far altro che cantare in chiesa e che i compagni si contenderanno come i lupi affamati si contendono la preda, solo per aver la gioia di poterlo prendere a calci?» «Ebbene, allora stammi a sentire» rispose risentito. «Credi che possa far piacere a me il pensiero di dover andare in giro per tutta la vita con una faccia come questa?» «Non parliamo della mia faccia.» «È vero. È meglio non parlarne. Che razza di muso!» «Oh, insomma...» «Sei stato tu a cominciare.» Seguì un silenzio teso. Entrambi eravamo seccati. Lui guardò ancora l’orologio. «Debbo andarmene» disse; «ho una visita da fare a Malibu. Debbo vedere il mio agente pubblicitario.» «E perché?» «Così... Per dirgli buona sera.» «Ma non puoi andare a far visita a un agente pubblicitario sotto quelle spoglie.» «Non ti preoccupare per questo. Mi farò intendere egualmente. E dimmi un’altra cosa; ci penso soltanto ora. La sera dove vado?» «Come?» «Insomma, debbo pur dormire da qualche parte, non ti sembra? Tu dove abitavi?» «Te l’ho già detto; ho preso in affitto un bungalow nel Giardino delle Esperidi.»

«Va bene. E tu non vuoi saper nulla da me?» Pensai un attimo; vi era naturalmente un centinaio di domande da fargli, ma in quel momento non riuscivo a ricordarne una sola. Mi venne infine un’idea. «Che cos’è questa faccenda dello scoprimento della statua?» «Oh... una statua in onore del vecchio Brinkmeyer.» «Capisco!» Dunque stavano facendo una statua al caro vecchietto. Io, per mio conto, non avevo nulla da obiettare, visto che indubbiamente se la meritava. Che poi un uomo il quale aveva tutta l’aria del pallone frenato facesse bene a permettere l’esibizione della propria immagine, era cosa da vedersi in altro momento. «E tocca a me scoprire questa statua?» «No, non a te, ad altri.» «Ho sentito parlare di certe ‘Madri del Michigan’.» «È una rappresentanza che viene da Detroit e tu devi riceverla.» «Sono ammiratrici?» «Appunto. È un gruppo della società ‘Ammiratrici di Joey Cooley’.» «E vengono a presentare i loro omaggi?» «Già... e tu devi riceverle.» «Ma... in fondo, non è un gran male.» Il mio visitatore afferrò la palla al balzo; senza dubbio desiderava incoraggiarmi e rialzarmi il morale. «Certo che non sarà un gran male; tutto andrà per il meglio. Non devi credere alle sciocchezze che ti ho detto nell’anticamera del dentista; mi sentivo molto depresso per quel dente che mi faceva un male del diavolo... Vedrai... Dovrai riconoscere che sei cascato in un letto di piume. Innanzi tutto, ora tu sei il divo che ha il maggior numero di ammiratori e te ne accorgerai anche dalla posta. E poi è divertente recitare dinanzi all’obiettivo. Sì, sono certo che ti piacerà moltissimo. Ora però debbo proprio andarmene e sono molto lieto di averti visto.» Andò verso la finestra e mise una gamba fuori dal davanzale. «Oh... a proposito della Brinkmeyer» disse, «mi ero dimenticato che se mai ti servisse un altro rospo, te lo puoi far dare dal giardiniere strabico, quello che ha un bitorzolo sul naso. É sempre da queste parti; digli soltanto che ti serve per metterlo nel letto della signorina Brinkmeyer e vedrai che non ti farà pagare un soldo.» Scomparve per riemergere poco dopo.

«Oh...» disse. «C’è qualcosa di cui ti voglio avvertire... Ti telefonerò domani.» Mi alzai a sedere allarmato. «Avvertirmi?» «Sì. Ora non ho tempo di dirti, ma ci sono delle cose alle quali devi fare attenzione. Ti telefonerò nella mattinata.» Scomparve ancora e io mi sdraiai, con l’animo in subbuglio. Le sue ultime parole non mi erano piaciute affatto; anzi, mi erano sembrate strane, sinistre. Sennonché non avevo modo o tempo di meditarvi sopra: la natura reclamava i suoi diritti e prima ancora che me ne fossi reso conto, i miei occhi si erano chiusi e io dormivo. La prima giornata in funzione di Joey Cooley era terminata.

XII

Credo che a tutti sia avvenuto, una volta o l’altra, di destarsi un bel mattino dopo una notte di incubi durante la quale si è stati preda di leopardi affamati, di cannibali voraci o di simili malanni. Allora, svegliandosi, si trae un profondo sospiro di sollievo e si dice a se stessi: ‘Oh, santo cielo! Era soltanto un sogno... Meno male!’; e la sensazione che rimane è veramente piacevole. Così mi accadde il mattino seguente, allorché, riaprendo gli occhi, ripresi a considerare gli ultimi eventi. Vi garantisco: era come se mi avessero tolto un gran peso dal cuore e per qualche secondo il mio benessere, fatto tutto di illusioni, fu veramente grande. ‘Bene, bene...’ mi andavo ripetendo. ‘Non ci sarebbe voluta che questa! Che cosa strana!’ Pochi secondi; e la mia gioia era già sfumata. I miei occhi caddero inavvertitamente sulle maniche del mio pigiama e questo bastò per farmi riflettere. Poiché è cosa provata che, in fatto di pigiami, io sono tutt’altro che facile ad accontentarmi; non sono di quei soliti che entrano in un negozio qualunque e comprano la prima cosa che capita loro tra le mani. I pigiami, per me, debbono essere di seta, non solo, ma anche di un bel disegno. E quelle maniche... quelle maniche sulle quali si posavano ora i miei occhi, se ne sarebbe accorto anche un osservatore di ultima categoria, erano di una volgare flanella igienica. Per di più, di un colore verde-bile, come il volto di mio cugino Egremont la mattina, all’ora della prima colazione. ‘Come?’ dissi a me stesso. ‘Cos’è questa roba?’ E allora vidi una manina uscire da quella manica e la verità mi tornò subito alla mente. Non c’era nemmeno bisogno che saltassi fuori dal letto e andassi a vedermi nello specchio: quella mezza porzione di mano parlava abbastanza eloquentemente; mi informava, in modo ufficiale e perentorio, che mi ero soltanto illuso ritenendo sogno quello che invece era penosissima realtà. Ero divenuto davvero quell’infernale piccolo Cooley; non mi restava che domandarmi cosa mai poteva accadermi ancora.

Il colpo fu così violento che dovetti appoggiare il capo al guanciale e restarmene per qualche minuto a fissare il soffitto; mi sentivo come se, lottando con il fabbro del villaggio, questi mi avesse sferrato un destro poderoso e mi avesse tramortito. Tuttavia non mi rimase nemmeno molto tempo da consacrare alle mie amare riflessioni; purtroppo, da quello che andavo sperimentando, la giornata del divo Cooley cominciava di buon’ora. Non avevo passato neppure una decina di minuti a meditare, quando una specie di segretaria entrò armata di penna stilografica e di una ‘grossa’ di fotografie e mi ingiunse di firmare; dopo di lei venne il massaggiatore; poi un altro addetto alla cura del volto, il quale si accinse a raggiustarmi e tenermi in forma i connotati; e finalmente un parrucchiere che si occupò dei miei riccioli. Me ne stavo lì quieto quieto, domandandomi se il numero seguente del programma non avrebbe comportato un pedicure o qualcuno che m’imponesse un corso di respirazione ritmica, quando la porta si aprì e comparve il maggiordomo. «Buon giorno, signorino» disse. «Buon giorno» risposi, contento di vederlo. Come la volta precedente la sua presenza mi consolava; la vista di quella faccia rotonda, liscia, di quel panciotto vasto e capace mi faceva un effetto benefico. «Venite qui a sedere» dissi cordialmente, rassegnato ormai al pensiero che la mia stanza fosse divenuta un luogo di ritrovo internazionale. «O forse siete soltanto di passaggio?» «Vi ho portato la colazione, signorino.» Il che ebbe l’effetto di consolarmi ancor più, poiché la colazione a letto è sempre la colazione a letto, sennonché lui uscì e riapparve con un vassoio che conteneva soltanto un bicchiere di latte, della robaccia che sembrava segatura e un’altra portata di quelle maledette prugne. Bella notizia, per uno stomaco che si era ripromesso salsicce e uova strapazzate! «Eh!» gridai.» «Signorino?» «Che cos’è questa roba?» «La sua solita colazione.» «Diavolo!» dissi con risentimento. «Ma... insomma... Meglio che niente! Vada anche per quella!» Il maggiordomo mi guardò con comprensione mentre attaccavo la segatura.

«È terribile, è vero, signorino?» «Roba da matti!» «Mi hanno detto che fanno così per conservarle la linea.» «Eh... insomma, un pretesto lo debbono pur trovare.» «È una dieta prescritta. Ma non deve essere piacevole attenersi a questo regime spartano. So che cos’è l’appetito di un ragazzo!» «Lo so anch’io...» «E immagino ciò che voi dovete sentire, signorino. È vero che siete una delle figure più rappresentative nel mondo dello schermo, ma ciò nonostante siete soltanto un ragazzo; non è vero?» «E non c’è nemmeno pericolo che io cresca molto fino a che mi terranno con questa roba!» «Se lasciassero fare a me, vi farei mangiare tutto quello che volete. Si è giovani una volta sola!» «Due!...» «Come?» «Nulla.» «Sono certo che un bel piatto di salsicce vi farebbe proprio bene, e lo gustereste!» «Tante, per carità!» «Le hanno fatte proprio per la cucina: salsicce e focaccia di grano.» «Vi siete messo in testa di straziarmi, maggiordomo?» «No, signorino. Pensavo soltanto che se acconsentiste a darmi un piccolo onorario per compensarmi del rischio di perdere il posto, io saprei fare in modo di portarvene qualcuna.» Le prugne mi divennero fiele in bocca: non che questo significhi che il loro sapore fosse mutato. «Non ho danaro.» «Niente, signorino?» «Nemmeno un centesimo.» Sospirò. «Ma... allora, non c’è niente da fare.» Finii in silenzio le prugne e attaccai il latte; riflettevo sulla faccenda del danaro. Quello era il centro dei miei malanni: la mancanza di danaro. «Non potreste prestarmi qualcosa?» «No, signorino.» Trangugiai, mesto, il mio latte. Lui sospirò ancora.

«Ci sono tanti dolori al mondo, signorino...» «Certo.» «Guardi me...» Lo guardai intensamente; le sue parole mi stupivano. «Non mi sembra che abbiate ragione di lamentarvi. Accidenti! State benone.» «Neanche per sogno, signorino.» «Ma non dite sciocchezze, maggiordomo! Sono certo che voi a colazione avete mangiato da scoppiare.» «Ho fatto una buona colazione, questo è vero. Ma la colazione non è tutto al mondo.» «Eh... capisco. Vi sono anche il pranzo e la cena.» «È il dolore dell’esilio, signore. Il desiderio intenso, pungente di fuggire, di allontanarmi da tutto ciò. È la tristezza amara di dover vivere la vita insulsa, fatua, di questa città orpello, dove la tragedia si nasconde dietro falsi sorrisi.» «Davvero?» domandai distratto. Non avevo proprio voglia di udire le sventure altrui e tanto meno di offrire la mia spalla al maggiordomo perché vi appoggiasse il capo singhiozzando. Forse si aspettava che io gli prendessi la mano e la accarezzassi maternamente; invece non ci pensavo neppure. «Scommetto che vi state domandando come ho fatto a capitare qui.» «No! Proprio no!» «È una lunga storia.» «E allora serbatela per le serate d’inverno.» «Va bene, signorino. Ah, Hollywood, Hollywood!...» disse il maggiordomo che evidentemente non amava quel luogo. «Fulgente città di dolore, città in cui la fama delude e le tentazioni seducono; dove le anime si attorcono nella fornace dei desideri, città le cui strade sono bagnate dalle lacrime delle donne tradite...» «Ohè! Dico...» «Hollywood, città le cui glorie sono meschine e i naufraghi appariscenti, ove un fuoco imperituro brucia le ali spiegate delle falene innocenti, ove la bellezza è travolta dalle ruote del carro del peccato! Signorino, se avete finito la colazione, porterò via il vassoio.» Uscì, cupo. E poiché non mi si annunciava alcun altro visitatore... uno di quei momenti di bonaccia che si hanno anche nelle vite più movimentate...

saltai fuori dal letto e infilai la blusa e i pantaloncini. Poi discesi per vedere che cosa ne fosse dei Brinkmeyer. Secondo ogni evidenza avevano fatto colazione nel patio, poiché vi era una tavola ancora apparecchiata accanto alla vasca dei pesci rossi, e su quella tavola i resti del pasto; allora, con un tuffo al cuore, scorsi nel bel mezzo un piatto, e in quello una salsiccia derelitta. Satolli e appagati, quei ghiottoni non erano riusciti a finire tutto e avevano trascurato quella meravigliosa salsiccia. I pesci rossi affioravano alla superficie ogni tanto, in attesa; io giudicai che le mie necessità fossero maggiori e più impellenti delle loro e trangugiai contento. I pesciolini rossi fecero un muso da Leslie Henson e si ritirarono. Presi allora il giornale del mattino che stava sulla tavola, desideroso di sapere che cosa diceva la stampa degli avvenimenti del giorno precedente. Poiché avevo rilevato la personalità di Joey Cooley con attivi e passivi, le notizie che lo concernevano mi concernevano. Fortunatamente, se quel giornale poteva essere preso a portavoce del pensiero corrente e della critica attuale, avevo ragione di compiacermi di me stesso. Infatti, nonostante la tristezza che avevo in cuore e il vuoto nello stomaco, dovevo compiacermi di avere bandito dalla prima pagina dei quotidiani le notizie di ogni parte del mondo. C’era il solito annuncio che il Presidente, quel vecchio simpaticone, che Dio lo benedica, si accingeva a spendere un altro bilione di dollari altrui per un’opera che ora non ricordo; ma, a parte quello, l’unico paragrafo che non mi riguardasse direttamente era relegato nell’angolo sud-est e annunciava che quel giorno stesso alle sei pomeridiane nel recinto della Brinkmeyer Magnifico Motion Picture Corporation si sarebbe scoperta una statua di T.P. Brinkmeyer, capo della Brinkmeyer Magnifico. Avevo appena voltato la pagina per vedere se non vi era null’altro di interessante, non dimenticando nel frattempo di guardare a destra e a sinistra se non vi fossero ancora avanzi sui piatti, o altre salsicce sperdute, quando dalla casa uscì il signor Brinkmeyer in veste da camera e più pallone frenato che mai. Aveva tutta l’aria, o almeno mi parve, del pallone frenato che ha qualcosa che lo turba... era preoccupato, diciamo, con lo sguardo spiritato. Vagava per il patio, stropicciandosi nervosamente le mani, seguito dal cordone della veste da camera. «... giorno!» disse. «Buon giorno.» «Bella giornata!»

«Splendida.» Fece una risatina amara. «Ebbene, giovanotto, oggi è la giornata fatidica.» «Sì» dissi, supponendo che stesse parlando della famosa statua. «Sarà un bel pasticcio indubbiamente.» «E vorrei che fosse finita.» Ripeté la solita amara risatina, e io ritenni allora che una paroletta di incoraggiamento non fosse a sproposito. Mi ero reso conto che era uno di quegli individui i quali rifuggono dalla pubblicità e da ogni forma di teatralità. «Su, su, Brinkmeyer» dissi. «Come? Che cosa dici?» «Ho detto ‘su, su, Brinkmeyer!’ Non dovete essere nervoso.» «E invece lo sono. Sai che cosa?» «Che cosa?» «Ha detto, nientemeno, che debbo indossare la finanziera e il colletto duro.» «E che male c’è? Sarete il rubacuori della festa.» «E una gardenia, ha detto. E le ghette; mi sentirò addirittura ridicolo.» Fece un altro giretto nel patio. «Ghette!» disse guardandomi turbato. Cominciavo ad averne abbastanza di tutta quella gentaglia che veniva a farsi consolare da me e per di più pretendeva che mi commuovessi. Il vecchio pallone frenato mi piaceva, ma dopo tutto, avevo i miei guai e mi bastava pensare a quelli. «Speravate di poter andare con i pantaloni sportivi e il maglione, amico bello?» dissi, e fui forse scortese, ma ero proprio seccato. «Eh... lo so! Ma le ghette!» «Tanti uomini le portano!» Continuò ad aggirarsi, concitato. «Sai che cosa ti dico? Molti dei malanni di questo mondo sono causati dalle eccessive ambizioni della gente. Noi non apprezziamo la nostra fortuna quando stiamo bene!» «Ben detto, Brinkmeyer!» Le mie parole lo fecero fermare di scatto; rimase per un momento bloccato e mi guardò ancora, sbarrando gli occhi e facendomi più che mai pensare a un gufo.

«Che cosa?» «Ben detto, Brinkmeyer» ripetei io. «Vi è molto di vero nelle vostre parole.» «Parli in modo strano questa mattina» osservò. Poi tornò all’argomento che gli stava a cuore. «Ascolta; io sono stato troppo ambizioso.» «Sì?» «Ero perfettamente felice quando facevo il sarto e mi occupavo soltanto di tagliare giacche e pantaloni. Nossignore, ho voluto buttarmi nella cinematografia e ora... guardami! Presidente della organizzazione, padrone di venti milioni di dollari...» Mi venne un’idea. «E non potreste prestarmi qualcosa?» Ignorò la mia domanda e continuò: «... e a che pro? Eccomi qui, debbo andare in giro con le ghette e tutti mi guarderanno e farò la figura del pagliaccio. Dovevo prevederlo; si finisce sempre così. Basta fare un passo da nulla in questo mondo e c’è sempre qualcuno che ne approfitta per farti una statua. E questo, che tu lo voglia o no. Dovevo restare nella sartoria.» Dimenticai i miei malanni e mi lasciai commuovere. Capivo soltanto allora che il mondo sa troppo poco dei tormenti che dilaniano il cuore di quasi tutti coloro che vivono a Hollywood. L’osservatore poco perspicace, superficiale, si accontenta delle apparenze e sostiene che, avendo del danaro, questa gente è necessariamente felice. E invece, quanti tormenti celati! Bastava che io mi guardassi intorno: April June desiderava essere sposa e madre e lasciare lo schermo; Joey Cooley agognava di ritornare a Chillicothe, per poter mangiare ancora il pollo arrosto alla meridionale; il maggiordomo non era affatto entusiasta della vita a Hollywood e il povero Brinkmeyer sognava soltanto il suo laboratorio di sartoria. C’era di che commuoversi. «Quelli erano i bei giorni... ci radunavamo tra amici, gai, spensierati!... Era una gioia combinare le tinte... contentare il cliente!» Forse avrebbe continuato su quell’argomento, dato che aveva molto da dire, se la signorina Brinkmeyer non lo avesse indotto a mordicchiarsi le labbra e a ingoiare le parole che gli sgorgavano spontanee. S’intimidì né io feci altrimenti... in presenza di quella virago ero sempre imbarazzato. Rimanemmo così, strusciando i piedi a terra, e chi ci avesse visti ci avrebbe facilmente creduti due ragazzi, scappati di classe e sorpresi dal maestro in un angolo del giardino, con la sigaretta in bocca. «Ah, cara...» disse il vecchio Brinkmeyer. «Stavo chiacchierando un poco

con il nostro piccolo Joey.» «Già» disse la signorina, e con quella semplice interiezione pareva voler dire che, in materia di gusti, non si può discutere. Mi diede un’occhiata severa; il rospo era ancora vivo e saltellante nella sua memoria. Evidentemente riteneva di dover continuare a considerarmi il rifiuto di una sottospecie umana. «Parlavamo di quella statua.» «E che cosa avevate da dire?» «Nulla, ne parlavamo. Scambiavamo le nostre opinioni.» «E allora spero che abbia capito ciò che deve fare; non vogliamo che mandi all’aria tutto.» Sussultai violentemente. «Santo Dio!» dissi. «C’entro anch’io con la buffonata di quella statua?» Mi mettevano a troppo dura prova; fin da quando avevo cessato di essere Reginald, Lord Havershot, tutti quelli che mi avvicinavano mi affliggevano con un nuovo supplizio. Vi era mai stato ragazzo che conducesse una vita più intensa di quella del piccolo Cooley? Mai un momento di tregua, mai una sosta; se non lo assorbivano in un senso, lo tenevano occupato in un altro. La signorina Brinkmeyer alzò le braccia al cielo; il gesto era patetico e fervido. «Dio di misericordia... Non dirmi che hai dimenticato, dopo tutte quelle prove, dopo che ti hanno ripetuto ogni parola, ogni gesto...» Vidi che era venuto il momento di essere soave. «Oh, no, no certamente! Sono sicuro anzi di ricordare benissimo, ma sapete anche voi come può capitare... si hanno tante cose per la testa. Potrei aver dimenticato qualche particolare della scena. Ripetetemi l’intero programma e vediamo se ho le idee chiare.» Lei inghiottì a fatica, una o due volte; mi sembrava oltremodo nervosa. «La cerimonia comincia alle sei precise.» «Sì, questo lo so.» «Mentre si fanno i discorsi...» «Debbo fare un discorso?» «No, tu non osare nemmeno provarci. Dunque, mentre si fanno i discorsi, tu ti tieni un po’ in disparte, dietro gli altri.» «Questo so farlo benissimo; rientra perfettamente nelle mie capacità.» «Dopo i discorsi, si scopre la statua. Dunque, quando la statua è scoperta, tu vai verso il signor Brinkmeyer con il mazzo di fiori e glielo dai.»

«Avete detto mazzo di fiori?» «‘Mazzo di fiori’ ho detto.» «Perbacco!» «Ma, in nome del cielo, è abbastanza semplice, mi pare!» Semplice sì, sennonché io stavo pensando alla figura da scemi che avremmo fatto. Ma via! Un mazzo di fiori! E non ci voleva nemmeno molto a convincersi che, in materia, le opinioni del signor Brinkmeyer non differivano dalle mie. Non gli piaceva la finanziera, non gli piaceva la gardenia, non gli piacevano le ghette. Aggiungetevi poi un fanciullo dai riccioli d’oro che gli arrivava addosso con il mazzolino di fiori, e ditemi voi se un brav’uomo che sognava il laboratorio da sarto non era messo in condizioni di sentirsi struggere di nostalgia per le forbici e gli aghi. Gli rivolsi un’occhiata affettuosa che lui apprezzò al suo giusto valore. «E mentre gli porgi il mazzolino, dici: ‘Ecco un bel mazzolino di fioli pel voi... signol Blinkmeyel!’» Insomma, non era poi tanto male! Voglio dire che il discorso non peccava di eccessiva eloquenza e genialità, ma avrebbe potuto essere anche peggiore. Non mi sarei meravigliato che mi avessero chiesto di rivolgermi al pubblico. Mentre invece, per dire quelle quattro scemenze, non correvo nemmeno il rischio di impappinarmi, per quanto non fossi avvezzo a far concioni. Annuii per mostrare che avevo compreso. «Capisco; me ne ricorderò: ‘Ecco un bel mazzolino di fiori per voi, signor Brinkmeyer’.» La signorina fece una volta ancora ripetuti esercizi di flessione e distensione delle braccia. Si sarebbe detto che girasse una scena di disperazione; poi, tutti i suoi atteggiamenti e i suoi modi, furono quelli di chi non può più dominarsi. «Per l’amor di Dio! Sei veramente rimbecillito o ti diverti a complicare le cose? Non ti ho forse detto centinaia di volte non ‘fiori’ ma ‘fioli’? e non ‘signor Brinkmeyer’, ma ‘signol Blinkmeyel’? Vuoi, sì o no, cacciartelo in testa? Dopo tutte le prove e riprove... Tutti gli attori meglio pagati dell’organizzazione hanno lavorato per preparare la cerimonia, e ora, eccoti lì, disposto a mandare tutto all’aria. Tu devi dire: ‘Ecco un bel mazzolino di fioli pel voi, signol Blinkmeyel’. E ricorda bene, non una sillaba di più. Niente sorprese, niente tratti di spirito!» «Benissimo.» «Per esempio, non parlare delle mie ghette» disse il signor Brinkmeyer.

«Benone.» «E non sghignazzare. Sorridi, ma non sghignazzare.» «Benissimo.» «E non lasciarlo cadere.» «Che cosa, il mazzolino?» «No, il film, la scena.» Questo non lo capivo proprio. «Quale film? Quale scena? Non me ne avete parlato ancora.» La signorina Brinkmeyer cambiò tattica. «Vuoi un buon ceffone?» «No.» «E allora non tentare di far dello spirito. Dopo la presentazione del mazzolino, di’ la tua frase e tieni la scena.» «Vuol dire ‘non svignartela’» chiarì il signor Brinkmeyer. «Precisamente. Tieni la scena; aspetta il bacio.» Tremai da capo a piedi. «Bacio?» «A questo punto io debbo baciarti» disse Brinkmeyer con voce strana, smorzata, la voce di uno che parlasse dalla tomba. Dietro le lenti, i suoi occhi erano spiritati e smarriti. E io tremavo ancora. «Mi baciate?» «Certo che ti bacia. Non te l’hanno forse detto e ridetto? Non capisci l’inglese? Ti bacia! Sarà una scena graziosa e commovente.» Stavo cercando le parole che significassero quanto poco mi commuoveva quella scena, quando il cameriere che mi aveva portato la cena la sera prima sopraggiunse. «Presento le mie umili scuse» disse. «E ora che cosa c’è?» «C’è un tizio alla porta.» La signorina Brinkmeyer annuì. «Deve essere il tuo nuovo maestro di dizione» disse disponendosi ad andarsene. «Sarà meglio che tu e il ragazzo diate una ripassatina, Teodoro. È una tale zucca vuota, che probabilmente non ha ancora capito. Potete prendere la caffettiera come mazzolino.» «E il bacio è proprio necessario?» domandò il signor Brinkmeyer supplichevole. «Possiamo saltare il bacio?»

«Certamente. Non credo che tu voglia baciare quel piccolo insetto quando non è proprio necessario» e con questa parola offensiva ci lasciò. Aspettai che fosse scomparsa, poi fissai il signor Brinkmeyer con occhio freddo, severo. «Brinkmeyer» dissi con voce bassa e dura, «è stata forse un’idea vostra?» Lui si discolpò con veemenza: «Numi del cielo! Nooo! Se stesse in me, non ti toccherei nemmeno con un paio di pinze!» Esprimeva esattamente il mio pensiero. Ci fissammo, con un sentimento non dissimile dall’affetto; eravamo due anime gemelle. «Che cosa ci sarebbe di male se ci stringessimo la mano e basta?» suggerii. «Tutt’al più, voi potreste darmi un colpettino sulla schiena.» «No, ti debbo baciare. L’ha detto lei che debbo. Ma... domani a quest’ora sarà finita. C’è almeno questo di buono. Come vorrei essere rimasto ai miei aghi e alle mie forbici.» Una volta di più ero commosso, e sentii che era necessario individuare i responsabili. «E se non è stata idea vostra di chi è stata dunque?» Prese un fiero cipiglio: «È stato il tuo agente pubblicitario, quel tal Booch, che ci ha pensato. Ha detto che una scena simile avrebbe fatto della buona pubblicità. Accidenti a lui! E, naturale, Beulah ha afferrato al volo l’idea. Oh... come sono contento che gli abbiano fatto il naso a focaccia! Un mistero dicono. Sai qual è il mistero per me? Che nessuno vi avesse pensato prima.» Mi riscossi: quelle parole avevano risvegliato in me un ricordo. «Il naso a focaccia? Come? Con un pugno?» «Sicuro. Non hai letto il giornale?» «Questa notizia no.» «Guarda!» disse il signor Brinkmeyer slanciandosi sul quotidiano e aprendo alla pagina di mezzo. Intanto il suo volto non era più tetro; lui ridiveniva gradualmente il caro simpaticone che indubbiamente era sempre stato prima d’allora. Presi il giornale e lessi quanto segue. STRANO FATTO A MALIBU UNO SCONOSCIUTO MALFATTORE COLPISCE DUE INDIVIDUI

‘CI HA PESTATI SUL NASO’ DICONO LE VITTIME. E il resoconto diceva così: Sarà inutile per qualche tempo inviare un omaggio di rose a Cosmo Booch, noto agente pubblicitario, e a Dikran Marsupial, asso dei direttori, perché non saranno in condizioni di fiutarle. Mentre andiamo in macchina sono tutti e due nella propria casa, con i nasi gonfi e sfigurati, in conseguenza di un incontro fatto con un tale che sembra davvero essere un demonio di prima classe. Come Faust ha detto, vi sono dei momenti nei quali anche un demonio è necessario; sennonché, né Cosmo Booch, asso degli agenti pubblicitari, né Dikran Marsupial, noto direttore, ne avevano desiderio e menomamente bisogno, allorché questo è capitato loro, tra capo e collo, mentre si trovavano nel grazioso villino di Booch, in riva al mare. Essi giocavano a scacchi e non avevano bisogno di un terzo. Quanto ai particolari, il nostro corrispondente deve confessare di essere un poco frastornato. Cosmo, contattato telefonicamente a tarda ora, ieri sera, ha dato delle risposte incoerenti. Altrettanto Dikran. Entrambi hanno trasmesso, all’apparecchio, dei suoni strani, ma non hanno per nulla contribuito a chiarire le idee del nostro povero corrispondente. Fortunatamente si è saputo poi che il fatto ha avuto un testimone oculare nella persona di George G. Frampton, noto e popolare membro del Circolo degli Scrittori di Hollywood. IL DEMONIO SI SBARAZZA SUBITO DI GEORGE

George G. Frampton, come tutti ben sanno, è addetto alla sezione commerciale di ‘Screen Beautiful’ (la più importante delle riviste cinematografiche); è stato appunto in una delle sue corse vertiginose in cerca di sottoscrizioni di pubblicità, che si è trovato a Malibu. Stava infatti per far visita a Booch e discutere con lui a proposito di una mezza pagina di pubblicità in un numero speciale, quando è stato messo fuori combattimento con uno spintone da un demonio. George non conosce molti demoni, e quello, asserisce, gli era completamente sconosciuto. Ce lo descrive come un demonio di robusta corporatura, dai lineamenti gorilleschi, e dice che portava un abito grigio e le scarpe di camoscio marrone, come si conviene a un demonio di prima

classe. Ha scavalcato la barriera che separava il villino di Booch dalla spiaggia e si è diretto verso la casa. Tutto è accaduto in un baleno, dice George. Il demonio è entrato nella veranda e immediatamente ha agito in modo da convincere quei due di non essere uno di quei tali che si piantano alle spalle dei giocatori soffiando loro nel collo e dando consigli. Infatti ha sferrato subito un superbo pugno al naso di Booch. E mentre questi si era attaccato al telefono per avvertire la polizia che era avvenuto qualcosa fuori delle leggi della costituzione, il demonio ha sottoposto all’identico trattamento il signor Marsupial. Poi è uscito dalla porta principale. UNO SQUILIBRATO?

La faccenda è avvolta nel più denso mistero. Infatti tutto ciò che il nostro corrispondente ha potuto cavare di bocca alle vittime è stato: ‘ci ha pestati sul naso!’ Entrambi non sono in grado di dare alcuna spiegazione. Non hanno visto mai il loro assalitore prima dell’incidente e crediamo di poter affermare che non desiderano affatto rivederlo. Tutti i loro desideri, per il momento, si polarizzano verso qualche cosa che diminuisca il gonfiore. Un punto interessante del mistero è questo: poiché era determinato a pestare qualcuno, perché dunque il demonio non ha pestato George G. Frampton? Il fatto che si sia lasciato sfuggire questa occasione ci induce alle più gravi congetture. La località sarebbe forse infestata da un diabolico squilibrato? Stiamo in attesa di eventuali ulteriori notizie. Il signor Brinkmeyer, che aveva letto al di sopra della mia spalla, dichiarò con voce querula: «Non riesco a capire perché mai lo chiamino demonio. E perché demonio? Io direi che è un bravo ragazzo, pieno di senno; ha fatto il suo lavoro con una certa determinatezza e con molta dignità. Mi farebbe piacere incontrarlo». «Anche a me» risposi. Ed era veramente il mio pensiero, poiché avrei desiderato mettermi in contatto con Joey Cooley. Quella notizia aveva destato in me sentimenti vari e diversi. Mentre il pensiero che l’uomo responsabile per il bacio del Presidente della Brinkmeyer-Magnifico-Motion Picture Corporation fosse stato pestato a dovere sul naso mi era tutt’altro che sgradevole, dovevo confessare a me stesso che quella era però un’arma a

doppio taglio. Anche se la vostra anima si è smarrita nel corpo di un altro, voi non potete impedirvi di sentire una certa responsabilità per il corpo che era vostro, prima che l’anima dell’altro vi entrasse. E non vi fa certo piacere che il nuovo locatario ne guasti la reputazione e ne avvilisca il prestigio sociale. Se le cose continuavano in quel modo, c’era da temere seriamente che il blasone degli Havershot venisse macchiato irrimediabilmente per colpa del capo della famiglia, il quale sarebbe finito in una cella, condannato a trenta giorni, senza neppure il beneficio di poter optare per la multa. Sentii che era urgente parlare a quel ragazzo e parlargli come un padre. Qualcuno più anziano e più saggio di lui doveva attaccargli un bottone per consigliargli moderazione e prudenza. Mentre giungevo a questa conclusione, entrò il cameriere. «Vengo ad annunciare una chiamata telefonica» disse. «Per me?» domandò il signor Brinkmeyer. «No, grazie, per favore, per il signorino.» «Bene» dissi. «Aspettavo una chiamata. Conducetemi all’apparecchio.»

XIII

Il telefono era in una specie di cabina nel vestibolo. Chiusi bene la porta per accertarmi che non mi si potesse udire e afferrai il ricevitore dicendo concitatamente: «Pronto! Pronto! Pronto!» Appena l’altro parlò, capii che era beato; la sua voce aveva infatti una nota gioiosa. «Pronto? Sei tu?» «Sì.» «Parla il centocinquantesimo duca di Havershot.» «Non duca, conte. È il terzo, cretino!» «Ebbene, come va? Hai fatto colazione?» «Sì.» «Com’erano le prugne?» «Al diavolo le prugne!» Gorgogliò beato. «Dovrai imparare ad apprezzarle, bellezza. Indovina che cos’ho mangiato a colazione.» «Mi rifiuto di indovinare che cos’hai mangiato a colazione.» «Credi a me, era proprio buono. Di’, hai visto il giornale?» «Sì.» «Hai letto dell’orrore di Malibu?» «Sì.» «Ho immaginato che la notizia ti avrebbe interessato. E, di’, hai mai fatto del pugilato?» «Sì.» «L’avevo immaginato; i miei colpi erano perfetti.» «Davvero?» «Sissignore, mi sembrava di avere due stantuffi al posto delle braccia. Insomma, grazie tante. Ho fatto una decorazione splendida a quei due... dovevi vederli! Pum... Pum!... e giù, in terra. Per poco non sono scoppiato dal gran ridere.»

Mi sembrava venuto il momento di smorzargli un po’ gli entusiasmi. Era troppo esuberante e aveva l’aria di credere che quella fosse stata una bella prodezza... mentre io non mi sentivo di condividere la sua opinione. Parlai allora con discreta asprezza. «Mi sembra che tu ti sia messo in un bel pasticcio; e non te la caverai a buon mercato.» «Sarebbe a dire?» «Capisci che sei un contumace? Un uomo che sfugge alla giustizia?» «E allora?» «Non sarai tanto giulivo quando i gendarmi ti acciufferanno e ti ficcheranno in cella per violenze.» Rise di cuore; sembrava sempre più allegro. «Oh... non c’è pericolo.» «Lo credi proprio?» «Certo. Quei due scemi non mi hanno mai visto prima d’allora. Tu non li conosci, è vero?» «No.» «Benissimo.» «Ma se tu li incontrassi ancora?» «Non mi riconoscerebbero.» «Io credo proprio di sì, invece.» «No, dopo che mi sarò raso i baffi.» Cacciai un grido disperato. «Non avrai il coraggio di radere i miei baffi, vero?» Parlavo con risentimento, poiché quei baffi mi erano cari; per anni e anni erano stati i miei compagni fedeli. Malato o sano, mi ero occupato di loro, li avevo cresciuti con cura costante e, da quel povero pennacchietto che erano un tempo, li avevo condotti all’attuale prestanza e compattezza. Provavo per essi un sentimento quasi paterno. L’altro, però, doveva avere dei buoni istinti, poiché nella sua risposta c’era una nota di rimorso. «Sono costretto a farlo per cambiare sembianze» disse con rammarico. «Pensare che mi ci sono voluti degli anni a farli crescere!» «Lo so, lo so. È un peccato. Ma... sta’ a sentire, voglio venirti incontro: tu puoi tagliare i miei riccioli.» «Benone. Grazie.» «Non c’è di che.»

