Galileo. La lotta per la scienza

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Storia e Società

© 2007, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2007

Egidio Festa

Galileo La lotta per la scienza

Editori Laterza

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel luglio 2007 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-8377-1

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per Elio, in memoria

Introduzione IL CASO GALILEO Nel corso degli ultimi decenni sono stati pubblicati numerosi lavori interamente dedicati alla vita ed all’opera di Galileo Galilei e decine di articoli in riviste specializzate, sulla scienza galileiana, sui rapporti dello scienziato con personalità religiose e civili, sul processo e la condanna. Quest’ultimo argomento è stato affrontato dalla Chiesa cattolica nel 1979 ad iniziativa di Giovanni Paolo II, dopo un silenzio durato circa tre secoli e mezzo. Da questo primo passo è nata nel 1981 una commissione di teologi, scienziati e storici per approfondire il caso Galileo. Com’è noto, le conclusioni dei lavori sono state presentate al sommo pontefice il 31 ottobre 1992 dal cardinale Paul Poupard nel corso di una seduta straordinaria della Pontificia Accademia delle Scienze. Si è parlato a torto di riabilitazione. In realtà per la prima volta ufficialmente e chiaramente la Chiesa ha fatto riferimento alla controversia sull’eliocentrismo e riconosciuto in Galileo uno dei più grandi scienziati di tutti i tempi. Le conclusioni della Commissione hanno deluso chi aveva creduto nella designazione (che non è avvenuta) dei responsabili della condanna o nella riabilitazione, ma hanno suscitato nello stesso tempo nuove ricerche sul caso Galileo, soprattutto dopo la decisione (1998) della Congregazione per la Dottrina della Fede (ex Sant’Uffizio) di aprire agli studiosi i propri archivi. Ho scritto questo libro con l’intento di attirare verso la figura di Galileo il lettore che non conosce da vicino i suoi lavori e gli eventi che condurranno al processo ed alla condanna. Il filo con-

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duttore del racconto rinvia di volta in volta alla monumentale Edizione Nazionale (EN, 1890-1909) curata da Antonio Favaro e Isidoro del Lungo, e si avvale inoltre dei risultati delle più recenti ricerche sul contenuto dell’opera dello scienziato e sul processo e la condanna dell’astronomo copernicano. La lista degli autori è molto lunga, la massa delle informazioni considerevole. Scienziato e copernicano sono le due immagini di Galileo che ho cercato di presentare così come si succedono sovrapponendosi nel tempo. Insieme occupano un posto di primo piano nella storia delle scienze fisiche per i progressi che hanno fatto compiere alla meccanica ed all’astronomia e per quelli che hanno preparato. L’opera scientifica e filosofica di Galileo è importante non solo per gli argomenti trattati, ma per la rivolta, sovente espressa con sferzante ironia, contro le resistenze intellettuali ed istituzionali che si opponevano al rinnovamento culturale. Fin dai primi anni trascorsi a Pisa come studente di medicina, Galileo si era reso conto dell’influenza profondamente negativa che esercitava sull’insegnamento il sistema aristotelico ereditato dalla cultura del Medio Evo. Certo, l’accordo col cristianesimo realizzato dai teologi alcuni secoli prima escludeva tutto ciò che negli scritti del filosofo greco si rivelava contrario ai principi della fede cristiana, ma per il resto gli insegnamenti più importanti – logica, fisica, metafisica – erano solidamente ancorati ai testi di Aristotele e dei suoi commentatori. Quando all’età di 21 anni Galileo abbandonerà gli studi di medicina per dedicarsi interamente alla matematica ed alla filosofia naturale, la geometria sarà il suo cavallo di battaglia. La formazione acquisita al di fuori dell’insegnamento universitario gli permetterà di strutturare in maniera originale la critica di alcuni aspetti della cultura ufficiale. Gli aristotelici non erano da mettere tutti nello stesso sacco, ma molti di loro concordavano sul ruolo della geometria: le dimostrazioni more geometrico utilizzate con successo all’interno della disciplina erano insufficienti per risolvere i problemi di filosofia naturale. In altri termini la geometria non permetteva di spiegare il mondo. Questo compito spettava alla logica.

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Le convinzioni di Galileo già presenti negli scritti giovanili erano del tutto diverse. La critica di punti importanti della fisica aristotelica e l’enunciazione di idee nuove si esprimevano spesso attraverso dimostrazioni geometriche che poco a poco s’imporranno come un vero e proprio metodo. Galileo ne decreterà l’impiego nei problemi di filosofia naturale sulla base di una sua intima convinzione: il mondo è scritto con i caratteri della geometria, quindi bisognava leggerlo con questo linguaggio. L’intuizione si rivelerà quanto mai proficua e farà di Galileo il più moderno dei novatores. Negli scritti giovanili non ci sono riferimenti ai principi dell’astronomia copernicana, mentre si incontrano qua e là precise allusioni alla posizione centrale della Terra ed alla sua immobilità. La critica dell’aristotelismo si accentuerà, ma l’astronomia ne rimarrà esclusa. La conversione al copernicanesimo avverrà a Padova, dove Galileo insegnerà la matematica dal 1592 al 1610, e sarà annunziata alcuni anni dopo il suo arrivo nella città veneta. Non sappiamo con sicurezza quando. Nel 1597 Galileo dichiarerà in una lettera a Keplero di aver aderito alla dottrina copernicana da più anni. In questa stessa lettera farà allusione alla difficoltà di affermarlo apertamente poiché temeva di ridicolizzarsi. In effetti il sistema copernicano appariva contrario alle più elementari considerazioni di buon senso. Lo stesso Copernico, secondo quanto scriveva Galileo a Keplero, era stato oggetto di derisione. Ammettere di condividerne le convinzioni avrebbe potuto nuocere alla sua credibilità di professore di matematica. Meglio valeva non difenderle ex cathedra. Il timore del ridicolo può aver influito sulla decisione di non prendere posizione apertamente a favore del movimento della Terra e dell’immobilità del Sole, ma non è da escludere che Galileo avesse ancora dei dubbi sulla loro realtà fisica. L’anno stesso della lettera a Keplero dichiarava a Jacopo Mazzoni, professore a Pisa, di considerare il sistema di Copernico assai più probabile del sistema d’Aristotele e di Tolomeo. Forse procedeva a verifiche sistematiche della prova che credeva di aver trovato del doppio movimento della Terra. L’adesione completa al sistema copernicano avverrà quando potrà osservare nel cielo, grazie al

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cannocchiale, fenomeni nuovi che mettevano in crisi alcuni principi fondamentali dell’astronomia geocentrica, anche se non ne compromettevano ancora l’intera impalcatura. Ma per alcuni storici della scienza Galileo non aveva avuto bisogno dell’ingrandimento del cielo per diventare copernicano. Quanto al sentirsi ridicolo, visto col senno di poi, le conseguenze appaiono decisamente insignificanti rispetto a quelle che stavano per prodursi. La condanna e l’abiura, inflitte dal Sant’Uffizio 23 anni dopo le prime scoperte, appaiono non solo eccessive ma per alcuni aspetti incomprensibili. In effetti la dottrina astronomica accettata e difesa da Galileo non era stata dichiarata esplicitamente eretica. Lo stesso Urbano VIII, il papa che lo farà condannare, la considererà solamente temeraria. La distinzione era estremamente importante poiché significava, nel linguaggio dell’Inquisizione, che il sistema eliocentrico non era totalmente contrario alla Scrittura, ma si opponeva ad una sua interpretazione consensuale. In altri termini la dottrina copernicana era contraria ad alcune nozioni di astronomia presenti nella Scrittura e ne impediva di fatto un’interpretazione consensuale. Per questo motivo era da considerarsi temeraria, ma poiché non si opponeva alla fede cattolica chi la sosteneva non poteva essere accusato di eresia. Nel corso dell’istruzione non fu tenuto conto della sincera adesione di Galileo ai principi della Chiesa cattolica. Nato e cresciuto nel suo grembo, lo scienziato pisano si era sempre sottomesso e sempre si sottometterà agli obblighi dettati dalla fede. Ma paradossalmente le sue profonde convinzioni religiose contribuiranno a trascinarlo in un violento conflitto contro i teologi. In alcuni casi si avventurò perfino nell’interpretazione in senso copernicano di passaggi della Scrittura in cui apparivano elementi di astronomia. Anche se l’iniziativa rimase confinata nella cerchia ristretta di note personalità politiche e religiose, le pretese di Galileo non potevano non urtare la suscettibilità dei teologi, interpreti ufficiali dei sacri testi, che ne vennero a conoscenza. Da quel che ne sappiamo, questo errore tattico non fu mai ammesso da Galileo, che probabilmente non se ne rese

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mai conto. Fu forse dovuto alla preoccupazione che le scoperte scientifiche importanti, ed in particolare la prova del doppio movimento della Terra, venissero attribuite agli studiosi dei paesi riformati. Non riusciva ad ammettere che in Italia, dove le scoperte astronomiche erano state particolarmente importanti, si imponesse ora il silenzio agli astronomi copernicani. La conoscenza approfondita del sistema eliocentrico grazie al cannocchiale sarebbe diventata allora l’appannaggio esclusivo degli specialisti d’oltralpe. Metteva in guardia i teologi contro il pericolo di rendere materia di fede gli argomenti di astronomia ed era convinto che se accettavano di seguirlo nelle sue interpretazioni della Scrittura, la Roma cattolica sarebbe diventata il centro della cultura scientifica più avanzata nel mondo. Tutti sappiamo oggi che la condanna fu un errore. L’abiura, redatta dagli specialisti del Sant’Uffizio, fu imposta a Galileo come conseguenza della condanna per eresia. La vendetta di Urbano VIII era stata feroce. In caso di ricaduta, Galileo diventava relapsus ed era immediatamente destinato al rogo senza possibilità di ritrattazione. Dopo la condanna Galileo troverà la forza di ritornare alla scienza pura, per dirla col linguaggio di Ludovico Geymonat, e riuscirà a far pubblicare in Olanda i Discorsi, considerati il suo capolavoro. Molto probabilmente un posto gli è stato riservato nell’Aldilà dei cattolici, fra i beati ingiustamente puniti. Egidio Festa Parigi, gennaio 2007

Un ringraziamento particolare a Germano, Fabrizia e Maria Chiara Del Mastro che hanno riletto il dattiloscritto, a Sophie Roux per i suoi suggerimenti, ad Asma Hidouci che ha curato le figure, a Sarah, Christophe e Cléo Kirsch per gli incoraggiamenti. Pour Bernadette Menichi le mot de la fin: sans elle ce livre n’aurait pas vu le jour.

GALILEO LA LOTTA PER LA SCIENZA

I MAMMA PISA Felici presagi? L’origine del casato Galilei risale all’antica famiglia fiorentina dei Bonaiuti, e più precisamente ad un tale Galileo figlio di Tommaso Bonaiuti, vissuto verso la fine del XIV secolo. Il nome fu poi trasmesso dal primo Galileo ai suoi discendenti diretti, uno dei quali si distinse come medico, filosofo e professore di medicina a Firenze, ove ricoprì la carica di priore della libertà, e di gonfaloniere di giustizia nel 1445. Sulla sua tomba, che divenne poi il sepolcro dei Galilei nella chiesa di Santa Croce a Firenze, è visibile ancora oggi l’iscrizione Magister Galileus de Galileis, olim Bonaiutis. Per i suoi discendenti – e per quelli di suo fratello Michelangelo, trisavolo del nostro Galileo – il cognome Galilei divenne da allora il nuovo e definitivo nome di famiglia. Galileo Galilei nacque a Pisa il 15 febbraio 1564, da Vincenzio Galilei e da Giulia Ammannati. Tre giorni dopo la sua nascita moriva a Roma Michelangelo Buonarroti. La vicinanza dei due eventi poteva apparire un fatto eccezionale e come tale lo interpretò l’ultimo discepolo di Galileo, Vincenzio Viviani, che dopo la morte del Maestro ebbe dal principe Leopoldo de’ Medici l’incarico di preparare una biografia dell’illustre scienziato. Viviani credette di scoprire che Galileo era nato il 19 febbraio. Che la data non fosse proprio quella del 15 febbraio non era un fatto di grande importanza e non avrebbe potuto sorprendere: il giorno della nascita era quasi sempre confuso con quello del battesimo. Ma c’era di mezzo il giorno

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della morte di Michelangelo: se il 19 febbraio fosse stato, appunto, il giorno del battesimo, Galileo poteva esser nato il giorno prima, e quindi il giorno stesso della morte di Michelangelo Buonarroti. Viviani rifletté a questa eventualità, volle anche credervi, ma non riuscì a giustificarla. A prova della sua esitazione sta il fatto che nei tre manoscritti del Racconto Istorico della vita del Signor Galileo Galilei, redatto nel 1654 e pubblicato dopo la sua morte, indicò tre date diverse: il 19 (EN, XIX.597), il 15, o 18 febbraio come si ricava da una nota di Salvino Salvini inserita nella prima edizione a stampa del Racconto (VV 1717). Per le date del 15 e del 18, Viviani faceva esplicito riferimento al giorno della morte di Michelangelo. Incuriosito da questa discordanza di date, Eugenio Alberi, curatore nel XIX secolo di una importante edizione delle Opere di Galileo, volle a sua volta indagare. Quali furono le sue conclusioni? Sulla scorta delle informazioni ricavate dai manoscritti e dalle edizioni a stampa del Racconto di Viviani, egli afferma che «né l’una né l’altra di queste due date [e cioè il 15 e il 19 febbraio] è la vera; avvegnaché Galileo nascesse il 18 febbraio 1564 a ore 21, cioè appunto nel giorno e quasi nell’ora stessa in cui moriva in Roma il divino Michelangelo. Lo stesso Viviani rettificò più tardi l’errore» (Galileo 1842, XV, 383-384). Le esitazioni di Viviani furono senza dubbio all’origine di questa leggenda, una fra le tante sorte per esaltare, talvolta per denigrare, la vita e l’opera dello scienziato pisano. Da sincero credente, come lo erano i discepoli e come lo era lo stesso Galileo, è probabile che Viviani si sia chiesto se la divina provvidenza non avesse deciso di dare all’Italia ed al mondo un nuovo genio, nel momento stesso in cui veniva a mancare il divino Michelangelo. Ma le ricerche condotte da Antonio Favaro, curatore della monumentale Edizione Nazionale delle opere di Galileo (1890-1909), tendono a provare che il 15 febbraio alle ore 22 e 30 è proprio la data giusta. La scoperta, fatta dallo stesso Favaro, di un autografo di Galileo rinvenuto «fra i suoi guazzabugli astrologici», conferma questa ipotesi. Nell’autografo ci sono due righe: nella prima si legge 15 feb. h. 22.30, nella seconda il 15 è corretto in 16 e si legge 16 feb. h. 4 p.m. La prima contiene

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la data calcolata «all’italiana», partendo cioè dal tramonto del Sole o da mezz’ora dopo, come si faceva di solito al tempo di Galileo, e quindi, nel mese di febbraio, dalle ore 17 e 30 minuti; invece la seconda riga conterrebbe, secondo Favaro, «la traduzione della medesima data in ore contate a partire dal mezzogiorno». Se un dubbio dovesse sussistere, esso concernerebbe lo spostamento dal 15 al 16 febbraio alle ore 4 del pomeriggio, «qualora si calcolassero le ore dal mezzogiorno». Secondo Antonio Favaro [è che] «quelle linee stanno ad indicare il medesimo tempo contato da due origini diverse di 18 ore e trenta minuti, cioè dall’intervallo compreso fra il tramonto del giorno 15 [ore 17 e 30 minuti] ed il mezzodì del giorno 16». Quindi, «il desiderio della coincidenza col giorno della morte di Michelangelo» non poteva essere appagato (FAV 1908, 6-8). Quanto ai guazzabugli astrologici ai quali fa allusione l’eminente studioso, Galileo continuerà ad usarne, come vedremo, per trarre fra l’altro gli oroscopi delle sue figlie. Incomprensioni materne, preoccupazioni paterne Poco sappiamo dell’infanzia di Galileo. Di quel periodo nulla egli dirà, neanche quando, già avanzato negli anni, ritornerà con la mente ai momenti più felici della sua vita. Le condizioni economiche della famiglia non erano floride e numerose erano le bocche da sfamare. Nel giro di quattordici anni Giulia Ammannati aveva messo al mondo, oltre al primogenito Galileo, sei figli. Di tre di essi – Virginia, Michelangelo e Livia – si sono ritrovate le tracce, mentre degli altri non si sa nulla. Per le figlie si poneva fin dalla nascita il problema della dote, alla quale doveva provvedere il capofamiglia. Quando, nel 1591, verrà a mancare il padre, quest’obbligo toccherà al primogenito. A rendere ancora più pesante l’atmosfera familiare, non poco contribuì il carattere della madre. Donna intollerante, soggetta ad incontrollabili collere improvvise, Giulia fu incapace di stabilire un rapporto affettivo profondo con i propri figli, i quali anche da adulti continueranno a temerla. Rimasta vedova,

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l’Ammannati andò ad abitare in casa di Benedetto Landucci, che aveva sposato lo stesso anno sua figlia Virginia. Galileo s’era impegnato, con regolare atto notarile, a versare la dote pattuita, ma, costretto a ricorrere ad un prestito, non rispettò le scadenze. Intanto il Landucci s’impazientiva. Nel maggio del 1593 la madre scrisse al figlio Galileo per avvertirlo dell’intenzione del cognato di farlo arrestare per insolvenza, esprimendosi in questi termini: «Ora non posso mancare di dirvi le cose come le vanno giornalmente: perché, a quel che io intendo, volete venire qua [cioè a Firenze] quest’altro mese, havrò caro e mi sarà contento grandissimo; ma venite provvisto, perché a quel ch’io vedo, Benedetto vuole il suo, cio è quel che gli avete promesso, e minaccia fortemente di farvi pigliare subito che arrivate qua. Per quel che intendo, essendo di patti e così obbligato, deve potere; sarà persona per farlo: però vi fo avviso, perché a me non sarà altro che dispiacere» (EN, X.61). Il Landucci riceverà tutto quello che gli era stato promesso e si placherà. Ma non così la madre, che tenterà instancabilmente, con tutti i mezzi per anni ed anni, di intervenire nella vita privata del figlio (EN, X.268, 270, 279). Un’immagine raccapricciante di questo difficile rapporto traspare dal breve commento indirizzato a Galileo dal fratello Michelangelo, già più che quarantenne, in una lettera del 10 ottobre 1619 (EN, XII.494): «Di nostra madre intendo non con poca maraviglia che sia ancora così terribile; ma poi che è così discaduta, ce ne sarà per poco, così finiranno le liti». Giulia Ammannati passò a miglior vita nel 1620, all’età di 82 anni. Non è da escludere che il suo carattere abbia avuto un’influenza negativa sui figli. Ma non ci sembra plausibile l’affermazione, espressa da un eminente storico della scienza (FF 1953, 248), che attribuisce all’eredità materna «aggressività, insofferenza e irrisioni che, accrescendogli il numero dei nemici, saranno fra le cause delle sue sventure». Le cause delle sventure di Galileo non vanno ricercate, e su questo non dovrebbero esserci dubbi, nel terribile carattere della madre. Musicista di talento e maestro di canto, Vincenzio Galilei fu un noto teorico della musica, autorevole rappresentante a Firenze della Camerata dei Bardi, che si proponeva, come reazio-

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ne alla polifonia contrappuntistica dei veneziani, di dare risalto alla libera melodia monodica prendendo a modello la musica antica. Il suo Dialogo della musica antica e moderna, pubblicato a Firenze nel 1581, circolò con successo in Europa, tanto da meritare una ristampa nel 1602. Tuttavia l’attività musicale non fu sufficientemente redditizia e per provvedere alle esigenze della numerosa famiglia il padre fu ben presto costretto a occuparsi di commercio. Ma non divenne mai ricco. Agguerrito difensore del diritto alla libertà di pensiero, Vincenzio Galilei combatté apertamente il principio di autorità, che rendeva particolarmente difficili, nell’Italia d’allora, i tentativi di rinnovamento della cultura tradizionale. Così si esprime un personaggio del suo Dialogo sul valore da attribuire all’autorità: «Mi pare che faccino cosa ridicola (per non dire insieme col Filosofo, da stolti) quelli che per prova di qual si sia convinzione loro, vogliono che si creda senz’altro alla semplice autorità senza addurre, di esse, ragioni che valide siano [...]. Voglio in oltre che mi concediate essermi lecito alla libera interrogarvi, et rispondervi senz’alcuna sorte d’adulatione, come veramente conviene fra quelli che cercano la verità delle cose». Il filosofo al quale allude Vincenzio Galilei è Aristotele, e non è certo Aristotele che egli critica, ma coloro che se ne servono per imporre qualsiasi convinzione. Galileo esprimerà opinioni vicinissime a quelle del padre, particolarmente in un’opera ben nota, scritta anch’essa nella forma letteraria del dialogo. Le doti eccezionali del primogenito indussero il padre ad avviarlo molto presto agli studi umanistico-letterari, probabilmente già a Pisa sotto la guida di Jacopo Borghini da Diacomano, un precettore di modesta levatura. Quando nel 1574 la famiglia si trasferì a Firenze, Galileo fu inviato al monastero camaldolese di Santa Maria di Vallombrosa, dove, oltre allo studio teorico ed all’esercizio della logica, ebbe modo di approfondire la conoscenza del latino attraverso la lettura degli autori più noti, e di iniziare lo studio del greco. Queste due lingue costituivano gli strumenti indispensabili per accedere alla cultura ufficiale dell’epoca, una cultura in cui il contenuto delle opere di Aristotele rappresentava un necessario ed inevitabile punto di

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riferimento. Durante il soggiorno nel monastero di Vallombrosa, Galileo vestì l’abito di novizio (NG 1793, I, 26-27; TTG 1967, II, 64), ma suo padre, che non credette all’autenticità della vocazione, lo ricondusse a Firenze col pretesto di sottoporlo ad una cura medica agli occhi. Galileo continuò quindi gli studi nel monastero camaldolese di questa città, ma non più in qualità di novizio. Dal padre ricevette un’educazione musicale sia teorica che pratica e fu avviato con successo allo studio del liuto. Probabilmente la pratica di questo strumento non fu estranea, come da alcuni storici si è sostenuto (DS 1975, 82-104), al suo interesse per la ricerca sperimentale. Ma un segno ancor più evidente di questo suo interesse fu la passione ch’egli manifestò fin da ragazzo per la costruzione di oggetti meccanici. Scrive il Viviani che «già ne’ prim’anni della sua fanciullezza nell’ore di spasso esercitavasi per lo più in fabbricarsi di propria mano vari strumenti e machinette, con imitare e porre in piccol modello ciò che vedeva d’artifizioso, come di molini, galere, et anco d’ogni altra machina ben volgare» (EN, XIX.601). Ma Vincenzio Galilei, che aveva forse in mente la brillante carriera dell’illustre antenato, decise di avviarlo agli studi di medicina, professione ben retribuita e che avrebbe permesso di migliorare la situazione economica della famiglia. Pisa studiosa e dotta Il 5 novembre 1581, all’età di 17 anni, Galileo fu iscritto alla facoltà «degli Artisti» dell’Università di Pisa come studente di medicina. Pisa, Padova e Bologna erano le sedi delle tre università più importanti d’Italia, famose in Europa quanto lo erano quelle di Oxford in Inghilterra, di Alcalá in Spagna, della Sorbona in Francia e della protestante Tubinga in Germania. In questi templi della cultura venivano formati i medici, i giuristi ed i teologi, secondo un insegnamento organizzato in cicli. Prima di accedere alla specializzazione, lo studente aveva l’obbligo di seguire i corsi del ciclo di filosofia, che permetteva di ottenere, dopo il superamento di un esame, l’ambito titolo di magister

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artium. Chi lo possedeva, poteva esercitare la professione di magister nell’insegnamento generale. Il titolo di doctor veniva conferito a coloro che avevano seguito con successo i cicli superiori di specializzazione. L’istruzione era riservata quasi esclusivamente ai giovani appartenenti alle famiglie europee più facoltose. Questi fortunati studenti profittavano del periodo di formazione per passare da un’università all’altra e seguire così i corsi dei professori più noti in Europa. Nello Studio pisano La Sapienza, l’indisciplina degli studenti (seicento circa) si manifestava strepitosamente il 28 ottobre, giorno dell’inaugurazione dell’anno accademico. Secondo la testimonianza del professore Baldassarre Ansidei (HMO 1989, 41), posteriore di alcuni anni al soggiorno di Galileo, lo svolgimento della manifestazione degenerava in tumulto. In Pisa – scrive l’Ansidei – si costuma che l’orazione [inaugurale] si reciti prima in Sapienza, e di poi si vada alla chiesa per sentir la messa, e da questa usanza nascono molti inconvenienti, e sono questi. Prima, recitata l’orazione, pochissimi sono quelli che vanno alla messa; anzi io ho sentito alcuni che non sapevano pure che la messa si celebrasse a questo fine. Di poi la scola della Sapienza dà occasione a gli scolari di fare strepito poiché tutti vogliono essere i primi, e saltano sopra le panche, e quelli che restano indietro, che non vedono né odono, non sanno far altro che gridare e fare altre sorti di cose che impediscono chi parla.

L’Ansidei proponeva che l’inaugurazione cominciasse con la messa nella chiesa di Sant’Offrediano, contigua alla Sapienza. Non sappiamo se la proposta fu accettata, né se a suo tempo Galileo fu uno studente disciplinato. In realtà pare che pochissimi lo fossero il giorno dell’inaugurazione. Ma il 2 novembre (se non capitava di domenica), cominciavano i corsi e quindi le cose serie. I quarantadue dottori togati erano pronti, libro alla mano, per iniziare la lectio: questa consisteva nella lettura, spiegazione e commento dei testi previsti dal programma. L’insegnamento della medicina, che Galileo si apprestava a seguire, era organizzato in tre cicli triennali, affidati rispettivamente ai professori ordinari teorici, agli straordinari teorici, ed ai pratici ordinari. Gli ordi-

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nari teorici leggevano i Libri artis medicinalis di Galeno e gli Aforismi di Ippocrate; gli straordinari il primo libro del Canone di Avicenna (Ibn Sina), i Prognostica di Ippocrate ed i libri De pulsibus di Galeno; infine i pratici ordinari leggevano il De febribus di Avicenna (parzialmente), ed il De curis particularibus di al-Rhazi. Da questo quadro risulta che gli autori più moderni erano i due medici arabi vissuti entrambi nel X secolo d.C., ed i più antichi, ma anche i più letti, i medici greci Ippocrate e Galeno, vissuti rispettivamente nel V secolo a.C. e nel II secolo d.C. L’immobilismo voluto dalle autorità accademiche non fu unanimemente accettato dai professori pisani. Andrea Cesalpino (1519-1603), professore a Pisa all’epoca dell’iscrizione di Galileo, fu estremamente critico nei confronti della cultura ufficiale. A suo parere, il modello proposto da Galeno, ed insegnato nelle università, per spiegare il ruolo del sangue nelle funzioni vitali, era impreciso ed insufficiente. Cesalpino intuì la necessità di un modello a doppia circolazione del sangue, che, com’è noto, fu messo in evidenza sperimentalmente nel 1628 da William Harvey, al quale spetta il merito della scoperta. Oltre ad esercitare la libera professione, Cesalpino, che fu medico personale del papa Clemente VIII, si distinse come botanico e come studioso di problemi meccanici. La classe colta toscana faceva capo all’Accademia Fiorentina, una importantissima istituzione creata dal potere granducale per diffondere la lingua e la cultura toscana. Oltre a centralizzare le iniziative, l’Accademia esercitava nei confronti degli esponenti della cultura locale un ruolo di controllo, destinato soprattutto ad assicurarne l’unità. Un foltissimo pubblico, che poteva raggiungere in alcune occasioni fino a duemila persone, seguiva i corsi e le conferenze tenute a volte da dottori della Sapienza. L’Accademia, che ebbe con lo Studio pisano rapporti di complementarità e non di concorrenza, cercò di promuovere l’uso del volgare anche nelle scienze. Ma le innovazioni non si estesero al contenuto, che restò fondamentalmente agganciato ai principi della filosofia aristotelica. La decisione di Vincenzio Galilei fu difficile e coraggiosa: le spese per il mantenimento del figlio a Pisa ed il costo dell’iscri-

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zione all’università rappresentavano una somma di denaro non indifferente. Galileo ne fu sempre cosciente e da adulto intervenne più volte per cercare di risolvere i problemi economici in cui si dibatteva la famiglia dopo la morte del padre (1591). Ma come spesso accadeva, ed accade ancora oggi in molte famiglie, i progetti del padre non si realizzarono. Nell’estate del 1583, durante un soggiorno a Firenze, Galileo, secondo quanto racconta il Viviani, conobbe Ostilio Ricci, professore di matematica all’Accademia del Disegno, una scuola per artisti sorta nel 1563. Il Ricci non esitò a comunicare al padre, di cui era molto amico, le conclusioni ch’egli traeva dalle conversazioni con suo figlio: Galileo possedeva un’eccezionale predisposizione per la matematica. È facile immaginare con quanto dispiacere Vincenzio Galilei accogliesse la brutta notizia. Ma vinto dalle insistenze dell’amico, finì per permettergli di dare qualche lezione al figlio, senza dichiarare direttamente il consenso paterno per non distoglierlo dagli studi di medicina. Ma il compromesso non fu completamente rispettato: il padre fece in modo che Ricci annullasse di tanto in tanto qualche lezione, mentre Galileo, che aveva avuto sentore dei timori paterni, nascondeva il suo libro di geometria, l’Euclide, fra i libri di medicina di Ippocrate e di Galeno: «per poter con essi prontamente occultarlo quando il padre gli fosse sopraggiunto»; questa, riassumendo, la versione data dal Viviani nel Racconto (EN, XIX.604605). Ma più probabilmente, come spiega Niccolò Gherardini, autore di una breve biografia (EN, XIX.633-646) scritta pressappoco negli stessi anni in cui Viviani scriveva il Racconto, Galileo conobbe Ostilio Ricci a Pisa, dove questi era venuto per istruire i paggi del granduca Francesco I. Galileo ebbe occasione di assistere ad alcune sue lezioni e ne fu affascinato, al punto, scrive il Gherardini, «ch’egli trascurava d’andare allo Studio, dove era consueto d’udire la lezione di medicina, et in quella vece andava alle stanze dov’il Signor Maestro Ricci leggeva mathematica [...] solamente per i Signori paggi, o altri ch’avessero servitio in Corte». Che le lezioni fossero cominciate a Firenze o a Pisa poco importa. Sta di fatto che Ostilio Ricci fu il primo professore di matematica di Galileo, quando questi ave-

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va già compiuto 19 anni, e che il futuro scienziato, su questo non ci sono dubbi, se ne tornò a Firenze nella primavera del 1585 senza aver conseguito un titolo accademico. Fu il padre stesso a venire a prenderlo, temendo, scrive il Gherardini, «che la diversione dallo studio procedesse d’altre cause». Le cause dell’abbandono della medicina erano chiare, ed accanto alla passione per la geometria non ne furono trovate altre. Vincenzio Galilei, certo a malincuore, finì con l’accettare che il figlio approfondisse lo studio degli Elementi di Euclide guidato, a Firenze, dallo stesso Ricci. A Pisa, Galileo aveva manifestato molto presto uno spiccato interesse per l’osservazione dei fenomeni fisici. La sua prima scoperta, l’isocronismo delle piccole oscillazioni del pendolo, risale infatti al 1583 e fu realizzata attraverso una serie di misure su pendoli sospesi al soffitto della stanza in cui egli alloggiava. L’ispirazione gli sarebbe venuta, secondo quanto scrive il Viviani nel Racconto, «dal moto d’una lampada, mentre era un giorno nel Duomo di Pisa». Ancora oggi, la lampada posta accanto al celebre pulpito di Giovanni Pisano viene indicata col nome di lampada di Galileo. Ma a dire il vero, questa lampada, concepita da Battista Lorenzi e realizzata da Vincenzio Possenti, fu posta nel Duomo di Pisa solamente il 20 dicembre del 1587, e cioè quattro anni dopo la scoperta dell’isocronismo. Questa legge non era nota in Europa, mentre era già stata scoperta dall’astronomo arabo Ibn Junis (GL 1962, 17). Quanto a Galileo, egli ebbe il merito, oltre ad aver saputo ricavarla da osservazioni dirette, di applicare l’isocronismo alla misura degli intervalli di tempo brevi, come i battiti del polso. Gli anni trascorsi a Pisa da studente poco o niente interessato alla medicina non furono perduti. Galileo approfondì la lettura delle opere di Aristotele, di Platone, di Euclide e di Archimede, che Ostilio Ricci, gran conoscitore dello scienziato siracusano, gli aveva fatto scoprire ed apprezzare. Di ispirazione archimedea è l’invenzione, nel 1586, della bilancetta idrostatica. Lo strumento permetteva di determinare il peso specifico dei solidi, sfruttando il ben noto principio archimedeo della spinta subita da un corpo immerso in un liquido. La sua descrizione

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costituì il primo lavoro scientifico di Galileo, La bilancetta, che circolò manoscritto fra amici e conoscenti (EN, I.209-220). Sono di questo stesso periodo le dimostrazioni, anch’esse di ispirazione archimedea ma appartenenti al campo della pura geometria, dei teoremi sui centri di gravità di alcune figure geometriche solide: i conoidi parabolici. Anche queste circolarono manoscritte e rivelarono la maturità scientifica del giovane studioso a due insigni matematici: Cristoforo Clavio (1537-1612), gesuita di origine tedesca professore al Collegio Romano e il marchese Guidobaldo del Monte. Nell’estate del 1587, Galileo incontrò a Roma il padre Clavio, col quale ebbe in seguito un fruttuoso scambio di lettere. Ma il problema di come sbarcare il lunario si poneva ormai per il giovane Galileo con quotidiana insistenza. Nel 1587, appoggiato da Guidobaldo del Monte, cercò di ottenere la cattedra (lettura) di matematica dell’Università di Bologna, che fu invece assegnata all’astronomo Giovanni Antonio Magini. Senza scoraggiarsi, Galileo si rivolse l’anno successivo all’Università di Pisa, ma ebbe anche qui una risposta negativa, e poi finalmente una risposta positiva nel 1589, grazie all’intervento del cardinale Francesco Maria del Monte, fratello di Guidobaldo, che appoggiò la richiesta rivolgendosi direttamente al granduca Ferdinando I. Così, Galileo fu investito della carica triennale di lettore di matematica all’Università di Pisa, nonostante la mancanza di titoli accademici. La sua situazione non costituiva, tuttavia, un caso isolato. Cristoforo Clavio, che fu il primo gesuita a dedicarsi allo studio della matematica, e René Descartes, il noto filosofo e matematico francese, si consideravano anch’essi autodidatti. In realtà l’insegnamento universitario non offriva molto a chi intendeva approfondire lo studio di questa disciplina e una ricerca personale dei testi e dei commenti degli autori più noti era indispensabile. All’Università di Pisa l’insegnamento della matematica era considerato, insieme a quello della biologia e delle lingue classiche, un complemento indispensabile per l’insegnamento della medicina. Nei registri dell’università il professore di matematica era indicato indifferentemente col nome di «matematico» o

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di «astrologo» (RA 2001, 48-51), forse per sottolineare l’importanza dell’aritmetica, della geometria e dell’astronomia nel ricavare gli oroscopi. La retribuzione figurava fra le più basse che un professore universitario potesse ricevere a Pisa. Quella offerta a Galileo fu di 60 ducati all’anno (EN, XIX.43), una somma questa che copriva a malapena le indispensabili spese quotidiane. Nella stessa università un professore di filosofia poteva ottenere fino a 1000 ducati all’anno, ed un professore di medicina fino a 2000. Il programma triennale d’insegnamento della matematica prevedeva la lettura di due opere importanti: nel primo anno il Trattatto della Sfera ovvero Cosmografia, scritto nel XIV secolo da John Holywood (noto col nome italianizzato di Sacrobosco), nel secondo la geometria di Euclide. La Sfera era un testo classico dell’astronomia tradizionale, che venne utilizzato per circa tre secoli come manuale universitario. Nel terzo anno venivano approfonditi i principi dell’astronomia tolemaica. Il ciclo di filosofia ordinaria era anch’esso triennale ed il programma prevedeva la lettura di tre opere fondamentali di Aristotele: la Fisica, il De coelo e il De anima. Geometria, scienze medie e filosofia naturale L’insegnamento della matematica ebbe maggior fortuna in altre università italiane, ma non poté tuttavia sottrarsi al peso della tradizione. Secondo la distinzione aristotelica ancora in uso alla fine del XVI secolo, la matematica apparteneva alla filosofia teoretica insieme alla metafisica ed alla filosofia naturale. La metafisica aveva un ruolo eminente ed all’interno di essa, per così dire, si collocavano la matematica e la filosofia naturale. La matematica si ritrovava in diverse discipline, di cui solamente l’aritmetica e la geometria erano considerate scienze pure esclusivamente indirizzate alla speculazione, a differenza di altre, come l’astronomia e la meccanica, che erano considerate scienze medie. Questa ripartizione era accettata con modifiche

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che diventeranno importanti alla fine del XVI secolo nelle diverse forme dell’aristotelismo, sorte in seno alla tradizione della nuova scolastica. Quest’ultima risaliva al XIII secolo, quando sotto l’impulso di Tommaso d’Aquino, coadiuvato dall’ellenista fiammingo Guglielmo di Moerbeke, furono tradotte in latino quasi tutte le opere allora conosciute di Aristotele. Il pensiero del filosofo greco costituiva il punto di riferimento ufficiale dell’insegnamento universitario nelle lectiones e nelle disputationes, una forma particolare, queste ultime, dell’attività didattica ancora in uso a Pisa all’inizio del Seicento secondo regole elaborate alcuni secoli prima. Come a Parigi e a Oxford, anche nelle grandi università italiane gli studenti vi partecipavano nel quadro dell’insegnamento della logica. A Pisa un articolo dello statuto della Sapienza precisava che nei primi tre mesi dell’anno accademico i professori «Artisti e Medici sia ordinari che straordinari, scenderanno dopo le lezioni e disputeranno intorno alla materia della propria Lettura [cioè, del proprio corso]» (HMO 1989, 43). Il ciclo di filosofia naturale durava tre anni durante i quali i professori straordinari leggevano i testi di Aristotele De generatione et corruptione, Meteorologica, Parva naturalia, mentre gli ordinari leggevano dello stesso autore la Fisica, il De coelo e il De anima. Due professori spiegavano in concorrenza, per così dire, uno stesso testo di Aristotele secondo due diversi commenti, ad esempio il De coelo secondo i commenti di Simplicius e di Averroè. Nello Studio di Pisa l’esercizio delle dispute, note in particolare per la loro violenza verbale, era legato, come s’è detto, al contenuto dell’insegnamento. Un professore ed i suoi studenti affrontavano il concorrente accompagnato anch’esso dai suoi studenti, su problemi come la possibilità del movimento nel vuoto, la causa dell’aumento progressivo della velocità dei corpi in caduta libera, il movimento dei proietti ecc. In generale i problemi venivano trattati nel quadro della filosofia naturale. Ad animare i dibattiti contribuiva soprattutto la riscoperta di commentatori e di diverse possibili interpretazioni del pensiero di Aristotele. Le ricerche si orientarono soprattutto in questa direzione ma anche qui, come in altre università, alcuni problemi

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importanti come l’esistenza del vuoto o la nozione di «infinito» venivano esaminati per imaginationem, secondo una tradizione che risaliva al XIII-XIV secolo e che faceva intervenire la nozione di potenza assoluta di Dio. Una delle regole del ragionamento per imaginationem era che Dio può fare tutto ciò la cui realizzazione non implica contraddizione (Deus potest facere omne quod fieri non includit contradictionem). La non-contraddizione esprimeva a livello del pensiero umano un principio valido a livello dell’azione divina (DLA 1989). I difensori della stretta ortodossia cristiana reagirono ai tentativi di limitare l’onnipotenza divina. L’esempio che più frequentemente ricorre nelle citazioni degli storici della scienza, grazie soprattutto all’importanza attribuitagli dallo studioso francese Pierre Duhem (1861-1916), si riferisce al vescovo di Parigi Étienne Tempier. Nel 1277, su richiesta del papa Giovanni XXI, Tempier riunì alla Sorbona un’assemblea di dottori che condannarono 219 proposizioni in cui si rifiutava a Dio il potere di compiere un atto col pretesto che quest’atto era contrario alla fisica di Aristotele o di Averroè. Fra le proposizioni condannate c’era l’affermazione secondo la quale Dio non può muovere trasversalmente il Cielo poiché, mosso in questa maniera, il Cielo avrebbe lasciato il vuoto dietro di sé. Ma Dio poteva anche creare il vuoto, ed il vescovo Tempier lo affermava in nome della Sua onnipotenza. Le condanne miravano in realtà ad eliminare gli ostacoli che aristotelici ed averroisti pretendevano di poter imporre all’onnipotenza divina in nome della logica. Secondo costoro, in un Cielo-Universo in cui la Terra occupava il centro le diverse parti potevano scambiarsi i luoghi rispettivamente occupati, ma l’insieme non poteva subire uno spostamento trasversale, poiché si trovava rinchiuso in una sfera invariabile il cui centro, occupato dalla Terra, era assolutamente fisso. Lo spostamento si urtava contro una impossibilità logica (spostare una sfera senza spostarne il centro) e la stessa onnipotenza divina non avrebbe potuto produrlo poiché implicava contraddizione (DP 1997, 417-418).

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Ai difensori dell’ortodossia cristiana il tentativo di limitare l’onnipotenza divina in nome della logica appariva come un oltraggio intollerabile. Ma le condanne pronunziate nel 1277 non avranno valore di dogma e le iniziative di Tempier rimarranno un privilegio dei dottori della Sorbona, senza conseguenze notevoli per l’insegnamento nelle università italiane. Gli eredi diretti dell’aristotelismo professato da Tommaso d’Aquino continueranno a negare l’esistenza del vuoto macroscopico, e quindi dei piccoli vuoti e degli atomi come costituenti della materia. Nei primi decenni del XVII secolo la critica dell’atomismo sfocerà in dibattiti talvolta violenti nei quali, come vedremo, sarà direttamente implicato Galileo. Il riferimento all’onnipotenza divina figurerà fra le richieste di Urbano VIII Barberini per concedere a Galileo l’autorizzazione di stampa del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano (1632). Secondo quanto affermava il sommo pontefice, Dio poteva aver disposto le cose diversamente da come venivano scoperte dagli uomini: il principio di noncontraddizione costituiva il solo limite imposto alla Sua onnipotenza. Convinto della validità del sistema copernicano, Galileo non rispetterà le esigenze del pontefice. Le reazioni saranno violente e condurranno al processo ed alla condanna. Della tormentosa vicenda, sulla quale molto si è scritto, cercheremo di ritrovare il filo nei prossimi capitoli. Le prime ricerche sul moto Fra i problemi che vennero maggiormente dibattuti a Pisa nel periodo in cui Galileo vi fu studente e poi professore di matematica, il moto occupava un posto importantissimo. Nella filosofia naturale di Aristotele la nozione di «movimento» è intesa nel senso di «cambiamento». Ad esempio il blocco di marmo che diventa statua, il seme che diventa pianta, la pianta che muore, effettuano forme diverse di movimento così come le effettuano il corpo pesante che cade verso il basso o il corpo leggero che si innalza verso l’alto. Ignorare il movimento, spiega Aristotele, è ignorare la natura.

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Lo studio del moto locale, cioè del cambiamento secondo il luogo, si riferisce al passaggio di un corpo da un luogo ad un altro per effetto del proprio peso o della propria leggerezza. Negli scritti di Aristotele l’interpretazione di un tale cambiamento riposa sulla distinzione fra pesante e leggero in senso assoluto: la terra ed il fuoco sono rispettivamente l’elemento assolutamente pesante e l’elemento assolutamente leggero. Altri due elementi, l’acqua e l’aria, contengono sia il pesante che il leggero. I corpi in cui prevale il pesante vanno verso il centro della Terra, quelli in cui prevale il leggero se ne allontanano. Questi movimenti sono detti naturali, per opposizione ai movimenti violenti, quello ad esempio di un corpo pesante lanciato verso l’alto da una forza esterna. Un quinto elemento, l’etere, è la sostanza dei corpi celesti, non generati ed immutabili, i cui movimenti avvengono secondo traiettorie circolari. Allo studio del movimento locale contribuirono nel XVI secolo, fra i più noti studiosi, Giovan Battista Benedetti (15301590), Niccolò Tartaglia (1500-1557), Girolamo Cardano (15011576). Il più antico contributo di Galileo risale al periodo pisano. Nel Quinto libro degli Elementi di Euclide, pubblicato nel 1674, Vincenzio Viviani dà notizia del rinvenimento di «un manoscritto in più quinternetti in ottavo intitolato fuori sulla coperta De motu antiquiora, il quale si riconosce esser de’ primi giovenili studi di lui, e per i quali nondimeno si vede, che fin da quel tempo non sapev’egli accomodare il libero intelletto suo all’obbligato filosofare della comune delle Scuole. Quello però di più singolare, che è sparso in tal manoscritto, tutto, come si vede, l’incastrò egli stesso opportunamente, a’ suo’ luoghi, nell’opere che egli stampò» (EN, I.245). Viviani non indica una data precisa per la redazione del De motu, ma testimonianze concordanti permettono di fissarla al 1590 circa. L’importante innovazione introdotta da Galileo in quest’opera giovanile consiste nell’eliminazione delle nozioni di pesante e di leggero per sé, e cioè in senso assoluto, attraverso la critica degli argomenti sviluppati da Aristotele nel De coelo. Tuttavia la distinzione fra il moto naturale, che avviene senza l’inter-

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vento di una forza esterna, ed il moto violento provocato da questa, è mantenuta nel De motu, mentre viene accettata la nozione secondo la quale, nel vuoto, i corpi che hanno la stessa densità cadono tutti con uguale velocità (EN, I.283). A quest’ultimo problema accenna il Viviani nel Racconto, dando origine ad una ulteriore leggenda. Galileo, scrive il Viviani, sosteneva contro Aristotele che «le velocità de’ mobili dell’istessa materia, disegualmente gravi [e cioè di diverso peso] [...] si muovono tutti con pari velocità, dimostrando ciò con replicate esperienze, fatte dall’altezza del campanile di Pisa con l’intervento delli altri lettori e filosofi e di tutta la scolaresca». Come è stato osservato da alcuni studiosi, fra i quali i noti storici della scienza Emil Wohlwill ed Alexandre Koyré, è difficile immaginare che un giovanissimo professore qual era Galileo, poco o niente apprezzato dagli altri insegnanti, riuscisse a smuovere docenti e studenti per assistere ad un esperimento poco interessante, il cui risultato era già stato annunziato da altri studiosi (KA 1973, 213-224). Va segnalato tuttavia che la veridicità dell’episodio riferito da Viviani è stato riproposto in un recente articolo (CM/HMO 2000, 319-365). Più tardi Galileo arriverà alla conclusione che nel vuoto tutti i corpi, qualunque sia la loro densità ed il loro peso, cadono, tutti senza eccezione, con la stessa velocità. Per poter valutare le innovazioni introdotte da Galileo in questo campo nel corso della sua lunga carriera scientifica, è importante sottolineare che nel De motu la spiegazione del movimento violento risente ancora della scienza medievale del moto. Se si lancia con la mano un corpo verso l’alto, l’impeto (impetus) trasmesso dalla mano rende il corpo meno pesante, e gli permette quindi di muoversi dal basso verso l’alto. Giunto al punto di inversione del movimento, il corpo si ferma per un piccolissimo istante prima di cominciare a discendere. In questa fase il corpo, secondo Galileo, perde leggerezza, diventa sempre più pesante e quindi più veloce, poiché il peso, la gravità, è la causa della sua velocità. Quando il corpo perderà completamente l’ardore (virtus) comunicatogli dalla mano, l’accelerazione cesserà (remota causa, acceleratio desinat) ed il movimento diventerà al-

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lora naturale (EN, I.329). Secondo questa interpretazione, l’aumento di velocità osservato durante la caduta di un corpo sarebbe solamente un fenomeno transitorio: dopo aver ritrovato la propria pesantezza naturale, il corpo continuerebbe la corsa verso il basso con velocità costante. La forza dovuta al peso genererebbe, secondo il giovane Galileo, una velocità costante. Trascorreranno più di vent’anni prima che lo scienziato pisano ammetta che questa stessa forza genera un’accelerazione e non una velocità costante. D’altra parte affermerà con ragione che nel vuoto i corpi in caduta libera si muoverebbero tutti, qualunque sia il loro peso, con la stessa velocità. A questa conclusione era giunto osservando che la differenza di velocità dei corpi di diverso peso in caduta libera si riduce quando diminuisce la densità del mezzo attraversato. Si poteva quindi ammettere che al limite, e cioè nel vuoto dove la densità è nulla, i corpi cadrebbero tutti con la stessa velocità. Ci si può chiedere perché in questo caso la gravità dei corpi non interviene più. La spiegazione del fenomeno sarà fornita da Newton circa mezzo secolo dopo nei Principia (1686), come conseguenza della legge di gravitazione universale. Galileo dimostrerà nel De motu la legge del piano inclinato, partendo da condizioni ideali che non sono realizzabili sperimentalmente. Ai fini della dimostrazione intervengono solamente il peso del corpo e l’inclinazione da vincere, mentre vengono trascurati l’attrito, che dipende a sua volta dal materiale utilizzato e dalla forma del corpo da spingere. Il risultato ottenuto – e cioè che il peso sul piano inclinato ed il peso lungo la verticale stanno fra di loro come l’altezza alla lunghezza del piano – era importante sia dal punto di vista teorico che da quello pratico. Al tempo di Galileo il piano inclinato era uno strumento di lavoro correntemente utilizzato per far salire ad altezze più o meno grandi pesi notevoli, come accadeva nelle grandi realizzazioni architettoniche. Gli avversari dell’uso della geometria nei problemi di meccanica potevano obiettare che il risultato ottenuto da Galileo era valido in condizioni ideali. Tuttavia si poteva osservare che era utile agli ingegneri ed agli artigiani responsabili dei lavori per conoscere in maniera ap-

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prossimativa, ma teoricamente esatta, quale dovesse essere l’inclinazione del piano per far salire un dato peso con una data forza. Logica e geometria In definitiva l’impiego della geometria poteva essere esteso, entro certi limiti, ai corpi materiali. Questo insegnava Archimede, questa era la via scelta dal giovane Galileo, il quale anche se non fu il primo ad imboccarla fu il più risoluto a difenderla. La conoscenza dello scienziato siracusano, che Ostilio Ricci gli aveva fatto scoprire, si era arricchita a Pisa grazie all’insegnamento di Francesco Buonamici, professore di filosofia e aristotelico di chiara fama, che tuttavia conosceva Archimede, uno dei primi scienziati ad aver dimostrato con metodo geometrico una legge fisica, quella relativa all’equilibrio di una bilancia a bracci disuguali (ARC 1974, 397 sgg.). Nonostante il fossato che separava Archimede da Aristotele, il professor Buonamici commentò per i suoi studenti l’opera dello scienziato siracusano. Il suo lavoro più importante, intitolato anch’esso De motu, è costituito da dieci libri di più di mille pagine, pubblicato a Firenze nel 1591. In essi Buonamici discuteva le questioni esposte nella Fisica, nel De coelo e nel De generatione et corruptione di Aristotele. Nelle diverse forme dell’aristotelismo, la logica, di cui Aristotele è l’inventore, fu un’arte al servizio di tutte le scienze. In quanto strumento del ragionamento, essa insegnava l’aspetto formale della dimostrazione, assicurando il raggiungimento della vera conoscenza attraverso le demonstrationes potissimae, cioè le dimostrazioni efficaci, rigorose e complete fondate sul sillogismo e che permettevano di stabilire non solo che una certa causa produceva un certo effetto, ma che era la sola a poterlo produrre. La logica offriva alla filosofia naturale il metodo dimostrativo: restava da unificare l’aspetto frammentario in cui si presentava la realtà. Come s’è già osservato, la filosofia naturale riposava a sua volta sulla metafisica. In questo contesto i dati ot-

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tenuti sperimentalmente, spesso con fatica, perdevano buona parte del loro interesse. Gli esempi di cattiva utilizzazione del metodo logico-deduttivo non mancavano e Galileo vi farà spesso allusione nelle sue opere e nella corrispondenza privata. In una lettera a Giacomo Muti del 28 febbraio 1616 lo scienziato pisano riferirà il sillogismo costruito da un aristotelico per dimostrare che sulla Luna non esistono montagne, contraddicendo Galileo, che, grazie al cannocchiale, poteva avanzare, come vedremo, l’ipotesi della loro esistenza. La premessa scelta dall’avversario, o maggiore del sillogismo, consisteva nell’affermare che le montagne esistono sulla Terra per permettere l’esistenza delle piante e degli animali; la minore, che le piante e gli animali esistono per soddisfare le esigenze degli uomini; quindi la conclusione era che se sulla Luna esistessero le montagne, dovrebbero esistervi anche gli uomini, il che è assurdo. Galileo, che aveva trascorso faticose nottate a scrutare la superficie lunare, spiegava che «della inegualità della superficie della luna noi ne abbiamo sensata esperienza per mezzo del telescopio», e quanto all’esistenza di uomini sulla luna, possiamo escluderlo poiché sul suolo lunare non si scorge la presenza né di terra né di acqua, onde mancandovi queste due materie, vi mancano tutte le altre cose indispensabili agli uomini, agli animali ed alle piante. Inoltre la luce ed il calore del Sole sono insufficienti per permettere la vita sulla Luna (EN, XII.240-241). Grazie all’esperienza sensata, cioè trasmessa attraverso il cannocchiale ed i sensi, la conclusione non può lasciare alcun dubbio. Come osserva Maurice Clavelin «il cannocchiale non si limitava a precisare l’insegnamento dei sensi, ma rinnovava nel suo stesso contenuto la conoscenza sensibile, con la promessa di un arricchimento indefinito» (CMA 1996, 403). È da notare che già nella seconda metà del XVI secolo, prima dell’arrivo di Galileo sulla scena culturale, vi furono tentativi per elaborare un nuovo metodo logico, grazie in particolare allo studioso padovano Giacomo Zabarella (1532-1589). Nonostante le differenze fondamentali che lo separavano dall’autorevole studioso, Galileo fu molto probabilmente influenzato dai suoi scritti che ebbero una larga diffusione in Europa.

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Al monastero di Santa Maria di Vallombrosa, Galileo, ancora giovanissimo, aveva ricevuto le prime lezioni di logica da un frate benedettino. A detta del Viviani, «le tante definizioni e distinzioni, la molteplicità delli scritti, l’ordine ed il progresso della dottrina, tutto riusciva tedioso, di poco frutto e di minor satisfazione al suo esquisito intelletto». Questo giudizio ci sembra alquanto affrettato. Lo scienziato pisano acquisterà una larga conoscenza della logica, definendola come «l’organo col quale si filosofa». Ma subito dopo aver dato questa definizione, precisava che «sì come può essere che un artefice sia eccellente in fabbricare organi, ma indotto nel sapergli suonare, così può essere un gran logico, ma poco esperto nel sapersi servire della logica» (EN, VII.59-60). Tuttavia, anche se seppe servirsi della logica, Galileo ne respinse l’uso nelle dimostrazioni di filosofia naturale. E, decisione importantissima, rinunziava fin dall’inizio alla ricerca delle cause nel senso aristotelico dei principi, delle essenze. Secondo Galileo gli effetti osservati dovevano permettere di identificare le cause effettivamente capaci di produrli e questo bastava allo scienziato. Come s’è detto, la scelta di Galileo a favore del metodo geometrico era avvenuta fin dai primissimi anni della sua attività scientifica. D’altra parte le dimostrazioni geometriche venivano applicate con successo all’interno della stessa matematica e quindi nelle scienze medie e particolarmente in astronomia. Il dubbio persisteva invece, ed in alcuni casi diventava rifiuto, sulla possibilità di estenderle ad altri campi dello scibile, ed in particolare alla filosofia naturale, dove invece la logica veniva imposta dalla maggior parte degli aristotelici come metodo esclusivo per scoprire la verità. Nel XVI secolo, il problema della certitudo mathematicarum era stato affrontato, particolarmente a Padova, nel quadro dell’insegnamento. Il grado di certezza delle dimostrazioni matematiche nell’ambito delle scienze era stato oggetto di dibattiti, dopo la pubblicazione del Commentarium de certitudine mathematicarum (Roma, 1547) di Alessandro Piccolomini, noto soprattutto come letterato e filosofo, ma che aveva studiato matematica nell’importante Studio di questa città. Piccolomini

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sosteneva che la matematica non possiede il più alto grado di certezza. L’affermazione di Aristotele e dei suoi antichi commentatori secondo cui le scienze matematiche sono certe non era dovuta al carattere particolare delle dimostrazioni, ma al carattere degli oggetti matematici studiati. Piccolomini spiegava quindi che gli oggetti matematici sui quali operano le dimostrazioni sono il risultato di astrazioni interamente ed immediatamente percettibili, mentre i principi e le cose della natura sono conosciuti a partire dagli effetti prodotti nei nostri sensi dopo esperienze talvolta lunghissime. Dello stesso parere era il gesuita Benito Pereira. In un libro sui principi comuni a tutte le cose naturali (De communibus omnium rerum naturalium principiis) pubblicato nel 1562 e ristampato più volte, Pereira affermava che la matematica non è una vera scienza e che, a differenza della logica, non permetteva di raggiungere la dimostrazione potissima. Non mancavano tuttavia i contraddittori. Proprio a Padova, Francesco Barozzi aveva tenuto nel 1559 una serie di lezioni, pubblicate l’anno successivo, in cui metteva in dubbio l’interpretazione di Piccolomini relativa al carattere particolare delle dimostrazioni matematiche. Barozzi attribuiva alla matematica un grado di certezza superiore a quello della teologia e della filosofia naturale. È vero, spiegava Barozzi, che la teologia occupa un posto preminente rispetto a tutte le altre scienze, ma noi non siamo in grado di contemplare le cose divine se prima non ci occupiamo di cose matematiche, che sono in parte unite ad oggetti materiali ed in parte separate da essi. In realtà il dibattito era centrato su una questione apparentemente semplice, ma che esigeva un riesame di alcune fra le più importanti opere di Aristotele: il filosofo aveva effettivamente affermato che solo le dimostrazioni fondate sulla logica potevano essere considerate potissimae? Non sappiamo se Galileo aveva effettivamente letto le opere di Aristotele dalle quali si poteva ricavare la risposta alla domanda, ma sappiamo con certezza che non nutriva alcun dubbio sulla possibilità di applicare il metodo geometrico ai problemi di filosofia naturale.

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Il «De revolutionibus» di Copernico a Pisa Poco sappiamo dell’interesse manifestato dai professori pisani, alla fine del XVI secolo, per i lavori dell’astronomo polacco Niccolò Copernico (1473-1543) e per il suo De revolutionibus orbium caelestium, pubblicato a Norimberga nel 1543. Nel secondo capitolo del quinto libro del già citato De motu, Buonamici si limitava a segnalare, per criticarlo, il sistema immaginato dall’astronomo polacco. Copernico veniva quindi annoverato fra coloro che, come Iceta, Eraclito Pontico, Aristarco di Samo, avevano attribuito alla Terra un movimento di rotazione. Se l’evidenza che rifiuta una siffatta immaginazione non fosse così grande, osservava il Buonamici, noi non disporremmo di alcun mezzo per affermare la quiete della Terra. E nel capitolo quarto di questo stesso libro attaccava coloro che avevano ammesso un movimento, anche piccolissimo, della Terra, come era accaduto al suo collega Cesalpino. In un libro pubblicato a Venezia nel 1571, il Peripateticarum quaestionarum, l’eminente professore di medicina aveva attribuito alla Terra un movimento di oscillazione lenta e costante che rendeva i mari instabili, costringendoli ad abbassarsi ed a sollevarsi. Secondo Cesalpino, questa oscillazione era all’origine del fenomeno delle maree. È escluso tuttavia che egli stesse per convertirsi al copernicanesimo, né risulta che abbia mai letto il De revolutionibus. Quale fu, su questo problema preciso, l’opinione del giovane Galileo? In alcuni scritti di questo periodo, che il Favaro volle intitolare Juvenilia (EN, I) e che provengono da diverse fonti, fra le quali i corsi tenuti dai gesuiti al Collegio Romano (WW 1984, 91 sgg.), Copernico viene citato in quanto autore di un De revolutione orbium caelestium (EN, I.47-48), un libro nel quale, spiega Galileo, il Sole è collocato nel centro del mondo. L’errore nel titolo, De revolutione al posto di De revolutionibus, potrebbe lasciar pensare che Galileo non avesse ancora letto il libro. Egli osserva che «poiché la Terra è la più ignobile di tutti [omnium ignobilissima] dovette essere giustamente collocata al centro affinché gli altri corpi non soffrissero a causa della sua vicinanza» (EN, I.47-48). La citazione corretta del titolo del libro si trova tuttavia

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nel De motu, ma non per questo Galileo si dichiara copernicano. Anzi, egli colloca decisamente la Terra nella parte più bassa dell’universo, dove Dio l’avrebbe relegata (EN, I.344). È poco probabile che il sistema copernicano sia stato oggetto di discussioni e di dibattiti alla Sapienza di Pisa negli ultimi decenni del secolo. Quanto all’adesione di Galileo alla dottrina di Copernico, essa avvenne, come vedremo, pochi anni dopo, a Padova. Pisa leggiadra e frivola Il passaggio dalla condizione di studente a quella di professore non cambiò sostanzialmente l’atteggiamento di Galileo nei confronti del mondo accademico. L’università era in piena crisi. Galileo se ne era reso conto fin da quando, studente di medicina, aveva disertato i corsi per andarsene a studiare geometria e filosofia naturale per conto suo. Risalgono a questo periodo gli scritti letterari che attesero, quale più quale meno, alcune centinaia di anni prima d’essere pubblicati, forse perché la produzione scientifica aveva completamente occultato il resto. Solo la decisione di Antonio Favaro di dare alle stampe tutto ciò che lo scienziato pisano aveva scritto permette ora di accedere alla totalità delle sue opere letterarie. Le Due lezioni circa la figura, sito e grandezza dell’Inferno di Dante tenute nel 1587-1588 all’Accademia Fiorentina occupano, secondo il giudizio di Antonio Favaro, il primo posto fra le prose letterarie di Galileo (EN, IX.7-9). Il manoscritto, autografo ed in copia, rimase sconosciuto fino alla prima metà del XIX secolo e fu pubblicato per la prima volta nel 1855. L’origine delle lezioni risale ai lavori del matematico fiorentino Antonio Manetti (1423-1497), che per anni aveva cercato di costruire una architettura plausibile dell’Inferno di Dante, completa di dati relativi alla posizione dei diversi siti ed alle loro dimensioni sia orizzontali che verticali. I risultati delle sue ricerche circolarono negli ambienti artistici e culturali di Firenze. Cristoforo Landino (1424-1504) presentò alcune conclusioni del

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Manetti nella prefazione alla prima edizione fiorentina a stampa (1481) della Divina Commedia. Fu evidente, allora, che le conclusioni del matematico fiorentino davano forma alla grande visione panoramica dell’Inferno di Dante, che Sandro Botticelli preparava per l’edizione del sontuoso manoscritto della Divina Commedia, in cantiere negli anni 1485-1495. Dopo la morte del Manetti, il suo amico Girolamo Benivieni (1453-1542) pubblicò nel 1506, a Firenze, sulla base di appunti forniti dal fratello del Manetti e di conversazioni di cui egli stesso conservava il ricordo, il Dialogo di Antonio Manetti circa al sito, forme et misure dello Inferno di Dante Allighieri. Benivieni volle includervi delle incisioni su legno per illustrare in maniera chiara i risultati, che assursero quindi ad interpretazione «fiorentina» delle intenzioni di Dante. L’Accademia si rivolse a Galileo per eventuali chiarimenti, tanto più necessari in quanto nel 1544 Alessandro Vellutello, lucchese, in un breve articolo pubblicato a Venezia presentava una interpretazione della struttura dell’Inferno di Dante profondamente diversa da quella del Manetti. L’Accademia decise di chiarire la situazione nel 1587, anno di pubblicazione a Cesena della monumentale opera di Jacopo Mazzoni, Della difesa di Dante, opera che avrebbe rilanciato gli studi su Dante. Galileo difenderà le conclusioni del Manetti (STB 2001, 834-843). La figura dell’Inferno si presenta come un imbuto, col vertice al centro e la base verso la superficie della Terra. «Immaginiamoci – scrive Galileo – una linea retta che venga dal centro della grandezza della Terra (il quale è ancora centro della gravità dell’universo) sino a Gerusalemme ed un arco che da Gerusalemme si distenda sopra la superficie dell’aggregato dell’acqua e della Terra per la duodecima parte della sua maggior circonferenza: terminerà dunque tal arco con una delle sue estremità in Gerusalemme; dall’altra fino al centro del mondo sia tirata un’altra linea retta, ed avremo un settore di cerchio» (EN, IX.33). Tenendo ferma l’estremità che congiunge il centro con Gerusalemme e facendo girare l’altra fino a raggiungere il punto di partenza, verrà tagliata una parte, simile ad un cono. È chiaro tuttavia che la base del solido generato non è una superficie piana ma sferica, e quindi il solido è un conoide, una figura geo-

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metrica alla quale Galileo si era già interessato. È questa, verosimilmente, la ragione che induce i responsabili dell’Accademia a rivolgersi ad un giovane di 23 anni, che non dispone di nessun titolo accademico, per calcolare le dimensioni di questa figura geometrica molto particolare e la posizione e le dimensioni dei diversi siti. Il risultato doveva essere conforme alla descrizione di Dante. La conoscenza approfondita dei 33 canti dell’Inferno era assolutamente indispensabile. Non ci sembra eccessivo, quindi, il commento (1604) di Filippo Valori, che considerava l’argomento materia che ha dato che fare a’ dotti. Valori fa l’elogio di Galileo che ha salvato il nostro Fiorentino, e cioè il Manetti, contro il lucchese Vellutello (EN, IX.7). Appartengono anche al periodo pisano le Considerazioni sul Tasso e le Postille all’Ariosto. Delle Considerazioni sul Tasso esiste un solo manoscritto che fu pubblicato per la prima volta a Roma nel 1793 da Giuseppe Iseo col titolo Considerazioni al Tasso di Galileo Galilei. L’autografo era andato perduto, ma la sua copia, ritrovata e nascosta nel 1777 dall’abate Pier Antonio Serassi, fu riportata alla luce da Luigi Maria Rezzi nel1851. Secondo Vincenzio Viviani, le Considerazioni furono richieste a Galileo durante il soggiorno pisano. Tuttavia dei dubbi sussistono sulla datazione. «Il frequente biasimare che fa Galileo – scrive Antonio Favaro – di certi passi della Gerusalemme come artifizi da piacere ai giovani, all’inesperta gioventù, ai principianti, ai fanciulli, sembra linguaggio più da uomo maturo che da giovane non ancora trentenne» (EN, IX.12). Vero è che tali osservazioni male si addicono al carattere gioviale e talvolta burlesco del giovane Galileo. In Toscana, al tempo del soggiorno a Pisa di Galileo, ogni persona di cultura aveva il dovere di scegliere fra il Tasso e l’Ariosto. Sulla scelta di Galileo non ci sono dubbi. Le Considerazioni non tessono l’elogio, è il meno che si possa dire, della Gerusalemme. Spesso Galileo, come osserva Favaro, parla al Tasso alla seconda persona, gli dà consigli e lo manda a rileggere le ottave dell’Ariosto (EN, IX.12 e n. 3). Le Postille all’Ariosto, sulla cui data di composizione non esistono precise indicazioni, furono diligentemente ricopiate, ad

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opera del Viviani, da un esemplare non pervenutoci dell’Orlando Furioso. Viviani ebbe cura di riportare anche le postille annotate da Galileo sui margini di un altro esemplare, stampato a Venezia nel 1603. Non è sicuro, tuttavia, che le Postille siano tutte posteriori alle Considerazioni al Tasso. Le vere Postille all’Ariosto furono pubblicate per la prima volta nel tomo IX dell’Edizione Nazionale. «Ciò affermiamo – scrive Antonio Favaro – senza tema di essere smentiti [...]. Poche invero tra le scritture del Nostro hanno avuto la mala ventura d’essere siffattamente alterate da chi prima le trasse dai manoscritti, e fu poi fedelmente seguito dai successivi editori» (EN, IX.19). Galileo conosceva a memoria, a detta del Viviani, quasi tutto l’intero poema, nel quale ammirava il ruolo dominante della fantasia. «Nota il costume – scrive Galileo – mirabilmente osservato sempre dall’Ariosto in tutte le cose, e in Orlando, che sempre viene figurato distratto e taciturno sino alla pazzia: il quale domandato da Angelica, risponde solo, non so» (EN, IX.193). Come osserva Antonio Banfi, Galileo ritrova e difende nell’Ariosto «l’armonia dell’intuizione in cui la fantasia artistica è preservata dal dissolversi oggettivamente nel realismo e nel concettualismo» (BA 1962, 22). Risale senza alcun dubbio al periodo pisano il Capitolo contro il portar la toga, un componimento poetico di stile burlesco. Se non bastassero le numerose testimonianze, troveremmo conferma della paternità nei tre versi seguenti: «Non lo pensar; ch’io non son mica Ebreo, / se bene e’ pare al nome e al casato / Ch’io sia disceso da qualche Giudeo». Non è escluso che il nome ed il cognome dell’autore abbiano suggerito, in occasioni diverse, che i primi Galilei fossero giunti in Toscana dalla Galilea. Circa venticinque anni dopo, l’omonimia sarà utilizzata da un avversario domenicano in un’invettiva lanciata dal pulpito di Santa Maria Novella. Ma non anticipiamo. Il Capitolo fu ispirato dalla poesia di Francesco Berni, poeta gioviale e burlone pronto a scivolare dal sarcasmo alla volgarità. Come sottolinea lo stesso Galileo, l’elogio del Sole e della giustizia sono temi che il Berni non sfiorò mai. Nei suoi versi appaiono invece, coperti da spessa ironia, personaggi pericolosis-

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simi come la peste, i debiti, o... Aristotele. E leggendoli, spiega da buon conoscitore Galileo, non si può fare a meno di apprezzare il talento dell’autore. Nei 300+1 versi dell’irriverente Capitolo, per dirla con Ludovico Geymonat (GL 1962, 24), dopo aver dimostrato che il sommo bene è l’andare ignudo, Galileo avverte che si piegherà all’obbligo di andare in giro vestito, ma non a quello di portar la toga. Anche perché la toga costa: «E questo a chi non ha molti quattrini / È una dura e faticosa impresa». Ma quali sono i vantaggi dell’andar nudo ? Ascoltiamo Galileo:

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Non ch’altro, e’ non portavon le mutande Ma quant’era in altrui di buono o bello Stava scoperto da tutte le bande. E così ognun, secondo il suo cervello, Coloriva e ’ncarnava il suo disegno, Secondo che gettava il suo pennello; Nè bisognava affaticar l’ingegno A strolagar per via d’architettura, O ’ndovinar da qualche contrassegno: Non occorreva andar per cognettura, Perché la roba stava in su la mostra, E si vendeva a peso e a misura. E quest’è la ragion che ci dimostra Ch’allor non eron gl’incovenienti, Che si veggon seguire all’età nostra. Quella sposa si duol co’ suo’ parenti, Perché lo sposo è troppo mal fornito, E non ci vuole star sotto altrimenti; Ma dice che ci piglierà partito, E che gli han dato colui a malizia, Tal che gli è forza cambiarle marito. Altri, che di ben sodi ha gran dovizia, Talor dà in una che ha si poca entrata, Che non v’è da ripor la masserizia. E così d’ogni frode e d’ogn’ inganno Si vede chiaro che n’è sol cagione L’andar vestito tutto quanto l’anno.

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Poi l’irrisione raggiunge gli ammiratori dei togati, con osservazioni di una sorprendente attualità. Ed il Capitolo si chiude con un inno al buon vino delle cantine popolari, che, da quel che è dato supporre, riservavano buona accoglienza al non togato Galileo:

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Sappi che questi tratti tutti quanti Furon trovati da qualcuno astuto, Per dar canzone e pasto agl’ignoranti, Che tengon più valente e più saputo Questo di quel, secondo ch’egli arà Una toga di rascia o di velluto. Dio sa poi lui come la cosa sta! Ma s’io avessi a dire il mio parere, Questo discorso un tratto non mi va. Ch’importa aver le vesti rotte o intere, Che gli uomini sien Turchi o Bergamaschi, Che se gli dia del Tu o del Messere? La non istà ne’ rasi o ne’ dommaschi; Anzi vo dirti una mia fantasia, Che gli uomini son fatti com’ i fiaschi. Quando tu vai la state all’osteria Alle Bertuccie, al Porco, a Sant’Andrea, Al Chiassolino o alla Malvagia, Guarda quei fiaschi innanzi che tu bea Quel che v’è drento; io dico quel vin rosso, Che fa vergogna al greco e alla verdea: Tu gli vedrai che non han tanto in dosso, Che ’l ferravecchio ne desse un quattrino; Mostran la carne nuda in sino all’osso: E poi son pien di sì eccellente vino, Che miracol non è se le brigate Gli dan del glorioso e del divino. Gli altri, ch’ han quelle veste delicate, Se tu gli tasti, o son pieni di vento, O di belletti o d’acque profumate, O son fiascacci da pisciarvi drento (EN, IX.213-223).

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Il «Galileo» di Viviani e di Gherardini In questo primo capitolo siamo ricorsi più d’una volta agli scritti di due biografi che conobbero personalmente Galileo. Nel Racconto del Viviani è fin troppo percettibile lo sforzo di autocensura, che finisce col cancellare la maggior parte dei ricordi personali. Ma Leopoldo de’ Medici impose che si evitasse ogni allusione polemica suscettibile di ravvivare la violenza dell’urto con le autorità religiose. Nel ritratto che qui riportiamo, è tuttavia possibile ritrovare, leggendo a volte fra le righe, alcuni aspetti interessanti della personalità di Galileo. Scrive il Viviani: Non fu il Signor Galileo ambizioso delli onori del volgo, ma ben di quella gloria che dal volgo differenziar lo poteva. La modestia gli fu sempre compagna; in lui mai si conobbe vanagloria o iattanza. Nelle sue avversità fu constantissimo, e soffrì coraggiosamente le persecuzioni delli emuli [cioè dei rivali]. Muovevasi facilmente all’ira, ma più facilmente si placava. Fu nelle conversazioni universalmente amabilissimo, poiché discorrendo sul serio era ricchissimo di sentenze e concetti gravi, e nei discorsi piacevoli l’arguzie et i sali non gli mancavano. L’eloquenza poi et espressiva ch’egl’ebbe nell’esplicar le altrui dottrine o le proprie speculazioni, troppo si manifesta ne’ suoi scritti e componimenti per impareggiabile e per così dire sopraumana (EN, XIX.626).

Nell’immagine che ci offre il Gherardini – senza dubbio più libero, ma meno informato di Viviani che visse accanto al Maestro negli ultimi tre anni della sua vita – le cose riferite sono, in parte, frutto del sentito dire e forse per questo motivo, più spontanee e, in ogni caso, non autorizzate. Ecco quanto scrive il Gherardini: Fu il Signor Galileo di pochissima presunzione, anzi di modesto sentimento di sé medesimo. Non s’udì mai iattanza propria in disprezzo degl’altri; solamente dicea in quest’ultimi anni, quando che ogni giorno più andava deteriorandosi nella vista, potersi nella sua disgrazia consolare, giaché de’ figliuoli d’Adamo niun altro uomo avea

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veduto più di lui. È lontano parimente da ogni verità che degl’antichi filosofi e nominatamente d’Aristotele, parlasse con poca stima e disprezzo, come alcuni che professano d’esser suoi seguaci scioccamente sparlano: dicea egli solamente ch’il modo di filosofare di quel grand’huomo non l’appagava, e che in esso si trovavano fallacie et errori. [...] Esaltava sopra le stelle Platone per la sua eloquenza veramente d’oro e per il modo di scrivere e di comporre in dialogo; ma sopra ogn’altro lodava Pitagora per il modo di filosofare, ma nell’ingegno Archimede dicea aver superato tutti, e chiamavalo il suo maestro. [...] Fu il Signor Galileo d’aspetto grave, di statura più tosto alta, membruto e ben quadrato di corpo, d’occhi vivaci, di carnagione bianca e di pelo che pendea nel rossiccio (EN, XIX.644-646).

II PADOVA: «GLI ANNI MIGLIORI» L’«addio» al principe, libertà padovane Le difficoltà economiche di Galileo si erano bruscamente aggravate dopo la morte del padre. Sulle spalle del giovane professore cadeva adesso l’intera responsabilità della numerosa famiglia. La ricerca di una nuova sistemazione si poneva con estrema urgenza. Nei primi di settembre del 1592, preceduto dalle raccomandazioni di Guidobaldo del Monte, Galileo si recò a Venezia per un primo incontro con i responsabili della gestione dei fondi e delle nomine dei professori dello Studio di Padova, ed il 26 dello stesso mese ottenne un contratto di quattro anni, rinnovabile per altri due previo assenso del doge. Qui trascorrerà li diciotto anni migliori di tutta la [sua] età, come egli stesso scriverà circa mezzo secolo dopo in una lettera a Francesco Liceti del 23 giugno 1640 (EN, XVIII.209). Le ragioni della partenza per Padova furono dovute innanzitutto all’importanza che rivestiva l’insegnamento della matematica in questa università ed all’aumento della retribuzione, che passava da 60 scudi a 180 fiorini all’anno (EN, XIX.11), un aumento, se ci atteniamo ai calcoli di Antonio Favaro, di circa il 25% (FAV 1966, I, 48), con la prospettiva di successivi aumenti. L’ammontare dello stipendio interveniva, in maniera molto più esplicita di quanto non lo sia oggi, nell’immagine che i professori, a Padova come nelle altre università, erano soliti dare di se stessi. Qui, fin dall’inizio del suo insegnamento, Galileo fu in

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concorrenza su questo problema preciso con l’aristotelico Cesare Cremonini, professore di filosofia, col quale mantenne tuttavia rapporti di sincera amicizia nonostante la profonda diversità delle opinioni professate. Al suo arrivo dovette accontentarsi di una retribuzione inferiore a quella di Cremonini, che era giunto a Padova l’anno precedente e che percepiva fin dall’inizio 200 fiorini all’anno. La retribuzione aumenterà sia per l’uno che per l’altro, ma le differenze saranno mantenute fino al 1610, anno delle prime importanti scoperte astronomiche di Galileo, realizzate grazie alla costruzione ed all’uso del cannocchiale. La retribuzione del matematico passerà allora da 520 a 1000 fiorini, raggiungendo, finalmente, quella versata al filosofo. Galileo farà allusione a questo eccezionale aumento di stipendio quando gli oppositori all’uso del cannocchiale cercheranno di mettere in dubbio l’interesse manifestato dalle autorità veneziane per lo strumento da lui costruito. La decisione di lasciare Pisa, se non fu proprio gradita, non fu certo frenata dalle autorità accademiche. Lo stesso granduca Ferdinando non solo non vi si oppose, ma intervenne presso le autorità veneziane per appoggiare la domanda del giovane professore. L’intervento era anche destinato a mettere un termine alla controversia sorta fra Galileo e Giovanni de’ Medici, fratellastro del granduca. Secondo quanto riferisce il Viviani, che tuttavia non cita Giovanni de’ Medici, Galileo avrebbe espresso un giudizio negativo sull’invenzione fatta da un eminente soggetto «sopra una tal macchina proposta per vuotar la darsena di Livorno» (EN, XIX.606). Più espliciti sono i riferimenti del Gherardini, che attribuisce la partenza di Galileo unicamente alla controversia con Giovanni de’ Medici. La resoluzione – scrive il Gherardini – ebbe questa causa. In quei giorni havea proposto il Signor Don Giovanni che in Pisa si facesse una certa fabbrica, non so già se di fortificazione o di altro edifizio. Per l’effettuazione del disegno si era concluso di metter in opra alcune macchine, quali, con il parere dei periti, erano giudicate molto a proposito: solo il Signor Galileo s’oppose, e con ragioni forse troppo vive procurò impedirne l’esecuzione. Quello che seguisse io non lo so; so be-

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ne che la contradizione non fu grata al Signor Don Giovanni, il quale con parole di molto sdegno ne mostrò risentimento. Di che si intimorì il Signor Galileo di maniera che stimò bene non dopo molto tempo domandar licenza da quella condotta (EN, XIX.638).

Benché non sia da prendere alla lettera, il contenuto di quest’ultima frase mette tuttavia in evidenza il comportamento e le esigenze del mecenate nei confronti del protetto. Non sappiamo quanto abbia influito la contradizione sulla decisione di Galileo di lasciare Pisa, ma non fu certo la sola causa. Nel territorio della Serenissima il potere politico aveva caratteristiche proprie, e quasi nulla in comune con gli altri Stati della penisola. Qui il doge (titolo equivalente a quello di duca) disponeva di un potere limitato, che consisteva essenzialmente nell’applicare la politica dettata dal Consiglio dei Dieci, emanazione diretta dell’aristocrazia. Le famiglie ricche (200 circa) erano riuscite fin dall’XI secolo a far sì che la dignità di doge, il dogato, non diventasse l’eredità di una sola famiglia, imponendo diversi Consigli nei quali sedevano membri della loro comunità. La creazione del Gran Consiglio, nel 1143, eliminò definitivamente ogni pericolo di governo personale. Nel 1284 la zecca veneta coniò la propria moneta, il ducato o zecchino, che circolò per tre secoli circa nel bacino del Mediterraneo come campione oro, accanto al fiorino di Firenze. Al Senato, che contava circa 120 membri, competevano gli incarichi di gestione e di controllo, ed in particolare la nomina degli amministratori della città. All’inizio del XV secolo Venezia contava più di 100.000 abitanti. Le difficoltà di approvvigionamento, soprattutto in viveri, spinsero il doge Francesco Foscari ad iniziare, con l’aiuto di mercenari, la conquista di territori sulla terra ferma. Risale a questo periodo l’annessione di Padova, violentemente sottratta (1404) alla famiglia Carrara. L’avanzata dei turchi nei Balcani e la conquista di Costantinopoli (1453), costrinsero Venezia a rinunziare alle attività commerciali con il Medio Oriente. Iniziò allora per la Serenissima un lungo periodo di lento declino politico. Una conseguenza della mutata situazione nei Balcani, fu l’arrivo a Venezia di filo-

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sofi e letterati, esuli dalla Grecia, la cui attività favorì la nascita di una cultura umanistica con caratteristiche proprie, diversa da quella esistente in altre regioni d’Italia. Venezia favoriva la libera circolazione delle idee e delle persone, e rispettava le esigenze delle autorità religiose, a condizione che non fossero contrarie alle leggi ed agli interessi della Repubblica. Nei casi di denunzia da parte dell’inquisitore, l’accusato poteva contare sulla volontà della Serenissima di difendere i diritti dei suoi cittadini e di coloro che si trovavano sul suo territorio. La tolleranza nei confronti di pratiche religiose differenti fu una delle caratteristiche delle autorità e dell’opinione pubblica veneziana, dovuta in gran parte alla presenza sul territorio della Repubblica di protestanti e di una importante comunità ebraica. L’intesa cordiale fra le comunità, legate da interessi comuni nell’esercizio del commercio, era quel che più contava per le autorità della Repubblica. Gli stessi protestanti non si sentivano perseguitati. Quando un luterano od un calvinista moriva, i parroci veneziani permettevano che la salma fosse inumata in una chiesa cattolica. Ci fu un momento in cui l’atteggiamento delle autorità veneziane fece credere a Calvino ed a Lutero che i rapporti di Venezia con Roma stessero per rompersi definitivamente. Ma in realtà una vera e propria rottura non ci fu mai. Tuttavia una dolorosa eccezione, che avrà conseguenze drammatiche, c’era pur stata: l’autorizzazione, concessa dalle autorità veneziane il 23 maggio 1592, di estradare Giordano Bruno, nove mesi dopo il suo arresto su richiesta dell’inquisitore di Venezia. La difesa non aveva saputo, o più verosimilmente non aveva voluto, resistere alle accuse di eresia lanciate contro l’ex domenicano dal ricco aristocratico veneziano Giovanni Mocenigo. Il processo intentato a Roma dal Sant’Uffizio, la condanna, l’affidamento al braccio secolare ed infine il rogo in Campo de’ Fiori il 17 febbraio 1600, sono fatti ben noti. Giordano Bruno rivendicava la distinzione fra verità teologica e verità filosofica. Dopo aver attraversato l’Europa suscitando a Ginevra, a Parigi, a Londra, a Heidelberg entusiasmi e disapprovazioni, Bruno aveva accettato nel 1591 la proposta

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dello stesso Mocenigo di venire a Venezia ad insegnargli l’arte della memoria e la geometria. Qui frequentò il ridotto Morosini, uno dei più importanti luoghi d’incontro di filosofi e letterati, ed a Padova, dove si recò sovente, fu introdotto nei circoli culturali universitari vicini allo Studio. Galileo li frequenterà a sua volta, ascoltando probabilmente commenti ed aneddoti sulla vita e l’opera del filosofo fuggiasco, del quale qualcosa doveva pur sapere. Non è evidente, invece, che abbia letto o solamente dato uno sguardo ai suoi scritti. Sta di fatto che, nonostante le allusioni frequenti a Giordano Bruno in lettere a lui indirizzate da personalità straniere, come Keplero e Martin Hasdale, Galileo non farà mai riferimento al suppliziato, né nelle sue opere a stampa, né, per quel che ne sappiamo, nella corrispondenza privata. L’insegnamento a Padova L’assenza di una dinastia di principi regnanti contribuiva ad assicurare allo Studio di Padova una larga libertà, che attirava professori italiani e stranieri di alta fama, ed al loro seguito studenti venuti non solo dalle altre regioni d’Italia, ma dalla Polonia, dalla Francia, dalla Svezia e dalla «Nazione alemanna». I senatori erano particolarmente gelosi della libertà d’insegnamento. Quando, nel 1604, il Sant’Uffizio formulerà alcune riserve sul contenuto dell’insegnamento di Cremonini, poco conforme all’aristotelismo professato dai seguaci di Tommaso d’Aquino, il Senato prenderà immediatamente la difesa del professore. Cremonini potrà continuare a parlare della mortalità dell’anima, spiegando agli studenti che il suo ruolo consisteva nell’insegnare la filosofia di Aristotele e non nel censurarla. In effetti nel 1513 il quinto Concilio Lateranense aveva riaffermato l’immortalità dell’anima, senza imporre tuttavia una lettura in questo senso del De anima di Aristotele, che era oggetto fin dal XIII secolo di contrastanti interpretazioni (BLU 2001, 579). Nel 1608, il filosofo aristotelico fu messo di nuovo sotto accusa per lo stesso reato, ma il Senato continuò a difenderlo.

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Le prerogative dei senatori si erano manifestate clamorosamente nella controversia sorta tra gli insegnanti dello Studio ed i gesuiti del Collegio Padovano pochi anni prima dell’arrivo di Galileo. A Padova i gesuiti avevano fondato fin dal 1542, un Collegio per l’insegnamento secondario. L’iniziativa faceva parte di un vasto programma pedagogico voluto da Ignazio di Loyola (1491-1556), fondatore della Compagnia di Gesù. L’insegnamento era assicurato da specialisti di alto livello, come il matematico Francesco Maurolico professore al Collegio di Messina, dotati inoltre di uno spiccato senso di responsabilità: magistri eruditissimi atque assidui, secondo l’espressione utilizzata da Ignazio. Durante i primi anni di attività del Collegio Padovano, le ambizioni dei magistri non suscitarono gelosie. Ma poco a poco il programma dei corsi si allargò e finì con l’includere buona parte degli argomenti trattati nei corsi universitari. L’iniziativa appariva come una vera e propria provocazione nei confronti dello Studio, con grave danno per il prestigio degli insegnanti, ai quali il Senato aveva assicurato il monopolio dell’insegnamento universitario e nello stesso tempo una grande indipendenza nella maniera di organizzarlo. Le ambizioni dei nuovi venuti creavano una situazione insolita ed inaccettabile. La decisione dei responsabili del Collegio di proibire ai propri studenti incontri e discussioni con i colleghi dello Studio costituì la goccia che fece traboccare il vaso. I professori universitari si rivolsero immediatamente al Senato per segnalare le conseguenze nefaste di un tale atteggiamento e, prima fra tutte, la divisione degli studenti in due opposte fazioni inevitabilmente rivali. La loro causa fu difesa da Cesare Cremonini. Riuniti in presenza del doge, i senatori ascoltarono con attenzione gli argomenti sviluppati dall’eminente aristotelico. Dopo aver denunziato le recenti iniziative dei responsabili del Collegio Padovano, Cremonini dimostrò che se il Senato non interveniva immediatamente, Padova sarebbe diventata il teatro di lotte fra due fazioni rivali, come lo era stata Firenze fra guelfi e ghibellini all’epoca di Dante. La sua difesa ottenne il risultato auspica-

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to: il 23 dicembre 1591 un decreto del Senato proibiva ai gesuiti del Collegio Padovano di insegnare le materie dei corsi universitari. La cattedra di matematica dello Studio era rimasta vacante dopo la morte del titolare Giuseppe Moletti (o Moleto, 15311588). Di origine siciliana, Moletti aveva studiato la medicina e la matematica all’Università di Messina e si era poi trasferito a Venezia intorno al 1556, dopo un breve soggiorno a Napoli ed a Roma. Nel 1577 ottenne l’ambita cattedra di matematica dello Studio di Padova e partecipò alla riforma del calendario giuliano (portata a termine nell’ottobre 1582), voluta da papa Gregorio XIII per correggere l’errore sulla durata dell’anno, dovuto alla precessione degli equinozi. Di Moletti si conservano abbozzi di soluzioni di problemi matematici pratici e teorici ed un Dialogo intorno alla meccanica rimasto incompiuto (LWR 2000). Agli studi di meccanica Moletti aveva dedicato un ciclo di lezioni iniziate il 6 ottobre 1581 e proseguite nei successivi anni accademici fino al 1585-1586, centrate sul commento delle Questioni meccaniche, un’opera attribuita ad Aristotele. Tale opera, riscoperta alla fine del XV secolo e pubblicata fra il 1497 ed il 1627 in una decina di traduzioni dal greco in latino (ed anche una in volgare) dovute a diversi autori, fu riscritta in latino (1547) col titolo di Paraphrasis dal già citato Alessandro Piccolomini e successivamente tradotta in volgare (1582). Un immenso successo editoriale, quindi, per quest’opera che fu adottata per più di un secolo nelle più importanti università europee come libro di testo per l’insegnamento della meccanica. Anche se, a differenza di Galileo e della maggior parte degli studiosi suoi contemporanei, oggi non è possibile sostenere con assoluta certezza che le Questioni meccaniche furono scritte da Aristotele, l’opera appartiene tuttavia alla sua scuola ed è stata scritta probabilmente prima del II secolo a.C. Si tratta quindi di una testimonianza importantissima dell’interesse suscitato anche in questo campo dagli scritti del filosofo greco. Per alcune geniali intuizioni, le Questioni meccaniche occupano un posto importante, come vedremo, nella genesi del principio dei lavori e delle velocità virtuali.

