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German Pages [410] Year 2023
Fragmenta Comica Aristophanes fr. 305–391 Eirene II Heroes Thesmophoriazusai II Kokalos Lemniai
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Fragmenta Comica (FrC) Kommentierung der Fragmente der griechischen Komödie Projektleitung Bernhard Zimmermann Im Auftrag der Heidelberger Akademie der Wissenschaften herausgegeben von Glenn W. Most, Heinz-Günther Nesselrath, S. Douglas Olson, Antonios Rengakos, Alan H. Sommerstein und Bernhard Zimmermann
Band 10.6 · Aristophanes fr. 305–391
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Olimpia Imperio
Aristofane Eirene II – Lemniai (fr. 305–391) Traduzione e commento
Verlag Antike
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Dieser Band wurde im Rahmen der gemeinsamen Forschungsförderung von Bund und Ländern im Akademienprogramm mit Mitteln des Bundesministeriums für Bildung und Forschung und des Ministeriums für Wissenschaft, Forschung und Kultur des Landes Baden-Württemberg erarbeitet.
Die Bände der Reihe Fragmenta Comica sind aufgeführt unter: http://www.komfrag.uni-freiburg.de/baende_liste Bibliografische Information der Deutschen Nationalbibliothek: Die Deutsche Nationalbibliothek verzeichnet diese Publikation in der Deutschen Nationalbibliografie; detaillierte bibliografische Daten sind im Internet über https://dnb.de abrufbar. © 2023 Verlag Antike, Robert-Bosch-Breite 10, D-37079 Göttingen, ein Imprint der Brill-Gruppe (Koninklijke Brill NV, Leiden, Niederlande; Brill USA Inc., Boston MA, USA; Brill Asia Pte Ltd, Singapore; Brill Deutschland GmbH, Paderborn, Deutschland; Brill Österreich GmbH, Wien, Österreich) Koninklijke Brill NV umfasst die Imprints Brill, Brill Nijhoff, Brill Hotei, Brill Schöningh, Brill Fink, Brill mentis, Vandenhoeck & Ruprecht, Böhlau, Verlag Antike, V&R unipress und Wageningen Academic. Alle Rechte vorbehalten. Das Werk und seine Teile sind urheberrechtlich geschützt. Jede Verwertung in anderen als den gesetzlich zugelassenen Fällen bedarf der vorherigen schriftlichen Einwilligung des Verlages. Umschlaggestaltung: disegno visuelle kommunikation, Wuppertal Vandenhoeck & Ruprecht Verlage | www.vandenhoeck-ruprecht-verlage.com ISBN 978-3-949189-80-7
A Carlo a mio padre, a mio figlio
Sommario Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Avvertenza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Εἰρήνη βʹ (Eirēnē deutera) (Pace II) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Ἥρωες (Hērōes) (Eroi) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Θεσμοφοριάζουσαι βʹ (Thesmophoriazousai deuterai) (Tesmoforiazuse II) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Κώκαλος (Kōkalos) (Cocalo) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 227 Λήμνιαι (Lēmniai) (Lemnie) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 270 Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 313 Indici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 360
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Premessa Questo volume è il frutto di un lavoro intrapreso da tempo e a lungo protrattosi anche nell’ intento di aggiornare quanto più possibile i riferimenti agli altri volumi, in specie quelli aristofanei, già pubblicati all’ interno della collana. A tutto il team del progetto dei Fragmenta Comica va il mio più sentito ringraziamento per i preziosi spunti di riflessione su alcune questioni di dettaglio che ho ricevuto in occasione di due seminari da me tenuti nell’ ambito dei cosiddetti ‘KomFragKolloquien’ organizzati presso il Seminar für Griechische und Lateinische Philologie della Albert-Ludwigs-Universität di Freiburg. Ma più di tutti ringrazio Bernhard Zimmermann, non soltanto per avermi coinvolta nel prestigioso ‘Projekt KomFrag’ di cui egli è ideatore e responsabile, ma soprattutto per la pazienza e la fiducia accordatemi in questo lungo periodo di attesa: inestinguibile è, per queste e per tante altre ragioni, il mio debito di riconoscenza nei suoi confronti.
Avvertenza Il testo dei frammenti, fondato sull’ edizione di Kassel–Austin PCG III 2, presenta un apparato critico positivo. I nomi degli editori dei frammenti aristofanei figurano senza anno e numero di pagina (si intende che il riferimento è alle rispettive edizioni dei frammenti, ad loc.): ad es. per ‘Bothe’ si intende Bothe 1844, per ‘Blaydes’ Blaydes 1885, per ‘Dindorf ’ Dindorf 1835, se non precisato altrimenti. Per ‘Kaibel’ si intende sempre Kaibel ap. Kassel–Austin PCG III 2 (in proposito vd. Kassel–Austin PCG IV, viii).
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Εἰρήνη βʹ (Eirēnē deutera) (Pace II)
Bibliografia Fritzsche 1831, 131; Dindorf 1835, 504s.; Bergk 1838, 323; Id. ap. Meineke FCG II 2, 1063–1066; Richter 1860, 20s.; von Velsen 1865, 750s.; Droysen 1869, 354s.; Stanger 1870, 30–47; Bräuning 1874; Keck 1876, 80s.; Müller–Strübing 1878; Kock CAF I, 467; Zieliński 1885, 63–79; Briel 1887, 60s.; Ruppersberg 1888, 4–24; Groebl 1890, 70–74; Helmbold 1890; van Herwerden 1897, ix–xvi; Körte 1897, 172–174; Mazon 1904, 14s.; Sharpley 1905, 7–15; van Leeuwen 1906a, vi–xi; Jachmann 1909, 35; Rogers 1913, xxiv–xxxi; Boudreaux 1919, 79s.; Radermacher 1922–1923, 109–115; van Daele ap. Coulon 1924, 93; Kraus 1931, 30; Norwood 1931, 231–234; Emonds 1941, 315–317; Schmid 1946, 192s.; Platnauer 1964, xvii–xx; Geißler 1969 [1925], 40, 44s., xiv; Gelzer 1970, 1409, 1453; Cassio 1985, 24; Sommerstein 1985, xixs.; Slater 1988; Gil 1989, 80–82; Mastromarco 1994a, 62; Olson 1998, xlviii–li; Carrière 2000, 216; Henderson 2007, 253; Zimmermann 2011a, 767, 774; Mureddu–Nieddu 2015, 62–67. Per ulteriore bibliografia vd. infra, ad Datazione. Titolo Una commedia intitolata Pace fu composta da Teopompo («argumentum Aristophaneum ad nescioquam posterioris temporis pacem translatum, fortasse Lysandream»: Kaibel ap. Kassel–Austin PCG VII, 712; per Geißler 1969 [1925], 78s., invece, si tratterà forse della pace di Antalcida [386/85 a. C.] o della cosidddetta ‘pace comune’ del 375/74: cronologia preferita ora anche da Farmer 2022, 50); dubbio invece il titolo Eirēnē ricondotto a una commedia di Eubulo (vd. Hunter 1983, 47, 124–125; Kassel–Austin PCG V, 207, con il rinvio a Fritzsche, 1857–1858, 7). Sul fondamento delle informazioni riportate in una delle hypotheseis della commedia superstite (test. i), l’ opera aristofanea in frammenti sarebbe complementare all’ altro dramma pervenuto sotto il medesimo titolo Εἰρήνη. Una parte della critica ha sostenuto che dei due drammi uno potesse essere la revisione dell’ altro, ma tale rapporto è respinto da altra parte della critica. Al netto di questa questione (su cui vd. infra, ad Contenuto), resta comunque il fatto che ad Alessandria non si conservava una versione diversa o rimaneggiata della omonima commedia superstite, come parrebbe confermare il dato pinacografico ricavabile dall’ importante catalogo delle commedie aristofanee noto come Index Novati1, nel quale i drammi 1
Il catalogo è riportato da tre codici del XIV secolo: M (Ambr. Gr. L 39 sup. [Gr 479], f. 90v), V (Vat. Gr. 918, f. 1r/v), RS (Vat. Reg. Suec. 147, f. 1v). La lista (Proleg. de com. XXXa, p. 142.7–20 Koster = Ar. test. 2a.13–23) è introdotta dall’ indicazione del numero complessivo di 44 commedie aristofanee (Proleg. de com. XXXa, p. 141.6 Koster = Ar. test. 2a.11: δράματα δὲ αὐτοῦ μδ´): numero confermato dalla corrispondente notizia della Suda (α 3932 [μδ´ AV: νδ´ GIM: νζ´ Τ] = Ar. test. 2b.11). Il catalogo che segue riporta però, in un ordine alfabetico limitato alla prima lettera, i titoli di 38 commedie, che diventano 42 se si considera che Eolosicone, Nuvole, Tesmoforiazuse e Pluto,
Εἰρήνη βʹ
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soggetti a διασκευαί autoriali (Eolosicone, Nuvole, Tesmoforiazuse e Pluto) recano sempre il numerale β´, che designa per ogni opera l’ esistenza di due (β) ἐκδόσεις: un’ indicazione assente soltanto in corrispondenza del titolo Εἰρήνη (cf. Ar. test. 2a.17). Data l’ origine certamente alessandrina del catalogo, l’ assenza del numerale rispecchierà verosimilmente la mancata conservazione della commedia per noi perduta (o la presunta revisione della omonima commedia superstite) nella biblioteca alessandrina2. Contenuto La seconda hypothesis della Pace superstite attesta l’ esistenza di un’ altra commedia aristofanea, intitolata Pace (vd. infra, test. i). Evidenza ulteriore dell’ esistenza di una Pace II di Aristofane è fornita da testimoni che citano (o sembrano citare) parole e pericopi che non figurano nella Pace superstite. Sette le citazioni di questo genere, riducibili però quasi certamente a cinque (frr. 305–309): sull’ attribuzione delle restanti due (frr. 420 e 581), infatti, i testimoni non sono unanimi né si può escludere che siano in errore3. Μa se in due delle altre cin-
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contrassegnati dal numerale β´, valgono doppio (sul valore cardinale del numerale β´ nell’ Index Novati vd. ora più in dettaglio Caroli 2021a, 51–53). Più in generale, su questo catalogo (il cui nome convenzionale ‘Index Novati’ fu suggerito dal nome di Francesco Novati, che per primo lo scoprì nella seconda metà del XIX secolo nell’Ambr. Gr. L 39 sup. e lo pubblicò nel 1879 con una postilla di Wilamowitz [Novati 1879]), da ricondursi all’ Onomomatologos di Esichio (su cui vd. Orth 2013, 18–20, ad Alc. Com. test. 1, con la bibliografia ivi citata) e, in ultima analisi, al lavoro di catalogazione svolto presso la biblioteca di Alessandria, e sul suo rapporto con il catalogo contenuto nella corrispondente testimonianza di Sud. α 3932 (Proleg. de com. XXXb Koster = Ar. test. 2.b, dove, pur essendo registrato il medesimo numero complessivo di commedie, vengono elencate le sole undici commedie superstiti, evidentemente le sole in possesso della biblioteca privata di cui questa lista parrebbe costituire l'inventario: vd. Caroli 2021a, 53 e n. 40, con la bibliografia ivi citata), vd. Zuretti 1892, 104s.; Blum 1977, 263s.; Otranto 2001, 1063s.; Orth 2017, 27, ad Aiolosikōn test. ii; Castelli 2020, 142–144, con la ulteriore bibliografia ivi citata. Vd. anche infra, ad Hērōes, test. ii. L’ integrazione Εἰρήνη 〈β´〉 proposta nell’ Index Novati (test. 2.a.17) da Kaibel (1895, 972), il quale a sua volta valorizzava un’ ipotesi già prospettata dallo stesso Novati (1879, 462, con Wilamowitz ibid. 464), è dunque finalizzata a risolvere il problema del numero di 44 commedie attribuito ad Aristofane all’ inizio del catalogo dall’ Index Novati e dalla Suda: numero che si raggiunge se ai 42 titoli conteggiabili nell’ elenco (vd. supra n. 1) si aggiunge un’ altra Pace e il titolo Σκηνὰς καταλαμβάνουσαι, omesso in questo catalogo ma presente nel catalogo papiraceo restituitoci da POxy. XXXIII 2659 (= TM 63604 ), fr. 1, col. i 13 e fr. 2, col. i (= Ar. test. 2c), su cui vd. Orth 2017, 26, ad Aiolosikōn test. i e Bagordo 2020, 11, ad Skēn. Katalamb. test. i. Sull'ulteriore, dubbio titolo aristofaneo Ὀδομαντοπρέσβεις, che parrebbe documentato da IG II2 2321.88 = Olson–Millis 2012, 113s., vd. ora Caroli 2021a, 50s. n. 36, con la bibliografia citata, e soprattutto Torchio 2021, 88-91. Il fr. 420 (ἰὼ Λακεδαῖμον, τί ἄρα πείσῃ τήμερον;, «Ahi Sparta, quale sofferenza patirai dunque oggi?») è un trimetro che nel solo scolio vetus (RV) Ar. Nu. 699b.β Holwerda = Sud. τ 509 è assegnato alla Pace, probabilmente sulla base della sua consentaneità
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Aristophanes
que citazioni (frr. 307 e *309) è lecito pensare che si tratti di parafrasi imprecise di passi presenti nella commedia superstite, restano pur sempre tre altri passi (frr. 305, 306, 308) che è arduo interpretare alla stessa stregua, e che sembrano effettivamente confermare la notizia della hypothesis su citata, secondo cui una commedia aristofanea intitolata Pace, diversa da quella superstite, era conosciuta nell’ antichità. Favorevoli all’ idea che la Pace seconda fosse un rifacimento del dramma conservato – rifacimento indotto dall’ esigenza di emendare alcune delle incongruenze generalmente riconosciute nella tessitura drammaturgica della sua prima versione – erano Bergk (ap. Meineke FCG II 2, 1063–1065) e Kock CAF I, 467, ambedue convinti che la Pace superstite sia la prima versione della commedia. Per Droysen 1869, 354s. la commedia pervenutaci rappresenterebbe invece la versione riveduta, laddove la prima versione sarebbe stata rappresentata alle Dionisie del 423 / 22. Per questa ipotesi vd. anche Keck 1876, 80s., a parere del quale nella prima stesura della commedia Cleone, ancora vivo, avrebbe avuto il ruolo che nella seconda sarebbe poi toccato allo scarabeo stercorario («fortasse in priore Pacis fabula cantharus ille non solum ex falsa spectatoris cuiusdam coniectura Cleonem significavit, sed aliis quoque rebus ipse poeta docuit, sese revera Cleonem cavillari et hominem pacis odio summo inflammatum coegit, ut canthari persona suscepta Trygaeum pacis amantissimum in caelum veheret ad Pacem protrahendam»). Altra parte della critica ottocentesca (Stanger 1870, 30–47; Bräuning 1874; Müller–Strübing 1878; Zieliński 1885, 63–79) riteneva di poter riconoscere tracce di revisione in alcune delle reali o apparenti incongruenze drammaturgiche e delle difficoltà critico–testuali più spesso segnalate nella versione superstite della commedia; in particolare: a) la problematica interpretazione dei vv. 47s., e dei vv. 479s., che presupporrebbero riferimenti a un Cleone ancora vivo; b) l’ apparente intercambiabilità dei ruoli di Polemos e di Zeus nei vv. 195–205, 309s. e 371–380, che parrebbe corroborata dall’ indicazione fornita da uno scoliaste a proposito dei vv. 236s. (Σ [vet] Pax 236c Holwerda: τινές φασι τὸν Δία ταῦτα λέγειν); c) una con le rabbiose esclamazioni a cui nella Pace superstite Polemos si lascia andare in relazione alle imminenti sciagure dei mortali (v. 236), di Prasia (v. 242), di Megara (v. 246) e della Sicilia (v. 250). Da altri due testimoni, però, esso è ascritto alle Holkades (Navi onerarie): cf. Σ (E) Ar. Nu. 699b.α Holwerda; Σ (A) Hom. Il. III.182b, e si consideri anche l'integrazione καὶ ἐν τῇ Ὁλκάσιν proposta in Σ (E) Ar. Nu. 699b.β Holwerda da Dindorf 1869, 211, posto che «potuit eodem versu poeta in utraque comoedia uti» (Kock CAF I, 468). Su questo frammento vd. ora Torchio 2021, 112–116. Il fr. 581 contiene un dialogo in tetrametri giambici catalettici in genere attribuito a un agone epirrematico in cui due ignoti interlocutori celebrano la straordinaria fertilità della terra di Atene interrogandosi sull’ opportunità della ciclica alternanza delle stagioni. Il passo è ricondotto alla Pace dal solo Eust. in Od. 1573.21, laddove in due dei luoghi dei Deipnosofisti di Ateneo da cui esso è citato o alluso (IX 372b, XIV 653f; ma ἐν Εἰρήνῃ si trova in epit. XIV 653f [Εἰρήνῃ C: Εἰρή E], da cui dipende Eustazio l. c.) è correttamente attribuito alle Hōrai (Stagioni): sull'interpretazione complessiva del frammento vd. ora Bagordo 2020, 193–204.
Εἰρήνη βʹ
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presunta consentaneità tra i burleschi maneggi del Sole e della Luna ai danni degli dèi olimpici, descritti da Trigeo a Hermes nei vv. 406–415, e le allusioni a quelle perturbazioni atmosferiche (da non confondersi con l’ eclissi di sole del marzo 424: vd. Mayor 1939, 63s. n. 3) che dovettero accompagnare l’ elezione di Cleone a stratego per l’ anno 424 / 23 e che nell’ epirrema della parabasi delle Nuvole (vv. 581–586) sono interpretate come auspicio infausto: consentaneità che, ancora una volta, farebbe pensare alla minaccia rappresentata per la conclusione della pace da un Cleone ancora vivo; d) l’ identità composita e insolitamente fluida che il coro esibisce nel corso della commedia, allorché, da indifferenziato gruppo panellenico (v. 302) – nel quale si riconoscono una eterogenea quanto generica accolita di professioni (contadini, mercanti e artigiani: vv. 296s.) ed ‘etnie’ differenti (meteci, stranieri e isolani: vv. 297s.) – si trasforma in un gruppo omogeneo di Ateniesi (vv. 349–357), per ridiventare poi, nella scena del dissotterramento di Pace, panellenico, composto da cittadini provenienti da varie città (Beoti, Spartani, Argivi, Megaresi e Ateniesi: cf. vv. 464–507). Si sarebbe trattato dunque di una entità corale eterogenea che, nella versione riveduta della commedia, sarà poi diventata un più omogeneo coro di città greche; e) assenza dell’ agone epirrematico: un’ omissione spiegabile, a parere di Zieliński, soltanto pensando a un ‘Weihefestpiel’ che, nella seconda redazione del dramma, avrebbe preso il posto di un originario agone tra l’ eroe comico Trigeo e il demagogo Iperbolo; f) la problematica presenza scenica, contestata dagli stessi rivali di Aristofane (cf. Pl.Com. fr. 86; Eup. fr. 62, e vd. Imperio 2017, 102s. con n. 34 e ulteriore bibliografia), della statua della Εἰρήνη, che, nella versione riveduta della commedia, avrà potuto esser stata sostituita dalla persona loquens di Γεωργία. In definitiva, come annotava Müller–Strübing 1878, 766, la Pace che noi leggiamo non sarebbe che una «hastig zusammengestoppelten Friedenskomödie». A partire da queste considerazioni (in seguito valorizzate da Norwood 1931, 231–234, il quale non esitava a riconoscere nella Pace superstite un chiaro fenomeno di contaminatio), Zieliński si spingeva a ipotizzare che la prima versione fosse stata prodotta nel 422, quando Cleone era ancora vivo, e che quella che possediamo sia una revisione, realizzata per servire da cornice per la dedicazione in teatro, alle Dionisie del 421, di una statua della Pace cominciata da Fidia (cf. Pax 605 ἦρξεν αὐτῆς Φειδίας) e portata a termine da uno dei suoi allievi. E tuttavia, contro una siffatta ricostruzione, risultano stringenti le obiezioni di Briel 1887, 60s., e soprattutto di Ruppersberg 1888, 4–24; Helmbold 1890, 6–15, 64–69; van Herwerden 1897, ix–xvi; Sharpley 1905, 7–15. Contrari all’ idea della reale esistenza di una seconda Pace di Aristofane si dichiarano van Leeuwen 1906a, vi–ix e Radermacher 1922–1923, 114 (e, sulla loro scia, Kraus 1931, 30, ad Pac. 182–183: vd. infra, ad fr. 307), a parere dei quali la hypothesis farebbe riferimento a una omonima commedia composta e rappresentata non da Aristofane ma da suo figlio Araros (in luogo del tràdito ὁμοίως ὁ Ἀριστοφάνης van Leeuwen proponeva di leggere ὁμοίως Ἀραρὼς ὁ Ἀριστοφάνους, Radermacher Ἀραρὼς ὁ Ἀριστοφάνους). Anche per Dindorf 1835, 504s. e van Daele (ap. Coulon 1924, 93) non ci fu una Pace seconda; piuttosto, i
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frammenti non riconducibili alla Pace superstite apparterrebbero ad altre commedie, omonime ma di erronea attribuzione, o tramandate con un titolo errato. Pur senza escludere la possibilità di una revisione delle Pace superstite, l’ ipotesi che i frammenti ascritti alla Pace II siano invece da attribuire ai Contadini – altra perduta commedia aristofanea che, come pare suggerire già solo l’ identità del suo coro, e come confermano alcuni tra i suoi frammenti di senso maggiormente perspicuo (in particolare i frr. 109–111), doveva presentare significative consonanze con la tematica irenica della Pace – è stata prospettata da Fritzsche 1831, 131; Bergk 1838, 323 (diversamente in Meineke FCG II 2, 1063–1066: vd. infra); Groebl 1890, 71s.; Rogers 1913, xxxs.; Slater 1988. E anche per Mazon 1904, 14s. era improbabile che a Eratostene fosse ignota una commedia del tutto nuova, ma col medesimo titolo, rappresentata magari una volta ripresa la guerra, a distanza di anni dalla originaria versione della Pace: piuttosto, si sarà trattato di una commedia di soggetto analogo, tramandata con un titolo diverso, ma conosciuta anche col medesimo titolo di Pace: «ce titre, qui prêtait à des confusions, fut ensuite oublié, et on s’ explique alors qu’ Ératosthène n’ ait pas connu de seconde Paix: il l’ avait peut–être dans sa bibliothèque, mais il la lisait sous un autre nom» (Mazon 1904, 15). Datazione 420 a. C. (Lenee): Geißler 1969 [1925], 40, 44s., xiv; Gil 1989, 82. Post 421 a. C.–ante 404 a. C.: Platnauer 1964, xvii–xx. 413–406 a. C.: Ruppersberg 1888, 24–29. 420–416?: Carrière 2000, 216. Post 413 a. C.: 410–405 a. C.: Sommerstein 1985, xix; Olson 1998, li; Henderson ap. Slater 1988, 51s.; Id. 2007, 253; Zimmermann 2011a, 767, 774. Per ulteriore bibliografia vd. supra, ad Titolo. La discussione sulla datazione della Pace II è ovviamente connessa alla complessa questione relativa al rapporto sul piano tematico, cronologico e compositivo tra le due commedie omonime: non è chiaro, come si è detto, se si trattasse di drammi omonimi ma completamente indipendenti, o se non fossero piuttosto l’ uno il ‘rifacimento’ dell’ altro4. In favore della prima ipotesi si sono espressi, tra altri, Richter 1860, 22–24; von Velsen 1865, 750s.; Platnauer 1964, xvii–xx; Cassio 1985, 24; Sommerstein 1985, xixs., i quali tendono a collocare la Pace perduta in un anno non precisabile, ma di certo successivo alla Pace superstite, tra la fine della pace di Nicia e la fine della guerra, o, più precisamente, negli anni della guerra deceleica. In favore della seconda ipotesi si sono espressi, tra altri, Briel 1887, 61; Körte 1897, 172–174; Schmid 1946, 193; Geißler 1969 [1925], 44s.; Olson 1998, xlviii–li, i quali però 4
Né, evidentemente, può essere definita con certezza la natura di questo eventuale rifacimento: se cioè si trattasse di una radicale revisione o di una più blanda opera di aggiornamento della commedia rappresentata alle Dionisie del 421: una questione tuttora aperta ad esempio nel dibattito critico relativo al ‘rifacimento’ delle Nuvole (vd. Torchio 2021, 11–25, con la bibliografia ivi discussa) e, in misura e in termini differenti, del Pluto (vd. Torchio 2021, 199–201 e soprattutto Caroli 2021, passim), e dell’Eolosicone (vd. Orth 2017, 9ss.), e che è stata prospettata anche in relazione alle Tesmoforiazuse seconde (vd. infra, ad l.).
Εἰρήνη βʹ
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divergono sulla cronologia di questo ‘rifacimento’, che potrà esser stato messo in scena o in tempi ravvicinati alla prima redazione oppure a distanza di vari anni: se per Körte e per Geißler la mise en scène sarà stata verosimilmente allestita alle Lenee del 420 (nel clima ancora euforico susseguente al trattato di pace che poneva fine alla guerra archidamica), per Schmid 1946, 193 la rielaborazione sarà stata curata in vista di una messa in scena estranea agli agoni cittadini, in occasione di un festival rurale organizzato qualche tempo dopo la firma della pace di Nicia in uno dei teatri dei demi attici, per celebrare il ritorno dei contadini nei loro poderi aviti (l’ ipotesi di Schmid è poi riproposta da Mastromarco 1994, 62 e da Mureddu in Mureddu–Nieddu 2015, 62–67)5. Per Olson 1998, li, bisognerà invece pensare a un anno successivo al 413, e dunque a una data successiva all’ occupazione spartana di Decelea: occupazione che, precludendo agli Ateniesi l’ accesso alla campagna attica, avrebbe in loro ispirato una rinnovata nostalgia per la vita agreste. E sulla base dei medesimi argomenti (recentemente valorizzati da Zimmermann 2011a, 767, 774), anche Sommerstein 1985, xix (che però, come si è detto, pensa non a una rielaborazione della Pace portata in scena alle Dionisie del 421 ma piuttosto a una commedia composta ex novo) colloca la data di composizione della Pace II in un periodo compreso tra il 410 e il 405. Inevitabilmente connessa al dibattito sulla datazione della Pace II è, come si è visto, la questione relativa alla successione cronologica delle due commedie omonime: se l’ ipotesi maggioritaria propende per la recenziorità della Pace perduta rispetto a quella superstite (vd., tra tanti, Kaibel ap. Kassel–Austin PCG III 2, 170, a parere del quale la testimonianza della seconda hypothesis della Pace indicherebbe con certezza che Eratostene sapeva che la Pace superstite era anteriore rispetto a quella perduta, e che il fatto che egli non sapesse se la seconda fosse una revisione della prima o una nuova commedia dimostrerebbe che nelle Didascalie la trovava menzionata dopo la prima6), non sono mancate voci di dissenso di chi, come Droysen 1969, 354, Keck 1876, 80s. e Zieliński 1885, 63–79, ha postulato l’ anteriorità della Pace perduta rispetto all’ opera conservata (vd. più dettagliatamente supra, ad Contenuto). E, più di recente, anche Henderson (ap. Slater 1988, 51s.) non ha escluso che la Pace perduta fosse stata portata in scena nel festival immediatamente precedente a quello in cui fu rappresentata la Pace superstite: ossia alle Lenee del 421, salvo poi optare per l’ ipotesi maggioritaria e per una datazione del dramma non conservato agli anni Dieci (Henderson 2007, 253). 5
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In generale, sull’ attività dei numerosi teatri periferici disseminati nei demi attici vd. soprattutto Pickard–Cambridge DFA, 42–56, 361; Whitehead 1986, 215–222; Csapo– Slater 1995, 121–132; Paga 2010; e ora Csapo–Wilson 2020, 3–274, con ulteriore bibliografia. Deduzione cui Sommerstein (1985, xx, n. 18) obietta però che a rigore le parole di Eratostene potrebbero anche significare che «it is not clear whether he restaged 〈in 421〉 the same play 〈which he had produced previously〉 or entered 〈on a previous occasion〉 another which is not preserved».
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test. i Ar. Pax Arg. II Wilson (RVΓLh) φέρεται ἐν ταῖς διδασκαλίαις δεδιδαχὼς 〈ἑτέραν〉 Εἰρήνην ὁμοίως ὁ Ἀριστοφάνης. ἄδηλον οὖν, φησὶν Ἐρατοσθένης (fr. 38 Strecker = F 10 Bagordo), πότερον τὴν αὐτὴν ἀνεδίδαξεν ἢ ἑτέραν καθῆκεν, ἥτις οὐ σῴζεται. Κράτης (F 118 Broggiato) μέντοι δύο οἶδε δράματα γράφων οὕτως· ἀλλ᾽ οὖν γε ἐν τοῖς Ἀχαρνεῦσιν ἢ Βαβυλωνίοις, ἢ ἐν τῇ ἑτέρᾳ Εἰρήνῃ. καὶ σποράδην δέ τινα ποιήματα παρατίθεται, ἅπερ ἐν τῇ νῦν φερομένῃ οὐκ ἔστιν. 1 φέρεται RΓLh: φαίνεται V δεδιδαχὼς Εἰρήνην ὁμοίως ὁ Ἀριστοφάνης RV: ὅτι καὶ ἑτέραν δεδίδαχεν ὁμοίως (ὁμ. δεδ. Lh) Ἀριστοφάνης Εἰρήνην ΓLh unde 〈ἑτέραν〉 Εἰρήνην Olson: καὶ ἑτέραν δεδιδαχὼς Εἰρ. ὁμ. ὁ Ἁρ. Bothe 1828, 291: 〈δὶς〉 δεδιδαχὼς Εἰρήνην ὁμωνύμως ὁ Ἀρ. Dindorf 1869, 66s. ( δὶς iam Rogers 1866, xxxiv): Εἰρήνην 〈βʹ〉 Rutherford: Εἰρήνην 〈εἰρημένην〉 dubitanter Holwerda: ὁμοίως Ἀραρὼς ὁ Ἀριστοφάνους van Leeuwen: Ἀραρὼς ὁ Ἀριστοφάνους Radermacher 1922–1923, 113 2 Ἀριστοφάνης ac 4 γε ἐν RV: γε ἐνὶ Γ: γε ἐπὶ Lh 5 δέ R: διά VΓLh: dubitanter del. post φησὶν R Holwerda παρατίθεται RV: περιτίθεται ΓLh nelle Didascalie è riportato che Aristofane rappresentò un’〈altra〉 Pace, analogamente (intitolata). Non è chiaro però, dice Eratostene (fr. 38 Strecker = F 10 Bagordo), se ripropose la medesima (commedia) o ne allestì un’ altra che non si è conservata. Cratete (F 118 Broggiato) conosceva comunque due drammi (con questo titolo) poiché scrive così: «ma invero negli Acarnesi o nei Babilonesi, o nell’ altra Pace». E di tanto in tanto ne cita alcuni passi che non si trovano nella commedia superstite.
Bibliografia Kaibel 1889, 43 n. 2; Id. 1895, 979.13–26; Id. ap. Kassel–Austin PCG III 2, 170; Mureddu–Nieddu 2015, 62 n. 30; Cipolla 2017, 415 n. 7. Testo Per la sostituzione del tràdito ὁμοίως ὁ Ἀριστοφάνης con ὁμοίως Ἀραρὼς ὁ Ἀριστοφάνους o con Ἀραρὼς ὁ Ἀριστοφάνους, proposta rispettivamente da van Leeuwen e da Radermacher, vd. supra, ad Contenuto. Interpretazione La seconda hypothesis della Pace di Aristofane testimonia che: a) nelle Didascalie, consultate da Eratostene nella seconda metà del III secolo a. C., era riportato due volte per Aristofane il titolo Pace, ma nella biblioteca di Alessandria non era disponibile un esemplare dell’«altra» commedia così intitolata: Eratostene si chiedeva infatti se la notizia aristotelica si riferisse alla replica della medesima Pace o a un’ altra commedia omonima; b) anche Cratete di Mallo, all’ inizio del II secolo a. C., era a conoscenza dell’ esistenza di un’ altra Pace aristofanea, della quale citava occasionalmente dei versi: il che non implica necessariamente che la biblioteca di Pergamo ne possedesse una copia, poiché il grammatico «poteva aver tratto da compilazioni precedenti i versi che citava [dall’ altra Pace]» (Broggiato 2006, 270). Non si può però escludere che almeno nella biblioteca di Pergamo vi fosse un esemplare dell’ opera (vd. in particolare Kaibel 1889, 43
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n. 2; Id. 1895, 979.13–26; Id. ap. Kassel–Austin PCG III 2, 170). La questione è evidentemente connessa alla maniera in cui si intende la frase della hypothesis in cui si documenta l’ esistenza di passi di una commedia intitolata Pace che non figuravano nella versione conservata (καὶ σποράδην δέ τινα ποιήματα παρατίθεται, ἅπερ ἐν τῇ νῦν φερομένῃ οὐκ ἔστιν): potrebbe, sì, ricondurre la notizia ad altre fonti non indicate, ma solo se si traduce παρατίθημι al passivo (così ad esempio Mureddu in Mureddu–Nieddu 2015, 62 n. 30, ma questo è uso raro per il verbo nel senso di «citare»: cf. Ammon. in Int. 98.24 Busse τὰ παρατιθέμενα παρ’ αὐτοῦ παραδείγματα) in dipendenza dal soggetto ποιήματα. È dunque più probabile che la frase presupponga qui il ricorso al verbo nella forma media, più usuale, e transitiva (cf. LSJ, s. v. παρατίθημι Β, 5), retta da un soggetto che non potrebbe non essere il poco prima menzionato Κράτης. Come riporta l’ ipotesiografo, il Mallense era a conoscenza di due drammi omonimi (δύο οἶδε δράματα) da cui occasionalmente (σποράδην) citava (παρατίθεται) passi (ποιήματα: complemento oggetto) non riscontrabili nell’ opera in circolazione. Come ha osservato Cipolla 2017, 15 n. 7, il fatto che Cratete non sapesse se collocare un certo argomento o una certa parola negli Acarnesi o nei Babilonesi o nell’ altra Pace non implicherebbe che il testo di quest’ ultima fosse per lui irreperibile, altrimenti il principio dovrebbe valere anche per i conservati Acarnesi. L’ incertezza potrebbe anche solo indicare che in quel momento Cratete citava a memoria e non aveva possibilità di controllo. fr. 305 K.-A. (294 K.) (Γε.) τῆς πᾶσιν ἀνθρώποισιν Εἰρήνης φίλης πιστὴ τροφός, ταμία, συνεργός, ἐπίτροπος, θυγάτηρ, ἀδελφή· πάντα ταῦτ᾽ ἐχρῆτό μοι. (Β.) σοὶ δ᾽ ὄνομα δὴ τί ἐστιν; (Γε.) ὅ τι; Γεωργία 1 τῆς SM: τοῖς A
3 ἐχρῆτό μοι SMA: εὔχοντό μοι Kock: εἴρητό μοι Richards 1909, 74
(AGRICOLTURA) Di Pace, cara a tutti gli uomini, io sono fedele nutrice, dispensiera, collaboratrice, fiduciaria, figlia, sorella: tutto questo essi trovavano in me. (B) Qual è il tuo nome? (AGR.) Quale? Agricoltura Stob. IV 15a.1 (SMA) Ἀριστοφάνους Εἰρήνης· τῆς — Γεωργία. Dalla Pace di Aristofane: «Di Pace — Agricoltura».
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Aristophanes
Trimetri giambici
llwl llw|l llwl llwl rl|wl wrwl rlwl l|lwl wlwl lrwl wlw|r wlwl
Bibliografia Fritzsche 1838, 560; Bergk ap. Meineke FCG II 2, 1066; Kock CAF I, 468; Nauck 1894, 78; Richards 1909, 74; Newiger 1957, 47s.; Gelzer 1960, 225 n. 2; Spyropoulos 1974, 92; Imperio 2004, 93–99, 247–250; Olson 2016, 219; Bagordo 2017a, 134s. Contesto di citazione Il frammento è citato nel IV libro dell’ Anthologion dello Stobeo, in apertura della sezione A, capitolo 15, intitolata Περὶ γεωργίας ὅτι ἀγαθόν, dedicata alle virtù dell’ agricoltura. Si tratta della prima di diciannove citazioni mutuate da testi prosastici e poetici di epoche varie, in special modo comici. Fra questi (oltre ad Ar. Ach. 32–36, Nu. 43–45; Amphis fr. 17; Men. frr. 1, 13, 301, 408, 794), si segnalano due versi della Pace conservata (556s.): nella tradizione manoscritta dello Stobeo, essi risultano citati di seguito, e senza lemma di separazione, al fr. 305. La particolarità non sfuggì a Conrad Gesner che, nella seconda edizione del suo Stobeo, edita a Basilea nel 1549, li separò dai quattro della Pace frammentaria, indicandoli come non contigui (sulla questione vd. infra, ad Interpretazione). Testo Problematiche l’ interpretazione e la resa traduttiva del tràdito ἐχρῆτό μοι del v. 3, da più parti considerato corrotto perché sintatticamente insostenibile. In particolare, Kock CAF I, 468 osservava che «χρῆσθαι τινί τι est aliquo ad aliquid uti», e che ci si sarebbe dunque attesi qui il più corretto costrutto πᾶσι τούτοις (τοῖς ὀνόμασιν) ἐπ᾽ ἐμοῦ ἐχρῆτο. Donde la sua proposta di leggere εὔχοντό μοι («i. e. εὐχόμενοί μοι πάντα ταῦτά με ἔλεγον»), sulla base del confronto con l’ εὔχεσθέ μοι di Soph. OT 1512, che è però certamente guasto; sulla questione, si esprimeva Nauck 1894, 78 («Zu sagen εὔχεσθέ μοι, wo der Zusammenhang εὔχομαι ὑμῖν fordert, ist meines Erachtens mehr als kühn, es ist einfach sinnlos»), a parere del quale sarebbe stato qui sufficiente un semplice ἔγωγ᾽ ὁμοῦ. Anche Richards 1909, 74 contesta l’ εὔχοντο di Kock e, poiché qui «The meaning must be that they called her by these names», suggerisce cautamente l’ alternativa εἴρητό μοι. Interpretazione Il frammento s’ inserisce tematicamente nel solco del tradizionale motivo comico della lode della vita agreste, semplice, sana e serena, spesso contrapposta da Aristofane alla negatività della vita cittadina, faticosa, litigiosa e gratuitamente sofisticata (per cui cf. e. g. Ar. Nu. 41–55, Pax 1185s., Av. 27–48, Eccl. 431–434). Spesso, come in Pax 556 e come nel presente frammento della Pace II (che lo Stobeo collega senza soluzione di continuità a Pax 556s.), il motivo s’ interseca col nostalgico vagheggiamento di un’epoca, anteriore allo scoppio della guerra del Peloponneso, mitizzata come una stagione felice di pace e di idillica prosperità (oltre ad Ach. 32s., citato nel medesimo contesto dallo Stobeo, cf. Eq.
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805–807, Pax 582–586; e, sulla fortuna del motivo nella commedia ‘nuova’ e nella poesia bucolica, vd. Papachrysostomou 2016, ad Amphis fr. 17, con ulteriori passi e bibliografia). A parere di Bergk (ap. Meineke FCG II 2, 1066), il frammento rappresenterebbe lo stralcio di un dialogo di Agricoltura, che annunziava l’ arrivo di Pace, con il coro ovvero «cum probo aliquo Attico cive», da identificarsi forse nel personaggio di Trigeo: «Pace cara a tutti» è infatti espressione da lui usata in Pax 294. In alternativa, Bergk ammetteva la possibilità che a Trigeo spettassero i vv. 1–3 e al coro (e più precisamente al corifeo) il v. 4, unitamente ai due versi che dallo Stobeo sono riportati di seguito ai precedenti, senza soluzione di continuità, e che, come già detto, corrispondono a Pax 556s. Si tratta dei due tetrametri trocaici con cui il corifeo esprime il proprio giubilo per l’ epifania della statua di Pace e delle sue due ancelle Opora e Teoria: «quod vel propter numerorum varietatem aliquid habet probabilitatis». In tale seconda opzione, Bergk giungeva a ipotizzare che in questa che egli riteneva essere non più che una seconda redazione della medesima commedia, il coro seguitasse a pronunciare l’ intera sequenza dei tetrametri 556–559 già presente nella Pace superstite. Di contro, Kock CAF I, 468, pur concordando con Bergk nell’ attribuire al medesimo personaggio il v. 4 del frammento della Pace perduta e il distico successivo, rappresentato dai vv. 556s. della Pace conservata, postulava una lacuna tra i vv. 1–4 del frammento e i vv. 556s. riportati di seguito, persuaso evidentemente che, quand’ anche fossero stati ripetuti nella seconda redazione della commedia, questi ultimi non fossero consequenziali ai quattro trimetri precedenti (analoga opinione esprime Kaibel ap. Kassel–Austin PCG III 2, 171: «quae chori verba etsi iterare in altera editione potuerit poeta, in medio Agriculturae cum Trygaeo aliquo conloquio locum non habuerunt. itaque probabilius est apud Stobaeum duos cognominum fabularum locos in unum confusos esse»). Sulla base del presente frammento, Gelzer 1960, 225 n. 2 ipotizzava un epilogo della commedia che avrebbe contemplato le nozze tra l’ eroe comico e l’ allegorica personificazione femminile dell’ Agricoltura: epilogo affine a quello della Pace superstite e degli Uccelli. Il passo condensa altresì metafore che trovano un significativo parallelo nella topica rappresentazione fornita a più riprese da Aristofane nei Cavalieri del cruciale rapporto tra Demo, personificazione del popolo di Atene, e i politici: a costoro tocca infatti alimentare e amministrare, con la stessa cura riservata agli infanti, il vecchio Demo, non più autosufficiente che i politici tengono appunto sotto tutela, e che nutrono come fossero suoi τροφοί (vd. Newiger 1957, 47s.). Che però qui il topos venga declinato in positivo è assicurato dall’ ovvia valenza idilliaca che il binomio pace–agricoltura assume nella Pace come in tutte le commedie ‘pacifiste’ di Aristofane. Da tale circostanza discende l’ impiego del topos altrettanto positivo del ruolo svolto dalla figura femminile, che in questo frammento si identifica con la personificazione dell’ Agricoltura come buona amministratrice domestica. Si tratta di un motivo che, impiegato da Aristofane anche in Lys. 495 ed Eccl. 212, sarà poi sviluppato da Senofonte nell’ Economico (in particolare 3.10–15). L’ accumulazione verbale, prodotta nei vv. 2s. dall’ elencazione delle prerogative di Agricoltura (vd. Spyropoulos
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1974, 92) conferisce all’ eloquio una solennità forse paratragica: accumulazioni di analoghe prerogative e qualità, enunciate come proprie di un personaggio femminile, presentano le tragedie di Euripide: cf. in particolare Hec. 280s. (ἥδ᾽ ἀντὶ πολλῶν ἐστί μοι παραψυχή / πόλις, τιθήνη, βάκτρον, ἡγεμὼν ὁδοῦ), e soprattutto il fr. 866 Kn. (ἀλλ’ ἥδε μ᾽ἐξέσωσεν, μοι τροφός, / μήτηρ, ἀδελφή, δμωίς, ἄγκυρα στέγης, «lei è per me nutrice, / madre, sorella, schiava, àncora della casa») citato da Alex. R. De figuris 1.10 come esempio di ἐπιμονή, ovvero di ridondanza verbale (Rhet. Gr. III 17.28 Spengel = VIII 440.8 Walz ἐπιμονὴ δέ ἐστὶν […], ἐπὶ πλεῖον ἐπὶ τοῦ αὐτοῦ νοήματος ἐπιμονὴ μετὰ αὐξήσεως): vd. Battezzato 2018, 114, ad Hec. 281. Sulle personificazioni femminili di entità e concetti astratti portati sulla scena comica come mutae personae ovvero come personae loquentes, vd. Henderson 2000, 142s., e, con specifico riferimento alle personificazioni comiche dell’ arte letteraria e musicale: Hall 2000; Sommerstein 2005; Imperio 2012b. 2 τροφός L’ immagine si trova, come si è detto, declinata in negativo al v. 715 dei Cavalieri, dove Paflagone si autorappresenta come una nutrice che sa come «imboccare» Demo; e ai successivi vv. 716–718, dove il Salsicciaio ribatte paragonando l’ avversario alle balie, avvezze a masticare preventivamente i bocconi, dei quali poi solo una piccola parte viene somministrata agli infanti, i quali risultano perciò malnutriti. ταμία In quanto proprio di chi esercita sovranità, autorità o controllo in un qualunque ambito, nella poesia lirica e tragica come in quella comica, l’ epiteto è attestato, nella forma del femminile ταμία o in quella, più frequente, del maschile ταμίας (cf. Frisk GEW II, 850, s. v. ταμία), in riferimento a divinità o a eroi: cf. Pi. P. 5.62, dove Batto è definito ταμίας di Cirene; N. 10.52, dove i Dioscuri (Castore e Polideuce) sono designati ταμίαι di Sparta; in Soph. Ant. 1154 ταμίας (ἀγαθῶν) è apostrofato Dioniso (τὸν ταμίαν Ἴακχον); in Ar. Nu. 566 Poseidone è τόν … μεγασθενῆ τριαίνης ταμίαν; e nel fr. *322.2–4 il coro degli Eroi si autorappresenta come ταμίαι / τῶν κακῶν καὶ τῶν ἀγαθῶν (vd. infra, ad Hērōes, fr. *322). Riferito a persone, il termine ταμίας, come il successivo ἐπίτροπος, è detto di soggetti che rivestono posizioni fiduciarie di prestigio, in consessi pubblici e privati: in riferimento a uomini liberi, che occupano cariche ufficiali di tesorieri delle varie casse dell’ erario dello Stato ateniese o dei suoi templi, ma anche in relazione a schiavi o a donne che amministrano la casa, soprintendendo all’ acquisto, al consumo e alla custodia di provviste e beni di famiglia (per questa duplice dimensione, politica e domestica, delle mansioni correlate al ruolo di ταμίας, vd. Bagordo 2017a, 134s., ad Ar. fr. 724, con passi e bibliografia; e per l’ ulteriore accezione di ταμίας come «amministratore delle 〈sacre〉 triremi», attestato unicamente da Harp. τ 2 [p. 286.14–16 Dindorf], vd. Olson 2016, 219, ad Eup. fr. 210). Oltre al già menzionato ruolo di ταμίαι nell’ economia domestica (cf. Xen. Oec. 3.15), rivendicato dalle donne delle Ecclesiazuse e poi, per conseguenza, in ambito pubblico, va ricordato anche il contesto dei Cavalieri in cui Paflagone si vede costretto a restituire l’ anello col sigillo della casa a Demo, il quale lo ha rimpiazzato col Salsicciaio nel ruolo di
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«tesoriere» (ὡς οὐκέτι / ἐμοὶ ταμιεύσεις, vv. 947s.). Si veda inoltre Ar. V. 612s. (κοὐ μή με δεήσῃ / εἰς σὲ βλέψαι καὶ τὸν ταμίαν), dove Filocleone si vanta del fatto che, grazie al suo salario da dicasta, non deve dipendere né dal figlio né dal ταμίας, il domestico che amministra la cucina di casa. συνεργός In Aristofane l’ epiteto sembra sempre associato a entità divine o paradivine. Nell’ antode della parabasi dei Cavalieri, al v. 588, l’ epiteto è riferito da Aristofane a Nike, personificazione della Vittoria e in quanto tale correlata ad Atena, e con lei invocata come «compagna» del coro di cavalieri nelle contese di guerra e di poesia (cf. Imperio 2004, 247–250). Analogamente, in Ar. Av. 678s., l’ Usignola è invocata dal coro di uccelli come ξύννομε τῶν ἐμῶν / ὕμνων (in generale, su questa tipologia di iuncturae cletiche nei contesti lirici delle parabasi, vd. Imperio 2004, 93–99). In Xen. Oec. 10.10 συνεργοί sono definite le mogli che collaborano con i propri mariti al fine di accrescere le proprietà della famiglia. ἐπίτροπος Termine usato in riferimento al ruolo di guida esercitato da uno o più politici nei confronti dello Stato. Si tratta di accezione, corrente ad esempio in Erodoto (e. g. III 27.2, V 30.2), che Aristofane valorizza anche nella versione superstite della Pace (cf. vv. 685s.: ἀλλὰ νῦν / ἀπορῶν ὁ δῆμος ἐπιτρόπου) e nelle Ecclesiazuse, laddove Prassagora e le altre congiurate avocano a sé la capacità di amministrare la cosa pubblica in nome delle capacità gestionali dimostrate quotidianamente nell’ amministrazione domestica: funzione alla quale esse assolvono in quanto, appunto, «amministratrici» e «tesoriere» (vv. 211s. καὶ γὰρ ἐν ταῖς οἰκίαις ταύταις ἐπιτρόποις καὶ ταμίαισι χρώμεθα). A più riprese, inoltre, nei Cavalieri, l’ atto dell’ amministrare lo Stato (il popolo ateniese impersonato dal vecchio Demo) e la cosa pubblica è qualificato dai verbi τρέπειν, ἐπιτρέπειν ed ἐπιτροπεύειν (cf. vv. 212, 426, 799, 949), ai quali ricorre peraltro il popolo stesso, per dichiarare la propria volontà di «affidarsi» alle cure di un diverso uomo politico, nella fattispecie del Salsicciaio (cf. vv. 1098s., 1259). E si veda l’ analogo impiego di θεραπεύειν in Ar. Eq. 59, 799, 1261. 4 Rispetto al normale ordo verborum della domanda (ὄνομα δέ σοι τί ἐστι), attestato in Aristofane da Av. 1203 e Th. 1200, la variatio sarà stata determinata, a parere di Fritzsche 1838, 560, dalla circostanza che, prima della personificazione dell’ Agricoltura, sarà comparsa in scena la stessa Pace o una qualche altra divinità cui l’ interlocutore aveva poco prima domandato il nome (analoga la formulazione della medesima domanda in Eur. IT 499, dove la protagonista, dopo aver chiesto chi, tra i due prigionieri, sia chiamato Pilade, e dopo essersi sentita rispondere da Oreste che Pilade è l’ altro, passa a chiedere a Oreste: σοὶ δ᾽ ὄνομα ποῖον ἔθεθ᾽ ὁ γεννήσας πατήρ;). Per la formula interrogativa ὅ τι prima della risposta in Aristofane, cf. Ach. 106, 959; Eq. 742; Nu. 753; V. 793, 957; Pax 701; Av. 1640; Th. 253; Pl. 462, 465; ὅτῳ in V. 1172, e vd. Uckermann 1888, 61–64. Più in generale, per l’ impiego di formule interrogative indirette («indirekte Fragwörter»: Kühner– Gerth 1904, 517), quando, in Aristofane, la domanda viene ripetuta dall’ interrogato prima della risposta, cf. Eq. 128, 1073; Nu. 677, 690; Ra. 198.
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fr. 306 K.-A. (295 K.) τὴν δ᾽ ἀσπίδα ἐπίθημα τῷ φρέατι παράθες εὐθέως 1 δ᾽ edd.: δὲ AB: μὲν FSL: γ᾽ οὖν C
quanto allo scudo, deponilo al più presto, e fanne il coperchio del pozzo Poll. Χ 188 (FS, ABCL) φαίης δ᾽ ἂν ἐπὶ τοῦ αὐτοῦ καὶ πῶμα καὶ ἐπίθημα, οἷον πίθου ἢ λέβητος ἢ φαρέτρας, ἐν γοῦν τῇ Ἀριστοφάνους Εἰρήνῃ γέγραπται (ἐν γοῦν τῇ et Εἰρ. γέγρ. om. Α)· τὴν — εὐθέως (εὐθ. om. A). si può dire sia pōma sia epithēma per indicare la stessa cosa (scil. il coperchio), ad esempio di una giara, di un lebete o di una faretra. Nella Pace di Aristofane infatti è scritto: «quanto allo scudo — del pozzo».
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Trimetri giambici
(xlwl xlwl) llww rlwl wlw|r wlwl
Bibliografia
Dindorf 1835, 505; Bergk ap. Meineke FCG II 2, 1066.
Contesto di citazione Nell’ ambito dell’ ampia ricognizione sui termini designanti utensili e accessori di vario tipo, che occupa la sezione finale del X libro dell’ Onomasticon (167–192), Polluce cita il presente frammento volendo attestare l’ impiego del termine ἐπίθημα quale sinonimo di πῶμα, in relazione al coperchio di qualunque genere di contenitore (per l’ equivalenza πῶμα–ἐπίθημα, cf. anche Hsch. ε 4802). Interpretazione A partire da Bergk (ap. Meineke FCG II 2, 1066), in questo frammento viene generalmente riconosciuta una situazione analoga a quella di Pax 1210–1264, allorché, dopo la liberazione della Pace, Trigeo dimostra al Mercante d’ armi, al Fabbricante di elmi e al Fabbricante di lance l’ inutilità della loro mercanzia. Parimenti, nella gioiosa atmosfera della sua pace privata, Diceopoli, in Ach. 279, prefigura la possibilità che un simbolo di guerra come lo scudo sia appeso a un camino. E tuttavia, persuaso che una seconda Pace di Aristofane non sia mai esistita e che dunque i frammenti non riconducibili a passi della Pace superstite appartengano ad altre commedie (omonime ma di erronea attribuzione o tramandate con un titolo errato, vd. supra, ad Contenuto), Dindorf 1835, 505, sospettava che il frammento fosse da attribuirsi alla Pace di Teopompo. 1 ἐπίθημα Deverbativo da ἐπιτίθημι, il vocabolo può vantare solo poche altre attestazioni sino al V secolo a. C. Oltre che in Il. XXIV 228, dove designa i coperchi dei forzieri (φωριαμῶν ἐπιθήματα) ricolmi delle ricchezze con cui Priamo riscatta il corpo di Ettore (analogamente in Hecat. FGrHist 1 F 368), il termine si
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ritrova in Hippon. fr. 56 W.2 = 58 Dg.2, in riferimento al coperchio di un contenitore di vino, che qualcuno ha perforato con un σίφων, una sottile cannuccia utile a spillare e assaggiare la bevanda. In Hdt. I 48.2 designa il coperchio di bronzo posto su un lebete a sua volta bronzeo. Più frequente in Ippocrate (e. g. Epid. VI 4.8 [V, p. 308.18 Littré], Morb. II 26.14s. [VII, p. 42.1s. Littré]), il termine diverrà in seguito di uso corrente anche nella forma ἐπίθεμα. Unica altra attestazione comica sembra essere quella di Hegesipp. fr. 1.13, dove designa il coperchio di una pentola. τῷ φρέατι Al v. 577 della Pace superstite, nell’ ambito del suo nostalgico vagheggiamento di un ritorno alla irenica vita agreste, Trigeo localizza «nei pressi del pozzo (πρὸς τῷ φρέατι)», nel quale venivano generalmente custoditi i beni privati (vd. Olson 1998, 193s., con ulteriori passi comici e bibliografia), quel cespuglio di viole evocato, insieme con torte di frutta secca, fichi, mirti, mosto e olive (vv. 574–579), come simboli τῆς διαίτης τῆς παλαιᾶς (v. 572). 2 παράθες Col medesimo imperativo, in Ach. 583, Diceopoli, terrorizzato dal corredo bellico con cui Lamaco è accorso in scena, invocato in loro difesa contro di lui dai bellicosi Acarnesi, invita il generale a deporre a terra accanto a lui il proprio scudo, opportunamente rovesciato per potersi sottrarre alla vista della faccia spaventosa della Gorgone che vi è incisa (παράθες νῦν ὑπτίαν αὐτὴν ἐμοί); e in Pax 1230 παρατίθημι viene impiegato in riferimento alla corazza che il Mercante d’ armi prova a vendere a Trigeo, e che questi, intenzionato a riutilizzarla come pitale, gli chiede di «deporre» accanto a tre pietre (παραθέντι τρεῖς λίθους), con le quali, dopo aver defecato, potrà pulirsi il sedere (oltre a Σ [vet] 1230a–b Holwerda, cf. Pl. 817; Macho frr. 216–217). Sullo stravolgimento dei codici della guerra operato nel finale della Pace attraverso la risemantizzazione e il reimpiego di armi e armature in una diversa destinazione d’ uso che li renda utili in tempo di pace, vd. Camerotto 2007, 131–138; Imperio 2017, 99s. fr. 307 K.-A. (297 K.) πόθεν τὸ φῖτυ; τί τὸ γένος; τίς ἡ σπορά; donde proviene la pianta? Qual è il genere? Quale il seme? Eust. in Il. 1291.26 καὶ νῦν ἐπισημαντέον, ὡς μάλιστα ἔοικεν ὁ φιτρός φίτυρός τις εἶναι ὡς ἀπὸ τοῦ φῖτυ, ὃ δηλοῖ φυτὸν ἢ φύτευμα, ὡς Ἀριστοφάνης Εἰρήνῃ (εἴρηκε dubitanter Dobree 1833, 253)· πόθεν — σπορά. e ora bisogna precisare che il phitros sembra essere soprattutto un vegetale, perché deriva da phity, come mostrano phyton o phyteuma: così Aristofane nella Pace: «donde — seme».
Metro
Trimetro giambico
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Aristophanes
Bibliografia Bergk ap. Meineke FCG II 2, 1065; Radermacher 1922–1923, 109; Rau 1967, 111; Kaibel ap. Kassel–Austin PCG III 2, 172; Kraus 1931, 30; Cassio 1985, 24 n. 18. Contesto di citazione Il frammento è citato da Eustazio – il quale sembra attribuirlo alla Pace superstite – a proposito del termine φῖτυ, per evidenziare come sulla sua radice si sia formato quel termine, φιτρός, con cui in Il. XXIII 123 sono indicati i tronchi di alberi che i taglialegna ammassano presso il tumulo di Patroclo per allestire la pira funebre. Interpretazione Triade di domande rivolte forse ad Agricoltura (così Bergk ap. Meineke FCG II 2, 1065, il quale, ricollocando questo frammento prima del fr. 305, lo riteneva pronunciato da Trigeo al momento della sua apparizione in scena «a poeta comico mirifico ornato inductam»; e vd. più di recente Cassio 1985, 24 n. 18) oppure a Pace (così Kaibel ap. Kassel–Austin PCG III 2, 172). Persuaso che non fosse mai esistita una seconda Pace, Radermacher 1922– 1923, 109 ipotizzava che il passo andasse collocato dopo il v. 180 della commedia superstite (πόθεν βροτοῦ με προσέβαλ᾽; — ὦναξ Ἡράκλεις) e lo riteneva perciò pronunciato da Hermes, stupito dall'aspetto dello scarabeo stercorario. In alternativa, lo studioso non escludeva che, per evitare la ripetizione dell’ incipit πόθεν in due versi consecutivi e per non separare la domanda τουτὶ τί ἐστι τὸ κακόν; del v. 181a dalla precedente invocazione a Eracle, il passo potesse considerarsi varia lectio del medesimo v. 180. Ambedue le proposte sono state contestate da Kraus 1931, 30, il quale, pur attribuendo il verso alla commedia superstite (poiché altrettanto propenso a negare l’ esistenza di una seconda Pace), riteneva che la domanda τουτὶ τί ἐστι τὸ κακόν; non possa che riferirsi alla prima apparizione dell’essere definito τὸ κακόν, e che non possa quindi essere successiva al verso citato da Eustazio, perché formulata da un personaggio che non ha alcuna contezza di ciò che vede, laddove invece chi pronuncia il verso citato da Eustazio, pur conoscendo la bestia che ha innanzi a sé, cerca di capire di quale specie essa sia. Kraus propone perciò di collocare questo verso subito dopo il v. 183, collegandolo allo stupore di Hermes per il nome e per l’ aspetto dello scarabeo. Se poi ci si aspetta una risposta di Trigeo, Kraus propone di riconoscerla nei due vv. 182s., già in quella sede sospettati anche in quanto quasi doppioni dei vv. 465s. delle Rane. φῖτυ Il termine è attestato solo in poesia. In commedia si ritrova in Pherecr. fr. 278, dove il vocabolo è parimenti glossato (da Phot. φ 213 = Synag. φ 138 [= An.Bachm. p. 406.31]) con φυτόν, φύτευμα, e in Eup. fr. 56, dove è usato in riferimento a una ‘nuova specie’ di buoi (per l’ interpretazione di questo frammento e per l’ elevata caratura poetica e stilistica di φῖτυ, φιτύω, φίτυμα, vd. Olson 2017, 202–204, ad l.). Notevole il ricorso allo stesso termine nella Pace conservata, dove l’ espressione φῖτυ πρῷον (v. 1164), probabile ripresa di Soph. fr. 889 R.2 (cf. Σ [vet] 1164b Holwerda), figura nel contesto lirico dell’ antode della seconda parabasi, in riferimento alle viti di Lemno, individuate come una specie di pianta precoce.
Εἰρήνη βʹ (fr. 308)
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Donde l’ ipotesi di Rau 1967, 111 che anche in questo frammento dell’ omonima commedia frammentaria il termine si inserisse in un contesto paratragico.
fr. 308 K.-A. (694 K.) μή μοι Ἀθηναίους ἁνεῖτ᾽, ἢ μολγοὶ ἔσονται ἁνεῖτ᾽, ἢ μολγοὶ Kaibel (ἢ iam Bergk): ἀνεῖται οἱ μολγοὶ FS: ἀνεῖται μόλγοι CL: αἰνεῖτε οἰ μολγοὶ Α: αἰνεῖτε ἀμολγοὶ Β: αἱνεῖτ᾽ εἰ μολγοὶ Meister 1893, 710, probante Solmsen 1901, 276 (ἀνεῖτ᾽ εἰ μ.): αἰνεῖν· μολγοὶ 〈γὰρ〉 Bernhardy 1822, 210, probante Dindorf 1835, 576 (sed Id. 1869, 196 αἰνεῖθ᾽, οἳ μολγοὶ) ἁν- legit Pausanias; cf. Eq. 394 ἀφανει cod. R (i. e. ἀφᾱνεῖ, vd. Solmsen 1901, 277s.)
non maltrattatemi gli Ateniesi, sennò diventeranno degli otri malconci Poll. Χ 187 (FS, ABCL) ἐπεὶ δὲ καὶ ἀσκὸν […], οὐδὲν κωλύει καὶ μολγὸν εἰπεῖν, ὅς ἐστι κατὰ τὴν τῶν Ταραντίνων γλῶτταν (PCG I, 318 gl. 138) βόειος ἀσκός· […] καὶ Ἀριστοφάνης γε χρησμόν τινα παίζει (χρη. — παίζ. om. A)· μή — ἔσονται, τὸ ἄπληστον αὐτῶν ὑπαινιττόμενος (τὸ — ὑπ. om. FS, AB). poiché anche per askon […] nulla impedisce di dire anche molgon, che si trova nella lingua dei Tarantini (PCG I, 318 gl. 138) (per indicare) un otre di pelle di bue; […] e Aristofane realizza uno scherzo su un oracolo: «non — malconci», per alludere alla loro insaziabilità. Eust. in Il. 801.59–61 Παυσανίας δὲ ἐν τῷ κατ᾽ αὐτὸν ῥητορικῷ λεξικῷ (α 118) οὐ διὰ διφθόγγου γράφων αἰνεῖν ἀλλὰ διὰ μόνου τοῦ α διχρόνου φησίν· ἁνεῖν (ἀ῾νεῖν cod.) 〈ἐν〉 ἐκτάσει ἔχει τὸ α. δηλοῖ δὲ τὸ πτίσσειν, ὡς Ἀριστοφάνης ἐν Εἰρήνῃ δηλοῖ. Pausania, nel suo Lessico retorico (α 118), dice che αἰνεῖν non si scrive col dittongo ma con il solo alpha lungo: ἁνεῖν ha l’ alpha lungo e indica lo «spulare», come mostra Aristofane nella Pace.
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Esametro dattilico catalettico
lr ll ll l|l lr ll
Sull’ impiego dell’ esametro epico come spia della probabile derivazione di questo frammento da un contesto (para)oracolare, derivazione in favore della quale militano in particolare le sue possibili connessioni intertestuali con Ar. Eq. 962–964 e Ar. fr. 103 (su cui vd. infra, ad Interpretazione), vd. ora Marcucci 2020, 2 con bibliografia ulteriore. Bibliografia Brunck 1783, III, 284; Bergk ap. Meineke FCG II 2, 1066; Neil 1901, 135; Capps 1911, 427s.; Rogers 1913, xxvii; Gudeman 1927, 809; Taillardat 1951,
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Aristophanes
20 n. 2; Id. 1965, 95s.; Tosi 1998, 126–131; Imperio 2012a; Lorenzoni 2017, 451; Bagordo 2018, 138; Ceccarelli 2019, 305–310; Marcucci 2020, 2, 38–42. Contesto di citazione L’ esametro è citato come anepigrafo da Polluce per illustrare il significato del termine μολγός, forma ‘tarantina’ di ἀσκός. La sua attribuzione alla perduta Pace aristofanea, ormai generalmente condivisa, fu proposta da Bergk (ap. Meineke FCG II 2, 1066) sul fondamento della su citata testimonianza fornita dal commentario iliadico di Eustazio (in Il. 801.59–61), da cui si ricava che l’ atticista Pausania (α 118) trovava la grafia attica ἁνεῖν, con alpha lungo, del verbo αἰνεῖν, nella Pace di Aristofane (evidentemente la Pace II, mancando essa nella commedia conservata): verbo di cui si precisa il significato come sinonimo del più comune πτίσσειν, che designa l’ atto di «spulare (l’ orzo)». Diversamente Brunck 1783, III 284, e Rogers 1913, xxvii, secondo i quali questo frammento, come gli altri assegnati dalle fonti antiche a una perduta Pace di Aristofane, sarebbe da attribuire ai Contadini; più agnosticamente, Kock (cf. anche Hall–Geldart ed Edmonds) si limitava a presentare il frammento tra gli anepigrafi: a suo parere Bergk lo attribuiva alla Pace II «argumentis parum firmis». Testo L’ emendamento ἁνεῖτ᾽, proposto da Kaibel a fronte di ἀνεῖται e αἰνεῖτε tràditi rispettivamente nei codd. FS CL e AΒ (come correttamente segnalato da Solmsen 1901, 276) di Poll. X 187, e messo a testo da Kassel e Austin, si basa sull’ indicazione, fornita da Paus.Gr. α 118 (ap. Eust. in Il. 801.59–61), relativa alla forma corretta ἁνεῖν, per il verbo glossato come sinonimo di πτίσσειν («spulare» scil. l’ orzo), restituita perciò da Kassel e Austin in Pherecr. fr. 197.2 in luogo del tràdito αἰνεῖν del testimone (Eust. in Il. 801.59; cf. Ael.Dion. α 55 ap. Eust. in Il. 801.58; Phot. α 603; Synag. B α 612 [= An.Bachm. p. 49.26s.], dove al verbo viene attribuito il significato di «ammollare i chicchi di grano nell’ acqua»: τὸ ἀναδεύειν καὶ ἀνακινεῖν κριθὰς ὕδατι φύροντα), nel medesimo contesto di citazione di Ar. fr. 308. Diffusa è, nelle testimonianze erudite che si occupano di questo raro verbo del linguaggio agricolo, la confusione sulla grafia (e. g. ἀνέω in Hsch. α 4819; αἰνέω, omografo del verbo che designa l’ atto del «lodare» [vd. infra, ad Interpretazione], in Ael.Dion. α 55; αἵνω in Hdn. Περὶ μονήρους λέξεως, GG ΙΙΙ 2, p. 930.31 Lentz; per ulteriore documentazione relativa alla distribuzione delle varianti vd. Cobet 1861, 60s. e Solmsen 1901, 272–274; e sulla questione vd. ora anche Marcucci 2020, 39 con n. 116). Interpretazione L’ interpretazione di questo frammento, nel quale, a stare alla testimonianza di Polluce, Aristofane ironizzava, con linguaggio oracolare, sull’ insaziabilità degli Ateniesi, non può prescindere dal confronto con tre altri passi aristofanei: 1) Eq. 962–964: qui, nell’ ambito del lungo, spietato confronto col quale, nei vv. 763–972 dei Cavalieri, che preludono alla vera e propria contesa a suon di oracoli (vv. 997–1110), Paflagone e il Salsicciaio cercano di screditarsi a vicenda prospettando a Demo i danni che riceverà dall’ affidarsi alle cure dell’ avversario, il primo minaccia: «se dai retta a costui diventerai proprio un molgos» (ἀλλ᾽ ἐὰν τούτῳ πίθῃ, μoλγὸν γενέσθαι δεῖ σε), e l’ altro ribatte: «e se invece dai
Εἰρήνη βʹ (fr. 308)
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retta a costui rimarrai proprio… uno sprepuziato sino all’ inguine» (κἄν γε τουτῳί, ψωλὸν γενέσθαι δεῖ σε μέχρι τοῦ μυρρίνου); 2) fr. 103, tratto dai Contadini, citato, in forma irrimediabilmente corrotta (ὅτου δοκεῖ σοι δεῖν μάλιστα τῇ πόλει. [Β.] ἐμοὶ μὲν †ἐπὶ τὸν μολγὸν εἶναι†· οὐκ ἀκήκοας;), dagli scolii a Eq. 963 ([vet] 963a Jones, [Tr] 963d Wilson), che offrono del termine μολγός differenti spiegazioni, spesso confuse o generiche, nelle quali lo status del soggetto qualificato come μολγός è di volta in volta ricondotto, sulla base dell’autorità di Faino, o di Simmaco, o di Eratostene (fr. 9 Strecker), o di Cratete di Mallo (su cui vd. infra), o anche di fonti anonime, a una condizione di cecità o di impoverimento procurata da operazioni di mungitura o spremitura, o da atti di ladrocinio di cui il soggetto sarebbe vittima. Nella selva di tali spiegazioni (per le quali vd. le ricognizioni di Tosi 1998, 126–131 e di Ceccarelli 2019, 293–296), quella di Simmaco, che, prima di citare il fr. 103, si limita a identificarlo con un non meglio precisato oracolο (ἔοικε χρησμός τις εἶναι), ha richiamato l’ attenzione degli studiosi in ragione della sua convergenza con la testimonianza di Polluce, che, a proposito del fr. 308, fa analogamente riferimento a uno scherzo aristofaneo su un non meglio precisato oracolo7; 3) fr. dub. 933, il cui μολγόν σε ποιήσω, citato da Sud. μ 1191, che, pur senza menzionarle, dipenderà evidentemente dalle medesime fonti degli scoliasti di Eq. 963 (Μολγός· ὁ βραδύς· ἢ ὁ τυφλός. οὕτω δὲ ἔλεγον τοὺς ἐξαμέλγοντας καὶ κλέπτοντας τὰ κοινά. ἢ ὁ πένης, παρὰ τὸ ἀμέλγεσθαι καὶ ζημιοῦσθαι. Ἀριστοφάνης: μολγόν σε ποιήσω. παρὰ δὲ τοῖς κωμικοῖς μολγός, ὁ μοχθηρός. λέγεται δὲ καὶ ἀμολγὸς ὁ αὐτός. ἀμολγὸς γοῦν ὁ ἀμέλγων τὰ κοινά, «Molgos [designa] uno [che è] lento; o uno [che è] cieco. Così chiamavano anche coloro che prosciugano e rapinano i beni pubblici. Oppure [era chiamato così] il povero, dall’ essere prosciugato e multato. Aristofane [scrive]: “io renderò te un molgos” [fr. dub. 933]. Presso i comici molgos è l’ individuo spregevole. E lo stesso è detto anche amolgοs. Un amolgοs è perciò uno che prosciuga i beni pubblici»), viene spesso ritenuto una 7
Σ (vet) Ar. Eq. 963a Jones: (I) 〈μολγὸν γενέσθαι:〉 Φαεινὸς μολγὸν ἀντὶ τοῦ τυφλόν. Ἡρόδοτος δὲ ἱστορεῖ τούτους ἐπάνω τῆς Σκυθίας εἶναι. (II) 〈ἄλλως:〉 πένητα, παρὰ τὸ ἀμέλγεσθαι καὶ ζημιοῦσθαι. (III) 〈ἄλλως:〉 Σύμμαχος· ἔοικε χρησμός τις εἶναι. ἐν γὰρ τοῖς Γεωργοῖς οὕτως ἔχει: […]. Ἐρατοσθένης· μολγὸν καὶ ἀμολγὸν τὸν αὐτόν· ἀμολγοὺς δὲ παρὰ τούτοις φησὶ λέγεσθαι τοὺς ἀμέλγοντας τὰ κοινά. Ἡσίοδος δὲ μᾶζά τ᾽ ἀμολγαίη. οἱ δὲ ἀντὶ τοῦ ἀκμαῖον. παρὰ δὲ τοῖς κωμικοῖς μόλγης ὁ μοχθηρός, ὥσπερ γόης· οὕτω Σωκράτης. (IV) 〈ἄλλως: μολγὸν〉 τινὲς μὲν γλαυκόν, οἱ δὲ τὸν βραδύν. οἷον ἀμολγὸν καὶ κλέπτην τῶν δημοσίων. μολγοὺς γὰρ ἔλεγον τοὺς ἐξαμέλγοντας καὶ κλέπτοντας τὰ κοινά. Σ (vet) Ar. Eq. 963b Jones: μολγὸν· τυφλόν, πένητα. Σ (Tr) Ar. Eq. 963d Wilson: Ἡρόδοτος τοὺς Μολγοὺς ἐπάνω τῆς Σκυθίας ἱστορεῖ εἶναι. οἱ δέ φασι τοὺς πένητας, παρὰ τὸ ἀμέλγεσθαι. Σύμμαχος δέ φησιν ὅτι ἔοικε χρησμός τις εἶναι. ἐν γὰρ τοῖς Γεωργοῖς οὕτως ἔχει· […]. παρὰ δὲ τοῖς κωμικοῖς μόλγης ὁ μοχθηρός, ὥσπερ τὸ γόης. οὕτω Κράτης. Σ (Tr) Ar. Eq. 963e Wilson: μολγὸν· τυφλόν, οἱ δὲ τὸν γλαυκὸν λέγουσιν ἢ τὸν βραδύν, ἢ ἀμολγὸν καὶ κλέπτην, μολγοὺς γὰρ ἔλεγον τοὺς ἀμέλγοντας.
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approssimata parafrasi del passo su citato dei Cavalieri 8. Poiché, al netto di quest’ ultimo laconico e sospetto fr. dub. 933, le ulteriori attestazioni comiche del termine μολγός afferiscono a contesti (para)oracolari e ne propongono l’ assimilazione a referenti molto simili (Demo nei Cavalieri, la città di Atene nei Contadini, gli Ateniesi nella Pace ΙΙ), viene generalmente individuata nei tre loci aristofanei un’ allusione all’ oracolo 154 Parke–Wormell, che prediceva un futuro di successi per Atene (anche nella persona dei suoi re), destinata a rimanere sempre a galla, perché inaffondabile appunto come un ἀσκός, cioè come un otre (cf. e. g. Plu. Thes. 24.5.4s., dove l’ oracolo è rivolto a Teseo: ἀλλὰ σὺ μή τι λίην πεπονημένος ἔνδοθι θυμὸν / βουλεύειν· ἀσκὸς γὰρ ἐν οἴδματι παντοπορεύσει; ulteriori fonti in Parke Wormell 1956, II 68s.)9. In questo frammento Aristofane avrà evidentemente inteso sovvertire l’ ottimistico contenuto dell’ oracolo originale, e altrettanto evidentemente questo capovolgimento sarà avvenuto per il tramite della sostituzione di ἀσκός con μολγός, avvertito come variante sinonimica ‘bassa’ («contemptuous synonym for ἀσκός»: Neil 1901, 135, ad Eq. 962). Meno agevole è stabilire in cosa fosse da ravvisare la facies ‘deteriore’ del termine μολγός (anche rispetto al sinonimo ἀσκός): se si dà credito a Polluce riguardo alla provenienza tarantina del vocabolo (ἐστι κατὰ τὴν τῶν Ταραντίνων γλῶτταν βόειος ἀσκός), sarà lecito immaginare che proprio l’ origine straniera del termine fosse alla base dello scarso pregio lessicale di μολγός (così Taillardat 1965, 95); o, in alternativa, che la realizzazione del μολγός comportasse l’ impiego di pelle bovina di infima qualità, forse derivata da «ἀμολγάδες βόες, mucche che erano state a lungo sfruttate per il latte
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Così Kassel–Austin PCG III 2, 419 ad l., in linea con Adler 1928–1938, III, 406 ad l.; ma già Taillardat 1951, 20 n. 2, e più di recente Tosi 1998, 131 n. 19; Lorenzoni 2017, 451. Per Capps 1911, 427s. la minaccia μολγόν σε ποιήσω sarebbe invece inserita al centro di una ipotetica sequenza dialogica dei Contadini, aperta dal fr. 103 e chiusa dal fr. 308 – che sarebbe dunque da assegnare a questa commedia piuttosto che alla Pace II («Possibly the first speaker in fr. 101 [scil. fr. 103], indignant that his interlocutor should express the wish, or the prophecy, that Athens should become a μολγός, turns upon him with the threat μολγόν σε ποιήσω, whereupon the second speaker attempts to justify himself by explaining that he was not giving his own opinion but was merely referring to Cleon’ s oracle, which he then proceeds to quote»). Su Ar. fr. dub. 933 vd. ora Bagordo 2018, 137s. Esisteva in effetti un ulteriore oracolo ‘dell’ otre’ (110 Parke–Wormell), di contenuto erotico, dove – sfruttando l’associazione metaforica tra otre e ventre umano, in rapporto al piede, eufemismo per l’ organo sessuale maschile (Caroli 2017, 360s. n. 55; 456 tav. 2) – si prescriveva al mitico re ateniese Egeo di astenersi dai rapporti sessuali sino al suo rientro in Atene (la più antica e celebre attestazione dell’ oracolo è in Eur. Med. 679–681: ἀσκοῦ με τὸν προύχοντα μὴ λῦσαι πόδα […] πρὶν ἂν πατρῴαν αὗθις ἐστίαν μόλω («non liberare il piede dall’ otre che sporge […] prima di aver fatto ritorno al focolare paterno»): su questa profezia e sulle sue varie redazioni, vd. Gilula 1981–1982; Palmisciano 2014, 277–279. Per la possibilità che il Salsicciaio vi alluda nel passo su citato dei Cavalieri, vd. Bagordo 2008; contra vd. Imperio 2012a, 396–401. Sul fr. 103 dei Contadini vd. ora Bagordo 2022, 15s.
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e la cui pelle era quindi vecchia e consumata» (Tosi 1998, 125). Interessanti convergenze si riscontrano fra talune delle ulteriori esegesi antiche del termine μολγός registrate dagli scolii a Eq. 963, in particolare: (a) quella, anonima (Σ [vet] Ar. Eq. 963a II Jones), che considera il μολγόν del verso dei Cavalieri equivalente a πένητα, e lo pone in relazione con i verbi ἀμέλγεσθαι e ζημιοῦσθαι (così anche nella pur confusa testimonianza di Sud. μ 1191, di cui si è detto supra); (b) quella, ascritta a Eratostene (Σ [vet] Ar. Eq. 963a III Jones), che fa di μολγός un equivalente di ἀμολγός (Ἐρατοσθένης [fr. 9 Strecker] μολγὸν καὶ ἀμολγὸν τὸν αὐτὸν [τὸ αὐτό Bernhardy, ταὐτόν Strecker]), sulla base della circostanza che ἀμολγοὺς δὲ παρὰ τούτοις (παρὰ τούτους VEΓ3, παρ᾽ Ἀττικοῖς Bernhardy) φησὶ λέγεσθαι τοὺς ἀμέλγοντας τὰ κοινά: «(Eratostene) dice che da costoro sono detti amolgoi coloro che mungono le risorse comuni»; cf. Sud. ψ 131: Ψωλός: […] μολγὸν γενέσθαι δεῖ σε. τουτέστι κλέπτην τῶν δημοσίων, ἐξαμέλγοντα τὰ κοινά: «tu devi diventare un molgos; cioè un ladro dei beni pubblici, uno che munge le risorse comuni»10; (c) quella attribuita a un non identificabile grammatico (un Socrate [οὕτω Σωκράτης], secondo lo stesso scolio antico, identificato da Jacoby con Socrate di Argo [FGrHist 310 F 21], oppure, secondo lo scolio tricliniano [(Σ [Tr] Ar. Eq. 963d Wilson)], un Cratete [οὕτως Κράτης] da identificare, com’ è più probabile, con Cratete di Mallo, il cui nome è perciò ripristinato da Valckenaer anche nello scolio vetus [cf. fr. 115 Broggiato, e, in favore di questa seconda opzione, vd. Gudeman 1927, 809, e ora Tosi, 1998, 130]), connessa a un’ accezione, registrata qui per il suo impiego παρὰ τοῖς κωμικοῖς (fr. com. adesp. 845), che richiama un altrimenti inattestato μόλγης,
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A parere di Τοsi 1998, 131–133 ἀμολγός sarà peraltro equivalente ad ἀμοργός, ed era probabilmente la varia lectio antiqua da Eratostene letta (e parimenti ricondotta evidentemente al verbo ἀμέλγω) in un frammento dei Serifii di Cratino (fr. 221) in cui la sequenza anapestica ἀμοργοὶ πόλεως ὄλεθροι (per la quale Kassel e Austin [PCG IV, 235, ad l.] non escludono una provenienza parabatica; più in generale, su questo frammento vd. ora Fiorentini 2022, 24–26), testimoniata da Phot. (b, z) α 1235 ~ Sud. α 1627, acquista un significato pregnante alla luce delle glosse di Phot. α 1233 (ἀμοργοί· τὰ κοινὰ διαμοργοῦντες καὶ λυμαινόμενοι ἄνδρες), Eust. in Od. 1608.57 (ἀμοργοί, φασί, πόλεως ὄλεθροι. οἱ δ᾽ αὐτοὶ καὶ μοργοὶ [cf. Paus. gr. α 94]. οἱ ἀμέλγοντες δηλαδὴ τὸ κοινὸν καὶ ἐκμυζῶντες οἰονεὶ τὰ ἀλλότρια), in Il. 838.54 ([…] Παυσανίας [α 90] φησίν ὡς ἀμολγοὶ ἐλέγοντο καὶ οἱ ἀμέλγοντες τὰ κοινὰ ῥήτορες καὶ διαφοροῦντες τὰ δημόσια. οἱ δ᾽ αὐτοί, φασί [φησί? Strecker, sed vd. Erbse 1950, 8], καὶ μοργοὶ ἢ ἀμοργοί ἐκ τοῦ ἀμέργειν ἤγουν καρπολογεῖν [cf. Paus. gr. α 85] κτλ.), da cui si evince che termini come ἀμοργοί, μοργοί e ἀμολγοί qualificano uomini politici che danneggiano o saccheggiano i beni pubblici, e troverebbe peraltro un significativo parallelo in un discusso luogo aristofaneo, Eq. 326s., dove il tràdito (σὺ …) ἀμέλγει (v. l. ἀμέλγεις) del v. 326, dal verbo «mungere», corretto da Bothe 1829, 42 in ἁμέργεις (ἁμέργει alii), dal verbo «cogliere», potrebbe essere a questo punto conservato (contra Taillardat 1951, 10–20; Id. 1965, 420s.), e l’ accusa rivolta dal coro al Paflagone essere perciò resa propriamente come «tu spremi, mungi i ricchi stranieri» (τῶν ξένων τοὺς καρπίμους) (sull’ esegesi del passo vd. Neil 1901, 52, ad v. 326).
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considerato simile a γόης (ὥσπερ γόης), e spiegato come ὁ μοχθηρός. Non meno emblematica mi pare la circostanza che un ulteriore gruppo di proposte esegetiche, monche di attribuzioni, facciano del μολγόν di Eq. 963 aristofaneo un sinonimo di γλαυκόν o di βραδύν, ma soprattutto di ἀμολγὸν καὶ κλέπτην τῶν δημοσίων (Σ [vet] Ar. Eq. 963a IV Jones; cf. Σ [Tr] 963e Wilson): come pare suggerire la successiva spiegazione μολγοὺς γὰρ ἔλεγον τοὺς ἐξαμέλγοντας τὰ κοινά, che rinvia chiaramente all’ accezione di «ladro del bene pubblico», e, più genericamente, di «delinquente», alle quali possono ricondursi anche le due glosse esichiane α 3744 (ἀμολγοί· οἱ ἀμέλγοντες τὰ δημόσια, «amolgoi: coloro che prosciugano i beni pubblici») e μ 1565 (μολγός· Ἀριστοφάνης. τάχα ἂν εἴη ἐκ πλήρους ἀμολγός. ὁ δὲ ἀμέλγων τὰ χρήματα ἀμολγός. ἔνιοι δὲ μολγοὺς ἀκούουσι τοὺς μοχθηρούς, †τοῖς ἀμέλγουσι τὰ κοινὰ κλέπτας εἶναι· καὶ τὸ ἀμολγός. †ἄλλοι δὲ μολγὸν τὸν βόειον ἀσκόν. τίθεται δὲ καὶ ἐπὶ τῶν ἁμαξῶν11, «molgos: Aristofane [usa il termine]. Forse la parola [nella forma più] completa potrebbe essere amolgos. E colui che prosciuga danaro è un amolgos. Ma alcuni intendono molgoi nel senso di “uomini malvagi”, † essere ladri per coloro che prosciugano i beni comuni e amolgos [significa la stessa cosa?] †. Ma altri [definiscono] molgos la sacca di pelle bovina. È posta anche sui carri»). In definitiva, la conseguenza dell’ eccessiva ‘spulatura’, e quindi, fuor di metafora, dell’ eccessivo scorticamento degli Ateniesi sarebbe la loro riduzione in ‘otri malridotti’ , dunque non nei proverbialmente inaffondabili ἀσκοί, bensì in miserrimi μολγοί: esegesi che per un verso ben si adatta anche al passo dei Cavalieri (il rischio di diventare μολγός, «scorticato», paventato da Paflagone a Demo, verrebbe infatti esplicitato dalla replica del Salsicciaio, che prospetta al vecchio padrone un futuro da sprepuziato/scorticato sino all’ inguine), per l’ altro sembra trovare conferma nel topos, largamente attestato nella retorica antitirannica e antidemagogica (cf. e. g. Sol. fr. 33.6s. W.2; Ar. Nu. 440–451), secondo cui l’ ambizione smodata di divenire leader della polis induce a sopportare pene terribili quali appunto lo scorticamento (per questa interpretazione vd. Capps 1911; Tosi 1998, 124; Imperio 2012a, 393–402). L’ esegesi complessiva del passo sin qui proposta è evidentemente inconciliabile con l’ ipotesi, prospettata da Taillardat (1951, 20 n. 2; 1965, 95s.), che, riconducendo la problematica forma verbale tràdita da Eustazio alla grafia αἰνεῖν, «lodare», valorizza il riferimento all’ insaziabilità degli Ateniesi (τὸ ἄπληστον αὐτῶν ὑπαινιττόμενος) presente in un ramo della tradizione manoscritta di Polluce (CL), introducendo un’ implicita associazione tra l’ immagine dell’ ἀσκός e quella di un individuo dalla spiccata propensione al bere, e dotato perciò di una pancia prominente: il termine designerebbe dunque un «beone» (cf. Antiph. fr. 20.3; ma vd. ora le opportune precisazioni di Olson 2023, 79s.) o un «obeso» (cf. Ar. Ach. 1001s. e vd. Olson 2002, 320, ad l.), e il re-
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A parere di Tosi 1998, 129, ἀμαξῶν potrebbe essere corruzione di un μαζῶν, «residuo del richiamo all’ esiodea μᾶζα τ᾽ ἀμολγαίη» (Op. 590) citata in Σ (vet) Ar. Eq. 963a I, e da ricollegare dunque all’ interpretazione che nello scolio viene ascritta a Eratostene.
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sponso oracolare formulato nel frammento aristofaneo preconizzerebbe il rischio che gli Ateniesi diventino dei «ghiottoni». E a partire da questo presupposto, che tuttavia non contempla la possibilità che la glossa pollucea possa esser stata introdotta solo in seguito all’ alterazione della originaria grafia del verbo (cf. Tosi 1998, 126), Arnott 1996, 235s. (ad Alex. fr. 88.4, dove ἀσκός è attestato in un’ espressione proverbiale impiegata per alludere alla ghiottoneria di Eracle) intende il μολγός del frammento aristofaneo nell’ accezione metaforica di «superbo», «pallone gonfiato», appunto: un’ accezione, resa plausibile dall’ associazione tra «otri gonfiati» e «uomini vanagloriosi», attestata sin dalla commedia dorica (cf. Sophr. fr. 4.43). Due ulteriori implicazioni sono state di recente riconosciute in questo frammento da due giovani studiosi: Ceccarelli 2019 crede di poter ravvisare in Ἀθηναίους ἁνεῖτ[ε] un double entendre osceno che giustificherebbe la metafora agricola sottesa al problematico verbo su cui l’ intero passo sembra fondarsi (togliere la pula, e per traslato la pelle umana, evocherebbe a suo parere l’ atto di chi libera l’ organo sessuale in erezione dalla pelle che lo ricopre e il conseguente movimento sessuale). Più pregnante l’ esegesi di Marcucci 2020, 38–42, che riconferma la maggioritaria interpretazione politica della formulazione veicolata da questo esametro, prospettando l’ ipotesi che la scelta del termine agricolo ἁνεῖτ[ε] nell’ ambito della parodia di un oracolo incentrato sull’ impossibilità di affondare Atene possa rinviare alla dialettica campagna vs mare, scil. pace e vita contadina vs guerra e commercio: «la persona loquens potrebbe essere il tipico oracolista guerrafondaio e fautore della talassocrazia attivo nelle commedie aristofanee», assimilabile appunto al Paflagone/Cleone dei Cavalieri che minaccia il vecchio Demo preannunciandogli, se si sbarazzerà di lui, un futuro da μολγός.
fr. *309 K.-A. Σ (SUAP Steph.) Plu. Sol. 19.4 (19.16a, p. 100 Manfredini–Piccirilli) ἄξων· τινὲς ἄξονας τριγώνους φασὶν εἰς οὓς οἱ νόμοι τῶν Ἀθηναίων ἐγράφησαν, οἳ στρεφόμενοι παρεῖχον ἀναγινώσκειν τοῖς ἐντυγχάνουσιν. οὐκ εὖ δέ· τρίγωνος γὰρ ὁ κύρβιc ἦν στήλη τις εἰς ὃν οἱ στρατιωτικοὶ ἐνεγράφοντο κατάλογοι, ὡς καὶ ὁ κωμικός φησιν Ἀριστοφάνης ἐν Εἰρήνῃ. axōn: Alcuni dicono che gli axones erano prismi a base triangolare dove furono scritte le leggi degli Ateniesi, i quali, girando, le presentavano da leggere a chi volesse. Non correttamente, però: infatti il kyrbis era una stele triangolare, in cui erano scritte le liste dei soldati, come dice anche il comico Aristofane, nella Pace.
Bibliografia Ruschenbusch 1966, 14–22; Andrewes 1974; Stroud 1979; Robertson 1986; Rhodes 1993, 131–135, con Addenda, 770, ad [Arist.] Ath. 7.1; Piccirilli 1998, 255–259; Davis 2011; Faraguna 2011, 2s.; Ruffell 2011, 401; Olson–Seaberg 2018, 19, 21s.
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Contesto di citazione Il riferimento dello scoliaste plutarcheo alla Pace di Aristofane trae spunto dalla menzione dell’ ottava legge soloniana riportata nel tredicesimo axōn, la quale prevedeva l’ amnistia per quanti erano stati colpiti da atimia prima dell’ arcontato di Solone (con l’ esclusione di quelli che erano stati condannati dall’ Areopago o dagli ephetai o dal Pritaneo per omicidio involontario o volontario o per aver tentato di instaurare la tirannide) e che si trovavano già in esilio alla data di pubblicazione del decreto. Nello specifico, la menzione fatta da Plutarco nella Vita di Solone si spiega col bisogno di dimostrare la preesistenza dell’ Areopago all’arcontato e all’ opera legislativa di Solone (sul passo vd. diffusamente Piccirilli 1998, 217–220). Interpretazione Da uno dei due scolii a Plu. Sol. 19.4, tramandati dal più antico dei quattro manoscritti di Plutarco (U = Vat. 138), si ricava che nella Pace di Aristofane il termine κύρβις (sull’ oscillazione del genere del sostantivo, tra maschile e femminile, vd. LSJ, s. v., e Supplement) designava una sorta di stele, a base triangolare, su cui erano riportate le liste dei cittadini chiamati alle armi. Nella versione superstite della commedia il termine non è attestato, per quanto al v. 1183 si faccia riferimento a una delle liste per la leva militare che, nell’ agorà, erano affisse alla base delle statue degli eroi eponimi delle dieci tribù attiche, in particolare al basamento di quella della tribù Pandionide (tale base, collocata nello spazio successivamente occupato dall’ estremità occidentale della media stoa, negli anni Settanta del IV secolo a. C. fu demolita, e le statue spostate su una base più grande, collocata presso il bouleuterion: cf. Paus. I 5.1–3, e vd. Shear 1970, 204–222). Donde l’ ipotesi che il vocabolo fosse attestato nella versione perduta della commedia, nella quale è plausibile immaginare che il termine fosse utilizzato con analogo riferimento al supporto grafico degli stratiotikoi katalogoi, menzionati in uno scolio al v. 1183 della Pace superstite (Σ [vet Tr] 1183a Holwerda).12 Il medesimo scolio plutarcheo distingue inoltre le kyrbeis dagli axones, sui quali erano trascritte le leggi ateniesi: distinzione ulteriormente precisata dall’altro scolio (19.16b, p. 100 Manfredini–Piccirilli) che, senza far riferimento alla commedia aristofanea, conferma che le kyrbeis erano supporti di legno a base triangolare su cui erano iscritte le liste dei cittadini chiamati alla leva, laddove gli axones erano supporti girevoli di legno, a base tetragonale (ξύλα τετράγωνα), sui quali erano riportate le leggi (εἰς οὓς οἱ νόμοι ἐγράφησαν) prima della scoperta delle membrane o delle pelli. Di axones Plutarco parla anche più avanti: ancora a proposito di specifiche leggi soloniane (23.4, 24.2), incise su axones numerati, e più in generale (25.1s.) a proposito della presunta durata centennale che Solone avrebbe assegnato ai propri nomoi (durata confermata da [Arist.] Ath. 7.2 ma contraddetta da Hdt. I 29, che la riduce a un solo decennio, probabilmente corrispondente al periodo della sua 12
Come annota Ruffell 2011, 401, il frammento, nel riecheggiare i vv. 1179–1191 della prima stesura della Pace, rifletterebbe «the use and abuse of the registers for military service».
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apodēmia: sulla questione vd. Piccirilli 1976; Id. 1998, 254s.): qui il Cheronese afferma che le leggi soloniane furono trascritte su axones numerati, assi di legno che, assicurati ad appositi supporti, ruotavano all’ interno di cornici quadrangolari (κατεγράφησαν εἰς ξυλίνους ἄξονας ἐν πλαισίοις †περιέχουσι† στρεφομένους) e di cui ai suoi tempi sopravvivevano esigui resti (λείψανα μικρά); e, fondandosi sull’ autorità di Aristotele, aggiunge che tali assi furono chiamati kyrbeis. Inoltre, dopo aver citato un passo di Cratino, tratto dai Nomoi, in cui qualcuno afferma che i kyrbeis (il termine sembra maschile nel fr. 300, ma vd. Olson–Seaberg 2018, 19, ad l.) di Solone e Draconte erano ormai usati per abbrustolire i grani d’ orzo, in altri termini, come legna da ardere13, riferisce che «alcuni» erano dell’opinione che tali kyrbeis contenessero disposizioni in materia di religione (cf. Lys. 30.17s. e 20) e gli axones tutto il resto. Il riferimento plutarcheo ad Aristotele trova riscontro nel passo dell’ Athenaion politeia (7.1) in cui si riferisce che, una volta dismesse le leggi di Draconte (eccetto quelle relative ai delitti di sangue), le leggi soloniane furono incise su kyrbeis e collocate nella stoà basileios. Controverse sono, in generale, le notizie relative non soltanto alla forma (triangolare/tetragonale), alla disposizione (verticale/orizzontale) e alla fattura (di pietra, di bronzo, o, più probabilmente, di legno), ma anche alla collocazione, a seguito del trasferimento, operato forse da Efialte, dalla originaria sede sull'Acropoli (l’ agorà, il pritaneo, il bouleuterion o la stoà basileios), e alla destinazione d’ uso che i due supporti scrittorii avrebbero avuto, nel corso del tempo, dall’ età arcaica a quella ellenistica, e molteplici, dunque, le ipotesi dei moderni riguardo alla diversità o alla, più probabile, sostanziale identità degli oggetti designati dalle due parole (per una ricognizione complessiva delle testimonianze storiche, erudite e letterarie e dell’ ampio dibattito critico relativo, vd. Ruschenbusch 1966, 14–22; Andrewes 1974; Stroud 1979; Robertson 1986; Rhodes 1993, 131–135, con Addenda, 770, ad [Arist.] Ath. 7.1; Piccirilli 1998, 255–259; Davis 2011; Faraguna 2011, 2s.; Olson–Seaberg 2018, 21s., con discussione e bibliografia ulteriori). Per quel che riguarda la commedia, oltre che nel su citato frammento anepigrafo di Cratino, di kyrbeis fa menzione Aristofane in Av. 1354 (ταῖς κύρβεσιν nei codd. RA e nel lemma dello scolio [vet Tr] 1354a Holwerda nei codd. RE, τοῖς κύρβεις negli altri mss.), dove il termine designa le tavole su cui sono scritte le leggi antiche delle cicogne. In Ar. Nu. 448 il sostantivo κύρβις designa metaforicamente quell’ individuo νόμων πλήρης (cf. Σ [vet] Ar. Nu. 448a Holwerda) che Strepsiade aspira a diventare, ossia un leguleio astuto e cavilloso (cf. Taillardat 1965, 230), e in un’ analoga accezione metaforica potrebbe esser stato impiegato anche in un frammento papiraceo adespoto (POxy. XXXV 2743 [= TM 62792], fr. 26, r. 8 = CGFP 220.244 = fr. com. adesp. 1105.244), dubitativamente attribuito da Lobel, editor princeps del papiro, alla Lemnomeda di 13
È da rilevare che Cratino è l’ unico autore antico ad associare i kyrbeis anche a Draconte (vd. in proposito Olson–Seaberg 2018, 21; diversamente Robertson 1986, 148–153, a parere del quale il riferimento a Draconte avrebbe un valore meramente enfatico e iperbolico).
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Strattide, da Luppe (1971b, 121s.) ai Demi di Eupoli, e da Austin (1973, 208) alle Drapetides [Fuggitive] di Cratino.14 Per il reimpiego proverbiale del termine κύρβις in formule dette «de valde scelestis hominibus» (Blaydes 1890–1896, I, 345), cf. e. g. Aristaenet. 1.17.10s., e vd. Bühler 1982, 108–113, ad Zen. Ath. II 11.
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Fautore della paternità cratinea di questo lungo frammento papiraceo è anche Tammaro 1975–1977, 102, che propende però per un’attribuzione alle Tracie e che peraltro sottolinea qui opportunamente la prossimità del termine (κύρβις)̣ al πε]ρίτριμμα κακ[del verso precedente, dove, appunto sulla base di Nu. 447s. (περίτριμμα δικῶν, / κύρβις) e di Ach. 937 (κρατὴρ κακῶν, τριπτὴρ δικῶν), propone di leggere πε]ρίτριμμα κακ[ῶν.
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Ἥρωες (Hērōes) (Eroi)
Bibliografia Bergk ap. Meineke FCG II 2, 1068s.; Kock CAF I, 468; Crusius 1910, 91s.; Wilamowitz 1931–1932, II, 14 n. 2; Schmid 1946, 196s.; Edmonds 1957, 657; Geißler 1969 [1925], 53; Gelzer 1970, 1410, 1418; Gil 1989, 82–84; Id. 2004, 258s.; Carrière 2000, 216s.; Delneri 2000; Henderson 2007, 257–267; Olson 2007, 98; Zimmermann 2011a, 774s.; Pellegrino 2015, 196–204. Titolo Testimoniato per Aristofane dall’ Index Novati (test. 2a.17) e congetturalmente ricostruito nel pinax alfabetico restituitoci da POxy. XXXIII 2659 (= TM 63604 ), tra Ecclesiazuse e Tesmoforiazuse (test. 2c.8)15, il titolo Ἥρωες è noto anche da commedie di Chionide (vd. Bagordo 2014a, 36–49), Cratete (vd. Perrone 2019, 84–97), Filemone e Timocle (vd. Apostolakis 2019, 111–134). Al singolare, Ἥρως, il titolo è attestato per commedie di Difilo e Menandro; ῾Ηρῴνη (Hērōine) è titolo di una commedia di Epigene. Contenuto Dal titolo della commedia, della quale si conservano venti frammenti di tradizione indiretta (310–321, 323–330)16 e a cui è altresì assegnato il fr. *322, tràdito da un papiro di II–III sec. d. C. (vd. infra, ad l.), si può ipotizzare che il coro fosse composto da eroi17. A parere di Wilamowitz 1931–1932, II, 14 n. 2, gli eroi dovevano presentarsi in scena con un vistoso corredo di armi (cf. frr. 311–317, 320), dapprima annunciati (fr. 318) e poi individualmente presentati con i rispettivi nomi (cf. frr. 311 e 325)18 – alcuni dei quali correlati alla sfera sessuale
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Su ambedue i cataloghi di titoli aristofanei, vd. supra, ad Eirēnē deutera, Titolo. E più in generale, sui drammaturghi ricompresi nel pinax papiraceo vd. infra, ad Hērōes test. ii. A questa commedia Dindorf 1835, 610 attribuiva Ar. fr. 712, in cui la persona loquens evoca «uno degli eroi» (εἰς ἥρων), ma su questa come sulla alternativa attribuzione del frammento anepigrafo all’ Anagiro (prospettata da Bothe 1844, 181) si vedano le opportune riserve di Bagordo 2017a, 106. Oltre che per il titolo plurale, l’ ipotesi è sostenibile sulla base dell’ annuncio dato nel fr. 318 (οἱ γὰρ ἥρως ἐγγύς εἰσιν), che può essere accostato all’ invito ἄνδρες ἐγγύς rivolto dal Servo I al Coro di cavalieri, in Ar. Eq. 244, prima dell’ inizio della parodo (vd. infra, ad l.). Avremmo in tal caso un esempio di coro comico ‘individualizzato’, da accostare all’ unico parallelo superstite dello stesso tipo rappresentato dalla parodo degli Uccelli aristofanei: qui, all’ ingresso dei quattro uccelli, generalmente considerati estranei al personale coreutico, al cui costume si fa dettagliatamente riferimento nei vv. 268–293 (sulla loro presumibile mansione di musicisti e sulla posizione da essi tenuta sulla scena, vd. Dunbar 1995, 229–231), fa seguito l’ ingresso dei ventiquattro coreuti–uccelli nominati singolarmente da Tereo–Upupa, via via che vanno a disporsi nell’ orchestra, «with exciting acceleration» (Dunbar 1995, 227s.), nei vv. 297–305. Possibili paralleli sono altresì costituiti dai frr. 245–247 delle Poleis di Eupoli, in tetrametri giambici catalettici, in genere considerati parti di un’ unica scena in cui tre città personificate, suddite dell’ im-
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(cfr. fr. 325) – da un personaggio che andrebbe identificato con l’ anfitrione di un banchetto rituale allestito in loro onore, al quale gli eroi dovevano partecipare spontaneamente consumando i resti delle vivande e ricordando ai convitati alcuni dei precetti da seguire per renderseli propizi: ad esempio non versare acqua sporca fuori dalla porta di casa, non assaggiare il cibo sparso sulla tavola o quello caduto dalla tavola di Diitrefe (cf. frr. 319–321). Nella ricostruzione di Wilamowitz (ripresa da Gil 1989, 83), il citato padrone di casa si sarà rivolto scherzosamente a un personaggio, di condizione forse non servile, invitandolo a recarsi al mercato per comperare del vino (fr. 310): a tale scopo lo invita a dotarsi degli accessori utili a espletare la degustazione e l’ acquisto, ovvero una coppetta per gli assaggi (γευστήριον) e un tappo (βύσμα) per chiudere poi l’ anfora. Il medesimo personaggio potrebbe altresì impartire l’ ordine, rivolto a un servo (come in Theoc. 2.30 e 36), di far risuonare il ῥόμβος in un rituale volto, forse, a scongiurare un’ invasione di eroi (fr. 315). La sequenza di 12 dimetri coriambici B (cosiddetti ‘wilamowitziani’ ovvero ‘dimetri liberi’), tramandata da PMich. 3690 (= TM 59253), e quasi unanimemente attribuita alla presente commedia (fr. *322), induce a postulare la presenza di un coro «heroum de sua religione praecipientium» (Kaibel ap. Kassel–Austin PCG III 2, 173) e a pensare che gli eroi potessero avere nella pièce una funzione distributiva analoga a quella dei ploutodaimones che formavano il coro dei Pluti di Cratino (cf. fr. 171, in particolare 46 e 57–76; vd. Bakola 2010, 208–213): gli eroi invitano infatti gli uomini a venerarli in quanto dispensatori di beni e di mali, punitori dei malvagi attraverso ogni genere di infermità. Il personaggio dell’ eroe sembra dunque evocato qui nella sua funzione canonica, ossia come «ein Toter, der von seinem Grab aus im Guten oder Bösen mächtig wirkt und entsprechende Verehrung fordert» (Burkert [1977] 2011, 311). Non è dato sapere se tra gli eroi per i quali veniva allestito il banchetto rituale vi fossero anche i Dioscuri, menzionati nel fr. 316 come «coppia di mercanti», destinatari privilegiati dei rituali di theoxenia (vd. ad l.). A parere di Bergk (ap. Meineke FCG II 2, 1068s.) e di Schmid 1946, 196, la satira religiosa di questa commedia, la cui trama doveva prevedere come snodo centrale la messa in scena di un «Heroenmahl» ovvero di un «Totenmahl» (cf. fr. 320), avrà inteso denunciare l’ empietà degli Ateniesi, ammoniti dal poeta a ripristinare con
pero ateniese (Teno, Chio e Cizico), forse componenti di un coro formato, appunto, da città personificate, vengono brevemente descritte mentre compaiono l’ una dopo l’ altra sulla scena (vd. Rosen 1997; Olson 2016, 291). Altro parallelo è costituito dal Conno (Konnos) di Amipsia, in cui i ‘pensatori’ (phrontistai) che formavano il coro saranno stati almeno in parte menzionati per nome (cf. Ath. V 218c e vd. Orth 2013, 216s. con ulteriore bibliografia). Per Aristofane si segnala altresì il fr. 410, tratto dalle Isole (Nēsoi): un tetrametro anapestico catalettico che sembra contenere una descrizione di una delle isole personificate, che verosimilmente formavano il coro, nel momento del suo ingresso a teatro (vd. Torchio 2021, 82s., ad l.). Per altri possibili esempi di cori individualizzati nell’ archaia, vd. Wilson 1977.
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i dovuti onori il culto degli eroi, ossia degli antenati. Avendo vissuto rettamente e valorosamente, da morti essi erano contemplati come spiriti benigni in un’ epoca in cui ad Atene era ancora vivo il ricordo dei sacrilegi (mutilazione delle erme e profanazione dei misteri eleusini) avvenuti in occasione della spedizione in Sicilia. Piuttosto che gli ἡμίθεοι («semidei») dell’ epica19, nella figura degli eroi, evocati nel titolo della commedia, saranno da riconoscere quelle peculiari figure di culto, identificate con gli spiriti dei grandi uomini del passato, percepite come entità demoniche, a metà strada fra l’ umano e il divino (cf. Luc. DMort. [77] 10.2, dove l’ eroe viene definito da Trofonio ἐξ ἀνθρώπου τι καὶ θεοῦ σύνθετον, e la triade uomini/dei/eroi, non rara nella letteratura di V–IV secolo: cf. e. g. Antipho 1.27 [οὔτε θεούς, οὔθ’ ἥρωας οὔτ’ ἀνθρώπους αἰσχυνθεῖσα]; Timocl. fr. 8 [τίς δ’ οὐχὶ θνητῶν; ἢ τίς ἥρως ἢ θεὸς ἀποδοκιμάζει τὴν τοιαύτην διατριβήν]; e vd. Apostolakis 2019, 111, ad Timocl. Hērōes [Eroi]), capaci di influenzare le vicende degli uomini e di vigilare sul loro operato. Alcuni eroi nacquero da unioni tra dèi e mortali, in primis Eracle, ἥρως θεός in Pindaro (cf. N. 3.22; per l’ eccezionale dualità dell’ espressione pindarica, vd. Instone 1996, 159; più in generale, sulla duplice natura del culto di Eracle in Grecia, riferita da Hdt. II 44.3–5 e connessa al processo di deificazione dell’ eroe, in atto a partire dall’ inizio del VI secolo a. C., vd. West 1966, 417, ad Hes. Th. 947–955, e ora, a proposito del passo pindarico, Cannatà Fera 2020, 318, con ulteriore bibliografia). Altri erano di stirpe mortale ma elevati post mortem allo status di eroi grazie ai meriti acquisiti in vita. In questa categoria, oltre ai caduti in guerra, già oggetto di eroizzazione collettiva (ne erano parte i combattenti delle guerre persiane [cf. Plu. Arist. 21], ai quali potrebbero far riferimento gli Hērōes [Eroi] di Chionide: vd. Bagordo 2014a, 38), rientravano i fondatori di città e colonie (cf. e. g. Th. IV 87.2: μάρτυρας μὲν θεοὺς καὶ ἥρως τοὺς ἐγχωρίους ποιήσομαι) e, ad Atene, gli eponimi delle dieci tribù cittadine (cf. Ηdt. V 66.2: ὁ Κλεισθένης […] Ἀθηναίους δεκαφύλους ἐποίησε […] ἐξευρὼν δὲ ἑτέρων ἡρώων ἐπωνυμίας ἐπιχωρίων) dettagliatamente elencati in Dem. 60.27–31 e Paus. I 5 (vd. Leschhorn 1984, 98–105; Malkin 1987, 189–266; e soprattutto Kron 1976; Kearns 1989). Gli eroi erano oggetto di culti locali, collegati a rituali funerari praticati all’ interno di santuari che Erodoto, per primo, denomina ἡρῷα (cf. V 47.2, 67.1, VI 69.3); più in generale erano definiti hērōes tutti gli antenati illustri, compresi quanti
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In Il. XII 23 essi sono identificati con la stirpe dei guerrieri (ἡμιθέων ἡρώων γένος ἀνδρῶν) argivi e troiani caduti in guerra, i quali «rotolarono nella polvere» una volta distrutta la città di Priamo e spazzato via da Apollo e Poseidone il muro dell’ accampamento acheo (cf. vv. 10–23). In Esiodo (Op. 159s.) essi sono identificati con i guerrieri che combatterono a Tebe e a Troia e rappresentano la «quarta stirpe» che aveva abitato la terra prima di quella attuale (ἀνδρῶν ἡρώων θεῖον γένος, οἳ καλέονται / ἡμίθεοι προτέρη γενεὴ κατ᾽ ἀπείρονα γαῖαν), e che Zeus aveva poi collocato nelle Isole dei Beati (cf. vv. 156–173). Per un analogo impiego dell’ epiteto ἡμίθεοι nella lirica arcaica, con generico riferimento a precedenti generazioni mitiche, vd. Bremmer 2006, 23s.; per le sue altrettanto generiche attestazioni nella prosa attica, vd. Parker 2011, 107 n. 11.
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fossero venerati privatamente grazie al culto familiare dei morti (vd. Rohde 1898, I, 146–199 [trad. it. 1914–1916, I, 127–168]20. Eroi locali erano invocati prima dei combattimenti (alla vigilia della battaglia di Salamina, ad esempio, oltre a innalzare preghiere a tutti gli dèi, gli Ateniesi rivolsero invocazioni ad Aiace e Telamone, e da Salamina fu inviata una nave a Egina per recuperare le statue di Eaco e degli altri Eacidi, perché era indispensabile che presenziassero alla battaglia: vd. Bowie 2007, 151, ad Hdt. VIII 64.2). Nel discorso, tenuto da Temistocle dopo la fuga di Serse, gli eroi vengono ringraziati, unitamente agli dèi, per la vittoria (Hdt. VIII 109.3). Ancora negli anni della guerra del Peloponneso, casi di eroizzazione di ecisti e di combattenti illustri, morti e persino ancora in vita, sono attestati da Tucidide (V 11.1) ad Anfipoli, per Agnone prima e Brasida poi (controversa è tuttavia l’ interpretazione dei dati forniti dallo storico: vd. Hornblower 1996, 449–456, ad l., con la bibliografia ivi discussa). Riferimenti più o meno espliciti a eroi eponimi di alcune delle dieci tribù clisteniche sono disseminati nelle commedie di Aristofane: per Cecrope cf. V. 438s., per Pandione Pax 1183 (per cui cf. anche Σ [vet Tr] Ar. Eq. 95 Jones–Wilson, con riferimento alla statua dedicata nell’ agorà a lui come a ciascuno degli eroi eponimi delle tribù clisteniche), per Ippotoonte Av. 559. E alla panoplia come attributo di Aiante, uno dei dieci eroi venerati ad Atene come eponimi delle dieci tribù clisteniche, sembra far riferimento Aristofane nel fr. 240 (tratto dai Banchettanti), tramandato da Σ Pi. N. 2.19 (= III, p. 37.3 Drachmann διὰ τιμῆς ἦγον οἱ Ἀθηναῖοι τὸν Αἴαντα, ὡς μὴ μόνον φυλὴν Αἰαντίδα ἀποδεῖξαι, ἀλλὰ καὶ κλίνην αὐτῷ μετὰ πανοπλίας κοσμεῖν). Un eroe di nome Lico, da identificare probabilmente con il figlio di Pandione e fratello del suo successore Egeo, è invocato in Ar. V. 389–394 da Filocleone, il quale lo evoca nuovamente nei vv. 819–821, dove fa riferimento anche a un ἡρῷον, a lui consacrato, che doveva trovarsi nei pressi di uno dei tribunali ateniesi (cf. Poll. VIII 121) ed essere perciò oggetto di culto da parte dei dicasti (vd. Biles–Olson 2015, 212, ad V. 389s.; e anche Beta 1999, secondo cui il personaggio potrebbe essere anche una parodia del tiranno Lico, attivo nell’ Eracle di Euripide). Burleschi sono evidentemente i riferimenti: a) a una presunta stirpe alata di eroi nella preghiera pronunciata dal Sacerdote in Av. 881; b) a un eroe Kelēs, evocato, tra altri daimones creati ad hoc con finalità
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In generale, sull’ origine e sulla natura alquanto controverse delle differenti tipologie di eroi e di culti eroici, vd. almeno Farnell 1921; Delcourt 1942; Nock 1944; Brelich 1958, 325–335; Kerényi 1958; Nilsson 1967, 184–191; Burkert [1977] 2011, 311–318; Kearns 1992; Graf 1998b; Hägg 1999; Pirenne–Delforge – Suárez de la Torre 2000; Boehringer 2001; Ekroth 2002; Id. 2007; Parker 2011, 103–123, 287–292. Per una ricognizione complessiva di tutta la documentazione storico–religiosa e iconografica relativa al fenomeno dell’ eroizzazione e ai culti degli eroi nell’ antichità greco–romana, vd. ThesCRA II, 2004, 125–158; e per la topografia e la catalogazione delle varie tipologie di edifici adibiti a ἡρῷα nel mondo antico, vd. A. Seiffert, s. v. Heroon, in ThesCRA IV, 2005, 24–38. Sulla discussa etimologia e le non meno controverse modalità d’ impiego del termine ἥρως, vd. Currie 2005, 60–70.