Concluso dunque questo gentleman’s agreement, lui cambiò argomento e venne a quello che, evidentemente, considerava di maggiore importanza. «Benone, non parliamone più. Ora vorrei dirti della statua.» Le sue parole mi ricordarono l’avverso destino che incombeva su di me. «Sì! Perbacco! Non mi avevi mai detto che dovevo lasciarmi baciare dal vecchio Brinkmeyer.» La cosa lo divertì molto; infatti lo udii sghignazzare. «È questo che ti preoccupa?» «Certo...» Un improvviso tremore mi pervase tutto. «Non vorrai dirmi che c’è dell’altro, spero...» Sghignazzò ancora. Era sinistro! «Lo credo bene. Tu non immagini nemmeno. Se tutto il male fosse nel lasciarti baciare dal vecchio Brinkmeyer, te ne potresti andare cantando e ballando. Ma c’è la statua...» «Eh!?» «Sissignore. A quella devi badare; alla statua...» «Come? Badare?» «Sì.» «Che vuol dire?» C’era del risentimento nella mia domanda, una certa acrimonia; mi sembrava che lui continuasse a parlare a vanvera. Che diavolo intendeva dire consigliandomi di badare alla statua? «Bisogna che tu corra ai ripari.» «Quali ripari?» «Immediati ripari. Agisci prontamente. Devi andare di corsa allo studio, subito... Ah, è vero, non puoi andare, perché hai una lezione di dizione... Forse non potrai in tutta la mattinata... Ma nel pomeriggio... subito...» «Ma di che cosa stai parlando?» «Nulla, nulla... Mi domandavo se... Ma anche nel pomeriggio non puoi. Ci sono quelle ‘Madri del Michigan’. Uhm... dovrai lasciar perdere. Male!» Provai un senso di sgomento udendo parlare delle ‘Madri del Michigan’. Mi sembrava che anche quella storia celasse un’insidia. Non saprei dire perché; forse il mio timore era conseguenza del modo in cui ogni cosa mi piombava tra capo e collo in quella nuova vita; ero divenuto pavido di fronte a ogni evento. «Ascolta» dissi. «Che cosa debbo fare per ricevere queste dannate Madri

del Michigan?» «Oh, nulla. Ti baceranno.» «Come?» «Sì, non altro. Ma, naturalmente, questo ti porterà via un po’ di tempo. E non vedo quando potresti scappare per quella statua.» Non diedi peso a questa sua insistenza a proposito della statua. Il mio animo inorridiva al pensiero dell’altra terribile faccenda. «Mi baceranno?» «Proprio. Si mettono in fila, poi, una per una, ti passano accanto e ti baciano.» «Quante sono?» «Oh, non molte. Questa è soltanto una rappresentanza della Società. Non credo che saranno più di cinquecento.» «Cinquecento?» «Al massimo seicento. Ma, come ti dicevo, ti porteranno via un po’ di tempo; e non so come potrai fare per la statua.» «Ma... sta’ a sentire; vuoi forse dire che debbo lasciarmi baciare da Brinkmeyer e da seicento ‘Madri del Michigan’?» «È un peccato, perché in pochi minuti, con una spugna e un po’ di acido, avresti rimediato. Ma... Io credo che la tua sola risorsa sia quella di negare energicamente. Dopo tutto, non possono giurare che sei stato tu. Sì, sì. A pensarci bene, questa mi sembra la migliore soluzione. Basta negare e negare bene, come il solito. Io ho provato e so che il sistema funziona.» «Ma, in fin dei conti, di che cosa si tratta?» «Te lo sto dicendo. Poiché non avrai tempo di fare il lavaggio, è meglio che tu neghi.» «Il lavaggio di che cosa?» «Ora te lo dico. Comunque non possono giurare che sei stato tu.» «Che sono stato io a far che cosa?» «Lo sospetteranno, ma non possono esserne certi.» «Certi di che cosa?» «Potrebbe essere stato chiunque. Batti su questo punto. Ostinati. ‘Io? E perché proprio io? Come potete dire che sono stato io? Potrebbe essere stato chiunque.’ Di’ loro che ti portino le prove.» «Prove di che cosa?» «Te lo sto dicendo. Per quella statua.» «Che cosa le è successo?»

«L’altro ieri» disse quel dannato ragazzo, deciso finalmente a venire ai fatti «le ho dipinto il naso di rosso.» Non si può barcollare molto in una cabina telefonica, ma per quanto me lo permettevano le circostanze, io barcollai. «Le hai fatto il naso rosso?» «Sissignore.» «E perché?» «In quel momento mi è sembrata una buona idea.» «Ma, santo Iddio...» «Insomma, dimmi tu; se c’è una statua da scoprire e vicino a quella tu trovi un barattolo di vernice rossa, ti viene dal cuore di non sprecarla» disse l’amico con un ragionamento che, dovevo ammetterlo, non era sballato del tutto. Sennonché, quantunque potessi seguire il suo ragionamento, capivo che la cosa non avrebbe potuto migliorare la mia situazione. Ero estremamente scosso. «Che cosa accadrà quando se ne accorgeranno?» «Ah!» «Sarà il finimondo!» «Oh... certo ne seguirà un discreto trambusto!» ammise. «Sì, un po’ di confusione. Cominceranno a girare intorno come anime dannate, e a gridare. Ma se tu ti mantieni sulla negativa li metterai nel sacco.» «Non ci riuscirò. A cosa mi gioverà negare? Non mi crederanno. Te lo garantisco io. Credi che non mi siano bastate poche ore per rendermi conto di quale sia la tua fama da queste parti? La signorina Brinkmeyer capirà la verità subito, al volo. Mi gioverà molto negare con lei!» «Non vedo che cos’altro potresti fare.» «No, è vero?» «Proprio no. Visto che tu non hai proprio modo di andare a pulire la statua, con un po’ di acido... non c’è niente da fare!» Il suo atteggiamento rassegnato mi era quanto mai sgradevole. «E io invece ti dico che ci sarebbe molto da fare!» «Che cosa, per esempio?» Ebbene, devo confessare che rimasi senza parole. Fortunatamente, fui illuminato da un’idea, a mio parere, geniale. «Ti garantisco che uscirò da quest’imbroglio. Me la svignerò...» «E come?»

«Vedrai.» «E dove andresti?» Mi sentivo davvero meglio; l’idea si chiariva in me, prendeva forma di progetto. «Senti, tra breve ritornerai in Inghilterra.» «E perché?» «Ma perché tu vivi là.» «Non ci avevo pensato.» «Bisogna pure che tu sorvegli i tuoi beni.» «Santo Iddio. E ho anche dei beni?» «Certo; e anche una posizione sociale; senza parlare del titolo e di tutto il resto. Devi dunque andar là e occuparti delle cose tue.» «Ma non posso.» «Come?» «No, non potrei mai farlo. Pensa! Occuparsi di una tenuta, prendere le arie di un grande feudatario nei confronti dei poveri fittavoli! Sii certo che non mi avvicinerò mai all’Inghilterra.» «Invece lo farai. E te la caverai benissimo, perché io sarò al tuo fianco e non mancherò di darti consigli. Vedrai, me la svignerò di qui e ti raggiungerò al piroscafo. Tu mi adotterai o qualcosa di simile. Il vecchio Plimsoll potrà consigliarci in proposito. Allora io vivrò con te a Biddleford e, a suo tempo, andrò a Eton, poi a Cambridge e amministrerò i beni in vece tua. Ed evidentemente potrò divenire il bastone della tua vecchiaia. Tu non dovrai occuparti di nulla eccetto che oziare e osservare le tue arterie ispessirsi.» «Sarebbe questo il programma?» «Sì, ed è un ottimo programma.» «Già...» «E, naturalmente, per svignarmela avrò bisogno di danaro. Perciò, tu, senza pensarci sopra tanto, mandami un tizio qualunque, con una busta chiusa nella quale avrai messo qualche centinaio di dollari, quello che basta... Pronto! Pronto! Ci sei?» Ma non c’era più. Al primo accenno di stoccata aveva riattaccato il ricevitore. Uscii dalla cabina, posso dirlo sinceramente, abbastanza desolato. Sì, perché desolato e non altrimenti si potrebbe definire lo stato d’animo nel quale mi trovavo. Né vedevo come si sarebbe risolta questa faccenda. Le azioni parlano con maggior evidenza dei fatti; ora, se quel maledetto ragazzo

si era affrettato a riattaccare il ricevitore non appena avevo fatto allusione al danaro, si era implicitamente dichiarato risoluto a tenere stretto quello che aveva e a non voler in alcun modo farmene partecipe. Ma certamente! Era deciso ad attaccarsi a quel danaro come l’uccello si attacca al vischio. D’altra parte, io di danaro ne avevo bisogno, e nel minor tempo possibile dovevo pur procurarmene. Le nubi, foriere di temporale, si addensavano sul mio orizzonte; tra breve sarebbe scoppiata la folgore. Da quello che mi aveva detto il ragazzo in merito alla statua, non occorreva un’intelligenza molto acuta per dedurre che ormai la fuga era l’unica soluzione al mio caso disperato. Rimanere significava non soltanto rischiare di esser sommersi da un diluvio di baci di Brinkmeyer e delle ‘Madri del Michigan’ (il che poteva ancora essere tollerato con cristiana rassegnazione e affrontato con quella fermezza che mi contraddistingue) ma anche (e ciò era molto più grave) esporsi alla vergogna e allo scandalo per colpa del naso di quella maledetta statua. Questo era il male! Poiché la faccenda del naso tinto alla statua sarebbe stata immediatamente seguita da un confronto con la signorina Brinkmeyer, la donna che a ogni piè sospinto doveva fare sforzi sovrumani per non tirarmi le orecchie. Ahimè! Questa volta nulla e nessuno le avrebbe impedito di agire e io presentivo che per l’occasione si sarebbe trattato di una sculacciata col dorso della spazzola da capelli. Sì, indiscutibilmente, bisognava che mi procurassi il danaro. Sennonché, altrettanto indiscutibilmente, mi sembrava di non avere una sola, misera fonte a cui attingere. Vi era Eggy, naturalmente. Qualora fosse stato messo al corrente della situazione e avesse saputo che soltanto un suo modesto prestito poteva salvare un amato cugino dal far la conoscenza col dorso della spazzola da capelli della signorina Brinkmeyer, non si sarebbe sottratto. Ma come potevo venire a contatto con lui? Non avevo la più pallida idea di dove abitasse; d’altronde i miei movimenti erano tanto ostacolati che davvero non potevo permettermi il lusso di andar vagando di trattenimento in trattenimento fino a quando non mi fosse dato d’incontrarlo. E il danaro mi occorreva subito; poche ore e sarebbe stato già troppo tardi. Il caso era disperato e non vi era modo di porvi riparo... Per quanto mi fosse spiacevole riconoscerlo, ero in gabbia, e non potevo far nulla, assolutamente nulla, se non restarmene là ad attendere gli eventi. Tutt’al più potevo sperare che, al momento del malanno, una guida dei telefoni o un buon lenzuolo da bagno, convenientemente sistemati nel fondo

dei miei pantaloni, giovassero ad attutire i colpi. Assorto in tali pensieri, arrivai all’altezza del salotto, il quale non aveva una porta, bensì una specie di arco da cui pendeva una pesante tenda. E improvvisamente, mentre stavo per alzarla e passare oltre, mi giunse una voce. «Oh... certo!» diceva quella voce. «Oh! Certo...» Mi fermai; chi parlava era Eggy.

XIV

Temetti per un secondo di aver sognato. Infatti ciò che accadeva mi sembrava troppo bello per esser vero; l’individuo che desideravo vedere balzava fuori, così, come da una scatola a sorpresa, e proprio al momento giusto. Certo, Aladino, dopo aver agitato la lampada, non si stupì quanto io mi stupii allora. Per verificare, sgusciai verso la tenda e spiai l’orizzonte. Era proprio Eggy, il quale se ne stava seduto sull’orlo di una sedia e succhiava il pomo del suo bastone. Di fronte a lui c’era la signorina Brinkmeyer; lei mi dava le spalle, ma potevo vedere il volto del caro congiunto il quale era, come sempre a quell’ora del giorno, verdastro, benché non a un punto nauseante. Eggy è un ragazzo dai lineamenti aristocratici, un po’ duri, ai quali si addice la tinta verde. La signorina Brinkmeyer parlava. «Sono lieta che siate della mia opinione» diceva nel tono socievole di chi si sente a contatto con un’anima gemella. «Caro maestro di dizione, nessuno può saperlo meglio di voi.» Il mistero era svelato. Tirando le somme, ero conscio del tangibile significato degli eventi. Ricordai che Ann mi aveva detto di aver trovato un lavoro per Eggy; il piccolo Cooley mi aveva comunicato che nella mattinata doveva venire il mio nuovo maestro di dizione; e quando il cameriere aveva annunziato il visitatore, la signorina Brinkmeyer aveva esclamato: «Benissimo! Il nuovo maestro di dizione...» o se non proprio così, quasi. Nulla di complicato, dunque, e io non mi meravigliai che Eggy avesse scelto quel genere di attività. Da quando esiste il cinema parlato, non si può smuovere un mattone a Hollywood, senza veder saltar fuori un maestro di dizione. Il luogo rigurgita di britannici e se questi non riescono a ottenere un posto sullo schermo, si contentano di lavorare nella schiera dei maestri di dizione. Tanto più che non è nemmeno necessario avere delle capacità specifiche e delle referenze. Basta essere inglesi per essere accolti a braccia aperte. Mi hanno detto che a Hollywood hanno fatto fortuna, come maestri di dizione,

molti Inglesi che a casa loro non avrebbero potuto fare nemmeno i banditori d’asta pubblica. La signorina Brinkmeyer continuò: «Nel cinema parlato, nulla conta più di una buona pronuncia. La bellezza, l’abilità, le doti personali sono zero se avete una voce da incubo». «Giusto.» «Come questo ragazzo. L’avete mai visto sullo schermo?» «Veramente... no. Sapete bene come succede, tra una cosa e l’altra...» «Ecco, vedete? E voi venite dall’Inghilterra.» «Già.» «Da Londra?» «Sì.» «E forse vi avete sempre vissuto.» «Quasi sempre.» «E non avete mai visto un film con Joey Cooley! Allora vi spiego: il signor Brinkmeyer sostiene che la voce di quel mostriciattolo è ottima e si basa sul fatto che a Kansas City o altrove ha fatto fortuna. Ma io non mi stanco di ripetere che l’America non è il mondo intero.» «Certo.» «Non si può fare a meno di tener conto delle altre nazioni. Guardate come è poco apprezzato a Londra! Voi state dimostrando che avevo ragione. Voi che non avete mai nemmeno visto una sua produzione.» «Ah...» «Non esiterei a dire che nessuno si è mai dato la pena di andarlo ad ammirare. E questo perché? Perché ha un accento dell’Ohio che fa rizzare i capelli.» «Ohibò!» «E io ho detto e ridetto al signor Brinkmeyer che ci dobbiamo affrettare a rieducarlo, altrimenti ci rimetteremo tutto il nostro danaro.» «Certo.» «Naturalmente, non possiamo pretendere che impari a parlare un perfetto inglese; ma, se non altro, che arrivi a quella via di mezzo che può essere accettata ovunque. Come Ronald Colman e gli altri.» «Ah !» «E questo voglio che gli insegniate.» «Benissimo.» «Naturalmente, io il vostro metodo non lo conosco. Ma la signorina

Bannister mi ha detto che siete il più famoso maestro di dizione di Londra e che da voi sono stati educati tutti gli annunciatori delle trasmissioni radiofoniche inglesi...» A questo punto Eggy parve un po’ sconcertato; se non inghiottì il bastone intero fu proprio per miracolo. «Davvero?» chiese dopo essersi messo in sesto. «Certo. Mi ha garantito che voi avevate l’arte di correggere le pronunce più bizzarre; questo mi ha fatto supporre che sareste riuscito perfino a guarire quel povero ragazzo della disgrazia del suo accento dell’Ohio.» «Ma sicuro. Si vedrà subito che cosa si può fare. E... la signorina Bannister sta bene?» Quella fu la sua prima frase disgraziata; infatti la signorina Brinkmeyer si irrigidì, arruffò le penne e lo guardò di traverso. Non riuscivo a capire che cosa avesse contro Ann, ma era certo che la ragazza non le andasse a genio. «Non ho visto la signorina Bannister, stamane.» «No?» «E quando la vedrò avrò qualcosa da dirle.» «C’è qualcosa di nuovo?» «Preferirei non parlarne.» «Prego, prego.» Una pausa di silenzio: la nota falsa aveva chiuso ogni sbocco alla conversazione. La signorina Brinkmeyer stava seduta con le mani abbandonate in grembo, Eggy succhiava il pomo del bastone. «Dunque... come vi dicevo, non ho idea dei vostri metodi, né so come voi tecnici iniziate questo genere di lavoro...» Eggy riemerse. «Ecco, vi dirò» cominciò. «I metodi sono molti e vari, a seconda delle scuole. In quanto a me, comincio sempre col prendere un buon whisky...» «Come?» «O meglio ancora, due whisky. Sono proprio quello che ci vuole per illuminare la mente e mettere uno in condizioni di impartire la sua tecnica. Perciò, se avete del whisky in casa...» «Non ne abbiamo.» «E allora vada per il gin» ribatté Eggy, sempre pieno di risorse. «Non abbiamo nessuna specie di liquore.» «Nessuna?» «Nessuna.»

«Oh!» fece Eggy; né vi era da attendersi che dicesse di più un individuo il quale, in un sol colpo, si vedeva demolire così sogni e speranze. «Il signor Brinkmeyer e io siamo praticanti assidui e ferventi del Tempio della Nuova Alba.» «Davvero?» disse Eggy e succhiò ancora il pomo del bastone, come se tentasse di cavarne fuori almeno un sorso di alcool. «Sì. Ho avuto un po’ di pena a persuadere il signor Brinkmeyer, ma finalmente sono riuscita nel mio intento e ora è seguace assiduo di suor Lora Stott.» Eggy si tolse il bastone dalla bocca, irrigidì le spalle, si schiarì la voce e parlò in tono fermo e sonoro. «Seguace assiduo di suor Lora Stott?» «Infatti ho detto proprio così.» «Sono riuscito a dirlo anch’io...» «Non vi capisco.» «Non c’è male, non vi sembra?» «Ma che cosa?» «Che io sia riuscito a dire questo!» Parve allora affiorare alla mente di Eggy che una spiegazione sarebbe stata opportuna. «Stavo pensando a qualcosa che mi è successo proprio ieri. Ho incontrato ima ragazza che mi ha detto un monte di sciocchezze. Figuratevi che ha preteso di convincermi che il fatto di saper snocciolare, lì sui due piedi, i più difficili scioglilingua, non può costituire la prova che un individuo non sia minacciato da una paralisi progressiva. Debbo confessare che in quel momento mi ha discretamente impressionato, ma ora, oh no! ora vedo che la disgraziata non sapeva ciò che diceva. Come si può dubitare della salute di un individuo che sia in grado di dire ‘C’era una volta una cincibiricciaccola...’ e oltre a ciò non inciampi una volta sola dicendo: ‘Seguace assiduo di suor Lora Stott’ o meglio... sessiduo... aguace... Aspettate un momento» disse chiamando a raduno le proprie forze. «Non bisogna confondersi. Allora, sessuace...» Tacque e sul suo volto si dipinse un’espressione preoccupata. Poi, quando già stava riprendendo coraggio, la voce gli si spense in gola, il bastone sfuggì dalle sue mani inerti e cadde a terra; rimase impalato sulla seggiola e di tutta la sua persona solo il pomo d’Adamo si agitava con moto convulso. Eggy aveva visto me che facevo capolino dalla tenda. Non potevo vedere il volto

della signorina Brinkmeyer, ma ritengo che avesse un’espressione intensamente interrogativa. La voce di lei sussurrò, altera: «Che cosa succede, signor Mannering? Vi sentite male?» Il verde del volto di Eggy si era stemperato in un bianco delicatissimo. Io, intanto, ero uscito dalla tenda e stavo là, di fronte a lui, e gli rivolgevo un sorriso incoraggiante. Volevo mettere quel caro ragazzo a suo agio. «No» disse, «oh, no, grazie.» «Ma voi non state bene!» Eggy deglutì un paio di volte. «No, no, affatto; grazie. Sto benone.» Con uno sforzo prodigioso distolse gli occhi da me. «Se almeno non sogghignasse!» «Sogghignare?» «Non capisco perché debba fare quella smorfia.» «Ma, scusate, che cosa andate dicendo?» «Nulla» ribatté Eggy, «nulla. Soltanto, ha una certa aria spettrale... I coniglietti rosa debbono essere molto diversi...» La signorina Brinkmeyer evidentemente cominciava a pensare di aver di fronte un povero alienato. «Gradireste un bicchier d’acqua?» «Eh? No, no grazie.» Altra pausa. «Sentite un po’, signorina, ditemi qualche cosa di questo tempio; m’interessa moltissimo. La ragazza alla quale ho parlato ieri me ne ha fatto menzione, e ancora mi risuona all’orecchio quel nome che mi è piaciuto. In conclusione, che cosa sarebbe? Una casa di cura? Mi spiego. Prendiamo un individuo, A, il quale per un po’ di tempo si sia concesso di alzare troppo il gomito. Verrebbe accolto nel tempio e messo in sesto?» «Precisamente.» «Anche se l’individuo A avesse discretamente ecceduto?» «Non vi è relitto umano che suor Lora Stott non sia capace di portare in salvo.» «Non mi dispiacerebbe affatto entrare a far parte dei suoi seguaci. Oggi come oggi, io sono astemio o quasi, ma credo di aver esagerato in passato e quindi subisco le conseguenze della mia smoderatezza. Nulla di grave, naturalmente, ma, senza dubbio, è cosa che mi turba. E dove si trova questo tempio?»

«Si trova a Culver City.» «Devo farmi presentare e far appoggiare la mia domanda?» «Non avete che da andare; sono tutti i benvenuti là.» «Questa è una buona cosa.» «Ma ora non abbiamo tempo di occuparci di ciò.» «No, no, certamente.» «Volevo darvi un avvertimento nei riguardi di questo ragazzo. Siate molto energico con lui.» «Non temete.» «Non tollerate capricci e sciocchezze. Se appena si accorge di poter fare a modo suo, non lo tenete più...» «È un monello, allora?» «Il peggiore dei monelli. Per me, quello non è un essere umano, ma una calamità vivente.» Non ne potevo più. Ero disposto a permettere una critica imparziale, ma quella donna mi offendeva in modo volgare. Feci un passo avanti. «Ho udito i vostri apprezzamenti» dissi con freddezza. La signorina Brinkmeyer si voltò. «Ah, sei qui?» «Santo Dio!» esclamò Eggy. «Allora anche voi lo vedete.» «Come dite? Scusate?» «Anche voi vedete che qui c’è un folletto?» «Folletto? Altro che! È il piccolo Cooley.» «Davvero?» «Certo.» «Ohibò!» fece Eggy appoggiandosi alla spalliera della seggiola e asciugandosi la fronte. La signorina Brinkmeyer posò su di me il suo sguardo poco benevolo. «I tuoi riccioli sono tutti sfatti. Perché non riesci a star pettinato? Questo è il signor Mannering che tenterà di correggere la tua orribile pronuncia. Saluta il signor Mannering.» Fin qui ero disposto a dimostrarle la mia buona volontà. «Riverisco» dissi. «Buon giorno» mi rispose Eggy. «Credo di essermi incontrato una volta col vostro corpo astrale.» «Eh... insomma...» intervenne la signorina Brinkmeyer, «ora che lo avete sentito parlare, ve lo affido. Debbo andare a vedere che cosa fa il cuoco. Fate

il possibile per migliorare la sua dizione. Toglietegli la cantilena dell’Ohio, anche se per riuscirvi doveste adoperare il bastone.» Quando se ne fu andata, Eggy rimase per qualche momento a sgualcire il fazzoletto, ondeggiando come un oceano in burrasca. Poi si decise a riporre in tasca il fazzoletto. «Mio Dio! Che sollievo!» disse. «Mi hai fatto prendere un bello spavento, caro ragazzo. Dovresti provvedere in qualche modo per quel tuo corpo astrale; tenerlo a catena o qualcosa di simile. Può darsi che tu non ne sappia nulla, ma ieri ti è scappato ed è venuto a mormorare qualcosa al mio orecchio; il che non soltanto mi ha impaurito e sgomentato, ma mi ha indotto a una visione assolutamente erronea dello stato delle cose mie. Naturalmente, ora tutto è a posto e non c’è nulla da ridire. Vedo che...» Io tacevo assorto nei miei pensieri. Ora che ero riuscito a trovarmi a quattr’occhi con lui, restava da vedere come avrei abbordato l’argomento delicatissimo del prestito. «Vedo bene che tutto si riduce a un fenomeno psichico; un fenomeno psichico assolutamente normale e naturale» ripeté come se quelle parole gli facessero bene. «Non posso dir di capire... forse i nostri intelletti non sono fatti per comprendere certe cose, ma suppongo che fenomeni del genere siano abbastanza frequenti. E pensare che quella ragazza voleva darmi a intendere che io ero già spacciato! Questo ci dimostra come non si debba mai prestar fede alla gente, poiché anche quando parla per il nostro bene, molto spesso non sa ciò che dice. Ti rendi conto, tu, che se non ci fossimo incontrati così, diciamo in veste ufficiale, tanto che io potessi comprendere come tutto il malanno si riduceva a un puro e semplice fenomeno psichico, io, a quest’ora, sarei un disgraziatissimo astemio? Te lo garantisco. Ormai ero proprio deciso. Deciso ad andare a quel benedetto tempio, impegnandomi per tutta la vita.» Io continuavo a riflettere. Vedevo bene che la situazione nella quale mi trovavo, esigeva delle spiegazioni accurate. Certo, era necessario stabilire dapprima alami punti, fare delle dichiarazioni e farle a tempo debito e nel modo voluto. Ero sicuro che alla fine sarei riuscito a fargli capire la situazione. Eggy, sebbene leggero, non è affatto un ragazzo scettico. Tant’è vero che non hai mai messo in dubbio quello che gli esperti di ippica scrivono sui giornali. Indubbiamente avrei trovato in lui un ascoltatore ben disposto. Tutto stava nell’impostare i preliminari a dovere. Ora riprendeva a parlare con voce stizzosa.

«Che stupida quella ragazza! Ammettiamo pure che suo padre abbia visto un coniglietto rosa e ammettiamo che questo coniglietto gli abbia chiesto un fiammifero. E con ciò? Tali fatti hanno un carattere puramente soggettivo. Gli eccessi che provocano a uno visioni di coniglietti rosa non hanno alcun effetto su di un altro di tempra più forte. È una questione di costituzione fisica, di tempra e forse anche di ghiandole. Io, per conto mio, ho una superba costituzione fisica e delle ghiandole di qualità extra; quindi non ho da temer nulla. Ma, via, non debbo continuare a blaterare così per tutta la mattinata e forse ad annoiarti. D’altra parte, sono qui per insegnarti una perfetta dizione. «Dunque: ho sentito la tua voce, ragazzo, e debbo convenire con la nostra cara signorina Brinkmeyer che bisogna provvedere. Ci vogliono dei massaggi, delle amputazioni o qualcosa di simile. La tua esse mi dà da pensare, soprattutto. Quando hai detto ‘riverisco’, ho avuto l’impressione di udire un banjo affetto da dispepsia. Cosa ne diresti se cominciassimo subito? Ripeti con me: sera, rosa, casa, rossa, spessa, stessa...» Presi una decisione: era inutile andare per le lunghe; dovevo decidermi a saltare l’ostacolo. In un secondo tempo sarei venuto a una spiegazione, ma, prima di tutto, dovevo andare diritto a ciò che il vecchio Plimsoll chiama il nocciolo della questione. «Ascolta» dissi; «ho qualcosa da dirti.» «Certo. Rossa, spessa, stessa... Su, caro ragazzo, ora diciamo insieme. Ripeti con me: Spessa, stessa, rossa, e non far quella faccia scura.» Non mi lasciai distogliere dal mio scopo per ripetere quelle scemenze. «Debbo annunziarti, prima di tutto» dissi, «che io sono tuo cugino Reggie Havershot.» Eggy, che ancora continuava a ripetere «spessa, stessa, rossa» in modo suadente e incoraggiante, s’interruppe come colpito dalla folgore. Batté le palpebre due o tre volte. «Scusa... hai detto qualcosa?» chiese con voce bassa e cavernosa. «Ho detto che sono tuo cugino Reggie Havershot. É semplice» continuai volendolo rassicurare. «La mia anima ha sbagliato destinazione ed è andata in un corpo che non le apparteneva.» Eggy tacque per un momento; tentava, evidentemente, di inghiottire anche quella. Poi, quando già mi ero illuso che la verità si fosse fatta strada in lui, emise un sospiro profondo, desolato e con un triste gesto di rassegnazione prese il cappello, il bastone e si preparò a uscire. «Questa è la fine» disse. «Mi do per vinto. Se mai qualcuno mi cerca,

sono al Tempio della Nuova Alba. Indirizza la mia corrispondenza presso suor Lora Stott.» Passò al di là della tenda a capo basso. «Ehi! Aspetta un momento!» gridai e gli corsi dietro. Purtroppo, però, urtai contro un corpo solido. Per un istante vidi tutto nero, ma ben presto compresi la situazione. Era andato a sprofondare il volto in un ventre umano. Indietreggiai un poco e guardai in su: ero andato a colpire il diaframma del solenne maggiordomo.

XV

«Ahi!» fece quello passandosi una mano sulla parte colpita. «Ahi!» In condizioni normali avrei indubbiamente dato prova della mia consueta cortesia; avrei chiesto scusa e avrei espresso il mio rammarico, perché, certo, non gli avevo reso un bel servigio. Il volto di quel poveretto era divenuto violaceo e dai suoi occhi che ricordavano l’uva spina sgorgavano copiose le lagrime. Purtroppo non avevo tempo da perdere in amabilità; volevo soltanto afferrare Eggy e terminare il mio discorso. A tale scopo mi precipitai verso l’ingresso principale: Eggy era irreperibile. Se n’era andato, senza lasciar traccia di sé. Triste, tornai nel vestibolo della casa; il maggiordomo era ancora là e aveva l’aria un poco riconfortata. Il suo volto non era più violaceo e le lagrime non gli inondavano più la giacca e il panciotto. La natura e una costituzione robusta gli avevano permesso di superare la crisi. Lo guardai di traverso; non riuscivo a perdonargli di essersi frapposto tra me e la preda. Se non fosse stato per lui, sarei riuscito ad acciuffare Eggy, a parlargli, a dargli delle spiegazioni, suffragandole, come avrebbe detto il vecchio Plimsoll, di particolari corroboranti. Ora, per colpa di quel disgraziato maggiordomo, Eggy era scomparso definitivamente, volatilizzato, come la rugiada sulla rosa. Mi sentivo propenso a maledire tutti i maggiordomi del mondo. «Signorino» mi disse quello mentre passavo sdegnoso. Ripetei l’occhiataccia. La sua conversazione era l’ultima cosa che desiderassi al mondo. Volevo riflettere, non altro. «Potrei dirvi una parola, signorino?» Proseguii imperterrito. «Ho un’idea a proposito di quanto stavamo dicendo stamane mentre facevate la vostra prima colazione.» Continuai ostinatamente. «Si tratta del danaro, signorino.» Questo mi fermò di colpo. Nessun’altra parola al mondo avrebbe potuto farlo, ma quella ebbe un effetto magico. Mi fermai, lo guardai e ascoltai.

«Vorreste dire che avete trovato il modo di procurarmi dei quattrini?» «Sì, signorino. Credo di aver trovato la soluzione del problema.» Stralunai gli occhi. Non aveva affatto l’aria di un uomo d’intelligenza superiore e, nondimeno, a sentir lui, aveva avuto un lampo di genio. «Davvero?» «Sì, signorino.» «Vorreste dire che, dopo aver riflettuto, siete venuto nella determinazione di farmi un prestito?» «No, signorino.» «E allora? Che cosa volete dire?» Prese un’aria da cospiratore; si guardò attorno, diede un’occhiata nel salotto per accertarsi che non vi fosse nessuno, esplorò la scala e poi si decise. «Mi è venuta mentre stavo pulendo l’argenteria.» «Che cosa vi è venuto?» «Mi è venuta un’idea grandiosa. Ho avuto modo di constatare molto spesso che, mentre pulisco l’argenteria, io sono sempre eccezionalmente geniale. E forse in grazia di quel movimento ritmico e continuo. Sua Signoria diceva spesso...» «Lasciate perdere Sua Signoria, adesso. Fuori l’idea.» Ripeté la pantomima del cospiratore. ‘Siamo soli? Nessuno ci spia?’ sembravano dire le sue mosse. Abbassò la voce fino a un bisbiglio. «Il dente, signorino.» Non capivo nulla. «Il dente?» «Sì. Mentre pulivo l’argenteria mi è proprio venuto in mente il dente. Ci ho pensato così di colpo.» Continuavo a non capire, le sue erano le parole di un maggiordomo ubriaco, ma certo nessun maggiordomo poteva essere ubriaco a quell’ora mattutina. Nemmeno Eggy lo era mai. «Ma di che dente parlate?» «Del vostro, signorino.» Prese a un tratto un’espressione ansiosa. «L’avete ancora quel dente?» «Me ne hanno levato uno ieri.» «Sì, signorino. Quello voglio dire. E il dentista ve lo ha dato?» «Come sarebbe a dire, ‘ve lo ha dato’ ! Me lo ha tolto.» «Sì, ma io ricordo bene che quando ero bambino il dentista che mi

toglieva i denti soleva darmeli, perché li conservassi tra le mie cianfrusaglie. E io speravo proprio...» Scossi il capo. «No, nulla da fare...» e m’interruppi. Improvvisamente ricordavo. «Ma sì, perbacco! Me lo ha messo in una scatoletta di cartone.» Mi frugai in tasca e tirai fuori la scatola. Il maggiordomo emise un «ah!» estatico. «E allora siamo a posto» disse con voce gaia e con l’aria del maggiordomo che si è tolto un grave peso dal cuore. E io non capivo ancora. «E perché?» E quello, ancora una volta, assunse l’aria del cospiratore. Guardò di qua e di là, spiò a destra, scrutò a sinistra; poi abbassò la voce al punto che facevo fatica a udire quel che diceva. «Parlate chiaro» dissi bruscamente. Allora mi parlò all’orecchio. «C’è dell’oro in quel dente.» «Oro? Era otturato?» «C’è del danaro, vi dico.» «Come?» «Sì, signorino. Questa è l’idea che mi è venuta di colpo mentre pulivo l’argenteria. Dapprima il mio cervello era vuoto... assolutamente vuoto, e poi, ecco l’idea! Stavo lustrando la coppa che il signor Brinkmeyer ha vinto nell’annuale torneo di golf dei magnati del cinematografo, quando la coppa mi è caduta di mano... ‘Per tutti i diavoli!’ ho detto...» «Come? Come?» «Per tutti i diavoli! Era l’espressione favorita di Sua Signoria nei momenti di agitazione. ‘Per tutti i diavoli’ ho detto. ‘Il dente!’» «E con questo?» «Pensate, signorino! Riflettete al posto che tenete nella stima pubblica. Voi siete l’idolo delle Madri Americane. E i fanatici sono sempre desiderosi di tenere un ricordo dei loro idoli; ve lo garantisco io! So che sono state pagate cifre sbalorditive per un bottone dei pantaloni del signor Fred Astaire. E, indubbiamente, il fascino di un bottone non è neppure da mettere a confronto con quello di un dente!» Sussultai. Finalmente ero riuscito a capire a che cosa mirava. «Volete dire che questo dente potrebbe essere venduto?»