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Galileo tenne la lezione inaugurale il 7 dicembre 1592, come attesta una lettera dell’astronomo danese Tycho Brahe (15461601), pubblicata nell’appendice della sua Astronomiae instauratae Mechanica (1598). L’esordio, scrive l’astronomo danese, fu stupendo, con grande affluenza di uditori (exordium erat splendidum in magna auditorum frequentia), il che proverebbe che il giovane professore era già abbastanza conosciuto nell’ambiente padovano. Il conflitto sorto fra lo Studio ed il Collegio Padovano non impedì a Galileo di mantenere buoni rapporti con i gesuiti del Collegio Romano, ed in particolare col padre Clavio. Gli scritti di meccanica A Padova gli argomenti da trattare nel primo anno d’insegnamento erano lasciati alla discrezione (ad libitum) del nuovo docente. Dai Rotuli dello Studio risulta che in quell’anno Galileo insegnò l’arte delle fortificazioni, ma è verosimile che egli abbia incluso fra gli argomenti da leggere la scienza meccanica. Viviani indica, in una postilla aggiunta di suo pugno nel già citato Racconto, che Galileo «nel 1593 scrisse le Meccaniche e altre cose» (EN, XIX.606). In realtà gli scritti di meccanica di Galileo ci sono pervenuti in due diverse versioni. Una delle due, certamente la prima per ordine cronologico, fu utilizzata per le lezioni del 1594, come risulta dal titolo di uno dei manoscritti, e potrebbe essere una raccolta di appunti di cui Galileo si sarebbe servito nel primo anno d’insegnamento. La seconda, più lunga, è un vero e proprio trattato, scritto pressappoco nello stesso periodo, nel quale il funzionamento delle macchine è corredato da dimostrazioni geometriche. Nell’introduzione Galileo insiste particolarmente sul fatto che con l’impiego della macchina non c’è un vero e proprio guadagno, ma solo facilità nell’effettuare una data operazione. Quello che si guadagna da un lato, lo si perde necessariamente dall’altro. Nessuna macchina, per quanto geniale sia il suo inventore, può far diminuire la forza necessaria per vincere una data resistenza senza modificare le altre grandezze che intervengono nell’operazione. Rivolgendosi di-

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rettamente agli ingegneri, Galileo critica violentemente le iniziative che «con inganno di tanti principi e con loro propria vergogna, si vanno sognando i poco intendenti ingegneri mentre si vogliono applicare ad imprese impossibili» (FE/RS 2001, 251253; EN, II.158). Si può ragionevolmente ipotizzare che, nello scrivere queste righe, Galileo abbia pensato alla recente controversia con Giovanni de’ Medici e con i suoi collaboratori. L’insistenza di Galileo sull’impossibilità di ottenere con le macchine un guadagno per così dire assoluto, può considerarsi un vero e proprio principio meccanico, un principio di compensazione, già segnalato da Guidobaldo del Monte in termini generali nel Mechanicorum liber (1577). Galileo dimostra pazientemente la sua validità in ognuna delle macchine studiate. Cominciando dal caso più semplice, quello della leva (fig. 1), egli osserva che più il braccio CD su cui agisce la forza è lungo e più la forza necessaria per vincere la resistenza opposta dal peso sul braccio BC è piccola. Ma la distanza che la forza deve percorrere (DI, nella figura) per alzare il peso all’altezza fissata (da B in G, nella figura) cresce come la lunghezza del braccio CD. Quello che si guadagna in forza, spiega Galileo, si perde nello spazio che la forza deve percorrere e nello stesso rapporto del guadagno. In altri termini, il guadagno viene compensato dalla più grande distanza che la forza che solleva il peso deve percorrere. Galileo osserva inoltre che, poiché i movimenti dei due bracci della leva sono sincroni, il braccio che effettua lo spostamento maggiore si muove più velocemente. Si serve quindi della nozione di momento: il momento della forza ed il momento della resistenza risultano composti non solamente dalla forza e dalla resistenza, ma anche dagli spostamenti dei bracci, e quindi dalle loro rispettive velocità. La nozione di momento, di cui lo scienziato pisano dà per la prima volta una definizione nella seconda versione degli scritti di meccanica, sarà successivamente ampliata e figurerà nel Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua o che in quella si muovono pubblicato nel 1612. Ci siamo soffermati sulla leva poiché tutte le macchine semplici descritte da Galileo – leva, argano, verricello, taglie e vite, largamente utilizzate da più secoli nei diversi campi della tecni-

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D

G B

L C M

I

Figura 1

ca – sfruttavano il principio, già dimostrato da Archimede nel trattato degli Equiponderanti, secondo il quale due pesi (nel caso della bilancia), forza e resistenza (nel caso della leva), si equilibrano se il loro rapporto è in ragione inversa delle rispettive distanze dal fulcro. Galileo ne darà una dimostrazione diversa, giungendo allo stesso risultato (EN, II.161-163). La realizzazione di una macchina, talvolta in esemplare unico, era spesso richiesta per un uso ben determinato e la conoscenza dei principi della scienza meccanica costituiva un elemento indispensabile per innovare. L’insegnamento aveva quindi un carattere teorico e pratico e lo Studio di Padova rappresentava, anche in questo settore, un centro di diffusione delle conoscenze antiche e recenti. Corsi privati e strumenti matematici Il disinteresse dell’autore per questi suoi scritti di meccanica è uno degli aspetti più sorprendenti. Non solo Galileo non li dette alle stampe, ma quando la seconda versione sarà tradotta in francese, con alcune aggiunte e modifiche, dal padre Marin Mersenne nel 1634, quindi circa quarant’anni dopo, Galileo non manifesterà alcun interesse per la notizia dell’avvenuta pub-

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blicazione comunicatagli da un corrispondente parigino. Solo più tardi, dopo il 1638, Galileo farà allusione ad un «antico trattato di mecaniche [sic] scritto già in Padova sol per uso dei [miei] discepoli» (EN, VIII.216). I discepoli di cui parla Galileo sono probabilmente i suoi studenti privati, che frequentarono i corsi organizzati nella sua stessa casa, dove alcuni di essi disponevano di un alloggio. Fra i più noti vanno ricordati il principe tedesco Filippo d’Assia, che seguì l’insegnamento per più di un anno, e l’erede del trono di Svezia, Gustavo Adolfo, il cui padre, Enrico XIV, era stato deposto ed imprigionato dal fratello Giovanni III. Dopo la morte del padre per avvelenamento, Gustavo Adolfo riuscì a fuggire e viaggiò in incognito in Europa col nome di monsieur Gars (iniziali di Gustavus Adolphus Rex Sueciae). Secondo fonti concordanti, giunse a Padova nel 1592 all’età di 24 anni, e fu studente di Galileo per l’insegnamento della matematica e dell’arte delle fortificazioni. Si può ipotizzare che il manoscritto della seconda versione degli scritti di meccanica sia stato messo a disposizione degli studenti privati, col permesso di ricopiarlo. In effetti circolò in Europa in forma manoscritta, prima che un’edizione a stampa fosse pubblicata a Ferrara nel 1649 a cura di Luca Danesi, sette anni dopo la morte dell’autore. Questa stessa versione figurerà nelle più importanti edizioni delle Opere di Galileo (1655-1656, 1718, 1744, 1842-1856, 1890-1909), mentre la prima versione fu ritrovata solamente nel XX secolo e non figura, quindi, in nessuna edizione delle Opere. Benché a Padova la retribuzione per il pubblico insegnamento fosse superiore a quella ricevuta a Pisa, le difficoltà economiche in cui si dibatteva Galileo non erano cambiate di molto. Nel 1591 la sorella Virginia, ormai diciottenne, volle sposarsi ed il giovane professore, nella sua qualità di fratello maggiore, dovette provvedere alla dote. Il livello sociale dei Galilei era certo decoroso, ma le sorelle dovevano imperativamente disporre di una dote per trovar marito. Non sappiamo a quanto ammontasse esattamente la somma versata allo sposo, ma fu certamente alta, tanto che Galileo dovette ricorrere ad un prestito il cui rimborso lo privò per più anni di buona parte dello stipendio.

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A queste difficoltà il giovane professore cercò di rimediare ricorrendo all’insegnamento privato ed alla costruzione di strumenti matematici. Galileo aveva allestito in un locale adiacente alla casa un piccolo laboratorio-officina, del quale si occupava Marcantonio Mazzoleni, un tecnico specializzato nella costruzione di apparecchi di precisione. Mazzoleni lavorava esclusivamente per conto e sotto la direzione di Galileo, ed alloggiava anch’egli, insieme alla moglie ed alla figlia, in un appartamentino attiguo al laboratorio-officina. La collaborazione fra lo scienziato ed il tecnico sarà proficua e culminerà, durante l’estate del 1609, nella costruzione del cannocchiale, che cambiò completamente, per chi accettava di servirsene (Cremonini rifiuterà, nonostante le insistenze di Galileo), la maniera di osservare il cielo. Ma negli anni che precedettero questa straordinaria realizzazione tecnica, il lavoro di Mazzoleni consistette nella costruzione di apparecchi di precisione come compassi, squadre, bilancieri, quadranti, ed inoltre nella realizzazione di esperimenti, soprattutto di meccanica, ai quali potevano assistere i fortunati studenti privati. Ma quali furono le attività che permisero a Galileo di acquistare una certa notorietà negli anni che precedettero la costruzione del cannocchiale? Gli scritti più noti in questo periodo sono molto probabilmente quelli di meccanica, che, oltre ad alcuni studenti, solo un ristretto gruppo di amici e di collaboratori conosceva. Essi non contengono, e non potevano contenere dato il loro carattere specifico, gli argomenti sviluppati o abbozzati nel De motu, come ad esempio le nozioni relative al movimento circolare che ritroveremo in opere successive e che condurranno, come vedremo, alla nozione d’inerzia circolare. L’uso che Galileo fece delle due versioni degli scritti di meccanica fu strettamente legato all’insegnamento, come mostra il suo successivo disinteresse per questi suoi lavori, ed era quindi escluso, per ovvi motivi, che vi figurassero novità relative alla sfera celeste o al sistema terrestre. Come la scienza meccanica, la scienza del moto costituiva un settore in cui Galileo aveva accumulato notevoli conoscenze, che culmineranno nelle leggi della caduta libera dei gravi, uno

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dei risultati importanti della fisica pre-newtoniana. Tuttavia, durante i primi anni del periodo padovano, Galileo interruppe le ricerche in questo settore. Le prime indicazioni sulle cose del moto, peraltro confuse, appariranno solamente nel 1604 in una lettera a Paolo Sarpi del 16 ottobre (EN, X.114) ed in un frammento che risale sicuramente alla stessa epoca (EN, VIII.373). Galileo conosceva già la legge del moto uniformemente accelerato (proporzionalità diretta degli spazi ai quadrati dei tempi), ma pretendeva di averla ricavata da un principio indubitabile, che in realtà è falso (velocità proporzionale allo spazio e non al tempo). È evidente, quindi, che la legge, nota probabilmente fin dal XIV secolo, non riposava su basi teoriche solide. La svolta decisiva avverrà negli anni intorno al 1620, ed è merito di Galileo d’esser riuscito a costruire, nonostante le notevoli difficoltà d’ordine matematico, una scienza del moto fondata su nuovi principi. Durante i primi dieci anni del soggiorno padovano, Galileo si dedicò dunque soprattutto all’insegnamento pubblico, e per motivi essenzialmente economici all’insegnamento privato ed alla costruzione di strumenti matematici. Lo strumento che ebbe più successo, che provocò nell’ambiente tecnico-scientifico uno degli scandali più clamorosi di quegli anni ed un processo per plagio, fu senza dubbio il compasso geometrico e militare. Accenneremo brevemente ad alcune operazioni previste dal compasso, la cui utilizzazione esigeva tuttavia un lungo periodo di apprendistato. Per facilitare la comprensione e l’uso dello strumento, Galileo aveva scritto un trattato (1606), in lingua volgare, di cui erano stati stampati solamente sessanta esemplari. Per giustificare l’esigua tiratura, Galileo spiegava nell’introduzione che sarebbe stato del tutto inutile stamparne un più gran numero, poiché senza lo strumento il trattato non presentava nessuna utilità. Si può dedurre da questa osservazione che il costo del compasso era elevato e che solo pochi fortunati utilizzatori avrebbero potuto procurarselo. Il giovane professore, che vi lavorò dal 1597 al 1606, sottoli-

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nea con evidente soddisfazione che lo strumento permetteva a «qualsivoglia persona di risolvere in un istante le più difficili operazioni di aritmetica» (EN, II.370). Accanto a queste c’erano, ovviamente, le operazioni geometriche su linee, superfici, volumi ed angoli, e molte altre operazioni ancora, dal calcolo degli interessi sopra interessi (interessi composti), alla regola per trasmutar le monete, esempio: scudi d’oro in ducati veneziani, al calibro da bombardieri accomodati universalmente a tutte le palle di qualsivoglia materia ed a tutti li pesi. Il compasso permetteva di compiere trentadue operazioni ed inoltre di misurare a vista le altezze perpendicolari, a condizione d’avere la possibilità di avvicinarsi ed allontanarsi dalla base dell’oggetto da misurare. Galileo non fu il primo ideatore e costruttore di un compasso del genere. La lista di coloro che lo precedettero sarebbe troppo lunga. Fra gli inventori più vicini a lui nel tempo, va ricordato il salernitano Fabrizio Mordente (1532-1608?), il cui compasso di proporzione suscitò l’entusiasmo di Giordano Bruno. Tuttavia non furono i lavori di Mordente ad ispirare Galileo, ma, verosimilmente, il compasso realizzato da Guidobaldo del Monte intorno al 1570. Un anno dopo la pubblicazione del trattato di Galileo, fu dato alle stampe, a Padova, un opuscolo in lingua latina (Usus et fabrica circini cuiusdam proportionis [...]), in cui il milanese Baldassarre Capra rivendicava l’invenzione per sé e per il suo maestro di matematica Simon Mayr. Galileo era già al corrente di iniziative di questo tipo, e, come spiegava nell’introduzione, il suo trattato era stato scritto e pubblicato anche per poter dimostrare la priorità dell’invenzione. La reazione di Galileo fu immediata. Una denunzia per plagio fu presentata a Venezia, e nello stesso tempo venne pubblicata la Difesa di Galileo Galilei contro alle calunnie ed imposture di Baldassarre Capra Milanese (1607). L’azione legale si concluse rapidamente, tanto il plagio era evidente, con una sentenza del 4 maggio 1607 favorevole a Galileo. I giudici veneziani decretarono che tutti i libri del Capra, 483 volumi in tutto de-

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positati presso il libraio Tozzi, fossero presentati ai giudici, che avrebbero provveduto alla loro distruzione (EN, II.560). Il trattato di Galileo fu tradotto in latino da Matthias Bernegger nel 1612, con l’aggiunta della figura del compasso, il che lascia pensare che lo strumento ebbe una buona diffusione in Europa. A Padova ne furono costruiti più di cento esemplari, pezzo per pezzo, dall’infaticabile Mazzoleni, fra il 1606 ed il 1610. Ignoriamo quali fossero gli accordi commerciali per la sua distribuzione, ma sappiamo che fu conosciuto ed utilizzato per alcuni decenni, anche quando altri compassi di questo tipo apparvero sul mercato fra il 1608 ed il 1626, elaborati dal fiammingo Michel Coignet. L’incontro con la dottrina copernicana Durante i primi anni a Padova, l’astronomia occupò anch’essa un posto di secondo piano nell’attività di Galileo, che si limitò a descrivere nelle sue lezioni i principi del sistema geocentrico aristotelico-tolemaico. Nel Trattato della Sfera ovvero cosmografia, scritto per il pubblico insegnamento nel 1605 circa, dopo aver affermato «che non sono mancati grandissimi filosofi e matematici, i quali, stimando la terra essere una stella, l’hanno fatta mobile», Galileo così prosegue: «Nulladimeno, seguitando noi il parere d’Aristotele e di Tolomeo, addurremo quelle ragioni per le quali si possa credere, lei essere totalmente stabile» (EN, II.223). L’allusione ai filosofi e matematici che avevano elevato la terra al rango di stella, splendente ed in giro nel cielo come lo erano tutti i pianeti, e non oscura ed immobile al centro del mondo, non comportava alcun nome di astronomo. Non venivano nominati neanche i pitagorici, che avevano immaginato la Terra in movimento intorno al fuoco centrale, benché i loro argomenti fossero ben noti agli studiosi di Aristotele che li aveva confutati nel De coelo. Più tardi, Aristarco di Samo (310-230 a.C.) aveva elaborato un vero e proprio sistema eliocentrico, nel quale il Sole occupava una posizione centrale ed i pianeti e la Terra giravano intorno a esso. Nel sistema di Aristarco, la cui opera è andata smarrita, la Terra era

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inoltre animata da un movimento intorno al proprio asse effettuato in 24 ore, mentre il cielo delle stelle fisse era completamente immobile. L’opera di questo astronomo greco fu conosciuta attraverso varie testimonianze, la più importante dovuta ad Archimede. Copernico lo citerà più volte nel suo De revolutionibus, e così farà più tardi anche Galileo nel Dialogo (1632). Le ragioni addotte da Galileo nel Trattato della Sfera per affermare l’impossibilità del movimento della Terra sono quelle avanzate da Tolomeo nell’Almagestum. L’argomento a favore del movimento diurno è suggerito, spiega Galileo, «da alcuni [...] mossi principalmente dal parer loro cosa quasi impossibile, che tutto l’universo, eccetto la terra, dia una rivoluzione da oriente in occidente, tornando in oriente, dentro allo spazio di 24 ore: e però hanno creduto, che più presto la terra, entro a tal tempo, dia una volta da ponente verso levante». L’assurdità di un giro completo del cielo delle stelle fisse è qui chiaramente indicata, ma di Copernico neanche il nome. C’è invece il ritorno deciso e documentato a Tolomeo. «Considerando Tolomeo questa opinione – scrive Galileo – per distruggerla argomenta in questa guisa. Se noi insieme alla terra ci movessimo verso oriente con tanta velocità, ne seguiteria che tutte l’altre cose, dalla terra disgiunte e separate, apparissero muoversi con altrettanta velocità verso occidente; e così gli uccelli e le nubi pendenti in aria, non potendo seguitare il moto della terra». In un periodo in cui Roma non si era ancora lanciata nella lotta contro l’eliocentrismo, la decisione di Galileo di tacere il nome di Copernico non può non sorprendere. In effetti a Padova i professori godevano di una larga libertà che permetteva ad esempio a Cremonini di insegnare che secondo Aristotele l’anima è mortale. La sorpresa è tanto più grande, in quanto pochi anni prima, nel 1597, Galileo aveva rivelato la sua adesione alla dottrina copernicana a Jacopo Mazzoni ed all’astronomo tedesco Giovanni Keplero (1571-1630). Una delle possibili risposte è che, a differenza di Cremonini, che godeva di una indiscussa autorità come aristotelico, Galileo era un modesto professore di matematica, una disciplina questa che non godeva del prestigio

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della filosofia. Non è da escludere, d’altra parte, che egli temesse, professandosi pubblicamente copernicano e quindi assertore del doppio movimento della Terra, di suscitare il riso e lo scherno dei suoi colleghi. Un’allusione a questa difficoltà è contenuta, come vedremo, nella sua risposta ad una lettera di Keplero. Forse la paura del ridicolo contribuì anch’essa alla discrezione che Galileo s’era imposta. Keplero aveva pubblicato l’anno precedente, a Tubinga, il Mysterium cosmographicum, e fu proprio questo libro a metterlo in relazione con Galileo. Egli ne affidò due esemplari all’amico Paul Hamberger, che nell’estate del 1597 si accingeva a ritornare a Padova dove si era iscritto nel 1595 alla facoltà delle Arti. Hamberger, che era incaricato di offrirli a persone eventualmente interessate, non se ne preoccupò oltre misura e affidò i due esemplari a Galileo, un matematico chiamato Galilaeus Galilaeus, come scriverà più tardi lo stesso Keplero al suo maestro ed amico Michael Maestlin (1550-1631). Nella lettera di ringraziamento del 4 agosto dello stesso anno 1597, Galileo non entrava nel merito dell’astronomia copernicana, ma si limitava ad affermare che da più anni aveva aderito all’opinione di Copernico (in Copernici sententiam multis abhic annis venerim) e, partendo da questa posizione, aveva ritrovato le cause di molti fenomeni naturali (ex tali positione multorum etiam naturalium effectuum causae sint a me adinventae). Precisava quindi d’aver scritto molte ragioni a favore di essa e d’aver confutato molti argomenti contrari (multa conscripsi et rationes et argumentorum in contrario eversiones). Tuttavia, non li aveva dati alle stampe per timore di finire come il nostro maestro Copernico, che – osservava Galileo – aveva acquistato fama immortale presso alcuni, ma da infiniti altri era presentato come ridicolo e da buttar via (apud infinitos tamen [...] ridendus et explodendus prodiit) (EN, X.67-68). Ma delle numerose cose scritte da Galileo sull’astronomia copernicana prima del 1597, nulla è stato fin qui ritrovato. Quando avvenne la sua adesione al copernicanesimo? Sicuramente dopo il 1590, probabilmente a Padova, poiché nel De motu, come s’è visto, Galileo continuava a sostenere l’immobilità della Terra.

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Meno esplicita della lettera a Keplero, quella indirizzata a Jacopo Mazzoni il 30 maggio 1597 era centrata sulla critica di un’obiezione contro l’opinione di Copernico. Mazzoni sosteneva nel De comparatione Aristotelis et Platonis, pubblicato a Venezia in quello stesso anno, che se il Sole stesse immobile al centro della sfera celeste e se la Terra facesse un giro completo su se stessa in 24 ore, noi dovremmo vedere a mezzanotte molto meno della metà della sfera celeste e molto più a mezzogiorno. Galileo dichiarava fin dall’inizio di considerare l’opinione di Copernico «assai più probabile dell’altra di Aristotele e di Tolomeo» (EN, II.198) e criticava, quindi, l’obiezione di Mazzoni in una lunga dimostrazione che non costituiva, tuttavia, una prova decisiva a favore dell’astronomia copernicana. Ed in effetti, la lettera si chiudeva con la richiesta al Mazzoni di dire liberamente se in questa maniera si poteva salvare il Copernico (EN, II.202). Mancavano anche qui, nonostante la lunghezza della missiva, riferimenti precisi ad argomenti presenti nel De revolutionibus. Nello Studio di Padova l’insegnamento del filosofo aristotelico Cremonini non preparava, e non poteva preparare, un terreno favorevole ad una serena discussione intorno all’opinione copernicana. Da quel che indica Galileo nella lettera a Keplero si capisce che lo scherno e la derisione bloccavano ogni tentativo di far riferimento alle due idee-chiave dell’astronomia copernicana: il movimento diurno ed il movimento annuo della Terra. È verosimile quindi che Galileo non volesse rischiare la propria reputazione di giovane professore, prima di aver trovato una prova del doppio movimento della Terra. Crederà di poterla individuare nel fenomeno delle maree, ben visibile a Venezia, e si esprimerà su questo argomento, come vedremo, nel Discorso del flusso e reflusso del mare redatto in forma manoscritta e dedicato nel gennaio del 1616 al cardinale Alessandro Orsini. Successivamente l’argomento verrà esposto nella quarta giornata del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (1632). Tuttavia è probabile che prima dell’arrivo del cannocchiale Galileo non abbia raggiunto la piena convinzione della validità

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del sistema copernicano, che, secondo quanto egli stesso indicava nella lettera a Jacopo Mazzoni, era solamente assai più probabile del sistema aristotelico-tolemaico. La ricerca da parte di Galileo di prove decisive a favore dell’astronomia copernicana non era sfuggita a Keplero, che si chiedeva, in una lettera del 26 marzo 1598 ad Herwart von Hohenburg, se i fenomeni naturali ai quali faceva allusione il matematico di Padova, non fossero proprio le maree. L’astronomo tedesco non condivideva l’interpretazione galileana delle maree, che egli attribuirà invece, nell’Astronomia nova (1609), all’attrazione esercitata dalla Luna, anticipando la spiegazione completa del fenomeno fornita più tardi da Newton. Trentacinque anni dopo, nel Dialogo, Galileo ironizzerà in questi termini sulla forza d’attrazione come causa delle maree: «Son forse qui intorno voragini o meati nel fondo del mare, per le quali la Terra attragga e rifonda l’acqua, respirando quasi immensa e smisurata balena?», ed accuserà Keplero di «aver dato orecchio ed assenso a predomini della Luna sopra l’acqua, ed a proprietà occulte, e simili fanciullezze» (EN, VII.449 e 486). L’ironia, arma suprema nelle controversie affrontate da Galileo, è qui diretta contro coloro che credevano nell’esistenza di forze invisibili e misteriose, quasi magiche, responsabili dei fenomeni che la mente umana non era in grado di spiegare. Pur interessandosi al fenomeno di attrazione dei corpi metallici dovuto alla calamita, soprattutto dopo la lettura del De magnete (1600) dell’inglese William Gilbert, Galileo continuerà a rifiutare il concetto di attrazione impiegato da Keplero e in seguito con successo da Newton. Fu questa la sola causa dell’interruzione della corrispondenza da poco avviata con l’astronomo tedesco? È molto probabile che altre considerazioni intervennero, fra le quali l’obbligo, contratto in un certo senso da Galileo nei confronti di Keplero, di esporre in maniera convincente i fenomeni naturali causati dal doppio movimento della Terra. Il matematico di Padova non disponeva di tutti i dati sperimentali che avrebbero permesso di costruire una teoria delle maree centrata sui movimenti diurno e annuo della Terra. Sta di fatto che Galileo non rispose alla lettera di Keplero, spedita da Gratz il 13 ottobre 1597, in cui l’astronomo

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tedesco si dichiarava felice di questo inizio di scambi epistolari e chiedeva un giudizio sul suo Mysterium cosmographicum. Gli proponeva inoltre di profittare della libertà esistente in Germania per pubblicare qui i suoi scritti, nel caso ne fosse impedito in Italia (si tibi Italia minus est idonea ad publicationem, et si aliqua habiturus es impedimenta) e invitava Galileo a comunicargli eventualmente a titolo privato ciò che aveva trovato a favore di Copernico (si quid in Copernici commodum invenisti). Chiedeva infine al giovane professore, nel caso disponesse di apparecchi sufficientemente precisi, di misurare la posizione di alcune stelle fisse in determinati giorni dell’anno (EN, X.69-71). Galileo si rifugiò in un lungo silenzio che solo le scoperte del 1610 gli permetteranno di rompere. A nulla valsero i tentativi del grande astronomo danese Tycho Brahe (noto in Italia col nome di Ticone), che avrebbe voluto conoscere l’opinione di Galileo sul sistema astronomico da lui elaborato. Brahe, che aveva accumulato un numero straordinario di misure relative alle posizioni dei pianeti e catalogato circa 3000 stelle fisse nel suo osservatorio della piccola isola di Hven, salvava l’immobilità della Terra mantenendola al centro dell’universo e la mobilità del Sole che, come la Luna, si spostava sulle stesse orbite circolari definite da Tolomeo (II secolo d.C.). Il suo sistema astronomico conteneva tuttavia una novità importantissima: gli altri cinque pianeti – Mercurio, Venere, Marte, Giove, Saturno – giravano intorno al Sole, e non intorno alla Terra come nel sistema di Tolomeo, eliminando così alcune correzioni necessarie per salvare le apparenze dei movimenti planetari nel sistema geocentrico tradizionale. La lettera inviata da Brahe a Galileo nel maggio 1600 restò anch’essa senza risposta. Per nulla lusingato dall’interesse che il più grande astronomo vivente manifestava nei suoi confronti, il matematico di Padova continuò probabilmente a chiedersi se fosse giunto veramente il momento (ma siamo ormai all’ottavo anno dal suo arrivo a Padova) di aderire completamente all’opinione copernicana. A questo punto ci si può chiedere perché in quella prima ed unica lettera indirizzata a Keplero, Galileo non colse l’occasione per soffermarsi su alcuni aspetti della dottrina copernicana.

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Questo silenzio getta un dubbio sulla sua effettiva conoscenza del De revolutionibus prima del 1597 ed accredita l’ipotesi della sua adesione all’astronomia copernicana per effetto di un’intima convinzione, e non di precise conoscenze dell’opera di Copernico. E se così fu, l’intima convinzione dovette essere particolarmente solida per poter affermare che la Terra si muove su se stessa ed intorno al Sole senza produrre nessun effetto percettibile. Galileo spiegherà più tardi, ricorrendo come vedremo ad un’esperienza immaginaria, che gli oggetti in movimento o immobili sulla superficie della Terra non venivano turbati, per così dire, dai suoi movimenti. Eccezion fatta per le acque del mare e dei laghi nel fenomeno delle maree. La «Stella nova»: una svolta decisiva? L’apparizione nel 1604 di una nuova stella, una supernova, con il linguaggio di oggi, descritta da Keplero nel De stella nova (1607), sarà il primo avvenimento astronomico importante al quale assisterà Galileo. Ma se è vero che l’apparizione, la variazione di luminosità e la scomparsa definitiva dell’astro dopo 18 mesi di esistenza intaccavano la nozione d’incorruttibilità dei corpi celesti sostenuta da Aristotele e dagli aristotelici, l’eccezionale fenomeno – che si era già prodotto nel 1572 e senza dubbio più volte prima di allora – non poteva costituire una prova a favore dell’astronomia copernicana. La nova portava invece un duro colpo alla teoria degli elementi e quindi alla cosmologia ed alla filosofia naturale di Aristotele. Nella cosmologia aristotelica, l’universo era costituito dal mondo sopralunare, che comprendeva la Luna, il Sole, gli altri pianeti, e le stelle fisse, e dal mondo sublunare occupato dalla Terra. Come s’è detto nel precedente capitolo, nel mondo sublunare tutto era generato e corruttibile, cioè sottomesso a mutazione, mentre nel mondo sopralunare i corpi celesti erano non generati ed immutabili poiché costituiti da un quinto elemento, l’etere, che godeva di queste proprietà. Essendo privi di pesantezza o di leggerezza, i corpi celesti non erano sottomessi alle leggi del

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mondo sublunare, e quindi non dovevano muoversi in linea retta verso il basso o verso l’alto secondo la loro pesantezza o leggerezza. I corpi celesti potevano, quindi, descrivere traiettorie circolari. L’arrivo nel mondo sopralunare di un corpo celeste la cui luminosità diminuiva fino allo spegnimento, metteva in crisi non solo la cosmologia aristotelica, ma la teoria degli elementi nel suo insieme e quindi tutta la filosofia naturale di Aristotele. Gli aristotelici non erano i soli a soffrirne. L’arrivo di questo ospite inatteso, che forzava le porte inviolabili di un universo perfettamente ordinato, importunava gli astrologi, attori di una professione ufficialmente proibita dalle autorità religiose, che si chiedevano se bisognava tener conto della sua posizione nel tirare gli oroscopi. A Padova la stella nova fu vista per la prima volta il 10 ottobre del 1604. Galileo, che poté osservarla il 28 dello stesso mese, ricevette richieste di chiarimenti da numerosi corrispondenti ed amici. Le sue risposte non ci sono pervenute. Sappiamo tuttavia, da quanto egli stesso afferma, che tenne su questo argomento tre lunghe lezioni a più di mille uditori (EN, II.520). Di queste ci è pervenuto solo un frammento dell’esordio, in cui Galileo afferma che avrebbe indicato il luogo in cui si trovava la stella (EN, II.278). Altre fonti permettono di precisare che si situava nel mondo sopralunare dove, secondo gli aristotelici, i corpi celesti erano incorruttibili (BMA 2003, 125-126). Dalla corrispondenza epistolare e dal contenuto di un libro scritto in dialetto padovano, il Dialogo di Cecco de’ Ronchitti da Brugine pubblicato a Verona nel 1605, si ricava che le discussioni vertevano quasi esclusivamente sulla posizione della nova. Le osservazioni astronomiche mostravano chiaramente che la nuova stella si trovava molto al di là del cielo della Luna. Si trattava quindi di un corpo celeste ed il principio di incorruttibilità risultava seriamente compromesso. Chi era l’autore del Dialogo di Cecco de’ Ronchitti? Non fu Galileo a scriverlo, ma il padre benedettino Girolamo Spinelli, con la collaborazione di Benedetto Castelli appartenente anch’egli all’Ordine di san Benedetto. I nomi degli autori non furono rivelati, né quello di Galileo che fu l’ispiratore dell’opera.

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Il libro era una risposta al Discorso intorno alla nuova stella pubblicato a Padova nel 1605 da un tale Antonio Lorenzini, ma ispirato in realtà da Cesare Cremonini. Per il titolare della cattedra di filosofia dello Studio di Padova, pretendere di voler applicare all’osservazione del cielo le regole matematiche valide nel mondo terrestre, significava ignorare le differenze essenziali esistenti fra Terra e Cielo. Gli autori del Dialogo di Cecco de’ Ronchitti sostenevano invece, con ragione, che l’assenza di parallasse indicava che la nova si trovava molto più in alto dei pianeti, ed attribuivano, a torto, la diminuzione della luminosità, che nessuno all’epoca avrebbe potuto spiegare, al suo allontanarsi in linea retta dalla Terra. Anche Baldassarre Capra, non ancora accusato di plagio, intervenne nel dibattito, pubblicando a Padova nel 1605 la Consideratione astronomica (EN, II.287305), in cui si dichiarava d’accordo con Galileo e situava senza esitare la nova fra le stelle fisse. Ma profittava dell’occasione per lanciare una grossa freccia contro il matematico dello Studio di Padova, accusandolo, a torto, di imprecisione nella descrizione del fenomeno, imprecisione che era scusabile, spiegava il Capra, poiché Galileo «come per li suoi scritti si vede, non troppo cura le cose matematiche» (EN, II.292-293). Colpito nel vivo, Galileo risponderà su questo preciso problema, lungamente e con veemenza, nella prima parte della già citata Difesa contro il tentativo di Capra di appropriarsi dell’invenzione del compasso. In realtà la stella nova non contribuì a rafforzare l’intima convinzione di Galileo sulla validità del sistema copernicano. Anche se alcune osservazioni nel Dialogo di Cecco de’ Ronchitti possono essere interpretate in un senso favorevole a Copernico, niente prova che Galileo abbia sciolto fin dal 1604 tutti i possibili dubbi. Celibato e paternità Galileo ebbe tre figli da Marina Gamba, una giovane veneziana che lo seguì a Padova, non sappiamo con precisione in quale anno. Marina non visse nella stessa casa del suo illustre

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compagno, ed accettò fino all’ultimo il ruolo di madre nubile che le era stato assegnato. Morì a Padova ancora giovane, qualche anno prima del 1619, come si legge nella richiesta di legittimazione del figlio – nato da «Marina Gamba», deceduta – presentata in quell’anno da Galileo al granduca di Toscana (EN, XII.441). Nulla sappiamo della famiglia in cui era nata, né dell’origine della sua relazione con Galileo. Compagna affettuosa, Marina mise al mondo Virginia nel 1600, Livia nel 1601 e Vincenzio nel 1606. Nei certificati di battesimo dei tre figli non compare il nome del padre, che tuttavia si affrettò subito dopo la loro nascita a trarre l’oroscopo per le figlie, trascurando invece quello di Vincenzio. Nonostante questa iniziale negligenza, il ragazzo, che visse con la madre fino agli anni dell’adolescenza, fu in seguito trattato molto meglio delle sorelle. La situazione familiare di Galileo non fu oggetto di critiche nell’ambiente universitario. Certamente il suo caso non era unico. La denunzia presentata nell’aprile del 1604 all’inquisitore veneziano da un certo Silvestro Pagnoni, che accusava Galileo di praticare l’astrologia giudiziaria, di non confessarsi né comunicarsi, di leggere le lettere licenziose di Pietro Aretino, di avere una relazione con una certa Marina la veneziana, non ebbe seguito per quanto concerne gli ultimi capi d’accusa. Un’inchiesta fu invece avviata alcuni anni dopo per i primi due, ma, come vedremo, senza conseguenze per Galileo. I senatori furono costretti ad occuparsi a loro volta della relazione di Galileo con Marina Gamba, in seguito alla denunzia di un moralizzatore anonimo. La loro decisione, presa come sembrerebbe all’unanimità, fu di chiedere agli amministratori dello Studio di tener conto, per il calcolo degli emolumenti, della situazione in cui si trovava il professore. Forse, senza volerlo, il denunziatore anonimo aiutò Galileo ad ottenere un aumento di stipendio. La vita da celibe conveniva perfettamente all’ancor giovane professore, ma non fu questa la causa della sua scelta. Per un uomo che occupava una posizione come la sua, sarebbe stato più vantaggioso, da tutti i punti di vista, prender moglie ufficialmente piuttosto che restar scapolo. Non sarebbe stato certa-

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mente il matrimonio ad impedire a Galileo di trascorrere in buona compagnia lunghe serate di baldoria, come ai bei tempi di Pisa. D’altra parte, una prova del carattere familiare e quasi ufficiale della relazione con Marina è data dai nomi che furono scelti per i figli: Virginia e Livia, come i nomi delle sorelle di Galileo, Vincenzio come il nome del padre. Il rifiuto di sposare la madre resta uno dei tanti misteri della vita di Galileo. La sorte di Virginia e Livia fu fissata dal padre, che le avviò ancora giovanissime alla vita monastica. Una storia triste, che solo Virginia riuscì a vivere serenamente, e sulla quale torneremo nelle prossime pagine.

III SUCCESSI PATAVINI, RICHIAMI FIORENTINI Un cannocchiale per il doge? Nella primavera del 1609 corse voce a Padova (secondo quanto racconterà quattordici anni dopo lo stesso Galileo) che un occhiale era stato costruito in Olanda e presentato al conte Maurizio di Nassau, «col quale le cose lontane si vedevano così perfettamente come se fussero state molto vicine» (EN, VI.257258). Da Parigi Jacques Badouère, che era stato allievo dello scienziato a Padova nel 1597, confermava a Galileo l’esistenza di strumenti di questo tipo (EN, III.60). Intanto Sarpi – che abbiamo già incontrato nel capitolo II come destinatario di una lettera sulle cose del moto – aveva raccolto informazioni più precise sullo strumento e sulla sua diffusione in Olanda ed in Francia. In occasione di un viaggio a Venezia nel luglio del 1609, il matematico dello Studio di Padova fu messo al corrente delle notizie che circolavano in città. A detta di Sarpi uno straniero era in rotta per Venezia con l’intenzione di vendere un occhiale alla Repubblica veneta. Fu questa notizia a convincere Galileo di tentare a sua volta di costruirne uno? Non è da escludere che la decisione sia stata presa per motivi di concorrenza tecnica e scientifica. Galileo era convinto che lo strumento presentava un notevole interesse militare, e benché non si fosse mai occupato di ottica prima d’allora, era in grado di valutare i frutti di un eventuale successo. La fiducia nelle proprie capacità inventive e l’abilità tecnica di Mazzoleni eliminarono gli ultimi dubbi.

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Mazzoleni aveva già utilizzato in maniera empirica vetri di vario tipo e dimensione, fabbricati dai maestri vetrai veneziani per correggere la miopia, la presbiopia o altri difetti della vista. D’altra parte Galileo disponeva delle notizie raccolte da Sarpi e confermate da Badouère, dalle quali emergeva un dato di fatto decisivo: in Olanda erano stati costruiti strumenti per migliorare la visione a distanza, dunque il problema ammetteva una soluzione. È difficile stabilire su quali conoscenze scientifiche poggiasse il progetto. Le conoscenze di Galileo in questo campo erano del tutto insufficienti per tentare un approccio teorico del problema. Restava quindi l’abilità tecnica ed il metodo empirico dell’approssimazione successiva. Da quanto indicato dallo stesso Galileo la soluzione fu da lui trovata dopo lunghe riflessioni, nella notte successiva al suo ritorno a Padova, quindi nel luglio del 1609 (EN, VI.258). La notizia fu immediatamente comunicata a Sarpi che probabilmente riuscì a dissuadere le autorità veneziane dall’acquistare lo strumento proposto dallo straniero. Sarpi insistette sulle eccellenti caratteristiche del cannocchiale di Galileo, basandosi sulle notizie, segretissime, che giungevano dal laboratorio-officina di Padova. Ed in effetti questo cannocchiale era superiore a tutti gli strumenti dello stesso tipo che circolavano in Europa. Galileo fu invitato a Venezia verso la fine di agosto ed il 24 dello stesso mese mostrò lo strumento al doge Leonardo Donato ed ai senatori riuniti in seduta plenaria. Nella presentazione indirizzata al doge era descritto «un nuovo artifizio di un cannocchiale cavato dalle più recenti speculazioni di prospettiva». Galileo sottolineava l’interesse dello strumento «per ogni negozio et impresa marittima o terrestre [...], potendosi in mare in assai maggior lontananza del consueto scoprire legni e vele dell’inimico» (EN, X.250-251). Venivano poi elencati i vantaggi terrestri, sempre nel contesto di scontri con un eventuale nemico. In questo documento non c’è nessuna allusione all’uso che Galileo ne avrebbe fatto qualche mese dopo, benché tutto lasci pensare che la decisione di puntare il cannocchiale verso il cielo fosse chiara nella sua mente fin dall’inizio della straordinaria avventura. Secondo una relazione attribuita a Galileo (lettera a

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Benedetto Landucci, del 29 agosto 1609), «gentiluomini e senatori, benché vecchi, [avevano] più d’una volta fatte le scale dei più alti campanili di Venezia per scoprire in mare vele o vascelli tanto lontani che venendo a tutte vele verso il porto passavano 2 ore e più di tempo avanti che, senza il cannocchiale, potessero essere veduti» (EN, X.253). Nella sua qualità di matematico dello Studio di Padova, Galileo fece dono del cannocchiale «al Serenissimo Principe e Doge Leonardo Donati», come riferisce Viviani nel già citato Racconto. Il 25 agosto 1609 fu confermato a vita dal Senato nella cattedra di matematica dello Studio di Padova, con uno stipendio che passava da 520 a 1000 fiorini l’anno, senza possibilità, tuttavia, di ulteriori aumenti (lo stipendio di Cremonini salirà a 2000 fiorini alla fine della carriera). A questa clausola se ne aggiungeva un’altra particolarmente spiacevole: l’aumento entrava in vigore solo l’anno successivo, dopo la scadenza del precedente contratto. Si trattava in realtà di modifiche contrattuali non previste, che non lasceranno Galileo indifferente e che forse interverranno nelle importanti decisioni dell’anno successivo. Lo strumento offerto al doge permetteva di vedere gli oggetti nove volte più vicini, ingrandendoli quindi circa ottanta volte (EN, X.250). In pochi mesi Galileo migliorerà considerevolmente le caratteristiche dello strumento, ma non è plausibile che sia riuscito a costruirne uno «di qualità così grandi, che le cose viste a traverso di esso apparivano quasi mille volte più grandi e più di trenta volte più vicine» (ut Organum mihi construxerim adeo excellens, ut res per ipsum visae millies fere maiores appareant ac plusquam in terdecupla ratione viciniores), come egli affermerà nel Sidereus Nuncius (EN, III.61). Come procedeva Galileo per migliorare le caratteristiche dello strumento? Verosimilmente, si limitò a far venire da Venezia, da Murano e probabilmente anche da Firenze dove l’industria vetraria non era meno importante, un gran numero di lenti di cui ne selezionava due per volta. «Dapprima – egli scrive nel Sidereus Nuncius – preparai un tubo di piombo, alle cui estremità fissai due lenti, ambedue piane da una parte e dall’altra una convessa, [nella quale entrava l’immagine] e l’altra con-

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cava [da cui usciva l’immagine per raggiungere l’occhio dell’osservatore]» (tubum primo plumbeum mihi paravi, in cuius extremitatibus vitrea duo perspicilla, ambo ex altera parte plana, ex altera vero unum spherice convexum, alterum vero cavum aptavi) (EN, III.60). L’immagine appariva allora dritta ed ingrandita. Galileo descrive in questo stesso libro un metodo che permetteva di misurare con poca fatica l’ingrandimento ottenuto con lo strumento (EN, III.61). Può sembrare strano che il più potente cannocchiale dell’epoca sia stato costruito proprio da Galileo che non si era mai occupato di ottica. Specialisti come il napoletano Giambattista Della Porta (1538-1615) e l’inglese John Dee (1527-1608) avevano senza dubbio conoscenze sufficienti per costruirne uno equivalente. Ma nessuno dei due pensò alla realizzazione concreta. Quando Della Porta seppe dei risultati ottenuti da Galileo scrisse al principe Federico Cesi il 28 agosto 1609, per annunziargli che era venuto a conoscenza «del secreto dell’occhiale, [...] una coglionaria, ed è preso dal mio libro capitolo 9 De refractione». Seguiva poi una spiegazione del fenomeno e la descrizione dello strumento (EN, X.252). Ma probabilmente Della Porta non si era più interessato al problema, come proverebbe l’errore da lui commesso nel titolo del libro citato. In effetti, le cose descritte da Della Porta non si trovano nel De refractione, ma nella Magia naturalis, pubblicata a Napoli nel 1589, e non è escluso che Galileo ne abbia avuto conoscenza (FE 1995, 67-68). Nella prima lettera indirizzata a Galileo il 19 aprile 1610, dopo l’interruzione del 1597, Keplero, che aveva pubblicato nel 1604 l’importante libro sulla rifrazione Ad Vitellionem paralipomena, si duole di non veder menzionati nel Sidereus Nuncius i suoi lavori e quelli di Della Porta. L’astronomo tedesco sottolineava con tono affabile che non intendeva diminuire i meriti del primo realizzatore, chiunque esso sia, precisando che conosceva la differenza che separa i tubi muniti di lenti che circolano fra la gente del popolo, dall’apparecchio col quale Galileo aveva saputo farsi strada nel cielo (EN, X.323). È da notare d’altra parte che Keplero non aveva creduto nell’utilità, per gli astronomi,

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delle ricerche di Della Porta. E sarà egli stesso a riconoscerlo nella sua Dissertatio cum Nuncio Sidereo, pubblicata a Praga nel maggio del 1610. Nei Paesi Bassi c’erano stati fin dal 1608 tentativi concreti per migliorare la visione a distanza, documentati in una lettera del 25 dicembre 1608 indirizzata agli Stati Generali olandesi. Qualche settimana più tardi, Hans Lipperhey reclamò un brevetto che gli Stati Generali della sua provincia gli rifiutarono. In effetti, altri due olandesi erano già in grado di costruire cannocchiali: Jacob Matius e Sacharias Jansen. Se si dà credito alla testimonianza di Isaac Beeckman, amico di gioventù di René Descartes, il primo telescopio olandese fu costruito nel 1604 circa da Jansen, che si sarebbe servito di un modello italiano già esistente nel 1592. Gli aneddoti sulle difficili trattative di pace del 1609 fra spagnoli ed olandesi per mettere un termine alla guerra che durava dal 1591 lascerebbero pensare che la diffusione del telescopio ebbe inizio in questa occasione. Maurizio di Nassau, capitano generale delle truppe olandesi di terra e di mare, ne avrebbe mostrato un esemplare, fabbricato in Olanda, al generale spagnolo forse come prova dei mezzi moderni di cui disponevano le sue truppe. E proprio nell’estate dello stesso anno, strumenti che ingrandivano circa nove volte gli oggetti furono messi in vendita a Parigi e forse giunsero fino a Venezia. È difficile tuttavia stabilire se un esemplare fu mostrato a Galileo. È sicuro, invece, che il suo cannocchiale sarà ben superiore a quelli in vendita in Europa e che egli fu il primo ad avere l’idea di puntarlo verso il cielo alla ricerca di novità celesti. Con le conseguenze che ci accingiamo a raccontare e che saranno immortalate nel Sidereus Nuncius. L’attesa L’interesse suscitato dal nuovo strumento spingerà Galileo a dedicarsi quasi esclusivamente durante i mesi di settembre ed ottobre al miglioramento delle sue caratteristiche. Le prime osservazioni del cielo inizieranno solamente verso la fine di novembre del 1609.

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Padova era immersa da più giorni in una fitta cortina di nebbia che sembrava calata apposta per proteggere il cielo dagli sguardi indiscreti. Forse un genio malefico aveva deciso di annientare, chissà fino a quando, il magico potere del cannocchiale galileano privandolo delle osservazioni alle quali lo aveva destinato in segreto il suo costruttore. L’arrivo della stagione invernale rischiava di chiudere per lunghi mesi le porte del cielo di Padova, ma purtroppo non quelle di cieli più fortunati. A Napoli la notizia del cannocchiale offerto al doge di Venezia si era sparsa rapidamente. Come avrebbe reagito Giambattista Della Porta? Stava già costruendo uno strumento simile a quello di Venezia? Della Porta non manifesterà ambizioni astronomiche e l’interesse per il cannocchiale si concentrerà, negli ultimi anni della sua vita, sullo studio teorico dello strumento, come risulta dal suo De telescopio, rimasto incompiuto. Collaborerà attivamente in quegli anni all’organizzazione dell’Accademia dei Lincei, fondata nel 1603 dal principe Federico Cesi. Della Porta sarà nominato accademico linceo nel 1610, un anno prima di Galileo. In attesa d’un cielo sereno e terso, quale poteva essere il progetto astronomico di Galileo, ormai convinto seguace di Copernico? Lo scienziato polacco aveva attribuito alla Terra tre movimenti: uno annuo intorno al Sole da ovest verso est, che appare ad un osservatore terrestre come il movimento del Sole da est verso ovest; uno diurno intorno al proprio asse che assicura l’avvicendarsi del giorno e della notte; un terzo di «precessione» dell’asse terrestre per mantenerne sul piano dell’eclittica l’inclinazione costante di 23°,5. Com’è noto, l’inclinazione costante dell’asse terrestre durante il movimento annuo è causa dell’avvicendarsi delle stagioni. Il terzo movimento non sarà ritenuto indispensabile da Keplero, da Galileo e dai successivi astronomi. Nell’antichità la possibilità del movimento diurno della Terra era stata affermata dai pitagorici (seguaci della scuola di Pitagora, 580-500 a.C.) e dal già citato Aristarco di Samo. Nell’Occidente cristiano questa possibilità sarà esaminata solo nel XIV secolo dai francesi Jean Buridan (1300-1358) e Nicole Oresme (1323-1382). Buridan farà riferimento ad un vero e proprio

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principio di economia, affermando che è più facile muovere ciò che è piccolo, che ciò che è grande. Partendo da questa semplice premessa, egli osservava che meglio è dire che la Terra, piccolissima, si muove rapidamente e che la sfera delle stelle fisse è immobile, anziché il contrario. Quindi i pianeti ed il Sole (che nel sistema geocentrico è anch’esso un pianeta) compivano solamente il movimento di rivoluzione – di un anno per il più vicino (Mercurio), di trenta per il più lontano (Saturno) – intorno alla Terra, che restava immobile al centro del mondo. Si trattava, insomma, di accettare che la Terra compisse un giro intorno al proprio asse in 24 ore, senza prendere per questo il posto del Sole come proporrà Copernico. Nonostante le buone intenzioni iniziali, Buridan finiva con l’accettare l’obiezione ben nota di Aristotele: se la Terra fosse in movimento, una pietra lanciata verso l’alto non ricadrebbe esattamente alla verticale. Anche Oresme sarà convinto della giustezza del principio di economia enunciato da Buridan, ma invece di affermare, in accordo con gli argomenti da lui stesso sviluppati, la possibilità del movimento diurno della Terra, dichiarerà a sua volta che la ragione umana e la Sacra Scrittura esigono l’immobilità della Terra ed il movimento dei cieli. Le conclusioni di Oresme indicano chiaramente che l’argomento teologico è presente nelle discussioni fra astronomi già prima della pubblicazione del De revolutionibus (1543), e viene utilizzato contro il movimento diurno della Terra. La tesi dei teologi riposerà essenzialmente sulla nota frase di Giosuè: «Fermati, o Sole!». Secondo quanto si legge nel testo sacro, «il Sole si immobilizzò nel mezzo dei cieli e ritardò di quasi un intero giorno il suo tramonto» (Libro di Giosuè, X, 12-13). Ma l’argomento teologico avanzato da Oresme, che era vescovo di Lisieux, non invitava alla condanna del movimento della Terra. La conclusione dell’eminente scienziato era dovuta implicitamente all’obbligo di non opporsi ad una verità rivelata. Secondo la tradizione cristiana di allora, il contenuto della Sacra Scrittura, dettato dallo Spirito Santo ai Padri della Chiesa, aveva carattere di verità, ma gli interpreti della Scrittura non erano tutti d’accordo nel considerare vero il senso letterale del testo sacro. Tuttavia, come vedremo nei prossimi capitoli, l’interpretazione ad

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litteram finirà col prevalere: se Giosuè aveva fermato il Sole, era evidente che il Sole, e non la Terra, assicurava col suo movimento l’alternarsi del giorno e della notte. D’altra parte, l’osservazione quotidiana della traiettoria descritta dall’astro confermava in maniera decisiva la verità biblica, ed assicurava ai tradizionalisti un confortevole consenso popolare. Le verità rivelate e le quotidiane evidenze non impediranno al filosofo di origine tedesca Nicolas de Cues (il Cusano), morto a Todi nel 1464, di sostenere il contrario. Nel 1440, un secolo circa prima che i lavori di Copernico fossero conosciuti, scriveva, in un libro dal titolo Sulla dotta ignoranza (De docta ignorantia), che la Terra è in movimento ma che non possiamo rendercene conto. Secondo Nicolas de Cues noi ci troviamo come l’uomo seduto in un battello in mezzo al fiume, che è incapace di rendersi conto del movimento del battello se non vede le due rive e l’acqua che scorre. Non sembra che queste sue convinzioni abbiano sollevato le critiche dei teologi, né quelle del papa Nicola V che lo nominò cardinale nel 1448. Pochi decenni dopo, Celio Calcagnini (1479-1541), protonotaio apostolico a Ferrara, riproporrà come ipotesi ragionevolissima il movimento diurno della Terra, in un piccolo trattato dal titolo Che il cielo stia fermo, la terra si muova, ovvero sul perenne movimento della terra (Quod coelum stet, terra moveatur, vel de perenni motu terrae), pubblicato a Basilea nel 1544 dopo la morte dell’autore (LM-P 1996-97, II.88-91). A questo delicato problema, Calcagnini – che non era né filosofo né astronomo, ma letterato e umanista – si era interessato solamente per far piacere al suo protettore, il cardinale Ippolito d’Este, appassionato di astronomia. Il suo trattato fu scritto probabilmente fra il 1520 ed il 1524. Le obiezioni contro il movimento della Terra, già molto forti nell’antichità, non scompariranno, e non potevano scomparire, con l’arrivo del cannocchiale di Galileo. Nonostante le importanti novità celesti, sarà difficile fare accettare gli indizi a favore dell’eliocentrismo a chi, come Cremonini, aveva una cieca fiducia nell’astronomia aristotelica. Era da temere che agli argomenti astronomici si sovrapponessero le ragioni teologiche, di gran lunga più difficili da affrontare.

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Non sappiamo se, fra una prova e l’altra di nuove lenti e di nuove lunghezze di tubi, Galileo passò in rassegna i rischi, per così dire, del mestiere di astronomo. Forse non ne ebbe il tempo, forse lo strumento che egli stava alacremente perfezionando gli dava la certezza che se qualcosa di nuovo e di antiaristotelico veniva scoperto nel cielo, molte cose sarebbero cambiate nei rapporti fra antica e nuova astronomia. Discussioni durissime sarebbero sorte, Galileo vi avrebbe partecipato da magister della nuova scuola, capace di distruggere una ad una le critiche, le obiezioni, le opposizioni. Forse, il metodo difensivo era già pronto, nella speranza che i fatti seguissero. Ed i fatti seguiranno, e Galileo si butterà a capofitto in dispute violentissime in cui si mescoleranno la difesa appassionata della verità, l’orgoglio e forse il piacere di annientare l’avversario a colpi di sferzante ironia. Il cielo stellato si faceva aspettare. L’ultimo cannocchiale uscito dalle mani di Mazzoleni avvicinava gli oggetti venti volte ingrandendoli quindi quattrocento volte. Galileo sperava di riuscire a fabbricarne uno ancora più potente, capace di ingrandire novecento volte. Le prime scoperte Verso la fine di novembre le osservazioni potettero finalmente cominciare e dopo un rapido sguardo al cielo irregolarmente coperto furono orientate verso la Luna che apparve vicinissima, come se si fosse trovata ad una distanza di due raggi terrestri solamente. La sua superficie, vista attraverso il cannocchiale, appariva piena di irregolarità. Come le avrebbero interpretate i seguaci della tradizione antica? La superficie lunare non doveva risultare perfettamente levigata, uniforme ed esattamente sferica? (EN, III.62). Secondo Aristotele, nella regione del Cielo dove era situata la Luna non c’era posto per i quattro elementi – fuoco, aria, acqua, terra – responsabili delle imperfezioni terrestri. Qui aveva inizio il mondo sopralunare dove tutto era etere, dal cielo della Luna ai cieli delle altre stelle erranti, e su fino al cielo delle

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stelle fisse. L’etere era anche l’elemento costitutivo degli astri e se c’erano state obiezioni contro la sua esistenza da parte di astronomi che, come Senarco (I secolo a.C.), negavano l’incorruttibilità dei cieli, tuttavia la convinzione che i corpi celesti fossero perfetti era ancora largamente diffusa (LM-P 1996-97, I.63-64). Come se le irregolarità non fossero bastate, il cannocchiale metteva in evidenza puntini luminosi, presenti durante l’alba lunare nelle zone ancora oscure, che Galileo interpretava, giustamente, come altrettante vette di montagne inondate dalla luce del Sole prima che questa si spandesse dappertutto. Avveniva sulla Luna, come spiegherà Galileo, quello che si osserva all’alba nelle nostre montagne: le vette sono illuminate dai raggi del Sole prima delle pendici e delle valli. Il dubbio non poteva sussistere: vista attraverso il cannocchiale, la superficie lunare rassomigliava in maniera sorprendente alla superficie terrestre. Questa scoperta tendeva decisamente ad eliminare la distinzione fra mondo sublunare e mondo sopralunare, già messa in crisi più volte, in particolare nel 1604 quando era apparsa la stella nova. Ma questa volta era impossibile far scendere la Luna nel mondo sublunare, dove gli aristotelici avevano già cercato di spingere la stella nova nel vano tentativo di giustificarne la repentina apparizione e la sua lenta, definitiva scomparsa. L’immagine cara ai tradizionalisti di una superficie lunare perfettamente liscia, caratterizzata da macchie dovute alle differenze di densità, come avviene su alcune materie preziose, sembrava decisamente compromessa. Ma si trattava veramente di una scoperta? Nell’antichità ipotesi simili alle conclusioni di Galileo erano già state avanzate, in particolare da Eraclito e da Plutarco. Pochi anni prima dell’arrivo del cannocchiale, Michael Maestlin e lo stesso Keplero erano giunti alla conclusione che alcune regioni della Luna rassomigliavano stranamente a paesaggi terrestri. Grazie alle immagini ingrandite dal cannocchiale, Galileo poteva confermare i particolari che la visione ad occhio nudo aveva permesso solamente di ipotizzare, ed indicarne altri. Le notizie relative alla Luna furono immediatamente comunicate a Firenze, in una lettera del 7 gennaio 1610 indirizzata ad Antonio de’ Medici, fratello di Cosimo II (EN, X.273). Nel set-

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tembre dell’anno precedente, il principe mediceo aveva scritto a Galileo per informarlo del desiderio del granduca di ricevere un cannocchiale (EN, X.257). Fu questa l’occasione per uno scambio di informazioni, che il segretario del granduca trasmise in gran segreto all’ambasciatore di Toscana a Venezia, Giovanni Bartoli, per chiedergli se lo strumento costruito da Galileo presentava qualche interesse. Nonostante lo scetticismo di Bartoli, a Firenze si cominciò a valutare seriamente la possibilità di far rientrare al paese nativo il matematico dello Studio di Padova. Ulteriori osservazioni del corpo lunare avevano permesso a Galileo di precisare la natura della luce cinerea, già osservata ad occhio nudo sulla sua superficie: la Terra rifletteva verso la Luna una parte della luce ricevuta dal Sole, come faceva a sua volta la Luna e come facevano i corpi celesti erranti: Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno. Quindi la Terra non era un corpo oscuro, ma brillava proprio come le stelle erranti. Il cielo stellato riservava ben altre sorprese. Grazie al cannocchiale, le controversie sulla natura della Via Lattea, che per tanti secoli hanno torturato i Filosofi, come scriverà più tardi Galileo nel Sidereus Nuncius, non avevano più ragione di esistere. La Via Lattea, sola galassia allora nota, era costituita in realtà da un ammasso di stelle disseminate a mucchi, e gli astri chiamati nebulose non erano altro che raggruppamenti di piccole stelle. Il candore, ritenuto fino ad allora una parte più densa del cielo capace di riflettere i raggi delle stelle e del sole, era dovuto in realtà all’intrecciarsi dei raggi di questa miriade di stelle (EN, III.78). Cadeva così l’interpretazione dell’origine della nova del 1572 sostenuta da Tycho Brahe: non si trattava di materia celeste più densa presente nella Via Lattea, ma di una vera stella, apparsa improvvisamente nel cielo per poi sparire poco a poco. Le precisazioni fornite da Galileo valevano anche per gli astronomi che avevano seguito l’interpretazione di Tycho per spiegare l’apparizione e la scomparsa della stella nova del 1604. Ma la sorpresa più sconvolgente fu la scoperta di quattro pianeti mai visti prima d’allora. Già nell’ultima parte della lettera ad Antonio de’ Medici, Galileo aveva segnalato l’apparizione di tre nuove stelle molto luminose e abbastanza vicine a Giove, ap-

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parse nell’oculare del cannocchiale durante le prime ore della notte del 7 gennaio 1610. I tre corpi celesti erano stati osservati grazie ad un nuovo cannocchiale più potente del precedente, e Galileo aveva creduto in un primo momento che si trattasse di tre nuove stelle fisse. In quella sera del 7 gennaio, chi lo conosceva non avrebbe potuto aver dubbi: pensieri tumultuosi si avvicendavano nella mente dello scienziato. Forse il fedele Mazzoleni se ne accorse subito, e preoccupato come sempre per la qualità degli strumenti da lui costruiti, pensò immediatamente alle proprietà del nuovo cannocchiale e forse alla delusione del padrone. Ma si trattava di tutt’altro. Galileo si chiedeva dove si trovassero esattamente le nuove stelle, senza sospettare che fossero corpi celesti in movimento. Solo la notte successiva l’ipotesi di tre nuove stelle fisse vacillò e poi cadde: a meno che non stesse sognando, Galileo le vedeva spostarsi lentamente intorno al pianeta Giove. Le osservazioni andavano confermate, mentre il cielo, che rimase coperto durante le notti del 9, del 10 e dell’11 gennaio, sembrava volesse ritardare l’eliminazione degli ultimi dubbi. Il 13 una quarta stella apparve, anch’essa girava intorno a Giove insieme alle altre tre. All’angoscia dell’attesa succedeva ora una gioia indescrivibile, difficile da contenere, mai provata prima d’allora (EN, III.80-96). Con la scoperta dei satelliti di Giove, cadeva una delle maggiori obiezioni dirette contro il sistema copernicano. Secondo i sostenitori del geocentrismo, l’esistenza di un satellite – la Luna – che le girava intorno, doveva costringere necessariamente la Terra a restare immobile. Le quattro nuove stelle che ruotavano intorno a Giove, a sua volta in movimento, provavano che l’obiezione era del tutto infondata. Per valutare l’importanza della scoperta, basterà ricordare che nel mondo delle sfere concentriche, che assicuravano il movimento del pianeta attaccato ad una di esse, nessun corpo celeste poteva ruotare intorno ad un altro corpo celeste. Per ognuno dei pianeti, il movimento di rivoluzione avveniva intorno alla Terra immobile. Immaginato da Eudosso (V secolo a.C.), perfezionato da Aristotele e adottato con successive modifiche dalla maggior parte degli astronomi che verranno dopo di loro, il mondo

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delle sfere era considerato nel Medio Evo, nel Rinascimento ed ancora nella seconda metà del XVI secolo come il sistema astronomico al quale era indispensabile far riferimento, sia per apportarvi modifiche giustificate da nuove osservazioni, sia per criticarlo. Un mondo che continuerà ad esistere nel linguaggio degli astronomi anche dopo l’abbandono delle sfere concentriche e della complicatissima costruzione destinata a riprodurre il più fedelmente possibile il movimento di ogni pianeta (LM-P 1996-97, I-II). Le osservazioni effettuate fino al 2 marzo mostreranno che i nuovi astri scoperti da Galileo seguivano o precedevano il movimento di Giove, accompagnandolo sempre, sia nel movimento diretto che nel movimento retrogrado. Era ormai evidente che le quattro piccole stelle descrivevano le loro rispettive rivoluzioni intorno alla stella errante Giove e non intorno alla Terra. Benché interessantissima, la scoperta non era una prova dell’immobilità del Sole e del movimento circolare della Terra. Ma l’obiezione avanzata dai seguaci dell’astronomia geocentrica, secondo cui la Luna non avrebbe potuto girare intorno ad una Terra in movimento, veniva definitivamente eliminata, come pure la nozione della Terra quale centro unico di tutti i movimenti e quindi centro del Mondo. Esistevano quattro stelle erranti che giravano intorno a Giove a sua volta in movimento, così come poteva fare la Terra trascinando con sé la Luna. Il «Sidereus Nuncius» (Avviso Sidereo) e le tentazioni fiorentine Convinto dell’enorme interesse per la difesa del sistema copernicano delle scoperte realizzate grazie al cannocchiale, Galileo decise di esporre i risultati in un libro, il Sidereus Nuncius (EN, III.53-96), redatto in tutta fretta senza aspettare gli esiti di nuove osservazioni. Il manoscritto, nel quale erano enumerati i risultati di due mesi di intenso lavoro, fu affidato allo stampatore il 30 gennaio. Il libro doveva essere pubblicato subito, al più tardi nel mese di marzo, e quindi era indispensabile limitare imperativamente il numero di pagine, che saranno 56 in tutto. Bi-

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sognava esporre il più chiaramente possibile gli argomenti a favore del sistema copernicano: la prudenza era invitata a cedere il passo ai fatti osservati. Non è chiaro, ad una prima lettura, se nel titolo Nuncius stia ad indicare l’ambasciatore oppure l’avviso, l’ambasciata. Nelle prime traduzioni italiane del titolo, sparse nella corrispondenza privata, si trova Nuncio o Nunzio, ma già in una lunga lettera del 1° settembre 1611 al padre gesuita Grienberger, Galileo utilizzerà il termine Avviso per indicare il Sidereus Nuncius (EN, XI.178-203). Molti anni dopo, nel 1626, egli reagirà contro l’accusa d’essersi autoproclamato ambasciatore inviato dal cielo. «Io non mi sono mai chiamato ambasciatore sidereo – egli scrive – [...] Sidereus Nuncius vuol dire Ambasciata o Avviso Sidereo, e non Ambasciatore» (EN, VI.388-389). Avremo occasione di ritrovare l’accusatore, il padre gesuita Orazio Grassi. Nel Sidereus Nuncius, Galileo accenna al De systemate Mundi, un libro in cui mostrerà a coloro che vogliono escluderla dal novero degli astri erranti che la Terra si muove e riflette la luce solare: il suo splendore supera quello della Luna (EN, III.75). Verso la fine del libro sottolineerà che esiste adesso «un eccellente argomento per togliere ogni dubbio a coloro che pur accettando la rivoluzione dei pianeti intorno al Sole nel sistema di Copernico, sono turbati dal movimento della Luna intorno alla Terra» (EN, III.95). Il Sistema del mondo a cui accenna Galileo sarà scritto circa vent’anni dopo e pubblicato nel 1632 col titolo di Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo. Il contenuto copernicano del Dialogo costituirà l’atto d’accusa del processo intentato a Galileo nel 1633. Come previsto, il Sidereus Nuncius uscì a Venezia a metà marzo. Il volumetto conteneva alcune notizie sul cannocchiale e i dettagli delle scoperte dovute alla sua utilizzazione. Era scritto in latino e dedicato a Cosimo II de’ Medici (la dedica porta la data del 12 marzo 1610). Medicea Sidera (Astri medicei) è il nome, riportato sul frontespizio del libro, che l’autore aveva deciso di dare ai quattro satelliti di Giove. Le 500 copie stampate in tutta fretta furono vendute in una settimana.

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I pensieri segreti che da qualche mese occupavano la mente di Galileo stavano per trasformarsi in un vero e proprio progetto. La tentazione di ritornare in Toscana era forte: Firenze, la lingua materna, la corte medicea. Che effetto faranno le nuove scoperte sui suoi connazionali? Che significato daranno i fiorentini al nome delle tre nuove stelle? A Firenze, come a Venezia, l’astronomia non interessava solamente gli specialisti. Ognuno poteva osservare il cielo a modo suo, per curiosità o per proteggersi contro i cattivi presagi, come quelli, ad esempio, che accompagnavano l’apparizione delle comete. Il nome dato alle nuove stelle voleva essere un omaggio reso alla potente Casa medicea ed un lieto presagio per tutti i sudditi del Granducato. Per Galileo che lo aveva scelto, era anche una chiara richiesta di protezione. Già prima di scoprire i quattro satelliti di Giove, Galileo aveva cercato di ottenere dal granduca – al quale aveva impartito lezioni private durante i frequenti soggiorni a Firenze – un posto che gli permettesse di uscire dalle ristrettezze economiche in cui continuava a dibattersi. Ma erano state davvero queste difficoltà a dargli l’idea di lasciare il prestigioso Studio di Padova, dove insegnava da diciotto anni? Se gli veniva offerto lo stipendio di 1000 scudi senza l’obbligo di insegnare, avrebbe certamente accettato di partire per Firenze, e forse adesso questa possibilità esisteva. I vantaggi erano evidenti. Esonerato dal pubblico insegnamento, poteva dedicarsi interamente alle ricerche in corso ed a quelle future. Forse avrebbe conservato i corsi privati, che poteva organizzare a piacer suo. A conti fatti, secondo le sue previsioni, poteva raddoppiare lo stipendio senza una eccessiva perdita di tempo. Nel febbraio del 1609 Galileo aveva indicato chiaramente i vantaggi offerti dalla protezione di un principe, in una lettera indirizzata a Firenze ad un tal «S. Vesp[ucci]». Dopo essersi lamentato per l’enorme perdita di tempo dovuta alla pubblica ed alle private lezioni, ed alla richiesta di questo o di quello, così prosegue Galileo: «Ottenere da una Repubblica, benché splendida e generosa stipendi senza servire al pubblico, non si costuma, perché per cavare utile dal publico, bisogna satisfare al publico e non ad un solo particolare» (EN, X.233). In altri termini, ogni

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pubblica attività crea obblighi non nei confronti di una sola persona, ma di tutti coloro che direttamente o indirettamente ne profittano. E, spiega Galileo, nessuna autorità della Repubblica può esentare da quest’obbligo e nello stesso tempo continuare a versare gli emolumenti. Una siffatta speranza non può venire «da altri, che da un principe assoluto». La conclusione è quanto mai esplicita: «il servire qualche principe o signore grande [...] non sarà mai da me aborrito, ma si bene desiderato ed ambito» (EN, X.231-234). Forse il destinatario, non identificato, era in grado di trasmettere il messaggio. Se così fu, la risposta arrivò dopo la scoperta degli Astri medicei. In rotta per Firenze Il 5 giugno 1610, il segretario Belisario Vinta indirizzò a Galileo la decisione di Cosimo II di nominarlo «Matematico primario dello Studio di Pisa e Filosofo del Ser.mo Granduca di Toscana», senza obbligo di insegnamento, con lo stipendio annuo di 1000 scudi moneta fiorentina (EN, X.369). Galileo, che per facilitare le trattative con Firenze aveva presentato il 15 giugno le dimissioni dalla cattedra di matematica padovana, accettò ed il 10 luglio ricevette la nomina ufficiale. Ai primi di settembre lasciò Padova, dove non sarebbe mai più tornato. Le autorità di Venezia avrebbero potuto impedirgli di partire, poiché Galileo aveva firmato un contratto a vita con l’Università di Padova. Ma le sue dimissioni furono accettate senza riserve né commenti. I Signori di Venezia erano troppo orgogliosi per lasciar trasparire risentimenti. Rare furono le personalità del luogo che emisero un giudizio sul suo comportamento. L’amico Giovanfrancesco Sagredo, in una lettera del 13 agosto 1611, fu tra i pochi, forse il solo, a metterlo in guardia: «La libertà – chiedeva Sagredo con tono profetico – e la monarchia di se stesso, dove potrà trovarla come a Venezia?» (EN, XI.171). La cattedra di matematica occupata da Galileo rimase vacante per alcuni anni. Subito dopo la partenza del titolare, Keplero progettò di trasferirsi a Padova, dove le sue tendenze cal-

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viniste, che gli avevano impedito l’accesso in alcune università luterane, non avrebbero costituito un ostacolo insormontabile. La Repubblica veneta era il solo Stato italiano dove la bolla emessa da Pio IV il 13 novembre 1564 – bolla che rendeva obbligatorio per tutti gli studenti professare la religione cattolica – non veniva applicata. Galileo interverrà personalmente presso gli amici veneziani sui quali poteva ancora contare, come attesta una lettera del 12 febbraio 1611 indirizzata a Paolo Sarpi (EN, XI.49), per appoggiare l’iniziativa dell’astronomo tedesco. Ma il progetto fallirà (BMA 2003, 155-158). La cattedra sarà affidata nel 1613 al matematico napoletano Camillo Gloriosi. Marina Gamba ed i figli costituivano un problema che Galileo cercò di risolvere al meglio. La primogenita Virginia si trovava già a Firenze in casa della nonna paterna. Galileo prese con sé Livia e lasciò a Marina Gamba il figlio Vincenzio. Il ragazzo, che aveva solo quattro anni, rimarrà a Padova fino alla morte della madre. In seguito sarà forse affidato a Marina Bartoluzzi, della quale poco sappiamo. Sulla base delle ricerche condotte da Antonio Favaro si è creduto a torto che, dopo la partenza di Galileo, Marina Gamba avesse sposato Giovanni Bartoluzzi. In realtà la madre dei figli di Galileo non fu mai sposata. L’arrivo a Firenze del «filosofo e matematico del granduca» era previsto per il 12 settembre, ma fu anticipato di alcuni giorni. Galileo si dedicherà immediatamente all’elaborazione di un vasto programma scientifico, dando precedenza assoluta alla difesa del sistema copernicano. Cosimo II era ben disposto, è il meno che si possa dire, nei suoi confronti. L’omaggio reso alla sua famiglia dallo scopritore dei quattro pianeti di Giove lo aveva profondamente lusingato. Galileo era venuto apposta a Firenze, prima della pubblicazione del Sidereus, per aiutarlo a guardare attraverso il cannocchiale. Cosimo II aveva visto e rivisto la Luna, la Via Lattea, i satelliti di Giove, sempre più affascinato da tante meraviglie messe per la prima volta a portata dell’umana visione dal cannocchiale di Galileo. Il giovane granduca era succeduto al padre Ferdinando l’anno precedente, all’età di 18 anni. Di salute malferma subirà sen-

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za ribellarsi le cure prodigate dalla madre, la granduchessa Cristina di Lorena, che si era occupata personalmente della sua educazione. Cristina di Lorena aveva una buona conoscenza degli affari di Stato. Sulle sue competenze e su quelle del segretario Belisario Vinta riposava una parte dell’eredità politica lasciata da Ferdinando I, tanto più che suo figlio non manifestava grande interesse per le attività di governo. Nel 1608 il futuro Cosimo II aveva sposato la principessa Maria Magdalena d’Austria. Fu un matrimonio felice. Moglie affettuosa ed amata, Maria Magdalena svolse un ruolo importante, accanto a Cristina di Lorena, nella direzione della politica del Granducato. Galileo contava sulla protezione di Cristina di Lorena, di Maria Magdalena e di Cosimo II per imporre agli avversari, che probabilmente stavano già preparando l’offensiva, le sue opinioni sulla struttura del Mondo. I Signori di Firenze sapranno difendere le idee nuove, in astronomia come in tutti gli altri settori della scienza, dalle accuse di incompatibilità con la fede cattolica. Chi avrebbe osato mettere in dubbio le convinzioni religiose dello scienziato che godeva della protezione della potente e cattolicissima famiglia dei Medici? Chi poteva ignorare che essa aveva dato alla Santa Romana Chiesa i pontefici Clemente VII e Leone X? L’autore del Sidereus Nuncius aveva l’obbligo morale di lanciare l’offensiva, e i Signori di Firenze di schierarsi accanto a lui. Le vecchie credenze sarebbero inevitabilmente crollate. Queste erano verosimilmente le intime convinzioni di Galileo, non è eccessivo supporlo, nel momento in cui assumeva la carica di filosofo e matematico del granduca di Toscana. Le reazioni di Keplero Fra tutti gli astronomi d’Europa, Keplero fu senza dubbio il più entusiasta. Le sue reazioni, attese e nello stesso tempo temute, andranno al di là di quanto potesse sperare Galileo. Sembrava proprio che l’astronomo di Rodolfo II d’Asburgo, imperatore del Sacro Romano Impero e re di Germania, stesse aspet-

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tando la notizia di scoperte capaci di mettere in crisi l’astronomia tradizionale! Un aneddoto, che egli stesso racconterà più tardi, può darci un’idea delle sue reazioni immediate. Quando il consigliere imperiale Wackher gli annunziò che quattro piccole stelle giravano intorno al pianeta Giove, Keplero ne fu talmente sconvolto che a stento riuscì ad ascoltare il resto del racconto. Poi il consigliere e l’astronomo scoppiarono in una irresistibile risata, e Wackher faceva fatica a comunicargli che a giorni sarebbe arrivato il libro in cui Galileo descriveva i risultati delle sue osservazioni. Ma come non scoppiare dal ridere all’idea dello scompiglio che la notizia avrebbe provocato nelle file dei tradizionalisti! Prima di lasciarlo, Wackher indicò a Keplero che già alcuni astronomi degni di fede avevano potuto verificare, grazie al cannocchiale, che le quattro piccole stelle giravano effettivamente intorno a Giove (EN, III.105). L’episodio avveniva il 15 marzo 1610, prima ancora che pervenissero a Praga le prime copie del Sidereus Nuncius. La notizia delle straordinarie scoperte astronomiche si era sparsa in Europa ed aveva raggiunto rapidamente la capitale boema. Qui risiedeva l’imperatore, qui risiedeva, al suo servizio, il maggiore astronomo vivente, l’«eretico Johannes Kepler», che invano eminenti teologi gesuiti cercheranno di convertire al cattolicesimo. A Praga cattolici e protestanti si erano costituiti in due fazioni opposte: la Lega cattolica e l’Unione evangelica. Durante il regno di Rodolfo II e fino alla sua abdicazione nel 1611, i cattolici disporranno di un potere di gran lunga superiore a quello concesso ai protestanti. Tra la Toscana e Praga il servizio postale era abbastanza regolare. Ogni settimana, generalmente la domenica, una vettura arrivava e ripartiva poi l’indomani per Firenze. Grazie agli scambi epistolari, Giuliano de’ Medici, ambasciatore di Toscana a Praga, svolgerà un ruolo importante nella diffusione delle recenti scoperte astronomiche. Galileo, che gli aveva inviato il libro prima ancora di trasferirsi a Firenze pregandolo di mostrarlo a Keplero, ricevette le prime indicazioni sulle reazioni dell’astronomo tedesco in una lettera dell’ambasciatore inviata il 19 aprile 1610. Keplero aveva trovato il libro interessante, sen-

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za poter tuttavia verificare le osservazioni fatte da Galileo per mancanza di un cannocchiale di buona qualità. Lo stesso giorno Keplero scriveva a sua volta a Galileo, per la prima volta dopo il 1597, per confermargli la fiducia e l’importanza da lui accordata alle osservazioni riportate nel Sidereus. L’astronomo tedesco si doleva tuttavia del disinteresse dello scienziato italiano per l’Astronomia nova, l’opera da lui pubblicata l’anno prima. Pochi giorni dopo, Keplero dava alle stampe la Dissertatio cum Nuncio Sidereo (EN, III.99-125), dedicata a Giuliano de’ Medici (la data della dedica è del 3 maggio 1610). In verità, la Dissertatio offriva una lettura poco fedele del Sidereus. Ma per Galileo l’importante era che tutti i risultati delle sue osservazioni fossero accettati dall’autorevole astronomo tedesco, e su questo non c’era alcun dubbio. Keplero aveva temuto in un primo momento che i quattro satelliti scoperti da Galileo ruotassero intorno ad una stella fissa. Prima di spiegare il perché di questo suo timore, si rallegrava d’averla scampata bella: se Galileo avesse trovato dei pianeti che ruotavano intorno ad una delle stelle fisse, sarebbero stati già pronti per lui il carcere e le catene «negli innumerevoli mondi di Giordano Bruno, o piuttosto l’esilio in questo mondo infinito». Ma i risultati comunicati da Galileo scacciavano definitivamente ogni timore, ed il suo «avversario», e cioè Bruno, non avrebbe trionfato. In effetti secondo Bruno le stelle fisse erano altrettanti soli, ed intorno ad ognuna di esse giravano altrettante terre. Invece per Keplero il nostro Sole era «incommensurabilmente più luminoso della totalità delle stelle fisse», e quindi il nostro mondo non poteva «essere mescolato al gregge di una infinità di altri mondi». L’astronomo tedesco non escludeva che la Luna e Giove potessero essere abitati. Per il momento, solo nuovi territori erano stati scoperti, ma più tardi non sarebbero mancati colonizzatori appartenenti alla nostra specie umana (colonos [...] ex nostra hominum gente non defuturos) disposti ad intraprendere il viaggio, quando sarà loro insegnata l’arte di volare. Poi, trascinato da un irrefrenabile entusiasmo, l’astronomo tedesco chiedeva navi o vele capaci di utilizzare la brezza celeste (Da naves, aut vela celesti aurae accomodata): ci sarebbero stati sicura-

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mente uomini intrepidi capaci di affrontare tanta immensità. Quindi proponeva di fondare fin d’ora, per coloro che avrebbero tentato il viaggio, l’astronomia della Luna, di cui si sarebbe occupato lui stesso, e quella di Giove, di cui avrebbe dovuto occuparsi Galileo. Quali conseguenze filosofiche tirerà Keplero dall’ipotesi dei pianeti abitati? Da convinto copernicano, egli considerava che la Terra era anch’essa una stella errante, un pianeta, parte di un sistema situato effettivamente intorno al «cuore del mondo», intorno al Sole. E spiegava che noi uomini ci troviamo sul globo che appartiene di diritto alla prima ed alla più nobile creatura razionale. Al centro, il Sole sorgente di luce, di calore, della vita, del movimento universale, «trono regale» che all’uomo non è dato occupare. Ma l’uomo non è stato creato per restare immobile al centro dell’universo, ma bensì per andare in giro su questa nave terrestre, trascinato dal movimento annuo. Keplero paragonava il lavoro degli astronomi a quello degli agrimensori, che per misurare gli oggetti inaccessibili li osservano da punti diversi. Quindi Dio avrebbe concesso agli uomini il movimento della Terra, per aumentare il loro potere di osservazione degli oggetti celesti. Non ci risulta che quest’ultimo argomento a favore del sistema copernicano sia stato ripreso da Galileo, mentre l’immagine del Sole «cuore del mondo», capace di infondere il moto «agli altri corpi che lo circondano», figurerà, come vedremo, nelle lettere di Galileo a Benedetto Castelli (1613) ed a madama Cristina di Lorena (1615). D’altra parte, lo scienziato pisano escludeva l’esistenza possibile di abitanti negli altri «globi» del sistema solare. Circa due anni e mezzo dopo la pubblicazione della Dissertatio, si esprimerà su questo delicato problema nella terza lettera sulle macchie solari, affermando che è «falso e da dannare» il parere di coloro che pongono abitanti su Giove, Venere, Saturno e sulla Luna, e crederà di poterlo dimostrare. Dichiarerà tuttavia di non poter né affermare né negare che ci fossero su questi «globi» forme di vita diverse non solo da quelle terrestri, ma lontanissime da «ogni nostra immaginazione» (EN, V.220).

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È da notare infine che la scoperta delle lune gioviali fu l’occasione per Keplero di mettere in evidenza le sue personali preoccupazioni, alcune delle quali, come l’esistenza di esseri extraterrestri, ponevano a Galileo un vero e proprio problema senza nessun rapporto con il contenuto del Sidereus. Le preoccupazioni dell’autore del Sidereus si limitavano in effetti al riconoscimento dell’esistenza dei satelliti di Giove. Tutto il resto non darà luogo a commenti, in particolare le conseguenze astrologiche, inesistenti secondo Keplero poiché le lune di Giove non erano state messe lì per gli abitanti della Terra, ma per le creature che popolavano il pianeta Giove. C’era poi il nome di Giordano Bruno, che ricorreva frequentemente nella Dissertatio. Coloro che a Venezia frequentavano il ridotto Morosini, dove spesso Bruno era venuto, sapevano che non solo a Roma ma anche a Venezia il nome dell’eretico, arrestato nel 1592 poco prima dell’arrivo di Galileo a Padova, non andava pronunziato se non a bassissima voce. Bruno condivideva con i copernicani il movimento della Terra, ma il suo universo era infinito, a differenza dell’universo di Copernico, ed infiniti erano i mondi in esso contenuti. Come affermava con forza nel De immenso et innumerabilibus, pubblicato per la prima volta nel 1591, l’ex domenicano si esprimeva da filosofo e non da astronomo, anche se intuiva fenomeni che saranno in seguito confermati, come la rotazione del Sole intorno al proprio asse. Certo esser filosofo non significava, alla fine del XVI secolo, trascurare l’osservazione diretta dei fenomeni che si producono nel cielo e sulla nostra Terra. Ma, a differenza di Keplero e di Galileo che si consideravano anch’essi filosofi, Bruno non svolse una vera e propria attività scientifica. Senza veramente sedurre, le sue idee, sostenute da una immaginazione particolarmente fertile, potevano apparire audaci ed originali. Tuttavia coloro che furono disposti a seguirle nelle conclusioni furono poco numerosi. Non sappiamo con certezza se l’intima convinzione copernicana dell’ex domenicano fu citata nel corso dell’istruzione, poiché l’atto d’accusa e la sentenza sono andati perduti. Di quest’ultima esiste solamente una copia incompleta, dovuta al

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particolare carattere della condanna di Bruno, accusato, com’è noto, di eresia. Il compito del giudice ecclesiastico consisteva nello stabilire se l’accusato fosse effettivamente eretico, nel qual caso l’abiura permetteva di salvarlo. Se rifiutava, il papa pronunziava la pena di morte, ed i cardinali inquisitori emettevano la sentenza in suo nome. Nel caso di Bruno le proposizioni giudicate eretiche erano otto. In una di esse si sosteneva che l’anima è nel corpo come il nocchiere nella nave, mentre secondo i teologi cattolici l’anima è forma del corpo «in quanto tale ed in maniera essenziale». Delle altre proposizioni nulla si sa con certezza, né sono noti i motivi precisi della condanna. La dottrina copernicana non faceva necessariamente parte delle otto proposizioni incriminate. È ben noto, invece, che Bruno, dopo aver cercato in vari modi di tergiversare, non volle abiurare. L’esecuzione della sentenza fu quindi affidata, come abitualmente avveniva, al braccio secolare, che riceveva una copia incompleta della sentenza. Ed è questa appunto che ci è pervenuta. Tornando ora a Keplero, è opportuno sottolineare che le sue digressioni non potevano risultare sempre gradite a Galileo. Alcuni giudizi o semplici osservazioni, che a Praga si stampavano liberamente, circolavano sottovoce a Venezia, ed a Firenze si rifugiavano nell’oblio. In generale, l’Italia non era il luogo in cui si scherzava apertamente con queste cose. Galileo era tanto più cauto in quanto aveva già deciso di mettere la difesa del sistema di Copernico al centro di una campagna diretta ad estirpare, dalla testa di ogni cittadino in grado di ragionare, l’idea antica e falsa del Sole in movimento e della Terra immobile. Ma per poterlo affermare con certezza aveva bisogno di una prova, ed era convinto di poterla trovare, anzi credeva d’averla trovata. Per Keplero invece la verità del doppio movimento della Terra era iscritta nel cielo, la si poteva leggere, descrivere, esprimere nei calcoli. Se gli increduli continuavano a non crederci, tanto peggio per loro. A che pro andare in giro a gridarlo? Le discussioni sulla validità del sistema copernicano dovevano essere tenute da astronomi per gli astronomi. Quanto alla prova, egli non ne aveva bisogno e probabilmente non credeva che fosse possibile trovarne una suscet-

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tibile di convincere i non specialisti. Forse pensava che se così fosse stato, se esisteva un fenomeno facilmente osservabile sulla nostra Terra, capace di provare che essa possiede effettivamente i due movimenti descritti da Copernico, da tempo sarebbe saltato agli occhi degli astronomi. Per Keplero, bisognava continuare a scrutare il cielo e scoprire le verità nascoste senza correre dietro alle prove immediate e definitive. Dio, egli spiega nella Dissertatio, guida la comunità umana e le fa scoprire una verità dopo l’altra, «come se si trattasse di un bambino che diventa grande e raggiunge poco a poco la maturità». Va sottolineato d’altra parte che la ricerca delle cause dei fenomeni osservati aveva spinto Keplero a costruire una metafisica dominata dalla geometria e dalle sue credenze religiose. Nel Mysterium cosmographicum, il libro inviato a Galileo nel 1597, l’astronomo tedesco faceva l’elogio di Copernico «che ha aperto un tesoro inesauribile di considerazioni assolutamente divine». Ed aggiungeva subito dopo: «io non esito ad affermare che tutto ciò che Copernico ha stabilito a posteriori e dimostrato partendo da osservazioni grazie agli assiomi della geometria, tutto questo può essere dimostrato a priori e senza alcuna difficoltà» (KJ 1984, 34). Per Keplero quindi il segreto del mondo poteva essere svelato senza ricorrere all’osservazione (KJ 1984, 22). Questo non significa che Keplero attribuisse scarsa importanza all’osservazione diretta ed al calcolo delle traiettorie seguite dai pianeti. Le tre leggi da lui trovate basterebbero per provare il contrario. Va tuttavia osservato che all’origine della sua attività di astronomo c’era l’interesse per la ricerca delle cause dei fenomeni, un interesse che non si riscontra in Galileo. In realtà i discorsi dei due astronomi correvano lungo direzioni diverse, che si allontaneranno sempre più l’una dall’altra. Non c’è da meravigliarsi, quindi, se anche questa volta le relazioni epistolari fra Galileo e Keplero non saranno di lunga durata e si interromperanno definitivamente nella primavera del 1611. Galileo gli invierà un’ultima lettera nel 1627, ma sarà solamente per raccomandargli uno studente in partenza per la Germania (EN, XIII.374).