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oscene, in un frammento del Faone di Platone comico (cf. fr. 188.18 e vd. Pirrotta 2009, 351s., ad l.). E come eroe viene apostrofato il generale Lamaco, prototipo aristofaneo del miles gloriosus, in Ach. 575 e Ra. 1039. Figure centrali della religione greca nel corso di tutta l’ antichità, in età classica gli eroi erano comunemente associati agli dèi nelle preghiere (cf. e. g. Xen. Symp. 8.28, Cyr. II 1.1, III 3.22, Eq. 11.8; Pl. Ion 531c, R. 377e, 378c; Isoc. 14.60; Dem. 18.184; Lyc. Leocr. 1; Din. 1.64), nei giuramenti (cf. e. g. Th. II 74.2, IV 87.2, V 30.2) e nei decreti emanati per i genē e i dēmoi (Sokolowski, LSS nr. 19.19.79s.; IG II2 2 1247.6, II 1195.7; SEG XLIII 26A 3s.)21. Percepiti come entità demoniche sospese tra l’ umano e il divino, capaci di influenzare le vicende dei mortali, gli eroi rivestivano un ruolo di spicco nella sfera della superstizione popolare: e tale aspetto avrà costituito, a parere di Gil 1989, 82, un ingrediente cruciale per la comicità della trama. Il timore reverenziale che gli uomini nutrivano nei confronti degli eroi, dispensatori di mali e pronti a punire negligenze e ingiustizie, pare emergere da un frammento anepigrafo di Aristofane (fr. 712: ἀλλ’ εἰς ἥρων τι παρήμαρτον), in cui la persona loquens riconosce di aver commesso (ma è possibile che altri abbiano commesso, a seconda che si riconosca in παρήμαρτον una prima persona singolare o una terza persona plurale dell’ indicativo aoristo) un qualche errore nei riguardi di un eroe, paventandone forse le conseguenze (vd. Bagordo 2017a, 105s., ad l.). Questo genere di superstizione magico–religiosa doveva essere alimentato dalla convinzione popolare, divenuta proverbiale, che gli eroi fossero creature propense a far del male piuttosto che del bene. Tale propensione, come risulta da Zenobio, era rimarcata nei Synephēboi (Compagni di efebia) di Menandro (Zen. III 37 = vulg. 5.60 [CPG I, 145] = Prov. Bodl. 729, p. 88 Gaisford oὐκ εἰμὶ τούτων τῶν ἡρώων· ἐπὶ τῶν βουλομένων εὖ ποιεῖν. oἱ γὰρ ἥρωες κακοῦν ἕτοιμοι μᾶλλον ἢ εὐεργετεῖν, ὥς μαρτυρεῖ Μένανδρος ἐν Συνεφήβοις [cf. Sud. ο 895]: «“Non faccio parte di questi eroi” (è riferito) a coloro che vogliono far del bene. Infatti gli eroi sono più pronti a far del male che a far del bene, come testimonia Menandro nei Synephēboi [fr. 348]»). Nella cultura popolare si riteneva che, in particolari giorni dell’ anno, gli eroi tornassero dall’ oltretomba per sedere in mezzo ai viventi e mangiare assieme a loro. E tuttavia, la loro connotazione demonica, vendicatrice di misfatti e ingiustizie, poneva tali incontri sotto un’ aura decisamente inquietante: tra i molti e meravigliosi luoghi sorvolati dal coro degli uccelli, è evocato da Aristofane, in Av. 1482–1493, un paese buio e lontano in cui gli uomini pranzano con gli eroi e vi convivono, eccetto che alla sera, allorché l’ incontro notturno con un eroe può rivelarsi pericoloso, specie se quello risulta essere un volgare ladro che si fregia dell’‘eroico’ soprannome di Oreste: cf. in particolare i vv. 1490–1493: εἰ γὰρ ἐντύχοι τις ἥρῳ / τῶν βροτῶν νύκτωρ Ὀρέστῃ, / γυμνὸς ἦν πληγεὶς ὑπ’ αὐτοῦ / 21
Di dubbia autenticità sembra essere il precedente draconiano fornito da Porph. Abst. 4.22, che, a parere di Burkert [1977] 2011, 314 con n. 25, retrodaterebbe la formalizzazione del culto degli eroi nella legislazione ateniese alla fine del VII sec. a. C.: vd. Busolt–Swoboda 1926, 814 n. 2; Ekroth 2002, 179 n. 212.
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πάντα τἀπιδέξια, con Sud. ο 538 e soprattutto Σ (vet) Ar. Av. 1490b Holwerda, in cui si spiega che «gli eroi sono irascibili e malevoli nei confronti di coloro che vi si avvicinano» (οἱ ἥρωες δυσόργητοι καὶ χαλεποὶ τοῖς ἐμπελάζουσι γίνονται) e, dopo una citazione dai su menzionati Synephēboi di Menandro (dal passo è però arduo estrapolare i versi menandrei: vd. Kassel–Austin PCG VI 2, 220, ad Men. fr. 348), a riprova del fatto che quanti si approssimano ai luoghi di culto degli eroi (ἡρῷα) debbano rimanere in silenzio (διό μοι δοκοῦσι καὶ οἱ τὰ ἡρῷα παριόντες σιγὴν ἔχειν)22, si allude (ma senza citarlo) a un passo dei Titanopanes di Mirtilo (ὡς Μυρτίλος ἐν Τιτανόπασί φησιν [fr. 2]). Cf. anche Σ (vet) Ar. Av. 1493 Holwerda, in cui si afferma che l’ incontro con l’ eroe, specie se notturno, procurava terrore in quanti vi si imbattevano (ἐκπλήττοντο γὰρ οἱ συντυγχάνοντες αὐτῷ. ἅμα δέ, ἐπεὶ οἱ ἐντυγχάνοντες νυκτὸς ἥρωσι διεστρέφοντο τὰς ὄψεις), e vd. Dunbar 1995, 692s., ad Ar. Av. 1490–1493. Tale superstizione, ben radicata nella cultura popolare (cf. Ath. ΧΙ 461b–c), è riecheggiata anche nella letteratura medica: Ippocrate considera gli incubi notturni assalti di Ecate o di eroi (cf. Morb.Sacr. 1.11 Jouanna = 4 Jones = VI, p. 362 Littré); e ad analoga credenza si riallaccia la demonologia pitagorica, secondo cui demoni ed eroi sono causa di malanni per uomini e bestie (cf. D. L. VIII 32.1–6 [D.–K. 58B 1a, I, 451.3–6]). Datazione 415 / 14 – 414 / 13 a. C.?: Bergk ap. Meineke FCG II 2, 1068; Kock CAF I, 469; Schmid 1946, 196; Geißler 1969 [1925], 53; Kaibel ap. Kassel–Austin PCG III 2, 173. 415 / 14 – 412 / 11 a. C.?: Gelzer 1970, 1410. 413–409 a. C.?: Edmonds 1957, 657. 412 a. C. Zimmermann 2011a, 767. Vd. infra, ad fr. 321.
test. i Proleg. de com. (M Rs Vat. 918) XXXa 13, p. 142 Koster (= Ar. test. 2a.17) Ἥρωες Eroi
Contesto di citazione Il titolo della commedia è riportato nell’ Index Novati, su cui vd. supra, ad Eirēnē deutera, Titolo.
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Cf. Hsch. κ 4041 (Κρείττονας· τοὺς ἥρωας οὕτω λέγουσιν. δοκοῦσι δὲ κατωτικοί τινες εἶναι. διὰ τοῦτο καὶ οἱ παριόντες τὰ ἡρῷα σιγὴν ἔχουσι μὴ τι βλαβῶσι); Phot. κ 1071 (Κρείττονες· οἱ ἥρωες. δοκοῦσι δὲ κατωτικοὶ εἶναι. Διὸ καὶ οἱ τὰ ἡρῷα παριόντες σιωπῶσιν); vd. Bagordo 2014b, 136, ad Myrtil. fr. 2.
Ἥρωες (fr. 310)
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test. ii POxy. XXXIII 2659 (= TM 63604), fr. 2 col. i 5 = CGFP 18.8 (= Ar. test. 2c.8) Ἥρωες] Eroi]
Bibliografia Rea 1968; Otranto 2000, 29–38, nr. 6; Ead. 2001; Puglia 2013, 43–46; Orth 2014, 37; Id. 2017, 26. Contesto di citazione Il titolo della commedia doveva comparire, nella rasura inclusa tra i titoli Ecclesiazuse e Tesmoforiazuse – dove Ἥρωες pare congettura sicura, dal momento che non conosciamo altro titolo aristofaneo la cui iniziale sia compresa tra ε e θ – in una lista alfabetica delle commedie di Aristofane restituita da un papiro del II secolo d. C. Si tratta di un pinax di drammaturghi riconducibile principalmente a esponenti della commedia attica antica, ma compare anche il nome del commediografo Araros, figlio di Aristofane al quale nell’ erudizione antica viene attribuita la messa in scena dell’ Eolosicone e del Cocalo (su cui vd. infra), e vi sono inclusi anche i siciliani Epicarmo e Dinoloco. È stato calcolato (vd. Puglia 2013, 46) che nella collezione libraria cui la lista ossirinchita afferisce erano censite più di novanta commedie di autori il cui nome iniziava con lettere incluse fra alpha ed epsilon. Evidentemente, però, le opere schedate erano originariamente più numerose, essendo andate perdute quelle relative agli autori registrati dopo Epicarmo. Su questo papiro, vd. Rea 1968; Otranto 2000, 29–38; Ead. 2001; e, sulla porzione di pinax che restituisce la suddetta lista di commedie di Aristofane, Orth 2014, 37, ad Aristomen. test. *6, con ulteriore bibliografia; Id. 2017, 26, ad Ar. Aiolosik. test. i, con ulteriore bibliografia.
fr. 310 K.-A. (299 K.) τρέχ᾽ ἐς τὸν οἶνον ἀμφορέα κενὸν λαβὼν τῶν ἔνδοθεν καὶ βύσμα καὶ γευστήριον, κἄπειτα μίσθου σαυτὸν ἀμφορεαφορεῖν 1 τρέχ᾽ ἐς Poll. FC: τρέχ᾽ (τρέχειν Α) εἰς Sud.: τρέχων ἐς Poll. L κενὸν Poll. FL, Sud. AFM: κενὼν GIT: καινὸν S: κοινὸν Poll. C 2 τῶν … βύσμα Poll.: τὸν … γεῦμα Sud. 3 μίσθου Sud.: μισθοῦ Brunck, Edmonds et sic LSJ s. v. (II), sed vd. ad Testo
corri al mercato dei vini, dopo aver preso un’ anfora vuota, di quelle che son dentro casa, e un tappo e una coppetta per gli assaggi, e poi assolda te stesso come portatore di anfore
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[1–3] Sud. α 1785 (AGITFSM) ἀμφορεαφόρους· τοὺς μισθίους τοὺς τὰ κεράμια φέροντας. […] Ἀριστοφάνης Ἥρωσι· τρέχ᾽ — ἀμφορεαφορεῖν. amphoreaphoroi (sono) coloro che a pagamento trasportano i vasi di terracotta. […] Aristofane negli Eroi: «corri — come portatore di anfore» [1–2] Poll. Χ 75 (F, CL) τὸ παρ᾽ Ἀριστοφάνει γευστήριον· τρέχ᾽ — γευστήριον. In Aristofane (è impiegato il termine) gheustērion: «corri — coppetta per gli assaggi». [2] Poll. Χ 172 (FS, ABCL) καὶ (om. ΑB) βύσμα δ᾽ ἂν εἴη τῶν χρησίμων, Ἀριστοφάνους εἰπόντος (ἂν — εἰπόν. om. Α) βύσμα καὶ γευστήριον. E tra gli utensili potrebbe esserci il bysma, visto che Aristofane dice «un tappo e una coppetta per gli assaggi». Poll. VI 99 καὶ γευστηρίου μὲν Ἀριστοφάνης μέμνηται. E Aristofane menziona il gheustērion. z
[3] Phot. α 1380 (b, z, S ) ἀμφορεαφόρους· τοὺς μισθίους (μισθοὺς z) τοὺς τὰ κεράμια φέροντας (hucusque = Synag. α 444 [= An.Bachm. p. 82.1s.]) καὶ ἀμφορεαφορεῖν Ἀριστοφάνης, ἀμφορείδιον δὲ καὶ ἀμz φορείδια (ἀμφορίδιον δὲ καὶ ἀμφορίδια S : corr. Reitzenstein) ὁ αὐτὸς (καὶ ἀμφορεαφορεῖν καὶ ἀμφορίδιον καὶ ἀμφορίδια Ἀρ. b, καὶ ἀμφορεαφορεῖν — ὁ αὐτὸς om. z). amphoreaphoroi (sono) coloro che a pagamento trasportano i vasi di terracotta e Aristofane (usa il verbo) amphoreaphorein, e lo stesso (Aristofane) anche (i sostantivi) amphoreidion e amphoreidia.
Metro
Trimetri giambici
klwl w|lrl wlwl llwl llw|l llwl llwl llw|l rlwl
Bibliografia Bergk ap. Meineke FCG II 2, 1072; Kock CAF I, 469; Gil 1989, 83; Olson 2016, 200s. Contesto di citazione Nella sua forma più estesa, il frammento è citato, in relazione al significato del termine ἀμφορεαφόρος, dalla Suda (α 1785): la spiegazione, orba della citazione aristofanea, si trova riprodotta alla lettera anche in Phot. α 1380 e, con differenze minime, in altri lessicografi (cf. Hsch. α 414; Moer. α 128; Poll. VII 130). Nell’ Onomasticon di Polluce (X 75) sono citati come aristofanei i primi due dei tre versi del frammento (a proposito del γευστήριον), nell’ ambito di una rassegna di termini che designano recipienti per il vino. All’ impiego aristofaneo del termine γευστήριον Polluce accenna anche in VI 99, mentre in X 172 cita
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come aristofanea la iunctura βύσμα καὶ γευστήριον, contenuta nel v. 2 del frammento. L’ occasione è offerta dal termine βύσμα, menzionato, dopo una rassegna di sostantivi indicanti borse o borsellini, come uno dei casi in cui un nome, denotante un certo oggetto, può assumere forme diverse, solitamente in associazione alla corrispondente forma diminutiva: in questo caso, alla forma βύσμα, per la quale Polluce riporta il presente frammento di Aristofane, è contrapposto l’ equivalente βύστρα, attestato nella commedia di mezzo, per la quale cita Anaxandr. fr. 24 e Antiph. fr. 178 (su cui vd. infra, ad v. 2). Dal canto suo, Fozio (α 1380) attesta semplicemente l’ impiego in Aristofane del verbo ἀμφορεαφορεῖν e dei sostantivi ἀμφορείδιον e ἀμφορείδια, documentato da Pax 202 ed Eccl. 1119 (su questi due dimunitivi di affezione, e non di capacità, vd. Ussher 1973, 228; Vetta 1989, 268; Olson 1998, 108 ad ll.). Testo Al v. 3, in luogo dell’ imperativo attivo μίσθου, tràdito dalla Suda, Brunck (seguito da Edmonds) stampava l’imperativo medio μισθοῦ; e così la forma verbale è recepita nella citazione che dell’ espressione aristofanea offre il LSJ (vd. apparato). Correzione forse non necessaria, posto che forme riflessive dell’ attivo μισθόω, di seconda e terza persona singolare, sono attestate nell’ oratoria del quarto secolo: cf., e. g., Dem. 18.131 e 262 (μισθώσας σαυτόν), 18.21 (ἑαυτὸν … μισθώσας), 25.37 (σεαυτὸν μισθώσας), 19.29 e 110, 23.158 e 162, 24.14; Din. 1.52 (μισθώσας αὑτὸν). Altrettanto documentata è comunque la costruzione del medio μισθοῦσθαι con l’ accusativo dell’ oggetto e l’ infinito finale, nel senso, analogo a quello richiesto in questo frammento, di «assoldare qualcuno per fare qualcosa»: cf. Hdt. IX 34.1 (μιν οἱ Ἀργεῖοι ἐμισθοῦντο ἐκ Πύλου παῦσαι τὰς σφετέρας γυναῖκας τῆς νόσου); Dem. 18.33 (μισθοῦται τὸν κατάπτυστον τουτονί […] τοιαῦτα πρὸς ὑμᾶς εἰπεῖν καὶ ἀπαγγεῖλαι κτλ.). Interpretazione La persona loquens si rivolge a un servo (secondo Bergk ap. Meineke FCG II 2, 1072) ovvero, per gioco, a un non meglio identificato interlocutore (Kock CAF I, 469). Quest’ ultimo è invitato a precipitarsi al mercato per acquistare del vino (donde la valenza iussiva plausibilmente riconoscibile nell’infinito ἀμφορεαφορεῖν del v. 3: sull'infinito iussivo vd. infra, ad Ar. Thesm. II fr. 348 n. 114), forse (così ipotizza Gil 1989, 83) destinato a libagioni. L’ incaricato dovrà preventivamente dotarsi degli accessori utili a espletare l’ acquisto, portandosi da casa un’ anfora vuota, un tappo per sigillarla e una coppetta per la degustazione del vino. Sono dettagli dai quali è possibile arguire che il vino era venduto al mercato anche separatamente dal recipiente: poteva dunque essere travasato nell’ anfora, già in possesso del cliente, fornita magari dallo stesso facchino assoldato per il trasporto. A questo particolare rinvia la battuta finale, in cui l’ interlocutore è invitato ad autoassoldarsi per svolgere la mansione di ἀμφορεαφόρος. Sappiamo che il ‘portatore di anfora’ era investito anche del compito di assaggiatore (per cui cf. Pherecr. fr. 152.1–3), al fine di assicurarsi della buona qualità del vino (per la quale presupposto ineludibile era che al momento della vendita la materia prima non fosse miscelata con acqua: cf. Thphr. Char. 30.5). In ogni caso, le testimonianze
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comiche mostrano che era abitudine dei venditori offrire un «assaggio» (γεῦμα) di vino ai loro potenziali acquirenti (cf. Ar. Ach. 186–200, con Olson 2002, 129 ad vv. 186s.23; Antiph. fr. 83.1; Ephipp. fr. 18, con Papachrysostomou 2021, 184; Diph. fr. 3.2s., e cf. anche Eur. Cyc. 149s. con l’ espressione probabilmente proverbiale γεῦμα τὴν ὠνὴν καλεῖ, «un assaggio incoraggia l’ acquisto», su cui vd. Seaford 1984, 131 ad v. 150). Su una pelikē attica a figure nere della fine del VI secolo (Firenze, Museo Archeologico Nazionale, 72732) è riprodotta una scena di degustazione per la vendita: nell’ invitare una cliente ad assaggiare (o semplicemente a odorare?) l’ olio che vuol farle acquistare, il venditore parrebbe pronunciare parole che ne esaltano la qualità (AVI 3587A: κ[α]λον ε[ι]; cf. Beazley Archive Pottery Database, BAPD 9458, con la bibliografia ivi indicata). Come testimonia il fr. 326 di Menandro, la mansione evocata nel frammento poteva anche essere svolta da un servo che lavorava autonomamente e che, per la sua attività indipendente, versava poi una quota giornaliera al padrone (vd. Olson 2016, 201, ad Eup. fr. 200, in cui la perifrasi poetica φῦλον ἀμφορεαφόρων designa questa specifica tipologia di trasportatori); sulle differenti categorie di trasportatori attestate in commedia, vd. Olson 2016, 449s., ad Eup. fr. 291. 1 τρέχ᾽ ἐς τὸν οἶνον Cioè οὗ ὁ οἶνος ὤνιος (Isae. 6.20, con Wyse 1904, 507, da cui sembra potersi ricavare che il settore dell’ agorà riservato alla vendita dei vini doveva trovarsi presso una delle due porte – precisamente quella posteriore, più piccola [παρὰ τὴν πυλίδα] – che, subito oltre la ‘porta Sacra’, a sud–ovest del Dipylon, dividevano il Ceramico interno da quello esterno: cf. Ar. Eq. 1245–1247; Plu. Sull. 14; Paus. I 2.4, e vd. Wycherley 1956, 10; Id. 1957, 199 nr. 660; e anche Thompson–Wycherley 1972, 172). Polluce (IX 47–48) segnalava come peculiare degli scrittori attici l’ abitudine di designare le singole zone del mercato a partire dal nome degli specifici prodotti che vi si vendevano. Siffatti colloquialismi, diffusi soprattutto nella lingua della commedia, sembrano confermare la propensione verso un elevato grado di specializzazione dell’ attività commerciale, ossia la tendenza dei commercianti a raggrupparsi in specifiche aree, all’interno e nei dintorni dell’ agorà, a seconda del tipo di merce venduta (cf. Xen. Oec. 8.22 [Wycherley 1956, 189 nr. 622]), per quanto tale naturale tendenza non potrà aver rappresentato una regola rigida e assoluta (vd. Ehrenberg 1951, 133; e, più diffusamente, Wycherley 1978, 93–95). Cf. le analoghe espressioni presenti in Cratin. fr. 209 (ἐν τοῖς λύχνοισι); Ar. Eq. 1375 (τἀν τῷ μύρῳ), Vesp. 789 (ἐν τοῖς ἰχθύσιν), Av. 1288 (εἰς τὰ βιβλία), Lys. 557 (κἀν ταῖς χύτραις καὶ ἐν τοῖς λαχάνοις), Thesm. 448 (ἐν ταῖς μυρρίναις), Ra. 1068 (περὶ τοὺς ἰχθῦς), Eccl. 302 (ἐν τοῖς στεφανώμασιν), frr. 258 (εἰς τοὖψον), 557 (ἐπὶ τοὖψον); Alex. fr. 47.6 (τοὖψον), 8 (ἐν τοῖς λαχάνοις), 57.3 (ἐν τοῖς ἰχθύσιν), 78.5 (ἐν τοῖς ἰχθύσιν), 249.2 (εἰς τοὖψον); Antiph. fr. 201.2 (εἰς 23
A proposito della valenza cultuale dei τρία γεύματα portati da Anfiteo in questa scena degli Acarnesi, si può inoltre evocare, con Engelmann 1986, l’ iscrizione efesina I. v.E. 2076 (SEG XXXV 1109) che documenta l’ esistenza di una corporazione di assaggiatori di vino con finalità cultuali (συνεργασία ἱεροῦ οἰνηροῦ γεύματος).
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τοὖψον); Diph. fr. 31.22 (εἰς τὰ λάχανα); Aeschin. 1.65 (εἰς τοὖψον, con lo scolio ad l.; e cf. Phot. τ 300 = Sud. τ 845); e vd. van Leeuwen 1896, ad Ar. Ra. 1068. Per altre attestazioni, vd. Wachsmuth 1890, II, 463s.; Wycherley 1956, 5–8; Id. 1957, 193–201 (testt. 632–668); Arnott 1996, 166, ad Alex. fr. 47.8; Diggle 2004, 191, ad Thphr. Char. 2.7; Quaglia 2005, 148s.; Olson 2014, 17; Bagordo 2020, 142s. 2 βύσμα Il termine indica qui il tappo che servirà a sigillare l’ anfora nella quale trasportare il vino acquistato al mercato. Il sostantivo ricorre anche nella letteratura medica in relazione a tappi di recipienti (Hp. Mul. II 114 = VIII, 246.10 Littré; Ps.–Gal. De remed. parab. II 29 [XIV 483.10 Kühn]) o di clisteri (Hp. Mul. III 222 = VIII, 430.24 Littré). Non mancano usi metaforici: in Sophil. fr. 3 = Diph. fr. 23 K. (Στίλπωνός ἐστι βύσμαθ’ ὁ Χαρίνου λόγος) il termine, al plurale, designa i sophismata con cui il filosofo Stilpone «adversariorum ora obturabat» (Meineke FCG IV, 386). In un frammento dell’ Anfiarao di Aristofane βύσμα è un tappo di erba utile per tamponare un accesso di diarrea (πόθεν ἂν λάβοιμι βύσμα τῷ πρωκτῷ φλέων, fr. 24, su cui vd. Orth 2017, 145–147); di erba è fatto anche il βύσμα menzionato nel citato luogo ippocratico di Mul. III 222 (φλόμου βύσματα); e con foglie è confezionato il tappo designato nell’ Orfeo di Antifane (fr. 178 βύστραν τιν᾽ ἐκ φύλλων τινῶν) dal termine βύστρα (cf. Hsch. β 1348, secondo cui le βύστραι erano «inserzioni di erbe»: βύστραι· αἱ τῶν λαχάνων ἐνθέσεις): si tratta di vocabolo, equivalente a βύσμα (cf. Poll. X 172), impiegato ancora nella commedia di mezzo da Anassandride nella Citarista (fr. 24) oltre che, come si è detto, da Antifane nell’Orfeo (fr. 178): a parere di Millis 2015, 122s., la ricorrenza del termine in due commedie di IV secolo di argomento musicale autorizza a ipotizzare un suo possibile impiego tecnico pertinente a una specifica parte di strumento musicale o, più probabilmente, un suo riferimento a qualcuno che, infastidito dalla musica, ricorreva a tappi per le orecchie. Entrambi i sostantivi, per i quali non sono registrate ulteriori attestazioni letterarie, sono etimologicamente connessi ai verbi βυνέω, βύνω, βύζω e βύω (vd. Chantraine DELG e Frisk GEW, s. v. βῡνέω): per l’ impiego di βύω e suoi composti (come ἐμβύω, ἐπιβύω, προβύω, ξυμβύω) in commedia, vd. Bagordo 2013, 258s. ad Telecl. fr. 57; Orth 2017, 147, ad Ar. fr. 24. γευστήριον Contenitore a fondo piatto, privo di orli rilevati, utilizzato per le degustazioni di vino (vd. D. Toscano, in LVG III, 2001, 95–97), il γευστήριον è menzionato anche nella Tirannide di Ferecrate (fr. 152.3), a proposito della proverbiale vinositas delle donne. Il termine è denominativo da γεῦσις («gusto») < γεύω («gustare»), la cui radice verbale γευ- ha dato origine a una serie di forme aggettivali e nominali tra cui γευστρίδιον e γευστρίνη, che, come γευστήριον, designano tazze per degustazioni. 3 ἀμφορεαφορεῖν Cf. l’ analogo composto θυλακοφορεῖν in Ar. fr. 830, in riferimento a minatori che trasportano sacchi di minerali. Da differenti tipologie di trasportatori, in commedia documentate in relazione non solo agli oggetti ma anche ai mezzi di trasporto (cf. e. g. Ar. Ach. 211–213, 860; Ra. 8; Eccl. 785, 833; frr. 571, 886; Eup. fr. 291; Pl.Com. fr. 50; Men. fr. 326, e vd. Olson 2016, 450, ad Eup. fr. 291), prendono il titolo numerose commedie: cf. Hermipp.
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Phormophoroi (Facchini, lett. «portatori di ceste» o forse «scaricatori di porto»: vd. Comentale 2017, 242–280), Aristomen. Hylophoroi (Trasportatori di legname), Ephipp. Homoioi ē Obeliaphoroi (Simili ovvero Trasportatori di pane obelias [cotto allo spiedo]: sul peculiare significato di quest’ ultimo titolo alternativo vd. ora Papachrysostomou 2021, 158s.), Eub. Kalathēphoroi (Portatori/Portatrici di canestri), Diph. Plinthophoros (Trasportatore di mattoni), Philetaer. Lampadēphoroi (Portatori di fiaccole)24. Sui facchini nella commedia latina, vd. Wright 1971. Sui trasportatori di vino nel mondo greco e romano, vd. Lawall 2000, in particolare 73–80. Più in generale, sulle corporazioni di facchini nel mondo romano, vd. Marx 1929, in particolare 331–333, e, con particolare riferimento all’ Asia minore in età romana, Broughton 1938, 57 e Robert 1977, 90s. fr. 311 K.-A. (298 K.) (Α.) οὐκ ἠγόρευον; οὗτός ἐστ᾽ οὐκ Ἀργόλας. (Β.) μὰ Δί᾽ οὐδέ γ᾽ Ἕλλην, ὅσον ἔμοιγε φαίνεται 1 ἐστ᾽ οὐκ Brunck: ἔστι (ἐστί R) γ᾽ οὐκ codd. οὐδ᾽ ἕλλην codd.
2 οὐδέ γ᾽ Ἕλλην Scaliger 1581, 184:
(A.) non lo dicevo? Costui non è argivo. (B.) no, per Zeus: a me non sembra neppure tanto un Greco! St.Byz. α 400.7–15 (RQPN) Ἄργος δὲ σχεδὸν πᾶν πεδίον κατὰ θάλασσαν. τὸ ἐθνικὸν πασῶν Ἀργεῖος, οὐ παρὰ τὸ (τὸ om. R) Ἄργος οὐδέτερον (ἦν γὰρ διὰ τοῦ ι), ἀλλὰ παρὰ τὸν Ἄργον τὸν κτίστην· λέγεται καὶ pc ac (λέγ. γὰρ καὶ PN) Ἀργόλας. Ἀριστοφάνης Ἥρωσιν (ἥρωσιν Ald: ἥρωσι N : ἥρως RQPN ) οὐκ — φαίνεται. καὶ Εὐριπίδης ἐν Πλεισθένει (fr. 630 Kn.) (πλησθένει codd.: corr. Xylander 1568, 54) ἐγὼ δὲ Σαρδιανός, οὐκέτ’ (γὰρ οὐκέτ’ R: οὐ γὰρ οὐκέτ’ QPN: corr. Barnes 1694, 522) Ἀργόλας. Argo (si chiama) pressoché ogni pianura vicino al mare. L’ etnico di tutte (scil. le città di nome Argo) è Argheios (Argivo), ed è formato non come derivato dal neutro Argos (era infatti con lo iota), ma come derivato da Argos (Argo) il fondatore; l’ etnico si dice anche Argolas (Argolade). (Così dice) Aristofane negli Eroi: «non lo dicevo? — Greco!». Ed Euripide nel Plistene (fr. 630 Kn.): «Ma io sono Sardiano (di Sardi), non più Argolade (di Argo)».
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Ancorché ascrivibili in larga misura ad autori del IV secolo, questi titoli plurali parrebbero rinviare alla composizione del coro: sulle controverse questioni connesse a presenza e funzione del coro nella commedia del IV secolo vd. Imperio 2011, con la bibliografia precedente, e ora Jackson 2020, 113–137. Per i titoli in -φόρος al singolare vd. Orth 2014, 83 con n. 124, ad Aristomen. Hylophoroi.
Ἥρωες (fr. 311)
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Bibliografia Bothe 1844, 89; Bergk ap. Meineke FCG II 2, 1071; Wilamowitz 1931–1932, 14 n. 2; Delneri 2000, 108s. Contesto di citazione Il frammento è citato a proposito delle diverse grafie del toponimo che designa gli Argivi. Interpretazione L’ attribuzione dei due versi a due differenti interlocutori, ipotizzata da Bergk (ap. Meineke FCG II 2, 1071), è generalmente accolta dagli editori successivi: se ne discosta Dindorf, nelle edizioni del 1829 e del 1835 (seguito da Kaibel ap. Kassel–Austin PCG III 2, 174), recependo però l’ interlocuzione proposta da Bergk nell’ edizione del 1869. Si tratterà di uno scambio di battute tra due interlocutori che esternano le loro impressioni circa un terzo personaggio, evidentemente presente, ma forse non in grado di udirli. Probabilmente il passo faceva parte di una sezione più ampia, apparentabile ad Av. 268–309, dove Pisetero ed Evelpide commentano l’ entrata in scena di ogni singolo uccello, alternando le proprie impressioni sugli animali che vanno radunandosi a formare il coro (è una connessione già instaurata da Wilamowitz 1931–1932, 14 n. 2: «auch einzelne [scil. ἥρωες] wurden vorgestellt wie in den Vögeln»). Anche qui, come nel su citato contesto della parodo degli Uccelli, doveva registrarsi un’ elevata frequenza di pronomi dimostrativi (specie οὗτος e οὑτοσί), atti a scandire il dialogo e a marcare l’ entrata in scena di ogni nuovo coreuta, e di esclamazioni che chiamano in causa delle divinità (in particolare, qui viene invocato Zeus, come in Av. 269, 275 e 297, con la locuzione νὴ Δία). I due interlocutori, solidali nell’ esprimere giudizi su chi in quel momento doveva sfilare di fronte a loro, convengono nel rilevarne l’ origine forestiera, attraverso una duplice negazione: il primo personaggio esclude che si tratti di un Argivo, il secondo esclude persino che possa trattarsi di un Greco25. Per Delneri 2000, 108s. si tratterà di un demone straniero la cui presenza offrirebbe il destro al commediografo per esprimere il proprio dissenso rispetto ai culti importati: una polemica già documentata per Aristofane dalle battute sulla dea tirrenica Genetillide contenute in Nu. 52 e Lys. 2. A parere di Delneri 2000, 108s., in questo scambio di battute andrà riconosciuta la parodia tragica del contesto eschileo delle Supplici in cui Pelasgo, per 25
L’ identità del personaggio rimane comunque sconosciuta: isolata resta l’ ipotesi di Bothe 1844, 89, secondo cui queste parole sarebbero dirette a un eroe, indebitamente mischiatosi agli altri, nel quale andrebbe riconosciuto Alcibiade, cui la qualifica di argivo si può attagliare perché, in questo territorio, egli si fece riconoscere dopo la fuga dalla Sicilia. Si tratta di ipotesi impraticabile: il politico ateniese non avrebbe potuto figurare, in un coro di eroi, in una commedia rappresentata verosimilmente entro il 411 a. C., e comunque ben prima della sua morte, avvenuta nel 404.
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la prima volta di fronte alle Supplici, cioè, come qui, al coro, realizza che a lui si stanno rivolgendo donne «che non portano vesti argive né di nessun altro luogo dell’ Ellade» (236s.: οὐ γὰρ Ἀργολὶς / ἐσθὴς γυναικῶν οὐδ᾽ ἀφ᾽ Ἐλλάδος τόπων). 1 οὐκ ἠγόρευον; Il verbo ἀγορεύω, «regolare nell’ epica, in Erodoto e in Euripide, nella prosa attica è usato quasi sempre con riferimento al parlare nell’assemblea o alle prescrizioni delle leggi» Dover 1970, 22 [trad. ing. 1987, 235]). Eccetto che nella canonica formula con cui si apriva il dibattito assembleare su una specifica proposta, τίς ἀγορεύειν βούλεται;, attestata tre volte in Aristofane (Ach. 45, Th. 379, Eccl. 130)26, e in poche altre espressioni non formulari, che riecheggiano lo stile assembleare (cf. Th. 306, Ra. 628) o anche prive di una specifica connotazione (Nu. 1456; cf. Metag. fr. 4.2), il verbo ἀγορεύω, nella medesima formulazione attestata in questo frammento, compare in Aristofane soltanto in Ach. 41 (sulla bocca di Diceopoli, indignato per l’accalcarsi della gente nella prima fila dell’assemblea) e in Pl. 102 (impiegato da Pluto, il quale recrimina sul suo indesiderato coinvolgimento nel piano di Carione e del suo servo Cremilo). Ed è notevole che la medesima locuzione sia impiegata da un altrettanto indignato Edipo in Soph. OC 838 (οὐκ ἠγόρευον ταῦτ᾽ ἐγώ;), in riferimento alle parole della sua profezia relativa a una guerra tra Tebe e Atene, già annunciata nei vv. 587 e 605–65327. οὗτός ἐστ᾽ οὐκ Ἀργόλας L’ espressione sembra rimarcare l’ indignazione già manifestata dalla persona loquens nel precedente οὐκ ἠγόρευον;. Analogo pare l’ effetto suggerito da espressioni come ταῦτά γ᾽ ἐστ᾽ οὐκ ἄρρενα in Ar. Nu. 687, ὢν οὐκ ἀστός in Av. 32 e οὗτός ἐστιν οὐ θεός in Men. Sam. 608 (sul cui anomalo ordo verborum vd. Sommerstein 2013, 286, ad l.). L’etnico Ἀργόλας, raro rispetto ai più usuali Ἀργεῖος e Ἀργολικός (vd. Schwyzer, GrGr I, 484; Piérart 2004, 599, con ulteriore bibliografia), è attestato altrove solo in [Eur.] Rh. 41 (a proposito dell’ esercito argivo che accende fuochi nell’ oscurità notturna), oltre che nel fr. 630 Kn., evocato dal testimone del presente frammento degli Eroi, del Plistene di Euripide (ἐγὼ δὲ Σαρδιανός, οὐκέτ’ Ἀργόλας): qui la persona loquens (verosimilmente uno dei Pelopidi, migrati in Grecia dalla Lidia: vd. Collard–Cropp 2008, 85, ad l.) nega o rinnega28 la propria provenienza argiva, presentandosi come un abitante di Sardi. La dizione elevata, di possibile ascendenza euripidea, non autorizza comunque a ravvisare nello scambio di battute riprodotto in questo frammento la parodia delle parole pronunciate da Pelasgo alla vista del coro delle Danaidi in Aesch. Supp. 236s. (οὐ γὰρ Ἀργολὶς / ἐσθὴς γυναικῶν οὐδ᾽ ἀφ᾽ Ἐλλάδος τόπων; per questa ipotesi vd. Delneri 2000, 108s.). Nel contesto eschileo, peraltro problematico (vd. Friis 26 27 28
Per formule analoghe, e per ulteriori attestazioni nella tragedia e nell’ oratoria, vd. Olson 2002, 82, ad Ar. Ach. 45. Cf. la formula analoga (οὔκουν ἐγώ σοι ταῦτα προύλεγον πάλαι;) impiegata da Giocasta in OT 973. A seconda di quale delle due lezioni tràdite dai manoscritti (γὰρ οὐκέτ’ R: οὐ γὰρ οὐκέτ’ QPN), entrambe ametriche, si voglia recuperare ed emendare: οὐκέτ᾽ è emendamento di Barnes 1694, 522, οὐ γάρ di Hartung 1843, 544; cf. Wilamowitz 1962, 186.
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Johansen–Whittle 1980, II, 191s.), è comunque degno di nota l’ analogo impiego del toponimo Ἀργολίς in funzione aggettivale. 2 οὐδέ γ᾽ per il raro impiego di οὐδέ γε in funzione non connettiva («‘not… either’, ‘not… even’»), vd. Denniston GP, 156.
fr. 312 K.-A. (300 K.) ὀβολῶν δεουσῶν τεττάρων καὶ τῆς φορᾶς ὀβ. δεουσῶν τεττ. Meineke FCG II 1, 534 n.: ὀβ. δὲ οὐσῶν τεττ. A: ὀβ. δ᾽ ἴσως τεττ. FSC, unde ὀβ. δ᾽ ἴσως 〈ἦν〉 τεττ. dubitanter Dobree 1833, 254
mancanti di quattro oboli e delle spese di trasporto Poll. VII 133 (FS, A, BC) τὸ δὲ ἔργον αὐτῶν φορά, καὶ ὁ μισθὸς κόμιστρον· εἴποι δ’ ἄν τις αὐτὸν καὶ φέρτρον (φέτρον FS: φόρετρον Α) καὶ φορεῖον. Ἀριστοφάνης δ᾽ ἐν τοῖς Ἥρωσι (γήρωσι Α) δοκεῖ τὸ κόμιστρον κατὰ τὸ νῦν ἔθoς εἰρηκέναι τὴν (τὴν del. Kaibel) φοράν, ὅταν εἴπῃ· ὀβολῶν — φορᾶς (εἴποι — φορᾶς om. B). Il loro (scil. dei trasportatori di carichi) lavoro (si chiama) phora, e il salario (che ne ricevono) komistron; ma lo si potrebbe chiamare anche phertron e phoreion. Ma Aristofane negli Eroi sembra definire il komistron come la phora, secondo l’ uso di ora, quando dice: «mancanti — trasporto».
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Bibliografia Dobree 1833, 254; Meineke FCG II 1, 534 n.; Bergk ap. Meineke FCG II 2, 1072; Kock CAF I, 470; Edmonds 1957, 658 n. 2. Contesto di citazione Il frammento è citato da Polluce nella parte finale di un’ ampia sezione del VII libro dell’ Onomasticon (130–133) contenente uno spoglio di termini relativi alle attività di facchini e trasportatori di merci. Testo In favore dell’ intervento di Meineke (FCG II 1, 534 n.) sul testo tràdito («In quo nihil aliud latet quam δεουσῶν sc. δραχμῶν, quod in praecedentibus affuerit necesse est»), generalmente accolto dagli editori successivi, vd. Bergk ap. Meineke FCG II 2, 1072 («apparet igitur δεουσῶν scribendum esse, adde enim δραχμῶν, quod praegressum fuit») e Kock CAF I, 470 («in versu proximo praeierat sine dubio δραχμῶν»). Che δεουσῶν presupponga δραχμῶν nel verso precedente è ipotesi condivisa da Edmonds 1957, 658 n. 2, a parere del quale «perh. the previous line ended ἓξ δραχμῶν». Diversamente Kaibel (ap. Kassel–Austin PCG III 2, 175) – che recupera la lezione del codice A (Par. gr. 2670) δὲ οὐσῶν, emendandola però in δεκ᾽ οὐσῶν – ipotizza che nel verso precedente fosse specificata la merce oggetto
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di vendita: «intellegerem fere talia 〈τῶν καρίδων〉 ὀβολῶν δέκ᾽ οὐσῶν, τεττάρων δὲ τῆς φορᾶς». Interpretazione A partire dal testo ricostruito da Meineke e generalmente accolto a testo dai successivi editori, che implica che la persona loquens stia rilevando un ammanco di danaro (ὀβολῶν δεουσῶν κτλ.), Kassel e Austin (PCG III 2, 175, ad l.) richiamano un frammento del Proagone di Aristofane nel quale il parlante contesta, «a un personaggio disonesto, forse un amministratore o un servo incaricato di far provvista» (Torchio 2022, 271), il preteso pagamento di una spesa di gran lunga superiore rispetto alla quantità di farina acquistata (fr. 481: ὀ δ᾽ ἀλφίτων 〈a〉 πριάμενος τρεῖς χοίνικας / κοτύλης δεούσας ἐκτέα λογίζεται, «e costui, pur avendo comprato tre chenici di farina meno una cotile, mi mette in conto un moggio»). Si prospetterebbe così (forse anche nel presente frammento) una situazione di conflitto tra un acquirente e un suo (schiavo) incaricato dell’ acquisto in merito al pagamento della merce incamerata (affine la dinamica descritta in Ar. Pl. 380s., dove Cremilo accusa l’ amico Blepsidemo di spendere tre mine e di presentare però un conto di dodici) o tra un commerciante e un acquirente in merito al prezzo della merce: scenario che riporterebbe al consolidato topos della propensione all’imbroglio, tipica dei mercanti attici (vd. Grimaudo 1998, 98–119). A partire dalla lezione δὲ οὐσῶν, emendata con l’ inserzione di un numerale (vd. supra, ad Testo), Kaibel sembra invece ipotizzare un’ asettica elencazione di costi. Per questa accezione di φορά («spesa di trasporto»), attestata anche in Eup. fr. 291 (citato da Polluce subito dopo il frammento aristofaneo), vd. Olson 2016, 451 con n. 271, ad l.
fr. 313 K.-A. (301 K.) ἢ καρδοπείῳ περιπαγῇ τὸν αὐχένα καρδοπείῳ CL: καρδόπῳ FS ἢ … περιπαγῇ codd.: ἢν … περιπαγῇ Fritzsche 1845, 90: ἢν … περιπαγῇς dubitanter Bergk («at ἢν in eis quae ante dicta erant positum fuisse potest» Kock): ἢ … περιπαγεὶς Kaibel
o che venga fissato un collare intorno al collo Poll. Χ 112–113 (FS, ABCL) ἐκ δὲ τῶν ἀρτοποιικῶν ὄνος ἀλέτων, καὶ μύλη καὶ μύλη σιτοποιὸς καὶ μυλήκορον, καὶ παυσικάπη, ἣν καὶ καρδοπεῖον (κάρδοπον FS) ὠνόμαζον, ὡς ἐν Ἥρωσιν (ὥραις CL) Ἀριστοφάνης· ἢ — αὐχένα (ὡς — αὐχ. om. AB). Tra gli attrezzi per la panificazione (ci sono): macina da mulino e mola e mola da farina e scopa per spolverare la mola, e collare per gli schiavi, che chiamavano anche kardopeion, come Aristofane negli Eroi: «o — collo».
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Contesto di citazione Il frammento è citato da Polluce per spiegare l’ accezione del termine καρδοπεῖον, in una sezione in cui vengono passati in rassegna svariati attrezzi e utensili dei panettieri (precedono ἀρτοπτεῖον, il forno, inteso come ἐργαστήριον, ossia come ambiente nel quale si fa il pane, ἀρτόπτης, la teglia in cui si cuoceva il pane, e πλάθανον, la spianatoia su cui il pane veniva impastato). Sulla base dell’ impiego del termine καρδοπεῖον come sinonimo di παυσικάπη (su cui vd. infra, ad fr. 314), documentato dal testimone di questo frammento, è lecito ipotizzare che il verso sia desunto dal medesimo contesto del successivo fr. 314. Interpretazione Una interpretazione del passo appare forse possibile alla luce del successivo fr. 314. καρδοπείῳ Il termine, impiegato qui come sinonimo di παυσικάπη (su cui vd. ad fr. 314), poteva indicare, in alternativa, il coperchio della madia (κάρδοπος): cf. Phot. κ 183 (καρδοπεῖον· καρδόπου πῶμα, ᾧ καὶ παυσικάπῃ χρῶνται); Hsch. κ 802 (καρδοπεῖον· τῆς καρδόπου τὸ πῶμα).
fr. 314 K.-A. (302 K.) παύσειν ἔοιχ᾽ ἡ παυσικάπη κάπτοντά σε παυσικάπη Dindorf: παυσικάη V
il collare probabilmente ti impedirà di ingozzarti Σ (vet Tr) (VLh[G]) Ar. Pax 14c Holwerda εἰώθασι γὰρ ἅμα τῷ μάττειν ἐσθίειν. ἀφ᾽ οὗ καὶ τὴν παυσικάπην (πασικάην V: corr. Dindorf) ἐπενόησαν, τροχοειδές (τριχ. V) τι, δι᾽ οὗ τὸν τράχηλον εἶρον πρὸς τὸ μὴ δύνασθαι τὴν χεῖρα προσάγειν. μέμνηται δὲ ἐν Ἥρωσιν Ἀριστοφάνης· παύσειν — σε (ἀφ᾽ οὗ — σε om. Lh). sono soliti infatti mangiare nel mentre impastano. Motivo per cui s’inventarono la pausikapē, un collare con cui bloccavano il collo perché non fosse possibile avvicinargli la mano. Lo menziona Aristofane negli Eroi: «il collare — ingozzarti».
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Bibliografia Wallon 1879, II, 224; Blümner 1912, 33s. con n. 5; Moritz 1958, 89; Klees 1998, 191; Taillardat 1965, 82; Delneri 2000, 110s. Contesto di citazione Il frammento è citato dallo scoliaste a proposito dell’ affermazione del Servo II, che, intento a impastare focacce di sterco per lo scarabeo,
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si compiace del fatto che nessuno potrà rivolgergli l’ accusa convenzionalmente attribuita agli schiavi preposti a impastare la farina, ovvero di sottrarla, mangiandola, mentre la lavorano assieme ad altri ingredienti. Viene pertanto spiegata la ragione per cui era stata inventata la pausikapē (su cui vd. infra). Interpretazione Come sembra suggerire il contesto di citazione, la persona loquens potrebbe essere un padrone che minaccia un suo servo di applicargli la παυσικάπη, così da impedirgli di portare alla bocca il cibo che sta impastando. Va da sé che anche il precedente fr. 313 possa interpretarsi alla luce del medesimo gesto e della medesima finalità. παύσειν ἔοιχ᾽ Paratragica è, come osserva Delneri 2000, 111, la costruzione di ἔοικα con l’ infinito futuro (per cui cf. e. g. Aesch. Ch. 922, Eu. 900, Pr. 984; Soph. Ph. 821s.; Eur. Hec. 813). E intenzionalmente allitterante sembra a me l’ impiego dell’ infinito παύσειν rispetto al successivo sostantivo παυσικάπη. ἡ παυσικάπη Come spiegano i lessicografi29, il termine designa una sorta di collare di legno simile a una ruota, che veniva fissato al collo degli schiavi per impedir loro di portare le mani alla bocca e mangiare la farina che devono impastare (vd. Wallon 1879, II, 224; Blümner 1912, 33s. con n. 5; Moritz 1958, 89; Klees 1998, 191)30. A parere di Delneri 2000, 111, il prefisso παυσ-, la cui specifica accezione pare peraltro rimarcata qui dal precedente παύσειν, riecheggerebbe analoghi composti ben attestati in tragedia (cf. e. g. Aesch. Ag. 214 [παυσάνεμος], 2 fr. 360 R. [παύσυβρις]; Soph. fr. 425.1 R. e Eur. Ba. 772 [παυσίλυπος]; Eur. IT 451 [παυσίπονος], ripreso in Ar. Ra. 1321). Il secondo elemento del composto è connesso al verbo κάπτειν, «manger, on parlant de bêtes» (Taillardat 1965, 82), la cui derivazione è qui, come per il precedente παύσειν, analogamente rimarcata dal successivo participio κάπτοντα. κάπτοντα Variante espressiva di ἐσθίειν, il verbo κάπτειν («mangiare voracemente», «inghiottire»: è detto anche di chi, come accade in genere nel mondo animale, afferra il cibo direttamente con la bocca, senza far uso delle mani) è attestato
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Poll. VII 20: τό γε μὴν τοῖς οἰκέταις τοῖς ἔνδον ἐργαζομένοις ὑπὲρ τοῦ μὴ κάπτειν τῶν ἀλφίτων περιτιθέμενον παυσικάπη ὀνομάζεται, τροχοειδὲς μηχάνημα τῷ τραχήλῳ περιαρμοζόμενον ὡς ἀδυνατεῖν τῷ στόματι τὰς χεῖρας προσαγαγεῖν; Ael.Dion. π 29 (ap. Eust. in Il. 1280.38): παυσικάπη· μηχάνημα τροχῷ ἐμφερές, δι’ οὗ τὸν τράχηλον διεῖρον καὶ τῶν ὑποζυγίων ὥστε μὴ ἐσθίειν καὶ τῶν ἀνθρώπων ὥστε μὴ δύνασθαι τὰς χεῖρας τῷ στόματι προσάγειν; Hsch. π 1155: παυσικάπη· μηχάνημα τροχῷ ἐοικός, δι’ οὗ τὸν τράχηλον εἶρον, ὡς μὴ δύνασθαι προσενεγκεῖν τὴν χεῖρα; Phot. π 498: παυσικάπη: μηχάνημα τροχῷ ἐμφερές· δι’ οὗ τὸν τράχηλον διεῖρον καὶ τῶν ὑποζυγίων, ὥστε μὴ ἐσθίειν καὶ τῶν ἀνθρώπων, ὡς μὴ δύνασθαι τὰς χεῖρας τῷ στόματι προσάγειν; Sud. π 821: παυσικάπη: μηχάνημα τροχοῖς ἐμφερές, δι’ οὗ τὸν τράχηλον διεῖρον καὶ τῶν ὑποζυγίων, ὥστε μὴ ἐσθίειν, καὶ τῶν ἀνθρώπων, ὡς μὴ δύνασθαι τὰς χεῖρας τῷ στόματι προσάγειν. Per le possibili corrispondenze tra questo strumento e le latine oreae rinvio a Delneri 2000, 110 n. 12.
Ἥρωες (fr. 314)
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spesso in commedia (cf. anche l’ omerico κάπη, che designa la «mangiatoia» in Il. VIII 434, Od. IV 40; Soph. fr. 314.14 R.2; Lycophr. Alex. 95; Ap. R. fr. 5.2 Powell): in Ar. Av. 245, κάπτω è usato in relazione all’ abitudine degli uccelli di inghiottire insetti (cf. e. g. Arist. HA 593a21, 620a13); in Sophr. fr. 64, è detto di pesce che ingerisce altro pesce (e, nella medesima accezione, in Hdt. II 93 e Arist. HA 541a14, GA 756b7, è attestato il composto ἀνακάπτω, che in Ar. Av. 579, è riferito invece agli uccelli che «beccano» il grano; e cf. Eur. Cyc. 629, dove il composto ἐγκάπτω è detto del trattenere il respiro a bocca chiusa). In un frammento dei Friggitori aristofanei, la persona loquens si dichiara stufa di ingozzarsi di frittura di alici (fr. 520.1–3: ἅλις ἀφύης μοι· / παρατέταμαι γὰρ / τὰ λιπαρὰ κάπτων; su λιπαρός come epiteto antonomastico per le alici, dette «luccicanti» perché unte nell’ olio prima di essere fritte vd. Imperio 2004, 130, con passi e bibliografia ulteriori; e per l’ interpretazione di questi versi nell’ economia del più ampio frammento vd. Bagordo 2020, 84). In rapporto a qualcuno (forse un mostro marino: sulla questione vd. Orth 2009, 143), che inghiotte pesci di grosse dimensioni, il su menzionato composto ἐγκάπτειν è documentato in Stratt. fr. 26; non è invece chiaro chi divori cosa in Hermipp. fr. 25 (dove, al v. 3, è stato ricostruito congetturalmente il medesimo verbo composto: vd. Comentale 2017, 113s.). E ancora in riferimento a persone che divorano avidamente un certo cibo, o che si alimentano semplicemente di aria, il verbo è attestato in Anaxil. fr. 18.3 (τυροὺς κάπτων) e in Eub. fr. *9.7 (κάπτοντες αὔρας, ἐλπίδας σιτούμενοι). In Aristofane ricorrono anche composti come ἐπικάπτειν (cf. Eq. 493, dove al Salsicciaio viene offerto dell’ aglio perché lo inghiottisca per eccitarsi al combattimento con Paflagone) ed ἐγκάπτειν (cf. V. 791, Pax 7; Alex. fr. 133.7, in riferimento all’ abitudine degli Ateniesi di portare in bocca monete di piccole dimensioni). In modo assoluto, κάπτω è impiegato in Eccl. 687 da Blepiro, che domanda (a Prassagora?) se, nel nuovo regime instaurato dalle donne, a quanti sarà assegnata in sorte la lettera κ spetterà, per pranzare, un posto dove κάπτειν (Ussher 1973, 174, ad Eccl. 687: «Blepyrus fears there will be blank lots: and that those who draw them will stand to lose a dinner, as jurors in the same case lose a fee. Praxagora reassures him: not with them»). Analogamente, in Eup. fr. 192.197s. (ἅπερ ε]ἰώθασι / κάπτειν αἱ ἀλετρί[δες), il verbo è usato in relazione a donne che hanno l’abitudine di ingozzarsi mentre sono intente a macinare la farina (vd. Olson 2016, 176s. ad l.). Per la valenza idiomatico–espressiva e le ulteriori possibili attestazioni comiche di κάπτω e suoi composti in commedia, vd. Bagordo 2013, 174s. ad Telecl. fr. 35, dove κάπτειν è costruito col genitivo partitivo (κάπτε τῶν θυλημάτων).
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fr. 315 K.-A. (303 K.) ἴθι δὴ λαβὼν τὸν ῥύμβον ἀνακωδώνισον ῥύμβον Meineke FCG II 1, 452: ῥόμβον codd.
suvvia, prendi il rombo e scuotilo per farlo risuonare! Poll. Χ 173 (FS, ABCL) φαίης δ᾽ ἂν κατ᾽ Ἀριστοφάνην λέγοντα […] ὡς ἐν Ἥρωσιν· ἴθι — ἀνακωδώνισον. e potresti dire, alla maniera di Aristofane […], come negli Eroi: «suvvia — risuonare!». Hsch. α 4391 ἀνακωδώνισον (ἀνακοδήνισον cod.: corr. Soping ap. Alberti 1746–1766, I, col. 328 n. 23)· ἀνάσεισον. anakōdōnison: scuotilo.
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Bibliografia Meineke FCG II 1, 452; Blümner 1891, 148; van Leeuwen 1896, 20; Pease 1904, 56; Gow 1934; Edmonds 1957, 659 n. d; Stanford 1963, 78; Kannicht 1969, 357; West 1983, 157 (trad. it. 1993, 168); Gil 1989, 83; West 1992, 122; Johnston 1995, 178–184; Pettazzoni 1997, 21–44; Faraone 1999, passim; Mathiesen 1999, 172s.; Carrière 2000, 217; Tortorelli Ghidini 2000; Scarpi 2002, 587s., 643, 654–657; Fernández Fernández 2015; Millis 2015, 98; Olson 2017, 259–261. Contesto di citazione Il verso è citato da Polluce in un elenco di utensili e accessori, di falegnameria e carpenteria, per ciascuno dei quali vengono menzionate espressioni tratte da commedie per noi perdute di Aristofane. Nell’ ordine, sono riportati i frr. 69–70, tratti dai Babilonesi, il fr. inc. fab. 610, il fr. 432, tratti dalle Navi mercantili, i frr. 531, 536 e 538, tratti dai Friggitori, e, prima del presente verso degli Eroi, i frr. 141–142, tratti dalla Vecchiaia. Gli oggetti in questione paiono accomunati dal loro potenziale impiego come strumenti in grado di produrre rumori o suoni. Testo In luogo del tràdito ῥόμβον stampo qui la forma ῥύμβον restituita da Meineke FCG II 1, 452 sulla base di Σ (KUEA) Theoc. 2.30a, p. 277.3 Wendel, secondo cui τὸν δὲ ῥόμβον οἱ Ἀττικοὶ ῥύμβον (ῥύμβον E: κόρυμβον cett.) καλοῦσι. E in favore dell’ emendamento si esprime ora Olson 2017, 261, a partire dal testo di un frammento dei Battezzatori di Eupoli, fr. 83 (ὦ ῥύμβε μαστίξας ἐμέ), tràdito da Σ (Lm[P]) Ap. R. IV 143–144a, p. 269.14–16 Wendel, e menzionato (senza citarlo) da Σ (P) Ap. R. I 1134–1139b, p. 103.3–5 Wendel, assieme a Didym. Λεξ. κωμ., fr. 33, p. 69 Schmidt (τινὲς δὲ ῥύμβον αὐτὸν καλοῦσιν, ὡς καὶ Εὔπολις ἐν Βάπταις καὶ Δίδυμος): circostanza che parrebbe deporre a favore dell'opzione per la forma con
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vocalismo in ypsilon in ambito comico. Come ulteriori paralleli della forma attica in ypsilon vengono in genere evocati: a) un frammento del Piritoo (dramma dubitativamente attribuito a Euripide o a Crizia): cf. Critias TrGF I 43 F 4.1s. Sn.–Kn. (ἐν αἰθερίῳ / ῥύμβῳ); b) Pl. Cra. 426e (ῥυμβεῖν); ai quali si aggiunge la documentazione epigrafica fornita da IG II2 1456.49 (ῥύ[μβος) e 1517.207 (ῥύμβον), ricordata da Kannicht 1969, 357, ad Eur. Hel. 1362, il quale ricorda peraltro le oscillazioni tra le due forme registrabili nei testimonia del su citato frammento del Piritoo, e conclude che «Die von den grammatikern stereotyp angeführte Wechselform ῥύμβος scheint umgangssprachlich sein». Interpretazione Con la sua formulazione imperativa, il verso esprime un comando (impartito dallo stesso personaggio che parla nel fr. 310?) volto a diffondere il suono di un rombo, con finalità verosimilmente propiziatoria. ῥύμβον Il termine ῥόμβος (qui probabilmente ῥύμβος: vd. supra, ad Testo) poteva designare due oggetti distinti, entrambi menzionati nel secondo Idillio di Teocrito e perciò spesso erroneamente identificati nell’ esegesi antica e moderna (vd. in dettaglio Gow 1934; cf. Gow 1952 II, 44, ad Theoc. 2.30): 1) una ruota magica, solitamente definita ἴυγξ (cf. Pi. P. 4.213–219), che, fatta ruotare in avanti e all’ indietro mediante una corda infilata in due fori praticati nella zona centrale, si credeva producesse incantesimi amorosi (cf. Theoc. 2.17 con lo scolio ad l.; Luc. DMeretr. [80] 4.5; AP [anon.] V 205 = HE 3798–3803, e vd. Johnston 1995, 178–184; Faraone 1999, passim [sul rhombos, in particolare, 150–152]; Fernández Fernández 2015); 2) uno strumento musicale aerofono (per le testimonianze vd. Di Giglio 2009, 79–82) generalmente di legno, impiegato in altrettanti riti magici (cf. soprattutto Theoc. 2.30, dove lo strumento, definito «di bronzo», è associato ad Afrodite) o in rituali misterici (legati soprattutto ai culti di Dioniso e di Rea– Cibele; cf., e. g., il summenzionato Eur. Hel. 1362, con Kannicht 1969, 357, ad l., e ora Castiglioni 2021, 311; Diog.Ath. TrGF I 45 F 1.3 Sn.–Kn.; Ap. R. I 1139, con il relativo scolio, su cui vd. supra, ad Testo; Ath. epit. XII 525e – da cui Eust. in Od. 1387.47 [sulla fonte vd. Vollgraf 1940, 183–185]; Phot. ρ 154; Hsch. ρ 433, 488; Et.gen. AB s. v. ῥύμβῳ [Et.magn. p. 706.25]), diffuso anche come giocattolo (cf. AP [Flaccus?] VI 165.1 = FGE 167; AP [Leon.] VI 309.4 = HE 2245–2248), e come tale impiegato ad esempio nelle cerimonie di iniziazione connesse al mito orfico dell’ uccisione di Dioniso bambino, come pure nei riti di passaggio cui nelle civiltà etnologiche si sottopongono i giovani che fanno il loro ingresso nell’ età adulta abbandonando i giocattoli dell’ infanzia (cfr. soprattutto Orph. fr. 31.29s. [P.Gurob I, Pack 1965, 130, nr. 2464] e fr. 34 Kern [Clem.Al. Protr. II 17.2]; e vd. West 1983, 157 [trad. it. 1993, 168]; Id. 1992, 122; Pettazzoni 1997, 21–44; Mathiesen 1999, 172s.; Tortorelli Ghidini 2000; Scarpi 2002, 587s., 643, 654–657). Tale strumento, a forma di fuso o di forma romboidale, era realizzato legando una cordicella all’ estremità di una tavoletta di legno: fatta roteare più o meno velocemente, emetteva un suono che variava, di conseguenza, da grave ad acuto: cf. soprattutto Σ Clem.Al. Protr. II 17.2 (p. 192 Marcovich), in cui il rombo è
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descritto come una tavoletta di legno alla quale era attaccata una cordicella che si faceva roteare nei riti iniziatici perché producesse un sibilo (ξυλήριον, οὗ ἐξῆπται τὸ σπαρτίον, καὶ ἐν ταῖς τελεταῖς ἐδονεῖτο, ἵνα ῥοιζῇ), e Archyt. 47 B 1 D.–K., dove l’ esempio del suono dei ῥόμβοι (menzionati a r. 36) è utile, tra l'altro, a esemplificare la teoria acustica del pitagorico tarentino esposta nel frammento (su cui vd. ora in dettaglio Huffman 2005, 129–161), secondo cui «il movimento rapido rende acuto il suono, quello lento lo rende grave: ma del resto la stessa cosa accade con i rombi, che vengono agitati durante i misteri: se scossi piano, producono un suono grave, se con forza, acuto» (ἁ ταχεῖα κίνασις ὀξὺν ποιεῖ, ἁ δὲ βραδεῖα βαρὺν τὸν ἆχον. ἀλλὰ μὰν καὶ τοῖς ῥόμβοις τοῖς ἐν ταῖς τελεταῖς κινουμένοις τὸ αὐτὸ συμβαίνει· ἡσυχᾷ μὲν κινούμενοι βαρὺν ἀφίεντι ἆχον, ἰσχυρῶς δέ ὀξὺν). E in questa seconda accezione il vocabolo parrebbe impiegato in questo frammento come nell’ unico altro frammento comico (menzionato supra, ad Testo, a proposito della forma attica ῤύμβος), tratto dai Battezzatori di Eupoli, in cui il termine è attestato (ὦ ῥύμβε μαστίξας ἐμέ, Eup. fr. 83, su cui vd. Olson 2017, 259–261): Kaibel (ap. Kassel–Austin PCG III 2, 176) ipotizzava che il suono di questo strumento servisse a invocare o, all’ opposto, a tenere lontani gli eroi («potius hoc quam illud»); e in favore di questa seconda opzione si esprimono Carrière 2000, 217 e Gil 1989, 83. In realtà, a giudicare dalla funzione che lo strumento ha in Theoc. 2.30s. (χὠς δινεῖθ᾽ ὅδε ῥόμβος ὁ χάλκεος ἐξ Ἀφροδίτας, / ὣς τῆνος δινοῖτο ποθ᾽ ἁμετέραισι θύραισιν, «e come questo rombo di bronzo ruota per volere di Afrodite, così egli ruoti dinanzi alla mia porta») e in PGM 4.2291 (ῥόμβον στρέφω σοι, κυμβάλων οὐχ ἅπτομαι, «faccio ruotare per te il rombo, e non tocco i cimbali»: «that is, I use attractive and refrain from apotropaic magic» [Gow 1952 II, 43, ad Theoc. 2.36]), l’ ipotesi di un rito propiziatorio, piuttosto che apotropaico, appare invece del tutto plausibile. Per Edmonds 1957, 659 n. d, il verso annuncia l’ingresso del coro di eroi. ἀνακωδώνισον Unica attestazione di questo composto di κωδωνίζω, «battere moneta», propriamente, testare l’ autenticità delle monete sulla base del suono prodotto dalla lega metallica per effetto della percussione su una superficie rigida (cf. Ar. Ra. 723) o anche (come spiegano gli scolii ad Ar. Ra. 79) il coraggio dei cavalli, per i quali si verificava se si spaventassero al suono dei sonagli (e in modo analogo venivano testate anche le quaglie da combattimento al suono della campanella [κώδων]): vd. van Leeuwen 1896, 20, e Stanford 1963, 78, ad Ar. Ra. 79; Pease 1904, 56. In senso metaforico κωδωνίζω è impiegato, oltre che da Aristofane in Ra. 79, anche da Anassandride negli Eroi (fr. 16.5: vd. Millis 2015, 98, ad l.). Cf. anche Ar. Lys. 485 (ἀκωδώνιστον … πρᾶγμα, «fatto non indagato»), Dem. 19.167 (ἡμᾶς διεκωδώνιζεν ἄπαντας, «[Filippo] ci stava testando tutti»), e vd. Blümner 1891, 148.
Ἥρωες (fr. 316)
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fr. 316 K.-A. (310 K.) ἐμπόρω Διοσκόρω ἐμπόρω Blaydes 1890–1896, II, 60 (cf. Hsch. ε 2506): ἐμπόλω Α: ἐν ἐμπόλω FS
i Dioscuri, coppia di mercanti Poll. VII 15 (FS, Α, BC) τούτων δὲ καὶ θεοὶ ἴδιοι (ἥλιοι Α), ἐμπολαῖος (ἐνπώλαιος FS: ὁ ἐμπωλαῖος BC) Ἑρμῆς καὶ ἀγοραῖος· καὶ ἐμπόρω (ἐμπόλω Α: ἐν ἐμπόλω FS) Διοσκόρω ἐν Ἥρωσιν Ἀριστοφάνους (-ης Α) (καὶ ἐμπ. — Ἀριστ. om. BC). e queste attività commerciali hanno anche loro proprie divinità: Hermes commerciante e mercante; e i Dioscuri coppia di mercanti negli Eroi di Aristofane.
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Bibliografia 1996, 125.
Restelli 1951; Wycherley 1957, 102s.; Garland 1992, 111; Parker
Contesto di citazione All’ interno di un’ ampia sezione del VII libro dell’ Onomasticon dedicata al lessico della compravendita e del commercio in genere (8–28), Polluce cita questo frammento a proposito delle divinità che presiedono alle attività commerciali: dopo aver menzionato Hermes, notoriamente considerato il dio del mercato (ἀγοραῖος: cf. e. g. Ar. Eq. 297 con i relativi scolii, che attestano che una statua di Ἑρμῆς ἀγοραῖος si ergeva nell’ agorà di Atene [cf. e. g. Philoch. FGrHist 328 F 31; Ps.–Plu. X orat. vit. 8 [Mor. 844b]; Paus. I 15.1; Luc. JTr. [21] 33; Sud. α 308; e vd. Wycherley 1957, 102s.]; e per altre città la sua presenza è documentata ad es. da Paus. III 11.11, VII 22.2, IX 17.2]) e del commercio (ἐμπολαῖος: cf. e. g. Ar. Ach. 816, Pl. 1155; D. S. V 75.2; Hsch. ε 2491; SEG XXX *908), attesta che Aristofane negli Eroi impiegò l’ epiteto ἔμπορος in relazione alla coppia dei Dioscuri. Testo La correzione ἐμπόρω proposta da Blaydes per il tràdito ἐμπόλω è confortata da Hsch. ε 2506: ἐμπόρω· ἔμποροι. δυϊκῶς. Interpretazione A causa dell’ esiguo contesto di citazione, il senso della menzione dei Dioscuri pare indeterminabile: essi potevano figurare all’ interno di un catalogo di eroi o essere forse anche correlati alla scena di acquisto, presupposta dal fr. 310, in quanto coppia di mercanti forse contestualmente associata alla figura di Hermes. ἐμπόρω Διοσκόρω Il duale ἐμπόρω qualifica qui i Dioscuri, appellativo di origine ionica (vd. Restelli 1951) della coppia dei gemelli mitici Castore e Polideuce (Polluce è il nome latino), figli di Zeus (Διόσκουροι) e di Leda (che era sposa di
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Tindareo, re di Lacedemone, anche se il nome spartano di Tindaridi – Τυνδαρίδαι ο Τινδαρίδαι – è più antico del nome del mitico Tindareo, re di Lacedemone e loro padre adottivo, che fu inventato per spiegarlo: vd. Frisk GEW II, 945; Chantraine DELG, 1145), e fratelli di Elena e di Clitemestra. A partire da questa duplice paternità, i Dioscuri, noti come i ‘gemelli divini’, finiscono per diventare rappresentativi di una specifica categoria di eroi gemelli di natura semidivina: come emerge da quella versione del mito, introdotta nei Canti ciprii (Cypr. EGF fr. 6 Davies) e sviluppata da Pindaro (P. 11.61–64, N. 10.55–60), che fa di Castore il figlio (mortale) di Tindareo e di Polideuce il figlio (immortale) di Zeus, e fornisce l’ aition del privilegio concesso loro da Zeus di condividere tale duplice condizione attraverso quel continuo up–and–down tra cielo e oltretomba ricordato già nella nekyia omerica (XI 298–302) e poi in Pi. P. 11.61ss., N. 10.85ss.; Eur. Hel. 138; Ps.–Apollod. III 11.2; Luc. DDeor. [79] 26; Verg. Aen. VI 121s.; Ov. Fast. 5.715ss. Benché profondamente radicato in ambiente peloponnesiaco, e in particolare spartano (il santuario di riferimento aveva sede a Terapne, nei pressi di Sparta, dove li si immaginava addormentati nel κῶμα [Alcm. PMGF 7.2] che li teneva a giorni alterni lontani dall’ Olimpo), il loro culto, di chiara matrice indoeuropea (particolarmente importante è il parallelo generalmente riconosciuto con i gemelli Asvin della mitologia vedica: vd. in particolare Goto 2006, 253s.), divenne molto popolare in tutta la Grecia, continentale e insulare, ma anche in Magna Grecia, in Etruria e a Roma (vd. Eitrem 1920, 144–150; Farnell 1921, 175–228; Ward 1970; West 1975, 8s.; Id. 2007, 186–191; Burkert [1977] 2011, 324–326; e, in generale, e più di recente, Augé–Linant 1986 e Scheer–Ley 1997 con ulteriore bibliografia). Eccellenti atleti (cf. Il. III 237, Od. XI 300), i Dioscuri erano identificati ad Atene con gli Ἄνακες, venerati nell’ Anakeion, eretto sulle pendici settentrionali dell’ Acropoli, dove Polignoto aveva dipinto le imprese mitiche dei due eroi (cf. Paus. I 18.1s.; l’ edificio fu adibito nel 415 a. C. a sala assembleare dei cavalieri ateniesi: cf. And. 1.45); erano celebrati nelle gare sportive chiamate Anakeia (vd. Parker 2005, 457) e ricevevano anche ospitalità rituale nel pritaneo (vd. Burkert [1977] 2011, 168s.). Non solo ad Atene, ma in tutta la Grecia i Dioscuri erano anzi i principali destinatari di theoxenia, forme di ospitalità rituale che prevedevano l’ allestimento di tavole imbandite di offerte di cibo per gli ospiti divini (cf. soprattutto Pi. O. 3 [con Σ 1a–c, I, p. 105s. Drachmann], Eur. Hel. 1666–1669, con Kannicht 1969, 432s., ad l.; e su questo rituale, vd. in generale Parker 2011, 142–144, con ulteriore bibliografia): rilievi e pitture vascolari li ritraggono al galoppo verso le due klinai preparate per il loro pasto rituale, e su alcune monete appaiono distesi con una phialē in mano (vd. Augé–Linant 1986, nrr. 110–119). Come numi tutelari di Sparta i Dioscuri sono invocati in Ar. Pax 285 (cf. anche il giuramento ναὶ τὼ σιώ in Pax 214 e Lys. 81, 86, 90, e la menzione dei Tindaridi in Lys. 1300) e forse anche in Eccl. 1069 (vd. Papachrysostomou 2016, 98 con n. 7, ad Amphis fr. 9.4 dove compare una delle due ulteriori invocazioni comiche ai Dioscuri [l’ altra è in Men. Dysc. 192]), dove però l’ invocazione è legata primariamente al loro ruolo di protettori di viaggiatori e naviganti: una funzione connessa probabilmente alla
Ἥρωες (fr. 317)
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dimensione astrale che i Dioscuri vennero progressivamente ad assumere, sino a identificarsi in una vera e propria costellazione. Celebre, al riguardo, il mito della loro impressionante epifania nota ai naviganti come fuoco di Sant’ Elmo: Alc. fr. 34.9–12 V. rappresenta una delle prime testimonianze di questa credenza popolare, contro la quale polemizzava Senofane, che tentava invece di spiegare razionalmente il fenomeno come effetto del baluginare della nuvolaglia in una sorta di movimento (21 A 39 D.–K.: τοὺς ἐπὶ τῶν πλοίων φαινομένους οἷον ἀστέρας, οὓς καὶ Διοσκούρους καλοῦσί τινες, νεφέλια εἶναι κατὰ τὴν ποιὰν κίνησιν παραλάμποντα; Hdt. II 43; Eur. Hel. 1495–1511 [con Kannicht 1969, 393–395, ad l.]; Luc. Nav. [73] 9; IG V 1 101, 233.6, 658.6–87; e vd. anche Vegas Sansalvador 2010, 688s.). E più in generale, sui Dioscuri come σωτῆρες di quanti sono in pericolo, cf. e. g. 2 Terp. fr. *9 Gostoli (PMG adesp. 1027c Page = fr. trag. adesp. 139 N. ); Alc. fr. 34 V.; h.Hom. XXXIII [Diosc.] 6–17; Eur. El. 992s., 1341, 1347–1353, Hel. 1642, Or. 1637; Call. fr. 64.11–14 Pfeiffer; Theoc. 22.5–23; Pl. Euthd. 293a; Luc. Alex. [42] 4; Str. V 3.5; Ael. VH I 30. In quanto «salvatori», i Dioscuri erano molto popolari tra i marinai ateniesi: alcuni decreti di V secolo attestano che i mercanti, approdati al porto del Pireo, dovevano versare una tassa del 2%, sulle merci importate e/o esportate, volta a finanziare il culto degli Anakes protettori della marineria (cf. 3 IG I 133 e vd. Garland 1992, 111; Parker 1996, 125). Donde probabilmente la qualifica di ἐμπόρω che, attribuita ai Dioscuri in questo frammento di Aristofane, avrà ispirato a Polluce la loro associazione con Hermes (se tale associazione non era già presente nel testo comico).
fr. 317 K.-A. (311 K.) πῶς πίομαι; come dovrò bere? Et.magn. p. 672.55s. πίνω· ἀπὸ τοῦ πίω γίνεται κατ’ ἐπένθεσιν τοῦ ν. καὶ ἰστέον, ὅτι τὸ πίνω μόνον ἐκτείνει τὸ ι· πίνοντά περ ἔμπης, Ἰλιάδος ξʹ. τὸ δὲ πίω ἐκτείνει καὶ συστέλλει. ἐκτείνει μὲν, ὡς τὸ πιόμεν’ (πίομεν codd.) ἐκ βοτάνης, Ἰλιάδος νʹ· καὶ Ἀριστοφάνης ἐν Ἥρωσι, πῶς πίομαι (πίωμαι V). Pinō («bevo»): viene da piō, con epentesi del ny. E bisogna sapere che pinō ha lo iota soltanto lungo: pīnοnta per empēs, Iliade XIV (Il. XIV 1). Invece piō (può avere lo iota) lungo e breve. Ha lo iota lungo come il pīomen’ ek botanēs di Iliade XIII (Il. XIII 493). Anche Aristofane negli Eroi (dice) pōs piomai.
Metro
sequenza giambica
llwl
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Contesto di citazione La notazione grammaticale dell’ Etymologicum magnum, che cita il frammento aristofaneo in relazione alla quantità lunga dello iota nella forma πίομαι (πίωμαι nel cod. V) del verbo πίνω, è ripresa dalla più ampia notazione contenuta nel De orthographia di Cherobosco a proposito della grafia alternativa del verbo πίνω/πίω, a seconda che vi sia o meno l’epentesi del ny, e della quantità lunga dello iota che tale epentesi determina (An.Ox. II, p. 247.25–30 Cramer: πίνω· διὰ τοῦ ι γράφεται· ἀπὸ γὰρ τοῦ πίω γέγονεν κατ᾽ ἐπένθεσιν τοῦ ν· τὸ δὲ ν ἐπὶ βαρυτόνων ῥημάτων ἐχόντων ἓν δίχρονον μόνον εἴωθεν ἐπεντίθεσθαι· οἷον, δύω, δύνω· θύω, θύνω· οὕτως οὖν καὶ πίνω μόνως ἐκτείνει τὸ ι· οἷον Νέστορα δ’ οὐκ ἔλαθεν ἰαχὴ πίνοντά περ ἔμπης [Il. XIV 1], τὸ δὲ πίω καὶ ἐκτείνει καὶ συστέλλει. In linea con l’edizione di Lentz [Hdn. Περὶ ὀρθογραφίας, GG III 2, p. 570.4–12], r intervengo sul testo del cod. Bodl. Barocc. 50, f. 158 [An.Ox. II, p. 247.30 Cramer], che reca τὸ δὲ πίνω καὶ ἐκτείνει καὶ συστέλλει in luogo di τὸ δὲ πίω καὶ ἐκτείνει καὶ συστέλλει): «pinō si scrive con lo iota (lungo). Viene infatti da piō, con epentesi del ny; di solito nelle parole baritone che contengono una sola vocale dicrona si ha l’ epentesi del ny: ad esempio, dyō, dynō, thyō, thynō; così dunque anche pinō ha lo iota soltanto lungo, come “A Nestore non sfuggì quel clamore, benché stesse bevendo” (Il. XIV 1). (Il verbo) piō può avere lo iota sia lungo sia breve». Interpretazione In assenza di un contesto di riferimento, risulta difficile determinare il significato della domanda formulata in questo frammento. Non è da escludersi che essa sia collegata ai precetti potori imposti durante il banchetto, come dire: ‘quale il modo migliore di bere per non offendere gli eroi?’. πῶς πίομαι; La formulazione interrogativa della frase consente di annoverare πίομαι tra gli esempi di «kurzvokalische Konjunktive in futurischer Verwendung» (Schwyzer, GrGr I, 780). fr. 318 K.-A. (304 K.) οἱ γὰρ ἥρως ἐγγύς εἰσιν perché gli eroi sono nelle vicinanze Choerob. in Theodos. Can., GG IV 1, p. 251.25–29 Hilgard (NCV) φησὶν ὁ Ἡρωδιανὸς ἐν τῇ Καθόλου (GG III 1, p. 424.12 Lentz) ἐν τῇ περὶ τῆς εὐθείας τῶν πληθυντικῶν διδασκαλίᾳ, ὡς 〈ἡ add. Dindorf〉 οἱ ἥρως εὐθεῖα τῶν πληθυντικῶν εὕρηται κατὰ κρᾶσιν παρὰ Ἀριστοφάνει ἐν Ἥρωσιν (ἐν ὄρνισιν NCV: Dindorfio duce corr. Bergk), οἷον oἱ — εἰσιν, ἀντὶ τοῦ οἱ ἥρωες. Dice Erodiano nella (Prosodia) universale (GG III 1, p. 424.12 Lentz), nella trattazione del nominativo plurale, che 〈il〉 nominativo plurale hoi hērōs («gli eroi») si trova contratto di una sillaba negli Eroi di Aristofane; così: «perché hoi hērōs — vicinanze», invece di hoi hērōes.
Ἥρωες (fr. 318)
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Phryn. Ecl. 129 (bBCeUV[q]) οἱ ἥρως οὐ λέγουσιν, ἀλλ᾽ οἱ ἥρωες τρισυλλάβως· ἐπὶ δὲ τῆς αἰτιατικῆς δισυλλάβως τοὺς ἥρως. ἅπαξ Ἀριστοφάνης βιασθεὶς ὑπὸ τοῦ μέτρου (μήτρου UBC) οἱ ἥρως εἶπεν, τῷ δ᾽ ἠναγκασμένῳ οὐ χρηστέον (hinc Thom.Mag. Ecl. p. 169.7 Ritschl, cf. Philem.Gramm. Exc. e ms. Vindob. phil. gr. 172, ap. Reitzenstein 1897, 394.22s.). Non dicono hoi hērōs, ma hoi hērōes, trisillabo; all’ accusativo invece (usano) il bisillabo tous hērōs. Una sola volta Aristofane, costretto dal metro, ha detto hoi hērōs, ma ciò che viene fatto per necessità non dovrebbe essere imitato.
Metro
trimetro giambico (oppure tetrametro trocaico catalettico) incompleto (x)lwl llwl l(lwu) oppure lwll lwll (lwlx lwu)
Bibliografia
Bergk ap. Meineke FCG II 2, 1070.
Contesto di citazione Il frammento è citato da Cherobosco, nei Prolegomena et scholia in Theodosii Alexandrini Canones isagogicos de flexione nominum, a commento del XVI canone teodosiano, dedicato alla declinazione dei vocaboli ἥρως e γέλως. La finalità è argomentare, sul fondamento del De prosodia catholica di Erodiano, che la forma contratta del nominativo plurale οἱ ἥρως era attestata negli Eroi di Aristofane. La testimonianza dell’ atticista Frinico, tratta dal primo libro della sua Ἐκλογὴ Ἀττικῶν ῥημάτων καὶ ὀνομάτων e riproposta nell’ excerptum del lessico dell’ atticista Filemone, conservato dal ms. T (Vindob. phil. gr. 172), è fonte diretta della testimonianza contenuta nell’ omonima ecloga di Tommaso Magistro (vd. Reitzenstein 1897, 390), il quale conferma genericamente, e senza l’ apporto esplicito della citazione, l’ impiego aristofaneo della forma bisillabica del nominativo plurale οἱ ἥρως, precisando tuttavia che Aristofane vi avrebbe fatto ricorso «una sola volta», perché costretto da necessità metriche, e sconsigliandone pertanto l’ impiego (p. 169.7s. Ritschl): «Hērō (dicono) gli Attici, non hērōa, e hērōs per l’ accusativo plurale, e non hērōas; invece hērōes, e non hērōs; (anche se) una volta Aristofane, costretto dal metro, ha detto hoi hērōs; ma ciò che viene fatto per necessità non dovrebbe essere imitato» (Ἥρω Ἀττικοὶ, οὐχ ἥρωα, καὶ ἥρως ἐπὶ αἰτιατικῆς τῶν πληθυντικῶν, καὶ οὐχ ἥρωας· ἥρωες δὲ, οὐχ ἥρως [εἰ καὶ] ἅπαξ Ἀριστοφάνης ὑπὸ τοῦ μέτρου βιασθεὶς οἱ ἥρως εἶπε· τῷ δ’ ἠναγκασμένῳ οὐ χρηστέον). Testo Si deve a Dindorf (1835, 610) l’ emendamento (accolto, a partire da Bergk ap. Meineke FCG II 2, 1070, da tutti i successivi editori) ἐν Ἥρωσιν, in luogo del tràdito ἐν Ὄρνισιν, nella testimonianza di Cherobosco, a parere del quale «quod autem ex Ὄρνισιν illa afferuntur, aut memoriae lapsui debetur ex Avium versuum 1485 [τοῖς ἥρωσιν] et 1490 [ἥρῳ] recordatione orto […] aut vetus est librarii error». Mi chiedo però se un eventuale lapsus memoriae non possa essersi ingenerato piuttosto a partire dalla iunctura ἥρωσιν ὄρνισι di Av. 881 (corr. Hermann in schedis [Bergk], ὄρνισι del. Dindorf: ἥρωσι καὶ ὄρνισι codd.), iunctura del tutto peculiare: vd. Dunbar 1995, 513, ad l. Interpretazione Il frammento attesta l’ impiego aristofaneo di (οἱ) ἥρως, forma attica del nominativo plurale (in luogo di ἥρωες), che, assieme alla forma attica
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dell’ accusativo singolare ἥρων, attestata in un frammento anepigrafo dello stesso Aristofane (fr. 712), si può annoverare tra quelle «irregular declension forms» che, a parere di Willi, «belong to marginal and (synchronically) irregular words where people may have been uncertain about the ‘correct’ form» (Willi 2003, 242, e, per altri esempi, n. 54; vd. anche Bagordo 2017a, 105, ad Ar. fr. 712, con ulteriore bibliografia). Quanto poi alla forma attica dell’ accusativo plurale ἥρως, cui fa riferimento la testimonianza di Frinico ripresa da Tommaso Magistro, colpisce che venga indicata come regolare la forma attica bisillabica ἥρως, rispetto alla ben più frequente forma trisillabica ἥρωας: vd. Kühner–Blass 1890–1892, I 1, 456. ἥρως ἐγγύς Con un’ espressione analoga (ἅνδρες ἐγγύς) in Ar. Eq. 244 viene salutato l’ ingresso in scena del coro di cavalieri. Per l’ ipotesi che questa espressione possa analogamente annunciare qui l’ ingresso in scena del coro di Eroi, vd. supra, ad Contenuto.
fr. 319 K.-A. (306 K.) μηδὲ ποδάνιπτρον θύραζ᾽ ἐκχεῖτε μηδὲ λούτριον μηδὲ ποδάνιπτρον K.-A. duce Seidler 1818, 12 (qui μήτε π.) ex Poll. X 78: μηδ᾽ ἀπόνιπτρον FS: μήτ᾽ ἀπόν. Α: μήποτ᾽ ἀπόν. Elmsley 1830, 71, ad Ach. 616: μηκέτ᾽ ἀπόν. Dobree 1833, 254 θύραζ᾽ ἐκχεῖτε A: θύραζε χεῖν τε FS μηδὲ K.-A.: μὴ δὲ codd. λούτριον FS: λουτρεῖον Α
non versate fuori dalla porta di casa l’ acqua sporca: né quella usata per lavare i piedi né l’ acqua del bagno Poll. VII 167 (FS, Α, C) καὶ τὸ ὕδωρ τοῦ λουτροῦ λούτριον (λουτρεῖον A), ὡς Ἀριστοφάνης ἐν Ἥρωσιν· μήτ᾽ — λούτριον (ὡς — λούτ. om. C). e l’ acqua del bagno (si chiama) loutrion, come (attesta) Aristofane negli Eroi: «non — bagno». Poll. Χ 78 (F, CL) ποδανιπτήρ […] τὸ δὲ ἀπ᾽ αὐτοῦ ὕδωρ νίπτρον ἢ λούτριον (πλυτήριον F) (τὸ — λούτ. om. L) ἢ ποδάνιπτρον, ὡς ἐν Ἥρωσιν Ἀριστοφάνης λέγει. bacinella per lavare i piedi […], e l’ acqua che vi è contenuta (si dice) niptron o loutrion o podaniptron, come attesta Aristofane negli Eroi.
Metro
Tetrametro trocaico catalettico
lwrl lwll lw|lw lwl
Bibliografia Usener 1896, 249 n. 2; Riess 1897, 191; Ginouvès 1962, 74 nn. 3 e 10; Hofmann 1970; Luppe 1971a, 98; Gelzer 1972, 152; Imperio 2004, 56 n. 132.
Ἥρωες (fr. 319)
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Contesto di citazione Il frammento è tramandato da Polluce (VII 167) in una sezione dedicata alle sale da bagno, in cui si dice che l’ acqua del bagno viene chiamata λούτριον, «acqua sporca». Da un altro contesto del lessico di Polluce (X 78), riservato alla descrizione di catini e bacinelle impiegati per le abluzioni dei piedi, si ricava che negli Eroi erano impiegati i vocaboli λούτριον e ποδάνιπτρον per indicare l’ acqua sporca dei bagni. Interpretazione Il frammento sembra contenere una delle prescrizioni relative al culto degli eroi, ossia il divieto di versare acqua sudicia fuori dalla porta di casa: divieto verosimilmente connesso alla credenza superstiziosa, diffusa anche nella cultura germanica, secondo cui la soglia della porta di casa era una delle sedi abituali delle anime dei familiari defunti (vd. Usener 1896, 249 n. 2; Riess 1897, 191, con ulteriore bibliografia). Sulla base del metro (tetrametro trocaico) Sifakis 1971, 48 attribuisce questo frammento, come il successivo (fr. 320), a un epirrema parabatico (vd. in proposito anche Imperio 2004, 56 n. 132): sarebbe dunque pronunciato dal coro degli eroi. μηδὲ … μηδὲ L’ elenco sembra proseguire nel precetto, analogamente introdotto da μηδέ, espresso nel successivo fr. 320, che afferirà verosimilmente al medesimo contesto (vd. supra, ad Contenuto). Per un’ analoga iterazione di μηδέ nell’ ambito di una lunga sequenza di precetti e prescrizioni relative alla vita matrimoniale, cf. Hes. Op. 715–764. ποδάνιπτρον Il termine, che indica l’ acqua che si usa o si è usata per lavare i piedi ovvero l’ atto del lavare i piedi (cf. Eust. in Od. 1867.25, e vd. Ginouvès 1962, 74 nn. 3 e 10), è attestato due volte nell’ Odissea: in XIX 343 e 504. λούτριον Il vocabolo, che designa l’ acqua sporca, e nello specifico lo spurgo dei bagni pubblici (cf. Sud. λ 693 ~ Σ [vet Tr] Ar. Eq. 1401 Jones–Wilson; Hsch. λ 1278 e Phot. λ 409, e vd. LSJ s. v. [I]), è usato da Aristofane anche nel finale dei Cavalieri, laddove, in seguito alla vittoria del Salsicciaio–Agoracrito, Paflagone– Cleone viene allontanato dall’ agorà e condannato a vendere salsicce alle porte della città, a preparare intrugli di carne di cane e di somaro, a insultare le prostitute e a bere l’ acqua di scolo dei bagni pubblici (cf. v. 1401, κἀκ τῶν βαλανείων πίεται τὸ λούτριον, dove λούτριον è correzione di Elmsley 1830, 16 delle forme tràdite contra metrum λουτρόν ovvero λοῦτρον, quest’ ultima documentata anche in Σ [vet Tr] Ar. Eq. 1401 Jones–Wilson, nonché in Sud. λ 693 e in Eust. in Il. 1037.40). Il medesimo termine è poi attestato anche all’ interno di un lemma di un commentario papiraceo (POxy. XXXV 2737 [= TM 59248] = CGFP 56 = CGLP I 1.4, nr. 27, 1.9) alla parabasi di una non meglio nota commedia aristofanea (fr. 590.9), identificata in genere con l’Anagiro (cf. Mette 1968, 534; Hofmann 1970; Übel 1971, 188; Luppe 1971a, 101s.; Id. 1971b, 117s.; Id. 1973, 278–281; Gil 1984–1985; Id. 1989, 60–63; scettico Gelzer 1972, 152 n. 77, che pensa piuttosto al Proagone), nell’ambito di una metafora attinta all’ ambiente dei balnea pubblici ateniesi (su questa controversa attribuzione, e sulla non meno controversa decodificazione della metafora, nella
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quale è stata di solito riconosciuta un’ accusa di plagio letterario, vd. ora Bagordo 2016, 17s., con la ulteriore bibliografia ivi citata). fr. 320 K.-A. (305 K.) μηδὲ γεύεσθ᾽ ἅττ᾽ ἂν ἐντὸς τῆς τραπέζης καταπέσῃ μηδὲ BP: μὴ F τρ. ἐντὸς F
γεύεσθ’ PF: γεύεσθαι Β
ἐντὸς τῆς τρ. καταπέσῃ BP: καταπέσῃ τῆς
non assaggiate ciò che dovesse cadere sotto la tavola D. L. VIII 34 (58 C 3 D.–K.) (BPF) τὰ δὲ πεσόντα μὴ ἀναιρεῖσθαι, ὑπὲρ τοῦ ἐθίζεσθαι μὴ ἀκολάστως ἐσθίειν ἢ ὅτι ἐπὶ τελευτῇ 4 τινος. καὶ (καὶ om. F, del. Ρ ) Ἀριστοφάνης δὲ τῶν ἡρώων φησὶν (φησὶν τῶν ἡρώων F) εἶναι τὰ πίπτοντα, λέγων ἐν τοῖς Ἥρωσι· μηδὲ — καταπέσῃ. ἀλεκτρυόνος μὴ ἅπτεσθαι λευκοῦ κτλ. (Pitagora raccomandava di) non raccogliere quel (cibo) che cadeva (a terra dalla tavola), sia per abituarsi a non mangiare smoderatamente, sia perché (questo) aveva a che fare con la morte di qualcuno. Aristofane, per parte sua, sostiene che quel (cibo) che cade a terra appartiene agli eroi, quando dice, negli Eroi: «non assaggiate — tavola». Un altro dei suoi precetti era quello di non mangiare galli bianchi etc. Sud. π 3124 (IV p. 266.35–40 Adler) ὅτι τὰ πίπτοντα ἀπὸ τῆς τραπέζης μὴ ἀναιρεῖσθαι παρεκελεύετο Πυθαγόρας, ἢ διὰ τὸ μὴ ἐθίζεσθαι ἀκολάστως ἐσθίειν ἢ ὅτι ἐπὶ τελευτῇ τινος. Ἀριστοφάνης γὰρ τῶν ἡρώων φησὶν εἶναι τὰ πίπτοντα, μήτε δὲ τὰ ἐντὸς τῆς τραπέζης πίπτοντα ἀναιρεῖσθαι. μήτε λευκὸν ἀλεκτρυόνα ἐσθίειν κτλ. Pitagora raccomandava di non raccogliere quel (cibo) che cadeva dalla tavola, o per abituarsi a non mangiare smoderatamente, o perché (questo) aveva a che fare con la morte di una persona. Infatti Aristofane dice che quel che cade a terra appartiene agli eroi, e di non raccogliere quel (cibo) che cade dalla tavola. (Pitagora raccomandava anche) di non mangiare galli bianchi etc.
Metro
Tetrametro trocaico catalettico
lwll lwll lwll rwl
Bibliografia
Usener 1896, 248s.; Rohde 1898, I, 245 con n. 1.
Contesto di citazione Il passo è tramandato da Diogene Laerzio in relazione ai divieti e ai precetti impartiti da Pitagora ai suoi discepoli. Il filosofo vietava loro di raccogliere le briciole, cadute in terra dalla tavola da pranzo, sia per abituarli a non cibarsi smodatamente sia per offrire i resti del pranzo agli eroi, ovvero agli spiriti degli antenati protettori del focolare domestico. La Suda ribadisce che l’ interdizione pitagorica era richiamata da Aristofane negli Eroi; e tuttavia, come annotano
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Kassel e Austin (PCG III 2, 178, ad l.), la testimonianza lessicografica contamina le parole di Aristofane, relative al citato divieto, con un altro precetto pitagorico afferente alla proibizione di sacrificare il gallo bianco. Il dettame è menzionato nella testimonianza della biografia pitagorica di Diogene Laerzio, nel prosieguo del paragrafo 34, subito dopo il riferimento agli Eroi di Aristofane, allorché si afferma che «(Pitagora invitava a) non cibarsi di un gallo bianco, perché sacro al Sole e (suo) supplice […], ed è anche sacro al Mese in quanto segnala le ore etc. (ἀλεκτρυόνος μὴ ἅπτεσθαι λευκοῦ, ὅτι ἱερὸς τοῦ Μηνὸς καὶ ἱκέτης […] τῷ τε Μηνὶ ἱερός· σημαίνει γὰρ τὰς ὥρας κτλ.)». Il medesimo divieto riporta Giamblico nella Vita pitagorica: «non si deve 〈sacrificare〉 un gallo bianco, perché è un supplice, sacro al Mese, e perciò (i galli) indicano anche l’ ora (μηδὲ ἀλεκτρυόνα λευκὸν 〈θύειν〉 ἱκέτης γάρ, ἱερὸς τοῦ Μηνὸς, διὸ καὶ σημαίνουσιν ὥραν)» (Iamb. VP 84). Interpretazione Anche questo frammento, come il precedente, sembra contenere un precetto relativo al culto degli eroi, rappresentato dal divieto di raccattare ciò che cade in terra dalla tavola, durante il banchetto, per lasciarlo come pasto alle anime dei defunti. La venerazione degli eroi era inevitabilmente connessa col focolare, luogo cruciale di ogni abitazione, del quale essi erano numi tutelari e presso il quale ricevevano le offerte dei vivi, consistenti nelle briciole cadute durante i pasti (vd. Usener 1896, 248s.; Rohde 1898, I, 245 con n. 1). Che l’ osservanza di un siffatto precetto non fosse limitata alla cerchia pitagorica è confermato da Ath. X 427e: in relazione all’ usanza di offrire agli amici defunti il cibo che cadeva in terra dalle tavole (τοῖς δὲ τετελευτηκόσι τῶν φίλων ἀπένεμον τὰ πίπτοντα τῆς τροφῆς ἀπὸ τῶν τραπεζῶν), il Naucratita cita un passo della Stenebea di Euripide (πεσὸν δέ νιν λέληθεν οὐδὲν ἐκ χερός, / ἀλλ᾽ εὐθὺς αὐδᾷ· “τῷ Κορινθίῳ ξένῳ”, fr. 664 Kn.), in cui si descrive una sorta di libagione offerta a Bellerofonte, vanamente concupito e ora creduto morto, dalla protagonista, pronta a esclamare «All’ ospite corinzio!» ogni qualvolta cadesse accidentalmente qualcosa di mano a lei o a qualcuno dei suoi commensali (vd. Riess 1896, 25s.). Si tratta di situazione tragica più volte parodiata in commedia: un esempio è l’ osceno brindisi di Cratin. inc. fab. fr. 299.4 (τῷ Κορινθίῳ πέει), pronunciato da una donna, intenta al gioco del cottabo, in onore dell’ uomo oggetto del suo desiderio, al quale dedica le gocce di vino rimaste nella coppa (vd. Olson–Seaberg 2018, 14 e 18, ad l.). Altro esempio è la scena di vita domestica di Ar. Th. 401–404, in cui la Donna I (ormai concordemente identificata con Mica) ironizza sul marito che rimbrotta la moglie ogni qualvolta, andando in giro per casa, a lei cada un utensile dalle mani. Il geloso marito, sospettando che la donna rivolga il pensiero all’ uomo di cui è innamorata, le domanda (vv. 403s.): τῷ κατέαγεν ἡ χύτρα; / οὐκ ἔσθ᾽ ὅπως οὐ τῷ Κορινθίῳ ξένῳ («per chi si è rotta la pentola? per l’ ospite corinzio, non c’ è dubbio»; sul passo vd. Austin– Olson 2004, 181). Analoghe credenze sono documentate nella cultura romana: nel celebre excursus dedicato nei capitoli iniziali del libro XXVIII della Naturalis Historia alle superstizioni degli antichi, passando in rassegna le credenze osservate a tavola, Plinio riferisce che il cibo caduto per terra reddebatur, cioè «si restituiva» alla persona dalle cui mani era caduto (oppure, come pare potersi ricavare dalla
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successiva affermazione «in mensa utique id reponi adolerique ad Larem piatio est», lo si dedicava ai Lari), e che era proibito soffiare sul cibo caduto dalle tavole, perché si temeva di disturbare gli spiriti del pavimento con cui il cibo era venuto in contatto (XXVIII 27). Si tratta di aspetti del folklore documentati ancora in età moderna: Rohde 1914–1916, I, 247 n. 2, ricorda la tradizione prussiana che invita a non raccattare i bocconi caduti in terra, nel corso di un pasto, per poterli destinare alle anime dei più poveri, le quali non possono contare su parenti e congiunti che si occupino di loro post mortem. Una tradizione analoga, in Italia, consiste nel lasciare ai defunti gli avanzi della cena nella notte tra il giorno 1 e il giorno 2 del mese di novembre. La consacrazione ai morti degli scarni resti che cadono dalla mensa, e in particolare delle briciole di pane, è tema indagato da Lelli 2012.
fr. 321 K.-A. (307 K.) κἀπὸ τῆς Διειτρέφους τραπέζης r
κἀπὸ Elmsley 1818, 139 : καὶ ἀπὸ ΓEM: καὶ ὑπὲρ V VE: Διιτρέφου M: Διιτρεφοῦς Γ
Διειτρέφους Elmsley: Διιτρέφους
e dalla tavola di Diitrefe Σ (vet) (RVEΓM) Ar. Av. 798b Holwerda ὅτι δὲ ἦν νεόπλουτος, οὗτος ἐνεφαίνετο καὶ ἐν τοῖς Ἥρωσι· καὶ ἀπὸ — τραπέζης. εἰ μὴ ἐν εἰρωνείᾳ (καὶ — εἰρων. om. R). καὶ πανταχοῦ ἅρπαξ καὶ πονηρός. Πλάτων δὲ ἐν Ἑορταῖς (fr. 30) καὶ ξένον (ξένων V)· τὸν μαινόμενον, τὸν Κρῆτα, τὸν μόγις (μόσις V) Ἀττικόν (Πλάτων — Ἀττικόν om. RM). poiché era un parvenu, costui veniva indicato (come tale) anche negli Eroi: «e dalla tavola di Diitrefe». Oppure ironicamente. Anche genericamente come avido e dissoluto. Platone nelle Feste (lo prende in giro) anche come straniero: «il folle, il Cretese, quello (che è) a malapena Attico» (fr. 30). Σ (Tr) (Lh) Ar. Av. 798f Holwerda ὁ Διιτρεφὴς πένης ὢν καὶ πυτίνας πλέκων ἐκ θαλλῶν ἐπλούτησε καὶ φύλαρχος καὶ ἵππαρχος ἐγένετο. πανταχοῦ δὲ ὡς ἅρπαξ καὶ πονηρὸς κωμῳδεῖται· Πλάτων δὲ καὶ ὡς ξένον· τὸν μαινόμενον, τὸν Κρῆτα, τὸν μόλις Ἀττικόν. Diitrefe, che era povero e dedito a intrecciare ceste di vimini, si arricchì e diventò filarco e ipparco. Viene preso in giro genericamente anche come avido e dissoluto: Platone (lo prende in giro) anche come straniero: «il folle, il Cretese, quello (che è) a malapena Attico».
Metro
Tetrametro trocaico catalettico incompleto
(lw)lw lwlw lwll(lwu)
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Bibliografia Brandes 1886, 17s.; Gilbert 1877, 296; Kock 1881–1894, IV, 161; Kock CAF I, 84; Holden 1902, s. v. Διιτρέφης; van Leeuwen 1902, 120, 124; Kirchner 1903, 545; Rogers 1906, 105; Dinsmoor 1941, 164; Schmid 1946, 149 con n. 8; Edmonds 1957, 107; Avery 1959, 130–134; Taillardat 1965, 134–137; Dover 1967, 23; Geißler 1969 [1925], 20, 53; Connor 1971, 92, 156s.; Davies 1971, 428; Sartori 1975, 92; Kassel–Austin PCG IV, 248; Sommerstein 1987, 249s.; Lang 1990, 43, 98s.; Kaibel ap. Kassel–Austin PCG VII, 443; Spence 1993, 74 con n. 162; Dunbar 1995, 484s.; Sommerstein 1996b, 343; Brenne 2001, 134s.; Id. 2002, 51; Imperio 2004, 48s., 431–436; Pirrotta 2009, 108; Storey 2011, III, 105; Zimmermann 2011a, 753. Contesto di citazione e Interpretazione Dagli scolii ad Ar. Av. 798 si ricava che anche negli Eroi Aristofane dileggiava Diitrefe in quanto parvenu: se come tale veniva attaccato dal coro di Uccelli nell’ antepirrema, in tetrametri trocaici, della parabasi, non è da escludersi che nella presente commedia, magari nell’ ambito di un analogo epirrema parabatico in cui era ricompreso questo tetrametro trocaico, egli potesse essere biasimato dal coro di Eroi, forse anche per il mancato rispetto di dettami relativi al trattamento della mensa loro dedicata. 1 Διειτρέφους Diitrefe31 apparteneva a una famiglia di primo piano nella vita pubblica ateniese almeno a partire dal 460 a. C. circa, in quanto probabile figlio di quel Nicostrato, del demo di Scambonide (PA 11051; LGPN II, 339 s. v. Νικόστρατος [146]; PAA 718750, forse = PA 11011; PAA 717980), che fu stratego almeno cinque volte tra il 427 e il 418 (probabilmente nel 427 / 26, 425 / 24, 424 / 23, 423 / 22 e 418 / 17 a. C., cf. Th. III 75.1, IV 53.1, IV 129.2, 130.2; V 61.1; Androt. FGrHist 324 F 41; D. S. XII 72.8, 79.1). Tale Nicostrato di Scambonide è con ogni probabilità il medesimo personaggio menzionato da Aristofane in V. 81, 83, protagonista, assieme a Nicia, della spedizione contro Scione e Mende (cf. MacDowell 1965), ucciso nella battaglia di Mantinea nel 418 (cf. Th. V 74.3). In alternativa, Diitrefe potrebbe essere figlio del fratello di Nicostrato, Ermolico (PA 5163; LGPN II, 159 s. v. Ἑρμόλυκος [8]; PAA 421800)32, pronipote dell’ omonimo Ermolico che diede prova di grande valore nella battaglia di Micale nel 479 a. C. (cf. Hdt. IX 105). Entrambi, Nicostrato ed Ermolico, erano a loro volta figli di quel Diitrefe (PA 3753, 3754; LGPN II, 115 s. v. Διειτρέφης [7]; PAA 323760, 323765, 323770), figlio di Eutino (PA 5653/LGPN II, 169 s. v. Εὔθοινος [16]; PAA 431830, 433940), candidato a ostracismo intorno al 460 (vd. Dinsmoor 1941, 143, 163s.; Vanderpool 1968; ML 21, p. 46; Lang 1990, 43, 98s.; Brenne 2001, 134s. [57 (K)]; Id. 2002, 51), 31
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Ovvero Dieitrefe: la corretta grafia Διει-, ripristinata da Elmsley, nei due contesti aristofanei rappresentati da questo frammento degli Eroi e da Av. 798, in luogo della grafia Διι- tràdita dai mss., è confermata dalla documentazione epigrafica anteriore al I sec. a.C.: vd. soprattutto Meisterhans 1900, 50 e anche Threatte 1980, 301 (16). Questo Ermolico doveva essere particolarmente facoltoso: come suggerisce la sua menzione in IG I3 883 (= DAA 132 hερμόλυκος Διειτρέφος ἀπαρχέν. Κρεσίλας ἐπόεσεν), nella quale risulta dedicatario di una statua, opera del famoso scultore Cresila.
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che fu verosimilmente attaccato da Cratino nel fr. 251 dei Chironi33. Il Diitrefe del frammento aristofaneo (PA 3755; LGPN II, 115, s. v. Διειτρέφης [8]; PAA 323750) fu egli stesso stratego, probabilmente per la prima volta (a giudicare dalla battuta indirizzatagli dal coro in Ar. Av. 800, su cui vd. infra), nel 414 / 13, quando gli fu affidato quel contingente di mercenari Traci che, sulla via del ritorno da Atene, compirono il terribile massacro di Micalesso in Beozia (Th. VII 29s.). Nel 412 / 11, posto dagli oligarchi di Samo a capo della regione tracia, rovesciò la democrazia a Taso e vi instaurò un regime oligarchico, che ebbe tuttavia breve durata (cf. Th. VIII 64.2–5). Poiché dopo quella data non si hanno altre notizie di lui, diverse ipotesi sono state avanzate sulle successive vicende della sua vita: secondo alcuni (cf. PA 3755; van Leeuwen 1902, 124; Kirchner 1903, 545; Dinsmoor 1941, 164; Connor 1971, 156), era ancora attivo nel 408 / 7 come promotore di un decreto per 3 il conferimento della prossenia a un cittadino straniero (cf. IG I 110 = ML 90); ma, come osserva Dunbar 1995, 485, tale ipotesi pare improduttiva in considerazione delle compromissioni oligarchiche del personaggio (e vd. anche Sommerstein 1987, 249, secondo cui, dopo i fatti di Taso, «he may well have become an exile [de facto if not also de jure] at the fall of the Four Hundred»). La menzione di Diitrefe e le notizie di cui disponiamo in relazione alla sua carriera militare e politica costituiscono ovviamente il puntello principale per l’ attribuzione degli Eroi alla fine degli anni Dieci. Nel contesto di Ar. Av. 798–800 (ὡς Διειτρέφης γε πυτιναῖα μόνον ἔχων πτερὰ / ᾑρέθη φύλαρχος, εἶθ’ ἵππαρχος, ὥστ’ ἐξ οὐδενὸς / μεγάλα πράττει κἀστὶ νυνὶ ξουθὸς ἱππαλεκτρυών «del resto Diitrefe, che aveva soltanto le ali delle sue damigiane, è stato eletto filarco, e poi ipparco, sicché, da nessuno qual era, ora gestisce affari importanti ed è diventato un rutilante ippogallo»)34, Diitrefe 33
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Ampia parte della critica (vd. soprattutto Brandes 1886, 17s.; Kock 1881–1894, IV, 161 [ma già Kock CAF I, 84]; Holden 1902, s. v. Διιτρέφης; van Leeuwen 1902, 120; Rogers 1906, 105; Kassel–Austin PCG IV, 248; Sommerstein 1987, 249; Dunbar 1995, 484) ritiene che questo frammento (forse parabatico, vd. Kaibel ap. Kassel–Austin PCG IV, 248, Imperio 2004, 48s.), in cui il coro minaccia di «arrestare e di trascinare presso i giudici del tribunale marittimo i tre sfrontati mostri» (τρία κνώδαλ᾽ ἀναιδῆ; essi sono identificati dallo scoliasta con Diitrefe, Pisia e Osfione; cf. Σ [vet Tr] Ar. Av. 766b Holwerda; Sud. ν 213, π 1641), facesse riferimento allo stratego del 414, accusato di essere straniero e di avere quindi usurpato i diritti di cittadinanza. Ma se, come viene generalmente affermato, i Chironi furono rappresentati fra il 436 e il 431 (cf. Geißler 1969 [1925], 20), è più plausibile che il personaggio attaccato da Cratino fosse un avo (quasi certamente il nonno) dello stratego Diitrefe: per quest’ ipotesi, vd. Geißler 1969 [1925], 20; Edmonds 1957, 107; Avery 1959, 133; Sommerstein 1996b, 343. E in generale su questo frammento vd. ora diffusamente Fiorentini 2022, 110–118. Degno di nota, in Av. 798, il pun (πυτιναῖα … πτερά) tra le ali degli uccelli e le cinghie appese, sui due lati, al collo della πυτίνη, ossia della damigiana di vimini usata specificamente per il vino (cf. Sud. π 3260), dette, appunto, «ali»: cf. Euphron. ap. Σ [vet] Ar. Av. 798b Holwerda. In questo medesimo scolio sono però definite ἀμάρτυρα tanto le precisazioni terminologiche ascritte a Eufronio quanto le notizie relative all’ attività
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è evocato come il prototipo del parvenu che, dall’ essere ‘nessuno’ (cf. v. 799 ἐξ οὐδενός), è giunto a occupare posti di primo piano in ambito militare e politico.35 È un aspetto, quest’ ultimo, che trova riscontro nel profilo che di lui emerge dagli scolii al citato passo degli Uccelli: cf. in particolare Σ (vet) Ar. Av. 798c Holwerda (οὖτος θάλλινα ποιῶν ἀγγεῖα ἐπλούτησε καὶ ἱππάρχησε καὶ ἐφυλάρχησεν) e (Tr) 798f Holwerda (ὁ Διιτρεφὴς πένης ὢν καὶ πυτίνας πλέκων ἐκ θαλλῶν ἐπλούτησε καὶ φύλαρχος καὶ ἵππαρχος ἐγένετο), in cui le parole del coro vengono interpretate come una battuta contro chi, come Diitrefe, in origine povero, ma arricchitosi pro-
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manifatturiera di Diitrefe; ed è in effetti possibile, anche in considerazione dell’ incongruenza sopra rilevata tra le notizie comiche e le fonti storico–epigrafiche relative a questo personaggio e alla sua famiglia, che il riferimento a una siffatta attività fosse semplicemente una comica boutade di cui il coro di Uccelli si serviva per insinuare che l’ ascesa politico–militare di Diitrefe era dovuta all’ arricchimento procuratogli dal possesso di una fabbrica di damigiane: un’ insinuazione del resto perfettamente congruente con il fortunato topos per cui gli uomini politici e/o le loro famiglie sono spesso presentati in commedia come commercianti, artigiani, proprietari di fabbriche e, in generale, titolari di attività banausiche e di scarso prestigio (sull’intera questione vd. ora Imperio 2018, in particolare 522–531, Ead. 2020, 95–99 con passi e bibliografia ulteriori). Un diverso, più complesso, riferimento è colto in πτερά da Taillardat 1965, 134–137, che richiama il significato metaforico di «mantelli militari» attestato, per l’ espressione Θετταλικὰ πτερά, letteralmente «ali tessale», da Fozio (θ 141), per il fatto che gli angoli ai lati dei mantelli militari dei Tessali erano somiglianti appunto ad ali (διὰ τὸ πτέρυγας ἔχειν τὰς Θετταλικὰς χλαμύδας. πτέρυγες δὲ καλοῦνται αἱ ἑκατέρωθεν γωνίαι διὰ τὸ ἐοικέναι πτέρυξιν), e immagina che le ‘ali di damigiana’ attribuite dal corifeo a Diitrefe anticipassero l’ immagine successiva di Diitrefe–Ipparco, le cui ali, implicitamente evocate dall’ immagine dello ξουθὸς ἱππαλεκτρυών, sarebbero rappresentate dai lembi del rosso mantello militare dispiegato al vento durante la corsa: ma sulla complessa associazione mentale che una simile metafora – peraltro non altrimenti attestata all’ epoca di Aristofane – richiederebbe agli spettatori, vd. Dunbar 1995, 485. In questi versi, tratti dall’ antepirrema della parabasi, i vantaggi della condizione alata si configurano nella possibilità di percorrere tutti i livelli della milizia: i gradi militari verosimilmente ottenuti da Diitrefe sono elencati infatti secondo una climax che dagli incarichi più semplici conduce a quelli più prestigiosi. La sequenza φύλαρχος–ἵππαρχος, in Av. 799, suggerisce che, secondo il normale iter, Diitrefe sarà stato prima eletto a comandare una delle dieci divisioni di φυλαί della cavalleria ateniese, poi come uno dei comandanti annuali (solitamente due: cf. Dem. 4.26, [Arist.] Ath. 61.4 e Poll. VIII 94; eccezionalmente tre dalla metà del V secolo: cf. IG I3 511 = DAA 135, e vd. Spence 1993, 14s.) dell’ intera cavalleria, che nel 431 a. C. ammontava a mille uomini (cf. Th. II 13.8; Ar. Eq. 225). E se come filarco sarà stato eletto tra i membri della tribù di appartenenza, la sua elezione a ipparco sarà avvenuta invece per votazione di tutti i cittadini (vd. Spence 1993, 10, 326): il che conferma – come del resto lascerebbe intendere anche la battuta dei padri, riferita da Pisetero nei su citati vv. 1442s. – che la carriera equestre di Diitrefe sarà stata coronata dal successo. Sulle differenti interpretazioni (derivanti dall’ incerta paradosis, divisa, nel v. 799, tra ὥστ᾽ ed εἶτ᾽) dei vv. 799b–800, vd. Imperio 2004, 435s., ad l.