«A pronta cassa, signorino. A pronta cassa!» Sussultai ancora. Quell’individuo cominciava a entusiasmarmi. «E chi lo comprerebbe?» «Qualunque collezionista. Ma per questo ci vorrebbe un po’ di tempo. Io, invece, penserei di portarlo a una rivista cinematografica. ‘Screen Beautiful’ è quella che dà maggior affidamento. E mi stupirei moltissimo se per quel dente non dessero almeno duemila dollari.» «Come?» «Sì. E sarebbero certi di ricuperare dodici volte il loro danaro. Farebbero subito un concorso fra i lettori. Un dollaro per essere ammessi al concorso e il dente di Cooley sarebbe dato in premio a chiunque riuscisse a fare una determinata cosa; come, per esempio, elencare dodici popolarissime dive in un ordine determinato o qualcosa di simile.» Mi girava la testa. Mi sentivo come se, avendo puntato su una rozza al Gran Premio, l’avessi vista arrivare prima al traguardo, con tre lunghezze di vantaggio. «Duemila dollari?» «Di più, signorino. Cinquemila, se aveste un buon mediatore.» «E voi conoscete un buon mediatore?» «Vi proporrei di affidare a me l’incarico.» «Vorreste occuparvene?» «Ne sarei orgoglioso e felice, signorino. S’intende con la consueta provvigione.» «E quanto sarebbe?» «Cinquanta per cento.» «Cinquanta per cento? Un letterato che conosco io ha un agente che gli piazza i lavori per una provvigione del dieci per cento.» «La produzione letteraria sì, signorino, ma non i denti. I denti richiedono una maggior provvigione.» «Sì, ma il cinquanta è esagerato. Accidenti! Dopo tutto il dente è mio!» «Ma voi non siete in condizione di commerciarlo.» «Lo so, ma...» «Avete bisogno di qualcuno che sappia discutere le condizioni.» «E voi sapete discutere le condizioni?» Rise con indulgenza. «Non direste così se mi aveste sentito trattare con i fornitori di casa.» Rimasi pensoso. La nostra conversazione sembrava aver raggiunto un

punto morto, sennonché lui fece un passo conciliante. «Va bene, va bene, signorino. Non discutiamo. Facciamo il venti per cento?» Questo mi sembrava più ragionevole. «Benone!» «Il venti per cento sul prezzo totale non mi arricchirà davvero. Acconsento soltanto per avere il piacere di accontentarvi. E ora, volete darmi la scatola e magari un biglietto di vostro pugno che garantisca la autenticità del cimelio? Questi editori di riviste cinematografiche sono divenuti molto sospettosi, da quando ‘Film Fancies’ ha comperato un paio di mutande che avrebbero dovuto appartenere a Clark Gable e invece sono risultate apocrife. Ho qui la penna stilografica; se volete non avete che da scrivere due parole sulla scatola.» «Debbo scrivere: ‘Dente estirpato a J. Cooley. Guardatevi dalle contraffazioni’?» «Benissimo. Tante grazie, signorino. Lo porterò io stesso al direttore di quella famosa rivista, non appena avrò terminato di sparecchiare dopo il pranzo, poiché prima i miei lavori professionali mi obbligheranno a restare in casa.» Qualche ora dopo passeggiavo accanto alla piscina, fischiettando una canzonetta allegra. Il pranzo era terminato; ed erano terminati pure i miei crucci. Il futuro, prima tanto nero, sembrava ora soffuso di luce dorata. La maniera disinvolta e geniale con la quale il maggiordomo si era preso a cuore le cose mie, mi garantiva che non avrei potuto trovar di meglio. C’era da credere che per tutta la vita non avesse fatto altro che vendere a provvigione dei denti. Aveva chiamato al telefono il direttore di ‘Screen Beautiful’, si era fatto fissare un appuntamento e aveva cominciato a stabilire che, qualora il mercato fosse concluso, il danaro avrebbe dovuto essere versato in banconote di piccolo taglio. Poi era uscito di casa, contento e tranquillo, per concludere l’affare. In quanto a me, avevo consumato un pasto sgradevolissimo, nel quale avevano predominato i soliti spinaci; nonostante tutto ciò e nonostante il vuoto che mi sentivo nello stomaco, ora mi sembrava di essere un altro, una creatura rimessa a nuovo. Ero tutto gaiezza e ottimismo. Se anche il maggiordomo non avesse rivelato tutta la capacità di affarista che io gli attribuivo e fosse riuscito appena a tirar fuori duemila dollari, per i miei scopi

ce n’era anche di troppo. D’altra parte la serenità e la risolutezza del suo volto, i suoi modi suadenti, mi facevano sperare che avrebbe ottenuto il prezzo massimo. Perciò, come ho detto, me ne andavo fischiettando e avrei indubbiamente continuato a fischiettare, se la mia attenzione non fosse stata attratta da un fischio in sordina, che, a intermittenza, proveniva da un cespuglio oltre il prato. Supposi dapprima che fosse un uccelletto intento a prodursi nel suo repertorio, ma dopo un po’ udii una voce femminile. «Ehi! Joey!» Era la voce di Ann. Andai a vedere che cosa voleva.

XVI

Il cespuglio era così folto che in un primo momento non riuscii a vederla. Poi, quando il suo volto apparve, ebbi modo di notare che anche lei, come il maggiordomo, aveva preso un’aria da congiura. Teneva un occhio socchiuso, in un grazioso ammiccare significativo, e teneva un dito sulle labbra. Parlò quindi a voce più che sommessa. «Sss!» bisbigliò. «Eh?» «Discrezione e silenzio.» «Come sarebbe a dire?» «Dov’è la signorina Brinkmeyer?» «Non lo so; perché?» «C’è del torbido in aria, Joey caro. Parla piano, perché qui anche i muri hanno le orecchie. Sono riuscita a procurarmi un pasticcio di maiale per te.» «Come?» Non ricordo d’essere stato mai prima d’allora tanto commosso. In quel momento la devota tenerezza che sentivo per April June, quasi si portò di colpo su Ann. Era come se per la prima volta mi accadesse di essere ammesso nella sacra intimità dei suoi più profondi sentimenti. Parlai con voce tremante: «L’hai qui?» «No, è in casa.» «E che specie di pasticcio è? Grosso?» «Enorme.» «Santo cielo!» «Non gridare così. Sei sicuro che la signorina Brinkmeyer non sia da queste parti?» «Non l’ho vista.» «Scommetto invece che salterà fuori... Eccola!» Dalla casa ci giunse il suono di una voce stridula; mi voltai e scorsi la calamità della casa che si sporgeva da una finestra del piano superiore. Mi stava guardando in modo provocatorio.

«Che cosa stai facendo?» mi domandò ritenendo evidentemente che qualunque fosse la mia occupazione doveva trattarsi di qualche cosa di illecito. Perfino a tale distanza si percepiva benissimo la sua mancanza di fiducia e di benevolenza. Era quello un momento in cui dovevo dar prova di presenza di spirito e d’ingegnosità. «Sto guardando uno scarabeo» dissi. «Che cosa?» «Vi è qui uno scarabeo. Stavo osservandolo.» «Spero che non porterai in casa degli scarabei.» Inarcai le sopracciglia. Naturalmente, a quella distanza, il gesto era sprecato. «Non intendo affatto portarlo in casa. Mi compiacevo soltanto di studiare le sue abitudini.» «Ah! Va bene; cerca di non insudiciarti.» Lei scomparve e Ann sbucò fuori come una ninfa dei boschi. «Vedi? Non c’è un momento in cui questa gente non stia a spiarti. Portarti un pasticcio di maiale, Joey caro, è pericoloso come portare un dispaccio attraverso le linee nemiche. Stavo per dirti di metterti qui, nel cespuglio, e aspettare il mio ritorno, ma non credo sia cosa sicura. Avevo dimenticato che può benissimo vederci dalla finestra della sua camera. Sai che devi fare? Fingi di passeggiare e va’ a metterti nella capanna che serve da spogliatoio, presso la piscina. Tra breve io ti raggiungerò.» Come potrete facilmente immaginare, mi allontanai, non senza rammarico. Ogni minuto che mi separava da quel pasticcio mi pareva un’ora. Mi avviai dunque verso la capanna, sbuffando e fremendo. Vi trovai un giardiniere che stava lavando il pavimento. «Buon giorno, signorino» mi disse. La purezza della sua pronuncia mi stupì, poiché aveva tutto l’aspetto di un giapponese e io mi aspettavo da lui un linguaggio barbaro. Non mi restava però il tempo di approfondire, dato che intendevo farlo sgombrare il più presto possibile. «Ne avete ancora per molto?» gli domandai. «Volevate star qui, signorino?» «Sì.» «Ecco, allora ho proprio finito. Credo che vada bene così.» Passò ancora due o tre volte lo straccio su qualche punto che non lo

soddisfaceva completamente, poi uscì. Mentre mi passava vicino notai che era strabico e che aveva un bitorzolo sul naso, e dedussi che fosse lo stesso individuo di cui mi aveva parlato Joey Cooley. Mi sentivo più che mai incline a trattare con lui la faccenda dei rospi e, poiché la finestra dalla quale aveva parlato la signorina Brinkmeyer era vicina alla mia camera, io non avevo da cercare molto, qualora intendessi portare a destinazione i rospi e lasciarli dove meglio avrebbero compiuto il loro dovere. E certo, dopo che si era permessa di parlarmi così e di intromettersi nelle cose mie, una lezione le era veramente dovuta. Nondimeno, ebbi il coraggio di rimandare a più tardi la cosa e di tacere. Allora vidi apparire Ann; balzai verso di lei, ansioso, ma dovetti constatare che ancora qualche cosa si frapponeva alla realizzazione dei miei sogni. Recava soltanto un oggetto che la signorina Brinkmeyer avrebbe chiamato ‘un mazzolino di rose’. Io lo fissai desolato. «Me ne duole» disse Ann, notando il mio turbamento e comprendendone subito la causa. «Dovrai aspettare ancora un poco. Stavo proprio attraversando il vestibolo quando è scesa la signorina Brinkmeyer; allora ho dovuto nascondere il pasticcio in un vaso orientale e lo riprenderò non appena il campo sarà libero. Perciò non fare quella faccia.» Mi sforzai di non fare ‘quella faccia’, ma la delusione era stata forte e la maschera era dura da portare. «In ogni modo, eccoti qualche cosa che ti farà ridere» continuò Ann. «Vedi queste rose? E sai chi le ha mandate?» Alzai le spalle. Non m’interessava affatto chi le avesse mandate. Un mazzo di rose in sostituzione di un pasticcio di maiale mi lasciava molto freddo. «Chi?» «April June.» Mi scrollai di dosso il letargo, come se fosse stato un vecchio indumento. «Come?» «Sì. Ho immaginato che ci avresti fatto su una bella risata.» Non facevo affatto la bella risata; Ann questa volta sbagliava e non mi comprendeva affatto. Invece ero commosso, profondamente commosso. Il pensiero che April June, con la vita febbrile e laboriosa che conduceva, trovasse il tempo e il modo di inviare dei fiori a un moccioso insolente, mi riempiva di gioia. Riusciva perfino a farmi dimenticare la fame che mi dilaniava. L’atto di April mi sembrava veramente degno di un cuore gentile,

della squisita sensibilità di quella creatura superiore. Quindi tutta la devozione che avevo nutrito per lei, fin dal primo momento in cui l’avevo vista, mi tornò nell’anima. «Sì, ti ha mandato delle rose. Suppongo che vi sia stata indotta da un rimorso di coscienza.» «Rimorso di coscienza?» domandai freddamente, poiché aveva parlato in un tono aspro che non mi era affatto piaciuto. La guardai di traverso e sentii svanire in me quella tenerezza che la sua offerta del pasticcio mi aveva fatto concepire per lei. Cominciai a dubitare di essermi ingannato sul valore e sulla profondità dei suoi sentimenti. Era una giovane leggera, sventata. «Che cosa intendi dire?» «Credo che abbia ritenuto doveroso offrirti qualche cosa, dopo averti usurpato la scena principale nell’ultima pellicola e dopo aver tentato di rubarti la pubblicità. Non so proprio perché senta il bisogno di un agente pubblicitario. Certo, non vi è nessuno, nel campo della propaganda, che possa insegnarle qualcosa sull’arte di mettersi in vista.» «Non ti capisco.» Ann rise di gusto. «Dunque non ti hanno detto nulla? Ieri, mentre tu eri ancora sotto l’effetto dell’anestetico, la porta si è aperta di colpo e April June si è precipitata nel gabinetto dentistico. ‘Dov’è il mio piccolo amico?’ ha gridato torcendosi le mani e recitando come al solito. ‘Voglio vedere il mio piccolo amico...’; e mentre parlava ha dato un’occhiata significativa ai fotografi dei giornali che l’hanno ritratta in sei pose diverse e tra l’altro nell’atto in cui si chinava su di te e ti baciava in fronte. Allora qualcuno l’ha portata fuori mentre continuava a singhiozzare. Oh, santi numi!» Le diedi un’altra occhiata fredda e severa. Il suo tono offensivo e provocatorio mi dava proprio noia. «Io giudico il suo gesto poco meno che angelico» dichiarai. «Come?» «Certo! Non lo si può definire in altro modo. Quante altre ragazze nella sua posizione avrebbero perduto il loro tempo per venirmi a baciare in fronte?» Lei mi fissò. «Tenti forse di prendermi in giro?» «Affatto.» «E vuoi proprio sostenere che April June non è una vipera?»

La prima volta che avevo udito tale mostruosa parola diretta alla donna che amavo, pronunciata da Joey Cooley nel gabinetto dentistico, avevo soffocato la mia indignazione e avevo offerto il consueto ramoscello d’olivo. Ora non ero affatto disposto a lasciar passare la cosa. «Basta!» dissi. «O tu smetti di parlare male di quella donna divina, o te ne vai dalla mia presenza.» Era evidentemente offesa, e un improvviso rossore le colorò le guance. La vedevo ardere, soffocare, non di vergogna o di rimorso, bensì di risentimento. «Oh!» disse. «Ebbene, se proprio la prendi così... va bene. Addio!» «Addio!» «E non avrai nemmeno un pezzetto di pasticcio di maiale. Nossignore, nemmeno per annusarlo!» Vi confesso che titubai; quella ragazza sapeva dove colpire! Grazie a Dio però ero forte. Feci un gesto noncurante... nel limite del possibile, e dissi in modo riservato e altero: «Questo non mi riguarda affatto». Ann si fermò sulla porta, indecisa. Forse i suoi migliori sentimenti non erano del tutto sopiti. «Eppure io sono certa che quel pasticcio ti piacerebbe!» Non mi degnai di rispondere. «E tu sai bene che è una vipera. Tu stesso l’hai detto!» «Preferirei non parlare di questo.» «Oh, benissimo!» Se n’era andata e io ero rimasto là a meditare. I miei pensieri erano amari; ora che avevo modo di darmi alla meditazione, dovevo convenire che il pasticcio aveva un grande valore per me. Tutti i miei piani, le mie macchinazioni, non avevano mirato ad altro e il pensiero che April June non avrebbe saputo mai che cosa le avevo sacrificato, mi mordeva il cuore come una serpe velenosa. Allora uscii al sole e mi strinsi la cintura, sperando di attutire il rodimento interno. Camminai a caso, troppo distratto e preoccupato per sapere dove andavo, finché un’inattesa morbidezza del terreno sotto ai miei piedi m’indusse ad abbassare gli occhi; mi accorsi allora d’aver deviato dal sentiero e di essermi inoltrato in una bordura d’erba che correva lungo il muro di cinta della tenuta dei Brinkmeyer. Stavo per tornare indietro, certo com’ero che in quella casa avrei passato molti guai solo per aver calpestato un po’ d’erba, quando mi fermai di colpo alla vista di una testa che spuntava

al disopra del muro, con un’aria spiritata gridando «Pfui!» L’apparizione era così inaspettata che mi fermai e rimasi a guardare. Era una testa dai capelli rossi, una testa rotonda, dalle orecchie sporgenti, una testa che assomigliava perfettamente a quei vasi antichi che hanno due manici. Quella testa apparteneva a un ragazzotto dall’aria insolente, dotato di due grandi occhi verdi e di un volto pieno di lentiggini. Mi guardava in modo evidentemente ostile. «Pfui!» disse ancora. Il ragazzo mi era completamente sconosciuto; d’altra parte, quasi tutti mi erano sconosciuti in quel mio nuovo mondo. Forse era una vecchia conoscenza di Joey Cooley; dai suoi modi e dal suo tono di voce intuii che fosse stato, un tempo, offeso in qualche modo dal mio predecessore. Il mio silenzio parve spronarlo a nuove ostilità. «Pfui!» insisté. «Piccolo Lord Fauntleroy!» Cominciavo a risentirmi. Al momento in cui era apparso non avevo formulato alcun proposito nei suoi riguardi, ma ora capivo benissimo che quel che ci voleva per lui era un buon pugno in faccia. L’epiteto ‘Piccolo Lord Fauntleroy’ aveva penetrato la mia armatura e aveva colpito nel segno. Fin da quando mi ero risvegliato nella sedia del dottor B.K. Burwash, quei riccioli d’oro erano stati la mia segreta vergogna. Certo, ero tanto infuriato che avrei saltato il muro e avrei aggredito l’avversario con le unghie e coi denti se, a un certo momento, non fossi stato ricondotto alla ragione, guardando la misera, inadeguata manina, la cui vista mi aveva tanto rattristato all’inizio della giornata. Tentar di sfasciare il muso a qualcuno con una mano come quella era proprio fatica sprecata. Sospirai e riconobbi che non era davvero il caso di ingaggiar battaglia. Fui quindi costretto a ribattere unicamente a parole. «Pfui!» dissi, sicuro che non vi fossero diritti d’autore per quell’efficace interiezione. Non rivelavo molto acume evidentemente, ma, insomma, qualcosa bisognava pure che facessi. «Pfui!» ribatté lui. «Pfui!» incalzai io, lesto come il lampo. «Pfui!» mi rispose. «Donnetta! Scemo! Sdolcinato!» Cominciavo a credere che mi avrebbe picchiato. «Ricciolone! Sembri una ragazza!» Fortunatamente, mi tornò alla mente qualcosa che Barmy Fotheringay

Phipps aveva detto una volta, in mia presenza, nel bar del ‘Drones’ a Oofy Prosser allorché Oofy si era rifiutato di prestargli dieci scellini per qualche giorno. Ricordavo che Oofy era balzato come una tigre. «Sembri un cane macchiettato» dissi. Era proprio quello che ci voleva; lui fremette da capo a piedi e si fece rosso paonazzo. Ritengo che a un ragazzo pieno di lentiggini non possa garbare di sentirsi paragonare a un cane macchiettato. «Vieni fuori!» gridò. «Ti sfido!» Non risposi; mi tastavo le braccia e volevo vedere se almeno non era possibile utilizzarle in qualche modo; purtroppo, l’avambraccio era come un fiammifero e il bicipite non superava in rotondità un foruncolo. Nulla da fare! «Ti sfido! Vieni qui, se ne hai il coraggio!» E allora mi si presentò dinanzi, improvvisa e fulminea, la soluzione. Vi ho detto che stavo su una bordura d’erba; accanto a me stava un alberello sul quale il generoso sole californiano aveva fatto nascere una ricca profusione di arance, dorate e turgide. Quelle mutavano completamente la situazione, e venivano a proposito. Afferrarne una e scagliarla fu cosa di un attimo. Pensate quale fu la mia gioia allorché potei constatare che Joey Cooley, per quanto inetto agli sport e mingherlino d’aspetto, era uno straordinario tiratore d’arance! Davide ai tempi dei suoi disaccordi con Golia, non avrebbe potuto dare una prova migliore. Il mio proiettile colse il ragazzo in pieno sulla punta del naso e, prima ancora che potesse rimettersi dalla sorpresa e dalla costernazione, io l’avevo già colpito non meno di tre volte: all’occhio sinistro, all’occhio destro e al mento. Colsi altri frutti e mi disposi a reiterare l’attacco. La sua baldanza era già sgominata. Ancora una volta era dimostrato che l’ingegno trionfa sulla forza e sulla barbarie. Ecco... Il selvaggio sfrenato attacca la civiltà, grida le sue stolte ingiurie e le sue folli minacce; il rappresentante del progresso e l’uomo di razza superiore si limita a tenerlo a bada con le sue artiglierie e i prodotti del suo ingegno. L’altro si ritira e ci fa la figura del cretino. E vi garantisco che quel ragazzetto rosso e lentigginoso, in quella circostanza, aveva l’aria doppiamente cretina. Resisté ancora al lancio di una mezza dozzina di arance e poi si arrese alla superiorità della mia tattica. Se la diede a gambe e io, con un ultimo colpo, lo raggiunsi alla nuca... Ultimo, perché mentre mi accingevo a lanciare ancora un proiettile, il mio braccio fu preso in una morsa di ferro e io mi sentii sollevato in aria come una piuma.

«In nome del Cielo!» esclamò la signorina Brinkmeyer, niente affatto orgogliosa del mio trionfo. «Non si può lasciarti solo un momento senza che tu faccia qualche sciocchezza! Ecco, ora hai rovinato il mio bell’albero di arance.» Non avevo fiato abbastanza per perorare decorosamente la mia causa, e probabilmente lei non udì molto di quanto dissi a proposito delle necessità militari. Spietata, mi trascinò verso casa. «Ora te ne vai di corsa in camera tua» disse, intercalando il suo discorso con un discreto numero di apprezzamenti poco lusinghieri. «E non osare uscire di là fino a quando non sia l’ora di andare allo studio.» Non potei fare a meno di rendermi conto che quello era un ben triste ritorno, per uno che si era condotto con tanta prontezza d’ingegno e, in una situazione così ardua, aveva conseguito la vittoria finale; ma, d’altra parte, anche se avessi voluto dirle il mio rammarico, non ne avrei ricavato un bel niente. Certo, non mi avrebbe dato retta. Le concessi dunque di trascinarmi fino alla mia camera, e quando se ne fu andata, sbattendo l’uscio dietro di sé, mi gettai sul letto e mi abbandonai alle mie riflessioni. Ero curioso di conoscere l’identità del ragazzo lentigginoso e avrei voluto sapere qual era la ragione della sua antipatia per Joey Cooley. Conoscendo Joey, ero disposto a credere che l’avversario avesse le sue brave ragioni, pur tuttavia non mi dispiaceva affatto averlo battuto. C’era di mezzo il mio orgoglio e la mia dignità. Vi sono dei giudizi e degli apprezzamenti che non si possono permettere a nessuno e quando vi è accaduto di essere trasformato in un ragazzetto dai riccioli d’oro, l’epiteto ‘Piccolo Lord Fauntleroy’ equivale a uno di quegli apprezzamenti. Purtroppo, però, mi fu concesso per breve tempo di rivivere la scena recente e bearmi della mia prodezza. D’improvviso, come se fosse per magia o per la pressione di un bottone, mi riprese, attanagliante, il desiderio spasmodico del cibo. Tentavo di liberarmi dalla sua morsa, quando udii dei passi davanti all’uscio e Ann entrò. «Dove sei, scimmiotto?» domandò. «Non ho avuto proprio il coraggio di castigarti.» Mi ficcò qualche cosa in mano; era un’imponente fetta di pasticcio. Non trovavo le parole; in momenti come quello nessuno è capace di trovarle. Portai quella leccornia alla bocca e l’addentai. In quel momento l’uscio si riaprì e irruppe nella stanza la signorina

Brinkmeyer, con l’aria di una Lady Macbeth nei suoi momenti peggiori. «Me l’ero immaginato» gridò. «Sapevo che qualcuno gli portava di nascosto del cibo e vi sospettavo, signorina. Andatevene, siete licenziata!» Ero a un bivio; due alternative mi stavano di fronte: lasciare il pasticcia e perorare la causa di Ann, con tutta l’eloquenza di cui ero capace, oppure continuare il mio pasto e trangugiare il più possibile, prima che il pasticcio mi fosse strappato. Scelsi la via più nobile e perorai. Naturalmente non servì proprio a nulla e forse avrei fatto meglio a starmene zitto e a dedicare le mie energie ad accaparrarmi ciò che mi spettava di diritto, fino a che c’era il tempo! Il verdetto era stato pronunziato e non vi era nemmeno possibilità di appello. Spinta dai più nobili motivi e operando per il bene, la mia benefattrice si era fatta mettere alla porta. Mi fu ingiunto di tacere. Fui malmenato. Fui orbato del pasticcio. Ann se ne andò. La signorina Brinkmeyer se ne andò, e io rimasi solo. Inferocito, mi diedi a passeggiare in lungo e in largo. Giunsi allora vicino alla finestra e non potei fare a meno di guardar fuori. Allora vidi il giardiniere strabico, con il bitorzolo, che stava sforbiciando un cespuglio accanto alla serra. Lo guardai perplesso. La sua vista aprì nuovi orizzonti ai miei pensieri. Un attimo dopo, ero sul tetto della serra e cercavo di attirare la sua attenzione con un guardingo «Ehi!».

XVII

L’orizzonte che la vista di quel giardiniere bitorzoluto e strabico aveva aperto ai miei pensieri era quello di cui ora dirò brevemente. Joey Cooley mi aveva garantito che quel brav’uomo possedeva dei rospi ed era disposto a concederli gratis e senza spese di consegna, purché fossero destinati al letto della signorina Brinkmeyer. Allora mi venne in mente che non vi era ragione che m’impedisse d’usufruire dei suoi servigi. Era fuori di dubbio che la Brinkmeyer aveva molto bisogno di trovarsi un rospo nel letto. Se mai una persona si era meritata un rospo, quella era la signorina Brinkmeyer. Tra l’altro, non avevo nemmeno più da temere le sue rappresaglie; infatti, quando si fosse accorta della cosa, io sarei stato abbastanza lontano da potermi ridere di lei. Infatti contavo di tagliare la corda non appena il maggiordomo fosse tornato e mi avesse provvisto di danaro. Quando avesse trovato il rospo e, afferrata la spazzola da capelli, fosse venuta a cercarmi, la signorina Brinkmeyer avrebbe avuto la sorpresa di vedere il mio letto vuoto e non disfatto. Avanzai quindi sul tetto della serra e chiamai «Ehi!», e il giardiniere venne cortesemente verso di me per sapere quali fossero i miei desideri. Notai che, rimanendo bocconi e sporgendo il capo, potevo benissimo fare una conversazione a voce bassa. Entrai subito in argomento, visto che non era il momento per le perifrasi e per le esitazioni. «Sentite» dissi, «vorrei un rospo.» La cosa parve interessarlo. «Per il solito uso?» «Sì.» «E vorreste una consegna immediata?» «Immediatissima.» Sospirò. «Sono dolente di dovervi dire che in questo momento non ho rospi.» «Accidenti!» «Potrei fornirvi delle rane» disse in tono incoraggiante.

Presi in considerazione la cosa. «Sì, le rane andrebbero benissimo, purché siano viscide.» «Le mie sono estremamente viscide. Se avete la bontà di attendere un momento, vado a prenderle.» Se ne andò per tornare poco dopo munito di un paniere coperto che mi porse pregandomi di renderglielo quando non mi servisse più, dato che era quello in cui uno dei suoi colleghi teneva la colazione. Lo rassicurai e mi allontanai in fretta per andare a compiere il mio lavoro. La scoperta dell’abito da sera della signorina Brinkmeyer, sul letto, in attesa che lei lo indossasse per la serata, fece sì che io alterassi lievemente i miei piani. Visto che di rane ne avevo a sufficienza, ne misi una in ogni scarpa da sera e distribuii le altre tra i vari indumenti intimi. Mi parve che l’effetto morale sarebbe stato migliore e più decisivo che se quelle rane fossero state poste tra le lenzuola. Quando tornai sul tetto della serra, il giardiniere, che stava ad aspettarmi, manifestò la speranza che tutto fosse andato per il meglio, e ancora una volta mi stupii della purezza della sua pronuncia, tanto contrastante col suo aspetto da giapponese. «Voi parlate un inglese eccezionalmente perfetto» gli dissi. Mi parve che il complimento lo lusingasse. «Siete molto gentile» mi rispose con un sorriso a fior di labbra. «Credo però che siate vittima di una falsa impressione. Il mio trucco vi fa supporre che io sia straniero, ma non è così.» «Non siete giapponese?» «Lo sono soltanto esteriormente. Mi sono presentato qui, truccato in tal guisa, con la speranza di attrarre l’attenzione della signorina Brinkmeyer. Una volta sul luogo è sempre possibile far colpo sul padrone. La Brinkmeyer Motion ha in programma un film giapponese e io spero che mi sarà affidata una particina.» «Capisco.» Avevo vissuto abbastanza a Hollywood per sapere che ben poche cose laggiù sono in realtà quelle che sembrano. «Io sono un caratterista e spero che mi sarà data l’occasione di mostrare a Brinkmeyer di che cosa sono capace... Ora, però, ho capito che sarebbe stato meglio che mi fossi fatto ingaggiare tra il personale addetto alla casa; quello è più a contatto con i padroni. Vedete? Io invidio in particolar modo Chaffinch.»

«Chaffinch?» «Il maggiordomo. È in una situazione privilegiata.» «Ma anche lui è un artista?» «Certamente. Quasi tutti i domestici dei magnati del cinematografo sono artisti. Questo è il solo modo per introdursi, visto che è perfettamente inutile andare agli uffici di collocamento, dove prendono nota del vostro nome e tutto finisce lì. Ecco dov’è il malanno a Hollywood: il sistema è sbagliato e manca l’organizzazione.» Ero sbalordito. «Ma voi mi stupite! Io avevo proprio creduto che fosse maggiordomo di mestiere.» «É naturale.» «Avrei giurato che era genuino: l’adipe, gli occhi gonfi e protuberanti!» «Sì, infatti ha tutto il tipo del maggiordomo.» «E pensare che parla sempre di quando era al servizio di ‘Sua Signoria’!» «Questo fa parte dell’atmosfera. È un artista coscienziosissimo.» «Davvero non ci capisco più niente! Perbacco!» dissi e m’interruppi di scatto. Un pensiero improvviso mi era balenato alla mente. «Ehi, prendete il paniere, debbo andare a telefonare.» Scappai in fretta e corsi nella cabina telefonica del vestibolo; non era il momento di stare a pensare che cosa sarebbe avvenuto se la signorina Brinkmeyer mi avesse sorpreso nell’atto di telefonare. Ero elettrizzato per l’apprensione e vi dirò subito il perché. Affidando a quel Chaffinch la vendita del dente ero partito dal presupposto che fosse veramente un maggiordomo, dato che l’onestà di questa classe è proverbiale. Direi anzi che nessuna classe di lavoratori può ambire a tanta fama di onestà. Si dice che un vero maggiordomo morrebbe di fame piuttosto che mettere le mani in un affare minimamente ambiguo. Invece, la mia esperienza in fatto di attori di seconda categoria non mi dava altrettanto affidamento. Può darsi benissimo che io non giudichi obiettivamente, e che io sia prevenuto, dal giorno in cui un generico della compagnia che dava ‘La sposa dimenticata’, a Newmarket, carpì a me, studente universitario, dieci scellini con un gioco detto dei ‘Monarchi Persiani’; fatto sta che io da allora mi sono sempre detto: ‘Reginald, evita gli attori. Sono infidi’. Così, mentre, inquieto, sfogliavo la guida telefonica per trovare il numero di ‘Screen Beautiful’, visioni paurose mi si presentavano dinanzi. Non potevo

fare a meno di pensare che, se quella maledetta rivista aveva la redazione a una distanza ragionevole, Chaffinch avrebbe dovuto essere di ritorno da un pezzo; io stesso lo avevo visto uscire subito dopo il pranzo e ormai erano già le quattro. E non era neppure andato a piedi; aveva preso un tassì alla porta di casa. Trovai il numero. Il tono ossequioso con cui mi risposero quando dichiarai la mia identità era tale che, in altre circostanze, indubbiamente mi avrebbe lusingato. Ma, data la situazione, non vi feci neppure caso. Io non cercavo rispetto e ossequio, volevo soltanto essere rassicurato. Ma, due minuti dopo, la folgore era caduta e io sapevo la triste verità. Il redattore capo mi dichiarò che al mio mandatario era stata consegnata la somma di cinquemila dollari, da un’ora e mezzo. E quando, tentando di dominare il tremito della mia voce, che tradiva una tendenza a tentennare, domandai quanto tempo ci voleva per coprire il percorso in tassì, mi risposero che dieci minuti erano più che sufficienti. Fu allora che, non badando alle chiacchiere inutili del mio interlocutore, il quale voleva farmi promettere che avrei concesso un’intervista e avrei dato fotografie e autografe, riattaccai il ricevitore. Non vi era possibilità di dubbio, i fatti erano evidenti. Quell’uomo aveva approfittato della mia ingenuità, e io, riponendo la mia fiducia in lui, mi ero messo in trappola da solo. Ora, quel demonio in veste di maggiordomo era senza dubbio in viaggio per l’Oriente, lontano, irraggiungibile. Quella cabina telefonica non mi aveva portato fortuna davvero; vi ero entrato due volte e due volte ne ero uscito turbato, annichilito. La prima volta, in preda ad ansie atroci, e nello stesso stato d’animo ne uscivo ora. Il pensiero che non avrei avuto danaro, che i miei audaci sogni di fuga verso un mondo più libero e più spazioso andavano in fumo, mi faceva barcollare, come Eggy nel giorno del suo compleanno. E ora, per di più, mi si insinuava nella mente un altro pensiero: fiducioso di poter uscire presto dalla zona del pericolo, avevo colmato di rane la stanza da letto della signorina Brinkmeyer. Non perdetti altro tempo in rammarichi infruttuosi; se velocemente avevo disceso le scale, ancor più velocemente le risalii. A meno che non riuscissi al più presto a radunare quelle rane e a levarle di mezzo, sarebbero avvenute cose il cui solo pensiero mi faceva raccapricciare. Il mio compito era preciso ed evidente. Dovevo raccoglierle tutte prima che la signorina Brinkmeyer le

trovasse, altrimenti sarebbero stati guai. Non so se vi siate mai provati ad afferrare delle rane e a radunarle; vi garantisco che non è un esercizio facile. Cogliere dei bottoni di rosa è semplice; delle noci nel mese di maggio, facile; ma chiamare a raduno una pattuglia di rane, spiritate e vivaci, e farlo in pochissimo tempo, è un compito che richiede tutto l’acume e la destrezza di cui è dotato un individuo. La situazione, d’altra parte, si complicava per il fatto che io non ricordavo nemmeno, in quel momento, quanti esemplari della razza avessi disseminato. Il giardiniere me ne aveva fornito una buona quantità e io le avevo gettate così, a caso, come il seminatore disperde il seme quando da un pezzo sta compiendo la sua opera. Non mi ero davvero data la pena di contarle; in quell’istante un censimento mi sarebbe sembrato superfluo. Solo allora, mentre cogitabondo mi grattavo il capo, chiedendomi se tutto il plotone si riduceva alle sei rane che mi ero ficcato in tasca, compresi quanto fosse deplorevole la mancanza di ordine e di precisione in certe faccende. Rimasi a meditare, con la fronte aggrottata, e avrei forse continuato a meditare così, all’infinito, se le mie riflessioni non fossero state interrotte da un baccano infernale che veniva dal giardino sottostante. Evidentemente l’atmosfera si riscaldava e, come suol dirsi, era dato l’allarme. Ciò che soprattutto colpiva le orecchie era il gridio acuto e stridente di una voce femminile. Se fossero state le due del mattino, trovandomi a Hollywood, non vi avrei fatto caso e mi sarei limitato a supporre che uno dei nostri vicini stesse offrendo un intrattenimento agli amici; a quell’ora invece, non poteva essere questione di un intrattenimento. E se non era una gaia partita di buontemponi, che cos’altro poteva essere? In un attimo aprii la finestra e guardai fuori; si stendeva dinanzi a me il prato e scorgevo parte della piscina di marmo, ma, sfortunatamente, la pergola mi impediva alquanto la visuale. Le grida provenivano proprio da un punto fuori del mio raggio visivo. La donna che urlava non era per me nulla più di una voce e, per il momento, potevo soltanto constatare che era munita di ottimi polmoni. Nondimeno, un istante dopo, la situazione mi si chiariva: la signorina Brinkmeyer era sbucata sull’orlo della piscina seguita a brevissima distanza da un tizio che indossava un vestito di flanella grigia. E poiché la parte inferiore delle gambe di quel tizio era illuminata dalla luce vespertina, ebbi modo di vedere che portava delle calze grigio-azzurre e delle scarpe di

camoscio. Non credo che sia concesso a molti di starsene alla finestra di un primo piano e di osservare se stessi nell’atto di dar la caccia, attorno a una piscina, a una signora di mezza età. Io posso garantire che l’esperienza è piuttosto bizzarra. E se, per un istante, rimanete senza fiato, nondimeno vi diverte. Data la natura dei miei rapporti con la signorina Brinkmeyer, la quale fin dal mio arrivo non mi aveva rivelato che l’aspetto più tenebroso del suo carattere, quello spettacolo fu di mia completa soddisfazione. Per conseguenza, quando i due uscirono dal mio orizzonte, me ne rammaricai non poco. E allorché, poco dopo, mi giunse all’orecchio il tonfo sordo di un corpo gettato in acqua, la mia stizza non ebbe limite. Avevo l’impressione spiacevole di aver perduto uno spettacolo che veramente valeva la pena di essere visto. Ma subito un altro pensiero venne a turbarmi: se la signorina Brinkmeyer era caduta in acqua, non molto tempo sarebbe passato prima che si fosse precipitata nella sua camera per cambiarsi d’abito. Ero ancora incerto riguardo alle rane, ma, evidentemente, non potevo indugiare e insistere nelle ricerche. Poteva darsi che avessi raccolto l’intera pattuglia, ma se anche non vi ero riuscito dovevo andarmene finché la ritirata era possibile. Avevo impiegato qualche minuto per giungere a questa conclusione, ma una volta giuntovi non perdetti tempo. L’uscio della mia stanza, come ho già detto, era il secondo dopo quello della signorina Brinkmeyer, e vi sgattaiolai dentro come il coniglio che ritorna alla tana. Soltanto quando fui in camera mia trovai la soluzione del problema delle rane; finalmente ricordavo: le rane erano otto; sei le avevo in tasca e le altre due erano state da me poste nelle scarpe della padrona di casa, dove si trovavano ancora.