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Contestazioni e difese Non mancarono le reazioni contro l’autore del Sidereus, accusato di aver raccontato frottole. Gli attacchi iniziarono subito dopo il fallimento di una dimostrazione dell’esistenza dei satelliti gioviali, proposta dallo stesso Galileo con un cannocchiale da lui costruito. La riunione si tenne a Bologna nella notte dal 24 al 25 aprile 1610, quindi un mese e mezzo circa dopo la pubblicazione del Sidereus. Galileo, di ritorno da Firenze, dove aveva mostrato al granduca le quattro stelle medicee, era ospite del matematico ed astronomo Giovanni Antonio Magini. Numerose personalità partecipavano all’eccezionale avvenimento, col desiderio evidente di vedere per la prima volta l’invisibile. Ma secondo le testimonianze dello stesso Magini e di Martin Horky i tanto attesi satelliti non potettero essere osservati da nessuno dei presenti, né quella notte né la notte successiva. Cosa sia accaduto esattamente in quelle due notti non è possibile stabilirlo. Sta di fatto che le difficoltà nelle quali incorse probabilmente Galileo nel mettere a punto il cannocchiale dettero il via agli attacchi. Martin Horky fu, per quel che ne sappiamo, il più violento. Era costui un giovane studente tedesco amico di Keplero. Subito dopo il fallimento dei tentativi per mostrare l’esistenza dei quattro satelliti di Giove, Horky scrisse all’astronomo tedesco riferendo che «nobilissimi dottori» affermavano di non aver visto nulla, attraverso il cannocchiale, di quanto era descritto nel Sidereus. Nella lettera, che porta la data del 27 aprile, l’autore non faceva allusione all’intenzione di contestare apertamente le scoperte galileane (EN, X.343). Invece decise di pubblicare a spese proprie, a Modena, nel giugno dello stesso anno, una Brevissima peregrinatio contra Nuncium Sidereum (EN, III.127145). Dopo aver affermato che l’invenzione del cannocchiale era già avvenuta alcuni anni prima ad opera del Della Porta, Horky metteva gli Astri medicei fra le cose inesistenti, come «la quadratura del cerchio, la pietra filosofale e la duplicazione del cubo». Non c’era già stato per ognuno di questi problemi un sedicente inventore? La sua spiegazione, nella quale egli credeva fermamente come credeva che «Dio è uno e trino e che l’anima

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risiede nel corpo», consisteva nel credere che quelle stelle non erano altro che l’immagine raddoppiata, triplicata o quadruplicata di Giove. Il numero di oggetti osservati dipendeva, secondo Horky, dall’inclinazione del cannocchiale. Lo studente tedesco ammetteva tuttavia di aver visto effettivamente «due piccoli globi o piuttosto macchie piccolissime» nella sera del 24 e quattro «macchie piccolissime» nella sera del 25. La critica dei metodi e delle scoperte di Galileo riempiva una ventina di foglietti, e tutto sarebbe potuto finire lì. Ma Horky passerà dalla critica alla calunnia dichiarando di non capire «come queste quattro macchie situate intorno a Giove potrebbero essere utili alla scienza matematica; esse permettono semplicemente a Galileo di appagare la sua sete di danaro». Il tentativo di screditare Galileo non ebbe il risultato auspicato. Horky, che aveva tentato di mettere Keplero dalla parte sua, venne severamente redarguito in una lettera del 9 agosto. L’astronomo tedesco lo informava d’aver scritto a Galileo in termini che lo stesso Horky poteva immaginare, e precisava inoltre d’aver autorizzato l’astronomo italiano a servirsi pubblicamente del contenuto della lettera, se questo poteva essergli utile. In effetti lo stesso giorno Keplero scriveva a Galileo rammaricandosi per la pubblicazione a Modena di un libello così spiacevole e suggerendo, fra l’altro, che forse Horky era stato spinto a farlo da rivali italiani di Galileo. Secondo voci che circolavano a Praga, molti fra coloro che in Italia utilizzavano il cannocchiale continuavano a negare di aver visto i nuovi pianeti, ma non per questo le sue convinzioni circa la validità delle osservazioni galileane sarebbero cambiate. Keplero sottolineava d’altra parte che l’adesione ai risultati ottenuti da Galileo non gl’impediva di rispettare coloro che erano di parere diverso (EN, X.413-417). Nella risposta inviata il 19 dello stesso mese, Galileo si lamentava del silenzio di coloro che «a Pisa, a Firenze, a Bologna, a Venezia, a Padova» avevano visto le immagini attraverso il cannocchiale, ma erano incapaci di interpretarle e quindi tacevano o esitavano (EN, X.422-423). Di fronte a tanta ignoranza, la stima e la fiducia manifestate dall’astronomo tedesco avevano un valore inestimabile. Galileo era tanto più lusingato e riconoscente in

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quanto Keplero non aveva ancora potuto verificare le scoperte pubblicate nel Sidereus. La verifica fu possibile solo ai primi di settembre, grazie al cannocchiale prestato dall’Elettore vescovo di Colonia, che lo aveva ricevuto direttamente da Galileo. Keplero pubblicò immediatamente la Narratio de observatis a se quatuor Jovis satellitibus erronibus, in cui confermava l’esistenza intorno a Giove dei quattro pianetini (EN, III.181-188). In uno degli epigrammi posti alla fine dell’opuscoletto si legge la frase «Vicisti Galilaee», dovuta a Thomas Segeth (CM 2004, 185). Le reazioni di Keplero erano per Galileo motivo di soddisfazione e di incitamento a continuare le ricerche con l’evidente intenzione di provare la validità del sistema copernicano. Per il resto, era difficile accordare più importanza alle notizie provenienti da Praga che a quelle che circolavano in Italia. Qui le notizie non erano particolarmente cattive. Le allucinazioni di Horky avevano suscitato reazioni anche a Padova, dove John Wedderburn, un giovane scozzese che si trovava in questa città per un soggiorno di alcuni mesi, decise di scrivere una Confutatio delle strampalate tesi sviluppate da Horky. La dedica reca la data del 17 novembre 1610 (EN, III.149-178). Rivolgendosi all’ambasciatore d’Inghilterra, al quale è dedicato il libro, il giovane scozzese non nascondeva il proprio stupore di fronte all’indifferenza di quanti in Italia avrebbero dovuto prendere la difesa di Galileo. «Clavio tace – scriveva Wedderburn –, Magini si astiene, altri fanno vaghe dichiarazioni. Ed ecco qui un certo Martin Horky che vuol spazzar via ogni dubbio». Il padre Clavio e Magini sono quindi implicitamente invitati a riconoscere l’importanza delle recenti scoperte astronomiche, mentre Horky è violentemente attaccato, in particolare per le sue osservazioni sulla paternità del cannocchiale. «Le aule universitarie e le botteghe dei librai – prosegue Wedderburn – sanno con quanta pazienza noi studenti abbiamo discusso. Non solo abbiamo parlato di concentrazione, di riflessione, e di molte altre cose relative al mezzo attraversato, ma abbiamo parlato anche dei numerosi esperimenti e delle diverse spiegazioni fornite dalla rifrazione [...]. Di tutto questo a te [Horky] non è rimasto altro che il desiderio di calunniare e di raccontare frottole». Le

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prime difese, sembrava evidente, erano dovute soprattutto all’intervento di studiosi stranieri. Intanto la curiosità per la scoperta di nuovi satelliti e per le proprietà del cannocchiale coinvolse alcune illustri personalità. Il re di Francia Enrico IV, che aveva sposato Maria de’ Medici, si era subito interessato alla scoperta dei satelliti di Giove, e nel caso si fosse scoperto un nuovo astro aveva espresso il desiderio di farlo chiamare Henri, dal nome dei due re di Francia che avevano sposato due principesse medicee. Galileo, stupito per l’insolita richiesta, vi faceva allusione in una lettera del 25 giugno 1610 indirizzata all’amico Giugni (EN, X.379). Purtroppo Enrico IV morì assassinato poche settimane dopo. La regina, che dopo la morte del marito assicurò la reggenza, non era stata informata, a quanto pare, del regale desiderio. Sta di fatto che non cercò di mettersi in contatto con Galileo. Si seppe invece che avrebbe gradito un esemplare del cannocchiale, poiché gli era stato detto che si trattava di uno strumento assolutamente straordinario, che a Parigi s’era cercato invano di riprodurre. In una lettera del 6 luglio 1610 l’ambasciatore del granduca in Francia, Matteo Botti, chiedeva al segretario Belisario Vinta di inviargliene uno, spiegando che il dono avrebbe fatto piacere alla regina, e onore alla Toscana (EN, X.392). La mancanza di cannocchiali disponibili rinviò al successivo mese di settembre la spedizione in Francia del cannocchiale per Maria de’ Medici, regina di Francia. Magini reagì in maniera imbarazzata, ma tutto sommato favorevole alla difesa di Wedderburn. In una lettera a Galileo del 28 settembre dichiarava che l’intervento dello studente scozzese gli era piaciuto e che a Bologna il testo a stampa era esaurito (EN, X.437). Keplero si limitava ad un semplice «ho visto la confutazione di Wedderburn: piace [placet]» (EN, X.507). Francesco Sizzi, che fu anch’egli fra i primi oppositori, sviluppò argomenti particolarmente difficili da combattere, nella misura in cui non avevano nessun addentellato né con l’astronomia né con la filosofia naturale. Sizzi era fiorentino, ma la sua Dianoia (Opinione) astronomica, optica, physica fu pubblicata a Venezia nel 1611 (EN, III.203-250) e dedicata a quel Giovanni de’ Medici, fratellastro del granduca Fedinando, che era entra-

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to in conflitto con Galileo a Pisa e, come s’è detto, era stato probabilmente una delle cause della sua partenza per Padova. L’autore della Dianoia attribuisce una notevole importanza alla scelta di parole difficili spesso pescate dalla lingua greca – come la «dianoia» del titolo – e distribuite senza parsimonia in tutto il contenuto, in realtà abbastanza confuso. Che in alcuni punti del testo il significato possa sfuggire ad un lettore di oggi è del tutto comprensibile. Ma lo stesso Galileo, nell’esemplare ritrovato nella sua biblioteca, scrive più volte l’aggettivo «oscuro» sul margine di alcune pagine. L’argomento destinato a convincere il lettore dell’inesistenza dei satelliti di Giove riposava sul ruolo particolare attribuito dall’autore al numero sette. Dio ha sempre scelto questo numero, secondo Sizzi, per caratterizzare le sue più importanti realizzazioni, e quindi l’esistenza di sette stelle erranti, e di sette solamente, doveva essere considerata come una realtà necessaria. Certo, l’applicazione di una teoria del genere non poteva interessare gli astronomi. Ma Sizzi s’era preoccupato di parlarne a Clavio e ad Horky prima di stampare l’opuscoletto, e sembrerebbe che il matematico gesuita abbia fatto finta di trovare l’argomento interessante, certamente per divertirsi. Era anche vero, d’altra parte, che per molti l’esistenza di fenomeni, soprattutto celesti, poteva essere compromessa da considerazioni che non avevano nulla a che fare con le realtà astronomiche. Come osserva Antonio Banfi, «la riconoscenza dei fatti, implicava una profonda trasposizione degli assi del sistema speculativo» (BA 1949, 90). In effetti, le prove avanzate dall’autore della Dianoia non suscitavano necessariamente la derisione, ma rappresentavano, per la maggior parte dei lettori, un tipo di conoscenza che aveva un suo posto nella cultura dell’epoca. Sizzi faceva notare che sette mesi erano necessari per la perfetta formazione del feto umano e che non solamente i bimbi nati nel sesto mese, ma anche quelli nati nell’ottavo, avevano poche probabilità di sopravvivere, a differenza di quelli nati nel settimo. D’altra parte i medici affermavano, secondo Sizzi, che sette ore erano necessarie per sviluppare le caratteristiche umane nel seme iniettato nell’utero, e che proprio dopo sette crisi un ammalato

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guariva o decedeva. Quali ragioni potevano essere avanzate per spiegare questo effetto? Secondo Sizzi, la sacralità del numero sette era attestata da numerosi autori che, da Mosè a Pico della Mirandola, venivano quindi citati in qualità di testimoni attendibili. Un ulteriore esempio del ruolo esercitato dal numero sette era costituito dalla decisione divina di attribuire a tutti gli animali, uomo compreso, due narici, due orecchie, due occhi ed una bocca. Seguivano gli attributi: malefiche le narici, benefiche le orecchie, luminari gli occhi, mentre la bocca rimaneva senza una qualifica precisa. A questo punto la similitudine fra microcosmo e macrocosmo diventava evidente. Poiché quel che è valido per l’uno, lo è anche per l’altro, Dio ha disposto nel cielo due stelle malefiche (Saturno e Marte responsabili rispettivamente del gelo e della siccità), due benefiche (Giove e Venere, responsabili rispettivamente del calore e dell’umidità), due luminari (il Sole e la Luna) e Mercurio, i cui attributi non sono precisati. Quest’ultimo esempio esibito da Sizzi suggerisce a Galileo il seguente commento, scritto in latino sull’esemplare ritrovato nella sua biblioteca: «Sarebbe preferibile dire che i sensi sono cinque ed i pianeti sette. Ma, poiché due pianeti sono attribuiti alle orecchie che devono occuparsi solamente dell’udito e così pure altri due per le narici, ci sono per un sol compito due operai che dovrebbero arrossire dalla vergogna» (EN, III.214). C’era poi la necessità di capire il perché della disposizione dei corpi celesti. Poiché tutto ciò che Dio ha creato obbedisce ad una precisa finalità, bisognava poter stabilire, secondo Sizzi, il perché di questi nuovi satelliti, e dedurne poi la loro necessaria esistenza. Il ruolo dei satelliti di Giove diventava quindi condizione necessaria della loro stessa esistenza. Per l’autore della Dianoia non c’erano dubbi: le quattro nuove stelle avrebbero portato a undici il numero degli astri, mentre dovevano essere necessariamente sette. La natura si serviva di questo numero per ordinare e disporre le cose umane, proprio perché sette erano gli astri che le influenzavano. Questo, se non andiamo errati, è il nocciolo della dimostrazione sviluppata da Sizzi per escludere l’esistenza di nuove stelle erranti. Commento di Galileo: «I pianeti fanno tutto da sé, ma Giove, che occupa un posto altissimo, si serve di sei

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ministri. I cittadini di condizione modesta sono costretti, com’è noto, ad occuparsi personalmente di comprare, di vendere, di scrivere, mentre i principi dispongono di schiavi, di collaboratori, di ministri. Dunque, non è Giove ad agire, ma i suoi ministri, dal che si deduce che Giove debba avere necessariamente dei satelliti» (EN, III.236). L’ironia è particolarmente pungente, ma per l’autore del Sidereus Nuncius non sarebbe servito a nulla insistere sulla realtà delle immagini fornite dal cannocchiale, poiché le risorse offerte da questo nuovo strumento erano poca cosa rispetto all’inesauribile immaginazione di Sizzi. È da notare, tuttavia, che le spiegazioni addotte da Sizzi stupivano, certo, gli astronomi, ma rispecchiavano un certo modo di vedere il cielo che forse l’uomo della strada, se avesse potuto leggere il latino di Sizzi, non avrebbe trovato completamente spropositato. Nel Mondo ordinato e immutabile di Eudosso, di Aristotele e di Tolomeo, dove i movimenti delle stelle erranti rispecchiavano l’armonia del mondo, la necessità della loro esistenza e del loro numero era implicita. Le modifiche introdotte nel corso dei secoli avevano come obiettivo una migliore rappresentazione delle traiettorie osservate, ma non mettevano in discussione il numero dei pianeti, che lo stesso Copernico considerava immutabile. Quindi il problema a cui alludeva Sizzi poteva sorprendere per l’uso che egli ne faceva e per la scelta degli esempi, ma non in quanto problema. Nella prefazione alla prima edizione del già citato Mysterium cosmographicum, Keplero affermava di aver cercato ostinatamente le ragioni del numero, della grandezza e del movimento dei pianeti. Ciò che lo aveva spinto ad affrontare questo problema era «la bella armonia delle cose immutabili, Sole, stelle fisse e spazio intermedio», che a parer suo presentava una similitudine «con Dio Padre, con il Figlio e con lo Spirito Santo» (KJ 1984, 22). Di questa ricerca egli dirà più tardi che non si trattava di «una vana similitudine», ma piuttosto «di Forme e Archetipo del mondo» (KJ 1984, 28, nota 4). A più forte ragione una similitudine doveva pure esistere anche per i pianeti, e Keplero cercherà di trovarla nei cinque poliedri regolari (cubo, piramide, ottaedro, dodecaedro, icosaedro). Secondo l’astronomo tedesco «i sei orbi di Coperni-

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co ammettevano nei loro intervalli rispettivi questi cinque solidi» (KJ 1984, 57-58), ed egli cercherà di stabilire una corrispondenza fra il numero di facce, di spigoli e di angoli dei poliedri regolari, e le caratteristiche dei sei pianeti. Keplero, che vi faceva allusione anche nella Dissertatio cum Nuncio Sidereo, si interesserà durante tutta la sua vita a questa difficile ricerca. Certo le trovate di Sizzi erano lontane mille miglia, per così dire, dalle speculazioni dell’astronomo Keplero. Tuttavia la strada da lui imboccata era più vicina al senso comune, di quanto non lo fossero le ardite ipotesi kepleriane, e quindi più facili da ascoltare. Il padre Clavio non prese sul serio le speculazioni di Sizzi. Dopo aver fatto finta di interessarsi al contenuto della Dianoia, l’astronomo gesuita ne rise a Roma nelle conversazioni con i suoi confratelli del Collegio Romano. Keplero invece condannò apertamente l’operetta di Sizzi in una lettera a Galileo del 28 marzo 1611 (EN, XI.77), e Giambattista Della Porta, generalmente tutt’altro che ben disposto nei confronti dell’autore del Sidereus Nuncius, dichiarò in una lettera del 1611 al principe Cesi di non aver mai visto «cosa più spropositata al mondo» (EN, XI.157). Galileo poteva tranquillizzarsi. Tuttavia correvano le voci più diverse sulle strane proprietà del cannocchiale. La maggior parte degli avversari affermava che le immagini viste attraverso i vetri erano pura illusione e non corrispondevano a oggetti realmente esistenti. I più maldicenti insinuavano che il costruttore era diventato espertissimo nell’arte di moltiplicare gli effetti magici. Galileo non aveva l’intenzione di rispondere personalmente agli avversari del cannocchiale e dei satelliti di Giove, ma vedeva di buon occhio che altri lo facessero al suo posto. Un’affermazione di Sizzi lo aveva particolarmente colpito: «L’interpretazione di due passaggi di un testo sacro – scriveva l’autore della Dianoia – indica chiaramente che Dio ha creato ed ha posto nel cielo solamente sette pianeti». Galileo non fu il solo ad essere sorpreso da questa affermazione. L’inquisitore di Venezia cercò di sapere di quale testo sacro si trattasse, ma non ottenne nessuna risposta. Galileo, conoscendo la suscettibilità dei teologi, preferì evitare nell’immediato di affrontare pubblicamente una discus-

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sione su questo terreno. S’interessò invece alla pubblicazione, a Bologna, di una seconda risposta allo scritto di Horky, dovuta a Giovanni Antonio Roffeni, un giovane filosofo legato a Magini. Qust’ultimo era conosciuto ed apprezzato come astronomo, in particolare da Keplero e prima ancora da Tycho Brahe. Roffeni aveva scoperto con stupore che Horky lo citava come testimone dell’esperimento fallito di Bologna, nel corso del quale non era stato possibile scorgere i satelliti di Giove. La breve replica all’Horky (poche pagine scritte sotto forma di lettera a Galileo) fu pubblicata a Bologna all’inizio del 1611, con un lungo titolo che riassumeva in maniera chiara l’intenzione dell’autore: Epistola apologetica contra caecam peregrinationem cuiusdam furiosi Martini, cognomine Horky, editam adversus Nuncium Sidereum (Lettera apologetica contro la cieca peregrinazione di un certo Martin furioso, Horky di cognome, pubblicata contro il Sidereus Nuncius) (EN, III.193-200). Nella lettera era facile scoprire, dietro la penna del giovane filosofo, la presenza di Magini e questo le conferiva un particolare interesse. In effetti erano le opinioni di personalità come Keplero, Magini, Clavio, che Galileo voleva conoscere. Il loro giudizio era atteso, ma fino alla pubblicazione della Lettera di Roffeni, solo Keplero si era pronunziato. Negli ambienti vicini a Galileo si mormorava che la prima reazione di Magini era stata negativa quanto quella di Clavio. Invece Roffeni faceva allusione alla presenza di Horky a Bologna ospite di Magini ed affermava che quest’ultimo non aveva avuto nessun ruolo nella pubblicazione della Brevissima peregrinatio, anzi tutt’altro. «Non solamente Magini dissuase Horky dal pubblicare il libro – scriveva Roffeni – ma non sopportò che gli venisse attribuito il ruolo di levatrice in questa infelice nascita, che è avvenuta proprio nella sua casa. Anzi Magini ordinò a questo critico furioso di distruggere il libro, anche se era già sotto il torchio dello stampatore». Secondo quanto affermava Roffeni in questa stessa Lettera, Magini scacciò di casa Martin Horky. La storiella dei legami fra Magini e Horky, per certi aspetti divertente, era rivelatrice dello stato d’animo di alcuni astronomi italiani. La Lettera di Roffeni dava indicazioni sul cammino percorso in casa Magini dalle quattro stelline e permetteva a Ga-

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lileo di rendersi conto di quanto fosse difficile per Magini, per Clavio e per tutti gli astronomi italiani sostenitori del geocentrismo (ed erano la stragrande maggioranza) accettare le nuove scoperte. La maggior parte di essi avrebbe fatto volentieri a meno dei quattro pianetini di Giove e del cannocchiale che aveva trasportato le loro immagini sulla Terra. Durante la loro attività di astronomi, non avevano mai immaginato che un tale avvenimento potesse realizzarsi. Nulla di tutto questo sarebbe dovuto accadere, ed invece era accaduto, ormai bisognava ammetterlo, sperando che nonostante l’arrivo del cannocchiale nei laboratori degli astronomi tutto finisse lì. Alcuni mesi prima, il 28 aprile 1610, Galileo aveva ricevuto da Praga una lettera di Martin Hasdale, già studente a Padova, poco elogiativa nei confronti di Magini. Secondo Hasdale, l’astronomo bolognese aveva scritto a Johann Eutel Zuckmesser, un matematico di Colonia, per dirgli che il libro e lo strumento di Galileo costituivano, l’uno e l’altro, un inganno. Era capitato anche a lui di vedere tre astri apparentemente distinti mentre osservava un’eclissi di Sole attraverso vetri colorati. Ma si era subito reso conto di ciò che in realtà accadeva. Si trattava dell’immagine del Sole diversamente rifratta da ciascun vetro. A parer suo era ridicolo credere all’esistenza di «quei 4 nuovi pianetini», ed intanto sperava di potersi recare fra poco a Venezia, di ottenere un cannocchiale e di conoscere così la verità (EN, X.344346). Hasdale aveva reiterato l’accusa in una lettera del 31 maggio, affermando che Magini aveva scritto le stesse cose a «matematici di Germania, di Francia, di Olanda, di Polonia, d’Inghilterra» (EN, X.365-367). Cosa pensare di tutto questo? Galileo avrebbe voluto dimenticare il contenuto delle informazioni fornite da Hasdale e tener conto solamente di quanto gli scriveva Magini il 28 settembre dello stesso anno: l’astronomo bolognese aveva potuto osservare i quattro pianeti verso le dieci di sera tutti ad est, e poi verso le undici uno ad est e gli altri tre ad ovest (EN, X.437). Sulle convinzioni di Magini non c’erano più dubbi. Il tentativo di spostare il dibattito verso il contenuto della Sacra Scrittura apparve in un testo che circolò manoscritto verso

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la fine del 1610, Contro il moto della Terra, dovuto al letterato e filosofo fiorentino Lodovico Delle Colombe (EN, III.253-290). Dopo aver ripreso gli argomenti sviluppati dagli avversari di Copernico, Delle Colombe si chiedeva se i copernicani avevano l’intenzione di dare al contenuto di alcune frasi della Sacra Scrittura un’interpretazione diversa da quella letterale. «Forse ricorreranno i miseri – scriveva Delle Colombe – all’interpretazione delle Scritture con dar sentimenti diversi dalla lettera?». I miseri erano i copernicani, e Delle Colombe rispondeva alla propria domanda affermando che tutti i teologi «dicono che quando la Scrittura si può intender secondo la lettera, mai non si deve interpretare altramente» (EN, III.290). La frase tratta dal Libro di Giosuè, non era la sola che i teologi tireranno in ballo, ma è quella che Galileo prenderà in considerazione, come vedremo, nei primi scritti in difesa del sistema copernicano. All’inizio del dibattito, anche il padre Clavio aveva manifestato alcune riserve sull’uso del cannocchiale in astronomia. Il pittore Ludovico Cardi da Cigoli (detto il Cigoli) le aveva riassunte in una lettera indirizzata all’amico Galileo in data 1° ottobre 1610. «Clavio – scriveva Cigoli – disse ad un amico che delle quattro stelle se ne rideva e che bisognava un occhiale che prima le faccia e poi le mostri» (EN, X.441-442). L’astronomo gesuita sarà anch’egli costretto, come Magini, a rivedere i propri giudizi. Dopo averne discusso con gli altri matematici del Collegio Romano, Clavio scriveva a Galileo, in un lettera del 17 dicembre, per annunziargli di aver verificato l’esistenza dei satelliti di Giove e che lo scopritore meritava grandi elogi. Si mostrava tuttavia estremamente sorpreso per le irregolarità visibili sulla Luna quando non è piena. Soggiungeva poi che lo strumento sarebbe stato di un valore inestimabile, se il suo impiego non fosse stato così fastidioso (EN, X.484-485). Vero è che a 73 anni, Clavio provava difficoltà ad adattarsi all’uso del cannocchiale. Il nuovo strumento richiedeva una difficile messa a fuoco e riduceva in maniera considerevole il campo visivo. Il disagio provato dall’astronomo gesuita metteva tuttavia in evidenza quanto fosse difficile per gli astronomi cambiar metodo, anche quando c’era tutto da guadagnare. Ma da secoli, o per meglio

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dire da sempre, l’osservazione del cielo a occhio nudo permetteva di abbracciare in una sola volta l’intera sfera celeste. La perdita del cielo aperto era per alcuni astronomi difficile da accettare, come lo era l’irregolarità della superficie lunare e l’esistenza di corpi celesti che non erravano intorno alla Terra, ma intorno a Giove. Il cannocchiale appariva di difficile impiego, tranne per coloro che cominciavano solo adesso ad occuparsi di astronomia, e che forse si chiedevano come avevano potuto studiare il cielo gli astronomi che li avevano preceduti. Anche se Cristoforo Clavio non era entusiasta del cannocchiale, quello che più contava per Galileo era il riconoscimento dell’importanza dello strumento e dell’esistenza dei satelliti di Giove. Si era in diritto di cantar vittoria? Certamente no. Galileo sapeva che, soprattutto in Italia, la resistenza all’eliocentrismo era fortissima. Essa andava dal rifiuto globale di ogni novità astronomica, al dubbio ed all’esitazione di fronte a scoperte inaspettate. Cosa fare dunque? Seguire i consigli di Keplero? Fra gli esitanti era da annoverare il ricco banchiere Markus Welser, nota personalità del mondo economico e culturale tedesco. Welser, che non era riuscito a procurarsi un cannocchiale, aveva preferito esprimere i suoi dubbi. Quando seppe che Clavio aveva potuto osservare i quattro pianetini gioviali, cercò di farsi confermare la notizia da amici e conoscenti italiani. Per lui l’Italia non era un paese sconosciuto. Vi aveva soggiornato per alcuni anni come studente, a Padova ed a Roma, e dopo il suo ritorno in patria aveva mantenuto rapporti epistolari con rappresentanti del mondo culturale, soprattutto a Roma. Tuttavia il 7 gennaio 1611 – data della lettera da lui inviata a Clavio – Welser non era ancora sicuro dell’esistenza dei nuovi pianeti (EN, XI.14). Le informazioni ricevute dall’Italia erano contraddittorie, e sembrava che i gesuiti del Collegio Romano manifestassero ancora qualche esitazione. Da loro dipendeva, in larga misura, il riconoscimento ufficiale in Italia di ogni scoperta scientifica. Clavio confermerà a Welser i risultati delle osservazioni di Galileo, ma lo farà solamente il 29 gennaio, indicando che più volte, di mattina e di sera, questi pianeti erano stati visti al Collegio Romano (EN, XX.600-601). Eppure nel corso degli

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ultimi mesi le scoperte erano state confermate da numerosi astronomi. Forse Clavio non disponeva ancora di un cannocchiale abbastanza potente. Nel frattempo un amico matematico di Venezia gliene aveva inviato uno perfetto, come egli stesso indicava a Welser in questa stessa lettera. Nel dicembre del 1610, all’epoca in cui l’astronomo gesuita stava per abbandonare definitivamente lo scetticismo ed i dubbi che lo avevano travagliato per lunghi mesi, moriva a Pisa uno degli avversari irriducibili del cannocchiale, Giulio Libri, professore di filosofia nello Studio di quella città. Libri si era scagliato più d’una volta contro le sciocchezze raccontate da Galileo. Nessuno era riuscito a convincerlo di guardare il cielo attraverso il nuovo strumento. La sua morte suggeriva all’autore del Sidereus Nuncius la seguente osservazione: «A Pisa è morto il filosofo Libri, acerrimo impugnatore di queste mie ciance, il quale, non le avendo mai voluto vedere in terra, le vedrà forse nel passare al cielo» (EN, X.484). Libri non era il solo filosofo ad aver rifiutato di servirsi del cannocchiale. Prima di lasciare Padova, Galileo aveva cercato invano di convincere Cesare Cremonini, il professore di filosofia che abbiamo più volte incontrato, dell’interesse del nuovo strumento. Il rifiuto di questo intransigente aristotelico era stato assoluto: non avrebbe mai osservato il cielo attraverso il cannocchiale! L’offerta di Galileo di andare a casa dell’illustre filosofo con lo strumento sotto al braccio, per mostrargli le immagini ravvicinate, non lo indusse a cambiare idea. Per Galileo e per i suoi amici, le recenti scoperte astronomiche permettevano di avviare il dibattito sulla validità del sistema copernicano. Certo, non esisteva nessuna prova decisiva a suo favore, ma era chiaro che le fondamenta del sistema astronomico aristotelico-tolemaico vacillavano. Come avrebbero reagito le autorità romane? La Terra centro dell’universo e la sua immobilità erano nozioni solidamente iscritte nella cosmologia delle diverse forme dell’aristotelismo e si accordavano con l’interpretazione letterale di alcune citazioni tratte dalla Sacra Scrittura. Galileo sapeva di non poter contare su aristotelici come Cremonini. Era indispensabile quindi sollecitare il parere dei

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matematici e degli astronomi del Collegio Romano, ed in particolare del padre Clavio, la cui attività di astronomo era ben nota in Italia ed oltralpe. Il grande astronomo danese Tycho Brahe, che ritroveremo nel prossimo paragrafo, conosceva ed apprezzava le sue opere più importanti, ma i suoi tentativi per stabilire contatti diretti non erano stati coronati da successo. I fattori religiosi furono forse rilevanti – Tycho era luterano, poi calvinista, quindi eretico – ma non determinanti. Le reticenze di Clavio furono soprattutto motivate, come vedremo, da considerazioni scientifiche (LM-P 1996-97, I.145-185). Galileo a Roma Per conoscere il parere dei gesuiti del Collegio Romano sulle recenti novità astronomiche, la migliore soluzione era di andare ad incontrarli nella Città Eterna: rifiuteranno di discutere, oppure saranno disposti a confrontare le loro osservazioni astronomiche con quelle di Galileo? L’incontro romano avrebbe dovuto, secondo l’autore del Sidereus Nuncius, rispondere, almeno in parte, a questa domanda. Pochi mesi dopo la pubblicazione del libro, altre scoperte erano state fatte: l’aspetto di Saturno che sembrava formato da tre stelle, e, soprattutto, le fasi di Venere. Già il 5 dicembre 1610, Benedetto Castelli aveva indicato a Galileo che se Venere girava intorno al Sole, come aveva previsto Copernico, doveva presentare le fasi come la Luna. Chiedeva quindi a Galileo se aveva potuto verificare questa ipotesi. In una lettera del 30 dicembre, Galileo riassumeva i risultati delle sue osservazioni, precisando che Castelli conosceva sicuramente le conseguenze che era possibile trarne. Le conseguenze erano che Venere non poteva girare intorno alla Terra. In effetti nel sistema aristotelico-tolemaico l’ordine dei primi quattro pianeti, partendo dalla Terra, era Luna, Mercurio, Venere, Sole. Quindi Venere restava rinchiuso, per così dire, fra le orbite di Mercurio e del Sole e non poteva apparire mai interamente illuminato. Affinché questo avvenisse, doveva passare dietro il Sole e quindi girare intorno ad

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esso. Grazie al cannocchiale, Galileo lo vide interamente illuminato quando era alla massima distanza dalla Terra (congiunzione superiore), ed in controluce, come un gran disco non illuminato, quando si trovava a distanza minima dalla Terra (congiunzione inferiore). Fra queste due posizioni estreme, Venere presentava le fasi, come la Luna (figure 2 e 3).

VENUS

48

48

TERRA

Figura 2 (in alto). Posizioni di Venere rispetto alla Terra ed al Sole: all’opposto della Terra rispetto al Sole, il pianeta è in «congiunzione superiore»; tra il Sole e la Terra, in «congiunzione inferiore»; a 48° a sinistra o a destra del Sole alla «massima elongazione». Figura 3 (in basso). Fasi di Venere: in congiunzione inferiore il pianeta è a distanza minima dalla Terra ed appare in controluce come un grosso disco non illuminato; in congiunzione superiore è a distanza massima dalla Terra ed appare come un piccolo disco interamente illuminato; tra queste due posizioni estreme, Venere presenta le fasi, come la Luna.

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Gli astronomi antichi non avevano potuto rendersene conto, poiché, a causa del notevole splendore del pianeta, la visione ad occhio nudo non permetteva di distinguere i contorni e quindi di identificare le diverse fasi. L’11 dicembre 1610 fu inviato a Giuliano de’ Medici ed a Keplero il seguente anagramma che conteneva la notizia della scoperta delle fasi di Venere: «Haec immatura a me iam frustra leguntur, o, y». L’anagramma fu sciolto dopo le indispensabili verifiche e la soluzione – «Cynthiae figuras aemulatur mater amorum» (la madre degli amori imita le figure di Cinzia) – fu comunicata il 31 dicembre all’uno ed all’altro corrispondente (EN, XI.11-12). Cinzia era uno dei nomi con cui veniva designata la Luna. Il giorno precedente Galileo aveva scritto a Clavio per ringraziarlo d’aver confermato l’esistenza dei satelliti di Giove e per informarlo della scoperta delle fasi di Venere. Sottolineava quindi che «questo sistema dei pianeti sta sicuramente in altra maniera che si è comunemente tenuto» (EN, X.500). Ci si può chiedere perché Galileo, in una lettera indirizzata ad uno dei più prestigiosi astronomi del Collegio Romano, osasse alludere esplicitamente ad un sistema astronomico diverso da quello di Tolomeo. La risposta è che dopo la scoperta delle fasi di Venere, considerava sinceramente che il momento era propizio per avviare la discussione con Clavio sull’eliocentrismo. Galileo credeva nella possibilità di collaborare con i matematici del Collegio Romano e voleva spingerli, nel loro interesse e nel suo, ad abbandonare la nozione di immobilità della Terra. In effetti, come s’è detto, anche nel sistema di Tycho Brahe Venere girava intorno al Sole, ma, a differenza del sistema copernicano, il Sole girava a sua volta intorno alla Terra immobile, trascinando con sé Venere e gli altri pianeti. Qui, per i tradizionalisti, i vantaggi erano evidenti: la Terra restava immobile, e Venere, che passava dietro il Sole, presentava le fasi. Ma Galileo, da avversario dichiarato del sistema tychonico, sperava di poter spostare verso l’eliocentrismo completo di Copernico l’interpretazione del fenomeno da lui osservato. La decisione di recarsi a Roma per discutere con i matemati-

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ci e gli astronomi del Collegio Romano era stata presa da Galileo prima di ottenere il riconoscimento del padre Clavio. Fin dal suo arrivo a Firenze, ne aveva espresso il desiderio alle autorità fiorentine ed il 15 gennaio del 1611 aveva chiesto al segretario Belisario Vinta l’indispensabile autorizzazione del granduca per potersi allontanare da Firenze. La ottenne quasi subito, ma le cattive condizioni di salute lo costrinsero a rimandare a più tardi il progetto. Finalmente ai primi di marzo Galileo annunziava a Clavio l’imminente partenza per Roma, che avvenne il 23, in lettiga con due servitori. Il viaggio durò sei giorni. Un alloggio gli era stato riservato presso la residenza dell’ambasciatore di Toscana. I gesuiti del Collegio Romano, numerosi cardinali, ed il papa Paolo V in persona si preparavano a ricevere l’autore del Sidereus Nuncius. Già il giorno successivo al suo arrivo, il 30 marzo, Galileo ebbe una lunga conversazione con Clavio. Il 1° aprile poteva scrivere a Belisario Vinta che i padri gesuiti avevano confrontato le loro osservazioni con le sue e che la corrispondenza era perfetta (EN, XI.79). Dopo l’incontro con Clavio, Galileo fu ricevuto da numerosi cardinali ed il 22 aprile dal Santo Padre in udienza privata, come risulta da una lettera indirizzata lo stesso giorno a Filippo Salviati (EN, XI.89). Paolo V gli permise di non restare in ginocchio, un privilegio che veniva accordato solamente a personalità di alto rango. Tuttavia, se si eccettua questo segno particolare di stima, non avvenne nulla di particolarmente significativo nel corso dell’udienza. Galileo ricevette in ginocchio la paterna benedizione, baciò la mano del pontefice e lasciò il palazzo pontificale senza sentirsi né più sicuro, né meno sicuro di quando vi era entrato. Fra i familiari del papa c’erano senza dubbio personalità alle quali era possibile porre la domanda che più gli stava a cuore: si aveva il diritto ora di approfondire, di sviluppare, d’insegnare l’astronomia copernicana? Clavio avrebbe potuto indicargli quali fossero, fra quelle incontrate o da incontrare, le personalità più vicine al papa. Forse, incoraggiato dall’eccellente accoglienza ricevuta, Galileo decise di porre la domanda. Dopotutto, l’astronomo gesuita era ben disposto nei suoi confronti e si ricordava

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perfettamente dell’incontro avvenuto 23 anni prima a Roma, quando Galileo era studente a Pisa. C’era stato in seguito un breve scambio di lettere, poi più nulla. Nel 1604 una lettera del padre Clavio sull’apparizione della stella nova era rimasta senza risposta. Galileo si manifesterà solamente nel 1610, subito dopo la pubblicazione del Sidereus Nuncius. Si può ipotizzare, ma non ne abbiamo la prova, che Clavio gli suggerì il nome del cardinale Roberto Bellarmino. Un incontro fra Bellarmino e Galileo ebbe effettivamente luogo, ma pochissime persone ne furono a conoscenza. Galileo non divulgò la notizia e non svelò mai il contenuto della loro conversazione. Ne parlò invece il cardinale alcuni anni dopo, nel corso di una conversazione con monsignor Piero Dini, che occupava a Roma l’importante carica di referendario apostolico. Secondo quanto indicherà Dini, in quella occasione c’era stato uno scambio di idee fra Galileo e Bellarmino sull’interpretazione della Scrittura. E sarà proprio Dini a rivelarlo in una lettera a Galileo del 7 marzo 1615 (EN, XII.151), della quale riparleremo al capitolo V. Non si conosce la data esatta dell’incontro, mentre è nota la data – 19 aprile 1611 – di una lettera di Bellarmino ai matematici del Collegio Romano, in cui il cardinale chiedeva notizie sulle «nuove osservazioni di un valente matematico per mezzo d’un instrumento chiamato cannone ovvero occhiale», e proseguiva indicando che aveva potuto osservare «per mezzo dell’istesso instrumento, alcune cose molto meravigliose intorno alla Luna et a Venere». Seguivano cinque domande precise, relative alla moltitudine di stelle osservate nella Via Lattea, alla struttura di Saturno (che appariva, col telescopio dell’epoca, composto da tre stelle), alle fasi di Venere, ai quattro satelliti di Giove, alle irregolarità della superficie lunare (EN, XI.87-88). La risposta fu inviata il 24 aprile: i matematici del Collegio Romano confermavano le scoperte segnalate da Bellarmino. Tuttavia persisteva l’idea che la Via Lattea fosse dovuta a «parti più dense continuate», benché non si potesse negare l’esistenza in essa di «molte stelle minute». Sussisteva invece una riserva importante sulla struttura del suolo lunare, avanzata dal padre Clavio che non sembrava disposto ad abbandonare la nozione di perfezione dei

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corpi celesti. Tuttavia i matematici del Collegio Romano non furono tutti d’accordo con Clavio, ed alcuni di essi ammisero che la superficie lunare era effettivamente inequale (EN, XI.93). Clavio non fu il solo a difendere l’antica nozione di perfezione dei corpi celesti. L’astronomo gesuita trovò un difensore in quel Lodovico Delle Colombe che alcuni mesi prima aveva fatto allusione alla necessaria interpretazione letterale dei testi sacri. Delle Colombe interveniva di nuovo nel dibattito, affermando, in una lettera a Clavio del 27 maggio, che l’irregolarità della superficie lunare era solo apparente, dovuta ad un effetto ottico, e che in realtà la Luna poteva essere considerata come un grosso globo di cristallo (EN, XI.118). Fra le personalità che accolsero a Roma Galileo, c’era il principe Federico Cesi, noto per il suo prudente modernismo. Mecenate ricco e colto, Cesi era riuscito a stabilire un buon compromesso fra la passione per le novità scientifiche e l’obbligo, valido per tutti gli intellettuali romani, di sottomettersi alle decisioni delle autorità religiose. L’Accademia dei Lincei da lui fondata era diventata rapidamente uno dei centri culturali più attivi nel campo della filosofia naturale. Il titolo di linceo, attribuito a personalità italiane e straniere laiche, era particolarmente ambito. Cesi svolgeva spesso il ruolo di arbitro nelle controversie fra scienziati. L’indipendenza ed il disinteresse per ogni forma di profitto personale, lo mettevano al di sopra degli interessi degli uni e degli altri. Il 25 aprile 1611 Galileo fu iscritto ufficialmente fra i membri della prestigiosa Accademia. Il titolo di linceo figurerà accanto al suo nome in tutte le sue opere pubblicate a partire dal 1613 (CM 2004, 219). La manifestazione tanto attesa in onore del Sidereus Nuncius, voluta dai gesuiti ed alla cui organizzazione partecipò il principe Cesi, si tenne verso la metà di maggio. Galileo fu ricevuto solennemente al Collegio Romano, dove il gesuita fiammingo Odo van Maelcote pronunziò l’orazione, per dirla con l’espressione utilizzata da un contemporaneo, dal titolo Nuntius Sidereus Collegii Romani (EN, III.291-298). L’oratore annoverava Galileo «fra gli astronomi più celebri e più felici del nostro tempo». Le

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recenti scoperte venivano enunciate e confermate, compresa l’irregolarità della superficie lunare. Per quest’ultima Maelcote indicava, con chiara allusione alle esitazioni di Clavio senza tuttavia nominarlo, che non si sarebbe opposto ad un’interpretazione diversa, qualora fosse stata sufficientemente giustificata. Le fasi di Venere erano interpretate secondo l’opinione di Galileo, e cioè come conseguenza del movimento del pianeta intorno al Sole. Secondo la testimonianza tardiva del gesuita francese Grégoire de Saint-Vincent, avvenuta circa mezzo secolo dopo, non mancarono a questo punto i borbottii dei filosofi (CM 2004, 210). In effetti, presentato nei termini utilizzati da Galileo, il fenomeno osservato conduceva necessariamente ad un nuovo sistema astronomico, ma Maelcote si astenne dal precisarlo. I due sistemi che permettevano di spiegare il passaggio di Venere dietro il Sole erano, come s’è detto, il copernicano ed il tychonico. Tuttavia l’elogio di Tycho Brahe, definito da Maelcote astronomo incomparabile, non lasciava dubbi sul sistema astronomico da scegliere, tanto più che in quella occasione il nome di Copernico non venne pronunziato. In realtà, Maelcote non si allontanò dalla semplice enumerazione dei fenomeni osservati, lasciando ai presenti la responsabilità delle interpretazioni. Un’allusione dell’oratore lasciava intendere che i gesuiti del Collegio Romano avevano osservato le fasi di Venere in novembre, prima che Galileo ne desse notizia, ma che in un primo momento le avevano interpretate come un difetto del cannocchiale. In seguito, ma la data non è precisata, si erano resi conto che si trattava di un fenomeno identico a quello che presenta la Luna quando si avvicina al Sole (non perspicilli fuisse defectum, sed astri Venerisque continuo decrescentis, instar Lunae dum Soli appropinquat) (EN, III.298). Intanto il Sant’Uffizio chiedeva notizie sulle convinzioni filosofiche dell’autore del Sidereus Nuncius. Il 17 maggio, nel corso di una seduta alla quale partecipava il cardinale Bellarmino, fu indirizzata una richiesta all’inquisitore di Venezia per sapere se nel processo intentato a Cesare Cremonini appariva il nome di Galileo (EN, XIX.275). Si faceva qui allusione ad un’azione giudiziaria intentata nel 1608 dall’inquisitore di Venezia contro l’aristotelico padovano. Come s’è detto, già nel 1604 il Sant’Uf-

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fizio aveva emesso alcune riserve sulle convinzioni filosofiche di Cremonini. Galileo non poteva sospettare che a qualche giorno di distanza dal ricevimento organizzato in suo onore al Collegio Romano, il Sant’Uffizio decidesse di interessarsi alle sue convinzioni filosofiche e religiose. Come immaginare che le accuse dirette a Cremonini potessero applicarsi anche a lui! A Roma, nel corso dei diversi incontri, non gli era stato possibile abbordare la questione del movimento della Terra. Le discussioni erano rimaste confinate nei limiti ben precisi delle recenti scoperte, che venivano esaminate nel quadro delle novità celesti, come lo erano state le novae del 1572 e del 1604. Certo, l’esistenza dei satelliti di Giove era una realtà del tutto nuova, come pure le fasi di Venere, ma poiché nel sistema di Tycho Brahe queste novità trovavano una spiegazione completa, per la maggior parte degli astronomi gesuiti presenti all’orazione di Maelcote era ancora possibile continuare a discutere serenamente. Tuttavia pochi giorni dopo l’accoglienza di Galileo al Collegio Romano, già apparivano i primi avvertimenti: il generale dell’Ordine Claudio Acquaviva inviava il 24 maggio una circolare a tutti gli insegnanti gesuiti per richiamarli «all’unità e solidità» della dottrina (CM 2004, 216). I gesuiti del Collegio Romano conoscevano le Constitutiones della Compagnia di Gesù, in cui la dottrina di Aristotele era alla base dell’insegnamento della filosofia, e la Ratio Studiorum pubblicata alcuni anni prima dallo stesso Acquaviva, che conteneva anch’essa questa disposizione. Non a caso la circolare vi faceva riferimento, il che non poteva certamente lasciare indifferenti Clavio e gli altri gesuiti del Collegio Romano (FA 1993, 117118). Per i seguaci dell’aristotelismo l’elemento importante era l’immobilità della Terra che, come abbiamo visto, era conservata nel sistema di Tycho. È probabile quindi che dopo la scoperta delle fasi di Venere alcuni astronomi gesuiti si siano orientati verso il sistema tychonico. Se Maelcote non vi fece allusione è proprio perché, come s’è detto, la sua orazione si limitava ad esaminare i fenomeni osservati. Una decisione questa, che evitava prudentemente di parlare del movimento della Terra al quale faceva allusione Galileo nelle ultime pagine del Sidereus Nuncius.

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Va notato tuttavia che per i gesuiti del Collegio Romano la situazione non era facile. Clavio non accettava il nuovo sistema astronomico proposto da Tycho Brahe. Le ragioni erano molteplici e complesse. La più importante era senza dubbio la difesa degli orbi planetari solidi da parte dell’astronomo gesuita, fedele seguace della tradizione aristotelica. Secondo questa tradizione, i pianeti avevano un corpo e, per poterli trascinare in giro, le sfere alle quali erano attaccati dovevano essere anch’esse corporee, il che le rendeva impenetrabili (LM-P 1996-97, I.44). Quindi le sfere dovevano essere necessariamente tutte concentriche, il che non avveniva nel sistema di Tycho Brahe. L’astronomo danese aveva finito col rinunziare alla nozione di orbi corporei e reali quando si era accorto che nel suo sistema l’orbe del sole incrociava quello di Mercurio e di Venere. D’altra parte il passaggio della cometa del 1585 lo aveva convinto dell’impossibilità che questi corpi potessero attraversare il cielo attaccati ad un orbe solido (LM-P 1996-97, II.58-66). Avendo rinunziato al sistema di Tycho Brahe e respinto quello di Copernico, Clavio suggeriva di inserire le nuove scoperte astronomiche nel sistema aristotelico-tolemaico, opportunamente modificato. Non sappiamo con precisione cosa pensassero di questo tentativo i suoi allievi, ma è verosimile che soprattutto i più giovani fossero convinti della necessità di abbandonare il vecchio sistema astronomico. Nei decenni successivi i gesuiti abbracceranno, tutti con qualche rarissima eccezione, il sistema tychonico, soprattutto dopo la pubblicazione, il 5 marzo 1616, del Decreto della Congregazione dell’Indice che sospendeva, come vedremo, il De revolutionibus di Copernico. Non si può escludere, tuttavia, che alcuni di essi avrebbero preferito interpretare le scoperte galileane secondo Copernico. Ma i vincoli culturali e l’ideale di obbedienza sancito nelle Constitutiones renderanno questa scelta impossibile. Galileo riconosceva l’importanza delle osservazioni effettuate dal grande astronomo danese, tanto più notevoli in quanto effettuate ad occhio nudo. Era tuttavia convinto che nessun sistema astronomico poteva pretendere di interpretare correttamente i fenomeni osservati se non si prendevano in considerazione i

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due movimenti della Terra. Dal suo punto di vista il sistema tychonico creava confusione, poiché lasciava intravedere possibili soluzioni per salvare le apparenze, e cioè spiegare alla meglio i fenomeni osservati, senza introdurre il cambiamento fondamentale costituito dal doppio movimento della Terra. L’espressione salvare le apparenze era di uso comune nel linguaggio degli astronomi del tempo. Come vedremo, il cardinale Bellarmino la suggerirà più tardi a Galileo, affinché rinunziasse a sostenere la realtà dei movimenti della Terra e li considerasse una semplice ipotesi matematica che permetteva di spiegare i fenomeni osservati meglio di altre ipotesi. Quanto alla stabilità della Terra ed al movimento del Sole, la loro realtà era garantita dal contenuto della Sacra Scrittura. Nel confronto con una posizione che aveva radici solide e profonde, Galileo gettava, come sul piatto di una bilancia, le sue recenti scoperte astronomiche e rifletteva sulla maniera di promuovere rapidamente un’azione a favore del sistema di Copernico. Era importante aprire subito il dibattito sull’interpretazione della Sacra Scrittura e sulle ragioni che impedivano di attribuire il valore di verità scientifica al senso letterale di alcune espressioni. In effetti, se era pur vero che alcune frasi frequentemente citate potevano apparire in contraddizione con il movimento della Terra, tuttavia gli interpreti dei testi sacri non avevano l’obbligo di attenersi al loro significato letterale. Questo punto di vista non era affatto originale. In passato, eminenti personalità religiose, che Galileo aveva l’intenzione di citare, avevano già avuto occasione di esporlo. Come avrebbero reagito i teologi adesso? Era evidente che a loro spettava occuparsi di ermeneutica sacra, ma Galileo credeva di poterli convincere di occuparsi solamente di problemi relativi alla salute dell’anima. Più tardi, come vedremo, egli citerà una frase attribuita al cardinale Cesare Baronio: l’intenzione dello Spirito Santo è di insegnarci come si va in cielo e non come va il cielo. Queste erano le grandi linee del nutrito discorso che Galileo aveva in mente e che avrebbe dovuto permettergli, in definitiva, di spingere i teologi ad ammettere la necessaria distinzione fra verità di fede e verità di scienza. Ma scrivere un libro su questo

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argomento sarebbe stato completamente fuori dalle competenze ufficiali di Galileo. Inoltre, la censura ecclesiastica non avrebbe mai permesso che venisse pubblicato. Nel lasciare Roma ai primi di giugno del 1611, l’autore del Sidereus Nuncius si preparava ad elaborare un programma scientifico nuovo, liberato almeno in parte dai pregiudizi accumulati attraverso i secoli. Il progetto era ambizioso, ma Galileo era convinto di poter contare sull’appoggio di personalità influenti, a Roma come a Firenze, a Bologna, a Padova. Alla corte medicea, il segretario Belisario Vinta esprimeva, in una lettera del 13 giugno indirizzata a Piero Guicciardini, ambasciatore toscano a Roma, un giudizio positivo sul soggiorno romano del matematico del granduca. Secondo Vinta, dopo gli incontri romani le convinzioni di Galileo risultavano rafforzate «da codesti più eminenti litterati et intelligenti di quella professione» (EN, XI.125). Forse Galileo si aspettava di più dal discorso del padre gesuita Maelcote, che, stranamente, non verrà menzionato in nessuna delle lettere da lui scritte in quel periodo. Non è credibile che l’allusione di Maelcote all’anteriorità della scoperta delle fasi di Venere e la qualifica di astronomo incomparabile attribuita a Tycho abbiano potuto indispettirlo al punto da dimenticare gli elogi prodigati in suo onore. Nella già citata lettera a Filippo Salviati del 22 aprile, il giorno stesso in cui era stato ricevuto in udienza privata da Paolo V, Galileo parlava con entusiasmo di questo eccezionale avvenimento e del fatto che «tutti gli intendenti sono a segno, e in particolare i padri gesuiti» (EN, XI.89). Poi più nulla. Cosa era successo nel lasso di tempo intercorso fra questa lettera e l’accoglienza al Collegio Romano a metà maggio? Si può ipotizzare che dopo il primo incontro con Clavio, all’indomani del suo arrivo a Roma, Galileo abbia creduto in un possibile riconoscimento ufficioso, se non ufficiale, del sistema copernicano, ma nonostante le lodi ed i riconoscimenti prodigati da Maelcote questo non avvenne. Il successivo incontro con Bellarmino, al quale, come s’è detto, Galileo non farà mai riferimento, confermeranno il rifiuto o forse l’impossibilità per i gesuiti del Collegio Romano di compiere questo difficilissimo passo.

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Da Padova l’amico Paolo Gualdo, un sacerdote ammiratore dei gesuiti, metteva in guardia Galileo, in una lettera del 6 maggio 1611, contro la tentazione di riferirsi apertamente al movimento della Terra. «Che la Terra giri – scriveva Gualdo – non ho trovato né filosofo né astrologo che si voglia sottoscrivere all’opinione di V.S., e molto meno lo vorranno fare i theologi: pensi adunque bene, prima che asseverantemente pubblichi questa sua opinione per vera, poiché molte cose si possono dire per modo di disputa che non è bene asseverarle per vere, massime quando s’ha l’opinione universale di tutti contra, imbibita, si può dire ab urbe condita» (EN, XI.100; CM 2004, 215). Dalla fondazione dell’urbe, come per dire da sempre. Un’opinione quindi difficile, per non dire impossibile, da sradicare. In un resoconto entusiasta indirizzato al granduca Cosimo II il 31 maggio, il cardinale Francesco Maria del Monte sottolineava che Galileo «[aveva] dato di sé molta sodisfatione» e che a sua volta ne aveva ricevuta. Nulla diceva tuttavia il cardinale, che conosceva ed apprezzava Galileo fin dal periodo pisano, dell’atteggiamento dei gesuiti del Collegio Romano, limitandosi a sottolineare che «le intenzioni [di Galileo] erano state stimate da tutti li valent’huomini e periti di questa città» (EN, XI.119). I gesuiti del Collegio Romano non venivano citati. Semplice dimenticanza? L’ambasciatore Piero Guicciardini rivelerà a Curzio Picchena solo più tardi, nel 1615, in occasione di un secondo viaggio a Roma di Galileo, che nel corso del soggiorno del 1611 la dottrina dello scienziato pisano «non dette un gusto che sia a’ consultori et Cardinali del Santo Offizio; et fra gli altri Bellarmino mi disse [...] che se fosse stato qua troppo, non harebbono potuto far di meno di non venire a qualche giustificazione de’ casi suoi» (EN, XII.207). L’espressione giustificare i casi suoi ha, in questo contesto, il significato di una richiesta da parte delle autorità ecclesiastiche di spiegazioni che non ammettevano senza rischio risposte diverse da quelle attese. Chi era Roberto Bellarmino? Quali erano le sue funzioni ed i suoi meriti in seno alla Chiesa cattolica? In un periodo in cui Roma affrontava dure battaglie contro l’eresia dei calvinisti e dei

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luterani, la sua intelligenza e le sue doti eccezionali di controversista lo avevano reso celebre non solo presso i cattolici, ma in tutto l’Occidente cristiano. Un suo contemporaneo lo definì il maggior piccolo che sia al mondo, senza dubbio a causa della sua statura men che media, in cui brillava il volto fine e delicato che una collera improvvisa poteva trasformare in una dura espressione di violenza. A 18 anni Bellarmino aveva lasciato Montepulciano, sua città natale, per trasferirsi a Roma, dove entrò come novizio nella Compagnia di Gesù. Nonostante gravi problemi di salute, il futuro cardinale aveva terminato brillantemente gli studi ed era stato inviato subito dopo a Firenze, poi in Piemonte, a Mondovì, per insegnarvi la filosofia e l’astronomia. Il piccolo trattato di Alessandro Piccolomini, Sulla sfera del Mondo e sulle stelle fisse, gli servì per l’insegnamento dell’astronomia, fornendo l’occasione al giovane professore di approfondire le conoscenze sul sistema del Mondo e familiarizzare con le ipotesi eliocentriche. Bellarmino non restò a lungo a Mondovì. Dopo un soggiorno di due anni a Padova, Francesco Borgia, terzo generale della Compagnia di Gesù, decise di inviarlo a Lovanio. La città si trovava ai confini della Repubblica Cristiana, nelle Fiandre rimaste cattoliche, ma circondate da province dove il protestantesimo era ormai saldamente impiantato. Il compito che attendeva il giovane gesuita appena ventisettenne appariva particolarmente difficile. Con la creazione nel 1565 del primo Collegio delle Fiandre, i gesuiti si proponevano di formare sul posto i teologi capaci di lottare contro l’eresia. A Lovanio, Bellarmino assicurò la duplice funzione di teologo e di predicatore in latino, ma non di professore all’Università, poiché i gesuiti non avevano il diritto di insegnarvi. Il suo corso al Collegio iniziò con una serie di lezioni sull’autorità della Sacra Scrittura, un argomento che alcuni decenni dopo sarà al centro delle discussioni con Galileo e con tutti coloro che professeranno l’eliocentrismo. Al periodo lovaniense risalgono anche alcuni appunti redatti in latino ed in ebraico sui margini delle pagine di una Bibbia latina stampata a Norimberga nel 1529. Alcune delle domande che Bellarmino si poneva sono semplici e chiare: «Tutto ciò che

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ci è trasmesso dalla Sacra Scrittura è proprio vero? Dio, che ne è l’autore, potrebbe mentire o ingannarci?». Le risposte del giovane teologo sono senza ambiguità: la Sacra Scrittura non contiene nessuna menzogna, neanche la più piccola, poiché è stata scritta con l’assistenza dello Spirito Santo. «È sicuro – annota Bellarmino – che il senso vero della Sacra Scrittura non può essere in contraddizione con nessun’altra verità stabilita in filosofia o in astrologia». Nel linguaggio utilizzato qui da Bellarmino, il termine astrologia sta per astronomia. L’astrologia faceva parte dell’astronomia, e lo stesso Clavio l’aveva aggiunta nel suo corso d’astronomia tenuto nel 1564-1565. Solo intorno al 1570, dopo l’intervento del vicario generale della Compagnia Jérôme Nadal, che consigliava ai matematici del Collegio Romano di astenersi dal praticare l’astrologia, quest’ultima scomparve dai testi scritti o utilizzati dai gesuiti. Nella sua autobiografia, Bellarmino fa allusione alla sua attitudine a prevedere il futuro, come, ad esempio, la durata precisa (tre anni) del pontificato di Clemente VIII. E parlando di sé alla terza persona aggiunge che «non era né astrologo, né profeta ma parlava a caso» (BR 1999, 63). Il percorso che lo condurrà al cardinalato nel 1599 sarà lungo ed i compiti da lui assolti difficili e talvolta dolorosi, come quello di consultore nel processo di Giordano Bruno affidatogli da Clemente VIII nel 1597. Caduto in disgrazia due anni dopo la condanna al rogo dell’ex domenicano, Bellarmino fu inviato a Capua. Dopo la morte di Clemente VIII e l’elevazione al pontificato di Paolo V fu richiamato a Roma e scelto dal nuovo pontefice come confessore personale. Come vedremo, riuscirà senza troppa fatica a mantenere la Terra immobile al centro del mondo, ma a differenza di numerosi suoi confratelli non si pronunzierà a favore del sistema di Tycho Brahe. Riconoscerà l’importanza delle recenti scoperte astronomiche senza tuttavia rinunziare all’interpretazione letterale del contenuto della Sacra Scrittura. Consiglierà agli astronomi di considerare il sistema di Copernico come un’ipotesi. Roberto Bellarmino morì a Roma nel 1621. Sarà santificato nel 1930 e proclamato Doctor Ecclesiae nel 1931.

IV PUBBLICI DISACCORDI La disputa sul galleggiamento Subito dopo l’arrivo a Firenze di Galileo ai primi di giugno del 1611, il caso e la volontà del principe decisero che i progetti del filosofo e matematico del granduca sarebbero stati spostati dai cieli lontani alla vicina Terra. In effetti, Galileo ed il fedele discepolo Benedetto Castelli furono invitati a mettere da parte per un po’ i satelliti di Giove e le fasi di Venere ed a riflettere sul fenomeno del galleggiamento. L’argomento fu trattato nel corso di varie riunioni organizzate da Filippo Salviati nella sua splendida villa Le Selve, distante poche miglia da Firenze. Salviati aveva proposto ai professori dello Studio di Pisa e ad alcuni gentiluomini fiorentini di venire ad esporre le loro opinioni sulle proprietà, molto discusse, del caldo e del freddo. Galileo aveva accettato volentieri l’invito di associarsi ad essi, tanto più che Castelli aveva promesso di partecipare alle discussioni, compatibilmente con i suoi impegni. Le bellezze del luogo e l’accoglienza leggendaria che il nobile fiorentino Salviati riservava ai suoi ospiti permettevano di sfuggire per qualche giorno al calore soffocante della città, che Galileo sopportava molto male. Presente in quasi tutte le riunioni, il matematico del granduca sapeva fin dall’inizio di avere, sulla maggior parte dei problemi da affrontare, opinioni diverse da quelle professate dagli aristotelici.

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Le discussioni intorno al fenomeno della condensazione e della rarefazione dettero l’avvio ad un primo dibattito, che fu affrontato da un punto di vista strettamente filosofico. Secondo Aristotele la condensazione era una proprietà del freddo (De coelo IV.6), mentre Galileo sosteneva che questa interpretazione era in contraddizione con quanto osservato sperimentalmente nel galleggiamento del ghiaccio che, pur essendo prodotto dal freddo, rimaneva a galla proprio perché era più leggero e quindi meno condensato dell’acqua. Il ghiaccio era quindi da considerarsi piuttosto acqua rarefatta che condensata. L’intervento di Galileo non convinse gli aristotelici. Un eminente professore dello Studio di Pisa, non identificato, negò che il ghiaccio fosse meno pesante dell’acqua e sostenne che il galleggiamento era dovuto alla figura larga e sparsa, che impediva al ghiaccio di vincere la resistenza dell’acqua costringendolo a rimanere a galla (EN, IV.32-33). Galileo obiettò che il ghiaccio galleggia nell’acqua, qualunque sia la sua forma e figura. Gli fu risposto che non era così e per provarlo gli aristotelici si rivolsero a Lodovico Delle Colombe, che abbiamo già incontrato come oppositore delle scoperte astronomiche di Galileo. La prova sperimentale presentata dal Delle Colombe consisteva nell’utilizzare pezzi di ebano di forma diversa e mostrare che mentre pezzetti larghi e sottili galleggiavano, le sfere o i cilindri fabbricati con lo stesso materiale affondavano. Convinto della validità della sua prova, Delle Colombe decise di presentarla in diversi luoghi pubblici. In seguito a questa iniziativa, che irritò profondamente Galileo, il dibattito trovò un imprevedibile sviluppo: furono messi in circolazione scritti in cui l’una o l’altra parte proponeva esperimenti vari a sostegno della propria interpretazione. Due incontri furono concordati fra Galileo e Delle Colombe, ma quest’ultimo non si presentò al primo, mentre nel corso del secondo, organizzato nella residenza fiorentina di Salviati, Galileo rifiutò, a detta del Delle Colombe, di presentare il proprio esperimento (EN, IV.319). In realtà questa decisione fu presa dietro suggerimento del granduca che non vedeva di buon occhio lo slittamento del dibattito verso una vera e propria disputa. In seguito i due avver-

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sari evitarono di incontrarsi e preferirono riflettere con calma sul fenomeno prima di affrontarsi di nuovo pubblicamente. Le discussioni sarebbero potute restare al livello di una modesta controversia, se il granduca non si fosse lasciato prendere dal desiderio di entrare nella mischia come arbitro, visibilmente irritato dalle critiche rivolte al suo filosofo e matematico. Cosimo II impose quindi a Galileo di mettere subito per iscritto le sue opinioni sull’argomento e i diversi punti di vista degli avversari, e di prepararsi poi a commentarli in presenza del filosofo Flaminio Papazzoni. Galileo si affrettò a redigere gli appunti richiesti (EN, IV.30-51), e si accinse per la prima volta a scontrarsi su un problema di filosofia naturale con un rappresentante ufficiale dell’aristotelismo accademico. Papazzoni aveva insegnato filosofia a Bologna prima di succedere a Giulio Libri a Pisa. La sua candidatura a questa nuova cattedra era stata esaminata dal segretario Belisario Vinta all’inizio del 1611, ed in questa occasione era stato chiesto a Galileo di esprimere un giudizio sul candidato ed in particolare sulla sua capacità ad assumere, all’età di circa sessant’anni, l’incarico di professore di filosofia nello Studio. Gli si chiedeva inoltre di indicare l’ammontare dello stipendio da proporre al candidato. Il 15 gennaio Galileo rispose che aveva incontrato Papazzoni otto mesi prima a Bologna e che gli era apparso di costituzione robusta, gioviale e di conversazione gradevole. Quanto allo stipendio, dichiarava di non sapere cosa proporre (EN, XI.26-27). L’incontro al quale accennava Galileo in questa lettera era avvenuto in casa di Magini, in occasione delle poco concludenti osservazioni astronomiche menzionate al capitolo III. Il professore bolognese era stato testimone dello smacco subito da Galileo, e l’incidente aveva contribuito probabilmente a renderlo ancor più agguerrito nella difesa dell’aristotelismo. Le sue convinzioni filosofiche erano a tutti ben note, benché i suoi corsi non fossero mai stati pubblicati. Papazzoni era considerato uno dei grandi aristotelici italiani che gli amici di Galileo rispettavano per la sua erudizione e la serietà del suo insegnamento. Lo stesso Roffeni, che come si ricorderà aveva preso le difese del Sidereus Nuncius contro Horky, non aveva esitato ad

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appoggiare la sua candidatura a Pisa, sottolineando, in una lettera a Galileo dell’11 febbraio 1611, l’interesse di Papazzoni per una nuova filosofia (EN, XI.45). Nonostante le allusioni al modernismo di Papazzoni, Galileo prevedeva una forte opposizione alla sua interpretazione del galleggiamento. E così fu. In presenza del granduca, Papazzoni, fedelissimo all’insegnamento di Aristotele, difese il ruolo della figura, mentre Galileo, seguendo l’insegnamento di Archimede, spiegava che nell’acqua i corpi affondano quando il loro peso supera il peso del volume d’acqua spostato. Galileo avrebbe voluto introdurre alcune dimostrazioni geometriche per illustrare il suo ragionamento, ma Papazzoni accettava solamente le dimostrazioni basate sull’osservazione diretta del fenomeno e sulla logica, che a parer suo permetteva, a differenza della geometria, di giungere a conclusioni sicure. Galileo conosceva molto bene questo argomento e si piegava volentieri all’esercizio in cui lo trascinava l’avversario. La sua prestazione sarebbe stata apprezzata – di questo non dubitava – dal granduca e dalla sua corte. Ci si può chiedere se altre cause contribuirono ad inasprire il dibattito. Secondo lo storico della scienza Mario Biagioli (BM, 1993, 170), la disputa si trasformò in una lotta aperta fra due fazioni rivali per assicurarsi la protezione del principe. Ed è questo un esempio, secondo Biagioli, dell’importanza del titolo di filosofo richiesto da Galileo come condizione per lasciare Padova e trasferirsi a Firenze. Il titolo gli permetterà di discutere da pari a pari con i rappresentanti della cultura ufficiale, e condizionerà nello stesso tempo la sua attività di scienziato. Biagioli costruisce quindi un’immagine di Galileo in cui il cortigiano occupa un posto più importante dello scienziato, e dà come esempio significativo della sua tesi la disputa sulle cause del galleggiamento. Nel XVII secolo l’attività degli artisti, dei filosofi e degli scienziati si sviluppò là dove esistevano mecenati disposti a sostenerla. Ma da sola, la condizione di cortigiano, per riprendere l’espressione di Biagioli, non poteva fabbricare geni. Galileo doveva scrivere un libro sul galleggiamento perché l’argomento interessava un vasto pubblico di filosofi e di specialisti. Il fatto importante era che la spiegazione fondata sul

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principio archimedeo, oggi universalmente accettata, era respinta dalla cultura ufficiale dell’epoca, mentre Galileo sosteneva che era da assumere come principio fondamentale per l’interpretazione del fenomeno. Si trattava della prima battaglia ufficiale contro la filosofia naturale degli aristotelici, se si escludono gli scritti De motu e quelli di meccanica, che non erano stati pubblicati ed avevano avuto una circolazione ristretta limitata agli studenti ed agli amici di Galileo. La pubblicazione del Sidereus Nuncius e la protezione del principe rendevano adesso lo scontro non solo possibile ma inevitabile. Alla fine del mese di settembre del 1611, probabilmente il 30, i cardinali Maffeo Barberini e Ferdinando Gonzaga furono di passaggio a Firenze. Il granduca organizzò una cena in loro onore e chiese a Galileo di esporre in questa occasione le sue tesi sul galleggiamento. Papazzoni, che aveva lasciato Firenze già da alcuni giorni, non poté partecipare alla riunione. I due cardinali avevano, l’uno e l’altro, opinioni abbastanza precise sul problema. Maffeo Barberini si allineò sulle posizioni di Galileo, mentre Ferdinando Gonzaga difese l’interpretazione degli aristotelici. Il cardinale Barberini era rimasto affascinato dalle recenti scoperte astronomiche. Durante il soggiorno romano, Galileo aveva potuto incontrarlo e constatare il suo interesse per le novità scientifiche. L’ammirazione dell’alto prelato si trasformerà col tempo in una profonda stima ed amicizia, che lo spingeranno a scrivere, nel 1620, un’ode in latino, Adulatio perniciosa, in cui verrà tessuto l’elogio di Galileo scienziato. «Grazie al cannocchiale – scrive fra l’altro Maffeo Barberini – tu hai potuto scoprire i servitori di Giove e quelli del padre Saturno». Nella lettera che accompagnava il componimento poetico, il cardinale così si esprimeva: «La stima che ho fatto sempre della sua persona e delle virtù che concorrono in lei, ha dato materia al componimento che viene incluso; il quale se mancherà di quelle parti che se gli convengono, avrà ella da notarvi solamente il mio affetto, mentre io intendo illustrarlo col puro suo nome» (EN, XIII.48). Maffeo Barberini sarà eletto papa nel 1623 e prenderà il nome di Urbano VIII. Sulle circostanze e sui motivi che lo in-

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durranno a condannare Galileo nel 1633 molte pagine sono state scritte ed il dibattito, come vedremo nei prossimi capitoli, non può considerarsi chiuso. Tornando ora alla cena organizzata alla fine di settembre del 1611 nel palazzo granducale – l’attuale Palazzo Pitti – ritroviamo gli ospiti, ed il granduca che sembrava disposto a schierarsi dalla parte del suo matematico. Galileo si rendeva conto che il dibattito gli avrebbe procurato nuovi nemici, ma non era questa la sua preoccupazione maggiore. Cosa penseranno dell’interesse per il galleggiamento coloro che aspettavano dall’autore del Sidereus Nuncius un trattato sul Sistema del Mondo? La domanda era tanto più giustificata, in quanto le esigenze del principe lo avrebbero inesorabilmente costretto a scrivere un trattato sui galleggianti ed a rinviare a più tardi le osservazioni astronomiche. La Toscana doveva diventare, nelle intenzioni del granduca, uno dei centri culturali più importanti d’Europa. Questo era l’obiettivo che Cosimo II si era posto nel proporre all’autore del Sidereus Nuncius di trasferirsi a Firenze. La visione attraverso il cannocchiale aveva permesso di scoprire nel cielo quanto c’era da scoprire di più sensazionale, e nell’immediato le grandi novità non potevano venire da lassù. Il galleggiamento rappresentava, invece, un fenomeno facilmente osservabile che interessava sia i filosofi che l’uomo della strada. Galileo era in grado di innovare in questo importante settore e nella sua qualità di filosofo e matematico era tenuto non solo a spiegare, ma a convincere. Fu in questo clima di novità scoperte e da scoprire che nacque il tentativo galileano di trasferire alcuni risultati di statica all’idrostatica, stabilendo, come vedremo, analogie che si allontanavano di molto dall’insegnamento di Archimede. Nuovi progetti, nuove spiegazioni Nella prima pagina del Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua o che in quella si muovono (EN, IV.63-141), pubblicato a Firenze nel maggio del 1612 e dedicato al granduca Co-

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simo II, Galileo indicava che gli scritti di astronomia promessi nell’Avviso Astronomico – traduzione italiana del titolo Sidereus Nuncius – sarebbero giunti in ritardo perché non gli era stato ancora possibile misurare i periodi di rivoluzione dei satelliti di Giove e stabilire le tavole delle loro posizioni. Ma ora disponeva di un «modo per prendere tali misure senza errore anche di pochissimi secondi», e quindi potrà ottenere «l’intera cognizione de’ movimenti e delle grandezze de gli orbi di essi Pianeti, e di alcune altre conseguenze insieme» (EN, IV.63-64). Le altre conseguenze facevano parte di un progetto di determinazione delle longitudini che Galileo accarezzava in gran segreto. Le difficoltà per realizzarlo non furono mai superate, nonostante le prestazioni del fedele discepolo Benedetto Castelli e l’appoggio delle autorità toscane. La determinazione della longitudine era un problema non ancora risolto, ed in pratica la navigazione si faceva a vista, seguendo, quando era possibile, le coste. Galileo era convinto che le potenze marittime si sarebbero interessate al suo progetto. Viviani indica nel già menzionato Racconto, che le tavole per «così nobile impresa» saranno pronte nel 1615 e che il granduca incaricherà il suo ambasciatore a Madrid di discuterne con il re di Spagna (EN, XIX.614-615). Sulla determinazione delle longitudini, ed in generale sulle applicazioni del cannocchiale per le osservazioni celesti e terrestri, rinviamo al capitolo VII. C’era, infine, nelle pagine introduttive del Discorso, un’allusione ad alcune «macchiette oscure che si scorgono sul corpo solare» e che saranno al centro, come vedremo, di una violenta polemica con l’astronomo gesuita Christoph Scheiner, protrattasi per alcuni decenni. Nel Discorso Galileo non si attarderà più oltre sui problemi di astronomia. Dopo alcune osservazioni sull’interesse dello scrivere per far riconoscere il vero dal falso piuttosto che discutere oralmente, venivano riassunte, come richiesto dal granduca, le due diverse interpretazioni del galleggiamento. Fin dalle prime pagine del libro, l’autore intendeva combattere il principio di autorità. «Lo stesso Aristotile – scrive Galileo – mi ha in-

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segnato quietar l’intelletto a quello che m’è persuaso dalla ragione, e non dalla sola autorità del maestro» (EN, IV.65). Sarebbe sciocco, quindi, rifugiarsi dietro la sola autorità per accreditare interpretazioni sbagliate. Per illustrare la vera causa del galleggiamento Galileo si serviva della nozione di gravità in specie, che corrisponde all’odierna nozione di peso specifico. Un volume di piombo, spiegava Galileo, è più pesante di un ugual volume di stagno, quindi è più grave in specie. Questa importante nozione si trovava già negli scritti De motu, che risalivano a circa vent’anni prima, dove corpi di peso specifico uguale erano definiti ugualmente gravi (aeque gravia). Nel Discorso la stessa nozione permetterà di interpretare il galleggiamento secondo il principio di Archimede. Ma un’altra nozione, quella di momento, definita nella seconda edizione del libro pubblicata lo stesso anno, avrebbe dovuto permettere, secondo Galileo, di aprire una via non ancora esplorata, con un metodo differente da quello archimedeo (EN, IV.67). La definizione di momento è qui più ampia e precisa di quella inserita negli scritti di meccanica. La parte che qui ci interessa è la seguente: «Momento, appresso i meccanici, significa quella virtù, quella forza, quella efficacia, con la quale il motor muove e ’l mobile resiste; la qual virtù depende non solo dalla semplice gravità, ma dalla velocità del moto» (EN, IV.68). In altri termini, la forza di un corpo in movimento non dipende solamente dal suo peso, ma anche dalla velocità con la quale il corpo si muove. Galileo non possedeva la nozione di quantità di moto, ed i tre termini utilizzati – la virtù, la forza o l’efficacia – traducevano l’imbarazzo nel trovare una precisa definizione della grandezza fisica che aumenta con la velocità. Tuttavia l’esperienza mostrava che la forza sviluppata da un corpo aumenta effettivamente con la velocità, e quindi, secondo Galileo, era possibile stabilire una corrispondenza – un ragguagliamento, nel linguaggio utilizzato nel Discorso – fra la gravità e la velocità. In altri termini, l’effetto della velocità veniva interpretato come un aumento dell’effetto dovuto alla gravità, e cioè al peso, rispetto all’effetto dovuto al peso del corpo a riposo. Questo principio,

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spiegava Galileo, era stato messo in evidenza per la prima volta da Aristotele nelle sue Questioni meccaniche (EN, IV.69). Come vedremo, l’intervento della velocità nelle dimostrazioni del Discorso non conduce ad una spiegazione chiara dei fenomeni esaminati. L’idea è che l’equilibrio di un solido immerso nell’acqua può essere studiato prendendo in considerazione le velocità con le quali si muovono l’acqua ed il corpo immerso. Anzi, l’autore del Discorso sostiene che in alcuni casi gli effetti dovuti al peso dell’acqua e del corpo, combinati con le rispettive velocità – e cioè i momenti –, permettono di spiegare fenomeni apparentemente paradossali. Ad esempio, Archimede insegna che un corpo solido per poter galleggiare deve spostare un volume d’acqua uguale al volume della sua parte immersa, misurata a partire dal livello iniziale dell’acqua. Ma alcuni esempi discussi da Galileo nel Discorso proverebbero che questo non è sempre vero. In realtà gli esperimenti proposti non sono facili da realizzare ed inoltre Galileo non prende in considerazione alcuni elementi importanti che intervengono negli esempi suggeriti. Si può affermare, ad esempio, che la conclusione secondo la quale «una trave che pesi per esempio 1000 libbre, può essere alzata e sostenuta da acqua che non ne pesi 50» non è credibile (EN, VI.71). Nella seconda edizione del Discorso, Galileo cercherà di precisare il ruolo della velocità e del momento in un’esperienza ben nota: l’equilibrio di un liquido in vasi comunicanti di diverso volume. Nell’esempio i vasi EIDF e ICAB di volume diverso e comunicanti fra di loro sono riempiti d’acqua fino al livello LGH (fig. 4). L’esperienza mostra che l’acqua si ferma allo stesso livello nei due vasi, «non senza meraviglia – osserva Galileo – di alcuno che non capirà [...] come esser possa che il grande carico della gran mole dell’acqua GD, premendo abbasso non sollevi e scacci la piccola quantità dell’altra contenuta dentro alla canna CL» (EN, IV.78). L’interpretazione del fenomeno è calcata anche qui sull’esempio dell’equilibrio in una bilancia a bracci disuguali. Se immaginiamo che l’acqua contenuta nel gran vaso EIDF si sia

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IV. Pubblici disaccordi B

A

E L

F G

H O

Q I D C

Figura 4

abbassata fino al livello QO, l’acqua del piccolo vaso CL dovrà salire nello stesso tempo fino ad AB. Ma la salita AL è maggiore della discesa GQ, quindi, poiché i due movimenti sono sincroni, le velocità saranno nello stesso rapporto dell’altezza AL all’altezza GQ. Galileo dimostra che i momenti sono uguali e giustifica l’equilibrio in questi termini: «essendo che il momento della velocità del moto in un mobile compensa quello della gravità di un altro, qual meraviglia sarà se la velocissima salita della poca acqua CL resisterà alla tardissima scesa della molta GD?» (EN, IV.78). La conclusione è espressa in forma interrogativa, come avviene talvolta quando Galileo non è del tutto convinto della validità della sua interpretazione. Qui suggerisce che l’acqua rimane in equilibrio allo stesso livello nei due vasi a causa dell’uguaglianza dei momenti. È facile rendersi conto che in questo caso l’intervento dei momenti non è di grande soccorso e sarebbe preferibile ricorrere alla nozione di pressione, che Galileo non possedeva all’epoca del Discorso e che in seguito rifiuterà di prendere in considerazione. Com’è noto, l’interpretazione completa del fenomeno sarà data da Blaise Pascal quarant’anni dopo la pubblicazione del Discorso. Come si è precedentemente osservato, la nozione di momento si era rivelata particolarmente feconda nella meccanica. Tuttavia attribuire allo spostamento o alla velocità lo stato di quiete di un corpo non poteva non sorprendere. Lo studioso fiammingo

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Simone Stevino (1548-1620) osservava che quando due corpi sono in equilibrio, il movimento cessa. Come può, si chiedeva Stevino, un movimento che non c’è – un movimento, diremmo oggi, virtuale – contribuire a mantenere un equilibrio reale? Stevino rifiutava quindi di spiegare l’equilibrio meccanico ed ogni altra forma di equilibrio ricorrendo agli spostamenti ed alle velocità virtuali. Non sappiamo se Galileo avesse letto i suoi scritti, che erano stati tradotti dal fiammingo in latino negli anni 16051608, ma è chiaro che non avrebbe condiviso l’opinione dello studioso fiammingo. Alcune perplessità si riscontravano anche fra gli amici e gli ammiratori di Galileo, mentre per l’autore del Discorso la nozione di momento doveva permettere di unificare due diversi settori della filosofia naturale, identificati più tardi nella statica e nella dinamica. Questo orientamento è evidente nel Discorso, anche se l’autore non può prevederne gli sviluppi. Le difficoltà incontrate da Galileo per trasferire dalla meccanica all’idrostatica la nozione di momento non saranno colte, e non potevano esserlo, dagli avversari che preferiranno insistere sul ruolo della figura nel fenomeno del galleggiamento. Va segnalato infine che nel Discorso Galileo fa allusione per la prima volta alla costituzione corpuscolare della materia. L’occasione gli è fornita dalla critica di Aristotele contro l’atomismo di Democrito. Su questo argomento tornerà, come vedremo, una decina d’anni dopo. Contro Aristotele? Il carattere polemico del libro illustra chiaramente il cambiamento avvenuto nel comportamento dello scienziato pisano. Le recenti scoperte astronomiche e la protezione del principe gli offrono ora fama e sicurezza. Qui, a Firenze, i suoi attacchi sono diretti contro gli aristotelici ai quali venivano affidati gli incarichi più importanti nelle università. I professori dello Studio pisano rimprovereranno a Galileo di aver usurpato l’ambito titolo di filosofo e di aver approfittato della magnanimità di Cosimo II per estorcergli uno stipendio

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alto senza offrire niente in cambio. Galileo appariva come un personaggio completamente fuori dall’ambiente accademico e fiero di esserlo. Il dibattito sulla condensazione e la rarefazione si trasformò in disputa anche perché alcuni esponenti dell’aristotelismo pisano erano ben decisi a sconfiggere Galileo sul terreno della filosofia naturale. I maggiori oppositori non scriveranno in latino, come avveniva quasi sempre nelle dispute fra filosofi, ma in volgare, per timore di perdere una parte dei lettori di Galileo. L’obiettivo consisteva nel cercare una vasta platea, ed assicurarsi la vittoria per controbilanciare i recenti successi galileani in astronomia. Le due edizioni del Discorso ebbero un gran successo e suscitarono una violenta opposizione che si articolò intorno agli scritti di quattro aristotelici: l’Accademico Incognito, Lodovico Delle Colombe, Giorgio Coresio e Vincenzio Di Grazia. L’Accademico era in realtà Arturo Pannocchieschi dei Conti d’Elci, provveditore generale dello Studio di Pisa. Pannocchieschi fu il primo ad intervenire, nel 1612, con un libro stampato a Pisa, le Considerazioni sopra il Discorso del Signor Galileo Galilei [...] fatte a difesa, e dichiarazione di Aristotile. L’opera era dedicata alla granduchessa Maria Magdalena, moglie di Cosimo II, e veniva presentata come traduzione in volgare di un originale scritto in latino. Le speculazioni sull’identità dell’anonimo oppositore iniziarono subito, e poiché il libro era stato stampato a Pisa, l’autore fu ricercato fra gli aristotelici pisani più in vista. L’assenza del nome sul frontespizio era incomprensibile, e d’altra parte la firma di Arturo Pannocchieschi alla fine della dedica alla granduchessa non lasciava pensare che fosse proprio lui l’autore. In realtà, l’autore anonimo non era un capriccio, né un’idea peregrina. La controversia sul galleggiamento aveva indotto i rappresentanti più qualificati dell’aristotelismo toscano a far fronte comune contro Galileo, che era giunto al vertice della celebrità senza aver mai fatto parte della élite intellettuale. La straordinaria ascesa del modesto professore di matematica non era certo gradita dal provveditore generale. Benché non avesse partecipato personalmente alla disputa, Pannocchieschi teneva assolutamente ad assicurarsi un

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ruolo di primo piano nella critica delle tesi galileane. La sua carica gli impediva di attaccare direttamente il filosofo e matematico del granduca. Occorreva quindi escogitare uno stratagemma per apparire con nome e cognome fra gli avversari di Galileo, senza tuttavia rivolgersi a lui direttamente. Restando incognito nella pagina del titolo, l’autore evitava lo scontro diretto, mentre la sua firma sotto la dedica alla granduchessa permetteva a Galileo di identificarlo immediatamente. Queste erano le previsioni di Pannocchieschi, ma purtroppo non si realizzarono. Monsignor Giovan Battista Agucchi, amico ed ammiratore di Galileo, credette di riconoscere nella maniera di trattare l’argomento Flaminio Papazzoni che, come abbiamo visto, era giunto da poco a Pisa. Agucchi comunicò in gran segreto la sua supposizione a Galileo, che la escluse, ma non cercò a sua volta un nome per l’ignoto accademico, e si preoccupò invece di annotare le Considerazioni. Nella parte introduttiva, l’Accademico ammetteva di aver scritto il libro in fretta, e per il resto seguiva pedissequamente l’opinione degli aristotelici. L’argomento che lo aveva particolarmente interessato era quello degli arginetti: se su di una superficie d’acqua si adagia una lamina larga e sottile di un metallo più pesante in specie dell’acqua, come per esempio l’oro, la lamina non affonda, ma dopo essere scesa pochissimo rispetto alla superficie del liquido, si ferma. Si constata allora la formazione – sotto la linea della superficie dell’acqua FL, DB – degli arginetti LA, DO (fig. 5). La spiegazione di Galileo era che in questo caso il corpo che galleggia non è costituito solamente dalla lamina, ma da quest’ultima più uno strato d’aria, cosicché la gravità in specie dell’insieme lamina più aria risultava più leggera di quella dell’acqua e quindi poteva galleggiare. Oggi il fenomeno viene attribuito alla tensione superficiale, ma la soluzione proposta da Galileo pur essendo errata era, per così dire, brillante. Tuttavia l’autore del Discorso non ne fu del tutto convinto ed in un’altra parte del libro attribuì all’aria una quasi virtù di calamita che le avrebbe permesso di trattenere la lamina (EN, IV.101-102). Nell’una come nell’altra interpretazione, gli arginetti si spiegherebbero quindi con la presenza dell’aria.

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D

L O

F

A I

H

I H

Figura 5

Si possono facilmente immaginare le obiezioni dell’Accademico, che colse l’occasione per ribadire l’opinione d’Aristotile (che di arginetti non si era mai occupato) relativa al ruolo della figura: secondo il filosofo la figura larga di un solido più grave in specie dell’acqua era sufficiente per mantenerlo a galla (EN, IV.164). Nell’insieme, le critiche di Pannocchieschi erano misuratissime. Alla fine del libro, l’autore proponeva alle due parti di mettersi d’accordo su di un mezzo termine, e di accontentarsi, ognuna, della metà della vittoria. Suggeriva, quindi, per spiegare il galleggiamento, di prendere in considerazione sia la resistenza della figura e del mezzo attraversato, come suggeriva Aristotele, sia la leggerezza, come spiegava Galileo, «per non ingaggiar litigi né dispute». Pur di giungere ad un accordo, l’Accademico era disposto a far dono di se stesso alle due parti (EN, IV.182). Ma a quali condizioni? Inventare principi diversi da quelli di Aristotele, spiegava Pannocchieschi, «s’è talora da qualche ingegno tentato, ma spuntato non s’è giammai» (EN, IV.157-158). Quindi, non c’era molto da sperare: la figura sarebbe rimasta al centro dell’interpretazione del galleggiamento. In realtà Pannocchieschi si era assunto il ruolo di moderatore, e lasciava agli altri oppositori il compito di demolire gli argomenti di Galileo. Le difficili dimostrazioni geometriche di Galileo non avevano nessun valore, secondo l’autore delle Considerazioni, perché non potevano tener conto di tutta la complessità dei fenomeni naturali e quindi avevano poco a vedere con la realtà. In definitiva, Pannocchieschi non si attardava sui punti che avrebbero

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potuto prestare il fianco a critiche significative. La lettura del suo libro lascia l’impressione di uno smarrimento nella selva delle spiegazioni di Galileo, e di un approccio retorico non sempre in relazione col contenuto del Discorso. Il provveditore generale dello Studio si accorgeva poco a poco che il compito che si era lui stesso assegnato risultava più difficile del previsto. Contrariamente a quanto aveva inizialmente progettato, Galileo non pubblicò la risposta allo scritto dell’Accademico Incognito. Le cose non andarono esattamente nello stesso modo per Giorgio Coresio, lettore di greco nello Studio di Pisa e autore dell’Operetta intorno al galleggiare dei corpi solidi, pubblicata nell’estate del 1612. Galileo considerò un affronto le critiche dell’autore, che accomunava l’approccio archimedeo e quello aristotelico, «stimandosi – scriveva Coresio – che i corpi più gravi dell’acqua non galleggino, ma discendino al proprio luogo, come l’autorità d’Aristotile e d’Archimede conferma» (EN, IV.211). Ricorrere alle due autorità supreme per affermare che i corpi più gravi dell’acqua affondano poteva apparire come una provocazione. Ma forse non fu il tentativo di mettere sullo stesso piano Aristotele ed Archimede che provocò l’irritazione di Galileo, ma la critica dell’atomismo di Democrito, esposta da Coresio in 26 frasi ognuna delle quali iniziava con la parola erra. L’iniziativa era tanto più irriverente, in quanto Galileo non aveva nascosto la sua simpatia per l’antico filosofo atomista. Nella risposta sono appunto gli errori, ma questa volta di Coresio, che vengono sottolineati già nel titolo: Errori dei più manifesti commessi da Messer Giorgio Coresio [...]. L’autore è Benedetto Castelli, fedelissimo discepolo, ma dietro il suo nome si nasconde quello di Galileo. Un autorevole amico dell’autore del Discorso, il principe Federico Cesi, fondatore, come sappiamo, dell’Accademia dei Lincei, suggeriva a Galileo, in una lettera del 6 ottobre 1612, di non rispondere agli avversari ma di far rispondere «da gioveni per mortificarli, e quelli che faranno le risposte possono essere in parte, e anco in tutto, aiutati» (EN, XI.409). In altri termini, Cesi suggeriva a Galileo di scrivere le risposte, ma di attribuirle a giovani studiosi, per mettere in evidenza l’opposizione delle nuove generazioni alla filosofia tradizionale.