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ducendo damigiane di vimini, è diventato ipparco e filarco. Si vedano altresì Σ (vet Tr) Ar. Av. 798 b, d, oltre che, ancora, Σ (Tr) 798f, dove, appunto a partire da una siffatta esegesi del verso, Diitrefe viene descritto come νεόπλουτος, e, in aggiunta, ἅρπαξ, πονηρός e πολυπράγμων. Aristofane menziona ancora Diitrefe negli Uccelli (cf. vv. 1442s. δεινῶς γέ μου τὸ μειράκιον Διειτρέφης / λέγων ἀνεπτέρωκεν ὥσθ᾽ ἱππηλατεῖν), caratterizzandolo come appassionato di cavalli e, più precisamente, come uomo malvisto dai padri per essere riuscito a instillare nei figli la passione per la guida dei carri nelle gare equestri: esempio di uomo facoltoso che può permettersi dispendiosi passatempi. Donde l’ipotesi che nel presente frammento degli Eroi probabilmente si insistesse sulla sua recente ricchezza (così Sartori 1975, 92) o lo si dileggiasse come furfante avido di danaro (vd. Gelzer 1970, 1410) oppure si alludesse alla sua attività di banchiere (vd., tra gli altri, Avery 1959, 133, e soprattutto Davies 1971, 428, a parere del quale il frammento attesterebbe l’ esistenza di una banca di Diitrefe, attiva già alla fine del V secolo). Per Kaibel (ap. Kassel–Austin PCG III 2, 178), questo frammento degli Eroi conterrebbe una minaccia rivolta dal coro di eroi a Diitrefe, che, incurante del loro monito (cf. fr. 320), avrebbe gettato per terra i resti della sua mensa; Platone comico, nelle Feste (considerate, anch’ esse sulla base della menzione di Diitrefe, sostanzialmente coeve tanto degli Uccelli quanto degli Eroi di Aristofane [vd., tra gli altri, Kaibel ap. Kassel–Austin PCG VII, 443; Geißler 1969 [1925], 53; Schmid 1946, 149 con n. 8; Avery 1959, 134] o comunque attribuite agli anni Dieci del V secolo [vd., tra altri, Storey 2011, III, 105; Zimmermann 2011a, 753]), lo definisce τὸν μαινόμενον, τὸν Κρῆτα, τὸν μόλις Ἀττικόν (fr. 30), connotandolo dunque come un folle, probabilmente con riferimento a un’ oratoria dai toni violenti e dalla gestualità scomposta, che parrebbe evocata dalla ‘cretesità’ qui attribuitagli (vd. Pirrotta 2009, 108, ad l., con ulteriore bibliografia e più in generale, sulla cretesità come sinonimo di concitazione e aggressività fisica, oltre che verbale, vd. Imperio 2004, 142s., ad Ar. Ach. 665–718)36, e attaccandone l’ origine straniera, secondo 36
Come osserva Dover 1967, 23, «it was common in Greek politics to speak of an adversary as if his appearance, manners and voice were aesthetically objectionable». Svariate interpretazioni sono state fornite in relazione alla qualifica di «folle» conferita a Diitrefe da Platone comico: attribuendogli la prerogativa del μαίνεσθαι, è possibile che il commediografo intendesse alludere a una sua presunta passione per il bere, e assegnargli in tal modo un comportamento proprio degli schiavi (così Sommerstein 1980, 46), ovvero attribuirgli una prerogativa ricorrente nella caratterizzazione comica di politici e di altre personalità pubbliche di età cleoniana, ossia la propensione alla pazzia (così Connor 1971, 92). Analogamente, per esempio, l’ indovino Diopite è definito παραμαινόμενος da Amipsia (fr. 10.3) e ὑπομανιώδης da Teleclide (fr. 7), con probabile riferimento al suo fanatismo religioso: vd. Bagordo 2013, 96–98, ad Telecl. fr. 7, e Orth 2013, 246s., ad Amips. fr. 10.3; il retore Demostrato viene descritto da Aristofane come un folle nell’atto di perorare la partenza della spedizione in Sicilia (cf. Lys. 393–398) e, a stare allo scolio (Γ) a Lys. 397, anche nei Demi di Eupoli (fr. 113) era ricordato per l’ abitudine di urlare come un folle (ma sul dubbio riferimento a Demostrato in questo frammento, vd. ora
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un topos ben consolidato della satira politica dell’ archaia (vd., tra altri, Imperio 2004, 158–160, ad Ach. 704s.). Le testimonianze storiche ed epigrafiche suggeriscono comunque per questo personaggio un’ origine elevata. E del resto, il servizio nella cavalleria, cui Aristofane fa riferimento nell'antepirrema della parabasi degli Uccelli, in quanto attività riservata al ceto aristocratico, induce a ritenere (come osserva Dunbar 1995, 484s.) che la lapidaria espressione ἐξ οὐδενός di Ar. Av. 799 non si riferisca allo status sociale della sua famiglia, ma piuttosto a un arricchimento economico determinato da un’ attività commerciale37.
fr. *322 K.-A. (CGFP *58)
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πρὸς ταῦτ᾽ οὖν, ὦνδρες, φυλακὴν ἔχετε τούς θ᾽ ἥρως σέβεθ᾽, ὡς ἡμεῖς ἐσμεν οἱ ταμίαι τῶν κακῶν καὶ τῶν ἀγαθῶν, κἀναθροῦντες τοὺς ἀδίκους καὶ κλέπτας καὶ λωποδύτας τούτοις μὲν νóσους δίδομεν· σπληνιᾶν βήττειν ὑδερᾶν κορυζᾶν ψωρᾶν ποδαγρᾶν μαίνεσθαι λειχῆνας ἔχειν βουβῶνας ῥῖγος πυρετόν. . . . ] . . [ . . ( . ) ] . κλέπτα[ις] δίδομεν
Olson 2017, 413–415, ad l.); un comportamento da pazzo è attribuito da Eupoli al demagogo Siracosio, il quale, quando parla in pubblico, «corre su e giù per il bēma e guaisce come un cagnolino» (fr. 220.3: su questa immagine, vd. ora Olson 2016, 239–241, ad l.); e lo stesso Cleone viene dileggiato per la voce tonante, la violenza e l’ impetuosità nel concionare e per il comportamento da folle (cf. Cratin. fr. 228; Ar. Ach. 381s., Eq. 137, 166, 218, 251s., 256, 274–276, 304–311, 430s., 487, 626–629, 692, 919–922, 956, 1017s.; V. 35s., 596, 1031–1034; Pax 313s., 320s., 653s., 754–757; Hermipp. fr. *47.7, su cui vd. Comentale 2017, 192–194): sull’ eloquenza focosa e aggressiva di Cleone, stigmatizzata anche nel noto passo di [Arist.] Ath. 28.3, vd., tra altri, Rhodes 1993, 353s., ad l.; Andrews 1994. Su questa discrepanza tra le notizie comiche su Diitrefe, che lo dipingono come νεόπλουτος, e le fonti storico–epigrafiche sulla sua famiglia, che attestano che suo padre (o suo zio) Nicostrato era stato più volte stratego e che suo nonno Diitrefe era stato probabilmente un personaggio di spicco negli anni Sessanta del V secolo, vd. Connor 1971, 156s.
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2 θ᾽ P.Mich. σέβεθ᾽ Merkelbach 1967b: σεβεσθ᾽ P.Mich. 5 κἀναθροῦντες τοὺς ἀδίκους Merkelbach: κὰνὰθρουντες τοὺς αδικου P.Mich. 8 σπληνιᾶν P.Mich. ὑδερᾶν P.Mich. marg. dextr. ὑ[δρω]πιᾶν 9 ποδαγρᾶν P.Mich. 10 λειχῆνας Merkelbach: λιχηνας P.Mich. 11 β`ου´βωνας (ου supra ω scriptum) P.Mich. marg. dextr. ῥῖγος οὐκ ἠπίαλον 12 ταῦ]τ̣α̣ [τοῖ]ς̣ Handley ap. Merkelbach 1968b: τοῖ]ς̣ δ̣[ὲ δ]ὴ̣ Barrett ap. Austin (CGFP *58)
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e così, dunque, uomini, vigilate e venerate gli eroi, perché noi siamo i dispensatori dei mali e dei beni, e sorvegliamo gli ingiusti e i ladri e i teppisti; a costoro infliggiamo malattie: milza ingrossata, tosse, idropisia raffreddore, scabbia, gotta, li facciamo diventare pazzi, facciamo venir loro piaghe ulcerose, bubboni, brividi di freddo, febbre. … ai ladri noi procuriamo
PMich. 3690 (= TM 59253)
Metro Dimetri coriambici B ovvero gliconei anaclastici – i cosiddetti «wilamowitziani» (cf. Wilamowitz 1921, 210–244) o dimetri liberi κατὰ στίχον (cf. Gentili 1972, 141–143; Gentili–Lomiento 2003, 189s.).
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Bibliografia Merkelbach 1967a; Id. 1967b; Id. 1968a; Id. 1968b; Gelzer 1969, 129, A. 13; Id. 1970, 1555; Sifakis 1971, 118 n. 55; Übel 1971, 188s.; Austin, CGFP *58; McNamee 1977, 54 n. 24, 177, 181, 411; Hofmann 1976, 204s.; Grmek 1983, 475–477 [trad. it. 567s.]; Gil 1989, 83; Parker 1983, 243s.; Heinrichs 1991, 192;
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Mertens 1996, 342; Athanassiou 1999, 106–108; Delneri 2000, 113; Trojahn 2002, 188, 192s.; Imperio 2004, 53, 388s.; Olson 2007, 97–99; Labiano Ilundain 2010; Montana 2012, 78; Rodríguez Alfageme 2016. Contesto di citazione Il passo è restituito da un papiro ossirinchita edito da Merkelbach 1967a e poi nuovamente da Austin nel 1973 (CGFP *58); la datazione, fissata nell’ editio princeps al II–III sec. d. C., è retrodatata al I–II da G. Cavallo ap. Mertens 1996, 342. Il frammento è generalmente attribuito alla parodo – o a una sezione ad essa immediatamente successiva oppure alla parabasi (vd. Imperio 2004, 388–390, ad Av. 731–734a) – di una commedia dai più identificata con gli Eroi (a partire dai fondamentali contributi di Merkelbach 1967b; Id. 1968a; Id. 1968b). Riserve su una siffatta attribuzione sono state espresse da Gelzer 1969, 133; Id. 1970, 1555 (e recepite da Gentili 1972, 141), in considerazione della fortuna che il titolo Eroi ha avuto presso numerosi commediografi (vd. supra, ad Contenuto). Il papiro è corredato di note marginali che affiancano il testo sulla destra, nello spazio conservato dell’ intercolumnio. In corrispondenza del r. 8 si legge ὑ[δρω]πιᾶν («essere idropico», «essere affetto da idropisia»), verbo corrente della lingua medico–scientifica almeno a partire da Ippocrate (cf. e. g. Aph. 7.47 [IV, p. 590 Littré]), annotato come glossa del raro ὑδερᾶν (cf. Athanassiou 1999, 107 e vd. infra, ad v. 8). In corrispondenza del r. 11, l’ annotazione ῥῖγος οὐκ ἠπίαλον (nella quale ῥῖγος fungerà verosimilmente da lemma [così Trojahn 2002, 191s.], apposto dall’ annotatore a scongiurare la possibile equivocità del testo e della relativa spiegazione) mira verosimilmente a precisare che ῥῖγος e il successivo ἠπίαλος designano nel testo due differenti stati di infermità (vd. infra, ad. v. 11). Testo Le due proposte di integrazione segnalate in apparato riguardano il v. 12, dove Handley, contando una lacuna di 9 invece che di 8 lettere, legge (seguito già da Gelzer 1969, 123, e più di recente da Rodríguez Alfageme 2016, 36038) ταῦ]τ̣α̣ [τοῖ]ς̣ (κλέπτα[ις]), presupponendo che il verso si riferisca a tutti i malfattori elencati nei vv. 5s. e richiamati dal τούτοις μέν del v. 7, e che in uno o due versi successivi, aperti da una «δέ–clause», venisse poi descritto il trattamento riservato agli uomini giusti, laddove Barrett legge τοῖ]ς̣ δ̣[ὲ δ]ὴ̣ (κλέπτα[ις]) presupponendo che il pronome del v. 7 si riferisca ai soli λωποδύται menzionati nel v. 6, e che la «δέ–clause» del v. 12 si riferisca appunto ai soli κλέπται. Interpretazione Dopo aver richiamato il ruolo statutariamente svolto dagli eroi quali dispensatori di mali e di beni per gli uomini (rr. 3s.), nei successivi versi superstiti viene sviluppata la prima parte dell’ assunto, ovvero il controllo esercitato sui mali: gli eroi non perdono di vista i malfattori e infliggono loro punizioni consistenti in malattie di ogni sorta. L’ elenco delle possibili patologie è realizzato 38
Tra le ulteriori proposte di integrazione prospettate, per essere poi scartate, da Rodríguez Alfageme 2016, 360, si segnala ταῦ]τ̣α̣ [κακ]ὰ̣ (κλέπτα[ις]), che darebbe un dimetro coriambico di forma lkkkllkkl, per la quale viene richiamato il parallelo di Ar. V. 1476.
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nei vv. 8–11 con l’ accumulazione asindetica di sostantivi e forme infinitive di verbi, tutti impiegati come apposizioni di νόσους del v. 7, desunti dal lessico tecnico della medicina (sul cui impiego in commedia vd. almeno Miller 1945; Rodríguez Alfageme 1981; Id. 1995; Casevitz 1983; Zimmermann 1992; Id. 2005; Jouanna 2000; Willi 2003, 79–87; Sonnino 2007 [con particolare riferimento a Eup. fr. 192.7–12, 92–95], e, con particolare riferimento a questo frammento degli Eroi, Labiano Ilundain 2010 e Rodríguez Alfageme 2016). Un parallelo aristofaneo per una siffatta accumulazione verbale viene in genere riconosciuto nella tirata di Strepsiade in Nu. 440–451, allorché questi dichiara di consegnare il proprio corpo al coro di Nuvole perché esse ne facciano ciò che vogliono (vd. Merkelbach 1968a, 154; Gelzer 1969, 125; Austin CGFP, 21): si considerino in particolare i vv. 441s., dove, come potenziali prove corporali comminate dalle nuove divinità, egli menziona l’ essere percosso (παρέχω τύπτειν), il patire la fame (πεινῆν), la sete (διψῆν), l’ arsura (αὐχμεῖν), il freddo (ῥιγῶν) e l’ essere scuoiato come un otre (ἀσκὸν δείρειν). Un concetto analogo Aristofane esprime nell’ unico epirrema della seconda parabasi delle Nuvole (vv. 1115–1130), dove il coro prospetta ai giudici dell’ agone teatrale sia i vantaggi (vv. 1117–1120), derivanti da un giudizio formulato ‘secondo giustizia’ (vv. 1115s.) e dal rispetto nei confronti delle divine Nuvole (vv. 1121s.), sia le punizioni (vv. 1121–1130) che subiranno se opereranno in senso opposto (sul passo, vd. Totaro 2000, 63–67). E si consideri anche il fr. 581, tratto dalle Horai [Stagioni], dove i beni elargiti agli Ateniesi dalle Horai costituiscono la ricompensa per la θεοσέβεια [ἐπειδὴ τοὺς θεοὺς σέβουσιν, v. 13] di cui essi danno prova (vd. Bagordo 2020, 196s., con la bibliografia ivi citata). Ripetutamente studiato (vd. soprattutto Merkelbach 1967a [Id. 1967b, 1968a, 1968b] ma anche Cantarella ap. Merkelbach–Heinrichs–Koenen 1968, 136; Gelzer 1969, 125; Gentili 1972), il frammento è di indubbio interesse per la storia della medicina popolare. Malgrado lo scetticismo di Gelzer (vd. supra, ad Contesto di citazione), propenso a non spingersi oltre un generico riconoscimento della paternità aristofanea, il passo può essere attribuito con buon margine di sicurezza agli Eroi aristofanei, come evidenziato da buona parte della critica (vd. Übel 1971, 167–206; Hofmann 1976, 204s.; Gil 1989, 83; Henrichs 1991, 192s.). Incerto è, come si è detto, se il frammento appartenga alla parodo (o a una sezione alla parodo immediatamente successiva) o alla parabasi: alla parabasi lo assegna Merkelbach 1967b; e di parere analogo è Sifakis 1971, 34, 118 n. 55, il quale lo riconduce, insieme col fr. 102 di Ferecrate, ai Crapatali (nel quale è presente un appello ai giudici perché garantiscano la vittoria alla commedia), un esempio di pnigos conclusivo della sezione astrofica di una parabasi in ‘eupolidei’, laddove, sulla base dell’ affinità metrica con i vv. 41–81 della parodo del Ciclope euripideo, Gelzer (1969, 125), Austin (CGFP, 21) e, più dubitativamente, Kassel–Austin (PCG III 2, 179) preferiscono attribuirlo alla parodo. 1 πρὸς ταῦτ᾽ L’ impiego del sintagma πρὸς ταῦτα seguito dall’ imperativo è spesso documentato in Aristofane sia in relazione a un’argomentazione precedente della quale si traggono le conclusioni, sia nei dibattiti che seguono un cambio di
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personaggio (vd. Merkelbach 1968a, 154; Gelzer 1969, 125; Austin, CGFP, 21; in particolare, Kassel e Austin [PCG III 2, 179] segnalano l’ analogo attacco dello pnigos delle parabasi di Acarnesi e Pace: cf. Ach. 659, dove il successivo imperativo è desunto da una citazione del Telefo euripideo [cf. fr. 918 Kn. e vd. Rau 1967, 187], e Pax 765: vd. Imperio 2004, 154). Su questo stilema, attestato in tragedia anche nella forma πρὸς τάδ᾽(ε), vd. Hutchinson 1985, 95, ad Aesch. Sept. 312. 3s. ταμίαι / τῶν κακῶν καὶ τῶν ἀγαθῶν Νell’ accezione metaforica di ‘dispensatore di beni immateriali’, ταμίας è attestato come epiteto di Zeus, in relazione al suo potere di decidere le sorti delle battaglie, in quanto ‘tesoriere della guerra’ (cf. Il. IV 84 = XIX 224 Ζεύς, ὅς τ᾽ ἀνθρώπων ταμίης πολέμοιο τέτυκται; e vd. LfgrE s. v. ταμίης B 2; e, tra gli altri, Tsagarakis 1977, 11s.; Erbse 1986, 230s.; Coray 2009, 100s., con ulteriore bibliografia). A Zeus è altresì attribuita la prerogativa ascritta in questo frammento agli eroi: quella, cioè, di dispensare agli uomini i beni e i mali, cf. in particolare Il. XXIV 527s. e vd. Brügger 2009, 189s., ad l., con ulteriore bibliografia; in relazione a un siffatto principio di giustizia distributiva, ταμίας è attestato come epiteto di Zeus anche in Platone (cf. R. 379e ταμίας ἡμῖν Ζεὺς ἀγαθῶν τε κακῶν τε τέτυκται). Come garante di giustizia e dispensatore di punizioni tra i mortali Zeus emerge nella celebre descrizione di Hes. Op. 225–247, anticipata da Il. XVI 384–392 (vd. Lloyd–Jones 1983a, 6) e palesemente ripresa da Call. Dian. 122–135 (vd. Erler 1987, e anche Havelock 1978, 201–205). 6 λωποδύτας il termine λωποδύτης designa propriamente il «ladro di vestiti», che aggredisce i passanti per strada o durante un viaggio (cf. Ar. Av. 498). Come tale è caratterizzato il ‘folle eroe’ Oreste negli ‘anapesti’ della parabasi degli Uccelli (v. 712), un contesto che opportunamente Hofmann 1976, 205 metteva in relazione col presente frammento degli Eroi: «was Orestes in jenen einsamen Gegenden den armen Sterblichen auf ihrem nächtlichen Nachhauseweg von den Gelagen antut, gehört zu den […] Maßnahmen der Heroen gegen die Ungerechten – während auf der anderen Seite Orestes in Wirklichkeit einer der Diebe (κλέπται) und Kleiderräuber (λωποδύται) ist, den die echten Heroen so behandeln sollten, wie er als Pseudo–Heros die anderen Leute behandelt!» (e vd. inoltre Henrichs 1991, 192). Nelle Rane (cf. v. 772), Aristofane annovera i λωποδύται, assieme a borseggiatori, parricidi e scassinatori, tra quei malfattori che, nell’ Ade, erano diventati fan sfegatati di Euripide. Erano, come i rapitori e come le molteplici varietà di κλέπται, passibili di arresto (apagōgē), se colti in flagrante, e di pena di morte, se portati in giudizio dinanzi al tribunale preposto degli Undici (cf. Dem. 24.113s.; [Arist.] Ath. 52.1, e vd. Rhodes 1993, 581 ad l.); e assieme ai rapitori e ai profanatori di templi sono menzionati nella lista di criminali elencati in Pl. R. 575b–c e Xen. Mem. I 2.62. 8 σπληνιᾶν Denominativo da σπλήν («milza»), σπληνιάω («ho la milza ingrossata») si iscrive nel novero delle forme verbali che denotano uno stato di infermità, fisica o mentale, segnalato dal suffisso -ιάω (vd. Schwyzer GrGr I, 732, Peppler 1921, 154–156). Si tratta di suffisso interessato a potenzialità comiche che ne hanno progressivamente esteso l’ efficacia, nel linguaggio comune, anche in am-
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biti non propriamente medici (vd. Willi 2003, 85). È questa la più antica attestazione di σπληνιάω, che designerà una patologia equiparabile alla malaria (cf. e. g. Arist. PA 670b9, Pr. 890a10; Plu. Pyrrh. 3.7; Hippiatr. 40.1, e vd. Olson 2007, 99). In Hp. Aph. 3.22 (IV, p. 497 Littré) σπλῆνες sono designate genericamente le infezioni della milza, alle quali si fa riferimento, nella letteratura medica e filosofica, anche con l’ aggettivo σπληνικός (cf. e. g. Hp. Epid. II 2.23 [V, p. 94 Littré] [σπληνικὸν τρόπον]; Dsc. Mat.Med. I 87; Ptol. Tetr. IV 9.3 [τὰ σπληνικά]), che designa anche colui che soffre di dolori alla milza (cf. e. g. Aristo Stoich. fr. 384 von Arnim; Ath. VIII 348e; Geop. XI 30.4), e col sostantivo σπληνῖτις (cf. e. g. Gal. Aphor. 42 [XVIII.1 p. 145.16 Kühn]). βήττειν Denominativo da βήξ («tosse»), il verbo βήττω (o βήσσω) indicherà una patologia affine alla tubercolosi (cf. e. g. Hdt. VI 107.3; Hp. Mul. I 41 [VIII, pp. 98,100 Littré]; Morb. II 52 [VII, p. 80 Littré]; Xen. Cyr. II 2.5, e vd. Olson 2007, 99). ὑδερᾶν Attestato in questo solo frammento comico e presso i lessicografi (Hsch. υ 60 [= Synag. υ 11 = An.Bachm. p. 393.11; Phot. υ 19; Sud. υ 45] ὑ〈δ〉ερῶν· ὑδρωπιῶν), il verbo è glossato dall’ anonimo commentatore del papiro col più usuale sinonimo ὑδρωπιάω (cf. Moer. υ 7: ὕδερος καὶ ὑδρᾶν Αττικοί· ὕδρωψ καὶ ὑδρωπιᾶν Ἕλληνες), che ricorre regolarmente nel lessico medico–scientifico a partire da Ippocrate (cf. e. g. Aër 7 [II, p. 28 Littré], Aph. 7.47 [IV, p. 590 Littré], e vd. Montana 2012, 79). In questa medesima accezione medica è ben attestato l’ aggettivo ὕδερος (cf. e. g. Hp. Int. 22 [VII, p. 220 Littré]; Aristot. EN 1150b 33; Geop. XII 22.7). E altrettanto ben attestata è la forma verbale con cui l’ aggettivo viene glossato da Poll. IV 187 ὕδερος· ὑδεριᾶν (v. l. ὑδερᾶν): cf. e. g. Hp. Coac. 447 (V, p. 684 Littré); Gal. De sanit. V 5 (VI, p. 338 Kühn); Ael. NA III 18, XIV 4; e cf. anche ὑδεραίνω in Hp. Nat.Mul. 2 (VII, p. 312 Littré). 9 κορυζᾶν Impiegato nel significato corrente di «avere il moccio che cola dal naso» (cf. e. g. Arist. Pr. 861a18; Luc. JTr. [21] 15.23), denominativo da κόρυζα, che nel linguaggio medico designa appunto il muco, che gocciola dal naso, prodotto da patologie di raffreddamento (vd. Grmek 1983, 475–477 con n. 96 [trad. it. 1985, 567s.]), il verbo è attestato nell’ attico colloquiale anche nel senso metaforico di «blaterare cose prive di senso» (donde, nell’ it. contemporaneo, l’ epiteto «moccioso» e il verbo «moccicare»), per analogia ai discorsi dei bimbi (e. g. in Pl. R. 343a, dove Trasimaco lo usa a proposito di Socrate, del quale dice ironicamente che dovrebbe prendersi cura una balia, giocando sui due sensi del termine; e cf. anche Men. Sam. 546; Plb. XXXVIII 12.5, e, per le forme intensive, rispettivamente del sostantivo e del verbo, βουκόρυζα e βουκορυζᾶν, Phot. β 224 = Sud. β 422, con la menzione di Menandro [fr. 530]). E ricorrente è in Luciano l’impiego metaforico del sostantivo (cf. e. g. D.Mort. [77] 20, Hist.Conscr. [59] 31, Alex. [42] 20). ψωρᾶν Nel linguaggio medico ψωρᾶν, come l’ equivalente ψωριᾶν, indica l’ essere affetti dall’ infezione cutanea della scabbia (cf. e. g. Hp. Aph. 4.77 [IV, p. 530 Littré]; Pl. Grg. 494c; Dsc. Mat.Med. III 151; anche riferito agli alberi: cf. e. g. Thphr. CP V 9.10, HP IV 14.3).
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ποδαγρᾶν Il verbo, che indica la patologia della podagra, più comunemente nota come gotta (vd. Stamatu 2005, 356–358), è impiegato da Aristofane in Pl. 559, dove tale patologia è indice di uno stato di indigenza, ed è poi ricorrente nell’ attico colloquiale e nella lingua medica (cf., e. g. Pl. Alc.2 139e; Arr. Epict. III 22.73). 10 λειχῆνας ἔχειν Il termine λειχήν, che designa l’ eruzione cutanea, è vocabolo tecnico del lessico medico–scientifico a partire dalla letteratura ippocratica (cf. e. g. Hp. Aph. 3.20 [IV, p. 494 Littré]; Thphr. Sud. 14; Gal. De antid. I 14 [XIV, p. 75 Kühn]; Dsc. II 43, IV 53), ma è impiegato anche da Eschilo in Ch. 281 ed Eu. 785 (= 815). E, a parere di Delneri 2000, 113, appunto il contesto eschileo delle Eumenidi sarebbe parodiato in questo frammento degli Eroi: «gli eroi si proclamano funesti per quei mortali che non li venerino, come le Erinni del passo delle Eumenidi dichiarano di avere il diritto di colpire gli Ateniesi che non hanno assicurato loro giustizia». 11 βουβῶνας Questo, come i due successivi accusativi, dipende ovviamente dall’ infinito ἔχειν del verso precedente. Il termine βουβών designa la parte anatomica del pube (oltre alle ricorrenti attestazioni del Corpus Hippocraticum, cf. e. g. Il. IV 492; Arist. HA 493b9) e, al plurale, anche le ghiandole inguinali (cf. e. g. Pherecr. fr. 28.3; Luc. Tim. [25] 56) e la patologia infiammatoria ad esse collegata (e. g. in Hp. Aph. 4.55 [IV, p. 522 Littré]; e cf. anche Men. Georg. 51). L’ espressione βουβῶνας ἔχειν sarà pertanto equivalente a βουβωνιᾶν, che designa appunto l’«avere le ghiandole inguinali infiammate» come conseguenza del lungo camminare (Grmek 1983, 218 [trad. it. 1985, 146s.]). Il verbo βουβονιάω, assente nella letteratura medica (in riferimento a questa patologia, in Hp. Gland. 8 [VIII, p. 562 Littré] è attestato βουβωνοῦσθαι, e in Gal. Progn. 13 [XIX, p. 566 Kühn] il sostantivo βουβωνίασις), sarà una formazione comica: si trova attestato infatti in Ar. V. 277 (καὶ τάχ’ ἂν βουβωνιῴη), in riferimento al gonfiore all’ inguine che il coro di dicasti, non trovando Filocleone dinanzi alla porta di casa, pronto per andare in tribunale, suppone possa averlo colpito; Lys. 987s. (ἦ βουβωνιᾷς / ὑπὸ τῆς ὁδοῦ;), dove Cinesia chiede dell’ Araldo, che tenta di occultare col mantello il suo evidente stato di eccitazione sessuale, se non si sia procurato un’infiammazione alle ghiandole inguinali per via del lungo viaggio (sull’ effetto comico dell’ impropria assimilazione tra due patologie totalmente differenti, vd. Jouanna 2000, 179); Ra. 1280 (ὑπὸ τῶν κόπων γὰρ τὼ νεφρὼ βουβωνιῶ), dove Dioniso lamenta di essersi procurato un gonfiore ai testicoli (su νεφρώ, «reni», come eufemismo per «testicoli», vd. Sommerstein 1999, 205; Caroli 2017, 364s.) per effetto dei ‘colpi’ poetici con cui Euripide cerca di vincere Eschilo, e in Call.Com. fr. 31, dove potrebbe avere un’ accezione oscena (vd. Bagordo 2014a, 204s.). ῥῖγος Nell’ interpretazione dell’ esegeta, a cui va ricondotta la glossa marginale affiancata a destra del r. 11, nello spazio conservato dell’ intercolumnio (vd. supra, ad Contesto di citazione), il termine era qui impiegato nel significato più comune di «brivido di freddo» e non come equivalente del successivo ἠπίαλος, che nelle tradizioni medica ed erudita designa generalmente: a) il brivido connesso allo stato febbrile, e come tale impiegato dallo stesso Aristofane in Th. II fr. 346, dove
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ἠπίαλος è connotato come πυρετοῦ πρόδρομος (vd. ad loc., e cf. Ach. 1164, dove, in questa accezione, è impiegato il participio di ἠπιαλέω, ἠπιαλῶν, con le glosse di Hsch. η 688 ἠπιαλῶν: ῥιγῶν. τὸ γὰρ πρὸ τοῦ πυρετοῦ ῥῖγος ἡπίαλόν φασιν; e di Moer. η 23: ἡπίαλον: τὸ πρὸ τοῦ πυρετοῦ ψῦχος), e, in coppia con πυρετός, in V. 1038 (τοῖς ἡπιάλοις … καὶ τοῖς πυρετοῖσιν, con Σ [vet Tr] V. 1038a Koster: ἡπίαλος τὸ πρὸ τοῦ πυρετοῦ κρύος; e cf. Hp. Aër. 3 [II, p. 18.6 Littré]: ἡπιάλους καὶ πυρετούς); b) la «febbre accompagnata da brividi», e, in quanto tale, è sinonimo di ῤιγοπύρετος (cf. Σ [vet] Ar. V. 1037 Koster: ἠπίαλοι δέ εἰσιν οἱ ῥιγοπυρετοί; Phryn. PS p. 73.8 de Borries: τὸ δὲ 〈ἠπίαλος〉 […] τὸ καλούμενον ῤιγοπύρετον; Ael.Dion. η 13 ἠπίαλος· ὁ ῤιγοπύρετος = Phot. η 213 = Sud. η 433; Et.magn. p. 434.7s. ἡπίαλος· σημαίνει τὸν ῤιγοπύρετον κτλ.). Entrambe le accezioni convivono in Galeno, che identifica la prima come minoritaria nell’ uso attico (Diff. Febr. II 6 [VII, p. 347 Kühn]: τούτου τοῦ γένος ἐστὶ καὶ ἡπίαλος πυρετὸς ἰδίως ὀνομαζόμενος, ὅταν ἄμα πυρέττουσί τε καὶ ῥιγοῦσι […] φαίνονται δὲ τῶν Ἀττικῶν ἀνδρῶν ἔνιοι καὶ τὸ πρὸ τοῦ πυρετοῦ ῥῖγος οὕτως ὀνομάζοντες). In definitiva, come osservava già Merkelbach 1967a, 98, l’ annotatore (o la sua fonte) avrà voluto chiarire che ῥῖγος e πυρετός «als zwei verschiedene Krankheiten aufzufassen sind, nicht als Kombination (ῥιγοπύρετος), ‘Schüttelfrost’», ma avrà anche voluto escludere l’ equivalenza del ῥῖγος menzionato in questo frammento degli Eroi con il ῥῖγος classificato nella letteratura medica ed erudita come prodromo del πυρετός (cf. Montana 2012, 80, con il richiamo alla testimonianza di Poll. IV 186, dove ῥῖγος e ἡπίαλος «figurano contigui e in questa successione, come termini distinti, nella sezione dei νοσημάτων ὀνόματα»). Sulla tradizione popolare che attribuiva tale stato febbrile a un demone notturno, denominato eufemisticamente Ἠπίαλος (da ἤπιος «dolce»), vd. Caroli 2017, 140s. (con l’ ampia rassegna di testimonianze raccolta in n. 36). fr. 323 K.-A. (308 K.) Σ (R) Ar. Th. 21b Regtuit oἷóν γέ πού ᾽στιν αἱ σοφαὶ 〈ξυνουσίαι〉: καὶ διὰ τούτου φαίνεται ὑπονοῶν Εὐριπίδου εἶναι τὸ σ ο φ ο ὶ τ ύ ρ α ν ν ο ι τ ῶ ν σ ο φ ῶ ν σ υ ν ο υ σ ί ᾳ (συνουσίαι cod.: corr. Bekker). 2 ἔστι δὲ Σοφοκλέους ἐξ Αἴαντος Λοκροῦ (fr. 14 R. ). ἐνταῦθα μέντοι ὑπονοεῖ μόνον, ἐν δὲ τοῖς Ἥρωσιν ἄντικρυς ἀποφαίνεται. καὶ Ἀντισθένης (fr. 196 Prince) καὶ Πλάτων (R. 568a–b, Thg. 125b) Εὐριπίδου αὐτὸ ἡγοῦνται, οὐκ ἔχω εἰπεῖν ὅ τι παθόντες (παρόντες cod.: corr. Burges ap. Porson–Dobree 1820, 95). ἔοικε δὲ ἤτοι πεπλανημένος συνεξαπατῆσαι τοὺς ἄλλους ἢ (ἢ ante συνεξ. habet cod.: transp. Schneider 1838, 4), ὥσπερ ὑπονοοῦσί τινες, σύμπτωσις (συμπτώσεις cod.: corr. Dindorf 1839, 427) 〈γενέσθαι add. Schneider〉 τῷ τε Σοφοκλεῖ καὶ τῷ Εὐριπίδῃ, ὥσπερ καὶ ἐπὶ ἄλλων τινῶν. τὸ μέντοι δρᾶμα ἐν ᾧ Εὐριπίδης ταῦτα εἶπεν οὐ σῴζεται. quanto sono importanti le frequentazioni degli intellettuali: e con ciò (il Parente) sembra sottintendere che l'espressione «s a g g i (diventano) i g o v e r n a n t i c o n l a f r e q u e n t a z i o n e d e i s a g g i» sia di Euripide. Invece è tratta dall’ Aiace Locreo di
Ἥρωες (fr. 324)
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Sofocle (fr. 14 R. ); e tuttavia lì lo si sottintende soltanto, mentre negli Eroi è esplicitato. E Antistene (fr. 196 Prince) e Platone (R. 568a–b, Thg. 125b) pensano che la stessa espressione sia di Euripide, non so sulla base di quali considerazioni. Sembra però o che (ci sia stato qualcuno che), indotto in errore, abbia fatto sbagliare gli altri, oppure, come sospettano alcuni, (che si tratti di) una somiglianza tra Sofocle ed Euripide, come (accade) anche in altri casi. Il dramma nel quale Euripide ha detto queste parole, però, non si è conservato.
Bibliografia
Rau 1967, 160 e n. 64; TrGF IV, 120s., 739; TrGF V.2, 902.
Contesto di citazione Il frammento è citato dallo scoliaste a proposito dell’ espressione αἱ σοφαὶ ξυνουσίαι, riconducibile al Parente di Ar. Th. 21, che, ammirato dall’ erudizione di Euripide, esprime il proprio compiacimento per l’ opportunità di fruire di dotte frequentazioni: donde la valorizzazione della summenzionata espressione, che sembra essere di controversa paternità. Interpretazione È incerto se l’ espressione, di matrice paratragica, debba ricondursi a Sofocle (fr. 14 R.2) o a Euripide (fr. 888b Kn.). Il dibattito (vd. Rau 1967, 160 e n. 64) ha prodotto corposa bibliografia, di cui rendono conto Stefan Radt in TrGF IV, 120s., 739 e Richard Kannicht in TrGF V.2, 902. Kaibel (ap. Kassel–Austin PCG III 2, 179, ad l.) sembra accogliere la seconda ipotesi formulata dallo scoliaste di Ar. Th. 21: «videtur Euripidis versus exstitisse similis quidam velut ἀγαθὸν τυράννοις αἱ σοφαὶ ξυνουσίαι. Non certe erravit Aristophanes nec significavit Sophocleum versum longe diversum».
fr. 324 K.-A. (309 K.) Σ (LRM) Soph. OC 793 Papageorgiou (= p. 41.14 De Marco) δοκεῖ γὰρ ὁ Ἀ π ό λ λ ω ν παρὰ Διὸς λαμβάνειν τοὺς χρησμούς, ὡς καὶ ἐν Ἰφικλεῖ (-είᾳ 2 L) φησί (fr. 313 R. ), καὶ Αἰσχύλος ἐν Ἱερείαις (fr. 86 R.) […] καὶ Ἀριστοφάνης Ἥρωσιν. A p o l l o sembra prendere i suoi oracoli da Zeus, come (Sofocle dice) anche nell’ Ificle (fr. 2 313 R. ) ed Eschilo nelle Sacerdotesse (fr. 86 R.) […] e Aristofane negli Eroi.
Bibliografia
Pearson 1917, 223; Robbins 1986, 319s.
Contesto di citazione Il su citato scolio a Soph. OC 793, a proposito dell’ affermazione con cui Edipo rivendica di saper comprendere molto meglio di Creonte la politica tebana per averla appresa dagli oracoli di Febo e di suo padre Zeus (vv. 791–793), attesta che il ruolo di Apollo come latore della volontà di Zeus per il tramite dei vaticini è documentato anche da Eschilo nelle Sacerdotesse, da Sofocle nell’ Ificle e da Aristofane negli Eroi. Sul tema della φρόνησις di Edipo alimentata dalla conoscenza degli oracoli come Leitmotiv dell’ Edipo a Colono, cf. vv. 97 e 273. Interpretazione In genere Apollo apprende senza intermediazioni da Zeus la sua volontà e se ne fa portavoce (cf. h.Hom. III [Ap.] 132 χρήσω δ᾽ ἀνθρώποισι Διὸς νημερτέα βουλήν; h.Hom. [Merc.] 471s. σὲ δέ φασι δαήμεναι ἐκ Διὸς ὀμφῆς /
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μαντείας, Ἑκάεργε). Di tale volontà si fa poi latore presso gli uomini mediante vaticini: si tratta di un topos assai diffuso in poesia (oltre a Aesch. fr. 86 R., esplicitamente citato dal testimone [… ταῦτα γὰρ πατὴρ / Ζεὺς ἐγκαθίει Λοξίᾳ θεσπίσματα], e a Soph. fr. 313 R.2, dallo scoliaste invece semplicemente menzionato [vd. Contesto di citazione], cf. e. g. Aesch. Eu. 19, 616–618, 713s.; Soph. OT 151, 498s., OC 623), elaborato con pregnante originalità da Pi. O. 8.43s., dove Apollo, interprete di una visione inviatagli da Zeus (ὣς ἐμοὶ φάσμα λέγει Κρονίδα / πεμφθὲν βαρυγδούπου Διός), è rappresentato antropomorficamente come un indovino (su questa caratterizzazione di Apollo come μάντις di Zeus, vd. Robbins 1986, 319s.).
fr. 325 K.-A. (702 K.) z
Phot. α 3404 (z, S ) Ἀ φ ρ ό δ ι τ ο ς· ὁ Ἑρμαφρόδιτος. παραπλήσιοι δὲ τούτῳ καὶ ἄλλοι δαίμονες· Ὀ ρ θ ά ν ν η ς (Ὀρθάνης Synag. B α 2572 [= An.Bachm. p. 173.16s.]), Π ρ ί α π ο ς (hucusque = Synag. B), Α ἰ α κ ό ς, Γ ε ν ε τ υ λ λ ί ς, Τ ύ χ ω ν, Γ ί γ ω ν, Κ ο ν ί σ α λ ο ς, Κ ύ ν ν ε ι ο ς (Κίννιος z z: corr. Papadopoulos–Kerameus) καὶ ἕτεροι (quae sequuntur accedunt ex S ) ὧν καὶ Ἀριστοφάνης μέμνηται Ἥρωσιν. {ἵν᾽} (del. Papad.–Keram.) Ἀπολλοφάνης Κρησίν (fr. 6)· z Ἀσκληπιός, Κύννειος (Κίννιος S : corr. Papad.–Keram.), Ἀφρόδιτος, Τύχων. Φερεκράτης· οὐδ᾽ εἰς Ἑταίρας οὐδ᾽ Ἀφροδίτου πώποτε (fr. 184). A f r o d i t o : l’ Ermafrodito. Vi sono anche altri demoni assai simili a questo: O r t a n n e, P r i a p o, E a c o, G e n e t i l l i d e, T i c o n e, G i g o n e, C o n i s a l o, C i n n e i o e altri, che anche Aristofane menziona negli Eroi. Apollofane (menziona) nei Cretesi (fr. 6) Asclepio, Cinneio, Afrodito, Ticone. Ferecrate (dice): «giammai, né per Etera né per Afrodito» (fr. 184). Macr. Sat. III 8.2–3 3 apud Calvum (FPL fr. 7) Haterianus (aetherianus codd.: Aterianus edd.: corr. Marinone) adfirmat legendum pollentemque deum Venerem, non deam. signum etiam eius est Cypri barbatum, corpore et (sed codd.: corr. Timpanaro 1964, 788; 1978, 544s., cf. Serv. auct. in Verg.Aen. II 632) veste muliebri, cum sceptro ac natura (U, Larcher 1775, 46, cf. Serv. auct. in Verg. Aen. II 632: statura cett.) virili (viri β2), et putant eandem marem ac feminam esse. Aristophanes eam Ἀφρόδιτον appellat. 3
presso Calvo (FPL fr. 7) Ateriano afferma che si dovrebbe leggere «Venere possente dio», non «dea». A Cipro c’ è un sembiante di Venere con la barba, con corpo e abbigliamento femminili, con uno scettro e organi genitali maschili, ed essi la considerano al contempo maschio e femmina. Aristofane la chiama Afrodito.
Bibliografia Toepffer 1889, 301–307; Usener 1907, 17–30; Preisendanz 1924; Herter 1926, 12s., 20–41, 58–61; Id. 1932; Id. 1938, 1692–1698; Id. 1942; Id. 1948; Jacoby ad Philoch. FGrHist 328 F 184; Jacoby ad Krates FGrHist 362 F 2; Moreau 1954, 334 n. 2; Burkert [1977] 2011, 236; Tsantsanoglou 1984, 87s.; Kassel–Austin
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PCG II, 428; Parker 1996, 304; Casolari 2000, 95s.; Konstantakos 2000, 212–214; Diggle 2004, 366s.; Pirrotta 2009, 348–352; Schuddenboom 2009, 43s.; Orth 2013, 386–391; Bagordo 2020, 135 e 161; Mastellari 2020, 67–71. Contesto di citazione Nella testimonianza di Fozio, la figura di Ἀφρόδιτος è identificata con quella di Ἑρμαφρόδιτος. La voce affianca ad essa altri nomi di divinità, «molto simili» (παραπλήσιοι), delle quali le prime due, Ortanne e Priapo, sono menzionate anche da Synag. B α 2572 (= An.Bachm. p. 173.16s.). Importante quindi il riferimento a daimones «altri» (ἕτεροι), verosimilmente analoghi, di cui Aristofane avrebbe fatto menzione negli Eroi. La testimonianza foziana include altresì una citazione dai Cretesi di Apollofane (fr. 6, su cui vd. Orth 2013, 386–391), consistente in un analogo pinax di divinità, tre delle quali (Cinneio, Afrodito e Ticone) già presenti nel precedente catalogo. Segue la citazione di un verso incertae fabulae di Ferecrate (fr. 184), in cui, oltre ad Ἀφρόδιτος, è menzionata Ἑταίρα, epiteto di Afrodite (cf. Ath. XIII 571c, che cita Apollod. FGrHist 244 F 112; Hsch. ε 6481). In relazione a un culto praticato a Cipro nei confronti di una divinità bisessuata, descritta come ipostasi maschile di Venere, Macrobio (Sat. III 8.2) attesta che Aristofane la menzionava col nome di Afrodito. Interpretazione Aristofane, a parere di Fozio, menzionava negli Eroi vari daimones correlati alla sfera sessuale: tra questi, dovevano figurare almeno alcune delle divinità elencate subito prima dal patriarca, a cominciare, evidentemente, da quell’ Afrodito per il quale l’ attestazione aristofanea trova ulteriore giovamento dalla testimonianza di Macrobio. Non è dato sapere, purtroppo, quali divinità (fra le altre definite da Fozio «molto simili», tra quelle prima elencate e quelle da lui genericamente indicate con ἕτεροι) erano evocate da Aristofane. È lecito tuttavia ipotizzare che, anche nel caso degli Eroi, come nelle altre commedie cui Fozio fa riferimento, attingendo ai Cretesi di Apollofane e a un non meglio precisato passo di Ferecrate, più d’ una divinità potesse essere annoverata nel contesto, ad esempio, di un elenco più o meno articolato. Utile, al riguardo, il catalogo di divinità, legate al culto di Afrodite, presente nel fr. 188 del Faone di Platone comico (su questo elenco, nel quale alle divinità sono associati attributi e offerte di chiara valenza oscena e/o afrodisiaca, vd. Casolari 2000, 95s.; Pirrotta 2009, 348–352): qui figurano peraltro due delle divinità menzionate nella testimonianza di Fozio (e Synagog. B α 2572), ovvero Ortanne e Conisalo (vv. 12s.). Da Strabone (XIII 1.12) si ricava che queste divinità priapiche, note ben prima di Priapo, erano diffuse in Attica: «(egli [scil. Priapo] fu venerato come divinità dalle generazioni successive; neanche Esiodo, infatti, conosceva Priapo, che somigliava piuttosto agli attici Ortanne e Conisalo e Ticone e ad altri simili a questi (ἀπεδείχθη δὲ θεὸς οὗτος ὑπὸ τῶν νεωτέρων· οὐδὲ γὰρ Ἡσίοδος οἶδε Πρίαπον, ἀλλ’ ἔοικε τοῖς Ἀττικοῖς Ὀρθάνῃ καὶ Κονισάλῳ καὶ Τύχωνι καὶ τοῖς τοιούτοις)». Una conferma di questa notizia è offerta dalla cospicua presenza di alcune di questa divinità nella commedia di V–IV secolo (sugli ξενικοὶ θεοί in commedia, vd. Orth 2013, 387–389, ad Apolloph. fr. 6; e cf. inoltre i nomi delle divinità egizie Socare e Paamila, menzionati in un frammento dei
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Giganti di Cratino il Giovane forse per ironizzare sulla moda ‘egittizzante’ diffusasi nell’ onomastica ateniese: per questa e altre ipotesi, e, in generale, per l’ interpretazione di questo frammento vd. ora Mastellari 2020, 67–71, ad Cratin.Jun. fr. 2, con la bibliografia ivi discussa). A parere di Tsantsanoglou 1984, 87s., sarebbero stati questi gli ξενικοὶ θεοί contro cui si appuntava la polemica di Aristofane alla quale allude Cicerone nel De legibus, quando riferisce degli attacchi del commediografo contro Sabazio e altri dei stranieri, i quali sarebbero stati sottoposti a giudizio e poi espulsi dalla città (cf. Leg. ΙΙ 37 «novos vero deos et in his colendis nocturnas pervigilationes sic Aristophanes […] vexat, ut apud eum Sabazius et quidam alii dei peregrini iudicati e civitate eiciantur»). Per questa ipotesi, vd. già Moreau 1954, 334 n. 2, che tuttavia pensava, in alternativa, anche alle Lemnie, dove trovava spazio la menzione della dea tracia Bendis (vd. infra, ad fr. 384); ma per l’ ipotesi che le considerazioni ciceroniane si riferiscano piuttosto alle Horai (Stagioni), e in particolare al fr. 578, dove proprio il dio Sabazio viene definito «il frigio, l’ auleta», vd. Kaibel ap. Kassel–Austin PCG III 2, 296, ad Horai test. *ii; Mayor 2013, 123; Barrenechea 2018, 40, e ora Bagordo 2020, 185, ad Horai test. *ii). Su queste e altre divinità o entità demoniche priapico–itifalliche vd. in generale Herter 1932; Id. 1938, 1691–1698; Schuddenboom 2009, 43s.; Bagordo 2020, 135 e 161, ad Ar. fr. 567, tratto dal Triphalēs (Triplo fallo), dove, a stare alla relativa testimonianza esichiana (ι 533), Aristofane definiva metaforicamente Hilaones τοὺς φάλητας […] ὡς ὑπερβάλλοντας τῷ μεγέθει, in quanto discendenti da un Hilaōn, eroe, figlio di Poseidone, che (anche in ragione della consentaneità della tematica oscena al titolo della commedia) potrebbe essere da identificare con una divinità priapica. Ἀφρόδιτος Divinità bisessuata, forse originariamente di natura itifallica e poi identificata con Ἑρμαφρόδιτος: nome, quest’ ultimo, che sembra avere la sua prima attestazione letteraria in Thphr. Char. 16.10, la cui paradosis è però dibattuta39. A parte le rare ricorrenze epigrafiche40, attestazioni letterarie del nome del dio si riscontrano in Posidippo (Ἑρμαφρόδιτος era il titolo di una sua commedia, della 39
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Nel citato passo di Teofrasto, la lettura τοὺς Ἑρμαφροδίτους di Siebenkees 1798, 112, che si fonda sulla lezione τοὺς ἑρμαφροδ’τ tràdita da V (Vat. gr. 110, del XIII sec.), ha creato difficoltà per l’ indeterminatezza del nome plurale: donde i numerosi emendamenti proposti (e. g. τοὺς Ἑρμαφροδίτου 〈βωμούς〉 Schneider; Ἑρμᾶς ἐνοδίους Naber; Ἑρμᾶς ῥοδίνοις Diels; Ἑρμᾶς ἀφρονεῖν Steinmetz). Ma a conferma della presenza di questo nome in Teofrasto, cf. Hsch. α 8773 (Ἀφρόδιτος· Θεόφραστος μὲν τὸν Ἑρμαφρόδιτόν φησιν κτλ.) e vd. Ussher 1960, 151 e Diggle 2004, 366. La più antica si ravvisa in un’ iscrizione attica votiva di inizio IV secolo a. C. (vd. Kirchner–Dow 1937, 7s. nr. 5 fig. 4.3; Threatte 1980, 50s. nr. 7; Stupperich 1990, 75s. nr. 67; SEG XL 195bis), riconducibile al basamento di una statua della divinità, il cui testo recita: [Φ]ανὼ Ἑρμαφρω[δί]τωι εὐξαμένη. Due ulteriori attestazioni epigrafiche sono rappresentate da un’ iscrizione del III secolo a. C. (vd. Pugliese Carratelli 1963; Robert 1967, 521), incisa su un altare privato proveniente da Cos e recante una lista di divinità minori raggruppate in quattro diversi gruppi (il secondo gruppo, che comprende divinità della natura, è composto da Ἁλίου Ἁμέρας Ὡρῶν Χαρίτων Νυμφᾶν Πριάπου
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quale resta un solo distico [fr. 12]) e ancora in Titin. fr. 112 Ribbeck; Mart. XIV 174; Alciphr. II 35.1; Hygin. Fab. 271; Aus. Epigr. 102s.; AP (Paul.Sil.) IX 783; AP (anon.) IX 317.5 = HE 3894; Ps.–Luc. Philopatr. [82] 24. Tra le fonti ulteriori, particolarmente interessanti risultano D. S. IV 6.4s. (qui la nascita di Ermafrodito è ricondotta all’ unione di Hermes con Afrodite e la sua iconografia ricondotta a quella di una figura femminile dotata di genitali maschili) e la celebre storia di Salmacide ed Ermafrodito narrata da Ovidio nel IV libro delle Metamorfosi (vv. 285–388): la vicenda è rievocata, con la menzione esplicita di Afrodito, anche nei vv. 15–22 di un epigramma restituito da un’ iscrizione del 150–100 a. C. ca. (SGO I, nr. 01 / 12 / 02 = SEG XLVIII 1330; cf. Pirenne–Delforge 2011), proveniente da Alicarnasso, della quale celebra le glorie locali, mitiche e letterarie, ed è riecheggiata da Str. XIV 1.16 e da Vitr. II 8.11s., senza la menzione esplicita di Ἑρμαφρόδιτος (cf. anche Ov. Met. XV 319; Festus s. v. Salmacis, 329 L.; Vibius Sequester, Font. 152). Si tende a concludere che il culto di Ἀφρόδιτος, in origine praticato a Cipro a partire dal V secolo a. C. (cf. Hsch. α 8773 = Paeo FGrHist 757 F 1, oltre alla su citata testimonianza di Macrobio), si sia diffuso in Attica verso la fine dello stesso secolo (vd. Jacoby ad Philoch. FGrHist 328 F 184; Herter 1926, 59), ma è ipotesi che non convince: la menzione del dio nel presente frammento di Aristofane e nel citato fr. 184 di Ferecrate (οὐδ’ εἰς Ἑταίρας οὐδ’ Ἀφροδίτου πώποτε) autorizza infatti a retrodatarne l’ introduzione ad Atene e a immaginare che «der Kult zur Zeit des Apollophanes in Attika schon gut etabliert war» (Orth 2013, 390, ad Apollophan. fr. 6). Più in generale, su Ἀφρόδιτος/Ἑρμαφρόδιτος vd. Hermann 1890; Jessen 1912; Herter 1926, 58–61; Delcourt 1958; Id. 1966; Burkert [1977] 2011, 236; Ajootian 1990, Ead. 1997; Parker 1996, 345; Robinson 1999, 214–217; Diggle 2004, 366s. ad Thphr. Char. 16.10; Brisson 2008, in part. 41–56. È lecito ipotizzare che il potenziale comico correlato all’ aspetto effeminato di questa divinità (probabilmente sfruttato da Posidippo nella commedia a lui intitolata) abbia contribuito alla progressiva assimilazione delle accezioni dei termini «ermafrodito» e «androgino», che finiranno per diventare sostanzialmente sinonimi (cf. soprattutto Plin. VII 34; Sud. α 2177, e anche Cic. De div. I 98; Liv. XXVII 11.4–5; Plin. XI 262) ed entrambi impiegati come epiteti ingiuriosi (cf. Pl. Smp. 189e; Lucil. XXX 1058; Sud. ε 3028). Ὀρθάν(ν)η Dio priapico della fecondità, anch’ egli bisessuato (Hsch. ο 1175 Ὀρθάνης· τῶν ὑπὸ τὸν Πρίαπόν ἐστι θεῶν, καὶ αὐτὸς ἐντεταμένον ἔχων τὸ αἰδοῖον; Phot. ο 460 Ὀρθάνης· Πριαπώδης θεός· ἐντέτεκται Ἑρμοῦ καὶ Νύμφης; cf. anche Σ Lyc. Alex. 538 [II, p. 193.16s. Scheer]). Dalla su citata testimonianza di Strabone si ricava che, in Attica, Ortanne, come Conisalo e Ticone, fu col tempo assimilato a Priapo allorché, in epoca post–alessandrina, il culto di quest’ ultimo si diffuse in tutto il mondo ellenistico. La grafia del nome è variabile, ma, come nota Hunter
Πανὸς Ἑρμαφροδίτ̣[ου]), e da un’ epigrafe che sembra recare un elenco di divinità e di altre figure mitologiche venerate in un ginnasio ateniese (vd. Clay 1977).
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1983, 165s., in riferimento al titolo di commedia che Eubulo dedicò a tale divinità (Kassel–Austin PCG V, 234–236), entrambe le grafie, Ὀρθάνης e Ὀρθάννης, risultano ben attestate. In particolare, per Ὀρθάνης, documentata (oltre che nei su citati passi di Synag. B α 2572 = An.Bachm. p. 173.16s., di Fozio [nelle recensiones g e z] e di Esichio) dal testo (emendato) di Lyc. Alex. 538, dal cod. A di Ath. III 112e (ὀρθάχνῃ si legge invece in VI 228f) e da Str. XIII 1.12, vd. Bechtel 1917, 41. In favore della seconda grafia si esprime Theodoridis 1982–2013, III, 101, ad Phot. ο 460, in linea con Kassel–Austin PCG III 2, 180. Essa è documentata da fonti di tradizione indiretta (alcune delle quali già ricordate, come il testimonium del Fozio zavordense e Pl.Com. fr. 188.12, e inoltre dal cod. A di Ath. III 105f, 108b, 108d, X 424b, 441f, che tramanda il su citato frammento di Platone comico) e da IG XII 8 52.2, 4, che attesta peraltro l’ esistenza di un culto di Ortanne sull’ Imbro ancora nel II secolo a. C. (vd. Peek 1969, 104s., ad nr. 209). Un gioco di parole sul nome proprio Ὀρθαγόρας, nel quale la componente ὀρθ- («duro», «diritto», «eretto») evoca il fallo di cuoio, è realizzato da Aristofane in Eccl. 916, dove la Giovane invita la Vecchia a chiamare «l’ Ortagora» (τὸν Ὀρθαγόραν), col quale potrà darsi piacere. Più in generale, su Ortanne, vd. Preller–Robert 1894, 735–737; Höfer 1902; Herter 1926, 20–23; Id. 1938, 1693; Id. 1942, 1433.7–1434.18. Πρίαπος È il celebre dio itifallico della fertilità degli animali e della vegetazione, personificazione del potere fecondante della natura e in tal senso assimilato spesso a Pan o a Sileno, nonché a vario titolo integrato nei misteri orfici e dionisiaci, e talora presentato come figlio di Dioniso e di una qualche ninfa, o più spesso di Dioniso e Afrodite (cf. e. g. Paus. IX 31.2; D. S. IV 6.1, e vd. Collin 2014, 115–135). Alla sua figura è intitolata una commedia di Senarco (PCG VII, 798–799); per la bibliografia, amplissima, mi limito a rinviare a Cumont 1907; Herter 1932; Id. 1954; O’ Connor 1989. Αἰακός Poco perspicua la ragione per la quale nel presente elenco di divinità itifalliche figuri anche Eaco, figlio di Zeus e della ninfa Egina (vd. Toepffer 1893; Boardman 1981). Si tratta infatti di uomo giusto e pio per antonomasia, arbitro nelle contese tra i Greci e loro interprete presso gli dèi. Per la sua saggezza fu elevato, dopo la morte, assieme a Minosse e Radamanto, al ruolo di giudice delle anime dei morti, noto anche nel dramma attico (in particolare nelle Rane di Aristofane [cf. vv. 464ss.] e forse anche nel Piritoo di Crizia [cf. TrGrF 43 F 1] come portinaio dell’ Ade). È forse lecito ipotizzare che la sua collocazione nel mondo degli Inferi lo accostasse a quella dimensione orfico–dionisiaca che nel presente catalogo pare evocata da divinità come Priapo e Gigone (su cui vd. infra). Γενετυλλίς Dea della procreazione, di origine straniera (cf. Σ Paus. I 1.5 [p. 146 Spiro]), altrove evocata da Aristofane in stretta associazione a erotismo e sessualità femminili e/o con altre divinità straniere (cf. Nu. 52, Lys. 2 e Th. 130 con i relativi scolii). La dea è spesso menzionata al plurale (Γενετυλλίδες) come gruppo di δαίμονες (cf. e. g. Paus. I 1.5, che associa le dee dette Γενετυλλίδες alle dee Γενναΐδες venerate dai Focei della Ionia). Ad Atene il suo culto era associato a quello di Afrodite Coliade, venerata presso l’ omonimo promontorio, nei pressi del
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Falero, a sud di Atene, sul quale era stato eretto un grande santuario (cf. Plu. Sol. 8.4). Proprio l’ associazione tra Γενετυλλίς e Κωλιάς spiega probabilmente perché talora l’ espressione Κωλιάδες designi al contempo Κωλιάς e le Γενετυλλίδες sue compagne (cf. e. g. Alciphr. II 8.2; Luc. Pseudol. [51] 11; Ps.–Luc. Am. [49] 42, con scolio ad l., e vd. in generale Durbach 1900); su Γενετυλλίς / Γενετυλλίδες cf. anche Hsch. γ 343, 345; Sud. γ 141, e vd. Jessen 1910; Graf 1998a. Κονίσαλος Altra divinità itifallica associata al culto di Priapo, menzionata da Aristofane anche nella Lisistrata (v. 982 τίς δ’ εἶ; πότερον ἄνθρωπος ἢ Κονίσαλος) con riferimento all’ erezione dell’ araldo spartano (il relativo scolio chiosa: δαίμων πριαπώδης ὁ Κονίσαλος· ἐκ τοῦ μὴ ὀκνεῖν καὶ ἐπὶ κόνεως μίγνυσθαι; e cf. anche Et.magn. p. 528.53, dove il termine κονίσαλος indica l’ organo genitale maschile). Platone comico ne fa menzione nel fr. 188, tratto dal Faone, subito dopo Ortanne (al v. 13), con esplicito riferimento ai suoi testicoli. Alla stessa divinità intitolò una commedia Timocle, su cui vd. Apostolakis 2019, 277–280. Il termine κονίσαλος (probabilmente derivato da κόνις, «polvere», e σάλος, «movimento agitato»), ripetutamente attestato nell’ Iliade (e. g. III 13; V 503; XXII 401), come nome comune per designare la «nuvola di polvere» (vd., tra altri, Frisk GEW e Chantraine DELG, s. v. κόνις), designava originariamente forse una danza satiresca dai movimenti osceni e scomposti (cf. Hsch. κ 3522; IG XII 3 540 (?), da Tera, e vd. Wilamowitz 1931–1932, I, 279 n. 1). Come nome della divinità, Conisalo è stato ricostruito in IG XII 4 I, 276.10 = Iscr. di Cos ED 140.10 ([ἐς Κονί]σαλον βοῦς), su cui vd. Herter 1932, 23, 59. Al plurale, è attestato come epiteto in Hsch. κ 3521 (Kονίσαλοι· Ἀφροδισιακοί), dove probabilmente «pluralis dictus de hominibus Κονισάλου similibus» (K. Latte ad loc.). Su Conisalo, oltre al citato passo di Str. XIII 1.12, cf. Sud. κ 2040 (Κονίσαλος: κονιορτός. ἢ Κονίσαλος, δαίμων Πριαπώδης· ἐκ τοῦ μὴ ὀκνεῖν καὶ ἐπὶ κόνεως μίγνυσθαι. καὶ Κονισάλεος); vd. inoltre Stoll 1894; Adler 1922; Herter 1926, 24–29. Κύννειος Il culto di Apollo Kynneios era ricondotto al figlio di Apollo e della ninfa del monte Parnete Kynnēs (cf. Phot. κ 1210 = Sud. κ 2706); il sacerdote del culto apparteneva alla stirpe attica dei Κυννίδαι (cf. Hsch. κ 4592 ~ Et.magn. p. 545.51s.). Per quanto la testimonianza di Phot. κ 1210 tenti di sostenere un’ origine attica di questa divinità a partire dal sacerdozio dei Κυννίδαι, il culto di Apollo Kynneios risulta documentato anche a Corinto (IG IV 363) e a Temno, in Asia Minore (cf. Plb. XXXII 15.12); in generale, su questa divinità, vd. Toepffer 1889, 301–307; Mayer 1894; Herter 1926, 12s.; Hepding 1924; Jacoby ad Krates FGrHist 362 F 2; Parker 1996, 304; Orth 2013, 390, ad Apollophan. fr. 6. Se ricondotto all’ etimo di κύων («cane»), che, sia in ambito comico (cf. Ar. Lys. 158, con relativo scolio; Pl.Com. fr. 188.16 dove Κύνες e Κυνηγέται [«Cani» e «Cacciatori»] vengono menzionati, dopo Ὀρθάννης e Κονίσαλος, in quell’ elenco di divinità priapiche – che la persona loquens invita le donne a venerare con speciali tipologie di offerte – che annovera di seguito Λόρδων, Κύβδασος e Κέλης, su cui vd. il su citato commento di Pirrotta), sia in ambito epigrammatico (cf. AP [Marc.Arg.] V 105.3s. = GP 1331s.; [Strat.] XII 225.2), è impiegato per designare il membro
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virile e diventa poi termine slang per designare genericamente i genitali maschili, il nome di questa divinità avrà potuto essere risemantizzato in senso osceno: vd. Herter 1926, 12s., contra Toepffer 1889, 303. Τύχων Presso Cherobosco (in Theodos. Can., GG IV 1, p. 274.7s. Hilgard), Τύχων è definito δαίμων περὶ τὴν Ἀφροδίτην; il nome di questa divinità deriva da τυχεῖν, «im Sinne des glücklichen Erfolges abgeleitet» (Herter 1948, 1700.31s.). Dal passo su menzionato di Strabone sembra potersi ricavare che si trattava di divinità itifallica, ormai recepita come attica (vd. Orth 2013, 391, ad Apollophan. fr. 6), solo più tardi identificata con Priapo (cf. e. g. D. S. IV 6.4) e con Hermes (cf. Herter 1948, 1699.7–64). Per le testimonianze su questa divinità, vd. Usener 1907, 17–30; Preisendanz 1924; Herter 1926, 30–41. Non è possibile stabilire se il titolo Στρατιώτης ἢ Τύχων, tramandato per una commedia di Antifane, implicasse un riferimento al nome di questa divinità o fosse un nome proprio di persona, peraltro adatto a un soldato: vd. Kassel–Austin PCG II, 428 e Konstantakos 2000, 212–214, con bibliografia. Γίγων Questo nome è attestato come soprannome di Dioniso, probabilmente il Dioniso dei Macedoni, dal nome Γιγωνίς di una montagna situata tra Pellene e la Macedonia, o dai giganti (che la abitavano) oppure dal nome del fiume Γίγας (cf. Et.magn. p. 231.26–28, s. v. Γιγωνίς: ἄκρα μεταξὺ Μακεδονίας καὶ Πελλήνης. καὶ Γιγὼν ἐντεῦθεν ὁ Διόνυσος εἴρηται, ἀπὸ τῶν γιγάντων. ἢ ἀπὸ τοῦ ῥέοντος ποταμοῦ Γίγαντος; e vd. Lobeck 1829, 292), vd. Tümpel 1910, ma può forse essere più agevolmente identificato con quello di un demone itifallico, che in Cyr. Lex. ap. An.Par. IV, 181.5 è individuato come paredro di Afrodite, ed è meglio noto come Γιγ(γ)ρών (Phot. γ 118: Γιγγρών· ἀφροδισιακὸς δαίμων; Eust. in Od. p. 1880.64: Γιγρών, Ἀφροδισιακός φασι δαίμων, e p. 1599.1: Γιγγρών, δαίμων φησί, διακονήσας τῇ τῆς Ἀφροδίτης μοιχείᾳ [= Paus.Gr. γ 7], con cui cf. Hsch. γ 560 Γιγγρών [Γιγνῶν cod.], οἱ δὲ Γιγῶν. Πάταικος ἐπιτραπέζιος. οἱ δὲ Αἰγύπτιον Ἡρακλέα; e vd. Herter 1938, 1696.45–68). fr. 326 K.-A. (312 K.) Poll. VII 16 (FS, Α, BC) ἀ ν δ ρ α π ο δ ώ ν η ς (ἀνδραποδώδης Α) δ᾽ εἴρηται ἐν τοῖς Ἥρωσι τοῖς Ἀριστοφάνους. a n d r a p o d ō n ē s («mercante di schiavi») si dice negli Eroi di Aristofane.
Contesto di citazione Una parte del VII libro dell’ Onomasticon di Polluce (8–28) è dedicata, come si è detto (vd. supra, ad fr. 316), al lessico del commercio: in un contesto contiguo a quello nel quale è citato il fr. 316 degli Eroi di Aristofane, il lessicografo si sofferma sulla terminologia relativa alla compravendita di beni di ogni genere. Il tema offre quindi l’ occasione per la menzione del presente frammento aristofaneo, ricondotto al lessico dei mercanti di schiavi (οἱ … τὰ ἀνδράποδα
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πιπράσκοντες ἀνδραποδοκάπηλοι): tale figura commerciale, come precisa Polluce, era citata negli Eroi di Aristofane, con la denominazione di ἀνδραποδώνης. Interpretazione Nulla è evidentemente possibile arguire dalla testimonianza di Polluce circa la correlazione del termine ἀνδραποδώνης con gli intrecci e le situazioni sceniche della commedia. ἀνδραποδώνης Il suffisso -ώνης ricorre in vari altri composti comici: cf. Ar. fr. 517.1 (ὀψώνης «approvvigionatore»), Pherecr. fr. 4 (ἰσχαδώνης «compratore di fichi secchi») e Anaxil. fr. 7 (δεκατώνης «esattore della decima»). E di ascendenza comica sembra essere anche la figura del «negoziante (ma in realtà ladro) di frutta» (ὀπωρώνης), di colui, cioè, che al mercato rivendeva, senza averla prima comprata, la frutta sottratta da campagne di altrui proprietà, categoria alla quale Demostene assimila l’ avversario Eschine (vd. Wankel 1976, II, 1154s., ad 18.262). Il suffisso è riconoscibile anche in un termine come σιτώνης, che ad Atene designa l’ ufficiale preposto alla σιτωνία, la gestione dei fondi destinati dallo Stato all’ approvvigionamento di grano nei momenti di crisi (è una carica attestata per la prima volta intorno al 357 a. C. in riferimento a Callistene [cf. Dem. 20.33], nella quale, dopo la disfatta di Cheronea, fu eletto [per votazione] Demostene [cf. Dem. 18.248], e che fu in seguito istituzionalizzata in un team di 10 [e poi 12] componenti: vd. Thalheim 1927; Busolt 1920, 433 con n. 1; Finley 1973, 170; Moreno 2007, 294, 335).
fr. 327 K.-A. (313 K.) Poll. VII 21 (FS, A, BC) ἀρτοπόποι (-κόποι Α). Ξενοφῶν (Ξεν. om. B) (An. IV 4.21, HG VII 1.38) δὲ καὶ ἀρτοκόπους ἔφη· τὸ δὲ ῥῆμα τὸ (τὸ — τὸ om. C) ἀρτοκοπεῖν (ἀρτοποπ. corr. Meineke FCG II 1, 591) ἐν Φρυνίχου (καὶ ἀρτ. Φρ. καὶ Ἀρ. C) Μονοτρόπῳ (Μον. om. BC) (fr. 28). ἐν δ᾽ Ἀριστοφάνους Ἥρωσιν ( Ἥρ. om. BC) ἀ ρ τ ο π ο ι ί α . artopopoi («panettieri»). Senofonte, invece, diceva anche artokopoi (An. IV 4.21, HG VII 1.38); e il verbo artokopein («impastare il pane») (è impiegato) nel Solitario di Frinico (fr. 28). (Il nome) a r t o p o i í a («panificazione») (ricorre) invece negli Eroi di Aristofane.
Bibliografia
Blümner 1912, 92; Amouretti 1986, 113–152.
Contesto di citazione In una sezione del libro VII dell’ Onomasticon dedicata al lessico della panificazione (22–24), Polluce attesta che il termine ἀρτοποιία era impiegato da Aristofane negli Eroi. Interpretazione L’ unica attestazione nota della lexis ἀρτοποιός in un autore di V–IV secolo è rappresentata da Xen. Cyr. V 5.39. Sulle tecniche di produzione del pane in Grecia, vd. Blümner 1912, 92; Amouretti 1986, 113–152.
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fr. 328 K.-A. (314 K.) Poll. X 61 (FS, ABCL) καὶ ἡλίσκος ἐπικρούειν τὴν κλεψύδραν· τὸν γὰρ ἧλον καὶ ἡ λ ί σ κ ο ν (ἐπικρ. — ἡλίσκ. om. FS) ἐν Ἥρωσιν Ἀριστοφάνης κέκληκεν. anche il piccolo perno che tappa la clessidra; infatti Aristofane negli Eroi chiama il perno anche hēliskos, «pi c c o l o p e r n o». Phot. η 127 ἡλίσκον· τὸν μικρὸν ἧλον. Ἀριστοφάνης. hēliskon: il piccolo perno. Aristofane. Poll. Χ 188 (FS, ABCL) ἥλους οἱ πολλοὶ καὶ (οἱ πολ. καὶ om. A) ἡλίσκους οἱ κωμῳδοὶ λέγουσιν (κωμ. λέγ. om. A). hēloi («perni») dicono i più e hēliskoi («piccoli perni») dicono i poeti comici.
Bibliografia Lipsius 1905–1915, I, 915s.; Young 1939; Rhodes 1993, 719–721; M. Lang in Boegehold et al. 1995, 77s., 226–230. Contesto di citazione Nell’ ambito di una dettagliata rassegna terminologica sugli σκεύη δικαστικά (la strumentazione utilizzata dai dicasti), Polluce (X 61) attesta che il termine ἡλίσκος era impiegato da Aristofane negli Eroi. All’ impiego del termine da parte di Aristofane fa genericamente riferimento anche Poll. X 188, laddove il su citato lemma del lessico di Fozio ne attesta l'uso presso «i comici». Interpretazione Come evidenzia Polluce, il termine ἡλίσκος designava un piccolo strumento usato in tribunale per il funzionamento della clessidra: si tratterà dello strumento ad acqua che scandiva la durata degli interventi nei processi, ormai simbolo dei tribunali ateniesi (cf. Ar. Ach. 693, V. 93, 856–858; [Arist.] Ath. 67.2, con Rhodes 1993, 719–721, ad l.; Lipsius 1905–1915, I, 915s.; MacDowell 1978, 249s.; Todd 1993, 130–132). Un esemplare di clessidra ad acqua della fine del V secolo a. C. è stato ritrovato nell’ agorà di Atene: vd. Young 1939; M. Lang in Boegehold et al. 1995, 77s., 226–230.
fr. 329 K.-A. (315 K.) Harp. π 123 (p. 265.16 Dindorf) π υ ε λ ί δ α τὸ ὑφ᾽ ἡμῶν λεγόμενον σφραγιδοφυλάκιον. Λυσίας ἐν τῷ κατ᾽ Εὐφήμου (or. 62 fr. 124 Carey) καὶ Ἀριστοφάνης Ἥρωσιν (οὕτως Λυσίας καὶ Ἀριστοφάνης epit., unde Phot. π 1510 = Sud. π 3117). p y e l i s è ciò che noi chiamiamo l’ incavo in cui è incastonato il sigillo. Ne fanno menzione Lisia nell’ orazione Contro Eufemo (or. 62 fr. 124 Carey) e Aristofane negli Eroi.
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Bibliografia
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Blümner 1884, 312.
Contesto di citazione Da Arpocrazione l’ impiego del termine πυελίς è ricondotto alla perduta orazione lisiaca Contro Eufemo e agli Eroi di Aristofane. Nella glossa tramandata nell’ epitome del lessico, da cui dipende Phot. π 1510 = Sud. π 3117, il titolo della commedia è omesso. Interpretazione La testimonianza di Arpocrazione fa riferimento alla tecnica dell’ incastonatura di un sigillo forgiata sulla base degli anelli, sulla quale veniva creato un incavo, detto appunto πύελος o πυελίς (cf. Poll. VII 179 e vd. Blümner 1884, 312). Ad anelli muniti di castone fanno riferimento rari luoghi letterari (per la scarna documentazione, anche iconografica, relativa a questo genere di sigilli nel V secolo a. C., cf. Boardman 1970, 235–238): Platone vi accenna nella Repubblica, in riferimento al magico anello, dotato del potere di rendere invisibile chi ruotava il castone verso di sé, sottratto da Gige, l’ antenato di Creso, pastore dell’ allora sovrano di Lidia, al defunto che giaceva all’ interno del cavallo di bronzo scoperto in una voragine apertasi nella terra mentre pascolava il gregge (R. 359e–360b; su questo passo, variante platonica della novella erodotea di Gige e Candaule, in relazione al topos del potere magico della pietra che consente di vedere senza essere visti, vd. ora Macrì 2018, 126 n. 194). Nel dramma attico, si registrano riferimenti sia in tragedia sia in commedia: nell’ Ippolito euripideo, i τύποι … σφενδόνης χρυσηλάτου (v. 862) si riferiscono alle fogge del castone dell’ anello d’ oro di Fedra recante il sigillo riconosciuto da Teseo (vd. Barrett 1964, 327, ad l.). Anelli con castone sono menzionati tre volte in Aristofane: l’ uso di anelli con sigillo è associato nelle Nuvole (v. 332) alla moda filospartana di portare i capelli lunghi (cf. Ar. Eq. 580 e vd. Imperio 2004, 242s.); in un frammento delle Tesmoforiazuse II, il riferimento cade nel punto in cui il poeta passa in rassegna l’ infinita varietà di orpelli femminili (vd. infra, fr. 332.12). Altrettanto dicasi di Eccl. 632, dove l’ ostentazione di questo genere di anelli è stigmatizzata come uno status symbol di ricchezza e indice di forma mentis aristocratica. Analoga valenza ha la σφραγίς in un frammento dei Plousioi (Ricconi) di Antifane, dove del ricco venditore di pesce Eutino vengono evidenziati i sandali, il sigillo e l’ esser tutto profumato; cf. fr. 188.2: σανδάλια καὶ σφραγῖδα καὶ μεμυρισμένος (su cui vd. Olson 2022, 332).
fr. 330 K.-A. (316 K.) Ath. IX 409c Ἀριστοφάνης δ᾽ ἐν Ἥρωσι χ ε ρ ν ί β ι ο ν εἴρηκεν. Aristofane negli Eroi ha usato il termine c h e r n i b i o n (catino).
Bibliografia Meisterhans–Schwyzer 1900, 53; Ginouvès 1962, 316 e n. 3; Sparkes 1975, 132 con fig. XVc; Olson 2016, 77s.; Id. 2017, 441s.
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Contesto di citazione L’ uso aristofaneo del termine è evocato da Ateneo con riferimento all’ abitudine di lavarsi le mani, prima e dopo i pasti o in occasione di sacrifici e libagioni, e alle modalità e al lessico correlati a tale pratica (IX 408b– 410e). Vedendo arrivare tra i convitati l’ acqua per le mani (ὕδωρ ἐφέρετο κατὰ χειρῶν), il ‘deipnosofista’ Ulpiano (408b) s’ interroga sull’ impiego, presso gli antichi, del termine χέρνιβον, che al suo tempo designava il catino contenente appunto l’ acqua per lavare le mani (vd. infra). A lui risponde un non meglio identificato interlocutore: dopo aver documentando un siffatto impiego già nell’ Iliade (di cui cita i vv. 302–304 del XXIV libro), questi precisa che gli scrittori attici usavano la forma χερνίβιον (408c: εἰ τὸ χέρνιβον εἴρηται […] Ἀττικοὶ δὲ χερνίβιον λέγουσιν), variante per la quale è citato il passo di un’ orazione Contro Alcibiade, attribuita erroneamente a Lisia, da ricondursi in realtà ad Andocide (4.29). E più avanti (409c), nell’ ambito di una ulteriore riflessione sulla corretta accentazione della forma kerniba (accusativo dal nominativo χέρνιψ, su cui vd. infra), il medesimo interlocutore ricorda l’ impiego di χερνίβιον negli Eroi di Aristofane, senza tuttavia specificarne il contesto. Interpretazione Accanto a χερνίβιον, diminutivo di χέρνιβον, che denomina il catino contenente l’ acqua per le abluzioni e le aspersioni sacrificali (cf. e. g. Stratt. fr. 1.39; fr. com. adesp. 1072), è attestata la forma χερνιβεῖον, documentata con certezza in Antiph. fr. 67 e nelle iscrizioni attiche (cf. IG II2 1400.41, 50s., 1413.1, 1415.1s., e vd. Meisterhans–Schwyzer 1900, 53). Nella forma χερνιβεῖον, da ripristinare secondo K. B. Hase (in ThesGrL IX, 1451D) anche nel frammento aristofaneo, l’ utensile è menzionato da Ginouvès 1962, 316 con n. 3, e da Sparkes 1975, 132 con fig. XVc. Nel medesimo contesto di Ateneo (IX 408d) sono registrati come sinonimi i termini χειρόνιπτρον (con rimando a Eup. fr. 129, su cui vd. Olson 2017, 441s.; cf. anche Eup. fr. 169 con Olson 2016, 77s.) e χειρόνιβον (con la citazione di Epich. fr. 68.2). Questi e altri vocaboli (ad esempio, il sostantivo χέρνιμμα, «lavaggio delle mani» [cf. Philonid. fr. 16] o il verbo χερνίπτομαι, «lavarsi le mani con acqua lustrale» o «aspergere la vittima con acqua lustrale» [cf. e. g. Il. I 449; Eur. IT 622; Ar. Pax 961; Lys. 6.52; Lycophr. Alex. 184]) sono derivati da χέρνιψ (da χείρ + νίζω). Il termine designa l’ acqua lustrale con cui, prima di un sacrificio, gli officianti si lavano le mani, o l’ acqua in cui gli stessi immergono la torcia rituale per aspergere gli astanti e purificarli. Per metonimia, il termine può indicare anche il catino che contiene il liquido, nonché le abluzioni correlate ai riti purificatori e alle libagioni ai defunti (vd. van Straten 1995, 31–43; e, oltre ai passi citati nel contesto della testimonianza di Ateneo, cf. Od. III 440, 445; Simon. PMG 577 [= F 264a.1, 264b.1 Poltera]; Aesch. Ag. 1037, Ch. 129, Eu. 656; Soph. OT 240; Eur. Alc. 100, El. 792, IT 58, 244, 335, 643, 861, 1190, Ph. 662, Or. 1602, IA 675, 955, 1111, 1479, 1513, 1518, 1569 et al.; fr. trag. adesp. 619.7 Kn.–Sn.; Th. IV 97.3; Ar. Pax 956s., Av. 850, 958, Lys. 1129; Men. Dysc. 440; Dem. 22.78), ma anche semplicemente l’ acqua con cui ci si lavava le mani nelle occasioni conviviali (vd. Slater 1989; per le fonti, oltre a Il. XXIV 304, citato nel contesto della testimo-
Ἥρωες (fr. 330)
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nianza di Ateneo, cf. Od. I 136 = IV 52 = VII 172 = [X 368] = XV 135 = XVII 91; Thgn. 1001). In Ath. IX, 409a–b, l’ interlocutore di Ulpiano sembra intenzionato a correggere l’ accentazione dell’ accusativo di χέρνιψ, che egli trova documentato «presso i tragici e i comici» nella forma χερνίβα «con accento acuto sulla penultima sillaba» (παρὰ μέντοι τοῖς τραγικοῖς καὶ τοῖς κωμικοῖς παροξυτόνως ἀνέγνωσται χερνίβα; seguono le citazioni di Eur. HF. 929 ed Eup. fr. 1441), cui sarebbe però da preferire la forma χέρνιβα, «con accento acuto sulla terzultima sillaba» (χρὴ μέντοι προπαροξυτόνως προφέρεσθαι), che è in effetti quella comunemente attestata (sulla questione dell’ accento, cf. Arcad. p. 94.18s. Barker [= p. 108.6s. Schmidt] [testo anche in GG III 2, 246 Lentz], dove si precisa che le parole terminanti in psi preceduto da iota – tra le quali si menziona appunto χέρνιψ – sono baritone [Τὰ εἰς ψ ἔχοντα ι πρὸ τοῦ ψ βαρύνεται]; e vd. Olson 2017, 132s. che, in linea con gli editori di Eur. HF. 929, non recepisce la forma parossitona dell’ accusativo tràdita per Eup. fr. 14 in Ateneo e stampa a testo la forma proparossitona).
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Dalla medesima fonte dipenderà evidentemente anche Eusth. in Od. 1401.11: παρὰ δὲ τραγικοῖς καὶ κωμικοῖς, παροξυτόνως εὕρηται χερνίβα, con la citazione di Eur. Her. 929; e cf. 1400.59: χέρνιβα δὲ, τὸ κατὰ χειρὸς διδόμενον ὕδωρ. ὅπερ τινὲς παροξυτόνως χερνίβα λέγουσιν ὡς ἀπὸ τῆς χερνὶψ ὀξυτόνου εὐθείας.
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Θεσμοφοριάζουσαι βʹ (Thesmophoriazousai deuterai) (Tesmoforiazuse II)
Bibliografia Thiersch 1832, xxvii; Fritzsche 1838, 575–633; Bergk ap. Meineke FCG II 2, 1074s.; Welcker 1857–1863, II, 505s. e n. 34; Kock CAF I, 472s.; Zieliński 1885, 89; van Leeuwen 1904, xiiis.; Kuiper 1913, 236s.; Rogers 1920, xliii–xlvi; Norwood 1931, 251–253; Murray 1933, 266; Emonds 1941, 317; Schmid 1946, 206; Deichgräber 1956, 20; Arrighetti 1964, 126–128; Geißler 1969 [1925], 69, xvii; Gelzer 1970, 1415s.; Gil 1989, 84s.; Prato 2001, xii–xvii; Carrière 2000, 217–220; Torchio 2000, 33–66; Butrica 2001, 44–76; Id. 2004, 1–5; Austin–Olson 2003–2004, 1–11; Id. 2004, xli–xliv, lxxvii–lxxxiv; Schorn 2004, 294; Karachalios 2006, 1–23; Canfora 2017, 196–215; Lorenzoni 2017, 433–436. Titolo Oltre che dall’ Index Novati (Θεσμοφοριάζουσαι βʹ: Ar. test. 2a.18 = Th. II test. i), l’ esistenza di una seconda commedia aristofanea intitolata Tesmoforiazuse è documentata da Ath. epit. I 29a = Th. II test. ii (testimone anche del fr. 334); ma con la specificazione δεύτεραι – o col numerale βʹ – la commedia è menzionata anche da quasi tutti i testimoni di altri cinque frammenti (δεύτεραι: fr. 340 e fr. 335 nella testimonianza di Harp. ι 7 [p. 267.3 Dindorf]; β´: frr. 349 in Σ [b T] Plat. Cra. p. 421d, 350 e 358). Più spesso i passi frammentari sono ricondotti genericamente alle aristofanee Θεσμοφοριάζουσαι, senza alcuna specificazione numerica (frr. 332, 333, 336, 337, 338, 339, 341, 342, 343, 344, 345, 346.1, 347, 351, 352, 353, 354, 355, 356, 357 e fr. 335 nella testimonianza di Σ vet [E] Ar. Nu. 623b Holwerda). In un caso, forse a fronte dell’ incertezza suscitata dal problema della successione delle due pièces, un testimone parla di Θεσμοφοριάζουσαι ἕτεραι (Σ Ar. Th. 299b Regtuit = fr. 331). Apparentemente isolata è la menzione del dramma non conservato in Heph. Ench. 13.3 (p. 41.11 Consbruch) col titolo di Θεσμοφοριάζουσαι πρότεραι (fr. 348); per quanto anche Clemente Alessandrino (Strom. VI 2.26) riconoscesse ἐν ταῖς πρώταις Θεσμοφοριαζούσαις una non meglio precisata ripresa dai Bruciati di Cratino: ripresa che non è comunque possibile rintracciare né nel testo delle Tesmoforiazuse superstiti né nei frammenti delle Tesmoforiazuse perdute (vd. infra, ad Datazione). Un discorso a sé merita infine la forma aoristica del titolo Θεσμοφοριάσασαι (Th. II, test. ii) coniata, forse scherzosamente, da Demetrio di Trezene (ap. Ath. epit. I 29a = SH 377) come variante del titolo Θεσμοφοριάζουσαι. Tale forma ha indotto a supporre che le perdute Tesmoforiazuse potessero essere una sorta di sequel del dramma superstite e che la vicenda fosse ambientata quando le celebrazioni della festa delle Tesmoforie erano ormai terminate (così Welcker 1857–1863, II, 505s. e n. 34, ma già Thiersch 1832, xxvii, e poi Emonds 1941, 317) e potesse dunque gravitare, come parrebbe suggerito dal titolo, sulle Donne che hanno (già) celebrato le Tesmoforie42. È comunque opinione condivisa 42
Su commedie ‘doppie’ e diaskeuai, e, più in generale, sul fenomeno della riproposizione di propri drammi con titoli omonimi e della revisione di drammi già composti ed
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che Θεσμοφοριάσασαι non possa essere considerata una legittima variante del titolo: come osserva Canfora 2017, 196s. n. 1, essa rifletterà piuttosto il tentativo di stabilire un décalage sul piano del contenuto, alludendo al fatto che la commedia perduta era forse ambientata nel giorno conclusivo della festa. Titoli di commedie analogamente ispirati a nomi di feste religiose femminili le cui partecipanti formavano verosimilmente il coro sono attestati per Platone comico (Αἱ ἀφ᾽ ἱερῶν, «Donne reduci dalla festa sacra»), per Filippide (Ἀδωνιάζουσαι, «Donne che celebrano le Adonie») e per Timocle (Διονυσιάζουσαι, «Donne che celebrano le Dionisie»)43. In generale, sulla caratterizzazione comica delle donne intente a celebrare feste religiose vd. Apostolakis 2019, 50, ad Tim. Διονυσιάζουσαι, Title). Contenuto È communis opinio, come si diceva, che le perdute Tesmoforiazuse fossero ambientate nel terzo e ultimo giorno della festa delle Tesmoforie dedicato a Calligenia44 (cf. Alciphr. II 37.1), divinità prologante del dramma (cf. fr. 331).
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eventualmente rappresentati da parte di tragediografi e commediografi, vd. supra, ad Eirēnē deutera, Contenuto. Incerto invece il caso della commedia aristofanea dal titolo Σκηνὰς Καταλαμβάνουσαι («Donne che occupano le tende»), che non è chiaro se si riferisca a un coro di donne che intendono occupare postazioni per le tende nelle quali accamparsi per partecipare a un festival religioso o non piuttosto teatrale (per quest’ ultima ipotesi, e, più in generale, sulla controversa interpretazione di questo titolo vd. Bagordo 2020, 9s., con la bibliografia ivi citata). Festa femminile diffusa in tutto il mondo greco, le Tesmoforie erano celebrate annualmente in onore di Kore, rapita da Ade e costretta a trascorrere nel suo regno una parte dell’ anno, e di sua madre, Demetra θεσμοφόρος (per l’ interpretazione dell’ epiteto, come «portatrice di legge», cf. Call. Cer. 18; D. S. V 5.2; Σ Luc. DMeretr. 2.1 [pp. 275.23–276.28 Rabe]; Verg. Aen. IV 58 con il commento di Servio e, tra i moderni, di Pease 1935, 135, ad l.), fondatrice dell’ agricoltura, delle istituzioni familiari e civili, nonché custode delle potenzialità generatrici della terra e della donna. I festeggiamenti erano riservati alle sole donne «maritate» (γαμηταί, cf. Ar. Th. 293s., Isae. 3.80, 6.49s.) e «di buona nascita» (εὐγενεῖς, cf. Ar. Th. 329s.), nonché «cittadine» di pieno diritto (ἀσταί, cf. Ar. Th. 541), scelte nel numero di due in rappresentanza di ciascuno dei vari demi (vd. Whitehead 1986, 19s., 163s.). Le Tesmoforie si svolgevano in Atene dall’11 al 13 del mese di Pianepsione (ottobre–novembre): articolate in tre giornate, precedute da un ulteriore momento di festa (giorno 10 di Pianepsione) dedicato alla celebrazione delle Tesmoforie ad Alimunte, demo a sud di Atene (cf. Σ Ar. Th. 80 Regtuit e vd. Austin–Olson 2004, xlvi [con n. 27] e 79, ad Ar. Th. 80). Delle tre giornate, la prima era riservata alla cosiddetta Ἄνοδος, la «Salita» delle donne dall’ agorà di Atene al santuario di Demetra θεσμοφόρος, il Thesmophorion, menzionato nella commedia di Aristofane ai vv. 83, 89, 278 e 880 e localizzato dagli studiosi ora sulla collina della Pnice (soprattutto sulla base dei vv. 657s.) ora all’ interno dell’ Eleusinio, principale centro di culto in onore di Demetra e Kore in Atene, situato sul pendio settentrionale dell’ Acropoli (per la prima ipotesi, vd. soprattutto Thompson 1936; per la seconda vd. Brooner 1942, seguito, tra altri, da Clinton 1996; Miles 1998, 22s.; Dillon 2002, 118s.; Austin–Olson
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A supporto di una siffatta ipotesi viene in genere evocato il fr. 333, nel quale un personaggio sembra lamentare il mancato acquisto di raffinate vivande idonee a rifocillare donne, ormai stanche, nelle quali andrebbero riconosciute le tesmoforianti spossate dalle danze rituali e dal digiuno praticato per tutta la durata del giorno precedente (su tale ricostruzione, fantasiosa e inverificabile, vd. ad l.). Alla sfera culinaria e a un contesto gastronomico–simposiale rinviano specificamente alcuni frammenti: nel 334, un personaggio invita ad astenersi dal consumo di distinte qualità di vino, fra cui anche quella di Pramno; ed è sul fondamento di tale menzione che Bergk (ap. Meineke FCG II 2, 1202) riconduceva alle perdute Tesmoforiazuse un frammento anepigrafo in cui questo stesso vino è menzionato, seppure per veicolare metaforicamente concetti di critica letteraria (fr. 688, su cui vd. infra, ad fr. 334.1). Altro «vino profumato» evoca il fr. 351 e a γυναῖκες εἰς πότον εὐτρεπιζόμεναι è ricondotto il fr. 345. Molto poco si può dire poi del fr. 354, in cui si menziona un particolare tipo di cucchiaio; e su tutt’ altro piano va ricondotto il fr. 347, nel quale il cibo diventa metafora dell’arte comica. Altri frammenti lasciano ipotizzare che la trama potesse implicare una dialettica tra i sessi: si veda la satira contro le donne contenuta nel fr. 332, cui si possono collegare anche i frr. 336, 337, 338 e 355, che contengono riferimenti ad accessori di abbigliamento e di cosmesi femminile. Probabile che tale dialettica comportasse per gli uomini una qualche forma di ostacolo (e dunque di desiderio frustrato) all’ espletamento di atti sessuali (cf. frr. 334 e 344); alla sfera sessuale rinvia d’ altra parte l’ accezione oscena del verbo διαλέξασθαι nel fr. 356. Informazioni più utili si desumono infine dai frr. 339 e 340 (dai quali si ricava che era scenicamente attiva la maschera dello schiavo portatore di bagaglio) e dal fr. 342, che contempla una parodia dell’ Antiope euripidea. Dai frr. 346, 347 e 348 si ricava che la commedia presentava una parabasi extra fabulam, in cui il poeta discuteva di personali vicissitudini legate alla propria 2004, xlvi; sul problema dell’ ubicazione del Thesmophorion ateniese, vd. ora anche Di Cesare 2011). La seconda giornata, detta del «Digiuno» (Νηστεία), si ispirava al rituale osservato per commemorare il lutto della madre Demetra per il rapimento della figlia Kore da parte di Ade. La terza giornata, dedicata a Καλλιγένεια, la «dea dalla bella nascita» (vd. infra, ad fr. 331), celebrava, tra l’ altro, con un banchetto comune la ‘rinascita’ del ciclo riproduttivo. Neanche gli antichi erano però a conoscenza dei dettagli relativi alle fasi e ai riti delle Tesmoforie, probabilmente a causa della segretezza con cui le donne sin dalle origini li tutelarono (cf. Σ Luc. DMeretr. 2.1, pp. 275.23–276.28 Rabe, su cui vd. Rohde 1870). In generale, sulle Tesmoforie, vd. almeno Deubner 1932, 50–60; Parke 1977, 82–88; Brumfield 1981, 70–103; Simon 1983, 18–22; Sfameni Gasparro 1986, 223–282; Dillon 2002, 110–120; Parker 2005, 270–283. Ulteriore bibliografia in Torchio 1999, 103–105; Prato 2001, xvii–xxx; Austin–Olson 2004, xlv–li, in particolare xlv n. 24. Per una ricognizione complessiva delle principali prospettive interpretative della festa, dei vari livelli simbolici dei suoi rituali e dei loro risvolti antropologici, vd. Chlup 2007; con specifico riferimento al significato del digiuno e della castità, nonché della sospensione delle attività giuridiche e legislative ad Atene nel giorno della Nesteia, vd., rispettivamente, Pierre 2008 e Faraone 2011 con ulteriore bibliografia.
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carriera teatrale. Se è impossibile presupporre un qualsivoglia tipo di contesto per i rimanenti frammenti 349, 350, 352, 353 e 357, per converso, a parere di Karachalios (2006, 21), il fr. 335 «provides us with the political dimension of the lost Thesmophoriazusae» (ma vd. infra e ad l.). Che la trama delle perdute Tesmoforiazuse presentasse significative analogie col plot dell’ omonima commedia conservata, al punto da contemplare azioni offensive e attacchi irruenti contro Euripide (e forse anche contro un suo complice, infiltratosi, grazie a un travestimento femminile, tra le Tesmoforianti, dunque alla maniera del Parente nelle Tesmoforiazuse superstiti) è opinione di Butrica 2001, 63, il quale (ricollegandosi a una suggestione di Kuiper 1913, 236s., già presente in Zieliński 1885, 89, e poi ripresa da Norwood 1931, 252s.) si spinge a ipotizzare una vera e propria aggressione fisica da parte delle donne del coro nei confronti del misogino tragediografo. La suggestione trae origine da un passo della biografia euripidea di Satiro (POxy. IX 1176 [= TM 62717], F 6 fr. 39 col. X 1–22 Schorn; cf. TrGF V.1 T Of 110 Kn.) in cui si fa riferimento alla profonda avversione nutrita dagli Ateniesi, uomini e donne, nei confronti di Euripide (ἀπήχθοντ᾽ αὐτῷ πάντες, rr. 1–3). Gli uomini lo avrebbero odiato per la sua indole non avvezza alla socialità (οἱ μὲν ἄνδρες διὰ τὴν δυ[σ]ομιλίαν, rr. 3–6), le donne per il discredito che gettava su di loro nei suoi drammi (α[ἱ δ]ε γυναῖκε[ς δ]ιὰ τοὺς ψόγους τοὺς ἐν τοῖς ποιήμασιν, rr. 7–10). L’ ostilità sarebbe stata così profonda e radicata da suggerire alle donne un progetto criminale fortunosamente fallito: avendo, durante le Tesmoforie, ordito un complotto contro Euripide, esse si sarebbero recate in massa nel luogo nel quale il poeta era solito intrattenersi (αἱ δὲ γυναῖκες ἐπισυνέστησαν αὐτῷ τοῖς Θεσμοφορίοις καὶ ἀθ. ρόαι παρῆ σ]αν ἐπὶ τὸν [τ]όπον ἐν ᾧ [σ]χολάζων [ἐ]τύγχανεν, rr. 23–32). Lo avrebbero tuttavia risparmiato sia per ammirazione nei confronti delle Muse (έφε[ίσαν]το τἀν δρὸ]ς. ἅμα μὲν [αἰδ]ε. σθεῖσα. ι [τὰς] Μούσας, [ ̣ ̣ ̣ ̣] ̣ν ̣[ ̣ ̣]ο̣ς̣ ---, rr. 33–38) sia per un’ altra ragione, purtroppo obliterata da una delle lacune del papiro. Secondo Butrica, il motivo che avrebbe permesso al poeta di salvarsi sarebbe suggerito dal confronto di quanto testé riportato da Satiro con un passo (verosimilmente dipendente da Satyr. F 6 fr. 39 col. X 23ss. Schorn: cf. F *33 Schorn) che figura nel cap. 6 dell’ anonima biografia euripidea conservata dalla tradizione manoscritta (6.7–11 Schwartz = TrGF V.1 T A 1 IV.2 Kn.). Vi si legge che le donne avrebbero risparmiato il poeta anzitutto per ammirazione nei confronti delle Muse e poi anche perché Euripide aveva promesso di non parlar più male di loro (ἐφείσαντο δὲ αὐτοῦ πρῶτον μὲν διὰ τὰς Μούσας, ἔπειτα δὲ βεβαιωσαμένου μηκέτι αὐτὰς κακῶς ἐρεῖν). In un precedente passaggio della biografia di Satiro (F 6 fr. 39 col. IX 1–19 Schorn = TrGF V.1 T Oc 105 Kn.), scenario dell’ episodio è una spelonca, con un’ apertura rivolta verso il mare, presso cui il poeta trascorreva le sue giornate in solitudine – tenendo in dispregio assoluto qualunque cosa non fosse solenne e importante – sempre intento alla meditazione e alla scrittura ([ ̣ ̣ ̣ ̣ ̣] ̣μεν. [ος] δ᾽ [αὐ]τόθι σπήλαιον τὴν ἀναπνοιὴν ἔχον εἰς τὴν θάλατταν, ἐν τούτῳ διημέρ. ευεν καθ᾽ αὑ τ]ὸν μεριμνῶ. ν ἀεὶ τι καὶ γράφων, ἁπλῶς ἅπαν εἴ τι μὴ μεγαλεῖον ἢ σεμνὸν ἠτ. [ι]μακώς, rr. 4–16). Nel precedente capitolo del Βίος καὶ
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Γένος tràdito dai manoscritti si fa analogamente riferimento a una spelonca con un’ apertura rivolta verso il mare, che Euripide allestì a Salamina per trascorrervi tutto il suo tempo, rifuggendo dalla folla (Φασὶ δὲ αὐτὸν ἐν Σαλαμῖνι σπήλαιον κατασκευάσαντα ἀναπνοὴν ἔχον εἰς τὴν θάλασσαν ἐκεῖσε διημερεύειν φεύγοντα τὸν ὄχλον, 5.1s. Schwartz = TrGF V.1 T A 1 III.1.69–71 Kn.). È lo stesso luogo descritto di seguito come l’ antro in cui Euripide trascorreva il suo tempo, immerso nella scrittura45, nel quale le donne lo avrebbero raggiunto, decise a ucciderlo (αἱ δὲ γυναῖκες ἐβουλήθησαν αὐτὸν κτεῖναι εἰσελθοῦσαι εἰς τὸ σπήλαιον, ἐν ᾧ γράφων διετέλει, 5.11s. Schwartz = F *33 Schorn = TrGF V.1 T A 1 III.2.79s. Kn.). Stanti i riferimenti alla condanna a morte del misogino drammaturgo (per cui cf. Ar. Th. 181s., 372ss.) e alla finale rappacificazione (per cui cf. Ar. Th. 1160–1169), una siffatta aneddotica, in genere associata alla trama delle Tesmoforiazuse superstiti46, conterrebbe invece, a parere di Butrica (2001, 64), tracce di un plot riconducibile al dramma perduto. Bisognerebbe pertanto immaginare che le donne, emessa la loro sentenza di morte nei confronti di Euripide, si mettessero in viaggio alla volta di Salamina intenzionate a fare irruzione nell’ antro in cui il poeta abitualmente lavorava per ucciderlo. L’ ingresso in scena di un θεράπων, presentato da uno scolio al v. 3 delle Rane come persona loquens del fr. 340 (nel quale si farebbe riferimento a bagagli pesanti da trasportare e a un «peso sulla spalla»), corroborerebbe l’ ipotesi di «a change of scene from the all–female setting of the Thesmophoria» nel corso della rappresentazione (Butrica 2001, 66s.). L’ ipotesi aprirebbe la possibilità di una duplice identificazione della maschera del servo : 1) come facchino, porteur, ingaggiato come assistente di viaggio dalle Tesmoforianti con l’ incarico di trasferire i loro pesanti bagagli da Atene a Salamina; 2) come schiavo personale di Euripide, con una funzione assimilabile sostanzialmente a quella di un bōmolochos e che evocherebbe il ruolo svolto dal Parente nelle Tesmoforiazuse superstiti. Ingegnosa quanto fantasiosa, la ricostruzione di Butrica è stata convincentemente confutata da Austin e Olson (2003–2004, 10s. = 2004, lxxxviiis.): l’ assenza di alcuni elementi presenti nella corrispondente sezione della Vita di Satiro dimostra che l’ aneddoto riportato dall’ anonimo bios dei manoscritti era sostanzialmente ispirato alla trama
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Cf. la testimonianza di Filocoro (FGrHist 328 F 219) restituita da Aulo Gellio (XV 20.5). In una grotta individuata nei pressi della piccola baia di Peristeria, sulla punta meridionale di Salamina, nel corso di una campagna di scavi condotta tra il 1994 e il 1997 da un team diretto da Yannos G. Lolos si è ritenuto di poter identificare la spelonca cui si fa riferimento nell'aneddotica euripidea, divenuta in età romana (tra II e III sec. d. C.) meta di un vero e proprio pellegrinaggio ‘culturale’ in onore del grande tragediografo ateniese: vd. Lolos 1997 e Blackman 1997–1998, 16s.; e più in generale, sull'immaginario simbolico connesso allo σπήλαιον euripideo come luogo di autoisolamento e di ispirazione creativa vd. Sauzeau 1998. E ancor più in generale, sul tema della solitudine di Euripide nella Vita di Satiro vd. ora Paduano 2020, 123–134. Vd. ad esempio Leo 1912, 283; Arrighetti 1964, 126; Lesky 1971, 410; Lefkowitz 1981, 89 = Id. 2012, 97; Kovacs 1994, 9 n. 1; Schorn 2004, 203s., con ulteriore bibliografia.
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delle Tesmoforiazuse superstiti e che, di contro, i dettagli aggiuntivi forniti dal biografo peripatetico «have come from some other source and been worked into the Aristophanic narrative framework». Né i frammenti autorizzano a ipotizzare una presenza scenica di Euripide, dal momento che il solo riferimento esplicito al poeta è rappresentato dalla parodica allusione all’ Antiope nel fr. 342, né vi è traccia di attacchi verbali o fisici delle donne contro il tragediografo. Con fantasia non meno ingegnosa, Karachalios 2006, 14–22 ha ipotizzato per le Tesmoforiazuse frammentarie una sorta di «inverted plot» rispetto alla Lisistrata: profittando dell’ assenza delle donne, impegnate nella celebrazione della festività demetriaca, gli uomini avrebbero ordito una congiura contro il gentil sesso, boicottandolo anzitutto dal punto di vista sessuale (cf. fr. 334, la cui persona loquens sarebbe Euripide, leader della congiura). Gli uomini si sarebbero dunque accollati uno sforzo che, analogamente a quanto accade alle donne nella Lisistrata, li metteva probabilmente a dura prova e che, a giudicare dalle espressioni di desiderio, esternate nei frr. 338 e 344, avrebbe rischiato di vanificare il loro piano (Karachalios 2006, 17s.). Il boicottaggio riguarderebbe anche la sfera alimentare, come lo studioso ellenico arguisce dal fr. 333, cui egli connette il fr. 335. Nel passo, il riferimento ai πυλάγοροι e allo ἱερομνήμων di ritorno dal consiglio anfizionico di Pile presupporrebbe un’ allusione a un taglio dei finanziamenti delle celebrazioni delle Tesmoforie concordato dagli uomini in una sorta di «panhellenic male alliance» (ivi, 20s.). A tale circostanza andrebbe collegato anche il riferimento al «borsellino in cui viene riposto il danaro (σακίον, ἐν οἷσπερ τἀργύριον ταμιεύεται)», menzionato nel fr. 34347. In tale prospettiva, il catalogo di vanità femminili contenuto nel fr. 332 sarebbe pronunciato da un uomo che, colpito dalla capacità delle donne di caricarsi di pesi cospicui, assisteva al trasporto, da parte delle donne dirette al luogo nel quale si svolgeva la festa delle Tesmoforie, di «all their means of beautification» (ivi, 16). Donde la connessione col fr. 337, pronunciato probabilmente dal medesimo personaggio di sesso maschile che descrive agli altri uomini le donne «dressed in bizarre garments and ornaments» (ivi, 17). In una siffatta ricostruzione, il ruolo delle Muse, evocate nel celebre contesto parabatico cui appartiene il fr. 348, sarebbe quello, caro alla poetica euripidea, di deae ex machina. Presenti non nella casa del poeta, ma in teatro («in the literal, material sense»: ivi, 14), le Muse avrebbero alla fine consentito al poeta di scampare al pericolo mortale suggerito dal quadro aneddotico aperto dalle due citate testimonianze biografiche di matrice peripatetica. E tuttavia, proprio con riferimento a Satiro, fondate riserve sono 47
L’ ipotesi di uno sciopero sessuale che avvicini la trama delle perdute Tesmoforiazuse a quella della Lisistrata sembra contemplata anche da Austin e Olson: «Which party initiated the break in relations between the sexes and why is impossible to know. But if the trouble began with the women at their festival, fr. 334 shows that men quickly met whatever they did with a sexual blockade of their own. Or was all this the result of some larger social or political crisis, the resolution of which fr. 335 announces?» (Austin–Olson 2003–2004, 11 n. 17 = 2004, lxxxix n. 91).
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state espresse da Schorn 2004, 294 sulla liceità di postulare la presenza scenica delle Muse nella trama della commedia perduta, e più in generale, da Arrighetti 1964, 126–128, sull’ opportunità di presupporre una diretta ispirazione comica per ciascuno degli aneddoti tramandati sulla vita di Euripide. In definitiva, per quanto l’ affinità tematica tra i due drammi sembri suggerita oltre che dal titolo anche da una probabile contiguità cronologica, sarà bene sottrarsi alla tentazione di ricostruire in via del tutto ipotetica artificiose sequenze drammaturgiche che presuppongano per le perdute Tesmoforiazuse una trama strettamente interconnessa a quella della omonima commedia superstite. Datazione 407–406 a. C.: Geißler 1969 [1925], 63, xvii. 408 a. C.: Murray 1933, 266. Dionisie 425 o Dionisie 424 a. C.: Deichgräber 1956, 20. 410–405 a. C.: Gelzer 1970, 1416; Carrière 2000, 217. Lenee 423 a. C.: Butrica 2001, 44–51, Id. 2004, 1–5; Karachalios 2006, 1–9. 415 / 14–407 / 6 a. C.: Austin–Olson 2003–2004; Id. 2004, lxxxiv–lxxxvii; Henderson 2007, 267; Zimmermann 2011a, 767, 777; 411 a. C.: Canfora 2017, 196–206. La rappresentazione delle Tesmoforiazuse II è in genere fissata orientativamente nel biennio successivo al 411 / 10 a. C., anno in cui sarebbero state portate in scena (verosimilmente agli agoni dionisiaci)48 le Tesmoforiazuse superstiti. Il terminus post quem parrebbe fornito dalla parodia dell’ Antiope di Euripide (fr. 182 Kn.) riconosciuta nel fr. 342 della perduta commedia. Da Σ (vet) Ar. Ra. 53a Chantry si ricava infatti che l’ Antiope – così come l’ Ipsipile e le Fenicie – fu portata in scena dopo l’ Andromeda: la sua rappresentazione, fissata dallo scoliaste otto anni prima delle Rane (dunque nel 412 a. C.), sarà quindi da collocarsi dopo il 412 e prima del 405 a. C. (più precisamente, dice lo scolio, «poco prima [πρὸ ὀλίγου]» delle Rane); e se ne è pertanto dedotto che la rappresentazione della commedia sarà stata di poco successiva a quella dell’ Antiope, generalmente collocata tra il 411 e il 407 a. C.49. L’ attendibilità dello scolio è stata tuttavia posta in dubbio da Cropp e 48
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Secondo l’ ipotesi, ormai tendenzialmente più accreditata, per cui alle Lenee dello stesso anno sarebbe stata invece rappresentata la Lisistrata: vd. Avery 1999. L’ ipotesi inversa (Tesmoforiazuse lenaiche e Lisistrata dionisiaca) è stata però riproposta da Prato 2001, xii–xvii; e sulla questione, tuttora controversa, sono poi tornati Austin–Olson 2004, xli–xliv. Un ulteriore supporto in favore della datazione tradizionale potrebbe venire dall’ attribuzione a questa commedia del fr. com. adesp. 1005, proposta da Blass 1897, 334, da Kuiper 1913, 238, e da Platnauer 1933, 158 con n. 2, i quali, sulla base del riferimento contenuto nel v. 7 (κατὰ τὴν Μελανίπ[πην), ipotizzavano nelle perdute Tesmoforiazuse una parodia della Melanippē desmōtis (databile verosimilmente intorno al 412 e comunque più recente della Sophē, tendenzialmente collocata negli anni Venti: vd. Cropp–Fick 1985, 83s., con ulteriori dettagli e bibliografia, e Cropp 1995, 247) analoga alla parodia dell’ Andromeda operante nella omonima commedia superstite. Il frammento papiraceo (conservato da PGrenf. II 12 = P. Lit. Lond. 86 [= TM 59259]), nel quale viene generalmente riconosciuta la vitalità scenica del personaggio di Euripide, il tragediografo misogino accusato di non aver prestato assistenza alle donne, è stato ricondotto invece
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Fick (1985, 75s.), i quali, in ragione della frequenza relativamente bassa di trimetri giambici soluti, retrodatano il dramma a un periodo compreso tra il 426 e il 419 a. C., e ritengono perciò che nel testo dello scolio il titolo Ἀντιόπη sia da emendare con Ἀντιγόνη, dramma euripideo databile, come Ipsipile e Fenicie, dopo il 412 a. C. A partire dalla retrodatazione dell’Antiope, Butrica (2001, 44–51) giunge a retrodatare anche le Tesmoforiazuse perdute, che sarebbero state rappresentate alle Lenee del 423 a. C., ben dodici anni prima, dunque, delle Tesmoforiazuse superstiti: un argomento, in verità, non decisivo, posto che una eventuale datazione dell’Antiope agli anni Venti – ipotesi ritenuta peraltro ormai largamente improbabile50 – non esclude a priori l’ eventualità di una sua ripresa parodica in una commedia degli anni Dieci o ancora successiva: una ripresa analoga a quella operata, ad esempio, rispetto al Telefo, negli Acarnesi e nelle Tesmoforiazuse superstiti, a distanza, rispettivamente, di tredici e di ventisette anni dalla messinscena del modello tragico. Questi gli ulteriori indizi sui quali Butrica fonda la sua cronologia ‘alta’, ai quali fanno da contrappunto le stringenti obiezioni di Austin e Olson. 1) La menzione di Cratete, il celebre commediografo della ‘vecchia guardia’, del quale nel fr. 347 Aristofane rievoca una surreale invenzione comica (vd. ad l.): menzione che risulterebbe poco perspicua in una commedia successiva al 411 a. C., posto che l’ unico altro riferimento al suo predecessore ricorre in un celebre passaggio della parabasi dei Cavalieri (vv. 537ss.), rappresentati alle Lenee del 424 a. C. E tuttavia, come fanno notare Austin e Olson (2003–2004, 9 = 2004, lxxxvi), una siffatta menzione non è più incongrua alla datazione canonica della commedia di quanto non lo sia l’ allusione all’ ormai defunto Cratino nel v. 357 delle Rane. 2) L’ impiego del metro cretico–peonico nei frr. 347 e 348: un ritmo la cui presenza prevalente, ancorché – come rileva lo stesso Butrica – non esclusiva, nella produzione aristofanea del primo periodo, testimonierebbe, a suo parere, un suo tendenziale declino dopo l’ impiego massiccio delle prime commedie, alle quali sarebbero appunto da accostare le Tesmoforiazuse perdute (ma per le cospicue eccezioni riconoscibili in Rane, Uccelli e Lisistrata, vd. Austin–Olson 2003–2004, 9 = Id. 2004, lxxxvi). 3) Il riferimento a un attacco antieuripideo in una propria commedia anteriore alle Vespe, cui Aristofane allude in V. 61 (οὐδ᾽ αὖθις ἀνασελγαινόμενος Εὐριπίδης), nella quale uno scolio parrebbe riconoscere le Tesmoforiazuse: Σ (vet
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da Crusius 1898, 81–90 al Geritade, che a suo parere prevedeva un’ aggressione del malcapitato Euripide da parte di donne furiose che, intenzionate a vendicarsi dei suoi affronti, lo attendevano impazienti nell’ oltretomba. Una ulteriore ipotesi di attribuzione, ai Demi di Eupoli, è stata avanzata da Storey 2011, 393 sulla base della citazione di Eur. fr. 507.1 Kn., tratto dalla Melanippē Desmōtis, in Eup. fr. 99.102. Una ricognizione delle varie ipotesi avanzate anche alla luce del dubbio rapporto tra questo testo drammatico e i marginalia vergati nell’ intercolumnio alla sua sinistra è in Perrone 2009, 25–29. Sulla datazione dell’ Antiope, come pure su trama e temi della tragedia perduta, vd. ora Castellaneta 2021, 43–59 (con la bibliografia precedente), la quale prospetta l’ ipotesi che la tragedia possa essere andata in scena nel 407.