XVIII

Questa scoperta ebbe la conseguenza di far sbollire un poco l’entusiasmo che si era impadronito di me al pensiero della signorina Brinkmeyer che cadeva nella piscina. Capivo che si era creata una situazione difficile e complessa. Ora era troppo tardi per ritornare a raccogliere le rane; eppure se non avessi fatto nulla e avessi lasciato che il destino seguisse il suo corso, mi sarei procurato con tutta probabilità dei guai molto peggiori. Infatti quello non era uno di quegli incidenti in cui il presentare delle scuse formali potesse giovare. Insomma, non era facile per me decidere per il meglio e io stavo ancora con la fronte corrugata, sforzandomi di trovare la tattica migliore, quando il domestico filippino entrò. «Voglia la Signoria Vostra tollerare la mia presenza.» Quantunque mi trovassi, come ho detto, in un bell’imbroglio, la curiosità per un attimo ebbe il sopravvento sulla mia ansia. Domandai: «Ditemi, parlate così perché è l’unico modo in cui sapete parlare, oppure siete un altro di quei caratteristi che, a quanto sembra, infestano questa casa?» Lui si tolse la maschera. «Sicuro» rispose con un impeccabile accento americano, «mi avete scoperto, fratellino. Le scenette tragicomiche sono il mio forte. Uno di questi giorni, se posso pescare il vecchio da solo, e lui non riesce a schivarmi, do la stura a un monologo dialettale di quelli che si recitano con le lacrime dietro il sorriso, e allora il signor Brinkmeyer si precipiterà a firmarmi un contratto come una canzonettista si precipita a mangiare del caviale quando la invitano a pranzo; qui nel reparto domestici, siamo tutti della professione.» «Me l’hanno detto» risposi; poi, siccome, nonostante tutto, non avevo abbandonato le speranze, gli domandai: «Sentite, non avreste visto per caso Chaffinch da queste parti?» «No, se n’è andato.» «Lo so che se n’è andato. Pensavo che avesse potuto ritornare.» «No, se n’è andato per sempre. Mi ha telefonato dalla stazione un’ora fa, mi ha detto di aver ricevuto improvvisamente un’eredità dal suo ricco zio

d’Australia e che partiva per New York immediatamente. Quello è fortunato!» A dire il vero, le mie speranze erano già molto lievi, ma quelle parole mi indussero ad abbandonare anche quel tenue filo a cui ancora mi aggrappavo. Di fronte a quelle informazioni ottenute direttamente, sarei stato un idiota se avessi tentato di essere ottimista. La mia intuizione non mi aveva ingannato. Quel furfante, come avevo indovinato, dopo aver raccolto un bottino dalla rivista, si trovava già lontano. Mi lasciai sfuggire un gemito e con gesto febbrile mi passai una mano sui riccioli. Tuttavia uno dei vantaggi di essere Joey Cooley stava nel fatto che non potevo mai preoccuparmi a lungo di una data cosa, poiché proprio nel momento in cui ero sul punto di fissarmi su quella, mi capitava qualcosa di peggio che richiedeva tutta la mia attenzione. «E ora venite, ragazzo mio» disse il domestico. «Sbrigatevi.» «Che cosa dite?» «La signorina Brinkmeyer mi ha ordinato di condurvi da lei.» A questo punto cessai di crucciarmi sulla faccenda di Chaffinch e la mia mascella inferiore ricadde come inerte. «Vuole vedermi?» «Proprio.» «Vi ha detto di che si tratta?» «No.» «La parola ‘rane’ non è stata fatta, per caso?» «Che io sappia, no.» Mi balenò la speranza che la mano del destino, nonostante tutto, non fosse ancora pronta ad abbattersi su me. Mi diressi verso la camera della signorina Brinkmeyer e constatai che si era coricata; accanto al letto stava il signor Brinkmeyer in piedi. I vestiti che poco prima avevo trovato sul letto erano stati messi via, come pure le scarpe col loro sinistro contenuto. Dove fossero state messe non lo sapevo, ma sembrava chiaro che il peggio non si era verificato; questo mi rincuorò, tanto che divenni allegro e vivace. «Dunque, dunque, dunque» dissi saltellando sulla soglia, stropicciandomi le mani e rivolgendo alla signorina un sorriso pieno di comprensione, «come andiamo, come andiamo, come andiamo? Ah, ah!» Qualcosa di molle e di viscido mi colpì al viso. L’ammalata mi aveva gettato addosso la borsa dell’acqua calda. Compresi subito quel che era accaduto: avevo esagerato con la mia aria allegra.

«Smettila di ridere come uno stupido!» mi gridò. Il vecchio Brinkmeyer, col suo fare bonario, cercò di spargere olio sulle acque agitate. «Mia sorella è nervosa» disse in tono di scusa. «Ha subito un colpo troppo forte.» «Lo credo bene» assentii estinguendo il sorriso dalle mie labbra, dal momento che non aveva avuto molto successo, ma continuando col mio atteggiamento comprensivo. «Non può fare a meno di aver il sistema nervoso scombussolato, dopo un simile bagno nella piscina. Quando ho visto quel che accadeva mi son detto...» La signorina Brinkmeyer che, dopo avermi lanciato la borsa si era lasciata ricadere sui guanciali, si raddrizzò. «Hai visto la scena?» «Oh, sì.» «Saresti capace di riconoscere quel furfante?» «Quel demonio» corresse il signor Brinkmeyer, che in queste cose era molto preciso. «Deve trattarsi di quel demonio di cui parlavano i giornali.» «Dunque, saresti capace di riconoscerlo?» «Sicuramente. Era un giovanotto piccolo e magro, dai lineamenti belli e delicati.» La signorina Brinkmeyer sbuffò. «Non è vero niente. Era enorme e aveva l’aspetto di un gorilla.» «Non credo.» «Al diavolo!» disse la signorina Brinkmeyer con quel calore che sempre usava quando si rivolgeva a me. «Questo ragazzo è un idiota.» Il signor Brinkmeyer tentò nuovamente di fare da elemento moderatore. «Ecco un’idea!» disse. «Non potrebbe esser stato un gorilla?» «Sei un idiota anche tu» dichiarò la signorina Brinkmeyer. «Peggio ancora del ragazzo.» «Pensavo che alla Metro Goldwyn stanno facendo una pellicola di ambiente africano...» «Oh, smettila» gemette la signorina Brinkmeyer con aria annoiata. «Eppure uno dei gorilla avrebbe potuto scappare» insistette il signor Brinkmeyer. «Comunque, la polizia sarà qui tra poco. Forse troverà una traccia.» «E forse non la troverà» ribatté la signorina Brinkmeyer che, a quanto sembrava, non aveva molta fiducia nei rappresentanti della legge. «A ogni

modo, lasciamo andare questa faccenda, per ora. Volevo dirti soltanto che ho rimandato la riunione delle Madri del Michigan.» «Come?» gridai. Quella era una grande notizia. «Avete detto loro di ritornarsene nel Michigan? Che bellezza! Non potevate avere un’idea migliore.» «Non dire cretinerie! Non mi sono neppur sognata di dir loro di ritornare nel Michigan. Ho soltanto rimandato il ricevimento a domani. Sono troppo scombussolata per partecipare al ricevimento oggi.» «Così non potrai venire neppure all’inaugurazione della statua» disse il signor Brinkmeyer. «Peccato, peccato!» «Naturale che non ci posso venire. Spero soltanto che tu e il ragazzo non troviate il modo di rovinare ogni cosa. Non ho altro da dire. Portatelo via» disse rivolta a suo fratello e, dopo avermi lanciato un’occhiata di disgusto, si lasciò ricadere sui guanciali. «La vista di quel ragazzo mi fa star peggio; quel suo modo ebete di guardare mi dà fastidio. Riportalo nella sua stanza e lascialo là, finché viene l’ora di andare allo studio.» «Sì, mia cara» fece il signor Brinkmeyer. «Benissimo, mia cara. Cerca di fare un buon sonno prolungato.» Mi condusse fuori. I suoi modi, fino a che l’uscio non si era richiuso dietro di noi, erano stati quelli compassati che si convengono a un fratello che esce in punta di piedi lasciando il capezzale della sorella. Non avrebbe potuto essere più corretto. Però, quando fu nel corridoio, si lasciò andare alquanto e quando ci trovammo nella mia camera sorrise come il sole nascente e mi diede un colpetto sulla spalla. «Evviva!» disse. Il colpetto era stato così energico che mi aveva fatto perdere l’equilibrio. Andai a fermarmi contro il cassettone e mi volsi con aria interrogativa. «Che cosa c’è?» «Lei non viene all’inaugurazione.» «Ho sentito.» «E sai che cosa significa?» fece il signor Brinkmeyer tentando di darmi un altro colpetto sulla schiena, ma sbagliando mira di parecchi pollici a causa di una mia abile manovra. «Significa che io non metterò la marsina e il colletto inamidato.» «Oh !» «E non porterò neppure la gardenia all’occhiello.» «Oh!»

«E non mi metterò neppure le ghette.» Subii il contagio del suo entusiasmo. «E il bacio?» gridai. «Aboliremo il bacio?» «Sicuro.» «Ci faremo un paio di inchini e basta, eh?» «Proprio così.» «Ho un’idea! Perché non eliminiamo addirittura quella spiacevole faccenda del mazzo di fiori?» Ma, a quanto sembrava, Brinkmeyer non era disposto a seguirmi su quel terreno. Tentennò il capo. «No. Per quanto riguarda il mazzo di fiori, dovremo attenerci al programma stabilito. È una di quelle cose che le giornalista non mancano mai di descrivere con dovizia di particolari, e se mia sorella non ne vedesse nessun accenno nei giornali di domani, comincerebbe a indagare.» Mi convinsi che aveva ragione. Questi presidenti delle grandi società cinematografiche non sono così sciocchi. «Sì, questo è vero» ammisi. «Niente bacio, però.» «Niente bacio.» «E niente colletto inamidato, niente gardenia e niente ghette. Evviva!» disse di nuovo il signor Brinkmeyer. E con questa esplosione di gioia, se ne andò. Quando rimasi solo, passeggiai per qualche minuto per la stanza, in uno stato di eccitamento considerevole. L’avvenire, a dire il vero, non aveva perduto del tutto il suo colore fosco. La faccenda delle Madri del Michigan era stata soltanto rimandata e non soppressa; il naso della statua rimaneva più rosso che mai e due delle mie rane erano ancora latitanti. Però ero stato troppo provato dalle avversità per non apprezzare tutto ciò che poteva avere l’aspetto di un colpo di fortuna, e il pensiero che non avrei dovuto farmi baciare in pubblico da Brinkmeyer bastava a farmi saltellare per la stanza in preda a una gioia indicibile. Stavo ancora abbandonandomi ad allegre piroette quando, a un tratto, il mio sguardo fu attirato dallo sportello di un armadio che si apriva lentamente. Mi fermai di colpo. Un momento dopo apparve una faccia... una faccia che riconobbi subito senza difficoltà, quantunque un rasoio spietato l’avesse privata dei baffetti che per molto tempo avevano ornato il suo labbro superiore.

«Ohilà!» disse Cooley uscendo dall’armadio. «Come va la vita?» Un’ondata di indignazione sorse nell’animo mio. Non avevo dimenticato il suo contegno al telefono. «Come vuoi che vada?» ribattei in tono gelido. «Perché diamine hai interrotto la comunicazione in quel modo quando stavo parlando con te al telefono? Che cosa conti di fare per quel danaro?» «Danaro?» «Ti ho detto che ho bisogno di danaro per andarmene di qui.» «Vuoi del danaro?» «Naturale che voglio del danaro! Ti ho spiegato la situazione nel modo più limpido. Se non riesco a procurarmene nello spazio di un paio d’ore, sono rovinato.» «Capisco. Senti, io non ne ho indosso, ma posso mandartene al più presto.» Mi parve di aver giudicato male quel ragazzo. «Lo farai?» «Sicuro! Non ti crucciare per questo. Di’ un po’, hai saputo quel che è successo in giardino? È stata una bella fortuna trovarla sola! Non speravo di poter agire con tanta prontezza. A dire il vero, non ero venuto per lei... ero venuto per prendere quel taccuino.» Si interruppe di colpo. «Ohilà! Ascolta. Questa è la polizia.» Dal pianterreno saliva un gran brusio. Si udiva la voce del signor Brinkmeyer insieme ad altre di basso profondo, quelle di cui sembrano sempre provvisti i rappresentanti della legge. Basta essersi sentiti chiedere la patente di guida da un vigile urbano per riconoscerne il tono, senza possibilità d’errore. «Faresti bene a filare» dissi. L’amico non tradiva alcuna ansia. Aveva l’aria di essere sicuro di dominare la situazione. «Nossignore» rispose. «Qui sono al sicuro. È l’ultimo posto dove può venir loro in mente di cercarmi. Senza dubbio immaginano che io sia già lontano ormai. Staranno qui un poco a darsi l’aria di indagare, poi se ne andranno a frugare in città. Ebbene, ragazzo mio, mi par d’essere il padrone del mondo. Come mi diverto! Ieri ho dato il fatto loro a quei due; stamane ho saldato i conti con un paio di registi e poco fa è stata la volta di mamma Brinkmeyer. Tengo una buona media nei miei combattimenti. E tu, come te la cavi?»

Era piacevole sfogarmi con qualcuno che poteva capire i miei guai. Gli raccontai la storia di Chaffinch e lui espresse la propria comprensione. Gli riferii la faccenda delle rane e lui disse che qualunque cosa accadesse avrei sempre avuto la consolazione di sapere che avevo agito per il meglio. Quando gli raccontai del licenziamento di Ann, prese la cosa con la massima spensieratezza. «Ann è a posto. Sta per trovare un’occupazione come agente pubblicitaria. A questo proposito, sarà meglio che ti metta al corrente dello stato delle cose.» «Lei mi ha già raccontato tutto.» «Davvero? Benissimo. Spero proprio che si metta a posto bene. Ann è una brava ragazza. Mi ha detto di avere in vista un posto di agente pubblicitaria, ma non mi ha detto per chi. Credo che sia per una stella di prima grandezza. Comunque, non è il caso di crucciarsi per lei.» Avrei potuto informarlo che la persona per la quale Ann sperava di lavorare era April June, ma ritenni opportuno astenermene. Sapevo per esperienza che menzionando April mi sarei sentito rispondere qualche lazzo villano che non avrebbe mancato di guastare i nostri rapporti. Non volevo trovarmi nella necessità di rimbeccarlo, quando avevo bisogno assoluto di conciliarmelo e di non dargli alcuna scusa per cambiar parere riguardo a quel danaro. Perciò mi limitai a rispondere: «Oh, ah!», e passai a un argomento che mi interessava molto, cioè il mistero del ragazzo lentigginoso. «Senti un po’; ero fuori in giardino, poco fa, e un ragazzo con le lentiggini in faccia è spuntato all’improvviso al disopra del muro di cinta e mi ha fatto un versaccio. Chi credi possa essere? Aveva l’aria di conoscerti.» Lui rifletté. «Con le lentiggini?» «Sì.» «Che genere di lentiggini?» «Le solite lentiggini. Aveva anche i capelli rossi.» Il suo volto si illuminò. «Credo di sapere di chi si tratta. Dev’essere Orlando Flower.» «Chi è?» «È soltanto uno di quei piccoli attori, gelosi delle capacità degli altri. Non gli badare. Non ha importanza. Abbiamo girato una pellicola insieme una volta, e lui crede che io abbia corrotto gli operatori addetti al montaggio per saltare le sue scene migliori. Ti ha detto qualcosa oltre a fare dei versacci?» «Mi ha chiamato Piccolo Lord Fauntleroy.»

«Allora era proprio Orlando Flower. Mi chiama sempre Piccolo Lord Fauntleroy. Non è il caso che ti preoccupi di lui. Io mi limitavo a gettargli delle arance sul muso.» «Che combinazione! Anch’io gli ho gettato addosso delle arance.» «Non avresti potuto fare una cosa migliore! Continua così. È il trattamento che va bene per lui.» Tacque, si avvicinò alla finestra e scrutò il giardino attentamente. «Bene, sembra che quei questurini se ne siano andati. Allora posso filare anch’io. Ma prima dammi quel taccuino.» «Taccuino?» «Certo. Ti ho detto che sono venuto per quello.» «Quale taccuino?» «Suvvia, te ne ho già parlato. Non ti ricordi? Quando eravamo in quella sala d’aspetto ti ho detto che tenevo un taccuino dove annotavo i nomi delle persone alle quali avrei voluto fare il naso a focaccia.» Lo guardai preoccupato. Ancora una volta ero ansioso rendendomi conto del pericolo che correva il prestigio degli Havershot. Quali fossero i suoi precedenti, lui era attualmente il capo della famiglia e se fosse finito in prigione la macchia sarebbe rimasta sul glorioso nome degli Havershot. Lui stesso aveva confessato di essere andato contro la legge per aggressione e violenza contro un agente pubblicitario, un direttore, due registi e la signorina Brinkmeyer, ed ecco che già progettava nuove violenze. «Non vorrai malmenare qualcun altro!» dissi. «Come no? Ho molti altri nasi da fare a focaccia! A che serve che io abbia a mia disposizione questo tuo corpo robusto se non ne approfitto? C’è una fila interminabile di nomi su quella lista, ma, strano a dirsi, non riesco a ricordarmeli a memoria. Avanti, dunque!» «Ma io non so nemmeno dove sia questo taccuino.» «È nella tua tasca posteriore.» «Come? Nella tasca posteriore di questi pantaloncini?» «Proprio così. Caccia la mano in tasca e vedrai.» Obbedii e trovai l’oggetto in questione. Era un libriccino rilegato con ricercatezza in pelle viola ornata di colombelle d’argento. Lo prese con palese soddisfazione. «Evviva, ragazzo mio!» disse. «Louella Parsons me l’ha regalato per Natale e mi ha detto di scriverci delle belle cose. Così ho fatto! Questo taccuino è pieno di bei pensieri. Grazie. Addio.» Si diresse alla finestra.

«E mi manderai quel danaro per mezzo di un fattorino, al più presto?» domandai. La cosa mi stava molto a cuore. Lui si fermò a cavalcioni del davanzale. «Danaro?» «Sì, quel danaro che devi mandarmi...» Rise di cuore. Per essere più preciso, rise come una iena. «Ascoltami bene, scherzavo quando ti ho detto che ti avrei mandato del danaro.» Barcollai. «Che cosa?» «Sicuro. É stata una burla! Volevo tenerti allegro per poter riavere il mio taccuino. Sarei un bell’imbecille se ti dessi del danaro. Occorre a me caro.» Si fermò. Mentre parlava aveva sfogliato le pagine del taccuino e a un tratto vidi che un sorriso beato gli illuminava il volto. «Guarda, guarda! Come sono sventato! Proprio di lei dovevo dimenticarmi! Stenterai a credermi, ma mi era proprio sfuggito di mente che se c’era una persona alla quale volevo fare il naso a focaccia, questa era April June!» Barcollai di nuovo. Mi parve che il ragazzo, il taccuino e tutta la stanza mi roteassero attorno. Quelle parole mi avevano fatto l’effetto di un poderoso pugno all’altezza del terzo bottone del panciotto. Prima che pronunciasse quelle terribili parole, tutti i miei pensieri erano concentrati sul suo tradimento a proposito del danaro. Non mi era passato neppure per la mente che la sua infamia potesse scendere a così tenebrose profondità. Ma ora il danaro passava in seconda linea. Mi lasciai sfuggire un grido soffocato. Lui continuava a tentennare il capo deplorando la propria dimenticanza. «E pensare che ho perduto tanto tempo per mettere a posto questa gente di secondaria importanza, quando avrei dovuto precipitarmi a dare il fatto suo a quella strega! Ma ora vado subito a rimediare!» Ritrovai la voce. «No, no!» gemetti. «Eh?» «Non farai una cosa simile!» «Sicuro che la farò!» «Sei dunque un demonio?» «Naturale che sono un demonio! Guarda i giornali!» Si cacciò in tasca il taccuino, passò l’altra gamba oltre il davanzale e

scomparve. Un momento dopo, vidi ricomparire la sua testa. «Ehi, dimenticavo di dirti una cosa... sta’ in guardia da Tommy Murphy.» Scomparve di nuovo. Udii un fruscio, poi un tonfo. Si era calato al suolo e ora partiva per la sua spedizione punitiva.

XIX

Rimasi per qualche minuto impietrito. Poi mi avvicinai al letto e mi sedetti, in preda al terrore. Non avevo idea di quello che potessero significare le sue ultime parole e, al momento, la cosa non mi interessava affatto. Tutti i miei pensieri erano per il pericolo terribile che correva la donna che amavo. Mentre contemplavo l’orrendo oltraggio che quel giovane furfante progettava, mi parve di nuovo che tutto mi turbinasse attorno. Il sangue mi si gelava nelle vene e la mia anima si rivoltava al pensiero di quel che stava per accadere. E, a proposito di anime, non arrivavo a capacitarmi che ne possedesse una tanto nera. Nel corso del nostro primo colloquio, come ricorderete, mi aveva parlato di sua madre che viveva a Chillicothe, nell’Ohio. Era possibile che sua madre non gli avesse insegnato la differenza tra il bene e il male, e non gli avesse inculcato almeno i rudimenti della cavalleria? Mi sembrava che quello fosse l’A B C dell’educazione materna. Io so che se fossi una madre, mi preoccuperei per prima cosa di insegnare ai miei pargoletti quali riguardi e quale deferenza siano dovuti dall’uomo al sesso gentile. Ma ben presto abbandonai questi pensieri teorici. Non era il momento di stare seduto sulla sponda del letto a meditare sull’educazione che le madri dovrebbero dare ai loro figli. April doveva essere avvertita, senza indugio. Bisognava che sapesse subito che qualora Lord Havershot, per il quale aveva cominciato a nutrire sentimenti più profondi e più caldi di quelli di una semplice amicizia, si fosse presentato a casa sua e avesse mostrato l’intenzione di avvicinarsi, doveva senza indugio indietreggiare e mettersi in posizione di difesa. Possibilmente sarebbe stato opportuno dare alla ragazza anche qualche lezione elementare sull’arte di parare i colpi nel pugilato. Soltanto così il più bel naso di Hollywood avrebbe potuto essere salvato da un’aggressione che lo avrebbe guastato irrimediabilmente. Due minuti dopo, ero nella cabina del telefono e scorrevo febbrilmente le colonne della guida che contenevano i nomi che cominciavano per J. Il nome di April non c’era. Avrei dovuto ricordarmi che raramente i nomi delle attrici celebri si trovano sulla guida del telefono. Non mi restava altro

che recarmi di persona a casa sua. Uscii dalla cabina e nel vestibolo andai a sbattere contro il signor Brinkmeyer. Il presidente della Brinkmeyer Corporation aveva approfittato largamente della felice combinazione che lo aveva sollevato dalla necessità di indossare una marsina e di mettersi un colletto inamidato. Portava un comodo vestito di flanella e una camicia, pure di flanella, dal colletto larghissimo. Sotto i suoi pantaloni fatti ad astuccio di violino non v’era traccia di ghette e l’occhiello della sua giacca non era ornato da un fiore. Tuttavia aveva in mano dei fiori e appena mi vide me li porse. «Ohilà!» disse affabilmente. «Credevo che tu fossi nella tua camera. Tra un momento bisogna che ci incamminiamo. Venivo appunto da te per darti questo.» Guardai il mazzo di fiori, con aria assente e preoccupata. «È il mazzolino che mi devi offrire» spiegò Brinkmeyer. Lo presi, con fare assente, e lui rise di cuore. Non avevo mai visto il presidente di una società cinematografica così allegro. «Numi del cielo» disse, «come sei agghindato! Mi sembri uno di quei damerini che stanno alla porta del palcoscenico ad aspettare le attrici. Ah, ah! Mi ricordi i bei tempi andati. Quando avevo il magazzino di abiti fatti, andavo anch’io alle porte dei palcoscenici ad aspettare coi mazzolini di fiori. Ricordo che una volta...» Lo fermai con un gesto. «Mi racconterete la storia della vostra vita in un altro momento, Brinkmeyer, se non vi dispiace» dissi. «Ora non mi posso fermare.» «Eh?» «Ho un appuntamento importante. Questione di vita o di morte.» Mi guardò con gli occhi sbarrati. Era evidente che non ci capiva nulla. Non trovando le parole per chiedermi una spiegazione disse di nuovo: «Eh?» Io ero sulle spine. Non mi sarebbe importato nulla che mi guardasse a bocca aperta e che continuasse a dire ‘Eh’, ma il guaio era che intanto restavo inchiodato sul posto e la sua mole era tale che bloccava il passaggio. Non avrei potuto sgusciar via né da un lato né dall’altro e Brinkmeyer non era certo uno di quegli uomini che si possono scostare con uno spintone. D’altra parte, se non avessi potuto partire immediatamente per la mia missione caritatevole, il naso di April June sarebbe stato perduto. Non so che cosa sarebbe potuto capitare se il blocco del corridoio fosse

continuato, ma, fortunatamente, tutto a un tratto, giunse dal piano superiore un urlo di donna che lacerò l’aria. Lo riconobbi subito per quel che era... Era l’urlo di una donna che ha trovato una rana nella propria camera. «Numi del cielo!» fece il signor Brinkmeyer tremando tutto, come se avesse udito le trombe del Giudizio Universale. Cessò di occuparsi di me e si precipitò verso la scala. Non sarebbe esatto dire che salì la scala balzelloni, poiché credo che fossero passati trent’anni buoni da quando aveva fatto l’ultimo balzellone della sua vita. Però devo riconoscere che diede prova di un’agilità considerevole, per un uomo della sua mole. Intanto l’ostacolo tra me e la porta di strada era scomparso e io ne approfittai. In men che non si dica, mi trovai sulla gradinata. L’automobile era là, accostata al marciapiede, con l’autista immobile al volante. Gli diedi un colpetto sul braccio. «Conducetemi immediatamente a casa della signorina April June» dissi. L’autista era un uomo grande e grosso, con una faccia che sembrava un budino di sugna. Era una faccia che non ingannava. Guardandola si capiva subito che quello era un uomo di mente tarda. Lo era davvero. Mi guardò come intontito. «Che cosa c’è?» «Portatemi subito a casa della signorina April June.» «A casa di chi?» «Della signorina June.» «Volete andare a casa della signorina June?» «Sì, subito.» Si mordicchiò le labbra pensosamente. «Ma voi dovete andare allo studio.» «Sì, ma...» «Allo studio... ecco dove dovete andare.» «Sì, ma...» «Mi hanno detto di portare qui la macchina per condurre voi e il signor Brinkmeyer allo studio.» «Sì, sì, ma...» «E non posso nemmeno portarvi allo studio, finché il signor Brinkmeyer non è pronto. Ma sapete che cosa farò intanto che aspettiamo?» disse scendendo dall’automobile. «Vi reciterò ‘Gunga Din’. Che ne dite? Poi voi ve ne andate dal vecchio e gli dite: ‘Avete proprio un autista eccezionale, signor Brinkmeyer. Mi sembra un peccato che lo teniate soltanto per guidare

l’automobile. Dovreste scritturarlo per qualche pellicola, piuttosto’. Ascoltate» soggiunse l’autista. «‘Gunga Din’, del defunto Rudyard Kipling.» Emisi una protesta inarticolata, ma non si può fermare un entusiasta sul punto di recitare ‘Gunga Din’, con una protesta inarticolata. Trasse un lungo respiro, alzò un braccio e si pose l’altro attraverso lo stomaco, senza dubbio a scopo di difesa. La sua faccia aveva più che mai il ripugnante aspetto di un budino di sugna. «‘Potete parlare di gin e di birra...’» cominciò. «Ma io non voglio parlare di gin e di birra.» «‘Quando siete sicuro al riparo...’» «Io voglio andare...» «‘E vi mandano...’» «State a sentire...» «!» Abbandonai l’inutile impresa. La strada per arrivare alla graziosa dimora di April June, nella Linden Drive, era lunga e io avevo sperato di non doverla percorrere a piedi, ma compresi che non c’era alternativa. Lasciai l’autista intento a borbottare non so che a proposito di ‘Vecchi idoli dal naso camuso’ e mi avviai di buon passo. Ma non avevo ancora percorso duecento metri, quando, per Giove! fui fermato da un ‘ehi!’ alle mie spalle; mi volsi e vidi una figura vestita elegantemente in grigio, con un paio di scarpe marrone all’ultima moda. Per un attimo mi balenò la speranza che la voce della coscienza avesse sussurrato all’orecchio di quel ragazzo dall’anima nera, che andava portando a spasso il mio corpo, facendogli abbandonare i suoi truci propositi. Ma non era così. Le sue prime parole mi fecero subito capire come le mie speranze fossero vane. «Mi è venuto in mente che non conosco l’indirizzo di April June» disse. «Tu me lo puoi dire, credo. Dove abita quella strega?» Lo guardai con tutta l’ostilità e il disprezzo di cui disponevo. Ero letteralmente schifato. Era il colmo di tutti i colmi che pretendesse da me una complicità per attuare il suo programma di fare il naso a focaccia alla ragazza che amavo. «Se me lo dici, ti do quel danaro che ti occorre» soggiunse. «No» dissi con fermezza. Non titubai neppure per un istante. Secondo la mia mentalità, l’uomo che vende la donna che ama, per danaro, è il peggiore dei furfanti e conosco altre persone che la pensano come me. «No, no di certo!»

«Suvvia!» «No. Le mie labbra sono sigillate.» Il suo viso si rabbuiò. Non mi ero mai reso conto di quanto fossi repellente quando ero stizzito. Assomigliava talmente a un gorilla, che non mi sarei affatto meravigliato se avesse cominciato a battersi il petto come credo facciano i gorilla quando non sono soddisfatti dell’andamento delle cose. Lo spettacolo era tale da impaurire, ma, strano a dirsi, in quel momento il sentimento che dominava in me non era quello della paura; sentivo invece crescere a dismisura nell’animo mio l’affetto e l’amore per April. Sentivo che una ragazza capace di contemplare la possibilità di un matrimonio con un individuo dotato di una faccia come quella doveva essere, senza dubbio, un’araba fenice. Strinse i pugni e fece un passo avanti. «Ti conviene cantare, ragazzo mio.» «Non ci penso neppure.» «E se lo facessi a te il naso a focaccia?» «Ti sfido.» «Ah, sì? E che cosa potresti fare se io mettessi in atto la mia minaccia?» «Potrei chiamare aiuto» risposi con calma. «Noterai che non siamo soli. Vedi quel ragazzo laggiù presso un lampione? Se ti provi a toccarmi, io caccio un urlo e quello, senza dubbio, fila come il vento a chiamare la polizia.» Le mie parole parvero sconcertarlo assai meno di quanto non avessi sperato. Avrebbe dovuto almeno restare un po’ titubante, ma mi parve che non lo fosse affatto. Anzi, notai che sogghignava in modo odioso... il suo sorriso era quello del giocatore di bridge che scopre una carta alta quando gli avversari non se lo aspettano. «È un amico tuo?» «No. Non l’ho mai visto. Ma sono sicuro che ha abbastanza spirito di solidarietà per schierarsi con me, nel caso che mi trovassi in pericolo, anche senza conoscermi di persona.» «É un tipo abbastanza gagliardo.» Fino a quel momento non avevo osservato bene il ragazzo in questione, ma volgendomi a guardarlo dovetti convenire col mio interlocutore. Per la sua età, il ragazzo sembrava davvero sviluppato. Non capivo però che cosa c’entrasse questo con la nostra discussione. Non avevo detto di sperare da lui un aiuto diretto.

«Sì» risposi distrattamente. «Sembra robusto.» «Te lo dico io che è robusto. Ascoltami, ho una cosa da dirti.» «Che cosa?» Sogghignò di nuovo. «Ecco, prima che Joey Cooley divenisse l’idolo delle Madri d’America, trionfava al suo posto un ragazzo di nome Tommy Murphy. Dovunque si vedevano cartelloni col suo nome a grossi caratteri. Poi sono arrivato io, e lui è stato messo da parte. Nessuno lo voleva più e il suo contratto non fu rinnovato; questo, naturalmente, lo rese furibondo. Sissignore, proprio furibondo. Da allora non ha mai cessato di andar dicendo che voleva vendicarsi e di manifestare propositi sanguinari al mio riguardo. Ebbene, ha tentato di assalirmi un’infinità di volte e ti garantisco che in diverse occasioni ho dovuto scappare con quanto fiato avevo per non finire nelle sue grinfie.» Mi parve che una mano gelida mi stringesse il cuore. Cominciavo a capire la situazione. «Quel ragazzo laggiù, sotto il lampione, è proprio Tommy Murphy. Quasi tutti i giorni se ne sta per ore e ore fuori della casa di Brinkmeyer, sperando che venga il suo momento. Credo che ti abbia visto uscire e che ti abbia seguito.» La fronte mi si imperlò di sudore. Era evidente che entrando nelle spoglie del piccolo attore ero piombato in un’orribile giungla piena di creature sinistre che potevano piombarmi addosso da un momento all’altro. Prima di questa mia esperienza personale non avevo mai pensato che la vita di un piccolo astro del cinema, a Hollywood, fosse così piena di pericoli. Non mi meravigliavo ora che il mio compagno avesse sognato tanto di abbandonare quel mondo per ritornarsene a Chillicothe, nell’Ohio. Del resto, la signorina Brinkmeyer bastava da sola ad amareggiare la vita di un ragazzo costretto a viverle vicino. Ora, con l’aggiunta di Tommy Murphy, la situazione diveniva davvero insopportabile. «Se tu fossi stato gentile e mi avessi detto dove abita April June, io sarei rimasto qui e ti avrei ricondotto sano e salvo a casa, ma ora non sono più disposto a farlo. Me ne andrò e ti lascerò nelle pesti... a meno che non cambi parere e mi dia quell’indirizzo.» Ammetterete che quello era un tragico dilemma per un innamorato. Lanciai un’occhiata a Murphy. La mia prima impressione fu confermata largamente. Avevo detto che aveva l’aria di essere robusto e lo era davvero. Era uno di quegli adolescenti quadrati e massicci che potrebbero tener testa a

un uomo. Avrebbe potuto essere benissimo figlio dell’autista. E ora che lo guardavo con maggior attenzione potevo notare l’ostilità del suo sguardo. Non esagero dicendo che mi guardava torvo, come una tigre che fissasse la preda. Mi sembrò che il panorama mi ondeggiasse davanti agli occhi, e, a dire il vero, ondeggiai anch’io. Tra il pericolo in cui mi trovavo e il pericolo in cui si trovava April, confesso che non sapevo più in che mondo fossi. Ma l’amore trionfò sull’istinto di conservazione. «No!» dissi. «Decisamente no!» «Parli sul serio?» «Sicuro.» Scrollò le spalle. «Va bene. Fa come vuoi. Non vorrei essere nei tuoi panni, per nessuna cosa al mondo. Nossignore! Tanto più che non c’è soltanto Tommy Murphy. Mentre venivo da questa parte ho visto Orlando Flower che gironzolava nei paraggi. Direi quasi che quello è più pericoloso di Tommy... Però non so... C’è poca differenza. Comunque, ripeto, non vorrei essere nei tuoi panni. Ma fa’ come vuoi.» Con un altro di quei suoi odiosi sogghigni, girò sui tacchi e se ne andò, lasciandomi solo nel mondo. Solo, cioè, non contando Murphy, il quale ora navigava alla mia volta a una velocità di parecchi nodi all’ora. Nei suoi occhi brillava una luce diabolica... uno scintillio, direi quasi... e si leccava le labbra. Aveva tutta l’aria del ragazzo i cui sogni sono divenuti realtà... del ragazzo che ha trovato l’uccellino azzurro.