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Il tono utilizzato dall’autore dell’Operetta non oltrepassava i limiti della correttezza e non meritava di essere accusato da Castelli-Galileo «di troppa animosità, arischiandosi disputare senza geometria con un geometra» (EN, IV.247). Che era un po’ come dire: taci, tu sei un ignorante! Forse gli autori della risposta si accorsero in tempo di esser passati dalla critica del contenuto agli attacchi ad hominem. Benché gli Errori fossero pronti per la stampa fin dall’autunno del 1612, Galileo e Castelli decisero di ritirarli. Il povero Coresio era nei guai per tutt’altri motivi, costretto, come sembrerebbe, a tornarsene per un po’ di tempo in Grecia, suo paese natale. Non è da escludere che gli autori degli Errori abbiano voluto far prova di generosità (DCF 1999). Nel dicembre del 1612 usciva a Firenze il Discorso apologetico d’intorno al Discorso di Galileo Galilei di Lodovico Delle Colombe, e nel giugno del 1613, sempre a Firenze, le Considerazioni sopra ’l Discorso di Galileo Galilei [...] di Vincenzio Di Grazia. Come sappiamo, gli incontri fra Delle Colombe e Galileo non solo non furono costruttivi, ma acuirono considerevolmente il dibattito. Nel Discorso apologetico si ritrovano qua e là allusioni agli incontri mancati. Secondo Delle Colombe, l’autore del Discorso «si risolvette [...] a mandar in luce il suo trattato intorno a questa materia, sperando far credere altrui col discorrere, quello che non può far vedere col senso» (EN, IV.319). Galileo, spiegava Delle Colombe, si era limitato alla presentazione di casi particolari, senza mai generalizzare. Fra i casi particolari da lui esaminati c’era la soluzione galileana del paradosso dei vasi comunicanti. Delle Colombe attribuiva il fenomeno, sbagliando a sua volta, al fatto che il liquido è lo stesso nei due vasi. L’acqua non pesa nell’acqua, e quindi è del tutto normale, secondo Delle Colombe, che l’acqua del gran vaso, benché più pesante in assoluto, non scacci la piccola quantità presente nel vaso più piccolo. L’intervento di Vincenzio Di Grazia era anch’esso in difesa dell’opinione di Aristotele, ma nel suo libro c’era in più una precisa distinzione fra lo scientifico naturale e il matematico, diretta a liquidare definitivamente la validità delle dimostrazioni geo-

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metriche. «[Lo scientifico] naturale – scrive Di Grazia – considera la materia sensibile de’ corpi naturali, e per quella rende molte ragioni de’ naturali accidenti; e il matematico di quella niente si cura» (EN, IV.385). In altri termini, nei fenomeni naturali le dimostrazioni geometriche non servivano a nulla. Delle Colombe e Di Grazia, che non appartenevano al gruppo dei professori pisani, avranno diritto, ma non necessariamente per questo motivo, ad una risposta scritta, firmata da Castelli, rivista ed in alcuni casi riscritta da Galileo. La Risposta alle opposizioni di L. Delle Colombe e di V. Di Grazia sarà pubblicata solamente nella primavera del 1615. Il tono risulta risolutamente polemico e senza concessioni. Al Delle Colombe, che chiedeva spiegazioni sulle conseguenze derivanti dalla struttura atomistica della materia, la risposta arriva come un pugno nell’occhio. «S’io avessi a mostrargli e ’nsegnargli tutto quello che non vede e non intende – scriveva Castelli-Galileo –, non verrei mai a fine di quest’opera» (EN, IV.528). Gli autori non intendono conciliarsi l’animo degli aristotelici, ma smascherarli, mostrare l’inutilità, e peggio ancora il pericolo della loro erudizione. Come per Coresio, l’attacco era ad hominem, ma questa volta su carta stampata. Nei confronti del Di Grazia c’era meno acrimonia, forse perché le sue Considerazioni non erano sempre farina del suo sacco. Le informazioni circolavano e le responsabilità di personaggi che non avevano preso parte alla disputa contribuivano più degli altri ad inasprirla. «Nomino il Sig. Grazia – scrive Castelli-Galileo – non perché io non sappia che egli trascrive questo e tutto il resto delle sue Considerazioni da altri» (EN, IV.713). La Risposta non suscitò lo stesso interesse del Discorso. Spinse invece gli avversari a serrare le file contro il tentativo di demolizione attribuito a Galileo. Gli aristotelici non uscirono sconfitti e Galileo non tirò gran profitto dalla disputa. Il Discorso provocò invece l’entrata in scena sul teatro della filosofia naturale degli aristotelici di ogni sponda, riuniti nella difesa di una immagine e di una dottrina che costituivano il fondamento di tutto ciò che veniva insegnato nelle università italiane e che non avrebbe mai ceduto il passo a nuovi orientamenti. Ma Galileo

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non era stato sconfitto. Gli amici ed i nemici potevano sperare o disperarsi pensando alle possibili nuove scoperte astronomiche. E in effetti, dietro le quinte c’erano, pronti ad intervenire, personaggi che poco sapevano e poco volevano sapere del galleggiamento. Si interessavano invece alla circolazione delle idee nuove, soprattutto se ne era autore quel Galileo del cannocchiale e del Sidereus Nuncius. L’osservazione di Castelli-Galileo al «Sig. Grazia» era un invito a farsi avanti a viso scoperto. Ma non venne raccolto. Cosa ne pensava il granduca? Di tutto questo non volle saper nulla. Dal suo punto di vista la presenza di Galileo a Firenze giovava all’immagine del Granducato e per il resto i risultati si sarebbero visti col tempo. La controversia sulle «macchie solari» La disputa sul galleggiamento imperversava ancora, quando si profilò l’arrivo di un nuovo scontro. Questa volta l’argomento era astronomico e l’avversario un illustre gesuita che rimaneva nascosto e, come Pannocchieschi, non riconoscibile. Già da tempo, Galileo aveva osservato sulla superficie del Sole alcune macchie, che in realtà non costituivano una novità assoluta. Tuttavia, inserite nel quadro delle scoperte recenti contribuivano, accanto alle lontane montagne lunari, a smentire la perfezione dei corpi celesti. Il ritorno nel cielo, e per giunta con l’intenzione di osservare il più luminoso degli astri, si annunziava burrascoso. Galileo si trovava ancora a Padova quando questa strana imperfezione della superficie solare aveva attirato per la prima volta la sua attenzione. Ne parlò subito ad amici come Paolo Sarpi, e più tardi ad alcuni matematici del Collegio Romano. Il 1° ottobre del 1611 vi faceva allusione in una lettera indirizzata a Ludovico Cigoli. Il Sole, spiegava Galileo, sembra possedere un movimento di rotazione intorno al proprio asse, che si riesce a vedere mediante le mutazioni delle sue macchie (EN, XI.214). Pressappoco nello stesso periodo, e cioè verso la metà del 1611,

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l’astronomo gesuita tedesco Christoph Scheiner osservò a sua volta il fenomeno ad Ingolstadt, dove risiedeva. Secondo Scheiner le macchie erano in realtà una moltitudine di stelline che giravano intorno al Sole. Per assicurarsi la priorità della scoperta, scrisse tre lettere in latino a Markus Welser, che le pubblicò ad Asburgo, in Baviera, con il titolo Apellis latentis post tabulam tres epistolae de maculis solaribus (Tre lettere sulle macchie solari di Apelle nascosto dietro il tavolo). Lo pseudonimo faceva riferimento alla leggenda del pittore greco Apelle che si era nascosto dietro un suo quadro per ascoltare le critiche dei visitatori. Un calzolaio che stava ammirando il quadro si soffermò sul disegno di una scarpa e ne criticò alcuni dettagli. Apelle uscì allora dal nascondiglio e lo ringraziò per la precisione delle sue osservazioni. Incoraggiato dal gesto del pittore, il calzolaio volle estendere la critica ad altri particolari del quadro. Apelle trovò l’iniziativa inopportuna e lo apostrofò in termini tutt’altro che lusinghieri: «calzolaio, fermati alle scarpe!». Nella prima delle tre lettere, che è del 12 novembre 1611, Apelle dichiarava di aver osservato, sette o otto mesi prima, delle macchie nerastre vicino al Sole. La sua scoperta risaliva, quindi, al marzo 1611. Il 6 gennaio Welser inviò un esemplare della pubblicazione a Galileo con la speranza di interessarlo alle ricerche del gesuita tedesco. Ma le tre lettere di Apelle e quella di Welser trovarono Galileo malato, depresso, in preda alla malinconia, ottime ragioni, queste, per non rispondere. Benché sorpreso dal prolungato silenzio, Welser non si scoraggiò e gli scrisse di nuovo il 23 marzo. La risposta di Galileo partirà da Firenze il 4 maggio. Era scritta in italiano, una lingua che Welser conosceva perfettamente, ma che Apelle-Scheiner ignorava. In una lettera a Paolo Gualdo del 16 giugno 1612, Galileo spiegherà le ragioni di questa scelta. «Io l’ho scritta vulgare – scrive Galileo – perché ho bisogno che ogni persona la possi leggere, e per questo medesimo rispetto, ho scritto nel medesimo idioma questo ultimo mio trattato» (EN, XI.327). L’ultimo trattato, è il Discorso di cui ci siamo occupati nel paragrafo precedente. La decisione di scrivere in italiano fu nel complesso rispettata nelle opere successive.

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Galileo esitava ad esprimersi per iscritto sulla natura delle macchie solari. Erano davvero macchie o corpi fuori dalla superficie dell’astro, come riteneva Scheiner? La domanda era difficile e quindi era preferibile astenersi dal rispondere. «Da gl’inimici delle novità – scrive Galileo in questa stessa lettera a Welser –, il numero de i quali è infinito, ogni errore, ancor che veniale, mi sarebbe ascritto a fallo capitalissimo, già che è invalso l’uso che meglio sia errar con l’universale, che esser singolare nel rettamente discorrere» (EN, V.95). L’allusione a qualche errore veniale si riferisce forse agli errori sparsi qua e là nel Discorso, errori che Galileo ammetterebbe, quindi, di aver commesso. La cosa è da segnalare, anche se in termini di congettura, poiché l’allusione ai propri errori non è frequente in Galileo. Si sarebbe trattato tuttavia di errori riscontrati nel Discorso che, a differenza del Sidereus Nuncius, non attirava particolarmente l’attenzione dei teologi. La soluzione scelta in questa prima lettera a Welser (ne seguiranno altre due) consistette nello spiegare ciò che le macchie non potevano essere. Ma prima d’ogni altra cosa, bisognava indicare la data in cui le aveva osservate per la prima volta. Nella lettera di Welser del 6 gennaio 1612 c’era un’allusione velata alla priorità della scoperta. «Veda ciò che si è arrischiato questo mio amico – scriveva Welser – e se a lei non riuscirà cosa totalmente nuova, come credo, spero però che le sarà di gusto» (EN, XI.257). Galileo indicava di avere osservato le macchie 18 mesi in qua, quindi nel mese di ottobre del 1610, poiché, come s’è detto, questa lettera è del 4 maggio 1612. Dunque, Galileo avrebbe visto le macchie solari circa cinque o sei mesi prima di Scheiner. Queste date sono da ricordare, poiché la priorità è uno degli aspetti della controversia, senza dubbio il più importante per Scheiner che accuserà Galileo di avergliela usurpata. Uno degli argomenti sviluppati da Apelle contro l’esistenza di macchie sulla superficie stessa del Sole risultava dalla nozione della perfezione dei corpi celesti. «Se le macchie si trovassero nel Sole – scrive Apelle-Scheiner –, il Sole stesso dovrebbe cambiare», il che, secondo l’autore, era poco verosimile (EN, V.26). Galileo rispondeva che se il Sole si mostra impuro e mac-

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chiato, perché non dovremmo dirlo? «I nomi e gli attributi – egli scrive – si devono accomodare all’essenza delle cose, e non l’essenza a i nomi; perché prima furono le cose, e poi i nomi» (EN, V.97). In altri termini, ciò che viene osservato nelle cose determina gli attributi, e se i dati forniti dalle osservazioni cambiano, gli attributi devono anch’essi cambiare. La risposta metteva in evidenza l’abisso che separava le posizioni di Galileo da quelle dell’astronomo tedesco. Per Scheiner i principi, in astronomia come in tutte le altre scienze, avevano un valore quasi dogmatico. Custodita nella vasta biblioteca della filosofia scolastica, la perfezione del Sole era un principio che non aveva bisogno di essere dimostrato. Ogni tentativo di spiegazione doveva tenerne conto, anche se si trattava di spiegazioni basate su dati sperimentali. Galileo combatterà sempre più apertamente questa posizione, pur sapendo che il peso della tradizione era enorme e difficile da smuovere. Sulla natura delle macchie egli dirà solamente che il nome di stelle non è il più adatto, poiché le stelle, siano esse fisse o erranti, conservano sempre la stessa figura sferica e non si dissolvono, come avviene per le macchie solari. D’altra parte, diversamente dalle stelle, le macchie non avevano un movimento periodico. Una delle ipotesi era che si trattasse di vapori, o esalazioni o nuvole. Paragonarle ai satelliti di Giove era quindi inaccettabile (EN, V.108-109). Apelle le aveva in effetti designate col nome di stellae o di sidera heliaca (astri solari). Nella risposta del 1° giugno 1612 a questa prima lettera di Galileo, Welser faceva allusione alle difficoltà incontrate per convincere Apelle della validità dell’interpretazione di Galileo. Ci vorrà del tempo prima che l’astronomo tedesco si decida ad accettarla. Poiché non conosceva l’italiano, Apelle chiedeva che gli venisse presentata una traduzione della lettera in latino, mentre Welser proponeva di pubblicarla subito, ad Asburgo. Nel frattempo Galileo aveva incaricato l’amico Martino Santelli di tradurla in latino. Ma le cose andarono per le lunghe ed in realtà la traduzione non vide mai la luce. Quanto poi alla pubblicazione, era auspicabile che le lettere venissero stampate a Roma, come suggeriva il principe Cesi. Gli scritti di Galileo dovevano essere pubblicati in Italia ed in italiano, con l’imprimatur di Ro-

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ma. Da fervente cattolico qual era, l’autore aspirava soprattutto ad ottenere il riconoscimento delle supreme autorità romane. Il 14 agosto dello stesso anno, Galileo inviò a Welser una seconda lettera che conteneva una descrizione dettagliata del metodo utilizzato per osservare e disegnare le macchie solari. Benedetto Castelli – al quale Galileo rendeva omaggio definendolo uomo d’ingegno eccellente e libero nel filosofare – aveva avuto l’idea di proiettare l’immagine su di un foglio di carta posto ad una distanza dal vetro concavo, e cioè dall’oculare, di quattro o cinque palmi (1 palmo toscano era uguale a 19 cm circa). Si otteneva così l’ingrandimento del Sole con tutte le sue macchie. L’ingrandimento aumentava, spiega Galileo, con la distanza del foglio dall’oculare. La descrizione del dispositivo realizzato da Castelli occupava un’intera pagina, ricca di dettagli, in particolare sulla maniera di disegnare le figure del Sole destramente secondando il [suo] movimento, e cioè spostando l’insieme carta-cannocchiale per seguire il Sole nel suo movimento apparente. Si evitavano, grazie a questo metodo, i danni alla vista (EN, V.136-137) che potevano provocare lesioni irreversibili. Di fronte a questa realizzazione, semplicissima e nello stesso tempo straordinaria, Galileo esultava come per le sue più grandi scoperte. Il filosofo geometra è, da questo punto di vista, il capostipite di una nuova dinastia di scienziati, esperti nel mettere la tecnica al servizio della scienza sperimentale e teorica. La realizzazione degli strumenti matematici, e soprattutto la costruzione e l’uso del cannocchiale, rappresentano in tal senso un esempio significativo. In questa stessa lettera Galileo faceva allusione alle macchie solari osservate ad occhio nudo, talvolta per più giorni, prima dell’apparizione del cannocchiale. Gli astronomi che sostenevano l’immutabilità dei corpi celesti asserivano che non si trattava di macchie sulla superficie del Sole, ma del passaggio del pianeta Mercurio interposto, come spiega Galileo, fra il Sole e noi. Seguiva un aneddoto che coinvolgeva Keplero. Il 16 aprile dell’anno 807, racconta Galileo, una piccola macchia nera era apparsa sulla superficie del Sole e, secondo quan-

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to si leggeva in numerose testimonianze, il fenomeno era stato osservato per otto giorni consecutivi ed attribuito al passaggio di Mercurio dinanzi al Sole. Ma questa interpretazione, osserva Galileo, è troppo grande errore, poiché la congiunzione SoleMercurio non poteva durare più di sette ore. Si trattava, quindi, secondo Galileo, di una vera e propria macchia. In uno scritto in latino dal titolo Phenomenon singulare seu Mercurius in Sole (Un fenomeno singolare, ovvero Mercurio dinanzi al Sole), pubblicato a Lipsia nel 1609, Keplero aveva attribuito il fenomeno alla congiunzione Mercurio-Sole. In questa seconda lettera a Welser Galileo rimproverava all’astronomo tedesco di aver salvato la sua interpretazione «con le alterazioni del testo ed altre emendazioni dei tempi». In effetti, le tavole astronomiche indicavano che la congiunzione era avvenuta nell’anno 808 e quindi Keplero, come si legge nello scritto citato, aveva posticipato di un anno la data dell’avvenimento, e corretto otto giorni in otto ore. Conclusione di Galileo: «detto autore, come vero filosofo e non renitente alle cose manifeste, non prima sentirà queste mie osservazioni e discorsi, che gli presterà tutto l’assenso» (EN, V.138). Non sappiamo cosa abbia pensato Keplero di questa conclusione. Ne fu probabilmente sorpreso, forse irritato. La corrispondenza fra i due astronomi era ormai interrotta da circa un anno, ma Galileo insisterà sull’errore di Keplero nella terza lettera a Welser. L’astronomo tedesco, che aveva iniziato ad osservare le macchie solari verso la metà del 1610, non reagì alle critiche di Galileo. Continuò ad osservare il Sole e giunse rapidamente alla conclusione che le macchie erano costituite da materia molto simile alle nostre nubi (BMA 2003, 214-215). L’errore di Keplero non era certo dovuto al desiderio di salvare la perfezione del Sole e non meritava di figurare nel contesto della disputa sulle macchie solari. Ma forse Galileo l’aveva tirato in ballo per il piacere di polemizzare. Dopo essersi felicemente ritrovati in occasione della scoperta dei satelliti di Giove, i due astronomi si erano allontanati di nuovo. Galileo non ne spiegherà i motivi, ma non perderà occasione per criticare il suo collega tedesco e persino ridicolizzarlo. In una lettera del 1° di-

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cembre 1618 indirizzata al medico ed astronomo Giovanni Remo Quietano, Keplero ammetterà l’esistenza di dissensi con Galileo che non concernevano la fisica, ma la metafisica, e più precisamente i principi «su cui dovrebbe poggiare la nuova scienza copernicana», come sottolinea Massimo Bucciantini nel suo recente lavoro dedicato ai due astronomi. Pur partendo dalla medesima costituzione copernicana del mondo, i progetti di Keplero e di Galileo finivano col diventare incompatibili fra di loro (BMA 2003, 243-244). Nella seconda lettera, Galileo aveva inserito inizialmente una critica della nozione aristotelica d’incorruttibilità dei corpi celesti, citando alcune verità contenute nella Sacra Scrittura, ma decise di eliminarle, probabilmente dopo aver considerato che non era opportuno trattare l’argomento in uno scritto destinato alle stampe. Alla fine del mese di settembre 1612 usciva ad Asburgo, sempre sotto forma di lettera a Welser, un nuovo scritto di ApelleScheiner dal titolo De maculis solaribus et stellis circa Iovem errantibus accuratior disquisitio (Disquisizione più accurata sulle macchie solari e sulle stelle erranti intorno a Giove) (EN, V.37-70). L’autore continuava a firmare con lo pseudonimo già utilizzato, ma proponeva nello stesso tempo una variante che era un omaggio a Welser: Ulysses sub Aiacis clypeo (Ulisse sotto lo scudo di Aiace) (EN, V.70). Scheiner era convinto d’essere stato scoperto, tuttavia la finzione continuava, anche perché i responsabili della Compagnia di Gesù non avrebbero visto di buon occhio l’aperto interesse di un confratello nei confronti di queste macchie che erano poco probabili e sicuramente inopportune. In un primo momento, il padre provinciale Theodorus Busaeus aveva proibito a Scheiner di pubblicare i risultati delle sue ricerche. Ma il buon padre aveva finito col cedere forse dopo aver consultato Roma, dove Odo van Maelcote, che come si ricorderà aveva accolto Galileo al Collegio Romano, interrogava Keplero su questo nuovo enigma astronomico (BMA 2003, 213-219). Forse, in cambio dell’autorizzazione a pubblicare, Scheiner aveva promesso di sottolineare con accresciuto vigore l’incorruttibilità dei corpi celesti. Sta di fatto che questa nozione venne ampiamente illustra-

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ta, più di quanto era stato fatto nelle tre lettere precedenti. «Poiché – scrive Apelle-Scheiner – il Sole è un corpo duro e invariabile (secondo un’opinione conosciuta da tutti i filosofi e matematici), è impossibile, anche se si ammette una rotazione dell’astro, che una variazione così grande di figure nere possa prodursi; [questo può avvenire solo] fuori dal Sole» (EN, V.49). Tuttavia, nella descrizione di Apelle le macchie rassomigliavano sempre meno a delle stelle. Nonostante tutto, l’astronomo gesuita le paragonava ai satelliti di Giove, che non chiamava Astri medicei ma «Compagni di Giove». Credeva d’altra parte di aver scoperto un quinto satellite, che si affrettava a dedicare a Welser. Scheiner era un valente matematico ed un astronomo dotato di una notevole esperienza nell’osservazione del cielo. Nella sera dell’11 dicembre 1611 aveva scrutato la congiunzione Venere-Sole. Il pianeta si trovava esattamente fra la Terra ed il Sole (congiunzione inferiore) e, partendo da questa posizione, Scheiner aveva dimostrato con metodo geometrico che, effettivamente, la sua traiettoria si allontanava dalla Terra e tendeva a contornare il Sole, confermando, quindi, le conclusioni alle quali era giunto Galileo. Benché la notizia non costituisse una novità, Scheiner l’aveva comunicata a Welser. Galileo rispose ad Apelle nella terza lettera a Welser scritta il 1° dicembre 1612, osservando che la dimostrazione era insufficiente per convincere coloro che ancora dubitavano della traiettoria descritta da Venere. E dopo averla discussa, rinviava a quanto già indicato nella sua prima lettera a Welser, e cioè che il metodo da lui scoperto quasi due anni prima – basato sull’osservazione delle fasi di Venere – era un mezzo esquisitissimo e sensato per giungere alla conclusione che il pianeta girava intorno al Sole (EN, V.98). Come sappiamo, nel sistema di Tycho Brahe, in cui la Terra è immobile al centro del Mondo, le fasi di Venere sarebbero state osservate come lo erano nel sistema di Copernico. Ma in questa terza lettera a Welser si fa chiaramente riferimento al sistema eliocentrico. «Ai molti periti della scienza astronomica – scrive Galileo – bastava l’aver inteso quanto scrive il Copernico nelle

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sue Revoluzioni per accertarsi del rivolgimento di Venere intorno al Sole e della verità del resto del suo sistema» (EN, V.195). Un riferimento al sistema di Copernico, in cui Venere e tutti gli altri pianeti si raggiravano intorno al Sole, c’era già nella prima lettera (4 maggio 1612). In questa terza lettera, scritta circa sei mesi dopo, Galileo sottolineava, per la prima volta in un testo in italiano, la verità di tutto il sistema copernicano. L’iniziativa era tanto più sorprendente in quanto l’autore sapeva che le lettere sulle macchie solari sarebbero state pubblicate a Roma qualche mese dopo. È presumibile che l’espressione verità del resto del suo sistema, con riferimento a Copernico, sia stata inserita per poter valutare le reazioni romane. Galileo si sarebbe sentito incoraggiato se il libro avesse superato l’esame della censura. La smentita dell’esistenza di un quinto satellite di Giove scoperto da Scheiner non si fece attendere. «Torni ad osservare il numero [delle stelle di Giove] – scrive Galileo rivolgendosi a Welser –, che troverà non esser più di 4; e quella quinta che [Apelle] nomina fu senz’altro una stella fissa» (EN, V.227). I satelliti di Giove sono, com’è noto, più di quattro, ma con i cannocchiali dell’epoca Scheiner e Galileo potevano vederne solamente quattro. Galileo non conosceva ancora l’identità di Apelle, ma numerosi indizi lasciavano supporre che si trattasse di un gesuita. Apelle faceva spesso allusione ai matematici del Collegio Romano ed a Clavio, che considerava «il maestro di tutti gli astronomi del nostro tempo». Inoltre il principe Cesi era stato colpito, e l’aveva fatto sapere a Galileo, dalla interpretazione delle macchie solari proposta nel corso di un dibattito al Collegio Romano il 9 settembre 1612. Per gli astronomi gesuiti, come per Apelle, si trattava di stelle piccolissime che si muovevano a sciami intorno al Sole. Si poteva quindi congetturare, secondo Cesi, che l’autore delle lettere a Welser appartenesse anch’egli alla Compagnia di Gesù. Il pittore Cigoli era dello stesso parere. Ma nella misura in cui l’identità di Apelle non era ufficialmente nota, non si poteva accusare Galileo d’aver cercato di polemizzare con un membro della Compagnia. Se lo fosse stata gli astronomi del Collegio Romano non sarebbero rimasti indifferenti al-

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l’atteggiamento polemico di Galileo nei confronti di un loro confratello. Le differenze fra i due avversari erano notevoli. Galileo non si riferiva a principi immutabili e le sue interpretazioni erano solamente il risultato di osservazioni astronomiche. Le macchie si trovavano molto probabilmente vicino alla superficie del Sole e rassomigliavano alle nostre nuvole, ma non si poteva affermare che fossero proprio nuvole. Questo era vero anche per il movimento apparente delle macchie, che, secondo Galileo, era dovuto al movimento reale del Sole intorno al proprio asse. Ben diversa era la posizione di Scheiner, costretto, nella sua qualità di membro della Compagnia di Gesù, a costruire una spiegazione convincente per salvare il principio di perfezione e di immutabilità del Sole. Galileo credeva fermamente nella sua libertà di dire il vero. Grazie alla notorietà acquisita nell’ultimo periodo, poteva accingersi a demolire pezzo per pezzo il mondo di Aristotele e di Tolomeo, nel quale non aveva più nessuna ragione di credere. In questo senso, le macchie solari rappresentavano un fatto importante e contribuivano a convincere l’autore del Sidereus Nuncius della necessità e della possibilità di cambiare la visione del Mondo. È verosimile che in pecto Galileo considerasse vicinissima la vittoria. Le prime iniziative per ingaggiare la lotta saranno prese, come vedremo, pochi mesi dopo la pubblicazione delle lettere sulle macchie solari e condurranno ad una prima sconfitta. Quanto a Scheiner, se la sua costruzione fosse crollata, gli restava, per consolarsi, la priorità della scoperta. Era il solo punto, in questa controversia, che poteva affrontare da solo senza chiedersi cosa ne pensasse la Compagnia. Eppure la vittoria non gli fu concessa neanche su questo punto. Molti anni dopo, nella Rosa Ursina pubblicata a Roma nel 1630, Scheiner riconoscerà che le macchie non erano stelle, ma non ammetterà di non essere stato il primo ad averle osservate. In realtà le macchie erano state viste nel 1610 dall’inglese Thomas Harriot, ma i risultati delle sue osservazioni saranno conosciuti solamente nel XVIII secolo. Nel giugno del 1611, l’olandese Johann Fabricius aveva pubblicato a Wittenberg il De maculis in Sole observatis [...], che né Galileo né Scheiner cono-

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scevano. Ma poiché un problema di priorità era sorto fra l’astronomo italiano ed il gesuita tedesco, l’indagine degli storici si è concentrata essenzialmente su di loro, stabilendo, come s’è detto, che le prime osservazioni di Galileo precedettero di cinque o sei mesi quelle di Scheiner (CM 2004, 239-245). Il 9 novembre 1612, prima ancora che la terza lettera di Galileo fosse inviata a Welser, i lincei decisero di pubblicare a Roma le tre lettere di Galileo. La censura ecclesiastica espresse qualche riserva e concesse l’imprimatur con qualche mese di ritardo sulla data prevista. Il libro, che doveva essere pubblicato all’inizio del 1613, uscì solamente a marzo, col titolo Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti. Il ritardo fu messo a profitto dagli amici di Galileo per inserire, nella metà delle 1400 copie stampate, le tre lettere di Apelle e la sua De maculis solaribus. La diffusione in Germania dell’edizione in cui erano state inserite le lettere di Scheiner non fu autorizzata da Welser e d’altra parte l’identità di Apelle non fu rivelata nell’edizione italiana. Non sappiamo quanto avessero perso o guadagnato i promotori, Welser e Cesi, in questa iniziativa editoriale. A differenza di Cesi, il ricco banchiere tedesco non aveva l’abitudine d’investire a perdita. I successi di Benedetto Castelli Il soggiorno di Castelli a Firenze, previsto inizialmente per osservare le macchie solari, si protrasse per più di trenta mesi durante i quali l’abate alloggiò all’abbazia cassinense. La cultura matematica e l’interesse per le novità scientifiche del fedelissimo discepolo di Galileo avevano favorevolmente impressionato Filippo Salviati, che lo invitò sovente insieme al Maestro per godere, come soleva ripetere, della loro conversazione. Questo lungo periodo non fu dedicato solamente alla ricerca degli errori negli scritti sul galleggiamento e sull’osservazione delle macchie solari. L’abate scrisse numerose pagine sugli argomenti che lo interessavano ed in particolare un lungo artico-

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lo sulle macchie solari, che non pubblicò, forse per modestia o per non interferire con gli scritti elaborati insieme a Galileo. Castelli non disponeva di risorse finanziarie fisse e per racimolare qualche soldo era costretto a impartire a studenti fiorentini e stranieri corsi privati mal retribuiti. L’abate aspirava ad un incarico universitario e contava sull’appoggio di Galileo per ottenerlo. L’occasione si presentò dopo la morte, probabilmente nel 1612, di Antonio Santucci, titolare della cattedra di matematica allo Studio di Pisa. Santucci, che era noto come costruttore di strumenti scientifici, era anche l’autore di un Breve discorso sopra il Trattato del Signor Galileo Galilei delle cose, che galleggiano sopra l’acqua [...], di chiara impostazione aristotelica, mai stampato e del quale Galileo ignorava probabilmente l’esistenza (DCF 1999, 156163). Il filosofo e matematico del granduca non ebbe difficoltà per far assegnare la cattedra al suo discepolo, con una remunerazione annua di 130 scudi. Benché modesto, lo stipendio di Castelli era più del doppio di quello percepito da Galileo a Pisa dal 1589 al 1592. Vero è che Galileo aveva all’epoca 25 anni, mentre don Benedetto ne aveva dieci di più. Castelli arrivò a Pisa il 3 novembre 1613 e si presentò immediatamente, com’era d’obbligo, al provveditore generale Arturo Pannocchieschi, l’Accademico Incognito che abbiamo incontrato nel paragrafo precedente. L’accoglienza fu calorosa e piena di attenzione per il nuovo professore. Il provveditore volle conoscere subito le grandi linee del programma d’insegnamento e consigliò vivamente a Castelli di non fare mai allusione al movimento della Terra. Il neo-professore rispose, come egli stesso indicava in una lettera a Galileo del 6 novembre, che il consiglio del provveditore era per lui un ordine. Galileo s’era già preoccupato, precisava Castelli, di dargli lo stesso consiglio, tanto più che durante i 24 anni d’insegnamento non aveva mai trattato questo argomento (EN, XI.589-590). Ed era proprio così: Galileo aveva impartito un insegnamento tradizionale, sia a Pisa che a Padova (per ventuno e non ventiquattro anni, come indicava l’abate). In effetti le nuove idee non avevano varcato la soglia delle università. C’era stata una sola eccezione, a Padova, dove negli

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ultimi giorni di insegnamento Galileo aveva dedicato qualche lezione alle recenti scoperte astronomiche. Gli argomenti a favore o contro il movimento della Terra e la stabilità del Sole servivano invece come pretesto nelle disputationes. La disputa sul galleggiamento non aveva suscitato interessi fra gli intellettuali pisani e, come sottolineava Castelli in una successiva lettera al Maestro, a Pisa nessuno ne parlava. L’immagine dello Studio era rimasta quella del tempo di Galileo. La lezione inaugurale del nuovo professore fu tenuta il 7 novembre ed ebbe un gran successo, nonostante le riserve manifestate dai peripatetici. Ai primi di dicembre Cosimo II si trasferì con tutta la corte a Pisa. Il soggiorno si protrasse per alcune settimane ed offrì l’occasione al granduca di incontrare i professori ed informarsi sulle attività didattiche e sui loro interessi personali. Il 12 dicembre, nel corso di una cena alla quale erano stati invitati Castelli e Cosimo Boscaglia, lettore di filosofia, si produsse un fatto singolare ed insolito, che Castelli si premurò di comunicare due giorni dopo a Galileo. Il granduca, che sedeva a tavola insieme alla moglie Maria Magdalena, alla granduchessa Cristina di Lorena ed a numerosi ospiti, chiese a Castelli se disponeva di un cannocchiale. Dopo aver risposto affermativamente, il discepolo di Galileo colse l’occasione per parlare delle osservazioni dei pianeti medicei da lui effettuate la sera precedente. La granduchessa Cristina volle sapere come erano disposti, e si passò quindi a parlare della loro reale esistenza. Boscaglia ammise che non si poteva negare che esistessero, e Castelli ne approfittò per parlare della straordinaria scoperta e dei nuovi dati in suo possesso sui movimenti delle quattro stelline. Prese quindi congedo e si avviò verso l’uscita. Ma era appena fuori dal palazzo, quando il portiere della granduchessa gli chiese di tornare indietro. «Ma avanti ch’io dica quel che seguì – raccontava Castelli nella lettera a Galileo del 14 dicembre 1613 –, V.S. deve prima sapere che alla tavola il Boscaglia sussurrò un pezzo all’orecchie di Madama [Cristina di Lorena] e concedendo per vere tutte le novità celesti ritrovate da V.S., disse che solo il moto della Terra aveva dell’incredibile e non poteva essere, massime che la Sacra Scrittura era manifestamente con-

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traria a questa sentenza» (EN, XI.606). Il problema astronomico veniva quindi esposto per la prima volta in presenza delle Altezze Serenissime. L’avvenimento era tanto più importante in quanto la granduchessa Cristina decise di discuterne subito. Castelli fu quindi introdotto nell’appartamento di madama Cristina di Lorena, dove erano ad attenderlo il granduca e la moglie Maria Magdalena, la granduchessa Cristina, Antonio de’ Medici, Paolo Giordano Orsini, nobile romano, e, beninteso, il Boscaglia. La granduchessa, dopo aver fatto alcune domande, sviluppò argomenti contrari alle opinioni di Castelli, che ne approfittò immediatamente per sostenere il ruolo di teologo. E lo fece con tanta riputazione e maestà, scrive l’abate in questa stessa lettera, che anche Galileo lo avrebbe ascoltato con piacere. Il neo-professore, che aveva assicurato la difesa da vero paladino, come egli stesso scriveva, poteva esultare: tutti i presenti, compreso il granduca, erano stati dalla sua parte. Paolo Giordano Orsini aveva persino citato un passo della Sacra Scrittura (non sappiamo quale) a difesa degli argomenti sviluppati da Castelli. Solo la granduchessa lo contraddiceva, ma in modo tale, a giudizio di Castelli, che sembrava lo facesse solo per il piacere di sentirlo parlare. Boscaglia taceva (EN, XI.606-607). Benché malato, Galileo, che ricevette la lettera di Castelli il 15 dicembre, pensò di rispondere immediatamente alle obiezioni di Boscaglia e della granduchessa. Questa decisione segnava una svolta importante nel suo comportamento. Mentre solo pochi mesi prima aveva ritirato dalla seconda lettera a Welser sulle macchie solari l’allusione al contenuto della Sacra Scrittura, ora pensava di affrontare questo argomento e di prendere chiaramente posizione sul rapporto fra scienza e fede. In che modo? In una o più lettere indirizzate ad amici ed a personalità politiche e religiose. La circolazione di eventuali copie manoscritte avrebbe permesso di diffondere le sue opinioni su questo importantissimo problema, senza ricorrere ad una versione a stampa che avrebbe difficilmente superato gli ostacoli della censura. Il destinatario della prima lettera sarà proprio l’abate Benedetto Castelli.

V FRA ASTRONOMIA ED ERMENEUTICA SACRA In cerca di «verità» Il 20 dicembre Niccolò Aggiunti, gentiluomo fiorentino, letterato ed amico di Galileo, giunse a Firenze proveniente da Pisa per assistere ai lavori della prestigiosa Accademia della Crusca, fondata nel 1582 col precipuo scopo di espellere dalla lingua italiana i vocaboli e le locuzioni suscettibili di nuocere alla sua purezza. Castelli aveva incaricato Niccolò Arrighetti di fare un resoconto preciso a Galileo dell’avvenimento insolito di cui era stato protagonista. La relazione verbale avrebbe completato utilmente le informazioni contenute nella lettera del 14 dicembre 1613. Fu proprio dopo aver ascoltato Arrighetti che Galileo decise, il 21 dicembre 1613, di scrivere una lettera indirizzata a Benedetto Castelli in cui un primo punto, senza dubbio il più importante, era dedicato al ruolo della Sacra Scrittura nelle dispute su problemi di filosofia naturale (EN, V.281-288). La frase alla quale si faceva riferimento fin dalle prime righe descrive le conseguenze della richiesta formulata dal personaggio biblico Giosuè di fermare il Sole durante la battaglia di Gabaon. Dio l’esaudì ed impose al Sole di fermarsi, permettendo così al suo protetto di sconfiggere il nemico prima che calasse la notte. Secondo quanto riferisce il testo sacro, «il Sole si immobilizzò nel mezzo dei cieli e ritardò il tramonto di circa un giorno intero» (Libro di Giosuè, X, 12-13). L’interpretazione ad litteram era chiarissima: solo un corpo in movimento può essere immobilizzato, quindi, secondo gli interpreti della Sacra Scrit-

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tura, la frase contraddiceva l’immobilità del Sole, che è a fondamento del sistema copernicano. Il testo biblico sarà oggetto di un’accurata interpretazione – esposta, come vedremo, nell’ultima parte della lettera a Castelli – tendente a dimostrare che nel sistema aristotelico-tolemaico l’arresto del Sole avrebbe avuto come conseguenza di accorciare il giorno e non di allungarlo, mentre nel sistema copernicano l’arresto del movimento del Sole intorno al proprio asse, recentemente messo in evidenza osservando le macchie solari, avrebbe provocato l’allungamento del giorno e l’arresto di tutti i pianeti evitando così di creare disordine nel cielo. L’elaborazione di questa nuova interpretazione costituiva una vera e propria sfida lanciata contro gli interpreti della Sacra Scrittura, che Galileo accusava, non più velatamente, di ignorare i principi elementari dell’astronomia. Ma prima di avventurarsi in questo difficile esercizio, l’autore della lettera affrontava il primo punto, affermando che la Sacra Scrittura non può mai mentire o errare, mentre potrebbero talvolta errare i suoi interpreti, in vari modi. In particolare, gravissimo sarebbe fermarsi al significato letterale delle parole. Riferendosi alla Divina Commedia senza tuttavia citarla (Per questo la Scrittura condescende / a vostra facultate e piedi e mano / attribuisce a Dio, ed altro intende, Paradiso IV, 43-45), Galileo sottolineava che l’interpretazione letterale del contenuto della Scrittura avrebbe condotto a personificare la figura di Dio, attribuendogli e piedi e mani e occhi. Nella scelta delle parole, Dio ha tenuto conto dell’incapacità del vulgo a capire ciò che non è immediatamente comprensibile. Ecco perché nei testi sacri si trovano molte proposizioni che hanno un senso diverso dal vero. «Per quei pochi che meritano d’esser separati dalla plebe – scrive Galileo – è necessario che i saggi espositori [e cioè i teologi] produchino i veri sensi». Rimaneva da stabilire quale posto assegnare al contenuto dei testi sacri nelle dispute naturali, e cioè nelle discussioni sui fenomeni osservabili nella natura che ci circonda. La posizione di Galileo è chiarissima: poiché la Scrittura ha bisogno di interpretazioni diverse dal significato apparente delle parole, nelle dispute naturali ella dovrebbe essere riserbata nell’ultimo luogo. In altri termini, poiché il senso letterale non è necessariamente

V. Fra astronomia ed ermeneutica sacra

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conforme alla verità, il contenuto della Scrittura dovrebbe essere relegato, per così dire, all’ultimo posto. La crisi provocata dalle ultime scoperte astronomiche lasciava sperare che i teologi finissero con l’accettare la distinzione fra ciò che la Scrittura dice e ogni effetto di natura. La Sacra Scrittura e la natura, spiegava Galileo, procedevano di pari dal Verbo divino. La Scrittura aveva il compito di insegnare agli uomini per bocca dello Spirito Santo gli articoli e proposizioni che non potevano essere conosciuti per altra via e che erano necessari alla salute dell’anima. Ma non era ammissibile che questo stesso Dio che ci aveva dotati di capacità intellettive avesse poi deciso di darci con altro mezzo le notizie che era possibile raccogliere appunto grazie a tali capacità. Queste osservazioni avrebbero potuto servire da conclusione nella lettera a Castelli, ed avviare la discussione con gli specialisti – in questo caso con i teologi – come era avvenuto con gli astronomi del Collegio Romano dopo la pubblicazione del Sidereus Nuncius. Ma la situazione era adesso del tutto diversa. Durante il soggiorno romano, Galileo aveva avuto come interlocutori privilegiati gli astronomi della Compagnia di Gesù, che avevano potuto riconoscere senza troppe difficoltà la maggior parte delle recenti scoperte. Questa volta sarà costretto a rivolgersi ai teologi, che rifiuteranno, come vedremo, di avviare discussioni sul contenuto della Scrittura con lo scopritore dei satelliti di Giove e delle fasi di Venere. Le loro reazioni si organizzeranno nell’ombra. Galileo saprà solo in parte quel che si tramava, non abbastanza per convincersi dell’impossibilità di affrontare apertamente la lotta sul terreno teologico. Per seguire lo sviluppo degli avvenimenti è indispensabile riprendere il filo della lettera a Castelli, in cui sono esposti, per la prima volta con estrema chiarezza, i termini della controversia. Alcuni argomenti sviluppati da Galileo erano già stati avanzati da altri studiosi. Il teologo agostiniano Diego de Zúñiga (Didaco a Stunica) – che sarà citato, come vedremo, nel Decreto del 5 marzo 1616 contro l’eliocentrismo – aveva sostenuto la compatibilità del movimento della Terra con il contenuto della Sacra Scrittura in un libro, In Job Commentaria, pubblicato a To-

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ledo nel 1584, ma dodici anni dopo aveva ritrattato il contenuto del libro. Tuttavia, prima dell’intervento di Galileo mai le facoltà intellettive erano state sollecitate con tanta forza da un fervente cattolico per difendere l’indispensabile libertà degli scienziati. Galileo si sentiva spinto verso una prova difficile ma inevitabile, dalla quale credeva di poter uscire vincitore. Le frasi saranno costruite come per una dimostrazione di geometria e chi le scriveva sapeva che non sarebbero rimaste rinchiuse nell’armadietto di Castelli come in un nascondiglio. Dopo aver sottolineato che «la natura è inesorabile e immutabile e non si preoccupa affatto di sapere se le sue recondite ragioni e modi d’operare sieno o non sieno esposti alla capacità degli uomini», Galileo osservava che due verità non possono contrariarsi. Spettava quindi agli interpreti di trovare il vero significato dei testi sacri, conformemente alle conclusioni che il senso manifesto o le dimostrazioni necessarie ci hanno rese certe e sicure. E da buon profeta, suggeriva di non permettere ad alcuno l’impegnar i luoghi della Scrittura nell’interpretazione di fenomeni naturali, che più tardi il senso e le ragioni dimostrative potrebbero smentire. Consigliava quindi di non aggiungere altri articoli a quelli relativi alla salute dell’anima ed alla Fede, soprattutto se la richiesta era fatta da persone non qualificate. «Persone – scrive Galileo – le quali, oltre che noi ignoriamo se parlino inspirate da celeste virtù, chiaramente vediamo ch’elleno son del tutto ignude di quella intelligenza che sarebbe necessaria non dirò a redarguire, ma a capire, le dimostrazioni con le quali le acutissime scienze procedono nel confermare alcune lor conclusioni». Quando, meno di due anni dopo, Galileo tornerà a Roma, svilupperà argomenti in difesa del sistema copernicano destinati a convincere sia gli astronomi che i teologi. A questi ultimi proporrà di interpretare alcune frasi tratte dalla Sacra Scrittura – e non solamente la frase attribuita a Giosuè – in termini, per così dire, copernicani. La lettera a Castelli proseguiva precisando che gli uomini non avrebbero potuto accettare gli articoli e proposizioni necessari alla salute dell’anima, se non per bocca dello Spirito Santo,

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poiché il loro contenuto va al di là di ogni umano discorso. In altri termini, le verità di Fede non necessitano l’intervento della ragione per essere accettate, ed appartengono al dominio riservato ai teologi ed a loro solamente. Ma non è credibile, affermava Galileo, «che quel medesimo Dio che ci ha dotati di sensi, di discorso e di intelletto», ne abbia poi differito l’uso dandoci per altra via le notizie che attraverso quelli possiamo conseguire. Quindi sottolineava che questo è particolarmente vero per quelle scienze delle quali una minima particella se ne legge nella Scrittura, come avviene appunto per l’astronomia che vi figura tanto poco che non vengono neppure nominati i pianeti. Se i primi scrittori sacri avessero voluto dare informazioni precise sui movimenti celesti, non ne avrebbero «trattato così poco, che è come niente in comparazione dell’infinite conclusioni» contenute in questa scienza. Le osservazioni di Galileo erano altrettante domande rivolte all’avversario, domande che resteranno in realtà senza risposta. Ci si può chiedere se l’autore della lettera credeva sinceramente nella possibilità di intavolare discussioni dirette con i teologi. È poco verosimile che abbia potuto nutrire una tale illusione, poiché per essere ammesso a discutere di teologia con i teologi era indispensabile essere elevati alla loro stessa dignità, il che nel suo caso era assolutamente da escludere. Questa difficoltà obiettiva spiegherebbe il ricorso ad argomenti profondamente diversi dai precedenti. In effetti, abbandonando per un po’ il linguaggio preciso della dimostrazione more geometrico, il matematico del granduca si lanciava in una vera e propria provocazione, come se avesse voluto snidare gli oppositori, costringendoli a scendere in campo. Questa volta la domanda era diretta e precisa. «Se questi tali – chiede Galileo – veramente credono d’avere il vero senso di quel luogo particolar della Scrittura ed in conseguenza si tengon sicuri d’avere in mano l’assoluta verità della questione che intendono di disputare [...] perché por[re] subito mano a un’arme inevitabile e tremenda, che con la sola vista atterrisce ogni più destro ed esperto campione?». L’arma tremenda ed impossibile da evitare è facilmente riconoscibile. Galileo fa chiaramente allusione al Sant’Uffizio, ai

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processi per eresia, alle condanne che possono essere inflitte all’inquisito, anche se quest’ultimo è un destro ed esperto campione. La risposta era da lui stesso fornita: «Credo che essi sieno i primi atterriti, e che, sentendosi inabili a potere stare forti contro gli assalti dell’avversario, tentino di trovar modo di non se lo lasciar accostare». La conclusione di Galileo era che non bisognava temere gli assalti, purché si concedesse ai copernicani di poter parlare e di essere ascoltati da persone competenti e non soverchiamente alterate da proprie passioni e interessi. Galileo, e su questo non ci sono dubbi, aveva una fiducia fin troppo grande nelle sue verità. Come s’è accennato all’inizio del paragrafo, l’ultima parte della lettera a Castelli è interamente dedicata alle conseguenze della richiesta di Giosuè di fermare il Sole. Galileo si atterrà al senso letterale delle parole e dimostrerà che nel sistema astronomico aristotelico-tolemaico l’arresto del Sole avrebbe avuto come conseguenza di anticipare, e non di ritardare, il tramonto. La dimostrazione presuppone la conoscenza di tre caratteri importanti del sistema aristotelico-tolemaico, enunciati sotto forma di domande poste ad un ipotetico avversario. Le risposte, formulate dallo stesso Galileo, possono così riassumersi: a) nel sistema aristotelico-tolemaico il Sole possiede due movimenti: quello annuo, da ovest verso est, e quello diurno, da est verso ovest; b) di questi due movimenti così diversi e quasi contrari fra di loro, solo il movimento annuo, effettuato in 365 giorni circa, appartiene effettivamente al Sole. Quello diurno appartiene invece al cielo altissimo – al primo mobile, nel linguaggio degli aristotelici – che rapisce seco il Sole, gli altri pianeti e la sfera stellata, costringendoli a fare un giro completo intorno alla Terra in 24 ore; c) il giorno e la notte sono quindi dovuti al movimento del primo mobile, mentre il movimento proprio del Sole è causa delle stagioni e della durata dell’anno. Su questi tre punti riposava l’astronomia insegnata ufficialmente in tutte le università italiane. Se l’avversario li conosce, osserva Galileo con una punta di evidente ironia, deve ammettere che per allungare il giorno non è il Sole che bisogna fermare, ma il primo mobile. D’altra parte, se Dio avesse fermato il

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movimento annuo, il Sole sarebbe giunto più presto al tramonto. Chiunque lo capirebbe, secondo Galileo, a condizione, beninteso, di conoscere questi primi elementi di astronomia. In altri termini, chi non possiede neanche i primi elementi dell’astronomia aristotelico-tolemaica non può capire nulla di quello che l’autore sta raccontando. Galileo metterà in evidenza l’ignoranza degli interpreti teologi in fatto di astronomia, e nello stesso tempo gli errori dovuti all’interpretazione letterale dei testi sacri. In effetti, l’episodio biblico può essere spiegato in due diverse maniere: o i movimenti celesti non sono ordinati come vuole Tolomeo, oppure nella Scrittura la parola Sole sta per primo mobile. «Per accomodarsi – osserva Galileo – alla capacità di quei che sono a fatica idonei a intender il nascere e ’l tramontar del Sole, [la Scrittura dice] il contrario di quel che avrebbe detto parlando a uomini sensati». A questo punto ci si può chiedere se è vero che l’arresto del Sole provocherebbe la diminuzione della durata del giorno. L’osservazione di Galileo è giusta: se si arrestasse il movimento annuo del Sole nel sistema aristotelico-tolemaico la durata del giorno si accorcerebbe, ma di poco, anzi di pochissimo. In effetti, poiché i due movimenti del Sole sono contrari, nel sistema aristotelico-tolemaico il Sole verrebbe spinto verso ovest insieme a tutti gli altri pianeti ed al cielo delle stelle fisse per effettuare un giro completo intorno alla Terra in 24 ore, e durante queste stesse 24 ore verso est (ma di poco), per effettuare un giro intorno alla Terra in 365 giorni. I due movimenti contrari provocherebbero l’allungamento della durata del giorno. Di quanto? Un semplice calcolo aritmetico mostra che il movimento annuo del Sole allungherebbe la durata del giorno di 4 minuti circa [(24x60): 365 = 3,94 minuti]. Quindi l’arresto del Sole nel sistema aristotelico-tolemaico accorcerebbe la durata del giorno di circa 4 minuti. Avendo dimostrato che nel sistema di Aristotele e di Tolomeo il giorno non può essere allungato fermando il Sole, contrariamente a quanto afferma la Scrittura, Galileo spiega che «o bisogna che i movimenti non sieno ordinati come vuole Tolomeo, o bisogna alterar il senso delle parole, e dire che quando la

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Scrittura dice che Iddio fermò il Sole, voleva dire che fermò il primo mobile». Per adattarsi quindi alla capacità di comprensione di coloro che mancano del tutto di conoscenze in astronomia al punto da far fatica a intender il nascere e ’l tramontar del Sole, la Scrittura si sarebbe dovuta esprimere diversamente da come avrebbe fatto se si fosse rivolta a uomini sensati. In altri termini, nel sistema aristotelico-tolemaico la richiesta di Giosuè non avrebbe permesso di allungare il giorno, a meno che la parola Sole non stesse ad indicare il primo mobile. Cosa avverrebbe nel sistema di Copernico? Avendo deciso di mantenere l’interpretazione letterale del testo biblico per non contrariare i teologi, Galileo attribuisce al Sole un ruolo che potrebbe accordarsi perfettamente col testo biblico. Le osservazioni delle macchie solari avevano messo in evidenza, come sappiamo, che il Sole compie una conversione completa intorno al proprio asse in un mese lunare circa. Partendo da questa constatazione, Galileo considerava molto probabile e ragionevole che il Sole desse il movimento, così come dava la luce, a tutti i pianeti che girano intorno a lui. L’arresto del Sole ebbe quindi come conseguenza l’arresto simultaneo dei movimenti di tutti gli altri pianeti, compresa la Terra. In effetti non è concepibile, spiega Galileo, che Dio fermasse il Sole solamente, lasciando scorrere l’altre sfere. E così conclude: «Ecco, dunque, il modo secondo il quale, senza introdurre confusione alcuna tra le parti del mondo e senza alterazione delle parole della Scrittura, si può, col fermare il Sole, allungare il giorno in Terra». Questa ipotesi sarà ripresa in una lettera a Cristina di Lorena, scritta circa due anni dopo, in cui Galileo citerà alcuni testi sacri interpretandoli secondo il sistema copernicano. Le lettere a Castelli, a monsignor Dini ed a madama Cristina – pubblicate da Favaro col titolo di Lettere copernicane (EN, V.279-348) – costituiscono il più importante contributo di Galileo alla difesa della distinzione fra verità di fede e verità di scienza. L’autore assumerà in questa occasione il ruolo di interprete della Sacra Scrittura, affrontando le repliche violente dei teologi, che non gli riconosceranno – e non avrebbero potuto riconoscergli – questo diritto.

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Non appena ricevuta la lettera, Castelli la farà ricopiare e diffondere. Come vedremo, alcuni esemplari perverranno, direttamente o indirettamente, a Roma e circoleranno negli ambienti religiosi e universitari, con le conseguenze che già possiamo immaginare. A Firenze gli avversari si erano mobilitati già da qualche tempo contro il movimento della Terra. Due anni prima, in una lettera del 16 dicembre 1611, il pittore Lodovico Cardi da Cigoli aveva informato Galileo dei complotti sotterranei che si ordivano a Firenze contro di lui, con la complicità dell’arcivescovo Alessandro Marzimedici. Cigoli precisava che un predicatore era stato invitato ad attaccare dal pulpito Galileo, colpevole di dire cose stravaganti, non solo sul moto della Terra, ma anche su altro (EN, XI.241-242). È questa la prima informazione precisa sui tentativi di attaccare Galileo dall’alto del pulpito. Saranno i domenicani di Firenze a dare il via alle ostilità. La lettera a Castelli sarà citata nella sentenza di condanna emessa contro Galileo nel 1633. Attacchi e denunzie Il clima di ostilità che poco a poco si andava creando intorno ai sostenitori del sistema copernicano era diversamente interpretato dagli amici di Galileo. Già nel novembre del 1612, il domenicano Niccolò Lorini aveva denunziato Copernico ed i copernicani nel corso di una riunione fra intellettuali tenuta il giorno dei defunti al monastero fiorentino di San Matteo. Temendo di aver esagerato, e probabilmente in seguito a proteste dell’interessato, Lorini aveva indirizzato il 5 novembre una lettera a Galileo in cui cercava di giustificarsi spiegando di aver espresso effettivamente un’opinione su questo problema, ma solamente «per non parere un ceppo morto, [es]sendo da altri cominciato il ragionamento». Il ragionamento portava su quel’Ipernico [sic], o come si chiami, la cui opinione era considerata contraria alla Divina Scrittura (EN, XI.427).

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Lorini, che ammetteva di non conoscere il nome esatto di Copernico, ripeteva in maniera meccanica quanto gli veniva suggerito. Galileo ne riderà in una lettera a Cesi del 5 gennaio successivo, definendo il domenicano goffo dicitore (EN, XI.461). Ma l’evidente ignoranza di questo avversario era un fatto tutt’altro che positivo. I personaggi come Lorini, sprovvisti di conoscenze scientifiche ma difensori fidati dell’ortodossia cattolica, si contavano a migliaia in Italia. Solo l’intervento delle autorità religiose poteva costringerli a lasciare l’astronomia agli astronomi. Galileo, convinto di essere nel vero e nel giusto, non era affatto disposto a lasciarsi intimidire e soprattutto credeva fermamente nell’intervento di autorevoli personalità romane per mettere a tacere personaggi come il Lorini. La posizione ufficiale delle autorità religiose era ancora tutta da scoprire. Dopo l’accoglienza ricevuta durante il soggiorno romano del 1611, Galileo credeva di poter contare sulla competenza degli astronomi del Collegio Romano per ottenere la riconoscenza della validità del sistema eliocentrico. Ma la posizione di un gruppo di astronomi disposti ad ammettere che qualcosa di nuovo e di importante si osservava nel cielo grazie al cannocchiale non era necessariamente condivisa dal sommo pontefice e dal Sant’Uffizio. Galileo ne era consapevole e nello stesso tempo riteneva di disporre di argomenti e di prove sufficienti per convincere le supreme autorità romane a rinunziare a sostenere l’immobilità della Terra. Intanto il suo stato di salute preoccupava seriamente gli ammiratori, vicini e lontani, del matematico del granduca. Intervenendo dal fondo delle prigioni napoletane, il filosofo Tommaso Campanella (1568-1639), che aveva conosciuto Galileo a Padova nel 1592, chiedeva precise informazioni sul tipo di malattia e sulla data di nascita del paziente, per poter intervenire in qualità di astrologo ed accelerarne così la guarigione. Benché le richieste fossero state reiterate in una lettera dell’8 marzo 1614, Galileo non credette opportuno farsi curare a distanza. Frate domenicano in conflitto aperto con le autorità ecclesiastiche, Campanella aveva sopportato con coraggio straordinario la tortura nelle prigioni romane. Accusato di eresia e co-

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stretto ad abiurare nel 1597, era stato liberato e rinviato immediatamente nella nativa Calabria. Qui aveva partecipato ad un movimento politico-religioso a carattere rivoluzionario, violentemente represso dalle truppe del viceré spagnolo. Arrestato, processato e condannato a morte nel 1601, Campanella sfuggì all’esecuzione capitale fingendosi pazzo, e nonostante le orribili condizioni di detenzione protrattesi per circa ventisei anni continuò ad interessarsi ai dibattiti teologici e filosofici. La lettura del Sidereus Nuncius lo aveva entusiasmato, fornendogli l’occasione di scrivere una Apologia pro Galileo che, come vedremo, sarà pubblicata solamente nel 1622 (CT 2000). In Italia ed all’estero si era sparsa la notizia di una forte febbre che affliggeva da più giorni il matematico del granduca e non accennava a scomparire. In una lettera indirizzata a Johannes Faber il 9 maggio 1614 Markus Welser era particolarmente pessimista. Dal contenuto della lettera si ricava che Faber, assiduo frequentatore degli ambienti vicini alla curia romana, gli aveva dato bruttissime notizie sulla salute di Galileo. Le reazioni di Welser erano innanzitutto di meraviglia per la resistenza del malato, costretto a sopportare una febbre che durava da più di un mese. C’era poi una chiara allusione alla eventuale scomparsa dello scienziato ed alla perdita dei bei concetti sulle cose celesti (EN, XII.59). Vero è che Galileo soffriva fin dall’inizio del 1614 di dolori acuti e persistenti ai reni, aggravati da preoccupazioni di ogni sorta. Ma la colpa principale di tante sofferenze era dovuta soprattutto al clima fiorentino, che lo scienziato pisano sopportava malissimo. Proprio per questo motivo si era sparsa la voce, già alla fine del 1612, di un suo eventuale ritorno a Padova. Vera o falsa che fosse, la notizia aveva spinto Gianfrancesco Sagredo a scrivere subito al suo illustre amico per dirgli che circolavano voci sul suo desiderio di ritornare a Padova per sfuggire al clima fiorentino. Sagredo precisava che, a parte il rispetto e l’ammirazione degli amici, le reazioni erano negative a causa della maniera in cui era avvenuta la partenza. Da una lettera del 3 maggio dell’anno successivo indirizzata da Bernardo Pisenti ad un candidato alla cattedra di Galileo, si ricava che il senatore

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Antonio Priuli, riformatore dell’università, era andato su tutte le furie quando lo stesso Pisenti gli aveva parlato del desiderio attribuito a Galileo di un eventuale possibile ritorno a Padova (EN, XI.503). In realtà il matematico del granduca non aveva avuto l’intenzione di lasciare Firenze e ancor meno di tornare a Padova. Una delle sue maggiori preoccupazioni era dovuta alla pubblicazione, proprio in quell’anno 1613, di un libro di ottica del padre gesuita François d’Aguilon (Aguilonius), rettore del Collegio di Anversa, in cui era chiaramente indicato ciò che da tempo Galileo sospettava: Apelle, l’astronomo col quale aveva polemizzato sulla natura delle macchie solari e sulla priorità della loro scoperta, apparteneva alla Compagnia di Gesù. Il padre d’Aguilon ne pubblicava il nome non certo per caso – Christopher Scheiner gesuita e professore di matematica ad Ingolstadt – precisando inoltre che era stato proprio il suo confratello ad osservare per primo l’esistenza di macchie nel Sole, come risultava dalle lettere pubblicate con lo pseudonimo di Apelle. Galileo non conosceva Scheiner, ma sapeva che l’opinione di un gesuita, anche se sostenuta a titolo personale, trovava generalmente appoggio e difesa in seno alla Compagnia se non era contraria allo spirito delle Constitutiones. Nel caso di Scheiner, la difesa della perfezione dei corpi celesti era, per i membri della Compagnia, un problema d’interesse generale. L’allusione alla priorità di Scheiner nella scoperta delle macchie solari era incomprensibile e preoccupante. Nel 1611, in occasione del viaggio a Roma, Galileo aveva parlato delle macchie con gli astronomi gesuiti del Collegio Romano. All’epoca i padri non erano a conoscenza del fenomeno ed avrebbero potuto testimoniare d’esserne stati informati da Galileo per la prima volta in quella occasione. Ma non sembrava che fossero disposti a farlo, come confermava il principe Cesi in una lettera a Galileo del 1° marzo 1614 (EN, XII.28). Il fatto era di un’estrema importanza, poiché Galileo aveva sempre evitato di polemizzare apertamente con gli scienziati gesuiti. La morte di Filippo Salviati nella primavera del 1614 contribuì ad accrescere le angosce e le sofferenze fisiche dello scien-

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ziato pisano. Intanto altri indizi della posizione apertamente anticopernicana dei domenicani di Firenze apparivano due anni dopo l’intervento del padre Lorini. Questa volta il predicatore domenicano Tommaso Caccini, che aveva scelto come tema del sermone il già citato passo di Giosuè, difendeva l’interpretazione ad litteram della Sacra Scrittura attaccando violentemente i galileani. Secondo voci insistenti in circolazione a Firenze, Caccini aveva preso in prestito dagli Atti degli Apostoli (attribuiti a Luca, I, 11) la frase «Viri Galilaei, quid statis aspicientes in caelum» (Uomini di Galilea, cosa state guardando nel cielo). Nel testo sacro l’espressione Viri Galilaei si riferiva agli abitanti della Galilea, che dopo aver assistito all’ascensione di Gesù al cielo, erano stati invitati dagli angeli a non continuare a scrutare la volta celeste, poiché il figlio di Dio non l’avrebbe attraversata per tornare di nuovo sulla Terra. Pronunziata da Caccini il 21 dicembre 1614 dal pulpito di Santa Maria Novella, come sembrerebbe, la frase diventava un invito ad astenersi dallo scrutare il cielo. I galileani non furono i soli ad essere maltrattati. Gli attacchi di Caccini si concentrarono particolarmente contro la matematica, considerata un’arte diabolica, e contro i matematici fautori di eresie. Pochi giorni dopo l’invettiva del padre Caccini, Castelli, in una lettera a Galileo del 31 dicembre 1614, alludeva con tono ironico a quelli ladroni e vota borse delli matematici. Dal contenuto della lettera si ricava che l’abate era rimasto colpito soprattutto dagli attacchi contro la matematica, tanto da chiedere a Galileo di informare il granduca del successo del suo insegnamento e della moltiplicazione di quelli ladroni a Pisa. «Spero – scriveva Castelli – di ravvivare questo studio delle matematiche, già quasi morto» (EN, XII.123). Nessun riferimento invece all’interpretazione letterale del passo di Giosuè. Secondo Castelli il padre Lorini non avrebbe approvato gli attacchi contro i galileani. In realtà le iniziative di Caccini erano molto più precise di quanto potesse immaginare Castelli ed il confratello Lorini era lungi, come vedremo, dal biasimarle. Affiora intanto da queste prime indicazioni il tentativo di reagire agli attacchi di Caccini contro i matematici e di trascurare in-

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vece le allusioni ai problemi celesti. Castelli era stato fra i primi, per quel che ne sappiamo, ad adottare questa strategia, destinata a smorzare sul nascere l’offensiva contro Copernico ed i galileani lanciata da avversari non ancora chiaramente identificati. In realtà i domenicani di Firenze erano spinti nella loro crociata anticopernicana da autorevoli rappresentanti del mondo culturale. Fra questi va annoverato il letterato e filosofo Lodovico Delle Colombe, che già nel 1610 aveva posto il problema della compatibilità fra Sacra Scrittura ed eliocentrismo e che occupava un posto di primo piano. Delle Colombe era senza dubbio meglio preparato dei domenicani di San Matteo ad innescare la miccia con l’obiettivo di far saltare definitivamente tutta l’impalcatura copernicana. La strategia inaugurata da Castelli veniva suggerita a Galileo da numerose personalità del mondo culturale e religioso. Il principe Cesi, pur riconoscendo la sfacciataggine estrema di Caccini, era convinto che il risentirsi non sarebbe servito a nulla. Nel lungo poscritto di una lettera indirizzata a Galileo il 12 gennaio 1615, Cesi riferiva che Bellarmino gli aveva esplicitamente dichiarato che l’opinione copernicana era eretica, e che il moto della terra, senza dubbio alcuno, era contro la Scrittura. Il principe suggeriva di affidarsi a quattro o cinque uomini, in questo genere non scienziati, disposti a testimoniare che in loro presenza Caccini aveva detto che la matematica è un’arte diabolica e che i matematici, in quanto autori di tutte le eresie, dovevano essere scacciati da tutti gli Stati. Secondo Cesi, i matematici, ed in particolare quelli di Pisa e di Firenze, avrebbero dovuto denunziare il comportamento di Caccini ai loro rispettivi superiori, senza mai nominare Galileo e senza entrare nel merito delle cose dette contro Copernico (EN, XII.129-131). La lettera di Cesi proseguiva indicando varie possibili iniziative che tutte escludevano una qualunque allusione al movimento della Terra. Poche settimane dopo la predica di Caccini, fu proprio il padre Lorini ad inviare il 7 febbraio 1615 al cardinale Paolo Emilio Sfondrati, prefetto della Congregazione dell’Indice, una copia della lettera di Galileo a Castelli del 21 dicembre 1613, accompa-

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gnata da una missiva di suo pugno, che ora figura fra i documenti del processo di Galileo (EN, XIX.297.298; PS 1984, 69-70). Prima di soffermarci sul suo contenuto, è opportuno precisare che le parole di Caccini pronunziate dal pulpito di Santa Maria Novella erano state criticate dal suo stesso fratello Matteo, anch’egli domenicano, residente a Roma al servizio del cardinale Arrigoni. «Io sento dire di [Voi] – scriveva Matteo al fratello Tommaso in una lettera del 2 gennaio 1615 – una stravaganza tanto grande, che io e me ne meraviglio e ne resto disgustatissimo». Secondo Matteo Caccini, Tommaso si era lasciato mettere su da certi colombi (allusione a Lodovico Delle Colombe), facendosi trascinare negli impicci d’altri (EN, XVIII.417418). Il riferimento alle stravaganze predicate da sopra li pulpiti, continuerà per più di un mese, in lettere dirette anche all’altro fratello Alessandro, al quale Matteo dichiarava che «qua a’ superiori non si può dare maggiore disgusto che quello che ha fatto lui» (EN, XVIII.418). Matteo era tanto più preoccupato, in quanto Tommaso aspirava all’ambita carica di baccelliere dello Studio della Minerva a Roma. Chi voleva far carriera, questo era il succo delle conclusioni di Matteo, non doveva avventurarsi in problemi di astronomia senza disporre di un’adeguata competenza. Ma come vedremo, Matteo aveva torto. Questo episodio senza dubbio minore, contribuisce tuttavia a farci ammettere che nei primissimi mesi del 1615 Galileo era un personaggio rispettato e temuto. La protezione del granduca di Toscana gli assicurava una difesa naturale, per così dire, dovuta alla sua carica ed alle sue funzioni. C’era poi la protezione del cardinale Maffeo Barberini, da qualche anno legato pontificio a Bologna ma spesso presente a Roma, che gli aveva manifestato in diverse occasioni stima ed ammirazione. Certo, il cardinale non era membro dell’Inquisizione, né aveva qualità di teologo, ma la sua ascesa rapida e precisa – nunziatura apostolica a Parigi nel 1604, elevazione al cardinalato due anni dopo a soli 38 anni, nomina a vescovo di Spoleto ed infine legato a Bologna nel 1611 – disegnava un percorso che poteva condurre, e che in effetti condurrà, fino al pontificato. Un uomo di potere, Maffeo Barberini, sul quale Galileo credeva di poter contare.

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L’invio al cardinale Sfondrati della copia della lettera di Galileo a Castelli segnò l’inizio di una procedura che si protrarrà per più mesi. A lanciarla non sarà la Congregazione dell’Indice, abilitata solamente ad esaminare gli scritti a stampa, ma il Sant’Uffizio. Come s’è detto, la copia della lettera di Galileo era accompagnata da una missiva di pugno del Lorini. Gli argomenti sviluppati dal domenicano erano di una grande semplicità. Dopo aver indicato che la lettera di cui forniva copia correva nelle mani di tutti, che era opera dei galileani secondo i quali la terra si muove e il cielo sta fermo, seguendo le posizioni di Copernico, precisava che tutti i padri del religiosissimo convento di S. Marco vi trovavano molte proposizioni che paiono o sospette o temerarie. Lorini le sottolineava nella copia della lettera di Galileo a Castelli e le riassumeva pressappoco in questi termini: a) nelle dispute di filosofia naturale la Scrittura tiene l’ultimo luogo; b) gli espositori spesso errano; c) «la Scrittura non si deve impacciar d’altra cosa che delli articoli concernenti la fede»; d) «nelle cose naturali ha più forza l’argomento filosofico o astronomico che il sacro e il divino»; e) quando Giosuè comandò al Sole di fermarsi, l’ordine non fu dato al Sole ma al primo mobile. Su questi cinque punti riposava l’accusa. Inoltre, spiegava Lorini, i galileani vogliono esporre le Sante Scritture a lor modo, parlano poco onorevolmente dei Santi Padri antichi e di S. Tommaso, calpestano la filosofia di Aristotele. C’erano, insomma, in forma succinta ed in uno stile piuttosto trasandato, le accuse che avevano cominciato a circolare dopo le scoperte astronomiche e la disputa sui galleggianti. Va notato che Lorini faceva riferimento a tutti i padri, e quindi non si trattava di una iniziativa personale ma di tutti, o quasi tutti, i domenicani di Firenze. Il nome di Galileo non compariva ed i galileani venivano definiti «uomini da bene e buon Cristiani, ma un po’ saccenti e duretti nelle loro opinioni». Infine, il padre Lorini chiedeva al cardinale Sfondrati di tener segreta la sua lettera, ma non quella di Galileo a Castelli, ed indicava che quest’ultima aveva fornito l’occasione al padre Caccini di tenere una o due lezioni pubbliche sul libro X di Giosuè nella chiesa di Santa Maria Novella.

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Non c’erano, e non potevano esserci, nella denunzia di Lorini considerazioni di carattere astronomico, e non ce ne saranno nelle successive, né nelle decisioni delle diverse autorità ecclesiastiche. Il movimento del Sole e la conseguente immobilità della Terra, che erano considerati evidenti per i comuni osservatori del cielo, assumevano inoltre il carattere di verità assoluta in virtù dell’interpretazione di alcuni testi della Sacra Scrittura fornita dai teologi. In questo contesto, non c’era posto per gli argomenti di carattere astronomico. Il cardinale Sfondrati trasmise la lettera di Lorini al cardinale Millini, segretario del Sant’Uffizio, che il 25 febbraio 1615 scrisse all’arcivescovo ed all’inquisitore di Pisa chiedendo di condurre un’inchiesta e di procurarsi il testo originale della lettera di Galileo a Castelli. Che si tratti della ricerca dell’originale è confermato dalla seguente risposta dell’inquisitore di Pisa, [F.] Lelio, del 7 marzo: «Mons.re Arcivescovo ed io siamo intorno all’esecuzione circa la lettera originale scritta dal S.r Galileo da Fiorenza al P.D. Benedetto, Matematico in questo Studio» (EN, XIX.306). Si trattava in effetti di verificare se il contenuto della copia fosse conforme o meno all’originale. In realtà, le differenze riscontrate nella copia inviata a Sfondrati non erano significative. Galileo non poteva ignorare che alcune copie della sua lettera a Castelli erano giunte a Roma. Sapeva inoltre che a Firenze Lorini era riuscito a procurarsela e che i padri domenicani continuavano ad interessarsi alla frase pronunziata da Giosuè. «Vi vanno esclamando sopra – scriveva Galileo a monsignor Dini in una lettera del 16 febbraio 1615 – e ritrovandovi, per quanto dicono, molte eresie, si sono aperti un nuovo campo di lacerarmi» (EN, V.291-294). Inviava quindi una copia all’illustre prelato nel modo giusto che [l’aveva] scritta, pregandolo di farla leggere al padre gesuita Grienberger – che era succeduto a Clavio, morto nel 1612, nell’insegnamento della matematica al Collegio Romano – ed al cardinale Bellarmino. In questa stessa lettera Galileo esprimeva stupore per le reazioni dei due padri domenicani. Le sue parole erano state interpretate in maniera del tutto sbagliata e si chiedeva a sua volta se non ci fossero state modifi-

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che sostanziali rispetto all’originale nella copia della lettera in loro possesso. Galileo insisteva sulla necessità di procedere con prudenza ed evitare che conclusioni basate sul contenuto della Scrittura risultassero poi false. Ironizzava quindi sugli attacchi di monsignor Gherardini, vescovo di Fiesole, che gli attribuiva la paternità della dottrina di Copernico. L’autore, osservava Galileo, non era un fiorentino vivente, ma un Tedesco [sic] morto, che l’aveva stampata 70 anni prima. Infine nel poscritto di questa stessa lettera, Galileo proponeva a Dini come rimedio ai commenti dei padri domenicani, di ricorrere alla competenza dei gesuiti, esperti in astronomia molto più di quanto non lo fossero i domenicani. Consigliava quindi di mostrar loro la lettera a Castelli e questa che stava scrivendo. Ottemperando alla richiesta del cardinale Millini, l’arcivescovo di Pisa Francesco Bonciani si proponeva di convocare Castelli, ma non fu necessario farlo poiché quest’ultimo aveva deciso di andare a fargli riverenza ed era stato benignissimamente ricevuto, come egli stesso racconterà in una lettera a Galileo del 12 marzo 1615 (EN, XII.153-154). Già prima di varcare la soglia, Castelli sapeva che si sarebbe parlato del movimento della Terra. La descrizione che egli farà dell’incontro, in questa stessa lettera, mette in evidenza il clima che poco a poco si andava creando intorno ai galileani ed alle loro scioccherie dirette contro la Sacra Scrittura. «S. S.ria Ill.ma – scrive Castelli – cominciò caritativamente a esortarmi che io lasciassi certe opinioni stravaganti, ed in particolare del moto della terra, soggiongendomi che questo sarebbe stato il mio bene, e non lo facendo la mia rovina, perché queste opinioni, oltre l’essere scioccherie, erano pericolose, scandalose e temerarie, essendo di diretto contro la Sacra Scrittura». Castelli aveva quindi ascoltato le numerose spiegazioni sull’impossibilità per la Terra di muoversi ed ironizzava sugli argomenti sviluppati dal Bonciani. L’arcivescovo era pronto, secondo quanto riferiva Castelli, a far conoscere a Galileo, al granduca ed «a tutto il mondo, che queste sono tutte frascherie che meritano essere dannate», ed intanto chiedeva al suo interlocutore di poter vedere la lettera inviatagli da Galileo.

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In realtà questa richiesta era al centro delle preoccupazioni di Bonciani che, come sappiamo, aveva ricevuto dal cardinale Millini l’incarico di procurarsi l’originale. Ma Castelli non era al corrente del retroscena, e credeva che l’arcivescovo fosse spinto da semplice curiosità. «Io [ho] trattato – scriveva Bonciani il 28 marzo 1615 in una lettera indirizzata al cardinale Millini – col Padre [Castelli] in modo che non ha potuto penetrare per che conto io gliene abbia chiesta [sic]: anzi tien per fermo che io la voglia vedere per curiosità e come loro amico; né ho giudicato bene scoprirmi seco da vantaggio senza nuovo ordine di V.S.Ill.ma, massimamente avendo ella scritto al P. Inquisitore [di Pisa] che si procedesse con destrezza». Indicava, quindi, che forse sarebbe stato più facile farsela inviare dallo stesso Galileo (EN, XIX.311; PS 1984, 86). Castelli sosteneva, ed era verosimile che così fosse, di aver restituito l’originale a Galileo e di non averne copia. Su proposta di Bonciani, si affrettava a farne domanda a Galileo. C’era inoltre, nel poscritto di questa stessa lettera del 12 marzo, un’allusione ai rumori in provenienza da Roma. «Ho inteso con gran gusto – scriveva Castelli – che le ciancie di Roma non sono tanto grandi quanto si diceva. E a me pare che il romore fatto in Roma non sia Romano, ma che sia stato forestieri [sic]: voglio dire che è stato fatto da questi signori che l’hanno fatto ancora in Firenze». Il fedele discepolo faceva allusione ad una nuova scrittura, che potrebbe essere la lettera a madama Cristina di Lorena, in cui Galileo riprenderà, aggiungendone altri, gli argomenti già sviluppati nella lettera a lui diretta. I rumori che circolavano a Roma erano giunti a Pisa e, secondo Castelli, si trattava di ciancie, come dire di vani discorsi, contrariamente a quanto si diceva. Quest’ultima osservazione lascia pensare che in un primo momento le voci giunte a Pisa erano state più allarmanti di quanto non lo fossero ora. D’altra parte, Castelli indicava che gli istigatori non erano romani, ma fiorentini, e quindi che a Roma, almeno per il momento, non c’erano istigatori locali. Intanto l’arcivescovo Bonciani continuava a chiedere che gli fosse mostrata la lettera del 21 dicembre 1613, di cui Lorini, co-

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me sappiamo, aveva fatto pervenire una copia al cardinale Sfondrati, un fatto questo che probabilmente Castelli ignorava. Ma saranno necessarie due successive richieste, inviate il 18 ed il 25 marzo, per ottenerla. In effetti Galileo era piuttosto diffidente ed aveva cercato di ritardarne il più possibile l’invio. Castelli potette finalmente mostrare all’arcivescovo la copia ricevuta, che rimarrà nelle sue mani per tutto il tempo della presentazione, come risulta da una sua lettera inviata a Galileo il 9 aprile (EN, XII.165-166). A detta di Castelli, Bonciani ne lodò il contenuto con maestà e decoro, ovvero con poche parole e asciutte, in presenza di diversi Signori canonici, e da questi altri Signori fu approvata sopra ogn’altra cosa la modestia e riverenza con cui Galileo trattava della Sacra Scrittura. C’era poi il riferimento ad un avvenimento di grande importanza: la pubblicazione a Napoli, nel gennaio di quell’anno (1615), della Lettera sopra l’opinione de’ Pittagorici e del Copernico della mobilità della Terra e stabilità del Sole e del nuovo Pittagorico sistema del mondo [...] del padre carmelitano Paolo Antonio Foscarini. Il libro, scritto sotto forma di lettera indirizzata al padre generale dell’Ordine, prendeva le difese dell’eliocentrismo e citava le scoperte astronomiche di Galileo, anche se non sempre con la dovuta precisione. «Avrei voluto – scriveva Castelli in questa stessa lettera – che fosse più informato delle cose di V. S. Ecc.ma [...]. Vero è che questo non importa alla principal causa che si tratta». Secondo quanto riferiva Castelli lo stesso arcivescovo Bonciani sarebbe stato propenso ora ad ammettere che Copernico era stato un grand’uomo ed un grande ingegno. Ma la conversione non durerà a lungo. Lo scritto di Foscarini aveva messo in crisi alcuni avversari di Copernico e rincuorato i galileani. L’autore era un teologo e le sue considerazioni sulla necessità di abbandonare il sistema astronomico aristotelico-tolemaico lo avevano spinto ad affermare che solamente il sistema copernicano permetteva di spiegare i fenomeni osservati nel cielo. Tuttavia Foscarini considerava che la Verità assoluta era conosciuta soltanto da Dio e che l’umana conoscenza poteva solo avvicinarsi ad essa. Poiché le parole della Sacra Scrittura dovevano essere in accordo con l’o-

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pinione copernicana (se questa era vera), bisognava trovare l’interpretazione dei testi sacri che avrebbe eliminato le eventuali contraddizioni. Foscarini si era accinto a farlo in qualità di teologo, ma, come vedremo, le sue conclusioni saranno respinte dal Sant’Uffizio e dalla Congregazione dell’Indice. Intanto a Roma il Sant’Uffizio procedeva con assiduità, cautela e discrezione nell’inchiesta sugli errori di Galileo. Il 20 marzo 1615 il commissario generale della Santa Inquisizione, il padre domenicano Michelangelo Seghezzi, accoglieva il padre Caccini venuto a Roma per deporre contro Galileo. Le accuse del domenicano di Firenze prendevano le mosse dal «gran miracolo che alle preghiere di Giosuè fece Iddio in fermando il Sole». Quindi Caccini spiegava che il 21 dicembre 1614 aveva commentato il passo biblico dal pulpito di Santa Maria Novella in qualità di lettore di Sacra Scrittura, e confutato «una certa opinione già di Nicolò Copernico, tenuta ed insegnata, per quanto dicono, dal Signor Galileo Galilei». Indicava inoltre al commissario dell’Inquisizione che, per timore di non esser preso sul serio dai fedeli presenti in chiesa, aveva citato la dottrina di Niccolò Serario (Serarius), un teologo gesuita spagnolo avversario implacabile dell’immobilità del Sole e della mobilità della Terra. Secondo Serario, autore di un Commentario sul libro di Giosuè pubblicato a Magonza nel 1610, l’astronomia copernicana era pericolosa in quanto contraria alla Scrittura, «che – scrive Serario – attribuisce sempre il riposo alla terra, ed il movimento al sole ed alla luna» (LM-P 2005, 30-31). Il Commentario è fra i rarissimi libri scritti prima delle scoperte astronomiche di Galileo, in cui, per confutare Copernico, si faceva riferimento alla Sacra Scrittura. Nella denunzia di Caccini non c’erano solamente considerazioni relative all’astronomia. Il domenicano di Firenze asseriva che il padre Ferdinando Ximenes, Regente di Santa Maria Novella, aveva inteso da alcuni discepoli di Galileo le seguenti proposizioni: a) Dio non è sostanza ma accidente; b) Dio dispone di sensi di natura divina; c) i miracoli che si dicono esser fatti dai santi non sono veri miracoli. La prima proposizione era la più grave, poiché Dio è sostanza che non può ricevere nessun accidente, e cioè niente che possa al-

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terarne la natura. Questa e le altre due proposizioni furono oggetto, come vedremo, di un’indagine specifica nel corso della quale sarà interrogato il padre Ximenes. Dopo questa diversione, Caccini ritornava rapidamente all’accusa principale, citando la lettera di Galileo a Castelli e completando la sua deposizione in questi termini: «pubblica fama è che il predetto Galilei tenga queste due proposizioni: La terra secondo sé tutta si muove, etiam di moto diurno; il sole è immobile». Queste due proposizioni, spiegava Caccini, «repugnano alle divine Scritture esposte dai Santi Padri, e conseguentemente repugnano alla Fede, che c’insegna dover credere per vero ciò che nella Scrittura si contiene». Dopo la deposizione, Caccini fu sottoposto ad un interrogatorio lungo e minuzioso condotto dal padre Seghezzi. Le domande formulate in latino e le risposte in italiano di Caccini sono conservate nei Documenti del Processo di Galileo (EN, XIX.307-311; PS 1984, 82-88). Ci è sembrato opportuno riassumere le più significative. D: Come fa a sapere che Galileo insegna e sostiene l’immobilità del sole ed il movimento della terra. R: Oltre che dalla pubblica fama, da Monsignor Filippo de’ Bardi, vescovo di Cortona, e da un certo Attavanti, prete e seguace di Galileo [segue descrizione fisica di Attavanti]. La conversazione avvenne nella stanza del padre Ximenes, che aveva prestato a Caccini il libro stampato a Roma sulle macchie solari. D: Che opinione si ha di Galileo a Firenze per quel che concerne la Fede. R: Da molti è considerato un buon cattolico, da altri sospettato nelle cose della Fede, perché dicono che è molto amico di quel fra’ Paolo Sarpi ben noto a Venezia per la sua empietà, e si dice che ancora adesso si scambiano lettere. D: Da chi esattamente ha inteso queste cose. R: Dal padre Lorini, che Paolo Sarpi e Galileo scambiano lettere, e che costui è sospetto in Fide; dal priore Ximenes [cugino di Ferdinando], solamente che Galileo è sospetto e che, essendo una volta venuto a Roma, «il Sant’Uffizio cercava di porvi la mano addosso, per il che lui se la colse [sic]». D: Da cosa ha capito che Galileo era sospetto in Fede secondo Lorini e Ximenes.

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R: Non mi dissero altro, tranne che era sospetto per le proposizioni relative alla terra ed al sole, poiché egli interpreta la Scrittura Sacra contro il senso comune dei Santi Padri. Galileo appartiene insieme ad altri ad una Accademia detta i Lincei, come si vede dal suo libro sulle macchie solari. Costoro scambiano lettere con altri in Germania. D: Da chi il padre Ximenes intese le tre proposizioni, Dio non è sostanza ma accidente, ecc. ecc. R: Mi par di ricordarmi che nominasse Attavanti. D: Dove, quando, in presenza di chi ed in quale occasione, il padre Ferdinando [Ximenes] ha raccontato che dei discepoli di Galileo pronunziavano le dette proposizioni. R: Il padre Ferdinando Ximenes mi ha detto di averle sentite dai discepoli di Galileo più volte. D: Precisioni sull’inimicizia col Galileo, con l’Attavanti e con altri discepoli di Galileo. R: Non solo non nutro inimicizia nei confronti di Galileo, ma neanche lo conosco, né conosco i discepoli; anzi prego Dio per loro. D: Ha Galileo un pubblico insegnamento a Firenze, in che materia, e se i discepoli sono numerosi. R: Non so se ha un pubblico insegnamento, né se ha molti discepoli; a Firenze ha molti seguaci, che si chiamano galileani e vanno magnificando e lodando la sua dottrina. D: Dov’è nato Galileo, qual è la sua professione e dove ha studiato. R: Lui si considera fiorentino, ma ho sentito dire che è pisano, ed ha insegnato a Padova ed ha più di sessant’anni.

È presumibile che l’ultima domanda sia stata rivolta a Caccini per stabilire se avesse una precisa conoscenza di Galileo, delle sue origini, della sua attività. Come vedremo, Attavanti e Ximenes saranno a loro volta interrogati. E perché il riferimento a fra’ Paolo? Da quando questo personaggio era diventato pericoloso? Sarpi l’infrequentabile Il servita Paolo Sarpi si era trovato al centro della violenta polemica scoppiata nel 1606 fra Roma e Venezia. Paolo V non aveva affatto gradito la decisione della Serenissima di applicare un vecchio decreto che vietava ai membri del clero di acquistare be-

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ni immobili e li obbligava a vendere quelli ricevuti in eredità. Nel gennaio di quell’anno, il papa, prendendo come pretesto la condanna al carcere di due sacerdoti accusati di delitti comuni, scomunicò il doge ed il Senato precisando che se Venezia cercava di sfuggire al peso della scomunica sarebbe stata colpita da interdetto ecclesiastico. Questa pena, severissima, consisteva nella sospensione delle funzioni religiose su tutto il territorio della Repubblica. Venezia ne fu effettivamente colpita, ma non si piegò alla volontà del pontefice, anzi passò al contrattacco decretando l’espulsione dal territorio di tutti i membri del clero che rifiutassero di esercitare il loro ministero. Paolo Sarpi fu nominato teologo della Repubblica col compito precipuo di rendere legittima la decisione del doge e del Senato. Il servita si rendeva conto che il compito era difficile da assolvere. Sostenne, ad esempio, che l’azione del Santo Padre doveva limitarsi alla difesa dei pubblici interessi della Chiesa e che la cieca obbedienza alle sue ingiunzioni costituiva un peccato grave. In realtà queste affermazioni lasciavano perplessa la maggior parte dei cattolici, abituati a rispettare in maniera assoluta le decisioni pontificali. C’era stata poi la memorabile serata del 10 maggio 1606, nel corso della quale i padri gesuiti erano stati condotti su due barche fuori città. Erano tutti partiti con un crocifisso attaccato al collo ed un cero acceso in mano, come scriveva l’indomani Galileo al fratello Michelangelo (EN, X.158). L’editto che li costringeva alla partenza sarà confermato il 14 giugno e come se questo non bastasse il 18 agosto un nuovo editto interdirà ai veneziani di affidare l’istruzione dei figli ai gesuiti. Sarpi, che sarà scomunicato nel 1607, sfuggirà quasi per miracolo ad un attentato perpetrato contro di lui il 5 ottobre di quell’anno. Essendosi accorto che i sicari si erano rifugiati nella casa del nunzio apostolico, riconobbe scherzando lo stilo-stile di Roma, con riferimento al pugnale appuntito (stilo) utilizzato frequentemente dagli assassini ed all’uso che se ne faceva a Roma. Dopo questo grave incidente, le misure di sicurezza furono accresciute ed un giovane frate servita, armato di schioppo, accompagnò costantemente Sarpi nei suoi spostamenti. Intanto Paolo V era sempre più preoccupato per la situazione creatasi, tanto più che il litigio fra

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Roma e Venezia non lasciava indifferenti le altre potenze europee. Bellarmino fu incaricato di trovare una soluzione. Nell’aprile del 1609, Roma accettò di inviare a Venezia un nunzio con l’incarico di discutere i punti più conflittuali e di non esigere una sottomissione umiliante. La missione fu coronata da successo, ed il doge potette annunziare ai membri del clero di Venezia che con l’aiuto di Dio era stato possibile trovare il modo di convincere Sua Santità della sincerità e della giustezza delle decisioni ducali, sottolineando la venerazione del popolo e delle autorità veneziane per Paolo V. Un risultato immediato dell’accordo fu la liberazione dei due preti imprigionati e la riammissione a Venezia di tutti gli ordini religiosi, ad eccezione dei gesuiti. Nel ricevere a Roma il nuovo ambasciatore veneto, il papa dichiarava che i rapporti fra lo Stato pontificio e la Serenissima erano indispensabili per il rispetto della libertà in Italia. Sarpi scriverà nel 1619 una Historia del concilio tridentino, in cui sono descritti senza concessioni i retroscena dello storico avvenimento. L’opera fu confutata dal cardinale gesuita Pietro Sforza Pallavicino. Fra’ Paolo Sarpi morì a Venezia di morte naturale (1623) e rimase fra le bestie nere del Vaticano. A Venezia, Galileo e Sarpi si incontravano frequentemente al ridotto Morosini (un circolo culturale animato dai fratelli Andrea e Niccolò Morosini). Il servita si interessava attivamente ai progetti di Galileo e lo terrà informato della costruzione e diffusione in Francia ed Olanda di un occhiale che ingrandiva le immagini. Dopo la partenza per Firenze, Galileo aveva mantenuto rapporti epistolari con fra’ Paolo. Per Caccini era stato facile esserne informato, tanto più che il matematico del granduca non ne faceva mistero. Le difese e le reazioni di monsignor Dini Intanto Galileo era partito in guerra aperta contro i suoi detrattori, convinto che di fronte ad avversari così poco credibili, Roma gli avrebbe assicurato un appoggio totale. Nel suo programma di difesa aveva incluso l’analisi accurata dei passi della

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Scrittura il cui senso letterale era apparentemente in contraddizione con i principi dell’astronomia copernicana, ed aveva l’intenzione di sottomettere le sue conclusioni a personalità del mondo culturale e religioso con le quali era entrato in contatto nel 1611 durante il soggiorno romano. Monsignor Dini era fra le più importanti, ed era anche il solo ad essere al corrente dell’incontro avvenuto a Roma in quell’anno fra Galileo e Bellarmino. Come abbiamo indicato (cfr. supra, p. 157), Galileo aveva inviato a Dini una lettera il 16 febbraio, accludendo una copia della sua lettera a Castelli del 21 dicembre 1613. Nella sua risposta del 7 marzo 1615 (EN, XII.151-152), Dini indicava che ne aveva fatto fare molte copie e che due esemplari erano stati inviati rispettivamente al padre gesuita Grienberger ed al cardinale Bellarmino. A Grienberger aveva fatto leggere anche la lettera che Galileo gli aveva indirizzato, mentre a Bellarmino aveva parlato a lungo delle cose che Galileo scriveva. Di queste cose – precisava il cardinale secondo Dini – non aveva più sentito parlare da quando ne aveva discusso con lui (Galileo) verbalmente (a bocca). Su questa osservazione di Bellarmino riposa l’ipotesi di un incontro a Roma nel 1611 fra il cardinale ed il matematico del granduca. La differenza fra il «far leggere» ed il «parlarne» non era casuale. Grienberger era un matematico, senza dubbio più aperto alle novità scientifiche di quanto non lo fosse Bellarmino. Secondo Dini, il cardinale non pensava che Copernico stesse per essere proibito. Forse, nel peggiore dei casi, la dottrina copernicana sarebbe stata accettata per salvare le apparenze, e cioè come ipotesi e non come realtà, solamente per spiegare quel che veniva osservato nel cielo, come fanno coloro che introducono gli epicicli – osservava Dini – e poi non ci credono. Tuttavia il maggior nemico presente nella Scrittura era il versetto exultavit ut gigas ad currendam viam («balzò pien d’ardore come un gigante per correre la via», Salmo 18, v. 6), che tutti gli espositori, secondo Bellarmino, interpretavano attribuendo il moto al Sole. Monsignor Dini aveva replicato che anche il contenuto di questo versetto poteva essere spiegato tenendo conto del loro modo di intendere, e cioè senza contraddire le tesi copernicane. Ma gli era stato risposto (da Bellarmino) che non era

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questo lo scopo da perseguire, tanto più che non ci si preparava a condannare questa o quella opinione. Se Galileo aveva esposto in un suo nuovo scritto interpretazioni della Scrittura che andavano a favore della dottrina copernicana, Bellarmino le avrebbe lette volentieri. «E perché so – precisava Dini – che V.S. si ricorderà di rimettersi alle determinazioni di S. Chiesa, come ha fatto a me e ad altri, non li potrà se non giovare assai». Era chiaro, quindi, che Galileo doveva difendere la propria causa senza varcare i limiti fissati dalle autorità romane. Dini era visibilmente preoccupato e cercava di mettere Galileo sulla strada, a suo parere, giusta. Poiché Bellarmino gli aveva indicato che avrebbe discusso di queste cose con Grienberger, decise di andarlo a trovare per sapere se ci fossero novità. Non ce n’erano, ma secondo il matematico del Collegio Romano sarebbe stato preferibile esporre le dimostrazioni prima di parlare della Scrittura. In altri termini, a detta di Dini, Grienberger ed i suoi colleghi non approvavano che più della metà della lettera a Castelli fosse dedicata, fin dall’inizio, all’interpretazione della Scrittura ed ai rapporti fra la fede e la scienza, insomma a problemi che esulavano dalla stretta competenza degli astronomi. Che era come dire che le discussioni fra astronomi dovevano precedere quelle sulla Scrittura. In realtà due concezioni si affrontavano. La prima, sostenuta da Bellarmino e dalla maggior parte degli astronomi del Collegio Romano, consisteva nell’analizzare le ultime scoperte nel quadro dei tre diversi sistemi astronomici: l’aristotelico-tolemaico, il copernicano ed il ticonico. Gli ultimi due sistemi avrebbero avuto, in questo contesto, un carattere ipotetico che permetteva di inserirvi le nuove scoperte. Il sistema ticonico, che manteneva la Terra immobile al centro del mondo, era compatibile con il contenuto della Scrittura. Galileo partiva invece dalla constatazione che il sistema copernicano era il solo «sistema vero». D’altra parte il carattere di verità del contenuto della Sacra Scrittura non poteva essere esteso ai fenomeni naturali e quindi non bisognava tenerne conto. Non solo l’astronomia, ma l’attività scientifica nel suo insieme doveva essere sviluppata partendo da queste premesse.