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Tr) V. 61b Koster: ἀνασελγαινόμενος· κατακωμῳδούμενος, ὑβριζόμενος. κατ᾽ αὐτοῦ γὰρ καθῆκε τὰς Θεσμοφοριαζούσας (VAld), ovvero, più sinteticamente, ὅτι τὰς Θεσμοφοριαζούσας καθῆκε κατὰ τοῦ Εὐριπίδου (L); e infine: φησὶν οὖν οὐ δεύτερον ταὐτολογήσω περὶ αὐτοῦ, ὡς οἱ ἄλλοι ποιοῦσιν (VLAld). Peraltro un ulteriore scolio al medesimo passo ([vet Tr] V. 61c Koster) precisa: οὐ μόνον ἐν τούτῳ τῷ δράματι (τοῖς δράμασιν V), ὡς εἴρηται (L), εἰσῆκται οὕτως (VAld) Εὐριπίδης, ἀλλὰ καὶ ἐν τῷ Προαγῶνι καὶ ἐν τοῖς Ἀχαρνεῦσιν (VLAld). Passando in rassegna le commedie antieuripidee, lo scoliaste avrebbe tralasciato le Rane, del 405, perché intenzionato a dar conto dei soli drammi contemporanei o di poco anteriori alle Vespe: una circostanza a parere di Butrica (2001, 45s.) confermata dalla connessione causale instaurata, nelle due varianti dello scolio 61b (quella del Veneto e dell’ Aldina da una parte e quella tricliniana dall’ altra), rispettivamente da γάρ e da ὅτι, con cui si intenderebbe puntualizzare che già nelle Tesmoforiazuse Euripide era stato attaccato da Aristofane. A una siffatta ricostruzione Austin e Olson (2003–2004, 9 = 2004, lxxxvi) obiettano che nel Veneto lo scolio in questione si presentava originariamente diviso in due sezioni, non in reale relazione tra loro: la prima (61b) individuava astoricamente nel v. 61 un riferimento alle Tesmoforiazuse, la seconda (61c) informava in realtà che «Euripide è stato portato in scena così (scil. oltraggiato e maltrattato) non soltanto nei Drammi (ἐν τοῖς Δράμασιν: vd. Kassel–Austin PCG III 2, Dram. αʹ βʹ, test. iv), ma anche nel Proagone e negli Acarnesi», e non includeva le Tesmoforiazuse tra le commedie antieuripidee anteriori alle Vespe. La sintesi operata poi da Triclinio avrà prodotto la distorsione di 61c, dove un originario ἐν τοῖς Δράμασιν, in cui non si riconosceva più il titolo di una specifica commedia aristofanea, sarà stato emendato in ἐν τούτῳ τῷ δράματι, ὡς εἴρηται, e avrà erroneamente generato il testo stampato da Koster («Euripide è stato portato in scena così non soltanto in questo dramma, come si è detto, ma anche nel Proagone e negli Acarnesi»). Pur concordando con Austin e Olson nella ricostruzione del testo di quest’ ultimo scolio, Karachalios (2006, 11) richiama d’ altronde l’ attenzione sulla singolare circostanza che l’ altro scolio (61b) parafrasi l’ aristofaneo οὐδ᾽ αὖθις con οὐ δεύτερον e menzioni le sole Tesmoforiazuse: «The scholiast is certain that the mention is only to one pre–existing Aristophanic comedy. And this, he says, is the Thesmophoriazusae». 4) La continuità di riferimenti alle reiterate persecuzioni giudiziarie, descritte, a parere di Butrica, nei termini simbolici di una patologia da raffreddamento, in tre commedie degli anni 423 e 422 a. C., le Nuvole I (fr. 399), le Vespe (v. 1038) e le perdute Tesmoforiazuse (fr. 346), di cui – a stare a un passo della anonima Vita di Aristofane (Proleg. de com. XXVIII 20–35, p. 134 Koster = Ar. test. 1.19–31) – il commediografo sarebbe stato fatto oggetto da parte di demagoghi e sicofanti: una prima accusa di ξενία a opera di Cleone a seguito della rappresentazione dei Babilonesi, seguita da due successive accuse mossegli da non meglio identificati sicofanti (vd. più diffusamente infra, ad fr. 346). Un argomento riproposto poi da Karachalios (2006, 6–9), a parere del quale l’ elemento decisivo per retrodatare le perdute Tesmoforiazuse alla prima fase della quarantennale carriera del comme-
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diografo andrebbe ravvisato appunto nella correlazione, instaurata, col riferimento a brividi e febbre, tra il fr. 346, il fr. 399 delle Nuvole prime e il v. 1038 delle Vespe: un accostamento ispirato peraltro dalla cospicua presenza, nei frr. 346, 347 e 348, generalmente assegnati a una parabasi di taglio ‘personalistico’, di elementi caratteristici delle cosiddette «personalized parabases» delle commedie degli anni Venti e dunque in quanto tale da ascrivere a una commedia aristofanea del primo periodo. Si vedrebbe peraltro in tal caso riproposta una situazione analoga a quella delle altre commedie doppie di Aristofane, delle quali una sola si è tramandata: in tutti i casi, eccetto quello della Pace II, la commedia superstite è quella composta dopo (emblematico il caso delle Nuvole, che, a parere di Butrica e di Karachalios, condividerebbero con le Tesmoforiazuse perdute la sorte di essersi piazzate al terzo posto, rispettivamente alle Dionisie e alle Lenee dello stesso anno: circostanza lamentata da Aristofane in V. 1043–1045: nell’ intento di riscattare la propria arte comica, il commediografo avrebbe dunque riveduto entrambe le commedie fallimentari giungendo a elaborarne una seconda versione, che è quella che per entrambe si è tramandata). E tuttavia, una ricognizione del materiale ‘parabatico’ rintracciabile nelle commedie superstiti e frammentarie, di Aristofane e dei suoi rivali, lascia ragionevolmente ipotizzare che siffatte esternazioni fossero indotte da contingenti situazioni personali e professionali del commediografo: come dimostra, per addurre l’ esempio, per noi meglio documentato, di Aristofane, la circostanza che il poeta esce allo scoperto nei parabatici ‘eupolidei’ di almeno altre due commedie, le Nuvole II e l’ Anagiro51, generalmente ascritte agli anni Dieci, e dunque successive alla fase canonica, quella che Karachalios (2006, 8 n. 32) chiama «unmediated focalization of the poet’ s voice»52. In realtà, dirimente per la definizione della cronologia della commedia è la valutazione del fr. 341, in cui il tragediografo Agatone, personaggio attivo anche nel prologo delle Tesmoforiazuse superstiti, è preso di mira per l’ inclinazione alle antitesi e per la notoria effeminatezza (vd. ad l.). Dalle testimonianze di Platone (Smp. 173a) e di Ateneo (V 217a–c) si è soliti ricavare che Agatone esordì alle Lenee del 416, aggiudicandosi il primo premio53: una data che rappresenterebbe dunque 51
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Sulla contiguità (anche) cronologica tra l’Anagiro e le Nuvole II e sulla parabaticità invero controversa dei due frammenti in eupolidei (frr. 58 e 59) tratti dall’Anagiro, vd. ora Orth 2017, 231–236, 312s., 317s., con la bibliografia precedente. Vd. Imperio 2004, 38–45, e, più in generale, 23–74 per una valutazione complessiva di un siffatto fenomeno di ‘focalizzazione autoriale’ nel materiale parabatico a nostra disposizione. Cf. in particolare Pl. Smp. 173a (… ὅτε τῇ πρώτῃ τραγῳδίᾳ ἐνίκησεν ὁ Ἀγάθων), Ath. V 217a (ὃ μὲν γὰρ ἐπὶ ἄρχοντος Εὐφήμου στεφανοῦται Ληναίοις [416 a.C.]) e Ath. V 217c: (… ὅτε τῇ τραγῳδίᾳ ἐνίκησεν ὁ Ἀγάθων). Controversa è, in verità, la questione della cronologia di questa vittoria, per la quale, a parte la generica informazione relativa alla giovane età di Agatone fornita da Platone (che in Smp. 175e e 198a lo qualifica rispettivamente come νέος e νεανίσκος), si dispone della su menzionata notizia fornita da Ateneo (Lenee del 416 a. C.), apparentemente inconciliabile con la cronologia pro-
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il termine post quem per la datazione delle perdute Tesmoforiazuse: così Geißler 1969 [1925], 63, il quale ne fissava peraltro il termine ante quem al 405 a. C., anno in cui il drammaturgo risulta essersi già definitivamente trasferito alla corte del re macedone Archelao (cf. soprattutto Ar. Ra. 83–85, con gli scolii ad l. = Agatho TrGF I 39 T 7a–b Sn.–Kn. = Testt. 8a–b Gavazza e Plat. Smp. 172c = Agatho TrGF I 39 T 8 Sn.–Kn. = Test. 9 Gavazza, ma anche le ulteriori testimonianze relative al suo trasferimento in Macedonia, raccolte e analizzate, dopo Hecht 2017, 27–32, in Gavazza 2021, 39–53); e così anche Austin e Olson (2003–2004, 10 = 2004, lxxxvii), i quali, pur non potendo teoricamente escludere la possibilità che Aristofane richiamasse alla memoria degli spettatori la figura e la poetica di Agatone anche dopo la sua partenza per Pella (un’ eventualità ammessa proprio dalla menzione delle Rane), propongono «as the most likely range of dates» il periodo compreso tra il 415 e il 407 / 6. E non a caso la più significativa tra le controbiezioni prodotte da Butrica (2004, 1–5) riguarda appunto quest’ ultimo aspetto: la testimonianza di Ateneo non attesta che le Lenee del 416 furono il primo agone cui Agatone partecipò ma piuttosto il primo nel quale risultò vincitore; è il solo Platone, pure non interessato a precisare l’ anno e l’ agone della competizione in oggetto, a invocare «the concept of first». La circostanza, tanto più strana in ragione dell’ assenza di tale dato nella pure ben più dettagliata testimonianza di Ateneo, è stata in genere risolta accogliendo la correzione di τῇ πρώτῃ in τὸ πρῶτον proposta da Usener 1870, 581s.; se con Butrica (2004, 4s.) si espunge πρώτῃ (a suo parere una glossa interpolata e linguisticamente problematica) dal contesto platonico, nell’ anno 416 non si potrà più riconoscere un terminus post quem per la datazione delle Tesmoforiazuse II, dal momento che le Lenee di quell’ anno non sarebbero state l’ agone di esordio ma quello che dopo anni di gareggiamenti fallimentari assicurò all’ effeminato drammaturgo la prima vittoria54. Va detto tuttavia che, quand’ an-
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spettata dallo scolio del Ravennate ad Ar. Th. 32, che colloca l’inizio dell’attività pubblica di Agatone tre anni prima rispetto alla data della rappresentazione delle Tesmoforiazuse superstiti, e dunque nel 414 a. C. In realtà, la notazione dello scolio del Ravennate a Th. 32, dove si dice che Agatone cominciò a rappresentare drammi «tre anni prima» ([…] οὐ πάλαι ἤρξατο διδάσκειν, ἀλλὰ τρισὶν πρὸ τούτων ἔτεσιν), potrebbe essere frutto di una erronea lettura del numerale Ϝ (= 6) come Γ (= 3) — donde la correzione operata da Ritschl 1829, 24 del tràdito τρισὶν in ἓξ, accolta ora a testo da Regtuit — oppure del numerale (= 5) — così Clinton 1841 [1824, 1827], xxxii e Dindorf 1837, 701. In alternativa, l’informazione dello scolio potrebbe essere conservata ipotizzando che essa faccia riferimento alla prima vittoria di Agatone in occasione delle Grandi Dionisie (cf. TrGF I 39 F 33 Sn.-Kn.), quelle, appunto, del 414 a. C., e che non venga presa in considerazione la riunione del 416 a. C. descritta nel Simposio: per questa ipotesi vd. Hoffmann 1951, 132s., seguito da Snell-Kannicht 1986, 156, ad l. (TrGF I 39 T 4), che mantengono perciò il testo tràdito: sulla questione vd. ora più in dettaglio Gavazza 2021, 32–34. La difficoltà viene rimossa in modo tranchant da Karachalios (2006, 4–6), il quale disconosce come indizio cronologico per la datazione della commedia la menzione di Agatone nel fr. 341, in quanto a suo parere frammento anepigrafo, e dunque non
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che quest’ eventualità fosse corretta, la circostanza non sarebbe in sé dirimente per la datazione delle Tesmoforiazuse perdute agli anni Venti: le commedie in cui Aristofane evoca o menziona esplicitamente Agatone – oltre alle Tesmoforiazuse superstiti, il Geritade (da collocarsi presumibilmente nel 408/7 a. C.: vd. Geißler 1969 [1925], 61s.) e le Rane – sono successive al 41655. E peraltro di Agatone si trova menzione in un frammento aristofaneo anepigrafo (fr. 592.35), conservato dal su citato POxy. II 212 (= TM 59246 [CGFP *62]) ), per il quale è stata proposta l’ attribuzione alle Tesmoforiazuse II (Grenfell–Hunt 1899, 20; Fraccaroli 1900) oppure alle Lemnie (Ciriello 1989): commedia databile, sulla base del fr. 373, negli stessi anni dell’ Ipsipile euripidea (da collocare, sulla base del su citato scolio a Rane 53, al periodo compreso tra il 412 e il 405 a. C.), e dunque anch’ essa successiva al 416 a. C.56
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utilizzabile a sostegno di una datazione bassa della commedia (a suo parere il fatto che il frammento sia tramandato da Fozio come tratto dalle Tesmoforiazuse, senza alcuna specificazione numerica [vd. infra, al l.], sarebbe frutto di una erronea attribuzione operata da «someone who was part of the transmission process before Photius, in a time when most comedies were already lost [ivi, 5]» sulla base della cospicua presenza scenica del tragediografo nella commedia superstite). In favore di questa eventualità parlerebbe la erronea attribuzione dei primi due versi della Lisistrata alle Tesmoforiazuse perdute da parte dello scoliasta del v. 52 delle Nuvole (Σ vet 52h Holwerda), evidentemente tratto in inganno dall’ allusione alla dea Genetillide, menzionata anche nelle Tesmoforiazuse superstiti. Giova inoltre rimarcare che il tràdito τῇ πρώτῃ τραγῳδίᾳ ἐνίκησεν di Pl. Smp. 173c, per Butrica problematicο in sé (se paralleli per il sintagma τραγῳδίᾳ νικᾶν esistono in Ath. epit. I 3f; Eust. in Od. 1454.24, non ve ne sono per πρώτῃ τραγῳδίᾳ νικᾶν) e per la discrasia rispetto alla corrispondente testimonianza di Ateneo (V 217c), viene ora difeso con buoni argomenti da Gavazza 2021, 25, secondo cui l’ espressione si riferirà non a una vittoria conseguita da Agatone con «la [sua] prima tragedia» (con rinvio a Austin–Olson 2003–2004, 10: «set of plays»), bensì «in occasione della [sua] prima competizione tragica». Per inciso, va detto che alle Tesmoforiazuse II potrebbe essere ricondotto un ulteriore frammento anepigrafo aristofaneo (fr. 694: ο[ἷ]α μὲν π[ο]εῖ λέγε[ι]ν/ τοῖός ἐστιν [«quale è ciò che fa dire sulla scena, tale è lui»]), citato da un altro passo della Vita di Satiro (F 6 fr. 39 col. IX 25–28 Schorn), che evoca chiaramente la celebre teoria della μίμησις elaborata da Agatone in Ar. Th. 149-165 (Agatho TrGF I 39 T 23 = test. 27 Gavazza): con tutte le implicazioni che una simile evenienza comporterebbe ai fini di una eventuale, ipotetica presenza scenica di Euripide e/o di Agatone nella omonima commedia perduta (cf. in particolare la consentaneità con i vv. 149s.: χρὴ γὰρ ποιητὴν ἄνδρα πρὸς τὰ δράματα / ἃ δεῖ ποιεῖν, πρὸς ταῦτα τοὺς τρόπους ἔχειν). Su questo frammento vd. Bagordo 2017, 54s. con ulteriore bibliografia, e, più in generale, sul rapporto tra biografia e critica letteraria in Aristofane, a partire dalla peculiare teoria comica della μίμησις, elaborata nelle Tesmoforiazuse e presupposta ed esemplificata nelle Rane, vd. Arrighetti 1987, 148–152.
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Eccessiva appare poi, in generale, l’ enfasi attribuita e da Butrica (2001, 51–62) e da Karachalios (2006, 3) alle discrepanze rilevabili nelle menzioni antiche del titolo delle due commedie omonime: in particolare, non si possono trarre significative conclusioni in merito alla cronologia della commedia né dalle incongruenze della tradizione manoscritta di Harp. ι 7 (p. 267.3 Dindorf), testimone, con Σ Ar. Nu. 623b Holwerda, del fr. 335, di Σ (vet) Ar. Ra. 3 Chantry, testimone del fr. 340, o di Σ (b T) Pl. Cra. p. 421d (pp. 17s. Greene = 50, pp. 44s. Cufalo), in cui il titolo della commedia compare con o senza il numerale; né da Heph. Ench. 13.3 (p. 41.11 Consbruch), che tramanda il fr. 348 come tratto dalle Tesmoforiazuse «precedenti» (ἐν ταῖς προτέραις Θεσμοφοριαζούσαις), o da Clemente Alessandrino, il quale – a fronte della disinvoltura con cui in Paed. II 124.1 cita un’ ampia porzione del testo del fr. 332 (precisamente i vv. 2–14) attribuendola, senza ulteriore specificazione, alle Tesmoforiazuse – in Strom. VI 26.4s., nel registrare casi di furti letterari tra scrittori greci, attesta la presenza di coincidenze tra i Bruciati (Ἐμπιπράμενοι) di Cratino e le Tesmoforiazuse prime (più esattamente, egli rileva che Aristofane avrebbe plagiato dei versi [μετήνεγκεν ἔπη] della suddetta commedia di Cratino ἐν ταῖς πρώταις Θεσμοφοριαζούσαις): notizia che lascia peraltro impregiudicata l’ identificazione della commedia aristofanea in cui si riconosceva tale ‘plagio’ col dramma superstite o con l’ omonimo dramma perduto57: in entrambi i casi la specificazione numerale potrebbe esser stata introdotta da chi ormai non aveva più dimestichezza col testo della commedia perduta. Né problematica appare l’esiguità delle testimonianze che citano porzioni di testo della perduta commedia denominandola come «seconda» (cf. frr. 334, 335, 349), né la circostanza che il solo Aulo Gellio (XV 20.7 = TrGF V 1 T A 2.15 Kn.) attesti per la commedia superstite il titolo Tesmoforiazuse prime. La regolarità con cui Fozio cita il testo delle Tesmoforiazuse superstiti senza corredare il titolo con specificazioni numeriche (α 1386, 2059, 2946, μ 606, σ 68, 660), e quello delle Tesmoforiazuse perdute distinguendone il titolo col numerale β´ (cf. frr. 350 e 358), con la sola eccezione di due casi (cf. frr. 339 e 341), per i quali si può ipotizzare agevolmente una caduta 57
La testimonianza di Clemente Alessandrino sulla non meglio precisata operazione di plagio degli Empipramenoi di Cratino da parte di Aristofane è stata messa in relazione da Dindorf 1829, 94 n. a, con Σ (R) Ar. Th. 215 Regtuit, che testimonia ancora una ripresa da parte di Aristofane, in Th. 215s., di un passo tratto dagli Idei (Ἰδαῖοι) di Cratino. Donde l’ identificazione, ipotizzata da Dindorf e assunta poi come dato certo da Bergk 1838, 111, tra Empipramenoi e Idaioi, quale commedia cratinea dal titolo doppio (Ἐμπιπράμενοι ἢ Ἰδαῖοι), con la quale le Tesmoforiazuse superstiti dovevano presentare, in una specifica scena, qualche somiglianza. Sulla questione vd. in dettaglio Bianchi 2016, 386–388. Peraltro, contro l’identificazione tra le due commedie cratinee si esprime Canfora 2017, 175–178, a parere del quale non nelle Tesmoforiazuse superstiti bensì in quelle perdute Aristofane avrebbe ripreso una qualche scena degli Empipramenoi di Cratino, potendosi riconoscere nel ‘fuoco’ menzionato nel fr. 346, restituito da Galeno alla parabasi delle Tesmoforiazuse perdute, l’ elemento connettivo con il titolo della commedia cratinea apparentemente plagiata da Aristofane (ma vd. infra, ad fr. 346).
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meccanica del numerale, pare indice di una tendenza al tempo di Fozio già ben consolidata. Analogo rilievo a queste oscillazioni dell’ erudizione antica nella numerazione delle due commedie viene peraltro dato da Canfora 2017, 196s., il quale inverte la cronologia delle due commedie omonime e data le Tesmoforiazuse superstiti alle Dionisie del 410, considerandole un rifacimento delle Tesmoforiazuse perdute, a suo parere realizzato in vista delle Dionisie del 411: Dionisie delle quali nessuna notizia didascalica ci è pervenuta, e che, stante la situazione di terrore diffuso che imperversò ad Atene tra il gennaio e l’ aprile–maggio del 411, a suo parere in realtà non ci furono (Canfora 2017, 207–209)58. A supporto di questa cronologia Canfora adduce un’ interpretazione squisitamente politica dello stralcio parabatico restituito dal fr. 346 delle Tesmoforiazuse perdute, secondo cui i quattro mesi di «raucedine» e «febbre» evocati dal commediografo come fonte di sofferenza per se stesso e causa di alcune sue non meglio precisate defaillances sarebbero metafora, rispettivamente, del clima di censura/autocensura e di στάσις/νόσος, documentato da Th. VIII 66, che si era abbattuto sulla città di Atene nei quattro mesi che precedettero la presa del potere da parte dei Quattrocento (vd., più in dettaglio, ad fr. 346). Per quanto problematica – posto che (a) per quel che riguarda la commedia superstite viene a confliggere con la contiguità cronologica che in Th. 1059–1061 l’ avverbio πέρυσι parrebbe istituire tra l’ Andromeda, andata in scena (a stare al su citato scolio a Rane 53) «otto anni prima delle Rane», e dunque nel 412, e le Tesmoforiazuse superstiti59, e (b) per quel che riguarda la commedia perduta, si
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Sulla questione, vd. più in dettaglio, Canfora 2017, 141–209, il quale sostanzialmente si riallaccia alla cronologia che, prospettata per le Tesmoforiazuse superstiti già da Richter 1845, 12s., e riproposta, tra altri, da Rogers 1920, xxxii–xlii, è stata anche in tempi più recenti autorevolmente riconsiderata (vd. Rhodes 1985, 185–190): sulla base del cenno, presente in Ar. Th. 841, alla morte di Lamaco, che, a stare allo scolio del Ravennate, sarebbe avvenuta in Sicilia «quattro anni prima» (ἐτεθνήκει ἐν Σικελίᾳ τετάρτῳ ἔτει πρότερον), ma, più precisamente, a stare a Th. VI 101–105, ben prima dell’ arrivo di Gilippo a Siracusa, e dunque nella primavera del 413, nonché in considerazione delle puntate antitiranniche a suo parere riconoscibili nella commedia contro i Quattrocento (in particolare contro il prelievo di 77 talenti dal tesoro dello Stato ateniese poco prima della crisi del 411, a seguito della gravissima defezione di Chio, cui alluderebbero i vv. 811–813): puntate che, come osservava Richter, si configurerebbero come «allusiva rievocazione del tempo dei Quattrocento come di una tempesta ormai passata». Una difficoltà che, sulla scia di Richter, Canfora 2017, 198–201 ritiene di poter superare con argomentazioni che possono riassumersi nei due seguenti punti: a) «a rigore l’ avverbio temporale πέρυσι indica anche, in senso generico, un tempo passato» (ivi, 198): argomentazione cui si può in verità agevolmente obiettare che lo stesso Canfora attribuisce all’avverbio il senso, del resto più comunemente attestato in Aristofane (cf. Ach. 378, V. 1044) di «lo scorso anno» nel controverso contesto dei vv. 808s. (ivi, 150–155); b) «– se nel turbine del 411 Dionisie non vi furono – quelli del 412 sono comunque – nel 410 – gli agoni precedenti, quelli della volta scorsa» (ivi, 201).
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Aristophanes
fonda su un’ esegesi del linguaggio fortemente allusivo e metaforico del celebre passo parabatico restituito dal fr. 346 tanto suggestiva quanto indimostrabile, e non fa i conti con quella che sembra essere la più probabile cronologia dell’Antiope, che, successiva all’ Andromeda, è parodiata nel fr. 342 – la cronologia invertita prospettata da Canfora per le due Tesmoforiazuse è comunque degna di attenzione se non altro perché, come osservato già da Karachalios (2006, 8), trova significativi paralleli nelle problematiche vicende editoriali delle commedie ‘doppie’ – a mio parere non solo e non tanto nella sequenza ricostruibile con certezza nel caso delle Nuvole II, delle quali il testo conservatosi è quello che fu oggetto di una parziale διασκευή delle Nuvole I, quanto piuttosto nel caso del Pluto II, omonimo della commedia portata in scena da Aristofane vent’ anni prima e per noi, al netto di pochi frammenti, peraltro di attribuzione talora problematica, altrettanto perduta (sulla questione vd. ora Caroli 2021, e, più in generale, sul Pluto I, Torchio 2021,193–218). test. i Proleg. de com. (M Rs Vat. 918) XXXa 13s., p. 142 Koster (= Ar. test. 2a.18) Θεσμοφοριάζουσαι βʹ Tesmoforiazuse II
Contesto di citazione Il titolo della commedia è menzionato all’ interno dell’ Index Novati, su cui vd. supra, ad Eirēnē deutera, Titolo.
test. ii Ath. epit. I 29a (= Ar. test. 122) ὅτι Ἀριστοφάνους τὰς δευτέρας Θεσμοφοριαζούσας Δημήτριος ὁ Τροιζήνιος (SH 377) Θεσμοφοριασάσας ἐπιγράφει (sequitur fr. 334). Quanto alle Tesmoforiazuse seconde di Aristofane, Demetrio di Trezene (SH 377) le intitola Donne che hanno celebrato le Tesmoforie.
Bibliografia
Thiersch 1832, xxvii; Welcker 1857–1863, II, 505s. e n. 34.
Contesto di citazione Il titolo Donne che hanno celebrato le Tesmoforie con cui Demetrio di Trezene ricorda le Tesmoforiazuse II viene menzionato nell’ epitome del libro I dei Deipnosofisti di Ateneo a proposito del vino di Pepareto (cf. fr. 334). Su questa testimonianza, vd. supra, ad Titolo.
Θεσμοφοριάζουσαι βʹ (fr. 331)
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fr. 331 K.-A. (335 K.) Σ (R) Ar. Th. 299b Regtuit (τῇ Κ α λ λ ι γ ε ν ε ί ᾳ )· δαίμων περὶ τὴν Δήμητραν, ἣν προλογίζουσαν ἐν ταῖς ἑτέραις Θεσμοφoριαζούσαις ἐποίησεν. (a C a l l i g e n i a): è un essere divino che ha a che fare con Demetra e a cui Aristofane affidò la recitazione del prologo nelle altre Tesmoforiazuse. Phot. κ 118 Καλλιγένειαν· Ἀπολλόδωρος μὲν τὴν γῆν (FGrHist 244 F 141), οἱ δὲ Διὸς καὶ Δήμητρος θυγατέρα, Ἀριστοφάνης δὲ ὁ κωμικὸς τροφόν (cf. Hsch. κ 472 Καλλιγένειαν· οὐ τὴν γῆν, ἀλλὰ τὴν Δήμητραν [τὴν Δήμητραν γῆν cod.: corr. Heinsius ap. Alberti 1746–1766, ΙI, col. 124]. Οὐδεὶς γὰρ οὕτως ἔφη τὴν γῆν καλλιγένειαν. Οἱ μὲν τροφὸν αὐτῆς, οἱ δὲ ἱέρειαν [γερίαν cod.: corr. Meursius 1619, 164], οἱ δὲ ἀκόλουθον). Calligenia: per Apollodoro (FGrHist 244 F 141) (è) la terra; altri ritengono che sia la figlia di Zeus e di Demetra; per il poeta comico Aristofane, invece, (è) la nutrice (cf. Hsch. κ 472: «Calligenia: non [è] la terra ma Demetra. Nessuno infatti ha mai definito così la terra. Alcuni la identificano con la nutrice della dea, altri dicono che ne sia la sacerdotessa, altri ancora l’ ancella»).
Bibliografia van Leeuwen 1904, xiii, 50; Rogers 1904, xliii; Leo 1912, 212; Kaibel ap. Kassel–Austin PCG III 2, 182; Sommerstein 1994, 11; Torchio 1999, 108–13; Ead. 2000, 34. Contesto di citazione e Interpretazione Dallo scolio del Ravennate ad Ar. Th. 299b Regtuit si ricava che Calligenia (che, in Th. 295–300, l’ Aralda raccomanda alle donne di invocare assieme ad altre divinità a vario titolo connesse col culto ctonio e agrario di Demetra) «nelle altre Tesmoforiazuse parlava per prima». Nel presentare Calligenia come divinità prologante lo scoliaste offre un dato di sicuro interesse: a quanto è possibile giudicare in relazione ai materiali aristofanei conservati, la circostanza rappresenta infatti un unicum nella produzione del commediografo. Non è dato sapere in quale misura dietro la scelta di far recitare il prologo a una divinità minore si celasse l’ intento di parodiare un tratto comunemente riconosciuto come caratteristico dei prologhi euripidei (intento riconosciuto già da van Leeuwen 1904, xiii, Leo 1912, 212 e Kaibel ap. Kassel–Austin PCG III 2, 182), ma la circostanza è tanto più significativa se si considera che, a stare alla su citata testimonianza di Fozio (κ 118, e cf. anche Hsch. κ 472), la dea prologante doveva essere presentata da Aristofane come nutrice di Demetra: in questa figura saranno dunque state sussunte due delle facies più tipiche dei personaggi euripidei prologanti: quella di θεός e quella di τροφός (così già van Leeuwen 1904, xiii, 50 e Rogers 1904, xliii). Ad ogni modo, il ricorso al θεὸς προλογίζων (presente già nell’ Aiace sofocleo, dove Atena illustra la genesi della follia del protagonista) divenne un tratto caratteristico della poetica euripidea (vd. Erbse 1984, 21–100; Mastronarde 2010, 174–181): basterà ricordare, per limitarsi alla produzione superstite, i monologhi espositivi pronunciati nei prologhi da Apollo nell’ Alcesti, da
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Hermes nello Ione, da Afrodite nell’ Ippolito, da Poseidone e Atena nelle Troiane, da Dioniso nelle Baccanti e dal fantasma di Polidoro nell’ Ecuba (scena, quest’ ultima, parodiata poi da Aristofane nell’ Eolosicone: cf. fr. 1)60. L’ espediente, attestato anche nella mesē (emblematico il caso dell’ Eracle di Filillio, dove Dorpia, la personificazione del primo giorno delle Apaturie, era la divinità prologante: cf. fr. 7 e vd. Orth 2015, 174s., con ulteriore bibliografia), ebbe poi molta fortuna nella nea, dove viene spesso introdotto nella forma variata del prologo ‘ritardato’ (i casi più noti e incontrovertibili sono rappresentati dai monologhi pronunciati rispettivamente all’ inizio del Dyskolos da Pan, e, in una scena successiva nel corso del primo atto, nell’ Hērōs dall’ eroe eponimo della commedia, nell’ Aspis da Tychē, nella Perikeiromenē da Agnoia; meno sicuri invece, i casi di Misoumenos, Sicioni, e Synaristosai, e ancor più incerti quelli di Dis exapatōn, Epitrepontes, Geōrgos e Phasma), e nella palliata (celebri i casi plautini di: Amphitruo, dove il prologo espositivo è affidato al dio Mercurio; Aulularia, dove è assegnato al Lar familiaris; Cistellaria, dove il dio Auxilium pronuncia un prologo ‘ritardato’; Rudens dove la divinità prologante è la stella Arturo; Trinummus, che si apre con il monologo dell’ allegoria personificata di Luxuria, all’ interno del quale cade anche una battuta di sua figlia Inopia).61 Il prologo divino delle perdute Tesmoforiazuse sembra essere, per quello che è possibile documentare, un unicum nella produzione di Aristofane, che, in generale, ma in maniera più nitida nelle commedie degli anni Venti, pare prediligere scene iniziali caratterizzate da un continuo e fluido gioco tra intrattenimento comico, nutrito di «intriguing mimes» – espedienti non verbali volti a catturare l’ attenzione e la curiosità del pubblico – ed esposizione graduale e variamente differita, in forma monologica o dialogica, di fatti e antefatti dell’ azione scenica62: una circostanza, quest’ ultima, che parrebbe deporre ulteriormente a sfavore di una datazione ‘alta’ delle Tesmoforiazuse perdute. 60
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Quanto alle tragedie perdute, il caso più probabile è rappresentato dall’ Alessandro, dove il prologo espositivo potrebbe essere stato pronunciato da Afrodite (rimpiazzata, nella ripresa operata nell’ Alexander di Ennio, dalla dea Victoria), o, in alternativa, da Apollo, o da Hermes, o da Atena (per queste e altre ipotesi, tra le quali è attualmente contemplata anche la possibilità di un prologo non divino, ma pronunciato dal padre adottivo di Alessandro–Paride, vd. Karamanou 2017, 151–155 con la bibliografia ivi discussa, cui si rinvia anche per la ricognizione di ulteriori prologhi divini ipotizzati per altre perdute tragedie euripidee: il Palamede, il Filottete, gli Sciri e il Protesilao). Sui prologhi divini in Menandro e sulla ripresa del modello menandreo da parte di Plauto, vd. Ingrosso 2010, 180–182 e Mastellari 2020, 247 e n. 261, con bibliografia. Sul tratto eminentemente «puzzling» dei «comic openings» aristofanei vd. Arnott 1993, 14–24, al cui contributo rinvio per una sommaria ma utile ricognizione del pattern prologico inaugurato da Aristofane (per noi) negli Acarnesi, e delle sue principali variazioni tipologiche riconoscibili nelle restanti commedie, riservandomi di approfondire la questione in altra sede. In generale, sui prologhi comici, dopo i pionieristici lavori di Neseman 1868–1870 e di Heß 1953, ha fatto il punto in tempi recenti B. Dunsch, in Fontaine–Scafuro 2014, 498–515.
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Sulla figura di Calligenia, vd. Usener 1896, 122ss.; Wilamowitz 1931–1932, I, 100; Deubner 1932, 55, 57; Martina 1979, 36–39; e sui rituali connessi al giorno di ‘rinascita’ dopo le privazioni della Nesteia, e di chiusura della festa, che prevedeva il banchetto finale, col sacrificio del maiale, animale fecondo e simbolo di fecondità (si trattava precisamente di maialini, ora dissotterrati dalle fosse da ἀντλήτριαι che, caste da tre giorni, si calavano nelle fosse – nelle fonti denominate μέγαρα, ἄδυτα o χάσματα – in cui erano stati precedentemente sotterrati), vd. Sfameni Gasparro 1986, 268–27463.
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L’ ipotesi di attribuire al prologo delle perdute Tesmoforiazuse il fr. com. adesp. 1132, conservato da POxy. L 3540 (= TM 63169), formulata dubitativamente da Handley 1983, 80–86 (il quale pure contemplava la possibilità di assegnare più probabilmente il frammento papiraceo alla nea) sulla base di una congetturale ricostruzione delle prime due righe del papiro (ἥκω πρὸς ὑμᾶς Θεσμοφορί]ων ἡ Τρίτη / κληθεῖσα Καλλιγένεια, Δή]μητρος τροφός), nelle quali sarebbe da riconoscere un riferimento alla terza giornata della festa delle Tesmoforie e la menzione di «Calligenia, nutrice di Demetra», cui potrebbe esser stata poco dopo (v. 5) rivolta l’ apostrofe ἀγαθὴ σωτηρία (donde la cauta quanto ardita proposta di attribuire alle Tesmoforiazuse II anche il fr. 651, un frammento aristofaneo anepigrafo in cui proprio Calligenia potrebbe, a parere di Handley 1983, 85, essere descritta come ἀγαθός τε δαίμων κἀγαθὴ σωτηρία), è stata rivitalizzata da Torchio 1999, a parere della quale questo frammento, tratto dal prologo, conterrebbe una parodia della trama dell’ Antiope di Euripide, con il motivo, topico nella poetica euripidea, dell’esposizione della coppia di gemelli (qui di sesso femminile) cui fa seguito il riconoscimento da parte della famiglia d’ origine: un tema destinato ad avere grande fortuna, com’ è noto, nella mesē e nella nea (autori di commedie intitolate Δίδυμαι [ovvero Δίδυμοι] furono Alessi, Antifane, Aristofonte e Menandro), per essere ripreso poi nella palliata (come mostra, ad esempio, il plot delle Bacchides e dei Menaechmi di Plauto). Se l’ ipotesi di Handley trovasse una qualche conferma, verrebbe per converso sorprendentemente smentita la notizia, riportata dalla anonima biografia aristofanea (Proleg. de com. XXVIII 5s., 50–55, pp. 133–135 Koster = Ar. test. 1.4–6, 46–51 = Kōk. test. iv), secondo cui soltanto nel Cocalo, dunque in una delle due sue ultime commedie, datata intorno al 388 / 87 a. C. (su datazione e contenuti di questa commedia, vd. infra, ad l.), il commediografo avrebbe sperimentato una modalità di trama da cui poi avrebbero tratto spunto Menandro e Filemone, introducendovi i motivi della violenza sessuale e dell’ anagnōrismos. Ed è ipotesi di Torchio (1999, 108–113), formulata, a partire dalla proposta di Handley, sulla base della parodia dell’ Antiope euripidea riconoscibile nel fr. 342 delle Tesmoforiazuse II (vd. ad l.), che la trama della perduta commedia di Aristofane fosse incentrata appunto sulla parodia di intrecci ispirati al motivo dell’ abbandono e del successivo riconoscimento di due gemelli, quali Euripide aveva messo in scena, pochi anni prima, oltre che nell’ Antiope, anche nell’ Ipsipile. E tuttavia, come osservava già Sommerstein 1994, 11, «It would be unsafe to deny a priori that Aristophanes could have composed a play of this kind, but the surviving fragments of the second Thesmophoriazusae are very hard to reconcile with such a plot».
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fr. 332 K.-A. (320 K.)
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(A.) ξυρόν, κάτοπτρον, ψαλίδα, κηρωτήν, λίτρον, προκόμιον, ὀχθοίβους, μίτρας, ἀναδήματα, ἔγχουσαν. (B.) ὄλεθρον τὸν βαθύν. (A.) ψιμύθιον, μύρον, κίσηριν, στρόφον, ὀπισθοσφενδόνην, κάλυμμα, φῦκος, περιδέραι᾽, ὑπογράμματα, τρυφοκαλάσιριν. (B.) ἐλλέβορον. (A.) κεκρύφαλον, ζῶμ᾽, ἀμπέχονον, τρύφημα, παρυφές, ξυστίδα, κύφωνα. (B.) βάραθρον. (A.) ἔγκυκλον, κομμώτριον. τὰ μέγιστα δ᾽ οὐκ εἴρηκα τούτων. (B.) εἶτα τί; (A.) διόπας, διάλιθον, πλάστρα, μαλάκιον, βότρυς, χλίδωνα, περόνας, ἀμφιδέας, ὅρμους, πέδας, σφραγίδας, ἁλύσεις, δακτυλίους, καταπλάσματα, πομφόλυγας, ἀποδέσμους, ὀλίσβους, σάρδια, ὑποδερίδας, ἑλικτῆρας, ἄλλα 〈πολλά〉 θ᾽ ὧν οὐδ᾽ ἂν λέγων λέξαις
1 ψαλίδα Poll.1 FS, BC: ψαλλίδια A λίτρον Poll.1 FS, Phot. λ 361: νίτρον Poll.1 A: 3 ἔγχουσαν — λίτραν BC 2 προκόμιον Poll.1 BC: πρόκιμον A: καὶ προκόμιον FS ψιμύθιον om. Clem.Al. ἔγχουσαν Dindorf ex Poll.2 § 101 (ἔγχουσα C: ἔχ. FS: ἄγχ. A): τὸν om. Poll.1 FS ψιμύθιον Poll.1 FS, C, Poll.2 § 101 C: ψιμμύθιον ἄγχουσαν Poll.1 Poll.1 AB, Poll.2 § 101 A: ψυμίθιον FS 4 μύρον Poll.1: νίτρον Clem.Al. κίσηριν — ὀπ. om. Poll.1 FS κίσηριν Poll.1 C: κίσσηριν B: κισσιλίς A: καισιδήριν κίδηριν Clem.Al.ac: στρόφον Poll.1 BC: στροφίον A: στρόφιον Clem.Al., καισιδήρον κίσηριν Clem.Al.pc 2 Poll. § 96: στρόφι᾽ Bergk ὀπισθοσ. Poll.1 BC: ὀπισθοφ. A 5 κάλυμμα — περιδ. κάλυμμα Poll.1 A, BC: ὀπισθοκάλυμμα Clem.Al. περιδέραι edd.: om. Poll.1 FS περιδέραια Poll.1 A, BC, Clem.Al.pc: περιδέρεα Clem.Al.ac ὑπογράμματα Poll.1 A, BC, Poll.2 § 101: ὑπορ. Clem.Al.: γρ. Poll.1 FS 6 τρυφοκαλάσιριν Poll.1 BC (cf. Hsch. τ 1577): ἐλλέβορον Poll.1 FS, -σισιν Clem.Al.: τοῦ φοκαλασείρην Poll.1 FS: γρύφωμα· λάσυριν A 2 1 C: ἑλλέβορον Poll. § 101: ἐλέβ. Poll. A, B: om. Clem.Al.: ἐλλόβια Blaydes (sed ipse reicit coll. Nicostr.Com. fr. 32): ἐλλόβιον Foerster 1920, cf. Poll.2 § 97 7 ζῶμ᾽ Poll.1 FS, A: ζῶσμα BC ἀμπέχονον Poll.1 BC: ἀμπεχόνιον Clem.Al.: -όνην Poll.1 FS, A 8 κύφωνα Kaibel coll. Hsch. κ 4754 et Phot. κ 1275: κιθῶνα Clem.Al.: χιτῶνα Poll.1 βάραθρον Poll.1 FS, A: βάθρον BC ἔγκυκλον Poll.1 A, BC: ἔγγικλον FS κομμώτριον Poll.1 A: -τρίδιον BC: κομιστρίδιον FS: χιτώνιον Clem.Al.: κροκώτιον Fritzsche 1838, 610 9 sic Clem.Al. (personas dist. Salmasius 1629, II, 1148A): ἕτερά θ᾽ ὅσ᾽ οὐδεὶς μνημονεύσειεν ποτὲ λέγων (ποτ᾽ ἄν Brunck, qui et ἕτερά γ᾽). τὰ μέγιστα δ᾽ οὐ λέγεις αὐτῶν ταυτί Poll.1 A: ἕτερά θ᾽ ὅσ᾽ οὐδεὶς μνημονεύει τῶν τὰ μέγιστα (τῶν τ. μ. om. F) τῶν τὰς FS: om. BC 10 διόπας, διάλιθον om. Poll.1 FS πλάστρα Poll.2 § 97, Clem.Al., Poll.1 A: 1 πλάσμα FS: τρίγαστρα BC μαλάκιον Poll. FS, BC: -χιον Phot. μ 63: -κια Poll.1 A, 2 Poll. § 98: μολόχιον Clem.Al. 10–11 βότρυς, χλίδωνα Poll.1: βοτρυχλιδῶνα Clem. Al. 11 ἀμφιδέας Poll.1: ἀμφιλέας Clem.Al. 12 δακτυλίους Poll.1 A, BC: δακτύλους FS καταπλάσματα Poll.1 FS, A: καταπετάσματα BC 13 ὀλίσβους Poll.1 A, BC: 2 σολιάσβους FS 14 ὑποδερίδας ex Poll. § 98 Coddaeus: ὑποθ. Clem.Al.: ὑποδέρ(ρ)εις Poll.1 ἑλικτῆρας Poll.1: ἐρικτῆρας Clem.Al. ἄλλα πολλά θ᾽ ὧν Fritzsche 1831, 73
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n. 38: ἄλλ᾽ ἀφ᾽ ὧν Poll.1 FS, A: om. BC 15 οὐδ᾽ ἂν λέγων λέξαις Poll.1 A: ουδὲ λόγω λέξις FS: om. BC τὸν ἀριθμὸν e. g. add. Kaibel
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(A.) Rasoio, specchio, forbicine, cerone, sapone, toupet, frange, mitre, turbanti, rossetto. (B.) ‘la rovina totale!’. (A.) cipria, profumo, pietra pomice, fusciacca, reticella (per le acconciature), velo, fard, collane a girogola, ombretti, gandura. (B.) ‘elleboro!’. (A.) foulard, cintura, scialle, fronzoli, veste bordata di porpora, tunica lunga, ‘cappa’. (B.) ‘baratro!’. (A.) mantello a ruota, ferro arriccia–capelli. E non ho menzionato tra questi gli oggetti più importanti! (B.) Che altro? (A.) Orecchini, castone con pietre preziose, orecchini a piastra, collana, orecchini a grappolo, parure, spille, cavigliere, colliers, catenelle (per i piedi), anelli con sigillo, collane a catena, anellini, cataplasmi, chignons, reggiseni, falli di cuoio, corniole, collane a soggolo, cerchietti per le orecchie, e 〈molte⟩ altre cose (del genere), che tu, se anche cercassi di farlo, non potresti enumerare 1
a [1–15] Poll. VII 95 (FS, A, BC) οὐκ ἂν δ᾽ ἴσως (δ᾽ ἴσως om. FS) φαῦλον εἴη τούτοις ὑποθεῖναι λέξιν ἐκ Θεσμοφοριαζουσῶν Ἀριστοφάνους (Ἀρ. δὲ γυναικῶν ὑδήματα καταλέγει ἐν Θεσμ. BC), ἐπεὶ πολλὰ εἴδη ἐν αὑτῇ περιέχει γυναικείων φορημάτων (ἐπεῖ — φορ. om. BC), ἃ καὶ τοῖς περὶ κόσμων (κόσμοις Α) ἴσως ἂν ἐνήρμοσεν· ξυρόν — λέξαις. Potrebbe forse non essere inutile inserire tra queste considerazioni l’ elenco contenuto nelle Tesmoforiazuse di Aristofane, dal momento che in esso include molti esempi di accessori femminili, esempi che potrebbe forse aver associato anche a quelli della sezione relativa agli ornamenti: «rasoio — enumerare». b [2–14] Clem.Al. Paed. II 124.1–3 (P) πάνυ γοῦν ἐπιψόγως πάντα τὸν γυναικεῖον καταλεγόμενος κόσμον Ἀριστοφάνης ἐν Θεσμοφοριαζούσαις ὑποδείκνυσιν. παραθήσομαι δὲ αὐτὰς τοῦ κωμικοῦ τὰς λέξεις, διελεγχούσας ἀκριβῶς τὸ φορτικὸν ὑμῶν τῆς ἀπειραγαθίας· μίτρας — ἑλικτῆρας. ἐγὼ μὲν ἔκαμον καὶ {ἄχθομαι del. Kaibel} λέγων τὸ πλῆθος τῶν κοσμίων, τὰς δὲ καὶ θαυμάζειν ἔπεισί μοι, ὡς (πῶς Cobet 1867, 480) ἄρα οὐκ ἀποκναίονται τοσοῦτον ἄχθος βαστάζουσαι. Con evidente finalità di biasimo Aristofane, nelle Tesmoforiazuse, presenta, passandolo in rassegna, l’ intero universo degli ornamenti femminili. Menzionerò le stesse parole del poeta comico, che denunciano minuziosamente quanto sia grossolana la vostra ignoranza del bene: «fasce — cerchietti per le orecchie». Io mi sono stancato e {ne avverto il fastidio} a esporre la moltitudine degli orpelli, e mi viene dunque spontaneo meravigliarmi di come mai le donne non si affatichino a portarsi addosso un siffatto carico. 2
c [2–6, 8, 10–14] Poll. V 95–101 (FS, A, BC) 95 σὺ δ᾽ ἂν προσθείης […] 96 καὶ στρόφιον καὶ ὀπισθοσφενδόνην (-δόνη A) (4) παρ᾽ Ἀριστοφάνους (scil. λαβών). καὶ σφενδόνη δέ τι (τις ΒC) ἐκαλεῖτο καὶ ἀναδήματα (ἀνάδημα
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ΒC) (2) […] 97 περὶ δὲ τοῖς ὠσὶν ἕρματα, διόπας (10), ἐλλόβια (6?) […] ἑλικτῆρας (14) […] ἐκαλεῖτο δὲ παρὰ τοῖς κωμῳδοῖς […] βοτρύδια καὶ πλάστρα (βλάστα Α) (10) […] 98 τὰ δὲ περὶ τῷ τραχήλῳ […] περιδέραια (5) […] ὑποδερίδες (14) […] ὅρμοι (11) […] μαλάκια (10) […] 99 περὶ δὲ τοὺς καρποὺς […] ἀμφιδέας (11) […] χλιδῶνας (11) […] ὧν ἔνια καὶ τοῖς περὶ τοὺς βραχίονας ἐπονομάζουσι καὶ τοῖς περὶ τοὺς πόδας, μάλιστα δὲ τὰς ἀμφιδέας καὶ τοὺς χλιδῶνας. ἰδίως δὲ καὶ περὶ τοῖς ποσὶ […] πέδην (11) […] 100 ἐν δὲ τοῖς δακτύλοις δακτύλιον (12), σφραγῖδα (-ίδας A) (12) […] 101 καὶ ἄλλους δέ τινας κόσμους ὀνομάζουσιν οἱ κωμῳδοδιδάσκαλοι […] ὀχθοίβους (ὀχθήβους FS) (2), ὄλεθρον (ὀχθοβουσόλεθρον Α) (3), ἑλλέβορον (6), πομφόλυγας (13), βάραθρον (8) […] ὧν οὐ ῥᾴδιον τὰς ἰδέας συννοῆσαι διὰ τὸ μηδὲ πρόχειρον εἶναί τινα κατιδεῖν εἴτε σπουδάζοντες εἴτε παίζοντες χρῶνται τοῖς ὀνόμασιν. ἴσως δ᾽ ἂν τοῖς κόσμοις προσήκοι καὶ τὸ ἔντριμμα, ψιμύθιον (ψιμμύθιον A: ψυμίθιον FS) (3), ἔγχουσα (ἔχουσα FS: ἄγχουσα A) (3), φῦκος (5), καὶ τὰ ὑπογράμματα (5). 95 si potrebbero aggiungere, prendendoli […] 96 da Aristofane, strophion (benda) e opisthosphendonē (reticella per i capelli) (4). E qualche altro ornamento era chiamato sphendonē e anadēmata (corone) (2) […] 97 e, come orecchini per le orecchie, diopai (10), ellobia (6?) […] heliktēres (cerchietti) (14) […] nei comici erano nominati […] botrydia (orecchini a grappolo) e plastra (orecchini a piastra) (10) […] 98 quelli (scil. i monili) per il collo […] perideraia (collane a girogola) (5) […] hypoderides (collane a soggolo) (14) […] hormoi (colliers) (11) […] malakia (collane) (10) […] 99 per i polsi […] amphideai (braccialetti) (11) […] chlidōnes (cavigliere) (11) […] e alcuni di questi termini sono impiegati per designare anche quelli (scil. i monili) per le braccia e per i piedi: soprattutto le amphideai e i chlidōnes. E specificamente anche per i piedi […] pedē (catenella) (11) […] 100 tra le dita, daktylion (anellino) (12), sphragis (anello con sigillo) (12) […] 101 e i commediografi nominano alcuni altri ornamenti […] ochtoiboi (frange) (2), olethron (rovina) (3), helleboron (elleboro) (6), pompholyges (pomelli da chignon) (13), barathron (baratro) (8) […] dei quali non agevolmente si possono comprendere le tipologie, per il fatto che non è facile distinguerli: si usano questi termini sia seriamente che per scherzo. Possono forse rientrare tra gli ornamenti anche i cosmetici: psimythion (cipria) (3), enchousa (rossetto) (3), phykos (fard) (5), e gli hypogrammata (ombretti) (5). d [1] Phot. λ 361 λίτρον, οὐ νίτρον Ἀττικοί· οὕτως Ἀριστοφάνης. litron, non nitron, (dicono) gli Attici: così Aristofane. 2
e [3 cf. ἔγχ., ὄλ. et ψιμ. Poll. ] Cyr. cod. Z (ap. Naoumides 1968, 286) ὄλεθρον· ἔνιοι (ἕνιοι Ζ) παρὰ Ἀριστοφάνει ἐπὶ κόσμου γυναικείου (γυναικίου Ζ), οὐ καλῶς. ἄλλοι τὸν βαθύ〈ν〉. †ἔστι δὲ ὄλεθρον. ἀποδυσπετοῦντα γὰρ εἰπεῖν τὸν παρὰ τῷ (τὸ Z) Ἀριστοφάνει· ὄλεθρος γὰρ ὁ θάνατος. olethron: alcuni (ritengono che) in Aristofane (il termine sia usato) in riferimento a un ornamento femminile, non correttamente. Altri ‘la profonda †è rovina’. (Ritengono) infatti che sia disperato colui che la pronuncia in Aristofane: perché οlethros è la morte. cf. Hsch. ο 516 ὄλεθρος βαθύς· ἔνιοι ἐπὶ κόσμου γυναικείου· 〈ἄλλοι ἐπὶ δαπάνης· ολλ5 11 ἀποδυσπετοῦντα γὰρ εἰπεῖν τὸν παρὰ τῷ Ἀριστοφάνει. ὄλεθρος γὰρ ὁ θάνατος g S 〉. ολλ5 *ἀπώλεια g
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rovina profonda: alcuni (ritengono che l'espressione sia impiegata) 〈in Aristofane〉 in riferimento a un ornamento femminile; 〈altri in riferimento al denaro speso: (ritengono) infatti che sia disperato colui che la pronuncia in Aristofane: perché olethros è la morte〉. *rovina Phot. ο 202 (g, z)64 pc ὄλεθρον· τὸ κοσμάριον (μόριον g , z: corr. Schneider–Hermann 1847, 224), τὸ γυναικεῖον. olethron: il piccolo ornamento, l’ ornamento femminile. 2
f [4 cf. στρόφ. et ὀπισθ. Poll. ] Eust. ad Dion. Perieg. 7 (GGM II, p. 218.26–35)65 οἱ δὲ παλαιοί φασι καὶ κόσμον τινὰ γυναικεῖον σφενδόνην καλεῖσθαι, ὅμοιον τῇ τηλεβόλῳ σφενδόνῃ ὄντα, πλατὺν μὲν καὶ αὐτὸν τὰ μέσα καὶ πρὸς τῷ μετώπῳ πίπτοντα, ἐκ λεπτοτέρων δὲ καὶ ὀξυτέρων τῶν ἄκρων ὀπίσω δεσμούμενον. ἦν δέ, φασί, καὶ ὀπισθοσφενδόνη παρὰ τοῖς κωμικοῖς ἐκ τοῦ ἐναντίου τῇ τοιαύτῃ σφενδόνῃ, διὰ τὸ γελοιότερον περιτιθεμένη τῇ κεφαλῇ, καὶ ὀπίσω μὲν ἔχουσα τὰ πλατύτερα, τὰ δὲ ὀξύτερα καὶ τὸν δεσμὸν περὶ τὸ ἔμπροσθεν. Gli antichi dicono che anche un ornamento femminile si chiamava sphendonē, essendo simile alla fionda, che colpisce da lontano: anche quella, piatta nella parte centrale e in corrispondenza della fronte, e legata dietro dalle due estremità laterali più sottili e affusolate. La chiamano anche opisthosphendonē, presso i comici, per il fatto che veniva collocata per scherzo sul capo in maniera opposta a (scil. quella che doveva essere la canonica posizione di) una siffatta fionda, e nella parte posteriore aveva i componenti più piatti, mentre quelli più affusolati e il nodo (erano posti) sul davanti. g [6] Hsch. κ 415 καλάσιρις· χιτὼν πλατύσημος, ἢ ἡνιοχικὸς (ἡνοχικὸν cod.: corr. Musurus) καὶ ἱππικὸς χιτών. ἔνιοι δὲ λινοῦν καὶ ποδήρη. 〈ἢ〉 χιτώνιον ἰσχνόν (ποδήρη χιτώνιον ἰσχνόν cod.: corr. Kassel: ποδήρη χιτωνίσκον M. Schmidt). Ἀριστοφάνης Θεσμοφοριαζούσαις. kalasiris: chitone dall’ ampio bordo, o da auriga o da cavaliere. Per alcuni di lino e lungo sino ai piedi. 〈Οppure〉 tunichetta leggera. Aristofane nelle Tesmoforiazuse.
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In linea con Kassel e Austin, ho registrato il lemma foziano, benché privo di un esplicito richiamo ad Aristofane, tra i testimonia (e) del v. 3 di questo frammento, proprio in considerazione della insolita quanto peculiare accezione riportata per il termine ὄλεθρος: accezione che il lessicografo avrà verosimilmente attinto da questo contesto comico. Analoga scelta ho ritenuto di fare nel caso del v. 3 del fr. 334, a proposito della testimonianza fornita da Eust. in Od. 1405.20, e nel caso del fr. 328, a proposito della testimonianza di Poll. X 188 (vd. ad ll.; e vd. anche infra, nn. 65–68). In considerazione dell’ unicità dell’ attestazione letteraria del termine in questo frammento, ho ritenuto di mantenere la testimonianza di Eustazio come testimonium del frammento pur in presenza di un riferimento soltanto generico all’ impiego del termine presso i comici.
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Hsch. τ 1577 τρυφοκαλάσιρις (τρυφὸς καλασιρὶς cod.: corr. Vossius ap. Alberti 1746–1766, II, col. 1430 n. 14)· ἔνδυμα γυναικεῖον. tryphokalasiris: indumento femminile66. Hsch. ε 2147 ἐλλέβορος· βοτάνη […] ἢ κόσμος γυναικεῖος χρυσοῦς. elleboro: pianta […] ovvero monile d’ oro, da donna. Phot. ε 641 ἑλλέβορος· κοσμάριόν τι οὕτω καλεῖται. elleboro: si chiama così un piccolo ornamento67. h [7] Phot. α 1246 (b, z) ἀμπέχονον· σύμμετρον καὶ λεπτὸν περίβλημα, ὥς φησιν Ἀριστοφάνης (ὡς Ἀρ. b) (cf. Hsch. α 3792 ἀμπέχονον· σύμμετρον περίβλημα; Poll. VII 49: ἀμπεχόνιον μικρὸν περίβλημα). ampechonon: indumento di modesta taglia e leggero, come dice Aristofane (cf. Hsch. α 3792 ampechonon: indumento di modesta taglia; Poll. VII 49 [l’]ampechonion [è] un piccolo indumento). Eust. in Il. 641.47 τὸ ἀμπέχονον παρὰ τῷ κωμικῷ. l’ ampechonon (è attestato) presso il commediografo. Harp. ξ 6 (p. 216.9s. Dindorf)68 ξυστίς· Λυσίας ἐν τῷ πρὸς Νικόδημον καὶ Κριτόβουλον (or. 114 fr. 256 Carey). γυναικεῖόν τι ἔνδυμά ἐστιν ἡ ξυστὶς πεποικιλμένον, ὡς δῆλον ποιοῦσιν ἄλλοι τε τῶν κωμικῶν καὶ Ἀντιφάνης ἐν Εὐπλοίᾳ (fr. 99). xystis: (lo usa) Lisia, nell’ orazione In difesa di Nicodemo e Critobulo (or. 114 fr. 256 Carey). Un indumento femminile è la xystis ricamata, come mostrano chiaramente anche molti
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Ho scelto di conservare tra i testimonia del v. 6 anche questa seconda glossa di Esichio perché, come la prima, si riferisce a un hapax assoluto (vd. infra, ad l.): pur in assenza di un esplicito riferimento a un suo impiego in questo frammento, o anche, più genericamente, in Aristofane o in commedia, si può dunque agevolmente postulare la medesima dipendenza dal passo aristofaneo evocato nell’ altra testimonianza esichiana. Ho scelto anche in questo caso di conservare tra i testimonia del v. 6 le glosse di Esichio e di Fozio relative al termine ἐλλέβορος in considerazione della peculiare accezione assegnata al termine dai due lessicografi: accezione, su cui vd. infra, ad l., per la quale sembra plausibile ipotizzare la dipendenza dal contesto da cui è tratto questo frammento aristofaneo. Benché non vi si trovi esplicitamente menzionato Aristofane, anche in questo caso ho scelto di registrare il lemma di Arpocrazione tra i testimonia di questo frammento, in linea con Kassel e Austin, in ragione del pur generico riferimento del lessicografo a «molti commediografi», cui fa seguito la menzione di Antifane.
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commediografi, tra cui Antifane nella commedia intitolata Euploia (Colei [scil. Afrodite] che propizia la buona navigazione) (fr. 99). 2
i [8 cf. βαρ. Poll. ] Phot. β 61 βάραθρον […] Ἀριστοφάνης δὲ κόσμιον γυναικεῖον. barathron […] Aristofane (definisce così) un ornamento femminile. 2
l [10 cf. διόπ., πλ. et μαλ. Poll. ] Phot. μ 63 μαλάχιον· κόσμος χρυσοῦς γυναικεῖος. οὕτως Ἀριστοφάνης. malachion: monile d’ oro, da donna. Così Aristofane. Hsch. β 857 βοτρύδια (βοτροιδία cod.: corr. Pearson 1844, 179; cf. Küster ap. Alberti 1746–1766, I, col. 745)· ἐνωταρίων (ἐνωτάριων cod.: corr. Musurus) εἶδος. οἱ δὲ βότρυς, ἢ (ἐν Fritzsche 1838, 612, ὡς Kassel–Austin dubitanter) Θεσμοφοριαζούσαις (-άζουσιν cod.: corr. Salmasius 1629, I, 763E). botrydia: tipo di orecchini. Altri (scil. dicono) botrys, come nelle Tesmoforiazuse. 2
m [11 cf. ἀμφ., ὅρμ. et πεδ. Poll. ] Harp. α 96 (p. 27.3s. Dindorf) ἀμφιδέαι· εἰσὶ περισκελίδες τινές. Ἀριστοφάνης Θεσμοφοριαζούσαις. amphideai: sono delle cavigliere. Aristofane nelle Tesmoforiazuse. 2
n [12 cf. σφραγ. et δάκτ. Poll. ] Poll. X 167 ἡ δὲ ἅλυσις οὐ μόνον ἐπὶ τοῦ δεσμοῦ ἀλλὰ καὶ ἐπὶ τοῦ γυναικείου κόσμου ὠνόμασται παρ᾽ Ἀριστοφάνει· σφραγῖδας, ἁλύσεις. e la halysis, (detta) non soltanto della catena ma anche del monile femminile, è stata menzionata da Aristofane: anelli con sigillo, collane a catena. 2
o [13 cf. πομφ. Poll. ] Moer. π 20 πομφόλυγας· τὰ δερμάτια, ἃ ἐπὶ τῶν κεφαλῶν αἱ γυναῖκες ἔχουσιν. Ἀριστοφάνης Θεσμοφοριαζούσαις. pompholyges: gli chignon che hanno le donne sulla testa. Aristofane nelle Tesmoforiazuse. 2
p [14 cf. ἑλικτ. Poll. ] Harp. cod. Marc. Gr. 444 ap. Keaney 1967, 214 (nr. 49) ἑλικτῆρες· ἐνωτίων εἶδος. Λυσίας (12.19) [καὶ Ἀριστοφάνης (cf. Lex.Bekk.V p. 248.23 ἑλικτήρ· εἶδός ἐστιν ἐνωτίου. ἐκλήθη δὲ οὕτως ἴσως ἐπεὶ ἑλικ〈τ〉ὴν ἔχει τὴν κατασκευήν). heliktēres: tipo di orecchini. Lisia (12.19) [e Aristofane (cf. Lex.Bekk.V p. 248.23 heliktēr: è un tipo di orecchino. Si chiamava così forse perché ha la forma di una spirale).
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Trimetri giambici
wlwl lrw|l llwl wrwl ll|kl rlww llwr llwl | wlwl wlwl lr|wl llwl wlwl l|rwl rlww wrwl w|lrl wlwl llrl wlw|r llww llwr w|lkl llwl rlwl llk|l llww rlwr l|lwr wlwl wlwr l|lrl llwl llwr l|lrl rlww lrwr ll|wl llww wrkr llw|l w〈lw〉l llwl wl(wl xlwu)
14 Per la risoluzione del longum del secondo metron con due sillabe brevi appartenenti a due parole diverse (-δας / ἑλ-) come fenomeno raro, se non rarissimo, in commedia, vd. Fraenkel 1964, I 440 n. 3 (che considera comunque alquanto dubbio il caso di questo frammento, «denn der Vers ist bei Pollux und bei Clemens in verschiedener Form, aber beide Male verstümmelt überliefert»). Bibliografia Fritzsche 1838, 605–614; Knecht 1972, 46–50; Spyropoulos 1974, 113s.; Albini 1997, 88; Torchio 2000, 34–38; Llewellyn–Jones 2002, xis.; Id. 2003, 27–33; Prêtre 2012, 49–52, 78–118, 120–123, 135–137, 170–180, 187–189, 193– 196, 221s., 229s.; Imperio 2016. Contesto di citazione Il frammento è riportato integralmente in una sezione del VII libro dell’ Onomasticon di Polluce, che cataloga indumenti, cosmetici e accessori dell’ abbigliamento femminile (VII 95 = Poll.1), e, parzialmente, nel Pedagogo di Clemente Alessandrino (II 124.1–3), nell’ ambito di un’ aspra requisitoria contro la vanità femminile (la polemica riguarda in particolare la passione delle donne per le pietre preziose e i monili d’ oro), cui è dedicato un intero capitolo del II libro. Del passo aristofaneo sono citati da Clemente i vv. 2–14, seppure in una forma decurtata (da μίτρας a ἑλικτῆρας) e zeppa di varianti, e, sino al v. 6, con numerose omissioni o sostituzioni di singoli vocaboli e con la soppressione dell’ intero v. 3 (vd. l’ apparato critico). La citazione è immediatamente preceduta (in II 123.2) da quella di un frammento anepigrafo di Nicostrato, che offre un breve elenco comico di monili (fr. 32, su cui vd. infra, ad ἐλλέβορον [v. 6]). E ancora Polluce (V 96–101 = Poll.2), passando dettagliatamente in rassegna i nomi di vari tipi di ornamenti femminili (γυναικείων κόσμων ὀνομάτων), spiega il significato di alcuni dei vocaboli presenti nel nutrito catalogo aristofaneo.
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Testo 3 ἔγχουσαν La correzione della forma ἄγχουσαν, tràdita da Poll.1, operata 2 da Dindorf sulla base della ulteriore testimonianza pollucea (Poll. ), trova conferma nelle testimonianze di Moer. ε 30 (ἔγχουσα διὰ τοῦ ε 〈Ἀττικοί〉· ἄγχουσα διὰ τοῦ α 〈 Ἕλληνες〉); Phot. ε 100 (ἔγχουσαν οἱ Ἀττικοὶ λέγουσι τὴν ῥίζαν, οὐ δὴ ἄγχουσαν); Et.gen. B ([Et.magn. p. 313.30] Ἔγχουσα· βοτάνης εἶδος· ἣ καὶ διὰ τοῦ α λέγεται ἄγχουσα· Ἀττικοὶ δὲ διὰ τοῦ ε ψιλοῦ [cf. Et.Sym. ε 58, p. 160 Baldi; Thom.Mag. Ecl. p. 145.13 Ritschl]), da cui si ricava che ἔγχουσα è la forma attica del sostantivo. Sul tràdito ἔγχουσα per ἄγχουσα in Hsch. ε 353, vd. Cunningham 2020, 15, in apparato. 4 στρόφιον Sulla correzione στρόφι᾽ proposta da Bergk, vd. infra, Interpretazione, ad l. 6 ἐλλέβορον Foerster 1920 proponeva di leggere ἐλλόβιον in luogo di ἐλλέβορον, qui come in Nicostr.Com. fr. 32 (su cui vd. infra). E già Blaydes 1885, 174s. suggeriva, seppure dubitativamente, sulla base di Poll. V 97 (cf. test. c), la forma plurale ἐλλόβια, segnalando però come elemento ostativo proprio la circostanza che ἐλλέβορον si trova attestato nel frammento di Nicostrato. Si può aggiungere che poco più avanti, ma nel medesimo contesto (V 101), allorché Polluce riconsidera più in dettaglio alcuni dei termini presenti nel catalogo aristofaneo, ricompare, seppure nella forma aspirata ἑλλέβορον, il termine attestato dal lessicografo in VII 95, che di questo catalogo rappresenta evidentemente la testimonianza principale. 8 κομμώτριον Non sembra necessario correggere, con Fritzsche (1838, 610), il tràdito κομμώτριον in κροκώτιον, forma ipocoristica di κροκωτός (attestata, peraltro in maniera non univoca, da Ar. Eccl. 332: κροκώτιον R: -ώπιον ΑΓΛ: -ωτίδιον Arnaldus), al fine di ricostruire qui una sequenza, ἔγκυκλον, κομμώτριον, che a suo parere riecheggerebbe un’ analoga sequenza documentata dai vv. 253–261 delle Tesmoforiazuse superstiti, in cui si annoverano, in verità non consecutivamente, due degli indumenti presi in prestito da Euripide, a casa di Agatone, per il travestimento del Parente (più precisamente, al v. 253 Euripide prende il κροκωτός e al v. 261 chiede ad Agatone un ἔγκυκλον; e lo scoliaste, apparentemente abbinando i due indumenti, annota: δῆλον ὅτι τὸ μὲν ἔγκυκλον ἱμάτιον, ὁ δὲ κροκωτὸς ἔνδυμα, Σ Ar. Th. 261a Regtuit). Se d’ altronde il diminutivo κροκώτιον è attestato altrove dallo stesso Polluce (VII 56), va osservato che il sostantivo κομμώτριον ricompare in una ulteriore lista di accessori femminili registrata ancora una volta da Polluce in X 126–127 (τῶν δὲ γυναικείων σκευῶν κτένιον, ξάνιον, κομμώτριον, ξυρόν, κάτοπτρον κτλ.), alcuni dei quali presenti in questo frammento delle Tesmoforiazuse ΙΙ. 9 Il verso, che introduce all’ interno del catalogo una brusca interruzione con una formula preteritiva (τὰ μέγιστα δ᾽ οὐκ εἴρηκα τούτων) non del tutto perspicua (non è chiaro infatti a cosa si riferisca τούτων: verosimilmente sottintendeva un termine che classificava in una precisa categoria gli oggetti passati in rassegna),
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appariva a Kaibel (ap. Kassel–Austin PCG III 2, 186) sospetto: «dubites poetae verba utrum in brevius contracta sint an a poeta alienus totus versus». 14s. A parere di Fritzsche 1838, 614, il commento con cui Clemente Alessandrino conclude la citazione di questo passo delle perdute Tesmoforiazuse («Io mi sono stancato etc.») potrebbe riflettere una sua parafrasi prosastica di qualche verso aristofaneo immediatamente successivo: ma, come osservano Kassel– Austin PCG III 2, 187, i tentativi, esperiti da Bergk e da Blaydes, di conferire a queste parole una veste metrica non hanno condotto al ripristino di una corretta versificazione. Sospette apparivano a Kaibel (ibid.) anche le parole riportate nei codici di Polluce (ma assenti dalla testimonianza di Clemente Alessandrino) dopo la conclusione del catalogo (ἄλλα 〈πολλά〉 θ᾽ ὧν / οὐδ᾽ ἂν λέγων λέξαις). Interpretazione Il presente catalogo pare stralciato da un dialogo che doveva svolgersi tra due interlocutori, presumibilmente maschili, forse esasperati dalla vanità femminile e risentiti con le donne, alla cui passione smodata per gli accessori e i monili più svariati imputavano probabilmente l’origine degli insostenibili sperperi di danaro che portano gli uomini alla rovina. Persuaso del ruolo preponderante svolto dal personaggio di Euripide nella trama della commedia, e richiamando la requisitoria dei vezzi femminili da lui pronunciata nelle Tesmoforiazuse superstiti (vv. 383–432 e 466–519), Butrica (2001, 68) preferisce invece attribuire questa tirata al tragediografo, convenzionalmente caratterizzato da Aristofane come misogino. Se si seguisse Butrica nel solco di questa suggestiva quanto fantasiosa ricostruzione, ci si potrebbe spingere a ipotizzare che il suo interlocutore fosse l’ impacciato complice che di lì a poco si sarebbe introdotto furtivamente nei luoghi delle inaccessibili celebrazioni femminili delle Tesmoforianti: e bisognerebbe allora supporre che il fr. 332 fosse inserito in una scena analoga a quella che nell’ omonima commedia superstite vedeva protagonista il Parente (vv. 213–268), sottoposto a operazioni di depilazione, trucco e travestimento femminile, e che il suo mentore Euripide stesse qui dispensando al suo ingenuo connivente informazioni essenziali alla sua permanenza nel gruppo delle celebranti, nel corso della quale avrebbe dovuto dimostrare dimestichezza con gli insulsi gingilli tanto cari alle donne. Il dialogo si inserisce nel solco della convenzionale polemica comica, contro lusso e vanità delle donne ateniesi, ispirata a una tradizione letteraria misogina consolidata già a partire da Esiodo e destinata a inveterata fortuna in tutta la letteratura, pagana e cristiana, dei secoli successivi (vd. Knecht 1972, 39–55)69. Per restare nel campo della commedia di V secolo, basterà ricordare il modo in cui Aristofane ironizzava sulla passione delle donne per abiti, belletti, calzature e monili, nella Lisistrata, dove emblematici appaiono sia l’iniziale scambio di battute
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E Llewellyn–Jones 2002, xi sospetta che proprio questo contesto aristofaneo potesse avere in mente Eliano, laddove, a proposito della passione per il lusso coltivata dalle donne del passato, afferma: τῶν δὲ Ἀττικῶν γυναικῶν τὴν τρυφὴν Ἀριστοφάνης λεγέτω (VH I 18).
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di Calonice (vv. 42–45) con Lisistrata (vv. 46–48) sia, più avanti, le considerazioni che emergono dal monologo del Probulo (vv. 404ss., in particolare 404–419). In generale, cataloghi burleschi di questo tipo – miranti, con l’ ausilio di una recitazione e di una mimica efficaci, a divertire il pubblico – sono, com’ è noto, frequenti in commedia (vd. Spyropoulos 1974, passim, ma in particolare 112s., e ora Ruffell 2021, con più recente bibliografia ); ma, come emerge dalla ricognizione di loci paralleli (per cui vd. Headlam 1922, 26 e 344; Torchio 2000, 34; Di Gregorio 2004, 272; e, per i cataloghi culinari, vd. infra, ad fr. 333), l’ accumulazione di sostantivi in asindeto, applicata alla polemica contro il lusso femminile, diverrà topica in particolare nella mesē (cf. Alex. fr. 103 e Antiph. fr. 105 [catalogo di oggetti utilizzati come strumenti di seduzione dalle etere], e 146 [elenco asindetico e omeoteleutico di verbi relativi alle azioni del lavarsi, adornarsi, truccarsi e profumarsi]) e nella nea/palliata (cf. soprattutto Plaut. Aul. 505–524 [elenco delle svariate e innumeri tipologie di artigiani di cui necessita l’uxor morosa], Epid. 230–235 [elenco di differenti tipi di vesti femminili e di stoffe] e Poen. 210–232 [giaculatoria di rimostranze contro la rovina rappresentata, in termini economici, per un uomo, dal sostentamento di una donna, all’ interno della quale s’inseriscono elenchi asindetici relativi alle diversificate azioni del lavarsi, asciugarsi, agghindarsi e truccarsi]), oltre che nel mimiambo (cf. Herod. 7.57–61 [elenco di calzature femminili]). Interrotto, al v. 9, dalla preterizione della persona loquens (τὰ μέγιστα δ᾽ οὐκ εἴρηκα τούτων), da cui consegue, nel medesimo verso, diviso in antilabé, la ovvia domanda dell’ interlocutore (εἶτα τί;), il catalogo riprende, al verso successivo, con un’ altra, più breve sezione, dedicata all’ elencazione di monili, per concludersi, nei due versi finali, con un’ ulteriore preterizione (ἄλλα 〈πολλὰ〉 θ᾽ ὧν / οὐδ᾽ ἂν λέγων λέξαις, vv. 14c–15). Non è chiaro, come si è detto (vd. supra, ad Testo), a cosa si riferisca il τούτων del v. 9: verosimilmente sottintendeva un termine che classificava in una specifica categoria gli oggetti passati in rassegna. Quello che è evidente è che il primo interlocutore menzionava dapprima 32 elementi per poi procedere con un ulteriore elenco di 20 che, per induzione, dovrebbero rappresentare per lui τὰ μέγιστα. La monotonia dell’ elencazione è spezzata da fulminei commenti ironici nei quali non si può escludere siano da riconoscere inserzioni bomolochiche del secondo locutore (donde l’ interlocuzione che si è deciso di adottare nel testo e nella traduzione dei vv. 3, 6 e 8), che esplicitano l’ intento denigratorio nei confronti dei vezzi femminili via via menzionati: ὄλεθρον τὸν βαθύν al v. 3, ἐλλέβορον al v. 6 e βάραθρον al v. 8. Come osserva Llewellyn–Jones 2002, xii, le troppo vaghe etimologie fornite, in maniera peraltro desultoria e occasionale, da eruditi e lessicografi non sempre consentono di individuare con esattezza ciascuno degli orpelli elencati, che risultano comunque riconducibili alle seguenti categorie tipologiche: 1) strumenti per la cura e l’ igiene del corpo (ξυρόν, κάτοπτρον, ψαλίδα, λίτρον, v. 1; κίσηριν, v. 4; κομμώτριον, v. 8); 2) cosmetici (κηρωτήν, v. 1; ἔγχουσαν, ψιμύθιον, v. 3; μύρον, v. 4; φῦκος, ὑπογράμματα, v. 5; καταπλάσματα, v. 12); 3) abiti e accessori per l’ abbigliamento e per l’ acconciatura (προκόμιον, ὀχθοίβους, μίτρας, ἀναδήματα, v.
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2; στρόφον, ὀπισθοσφενδόνην, v. 4; κάλυμμα, v. 5; τρυφοκαλάσιριν, κεκρύφαλον, v. 6; ζῶμ᾽, ἀμπέχονον, τρύφημα, παρυφές, ξυστίδα, v. 7; κύφωνα, ἔγκυκλον, v. 8; περόνας, v. 11; πομφόλυγας, ἀποδέσμους, v. 13); 4) monili e gioielli (διόπας, διάλιθον, πλάστρα, μαλάκιον, βότρυς, v. 10; χλίδωνα, ἀμφιδέας, ὅρμους, πέδας, v. 11; σφραγῖδας, ἁλύσεις, δακτυλίους, v. 12; σάρδια, v. 13; ὑποδερίδας, ἑλικτῆρας, v. 14). 1 ξυρόν Il rasoio era comunemente utilizzato dalle donne per la depilazione: Aristofane vi fa riferimento anche nell’omonima commedia conservata (vd. Th. 218–220, dove l’ effeminato Agatone dà in prestito a Euripide uno dei propri rasoi, custoditi in un apposito astuccio, da impiegare per la rasatura del Parente70) e nelle Ecclesiazuse (cf. v. 65) come accessorio che le donne, intenzionate a camuffarsi da uomini per recarsi all’ assemblea, e perciò decise a lasciarsi ricrescere i peli, hanno già da un pezzo gettato via. La più celebre allusione alla depilazione delle parti intime femminili è forse quella di Lys. 151, dove si fa riferimento alla forma ‘a delta’ (Δ), assunta dal pelo pubico delle donne ateniesi, le quali decidono di barricarsi in casa «nude e col pube depilato a delta» (γυμναὶ […] δέλτα παρατετιλμέναι; cf. Eccl. 724, dove si afferma che alle schiave è lecito depilarsi il χοῖρος, «a common euphemism for the vagina»: Meineck–Storey 1998, 245). κάτοπτρον Emblema di vanità, associato principalmente ad Afrodite (cf. e. g. Call. Lav.Pall. 17–22; Stat. Silv. III 4.93–98; AP [Iul.Imp.] VI 18.5s.; Ath. XV 687c; Philostr.Jun. Im. I 6.304) e ad Elena (cf. Eur. Tr. 1107, Or. 1112), lo specchio acquista spesso una precipua valenza erotica; e in quanto accessorio tra i più comuni della toilette delle donne, compare spesso nelle tragedie femminili euripidee, per l’ appunto associato a (o evocato da) personaggi femminili (cf. in particolare le attestazioni di κάτοπτρον, o ἔνοπτρον, in Med. 1161, Hec. 925, Hipp. 429, El. 1071, fr. 752f.3 [dall’ Ipsipile] e fr. 322.2 Kn. [dalla Danae], su cui vd. Karamanou 2006, 85, con passi e bibliografia ulteriori). Come oggetto di scena lo specchio figura nelle Tesmoforiazuse superstiti, dove assume una particolare pregnanza nel gioco comico costruito sull’ambiguità di genere che connota il personaggio comico di Agatone. Confuso infatti tra gli oggetti da toeletta che Euripide e il Parente vedono sparsi sul letto dell’ effeminato tragediografo (v. 140), lo specchio rimarca la componente femminile del personaggio di Agatone, anche perché riflette il suo viso pallido e meticolosamente rasato: prova di una femminilità raggiunta attraverso la cancellazione di ogni traccia visibile di peluria mascolina. Lo stesso oggetto Euripide lo porge poi al Parente perché questi ammiri la perfetta riuscita della propria depilazione (vv. 233s.): e quello, che si sente intimamente uomo, nel guardarsi allo specchio dichiara di non vedere riprodotta la propria immagine, ma piuttosto quella del noto invertito Clistene! L’ oggetto ricompare poi, appeso al 70
E poco prima, al v. 191, ἐξυρημένος era stato definito l’ effeminato tragediografo dallo stesso Euripide; e analoga pare essere la cifra comica dell’ aprosdoketon realizzato nelle stesse Tesmoforiazuse II, ai danni di questo medesimo personaggio, dall’ espressione contenuta nel fr. 341 (vd. ad l.).
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muro, nella scena comica dipinta su un celebre cratere apulo della prima metà del IV secolo a. C. (Würzburg, Martin von Wagner Museum, inv. H 5697, il cosiddetto ‘Telefo di Würzburg’): ispirato alle numerose rappresentazioni vascolari del ‘ratto di Oreste’ perpetrato nel Telefo di Euripide dal protagonista, il manufatto riproduce l’ azione dei vv. 750–755 delle Tesmoforiazuse, in cui il Parente, brandendo nella mano destra il coltello sottratto dall’ altare presso il quale si era rifugiato una volta smascherata la sua identità maschile, minaccia la bambina che ha preso in ostaggio (in realtà un otre di vino provvisto di scarpine), e, al contempo, tiene a distanza Mica, la di lei madre (vd. Austin–Olson 2004, lxxv–lxxvii, con ulteriore bibliografia). In generale, sulle molteplici implicazioni simboliche connesse all’ impiego dello specchio nell’ immaginario tanto maschile quanto femminile vd. Frontisi – Ducroux–Vernant 1997 (cui si rinvia anche per la documentazione iconografica). Sulla formazione del vocabolo e sulle sue attestazioni negli inventari delle offerte votive nel santuario di Delo e in altri inventari epigrafici attici vd. Prêtre 2012, 135–137. In commedia, κάτοπτρα figurano, tra belletti e accessori femminili, in Antiph. fr. 187 (su cui vd. Olson 2022, 326, con ulteriore bibliografia generale). ψαλίδα Forbicine per le unghie: termine attestato, in questa accezione, nella 2 forma dell’ accusativo plurale in Soph. fr. 407a R. (ψαλίδας, τιάρας καὶ σισυρνώδη στολήν) oltre che, probabilmente, in AP (Phan.) VI 307.5 = HE 3014 (vd. Gow– Page 1965 II, 475, ad l.). κηρωτήν Unguento a base di cera, qui indicato come cosmetico, ma noto in tutta la letteratura medica, a partire da Ippocrate, per i suoi effetti officinali, e applicato in particolare su ferite, contusioni e fratture (cf. e. g. Hp. Fract. 9 [III, p. 450.1–2 Littré], 11 [III, p. 452.18–20 Littré], 21 [III, p. 486.9s. Littré], ma già nello stesso Aristofane: cf. Ach. 1176 con il relativo scolio), e menzionato tra i δημιόπρατα (i beni confiscati a ermocopidi e profanatori dei misteri eleusini nella tarda estate del 415 a. C. e posti poi all’ incanto e rivenduti dai πωληταί) in IG Ι3 421.163 (cf. Pritchett–Pippin 1956, 311), dove κηρωτ]έ è integrazione sulla base di Poll. X 150 (cf. Pritchett–Pippin 1956, 318–325). λίτρον Con questo termine – forma ionico–attica corrente, nel V secolo a. C., per νίτρον (cf. Phot. λ 361; Phryn. Ecl. 272 Fischer; sul recupero, nella lingua della koiné della forma originaria, vd. Napolitano 2012, 121 n. 299 e 181s.) – erano denominati vari sali (carbonato di sodio e di potassio; nitrato di potassio o salnitro), impiegati come detergenti o come medicinali o in ambito culinario (cf. Schramm 1936; Pritchett–Pippin 1956, 311s.; Ginouvès 1962, 141s., con ulteriore bibliografia). Ov. Medic. 73 documenta un uso cosmetico della nitri spuma rubentis, probabilmente quella particolare schiuma di nitro descritta da Plinio (XXXI 113) come di colore quasi rossiccio (colore paene purpureo), proveniente dalla Lidia, e considerata la qualità migliore (optimum putatur Lydium), che si acquistava in forma di tavolette e che ci si poteva anche scambiare in dono (cf. Mart. XIV 58; Stat. Silv. IV 9.37).
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2 προκόμιον In riferimento al presente frammento, il GI3 traduce il termine con «parrucca», ma l’ etimologia del composto (πρό + κόμη) suggerisce un accessorio meno invasivo della parrucca e forse solo una falsa frangetta (cf. LSJ, s. v. : «false front»). Un termine più moderno che può forse rendere la funzionalità dell’ accessorio è il francese toupet (propr. «ciuffo», dal franco *top «cima»), che indica «un ciuffo di capelli, naturali o artificiali, pettinati e composti in modo vario, usato per completare o abbellire le acconciature» (Vocabolario Treccani, s. v.). Come attesta Polluce (II 30), l’ uso di accessori simili, e specialmente di parrucche, è documentato non solo per le donne, ma anche per gli uomini: in Men. Asp. 386 il προκόμιον («parruccone») connota ad esempio il look elegante del falso medico. ὀχθοίβους Data la polisemia del vocabolo, per il quale si sospetta peraltro un’ origine pre–ellenica (vd. Chantraine DELG, s. v.; DGE, s. v.; Beekes EDG, 1137, s. v.), è difficile arguire il significato più idoneo al contesto. Da Phot. o 743 il termine, glossato come λῶμα, «frangia», risulta attestato al singolare in un frammento degli Accessori (Lēroi, Λῆροι) di Ferecrate (μίτραν ἁλουργῆ, στρόφιον, ὄχθοιβον, κτένα [«mitra di porpora, fascia per il seno, frangia, pettine»], il fr. 106, che presenta un’ analoga accumulazione asindetica, seppure per l’ estensione di un solo verso, di orpelli femminili: vd. Franchini 2020, 78–80, ad l., e 72–74, a proposito del titolo della commedia, che potrebbe alludere appunto a ornamenti femminili), laddove al frammento aristofaneo potrebbe riferirsi la forma all’ accusativo plurale registrata dalla glossa successiva (o 744: ὀχθοίβους· τὰ λώματα. ἔστι δὲ περὶ τὸ στῆθος τοῦ χιτῶνος ἁλουργὲς πρόσραμμα), dal cui più esteso interpretamentum si ricava che il termine designava le frange atte a ornare l’ orlo purpureo del chitone femminile all’ altezza del petto; cf. Hsch. ο 2033: ὄχθοιβοι· περιάπτειν τινὰ εἰώθασι περὶ τοὺς χιτῶνας, ἃ καλοῦσιν ὀχθοίβους· εἰσὶ δὲ τὰ λεγόμενα λώματα; Et.gen. AB (Et.magn. pc ac p. 645.22) s. v. ὄχθοβος (ὄχθοβος B : ὄχθωβος AB )· τὸ λῶμα τὸ γυναικεῖον ὑπὸ Ἀττικῶν ὄχθοβος (ὄχθωβος A) λέγεται (ὑπὸ Ἀττικῶν – λέγεται A: οὔτως λέγεται ὑπὸ Ἀττικῶν Β); Et.gen. λ 162 Alpers: λῶμα: τὸ γυναικεῖον. ὑπὸ Ἀττικῶν ὄχθοιβος λέγεται; Sud. ο 1049: Ὄχθοβος: τὸ γυναικεῖον λῶμα; e vd. Theodoridis 1982–2013, III, 133, ad l. Significativo che nel frammento ferecrateo, assieme all’ ὄχθοιβος sia menzionata, tra altri orpelli tipicamente femminili come pettine e cintura, anche una purpurea μίτρα: termine che segue qui immediatamente la menzione delle medesime frange. È altresì significativo che in ambedue i passi l’ ὄχθοιβος sia menzionato assieme ad accessori per la cura e la decorazione dei capelli: un pettine in Ferecrate (ὄχθοιβον, κτένα) e una ciocca di capelli sovrapposta in maniera posticcia in Aristofane (προκόμιον, ὀχθοίβους). Non si può dunque escludere la possibilità che in ambo i casi il termine ὄχθοιβος designi una frangia non tanto d’ abito, ma per tenere legati i capelli o per ancorare il citato toupet. E rafforzano forse la presente esegesi anche i termini subito dopo citati, anch’ essi pertinenti al campo dell’ acconciatura. Un ὄχθοιβος χρυσία ἔχο[ν (forse un aureo «neckband»: 3 cf. LSJ, s. v.) è menzionato in IG I 403.68s., all’ interno di una lista di arredi consacrati ad Artemide Brauronia, trasferiti ad Atene intorno al 416 / 15 a. C. nonché in IG II2 1388.83s. (ὄχθοι[βο]ς [χρυσία] / ἔχων δώδεκα), dove l’oggetto viene ripetu-
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tamente conteggiato tra gli ex voto di una donna nell’elenco dei monili trasferiti dal Brauronion all’Hekatompedon e inventariati dai tesorieri di Atena nel 398/97 a. C. μίτρας Il termine μίτρα, forse connesso con una radice sanscrita e con l’ analogo nome del dio Mitra (vd. Chantraine DELG, s. v.; Beekes EDG, 959, s. v.), in età classica designa un insieme di veli e tessuti combinati in fogge differenti per realizzare un copricapo (donde talvolta, come in questo frammento, l’ impiego del plurale per indicare l’ insieme dei nastri che la compongono), assimilabile all’ἄμπυξ di età arcaica (vd. Losfeld 1991, 222s., 323 con n. 108, 333; Telò 2002, 54s. con la ulteriore bibliografia ivi discussa) o al più tardo διάδημα, una fascia ornamentale decorata con oro e gioielli (cf. Xen. Cyr. VIII 3.13). Generalmente considerata di origine orientale (cf. e. g. Alcm. PMGF 1.67s.; Sapph. fr. 98a.10s. V.; Hdt. I 195.1, VII 90.1), nel mondo greco–romano la mitra era indossata da donne o da uomini travestiti da donne (cf. e. g. Eur. Hec. 924; Theoc. 17.19; Lucr. IV 1129, su cui vd. infra; Prop. IV 7.61s.; e in particolare per le sue ulteriori attestazioni comiche, oltre al su menzionato fr. 106 di Ferecrate, cf. Ar. Th. 941 e già 257 [dove la mitra, prestata da Agatone al Parente di Euripide, è abbinata al κεκρύφαλος, un abbinamento documentato peraltro anche dal ‘nuovo’ Posidippo: vd. infra, ad v. 6]; Men. Pk. 823), e come tale è considerato indice di mollezza e di effeminatezza: non a caso è attributo di Dioniso e accessorio del corredo dionisiaco (cf. e. g. Soph. OT 209; Eur. Ba. 833, 929; Diog.Ath. TrGF 45 F 1.1s. Sn.–Kn. e vd. Bezantakos 1987, 85–94), nonché di vincitori atletici (cf. e. g. Pi. O. 9.84, I. 5.62; Eur. El. 162s.) e nelle raffigurazioni vascolari di comasti e banchettanti e, più in generale, di uomini raffinati e mollemente atteggiati, ‘alla maniera ionica’: come i poeti lirici elencati da Agatone in Ar. Th. 161–163 (su questi impieghi diversificati vd. Austin–Olson 2004, 111 ad l., con passi e bibliografia ulteriori). Sulla mitra in generale vd. Brandenburg 1966; Tölle–Kastenbein 1977; Bezantakos 1987; e sul suo impiego in commedia, Stone 1981, 203s. ἀναδήματα Come copricapo femminile ἀνάδημα è attestato in Pl.Com. fr. 195.1, e, insieme alla mitra, in Pi. fr. 179 Maehler; Eur. Hipp. 83, El. 882; e ricompare in Aristid. Or. 19(41).4. Il termine è altresì registrato in uno dei frammenti 2 superstiti (IG II 1514–1530) del catalogo epigrafico di offerte votive ad Artemide Brauronia compiute da donne ateniesi durante la seconda metà del IV secolo a. C. (IG II2 1523.15s.: ἀ[νάδημα ποι|κίλον, su cui vd. Cleland 2005, 108). Cf. Lucr. IV 1129, dove la sequenza anademata, mitrae è inserita in un celebre contesto catalogico, dedicato alle ‘conseguenze dell’ amore’ (vv. 1123–1140), nel quale l’ accumulazione di termini greci appare perfettamente consona alla caratterizzazione, di ascendenza comica, del giovane che sperpera il danaro paterno per compiacere la fanciulla amata donandole monili e accessori di abbigliamento (vd. Godwin 1986, 160s., ad l.): un topos comico che la palliata doveva evidentemente aver ereditato dalla nea (cf., e. g., Plaut. Most. 295, Ter. Ad. 117, e vd. Segal 1968, 203s.; Griffin 1976, 92s.; Rosivach 1980). 3 ἔγχουσαν […] ψιμύθιον Sulla preparazione e l’ impiego di questi due cosmetici (molto comuni tra le donne e spesso combinati, nelle operazioni di
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maquillage), vd. Dover 1973, 59; Grillet 1975, 33–36, 40s.; Cameranesi 1987, 39; Glazebrook 2009, 234–236, con ulteriore bibliografia. In particolare, l’ἔγχουσα (lat. purpurissum) era una sorta di fard/rossetto, estratto dalla radice della pianta omonima, l’ Anchusa tinctoria (o Alkanna tinctoria), della famiglia delle borraginacee (cf. Thphr. HP VII 8.3; Dsc. Mat.Med. IV 23), con cui le donne si coloravano le guance di rosso (cf. Hsch. ε 353: ἔγχουσα· ῥίζα τις, 〈ᾗ τὰς〉 παρειὰς ἐρυθραίνουσιν αἱ γυναῖκες); lo ψιμύθιον (lat. cerussa) era una sorta di biacca bianca, a base di carbonato basico di piombo, usata dalle donne per enfatizzare, all’ opposto, il candore della pelle (cf. Poll. V 102: ψιμυθίῳ λευκαίνει, e, tra le principali attestazioni letterarie, Lys. 1.14 e 17, dov’ è documentata la forma verbale ἐψιμυθιῶσθαι, alla quale si puà accostare la forma verbale ἐγχουσίζεσθαι documentata da fr. com. adesp. *170; Xen. Mem. II 1.22, Oec. 10.2; Ov. Med. 73) e per nascondere le rughe (cf. Alciphr. IV 12.2; AP [Luc.] XI 408.3; Plaut. Most. 258–264), ottenuta dall’ impasto della raschiatura bianca residuata da pezzi di piombo dissolti e acidificati nell’ aceto: impasto che veniva pestato in un mortaio e poi modellato e porzionato in pani o tavolette per la vendita (cf. Thphr. Lap. 56; Dsc. Mat.Med. V 88, Aët. Iatr. II 82; Plin. XXXV 175s.; e vd. Shear 1936; Caley–Richards 1956, 187–189; Arnott 1996, 280, ad Alex. fr. 103.17; Olson 2009, 295). Nella commedia greca, l’ impiego, singolo ovvero combinato, di questi due belletti caratterizza – assieme a quello dei profumi (μύρα) – le donne in genere, quali sono ad esempio descritte da Calonice nella Lisistrata, ai vv. 47s. e le vecchie di Eccl. 878, 929, 1072 e Pl. 1064 (sulla funzione dei cosmetici in queste tre scene, vd. Saiko 2005, 67–75), nonché le etere di Eub. fr. 97.1, 8, Alex. fr. 103.17 (nell’ ambito di un catalogo di trucchi e strumenti di seduzione delle etere, elaborato da Alessi in una commedia, Isostasion, verosimilmente intitolata appunto al nome o al nomignolo di una etera), e forse anche di Amips. fr. 3 (vd. Orth 2013, 199s., ad l.). ὄλεθρον τὸν βαθύν Con riferimento al presente contesto aristofaneo, nell’ esegesi antica il termine ὄλεθρος, che comunemente esprime il concetto di «rovina» e di «morte», viene messo in relazione con gli ornamenti femminili (Poll. V 101: cf. test. c; Phot. ο 202: test. e; e cf. anche Hsch. ο 429: οἶτος […] ὄλεθρος […] καὶ ὁρμίσκος τις ἐξ αἱματίτου, «sorte funesta […] rovina […] qualcuno [scil. dice] anche collana di pietra ‘ematite’ [scil. di colore rosso sangue]», che il Vossius [ap. Alberti 1746–1766, II, col. 735 n. 3] riconduceva al medesimo contesto comico); ma dalla testimonianza di Cirillo (test. e) emerge anche la possibilità che si tratti di un’ espressione di disappunto, connessa a una (eccessiva) spesa (cf. Hsch. ο 516); e l’ erroneità della più diffusa interpretazione, di natura evidentemente autoschediastica, viene esplicitamente denunciata (οὐ καλῶς). Poiché è di per sé inverosimile che l’ espressione «profonda, la rovina» potesse riferirsi a un prodotto di cosmesi o a un accessorio di bellezza, sembra lecito ipotizzare che si tratti di un inciso, pronunciato della persona loquens, o, più probabilmente, del suo interlocutore, volto a spezzare causticamente la sequenza catalogica con rapide e icastiche considerazioni sulla dannosità della vanità femminile: a «profonda rovina» (da correlarsi all’ altro probabile inciso βάραθρον del v. 8) è destinato l’ uomo che cada
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nel tranello della seduzione femminile («la rovina del portafoglio», traduce Beta 2009, 157). Non è dunque da escludersi, dato il correlato inciso del v. 8, che tanto ὄλεθρον quanto βάραθρον «potessero essere fulminanti adattamenti al contesto delle note formule malauguranti εἰς ὄλεθρον e εἰς βάραθρον» (Lorenzoni 2017, 434; e già Imperio 2016, 151; ma vd. anche supra, ad Interpretazione, e infra, ad vv. 6 e 8). 4 μύρον Termine generico per designare il profumo, μύρον è attestato in questa commedia anche nel fr. 336.2, forse in riferimento a una particolare fragranza menzionata in precedenza: vd. ad l. κίσηριν Sull’ antico impiego cosmetico della pietra pomice per levigare la pelle, cf. Plin. XXXVI 154–156 e vd. Marx 1905, 100, ad Lucil. VII 264; Blümner 1897, 474.26ss.; Ginouvès 1962, 141 n. 8. στρόφον Il termine parrebbe designare un tipo di cintura o di fascia per adornare il capo (cf. Gloss. in Hdt. p. 458 Stein [= Lex. Gr. min. p. 206] τὸ περὶ τὴν κεφαλὴν στρόφιον ὅ ἐστιν ἐρεοῦν, da cui Sud. σ 1221 λέγεται καὶ στρόφος τὸ περὶ τὴν κεφαλὴν στρόφιον: vd. Stein in Gloss. in Hdt., p. 477s. = Lex. Gr. min. p. 225; Const.Porph. Exc. de virt. et vit. I, p. 343.9 Büttner–Wobst = Nic.Dam. FGrHist 90 F 62 = Sud. κ 2124.3, μ 21.3: κόμην τρέφων χρυσῷ στρόφῳ κεκορυμβωμένην). E in riferimento a una fascia per la testa usata come indumento di lusso dal celebre pittore Parrasio, il termine è attestato in Ath. XII 543f. Nell’ attico del V secolo è documentato soltanto da Aesch. Sept. 872 (ritenuto interpolato), e ricostruito congetturalmente dal Portus in Aesch. Supp. 457 sulla base dello scolio 457a Smith (τὰς στροφὰς τῶν ζωνῶν), in luogo del tràdito στρόβους, e in ambo i casi spesso inteso come sinonimo del diminutivo στρόφιον, ripetutamente impiegato da Aristofane nelle Tesmoforiazuse (vv. 139, 251, 255 e 638), nonché in Lys. 931 e fr. 664, per indicare il reggiseno (cf. Austin–Olson 2004, 102, ad Th. 139: «a broad band of cloth worn by women […] to provide support for the breasts, rather like the modern bra»; ma secondo Prato 2001, 206, nei vv. 251 e 255 il termine potrebbe più genericamente designare una fascia che doveva forse fungere da cintura del κρωκοτός menzionato al v. 253, piuttosto che il reggiseno menzionato al v. 139: sulla questione vd. ora Imperio 2016, 131s. con n. 10)71: sullo στρόφιον come accessorio dell’ abbigliamento intimo femminile e veicolo di seduzione in
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Come però osservano Friis Johansen e Whittle (ad Aesch. Supp. 457), l’ identificazione di στρόφος con il più comune στρόφιον, ovverosia col «reggiseno», nei due passi eschilei è altamente improbabile, e renderebbe assurdo in particolare il senso di Sept. 872, dove lo στρόφος che Antigone e Ismene stringono attorno alle proprie vesti durante il compianto funebre dei due fratelli non può che essere un accessorio indossato al di sopra delle vesti: «it must be the upper girdle or cord sometimes worn by women just below the breasts in addition to the lower girdle, ζώνη, in order to keep the chiton or peplos closer to the body» (Friis Johansen–Whittle 1980, II 362); in definitiva, «the word apparently refers to a detail, presumably a cord or band of some sort (cf. Od. 13.438) which is characteristic of women’ s clothing» (Sandin 2005, 203, ad Aesch. Supp. 457).