XX

Osservando quel Murphy, mentre si fermava davanti a me e restava a misurare la distanza, stentavo a credere che avesse potuto essere mai l’idolo delle Madri d’America. Pensavo che le Madri d’America dovevano essere un discreto branco di oche. A me sembrava che il ragazzo non avesse una sola qualità che potesse renderlo simpatico. Aveva tutta l’aria di una figura uscita fresca fresca da una pellicola di gangster. Era la specie di individuo che non avrei mai osato portare al mio circolo. Indietreggiai di un passo... anzi indietreggiai di parecchi passi. All’ottavo passo indietro sentii che il terreno diveniva molle sotto i miei piedi e mi accorsi che mi trovavo in un praticello. Forse saprete che in Beverly Hills c’è una regola che obbliga i proprietari di casa a costruire i loro stabili un po’ arretrati rispetto alla sede stradale e a porre davanti ad essi dei praticelli ben tenuti. Mai come allora quella disposizione mi era sembrata provvida. Era chiaro che in un avvenire prossimo mi sarei trovato nell’occasione di fare diverse tombole e se c’era qualcosa che potesse attenuare queste tombole, tanto di guadagnato. Fino a quel momento le cose si erano svolte in un silenzio rotto soltanto dal respiro affannoso e minaccioso di Murphy e dal battito dei miei denti. Mi balenò l’idea che due chiacchiere potessero allentare la tensione. Questo accade di frequente. Voglio dire che se si riesce ad avviare una conversazione può sempre capitare che anche due nemici scoprano di avere dei gusti in comune e finiscano per fraternizzare. Barmy Fotheringay-Phipps mi diceva che una volta si trovò di fronte a un tale infuriato che voleva due sterline, sei scellini e undici pence per certe mercanzie che gli aveva fornite; ebbene, riuscì a portare il discorso sui cavalli favoriti della corsa che aveva luogo in quel pomeriggio all’ippodromo e dieci minuti dopo lui (il fornitore) offriva a Barmy una pinta di birra al più vicino bar e Barmy gli dava una stoccata di cinque scellini da restituirsi senza fallo il mercoledì seguente. A dire il vero, non mi aspettavo che la situazione prendesse una piega così simpatica, tanto più che non ho e non ho mai avuto la splendida oratoria

di Barmy, però pensavo che con quattro chiacchiere le cose avrebbero potuto migliorare, perciò indietreggiai di un altro passo e mi sforzai di fare un sorriso amabile. «Ebbene, mio piccolo amico» dissi adattando il mio stile a quello di B.K. Burwash. «Che c’è di bello, mio piccolo amico?» Mi parve che Murphy non si addolcisse per nulla; continuava a respirare affannosamente. La conversazione languiva. «Non posso fermarmi a lungo» dissi rompendo il silenzio che minacciava di divenire imbarazzante. «Ho un appuntamento. Sono lieto di avervi incontrato.» Così dicendo, tentai di girargli attorno e di sgusciare via. Ma dovetti constatare che era difficile girare attorno a Murphy quanto al signor Brinkmeyer. Quantunque molto dissimili nel fisico, sembravano possedere in comune la capacità di bloccare ogni passaggio. Quando mi spostavo verso destra, lui si spostava verso sinistra, e quando mi spostavo verso sinistra, lui si spostava verso destra, cosicché, alla fine, la mia posizione non era mutata. Feci un altro tentativo. «Vi piacciono i fiori? Ne volete un mazzetto?» A quanto sembrava i fiori non gli piacevano. Quando gli porsi il mazzetto, lo fece cadere a terra assestandomi un colpo sulla mano, e la violenza di quel colpo peggiorò il mio stato d’animo. Mi chinai a raccogliere il mazzetto e tentai un’altra tattica. «Volete un mio autografo, mio piccolo amico?» domandai. Nel momento stesso in cui quelle parole mi erano uscite, mi resi conto di aver mancato terribilmente di tatto. L’ultimo argomento che avrei dovuto toccare era proprio quello degli autografi. Non poteva che essere penoso per lui. Senza dubbio vi era stato un tempo in cui quel ragazzo che mi stava dinanzi era stato costretto a scrivere autografi per i suoi ammiratori fino a farsi venire i calli sulle dita, mentre dopo l’avvento del piccolo Joey Cooley la richiesta era divenuta nulla. Menzionando gli autografi, quindi, non facevo che ridestare in lui tristi ricordi di glorie passate... in altre parole, avevo messo del sale nella ferita aperta. Anche se non avessi compreso tutto ciò da solo, mi sarei accorto dalla sua reazione di aver commesso un grave errore. «Un autografo!» disse con un ringhio che parve uscirgli dall’angolo sinistro della bocca. I suoi occhi ebbero uno scintillio felino e ancora una volta cercai invano di spiegarmi come avesse mai potuto essere considerato

con stima dalle Madri d’America. Cominciò a parlare. Aveva lo scilinguagnolo sciolto, anzi, come risultò poi, anche troppo sciolto, poiché fu proprio rimandando l’azione e perdendo del tempo a fare un’arringa che rovinò i suoi piani. Avrete forse notato come questo accada spesso anche nei romanzi polizieschi. Voglio dire, c’è sempre quel tal punto in cui il furfante ha l’eroe legato a una seggiola oppure contro un palo ed è sul punto di fargli la pelle. Ma invece di agire prontamente, quel somaro continua a parlare. Vi vien voglia di dire: ‘Agisci, scemo, agisci! Non perdere del tempo prezioso a punzecchiare il tuo nemico’. Infatti si sa già che se quello continua a blaterare, qualcuno arriverà a rompergli le uova nel paniere. Ma quello persiste a fare il suo discorso e finisce sempre col mettersi nei guai. Così accadde nel caso di Murphy. Un ragazzo dotato di un po’ di senso comune avrebbe capito subito che la miglior cosa da farsi era passare subito all’azione, e invece quello preferì restarsene là, col corpo proteso in avanti, a dirmi quel che si proponeva di fare per darmi quel che mi meritavo. Con quella sua voce un po’ rauca e sgradevole, che faceva pensare che avesse della carne crescente in gola, disse: «Autografi, eh?» Disse: «Autografi, eh?» «Te li do io gli autografi!» Disse: «Ti farò passare io la voglia di parlare di autografi. Sai che cosa ti farò? Ti ridurrò come un biscotto inzuppato. Sai che cosa ti farò? Ti tirerò fuori le budella e ti concerò in un modo che nessuno starà più lì incantato a guardarti dicendo: ‘Oh, quanto è carino!’ Non sarai più carino, perché avrai la faccia che assomiglierà a una polpetta. Sai che cosa ti farò? Ti...» A questo punto si fermò, non perché avesse finito, poiché evidentemente aveva molte cose da dire, ma perché, a un tratto, dal terreno sul quale ci trovavamo si levò una specie di eruzione. Nascosti qua e là, in questi praticelli di Beverly Hills, ci sono certi congegni di metallo con molti forellini, che servono per annaffiare l’erba. Basta dare un mezzo giro a un rubinetto e i congegni diventano vere e proprie fontane. Ed ecco che cosa era accaduto: non vista da noi, una mano aveva girato un rubinetto e noi ci trovavamo proprio nel raggio d’azione della fontana. A dire il vero, per me non andò tanto male. Grazie alla mia politica, a

base di ritirate strategiche, avevo raggiunto un punto dove arrivava appena qualche spruzzo, ma quel piccolo bandito di Murphy si trovava per caso proprio sopra uno dei getti e siccome se ne stava tutto proteso in avanti, per dirmi quel che contava di farmi, si prese tutto lo spruzzo della fontana in piena faccia. Come se il destino avesse voluto fare dell’ironia su ciò che il ragazzo mi aveva detto poco prima, fu ridotto in un attimo come un biscotto inzuppato. La cosa non poteva fare a meno di sviare per un momento la sua attenzione: ciò capiterebbe a chiunque ricevendo all’improvviso una pinta e mezzo d’acqua in faccia, e per un attimo Tommy Murphy cessò di occuparsi di me. Spiccò un salto prodigioso e io non mancai di approfittare dell’occasione. Mentr’egli era ancora a mezz’aria, girai sui tacchi e me la diedi a gambe giù per la strada. Mi ricordai che appunto con quel sistema il piccolo Cooley aveva sempre risolto le situazioni pericolose, in passato. Fino a quel momento, a parte il lancio occasionale di qualche arancia, non avevo avuto occasione di collaudare per bene il mio nuovo corpo e di vedere a che cosa poteva servire. Lo specchio mi aveva detto che era decorativo, ma avevo già indovinato che in fatto di muscoli non stava molto bene. Tuttavia, con un indicibile senso di sollievo e di soddisfazione, scoprii che ero in grado di correre a una velocità sorprendente. Come velocista, in pianura, ero proprio un campione. Percorsi un bel tratto di strada realizzando un tempo ottimo. Udivo dietro di me degli strani rumori che mi facevano capire che il mio avversario si era lanciato all’inseguimento, ma ero quasi certo di potergli dare la polvere. Questi ragazzi quadrati e massicci possono avere della resistenza, ma come velocisti valgono poco. Il concetto che mi ero fatto delle mie possibilità in questo campo non era errato. La mia classe si rivelò. Quando imboccai la Linden Drive ero in testa di parecchie lunghezze e stavo acquistando un tale vantaggio che avrei potuto tagliare il traguardo con la briglia al collo, ma a un tratto qualcuno mi tagliò la strada, e io, nel tentativo di schivarlo, andai a ruzzolare in un cespuglio. Quando riuscii a districarmi dai rami del cespuglio e a rialzarmi, la prima cosa che vidi fu la faccia generosamente lentigginosa di Orlando Flower. In altre parole, la mia situazione era esattamente quella di un esploratore africano il quale, scappando a gambe levate da un rinoceronte inferocito, si trovi, proprio quando comincia a pensare di averla scampata bella, di fronte a un puma divoratore di uomini.

Orlando Flower, come Tommy Murphy, era di umore ciarliero. Mi si piantò davanti stringendo i pugni e aprendoli alternativamente, ma anche lui rimandò l’azione e preferì parlare. «Be’?» disse in aria di sfida. Si ricorderà che nel nostro incontro precedente avevo risposto al suo ‘pfui’ con un altro ‘pfui’ egualmente energico e spavaldo. Però, in quell’occasione, c’era stato un solido muro tra noi e ora che quell’ostacolo non c’era più, non mi sentivo molto in vena di ribattere sullo stesso tono. A così breve distanza, c’era qualcosa di sconcertante in quegli occhi azzurri, un po’ troppo vicini, che spiccavano con la loro cornice di lentiggini. Joey Cooley si era dichiarato incapace di stabilire se il più pericoloso dei due fosse Flower oppure Murphy, e ora io provavo la stessa perplessità. Però di una cosa ero certo... non mi sentivo in grado di sfidare Orlando con un ‘Be’?’. Mantenni un mutismo imbarazzato e lui disse di nuovo «Be’?» In quel momento si udì un grido rauco e io vidi Tommy Murphy che avanzava con un galoppo pesante. Quando fu vicino a noi si fermò e rimase ansante; evidentemente quella corsa l’aveva sfiatato. Passarono alcuni secondi prima che fosse in condizioni di parlare; poi finalmente disse: «Ehi!» Orlando Flower sembrava contrariato per l’interruzione. «Che c’è?» domandò in tono aspro. «Tieni giù le mani da quel marmocchio» disse Tommy Murphy. «Chi, io?» disse Orlando Flower. «Sì, tu» disse Tommy Murphy. Orlando Flower gli lanciò un’occhiata ostile. «Pfui!» disse. «Pfui!» disse Tommy Murphy. «Pfui!» disse Orlano Flower. «Pfui!» disse Tommy Murphy. Seguì una pausa. «L’ho visto io per primo» disse Tommy. Il punto giuridico era buono, naturalmente, ma Orlando Flower aveva ancora qualcosa da rispondere. «Ah, sì?» «Sicuro!» «Ma sono stato io a fermarlo, sì o no?» «Ma sono stato io il primo a vederlo, sì o no?»

«Ma sono stato io a fermarlo, sì o no?» «Ti dico che sono stato io il primo a vederlo.» «E io ti dico che sono stato io a prenderlo.» «Non ti provare a toccarlo!» «Dici a me?» «Sì, a te!» «Pfui!» «Pfui!» «Pfui!» «Pfui!» «Pfui!» Essendo in tal modo ritornati al punto da dove erano partiti, sostarono di nuovo e stettero a guardarsi con aria di sfida, mentre io rimanevo un po’ in disparte, stringendo al petto il mazzolino di fiori; avevo la mente in subbuglio. La sensazione che dominava in me, naturalmente, era un’ansia molto intensa. Era tutt’altro che gradevole dover stare là ad ascoltare quei due che discutevano disputandosi il privilegio di malmenarmi. Ma, a parte l’ansia, mi sentivo ferito nell’orgoglio. Era una situazione molto umiliante per un ex campione universitario di pugilato. Dopo un poco, i due ricominciarono con i loro ‘Pfui’. «Pfui!» disse Orlando Flower. «Pfui!» disse Tommy Murphy. «Pfui!» disse Orlando Flower. Seguì un momento di silenzio. Poi Tommy parlò. «Pfui!» disse, come se gli fosse balenata proprio allora una risposta nuova e originale. La psicologia di quei due scimmiotti era come un libro chiuso per me. Non riuscivo a capire il loro processo mentale. A me sembrava che non ci fosse proprio niente in quell’ultimo ‘Pfui’ che lo differenziasse in alcun modo dai ‘pfui’ precedenti. Eppure la differenza ci doveva essere, perché la reazione di Flower fu immediata. Arrossendo sotto le lentiggini, si lanciò contro Tommy Murphy; un istante dopo erano tutti e due al suolo e rotolavano per il marciapiede, avvinghiati. Ebbene, non dico di essere particolarmente intelligente, ma anche un somaro, come l’autista che mi aveva recitato ‘Gunga Din’, avrebbe capito qual era la miglior cosa da farsi in una situazione come quella. Fermandomi soltanto un momento per regalare ai

due contendenti un bel calcio nello stomaco, alzai i tacchi e ripresi il mio cammino. Quando fui alla porta della casa di April ed ebbi premuto il bottone del campanello, mi volsi a guardare dalla parte da cui ero venuto. I due contendenti si erano separati e alzati, e ora stavano a guardarmi a bocca aperta, con aria sgomenta; erano evidentemente sconcertati dalla prontezza con cui avevo agito. Non credo di aver mai visto due ragazzi con un’aria tanto rincretinita. Alzai la mano e feci loro un ironico cenno di saluto. «Pfui!» dissi. «Non dicevo a voi» aggiunsi rivolto al maggiordomo che aveva aperta la porta e che stava a guardarmi con aria meravigliata. «Dicevo a due miei conoscenti che sono laggiù.»

XXI

Quando gli dissi che volevo vedere la signorina June, il maggiordomo parve incerto sull’opportunità di farmi entrare o meno. Mi spiegò che April aspettava una visita e gli aveva ordinato di dire a tutti gli altri che si fossero presentati che lei non era in casa. Per fortuna, il buon uomo finì per concludere che un mezzo personaggio come me non poteva essere considerato come un visitatore e poco dopo mi fece entrare in un salotto, dove mi sedetti, cercando di riprender fiato. Mentre stavo là seduto, un’ondata di tenerezza mi invase. Proprio in quella stanza ero stato tante volte con April, ascoltandola con attenzione parlare dei suoi ideali e fornendole dati informativi sull’ordine di precedenza dell’aristocrazia inglese e sul diritto delle contesse di entrare prima delle mogli dei visconti ai grandi pranzi. Tutta l’atmosfera dell’ambiente olezzava della gentile presenza di lei e non mi vergogno a dire che sospirai. Anzi, pensando come fosse vano ormai il mio amore, fui sul punto di versare delle lacrime. La mia malinconia fu accentuata dalla vista della mia fotografia che stava al posto d’onore sullo scrittoio di April. C’erano altre fotografie nella stanza; ce n’erano di donne, con autografi che dicevano ‘Con tutto l’affetto di Mimma’, e altre cose del genere; ce n’erano altre di uomini su cui erano scritte frasi come ‘Con sincera amicizia...’; ma l’unica sullo scrittoio era la mia e io provai un’intensa emozione. Quando dico che provai un’intensa emozione alludo in parte al piacere che mi faceva quel privilegio e in parte allo spavento che provavo pensando alla facilità con cui l’attuale Lord Havershot poteva arrivare a portata del naso di quella povera ragazza, se lei era giunta al punto di tenere la sua fotografia al posto d’onore sullo scrittoio. Se io non fossi andato ad avvertirla di stare sull’avviso e di tener d’occhio la mano destra di quell’energumeno, chissà mai che cosa sarebbe potuto capitare. Mi pareva di vederla, ignara dei truci propositi di lui, balzare in piedi, con un’esclamazione di piacere, vedendolo entrare, e corrergli incontro per salutarlo, senza pensare a ripararsi il volto. E proprio nel momento in cui lei sarebbe stata là, ignara, con la luce

dell’amore negli occhi... pam! Il quadro evocato dalla mia fantasia era tale da farmi rabbrividire. Probabilmente sarei rabbrividito ancor di più, se in quella congiuntura non fossi stato preso da una strana sensazione che sulle prime tentai di analizzare. Poi compresi di che cosa si trattava. Mi resi conto, a un tratto, che morivo di sete. Tra il calore della giornata e tutto il moto che avevo fatto, fino a pochi minuti prima, mi sembrava di avere l’epiglottide fatta di carta vetrata. Stavo già boccheggiando, come un pesce fuor d’acqua, e mi sembrava che, se non avessi cacciato giù qualcosa di liquido nel più breve tempo possibile, sarei morto tra spasimi atroci, quando mi accorsi che in un angolo della stanza si trovava un tavolino con tutto l’occorrente per preparare un modesto beveraggio. C’era una bella bottiglia di whisky, un bel sifone di seltz, un rallegrante secchio di ghiaccio... insomma, l’armamentario al completo. Attratto irresistibilmente da quella vista, attraversai la stanza come un cammello che si dirige a un’oasi, e mi versai da bere. Naturalmente avrei dovuto rendermi conto che mentre il desiderio di mandar giù un paio di bibite vivificanti apparteneva a Lord Havershot, la mia capacità d’ingerire dell’alcool era sempre quella del piccolo Joey Cooley; ma, sul momento, confesso, questo non mi passo neppure per la testa. Riempii un bicchiere e lo vuotai d’un fiato. Non mi parve gradevole come prevedevo, perciò ne bevvi un altro per verificare se mi piacesse davvero o meno. Riempiendo poi il bicchiere una terza volta, ritornai alla mia seggiola e accesi una sigaretta. Mi ero appena seduto quando fui conscio di uno strano ronzio nella testa, accompagnato da uno straordinario desiderio di mettermi a cantare. La cosa mi stupì un poco, poiché, a parte qualche gorgheggio nel bagno, io non sono molto appassionato del canto. Fui lieto di constatare che, quanto alla voce, ero molto in forma. Senza dubbio non ero di umore particolarmente critico, ma devo dire che fui proprio soddisfatto di me stesso. Il pezzo che avevo scelto per l’esecuzione era il vecchio e celebre ‘Canto dei canottieri di Eton’, e mi uscì liscio come l’olio, a parte una strana tendenza delle parole a impastarsi un poco l’una con l’altra. Dirò, anzi, che dopo un poco ritenni opportuno sostituire ai versi del ‘Libretto’ originale qualche trallarallera, trallarallà. Stavo appunto ricantando il ritornello, con quanto fiato avevo in corpo, agitando il bicchiere e la sigaretta ritmicamente, quando una voce disse alle mie spalle: «Buona sera». Mi fermai nel bel mezzo di un ‘trallarallera’, e mi voltai.

Scorsi una donna di mezza età. «Salute» dissi. «Buona sera» rispose. Sembrava un tipo bonario, amabile. Provai subito della simpatia per lei. Quel che mi attraeva maggiormente nella sua persona era il fatto che aveva una faccia che assomigliava straordinariamente a un cavallo della mia scuderia per il quale avevo un’affezione particolare. Mi pareva proprio di essere tra amici. L’istinto degli uomini della famiglia Havershot, al vedere una donna che entri in una stanza in cui essi si trovano, è naturalmente di saltar su come razzi. Rimasi quindi non poco imbarazzato quando mi avvidi d’essere incapace di alzarmi. Feci un paio di tentativi, ma ogni volta fui costretto a lasciarmi ricadere sulla seggiola. Il vecchio spirito del preux chevalier funzionava a sei cilindri, ma le gambe sembravano essersi proprio allentate nelle giunture. «Sentite, sono dolente, ma mi par proprio di non riuscire ad alzarmi» dissi. «Prego, non vi crucciate.» «Sarà un attacco di sciatica, credo.» «Senza dubbio.» «Oppure lombaggine.» «Molto probabile» nitrì la nuova venuta amabilmente. «Mi chiamo Pamela Wycherley.» «Tanto piacere. E io mi chiamo...» «Oh, non occorre che mi diciate il vostro nome, signor Cooley. Sono una delle vostre ammiratrici. Siete venuto a far visita alla signorina June?» «Sì. Volevo vederla per una faccenda di...» «E le avete portato quei bellissimi fiori?» lei m’interruppe guardando il mazzolino che giaceva al suolo accanto alla mia seggiola e che aveva un’aria molto malconcia dopo le sue recenti vicissitudini. «Che pensiero gentile!» L’idea di offrire il mazzolino ad April, come segno della mia stima personale, non mi era passato per la mente, ma accettai con la massima prontezza il suggerimento che mi dava, senza saperlo, la donna dal volto equino. «Credete che li gradirà?» «Sicuro! Mi sembrate molto accaldato, signor Cooley. Siete venuto qui di corsa?»

«Altroché! C’erano due furfanti che mi davano la caccia. C’era un ragazzo di nome Tommy Murphy...» «Oh, Tommy Murphy vi dava la caccia?» «Sapete forse che Tommy Murphy è un mio nemico?» «Oh sì. Lo sanno tutti a Hollywood. Negli studi cinematografici, credo che vi sia della gente che fa scommesse sulle probabilità che lui riesca nei suoi propositi di vendetta.» «Non mi pare una cosa di buon gusto.» «Non sarà riuscito a prendervi, spero...» «No, no. L’ho schivato. Sono anche riuscito a schivare un altro ragazzo che si chiama Orlando Flower. Dirò anzi che li ho schivati tutti e due insieme. Ci sono volute le mie gambe, però, e, come voi dite giustamente, sono molto accaldato.» «Per questo vi siete versato da bere?» Arrossii. Le sue parole mi ricordarono come fossi stato stordito e dissi: «Sentite, posso offrirvi una bibita?» «No, grazie.» «Suvvia, non fate complimenti.» «No, grazie, davvero.» «Proprio?» «Proprio, grazie. Fra l’altro mi sembra un po’ presto, no?» «Presto?» dissi meravigliato. «È proprio l’ora giusta per prendere un cicchettino!» «Mi sembra che parliate da esperto. Vi capita molto spesso di prendere quello che voi chiamate cicchettino, a quest’ora?» «Oh, direi...» «Ma guarda! Whisky?» «Whisky invariabilmente.» «E vedo che fumate.» «Oh, sì.» «Sempre sigarette?» «Qualche volta sigarette... però preferisco la pipa.» «Santi numi! Alla vostra età?» Quella era un’osservazione che non arrivavo a capire... forse perché il ronzio che sentivo in testa era diventato ora molto pronunciato. La mia intelligenza sembrava un po’ sopita. «Alla mia età!» esclamai. «Accidenti, ho ventisette anni!»

«Che cosa?» «Sicuro! Compirò i ventotto nel prossimo marzo.» «Guarda, guarda, guarda! Non l’avrei mai creduto!» «Non l’avreste creduto?» «Ve lo garantisco!» Perché mai quelle parole dovessero sembrarmi tanto buffe, non lo saprei, ma mi divertirono enormemente e scoppiai in un’allegra risata e stavo imbarcando fiato per lasciarne andare un’altra, quando l’uscio si aprì e April entrò, più bella che mai, in un vestito vaporoso. Credo che fosse di mussolina di seta o qualcosa del genere. Comunque, era vaporoso, trasparente e si addiceva in modo singolare alla sua fragile bellezza. Dicendo che entrò, non mi sono espresso con esattezza. Non entrò subito, ma rimase sulla soglia, come incorniciata, fissando melanconicamente davanti a sé, con gli occhi sperduti nella visione di qualche sogno splendido. A questo punto, tuttavia, io lasciai andare la seconda risata, al che lei sussultò come se fosse stata colpita da un proiettile. «Tu!» disse in uno strano tono esplosivo. «Che cosa fai qui?» Bevvi una sorsata di whisky. «Devo parlarvi per una faccenda di importanza vitale» dissi solennemente e rimasi seccato constatando che la frase era uscita impastata in una sola parola. «Devo par-larvi per una fac-cenda d’impor-tanza vita-le» ripetei scandendo le sillabe. «Vi ha portato un bel mazzolino di fiori» disse la signorina Wycherley. Il mazzolino non parve fare grande impressione. Io non mi sentivo abbastanza forte per chinarmi a raccoglierlo, ma lo spinsi avanti con un piede e April lo guardò... mi parve... in modo un po’ sprezzante. Sembrava che qualcosa la contrariasse. Inghiottì due o tre volte come se si sforzasse di superare una forte emozione. «Ebbene, non puoi restare qui» disse finalmente, come se le parole le uscissero a fatica. «La signorina Wycherley è venuta per intervistarmi.» La cosa mi interessò. «Siete dunque una giornalista?» domandai alla donna dalla faccia equina. «Sì. Sono inviata dal ‘Los Angeles Chronicle’. Potrei farvi una fotografia?» «Coraggio!» «No, non deponete il bicchiere. Restate come siete. Tenete anche la sigaretta in bocca. Ecco, così va bene.»

April trasse un profondo sospiro. «Forse preferireste che vi lasciassi soli.» «Oh, non ve ne andate» esclamai cortesemente. «No, no» disse a sua volta la signorina Wycherley. «Vorrei intervistarvi insieme. È stata una splendida fortuna per me trovarvi qui entrambi.» «É vero!» assentii. «Prendete due piccioni con una fava. Buona idea! Avanti!» Chiusi gli occhi per poter ascoltare meglio. Dopo di ciò ricordo solo di aver riaperto gli occhi e di essermi sentito la testa più sgombra. Lo strano ronzio era passato. Forse avevo fatto un sonnellino di qualche minuto, quando ritornai alla realtà. April stava parlando. «No» diceva con voce dolce e sommessa, «non sono mai stata una di quelle ragazze che pensano solamente alla loro persona e alla loro carriera. Per me la pellicola è tutto. Lavoro soltanto per il successo della produzione senza preoccuparmi dei vantaggi personali. Prendete, per esempio, la mia ultima pellicola: molte attrici, al posto mio, avrebbero trovato da ridire sul modo con cui il regista continuava a spingere avanti il piccolo Joey Cooley dandogli tutti i migliori primi piani.» A questo punto si fermò e mi diede un’occhiata affettuosa. «Oh, vi siete svegliato? Sì, sto parlando di voi, bricconcello» soggiunse con un sorrisetto malizioso che per poco non mi fece cadere ai suoi piedi seduta stante. «È un bricconcello davvero, sapete! Non pare anche a voi che riesca sempre a passare in prima linea?» «Senza dubbio ci è riuscito nell’ultima pellicola di cui parlate» assentì la donna dal volto equino. «Lo so bene!» rispose April con una risata argentina. «Ho capito fin da principio a che cosa mirava il regista, naturalmente; ma mi son detta: ‘Il signor Bulwinkle è un uomo pieno d’esperienza. Sa il fatto suo. Se il signor Bulwinkle desidera che io mi ritiri un poco nell’ombra per il bene della produzione, io sono ben lieta di assecondarlo’. Ecco che cosa mi sono detta. Sentivo che il successo della pellicola era l’unica cosa che contasse. Non so se comprendiate quel che intendo dire.» La signorina Wycherley disse che comprendeva benissimo quello che April voleva dire e aggiunse che le faceva onore. «Che c’entra?» mormorò April. «Vedete, io sono un’artista. Quando si è veramente artisti ci si dimentica del proprio io e si pensa soltanto all’arte.» Con questo, su per giù, si concluse la sua parte di intervista, poiché la signorina Wycherley, accorgendosi che le nebbie del sonno si erano dissipate

in me, si diede a interrogarmi e volle sapere che cosa pensassi della cinematografia. Il caso vuole che io abbia delle idee tutte mie personali, in fatto di cinematografia, e questo mi portò, in certo qual modo, a monopolizzare la conversazione. Le dissi quali erano, secondo me, gli inconvenienti della produzione cinematografica in generale, espressi alcune critiche personali sulle stelle più in vista (critiche mordenti, forse, ma giustificate) e insomma mi diedi una bella sfogata. Ero lieto di approfittare di quell’occasione, di esprimerei miei pensieri in proposito, poiché in passato, ogni volta che avevo tentato di esprimerli al ‘Drones’, il mio uditorio aveva mostrato una certa tendenza a dirmi di piantarla. Così, per una decina di minuti circa, mi abbandonai a una concione molto assennata, dopo di che la signorina Wycherley si alzò e disse che la visita era stata molto interessante per lei, che era sicura di aver raccolto del materiale eccellente per il giornale dell’indomani e che bisognava che corresse all’ufficio per scrivere un bell’articolo. April l’accompagnò alla porta; mentre io, accorgendomi che mi si era sciolto il laccio di una scarpa mentre correvo per sfuggire ai nemici, mi alzavo dalla seggiola e mi inginocchiavo per riannodarlo. Ero ancora in quella posizione, resa necessaria da quel che stavo facendo, quando udii un passo leggero dietro di me. April era ritornata. «Aspettate un attimo» dissi. «Sto...» Le parole mi morirono in gola. Nel momento in cui stavo per completare la frase, provai un acuto dolore che parve estendersi a tutta la mia persona, feci un volo in avanti e andai ad atterrare contro il divano. Per un attimo mi balenò l’idea che si fosse scatenato uno di quei terremoti caratteristici della California; poi, mio malgrado, dovetti rendermi conto della realtà: la donna che amavo mi aveva dato un calcio nel... fondo dei pantaloni.