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SISTEMA TOLEMAICO

SISTEMA COPERNICANO

SISTEMA TICONICO

Figura 6

Tuttavia, accanto a queste affermazioni di principio, Galileo non esitava a proporre la sua interpretazione di alcuni passi della Sacra Scrittura in un senso favorevole al sistema copernicano. Le informazioni riferite da Dini lo convinsero a occuparsene an-

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cor più di quanto non lo avesse già fatto: saranno vedute volentieri da S.S. Ill.ma, scriveva Dini nella già citata lettera, riferendosi alle reazioni di Bellarmino ai tentativi di interpretare alcuni passi della Scrittura. Forse Galileo considerava una sfida l’osservazione del padre Grienberger. Da quanto riferiva Dini detto padre aveva dei dubbi sugli argomenti da lui avanzati, in quanto più plausibili che veri, poiché li fa paura [sic] qualch’altro luogo delle sacre carte. Il Salmo 18, al quale Grienberger faceva allusione, lo impauriva nella misura in cui si opponeva chiaramente all’immobilità del Sole. Non sappiamo quanto abbia influito su Galileo la citazione riportata da Dini. Sta di fatto che il Salmo 18 sarà oggetto di una sua interpretazione copernicana, che, come vedremo, turberà, sconvolgerà ed alla fine farà indietreggiare monsignor Piero Dini. Il cardinale Bellarmino aveva pubblicato un’opera dal titolo Explanatio in Psalmos (Interpretazione relativa ai Salmi), ristampata a Lione nel 1612, in cui il commento del Salmo 18 comportava alcune considerazioni astronomiche. I versetti 5, 6, 7, 8, ai quali si interesserà Galileo, inneggiano al Sole e, soprattutto, esaltano la legge del Signore, che il Profeta paragona appunto al Sole sottolineandone la superiorità. Ci sembra opportuno citarli in traduzione latina col commento (parziale) di Bellarmino, prima di esporre il commento di Galileo che cita il testo latino. v. 5: «Il Signore pose il suo Tabernacolo nel Sole; Questo, quasi sposo che esce dal proprio talamo v. 6: balzò pien d’ardore come un gigante per correre la via / parte dall’estremità del cielo v. 7: ritorna a questa estremità / nulla si sottrae al suo calore». Commento di Bellarmino: Con ragione, [il Profeta] dice Tabernacolo e non casa, poiché nel Sole il Signore si attarda durante il tempo del nostro viaggio; [...] come uno sposo che esce dal proprio talamo, significa che nessun corpo è più bello e più brillante del Sole. Balzò fuori come un gigante, ovvero come una persona forte e robusta (ut gigas, vel ut fortis et robustus).

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[...] L’espressione a summo cœli indica qui l’oriente. In effetti per summum non bisogna intendere alto, ma estremo (extremum). [...] Si chiama estremo il luogo dove qualcosa comincia e dove finisce. Il cielo comincia ad oriente, perché lì comincia il suo movimento e lì anche finisce. Il senso è, dunque, che il Sole si leva ad oriente e dopo aver percorso tutto il cielo fino ad occidente, ritorna ad oriente. Nulla si sottrae al suo calore, è la terza ragione dell’utilità del Sole. Il Sole riscalda tutto col suo calore vivificante (fovet Sol omnia calore suo vivifico), e lo si può chiamare padre comune di tutto ciò che nasce sulla terra e nelle acque. Dunque, il Sole percorre tutto l’universo, affinché, insigne benefattore, nulla gli sfugga.

v. 8: «La legge del Signore che è senza macchie, converte le anime / la testimonianza del Signore è fedele e conferisce saggezza ai piccoli». Commento di Bellarmino: Il Profeta stabilisce ora un confronto. Il cielo è bello, più bello è il Sole, ma la legge del Signore è ancora più bella. Brillante è il cielo, più brillante il Sole, ma la legge del Signore risplende ancor più. Il cielo è utile agli uomini, il Sole è indispensabile, ma la legge del Signore li sorpassa in utilità. La prima prerogativa espressa dal Profeta è che La legge del Signore che converte le anime è immacolata. La legge del Signore è d’una bellezza senza macchia, non provata dal peccato originale come lo sono le leggi umane; converte le anime che la seguono e le conduce a Dio che ne è l’autore; ed ecco la seconda prerogativa: La testimonianza del Signore è fedele e conferisce saggezza ai piccoli; per testimonianza bisogna intendere la legge divina, perché nella Scrittura, e soprattutto nei Salmi, questa legge è chiamata non solamente legge, precetto, statuto, come si legge negli altri scrittori, ma anche testimonianza, giustizia, giustifica, giudizio come si vede appunto nel Salmo 18. Essa è chiamata testimonianza perché è testimonianza per gli uomini di ciò che Dio ci chiede, delle pene che riserva a coloro che la trasgrediscono, delle ricompense che saranno offerte a coloro che l’osservano. La testimonianza del Signore è fedele; la legge del Signore punirà o ricompenserà fedelmente. Conferisce saggezza ai piccoli; [la legge del Signore] insegna ai piccoli a fare il bene e ad evitare il male. Per piccoli il Profeta intende gli uomini che non dispongono di una grande capacità di giudizio spirituale, come lo sono tutti gli amici di que-

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sto secolo (quales sunt omnes amici huius saeculi). Con la parola saggezza [il Profeta] designa la prudenza spirituale, che regola i costumi secondo la legge di Dio.

Non sappiamo se Galileo avesse letto i commenti di Bellarmino. L’edizione era recente e disponibile verosimilmente in Italia, benché stampata a Lione (FE 1995, 244-246). In ogni caso, la sua decisione di fornire un esempio importante di interpretazione basata sui principi della nuova astronomia non poteva non preoccupare Dini. D’altra parte l’esercizio sarà difficilissimo per Galileo, che lo affrontava senza avere la formazione di teologo. I risultati, che saranno inviati a Dini il 23 marzo 1615 (EN, V.257-305), offrono un’immagine del fossato che separava l’eminente teologo dal moderno scienziato. Quel che qui proponiamo non è il confronto ad litteram dei testi, ma il confronto dell’impostazione dei due commenti, simile nella forma ma del tutto dissimile nel contenuto. Nell’accingersi a commentare il Salmo 18, Galileo esprimerà umiltà e nello stesso tempo speranza nell’assistenza divina per questa impresa di gran lunga superiore alle sue forze. Lo scienziato pisano non escludeva che «la Benignità divina talvolta si degni di inspirare qualche raggio della sua immensa sapienza in intelletti umili, e massime quando sono almeno adornati di sincero e santo zelo». E sottolineava che quando si devono confrontare e mettere d’accordo testi sacri e dottrine naturali nuove e non comuni, è indispensabile disporre di un’informazione completa sul sacro e sul naturale, poiché non è possibile accordare due corde col sentirne una sola. L’intervento della benignità divina sarà ancora invocato, come vedremo, alla fine di questa stessa lettera a monsignor Dini. L’ipotesi sulla quale riposa il commento di Galileo è che nella natura esiste una sostanza spiritosissima, tenuissima e velocissima, che si spande in tutto l’universo, ed infiltrandosi dappertutto senza trovar resistenza, riscalda, vivifica e rende feconde tutte le creature viventi. Il corpo del Sole è il suo rifugio. Calorifico e penetrante, questo spirito accompagna l’immensa luce che dal Sole si spande in tutto l’universo, ed entra in tutti i corpi vegetativi rendendoli vigorosi e fecondi.

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Secondo Galileo, il Sole è un rifugio piuttosto che una sorgente primaria dello spirito e della luce, come confermano alcuni testi, da lui citati, della Genesi e di Dionigi l’Areopagita. Galileo cita quindi i versetti 5, 6, 7, 8, nella versione latina identica a quella riportata da Bellarmino, e sostiene che il Profeta si riferisce al movimento della sostanza spiritosissima, tenuissima e velocissima e non al movimento del Sole. La differenza fra la sua interpretazione ed il commento di Bellarmino appare chiaramente nelle frasi che qui riportiamo tratte dalla lettera a monsignor Dini del 23 marzo 1615: v. 5-v. 6: Deus in Sole posuit tabernaculum suum (Il Signore pose il suo Tabernacolo nel Sole), come in sede nobilissima di tutto il mondo sensibile; dove poi si dice che Ipse, tamquam sponsus procedens de thalamo suo, exultavit ut gigas ad currendam viam (Questo, quasi sposo che esce dal proprio talamo balzò pien d’ardore come un gigante per correre la via), intenderei, ciò esser detto del Sole irradiante, cioè del lume e del già detto spirito calorifico e fecondante tutte le corporee sustanze, il quale, partendo dal corpo solare, velocissimo si diffonde per tutto il mondo: al qual senso si adattano puntualmente tutte le parole. E prima, nella parola sponsus abbiamo la virtù fecondatrice e prolifica.

Secondo Galileo, il Profeta stabilisce implicitamente la distinzione fra il Sole in quanto talamo, letto e ciò che dal Sole viene irradiato. Ed il commento così prosegue: l’exultare ci addita quell’emanazione di essi raggi solari fatta, in certo modo, a salti come il senso chiaramente ci mostra; ut gigas o vero ut fortis, ci denota l’efficacissima attività e virtù di penetrazione per tutti i corpi, ed insieme la somma velocità del muoversi per immensi spazii, essendo l’emanazione della luce come istantanea. Confermasi dalle parole procedens de thalamo suo, che tale emanazione e movimento si deve riferire ad esso lume solare, e non all’istesso corpo del Sole.

In questa interpretazione non c’è posto per i punti cardinali oriente ed occidente, che, secondo Bellarmino, caratterizzano nel testo biblico il movimento del Sole. L’espressione

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a summo cœli egressio eius (la sua partenza dall’estremità del cielo)

non indica l’oriente, secondo Galileo, ma la prima derivazione e [di]partita di questo spirito e lume dall’altissime parti del cielo, cioè sin dalle stelle del firmamento o anche dalle sedi più sublimi.

Derivazione e partita indicano, nell’interpretazione di Galileo, che questo spirito e questa luce provengono dalle stelle, o da altre sedi poste forse più in alto; ed a queste ritornano, come indica l’espressione v. 7: Et occursus eius usque ad summum eius / nec est qui se abscondat a calore eius («ritorna alla sua sommità / nulla si sottrae al suo calore»).

«Ecco – spiega Galileo – la reflessione e, per così dire, la riemanazione dell’istesso lume sino alla medesima sommità del mondo». Riferendosi poi all’espressione nulla si sottrae al suo calore, osserva che il calore vivificante e fecondante [che è] distinto dalla luce, penetra in tutte le sostanze, anche nelle più dense, ed in particolare nelle oscurissime macchie solari da lui messe in evidenza e studiate. Queste ultime potrebbero essere, secondo le osservazioni di alcuni filosofi antichi, l’alimento (pabulo) necessario al sostentamento del Sole (o gli escrementi di questo, ovvero le scorie). In altri termini, il calore vivificante e fecondante penetrerebbe anche nelle macchie, nonostante la loro estrema tenebrosità, per assicurarne la trasformazione. Sono proprio queste macchie – spiega Galileo – che hanno permesso di mettere in evidenza il movimento del Sole intorno al proprio asse, ed osserva che si può ragionevolmente ammettere che da questo rivolgimento dipendono i movimenti dei pianeti intorno ad esso. Quest’ultima osservazione era già contenuta, come si ricorderà, nella lettera a Castelli del 21 dicembre 1613.

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L’ultima parte del commento è dedicata alla legge divina, che il Profeta paragona al corpo celeste: nessun corpo materiale è più bello, più utile e più potente del Sole. Ma, osserva Galileo, il Profeta, dopo averne fatto l’elogio ed essendogli nota la presenza in esso di macchie, antepone la legge divina al Sole ed aggiunge: v. 8: Lex Domini immaculata, convertens animas etc. (La legge del Signore che è senza macchie, che converte le anime ecc.),

«quasi volendo dire che essa legge è tanto più eccellente del Sole stesso, quanto l’esser immacolato ed aver facoltà di convertir intorno a sé le anime è più eccellente condizione che l’esser sparso di macchie, come è il Sole, ed il farsi raggirar intorno a sé i globi corporei e mondani». Galileo utilizza qui due diversi significati di convertere: «convertire» e «girare intorno». Suggerisce quindi un’interpretazione del versetto sulla legge divina – tema centrale del Salmo 18 – riprendendo il paragone fra la legge divina ed il Sole. La scoperta recente delle macchie solari e del movimento del Sole intorno al proprio asse permette, secondo Galileo, un’interpretazione copernicana del versetto 8: la legge del Signore è tanto più eccellente del Sole in quanto è senza macchie (immaculata) e può convertire le anime, mentre il Sole è sparso di macchie ed è costretto a far girare intorno a sé la Terra e gli altri pianeti. Il seguito del versetto 8 offre a Galileo l’occasione di manifestare modestia e sottomissione: So e confesso il mio soverchio ardire nel voler per bocca, essendo imperito nelle Sacre Lettere, in esplicar sensi di sì alta contemplazione: ma come che il sottomettermi io totalmente al giudizio de’ miei superiori può rendermi scusato, così quel che segue del versetto già esplicato «Testimonium domini fidele, sapientiam praestans parvulis (La testimonianza del Signore è fedele e conferisce saggezza ai piccoli)», m’ha dato speranza, poter esser che la infinita benignità di Dio possa indirizzare verso la purità della mia mente un minimo raggio della sua grazia, per la quale mi si illumini alcuno de’ reconditi sensi delle sue parole.

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Bellarmino aveva dato a parvuli il significato di «uomini che non dispongono di una grande capacità di giudizio spirituale». Galileo riconosce di non essere un esperto nell’interpretazione dei testi sacri e fa atto di sottomissione alle autorità religiose. Riferendosi quindi al seguito del versetto, spera che il suo atteggiamento possa indurre il Signore ad indirizzare verso la sua mente un minimo raggio della sua grazia, illuminando così alcuni reconditi sensi delle sue parole. Galileo sarebbe in questo caso il parvulus a cui Dio avrebbe concesso la sapientia necessaria per una corretta interpretazione delle parole da Lui trasmesse per bocca del Profeta. La sua competenza dovrebbe tuttavia limitarsi, da quanto egli stesso aveva affermato nella lettera a Benedetto Castelli, ai problemi di astronomia e di scienza in generale. Galileo sa che la sua interpretazione copernicana del Salmo 18 incuriosirebbe forse gli avversari del sistema copernicano, ma irriterebbe profondamente i teologi. In questa lettera a Dini sa di poter contare sulla prudenza e sulla discrezione dell’illustre prelato, al quale chiede di non divulgarne il contenuto: «Intanto la prego – egli scrive – a non lo lasciar venire in mano di persona che, adoprando, invece della delicatezza della lingua materna, l’asprezza ed acutezza del dente novercale [novercalis ovvero «di matrigna»], in luogo di ripulirlo non lo lacerasse e dilaniasse del tutto». Ammette, quindi, che il linguaggio utilizzato andrebbe rivisto. Nella forma in cui ci è giunto, il commento del Salmo 18 è una indicazione abbastanza precisa della volontà dello scienziato pisano di attaccare i teologi sul loro stesso terreno. Una strategia, questa, che si rivelerà pericolosissima. L’esistenza di una sostanza spiritosissima, tenuissima e velocissima era attestata, secondo quanto riferisce lo stesso Galileo, da molti filosofi e scrittori ed in particolare da Dionigi l’Areopagita, discepolo di san Paolo. Galileo ne fa un agente cosmico, per così dire, la cui natura è legata a quella della luce (SSC 2001, 357-379). Giunta nel Sole dai più lontani luoghi dell’universo, la sostanza vi si insedia per poi espandersi, ed invadere la Terra in tutte le sue parti riscaldandola e vivificandola. Si tratterebbe di una luce primogenea e cioè primitiva, «non molto splendida avanti la sua unione e concorso nel corpo solare», come sugge-

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risce Galileo in questa stessa lettera. Accenni alla natura della luce, potente ad ingombrare spazii immensi, si ritroveranno nel Saggiatore (1623). Galileo ammetterà tuttavia di non avere le idee chiare sull’argomento e di temere di ingolfarsi inavvertitamente in un oceano infinito senza più possibilità di ritrovare la giusta direzione, di ridursi in porto, per dirla con le sue stesse parole (EN, VI.352). Non si tratta, quindi, di un’invenzione ad uso dei soli teologi, ma di una convinzione intima, legata alla natura della luce e rimasta oscura ed in parte segreta, nella misura in cui lo scienziato pisano sapeva di non poterla dimostrare (GLS 2001, 411-412). Nell’esordio della lettera a Dini, Galileo metteva in guardia – qui in veste d’astronomo – coloro che avrebbero voluto modificare parzialmente il sistema copernicano (allusione probabile al sistema di Tycho Brahe). Copernico aveva studiato, approfondito ed utilizzato il sistema di Tolomeo prima di arrivare alla conclusione che il geocentrismo non permetteva di spiegare la vera costituzione dell’universo. Galileo rifiutava quindi i suggerimenti di Bellarmino ed escludeva che l’eliocentrismo potesse essere ridotto ad una ipotesi destinata a salvare le apparenze. Copernico s’era messo a studiare la costituzione dell’universo da filosofo, considerando che se una disposizione finta e non vera poteva salvare le apparenze, molto più si sarebbe ottenuto, spiegava Galileo, dalla costituzione «vera e reale, e nell’istesso tempo si sarebbe in filosofia guadagnato una cognizione tanto eccellente, qual è il sapere la vera disposizione delle parti del mondo». In altri termini, considerare il sistema copernicano come semplice ipotesi al solo scopo di salvare le apparenze era un atteggiamento che toglieva all’astronomia il carattere di scienza attribuitole in generale dagli astronomi, indipendentemente dal sistema adottato. La mobilità della Terra e la stabilità del Sole sono l’universal fondamento di tutta la dottrina copernicana, quindi, secondo Galileo, o bisognava dannare del tutto Copernico, o lasciarlo così com’era. All’opera immensa dell’astronomo polacco, che si riprometteva di rendere più chiara, altre novità celesti sopraggiungevano che Galileo offriva ora «ai piedi del Sommo Pastore ed all’infallibile determinazione di Santa Chiesa».

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Come avrebbe reagito il cardinale Bellarmino se Dini lo avesse informato del contenuto della lettera? Una reazione negativa dell’illustre prelato era facilmente prevedibile. Nella stessa missiva Galileo indicava che la lettera a Castelli, sulla quale si erano concentrati gli attacchi degli avversari, aveva un carattere privato ed era stata scritta per esser letta dal solo destinatario. Fu lo stesso Castelli – pur senza mia saputa, scrive Galileo – a farne fare più copie. Quando si era sparsa la voce che il domenicano Lorini ne aveva inviata una copia a Roma, Galileo aveva deciso di farne un’altra copia, poiché s’era sparsa la voce che la lettera fosse «piena di eresie». Nonostante le asserzioni di Galileo, è difficile ammettere che la lettera a Castelli sia stata scritta per il solo discepolo e che quest’ultimo l’abbia diffusa di propria iniziativa. È probabile che dopo le reazioni dei domenicani di Firenze, non previste dal discepolo e forse neanche dal Maestro, l’iniziativa di inviare copie in giro si era rivelata affrettata e mal organizzata, visto che importanti amici romani come Cesi, Ciampoli e lo stesso Dini ne avranno conoscenza solo molto più tardi. Non sappiamo, d’altra parte, a chi Castelli l’aveva inviata. Non è da escludere che la lettera sia stata diffusa nell’ambito del Granducato e solo più tardi a Roma, dopo l’invio della copia a Sfondrati ad opera di Lorini. Monsignor Dini fu senza dubbio impressionato dal contenuto della lunga missiva e decise di farla leggere a monsignor Giovanni Ciampoli, che ricopriva a Roma l’importante carica di segretario dei brevi ai principi. Ciampoli, che era amico di Galileo ed ammiratore della sua opera, non trovava niente da ridire sul tentativo di fornire un’interpretazione copernicana del Salmo 18. Dini si chiedeva invece se fosse stato prudente mostrarla a Bellarmino, ma per il momento non voleva comunicare questo suo dubbio a Galileo e cercherà di temporeggiare. Nella risposta del 27 marzo (EN, XII.162) scrisse che si sarebbe servito della lettera per far scoperta e capitale del consiglio dell’Ill.mo Bellarmino. Gliela avrebbe mostrata ben presto, ma chiederà al cardinale di non ricopiarla per evitare che altri potessero attribuirsi l’onore delle interpretazioni galileane.

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Questa spiegazione, plausibile, non sembra tuttavia corrispondere alle vere ragioni che spingevano Dini a rinviare a più tardi l’incontro col cardinale. In una successiva lettera a Galileo del 18 aprile, parlerà di una raucedine grande che gli impediva di parlare ad alta voce. Intanto aveva una buona notizia da comunicargli. Il cardinale Maffeo Barberini, incontrato per altri motivi, aveva pronunziato spontaneamente queste parole: «delle cose del Sr. Galileo non sento che se ne parli più; e se egli seguiterà di farlo come matematico, spero non gli sarà dato fastidio» (EN, XII.173). L’espressione come matematico significava che Galileo avrebbe dovuto considerare il moto della Terra come un’ipotesi. Solo in questo caso avrebbe potuto, forse, occuparsi apertamente di astronomia copernicana. Intanto l’incontro con Bellarmino era stato nuovamente rinviato. In una lettera del 20 aprile, Dini annunziava a Galileo che fra un paio di giorni avrebbe cercato di recarsi dal cardinale, ma il 25 gli comunicherà che non era stato possibile e che la colpa era tutta della sua raucedine. Riferiva ancora le parole del cardinale Barberini e quelle di un matematico di cui non ricordava il nome. Quest’ultimo aveva detto: «Mi rallegro che le cose del S.r Galileo sono accomodate», ma non aveva voluto dir altro, forse perché monsignor Dini non era da solo (EN, XII.173-174). Nonostante queste buone notizie, i rapporti sembravano orientarsi verso la diffidenza. I nomi delle persone non sempre figuravano nelle lettere di Dini e si faceva riferimento a Bellarmino senza nominarlo direttamente. Il 2 maggio Dini riferiva a Galileo di aver parlato a lungo col principe Cesi. Insieme avevano preso alcune decisioni sulle cose da fare, si erano divisi gli incarichi, e Cesi gli aveva chiesto di non mostrare a questo personaggio – cioè a Bellarmino – la lettera di Galileo del 23 marzo poiché, come tanti altri pretti peripatetici, avrebbe potuto irritarsi ed in questo caso c’era il rischio di perdere un punto già guadagnato, e cioè che si poteva scrivere sul sistema copernicano per ragion d’ipotesi, come voglion che abbia fatto Copernico. Gli aristotelici, a detta di Dini, raccontavano che i copernicani mettevano il Sole nell’inferno, mentre loro lo mettevano nel terzo cielo, con riferimento al sistema tole-

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maico, in cui il Sole occupa il terzo cielo dopo quello di Mercurio e di Venere (EN, XII.175). In realtà c’era da temere il peggio. In una lettera del 16 maggio (EN, XII.181-182), Piero Dini, fervente sostenitore del sistema copernicano, appariva preoccupato dall’atteggiamento di Galileo che provocava apertamente i teologi per costringerli a discutere di astronomia. «Quanto al Copernico – scrive Dini – ormai non se ne dubita più». In altri termini, è sicuro che il suo sistema astronomico non sarà accettato. «E quanto all’opinione di V.S. – proseguiva l’insigne prelato –, li dico che per adesso non è tempo di voler con dimostrazioni disingannare i giudici, ma si bene è tempo di tacere». Consigliava poi a Galileo di completare quella scrittura che mi dice di avere abbozzata, e cioè la lettera a Cristina di Lorena, di cui Galileo aveva più volte parlato negli scambi epistolari con amici e collaboratori. Secondo Dini molti gesuiti in segreto erano della stessa opinione di Galileo. La lettera si chiudeva con un giudizio sull’interpretazione del Salmo 18. «La dichiarazione del Sole – scriveva Dini – non la fo vedere se non a persone che sono con V.S., perché per ancora non pare che possi haver ricapito buono la necessità che terra moveatur». In altri termini, non era evidente che il commento di Galileo del Salmo 18 potesse avere nell’immediato una buona accoglienza, poiché concludeva necessariamente che la Terra si muove. Alcuni giorni dopo, in una lettera del maggio 1615 (EN, XII.183-185), scritta in risposta a quest’ultima di Dini, Galileo, malato, incapace di prevedere quando sarebbero finiti questi rumori contro di lui, si diceva convinto di non aver fatto niente di male. Nessun astronomo, nessun filosofo naturale si era mai avventurato nella Sacra Scrittura e tutti erano rimasti all’interno della loro disciplina. Ed ora si cercava di chiudere la bocca a chi stava cercando di seguire la dottrina astronomica di un libro ammesso dalla Santa Chiesa, di chiuderla a lui, Galileo, che era costretto a battersi contro l’incompetenza di filosofi che nulla ne sapevano e tuttavia pretendevano di trovarvi proposizioni contrarie alla fede. Il suo solo intento era di mostrare per quanto gli era possibile che costoro forse si sbagliavano.

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«Il modo, per me speditissimo e sicurissimo – scrive Galileo in questa stessa lettera –, per provare che la posizione copernicana non è contraria alla Scrittura, sarebbe il mostrar con mille prove che ella è vera, e che la contraria non può in modo alcuno sussistere; onde non potendo due verità contrariarsi, è necessario che quella e le Scritture sieno concordissime». Ma come procedere, prosegue Galileo, per convincere i peripatetici, incapaci di capire le più semplici e facili ragioni, e pronti invece a costruire i loro argomenti su proposizioni di nessuna efficacia? La strada scelta, in questa fase della sua battaglia, consisteva quindi nel voler mostrare la verità dell’astronomia copernicana, ed applicarla all’interpretazione della Sacra Scrittura in maniera da far coincidere le due verità. Ma questa sua posizione non contrastava forse con l’affermazione contenuta nella prima parte della lettera a Castelli, secondo la quale l’interpretazione ad litteram del contenuto della Scrittura non poteva applicarsi ai fenomeni naturali? Era davvero convinto Galileo di poter ritrovare le verità del sistema copernicano nella Scrittura? La lettera a Dini del 23 marzo contiene, attraverso il commento del Salmo 18, una risposta affermativa a quest’ultima domanda. Non s’è trovata finora nessuna risposta di Dini a questa lettera di Galileo, né lettere posteriori a questa scambiate fra di loro. Piero Dini morirà il 14 agosto 1625.

VI L’ARRESTO DI COPERNICO I consigli del cardinale Bellarmino La pubblicazione della Lettera sopra l’opinione de’ Pittagorici e del Copernico [...] aveva provocato reazioni nell’uno e nell’altro campo. Il principe Cesi ne aveva inviato un esemplare a Galileo il 7 marzo 1615 (EN, XII.150), accompagnato da una lettera in cui esprimeva soddisfazione per il tentativo di Foscarini di salvare i passi della Scrittura interpretandoli secondo i principi dell’astronomia copernicana. Certo – proseguiva Cesi – lo scritto del teologo carmelitano arrivava nel momento giusto, ma c’era il pericolo, benché egli stesso non fosse di questo avviso, che il libro potesse accrescere la rabbia degli avversari e finire col nuocere. L’intervento del cardinale Bellarmino, al quale Foscarini aveva inviato un esemplare del suo libro, ebbe profonde ripercussioni nei due campi e contribuì a precisare l’importanza del contenuto della Scrittura nel dibattito sull’eliocentrismo. Il 12 aprile 1615, l’eminente teologo gesuita indirizzava al confratello carmelitano una lettera il cui contenuto suonava come un avvertimento per i copernicani, pur lasciando aperto un piccolo spiraglio. E proprio questo spiraglio permetterà allo storico della scienza Pierre Duhem (1861-1916) e recentemente, come vedremo, a Giovanni Paolo II, di farvi riferimento. All’inizio della lettera, il cardinale si rivolgeva a Foscarini ed a Galileo con una frase che lascia qualche dubbio sul suo significato esatto: «Dico che mi pare che Vostra Paternità et il Sigr.

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Galileo facciano prudentemente a contentarsi di parlare ex suppositione e non assolutamente». Il cardinale considerava che Foscarini e Galileo si accontentavano di parlare in termini di ipotesi, oppure li esortava a farlo? Nella Lettera sopra l’opinione de’ Pittagorici e del Copernico, il teologo carmelitano sosteneva che il sistema copernicano era più semplice e più vicino alla realtà del sistema tolemaico. Quanto a Galileo, più volte nei suoi scritti privati ed in due lettere sulle macchie solari, stampate a Roma nel 1613, aveva fatto riferimento ad un sistema copernicano reale e non ipotetico. La frase si presta ad una doppia interpretazione, ma non è credibile che Bellarmino abbia avuto dei dubbi sul fondamento attribuito da Foscarini e Galileo al sistema copernicano. Tuttavia, preferiva non attribuire in maniera esplicita ai due difensori dell’eliocentrismo un’opinione che egli stesso considerava difficile da sostenere, lasciando così a coloro che sarebbero venuti a conoscenza di questa sua lettera la possibilità di ammettere che forse Foscarini e Galileo erano già sulla buona strada. Sottolineava quindi che se l’ipotesi della Terra in movimento e del Sole immobile al centro del mondo permetteva di salvare le apparenze meglio che con gli eccentrici e gli epicicli (e cioè col sistema tolemaico regolarmente rivisitato dagli astronomi per salvare le apparenze), non c’era nessun pericolo, e questo doveva bastare al matematico. Ma chiariva subito dopo che sarebbe stata cosa molto pericolosa affermare che la Terra ed il Sole sono realmente così disposti nel cielo, poiché in questo modo non solo si irritavano tutti i filosofi aristotelici, ma si nuoceva alla Santa fede rendendo false le Scritture. Riferendosi quindi, in un secondo punto della lettera, al Concilio tridentino (1545-1563), Bellarmino sottolineava l’interdizione di interpretare la Scrittura contro il comune consenso dei Padri della Chiesa, sia antichi che moderni. Va notato che il senso letterale della Scrittura relativo all’immobilità della Terra ed al movimento del Sole da est verso ovest non costituiva materia di fede per se stesso (ex parte objecti), ma lo diventava in quanto dettato dallo Spirito Santo ai Profeti (ex parte dicentis). Il cardinale illustrava questa sua affermazione con esempi particolarmente significativi. «E così sarebbe he-

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retico – scrive Bellarmino – chi dicesse che Abramo non abbia avuto due figliuoli e Iacob dodici, come chi dicesse che Christo non è nato da vergine, perché l’uno e l’altro lo dice lo Spirito Santo per bocca dei Profeti et Apostoli». In altri termini, il contenuto della Sacra Scrittura è dettato dallo Spirito Santo, la cui parola è verità rivelata. In un terzo punto della lettera si apre lo spiraglio al quale s’è accennato. Quando ci fusse vera dimostrazione, osserva Bellarmino, dell’immobilità del Sole e del movimento della Terra intorno al Sole, allora bisognerà interpretare con molta consideratione la Scrittura e piuttosto dire che non ne comprendiamo il senso, che considerare falso ciò che si dimostra. «Ma io non crederò – spiega l’insigne teologo – che ci sia tal dimostrazione, fin che non mi sia mostrata». Sottolinea quindi che non è la stessa cosa dimostrare che si salvano le apparenze supponendo il Sole al centro e la Terra nel cielo, e dimostrare che veramente il Sole sta al centro e la Terra nel cielo. In effetti la prima dimostrazione può esistere, mentre la seconda è causa di un grandissimo dubbio, ed in caso di dubbio, preciserà Bellarmino, bisognerà attenersi all’interpretazione della Scrittura esposta dai Santi Padri. L’apertura dello spiraglio consisteva quindi nel suggerire fortemente agli astronomi di non avventurarsi nel terreno delle verità astronomiche, ma di limitarsi ad approfondire il sistema eliocentrico in quanto ipotesi per salvare le apparenze. Alla fine della lettera, prendendo spunto dalla frase di Salomone, «Il sole sorge e tramonta, e torna poi al luogo suo», Bellarmino rispondeva all’obiezione di coloro che attribuivano a Salomone un linguaggio secondo le apparenze, come accade al viaggiatore che, nell’allontanarsi dal lido, ha l’impressione che sia il lido a muoversi e non la nave su cui viaggia. Il viaggiatore, osserva Bellarmino, sa che si tratta di un errore e lo corregge, vedendo chiaramente che a muoversi è la nave. Ma nel caso del Sole e della Terra, non c’è nulla da correggere, perché ogni persona assennata si rende conto attraverso l’esperienza che la Terra sta ferma e che l’occhio non s’inganna quando giudica che il Sole, la Luna e le stelle si muovono. Quindi chi si allontana dal lido sa di stare su una nave in movimento, così come chi sta sulla

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Terra sa di trovarsi su di una Terra immobile. In un caso come nell’altro si tratterebbe, secondo Bellarmino, di prove irrefutabili. Il tentativo di tener buoni i copernicani ed i loro avversari era senza dubbio lodevole. Tuttavia la situazione non era equilibrata e la bilancia pendeva, per così dire, dalla parte della Sacra Scrittura e non dell’eliocentrismo. All’inizio della lettera, il cardinale dichiarava di aver sempre creduto che Copernico considerasse il proprio sistema astronomico come una semplice costruzione geometrica. In effetti questa opinione, che Copernico non avrebbe mai accettato di condividere, era nata nel momento stesso in cui appariva il libro. Quando nel 1543 il De revolutionibus vide la luce, il suo arrivo fu turbato da due incresciosi avvenimenti. L’autore, ammalato da tempo, si spense proprio mentre venivano messe in circolazione le prime copie del libro. Come se questo non fosse bastato, l’editore aveva avuto l’idea di inserire un Avvertimento al lettore, non firmato, in cui il sistema astronomico di Copernico veniva presentato come un’ipotesi matematica senza rapporto con la realtà. Alcuni studiosi si erano chiesti se il testo era di mano dell’autore. Giordano Bruno fu tra i primi a dubitarne, ma bisognerà aspettare Keplero per rendersi conto che l’Avvertimento non era di Copernico. Grazie ad una nota manoscritta di Hieronimus Schreiber su di un esemplare del De revolutionibus, l’astronomo tedesco scopriva che a redigerlo era stato Andreas Osiander, un predicatore protestante abbastanza noto, amico dell’editore. Non sappiamo se l’iniziativa fu dettata da eccessiva prudenza o se si trattò di un vero e proprio tradimento. Contrariamente a quanto affermava Osiander, Copernico non considerava il sistema eliocentrico una ipotesi destinata a salvare le apparenze, ma una realtà fisica che il metodo matematico era in grado di descrivere. Che poi questa descrizione risultasse più o meno precisa non importava affatto, mentre era fondamentale per l’astronomo in cerca di verità considerare la Terra realmente in movimento nel cielo ed il Sole immobile. Copernico sosteneva inoltre che le critiche sviluppate a partire dal contenuto della Scrittura erano prive di significato.

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Nella Lettera al papa Paolo III, al quale il De revolutionibus era dedicato, l’astronomo polacco esprimeva chiaramente la sua opinione su questo aspetto dell’astronomia eliocentrica: «Se alcuni sciocchi emettono un’opinione su queste cose ed osano biasimare ed attaccare il mio principio per quelle frasi della Scrittura interpretate secondo le loro intenzioni, non me ne preoccuperò affatto e non potrò che disprezzare il loro punto di vista e considerarlo persino temerario». In realtà la pubblicazione del De revolutionibus suscitò, come vedremo, le critiche di alcuni eminenti teologi, sia cattolici che protestanti, senza tuttavia provocare l’intervento dell’Inquisizione, che era stata istituita da Paolo III nel 1542 (la Congregazione dell’Indice sarà creata solo più tardi, nel 1570, da papa Pio V). Intanto il Sant’Uffizio continuava, nella primavera del 1615, l’inchiesta iniziata dopo la denunzia di Caccini. Dietro sua richiesta, l’inquisitore di Firenze si era messo alla ricerca di Ximenes e di Attavanti ed il 13 aprile annunziava al cardinale Millini che ben presto avrebbe potuto interrogare i due testimoni chiamati in causa da Caccini. L’interrogatorio ebbe luogo solo il 13 novembre. Le accuse furono sostanzialmente confermate da Ximenes che dichiarò di averle intese da alcuni scolari, ma di non aver mai incontrato Galileo. Il domenicano di Firenze si preoccupò soprattutto di discolpare Attavanti, che avrebbe parlato delle opinioni di Galileo senza per questo aderirvi. Oltre alle accuse formulate da Caccini, Ximenes segnalava che secondo il matematico del granduca ogni cosa è quantità discreta, composta di vacui. In quest’accusa si ritrovava l’eco delle discussioni fra i sostenitori dell’atomismo ed i seguaci di Aristotele, in particolare gli scienziati gesuiti del Collegio Romano che credevano nella struttura continua della materia e negavano l’esistenza di atomi separati da piccolissimi vuoti. Forse Galileo sarebbe rimasto profondamente sorpreso nell’apprendere che l’atomismo di Leucippo, di Democrito e d’Epicuro veniva denunziato a Firenze nei locali dell’Inquisizione dove, probabilmente, nessuno ne aveva mai sentito parlare prima d’allora. Ma nulla filtrò di quel che si tramava e Galileo fu all’oscuro fino all’ultimo mo-

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mento delle decisioni che il Sant’Uffizio prenderà pochi mesi dopo contro il De revolutionibus, infliggendo a Copernico la prima vera sconfitta. L’interrogatorio di Attavanti avvenne il 14 dello stesso mese. Il giovane sacerdote negò di essere scolaro di Galileo, col quale aveva avuto occasione di discorrere di problemi letterari. Inoltre affermava di avere inteso da lui i principi della dottrina di Copernico, secondo alcune lettere pubblicate a Roma col titolo Delle macchie solari. Attavanti, che avrebbe fatto volentieri a meno di questo interrogatorio, si preoccupava soprattutto di non nuocere a Galileo. Temendo forse di ritrovarsi implicato in una tenebrosa faccenda, si rifugiava dietro gli scritti di Galileo già pubblicati. Questa strategia gli permetteva di sostenere che le sue conoscenze delle opinioni copernicane di Galileo risultavano dalla lettura del libro sulle macchie solari pubblicato a Roma con regolare imprimatur ed in circolazione da più di due anni. Cadevano così eventuali accuse di contatti frequenti con Galileo e con i suoi seguaci. Il 25 novembre l’inquisitore romano chiedeva informazioni su «alcune lettere di Galileo pubblicate a Roma col titolo Delle macchie solari». La richiesta, presentata solo otto mesi dopo la denunzia di Caccini, lascia pensare che in un primo momento l’inchiesta del Sant’Uffizio si orientò soprattutto verso le convinzioni religiose di Galileo e non verso le sue convinzioni copernicane. In effetti la denunzia, che risaliva al 20 marzo, conteneva già un riferimento preciso al copernicanesimo di Galileo contenuto nel libro sulle macchie solari. Ma il Sant’Uffizio cercava prove di eventuali eresie di Galileo più precise di quanto lo fossero le sue convinzioni copernicane. Su questo punto della denunzia, Attavanti forniva informazioni che permettono di ritrovare l’origine delle accuse mosse da Caccini. Il giovane sacerdote dichiarava che un giorno, in una discussione col padre Ximenes avvenuta nella stanza di quest’ultimo al convento di Santa Maria Novella sulla natura di Dio – e cioè se è sostanza o accidente, se ride e se piange (an Deus sit substantia vel accidens [...] an rideat an plangat [EN, XIX.319]) –, un certo padre Caccini, anch’egli domenicano, la cui stanza era accanto a quel-

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la di Ximenes, aveva ascoltato la discussione immaginando che si trattasse di opinioni sostenute da Galileo. In realtà la discussione riguardava la disputa di san Tommaso Contra Gentiles, e mirava ad istruirsi e non ad altro. Ad una domanda dell’inquisitore sulle convinzioni religiose di Galileo, Attavanti rispondeva di essere sicuro della sua fede cattolica altrimenti non starebbe con questi Serenissimi Principi (EN, XIX.315-320). Il granduca di Toscana era garante dell’ortodossia cattolica del suo filosofo e matematico, e quindi era inutile cercare altre prove. La risposta di Attavanti metteva in evidenza l’importanza della protezione di cui godeva l’accusato, protezione che costituiva un elemento decisivo nel comportamento di Galileo e dei galileani. A Firenze, il matematico del granduca soffriva sempre più della lontananza da Roma, dove avrebbe voluto recarsi subito, come nel 1611, per illustrare liberamente gli argomenti a favore del sistema copernicano, per spiegare, dibattere, convincere. Forse i suoi avversari lo avrebbero ascoltato, forse avrebbe avuto l’occasione di esporre la sua teoria delle maree. Questo fenomeno, dovuto secondo Galileo ai due movimenti della Terra, doveva figurare nell’opera sul Sistema del Mondo ancora da scrivere. Il testo al quale aveva fatto allusione nella lettera a Dini del 16 febbraio era ormai ultimato. Redatto sotto forma di lettera a madama Cristina di Lorena, conteneva lo sviluppo di alcuni argomenti già trattati nella lettera a Castelli. La citazione della frase del cardinale Cesare Baronio – «l’intenzione dello Spirito Santo è di insegnarci come si va in cielo e non come va il cielo» – traduceva in maniera quanto mai significativa una verità apparentemente semplice da rispettare. Fra i numerosi autori citati, c’era sant’Agostino. Se alla prova certa e manifesta – scriveva Agostino (354-430) nella Epistola septima ad Marcellinum – si oppone l’autorità delle Scritture, colui che fa questo non comprende; e non oppone alla verità il senso delle Scritture che non poté penetrare, ma piuttosto il suo, e non ciò che si trova in quelle, ma quel che trova in sé al posto di quelle» (trad. it. in Galileo 1978, 134, n. 4). La rinnovata presa di posizione nei confronti dei teologi confermava la volontà dello scienziato pisano di impedire

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con ogni mezzo che costoro si occupassero di astronomia. Il tono è fra l’ironia e l’impertinenza, adoperato proprio per abbattere l’avversario. Si dice, osserva Galileo, che poiché la teologia è la regina di tutte le scienze non deve assolutamente abbassarsi fino alle altre scienze meno degne di lei, ma che le altre devono riferirsi a lei come ad una imperatrice suprema e modificare le loro conclusioni conformemente agli statuti e decreti teologici. Un malinteso potrebbe nascere se non si individuassero i privilegi grazie ai quali la teologia è degna del titolo di regina. Questi privilegi, secondo Galileo, possono considerarsi di due tipi: o tutto quello che insegnano le altre scienze si trova già incluso e dimostrato in essa, o allora l’argomento di cui si occupa la teologia va al di là di tutti gli argomenti appartenenti alle altre scienze ed in questo caso il suo insegnamento procederebbe con mezzi più sublimi. Ma nessun teologo che abbia un po’ di pratica delle altre scienze affermerebbe che il titolo di regina spetti alla teologia per i motivi enumerati nel primo caso. Sembrerebbe quindi che la regia supremazia appartenga alla teologia per l’altezza del soggetto trattato e per l’insegnamento delle rivelazioni divine, dove le conclusioni che potevano essere comprese dagli uomini solamente attraverso la fede permettevano l’acquisto della beatitudine eterna. L’opinione di Galileo su questo punto centrale della disputa in merito al significato da attribuire al contenuto della Scrittura costituisce, nella lettera a Cristina di Lorena, una risposta alla lettera di Bellarmino a Foscarini in cui il cardinale faceva riferimento all’interdizione formulata dal Concilio tridentino di interpretare la Scrittura contro il comune consenso dei Padri della Chiesa. Ma Bellarmino non ignorava che il consenso era richiesto nei problemi di fede e di costumi e non di astronomia. Nella lettera a Cristina di Lorena si esprime il timore che l’interpretazione delle decisioni dei Concili venga estesa alla scienza, mentre la Santa Chiesa o il comune consenso dei Padri – spiega Galileo riprendendo l’espressione utilizzata da Bellarmino – si riferiscono solamente a problemi de Fide. Una critica chiara del tentativo in corso di legittimare l’opposizione a Copernico attraverso una interpretazione erronea delle decisioni conciliari.

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Nella lunga lettera a Cristina di Lorena, ultimata probabilmente nel dicembre 1615, i teologi sono rinviati alle loro specifiche attività in maniera ancora più esplicita di quanto Galileo avesse fatto nella lettera a Castelli. Che gli argomenti avanzati da Galileo fossero destinati ad un pubblico più vasto di quello costituito dalla corte medicea è fuor di dubbio. Nel giro di poche settimane i commenti sarebbero piovuti abbondantemente, soprattutto quelli negativi, che Galileo aspettava con malcelato interesse, impaziente di poter contrattaccare. Da dove tirava tanta sicurezza? Senza dubbio dall’intima convinzione che la Chiesa avrebbe finito col capire che era indispensabile sollevare e distruggere la cappa di piombo sotto la quale si era rifugiata. La Chiesa poteva e doveva diventare in Italia e nel mondo l’autorità capace di offrire nuove prospettive alla scienza. Le scoperte nel campo dell’astronomia ed in generale della filosofia naturale conferivano a Galileo la forza necessaria per smuovere la cappa, mentre la protezione della cattolicissima famiglia dei Medici lo metteva al sicuro dalle accuse di eresia. Secondo Galileo i teologi avrebbero finito col convincersi che la loro specifica attività non era minacciata, poiché riposava su basi che erano inaccessibili alla scienza. Esisteva realmente una prospettiva del genere? L’enorme difficoltà che lo scienziato pisano non riusciva a misurare consisteva nella impossibilità per i teologi di lasciarsi scacciare da posizioni che occupavano da secoli. Le occupavano tanto più facilmente in quanto disponevano di punti di riferimento considerati sicuri, mentre chi studiava la natura doveva giustificare le interpretazioni talvolta contrarie al senso comune, come nel caso del sorgere e del tramontare del sole. Pochi erano gli studiosi che disponevano come Galileo di una visione precisa del divenire della scienza nei suoi rapporti con la religione. La sua profonda fede cattolica e la convinzione che la natura potesse essere studiata e compresa lo costrinsero, in un certo senso, a non indietreggiare dinanzi ai soli ostacoli che egli intravedeva: l’opposizione dei teologi e più precisamente dei due ordini religiosi più importanti, i domenicani ed i gesuiti.

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Di nuovo a Roma Il periodo di convalescenza imposto a Galileo dalle numerose indisposizioni che lo avevano afflitto per più di un anno sembrava ormai terminato, come risulta da una lettera di Luca Valerio del 10 settembre 1615 (EN, XII.197), e dalla richiesta indirizzata al granduca di potersi recare a Roma. Cosimo II accolse favorevolmente l’iniziativa ed annunziò l’arrivo del suo matematico a Piero Guicciardini, ambasciatore a Roma, in una lettera del 28 novembre. «Il Galileo matematico – scrive il granduca – ci ha chiesto di venire a Roma, parendogli necessaria la presenza sua per giustificarsi da alcune opposizioni fatteli da’ suoi emuli intorno alle opere che egli ha mandato fin’ora» (EN, XII.203). In realtà Galileo non intendeva giustificarsi, ma contrattaccare. Il granduca ne era verosimilmente convinto, ma non considerava opportuno rifiutare l’indispensabile autorizzazione. Ci si può chiedere tuttavia fino a che punto Galileo poteva contare sulla sua protezione. La risposta a questa domanda si può ricavare da una delle lettere che Cosimo II indirizzava, nel giorno stesso in cui scriveva al suo ambasciatore a Roma, ad influenti personaggi del mondo religioso romano per informarli dell’arrivo di Galileo. La lettera alla quale ci riferiamo è diretta al cardinale Francesco Maria Del Monte. Dopo aver reso noto che Galileo si recava a Roma per far apparire la verità e la sua retta e pia intenzione, il granduca ne lodava le qualità morali e si dichiarava sicuro che avrebbe facilmente risposto alle obiezioni che gli venivano rivolte. «Ma in questa parte [e cioè nel dibattito] – sottolineava Cosimo II – io stimo egli non abbia bisogno della mia protezione, sì come non prenderei mai a proteggere qualsivoglia persona che pretendesse coprire col mio favore qualche difetto, massimamente di religione o d’integrità di vita; ma l’accompagno solamente a V.S. Ill.ma con questa mia lettera, acciò che ella, vedendolo volentieri come mio grato et accetto servitore, si contenti di favorirlo per il giusto e particolarmente in haver l’occhio che egli sia udito da persone intelligenti e discrete che non diano orecchie a persecuzioni appassionate e maligne» (EN, XII.203-204).

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La precisa allusione del granduca al rifiuto di proteggere chiunque coltivasse opinioni contrarie alla religione provava innanzitutto che le autorità fiorentine erano al corrente delle critiche, se non proprio delle accuse, rivolte a Galileo per la sua difesa di un sistema astronomico contrario al contenuto della Scrittura. In secondo luogo, l’invito al cardinale Del Monte di aiutare Galileo per il giusto esprime la preoccupazione della corte toscana, probabilmente di madama Cristina di Lorena in particolare, di non portarsi garante per tutte le opinioni professate da Galileo. Il granduca si accontentava di accompagnare solamente il suo matematico, come dire che gli stava vicino ma non s’impegnava a difenderlo in ogni circostanza. Chiedeva infine che il cardinale Del Monte facesse di tutto per farlo parlare con persone intelligenti e discrete. Questi due aggettivi, e soprattutto il secondo, non designano certo gli avversari di Galileo. Tuttavia, nelle intenzioni dell’illustre viaggiatore, il trasferimento a Roma aveva proprio lo scopo di affrontare costoro da vicino, di ridicolizzarli, di metterli definitivamente fuori combattimento. L’ambasciatore Guicciardini era sulle spine. Già nel viaggio a Roma del 1611 aveva avuto occasione di constatare quanto poco gradite fossero le opinioni di Galileo ad alcune importanti personalità del mondo religioso romano. In una lettera del 5 dicembre 1615, già menzionata al capitolo III, l’ambasciatore rendeva noto a Curzio Picchena, segretario di Stato del granduca, che alcuni frati domenicani, il cui ruolo era importante in seno al Sant’Uffizio, nutrivano cattivi sentimenti nei confronti dello scienziato pisano. Biasimava poi l’iniziativa di Galileo, sottolineando che Roma non era il paese dove si poteva venire a disputare della luna o a sostenervi dottrine nuove (EN, XII.206207). Tuttavia le preoccupazioni dell’ambasciatore non avranno nessuna conseguenza immediata, poiché Galileo era già sulla strada di Roma, dove giungerà all’incirca l’11 dicembre. Per ordine del granduca, gli erano state riservate due stanze nei locali dell’ambasciata, onorevoli e comode in codesto palazzo di Trinità dei Monti (Villa Medici), come indicava Picchena all’intendente Annibale Primi in una lettera del 28 novembre. L’ospite di-

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sporrà inoltre di vitto conveniente, uno scrittore (amanuense), un servitore e una muletta (EN, XII.205). Il giorno successivo al suo arrivo, senza perdere tempo, Galileo si mise in contatto con alcuni prelati che avevano, tutti, sommamente lodato la sua venuta a Roma, come si legge in una sua lettera a Picchena del 12 dicembre. La stessa accoglienza gli era stata riservata da tutti gli amici. Soddisfatto, l’animo contento, Galileo poteva ora constatare che la strada era spianata per il mantenimento ed aumento della sua reputazione (EN, XII.209). In realtà le cose andranno diversamente, ma alla fine di quell’anno, cruciale per i galileani, le apparenze mostravano un vantaggio a loro favore. A Firenze, Cosimo II aspettava con impazienza notizie da Roma. Galileo era ottimista, sempre più convinto dell’interesse di questo suo viaggio per potersi ridurre in stato di quiete, come indicava al segretario Picchena in una lettera del 1° gennaio 1616 (EN, XII.220). Le lettere si incrociavano. Il 2 gennaio il segretario di Stato era visibilmente preoccupato di non ricevere notizie. In una lettera a Galileo esprimeva il desiderio e la speranza che fossero buone, che Galileo riuscisse a disingannare coloro che cercavano di attaccarlo, e precisava che le loro Altezze nutrivano il medesimo desiderio, la medesima speranza (EN, XII.221). Curzio Picchena non scriveva a titolo personale, ma per ordine del granduca. Le preoccupazioni erano evidenti a Firenze, nel ristretto circolo costituito dal granduca e dai suoi consiglieri. L’8 gennaio Galileo disponeva di indicazioni abbastanza precise su quanto si stava tramando a Roma. In una lettera a Picchena sottolineava ancora una volta l’importanza del viaggio, affermando che se non fosse venuto avrebbe rischiato di restare impigliato nei tanti lacci tesi contro di lui. Farà onorata vendetta dei suoi nemici a Roma, negli stessi luoghi in cui erano state organizzate le macchinazioni contro di lui. Alcune voci messe in circolazione non si sapeva esattamente da chi lasciavano pensare che il granduca stesse per richiamarlo a Firenze. Galileo chiedeva a Picchena di smentirle (EN, XII.222-223). Il 12 gennaio la risposta dissipava ogni dubbio: le Altezze dicono che può re-

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stare a Roma quanto tempo vuole per risolvere i suoi problemi (EN, XII.224). Ma una cattiva notizia giungeva intanto alle orecchie di Galileo, che la trasmetteva immediatamente a Picchena il 16 gennaio: Lorini, il domenicano di Firenze che per primo aveva denunziato il 7 febbraio 1615 le opinioni dei galileani, era giunto da poco a Roma. Galileo continuava a sentirsi sicuro di sé ed augurava al Lorini di incontrare qualcuno che disponesse di un’autorità sufficiente per cambiare in meglio il suo progetto, sottolineando, in questa lettera a Picchena, che meglio in questo caso si riferiva alla reputazione del Lorini e non alla causa da lui difesa (EN, XII.225). Sempre più deciso a difendere le sue opinioni, Galileo si lancerà in difficili dibattiti cercando con tutta l’ostinazione di cui era capace l’incontro col maggior numero di avversari. Uno di questi, il canonico Antonio Querengo (o Querenghi), era stato più volte testimone del suo spirito combattivo e ne dava notizia al cardinale Alessandro d’Este, a Modena, in una lettera del 20 gennaio. Galileo, scrive il canonico, discute con gli avversari, in mezzo a 15 o 20 che lo assalgono e si ride di tutti. Benché la sua opinione non convinca, convince invece la vanità della maggior parte degli argomenti degli avversari. Querengo descriveva una sua particolare maniera di attaccarli, che consisteva nel fingere di accettare i loro argomenti, amplificarne l’importanza in maniera apparentemente convincente e distruggerli poi, rendendo in tal modo ridicoli coloro che li avevano proposti (EN, XII.226-227). Un elemento nuovo ed inaspettato contribuiva ad aggiungere confusione in una situazione già poco chiara. Tommaso Caccini, presente a Roma, chiedeva di incontrare Galileo. Temeva le conseguenze del suo comportamento? Questa sembrava essere l’interpretazione dello scienziato, che in una lettera del 30 gennaio indirizzata a Picchena considerava la richiesta come un tentativo per temperare l’indignazione, molto dannosa, secondo Galileo, per il domenicano, di tutti questi personaggi consapevoli della sua azione (EN, XII.229). L’incontro avverrà pochi giorni dopo e Galileo ne informerà il segretario di Stato in una lettera del 6 febbraio. Caccini fu ospite dell’accusato per ben quat-

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tro ore e nel corso della prima mezz’ora poté parlare da solo con lui. Secondo quanto scrive Galileo, Caccini fece atto di sottomissione scusandosi per l’azione svolta costà, e tentò poi di far credere che non era stato il motore dell’altro rumore qui. Le due iniziative del Caccini citate nella lettera si riferiscono all’attacco contro i galileani ed i matematici fautori di eresie, pronunziato pubblicamente costà, e cioè a Firenze, dal pulpito di Santa Maria Novella nel dicembre del 1614, ed al rumore che circolava a Roma della denunzia di Galileo al Sant’Uffizio. Quest’ultima doveva rimanere segreta e quindi circolare sotto forma di «rumore», ma è abbastanza probabile che Galileo ne fosse già informato da alcuni mesi. In questa stessa lettera il matematico del granduca faceva allusione al suo ritorno a Firenze, che sarebbe stato perfettamente giustificato per ciò che riguardava la sua stessa persona. Eminentissimi personaggi, esperti nelle materie intorno alle quali s’era discusso, avevano potuto rendersi conto della sua candidatezza e della sua integrità. Ma, precisava Galileo, al suo problema personale s’era aggiunto qualcos’altro che non spettava solamente a lui, ma a tutti coloro che da ottant’anni, attraverso opere stampate o scritti privati o altro, aderivano ad una dottrina ed opinione non ignota al destinatario della lettera, intorno alla quale erano in corso discussioni, per poter deliberare quello che sarà giusto ed ottimo. Galileo poteva essere di qualche aiuto in quanto esperto della verità che viene sumministrata dalle scienze da lui professate, ma non doveva né poteva trascurare l’aiuto che gli veniva sumministrato dalla sua coscienza di cristiano zelante e cattolico. L’allusione al doppio ruolo di scienziato e di interprete fedele del contenuto della Scrittura appare qui fra le righe e conferma la decisione di Galileo di non fermarsi alle discussioni fra astronomi, ma di convertire alla nuova astronomia tutti coloro che erano in grado di intendere le ragioni che la rendevano vera. I teologi non potevano assumere questo ruolo ed avevano bisogno dell’aiuto di uno scienziato che fosse nello stesso tempo buon cattolico, pronto a collaborare per una lettura copernicana della Scrittura. Questo scienziato esisteva e non aveva il diritto di allontanarsi da Roma nel momento in cui la compatibi-

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lità fra le verità astronomiche ed il contenuto della Scrittura era al centro di appassionati dibattiti. Alla fine della lettera, Galileo affermava di aver trovato una singolare inclinazione e disposizione a proteggerlo e favorirlo in Alessandro Orsini, da poco elevato a soli ventitré anni alla dignità di cardinale. Chiedeva attraverso Picchena una lettera di raccomandazione del granduca per il giovane cardinale, che gli sarebbe stata di grande aiuto e gli avrebbe evitato un gran dispendio di tempo. Cosimo II, che aveva già in precedenza raccomandato il suo matematico al cardinale Orsini, rinnovava le raccomandazioni in una lettera del 12 febbraio, e pregava il giovane prelato di facilitare a Galileo «le strade da spedirsi di costà più presto e con maggior soddisfazione sua che sia possibile» (EN, XII.233). In altri termini, il granduca avrebbe gradito l’intervento di Orsini per accelerare il ritorno del matematico a Firenze con il miglior risultato possibile. Le preoccupazioni alla corte toscana erano evidenti e la spiegazione avanzata da Galileo per giustificare il prolungarsi del soggiorno romano non convinceva. I rumori persistenti, a Roma, di decisioni imminenti del Sant’Uffizio nelle quali poteva trovarsi coinvolto il matematico del granduca, probabilmente erano già giunti a Firenze. Galileo aveva dedicato ad Alessandro Orsini il Discorso del flusso e reflusso del mare (EN, V.377-395). Dal suo punto di vista, il fenomeno descritto – le maree – costituiva la prova del doppio movimento della Terra ed era una risposta a coloro che, come il cardinale Bellarmino, consideravano poco probabile che potesse esistere una prova al riguardo. La prova attraverso le maree Nella parte introduttiva del Discorso, Galileo non escludeva che altre cause potessero intervenire nel fenomeno delle maree. Tuttavia il movimento annuo della Terra, effettuato in 365 giorni intorno al Sole, ed il movimento diurno intorno al proprio asse in 24 ore costituivano, a parer suo, la causa prima del fenomeno, che sarebbe risultato dalla composizione di questi due

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movimenti. L’analogia con il movimento dell’acqua contenuta in una barca è presentata nella parte introduttiva del Discorso come un modello in miniatura di quello che avviene sulla superficie terrestre. L’acqua, che sta quieta se la barca è ferma, resta indietro e si solleva verso poppa se la barca comincia a muoversi con una notevole velocità. Si quieta poi se il viaggio continua con moto uniforme, ma se la barca si arena o viene frenata da un ostacolo che riduce improvvisamente la sua velocità, l’acqua continua a muoversi con la velocità che la barca aveva prima della frenata e si ritrova quindi verso prua da dove può traboccare; poi ridiscende verso poppa, prima di quietarsi quando il moto ridiventerà uniforme. Sulla superficie terrestre la situazione era senza dubbio più complessa, spiega Galileo, ma abbastanza simile a quanto avveniva nella barca. Benché le acque dei grandi laghi, dei mari, degli oceani riposassero in contenitori di dimensioni molto diverse, il principio che Galileo si proponeva di illustrare sarebbe stato valido in ogni punto della superficie terrestre. Tuttavia, indipendentemente dalla validità della prova, la sua maniera di procedere non conduceva alla dimostrazione potissima, poiché non stabiliva che le maree si verificavano se e solamente se la Terra era animata da due movimenti. In altri termini, i due movimenti della Terra non si deducevano necessariamente dall’esistenza delle maree, poiché il fenomeno poteva avere altre cause, e questa obiezione rivestiva un’importanza capitale per gli avversari del copernicanesimo. Bellarmino affermava che se ci fosse vera dimostrazione dell’immobilità del Sole e della mobilità della Terra allora si poteva discutere sul significato di alcuni passi della Scrittura. Per vera intendeva appunto la dimostrazione potissima. L’osservazione dei fenomeni costituiva un elemento importante della filosofia naturale, ma non permetteva di raggiungere la certezza. Ed in caso di dubbio secondo Bellarmino bisognava affidarsi al contenuto della Scrittura. Il tentativo di Galileo è stato oggetto di interpretazioni diverse, che vanno dal risultato completamente erroneo, secondo alcuni scienziati come Keplero e, più vicino a noi, Ernst Mach (1838-1916) e Karl Popper (1902-1994), al risultato incompleto,

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Figura 7

per dirla col linguaggio dell’astronomo Pierre Souffrin recentemente scomparso (SPI 2001, 65-67). In realtà le iniziative del Sant’Uffizio erano dirette a contestare le conclusioni e non il valore scientifico della prova. Il significato che Galileo le attribuisce presenta un interesse evidente per gli storici della scienza, ma è fuorviante per chi volesse risalire alle cause della condanna. Che sia o non sia valida poco importa, poiché il Sant’Uffizio condannerà l’eliocentrismo in quanto dottrina astronomica contraria alla verità rivelata e non farà allusione, né durante l’istruttoria né nella sentenza, alla prova attraverso le maree. Intanto vediamo come viene presentata da Galileo. Nella figura proposta da Galileo nel Discorso del flusso e reflusso del mare (fig. 7), la circonferenza BCDL rappresenta l’equatore del globo terrestre, il cui centro A percorre la circonferenza (orbe magno) AFGI in 365 giorni circa (movimento annuo). D’altra parte, il globo terrestre compie un movimento di rivoluzione intorno al proprio asse in 24 ore (movimento diurno). Nella figura l’equatore terrestre e l’eclittica (orbita descritta dal centro della Terra nel movimento annuo) giacciono nello stesso piano e quindi l’asse terrestre è perpendicolare al piano

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dell’eclittica, mentre in realtà è inclinato, com’è noto, di 23°,5. Secondo Galileo le semplificazioni introdotte non modificano l’aspetto qualitativo del fenomeno. I due movimenti, l’annuo ed il diurno, sono, secondo i principi dell’astronomia copernicana, circolari ed uniformi. La composizione e l’aggregato di questi due movimenti sono causa, secondo l’autore del Discorso, di aumento o diminuzione della velocità in ognuna delle parti del globo terrestre. Galileo affronta il problema in termini qualitativi, osservando che poiché il movimento diurno si fa per il verso BCD, e quello annuo per il verso AFG, nel punto B della superficie terrestre i due movimenti hanno lo stesso verso e quindi le parti del globo situate intorno a questo punto si muovono con velocità massima, mentre quelle situate intorno al punto D, dove i versi dei due movimenti sono fra di loro opposti, si muovono con velocità minima. Intorno ai punti C ed L, il movimento delle parti del globo risultante dal componimento dei due movimenti, l’annuo ed il diurno, è mediocre, per dirla col linguaggio di Galileo, e cioè approssimativamente uguale al semplice movimento annuo poiché non viene né accresciuto né diminuito dal movimento diurno né a destra, né a sinistra. La conclusione enunciata da Galileo è che ogni parte della superficie terrestre, «benché mossa da due movimenti equabilissimi in se stessi, dentro allo spazio di ventiquattro ore si muove alcuna volta velocissimamente, altra volta tardamente e due volte mediocremente». Le parti intorno al punto B (mezzanotte) sarebbero sottomesse ad un aumento massimo di velocità con conseguente reflusso delle acque (l’acqua rimarrebbe indietro), e le parti intorno al punto D (mezzogiorno) ad una diminuzione massima di velocità con conseguente flusso (l’acqua rimarrebbe in avanti), mentre intorno ai punti C ed L il movimento delle parti della Terra sarebbe praticamente uguale al movimento annuo. Quindi, secondo Galileo, su ogni parte della superficie terrestre in cui esiste una adeguata distesa d’acqua si dovrebbero osservare due maree al giorno (una alta ed una bassa) con una frequenza di dodici ore. Nel mare Mediterraneo se ne osservano quattro (frequenza di sei ore) a causa della li-

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mitata lunghezza dell’arco di mare (causa secondaria), mentre a Lisbona, dove gli effetti osservati sono dovuti solamente alla causa primaria, se ne osserverebbero due. In realtà quest’ultima informazione era inesatta e in seguito Galileo sarà costretto ad eliminarla. In generale il contenuto del Discorso è poco chiaro. Probabilmente Galileo se ne rese conto, e decise di costruire una macchina per simulare gli effetti da lui illustrati. Si trattava di convincere non solo gli avversari ma anche i copernicani, attraverso un modello meccanico capace di riprodurre i due movimenti della Terra. Di questo progetto s’è trovato solamente un riferimento nel Discorso: «io ho la construzione di una machina, [...] nella quale particolarmente si può scorgere gli effetti di queste meravigliose composizioni di movimenti» (EN, V.386), e pressappoco negli stessi termini nel Dialogo (EN, VII.456). Sulla base di questa informazione, Pierre Souffrin ha costruito una macchina in cui il vaso Terra può essere sottomesso simultaneamente ai due movimenti circolari uniformi, diurno ed annuo. Se il movimento annuo agisce da solo, la superficie dell’acqua rimane calma, mentre quando interviene il movimento diurno, si osserva una spettacolare oscillazione periodica e regolare del liquido nel suo abitacolo, «di periodo uguale ad un giorno solare sulla macchina» (SPI 2001, 67). Si può obiettare, e Souffrin l’aveva previsto, che le dimensioni della macchina sono lungi dal riprodurre le condizioni reali. Contrariamente a quanto avviene nel ridottissimo modello meccanico, durante le ventiquattro ore del movimento diurno la Terra si sposta pochissimo sulla traiettoria annua (meno di tre millesimi dell’intera circonferenza) ed il suo spostamento può essere assimilato ad un movimento rettilineo uniforme. In questo caso, in virtù di un principio enunciato dallo stesso Galileo, il movimento annuo non influenza il movimento diurno. Un calcolo sviluppato da Souffrin mostrerebbe, tuttavia, che questo effetto esiste ed agisce in senso opposto rispetto all’effetto gravitazionale esercitato dalla Luna e dal Sole e messo in evidenza da Newton (1642-1727). Dalle ricerche di Souffrin si può trarre la conclusione che se Galileo costruì una tale macchina, il risulta-

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to da lui osservato lo convinse della validità della sua teoria, che prevedeva appunto due maree al giorno, una alta ed una bassa. Prima di chiudere, provvisoriamente, il paragrafo del flusso e reflusso del mare, è opportuno sottolineare che il fenomeno era stato studiato nell’antichità. Fra coloro che avevano cercato di spiegarlo nel corso degli ultimi decenni del XVI secolo figurano, oltre al già citato Andrea Cesalpino, Girolamo Borro (15121592) e soprattutto Paolo Sarpi, il servita scomunicato da Paolo V, più volte citato nei precedenti capitoli. Negli anni intorno al 1595, Sarpi aveva aderito alla dottrina copernicana ed aveva attribuito ai due movimenti della Terra la causa delle maree. Nei Pensieri redatti fra il 1578 ed il 1597 e ordinati successivamente secondo una numerazione crescente, Sarpi dava una spiegazione (Pensiero 568) abbastanza simile a quella di Galileo, precisando che le acque dei mari erano sottomesse ad un fenomeno di accelerazione fra mezzogiorno e mezzanotte e di rallentamento fra mezzanotte e mezzogiorno. È probabile che Sarpi abbia avuto l’occasione di parlarne con Galileo, ma è difficile affermare con certezza chi dei due abbia influenzato l’altro (FE 1995, 303-307). Benché Galileo ritenesse che le maree costituissero una prova irrefutabile del doppio movimento della Terra, non ne fece un argomento importante nel dibattito in corso, riservandosi forse di utilizzarlo come argomento decisivo al momento opportuno, senza correre il rischio che nel frattempo altri, in Italia o oltralpe, glielo usurpassero. Il Decreto del 5 marzo 1616 Gli avversari dell’eliocentrismo trovarono nel ravennate Francesco Ingoli un antigalileano convinto e deciso a far valere le sue ragioni, calcate a dire il vero sugli argomenti già avanzati da Tycho Brahe, contro il movimento della Terra. Ingoli indirizzò a Galileo lo scritto Disputatio de situ et quiete Terrae (Discussione sulla posizione e l’immobilità della Terra), in cui erano elencate 20 obiezioni di cui solo quattro di carattere teologi-

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co. Il contenuto delle rimanenti aveva, secondo l’autore, un carattere matematico o fisico. Nel commentare gli argomenti teologici, Ingoli, che probabilmente agiva per conto del Sant’Uffizio, escludeva che il linguaggio della Scrittura si fosse adeguato alle capacità di comprensione degli esseri umani. Una sola regola doveva guidare l’interpretazione dei testi: salvare sempre il senso letterale. Il 10 marzo 1616, Francesco Ingoli veniva elevato alla carica di consultore della Congregazione dell’Indice (BMA 1995, 87-97). Galileo risponderà solamente otto anni dopo all’invito di Ingoli ad esprimersi sulle obiezioni matematiche e fisiche da lui avanzate. In effetti i rumori di una procedura in corso in seguito alla denunzia di Caccini lasciavano prevedere spiacevoli iniziative del Sant’Uffizio. Qualcosa sull’inchiesta, di cui trapelavano in realtà solo poche indiscrezioni degne di fede, era giunta all’orecchio di Galileo, come appare da una lettera del 20 febbraio indirizzata a Curzio Picchena. Orsini si era mostrato «ardentissimo in favorir la causa pubblica che ora si tratta». Il giovane cardinale era deciso a discuterne persino col Santo Padre. Intanto Galileo, che aveva potuto scoprire con l’aiuto di Dio le frodi degli avversari, sperava che questo stesso aiuto gli desse la possibilità di ostacolare «qualche deliberazione dalla quale ne potesse succeder qualche scandalo per la Santa Chiesa». In altri termini, il Sant’Uffizio stava per prendere decisioni che, secondo Galileo, si sarebbero rivelate dannose e addirittura scandalose per la Chiesa. Tuttavia il ripetuto riferimento all’aiuto divino sembrava sottintendere che solo un miracolo poteva evitare il peggio. Galileo appariva stanco e dubbioso. «Sono in Roma – egli scrive in questa stessa lettera – dove, sì come l’aria sta in continue alterazioni, così il negoziare è sempre fluttuante» (EN, XII.238-239). Forse Galileo sapeva già che il 19 febbraio il Sant’Uffizio aveva inviato ai reverendi padri teologi due proposizioni: a) Che il sole sii centro del mondo, et per consequenza immobile di moto locale; b) Che la terra non è centro del mondo né immobile, ma si move secondo sé tutta, anche di moto diurno.

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Il 24 febbraio, nel corso della seduta di qualifica teologica tenuta al Sant’Uffizio in Roma, i tre padri teologi censurarono all’unanimità le due proposizioni, con due diverse motivazioni: Proposizione a Censura: Tutti hanno detto, che la suddetta proposizione è stolta e assurda in filosofia, e formalmente eretica, in quanto contraddice espressamente in molti luoghi le affermazioni della Santa Scrittura secondo il senso delle parole e secondo la comune interpretazione ed il senso dei Santi Padri e dei dottori teologi. Proposizione b Censura: Tutti hanno detto, che questa proposizione deve ricevere la stessa censura in filosofia; per quanto riguarda la verità teologica, essa è per lo meno erronea nella Fede (ad minus erronea in fide) (EN, XIX.320-321).

La proposizione a è formalmente eretica perché direttamente contraria alla fede non per il suo contenuto (ex parte objecti), ma in quanto contraddice le parole di Giosuè che erano state dettate dallo Spirito Santo (ex parte dicentis). La proposizione b è da censurare dal punto di vista filosofico, mentre rispetto alla verità teologica è da considerarsi solamente erronea. In effetti l’immobilità della Terra non è esplicitamente menzionata nella Scrittura. Quindi affermare il contrario non è un’eresia, né ex parte obiecti, né ex parte dicentis. In questa stessa proposizione, l’espressione secondo sé tutta fa riferimento, secondo quanto suggerisce lo storico Michel-Pierre Lerner, al movimento di tutta la Terra, e non a movimenti parziali, come i terremoti o le eruzioni vulcaniche. Il giovedì 25 febbraio 1616 il papa ratificava la censura nel corso della seduta settimanale dei cardinali del Sant’Uffizio. Da questo momento l’eliocentrismo diventava una dottrina contraria al contenuto della Scrittura e chi la professava veniva accusato ipso facto di eresia. Nella seconda parte della seduta il cardinale Millini notificava all’assessore ed al commissario del Sant’Uffizio che il papa aveva ordinato al cardinale Bellarmino di chiamare davanti a sé il detto Galileo e di ammonirlo ad abbandonare le dette proposizioni (e cioè che il sole è il centro del mondo ed immobile e la terra si muove anche di moto diurno). Se Galileo rifiutava, il pa-

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dre commissario doveva notificargli, in presenza di un notaio e di testimoni, il precetto di astenersi assolutamente dall’insegnare o dal difendere tale dottrina e opinione, o di trattarne. Se non accetta, precisa il verbale della riunione, sia imprigionato (si vero non acquieverit, carceretur) (EN, XIX.321). In effetti, il precetto prevedeva l’arresto immediato dell’accusato che non si sottometteva all’ingiunzione del Sant’Uffizio. Il giorno successivo, 26 febbraio, Bellarmino accolse Galileo nel suo palazzo in presenza del padre domenicano Michelangelo Seghezzi, commissario generale del Sant’Uffizio e lo ammonì circa l’errore (de errore) della suddetta opinione chiedendogli di abbandonarla. Subito dopo il padre commissario ingiunse e ordinò (praecepit et ordinavit) a nome del papa e di tutta la Congregazione del Sant’Uffizio «di abbandonare completamente la detta opinione e cioè che il Sole è al centro della Terra [sic] e immobile, e la Terra si muove, né in qualsivoglia modo [quovis modo] sostenerla, insegnarla, difenderla verbalmente o per iscritto; altrimenti [alias] si procederà contro di lui nel S.Uffizio» (EN, XIX.322). Galileo acconsentì a questa ingiunzione e promise di sottomettersi. Il 3 marzo Bellarmino annunziava al tribunale del Sant’Uffizio la sottomissione di Galileo. Il 5 marzo, la Congregazione dell’Indice pubblicava ed inviava ai nunzi ed agli inquisitori un Decreto in cui l’eliocentrismo era dichiarato contrario alla Scrittura. Nella prima parte del Decreto figurano gli autori ed i titoli di cinque pubblicazioni messe all’Indice, il cui contenuto non concerne l’astronomia copernicana. Nell’esordio della seconda parte si dichiara che la Sacra Congregazione dell’Indice è venuta a conoscenza della divulgazione della falsa dottrina pitagorica della mobilità della Terra e dell’immobilità del Sole, contraria alla Santa Scrittura, insegnata anche nei libri De revolutionibus orbium calestium di Niccolò Copernico e In Job Commentaria di Diego de Zúñiga, accettata da molti, come risulta dalla Lettera del R. Padre Maestro Antonio Foscarini sulla mobilità della Terra e stabilità del Sole [...], in cui l’autore cerca di dimostrare che detta dottrina non contraddice la Santa Scrittura. «Per queste ra-

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gioni – prosegue il testo del Decreto – al fine di evitare che una siffatta opinione si infiltri [serpeat] ancor più, causando la rovina della verità cattolica, la Congregazione ha deciso che le suddette opere di Copernico e di Diego de Zúñiga siano sospese finché non vengano corrette [donec corrigantur]; che il libro del padre Paolo Antonio Foscarini Carmelitano sia invece proibito e condannato». Venivano inoltre proibiti tutti gli altri libri che insegnavano la stessa dottrina (EN, XIX.322-323). Come si ricorderà, Diego de Zúñiga aveva ritrattato il contenuto del Commentarium dodici anni dopo la sua pubblicazione (1584). La sua decisione spiegava forse la relativa clemenza della Congregazione dell’Indice nei confronti del suo libro. Ma come interpretare la clemenza manifestata al De revolutionibus, che era un trattato di astronomia letto, discusso e citato centinaia di volte da specialisti appartenenti a confessioni, culture e discipline diverse? La sola possibile risposta a questa domanda è che i teologi consultori del Sant’Uffizio avevano considerato l’intero contenuto del libro di Copernico un’ipotesi astronomica. Non s’era tenuto conto, quindi, della prefazione scritta dall’autore sotto forma di Lettera al papa Paolo III, ma dell’Avvertimento anonimo che precedeva la prefazione nelle due edizioni del libro (1543 e 1566), attribuito dal Sant’Uffizio allo stesso Copernico. Va notato inoltre che mentre nella censura del Sant’Uffizio del 24 febbraio l’immobilità del Sole al centro del mondo è definita formalmente eretica (formaliter haereticam), nel Decreto del 5 marzo la dottrina pitagorica divulgata da Copernico e da Diego de Zúñiga relativa alla mobilità della Terra e all’immobilità del Sole è considerata solamente falsa e del tutto contraria alla divina Scrittura (divinae scripturae omnino adversantem). Secondo lo storico Michel-Pierre Lerner, il contenuto del De revolutionibus avrebbe suscitato l’interesse dei cardinali della Congregazione dell’Indice, che ne riconoscevano l’utilità per la realizzazione di un calendario più esatto di quello esistente (LM-P 2005, 37). Ma se il contenuto del De revolutionibus poteva essere ridotto ad una semplice ipotesi, grazie ad Osiander, e mostrarsi utile

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per salvare le apparenze, come suggeriva Bellarmino, la Lettera di Foscarini non godeva degli stessi privilegi. L’autore era un teologo che aveva costretto in un certo senso Bellarmino ad esprimersi su un problema importantissimo sul quale avrebbe forse preferito mostrarsi più riservato, sperando che il Sant’Uffizio facesse altrettanto. Ma dopo la pubblicazione della Lettera di Foscarini diventava difficile, per non dire impossibile, insistere su possibili compromessi. I consultori del Sant’Uffizio emetteranno un parere chiaro, ratificato dal sommo pontefice, in cui non c’era la minima allusione a quanto affermato da Bellarmino nella lettera a Foscarini, e cioè che il sistema di Copernico poteva essere studiato ed approfondito dagli astronomi in quanto ipotesi che permetteva di salvare meglio le apparenze rispetto al sistema di Tolomeo. Il cardinale aveva avuto senza dubbio un ruolo importante nelle decisioni prese, in quanto membro influente sia del Sant’Uffizio che della Congregazione dell’Indice. Accettò che il teologo Foscarini subisse le conseguenze della crociata anticopernicana e che il suo libro Lettera sopra l’opinione de’ Pittagorici e del Copernico fosse da proibire e da condannare interamente (omnino prohibendum atque damnandum). Nel Decreto il nome di Galileo è assente, nonostante la presenza nella prima e nella terza lettera sulle macchie solari, stampate a Roma nel 1613, di affermazioni a favore del sistema copernicano. I motivi di questa assenza sono poco chiari. Si può congetturare che lo stesso Bellarmino non vedesse di buon occhio la strada imboccata dal Sant’Uffizio e nello stesso tempo si rendesse conto dell’impossibilità di evitare la condanna dell’eliocentrismo. Foscarini avrebbe fatto le spese, per così dire, di una indispensabile decisione dottrinale, mentre Galileo, ammonito ma assente dal Decreto, avrebbe potuto continuare ad occuparsi di astronomia copernicana dopo aver accettato di farlo per salvare le apparenze. Certo è che Bellarmino non fu tra i suoi più decisi accusatori. Se lo fosse stato, il nome di Galileo e la sua Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti figurerebbero nel Decreto del 5 marzo. In effetti il trattamento riservato a Copernico non poteva essere applicato a Galileo,

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che non si era mai espresso sul sistema copernicano in termini di ipotesi. Si trattava quindi di censurarlo o di lasciarlo in bianco nel Decreto. Questa seconda soluzione fu scelta a ragion veduta, forse anche grazie all’intervento di eminenti personalità come i cardinali Maffeo Barberini, Bonifacio Caetani, Alessandro Orsini, Francesco Maria Del Monte. Un riferimento a Galileo si può scorgere nella censura inflitta al libro di Diego de Zúñiga. Nella lettera a Cristina di Lorena, che era sicuramente nota alle Congregazioni dell’Indice e del Sant’Uffizio come lo era la lettera a Castelli, Galileo osservava che l’opinione copernicana «dopo che alcuni teologi l’hanno cominciata a considerare, si vede che non l’hanno stimata erronea, come si legge ne i Comentari di Didaco a Stunica [Diego de Zúñiga] sopra Job, al c. 9, v. 6, sopra le parole qui commovet Terram de loco suo [che smuove la Terra dal suo luogo] etc.: dove [l’autore] lungamente discorre sopra la posizione Copernicana, e conclude la mobilità della Terra non esser contro la Scrittura» (EN, V.336). Poiché si trattava di un documento privato, i cardinali della Sacra Congregazione dell’Indice non avevano il diritto di esaminare e citare ufficialmente la lettera a Cristina di Lorena. La censura del libro di Diego de Zúñiga poteva essere un avvertimento che solo Galileo ed alcuni attenti osservatori avrebbero potuto decifrare. Il 4 marzo, alla vigilia della pubblicazione del Decreto, l’ambasciatore Guicciardini inviava una lunga lettera a Cosimo II in cui criticava violentemente Galileo per essersi preoccupato piuttosto della propria opinione che di quella dei suoi amici. Né il cardinale Del Monte, né egli stesso, né numerosi cardinali del Sant’Uffizio, scriveva Guicciardini, erano riusciti a persuaderlo a quietarsi e a non stuzzicare questo negozio. E precisava che se Galileo voleva conservare per sé questa opinione, doveva agire con calma, senza cercare di spingere gli altri a fare la stessa cosa. Guicciardini riassumeva poi ciò che era avvenuto il mercoledì 24 febbraio, dopo la seduta di qualifica teologica, nel corso di un concistoro dei cardinali al quale partecipava Paolo V. Secondo l’ambasciatore, il cardinale Orsini ne avrebbe profittato per parlare di Galileo al papa e difendere la sua causa. Paolo V

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avrebbe suggerito ad Orsini di convincerlo ad abbandonare questa opinione, e poiché il cardinale voleva aggiungere qualcos’altro, il papa aveva tagliato corto affermando che avrebbe rimesso il negozio ai Cardinali del Sant’Uffizio. Dopo la partenza di Orsini, Paolo V aveva chiamato a sé Bellarmino ed insieme avrebbero deciso che questa opinione del Galileo fosse erronea ed eretica. Piero Guicciardini era inoltre al corrente della decisione riservata a Copernico o altri autori che avevano scritto sullo stesso argomento e che sarebbero stati emendati o proibiti. C’era infine un giudizio di Guicciardini su Paolo V che non lasciava sperare niente di buono. Secondo l’ambasciatore, il papa aborriva le belle lettere e non voleva sentir parlare di novità. Guicciardini non esitava a mettere in guardia il granduca in occasione dell’arrivo a Roma di suo fratello Carlo de’ Medici, elevato al cardinalato il 2 dicembre 1615. Il giovane cardinale doveva mostrare chiaramente che non si sarebbe mai opposto alle decisioni della Chiesa. Guicciardini temeva che si lasciasse trascinare in questi negozi e suggeriva che Galileo fosse richiamato a Firenze al più presto (EN, XII.241-243). Sorprende la rapidità con cui venivano diffuse notizie considerate segretissime. Le informazioni di cui disponeva Guicciardini non erano del tutto esatte, ma contenevano una buona parte di verità. Non è credibile tuttavia che il giovane cardinale Orsini abbia potuto influenzare in maniera decisiva Paolo V. È verosimile invece che proprio il 24 febbraio, dopo la partenza di Orsini, il papa abbia chiesto a Bellarmino di convocare Galileo. La soluzione di compromesso, che consisteva nel non citare pubblicamente Galileo ma nel farlo ammonire da Bellarmino, sarebbe venuta fuori da una discussione fra il sommo pontefice e l’eminente teologo. Galileo cercò di minimizzare le decisioni annunziate nel Decreto, ed in una lettera al segretario Picchena del 6 marzo, riferendosi alle conseguenze della denunzia di Caccini, considerava che lo scopo non era stato raggiunto: «per quello che l’esito ha dimostrato, il parere [di Caccini] non ha trovato corrispondenza in S.ta Chiesa, la quale altro non ha risoluto se non che tale opinione non concordi con le Scritture Sacre, onde solo restano proibi-

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ti quei libri li quali ex professo hanno voluto sostenere che ella non discordi dalla Scrittura; e di tali libri non c’è altro che una lettera di un Padre Carmelitano [...] la qual sola resta proibita». Dopo aver indicato che i libri di Diego de Zúñiga e di Copernico restavano sospesi in attesa d’esser corretti, Galileo aggiungeva, senza dubbio per tranquillizzarsi e per tranquillizzare il granduca, un giudizio sulle conseguenze del Decreto. «Io – egli scrive –, come dalla natura stessa del negozio si scorge, non ci ho interesse alcuno, né punto mi ci sarei occupato, se, come ho detto, i miei nemici non mi ci avessero intromesso [...] potendo io mostrare come il mio negozio in questa materia è stato tale che un santo non l’avrebbe trattato né con maggior reverenza né con maggior zelo verso S.ta Chiesa». Nel tentativo di minimizzare il ruolo da lui svolto, Galileo finiva col dimenticare alcuni aspetti precisi della sua difesa dell’eliocentrismo, non solo contenuti in scritti privati che la Congregazione dell’Indice non poteva prendere in considerazione, ma accennati nel Sidereus Nuncius ed espressi chiaramente nell’Istoria. Dal seguito della lettera si capisce che Galileo era preoccupato per le notizie messe in giro sul suo conto, particolarmente sul suo comportamento a Roma. Indicava quindi che aveva deciso di aspettare qui l’arrivo del cardinale Carlo de’ Medici (EN, XII.243-245). In realtà il Decreto del 5 marzo non aveva risparmiato i galileani. Malgrado i tentativi per tranquillizzare il granduca, era difficile sostenere che tutta questa faccenda non riguardasse affatto il suo matematico. Vero è che le decisioni prese potevano apparire del tutto assurde, e tali apparivano ad alcuni galileani che non escludevano una iniziativa rapida del Sant’Uffizio destinata a ritirarle. Ad accrescere la confusione ci sarà la visita di Galileo al sommo pontefice cinque giorni dopo la pubblicazione del Decreto. In una lettera del 12 marzo a Picchena, Galileo assicurava innanzitutto che le correzioni del De revolutionibus sarebbero state fatte rapidamente e concernevano «un luogo della prefazione a papa Paolo III dove egli accennava [che] la sua opinione non [poteva] contrariare alle Scritture» ed alcune parole da togliere alla fine del capitolo X del primo libro. Seguiva poi un lun-

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go resoconto della visita a Paolo V che, nel contesto di quanto era accaduto fra il 24 febbraio ed il 5 marzo, mette in evidenza la complessità del personaggio Galileo, in quanto astronomo copernicano, matematico del granduca di Toscana e fervente cattolico. Ieri – scrive Galileo in questa stessa lettera – fui a baciare il piede a S.S.tà, con la quale passeggiando ragionai per tre quarti d’ora [...]; e dicendogli come, nel licenziarmi da loro A. S.me [cioè, la corte medicea], rinunziai ad ogni favore che da quelle mi fosse potuto venire, mentre si trattava di religione o d’integrità di vita e di costumi, fu con molte e replicate lodi approvata la mia risoluzione. Feci costatare a S.S.tà la malignità de’ miei persecutori et alcune delle loro false calunnie; e qui mi rispose che altrettanto era da lui stata conosciuta l’integrità mia e la sincerità di mente; [...] mi consolò con dirmi che io vivessi con l’animo riposato, perché restavo in tal concetto appresso S.S.tà e tutta la Congregazione, che non si darebbe leggermente orecchio a i calunniatori, e che vivente lui io potevo esser sicuro (EN, XII.247-248).

Non è credibile che nel resoconto inviato al granduca attraverso Picchena, Galileo abbia potuto inventare le reazioni di Paolo V. È difficile tuttavia attribuire un significato preciso ad alcune parole del pontefice. A leggere il resoconto della loro conversazione, si ha l’impressione che Paolo V non avesse niente da rimproverare a Galileo e si rendesse conto che il suo interlocutore era vittima di calunniatori. In realtà le decisioni prese dal sommo pontefice, così come appaiono attraverso i verbali delle riunioni che precedettero la pubblicazione del Decreto, non permettono di accreditare questa conclusione. L’udienza privata accordata a Galileo fu decisa da Paolo V probabilmente dietro richiesta di alcuni influenti cardinali (fra i quali Bellarmino?), e costituiva un segno tangibile di rispetto per il granduca e per tutta la famiglia medicea. Le informazioni trasmesse da Guicciardini avevano fatto grande impressione a Firenze. Appena giunto a Roma, il cardinale Carlo de’ Medici aveva preso una decisione che metteva in evidenza le difficoltà create all’ambasciata di Toscana dalla presenza di Galileo. Il cardinale licenziava immediatamente Anni-

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bale Primi, l’uomo di fiducia messo a disposizione di Galileo per ordine del granduca durante il suo soggiorno romano. L’ambasciatore ne dava notizia a Picchena in una lettera del 13 maggio sottolineando che le iniziative organizzate all’ambasciata sotto la direzione di Annibale Primi erano state scandalose. Il licenziamento di Primi appariva come una critica, indiretta ma abbastanza chiara, della maniera in cui si svolgeva il soggiorno romano di Galileo. Il riferimento ad una pazza vita ed a grosse spese che secondo l’ambasciatore si rivelavano dannose accreditava i rumori di un’intensa, febbrile attività del matematico del granduca in difesa della dottrina copernicana, nella sede stessa dell’ambasciata. «Galileo ha un humore fisso di scaponire i frati – scriveva Guicciardini in questa stessa lettera – e combattere con chi egli non può se non perdere» (EN, XII.259). Ormai la decisione del granduca di richiamare a Firenze il suo matematico sembrava inevitabile. Galileo avrebbe preferito prolungare il soggiorno romano, tanto più che circolavano rumori incontrollabili secondo i quali egli avrebbe abiurato nelle mani del cardinale Bellarmino. Si trattava di una diceria che, se ancor più diffusa, avrebbe avuto conseguenze gravissime per la reputazione del matematico del granduca. Castelli, preoccupato da quanto gli era stato comunicato in una lettera inviata da un certo B., non identificato, chiedeva precisazioni al suo Maestro in una lettera da Pisa del 20 aprile 1616. Castelli non escludeva che Galileo avesse abiurato, il che lascia pensare che la persona che aveva diffuso per iscritto la notizia a Pisa non era un personaggio minore (EN, XII.254). Forse si trattava dell’arcivescovo Bonciani. Galileo decise di rivolgersi direttamente al cardinale Bellarmino per ottenere una dichiarazione scritta che gli permettesse di spegnere sul nascere le calunniose dicerie. L’illustre prelato gli rilasciò il 26 maggio la seguente smentita: Noi Roberto Cardinale Bellarmino, havendo inteso che il Sig.or Galileo Galilei sia calunniato o imputato di havere abiurato in mano nostra, et anco di essere stato per ciò penitentiato di penitentie salutari, et essendo ricercati della verità, diciamo che il suddetto Sig.or Galileo

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non ha abiurato in mano nostra né di altri qua in Roma, né meno in altro luogo che noi sappiamo, alcuna sua opinione o dottrina, nè manco ha ricevuto penitentie salutari nè d’altra sorte, ma solo gl’è stata denuntiata la dichiaratione fatta da N.ro Sig.re et pubblicata dalla Sacra Congregazione dell’Indice, nella quale si contiene che la dottrina attribuita al Copernico, che la terra si muove intorno al sole et che il sole stia nel centro del mondo senza muoversi da oriente ad occidente, sia contraria alle Sacre Scritture e però non si possa difendere né tenere. Et in fede di ciò habbiamo scritta et sottoscritta la presente di nostra propria mano, questi [sic] dì 26 di maggio 1616 (EN, XIX.348).