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commedia vd. Bagordo 2016, 232, ad Ar. fr. 664, con la bibliografia ivi citata. Nel presente frammento delle Tesmoforiazuse II l’ eventuale ricorso al diminutivo στρόφιον renderebbe più definito il senso del termine e il riferimento all’ indumento che esso designa, ma risulterebbe ametrico: donde l’ apprezzabile proposta di Bergk di correggere il tràdito στρόφον in στρόφι᾽. D’ altra parte va detto che, in ambo i casi, la menzione di tale indumento non sarebbe dissonante rispetto agli altri accessori citati: come osserva Franchini 2020, 80, tanto nel su citato fr. 106 dei Lēroi di Ferecrate quanto in Ar. Th. 251 e 255 στρόφιον è contestualmente correlato alla μίτρα; e così anche in questo frammento, per il quale si è perciò scelto di conservare, in linea con Kassel e Austin, il testo tràdito e di optare, col termina «fusciacca», per una traduzione che contempli come plausibili ambedue le possibilità esegetiche. ὀπισθοσφενδόνην Di questo termine i lessicografi (cf. Polluce V 96: test. c) sembrano non conoscere l’ esatta accezione nell’ ambito della terminologia relativa agli accessori femminili, un’ incertezza che si trascina fino ai moderni lessici, nei quali si attribuiscono al sostantivo due significati riconducibili a un accessorio finalizzato a contenere i capelli, da tergo (ὄπισθεν), attraverso una reticella o un anello. Presumibile dunque che l’ oggetto fosse una variante della semplice σφενδόνη (cf. L.C. Purser in Smith – Wayte – Marindin 1890-1891, I, 1890, s. v. Coma: «the σφενδόνη [Poll. V 96] or “sling–shaped band” was broad in the middle, where it stood on the forehead, and tapering away towards the extremities; the aristophanic ὀπισθοσφενδόνη was a similar band for the back hair» [p. 499]). Il composto trova nel passo aristofaneo la sua unica attestazione letteraria, ma diventa poi oggetto di attenzione presso i lessicografi (vd. supra). Da Eustazio (ad Dion. Perieg. 7, GGM II, p. 218.26–35: cf. test. f) si ricava che il composto, usato per designare un ornamento femminile, evocava la forma di una fionda, in linea con la comune accezione del semplice σφενδόνη (con la parte anteriore che cadeva piatta e sospesa, a mo’ di pendente, al centro della fronte, e due estremità più sottili e affusolate che venivano legate dietro la testa): una ricostruzione che è certo utile a risalire alla morfologia dell’ oggetto ma che suscita perplessità nel successivo riferimento ai «comici», i quali avrebbero usato il termine «per designare questo monile indossato scherzosamente sul capo al rovescio». Invero, gli studi di numismatica non presumono un uso improprio ‘al rovescio’ di tale monile. La sua rappresentazione è associata soprattutto alla maestria di Euclida, incisore di monete della zecca di Siracusa, attivo intorno al 440–420 a. C., sotto l’ influsso di Fidia (vd. Rizzo 1938), specializzato nel tipo di testa femminile di profilo con i capelli raccolti nella reticella stellata, detta appunto ὀπισθοσφενδόνη (per la fortuna di tale iconografia nella numismatica, vd. Sole 2014). E inoltre, per la rappresentazione dell’ accessorio nella ceramica figurata, vd. e. g. Ruvo di Puglia, Museo Nazionale Jatta, inv. 35317 (J 539), cratere a campana apulo a figure rosse, Pittore di Vaticano V14, circa 365–350 a. C., su cui Roscino 2015, 21–23, tavv. 3–4. 5 κάλυμμα Termine comunemente attestato, assieme a κρήδεμνον e a καλύπτρα (più rari sono προκάλυμμα e καλύπτειρα), per designare vari, non
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ben distinti tipi di velo femminile (sulla terminologia vd. Losfeld 1991, 221 e 322; Llewellyn–Jones 2003, in part. 28–33 e 299–301; Giammellaro 2017, 50–53). Nella Lisistrata il κάλυμμα vien fatto indossare dalla protagonista all’ Arciere nel tentativo di ridurlo al silenzio (v. 530). Su questo indumento in Aristofane, vd. Stone 1981, 202s.; e, in particolare sulla sua valenza simbolica come evocativo della condizione femminile nella scena della Lisistrata (529–534) su menzionata, vd. Taaffe 1993, 64; Finnegan 1995, 75; Dorati 1998, 45s. Anche κάλυμμα (come i successivi κεκρύφαλος, ἀμπέχονον ed ἔγκυκλον) è ripetutamente attestato nei frammenti epigrafici che registrano le offerte votive di indumenti femminili ad Artemide Brauronia (vd. supra, ad ἀναδήματα, v. 2): cf. IG II2 1514.3, 1517.133, 1524.204 e 1529.9s., 13 e 14, e vd. Cleland 2005, 116. φῦκος Cosmetico femminile (cf. Hsch. φ 960) ricavato da un’ alga, di colore rosso chiaro o scuro, arancione o rosato, utilizzato come rossetto per le labbra (e vd. Gow 1952, II, 271, ad Theoc. 15.16 [dove il φῦκος è menzionato di seguito al νίτρον]; ulteriore bibliografia in Torchio 2000, 36 n. 25). Numerosi i riferimenti nell’ opera di Luciano, dove il φῦκος è indicato, ad esempio, assieme a biacca (ψιμύθιον) e mastice (μαστίχη), come uno dei cosmetici con cui s’ imbellettano i cinedi (Ind. [31] 23); in Merc.Cond. [36] 33 è annoverato, in associazione all’ ombretto (παρακαθίζεσθαι φῦκος ἐντετριμμένον καὶ ὑπογεγραμμένον τοὺς ὀφθαλμοὺς), mentre in Hist.Conscr. [59] 8 si trova menzionato, tra altri κόσμοι ἑταιρικοί, il φυκίον, in associazione con lo ψιμύθιον, e in Bis Acc. [29] 31 in associazione all’ ombretto (κοσμουμένην δὲ καὶ τὰς τρίχας εὐθετίζουσαν εἰς τὸ ἑταιρικὸν καὶ φυκίον ἐντριβομένην καὶ τὠφθαλμὼ ὑποφραφομένην). Infine in Pisc. [28] 12 è la Filosofia a essere ironicamente assimilata da Parresiade a una cortigiana truccata con biacca e rossetto (ψιμύθιον καὶ φῦκος). περιδέραι᾽ Il composto, formato a partire da δέρη, «collo», talora impiegato come attributo (ad es. di κόσμος), nella forma neutra sostantivata, al singolare o, come qui, al plurale, designa per lo più collane (come la forma semplice δέραια), ma a volte anche orecchini: cf. Hsch. π 1626: περιδέραια (-ρεα cod., corr. Musurus)· περιτραχήλια. ἢ ἐνώτια (cf. Et.gen. AB [Et.magn. p. 663.46; ex Oro, Π. ὀρθογρ.], Moer. π 22), nonché collari per cani o cavalli (cf. e. g. Poll. V 55; Hsch. δ 691). Nella testimonianza di Polluce (V 98, test. c) i περιδέραια sono menzionati tra altri tipi di collane (τὰ δὲ περὶ τῷ τραχήλῳ […] περιδέραια […] ὑποδερίδες […] ὅρμοι […] μαλάκια). Meno frequente nel greco di età classica rispetto al più comune ὅρμος, ma comunque attestato come monile anche nelle fonti epigrafiche (vd. Prêtre 2012, 187–189, che traduce il vocabolo con «collier ras–de–cou», distinguendolo così dal quasi sinonimo ὑποδερίς, su cui vd. infra), il termine si riferisce ad alcuni γνωρίσματα di un fanciullo esposto in un frammento papiraceo di commedia nuova (fr. 1084.27; cf. τὰ δέραια καὶ γνωρίσματα in Men. Epitr. 303; δέραια καὶ βραχὺς τις [δι]άλιθ̣[ος in Men. Pk. 815): secondo un impiego documentato per il teatro tragico da Aristotele nella Poetica (1454b25, 1455a20). ὑπογράμματα In ambito cosmetico, il termine designava una polvere scura usata come ombretto per gli occhi (cf. Phryn. PS p. 118.9 de Borries: ὑπογράμματα·
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οἷς ὑπογράφονται τοὺς ὀφθαλμούς. ἔστι δέ τις μέλαινα σκευασία, ἣν καὶ στίβην [στίμμιν Kaibel ap. Kassel–Austin PCG III 2, 185; cf. Ion TrGF 19 F 25 Sn. = 28 Leurini: καὶ τὴν μέλαιναν στίμμιν ὀμματογράφον] καλοῦσιν; Phot. υ 186: ᾧ τοὺς ὀφθαλμοὺς ὑπογράφουσιν [= Et.magn. p. 782.8: vd. Theodoridis 1978, 166; Id. 1982–2013, III, 535, ad Phot. υ 186]; Hsch. υ 589: ὑπογράμματα· στιμ⟨μ⟩ίσματα [στημίσματα cod., corr. Musurus] τῶν ὀφθαλμῶν). Con lo stesso valore Senofonte usa nella Ciropedia il termine ὑπογραφή (I 3.2); e si veda anche l’ accezione di ὑπογεγραμμένη, participio medio–passivo di ὑπογράφω, in Ar. fr. 910 glossato da Phot. υ 178 = Et.magn. p. 782.9 con ἐστιβισμένη (ἐστειβ- Phot. g z), in riferimento a donna, appunto, «truccata»: per l’ impiego di questo verbo nella specifica accezione di «truccare gli occhi» cf. i su citati passi di Luc. Bis Acc. [29] 31 e Merc. Cond. [36] 33 e vd. Bagordo 2018, 101s., ad Ar. fr. 910 e Olson 2022 324s., ad Antiph. fr. 187. 6 τρυφοκαλάσιριν L’ indumento designato da questo hapax, composto a partire dal più comune termine καλάσιρις, è descritto da Esichio (κ 415 [test. g] come un chitone, talvolta di lino, lungo fino ai piedi e con un’ ampia orlatura, indossato da aurighi o cavalieri: sostanzialmente corrispondente alla tunica laticlavia dei Latini (cf. D. S. XXXVI 7, Str. III 5.1). Di provenienza egiziana (cf. Phot. κ 108; Sud. κ 202; Poll. VII 71), la καλάσιρις, descritta da Erodoto (II 81.1) come dotata di «frange attorno alle gambe», prendeva il nome probabilmente dalla classe dei guerrieri egizi detta Καλασίριες (vd. A. Lloyd, in Asheri–Lloyd–Corcella 2007, 295 ad Hdt. II 81.1). Una καλάσιρις menziona Cratino in un frammento delle Fanciulle di Delo [Dēliades] (fr. 32.2, su cui vd. Bianchi 2016, 185s.), come indumento indossato da un effeminato Licurgo (PA 9249; LGPN II, s. v., nr. 3; PAA 611320), nonno del noto Licurgo oratore e politico del IV secolo, descritto dai comici come egizio (cf. Ar. Av. 1296, con Σ [vet Tr] 1296a Holwerda; Pherecr. fr. 11). E dalla καλάσιρις prende il nome una commedia di Alessi, e forse anche un suo personaggio (vd. Arnott 1996, 283). La καλάσιρις è prescritta dal gynaikonomos a donne, ragazze e schiave come indumento da indossare, assieme o in alternativa ad altri specifici indumenti, in occasione della celebrazione dei misteri di Demetra ad Andania, 3 succursale messenica di Eleusi, nell’ anno 92 / 1 a. C. (cf. IG V 1 1390 = SIG nr. 736 = Sokolowski LSCG nr. 65, e vd. Losfeld 1991, 107, e soprattutto Ogden 2002, 204s., 214s.). In generale, su questo indumento, confezionato non solo in Egitto, ma anche in Grecia (per la precisione, a Corinto) e in Persia (cf. Democrito di Efeso, FGrHist 267 F 1 = Ath. XII 525d), e, a stare a Hsch. ι 806, da alcuni identificato con la ξυστίς, un altro abito sontuoso e solenne menzionato in questo frammento al v. 7, vd. Cleland – Davies – Llewellyn–Jones 2007, 101. ἐλλέβορον Oscuro, in questo punto del catalogo, il senso della citazione di una pianta officinale dalla cui radice si estraevano medicamenti aventi proprietà (che occorrerà tenere a mente per l’ esegesi del termine) al contempo lassative, dietetiche, calmanti, emetiche e abortive (vd. Hünemorder 1998). Alla luce di quanto osservato per ὄλεθρον τὸν βαθύν, è probabile che la menzione ex abrupto dell’ elleboro costituisse una nuova rottura della sequenza catalogica, volta a esprimere
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ellitticamente (dalla persona loquens o, come ho ipotizzato, dal suo interlocutore) una considerazione di sdegno sul tema della vanità femminile. Considerato che l’ elleboro aveva proprietà emetiche, l’ inciso potrebbe ad esempio richiamare il senso di nausea provato dal personaggio parlante a fronte di quella lunga elencazione di orpelli (come dire: «vomito!», «bleah»). Ma potrebbe trattarsi anche di espressione concepita come un invito, rivolto alla persona che parla, affinché si calmi, interrompendo quel martellante e fastidioso elenco. Da non escludere (come osserva Lorenzoni 2017, 434 con n. 31) una brachilogia di πῖθ’ ἐλλέβορον «bevi l’ elleboro», espressione proverbiale (vd. Tosi 2017, 125), di cui reca memoria Aristofane in V. 1489. Che qui il termine sia «metonimico per ‘follia’» ritiene Torchio 2000, 38 con n. 33 («medicine for insanity!» traducono Austin–Olson 2004, lxxvii; «hellebore» traduce Henderson 2007). Si prospetterebbe insomma una ellittica riflessione sul potere dell’ elleboro come efficace antidoto contro la pazzia (cf. Pigeaud 1995, 234–240; Imperio 1998, 249s., con ulteriore bibliografia). È d’ altra parte possibile che, muovendo da tale accezione, il secco accusativo maschile ἐλλέβορον giocasse volutamente su una possibile assonanza col neutro ἐλλόβιον («orecchino», così traduce peraltro Beta 2009, 157): il pubblico teatrale, che non avrebbe trovato strana la menzione di orecchini in un elenco di quel tipo, capiva poi bene che non si stava parlava di ornamenti ma di elleboro. Per rimarcare l’ assonanza tra i due termini era però necessario l’ improprio singolare ἐλλόβιον (illogico perché gli orecchini dovrebbero essere due), essendo viceversa inconcepibile qui il plurale di ἐλλέβορος: donde le su menzionate proposte di correzione in ἐλλόβια / ἐλλόβιον, comunque non necessarie (cf. supra, Testo, ad l.). Ed è probabilmente per influenza del contesto aristofaneo che i lessici antichi ammettevano per ἐλλέβορος l’ accezione di monile (cf. test. g): particolarmente significativa in tal senso la testimonianza di Esichio (ε 2147), che spiega ἐλλέβορος con βοτάνη ma anche con κόσμος γυναικεῖος χρυσοῦς, una glossa che costituirebbe un autoschediasma generato proprio dal contesto aristofaneo. Così, da ultimo, Lorenzoni 2017, 433s., che lucidamente esamina il problema non solo della ricezione di tale (improprio) significato di ἐλλέβορος nei dizionari moderni (cf. 3 LSJ, GI ) ma anche della sua problematica reiterazione in Nicostr. fr. 32 (ἁλύσεις, καθετῆρας, δακτυλίους, βουβάλι’, ὄφεις, / περισκελίδας, ἐλλέβορον), un elenco di monili testimoniato accanto al passo aristofaneo da Clemente Alessandrino. Ma anche per Nicostrato il problema si porrebbe in termini non diversi: il passo testé citato «sarebbe da intendere ugualmente come un aprosdoketon […]; (può essere utile ricordare che il comico è figlio di Aristofane? Si veda la coincidenza del v. 12 σφραγῖδας, ἁλύσεις, δακτυλίους con Nicostr. v. 1 ἁλύσεις, καθετῆρας, δακτυλίους)». κεκρύφαλον Reticella o fascia per raccogliere e avvolgere i capelli a mo’ di fazzoletto: cf., e. g., la descrizione presente in D.H. Ant. Rom. VII 9.4 e vd. Couve 1900; Stone 1984, 203s.; Jenkins–Williams 1985, 413; Losfeld 1991, 254, 322 e 332; Llewellyn–Jones 2003, 30s.; Austin–Olson 2004, 102, ad Ar.Th. 138; Cleland–Davies–Llewellyn–Jones 2007, 103; e, a proposito delle menzioni che
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di questo accessorio si registrano in vari frammenti del catalogo epigrafico di offerte votive ad Artemide Brauronia (e. g. IG II2 1522.18: κεκρυφάλους τρεῖς, 1523.22 κεκρύφαλον ποικίλον, e 1524.129: κεκρύφαλον λευκόν), Cleland 2005, 118 con n. 43. Per ulteriori attestazioni comiche, cf. Ar. Th. 138 e 257, dove, in abbinamento alla μίτρα (su cui vd. supra, e, per la medesima combinazione, cf. Posidipp. 46.3s. Austin–Bastianini), rientra nel corredo vestiario dell’ effeminato Agatone e poi nel travestimento femminile del Parente; Antiph. frr. 115.2 e 187 (all’ interno di un catalogo di accessori femminili), e anche, forse ancora una volta all’ interno di un catalogo, Eup. fr. 170 (vd. Olson 2016, 79, ad l., cui rinvio anche per attestazioni e bibliografia ulteriori). Κεκρύφαλος era inoltre il titolo di una commedia di Menandro. 7 ζῶμ᾽ Il termine ζῶμα (variante del più comune ζώνη), che designa comunemente cinture di ogni tipo, come accessorio dell’ abbigliamento femminile è ben attestato in poesia: da Alceo (fr. 42.10 V., dove, una volta slegato, suggella il compimento dell’ unione matrimoniale di Teti con Peleo) a Eschilo (Supp. 457) a Sofocle (El. 452, come offerta sacrificale deposta dalla protagonista sulla tomba del padre) a Menandro (fr. 327). Una ζώνη come strumento di seduzione viene indossata da Era nella celeberrima scena della iliadica Diòs apatē (Il. XIV 181). In generale, su fogge e impieghi di questo indumento nell’ abbigliamento delle donne, che lo indossavano al di sopra del chitone o del peplo, appena sopra i fianchi, vd. Llewellin–Jones 2002, 156–158. ἀμπέχονον Il termine, qui reso con «scialle», può in realtà riferirsi genericamente a ogni indumento femminile sottile e semitrasparente (vd. Llewellyn–Jones 2003, 27). D’ altronde, come ha precisato Di Benedetto 2004 a proposito della più comune forma femminile ἀμπεχόνη attestata in Posidipp. 122.2 Austin–Bastianini, a fronte delle testimonianze lessicografiche nelle quali l’ indumento in questione viene in genere identificato con un mantello (cf. Phot. α 1243: ἀμπεχόνη· ἄμφιον, ἱμάτιον, πάλλιον; Hsch. α 3793: ἀμπεχόνην· λεπτὸν ἱμάτιον e vd. Cunningham, ad l.; e, per la forma diminutiva ἀμπεχόνιον, cf. almeno Moeris α 111: ἀμπεχόνιον Ἀττικοί· λεπτὸν ἱμάτιον Ἕλληνες e Hsch. α 3794 con Cunningham ad l.), le più significative attestazioni letterarie di ἀμπεχόνη (tra le quali spicca Pherecr. fr. 113.28, dove, nell’ utopico scenario di un Paese di Cuccagna localizzato nell’ oltretomba, viene descritto un gruppo di fanciulle, simili alle ballerine descritte in Ar. Ra. 515s. [vd. Franchini 2020, 115, ad l.], le cui ἀμπεχόναι sono – almeno nell’ immaginazione della persona loquens – abbastanza trasparenti da fargli intravedere le loro parti intime), nonché le testimonianze lessicografiche relative al neutro ἀμπέχονον qui attestato (cf. test. h) mostrano che esso non designerà esclusivamente uno scialle o un mantello – come viene generalmente ritenuto (ad es. da Losfeld 1991, 44, 291, 327) e tradotto in questo frammento aristofaneo (tra altri, da Torchio 2000, 36, 61 e da Henderson 2007, 275) – ma, più in generale, un qualsiasi tipo di indumento femminile (vd. Gow 1952, II, 273, ad Theoc. 15.21), relativo cioè anche alla parte inferiore del corpo. La sottigliezza e la conseguente fragilità di questo indumento, registrato come parte dell’ armamentario di seduzione di un’ etera (cf. Ath. XIII
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596c), si desumono da Theoc. 27.59s., dove alla pastorella dell’ Arcadia che lacera la sua sottile ἀμπεχόνη durante la sua prima esperienza sessuale l’ amante promette di comprarne una più grande e di migliore qualità. E tuttavia le tre attestazioni di ἀμπεχόνη nelle iscrizioni relative all’ armamentario muliebre dedicato dalle donne ateniesi ad Artemide nel Brauronion, due delle quali alludono a un’ ἀμπεχόνη drappeggiata attorno alla statua di Artemide, e la terza a un’ἀμπεχόνη contenuta in una cassa votiva di legno, non consentono di identificare questo indumento con un «velo» (vd. Llewellyn–Jones 2003, 27s.). Anche la forma neutra ἀμπέχονον, ancora in riferimento a un indumento femminile, è documentata dalle citate dedicazioni ad Artemide Brauronia: cf. IG II2 1514.18, 34, 36, 50, 1522.17, 1524.218s. e vd. Cleland 2005, 108. τρύφημα Il termine pare designare un qualsivoglia accessorio ornamentale di lusso (vd. Cleland 2005, 65), del quale è difficile precisare l’ esatta natura. In Polyzel. fr. 12 qualcuno, designato come «quel folle Dionisio» (si tratterà verosimilmente di Dionisio I, tiranno di Siracusa dal 405 al 367 a. C., stigmatizzato in questo frammento come lussurioso ed effeminato: sulla questione, e sull’ interpretazione dell’ intero frammento, vd. Orth 2015, 355 – 362), viene descritto mentre «si lascia andare a danze lascive nel negozio di profumi», χρυσοῦν ἔχων χλίδωνα καὶ τρυφήματα […] / παρ᾽ Ἀθηναίων (vv. 2s.); e nel catalogo epigrafico delle offerte votive ad Artemide Brauronia il termine τρύφημα, ripetutamente registrato (IG II2 1514.71, 1517.162, 136s., 1523.25, 1524.199; 1525.3), è in qualche caso qualificato da attributi come «ricamato» (κατά]στικ[τ]ο(ν): 1514.71; 1518.68s.; περίστι[κτον: 1525.3) o «decorato» (περιποί[κιλον: 1523.24) o anche «color croco» (κροκωτόν: 1517.162): vd. Cleland 2005, 128s. παρυφές Per Polluce si tratta di una «veste bordata e ricamata con un orlo di porpora sui fianchi» (VII 53: παρυφὲς δὲ καὶ παραλουργὲς τὸ ἑκατέρωθεν ἔχον παρυφασμένην πορφύραν), diversamente da Fozio, che identifica questo indumento con un mantello (π 280: παράπηχυ: ἱμάτιον τὸ παρ᾽ ἑκάτερον μέρος ἔχον πορφύραν· τοῦτο δὲ καὶ παρυφὲς καλοῦσιν). ξυστίδα Nell’ erudizione antica la ξυστίς (o ξύστις) risulta variamente definita: in generale, doveva trattarsi di un indumento sontuoso nella foggia e nel tessuto, emblema di ricchezza o di lusso (cf. Clem.Al. Paed. II 111.2). Descritta in Phot. ξ 72 = Sud. ξ 169 e Phot. ξ 71 come tunica femminile lunga sino ai piedi (χιτὼν ποδήρες γυναικεῖος) e come indumento decorato (γυναικεῖόν τι ἔνδυμά ἐστι πεποικιλμένον), drappeggiato (ἐσκευοποιημένον), dotato di cinturone (ἔχον ἐπιπόρπημα), leggero (τὸ λεπτόν, παρὰ τὸ ἐξύσθαι), proprio dell’ abbigliamento tragico (τραγικόν τι ἔνδυμα, ἰδίως δε τὸ τῶν τραγῳδῶν ἔνδυμα) o equestre (ἔστι δὲ καὶ ἱππικὸν ἔνδυμα), era indossata, oltre che dalle donne (cf. soprattutto Ar. Lys. 1190, dove viene menzionata assieme ad altri orpelli femminili, tra στρώματα ποικίλα e monili d’ oro, e anche Antiph. fr. 99 , citato, con Lys. or. 114 fr. 256 Carey, da Arpocrazione: cf. test. h), da aurighi (l’ esempio più noto è l’ abito del celebre ‘Auriga di Delfi’), attori tragici (cf. Cratin. fr. 294; Poll. IV 116; Ath. XII 535e, con la citazione di Duris FGrHist 76 F 14, oltre al su citato Phot. ξ 72 = Sud. ξ 169),
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cavalieri, atleti, governanti e personaggi pubblici a vario titolo in veste ufficiale (cf. e. g. Diph. fr. 51.1; Plu. Alc. 32), ed era ovviamente considerata un segno di mollezza (cf. e. g. Ar. Nu. 70; Eub. fr. 89.3; Pl. R. 420e). Su questo indumento vd. Gow 1952, II, 50, ad Theoc. 2.74; Stone 1981, 182s.; Losfeld 1991, 106 e ora Olson 2023, 361s., ad Antiph. fr. 99. 8 κύφωνα Con la traduzione «cappa» si è cercato di rendere l’ accezione verosimilmente ambigua che questo termine assume nel presente contesto. Secondo Phot. κ 1275 (che cita Posidipp.Com. fr. 45: κύφωνες· ἱμάτια γυναικεῖα, ἢ χιτῶνος εἶδος. οὕτως Ποσείδιππος), si trattava di un tipo di himation femminile o di una particolare foggia di chitone; e tuttavia il termine designava anche, e più comunemente, uno strumento di tortura, in genere identificato con la gogna (cf. Hsch. κ 4754: κύφων· ὅπερ ἔνιοι συνάγχην καλοῦσιν. δηλοῖ δὲ καὶ δεσμὸν ξύλινον. τάσσεται δὲ καὶ ἐπὶ πάντων τῶν δυσχερῶν καὶ ὀλεθρίων. ἔστι γὰρ καὶ χιτῶνος εἶδος. καὶ κυφωνισμὸς ἐπὶ τῶν τιμωριῶν. καὶ ἐπικεκαμμένη ῥάβδος κύφων; menzionato in commedia da Cratin. fr. 123; Ar. Pl. 476, 606; Men. Dysc. 102), sul quale ai colpevoli – in particolare (a stare a Poll. X 177, testimone del su citato frammento cratineo) di reati legati alle attività commerciali nell’ agorà (sanzionati dagli agoranomoi, i quali potevano infliggere anche punizioni corporali ai non cittadini: vd. Lipsius 1905–1915, I, 93–95; Bonner–Smyth 1930–1938, I, 279–287; MacDowell 1971, 313, ad Ar. V. 1407; Rhodes 1993, 575s., ad [Arist.] Ath. 51.1; Sommerstein 2001, 170 ad Pl. 476) – veniva bloccato il collo perché potessero essere poi frustati (cf. Arist. Po. 1306b2 : δεθῆναι ἐν ἀγορᾷ [scil. di Tebe] ἐν τῷ κύφωνι). Metonimicamente, κύφων poteva designare un soggetto poco raccomandabile (un «furfante», un «pendaglio da forca»): un siffatto uso ingiurioso del termine è testimoniato da alcuni scolii ad Ar. Pl. 476 (“κύφων” […] καὶ ὁ πονηρὸς ἄνθρωπος “κύφων” ἀντὶ τοῦ κακὸς καὶ ὀλέθριος, Σ [vet] 476c Chantry, [Tz] 476b Massa Positano, dai quali dipende Sud. κ 2800), che citano 2 Archil. fr. 274 W. È dunque possibile che all’ impiego del vocabolo sia sottesa in questo contesto un’ analoga valenza ingiuriosa: si tratterebbe cioè di una forma velata di imprecazione che preluderebbe, in climax ascendente, a una formula più esplicitamente malaugurante, espressa dal termine βάραθρον, immediatamente successivo, rivolta all’ indirizzo delle donne. βάραθρον Generalmente interpretato nell’ esegesi antica come sinonimo di «ornamento femminile» (Poll. V 101: cf. test. c; Phot. β 61: cf. test. i). Fritzsche 1838, 606 accostava βάραθρον a διάβαθρον, termine che designava un tipo di sandalo prevalentemente femminile (vd. Arnott 1996, 276, ad Alex. fr. 103.8), e riconosceva qui un gioco di parole con βάθρον, non altrimenti attestato per denominare una calzatura, ma che è la lezione tràdita nei codd. BC di Poll. VII 95. Ma, come si è cercato di argomentare anche a proposito dell’ espressione ὄλεθρον τὸν βαθύν del v. 3, il vocabolo sembra in realtà implicare in questo contesto quantomeno un double entendre ingiurioso, se non essere addirittura una esclamazione bomolochica del primo o del secondo locutore (per questa seconda ipotesi ho optato nel definire l’ interlocuzione del verso), che presupporrebbe evidentemente l’ idea che
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la passione sfrenata per il lusso può condurre alla rovina gli uomini meno capaci di resistere a smodate pretese delle donne. Non a caso, in un frammento dell’ Amante del flauto del comico Teofilo (fr. 11.3), Barathron è anche il nome di una prostituta: vd. Bechtel 1902, 117s. E potrebbe non essere casuale anche la circostanza che nello Pseudologistēs di Luciano ([51] 17) ὄλεθρον, κύφωνα e βάραθρον («rovina, forca, baratro») figurino in sequenza (preceduti da ἀπατεῶνα, γόητα, ἐπίορκον: «ingannatore, mistificatore, spergiuro»), a realizzare un’ accumulazione verbale con la quale si intende qualificare il tipo umano del cinedo, sfrenato e degno di prendere il nome dalle sue stesse azioni (εἴ τις ἴδοι κίναιδον καὶ ἀπόρρητα ποιοῦντα καὶ πάσχοντα, ἐπίσημον ἐπὶ τούτῳ καὶ ἀπερρωγότα καὶ μονονουχὶ τοὔνομα τῶν ἔργων αὐτῶν ὀνομαζόμενον). La circostanza consente poi a Luciano di giustificare, di fronte alle critiche mossegli dall’ anonimo nemico, fautore di una più pura dizione attica, l’ impiego di ἀποφρὰς ἡμέρα come apostrofe ingiuriosa. Non irrilevanti anche alcune locuzioni usate da Giovanni Crisostomo proprio a proposito della vanità femminile (cf. Epist. ad Olympiad. 8.9.23s.: ὀλέθριον καὶ βλαβερὸν καὶ βαθὺ τὸ βάραθρον ἔχον) e dell’ insolenza giovanile (cf. De Anna Serm. 4 [LIV, col. 661.34–36 Migne]: […] χαλεπώτερος ὁ ὄλεθρος, βαθὺ τὸ βάραθρον). Come indurrebbe a ipotizzare quest’ ultimo passo, e come del resto è stato osservato proprio a proposito di questo luogo aristofaneo (da Lorenzoni 2017, 434: vd. supra, ad Contenuto), questo accusativo, come il precedente ὄλεθρον τὸν βαθύν, al v. 3, potrebbe evocare la nota formula malaugurante εἰς (τὸ) βάραθρον, ampiamente documentata dalla commedia (cf. e. g. Ar. Eq. 1362, Nu. 1449, Ra. 574, Pl. 1109; Alex. fr. 159.1; Men. Dysc. 394, 575; e inoltre Plaut. Bacch. 149, Curc. 121, Rud. 570). E, più in generale, il termine βάραθρον potrebbe essere di per sé evocativo della fossa in cui venivano precipitati i condannati a morte (sul Barathron come sede di esecuzione delle pene capitali ad Atene vd. Arnott 1996, ad Alex. fr. 159.1 e Sommerstein 2001, 168, ad Pl. 431, con passi e bibliografia ulteriori). ἔγκυκλον Mantello di forma circolare (cf. Phot. ε 63; Sud. ε 135; Σ Ar. Lys. 113 Hangard). Non è chiaro se fosse distinto dall’ himation maschile dal fatto di avere forma arrotondata o di essere, rispetto a quello, maggiormente decorato o più colorato (vd. Losfeld 1991, 303s.; Stone 1981, 164s.) e interamente bordato di porpora (cf. soprattutto Paus.Gr. ε 7: ἔγκυκλον· ἱμάτιον περιπόρφυρον καὶ χιτὼν γυναικεῖος, ὃν ἔνδοθεν ἐνδύονται γυναῖκες, εἶτα τὸ ἔνδυμα. κτλ.; Phot. ε 977: ἔγκυκλον· περιπόρφυρος ἱμάτιον; π 280: παράπηχυ […] τὸ δὲ κύκλῳ τὴν πορφύραν ἔχον [scil. ἱμάτιον] ἔγκυκλον). Altre cinque attestazioni del termine si registrano nelle commedie femminili di Aristofane: nel prologo della Lisistrata, al v. 113, lo indossa Calonice, la quale si dichiara disposta a darlo in pegno pur di procurarsi del vino (cf. v. 114), e al v. 1162 l’ Ambasciatore spartano ne chiede la restituzione, con probabile riferimento osceno alla forma circolare del deretano di Riconciliazione. Nelle Tesmoforiazuse, l’ ἔγκυκλον completa il travestimento in donna del Parente di Euripide (v. 261) ed è poi dispiegato da una moglie infedele, davanti al marito, per nascondergli la presenza dell’ amante e permettere così a quest’ ultimo di sgattaiolare fuori della sua casa (vv. 499–501). Nelle Ecclesiazuse
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viene scambiato con l’ himation del marito Blepiro da Prassagora per poter uscire di casa occultando la propria femminilità (vv. 535–538). La stoffa con la quale era confezionato poteva essere bianca, con o senza decorazioni, oppure colorata, come lasciano supporre gli aggettivi che qualificano gli ἔγκυκλα dedicati ad Artemide Brauronia sull’ Acropoli dalle donne ateniesi: cf. IG II2 1514.48 (ποικίλον), 1516.25, 2 1517.154, 1529.6s. (περιποί[κιλος]), e IG II 1524.206 e 223 (λευκόν), e vd. Cleland 2005, 113. In generale, sull’ἔγκυκλον nelle commedie femminili di Aristofane vd. Perusino 2002a. κομμώτριον Ferro usato per arricciare i capelli, donde il termine κομμώτρια per indicare l’ acconciatrice, ossia l’ ancella addetta alla cura di abbigliamento, trucco e parrucco di una signora, attestato in Ar. Eccl. 737 e in Pl. R. 373c; e cf. il verbo κομμοῦσθαι («acconciarsi») in Eup. fr. 459 (lemmato da Phot. κ 921 = Sud. κ 2010 con καλλωπίζεσθαι περιέργως καὶ γυναικωδῶς: «abbellirsi in maniera accurata e femminea», su cui vd. Olson 2014, 225) e l’ attitudine alla κομμωτική («cosmesi») censurata in Pl. Grg. 465b–c. 10 διόπας, διάλιθον Entrambi attestati in un’ iscrizione che registra il trasferimento, avvenuto nel 416 / 15 a. C., di alcune offerte votive del tesoro di 3 Artemide Brauronia ad Atene (IG I 403: δ]ιόπα χρ[υσᾶ, r. 34, integrato da Hiller sulla base del confronto con r. 7; δ]ι ά̣ λιθον χρυσία ἔχον, r. 66), il primo dei due vocaboli designava «orecchini» (cf. Poll. V 97 [test. c]; Hsch. δ 1893 ~ Phot. δ 642 διόπαι· εἶδος ἐνωτίων [διόπαι· ἐνώτια Phot.]. τινὲς δὲ [εἶδος add. Phot.] ὑποδημάτων), verosimilmente a cerchietto (che presupponevano cioè il foro del lobo: sulla complessa etimologia e sulle molteplici sfaccettature del termine vd. Prêtre 2012, 120–123); il secondo, come pare suggerito dalla sua composizione, doveva forse indicare un qualsivoglia gioiello realizzato con pietre preziose (donde la generica traduzione «castone con pietre preziose»). In Menandro questo monile è menzionato come uno dei γνωρίσματα dei bimbi esposti (cf. Epitr. 386 e il già citato Pk. 815; e vd. Martina 2000, II 2, 246, ad Epitr. 386). πλάστρα χρυσᾶ Particolare tipologia di orecchini d’ oro a piastra (cf. Poll. V 97 [test. c]; Hsch. π 2465 πλάστρα· ἐνώτια), ottenuti per fusione di metalli preziosi 3 (cf. πλάσσω, su cui Beekes EDG, 1203 «earring»), menzionati anche in IG I 386.63, in una lista di ἀναθήματα trasferiti dai sacerdoti di Eleusi ai tesorieri di Atene nel 408 / 7 a. C. μαλάκιον Un tipo di collana non meglio precisato da Polluce (V 98: test. c), la cui varia lectio μαλάχιον pare ricondurre il termine a μαλαχή, «malva» (vd. Chantraine DELG, s. v.). Più generica la glossa di Hsch. μ 150: μαλάκιον· γυναικεῖον κοσμάριον. βότρυς Anche in questo caso i lessicografi parlano di orecchini (Poll. V 97 [test. c] = fr. com. adesp. 783, Hsch. β 857 [test. l]; cf. Phot. β 221: βότρυς· ἐνώτια), che saranno stati forgiati forse ‘a grappolo’. 11 χλίδωνα Il termine, prima di Aristofane attestato soltanto nell’ epica arcaica (in un frammento del poeta epico Asio dedicato alla τρυφή dei Samii: cf. fr. 13.6 Bernabé e vd. Veneri 1984), poteva designare bracciali, braccialetti, collane
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o cavigliere (Poll. V 99: cf. test. c; Hsch. χ 518: χλιδῶνες· [χλιδῶνες cod., χλίδωνες corr. Stephanus, sed accent. epic. def. Bernabé 1996, 131] κόσμος ὃν [κόσμοι ὧν cod., corr. Stephanus] αἱ γυναῖκες περὶ τοῖς βραχίοσιν εἰώθασι φορεῖν καὶ τοὺς τραχήλους; Sud. χ 341: χλιδόνας· κόσμους περὶ τοὺς βραχίονας. καλοῦνται δὲ βραχιόλια; e, per la grafia χλιδόνες / χλιδόνας, cf. anche Synag. χ 86 [= An.Bachm. p. 416.3]; Sud. β 522; Ps.–Zonar. col. 407.15 Tittmann), generalmente di oro (cf. e. g. D. S. XVIII 27.5; Greg.Nyss. In Eccl. 4.2.88–89). Si trattava dunque di preziosi orpelli indossati di norma dalle donne e come tali associati all’ effeminatezza (cf. Polyzel. fr. 12.2, su cui vd. supra, ad v. 7) e, anche etimologicamente, al lusso (cf. e. g. Sud. χ 344: χλιδῶσαι· τρυφῶσαι, e vd. Beekes EDG, 228, 1637 s. v. χλιαίνω). Per l’ accentazione χλίδων, χλίδωνος cf. Theodos. Περὶ κλίσεως τῶν εἰς ων βαρυτόνων, p. 18.18s. Hilgard e vd. Veneri 1984, 81s. n. 2. La forma χλιδών è comunque al2 trettanto ben documentata dalle testimonianze epigrafiche (cf. e. g. IG II 1388.85 [χλιδὼν χρυσία ἔχων], dove il monile è registrato di seguito a una lista di ὄχθοιβοι: vd. supra, ad ὀχθοίβους [v. 2]): sull’ origine del termine e sulle sue attestazioni nei repertori epigrafici di offerte votive a Delo e in altri inventari attici, vd. Prêtre 2012, 229s. alla quale mi ispiro anche per la traduzione del vocabolo con parure, che «correspond à cette incertitude sur la forme du bijoux»). περόνας Termine indicante fibbie e spilloni, regolarmente (ancorché non esclusivamente) menzionati come accessori dell’ abbigliamento femminile: cf. e. g. Il. V 425, Od. XVIII 293; Ibyc. PMGF 35.2; Soph. OT 1269 e il corrispondente 3 riferimento in Eur. Ph. 805; Hdt. V 87. In IG I 469.31 sono menzionati tra gli addobbi di una delle Nikai auree dedicate ad Atena sul Partenone intorno al 407 / 6 a. C. Sull’ etimologia del termine e sulle sue più significative attestazioni letterarie ed epigrafiche (con particolare riferimento ai cataloghi delle offerte votive del santuario di Delo) vd. Prêtre 2012, 193–196. ἀμφιδέας Braccialetti o cavigliere o anche anellini (da ἀμφὶ + δέω): oltre alle testimonianze lessicografiche di Poll. V 99 (cf. test. c), Harp. α 96 (p. 27.3 Dindorf [test. m]), e Hsch. α 3981 (ἀμφιδέαι· χέλια. κρίκοι. δακτύλιοι), cf. e. g. Hdt. II 69; Lib. Or. 31.12 (dove ἀμφιδέαι sono menzionate, come orpello femminile, in alternativa agli ἑλικτῆρες, annoverati anche in questo catalogo aristofaneo, al v. 14), Decl. 32.1.30; Aristaenet. 1.19. Se ne trova ripetuta menzione nel medesimo 3 inventario epigrafico del caso precedente (IG I 469.30, 34, 35: ἀμφιδέα). Su questo monile, registrato in misura cospicua negli inventari delle offerte votive del santuario di Delo, vd. Prêtre 2012, 55–57. ὅρμους Colliers: cf. Poll. V 98 (cf. test. c). In Aristofane il termine compare anche in Lys. 408. Sulle variegate tipologie di ὅρμοι registrate negli inventari delle offerte votive del santuario di Delo vd. Prêtre 2012, 170–180. πέδας La traduzione «catenelle per i piedi» cerca di riprodurre il double entendre, verosimilmente contenuto in un termine che, nel presente contesto, designa in primo luogo un monile, da riconoscere in anellini per le dita dei piedi (cf. Poll. V 99 [cf. test. c]). E tuttavia il vocabolo di per sé indica più comunemente i ceppi, le catene che impediscono ai prigionieri di fuggire. Donde, nel medesimo
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contesto polemico che prepara l’ esposizione, tra l’ altro, del catalogo aristofaneo, la citazione, da parte di Clemente Alessandrino (II 122.4), di un frammento dei Synephēboi di Filemone nel quale probabilmente si ironizzava sulla circostanza che gli anelli con cui le donne adornavano i loro piedi – per lo scrittore cristiano un «ornamento indecoroso» – erano definiti appunto «catene» (fr. 84). Un’ analoga forma di sarcasmo si può riconoscere in Luc. Lex. [46] 9, dove l’ orefice Cherea dichiara di aver forgiato per la figlia «un fregio d’ oro (λῆρος) da applicare all’ abito, orecchini (ἐλλόβια) e ceppi (πέδας)». E anche in Plin. XXXIII 152, dove si spiega che la vanità femminile prevedeva che per i braccialetti–catenelle fosse impiegato l’ argento, ritenuto più elegante rispetto all’ oro, preferito invece dalle donne di bassa condizione sociale, si ricorda che il termine usato, in luogo del più appropriato periscelides, per questo genere di monili è compedes, che indica propriamente i «lacci», le «catene» che si mettono ai piedi degli schiavi (cf. Petr. 67.7, dove Trimalchione ironizza sui monili, pesanti e numerosi, di cui Fortunata si spoglia prima di accomodarsi sul triclinio per banchettare, definiti appunto «lacci di donna [mulieris compedes]», dai quali gli sciocchi maschi si fanno incastrare dilapidando i propri averi). 12 σφραγῖδας, ἁλύσεις, δακτυλίους I tre termini designano, rispettivamente, sigilli per anelli, catene e anellini (cf. Poll. V 100 [test. c]). Anelli con sigilli e collane d’ oro compaiono in una delle tavole dei tesorieri di Atena, datata al 398 / 97 2 a. C.: IG II 1388 (su cui vd. supra, ad ὀχθοίβους [v. 2]) passim (cf. in particolare rr. 85s.: σφραγῖδε […] ἁλύσες χρυσᾶς ἔχοσαι); e collane e anellini sono nominati nel su menzionato catalogo comico di monili di Nicostr.Com. fr. 32 (v. 1: ἁλύσεις … δακτυλίους). Si tratta, in generale, di gioielli documentati in misura cospicua anche dagli inventari delle offerte votive del tempio di Delo. Molteplici, in particolare, le tipologie di δακτύλιοι ivi registrate (vd. Prêtre 2012, 78–118), tra le quali figura anche quella del δακτύλιος χρυσοῦς σφραγῖδα ἔχων (vd. Prêtre 2012, 115–118). Quanto al monile designato dai termini ἅλυσις, ἁλύσιον, si trattava certamente di un tipo di collana a catena (cf. la testimonianza di Polluce [test. n], che associa il vocabolo ἅλυσις a δεσμός, e vd. Prêtre 2012, 49–52), benché l’ etimologia, impropriamente ricondotta nel ThGL al verbo λύω preceduto da un ἀ- privativo, resti oscura: «si la solution était plausible du point de vue du sens, elle ne justifiait pas l’ aspiration initiale attestée dès apparition du mot» (Prêtre 2012, 49: aspirazione iniziale garantita da Hdn. De pros. cath. [GG III 1, p. 539.14s. Lentz]). καταπλάσματα Derivato dal verbo καταπλάττω/καταπλάσσω, che è «the regular term in Hippocrates for apply a plaster or poultice» (Southard 1971, 48), ed è impiegato da Aristofane nella su citata iunctura καταπεπλασμένη ψιμυθίῳ di Eccl. 878 (in riferimento alla Prima Vecchia che si è impiastricciata il viso di biacca) e in Pl. 724 (dove il participio καταπεπλασμένος è riferito a Neoclide cui Asclepio applica sugli occhi un aspro e caustico impiastro: cf. vv. 716s. τῷ Νεοκλείδῃ φάρμακον / καταπλαστὸν ἐνεχείρησε τρίβειν; 721 κατέπλασεν αὐτοῦ τὰ βλέφαρ᾽ ἐκστρέψας), il termine κατάπλασμα, desunto per l’ appunto dal lessico medico, a partire da Ippocrate designa regolarmente impiastri medicamentosi di ogni genere,
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che agivano contro ogni tipo di infiammazione (vd. Andorlini 2017, 76). Tra le numerosissime attestazioni del vocabolo nella letteratura medica, va segnalata quella presente in un testo canonico della medicina femminile, Hp. Nat.Mul. 102 (VII, p. 413.11–17 Littré): un passo nel quale vengono prospettate differenti ricette relative alla preparazione di cataplasmi (Καταπλάσματα· σκόροδον, ἀνδράχνην, σέλινον, λωτοῦ καὶ κέδρου πρίσματα λεῖα ὁμοῦ μίξας, διεὶς μελικρήτῳ, κατάπλασμα ποιέων, κατάπλασσε. βάτου φύλλα, μυρσίνης φύλλα, ὁμοῦ λεῖα διεὶς μελικρήτῳ, ξυμφυρήσας ἀλφίτοις, κατάπλασσε. ἀκτῆς φύλλα, μυρσίνης φύλλα, τερμίνθου τὰ ἁπαλώτατα τὸν αὐτὸν τρόπον κατάπλασσε. λωτοῦ πρίσματα, συκαμίνου φύλλα ὁμοῦ λεῖα μίξας, διεὶς ὕδατι ἀσταφίδος, κατάπλασσε); e ulteriori ricette di cataplasmi utilizzabili come medicamenti femminili sono fornite in Mul. II 193 (VIII, pp. 374, 376 Littré). Da Aristofane il sostantivo è documentato anche nel Geritade (fr. 184 , su cui vd. ora Bagordo 2022, 121), dove però, a stare alla testimonianza di Poll. IV 181, era sinonimo di ἐπίδεσμα, «benda» (pure attestato da Aristofane, in V. 1440, nella forma ἐπίδεσμον: la forma in -μα, erroneamente attribuita da Polluce ad Aristofane, sarà forse dovuta «all’ influenza del vicino κατάπλασμα» [Tosi 1988, 99]). Nel presente catalogo delle vanità femminili, il termine si riferirà probabilmente ai cataplasmi impiegati dalle donne come maschere di bellezza. 13 πομφόλυγας Con riferimento al presente luogo aristofaneo, al termine πομφόλυξ viene concordemente associato il significato di «ornament for the head worn by women» (LSJ, s. v., III [vd. Couve 1900, 816a]; «bulles à chignon» traduce Carrière 2000, 218, «bubble–hats» Henderson 2007, 271), suggerito dalla testimonianza di Moer. π 20, che attribuisce al termine il significato di δερμάτια, ἃ ἐπὶ τῶν κεφαλῶν αἱ γυναῖκες ἔχουσιν (test. ο): δερμάτια che andranno presumibilmente identificati con stringhe di pelle acconciate in forma di chignon. A tale accezione, qui apparentemente confermata dalla esplicita menzione, da parte di Meride, delle Tesmoforiazuse, viene ricondotta anche l’attestazione documentata da 2 IG II 1524.50, dove il termine (πομφόλ[υ]γα[ς) è registrato all’interno dell’ inventario di offerte votive dedicate ad Artemide nel Brauronion (post 335 / 34 a. C.). In Plu. Rom. 20.4, però, πομφόλυξ designa «la bulla, così chiamata per la forma (τὴν καλουμένην βοῦλλαν ἀπὸ τοῦ σχήματος), in quanto simile a una bolla intorno al collo (ὅμοιον πομφόλυγι περιδέραιόν τι)», indossata dai fanciulli dell’ antica Roma, assieme al περιπόρφυρος, la «veste bordata di porpora», e sembra dunque riferirsi a una collana o a un pendant. E in riferimento a elementi architettonici ornamen3 tali il termine è documentato in IG I 475.259. Non meno interessante l’ulteriore accezione attestata per πομφόλυξ dalla letteratura medica e scientifica (e come tale registrata anche dai lessicografi), dove il termine designa ponfi, pustole, vesciche e rigonfiamenti di ogni genere, e, tra questi, le bolle che si formano sulla pelle (come del resto già il semplice πομφός, in Hp. Mul. II 118 [VIII, p. 254.6 Littré], Morb. II 70 [VII, p. 106.16 Littré]; e cf. e. g. Hp. Aph. 7.34 [IV, p. 586.1s.], Pl. Ti. 66b, 83d); o sulla superficie di sostanze liquide (come, ad es., le gocce dell’acqua piovana: cf. e. g. Thphr. Ign. 16, Metaph. 15; Nic. Ther. 240), Phot. π 1082, 1083; Hsch. π 2975, 2976 [da cui si ricava inoltre che il termine poteva designare anche l’ ὀμφαλός dello
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scudo]; Sud. π 2032, 2033; Σ [vet] Ar. Ra. 249a–c Chantry) o schiumose (cf. e. g. Arist. GA 735b12). In particolare, giova rilevare che il termine πομφόλυξ designava anche l’ ossido di zinco, prodotto dalla mescola di calamina e rame, il cui impiego è documentato, da POxy. LXXX 5244 (= TM 388550), un papiro medico della fine del III sec. d. C., nella preparazione di una ricetta di polvere dentifricia a scopo curativo per le gengive: in linea con la precedente menzione dei καταπλάσματα, termine con cui ci si riferiva probabilmente a impiastri medicamentosi che le donne si applicavano come maschere di bellezza, non sarebbe in effetti strano che in questo catalogo aristofaneo, tra gli accessori del maquillage femminile, con la forma plurale πομφόλυγας venissero indicati ulteriori prodotti farmacologici impiegati nella medicina cosmetica: nella fattispecie, preparati a base di ossido di zinco, le cui qualità astringenti, refrigeranti e disseccanti, celebrate da specialisti come Dioscoride (Mat.Med. V 75.12) e Galeno (Simpl.temp.fac. IV 5 [XI, p. 634.6 Kühn], V 24 [XI, p. 780.11s. Kühn], X 25 (XII, p. 234.3–235.10 Kühn); Comp.Med. loc. IV 1 [XII, pp. 699.12–700.9 Kühn]), ne facevano appunto un ingrediente adatto alla preparazione di impiastri e colliri (cf. Dsc. Mat.Med. V 75.1–7; Plin. XXXIV 128–130; Aët. Iatr. VII 11; Paul.Aeg. 7.3, e vd. Hirt 2014, 131, ad l.; Fausti 2019, 98 con n. 46). Nel qual caso, la sequenza καταπλάσματα – πομφόλυγας si riferirebbe a pomate e polveri di vario tipo, di cui le donne facevano uso per la cosmesi del viso, degli occhi, della bocca: ed è significativo che all’interno del catalogo di trucchi e strumenti di seduzione delle etere contenuto nel su citato frammento dell’ Isostasion di Alessi venga annoverato, tra le potenziali attrattive rappresentate dai più consueti canoni di bellezza, il possesso di bei denti al naturale, valorizzati dall’ostentazione forzata del sorriso: εὐφυεῖς ὀδόντας ἔσχεν, ἐξ ἀνάγκης δεῖ γελᾶν, / ἵνα θεωρῶσ᾽ οἱ παρόντες τὸ στόμ’ ὡς κομψὸν φορεῖ (fr. 103.20s.). ἀποδέσμους Gli ἀπόδεσμοι sono bende per fasciare e sorreggere il seno, vd. infra, ad fr. 338. ὀλίσβους Si tratta dei falli di cuoio, cui le donne ricorrevano come rimedio all’ astinenza sessuale, dei quali, in Ar. Lys. 108–110, Calonice lamenta la penuria determinatasi in città a seguito della defezione dalla Lega delio–attica della città di Mileto, da cui Atene importava il prodotto (vd. Mastromarco in Mastromarco– Totaro 2006, 322, ad l., con la bibliografia ivi citata). È dalla menzione del curioso oggetto che sembra scaturire, nelle perdute Tesmoforiazuse, la più pesante frecciata misogina contro la libidinosa lussuria delle donne: argomento su cui è integralmente costruita la rhēsis del Parente dinanzi alle donne riunite al Tesmoforio nella versione tramandata dell’ omonima commedia (cf. Th. 466–519). Nel dibattito suscita interesse anche il passo anepigrafo aristofaneo (fr. 592) tramandato da POxy. II 212 (= TM 59246 [CGFP *62] ), per il quale, almeno a partire da un vecchio contributo di Fraccaroli (1900, 87–89), è stata suggerita una possibile attribuzione alle perdute Tesmoforiazuse (decisiva, in tal senso, la presenza, alla r. 35, della sequenza -ταγάτω-, che troverebbe riscontro nel κατ᾽ Ἀγάθων del fr. 341, su cui v. infra, ad l.). Tuttavia il passo è stato alternativamente ricondotto anche alle Lemnie (così Ciriello 1989) in ragione del riferimento (generalmente riconosciuto al v. 17)
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allo σκύτινον, il fallo di cuoio, di origine milesia, il cui impiego è consigliato da una delle due interlocutrici come surrogato degli intercorsi sessuali con gli uomini. Fondate perplessità su entrambe le proposte di attribuzione sono state però espresse da Ronconi 2005, 199s., cui si rinvia anche per la bibliografia precedente. σάρδια Si è scelto qui di tradurre questo neutro plurale con «corniole», ma il termine σάρδιον indicherà genericamente ogni gemma di quarzo di colore rosso, più chiaro o più scuro a seconda della natura e della portata delle impurità di ossido di ferro presenti nel calcedonio (vd. Blümner 1884, 264; Caley–Richards 1956, 122s.). Sono menzionate, tra altre pietre preziose, da Pl. Phd. 110c, come termine di confronto rispetto a quelle, ben più belle, colorate, levigate e traslucide, che popolano ‘la vera terra’, ossia la sede delle anime, da Thphr. Lap. 8, 23, 30 e da Plin. XXXVII 105–107, dove si allude alla loro menzione in non meglio precisate commedie di Menandro e di Filemone (il riferimento sarà probabilmente a un contesto del Giovane schiavo di Menandro, μάραγδον εἶναι ταῦτ᾽ ἔδει καὶ σάρδια [fr. 276], in cui – come nel fr. 275 – Meineke FCG IV, 182 riconosceva «meretriculae verba […], muneribus ab amatore oblatis non contentae», e a Philem. fr. 179). In generale, sull’ universo materiale e metaforico delle pietre preziose nella Grecia antica vd. Macrì 2018. 14 ὑποδερίδας Ornamento femminile (cf. Arist. HA 558b2: αἱ τῶν γυναικῶν ὑποδερίδες), da identificarsi verosimilmente con una collana – cf. Phot. υ 193 ὑποδερίδα· ὁρμίσκον, πλόκιον (= Sud. υ 477 = Synag. υ 128 [= An.Bachm. p. 398.1] ~ Hsch. υ 603). ὑποδερίς· κόσμος γυναικεῖος, οἷον δείραιον (cf. Et.gen. B [Et.magn. p. 782.17]) –, probabilmente ‘a soggolo’, ‘a pelle’ (donde la traduzione esplicativa di «sottogola»): come suggerisce la formazione del composto (da ὑπό + δέρη), formata da una larga lamina ondulata, di tipo alto e stretto, di oreficeria originariamente egizia e cipriota (per la morfologia vd. Burr Thompson 1944, 195; 3 Kosmetatou 2002, 193); il monile è registrato in IG I 386.54 (ὑποδερὶς χρυσῆ), inventario redatto dagli epistatai di Eleusi nel 408 / 7, e in IG II2 1388.17 (ὅρμος, ὑποδερίς), una delle tavole dei tesorieri di Atena su cui vd. supra, ad χλίδωνα (v. 11). Per le attestazioni del termine nei repertori epigrafici delle offerte votive nel santuario di Delo vd. Prêtre 2012, 221s., che, con la traduzione «sautoir», ritiene di poterne adeguatamente distinguerne l’ accezione rispetto a quella del quasi sinonimo περιδέραιον. ἑλικτῆρας Questo tipo di cerchietti per le orecchie (cf. Poll. V 97 [test. c]) è 2 registrato in IG II 1421.10s. ([ἑ]λικτῆρε[ς Ἀρτέμιδος Βραυρωνί]|ας χρυσοῖ), in una tavola dei tesorieri di Atena, datata al 373 / 72 a. C., che contiene un inventario di manufatti di metalli preziosi di varia provenienza. Nell’ orazione Contro Eratostene Lisia (12.19) menziona χρυσοῦς ἑλικτῆρας trafugati dai Trenta assieme a numerosi altri oggetti, monili, mobili e abiti femminili, e a schiavi e a danaro, durante l’ irruzione in casa di Polemarco, ricordando che quegli orecchini furono addirittura strappati via, da Melobio, dalle orecchie della moglie di quello. 15 οὐδ᾽ ἂν λέγων λέξαις Cf. Eub. fr. 37.3 (λέγων λέξαιμι, su cui vd. Nauck 1894, 94; Hunter 1983, 129, ad l.); Ael.Arist. 48.67 (oὐδ᾽ ἂν λέγων εἴποις); e per
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il raro impiego di forme dell’ aoristo primo di λέγω nei comici, vd. Lautensach 1911, 165.
fr. 333 K.-A. (318 K.)
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ἰχθὺς ἐώνηταί τις; ἦ σηπίδιον ἢ τῶν πλατειῶν καρίδων ἢ πουλύπους; ἢ νῆστις ὀπτᾶτ᾽ ἢ γαλεὸς ἢ τευθίδες; (B.) μὰ τὸν Δί᾽, οὐ δῆτ᾽. (A.) οὐδὲ βατίς; (B.) οὔ φημ᾽ ἐγώ. (A.) οὐδὲ χόρι᾽ οὐδὲ πυὸς οὐδ᾽ ἧπαρ κάπρου οὐδὲ σχαδόνες οὐδ᾽ ἠτριαῖον δέλφακος οὐδ᾽ ἐγχέλειον οὐδὲ κάραβος; μέγα γυναιξὶ κοπιώσαισιν ἐπεκουρήσατε
1 ἰχθὺς Brunck, Fritzsche 1838, 593: ἰχθῦς Ath.1 et 2 ἐώνηταί τις Ath.2: τις ἐώνηται 1 2 Ath. τις; ἦ Bothe: τις ἢ Ath. 2 πουλύπους Musurus: πολύπους Ath.1: πολύπους; 4 οὔ φημ᾽ Porson 1812, 63: οὐδέ Olson 3 ὀπτᾶτ᾽ Ath.1 : fort. ὤπτητ᾽ Kaibel φημ᾽ Ath.1 5 οὐδὲ χόρι᾽ Dobree 1833, 302: οὐδὲ χόριον Ath.1: οὐ χόριον Porson 6 οὐδὲ σχαδόνες Brunck: οὐδὲ σχαδόνας Coddaeus: οὐδησχαδόνες Ath.1: οὐ δὴ σχαδόνες Olson 7 κάραβος; μέγα Kassel–Austin: κάραβον μέγα Ath.1A: κάραβον μέγαν DBQP: κάραβος (μέγα/μέγαν om.) M: -ος μέγας; Blaydes: -ος; μέγ᾽ ἂν Wilamowitz ap. Kaibel 1887, 239 8 κοπιώσαισιν ἐπεκουρήσατε Brunck: -σαις ἐπεκ. Ath.1: -σαισί γ᾽ ἐπεκ. van Herwerden 1864, 17: -σαις ἐπεχορηγήσατε (scil. κάραβον μέγαν, v. 7) Meineke 1867, 47
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È stato acquistato un qualche pesce? Forse una seppiolina o delle canocchie piatte, o un polpo? O viene arrostito un muggine o uno squalo oppure dei calamari? (B.) No, per Zeus, no di certo. (A.) Neppure una razza? (B.) No, ti dico. (A.) Neppure frattaglie né colostro né fegato di cinghiale né favi pieni di miele né ventresca di porcello né un’ anguilla né un’ aragosta? Grande, l’ aiuto che avete procurato a donne stanche! 1
[1–8] Ath. III 104e (A, DBQPM) περισπούδαστος δὲ ἦν πολλοῖς ἡ τοῦ καράβου βρῶσις, ὡς ἔστι δεῖξαι διὰ πολλῶν τῆς κωμῳδίας μερῶν. ἀρκέσει δὲ τὰ νῦν Ἀριστοφάνης ἐν ταῖς Θεσμοφοριαζούσαις οὕτως λέγων· ἰχθῦς — ἐπεκουρήσατε. πλατείας δὲ καρῖδας (v. 2) ἂν εἴη λέγων τοὺς ἀστακοὺς καλουμένους, ὧν μνημονεύει Φιλύλλιος ἐν Πόλεσι (fr. 12.1). Pietanza particolarmente ricercata era per molti l’ aragosta: com’ è possibile dimostrare attraverso molti brani di commedia. Ma basteranno, per il momento, quelli di Aristofane, che nelle Tesmoforiazuse dice così: «è stato acquistato — donne stanche». ‘Canocchie piatte’ egli potrebbe aver definito i cosiddetti astici, dei quali fa menzione Filillio nelle Città (fr. 12.1).
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[1] Ath. VII 324b (A) Ἀριστοφάνης Θεσμοφοριαζούσαις· ἰχθῦς — σηπίδιον. Aristofane nelle Tesmoforiazuse: «è stato acquistato — seppiolina». [6] Et.gen. AB (cf. Et.magn. p. 439.42s.) ἠτριαῖον, αι· Ἀριστοφάνης Θεσμοφοριαζούσαις λέγει, καὶ ἠτριαία (ἡτριαῖ Β) θηλυκὸν (vel -ῶς) ὁ αὐτὸς Ταγηνισταῖς (cf. fr. 520.7). ētriaion, -ai: Aristofane lo dice nelle Tesmoforiazuse, e al femminile, ētriaia, Aristofane stesso (usa questo termine) nei Friggitori (cf. fr. 520.7). Poll. VI 52 ἠτριαῖον δέλφακος. ventresca di porcello.
Metro
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Trimetri giambici
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Bibliografia Fritzsche 1838, 592–595; Bergk ap. Meineke FCG II 2, 1077; Bothe 1844, 97; Kock CAF I, 474; van Herwerden 1864, 17; Meineke 1867, 47; Pellegrino 2000, 157–172; Torchio 2000, 38–41; Butrica 2001, 67s. Contesto di citazione Il frammento è tramandato da Ateneo (Ath.1) – in una sezione del III libro dedicata alla descrizione dei diversi tipi di crostacei (103f– 106d) – a proposito dell’ aragosta, menzionata qui al v. 6, e delle squille a coda larga, qui presenti al v. 2, da identificare a suo parere con le canocchie, o cicale di mare, menzionate anche nelle Città di Filillio (fr. 12.1). E ancora da Ateneo (Ath.2) il primo verso è citato nell’ ambito di una sezione del VII libro riservata alla descrizione delle caratteristiche ittiologiche della seppia e a una rassegna di passi comici in cui la si trova menzionata (323e–324c). Citato inoltre, limitatamente al v. 6, dall’ Etymologicum genuinum AB (Et.magn. p. 439.42) e, per la sola espressione ἠτριαῖον δέλφακος, implicitamente evocato da Polluce (VI 52), esso presenta, all’ interno di un dialogo, un elenco di vivande, enunciato secondo quello stile catalogico che è caratteristico della letteratura gastronomica (vd., dopo Dohm 1964, 59–61, Pellegrino 2000, 18s., Farioli 2001, 197–208; Wilkins 2000a; Olson 2007, 256–291, con ulteriore bibliografia): vivande delle quali la persona loquens lamenta il mancato approvvigionamento.
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Testo 1s. ἰχθὺς ἐώνηταί τις; ἦ […] πουλύπους; Per il testo e la punteggiatura del v. 1 seguo Bothe (1844, 97): in particolare, il punto interrogativo, utile a scandire una prima domanda, la rende propedeutica alla seconda, che pare concludersi alla fine del v. 2, dove, in linea con Olson, stampo perciò un ulteriore punto interrogativo. 1 Si deve a Brunck 1783, III, 248 la correzione del tràdito ἰχθῦς in ἰχθύς, soggetto del perfetto ἐώνηται (cf. Fritzsche 1838, 593): verbo, sottinteso anche ai consecutivi ἢ σηπίδιον, ἢ τῶν πλατειῶν καρίδων ἢ πουλύπους, al quale Brunck attribuiva evidentemente valore passivo, come in Ar. Pax 1182 (τῷ δὲ σιτί᾽ οὐκ ἐώνητ᾽): cf. l’ analogo costrutto del v. 3 (ἢ νῆστις ὀπτᾶτ᾽ ἢ γαλεὸς ἢ τευθίδες;). 2 Ripristinata qui già dal Musuro, nell’ Aldina del 1514, in luogo del tràdito πολύπους – grafia più recente che comincia ad apparire ad Atene con Aristotele (cf. LSJ, s. v. πολύπους B) e che, con alcune eccezioni (vd. Arnott 1996, 514, ad Alex. fr. 175.3), si ripresenta abitualmente nella tradizione manoscritta di Ateneo – πουλύπους è la forma attica del termine regolarmente attestata da tragediografi e commediografi di V e IV secolo, peraltro implicitamente confermata da Ath. VII 316b, dove la corretta ortografia attica (sebbene ancora una volta erroneamente normalizzata nei manoscritti) viene distinta dalla forma (etimologicamente non chiara) πώλυπος, registrata come eolica e, più avanti (VII 318f), come dorica. Essa è supportata inoltre dalla consecutiva citazione, nel medesimo passo di Ateneo, di vari frammenti di commediografi attici (Ar. frr. 195–197; Alc.Com. frr. 1 e 30; Amips. fr. 6; Pl.Com. fr. 100; Eup. fr. 117), in cui pure il termine presenta le consuete oscillazioni grafiche della tradizione manoscritta (emblematico il caso di Ar. fr. 195, che in VII 316b ha πολύπους, ma in VII 323c presenta la corretta grafia πουλύπους). Su queste oscillazioni grafiche del termine vd. anche Bagordo 2014a, 112, ad Hegem. fr. 1. 5 In luogo dell’ ametrico οὐδὲ χόριον οὐδὲ tràdito da A, in linea con Kassel e Austin stampo οὐδὲ χόρι᾽ proposto da Dobree, che, rispetto a οὐ χόριον proposto da Porson, ha il vantaggio di non interrompere la successione anaforica degli oὐδέ. 7 κάραβος; μέγα La presente grafia, che è quella adottata da Kassel e Austin (in luogo di κάραβον μέγα, tramandato dal codice A di Ateneo), e la conseguente traduzione proposta riflettono la venatura ironica riconosciuta da van Herwerden 1864, 17 nella presumibile formulazione esclamativa μέγα … ἐπεκουρήσατε: «egregiam scilicet opem tulistis mulieribus fessis!». Diversamente Kaibel, il quale, nell’ edizione di Ateneo, riproponeva nel penultimo verso l’ emendamento μέγ᾽ ἂν, proposto, in luogo del tràdito μέγα, da Wilamowitz. 8 κοπιώσαισιν ἐπεκουρήσατε Emendamento di Brunck 1783, III, 248 in luogo del tràdito κοπιώσαις ἐπεκουρήσατε di A. La forma in -αις è conservata da Meineke 1867, 47, il quale interveniva sul verbo tràdito proponendo, seppure dubitativamente, ἐπεχορηγήσατε, che avrebbe come oggetto gli accusativi dei versi precedenti («B.: e neppure frattaglie né colostro né fegato di cinghiale né favi pieni di miele né ventresca di porcello né un’ anguilla né una grande aragosta avete
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fornito a donne che si sono affaticate?»), pur ammettendo la possibilità che la lettura di van Herwerden -σαισί γ᾽ ἐπεκ., con la sfumatura ironica di cui sopra, sia da preferire. Interpretazione Il riferimento finale a donne affaticate (γυναιξὶ κοπιώσαισιν, v. 8) è stato posto in relazione col digiuno rituale osservato nel secondo dei tre giorni dedicati alle celebrazioni della festa delle Tesmoforie (così Fritzsche 1838, 595) o con le danze rituali connesse a tali celebrazioni (così Bergk ap. Meineke FCG II 2, 1077), o con ambedue le circostanze (così Kock CAF I, 474) – circostanze cui si fa riferimento nel corale eseguito dalle Tesmoforianti ai vv. 947ss. delle Tesmoforiazuse superstiti – e ha indotto in genere a ritenere che l’ occasione conviviale cui si fa qui riferimento fosse il banchetto che aveva luogo l’ ultimo giorno della festa. A parere di Bergk (ap. Meineke FCG II 2, 1077), la presunta rimostranza relativa al mancato allestimento del banchetto che doveva rifocillare donne stanche sarebbe stata pronunciata da Calligenia, o, in alternativa, da una delle Tesmoforianti detentrice di una sorta di leadership sulle altre, la quale potrebbe interloquire con una serva o un’ amica (così Fritzsche 1838, 592, e così pure Kock CAF I, 473s.: «loquitur mulier quae Lysistratae instar quasi principatum tenet sodalicii»): si potrebbe pensare alla κηρύκαινα – ossia a un personaggio analogo alla figura di corifea–sacerdotessa– aralda attiva nelle Tesmoforiazuse superstiti (vv. 295–311, 331–351, 372–379) – o a una figura di sacerdotessa quale viene menzionata in Ar. Th. 758s. (vd. al riguardo Austin–Olson 2004, xlvi–xlvii con n. 29), la cui esistenza è poi documentata da un decreto onorifico del II sec. a. C. (cf. SEG XLII 116 = The Athenian Agora XVI 277 [Woodhead 1997, 390]) e che potrebbe essere identificata con una delle ἄρχουσαι di cui, almeno ad Atene, si sa che avevano il compito di presiedere la celebrazione e di provvedere all’ approvvigionamento delle derrate alimentari, all’ acquisizione degli arredi sacri e all’ allestimento del banchetto finale: «il decreto epigrafico del demo di Colargo riportato in IG II2 1184 sembra indicare che le ἄρχουσαι avevano un ruolo importante nell’ allestimento del banchetto: a loro spettava fornire varie offerte e una cospicua somma (1.400 dracme d’ argento), forse utilizzate per l’ acquisto di animali da sacrificare e di altre vivande» (Torchio 2000, 41; cf. inoltre Isae. 8.19s., e vd. Austin–Olson 2004, xlvii con n. 29). All’opposto van Herwerden 1864, 17, cautamente seguito da Meineke 1867, 47 (contra Kock CAF I, 473) e poi da Kaibel (ap. Kassel–Austin PCG III 2, 188), secondo cui a parlare qui era un uomo, e precisamente il medesimo personaggio che nel fr. 334 sembra interdire il consumo di ogni qualità di vino che possa avere effetti afrodisiaci. Sulla base della battuta presente negli ultimi due versi di questo frammento, e del confronto con l’ espressione impiegata dal coro nella parabasi delle Tesmoforiazuse superstiti, laddove le donne alludono alla stanchezza postuma alla celebrazione della festa delle Tesmoforie (παίζουσαι καὶ κοπιῶσαι, v. 795), Bergk (ap. Meineke, FCG II 2, 1181s.) riteneva che al medesimo o a un analogo contesto delle Tesmoforiazuse perdute appartenesse anche un frammento aristofaneo anepigrafo in cui la persona loquens fa riferimento a un imprecisato momento nel quale «voi vi stancate di danzare»:
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ὁπηνίκ᾽ ἄτθ᾽ ὑμεῖς κοπιᾶτ᾽ ὀρχούμενοι (fr. 618), dove peraltro, in luogo della forma maschile del participio, tràdito dal testimone (Σ [T] Pl. Soph. 220a [p. 43 Greene = 20, pp. 76–77 Cufalo]), proponeva di leggere il femminile ὀρχούμεναι, «quod autem mulieres illae fessae dicuntur, refero ad choreas, quas proximo die ante egerant». Ma si vedano le opportune riserve espresse al riguardo da Bagordo 2016, 130s, ad l. I cibi elencati nel frammento, tutti particolarmente prelibati nella gastronomia dei Greci, compaiono di frequente nei testi comici. In particolare, nei vv. 1–4 e nel v. 7 vengono menzionate svariate specialità ittiche di pregio (su caratteristiche, proprietà e modalità di consumo dei diversi tipi di pesci, molluschi e crostacei menzionati in questo frammento, vd. Pellegrino 2000, 160–170, con bibliografia) quali seppioline, squille a coda larga, polpi, muggini, squali, calamari, razze, anguille e aragoste. Nei vv. 5s. sono nominate frattaglie altrettanto pregiate, quali budella (di agnello o capretto) farcite, fegato di cinghiale e ventresca di porcello, che ricorrono frequentemente come leccornie nelle rappresentazioni di ‘paradisi gastronomici’ disseminate nei frammenti dell’ archaia e della mesē, oltre a colostro (che in tali frammenti si trova spesso abbinato alle membrane intestinali, farcite appunto con latte e miele) e favi pieni di miele (su tutte queste prelibatezze e sulle loro ulteriori attestazioni comiche, vd. Pellegrino 2000, 169, e Torchio 2000, 40, con bibliografia). 1 σηπίδιον Tanto σηπίδιον quanto σηπία designano la seppia, che poteva avere una lunghezza oscillante tra i 5 (Sepiola rondeletis) e i 30 centimetri (Sepia officinalis). In commedia, la seppia di più grandi dimensioni era considerata particolarmente costosa (cf. Ar. Eccl. 554 con lo scolio; Eriph. fr. 3.1–4; Alex. fr. 192), laddove quella più piccola è annoverata in elenchi di molluschi più economici da Alex. fr. 159.3 (sulla corruzione di σηπίδια in σικχηπίδια, vd. Arnott 1996, 467s.) e da Eub. fr. 109.2. Ulteriori attestazioni comiche della forma diminutiva σηπίδιον si trovano in Ar. fr. 258.2; Ephipp. fr. 3.9, 15.4; Eub. 148.6, laddove l’ ulteriore diminutivo σηπιδάριον è attestato unicamente in Philyll. fr. 12.1 (vd. Orth 2015, 207, ad l.). In generale, la seppia è largamente attestata in commedia, per lo più elencata tra altre specialità ittiche o all’ interno di più variegati elenchi gastronomici: cf. almeno Ar. Ach. 351, 1041, Eccl. 127, fr. 195; Anaxandr. fr. 42.47; Anaxipp. fr. *1.33; Antiph. fr. 27.1; Ephipp. fr. 12.7; Mnesim. fr. 4.43; Nicostr.Com. fr. 6.2; Stratt. fr. 49.2s.; Sotad.Com. fr. 1.16; Theopomp.Com. fr. 6.2. Sulla seppia e sui suoi impieghi nella gastronomia dei Greci vd., tra altri, Keller 1909–1913, II, 513–516; Thompson 1947, 231–233, s. v. I–Sēpía; Palombi–Santorelli 1960, 290–293; Dohm 1964, 110s.; Campbell 1982, 180s.; Davidson 1981, 208–210; Olson–Sens 1999, 96, ad Matr. fr. 1.34; Pellegrino 2000, 162–164; García Soler 2001, 138s.; e, per ulteriori passi e bibliografia, vd. ora Mastellari 2020, 425, ad Mnesim. fr. 4.43; Papachrysostomou 2021, 134, ad Ephipp. 12.7. Non è peraltro da escludersi che anche qui, come in Ar. fr. 258.2, Amphis fr. 35, Ephipp. fr. 15.4, 6, 8, Eub. fr. 109, Nicostr.Com. fr. 4, Mnesim. fr. 3, l’impiego del diminutivo (o, negli altri casi, l’accumulazione di diminutivi) rifletta l’intenzione della persona loquens di ridimensionare l’entità dei costi
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da affrontare per procacciarsi la o le prelibatezze menzionate (o, negli altri casi, di risparmiare sulla spesa: vd. Papachrysostomou 2021, 164s., ad Ephipp. fr. 15.4). 2 τῶν πλατειῶν καρίδων Per la καρίς, un crostaceo di problematica identificazione per i moderni ittiologi (forse la squilla, un crostaceo dal corpo ricurvo, molto comune nelle acque del Mediterraneo), ripetutamente attestato in commedia (cf. e. g. Epich. fr. 28; Sophr. fr. 25.1 [sulla forma κουρίς (ionica, a fronte della forma dorica κωρίς, attestata in Epich. fr. 78), documentata da questi due frammenti di Epicarmo e di Sofrone, vd. Chantraine 1963, cui rinvio anche, più in generale, per la valorizzazione della probabile nuance ipocoristica del termine καρίς, da intendersi come piccolo κάραβος, «une petite langouste»]; Cratin. fr. *314 = Eup. fr. 120 [per la problematica attribuzione del frammento vd. Olson–Seaberg 2018, 54–56, ad Cratin. fr. *314]; Ar. V. 1521s.; Eup. fr. 2.1s.; Alex. fr. 115.13; Cratin.Jun. fr. 13; Ephipp. fr. 12.6; Eub. fr. 110.1s.; Anaxandr. fr. 23; Antiph. fr. 130.8; Arar. fr. 8.2; Mnesim. fr. 4.41; Ophel. frr. 1 e 2; Sotad.Com. fr. 1.1s.), vd., tra altri, Keller 1909–1913, II, 494–496; Gossen–Steier 1922, 1684; Thompson 1947, 103s., s. v. Karís; Davidson 1981, 170–176; Olson–Sens 2000, 118s., ad Archestr. SH 156 (= 26.2 Olson–Sens); Pellegrino 2000, 164s.; García Soler 2001, 141s.; Caroli 2014, 164s., 198s., 202s. In particolare, per le καρῖδες πλατεῖαι, che dovrebbero corrispondere alla tipologia della canocchia, o cicala di mare (Squilla mantis), cf. Arist. HA 525b1s. e vd. Thompson 1947, 132. In questo frammento delle Tesmoforiazuse II, come è usuale nelle attestazioni (comiche e non) del V secolo a.C, καρίς ha lo iota breve, laddove in seguito il termine verrà regolarmente scandito con lo iota lungo, e con conseguente modificazione dell’ accento (da acuto a circonflesso) dove necessario: vd. Arnott 1996, 320, ad Alex. fr. 115.12s.; Papachrysostomou 2021, 133, ad Ephipp. 12.6. πουλύπους Sul polpo (Octopus vulgaris L.), ripetutamente menzionato in commedia (cf. e. g. Ar. fr. 197; Pl.Com fr. 189.17; Eub. fr. 148.7; Alex. fr. 175.3; Amphis fr. 30.10; Antiph. fr. 95.1; Anaxandr. fr. 42.28s., 39; Xenarch. fr. 1.5, 8), e sulle sue molteplici modalità di cottura e occasioni di consumazione vd., tra altri, Pellegrino 2000, 165s.; García Soler 2001, 140s., con ulteriore bibliografia. Sulla grafia πουλύπους vd. supra, ad Testo. 3 νῆστις Il termine νῆστις, che vale propriamente «digiuno», «a stomaco vuoto», designava, in forma aggettivale o sostantivata, un particolare tipo di muggine (κεστρεύς, Mugil cephalus L.), un pesce proverbialmente noto per la sua insaziabile voracità (cf. e. g. Ath. VII 307c; Zen. vulg. 4.52 [CPG I, 99]; Diogenian. 5.53 [CPG I, 262]; Hsch. κ 2384 = fr. com. adesp. 366; Phot. κ 624; Sud. κ 1429; Apostol. 9.76 [CPG II, 478]), e perciò talora in commedia metaforicamente riferito a parassiti o, più in generale, a personaggi particolarmente avidi o affamati: basterà menzionare la lunga quanto celebre sezione dedicata al muggine in Ath. VII 307c–308a, dove, a proposito di questa ironica assimilazione, sono citate ben quindici occorrenze, quasi tutte comiche: cf. Ar. fr. 159.1; Pl.Com. fr. 28.2; Amips. fr. 1.; Archipp. fr. 12; Diocl.Com. fr. 6.2; Theopomp.Com. fr. 14.1; Eub. fr. 68.2; Anaxandr. fr. 35.8 (dove si trova la rara variante κεστρῖνος [νῆστις], su cui vd.
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Millis 2015, 174); Antiph. fr. 136.1; Anaxil. fr. 20.1; Alex. fr. 258; Diph. fr. 53.2; Philem. fr. 83; Euphro fr. 2; fr. com. adesp. 112, cui si aggiunge Archestr. SH 174 [= fr. 43 Olson–Sens]). Sul muggine, di volta in volta designato νῆστις e/o κεστρεύς, considerato un pesce molto costoso e celebrato per l’ appetibilità delle sue carni (cf. e. g. Alex. fr. 16.8–10), e perciò annoverato in numerosi elenchi comici di ghiottonerie (cf. e. g. Philyll. fr. 12.3; Antiph. fr. 130.1; Anaxandrid. fr. 42.47; Ephipp. fr. 12.8; Mnesim. fr. 4.45), vd., tra altri, Thompson 1947, 108–110, s. v. Kestreús; Olson–Sens 2000, 176s., ad Archestr. fr. 43.1; Pellegrino 2000, 166s.; García Soler 2001, 166–168; Dalby 2003, 168s.; Orth 2013, 191s. con n. 304, ad Amips. fr. 1.3; Mastellari 2020, 427, ad Mnesim. fr. 4.45.; Papachrysostomou 2021, 135s., ad Ephipp. 12.8, con passi e bibliografia ulteriori. 4 βατίς Sulla βατίς, la cosiddetta razza bavosa (Raia batis L.), dotata di aculei che facevano assumere al corpo del pesce la caratteristica sembianza di un cespuglio di more (cf. Strömberg 1943, 47), e in commedia celebrata come un’ assoluta prelibatezza (cf. e. g. Epich. fr. 52.1, 79.1–3; Ar. V. 510; Eup. fr. 174.2; Call.Com. fr. 6.1; Hermipp. fr. 46.2; Metag. fr. 6.4; Alex. fr. 84.1; Antiph. fr. 130.6; Anaxandr. fr. 42.51; Stratt. fr. 45.3), vd. Thompson 1947, 28, s.vv. Batís, Bátos; Olson–Sens 2000, 196s.; Pellegrino 2000, 168s.; García Soler 2001, 154–157; Olson 2016, 100, ad Eup. fr. 174.2; Bagordo 2014a, 149, ad Call.Com. fr. 6.1, con ulteriori passi e bibliografia. 5 χόρι᾽ … πυὸς χόρια sono le budella di agnello o capretto farcite con latte e miele (cf. Ath. XIV 646e; Hsch. χ 642; Σ Theoc. 9.19a, p. 217.20–218.4 Wendel [testimone di Cratin. fr. dub. 507: vd. Olson–Seaberg 2018, 351–353, ad l.] e Σ Theoc. 9.19b, p. 218.5s. Wendel, e vd. Gow 1952, II, 188, ad l.; Arnott 1996, 531, ad Alex. fr. 178.13), e πυός è il colostro, il latte crudo della prima mungitura che la capra produce subito dopo aver partorito (cf. Mart. XIII 38). Celebrato da Ar. V. 710, Pax 1150, e da Pherecr. fr. 113.19 quale assoluta ghiottoneria (vd. Olson 1998, 288, ad Pax 1150), il πυός si distingue dalla πυριάτη (insieme alla quale viene talora menzionato: cf. Cratin. fr. 149.2; Eub. fr. 74.5; e, per Aristofane, il su citato V. 710 con Σ [vet Tr] 710a Koster; e vd. MacDowell, 1971, 199, ad l.), il latte riscaldato e rappreso che diventa caglio (cf. Σ Ar. V. 710a Koster). Su queste due prelibatezze, spesso abbinate negli elenchi comici di pregiate pietanze (oltre ai già citati Cratin. fr. 149.2 ed Eub. fr. 74.4s., cf., e.g., Ar. fr. 581.4; Eub. fr. 109.4; Alex. fr. 178.11–13; Anaxandr. fr. 42.44), vd., tra altri, Pellegrino 2000, 169; García Soler 2001, 239s., 272s.; Millis 2015, ad Anaxandr. fr. 42.44; Franchini 2020, 113, ad Pherecr. fr. 113.19; Bagordo 2020, 200, ad Ar. fr. 581.4, con ulteriori passi e bibliografia. ἧπαρ κάπρου Particolarmente apprezzato nella gastronomia della commedia era il fegato (ἧπαρ o ἡπάτιον) e in particolare il fegato di cinghiale, annoverato anche in altri elenchi comici di gustose pietanze: cf. Ar. fr. 520.4; Eub. fr. 63.3; Crobyl. fr. 7.2 e vd. Pellegrino 2000, 232; García Soler 2001, 234. 6 σχαδόνες Su σχαδών, attestato qui e in altri frammenti comici (Ar. fr. 581.3; Euthycl. fr. 1.2; Eub. fr. 74.4.; Antiph. fr. 273.1; Anaxandr. fr. 42.53) nel senso di «favo pieno di miele», vd. Pellegrino 2000, 169.
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ἠτριαῖον δέλφακος Sulla ventresca di maiale (ἠτριαῖον o ἠτριαῖα), menzionata da Aristofane anche nell’ elenco di prelibatezze prospettato nei Friggitori (fr. 520.6), e verosimilmente anche da altri commediografi (cf. Poll. II 170 = fr. com. adesp. 765: ἀπὸ δὲ τοῦ ἤτρου καὶ ἠτριαῖα τεμάχη οἱ κωμῳδοὶ λέγουσιν), e in generale molto apprezzata nella gastronomia dei Greci e dei Romani, vd. Keller 1909–1913, I, 398; Pellegrino 2000, 152–154; García Soler 2001, 227. 7 ἐγχέλειον L’ anguilla di acqua dolce (Anguilla anguilla L.), che è il primo pesce di cui si abbia notizia nella letteratura greca (cf. Il. XXI 203 e 353), era un pesce molto pregiato (cf. e. g. Anaxandr. frr. 40.6, 45.3; Phylarch. FGrHist 81 F 45). La si ritrova menzionata in analoghi elenchi comici di raffinate vivande (cf. e. g. Cratin. fr. 171.50; Pherecr. frr. 50.2s., 113.1, 2; Call.Com. fr. 6.2; Antiph. fr. 191.1, 216.2, 221.4, 233.5; Mnesim. fr. 4.45; Strattis fr. 45.3s.; Theophil. fr. 4.2; Men. fr. 224.5, 13; la forma diminutiva ἐγχελύδιον è attestata nel catalogo di cibi presente in Ephipp. fr. 15.6), in quanto assai gradita agli Ateniesi, che ne apprezzavano in particolar modo la varietà pescata nel lago Copaide, in Beozia (cf. e. g. Ar. Ach. 880–882, Pax 1008s., Lys. 36, 701s., fr. 380.2 [su cui vd. infra, ad l.]; Pherecr. fr. 50.2s.; Pl.Com. fr. 114; Alex. fr. 159.5; Eub. fr. 36.2–4, 64; Antiph. frr. 191.1, 216.2s., 233.5; e anche Ar. Eq. 864, Nu. 559 e Pax 1005, dove sono denominate σπυρίδες). Sull’ anguilla, vd. in generale Thompson 1947, 58–61, e in particolare sulle sue attestazioni comiche, vd., tra altri, Gilula 1995, 390s.; Olson 1998, 262, ad Ar. Pax 1005; Pellegrino 2000, 229s.; García Soler 2001, 162–164; Olson 2007, 279; Bagordo 2014a, 150, ad Call. Com. fr. 6.2; Mastellari 2020, 427s., ad Mnesim. fr. 44.5, con passi e bibliografia ulteriori. Sull’ uscita in -ειον, tipica di ‘menu–words’, che contraddistingue la forma qui attestata dalla forma–base ἔγχελυς, vd. Neil 1901, 56, ad Ar. Eq. 354; Arnott 1996, 470, ad Alex. fr. 159.5. κάραβος Frequentemente celebrata dai comici per la sua speciale appetibilità, e perciò annoverata in elenchi, comici o parodici, di altre gustose prelibatezze (cf. e. g. Ar. frr. 380.1, 640; Call.Com. 6.2; Eup. fr. 174.2; Pl.Com. fr. 102.3; Metag. fr. 6.6; Philyll. fr. 12.1; Anaxandr. fr. 42.46; Antiph. frr. 27.5, 191.3; Mnesim. 4.44; Theophil. fr. 4.3; Matro SH fr. 534.66s. = fr. 1.66s. Olson–Sens), l’ aragosta (Palinurus vulgaris L.) era considerata un crostaceo pregiato e costoso, nonché altamente afrodisiaco (cf. Ar. fr. 164; Alex. fr. 281, e vd. García Soler 2005, 589s.). E appunto per tali prerogative è menzionata ripetutamente dai comici: cf. Ephipp. fr. 15.5; Timocl. fr. 11.7. In generale, sul κάραβος vd. Keller 1909–1913, II 2, 490–493; Thompson 1947, 102s.; Dalby 2003, 192s.; e, più in particolare, sulle numerose attestazioni comiche, vd., tra altri, Pellegrino 2000, 169s.; García Soler 2001, 142s.; Orth 2014, ad Metag. fr. 6.6; Orth 2015, 207, ad Philyll. fr. 12.1; Olson 2016, 100, ad Eup. fr. 174.2; Apostolakis 2019, ad Timocl. fr. 11.7; Mastellari 2020, 426, ad Mnesim. fr. 4.44, con documentazione e bibliografia ulteriori. 8 κοπιώσαισιν Il verbo κοπιάω è diffuso nella commedia attica: oltre ai su citati Ar. Th. 795 e fr. 618, cf. Alex. fr. 151.3 (κοπιῶ τὰ σκέλη), dove il verbo è impiegato in riferimento alla stanchezza fisica indotta nelle gambe dal prolungato camminare, che viene paragonato al περιπατεῖν di Platone (v. 2), Men. Phasm. 36
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(ἂν κοπιάσῃς τ[ὰ σκέλη), detto delle gambe di Fidia, stanche ancora una volta per il suo περιπατεῖν (v. 35), e fr. *871.6 (ὁ προσδιατρίβων δ’ ἐκοπίασεν ἀπολέσας), dov’ è riferito alla stanchezza indotta dalla vecchiaia; non è però attestato in tragedia né nella prosa attica: circostanza dalla quale Arnott 1996, 447 (ad Alex. fr. 151.3) ricava che potrebbe trattarsi di un colloquialismo ionico. La spossatezza lamentata dall’ interlocutore A (a parere di Bergk verosimilmente femminile: vd. supra, ad Interpretazione) ricorda il riferimento, fatto dalla Corifea negli ‘anapesti’ della parabasi delle Tesmoforiazuse superstiti, alla stanchezza delle donne reduci da una festa (κἂν καταδάρθωμεν ἐν ἀλλοτρίων παίζουσαι καὶ κοπιῶσαι, v. 795). A un possibile affaticamento dovuto a movimenti di danza fa cenno il semicoro delle Vecchie nella Lisistrata (vv. 541s.: ἔγωγε γὰρ ἂν οὔποτε κάμοιμ᾽ ἂν ὀρχουμένη / οὐδὲ καματηρὸς ἂν ἕλοι γόνατά μου κόπος). Che la debilitazione fisica delle donne fosse l’ esito di un loro faticoso spostamento da Atene in direzione dell’ isola di Salamina, dove esse si sarebbero dirette all’ inseguimento di Euripide per punirlo della sua misoginia (e dove dunque l’ azione comica sarebbe ambientata), è ipotesi di Butrica 2001, 67s.: ma vd. supra, ad Contenuto. Per l’ impiego di κοπιάω in riferimento al senso di affaticamento determinato dall’ abuso di cibo o, più genericamente, da un’ eccessiva opulenza, che induce sazietà sino alla nausea, cf. Ar. Av. 735; Arist. Pr. 881a21–23, e vd. Pellegrino 2000, 170.
fr. 334 K.-A. (317 K.) οἶνον δὲ πίνειν οὐκ ἐάσω Πράμνιον, οὐ Χῖον, οὐχὶ Θάσιον, οὐ Πεπαρήθιον, οὐδ᾽ ἄλλον ὅστις ἐπεγερεῖ τὸν ἔμβολον 2 οὐχὶ Dindorf: οὐ CE: οὐδὲ Schweighäuser 1801–1807, I, 216 1890–1896, II, 61 ἐπεγερεῖ Brunck: ἐπεγείρει CE
3 οὐδ᾽CE: οὐκ Blaydes
Non lascerò bere vino di Pramno, non di Chio, non di Taso, non di Pepareto, né un qualsivoglia altro vino che potrà far drizzare il… ‘rostro’! Ath. epit. I 29a (CE) ἐν ταύτῃ (scil. ταῖς δευτέραις Θεσμοφοριαζούσαις) ὁ κωμικὸς μέμνηται Πεπαρηθίου οἴνου· οἶνον — ἔμβολον. in questa commedia (scil. le Tesmoforiazuse seconde) il commediografo menziona il vino di Pepareto: «non lascerò — ‘rostro’!». Hsch. ε 2308 ἔμβολον· Ἀριστοφάνης ἐν Θεσμοφοριαζούσαις τὸ αἰδοῖον. ἀρρενικῶς δέ φασι τὸν (τὸ cod.: corr. Schrevelius 1668, 316) τῆς νεὼς ἔμβολον, τὸ χάλκωμα, τὸ περιτιθέμενον κατὰ τὴν πρῷραν (πρώραν cod.: corr. Latte). καὶ ἔμβολον τοῦ θυρίου (τοῦ θεοῦ cod.: corr. Latte).
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embolon: Aristofane nelle Tesmoforiazuse (usa questo termine per indicare) l’ organo genitale. Al maschile si chiama (così) lo sperone della nave, il rostro di bronzo, quello che è collocato in cima alla prua. (Si dice) anche embolon della porticina. Eust. in Od. 1405.20 ὁ τῆς νηὸς ἔμπροσθεν ὀξὺς ἔμβολος· ἀφ᾽ οὗ καὶ τὸ ἀνδρεῖον αἰδοῖον παρὰ τοῖς κωμικοῖς. lo sperone appuntito (posto) sul davanti della nave (si chiama) embolos: donde (è attestato) nei comici (per indicare) anche il membro virile.
Metro
Trimetri giambici
llwl l|lwl llwl llwl wrw|l rlwl llwl w|rwl wlwl
Bibliografia Henderson 1991, 120s.; Murgatroyd 1995, 11; Torchio 2000, 41s.; Lorenzoni 2022. Contesto di citazione Il frammento è tramandato, nella sezione dell’ epitome del libro I di Ateneo dedicata alla classificazione delle differenti tipologie e provenienze dei vini dei Greci (26a–34e), in una pericope dedicata al vino di Pepareto, ed è evocato nella glossa esichiana ε 2308 relativa al significato di ἔμβολος in quanto termine impiegato da Aristofane nelle Tesmoforiazuse per indicare l’ organo sessuale, e, implicitamente, da Eustazio, il quale (in Od. 1405.20) spiega che ἔμβολος è il rostro, lo sperone che sta sulla prua della nave: donde l’ accezione oscena del termine, che nel linguaggio comico designa appunto il membro virile. Interpretazione Il frammento offre un elenco di vini – tutti molto noti e frequentemente menzionati dai comici – di cui la persona loquens si dichiara intenzionata a impedire il consumo per via dei loro effetti afrodisiaci. Come si vedrà più avanti, due dei quattro vini menzionati, quello di Chio, e quello di Taso, si trovano spesso annoverati come vini tra i più pregiati nell’ antichità, e, in virtù di analoghe qualità cromatiche, olfattive e gustative, spesso associati; e rinomato per il suo colore intenso e per la sua corposità sembra essere, nelle pur confuse testimonianze antiche, anche il vino di Pramno. Diverso il caso del vino di Pepareto, meno noto e di sicuro meno apprezzato dagli antichi: il che parrebbe autorizzare a ipotizzare che la ferma proibizione espressa in questo frammento contemplasse non soltanto vini pregiati ma, con una sorta di aprosdoketon, anche vini più scadenti, tutti comunque connotati da potenzialità afrodisiache. Bergk (ap. Meineke FCG II 2, 1076) ritiene che il frammento fosse parte del prologo e contenesse un monito rivolto da Calligenia alle Tesmoforianti. Che la persona loquens fosse da identificare con una donna è anche opinione di Kock CAF I, 473, a parere del quale «loquitur mulier quae Lysistratae instar quasi principatum tenet sodalicii». In realtà, come hanno osservato Rogers (1904, xxxixs.) e Kaibel (ap. Kassel–Austin PCG III 2, 189), sulla scorta di Zieliński (1885, 92 n. 1), la proibizione di bere i vini elencati sembra rivolta a un uomo (lo si ricava dal riferimento
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al membro maschile contenuto nel v. 3: vd. ad l.): magari un intruso, paragonabile al Parente delle Tesmoforiazuse superstiti, il quale, infiltratosi furtivamente e per volere altrui travestito nei riti inaccessibili delle donne, era ammonito forse da un altro personaggio maschile (l’ artefice di un inganno perpetrato ai danni delle donne?) a non lasciarsi andare a bevute di vini quali quelli elencati in questo catalogo, rinomati, come si è detto, per i loro effetti afrodisiaci: bevute che potessero comprometterne la lucidità e la sobrietà dei comportamenti, e che dunque lo smascherassero nella sua reale identità, compromettendo, così, il successo del piano. Questa, come ogni altra ipotesi di ricostruzione, è ovviamente inverificabile, anche perché non è chiaro se il divieto venisse rivolto a uno a o più uomini e se questo divieto venisse espresso con un’ apostrofe diretta o formulato nell’ ambito di un dibattito tra donne o tra uomini; ma un minimo indizio a supporto del fatto che il divieto venisse pronunciato da un personaggio maschile (o da un personaggio femminile che adottava un piglio argomentativo maschile) può forse riconoscersi nell’ espressione οὐκ ἐάσω, che, come si vedrà più avanti, è posta sempre sulla bocca di un interlocutore maschile, o, come nel caso di Ar. Eccl. 153, sulla bocca di una donna che, travestita da uomo, tenta di riprodurre modalità comunicative proprie degli oratori. 1 οὐκ ἐάσω La medesima formula, atta a esprimere ferma proibizione, è impiegata nelle Ecclesiazuse da Donna I nel corso della sua malriuscita prova oratoria, laddove ella dichiara che non permetterà che nelle osterie vengano costruiti pozzi per l’ acqua (νῦν δ’ οὐκ ἐάσω, κατά γε τὴν ἐμὴν μίαν, / ἐν τοῖς καπηλείοισι λάκκους ἐμποιεῖν, vv. 153s.). In Eur. IA 1426 e 1430 dichiarazioni analoghe sono rivolte a Ifigenia da Achille, il quale si dichiara deciso, stazionando in armi vicino all’ altare della dea Artemide, a impedire la morte della fanciulla (ὡς οὐκ ἐάσων σ’, ἀλλὰ κωλύσων θανεῖν, v. 1427) e a impedire che lei muoia per la sua folle esaltazione (οὔκουν ἐάσω σ᾽ ἀφροσύνῃ τῇ σῇ θανεῖν, v. 1430); e in Ph. 1589 (all’ interno di una pericope [i vv. 1586-1590] la cui autenticità è ben difesa da Mastronarde 1994, 595s.) Creonte dichiara, rivolgendosi a Edipo, che non gli permetterà di vivere ancora a Tebe (οὐκ οὖν σ’ ἐάσω τήνδε γῆν οἰκεῖν ἔτι). Cf. anche Charito VIII 2.13 (οὐκ ἐάσω δὲ ὑμᾶς μετανοῆσαι, θεῶν ὑμᾶς προσλαμβανομένων), dove l’ espressione viene impiegata da Cherea come espediente retorico per testare la reale intenzione della sua flotta di partire alla volta di Siracusa. E con οὐ γὰρ ἐάσω si conclude la perentoria affermazione con cui in Il. XVII 448s. Zeus dichiara che non permetterà che i cavalli immortali di Achille cadano nelle mani di Ettore, uccisore di Patroclo. οἶνον … Πράμνιον Il termine che designa questa qualità di vino era di etimologia incerta già per gli antichi; come incerte erano la sua provenienza geografica e le sue caratteristiche precipue. A stare a una notizia attribuita da Ateneo (epit. I 30b) allo storico icario Eparchide (FGrHist 437 F 1), il vino di Pramno proveniva da Icaro (oggi Icaria), isola dell’ Egeo vicina a Samo, dove (secondo Semo di Delo [FGrHist 396 F 6], evidentemente influenzato dall’ invenzione campanilistica di Eparchide) esisteva una rupe di nome Pramno (Πράμνιον πέτραν) e, accanto a
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questa, una grande montagna presso la quale il vino, definito da alcuni anche «medicato (φαρμακίτης)» (Ath. epit. I 30c)72, veniva prodotto. E che ‘Pramnia’ fosse definita una regione della Tracia è ipotesi prospettata in alcuni scolii ad Ar. Eq. 107 (Σ [vet] 107a I, [Tr] 107b Jones–Wilson). Ulteriori provenienze del vino pramnio sono postulate da Plin. XIV 6.54, che lo faceva venire da Smirne, e da Eustazio (in Il. 871.24), che lo faceva venire da Efeso. Ateneo (epit. I 30d–e) richiama altresì la testimonianza di Didimo (fr. 47, p. 77 Schmidt = fr. 27a Coward–Prodi, su cui vd. DiGiulio 2020, 87), secondo cui la denominazione del vino pramnio derivava dalla particolare tipologia di vite (detta appunto pramnia: οἶνον ἀπὸ Πραμνίας ἀμπέλου οὕτω καλουμένης) da cui quel vino veniva prodotto. Dalla testimonianza del Naucratita (epit. I 30e) si ricava inoltre che: a) a parere di alcuni il termine πράμνιος designava genericamente tutti i vini di colore scuro (οἱ δὲ τὸν ἰδίως τὸν μέλανα); b) secondo altri esso si riferiva genericamente a vino di ottima qualità, che è adatto a essere conservato: come se il termine fosse equivalente a παραμόνιος, «durevole», da παραμονή (ἔνιοι δὲ ἐν τῷ καθόλου τὸν πρὸς παραμονὴν ἐπιτήδειον οἱονεὶ παραμόνιον ὄντα: cf. anche Σ [vet] Ar. Eq. 107a II Jones); c) altri ancora riconducevano il termine πράμνιος al verbo πραΰνω, con riferimento a un vino dagli effetti rilassanti, che «mitiga il temperamento, poiché coloro che ne hanno bevuto diventano affabili (οἱ δὲ τὸν πραΰνοντα τὸ μένος, ἐπεὶ οἱ πίοντες προσηνεῖς)»: cf. anche Σ (Tr) Ar. Eq. 107c Wilson. Analoghe paretimologie del termine pramnios forniscono, in maniera altrettanto confusa e contraddittoria, le testimonianze lessicografiche; cf. soprattutto Phot. π 1135 = Sud. π 2207, da cui si evince, tra l’ altro, che Aristarco definiva ‘pramnio’ il vino «dolce» (Ἀρίσταρχος ἐπιμελῶς τὸν ἡδὺν οἶνον Πράμνειον ἔλεγεν· τινὲς τὸν ὤνιον οἶνον 〈ἢ〉 παραμόνιον· τινὲς ἀπὸ ἀμπέλου Πραμνείας ὀνομαζομένης· ὁ δὲ 〈***〉 ἰδίως τὸν μέλανα· ἔνιοι τὸν πραΰνοντα τὸ μένος), e anche Et.magn. p. 686.28–39, dov’è prospettata un’ ulteriore etimologia, che fa derivare il termine Πράμνειος da πρέμνον, «ceppo», «radice» (Πράμνειος οἶνος: Πραϋμένης, ὁ πραΰνων τὸ μένος καὶ στέλλων· οἱ δὲ, τὸν ἐπὶ τοῖς πρέμνοις φυταγωγούμενον φασίν· οἱ γὰρ τῶν Ἰταλῶν γεώμοροι βότρυν ἐπὶ ταῖς τῶν δενδρῶν χαίταις μεταρσίοις ἐλευθεριάζοντα κλήμασι τιθηνοῦνται. Ἢ ἀπὸ πραμνείας ἀμπέλου. Πρέμνον δὲ, τὸ ἀπογηράσκον τῶν στελέχων λέγεται, καὶ τὰ μεγάλα ξύλα· καὶ 〈πρεμνίζειν〉. Οἱ δὲ, τὸν ἀκραιφνῆ καὶ μὴ μετεωριζόμενον πρὸς τὴν ἀηδεστέραν χρῆσιν, ἀλλὰ τῷ γήρᾳ συννεάζοντα καὶ συνανθοῦντα. Ἢ ἀπὸ τοῦ παραμένειν παραμένειον φασὶ λέγεσθαι καὶ πράμνειον. Ἢ τὸν μέλανα). Come notato dai più (vd., tra altri, Lambert–Gócs 1990, 32s., 256s.; Dalby 2000, 72
Gli impieghi terapeutici del vino pramnio sono attestati sin dai poemi omerici (in Il. XI 638s. a Nestore e a Macaone, ferito in battaglia, Ecamede prepara e serve una bevanda a base di formaggio caprino grattugiato, farina d’ orzo e vino pramnio; e in Od. X 234–236 la medesima miscela, con aggiunta di miele, Circe offre ai compagni di Odisseo per indurre in loro l’oblio prima di tramutarli in porci): cf. Pl. Ion 538c, R. 405e; Ps.–Plu. Vit. Hom. II 206; e vd. Richter 1968, H129s.; e sono noti soprattutto in ambito ginecologico: cf. Hp. Mul. I 90, II 192 (VIII, pp. 216, 370 Littré).
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402), è dunque probabile che il termine ‘pramnio’, originariamente impiegato per designare un vino specifico, con denominazione di matrice localistica, da riferirsi cioè al nome della località, vera o presunta, che lo produceva e lo smerciava, passasse poi a indicare vini forti e aspri e, in particolare (come si ricava da Ath. epit. I 30c–e), quelli dal colore molto scuro e dalla forte gradazione alcolica. Il vino di Pramno è menzionato da Aristofane nel prologo dei Cavalieri, dove il Servo I invita il suo compagno a versargli da bere e a brindare appunto alla salute del Genio di Pramno affinché questi gli suggerisca un arguto piano con cui ingannare l’ odiato Paflagone (ἕλχ’, ἕλκε τὴν τοῦ δαίμονος τοῦ Πραμνίου, v. 107)73, ed è altresì apprezzato dalla persona loquens di Ephipp. fr. 28.1 (φιλῶ γε πράμνιον οἶνον Λέσβιον), in cui però non è chiaro se l’ apparente identificazione del vino pramnio come vino di Lesbo faccia riferimento alla localizzazione geografica della vite da cui questo vino veniva ricavato o della popolazione che lo produceva, né se il vino di Lesbo sia definito πράμνιος in relazione a una sua specifica qualità (per la problematica constitutio textus del frammento tràdito da Ath. epit. I 28f e per la sua esegesi vd. ora Papachrysostomou 2021, 227–231). Nella medesima sezione dell’ epitome dedicata al vino di Pramno si precisa che esso non è «né dolce né corposo, ma secco e asprigno, e di particolare vigore» e si ricorda che «Aristofane dice che agli Ateniesi non piace, sostenendo che il popolo di Atene non ama né i poeti duri e aspri né gli aspri vini di Pramno, che fanno contrarre le sopracciglia e le viscere, ma amano piuttosto il vino profumato della fragranza dei fiori, e che, maturo, stilla nettare» (οἵῳ Ἀριστοφάνης οὐχ ἥδεσθαι Ἀθηναίους φησί, λέγων τὸν Ἀθηναίων δῆμον οὔτε ποιηταῖς ἥδεσθαι σκληροῖς καὶ ἀστεμφέσιν οὔτε πραμνίοις {σκληροῖσιν} οἴνοις συνάγουσι τὰς ὀφρῦς τε καὶ τὴν κοιλίαν, αλλ᾽ 〈ἀνθ〉οσμίᾳ καὶ πέπονι νεκταροσταγεῖ, epit. I 30b–c). Il riferimento è a un contesto per noi sconosciuto di una commedia di Aristofane (fr. 688) in cui, secondo un procedimento analogo a quello generalmente riconosciuto in un celebre frammento anepigrafo di Frinico, dove il vino di Pramno viene definito per il suo essere né dolce né annacquato (fr. 68: οὐ γλύξις οὐδ’ ὑπόχυτος, ἀλλὰ Πράμνιος), evocando le caratteristiche precipue del vino di Pramno il commediografo veicolava una propria valutazione critico–letteraria in ordine ai gusti del pubblico ateniese. Sulla controversa intepretazione della metafora enologica impiegata da Aristofane nel contesto citato – o parafrasato – da Ateneo vd. Bagordo 2017a, 35–39; ma per una 73
La battuta si riaggancia evidentemente alla grande fortuna riscossa, com’ è noto, anche al di fuori del genere comico, dal ricorso alla topica metaforica del vino come fonte di inventiva e, nel linguaggio della critica letteraria, della vinositas come garanzia di un’ ispirazione poetica veemente e impetuosa (per restare nell’ ambito degli studi sulla commedia, dove il tema è cruciale in rapporto alla querelle tra poeti οἰνοπόται e ὑδροπόται, e alla valutazione della poetica di Cratino e della sua rivalità con Aristofane, vd., tra altri, Conti Bizzarro 1999, 73–79; Luppe 2000; Rosen 2000; Ruffell 2002; Imperio 2004, 210–213, con ulteriore bibliografia; Bakola 2008, in particolare 11–20; Id. 2010, 59–63; Biles 2011, 138–154; Wright 2012, 125–128, Caroli 2014, 222–223).
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più dettagliata esegesi di Ar. fr. 688 vd. ora Lorenzoni 2022, la quale peraltro si spinge, sulla scia di Bergk (ap. Meineke FCG II 2, 1076), a proporre l'attribuzione di questo frammento anepigrafo alle perdute Tesmoforiazuse, riconoscendovi una diretta connessione con il presente fr. 334, che ella riconduce al medesimo contesto aristofaneo, e al quale ascrive una analoga valenza poetologica. Al contributo della Lorenzoni rinvio evidentemente anche per una non meno dettagliata disamina delle esegesi antiche del termine πράμνιος come appellativo per il vino: termine che, pur nella consapevolezza dell'oscurità della sua etimologia e della fallacia delle «interpretazioni che ne fanno un vino legato ad un luogo o a un tipo di vitigno» (Ead. 2022, 155), ho ritenuto di rendere, al v. 1, con «di Pramno» al fine di armonizzarne la resa traduttiva a quella dei tre appellativi etnici che nel verso successivo designano tre qualità enologiche riconducibili con certezza ad altrettante località. In generale, sul vino di Pramno vd. Jacoby, FGrHist IIb, Komm., 286, ad FGrHist 437 F 1; Seltman 1957, 43s.; Gigante 1963, 241 n. 53; Meyer 1974; Lambert–Gócs 1990, 32s., 256s.; Dalby 2000, 402 (ulteriore bibliografia è ora in Lorenzoni 2022). 2 οὐ Χῖον Definito da Ateneo «il più gradevole (χαριέστατος)» (scil. dei vini da lui precedentemente menzionati), in quanto, in tutte le sue principali varietà (secco, dolce e intermedio), «digestivo, nutriente, dolcissimo capace di produrre buon sangue e, grazie alla sua corposa robustezza, di ingenerare sazietà» (epit. I 32f), il vino di Chio è menzionato dalla serva di Blepiro come una delle prelibatezze (καὶ τἄλλ᾽ ἀγαθά) residuate nel corso del festino comunitario che si svolge nell’ esodo delle Ecclesiazuse (v. 1139). Era altresì il vino dei simposi raffinati: nei Banchettanti di Aristofane il figlio καταπύγων frequenta intrattenimenti dispendiosi quali la «tavola siracusana» e i «banchetti sibaritici», e beve «vino di Chio da coppe laconiche (Χῖον ἐκ Λακαινᾶν, fr. 225.3)». Rinomato per il suo colore rosso scuro (cf. Theopomp.Hist. FGrHist 115 F 276 = Ath. epit. I 26b–c), nei frammenti comici il vino di Chio è spesso annoverato come vino di qualità, e menzionato all’ interno di elenchi di vini altrettanto pregiati: in Ar. fr. 546 qualcuno chiedeva forse che si portasse un orcio di vino di Chio, assieme a del profumo (οἴνου τε Χίου στάμνον ἥκειν καὶ μύρον); la persona loquens (verosimilmente lo stesso dio del vino Dioniso: cf. Ath. epit. I 26b–c e vd. Comentale 2017, 313s.) di Hermipp. fr. 77, al v. 5, lo definisce ἀμύμων, «eccellente», e ἄλυπος, «in grado di non arrecare dolore», cioè di non procurare mal di testa (per questa interpretazione dell’ attributo vd. Comentale 2017, 318), e lo considera di fatto il migliore di tutti gli altri vini (quello di Mende, quello di Magnesia e quello di Taso) precedentemente elencati (cf. vv. 4–6). La persona loquens di Philyll. fr. 23 dichiara di voler offrire vino di Chio (v. 2) assieme a vino di Lesbo, di Taso, di Biblino e di Mende, precisando che si tratta di vini che garantiscono che non ci si ubriachi (ὥστε μηδένα κραιπαλᾶν, v. 3), e lo definisce σαπρός, «invecchiato»: indiscussa garanzia di qualità (per l’ accezione positiva di questo aggettivo in riferimento al vino cf. anche Ar. Pax 554, Eup. fr. 478 e Alex. fr. 172.4; e cf. l’ hapax σαπρίας, impiegato, in riferimento al vino che occupa il vertice di una climax ascendente, in Hermipp. fr. 77.6–10 per il suo bouquet floreale e per la sua fragranza che lo rende assimilabile a nettare e
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ambrosia). Insieme con quello di Taso, il vino di Chio viene menzionato in Epil. fr. 7, dove è descritto come ἠθημένος, «filtrato» (su questa procedura vd. Orth 2014, 280); e assieme al vino di Taso e al vino di Lesbo «invecchiato e stillante nettare (γέροντα νεκταροσταγῆ)», il vino di Chio viene menzionato da Eub. fr. 121. In Anaxil. fr. 18.5 il vino di Chio viene menzionato all’interno di un elenco di vivande (vv. 3–5) consumate forse da un incolto superstizioso che vuol apparire elegante (così Kock CAF II, 268). Per un analogo elenco di vini, che contempla pregiate qualità enologiche prodotte nelle isole di Leucade, di Lesbo, di Taso e di Chio, cf. Plaut. Poen. 699s. In generale, sul vino dell’ isola di Chio vd. Dalby 2000, 82s., 399 con la bibliografia citata alla n. 9. οὐχὶ Θάσιον Non meno pregiato il vino di Taso, che nella Lisistrata suggella il giuramento delle donne (v. 196), e che viene in quel contesto particolarmente apprezzato da Mirrine e da Lampitò, rispettivamente per il suo colore rosso sangue e per il suo profumo (vv. 195s.); e ancora per il suo profumo il vino di Taso è esaltato dalle parole della Serva di Prassagora reduce dal pasto comune in Eccl. 1116–1124, e da Cremilo in Pl. 1021. Il suo colore rosso scuro (μέλας) viene ricordato da Aristofane anche nel Cocalo (fr. 364, tramandato però da Ath. XI 478d in forma gravemente corrotta, e per il testo e per la struttura metrica). La persistenza del suo aroma, che avrebbe ricordato la fragranza delle mele, viene esaltata anche in Hermipp. fr. 77.3–5, dove il vino di Taso viene giudicato secondo soltanto a quello di Chio; e per il suo sapore «dolce» questo vino viene elogiato anche in Alex. fr. 232.3s., dove per il vino di Taso viene impiegato il lusinghiero metonimico “Bromio”, tradizionale epiteto di Dioniso. L’ aroma dolce e profumato di questo vino era peraltro stigmatizzato anche da Clemente Alessandrino, che in Paed. II 30 lo definisce ὁ εὐώδης, mentre Thphr. Od. 51 fa cenno all’ abitudine di potenziarne ulteriormente la dolcezza impastandolo col miele nelle giare. È menzionato in ulteriori elenchi comici di vini, vivande e prelibatezze varie: cf. Antidot. fr. 4.1; Antiph. frr. 138, 238.2; Alex. 277.1, dove sono abbinati «vinelli di Taso e di Lesbo (Θασίοις οἰναρίοις καὶ Λεσβίοις)» (su questa associazione tra vino di Taso e vino di Lesbo, riproposta nella ottava Epistola di Eliano, vd. Arnott 1996, 499, 770 con n. 1); Epil. fr. 7 ed Eub. fr. 121.1, dov’ è abbinato a quello di Chio e a quello di Lesbo (su entrambi i frammenti vd. supra); Men. Kol. 48 e fr. 224.5 (dov’ è menzionato assieme al vino di Mende), e fr. com. adesp. 1147.42, 83. Insieme al vino di Chio, il vino di Taso è nominato come vino pregiato anche in Macho fr. 266 (vd. Gow 1965, 196, ad l.) e in Poll. VI 15, la cui lista di specialità vinicole provenienti da varie località della Grecia si apre appunto con questi due vini. In generale, il vino dell’ isola di Taso è rinomato come vino tra i più apprezzati in tutta l’antichità (cf., e. g., Xen. Smp. 4.41; Archestr. SH 190. [= fr. 59 Olson–Sens], vv. 15s., che, assieme al vino di Biblo e a quello di Lesbo, considerato il vino in assoluto più εὐώδης [v. 8], definisce il vino di Taso γενναῖος, «eccellente», a patto che sia invecchiato: sulla problematica paradosis del v. 16 vd. Olson–Sens 2000, 222, ad l.); Critias 88 B 33 (dov’ è menzionato assieme al vino di Chio); Plin. XIV 73 (nell’ ambito di un’ articolata rassegna di rinomati vini greci); e vd. Salviat 1986;
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Davidson 1997, 42s.; Dalby 2000, 399 con n. 7; e, in particolare, sulla presenza del vino di Taso in commedia, García Soler 2002, 106s. οὐ Πεπαρήθιον Di qualità decisamente più scadente, e forse anche meno noto, doveva essere invece il vino dell’ isola di Pepareto (l’ odierna Skopelos, al largo della costa della Tessaglia meridionale, a nord dell’ Eubea), se nel su citato frammento anepigrafo di Ermippo (fr. 77), alla fine di un catalogo in cui i vini pregiati (di Mende, di Magnesia, di Taso e di Chio) vengono classificati, in una climax ascendente, come ‘nettare’ da offrire in un fiorente banchetto «agli amici», la persona loquens dichiara di volerlo servire ai nemici (… τοῦτ᾽ ἐστὶ τὸ νέκταρ, / τούτου χρὴ παρέχειν πίνειν ἐν δαιτὶ θαλείῃ / τοῖσιν ἐμοῖσι φίλοις, τοῖς δ᾽ ἐχθροῖς ἐκ Πεπαρήθου, vv. 10–12; ma sulla non ovvia esegesi di questa clausola brachilogica vd. Comentale 2017, 312s.). Anche questo, come il vino di Taso, doveva essere maggiormente apprezzato se invecchiato di qualche anno (cf. Plin. XIV 76), ed era esportato in tutto il Mediterraneo (cf. Dem. 35.35). Sul vino di Pepareto vd. Dalby 2000, 399 e 403. 3 τὸν ἔμβολον Il termine (qui di genere maschile, ma ben attestato anche al neutro), che si riferisce generalmente a qualcosa di appuntito che si inserisce in un alloggiamento, e che quindi designa una trave, una sbarra o un perno (anche di una porta), è usato qui per indicare eufemisticamente il membro virile: come annota Henderson 1991, 120s., ἔμβολος, «a peg, ram, or bar, suggests the notion of sexual penetration expressed by verbs in -βάλλειν» (vd. anche Murgatroyd 1995, 11). Analogamente, in Ar. Av. 1256 στύομαι τριέμβολον, «ti speronerò col (mio) triplice rostro», è la minaccia che Pisetero, sessualmente rinvigorito dal proprio eroico ringiovanimento, rivolge a Iris. La metafora oscena è desunta dall’ ambito della guerra navale: il rostro della trireme era infatti un ἔμβολος di bronzo, posto a prua, a livello dell’ acqua, con cui si speronavano le navi nemiche (vd. Morrison– Coates–Rankov 2000, passim, in particolare 167), laddove l’ ἐμβολή designava, nel lessico nautico, la collisione tra navi da guerra (cf. e. g. Aesch. Pers. 415 [e cf. anche la iunctura ναΐοισιν ἐμβολαῖς attestata nei vv. 279 e 336], Th. VII 36.4 e 40.5 [e cf. anche le espressioni ταῖς ἐμβολαῖς χρῆσθαι / ταῖς ἐμβολαῖς χρώμενοι impiegate in VII 36.3], Eub. fr. 85.12 [τριήρους ἐμβολάς], Xen. HG IV 3.12 [ἐμβολὰς ἐχούσῃ τῇ τριήρει], AP [Philipp.] VI 236.1; Ael. NA I 30.9, VIII 10.21, XIV 23.28, e cf. il significato di ἐμβάλλειν e. g. in Hdt. VIII 84.1, Th. VII 70.6). Cf. la lirica immagine delle «triremi dai cerulei rostri» coniata da Aristofane in Eq. 554s. (κυανέμβολοι … τριήρεις) e l’ altrettanto lirica descrizione del delfino πρῴραις κυανεμβόλοισιν εἱλισσόμενος in Eur. El. 436s., riecheggiata da Ar. Ra. 1318 (… ὁ φίλαυλος ἔπαλλε δελφὶς πρῴραις κυανεμβόλοις: su questo epiteto ornamentale, vd. Bergson 1956, 130), e cf. il composto elevato δεκέμβολος, «che ha speronato dieci navi» oppure «forte abbastanza da speronare dieci navi», riferito alla nave di Nestore nei Mirmidoni di Eschilo (fr. 133 R., citato dallo scolio ad Av. 1256).
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fr. 335 K.-A. (322 K.) ἀγαθὰ μεγάλα τῇ πόλει ἥκειν φέροντάς φασι τοὺς πυλαγόρους ἐκ τῆς Πυλαίας καὶ τὸν ἱερομνήμονα 2 φέροντάς Ald: -ά E
portando grandi beni per la città son tornati, dicono, i pilagori dall’ assemblea anfizionica di Pile e lo ieromnemone Σ (vet) (EAld) Ar. Nu. 623b Holwerda ἱερομνήμονα ἔπεμπον εἰς Πυλαίαν καὶ πυλαγόρους. Ἀριστοφάνης ἐν Θεσμοφοριαζούσαις· ἀγαθὰ — ἱερομνήμονα. all’ assemblea anfizionica di Pile inviavano uno ieromnemone e dei pilagori. Aristofane nelle Tesmoforiazuse: «portando — ieromnemone». Harp. π 126.7–10 (p. 267.3–7 Dindorf) ἐπέμποντο δ᾽ ἐκ τῶν πόλεων τῶν μετεχουσῶν τῆς Ἀμφικτυονίας τινὲς οἵπερ ἐκαλοῦντο Πυλαγόραι· μνημονεύουσι δὲ καὶ τούτων πολλοί, ὥσπερ καὶ Δημοσθένης (18.149) […] Ἀριστοφάνης τε ἐν δευτέραις Θεσμοφοριαζούσαις. Dalle città confederate dell’ Anfizionia venivano inviati taluni che erano chiamati Pilagori; e anche di costoro fanno menzione in molti, come ad esempio Demostene (18.149) […] e Aristofane nelle Tesmoforiazuse seconde.
Metro
Trimetri giambici
(xlwl x)rwr wlwl llkl llk|l klkl llwl l|lwww wlwk
Bibliografia
Starkie 1911, 329s.; Wankel 1981, 154 n. 7; Torchio 2000, 42s.
Contesto di citazione Il frammento è citato da uno scolio vetus ad Ar. Nu. 623 a proposito di una circostanza, rievocata da Aristofane nell’ antepirrema della parabasi delle Nuvole, di cui era stato protagonista Iperbolo74 in un momento della 74
Si tratta ovviamente del demagogo Iperbolo, figlio di Antifane, del demo di Peritede (PA 13910; LGPN II, s. v. [5], PAA 902050), ripetutamente attaccato da comici e oratori per la sua presunta origine umile, servile o straniera (cf. Eup. fr. 208; Pl.Com. fr. 182.4–7, 185, 203; Polyzel. fr. 5; And. fr. 5; Σ vet Ar. Pax 692 Holwerda e vd. Orth 2015, 333–335, ad Polyzel. fr. 5), e noto come ricco fabbricante e commerciante di lampade (Cratin. fr. 209; Ar. Nu. 1065s., Pax 690; e ancora Polyzel. fr. 5 e And. fr. 5; e cf. anche Ar. Eq. 738–740), che a partire dalla metà degli anni Venti del V secolo venne alla ribalta nei tribunali (Ar. Ach. 846s., Nu. 874–876, V. 1007; e cf. Ar. Eq. 1358–1363; Eup. fr. 193), e nell’ ekklesia
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sua carriera politica (indicato esplicitamente dal coro come «quest’ anno» [τῆτες]), in cui, dapprima investito, per sorteggio, della carica di ieromnemone anfizionico, sarebbe stato poi «privato della corona» (… ἀνθ᾽ ὧν λαχὼν Ὑπέρβολος / τῆτες ἱερομνημονεῖν κἄπειθ᾽ ὑφ᾽ ἡμῶν τῶν θεῶν / τὸν στέφανον ἀφῃρέθη, Nu. 623–625)75. E al medesimo contesto delle Tesmoforiazuse seconde alluderà la te-
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(Cratin. fr. 283; Ar. Eq. 1303s.), e in generale nella politica ateniese (in Iperbolo sembra ad esempio potersi riconoscere l’ uomo politico che, in qualità di buleuta, avanzò, probabilmente nel 421 / 20 a. C., le proposte di legge contenute in IG I3 82 concernenti gli addetti ai culti di Efesto [giusta l’ integrazione, comunemente accettata, del nome di Iperbolo in 82.5]; e da IG I3 85 sembra potersi ricavare che Iperbolo, probabilmente nel 418 / 17 a. C., fu autore di uno ψήφισμα relativo a beni dolosamente confiscati e venduti all’ incanto e al successivo invito a pranzo nel Pritaneo per coloro che denunciarono l’ accaduto; mentre non è dimostrabile che abbia ricoperto la carica di stratego sulla base di Ar. Eq. 1300–1315, Pax 1319 e Σ [vet Tr] Ar. Ach. 846 Wilson, né quella di trierarca sulla base di Ar. Th. 836–845 ed Eup. fr. 207: vd. Cuniberti 2000, 41–67, 103–109), sino a diventare appunto il leader della democrazia radicale e degno erede di Cleone dopo la sua morte, nel 422 (cf. Ar. Ra. 569s.), e, come tale, sicuro bersaglio di due commedie che lo vedevano protagonista, il Maricante di Eupoli (vd. Olson 2016, 126–129) e l’ Iperbolo di Platone comico (vd. Pirrotta 2009, 334–336), nonché probabilmente target privilegiato, assieme a sua madre, delle Panettiere di Ermippo (cf. Ar. Nu. 557 con Σ [vet] Ar. Nu. 557a–b Holwerda, e vd. Comentale 2017, 66s.). Colpito da ostracismo (cf. soprattutto Theopomp. FGrHist 115 F 96b; Plu. Alc. 13.4, Arist. 7.3–5, Nic. 11.3–9, con la citazione di Pl.Com. fr. 203; e sul significato politico di questo ostracismo, noto per essere stato l’ ultimo della storia ateniese, vd. ora Imperio 2020, 100–103, in particolare 103 n. 46 con la bibliografia ivi citata), nel 417 / 16 o nel 416 / 15, andò in esilio a Samo, dove fu poi ucciso dalla congiura oligarchica nel 411 (cf. Th. VIII 73.3). Per una ricostruzione della figura storica di Iperbolo sulla base delle fonti disponibili vd. Cuniberti 2000, e per una sommaria ricognizione delle testimonianze comiche su Iperbolo, Casanova 1995 e ora più in dettaglio Fiorentini 2022, 233–235, ad Cratin. fr. 271. Questo passo delle Nuvole rappresenta l’ unica fonte della notizia della ieromnemonia di Iperbolo, notizia che parrebbe messa peraltro in discussione dall’esegesi antica: lo scolio a Nu. 624 precisa infatti che οὐδεὶς δ᾽ ἱστόρησε κατ᾽ ἑκεῖνον τὸν ἐνιαυτὸν ἱερομνήμονα εἶναι τὸν Ὑπέρβολον (Σ [vet] Ar. Nu. 624a. α. Holwerda), e che παρ᾽ ἱστορίαν δὲ εἶπε τὸ “τῆτες”. Οὐδεὶς γὰρ ἱστορεῖ ἐν ᾧ ἐκείνῳ τῷ ἔτει ἱερομνήμονα εἶναι Ὑπέρβολον, ἐν ᾧ αἱ Νεφέλαι ἐδιδάχθησαν (Σ [vet] Nu. 624a. β. Holwerda). L’ osservazione dello scoliaste è stata però riconsiderata da Camon 1961 (e [Id.] 1963, 49–51), a parere del quale egli non starebbe dicendo che Iperbolo non fu mai ieromnemone, ma che non lo fu nell’ anno della rappresentazione delle Nuvole I. Persuaso peraltro che la pericope di versi contenente il riferimento alla ieromnemonia di Iperbolo appartenga a una presunta ‘terza’ redazione delle Nuvole (la seconda essendo a suo parere da collocare nel 423 / 22, anno dell’ arcontato di Aminia), nella quale appunto una hypothesis [Ar. Nu. Arg. V Wilson = Nu. I test. i K.-A.] collocava la διασκευή della commedia (per una recente dettagliata ricognizione della questione vd. Di Bari 2013, 194–202, e in particolare, sulle ipotesi formulate già nell’ Ottocento, relative all’ esistenza di ben tre redazioni delle Nuvole, 201 n. 27, e ora Torchio 2021, 13 n. 15; l’ipotesi è ripresa da Caroli 2021a, 58-65 e [Id.] 2021b, in particolare 11-14, il quale valorizza un’indicazione fornita nella miscellanea filologica
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restitutita da P.Berol. 21163 = Ar. Nu. I test. iii K.-A. [= ΒΚΤ ΙΧ, 66 recto, ora + P.Berol. 13231G, fr. E = TM 65396], rieditandola e reinterpretandola come testimonianza dell’esistenza di due revisioni, e dunque di tre edizioni, tanto del Pluto quanto delle Nuvole (Π̣ λοῦ]τος καὶ Νεφέλαι δύο διεσ[κευάσθησαν, col. I, rr. 8-10), Camon collocava la ieromemnonia di Iperbolo nel 422 / 21, da considerarsi comunque quantomeno termine post quem per la sua datazione. A parere di Cuniberti 2000, 88s., invece, l’ obiezione dello scoliaste deriverebbe semplicemente dalla considerazione che nessun’ altra fonte gli tramandava questa notizia: restituendo opportunamente l’ intera sezione strofica della parabasi delle Nuvole alla prima redazione della commedia (posto che l’ unica sezione parabatica ascrivibile con certezza a quella parziale διασκευή evocata da Ar. Nu. Arg. VI Wilson = Nu. I test. ii K.-A., è, com’ è noto, individuabile nei soli vv. 518–562, ossia nei quarantacinque eupolidei della parte astrofica che nell’ esegesi antica era la ‘parabasi propriamente detta’: cf. Σ [vet] Ar. Nu. 520 Holwerda = Ar. Nu. I test. iv K.-A. sulla questione vd. ora Torchio 2021, 16s.), Cuniberti 2000, 78–98 ipotizza dunque, in linea con Bianchetti 1979, 221–232, che la ieromnemonia di Iperbolo dovesse collocarsi nel 424 / 23: una possibilità che non pare contraddetta da quel topos storiografico diffuso sin dall’ antichità, ed espresso dallo scoliaste di Nu. 624, che vuole Iperbolo prima subalterno, poi successore di Cleone (Σ [vet] Nu. 624a. α. Holwerda: οὐδέπω γὰρ διέπρεπε Κλέωνος ἕτι ζῶντος; Σ [vet] Nu. 624a. β. Holwerda: οὐδέπω γὰρ διέπρεπε Κλέωνος ἕτι ζῶντος. μετὰ γὰρ τὸν ἐκείνου θάνατον ἠξιώθη), considerata la connotazione religiosa e ‘di rappresentanza’, piuttosto che politica, della carica, peraltro ad Atene neanche elettiva, di ieromnemone (vd. Cuniberti 2000, 80s.). Non meno problematica è l’ interpretazione dell’ affermazione fatta in questi versi dal coro di Nuvole, le quali rivendicano il merito di aver privato della corona Iperbolo, ieromnemone anfizionico, per insegnargli a regolare i giorni secondo il ciclo lunare, avendo recepito i rimproveri della Luna, in collera con gli Ateniesi e con i loro alleati (cf. vv. 607–611). L’ affermazione è stata talora messa in relazione a un presunto tentativo, promosso da Iperbolo, di riforma del calendario ateniese per correggere il disallineamento tra anno ‘civile’, basato sul ciclo annuale del sole, e anno ‘religioso’, scandito dai cicli lunari: un problema cui si cercava periodicamente di porre rimedio con l’ inserzione di cicli intercalari (cf. Nu. 615s.). Tale riforma si sarebbe ritorta contro il suo stesso promotore, determinando l’ interruzione e l’ annullamento del suo mandato di ieromnemone, e probabilmente una nuova estrazione a sorte degli ieromnemoni secondo la data fissata dal calendario riformato (vd. soprattutto Camon 1961; Roux 1979, 24; e cf. anche Sommerstein 1982, 193s., ad Nu. 615): e a seguito di questo provvedimento Iperbolo sarebbe stato poi forse sfiduciato dall’ assemblea popolare (così Starkie 1911, 329s., ad l.). E tuttavia, le lamentele della luna e, per il suo tramite, degli dèi, defraudati dei sacrifici e delle feste previste dal calendario religioso, delle quali le Nuvole si fanno portavoce in questo antepirrema parabatico, ai vv. 615-619, lasciano intendere che nessuna riforma del calendario ateniese era ancora operante: neppure quella, proposta dall’ astronomo Metone già nel 433 / 32 a. C. (D. S. XII 36), che dovette essere adottata molto più tardi, probabilmente dopo la fine della guerra del Peloponneso (sulla situazione caotica in cui, ancora nella seconda metà del V secolo, versava il calendario ateniese, vd. la ricognizione presente in Cuniberti 2000, 84–92, con la bibliografia ivi citata). Del resto, il disappunto per il disordine del calendario ateniese, che comprometteva il regolare adempimento delle festività religiose, emerge ancora nelle parole con cui, nella Pace, Hermes accusa il Sole e la Luna
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stimonianza di Arpocrazione, il quale ricorda in proposito che dei pilagori faceva menzione anche Demostene nell’ orazione Contro Ctesifonte. Interpretazione Il frammento sembra evocare la sfera religiosa demetriaca: il termine Πυλαία (scil. σύνοδος: cf. Harp. π 126.3–6 [pp. 266.12–267.3 Dindorf]) designa infatti l’ assemblea anfizionica pileo–delfica che si svolgeva presso il santuario di Demetra Anfizionide (cf. Hdt. VII 200.2) o Pylaia, «delle porte» (cf. Call. Epigr. 39), originariamente nei pressi delle Termopili76. Sulla fantasiosa
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di ‘sottrarre i giorni e rosicchiare il ciclo’ per potersi indebitamente appropriare delle offerte riservate agli dèi olimpici, attribuendo così scherzosamente ai due elementi naturali quelle correzioni intercalari generalmente operate dall’ arconte (ταῦτ᾽ ἄρα πάλαι τῶν ἡμερῶν παρεκλεπτέτην / καὶ τοῦ κύκλου παρέτρωγον ὑφ᾽ ἁμαρτωλίας, vv. 414s., su cui vd. Platnauer 1964, 106s. e Olson 1998, 168 con la bibliografia ivi citata). Sembra perciò più agevole immaginare, come ipotizza Cuniberti 2000, 95s., che le Nuvole, imputando a Iperbolo una qualche inadempienza nell’ esercizio del proprio ruolo nel consiglio anfizionico, durante il quale, per la confusione e il disordine in cui versava il calendario ateniese, aveva fatto prevalere il calendario della vita civile su quello religioso–lunare, con conseguenti ripercussioni nelle relazioni con le altre città dell’ anfizionia delfica, alludano qui a una specifica circostanza in cui avranno manifestato la propria contrarietà con una perturbazione atmosferica, che potrà ad esempio aver annullato il sorteggio a ieromnemone o interrotto l’ adempimento di qualche preciso atto pubblico connesso a quella carica e compreso tra la sessione d’ autunno e quella di primavera del consiglio anfizionico, o semplicemente fatto volare la corona che simboleggiava il suo ufficio con un colpo di vento! L’ origine delle adunanze religiose dette ‘anfizionie’ (in greco il termine è ἀμφικτυονία, da ἀμφί, «attorno» + κτίζω, «fondo, insedio» donde ἀμφικτίονες o ἀμφικτύονες – vd. Frisk GEW, s. v. κτίζω; e per la diversa accentazione ἀμφικτυόνες cf. Arcad. p. 15.27 Barker [= p. 15.10 Schmidt = GG III 1, p. 22.25 Lentz] – «quelli che risiedono intorno [al santuario]», ossia le popolazioni limitrofe accomunate dallo stesso culto di un vicino santuario, attorno al quale si radunavano per celebrarne le festività [cf. Androt. FGrHist 324 F 58; Str. IX 240]), è molto antica: veniva infatti ricondotta a un eroe eponimo, Ἀμφικτύων (cf. soprattutto Hdt. VII 200.2; Theopomp. FGrHist 115 F 63; e poi Marm.Par. FGrHist. 239 A 5; D. H. Ant. Rom. IV 25.3), figlio di Deucalione e fratello di Elleno, la cui identità finisce per sovrapporsi a quella del mitico re di Atene Anfizione, figlio di Deucalione e Pirra (cf. Paus. I 2.5; Ps.–Apollod. III 14.6; Ath. epit. II 38c; e sulla presenza di Anfizione nella lista dei re ateniesi, probabilmente da ricondurre a Ellanico, vd. Fowler 2013, 142–144 con n. 71), il quale avrebbe istituito a Delfi questo συνέδριον dei Greci (cf. Sud. α 1736 = Harp. α 98 [pp. 27s. Dindorf]). La più celebre anfizionia fu infatti quella pileo–delfica (cf. e. g. Hdt. VII 213.2; Dem. 18.154; Aeschin. 3.124–128; Hyp. 6.18; Thphr. HP IX 10.2; Str. X 3.7, 17; SIG3 436), che, come si è detto, ebbe il suo centro nel tempio di Demetra ad Antela, presso le Termopili, dove veniva venerato l’eroe eponimo Anfizione, forse sin dall’ VIII secolo, a cui poi, forse nel VII secolo, si associò il santuario delfico di Apollo. I suoi membri si radunavano due volte l’ anno, in primavera e in autunno, originariamente ad Antela, presso il santuario di Demetra Pylaia, nelle vicinanze delle Termopili, poi alternativamente anche a Delfi, ma le riunioni continuarono a denominarsi Pylaiai, dalla loro sede più antica (cf. Harp. π 126.1 [p. 266.9–10
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ricostruzione di Karachalios 2006, 20s., secondo cui il riferimento ai πυλάγοροι e allo ἱερομνήμων di ritorno dal consiglio anfizionico di Pile alluderebbe a un taglio dei finanziamenti, destinati alle celebrazioni delle Tesmoforie, concordato dagli uomini in una sorta di «panhellenic male alliance»: donde l’(ironico?) ἀγαθὰ μεγάλα τῇ πόλει del v. 1, vd. supra, ad Contenuto. 1–2 ἀγαθὰ μεγάλα … ἥκειν φέροντάς φασι La presenza dell’ infinitiva introdotta da φασι, da cui si ricava che la persona loquens si limita a riferire ciò che altri dicono, lascia agevolmente arguire che l’ affermazione non ha qui quella valenza esclamativa e trionfalistica che è invece riconoscibile nelle analoghe affermazioni in prima persona presenti in Ar. Pax 888 (σκέψασθ᾽ ὅσ᾽ ὑμῖν ἀγαθὰ παραδώσω φέρων) o Pl. 646 (ὡς ἀγαθὰ […] ἅπαντά σοι φέρω), come pure nelle promesse di ἀγαθά formulate in commedia dalle divinità ai loro devoti, spesso in contesti parabatici (cf. in particolare la promessa di μέγιστ’ ἀγαθά formulata in Eup. fr. 173: φημὶ δὲ βροτοῖσι πολὺ πλεῖστα παρέχειν ἐγὼ / καὶ πολὺ μέγιστ’
Dindorf]: Πύλαι μὲν καλοῦνται αἱ Θερμοπύλαι). Col progressivo allargamento di questa lega anfizionica venne meno anche la limitrofia dei popoli, che arrivarono a essere una dozzina: Achei della Ftiotide, Dolopi, Eniani ed Etei, Malii, Magnesii, Perrebi e Tessali, Beoti, Dori, Ioni (dall’ Attica e dall’ Eubea), Locresi e Focesi. Le finalità principali di questa lega erano: a) protezione e conservazione dei santuari e delle festività a essi connesse (in primo luogo dei giochi pitici, che furono riorganizzati istituzionalmente nel 586 a. C., all’ indomani della prima guerra sacra); b) amministrazione del diritto sacro, cui erano tenuti tutti i membri: non a caso, almeno sino all’ età di Filippo II il macedone, la lega non fece mai guerre ‘laiche’, ma solo guerre ‘sacre’: 1) nel decennio 596–586 contro gli abitanti di Crisa, che molestavano o depredavano i pellegrini in viaggio per Delfi e che furono debellati dall’ esercito anfizionico: con la conseguente consacrazione del suo territorio ad Apollo delfico (sulla tradizione relativa alla ‘prima guerra sacra’ vd. Davies 1994, con la bibliografia ivi discussa); 2) intorno al 449 (‘seconda guerra sacra’), quando gli spartani tolsero ai focesi l’ egemonia su Delfi (restituita poi l’ anno successivo dagli ateniesi guidati da Pericle); 3) nel decennio 356–346, quando, avendo ormai imposto il suo controllo a Delfi, Tebe fece approvare dall’ assemblea anfizionica un decreto che imponeva ai focesi il pagamento di una multa in espiazione di reati di sacrilegio: un provvedimento che causò l’ occupazione militare di Delfi da parte dei focesi, poi definitivamente sconfitti da Filippo II (‘terza guerra sacra’), il quale, espulsi i focesi dall’ anfizionia, fece abbattere le mura della città e approfittò dell’ occasione per entrare egli stesso nell’ anfizionia acquisendo i voti dei focesi estromessi; 4) nel 340 (‘quarta guerra sacra’), quando i locresi, probabilmente sobillati dai tebani, accusarono di empietà gli ateniesi; ma il delegato ateniese al consiglio della lega, l’ oratore Eschine, mosse un’ analoga accusa contro i locresi di Anfissa (cf. Aeschin. 3.107–113); fu chiesto allora l’ intervento di Filippo per la punizione dei locresi: intervento che provocò lo schieramento di ateniesi e tebani in difesa dei locresi, ma che si risolse nel successo di Filippo del 338, con cui sino al primo decennio del III secolo fu sancita l’ egemonia macedone sull’ anfizionia (cf. Dem. 18.143–152). Sulla storia dell’ anfizionia pileo–delfica vd., dopo Busolt–Swoboda 1926, 1292–1310, almeno Schaefer 1959a; Id.1959b; Roux 1979; Tausend 1992, 8–63; Lefèvre 1998; Sánchez 2001.