XXII

Mi alzai. Mi sentivo un poco come un uomo cui fosse arrivato nella schiena l’Espresso di Cornovaglia. April stava ritta, con le mani sui fianchi e mi guardava digrignando i denti; la guardai a mia volta, con aria di stupore e di rimprovero, come Giulio Cesare dovette guardare Bruto, a suo tempo. «Ehi, dico!» esclamai. Se dicessi che ero sbalordito di quel che era accaduto, dipingerei certamente a tinte troppo sbiadite il tumulto che infuriava, per così dire, sotto la mia blusetta sottile. Ero completamente disorientato. Non mi era facile, in quella situazione, mantenere una calma dignitosa. Ormai mi ero reso conto che la vita poteva riservare ogni sorta di amarezze a quello sciagurato che aveva assunto l’identità del piccolo Joey Cooley. Avevo accettato il fatto che Murphy e Flower passassero la vita a farmi oggetto di attentati come se fosse nell’ordine naturale delle cose. Se quel calcio mi fosse stato assestato dalla signorina Brinkmeyer, non mi sarei stupito... anzi, avrei forse potuto provare una certa comprensione. Ma la calamità che ora si abbatteva su di me, mi prendeva alla sprovvista. Non potevo assolutamente capacitarmi che April prendesse a calci il fondo dei miei pantaloni. «Ehi, dico!» ripetei. Oltre a essere scosso spiritualmente, anche il mio fisico non era in condizioni molto brillanti; la parte colpita mi doleva assai e dovetti tastarmi la nuca per assicurarmi che la spina dorsale non fosse uscita di là. Ai tempi della mia fanciullezza, quando la mia esuberanza andava provocando un simile genere di reazioni da parte degli adulti che mi circondavano, non ricordavo di aver ricevuto colpi tanto vigorosi. «Ehi, dico, accidenti!» brontolai. Eppure, anche in quel momento, il mio amore era così profondo che se lei avesse detto una parola di scusa o di pentimento... o se avesse dichiarato, per esempio, che le era scivolato un piede, o qualcosa di simile... sarei stato disposto a perdonarla, a dimenticare e a ricominciare daccapo. Ma non espresse nulla di simile. Pareva anzi orgogliosa della sua

condotta inqualificabile. C’era nel suo contegno un’aria inconfondibile di trionfo e di soddisfazione. «Ecco!» disse. «Ti è piaciuto? Ora ridi, se ne hai voglia!» Ma io ero ben lungi dall’aver voglia di ridere. In quel momento non avrei potuto ridere nemmeno per far piacere a una zia morente. Infatti mi sembrava di capire quel che doveva essere accaduto. La vita logorante di Hollywood, con la sua tensione incessante e col suo lavoro continuo, aveva schiantato le forze di quella ragazza fragile. Doveva esserne seguito un esaurimento nervoso e la poverina, travolta dal turbine del mondo in cui viveva, era ammattita. Dimenticai le fitte che ancora si facevano sentire in una certa parte del mio corpo, e sorrisi. «Via, via!» dissi e stavo per suggerirle di prendere una buona tazza di tè caldo e di riposarsi, quando lei riprese: «Così imparerai ad andare strisciando dai registi perché ti diano il monopolio delle macchine da presa!» La benda mi cadde dagli occhi. Vidi che la mia diagnosi era errata. La deplorevole realtà mi colpì come una sferzata. Non si trattava di esaurimento nervoso causato dal troppo lavoro. Per quanto possa sembrare incredibile, dopo quanto la ragazza aveva detto dell’artista che non si cura della gloria personale, purché la produzione riesca bene, si trattava, né più né meno, che di gelosia professionale. Era ancora la storia di Murphy e di Flower, ma la situazione era di gran lunga più grave. Infatti, nel sistemare le mie divergenze con Tommy e con Orlando avevo avuto un certo spazio per le mie manovre strategiche, ma ora mi trovavo prigioniero tra quattro mura ed era difficile prevedere quale sarebbe stata la conclusione della lotta. Credo di aver spiegato chiaramente, nel corso di questa narrazione, che ciò che mi aveva tanto attratto verso April era stata la sua dolcezza melanconica. Avrei scommesso la camicia che in lei avevo trovato un’anima pura e grande, ma ora non c’era nulla di dolce e di melanconico in lei. I begli occhi azzurri, che tanto avevo ammirati, avevano un’espressione dura e sembravano mandar scintille. Le sue gote, che tante volte avevo desiderato accarezzare, erano congestionate, le labbra erano contratte in un’espressione stizzosa e aveva i pugni stretti. In altre parole, mi sembrava che rivelasse tutte le caratteristiche di una di quelle feroci assassine di cui si legge nei giornali, che fanno la pelle al marito con una mazzata sulla zucca e pongono poi i resti in un baule: con tutta la rapidità di cui ero capace, mi ritirai dall’altra parte del divano e rimasi a guardare la ragazza, come inebetito. In quel momento,

dal modo con cui a sua volta mi guardava, compresi, e solo allora, come una gallina possa guardare un verme. Continuò a parlare con un tono che non aveva nulla a che fare con quello che tanto mi aveva affascinato fin dal nostro primo incontro. Le parole uscivano con una voce acuta e vibrante di soprano e giungevano al mio orecchio dandomi la sensazione che qualcuno mi stesse trapanando il cranio. «E forse, dopo questa lezioncina, imparerai a stare alla larga quando ricevo la stampa. Mi piace la faccia tosta con cui ti intrometti quando il rappresentante di un giornale importante viene a farmi visita per sapere quali sono le mie vedute sull’arte e sulle tendenze del gusto del pubblico! Tu e il tuo mazzolino!» ringhiò digrignando i denti e dando un calcio ai miei fiori. «Mi vien voglia di fartelo mangiare.» Mi ritrassi ancora un poco, dietro il divano. Mi piaceva sempre meno la piega che la conversazione andava prendendo. «Credevo di essere al sicuro dalle tue astuzie, in casa mia! Ma no! Anche qui sei riuscito a insinuarti.» A questo punto, le avrei spiegato, se me ne avesse lasciato l’opportunità, che avevo avuto un ottimo motivo per insinuarmi e che ero andato a casa sua soltanto allo scopo di salvarla da un fato che, se non era esattamente peggiore della morte, sarebbe stato senza dubbio spiacevole. Ma non mi lasciò parlare. «Come al solito, hai fatto in modo da attirare tutta l’attenzione su di te. Ebbene, se credi di poterla passar liscia, ti sbagli. Forse tu credi che io sia disposta, non solo a passare in seconda linea davanti alle macchine da presa, ma a tollerare tranquillamente che tu venga qui a rubarmi i vantaggi di un’intervista.» Ancora una volta tentai di assicurarle che era in errore e ancora una volta fui interrotto con violenza. «Che faccia tosta! Che faccia di bronzo! Che faccia... Ma a che serve star qui a chiacchierare e a discutere» gridò interrompendo la serie delle insolenze. Ero esattamente del suo parere. Mi sembrava che non ci fosse niente da guadagnare per entrambi continuando il colloquio. «Proprio così» dissi. «Proprio così. Allora me ne vado.» «Non ti muovere!» «Ma mi pareva che aveste detto...» «Lascia che ti acchiappi e poi...» Non potevo aderire alla sua richiesta; lei stessa doveva capire che era

irragionevole. Con un movimento lesto della mano aveva afferrato un tagliacarte piatto, grosso e pesante, e io non ero per nulla disposto a lasciarmi acchiappare. «Ascoltatemi» cominciai. Ma non potei dire una parola di più, poiché in quel momento la ragazza si slanciò verso il divano e io vidi che era tempo di agire e non di parlare. Feci un balzo indietro, di circa un paio di metri. Con eguale prontezza lei fece un altro balzo in avanti e io, udendo il tagliacarte che passava sibilando a un dito dai miei pantaloni, feci un salto di fianco di almeno un metro. La manovra mi salvò per il momento, ma non potevo non riconoscere che la mia posizione strategica era mutata in peggio. Lei mi aveva costretto ad abbandonare la mia linea di fortificazioni e ora mi trovavo in campo aperto, con ambo i fianchi indifesi. Mi parve venuto il momento di fare un altro tentativo di conciliazione. «Tutto ciò è molto spiacevole» osservai. «Questo è niente, in confronto a quello che verrà» mi assicurò April. La pregai di non far nulla di cui potesse dolersi più tardi. Lei mi ringraziò per il gentil pensiero, ma mi assicurò che soltanto io avrei avuto occasione di dolermi. Poi cominciò ad avanzare di nuovo, furtivamente questa volta, come un leopardo della giungla; e mentre retrocedevo con cautela, riflettevo come in pochi minuti possa mutare radicalmente l’orientamento mentale di una persona. Dell’amore per quella ragazza, che sino a poco prima aveva infiammato l’animo mio, non restava più la minima traccia. Quel tagliacarte sembrava aver reciso la catena di sentimenti che mi aveva legato a lei. Ricordandomi che un tempo avevo sognato di percorrere al suo fianco la navata centrale di un tempio, con l’accompagnamento della Marcia Nuziale suonata dall’organo, mi meravigliavo assai della mia idiozia. Ma April non mi lasciò il tempo di meditare molto a lungo. Fece un altro balzo in avanti e la lotta riprese un ritmo vivace. Decisamente quello era per me un pomeriggio movimentato. Descrivere con tutti i particolari queste esperienze emozionanti è sempre difficile. Quando si è in piena azione, per così dire, non ci si trova nello stato più adatto per notare e osservare il succedersi degli eventi. I ricordi tendono sempre a confondersi. Mi rammento di essermi messo a correre intorno alla stanza con quanto fiato avevo, ma per ben due volte il tagliacarte mi colpì nel punto più adatto per ricever colpi... una volta, quando andai a impigliarmi nei fili di una

lampada a piede, accanto al camino, e un’altra volta, quando inciampai in un seggiolino... ed entrambi i colpi furono vibrati con un’energia degna di nota. Naturalmente ebbero l’effetto di stimolare in me le migliori qualità di velocista in pianura e di saltatore di ostacoli; in una curva mi aggrappai al pianoforte sul quale, in momenti più felici, lei mi aveva suonato delle canzoni folcloristiche e per poco non me lo tirai addosso. Alla fine, mi trovai dietro il divano. L’agilità e la sveltezza che il senso del pericolo mi dava erano tali che forse avrei potuto raggiungere l’uscio e filare, se la mia imperfetta conoscenza dell’ambiente non mi avesse fatto commettere un errore fatale. La ragazza avanzava baldanzosamente alla mia destra e io, da vero somaro, pensai che avrei fatto prima a passare sotto il divano che non a girarci attorno. Ho detto che mi ero trovato molte volte in quella stanza e la conoscevo, ma naturalmente non avevo mai avuto occasione di osservare certi particolari e questa fu la mia rovina. Pensando, ripeto, di prendere una scorciatoia, strisciando sotto il divano e uscendo dall’altra parte (una manovra, badate, che sarebbe stata napoleonica, se fosse riuscita, poiché mi sarei trovato a portata dell’uscio), mi gettai a terra. Ahimè, non tardai a scoprire che il fondo di quel maledetto mobile era alto dal suolo appena una trentina di centimetri. Cacciai la testa sotto e rimasi bloccato. Prima che riuscissi ad alzarmi e a trovare un’altra via di scampo, April mi era addosso col suo tagliacarte. Ricordo che in quel supremo momento mi venne fatto di domandarmi come mai una donna così esile e apparentemente così fragile, potesse lavorar di braccia con tanto vigore. Avevo sempre considerato il direttore della mia prima scuola come un vero campione della bacchetta, ma ora mi rendevo conto che quello era soltanto un principiante in confronto a quella ragazza esile, dagli occhi azzurri. Quello che era veramente straordinario, era il ritmo che teneva. «Ecco!» disse finalmente. Frattanto ero riuscito a rialzarmi ed ero passato dall’altra parte del divano; restammo un poco a guardarci al disopra del mobile. L’esercizio fisico le aveva fatto imporporare le guance, e i suoi occhi brillavano; non l’avevo mai vista così bella. Tuttavia le ceneri del mio defunto amore non accennavano affatto a infiammarsi daccapo. Mi strofinai la parte lesa e guardai biecamente April. Provavo una cupa soddisfazione pensando che non sarebbe stata preavvisata di ciò che le sarebbe stato riservato quando Lord Havershot fosse finalmente giunto a casa sua.

«Ecco» disse April. «Così imparerai! E ora fuori dai piedi!» Anche se non avessi conosciuto quell’espressione, avrei capito, dal gesto con cui l’accompagnò, che intendeva congedarmi, cosa che non mi dispiaceva affatto. Non avevo altro desiderio che lasciare quella casa. Mi incamminai verso l’uscio, poi, nonostante tutto, il sentimento di cavalleria ebbe il sopravvento in me. «Ascoltatemi» dissi. «C’è una cosa...» La ragazza agitò il tagliacarte con fare imperioso. «Fuori! Fuori!» «Sì, ma ascoltatemi...» «Fuori dai piedi!» ripeté. Sospirai rassegnato. Scrollai le spalle. Credo di aver detto, ma non ne sono sicuro: ‘Così sia’. Comunque, mi incamminai di nuovo verso l’uscio, ma, a un tratto, con la coda dell’occhio vidi qualcosa alla finestra che mi indusse a fermarmi. Là, con i nasi schiacciati contro i vetri, stavano Orlando Flower e Tommy Murphy. Rimasi come impietrito. Compresi subito quel che era accaduto. Dal momento che se ne stavano tranquillamente l’uno accanto all’altro, era chiaro che tra loro le ostilità erano cessate. Dopo che li avevo piantati in asso, dovevano aver avuto una spiegazione e aver concluso che avrebbero potuto ottenere migliori risultati concludendo un armistizio nella loro competizione omicida, e unendo le loro risorse. Avevano formato un’alleanza, o, come si dice in termine commerciale, una fusione. I due volti scomparvero. Sapevo quel che significava. I due giovani grassatori si erano allontanati dalla finestra per andare a tener d’occhio la porta della casa. April avanzò d’un passo. «Ti ho detto di andar fuori dai piedi!» disse. Esitai ancora. «Ma, sentite» balbettai, «Tommy Murphy e Orlando Flower sono là fuori.» «Che me ne importa?» «Ecco, non siamo in rapporti molto cordiali. Per essere più preciso, vi dirò che vogliono farmi a pezzettini.» «Spero che ci riescano.» Mi cacciò fuori dal salotto, andò ad aprire la porta d’ingresso, poi mi prese per una spalla e mi buttò fuori. Arrivai di volo sul marciapiede e la

porta sbatte dietro di me. Udii un evviva e uno scalpiccio affrettato, e, con una stretta al cuore, mi resi conto che mi trovavo di nuovo in piena burrasca. Soltanto la fuga poteva salvarmi, ma le mie gambe non erano più all’altezza della situazione. Non c’è nulla che metta più fuori combattimento un velocista quanto un’esperienza come quella che avevo subita. Le mie gambe erano indolenzite e non mi sentivo affatto in forma per una gara di corsa. Un istante dopo, quattro mani avide mi piombavano addosso e io, mormorando un ‘vigliacchi’, rotolavo al suolo. Poi, nel momento in cui stavo tentando di mordere la più vicina delle caviglie dei miei aggressori, nella vaga speranza che potesse servire a qualcosa, accadde un miracolo. Una voce gridò: «Smettetela, birbanti!» Poi udii la musica deliziosa di due scapaccioni ben assestati, seguita da due gemiti d’angoscia, e i miei assalitori scomparvero nella nebbia. Una mano mi prese per un polso e mi aiutò a rialzarmi. Mi trovavo faccia a faccia con Ann Bannister, che mi guardava con molta dolcezza.

XXIII

Un’esclamazione indignata mi fece comprendere come quell’episodio avesse scosso l’animo generoso di Ann. Quantunque le ombre della sera fossero già discese, potevo vedere che gli occhi di lei lampeggiavano. «Joey, caro, ti hanno fatto male quei due bricconi?» «Nemmeno un po’, grazie.» «Proprio?» «Proprio. Non ne hanno avuto il tempo... grazie al tuo pronto intervento» aggiunsi con voce commossa. «Sei stata prodigiosa.» «Bisognava che mi sbrigassi. Credevo che ti massacrassero. Chi erano?» «Tommy Murphy e Orlando Flower.» «Mi piacerebbe buttarli in una pentola d’olio bollente.» Anch’io sentivo che un bel bagno nell’olio bollente avrebbe fatto assai bene a quei due demoni e mi dispiaceva che il progetto non fosse realizzabile. Tuttavia le feci notare il lato piacevole della cosa. «Credo che tu li abbia fatti restare un po’ male con quei due scapaccioni» dissi; «a giudicare dal rumore, mi son sembrati abbastanza vigorosi.» «Lo credo bene! Mi sono quasi slogata un polso. Non so bene se fosse Tommy o Orlando, ma uno di loro ha una testa dura come se fosse di granito. Comunque, tutto è bene quel che finisce bene. Ohilà! Mi avevi detto che non ti avevano fatto male...» «No.» «Allora perché zoppichi?» Era una domanda imbarazzante. Dato l’atteggiamento che avevo preso nella nostra conversazione di quel pomeriggio, difendendo la dolcezza e la gentilezza di April June contro tutti gli argomenti di Ann, mi sembrava di fare una figura da idiota raccontando come l’attrice mi avesse rivelato un nuovo aspetto del suo carattere attraverso quel tagliacarte. Temevo che Ann scoppiasse in una risata omerica e mi dicesse con scherno: ‘Te l’avevo detto!’ La migliore delle donne non può tacere in un caso simile. «Sono un po’ aggranchito» balbettai. «Sono stato seduto...» «E quando stai seduto ti aggranchisci? Povero ottuagenario! Ma che cosa

facevi qui? Sei stato a far visita ad April June?» «Ehm... ho fatto una scappatina.» «Sapendo che Tommy e Orlando stavano in agguato aspettando l’occasione di darti una lezionaccia? Non hai proprio giudizio, Joey! Per che motivo volevi vedere April June?» Anche su questo punto non ero in grado di rivelare la verità. «Sono andato a portarle un mazzo di fiori.» «Un... che cosa?» «Un mazzo di fiori...» Ann sembrava sconcertata. «Non è possibile!» «Sì, proprio così!» «Insomma, questa è grossa! Io non ti capisco più, Joey! La tua personalità è divenuta per me strana e imperscrutabile. Ti ho udito dire cento volte che April June è una strega. In mia presenza hai parlato molte volte di lei chiamandola vipera. Eppure affronti pericoli terribili per portarle in dono dei fiori e, quando mi sono permessa qualche critica sul suo conto, oggi pomeriggio, ti sei impennato e mi hai trattata male.» Fui preso dal rimorso. «Ora mi dispiace...» «Oh, non ti scusare. Dico soltanto che non ci capisco niente. A proposito, sei riuscito a mangiare un poco di quel pasticcio? Io me ne sono andata via subito, come ricorderai.» «Non ne ho mangiato molto. Anche per quello sono dolente.» «Lo credo...» «Non parlo del pasticcio... volevo dire che sono dolente che tu abbia perduto il posto per usarmi una cortesia.» «Oh, non è il caso di crucciarsi. Non pensavo certo di tenere quel posto per tutta la vita. Non ti preoccupare, Joey. Domani, a quest’ora, spero di essere agente pubblicitaria di April June. Venivo appunto da lei adesso per mettermi d’accordo, ed ecco perché mi trovavo da queste parti. Ora dovrei tornare indietro, ma non desidero lasciarti solo. Non mi meraviglierei che Tommy e il suo amico stessero in agguato nell’ombra da qualche parte. Sono implacabili.» Lo stesso pensiero mi era passato per la mente. La pregai di non lasciarmi solo per nessun motivo. «Sì, sì, credo che tu abbia bisogno della mia protezione.» Rifletté un

momento. «Sai che facciamo? Berresti volentieri una gassosa?» «Sicuro» «Bene. Allora, se non ti dispiace fare una deviatina, andiamo a Beverley e io ti offrirò la gassosa. Di là posso telefonare alla June.» Le assicurai che non m’importava affatto di fare una deviazione, e un istante dopo partivamo di buon passo. Ann parlava allegramente del più e del meno e io tacevo, perché la mia anima non era che un cumulo di emozioni ribollenti. E se volete sapere perché la mia anima non era che un cumulo di emozioni ribollenti, ve lo dirò: in quel breve spazio di tempo che era passato dal momento in cui lei aveva assestato quei due scapaccioni a Tommy Murphy e a Orlando Flower, sulle loro rispettive zucche, la fiamma dell’amore si era riaccesa in me. Sì, tutto l’amore che avevo provato per quella ragazza, due anni prima, e che credevo estinto irrimediabilmente a causa di ciò che mi aveva detto a Cannes, era rinato nel mio cuore, più forte che mai. Molte cose avevano contribuito senza dubbio a pormi in questo stato d’animo. Innanzi tutto, la reazione determinatasi in me, ora che April si era tolta la maschera; poi il contegno ardimentoso di Ann nel salvarmi dai due aggressori; ma, soprattutto, ero commosso dalla comprensione e dallo spirito di solidarietà che mi dimostrava. Del resto, c’era anche la faccenda del pasticcio di maiale. Comunque fosse, io l’amavo, l’amavo, l’amavo. Ma a che valeva il mio amore?, pensavo con amarezza, mentre masticavo melanconicamente un croccante di noci al caffè, in attesa che Ann avesse finito di telefonare. Tra tutte le tristezze del mondo non vi è nulla di più doloroso che pensare, quando è troppo tardi, a ciò che si sarebbe potuto fare di buono in passato. Se soltanto avessi avuto il buon senso di rendermi conto subito che per me non ci poteva essere al mondo una ragazza all’infuori di Ann, non avrei fatto la sciocchezza di andare al ricevimento di April June, non avrei mangiato un gelato, non mi sarei fatto venire il mal di denti e non sarei andato da I.J. Zizzbaum alla stessa ora in cui il piccolo Joey Cooley andava da B.K. Burwash... insomma avrei evitato tutti i guai che mi erano capitati. Ma ora, che mi restava da fare? Ann era fidanzata con mio cugino Eggy e, anche se non lo fosse stata, non ero certo in grado di chiedere la sua mano. Tutti gli ostacoli che si erano frapposti tra me e April June si ergevano altrettanto formidabili tra me e Ann. Anche se fosse stata libera, come avrebbe ricevuto una proposta di matrimonio da Joey Cooley?

Una sola parola, una sola poteva riassumere il mio stato d’animo: «Accidenti!» E stavo appunto mormorandola tra me, con fare afflitto, quando Ann uscì dalla cabina telefonica e venne a offrirmi un secondo croccante. «Ho parlato con lei» disse Ann. «È tutto a posto.» Non sapevo che cosa intendesse dire esattamente, ma risposi: «Ah, sì?» dopo di che addentai gagliardamente il croccante. Ann mi domandò se ne avrei gradito un altro. Le dissi di sì e lei lo ordinò. Quella si chiamava ospitalità! «Dunque» riprese Ann, «hai avuto un pomeriggio movimentato, no?» Risi cupamente. «Eh, sì.» «Come è andata la cerimonia?» «Come dici?» «La cerimonia» ripeté Ann. «L’inaugurazione della statua del signor Brinkmeyer.» Sobbalzai, come se mi avesse morsicato una gamba. Un pezzetto di croccante mi sfuggì dalle dita. Voi non mi crederete, ma con tutte le emozioni della giornata, mi ero dimenticato completamente la statua. «Dio mio!» esclamai. «Che cosa succede?» Passò qualche secondo prima che potessi parlare. Poi, francamente, senza giri di parole, le raccontai tutto. Mi ascoltò con un’attenzione lusinghiera, contraendo un poco le labbra quando arrivai all’episodio delle rane. «Credi che la signorina Brinkmeyer abbia trovato quelle rane?» domandò. «A giudicare dagli strilli che ha cacciato direi di sì» risposi. «E a quest’ora saprà che ho mancato alla cerimonia della statua e le avranno anche riferito che la statua, al momento in cui le hanno tolto il velo, aveva il naso dipinto di rosso. Insomma, se mai un individuo si è trovato in un maledetto pasticcio, quello sono io.» «Non devi dire ‘maledetto’, Joey». «Vi sono nella vita dei momenti in cui non si può fare a meno di usare questo aggettivo» risposi in tono fermo. «Io mi trovo appunto in uno di questi momenti.» Parve comprendere il mio punto di vista. «Senza dubbio, ti trovi in un bell’imbroglio.» Assentii melanconicamente. Ann soggiunse:

«Però, c’è una cosa... domani avranno dimenticato tutto». «Credi?» «Naturalmente.» Il suo ottimismo mi si comunicò. «Che bellezza!» dissi. «Ora la miglior cosa che posso fare è condurti a casa» disse Ann. «Vieni. Vedrai che tutto si accomoda.» Mi lasciai scortare fino alla residenza dei Brinkmeyer. Soltanto quando lei mi ebbe lasciato al cancello vidi il punto debole del suo ragionamento specioso. A dire il vero, considerando la velocità con cui la vita si muoveva a Hollywood, poteva darsi benissimo che, come lei aveva predetto, il domani portasse l’oblio. Però aveva trascurato di considerare quel che sarebbe potuto accadere quella sera stessa. Mio malgrado, cominciai a pensare alla signorina Brinkmeyer. Dopo tutto ciò che era accaduto, sarebbe stato assurdo che io sperassi di trovarla di buon umore. Anzi, a mano a mano che mi avvicinavo alla meta, mi convincevo sempre più che avrei rifatto senza dubbio conoscenza con quella sua famosa spazzola da capelli. Ero quindi molto pensieroso, mentre mi arrampicavo verso la tettoia, e vi avevo appena messo il piede, quando vidi qualcosa che confermò i miei timori. Nella mia camera da letto c’era la luce accesa e questa circostanza mi parve di cattivo augurio. Avanzando cautamente attraversai la tettoia e sbirciai dentro. Era come avevo temuto. Quella luce era foriera di guai. Le tendine non erano abbassate e potei avere una visione completa dell’ambiente: la signorina Brinkmeyer stava seduta, diritta, su una seggiola. Il suo volto era impassibile, eppure si notava nel suo sguardo una certa espressione nostalgica, come se aspettasse ansiosamente qualcosa. Aveva indosso una vestaglia rosa e nella mano destra stringeva saldamente una spazzola da capelli. Questo spiegava l’espressione dei suoi occhi. La cosa che aspettava nostalgicamente ero io. In punta di piedi attraversai di nuovo la tettoia e senza far rumore ridiscesi in giardino. Comprendevo che la situazione era grave e che avrei dovuto ponderare a lungo e intensamente per trovare il modo migliore di affrontarla. Stavo appunto mettendo in funzione la mia materia grigia, quando, a un tratto, mi accorsi che c’era un uomo vicino a me. «Ehi» disse lo sconosciuto.

«Ohilà !» diss’io. «Sei tu Joey Cooley?» disse lo sconosciuto. «Sì.» «Lieto di conoscerti» disse lui. Mi pareva una persona educata. «Il piacere è tutto mio» risposi per non farmi superare in cortesia. «Bene» disse lui. Qualcosa di umido e di soffice mi arrivò di colpo sulla faccia e io sentii un forte odore di cloroformio e, a un tratto, compresi che, dopo tutti i guai che mi erano capitati in quella giornata, venivo, per giunta, rapito. Non ci mancava altro. Ricordo di aver detto, prima di perdere conoscenza: «Accidenti, anche questo ci voleva!»

XXIV

In fatto di cloroformio io non sono un intenditore... ne so soltanto quel poco che si legge nei romanzi polizieschi... ma, in circostanze ordinarie, credo che la persona cloroformizzata non ci metta molto a riaversi. Se quell’avventura mi fosse accaduta nelle prime ore del pomeriggio, senza dubbio mi sarei ritrovato sveglio e arzillo in brevissimo tempo. Ma si ricorderà che avevo avuto una giornata faticosa... una di quelle giornate che mettono a dura prova la resistenza di un individuo, senza contare che non ero molto robusto. La conseguenza fu che, dopo essermi addormentato come un angelo, rimasi addormentato come un angelo, ignaro di ciò che accadeva attorno a me, per un lasso di tempo considerevole. Ho il vago ricordo di essere stato caricato su un’automobile e, dopo una corsa abbastanza lunga, d’essere arrivato a una casa, ma la prima cosa che ricordo con chiarezza è di essermi svegliato in un letto e di aver constatato che era giorno fatto. Un sole radioso entrava a fiotti dalla finestra, alcuni uccelletti cantavano in coro e un lontano suono di campane annunciava la domenica. Non c’è nulla di meglio che un buon sonno per rimettere in forma una persona. Qualcuno ha chiamato il sonno ‘il dolce balsamo della natura stanca’ e mi sembra che quel tale avesse ragione. Fui lieto di constatare che a parte un certo indolenzimento nelle ‘curve’, naturale dopo l’episodio del tagliacarte, il riposo mi aveva completamente ristorato. Mi alzai, andai alla finestra e guardai fuori. La casa stava in fondo a un viale, all’estremità opposta del quale correva una specie di strada maestra. Più tardi, scoprii che era il Boulevard Ventura. Era quella una parte della città che non avevo mai visto prima, e stavo esaminando con interesse il panorama quando, a un tratto, fui conscio di un odore di salsiccia e di caffè, così forte e invitante che mi precipitai sui miei vestiti e mi posi senza indugio a fare la mia toletta. Un momento prima, mi ero domandato se quella gente che mi aveva rapito non intendesse per caso tagliarmi qualche dito per spedirlo a guisa di incoraggiamento a coloro che eventualmente si mostrassero recalcitranti a pagare il mio riscatto, ma ora non mi importava più di nulla. Se soltanto mi avessero lasciato arrivare a quelle

salsicce, non avrei guardato tanto per il sottile a quel che avrebbero potuto fare in seguito. Ero quasi pronto per scendere, quando udii un colpo all’uscio e una voce parlò: «Ehi, tu...» «Che c’è?» risposi. «Come va?» «Come va che cosa?» «Come ti senti?» «Affamato.» «Benissimo. Ci sono le salsicce e le frittelle.» «Le frittelle?» dissi con voce tremante. «Sicuro» rispose l’uomo invisibile che sembrava un tipo bonario. «Mettiti addosso qualche cosa e vieni a raggiungere la compagnia.» Due minuti dopo, mi trovavo in una stanza di soggiorno e, per la prima volta, davo un’occhiata alla banda. I rapitori stavano seduti attorno a una tavola su cui faceva bella mostra di sé un piatto di salsicce così grande che la sua vista mi inebriò. Era evidente che la carestia non era fra i pericoli che mi minacciavano. Siccome quelli erano i primi rapitori che incontravo, li osservai con curiosità naturale. Erano in tre e avevano tutti una barba fluente che li faceva sembrare un gruppo fotografico di celebrità dell’Ottocento. Non posso dire che tutto quel fogliame conferisse loro un aspetto molto elegante, ma data la loro professione, evidentemente dovevano pensare più al lato pratico che a quello estetico. In ogni caso, sembrava che le cose si mettessero meno male di quello che avrebbero potuto. Le barbe erano finte. Si vedeva benissimo l’elastico che passava al disopra delle orecchie. In altre parole, mi trovavo con una banda di delinquenti i quali non erano autentici barbablù, ma si erano ricoperto il mento di pelame allo scopo di camuffarsi. Nel complesso si mostravano cortesi. Sembravano avere la tendenza a mettere un ospite a suo agio. Si presentarono rispettivamente come George, Eddie e Fred. Dissero che speravano che avessi dormito bene e mi invitarono a prender posto alla loro tavola. George mi servì le salsicce, Eddie disse che le frittelle sarebbero arrivate di lì a poco e che se le salsicce non erano cotte come piaceva a me, non avevo che da dirlo, e Fred mi fece le sue scuse riguardo al cloroformio. «Sono molto spiacente, ragazzo mio» disse. «Ti senti proprio bene, dopo quel che è successo ieri sera?»

«Sto benissimo» assicurai. «Sto benissimo.» «Bene! Vedi, George e Eddie mi stavano appunto dando una lavata di capo, perché ti ho cacciato il tampone sul naso in quel modo...» «Non avresti dovuto farlo» disse George tentennando il capo. «Avresti dovuto farlo soltanto se il ragazzo si fosse dimostrato disposto a strillare» aggiunse Eddie. «Sì, lo so» fece Fred, «ma tutti possiamo sbagliare. E poi, ognuno ha la propria tecnica, no? In ognuno di noi c’è il temperamento artistico che deve esprimersi...» «Basta così» disse George, che sembrava una specie di presidente dell’organizzazione, parlando in tono di rimprovero. «Ora faresti meglio ad andare a dare un’occhiata a quelle frittelle.» Fred si ritirò in cucina e George parve ritenere opportuno presentare delle scuse per lui. «Spero che tu non ci serbi rancore» disse. «Fred, in tutte le cose, vuol essere troppo perfetto... Si preoccupa della tecnica. È il suo temperamento. Bisogna scusarlo.» Lo pregai di non preoccuparsi di nulla. «Comunque dirò questo in suo favore» fece Eddie «...cuoce delle frittelle che... che bisogna assaggiarle per credere.» E poco dopo, Fred ritornò con un piatto fumante; ebbi modo di verificare le affermazioni di Eddie e dovetti riconoscere che aveva ragione. Non mi vergogno di confessare che mi imbottii, finché non ebbi l’impressione che mi scoppiasse la pancia. Soltanto quando mi fui zavorrato per bene, fui in grado di ascoltare la conversazione che si svolgeva alla tavola. Come tutte le altre conversazioni che si svolgevano in quel momento alle tavole di Hollywood, questa verteva sulla produzione cinematografica. George, che stava leggendo un giornale della domenica, mentre mescolava distrattamente il caffè con la canna della rivoltella, disse che vedeva già come la nuova tendenza alle commediole sentimentali e morali prendesse piede. Lesse un paragrafo in cui si riferiva una diceria secondo la quale la prossima pellicola di Mae West sarebbe stata ‘Alice nel Paese delle Meraviglie’. Fred e Eddie dissero che erano contenti della notizia. Eddie disse che era ora che qualcuno si decidesse a gettare un po’ d’acqua sulle fiamme della licenziosità, le quali dilagavano in modo allarmante, esercitando un’influenza deleteria sulla mentalità del pubblico; Fred approvò dicendo che lui l’aveva sempre pensata così

«Questo sarà un vantaggio per te, ragazzo mio» gli disse George. «Il tuo genere è proprio all’acqua di rose.» «Sicuro» fece Fred. «Avrai dei trionfi ancor maggiori di quelli del passato» soggiunse George. «Senza dubbio» assentì Eddie. «Avrà il riconoscimento che si merita.» «Sempre che gli diano il soggetto adatto» disse George in tono di ammonimento. «Morale o non morale, il soggetto di una pellicola dev’essere forte, umano, commovente. Quei tuoi soggettisti, ragazzo mio, non hanno né fantasia né senso artistico.» «Sicuro» fece Fred. «Devi fare attenzione, ragazzo» mi ammonì Eddie. «É il sistema sbagliato che danneggia» mormorò George. «Io biasimo i dirigenti delle Case produttrici.» «I Gran Mogol» brontolò Eddie. «I Mandarini» brontolò Fred. «I Kemal del mondo cinematografico» brontolò George. «Che cosa fanno costoro? Si mettono nelle mani dei commediografi americani già affermati e dei romanzieri inglesi, e lasciano fare tutto a loro. All’infuori di quella stretta cerchia, non c’è talento che abbia modo di affermarsi.» «Proprio così» mormorò Fred. «Vedi» soggiunse George, «se qualcuno, all’infuori dell’ambiente letterario, ha una buona idea per una pellicola, che cosa accade? Più la sottopone alla ‘Commissione di lettura’, più la Commissione si ostina a non leggerla. Proprio ora, io ho un’idea spettacolosa per una pellicola adatta a te, ragazzo mio, ma a che serve? I produttori non vogliono neppure dare un’occhiata al soggetto.» «È quello di cui ci stavi parlando martedì?» domandò Eddie. «Quello che tratta del Nemico Pubblico N. 13?» domandò Fred. «Certo, proprio quello» rispose George. «È una meraviglia.» «Sicuro che è una meraviglia» assentì Eddie. «Sono anch’io del vostro parere» disse Fred. Terminai la frittella che stavo mangiando. «È un soggetto interessante?» domandai. «Eccome è interessante!» rispose George. «Eccome è interessante!» disse Eddie. «Eccome è interessante!» disse Fred.

«Credo che sia interessante davvero» dissi. «Ascolta» disse George prendendo un atteggiamento estatico. «Ascolta, ragazzo mio. Senti il soggetto e dimmi se non è semplicemente prodigioso. C’è questo bandito che è stato soprannominato ‘Il Pericolo Pubblico N. 13’... ed è superstizioso, capisci... e si è cacciato in testa che non avrà mai fortuna finché non si toglie di dosso quel numero tredici... capisci... dunque, che cosa fa?...» «Ascolta attentamente, ragazzo» disse Eddie. «Ascolta attentamente, ragazzo» disse Fred. Erano protesi in avanti e le loro barbe tremolavano per l’emozione. «Lui è troppo generoso per andare ad ammazzare qualcuno dei nemici pubblici che hanno i numeri più bassi dell’elenco, quantunque sappia che ammazzandone uno diventerebbe senz’altro il Nemico Pubblico N. 12...» «Direi che sia una parte adatta a Lionel Barrymore» disse Eddie. «A Warner Baxter» disse Fred. «A William Powell» ribatté George in tono secco, come se volesse mettere a posto i suoi compagni. «Dunque, gli viene l’idea di iniziare un’impresa che possa far capire al Governo quanto lui sia eccelso, nella speranza che il Governo stesso lo possa promuovere a Nemico Pubblico Numero 1 o 2. Ecco l’idea: lui e la sua banda si imbarcano su un vapore che porta una gran quantità d’oro dall’altra parte dell’Atlantico; poi aggrediscono il capitano e gli ufficiali, assumono il comando della nave e la dirigono verso la costa sudamericana; giunti sulla costa intendono far saltare la nave stessa e fuggire nell’interno con l’oro. Capisci?» Io non volevo demoralizzare quel poveretto, ma non potevo non fargli notare un punto debole. Dopo tutto, quelle discussioni collettive su un soggetto servono proprio a individuare i punti deboli. «Non dovete perdervi di coraggio» dissi. «Vedo benissimo che avete una buona idea, però non l’avete ancora svolta a pieno.» «Come sarebbe a dire? C’è forse qualcosa che non va nella storia della nave?» «Nella storia della nave ci sono dei buoni elementi di commedia» osservò Eddie. «Si potrebbe fare del capitano una macchietta... Io affiderei la parte a Charles Butterworth.» «No, a Joe Cawthorne» ribatté Fred. «A Edward Horton» fece George. «E dov’è l’elemento amoroso?» domandai pacatamente.

Quella domanda li sconcertò tutti e tre. George si grattò il mento. Eddie e Fred si grattarono rispettivamente la guancia sinistra e la testa. «L’elemento amoroso?» ripeté George. Rifletté un attimo, poi si rischiarò in volto. «Ebbene, sta’ un po’ a sentire: sulla costa del Sud-America una ragazza raggiunge a nuoto la nave ancorata. L’atmosfera è pregna di profumo esotico dei tropici...» «Qualche fenicottero nell’aria» suggerì Eddie, con fare deferente. «Sicuro» approvò George. «I fenicotteri ci saranno per certo. Dunque, l’atmosfera è pregna di profumo esotico tropicale e uno stormo di fenicotteri rossi si libra fieramente verso il cielo, ed ecco che questa ragazza, quasi nuda, raggiunge a nuoto...» Tentennai il capo. «Troppo tardi» dissi. «Quando arrivate sulla costa del Sud- America siete già al quarto episodio.» George pestò un pugno sulla tavola. «Accidenti, lascia andare l’elemento amoroso!» disse. «Eppure ci vuole qualcosa di commovente, di emotivo» insistetti. «Non è vero! Non è necessario, se l’intreccio è abbastanza forte e organico! Guarda, per esempio, ‘Niente di nuovo sul fronte occidentale’.» «Già» fece Eddie. «E anche ‘Skippy’.» «Già» fece Fred. «E ‘La pattuglia perduta’. Quanto credi che abbia reso?» «Eppure io sostengo che ci deve essere l’elemento amoroso.» «Lascia andare l’elemento amoroso per ora. Passiamo al punto in cui intervieni tu. Dunque i banditi affondano la nave, capisci, e fuggono con la scialuppa, capisci... come nella ‘Tragedia del Bounty’... capisci... ebbene...» «Ebbene?» incalzò Eddie. «Ebbene» riprese George «supponi che nella scialuppa ci sia un ragazzetto dai capelli d’oro... molto grazioso...» «Ah!» fece Fred. «Hai afferrato l’idea?» domandò George alzandosi. «É buona o non è buona? Ehi, Fred, Eddie, venite qui... accoccolatevi su questo tappeto... attenzione, ragazzo mio... il tappeto rappresenta la barca, a bordo della quale si trovano soltanto i banditi con te. Ebbene, tu riesci a soggiogarli.» «Ti si affezionano» spiegò Eddie. «Ah!» esclamò Fred ammirato. «Ecco che cosa succede» riprese George. «Ti si affezionano. E, a un dato momento, scoprono che ci sono vettovaglie soltanto per due... allora i banditi

si buttano in mare e si sacrificano perché tu non abbia a soffrire la fame...» «Finché...?» incalzò Eddie. «Finché restano soltanto...» cominciò Fred. «Finché restano soltanto il Nemico Pubblico N. 13 e il ragazzo» completò George. «E ora sta’ bene attento, ragazzo» disse Eddie. «Sì, sta’ bene attento» disse Fred. «Sì, tieni le orecchie bene aperte per la sorpresa, ragazzino» fece George. «Ecco... il Nemico Pubblico N. 13 scopre di essere... chi diresti? Tuo padre! Tuo padre che ti ha perduto quando eri molto piccino. Ecco tutto. Non c’è altro. Non ti pare che sia una sorpresa? Tu hai al collo un medaglione... Capisci?...» «E il Nemico Pubblico lo guarda mentre tu dormi... capisci?...» «E che cosa trova nel medaglione?» domandò George. «Un ritratto... sissignori... il ritratto della sua defunta moglie...» A questo punto interruppi il consiglio. «Mani in alto!» gridai puntando la rivoltella che George, da perfetto somaro, aveva lasciato sulla tavola. «Mani in alto, furfanti !»