Il documento era destinato soprattutto al granduca. Bellarmino non indica che Galileo si è sottomesso e non lo fa certo per dimenticanza, ma molto probabilmente per eliminare ogni possibile equivoco sul significato della sottomissione. La dichiarazione di Bellarmino, conservata preziosamente dall’interessato, sarà presentata più volte durante il processo del 1633. Era tempo per Galileo di tornarsene a Firenze. Picchena aveva l’obbligo di convincerlo senza urtarne la suscettibilità. «Vostra Signoria che ha già assaggiato le persecuzioni fratine – scriveva Picchena in una lettera a Galileo del 23 maggio – sa di che sapore elle sono e lor Altezze temono che lo star V. S. in Roma più lungamente possa causarle dei disgusti, et però loderebbero che, essendone ella fino a hora uscito con honore, nun stuzzicasse più il cane che dorme et che se ne tornasse quanto prima qua, perché vanno attorno delle voci che non ci piacciono, et i frati sono onnipotenti, et io che le sono servitore, non ho potuto mancare di avvertirnela, oltre a significarle la mente di loro A.A. [sic]» (EN, XII.261). In altri termini, a Firenze si temeva che la presenza di Galileo a Roma ed il suo comportamento potessero far precipitare una situazione dalla quale il matematico del granduca era uscito con onore fino a hora. Secondo alcune voci, gli avversari stavano per preparare una nuova offensiva. I frati onnipotenti erano i domenicani, i Domini canes, cani di guardia del Signore, come essi stessi si definivano, un po’ per celia e un po’ per non mentire. Picchena chiedeva di non stuzzicarli più, segno evidente che il granduca non approvava che Galileo li avesse stuzzicati così tanto.

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All’inizio del mese di giugno, Galileo partiva per Firenze. Da Roma il cardinale Orsini scriveva al granduca, in una lettera del 1° giugno, che Galileo, con la sua presenza non solo aveva disfatte tutte le calunnie degli avversari, ma si era acquistata somma reputazione presso gli illustrissimi cardinali (EN, XII.263-264). Più sottilmente, in una lettera del 4 giugno al granduca, il cardinale Del Monte insinuava che le calunnie contro Galileo non avevano altro scopo che quello di portar pregiudizio ai favori che gli accordava il granduca (EN, XII.264). Queste due lettere non tranquillizzeranno Cosimo II ed i suoi collaboratori. Il viaggio di Galileo a Roma era stato un errore. I soli interlocutori capaci di discutere con lui erano gli astronomi gesuiti del Collegio Romano. Senza dubbio alcuni di essi sarebbero stati inclini a considerare il sistema copernicano come una realtà astronomica. Ma era impossibile intervenire in un contesto in cui i qualificatori del Sant’Uffizio erano i soli a disporre del potere di decisione. Costoro non manifestavano nessun interesse per i problemi di astronomia. Il Decreto del 5 marzo costituiva una vittoria per Tommaso Caccini. Una vittoria da festeggiare in famiglia. In una lettera ad Alessandro Caccini dell’11 giugno, Matteo poteva annunziare che suo fratello Tommaso «se la passa bene, è molto ben visto dal Generale, e viene da’ frati stimato [...] e quella cosa del Galilei gl’ha dato molta reputazione, perché passò con molto suo onore, et se avesse pazienza, Roma gli potria una volta fare del bene» (EN, XII.265). La denunzia aveva aperto a Tommaso Caccini una rispettabile carriera. Dopo la pubblicazione del Decreto, non ci furono commenti ufficiali sui testi della Scrittura citati da Galileo. Stando alle indicazioni di monsignor Dini, i teologi avrebbero studiato attentamente i testi del Salmo 18. In attesa di conclusioni, di cui era facile prevedere il contenuto, gli avversari di Copernico potevano compiacersi dell’entrata ufficiale dell’astronomo polacco nella strategia di condanna dell’eliocentrismo. Irriducibile copernicano, Galileo non avrebbe tardato a manifestarsi di nuovo. Gli avversari lo attendevano con impazienza, ma per il momento il filosofo e matematico del granduca di Toscana aveva l’obbligo di tacere.

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Post-scriptum La correzione del libro di Copernico sarà affidata al cardinale Bonifacio Caetani, che chiederà a Francesco Ingoli, nella sua qualità di consultore della Congregazione dell’Indice, di occuparsene concretamente. La morte di Caetani, avvenuta nel 1617, lasciò Ingoli unico responsabile del progetto. Nel suo rapporto presentato alla Congregazione dell’Indice il 2 aprile 1618 veniva sottolineato l’interesse delle osservazioni di Copernico, come nel caso di quelle di Tolomeo e di Tycho Brahe, per le correzioni del calendario. D’altra parte Ingoli affermava che correggere Copernico era cosa impossibile poiché tutte le sue dimostrazioni riposavano sui movimenti della Terra e correggerlo conduceva alla sua distruzione. Ma, proseguiva Ingoli, Copernico, tranne in pochissimi passi in cui fa riferimento ai movimenti reali della Terra, ne parla generalmente in termini di ipotesi o per lo meno senza affermare la loro realtà fisica. Si poteva quindi procedere rendendo ipotetici i passaggi che non lo erano. Come è stato opportunamente osservato, affermare che Copernico tratta raramente – in paucissimis locis – dei movimenti della Terra in termini reali è del tutto inesatto (LM-P 2004, 33). Le correzioni, effettivamente poco numerose, proposte da Ingoli furono accettate dai cardinali previa approvazione degli astronomi gesuiti Grienberger e Orazio Grassi. Nel 1620 il segretario della Congregazione dell’Indice, Francesco Maddaleno Capiferro, pubblicherà un Avvertimento al lettore di Copernico in cui si indicavano le correzioni da apportare al De revolutionibus. Un’inchiesta lanciata dallo storico Owen Gingerich su 600 esemplari (edizioni di Norimberga 1543 e di Basilea 1566, in tutto 1100 esemplari circa) permette di fissare a poco più del 10% gli esemplari corretti. Sembrerebbe, quindi, che la correzione del De revolutionibus imposta dal Decreto del 5 marzo 1616 non abbia avuto conseguenze notevoli (GO 2002, XXIIIXXV; LM-P 2004, 21-89; LM-P 2005, 37-38). L’interdizione dei libri che insegnavano la dottrina eliocentrica – promulgata, come s’è detto, nello stesso Decreto del 5 marzo – sarà ritirata dall’Indice nel 1757. Tuttavia l’Avverti-

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mento relativo alla correzione del libro di Copernico vi figurerà ancora nell’edizione del 1822. Il De revolutionibus, il In Job Commentaria di Diego de Zúñiga e la Lettera di Foscarini resteranno nelle liste dei libri proibiti fino al 1835, come pure la Epitome astronomiae copernicanae di Keplero ed il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo di Galileo, venuti a tener loro compagnia rispettivamente nel 1619 e nel 1633 (MP-N 1997, 235-274; BF 1999, 443-448; LM-P 2005, 39). La trasformazione del Decreto del 5 marzo in condanna di Galileo e dell’astronomia eliocentrica sarà l’oggetto dei prossimi tre capitoli. Come vedremo, in questa vicenda persistono ancora delle zone d’ombra rivisitate regolarmente da alcuni storici nel tentativo di illuminarle.

VII COMETE INESISTENTI, ATOMI IRRIVERENTI Gli anni di silenzio Il precetto ricevuto da Bellarmino per ordine di Paolo V non avrà conseguenze giuridiche immediate, poiché Galileo rinunziava a sostenere il movimento della Terra e l’immobilità del Sole, ma sarà riesumato, per così dire, nel corso dell’istruttoria del processo del 1633. Nell’immediato il matematico di Cosimo II poteva convincersi, e cercare di convincere il suo protettore, di quanto poco importanti fossero per lui le decisioni del Sant’Uffizio. Nel clima di sospetto, di preoccupazione e per alcuni persino di paura che si era creato a Roma ed in Toscana, nessuno pensava seriamente a sollevare il velo di silenzio che copriva ormai la prova attraverso le maree. Il Discorso del flusso e reflusso del mare non aveva ottenuto un consenso unanime fra i seguaci di Copernico, ma tutti volevano che se ne discutesse, tanto più che numerosi avversari del movimento della Terra erano rimasti impressionati dalla semplicità della dimostrazione galileana. I membri dell’Accademia fondata dal principe Cesi, i lincei, avevano rifiutato di pronunziarsi a favore o contro la prova. Anche se non tutti erano copernicani, essi erano pieni di ammirazione per le scoperte di Galileo. Questa fu forse la ragione che li spinse a sospendere dall’Accademia Luca Valerio. Valente matematico, Valerio, che era stato gesuita dal 1570 al 1590, sosteneva l’interpretazione letterale del contenuto della Scrittura e non aveva accettato che Galileo difendesse pubblicamente l’opera di Copernico. La prova attraverso le maree fu

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la goccia che fece traboccare il vaso, inducendolo ad astenersi dal partecipare alle assemblee dei lincei nelle quali sedeva l’autore del Discorso del flusso e reflusso del mare. Secondo Valerio, era evidente che Galileo non considerava il sistema di Copernico come un’ipotesi e decise quindi di dimettersi. Fin dall’inizio del dibattito sull’eliocentrismo, i lincei avevano sostenuto ufficialmente che il sistema di Copernico era un’ipotesi comoda per gli astronomi. Sia il principe fondatore Cesi che il segretario Francesco Stelluti avevano rifiutato di pronunziarsi apertamente sulla prova. Luca Valerio fu accusato di settarismo e nella seduta del 24 marzo 1616, presente Galileo, i lincei lo sospesero per aver tradito il principio di libertà nelle ricerche sulle cose naturali, principio che figurava nello statuto dell’Accademia introdotto su iniziativa del principe Cesi. Galileo continuerà a manifestare stima ed amicizia nei confronti di Luca Valerio, anche dopo la sua morte avvenuta nel gennaio del 1618. Lo citerà nei Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze (1638) definendolo «nuovo Archimede dell’età nostra» (EN, VIII.76). Progetti col cannocchiale A Pisa, il fedele discepolo Castelli si teneva pronto a riprendere la collaborazione con il Maestro sull’osservazione del cielo. All’inizio dell’anno 1616 si era interessato ai problemi di navigazione ed alle osservazioni astronomiche a partire da una nave in movimento. Queste iniziative erano centrate sull’utilizzazione delle diverse configurazioni dei satelliti di Giove, osservabili nello stesso istante da un qualunque punto della Terra data l’enorme distanza. Si otteneva così l’ora di riferimento, mentre l’ora del luogo in cui si trovava la nave si deduceva dall’altezza del Sole sull’orizzonte o da procedimenti empirici noti agli uomini di mare. La differenza oraria forniva la longitudine del luogo in cui si trovava la nave, misurata rispetto ad un luogo di riferimento scelto arbitrariamente. Galileo era convinto della validità del suo metodo e contava di cederlo, dietro rimunerazio-

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ne, alla Spagna ed eventualmente all’Olanda. Castelli sembrava anch’egli convinto della validità del metodo. Ma anche se avesse avuto dei dubbi (e forse ne aveva e li nascondeva al Maestro), contava sul progetto per strappare momentaneamente Galileo dalle preoccupazioni che lo affliggevano e procurargli inoltre nuova fama e ricompense, e forse procurarle – almeno queste ultime – anche a se stesso. L’abate Benedetto Castelli viveva in maniera estremamente modesta. Il suo insegnamento di matematica allo Studio di Pisa gli procurava uno stipendio annuo di soli 130 fiorini, una somma che permetteva a malapena di sopravvivere. L’abate, che amava spendere, sopportava molto male le ristrettezze economiche che quotidianamente lo affliggevano. I progetti a carattere commerciale in cui interveniva l’uso del cannocchiale erano più di uno, ma Galileo contava soprattutto sulla cessione di quello relativo alla determinazione delle longitudini. Durante l’ultimo soggiorno romano aveva stabilito contatti con il cardinale spagnolo Gaspare Borgia ed al suo ritorno a Firenze aveva sollecitato l’intervento delle autorità toscane per proporre il progetto al re di Spagna. Il 30 giugno 1616 Curzio Picchena, segretario del granduca, scriveva a Orso d’Elci, inviato straordinario in Spagna, affinché intavolasse discussioni con le autorità spagnole sulla cessione eventuale del progetto. Secondo quanto scriveva Picchena, il metodo era infallibile e sicuro, perché basato sull’osservazione di alcune stelle erranti scoperte recentemente. Alludeva poi a congiunzioni ed aspetti diversi di dette stelle, precisando che si ottenevano risultati di gran lunga superiori a quelli ricavati in occasione di eclissi lunari, per altro rarissime. Il lettore bene informato capiva facilmente che il metodo di Galileo era basato sulle eclissi (frequenti) delle nuove stelle, poiché era noto che le eclissi, lunari o solari (poco frequenti), venivano utilizzate per rilevare la longitudine in vari punti del globo. Picchena spiegava quindi, per chi non avesse capito, che si ottenevano così «le differenze ed intervalli de’ meridiani, che sono insomma le desiderate longitudini» (EN, XII.267). Lo stesso giorno il granduca scriveva personalmente a d’Elci una brevissima lettera in cui le frasi Noi vogliamo che ne ab-

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bracciate la protezione e come se fosse cosa di Nostro proprio servizio non lasciavano dubbi sull’importanza che Cosimo II attribuiva al buon esito del negozio (EN, XII.269). In realtà le trattative erano cominciate quattro anni prima, ma all’epoca le autorità spagnole stavano esaminando un progetto dello stesso tipo. In attesa dei risultati, nessun progetto simile a questo poteva esser preso in considerazione. Secondo informazioni raccolte qua e là, le trattative erano state interrotte, quindi il momento sembrava propizio ad un rilancio del progetto galileano. Tuttavia, alcuni dubbi cominciavano a manifestarsi sulla possibilità di fare osservazioni precise da una nave in movimento ad una così grande distanza. Il progetto non era operativo e l’inventore ne era cosciente. In una lettera del giugno 1617 inviata a Madrid ad Orso d’Elci, sul contenuto della quale ritorneremo fra poco, Galileo faceva allusione «ai modi di superare quelle difficoltà che ritardano l’effettuare il mio trovato circa il navigare per la longitudine», ed aggiungeva che intanto era riuscito a predisporre un’altra invenzione utilissima per la navigazione delle galere «per questi nostri mari». Alcuni mesi prima era avvenuto un incontro a Pisa con l’ammiraglio Jacopo Inghirami, capo delle galere dell’Ordine di Santo Stefano. In epoca recente, Lodovico Inghirami, discendente della casata a cui apparteneva l’ammiraglio, ha ricostruito alcuni aspetti dei contatti stabiliti in quella occasione, desunti in parte dalla corrispondenza di Galileo (IL 1985). Le conversazioni a Pisa fra Galileo, l’ammiraglio, alcuni capitani di galere ed il provveditore dell’arsenale Marco Barbavara portarono all’utilizzazione del cannocchiale dalla cima dell’albero o del calcese di un’imbarcazione in movimento. Ma da lassù era difficile mantenere lo strumento puntato sullo stesso oggetto per un tempo relativamente lungo, mentre l’imbarcazione si muoveva continuamente. Per trovare una soluzione a questo delicato problema, Galileo ebbe a sua disposizione l’arsenale pisano delle galere di Santo Stefano. Furono così realizzate due macchine, una «per servire in nave per la longitudine» e l’altra «per scoprire e conoscere vascelli navigando». La se-

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conda doveva essere estremamente semplice poiché chi l’avrebbe adoperata non disponeva necessariamente di particolari conoscenze tecniche. In effetti la macchina era destinata alle vedette delle galere, reclutate esclusivamente sulla base della loro acutezza visiva. Inoltre doveva essere poco ingombrante, tale da poterla nascondere facilmente dopo l’uso in luogo sicuro, lontano da eventuali occhi indiscreti. Galileo sosteneva che qualunque marinaio avrebbe imparato in 8-10 giorni ad utilizzare lo strumento. Nel marzo 1617 questa nuova macchina, battezzata da Galileo celata, celatone o testiera, era pronta. Purtroppo nessun esemplare del celatone è giunto fino a noi. In una lettera di Benedetto Castelli a Galileo del 24 maggio 1617 ci sono un disegno ed una descrizione di un dispositivo provvisto di due cannocchiali paralleli fra di loro posti fra quattro regoli. Uno dei cannocchiali è fisso, l’altro può scorrere restando sempre parallelo. Castelli affermava di aver misurato con questo strumento una distanza di 320 passi (1 passo = 0,58 metri circa), e che «riuscirebbe a misurare distanze grandissime come di isole in mare etc.». Secondo l’abate la ragione del tutto era nota a Galileo. Dalla descrizione e dalla figura appare che lo strumento non poteva essere piccolo, né maneggevole (EN, XII.319). Castelli si riferiva alla misura della distanza fra l’osservatore eventualmente imbarcato ed un luogo fisso, ad esempio un’isola, mentre Galileo, nella già citata lettera ad Orso d’Elci del giugno 1617, indicava che lo strumento da lui realizzato non solo permetteva di avvistare vascelli, ma senza fatica né dispendio di tempo poteva misurare la distanza tra loro e noi. Lo scienziato pisano tornava poi al progetto di determinazione delle longitudini. Le sue proposte possono riassumersi nei seguenti tre punti: a) offerta al re di Spagna dell’ultimo trovato, cioè del celatone o testiera, destinato alla sicurezza delle galere di Sua Maestà; b) in cambio, rimessa di 1500 doppie (1 doppia = 2 scudi) per permettere a Galileo di recarsi in Spagna insieme alle persone che dovevano aiutarlo al compimento del negozio della longitudine; c) compilazione delle tavole di anno in anno e comunicazione ad altri astronomi, anche dopo la sua morte, delle regole per calcolarle.

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Infine Galileo faceva allusione alla somma di 2000 ducati di rendita perpetua che Sua Maestà avrebbe proposto, secondo d’Elci, al ritrovator di questo artifizio. La somma era molto inferiore a quella di 6000 ducati che gli era stata comunicata a Roma dal cardinale Gaspare Borgia. In ogni caso, precisava Galileo, non bisognava scendere al di sotto di 4000 scudi (sic) di rendita all’anno e dopo la sua morte di 2000 da destinarsi agli eredi e successori (EN, XII.321-327). L’aspetto finanziario assumeva una notevole importanza. Orso d’Elci riassumeva le osservazioni e le richieste di Galileo in un documento in castigliano indirizzato l’11 settembre al duca di Lerma, residente a Madrid, indicando, fra l’altro, che per il viaggio in Spagna Galileo chiedeva, come s’è detto, una somma di 3000 scudi (EN, XII.345). Nel settembre 1617 Castelli fu incaricato di sperimentare il celatone. Quattro galere partirono dal porto di Livorno. Su una di esse si trovavano Benedetto Castelli ed Annibale Guiducci, che farà il resoconto del viaggio in una lettera inviata a Galileo l’11 settembre (stessa data, per pura coincidenza, della lettera di d’Elci al duca di Lerma) da Civitavecchia, dove le quattro imbarcazioni si erano rifugiate a causa di un cattivissimo tempo con mare grandissimo. Castelli stette male, con febbre e dolori terribili. Se non si ristabiliva, il segreto – così lo definiva Guiducci – sarebbe stato sperimentato dal capitano Tommaso Inghirami, nipote dell’ammiraglio, che aveva perfettamente capito come utilizzare lo strumento (EN, XII.344). Il 18 settembre Castelli scriveva a Galileo da Civitavecchia. La febbre era cessata ed aveva potuto imbarcarsi di nuovo. Nella lettera non ci sono informazioni sugli esperimenti fatti, ma solamente una generica osservazione sull’uso del cannocchiale in questi vascelli. Lo strumento, spiegava l’abate, è trattato peggio che un bellissimo cavallo dai gondolieri di Venezia. Al suo ritorno avrebbe indicato a Galileo ed al granduca alcune modifiche facili da eseguire senza alcuna spesa. Castelli si riferiva unicamente all’invenzione destinata ad avvistare e riconoscere vascelli nemici (EN, XII.346). In una lettera del 7 febbraio 1618, l’abate indicherà a Galileo di aver mostrato il celatone a Giovanni de’ Medi-

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ci, che aveva giudicato questa invenzione più importante dell’invenzione del cannocchiale (EN, XII.372). Il 23 maggio 1618 Galileo invierà all’arciduca Leopoldo d’Austria tre cannocchiali, uno dei quali è descritto come un piccolo cannoncino (il cannocchiale veniva spesso chiamato cannone), formato di una testiera in ottone, che bisognava adattare alla forma e grandezza della testa dell’arciduca o di chi l’avesse a adoperare. Pregava inoltre l’arciduca di tenerlo occulto, per motivi inerenti ad alcuni [suoi] interessi (EN, XII.390). Da questa brevissima descrizione si può dedurre che la testiera era costituita da un supporto metallico adattato alla testa di chi doveva usarla. Su di essa venivano fissati uno o due cannocchiali, a seconda dell’uso che se ne voleva fare. Quello inviato all’arciduca era provvisto di un solo cannocchiale, probabilmente corto, per l’ingrandimento di oggetti abbastanza vicini all’osservatore. La testiera permetteva di puntare il cannocchiale in direzioni diverse, muovendo semplicemente la testa. Il celatone descritto da Castelli è del tutto diverso. Probabilmente Galileo studiava la possibilità di adattare ad una testiera simile a quella inviata all’arciduca un cannocchiale per l’osservazione dei satelliti di Giove da una nave in movimento. Intanto le reazioni di Madrid al progetto di determinazione delle longitudini non lasciavano sperare in un esito positivo delle trattative. In una lettera del 30 novembre 1617 a Curzio Picchena, Orso d’Elci sottolineava i lati deboli del metodo, affermando innanzitutto che il cannocchiale non poteva essere utilizzato su una nave in movimento. Inoltre faceva osservare che le stelle erano invisibili di giorno e anche di notte in caso di cielo coperto, mentre chi navigava aveva bisogno di sapere ora per ora il grado della longitudine del luogo dove si trovava (EN, XII.353). Galileo inviò il 25 dicembre una lunga lettera a d’Elci in cui cercava di rispondere alle obiezioni. Gli elementi più importanti della risposta possono essere riassunti nei seguenti cinque punti: a) né la longitudine, né la latitudine vanno necessariamente osservate di ora in ora e neanche di giorno in giorno; b) la determinazione della latitudine si fa con strumenti matematici, che, come nel caso del metodo proposto per le longitudini, non

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possono essere utilizzati con cielo coperto; ciò nonostante il metodo è considerato valido; c) se dopo tempeste di più giorni la posizione della nave risultasse completamente perduta, quanto si dovrà stimare il valore dell’esatta posizione ritrovata grazie al metodo proposto da Galileo?; d) effettivamente anche con mare poco mosso, il movimento normale dell’imbarcazione rende difficile l’osservazione, ma per eliminare questa difficoltà esiste una soluzione che sarà comunicata a suo tempo; e) conclusione: l’operazione è possibile da una nave in movimento ed inoltre può essere utilizzata dalla terra ferma per correggere tutte le carte nautiche e geografiche con una precisione inferiore ad una lega e per stabilire con grande esattezza in una sola notte la posizione di nuove terre (EN, XII.358-361). Le risposte di Galileo non convinceranno d’Elci, che in una lettera a Curzio Picchena dell’11 gennaio 1618 formulerà di nuovo le obiezioni già fatte, precisando inoltre che se a Madrid si scopriva che codesta arte di graduar le longitudini non poteva servire se non di notte, quando era sereno e non tirava vento, il metodo non avrebbe presentato grande interesse. Da quanto indicato in questa lettera si può dedurre che il principio generale del metodo non era stato comunicato alle autorità spagnole. La punta di leggera ironia nel commento di Orso d’Elci è temperata dal riferimento ad altri possibili usi del cannocchiale, come ben dice il Sig.r Galileo. D’Elci riferiva, infine, che il re non gli aveva fatto pervenire nessuna risposta perché il Consiglio di Stato era ancora in attesa del parere che dovevano esprimere alcuni esperti (EN, XII.366). Due anni dopo, il 28 gennaio 1620, Filippo III, re di Spagna, invierà a Pedro Téllez-Girón y Guzmán, duca di Ossuna e ancora per pochi mesi viceré di Napoli, il documento in castigliano che Orso d’Elci aveva preparato fin dall’11 settembre 1617 per il duca di Lerma (EN, XII.345). Sua Maestà chiedeva ora al viceré di Napoli di discutere con persone competenti i dettagli del progetto, delle offerte e delle richieste di Galileo, e di riferirgli cosa ne pensassero (EN, XIII.21-22). L’interesse e l’entusiasmo per l’uso del cannocchiale nella determinazione della longitudine possono sembrare eccessivi, tan-

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to più che molti problemi restavano da risolvere prima di passare alla fase operativa. Galileo ne era cosciente e ci si può chiedere quali motivi lo spingessero ad insistere tanto per la cessione rapida del suo trovato alle autorità spagnole. Più sorprendente ancora può apparire la posizione del granduca Cosimo II, che aveva chiesto al proprio rappresentante alla corte spagnola di occuparsi di tutta la faccenda come se fosse cosa di Nostro proprio servizio. Inoltre, metteva a disposizione di Galileo personalità come l’ammiraglio Jacopo Inghirami, il provveditore Marco Barbavara e quattro galere dell’Ordine di Santo Stefano per mettere alla prova il celatone. Forse dietro le applicazioni del cannocchiale si nascondeva un tentativo di rivincita nei confronti di Roma. Il Decreto del 5 marzo aveva ferito l’amor proprio di Cosimo II. Certo il nome e gli scritti del suo matematico non apparivano ufficialmente fra i condannati, ma la censura si leggeva facilmente fra le righe. Le protezioni romane che avevano permesso di salvarlo imbarazzavano il granduca. Galileo era stato costretto a mettere un freno alle sue ambizioni di novatore, Cosimo II a rivedere alcuni aspetti della politica culturale del Granducato. Paolo V e l’Inquisizione avevano chiuso il dibattito sull’eliocentrismo basandosi unicamente sull’interpretazione letterale del contenuto della Sacra Scrittura. Chi pretendeva di distinguere nei fenomeni naturali il vero dal falso con criteri diversi da quelli definiti dai teologi cattolici era necessariamente nell’errore. E nell’errore poteva ritrovarsi anche il protettore. La politica di Cosimo II mirava ad ottenere la neutralità e l’equilibrio delle tre grandi potenze continentali: la Francia, la Spagna e l’Austria. Uno dei mezzi per pervenirvi era l’unione dell’erede al trono con una principessa opportunamente scelta. Il ruolo importante di Cosimo II nell’accordo raggiunto nel 1615 tra la Francia e la Spagna per il matrimonio di Luigi XIII, re di Francia, con la principessa Anna d’Austria – figlia di Filippo III, re di Spagna e di Margherita d’Austria – valse a Cosimo II la fama di abile mediatore. Ed in questa fase cruciale della sua ascesa (nel 1615 il granduca aveva solo 25 anni), il ruolo

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di mecenate favoriva le sue ambizioni politiche. Le quattro stelle che avrebbero dovuto rendere più sicura la rotta delle navi spagnole verso le Indie, l’America e le terre ancora da scoprire portavano il nome della sua famiglia. La cessione del progetto conferiva lustro a Galileo ed al granduca, e poteva aiutare a scacciare i sospetti di eresia che il Sant’Uffizio aveva contribuito largamente a diffondere. L’iniziativa era tanto più interessante, in quanto non implicava l’adesione all’eliocentrismo e non contravveniva al precetto notificato a Galileo da Bellarmino. C’era inoltre per l’autore del trovato la prospettiva di un lauto compenso, che avrebbe risanato le sue finanze sempre deficitarie. L’insistenza e la fretta per giungere ad una rapida conclusione non poteva non insospettire i consiglieri del re. Gli esperti spagnoli ponevano dubbi e chiedevano precisazioni, come risulta dalle notizie raccolte da Orso d’Elci. Non conosciamo il contenuto della risposta del viceré di Napoli a Filippo III, ma è molto probabile che fosse negativa. Sta di fatto che del progetto proposto al re di Spagna di applicazione del cannocchiale alla determinazione delle longitudini non si parlò più. Si chiudeva così un periodo di quattro anni circa, durante i quali Galileo, aiutato da Cosimo II, credette di poter rispondere al silenzio imposto dal Decreto del 5 marzo con il trovato del celatone e della determinazione delle longitudini. Nel 1637 il progetto fu proposto alle Province Unite olandesi con alcuni artifizi tecnici per compensare il beccheggio ed il rullio dell’imbarcazione (EN, XVII.96-100). Tuttavia, nonostante le innovazioni, fu respinto anche dagli olandesi. Alle difficoltà in cui si dibatteva il matematico di Cosimo II, se ne aggiungevano altre di carattere strettamente familiare. Nella sua qualità di padre, Galileo era tenuto ad assicurare l’avvenire delle due figlie, Virginia e Livia, che nel 1616 avevano raggiunto rispettivamente l’età di 16 e 15 anni. In quanto figlie illegittime, Virginia e Livia avevano poche probabilità di trovare un marito di buona condizione sociale. Il monastero costituiva una soluzione semplice anche se dispendiosa, poiché per entrarvi la futura monaca doveva disporre di una cospicua dote da

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versare al monastero. Per il resto, chi mai si sarebbe preoccupato di cercare le vere cause dell’avvio alla vita monastica di due adolescenti? Le stesse autorità religiose avrebbero trovato questa curiosità del tutto ingiustificata. Rimaneva da risolvere il problema dell’età, poiché Galileo avrebbe voluto concretizzare al più presto i suoi propositi, senza aspettare l’età ufficialmente richiesta. Fin dal 1611 Galileo si era rivolto al cardinale Del Monte affinché lo aiutasse a sistemare le due sorelle in uno stesso monastero. Ma la richiesta presentava diverse difficoltà, come spiegava il cardinale a Galileo in una lettera del 18 novembre 1611. Innanzitutto papa Leone XI, quando era ancora il cardinale Alessandro de’ Medici, si era servito di un breve per impedire la presenza di due sorelle in uno stesso monastero a Firenze. Per evitare l’ostacolo il cardinale Del Monte prometteva di intervenire presso la Santa Congregazione dei vescovi regolari ed eventualmente presso Sua Santità per ottenere una deroga. Ma una seconda difficoltà nasceva dal fatto che quando veniva raggiunto il numero delle monache che vi è prescritto, bisognava provvedere al versamento di una dote doppia di quella prevista. Esisteva poi una terza difficoltà assolutamente insormontabile: non era possibile entrare in un monastero prima dell’età leggittima. «Che se io ci vedessi via da spuntarcela – scriveva il cardinale – mi ci metterei con ogni prontezza [...] ma si tratta dell’impossibile [...]. Che il Signore Iddio la contenti» (EN, XI.234-235). L’età legittima non era rigorosamente fissata, ma doveva essere imperativamente superiore, anche se di poco, all’età di Virginia e Livia, che avevano rispettivamente 11 e 10 anni. Grazie all’appoggio del cardinale Del Monte, alla fine del 1613 le due adolescenti furono accettate al monastero di San Matteo ad Arcetri. Presero il velo rispettivamente nel 1616 e nel 1617 col nome di suor Maria Celeste e suor Arcangela. A differenza della sorella maggiore, che scoprì di avere una vera vocazione per la vita monastica, suor Arcangela non accettò la sorte impostagli dal padre e ne soffrì amaramente. Si spense nel 1659, triste e sconsolata.

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Come vedremo, suor Maria Celeste fu di grande conforto al padre in momenti particolarmente difficili. Le tre comete del 1618 L’impossibilità di pubblicare il Discorso del flusso e reflusso del mare e di esprimersi pubblicamente in merito alla prova per le maree lasciava temere che altri se ne impadronissero. Galileo decise quindi di inviare una copia del manoscritto, insieme al libro sulle macchie solari, all’arciduca Leopoldo d’Austria. Nella lettera di accompagnamento del 23 maggio 1618, già citata nel paragrafo precedente, Galileo esprimeva la propria angoscia e nello stesso tempo la volontà di vincere il silenzio al quale era costretto. Il Discorso, spiegava Galileo, era stato scritto «mentre tra quei signori teologi si andava pensando intorno alla proibizione del libro di Nicolò Copernico e della opinione della mobilità della terra, posta in detto libro e da me tenuta per vera in quel tempo». Dopo che l’opinione era stata dichiarata falsa e contraria alla Scrittura, Galileo ubbidiva alle decisioni delle superiori autorità e affermava di considerare lo scritto sulle maree, che è uno degli argomenti fisici a favore della mobilità della Terra, «come una poesia ovvero un sogno». «Tuttavia – spiegava lo scienziato – perché anche i poeti apprezzano talvolta alcuna delle loro fantasie, io parimente fo qualche stima di questa mia vanità». L’invio del Discorso all’arciduca era destinato a proteggerlo contro altro forse, separato dalla nostra Chiesa, che volesse attribuirsene il merito. La sua testimonianza e quelle di altri signori grandi, ai quali Galileo affermava di avere inviato il Discorso, avrebbero permesso di preservare la priorità della prova. L’allusione ad altro separato dalla Chiesa cattolica potrebbe riferirsi al protestante luterano Keplero. In questo caso Galileo si sbagliava, poiché, come s’è detto, l’astronomo tedesco si era già chiesto, dopo il primo incontro epistolare con l’astronomo italiano, se Galileo si riferisse alle maree come prova del doppio movimento della Terra, una interpretazione da lui considerata erronea.

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Un avvenimento celeste eccezionale distolse Galileo dalle preoccupazioni manifestate all’arciduca: l’apparizione nel 1618 di tre comete. Il fenomeno, noto e diversamente interpretato nell’antichità, era considerato di cattivo augurio da tutti coloro che, all’epoca molto numerosi, credevano nel valore dei presagi. Galileo, malato, non potette osservare personalmente le comete. Alcuni suoi discepoli lo fecero al suo posto dando così il via alle discussioni sulla loro natura. Per i galileani le comete offrivano inoltre l’occasione di un dibattito sui metodi d’investigazione dei fenomeni naturali. Per i gesuiti del Collegio Romano le comete erano dei corpi celesti reali situati nel mondo sopralunare, quindi di là dalla Luna. Questa interpretazione era abbastanza vicina a quella proposta nel 1577 da Tycho Brahe. Dopo la scoperta delle fasi di Venere, gli astronomi della Compagnia di Gesù si interessavano sempre più al sistema astronomico di Tycho Brahe, che permetteva di spiegare le fasi di Venere, messe in evidenza da Galileo alla fine del 1610, lasciando la Terra immobile al centro dell’universo. Nel 1618, il padre gesuita Orazio Grassi tenne una conferenza sulle comete al Collegio Romano, dove insegnava la matematica. Secondo Grassi si trattava di corpi celesti, di veri e propri pianeti, che ricevevano la luce dal Sole. Il testo della conferenza venne pubblicato alla fine dello stesso anno a Roma col titolo De tribus cometis anni M. DC. XVIII disputatio astronomica. Benché non contenesse il nome dell’autore, la paternità del volumetto fu rapidamente individuata. Galileo colse immediatamente l’occasione per entrare nel dibattito, prima attraverso il suo allievo Mario Guiducci ed in seguito a nome suo. Nei primi mesi del 1619, Guiducci tenne una conferenza all’Accademia Fiorentina che venne pubblicata a Firenze nel giugno 1619 con il titolo Discorso delle comete di Mario Guiducci. Dopo aver dichiarato illusoria e falsa la tesi del matematico gesuita, l’autore – in effetti Galileo – enunciava la propria tesi: le comete non erano veri corpi celesti, ma fenomeni ottici dovuti alla rifrazione della luce solare. Una parte dell’aria carica di esalazioni o di vapori che avvolgeva la Terra, fattasi più rarefatta, poteva elevarsi fino alla regione sopralunare. Secondo

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Guiducci, ciò che l’Accademico (cioè Galileo) aveva proposto e spiegato delle macchie solari rendeva l’interpretazione sicura e non c’era motivo per dubitarne (EN, VI.94). In effetti, nella prima lettera a Welser, una delle ipotesi sulla natura delle macchie solari avanzate da Galileo per escludere che si potesse trattare di piccole stelle ruotanti intorno al Sole era che si trattasse di vapori o esalazioni prodotti dal corpo solare. Nel Discorso si ironizzava sulla tesi di Grassi secondo la quale l’ingrandimento ottenuto con il cannocchiale dipendeva dalla distanza fra l’oggetto e l’osservatore. «Dico dunque – affermava con forza Guiducci dopo aver esaminato la tesi del matematico gesuita –, che il medesimo telescopio ingrandisce tutti gli ogetti visibili secondo la medesima proporzione» (EN, VI.75-79). Orazio Grassi reagì immediatamente pubblicando alla fine dello stesso anno, a Perugia, la Libra astronomica ac philosophica (Bilancia astronomica e filosofica), con lo pseudonimo di Lothario Sarsi Sigensano (anagramma di Horatio Grassi Salonensi). Affermava di essere un allievo di Orazio Grassi e di aver ricevuto dal suo maestro le notizie sulle recenti scoperte di Galileo. Chiamato direttamente in causa, il matematico del granduca vedeva contestate le sue scoperte più importanti prima ancora che venisse affrontato il problema della natura delle comete. Chi bisogna seguire, chiedeva Grassi, Tolomeo, Copernico? La risposta era immediata: ogni persona animata da sincera devozione doveva impegnarsi ad allontanare da questo autore chiunque volesse avvicinarsi a lui e respingere l’ipotesi recentemente condannata. Nell’esemplare della Libra in suo possesso si legge la seguente annotazione di Galileo, in latino: «qui si fa allusione senza ragione o a Tolomeo o a Copernico; ma né l’uno, né l’altro hanno costruito una teoria per salvare il fenomeno delle comete» (EN, VI.116). Le allusioni al movimento della Terra erano frequenti, forse per spingere Galileo ad accettare la discussione su questo terreno. La Libra forniva anche l’occasione al matematico gesuita per utilizzare contro Galileo alcuni argomenti della fisica peripatetica. Nell’ambiente vicino ai lincei si suggeriva la prudenza. Il segretario Francesco Stelluti era abbastanza esplicito. «Non vor-

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rei mai nominare – scriveva Stelluti a Galileo il 27 gennaio 1620 – né detto Padre Grassi né meno il Collegio del Gesù [Collegio Romano], fingendo di pigliarla solo con quel discepolo, perché altrimenti saria un non mai finire [...]; di questa stessa opinione è anche il S.r Principe [Cesi]» (EN, XIII.20-21). Per convincere Galileo a far firmare la risposta da Guiducci, Stelluti faceva notare che Sarsi si presentava come un allievo di Grassi e quindi non era opportuno che Galileo, in quanto maestro, polemizzasse con un allievo. La strategia immaginata dai lincei fu compromessa dalla decisione di Guiducci di rispondere a nome proprio al Sarsi con una lettera di una quindicina di pagine indirizzata al padre gesuita Tarquinio Galluzzi, pubblicata a Firenze nel 1620 con il sottotitolo «nella quale [l’autore] si giustifica dell’imputazione dategli da Lottario Sarsi Sigensano nella Libra Astronomica, e Filosofica». Il discepolo di Galileo si meravigliava, fra l’altro, dell’uso che faceva l’autore della Libra di un testo della Scrittura. Guiducci aveva sostenuto nel Discorso (d’accordo in questo con i peripatetici, seguaci di Aristotele) che i corpi luminosi non sono trasparenti e quindi che la cometa non poteva essere una fiamma o un incendio, poiché lasciava trasparire le stelle. Sarsi-Grassi sosteneva il contrario e dava come esempio il miracolo di Anania, Azaria e Misaele gettati in una fornace ardente per ordine di Nabucodònosor. Le Sante Scritture, spiegava l’autore della Libra, facevano dire al re: «Ecco vedo quattro uomini liberi che si muovono in mezzo alle fiamme e nessuna distruzione si produce in essi». E concludeva, sulla base di queste sante parole, che niente impediva di vedere attraverso le fiamme. Stupito e nello stesso tempo incuriosito, Guiducci era andato a leggere il testo citato (Daniele 3, 49) ed aveva scoperto che nella Sacra Storia si leggeva (nel testo latino) che prima che i tre giovani santi cantassero le lodi del Signore e fossero visti dal re, «l’angelo del Signore scese nella fornace vicino ad Azaria ed ai suoi compagni, respinse fuori la fiamma del fuoco e generò in mezzo alla fornace come un venticello rugiadoso e fresco». Guiducci si rimetteva in tutto e per tutto all’interpretazione dei sacri dottori e maestri in divi-

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nità, ai quali spettava giudicare se da quelle parole si poteva dedurre che il re vedeva i santi attraverso le fiamme. Chiedeva inoltre se bisognava lodare o biasimare le citazioni della Sacra Scrittura fatte in tal modo, e dichiarava di essere convinto che le stelle non si vedevano neanche attraverso la piccola fiamma di una candela, e chiunque poteva verificarlo a volontà, purché avesse, come dice il Sarsi, occhi da vedere (EN, VI.196). Forse Galileo considerava l’argomento sviluppato da Sarsi una vera e propria provocazione, come si può ricavare da una sua annotazione sull’esemplare della Libra in suo possesso. Messer Lotario – scrive Galileo – io non sono atto a interpretare Scritture, e tale credo che siate voi ancora: onde io non curo le vostre allegazioni, se prima voi non mi mostrate che da persona di suprema autorità sia determinato che il [sos]tener che la fiamma sia trasparente sia opinione eretica o erronea, come repugnante alle Scritture. Voi sapete dove bisogna ricorrere: andatevi e denunziate come il tale e il tale [sos]tiene che la fiamma traspaia, e mettete in considerazione questo essere contro alle Scritture; che subito che sia fatta la dichiarazione, io non sarò il secondo a credere e confessare che la fiamma è trasparentissima (EN, VI.174).

Galileo considerava padre Grassi un provocatore capace di denunziare come eretici i suoi avversari? Non è eccessivo dedurlo da questa annotazione. Attribuendo con evidente ironia un carattere eretico all’opinione professata dal Sarsi, Galileo gli suggeriva di denunziare come tale la trasparenza della fiamma. In questo caso non sarebbe stato il secondo a crederlo ed avrebbe potuto sostenere la non-trasparenza senza rischiare una condanna per eresia. Si trattava certo di un’annotazione, ma era abbastanza eloquente per mettere in evidenza il clima di diffidenza instauratosi fra i due scienziati. Il gioco era abbastanza sottile e l’ironia stridente. «Se voi foste dottore – annotava ancora Galileo – e aveste l’autorità di glosare etc. [sic], io vi crederei, ma giacché voi siete scolaro... ». Seguiva un riferimento a quanto più volte affermato, e cioè che una verità stabilita in filosofia naturale doveva permettere di interpretare correttamente il contenuto del-

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la Scrittura. In caso contrario, il vero senso della Scrittura non era stato capito. Queste annotazioni non erano destinate ad essere divulgate, ma per Galileo rappresentavano appunti preziosissimi di cui si servirà nel Saggiatore, come vedremo, nonostante le raccomandazioni di Francesco Stelluti, segretario dell’Accademia dei Lincei. Stelluti aveva informato Galileo il 4 aprile 1620 della decisione di Guiducci di rispondere a Sarsi attraverso una lettera indirizzata al padre Tarquinio Galluzzi. Se adesso Galileo decideva di rispondere, poteva farlo rivolgendosi ad un amico e non a questo Lotario e neanche al padre Grassi (EN, XIII.30). Il piano stabilito dai lincei fu pronto in poco più di un mese. Il 18 maggio il principe Cesi annunziava a Galileo che l’Accademia aveva analizzato la risposta da dare alla Libra, e sottolineava la necessità di farla uscire al più presto. Galileo non doveva figurarvi direttamente, ma attraverso Guiducci. Quest’ultimo doveva astenersi dall’utilizzare un linguaggio caustico e aspro. Si sarebbe potuto anche ricorrere ad una lettera, lunga se necessario, in risposta a domande fatte da un amico. Oltre al principe Cesi ed a monsignor Ciampoli, aveva partecipato all’elaborazione della strategia il giovane duca Virginio Cesarini, linceo, che figurava come destinatario probabile della risposta. Risposte alla «Libra»: «Il Saggiatore» Il 28 febbraio 1621, Cosimo II moriva di mal sottile all’età di trent’anni. L’erede Ferdinando II aveva solamente 11 anni. Fin dal 1615 il granduca aveva stabilito per testamento che nel caso d’incapacità del suo discendente diretto ad assumere la direzione del Granducato, sua madre, la granduchessa Cristina di Lorena, e sua moglie, l’arciduchessa Maria Magdalena, avrebbero assicurato la reggenza, assistite da un Consiglio la cui composizione era da lui stesso definita. Inoltre, per allontanare la famiglia granducale da ogni attività mercantile, decideva che le sue ricchezze personali sarebbero servite esclusivamente ad

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assicurare la dote delle principesse di casa Medici ed il soccorso della popolazione in caso di catastrofi naturali. Oltre all’erede, Cosimo II lasciava quattro figli e tre figlie. Nessuno era veramente in grado di prevedere l’avvenire dei galileani. La madre e la sposa del granduca erano persone influenzabili e del tutto incapaci di opporsi all’autorità politica e religiosa di Roma. Dopo la morte di Cosimo II, ogni minimo indizio di cambiamento nella politica del Granducato suscitava commenti, generalmente poco incoraggianti per i galileani. Nel corso dell’anno 1620 Galileo ed i suoi amici dell’Accademia dei Lincei avevano esaminato attentamente la forma ed il contenuto delle risposte da dare alla Libra di Sarsi-Grassi. Dopo la pubblicazione della lettera di Guiducci, Galileo, che era stato chiamato in causa a più riprese dal Sarsi, preparava la sua risposta. Anche questa era in forma di lettera, diretta come previsto fin dal maggio 1620 a Virginio Cesarini. Il titolo scelto, Il Saggiatore, indicava sia il funzionario incaricato di saggiare la purezza dei metalli preziosi, sia la bilancia di precisione necessaria per l’operazione. Alla bilancia faceva riferimento il sottotitolo, precisando che «con bilancia esquisita e giusta si ponderano le cose contenute nella libra Astronomica e Filosofica di Lotario Sarsi Sigensano» (EN, VI.197-372). Una parte importante del Saggiatore era dedicata ai problemi di metodologia scientifica. Il 12 gennaio 1623, Virginio Cesarini annunziava a Galileo la decisione dei lincei di pubblicare il libro a Roma nonostante la potenza degli avversari. La notizia era già arrivata al Collegio Romano ed i padri avevano ardito chiedere a Cesarini di poter consultare il manoscritto. La risposta era stata ovviamente negativa, soprattutto per evitare un intervento dei padri teso ad interdirne la pubblicazione. Un’altra notizia, contenuta in questa stessa lettera, non poteva non sorprendere il destinatario. Cesarini informava Galileo dell’arrivo nelle librerie romane di un’Apologia di Tommaso Campanella pubblicata a Francoforte nel 1622, sul moto della Terra. Il mittente aggiungeva, prudentemente, da lei in quei tempi proposto, come per proteggere Galileo dall’accusa di voler

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continuare a proporlo. In effetti si trattava dell’Apologia pro Galileo, che i superiori non volevano che si vendesse pubblicamente. Cesarini segnalava inoltre che il libro aveva fornito agli avversari l’occasione di rinnovare contro Galileo le calunnie già rifiutate e debellate, ma che non mancavano protettori ed amici per difendere il suo nome e la sua reputazione. Aggiungeva infine che l’obbedienza con cui Galileo aveva dimostrato sempre di riverire il decreto della S. Congregazione (del 5 marzo 1616) mostrava a tutti quale fosse la sua mente. Nel linguaggio allusivo dei galileani, il riferimento al Decreto poteva significare che era indispensabile continuare a tenerne gran conto. Quanto ai gesuiti del Collegio Romano, Cesarini segnalava che nelle pubbliche prelezioni tenute all’inizio dell’anno accademico i professori avevano fatto detestare i trovatori di novità nelle scienze, e cercato con lunghi discorsi di convincere gli scolari che fuori d’Aristotele non si trova verità alcuna. Nonostante questo atteggiamento qualificato di scomunica fulminata con eloquenza, Cesarini non escludeva che gli argomenti sviluppati da Galileo potessero circolare liberamente a Roma, suscitando interesse ed approvazioni. Vi era infine un riferimento preciso al Discorso del flusso e reflusso del mare, che tuttavia non veniva apertamente citato, nel quale, secondo Cesarini, Galileo avrebbe aggiunto molte curiosisime speculazioni (EN, XIII.105-107). Tuttavia era poco probabile che Il Saggiatore potesse essere accolto con interesse e spirito di tolleranza dai padri gesuiti del Collegio Romano. I tempi erano profondamente cambiati da quando, nel 1611, il padre Maelcote aveva accolto l’autore del Sidereus Nuncius definendolo uno dei più celebri e meritevoli astronomi del suo tempo. Dodici anni dopo, non esisteva più alcuna traccia di un tale giudizio. I gesuiti erano sempre più diffidenti nei confronti delle convinzioni filosofiche di Galileo ed inoltre gli rimproveravano la controversia con uno dei loro confratelli sulla priorità della scoperta delle macchie solari e sulla loro natura. Le decisioni del Sant’Uffizio avevano ridotto quasi a zero i tentativi di riavvicinamento e la polemica con padre Grassi, che coinvolgeva già Galileo, non contribuirà a rilanciarli.

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In attesa della pubblicazione del Saggiatore, l’entusiasmo di intellettuali come Virginio Cesarini costituiva un aiuto prezioso nella preparazione allo scontro ormai inevitabile. Cesarini aveva abbandonato gli studi di diritto e di teologia per dedicarsi interamente alla matematica ed alla filosofia naturale. Ventottenne, noto ed apprezzato nell’ambiente culturale romano, era accolto da personalità influenti come il cardinale Bellarmino ed il cardinale Barberini. I lincei contavano sulle sue qualità intellettuali e sulla sua fedeltà verso gli impegni presi, per sviluppare attraverso mille difficoltà il loro piano di rinnovamento. Purtroppo una tubercolosi tracheale, all’epoca incurabile, lo costringeva a rifugiarsi sovente in regioni dal clima mite, lontano da Roma. Il Saggiatore stava per essere pubblicato, allorché un avvenimento inaspettato e sconvolgente si produsse a Roma l’8 febbraio di quell’anno 1623. Dopo un pontificato durato solamente due anni, Gregorio XV, successore di Paolo V, si spegneva all’età di 69 anni. Entrati in conclave l’8 febbraio per eleggere il nuovo pontefice, i cardinali tardavano ad annunziare l’habemus papam. A Roma l’attesa diventava insopportabile. Quando finalmente il 6 agosto l’elezione ebbe luogo e fu noto il nome del nuovo pontefice, un’immensa indicibile gioia s’impadronì dei galileani di Roma e d’Europa: Maffeo Barberini, l’amico, il protettore, l’ammiratore di Galileo Galilei e delle sue scoperte, saliva sul trono pontificale col nome di Urbano VIII. La notizia si propagò in un lampo. Dal monastero di Arcetri suor Maria Celeste, primogenita di Galileo, scriveva il 10 agosto a suo padre, che gli aveva inviato in regalo alcune lettere del cardinale, augurandogli con l’aiuto del Signore un buon viaggio a Roma. La giovane suora aveva scoperto nelle lettere di Maffeo Barberini a Galileo le numerose promesse del cardinale e sperava che facilmente si sarebbe ottenuto qualche aiuto per nostro fratello. In effetti Vincenzio, il terzogenito, aveva da poco compiuto 17 anni e suo padre era preoccupato per il suo avvenire. Suor Maria Celeste chiedeva infine al Molt’Ill.mo Sig. Padre di inviargli la copia della lettera di rallegramento inviata al pontefice, confessando di essere un poco curiosa (EN, XIII.120).

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La curiosità affettuosa della primogenita non fu soddisfatta. Rivolgersi direttamente al sommo pontefice era mancanza di rispetto, ma suor Maria Celeste viveva fuori dal mondo e non poteva rendersene conto. Suo padre indirizzò solamente il 19 settembre una lettera a Francesco Barberini, nipote del papa, scusandosi di non aver potuto scrivere prima a causa dell’aggravarsi di una sua infermità. «Vivrò felicissimo – scriveva Galileo – ravvivandosi la speranza, già del tutto sepolta, di esser per veder richiamate dal lor lungo esilio le più peregrine lettere» (EN, XIII.130). Le più preziose lettere, e cioè gli scritti che il Decreto impediva di pubblicare e di diffondere. Galileo faceva allusione, in maniera non del tutto velata, alla sua revoca. Forse pensava già alla pubblicazione del Discorso del flusso e reflusso del mare. In una lettera a Galileo del 12 agosto, il segretario dell’Accademia, Francesco Stelluti, spiegava in maniera abbastanza semplice l’improvvisa elezione del nuovo papa dopo quasi sei mesi d’attesa. Faceva terribilmente caldo a Roma e ogni giorno uscivano dal conclave cardinali e conclavisti ammalati, molti dei quali, a detta di Stelluti, erano morti. I partecipanti erano tenuti al segreto e potevano uscire solo in caso di malattia grave. La situazione diventava preoccupante ed ulteriori ritardi avrebbero messo in pericolo la vita dei cardinali e dei conclavisti più anziani. Fra le buone notizie c’era la nomina di Virginio Cesarini a maestro di camera. Monsignor Ciampoli conservava la carica di segretario dei brevi ai principi ed in più assumeva quella di cameriere segreto. Il cavaliere Cassiano Dal Pozzo, accademico linceo, servirà il nipote del Papa, quello che sarà cardinale, cioè Francesco Barberini. Da questo pontefice, Stelluti sperava un ottimo governo. La stampa del Saggiatore era quasi ultimata, mancava solo una figura nel frontespizio (EN, XIII.121). L’euforia aveva raggiunto vertici inimmaginabili pochi mesi prima, non c’era più posto per il dubbio. Virginio Cesarini ebbe appena il tempo di redigere a nome dei lincei la dedica del Saggiatore al nuovo papa. All’inizio del libro il tema delle maree ritornava furtivamente su iniziativa di Francesco Stelluti. Il segretario dell’Accade-

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mia aveva scritto un poema alla gloria di Galileo e delle sue scoperte. Alla quindicesima strofa il riferimento ad una leggenda sulle circostanze della morte di Aristotele costituiva l’occasione per Stelluti di fare allusione alla causa del fenomeno secondo Galileo: Quei che cercò, là presso A la Calcidia riva, Perché l’onda sì spesso Colà d’Euripo a varïar veniva, Se la cagion n’udiva Da te, cui non s’asconde, Sommerso non si fora entro quell’onde (EN, VI.209).

Secondo la leggenda, Aristotele si sarebbe suicidato gettandosi nelle acque dell’Euripo, dove le maree sono altissime, per non aver saputo scoprirne la causa. Il filosofo sarebbe stato vittima della propria ignoranza. Se avesse potuto ascoltare dalla bocca di Galileo la vera causa delle maree, e cioè il doppio movimento della Terra, non sarebbe morto annegato. La scomparsa di Aristotele messa in versi da un linceo molto conosciuto negli ambienti culturali romani non lasciava dubbi sulle intenzioni dei galileani. Tutto era pronto per dare una larga diffusione alla prova attraverso le maree e si aspettava solamente la revoca del Decreto, considerata imminente dalla maggior parte dei galileani. Il poema di Stelluti, composto quando Urbano VIII era ancora cardinale, non poteva dire più di quanto dicesse, ed era già tanto. Galileo aveva continuato a riflettere sulle cause delle maree, convinto che la difesa del sistema copernicano dovesse poggiare su questa prova irrefutabile. Monsignor Giovanni Ciampoli vi aveva fatto allusione in una lettera del 7 gennaio 1623 definendola un miracolo d’ingegno e Virginio Cesarini nella lettera del 12 gennaio, come s’è detto. Tutti e due si ritrovavano adesso tra gli stretti collaboratori di Urbano VIII, e non erano i soli. I galileani avevano più ragioni per essere ottimisti. Il Saggiatore avrebbe dovuto trattare soprattutto delle comete, della loro natura, della loro distanza dalla Terra, delle loro

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traiettorie. Ma Galileo aveva molte cose da dire prima, e aveva deciso di dirle senza preoccuparsi troppo delle reazioni dell’avversario. L’ironia era un’arma che maneggiava con grande destrezza. Nel Saggiatore l’utilizzerà senza risparmio di colpi. Suggerirà che forse per Sarsi la filosofia naturale era il risultato della fantasia di un uomo, come lo era il contenuto dell’Iliade e dell’Orlando Furioso, due opere nelle quali la verità del racconto non aveva nessuna importanza. Passando poi dal tono ironico alla lezione per scolari impreparati, Galileo eliminava il forse e rispondeva a Sarsi con la sua definizione del ruolo della matematica nello studio della natura: Sig. Sarsi, la cosa non istà così. La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l’universo), ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto (EN, VI.232).

Il tono perentorio contrastava con i dubbi che circolavano sulla certezza della matematica. Le discussioni non erano affatto spente, ed il libro di Benito Pereira che negava alla matematica il carattere di vera scienza era stato ristampato più volte con immutato successo. L’affermazione di Galileo era tanto più sorprendente in quanto estranea agli argomenti trattati da Sarsi nella Libra. Urtava inoltre gli insegnanti del Collegio Romano, che attribuivano un ruolo importante alla logica nello studio della filosofia naturale, ed invadeva il terreno riservato ai teologi attribuendo implicitamente al Creatore la scelta della lingua matematica per scrivere il libro della natura. Nel Saggiatore l’astronomia occupava un posto importante e non mancavano i riferimenti cauti e misurati a Copernico, distillati con prudenza senza trasgredire il Decreto del 5 marzo 1616. In particolare, l’attacco contro Ticone (Tycho Brahe), l’astronomo al quale il Sarsi faceva riferimento sovente nella Libra, era destinato chiaramente ad eliminare il più pericoloso difen-

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sore dell’immobilità della Terra, noto in tutta Europa per le sue conoscenze in astronomia ed in matematica. Secondo Galileo, se prima di osservare il cielo bisognava aderire alla concezione di qualcuno, non si capiva per qual motivo si dovesse scegliere Ticone anteponendolo a Tolomeo e a Nicolò Copernico. A differenza di Tycho, Tolomeo e Copernico avevano proposto due sistemi astronomici ben costruiti e completi. Quanto all’ipotesi copernicana, gli argomenti di Tycho non avrebbero permesso, secondo Galileo, di allontanare i cattolici dall’errore e di illuminare la loro cecità come aveva potuto farlo una più sovrana sapienza, e cioè la Congregazione dell’Indice. Il riferimento all’errore ed alla cecità dei copernicani era il prezzo da pagare per poter sostenere che gli argomenti sviluppati da Tycho contro Copernico non erano fondati. C’erano tuttavia nel Saggiatore alcuni riferimenti indiretti al sistema copernicano ed alla sua validità, ma restavano poco visibili. Il libro uscì con l’imprimatur del Maestro del Sacro Palazzo Apostolico, il domenicano Niccolò Ridolfi, e l’avviso favorevole del domenicano Niccolò Riccardi, soprannominato «padre mostro» per la sua leggendaria bruttezza. Riccardi assumerà la carica di Maestro del Sacro Palazzo nel 1629 ed avrà un ruolo importante nelle vicende che condurranno al processo ed alla condanna di Galileo. L’accusa di incompletezza nei confronti del sistema di Tycho Brahe apparve ingiustificata a Keplero. L’astronomo tedesco non aveva apprezzato la maniera superficiale e disinvolta con cui Galileo liquidava il suo immenso lavoro. Gliela rimprovererà nell’appendice del suo Tychonis Brahei, [...] Hyperaspistes [...] (Il difensore di Tycho Brahe), pubblicato a Francoforte nel 1625. L’Hyperaspistes era diretto contro il matematico Scipione Chiaramonti, autore dell’Antitycho, pubblicato a Venezia nel 1621, un libro sul quale Galileo aveva espresso, nel Saggiatore, un giudizio piuttosto favorevole. Molto probabilmente si era lasciato sedurre dal titolo, ma non aveva avuto il tempo di leggere attentamente il libro. L’autore dell’Antitycho criticava coloro che consideravano le comete oggetti celesti situati nel mondo sopralunare. Nell’Hyperaspistes Keplero denunzierà questa po-

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sizione, giudicandola un’audacia che rivaleggiava con la futilità. Ne risultò un dissenso per interposte persone fra Keplero e Galileo, che d’altra parte non si scrivevano più dal 1611. Pochi anni dopo, Galileo muterà parere nei confronti di Chiaramonti dopo aver letto l’Antitycho ed aver ricevuto notizia dell’imminente pubblicazione di un suo libro contro il movimento della Terra. Il disaccordo fra Galileo e Sarsi sulla natura delle comete era completo. Per il matematico gesuita si trattava di corpi celesti situati fra la Luna ed il Sole, mentre per Galileo il fenomeno osservato si situava molto al di sotto del cielo della Luna. D’altra parte Grassi, riprendendo un’idea di Aristotele, attribuiva lo splendore delle comete ad un fenomeno di combustione. La controversia verteva allora sul problema più generale, già affrontato da Guiducci, della trasparenza della fiamma. Dalla risposta a questa domanda dipendeva la validità della tesi del Sarsi, poiché la coda della cometa era trasparente. Ma per Galileo non era evidente che le comete fossero oggetti reali e forse la loro luce era così debole che da vicino non la si vedeva più, come avveniva nei fuochi usciti da sotto terra che si vedono solamente di notte e da lontano, mentre da vicino si perdono (EN, VI.274). Galileo faceva allusione probabilmente alle minuscole fiammelle dei fuochi fatui, dovute alla combustione spontanea di esalazioni di gas, visibili nei pressi dei cimiteri, delle paludi ed in luoghi umidi e grassi, cioè ben concimati. Tuttavia precisava di non aver mai affermato risolutamente che la cometa fosse un simulacro vano ed una semplice apparenza, ma di aver voluto sottomettere alla considerazione dei filosofi il dubbio che forse così poteva essere (EN, VI.276). Da quanto viene suggerito qua e là nel Saggiatore, si ricava che nonostante le formulazioni ambigue, Galileo escludeva che le comete fossero dei corpi celesti. Era piuttosto propenso ad ammettere che fossero immagini irreali dovute alla riflessione della luce del Sole sull’aria vaporosa proveniente dalla Terra e diretta verso gli strati alti dell’atmosfera. Tuttavia gli argomenti sviluppati in difesa di questa ipotesi non poggiavano su basi solide.

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La discussione sulla natura del calore forniva a Galileo l’occasione di dare ancora una volta libero corso alla sua sferzante ironia. Per il padre Grassi, come per la maggior parte degli aristotelici, movimento e calore erano intimamente legati. Il matematico gesuita dava come prova di questa interdipendenza il modo di cuocere le uova dei babilonesi. Secondo il Lessico di Suidas, uno scritto greco dell’epoca bizantina citato da Sarsi, la cottura veniva realizzata facendo girare nell’aria le uova poste all’estremità di una fionda. Galileo osservava che noi non riusciamo ad ottenere questo stesso effetto e quindi dobbiamo cercare di capire cosa manca nella nostra maniera di procedere. Enumerava quindi le cose di cui disponiamo per realizzare l’esperimento: le uova, le fionde e gli uomini robusti per farle ruotare nell’aria. Tuttavia le uova non si cuocevano, anzi se erano calde si raffreddavano. Conclusione di Galileo: poiché ciò che manca è l’esser (noi) di Babilonia, dunque la causa dell’indurirsi l’uova non è l’attrito dell’aria ma l’esser Babiloni (EN, VI.340). Il sarcasmo raggiungeva punte estreme e gli ultimi spiragli ancora offerti ai due avversari si chiudevano. Forse il padre Grassi preparava già in cuor suo i termini della vendetta. L’atomismo di Galileo e i rancori del padre Grassi Nel Saggiatore Galileo riesaminava alcune nozioni sulla struttura della materia già enunciate nel Discorso intorno alle cose che stanno in su’ l’acqua o che in quella si muovono. In maniera più esplicita di quanto non lo avesse già fatto, osservava che se si immagina una sostanza corporea, ci chiediamo nello stesso tempo che figura ha, se è più grande o più piccola di un’altra, se si trova in questo o quel luogo, in questo o quel tempo, se si muove o sta ferma, se tocca un altro corpo, se è una, poche o molte ed è impossibile immaginare di separarla da queste condizioni. Diversamente, la nostra mente non ci spinge, secondo Galileo, a chiederci di che colore è, che odore o che sapore ha. Se non di-

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sponessimo dei sensi, forse il discorso o l’immaginazione non porrebbero mai queste domande. Colore, odore, sapore sono qualità sensibili della materia, ossia specie sensibili o accidenti, per dirla col linguaggio di Aristotele e di Galileo. La novità importante è che qui sono puri nomi se ci riferiamo al soggetto in cui crediamo che risiedono, mentre in realtà hanno sede nel corpo sensitivo, cioè nei nostri sensi. L’analogia che secondo Galileo dovrebbe aiutare a capire il nuovo concetto di specie sensibili è l’effetto provocato da una mano che tocca differenti parti di un corpo animato. A differenza di una statua, le diverse parti del corpo animato non reagiscono tutte allo stesso modo. Se la mano tocca le piante dei piedi o sopra le ginocchia o sotto le ascelle, al toccamento si aggiunge un’altra sensazione (affezione, nel linguaggio di Galileo) che noi chiamiamo solletico. Tuttavia sarebbe sbagliato affermare che la mano ha in sé un’altra facoltà oltre al toccamento ed al movimento. Il solletico è un’affezione tutta nostra e non appartiene alla mano. Allo stesso modo, le specie sensibili o accidenti non appartengono ai corpi materiali esterni nei quali pensiamo che risiedano. In effetti alcuni di questi corpi si sciolgono – si risolvono continuamente, scrive Galileo – in particelle minime. Quelle più pesanti dell’aria vanno verso il basso, altre più leggere verso l’alto. A seconda della loro figura, velocità o sottigliezza, o ancora della loro quantità producono sensazioni diverse, ad esempio i sapori sulla lingua, gli odori sulle narici ecc. Se si sopprimessero le orecchie, le lingue, i nasi, secondo Galileo resterebbero solamente le figure, il loro numero, il loro movimento. Tolto l’animale vivente le qualità sensibili della materia non sono altro che nomi, come lo è il solletico se si tolgono le piante dei piedi, le ascelle ecc. Galileo non utilizza il termine «atomo»: le particelle minime o minimi quanti sono divisibili. Anche il fuoco è costituito da una moltitudine di corpicelli minimi estremamente sottili, gli ignicoli, che penetrando nel nostro corpo producono l’affezione grata o molesta che noi chiamiamo caldo, bruciore o scottamento. Secondo Galileo, se l’assottigliamento resta nei limiti di ignicoli quanti, cioè ancora divisibili,

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forse la loro velocità ha una durata finita ed il loro effetto è solamente calorifico. Se invece si raggiunge l’ultima ed altissima risoluzione in atomi realmente indivisibili, si crea la luce, la cui diffusione è istantanea. Nel Saggiatore il termine «atomo» compare solamente nel caso della luce (EN, VI.347-352). L’abbozzo di teoria atomistica riassunta qui per sommi capi susciterà le critiche del padre Grassi. Le ferite inflitte dal Saggiatore si cicatrizzeranno male. SarsiGrassi accuserà Galileo di aver elaborato una teoria fisica contraria al dogma della transustanziazione. Nel 1626 Orazio Grassi pubblicherà a Parigi, sempre con lo pseudonimo di Lotario Sarsi, la Ratio ponderum Librae et Simbellae, in qua quid e Lotharii Sarsii Libra astronomica, quidque e Galilei Galilei Simbellatore, de cometis statuendum sit [...] philosophorum arbitrio proponitur (Confronto fra i pesi della Libra e del Saggiatore, in cui si propone al giudizio dei filosofi cosa si debba stabilire circa le comete secondo la Libra astronomica di Lotario Sarsi e cosa secondo Il Saggiatore di Galileo Galilei). Una seconda edizione del libro sarà pubblicata a Napoli l’anno successivo. L’assenza di una edizione romana incuriosiva i galileani. L’autore temeva di non ottenere l’imprimatur? Forse l’elezione di Urbano VIII lasciava un po’ disorientati e timorosi i personaggi più esposti nella crociata anticopernicana. Il tono utilizzato dal padre Grassi era apparentemente pacato, come indica la frase conclusiva della dedica al cardinale Francesco Boncompagni: Discordes animos compone, hasque opprime flammas (Avvicina gli animi discordi, estingui queste fiamme). Per nulla convinto, Galileo annotava di seguito sull’esemplare del libro in suo possesso: «Simula il viso pace, ma vendetta / chiama il cor dentro, e ad altro non attende» (EN, VI.377). La pubblicazione della Ratio giunse tanto più inaspettata in quanto le notizie raccolte, in particolare da Guiducci, lasciavano sperare in un miglioramento dei rapporti fra Galileo ed i gesuiti del Collegio Romano. In una lettera del 6 settembre 1624, Guiducci, ristabilitosi da una lunga malattia, si scusava con Galileo in termini piuttosto imbarazzati. In effetti, dopo numerosi rifiuti aveva accettato un abboccamento con il padre Grassi ce-

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dendo all’insistenza del padre Tarquinio Galluzzi e di un prelato principalissimo. Durante la malattia aveva ricevuto a Roma, dove risiedeva, le visite di più padri gesuiti ai quali [era] obligatissimo. Quindi non gli era sembrato opportuno continuare a rifiutare l’incontro con il padre Grassi. Accettò ed il giorno successivo l’autore della Libra si presentava a casa sua. Orazio Grassi fu cortese ed affabile e si comportò come se avesse conosciuto Guiducci da un pezzo. Parlando dell’approvazione concessa dai revisori ad opere di filosofia e d’altra materia, disse che pochi giorni prima aveva riletto ed approvato la bell’opera dell’arcivescovo di Spalato del flusso e reflusso. Tuttavia né Grassi né Guiducci ne approvavano il contenuto. «Noi abbiamo la scrittura del Sig. Galileo sopra la medesima materia, che è molto ingegnosa», osservò il matematico del Collegio Romano. Parlarono quindi del movimento della Terra e Grassi disse che se si trovava una dimostrazione bisognava interpretare i luoghi della Sacra Scrittura in cui l’argomento è trattato diversamente da come si era fatto fino allora. La via da seguire era quella indicata dal cardinale Bellarmino. Ritornò poi più volte da Guiducci, come si ricava da questa stessa lettera, senza mai entrare nei fatti passati. Quest’ultimo non riuscì a rendersi conto se il padre Grassi avesse l’intenzione di rispondere agli argomenti sviluppati nel Saggiatore (EN, XIII.202-203). Il seguito degli eventi permetterà di rispondere affermativamente a questa domanda e di dare indicazioni precise sulle intenzioni del gesuita. Non a caso Grassi aveva tirato in ballo l’arcivescovo di Spalato. Il libro da poco pubblicato con la sua approvazione aveva come titolo l’Euripus seu de fluxu et refluxu maris sententia (Euripo ovvero un’opinione sul flusso e riflusso del mare) ed era scritto da un personaggio per alcuni aspetti incomprensibile e fra i più singolari del suo tempo. Marco Antonio De Dominis, ex gesuita, era stato condannato come eretico nel 1616. Rifugiatosi a Londra, aveva pubblicato il De republica ecclesiastica, che Roma mise subito all’Indice. Accettò con entusiasmo di partecipare ad un’iniziativa auspicata dal re Giacomo I Stuart e dall’arcivescovo di Canterbury George Abbot: la pubblicazione della Historia del Concilio di Trento di Paolo Sarpi in cui erano

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denunziati gli intrighi orditi dietro le quinte dell’eccezionale teatro tridentino. De Dominis potette tornare a Roma il 22 novembre 1622 e fu reintegrato nella sua dignità ecclesiastica dopo aver rinnegato l’Historia. Ma la libertà durò poco: denunziato come simulatore, fu imprigionato in Castel Sant’Angelo e, cosa eccezionale per un prigioniero, un intero appartamento fu messo a sua disposizione. Secondo De Dominis la causa delle maree era da ricercarsi nell’influenza della Luna e del Sole. Non solamente i galileani, ma anche numerosi gesuiti del Collegio Romano consideravano del tutto errata questa interpretazione di De Dominis. L’ex arcivescovo di Spalato morì improvvisamente nella notte tra l’8 e il 9 settembre. Il papa ordinò un’autopsia per assicurarsi che il decesso fosse dovuto a cause naturali e pregò Johannes Faber di assistervi, probabilmente per potere in seguito, se necessario, chiedergli di testimoniare. Alcuni mesi dopo, il corpo senza vita dell’eretico De Dominis fu bruciato a Roma in Campo dei Fiori. Le iniziative di Orazio Grassi miravano probabilmente a stabilire se Galileo continuasse o meno ad approfondire la prova dei movimenti della Terra attraverso le maree e se avesse trovato la vera dimostrazione alla quale faceva riferimento il cardinale Bellarmino. Le sue visite a Guiducci si inserivano in un’inchiesta voluta probabilmente da alcuni gesuiti del Collegio Romano. Se si accertava che Galileo disponeva di una dimostrazione convincente, bisognava abbandonare la crociata anticopernicana e trovare altri capi d’accusa per poter trascinarlo dinanzi al tribunale del Sant’Uffizio. Guiducci non si rese conto del ruolo di informatore malgré lui che Grassi gli aveva fatto recitare. Più tardi, leggendo nella Ratio l’accusa di eresia lanciata contro Galileo forse si chiederà quale era stato in realtà lo scopo delle sue visite. L’autore della Ratio si riferiva alla digressione sul calore e sottolineava che in questo testo Galileo si dichiarava apertamente seguace della scuola di Democrito e di Epicuro. In realtà i nomi dei due filosofi greci non figurano nel Saggiatore e Grassi li aveva senza dubbio tirati fuori per mettere in evidenza, per chi non

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se ne fosse accorto, l’origine dell’interpretazione galileana. L’atomismo antico al quale si riferiva era stato combattuto da Aristotele e lo era tutt’ora dai suoi seguaci. Grassi osservava che l’argomento avrebbe meritato un libro intero, mentre Galileo lo aveva trattato in poche righe. Non conoscendo i suoi principi gli riusciva difficile discuterne con lui e per questo motivo non affermava nulla su tale opinione. Se Galileo voleva difenderla, lo facesse pure, non ci sarebbero state contestazioni. Il giudizio spettava a coloro che vigilano sulla salvaguardia della fede nella sua integrità. Lo spirito di tolleranza manifestato da Grassi nei confronti della dottrina atomistica non era un segno di disinteresse. In effetti il buon padre era arrivato alla conclusione che alcuni aspetti dell’atomismo di Galileo erano incompatibili con il sacramento dell’Eucaristia (transustanziazione). Lasciamogli la parola, nella traduzione di Pietro Redondi. Non si può tuttavia evitare di dar libero corso ad alcuni scrupoli che mi preoccupano. Essi provengono da ciò che viene da noi considerato incontestabile sulla base dei precetti dei Padri, dei Concili, della Chiesa tutta. Sono queste le qualità in virtù delle quali, benché la sostanza del pane e del vino scompaia, grazie a parole onnipotenti, nondimeno, le loro specie sensibili persistono, ossia il loro colore, sapore, calore, o la loro freddezza. Soltanto per volontà divina queste specie si mantengono, e in un modo miracoloso, come essi ci dicono. Questo è quanto da essi affermato. Galileo, invece, afferma espressamente che il calore, il colore, il sapore e il resto dello stesso genere, sono fuori da chi li sente, e quindi nel pane e nel vino, dei puri nomi. Pertanto, quando sparisce la sostanza del pane e del vino, non resteranno che i nomi delle qualità. Ma sarebbe allora necessario un perpetuo miracolo, per conservare dei puri nomi? (EN, VI.486; trad. it. in RP 1983, 432).

Com’è noto, nell’ultima cena Gesù disse rivolgendosi agli apostoli questo è il mio corpo, questo è il mio sangue mostrando il pane ed il vino. Nella sessione XIII del Concilio di Trento (1551) i padri conciliari non solo riaffermarono la presenza reale di Gesù Cristo nell’Eucaristia, ma proclamarono solennemente che tutta la sostanza del pane e del vino era cambiata in

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quella del suo corpo e del suo sangue, mentre del pane e del vino restavano gli accidenti e cioè il colore, l’odore, il sapore. La transustanziazione chiudeva le porte alla concezione sostenuta da Lutero secondo la quale nell’Eucaristia il vero pane ed il vero vino erano presenti insieme al corpo ed al sangue di Cristo (consustanziazione). In una nota manoscritta sulla pagina dell’esemplare della Ratio in suo possesso, Galileo lasciava Grassi ai suoi scrupoli, precisando che Il Saggiatore era stato stampato a Roma con il permesso dei superiori ed era dedicato al sommo pontefice. Riferendosi poi a coloro che secondo la definizione di Grassi vigilano sulla salvaguardia della fede, sottolineava che chi aveva approvato Il Saggiatore aveva certamente pensato alla maniera di levare tale scrupolo. C’è infine in questa stessa nota un esplicito riferimento a coloro che come Sarsi-Grassi stampavano senza licenza dei superiori ed erano mal disposti verso le stamperie romane. In effetti l’esemplare della Ratio di cui disponeva Galileo era stato stampato a Parigi, come s’è detto, senza l’imprimatur di Roma. Il contenuto della nota basterebbe a darci un’idea del nuovo clima che si era instaurato dopo l’elezione di Urbano VIII. I segni di concreta simpatia del nuovo papa verso coloro che avevano subito le angherie del Sant’Uffizio erano abbastanza visibili. I galileani si consideravano ben protetti, abbastanza forti per permettersi di ignorare le insinuazioni del padre Grassi. Evitarono quindi di rispondergli. Galileo vi rinunziò e Benedetto Castelli giudicò il suo atteggiamento ben fatto in una lettera del 7 agosto 1627 (EN, XIII.372). Galileo non replicò neanche alle osservazioni di Grassi sul movimento della Terra. Secondo il matematico gesuita ciò che non era stato concesso per l’opinione relativa al moto della Terra, che non è fra i punti fondamentali della fede cattolica, non poteva esserlo per «ciò che costituisce il punto essenziale della fede o ciò che contiene ogni punto essenziale» (EN, VI.487). In effetti il sacrificio di Gesù Cristo costituisce il punto essenziale della fede cattolica e ad esso si ricollega ogni elemento di questa stessa fede. Il corpo di Gesù si ritrova miracolosamente nell’ostia durante e dopo la consacrazione e miracolosamente

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le specie sensibili o accidenti del pane e del vino sussistono, come spiega Orazio Grassi. Secondo Galileo il calore, il colore ed il sapore, fuori da colui che li avverte, sono puri nomi. Il padre Grassi ne deduceva quindi che il calore, il colore ed il sapore non sussistono nell’ostia, e dichiarava che l’animo prova orrore solo a pensarci. Se si accettava l’interpretazione galileana degli accidenti bisognava ammettere che il miracolo salvava puri nomi, e non gli accidenti del pane e del vino, come avevano affermato i teologi conciliari (EN, VI.486). È poco probabile che le accuse di Grassi abbiano trovato orecchie pontificali disposte ad ascoltarle. Ma non si poteva dire la stessa cosa del Sant’Uffizio. In una lettera a Galileo del 26 febbraio 1628, Castelli riferiva un giudizio del padre Riccardi, secondo il quale le opinioni espresse nel Saggiatore non erano contrarie alla fede, poiché erano opinioni filosofiche. Tuttavia Riccardi chiedeva che il suo nome non figurasse nelle discussioni, per poter eventualmente intervenire nella sua veste di qualificatore del Sant’Uffizio se Galileo fosse stato infastidito. E raccontava che aveva patito un poco di borrasca dai suoi confratelli a causa di Galileo (EN, XIII.393-394). Il domenicano Riccardi, benché non si fosse schierato dalla parte dei galileani, aveva molta stima per Galileo e cercava di proteggerlo in tutti i modi. Se ci atteniamo a quanto scrive Castelli, l’atteggiamento del Sant’Uffizio era sempre poco favorevole a Galileo. Per alcuni galileani si assisteva alle ultime reazioni dei tradizionalisti, incapaci di adattarsi al nuovo orientamento dato da Urbano VIII all’attività scientifica. Altri non credevano ad un cambiamento importante in seno al Sant’Uffizio rispetto alle decisioni prese nel 1616. Quanto agli avversari intervenuti direttamente nella controversia, bisognava continuare a diffidarne. Subito dopo l’elezione di Urbano VIII, Caccini aveva manifestato il suo cattivo umore attraverso insinuazioni della peggiore specie. Andava in giro a raccontare, come riferiva Castelli in una lettera a Galileo del 6 dicembre 1623, che senza lo scudo di diversi Principi Galileo sarebbe già stato convocato dal Sant’Uffizio (EN, XIII.155-156). Caccini esagerava, ma bisogna ammettere che nel 1616 le prote-

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zioni, soprattutto di cardinali influenti, avevano permesso di lasciare Galileo fuori dalle accuse ufficiali. L’atomismo fu oggetto di altre critiche centrate, come quelle avanzate dal padre Grassi, sulla sua incompatibilità con il mistero dell’Eucaristia (CM 2004, 397-398). Ma non si conoscevano su questo tema denunzie o lettere dirette al Sant’Uffizio per segnalare l’eterodossia della dottrina atomistica di Galileo, prima della scoperta di un documento anonimo senza data, ricercato e ritrovato dallo storico Pietro Redondi negli archivi dell’ex Congregazione dell’Indice. Secondo Redondi, la data probabile di redazione del documento si situerebbe nel periodo di inizio autunno del 1624. Una notizia contenuta nella lettera di Mario Guiducci a Galileo del 18 aprile 1625 aveva insospettito Redondi. Guiducci riferiva che alcuni mesi prima una persona pia (cioè un ecclesiastico) aveva proposto al Sant’Uffizio di far proibire o correggere il Saggiatore perché vi si lodava la dottrina di Copernico in proposito del moto della terra. Un cardinale, che si era assunto il compito di informarsi e di riferire, aveva affidato a sua volta al padre Giovanni di Guevara il compito di esaminare Il Saggiatore e dare il proprio parere. Dopo averlo letto diligentemente, Guevara lo aveva lodato ed era giunto alla conclusione che quella dottrina del moto, quand’anche la si sostenesse, non era da condannare. «E così – concludeva Guiducci –, la cosa si quietò per allora» (EN, XIII.265). Redondi chiese di poter consultare il documento al quale si riferiva Guiducci, ma fu necessario l’intervento di Pierre Costabel, già professore di Redondi a Parigi, per ottenere l’indispensabile autorizzazione. In un articolo pubblicato nel 1987, Costabel, scomparso nel 1989, raccontava in questi termini le ragioni del suo intervento: «Ad una prima domanda di P. Redondi agli archivi vaticani, gli fu cortesemente risposto che in effetti esisteva un testo che corrispondeva alla segnalazione e di cui si comunicava la collocazione». Tuttavia, prosegue Costabel, «la libertà d’espressione dei corrispondenti del Sant’Uffizio era protetta da sempre dalla garanzia del segreto», quindi fu risposto a Redondi che il docu-

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mento non poteva essere comunicato. «La mia doppia qualità – spiega Costabel – di prete e di Segretario a vita dell’Académie internationale d’Histoire des Sciences mi permise d’intervenire con successo» (CP 1987, 356). L’11 giugno 1982 Redondi potette consultare e fotografare il documento nel cui margine superiore si legge la sigla G3. G come Grassi? L’identificazione Grassi/G3 proposta da Redondi è stata esclusa da un’accurata perizia condotta da Sergio Pagano: il simbolo che emerge in filigrana dalle carte del G3 è lo stemma di un vescovo o di un cardinale (PS 1984, 45-47). Recentemente Rafael Martínez ha potuto mettere in evidenza nella filigrana lo stemma del cardinale Tiberio Muti, vescovo di Viterbo dal 1611 al 1636. Benché la grafia non sia quella del cardinale, si può ipotizzare che si tratti di persona a lui vicina, senza tuttavia poterlo affermare con sicurezza (MR 2001, 232-234). Si trattava proprio di una denunzia? Secondo Redondi sì, e tale è ritenuta dalla maggior parte degli storici. Pierre Costabel fu forse il solo ad escludere questa ipotesi per due motivi: il documento non è firmato e d’altra parte non è redatto in maniera da corrispondere formalmente ad una denunzia. Si tratterebbe, a suo avviso, di una lettera indirizzata da un religioso ad un superiore per chiedere un parere (CP 1987, 357). L’analisi del contenuto della lettera di Guiducci a Galileo del 18 aprile 1625 condusse Redondi a sostenere che quella dottrina del moto alla quale faceva allusione Guiducci non si riferiva alla Terra, ma al movimento degli atomi, e partendo da questa ipotesi considerò il documento G3 come la denunzia che condusse all’istruzione segreta di un processo contro Galileo. Lo scienziato pisano sarebbe stato accusato d’aver elaborato una dottrina atomistica del calore contraria al grande dogma tridentino. Secondo Redondi la protezione di Urbano VIII Barberini avrebbe permesso di modificare il capo d’accusa e di condannare Galileo per aver sostenuto l’immobilità del Sole ed il movimento della Terra, che non erano fra i punti essenziali della fede cattolica (RP 1983, 177sgg). Il libro pubblicato da Redondi nel 1983 con il titolo Galileo

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eretico apriva un nuovo capitolo nella storia della condanna dello scienziato pisano. La novità provocò reazioni entusiastiche in alcuni ambienti scientifici. La condanna per atomismo avrebbe avvicinato ancor più Galileo alla scienza moderna di quanto non l’avessero fatto i suoi lavori di meccanica e di astronomia. Posti di fronte a questa straordinaria novità, gli storici della scienza respinsero quasi in blocco la tesi di Redondi. Oltre alle critiche degli argomenti sviluppati dall’autore, poteva apparire come un fatto singolare che il documento G3 fosse stato tirato fuori dagli archivi della Congregazione dell’Indice proprio un anno dopo la decisione di Giovanni Paolo II (3 luglio 1981) di costituire una commissione per approfondire l’esame del caso Galileo (GPII, 1992). La nuova interpretazione delle ragioni del processo e della condanna di Galileo avrebbe conferito alla Chiesa il crisma della generosità. In effetti la condanna per aver violato il dogma tridentino dell’Eucaristia sarebbe stata ben più grave di quella che gli sarà inflitta per aver sostenuto l’immobilità del Sole ed il movimento della Terra. Pietro Redondi reagì con fermezza alle critiche che venivano rivolte alla sua tesi. Il titolo, Non imbalsamate Galileo, di un suo articolo apparso sull’«Unità» (27/2 e 6/3, 1984) subito dopo la pubblicazione del libro riassumeva in maniera polemica le sue conclusioni. Sembrava ormai evidente che una nuova storia del processo di Galileo avrebbe sostituito la storia che si erano trascinata dietro per tre secoli e mezzo gli studiosi che lo avevano preceduto. Le scoperte non finiranno lì. Dopo il G3 è stato ritrovato nel volume EE appartenente ai fondi dell’ex Congregazione dell’Indice (oggi scomparsa), serie Acta et Documenta, un nuovo documento, l’EE f. 291, la cui collocazione precede immediatamente quella del G3. Quindi quest’ultimo si trova anch’esso nell’archivio della Congregazione dell’Indice e non del Sant’Uffizio, come ha ammesso successivamente lo stesso Redondi, pur minimizzando l’importanza di questo particolare (RP 2004, 479). Come il G3, l’EE f. 291 non è provvisto né di data né del nome dell’autore e potrebbe rappresentare un giudizio dottrinale sulle accuse contenute nel G3. Benché non sia possibile sta-

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bilirne con sicurezza la data, da alcune frasi del contenuto si desume che il documento è stato redatto nel periodo che precedette immediatamente il processo e la condanna, fra il 1630 ed il 1633 (MR 2001, 229). D’altra parte è stato possibile stabilire, sulla base di accurate perizie calligrafiche, chi ne è l’autore. Secondo i due studiosi che indipendentemente l’uno dall’altro hanno esaminato il nuovo documento, si tratta del gesuita Melchior Inchofer, uno dei tre membri della commissione che, come vedremo, sarà incaricata da Urbano VIII di esaminare il contenuto del Dialogo (MR 2001, 215-252; CTH 2001, 588-607). Nel testo, in latino, dell’EE f. 291 (che occupa il recto e metà del verso di un foglio), Inchofer enumera sei errori contenuti nel Saggiatore di Galileo riconoscibile nonostante venga indicato col titolo Discorso del Linceo. La sua conclusione è che «dall’opinione di questo autore si deduce direttamente che gli accidenti non rimangono nell’Eucaristia senza la sostanza del pane» (MR 2001, 240), mentre il dogma tridentino afferma che nella transustanziazione solo gli accidenti del pane e del vino rimangono. Questo punto essenziale della fede cattolica era già stato rilevato dall’autore del G3. È difficile stabilire chi incaricò Inchofer di esaminare il testo del Saggiatore e le accuse, ma è molto probabile che il risultato finale della denunzia sia stato l’archiviazione della denunzia e del voto senza processo alcuno (MR 2001, 234) o ancora che Il Saggiatore ed il Dialogo siano stati incriminati insieme. Basandosi sul contenuto di una lettera del 25 settembre 1632 indirizzata dal cardinale Francesco Barberini al nunzio di Firenze, Redondi aveva suggerito questa ipotesi nel Galileo eretico. L’allusione a cose scoperte nelle opere di Galileo poteva lasciar pensare che più opere dello scienziato pisano fossero state incriminate, più particolarmente Il Saggiatore. Tuttavia nel seguito di questa stessa lettera è indicato un solo libro visto e passato [...] dal Maestro di Sacro Palazzo, con chiaro riferimento al Dialogo, la sola opera che sarà ufficialmente esaminata nel corso dell’istruttoria (EN, XIV.397-398; RP 1983, 313-314; CTH 2001, 597). Quindi non è possibile dedurre dalla lettera del cardinale Barberini al

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nunzio di Firenze che Il Saggiatore sia stato associato al Dialogo nel processo intentato dal Sant’Uffizio a Galileo. Redondi si lascia guidare dal desiderio di scoprire indizi a favore della sua tesi. Tuttavia le sue conclusioni sono talvolta sorprendenti, come quelle dedotte da un breve testo del De revolutionibus. «Si trattava – scrive Redondi – di una elementare, occasionale intuizione atomistica che Copernico non sviluppava, ma era abbastanza eloquente per insegnare che gli atomi appartenevano al sistema copernicano e che dall’infinità dell’universo all’infinitamente piccolo degli atomi il passo era breve. Giordano Bruno aveva già compiuto quel passo. Adesso, a vent’anni dalla condanna di Bruno, lo tentava nuovamente il Saggiatore» (RP 1983, 78). Nel testo citato da Redondi, Copernico stabiliva un’analogia fra gli atomi impercettibili che possono moltiplicarsi ed unirsi fino a diventare una grandezza visibile, e la distanza della Terra dal centro del mondo che rimane insignificante se viene paragonata alla sfera delle stelle fisse. Secondo gli storici dell’astronomia Michel Lerner e Alain Segonds, si tratta di un testo poco chiaro in cui oltre tutto i termini dell’analogia non sono omogenei. Copernico lo eliminò dall’edizione del De revolutionibus (1543), forse perché temeva che i lettori ne deducessero l’infinita grandezza della sfera celeste rispetto alla distanza della Terra dal centro del mondo, distanza assunta come unità astronomica nel sistema copernicano. In effetti l’astronomo polacco rinunziava a prendere posizione sul problema della grandezza finita o infinita del mondo. Il testo sarà inserito per la prima volta nell’edizione di Thorn del De revolutionibus (1873). Né Bruno, né Galileo potettero leggerlo. Per quanto riguarda l’atomismo di Copernico, Lerner e Segonds osservano che «né queste righe né un qualunque altro testo del De revolutionibus permettono di pensare che Copernico aderì ad una fisica atomistica» (LM-P/SA-P 2003, 379-408). Redondi ridisegna il paesaggio religioso, politico e culturale in cui si avvicendavano le vittorie e le sconfitte di Galileo, con l’intento preciso di rendere verosimile la tesi centrale del libro: la condanna di Galileo per atomismo, il tutto su uno sfondo da

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racconto poliziesco. Nell’appendice Vent’anni dopo, scritta per la riedizione del Galileo eretico (2004), Redondi sembra ammetterlo e dolersene (RP 2004, 482): critica alcuni aspetti del suo libro, ma lo pubblica così com’era vent’anni prima. Nella quarta pagina di copertina si leggono, come nell’edizione del 1983, le seguenti precisazioni: «Con una ricostruzione rigorosa l’autore dimostra che Galileo è stato condannato dalla Chiesa per motivi estranei a Copernico, all’esegesi biblica, agli abusi di potere e agli scontri personali col Papa». Questa tesi è falsa e Pietro Redondi dovrebbe riconoscerlo chiaramente anziché continuare a presentarla, cingendola di inutili precauzioni.