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ἀγαθά), o da questi auspicati nelle canoniche formule di preghiera (cf. e. g. Ar. Av. 586s., Th. 310s. e vd. Austin–Olson 2004, 154s., ad l., e Olson 2016, 96). 2–3 τοὺς πυλαγόρους καὶ τὸν ἱερομνήμονα I termini πυλάγορος / πυλαγόρας (o ἀγορατρός, forma attestata nelle iscrizioni delfiche di terzo secolo: cf. e. g. FD III 2, 68.66ss., III 4, 365.4, 6; SIG3 436.8, 11, 444A.5), «colui che prende la parola nell’ assemblea pilea» (Phot. π 1532), e ἱερομνήμων, «colui che custodisce le cose sacre» (Phot. ι 55), designavano i delegati dei 12 ethnē rappresentati nel consiglio della lega degli anfizioni pileo–delfici (la Pylaia synodos). Ogni ethnos inviava due ieromnemoni (i Dori, uno dalla Doride e uno dal Peloponneso, gli Ioni, uno dall’ Eubea e uno da Atene), ma poteva inviare un numero indefinito di pilagori. Almeno ad Atene, i πυλάγοροι, in numero di tre (cf. Σ [vet] Aeschin. 3.113), non erano estratti a sorte ma eletti per alzata di mano (cf. Aeschin. 3.114: χειροτονηθεὶς [Demostene] γὰρ ὑφ᾽ ὑμῶν πυλάγορος; Dem. 18.149: προβληθεὶς πυλάγορος οὗτος [Eschine], καὶ τρίων ἢ τεττάρων χειροτονησάντων αὐτόν), laddove estratti a sorte erano, come mostra Ar. Nu. 623, gli ieromnemoni. Le testimonianze sulla distinzione tra le due cariche sono poche e controverse, ma è possibile ricavarne che i pilagori avessero diritto di parola ma non di voto, mentre gli ieromnemoni avevano diritto di voto e il compito di predisporre i lavori dell’ assemblea ponendo all’ ordine del giorno le questioni su cui deliberare: questioni individuate però sulla base delle sollecitazioni che pervenivano dai pilagori, i quali dovevano dunque avere spiccate doti oratorie. Non a caso furono spesso eletti pilagori personaggi di primo piano della scena politica ateniese: Temistocle nel 479 /78 (cf. Plu. Them. 20), Iperide nel 345 / 44 o 344 / 43 (cf. Dem. 18.134–136, 19.209), Eschine e Demostene nel 341 / 40 (cf. Dem. 18.149; Aeschin. 3.113). Parrebbe dunque potersi dedurre che i ruoli svolti dai pilagori e dallo ieromnemone all’ interno dell’ assemblea anfizionica delfico–pilaica fossero distinti: i pilagori (termine di cui – come ha evidenziato Wankel 1981, 154 n. 7 – questo frammento aristofaneo rappresenta la più antica attestazione attica) dovevano avere un compito più politico–diplomatico (si occupavano cioè dei rapporti con gli altri Stati membri dell’ Anfizionia), lo ieromnemone si occupava soprattutto dell’ organizzazione di sacrifici e pratiche cultuali in nome della città di provenienza, e prendeva parte alla gestione finanziaria del santuario nel corso dell’ assemblea: vd. Hepding 1913; Busolt–Swoboda 1926, 1292s.; Schaefer 1959a; Wankel 1976, II, 796, ad Dem. 18.148; Roux 1979, 22–36. ἐκ τῆς Πυλαίας All’ anfizionia pileo–delfica Aristofane fa riferimento, oltre che in questo frammento e nel su citato passo delle Nuvole, anche in Lys. 1129– 1131, dove le riunioni di Pile vengono evocate, in chiave evidentemente pacifista, assieme a giochi olimpici e giochi pitici: altri due grandi eventi cultuali panellenici in cui i tutti Greci, con spirito unitario e inclusivo, anche in tempo di guerra, facevano sacrifici sugli altari (vd. Henderson 1987a, 199; Perusino 2020, 300, ad l.). E in generale, l’ interesse del teatro attico per questa lega dagli importanti connotati politico–religiosi è testimoniato nella tragedia dal gioioso quanto anacronistico riferimento all’ assemblea pileo–delfica fatto dal coro all’ inizio del secondo stasimo
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delle Trachinie di Sofocle (vv. 638s.) e nella commedia dal titolo Pylaia (Concilio Pileo) attestato per un dramma di Cratino e per uno di Alessi (per la quale, a parere di Arnott 1996, 587, l’ ambientazione della commedia nell’ assemblea pileo–delfica «could have provided a suitable background for a conventional New Comedy type of plot, with opportunities for nocturnal rape […] or the kidnapping of a small child […], and Demeter Pylaia might even have spoken the prologue»), nonché dal titolo Amphiktyones di un dramma, verosimilmente a sfondo pacifista, di Teleclide, nella quale gli anfizioni formavano evidentemente il coro (vd. Bagordo 2013, 43–47). fr. 336 K.-A. (319 K.) ὦ Ζεῦ πολυτίμηθ’, οἷον ἐνέπνευσ’ ὁ μιαρὸς φάσκωλος εὐθὺς λυόμενός μοι τοῦ μύρου καὶ βακκάριδος 1 ἐνέπνευσ᾽ Dobree ap. Porson–Dobree 1820, Add. 104s.: ἔπνευσ᾽ Α: ἔπνευσεν Brunck (οἷ᾽ ἔπνευσεν Porson 1812, 146): ἀπέπνευσ᾽ Hermann 1818, xv 2 λυόμενός Dalechamps: λουόμενός ACE: τοῦ om. CE
O Zeus veneratissimo, quale effluvio esalò da quella dannata borsa, appena aperta, verso di me: di quel profumo e di baccaride! [1–3] Ath. XV 690a–c (A) παρὰ πολλοῖς δὲ τῶν κωμῳδιοποιῶν ὀνομάζεταί τι μύρον βάκκαρις· οὗ μνημονεύει καὶ 2 2 Ἱππῶναξ διὰ τούτων· […] (fr. 104.21–22 W. = 107.21–22 Dg. ). Ἀχαιὸς δ᾽ ἐν Αἴθωνι σατυρικῷ· […] (TrGF I 20 F 10 Sn.). Ἴων, Ὀμφάλῃ· […] (TrGF I 19 F 24 Sn. = 27 Leurini). 2 μνημονεύει τῆς βακκάριδος καὶ Σοφοκλῆς (fr. 1032 R. ). Μάγνης δ᾽ ἐν Λυδοῖς· […] (fr. 3). καὶ μήποτε οὐκ ἔστι μύρον ἡ βάκκαρις. Αἰσχύλος γὰρ ἐν Ἀμυμώνῃ ἀντιδιαστέλλων 2 φησίν· […] (fr. 14 R.). καὶ Σιμωνίδης· […] (Semon. fr. 16.1s. W. ). Ἀριστοφάνης δ᾽ ἐν Θεσμοφοριαζούσαις· ὦ Ζεῦ — βακκάριδος. molti poeti comici fanno riferimento a una varietà di profumo chiamata bakkaris (bacca2 2 ride). La menziona anche Ipponatte in questi versi […] (fr. 104.21 W. = 107.21–22 Dg. ). Acheo poi nel dramma satiresco Etone: […] (TrGF I 20 F 10 Sn.). Ione nell’Onfale […] (TrGF 2 I 19 F 24 Sn. = 27 Leurini). Anche Sofocle menziona la bakkaris (fr. 1032 R. ). Magnete nei Lidi […] (fr. 3). Ma forse la baccaride non è un tipo di profumo. Eschilo nell’ Amimone fa 2 una distinzione quando dice […] (fr. 14 R.). E anche Simonide […] (Semon. fr. 16.1s. W. ). Aristofane nelle Tesmoforiazuse: «O Zeus — di baccaride». [2b–3] Ath. epit. XV 690d (CE) Αἰσχύλος δὲ καὶ Ἀριστοφάνης ἔοικε διαστέλλειν τὴν βάκκαριν τοῦ μύρου, λέγοντες Αἰσχύλος μέν […] Ἀριστοφάνης δέ· λουόμενός μοι μύρου / καὶ βακκάριδος.
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Eschilo e Aristofane sembrano distinguere la baccaride dal profumo, quando dicono, Eschilo […], Aristofane «aperta, verso di me: di quel profumo e di baccaride!». [2] Poll. Χ 136–137 (FS, ABCL) ἵνα δὲ ἀποτίθενται αἱ (αἱ om. CL) ἐσθῆτες […] καὶ φάσκωλοι, ὡς ἐν Θεσμοφοριαζούσαις (ὡς ἐν Θεσμ. om. A). (sacche) per riporre i vestiti […] (sono dette) anche phaskōloi, come nelle Tesmoforiazuse. Harp. φ 8 (p. 299.15 Dindorf) φάσκωλον· πήρα τις οὕτως ἐκαλεῖτο παρ᾽ αὐτοῖς· Ἰσαῖος (fr. 171 S.) καὶ Λυσίας ἐν τῷ Πρὸς Δίωνα (or. 44 fr. 100 Carey; cf. or. 87 fr. 198 Carey), […] Ἀριστοφάνης Θεσμοφοριαζούσαις. phaskōlos: così veniva designato un tipo di sacca presso di loro (scil. presso gli oratori): Iseo (fr. 171 S.) e Lisia nell’ orazione Per Dione (or. 44 fr. 100 Carey; cf. or. 87 fr. 198 Carey), […] Aristofane nelle Tesmoforiazuse. [3] Erot. β 14 βάκχαρις· εἶδος βοτάνης καὶ μύρου, οὗ καὶ Ἀριστοφάνης μέμνηται. baccaride: un tipo di pianta e di essenza profumata, di cui fa menzione anche Aristofane. Plin. XXI 29 baccar quoque radicis tantum odoratae est a quibusdam nardum rusticum appellatum. unguenta ex ea radice fieri solita apud antiquos Aristophanes, priscae comoediae poeta, testis est; unde quidam errore falso barbaricam (baccarida Salmasius 1629, II, 1068D) eam appellabant. Odor est cinnamomo proximus. Gracili solo nec umido provenit. invece il baccaro, chiamato da taluni nardo di campo, ha odorosa solo la radice. Che gli antichi fossero soliti preparare profumi con questa radice è testimoniato da Aristofane, autore della commedia antica; per cui certuni la chiamavano erroneamente ‘esotica’ (‘baccaride’ Salmasius 1629, II, 1068D). Il suo odore è molto simile a quello del cinnamomo. Cresce in terreno magro e non umido.
Metro
Trimetri giambici
llrl l|lrl lrkl llwl l|rwl llwl llrl (xlkl xlku)
Bibliografia Billerbeck 1824, 215; Fritzsche 1838, 601; Fraas 1845; Emperius 1847, 312; Kock CAF I, 474; Dümmler 1894, 2759; Wagler 1896; Dittmar 1933, 26–29; Strömberg 1940, 158; Masson 1962, 155; Masson 1967, 100s.; Lilja 1972, 49, 228; Feneron 1976, 70s.; Teodorsson 1989, 308; Carderi 2005; Bagordo 2014b, 97–99; Olson 2017, 207–209. Contesto di citazione Il frammento è citato nella sezione dei Deipnosofisti, dedicata ai profumi (Ath. XV 686d–692f), che segue l’ excursus relativo a corone e fiori. In replica alle citazioni con cui Cinulco stigmatizza il loro uso (686d–687c), Masurio adduce di contro citazioni che esaltano i loro effetti positivi (687d–692f). Donde lo spunto per aprire digressioni su μύρον, e su diversi altri vocaboli che
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designano varietà di profumi, nonché su località specializzate nella loro produzione. Non mancano riferimenti all’ accuratezza con cui gli antichi utilizzavano il profumo sia per le parti del corpo sia per gli indumenti e gli ambienti. In tale contesto s’ inserisce la sezione dedicata alla baccaride (690a–d), nella quale, oltre a due citazioni desunte, rispettivamente, dalla giambografia (Hippon. fr. 104.21s. W.2 = 107.21s. Dg.2: βακκάρ˩ι ̣ δὲ τὰς ῥῖνας / ἤλειφον †ἔστι δ’† ο˩ἵηνπερ Κροῖσος) e dalla tragedia (Achae. TrGF I 20 F 10: βακκάρει χρισθέντα καὶ ψυκτηρίοις / πτεροῖς ἀναστήσαντα προσθίαν τρίχα), si trova citato un passo dalla satiresca Onfale di Ione in cui la persona loquens, verosimilmente Eracle, dichiara di preferire la vita di lussi e mollezze dei Lidi (presso cui l’ eroe si trovava, asservito alla loro regina) ai costumi austeri e duri del Peloponneso (TrGF I 19 F 24 Sn. = 27 Leurini: βακκάρις δὲ καὶ μύρα / καὶ Σαρδιανὸν κόσμον εἰδέναι χροός / ἄμεινον ἢ τὸν Πέλοπος ἐν νήσῳ τρόπον): qui gli olii estratti dalla baccaride sono menzionati in associazione con profumi e con un «cosmetico di Sardi» che viene dal ‘deipnosofista’ genericamente identificato col profumo, e associato a quello stile di vita dedito ai piaceri, per il quale i Lidi erano famosi. Segue infatti un’ osservazione sulla mollezza (ἡδυπάθεια) dei Lidi, che viene documentata anche con la menzione dell’ epiteto anacreonteo λυδοπαθής (cf. Anacr. PMG 481 = fr. 158 Gentili), «di stile lidio», da intendersi come equivalente a ἡδυπαθής, «che vive nel lusso». La sezione sulla baccaride è quindi completata dal riferimento alla menzione di essa da parte di Sofocle (fr. 1032 R.2) e dalla citazione di un frammento dei Lidi del comico Magnete (fr. 3: λούσαντα χρὴ καὶ βακκάριδι κεχριμένον), e dalla precisazione – fondata su Aesch. fr. 14 R. (κἄγωγε τὰς σὰς βακκάρεις τε καὶ μύρα, tratto dal 2 dramma satiresco Amymōnē), Semon. fr. 16 W. (κἠλειφόμην μύροισι καὶ θυώμασι / καὶ βακκάρι) e sul presente frammento delle Tesmoforiazuse II – che forse la baccaride non è da identificare con un profumo: in tutti e tre i casi, infatti, μύρον e βάκκαρις, menzionati contestualmente, non sembrano essere sinonimi77. Il v. 2 è citato anche da Polluce, in una sezione del libro X (137–139) dedicata ai vocaboli che designano contenitori, di foggia e materiali vari, in cui si riponevano gli abiti, e da Arpocrazione, a proposito dell’ impiego del termine φάσκωλος negli oratori: che qui παρ᾽ αὐτοῖς vada inteso nel senso di «presso gli oratori» è confermato dal confronto con ε 86 (p. 122.1 Dindorf): Ἐπιβολή· ἡ ζημία. πολὺ τοὔνομα παρ’ αὐτοῖς, ὡς καὶ παρὰ Λυσίᾳ ἐν τῷ Κατὰ Νικομάχου, εἰ γνήσιος ὁ λόγος, ed ε 97 (p. 124.15s. Dindorf): Ἐπιθέτους ἑορτάς· Ἰσοκράτης Ἀρεοπαγιτικῷ. τὰς μὴ πατρίους, ἄλλως δ’ ἐπιψηφισθείσας, ἐπιθέτους ἐκάλουν. ἐλέγετο δὲ παρ’ αὐτοῖς καὶ ἄλλα 77
Diversamente in Epil. fr. 1 (μύρον δὲ βάκκαρίς τε καὶ ψάγδας ὁμοῦ), dove bakkaris e psagdas sembrano essere menzionati in un elenco di distinte categorie di profumo: vd. Orth 2014, 255, ad l. E in alcuni passi del Corpus Hippocraticum la baccaride pare identificata con un olio (egizio) di colore chiaro (Nat.Mul. 6 [VII, p. 320.11s. Littré] καὶ προσθέσθω βάκκαριν ἢ λευκὸν ἔλαιον; Nat.Mul. 25 [VII, p. 342.12s. Littré] προστίθεσθαι χρὴ […] ἔλαιον Αἰγύπτιον λευκὸν ἢ βακκάριον; Mul. II 126 [VIII, p. 270.14s. Littré] βάψας ἢ λευκῷ Αἰγυπτίῳ ἢ μυρσίνῳ ἢ βακχαρίῳ ἢ ἀμαρακίνῳ).
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ἐπίθετά τινα, ὁπόσα μὴ πάτρια ὄντα ἡ ἐξ Ἀρείου πάγου βουλὴ ἐδίκαζεν, ὡς σαφὲς ποιεῖ Λυσίας ἐν τῷ Πρὸς τὴν Μιξιδήμου γραφήν. Il lessico ippocratico di Erotiano documenta invece semplicemente la menzione della baccaride – identificata al contempo con una pianta e con un’ essenza profumata – da parte di Aristofane; analogamente, Plinio allude al passo aristofaneo per confermare l’ abitudine dei Greci di ricavare essenze profumate dalla radice del baccaro (su questo termine, come variante di baccaride, vd. infra, n. 79). Testo 1 ἐνέπνευσ᾽ Stampo, con Kock, Blaydes e Kassel–Austin, l’ ἐνέπνευσ᾽ proposto da Dobree in luogo del tràdito ἔπνευσ᾽, che compromette la struttura del trimetro. Meno plausibile risulta l’ ἔπνευσεν di Brunck78, accolto a testo da Bergk (ap. Meineke FCG III 2, 1078), in quanto implicherebbe, in una quinta sede dattilica, la presenza di una cesura all’ interno del biceps («caesura pessima» annota appunto Kock CAF I, 474): donde l’ οἷ᾽ ἔπνευσεν proposto da Porson. Interpretazione Frase esclamativa pronunciata da un personaggio che, investito da forti effluvi di un particolare tipo di fragranza verosimilmente menzionata in precedenza e ora genericamente indicata dal termine μύρον (donde la mia traduzione di τοῦ μύρου con «di quel profumo») e di baccaride, esalati da una borsa per indumenti al momento della sua apertura, manifesta il suo stupore e, verosimilmente con disappunto (a giudicare dal dispregiativo μιαρός con cui qualifica il φάσκωλος appena aperto), un qualche fastidio. Per la possibile valenza misogina dell’ esclamazione vd. supra, ad Contenuto. 1 ὦ Ζεῦ πολυτίμηθ’ La iunctura ricorre altrove anche in Aristofane: vd. Eq. 1390 (ὦ Ζεῦ πολυτίμηθ’, ὡς καλαί κτλ.), dove l’ esclamazione scaturisce dalla reazione di sorpresa di Demo alla vista della avvenente fanciulla che veste i panni di Tregua, e Av. 667 (ὦ Ζεῦ πολυτίμηθ’, ὡς καλὸν τοὐρνίθιον), dov’ è detta da Pisetero alla vista della altrettanto avvenente flautista che veste i panni di Procne– usignolo. Si tratta comunque di espressione non rara in commedia (cf. Pherecr. fr. 166.1 [ὦ Ζεῦ πολυτίμητ’, ἆρ᾽ ἀκούεις ἅ σε λέγει / ὁ πανοῦργος υἰός]; Eub. fr. 115.6 [ὦ Ζεῦ πολυτίμητ’, εἶτ᾽ ἐγὼ κακῶς ποτε / ἐρῶ γυναῖκας;]; Men. Mis. 284 [ὦ Ζεῦ πολυτίμητ’, ὠμότητος ἐκτόπου / ἀμφοῖν ἀπανθρώπου τε, νὴ τὸν Ἥλιον]; Pk. 720 [ὦ Ζεῦ πολυ[τίμηθ’· ἃ δὲ λέγεις / δείξας ἀληθῶς ὄντ᾽]; frr. 249 [ὦ Ζεῦ πολυτίμηθ’, οἷ˩όν ἐστ᾽ ἐλπὶς κακόν] e *457 [ὦ Ζεῦ πολυτίμηθ’, ὡς καλαὶ νῷν αἱ γυναί]) e funzionale a esternare stupore, indignazione o rammarico (sulla presenza di frasi esclamative di questo genere nella lingua di Aristofane e di Menandro, introdotte 78
Per il quale propende Fritzsche 1838, 601, non senza aver prima preso in considerazione l’ ἐνέπνευσ᾽ di Dobree («tum similitudine nititur verborum ἐνετίλησεν Ach. 332, ἐνήρυγεν Vesp. 913 […], tum defenditur versu Eur. Androm. 555 κατ᾽ οὖρον, ὥσπερ ἰστίοις, / ἐμπνεύσομαι τῇδ᾽»), e aver anche pensato a un ἐπέπνευσ᾽ (recepito a testo da Edmonds), per il quale cita a confronto Ar. V. 265 (κἀπιπνεῦσαι) e Soph. Ant. 136 (ἐπέπνει).
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da ὡς, οἷον o ὅσος, e di norma combinate con interiezioni primarie e/o secondarie, vd. Dittmar 1933, 26–29). In generale, πολυτίμητος, epiteto poetico attestato in Parm. 28 B 20.3 D.–K. (δ’ ἡγήσασθαι ἀρίστη ἄλσος ἐς ἱμερόεν πολυτιμήτου Ἀφροδίτης), in riferimento ad Afrodite, diventa, specie in commedia, comune in relazione a dèi ed eroi. Per Aristofane, cf. almeno Ar. Ach. 807 (ὦ πολυτίμηθ᾽ Ἡράκλεις), Nu. 269 (ὦ πολυτίμητοι Νεφέλαι; sempre riferito alle Νuvole, vd. anche vv. 293, 328), Pax 978 e 1016 (ὦ πολυτιμήτη, in riferimento alla statua di Eirene), Th. 286 (δέσποινα πολυτίμητε Δήμητερ φίλη), 594 (ὦ πολυτιμήτω θεώ), Ra. 323 (Ἴακχ᾽ ὦ πολυτίμητ᾽ ἐν ἕδραις ἐνθάδε ναίων), 337 (ὦ πότνια πολυτίμητε Δήμητρος κόρη), 398 (Ἴακχε πολυτίμητε). Se in Eriph. fr. 2.8 l’ epiteto potrebbe riferirsi ad Afrodite (vd. Emperius 1847, 312, che, in luogo di †βερβεαι† [πολυτίμητε], propone Κυθέρεια, e Dümmler 1894, 2759, secondo cui Βέρβεια [?] sarebbe teonimo di Afrodite), l’ esclamazione ὦ πολυτίμητοι θεοί compare in Ar. V. 1001, Antiph. fr. 143.2, ed è ben attestata in Menandro (cf. Dysc. 202, 479; Asp. 408 [419 Jacques], Mis. 165, ‘Fab. incert.’ 1.56 Arnott, frr. 106.2, 508.5; e vd. Feneron 1976, 70s.). In un passo tragico adespoto (fr. 328d Kn.–Sn.), l’ epiteto è riferito all’ eroe Anfiarao (ὦ δέσποτ᾽ Ἀμφιάραε, πολυτίμητ᾽ ἄναξ). Occasionalmente, πολυτίμητος è poi detto di beni o merci di particolare pregio: in Ar. Ach. 759, il Megarese gioca sul duplice significato del termine, alludendo all’ elevato costo del grano a Megara (παρ᾽ ἁμὲ πολυτίματος ᾇπερ τοὶ θεοί); e in un frammento delle Muse di Epicarmo, così come in un frammento delle Isole di Aristofane, esso ricorre in relazione a pesci pregiati: cf. Epich. fr. 88.1 (πολυτίματον ἔλοφ᾽); Ar. fr. 402.8s. (ἰχθύδια … πολυτίμητα). In riferimento a un essere umano, l’ epiteto sembra impiegato per la prima volta in Ar. Ra. 851, dove Dioniso (un dio!) apostrofa, all’ inizio dell’ agone, Eschilo con ὦ πολυτίμητ᾽ (in neppure troppo velata contrapposizione all’ apostrofe ὦ πονήρ᾽ che riserva nel verso successivo a Euripide: vd. Sommerstein 1996a, 231, ad l.; più in generale, sulle principali attestazioni comiche di πολυτίμητος, vd. Carderi 2005). Due attestazioni significative, nella prosa di Platone e di un suo imitatore, si registrano in Euthd. 296d, dove con tale epiteto Eutidemo è ironicamente apostrofato da Socrate, e in [Pl.] Ax. 368c 5, dove per la prima volta l’ epiteto è impiegato come appellativo dello Stato (ἡ πολυτίμητος πολιτεία). 1s. ὁ μιαρὸς / φάσκωλος Il termine φάσκωλος, di cui il presente frammento costituisce la più antica attestazione, o la meno attestata forma neutra φάσκωλον, designa un tipo di borsa, descritta in genere (specie nella forma diminutiva φασκώλιον) come manufatto, realizzato in cuoio, impiegato perlopiù come contenitore di mantelli e, come documenta la su citata testimonianza di Arpocrazione (~ Phot. φ 81: φάσκωλον· πήρα τις οὕτως ἐκαλεῖτο, ὡς Ἰσαῖος καὶ Λυσίας; cf. Sud. φ 127; Et.magn. p. 789.7s.), più in generale di indumenti: cf. e. g. Ps.–Hdn. Philet. 21: φάσκωλος, τὸ ῥαπτὸν εἰς ὃ ἐμβάλλονται τὰ ἱμάτια· καὶ θύλακος ὁμοίως; Poll. VII 79: καὶ φασκώλους δὲ ἔλεγον οἱ παλαιοὶ τὰ τῶν ἱματίων ἀγγεῖα καὶ θυλάκους; Ael.Dion. φ 4: φασκώλιον· δερμάτινον βαλάντιον οἷον θυλάκιον. καὶ φάσκωλος; Hsch. φ 215: φασκώλιον· βαλάντιον δερμάτινον. φάσκωλος δὲ τὸ μέγα, εἰς ὃ τὰ ἱμάτια ἐμβάλλεται; Et.magn. p. 789.10–12: φασκώλιον: τὸ δερμάτινον
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βαλάντιον, οἱονεὶ Ἀσκώλιον, τῷ ἀσκῷ ἐοικός· φάσκωλον δὲ, τὸ μέγα, εἰς ὃ τὰ ἱμάτια ἐμβάλλεται; Σ (TW) Pl. Hp.Mi. 368c 2 (p. 179 Greene = 3, p. 265.8s. Cufalo): ἐχρῶντο δὲ καὶ ἀντὶ φασκωλίων ληκύθοις, ἅ ἐστι δερμάτινα βαλλάντια· φάσκωλος δὲ τὸ μέγα, εἰς ὃ τὰ ἱμάτια ἐμβάλλεται (cf. 3b [Pexc], p. 265.18 Cufalo: φάσκωλος· δερμάτινον βαλλάντιον μέγα, εἰς ὃ τὰ ἱμάτια ἐμβάλλεται). 2 τοῦ μύρου Il μύρον è menzionato in questa commedia anche nel fr. 332.4 come irrinunciabile accessorio della toeletta femminile (vd. ad l.). 3 βακκάριδος La βάκκαρις (lat. baccar o baccaris) è una pianta di incerta identificazione: dalle descrizioni di Dsc. Mat.Med. III 44 e di Plin. XXI 132 si ricava che aveva fiori profumati, con proprietà soporifere, di colore purpureo o biancastro, le cui foglie avevano proprietà astringenti ed erano utilizzate per impacchi contro il mal di testa (cf. Plu. Quaest.Conv. III 1.3 [Mor. 647d], dove la βάκκαρις figura tra le piante adatte alle corone da simposio, in quanto efficace antidoto contro l’ emicrania da ubriachezza). Suole essere identificata con il Gnaphalium sanguineum L., una pianta di origine orientale, localizzata soprattutto in Siria, in Palestina e in Egitto (vd. Billerbeck 1824, 215; Fraas 1845; Wagler 1896, 2803.10– 19), sostanzialmente assimilabile all’Helichrysum sanguineum (vd. Galbany–Casals et al. 2006, 492)79. Da questa pianta si ricavava una resina profumata, impiegata per realizzare vari tipi di cosmetici (profumi, unguenti e ciprie) 80 che ne prendevano 79
80
Di qui, forse, la considerazione di Plinio (le cui informazioni coincidono nella parte finale con quelle fornite da Dioscoride: ῥίζαι δὲ ὅμοιαι ταῖς τοῦ μέλανος ἐλλεβόρου, ἐοικυῖαι τῇ ὀσμῇ κινναμώμῳ· φιλεῖ δὲ τραχέα χωρία καὶ ἄνικμα, «le radici somigliano a quelle dell’ elleboro nero, il loro odore si avvicina a quello del cinnamomo; predilige i terreni magri e privi di umidità») relativa alla erronea qualificazione del baccaro come pianta ‘esotica’ (così anche Σ Clem.Al. Paed. II 64.3 [p. 218 Marcovich]: βακκάρι· εἶδος μύρου βαρβαρικοῦ PFM): a meno che non si accolga la correzione del tràdito barbaricam in baccaridam proposta dal Salmasius. Come attesta appunto Plinio (oltre al l. c., cf. XII 47 e XXI 132), la βάκκαρις viene talvolta identificata con l’ ἄσαρον, l’ asaro o nardo di campo (Asarum europaeum), che ha caratteristiche e proprietà analoghe (cf. Crateuas fr. 7 Wellmann, Dsc. Mat.Med. I 10, Gal. Simpl.Med. 63 [XI, p. 840.6–9 Kühn], e vd. Strömberg 1940, 158; Lilja 1972, 228; Teodorsson 1989, 308). Ma lo stesso Plinio raccomanda di tenere ben distinte le due piante: cf. XXI 30 (Eorum quoque error corrigendus est, qui baccar rusticum nardum appellavere. est enim alia herba sic cognominata, quam Graeci asaron vocant, cuius speciem figuramque diximus in nardi generibus), e vd. Wagler 1896, 2083.20–25. Cf. Eup. fr. 58: Ῥοδίαν γυναῖκα βακκάριδι μεμιγμένην, su cui vd. Olson 2017, 207– 209; Luc. Lex. [46] 8: ἐχριόμεθα βακχάριδι (con Σ Luc. Lex. 8.3 [p. 198.17 Rabe]: βακχάριδι· εἶδος ἐντρίμματος μυρώδους); Phot. β 12: βάκκαρις (βαβάκκαρις cod: corr. Tsantsanoglou 1984, 119)· μύρον τι. κτλ.; Et.magn. p. 212.41: βρένθειον· μύρον τῶν παχέων, ὡς ἡ βάκχαρις. Ad ogni modo, l’ esatta natura (profumo, unguento, cipria) del cosmetico designato come baccaride era incerta già per l’ erudizione antica: oltre al su citato Ath. XV 690c (καὶ μήποτε οὔκ ἐστι μύρον ἡ βάκκαρις, su cui vd. supra, ad Contesto di citazione), cf. Hsch. β 107: […] ἄλλοι δὲ μύρον Λυδόν. ἔστι δὲ καὶ ξηρὸν διάπασμα τὸ ἀπὸ τῆς ῥίζης.
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anche il nome (oltre alla su citata testimonianza di Erot. β 14, cf. la glossa esichiana β 107 (βάκκαρις· μύρον ποιὸν ἀπὸ βοτάνης ὁμωνύμως), la quale riferisce altresì che, secondo alcuni, questa essenza profumata si ricavava dal mirto ([…] ἔνιοι δὲ ἀπὸ μυρσίνης). Spesso era associata ai piaceri propri di uno stile di vita lussurioso, e in particolare alle abitudini dei Lidi (oltre ai su citati Hippon. fr. 104.21s. W.2 2 = 107.21s. Dg. , Magn. fr. 3 [su cui vd. Bagordo 2014b, 97–99], e Ion TrGF 19 F 24, su cui vd. supra, ad Contesto di citazione, cf. fr. trag. adesp. 656.30s. Kn.–Sn.: κεχριμένη[ν οἶ]μαι σε β[ακκάρει kl / ἦ Λυδικὸν β[ρ]έ̣νθειον κτλ. [cf. v. 35 ἐ̣ν τ̣άπητι Σ̣αρδ[ιανικῷ]; Hsch. β 107: […] ἄλλοι δὲ μύρον Λυδόν; Σ Aesch. Pers. 42 [p. 22 Dähnhardt] καὶ τὴν βάκκαριν δὲ ἔνιοι Λυδῶν μύρον ἔφασαν81). Più in generale, sul cliché dei Lidi amanti dei profumi, emblema della loro proverbiale mollezza, cf. Alex. fr. 67 (ἀεὶ φιλόμυρον πᾶν τὸ Σάρδεων γένος), oltre al su citato scolio a Aesch. Pers. 42 ([…] καὶ ὁ Λυδοφοίτης δὲ μυροπώλης τὴν τρυφὴν ταύτην δηλοῖ), e vd. Radet 1893, 46; Hanfmann 1960, 514ss.; Lilja 1972, 62s.; Greenewalt 2010, 201–204; Hawkins 2013, 156s.; Kistler 2012, 64. L’ essenza profumata della baccaride doveva essere impiegata non solo per la profumazione di parti del corpo, come piedi (cf. Cephisod. fr. 3: ἔπειτ’ ἀλείφεσθαι τὸ σῶμά μοι πρίω / μύρον ἴρινον καὶ ῥόδινον, ἄγαμαι, Ξανθία· / καὶ τοῖς ποσὶν χωρὶς πρίω μοι βάκκαριν. / [ΞΑ.] ὦ λακκόπρωκτε, βάκκαριν τοῖς σοῖς ποσὶν / ἐγὼ πρίωμαι; λαικάσομἄρα. βάκκαριν; [per il testo seguo Orth, cui rinvio anche per l’interpretazione di questo frammento [Orth 2014, 323–333]) e ascelle (cf. Dsc. Mat.Med. I 107: τὰς δὲ ἐν ταῖς μασχάλαις δυσωδίας καὶ τοὺς τράγους καταπάσσειν δεῖ λείοις τούτοις· ἀγαλόχῳ, βακχάριδος ῥίζῃ, ῥοδίσιν ἀπὸ τοῦ βαλανείου λείαις), ma anche, come testimonia il presente frammento delle Tesmoforiazuse II, per la profumazione degli indumenti (vd. Lilja 1972, 49).
fr. 337 K.-A. (321 K.) ὅσ᾽ ἦν περίεργ᾽ αὐταῖσι τῶν φορημάτων ὅσοις δὲ περιπέττουσιν αὑτὰς προσθέτοις 1 ὅσ᾽ ἦν Toup 1790, II, 55, Hemsterhuis ms. (cf. Porson–Dobree 1820, 17), Dindorf: ὃς ἦν codd.: ὅσα Bergk: ὅσα δὴ Blaydes περίεργ᾽ Toup, Hemsterhuis, Dindorf: περίεργος EMatrBarbAld: περιέργων V 2 ὅσοις δὲ V: ὅσοις τε Barbac: ὅσοι τε Matr: ὅσοι (E?) ἔτι 81
La testimonianza dello scolio però non conferma l’ origine lidia del termine: vd. Masson 1962, 155. Quanto alla grafia secondaria βάκχαρις, si tratterà di una forma erroneamente influenzata da Βάκχος (vd. L. Dindorf, ThesGrL II, p. 54 D, s. v.; Masson 1962, 155 n. 4): donde anche la correzione suggerita da Kassel e Austin (PCG III 2, 190) rispetto al testo di Cephisod. fr. 3 stampato in PCG IV 64, e ora adottata, in linea con Blaydes 1890–1896, I, 217, da Orth (2014, 323 e 331 con n. 537); sul termine e le varianti βάκκαρ, βάκχαρ e βάκχαρι, attestate soprattutto nella letteratura medica, vd. Masson 1967, 100s.
Θεσμοφοριάζουσαι βʹ (fr. 337) ΕBarbpc: ὅσαι ἔτι Ald: ὅσαι τι Bentley 1815a, 134: κόμαισι Toup Dindorf: ἑαυτὰς VEBarbAld: ἑαυτοὺς Matr: -σ᾽ ἑαυτὰς Blaydes προσθετοῖς EMatr: πρόσθε V
169 αὑτὰς Toup, Bentley, προσθέτοις BarbAld:
Quanti, i ricercati ornamenti di cui esse disponevano tra i loro accessori, quanti, gli orpelli con cui esse si ammantano! Σ (vet) (VEMatrBarbAld) Ar. Pl. 159b Chantry ὀνόματι περιπέττουσι (ὀνόματι περιπέττουσιν E: περιπέττουσι Ald: om. cett.)· κυρίως (con. 1 Chantry: οὕτω VEMatrBarb: ὅτι Barb : διὰ τὸ Ald) τῷ προσθέτῳ (προσθετῷ EMatrBarb: πρόσθε τῷ V) κοσμεῖσθαι κόσμῳ. ὁ αὐτὸς Θεσμοφοριαζούσαις (-φόροις ΕAld: -φόρος Matr: Θεσμόφό Barb)· ὅσ᾽ — προσθέτοις. Rivestono con un nome: propriamente (significa) adornarsi con un orpello posticcio. Lo stesso (Aristofane) nelle Tesmoforiazuse: «quanti — si ammantano!».
Metro
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Bibliografia Bergk (ap. Meineke FCG II 2, 1078); Kock CAF I, 477; Blaydes 1885, 179s.; van Leeuwen 1906b, 26; Taillardat 1965, 225; Kaibel (ap. Kassel–Austin PCG III 2, 191). Contesto di citazione Il frammento è tramandato da uno scolio vetus al v. 159 del Pluto, a proposito del significato proprio del verbo περιπέττειν. Nel passo del Pluto il verbo è tuttavia impiegato nell’ accezione figurata di «ammantare la depravazione (τὴν μοχθηρίαν) con un nome (ὀνόματι)» ovviamente diverso ed eufemistico (sull’ impiego di περιπέττω in relazione al ‘velare’ realtà sgradite con eufemismi e parole ingannevoli, vd. Caroli 2017, 33s.): con riferimento, nella fattispecie, ai ragazzi che si prostituiscono chiedendo come compenso agli amanti il dono di un bel cavallo o di cagne da caccia perché si vergognano, secondo Carione, di richiedere il pagamento in danaro (cf. vv. 153ss.). Testo Come si evince dall’ apparato critico, il testo tràdito dallo scolio è stato variamente emendato: gli interventi più significativi riguardano i tentativi di appianare la discrepanza tra l’ imperfetto ἦν, nel primo verso, e il presente περιπέττουσιν nel secondo. Donde la correzione del tràdito ὃς ἦν in ὅσα, proposta da Bergk (ap. Meineke FCG II 2, 1078) e accolta a testo anche da Kock CAF I, 477. Per la stessa ragione, Blaydes (1885, 180) proponeva invece di trasformare il presente περιπέττουσιν del v. 2 con l’imperfetto περιέπεττον, o, in alternativa, di leggere ὅσα δή nel v. 1. La difficoltà può essere forse appianata ipotizzando un décalage tra la considerazione relativa alla molteplice varietà di accessori a disposizione delle donne qui descritte, espressa nel primo verso con il verbo al passato, e la consequenziale considerazione relativa alla notoria e perciò proverbiale propensione femminile ad
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acconciarsi con orpelli svariati (per questa accezione del termine πρόσθετον vd. infra), formulata nel secondo verso al presente. Stampo a testo, nel v. 2, la lezione ὅσοις tràdita da V, che Kock presentava erroneamente come congettura di Bergk82 e accoglieva con la seguente argomentazione: «ὅσαις minus recte quam ὅσοις, quia non solum κόμην habent πρόσθετον, sed multa alia» (CAF I, 477), evidentemente persuaso che προσθέτοις vada interpretato come riferito a ogni genere di orpello posticcio, e dunque come attributo di un sottinteso κόσμοις83, piuttosto che di un κόμαις che si riferirebbe dunque alle sole parrucche84. Per questa accezione dell’ aggettivo πρόσθετος-ον cf. Dio Cass. LIX 26.8 e vd. Lorenzoni 2017, 434s. Interpretazione Al netto della difficoltà sopra descritta, prodotta dal discrepante impiego dei tempi verbali tra primo e secondo verso, il frammento sembra stigmatizzare la vanità delle donne, le quali, oltre a disporre di una molteplice varietà di ricercati ornamenti (ὅσ᾽ … περίεργ᾽, v. 1), sono solite indossare parrucche (vd. infra, ad προσθέτοις), scelte anch’ esse in una gamma altrettanto ampia (ὅσοις … προσθέτοις, v. 2): donde l’ ipotesi di Kaibel (ap. Kassel–Austin PCG III 2, 191) che il passo appartenga al medesimo contesto da cui sono tratti i frr. 332 e 336.
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L’ errore è confluito in Kassel–Austin PCG III 2, 191, ma la linea di apparato è stata corretta negli Addenda et corrigenda inclusi nel vol. V (1986), p. 639. Per questa accezione, cf. e. g. Ael. VH IV 22 (καὶ κόσμον ἄλλον πρόσθετον περιαπτόμενοι χρυσοῦ προῄεσαν), dove πρόσθετος è impiegato in riferimento agli ulteriori monili d’oro di cui gli antichi Ateniesi, abbigliati con l’abito tradizionale dei tempi di Maratona, si rivestivano quando si mostravano in pubblico, in aggiunta ai fermagli d’ oro a forma di cicala, notoriamente simbolo di autoctonia (vd., tra altri, Cook 1940, 250–256; Rumpf 1949, 85–99), con cui fissavano alla nuca i capelli in una crocchia. Per quest’ultimo impiego, cf. e. g. Xen. Cyr. I 3.2 (κεκοσμημένον καὶ ὀφθαλμῶν ὑπογραφῇ καὶ χρώματος ἐντρίψει καὶ κόμαις προσθέτοις, detto di Astiage, che si presenta al nipote Ciro col trucco agli occhi, il belletto sulle guance e le chiome posticce, com’ era costume dei Medi), richiamato da Toup in favore del κόμαισι da lui congetturato in luogo delle variae lectiones del testo tràdito (vd. apparato critico), che designerebbe appunto le parrucche con cui le donne, secondo la persona loquens, amerebbero ammantarsi; Luc. Alex. [42] 3 (κόμην τὴν μὲν ἰδίαν, τὴν δὲ καὶ πρόσθετον ἐπικείμενος); Ael. fr. 158 Domingo–Forasté, citato da Sud. λ 138 (λέγουσι δὲ ὅτι οὔτε προσθέτους οὔτε ἐπακτοὺς κόμας ἐκ τῆς ὕβρεως καὶ λάσθης ἐς τὴν χρείαν παρελάμβανεν, ἀλλὰ ἃς εἶχε συμφυεῖς ἀσκῶν καὶ ἐκτείνων); Poll. II 30 (καὶ προκόμιον προσθετόν, οὐ γυναιξὶ μόνον ἀλλὰ καὶ ἀνδρῶν τοῖς ἐνδεῶς εἰς κόμης λόγον πράττουσιν. τὸ δ᾽ αὐτὸ καὶ ἔντριχον ὠνόμαζον). Donde anche l’ impiego metaforico del termine φενάκη, «parrucca», come sinonimo di ἀπάτη, «inganno», e del corrispondente verbo φενακίζειν come sinonimo di ἀπατᾶν (cf. e. g. Σ [vet] Ar. Pl. 271d Chantry: φενάκη· κυρίως ἡ προσθετὴ καὶ ἐπιτηδευτὴ κόμη, ἀπὸ τῶν κατερρυηκυιῶν γυναικῶν καὶ οὕτως ἀπατουσῶν διὰ τῆς ἐπεισάκτου κόμης; Σ Dem. 2.7, 56a Dilts: […] Φίλιππος οὐ τοὺς πολεμίους, ἀλλὰ τοὺς φίλους ἀπατᾷ· τοῦτο δὲ ἀπιστίας τεκμήριον. εἴρηται δὲ ἡ λέξις ἀπὸ τῆς φενάκης, τῆς προσθετῆς κόμης ἥτις ἕνεκεν ἀπάτης γίνεται· προσποιεῖται γὰρ περιτιθέναι κόσμον ὅνπερ οὐ κέκτηται).
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1 περίεργ᾽ Epiteto ricorrente (anche al comparativo e in forma sostantivata) nel lessico della filosofia, dell’ oratoria, della retorica e della stilistica, in riferimento a parole, stili, dizioni e definizioni eccessivamente ricercate, pedanti o ridondanti, o a distinzioni eccessivamente sottili (cf. e. g. Pl. Pol. 286c; Arist. Po. 1315a40, Rh. 1359b27, 1369a8; Aeschin. 3.229; Isae. 1.31; Ph.Jud. Leg.All. III 140; D.H. Imitat. 31.3.2, Is. 3; Lys. 9 e 14, Orat.Vett. 3.2), o in riferimento a un profumo (Hp. Praec. 10 [IX, p. 266 Littré]) o a un ritratto elaboratissimo (metafora del modo in cui l’ adulatore si autorappresenta: Plu. Adulat. 22 [Mor. 64a]), a un’ arte raffinata (Ph.Jud. Ebr. 215). Più in generale, può designare altresì eleganza e precisione (τὸ περίεργον, Ph.Jud. Flacc. 148). In commedia, si trova impiegato da Filemone in riferimento alla vita umana, caratterizzata da fatica, indigenza e sofferenza (τὸν γὰρ βίον περίεργον εἰς τὰ πάντ᾽ ἔχων / ἀπορεῖ τὰ πλεῖστα διὰ τέλους πονεῖ τ᾽ ἀεί, [inc. fab.] fr. 92.3s.); e il corrispondente avverbio περιέργως è attestato negli Eroi di Timocle (fr. 13.3), nell’ ambito di un’ esclamazione pronunciata da un personaggio che commenta le quattro elaborate perifrasi che, in forma di indovinello (vd. Apostolakis 2019, 124s., ad Timocl. fr. 13), nei due versi precedenti definiscono la tavola (βίου τιθήνη, πολεμία λιμοῦ, φύλαξ / φιλίας, ἰατρὸς ἐκλύτου βουλιμίας, / τράπεζα [B.] περιέργως 〈γε〉, νὴ τὸν οὐρανόν· / ἐξὸν φράσαι τράπεζα συντόμως): analogo l’ impiego dell’ avverbio (o del corrispondente aggettivo) in riferimento alle oziose astrusità del linguaggio medico in Plu. Tuend. Sanit. 15 [Mor. 129d], o alla complessa verbosità dello stile di Demostene (in opposizione a quello di Lisia) in D.H. Lys. 6 (vd. Apostolakis 2019, 126s., ad Timocl. fr. 13.3). In riferimento a una chioma acconciata in modo superfluo la forma sostantivata dell’ aggettivo è attestata in Luc. Nigr. [8] 13 (τῆς κόμης τὸ περίεργον), e il comparativo in forma avverbiale in Arr. Epict. III 1.1 (περιεργότερον ἠσκημένος τὴν κόμην): accezione in cui il comparativo avverbiale περιεργότερον è attestato anche in riferimento a elaborati movimenti di danza in Hdn.Hist. V 5.3. τῶν φορημάτων Detto comunemente di ogni genere di accessorio, in riferimento a ornamenti femminili, φόρημα è attestato anche in Diph. fr. 58 (βουβάλια καρπῶν παρθένου φορήματα). 2 περιπέττουσιν Impiegato da Aristofane anche in V. 668, dove, riferito da Schifacleone al padre irretito (περιπεφθείς) dalle paroline (τοῖς ῥηματίοις) di coloro che, demagogicamente, promettono di non tradire la plebaglia ateniese ma di combattere sempre per le masse (cf. vv. 666s.), è sinonimo di ἀπατᾶν (cf. Σ [vet Tr] Ar. V. 668 Koster), περιπέττειν è attestato in genere nell’ accezione metaforica documentata da Ar. Pl. 159, su cui vd. supra, ad Contesto di citazione (cf. e. g. Xen. Oec. 1.20: λῦπαι … ἡδοναῖς περιπεπεμμέναι; Pl. Lg. 886e: λόγοισι δὲ ταῦτα εὖ πως εἰς τὸ πιθανὸν περιπεπεμμένα; Luc. Anach. [37] 22: περιπέττειν τὸ πρᾶγμα ἐν τοῖς λόγοις). In riferimento agli artifici della toeletta femminile, oltre che in questo frammento delle Tesmoforiazuse II, è impiegato in Clem.Al. Paed. III 15.1 nell’ ambito di una polemica condotta contro coloro che inclinano alle mollezze della seduzione femminile «avvolgendosi in mantelli trasparenti (χλανίσι δὲ διαφανέσι περιπετεμμένοι) e masticando gomma di lentisco, olez-
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zanti di profumo (καὶ μαστίχην τρώγοντες, ὄζοντες μύρου» [= fr. com. adesp. *136]»85). Come si ricava da alcuni scolii al su citato passo del Pluto, il verbo sembra potersi ricondurre al lessico della panificazione: nello scolio vetus ad Ar. Pl. 159f si prospetta infatti l’ ipotesi che la metafora sia ispirata da coloro che lavorano la farina col lievito per nascondere qualcosa dentro l’ impasto, posto che si era soliti fare il pane recuperando e mescolando insieme gli scarti di altro pane (τὸ ‘περιπέττειν’ ἤτοι ἀπὸ τοῦ ‘περιπετάσματος’ εἴρηται, ἢ ἀπὸ μεταφορᾶς τῶν τῇ ζύμῃ τὰ ἄλφιτα περιλαμβανόντων καὶ τούτοις περικαλυπτόντων τινά· εἰώθασι γὰρ τὰ καταλιμπανόμενα ἀφ᾽ ἑκάστου ἄρτου μιγνύντες ποιεῖν ἄρτον [da cui Sud. π 1242]); e in favore di questa ipotesi si esprime con nettezza Tzetzes (Σ [Tz] Ar. Pl. 159 Massa Positano: ἐν τῷ ζητεῖν χαρισθῆναι αὐτοῖς ἵππον ἢ κύνας, 〈ὀνόματι〉 τῶν ἵππων καὶ τῶν κυνῶν 〈τὴν μοχθηρίαν〉 συγκρύπτουσι καὶ δοκοῦσιν 〈αἰτεῖν〉 οὐκ 〈ἀργύριον,〉 ἀλλὰ καὶ ἵπποι καὶ κύνες ἀργυρίου ὠνοῦνται. τὸ δὲ ‘περιπέττουσι’ καὶ συγκρύπτουσιν οὔτε ἀπὸ τῶν γυναικείων προσθέτων κομῶν, ἅπερ φενάκαι καλοῦνται, ὁ Τζέτζης ἀκούειν ἀνέχεται λέγεσθαι, οὔτε ἀπὸ τῶν παραπετασμάτων καὶ βήλων, ἀπὸ δέ τινων ἄρτων πεττομένων καὶ ζυμωμένων καὶ ἔκτοσθε μὲν ἄρτων ὁρωμένων τῷ ὄντι, ἔσω δὲ διάφορα συγκρυπτόντων ἡδύσματά τε καὶ βρώματα). E all’ ambito delle metafore culinarie che evocano menzogna, inganno e complotto il verbo viene ricondotto da Taillardat 1965, 225 («περιπέττειν, “faire dorer un aliment en le cuisant”»), che cita in proposito Hsch. π 1808: περίπεπτον· τὸ περιπετεμμένον, e, prima di lui, da van Leeuwen 1906b, 26, ad Ar. Pl. 159 («In arte pistoria περιπέττειν est crusta obducere»), che, tra vari altri verbi riferiti a inganni perpetrati con le lusinghe verbali, richiama il significativo pendant rappresentato in Aristofane dalla metafora dolciaria cui ricorre nel prologo dei Cavalieri il Servo I per illustrare al Salsicciaio l’ attitudine di un abile demagogo a conquistarsi il popolo ὑπογλυκαίνων ῥηματίοις μαγειρικοῖς (v. 216).
fr. 338 K.-A. (325 K.) τὴν πτέρυγα παραλύσασα τοῦ χιτωνίου καὶ τῶν ἀποδέσμων οἷς ἐνῆν τιτθίδια 1 παραλύσασα FS: παραλύσασαν Α 2 τῶν ἀποδέσμων codd.: τὸν ἀπόδεσμον Bergk (ap. Meineke FCG V 1, cxxxvii): τοὺς ἀποδέσμους Blaydes 1885, 424 οἷς codd.: οἷ᾽ Kaibel τιτθίδια codd.: τὰ τιτθία Reiske 1830, 540, vd. Cobet 1858, 177
dopo che lei ebbe slacciato il lembo della tunica e del reggiseno in cui erano legate le tettine
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Sull’assai discussa estensione e sulla non meno controversa ricostruzione del testo e della citazione comica di Clemente Alessandrino, vd. Kassel–Austin PCG VIII, 48, ad fr. *136.
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Poll. VII 66 (FS, Α, BC) τὸν νῦν καλούμενον ὑπὸ τῶν γυναικῶν στηθόδεσμον εὕροις ἂν ὀνομαζόμενον (εὕρ. ἂν ὀνομ. om. BC) ἀπόδεσμον (ἀπ. om. Α) ἐν Θεσμοφοριαζούσαις Ἀριστοφάνους· τὴν πτέρυγα — τιτθίδια (ἐν Θεσμ. — τιτθίδια om. BC). Quello che ora dalle donne è chiamato stēthodesmos (reggiseno) lo si può trovare col nome di apodesmos nelle Tesmoforiazuse di Aristofane: «dopo che — tettine».
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Trimetri giambici
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Bibliografia Reiske 1830, 540; Cobet 1858, 177; Kock CAF I, 478; Stone 1981, 172–174; Kaibel (ap. Kassel–Austin PCG III 2, 191); Henderson 1991, 148s.; Carrière 2000, 219; Cleland 2005, 110s., 125; Cleland – Davies – Llewellyn–Jones 2007, 33, 155; Orth 2009, 276s.; Bagordo 2016, 183–185, 232s.; Olson 2016, 310s. Contesto di citazione All’ interno di un’ ampia sezione dell’ Onomasticon dedicata all’ abbigliamento (VII 29–79), Polluce dedica una trattazione specifica alla terminologia relativa a parti (e accessori) degli indumenti (VII 62–69): in questo contesto il frammento è citato a proposito dei termini στηθόδεσμος e ἀπόδεσμος, considerati sinonimi che designano il reggiseno. Testo 2 Stampo, con Kassel e Austin, il testo tràdito, rispetto al quale è stata proposta la correzione del genitivo plurale τῶν ἀποδέσμων nella corrispondente forma dell’ accusativo (singolare, da Bergk ap. Meineke V 1, cxxxvii, o plurale, da Blaydes 1885, 424): correzione non necessaria se se ne ipotizza la dipendenza da τὴν πτέρυγα (da cui già dipende il precedente genitivo τοῦ χιτωνίου del v. 1) per il tramite del καὶ, coordinante copulativo. In luogo del tràdito οἷς, Kaibel (ap. Kassel–Austin PCG III 2, 191) proponeva di leggere οἷ᾽: «grato opinor et apto anacolutho, cf. fr. 664»: un frammento aristofaneo anepigrafo in cui l’ anacoluto è creato dalla combinazione asindetica del nominativo (o accusativo) assoluto τὸ στρόφιον λυθὲν del v. 1 (su cui vd. Bagordo 2016, 232s.) con il conseguente e consecutivo τὰ κάρυά μου ᾽ξέπιπτεν del v. 2. La correzione, segnalata in apparato ma non accolta a testo da Kassel e Austin, non pare neanche a me necessaria: un utile parallelo in favore del testo tràdito è fornito da Loll. Phoinik., PColon. 3328 (= TM 61432) fr. B 1v rr. 24s., p. 342 Stephens–Winkler: α]πέδυσαν μ[η]δὲ τὴν ταινίαν / ἐν ᾗ ἡ κόρη τοὺς μαστοὺς ἐδέδ̣ετ̣[ο παρέντες, dove a proposito di ἐν ᾗ Henrichs 1972, 123 richiama appunto l’ οἷς ἐνῆν di Ar. fr. 338.2. Anche la correzione del tràdito τιτθίδια in τὰ τιτθία, proposta, sulla base del fatto che la forma del diminutivo in -ιδιον di questo vocabolo non è altrimenti attestata, a fronte della ricorrenza del diminutivo τιτθίον, da Reiske 1830, 540 (ad Const.Porph. Exc. de caer. p. 469.15 Reiske) e accolta da Cobet 1858, 177 e da Kock CAF I, 478 (con la precisazione «nisi forte sequebatur ὡραιότατα»), non sembra necessaria. Il suffisso -ιδιον risulta infatti regolarmente attestato in commedia, talvolta, come
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qui, con lo iota lungo, cf. e. g. δακτυλίδιον in Ar. Lys. 417, λυχνίδιον in frr. 13 e 291, ἀμφορίδια in Ar. Pax 202 (in RV, in alternativa ad ἀμφορείδια, tràdito dalla Suda [ma in favore della grafia tramandata dai codici vd. Olson 1998, 151, ad Pac. 382, dove, come nel v. 924, il tràdito ( Ἑ)ρμίδιον andrà conservato]), οὐσίδιον in Nicom. Com. fr. 3.1, σηπίδια (o σηπίδιον) in Ar. frr. 258, 333.1, Alex. fr. 159.3, Ephipp. frr. 3.9, 15.4, Eub. frr. 109.2, 148.6, τευθίδια in Ephipp. fr. 15.4, Eub. fr. 109.2 (ma vd. Arnott 1957, 194 n. 3; Hunter 1983, 210, ad l.), κωβίδι᾽ in Sotad.Com. fr. 1.22, χωρίδιον in Men. Dysc. 23 e fr. 394.1: secondo un uso che Dore 1964 riconosce come prevalente nell’ archaia e concomitante con la presenza dello iota lungo nel tempo forte dell’ ultimo metron. Ma, su quest’ ultimo aspetto, vd. le opportune puntualizzazioni di Arnott 1996, 60, ad Alex. fr. 2.7; e in generale, sui diminutivi in -ίδιον, vd. (oltre al su citato Dore 1964) Petersen 1910, 215–217; Debrunner 1917, 148; Schwyzer GrGr I, 471; Chantraine 1933, 54ss. Interpretazione Il frammento sembra tratto dal resoconto di una scena di svestizione in cui un personaggio femminile, slegandosi il lembo che tiene unita la metà anteriore della tunica e il reggiseno, si mostra a seno nudo. La situazione richiama la scena della Lisistrata in cui Mirrine, fingendo di prepararsi ad avere un rapporto sessuale con Cinesia, si toglie il reggiseno (τὸ στρόφιον ἤδη λύομαι, v. 931; e più in generale sull’atto dello ‘sciogliere’ un capo di abbigliamento femminile come gesto che prelude eufemisticamente a un imminente rapporto sessuale, vd. Caroli 2017, 89, 346s.). E alla svestizione del reggiseno sembra connessa la scena di seduzione evocata in prima persona da una donna in un frammento anepigrafo di Aristofane (ἀλλὰ τὸ στρόφιον λυθέν / τὰ κάρυά μου ’ ξέπιπτεν, fr. 664: vd. Bagordo 2016, 231). Nelle Tesmoforiazuse superstiti è invece il Parente travestito da donna a essere spogliato dello στρόφιον da Clistene, per ordine della Donna I (v. 638)86. 1 πτέρυγα Il termine designa propriamente la metà anteriore o posteriore della tunica femminile (cf. Poll. VII 62: πτέρυγες μὲν καὶ πτερύγιον τὸ ἥμισυ τοῦ χιτωνίσκου; e anche Hsch. π 4207; Poll. VII 55); e in questa accezione è impiegato in Men. Sicyon. 280 πτέρυξ χιτωνίσκου γυναικείου διπλῆ (cf. anche Epitr. 404). Più genericamente, la πτέρυξ è il lembo del chitone femminile, in particolare di quello dorico (cf. Plu. Comp. Lyc.Num. 3.7). L’ oggetto figura anche tra gli indumenti fem2 minili dedicati ad Artemide Brauronia sull’ acropoli ateniese (cf. IG II 1254.234, e vd. Cleland 2005, 125). In generale, sulla πτέρυξ, vd. Cleland – Davies – Llewellyn– Jones 2007, 155. χιτωνίου Forma diminutiva di χιτών, che designa genericamente la tunica indossata, sotto il mantello o il velo, tanto dagli uomini quanto dalle donne, il termine χιτώνιον non ha in realtà la valenza diminutiva che è invece propria del suo derivato χιτωνίσκος (vd. Cleland 2005, 110s.), ma è impiegato di norma, 86
Inverificabile è l’ ipotesi di Carrière 2000, 219 secondo cui il frammento riecheggerebbe parodicamente il tragico momento, narrato da Taltibio nell’ Ecuba di Euripide (vv. 558–561), dell’ esibizione del seno di Polissena, destinata al sacrificio presso il tumulo di Achille.
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ancorché non esclusivamente, in riferimento all’ indumento indossato dalle donne: vd. Cleland – Davies – Llewellyn–Jones 2007, 3387. E sempre in riferimento all’ indumento femminile il χιτώνιον è menzionato da Aristofane nella Lisitrata, dove la protagonista afferma che è abitudine delle donne indossare «le tuniche trasparenti» (v. 48: τὰ διαφανῆ χιτώνια) e suggerisce poi alle compagne di rendersi seducenti indossando, tra l’altro, le tuniche di Amorgo, al di sotto delle quali lasciar trasparire le loro nudità (v. 150s.: κἀν τοῖς χιτωνίοισι τοῖς Ἀμοργίνοις / γυμναὶ παρίοιμεν; su questa costosa e raffinata qualità di indumento femminile, vd. Olson 2016, 310s., ad Eup. fr. 256). Nelle Rane, il termine è attestato nella parodo degli Iniziati, in quella strofe del quarto corale che descrive il momento in cui dalla tunica lacerata di una fanciulla del coro che danza in maniera lasciva spunta il seno (vv. 410–412: νῦν δὴ κατεῖδον καὶ μάλ’ εὐπροσώπου / συμπαιστρίας / χιτωνίου παρραγέντος τιτθίον προκύψαν). Nelle Ecclesiazuse il termine compare dapprima nel prologo, allorché Prassagora istruisce le donne a sollevare il loro chitone perché la lunga veste gialla non sporga sotto l’ himation e non tradisca la loro identità, per rendere dunque più convincente il loro travestimento maschile (v. 268: ἄγε νυν, ἀναστέλλεσθ’ ἄνω τὰ χιτώνια), e poi all’apparire in scena di Cremete, reduce dall’assemblea, il quale, incontrando Blepiro, gli domanda stupito come mai indossi il chitone della moglie (v. 374: τὸ τῆς γυναικὸς δ᾽ ἀμπέχει χιτώνιον). In Pl. 984, la Vecchia dichiara di aver ricompensato il suo amante con l’ acquisto di un chitone per sua sorella (καὶ ταῖς ἀδελφαῖς ἀγοράσαι χιτώνιον). Una ulteriore attestazione aristofanea del termine in riferimento all’ indumento femminile si riscontra nel fr. 641 (ἐνδὺς τὸ γυναικεῖον τοδὶ χιτώνιον, su cui vd. Bagordo 2016, 183–185; cf. Stone 1981, 172–174). E ancora in riferimento all’ indumento femminile, χιτώνιον è impiegato nell’ ambito di un’ espressione proverbiale (γαλῆ χιτώνιον) citata da Stratt. fr. 75 (su cui vd. Orth 2009, 276s.). Che il χιτώνιον fosse indumento specificamente femminile è precisato da Luc. Lex. [46] 25 (τίς οὐκ οἶδεν ὅτι χιτώνιον μὲν γυναικὸς ἐσθής) e da [Ammon.] Diff. 514, che opera un distinguo tra i termini chitōnion e chitōniskos, attribuendo l’ uso del primo alle donne, del secondo agli uomini (χιτώνιον καὶ χιτωνίσκος διαφέρει. χιτωνίσκος μὲν γὰρ ὁ τοῦ ἀνδρὸς καὶ χιτών· χιτώνιον δὲ τὸ τῆς γυναικὸς ἔνδυμα, ἔστι δὲ τοῦτο λεπτόν); distinguo smentito in realtà da svariate attestazioni dell’impiego del χιτωνίσκος anche da parte di donne: cf., ad esempio, il su citato Men. Sicyon. 280, e l’ impiego del termine χιτωνίσκος in riferimento alla veste di Frine, strappata nel corso del celebre processo che la vide protagonista con Iperide, nelle ricostruzioni di Ath. XIII 590d–591b e di Alciphr. IV 4.4 (al riguardo, va notato che Alcifrone sembra utilizzare i due termini in maniera intercambiabile: come dimostra l’ uso di χιτώνιον nel corso della gara di bellezza tra Mirrine e Triallide descritta in Epist. IV
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A proposito di uomini il χιτώνιον è menzionato ad esempio da Luc. Merc.Cond. [36] 37 (ἐφεστρίδιον ἄθλιον ἢ χιτώνιον ὑπόσαθρον), dove però il termine ha probabilmente anche una valenza diminutiva, o comunque dispregiativa.
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14.4s.) e vd. Cleland 2005, 110s., a proposito delle ripetute menzioni del χιτώνιον nelle liste degli abiti femminili dedicati ad Artemide Brauronia. 2 ἀποδέσμων Rispetto al più comune στρόφιον (su cui vd. supra, ad fr. 332.4), per designare il reggiseno, ἀπόδεσμος è scarsamente attestato: presente in questa stessa commedia, ancora una volta al plurale, nella lista di accessori femminili elencati nel fr. 332, al v. 13 (che è forse alla base di Hsch. α 6298, dove però l’ ἀπόδεσμος è genericamente identificato con un accessorio femminile o con una fascia per il capo: ἀπόδεσμος· κόσμιόν τι γυναικεῖον. Περικεφάλαιον; e in effetti da Posidippo (App.Anth. III 77.1s. Cougny = HE 3142s.) ἀπόδεσμοι o, in alternativa, δεσμοί o il singolare δεσμός, potrebbero indicare i lacci [o il laccio] che raccolgono la chioma della compianta Dorica: sulla problematica ricostruzione dei primi due versi di questo epigramma vd. ora Dale 2016, 134s.), lo si ritrova poi, al singolare, in Luc. DMeretr. [80] 12.1. Negli Amores pseudolucianei ([49] 41), pur nell’ ambito della feroce requisitoria dell’ Ateniese Callicratida contro le donne, le quali ricorrono a ogni genere di artificio per migliorare il proprio aspetto, ricoprendosi di monili, orpelli e accessori di ogni genere e, al contempo, a indossare vesti sottilissime, che solo apparentemente coprono le loro nudità, l’ impiego del reggiseno è valutato positivamente, in quanto necessario a tenere legati i seni, che sono sgraziatamente prominenti (πάντα δὲ τὰ ἐντὸς αὐτῆς γνωριμώτερα τοῦ προσώπου χωρὶς τῶν ἀμόρφως προπεπτωκότων μαζῶν, οὓς ἀεὶ περιφέρουσιν δεσμώτας). La potenza seduttiva dell’ esposizione dei seni liberati dal reggiseno sembra invece evocata nel su citato frammento aristofaneo [inc. fab.] 66488. τιτθίδια Questa particolare forma diminutiva del termine τιτθός, regolarmente attestato nei testi medici per designare il seno femminile (ma raro, in questa accezione, nella rimanente letteratura: per Aristofane, oltre a Th. 640 [καὶ νὴ Δία τιτθούς γ᾽ ὥσπερ ἡμεῖς οὐκ ἔχει], cf. anche Lys. 83 [ὥς δὴ καλὸν τὸ χρῆμα τῶν τιτθῶν (Scaliger: τιτθίων R) ἔχεις] e vd. Wilson 2007b, 133), rispetto a τιτθίον, che è comune in commedia, generalmente al plurale (cf. Ar. Ach. 1199, Pax 863, Th. 143, 691, 1185, Ra. 412, Pl. 1067; Antiph. fr. 105.4; Men. Sam. 266, 536, 540, e vd. Henderson 1991, 148s.), rappresenta, come si è detto (vd. supra, ad Testo), un unicum. Si spiega, comunque, il ricorrente impiego del diminutivo in riferimento ai seni femminili, percepiti come veicolo di seduzione e fonte di attrazione sessuale, nella commedia come pure nell’ iconografia, appunto in quanto piccoli, sodi e rotondi (vd. Bagordo 2016, 233, ad Ar. fr. 664, con la bibliografia ivi citata).
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E per la fortuna dell’ immagine cf. Apul. X 21.1 (taenia quoque qua decoras devinxerat papillas) oltre a Longus I 12.4 (ἡ δὲ Χλόη λυσαμένη ταινίαν δίδωσι καθεῖναι τῷ βουκόλῳ): entrambi richiamati da Henrichs 1972, 123s. a proposito del su citato passo dei Phoinikikà di Lolliano (vd. ad Testo).
Θεσμοφοριάζουσαι βʹ (fr. 339)
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fr. 339 K.-A. (324 K.) οἴμοι κακοδαίμων τῆς τόθ᾽ ἡμέρας, ὅτε εἶπέν μ᾽ ὁ κῆρυξ· οὗτος ἀλφάνει z
1 τῆς τόθ᾽ Sud., Synag. Β: τις τόθ᾽ Phot. S : τις πόθ᾽ Phot. b 2 εἶπέν Phot., Synag. Β: εἶπέ Sud. οὗτος codd.: οὗτος 〈ὠνὴν〉 Meineke FCG II 1, 531: 〈πρᾶσιν〉 οὗτος Bergk (ap. Meineke FCG V 1, cxxxvii): οὑτοσὶ τί Cobet 1876, 247s., coll. Thphr. Char. 15.4 ἀλφάνει 〈πόσον;〉 Hermann 1847, 434 n. 1: ἀλφάνει 〈πολύ〉 Torchio 2000, 45s.: fort. 〈οὐδὲν〉 ἀλφάνει Kaibel
povero me, maledetto quel giorno lontano, quando il banditore disse di me: «costui vale…» z
Phot. α 1065 (b, S ) (= Sud. α 1446 = Synag. B α 955 [= An.Bachm. p. 73.24–26]) ἀλφάνει· εὑρίσκει […] Ἀριστοφάνης Θεσμοφοριαζούσαις· οἴμοι — ἀλφάνει. alphanei: vale […] Aristofane nelle Tesmoforiazuse: «maledetto — vale».
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Trimetri giambici
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Bibliografia Meineke FCG II 1, 531; Kaibel ap. Kassel–Austin PCG III 2, 192; Carrière 2000, 219; Labiano Ilundain 2000, 257; Torchio 2000, 45s.; Mastronarde 2002, 221s.; Olson 2016, 407–410. Contesto di citazione Il frammento è tramandato dai lessicografi a proposito dell’ accezione di ἀλφάνειν come sinonimo di εὑρίσκειν, impiegato nel senso di «avere (un determinato) prezzo», «valere»: accezione per la quale essi citano anche Eup. fr. 273 (οὐ θᾶττον αὐτὴν δεῦρὸ μοι τῶν τοξοτῶν / ἄγων [codd.: ἀγαγὼν Olson] ἀποκηρύξει τις, ὅ τι ἂν ἀλφάνῃ), Men. fr. 263 († ἣν δῆλον οὔτι νυμφίος τε ἀλφάνει †) e Il. XXI 79 (ἑκατόμβοιον δέ τοι ἦλφον). La medesima glossa, priva di citazioni, è in Hsch. α 3323 e in Σ Eur. Med. 297 Schwartz. Testo Svariate, come si desume dall’ apparato, le integrazioni proposte per completare la parte finale del secondo trimetro con un accusativo retto da ἀλφάνει, forma verbale le cui scarse attestazioni letterarie sicure (in età classica limitate alla poesia drammatica) prevedono sempre la presenza di un complemento oggetto che quantifichi il valore della merce venduta o l’ entità del guadagno che il compratore ricaverà dal suo acquisto: oltre al frammento dei Tassiarchi di Eupoli citato dai testimoni, dove il verbo è usato in riferimento alla vendita all’ asta di una donna o fanciulla (per il significato della clausola ὅ τι ἂν ἀλφάνῃ che chiude il secondo verso [«quovis pretio» per Meineke FCG II 1, 531], e per l’ interpretazione complessiva di Eup. fr. 273, vd. ora Olson 2016, 407–410), cf. Eur. Med. 297 (dove il verbo ha però valore metaforico: φθόνον πρὸς ἀστῶν ἀλφάνουσι δυσμενῆ; e per
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una analoga accezione metaforica cf. Sud. τ 592 […] ἀλφεῖν γάρ ἐστι τὸ εὑρίσκειν: ὥστε γίνεσθαι τὸ τιμαλφέστατον τὸ τιμὴν εὑρίσκον πλείστην […]) e soprattutto Eur. fr. 326.2 Kn. ([…] οἱ μὲν εὐγενεῖς βροτῶν / πένητες ὄντες οὐδὲν ἀλφάνουσ᾽ ἔτι, a proposito della difficoltà di arricchirsi propria dei nobili di nascita); e vd. la discussione presente in Torchio 2000, 45s. con n. 84, la quale propone a sua volta di completare ἀλφάνει con πολύ in clausola. Per la possibilità, prospettata da Kaibel, che il secondo verso vada completato integrando un οὐδὲν come oggetto di ἀλφάνει vd. infra, ad Interpretazione. Interpretazione La battuta sembra pronunciata, come il fr. 340, apparentemente consecutivo (vd. infra, ad fr. 340), da un servo, nell’ ambito di un monologo per certi aspetti simile a quello proferito dal servo Santia all’ inizio delle Rane (vd. ad fr. 340). La persona loquens sembra infatti lamentarsi o per le infauste condizioni nelle quali è precipitato il giorno in cui, grazie alla perorazione del banditore, è stato venduto all’ asta, o, all’ opposto, perché, per mancanza di acquirenti, non è stato più venduto. In assenza dell’ oggetto di ἀλφάνει è infatti impossibile arguire se lo schiavo – del quale il banditore avrà dichiarato il valore più o meno presunto, o, ancor più concretamente, il prezzo alla vendita – lamentasse qui il fatto di essere o di non essere stato più venduto: non si può escludere la possibilità che, in assenza di potenziali acquirenti, la querimonia dello schiavo muovesse dalle recriminazioni del banditore in merito allo scarso valore della ‘merce’ in vendita («nisi forte cum emptorem servus non invenisset praeco pronuntiarat οὗτος 〈οὐδὲν〉 ἀλφάνει»: Kaibel ap. Kassel–Austin PCG III 2, 192, ad l.). Non è ovviamente dato sapere se la persona loquens di questo frammento coincida con quella del fr. 340, come pure è stato ipotizzato (vd. infra, ad fr. 340): ipotesi plausibile, specie alla luce del confronto con la scena iniziale del prologo delle Rane, dove patetica autocommiserazione e lamentosa querimonia, connesse al peso del bagaglio di Dioniso che il servo Santia è costretto a trasportare, si trovano condensate nella battuta pronunciata da quest’ ultimo nei vv. 19s. (ὦ τρισκακοδαίμων ἄρ᾽ ὁ τράχηλος οὑτοσί, / ὅτι θλίβεται μέν, τὸ δὲ γέλοιον οὐκ ἐρεῖ); il che comunque evidentemente non implicherebbe che i due frammenti appartenessero alla medesima scena della commedia. Il distico poteva ad esempio far parte di un monologo analogo a quello in cui all’ inizio del Pluto (vv. 1–7) Carione, il servo di Cremilo, si lamenta di essere al servizio «di un padrone che è fuori di senno (παραφρονοῦντος δεσπότου)» (v. 2), delle cui decisioni sconsiderate è costretto a condividere le conseguenze, posto che «il δαίμων non consente che un uomo disponga della sua persona, ma lascia che ne disponga chi lo ha acquistato» (τοῦ σώματος γὰρ οὐκ ἐᾷ τὸν κύριον / κρατεῖν ὁ δαίμων, ἀλλὰ τὸν ἐωνημένον, vv. 6–7). Se così fosse, se ne potrebbe concludere che ci troviamo di fronte a una delle scene stereotipe nelle commedie della produzione più recente dell’ archaia (quella, cioè, databile tra l’ ultimo decennio del V e i primi due decenni del IV secolo), nella quale al personaggio del servo viene riservato un ruolo sempre più incisivo nell’ economia della trama (sulla questione vd. infra, ad fr. 340).
Θεσμοφοριάζουσαι βʹ (fr. 340)
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1 οἴμοι κακοδαίμων Per οἴμοι κακοδαίμων con genitivo esclamativo cf. Ar. Ach. 1036, Nu. 1324, e vd. Labiano Ilundain 2000, 257. τῆς τόθ᾽ ἡμέρας, ὅτε Per questo stilema di tenore paratragico cf. Eur. Ph. 3–5 Ἥλιε […], / ὡς δυστυχῆ Θήβαισι τῇ τόθ᾽ ἡμέρᾳ / ἀκτῖν᾽ ἐφῆκας […], ἡνίκ᾽ […], detto da Giocasta a proposito dello sventurato arrivo di Cadmo in Beozia, dove fondò la città di Tebe e, con Armonia, diede origine alla stirpe dei Labdacidi. 2 κῆρυξ Per il ruolo del banditore nelle vendite all’ asta, cf. Eup. fr. 273 (su cui vd. supra, ad Testo), dove ἀποκηρύξει è detto di un arciere investito del ruolo di banditore (τῶν τοξοτῶν … ἀποκηρύξει τις). Per l’ impiego di questo verbo nell’ accezione di «vendere all’ asta» (propriamente «servirsi di un κῆρυξ per la vendita all’ asta»: [Ammon.] Diff. 268 = Ph.Bybl. Verb.sign. α 9 = Ptol.Ascal. ap. Heylbut 1887, p. 397.20s.; Poll. X 18) cf. anche Pl.Com. fr. 129; Men. fr. 422; Lys. 17.7; Dem. 23.201; e vd. Olson 2016, 410, ad Eup. fr. 273.2. ἀλφάνει Ancorché raro nei testi letterari sino all’ età ellenistica, ἀλφάνω, attestato soltanto quattro volte in Omero sempre all’ aoristo (oltre al su citato Il. XXI 79, cf. Od. XV 453, XVII 250, XX 383), e al presente nei restanti passi su citati, non sembra essere, almeno nel V secolo a. C., un verbo poetico, ma piuttosto da 3 ascrivere al lessico commerciale (cf. IG I 84.14s.: ὁπ-[ό]σεν δ᾽ ἂν ἄλφει μίσ[θ]οσιν τὸ τέμενος κατὰ τὸν ἐνιαυτὸν ἕκαστον, e vd. Mastronarde 2002, 221s., ad Eur. Med. 297). Per Carrière 2000, 219 il verbo «semble utilisé dans une vente à l’ encan soit pour introduire la vente d’ un lot (“Mise à prix” ou “Mise en vente de celui–ci”), soit pour la conclure (“Adjugé”)»: formula, quest’ ultima, che, ove documentata, consentirebbe di contemplare l’ assenza del complemento oggetto.
fr. 340 K.-A. (323 K.) ὥς, διά γε τοῦτο τοὖπος, «οὐ δύναμαι φέρειν σκεύη τοσαῦτα», καὶ «τὸν ὦμον θλίβομαι» 1 ὥς, διά scripsi: ὡς διά VEBarb: ὡς δέ M: οὐ διά R: om. Θ τοὖπος οὐ RMEBarb: τοῦ ** πῶς οὖν V: τοῦ πῶς οὐ Θ 1–2 φέρειν / σκεύη VMΘBarb: φέρειν / σκεύ R: σκεύη / φέρειν E
così, secondo questo detto, «non posso portare dei bagagli così pesanti», e «ho la spalla oppressa dal peso» Σ (vet) (RVMEΘBarbAld) Ar. Ra. 3a, 4a.β Chantry 3a. ἴδιον αὐτοῦ (αὐτῷ M) τὸ εἰς ταῦτα ὀλισθαίνειν, ὡς καὶ (ὡς καὶ τὸ R: ὡς γὰρ καὶ V) ἐν βʹ (δευτέρῳ M: om Ald) Θεσμοφοριαζούσαις θεράπων φησίν (θερ. φασίν V: φησὶν ὁ θερ. MΘBarb)· ὡς — θλίβομαι. 4a. β. (VMEΘBarb) ἐνταῦθά (ἐνταῦθα δέ VME) φησιν (φασιν VM) ὅτι οὐ δύναμαι ἀνέχεσθαι τοῦ θλίβομαι λεγομένου (δυναμένου M).
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3a. è proprio di costui (scil. del personaggio del servo) scadere in queste battute, come un servo fa anche nelle Tesmoforiazuse seconde, dove dice: «così — oppressa dal peso». 4a. β. A tale proposito dunque dice che non posso sopportare il «sono oppresso dal peso».
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Bibliografia
Bothe 1844, 94; Weil 1881, 296; Torchio 2000, 45s.
Contesto di citazione Tramandato da uno scolio vetus ad Ar. Ra. 3 a proposito della trita battuta πιέζομαι, pronunciata dal servo Santia e rigettata da Dioniso all’ inizio della commedia, al fine di mostrare come nella stessa comicità volgare e banale scada il personaggio dello schiavo anche nelle Tesmoforiazuse II di Aristofane, il frammento ripropone consecutivamente, ancorché diversamente formulata, la medesima battuta: mi chiedo perciò se non possa esser stato estrapolato da una lista di battute convenzionali sul tema del servo che porta il bagaglio, che potevano essere elencate dalla persona loquens in un contesto di critica metateatrale analogo a quello presente all’ inizio delle Rane. Testo La correzione del tràdito ὡς in ὥς e la punteggiatura introdotte a testo riflettono la ricostruzione proposta nel Contesto di citazione. Interpretazione Il frammento viene in genere collegato al precedente sulla base della consentaneità di tema e stile (ancorché sino a Kock editato in ordine inverso: la sequenza dei due frammenti adottata da Kassel e Austin e qui riprodotta è quella introdotta da Bothe 1844, 94, in favore della quale si esprime Weil 1881, 296): la persona loquens potrebbe in effetti essere identificata con il medesimo servo che pronuncia i due trimetri del fr. 339 lamentando la propria sorte sventurata, i soprusi e le fatiche che la sua condizione servile lo costringe a sopportare (nella fattispecie, il peso dei bagagli da cui è gravato); ma è ovviamente altrettanto lecito immaginare che la commedia presentasse una o più scene che vedevano uno o più schiavi protagonisti di esternazioni e rimostranze del genere di quelle presenti nei frr. 339 e 340. In ciascuna delle due eventualità, il protagonismo della maschera del servo che questi due frammenti parrebbero sottendere, potrebbe essere valorizzato come indizio a favore di una datazione tarda delle perdute Tesmoforiazuse: una datazione coerente col trattamento riservato da Aristofane agli schiavi in alcune delle sue ultime commedie superstiti (si pensi in particolare al ruolo svolto da Santia nelle Rane e da Carione nel Pluto). In generale, sulla crescente importanza della personalità e del ruolo del servo nelle ultime commedie di Aristofane, vd., tra altri, Ehrenberg 1951, 165–191; Bourriot 1974; e, con specifico riferimento alla figura di Carione nel Pluto, Olson 1989; Fernández 2000; Torchio 2001, 18s. con bibliografia ulteriore. Più in generale, su schiavi e schiavitù nel dramma attico, vd. Zimmermann 2005, e nella commedia in particolare, Zimmermann 2011b; nonché i contributi raccolti in Akrigg–Tordoff 2013; e vd. anche De Martino 2014, con ulteriore bibliografia.
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1 ὥς Giusta la suggestione interpretativa proposta nel contesto di citazione, in luogo del tràdito ὡς stampo ὥς, cui attribuisco il valore di avverbio di modo, introduttivo di un’ esemplificazione («thus, for instance»: LSJ, s. v. Aa 4, per cui cf. Od. V 129, h.Hom. V [Ven.] 218 e Od. V 121, 125, dove pure l’ avverbio potrebbe non essere accentato). διά γε τοῦτο τοὖπος Cf. Ar. Th. 412, dove il sintagma διὰ τοὔπος τοδί precede la citazione di un verso euripideo (fr. 804.3 Kn.) e ha valore apparentemente causale. In Lys. 1038 ἐκεῖνο τοὔπος precede invece la citazione di un detto proverbiale misogino. In generale, ἔπος «is an utterance considered in a formal aspect» (Dover 1968, 169, ad Ar. Nu. 541, dove τἄπη designa «i versi» di quella commedia); e in riferimento a versi, comici, tragici, lirici o esametrici, il termine è comunemente attestato in Aristofane: cf. Eq. 508 (in riferimento ai tetrametri anapestici della parabasi), Nu. 544 (ancora in riferimento ai propri versi), Eup. fr. 99.2 (in riferimento agli eupolidei della parabasi), Av. 966 (in riferimento a esametri oracolari), e anche Av. 908, Th. 53, Ra. 358, 799, 802, 826, 862, 885, 904, 948, 1181, 1198, 1381, 1387, 1388, 1407, 1410 (per ulteriori attestazioni, poetiche e prosastiche, del termine al plurale, nell’ accezione di «versi» o «gruppi di versi», o per designare vari generi di «poesia», o «poesia» in genere, o «righe di scrittura», vd. LSJ, s. v. IV). Da Aristofane τοὔπος è peraltro impiegato con valenza paratragica in Ach. 315, 328 (vd. Rau 1967, 28), e il semplice termine ἔπος è impiegato, con una nuance poetica elevata, nel senso di «detto, parola, espressione», in Av. 174, 507 e 939 (su cui vd. Dunbar 1995, 190, 346, 536, ad ll.). Né una valenza paratragica di τοῦτο τοὖπος in questo frammento delle Tesmoforiazuse II parrebbe da escludersi: le sue due uniche altre attestazioni sono Soph. OT 1144 (Τί δ’ ἔστι; πρὸς τί τοῦτο τοὔπος ἱστορεῖς;) e OC 302 (Τίς δ’ ἔσθ’ ὁ κείνῳ τοῦτο τοὔπος ἀγγελῶν;). 1s. οὐ δύναμαι φέρειν / σκεύη τοσαῦτα καὶ τὸν ὦμον θλίβομαι L’ affermazione fatta da questo θεράπων, per spirito, lessico e contenuto, riecheggia assai da vicino, come si è detto, alcune affermazioni fatte da Santia nella scena iniziale del prologo delle Rane, dove il motivo del peso dei bagagli trasportati dal servo è centrale, e variamente reiterato (cf. in particolare i vv. 5: ὡς θλίβομαι; 12: τί δῆτ᾽ ἔδει με ταῦτα τὰ σκεύη φέρειν; 30: ὁ δ᾽ ὦμος οὐτοσὶ πιέζεται, e poi, nella scena successiva, cf. vv. 87s.: […] περὶ ἐμοῦ δ ᾽οὐδεὶς λόγος / ἐπιτριβομένου τὸν ὦμον οὑτωσὶ σφόδρα, 107 e 115: […] περὶ ἐμοῦ δ ᾽οὐδεὶς λόγος).
fr. 341 K.-A. (326 K.) καὶ κατ᾽ Ἀγάθων᾽ ἀντίθετον ἐξυρημένον Ἀγάθων᾽ Bekker (An.Bekk. p. 410.16): ἀγαθὸν Phot. b, Synag. B 638: ἐξευρημένον Phot. b, Synag. B
e un’ antitesi rasata alla maniera di Agatone
ἐξυρημένον Jahn 1846,
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Phot. α 2101 (b, z) (= Synag. B α 1520 [= An.Bachm. p. 105.1–4]) ἀντίθετον· τὸ σχῆμα τῆς φράσεως, ὡς ἡμεῖς. Ἀριστοφάνης (Ἀρ. in marg. z) Θεσμοφοριαζούσαις· καὶ — ἐξευρημένον (Θεσμ. — ἐξ. om. z). antitheton: la figura dello stile, come (la chiamiamo) noi. Aristofane nelle Tesmoforiazuse: «e — Agatone».
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Bibliografia Norden 1915–1918, I, 77s. (trad. it. 1986, I, 87s.); Borthwick 1979; Teodorsson 1989, 201s.; Torchio 2000, 47 con n. 91; Major 2013, 14, 187; Gavazza 2021, 130s. Contesto di citazione Il frammento è tramandato da Fozio a proposito della definizione di ἀντίθετον come termine della stilistica. Testo κατ᾽ Ἀγάθων᾽ La correzione del tràdito ἀγαθόν in Ἀγάθων’, proposta da Bekker (An.Bekk. p. 410.16) e accolta da tutti gli editori successivi, è sicura perché richiesta dal metro. ἐξυρημένον Sulla base del confronto con l’espressione rasis … in antithesis della prima Satira di Persio (1.85) di cui si dirà oltre, il tràdito ἐξευρημένον è stato corretto da O. Jahn in ἐξυρημένον: correzione che, accolta da Edmonds, Kock e poi da Kassel e Austin, pare suffragata anche dalla v. l. ἐξυρημένε (Sud. κ 1756) in Ar. Ach. 119 (riferito all’ effeminato Clistene), preferita in genere dagli editori rispetto a ἐξευρημένε. Cf. anche εξ ε υρημενος in POxy. XV 1803 (= TM 65081 = CGFP 99.4 = Eup. fr. 313.2, dove ἐξυρημένος è accolto a testo). Interpretazione Il frammento contiene un attacco ad Agatone (LGPN 2 = PAA 105185, TrGF I 39 Sn.–Kn.), il tragediografo di fine V secolo che ottenne la sua prima vittoria tragica, celebrata da Platone nel Simposio, alle Lenee del 416 a. C., apparentemente al suo primo tentativo (sulla questione vd. supra, ad Datazione). L’ attacco è condotto qui su un duplice livello: personale e poetico. Il primo aspetto per il quale Agatone viene preso in giro anche nel prologo delle Tesmoforiazuse superstiti (dove è protagonista della celebre scena dei vv. 101–279a, ambientata nella sua magione, nel corso della quale traveste il Parente da donna, costringendolo anche a sottoporsi a una dolorosa depilazione, per metterlo in condizioni di affrontare la difesa di Euripide dinanzi alle Tesmoforianti) è l’ effeminatezza, cui qui allude il participio ἐξυρημένον, attribuito ad ἀντίθετον, come aprosdoketon per ἐξευρημένον, e per la quale il tragediografo sarà poi attaccato da Aristofane nel Geritade (fr. 178, su cui vd. ora Bagordo 2022, 115s.), dove l’ epiteto Ἀγαθώνειος è impiegato in riferimento a una musicalità effeminata (αὔλησίς τις μαλακή); il secondo pertiene a una caratteristica precipua dello stile di questo tragediografo, generalmente reputato non solo forbito ed elegante (καλλιεπής è definito da Aristofane in Th. 49 e 60; e cf. Th. 39–51, 52–56, 101–129; e cf. le ulteriori testi-
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monianza raccolte in TrGF I 39 T 16 Sn.–Kn. = Test. 21 Gavazza), ma anche ricco di antitesi: qualità per la quale, oltre ad alcuni degli scarni frammenti superstiti delle sue tragedie (TrGF I 39 F 6, 8, 11, 12 Sn.–Kn.), cf. Ath. V 187c (Πλάτων […] χλευάζει τε τὰ ἰσόκωλα τὰ Ἀγάθωνος καὶ τὰ ἀντίθετα), Ael. VH XIV 13 = TrGF I 39 T 24 Sn.–Kn. = Test. 22 Gavazza (πολλοῖς καὶ πολλάκις χρῆται τοῖς ἀντιθέτοις ὁ Ἀγάθων. κτλ.), e il discorso di Agatone in Pl. Smp. 194e–197e (in particolare 195c–e, 196a–b, 196d, 197a, 197c–e), con il successivo commento di Socrate, che paragona il suo stile a quello di Gorgia (198c), su cui vd. ora Gavazza 2021, 118–124. Su questo peculiare aspetto dello stile poetico di Agatone vd. Norden 1915–1918, I, 77s. (trad. it. 1986, I, 87s.); Lévêque 1955, in particolare 152–154; Gavazza 2021, 124–126; e, con riferimento a questo frammento delle Tesmoforiazuse II, Torchio 2000, 47 con n. 91; Gavazza 2021, 130s. A stare ad Aristotele, Agatone fu il primo a comporre tragedie con trame e personaggi non ispirati al mito o alla storia, ma interamente inventati (Po. 1451b19–23) e a introdurvi interludi corali (ἐμβόλιμα) non connessi con l’ azione scenica né con l’ identità del coro (Po. 1456a26–30). Numerose le testimonianze relative alla sua rinomata bellezza e alla sua conclamata omosessualità effeminata (cf. TrGF I 39 T 3, 14–15, 22 Sn.–Kn. = Testt. 13–15 Gavazza), che avranno ispirato la lunga scena del prologo delle Tesmoforiazuse superstiti, nella quale peraltro, proprio a partire dalla notoria effeminatezza del tragediografo, Aristofane trae uno spunto efficace per elaborare la prima formulazione esplicita della teoria della μίμησις poetica (sul tema dell’ ambiguità di genere, Leitmotiv dell’ intera scena, e sulle sue implicazioni politiche e filosofiche nell’ Atene contemporanea, vd., tra i contributi più recenti, Given 2007; Clements 2014; Imperio 2016; Medda 2017b). Per l’ ulteriore menzione di Agatone in Ar. fr. 592.35 vd. infra; e, più in generale, per un’ analisi complessiva delle testimonianze relative alla personalità e allo stile di Agatone cui si è fatto qui riferimento vd. Gavazza 2021, 54–77, 84–134. καὶ κατ᾽ Ἀγάθων᾽ Cf. κα τ᾽ Ἀγάθω να in Ar. fr. 592.35 (su cui vd. supra, ad Datazione), con cui si attribuisce ad Agatone la citazione tragica (ἐκφέρετε πεύκας κα τ’ Ἀγάθω να φωσφόρους, «portate fuori, come dice Agatone, le torce di pino generatrici di luce», TrGF I 39 F 15 Sn.–Kn.); e anche nel contesto cui appartiene questo frammento delle Tesmoforiazuse II la persona loquens, che sta irridendo al contempo l’ aspetto effeminato di Agatone e le sue modalità espressive, potrebbe con κατ᾽ Ἀγάθων᾽ voler attribuire esplicitamente al tragediografo la paternità della locuzione ἀντίθετον ἐξυρημένον («e, come dice Agatone, un’ antitesi rasata»). La valenza modale assegnata a κατ᾽ Ἀγάθων᾽ nella traduzione qui proposta («alla maniera di Agatone») risulta però forse più confacente all’ effetto comico di aprosdoketon che sembra qui ricercato con l’ impiego di ἐξυρημένον in luogo di ἐξευρημένον. ἀντίθετον Variante del più comune ἀντίθεσις, vocabolo tecnico del lessico retorico (cf. Harp. α 155 [p. 40.3–10 Dindorf] e vd. Anderson Jr. 2000, 21s.), il termine ἀντίθετον, di cui quella aristofanea rappresenta la più antica attestazione e vale come esempio dell’ impiego comico di terminologia ‘protoretorica’ (vd. Major
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2013, 14, 185, 187), ricompare in commedia in Cratin.Jun. fr. 7.4, all’ interno di un elenco di tecnicismi propri del linguaggio eristico, il cui uso viene imputato ai seguaci tarantini di Pitagora (vd. Caroli 2014, 118–121; Mastellari 2020, 96–103), e in Timocl. fr. 12.7, dove il mancato ricorso all’ antitesi viene imputato all’ oratore Demostene, cui, al pari del Briareo di esiodea memoria, viene attribuita, a fronte di modi bellicosi, un’ indole vile. Cf. anche Aeschin. 2.4 (Ἐφοβήθην μὲν γάρ, καὶ ἔτι καὶ νῦν τεθορύβημαι μή τινες ὑμῶν ἀγνοήσωσί με ψυχαγωγηθέντες τοῖς ἐπιβεβουλευμένοις καὶ κακοήθεσι τούτοις ἀντιθέτοις), dove il ricorso alle antitesi è imputato ancora una volta alla malevola astuzia di Demostene, e vd. Erbì 2011, 177–182; Apostolakis 2019, 115–123. E appunto come vocabolo tecnico del lessico retorico ἀντίθετον è identificato da Arist. Rh.Al. 1435b26, e documentato ancora da Arist. fr. 669.7 Rose = 9.1 Gigon dove il suo impiego è associato al sofista Gorgia; D.H. Dem. 4 (p. 135.19–22 U.–R.), dove viene criticato l’ uso smodato, da parte degli oratori, di ἀντίθετα, πάρισα e παραπλήσια (τὰ γὰρ ἀντίθετά τε καὶ πάρισα καὶ τὰ παραπλήσια τούτοις οὔτε μετριάζοντα οὔτ᾽ ἐν καιρῷ γινόμενα καταισχύνει τὴν μεγαλοπρέπειαν); Phld. Rh. III (PHerc. 1426 [= TM 62416], col. IVa.23, p. 29 Hammerstaedt), dove πάρισα, ἀντίθετα e ὁμοιοτέλευτα vengono classificate come figure del ‘panegirico’ (termine che designa qui il discorso epidittico), atte a distrarre il pubblico dal reale contenuto e dal valore del discorso, facendolo concentrare piuttosto sulle sue sonorità. ἐξυρημένον Cf. Ar. Th. 191, dove Agatone è definito ἐξυρημένος, e 218s., dove il tragediografo viene descritto come uno che ξυροφορεῖ ἑκάστοτε89. Riferita alla figura stilistica dell’ antitesi, l’ immagine della rasatura è presente in Pers. 1.85 (crimina rasis / librat in antithesis). Come si è detto, ἐξυρημένον sembra essere qui un aprosdoketon per ἐξευρημένον, che è verbo pregnante del lessico della creazione poetica e verbale (oltre che, com’ è ovvio, dell’ invenzione tout–court): per restare al solo Aristofane, cf. in particolare l’ impiego di εὑρίσκω in Th. 546 (εὑρίσκων λόγους), Ra. 1452 (Ταυτὶ πότερ’ αὐτὸς ηὗρες ἢ Κηφισοφῶν;) ed Eccl. 882s. (Μοῦσαι, δεῦρ’ ἴτ’ ἐπὶ τοὐμὸν στόμα, μελύδριον εὑροῦσαί τι τῶν Ἰωνικῶν), e quello di ἐξευρίσκω in Nu. 896 (γνώμας καινὰς ἐξευρίσκων), Eccl. 607 ([…] σὺ γὰρ ἐξευρὼν ἀπόδειξον), 1044 (φθονοῦσα τόνδε τὸν λόγον / ἐξηῦρες), ma soprattutto la celebre allocuzione al pubblico rivolta dal coro nello pnigos della parabasi delle Vespe, con l’ endiadi καινόν τι λέγειν κἀξευρίσκειν (v. 1053), su cui vd. Biles–Olson 2015, 394, ad V. 1051–1054. Per l’ impiego aristofaneo del participio neutro ἐξηυρημένον in riferimento alla felice invenzione del λύχνος testimone dei convegni amorosi cf. Ar. Eccl. 2, mentre al femminile il medesimo participio 89
Borthwick 1979 ha ipotizzato una possibile connessione tra questo scherzo di Aristofane sull’ effeminatezza di Agatone e quello, cui allude Plutarco in un controverso passo del libro II delle Questioni conviviali (II 1.12 [Mor. 634d]), sulla propria calvizie e, presumibilmente, sulle parti glabre del corpo dell’ effeminato tragediografo (donde la lettura ψίλωσιν ovvero ἀποψίλωσιν, proposta in luogo del corrotto λιψιν); e in favore di questa ipotesi si esprime Teodorsson 1989, 201s.
Θεσμοφοριάζουσαι βʹ (fr. 342)
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è impiegato da Aristofane in riferimento alla φροντίς trovata ma bruscamente abortita, a causa dell’ improvvisa irruzione di Strepsiade alla porta del Pensatoio, dal Discepolo di Socrate nelle Nuvole ([…] φροντίδ’ ἐξήμβλωκας ἐξηυρημένην, v. 137). fr. 342 K.-A. (327 K.) Ἄμφοδον ἐχρῆν αὐτῷ τίθεσθαι τοὔνομα τίθεσθαι Cobet 1873, 312: τεθεῖσθαι Poll. FS: γε κεῖσθαι van Herwerden 1855, 39s.
gli si sarebbe dovuto mettere il nome Anfodo Poll. IX 35–36 (FS, ABL) τὰ δ᾽ ἔνδον ἀγυιαί […] ταῦτα δὲ καὶ ἄμφοδα ἔστιν εὑρεῖν κεκλημένα οὐ παρ᾽ Ἀριστοφάνει μόνον εἰπόντι ἐν Θεσμοφοριαζούσαις ἄμφοδον — τοὔνομα, ἀλλὰ καὶ παρ᾽ Ὑπερείδῃ κτλ. (fr. 137 J.) (ἔστιν — Ὑπερ. om. ABL). le strade interne […] queste è possibile trovarle denominate anche amphoda, non solo in Aristofane, il quale, nelle Tesmoforiazuse, dice: «gli si sarebbe — Anfodo», ma anche in Iperide etc. (fr. 137 J.). Et.gen. AB α 746.25–29 Lasserre–Livadaras s. v. Ἀμφίων (Et.magn. p. 92.24s.) λέγει δὲ Εὐριπίδης ὁ τραγικὸς (fr. 182 Kn.) ἐτυμολογῶν τὸ Ἀμφίων, ὅτι Ἀμφίων ἐκλήθη b παρὰ τὸ ἀμφ᾽ ὁδὸν (παρὰ τὸ παρὰ τὴν ἄμφοδον Et.magn. V : παρὰ τὴν ἄμφοδον Et.gen. A, Et.magn. cett.: corr. Sylburg; in Et.gen. B post παρὰ τ ca. 30 litt. legi nequeunt) ἤγουν περὶ (παρὰ Et.magn.) τὴν ὁδὸν γεννηθῆναι. ὁ δὲ Ἀριστοφάνης (Ἀρίσταρχος Et.gen. A) κωμικευόμενος λέγει ὅτι οὐκοῦν Ἄμφοδος ὤφειλεν κληθῆναι. dice il tragico Euripide (fr. 182 Kn.), etimologizzando Anfione, che si chiamava Anfione da amph’ hodon («lungo la strada»), cioè per il fatto di essere nato per strada. Aristofane, per burla, dice che «perciò lo si sarebbe dovuto chiamare Anfodo».
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Bibliografia
van Leeuwen 1900, 215s., ad Eq. 1257s.; Torchio 2000, 47s.
Contesto di citazione Il frammento è citato da Polluce, insieme a un frammento di una perduta orazione di Iperide (Contro Pasicle, su un’ antidosi), a proposito del termine ἄμφοδα, usato per designare le «strade interne», e dall’ Etymologicum genuinum, che fa riferimento alla boutade paretimologica elaborata da Aristofane a proposito dell’ etimologia del nome Anfione prospettata nell’Antiope di Euripide. Interpretazione Il frammento contiene la parodia di un contesto dell’ Antiope euripidea (fr. 182 Kn.) che forniva l’ etimologia del nome di Anfione, uno dei due protagonisti del dramma (dell’ altro, il fratello gemello Zeto, l’ etimologia è fatta derivare, nel fr. 181 Kn., dal verbo ζητέω, perché la madre Antiope era andata
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alla ricerca di un luogo adatto per partorire90). Dall’ Etymologicum genuinum, che cita in primo luogo il frammento euripideo, siamo informati che il nome Ἀμφίων deriverebbe dalla circostanza che il personaggio in questione fu partorito «lungo la strada», e che Aristofane, per scherzo, dice che avrebbe dovuto perciò chiamarsi Anfodo91. Per la propensione dei tragici, e in particolare di Euripide, a etimologizzare i nomi dei loro personaggi, cfr. infra, ad fr. 373, con i passi e la bibliografia ivi citati. Che la boutade fosse pronunciata dalla persona loquens con una formulazione interrogativa ipotizzava evidentemente Reitzenstein, che alla fine della citazione comica stampa il segno d’ interpunzione interrogativo. Sull’ Antiope di Euripide, rappresentata tra il 411 e il 407 come terminus post quem per la datazione delle Tesmoforiazuse II, vd. supra, ad Datazione. fr. 343 K.-A. (328 K.) σακίον, ἐν οἷσπερ τἀργύριον ταμιεύεται un borsellino, di quelli nei quali si ripongono le monete Poll. X 151–152 (FS, ABCL) καὶ μιξάμενοι δ’ ἂν εἴποιμεν σκεύη, βαλλάντια καὶ βαλλαντίδια (βαλάν. καὶ βαλαν. codd.: καὶ βαλαν. om. FS: corr. Meineke FCG II 1, 434) ὡς ἐν Αἰξὶν (ἐξὶν F: γυναιξὶν S) Εὔπολις (fr. 25). καὶ θυλάκιον δὲ καὶ θυλακίσκον· Ἀριστοφάνης γοῦν ἐν 90
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In TrGrF V I, 282 i due frammenti, pur conservando una numerazione distinta, sono ricondotti da Kannicht a unità sulla base del contesto unitario della narrazione di Hygin. Fab. 7.3s. Qui si racconta che, cercando un posto dove mettere al mondo i suoi figli, Antiope fosse costretta, nell’ imminenza del parto e afflitta dalle doglie, a dare alla luce i due bimbi all’ incrocio tra due strade, e che i pastori, che allevarono i figli di Antiope come fossero propri, li chiamarono l’ uno Zeto (ἀπὸ τοῦ ζητεῖν τόπον) e l’ altro Anfione (ὅτι ἐν διόδῳ ἢ ὅτι ἀμφὶ ὁδὸν αὐτὸν ἔτεκεν, id est quoniam in bivio eum edidit). Kambitzis 1972, 28 prospetta peraltro la possibilità che nella perduta tragedia Euripide etimologizzasse il nome di Anfione ponendolo in relazione con ἀμφ᾽ ὁδὸν (ἰέναι?): una paretimologia che, già coniata da Euripide per Ione (cf. Ion 611), potrebbe essere stata rivitalizzata anche in questo caso: come sembra potersi ricavare già dall’ incipit della medesima testimonianza dell’ Etimologico genuino da cui è tramandato il frammento aristofaneo (α 746.1–3 Lasserre–Livadaras [Et.magn. p. 92.1–3]: […] ἀπὸ τῆς ἀμφὶ προθέσεως καὶ τῆς ἰών μετοχῆς γέγονεν ἀμφιιών, καὶ κατὰ κρᾶσιν τῶν δύο ιι εἰς ι μακρὸν Ἀμφίων βαρυτόνως). Sull’ etimologia e sui differenti impieghi del termine ἄμφοδος (di cui – giova rilevarlo – l’ antroponimo aristofaneo fornisce la prima attestazione di età classica, prima di Hyp. fr. 137 J., nonché l’ unica attestazione poetica) come vocabolo proprio del lessico amministrativo e urbanistico greco, e con particolare riferimento alle sue evoluzioni semantiche dal I sec. d. C. all’ età bizantina, vd. du Bouchet 2004.
Θεσμοφοριάζουσαι βʹ (fr. 343)
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Τριφάλητι τοῦτο ὑποδηλοῖ, ὅταν φῇ (γοῦν — φῇ om. A)· […] (fr. 557). ἐπὶ τοῦ αὐτοῦ δὲ κύστιν ὑείαν (ὑίαν CL: ειαν Α: δαν B) ἐν Ταγηνισταῖς· […] (fr. 518). ἐπὶ τοῦ αὐτοῦ δὲ (κύστιν — δὲ om. FS) καὶ σακίον, ὅταν φῇ ἐν Θεσμοφοριαζούσαις· σακίον (ὅταν — σακίον om. FS) — ταμιεύεται (ὅταν — ταμιεύεται om. A). καὶ πόδα δὲ βαλλαντίου (βαλαντίου codd.: corr. Dindorf 1869, 187) ὁ αὐτὸς εἴρηκεν ἐν Βαβυλωνίοις (fr. 91) (ἐν Βαβ. om. FS). E, mescolando tra loro gli oggetti, potremmo dire ballantia e ballantidia, come (fa) Eupoli nelle Capre (fr. 25). E anche thylakion e thylakiskos: Aristofane nel Triplo fallo, per esempio, intende questo, quando dice: […] (fr. 557). E in riferimento a questo stesso oggetto (Aristofane usa) kystis hyeia nei Friggitori: […] (fr. 518). E anche sakion, quando dice nelle Tesmoforiazuse: «un borsellino — monete». E «piede di borsellino» ha detto lo stesso (Aristofane) nei Babilonesi (fr. 91).