XXV

Non mi è mai capitato di vedere tre individui barbuti così sconcertati. Dal canto mio, la cosa non mi meravigliava. Di rapitori non me ne intendo molto, ma credo che non accada loro spesso che le loro vittime dimostrino tanta presenza di spirito e li mettano con le spalle al muro in quel modo. Era chiaro che per George, Eddie e Fred l’esperienza era assolutamente nuova. Si rialzarono dal suolo e rimasero a guardarmi a bocca aperta. Fred fu il primo a parlare. «Ehi!» gridò. «Bada a quello che fai con quella pistola.» «La tua mamma non ti ha insegnato che è pericoloso puntare le rivoltelle contro la gente?» domandò Eddie in tono severo. E George, dal canto suo, mi domandò se stavo provando una scena che intendevo suggerir loro per la pellicola che avevano in progetto. Io ero un po’ scosso, naturalmente. Provavo una certa difficoltà a sostenere i loro sguardi di rimprovero. Un minuto prima eravamo stati in buona armonia e, a dire il vero, io mi sentivo scoppiare la pancia per tutte le frittelle che avevo mangiato. Era un poco come se l’ospite di riguardo, a un banchetto ufficiale, si alzasse dal suo posto e cominciasse a gettare piatti addosso agli altri. C’era nell’atmosfera lo stesso senso di tensione. Ma repressi l’attimo di debolezza e ritrovai tutta la mia energia. «Non vi muovete» dissi. «Non avreste dovuto rapirmi. Non sta bene rapire la gente. Domandatelo a chiunque.» Parvero sconcertati, e specialmente George. «Ma non ti hanno spiegato?» domandò. «Spiegato che cosa?» «George intende domandarti se non ti hanno spiegato che questa storia non era che una manovra pubblicitaria» spiegò Eddie. «Che cosa dite?» «Sì, una di quelle manovre architettate dai propagandisti» soggiunse George. «La signora è venuta da noi...» «Quale signora?» «Non ci ha detto il suo nome, ma ci ha detto: ‘Io rappresento questa stella

del cinema’ capisci?...» «Quale stella?» «Ecco, non ci ha detto neppure il nome della stella... Però il progetto era questo. Noi dovevamo rapirti e nasconderti da qualche parte... capisci... poi, quando le Madri d’America avessero cominciato a mettersi in subbuglio, gridando: ‘Accidenti, non c’è nessuno capace di salvare il nostro beniamino?’ la grande stella sarebbe venuta a trarti in salvo... capisci... e con questo si sarebbe messa in vista.» Sorrisi cinicamente. Non potevo certo digerire una panzana così grossa. Non sarò un genio, ma non sono neppure un somaro del tutto. «Ma guarda» dissi «che storiella verosimile!» «È la verità!» insisté Eddie. «Vedi...» Sorrisi di nuovo. «Stupidaggini, caro mio!» «Ma...» «Se si trattasse semplicemente di una manovra pubblicitaria, perché non vi siete limitati a pregarmi con cortesia di seguirvi, invece di soffocarmi con questo maledetto cloroformio?» «Ecco! Vedi?» Eddie a sua volta guardò Fred con aria furibonda. «Vedi? Ecco che cos’hai fatto! Sapevo che quel tuo cloroformio ci avrebbe procurato dei guai» fece George. La barba di Fred penzolava melanconicamente. Si vedeva che lui sentiva il peso della sua situazione. Borbottò qualcosa a proposito dei sistemi e io dissi: «Non credo nemmeno a una parola di questa vostra storia. Mi parlate di un’agente pubblicitaria e non ne conoscete il nome, mi parlate di una stella e non ne conoscete il nome. Non ho mai udito in vita mia delle menzogne tanto trasparenti. No, no, amici miei, non attacca! La conclusione è questa: voi siete semplicemente tre bricconi matricolati e mi avete rapito per far quattrini; ora potete uscire da questa stanza e scendere in cantina, se avete una cantina, dopo di che telefonerò alla polizia e sporgerò denuncia». Questa mia minaccia fece colpo. Non è facile vedere il colore della faccia di un individuo barbuto fino agli occhi, ma credo di poter affermare che impallidirono tutti e tre. «No, senti, non fare una cosa simile!» implorò George. «Suvvia, non è possibile che tu...» cominciò Eddie.

«È possibilissimo» dissi. «Vi farò vedere io che è possibilissimo.» «Diamine, dopo quelle frittelle...» mormorò George. «Le frittelle non c’entrano per niente» scattai in tono seccato, poiché sentivo che quello non era un terreno favorevole. Capivo che, in certo qual modo, stavo violando le sacre leggi dell’ospitalità, cosa che, come tutti sanno, non si dovrebbe fare in nessun caso. Cambiai parere riguardo all’opportunità di telefonare alla polizia. Conservai il mio contegno austero e minaccioso, ma decisi fra me che quando li avessi chiusi in cantina me ne sarei andato per i fatti miei e avrei messo una pietra su tutta la faccenda. Incapaci di leggere i miei pensieri, tuttavia, i disgraziati continuavano ad agitarsi. «Accidenti!» fece Eddie. «Porca miseria!» fece Fred. «Sapete che cosa succede, se il ragazzo telefona davvero alla polizia?» domandò George. «Porca miseria!» fece Fred. «Accidenti!» fece Eddie. «Ve lo dirò io quello che succede» riprese George. «Saremo lasciati nelle peste. La donna che ci ha assoldato... capite... giurerà che non ci ha mai visti e che non si è mai sognata di darci quest’incarico... capite... e allora come ce la caveremo? Dovremo restarcene in una cella e lasciarci processare per il rapimento di un bambino.» «Accidenti!» fece Fred. «Porca miseria!» fece Eddie. Tacquero per qualche momento e parvero riflettere, poi George disse: «A me sembra che uno di noi dovrebbe tentare di togliergli di mano quella rivoltella...» «Giusto» fece Fred. «Prova tu, Eddie.» «Prova tu, George» rispose Eddie. «Prova tu, piuttosto, Fred» disse George. «Oppure ascoltate... faremo le cose onestamente, in modo che quel tale a cui tocca non potrà lamentarsi. Tireremo a sorte. ‘A-uli-ulé-prendiun-ne- gro-per-i-piè-tu-li-lem-blem-blumtu-li-lem-blem-blum’... Sei sotto tu, caro Fred.» «Coraggio, Fred» fece Eddie. «Sì, è perfettamente inutile perdere del tempo» fece George. «Fa’ uno di quei tuoi balzi fulminei.» «Come un leopardo» aggiunse Eddie.

«Sì, ho capito, lo so, ma ascoltate...» fece Fred. In quel momento di tensione una voce disse: «Che cos’è questa storia?» April June stava sulla soglia.

XXVI

Quello era un colpo sgradevole. Se non fossi stato così pieno di frittelle, credo che avrei barcollato. Decisi di assumere un atteggiamento energico fin da principio. «Indietro, donna!» gridai. «Sono armato.» L’agitazione di April era pari alla mia. «Ehi, sciocchino» disse con voce tremante, «che cosa diavolo stai facendo? Non hai nemmeno un poco di giudizio? Da un momento all’altro la mia agente pubblicitaria sarà qui coi giornalisti e i fotografi... Dove andrebbe a finire la storiella del salvataggio se costoro trovassero una scena come questa? E voialtri, che cosa siete capaci di fare?» soggiunse volgendosi a George, Eddie e Fred, con occhi lampeggianti. «La mia agente pubblicitaria dice di avervi spiegato con la massima cura quello che dovevate fare ed eccovi qui a farvi menare per il naso da un ragazzo. I giornalisti non devono trovarvi qui intenti a giocare come monelli... Il ragazzo avrebbe dovuto essere legato a una seggiola e voi dovreste minacciarlo. Per prima cosa i fotografi avrebbero dovuto prendere la scena del ragazzo legato e di voialtri in atteggiamento minaccioso e io avrei dovuto figurare in primo piano con la rivoltella in pugno.» «Ma, signora» balbettò George «scusatemi, signora, sareste voi la signora di cui quella signora ha detto di essere l’agente pubblicitaria? Sareste voi la stella cinematografica?» «Naturale che sono io, scemo.» «Lieto di conoscervi, signora.» «Macché lieto di conoscervi d’Egitto!» fece April. «Perdiana, è April June» fece Eddie. «È vero!» disse Fred. «Naturale che sono April June.» «Ascolta, George» disse Eddie. «Che cos’era quella storia di cui stavamo parlando pochi giorni fa... quella che, a quanto tu stesso hai detto, sarebbe andata a puntino per la signora June?» «Già, non ti ricordi, George?» intervenne Fred. «E quella a proposito...»

«Diamine, avete ragione» disse George. «Ascoltatemi, signorina, se avete un minuto disponibile; vorrei esporvi un soggetto cinematografico che io e i miei amici abbiamo messo insieme. Si tratta di un grande uomo d’affari che ha una bella segretaria...» April June batté quello che, se non me lo fossi sentito la sera prima sul fondo dei pantaloni, avrei qualificato un piedino di fata. «Io non voglio sentire nessuna storia. Voglio sapere soltanto perché non lo avete legato.» George tentennò il capo con fare contrito. «Ci è mancato il cuore di farlo, signorina.» «Non potevamo legarlo mentre mangiava frittelle» soggiunse Eddie. «Pensavamo di legarlo più tardi» spiegò Fred. «Poi ci siamo messi a discutere su un soggetto cinematografico» soggiunse George «e a un tratto...» April batté di nuovo il piede con impazienza. «E ora con tutta probabilità avete rovinato ogni cosa... Legatelo, presto, presto! Se esitate ancora sarà troppo tardi!» «Ma, signorina, quella rivoltella che tiene in mano è carica!» «E che cosa volevate farvene di una rivoltella carica?» «Colpa di Fred» fece Eddie lanciando un’altra delle sue occhiate di rimprovero all’amico. «É troppo preciso...» «Gli piace fare le cose alla perfezione, anche quando si tratta di recitare una commedia» disse George. «Io sono un artista» disse Fred in tono di sfida. «Sapevo benissimo che quella rivoltella era carica. Per recitare bene la mia parte avevo bisogno di avere tutto in ordine, come se fossi un vero bandito... dovevo avere qui...» e così dicendo si batté il petto «...avere qui una buona rivoltella carica.» «Il fatto è che Fred non è più stato lo stesso da che ha fatto una parte di comparsa in ‘Lebbrosi di Broadway’» disse George. April si volse verso di me, con uno sguardo che, in certo qual modo, era tanto spiacevole quanto il tagliacarte. «Dammi quella rivoltella!» Esitai. Volevo essere molto sicuro del fatto mio, prima di prendere una decisione. «È vero quello che hanno detto costoro? È vero che si tratta soltanto di una manovra pubblicitaria?» domandai. «Naturale che è vero! Non te l’hanno forse spiegato un’infinità di volte?

La signorina Bannister mi ha detto di averti istruito punto per punto e mi ha assicurato che avevi capito tutto.» «Per Giove, sì, naturale» dissi. Ora comprendevo come erano andate le cose. Ecco cosa significavano quelle frasi pronunciate da Ann, che mi erano parse sibilline. Quando, per esempio, Ann aveva detto che l’indomani avrei avuto una giornata movimentata, non avevo capito che cosa intendeva dire. E così pure quando Cooley aveva accennato a non so che cosa su cui doveva darmi delle istruzioni. «Tutti i giornali sono stati informati ieri sera del tuo rapimento...» Perdiana, era naturale! Ecco perché Ann si era mostrata così sicura che tutti i miei reati, a base di rane e di statue, sarebbero stati dimenticati l’indomani «...e questa mattina io devo figurare di averti trovato e salvato. Dammi quella rivoltella e lasciati legare, presto! Sento già un’automobile che arriva.» Nonostante tutto, esitai ancora. Faceva presto lei a dirmi di lasciarmi legare, ma come facevo a esser certo che non si trattava di un’astuzia? Sapevo che formidabile avversaria era quella donna, anche quando si aveva la completa libertà delle proprie gambe e si era in grado di scappare. Esporsi alle sue furie lasciandomi legare, mi sembrava un’imprudenza grandissima. Non volevo certo che mi somministrasse un’altra lezione in condizioni tanto vantaggiose. Assorto in queste riflessioni rallentai la vigilanza. Abbassai l’arma e un istante dopo la squadra dei rapitori mi era addosso. Fui messo su una seggiola e mi furono passate delle corde attorno al corpo. Fuori si udirono dei passi. April afferrò la rivoltella. I banditi alzarono le mani e presero un atteggiamento atterrito. «Fate un passo e sparo, furfanti!» gridò April. Così dicendo lanciò un’occhiata verso la porta, ma quando questa si aprì, non apparve una squadra di giornalisti e di fotografi come ci aspettavamo. Apparve Ann Bannister, sola. Quello era un colpo di scena. Così pensai, e guardando April compresi che pensava altrettanto. Era come se in un’operetta qualcuno avesse gridato: ‘Urrah, ecco che arriva la reale guardia del corpo!’ e fosse apparso soltanto un tamburino. April sembrava impietrita e girava gli occhi in modo impressionante. «Dove sono i giornalisti?» gridò. «Non li ho portati» rispose Ann in tono brusco.

«E i fotografi?» «Non li ho portati.» «Non li avete portati?» Non dico che April avesse la bava alla bocca, ma ci mancava poco. «Come sarebbe a dire? Perché non li avete portati? Numi del cielo!» gridò poi con voce che vibrava di emozione. «É tutto qui quello che sapete fare?» I tre si guardarono l’un l’altro. «Niente giornalisti, signorina?» fece George corrugando la fronte. «Niente fotografi, signorina?» fecero Fred e Eddie in coro alzando le sopracciglia. «No» rispose Ann. «Nemmeno uno. E se volete lasciarmi un momento per spiegare, vi dirò perché non li ho portati. Non serve a niente continuare questa commedia. É una cosa superata.» «Superata?» «Superata» ripeté Ann. «Non guadagnereste un centesimo di pubblicità con questa storiella del salvataggio di Joey Cooley. Il nome di quel povero ragazzo è rovinato e la sua carriera cinematografica è finita.» «Che cosa?» «Sì. Vedo un giornale della domenica, sulla tavola. Non avete letto? C’è una notizia in prima pagina...» «No, noi abbiamo letto soltanto la rubrica cinematografica e la pagina umoristica» spiegò George. «Ah, sì? Ebbene, date un’occhiata alla prima pagina. Sei un piccolo scervellato, Joey» soggiunse Ann lanciandomi un’occhiata di commiserazione. «Che cosa ti è venuto in mente di far dello spirito con una intervistatrice? Te l’avevo detto io che con i tuoi scherzi ti saresti procurato dei guai un giorno o l’altro! Credevi forse che lei capisse che stavi prendendola in giro? Secondo te i tuoi ammiratori saranno disposti a credere che hai scherzato? Non c’è più rimedio, ormai. C’è una fotografia in prima pagina sul ‘Los Angeles Chronicle’ in cui appare Joey Cooley con una sigaretta in una mano e un bicchiere di whisky nell’altra. L’articolo poi riferisce come Joey Cooley abbia dichiarato di avere ventisette anni e di preferire la pipa alle sigarette.» April afferrò il giornale e cominciò a leggere. George guardò Eddie. Eddie guardò Fred. «Mi sembra che l’affare sia andato a monte, ragazzi» disse George. «Eh?...» fece Fred.

Eddie fece un cenno d’assenso. «Niente da fare» disse. «Mi sembra inutile restare qui ora» soggiunse George. «Se ci sbrighiamo, facciamo in tempo ad andare a messa.» «Già» fece Fred. «Già» fece Eddie. Tutti e tre tentennarono il capo guardandomi con aria di rimprovero, si tolsero la barba, la riposero in un armadio e, prendendo ognuno un libro di preghiere dallo stesso armadio, si ritirarono con fare dignitoso e offeso. Ann si volse a me, con aria angelica piena di comprensione. «Povero Joey!» disse. «È sempre stato il tuo debole... combinarne di tutti i colori, tanto per il gusto di ridere. E capisco anche che ti devi essere divertito. Però temo proprio che tu ti sia rovinato. Le Madri d’America non dimenticheranno mai una cosa simile. Quando mi sono messa in cammino per venire qui, c’erano seicento Madri del Michigan adunate davanti alla casa del signor Brinkmeyer; chiedevano a gran voce che tu fossi consegnato a loro per poterti spalmare il corpo di pece e gettarti poi nelle piume, come si usava fare un tempo agli impostori. Reclamavano anche che fossero pagate loro le spese di viaggio che hanno sostenuto per venire qui, nonché quelle per ritornare a Detroit. Temo quindi...» Si udì una specie di sibilo sordo, come quello che potrebbe fare un vento dell’est filtrando attraverso le fessure di una casa stregata. Era April June che sbuffava. «Non una parola su di me in tutta l’intervista, dal principio alla fine» disse con una strana voce dura e pacata che faceva pensare al primo mormorio di un ciclone. «Non una parola! Nemmeno un’unica, solitaria, isolata sillaba sul mio conto! Ed era la mia intervista!» continuò mentre la sua voce cresceva di volume. «La mia privata e personale intervista! La mia individuale, esclusiva intervista! E questa piccola peste si è insinuata in casa mia per sottrarmi tutta la pubblicità! Ma gli insegnerò io!» Una specie di fremito la scosse in tutta la persona e lei partì per attraversare la stanza, aprendo e stringendo i pugni alternativamente. Aveva i denti stretti, gli occhi spalancati e lampeggianti e io pensai che questa volta era venuto per davvero il redde rationem. Allora, con un rapido movimento, Ann si mise tra noi. «Che cosa volete fare?» «Molte cose.»

«Non toccherete questo ragazzo!» disse Ann. Io non potevo vedere April, perché Ann si era messa di mezzo, ma udii che sbuffava di nuovo, in modo tutt’altro che promettente. Credevo che fosse sul punto di dire ‘Pfui!’ ma non lo fece. Disse soltanto: «No?» «No!» rispose Ann. Seguì un attimo di silenzio. Ricordo che una volta, anni fa, ai tempi del cinema muto, vidi una pellicola in cui l’eroina, catturata dai selvaggi, stava legata su un altare e tra lei e il coltellaccio dello stregone stava soltanto l’eroe che tentava di imporre allo stregone di liberarla. Ora comprendevo quali potessero essere le sensazioni di quell’eroina. «Toglietevi di mezzo» disse April. «Niente affatto» ribatté Ann. «Siete licenziata!» disse. «Va bene» rispose Ann. «Farò in modo che nessuno vi assuma come agente pubblicitaria.» «Va bene» ripeté Ann. April si avviò alla porta. Si fermò un istante sulla soglia, lanciò un’occhiata ad Ann e un’altra a me, poi uscì. In quel momento mi parve più che mai odiosa e ancora una volta mi domandai come avevo potuto trovarla attraente. Ann tagliò le corde che mi assicuravano alla seggiola e io mi alzai. Mi volsi a lei, aprii la bocca, poi la richiusi. Avevo avuto intenzione di ringraziarla, con tutta l’eloquenza di cui ero capace, per la sua condotta generosa nel salvarmi per una seconda volta da un grosso guaio, ma alla vista della sua faccia, non potei articolar parola. Non piangeva, perché Ann non era ragazza capace di piangere, ma sembrava terribilmente abbattuta, direi quasi annientata; mi resi conto di ciò che doveva significare per lei perdere così quell’impiego che tanto aveva faticato a ottenere e al quale aveva aspirato a lungo. Era indiscutibilmente una cosa dolorosa. Aveva infranto i propri ideali solo per salvarmi dalla furia dell’attrice. L’ammirazione che provavo per il suo coraggio e per il suo altruismo, arrivando in cima a tutte le frittelle che avevo mangiato, per poco non mi soffocò. «Senti» dissi articolando a fatica le parole «sono proprio desolato!» «Non importa.»

«Ma io sono desolato.» «Non ti crucciare, Joey.» «Io... io... non so cosa dire.» «Niente di male, Joey caro, non avrai certo creduto che io me ne stessi là impalata lasciando che quella strega...» «Ma hai perso il posto!» «Ne troverò un altro.» «Ma lei ha detto...» «Forse non troverò un altro posto di agente pubblicitaria... Può darsi che lei abbia tanta influenza per togliermi ogni possibilità su quella strada... Del resto, i posti di agente pubblicitaria non abbondano... ma troverò qualcos’altro.» Mi balenò un’idea che al momento mi permise di vedere le cose dal loro lato migliore, sempre che quel che avevo in mente si potesse considerare tale. «Diamine, tu non hai proprio bisogno di un impiego. Stai per sposarti» dissi, ma mentre pronunciavo quelle parole provai una stretta al cuore, poiché il pensiero che lei si sposasse era terribilmente doloroso per me... e, per esser più preciso, dirò anzi che quel pensiero mi diede la sensazione di ricevere una pugnalata in pieno cuore. Mi guardò meravigliata. «Come fai a saperlo?» Dovetti riflettere rapidamente. «Oh... ehm... me l’ha detto Eggy.» «Ah, già... è venuto a darti una lezione di dizione, ieri, non è vero? Siete andati d’accordo?» «Benissimo.» «Me lo immaginavo, dal momento che lo chiami già ‘Eggy’.» «Ebbene, Eggy ha danaro in abbondanza.» «Così credo. Ma questo non mi servirà a nulla, perché il fidanzamento è rotto.» «Che cosa? !» «Rotto. Rotto da ieri sera. Vedi dunque che dovrò proprio cercarmi un altro impiego. Credo che finirò a fare l’infermiera da un dentista. L’infermiera del dottor Burwash mi ha detto che vuole andarsene. Potrei prendere il suo posto.» Ero incapace di parlare. Il pensiero del basso tradimento di Eggy che aveva dato il benservito a quella nobile ragazza e il pensiero di Ann... la mia

meravigliosa Ann che sprecava i suoi splendidi talenti aiutando B.K. Burwash a strappare molari, mi mettevano in una condizione tale che non potevo più servirmi delle corde vocali. «Ma non sprechiamo il nostro tempo a parlar di questo» disse Ann. «Dobbiamo piuttosto pensare alla tua sistemazione.» «Alla mia sistemazione?» «Sicuro, povero agnellino. Bisognerà pure sistemarti in qualche modo. Non puoi certo tornare dal signor Brinkmeyer.» Compresi che aveva ragione. Preoccupato delle sue difficoltà, avevo dimenticato come anch’io mi trovassi in un imbroglio non indifferente. L’attimo d’angoscia che avevo avuto quando mi ero trovato legato a quella seggiola e avevo visto April June sul punto di lanciarsi su di me, aveva poi contribuito a sviare i miei pensieri. Quando ci si trova al cospetto di una donna infuriata, la quale si prepara a menar le mani, si tende a concentrare il proprio pensiero sul presente più che sull’avvenire. Ora, però, le parole di Ann mi avevano richiamato alla realtà. «Perdiana!» dissi. «È un problema, non è vero? Hai qualche progetto?» «Avevo pensato di andare in Inghilterra.» «In Inghilterra!» «Sempre che potessi procurarmi il danaro necessario, naturalmente.» «Ma perché proprio in Inghilterra?» Date le circostanze non mi era facile rispondere. «Oh... così... un’idea che mi era venuta.» «Ebbene, pensa a qualcos’altro, mio caro ragazzo. Hai proprio delle idee strambe, Joey. A parte il fatto che quando tu fossi in Inghilterra non sapresti dove andare, non hai nemmeno la possibilità di partire. Dov’è il tuo passaporto? Credi forse che una Compagnia di Navigazione venda facilmente un biglietto a un ragazzo della tua età? Ti tratterrebbero in attesa di informazioni, poi ti rispedirebbero alla signorina Brinkmeyer.» Non ci avevo pensato. Nel concepire l’idea di andare in Inghilterra e di sistemarmi a Biddleford, avevo tracciato soltanto il progetto nelle grandi linee, rimandando a più tardi lo studio dei particolari. «C’è soltanto una soluzione. Devi ritornare da tua madre a Chillicothe. Dunque, ascolta. Non ti ci posso portare io, perché ho soltanto una vetturetta in prestito, ma andrò alla più vicina autorimessa e noleggerò una vettura che ti possa portare a casa. Tua madre pagherà all’arrivo. Spiegherò tutto io alla

rimessa. E ora bisogna che vada. Arrivederci.» «Arrivederci.» «Ritornerò a salutarti prima che tu parta. Sta’ di buon animo, Joey. Vedrai che tutto si accomoderà un giorno o l’altro.» Se ne andò. Sul piatto era rimasta una frittella. La mangiai melanconicamente, poi, siccome avevo la sensazione di soffocare, uscii dalla casa e mi avviai per il viale, prendendo a calci tutti i sassi che mi capitavano fra i piedi. Ann mi aveva detto di stare di buon animo, ma non riuscivo a scacciare da me un profondo senso di angoscia. Aveva detto anche che tutto si sarebbe accomodato, ma non vedevo proprio come e quando tutto potesse accomodarsi. Più contemplavo la situazione e più la trovavo scabrosa. Lasciando da parte per un momento i guai di Ann e concentrandomi sui miei, come mi appariva la mia posizione? Un amore disperato mi rodeva il cuore e, senza dubbio, avrebbe continuato a rodermelo per sempre. Ma, anche a parte questo, che mi restava da fare? L’avvenire mi appariva tenebroso. Non avevo avuto alcuna passione per essere un fanciullo attore, quando i miei gusti e le mie abitudini mi portavano a desiderare di ritornare terzo conte di Havershot, ma, tutto ben considerato, sarebbe stato meglio essere un fanciullo attore che non un ex fanciullo attore, com’ero ora. Poteva derivarmi qualche tenue soddisfazione dal fatto di essere l’idolo delle Madri d’America, ma ora ero privato anche di quella soddisfazione. A giudicare dall’atteggiamento delle Madri del Michigan, era chiaro che, in avvenire, l’unico sentimento che le Madri d’America avrebbero provato verso di me sarebbe stato il desiderio di lapidarmi. Probabilmente avrei dovuto adattarmi a una vita ritirata e modesta con la madre di Joey Cooley a Chillicothe, nell’Ohio. Quantunque Joey mi avesse detto che quella madre sapeva cucinare in modo eccellente il pollo arrosto alla meridionale, la prospettiva non mi rallegrava affatto. Avrei dovuto andare a vivere con quella donna che era convinta di essere mia madre e mi ci sarebbe voluto molto tempo per trovarmi a mio agio. Mi sarebbe stato difficile, fin da principio, trovare gusti in comune con lei e argomenti di conversazione. Con tutti questi pensieri che assediavano la mia mente, non c’è da meravigliarsi se nel momento in cui sbucavo nella strada ero assorto in profonde meditazioni. Fui richiamato bruscamente alla realtà dal rumore di

una motocicletta che arrivava velocemente. Mi volsi e mi resi conto che quel veicolo indiavolato mi era quasi addosso. Ebbi appena il tempo di notare che il motociclista aveva indosso un vestito grigio scuro e aveva le calze grigio-azzurre che uscivano da un paio di scarpe marrone, molto eleganti, poi udii un grido, l’urlo di un segnale acustico: il manubrio della motocicletta mi colpì in pieno e io feci tre salti mortali, dopo di che perdetti i sensi.

XXVII

Quando rinvenni ero sul ciglio della strada, con gli occhi chiusi e un senso di indolenzimento alla testa. Qualcuno mi parlava. «Ehi!» diceva. Dapprima ebbi l’idea di trovarmi in paradiso e pensai che quella voce appartenesse a un angelo il quale voleva fare la mia conoscenza, ma ero tanto preoccupato, a causa della mia testa indolenzita, che non pensai neppure ad aprire gli occhi per accertarmi di come stessero le cose. Rimasi immobile. «Ehi!» disse di nuovo la voce. «Siete morto?» Un momento prima avrei risposto di sì, senza esitare, ma ora cominciavo a nutrire qualche dubbio. La mente mi si stava snebbiando. Riflettei ancora qualche secondo e mi convinsi che non ero morto. «No» risposi. E, come per provare la mia asserzione, aprii gli occhi. Il mio sguardo si posò su qualcosa che mi indusse a raddrizzarmi di colpo. Per un istante credetti di essere vittima di un’allucinazione, poi le idee mi si schiarirono ancora di più e compresi che non si trattava affatto di un’allucinazione. Accanto a me si trovava il piccolo Joey Cooley in persona. Non c’era possibilità di errore. Riconoscevo i suoi riccioli d’oro e i suoi calzoncini alla zuava. Nello stesso momento scorsi le mie gambe che si allungavano verso l’orizzonte. Erano lunghe, massicce e ricoperte da un paio di pantaloni grigioscuri, mentre le caviglie erano inguainate da un paio di calze grigio-azzurre che spiccavano al disopra di un paio di scarpe marrone molto eleganti. Credo che molti al posto mio sarebbero rimasti sconcertati e disorientati. Forse, due o tre giorni prima sarei rimasto disorientato anch’io, ma la vita di movimento che avevo vissuto nelle ultime ore aveva acuito le mie facoltà mentali e in un lampo compresi quel che era accaduto. Eravamo ritornati alla condizione primitiva. Vedevo facilmente come le cose si erano svolte. Era stato l’investimento a compiere il prodigio. Nell’esatto momento in cui io perdevo i sensi, il piccolo Cooley doveva essere svenuto anche lui e, mentre giacevamo

entrambi esanimi, le nostre anime si erano scambiate di nuovo. Non avevo alcun ricordo dell’incidente, ma senza dubbio le nostre anime si erano incontrate nella quarta dimensione, avevano avuto uno scambio di idee e avevano deciso che quella era un’occasione unica di ritornarsene ognuna alla propria dimora, riportando le cose... come si dice... allo statu quo. «Ohilà !» esclamai. Dopo quello che era accaduto tra me e quel furfantello durante il nostro ultimo incontro, avrei avuto il diritto di stare un po’ sulle mie. Ci eravamo separati, come ricorderete, tutt’altro che in buoni rapporti e lui mi aveva piantato scrollando le spalle, schernendomi e lasciandomi nelle peste, alle prese con quello scalmanato di Murphy, ma ero troppo felice per pensare ai vecchi rancori. Rivolsi un bel sorriso a quel piccolo castigo di Dio. «Ohilà, ohilà!» dissi. «Ti sei accorto di niente?» «Accorto di che?» «Diamine, siamo ritornati come prima... allo statu quo... se è così che si dice. Non hai osservato che siamo ritornati al nostro posto?» «Sì, sì, me ne sono accorto! Come credi che sia successo?» Naturalmente non avevo avuto il tempo di riflettere sui particolari, ma gli dissi come, secondo me, erano andate le cose e lui assentì. «Vedo; è successo come l’altra volta. Non è stata colpa mia» proseguì mettendosi sulla difensiva. «Io ho suonato la tromba.» «Oh, certo.» «Come mai camminavi per la strada in quel modo, con la testa fra le nuvole?» «Riflettevo.» «E come mai ti trovavi da queste parti?» «Mi ci hanno portato George, Eddie, e Fred.» «E chi sono George, Eddie e Fred?» «Bravi ragazzi. Rapitori.» Il suo volto si rischiarò. «Oh, la commedia del rapimento è poi riuscita?» «Senza il minimo intoppo.» «E il loro nascondiglio è qui? È forse quella casa in fondo al viale, laggiù?» «Esattamente.» «E com’è andata la faccenda?» «Ecco, è una storia lunga. Abbiamo cominciato col far colazione...»

Il ragazzo emise un’esclamazione. «Colazione? Adesso capisco! Non appena ho ripreso possesso del mio corpo, mi è parso che ci fosse qualcosa di cambiato dall’ultima volta che me ne sono servito. Mi è sembrato più pieno... non mi dava più quella sensazione di vuoto, come se fosse perpetuamente afflosciato. Colazione, eh? Che cos’hai mangiato?» «Delle salsicce, poi delle frittelle.» I suoi occhi si illuminarono. «C’è rimasto niente?» «Non è possibile che tu voglia mangiare dell’altro.» «Perché no?» «Può darsi che ce ne sia in cucina. Sei capace di cuocere delle salsicce?» «Non sono sicuro, ma posso provare. Forse ci sarà anche del prosciutto... e delle uova... e del pane. Se devo ritornare da mamma Brinkmeyer, con la clausola B del mio contratto in vigore, ho bisogno di zavorrarmi.» Vidi che era venuto il momento di metterlo al corrente dell’accaduto. «Se fossi in te, non ritornerei dai Brinkmeyer.» «Non dire sciocchezze! Ho un contratto per la durata di tre anni.» «Non più. Non hai visto i giornali della domenica?» «No. Perché?» «Ebbene, sono dolente di doverti dire che, senza volerlo, ti ho rovinato la carriera.» E in poche e concise parole lo misi al corrente della situazione. Non avevo certo da crucciarmi dell’accaduto. Non ho mai visto un ragazzo così felice. Quando avevo supposto che si sarebbe disperato udendo che la sua carriera di attore era rovinata, ero stato completamente fuori strada. Niente di tutto ciò. «Ebbene, mio caro» dichiarò guardandomi affettuosamente «devo dire che mi hai reso un gran servigio. Se ti fossi messo d’impegno, meditando notte e giorno su come potevi farmi felice, non ci saresti riuscito meglio.» Ero sbalordito. «Sei felice davvero?» domandai incredulo. «Sicuro che sono felice! Ho finito di tribolare. Ora posso ritornarmene tranquillamente a Chillicothe.» Si fermò di colpo e si rabbuiò alquanto. «Ma come faccio a ritornare a Chillicothe?» Feci un gesto di incoraggiamento, e il sollievo che provai nell’agitare la mia propria mano fu indicibile.

«Per questo è già tutto disposto.» «Davvero?» «Davvero. Tra poco ci sarà qui un’automobile con la quale potrai ritornare a casa.» «Che bellezza! Chi ha avuto questa buona idea?» «Ann Bannister.» «Me l’aspettavo. Che ragazza straordinaria!» «É vero.» Quella è una ragazza che ha la testa sulle spalle!» «E che testa!» «Io voglio bene ad Ann.» «Anch’io.» «Anche tu?» «Certamente!» «Allora vuoi bene a due ragazze?» «Come dici?» «Non mi hai detto che volevi bene ad April June?» Rabbrividii. «Fammi un piacere» dissi «non mi menzionare mai quel nome! Avevi proprio ragione, piccolo Cooley! Ti sei dimostrato un ottimo giudice di caratteri, quando hai detto che quella ragazza è una vipera.» «È una vipera davvero!» «Decisamente una vipera.» «Una vipera come ce ne sono poche.» «Una vipera come non ce n’è nessuna!» «Sissignore!» «Sissignore!» Sembrava che su quel punto ci trovassimo d’accordo. Passai a un altro argomento. «Strano che tu non abbia visto i giornali della domenica. Non li leggi, di solito?» Mi parve che il suo volto si rabbuiasse alquanto. Prese un’aria leggermente imbarazzata. «Ecco, sì... di solito li leggo, ma oggi ne sono stato impedito...» «Impedito?» «Sì, sono stato interrotto nella lettura... anzi non ho potuto nemmeno cominciare...»