VIII DAL PAPA AMICO MI GUARDI IDDIO... Redazione del «Dialogo» All’Accademia dei Lincei, dopo l’allusione in versi di Stelluti alle maree, si preferiva aspettare nella speranza che Galileo potesse venire a Roma ed essere ricevuto da Urbano VIII. Era indispensabile ottenere almeno ufficiosamente l’assicurazione che un’opera sul flusso e reflusso del mare non sarebbe stata rifiutata dalla censura. Alla fine il viaggio fu deciso. Dopo un soggiorno a Perugia durante le feste pasquali e quindici giorni ad Acquasparta ospite del principe Cesi, Galileo giunse a Roma il 23 aprile 1624. In una lettera a Curzio Picchena del 27, informava il segretario del granduca di essere stato ricevuto il giorno successivo al suo arrivo per circa un’ora da Urbano VIII, in diversi ragionamenti trattenuto. Il giorno seguente fu la volta del nipote del papa, il cardinale Francesco Barberini, che lo ricevette con altrettanta soddisfazione (EN, XIII.175). Quanto al contenuto delle due lunghe chiacchierate, Galileo non riferiva alcunché. Molto probabilmente, nonostante l’accoglienza calorosa, il Santo Padre non aveva promesso nulla di preciso. L’udienza accordata il 24 aprile fu la prima di una lunga serie. Galileo fu ricevuto sei volte dal papa. Alla vigilia della sua partenza per Firenze ottenne una pensione per suo figlio. Ma sulla dottrina di Copernico Urbano VIII restava più che riservato. In una lettera dell’8 giugno al principe Cesi, Galileo scriveva che il cardinale tedesco Zollern, prima di partire per la Germania, gli aveva detto di aver parlato con Urbano VIII di

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Copernico e degli eretici che aderivano alla sua opinione astronomica e la consideravano certissima. Quindi bisognava essere molto circospetti prima di prendere una decisione. Secondo Zollern, Urbano VIII aveva risposto che la Chiesa non l’aveva condannata né stava per condannarla come eretica, ma solamente come temeraria. La distinzione utilizzata dal pontefice significava che la dottrina eliocentrica non era totalmente contraria alla Scrittura, ma si opponeva ad una sua interpretazione consensuale. Se veniva considerato totalmente contrario alla Scrittura, avrebbe meritato la censura per eresia, mentre in quanto dottrina che si opponeva ad un consenso esegetico era da considerarsi solamente temeraria (BF 2001, 559; BF 2005, 55). Il papa assicurava d’altra parte che non era da temere che alcuno fosse mai per dimostrarla necessariamente vera. Galileo non commentava quest’ultima frase del pontefice e apparentemente non si chiedeva su cosa riposasse la sua convinzione. Indicava d’altra parte che il padre Niccolò Riccardi ed il protestante convertito Kaspar Schoppe (Gaspar Scioppius), nota personalità del mondo culturale tedesco, sostenevano che l’opinione copernicana non era materia di fede e che non conveniva impegnarci le Scritture. Quanto alla verità dei sistemi astronomici, Riccardi non aderiva né a Tolomeo né a Copernico, ma se la cavava introducendo angeli che muovono i corpi celesti e concludeva affermando che tanto ci deve bastare (EN, XIII.182-183). Benché nulla di preciso gli fosse stato promesso da Urbano VIII, Galileo credeva nell’abrogazione o per lo meno nella non applicazione del Decreto del 1616. Pochi giorni prima della sua partenza per Firenze, il papa aveva indirizzato una lettera al granduca, redatta da monsignor Ciampoli nella sua qualità di segretario dei brevi ai principi, in cui Galileo veniva definito figlio nostro diletto ed era coperto di elogi (EN, XIII.183-184). È verosimile che il contenuto gli sia stato comunicato a Roma dallo stesso Ciampoli. In questo caso come avrebbe potuto non credere alla possibilità di influenzare Urbano VIII in un senso favorevole ai copernicani? Di ritorno a Firenze verso la metà di giugno, Galileo decise di redigere una risposta agli argomenti sviluppati contro Co-

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pernico da Francesco Ingoli nella Disputatio de situ et quiete Terrae. Non aveva osato rispondergli prima, ma ora si considerava sufficientemente protetto per poter esprimere liberamente la sua opinione sulle 20 obiezioni formulate da Ingoli contro il movimento della Terra. Tuttavia Mario Guiducci lo metteva in guardia contro la tentazione di affrontare problemi teologici e gli consigliava, in una lettera del 21 giugno 1624, di rispondere solamente agli argomenti che Ingoli considerava matematici e filosofici (EN, XIII.186). Galileo seguì il consiglio e si limitò ad esporre le ragioni che gli permettevano di credere nel doppio movimento della Terra, sottolineando che il suo scopo non era di difendere e considerare per vera quella proposizione che era stata dichiarata contraria ad una dottrina superiore alle naturali ed astronomiche discipline. Voleva solamente difendere il proprio onore e l’onore di tutti i cattolici d’Italia di fronte agli eretici, tra i quali quelli di maggior grido condividevano tutti l’opinione di Copernico. Per confonderli, Galileo annunziava ad Ingoli di avere in mente «di trattar questo argomento assai diffusamente, e mostrar loro che noi Cattolici non per difetto di discorso naturale [...] restiamo nell’antica certezza insegnataci dai sacri autori, ma per la reverenza che portiamo alle scritture dei nostri padri e per il zelo della religione e della nostra fede» (EN, VI.510-511). Alla fine di questa lunga lettera, Galileo indicava ad Ingoli che avrebbe potuto veder trattato più diffusamente questo argomento, se tempo e forze gli avessero permesso di condurre a termine il suo Discorso del flusso e reflusso del mare (EN, VI.561). Il contenuto della risposta ad Ingoli lascerebbe pensare che Galileo si preparava all’ultima battaglia prima del trionfo dell’eliocentrismo grazie alla prova attraverso le maree. In realtà i segni di incertezza sulla strategia da seguire erano percettibili nel gruppo ristretto dei copernicani meglio informati sulle difficoltà da superare, e sfioravano lo stesso Galileo che aveva sicuramente dei dubbi sull’opportunità di sventolare subito la prova in segno di vittoria. Il 17 dicembre 1624 inviava a Cesare Marsili una copia della risposta ad Ingoli pregandolo nello stesso tempo

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di tenerla presso di sé senza mostrarla per adesso ad altri (EN, XIII.240). Ingoli era un avversario particolarmente agguerrito ed a suo agio nei labirinti del Sant’Uffizio. Galileo aspettava dai suoi amici indicazioni precise su come comportarsi. Una copia della risposta era stata inviata anche a Guiducci, il quale, nella lettera già citata del 18 aprile 1625 a Galileo, indicava che il principe Cesi aveva consigliato di differirne l’invio ad Ingoli. In questa stessa lettera c’era una notizia poco piacevole, lasciata cadere quasi distrattamente alla fine di un poscritto. Il cardinale Orsini si conservava affezionatissimo a Galileo, ma si era avvicinato ad Apelle e cioè al gesuita Christoph Scheiner, diventato nemico acerrimo di Galileo in seguito alla controversia sulle macchie solari. Come si ricorderà, il Discorso del flusso e reflusso del mare era stato redatto all’inizio del 1616 sotto forma di lettera diretta proprio al giovane cardinale Alessandro Orsini, che era fra le personalità che avevano cercato di influenzare Paolo V in un senso favorevole a Galileo. Entrato successivamente nell’Ordine dei gesuiti, rinunziò a difendere il sistema copernicano (FA 1993, 265). Galileo perdeva così la protezione di un personaggio che aveva avuto un ruolo non trascurabile nei primi mesi del 1616. In seguito alle reticenze di Cesi e di Guiducci la risposta di Galileo non fu mai inviata ad Ingoli, per quel che ne sappiamo. Giovanni Ciampoli, che come si ricorderà ricopriva le importanti cariche di segretario dei brevi ai principi e di cameriere segreto, annunziava a Galileo in una lettera del 28 dicembre 1625 di averne riferito anche gran parte ad Urbano VIII. Il sommo pontefice aveva gustato l’illustrazione di un esempio e le graziose esperienze che lo corredavano (EN, XIII.295). Molto probabilmente Ciampoli aveva scelto per il papa gli esempi della lettera ad Ingoli meno espliciti nella difesa di Copernico. Alcune copie manoscritte della risposta furono distribuite alle personalità più vicine a Galileo, ma nonostante le richieste, gli avversari più agguerriti, come il gesuita Orazio Grassi, non potettero leggerla. Intanto Galileo aveva messo mano di nuovo al flusso e reflusso, come egli stesso indicava in una lettera a Cesi del 23 set-

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tembre 1624. Il libro prendeva la forma di un’opera più vasta, centrata sugli argomenti che si potevano sviluppare a favore o contro i sistemi astronomici di Tolomeo e di Copernico. In una lettera a Cesare Marsili del 22 novembre 1625, faceva allusione ai Dialogi che stava scrivendo. Nel libro tre personaggi, Salviati, Sagredo e Simplicio dialogavano intorno ai sistemi del mondo nel corso di quattro giornate. L’impassibilità del cielo ed il movimento diurno della Terra intorno al proprio asse in 24 ore era uno degli argomenti forti sviluppato per mostrare l’assurdità del movimento di tutta la volta celeste e dei pianeti nel sistema aristotelico-tolemaico (EN, XIII.290). I segni delle aperture di Urbano VIII verso i copernicani erano abbastanza visibili. Benedetto Castelli, considerato a ragione uno dei discepoli più legati a Galileo, riceveva un invito quanto mai attraente. Urbano VIII gli chiedeva di trasferirsi a Roma in qualità di esperto dei problemi di idraulica ed inoltre per occuparsi dell’educazione di suo nipote Taddeo Barberini. Senza esitare un solo istante, Castelli lasciò Pisa nel marzo del 1626. Appena giunto a Roma, l’abate benedettino fu ricevuto da Sua Santità in persona, che gli accordò una pensione annua di 150 scudi. I segni di generosità di Urbano VIII nei confronti non solo dei galileani ma dello stesso Galileo si confermavano. Il 30 aprile 1627 Castelli annunziava al Maestro che una pensione annua di 60 scudi era stata accordata al figlio Vincenzio, che tuttavia la rifiutò a causa delle pratiche religiose alle quali avrebbe dovuto sottomettersi. Qualche anno dopo la pensione fu portata a 100 scudi e trasferita a Galileo, che per poterne usufruire dovette sottomettersi all’obbligo della tonsura. Il 21 maggio dello stesso anno, il cardinale Francesco Barberini proponeva all’abate Castelli di occupare la cattedra di matematica dell’Università di Roma. Castelli esitava ad assumere questo nuovo incarico, tanto più che precise regole sul cumulo delle remunerazioni riducevano a poca cosa il beneficio finanziario che poteva ricavarne. Tuttavia a conti fatti finì con l’accettarlo. Segni evidenti dell’interesse del Santo Padre per le nuove idee filosofiche erano rintracciabili nei suoi interventi a favore di Campanella.

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Dopo 26 anni di reclusione nelle prigioni napoletane, il filosofo domenicano ribelle Tommaso Campanella era stato autorizzato a risiedere nel convento dei domenicani di Napoli. Ma dopo un mese circa era stato arrestato per ordine del nunzio apostolico ed estradato sotto falso nome verso Roma, dove arrivò il 5 luglio 1626. Rinchiuso in una cella del palazzo dell’Inquisizione, Campanella dispose di un apprezzabile, anche se modesto, conforto materiale e più tardi di una pensione versata dall’Ordine dei domenicani. Mentre il Sant’Uffizio esaminava le accuse di eresia mosse contro di lui, si manifestarono nei suoi confronti alcuni segni di clemenza nonostante le resistenze opposte dagli inquisitori. Nell’aprile 1628 gli fu accordata la libertà di movimento all’interno del palazzo e poco dopo l’autorizzazione a celebrare di nuovo la messa. Fu quindi trasferito in maggio nel convento della Minerva, dove tuttavia doveva considerarsi prigioniero. Urbano VIII ordinò che gli fossero restituiti tutti i suoi libri, con l’obbligo di correggerli e di rimetterli quindi al Maestro del Sacro Palazzo. Nel gennaio 1629 Campanella era finalmente libero! Le sue opere furono ritirate dall’Indice ed il 2 giugno dello stesso anno il Capitolo generale dei domenicani gli conferì l’ambito titolo di magister in teologia. Il filosofo ribelle, copernicano convinto ma fermamente opposto alla dottrina atomistica, doveva molto al sommo pontefice. Vero è che Urbano VIII lo consultava sovente per le sue eccezionali conoscenze in astrologia, ma non fu questa la sola ragione che lo spinse ad occuparsi di lui, a far sì che ritrovasse la libertà. A mo’ di ringraziamento, Campanella compose nel luglio 1629 i Commentaria, lungo saggio critico sulle poesie del suo benefattore. All’inizio del 1628, una grave malattia fece temere il peggio per la vita di Galileo. Castelli potette finalmente rallegrarsi con lui per l’avvenuta guarigione in una lettera del 25 marzo. A Roma si era sparsa la voce che il male fosse molto più grave di quanto si pensava e quasi disperato. Iterum ac iterum benedictus Deus (Ancora ed ancora sia benedetto il Signore) esclamava Castelli. Ed amministrava a Galileo consigli sul modo di curarsi, scusandosi di presentarsi in veste di medico. «Quanto alle medicine – egli scrive in questa stessa lettera –, non posso se non lodare il

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santo tabacco [...]. Fugga quanto può il soggettarsi ai beveroni cavallini dei medici volgari...» (EN, XIII.403). Non si trattava, beninteso, di tabacco da fumo, il cui uso si diffonderà molto più tardi con l’introduzione di sigari e sigarette. La redazione dei Dialoghi fu ripresa nell’ottobre del 1629 dopo un’interruzione durata tre anni. Il 24 dicembre Galileo annunziava al principe Cesi di averla condotta quasi a porto. Fin dal 29 ottobre l’amico Elia Diodati era stato informato direttamente da Galileo del contenuto di una parte del libro. Oltre a quanto si aspettava dalla materia del flusso, sarebbero stati inseriti altri problemi ed una amplissima confermazione del sistema copernicano nel quale si mostrava la nullità delle obiezioni formulate da Ticone (Tycho Brahe) e da altri (EN, XIV.49). Diodati viveva a Parigi, e quindi Galileo riteneva di potersi esprimere con estrema franchezza, mettendo in evidenza l’obiettivo al quale chiaramente mirava. Probabilmente i suoi amici romani non lo avrebbero lodato per questo suo eccesso di sincerità, tanto più che orecchie poco o per niente amichevoli potevano trovarsi in ascolto dovunque. Roma disponeva di una rete di informatori particolarmente efficiente. Alla fine del 1629 la stesura del libro era finita. «Oh che gioia oh che preziosa mancia mi ha dato V.S. in questo Natale, col darmi avviso dei suoi Dialoghi felicemente terminati», scriveva monsignor Ciampoli a Galileo in una lettera del 5 gennaio 1630. Gli augurava di poter venire al più presto a Roma e lo salutava affettuosamente da parte del padre Riccardi, Maestro del Sacro Palazzo (EN, XIV.64). Castelli insistette a sua volta presso Galileo affinché si decidesse a venire a Roma. In una lettera del 16 febbraio gli scriveva che il padre Riccardi aveva assicurato che tutto sarebbe andato bene, a condizione che non ci fosse un più duro e più alto intoppo, come temeva Ciampoli. Riccardi prometteva di aggiustare tutto. Intanto Castelli avrebbe voluto supplicare il granduca di lasciar venire in ogni caso Galileo a Roma, poiché qua è desideratissimo (EN, XIV.80). Dalla lettura di alcune frasi, non sempre perfettamente chiare, si poteva dedurre che erano eventualmente da prevedere intoppi situati più in alto, e cioè dovuti a persone più im-

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portanti, che il padre Riccardi nonostante la sua buona volontà non sarebbe riuscito ad aggiustare. In effetti Ciampoli appariva più cauto di Riccardi nel valutare le difficoltà che avrebbe incontrato la richiesta di pubblicazione dei Dialoghi. L’argomento di Urbano VIII Nel 1616, quando era ancora cardinale, Maffeo Barberini aveva esposto a Galileo un argomento al quale accordava una grande importanza. Il futuro pontefice affermava che nessun sistema astronomico può essere considerato vero, poiché Dio può averne fatto uno diverso da quelli che gli astronomi hanno immaginato, immaginano o immagineranno per salvare le apparenze. L’argomento mirava a precisare il posto della scienza in un contesto in cui l’onnipotenza divina può fare tutto ciò che non implica contraddizione. Secondo la testimonianza di Agostino Oreggi, teologo personale del pontefice che gli conferirà il cappello cardinalizio nel novembre 1633, Maffeo Barberini espose a Galileo la sua interpretazione delle recenti scoperte astronomiche. [Il pontefice Urbano VIII] – scrive Oreggi in un libro pubblicato tredici anni dopo – ammonì una persona [cioè Galileo], sino allora amico intimo del Cardinale, tanto ragguardevole nella scienza quanto lodevole nella religione, affinché diligentemente considerasse con attenzione, se si accordasse con le Sacre Scritture quanto aveva escogitato sul movimento della Terra per salvare tutti i fenomeni che appaiono in cielo e tutti quegli altri fenomeni comunemente accettati dai filosofi, [provenienti] dai moti, diligentemente osservati e studiati, del cielo e degli astri. Concessi tutti gli argomenti che quell’uomo dottissimo aveva escogitati, chiese se Dio avrebbe potuto e saputo disporre diversamente gli orbi o gli astri in modo da salvare tutti i fenomeni che appaiono nei cieli, e quelli relativi ai moti, all’ordine, al sito, alla distanza, alla disposizione degli astri. Se neghi questo (disse il santissimo) devi provare che il poter avvenire queste cose diversamente di quanto hai escogitato implica contraddizione. Dio infatti con la sua infinita potenza può tutto ciò che non implica contraddizione, e poiché

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la scienza di Dio non è inferiore alla sua potenza, se concediamo che Dio avrebbe potuto, dobbiamo affermare che avrebbe saputo. E se Dio poteva e sapeva disporre queste cose in modo diverso da quello che è stato escogitato, non dobbiamo limitare la divina potenza a questo modo, e così salviamo tutto quanto è stato detto. Udite queste parole quell’uomo dottissimo si acquietò. E ricevette per ciò lode della sua condotta e del suo ingegno (Quibus auditis quievit vir ille doctissimus. Ex quo et ingenii et morum laudem retulit) (OA 1629, 193-195; trad. it. in Galileo 1998, II, 900-901).

Maffeo Barberini ammetteva quindi che le cose osservate nel cielo da Galileo lasciavano immaginare che il Sole fosse immobile e la Terra in movimento. Ma per poter affermare che l’ipotesi copernicana era vera, si sarebbe dovuto dimostrare che tutti gli altri sistemi astronomici immaginati per produrre le stesse apparenze implicavano contraddizioni, il che non ha senso visto che tutti i sistemi a cui si riferiva il cardinale non sono definiti in numero. A prima vista la nozione di onnipotenza divina poteva apparire come un’arma a doppio taglio. Ma secondo i teologi poiché la verità del movimento del Sole era stata dettata al Profeta dallo Spirito Santo, diventava verità rivelata ex parte dicentis. È evidente quindi che il principio di Urbano VIII Barberini lasciava cadere una buona dose di scetticismo non solo sulle ricerche astronomiche, ma su tutta la scienza umana (BLU 2005, 79). Come vedremo, Galileo suggerirà nella quarta giornata del Dialogo che l’onnipotenza divina avrebbe potuto concedere il movimento alla Terra. L’iniziativa dispiacque profondamente a Urbano VIII e non gli fu perdonata. Ci si può chiedere come mai quello stesso Maffeo Barberini che lodava Galileo per le sue scoperte astronomiche rifiutava poi di considerarle vere. La contraddizione è solo apparente. Nel 1616 il cardinale era senza dubbio un ammiratore di Galileo ed in quanto uomo di potere mostrava così di saper apprezzare l’immaginazione, la capacità inventiva, il rigore dimostrativo. Proteggere un cattolico geniale noto in tutta Europa e particolarmente nell’Europa riformata non nuoceva all’immagine dell’ambizioso cardinale, anzi poteva contribuire ad attirare ver-

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so il cattolicesimo protestanti illustri. Ma i limiti della libertà concessa erano fissati fin dall’inizio e Galileo ne subirà le conseguenze. Ricerca di autorizzazioni Il 16 marzo 1630 Benedetto Castelli dava una buona notizia a Galileo, il cui viaggio a Roma non era stato ancora deciso. Nel corso di una conversazione con Urbano VIII avvenuta pochi giorni prima, il padre Campanella aveva parlato al Santo Padre del suo incontro con alcuni gentiluomini tedeschi venuti a Roma per convertirsi al cattolicesimo. Erano ben disposti, ma quando avevano saputo della proibizione del Copernico, erano rimasti scandalizzati e Campanella non aveva potuto far altro. Il Santo Padre si era allora espresso esattamente in questi termini: «Non fu mai nostra intenzione; e se fosse toccato a noi non si sarebbe fatto quel decreto». Ciampoli teneva per fermo che, venendo a Roma, Galileo avrebbe superato ogni eventuale difficoltà (EN, XIV.87-88). Il matematico del granduca lasciò Firenze con la speranza di poter ottenere rapidamente le autorizzazioni necessarie per la pubblicazione del libro a Roma. Il suo arrivo il 3 maggio 1630 non passò inosservato e subito cominciarono a circolare voci calunniose destinate ad avvolgere la sua venuta in una tenebrosa atmosfera di sospetti. Chi le aveva messe in giro? All’origine c’era un oroscopo attribuito all’abate Orazio Morandi, che si dilettava di astrologia. Il 18 maggio Antonio Badelli riassumeva in questi termini le voci in una lettera ad un corrispondente non identificato: Qua si trova Galileo, che è famoso matematico et astrologo, che tenta di stampare un libro nel quale impugna molte opinioni che sono sostenute dalli Giesuiti. Egli si è lasciato intendere che D. Anna [moglie di Taddeo Barberini] partorirà un figliuolo maschio, che alla fine di Giugno haremo la pace in Italia, e che poco doppo morirà D. Thadeo et il Papa. L’ultimo punto viene comprovato da Caracioli [Giovan Battista Caraccioli] napolitano, dal Padre Campanella, e da molti di-

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scorsi in scritto, che trattano dell’elezione del nuovo Pontefice come se fosse sede vacante (EN, XIV.103).

Era il colmo della maldicenza. Le professioni di matematico e di astrologo attribuite a Galileo con quel che segue suggerivano che fosse proprio lui l’autore degli oroscopi. D’altra parte il riferimento a Campanella non era certamente fortuito. L’interesse manifestato nei suoi confronti da Urbano VIII creava in alcuni ambienti rancori, gelosie ed il desiderio di intorbidire le acque. Il momento scelto era propizio alla diffusione di calunnie di un certo tipo, tanto più che Galileo conosceva Morandi e lo aveva incontrato qualche giorno dopo il suo arrivo a Roma. Badelli apparteneva dal 1628 alla «nobile assemblea», un’associazione di persone che avevano l’abitudine di riunirsi nella chiesa della Minerva o in quella di Sant’Andrea della Valle per raccogliere informazioni che venivano poi diffuse attraverso Avvisi scritti a mano. Galileo non fu indifferente a quanto era successo. Una lettera del 3 giugno di Michelangelo Buonarroti, figlio del fratello del grande Michelangelo, lo rassicurò: Buonarroti aveva avuto occasione di parlare della calunnia con il cardinale Francesco Barberini, che subito lo aveva informato che un tale era venuto a raccontargli le cose di cui Galileo era già a conoscenza. Il cardinale aveva risposto che Galileo non aveva maggior amico che sé (cioè Francesco Barberini) ed il papa stesso (EN, XIV.111112). Urbano VIII, che era molto superstizioso, fece arrestare Morandi che morirà in carcere pochi mesi dopo. L’episodio fu considerato poco importante dagli amici di Galileo, anche se contribuiva a modificare in senso negativo l’atmosfera che si era creata sette anni prima con l’arrivo del nuovo papa. Intanto Francesco Niccolini, ambasciatore di Toscana a Roma, interveniva più volte presso il padre Riccardi, Maestro del Sacro Palazzo, per ottenere l’autorizzazione a stampare il libro. In una lettera del 19 maggio 1630 indicava al segretario del gran-

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duca che il buon padre incontrava ancora qualche difficoltà (EN, XIV.103). Urbano VIII non era del tutto convinto che il flusso e reflusso costituisse la prova del movimento della Terra. In una lettera del 3 giugno a Galileo, Orso d’Elci, in quel periodo membro del Consiglio di reggenza del Granducato, si rallegrava che l’opinione fosse approvata dal padre Raffaello Visconti, stretto collaboratore di Niccolò Riccardi, «e ch’egli speri di persuadervi anche il Papa per rimuoverlo dalla noia che dà a S.B.ne la dimostrazione che V.S. vuol fare, che il flusso e reflusso proceda dal moto della terra» (EN, XIV.113). Il 16 dello stesso mese Visconti annunziava a Galileo che il contenuto del libro era piaciuto al padre Riccardi, che l’indomani avrebbe parlato con il papa del frontespizio. Per il resto, spiegava Visconti, «accomodando alcune poche cosette simili a quelle che accomodammo insieme, gli darà il libro [sic]» (EN, XIV.120). Sull’udienza fissata per l’indomani, non s’è trovato nulla. Il 29 giugno l’ambasciatore Niccolini comunicava ad Andrea Cioli che Galileo faceva ritorno a Firenze con intera sua soddisfazione e con la spedizione intera. Avrebbe quindi ottenuto un’autorizzazione provvisoria di stampa del libro. Il papa l’aveva visto volentieri, gli aveva fatto moltissime carezze, come pure il cardinale Francesco Barberini che lo aveva tenuto seco a desinare (EN, XIV.121). Appena giunto a Firenze, Galileo farà alcune correzioni ed aggiunte ed invierà il manoscritto al principe Cesi. La morte del principe il 1° agosto 1630 sommergerà Galileo ed i galileani in un mare di desolazione. Oltre al dolore per l’amico scomparso, l’avvenimento era drammatico per le trattative in corso. Francesco Stelluti ne darà notizia a Galileo il giorno successivo. Non sapeva che fare, era disperato. L’Accademia veniva a trovarsi in una situazione disastrosa. Il segretario della prestigiosa istituzione manifestava le sue preoccupazioni con estremo realismo. «Se l’Eminentissimo Sig.r Card.le Barberini – scriveva Stelluti – non abbraccia questa impresa, vedo la nostra Accademia andare in rovina: e bisogna pensare a nuovo principe e ad altri ordini» (EN, XIV.126-127).

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In effetti la situazione finanziaria del principe Cesi era cattiva. I suoi familiari ed amici non erano riusciti a convincerlo di far testamento. Probabilmente Cesi sapeva che si era impegnato più di quanto avrebbe dovuto e non voleva parlare dell’ammontare dei debiti contratti. Dopo la sua morte la situazione finanziaria era tale che anche un suo lavoro di botanica rischiava di non poter essere stampato. Era del tutto evidente che la pubblicazione del libro non poteva essere finanziata dall’Accademia dei Lincei, come inizialmente previsto. Castelli non perdette tempo e consigliò subito di farlo stampare a Firenze al più presto, per molti motivi, spiegava in una lettera a Galileo del 24 agosto, che non voleva mettere in carta ora. Sembrerebbe quindi che il trasferimento a Firenze della stampa del Dialogo non fu dovuto a difficoltà di finanziamento dell’iniziativa. D’altra parte non si capirebbe perché la somma prevista a Firenze per la stampa dopo la morte di Cesi non potesse essere utilizzata a Roma. Sappiamo solamente che il fedele discepolo ne parlò subito al padre Visconti ed ottenne il suo assenso (EN, XIV.135). Come vedremo, Niccolò Riccardi non gradì l’iniziativa. L’11 settembre l’inquisitore generale di Firenze, il suo vicario generale e l’autorità civile accordavano l’autorizzazione di stampa. Poiché il luogo era cambiato, Galileo sollecitava l’assenso del padre Riccardi. Questa richiesta era stata probabilmente approvata dall’inquisitore di Firenze. Secondo Galileo l’importanza dell’opera rendeva necessaria l’approvazione di Roma, ma in realtà non ce n’era bisogno. Riccardi crederà di poterla dare sulla base di una sua valutazione, spinto in realtà da monsignor Ciampoli, dopo essersi assicurato che sarebbero state fatte le modifiche richieste da Urbano VIII. Alla fine sarà l’inquisitore di Firenze, Clemente Egidi, a dare l’imprimatur. L’approvazione richiesta da Galileo includeva l’imprimatur? Il termine appare in una lettera di Riccardi all’ambasciatore Niccolini del 25 aprile 1631, con l’esplicita indicazione che veniva rilasciata a Galileo una sottoscrizione semplice dell’imprimatur per valersene nei confronti del granduca, senza precisare altro (EN, XIV.254-255).

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La situazione era tutt’altro che semplice. In una lettera del 21 settembre 1630 Castelli informava Galileo che quanto a stampare il libro, il padre Riccardi precisava che Galileo aveva promesso di ritornare a Roma per aggiustare insieme a Ciampoli alcune cosette nel proemio e dentro l’opera stessa. Secondo Castelli, fatto questo, Galileo avrebbe avuto la facoltà di stampare il libro a Firenze o altrove. Nell’impossibilità di effettuare il viaggio, il Maestro del Sacro Palazzo si sarebbe accontentato dell’invio di una copia del libro che Castelli giudicava assolutamente necessario (EN, XIV.150-151). Il contenuto di questa lettera lascia pensare che Riccardi non vedeva di buon occhio la stampa del libro a Firenze e cercava di convincere l’autore a rinunziarvi rendendo così difficile il rilascio dell’autorizzazione. Intanto in Toscana imperversava la peste e solo la circolazione delle lettere era autorizzata. Riccardi accettò di limitare la richiesta all’esordio ed alla fine del libro, ma chiese che il resto fosse letto a Firenze da un teologo. L’incarico fu affidato al padre Giacinto Stefani che approvò il manoscritto. L’autorizzazione romana tardava a venire. Si giunse così al mese di marzo dell’anno successivo. Galileo era al colmo dell’esasperazione. In una lunga lettera ad Andrea Cioli del 7 marzo 1631 precisava di aver inviato al padre Riccardi il proemio e il fine dell’opera. Sottolineava poi che alcune settimane e mesi prima Castelli aveva incontrato più volte il padre Riccardi: il Maestro del Sacro Palazzo assicurava sistematicamente d’essere sul punto di rispedire a Firenze il proemio e la fine accomodato [sic] a sua intera soddisfazione. Ma da allora non se ne era più sentito parlare. «L’opera – spiegava Galileo – si sta in un cantone [sic], la mia vita si consuma, et io la passo con travaglio continuo». Chiedeva quindi l’intervento del granduca (EN, XIV.216-217). Il giorno successivo il segretario Cioli scriveva all’ambasciatore Niccolini di rivolgersi al padre Riccardi a nome del granduca affinché l’opera si stampasse. Il segretario metteva l’accento sul travaglio d’animo di Galileo (EN, XIV.219). Il 19 aprile Niccolini poteva finalmente indicare a Cioli che Riccardi avrebbe autorizzato la stampa del libro, ma con un certo ordine o dichiarazio-

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ne. Preoccupato per l’estrema complessità del significato delle cose da comunicare, l’ambasciatore chiese che fossero messe per iscritto per poterne riferire senza alcuna alterazione di parola: temeva di riferire più o meno, o meglio o peggio (EN, XIV.251). Un indizio evidente che le richieste romane non erano del tutto chiare. Il 25 aprile Riccardi informava l’ambasciatore Niccolini di aver concesso a Galileo l’approvazione con una sottoscrizione semplice dell’imprimatur affinché potesse valersene nei confronti del granduca. Precisava che l’interessato aveva promesso «di far la correzione e emenda [sic] delli particolari (?) del libro conforme al pattovito [sic], e di far ritorno a stamparla in Roma, dove col giudizio di Mons. Ciampoli si sarebbe terminata ogni differenza». Sembrerebbe quindi che la correzione di particolari, forse alcune cosette nel proemio e dentro l’opera stessa, come indicava Castelli nella lettera del 21 settembre, dovesse ritornare a Roma per esservi stampata previo accordo di Ciampoli. Riccardi aggiungeva poi che il padre Stefani aveva sicuramente letto giudiziosamente il libro, ma non poteva concedere un’autorizzazione che bastasse anche a nome suo, Riccardi, per servirsene a sua volta, poiché Stefani non conosceva i sentimenti (i sensi) del papa: un’allusione evidente al rischio per il Maestro del Sacro Palazzo di ritrovarsi in una poco piacevole situazione. Assicurava di voler proteggere Galileo, ma per questo non bastava dare l’autorizzazione, che d’altra parte non era necessaria a Firenze, ma occorreva essere sicuri che la correzione sarebbe stata fatta conformemente alla regola che gli era stata data dal papa. Era piuttosto diffidente e precisava che se gli venivano spediti la prefazione et il fine del libro avrebbe visto quel che [gli] bastava e avrebbe potuto attestare nello stesso tempo di aver approvato l’opera. Una frase alla fine della lettera lascia pensare che Riccardi non poteva fare di più e che se gli interessati non erano d’accordo avrebbero dovuto trovare altro partito poiché il suo solo impegno (la mia sola sottoscrizione) non avrebbe giovato a Galileo e avrebbe danneggiato la sua cortesia (EN, XIV.254). Il Maestro del Sacro Palazzo appariva scoraggiato e lasciava capire che se avesse preso decisioni di sua propria iniziativa

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avrebbe danneggiato Galileo e se stesso. D’altra parte precisava che l’approvazione con la sottoscrizione semplice dell’imprimatur aveva valore per il granduca. Non si trattava quindi dell’imprimatur che Galileo avrebbe ottenuto se il libro fosse stato stampato a Roma. L’imprimatur richiesto per la stampa sarà rilasciato dall’inquisitore di Firenze e ovviamente figurerà sul libro, ma accanto a questo si ritroverà quello sottoscritto da Riccardi. Se c’era stato un imbroglio, chi era il colpevole? Secondo l’accusa era Galileo, che avrebbe pubblicato l’imprimatur di Roma senza riceverne l’ordine e senza avvertire Riccardi (EN, XIX.326). I curatori della recente edizione critica del Dialogo, Ottavio Besomi e Mario Otto Helbing, hanno messo in evidenza nell’edizione princeps del 1632 (Padova, Biblioteca del Seminario) che la pagina che porta l’imprimatur presenta un diverso carattere e diversa inchiostratura delle due parti che riguardano rispettivamente la censura romana e quella fiorentina. Suggeriscono quindi che queste particolarità potrebbero essere un indizio di raggiro (Galileo 1998, II, 35). L’attesa continuerà. Il 3 maggio Galileo, esasperato, chiederà al segretario Cioli di organizzare una riunione con il granduca, Orso d’Elci, l’inquisitore di Firenze Egidi, il padre Stefani e lo stesso Cioli, nel corso della quale avrebbe mostrato il manoscritto e le correzioni fatte dallo stesso Maestro del Sacro Palazzo (EN, XIV.258-259). In una lettera indirizzata il 17 maggio 1631 al segretario di Stato Cioli, l’ambasciatore Niccolini indicava di aver ricevuto il proemio et il fine del libro che si apprestava a consegnare al padre Riccardi. Assicurava quindi che avrebbe cercato di ritrarne la licenza desiderata (EN, XIV.261). Si trattava visibilmente di una nuova spedizione, poiché il proemio e il fine erano già stati inviati al padre Riccardi da più di due mesi, come si ricava dalla lettera di Galileo a Cioli del 7 marzo. Il 24 maggio 1631 Galileo informava il matematico Bonaventura Cavalieri che le trattative non erano ancora terminate, ma che col prossimo corriere sarebbe arrivata l’autorizzazione: il granduca aveva messo le mani in questo maneggio con gran caldezza (EN, XIV.265-266).

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È facile immaginare l’ansia e l’angoscia provocate dalla lunga attesa, temperate in parte dalla fiducia riposta da Galileo nell’intervento di Ferdinando II. Il granduca, che aveva appena 19 anni, aveva preso a cuore la pubblicazione del libro ed era convinto che dopo il suo intervento l’autorizzazione sarebbe giunta rapidamente. In questa fase di lunghe ed estenuanti trattative niente lasciava immaginare il peggio. Urbano VIII non si opponeva alla pubblicazione del libro, ma poneva alcune condizioni che il padre Riccardi aveva trasmesso all’inquisitore di Firenze il 24 maggio 1631. Il papa esigeva che il titolo ed il soggetto non portassero sul flusso e reflusso, ma assolutamente sull’aspetto matematico della posizione copernicana; lo scopo del libro doveva essere di provare che se non si introduceva la rivelazione di Dio e la Dottrina sacra, si sarebbero potute salvare le apparenze con l’ipotesi copernicana sciogliendo tutte le persuasioni contrarie che dall’esperienza e filosofia peripatetica si potessero addurre, cioè tutte le obiezioni degli aristotelici; tuttavia mai doveva essere concessa la verità assoluta [...] a questa opinione (cioè all’opinione copernicana), ma solamente l’ipotesi; inoltre si doveva mettere in evidenza che il libro era stato scritto solamente per mostrare che erano note tutte le ragioni a favore del sistema copernicano e che il Decreto del 1616 era stato promulgato a ragion veduta (e che non per mancamento di saperle si sia in Roma bandita questa sentenza) (EN, XIX.327). La decisione ufficiale di accordare l’imprimatur era affidata ad Egidi. Il 19 luglio, Riccardi inviava ad Egidi il testo del principio o prefazione da mettere in prima pagina con libertà per l’autore di cambiarlo o di abbellirlo solamente per quanto riguardava la forma, a condizione di rispettare la sostanza del contenuto. Si riaffermava poi quanto era già stato detto nella precedente lettera del 24 maggio. Alla fine dell’opera Galileo doveva «aggiungere le ragioni della divina onnipotenza dettegli da N.S.re [Urbano VIII], le quali devono quietar l’intelletto, ancorché da gl’argomenti Pitagorici non se ne potesse uscire» (EN, XIX.328-330). In altri termini, anche se gli argomenti dei pitagorici (cioè gli argomenti a favore del movimento della Terra) non potevano es-

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sere abbandonati, il principio della onnipotenza divina doveva tranquillizzare gli intelletti, poiché Dio poteva fare diversamente da quel che veniva osservato. Era quindi sottinteso che la verità rivelata nella Scrittura restava l’unica sorgente di verità. La prefazione (Avviso al discreto lettore) era stata scritta da Riccardi. L’ordine di Urbano VIII di non menzionare nel titolo il flusso e reflusso del mare rattristò profondamente Galileo. All’amico Elia Diodati che risiedeva a Parigi manifestò il suo disappunto in una lettera del 16 agosto 1631: «È vero che non ho potuto nel titolo del libro ottenere di nominare il flusso e reflusso del mare, ancorché questo sia l’argomento principale che tratto nell’opera». Informava quindi Diodati che il giudizio sui due massimi sistemi del mondo descritti nel Dialogo era lasciato in sospeso, che un terzo del libro era già stampato e che il rimanente si sperava lo fosse entro tre mesi. Alla fine della lettera faceva di nuovo allusione al titolo osservando che per lo stampatore sarebbe stato più utile Del flusso e reflusso. Al risentimento per non poter indicare nel titolo l’argomento principale trattato nel libro faceva seguito il desiderio di rivincita: i lettori sapranno ritrovarlo per relazione di quei primi che l’avranno letto (EN, XIV.289). La notizia della prova attraverso le maree si spargerà, le esigenze di Bellarmino saranno soddisfatte. Quanto all’argomento di Urbano VIII, Galileo progettava di svuotarne cautamente il significato. La prova attraverso le maree e la protezione del granduca, tanto più efficace in quanto il libro si stampava a Firenze, gli suggerivano una meritata rivincita. La stampa del Dialogo iniziò prima dell’arrivo a Firenze del principio o prefazione inviato il 19 luglio da Riccardi all’inquisitore fiorentino Egidi. Pubblicazione del «Dialogo» Finalmente il 21 febbraio 1632 al tipografo G.B. Landini ebbe fine la stampa affidata. Nel libro c’erano oltre ai permessi dell’inquisitore generale di Firenze, del suo vicario generale e del-

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l’autorità civile, il permesso ecclesiastico del vice gerente di Roma e del Maestro del Sacro Palazzo. Il titolo è DIALOGO DI GALILEO GALILEI LINCEO MATEMATICO SOPRAORDINARIO DELLO STUDIO DI PISA

E Filosofo e Matematico primario del SERENISSIMO GR.DUCA DI TOSCANA

Dove ne i congressi di quattro giornate si discorre sopra i due MASSIMI SISTEMI DEL MONDO TOLEMAICO E COPERNICANO

Proponendo indeterminatamente le ragioni Filosofiche, e Naturali tanto per l’una quanto per l’altra parte. I tre interlocutori, Filippo Salviati, Gianfrancesco Sagredo e Simplicio discorreranno durante quattro giornate nel palazzo di Sagredo a Venezia. Salviati e Sagredo sono i due amici di Galileo già incontrati nelle pagine precedenti, scomparsi rispettivamente nel 1614 e nel 1620. Simplicio è un personaggio immaginario il cui nome corrisponde ad un commentatore di Aristotele. Salviati esprimerà le opinioni di Galileo. Sagredo è la bona mens, per dirla con l’espressione di Alexandre Koyré, in grado di chiarire gli argomenti sviluppati da Salviati. Simplicio è invece un filosofo peripatetico, che, spiega Galileo, si opponeva all’intelligenza del vero a causa della fama acquistata nelle interpretazioni aristoteliche. Probabilmente si tratta di Simplicius, un commentatore di Aristotele ben noto agli studiosi di filosofia, vissuto nel VI secolo d.C. Il proemio Avviso al discreto lettore esordisce con la frase sulla quale Riccardi aveva tanto insistito: «Si promulgò a gli anni passati in Roma un salutifero editto, che, per ovviare a’ pericolosi scandoli [sic] dell’età presente, imponeva opportuno silenzio all’opinione Pittagorica della mobilità della Terra» (EN, VII.29).

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Alcune successive osservazioni erano già contenute nella risposta a Francesco Ingoli (1624), come ad esempio l’intenzione di mostrare alle nazioni forestiere che in Italia e particolarmente in Roma si conosceva sul sistema copernicano quanto se ne poteva immaginare nei paesi d’oltralpe. Si sottolineava poi, non senza una punta d’ironia, che «escono da questo clima non solo i dogmi per la salute dell’anima, ma ancora gl’ingegnosi trovati per delizie degl’ingegni». In realtà Galileo aveva impostato il suo libro in maniera fondamentalmente diversa rispetto alle esigenze di Urbano VIII. Certamente sperava di poter accontentare il papa con alcune battute disseminate qua e là nel testo, e di salvare così la tesi centrale del libro che è chiaramente copernicana. Nell’Avviso dichiarava quindi di aver preso la parte Copernicana procedendo in pura ipotesi matematica, con lo scopo di mostrarla superiore non all’ipotesi della fermezza della Terra assolutamente, ma alla maniera in cui quest’ultima veniva difesa da alcuni peripatetici che non vanno filosofando con l’avvertenza propria ma solamente col ricordo di quattro principi mal intesi (EN, VII.30). In altri termini, la superiorità dell’ipotesi copernicana sarebbe risultata dall’ignoranza di alcuni peripatetici, ma non di tutti. Galileo indica quindi i tre temi che saranno trattati. Mostrerà innanzitutto che le esperienze realizzabili non permettono di stabilire se la Terra è in movimento o immobile; secondariamente si esamineranno li fenomeni celesti, rinforzando l’ipotesi copernicana come se assolutamente dovesse rimaner vittoriosa; il terzo tema è la prova attraverso le maree. Il primo tema salverà l’equilibrio fra le due ipotesi dichiarato nel titolo. Nel secondo si metterà in evidenza che l’ipotesi copernicana salva le apparenze meglio dell’ipotesi aristotelico-tolemaica, il che era ammesso dagli astronomi del Collegio Romano e dallo stesso Bellarmino fin dalla scoperta dei satelliti di Giove e delle fasi di Venere. Infine l’espressione fantasia ingegnosa utilizzata nel terzo tema per indicare la prova attraverso le maree è destinata a nascondere la vera intenzione dell’autore che è di fornire la prova decisiva del doppio movimento della Terra. Secondo Galileo l’argomento sarà trattato per impedire

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ad eventuali stranieri di profittare delle conoscenze degli astronomi italiani (fortificarsi con l’armi nostre) e di accusarli in seguito per aver prestato poca attenzione ad un fenomeno così principale, nel caso che la Terra si muovesse (EN, VII.30). Questo argomento era già stato utilizzato nella lettera all’arciduca Leopoldo d’Austria. La prova attraverso le maree non era un’ipotesi destinata a salvare le apparenze celesti, ma la dimostrazione, secondo Galileo, che il fenomeno era dovuto al doppio movimento della Terra. Per eliminarla bisognava dimostrare che la prova non era valida, o allora introdurre l’argomento dell’onnipotenza divina e dire che Dio poteva produrre le maree lasciando la Terra immobile. Urbano VIII, che provava una vera avversione per l’argomento del flusso e reflusso del mare, esigeva una argomentazione importante sul significato dell’onnipotenza divina che fungesse da conclusione del libro. In effetti, se ci atteniamo a quanto riferisce Oreggi, il papa non escludeva che la prova attraverso le maree fosse valida, ma escludeva in maniera assoluta che si potesse dubitare della verità rivelata. Riccardi e Ciampoli credettero che le correzioni sarebbero state sufficienti per soddisfare le esigenze del papa. Probabilmente Ciampoli fu il più deciso dei due, forse perché, a differenza di Riccardi, era un convinto copernicano. Le prime pagine della prima giornata del Dialogo sono dedicate al movimento ed alla confutazione della distinzione aristotelica fra movimenti naturali terrestri (rettilinei) e movimenti celesti (circolari), fra corpi corruttibili e corpi immutabili. Secondo Salviati in un mondo bene ordinato solamente i movimenti circolari sussistono, i soli che possono muoversi con velocità uniforme. D’altra parte tutti i corpi dell’universo, terrestri e celesti, sono generabili e corruttibili. In questa prima giornata si ritrovano alcuni importanti risultati relativi al piano inclinato ed alle sue proprietà, già presenti nei lavori giovanili (il De motu e gli scritti di meccanica). All’epoca della redazione del Dialogo, Galileo disponeva della nozione di accelerazione e conosceva le proprietà del movimento uniformemente accelerato. D’altra parte riteneva che il

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moto circolare uniforme acquisito naturalmente era sempre preceduto da un movimento rettilineo la cui velocità, resa costante, si conservava indefinitamente (principio di inerzia circolare), come nel caso del movimento dei pianeti intorno al Sole. Sulla base di queste nozioni e di un concetto platonico (fino ad oggi non identificato), proponeva una spiegazione delle traiettorie e delle velocità dei pianeti. Dopo averli creati, Dio li aveva lasciati cadere da una data altezza con velocità iniziale nulla. Nel tempo della discesa verticale la velocità aumentava in funzione del tempo e quando raggiungeva il valore fissato dal Creatore, il movimento diventava per volontà divina circolare uniforme intorno al Sole con la velocità raggiunta nel movimento rettilineo uniformemente accelerato di caduta. Conoscendo la lunghezza dell’orbita circolare, il tempo di una rivoluzione completa e le proprietà del movimento uniformemente accelerato, si poteva risalire alla distanza percorsa (nella discesa verticale), e cioè all’altezza da cui era caduto ogni pianeta. Secondo quanto riferisce Salviati, i calcoli indicavano che i pianeti erano discesi tutti dal medesimo luogo (EN, VII.53-54; FE/RS 2006, 143-145). Non sappiamo cosa pensassero i teologi di questa applicazione della meccanica al mondo della rivelazione. Galileo la riprenderà nella quarta giornata dei Discorsi (1638), senza tuttavia precisare che il Sole e non la Terra era il centro dei movimenti planetari (EN, VIII.283-284). Nelle pagine dedicate alle osservazioni del globo lunare venivano esposte le conformità esistenti fra la Terra e la Luna. Salviati ne enumerava sette, fra le quali la tenebrosità, la densità del suolo e la presenza di montagne, le eclissi che l’una e l’altra si scambiano. La scoperta del cannocchiale permetteva osservazioni molto più precise di quelle fatte ad occhio nudo, quindi si poteva discorrere del cielo e del Sole [...] molto più sicuramente di quanto aveva potuto farlo Aristotele. La finzione messa in scena nel Dialogo avrebbe dovuto spingere gli aristotelici a rivedere alcune posizioni fondamentali, come ad esempio la natura particolare dei corpi celesti. Ma radici robuste alimentavano da più secoli i vari settori della conoscenza attraverso le traduzioni, le interpretazioni e l’insegnamento

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degli scritti di Aristotele e dei suoi commentatori. L’edificio che ne risultava era vasto e solido, a disposizione di teologi che se ne erano impadroniti per quella parte che si accordava con la verità rivelata. Le aperture concesse dal nuovo papa non saranno sufficienti per lasciar passare Galileo ed i suoi seguaci. I due argomenti più importanti trattati nella seconda giornata sono il movimento della Terra intorno al proprio asse in 24 ore (movimento diurno) e la dimostrazione della legge di caduta libera dei gravi nel vuoto. Il movimento diurno della Terra occupa la parte più importante. Salviati osserva che la natura non opera con molte cose quello che può operare con poche, quindi è naturalmente molto più facile far muovere la Terra intorno al proprio asse per realizzare l’alternarsi del giorno e della notte, che muovere il cielo ed i pianeti intorno alla Terra in 24 ore. Questo principio di economia della natura era già stato formulato da Oresme, Buridan, Nicolas de Cues, Calcagnini ed altri. Qui Salviati metteva in evidenza l’assurdità del movimento di tutte le sfere dei pianeti e della sfera altissima delle stelle fisse intorno al centro in 24 ore. La velocità di Saturno, il pianeta più lontano dal centro (Uranio e Nettuno non erano ancora conosciuti), ed ancor più la velocità della sfera altissima avrebbero dovuto raggiungere valori difficilmente concepibili. Fin dall’inizio della seconda giornata Salviati sostiene che i moti della Terra non sono percettibili dai suoi abitanti e confuta l’obiezione secondo la quale se la Terra si muovesse da occidente verso oriente, come sostiene Copernico, una pietra lasciata dall’alto di una torre non cadrebbe alla verticale, ma deviata verso occidente rispetto alla base della torre. Per lo stesso motivo, gli uccelli in volo apparirebbero, secondo Tolomeo, come se volassero velocemente in direzione opposta al movimento della Terra e cioè verso occidente. In realtà, spiega Salviati, dal cader la pietra sempre a perpendicolo al piè della torre non si può dedurre né la quiete né il moto della Terra. Enuncia poi il principio che è passato alla storia col nome di principio di relatività galileana. Benché il testo sia ben noto, non rinunziamo a citarne le prime frasi:

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Riserratevi con qualche amico nella maggiore stanza che sia sotto coverta di alcun gran navilio, e quivi fate d’aver mosche, farfalle e simili animaletti volanti; siavi anco un gran vaso d’acqua, e dentrovi de’ pescetti; sospendasi anco in alto quelche secchiello, che a goccia a goccia vadia versando dell’acqua in un altro vaso di angusta bocca, che sia posto a basso (EN, VII.212-213).

Si tratta di un’esperienza immaginaria alla quale si può assistere seguendo passo passo la descrizione che ne fa Salviati. La nave è ferma. Si osservano tre diversi fenomeni: il volo degli animaletti si svolge in tutte le direzioni, come pure il nuotare dei pesciolini nell’acqua. Da un secchiello pieno d’acqua escono gocce che cadono in un recipiente dal collo stretto. La nave si muove fino ad acquistare una velocità costante: «voi non riconoscerete una minima mutazione in tutti li nominati effetti, né da alcuno di quelli potrete comprender se la nave cammina o pure sta ferma» (EN, VII.213). Le immagini sono suggestive, ma non necessariamente convincenti. Ci vorrà molto tempo prima che siano accettate come evidenti dalla mente umana. Galileo si rivolge in particolare al buonsenso del modesto lettore, in lingua volgare, con la speranza di convincerlo. Per il modesto lettore sarà molto più difficile seguire la dimostrazione della legge di caduta dei gravi. La difficoltà risultava dalla originalità del metodo geometrico utilizzato, che non riposava sulla geometria euclidea, ma sulla geometria degli indivisibili elaborata dal matematico Bonaventura Cavalieri (1598-1647). L’impiego degli indivisibili nelle dimostrazioni di geometria aveva provocato critiche e controversie fra i matematici ed era stato censurato dai gesuiti che ne proibirono l’insegnamento in quanto immagine matematica dell’atomismo fisico (FE 1992, 193-208). Galileo non si pronunzierà sulla validità del metodo, ma cercherà di utilizzarlo in lavori non pubblicati, ed in seguito con successo nelle dimostrazioni relative alla scienza del moto (GE 1990, IX-LXIII). La dimostrazione contenuta nella seconda giornata è la prima sulla scienza del moto pubblicata dallo scienziato pisano.

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Galileo dimostrerà in maniera convincente la legge di caduta libera dei gravi nel vuoto: gli spazi percorsi sono proporzionali ai quadrati dei tempi. La presenza nel Dialogo di dimostrazioni non collegabili immediatamente con l’astronomia non toglie nulla al carattere del libro che è fondamentalmente dedicato ai problemi astronomici. Le prime pagine della terza giornata contengono lunghi calcoli effettuati da Galileo per mostrare che la nova del 1572 ed ancor più quella del 1604 non potevano trovarsi nel mondo sublunare. Vengono poi esaminate le più importanti obiezioni al movimento annuo: l’invariabilità della grandezza delle stelle fisse e della loro posizione nel corso dell’anno. Come spiega Salviati, riprendendo quanto già indicato da Copernico, l’immensa distanza fra l’osservatore e l’oggetto osservato non permetteva di rilevare le variazioni, neanche con l’uso del cannocchiale. I tre personaggi affronteranno il problema dell’esistenza di un centro del mondo e delle dimensioni dell’universo. Salviati osserverà che non era stato dimostrato che il mondo è finito, né che è infinito. Ammetterà, per non moltiplicare le dispute, che è finito e di figura sferica. Restava poi da stabilire dove si trovasse il centro. Gli argomenti sviluppati da Salviati e Sagredo per mostrare che la Terra è in movimento circolare intorno al Sole conducono ad una critica degli epicicli che nel sistema di Tolomeo erano stati introdotti per interpretare l’irregolarità del movimento dei pianeti «tanto difforme che non solo ora vanno veloci ora più tardi [sic], ma talvolta del tutto si fermano, ed anco dopo per molto spazio ritornano indietro» (EN, VII.370). Per salvare le apparenze Tolomeo era stato costretto ad introdurre grandissimi epicicli, mentre, spiega Salviati, nel sistema copernicano tutti i movimenti sono uniformi intorno al proprio centro. In realtà anche Copernico si servì degli epicicli per correggere le irregolarità osservate rispetto al calcolo teorico. Le orbite ellittiche di Keplero avevano permesso di eliminarli, ma Galileo, com’è noto, rimarrà fedele alle orbite circolari di Copernico. Il ruolo importante del cannocchiale nelle recenti scoperte astronomiche sarà sottolineato più volte da Salviati. La scoperta delle stelle medicee grazie a questo nuovo strumento aveva

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permesso di eliminare l’obiezione cara agli aristotelici dell’impossibilità del movimento intorno al Sole della Terra e della Luna insieme. Il cannocchiale permetterà lo studio accurato delle macchie solari, il cui movimento sarà facilmente interpretato da Salviati alla luce della dottrina copernicana. Quanto alla priorità della scoperta, essa spetta all’Accademico Linceo, primo scopritore delle macchie solari e di tutte l’altre novità celesti. Quest’ultima affermazione, ripresa dal testo, è stampata sul margine della pagina. I marginalia, frequenti nel Dialogo, facilitano notevolmente la lettura dell’opera. Nella quarta ed ultima giornata le maree fanno la loro apparizione fin dalla prima pagina, come pure la morte di Aristotele alcune pagine dopo (EN, VII.459) messa in versi da Stelluti nel Saggiatore. Salviati vuol mostrare, prendendo le dovute precauzioni, che la natura ha permesso che i movimenti attribuiti alla Terra per tutt’altra ragione si trovino ora confermati dal flusso e reflusso o in quanto verità (in rei veritate), o per prendersi gioco dei nostri ghiribizzi (EN, VII.442). Ed a Simplicio che si propone di spiegare con un miracolo il movimento delle acque marine, poiché la Terra è immobile, Salviati rivolge una precisa domanda: «Ma non credete voi che il globo terrestre possa sopranaturalmente [sic], cioè per l’assoluta potenza di Dio, farsi mobile?». Dopo la risposta affermativa dell’aristotelico Simplicio, il copernicano Salviati può affermare che poiché «per fare il flusso e reflusso del mare ci è bisogno del miracolo, facciamo miracolosamente muover la Terra, al moto della quale si muova poi naturalmente il mare» (EN, VII.447-448). Segue poi la dimostrazione sostanzialmente identica a quella contenuta nel Discorso del flusso e reflusso del mare. L’intervento dell’onnipotenza divina a favore di Copernico non poteva non apparire come una risposta al pontefice, o peggio come una provocazione. Galileo non ignorava che secondo Urbano VIII la verità rivelata era la sola verità e che l’ingegno umano non poteva proporne altre, se non come ipotesi. È difficile stabilire quali possano essere state le motivazioni esatte di Galileo. Forse non si era reso conto del cattivo uso che faceva dell’argomento di Urbano VIII, o, più verosi-

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milmente, era convinto che la pubblicazione del libro a Firenze lo metteva al sicuro da ogni possibile intervento romano. Qui il granduca poteva proteggere il Dialogo, a lui dedicato, più facilmente di quanto avrebbe potuto fare se la stampa fosse avvenuta a Roma. Galileo conosceva l’avversione del papa per la teoria del flusso e reflusso. Il trasferimento a Roma della stampa del libro può aver dato origine ad una strategia «fiorentina» apparentemente contraddittoria: da una parte l’insistenza per ottenere da Riccardi l’imprimatur di Roma che era concesso solamente per i libri stampati in questa città, d’altra parte la convinzione che il teologo fiorentino designato da Roma, il domenicano Giacinto Stefani, avrebbe accordato facilmente l’indispensabile imprimatur fiorentino in quanto non conosceva sufficientemente le esigenze del pontefice, come lascia pensare la lettera già citata di Riccardi all’ambasciatore Niccolini del 25 aprile 1631. Che Galileo si sentisse sufficientemente forte per poter provocare Roma appare soprattutto dalle ultime battute di questa giornata e quindi del libro. Salviati lascia cadere la maschera e rivolgendosi al suo complice Sagredo cerca di attenuare l’interesse e l’entusiasmo da lui dimostrati per il sistema copernicano. «Se ben ne i discorsi avuti – osserva Salviati – avete molte volte con grand’applauso mostrato di rimaner appagato d’alcuno de’ miei pensieri, ciò stimo io che sia provenuto [sic], in parte più dalla novità che dalla certezza di quelli, ma più assai dalla vostra cortesia». Tuttavia la lettura del contenuto delle tre giornate precedenti ed ancor più di questa non lasciano alcun dubbio sul carattere di verità attribuito da Galileo al sistema copernicano ed alla prova attraverso le maree. Le battute che seguono mostrano inoltre la volontà di ridurre considerevolmente la portata dell’onnipotenza divina. Galileo opporrà all’argomento di Urbano VIII la libertà di disputare intorno alla costituzione del mondo. Come sappiamo, Riccardi aveva indicato chiaramente all’inquisitore di Firenze (lettera del 19 luglio 1631) che l’argomento di Urbano VIII doveva figurare alla fine del libro. In effetti vi figurerà recitato da Simplicio, l’aristotelico più volte messo in dif-

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ficoltà e perfino ridicolizzato da Salviati. Ecco la parte centrale del suo intervento: Simplicio. [...] Quanto poi a i discorsi avuti, ed in particolare in quest’ultimo intorno alla ragione del flusso e reflusso del mare, io veramente non ne resto interamente capace; ma per quella qual si sia assai tenue idea che me ne son formata, confesso, il vostro pensiero parermi bene più ingegnoso di quanti altri io me n’abbia sentiti, ma non però lo stimo verace e concludente: anzi, ritenendo sempre avanti a gli occhi della mente una saldissima dottrina, che già da persona dottissima ed eminentissima appresi ed alla quale è forza quietarsi, so che amendue voi, interrogati se Iddio con la Sua infinita potenza e sapienza poteva conferire all’elemento dell’acqua il reciproco movimento, che in esso scorgiamo, in altro modo che co ’l far muovere il vaso contenente [cioè la Terra], so, dico, che risponderete, avere egli potuto e saputo ciò fare in molti modi, ed anco dall’intelletto nostro inescogitabili. [...] soverchia arditezza sarebbe se altri volesse limitare e coartare la divina potenza e sapienza ad una sua fantasia particolare (EN, VII.488).

È sorprendente che sia proprio Simplicio ad enunciare il principio dell’onnipotenza divina ed è difficile ammettere che Galileo non si sia reso conto dell’inopportunità del suo intervento alla fine del libro, proprio là dove Urbano VIII voleva che si mettesse in risalto la supremazia della verità rivelata rispetto alle scoperte scientifiche. Il successivo intervento di Salviati induce a pensare che Simplicio è stato scelto a ragion veduta. Salviati-Galileo replicherà che alla mirabile ed angelica dottrina ne corrisponde un’altra, come si legge nella sua risposta: Salviati. Mirabile e veramente angelica dottrina: alla quale molto concordemente risponde quell’altra, pur divina, la quale, mentre ci concede il disputare intorno alla costituzione del mondo, ci soggiugne (forse acciò che l’esercizio delle menti umane non si tronchi o anneghittisca) che non siamo per ritrovare l’opera fabbricata dalle Sue mani. Vaglia dunque l’esercizio permessoci ed ordinatoci da Dio per riconoscere e tanto maggiormente ammirare la grandezza [sic] Sua, quanto meno ci troviamo idonei a penetrare i profondi abissi della Sua infinita sapienza (EN, VII.489).

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A quale altra dottrina pur divina si riferisce Salviati? Lo storico Luca Bianchi ha potuto stabilire che la parte centrale del suo intervento è la parafrasi del commento latino di Cristoforo Clavio, il matematico gesuita che abbiamo avuto occasione di incontrare più volte nelle pagine precedenti, del seguente testo scritturale: «Ha dato il mondo alla loro discussione senza che l’uomo possa scoprire l’opera realizzata da Dio» (Ecclesiaste 3, 11). Benché il commento di Clavio sia orientato in senso anticopernicano, diventò, secondo quanto spiega Luca Bianchi, «il cavallo di battaglia dei partigiani di Copernico [...] Galileo prende in prestito da Clavio la sua interpretazione dell’Ecclesiaste 3, 11 per spiegare non solamente che le controversie sui sistemi del mondo sono lecite, ma per quale ragione lo sono: si tratterebbe di un esercizio ordinato da Dio per evitare la pigrizia, l’ozio dello spirito umano». Nella frase forse acciò che l’esercizio delle menti umane non si tronchi o anneghittisca, ovvero non s’impigrisca, è riconoscibile la fonte latina (Clavio: «ne videlicet aliquando [...] ingenia, sublata exercendi causa, cessatione torperent») (BLU 2005, 87-88). Quindi l’altra dottrina alla quale fa riferimento Salviati-Galileo è l’interpretazione secondo Clavio del testo scritturale Ecclesiaste 3, 11: nonostante l’impossibilità di saper tutto, la libertà di discutere veniva qui apertamente concessa. Come vedremo, l’accusa di aver posto la medicina (cioè l’argomento di Urbano VIII) in bocca di uno sciocco, cioè di Simplicio, figurerà nel rapporto preliminare sul Dialogo richiesto da Urbano VIII. La rivendicazione di poter disputare intorno alla costituzione del mondo avanzata cautamente da Salviati-Galileo metteva in evidenza l’opposizione fra scienza e religione provocata dalle recenti scoperte astronomiche. Con la prova attraverso le maree, che le conoscenze dell’epoca non permettevano di confutare, lo spiraglio aperto dal cardinale Bellarmino – quando ci fusse vera dimostrazione dell’immobilità del Sole e del movimento della Terra, allora bisognerà interpretare con molta consideratione la Scrittura – rischiava lentamente di aprirsi. Solo l’argomento di Urbano VIII poteva eliminarlo, cancellando definitivamente le verità scientifiche non confermate dalla Scrittura.

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Il Dialogo ricevette un’accoglienza favorevole nella maggior parte delle città universitarie italiane, ma provocò reazioni ostili fra i gesuiti del Collegio Romano e nelle alte sfere della gerarchia ecclesiastica. A Roma, dove era venuto ad insegnare la matematica, il padre Scheiner nel sentire l’elogio del Dialogo in una libreria della capitale si commosse tutto con mutazione di colore in viso e con un tremore grandissimo (EN, XIV.360). Cinque mesi dopo il libro subiva a Roma le prime critiche ed i primi attacchi. Il 25 luglio il Maestro del Sacro Palazzo Riccardi inviava all’inquisitore di Firenze Egidi l’ordine impartito da Urbano VIII di trattenere il Dialogo a Firenze in attesa dell’invio da Roma di quello che s’ha a correggere. Egidi doveva riferirne al nunzio apostolico, operare con dolcezza e fare in modo che ogni cosa riuscisse efficacemente. Infine in un poscritto si chiedeva se la figura dei tre pesci era dovuta allo stampatore oppure a Galileo (EN, XX.571-572). In una successiva lettera ad Egidi del 7 agosto, il Maestro del Sacro Palazzo aggiungeva, per ordine di N.S.re (Urbano VIII), di informarsi sul numero di esemplari del Dialogo messi in circolazione, acciò che si possano far diligenze per riaverli (EN, XX.572). Accuse e interdizione Il 7 agosto Filippo Magalotti, che aveva distribuito a Roma alcuni esemplari del Dialogo, riferiva in una lunga lettera a Mario Guiducci che Riccardi gli aveva chiesto di restituire tutti quei libri dei Dialoghi che aveva portato da Firenze, promettendo di restituirglieli più tardi. Magalotti dichiarò di averli distribuiti tutti e fornì i nomi dei destinatari. Il padre Riccardi teneva a precisare che tali diligenze si facevano per maggior servizio dell’opera e dell’autore, ed alla domanda rivolta da Magalotti per sapere se erano state date istruzioni a Firenze rispose affermativamente aggiungendo che s’era scritto e ordinato perché fosse trattato piacevolissimamente senz’altro scopo che la gloria di Dio e la tranquillità della Chiesa. Seguiva una domanda precisa che farà ridere Magalotti: Riccardi chiedeva in gran segreto se nel frontespizio

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quei tre delfini che l’uno tiene in bocca la coda dell’altro (in realtà ogni delfino toccava con la bocca il ventre dell’altro) fossero opera dello stampatore o messi lì per volontà di Galileo. A Roma s’era discusso a lungo, spiegava Riccardi, sul loro significato. Magalotti poteva affermare che in tutti i libri stampati dall’editore Landini c’erano quei tre delfini nel frontespizio. Ma una notizia ben più grave preoccupava Magalotti: Riccardi aveva constatato che il libro stampato differiva dall’originale e che tra le altre cose mancavano alla fine «due o tre argomenti inventati propriamente dalla S.tà di N.S.re [Urbano VIII], con i quali pretende aver convinto Galileo e dichiarata falsa la posizione del Copernico». I gesuiti lavoravano sotto mano gagliardissimamente, secondo quanto riferiva Magalotti, affinché l’opera venisse proibita. Riccardi aveva detto testualmente: i Gesuiti lo perseguiteranno acerbissimamente. Il buon padre temeva per la sua stessa posizione, per aver concesso che [il Dialogo] si stampasse (EN, XIV.368-370). La storiella dei tre delfini, che secondo false voci messe in circolazione a Roma rappresentavano i cardinali Francesco ed Antonio Barberini, rispettivamente nipote e fratello di Urbano VIII, ed un altro fratello del papa, Carlo, nominato comandante supremo delle truppe pontificie, poteva far ridere. Non così il resto delle notizie. Intorno al papa si costituiva un gruppo compatto il cui obiettivo era distruggere la fortezza galileana costruita sul flusso e reflusso del mare. Da 16 anni il Decreto del 1616 era lì ad aspettare. Il Dialogo offriva tutto il materiale necessario per istruire un processo. Anche se vera, la prova attraverso le maree non avrebbe resistito alla forza della verità rivelata. L’argomento dell’onnipotenza divina restituiva interamente alla teologia la supremazia che Galileo aveva leggermente intaccato. A Roma gli amici di Galileo erano sconvolti: una Congregazione di persone tutte più o meno ostili a Galileo era stata istituita per ordine del papa. L’ambasciatore Niccolini ne informava il segretario di Stato Cioli in una lettera del 15 agosto, segnalando che Scipione Chiaramonti, poco amico dell’opinioni del Sig.r Galileo, era stato invitato a farne parte (EN, XIV.372).

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Tommaso Campanella, scandalizzato per quanto accadeva e preoccupato per la presenza nella Congregazione di domenicani, gesuiti, teatini e preti secolari, chiedeva a Galileo in una lettera del 21 agosto di rivolgersi al granduca per ottenere che Castelli e lui stesso ne facessero parte (EN, XIV.373). Ferdinando II, generalmente poco combattivo, protestò presso le autorità romane. Il 24 agosto Cioli chiedeva a Niccolini di ottenere dalle autorità ecclesiastiche le copie delle censure e opposizioni che venivano fatte al libro. Roma fece orecchie da mercante (EN, XIV.375). Da questo momento tutte le richieste formulate dal granduca tramite il suo ambasciatore a Roma e direttamente da Galileo non saranno prese in considerazione. Le decine e decine di lettere scambiate fra grandi e piccoli attori delle vicende che si succederanno in un breve lasso di tempo mettono in evidenza la ferma volontà di Urbano VIII di non cedere a nessuna delle obiezioni sollevate dalle autorità fiorentine e dagli amici di Galileo. Il contenuto di alcune lettere offre indicazioni significative, anche se necessariamente incomplete, sullo svolgimento degli avvenimenti che condurranno alla convocazione di Galileo a Roma. Il 4 settembre Magalotti riferiva a Guiducci di aver incontrato il padre Riccardi e di aver parlato con lui della prontezza manifestata da Galileo nel voler obbedire a tutto quello che gli venisse imposto dai superiori. Fra i vari argomenti trattati c’era, ovviamente, la situazione creatasi dopo la pubblicazione del Dialogo. Poiché Riccardi si mostrava più cortese del solito, Magalotti ne approfittava per fare di nuovo allusione all’obbedienza di Galileo. Il Maestro del Sacro Palazzo aveva risposto che lui era un semplice ministro, posto lì per eseguire la volontà dei padroni. A parer suo, se Galileo perseverava nella prontezza dimostrata per obbedire, si sarebbe proceduto con lui piacevolissimamente (EN, XIV.379-381). Probabilmente Riccardi sapeva che le accuse contro il Dialogo ed il suo autore si stavano concretizzando e che una decisione importante era in gestazione. Con la consueta prudenza preparava il terreno per evitare docce fredde.

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Il 5 settembre l’ambasciatore Niccolini comunicava a Cioli i risultati dell’udienza con Urbano VIII. Mentre si parlava di quelle fastidiose materie trattate dal Sant’Uffizio, improvvisamente il papa proruppe in molta collera dicendo che Galileo «aveva ardito d’entrar dove non doveva e in materie le più gravi e le più pericolose che a questi tempi si potessero suscitare». Avendo Niccolini obiettato che Galileo non aveva stampato senza l’approvazione di questi suoi ministri, rispose con la stessa escandescenza che Ciampoli aveva ardito dirgli che Galileo avrebbe fatto tutto quello che S.S.tà comandava ed invece lui e Galileo lo avevano aggirato. Si doleva anche del comportamento del Maestro del Sacro Palazzo, ma ammetteva «ch’era stato aggirato anche lui col cavarli di mano con belle parole la sottoscrizione del libro e dategliene poi altre per stamparlo in Firenze». Secondo Urbano VIII, Galileo non si era attenuto a quanto indicato dall’inquisitore e si era servito del nome del Maestro del Sacro Palazzo, che non aveva niente a che fare con quanto si stampava fuori Roma. Il seguito della lettera era una requisitoria contro Galileo ed una messa in guardia diretta al granduca. Alla richiesta di Niccolini di dar campo a Galileo di giustificarsi e di conoscere antecedentemente le difficoltà e le opposizioni o le censure che si fanno alla sua opera, Urbano VIII rispondeva violentemente che «il S.to Uffizio non fa queste cose e non cammina per questa via, né si danno mai a nessuno queste cose antecedentemente». Secondo il papa Galileo conosceva benissimo le difficoltà perché le aveva intese direttamente da noi medesimi. Niccolini supplicava S.S.tà di considerare che il libro era dedicato al granduca, di tenerne conto e di chiedere ai suoi ministri di fare altrettanto. Urbano VIII era stato inflessibile. Gli era capitato di dover proibire opere che recavano in fronte scritto il [suo] nome Pontificale. In simili materie, che secondo Urbano VIII procuravano grandi pregiudizi alla religione, il granduca in quanto principe cristiano doveva concorrere nelle punizioni. L’allusione dell’ambasciatore alla proibizione del libro fu l’occasione per il papa di sottolineare che sarebbe stato il male minore che poteva capitare a Galileo. Consigliava poi al gran-

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duca di non impegnarsi troppo e di andare adagio. Considerava di aver trattato Galileo con urbanità: non ne aveva commesso la causa alla Congregazione della S.ta Inquisizione, come avrebbe dovuto fare, ma ad una Congregazione particolare appositamente creata. Si era comportato nei suoi confronti meglio di come aveva agito Galileo aggirandolo. La conclusione dell’ambasciatore era che quanto al Papa non può essere peggio volto verso il povero nostro S.r Galileo. Consigliava di trattare con i ministri e con il cardinale Barberini piuttosto che con il papa direttamente (EN, XIV.383-385). Il resoconto dell’udienza dell’ambasciatore toscano chiariva alcuni punti importanti della strategia scelta da Urbano VIII. Il movente che ne regolerà l’esecuzione fin nei minimi particolari è l’ira del pontefice per l’aggiramento da lui subito con la complicità di Giovanni Ciampoli. L’accusa contro Galileo non comportava per il momento elementi precisi: conteneva solamente l’affermazione sa benissimo dove consistono le difficoltà. Ma subito dopo Urbano VIII indirizzava all’ambasciatore un se lo vuol sapere, perché ne abbiamo discorso con lui e le ha sentite tutte da noi medesimi, indicando chiaramente che aveva già avuto occasione di segnalare le difficoltà a Galileo. Le difficoltà alle quali faceva riferimento il papa, sorte probabilmente nel corso delle udienze accordate a Galileo nel 1624 e nel 1630, concernevano più precisamente la verità del sistema copernicano. In queste occasioni è verosimile che il papa abbia nuovamente sottolineato l’importanza che accordava all’argomento dell’onnipotenza divina. La condizione imposta a Galileo da Urbano VIII di tenerne conto nella redazione del Dialogo è abbondantemente documentata. Sono significativi d’altra parte i consigli dati al granduca di partecipare alla punizione dei grandi pregiudizi apportati alla religione e concorrere a punirli (EN, XIV, 384). Riccardi usciva sostanzialmente illeso dalle accuse di complicità avendo subito a sua volta manovre di aggiramento. Farà parte della Congregazione creata da Urbano VIII, insieme al teologo del papa Agostino Oreggi, che abbiamo già incontrato in questo capitolo, ed al gesuita Melchior Inchofer. Ma come è

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facile immaginare, ora i galileani non potranno più contare sul suo appoggio. La risposta del granduca inviata da Cioli a Niccolini il 9 settembre era poco incoraggiante: Ferdinando II restava in tanta alterazione che il povero segretario di Stato non sapeva come le cose passeranno. Ed aggiungeva che S.Stà non avrebbe mai criticato i suoi ministri né i loro consigli (EN, XIV.385). L’11 settembre, dopo aver incontrato Riccardi, Francesco Niccolini comunicava a Cioli alcune brutte notizie. Non era stato rispettato il modo e l’ordine dato nello stampare il libro; l’opinione di Urbano VIII veniva [solamente] accennata in esso [libro], e in molti luoghi dichiarata in maniera incomportabile: evidente allusione all’utilizzazione insopportabile (ad opera di Galileo) dell’onnipotenza divina in difesa del sistema copernicano. L’accoglienza di Campanella e di Castelli nella Commissione del Sant’Uffizio o nella Congregazione era completamente da escludere. Ma c’era di peggio: Riccardi gli aveva detto in gran segreto che si era trovato nei libri del Sant’Uffizio che circa 12 anni sono essendosi sentito che il S.r Galileo aveva questa opinione e la seminava in Firenze, che egli era stato chiamato a Roma ed in nome del papa e del Sant’Uffizio gli era stato proibito da Bellarmino il poter tener questa opinione. E l’ambasciatore aggiungeva: questa sola [cosa] è bastante per rovinarlo affatto (EN, XIV.388-389). A parte alcune imprecisioni (12 anni invece di 16, e l’espressione era stato chiamato a Roma, mentre in realtà Galileo già vi si trovava), il resto non poteva essere contestato. Nonostante queste brutte notizie, l’ambasciatore restava fiducioso. Intanto gli avvenimenti si susseguivano in maniera drammatica. Il 18 settembre Riccardi indirizzava all’inquisitore di Firenze Egidi l’ordine di Urbano VIII di inviare al Sant’Uffizio il testo a penna e l’originale del Dialogo insieme all’approvazione del revisore (EN, XX.572). Il 6 novembre il libro era già stato visto da gl’ufficiali del Sant’Uffizio, secondo quanto comunicava Riccardi all’inquisitore di Firenze (EN, XX.574). Il 25 settembre il cardinale Antonio Barberini, fratello del papa, informava Egidi che nella Congregazione tenuta in presenza di Urbano VIII si era deciso di richiamare Galileo a Roma

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per render conto del suo libro. La notifica all’interessato doveva avvenire in presenza di testimoni e del notaio, senza significare al detto Galilei per che fini i suddetti si trovino ivi presenti. Galileo doveva restare a Roma per tutto il mese d’ottobre e presentarsi al commissario del Sant’Uffizio che gli avrebbe indicato cosa fare. Se avesse accettato, continuava Barberini, una volta andato via i testimoni ed il notaio [avrebbero fatto] fede di quanto promesso. In caso contrario, l’inquisitore gli [avrebbe fatto] precetto in presenza di notaio e testimoni di presentarsi a Roma in ottobre (EN, XX.573). A Roma Castelli, non ancora al corrente di quanto stava succedendo, cercava di convincere le autorità inquisitoriali di non interdire il Dialogo. In una lettera del 2 ottobre annunziava a Galileo di essersi recato presso il padre, Ippolito Maria Lanci commissario del Sant’Uffizio, per convincerlo della giustezza della causa copernicana. Il buon padre gli aveva dichiarato che questo problema non doveva essere esaminato con l’autorità delle Sacre Lettere. In altri termini, che il movimento della Terra non era oggetto di fede. Castelli si affrettò a comunicare la buona notizia a Galileo (EN, XIV.400-401). Il 6 ottobre Galileo annunziava al segretario Andrea Cioli, momentaneamente a Siena al seguito del granduca, di aver ricevuto tre giorni prima un’intimazione dell’inquisitore di Firenze, inviata dalla Congregazione del Sant’Uffizio di Roma, a presentarsi a quel tribunale durante tutto il mese di ottobre. Galileo si sarebbe recato volentieri a Siena per chiedere consiglio al granduca e nello stesso tempo per mostrare la sua vera attitudine di uomo obedientissimo e zelantissimo di Santa Chiesa. Voleva cautelarsi contro le persecuzioni, le ingiuste suggestioni che avrebbero potuto portargli pregiudizio e influenzare la mente, per altro santissima, dei superiori (EN, XIV.402-403). Sconvolto, disperato, incapace di ammettere quel che stava succedendo, decise inoltre di rivolgersi al cardinale Francesco Barberini. Il 13 ottobre, in una lunga lettera in cui difendeva la sua attività di scienziato, chiedeva che l’Inquisitore, il Nunzio, l’Arcivescovo ed altri ministri di Santa Chiesa, ai quali era prontissimo a rispondere, venissero ad interrogarlo a Firenze. E se la grave età, le

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molte corporali indisposizioni, le afflizion di mente, la lunghezza del viaggio non erano ritenute sufficienti dal tribunale del Sant’Uffizio, si diceva disposto a mettersi in viaggio, anteponendo l’ubbidire al vivere (EN, XIV.406-410). La lettera era davvero straziante, ma ormai contava solo il suo arrivo a Roma. Per convincerlo a partire, i diversi interlocutori indosseranno l’abito della dissimulazione. Il cardinale Barberini si era assentato per alcuni giorni, l’ambasciatore Niccolini riuscirà a consegnargli personalmente la lettera di Galileo ai primi di novembre e comunicherà le sue impressioni allo scienziato in una lettera del 6 novembre. Trattandosi ormai di una materia affidata al Sant’Uffizio, il cardinale era stato molto prudente per non incorrere nelle pene comminate a chi ne parla o rivela. Ma si era mostrato benignissimo verso Galileo, in maniera tale che anche se avesse dovuto recarsi a Roma, non sembrerebbe che se ne dovesse sperar se non agevolezza e favore. Francesco Barberini assicurava che se ne sarebbe parlato e si sarebbe visto cosa si poteva fare. Intanto Niccolini era convinto che si potesse ottenere una proroga (EN, XIV.424-425). L’ambasciatore giocherà una delle ultime carte in un ulteriore incontro con Urbano VIII. Ne farà il resoconto il 13 novembre a Cioli ed a Galileo in due lettere separate. Da quanto riferiva Niccolini, Urbano VIII aveva letto la lettera inviata al cardinale Barberini, ma precisava che non si poteva evitare che Galileo venisse a Roma. L’età, le cattive condizioni di salute, il rischio di morire durante il viaggio non ebbero l’effetto sperato. Il papa suggerì di trasportarlo su una lettiga e di procedere lentamente. Chiedeva a Dio di perdonargli l’errore d’essersi messo in un intrigo come questo dopo che S.S.tà medesima, mentr’era cardinale, ne l’haveva liberato (EN, XIV.427429). L’argomento dell’onnipotenza divina era sempre lì, nella bocca di Sua Santità. Urbano VIII ne sottolineava ancora una volta l’importanza, attribuendogli inoltre il merito di aver liberato Galileo dal pericolo che correva professando l’opinione copernicana. Il riferimento a mentr’era cardinale confermava la testimonianza di Oreggi ed era la prova che le opinioni di Maffeo Barberini sul sistema del mondo non erano cambiate: il Coper-

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nico di Galileo così come appariva nel Dialogo era un pericoloso nemico per la fede cattolica. Intanto a Roma il copernicano Giovanni Ciampoli pagava il prezzo della sua fedeltà a Galileo: veniva allontanato da Roma ed inviato come governatore nelle Marche. Non avendo ottenuto dal papa l’annullamento del viaggio, Niccolini si preoccupava del soggiorno di Galileo a Roma e gliene parlava nella lettera del 13 novembre. Sperava di evitargli le celle del palazzo del Sant’Uffizio. Urbano VIII gli aveva consigliato di discuterne col cardinale nipote (EN, XIV.427-428). A Firenze si aspettava la proroga, e a Roma si sussurrava che sarebbe stata accordata. I più ottimisti continuavano a sperare che si risparmiassero a Galileo la fatica del lungo viaggio e l’obbrobrio. Il 18 novembre il segretario Cioli insisteva presso l’ambasciatore Niccolini per ottenere una proroga poiché si temeva che Galileo non avrebbe potuto sopportare il viaggio (EN, XIV.429). Il 21 novembre Niccolini comunicava direttamente a Galileo il rifiuto del papa di ritardare ulteriormente la sua partenza. Tuttavia l’inquisitore di Roma era d’accordo per trasferire al suo collega di Firenze, Clemente Egidi, l’incarico di fissare la data di partenza, che poteva essere spostata per ragioni di salute o altro. Gli inquisitori potevano mettersi d’accordo fra di loro, spiegava Niccolini, e l’Inquisitore di Firenze, se vorrà favorirla, potrà andar scrivendo che ella si va preparando per venire. Chiedeva quindi a Galileo di continuare a manifestare la sua prontezza in esser risolutissimo d’obbedire (EN, XIV.432). Sia Niccolini che Cioli (e sicuramente anche il granduca) consideravano ineluttabile la partenza di Galileo per Roma. Il papa non avrebbe ceduto. Ed in effetti il 9 dicembre, nella riunione della Congregazione del Sant’Uffizio, Urbano VIII prendeva atto della proroga di un mese accordata dall’inquisitore di Firenze, ma imponeva a Galileo di mettersi in viaggio allo scadere di questa: doveva imperativamente raggiungere Siena e proseguire poi per Roma (EN, XIX.280-281). Castelli e Niccolini erano convinti che una nuova richiesta di proroga avrebbe indisposto ed esasperato Urbano VIII. Castel-

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li scriveva a Galileo il 25 dicembre cercando di convincerlo a partire. Galileo non aveva mai commesso né in fatti, né in parole né in scrittura, errori o mancamenti nei confronti della Chiesa. Ma, secondo Castelli, se ora rifiutava di partire gli avversari, che non aspettavano altro, avrebbero alzato grida fra la turba ignorante e lo avrebbero trattato da ribelle. In altri termini la turba romana non concepiva che si potesse disubbidire ad un ordine di Sua Santità. Il fedele discepolo suggeriva a Galileo di scrivere al papa ed al cardinale nipote, di raccomandarsi a Dio e di venirsene allegramente perché sperava che tutte le difficoltà sarebbero state superate (EN, XIV.442). In una lettera scritta lo stesso giorno, l’ambasciatore Niccolini spiegava a Galileo, con molto garbo e con le dovute precauzioni, che il certificato attestante le sue cattive condizioni di salute, benché firmato da tre grandi specialisti, non sarebbe servito a nulla se prima non lasciava Firenze, dando così qualche segno probabile della sua prontezza nell’obbedire ed ottenendo così d’esser compatito e aiutato (EN, XIV.443). In effetti Galileo aveva inviato il 17 dicembre a Roma un certificato attestante il suo cattivo stato di salute, firmato da tre specialisti. Le sue condizioni generali erano pessime ed il viaggio a Roma presentava realmente un rischio mortale. Il documento fu esaminato il 30 dicembre nel corso della seduta del Sant’Uffizio. Urbano VIII ordinò di scrivere all’inquisitore di Firenze che il Santo Padre e la Sacra Congregazione non potevano più subire né tollerare simili sotterfugi. Al fine di verificare se veramente l’interessato si trovava in uno stato di salute che impediva la partenza per Roma, il Santo Padre e la Congregazione avrebbero inviato a Firenze un commissario accompagnato da medici che dopo averlo esaminato avrebbero rilasciato un rapporto veritiero e sincero sul suo stato di salute. Se le condizioni di Galileo permettevano di affrontare il viaggio, egli sarebbe stato inviato a Roma in catene; se invece era necessario rinviare la partenza per motivi di salute, dopo la guarigione sarebbe stato trasferito a Roma sempre in condizioni di prigionia. Le spese per l’invio del commissario e dei medici sarebbero state a suo carico, poiché era stato egli stesso a mettersi in questa situazione rifiutan-

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do di venire e di obbedire nei termini di tempo stabiliti (originale latino in EN, XIX.281-282, 335). Il 1° gennaio il cardinale Antonio Barberini precisava all’inquisitore di Firenze che il Sant’Uffizio aveva molto male inteso che Galileo non abbi [sic] prontamente ubbidito al precetto fattogli di venire a Roma. Reiterava poi la minaccia di farlo trasferire nelle carceri romane del Sant’Uffizio legato anche con ferri e di condannarlo alle spese (EN, XX.575). Egidi lesse l’ingiunzione a Galileo e scrisse al cardinale Barberini l’8 gennaio per informarlo della sua prossima partenza per Roma, pienamente disposto ad obbedire. Galileo avrebbe fatto conoscere ai medici romani il suo stato di salute ed assicurava di non cercare sotterfugi (EN, XIX.335). Forse nonostante tutto Galileo nutriva ancora un briciolo di speranza. Da una lettera del segretario Cioli in data 11 gennaio a lui diretta si capisce che aveva scritto al granduca. Nella risposta il segretario di Stato confermava la volontà di Ferdinando II di non opporsi alle decisioni romane e di chiedere a Galileo di partire per Roma. Il granduca capiva e compativa, ma si rendeva conto che bisognava obbedire ai tribunali maggiori. Per rendere meno faticoso il viaggio, metteva a disposizione una delle sue lettighe e si rallegrava della possibilità di accogliere Galileo nei locali dell’ambasciata. Supponeva che entro un mese sarebbe ritornato a Firenze (EN, XV.21). La rinunzia di Ferdinando II a fronteggiare l’ira papale era stata decisa sicuramente in accordo con i suoi consiglieri. È difficile determinarne le ragioni precise. Si ricorderà che dopo la morte di Cesi, Benedetto Castelli aveva consigliato a Galileo di pubblicare il Dialogo a Firenze per motivi che non voleva mettere in carta ora. Probabilmente a Roma si incontravano già alcune difficoltà e la proposta di Castelli mirava ad evitarle trasferendo la stampa a Firenze. Non sappiamo se Galileo ne approfittò per introdurre alcune modifiche nel testo, ma è facile constatare che l’argomento dell’onnipotenza divina così come è esposto nel Dialogo non poteva soddisfare Urbano VIII. La reazione di Sua Santità fu violenta ed imprevedibile. Il granduca non se ne rese conto subito, ma finì col giustificarla sulla base

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delle informazioni inviate da Niccolini e di quelle fornite a Firenze dall’inquisitore Egidi. Nel rapporto preliminare sul Dialogo richiesto dal papa, dopo le accuse principali viene precisato che «sono da considerare, come per corpo di delitto, le cose seguenti: 1. Aver posto l’imprimatur di Roma senz’ordine [...]; 2. Aver posto la prefazione con carattere distinto, e resala inutile come alienata dal corpo dell’opera, et aver posto la medicina in bocca di uno sciocco, et in parte che né anche si trova se non con difficoltà, approvata poi dall’altro interlocutore freddamente, e con accenar solamente e non distinguer il bene, che mostra dire di mala voglia» (EN, XIX.326). Il documento fu esaminato il 23 settembre 1632 nella riunione della Congregazione tenutasi in presenza del papa. La medicina è appunto l’argomento di Urbano VIII. Come vedremo, l’importanza e le conseguenze della posizione personale di Urbano VIII non saranno prese in considerazione nelle conclusioni della commissione creata da Giovanni Paolo II nel 1981 per esaminare il caso Galileo. A Bellarmino sarà attribuito il merito di aver correttamente formulato i problemi sollevati dal sistema di Copernico.