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Bibliografia Brunck 1783, III 250; Porson 1818, 59; Rutherford 1881, 323; Blaydes 1885, 178s.; Masson 1967, 24s.; Burelli 1973, 778; Stone 1981, 248–250; Kaibel ap. Kassel–Austin, PCG III 2, 193; Colvin 1999, 249; Olson 2002, 113, 262s.; Lee 2015, 169s.; Olson 2017, 146; Orth 2017, 522. Contesto di citazione Dopo una lunga disamina dei termini che designano σκεύη (attrezzi) di vario genere, propri di specifici mestieri, alla fine del X libro dell’ Onomasticon, Polluce introduce un’ appendice, che ha inizio al cap. 151, in cui vengono catalogati vocaboli che denominano oggetti che non rientrano facilmente in una delle categorie precedentemente individuate. Tra questi figurano in primo luogo termini che designano vari tipi di borse, sacchetti e borsellini: anzitutto le coppie di vocaboli βαλλάντια / βαλλαντίδια (correzione di Meineke dei tràditi βαλάντια e βαλαντίδια: sulla corretta grafia in -λλ- vd. Olson 2017, 146, ad Eup. fr. 25; Orth 2017, 522, ad Ar. fr. 91; Bagordo 2020, 142 ad fr. 557) e θυλάκιον / θυλακίσκος, a proposito dei quali sono citati, nell’ ordine, Eup. fr. 25 (X 151) e Ar. frr. 557 (X 151) e 91 (X 152), poi la κύστις ὑεία (un borsellino fatto con la vescica di maiale), per la quale è citato Ar. fr. 518 (X 151 [sull’ impiego, singolare nella suddetta accezione, di questa iunctura, vd. Bagordo 2020, 79, ad l.]), e, a seguire, il σακίον, attestato nel presente frammento delle Tesmoforiazuse II (X 152). La rassegna relativa a questa tipologia di oggetti si conclude in X 152 con la menzione dell’ espressione πόδα δὲ βαλλαντίου attestata in Ar. fr. 91. Testo L’ anacoluto del dativo maschile plurale οἷσπερ, che segue al neutro singolare σακίον, cui il pronome relativo si riferisce, è stato variamente interpretato: se per Brunck (1783, III 250) σακίον doveva esser preceduto da un altro sostantivo di significato affine, al quale, come a σακίον, si riferirà il plurale οἷσπερ, sulla base del confronto con Eur. Or. 920 (αὐτουργός, οἵπερ καὶ μόνοι σῴζουσι γῆν, dove la costruzione anacolutica è probabilmente funzionale a dare ulteriore rilievo all’ importante incidentale che segue), Porson 1818, 59, ad Eur. Or. 920 (910
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della sua edizione) preferiva invece presupporre qui un’ espressione brachilogica corrispondente a «Saccus ex eorum genere, in quibus». Analogamente Blaydes 1885, 178s., ad l., che a sua volta parafrasa «sacculus ex iis in quibus», pur non escludendo che il testo tràdito fosse da emendare nella forma σακίον, ἐν ᾧπερ, oppure, in alternativa, nella forma σακίων, ἐν οἷσπερ. Quest’ ultima possibilità è contemplata anche da Kaibel (ap. Kassel–Austin, PCG III 2, 193, ad l.), il quale, in merito alla brachilogia riconosciuta da Porson, annota: «quamquam apud Ar. possunt talia fuisse τῶν δὲ τοιούτων λέγω / σακίον vel potius σακίων». Interpretazione È menzionata una tipologia di borsellino adatto a contenere monete. Poiché gli abiti dei Greci erano sprovvisti di tasche, il danaro veniva infatti portato in borsette e borsellini di varie fogge e dimensioni, laddove gli spiccioli potevano essere temporaneamente messi in bocca: vd. Olson 2002, 113, ad Ar. Ach. 130s. In generale, sulle varie tipologie di borse per il danaro e borsellini portamonete menzionate nelle commedie di Aristofane, vd. Burelli 1973, 778; Stone 1981, 248–250; e sulle attestazioni iconografiche di borse per il danaro e di borselli portamonete come accessori prevalenti nell’ abbigliamento maschile, vd. Lee 2015, 169s. σακίον Il termine è diminutivo di σάκος (o σάκκος), che, equivalente all’ ebraico saq (cf. LXX, Ge. 37.34, 42.25, 35; e vd. Lewy 1895, 87), designa propriamente un sacco grezzo e scuro (cf. Hippon. fr. 58 W.2 = 59 Dg.2; Hdt. IX 80.2; IG II2 73, 108; LXX, Is. 50.3) ricavato dal vello della capra, e, per estensione, anche indumenti e borse fatte di quel materiale, e che, come σακίον, è ben attestato in commedia (in Ar. Ach. 822, Lys. 1211 e anche in Eccl. 502, dove però si riferisce alla barba con cui le donne si sono coperte le guance per camuffarsi da uomini): cf. Poll. VII 191: καὶ σάκον μὲν καὶ σακίον ἡ κωμῳδία. In Ar. Ach. 745 la variante σάκκος, registrata dall’ atticista Frinico come dorica (cf. Ecl. 225 Fischer: Δωριεῖς διὰ τῶν δύο κκ, οἱ δὲ Ἀττικοὶ δι᾽ ἑνός, e vd. Rutherford 1881, 323), è documentata come propria del dialetto megarese (vd. Colvin 1999, 249): qui infatti il Megarese invita le due figlie a infilarsi εἰς τὸν σάκκον per essere vendute al mercato di Diceopoli come porcelline (vd. Olson 2002, 262s.; e in generale, sulla storia del termine, vd. Masson 1967, 24s.). In Men. fr. 631.4 σακίον designa il cencio in cui i Siriaci si avvolgevano come in un cilicio (cf. Joseph. BJ II 237: σάκκους ἀμπεχόμενοι) quando, per devozione alla dea Atargatis, talvolta raffigurata come donna–pesce il cui culto prescriveva perciò di astenersi dal consumo di pesci, si sottoponevano all’ umiliazione di sedere per strada sugli escrementi per espiare il peccato di aver appunto mangiato pesce, nella convinzione che fosse stata lei a comminare loro, per punizione, gonfiori ai piedi e infiammazioni allo stomaco. A questo tipo di pratiche superstiziose si fa genericamente riferimento nel De Superstitione di Plutarco (Superst. 7 [Mor. 168d]), dove è attestata la forma σακκίον (e con riferimento al timore che la dea siriaca infligga sofferenze fisiche a coloro che mangiano sardine e acciughe, il tema è ripreso più avanti [Superst. 17 (Mor. 170c)]): tanto in Menandro quanto in Plutarco il diminutivo avrà evidentemente una valenza dispregiativa.
Θεσμοφοριάζουσαι βʹ (fr. 344)
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fr. 344 K.-A. (329 K.) ἀναβῆναι τὴν γυναῖκα βούλομαι init. 〈ἐγὼ δ᾽〉 e. g. Austin
voglio montare la donna Ps.–Zonar. coll. 195s. Tittmann (Orus fr. A 4 Alpers) ἀναβὰς ἐπὶ τὸν ἵππον ἀπῄει. καὶ πάλιν· ἀναπηδήσας ἐπὶ τὸν ἵππον (Xen. HG IV 1.39). καί· ἀρξαμένους δ᾽ ἀπὸ τοῦ ἀναβαίνειν ἐπὶ τοὺς ἵππους πάντα τὰ ἐν ἱππικῇ μελετᾶν (cf. Xen. Eq.Mag. 6.5). τὸ δ᾽ ἀναβὰς τὸν ἵππον οὐ πάνυ δόκιμον. Ἀριστοφάνης Θεσμοφοριαζούσαις· ἀναβῆναι τὴν γυναῖκα βούλομαι. «montato a cavallo, si allontanava»; e ancora: «balzato a cavallo (Xen. HG IV 1.39)». E: «incominciando dal montare sui cavalli, esercitarsi in tutte le tecniche dell’ arte equestre» (cf. Xen. Eq.Mag. 6.5). Invece la forma «montato il cavallo» non è di certo corretta. Aristofane nelle Tesmoforiazuse: «voglio montare la donna». Moer. α 5 ἀναβῆναι τὴν γυναῖκα βούλομαι Ἀττικοί, ἀναβῆναι ἐπὶ τὴν γυναῖκα Ἕλληνες. «voglio montare la donna» (dicono) gli Attici, «montare sulla donna» (dicono) i Greci.
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Bibliografia Taillardat 1965, 105s.; Henderson 1991, 126s., 248; Campbell 1989; Henderson 1991, 155; Pretagostini 1993; Id. 1997; Corbel–Morana 2012, 49–55; Smith 2013, 78 n. 17. Contesto di citazione Il frammento è citato, e ricondotto alle Tesmoforiazuse di Aristofane, in una glossa atticista dello pseudo-Zonara, derivata da Oro (da cui anche Et.Sym. α 875.18–23 Lasserre–Livadaras), a proposito dell’ impiego transitivo del verbo ἀναβαίνειν nell’ accezione di «montare a cavallo». Rispetto alla costruzione di ἀναβαίνειν con ἐπὶ τὸν ἵππον, documentata da tre loci senofontei non specificati, due dei quali attinti ad litteram da HG IV 1.3992, un altro più sommariamente richiamato93, viene stigmatizzata come non corretta la costruzione transitiva di ἀναβαίνειν con l’ accusativo τὸν ἵππον, a proposito della quale viene
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Questa costruzione intransitiva di ἀναβαίνω è documentata anche da Poll. I 203: εἰ δὲ ἀναβαίνοι ἐπ᾽ αὐτόν (scil. τὸν ἴππον); per quanto la costruzione transitiva sembri documentata dallo stralcio di un suo discorso riportato da Philostr. Vitae sophist. 2.12 (οὐτε δὲ ἵππον ἀναβαίνω Μηδικόν κτλ.). Eq.Mag. 6.5: ἀρξάμενον οὖν δεῖ ἀπὸ τοῦ ἀναβαίνειν ἐπὶ τοὺς ἵππους πάντα τὰ ἐν ἵππικῇ μελετᾶν.
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citato questo frammento comico, in cui però ἀναβῆναι, riferito metaforicamente all’ atto sessuale, ha come oggetto τὴν γυναῖκα. E l’ atticista Meride precisa che la costruzione transitiva ἀναβῆναι τὴν γυναῖκα documentata da questo frammento (che cita integralmente ma senza indicarne né autore né opera) è specifica dell’ attico, laddove la costruzione intransitiva ἀναβῆναι ἐπὶ τὴν γυναῖκα è quella regolarmente impiegata dai Greci. La costruzione di ἀναβῆναι con il semplice accusativo τὸν ἵππον è ammessa invece, come equivalente a ἐπιβῆναι, dall’ Antiatticista (α 88 [p. 80.27s. Bekker] ἀναβῆναι τὸν ἵππον· ἀντὶ τοῦ ἐπιβῆναι. Θεόπομπος ἐν ἐπιτομῇ Ἡροδότου), in nome dell’ uso che ne fa lo storico Teopompo (FGrHist 115 F 1). Per contro, nella sua Raccolta di nomi e verbi degli Attici, Tommaso Magistro precisa: ἀναβαίνω ἵππον, οὐκ ἐπιβαίνω (p. 35.9 Ritschl). Entrambe le costruzioni sono comunque ben attestate anche nei contesti in cui il verbo si riferisce all’ atto della copulazione: vd. infra, ad Interpretazione. Testo L’ integrazione ἐγὼ δ᾽ proposta exempli gratia da Austin (in Kassel-Austin PCG III 2, 194) è funzionale alla ricostruzione di un trimetro giambico completo. Interpretazione Il frammento offre una peculiare declinazione al maschile della più celebre metafora erotica della donna che ‘cavalca’ l’ uomo al pari di un fantino che monta in sella al suo cavallo94. Come si ricava dalla su citata testimonianza dello pseudo-Zonara, di Oro e dell’Etymologicum Symeonis, l’ immagine si fonda sull’ impiego di ἀναβαίνειν nell’ accezione di «montare», in riferimento alla copulazione degli animali. Per questa accezione il verbo è attestato, spesso nei medesimi autori, tanto nella costruzione transitiva (documentata già da un’iscrizione milesia del VI secolo a. C., Milet. I 3.31 (a) 6: οἷς λευκὴ ἔγκυαρ λευκῷ ἀναβεβαμένη) quanto in quella intransitiva: cf. Hdt. I 192.3 (ἵπποι … ἀναβαίνοντες τὰς θηλέας), III 102.3 (ἐπὶ ταύτην δὴ [scil. τὴν κάμηλον] αὐτὸς ἀναβαίνει); Xen. Eq.Mag. 1.4 (ἀναβεβαμένοι ἵπποι); Arist. HA 575a19 (ἐπὶ πολλὰς ἀναβαίνουσι [sogg. βοῦς]); Luc. Lex. [46] 19 (οὐδ᾽ ἀναβαίνει αὐτήν [scil. τὴν γυναῖκα], espressione usata qui dal protagonista del dialogo, del quale si sta parodiando il fanatico atticismo: vd. Baldwin 1973, 37s.), Asin. [39] 51 (ἠπόρουν ὅπως ἀναβήσομαι τὴν ἄνθρωπον: detto dell’ accoppiamento di una donna con Lucio trasformato in asino), 52 (κἀν … ἐπὶ γυναῖκα ἀναβήσεται), Eunuch. [47] 13 (τῶν τὰς ἵππους ἀναβαινόντων ὄνων). Analoga valenza eufemistica hanno anche altri composti di βαίνω: cf. e. g. Ph.Jud. Spec.leg. III 44 (ὡς ἐπὶ ζῷον συγγενὲς ἐπιβαίνειν [a proposito del toro che si accoppia con Pasifae]; e poco più avanti, al cap. 47, con il medesimo verbo che regge il dativo, ἵνα ταῖς θηλείαις [sogg. κήλωνες] ἐπιβαίνωσι πώλοις). Per questo 94
Su questa immagine, che, a partire da Anacreonte (PMG 417 = fr. 78 Gentili) e da Teognide (257–260), ha avuto fortuna in tutta la poesia amorosa greca e latina (per limitarsi alla commedia, cf. Ar. V. 500–502; Pax 900 con Olson 2002, 242, ad l.; Lys. 59s., 678; Th. 153 con Austin–Olson 2004, 107, ad l.; Pl.Com. 188.17s., con Pirrotta 2009, 351s. ad l.; e forse anche Anaxil. fr. 22.10), vd. Taillardat 1965, 105s.; Henderson 1991, 126s., 248; Pretagostini 1993; Id. 1997; Corbel–Morana 2012, 49–55.
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impiego eufemistico di βαίνω (e dei suoi composti) in commedia cf. Eup. fr. 176.2 (con Napolitano 2012, 165s.); Pherecr. fr. 138.4 (con Franchini 2020, 197), e, più in generale, sugli eufemismi sessuali desunti dal vocabolario equestre vd. Campbell 1989; Henderson 1991, 155; Smith 2013, 78 n. 17; Caroli 2017, 381–382.
fr. 345 K.-A. (330 K.) τὸ χαλκίον θερμαίνεται θερμαίνεται F: θερμαίνετε Jungermann ap. Lederlin–Hemsterhuis 1706, 1040 n. 28
il calderone si va riscaldando Poll. IX 69–70 (F) ἐγὼ δὲ τὸ ἐν ταῖς Θεσμοφοριαζούσαις Ἀριστοφάνους εἰρημένον τὸ χαλκίον θερμαίνεται οὕτω πως ἤκουον ὡς εἰς πότον εὐπρεπιζομένων τῶν γυναικῶν, ταὐτὸν δὲ τοῦτο καὶ ἐν τοῖς Εὐπόλιδος Δήμοις ἔστιν εἰρημένον (fr. 99.41s.). ἀλλ᾽ ὅτι οὐδὲ τοῦτο ἀποχρῶν ἐστὶν εἰς πίστιν τῆς τοῦ θερμοῦ πόσεως, ὑπηναντιοῦτό μοι τὸ ἐν τοῖς Ἀριστοφάνους Γεωργοῖς σαφῶς ἐπὶ λουτροῦ εἰρημένον […] (fr. 109). τουτὶ μέντοι τὸ παρὰ τῷ Φιλήμονι […] (fr. 67.3) συνταττόμενον τῷ πιεῖν ἄντικρυς δηλοῖ τὴν τοῦ θερμοῦ πόσιν· καὶ γὰρ τὸ λεπτὸν τοῦ νομίσματος οὐ λουτροῦ ἐστὶν ἀλλὰ πότου μέτρον. Io, del resto, ho inteso la frase, nelle Tesmoforiazuse di Aristofane, «il calderone si va riscaldando» all’ incirca così: (detta) cioè delle donne che stanno facendo i preparativi per la bevuta. La medesima espressione (è usata) anche nei Demi di Eupoli (fr. 99.41s.). Ma (a dimostrazione del fatto) che neppure questo (argomento) è sufficiente come prova che si tratti della bevuta calda, mi parlava, per contro, quell’ espressione dei Contadini di Aristofane detta chiaramente a proposito del bagno: […] (fr. 109). Di certo questa espressione qui in Filemone […] (fr. 67.3), riferita al bere, chiaramente indica la bevuta calda. Infatti il piccolo taglio della moneta non è misura (dell’ acqua) del bagno ma (di quella) della bevuta.
Metro Porzione di trimetro (o, a parere di Kock CAF I, 479, inizio di un tetrametro) giambico trimetro giambico: (xlwl) wlwl llwl oppure wlwl llwl (xlwu) tetrametro giambico catalettico: wlwl llwl (xlkl wlu) Bibliografia Fritzsche 1838, 598; Kock CAF I, 479; van Leeuwen 1900, 79; Ziehen 1939, 616.45; Page 1942, 211; Edmonds 1957, 359; Amyx 1958, 218s.; Ginouvès 1962, 47 n. 10, 205 n. 4; Kaibel ap. Kassel–Austin PCG III 2, 82; Theodoridis 1976, 69 n. 19; Storey 2003, 12; Imperio 2009, 207s.; Olson 2014, 180s.; Pellegrino 2015, 88; Olson 2016, 404–407; Id. 2017, 346; Bagordo 2022, 24. Contesto di citazione Nel contesto di un’ ampia discussione sulla questione se gli antichi facessero o meno uso di acqua calda, e, se sì, per quali scopi, Polluce afferma che l’ espressione τὸ χαλκίον θερμαίνεται, che attribuisce alle Tesmoforiazuse
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di Aristofane, è detta delle donne che si apprestano alla bevuta e che la medesima espressione è impiegata nei Demi di Eupoli. Subito dopo, il lessicografo cita un frammento dei Contadini di Aristofane in cui il χαλκίον designa invece il recipiente per l’ acqua del bagno. Il contesto eupolideo dei Demi, cui Polluce fa riferimento senza citarlo, corrisponde ai vv. 41s. del fr. 99, lacunosamente restituiti dal fr. 2 recto di PCair. 43227 = TM 61596 [CGFP 92]: qui τὸ χαλκίον / θέρμαινέ θ’ ἡμῖν κτλ. è detto da un personaggio (generalmente identificato con Aristide) che chiede a un altro personaggio (dai più identificato con Pironide, il padrone della casa in cui dovevano appalesarsi gli spiriti dei quattro grandi statisti ateniesi richiamati dall’ Ade) di riscaldare il calderone con l’ acqua e di far preparare delle focacce. La ragione del ricorso all’ acqua calda nei Demi di Eupoli non risulta immediatamente perspicua dalla ricostruzione del frammento di dialogo restituito dal papiro cairense. Polluce sembra individuare tale motivazione nella θερμοποσία, sia perché fa riferimento all’ espressione citata dalle Tesmoforiazuse seconde come equivalente a quella impiegata nel contesto dei Demi, sia perché passa subito dopo (IX 70) a citare l’ espressione χαλκοῦ θερμὸν ἦν, tratta da Philem. fr. 67.3 (già peraltro citato in IX 67, dove, a proposito dell’ equivalenza dell’ unità di misura di quattro calchi con un semiobolo, sono riportati estesamente i tre versi di questo frammento). Si tratta di un’ espressione che, a parere del lessicografo, sarebbe da ricondurre con certezza all’ assunzione di una bevanda calda (συνταττόμενον τῷ πιεῖν ἄντικρυς δηλοῖ τὴν τοῦ θερμοῦ πόσιν), posto che il ‘calco’ si riferirebbe all’ unità di misura che quantificava l’ acqua della bevuta e non a quella di acqua utilizzata per il bagno (καὶ γὰρ τὸ λεπτὸν τοῦ νομίσματος οὐ λουτροῦ ἐστὶν ἀλλὰ πότου μέτρον). Oltre a essere restituito dal papiro, il citato contesto dei Demi è riportato in forma più estesa (τὸ χαλκίον / θέρμαινέ θ’ ἡμῖν καὶ θύη πέττειν τινὰ / κέλευ’, ἵνα σπλάγχνοισι συγγενώμεθα, fr. 99.41–43) anche in Ath. III 123a (il passo potrebbe dipendere dalla medesima fonte di Polluce), dal ‘deipnosofista’ Cinulco, prima di Antiph. frr. 26 e 175. Il dibattito era volto a stabilire se gli antichi, oltre a far uso di acqua molto fredda nei loro brindisi, bevessero o meno anche acqua calda nei banchetti (εἰ ἔπινον θερμὸν ὕδωρ ἐν ταῖς εὐωχίαις οἱ ἀρχαῖοι); inoltre, con particolare riferimento al passo eupolideo, si desiderava documentare più in generale il fatto che gli antichi conoscessero effettivamente l’ uso dell’ acqua calda (ὅτι γὰρ οἴδασι θερμὸν ὕδωρ Εὔπολις μὲν ἐν Δήμοις παρίστησι). Dai due testimoni indiretti, in particolare da Poll. IX 69, parrebbe dunque doversi ricavare che in Eup. fr. 99.41s. venisse sollecitata la preparazione di una bevanda calda. È stato tuttavia da più parti ipotizzato che il χαλκίον con l’ acqua calda potesse essere richiesto dalla persona loquens per la cottura di carni nell’ ambito di una scena sacrificale o, in alternativa, per un bagno caldo, «after which he and the other statesmen will return to the stage in fresh garments, like Demos at the end of Aristophanes’ Knights or Ploutos after his vision has been restored in the second half of Aristophanes’ Wealth» (Olson 2017, 346 con n. 216; e per questa interpretazione, vd. già van Leeuwen 1900, 79, ad Eq. 410; Ziehen 1939, 616.45; Page 1942, 211; Edmonds 1957, 359; Storey 2003, 12). Un siffatto impiego è peraltro sicuro in un altro frammento di Eupoli, tratto
Θεσμοφοριάζουσαι βʹ (fr. 345)
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dai Tassiarchi, che Polluce cita, in X 63, nel contesto di un breve elenco di utensili da bagno che include anche il λέβης (un calderone) e il τρίπους ἐμπυριβήτης (un tripode posto sul fuoco). Qui il χαλκίον è, con il πύελος (la vasca da bagno), uno dei due accessori che qualcuno, probabilmente un soldato, reca con sé, verosimilmente in un luogo improprio quale può essere un accampamento militare, guadagnandosi così l’ accusa di somigliare a una puerpera proveniente dalla Ionia che pretende di fare il soldato (ὅστις πύελον ἥκεις ἔχων καὶ χαλκίον / ὥσπερ λεχὼ στρατιῶτις ἐξ Ἰωνίας: fr. 272, su cui vd Olson 2016, 404–407). Parimenti discusso è l’ impiego del χαλκίον nel frammento dei Contadini di Aristofane, citato subito dopo da Polluce (ἐξ ἄστεως νῦν εἰς ἀγρὸν χωρῶμεν ὡς πάλαι δὴ / ἡμᾶς ἔδει τῷ χαλκίῳ † ἐν λουσαμένῳ † σχολάζειν, fr. 109), la cui paradosis risulta problematica sia per il senso sia per il metro (vd. Imperio 2009, 207s., e ora Bagordo 2022, 24, ad l.): al netto della corruttela che compromette proprio il punto cruciale del frammento, alla luce dell’ indicazione del lessicografo parrebbe comunque che i coreuti, preparandosi a tornare in campagna una volta finita la guerra, esultino dinanzi alla prospettiva di godere di un lungo bagno ristoratore in una vasca. E tuttavia già Fritzsche 1838, 598 ipotizzava un fraintendimento da parte di Polluce: «Ex urbe, inquit Chorus rusticorum, nunc rus eamus: jam dudum enim oportebat nos illic lotos caldae (vel vino) operam dare, id est bibere, vel jam appotos esse ac poscere majoribus poculis». Analogamente, Kaibel (ap. Kassel–Austin PCG III 2, 82) attribuisce l’ errore alla fonte di Polluce: «erravit sine dubio Pollucis auctor: neque enim labra aenea agricolas illos habuisse credibile est nec dici potest πυέλῳ λοῦσθαι. Videtur poeta dixisse σχολάζειν τῷ χαλκίῳ i. e. τῇ θερμοποσίᾳ» (ma in favore della paternità pollucea di questo contesto, vd. Theodoridis 1976, 69 n. 19). Per converso, non si può escludere che se fraintendimento ci fu, esso si annidi nella precedente informazione fornita da Polluce (o dalla sua fonte): nel qual caso l’ impiego del χαλκίον come utensile da bagno avrà riguardato tanto il contesto, da Polluce soltanto evocato, dei Demi di Eupoli quanto quello, da lui citato, dei Contadini di Aristofane. Come rileva del resto Pellegrino 2015, 88, «un bagno rigenerante è evocato come momento di assoluto piacere dopo gli affanni della guerra anche nel fr. 111 dei Contadini (v. 3)». Interpretazione Non è evidentemente possibile ricostruire il contesto gastronomico–simposiale nel quale le donne riscaldavano il χαλκίον per apprestarsi alla θερμοποσία. χαλκίον Il termine χαλκίον, assente dalla poesia elevata, e attestato, al di fuori della commedia, per la prima volta nelle iscrizioni (cf e. g. IG I3 421.96; 510.1; 1456.14) e nella prosa di IV secolo (cf. Xen. Oec. 8.19; Pl. Cra. 430a, Prt. 329a), designa un recipiente di bronzo di qualunque tipo. Gli impieghi erano molteplici: poteva ad esempio trattarsi di un utensile da cucina (cf. Ar. fr. 220; Poll. VI 88), o del calderone in cui si riscaldava l’ acqua per il bagno (cf. Poll. IX 69, a proposito di Ar. fr. 109 [ma vd. supra, ad Contesto di citazione], e X 63, con la citazione di Eup. fr. 272; e vd. Ginouvès 1962, 47 n. 10, 205 n. 4), con riferimento a una
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pratica, quella della θερμολουσία, generalmente stigmatizzata come un lusso, segno di edonistica degenerazione dei costumi e di corruzione morale, nell’ archaia (cf. Ar. Nu. 1044–1046; Eup. fr. 272; Hermipp. fr. 68; fr. com. adesp. *555 e vd. Ehrenberg 1951, 104s.; Ginouvès 1962, 216s.; Olson 2016, 405s., ad Eup. fr. 272), ma, sorprendentemente, non nella mesē né nella nea, dove questo genere di condanna risulta assente: cf. Amphis fr. 7, tratto da una commedia intitolata Βαλανεῖον, con Papachrysostomou 2016, 56s. Il termine poteva altresì designare un qualunque contenitore di bronzo, a uso di contenitore per alimenti (alle olive è collegato in Eup. fr. 415, su cui vd. Olson 2014, 180s.) o funzionale a una particolare modalità di gioco del cottabo (ἐν λεκάνῃ) cui sembra far riferimento il fr. 231 dei Banchettanti aristofanei (ma vd. Kassel–Austin PCG III 2, 139, ad l.), o anche l’elmo nascosto sotto la veste dalla Donna III di Ar. Lys. 749, che vuol sembrare incinta. Spesso, come nel presente frammento delle Tesmoforiazuse e nel citato frammento dei Demi di Eupoli (99.41s.), si dice che il χαλκίον è riscaldato sul fuoco, come sineddoche per l’acqua riscaldata al suo interno (cf. Antiatt. θ 12 [p. 99.21s. Bekker]: θερμαίνεσθαι· οὐ μόνον τὸ ὕδωρ, ἀλλὰ καὶ τὸ λεβήτιον ἢ χαλκίον), o lo si defini3 sce θερμαντήριον, appunto in quanto adatto a riscaldare l’acqua: cf. IG I 421.96 (χα̣ ̣ λκίον θερμαντέρι[ον]), 1456.14s. (χαλκίον θερμαντήριον), e vd. Amyx 1958, 218s. con n. 7. Per il controverso impiego dell’acqua riscaldata nel χαλκίον richiesto dalla persona loquens di Eup. fr. 99.41s., vd. supra, ad Contesto di citazione.
fr. 346 K.-A. (332. 690 K.) ἅμα δ᾽ ἠπίαλος πυρετοῦ πρόδρομος ὁ δ᾽ ἔχων θέρμαν καὶ πῦρ ἧκεν 1 δ᾽ edd.: δὲ Σ Ar. πῦρ εἴρηκεν A
2 θέρμαν Poll. SA: θέρμα F: θέρμην Bergk
πῦρ ἧκεν Poll. FS:
e insieme un brivido che preannuncia la febbre e quello sopraggiunse, affetto da accaloramento e febbre [1] Σ (vet Tr) (VΓ LhAld) Ar. V. 1038a Koster ἠπίαλος λέγεται (λέγ. om. VΓAld) τὸ πρὸ (πρὸ om. Ald) τοῦ πυρετοῦ κρύος. Ἀριστοφάνης Νεφέλαις (fr. 399). καὶ Θεσμοφοριαζούσαις· ἅμα — πρόδρομος (Ἀρ. — πρόδρ. om. Lh). ēpialos: è detto il brivido che precede la febbre. Aristofane (usa il termine) nelle Nuvole (fr. 399). E nelle Tesmoforiazuse: «e insieme — febbre». [2] Poll. IV 186 (FS, A) θέρμα καὶ πῦρ Ἀριστοφάνης ἔφη (ἔφη om. FS)· ὁ — ἧκεν. quanto al calore febbrile e alla febbre, Aristofane diceva così: «e quello — febbre».
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Metro Anapesti
rl rl rl rl rl ll ll ll
Bibliografia Fritzsche 1838, 621; Deichgräber 1956; Gelzer 1970, 1415.63– 1416.55; Cassio 1987, 5–11; Gil 1989, 84s.; Carrière 2000, 219s.; Torchio 2000, 48–51, 63; Butrica 2001, 47–50; Imperio 2004, 72–74, 211; Karachalios 2006, 6–8; Canfora 2017, 166–179. Contesto di citazione Il primo verso di questo frammento è citato dallo scolio ad Ar. V. 1038 a proposito dell’ espressione allegorica (sulla cui interpretazione vd. infra) τοῖς ἠπιάλοις … καὶ τοῖς πυρετοῖσιν; il secondo, da Polluce in un’ ampia sezione dedicata alla definizione di svariate patologie da raffreddamento. Interpretazione Si tratta di due brevi sequenze anapestiche, conservate rispettivamente da uno scolio al v. 1038 delle Vespe e da Poll. IV 186, non consecutive, ma ricondotte da Kassel e Austin, sulla scia di Fritzsche (1838, 621), al medesimo contesto, probabilmente parabatico (della parabasi ‘vera e propria’, ossia di quella sezione, presente nella ‘prima parabasi’, dei cosiddetti ‘anapesti’)95, della perduta commedia, nelle quali si accenna ai brividi e all’ accaloramento quali sintomi di uno stato febbrile. Il collegamento è stato ispirato da un passo del libro I del Περὶ τῶν ἰατρικῶν ὀνομάτων, opera non conservata in greco ma nella traduzione araba di Hubaysh al–A‘sam (fondata sulla versione siriaca del suo maestro Hunayn ibn Ishaq), risalente alla seconda metà del IX secolo d. C.96, in cui Galeno, polemiz95 96
Per una ricognizione delle testimonianze erudite relative alla terminologia antica sulla parabasi, vd. Imperio 2004, 3–11. Questa preziosa testimonianza, studiata da Deichgräber 1956, in Kassel–Austin PCG III 2, 194–196, è riportata nella versione tedesca di Meyerhof–Schacht 1931. Del passo sono poi apparse traduzioni in inglese, dall’ arabo, a cura di R. Schneller, in Austin– Olson 2004, lxxxis., e in italiano, dalla versione tedesca di Meyerhof–Schacht, a cura di Canfora 2017, 168s., dalla quale è stralciata, con alcune modifiche e qualche integrazione, la porzione di traduzione che riporto qui di seguito: «Sulla febbre: “Noi ricaviamo il significato di questo termine nella lingua dei Greci dall’ indicazione della parola stessa: dal fatto cioè che, etimologicamente, essa è ricavata dalla parola fuoco. Il significato cui rinvia la parola fuoco è che esso consiste in una forte vampata. Esiste un uso di questa parola da parte delle persone comuni: io ricavo il suo significato dal fatto che uno dice di essere affetto da febbre quando è in preda a vampate infuocate di calore. Esiste un uso di questa parola da parte degli (autori) antichi, e in tal caso noi ricaviamo il suo significato nel modo seguente: ponendo attenzione a quelli degli (autori) antichi che hanno adoperato tale termine. […] E se tu dici: “quali degli (autori) antichi dovremmo seguire?”, io ti dirò: uno dei molti (autori) antichi che non praticarono né la medicina né la filosofia, o altri campi del genere; poiché essi ricavano il significato dei termini soltanto dal modo in cui la gente comune li impiegava in quel tempo. Se vuoi, io posso citare il primo di loro, il commediografo Aristofane. Si tratta di un uomo il quale sicuramente si sforzava affinché le parole che adoperava nel suo
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zando col purismo lessicale degli atticisti97, si soffermava sull’ esatto significato del vocabolo πυρετός («febbre»), alla cui etimologia (da πῦρ, «fuoco») faceva seguire la parafrasi di un passo aristofaneo, in cui Aristofane, rivolgendosi al vasto pubblico del teatro ateniese98, e per ciò stesso aduso a un lessico immediatamente comprensibile e scevro da fraintendimenti, si scusava per eventuali difetti di una sua commedia, causati da una malattia che, manifestatasi con una forte raucedine99 accompagnata da brividi di freddo (ἠπίαλος) e febbre (πυρετός, appunto), lo aveva colpito nei quattro mesi precedenti alla rappresentazione – «mesi vitali per la composizione di una commedia» (Cassio 1987, 9) – e lo aveva costretto a bere acqua e a coprirsi con una σισύρα, un rozzo mantello di contadino fatto di pelli di animale (vd. Cassio 1987, 11). ἠπίαλος … πυρετοῦ Atti a designare propriamente l’ uno (ἠπίαλος) il brivido che precede la febbre (Hsch. η 687 e 688; Gal. Diff.Febr. II 6 [VII, p. 347 Kühn], e cf. Ar. fr. *322.11 con nota marginale), l’ altro (πυρετός) la febbre vera e propria (sinonimo di θέρμα, θέρμη [cf. Hsch. θ 355; Tim.Gramm. Lex. p. 139 Ruhnken; Phryn. Ecl. 304 Fischer] e di πῦρ [cf. Erot. π 11]), i due termini saranno verosimilmente impiegati qui con una valenza metaforica; ma è impossibile decodificare con certezza le circostanze cui il commediografo intendeva alludere: a parere di Gelzer
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discorso – mentre era in teatro, cioè in un luogo dove si raccoglieva una grande massa di persone – non apparissero altrimenti da come egli sapeva che tutti le avrebbero intese. Io dico dunque che questo Aristofane, stando una volta davanti al pubblico e desiderando che la sua poesia venisse accolta bene, chiese ad un gruppo di Ateniesi se essi potevano lasciargli passare un errore ove lo ipotizzassero nel suo discorso, magari disapprovandolo. Giacché – disse Aristofane – egli era da quattro mesi tormentato da una cronica raucedine, dalla malattia denominata ἠπίαλος e dalla febbre. Dopo di che egli afferma, a proposito della malattia chiamata ἠπίαλος, che essa era stata provocata da una grande infreddatura che l’ aveva colpito; che a seguito di ciò una febbre lo aveva assalito; che la febbre in nulla è simile al freddo, anzi per sua stessa natura si pone agli antipodi del freddo. E spiegava: a causa del freddo aveva desiderato di coprirsi con la lana perché voleva scaldarsi mentre la febbre lo attaccava con vampate infuocate e lo spingeva a bere acqua […]». Su questo passo come spia della speciale attenzione di Galeno verso il linguaggio medico della commedia attica, vd. ora Nutton 2009, 30s.; e più in generale sul suo controverso rapporto con la cultura linguistica del cosiddetto atticismo, Manetti 2009 con ulteriore bibliografia. Dopo averne fatto la parafrasi, Galeno citava i versi di Aristofane che purtroppo Hunayn non cita, spiegando in due riprese di essere impossibilitato a farlo e per lo stato lacunoso del manoscritto greco da cui ha elaborato la sua traduzione siriaca e per la propria scarsa dimestichezza con la lingua comica. La parafrasi comunque doveva essere abbastanza fedele al testo, dal momento che Hunayn, le cui notazioni sono parafrasate dal traduttore arabo Hubaysh, afferma, tra l’ altro, di non avervi riscontrato nulla di sostanzialmente diverso rispetto a quanto espresso già da Galeno (vd. Imperio 2004, 72s. n. 172; Canfora 2017, 170). Forse βράγχος nell’ originale: vd. Cassio 1987, 9.
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1970, 1416, con brividi e febbre Aristofane si riferiva a non meglio identificati personaggi a lui ostili, in particolare a uomini politici e/o a impedimenti, che avevano ‘imbavagliato’ la commedia limitandone la libertà di espressione, costringendo il commediografo a coprirsi con un mantello e a bere acqua, ossia, fuor di metafora, a stare in guardia e ad astenersi dagli attacchi personali (così anche Gil 1989, 84s.). L’ ipotesi si fonda sul confronto con i vv. 1037–1042 delle Vespe, tratti dagli ‘anapesti’ della parabasi, nei quali, facendo riferimento a una non meglio precisata «commedia dell’ anno scorso» (τὴν πέρυσιν κωμῳδίαν, v. 1038), identificata in genere con le Navi mercantili, o, in alternativa, con le Nuvole Ι (vd. Imperio 2004, 293s.), il poeta, per bocca del corifeo, si vanta, tra l’ altro, di aver combattuto «contro i brividi (τοῖς ἠπιάλοις) e le febbri (τοῖς πυρετοῖσιν)»: espressioni con le quali, com’ è confermato dallo scoliaste e dall’ autore dell’ anonima Vita Aristophanis (Proleg. de com. XXVIII 29s., p. 134 Koster = Ar. test. 1.27s.), intendeva riferirsi a mestatori politici e a sicofanti (vd. Imperio 2004, 292). Lo scolio ad Ar. V. 1038a, che tramanda il primo dei due versi ricondotti a questo contesto delle perdute Tesmoforiazuse, informa infatti che il termine ἠπίαλος è attestato, per designare «il brivido precursore della febbre», oltre che nelle Tesmoforiazuse II, anche nelle Nuvole I (fr. 399). E un ulteriore scolio a questo verso delle Vespe (Σ [vet] Ar. V. 1038c Koster = Nu. I test. *x) identifica ἠπίαλοι e πυρετοί nei filosofi dileggiati nelle Nuvole: una circostanza che ha indotto Deichgräber (1956, 20) a ipotizzare che l’ immagine fosse stata utilizzata per «die jungen Leute mit ihren neumodischen Ideen» che sono il bersaglio privilegiato della dionisiaca commedia del 423 a. C. (ipotesi per la quale sembra propendere ora Torchio 2021, 53). All’ipotesi di Gelzer si riallaccia Butrica (2001, 48), il quale individua una trama di precisi richiami allusivi tra i riferimenti a brividi e febbri presenti nelle tre commedie, e – sulla base della testimonianza della Vita, dove si distingue una prima accusa di ξενία (Ar. test. 1.19 = Babylonioi test. v, che dà semplicemente in forma più breve le informazioni presenti nel celebre scolio ad Ar. Ach. 378 [sulla cui natura almeno in parte autoschediastica vd. Orth 2017, 382–388, ad l.]) di cui il commediografo sarebbe stato fatto oggetto da parte di Cleone a seguito della rappresentazione dei Babilonesi (cf. Ar. Ach. 377–382), da due successivi attacchi a opera di sicofanti (Ar. test. 1.27), in occasione dei quali sarebbe riuscito a riscattarsi dalla precedente accusa e a vedere definitivamente riconosciuta la sua piena cittadinanza ateniese – ravvisa nella patologia della «raucedine», evocata da Galeno nella parafrasi del passo aristofaneo, un’ allusione a una delle azioni giudiziarie condotte contro di lui dal potente demagogo a seguito della rappresentazione dei Babilonesi, ossia verosimilmente alla γραφὴ ξενίας; e nella conseguente sintomatologia dei brividi e della febbre, di seguito richiamata dallo stesso Galeno, ma comunque per noi attestata dallo scolio a V. 1038, che documenta l’ impiego dei due vocaboli ἠπίαλος e πυρετός nelle perdute Tesmoforiazuse, un’ allusione a due successive persecuzioni messe in atto da non altrimenti identificati sicofanti: appunto le due circostanze a suo parere già rievocate in V. 1038 e, presumibilmente, anche nella prima redazione delle Nuvole. Una siffatta interpretazione appare tuttavia incompatibile con
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lo specifico riferimento temporale contenuto nella testimonianza di Galeno, il quale, parafrasando il contesto aristofaneo per noi perduto, indica con precisione nei quattro mesi precedenti, rispetto alla mise en scène della commedia perduta, l’ iniziale manifestarsi della raucedine e lo svilupparsi della conseguente patologia da raffreddamento (brividi e febbre) che avrebbero compromesso l’ attività del commediografo determinando quegli eventuali «errori» per i quali egli chiedeva venia al pubblico: incompatibile con il ben più ampio iato cronologico che separa la rappresentazione dei Babilonesi, databili con certezza (sulla base di Ar. Ach. 378 e soprattutto di Ar. Babyl. test. ii) al 427 / 26 (vd. Orth 2017, 376s. e 378s.). Più prudente, in tal senso, l’ interpretazione di Cassio (1987, 5–11), il quale si limita a decodificare la malattia come «una trovata funzionale ad una operazione di captatio benevolentiae»: e affermando di essere stato spinto dalla febbre a bere acqua e dai brividi a coprirsi di lana, Aristofane avrà voluto metaforicamente avvertire il suo pubblico delle eventuali défaillances della commedia, dal momento che nel lessico letterario della commedia attica antica ‘bere acqua’ è una metafora tradizionale per ‘fare cattiva poesia’ (cf. soprattutto Cratin. fr. 203, e vd., tra altri, Imperio 2004, 210–213; Bakola 2010, 16–24, 56s.; Biles 2011, 138–144; Wright 2012, 125–128, con ulteriore bibliografia), e verosimilmente anche ‘coprirsi di lana’ è metafora del ‘fare poesia grossolana’. A sostegno di questa interpretazione, Cassio (1987, 11) richiama la già citata glossa esichiana η 687, da cui si ricava che ἠπίαλοι venivano definiti anche gli ψυχροί, le persone ‘frigide’: aggettivo frequente nella poesia comica per designare poesia di bassa qualità (sulla ψυχρότης come categoria della critica letteraria consolidatasi proprio a partire dalla commedia attica del V secolo a. C., vd., tra altri, Chirico 1990, 110–112; Mastromarco 1994; Austin–Olson 2004, 114, ad Ar. Th. 168–170, con i passi e la bibliografia ivi citata, e Wright 2012, 108–110, con ulteriore bibliografia). E giova in proposito rimarcare che la medesima associazione tra ‘frigidità’, ‘brividi’ e scarso pregio di un prodotto artistico sia sancita, in un frammento anepigrafo del commediografo Frinico, a proposito del musicista Lampro (verosimilmente il maestro di musica di Sofocle), definito, tra l’ altro, ἀηδόνων ἠπίαλος (fr. 74). Radicalmente diversa l’ interpretazione di Canfora 2017, 171–174, a parere del quale la patologia da raffreddamento evocata qui da Aristofane alluderebbe a una νόσος politica: più precisamente, i «quattro mesi» di febbre cui Aristofane fa qui riferimento alluderebbero al clima di στάσις alimentatosi ad Atene nel torno di tempo compreso tra i mesi di gennaio e aprile del 411 nei quali Pisandro preparò la sua seconda venuta ad Atene, con la conseguente cacciata della Bulḗ da parte dei Quattrocento (Th. VIII 65–66). In quel torno di tempo, appunto, Aristofane avrebbe lavorato alla composizione delle perdute Tesmoforiazuse (di cui la omonima commedia superstite costituirebbe il rifacimento), che non sarebbero però mai andate in scena (ma sulla questione vd. supra, ad Datazione).
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fr. 347 K.-A. (333 K.) ἦ μέγα τι βρῶμ᾽ ἔτ᾽ ἦν τρυγῳδοποιομουσική, ἡνίκα Κράτητί τε τάριχος ἐλεφάντινον λαμπρὸν ἐνομίζετ᾽ ἀπόνως παρακεκλεμμένον ἄλλα τε τοιαῦθ᾽ ἕτερα μυρί᾽ ἐκιχλίζετο 1 ἦ μέγα τι βρῶμ᾽ A: ἦν μέγα τι χρῆμ᾽ Elmsley 1830, 58 ἔτ᾽ ἦν Kassel: ἐστὶ ἡ A: ἔτι Elmsley: ἔνι (τρυγῳδοποιομουσικῇ) Porson 1815, 236: ἔφυ Meineke 1867, 55: ἐστὶν ἡ def. Erfurdt 1812, 449 probante Hermann 1842, 510 2 ἡνίκα Porson, Elmsley: †ηνι† A Κράτητί τε A: Κράτης τε τὸ Blaydes 1885, 423: Κράτης ποτὲ Kock: Κράτης τό τε Κaibel (Κράτης iam Coddaeus) 3 ἐνομίζετ᾽ Bergk: ἐνόμιζεν A: ἐκομίζετ᾽ dubitanter Blaydes: ἐκόμιζεν Casaubon παρακεκλεμμένον dubitanter Kaibel: παρακεκλημένον A: παραβεβλημένον Musurus: παρατετμημένον Kock: παρ᾽ ἡμῖν κλέος vel γέλωτ᾽ dubitanter van Leeuwen 1900, 103
Di certo un gran boccone era ancora l’ arte comica al tempo in cui da Cratete la salamoia eburnea, plagiata senza sforzo, era ritenuta brillante, e altre innumerevoli sciocchezze simili facevano sghignazzare Ath. III 117c (A, BQPM) ὅτι δὲ διαβόητον ἦν τὸ τοῦ Κράτητος (κρατῆτος M: κρατῆρος A) ἐλεφάντινον τάριχος (fr. 32.1) μαρτυρεῖ Ἀριστοφάνης ἐν Θεσμοφοριαζούσαις διὰ τούτων· ἦ — ἐκιχλίζετο. che la salamoia d’ elefante di Cratete (fr. 32.1) fosse rinomata lo testimonia Aristofane nelle Tesmoforiazuse con questi versi: «Di certo — facevano sghignazzare».
Metro Quattro tetrametri cretico–peonici (per cui cf. Heph. Ench. 13.2, p. 40.14 Consbruch), il primo dei quali con secondo metron trocaico100.
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Attenendosi al testo tràdito, il primo verso si configurerebbe come un tetrametro trocaico–peonico, con paeI al terzo metron101 e, nel primo trocheo, soluzione del 100
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Sul tetrametro cretico–peonico in generale (anche con riferimento al ricorrere in esso di particolari incisioni), e sul suo impiego in questo frammento aristofaneo, vd. Giesemann 1892, 23ss.; White 1912, 82s., 192s.; Koster 1962, 262; Dain 1965, 75s., 144s.; Sicking 1993, 115s.; Parker 1997, 45; Gentili–Lomiento, 2003, 225, dove tuttavia è attribuita al fr. 347 la descrizione del fr. 348. Con correptio di οι in τρυγῳδοποιομουσική, consueta nei composti di ποιέω. Se la correptio non fosse operante, saremmo in presenza di un tetrametro trocaico catalettico
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secondo longum a produrre un incipit assimilabile agli esordi dei successivi tetrametri peonici. Il problematico presente ἐστί (vd. infra) trasmesso a v. 1 ha tuttavia indotto a interventi correttivi che ne hanno modificato, pur non pesantemente, anche l’ andamento metrico. Le proposte avanzate da Elmsley e Porson restituiscono il verso al ritmo uniformemente cretico–peonico dei seguenti tetrametri. La congettura di Kassel ἔτ᾽ ἦν, che qui si accoglie, dà luogo (al pari di quella avanzata da Meineke) a un tetrametro divergente dai successivi per la presenza di un trocheo nel secondo metron. La mistione di peoni e trochei nei tetrametri katà stichon non è priva di attestazioni, sia pure in ragione differente e con predominanza trocaica: contiguità di misure trocaiche e peoniche nel medesimo verso è infatti attestata in Ar. Lys. 1014–1035 (4tr^ con paeI nel terzo metron: vd. White 1912, 293; Koster 1962, 262); si direbbe inoltre degno di nota che anche il frammento dei Sami di Cratete cui qui si allude (fr. 32) palesi nel suo primo verso (i successivi sono 4tr^ regolari) una sostituzione peonica102. Il frammento doveva essere parabatico: più precisamente, in considerazione del metro103, appartenere a un epirrema di una parabasi ‘prima’ (cf. e. g. Bergk 1838,
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puro. In tal caso la giustapposizione di versi trocaici a versi peonici nel medesimo contesto non suonerebbe in sé affatto singolare: vd. in particolare gli epirremi della seconda parabasi delle Vespe (vv. 1275–1283 e 1284–1291), ciascuno dei quali è formato da un modulo di sette tetrametri cretico–peonici + un tetrametro trocaico catalettico (portatore, anche dal punto di vista contenutistico di Klauseleffekt: Zimmermann 1985 II, 145; e già MacDowell 1971, 300, ad V. 1291 [«an unexpected outcome»]): un modulo che, basato sulla sequenza di pericopi composte da multipli di quattro versi, è peraltro notoriamente canonico negli epirremi parabatici. Non si può mancare di rilevare che i due paralleli addotti presentano entrambi uno schema corrispondente a quello del primo verso del fr. 347 secondo il testo offerto dalla paradosis (2tr paeI cr, ovvero 4tr^ con sostituzione peonica al terzo metron). È comunque possibile ricondurre a schema analogo anche il v. 1 nella forma emendata da Kassel che qui si accoglie, a patto di ipotizzare che non agisca correptio in τρυγῳδοποιομουσική (cf. e. g. Vesp. 1283, 4tr^): si otterrebbe in tal caso un tetrametro caratterizzato, al pari di Lys. 1014ss. e del frammento di Cratete, da una sola inserzione peonica (nel primo metron anziché nel terzo). Per il tetrametro cretico–peonico come metro ricorrente negli epirremi parabatici, cf. Eup. fr. 173 e Ar. frr. 112 e 113, anch’ essi, seppure più dubitativamente, ascritti a epirremi parabatici (vd., tra altri, Totaro 2000, 21s.; Bravi 2002, 137s.; Imperio 2004, 49s., e, con specifico riferimento al frammento eupolideo, Napolitano 2012, 151–154, con la bibliografia precedente), oltre al fr. 348 delle Tesmoforiazuse II, anch’ esso (come il fr. 347) generalmente ascritto, per metro e per contenuto, a un epirrema parabatico (vd. infra): tutti contesti citati da Efestione nella sezione Περὶ παιωνικοῦ del suo Encheiridion. In tetrametri cretico–peonici è composto pure Ar. fr. 719, frammento anepigrafo che Fritzsche 1838, 626 collegava, per affinità di metro e per ragioni contenutistiche, al fr. 348 e attribuiva dunque (come il 348) a un epirrema parabatico delle Tesmoforiazuse II (vd. infra, ad fr. 348 n. 113).
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417; Körte 1921, 1243.19) o ‘seconda’ (cf. e. g. Whittaker 1935, 190; Sifakis 1971, 36, 48s.; Totaro 2000, 19s.; Imperio 2004, 49). Bibliografia Brunck 1783, III 166; Schweighäuser 1801–1807, II 316; Erfurdt 1812, 449; Porson 1815, 236; Elmsley 1830, 58; Bergk 1838, 417; Hermann 1842, 510; Meineke 1867, 55; Blaydes 1885, 423; van Leeuwen 1900, 103, 108; Körte 1921, 1243.19; Whittaker 1935, 190; Sifakis 1971, 36, 48s.; Bonanno 1972, 134–139; Roux 1976, 260–265; Torchio 2000, 51–55; Totaro 2000, 19s.; Imperio 2004, 49s., 216s.; Pellegrino 2015, 216; Wright 2012, 131s.; Imperio 2022. Contesto di citazione Il frammento, tramandato da Ateneo all’interno di un’ampia sezione del libro III (116a–125b) dedicata alla ricognizione dei diversi tipi di pesce conservato sotto sale e delle relative modalità di conservazione mediante salatura, di volta in volta individuate dal termine τάριχος e dai suoi composti, è preceduto dalla citazione di un proverbio ricordato da Clearco di Soli (fr. 32 Wehrli) e di un passo di Diocle di Caristo (fr. 233 van der Eijk) sui pesci salati di migliore qualità, da un estratto da Archestrato SH 169 (= fr. 39 Olson–Sens) con consigli sui pesci salati più o meno gustosi, e dal fr. 32 di Cratete, nel quale la persona loquens descrive bizzarre operazioni di cottura in salamoia di quel τάριχος ἐλεφάντινον che, come conferma il testimone, è menzionato da Aristofane in questo frammento appunto con l’ intenzione di alludere al contesto crateteo (per l’ esegesi di questo frammento, tratto dai Sami, vd. Perrone 2019, 163–173). Testo Alquanto tormentata la paradosis del v. 1: le correzioni proposte da Elmsley 1830, 58 non risultano dirimenti (vd. la discussione in Bonanno 1972, 134s.). Nell’intento di uniformare la facies metrica di questo verso a quella dei versi successivi, e di risolvere l’ incongruenza del presente ἐστί in un contesto temporale tutto rivolto al passato (cf. ἡνίκα, ἐνόμιζεν ovvero ἐνομίζετ᾽, ed ἐκιχλίζετο, dei vv. 2–4), Elmsley leggeva ἦν μέγα τι χρῆμ’ ἔτι τρυγῳδοποιομουσική. D’ altra parte, a sostegno del testo tràdito, Bonanno (1972, 135) ha argomentato che: a) il nesso costituito dall’ ἦ asseverativo con aggettivi o avverbi è frequente in Aristofane (e fu perciò difeso già da Porson 1815, 236 e da Meineke 1867, 55); b) il presente ἐστί, difeso peraltro da Erfurdt 1812, 449 e Hermann 1842, 510 (i quali, evidentemente per evitare lo iato col successivo ἡ, introducevano il ν efelcistico), va interpretato «come un presente cosiddetto drammatico del quale è evidente la funzione espressiva»: e tuttavia la principale difficoltà è rappresentata qui dalla circostanza – segnalata da Kassel e Austin in apparato – che in analoghe locuzioni comiche l’ articolo è assente: cf. e. g. Ar. Ach. 500 (τὸ γὰρ δίκαιον οἶδε καὶ τρυγῳδία), Eq. 515s. (ἀλλὰ νομίζων / κωμῳδοδιδασκαλίαν εἶναι χαλεπώτατον ἔργον) e Ra. 1493 (ἀποβαλόντα μουσικήν)104. L’ esigenza di rimuovere la problematicità del pre-
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C’ è da chiedersi, in verità, se tale difficoltà non possa essere, se non superata, quantomeno ridimensionata pensando all’impiego dell’articolo in Ar. Nu. 534 (ἥδ’ ἡ κωμῳδία), per quanto si tratti di un caso non totalmente sovrapponibile, essendo qui il riferimento
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sente ἐστί è alla base degli emendamenti ἔφυ ed ἔτ᾽ ἦν proposti rispettivamente da Meineke 1867, 55 e da Kassel ap. Kassel–Austin PCG III 2, 197: ne risulta in entrambi i casi un tetrametro che presenta misure trocaiche frammiste a cretici e peoni. Va però precisato che il parallelo, evocato da Kassel, di Pax 589s., dove pure ricorre una mistione di peoni e trochei (come noto, non infrequente nei lyrica aristofanei), non appare del tutto perspicuo: nel caso in questione parrebbe invero più calzante il già citato parallelo di Lys. 1014–1035, una serie di tetrametri, verosimilmente katà stichon (tali ci aspetteremmo anche i tetrametri del fr. 347 che, come si è detto, si lascia ricondurre a un epirrema parabatico105), con il terzo metron regolarmente realizzato da un peone primo in luogo del trocheo. 2 Κράτητί τε Mantengo, con gli editori precedenti, il tràdito Κράτητί τε, che comporta tuttavia la correzione dell’ attivo ἐνόμιζεν, del v. 3, nel medio–passivo ἐνομίζετ᾽, proposta da Bergk (ap. Meineke FCG II 2, 1085), e sostenuta da Bonanno 1972, 137 come «la soluzione più semplice e persuasiva» dal punto di vista paleografico. Κράτης τό τε è congettura di Kaibel, accolta da Kassel e Austin. Tra le altre proposte, segnalate in apparato, merita attenzione la iunctura Κράτης ποτέ evocata da Kock a partire dal confronto con Ach. 13s. ([…] ἡνίκ᾽ ἐπὶ Μόσχῳ ποτὲ / Δεξίθεος εἰσῆλθ᾽ ᾀσόμενος Βοιώτιον), dove le due medesime determinazioni temporali, ἡνίκα e ποτε, si trovano combinate, come in questo frammento, in un contesto in cui si rievoca un episodio che doveva risultare altrettanto noto al pubblico: ossia l’ apprezzamento ottenuto da una performance del citarodo Dessiteo, verosimilmente nell’ ambito di un agone citarodico (vd. Olson 2002, 70, ad l., cui rinvio anche per la discussione relativa alla grafia ἐπὶ Μόσχῳ, preferita anche da Wilson 2007b, 16). 3 ἐνομίζετ᾽ Accolgo la correzione ἐνομίζετ᾽ proposta da Bergk in luogo del tràdito ἐνόμιζεν: «La corruzione in ἐνόμιζεν, data la presenza dell’ elisione, si spiega con facilità, mentre il passivo si lega perfettamente, mediante il ripetuto τε, all’ ἐκιχλίζετο» (Bonanno 1972, 137; e cf. Torchio 2000, 54). All’ ἐκόμιζεν di Casaubon torna van Leeuwen 1900, 103, ad Eq. 539, il quale, mantenendo il tràdito Κράτητί τε, propone, in luogo del problematico παρακεκλημένον, una locuzione del tipo παρ᾽ ἡμῖν κλέος vel γέλως («[…] anche a Cratete il celebre tarichos elephantinon procurava senza fatica gloria [vel suscitava riso] da parte nostra»). παρακεκλεμμένον Al participio παρακεκλημένον, tràdito dal Marciano e variamente emendato (vd. apparato critico), si direbbe in prima istanza da preferirsi παραβεβλημένον stampato da Musuro (forse come correzione del poco perspicuo παρακεκλημένον) nella sua editio princeps del 1514 (e non, come annotano Kassel e Austin in apparato, conservato da «codd. recc. (metro invito, vid.
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non al genere comico bensì alla specifica commedia in questione (ossia alle Nuvole stesse). Sul dibattito moderno relativo alle modalità performative degli epirremi parabatici, per le quali in verità non vi sono nelle fonti antiche evidenze dirimenti, vd. White 1912, 369–370.
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ad Autocr. fr. 3)»: vd. Lorenzoni 2017, 435), senz’ altro di senso più perspicuo (vd. Bonanno 1972, 138, la quale sottolinea il valore peculiare del verbo παραβάλλειν, a partire dai poemi omerici, nel senso di «gettare cibo alle bestie»), benché metricamente difficile, considerata la rarità della correptio Attica dinanzi ai gruppi βλ e γλ: nell’ archaia un caso analogo parrebbe tuttavia ricorrere in Ar. V. 570106, se si conserva, con MacDowell, Sommerstein e Wilson, il tràdito ἅμα βληχᾶται (diversamente Olson, che accoglie, metri causa, l’ ἀμβληχᾶται proposto da Bergk). In questa incertezza, ho scelto di stampare a testo il παρακεκλεμμένον prospettato dubitativamente come possibile alternativa da Kaibel (ap. Kassel–Austin PCG III 2, 197): metricamente equipollente al tràdito παρακεκλημένον, questa forma participiale mi pare, oltre che paleograficamente plausibile, soddisfacente sul piano del senso. Non dissimile l’ impiego del semplice κεκλεμμένον nel breve quanto celebre preambolo metateatrale del prologo delle Vespe (vv. 54–66), laddove il servo Santia rassicura gli spettatori sul fatto che non verranno dispensate loro, tra varie altre trovate comiche di basso profilo, neppure, per l’ ennesima volta, battute ‘rubate’ a Megara (μηδ᾽ αὖ γέλωτα Μεγαρόθεν κεκλεμμένον, v. 57)107. Interpretazione La ripresa del celebre sintagma crateteo τάριχος ἐλεφάντινον (su cui vd. infra), veicola in questo frammento il controverso giudizio aristofaneo sull’ arte del commediografo scomparso ormai da vari anni (sul profilo artistico e sulla produzione comica di Cratete vd. ora Perrone 2019): giudizio che va evidentemente soppesato in rapporto alle valutazioni espresse da Aristofane anche nella pericope a lui consacrata nella parabasi dei Cavalieri (vv. 537–540): vd. infra. 1 μέγα βρῶμ᾽ È stato opportunamente osservato, in primis da Bonanno, che il tràdito βρῶμα, conservato dalla maggior parte degli editori (a eccezione di Bergk ap. Meineke FCG II 2, 1085 ed Edmonds 1957, 668, i quali accolgono χρῆμα proposto da Elmsley), si attaglia perfettamente al contesto metaforico che presenta il poeta come un cuoco intento ad ammannire vivande al suo pubblico (in questo caso la ‘salsa d’ elefante’) e l’ arte poetica come arte culinaria. E proprio in riferimento all’arte di Cratete la celeberrima topica metaforica della poesia come cibo è impiegata da Aristofane in un celebre passo degli ‘anapesti’ parabatici dei Cavalieri (vv. 537–540), e sembra esprimersi in termini non troppo lusinghieri sull’ arte del suo rivale ormai scomparso (vd. infra, ad v. 3). Benché di tenore prosaico, il termine βρῶμα, per designare genericamente il cibo, è impiegato anche in
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Οltre che in Autocr. fr. 3 (ἀμνοὶ δὲ βληχάζουσιν ὑπ᾽ ἀγαλακτίας): ma le incertezze sulla cronologia di questo commediografo (su cui vd. Orth 2014, 127s., e per la correptio Attica in questo frammento, 151, con n. 247 per gli ulteriori casi della commedia attica antica generalmente ritenuti dubbi), dissuadono dal farne un parallelo sicuro. Su questo passo, e, più in generale, sul tema del ‘furto’ di materiale comico vd. Biles– Olson 2015, 102s. con la bibliografia precedente. E sul plausibile impiego del verbo παρακλέπτω per veicolare l’immagine del furto letterario vd. Imperio 2022, 166 con n. 11.
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contesti di poesia elevata: cf. Philox.Lyr. PMG 836e.13. Per le attestazioni comiche del termine, vd. Orth 2020, 408, ad Dioxipp. fr. 1. τάριχος Il termine τάριχος designava propriamente non la salamoia (come qui si è preferito tradurre per meglio valorizzare la precipua accezione tanto dell’aggettivo ἐλεφάντινον quanto del successivo participio predicativo παρακεκλεμμένον (vd. supra, ad Testo), ma piuttosto il pesce conservato in salamoia, mediante un procedimento di affumicatura, essiccatura e/o di salatura: una pietanza tra le più consumate a banchetto (per restare alla commedia, cf. e. g. Pherecr. fr. 190.2; Alex. fr. 178.8; Anaxandr. fr. 51.2; Antiph. frr. 27.22, 140.4) e tra le più a buon mercato per gli Ateniesi (sempre nell’ ambito della commedia, cf. e. g. Ar. Ach. 967; Eq. 1247; V. 491; Pax 563; Eup. fr. 199; Pl.Com. fr. 211; Nicostr.Com. fr. 5.5–7; Philippid. fr. 9.4 e vd. Arnott 1996, 561, ad Alex. fr. 191.3, e Hartwig 2022, 133, ad Philippid. fr. 9.4, con la bibliografia e i passi citati), benché ne esistessero anche qualità pregiate (vd. Olson–Sens 2000, 164–165, ad Archestr. fr. 39.1s. [SH 169]; Millis 2015, 264, ad Anaxandr. fr. 51.2, con ulteriore bibliografia; e, in generale, sul τάριχος vd. Curtis 1991, 6–26). Il terzo dei tre proverbi citati in Ath. III 119e, οὐκ ἂν πάθοι τάριχος ὧνπερ ἄξιος (vd. Strömberg 1953, 95–96 [nr. 5]) mostra comunque che il termine poteva essere affibbiato in senso dispregiativo a una persona da nulla (οὐδενὸς ἄξιος ἀνήρ), degna di essere percossa (ἄξιος πλυθῆναι καὶ συγκοπῆναι), appunto come il τάριχος, che si era soliti battere per mondarlo del sale e poterlo poi preparare, e dunque poteva esser detto anche di un poco di buono (vd. Taillardat 1965, 242s., 345): con questa valenza metaforica il termine pare impiegato da Aristofane anche nei Banchettanti (fr. 207.1); e denigratoria è anche l’ accezione dell’ epiteto ζωμοτάριχος con cui viene apostrofato l’ attore Ippocle in Alex. fr. 43.2 (vd. Arnott 1996, 153, ad l.). Il termine è attestato tanto come neutro della terza declinazione (come – per restare all’ ambito della sola commedia – in questo frammento e come in Chionid. frr. 5–*6; Ar. fr. 639; Men. Epitr. fr. 5 Sandbach = fr. 5 Arnott) quanto come maschile della seconda (cf. Epich. fr. 159; Crates Com. fr. 19.2; Cratin. fr. 44; Ar. fr. 207; Pl.Com. fr. 49; Philippid. fr. 34): e a una ricognizione delle attestazioni di τάριχος al maschile è dedicata un’ intera pericope (119b–119f) della sezione περὶ ταρίχων del libro III di Ateneo (vd. Bagordo 2014a, 58–61, ad Chionid. fr. 5; Bianchi 2016, 267–269, ad Cratin. fr. 44), all’ interno della quale viene citato anche Hermipp. fr. 10, dove però il sostantivo è concordato in maniera errata con la forma (πίονα) dell’ aggettivo πίων (sulla questione vd. Comentale 2017, 30s.). ἐλεφάντινον Diverse le proposte interpretative dell’ aggettivo che qui qualifica il τάριχος: Casaubon lo riferiva alla pelle dell’ elefante o al colore bianco dell’ avorio (così anche Schweighäuser 1801–1807, II, 316); Brunck (1783, III, 166) lo riconnetteva alla città egizia di Elefantina. Per Bonanno 1972, 129s. si tratterà soprattutto di un’ invenzione comica «che gioca sul paradossale accostamento di un comune uso alimentare (la salsa) con un animale esotico del tutto estraneo agli orizzonti culturali dei Greci». E in questa direzione sono orientate anche le interpretazioni di M. F. Salvagno, in Canfora 2001, I 307, n. 4 e di Pellegrino 2015,
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216, che traduce «salamoia d’ elefante». In questo contesto pare però preferibile attribuire all’ aggettivo la più comune valenza cromatica («eburneo», «bianco come l’ avorio», con riferimento al colore bianco della salamoia: così, ad es., Storey 2011, I, 209), che avrà potuto implicare anche un ironico riferimento alla qualità solo apparentemente pregiata, raffinata ed elegante, del ‘cibo’ comico – in realtà un comune e umile τάριχος – ammannito da Cratete ai suoi spettatori. τρυγῳδοποιομουσική Il composto trimembre è formato a partire dal termine τρυγῳδία, conio comico, probabilmente aristofaneo, che designa la commedia, per paronomasia con τραγῳδία, e perciò di speciale pregnanza nel lessico poetologico della commedia (per l’ etimologia di questo termine e i comici calembours connessi all’ impiego del sostantivo e del corrispondente aggettivo τρυγικός cf. Ar. Ach. 628 [χοροῖσιν … τρυγικοῖς], 886 [τρυγῳδικοῖς χοροῖς], Nu. 296 [οἱ τρυγοδαίμονες οὗτοι], V. 650 [᾽πὶ τρυγῳδοῖς], 1537 [χορὸν τρυγῳδῶν], fr. 156.8s. [Σαννυρίων / ἀπὸ τῶν τρυγῳδῶν]; Eup. fr. 99.29 [τρυγῳδο̣ lwl], e vd. Imperio 2004, 117–119, con bibliografia). Il secondo elemento del composto rinvia alla sfera lessicale del verbo ποιέω, impiegato nell’ accezione di «comporre in forma poetica», per cui cf. Ar. Th. 153 (ὅταν Φαῖδραν ποῇς), 157 (ὅταν σατύρους […] ποῇς: su σάτυροι in riferimento al dramma satiresco vd. Austin–Olson 2004, 108, ad l.), fr. 392.1 (τὰς τραγῳδίας ποιῶν); Phryn.Com. fr. 32.3 (πολλὰς ποιήσας καὶ καλὰς τραγῳδίας); e anche Hdt. I 23 (διθύραμβον ποιήσαντα); IV 14.3 (ποιῆσαι τὰ ἔπεα); Pl. Smp. 223d (κωμῳδίαν καὶ τραγῳδίαν […] ποιεῖν), Phd. 61b (ποιήσαντα ποιήματα); e cf. anche l’ impiego comico di συμποιεῖν, con riferimento alla collaborazione tra poeti nella composizione di commedie o di tragedie (e talvolta, ma non necessariamente, ad accuse di plagio poetico) attestato da Ar. Th. 158 (con un double entendre osceno), frr. 596.3, dub. 958; Eup. fr. 89; Σ (vet) Ar. Nu. 554a Holwerda (e vd. Bagordo 2016, 62, ad Ar. fr. 596.3, con ulteriore bibliografia). Il terzo elemento del composto, μουσική, non ha qui, evidentemente, l’ accezione ristretta di «musica», ma designa in maniera più ampia ogni espressione artistica, letteraria e intellettuale in genere, da ascriversi alla sfera delle Muse (cf. e. g. Ar. Eq. 188 [e cf. anche l’ accezione di μουσικός in Eq. 192], Ra. 797, 873; Cratin. fr. 338; Eup. fr. 392.8; Antiph. 207.6; cf. anche Pl. Phd. 60d–61b, e vd. Olson–Seaberg 2018, 110, ad Cratin. fr. 338, con passi e bibliografia ulteriori). E sulla sostanziale coincidenza delle categorie astratte di μουσική e ποίησις, delle quali la commedia attesta celebri personificazioni, vd. Napolitano ap. Franchini 2020, 248–250, ad Pherecr. fr. 155. 3 λαμπρὸν L’ aggettivo può avere qui evidentemente tanto il significato proprio di «luminoso», e persino di «bianco» se ricollegato al valore cromatico del precedente ἐλεφάντινον, quanto quello traslato di «splendido, brillante» (vd. Perrone 2019, 50): in riferimento allo stile ditirambico Aristofane lo usa ad esempio in Av. 1388; e come attributo di stile elevato è documentato da Aristot. Po. 1460b4 (ἡ λίαν λαμπρὰ λέξις). ἀπόνως Α parere di Bonanno 1972, 133, Aristofane intenderà qui screditare come cibo da poco le trovate ammannite «a buon mercato» con cui il suo predecessore «divertiva un pubblico ‘di bocca buona’» (così Torchio 2000, 54): e il giudizio
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«assolutamente negativo, senza possibilità d’ appello» (Bonanno 1972, 41) sull’ arte di Cratete parrebbe appunto confermato dall’ avverbio ἀπόνως che accompagna il participio, che sottolineerà «la mancanza di impegno in ogni senso» (ivi, 137). Analogo parrebbe il valore dell’ avverbio ἀταλαιπώρως in Ar. fr. 265 (οὕτως αὐτοῖς ἀταλαιπώρως ἡ ποίησις διέκειτο): vd. Pellegrino 2015, 172s., ad l. Diversamente Roux 1976, 261, a parere del quale nell’ avverbio non va ravvisata un’ accusa di negligenza nei confronti del poeta: «simplement son art n’ a rien de ‘laborieux’», con riferimento alla preziosa, elegante, classica semplicità, alla sobrietà tutta attica dello stile poetico di Cratete. Sulla stessa linea Roux orienta coerentemente la sua valutazione del giudizio aristofaneo espresso nel celebre passo degli ‘anapesti’ dei Cavalieri in cui, a proposito dell’ arte di Cratete, Aristofane ricorre alla metafora della pietanza poetica, affermando anzitutto che con una modica spesa Cratete era in grado di congedare gli spettatori dopo aver approntato per loro una colazione (ἀπὸ σμικρᾶς δαπάνης ὑμᾶς ἀριστίζων ἀπέπεμπεν, v. 538)108: un’ espressione ambigua, in cui la qualità dell’ inventiva comica di Cratete parrebbe sminuita già dall’ impiego del participio ἀριστίζων (vd. Imperio 2004, 216), nonché confermata dalla metafora culinaria del verso immediatamente successivo (ἀπὸ κραμβοτάτου στόματος μάττων ἀστειοτάτας ἐπινοίας), che pure propone una nobile immagine di Cratete come di un poeta–cuoco intento a impastare (μάττων) dalla sua bocca quantomai ‘sobria’ (ἀπὸ κραμβοτάτου στόματος)109 ‘urbanissime’ (ἀστειοτάτας), e 108
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Per la non immediata decodificazione delle implicazioni di critica letteraria insite nella complessa metaforica di questo passo, vd., tra altri, Pellegrino 2000, 11–13 n. 11, e Imperio 2004, 216–219, con la bibliografia ivi citata. E più in generale, per l’ impiego comico delle metafore culinarie con valenza metapoetica, vd. soprattutto Taillardat 1965, 439s.; e, più di recente, Wright 2012, 129–140, con ulteriore bibliografia. Assai discussa l’ esegesi dell’ epiteto, attestato al superlativo solo qui e in Hsch. κ 3942, che lo glossa con καπυρότατον, e registrato al grado positivo in Hsch. κ 3941, dove è glossato, in riferimento alla risata, con καπυρός e con ξηρός (κραμβόν· καπυρόν τινα γέλωτα καὶ ξηρόν φασιν). D’ altra parte καπυρός, il cui significato primario è, come ξηρός, «secco», in Ath. XV 697b è riferito a canti «sguaiati», in contrapposizione a canti di contenuto serio (οὗτος γὰρ καπυρωτέρας ᾠδὰς ἀσπάζεται μᾶλλον τῶν ἐσπουδασμένων), ed è inoltre spesso attestato in riferimento a una risata «sonora» (cf. e. g. [Noss.] AP VII 414.1; Longus II 5.1; Alciphr. III 12.4, e vd. Legrand 1907). La Suda e gli scholia vetera glossano κραμβοτάτου con ἡδυτάτου, ξηροτάτου («dolcissima, asciuttissima»), connettendolo sostanzialmente alla naïveté che doveva connotare i dramata di Cratete (Σ [vet] Ar. Eq. 539a I Jones: ἀπὸ κραμβοτάτου: ἡδυτάτου, ξηροτάτου. ἔπαιξε δὲ ἀπὸ τῆς τοῦ λαχάνου ἐπινοίας. αὐτοσχέδιος γὰρ ἦν περὶ τὰ δράματα. VEΓΘM; cf. Sud. κ 2319) e riconducono la forma aggettivale all’ ortaggio denominato κράμβη, il cavolo (Σ [vet] Ar. Eq. 539a II Jones: ἄλλως: ἀπὸ τοῦ χρηστοτάτου. ἔπαιξε δὲ τῷ κραμβοτάτῳ ἀπὸ τοῦ λαχάνου κράμβης οὕτω καλουμένης· […] VEΓ3Θ; cf. Sud. κ 2319 […] ἢ τὸ καπυρόν· ἢ τὸ χρηστότατον). Per Roux 1976, 259s., κραμβότατος è un «superlatif burlesque […] forgé sur un nom de légume, le substantif κράμβη, “chou”», con il quale la bocca di Cratete verrebbe a essere definita «archichou», fonte di uno stile composto e raffinato (e in favore di un’ interpretazione sostanzialmente positiva della
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dunque ‘squisitissime’, idee (ἐπινοίας)110. In definitiva, per Bonanno 1972, 36–41, il giudizio aristofaneo su Cratete quale emerge dai versi parabatici dei Cavalieri e delle Tesmoforiazuse II sarebbe (pace Roux 1976) sostanzialmente negativo111: come parrebbe emergere anche dalla censura espressa da Schifacleone, in V. 1177–1180, nei confronti dei μῦθοι propri della commedia disimpegnata, e dunque non degni di persone istruite e colte, del tipo di quello della Lamia pedens proposto dal padre Filocleone, attraverso la deformazione di un noto verso della Lamia cratetea (fr. 20). Ma sulla ‘accurata’ ambiguità del giudizio formulato da Aristofane nei confronti dell’ arte del suo predecessore, vd. ora Perrone 2019, 41–47, con la bibliografia ivi citata. παρακεκλεμμένον Per l’ interpretazione di questo participio vd. supra, ad Testo. 4 ἄλλα τε τοιαῦθ᾽ ἕτερα μυρί᾽ Per analoghe espressioni iperboliche cf. Diph. fr. 42.37s. (ἕτερα μυρία / τοιαῦτα καταλέξαιμ᾽ ἄν); Strato Com. fr. 1.40s.
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valutazione aristofanea dell’ arte di Cratete si esprimeva già Willems 1906). Per Bonanno 1972, 37–39, invece, riferito allo στόμα di Cratete, che sa di κράμβη, cibo εὐτελής per eccellenza, usato dagli antichi come antidoto preventivo e curativo contro l’ubriachezza, l’ epiteto non fa che ribadire la deminutio insita nell’ espressione ἀπὸ σμικρᾶς δαπάνης. Sulla complessa polisemia del termine, sostanzialmente intraducibile, vd. ora Perrone 2019, 45–46. Altrettanto ambigua è infatti la valenza di ἀστεῖος in questo contesto: in commedia usato in genere, con valenza metaforica, in un’ accezione positiva (vd. Bagordo 2017a, 88, ad Ar. fr. 706), accezione altrettanto positiva l’ aggettivo presenta in alcuni frammenti comici di argomento gastronomico per qualificare le pietanze come gustose e squisite (cf. e. g. Alex. fr. 194.1–2: τριωβόλου κρεῖσκον ἀστεῖον πάνυ / ὕειον ὀπτόν…; Sotad.Com. fr. 1.15: ἀστεῖον ἑφθὴ τευθὶς ὡνθυλευμένη). E tuttavia, in un frammento del Contadino di Antifane qualifica ironicamente proprio un «cavoletto bollito», κραμβίδιον ἐφθόν χαρίεν ἀστεῖον πάνυ (fr. 6), somministrato forse a qualcuno come rimedio officinale per il proprio stato di ubriachezza (vd. Konstantakos 2004, 34s.; e più in generale, su questo frammento vd. ora Olson 2023, 55–57). Né sarà casuale la sequenza Cratino–Cratete adottata da Aristofane, nel medesimo passo parabatico dei Cavalieri: quasi che l’ eccesso di ‘sobrietà’ del commediografo caratterizzato come aquae potor rappresenti l’ inevitabile – ma non per questo necessariamente gradito o apprezzabile – antidoto alla ‘sbornia’ indotta negli spettatori dall’ ebbra arte del vinosus poeta! Sull’ impiego, anche ironico, di ἀστεῖος e del corrispondente avverbio in commedia vd. Tartaglia 2018, 119, ad Anaxil. fr. 21. Ma già Meineke FCG I, 60 ravvisava, nella valutazione apparentemente encomiastica di Eq. 537–540, una sottile ironia («haud vulgaribus eum ornavit laudibus, licet ironiae quodam colore adspersis»). Come osserva Wright (2012, 131), «the younger comedian’s apparent approval for the old–timer Crates is patently ironical. When he quotes the phrase ‘effortlessly summoned up’ – a description which Crates himself, presumably, was using in order to impress his audience – Aristophanes manages to impart a negative sense to it, implying that he himself has spent a lot more time and effort preparing his own nouvelle cuisine».
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(ἕτερα μυρία / τ ο ι αῦ θ’) e, per l’ accostamento pleonastico di ἄλλα e ἕτερα, Crates Com. fr. 28 (cf. Bonanno 1972, 120). ἐκιχλίζετο L’ attivo κιχλίζω, da una radice onomatopeica connessa a κίχλη, «tordo», sembra designare una risatina simile a un cinguettio (vd. Beekes EDG, 706) e parrebbe riferirsi a una risata scomposta e indisciplinata. In Ar. Nu. 983 e in Theoc. 11.77s., il verbo «semble se rapporter aux jeunes gens qui rient, mal à propos, de paroles ou d’ actions qui sont absurdes à leur yeux mais non aux yeux des gens mûrs et sensés» (Sommerstein 2000, 71 n. 29), e in Σ (vet) Ar. Nu. 983b Holwerda (= Sud. κ 1694) è glossato con ἀτάκτως γελᾶν: un significato, quello di ridere in maniera irriverente, inopportuna, implicito in Herod. 7.123 (cf. Headlam 1922, 366). In Lex.Bekk.V p. 271.30 (= Et.magn. p. 516.17) il κιχλισμός è qualificato come πορνικὸς γέλως πολὺς καὶ ἄκοσμος: non a caso, in Ar. Nu. 1073, i κιχλισμοί (giusta la lezione κιχλισμῶν di V e della famiglia β, che è peraltro esplicitamente chiosata dagli scoliasti di R e di V: cf. Σ vet Ar. Nu. 1073c Holwerda, a fronte di καχασμῶν tràdito da R) parrebbero indicati dal Discorso peggiore come uno dei piaceri di cui Fidippide dovrà privarsi se opterà per una vita improntata alla sophrosynē. E appunto per indicare una condotta di vita dedita a mollezze e piaceri parrebbe attestato in commedia anche il verbo κιχλιδιάω (fr. com. adesp. 791, tràdito da Poll. VI 185: ὡσαύτως ταὐτόν ἐστι τρυφᾶν, ἡδυπαθεῖν, θρύπτεσθαι ἀνατεθρύφθαι, ἐκδεδιῃτῆσθαι, χλιδᾶν. τὸ γὰρ θερμερύνεσθαι [ABC, θεμ- FS, accolto da KasselAustin] καὶ κιχλιδιᾶν [B: καὶ κυχλοιδ- C: om. FSA: ‘corruptum’ Meineke FCG IV, 683: χλιδιᾶν Lobeck 1853, 157 n. 12: κεχλοιδιᾶν V. Schmidt coll. Hsch. κ 2426, 2427] κωμικὰ μὲν, ἐμοὶ δ’ οὐκ ἀρέσκει). Non convince pertanto l’ interpretazione di Bonanno (1972, 139), a parere della quale il verbo qualificherà probabilmente la scarsa verve delle battute del commediografo ormai scomparso, le quali appunto, già al suo tempo, non facevano ridere, ma, al più, ridacchiare: al contrario, l’ espressione parrebbe descrivere (con ironica nostalgia?) la reazione scompostamente divertita da parte di un pubblico al tempo di Cratete ancora ingenuo e avvezzo a ridere di poco (cf. l’ analoga considerazione sugli spettatori delle tragedie di Frinico espressa da Euripide in Ar. Ra. 908–910). Un’ analoga valenza metaforica potrebbe avere l’ immagine gastronomica contenuta in un frammento aristofaneo incertae fabulae, in cui quantomeno l’ associazione tra «pesce salato» e «risata» si lascia riconoscere con certezza (Ar. fr. 639: ἐπὶ τῷ ταρίχει τὸν γέλωτα κατέδομαι, su cui vd. Bagordo 2016, 179–180).
fr. 348 K.-A. (334 K.) μήτε Μούσας ἀνακαλεῖν ἑλικοβοστρύχους μήτε Χάριτας βοᾶν ἐς χορὸν Ὀλυμπίας· ἐνθάδε γάρ εἰσιν, ὥς φησιν ὁ διδάσκαλος 2 ἐς Heph. I, Choerob. K: εἰς Heph. AMH, Choerob. U
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né invocare le Muse dalle chiome inanellate di ricci, né chiamare a gran voce per la danza le Cariti Olimpie: infatti sono già qui, come dice il Maestro Heph. Ench. 13.3, p. 41.11–16 Consbruch (AIMH) ἐν δὲ ταῖς προτέραις Θεσμοφοριαζούσαις καὶ κρητικοὺς πολλάκις ἐν μέσοις τοῖς τετραμέτροις παρέλαβεν· μήτε Μούσας — ὁ διδάσκαλος. Nelle Tesmoforiazuse prime (Aristofane) ammetteva spesso anche cretici nel mezzo dei tetrametri: «né invocare — Maestro». Choerob. Schol. in Heph. p. 248.11–15 Consbruch (KU) ἐν ταῖς Θεσμοφοριαζούσαις· μήτε Μούσας — ὁ διδάσκαλος. Nelle Tesmoforiazuse: «né invocare — Maestro».
Metro
Tetrametri cretico–peonici
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Bibliografia Fritzsche 1838, 624–626; Zieliński 1885, 90; Lange 1891, 61; Fraenkel 1962, 199s. n. 3 (= Newiger 1975, 38s. n. 24); Harriott 1969, 75; Chirico 1990, 96–101; Bremer 1993, 145s.; Zimmermann 1993, 170; Butrica 2001, 70; Imperio 2004, 49s., 94s., 423s.; Ead. 2012b; Karachalios 2006, 15s. Contesto di citazione Efestione cita il frammento nella sezione riservata al metro cretico–peonico, a proposito del quale, prima di questo frammento, vengono citati, nell’ ordine, Ar. fr. 112, V. 1275; Eup. fr. 173 e Ar. fr. 113. Sull’ indicazione della commedia come Tesmoforiazuse prime, vd. supra, ad Titolo. Interpretazione In questo frammento, riconducibile forse, come il fr. 347, col quale condivide il metro cretico–peonico, a un epirrema di prima o di seconda parabasi (vd. in particolare Fraenkel 1962, 199s. n. 3 [= Newiger 1975, 38s. n. 24])112, la persona loquens (da identificarsi forse col corifeo, canonico portavoce delle esternazioni parabatiche del poeta) rivendica orgogliosamente l’ inopportunità di invocare Muse e Cariti, dal momento che esse non sono nelle loro superne
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Ma più in generale, per la possibile attribuzione a un epirrema parabatico di questo frammento come dei due frammenti dei Contadini di Aristofane (112 e 113), nonché del frammento degli Adulatori di Eupoli (173) citati nella testimonianza di Efestione – attribuzione ipotizzata in primis in ragione della comune facies metrica di tetrametri cretico–peonici testimoniata dall’ epirrema della seconda parabasi delle Vespe, di cui il metricologo di età adrianea cita appunto il v. 1275 – vd. Imperio 2004, 49s. e la bibliografia precedente citata supra, ad fr. 347.
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sedi: ἐνθάδε γάρ εἰσιν (v. 3)113, con un tono perentorio e, al contempo, elevato e solenne, consono all’ enunciazione formale di una decisione programmatica, che potrebbe presupporre l’impiego dei due infiniti βοᾶν e ἀνακαλεῖν con valore imperativo114: affermando così il carattere profondamente immanente e personalistico di tale ispirazione115 e una più moderna consapevolezza dell’apporto del poeta alla composizione del canto. Per l’ idea di una nuova concezione ‘umanizzata’ dell’ atto creativo del poeta, è persino ovvio il parallelo con i vv. 40–42 del prologo delle Tesmoforiazuse superstiti, dove il Servo afferma che «dentro la casa di Agatone alberga il tiaso delle Muse intento a comporre un canto» (ἐπιδημεῖ γὰρ / θίασος Μουσῶν ἔνδον μελάθρων / τῶν δεσποσύνων μελοποιῶν). 1 Μούσας … ἑλικοβοστρύχους Tradizionalmente le Muse sono connotate mediante il riferimento alle chiome: cf. e. g. Pi. O. 6.91 (ἠύκομοι), P. 1.1 (ἰοπλόκαμοι), I. 7.23 (ἰόπλοκοι); Sapph. fr. 128 V. e Simon. PMG 577 (καλλίκομοι); Eur. IA 1040 (καλλιπλόκαμοι). Per l’ aulico composto ἑλικοβόστρυχος, attestato invece solo qui, si può citare come parallelo il solo χρυσεοβόστρυχος, riferito ad Artemide in Eur. Ph. 191 e a Galatea in Philox.Lyr. PMG 821.2 (= fr. 9.2 Fongoni). A loro volta, sono le Cariti a essere definite da Aristofane – secondo una qualificazione altrettanto tradizionale (cf. e. g. Il. XVII 51, Ibyc. PMGF 288.1–2, Pi. P. 5.45) – «dalle belle chiome» (Χαρίτων… καλλικόμων) in quell’ incipit dell’ antode parabatica della Pace (vv. 796s.) che fa da pendant all’ incipitaria invocazione alla Musa «che ha scacciato le guerre» (πολέμους ἀπωσαμένη) contenuta nella precedente ode (vv. 775s.). 113
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E una altrettanto orgogliosa affermazione di originalità poetica contiene il frammento anepigrafo 719, anch’ esso in tetrametri cretico–peonici, attribuito da Fritzsche 1838, 626, al medesimo contesto parabatico di questa commedia, nel quale Aristofane, attingendo all’ ambito metaforico della metallurgia, rivendica la capacità di «sfoggiare parole raffinate e trovate scherzose (ῥήματά τε κομψὰ καὶ παίγνι᾽ ἐπιδεικνύναι, v. 1)», tutte forgiate sul fuoco ravvivato dai mantici e poi modellate con stampi di legno (πάντ᾽ ἀπ᾽ ἀκροφυσίων κἀπὸ καναβευμάτων, v. 2; sull’ impiego aristofaneo della topica metaforica del poeta–fabbro, vd. Torchio 2001, 134s.; Imperio 2004, 102, n. 230 con la bibliografia ivi citata). Sulla possibile attribuzione del fr. 719 alla parabasi delle perdute Tesmoforiazuse, vd. anche Biles 2011, 44, n. 124; e sull’ interpretazione complessiva di questo frammento vd. ora Bagordo 2017a, 122–127. Come nel caso degli infiniti iussivi attestati in Aristofane nei contesti formalmente elevati di preghiere, oracoli e proclamazioni ufficiali di vario tipo: cf. e. g. Ach. 172s., 1000s., V. 386, 937, Pax 551, Av. 449s., 971, 973, 975, Eccl. 1107, 1111; benché Aristofane sembri evitare l’ infinito iussivo nelle frasi negative (vd. la rassegna dei passi citati da Dittmar 1933, 92s., con le puntualizzazioni di Dover 1968, 155s., ad Ar. Nu. 433; le formulazioni negative sono invece documentate da tragedia e prosa ionica: vd. Smyth 1956, 448 [§2013d], che cita [Aesch.] Pr. 712; Hdt. I 32.7; e sull’ infinito iussivo vd. in generale Kühner–Gerth 1904, 20–24; Goodwin 1889, 313; Bers 1984, 168–182, il quale, alle pp. 179–181, segnala anche possibili eccezioni alla su citata tendenza). Vd. Harriott 1969, 75; Chirico 1990, 96–101; Bremer 1993, 145s. (con le osservazioni di B. Zimmermann nella Discussion, a p. 170).
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2 Χάριτας … Ὀλυμπίας Per l’ associazione Muse–Cariti, correlata a una valutazione altamente positiva della quantità del canto poetico, sottesa nell’ apostrofe rivolta, in Ar. Eccl. 973, dal Giovane alla Ragazza come μέλιττα Μούσης, Χαρίτων θρέμμα (vd. Ussher 1973, 211s., ad l.), ma esplicitamente celebrata da Aristofane, oltre che in questo frammento, anche nell’ antode della parabasi degli Uccelli (Ὀλυμπιά-/δες δὲ μέλος Χάριτες / Μοῦσαί τ᾽ ἐπωλόλυξαν, vv. 781–783, dove peraltro l’ epiteto di ‘olimpio’, in questo frammento attribuito alle Cariti, è, secondo una più canonica convenzione dell’ epica, attribuito alle Muse116), cf. e. g. Hes. Th. 52–64; Sapph. fr. 128 V.; Anacr. PMG 346.9s. = fr. 62.9s. Gentili; Thgn. 15; Eur. HF 673–675; Pi. N. 4.1–8, 9.53–55; Bacchyl. fr. 19.3–6 Snell–Maehler; h.Hom. III [Ap.] 189–203, XXVII [Dian.] 15; AP (Mel.) VII 418.5s. = HE 3998s.; AP (Simm.) VII 22.6 = HE 3291, e vd. più diffusamente Imperio 2004, 423s., con la bibliografia ivi citata; e anche Halliwell 2012, 24 con n. 26; Biles 2014, 9s. ἐς χορὸν Nell’ incipit dell’ ode parabatica delle Rane l’ invito ad assistere il coro nell’ esecuzione del canto e della danza che stanno per iniziare viene rivolto alla Musa (v. 674: Μοῦσα χορῶν ἱερῶν ἐπιβῆθι); e con un’ analoga richiesta, rivolta a Zeus, si apre l’ ode parabatica delle Nuvole (v. 564: Ζῆνα […] εἰς χορὸν […] κικλήσω); e analoga invocazione è rivolta nelle Tesmoforiazuse superstiti (prive delle odi parabatiche) a Pallade nell’ ultimo corale della commedia (vv. 1136–1139: Παλλάδα τὴν φιλόχορον ἐμοὶ / δεῦρο καλεῖν νόμος εἰς χορόν, / παρθένον ἄζυγα κούρην). In generale, su epiclesi comiche di muse e divinità come motivo topico, ancorché evidentemente non esclusivo, delle odi parabatiche, vd. diffusamente Imperio 2004, 93–99, con ulteriore bibliografia. 3 ἐνθάδε In alternativa all’ esegesi generalmente condivisa, che colloca questa nel novero delle canoniche invocazioni comiche alla musa, Karachalios 2006, 14, attribuisce all’ avverbio ἐνθάδε, nell’ incipit dell’ ultimo verso, una valenza concreta: «the mention of the didaskalos in itself brings a shift of focus to the theatrical event, and so enthade may be understood as referring to the theatre in the literal, material sense»117. Ma, come già Wilhelm Lange osservava a proposito della medesima suggestione avanzata da Zieliński 1885, 90118: «Si spectatores Musas
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Cf. e. g. Il. II 491; h.Hom. IV [Merc.] 450; Hes. Th. 25, 53, 966, 1022 e cf. la formula Ὀλύμπια δῶματ᾽ ἔχουσαι ricorrente nell’ epica arcaica in riferimento alle Muse (vd. LfrgrE XV, 260s. s. v. Μοῦσα, -αι, M1 bα, Β Ι 1 cα). Come riconosce lo stesso Karachalios (2006, 14s. n. 56), la ricognizione di Willi 2003, 17 n. 38, in base alla quale nelle epiclesi comiche superstiti la divinità viene invocata di norma con l’ avverbio δεῦρο, non è dirimente: lo dimostra l’ impiego di ἐνθάδε in casi come Th. 1159 (ἐνθάδ᾽ ἡμῖν). E per l’ interpretazione tradizionale relativa a una presenza di Muse e Cariti metaforicamente invocata qui dal poeta, vd. ora anche Biles 2011, 21 n. 37, 151 n. 66. Un’ implicazione evidentemente ricavata, sulla base di Reisch 1903, 402, anche da Torchio 2000, 55, allorché afferma che le Muse e le Cariti associate in questo frammento come divinità protettrici della poesia «non si trovano sull’ Olimpo, ma sono presenti
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Gratiasque in orchestra tanquam chori partem conspiciunt, quid opus est propria illa poeta affirmatione?» (Lange 1891, 61). E lo stesso Butrica 2001, 70, pur contemplando una siffatta eventualità, afferma: «While is obviously tempting to try to refer this fragment to the epiphany of the Muses hypothesized here, a connection does not seem likely; it is more probable that the poet is simply boasting of the high quality of his product». ὁ διδάσκαλος Sulle polisemiche accezioni drammaturgiche del termine διδάσκαλος, da Aristofane preferenzialmente impiegato per designare se stesso come drammaturgo, piuttosto che come istruttore del coro (cf. in particolare Ach. 627 e Pax 738, in ambo i casi all’ interno degli ‘anapesti’ della parabasi; così pure κωμῳδοδιδάσκαλος in Eq. 507; e cf. anche l’ impiego di διδάσκαλοι con generico riferimento ai poeti lirici in Av. 912, e ai commediografi in Ar. fr. 590.55; e di τραγῳδοδιδάσκαλος in riferimento ad Agatone in Ar. Th. 88) vd. diffusamente Imperio 2004, 119–121 (e sugli impieghi del sostantivo διδάσκαλος e del verbo διδάσκειν nel lessico teatrale vd. anche Olson 2014, 165s., ad Eup. fr. 398; Bagordo 2016, 21, ad Ar. fr. 590.55; Bianchi 2016, 122s., ad Cratin. fr. 17.3, dove il verbo è impiegato in riferimento al pessimo ‘teatrante’ Gnesippo, definito da Cratino διδάσκαλος nel fr. 276.2: sulla figura di Gnesippo e sull'attacco rivoltogli da Cratino in questo frammento delle Stagioni vd. ora Fiorentini 2022, 210–213). Non potendo qui, in assenza di contesto, valutarne l’ esatta accezione, con «Maestro» ho pertanto inteso ricomprendere tutte le peculiari valenze che il sostantivo e il corrispondente verbo διδάσκειν assumono nei contesti comici di maggiore pregnanza paideutica, poetologica e drammaturgica (per un’ analoga valenza del termine διδάσκαλος in Ar. fr. 495 vd. Bagordo 2020, 29, con la bibliografia ivi citata).
fr. 349 K.-A. (331 K.) Σ (b T) Pl. Cra. 421d, pp. 17s. Greene (= 50, pp. 44s. Cufalo) παροιμία ἀ γ ὼ ν π ρ ό φ α σ ι ν ο ὐ κ ἀ ν α μ έ ν ε ι, ἐπὶ τῶν φύσει ῥᾳθύμων καὶ ἀμελῶν, ἤτοι ἐπὶ τῶν μὴ προσιεμένων τοὺς λόγους τῶν προφασιζομένων. μέμνηται δὲ αὐτῆς Πλάτων ἐνταῦθα οὕτως· οὐ μέντοι μοι δοκεῖ προφάσεις ἀγὼν δέχεσθαι (μέμν. — δέχ. om. b). καὶ ἐν Νόμων ἕκτῳ (751d)· ἀλλὰ γὰρ ἀγῶνα προφάσεις φασὶν οὐ πάνυ δέχεσθαι (καὶ ἐν Νόμων ἕκτῳ ὁ αὐτὸς οὗτος· ἀλλὰ γὰρ ἀγῶνα προφάσεις ἀποδέχεσθαί φασιν b). Αἰσχύλος δέ φησιν Γλαύκῳ (φησιν post Γλαύκῳ iterat T) Ποτνιεῖ (fr. 37 R.)· ἀγὼν γὰρ ἄνδρας οὐ μένει λελειμμένους. καὶ Ἀριστοφάνης Θεσμοφοριαζούσαις βʹ (βʹ om. b) (ex scholio Greg. Cypr. cod. Leid. 1.11 [CPG II, 56]; cf. Sud. α 328; Macar. 1.21 [CPG II, 137]). Il proverbio l a c o n t e s a n o n a m m e t t e p r e t e s t o (è) riferito alle persone per natura pigre e negligenti, oppure a coloro che non accettano i discorsi di quelli che accampano scuse. Lo cita qui (scil. in questo passo del Cratilo) Platone: «non mi sembra però che la sulla scena per affiancare il poeta nella sua qualità di “istruttore del coro” (διδάσκαλος), nel contesto della realizzazione pratica dello spettacolo».
Θεσμοφοριάζουσαι βʹ (fr. 349)
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discussione consenta pretesti». E nel VI libro delle Leggi (751d): «si dice però che la contesa non ammette affatto scuse». Eschilo dice nel Glauco Potnieo (fr. 37 R.): «perché la competizione non aspetta gli uomini che arrivano in ritardo». E Aristofane nelle Tesmoforiazuse II.
Bibliografia Leutsch ap. CPG II, 136; Rawlings 1975, 27; Nikitas 1976, 13s. e n. 37; Renehan 1976, 102s.; Kaibel ap. Kassel–Austin PCG III 2, 198; Olson 1998, 126, Id. 2002, 175s.; Campagner 2001, 50–52; García Romero 2001, 102–104; Sommerstein 2008, 37. Contesto di citazione L’ espressione proverbiale citata e illustrata dallo scoliaste, che ne documenta differenti attestazioni, tra cui quella delle Tesmoforiazuse II di Aristofane, è impiegata nel Cratilo da Socrate, nel contesto della sfida lanciatagli da Ermogene, il quale provocatoriamente lo sollecita a illustrare la correttezza dei nomi elementari di cui il filosofo si era servito in precedenza. L’ obiettivo è verificare la ‘correttezza’ di quei ‘nomi primi’ attraverso l’ esame delle singole lettere che li compongono. La formulazione del proverbio conservata nello scolio platonico, dal quale discende la tradizione paremiografica testimoniata in primo luogo dalle su citate testimonianze di Gregorio di Cipro e della Suda (che peraltro tramanda anche la formulazione documentata per noi da Ar. Ach. 392, su cui vd. infra, ad Interpretazione)119, apparentemente da ricondursi alle Tesmoforiazuse II di Aristofane (ma vd. infra, ad Testo), sembra essere un unicum. Lievemente diverse sono infatti le formulazioni documentate non solo dal passo del Cratilo ma anche negli altri passi citati dallo scoliaste: quello delle Leggi dello stesso Platone, dove l’ espressione è impiegata dall’ Ateniese che si accinge ad aiutare Clinia nell’ individuazione dei 37 custodi delle leggi nella nuova colonia cretese, e quello del Glauco Potnieo di Eschilo, dove il proverbio poteva essere pronunciato dal protagonista in risposta al tentativo esperito da qualcuno (la moglie?) di dissuaderlo dal partecipare ai giochi (così Sommerstein 2008, 37, ad l.). Testo Stampo, con Kassel e Austin (e con gli editori dello scolio platonico), il tràdito ἀγών, senza recepire la correzione ἁγών introdotta da Kock (seguito da Edmonds) principalmente sulla base del confronto con Ar. Ach. 392, che tuttavia non costituisce un reale parallelo: qui, infatti, il tràdito ἀγών è ametrico (e perciò da Bentley opportunamente emendato in ἁγών), e peraltro «the presence of οὗτος makes all the difference» (Renehan 1976, 103): su Ach. 392 vd. infra, ad Interpretazione. Come osserva Renehan 1976, 102 (ma vd. già Kaibel ap. Kassel– Austin PCG III 2, 198: «poetae verba ipsa non tradita»), in assenza di una esplicita citazione, non è possibile ricavare con certezza dallo scolio platonico quale fosse la reale formulazione del proverbio nelle Tesmoforiazuse seconde. Con Kassel e Austin ho perciò spaziato la formulazione trasmessa, senza citazioni, in apertura dello scolio (che coincide con quella di Macar. 1.21 [CPG II, 137] e con una del-
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Per le ulteriori formulazioni attestate nei paremiografi vd. Cufalo 2007, 44, ad l.
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le due formulazioni documentate da Sud. α 328: vd. infra, ad Interpretazione), considerandola, in via del tutto ipotetica, riconducibile alla perduta commedia. Interpretazione L’ espressione proverbiale, variamente declinata, è molto antica: da Zen. vulg. 2.45 (CPG I, 44 = Prov. Bodl. 41, p. 5 Gaisford = Prov. Par. suppl. 676 [Cohn 1887 = CPG Suppl. I, 32 nr. 14]) si ricava che un non meglio identificato Milone (Μύλων Zen.: Μόλων Bodl.: Μώλων Par. suppl.: sulla problematica paradosis di questo nome e sulla stessa menzione di questo personaggio da parte di Zenobio, vd. Crusius 1883, 123 n. 3), definito paremiografo (ὁ παροιμιογράγος om. Bodl.), affermava che il proverbio sarebbe ibiceo, posto che Ibico sarebbe stato il primo a usarlo, nella forma ἀγὼν πρόφασιν οὐκ ἐπιδέχεται οὔτε φιλία (PMGF 344). Pindaro lo rievoca nel fr. 228 Maehler (τιθεμένων ἀγώνων πρόφασις / ἀρετὰν ἐς αἰπὺν ἔβαλε σκότον «aperte le gare, un pretesto getta il valore nell’ ombra totale») e sembra presupporlo anche nella Pitica prima (cf. v. 81, su cui vd. Gerber 1982, 125, ad l.) e soprattutto nella Pitica quinta: qui, l’ auriga Carroto, compagno di Arcesilao, viene elogiato perché è tornato nella patria Cirene, «non portando la Scusa, figlia del tardo di mente Epimeteo» (οὐ τὰν Ἐπιμαθέος ἄγων / ὀψινόου θυγατέρα Πρόφασιν, vv. 27s.), non adducendo, cioè, attenuanti alla sconfitta, ma dimostrando al contrario προμήθεια: prestando, infatti, attenzione a chi lo precedeva, nella gara con i carri di cui si celebra la vittoria, superò indenne l’ incidente in cui erano stati coinvolti i suoi concorrenti (cf. vv. 49–53, e vd. Giannini in Gentili et al. 1995, 519s., ad l., con il rinvio a Wilamowitz 1922, 381 n. 3). Nelle sue differenti formulazioni, il proverbio è attestato nel teatro tragico (oltre che in Aesch. fr. 37 R., citato dal testimone, in Eur. Heracl. 722s., dove è impiegato dal Servo che incita Iolao ad affrettarsi a indossare l’ armatura, con cui dovrà accingersi alla battaglia con Euristeo, ὡς ἐγγὺς ἁγὼν, καὶ μάλιστ᾽ Ἄρης στυγεῖ / μέλλοντας, «perché la battaglia è vicina e Ares detesta coloro che indugiano») e comico (oltre a questo frammento delle Tesmoforiazuse seconde, cf. Ar. Ach. 392: ὡς σκῆψιν ἁγὼν [Bentley: ἀγὼν codd.] οὗτος οὐχὶ δέξεται [Cobet: οὐκ εἰσδέξεται codd.: οὐ προσδέξεται Sud. σ 490: οὐκ ἐνδέξεται Olson], «questo scontro non consente rinvio», dove l’ espressione proverbiale è impiegata dal coro per incalzare Diceopoli a non eludere, appunto, lo scontro); e da Phot. α 317 (cf. Sud. α 328) è riferito «a coloro che non traggono alcun vantaggio dall’ accampare pretesti» (ἀγὼν οὐ δέχεται σκήψεις· τάττεται ἡ παροιμία καὶ [καὶ om. b: ἡ παρ. καὶ om. Sud.] ἐπὶ τῶν μηδὲν ὀνησαμένων [ὠνησαμένων b: ὀνιναμένων Sud.] εἰς σκῆψιν [εἰ σκήψαιντο Sud.]). Un divertente impiego del proverbio in un contesto agonistico è documentato da Alciphr. IV 14.5, dove l’ etera Triallide sfida la sua avversaria Mirrine in una gara fondata sull’ esposizione delle natiche, coperte solo da un velo trasparente, appunto perché οὐ φιλεῖ προφάσεις ἁγών. Più interessante l’ ulteriore formulazione del proverbio documentata da Macar. 1.16 (CPG II, 136), in cui è citato, «in riferimento a chi non osa» (ἐπὶ τοῦ μὴ ὑπερβάλλοντος), un trimetro giambico con l’ inizio del trimetro successivo (ἀγὼν γὰρ οὐ μέλλοντος ἀθλητοῦ μένει / ἀλκήν, «poiché la competizione non attende il coraggio di un atleta che
Θεσμοφοριάζουσαι βʹ (fr. 350)
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indugia»), nel quale Leutsch (ap. CPG II, 136) ipotizzava fosse da riconoscere la formulazione del proverbio contenuta nelle perdute Tesmoforiazuse; di altro avviso Nauck, che pensava invece a una citazione tragica (fr. trag. adesp. 298 N.), non recepita tuttavia da Kannicht e Snell in TrGrF II, 94. Evidentemente mutuata dal lessico sportivo (vd. Campagner 2001, 50–52; García Romero 2001, 102–104), l’ espressione proverbiale era dunque applicata anche a dispute dialettiche e giudiziarie, nonché a contesti competitivi di qualsivoglia natura: alla sfera semantica del conflitto, della guerra e della competizione in genere, appartengono del resto tanto il termine ἀγών (anche nella sua più peculiare accezione di ‘momento cruciale’: vd. Olson 1998, 126, ad Ar. Pax 276; Id. 2002, 176, ad Ar., Ach. 391s., con gli ulteriori passi citati) quanto il termine πρόφασις (o σκῆψις): in particolare, su πρόφασις, vd. Rawlings 1975, passim (con riferimento a questo proverbio, p. 27); Nikitas 1976, passim (con riferimento a questo proverbio, pp. 13s. e n. 37); su σκῆψις, vd. Olson 2002, 175s., ad Ar. Ach. 391s. con passi e bibliografia ulteriori.
fr. 350 K.-A. (337 K.) Phot. λ 452 = Sud. λ 816 λ ύ κ ο ς ἔ χ α ν ε ν· παροιμία· (om. Sud.) ἐπὶ τῶν ἐλπιζόντων μέν τι ἕξειν, διαμαρτόντων δὲ τῆς ἐλπίδος (ἐπὶ — ἐλπίδος om. Phot.). λέγουσι δὲ ([δὲ] Erbse) τὸν λύκον, ἐπειδὰν ἁρπάσαι τι βούληται, κεχηνότα παραγίνεσθαι ἐπ᾽ αὐτό· ὅταν οὖν μὴ λάβῃ ὃ προαιρεῖται, κατὰ κενοῦ αὐτὸν χανεῖν φασιν· ἐπὶ τῶν συνελπιζόντων χρηματιεῖσθαι, διαμαρτανόντων δὲ λέγουσιν. Ἀριστοφάνης Θεσμοφοριαζούσαις βʹ. I l l u p o r i m a s e a b o c c a a p e r t a: proverbio. (Detto) di coloro che sperano di avere qualcosa ma che falliscono nelle loro aspettative. Dicono che il lupo, quando vuole catturare una preda, le si avvicini con la bocca spalancata. Perciò, quando non riesce ad afferrare la preda prescelta, dicono che sta a bocca aperta per nulla (lett. nel vuoto). (Lo) dicono di coloro che sperano di arricchirsi ma falliscono. Aristofane nelle Tesmoforiazuse seconde.
Bibliografia Austin 1970, 35; Lloyd–Jones 1971, 185 [= 1990, 16] n. 25; Martina 2000, II 2, 989; Schirru 2004, 8s. ~ Id. 2009, 217s.; Leurini 2009, 143s.; Tosi 2017, 771s. Contesto di citazione Il proverbio, assegnato da Erbse all'atticista Pausania (λ 26), è illustrato da Fozio e dalla Suda, e, in forma più sintetica e in maggiore o minor misura modificata e senza riferimento al suo impiego nelle perdute Tesmoforiazuse di Aristofane, dai paremiografi (cf. e. g. Diogenian. 6.20 [CPG I, 273]; Apostol. 10.85 [CPG II, 510]; Prov. Bodl. 614 [p. 73 Gaisford]; Prov. Coisl. 318–319; Greg.Cypr. 2.95 [CPG I, 367] e cod. Mosq. 4.15 [CPG II, 121]) e da Esichio (λ 1396). Per una spiegazione alternativa del proverbio, vd. infra, ad Interpretazione.
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Interpretazione Questo proverbio, attestato, a stare alla testimonianza lessicografica, nelle Tesmoforiazuse seconde di Aristofane, e ispirato all’ immagine, tipica della cultura popolare e favolistica, del lupo che si avvicina a bocca aperta alla preda lasciandosela però sfuggire, potrebbe trarre origine dalla favola di Esopo (223 H.–H.) in cui, sentendo una vecchia minacciare un bambino che piange di darlo in pasto al lupo se non smetterà di piangere, un lupo affamato aspetta invano il pasto finché non è costretto ad andarsene sconsolato quando capisce che la vecchia non darà seguito alla sua minaccia (per quest’ ipotesi vd. Leurini 2009, 143; Tosi 2017, 771). In alternativa, si è altresì pensato a un’ altra favola esopica (138 H.–H.): quella «del cane che, tenendo già fra i denti un pezzo di carne e vedendo se stesso riflesso sull’ acqua, tenta di aggredire quello che ritiene un proprio simile per ottenere anche il cibo dell’ altro restando, ovviamente, a digiuno, dato che, aprendo la bocca ha invece perso anche la propria preda» (così Schirru 2004, 8s. con n. 12 ~ Schirru 2009, 217s. con n. 1). In commedia il proverbio è attestato anche altrove: in Ath. XIV 622d–f viene rievocato l’ episodio di un citaredo, di nome Amebeo, giunto a simposio troppo tardi, al quale un cuoco ‘colto’ (dal tipico nome parlante di Σόφων), citando le parole dell’ Auge di Eubulo, rivolge l’ invito a entrare e ad affrettarsi a mangiar qualcosa di ciò che è rimasto: se si lascerà scappare anche questo rimarrà infatti «come un lupo a bocca aperta (ἔπειγ᾽ ἔπειγε, μή ποθ᾽ ὡς λύκος χανὼν / καὶ τῶνδ᾽ ἀμαρτών […])» (Eub. fr. 15.11s.). E in un frammento dei Fratelli di Eufrone un altro cuoco, dal nome ‘parlante’ Lico, viene elogiato dal suo dotto διδάσκαλος come il migliore dei suoi allievi, in particolare per l’ abilità sviluppata nel sottrarre pezzi di interiora e spiedini di budella dei capretti durante i sacrifici, e di aver dunque «scoperto da solo l’ arte di non essere un lupo che spalanca la bocca invano» ([…] τοῦ γὰρ μὴ χανεῖν / λύκον διακενῆς σὺ μόνος εὕρηκας τέχνην, fr. 1.30s.). Per analoghe riprese del proverbio in riferimento a chi resta a bocca asciutta durante un pasto, cf. e. g. Luc. Gall. [22] 11; Ael. NA VII 11; Babr. 1.16.6–8. In riferimento a chi coltiva vane aspettative e nutre vuote speranze, il proverbio è attestato da Menandro in Asp. 381s. (dov’ è riferito alla insaziabile ma anche ingenua avidità del vecchio Smicrine, il quale lascerà che Cherea sposi la sorella di Cleostrato per sposare la figlia del più ricco Cherestrato, che Davo gli fa credere morto), e forse anche in Epitr. 1006s. (dove sarebbe riferito a Cherestrato, deluso nella sua speranza di ottenere Abrotono: per quest’ ipotesi, vd. Austin 1970, 35; Lloyd–Jones 1971, 185 [= 1990, 16] n. 25; Martina 2000, II 2, 989). L’ immagine è riecheggiata da Aristaenet. 2.20.36s., dove, con un gioco di parole tra λύκος e Λύκων analogo a quello di Eufrone, il proverbio è impiegato in riferimento a un ragazzo dal nome ‘parlante’ Lico dalla fanciulla che respinge le sue profferte amorose. Un differente impiego comico del proverbio è documentato invece da Ar. Lys. 629, dove l’ espressione proverbiale λύκῳ κεχηνότι è usata dal corifeo dei Vecchi in riferimento alla infida rapacità degli Spartani: come annota lo scoliaste, oltre a esser detto di chi resta deluso nelle sue aspettative, il proverbio è infatti utilizzato anche in riferimento alle persone avide di impossessarsi dei beni altrui (Σ Ar. Lys. 629b Hangard: ἡ παροιμία ἐπὶ τῶν μάτην χαινόντων. ἢ ἐπὶ
Θεσμοφοριάζουσαι βʹ (fr. 351)
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τῶν ἀλλότρια ἁρπαζόντων; cf. Sud. δ 619; Macar. 5.76 [CPG II, 186]). Per i riusi del proverbio in età bizantina, vd. Leurini 2009, 144 n. 33, e più in generale sulla fortuna del proverbio, vd. Tosi 2017, 771s.
fr. 351 K.-A. (336 K.) Erot. o 45 ο ἶ ν ο ς ἀ ν θ ο σ μ ί α ς· ὁ εὐώδης καὶ ἡδύς, ὡς Ἀριστοφάνης ἐν Βατράχοις (v. 1150) καὶ ἐν Θεσμοφοριαζούσαις. v i n o c h e p r o f u m a d i f i o r i: quello profumato e dolce, come (dice) Aristofane nelle Rane (v. 1150) e nelle Tesmoforiazuse.