«E chi ti ha interrotto?» «Quel poliziotto.» «E quale poliziotto?» Il suo imbarazzo crebbe. «Ascoltami bene» disse «c’è una cosa che volevo dirti. Volevo dirtela prima, ma abbiamo parlato di altro... È andata così: avevo appena comprato il giornale stamane e stavo per cominciare a leggerlo nella via, fuori del Giardino delle Esperidi, quando è arrivato un poliziotto in motocicletta e mi ha domandato se ero Lord Havershot.» «Al che tu hai risposto...?» «Ho risposto di sì e allora lui mi è saltato addosso e mi ha dichiarato in arresto per l’aggressione contro la signorina Brinkmeyer. C’erano le prove, a quanto mi ha detto, perché mentre le stavo dando la caccia attorno alla piscina, mi è uscito di tasca il tuo portabiglietti.» «Santo cielo!» «Sicuro, ma aspetta... non ti ho detto tutto ancora. Sai, quel tuo diretto destro... quello con la finta allo stomaco?...» Mi sentii venir meno. «Non avrai per caso...» «Sissignore, l’ho servito al poliziotto il quale è andato giù come un fantoccio di stracci. Allora io ho preso la sua motocicletta e sono filato. Avevo intenzione di dirigermi verso il Messico. E ascolta bene quel che ti dico... se fossi in te e se quella motocicletta funzionasse ancora, tenterei davvero di raggiungere la frontiera del Messico. Sissignore. E ora andrò a vedere se riesco a procurarmi una salsiccia. Queste tue frittelle sembrano molto digeribili; mi sento già lo stomaco vuoto.» Lui imboccò il viale che conduceva alla casa e io mi precipitai verso la motocicletta per vedere in che condizioni si trovava. Se questo mio corpo, delle cui azioni dovevo rispondere, era andato in giro prendendo a pugni poliziotti, era chiaro che il consiglio del piccolo Cooley era ottimo e che era meglio che passassi la frontiera. Ahimè, il consiglio era ottimo, ma non si poteva dire altrettanto della motocicletta. Questa era in frantumi. Completato l’esame necroscopico del veicolo, mi allontanai. Non era certo con quel mucchio di rottami che avrei potuto svignarmela. Pensai che la miglior cosa che potevo fare era attendere la vettura da nolo che sarebbe venuta a prendere il ragazzo e farmi condurre a Chillicothe dove,

almeno, mi sarei trovato in un altro Stato; perciò ritornai alla casa dei tre rapitori per domandare a Joey se non aveva niente in contrario. Lo trovai in cucina, sul punto di mettersi all’opera, con una grande padella, e quando gli esposi la mia idea ebbe la cortesia di dire che sarebbe stato ben lieto di avermi per compagno. «E sarai abbastanza al sicuro, sai, oltre la frontiera dello Stato» disse. «Non possono arrestarti là.» «Ne sei certo?» «Sì, ne sono certo. Dovrebbero estra... estra... non so come si dica, ma, insomma, non ti possono arrestare.» Fuori udimmo suonare il clacson di un’automobile. «Ohilà» disse Joey «c’è qualcuno là fuori che fa dei richiami. Se vogliono me, ti prego di dire che non sono ancora pronto.» Un sospetto conturbante mi attraversò il cervello. «E se fosse qualcuno che cerca me?» «Vuoi dire qualche poliziotto? Non è possibile.» «Potrebbe darsi.» «Ebbene, se si tratta di un poliziotto rompigli il muso.» In preda a una forte agitazione, m’incamminai verso la porta d’ingresso e la aprii. Non avevo la stessa fede incrollabile del ragazzo nei pugni come rimedio sovrano contro tutte le avversità. Fuori, una vettura si era fermata davanti alla casa e io provai un senso di sollievo vedendo che non era un’automobile della polizia, ma soltanto una di quelle sgangherate vetturette a due posti, tanto comuni a Hollywood. Qualcuno ne stava scendendo... qualcuno che mi sembrava stranamente familiare. «Perdiana!» esclamai. Avevo riconosciuto il visitatore. Era mio cugino Eggy.

XXVIII

Siccome quella pompa umana era l’ultima persona che mi aspettavo di vedere, rimasi a guardarlo a bocca aperta. Gli occorsero parecchi minuti per uscire dal veicolo, poiché la vetturetta era circa delle dimensioni d’una scatola di sardine, mentre Eggy è uno di quei giovanotti lunghi lunghi e allampanati, costruiti un po’ sulle linee dei bruchi. Comunque, quando Dio volle, riuscì ad avanzare con un allegro ‘Ehilà!’ o, per essere più preciso, con un allegro ‘Ehi’ seguito da un suono strozzato, poiché prima che potesse aggiungere il ‘là’ mi vide fermo sulla soglia e questo spettacolo parve mozzargli la parola in bocca. Fece un balzo indietro, come se fosse andato a sbattere contro qualcosa di incandescente e, per un mezzo minuto, rimase a fissarmi battendo le palpebre ed emettendo suoni inarticolati. Finalmente le sue labbra si curvarono in un sorriso forzato. «Ohilà» balbettò. «Buon giorno, George.» «George?» «Volevo dire, buon giorno, Eddie.» «Eddie?» «Cioè, buon giorno, Fred.» Il mio pensiero corse subito alla sola spiegazione possibile, quantunque non avessi mai visto mio cugino in quello stato, neppure dopo le sue migliori prodezze libatorie. «Sei sbronzo» dissi. «Niente affatto.» «Devi essere sbronzo, se non ti accorgi nemmeno che io sono Reggie. Che cosa vai vaneggiando di George, di Eddie, e di Fred?» Sbatté le palpebre. «Vuoi dire che sei proprio Reggie?» «Naturale.» Rimase un attimo in silenzio, asciugandosi la fronte, poi parlò in tono offeso. «Desidererei che tu ti astenessi da questi scherzi, Reggie. Mi sembra di avertelo già detto.»

«Quali scherzi?» «Diamine, hai preso l’abitudine di comparire all’improvviso in luoghi dove nessuno penserebbe mai di poterti vedere, e di metterti tra i piedi di una persona che non si aspetta affatto di incontrarti. Sono rimasto sconcertato vedendoti là, dove avevo previsto di vedere George oppure Fred oppure Eddie. Naturalmente ho creduto che tu fossi uno dei tre e che la mia vista cominciasse a fare dei brutti scherzi. Dovresti avere un po’ più di delicatezza. Mettiti nei miei panni e pensa che effetto ti farebbe una cosa simile...» Ero meravigliato. «Conosci George, Fred e Eddie?» «Naturale che li conosco. Bravissimi ragazzi.» «Sai che sono dei rapitori?» «Può darsi che facciano i rapitori, a tempo perso. Li ho conosciuti al Tempio della Nuova Alba. Sono fabbricieri del tempio e sono molto stimati dai seguaci della Nuova Alba. Eddie mi ha prestato il suo libro di preghiere, ieri, ai Vespri, poi, dopo la funzione, siamo andati a prendere una limonata insieme, con lui e con i suoi due amici; mi hanno invitato a venire qui oggi per far colazione con loro e per una partita di golf. Bravissimi ragazzi davvero! Conosci il Tempio della Nuova Alba, Reggie?» «Ne ho sentito parlare.» «Dovresti aderire anche tu a questo movimento. È proprio straordinario. Io sono stato iniziato da una ragazza che si chiama Mabel Prescott. La Nuova Alba è una specie di associazione che tende al risveglio religioso e al proibizionismo. Ho firmato ieri la scheda d’iscrizione.» «Era ora, direi.» «Oh, sì! Se avessi aspettato ancora, sarebbe stato troppo tardi. Ero ridotto male.» «Eri ridotto male già da parecchi anni.» «Sì, ma in questi ultimi due giorni le cose erano precipitate, se capisci quel che intendo dire. Conducevo la mia solita vita, senza un pensiero al mondo, prendendo una sbornia qua e un’altra là, quando, a un tratto, ho avuto una specie di collasso.» «Ah, sì?» «Proprio. Mabel stessa ha analizzato la situazione. Io non ho fatto come gli altri che arrivano al crollo a tappe... sono arrivato sull’orlo dell’abisso all’improvviso. I primi sintomi che ho avuto sono stati visivi. Sintomi strani, a dire il vero... ho cominciato a vedere dei corpi astrali. Sei mai stato

molestato da corpi astrali, Reggie? É molto sgradevole. Hanno il vizio di comparire, quando meno te l’aspetti, da dietro le poltrone.» «Perché lo fanno?» «Non te lo saprei dire. Un capriccio, senza dubbio.» «Non l’ho mai sentito dire.» «Comunque, è proprio così. Il corpo astrale che mi perseguitava aveva quest’abitudine, in ogni modo. Era quello di un fanciullo attore che si chiama Joey Cooley. Per esempio, mi sono trovato un giorno nel tuo villino al Giardino delle Esperidi e lui era là, dietro a una poltrona. Quando dico ‘lui’ alludo naturalmente al suo fantasma.» «Capisco.» «Credevo di morire di spavento. Però, forse, avrei continuato a bere, considerando l’episodio come un attimo di debolezza passeggera, se non fosse stato per ciò che mi è accaduto il giorno dopo. Sto per dirti una cosa che troverai difficile credere, Reggie mio caro. Ieri mattina dovevo andare a impartire una lezione di dizione allo stesso Joey Cooley e, superato il naturale imbarazzo di vedere in carne e ossa un ragazzo di cui il giorno prima avevo visto il corpo astrale, mi sono messo, all’opera e gli ho detto: «‘È la tua esse che mi dà da pensare. Ripeti con me: sera, rosa, casa, rossa, spessa, stessa...’ Ebbene, vuoi sapere che cosa giurerei di essermi sentito rispondere?» «Che cosa?» «Ecco, anche ora sarei disposto a giurare che lui mi ha detto che era te! Figurati! ‘Forse t’interesserà sapere’ mi ha detto, ‘che io sono tuo cugino Reggie Havershot’.» «Ma davvero?» «Te lo garantisco.» «Guarda, guarda, guarda!» «Naturalmente ho capito subito come stavano le cose. Ai disturbi visivi si aggiungevano quelli dell’udito. In altre parole, prima i miei occhi erano andati a farsi benedire, e ora le orecchie ne seguivano l’esempio. Ebbene, ho abbastanza buon senso per sapere quando è giunto il momento di correre ai ripari. Sono andato dritto filato al Tempio della Nuova Alba e ho firmato immediatamente la scheda d’iscrizione. Ecco dunque come conosco George, Eddie e Fred. A proposito, dove sono?» «Mi pare abbiano detto che andavano al tempio.» «Ah, giusto... la funzione della mattina comincia alle undici. Sarà meglio

che vada a raggiungerli. Ma, dimmi un po’, Reggie, come mai ti trovi...» si interruppe di colpo e si mise ad annusare l’aria. «Ehi, non senti odor di bruciato?» Annusai a mia volta. «Sì, mi sembra di sentire... che cosa succede?» domandai, poiché Eggy aveva dato un balzo e ora retrocedeva lentamente con gli occhi dilatati, passandosi la lingua sulle labbra. Parve scuotersi con uno sforzo. «Non è nulla» disse. «Nulla. Soltanto una piccola ricaduta. Un leggero ritorno dei miei disturbi. Dovrò sopportare questi inconvenienti ancora per un po’, credo. Ricordi che ti parlavo del corpo astrale di Joey Cooley? Ebbene, lo vedo di nuovo... Lo vedo dietro di te. Non lo incoraggiare. Fingi di non notarlo.» Mi volsi. Il piccolo Cooley stava sulla soglia, tenendo in mano una padella fumante dalla quale proveniva un atroce odore di salsicce bruciate. «Di’ un po’...» disse Joey. «Ecco le voci» gemette Eggy, mentre una contrazione spasmodica passava sul suo volto. «Ha parlato.» «Di’ un po’, mi sembra proprio di non essere capace di cuocere le salsicce» disse il ragazzo. «Non so perché, ma si attorcigliano tutte e mi diventano nere sotto il naso. Ohilà, chi è quello?» Gli diedi un’occhiata di ammonimento. «Hai forse dimenticato il tuo maestro di dizione?» dissi in tono significativo. «Eh?» «Sì... ieri mattina... il maestro di dizione che è venuto per correggerti la pronuncia.» «Oh, sicuro, sicuro... Già, già il mio maestro di dizione. Mi ricordo. Come state, maestro di dizione? Come va la vita?» Eggy avanzò cautamente. «Sei proprio vero?» domandò. «Direi...» «Ti dispiace se ti tocco?» «Fate pure.» Eggy toccò con l’indice la fronte di Cooley e trasse un sospiro di sollievo. «Ah, non che dubitassi della tua parola, sai. Era soltanto... insomma, non ci capisco niente» soggiunse in tono un po’ stizzoso. «Qualche volta sei vero

e qualche volta non lo sei... Sembra che non ci sia una regola fissa... In ogni modo, non capisco proprio che cosa fai qui.» «Sto tentando di cuocere qualche salsiccia, ma mi sembra proprio di non riuscirci. Siete capace di cuocere salsicce?» «Eccome! Quando ero studente le salsicce erano la mia specialità. Vuoi che ti aiuti?» «Sareste disposto?» «Certamente.» Eggy si avviò per seguire il ragazzo, ma io mi feci avanti e lo trattenni afferrandolo per una manica. Fino a quel momento, parlando di questo e di quello, avevo dimenticato che quello era l’uomo che aveva dato il benservito ad Ann, rompendo il fidanzamento. «Aspetta!» dissi. «Prima che tu te ne vada, Egremont Mannering, desidero una spiegazione da te.» «Su che cosa?» «Sulla viltà che hai commesso!» Parve meravigliato. «Che cosa intendi dire? Non ho commesso nessuna viltà.» Scoppiai in una risata sarcastica. «Davvero? Il tuo fidanzamento non è rotto? Non hai forse ritirato la tua parola ad Ann? Se questo non ti sembra un’azione vile... conquistare l’amore di una ragazza, poi piantarla in asso con la massima disinvoltura... se a te non sembra una viltà, c’è qualcuno a cui sembra tale. Mi rivolgo a te, piccolo Cooley.» «A me sembra un’azione mostruosa.» «E così la giudicherebbe ogni ragazzo ben pensante» dissi. Eggy sembrava sconcertato. «Ma, accidenti, che cosa c’entro io?» «Ah, lo senti, Cooley?» «Volevo dire che non sono stato io a rompere il fidanzamento» soggiunse Eggy. «È stata Ann.» Questa volta toccava a me restare sconcertato. «Che cosa?» «Sicuro.» «Lei ha rotto il fidanzamento?» «Esattamente. Ieri sera. Sono andato da lei per dirle che avevo aderito al movimento della Nuova Alba e lei mi ha liquidato. È stata molto gentile,

molto delicata, ma insomma mi ha liquidato. E se vuoi sapere qual è la ragione del suo atto, secondo me, prova a ripensare a ciò che ti ho detto un paio di sere fa, a quel ricevimento. Tu mi consigliavi di cambiar vita e di smettere di bere e io ti ho detto che se l’avessi fatto, Ann mi avrebbe piantato, poiché aveva accettato di fidanzarsi con me soltanto nella speranza di farmi ravvedere. Capisci il ragionamento psicologico, Cooley?» «Certo.» «Se una ragazza si fidanza con un individuo per farlo ravvedere e quello si ravvede da solo, la ragazza ha l’impressione di fare una figura da stupida.» «Proprio così» approvò Joey. «È quello che accade in ‘La missione di Giorgina’.» «Dev’essere proprio andata così» disse Eggy. «Andiamo, Cooley. Evviva le salsicce!» «No, aspetta! Aspetta! Tu non sai ciò che vi è di più tragico nella situazione.» «Tragico?» «Quando Ann ti ha liquidato, ieri sera, aveva di che vivere, aveva un buon impiego. Oggi invece è una povera naufraga. Il suo impiego è andato a monte. Dunque qualcuno deve occuparsi di lei, altrimenti, se non vuol morire di fame, sarà costretta ad andare a fare l’infermiera da un dentista.» «No! davvero?» «Davvero. Sarebbe costretta a indossare una palandrana bianca e a passare le sue giornate dicendo: ‘Sissignore, il signor Burwash riceve’ oppure ‘Nossignore, il signor Burwash è occupato’.» «Non le piacerà.» «No di certo.» «Si sentirà come un uccelletto in gabbia.» «Esattamente come un uccelletto in gabbia, perciò vi è una cosa sola da fare. Devi andare da lei e insistere perché ti sposi.» «Oh, ma io non posso.» «Naturale che puoi!» «Vi sono delle difficoltà insormontabili. Il fatto è, mio caro, che subito dopo che Ann mi ha piantato, ieri sera, me ne sono andato da Mabel Prescott e ora sono fidanzato con lei. E quella non è certo la ragazza dalla quale io posso andare il giorno dopo che mi sono fidanzato con lei a dirle tranquillamente che ho cambiato idea. Mabel è... ecco, è quella che tu chiameresti una ragazza suscettibile. È una ragazza meravigliosa, bada, e io

l’amo pazzamente, ma è suscettibile.» «Accidenti!» «Se io andassi da lei a dirle che c’è un cambiamento di programma, sarebbe capace di torcermi il collo e di calpestare i miei resti. Ma ascolta» soggiunse Eggy. «Ann non deve aver bisogno di andare a fare l’infermiera da un dentista. Non può continuare a fare l’istitutrice di questo giovane mangiatore di salsicce?» «È stata licenziata ieri.» «Perbacco, ha fatto l’abbonamento ai licenziamenti, ma già, è quello che io ho sempre detto... a che serve prendere gli impieghi? Almeno, quando non si ha un impiego, non si rischia di essere licenziati.» Il piccolo Cooley, che era rimasto ad ascoltare con aria pensosa e che si grattava il mento col manico della padella, parlò: «Ho un’idea, ragazzi. Non so se l’approverete, ma non mi sembra cattiva del tutto. Perché non la sposi tu, Havershot?» Fui scosso da un tremito. «Chi, io?» «Sì, mi hai detto che l’ami.» «Te l’ha detto davvero?» fece Eggy. «Ma benone!» «É un’idea geniale, no?» domandò il ragazzo. A questo punto parvero accorgersi che io ridevo sarcasticamente. «Che cosa c’è?» domandò Eggy. «Ann non mi prenderà mai in considerazione.» «Naturale che ti prenderà in considerazione!» «Senza nemmeno pensarci» aggiunse il ragazzo. «Havershot è un uomo in gamba» soggiunse rivolto a mio cugino. «Lo so che è un uomo in gamba. È uno di quegli uomini in gamba di cui l’Inghilterra è giustamente orgogliosa.» «Qualunque ragazza sarebbe felice di sposarlo.» Quei due sembravano sicuri del fatto loro, ma io continuavo a tentennare il capo. «Non mi prenderà mai in considerazione» ripetei. «Sono l’ultimo uomo al mondo che Ann penserebbe di sposare.» Il piccolo Cooley si rivolse a Eggy e parlò in un tono che evidentemente considerava un sussurro. In realtà sussurrava come un cenciaiolo. «Si preoccupa della sua faccia» disse. «Ah?» fece Eggy. «Ehm... già... naturalmente... si capisce...» Tossicchiò.

«Ti consiglio di non preoccuparti per la tua faccia, Reggie» disse poi rivolto a me. «Ti assicuro che sotto un certo angolo... in certe luci... ecco... voglio dire che c’è un’espressione di onestà...» «Ma che importa poi la faccia!» intervenne Joey. «Hai ragione» approvò Eggy. «L’aspetto non conta niente. Frankenstein non si è sposato?» «Si è sposato?» domandò Eggy. «Non lo so. Non l’ho mai visto né conosciuto. É un ministro?» Cooley non gli badò e soggiunse: «È il sentimento che conta! Devi mostrarti risoluto. Devi andare dritto filato da Ann, afferrarla per i polsi, fissarla negli occhi e sollevare e abbassare il petto con ritmo accelerato». «Esattamente.» «E ringhiare.» «Già, ringhiare» approvò Eggy. «Vale a dire emettere dei suoni come quelli che potrebbe fare un pechinese sorpreso a mangiare un pasticcino, con l’aggiunta di qualche parola appropriata.» «Sicuro. Come per esempio: ‘Ascoltami bene, ragazza mia!’ È una tattica infallibile.» «E ora non ti resta che agire, Reggie. L’unica difficoltà è trovare la ragazza. Dove sarà adesso?» «Verrà qui da un momento all’altro» dissi. «Allora è tutto a posto» fece Eggy. «Tu rimani qui e cerca di ripassare un poco la parte, mio caro. Io, intanto, andrò in cucina con questo giovane cherubino e gli insegnerò a cuocere delle salsicce che il suo corpo astrale apprezzerà al massimo. Vieni con me, ragazzo?» «Con piacere. Andiamo.» S’incamminarono in direzione della cucina e io mi diedi a passeggiare per il viale tenendo d’occhio continuamente il cancello. Finalmente vidi apparire una vetturetta, al volante della quale stava Ann. Davanti al cancello la macchina si fermò con un cigolio di freni e io andai incontro alla ragazza.

XXIX

«Reggie!» lei esclamò. Era meravigliata di vedermi, naturalmente. Né io mi meravigliavo che si meravigliasse. Ero senza dubbio l’ultima persona che si sarebbe aspettata d’incontrare. «Reggie!» «Oh, Ann.» Scese di macchina e mi guardò con aria meravigliata. In un primo momento si era fatta rossa in volto, poi era impallidita e ora stava arrossendo di nuovo. Non potrei dire quali mutamenti di colore avvenissero in quel lasso di tempo sulla mia faccia. Dovevo avere senza dubbio l’aria del perfetto imbecille. Seguì un silenzio prolungato, poi Ann disse: «Ti sei rasato i baffi». «Già.» Io la guardavo con aria nostalgica e disperata, come il piccolo Cooley avrebbe guardato una salsiccia se vi fosse stata una barriera insormontabile tra lui e la salsiccia stessa. Ero convinto che la mia situazione era disperata. Tutte le cose che mi aveva detto a Cannes, due anni prima, quando mi aveva piantato, mi ritornavano alla mente. Non era possibile che una ragazza fosse disposta a sposare un giovane che rispondesse alla descrizione che lei aveva fatto di me nel tragico momento in cui il mio sigaro si era posato sul suo collo. Riprese a parlare. «Come mai...» cominciò, e credo che stesse per aggiungere ‘ti trovi qui’ ma si fermò. I suoi modi si fecero gelidi. «Se sei venuto per correre dietro ad April June, posso dirti che se n’è andata da un pezzo. La troverai probabilmente a casa sua.» Le sue parole mi stizzirono. «Non sono venuto per correre dietro ad April June.» «Davvero?» «Non ho l’abitudine di correre dietro alla signorina June.»

«Possibile? In tutti i circoli di Hollywood si dice...» «Al diavolo i circoli di Hollywood e al diavolo quello che si dice!» esclamai. Poi risi ironicamente e dissi: «April June!» «Perché dici ‘April June’ in quel modo?» «Perché mi sembra l’unico modo di nominare quella donna. April June è una vipera.» «Che cosa?» «Sicuro... da qualunque parte la guardi, è una strega bella e buona.» Ann alzò le sopracciglia. «Reggie! La donna che ami...» «Io non l’amo.» «Ma credevo...» «Ho già capito quello che credevi, ma non è così. Le storie che circolano sono tutte esagerate.» Ero furibondo. Non potevo sopportare di sentirmi dire che amavo April June, quando avevo già capito da un pezzo che l’unica ragazza che amavo... che l’unica ragazza che mai avessi amato, stava là, davanti a me. Per la prima volta, dal momento in cui ci eravamo incontrati, lei sorrise. «Ebbene, le tue parole mi fanno l’effetto di una musica deliziosa, Reggie, ma non puoi biasimarmi se mi mostro un po’ meravigliata. Dopo averti sentito vaneggiare su April June, giorni fa, al suo ricevimento.» «Molte cose possono accadere in due giorni.» «Eh, lo so bene! Ma a te che cos’è successo?» «Lasciamo andare.» «Comunque, ringrazia il cielo che hai capito che cosa vale quella ragazza. Mi hai tolto un peso dal cuore.» La mia voce si fece tremula. «Eri crucciata per me, Ann?» «Naturale che ero crucciata per te!» «Ann!» «Mi sarei crucciata per chiunque avesse manifestato l’intenzione di sposare April June.» «Ah!» dissi un po’ deluso, e la conversazione cadde di nuovo. Lei si volse a guardare verso la strada e disse: «Aspetto un’automobile». Feci un cenno d’assenso. «Lo so.»

«Sei chiaroveggente?» «No. Ho parlato or ora col piccolo Cooley.» «Eh? Conosci Joey Cooley?» Per poco non scoppiai a ridere a quella domanda. «Sì» risposi laconicamente. «Ma quando l’hai conosciuto? Dove?» «Ci siamo trovati insieme nell’anticamera dei dentisti Zizzbaum e Burwash, e abbiamo fatto amicizia.» «Ho capito. E hai parlato con lui ora? A proposito, Reggie, non mi hai ancora spiegato come mai ti trovi qui. Credevo proprio che fossi venuto a cercare April, ma tu dici...» Esitai un attimo, poi risposi: «Ero per caso da queste parti... facevo una gita in motocicletta... ho visto Joey e mi sono fermato per salutarlo». «Vuoi dire che era qui fuori, sulla strada?» «Sì.» Ann parve ansiosa. «Santo cielo, avrebbe dovuto restare in casa fino al mio ritorno. E adesso dov’è?» «È in cucina con Eggy.» «Eggy? Eggy è qui?» «Sì, è venuto per passare la giornata con certi amici suoi che abitano appunto in questa casa.» «Ho capito. Cominciavo a pensare che fosse successo un miracolo. Hai parlato con Eggy?» «Sì.» Ann abbassò gli occhi e tracciò dei disegni sul terreno con la punta del piede. Se avesse avuto un sasso a portata, lo avrebbe preso a calci, credo. «Ti ha detto...» «Sì.» «Allora sai anche questo» disse con una risatina forzata. «Ebbene, avevi ragione di dire che molte cose possono accadere in due giorni, Reggie. Da quando ci siamo visti a quel ricevimento, io ho rotto un fidanzamento e ho perso due impieghi.» «Lo so» mormorai. «Sei in un momento di sfortuna, Ann, no?» «Direi.» «Hai danaro?»

«Non molto.» «E nessun impiego in vista?» «Ne ho uno in vista, ma non è molto attraente.» «Che cosa farai?» «Oh, in qualche modo mi sistemerò.» Mi passai un dito all’interno del colletto. Qualcosa mi diceva che per me non c’era speranza, ma decisi di fare un tentativo. «Non entreresti nell’ordine di idee di sposarmi?» «No.» «Lo immaginavo.» «Perché?» «Che importa il perché? Immaginavo che non mi avresti voluto sposare.» «Ebbene, avevi ragione. Non mi piace la beneficenza.» «Che c’entra la beneficenza!» «C’entra, poiché è proprio questa che mi stai offrendo.» «Non capisco nemmeno di che cosa parli.» «Sì che capisci, Reggie. Non sei cambiato. Ti dissi un tempo che avevi un cuore d’oro e vedo che sei ancora quel caro buon ragazzo che sei sempre stato. Ti faccio pena, ecco...» «Niente affatto!» «Ma sì! E non credere che io non apprezzi i tuoi sentimenti. Il tuo gesto è nobile... degno di te, ma l’orgoglio dei Bannister è sempre stato qualcosa di terribile. No, non posso sposarti, Reggie... ma ti ringrazio di cuore ugualmente.» Si diede una scrollatina, come un cagnolino che esce dall’acqua, e passò a un altro argomento. «Hai detto che Joey si trova in cucina?» «Si dirigeva da quella parte, quando l’ho visto per l’ultima volta.» «Sarà bene che vada ad avvertirlo che ci vorrà un po’ di tempo prima che la macchina arrivi, altrimenti potrebbe stare in pensiero. Non che Joey sia un tipo facile a crucciarsi. Ho noleggiato un’automobile per ricondurlo a casa sua, capisci, perché è prudente che si allontani da Hollywood al più presto. Hai letto il giornale stamane? Hai veduto quell’intervista?» «Sì.» «La sua carriera cinematografica è finita, povero piccolo.» «Non mi sembra che si addolori per questo.» «Mi fa piacere.»

«Anzi, è tutto contento! Non vede l’ora di ritornare da sua madre. Dice che sa cucinare il pollo alla meridionale...» «Lo so. Me l’ha detto molte volte. Ebbene, può partire non appena arriva l’automobile.» Sospirò. «Sentirò la mancanza del piccolo Joey. È doloroso separarsi da coloro che hanno un posto nel nostro cuore, non è vero?» «E quando ritornano?...» Mi diede un’occhiata strana. «Ecco... qualche volta è sconcertante. Che combinazione trovarsi così, Reggie.» «È buffo davvero.» «Non intendevo questo... ebbene, arrivederci!» Con un gesto brusco mi tese la mano e, a questo punto, naturalmente, avrei avuto un’ottima occasione di afferrarla per i polsi, di fissarla negli occhi e di alzare e abbassare il petto con ritmo accelerato, come Cooley mi aveva consigliato. Ma non feci niente di tutto questo. Probabilmente il ragazzo aveva ragione affermando che quella procedura mi avrebbe portato alla vittoria... non si poteva negare che Joey fosse intelligente... ma lasciai passare il momento buono. Una sensazione di sconforto indicibile si era impadronita di me. «Arrivederci» dissi. Ann si lasciò sfuggire un piccolo grido soffocato. «Reggie!» Mi fissava con gli occhi dilatati e respirava affannosamente. Non capisco che cosa avesse. Abbassai gli occhi sul mio panciotto. Sembrava a posto. Mi guardai le gambe. I pantaloni non avevano niente di insolito e altrettanto dicasi per le calze e per le scarpe. «Reggie! Che hai sulla testa?» Che avevo sulla testa? Il cappello no di certo. Alzai una mano e mi tastai la zucca. «Oh, guarda!» dissi. «Sangue, perdiana!» Ann additò il fossato che correva lungo la strada. «E quello che cos’è?» «Oh, quello? È tutto ciò che resta di una motocicletta.» «La tua?» «Ecco... io c’ero sopra, veramente...» «Hai avuto un incidente?» «Sì.»

Un pallore grigiastro si era diffuso sul volto di Ann. Aveva gli occhi dilatati e sembrava aver perso il controllo delle proprie corde vocali. Chiocciò come una gallina e avanzò annaspando verso di me. «Oh, Reggie, amor mio! Avresti potuto ucciderti! Avresti potuto ucciderti!» A questo punto si coprì il volto con le mani e scoppiò... come si dice? in un pianto irrefrenabile. Ero sbalordito: A) dalle sue parole; B) dal suo contegno. Né le une, né l’altro però mi sembravano accordarsi col suo atteggiamento di poco prima. «Hai detto ‘amor mio’?» domandai. Alzò il volto. Era ancora grigiastro, ma i suoi occhi brillavano come... ecco, non trovo altra similitudine... brillavano come due stelle. «Naturale che ho detto ‘amor mio’.» Continuavo a non capire. «Ma tu non mi ami... Mi ami forse?» «Naturale che ti amo, sciocco che non sei altro.» «Ma a Cannes mi hai detto...» «Lascia andare quello che ho detto a Cannes.» «E prima?» «Lascia andare anche prima!» Passai subito al lato positivo della questione. «Ma intendi dire... intendi dire che sei disposta a sposarmi?» «Naturale che sono disposta a sposarti.» «Angelo!» «Credi che voglia lasciarti andare in giro sbandato, dopo quello che è successo? Non m’importa se mi sposi per compassione o... o per beneficenza.» Dissi, a proposito della compassione e della beneficenza, qualcosa di così incisivo, di così poco consono alle orecchie di una delicata fanciulla, che Ann, nonostante l’emozione a cui doveva essere in preda, sussultò visibilmente. Poi cominciai a parlare. Probabilmente vi è capitato di togliere il tappo a una bottiglia di spumante e di vedere il liquido uscire impetuoso. Ebbene, in quella congiuntura fu come se io fossi stato la suddetta bottiglia e qualcuno mi avesse stappato. Aprii la bocca e ne uscì tutto quello che dovevo dire. Naturalmente io non brillo per eccessiva eloquenza, ma quella volta me la cavai con onore. Diedi libero sfogo a tutti i miei sentimenti e nemmeno una volta dovetti fermarmi

per cercare una parola. Dissi questo e quello e così via e così via e intanto la baciavo abbondantemente. Poi, a un tratto, nel bel mezzo della mia estasi, se rendo l’idea... e, per essere più preciso, nel momento in cui la baciavo per la quarantesima volta... un pensiero agghiacciante si insinuò nella mia mente... e cioè: ora che tutto era disposto e sistemato su così solide basi, Ann avrebbe senza dubbio contato sul fatto che io ritornassi a Hollywood con lei per iniziare, seduta stante, i preparativi per il prossimo matrimonio. A Hollywood, capite? A Hollywood, dove la polizia in quello stesso momento stava tendendo le reti e frugando ogni angolo per trovarmi. Come diamine dovevo spiegarle che ero costretto a lasciarla e a filare al più presto a Chillicothe nell’Ohio? Che motivo potevo addurre? In qual modo potevo giustificare quel mio improvviso e appassionato desiderio di andare a Chillicothe nell’Ohio? In conclusione, avrei dovuto finire per spiegare come stavano le cose, nel qual caso lei avrebbe pensato, senza dubbio, che io fossi pazzoide e avrebbe mandato a monte il matrimonio per timore che la malattia fosse contagiosa. Poi, in un lampo, intravidi una soluzione. Avrei detto che non mi garbava l’idea che il piccolo Joey Cooley, alla sua tenera età, dovesse fare quel viaggio da solo. Sarebbe stato un pretesto un po’ specioso, naturalmente, ma... «Ehi!» Mi accorsi che lei stava parlando. Le sfuggì una sbuffata d’impazienza. Era sempre lei. «Non mi hai ascoltato?» «Sono dolente. La mia mente ha divagato un poco.» «Ebbene, ascoltami, mio adorato e inguaribile tonto, perché ho una cosa importante da dirti. Si tratta del piccolo Joey.» «Ebbene?» «Mi è venuta un’idea. É ancora piccolo e non credo che sia opportuno lasciargli fare quel lungo viaggio da solo. Così...» Il mio cuore diede un balzo, come il salmone al tempo di deporre le uova. «E vorresti che io andassi con lui?» «Saresti disposto?» «Certo» Mi parve che, tutt’a un tratto, l’atmosfera echeggiasse di campane a festa. Ero salvo. Non più tediose spiegazioni... non più pericolo di esser preso per

matto e quindi non più pericolo di una rescissione dell’accordo matrimoniale da parte di uno dei contraenti... Ricominciai a baciarla. «Sei un angelo, Reggie» disse. «Ben pochi uomini si mostrerebbero tanto altruisti e si prenderebbero un disturbo simile.» «Non è il caso di parlarne» dissi. «Sarà bene che partiate il più presto possibile, credo.» Lo credevo anch’io. La baciai di nuovo. «Dopo potrai ritornare a Hollywood...» «No» dissi. «Ci troveremo a New York.» «Perché?» «Preferisco.» «Forse è meglio.» «Molto meglio.» La baciai di nuovo portando il totale, credo, verso il centinaio. Poi ci avviammo per il viale, guidati dall’aroma delle salsicce fritte, il quale mi diceva come Eggy non avesse esagerato, decantando la propria abilità di cuoco e come il piccolo Joey Cooley fosse intento, senza dubbio, a zavorrarsi, prima di andare incontro a una nuova esistenza.

Note [←1] Eggy è il diminutivo di Egremont (N.d.T.)

[←2] Eggy è il vezzeggiativo di Egremont, ma Egg significa anche uovo e il gioco di parole ha valore soltanto in inglese. (N.d.T.)