IX SPERANZE PERDUTE Direzione il Sant’Uffizio Galileo lasciò Firenze il 20 gennaio, dopo aver fatto testamento. In una lunga lettera del 15 ad Elia Diodati accusava i gesuiti di aver fatto impressione in teste principalissime sostenendo che il Dialogo era più pernicioso per la Chiesa che le scritture di Lutero e di Calvino. Sottolineava poi che il Maestro del Sacro Palazzo aveva visto il libro minutissimamente, mutando, aggiungendo e levando quanto piacque a lui (EN, XV.23-26). Come si ricorderà, nella lettera a Guiducci del 7 agosto 1632 Filippo Magalotti riportava un’osservazione del Maestro del Sacro Palazzo, il domenicano Riccardi, in cui i gesuiti venivano indicati come acerrimi avversari di Galileo. La posizione della Compagnia era effettivamente cambiata in seguito agli scontri di Galileo con Christoph Scheiner e Orazio Grassi. Come generalmente avveniva ogni volta che un confratello era attaccato, la Compagnia di Gesù aveva fatto blocco contro Galileo. Ma non si può affermare che i gesuiti abbiano avuto un ruolo di primo piano in tutta la tragica vicenda galileana. Ad ogni tappa dell’incredibile progressione degli attacchi contro lo scienziato si ritrova pur sempre un Urbano VIII collerico, dominato da un profondo sentimento di vendetta (FA 1997, 423-424). Galileo dovette fermarsi a Ponte a Centina fino al 10 febbraio per osservare la quarantena imposta dall’epidemia di peste. Giunse finalmente a Roma il 13 febbraio ed ottenne dal Sant’Uffizio il permesso di alloggiare nei locali dell’ambasciata di Tosca-

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na, ospite dei coniugi Niccolini. Secondo quanto riferiva l’ambasciatore a Cioli il 14 febbraio, il giorno successivo al suo arrivo si era recato da monsignor Boccabella, che aveva abbandonato la carica di assessore del Sant’Uffizio da 15 giorni, poi dal nuovo assessore ed infine aveva cercato di incontrare senza riuscirvi il commissario del Sant’Uffizio Vincenzo Maculano. A Roma Galileo cercherà di influenzare i responsabili della procedura attraverso contatti personali. Le sue iniziative erano condivise e forse suggerite da Niccolini, che non escludeva una soluzione rapida senza conseguenze di rilievo per l’autore del Dialogo. Nella stessa lettera del 14 febbraio Niccolini comunicava a Cioli che avrebbe chiesto ad una persona amica di Vincenzo Maculano di incontrare Galileo ed al cardinale Francesco Barberini di intervenire presso Urbano VIII affinché lo scienziato non venisse trasferito nei locali del Sant’Uffizio, in riguardo alla sua étà, alla sua reputazione ed alla sua prontezza nell’obbedire (EN, XV.40-41). Le iniziative personali di Galileo furono rapidamente interrotte: Francesco Barberini gli chiedeva tramite Niccolini di starsene a casa e di non ricevere visite. E così si esprimeva anche il commissario del Sant’Uffizio, sempre tramite Niccolini, non per comandare né per aver ricevuto ordine dalla Sacra Congregazione del Sant’Uffizio, ma come amico per il pregiudizio e danno che ne potrebbe risultare (EN, XV.41 e 45). Il 27 febbraio Niccolini riferiva a Cioli di essere stato ricevuto da Urbano VIII, che appariva meno irritato del solito e disposto ad ascoltare l’ambasciatore. Il papa sottolineava il trattamento eccezionale riservato a Galileo, per riguardo della stima dovuta al granduca, riferendosi alla concessione fattagli di poter risiedere all’ambasciata di Toscana anziché nei locali del Sant’Uffizio. Niccolini chiese una rapida spedizione della causa affinché Galileo potesse ritornare al più presto a Firenze. Il papa replicò che le cose del Sant’Uffizio procedevano ordinariamente con qualche lunghezza. Non sapeva quanto tempo sarebbero durate, poiché s’andava fabbricando il processo, il qual non era per ancora finito. Secondo Urbano VIII, Galileo era stato mal consigliato, e tutta la colpa era di Ciampoli: mentre si di-

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chiarava di voler parlare del movimento della Terra per ipotesi, in realtà si sviluppavano argomenti a suo favore, contravvenendo all’ordine dato a Galileo da Bellarmino nel 1616. Niccolini era del parere che anche se le risposte di Galileo fossero state soddisfacenti, non avrebbero voluto mostrare d’aver fatto nemmeno una carriera, e cioè un passo avanti, doppo [sic] una apparenza così pubblica d’averlo fatto venire a Roma (EN, XV.55-56). Le cure assidue prodigate dalla moglie dell’ambasciatore, Caterina Riccardi parente del Maestro del Sacro Palazzo, alleviarono le sofferenze fisiche e morali di Galileo. I giorni e le settimane si succedevano e nessuna notizia trapelava sull’andamento della spedizione. Galileo ricevette due visite di monsignor Lodovico Serristori, consultore del Sant’Uffizio, incaricato probabilmente di scoprire la linea di difesa scelta dall’imputato. Riuscì così a sapere che il tribunale avrebbe utilizzato contro di lui il resoconto del colloquio avuto con Bellarmino nel 1616. Poiché aveva conservato ed aveva con sé la fede rilasciatagli dal cardinale il 26 maggio 1616, Galileo si credette al sicuro. Fino agli ultimi giorni che precedettero la convocazione del Sant’Uffizio, non si rese conto che il Decreto del 1616 costituiva la prova più importante contro di lui. Intanto Niccolini non rallentava la sua ricerca di informazioni e consigli. Aveva incontrato i cardinali Desiderio Scaglia e Guido Bentivoglio, membri del Sant’Uffizio, e li aveva trovati assai ben disposti verso Galileo (EN, XV.45). Il 13 marzo riferiva a Cioli i risultati dell’udienza col papa. Secondo quanto affermava Sua Santità, non si poteva evitare a Galileo la convocazione al Sant’Uffizio. Urbano VIII si era poi soffermato ancora una volta sulla nozione di onnipotenza divina. Secondo quanto riferiva Niccolini, aveva detto che «vi era un argomento al quale non hanno mai saputo rispondere, che è quello che Iddio è onnipotente e può far ogni cosa; se è onnipotente perché vogliamo necessitarlo?». L’ambasciatore aveva osservato che gli era parso «d’aver udito dire al medesimo Signor Galilei, prima, che non teneva per vera l’opinione del moto della Terra, ma che siccome Iddio poteva fare il mondo in mille modi, così non si poteva negar né meno che non l’avessi [sic] possuto far anche in

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questo. Ma riscaldandosi mi rispose che non si doveva impor necessità a Dio benedetto». L’ambasciatore, vedendolo entrare in escandescenze, non volle discutere di cose che non conosceva. Reiterò quindi la richiesta di evitare a Galileo di presentarsi al Sant’Uffizio, ma ottenne solamente la promessa che avrebbe alloggiato nelle migliori stanze e le più comode di questo luogo. Niccolini aveva riferito a Galileo il contenuto della conversazione, senza tuttavia dirgli che si pensava di convocarlo presso il Sant’Uffizio, per non farlo vivere inquieto fino a quel tempo, poiché non si sapeva quando ciò sarebbe avvenuto. L’impressione generale che l’ambasciatore traeva dall’udienza era che le convinzioni del papa restavano immutate (EN, XV.67-68). Il 6 aprile Niccolini fu convocato dal cardinale Francesco Barberini: per ordine di Urbano VIII e del Sant’Uffizio, Galileo sarebbe stato ben presto chiamato per essere interrogato. Niccolini cercò inutilmente di ottenere che ritornasse ogni sera a Villa Medici. Il cardinale non volle promettergli nulla ma assicurò che non sarebbe stato considerato prigioniero e avrebbe usufruito di un confortevole alloggio. Qualche giorno dopo l’ambasciatore era andato a ringraziare Urbano VIII per le attenzioni manifestate al granduca. Intanto il papa riaffermava che la materia di cui si era occupato Galileo era gravissima e di conseguenza grande per la religione. Niccolini comunicava a Cioli le brutte notizie in una lettera del 9 aprile aggiungendo di aver esortato Galileo a non difendere la propria opinione al fine di finirla più presto e di sottomettersi a quel che vegga che possin desiderare ch’egli creda [...] in quel particolare della mobilità della Terra (EN, XV.84-85). Le trattative ufficiose di Niccolini presentavano già un primo bilancio negativo, ma nonostante l’abilità dell’esperto diplomatico nel leggere tra le righe, si era ben lontani dal sospettare quello che effettivamente stava per accadere. Alla vigilia del primo interrogatorio niente appariva definitivamente deciso da Urbano VIII e dal Sant’Uffizio e bisogna quindi ammettere che le cose precipiteranno dopo gli interrogatori.

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Il processo Il 12 aprile Galileo compariva personalmente a Roma presso il palazzo del Sant’Uffizio. Dopo le abituali formalità, il padre commissario Vincenzo Maculano gli chiese se era già venuto a Roma e più particolarmente nell’anno 1616. Questa la risposta di Galileo (le domande sono in latino, le risposte in italiano): R. [...] L’occasione per la quale fui a Roma l’anno 1616, fu che sentendo moversi dubbio sopra la opinione di Nicolò Copernico circa il moto della terra e stabilità del sole e l’ordine delle sfere celesti, per rendermi in stato sicuro di non tenere se non l’opinioni sante e cattoliche, venni per sentire quello che convenisse tenere intorno a questa materia (PS 1984, 125).

Le successive domande riguardarono i nomi di chi lo aveva convocato e di chi aveva incontrato. Dopo aver precisato che era venuto spontaneamente, Galileo fece i nomi di alcuni cardinali fra i quali Bellarmino. Sulle ragioni dell’incontro spiegava che i suddetti cardinali chiedevano precisazioni sul sistema di Copernico. Maculano domandò cosa era stato deciso su questo problema: R. Circa la controversia che verteva circa la sopradetta opinione della stabilità del sole e moto della terra, fu determinato dalla Sacra Congregazione dell’Indice tale opinione, assolutamente presa, esser ripugnante alle Scritture Sacre, e solo ammettersi ex suppositione, nel modo che la piglia il Copernico (ivi, 126).

Maculano arrivava quindi alla questione più importante e chiese se fu notificata a Galileo la determinazione (determinatio) e da chi: R. Mi fu notificata la detta determinatione della Congregazione dell’Indice e mi fu notificata dal sig. Cardinale Bellarmino (ibid.).

Il commissario chiese poi precisazioni su cosa gli era stato detto da Bellarmino circa la determinazione ed altro:

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R. Il sig. cardinale Bellarmino mi significò la detta opinione del Copernico potersi tenere ex suppositione, si come esso Copernico l’aveva tenuta: et Sua Eminenza sapeva ch’io la tenevo ex suppositione [...] come da una risposta del medesimo sig. cardinale, fatta a una lettera del padre Maestro Paolo Antonio Foscarini, provinciale dei carmelitani, si vede, della quale io tengo copia e nella quale sono queste parole: «Dico che mi pare che Vostra Paternità et il sig. Galileo facciano prudentemente a contentarsi di parlar ex supposizione, e non assolutamente» (ibid.).

A questo punto ci si può chiedere se il commissario Maculano poteva davvero accontentarsi della frase di Bellarmino per ammettere che Galileo considerava il sistema copernicano come una semplice ipotesi e non una realtà astronomica. Il commissario non insistette su questo punto, ma chiese cosa era stato deciso in quel mese di febbraio 1616 e cosa gli era stato notificato. Galileo citava ancora Bellarmino: l’opinione di Copernico presa assolutamente non poteva essere sostenuta, ma ex suppositione si poteva pigliar e servirsene. Esibiva quindi la fede rilasciatagli da Bellarmino il 26 maggio 1616 e specificava che in questa era scritto che l’opinione del Copernico non si può tener né difendere, per esser contro le Scritture Sacre. Maculano gli chiese se erano presenti altre persone e se da una di esse gli fosse stato fatto qualche precetto relativo a questa stessa materia. Galileo riassumeva quindi la maniera in cui si era svolto il negozio: Bellarmino lo aveva convocato, e gli aveva detto qualcosa che avrebbe voluto ripetere all’orecchio di Sua Santità prima che ad altri (ivi, 127). Cos’era il qualcosa da sussurrare nell’orecchio del papa? Secondo lo storico Mario D’Addio, Galileo si riferiva all’intervento nel 1616 di Maffeo Barberini a suo favore: secondo il cardinale non si doveva dichiarare eretica la teoria di Copernico (D’AM 1993, 185). Ma di questa osservazione di Galileo il commissario Maculano non tenne alcun conto, almeno per quel che se ne sa. Galileo proseguiva quindi affermando di non ricordarsi se alla sua deposizione fossero intervenuti prima o dopo anche alcuni padri domenicani: ammetteva che forse gli era stato fatto

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qualche precetto che non teness[e] né difendess[e] detta opinione, ma dopo tanti anni non ne aveva più il ricordo. Alle insistenze del commissario rispondeva ripetendo che non si ricordava di altro. Concludeva quindi in questi termini: R. [...] io dico liberamente quello che mi raccordo [sic] [...] cioè di non aver tenuto né difeso la detta opinione del moto della terra e stabilità del sole (ivi, 128).

Non si ricordava, in particolare, se accanto all’espressione né difendere ci fossero anche le frasi né insegnare e quovis modo (in qualunque maniera). Dopo alcune precisazioni sui termini utilizzati nel precetto, si entrava nel vivo della questione. Maculano chiedeva se dopo aver ricevuto il precetto aveva ottenuto licenza di scrivere il libro (cioè il Dialogo) che in seguito aveva fatto stampare: R. Dopo il sodetto precetto io non ho ricercato licenza di scriver il suddetto libro [...] perché io non pretendo, per aver scritto detto libro, di aver contrafatto punto al precetto che mi fu fatto di non tenere né difender né insegnare la detta opinione, anzi di confutarla (ibid.).

Non sappiamo esattamente che effetto fece sul padre commissario l’affermazione secondo la quale il contenuto del Dialogo costituiva una refutazione del sistema di Copernico. Maculano non insistette, e volle sapere se Galileo aveva ottenuto la licenza di stampa, da chi, se per se stesso o per altra persona. Dalla lunga risposta di Galileo si ricavano le seguenti (già note) informazioni: a) l’autore era venuto a Roma e aveva dato il manoscritto al padre Maestro del Sacro Palazzo (Riccardi) con assoluta autorità di aggiunger, levare, mutare ad arbitrio suo; b) Riccardi, dopo averlo fatto vedere al padre Visconti, lo aveva rivisto e aveva concesso a Galileo la licenza con l’ordine però di stampare il libro a Roma; c) mentre Galileo era a Firenze era sopraggiunto il contagio: l’accordo era stato annullato e Galileo chiese di stampare il libro a Firenze; d) Riccardi chiese di vedere l’originale ma nonostante i servizi forniti dai primi segretari del Granduca e padroni dei procacci non fu possibile inviare il te-

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sto che senz’altro sarebbe andato a male (bagnato o bruciato); e) di fronte a questa difficoltà, Riccardi aveva ordinato che il libro fosse rivisto a Firenze da persona molto scrupolosa: scelse il padre Giacinto Stefani che ricopriva fra le altre cariche quella di consultore del Sant’Uffizio; f) il libro fu consegnato da Galileo all’inquisitore di Firenze Egidi che lo passò a Stefani; da questi fu restituito a Egidi che lo inviò a Nicolò dell’Antella, revisore dei libri da stamparsi nel Granducato; g) infine dell’Antella affidò il manoscritto al tipografo Landini e quest’ultimo, dopo aver trattato con il padre Inquisitore, lo stampò rispettando gli ordini dati dal Maestro del Sacro Palazzo. Il commissario chiese infine se aveva parlato al Maestro del Sacro Palazzo del precetto del 1616. Galileo rispose che non aveva detto niente a Riccardi perché in questo libro non aveva né sostenuto né difeso la mobilità della Terra e l’immobilità del Sole. «Anzi – sottolineava Galileo –, nel detto libro io mostro il contrario di detta opinione del Copernico, e che le ragioni di esso Copernico sono invalide e non concludenti» (ivi, 129-130). Galileo fu trattenuto al Sant’Uffizio. Gli venne assegnata come carcere una camera nel dormitorio degli ufficiali con l’obbligo di non uscirne senza speciale permesso. Le circostanze della stampa del Dialogo esposte da Galileo nel corso di questo primo interrogatorio sono su alcuni punti incomplete rispetto a quanto si ricava dal carteggio. Non viene data nessuna spiegazione delle ragioni del trasferimento della stampa a Firenze. È probabile che l’opposizione di Riccardi sia stata più forte di quanto non appaia dal carteggio, proprio perché il Maestro del Sacro Palazzo temeva che a Firenze il libro subisse qualche importante modifica. D’altra parte Galileo non menzionerà né in questa né nelle successive deposizioni l’invio a Riccardi del proemio e della fine del libro ed il loro rinvio a Firenze. Temeva che venissero scoperte eventuali modifiche? Alcune furono sicuramente introdotte, soprattutto alla fine del libro. D’altra parte, come si ricorderà, Riccardi aveva concesso l’imprimatur per la stampa del Dialogo a Roma ed in seguito una sottoscrizione semplice d’imprimatur per il granduca, probabilmente dietro suggerimento di Ciampoli. Tuttavia un imprimatur

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a nome di Riccardi si ritroverà nel Dialogo accanto a quello dell’inquisitore di Firenze. Questo fatto singolare non sarà rilevato da Maculano. Nel caso delle modifiche e del rilascio dell’imprimatur una responsabilità di Riccardi, almeno parziale, sarebbe facilmente venuta fuori. Ma il Maestro del Sacro Palazzo era riuscito a far ammettere di essere stato aggirato, come lo era stato lo stesso Urbano VIII, vittime entrambi dello stesso stratagemma. Di tutto questo Maculano non ebbe conoscenza, oppure gli si chiese in alto loco di non occuparsene. La rivendicazione di Galileo di non aver difeso il sistema copernicano, bensì di averlo refutato, creava difficoltà che il commissario non riteneva di poter risolvere senza un supplemento d’inchiesta. Il Sant’Uffizio decise quindi di far esaminare il libro dal teologo del papa Oreggi, dal gesuita Inchofer, e dal teatino Pasqualigo. Come si ricorderà, i primi due avevano fatto parte della Commissione istituita da Urbano VIII per esaminare il Dialogo indipendentemente dal Sant’Uffizio. Il 17 aprile 1633, i tre teologi furono d’accordo nell’affermare che nel Dialogo Galileo aveva difeso l’opinione copernicana dell’immobilità del Sole e della mobilità della Terra ed era sospettato di considerarla personalmente vera (PS 1984, 139-153). Nella riunione del 27 aprile, il Sant’Uffizio ne prendeva atto e nello stesso tempo constatava che Galileo non era stato sincero. A Maculano si poneva ora il problema di come procedere. In una lettera a Francesco Barberini del 28 aprile, dopo aver indicato che la riunione si era tenuta secondo gli ordini ricevuti da Sua Santità, segnalava immediatamente i contrasti sorti tra i cardinali del Sant’Uffizio: «ne seguirebbe la necessità di maggior rigore nella giustizia e di riguardo minore a gli rispetti che si hanno in questo negozio». Maculano aveva quindi chiesto al Sant’Uffizio la facoltà di trattare direttamente con Galileo extraiudicialmente [sic] e convincerlo a riconoscere il suo errore e confessarlo. I cardinali non furono subito d’accordo ed avrebbero preferito seguire la strada di convincerlo con ragioni. Alla fine Maculano ottenne quel che voleva (EN, XV.106-107). Che significato avevano le espressioni maggior rigore nella giustizia e convincerlo con ragioni? In realtà si trattava di sotto-

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mettere Galileo al rigoroso esame che, come preciseremo nelle prossime pagine, comportava la tortura. La condizione di «Filosofo e Matematico primario del Granduca di Toscana» e la notorietà di cui godeva in Europa rendevano difficile l’applicazione della procedura prevista dal diritto inquisitoriale. L’iniziativa di Maculano tendeva a evitare l’applicazione della tortura, ma non poteva essere presa nel quadro delle sue mansioni di giudice istruttore. Era quindi una iniziativa extragiudiziale. Secondo lo storico Annibale Fantoli fu dovuta ad un intervento diretto di Urbano VIII (FA 1997, 399). Nel seguito della lettera Maculano raccontava al cardinale Barberini la maniera in cui si era concretizzata la sua iniziativa. Era andato a discutere con Galileo il 26 aprile dopo pranzo e dopo molti e molti argomenti e risposte aveva raggiunto lo scopo ricercato. Galileo chiaramente [ri]conobbe di aver errato e nel suo libro di aver ecceduto. Chiedeva un po’ di tempo per poter riflettere sulla maniera di confessarlo. Nel corso dell’interrogatorio successivo, che ebbe luogo il 30 aprile, Galileo dichiarava di aver riflettuto sulla proibizione fattagli sedici anni prima di non tenere, difendere o insegnare quovis modo l’opinione condannata sulla mobilità della Terra e la stabilità del Sole. Volle rileggere il Dialogo, che non aveva rivisto da tre anni, per cercare attentamente se non gli fosse uscito dalla penna cosa dalla quale il lettore o le autorità ecclesiastiche avrebbero potuto dedurre che il testo contravveniva agli ordini della Chiesa. E così proseguiva: E giungendomi esso per il lungo disuso, quasi come scrittura nova e di altro autore, liberamente confesso ch’ella mi si rappresentò in più luoghi distesa in tal forma che il lettore, non consapevole dell’intrinseco mio, arebbe [sic] avuto cagione di formarsi concetto che gli argomenti portati per la parte falsa, e che io intendevo di confutare, fussero in tal guisa pronunciati, che piuttosto per la loro efficacia fossero potenti a stringere, che facili ad essere sciolti (PS 184, 131).

A questo punto Galileo faceva allusione a due argomenti, presi uno dalle macchie solari e l’altro dal flusso e riflusso [sic] del mare senza dare altre precisazioni. Li considerava inconcludenti, ma ammetteva che potevano essere interpretati in altro mo-

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do dal lettore («avalorati all’orecchie del lettore più di quello che pareva convenirsi ad uno che li tenesse per inconcludenti»): si scusava ed attribuiva il suo comportamento al naturale compiacimento che ognuno prova per le proprie sottigliezze. Citava quindi Cicerone: avidior sim gloria quam satis sit («sono più avido di gloria di quanto sia necessario»). Confessava infine l’errore dovuto ad una vana ambizione ed a pura ignoranza e inavertenza [sic] (ivi, 131-132). La deposizione era finita, la segretezza veniva imposta come di consueto a Galileo che firmava e si allontanava. Ma tornando poco dopo soggiungeva (et post paulum rediens, dixit): E per maggior confirmatione del non aver io né tenuta né tener per vera la dannata opinione [...], se mi sarà conceduta, siccome io desidero, di poterne fare più chiara dimostratione, io sono accinto [sic] a farla. E l’occasione c’è opportunissima, attesoché nel libro già publicato sono concordi gli interlocutori di doversi, dopo certo tempo, trovarsi insieme [...] con tale occasione dunque, dovendo io soggiungere una o due altre giornate, prometto di ripigliar gli argomenti già recati a favore della detta opinione falsa e dannata, e confutargli [sic] in quel più efficace modo che da Dio benedetto mi verrà sumministrato (ivi, 132).

Lo stesso giorno (30 aprile), Galileo era autorizzato a lasciare il Sant’Uffizio ed a far ritorno a Villa Medici che era da considerare come luogo della sua incarcerazione (loco carceris) (ivi, 133). Nella frase in quel più efficace modo che da Dio benedetto mi verrà sumministrato si può leggere un’allusione all’argomento dell’onnipotenza divina, che Galileo si proponeva di sviluppare nelle giornate da aggiungere al Dialogo, e quindi il riconoscimento implicito di non aver osservato quanto richiesto da Urbano VIII. Come si ricorderà, in una lettera a Galileo del 3 giugno 1630 Orso d’Elci faceva allusione alla noia che il papa provava per la dimostrazione del doppio movimento della Terra attraverso le maree. Il termine noia era un eufemismo. In realtà il papa credeva nella validità della prova, ma non ne vedeva l’utilità: l’onnipotenza divina poteva creare le maree in mille altri modi. Il sistema copernicano era utile agli astronomi come ipotesi per salvare le apparenze, ma incompatibile col contenuto

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della Sacra Scrittura e quindi da condannare. La convinzione di Urbano VIII non era un fatto nuovo, ma stranamente i galileani non ne avevano tenuto gran conto. Il ritorno di Galileo a Villa Medici rendeva ottimista l’ambasciatore Niccolini. In una lettera indirizzata il 1° maggio al segretario Cioli annunziava la buona notizia e spiegava che la decisione del Sant’Uffizio era dovuta all’intervento del padre commissario e del cardinale Francesco Barberini. Maculano si adoperava affinché la causa si stiacci, ovvero venga superata, e vi s’imponga silenzio. Secondo Niccolini, se s’otterà, sarà un abbreviare il tutto e liberar molti da fastidi e pericoli (EN, XV.109-110). L’ultima frase suggerisce che non era sicuro che tutto stesse per finire e d’altra parte che per alcuni la situazione poteva essere pericolosa. In una successiva lettera del 3 maggio Niccolini annunziava a Cioli che Galileo stava molto meglio. «E perché – scriveva l’ambasciatore – desidera che si venga all’ultima terminatione della sua causa, il padre Commissario del Sant’Uffizio gli ha data qualche intentione di venire a questo fine a trovarlo, continuando verso questo negozio di farci tutti i piaceri possibili et di mostrarsi benissimo inclinato verso cotesta Ser.ma Casa» (EN, XV.111-112). Maculano non si recò a Villa Medici e Galileo fu di nuovo convocato al Sant’Uffizio il 10 maggio. Il commissario gli accordò otto giorni per presentare la sua difesa scritta. Galileo l’aveva con sé e potette dargliela subito insieme all’originale della fede rilasciatagli da Bellarmino il 26 maggio 1616. Fu autorizzato a ritornare a Villa Medici lo stesso giorno (PS 1984, 134). Nella scrittura redatta per la sua difesa, Galileo esponeva i motivi che lo avevano indotto a chiedere la fede rilasciata da Bellarmino: far cessare i rumori secondo i quali il cardinale lo avrebbe convocato per farlo abiurare. Ribadiva poi che il Dialogo non poteva aver trasgredito il Decreto del 1616. Secondo Galileo, la prova del suo desiderio di eliminare ogni ombra di macchia era evidente, poiché aveva presentato il manoscritto in mano del supremo Inquisitore, cioè Riccardi. Sperava quindi di aver fermamente rimosso dalle menti dei giudici ogni dubbio sull’aver

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scientemente e volontariamente trasgredito i comandamenti ricevuti. Contava infine sulla loro clemenza e benignità, in considerazione della sua età, del suo stato di salute e del lungo viaggio che aveva dovuto affrontare. Niccolini sarà ricevuto da Urbano VIII il 21 maggio. Nella lettera a Cioli scritta il giorno successivo riferiva che il papa ed il cardinale Barberini prevedevano la conclusione della causa di Galileo nella prossima riunione del Sant’Uffizio che doveva tenersi otto giorni dopo. Secondo Niccolini, molto probabilmente il libro sarebbe stato proibito se non si fosse rimediato col farli fare un’apologia da lui medesimo, e cioè dallo stesso Galileo, come egli (cioè l’ambasciatore) aveva proposto al papa. Non si poteva sfuggire tuttavia a qualche penitenza salutare, poiché si pretendeva che Galileo avesse trasgredito gli ordini dati da Bellarmino nel 1616. Niccolini non aveva detto ogni cosa a Galileo e si proponeva di farlo piano piano (EN, XV.132). La proposta presentata dall’ambasciatore di far scrivere dall’autore del Dialogo un’apologia era simile a quella fatta da Galileo dopo l’interrogatorio del 30 aprile di scrivere una o due altre giornate da aggiungere al Dialogo per ripigliare gli argomenti a favore dell’opinione copernicana. Non sappiamo se le due iniziative erano state concordate dai due protagonisti, ma è chiaro che sia l’apologia che le due giornate miravano ad evitare la proibizione del libro. Come vedremo, questa iniziativa può aver influito negativamente sull’andamento della causa. Intanto gli otto giorni erano passati e nulla di nuovo trapelava. In realtà il Sant’Uffizio stava esaminando un documento preparato per la riunione del 16 giugno, in cui veniva riassunta tutta la vicenda galileana dalle prime denunzie del domenicano Lorini (febbraio 1615) ai primi interrogatori di Galileo al Sant’Uffizio nel 1633 (EN, XIX.293-297). Non indicheremo i numerosi errori contenuti nel documento. Contrariamente a quanto si poteva sperare, venivano qui raggruppati i capi d’accusa più pericolosi per Galileo. Nel corso della riunione del 16 giugno il Sant’Uffizio, in presenza del papa, prese la decisione di condannarlo, come risulta dal seguente atto (traduzione dall’originale latino):

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Essendo stata presentata la causa di Galileo Galilei fiorentino incarcerato in questo Sant’Uffizio e autorizzato a eleggere dimora in Roma a cagione della sua cattiva salute e dell’età avanzata [...], dopo aver riferito sul processo (relato processu) e udita la votazione (et auditis votis), il Papa ha decretato che il medesimo Galileo deve essere interrogato circa l’intenzione (super intentione), e se persistesse (si sustinuerit), lo si minacci anche di tortura (etiam comminata ei tortura); dopo aver abiurato dinanzi all’assemblea plenaria del Sant’Uffizio per veemente sospetto di eresia (de vehementi), deve essere condannato al carcere ad arbitrio della Sacra Congregazione, imponendoglisi di non trattare né per iscritto né oralmente [né] in generale in qualunque altro modo (amplius quovis modo) della mobilità della terra ed immobilità del sole, pena la ricaduta (sub poena relapsus). Il libro poi da lui scritto, il cui titolo è Dialogo di Galileo Galilei Linceo dovrà essere proibito. Inoltre [il papa] ha ordinato che esemplari della sentenza siano inviati a tutti i Nunzi Apostolici, ed a tutti gli Inquisitori, ed in particolare all’Inquisitore di Firenze, e sia letta nel corso di assemblee plenarie dell’Inquisizione locale in presenza del maggior numero possibile di professori di matematica (EN, XIX.283; PS 1984, 154).

Galileo veniva condannato come veementemente sospetto di eresia, perché aveva trasgredito il Decreto della Congregazione dell’Indice del 1616. In effetti il diritto inquisitoriale prevedeva questo tipo di condanna per chiunque sostenesse una dottrina contraria alla Scrittura. Se l’accusato rifiutava di ammettere l’errore e non appariva sincero, veniva sottoposto al rigoroso esame sull’intenzione (super intentione) che implicava la tortura, o per lo meno la minaccia di tortura, per ottenere una confessione completa. Quanto al termine relapsus il significato è chiarissimo: secondo il diritto inquisitoriale, colui che ricadeva nell’eresia era destinato al rogo. Ma perché mai tanta severità? Per cercare di rispondere a questa domanda dobbiamo chiederci quale fu la reazione di Urbano VIII, al quale spettava la decisione ultima, alla proposta di Galileo, dopo l’interrogatorio del 30 aprile, di scrivere due giornate da aggiungere al Dialogo. Va innanzitutto osservato che Galileo non proponeva di correggere il Dialogo, ma solamente di completarlo con una o due giornate per ripigliare gli argomenti sviluppati a favore del sistema copernicano e confutarli. Se la

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proposta fosse stata accettata, il Dialogo avrebbe potuto di nuovo circolare. L’ipotesi proposta dallo storico Giorgio de Santillana di una decisione razionale di Galileo che avrebbe potuto procurargli quanto desiderava veramente, e cioè permettere la diffusione del libro, conferisce un preciso significato all’iniziativa (DSG 1960, 491). Se l’accettiamo, possiamo ammettere che Urbano VIII, reso sospettoso dal raggiro di Ciampoli ed influenzato dalle riflessioni di alcuni consultori del Sant’Uffizio, abbia creduto al tentativo di un nuovo raggiro. La natura collerica del pontefice può spiegare la decisione brusca di condannare Galileo come veementemente sospetto di eresia ordinandogli di abiurare, decisione molto più forte di quella che lasciava prevedere l’ambasciatore Niccolini nelle lettere a Cioli del primo e del 3 maggio. La lunga spedizione si concludeva infliggendo a Galileo le più dure punizioni previste dal diritto inquisitoriale messe in scena da Urbano VIII. Il 19 giugno Niccolini fu di nuovo ricevuto dal papa ed il giorno stesso inviò il resoconto dell’incontro a Cioli. Urbano VIII indicava all’ambasciatore che la causa era già spedita e che entro una settimana Galileo sarebbe stato chiamato al Sant’Uffizio per sentirne la risoluzione o la sentenza. Alle suppliche di Niccolini di mitigare quel rigore che era sembrato necessario al papa ed alla Congregazione, Urbano VIII aveva risposto di aver trattato volentieri Galileo con ogni accortezza in riguardo dell’amore che portava al granduca. Purtroppo non si poteva fare a meno di prohibir quell’opinione perché era erronea e contraria alle Sacre Scritture dettate ex ore Dei. Galileo doveva rimanere qualche tempo prigioniero poiché non aveva rispettato gli ordini ricevuti fin dal 1616. Ma, soggiungeva Urbano VIII, dopo la pubblicazione della sentenza l’ambasciatore sarebbe stato convocato per stabilire quali decisioni prendere per arrecare il minor male possibile a Galileo e per non affliggerlo, poiché senza qualche dimostrazione personale non ne [poteva] uscire. Accennò quindi all’obbligo di relegare per qualche tempo Galileo in un convento, forse in Santa Croce, ma non sapeva esattamente cosa stava per decidere la Congregazione del Sant’Uffizio, che tutta senza eccezione era d’accordo per penitenziarlo.

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Quindi anche Maculano aveva votato a favore della decisione presa dal papa, come è esplicitamente indicato nell’atto (EN, XV.160). Anche questa volta Niccolini non riferì tutto a Galileo, ma solamente la prossima spedizione della causa e la proibizione del libro. Convocato il 21 giugno, l’autore del Dialogo arriverà al Sant’Uffizio senza sapere esattamente cosa lo aspettava. Il 21 mattina Maculano iniziò l’interrogatorio chiedendogli se aveva qualcosa da dire. Alla risposta di Galileo, io non ho da dire cosa alcuna, il commissario replicò domandando se sosteneva, e da quanto tempo, che il Sole era centro del mondo e la Terra in movimento anche di moto diurno: R. Già molto tempo, cioè avanti la determinazione della Sacra Congregazione dell’Indice e prima che mi fosse fatto quel precetto, io stavo indifferente et havevo le due opinioni, cioè di Tolomeo e di Copernico, per disputabili, perché o l’una o l’altra poteva essere vera in natura: ma dopo la determinazione sopradetta, assicurato dalla prudenza de’ superiori cessò in me ogni ambiguità, e tenni, sì come tengo ancora, per verissima et indubitata l’opinione di Tolomeo, cioè la stabilità della terra e la mobilità del sole (PS 1984, 155).

Tuttavia il commissario rilevava che da quanto aveva scritto e pubblicato dopo quel periodo, in particolare nel Dialogo, si poteva presumere che sostenesse ed avesse sostenuto tale opinione e gli chiedeva quindi di dire liberamente la verità: R. Circa l’aver scritto il Dialogo già pubblicato, non mi son mosso perché io tenga vera l’opinione Copernicana; ma solamente stimando di fare benefitio commune, ho esplicate le raggioni naturali et astronomiche che per l’una e per l’altra parte si possono produrre, ingegnandomi di far manifesto come né queste né quelle, né per questa opinione né per quella, havessero forza di concludere demostrativamente, e che perciò per procedere con sicurezza si dovesse ricorrere alla determinazione di più sublimi dottrine, sì come in molti e molti luoghi di esso Dialogo manifestamente si vede. Concludo dunque dentro di me medesimo, né tenere né haver tenuto dopo la determinazione delli superiori la dannata opinione (ibid.).

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Le parole di Galileo non convincono il commissario del Sant’Uffizio che finisce col dirgli che «se non si decide a confessare la verità si procederà nei suoi confronti secondo rimedi opportuni di diritto e di fatto» (nisi se resolvat fateri veritatem, devenietur contra ipsum ad remedia iuris et facti opportuna). Ma l’autore del Dialogo non cede: Io non tengo né ho tenuta questa opinione del Copernico, dopo che mi fu intimato con precetto che io dovessi lasciarla; del resto sono qua nelle loro mani, faccino quello che gli piace (ibid.).

Il commissario è del tutto esplicito: «dica la verità, in caso contrario si ricorrerà alla tortura» (quod dicat veritatem, alias devenietur ad torturam). Galileo ripete: Io son qua per far l’obedienza; e non ho tenuta questa opinione dopo la determinatione fatta, come ho detto (ibid.).

Segue la laconica conclusione della seduta: «e poiché non è stato possibile ottenere altro in esecuzione del decreto, ricevuta la sua firma, fu rinviato nella sua stanza» (in loco suo) (ibid.). Dai documenti del processo non risulta che Galileo sia stato realmente torturato, ma non esistono neanche testimonianze che attestano il contrario. Ci sarebbe stata solamente la minaccia verbale (territio verbalis) alla quale Galileo resistette. In effetti l’applicazione della tortura era sottomessa all’esame del paziente da parte di due medici che dopo averlo visitato dovevano attestare se le sue condizioni fisiche permettevano di sopportarla. Nel caso di Galileo un tale intervento non è documentato. La condanna L’atteggiamento di Galileo mirava disperatamente a salvare il Dialogo dalla proibizione. La sua determinazione gli permise di credere fino all’ultimo a questa possibilità sostenendo che aveva abbandonato l’opinione eliocentrica dopo il Decreto del 1616.

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Non vi riuscì. Galileo passò la notte dal 21 al 22 giugno nei locali del Sant’Uffizio. Il 22 mattina fu costretto ad indossare l’abito di penitenza e dopo aver attraversato la città a dorso di mulo giunse a Santa Maria sopra Minerva. Qui ascoltò in ginocchio la sentenza e subito dopo pronunziò l’abiura. «Il buon vecchio amico», scriveva il 29 giugno 1633 a Fulgenzio Micanzio J.-J. Bouchard, un francese al servizio di Francesco Barberini, «è stato finalmente oppresso. Detenuto di nuovo nel S.Uffizio due giorni, mercoledì fu condotto, come reo, in abito di penitenza, alla Minerva davanti ai cardinali e gli altri della Congregazione. Là fu sentenziato alla [sic] carcere del S. Uffizio, oltre la pena di vedersi condannato il suo libro. Non so come egli in quell’età abbia potuto reggere. L’invidia ha trionfato nella sua umiliazione» (EN, XV.166). Dopo la formula rituale (cioè l’elencazione dei nomi dei dieci cardinali inquisitori generali, più il nome, la paternità e l’età di Galileo), la sentenza esordisce con un preciso riferimento agli avvenimenti del 1615-1616: «fosti denuntiato del 1615 [sic] in questo S. Offizio, che tenevi come vera la falsa dottrina da alcuni insegnata ch’il sole sia centro del Mondo, et immobile, e che la terra si muova anche di moto diurno». Seguono poi i capi d’accusa contenuti nelle deposizioni di Lorini e di Caccini del 1615 e quelli costituiti dalle risposte di Galileo ad alcune obiezioni ricavate dalla Sacra Scrittura, fatte glosando detta Scrittura conforme al tuo senso. Nell’ultima frase c’è un riferimento alla lettera a Benedetto Castelli del 21 dicembre 1613 e forse al commento del Salmo 18 proposto da Galileo, come si ricorderà, nella lettera a Piero Dini del 23 marzo 1615. Della lettera a Castelli, che figurerà fra i capi d’accusa, sappiamo che una copia accompagnava la denunzia di Lorini indirizzata il 7 febbraio 1615 al cardinale Paolo Emilio Sfondrati, prefetto della Congregazione dell’Indice. Non risulta invece che siano state fatte copie della lettera a Dini. I giudici si riferiranno alla seduta di qualifica teologica delle due proposizioni relative all’immobilità del Sole (formalmente eretica) ed al movimento della Terra (per lo meno erronea nella fede) (24 febbraio 1616) e quindi alla ratifica di Paolo V avvenuta il giorno

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successivo. La decisione del Sant’Uffizio, presa lo stesso giorno in presenza di Paolo V, di chiedere al cardinale Bellarmino di impartire a Galileo l’ordine di lasciare la detta opinione e l’esecuzione della decisione stessa il giorno successivo rappresentano il punto centrale sul quale riposa la sentenza: Galileo fu benignamente avvisato ed ammonito da Bellarmino e fu fatto precetto dal commissario Seghezzi di non tenere, né difendere, né insegnare in qualsivoglia modo l’opinione dell’immobilità del Sole e del movimento della Terra: avendo promesso d’obedire, [Galileo] fu licentiato. Il Decreto dell’Indice fu pubblicato, come sappiamo, il 5 marzo 1616: a partire da questa data la difesa del sistema copernicano quovis modo era passibile di condanna per eresia. Su questi antecedenti riposa l’accusa e la condanna di Galileo. I giudici si limiteranno a riaffermarli nel seguito della sentenza e ad applicare il diritto inquisitoriale: Ed essendo ultimamente comparso qua un libro stampato in Fiorenza l’anno prossimo passato, la cui inscrittione mostrava che tu ne fossi l’auttore, dicendo il titolo: Dialogo di Galileo Galilei delli due massimi sistemi del Mondo, Tolemaico e Copernicano, et informata appresso la Sacra Congregazione, che con l’impressione di detto libro ogni giorno più prendeva piede, et si disseminava la falsa opinione del moto della Terra et stabilità del Sole; fu il detto libro diligentemente considerato, e in esso trovata espressamente la trasgressione del sodetto precetto che ti fu fatto; avendo tu nel medesimo libro difesa la detta opinione già dannata, et in faccia tua per tale dichiarata, avvenga che tu in detto libro con varii raggiri ti studii di persuadere che tu la lasci come indecisa et espressamente probabile. Il che pure è errore gravissimo, non potendo in niun modo esser probabile un’opinione dichiarata e definita per contraria alla Scrittura divina.

Nonostante l’apparente preoccupazione di Galileo di presentare il sistema copernicano come una semplice ipotesi e non come una realtà astronomica, il contenuto del Dialogo è una chiara illustrazione dell’assurdità del sistema geocentrico ed una difesa altrettanto chiara del sistema eliocentrico. D’altra parte secondo i teologi un’opinione contraria alla Scrittura era ipso facto falsa e quindi non poteva essere probabile.

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Come si ricorderà, l’esame del Dialogo al quale si fa riferimento in questa parte della sentenza era stato affidato dal Sant’Uffizio ai teologi Oreggi, Inchofer e Pasqualigo dopo la pubblicazione del libro e dopo il primo interrogatorio di Galileo. Non si tratta quindi della lettura fatta dal padre Visconti e dal Maestro del Sacro Palazzo Riccardi per concedere la licenza di stampa. Quest’ultima è indicata nella sentenza come capo d’accusa poiché artificiosamente e calidamente estorta da Galileo, non avendo notificato il precetto ricevuto nel 1616. Vengono così giustificati Riccardi e Visconti, senza nominarli: il rilascio dell’imprimatur da parte di Riccardi per la stampa del libro a Roma sarebbe stato ottenuto mentendo per omissione. Tuttavia questa spiegazione non regge, poiché come sappiamo Riccardi e Visconti avevano approvato il Dialogo dopo averne letto il contenuto, segno evidente che non lo consideravano contrario al Decreto del 1616. Il cardinale Francesco Barberini non se ne stupì e attribuì il rilascio dell’imprimatur ad un comprensibile errore di Riccardi. In una lettera indirizzata qualche giorno dopo la fine del processo a Cesare Monti, nunzio apostolico in Spagna, il cardinale scriveva testualmente: «E perché non si meraviglino costà che alle volte per inavvertenza di chi ha cura di rivedere i libri da stampare, scappi qualche cosa indegna di stampa, si serva dell’esempio del Galileo, il quale avendo composto un libro sul moto della terra, fu ammesso alla stampa dal Maestro del Sacro Palazzo e stampato; nel qual sono stati poi trovati errori gravi, che hanno obbligato la S. Congregazione del S.to Offizio non solo a sopprimere i libri, ma a chiamar lo stesso a Roma per disdirsi, come ha fatto» (EN, XV.166). Come si vede, il rilascio dell’imprimatur è considerato dal cardinale Barberini come una semplice inavvertenza di Riccardi, mentre nella sentenza si dichiara che Galileo lo aveva estorto mentendo per omissione. Poiché il rilascio dell’imprimatur costituisce il secondo capo d’accusa dopo la difesa e l’insegnamento del sistema eliocentrico, bisogna ammettere che esisteva su un punto importante dell’istruzione un disaccordo fra il cardinale Barberini e gli altri giudici. Si spiegherebbe così la sua assenza al processo e la mancanza, come vedremo, della sua firma a piè della sentenza.

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Nel seguito della sentenza si rimprovera infine a Galileo la mancanza di sincerità: E parendo a noi che tu non avessi detta interamente la verità circa la tua intentione, giudicammo esser necessario venir contro di te al rigoroso esame, nel quale senza però pregiudizio alcuno delle cose da te confessate, e contro di te dedotte come di sopra circa la detta tua intentione, respondesti cattolicamente.

In quest’ultima parte della sentenza si ritrova l’espressione rigoroso esame, che nel linguaggio dell’Inquisizione significava «tortura». Come s’è detto, non risulta che Galileo sia stato torturato fisicamente. Si giunge quindi alla condanna: Diciamo, pronuntiamo, sententiamo, e dichiaramo, che tu Galileo suddetto per le cose dedotte in processo, e da te confessate come sopra ti sei reso a questo S. Offizio vehementemente sospetto d’heresia, cioè d’haver tenuto, e creduto dottrina falsa e contraria alle sacre e divine scritture, che il sole sia centro della terra [sic], e che non si muova da oriente ad occidente, e che la terra si muova, e non sia centro del Mondo, e che si possa tenere, e defendere per probabile un’opinione dopo esser stata dichiarata, e diffinita per contraria alla sacra Scrittura, e conseguentemente sei incorso in tutte le censure, e pene da sacri Canoni et altre Costituzioni generali, e particolari contro simili delinquenti imposte e promulgate. Dalle quali siamo contenti che sii assoluto, purché prima con cuor sincero, e fede non finta avanti di noi abiuri, maledichi, e detesti li suddetti errori, et heresie, et qualunque altro errore et heresia contraria alla Cattolica et Apostolica Romana Chiesa nel modo e forma che da noi ti sarà data. Et accioché questo tuo grave, e pernicioso errore, e transgressione non resti del tutto impunito, e sii più cauto nell’avvenire, et essempio agl’altri che s’astenghino da simili delitti ordiniamo che per publico editto sia prohibito il libro de Dialogi [sic] di Galileo Galilei. Ti condanniamo al carcere formale in questo S. Officio per tempo ed arbitrio nostro. E per penitenze salutari t’imponiamo: che per tre anni a venire dichi una volta la settimana li sette Salmi penitenziali.

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Riservando a noi facoltà di moderare, mutare, o levare in tutto, o in parte le suddette pene e penitenze. E così diciamo, pronontiamo, sententiamo, dichiariamo, ordiniamo, condeniamo, e riservamo in questo, et in ogn’altro miglior modo, e forma che di ragione potemo e dovemo (CIM 1908, 30-37).

La sentenza è firmata da sette dei dieci cardinali inquisitori generali. Uno dei tre mancanti è il cardinale Francesco Barberini: assente per altri impegni o, come s’è detto, per un preciso disaccordo? Segue immediatamente l’abiura: dopo d’essermi stato notificato che detta dottrina è contraria alla sacra Scrittura, [ho] scritto e dato alle stampe un libro nel quale tratto l’istessa dottrina già dannata, et apporto ragioni con molta efficacia a favore di essa senza apportar alcuna solutione, sono stato giudicato vehementemente sospetto d’heresia, cioè d’aver tenuto e creduto, ch’il sole sia centro del mondo, et imobile, e che la terra non sia centro, e che si muova. Per tanto volendo io levar dalle menti dell’Em.ze Vostre, e d’ogni fedel Christiano questa vehemente sospitione contro di me ragionevolmente conceputa, con cuor sincero, e fede non finta abiuro maledico, e detesto li suddetti errori, et heresie, e generalmente ogni et qualunque altro errore, heresia, e setta contraria alla sodetta S.ta Chiesa. E giuro che per l’avvenire non dirò mai più, né asserirò in voce o in scritto cose tali per le quali si possi haver di me simil sospitione, ma se conoscerò alcun heretico, o che sia sospetto d’heresia lo denontiarò a questo S. Off.o, o vero all’Inquisitore, o Ordinario del luogo, dove mi trovarò. Giuro anco, e prometto di adempire et osservare intieramente tutte le penitenze che mi sono state o mi saranno da questo S.Off.o imposte. E contravenendo io ad alcuna delle dette mie promesse, e giuramenti (il che Dio non voglia) mi sottopongo a tutte le pene, e castighi che sono da sacri Canoni, et altre Costitutioni generali e particolari contro simili delinquenti imposte e promulgate. Così Dio m’aiuti, e questi suoi santi Evangeli che tocco con le proprie mani. Io Galilei Galilei etc. (CIM 1908, 37-38).

Questa formula di abiura è comune alle abiure imposte all’epoca dall’Inquisizione. Fu redatta dagli inquisitori e Galileo dovette solamente leggerla e sottoscriverla.

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Come s’è osservato, sul piano giuridico il processo e la condanna di Galileo risultavano dall’applicazione stretta del Decreto dell’Indice del 1616. Le conseguenze più disastrose per Galileo sono contenute nella decisione finale: la condanna per essersi reso veementemente sospetto di eresia, che conduceva all’esame rigoroso ed all’abiura (proeria abiuratione de vehementi, EN, XIX.283). In caso di ricaduta, Galileo sarebbe stato considerato relapsus ed immediatamente condannato al rogo senza nessuna possibilità di ritrattare e quindi di salvarsi. La decisione dei giudici fu in realtà imposta da Urbano VIII: regista di una tragedia che si recitava a Roma dinanzi al mondo cattolico, il papa metteva in scena la tortura, l’abiura ed il rogo per illustrare il rigore del diritto inquisitoriale per chi volesse sostituire alle sante verità scritturali le profane nuove verità. Vittoria della teologia sulla filosofia naturale, dell’onnipotenza divina sulla prova attraverso le maree. Ritorno a Firenze Il giorno successivo la condanna al carcere fu commutata in obbligo di residenza all’ambasciata di Toscana. Qui Galileo rimase in attesa della decisione di Urbano VIII di lasciarlo ripartire per Firenze. Il 30 giugno ottenne di trasferirsi a Siena, dove giunse il 9 luglio, ospite dell’arcivescovo Ascanio Piccolomini, un amico di vecchia data che lo circondò di cure affettuose ed organizzò numerosi ricevimenti in suo onore. Il 1° dicembre il Sant’Uffizio lo autorizzò a ritornare a Firenze ed a risiedere ad Arcetri nella sua villa Il Gioiello a condizione di vivere da solo e di non ricevere visite, per un periodo la cui durata era a discrezione di Urbano VIII. Le lettere inviate regolarmente dalla figlia suor Maria Celeste gli furono di grande conforto. Il 2 luglio, dopo aver appreso la notizia della condanna da Geri Bocchineri, Maria Celeste Galilei scriveva al Molto Ill.re et Amatiss.mo S.r Padre: Carissimo S.r Padre, adesso è il tempo di prevalersi più che mai di quella prudenza che gl’ha concessa il Signor Iddio, sostenendo questi

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colpi con quella fortezza di animo, che la religione, proffessione et età sua ricercano. E già che ella per molte esperienze può haver piena cognizione della fallacia e instabilità di tutte le cose di questo mondaccio, non dovrà far molto caso di queste burasche, anzi sperar che presto siano per quietarsi, e cangiarsi in altrettanta sua sodisfazione. Dico quel tanto che mi somministra il desiderio, e che mi pare che ne prometta la clemenza che S. Santità ha dimostrato in verso di V. S., in haver destinato per la sua carcere luogo così delizioso (EN, XV.167).

In realtà Galileo subì ad Arcetri il controllo severo del Sant’Uffizio fino alla sua morte. La possibilità di moderare, mutare, o levare in tutto, o in parte le suddette pene e penitenze, prevista nelle conclusioni della sentenza, non si realizzò mai. La morte di suor Maria Celeste nel 1634, pochi mesi dopo il ritorno del condannato ad Arcetri, fu una prova durissima per Galileo che riuscì tuttavia a superarla e a trovare la forza necessaria per riprendere la sua attività scientifica. La pubblicazione nel 1635-1636 a Strasburgo del Dialogo, nella traduzione latina di Matthias Bernegger col titolo Systema cosmicum (Galileo 1635), lo spinse a dare alle stampe nuovi lavori fuori dal territorio italiano. Nonostante i gravi problemi di salute da cui fu afflitto, la perdita dell’uso dell’occhio destro nel 1637 e la cecità completa nel 1639, Galileo scrisse i Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze (EN, VIII.49-318), l’opera che sarà considerata il capolavoro di tutta la sua produzione scientifica. I Discorsi furono stampati e distribuiti nel 1638 a Leida dagli Elzevier, famiglia di stampatori a capo della prestigiosa casa editrice fiamminga nota in tutt’Europa per l’eccellente qualità tecnica delle sue pubblicazioni. I fogli del manoscritto furono inviati a Venezia poco alla volta con la complicità di Fulgenzio Micanzio. Il libro è scritto in forma di dialogo, con gli stessi personaggi e le stesse quattro giornate del Dialogo. Le due nuove scienze indicate nel titolo sono attinenti alla mecanica ed i movimenti locali. Gli argomenti trattati erano già stati affrontati nel corso dei venti secoli che separavano Galileo da Aristotele. Le due scienze sono dette nuove perché affrontano questi stessi argomenti con metodo geometrico, e stabilendo

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analogie, quando ciò è possibile, tra i diversi fenomeni studiati. Le leggi del moto esposte nella terza giornata sono l’esempio più convincente della validità delle innovazioni introdotte da Galileo, nonostante le difficoltà concettuali che alcune di esse sollevano. Una interessante illustrazione del procedimento utilizzato è contenuta nell’introduzione ad una recente riedizione dei Discorsi (GE, 1990). Gli obblighi imposti dalla condanna del 1633 escludevano dal libro gli argomenti astronomici a favore del sistema eliocentrico. Lo strumento che aveva permesso le scoperte celesti, il cannocchiale astronomico, viene nominato nella prima giornata a proposito di un tentativo per misurare la velocità della luce (EN, VIII.88). In questa stessa giornata sono invece largamente discussi i problemi del vuoto, della divisibilità e composizione del continuo fisico e matematico e quindi dell’atomismo. Segno evidente che la dottrina atomistica non era stata condannata dal Sant’Uffizio. La quarta giornata è dedicata al moto dei proietti: Galileo dimostra che la traiettoria descritta è sempre una parabola e che la distanza massima tra la bocca di un pezzo d’artiglieria e il punto di caduta del proietto (gittata) è massima se il pezzo è inclinato a 45 gradi sul piano dell’orizzonte. L’argomento era di notevole interesse per l’arte militare e conduceva inevitabilmente allo studio della forza con cui il proietto colpiva il bersaglio. Già molti anni prima, quando era ancora a Padova, Galileo aveva cercato di misurare l’effetto prodotto da un corpo che cadendo dall’alto ne percuote un altro a riposo: misurare la forza della percossa, nel linguaggio dell’epoca. Un complicato e suggestivo esperimento immaginato e realizzato per effettuare la misura dette risultati esattamente contrari a quelli inizialmente previsti. Non solo Galileo li accettò, ma cercò senza riuscirvi di procedere ad ulteriori difficili misure per tentare di interpretarli. Durante la redazione dei Discorsi decise di scrivere alcune pagine sulla forza della percossa da inserire nel libro. Tuttavia non era sicuro di aver interpretato correttamente i risultati sperimentali né di essere partito da un’ipotesi iniziale

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giusta (forza della percossa paragonabile al peso di un corpo a riposo). Gli Elzevier, dopo aver atteso per più mesi, decisero di stampare i Discorsi senza più attendere le pagine sulla forza della percossa. L’episodio mette in evidenza l’importanza attribuita da Galileo alla prova sperimentale e l’obbligo di farne il miglior uso possibile. La misura della forza della percossa rimarrà un problema non risolto: Galileo detterà nel 1638 al suo allievo e collaboratore Marco Ambrogetti la parte, incompleta, da includere nei Discorsi. Il testo sarà pubblicato per la prima volta nella seconda edizione delle Opere di Galileo stampata a Firenze nel 1718. I Discorsi suscitarono un immenso interesse in Europa e circolarono liberamente in Italia. Galileo, ormai completamente cieco, ebbe modo di toccare con le proprie mani l’esemplare a lui riservato, un anno circa dopo la pubblicazione del libro. Fra i personaggi che si distinsero per l’interesse manifestato verso gli ultimi lavori di Galileo ritroviamo il fedele discepolo Benedetto Castelli. Durante il processo era stato allontanato da Roma ed inviato a Brescia probabilmente per ordine di Urbano VIII. Ritornò poi nella città eterna pochi mesi dopo e nel 1638 fu autorizzato dopo lunghe ed estenuanti trattative a recarsi presso Galileo ed a discutere con lui di argomenti relativi alla salute dell’anima ed eventualmente di un altro argomento non condannato dalla Chiesa, in presenza di un osservatore inviato dall’inquisitore di Firenze. Castelli rivedrà Galileo nell’aprile del 1641 in occasione di un suo viaggio a Venezia. Profondamente colpito dalle precarie condizioni di salute in cui versava lo scienziato, intervenne presso le autorità romane ed ottenne che il suo giovane allievo Evangelista Torricelli (1608-1647) si trasferisse ad Arcetri nell’ottobre del 1641 per raccogliere gli ultimi ritrovati scientifici di Galileo non ancora pubblicati. Grazie alla felice iniziativa di Castelli, Galileo trascorse gli ultimi mesi della sua vita confortato dall’interesse del giovane scienziato per i suoi lavori. Benedetto Castelli morì a Roma il 9 aprile 1643.

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L’intervento del granduca ed il sussidio speciale da lui accordato di quattro scudi al mese avevano permesso a Galileo di accogliere all’inizio del 1639 Vincenzio Viviani (1622-1703), ancora giovanissimo, come ospite e discepolo. Dopo la morte di Galileo occuperà nel Granducato varie cariche importanti. La collaborazione fra Viviani e Torricelli fu proficua e permise di realizzare il desiderio di Castelli: raccogliere le ultime speculazioni scientifiche del recluso di Arcetri. Galileo si spense nella notte fra l’8 ed il 9 gennaio 1642, senza aver potuto ritrovare la libertà. Il granduca avrebbe voluto far elevare un monumento alla sua memoria, ma Urbano VIII vi si oppose. Il 25 gennaio 1642, Francesco Barberini si rivolgeva all’inquisitore di Firenze Giovanni Muzzarelli per convincere Ferdinando II a rinunziare all’iniziativa. «Procuri di far passare all’orecchie del Granduca – scriveva il cardinale Barberini – che non è bene fabricare mausolei al cadavere di colui che è stato penitenziato nel Tribunale della Santa Inquisizione, ed è morto mentre durava la penitenza, perché si potrebbono scandalizzare i buoni, con pregiudizio della pietà di S. Altezza» (EN, XVIII.379-380). Un rifiuto ed una vera e propria intimidazione nei confronti del granduca. Il monumento a Galileo sarà eretto in Santa Croce nel 1737. Il 21 ottobre 1634 il padre Tommaso Campanella lasciò segretamente Roma, dietro consiglio del papa che temeva di ricevere dalle autorità spagnole una seconda domanda di estradizione. Si rifugiò a Parigi, dove morì il 21 maggio 1639. Un personaggio singolare ed ancora poco conosciuto merita di essere segnalato alla fine di questa rapida incursione nei fatti e nelle conseguenze del processo di Galileo: il padre gesuita Melchior Inchofer. Come si ricorderà, Inchofer fu uno dei tre teologi incaricati da Urbano VIII e poi dal Sant’Uffizio di esaminare il Dialogo. Pochi anni dopo, nel 1648, fu a sua volta processato per aver scritto un libro contro la Compagnia di Gesù alla quale apparteneva. Morì lo stesso anno, non sappiamo se di morte naturale o se eliminato di proposito (CTH 2001, 603607). Una storia lunga e complicata, sulla quale forse non tutto è stato detto.

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Epilogo? Il primo passo importante compiuto dalla Chiesa cattolica verso un riesame del caso Galileo risale al 1965, quando nel corso dell’ultima fase del Concilio Vaticano II il vescovo ausiliare di Strasburgo, monsignor Arthur Elchinger, propose di inserire nel documento preparatorio della costituzione pastorale Gaudium et Spes il riconoscimento degli errori commessi nei confronti di Galileo Galilei. La proposta non venne accettata, ma il nome di Galileo apparve in una nota aggiunta ad un testo sui conflitti e le controversie fra scienza e fede (cfr. Pio Paschini, Vita e Opere di Galileo Galilei, 2 voll., Pontificia Accademia delle Scienze, Città del Vaticano 1964). Non fu molto, ma il fremito poteva apparire come una forma velata di riconoscimento (FA 2005, 92-93). Successivamente Giovanni Paolo II, in un discorso pronunziato il 10 novembre 1979 alla Pontificia Accademia delle Scienze per il centenario della nascita di Einstein, parlò a lungo di Galileo auspicando che «dei teologi, degli scienziati e degli storici [...] approfondissero l’esame del caso Galileo e, in un riconoscimento leale dei torti, da qualunque parte essi venissero, facessero scomparire la sfiducia che questo caso ancora oppone, in molti spiriti, a una fruttuosa concordia fra scienza e fede» (ripreso il 31 ottobre 1992, GPII 1992, 2). La Commissione fu costituita il 3 luglio 1981. Comportava quattro sezioni: esegetica, culturale, scientifica ed epistemologica, storica. I risultati dei lavori furono presentati a Giovanni Paolo II il 31 ottobre 1992 dal cardinale Paul Poupard, coordinatore dei lavori della Commissione, nel corso di una seduta straordinaria della Pontificia Accademia delle Scienze. Molto si è scritto su questo importante avvenimento. L’analisi proposta da Annibale Fantoli del rapporto del cardinale Poupard e della risposta di Giovanni Paolo II è un contributo notevole alla conoscenza delle resistenze opposte dal Sant’Uffizio, dalla Congregazione dell’Indice e dai pontefici che si sono succeduti nel governo della Chiesa dal 1633 ad oggi ad una va-

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lutazione obiettiva degli errori commessi e delle responsabilità (FA 2001, 733-750; FA 2005, 91-112). Il cardinale Roberto Bellarmino fu, come s’è visto, un protagonista post mortem del processo di Galileo per i motivi ben noti: i rapporti che ebbe fino al 1616 con lo scienziato pisano, il suo intervento nella controversia astronomica attraverso la lettera al padre Foscarini (1615), il suo ruolo di esecutore dell’ordine dato a Galileo da Paolo V di abbandonare la dottrina copernicana (26 febbraio 1616). L’attenzione del relatore si soffermerà, come vedremo, sulla sua lettera a Foscarini, ricorrendo ad una citazione incompleta e ad una erronea interpretazione. Roberto Bellarmino, spiega il cardinale Poupard, sosteneva nella lettera a Foscarini che fino a quando non ci fosse stata la prova («aussi longtemps qu’il n’y avait pas de preuve») dell’orbitazione della Terra intorno al Sole bisognava interpretare con grande circospezione i passi biblici che dichiaravano la Terra immobile. In realtà, come osserva giustamente Fantoli, Bellarmino scrive, nel testo citato dallo stesso relatore, che quando ci fusse vera dimostrazione dell’immobilità del Sole e del movimento della Terra intorno al Sole, allora bisognerà interpretare con molta consideratione (nel senso di circospezione) la Scrittura e piuttosto dire che non l’intendiamo, che dire che sia falso quel che si dimostra. Come si vede, le due formulazioni sono diverse: nella lettera a Foscarini Bellarmino scrive che solo dopo aver trovato la prova bisognerà procedere con molta considerazione ecc., mentre secondo il cardinale Poupard Bellarmino avrebbe scritto che bisognava procedere con molta considerazione fino a quando non ci fosse stata la prova (FA 2005, 95-97). La differenza è tanto più rilevante in quanto la citazione si arresta qui. In effetti il cardinale Poupard dimentica di citare l’argomento teologico al quale ricorre Bellarmino per affermare che la Terra non può muoversi. Ammettiamo che si possa scusare il cardinale Poupard per l’errore. Ma come scusarlo per il resto? In effetti egli afferma subito dopo che «Galileo non era riuscito a provare in maniera irrefutabile il doppio movimento della Terra mentre era convinto di averne trovato la prova nelle maree oceaniche, di cui Newton

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solamente dimostrerà la vera origine» (PP 2005, 152-153, la traduzione dal francese è mia). In verità non si capisce perché viene tirata in ballo la falsità della prova attraverso le maree. Secondo quanto afferma Agostino Oreggi, il papa Urbano VIII, quando era ancora cardinale, credette nella validità della prova ed è verosimile che abbia continuato a credervi dopo l’elezione al pontificato. Questo è uno dei motivi che condussero i giudici a non far riferimento alla prova, sia nell’istruzione del processo sia nella sentenza, benché Galileo vi avesse dedicato un’intera giornata del Dialogo. D’altra parte la falsità della prova non poteva essere messa in evidenza con i mezzi di osservazione e di analisi di cui disponeva all’epoca la comunità scientifica. Galileo fu condannato proprio perché la prova conferiva all’astronomia copernicana un realismo che rendeva inquieti i teologi. Un rimedio c’era: l’argomento di Urbano VIII. La pubblicazione del Dialogo offriva al sommo pontefice l’occasione di mostrarne la forza a condizione che Galileo seguisse alla lettera le sue istruzioni. Galileo non le seguì, convinto che la scoperta della prova del doppio movimento della Terra attraverso le maree gli conferisse autorità sufficiente per abbattere, protetto dal granduca, l’ostacolo teologico innalzato da Urbano VIII. Il trasferimento a Firenze della stampa del Dialogo fu dovuto alla sua volontà di sottrarsi al controllo coercitivo del papa e del Sant’Uffizio, come appare dalla corrispondenza citata in questo e nel precedente capitolo. L’interpretazione di Luca Bianchi, alla quale s’è fatto riferimento nel capitolo VIII, suggerisce fortemente che Galileo decise a ragion veduta di mettere l’argomento di Urbano VIII in bocca di uno sciocco, come si legge nel rapporto preliminare sul Dialogo richiesto dal papa nel 1633. La condanna è la conseguenza dello scontro violento fra Urbano VIII e l’autore del Dialogo, fra verità rivelata e verità faticosamente dimostrata o da dimostrare. Nonostante questa evidenza, il nome di Urbano VIII non compare né nel rapporto del cardinale Poupard né nella risposta di Giovanni Paolo II. Il pa-

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pa esalterà il ruolo di Bellarmino, affermando che aveva percepito la vera posta in gioco e citerà la frase tratta dalla lettera a Foscarini (GPII 1992, 3). Alla domanda, che ognuno potrebbe porsi, se c’era stata opposizione tra fede e scienza, Giovanni Paolo II risponde indirettamente affermando che «una tragica reciproca incomprensione è stata interpretata come il riflesso di una opposizione costitutiva tra scienza e fede. Le chiarificazioni apportate dai recenti studi storici ci permettono di affermare che tale doloroso malinteso appartiene al passato» (GPII 1992, 3). I torti sono stati, dunque, reciproci ed il malinteso appartiene al passato. Il personaggio, oltre a Galileo, citato dal cardinale Poupard nel suo discorso e dal papa nella sua risposta è il cardinale Bellarmino. Tuttavia nel corso degli interrogatori e nella sentenza Bellarmino – che, come sappiamo, era morto da più di dieci anni – appare come testimonianza del precetto fatto a Galileo nel 1616 in applicazione del Decreto del 5 marzo 1616. Perché il vero protagonista, il papa Urbano VIII, è assente dai discorsi? Citare Urbano VIII significava risalire al vero responsabile della condanna ed alla sua posizione filosofica che ancora oggi la Chiesa cattolica rifiuta di esaminare. Dopo la sua elezione i copernicani si erano foggiata una nuova immagine della Chiesa, che in realtà restava chiusa ad ogni novità celeste o terrestre ancora più di quanto non lo fosse stata sedici anni prima. L’esile spiraglio aperto da Bellarmino (quando ci fusse vera dimostrazione...) e poi subito rinchiuso poteva ora spalancarsi e rimanere aperto quanto si volesse: l’argomento di Urbano VIII rinviava le dimostrazioni degli scienziati, passate, presenti e future, all’onnipotenza divina ed ipso facto al contenuto della Sacra Scrittura. I teologi restavano i soli scienziati degni di fiducia perché abilitati a ritrovare tutte le verità nelle Sacre Lettere. L’iniziativa di Giovanni Paolo II offriva un’eccellente occasione alla Chiesa per riconoscere le vere responsabilità nella condanna di Galileo. Un’occasione mancata. Le opere di Copernico e di Galileo furono ritirate dall’Indice nel 1835, circa due secoli dopo il Decreto del 1616 e la condanna del 1633. Qualche merito le diverse Congregazioni

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l’avrebbero avuto se avessero accettato in quella occasione di parlare ufficialmente di Galileo. Invece c’è voluto ancora un secolo e mezzo per ritrovare nei documenti ufficiali della Chiesa il nome dello scienziato italiano conosciuto ed ammirato da secoli in tutto il mondo. I teologi non si sono espressi sull’argomento di Urbano VIII. Forse nuove maree continuano ad infastidirli.

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STB 2001, Settle, Thomas Brackett, «Experimental Sense in Galileo’s Early Works and Its Likely Sourses», in Montesinos, Solís (a cura di), Largo campo di filosofare cit., pp. 831-849. TTG 1967, Targioni Tozzetti, Giovanni, Notizie degli aggrandimenti delle scienze fisiche in Toscana, 4 voll., G. Bouchard, Firenze 1780 (rist. Forni, Bologna). VV 1717, Viviani, Vincenzio, «Discorso Istorico-Critico di Vincenzo Viviani sulla vita e ritrovati del Sig. Galileo», in Salvino Salvini, Fasti Consolari dell’Accademia fiorentina, Tartini e Franchi, Firenze 1717; ora in Scelta dei migliori opuscoli, a cura di Maurizio Torrini, Istituto Suor Orsola Benincasa, Napoli 2002, pp. 269-368. VV 1992, id., Vita di Galileo, a cura di Luciana Borsetto, Moretti & Vitali, Bergamo. WW 1984, Wallace, William, Galileo and His Sources, Princeton University Press, Princeton.

INDICI

INDICE DEI NOMI Abbot, George, 243. Accademico Incognito, vedi Pannocchieschi dei Conti d’Elci, Arturo. Acquaviva, Claudio, 103. Aggiunti, Niccolò, 141. Agostino d’Ippona, santo, 187. Agucchi, Giovan Battista, 122. Aguilon, François d’ (Franciscus Aguilonius), 152. Alberi, Eugenio, 4. Alighieri, Dante, 26-28, 39. Al-Rhazi, 10. Ambrogetti, Marco, 320. Ammannati, Giulia, 3, 5-6. Anna d’Austria, regina di Francia, 223. Ansidei, Baldassarre, 9. Apelle (pittore), 128. Apelle, vedi Christoph Scheiner. Archimede, 12, 21, 33, 43, 49, 113, 115, 117-18, 124, 216. Aretino, Pietro, 57. Ariosto, Ludovico, 28-29. Aristarco di Samo, 25, 48, 64. Aristotele, VIII-IX, 7, 12, 14-19, 21, 24, 30, 33, 38, 40, 48-49, 51, 5455, 65, 67, 70, 89, 103, 111, 113, 116, 118, 120, 123-25, 136, 147, 156, 185, 229, 233, 236, 239, 241, 245, 272, 275-76, 279, 318. Arrighetti, Niccolò, 141. Arrigoni, Pompeo, 155. Attavanti, Giannozzo, 162-63, 185187.

Averroè, 15-16. Avicenna (Ibn Sina), 10. Badelli, Antonio, 263-64. Badouère, Jacques, 59-60. Banfi, Antonio, 29, 87. Barbavara, Marco, 218, 223. Barberini, Antonio, 284, 288-89, 293. Barberini, Carlo, 284. Barberini, Francesco, 235, 251, 254, 258, 264-65, 284, 287, 289-90, 296, 298, 303-304, 306-307, 312, 314, 316, 321. Barberini, Taddeo, 258, 263. Bardi, Filippo de’, 162. Baronio, Cesare,105, 187. Barozzi, Francesco, 24. Bartoli, Giovanni, 69. Bartoluzzi, Giovanni, 75. Bartoluzzi, Marina, 75. Beeckman, Isaac, 63. Bellarmino, Roberto, 100, 102, 105109, 154, 157, 165-67, 169-72, 175-78, 181-84, 188, 195-96, 202203, 205, 207, 209-11, 215, 224, 234, 243-44, 271, 273, 282, 288, 294, 297, 299-300, 306-307, 313, 323, 325. Benedetti, Giovan Battista, 18. Benivieni, Girolamo, 27. Bentivoglio, Guido, 297. Bernegger, Matthias, 48, 318. Berni, Francesco, 29. Besomi, Ottavio, 269.

336 Biagioli, Mario, 113. Bianchi, Luca, 282, 324. Boccabella, assessore del Sant’Uffizio, 296. Bocchineri, Geri, 317. Bonaiuti, famiglia, 3. Bonciani, Francesco, 158-60, 210. Boncompagni, Francesco, 242. Borghini, Jacopo, 7. Borgia, Francesco, 108. Borgia, Gaspare, 217, 220. Borro, Girolamo, 200. Boscaglia, Cosimo, 139-40. Botti, Matteo, 86. Botticelli, Sandro, 27. Bouchard, Jean-Jacques, 312. Brahe, Tycho (Ticone), 41, 53, 69, 91, 96, 98, 102-104, 106, 109, 134, 176, 200, 213, 227, 237-38, 260. Bruno, Giordano, 37-38, 47, 78, 8081, 109, 184, 252. Bucciantini, Massimo, 133. Buonamici, Francesco, 21, 25. Buonarroti, Michelangelo, 3-5, 264. Buridan, Jean, 64-65, 276. Busaeus, Theodorus, 133. Caccini, Alessandro, 155, 212. Caccini, Matteo, 155, 212. Caccini, Tommaso, 153-56, 161-63, 165, 185-86, 193-94, 201, 207, 212, 247, 312. Caetani, Bonifacio, 206, 213. Calcagnini, Celio, 66, 276. Calvino, Giovanni (Jean Cauvin), 37, 295. Campanella, Tommaso, 150-51, 232, 258-59, 263-64, 285, 288, 321. Capiferro, Francesco Maddaleno, 213. Capra, Baldassarre, 47, 56. Caraccioli, Giovan Battista, 263. Cardano, Girolamo, 18. Cardi, Ludovico (il Cigoli), 93, 127, 135, 149.

Indice dei nomi

Carrara, famiglia, 36. Castelli, Benedetto, 55, 79, 96, 110, 116, 124-27, 131, 137-44, 146, 148-49, 153-54, 156-60, 162, 166167, 173, 175, 177, 180, 187, 189, 206, 210, 216-17, 219-21, 246-47, 258-60, 263, 266-68, 285, 288-89, 291-93, 312, 320-21. Cavalieri, Bonaventura, 269, 277. Cesalpino, Andrea, 10, 25, 200. Cesarini, Virginio, 231-36. Cesi, Federico, 62, 64, 90, 101, 124, 130, 135, 137, 150, 152, 154, 177178, 181, 215-16, 229, 231, 254, 257, 260, 265-66, 293. Chiaramonti, Scipione, 238-39, 284. Ciampoli, Giovanni, 177, 231, 235236, 255, 257, 260-61, 263, 266268, 274, 286-87, 291, 296, 302, 309. Cicerone, Marco Tullio, 305. Cigoli, vedi Cardi, Ludovico. Cioli, Andrea, 265, 267, 269, 284286, 288-91, 293, 296-98, 306307, 309. Clavelin, Maurice, 22. Clavio, Cristoforo, 13, 41, 85, 87, 90-96, 98-104, 106, 109, 135, 157, 282. Clemente VII (Giulio de’ Medici), papa, 76. Clemente VIII (Ippolito Aldobrandini), papa, 10, 109. Coignet, Michel, 48. Colonna Barberini, Anna, 263. Copernico, Niccolò (Nikolaj Kopernik), IX, 25-26, 49-51, 53-54, 56, 64-66, 72, 80-82, 89, 93, 96, 98, 102, 104-105, 109, 134-35, 148-50, 154, 156, 158, 160-61, 166, 176, 178-79, 184, 186, 188, 203-205, 207-208, 211-16, 226, 228, 237-38, 248, 252-58, 263, 276, 278-79, 282, 284, 290-91, 294, 299-302, 310, 311, 325.

Indice dei nomi

Coresio, Giorgio, 121, 124-26. Cosimo II de’ Medici, granduca di Toscana, 68, 72, 74-76, 107, 112, 115, 120-21, 139, 190, 192, 195, 206, 212, 215, 218, 223-24, 231232. Costabel, Pierre, 248-49. Cremonini, Cesare, 35, 38-39, 45, 49, 51, 56, 61, 66, 95, 102-103. Cristina di Lorena, 76, 79, 139-40, 148, 159, 179, 187-89, 191, 206, 231. Cues, Nicolas de (il Cusano), 66, 276. D’Addio, Mario, 300. Dal Pozzo, Cassiano, 235. Danesi, Luca, 44. De Dominis, Marco Antonio, 243244. Dee, John, 62. d’Elci, Orso, 217-22, 224, 265, 269, 305. Dell’Antella, Nicolò, 302. Della Porta, Giambattista, 62-64, 83, 90. Delle Colombe, Lodovico, 93, 101, 111, 121, 125-26, 154-55. Del Lungo, Isidoro, VIII. Del Monte, Francesco Maria, 13, 107, 190-91, 206, 212, 225. Del Monte, Guidobaldo, 13, 34, 42, 47. Democrito, 120, 124, 185, 244. Descartes, René, 13, 63. Diego de Zúñiga (Didaco a Stunica), 143, 203-204, 206, 208, 214. Di Grazia, Vincenzio, 121, 125-27. Dini, Piero, 100, 148, 157-58, 166169, 171-72, 175-80, 187, 212, 312. Diodati, Elia, 260, 271, 295. Dionigi l’Areopagita, 172, 175. Donato, Leonardo, 60-61. Duhem, Pierre, 16, 181.

337 Egidi, Clemente, 266, 269-71, 283, 288, 291, 293-94, 302. Einstein, Albert, 322. Elchinger, Arthur, 322. Elzevier, famiglia, 318, 320. Enrico IV, re di Francia, 86. Enrico XIV Vasa, re di Svezia, 44. Epicuro, 185, 244. Eraclito Pontico, 25, 68. Este, Alessandro d’, 193. Este, Ippolito d’, 66. Euclide, 12, 14. Eudosso di Cnido, 70, 89. Faber, Johannes, 151, 244. Fabricius, Johann, 136. Fantoli, Annibale, 304, 322-23. Favaro, Antonio, VIII, 4-5, 25-26, 28-29, 34, 75, 148. Ferdinando I de’ Medici, granduca di Toscana, 13, 35, 75-76, 86. Ferdinando II de’ Medici, granduca di Toscana, 231, 271, 285, 288, 293, 321. Filippo d’Assia, 44. Filippo III, re di Spagna, 222-24. Francesco I de’ Medici, granduca di Toscana, 11. Galeno, 10-11. Galilei, famiglia, 3, 44. Galilei, Livia, sorella di Galileo, 5. Galilei, Livia (suor Arcangela), figlia di Galileo, 57-58, 75, 224-25. Galilei, Michelangelo, 5-6, 164. Galilei, Vincenzio, figlio di Galileo, 57-58, 75, 234, 258. Galilei, Vincenzio, padre di Galileo, 3, 6-8, 10-12. Galilei, Virginia, sorella di Galileo, 5-6, 44. Galilei, Virginia (suor Maria Celeste), figlia di Galileo, 57-58, 75, 224-26, 234-35, 317-18. Galluzzi, Tarquinio, 229, 231, 243. Gamba, Marina, 56-58, 75.

338 Geymonat, Ludovico, XI, 30. Gherardini, Niccolò, 11-12, 32, 35, 158. Giacomo I Stuart, re d’Inghilterra, 243. Gilbert, William, 52. Gingerich, Owen, 213. Giosuè, 65-66, 141, 144, 146, 148, 153, 156-57, 161, 202. Giovanni III Vasa, re di Svezia, 44. Giovanni Paolo II (Karol Wojtyla), papa, VII, 181, 250, 294, 322, 324325. Giovanni XXI (Pietro di Giuliano), papa, 16. Giugni, amico di Galileo, 86. Gloriosi, Camillo, 75. Gonzaga, Ferdinando, 114. Grassi, Orazio, 72, 213, 227-33, 237, 239-40, 242-49, 257, 295. Grégoire de Saint-Vincent, 102. Gregorio XIII (Ugo Boncompagni), papa, 40. Gregorio XV (Alessandro Ludovisi), papa, 234. Grienberger, Christoph, 72, 157, 166-67, 169, 213. Gualdo, Paolo, 107, 128. Guevara, Giovanni di, 248. Guglielmo di Moerbeke, 15. Guicciardini, Piero, 106-107, 190191, 206-207, 209-10. Guiducci, Annibale, 220. Guiducci, Mario, 227-29, 231-32, 239, 242-44, 248-49, 256-57, 283, 285, 295. Gustavo Adolfo, 44. Hamberger, Paul, 50. Harriot, Thomas, 136. Harvey, William, 10. Hasdale, Martin, 38, 92. Helbing, Mario Otto, 269. Hohenburg, Herwart von, 52.

Indice dei nomi

Holywood, John (Giovanni Sacrobosco), 14. Horky, Martin, 83-85, 87, 91, 112. Ibn Junis, 10. Iceta, 25. Ignazio di Loyola, 39. Inchofer, Melchior, 251, 287, 303, 314, 321. Inghirami, Jacopo, 218, 223. Inghirami, Lodovico, 218. Inghirami, Tommaso, 220. Ingoli, Francesco, 200-201, 213, 256-57, 273. Ippocrate, 10-11. Iseo, Giuseppe, 28. Jansen, Sacharias, 63. Keplero, Giovanni (Johannes Kepler), IX, 38, 49-54, 62, 64, 68, 74, 76-86, 89-91, 94, 98, 131-33, 184, 196, 214, 226, 238-39, 278. Koyré, Alexandre, 19, 272. Lanci, Ippolito Maria, 289. Landino, Cristoforo, 26. Landucci, Benedetto, 6, 61. Lelio, F., inquisitore di Pisa, 157. Leone X (Giovanni de’ Medici), papa, 76. Leone XI (Alessandro de’ Medici), papa, 225. Leopoldo, arciduca d’Austria, 221, 226, 274. Lerma, duca di, 220, 222. Lerner, Michel-Pierre, 202, 204, 252. Leucippo, 185. Libri, Giulio, 95, 112. Liceti, Francesco, 34. Lipperhey, Hans, 63. Lorenzi, Battista, 12. Lorenzini, Antonio, 56. Lorini, Niccolò, 149-50, 153-54,

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Indice dei nomi

156-57, 159, 162, 177, 193, 307, 312. Luigi XIII, re di Francia, 223. Lutero, Martin, 37, 246, 295. Mach, Ernst, 196. Maculano, Vincenzo, 296, 299-301, 303-304, 306, 310. Maelcote, Odo van, 101-103, 106, 133, 233. Maestlin, Michael, 50, 68. Magalotti, Filippo, 283-85, 295. Magini, Giovanni Antonio, 13, 83, 85-86, 91-93, 112. Manetti, Antonio, 26-27. Margherita d’Austria, regina di Spagna, 223. Maria de’ Medici, regina di Francia, 86. Maria Magdalena d’Austria, granduchessa di Toscana, 76, 121, 139-40, 231. Marsili, Cesare, 256, 258. Martínez, Rafael, 249. Marzimedici, Alessandro, 149. Matius, Jacob, 63. Maurizio di Nassau, 59, 63. Maurolico, Francesco, 39. Mayr, Simon, 47. Mazzoleni, Marcantonio, 45, 48, 5960, 67, 70. Mazzoni, Jacopo, IX, 27-28, 49, 5152. Medici, famiglia, 76, 189, 232. Medici, Alessandro de’, 225. Medici, Antonio de’, 68-69, 140. Medici, Carlo de’, 207-209. Medici, Giovanni de’, 35-36, 42, 86, 220-21. Medici, Giuliano de’, 77-78, 98. Medici, Leopoldo de’, 3, 32. Mersenne, Marin, 43. Micanzio, Fulgenzio, 312, 318. Millini, Giovanni Garzia, 157-59, 185, 202.

Mocenigo, Giovanni, 37-38. Moletti, Giuseppe, 40. Monti, Cesare, 314. Morandi, Orazio, 263-64. Mordente, Fabrizio, 47. Morosini, Andrea, 165. Morosini, Niccolò, 165. Muti, Giacomo, 22. Muti, Tiberio, 249. Muzzarelli, Giovanni, 321. Nabucodònosor, re di Babilonia, 229. Nadal, Jérôme, 109. Newton, Isaac, 20, 52, 199, 323. Niccolini, Francesco, 264-69, 280, 284-86, 288, 290-92, 294, 296-98, 306-307, 309-10. Nicola V (Tommaso Parentucelli), papa, 66. Oreggi, Agostino, 261, 274, 287, 290, 303, 314. Oresme, Nicole, 64-65, 276. Orsini, Alessandro, 51, 195, 201, 206-207, 212, 257. Orsini, Paolo Giordano, 140. Osiander, Andreas, 184, 204. Pagano, Sergio, 249. Pagnoni, Silvestro, 57. Pannocchieschi dei Conti d’Elci, Arturo (Accademico Incognito), 121-24, 127, 138. Paolo III (Alessandro Farnese), papa, 185, 204, 208. Paolo V (Camillo Borghese), papa, 99, 106, 109, 163-65, 200, 206207, 209, 215, 223, 234, 257, 312313, 323. Paolo di Tarso, 175. Papazzoni, Flaminio, 112-14, 122. Pascal, Blaise, 119. Paschini, Pio, 322. Pasqualigo, Zaccaria, 303, 314. Pereira, Benito, 24, 237.

340 Picchena, Curzio, 107, 191-93, 195, 201, 207-11, 217, 221-22, 254. Piccolomini, Alessandro, 23-24, 40, 108. Piccolomini, Ascanio, 317. Pico della Mirandola, Giovanni, 88. Pio IV (Giovanni Angelo Medici), papa, 75. Pio V (Antonio Michele Ghislieri), papa, 185. Pisano, Giovanni, 12. Pisenti, Bernardo, 151-52. Pitagora, 33, 64. Platone, 12, 33. Plutarco, 68. Popper, Karl, 196. Possenti, Vincenzio, 12. Poupard, Paul, VII, 322-25. Primi, Annibale, 191, 210. Priuli, Antonio, 152. Querengo (Querenghi), Antonio, 193. Redondi, Pietro, 245, 248-53. Rezzi, Luigi Maria, 28. Riccardi, Caterina, 297. Riccardi, Niccolò, 238, 247, 255, 260-61, 264-72, 274, 280, 283-85, 287-88, 295, 301-303, 306, 314. Ricci, Ostilio, 11-12, 21. Ridolfi, Niccolò, 238. Rodolfo II d’Asburgo, imperatore, 76-77. Roffeni, Giovanni Antonio, 91, 112. Sagredo, Giovanfrancesco, 74, 151, 258, 272, 278, 280. Saint-Vincent, Grégoire de, 102. Salomone, 183. Salviati, Filippo, 99, 106, 110-11, 137, 152, 258, 272, 274-82. Salvini, Salvino, 4. Santelli, Martino, 130. Santillana, Giorgio de, 309. Santucci, Antonio, 138.

Indice dei nomi

Sarpi, Paolo, 46, 59-60, 75, 127, 162-65, 200, 243. Sarsi Sigensano, Lothario, vedi Grassi, Orazio. Scaglia, Desiderio, 297. Scheiner, Christoph, 116, 128-30, 133-37, 152, 257, 283, 295. Schoppe, Kaspar (Gaspar Scioppius), 255. Schreiber, Hieronimus, 184. Segeth, Thomas, 85. Seghezzi, Michelangelo, 161-62, 203, 313. Segonds, Alain, 252. Senarco, 68. Serario (Serarius), Niccolò, 161. Serassi, Pier Antonio, 28. Serristori, Lodovico, 297. Sfondrati, Paolo Emilio, 154, 156157, 160, 177, 312. Sforza Pallavicino, Pietro, 165. Simplicius, 15, 272, 282. Sizzi, Francesco, 86-90. Souffrin, Pierre, 197, 199. Spinelli, Girolamo, 55. Stefani, Giacinto, 267-69, 280, 302. Stelluti, Francesco, 216, 228-29, 231, 235-36, 254, 265, 279. Stevino, Simone, 120. Tartaglia, Niccolò, 18. Tasso, Torquato, 28. Téllez-Girón y Guzmán, Pedro, 222. Tempier, Étienne, 16-17. Tolomeo, IX, 48-49, 51, 53, 89, 98, 136, 147, 176, 205, 213, 228, 238, 255, 258, 276, 278, 310. Tommaso d’Aquino, 15, 17, 38. Torricelli, Evangelista, 320-21. Urbano VIII (Maffeo Barberini), papa, X-XI, 17, 114, 155, 178, 206, 234, 236, 242, 246-47, 249, 251, 254-55, 257-59, 261-66, 270-71,

Indice dei nomi

273-74, 279-88, 290-98, 300, 303309, 317, 320-21, 324-26. Valerio, Luca, 190, 215-16. Valori, Filippo, 28. Vellutello, Alessandro, 27-28. Vinta, Belisario, 74, 76, 86, 99, 106, 112. Visconti, Raffaello, 265-66, 301, 314. Viviani, Vincenzio, 3-4, 8, 11-12, 1819, 23, 28-29, 32, 35, 41, 61, 116, 321.

341 Wackher, Johannes Matthäus, 77. Wedderburn, John, 85-86. Welser, Markus, 94-95, 128-35, 137, 140, 151, 228. Wohlwill, Emil, 19. Ximenes, Ferdinando, 161-63, 185187. Zabarella, Giacomo, 22. Zollern, Frederich cardinale, 254255. Zuckmesser, Johann Eutel, 92.

INDICE DEL VOLUME Introduzione Il caso Galileo I.

Mamma Pisa

VII

3

Felici presagi?, p. 3 - Incomprensioni materne, preoccupazioni paterne, p. 5 - Pisa studiosa e dotta, p. 8 - Geometria, scienze medie e filosofia naturale, p. 14 - Le prime ricerche sul moto, p. 17 - Logica e geometria, p. 21 - Il De revolutionibus di Copernico a Pisa, p. 25 - Pisa leggiadra e frivola, p. 26 - Il Galileo di Viviani e di Gherardini, p. 32

II.

Padova: «gli anni migliori»

34

L’«addio» al principe, libertà padovane, p. 34 - L’insegnamento a Padova, p. 38 - Gli scritti di meccanica, p. 41 - Corsi privati e strumenti matematici, p. 43 - L’incontro con la dottrina copernicana, p. 48 - La Stella nova: una svolta decisiva? , p. 54 - Celibato e paternità, p. 56

III.

Successi patavini, richiami fiorentini

59

Un cannocchiale per il doge?, p. 59 - L’attesa, p. 63 - Le prime scoperte, p. 67 - Il Sidereus Nuncius (Avviso Sidereo) e le tentazioni fiorentine, p. 71 - In rotta per Firenze, p. 74 - Le reazioni di Keplero, p. 76 - Contestazioni e difese, p. 83 - Galileo a Roma, p. 96

IV.

Pubblici disaccordi

110

La disputa sul galleggiamento, p. 110 - Nuovi progetti, nuove spiegazioni, p. 115 - Contro Aristotele?, p. 120 - La controversia sulle «macchie solari», p. 127 - I successi di Benedetto Castelli, p. 137

V.

Fra astronomia ed ermeneutica sacra In cerca di «verità», p. 141 - Attacchi e denunzie, p. 149 - Sar-

141

344

Indice del volume pi l’infrequentabile, p. 163 - Le difese e le reazioni di monsignor Dini, p. 165

VI.

L’arresto di Copernico

181

I consigli del cardinale Bellarmino, p. 181 - Di nuovo a Roma, p. 190 - La prova attraverso le maree, p. 195 - Il Decreto del 5 marzo 1616, p. 200 - Post-scriptum, p. 213

VII.

Comete inesistenti, atomi irriverenti

215

Gli anni di silenzio, p. 215 - Progetti col cannocchiale, p. 216 Le tre comete del 1618, p. 226 - Risposte alla Libra: Il Saggiatore, p. 231 - L’atomismo di Galileo e i rancori del padre Grassi, p. 240

VIII.

Dal papa amico mi guardi Iddio...

254

Redazione del Dialogo, p. 254 - L’argomento di Urbano VIII, p. 261 - Ricerca di autorizzazioni, p. 263 - Pubblicazione del Dialogo, p. 271 - Accuse e interdizione, p. 283

IX.

Speranze perdute

295

Direzione il Sant’Uffizio, p. 295 - Il processo, p. 299 - La condanna, p. 311 - Ritorno a Firenze, p. 317 - Epilogo?, p. 322

Riferimenti bibliografici

327

Indice dei nomi

335