Bibliografia Baumann 1986, 150; Salviat 1986, 157s.; Lambert–Gócs 1990, 66, 266; Dalby 1996, 99–101; Pellegrino 2000, 108s.; García Soler 2001, 288; Dalby 2003, 13; Boulay 2015, 276; Bagordo 2017a, 35–39; Comentale 2017, 318–321; Lorenzoni 2022. Contesto di citazione Il lemma di Erotiano chiarisce che l’ espressione οἶνος ἀνθοσμίας si riferisce al vino dolce e profumato, una definizione che trova riscontro in Phryn. PS p. 37.1 de Borries (ἀνθοσμίας οἶνος· ὁ ἡδὺς καὶ εὐώδης; e cf. Phot. α 1964 = Synag. B α 1396 [= An.Bachm p. 97.9]; Hsch. α 5149; Σ [vet] Ar. Ra. 1150c Chantry, Σ [rec] Ar. Pl. 807e Chantry; Sud. α 2518; Et.gen. α 883 Lasserre–Livadaras [Et.magn. p. 108.41]; Ath. epit. I 31s.; Eust. in Od. 1449.9–12, su cui vd. infra, ad Interpretazione); e documenta il suo impiego da parte di Aristofane non solo nelle Rane (v. 1150) ma anche nelle Tesmoforiazuse. Ancora una volta, in assenza dell’ espressione nella commedia superstite, è da presumere che il commediografo ne facesse uso nella omonima commedia perduta. Interpretazione Da Eust. in Od. p. 1449.9–12 si apprende che l’ οἶνος ἀνθοσμίας corrispondeva al σαπρίας (εἰκὸς δὲ τὸν εἰρημένον γέροντα καὶ σαπρὸν οἶνον καὶ σαπρίαν ἀρσενικῷ γένει λεχθῆναι), un vino di ottima qualità (cf. Xenoph. 21 B 1.6 D.–K. = fr. 1.6 West, che definisce il buon vino rosso ἄνθεος ὀζόμενος): a questo vino la persona loquens di Hermipp. fr. 77.6–10 attribuisce iperbolicamente uno squisito bouquet floreale di viole, rose e giacinti e un aroma divino, assimilandone la fragranza a quella del nettare e dell’ ambrosia (ἔστι δέ τις οἶνος, τὸν δὴ σαπρίαν καλέουσιν, / οὗ καὶ ἀπὸ στόματος στάμνων ὑπανοιγομενάων / ὄζει ἴων, ὄζει δὲ ῥόδων, ὄζει δ’ ὑακίνθου / ὀσμὴ θεσπεσία, κατὰ πᾶν δ’ ἔχει ὑψερεφὲς δῶ, / ἀμβροσία καὶ νέκταρ ὁμοῦ, su cui vd. Comentale 2017, 318–321). A parere di Baumann 1986, 150, la consuetudine di aggiungere erbe aromatiche e fiori alle varietà più pregiate di vino ne garantiva la migliore conservazione e la più alta qualità. L’ οἶνος ἀνθοσμίας in particolare era così pregiato che i Lacedemoni ne furono conquistati: Senofonte (HG VI 2.6) attesta che ai tempi dell’ occupazione di
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Corcira i soldati spartani affinarono a tal punto i loro gusti da arrivare a rifiutarsi di bere vino diverso da quello (εἰς τοῦτο τρυφῆς ἐλθεῖν ὥστ᾽ οὐκ ἐθέλειν πίνειν, εἰ μὴ ἀνθοσμίας εἴη). L’ appetibilità del vino «profumato di fiori» è documentata da vari passi comici: nel Pluto di Aristofane anfore di οἶνος μέλας ἀνθοσμίας sono annoverate tra gli ἀγαθά che per opera del dio della ricchezza affluiscono a casa di Cremilo sotto gli occhi esterrefatti del servo Carione (v. 807). E nel paese di Cuccagna ambientato nell’ Oltretomba delle miniere del Laurion, descritto nei Minatori da Ferecrate, l’ οἶνος μέλας ἀνθοσμίας è la bevanda servita da giovani, discinte e avvenenti fanciulle, le quali riempiono sino all’ orlo «coppe di nero vino profumato di fiori» (Pherecr. fr. 113.30s.: πλήρεις κύλικας οἴνου μέλανος ἀνθοσμίου / ἤντλουν διὰ χώνης τοῖσι βουλομένοις πιεῖν). Ma l’ immagine del vino caratterizzato da una fragranza floreale è impiegata in commedia anche con accezione metaforica: è il caso di Ar. Ra. 1150 (cui peraltro allude il testimone di questo frammento), dove Eschilo rimprovera a Dioniso di non bere vino «profumato di fiori» (Διόνυσε, πίνεις οἶνον οὐκ ἀνθοσμίαν), fuor di metafora, di fare battute di pessimo gusto (vd. Taillardat 1965, 272) nonché del fr. 688 dello stesso Aristofane, per la cui interpretazione rinvio a Bagordo 2017a, 35–39, ad l. e a Lorenzoni 2022. Sulle caratteristiche del vino ἀνθοσμίας vd., tra altri, Salviat 1986, 157s.; Lambert–Gócs 1990, 66, 266; Dalby 1996, 99–101; Id. 2003, 13; García Soler 2001, 288; Boulay 2015, 276. E per il suffisso -ίας come terminazione impiegata per le denominazioni di vini, cf. Nicostr. fr. 17 e Sosicr. fr. 4 (ἀμφίας); Cratin. fr. 462, con Olson–Seaberg 2018, 296, ad l.; Pherecr. fr. 137.6; Pl.Com. fr. 274; Anaxandr. fr. 42.71 con Millis 2015, 237 (καπνίας); Ath. epit. I 26d (ὀμφακίας). Più in generale, sulla terminazione -ίας, in commedia spesso peggiorativa, vd. Peppler 1902, 38–40; Chantraine 1933, 93; Buck–Petersen 1945, 169–173; Olson–Seaberg 2018, 335, ad Cratin. fr. 496.
fr. 352 K.-A. (339 K.) Ath. XIV 619a (ACE) ἡ δὲ τῶν θεριστῶν ᾠδὴ Λιτυέρσης καλεῖται. καὶ τῶν μισθωτῶν δέ τις ἦν ᾠδὴ τῶν ἐς τοὺς ἀγροὺς φοιτώντων, ὡς Τηλεκλείδης φησὶν ἐν Ἀμφικτύοσιν (fr. 8)· (ὡς — Ἀμφ. om. CE) καὶ βαλανέων (βαλανείων ACE: corr. Dalechamps) ἄλλαι (ἄλλη dubitanter Olson), ὡς Κράτης ἐν Τόλμαις (fr. 42), καὶ τ ῶ ν π τ ι σ σ ο υ σ ῶ ν (πισσουσῶν CE: πεισσουσῶν Εac) ἄλλη τις (scil. ᾠδή), ὡς Ἀριστοφάνης ἐν Θεσμοφοριαζούσαις καὶ Νικοχάρης ἐν Ἡρακλεῖ χορηγῷ (fr. 9) (τις — χορ. om. CE). Il canto dei mietitori è chiamato “Litierse”. C’ era anche un canto dei braccianti che vanno ai campi, come testimonia Teleclide negli Anfizioni (fr. 8), e altri erano quelli dei bagnini, come riferisce Cratete nelle Imprese temerarie (fr. 42), e (ce n’ è) un altro d e l l e d o n n e c h e m o n d a n o l ’ o r z o, secondo la testimonianza di Aristofane nelle Tesmoforiazuse e di Nicocare nell’ Eracle corego (fr. 9).
Θεσμοφοριάζουσαι βʹ (fr. 352)
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Bibliografia Blümner 1912, 2.12–15; Frisk GEW II, 614; Chantraine DELG, 949; Beekes EDG, 1249; Pellegrino 2013, 35s.; Stama 2014, 113. Contesto di citazione Tra i numerosi canti di lavoro, in particolare stornelli e motivetti campestri, elencati in Ath. XIV 618c–620a, è annoverata la canzone eseguita dalle donne in occasione della mondatura, quale risulta attestata dalle Tesmoforiazuse di Aristofane e dall’ Eracle corego di Nicocare. Assente dal testo della commedia superstite di Aristofane, occorrerà evidentemente ipotizzare che il canto fosse menzionato (o eseguito) nella omonima commedia perduta. Interpretazione Al canto delle mondatrici, qui genericamente denominato ᾠδὴ τῶν πτισσουσῶν, fanno riferimento anche Frinico nei Comasti e Nicofonte negli Encheirogastores (Coloro che si nutrono del lavoro delle proprie mani: per l’ identità dei personaggi che danno il titolo alla commedia, vd. Pellegrino 2013, 35s.). I due contesti comici (Phryn. fr. 14: ἐγὼ δὲ νῷν δὴ τερετιῶ τι πτιστικόν, «e io canticchierò per noi due un motivetto da mondatrice», e Nicopho. fr. 8: ἀλλ’ ἴθι προσαύλησον σὺ νῷν πτισμόν τινα, «Coraggio! Va’ e suona per noi due un canto da mondatrice») sono citati da Poll. IV 55 nell’ ambito di un’ analoga rassegna di tipologie di canti popolari che scandivano varie attività manuali. Dalla testimonianza di Polluce (IV 55) e dai due frammenti citati si ricava che il canto intonato dalle donne durante le operazioni di spulatura del grano o dell’ orzo poteva essere qualificato dall’ aggettivo πτιστικός (più precisamente designato da Polluce come πτιστικόν αὔλημα: vd. Stama 2014, 113, ad Phryn. fr. 14) ο denominato πτισμός: entrambi i vocaboli derivano dal verbo πτίσσω/πτίττω, con cui si indicava il processo di mondatura che serviva a separare la pula dai chicchi di grano o di orzo: cf. Σ (vet) Ar. Ach. 507a Wilson (= Sud. π 1121): πτίσσειν ἐστὶ τὸ κριθὰς ἢ ἄλλο τι λεπίζειν καὶ καθαροποιεῖν; Erot. α 60: πτίσσειν γὰρ λέγεται τὸ λεπίζειν καὶ κόπτειν; per l’ etimologia del termine, vd. Frisk GEW II, 614; Chantraine DELG, 949; Beekes EDG, 1249; e sul valore del verbo πτίσσω, vd. Blümner 1912, 2.12–15. Si tratterà probabilmente di canzoni popolari, che, come si ricava da Poll. IV 55, potevano essere eseguite con accompagnamento auletico (sullo πτιστικόν αὔλημα, vd. Jung 1897, s. v., 279; Hinrichs 1908, 47; Lambin 1992, 171), e che, in quanto finalizzate a lenire la fatica fisica del lavoro, dovevano essere prive di valore artistico: nelle Nuvole Aristofane allude a canti intonati durante la molitura che non incontrano i favori di un personaggio raffinato come Fidippide (cf. vv. 1357s.: ὁ δ’ εὐθέως ἀρχαῖον εἶν’ ἔφασκε τὸ κιθαρίζειν / ᾄδειν τε πίνονθ’ ὡσπερεὶ κάχρυς γυναῖκ’ ἀλοῦσαν, «e lui subito dice che suonare la kithara / e cantare mentre si beve è una cosa antiquata: proprio come una donna che macina orzo»); per l’ esegesi del passo, vd. Dover 1968, 253 e Guidorizzi 1996, 339, ad l.; sull’ immagine della molitrice, qui comicamente chiamata in causa non solo per le lamentose nenie che scandivano la sua fatica ma anche per lo strepito prodotto dalla macina, vd. Fabbro 1998. Sui canti popolari come prodotti ‘extraletterari’ funzionali ai contesti semplici e pragmatici della vita quotidiana, vd. Neri 2003b; Rocconi 2010; e sulle tracce di canti popolari riconoscibili nel teatro attico comico e tragico, Ead. 2016.
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In generale, sull’ impiego delle donne come lavoratrici nei campi, vd. Brock 1994, 342–344 (nello specifico, 343 n. 38); Scheidel 1996. Che la pratica di accompagnare i faticosi lavori manuali nei campi con canti e musiche popolari fosse comune nel mondo greco trova conferma anche in ambito ceramografico: in una terracotta della fine del VI secolo a. C., proveniente da Tebe (Paris, Musée du Louvre, inv. CA 804), è raffigurata una fila di quattro donne intente a macinare grano o a impastare farina, assistite da un auleta che ne cadenza il ritmo di lavoro (illustrazione in Müller 1974, 265 tav. 102).
fr. 353 K.-A. (340 K.) Antiatt. α 40 (p. 78.24 Bekker) ἀ μ ε ι ν ό ν ω ς· Ἀριστοφάνης Θεσμοφοριαζούσαις. m e g l i o: Aristofane nelle Tesmoforiazuse.
Bibliografia
Sicking 1883, 21; Willi 2010, 476; Fiori 2022, 223–226.
Contesto di citazione A parere di Sicking 1883, 21, in questo lemma dell’ Antiatticista, come nel precedente α 39 (che documenta l’ impiego del comparativo avverbiale ἀληθεστέρως in Pl. R. 347e6, 585e2) nonché in ε 21 (dove, oltre al comparativo avverbiale ἐχθροτέρως, in realtà attestato, in luogo di ἐχθρότερον, in Dem. 5.18, viene impropriamente attribuita a Tucidide la forma del comparativo avverbiale ἐπιτηδειοτέρως, che trova il solo riscontro del comparativo neutro dell’ aggettivo ἐπιτηδειότερον in IV 54.3: vd. Valente 2015, 156, ad l.), s’ intende argomentare che per formare il comparativo degli avverbi non sempre gli scrittori attici utilizzavano il genere neutro dell’ aggettivo: talvolta aggiungevano alla radice del comparativo dell’ aggettivo la desinenza -ως. È questo, appunto, il caso del comparativo avverbiale ἀμεινόνως: ascritto dal lessicografo alle Tesmoforiazuse, esso non figura nella versione superstite della commedia e sarà perciò da annoverare tra i resti dell’ omonimo dramma perduto. Irregolare, rispetto al più comune ἄμεινον, l’ avverbio sarà qui stato lemmatizzato al fine di dimostrare, in polemica contro il rigoroso purismo degli atticisti, che molti dei termini da costoro banditi erano stati in realtà impiegati anche dagli scrittori attici già in età classica (vd. Willi 2010, 476 ; Fiori 2022, 225s.). Interpretazione La forma di comparativo avverbiale ἀμεινόνως, in Et.magn. p. 82.49, Σ (rec.) Ar. Ra. 977b Chantry e Σ (Mos.) Soph. OT 1479 Longo registrata come glossa di ἄμεινον e come tale equivalente a κρεῖττον, a βελτιόνως o a κρειττόνως, non è altrove attestata prima di Libanio (Or. 59.11.3), ma è poi ben documentata soprattutto nelle opere del patriarca Cirillo di Alessandria: sulla questione vd. ora diffusamente Fiori 2022, 223–226.
Θεσμοφοριάζουσαι βʹ (fr. 355)
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fr. 354 K.-A. (341 K.) Hsch. β 212 β α ρ β ό ς· μύστρον ἐν Θεσμοφοριαζούσαις. b a r b o s: cucchiaio nelle Tesmoforiazuse.
Bibliografia
Pearson 1844, 153; LVG II 1, 1997, 39.
Contesto di citazione Anche in questo caso l’ assenza del termine βαρβός nella versione conservata della commedia autorizza ad annoverarlo tra i resti della omonima commedia frammentaria. È tuttavia ipotesi di Pearson 1844, 153 che ἐν Θεσμοφοριαζούσαις vada trasposto al lemma immediatamente precedente (β 211), che è dedicato al βάρβιτος, lo strumento musicale a corde effettivamente menzionato nella commedia superstite al v. 137. Interpretazione Sul βαρβός, utensile da cucina impiegato per attingere e misurare, vd. P. Radici Colace in LVG II 1, 1997, 39.
fr. 355 K.-A. (342 K.) Anon. in Arist. EN IV 13, p. 200.7–10 Heylbut (Ba) βαυκοπανοῦργοι λέγονται· βαυκοπανούργους φησὶν ὡς ἓν ἀνθ’ ἑνὸς εἰπεῖν (φησὶ δὲ add. B) τοὺς σεμνοπανούργους. βαῦκος γὰρ ὁ τρυφερὸς (βαῦκον γὰρ ἔλεγον οἱ παλαιοὶ τὸν τρυφερὸν a), ὡς ὁ ποιητὴς Ἀραρὼς ἐν Καμπυλίωνι (καμπύλω Β: καμφύλωνι a) βαυκὰ μαλακὰ τερπνὰ τρυφερά (fr. 9). μετήνεγκται δὲ (μετενηνέχθαι δ ἔοικε a) τὸ ὄνομα ἀπὸ τῶν β α υ κ ί δ ω ν, ὅ ἐστιν εἶδος ὑποδημάτων Ἰωνικῶν, oἷς αἱ Ἰάδες χρῶνται, οὗ καὶ Ἀριστοφάνης ἐν Θεσμοφοριαζούσαις μέμνηται. «sono chiamati affettati impostori»: (Aristotele) afferma che definiscono affettati impostori soprattutto gli impostori pieni di prosopopea. Infatti baukos è l’ effeminato, come (dice) il poeta Araros nel Kampylion: «leziosi, delicati, piacevoli, lascivi» (fr. 9). Il termine è derivato da b a u k i d e s (scarpette): si tratta di un tipo di scarpe ioniche, che utilizzano gli Iadi (Ioni), e che anche Aristofane menziona nelle Tesmoforiazuse.
Bibliografia Mau 1897; Bryant 1899, 89; Frisk GEW I, 228; Chantraine DELG, 170s.; Neri 2003a, 185; Cleland – Davies – Llewellyn–Jones 2007, 17; Zanker 2009, 206; Orth 2013, 331s.; Millis 2015, 211; Tartaglia 2018, 284. Contesto di citazione L’ anonimo commentatore dell’ Etica Nicomachea riconduce a βαῦκος (termine che ha una sola ulteriore attestazione come nome proprio di un ballerino che avrebbe dato il nome a una danza effeminata di origine ionica chiamata βαυκισμός, su cui vd. Orth 2013, 331s., ad Amips. fr. 34) l’ epiteto βαυκοπανοῦργοι impiegato da Aristotele (EN 1127b27) per definire quei dissimulatori scaltri e leziosi che, negando di possedere anche qualità di poco conto
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e che appartengono loro in modo manifesto, finiscono per ostentarle al pari dei millantatori. E, a proposito di βαῦκος, che glossa come ὁ τρυφερός («il lascivo», «l’ effeminato»), cita un frammento del Kampylion di Araros in cui l’ aggettivo βαῦκος / βαυκός è attestato in una sequenza sinonimica (βαυκά, μαλακά, τερπνά, τρυφερά, fr. 9) che lo rende appunto equipollente a τρυφερός. All’aggettivo βαυκός riconduce poi l’ etimologia delle βαυκίδες, che descrive come un tipo di calzature di provenienza ionica menzionate da Aristofane nelle Tesmoforiazuse. Ancora una volta, l’ assenza del termine nella commedia superstite autorizza a ipotizzarne la presenza nella omonima commedia frammentaria. Interpretazione Le βαυκίδες erano eleganti e costose scarpette gialle da donna (oltre al su citato testimone di questo frammento, cf. e. g. Lex.Bekk.V, p. 225.24s.: βαυκίδες· ὑπόδημα πολυτελὲς γυναικεῖον. καὶ βαυκὸν δὲ τρυφερόν. σημαίνει καὶ τὸ θρύπτεσθαι βαυκίζειν, da cui forse deriva Et.magn. p. 192.17 e 21; Hsch. β 363: βαυκίδες· εἶδος ὑποδήματος γυναικείου; Phot. β 104: βαυκίδες· ὑποδήματα γυναικεῖα, ἀφ᾽ οὗ τὸ θρύπτεσθαι καὶ βαυκίζεσθαι. καὶ τὸ τρυφερὸν βαυκόν; Poll. VII 94: αἱ δὲ βαυκίδες καὶ βαυκίδια ἐλέγοντο· πολυτελὲς δ᾽ ἦν ὑπόδημα κροκοειδές). In Alex. fr. 103.7 le baukides sono le calzature in cui le etere di bassa statura infilano suole di sughero per apparire più alte; e in Herod. 7.58 figurano nel ricco campionario di calzature che il ciabattino Cerdone si propone di mostrare alle signore venute al suo negozio (sul possibile gioco di parole tra i nomi di alcune delle tipologie di scarpe elencate nei vv. 57–61 e i nomi di personaggi femminili noti al dotto pubblico di Eroda, quali νοσσίδες, che parrebbe richiamare il nome della poetessa Nosside, già menzionata come «figlia di Erinna» in 6.20, e, appunto, βαυκίδες, che parrebbe ricordare la Baucide nota dalla Conocchia come amica del cuore della poetessa Erinna, vd., tra altri, Neri 2003a, 185 e Zanker 2009, 206, ad l.). Su queste calzature, vd. Mau 1897; Bryant 1899, 89; Cleland – Davies – Llewellyn– Jones 2007, 17. Come si ricava dalle testimonianze citate, nell’ erudizione tardoantica e bizantina il termine βαυκίδες è ricondotto dunque all’ aggettivo βαυκός, generalmente interpretato come «molle», «fiacco», «svenevole», «lussuoso», «lascivo», «effeminato» (oltre alle testimonianze su citate, cf. anche Hsch. β 191: βαυκόν· μωρόν; β 359 βαυκά· ἡδέα; Phot. β 106: βαυκόν· ἤτοι τὸ τεθρυμμένον ἢ ποικίλον). Ma la radice βαυκ- ha etimologia sconosciuta e non è chiaro se i suoi derivati (oltre a βαυκίδες, βαύκαλον [Et.magn. p. 192.20s. βαύκαλον· μαλακιζόμενον, τρυφερόν, καὶ ὡραϊστήν; cf. Anaxandr. fr. 42.5 βουβαυκαλόσαυλα, su cui vd. Millis 2015, 211 ad l.], βαυκαλάω, βαυκαλίζω, βαυκίζομαι [Alex. fr. 224.9, e cf. Hsch. β 364 βαυκίζεσθαι· θρύπτεσθαι; Et.magn. p. 192.17 καὶ βαυκίζεσθαι τὸ θρύπτεσθαι; Lex. Bekk.V, p. 225.26 Bekker = Hsch. β 365 βαυκιζόμενον· τρυφερὸν καὶ ὡραϊστήν], βαύκισμα [cf. Hsch. β 366 βαυκίσματα· τρυφερώματα]) discendano dall’ aggettivo βαυκός, come ritiene Frisk GEW I, s. v. βαυκός, 228, o se βαυκός possa al contrario considerarsi una retroformazione di matrice popolare di βαύκαλος, come ipotizza
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Chantraine DELG, s. v. βαυκός, 170s. Su βαυκός vd. più in dettaglio Tartaglia 2018, 284, ad Arar. fr. 9.
fr. 356 K.-A. (343 K.) Antiatt. δ 11 (p. 88.28 Bekker) δ ι α λ έ ξ α σ θ α ι· Ἀριστοφάνης Θεσμοφοριαζούσαις. d i a l e x a s t h a i· Aristofane (lo usa) nelle Tesmoforiazuse. Poll. II 124–125 (FS, A, BC) Ὑπερείδης δὲ (fr. 171 J.) διειλεγμένος ἐπὶ ἀφροδισίων (Ὑπερ. — ἀφροδ. om. BC) (cf. Poll. V 93 διελέχθην αὐτῇ καὶ διειλεγμένος εἰμί, ὡς Ὑπερείδης)· Ἀριστοφάνης δὲ διαλέξασθαι ἔφη. Iperide (fr. 171 J.) (ha usato il termine) dieilegmenos a proposito di rapporti sessuali (cf. Poll. V 93: «ho avuto intercorsi sessuali con lei» e «ho intrattenuto una relazione intima», come [dice] Iperide). Aristofane diceva invece dialexasthai.
Bibliografia Coulon 1962; Henderson 1991, 155; Sommerstein 1998, 215; Piccirilli 1998, 224s.; Sommerstein 2001, 207s.; Valente 2015, 55; Caroli 2017, 388; Fiori 2022, 226–229. Contesto di citazione Il lemma dell’ Antiatticista documenta l’ impiego della forma verbale διαλέξασθαι, aoristo medio (qui all'infinito) di διαλέγω, nelle Tesmoforiazuse di Aristofane: e anche in questo caso l’ assenza del vocabolo nella versione conservata della commedia autorizza ad annoverarlo tra i resti della omonima commedia frammentaria. L’ impiego aristofaneo di questa forma verbale è documentato anche dalla prima delle due testimonianze di Polluce relative, tra l’altro, all’uso di διειλεγμένος, forma participiale del perfetto medio di διαλέγω, da parte di Iperide. Tale testimonianza è da porre evidentemente in relazione alla successiva menzione pollucea delle perifrasi διελέχθην αὐτῇ e διειλεγμένος εἰμί (V 93), il cui impiego è ascritto a Iperide. In II 124 il lessicografo precisa che Iperide usava questo participio in riferimento agli aphrodisia: il che consente di desumere che anche il commediografo usava il verbo in questa accezione eufemistica. Per questo impiego del verbo (o di una sua forma perifrastica) nell’orazione LX, scritta da Iperide in difesa della celebre etera Frine, vd. infra, ad Intepretazione. Per l’uso della diatesi media in alternativa a quella passiva cf. Phryn. PS p. 65.9 de Borries (διαλέξασθαι [-εσθαι cod., corr. Bekker], οὐ μόνον διαλεχθῆναι): sulla convergenza tra il Frinico della Praeparatio sophistica e l’ Antiatticista, documentata da glosse come questa, vd. Valente 2015, 55, e ora Fiori 2022, 226–229 (in particolare, per le ulteriori attestazioni lessicografiche, 227s.), a parere del quale è verosimile che l'interesse dell'Antiatticista si appuntasse non solo sulla semantica di questa forma verbale, ma anche, se non soprattutto, sul suo impiego, in questa peculiare accezione, nelle due differenti diatesi, media e passiva.
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Interpretazione Il medio διαλέγεσθαι significa letteralmente «conversare», ma può essere impiegato anche come eufemismo per «avere intercorsi sessuali» (vd. Caroli 2017, 388): lo documentano le due su citate testimonianze di Polluce (vd. supra, ad Contesto di citazione). Benché in ambo i casi Polluce non faccia riferimento all’orazione da cui proviene l’ espressione iperidea, si ritiene comunemente che essa fosse attestata nell’ orazione In difesa di Frine sulla base delle celebri testimonianze di Ps.–Plu. X orat. vit. 9 (Mor. 849e) e Ath. XIII 590d: da quest’ultima, in particolare, si ricava che con la bellissima etera di cui assunse la difesa per l’accusa di empietà mossagli da un suo ex amante, l’oratore stesso intrattenne una relazione amorosa. In II 125 Polluce aggiunge dunque che Aristofane aveva impiegato (evidentemente nella medesima accezione) lo stesso verbo all'aoristo medio (dialexasthai). Tale accezione, che trova riscontro in Hsch. δ 1117 (διαλέγεσθαι· ἐπὶ τοῦ συνουσιάζειν), Sud. δ 623 (διαλέγεσθαι· τὸ συνουσιάζειν), Moer. δ 44 (διαλέγεσθαι καὶ τὸ πλησιάζειν ταῖς γυναιξίν, ὡς Ὑπερείδης), Synag. δ 177 (= An.Bachm. p. 195.4s.) = Phot. δ 366 = Sud. δ 626 (διαλέγοιντο γυναιξίν· ὁμιλοῖεν ἢ συνουσιάζοιεν. οὕτω [οὕτως Phot., Sud.] γὰρ καὶ [γὰρ καὶ om. Synag. B, Phot., Sud.] Ἱεροκλῆς [fr. 3 von Arnim]), in Aristofane è documentata forse da Eccl. 890, dove il deittico con cui è costruita l’ imprecazione τούτῳ διαλέγου, indirizzata dalla Vecchia I alla Giovane, potrebbe indicare il dito medio della ragazza, col quale ella verrebbe dunque ammonita a procurarsi piacere da sola, rinunciando alle sue velleità di seduzione (per questa interpretazione vd. già Coulon 1962, e ora Henderson 1991, 155; per le possibili esegesi alternative vd. Sommerstein 1998, 215, ad l.), e da Pl. 1082s., dove il Giovane si rifiuta di ‘aver a che fare’ con una donna «sfiancata da tredicimila… anni (οὐκ ἂν διαλεχθείην διεσπλεκωμένῃ / ὑπὸ μυρίων ἐτῶν γε καὶ τρισχιλίων)» (per questa esegesi del verbo vd. Henderson 1991, 155, e per l’ interpretazione dell’ intero passo, vd. Sommerstein 2001, 207s., ad l.). Con analoga valenza erotica il verbo è impiegato in Plu. Sol. 20.3, dove viene precisato il senso esatto del nomos soloniano sull’epiclerato nel caso specifico in cui il marito dell’ ereditiera fosse affetto da impotentia coeundi: caso in cui, al fine di garantire la prosecuzione e la consanguineità del genos, è bene che l’epiclera si ‘congiunga’ non con chiunque ma con quello che vuole tra i congiunti del marito (εὖ δ᾽ ἔχει καὶ τὸ μὴ πᾶσιν, ἀλλὰ τῶν συγγενῶν τοῦ ἀνδρὸς ᾧ βούλεται διαλέγεσθαι τὴν ἐπίκληρον): vd. Piccirilli 1998, 224s., ad l.
fr. 357 K.-A. (344 K.) Antiatt. ε 108 (p. 96.25s. Bekker) ἐ π α ν ο ρ θ ώ σ α σ θ α ι· Ἀριστοφάνης Θεσμοφοριαζούσαις. e p a n o r t h ō s a s t h a i (c o r r e g g e r e / c o r r e g g e r s i): Aristofane (lo usa) nelle Tesmoforiazuse.
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Bibliografia
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Fiori 2022, 229–233.
Contesto di citazione L’ Antiatticista documenta l’ impiego della forma mediale di ἐπανορθόω nelle Tesmoforiazuse di Aristofane: anche in questo caso, non essendo il verbo documentato nella commedia superstite, è da presumere che esso fosse attestato nella omonima commedia perduta. Interpretazione Nella forma attiva il verbo è impiegato da Aristofane in Lys. 528, dove la protagonista promette al Probulo che le donne potranno ‘raddrizzare’ gli uomini (ἐπανορθώσαιμεν ἂν ὑμᾶς) se soltanto questi saranno disposti a star zitti, come prima facevano loro, e a dare ascolto ai loro saggi consigli. Come verbo del lessico grammaticale, riferito alla revisione di testi scritti o alla correzione di racconti orali, esso è attestato tanto all’ attivo (cf. e. g. Ps.–Hdn. Philet. 130: […] ἐπανορθῶσαι δὲ ἐπὶ λόγων καὶ τῶν ἡμαρτημένων) quanto al medio (cf. Thom.Mag. Ecl. p. 133.14 Ritschl: ἐπανορθοῦμαι· κάλλιον ἢ ἐπανορθῶ. Πλάτων ἐν τῇ πρώτῃ τῶν Πολιτειῶν; ma in realtà il rinvio è a Tht. 143a4, dove il medio ἐπηνωρθούμην è impiegato da Euclide in riferimento al proprio lavoro di rielaborazione degli appunti – relativi alla conversazione riferitagli da Socrate con il matematico Teodoro di Cirene e il suo allievo Teeteto – da lui annotati in vista della stesura del dialogo omonimo). Al medio il verbo è ripetutamente attestato in Polluce: ad esempio in VI 115 come sinonimo di μετανοῆσαι, μεταμελῆσαι et al., dunque nell'accezione riflessiva di «ricredersi, cambiare opinione», «correggersi» e in VI 140 in riferimento al processo di ripensamento e di revisione proprio del lavoro di scrittura. In mancanza dell’interpretamentum nella glossa dell’ Antiatticista, non è evidentemente possibile precisare in quale accezione il verbo fosse impiegato da Aristofane nella perduta commedia: per una dettagliata disamina di questo lemma vd. ora Fiori 2022, 229–233.
fr. 358 K.-A. (338. 907 K.) Phot. λ 48 = Sud. λ 62 λ α κ ω ν ί ζ ε ι ν· παιδικοῖς χρῆσθαι (hucusque = Hsch. λ 224). Ἀριστοφάνης Θεσμοφοριαζούσαις βʹ. l a k ō n i z e i n: fare sesso con ragazzi. Aristofane (lo usa) nelle Tesmoforiazuse seconde.
Bibliografia Dover 2016, 187s.; Dunbar 1995, 636–638; Olson 2014, 125–128; Caroli 2017, 392. Contesto di citazione A differenza dei due precedenti frammenti, in questo caso la specificazione del numerale nella testimonianza di Fozio e della Suda conferma che il verbo lakōnizein, peraltro non attestato nelle Tesmoforiazuse superstiti, era impiegato da Aristofane nella omonima commedia perduta.
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Aristophanes
Interpretazione Nel contesto delle perdute Tesmoforiazuse evocato dai lessicografi Aristofane sembra aver impiegato il verbo in un’ accezione erotica («avere frequentazioni sessuali con fanciulli»). In generale, comunque, «an allegation of ready submission to homosexual penetration was always derogatory, the kind of thing one says of an enemy, and Sparta and Athens were enemies, with only brief interludes of peace, in the lifetime of Aristophanes and his contemporaries» (Dover 2016, 188); ma può talora indicare semplicemente il modo di vivere o di vestire alla maniera lacedemone oppure una tendenza politica anti–spartana: a siffatte attitudini si riferiscono ad esempio gli atteggiamenti descritti da Aristofane in Av. 1281–1283 (su cui vd. Dunbar 1995, 636–638); Pl. Prt. 342b–c; Dem. 54.34; Plu. Per. 22.3. In Eup. fr. 385.1 il verbo è impiegato nell’ accezione generica di «vivere alla maniera spartana», posto che l’ interlocutore (A.) sembra contrapporre l’ austero modo di cucinare degli Spartani (λακωνίζειν) a una pratica culinaria alternativa, simboleggiata dal «saltare (il cibo) in padella» (ταγηνίζειν), ma conterrà anche un double entendre erotico, posto che l’ interlocutore (B.) interpreta λακωνίζειν in senso sessuale, attribuendo all’ interlocutore (A.) prima una frequente pratica di sesso anale con molte donne spartane (πολλὰς δ᾽ † οἶμαι νῦν βεβινῆσθαι, v. 2) e poi l’invenzione di una λακκοπρωκτία praticata in maniera non meno intensa (πολλήν γε λακκοπρωκτίαν ἡμῖν ἐπιστασ᾽ εὑρών, v. 4). Sul problema dell’ identificazione dei due interlocutori, e, più in generale, per l’ interpretazione e l’ interlocuzione controverse dei vv. 1–4 di questo frammento anepigrafo di Eupoli, vd. Olson 2014, 125–128. La presunta propensione degli Spartani per i rapporti anali è ridicolizzata da Aristofane in Lys. 1162–1164 e 1174. A questa accezione oscena del verbo rinvia anche l’ epiteto κυσολάκων affibbiato a un non meglio identificato Clinia in un frammento comico adespoto (fr. com. adesp. 511), dove il composto viene esplicitamente etimologizzato nella forma ὁ τῷ κυσῷ λακωνίζων (Phot. κ 1263: κυσολάκων· ὁ Κλεινίας [Κλινίας codd., corr. Porson, Κλεινίου Ruhnken] ὁ τῷ κυσῷ λακωνίζων λέγουσιν. Ἑλένῃ [Μελαίνῃ codd., corr. Ruhnken] γὰρ Θησεὺς οὕτως ἐχρήσατο, ὡς Ἀρίσταρχος [Ἀριστοτέλης codd., corr. Ruhnken ex Hsch. κ 4735, -φάνης Meineke FCG II 1, 200, «dixitne tragicus Aristarchus in satyrico?» Kaibel ap. Kassel–Austin PCG III 2, 200]; Hsch. κ 4735: κυσολάκων· Ἀρίσταρχός φησι τὸν Κλεινίαν οὕτω λέγεσθαι τῷ κυσῷ λακωνίζοντα. τὸ δὲ τοῖς παιδικοῖς χρήσασθαι λακωνίζειν ἔλεγον). Per questo e i numerosi altri composti comici formati a partire da κυσός («culo»), vd. Olson–Seaberg 2018, 293s. ad Cratin. fr. 460. In generale sull’ immaginario erotico connesso al verbo λακωνίζω, vd. Dover 2016, 187s.; Caroli 2017, 392.
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Κώκαλος (Kōkalos) (Cocalo)
Bibliografia Grauert 1828, 506–509; Hertz 1885, cxxii n. 0, 434; Bergk ap. Meineke FCG II 2, 1088ss.; Kock CAF I, 482s.; Hiller 1887; Murray 1933, 208s.; Wehrli 1936, 17–19; Schmid 1946, 194, 221; Bérard 1957, 417ss.; Geißler 1969 [1925], 2, viii, 76, xviii; Gelzer 1970, 1413, 3–17; Webster 1970, 17s., 77; Perusino 1986, 69s.; Gil 1989, 86; Nesselrath 1990, 164s., 195; Id. 1993; Sutton 1990, 94; Carrière 2000, 220s.; Konstantakos 2002, 155; Brockmann 2003, 332–342; Casolari 2003, 169–175; Cusset 2003, 32s.; Henderson 2007, 111, 281; Bruzzese 2011, 132–136; Zimmermann 2011a, 768; Hughes 2012, 29s.; Hartwig 2014, 208 con n. 8. Titolo Tramandato nei due più completi cataloghi di titoli aristofanei, quello restituito da POxy. XXXIII 2659 (= TM 63604) (fr. 2 col. i 8 Κώ]κ̣αλος: Ar. test. 2c.11 = Kōk. test. i) e l’ Index Novati (Ar. test. 2a.18 = Kōk. test. ii: Κώκαλος) 120, questo titolo è riportato anche da Ar. Pl. Arg. III Chantry (= Kōk. test. iiia); ma la sua presenza nella tradizione di questa hypothesis, insieme con quella del successivo titolo Eolosicone121, apre questioni non secondarie sulla cronologia e sulla carriera dell’‘ultimo Aristofane’, nonché su quelle del figlio Araros, di cui si dirà più avanti (vd. infra, ad test. iiia–b). Il titolo Κώκαλος allude alla vicenda mitica dell’ omonimo re della città siceliota di Camico, situata nella chōra agrigentina, presso cui si rifugiò Dedalo, grazie alle ali che egli aveva inventato e costruito. Il mitico inventore era stato imprigionato da Minosse, assieme al figlio Icaro, per aver aiutato Arianna a far uscire Teseo dal labirinto (così Ps.–Apollod. Epit. 1.12) ovvero per aver favorito l’ amore di Pasifae per il toro (così Zen. vulg. 4.92 [CPG I, 112]). Giunto a Camico in cerca del fuggitivo, il re di Creta fu dapprima accolto amichevolmente e poi ucciso da Cocalo e/o dalle sue figlie: immerso in un lebete, per fare un bagno, gli fu rovesciata addosso acqua bollente ovvero pece (così Zenobio). In una parte delle numerose fonti122, all’ impresa, spacciata da Cocalo per un incidente, è associata la complicità del fuggiasco Dedalo, che avrebbe sug-
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Sui due cataloghi vd. supra, ad Eirēnē II, Titolo e ad Hērōes, test. ii. Come precisa Canfora 2014, 233s., solo otto degli oltre trecento manoscritti del Pluto tramandano la porzione di testo interessata da questa notizia. Un paio di essi (Vatic. Ottobonianus gr. 161 e Parisinus gr. 2827) non presenta neanche il titolo Cocalo. Questo, come pure il titolo successivamente menzionato dell’Eolosicone, non è presente neanche in E (il codice Estense [Estensis gr. 127 (α. U.5.109)] che fu preso a base da Musuro per l’ editio princeps delle commedie di Aristofane pubblicata da Aldo Manuzio nel 1498), ma fu aggiunto da un’ altra mano sul rigo. Fonti principali di questa saga sono D. S. IV 77.1–79.3; Con. FGrHist 26 F 1.XXV; Paus. VII 4.6; Ps.–Apollod. Epit. 1.12–15; Σ (D) Hom. Il. II 145; Σ Pi. P. 6.5a, II pp. 194s. Drachmann e N. 4.95b (vd. infra); Tz. Chil. 1.506–509; Ov. Ib. 289s. (e vd. Σ ad l., pp. 40s. La Penna); Hygin. Fab. 40 e 44; cursori riferimenti si ravvisano altresì in Hdt. VII 170, Call. Aet. 43.46–49 Pfeiffer; Str. VI 3.2.
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gerito alle figlie di Cocalo di far passare dal tetto del bagno un condotto nel quale incanalare l’ acqua bollente123. Contenuto Tredici i frammenti ricondotti al Cocalo (359–371), al quale era attribuito dal Salmasius (vd. Hertz 1885, cxxii n. 0) anche il fr. 441 (da Ferdinand Ascherson [ap. Hertz 1885, 434] attribuito invece ai Banchettanti), generalmente ascritto alle Navi mercantili a partire dalla ricostruzione proposta da Hertz del corrotto titolo ΑΚΑΛΕΣ tramandato dalla tradizione manoscritta di Gell. XIX 13.3. A stare all’ anonima Vita di Aristofane (Proleg. de com. XXVIII 5–7, p. 133 Koster = Ar. test. 1.4–6 = Kōk. test. va; Proleg. de com. XXIXa 7s., p. 137 Koster = Kōk. test. vc; e cf. anche l’ anonimo Περὶ κωμῳδίας, Proleg. de com. V 21, p. 14 Koster = Ar. test. 81), il Cocalo avrebbe inaugurato la tipologia della commedia nuova, ispirando la drammaturgia di Menandro e di Filemone: concetto ribadito più avanti, allorché si afferma che «Aristofane fu oggetto di emulazione da parte dei ‘nuovi comici’ quali appunto Menandro e Filemone» (50s., p. 135 Koster = test. 1.46 = Kōk. test. vb), e che, a seguito di un presunto decreto che vietava l’ onomasti kōmōdein, del progressivo impoverimento dei coreghi, sempre meno in grado di assumersi l’ onere di sponsorizzare le commedie, e della scomparsa dei tradizionali motivi scoptici dal genere comico (51–54, p. 135 Koster = test. 1.47–49 = Kōk. test. vb), «Aristofane scrisse il Cocalo», nella cui trama erano presenti «uno stupro, un riconoscimento e tutti gli altri elementi che Menandro riutilizzò poi in uno spirito di emulazione» (54s., p. 135 Koster = test. 1.49–51 = Kōk. test. vb),). L’ attendibilità di una siffatta tradizione, che fa di Aristofane l’ archegeta della commedia nuova, è stata ridimensionata da Wehrli 1936, 18s., anche in considerazione del fatto che Aristofane non è l’ unico commediografo cui l’ erudizione antica attribuisce il ruolo di precursore della nea: esemplare il caso di Anassandride, che, secondo la Suda, sarebbe stato «il primo ad aver introdotto amori e rapimenti di fanciulle» (α 1982 = Anaxandr. test. 1). A parere di Webster 1970, 77, l’ aporia andrà spiegata con la circostanza che Aristofane avrà introdotto i temi della nea nelle commedie di argomento mitologico laddove Anassandride sarà stato il primo a presentarli nelle commedie in cui veniva messa in scena la vita quotidiana. La spiegazione non soddisfa Nesselrath (1990, 195 con n. 29; Id. 1993, 192s. con n. 20), che muove al riguardo due obiezioni: da una parte, già nelle Tesmoforiazuse, Aristofane, parodiando Euripide, aveva introdotto i temi del riconoscimento, dell’ amore e del tentato salvataggio della persona amata; dall’ altra, lo stesso Anassandride sembra 123
Cf. Σ Pi. N. 4.95b, p. 80.9 Drachmann e, più diffusamente, su questa saga: Robert 1901, 2001s.; Quandt 1921. Il personaggio mitico di Cocalo assume una rilevanza particolare come punto d’ incontro della tradizione cretese con quella siciliana, nella misura in cui ritrae un aspetto della fase di migrazione ‘micenea’ successiva al crollo dei regni achei. La centralità di questa leggenda cretese (l’arrivo in Sicilia presso il re Cocalo) nella storia della Sicilia è ampiamente documentata a partire dal V secolo a. C.: tanto che, a stare a D. S. XII 71.2, Antioco di Siracusa faceva iniziare dal regno di Cocalo la sua storia della Sicilia; sulla questione vd. Bérard 1957, 417–424; Pugliese Carratelli 1976, 225–242.
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aver esperito, almeno per un certo periodo, la strada della parodia dei miti drammatizzati nelle tragedie. Esistono peraltro due testimonianze, fornite rispettivamente da Quintiliano (X 1.68–69 = Men. test. 101) e dalla Vita euripidea di Satiro (F 6 fr. 39 col. VII.6–23 Schorn = TrGF V.1 T S 137 Kn.), dalle quali si è voluto inferire che già dagli antichi fosse stata teorizzata l’ influenza degli Intrigenstücke euripidei sulla commedia del IV secolo124: e tale circostanza, per cui a Euripide verrebbe ascritto un analogo ruolo di antesignano della commedia nuova, non è stata percepita come necessariamente contraddittoria. A parere di Brockmann 2003, 340s., ad esempio, «Beide Auffassungen schließen einander jedoch nicht aus; sie sind, wenn Aristophanes mit dem Kokalos tatsächlich einen so grundsätzlichen Wandel vollzogen hat, sogar beide richtig, sind die zwei Seiten einer Medaille: Aristophanes hätte demnach als erster eine Komödie vollständig nach dramaturgischen Prinzipien gestaltet, die aus der Tragödie stammen, Euripides aber bleibt derjenige, der diese Dramaturgie, wie auch Satyros betont, perfektioniert hat, und ist somit der eigentliche Urheber» (vd. anche Nesselrath 1990, 164s. con n. 49, a parere del quale le notizie contenute nelle testimonianze che parrebbero fare ora di Aristofane ora di Euripide e ora di Anassandride dei ‘pionieri’ della commedia nuova potrebbero conciliarsi se fatte convergere verso «a kind of ‘pipeline’ […], through which contents of Euripidean plays – be they single verses, characters, scenes or even whole plots – could be ‘funnelled’ into the comedies of Aristophanes and Anaxandrides; and indeed there is such a ‘pipeline’: parody» (Nesselrath 1993, 185, ma vd. anche 192s. e già Id. 1990, 195 con n. 29). Più precisamente, Nesselrath osserva che: «Euripides exhibited typical plot elements of the future of New Comedy as an integral part of his own plays; Aristophanes parodied Euripides and thus incorporated these plot elements into his comedies […]; and thirdly, Anaxandrides […], as probably the oldest of the subsequent generation of comic poets, at first continued parodying tragic plots, but then proceeded to invent similar plots without the former tragic trappings; from that point onwards, infant New Comedy could grow up, and parody as its midwife and nurse retire» (1993, 195). Effettivamente, motivi come l’ ἀναγνωρισμός e la παρθένου φθορά, introdotti da Euripide nell’ Elena e nell’ Andromeda, avevano già trovato varchi nella commedia attraverso la strada della parodia che Aristofane percorre nelle Tesmoforiazuse (vv. 855–919, 1010–1135)125. E dunque la ragione per cui l’ autore della Vita Aristophanis circoscriveva la presenza di tali motivi al solo Cocalo sarà diversa: una spiegazione potrebbe essere rappresentata dal fatto che, mentre nelle 124
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Vd. e. g. Porter 2000, 157 e n. 1; Parker 2016, XLI e n. 76. Ma sull’ interpretazione delle due su citate testimonianze, di Quintiliano e della Vita di Satiro, che ascriverebbero a Euripide il ruolo di precursore dei comici, si vedano gli opportuni correttivi introdotti da Sonnino 2019. In generale, sulla presenza del motivo dell’ ἀναγνώρισις non solo nelle Tesmoforiazuse ma anche in varie altre scene di commedie aristofanee conservate (in particolare Eq. 1229–1252, Ra. 460–473), vd. Da Silva Duarte 2008, 483–495.
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Tesmoforiazuse essi compaiono in singole scene, inserite all’ interno di una trama creata ex novo dal commediografo, nel Cocalo questi elementi determinavano l’ intero plot, che a sua volta era stato concepito come detorsio di una trama tragica preesistente (così Nesselrath 1993, 189, seguito da Casolari 2003, 169s. n. 1)126. Situato in quell’ ultima fase della produzione aristofanea – rappresentata per noi, oltre che dal Cocalo, dall’ Eolosicone, dalle Ecclesiazuse e dal Pluto – che prelude ormai alla commedia di pieno quarto secolo, il Cocalo sarà stato in ogni caso «una tipica commedia mitologica che ricalcava, non sappiamo a quale livello di parodia, la trama dei Camici di Sofocle» (Bruzzese 2011, 133), incentrati appunto sull’ infausto esito della ricerca di Dedalo, da parte di Minosse, alla corte di Cocalo. Non è dato però sapere se e in qual misura gli elementi dell’ intrigo indicati nella biografia mitografica di Cocalo fossero in rapporto con la pièce di Sofocle (vd. Wehrli 1936, 17s.; Webster 1970, 17s.; Kassel–Austin PCG III 2, 201; Perusino 1986, 69s.; Sutton 1990, 94; Cusset 2003, 32s.), né quale ruolo essi svolgessero nella trama della commedia aristofanea: «sia perché possediamo troppo scarsi frammenti (359–71), sia perché non si deduce con sicurezza come la violenza ad una donna ed il riconoscimento possano essere stati legati alla vicenda della ricerca di Dedalo» (Bruzzese 2011, 133 n. 99). Il tema dello stupro, testimoniato dall’ anonimo biografo, poteva rappresentare un antecedente molto lontano dal tempo dell’ intrigo (è ciò che sembra supporre Carrière 2000, 220) o, al contrario, molto più vicino, e assumere ad esempio i contorni di una storia d’ amore tra Dedalo e una delle figlie di Cocalo (così Nesselrath 1993, 187, sulla scia di Murray 1933, 209, e di Webster 1970, 17). Analogamente, per quel che riguarda la presenza del motivo del riconoscimento, menzionato ancora nella biografia, si può supporre che esso riguardasse un non meglio identificato bambino precedentemente esposto o rapito (così Murray 1933, 209; e per questa ipotesi sembra propendere anche Carrière 2000, 220) oppure Dedalo, la cui identità sarebbe stata svelata a Minosse alla corte di Cocalo (così Cusset 2003, 33), magari, analogamente a quanto probabilmente accadeva nei Camici di Sofocle, sulla base del superamento di una prova (cf. Pearson 1917, II 4; Radt
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Un collegamento tra Aristofane e la commedia successiva è peraltro presente anche in Platon. Diff. Com. (Proleg. de Com. I), p. 4.22–31 Koster = p. 34.27–38 Perusino, dove però la commedia aristofanea posta sul crinale tra l’ archaia e la mesē è l’ Eolosicone (su questa importante testimonianza di Platonio vd. Orth 2017, 31–36, ad Aiolosik. test. v, con la bibliografia ivi discussa). Da Nesselrath 1990, 52s. è stata rilevata la somiglianza tra la testimonianza di Platonio e quelle della Vita Aristophanis e di Proleg. de com. V Koster, che individuano rispettivamente nel Cocalo e nel Pluto la commedia aristofanea che avrebbe sancito la transizione verso un nuovo tipo di comicità. E va peraltro rimarcato come in tutti e tre i casi «il grande commediografo attico costituisca il termine mediano, obliterando sostanzialmente (in Vita Ar. e in Proleg. de com. V Kost.) l’ esperienza della mesē o determinando la mancata caratterizzazione della stessa con specifiche personalità (in Platon., Diff. Com.)» (Bruzzese 2018, 365).
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TrGF IV, 310s.)127. Apollodoro (Epit. 1.14; e cf. Zen. vulg. 4.92) racconta infatti che Minosse fu in grado di smascherare la presenza di Dedalo alla corte di Camico con un abile stratagemma: aveva promesso una ricompensa a chi fosse riuscito a far passare un filo attraverso il guscio di una chiocciola. Con l’ ingegnosa trovata di praticare un foro nel guscio, attraverso il quale far passare una formica cui era stato legato il filo, Dedalo raccolse la sfida di Minosse, tradendo però in tal modo la propria identità. Donde la scelta obbligata di Cocalo, il quale, costretto a promettere a Minosse la consegna del fuggitivo, riuscì a salvare Dedalo solo con l’ uccisione del suo persecutore. Il rapporto col perduto dramma sofocleo sarebbe nel qual caso corroborato dal fr. 324 R.2, in cui la persona loquens apostrofa il figlio auspicando che «di codesta chiocciola marina possiamo trovarne qualcuna» (ἁλίας στραβήλου τῆσδε, τέκνον, εἴ τινα / δυναίμεθ᾽ εὑρεῖν): il passo potrebbe dunque alludere a questo ἀναγνωρισμός (così Casolari 2003, 172; Achilli 2009, 150). E sulla base della testimonianza di Clemente Alessandrino (Kōk. test. iv) secondo cui al Cocalo si sarebbe ispirato Filemone per la composizione del suo Ὑποβολιμαῖος (Supposito), è stato ipotizzato che nel Cocalo la vera identità del puer suppositus Dedalo, spacciato per figlio di Cocalo nell’ intento di sottrarlo alla persecuzione dei Cretesi e del loro re, venisse smascherata da Minosse una volta giunto in Sicilia (così Nesselrath 1993, 188 n. 13, seguito da Casolari 2003, 171s., la quale altresì ipotizza che, una volta compiutosi l’ ἀναγνωρισμός di Dedalo, Cocalo, cui Minosse avrebbe imposto di uccidere l’ impostore, venisse persuaso da una delle proprie figlie, innamorata di lui, a uccidere al suo posto Minosse: situazione cui rinvierebbe il fr. 367 del Cocalo «Da es sich um eine Komödie handelt, muß es jedenfalls ein Happy–End gegeben haben» Casolari 2003, 172, e cf. anche n. 8)128. Organico a una siffatta ricostruzione parrebbe il fr. 359, dove col termine φῷδες parrebbero designate le vesciche procurate dalla vicinanza al fuoco, o più precisamente, le ustioni procurate a Minosse dall’ acqua calda o dalla pece: con riferimento dunque alla situazione, tipicamente omerica, degli ospiti che prendono il bagno in occasione di un banchetto – in questo caso il banchetto cui Minosse sarà stato invitato da Cocalo e dalle sue figlie (vd. Casolari 2003, 173 n. 10). Alla luce di
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Per una più ampia riconsiderazione dell’ interesse sofocleo verso il mito di Dedalo e Minosse, e per le implicazioni che la sua localizzazione siceliota nei Camici potrebbe aver avuto nella valutazione sofoclea della politica imperialistica dell’ Atene post–periclea, vd. Achilli 2009. Del tutto inverificabile, in verità, la notizia, riportata dall’ autore cristiano in una sezione degli Stromata, dedicata ai temi del plagio e del furto di opere da parte degli autori antichi (VI 26.6), secondo cui Filemone avrebbe composto il suo Ὑποβολιμαῖος rielaborando il Cocalo, attribuito peraltro ad Araros (sull’ inattendibilità di una siffatta attribuzione, vd. Hiller 1887, 527s., ma già Grauert 1828, 508s., e ora Bruzzese 2011, 134–136). In generale, sulle accuse di plagio che scandiscono le polemiche letterarie tra i commediografi antichi e che ne hanno influenzato il giudizio presso i posteri, vd. Kyriakidi 2007, 172–196, con ulteriore bibliografia.
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tali considerazioni, l’ ἰπνός menzionato nel fr. 369 potrà allora identificarsi con la fornace utilizzata per riscaldare l’ acqua per il bagno di Minosse (cf. Casolari 2003, 173 con n. 12). E tuttavia, come nota Bruzzese 2011, 133 con n. 99, in quest’ ipotesi risulterebbe difficile legare i due motivi e intuire come potesse essere evitato il finale tragico e crudo della morte di Minosse. A parere di Casolari 2003, 173, tale difficoltà non sarebbe tuttavia insormontabile: basterebbe ipotizzare che «Wahrend der komischen Handlung ist Minos bestimmt nicht ums Leben gekommen, aber die φῷδες auf seinem Körper könnten die Folgen eines vergeblichen Versuches der Kokalostöchter und des Daidalos darstellen, Minos mit Hilfe heißen Wassers oder Pechs zu töten». Anticipazioni di temi propri della commedia nuova sono ravvisate dalla studiosa in altri frammenti: nel fr. 370 si allude a etere che potrebbero aver partecipato a feste femminili, come le Aloe e le Afrodisie, e in particolare a feste notturne, quali le Adonie e le Tauropolie: occasioni privilegiate nella commedia nuova per παρθένων φθοραί da parte di giovani ubriachi. Tali situazioni, ricorrenti nella nea, e documentateci, in Menandro, dalla Samia (vv. 39ss.) e dagli Epitrepontes (vv. 476ss.)129, si concludono in genere col matrimonio del colpevole con la ragazza violentata. Donde l’ interessante ipotesi (formulata anche da Konstantakos 2002, 155) secondo cui forse la παρθένου φθορά riguardava qui una delle figlie di Cocalo. Se già Aristofane avesse introdotto questo tema non è ovviamente possibile stabilire sulla base degli sparuti frammenti superstiti: «Interessant ist aber zu bemerken, daß er Motive der Neuen Komödie in einem mythischen Gewand vorwegnahm, die seine Nachfolger dann in einer bürgerlichen Sphäre spielen lassen sollten» (Casolari 2003, 175). Datazione Sulla base di Ar. Pl. Arg. III Chantry (= Kōk. test. iiia = Aiolosik. test. iv) si ritiene comunemente che la commedia possa essere andata in scena nel 388 / 7 a. C., forse alle Dionisie, con la regia di Araros, uno dei tre figli di Aristofane (cui peraltro Clemente Alessandrino attribuisce la composizione della commedia, cf. test. iv), al quale Aristofane avrebbe ‘donato’ le sue due ultime commedie, appunto il Cocalo e l’ Eolosicone, e che nei Fasti (IG II2 2318.196 = IRDFA 2318.1004, p. 40 Millis–Olson = Arar. test. 3) sembra essere registrato come vincitore alle Dionisie di quell’ anno (la sequenza di lettere ]ΡΩΣ ΕΔ[ ]ΕΝ viene così integrata: Ἀρα]ρὼς ἐδ[ίδασκ]εν): per questa datazione vd. soprattutto Geißler 1969 [1925], 2, viii, 76, xviii; Gelzer 1970, 1413, 3–17; Kassel–Austin PCG III 2, 34; Gil 1989, 86; Henderson 2007, 111, 281; Zimmermann 2011a, 768; Orth 2017, 23130. Ma sulla 129
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Casolari istituisce un confronto particolarmente ravvicinato tra la scena degli Epitrepontes in cui lo schiavo Onesimo racconta che il suo padrone Carisio era ubriaco (v. 472) quando, durante le notturne Tauropolie, aveva violentato una fanciulla, e il fr. 365 del Cocalo, dove si alluderebbe al risveglio da una sbornia presa da un uomo che aveva bevuto vino non mescolato (al v. 2 il predicato ἤγειρεν allude al risveglio che segue all’ ubriacatura: cf. Plin. XIV 142). È questa, appunto, la communis opinio (che comporta che la rappresentazione dell’ Eolosicone sarà da collocarsi in uno dei due agoni del 386 a. C. o anche più tardi),
Κώκαλος (test. ii)
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problematica notizia fornita dall’ estensore della hypothesis vd., più in dettaglio, infra, ad Kōk. test. iiia, Interpretazione.
test. i POxy. XXXIII 2659 (= TM 63604), fr. 2 col. i 8 = CGFP 18.11 (= Ar. test. 2c.11) Κώ]κ̣αλος Cocalo
Contesto di citazione Il titolo della commedia figura nella sezione alfabetica delle commedie di Aristofane che è parte di un pinax di drammaturghi, riconducibile principalmente a esponenti della commedia attica antica (ma include anche i siciliani Epicarmo e Dinoloco). La lista, incompleta, è restituita dal papiro ossirinchita del II secolo d. C. di cui si è detto supra, ad Herōes test. ii. test. ii Proleg. de com. (M Rs Vat. 918) XXXa 14, p. 142 Koster (= Ar. test. 2a.18) Κώκαλος Cocalo
Contesto di citazione Il titolo della commedia è menzionato nell’ Index Novati, su cui vd. supra, ad Eirēnē II, Titolo.
fondata sul presupposto che: a) il Pluto sia dunque stata l’ ultima delle commedie rappresentate da Aristofane a proprio nome; b) la sequenza delle due commedie (Cocalo ed Eolosicone) menzionate nella hypothesis III del Pluto come commedie ‘donate’ dall’ormai anziano commediografo al figlio riproduca l’ effettivo ordine cronologico delle due rappresentazioni (sul punto vd. Orth 2017, 23 n. 35). L’ opzione alternativa, per cui il Cocalo sarebbe stato rappresentato alle Lenee del 387 a. C. e l’ Eolosicone alle Dionisie dello stesso anno, richiederebbe di ipotizzare che Araros abbia curato nel medesimo anno la regia di entrambe le commedie del padre. La ulteriore possibilità che il Cocalo sia stato rappresentato alle Dionisie del 388 e l’ Eolosicone alle Dionisie del 387 è plausibile se si ammette che il Pluto II sia stato portato in scena alle Lenee del 388 a. C. Infine, che nel 387 a. C. Araros fosse stato regista tanto del Cocalo quanto del Pluto, partecipando così a entrambe le occasioni agonali, è ipotesi prospettata ora da Caroli 2021, 39 (vd. infra, ad Kōk. test. iii, Interpretazione).
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Aristophanes
test. iii a) Ar. Pl. Arg. III Chantry (VERsPar, Ald) ἐδιδάχθη ἐπὶ ἄρχοντος Ἀντιπάτρου […] τελευταίαν (τελευταῖον Rs) δὲ διδάξας (-αι VERsPar: corr. Musurus) τὴν κωμῳδίαν ταύτην ἐπὶ τῷ ἰδίῳ ὀνόματι, καὶ (καὶ del. Porson) τὸν υἱὸν αὑτοῦ συστῆσαι Ἀραρότα (συστήσας Ἀρηρότα Par) δι᾽ αὐτῆς (δι᾽αὐτῆς del. Porson: δι᾽ αὐτοῖς Par: δι᾽ αὐτῶν Peppmüller 1891) τοῖς θεαταῖς βουλόμενος, τὰ ὑπόλοιπα δύο δι᾽ ἐκείνου καθῆκε, Κώκαλον (Κώκ. om. Par.) 〈καὶ Αἰολοσίκωνα〉 (suppl. Musurus) (Aiolosik. test. iv). Il Pluto fu rappresentato sotto l’ arcontato di Antipatro (a. 388) […]. Avendo portato in scena questa come ultima commedia a proprio nome, e desiderando con essa cogliere l’ occasione per presentare suo figlio Araros presso gli spettatori, (Aristofane) rappresentò le restanti due commedie per il tramite del figlio: il Cocalo 〈e l’ Eolosicone〉. b) Proleg. de com. (VEG, Ald) XXVIII 59–61, p. 136 Koster (= Ar. test. 1.54–56) ἐν τούτῳ δὲ τῷ δράματι συνέστησε τῷ πλήθει τὸν υἱὸν Ἀραρότα. καὶ οὕτως (οὕτω EAld) μετήλλαξε τὸν βίον παῖδας καταλιπὼν τρεῖς· Φίλιππον ὁμώνυμον τῷ πάππῳ καὶ Νικόστρατον καὶ Ἀραρότα, δι’ οὗ καὶ ἐδίδαξε τὸν Πλοῦτον. Con questo dramma (il Pluto o il Cocalo?) presentò al pubblico il figlio Araros. E così si accomiatò dalla vita lasciando tre figli: Filippo, omonimo del nonno, e Nicostrato e Araros, dal quale fece rappresentare anche il Pluto.
Bibliografia Canfora 2014, 233–241; Orth 2017, 22–24, 28–30; Bruzzese 2018, 356s.; Tartaglia 2018, 238–240; Caroli 2021. Interpretazione L’ informazione relativa al Cocalo fornita dalla porzione della hypothesis III del Pluto qui riportata in test. iiia può trovare corrispondenza nel breve passaggio (test. iiib) estrapolato dal medesimo contesto cui afferisce la più ampia testimonianza su questa commedia fornita dal lungo bios aristofaneo (test. va), qualora, postulando, con Kassel e Austin, l’ espunzione della precedente affermazione relativa al Pluto131, si riconduca appunto al Cocalo (e non al Pluto) l’ analoga su citata affermazione ἐν τούτῳ δὲ τῷ δράματι συνέστησε τῷ πλήθει τὸν υἱὸν Ἀραρότα (test. iiib) (vd. Orth 2017, 30 n. 60, con ulteriore bibliografia, e anche Tartaglia 2018, 237s.): per quanto le due testimonianze, ove fossero assimilabili, non chiariscano in che modo esattamente Aristofane presentasse (il verbo impiegato è in entrambi i casi συνίστημι) al pubblico il figlio Araros «per mezzo 131
Proleg. de com. XXVIII 55–59, pp. 135s. Koster = Ar. test. 1.51–54: πάλιν δὲ ἐκλελοιπότος καὶ τοῦ χορηγεῖν τὸν Πλοῦτον γράψας, εἰς τὸ διαναπαύεσθαι τὰ σκηνικὰ πρόσωπα καὶ μετεσκευάσθαι ἐπιγράφει “χοροῦ” φθεγγόμενος ἐν ἐκείνοις, ἃ καὶ ὁρῶμεν τοὺς νέους οὕτως ἐπιγράφοντας ζήλῳ Ἀριστοφάνους. L’ intera pericope, che già Hermann (1829, 1619) e Bergk (ap. Meineke FCG II 2, 1089s.) proponevano di espungere, è ritenuta «unzweifelhaft eine Interpolation» da Nesselrath 1990, 53 n. 63. Fa ora il punto della questione Bruzzese 2018, 356s.
Κώκαλος (test. v)
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del» (δι᾽ αὐτῆς) o «nel» (ἐν τούτῳ) Cocalo. Particolarmente problematica risulta, nel testo della hypothesis, l’ interpretazione dell’ espressione δι᾽ αυτῆς, che ha suscitato gli interventi di Porson (ap. Porson–Dobree 1820, xvi) che ne proponeva l’ espunzione, e di Peppmüller 1891, che la correggeva con un prolettico δι᾽ αὐτῶν. Incongruente resta comunque il testo di questa parte della hypothesis, dove si afferma dapprima che il Pluto fu l’ ultima commedia che Aristofane rappresentò sotto proprio nome ma subito dopo si dice che, intendendo «con essa» (evidentemente col Pluto) propiziare al figlio Araros il favore del pubblico, il commediografo gli cedette le restanti due (e non invece il Pluto stesso!). Per le controverse questioni legate al testo palesemente guasto di questa porzione della hypothesis, vd. la utile messa a punto di Canfora 2014, 233–241, con le opportune puntualizzazioni di Orth 2017, 29s. (con la ulteriore bibliografia ivi citata) relative alla radicale e non meno problematica soluzione ivi prospettata (e vd. anche Bruzzese 2018, 356s.; Tartaglia 2018, 239s.). La questione è ora riaperta da Caroli, il quale, recependo la ricostruzione del testo prospettata da Canfora e valorizzando la notizia della hypothesis del Pluto con la ulteriore affermazione contenuta nella biografia aristofanea (test. iiib) secondo cui per il tramite del figlio Araros Aristofane avrebbe messo in scena il Pluto, giunge a ipotizzare che 〈καὶ Αἰολοσίκωνα〉 integrato dal Musuro nel testo della hypothesis (test. iiia) debba essere rimpiazzato da 〈καὶ Πλοῦτον〉, per concludere che «le prime opere di regia curate dal novello διδάσκαλος riguardarono un nuovo allestimento del Pluto e la prima del Cocalo» (Caroli 2021, 39).
test. iv Clem.Al. Strom. VI 26.6 (L) τὸν μέντοι Κώκαλον τὸν ποιηθέντα Ἀραρότι τῷ Ἀριστοφάνους υἱεῖ (ἀραρότως τῷ ἀριστοφάνει ποιεῖ cod.: corr. Casaubon 1621, 168.41) Φιλήμων ὁ κωμικὸς ὑπαλλάξας ἐν Ὑποβολιμαίῳ ἐκωμῴδησεν (Philem. Hypobol. test. K.-A.). D’ altronde il commediografo Filemone portò sulla scena comica il Cocalo composto da Araros, il figlio di Aristofane, dopo averlo un po’ modificato nel Supposito.
Interpretazione
Vd. supra, ad Datazione e ad test. iii.
test. v a) Proleg. de com. (VEG, Ald) XXVIII 5–7, pp. 133 Koster (= Ar. test. 1.4–6) πρῶτος δὲ καὶ τῆς νέας κωμῳδίας τὸν τρόπον ἐπέδειξεν ἐν τῷ Κωκάλῳ, ἐξ οὗ τὴν ἀρχὴν λαβόμενοι Μένανδρός τε καὶ Φιλήμων ἐδραματούργησαν.
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Aristophanes Per primo (scil. Aristofane) aprì la strada alla commedia nuova con il Cocalo, e, traendo spunto da lui, Menandro e Filemone iniziarono a comporre i loro drammi. b) Proleg. de com. (VEG, Ald) XXVIII 50–55, p. 135 Koster (= Ar. test. 1.46–51) ἐγένετο δὲ καὶ (καὶ om. G) αἴτιος ζήλου τοῖς νέοις κωμικοῖς, λέγω δὴ Φιλήμονι καὶ Μενάνδρῳ. ψηφίσματος γὰρ γενομένου χορηγικοῦ (χορηγοῦ codd. et Ald: corr. Meineke 1826, 35), ὥστε μὴ ὀνομαστὶ κωμῳδεῖν τινα, ἔτι (ἐπεὶ codd., om. Ald.: corr. Kaibel) καὶ τῶν χορηγῶν οὐκ ἀντεχόντων πρὸς τὸ χορηγεῖν, καὶ παντάπασιν ἐκλελοιπυίας τῆς ὕλης τῶν κωμῳδιῶν διὰ τοῦτο αὐτὸ (τούτων αὐτῶν codd. et Ald.: corr. van Leeuwen) – αἴτιον γὰρ κωμῳδίας τὸ σκώπτειν τινάς – ἔγραψε κωμῳδίαν τινὰ (κωμῳδίας τινὰς codd. et Ald: corr. Hermann 1829, 1619, Bekker) Κώκαλον, ἐν ᾧ εἰσάγει φθορὰν καὶ ἀναγνωρισμὸν καὶ τἄλλα πάντα, ἃ ἐζήλωσε Μένανδρος. Divenne anche motivo di emulazione per i nuovi commediografi, intendo dire Filemone e Menandro. Fu emanato, infatti, un decreto coregico, cosicché non si mettesse in ridicolo nessuno in una commedia chiamandolo per nome; poiché in seguito i coreghi non ce la facevano più a sostenere la coregia, ed era venuta meno completamente la materia delle commedie proprio per questa ragione – il motivo di una commedia, infatti, è il farsi beffe di qualcuno – Aristofane scrisse una commedia, il Cocalo, in cui introdusse il motivo della seduzione e del riconoscimento e tutte le altre caratteristiche che Menandro ha emulato. 1
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c) Proleg. de com. (VENMUPs[=Tr ]V ChisGRegPar) XXIXa 7s., p. 137 Koster Πρῶτος δὲ καὶ (om. N) τῆς νέας κωμῳδίας τὸν τρόπον ἐπέδειξε(ν) (ἐπεδείξατο 1 E: ὑπέδειξε UPar). ἐν (ἐν ETr Chis, om. cett.) τῷ Κωκάλῳ (κωλάκω U: κοκάλω 57 57 V : κάλλει Par), ἃ (αἳ V ) Μένανδρός τε καὶ Φιλήμων δράματα συνεστήσαντο (δράμα [sic.] συνεστήσατο U). Per primo (Aristofane) aprì la strada alla commedia nuova. Dal Cocalo Menandro e Filemone trassero ispirazione per i loro drammi.
Interpretazione
Vd. supra, ad Contenuto.
fr. 359 K.-A. (345 K.) †παρέσο κατέτριβεν ἱμάτια. (B) κἄπειτα πῶς φῷδας τοσαύτας εἶχε τὸν χειμῶν’ ὅλον; 1 παρέσο Erot.: πάρες ὦ Fritzsche 1836, 18: πάρες, ὤ, Bergk: πατρὸς Dindorf: παρὰ σοὶ Kappeyne van de Coppello 1867, 70: πέρυσιν Hall–Geldart: πάρεσ᾽ ο〈ἷς〉 Edmonds: 〈πολλὰ γὰρ〉 / παρά σοι vel 〈πολλὰ〉 γὰρ / ἔξω e.g. Austin κατέτριβεν ἱμάτια Erot.: κατέτριβε θαἰμάτια Kappeyne van de Coppello: κατετρίβη 〈θα〉ἰμάτια Edmonds κἄπειτα πῶς Erot. LM: κἄπειτά πως ACDKO: κάπειτα πῶς Et.gen. A: καὶ κάπειτα πως B: κᾆπ᾽ εἶτα πῶς Edmonds 2 τοσαύτας Erot., Et.gen.: τοσαυτασὶ Edmonds εἶχε τὸν Erot.: εἴχετον Et.gen. χειμῶν᾽ ὅλον Seidler 1818, 11: χειμώναυλον Erot.
Κώκαλος (fr. 359)
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(A) †consumava (tanti) mantelli. (B) Come mai, allora, si era procurato così tante vesciche nel corso di tutto l’ inverno? Erot. φ 19 (ACDKLMO) φῷδες· ἔστι μὴν ἡ λέξις Δωρική (Ἰωνική ten Brink 1851, 72; ma vd. Pisani 1960, 65), καλοῦσι δὲ φῷδας τὰ ἐκ τοῦ πυρὸς γινόμενα (γενόμενα LMO), μάλιστα δὲ ὅταν ἐκ ψύχους ἐν τῷ πυρὶ (ποδὶ ten Brink) καθίσωσι (καθίσουσι LMO), στρογγύλα ἐπιφλογίσματα· ἐσχημάτισται δὲ ἡ λέξις ἀπὸ τοῦ φωτὸς καὶ ἐρεύθους. ὡς Διοκλῆς ὁ Καρύστιός φησιν· ὅτε δὲ καὶ ἐξανθήματα φοινικᾶ οἷον (οἷα A) φῷδες περὶ τὸν θώρακά που γινόμενα (fr. 94 van der Eijk) καὶ Ἱππώναξ δέ φησι· πρὸς τὴν μαρίλην τὰς φοῗδας (τὰς φωῗδας Tzetz. in Ar. Pl. 535b, p. 130.5 Massa Positano, unde τὰς φοῗδας Hoffmann 1898, 148s., Medeiros, West, 2 2 Degani: τοὺς πόδας K: τοὺς παῖδας cett.) θερμαίνων / οὐ παύεται (fr. 59 W. = 61 Dg. ) καὶ Ἀριστοφάνης ἐν Κωκάλῳ (κολάκῳ codd.: corr. Stephanus) φησί· παρέσο — χειμώναυλον. fōides è una parola dorica. Vengono chiamate fōides le vesciche procurate dal fuoco, specialmente quando, (venendo) dal freddo, ci si siede vicino al fuoco. Infiammazioni di forma tondeggiante. Il termine è forgiato figurativamente dalla luce del fuoco e dall’ arrossamento. Come dice Diocle di Caristo: «quando anche le eruzioni cutanee di colore rosso scuro, come le vesciche, appaiono in una qualche zona vicina al petto» (fr. 94 van der Eijk); e 2 2 Ipponatte dice: «presso la brace, di riscaldare le vesciche / non smette» (fr. 59 W. = 61 Dg. ), e Aristofane nel Cocalo dice: «†consumava — inverno?». Et.gen. AB s. v. φῷδες (p. 305 Miller) Ἀριστοφάνης Πλούτῳ (v. 535)· πλὴν φῴδων ἐκ βαλανείου. καὶ ἐν Κωκάλῳ· κἄπειτα — εἴχετον. Aristofane nel Pluto (v. 535): «eccetto che vesciche da bagno», e anche nel Cocalo: «come mai allora — (voi due) avevate».
Metro
Trimetri giambici
wrrl wlwr | llwl llkl llk|l llkl
Bibliografia Eustachio 1566, 121; Seidler 1818, 11; Bergk ap. Meineke FCG II 2, 1092; Kock CAF I, 483; Kappeyne van de Coppello 1867, 70; Hoffmann 1898, 149; Strömberg 1944, 92; Edmonds 1957, 670; Casolari 2003, 172; Willi 2003, 84; Degani 2007, 110s. Contesto di citazione Il frammento è tramandato, di seguito a un frammento di Diocle di Caristo e a uno di Ipponatte, da Erotiano per esemplificare l’ accezione del termine φῷδες in ambito medico; e sotto la voce φῷδες è parzialmente tramandato anche dall’ Etimologico genuino, che documenta l’ impiego del termine anche nei Serifii di Cratino, in una locuzione assai peculiare (πολυτρήτοις φῳσί: fr. 226, su cui vd. ora Fiorentini 2022, 41s.). Testo Il testo è irrimediabilmente corrotto nell’ incipit del primo verso e nessuno degli emendamenti proposti in luogo del tràdito παρέσο risulta dirimente. Edmonds 1957, 670 ricostruiva l’ intero distico nella forma πάρεσ᾽ ο〈ἷς〉 κατετρίβη
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Aristophanes
〈θα〉ἰμάτια, κᾆπ᾽ «Εἶτα πῶς / φῷδας τοσαυτασὶ σὺ τὸν χειμῶν ὅλον;», dove l’ imperativo aoristo πάρεσαι («sit down») preluderebbe alla domanda aperta da κᾆπ᾽ («and ask him») Εἶτα, correzione di κἄπειτα πῶς, e completata nel verso successivo. Muovendo dall’ annotazione di Kaibel (ap. Kassel–Austin PCG III 2, 201), secondo cui «requiritur adiectivum velut ὅσα γὰρ vel πλεῖστα […] multas aliquis vestes absumpsisse dicitur, igni scilicet ut parceret», e dalla correzione di παρέσο in παρὰ σοί proposta da Kappeyne van de Coppello (1867, 70: «fortasse legendum παρὰ σοὶ κατέτριβε θαἰμάτια»), Austin (Kassel–Austin PCG III 2, 201) prova a salvare il testo tràdito, ipotizzando l’ integrazione, alla fine del verso precedente, di una clausola del tipo πολλὰ γάρ, seguita da παρά σοι, nell’ incipit del v. 1, ovvero da ἔξω («‘foris’, i. e. numquam ante focum sedebat»). Ambedue i suggerimenti di Austin sono recepiti nella traduzione di Henderson (2007, 283): «(A) he wore out 〈lots of〉 clothes 〈outdoors〉». Nel secondo verso la correzione χειμῶν᾽ ὅλον del corrotto χειμώναυλον è opera di Seidler 1818, 11; ma la soluzione era offerta già nella traduzione latina del glossario medico di Erotiano pubblicata a Venezia nel 1566 da Bartolomeo Eustachio, che rendeva l’ espressione con tota hyeme («Et Aristophanes in Assentatore inquit. Ades, conterebat vestes, et postea quomodo φῶδας maculas rubras in cruribus tantas habebat tota hyeme»; Eustachio 1566, 121). Interpretazione L’ esegesi del primo verso del frammento, pur compromessa dal corrotto incipit, lascia intravedere, soprattutto con l’ ausilio dei due contesti in cui il frammento è – in parte ovvero in toto – citato, uno scambio di battute tra due interlocutori132. L’ attenzione ricade sull’ aspetto esteriore di un soggetto che, pur avendo fatto smodato impiego di mantelli durante l’ inverno, si è procurato esantemi provocati verosimilmente dal contatto o dalla vicinanza della pelle gelida con una fonte di calore usata per riscaldarsi. Che le vesciche cui qui si allude siano quelle del corpo ustionato di Minosse è ipotesi formulata da Bergk (ap. Meineke FCG II 2, 1092: «videtur enim poeta Minoem tanquam mendicum aliquem induxisse; ita ut post caedem demum perpetratam pateret, quis esset»), accolta da Kock (CAF I, 483), e recepita ora da Casolari 2003, 172s., a parere della quale il frammento potrebbe contenere dunque un’ allusione al fallito tentativo, di Dedalo e delle figlie di Cocalo, di uccidere il re di Creta con dell’ acqua calda o della pece (vd. supra, ad Contenuto), ipotesi però non consona alla modalità durativa espressa dal τὸν χειμῶν᾽ ὅλον posto in clausola del v. 2, «si vere emendatum est» (Kaibel ap. Kassel–Austin PCG III 2, 202).
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L’ interlocuzione qui proposta è quella seguita in genere dagli editori. Fa eccezione Bergk, il quale, fondandosi sulla testimonianza di Erotiano, non prevede cambio di interlocutore prima di κἄπειτά πως, né presuppone un’ espressione interrogativa: ma cf. l’ antilabé documentata da κἄπειτα πῶς in Ar. Av. 963 e Ra. 786; e da κᾆτα πῶς οὐχ ἥκομεν; in Lys. 24.
Κώκαλος (fr. 359)
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1 †παρέσο κατέτριβεν ἱμάτια Valore proverbiale parrebbe avere l’ analoga espressione (ἐν τῷ θέρει) τὴν χλαῖναν κατατρίβων presente in Herodor. FGrHist 31 F 60, citato dallo Stobeo, in una sezione del secondo libro dedicata al tema dell’ educazione (II 31.67), in riferimento al giovane dissoluto che si è dato alla crapula nutrendosi di cibi e vini costosi e coltivando piaceri afrodisiaci (νέος ὢν ἐν πολυτελέσι βρώμασι καὶ ποτοῖς ἔτι δὲ ἀφροδισίοις ἀναστρεφόμενος λέληθεν ἑαυτόν). 2 φῷδας Con tale termine, desunto dal lessico medico (cf. Hp. Morb. II 54 = VII, p. 84.7 Littré; Gal. Gloss. s. v. φωΐδες = XIX, p. 154.3 Kühn), «si indicano sia gli ‘eritemi’, le ‘scottature’ (ἐρυθήματα, στρογγύλα, φλογίσματα, ἐπιφλογίσματα, ἐκκαύματα etc.), sia le ‘vesciche da scottatura’ (φλύκταιναι, ἐκφυσήματα etc.), che si formano specie quando si passa dal freddo al caldo, ponendosi, gelati, vicino al fuoco» (Degani 2007, 110s., ma già Strömberg 1944, 92; per questa specifica accezione di φωΐς, vd. inoltre Willi 2003, 84 con n. 84). Anche in Phryn. PS p. 122.19 de Borries si spiega che φῷδες sono «le ustioni procurate sulle gambe dal fuoco (τὰ ἐν τοῖς σκέλεσι γινόμενα ὑπεκκαύματα ὑπὸ τοῦ πυρός), allorché ci si siede vicino (ἐπειδάν τις πλησίον αὐτοῦ καθιζάνῃ)»133. Analogamente, in Phot. φ 360 (= Sud. φ 634) e in Poll. VII 110 φῷδες sono definite le vesciche prodotte (sulla pelle) dalla fiamma (αἱ ἀπὸ τῆς φλογὸς φλύκταιναι)134. In Ar. Pl. 535 le φῷδες contratte ἐκ βαλανείου, nel bagno pubblico (dove di norma i miserabili correvano a riscaldarsi attorno al fuoco: cf. vv. 952s.), rappresentano un regalo di cui Penia si premura di gratificare il βίος πτωχῶν (v. 548); e ai vv. 952–954 l’ Uomo Giusto fa riferimento all’ abitudine di far la fila dinanzi al βαλανεῖον per riscaldarsi vicino alle caldaie dell’ acqua: una situazione richiamata verosimilmente da Alcifrone nella quarantesima delle Lettere di parassiti (III 40.2), dove viene descritto il parassita che, privo di legna per scaldarsi e di mantello per coprirsi, escogita di ripararsi nei calidaria o vicino alle stufe dei bagni pubblici (δραμεῖν εἰς τὰς θόλους ἢ τὰς καμίνους τῶν βαλανείων), cercando di farsi posto tra coloro che si trovavano lì per lo stesso motivo: il tormento inflitto loro dalla dea Penia. La connessione tra balnea pubblici e φῷδες, ustioni provocate dall’acqua calda, è peraltro esplicitata dagli scoliasti ([vet] Ar. Pl. 535dα–β), pronti a ribadire come in inverno la gente povera, non disponendo di indumenti per ripararsi dal freddo, andasse a dormire nei
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Donde la correzione, operata da ten Brinck 1851, 72 sul testo di Erotiano, del tràdito ἐν τῷ πυρί in ἐν τῷ ποδί: correzione accolta tanto da Nachmanson, nell’ edizione di Erotiano, quanto da Wellmann nell’ edizione di Diocle di Caristo (seguito ora da van der Eijk), come pure da Hoffmann 1898, 148, e dai più recenti editori ipponattei, sino a West. Ma proprio la menzione del fuoco nella testimonianza dell’ atticista induce opportunamente Degani (1991, 80), che pure pone ἐν τῷ πυρί tra cruces, ad annotare: «desideratur πλησίον πυρὸς vel simile quid». Cf. Eust. in Il. p. 962.49, in Od. p. 1859.43, Hsch. φ 1082–1083; Choerob. in Theodos. Can. (GrGr IV 1, p. 406.16–18 Hilgard), Σ (vet) Ar. Pl. 535c Chantry, (vet) Ra. 236b Chantry, Eust. in Il. 1123.21; Psell. Poem. 481; Ps.–Zonar. col. 1278 Tittmann.
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bagni pubblici, dove, per via del calore eccessivo, si procurava vescicole da ustione. Cf. anche Σ (Tz.) Ar. Pl. 535 Massa Positano (λέγονται φωῗδες καὶ φῷδες καὶ τὰ ἐκ ψύχους ἐκκαύματα), testimone dell’ impiego del termine nella «echt–ionische Form» φοῗδας (Hoffmann 1898, 149) in Hippon. fr. 59 W.2 = 61 Dg.2 fr. 360 K.-A. (347 K.) ἀλλ᾽ ἐστίν, ὦ πάτερ, κομιδῇ μεσημβρία, ἡνίκα γε τοὺς νεωτέρους δειπνεῖν χρεών 2 γε Dindorf: καὶ A
ma è mezzogiorno in punto, padre: quando bisogna che i più giovani pranzino Ath. IV 156b (A) Ἀριστοφάνης ἐν Κωκάλῳ ἔφη· ἀλλ᾽ — χρεών. Aristofane nel Cocalo dice: «ma — pranzino».
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Trimetri giambici
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Bibliografia
Edmonds 1957, 671 n. a; Pellegrino 2015, 222.
Contesto di citazione Il frammento è citato, dopo il fr. 53 delle Lemnie di Difilo e il v. 176 del canto XVII dell’ Odissea, da Cinulco, che, con l’ intento di interrompere il ‘deipnosofista’ Plutarco di Alessandria, ironizza sul protratto digiuno cui la sua lunga digressione sulle tradizioni prandiali più disparate (iniziata in 134d, ma avviata dallo stesso Ateneo già dall’ inizio del IV libro) ha sottoposto i convitati. Interpretazione In assenza di una connessione diretta con il contesto in cui è citato, dal testo del frammento si ricava soltanto che la persona loquens, verosimilmente un giovane (figlio?), si rivolge a un anziano (il padre?), per segnalargli che è mezzogiorno: l’ ora adatta al pranzo per i più giovani. 1 ἀλλ᾽ ἐστίν … κομιδῇ μεσημβρία Cf. la locuzione temporale σμικρόν τι μετὰ μεσημβρίαν usata in Ar. Av. 1498s. che, a indicare il mezzogiorno appena trascorso, prelude all’ invito a pranzo (ἐπ᾽ ἄριστον) formulato da Pisetero agli ‘ambasciatori’ Poseidone, Eracle e Triballo nel v. 1602. 2 δειπνεῖν Il pasto cui il verbo si riferisce è il pranzo, come dimostra il riferimento all’ ora che segna il mezzogiorno. L’ accezione converge con l’ impiego del termine δεῖπνον in un problematico frammento del Palamede di Eschilo (fr. 182.2s. R. ἔταξα, σῖτον δ’ εἰδέναι διώρισα, / ἄριστα, δεῖπνα δόρπα θ᾽ αἱρεῖσθαι
Κώκαλος (fr. 360)
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τρίτα), citato, nell’ epitome del libro I di Ateneo, nel contesto di una non meno intricata ricognizione (11b–f) delle divergenti opinioni relative al numero di pasti (dai commentatori antichi individuato di volta in volta nel numero di due, tre o quattro) consumati nel mondo omerico. Dal dibattito emerge che l’ impiego del termine δεῖπνον era considerato in ogni caso divergente da quello di epoca successiva, in cui ἄριστον designava il pasto di metà giornata e δεῖπνον quello della sera (per una ricognizione degli scholia omerici dedicati alla questione e per i problemi posti dal passo di Ateneo, vd. Heath 1998). Come emerge poi dalla ricapitolazione operata sull’argomento dal ‘deipnosofista’ Masurio (V 193a), la posizione di Ateneo sembra oscillare tra la communis opinio che fissa a tre il numero dei pasti degli eroi omerici (dei quali ἄριστον sarebbe la colazione del mattino, δεῖπνον il pranzo e δόρπον la cena), e l’ ipotesi di due soli pasti, ascrivibile ad Aristarco (cf. in particolare Σ [T] Il. II 381a), secondo il quale δεῖπνον poteva indicare un qualunque pasto. Trattandosi, infatti, del pasto principale della giornata, esso poteva essere consumato in qualsiasi momento, a seconda delle circostanze. Del resto, anche in età classica l’ oscillazione del termine δεῖπνον permane sospesa tra il significato di pranzo e quello di cena. È il contesto a definire la fascia oraria del pasto, in particolare quando si tratta della cena: così, ad esempio, la sua ora corrisponde talora a un’ ombra lunga dieci piedi, cioè a circa mezz’ ora prima del tramonto (Ar. Eccl. 652 ὅταν ᾖ δεκάπουν τὸ στοιχεῖον […] χωρεῖν ἐπὶ δεῖπνον; cf. IG XII, 5 647.16s.: ἀποδιδόναι δὲ τὸ δεῖπνον δέκα ποδῶν καὶ οἶνο[ν] παρέχειν ἄρεστὸν μέχρις ἂν ἥλιος δύηι˙), talaltra a un’ ombra lunga venti piedi (Eub. fr. 117.5–8 ἐπὶ δεῖπνον […] εἰπόντος αὐτῷ τοῦ φίλου, ὁπηνίκ᾽ ἂν / εἴκοσι ποδῶν μετροῦντι τὸ στοιχεῖον ᾖ, / ἥκειν), cioè a un orario difficile da precisare ma certamente successivo al tramonto. La precisione del calcolo non è garantita dal personaggio al centro della scena descritta nel frammento di Eubulo. Si tratta infatti del parassita Filocrate, il quale, confondendo a bella posta la sera col mattino, misura i venti piedi all’ alba, e anzi ne misura più ancora di ventidue, piombando quindi a casa dell’ ospite a un’ ora antelucana, in anticipo di un’ intera giornata (cf. vv. 8–10; e cf. anche Men. fr. 265.2s., dov’ è rievocato un analogo aneddoto a proposito del parassita Cherefonte: in questo caso, l’ ora canonica per la cena corrisponde a un’ ombra lunga dodici piedi [ὃς κληθείς ποτε / εἰς ἑστίασιν δωδεκάποδος]). E ancora, in Ar. fr. 695.1s. la gaudente combriccola di amici si riunisce per banchettare quando l’ ombra è lunga sette piedi (ἑπτάπους γοῦν ἡ σκιά ᾽στιν / † ἡ ’ πὶ τὸ δεῖπνον), e dunque probabilmente in anticipo sull’ orario convenuto per la cena; ma per la non univoca interpretazione di questo frammento vd. ora Bagordo 2017a, 56s., che richiama gli ulteriori paralleli comici (oltre a questo frammento del Cocalo, Eup. fr. 385.3; Pherecr. fr. 34; Bato fr. 5.3s.) che alludono a inizii anticipati di pasti o di bevute. Talora (e. g. in Ar. Nu. 175 e V. 1401; e cf. Pax 839; Lys. 1.22, 128 fr. 279.4 Carey) la locuzione temporale ἑσπέρας individua genericamente il momento del δεῖπνον, che andrà pertanto identificato col pasto serale (su δεῖπνον come cena vespertina in Aristofane vd. van Leeuwen 1900, 17 ad Eq. 52), laddove in altri casi le iuncturae ἐπὶ δεῖπνον ed ἐπὶ τὸ δεῖπνον designano genericamente il pasto
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principale, il cui consumo avviene in un orario imprecisato (e. g. Ach. 988, 1085; V. 1005, 1250; Pax 1192, 1208; Eccl. 856, 1128, 1135, 1165; Cratin. frr. 46–47; Eup. fr. 172.11; Pherecr. fr. 162.4; Hdt. III 42.2; Xen. Mem. I 3.6; Pl. Smp. 174e; cf. anche Timae. FGrHist 566 F 50, che ha εἰς τὰ δεῖπνα)135. E in Et.magn. p. 262.40 (Et.Gud. p. 341.14 de Stefani) si fa riferimento alla confusione ingenerata attorno al tempo giusto del pasto serale dai comici «più recenti», i quali lo designano δεῖπνον: secondo l’ uso che è poi divenuto prevalente (οἱ δὲ κωμικοὶ καὶ οἱ [καὶ οἱ evanid. in Et.Gud.] νεώτεροι συγχέουσι τὸν καιρὸν τὴν ἑσπερινὴν τροφὴν δεῖπνον ὀνομάζοντες, ὡς καὶ νῦν). Sui riferimenti comici ai due principali pasti giornalieri dei Greci (ἄριστον e δεῖπνον), vd. Wilkins 2000b, 58. All’ abitudine siceliota di «rimpinzarsi due volte al giorno» (δὶς τῆς ἡμέρας ἐμπιπλάμενον ζῆν) fa riferimento Platone, con disappunto, in un celebre passo della settima Lettera (326b 8), allorché rievoca le impressioni sullo stile di vita opulento e lussurioso «degli Italioti e dei Siracusani» ricevute dal suo primo viaggio in Sicilia, avvenuto nel 389 / 88 a. C., durante la tirannide di Dionisio I. Muovendo da tale suggestione, Edmonds 1957, 671 n. a, formulava l’ ardita ipotesi che, attraverso il filtro della parodia mitologica, il Cocalo aristofaneo portasse sulla scena il tiranno siracusano nei panni del dispotico re di Camico, protagonista del dramma, e Platone, che soggiornò presso la sua corte, nei panni di Dedalo. «Forse un’ allusione alla vita gaudente dei Siciliani» riconosce in questo frammento Pellegrino 2015, 222: il riferimento sarà in tal caso specificamente alla rinomata quanto variegata cucina siciliana, ricordata dallo stesso Platone nella Repubblica (404d), e di cui la commedia di IV secolo offre ampia testimonianza (cf. e. g. Cratin.Jun. fr. 1; Alex. fr. 24; Antiph. fr. 90; Anaxipp. fr. *1.1–3; Epicr. fr. 6.2s.; e vd. Arnott 1996, 116; Olson 2007, 276; Caroli 2014, 81; e ora Olson 2023, 340, ad Antiph. fr. 90). Ma già in un frammento dei Banchettanti di Aristofane (225.2) la Συρακοσία τράπεζα viene evocata come «proverbial for its luxury» (Dodds 1959, 363). Sulla presenza di arte culinaria e letteratura gastronomica siciliane nella commedia attica del IV secolo, vd. diffusamente Dalby 1996, 113–129 e Wilkins 2000b, 312–368 (in particolare, con riferimento alla loro possibile influenza sulle ultime due commedie, entrambe perdute, di Aristofane, il Cocalo, appunto, e l’ Eolosicone, 317).
fr. 361 K.-A. (346. 895 K.) 〈ἦ〉 λοιδορία τις ἐγένεθ᾽ ὑμῖν; (Β.) πώμαλα· οὐδ᾽ εἶπον οὐδέν 1 ἦ add. Fritzsche 1836, 18: οὐ Austin
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2 οὐδέν Harp. PM: οὐδενί QK
Sulle abitudini tutt’ altro che canoniche degli antichi in tale ambito, vd. Böttiger 1838, 192–195.
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c’ è 〈forse〉 stato un alterco tra voi? (B) Nient’ affatto: non ho detto neppure una parola! Harp. π 132 (p. 268.7s. Dindorf) πώμαλα· ἀντὶ τοῦ οὐδαμῶς Δημοσθένης ἐν τῷ κατ᾽ Αἰσχίνου (19.51). ἔστι δὲ τὸ μὲν πῶ Δώριον, τιθέμενον ἀντὶ τοῦ πόθεν· τὸ δὲ μάλα ἤτοι παρέλκει ἤ ἐστιν ἐν ποσοῖς λεγόμενον, οἷον οὐ μάλα, οὐ πάνυ. πολὺ δ᾽ ἐστὶν ἐν τῇ ἀρχαίᾳ κωμῳδίᾳ (τοὔνομα add. Κ). Ἀριστοφάνης· λοιδορία — οὐδέν. pōmala: invece di oudamōs (usa) Demostene nell’ orazione contro Eschine (19.51). Il pō, impiegato in luogo del pothen («da dove?»), è dorico; quanto al mala, o si compone (con il pō), oppure (pōmala) è impiegato in alcuni (casi) in luogo di ou mala, ou pany («nient’ affatto»). È molto frequente nella commedia antica. Aristofane: «c’ è — parola». Sud. π 2177 (AGFVM) πώμαλα· κεῖται καὶ παρὰ Δημοσθένει ἡ λέξις […]. καὶ παρ᾽ Ἀριστοφάνει ἐν Κωκάλῳ (Κωλάκῳ F). δεῖ δὲ ἀναγινώσκειν (γινώσκειν Α) ὑφ᾽ ἓν (ὑφοὺς F) πώμαλα. pōmala: l’ espressione si trova anche in Demostene […]. E, in Aristofane, nel Cocalo. Pōmala va inteso nel senso di ‘meno che uno’.
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Bibliografia Toup 1790, II 93; Fritzsche 1836, 18; Kock CAF I, 484; Edmonds 1957, 670s.; Saetta Cottone 2005, 31 n. 1. Contesto di citazione Il frammento è citato da Arpocrazione e ricordato dalla Suda a proposito dell’ avverbio πώμαλα, equiparato, nell’ accezione negativa che ha senza dubbio nel contesto aristofaneo, in un caso a οὐδαμῶς, nell’ altro a ὑφ᾽ ἕν. Testo L’ integrazione ἦ, proposta da Fritzsche 1836, 18, riflette l’interpretazione suggerita da Toup 1790, II 93, il quale, accogliendo la forma οὐδενί tràdita dai codici Q (Cantabrigiensis Bibl. Acad. Dd. IV.63) e K (Marcianus 444), traduceva: «A. An altercatio aliqua inter vos fuit? – B. Minime. Nihil dixi cuiquam». Fritzsche completava il verso 2 con l’ espressione οὐδὲν πρός σε κῦρον, ὦ γύναι (cf. fr. trag. adesp. 226 Kn.–Sn.), citata in Hsch. κ 4698 a proposito della forma avverbiale κῦρον (glossata da Esichio con σοὶ ἀνῆκον, εἰς σὲ τεῖνον, cioè «venendo a te, riguardo a te»), e recuperata a testo da Edmonds 1957, 670, il quale presuppone appunto nel v. 2 una citazione tragica («‘Nor said I aught, good dame, concerning thee’», Edmonds 1957, 671). Interpretazione Il passo potrebbe riportare uno scambio di battute tra Cocalo e un non meglio definibile interlocutore che chiederebbe ragioni su di un presunto alterco tra il re e il suo ospite.
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1 λοιδορία Denominativo da λοιδορέω, verbo di etimologia oscura (per un essenziale status quaestionis, vd. Saetta Cottone 2005, 31 n. 1), nella sua accezione più nota il termine designa l’ ingiuria e, al contempo, il turpiloquio e l’ oscenità, con cui, in quanto componente essenziale del linguaggio comico, condivide radici comuni in un insieme di pratiche rituali in onore di Dioniso e di Demetra, che si è soliti porre in relazione con le origini della commedia (vd. Henderson 1991, 1–29). Sulla connessione λοιδορία–riso, vd. Halliwell 1991, 292s.: una connessione che, già nell’ erudizione antica, fa delle λοιδορίαι e del λοιδορεῖν un ingrediente precipuo della comicità dell’ archaia, specie di marca cratinea (cf. e. g. Platon. Diff. Char. [Proleg. de Com. II], p. 6.1s. Koster = p. 38.1s. Perusino, su cui vd. Perusino 1989, 65s., ad l.; e più in generale, sulla poetica dell’ ingiuria nella commedia attica antica vd., tra altri, Saetta Cottone 2005, passim), ma anche dell’ oratoria (vd. Spatharas 2006, con la bibliografia ivi citata). Nel presente contesto, il termine parrebbe riferito a uno scambio di ingiurie avvenuto tra due interlocutori nell’ ambito di una contesa che, a parere di Kock (CAF I, 484), potrebbe essere sorta tra Cocalo e colui che forse, a seguito di questa contesa, l’ avrebbe poi ucciso («videtur conloquium esse Cocali cum altero nescio quo quaerente, an forte rixa orta hospitem occiderit»). πώμαλα In un’ analoga accezione, e in corrispondenza di un analogo cambio di interlocutore, l’ avverbio è impiegato, in commedia, da Aristofane nel Pluto (v. 66: [Πλ.] ὦ τᾶν, ἀπαλλάχθητον ἀπ᾽ ἐμοῦ. [Χρ.] πώμαλα, «[Pl.] Ehi, voi due, state alla larga da me. [Cr.] Nient’ affatto!») e da Ferecrate in un frammento dei Selvaggi (fr. 9: [A] οὐδ᾽ ἀποπροσωπίζεσθε κυάμοις; [B] πώμαλα, «[A] E voi non vi lavate la faccia strofinandola con le fave? [B] Nient’ affatto!»).
fr. 362 K.-A. (348 K.) ἐκδότω δέ τις καὶ ψηφολόγιον ὧδε καὶ δίφρω δύο ac
pc
2 ψηφολογιον g : -λογεῖον g ut recte Porson notavit: -λόγον Sud. δίφρῳ g
δίφρω Porson:
e qualcuno porti qui una tavoletta per i conti e due sedie Phot. (g) p. 658.14–18 Porson = Sud. ω 14 ὧδε· οὐ μόνον τὸ οὕτως, ἀλλὰ καὶ τὸ ἐνθάδε, ὡς ἡμεῖς […]. Ἀριστοφάνης Κωκάλῳ· ἐκδότω — δύο. hōde: (significa) non solo houtōs («così»), ma anche enthade («qui»), come (diciamo) noi […]. Aristofane nel Cocalo: «e qualcuno — due sedie».
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Bibliografia
Lamer 1927, 1915; Dover 1968, 95; Carbone 2005, 182 n. 430.
Contesto di citazione Il frammento è tramandato da Fozio e dalla Suda per attestare l’ impiego di ὧδε col valore di ἐνθάδε: impiego a proposito del quale la citazione aristofanea è preceduta da quella di un frammento di Cratino, tratto dalle Fuggitive (Drapetides, fr. 59, su cui vd. Bianchi 2016, 347–349), ed è seguita dalla precisazione che Platone lo ha talora impiegato in luogo di ἐνθάδε e di δεῦρο (καὶ Πλάτων που κέχρηται ἀντὶ τοῦ δεῦρο καὶ ἐνθάδε); subito di seguito è detto che, però, il valore che si trova più di frequente è quello di οὕτως (τὸ δὲ οὕτως ἐν τοῖς πλείστοις δηλοῖ): motivo per cui viene citato a titolo esemplificativo un frammento dei Taxiarchoi (Tassiarchi) di Eupoli (fr. 276), su cui vd. Olson 2016, 415s. Testo Il Galeano di Fozio ha ψηφολογιον. La forma ψηφολογεῖον post corr. è stata accolta a testo da Porson (al quale si deve anche la facile correzione del tràdito δίφρῳ in δίφρω), seguito da Bergk, Kock e Blaydes, ma non da Kassel e Austin, i quali, evidentemente per analogia con la dictio ὡρολόγιον, confermata dal metro in Bato fr. 2.14, e in considerazione della varia lectio ἡμερολογίου attestata in Plu. Caes. 59.1, stampano ψηφολόγιον. La lectio foziana, evidentemente da preferire alla lezione ψηφολόγον della Suda, che renderebbe il composto un nomen agentis, presuppone che la persona loquens (un padrone di casa? vd. infra, ad Interpretazione) stia qui ordinando a qualcuno di portar fuori due tipi di oggetti (una strumentazione da calcolo? [vd. infra] e due sedie), come risulta evidente dall’ iterazione della congiunzione (καὶ … καὶ). Ordini analoghi (rivolti verso l’ interno della casa perché qualcuno, in genere uno o più servi, porti fuori specifici oggetti) sono impartiti, per lo più dai padroni di casa (cf. Xen. Cyr. V 3.49: ὥσπερ ἐν οἴκῳ ἔνιοι δεσπόται προστάττουσιν ἴτω τις ἐφ᾽ ὕδωρ), in altri contesti aristofanei: Nu. 19 (da Strepsiade al suo Servo): κἄκφερε τὸ γραμματεῖον (su cui vd. infra, ad Interpretazione); V. 529 (da Schifacleone a uno dei servi di casa): ἐνεγκάτω μοι δεῦρο τὴν κίστην τις ὡς τάχιστα; Av. 1693 (da Pisetero verso la dimora di Upupa–Tereo): ἀλλὰ γαμικὴν χλανίδα δότω τις δεῦρό μοι; Ra. 871 (da Dioniso verso l’ interno del palazzo di Plutone): ἴθι νῦν λιβανωτὸν δεῦρό τις καὶ πῦρ δότω; Pl. 1194 (da Cremilo verso l’ interno della propria casa): ἀλλ᾽ ἐκδότω τις δεῦρο δᾷδας ἡμμένας. Interpretazione Il passo contiene l’ ordine che un personaggio (forse il padrone di casa) impartisce a un sottoposto, affinché gli metta a disposizione uno strumento che potrebbe essere sia un tavoliere da gioco sia un supporto da calcolo. Tale dualismo crea un inevitabile effetto di ambiguità, dal momento che l’ ordine apparentemente serio di disporre di uno strumento di calcolo poteva poi sfociare in una scena ludica.
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1 ἐκδότω Costruito con ὧδε del verso successivo, questo imperativo designerà verosimilmente, come la su citata forma imperativa ἔκφερε di Nu. 19, «to bringing out of the skene into sight of the audience» (Dover 1968, 95, ad l.). Cf. l’ analogo impiego di ἐκφέρειν in Ar. Eq. 1164 (ἐγώ σοι πρότερος ἐκφέρω δίφρον), con riferimento alla sedia portata in scena da Paflagone (vd. infra, ad v. 2), e in Pl.Com. fr. 218 (τὰ γραμματεῖα τούς τε χάρτας ἐκφέρων), con riferimento a supporti e a materiali per la scrittura. Per espressioni analoghe (con l’ impiego di δίδωμι o ἐκδίδωμι e l’ avverbio δεῦρο cf. e. g. i su citati Ar. Pl. 1194: ἀλλ᾽ ἐκδότω τις δεῦρο; Av. 1693: δότω τις δεῦρο). 2 ψηφολόγιον Il contesto non chiarisce l’ uso di questo composto, che parrebbe designare un supporto scrittorio analogo al γραμματεῖον, che si è soliti identificare con una di quelle tavolette cerate o imbiancate, utili per stendere appunti, bozze di lettere e conteggi, che in Ar. Nu. 19 Strepsiade chiede al Servo di portar fuori dall’ interno della sua casa per verificare l’ attuale ammontare dei debiti. Il termine potrebbe però anche riferirsi a un tavoliere da gioco: come tale lo strumento è classificato da Lamer 1927, 1915, e da Carbone 2005, 182 n. 430. ὧδε L’ impiego di ὧδε nell’ accezione di ἐνθάδε, in funzione di semplice locativo, non dipendente da verbi di movimento è documentato con certezza solo a partire dall’ età alessandrina (cf. Herod. 2.98; Theoc. 1.106s. [qui, per la difesa della sequenza dei due avverbi di luogo ὧδε… ὧδε nei due versi consecutivi, tràdita nei mss., vd. Giangrande 1977], 120s.; 5.45s.) e diviene poi comune nei vangeli (cf. e. g. Ev.Marc. 6.3, 13.21): donde la precisazione ὡς ἡμεῖς («come noi») inserita dal testimone, che ha pertanto presente un uso tardo. In questo frammento ὧδε pare piuttosto sinonimo di δεῦρο, secondo un uso meno raro nell’ attico di V–IV secolo, documentato nel contesto lirico della monodia dell’ Upupa degli Uccelli di Aristofane (v. 229 ἴτω τις ὧδε τῶν ἐμῶν ὁμοπτέρων) e negli Psychastai (Quelli che prendono il fresco) di Strattis, fr. 58 (πῶς ἂν κομίσειέ μοι τις […] θυμαλώπων ὧδε μεστὴν ἐσχάραν); ricorre altresì in Sofocle (cf. e. g. OT 144, 298; OC 842, 1206, 1547) e in Herod. 1.49, 4.42, 5.48. Per le occorrenze platoniche, cui genericamente si allude nella testimonianza, cf. in particolare Prt. 328d (ὦ παῖ Ἀπολλοδώρου, ὡς χάριν σοι ἔχω ὅτι προύτρεψάς με ὧδε ἀφικέσθαι), su cui vd. Denyer 2008, 121 ad l. Per l’ impiego di ὧδε come sinonimo di οὕτως, cui si allude nella medesima testimonianza, vd. Bianchi 2016, 349, ad Cratin. fr. 59. δίφρω δύο La sedia è il primo degli oggetti che nei Cavalieri il servo Paflagone, gareggiando col Salsicciaio per conquistarsi il favore di Demo, dichiara di aver portato fuori per il suo padrone dall’ interno della casa (vd. supra, ad v. 1).
Κώκαλος (fr. 363)
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fr. 363 K.-A. (349 K.) ἡμᾶς 〈ἱμᾶν〉 ἐπὶ τὸν κέραμον
κοφίνους δὲ λίθων ἐκέλευες
1 κοφίνους FSC: κοφίνω Α λίθων FSA: κάλων C ἐκέλευες FSC: ἐκέλευον Α 2 ἡμᾶς 〈ἱμᾶν〉 Bergk: ἡμᾶς codd.: ἱμᾶν Kühn 1706, 803: 〈ἱμᾶν〉 ἡμᾶς Fritzsche 1836, 18 ἐπὶ τὸν κέραμον FSA: ἐπὶ τῶν λίθων κεκέραμον C
a noi 〈di tirare〉 sul tetto
cesti (pieni) di pietre ordinavi
Poll. VII 161–162 (FS, A, C) κέραμος δὲ πᾶσα ἡ τῶν κεραμεικῶν (κεραμέων FS, C) ἀγγείων ὕλη. καὶ αὐτὸ δὲ τὸ τέγος οὐ μόνον οἱ νῦν κέραμον ὀνομάζουσιν, ἀλλὰ καὶ Ἀριστοφάνης ἂν ἐοίκοι καλεῖν, εἰπὼν ἐν Κωκάλῳ (Κωκ. om. Α)· κοφίνους — κέραμον. (Il termine) keramos (designa) tutta la molteplicità di contenitori di terracotta. E lo stesso tetto lo chiamano keramos, non solo quelli di ora, ma anche Aristofane parrebbe chiamarlo (così), quando dice nel Cocalo: «cesti — tetto».
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Tetrametri anapestici catalettici
(ylyl ylyl) | rlrl rll ll〈ll〉 | rlrl | (ylyl rlu)
Bibliografia Kühn 1706, 803; Bergk ap. Meineke FCG II 2, 1094; Kock CAF I, 484; Valente 2015, 191. Contesto di citazione Il frammento è citato da Polluce, dopo Ar. inc. sed. fr. 743 e Alex. fr. 321, all’ interno di un’ ampia sezione del libro VII (161–162) dedicata alla definizione del termine κέραμος e all’ elencazione di vari suoi derivati e composti, a testimonianza del fatto che κέραμος non indicava soltanto ogni tipo di recipiente di terracotta, ma poteva designare anche il tetto di mattoni. Testo Accolgo (con Henderson 2007, 284) l’ integrazione proposta da Bergk a partire dall’ emendamento ἱμᾶν, proposto da Kühn in luogo del tràdito ἡμᾶς. Interpretazione La testimonianza lessicografica non consente di contestualizzare il frammento. Per Kock (CAF I, 484) esso si inseriva nella descrizione di un assedio: «fort. Camicus obsidebatur»; cf. Kaibel (ap. PCG III 2, 204): «agi videtur de obsidione arcenda». 1 κοφίνους Oltre a indicare un’ unità di misura beotica (cf. Hsch. α 7446), corrispondente all’ incirca a tre choes (cf. Antiatt. κ 20 [p. 102.1 Bekker], che richiama Pl.Com. fr. 41, e Poll. IV 168–169, che cita Stratt. [Kinesias] fr. 14), il termine κόφινος, apparentemente sinonimo di ἄρριχος, designa anche un canestro di vimini intrecciato, usato per la raccolta dei grappoli d’ uva (cf. Paus.Gr. α 178; Moer. α 115; ulteriori attestazioni lessicografiche in Valente 2015, 191, ad l.). In Ar. Av.
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1309s. Pisetero richiede κόφινοι e ἄρριχοι pieni di ali di uccelli da distribuire agli eventuali avventori di Nubicuculia; e in Ar. inc. sed. fr. 680 il κόφινος è usato dal κοπρολόγος per raccogliere sterco: impiego, quest’ultimo, largamente attestato (cf. e. g. Xen. Mem. III 8.6; Plu. Pomp. 48.1, Cat. Mi. 32.4; Nic.Dam. FGrHist 90 F 66.97; IG I3 425.108; IG II2 1672.65; Geop. XII 19.3, XIV 8.3 e vd. Bagordo 2017a, 19s., ad l.). Da Poll. VI 94 se ne ricava anche un impiego come cestino per raccogliere gli scarti alla fine di un banchetto; ma questo particolare tipo di cesto, di identificazione tutt’ altro che certa, di foggia e grandezza per noi ignota (vd. diffusamente Amyx 1958, 271–273), poteva anche essere impiegato per la raccolta di prodotti agricoli (Poll. I 245, X 129); come parte di un set canonico di attrezzi agricoli che comprende anche un aratro, una falce e un sacco, di proprietà dell’ ἄγροικος (che li dà in prestito), il κόφινος è menzionato in Thphr. Char. 4.11. 2 κέραμον Come collettivo che designa per sineddoche le «tegole» del tetto (cf. Phryn. PS p. 81.16s. de Borries, su cui vd. Groeneboom 1922, 108, ad Herod. 3.44; Xen. Mem. III 1.7, D. S. XIII 56.7), bersaglio di eventi catastrofici o prodigiosi comminati da forze naturali o da divinità, il termine è impiegato in commedia da Aristofane in Nu. 1126s. e da Ferecrate in un frammento dei Persiani (fr. 137.6, su cui vd. Franchini 2020, 191). Ricorre altresì in Tucidide (cf. II 4.2; IV 48.2) e in Senofonte (cf. HG VI 5.9), in descrizioni di assedi in cui le tegole, smantellate dai tetti, sono impiegate come armi improprie, scagliate vigorosamente contro il nemico. fr. 364 K.-A. (350 K.)
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ἄλλαι 〈δ᾽〉 ὑποπρεσβύτεραι γρᾶες Θασίου μέλανος μεστόν, κεραμευσάμεναι κοτύλας μεγάλας, ἔγχεον ἐς σφέτερον δέμας οὐδένα κόσμον, ἔρωτι βιαζόμεναι μέλανος οἴνου ἀκράτου
3–4 κεραμευσάμεναι κοτύλας μεγάλας fort. Blaydes: κεραμευόμεναι κοτύλας μεγάλας Bergk: κεραμευομέναις κοτύλαις μεγάλαις A 5 ἔγχεον ἐς del. Dindorf 6 δέμας Α: δέπας Blaydes οὐδένα κόσμον Toup 1790 II, 94: οὐδὲν ἄκoσμον A 7–8 del. Toup
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altre, ancor più decrepite, vecchie, di rosso di Taso un (fiasco) pieno, avendo fatto plasmare grandi coppe d’ argilla, versavano nel proprio
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corpo, senza ritegno, da violenta passione sopraffatte per il vino rosso puro Ath. XI 478d (A) κοτύλη. Ἀριστοφάνης Κωκάλῳ· ἄλλαι — ἀκράτου. kotylē. Aristofane nel Cocalo: «altre — puro».
Metro Sequenze kat’ enoplion chiuse da ferecrateo136 llkklkkl prosa llkklkkl prosa llkklkkl prosa kklkkl an 5 lkklkkl hemm kklkklk reizd klkklkkl prosa kkklkkll pher Bibliografia Toup 1790 II, 94; Dindorf 1835 ΙΙ, 568s.; Fritzsche 1836, 18; Bergk (ap. Meineke FCG II 2, 1094); Hermann 1842, 510; Madvig 1846, 676 = Madvig 1887, 707; Madvig 1871, 283; Kock CAF I, 485; Blaydes 1885, 184s.; Tucker 1920, 155s.; Edmonds 1957, 672 n. 6; Bowie 1995, 117; Olson 2009, 324; Pellegrino 2015, 223; Henderson 2007, 284s. Contesto di citazione Il passo è citato dal ‘deipnosofista’ Plutarco di Alessandria, nell’ ambito di una lunga rassegna, che occupa sostanzialmente l’ intero libro XI, sulle varie tipologie e denominazioni delle coppe da simposio, a proposito della κοτύλη, cui è dedicata una sezione che, aperta appunto dalla citazione di questo frammento, si estende sino a 479f. Testo Generalmente considerato ametrico e lacunoso, il testo del frammento è stato variamente emendato: a partire da Toup 1790 II, 94, che dalla citazione di Ateneo ricostruisce come aristofanea una sequenza di tetrametri anapestici catalettici ([…] ἄλλαι / ὑποπρεσβύτεραι γρᾶες Θασίου μέλανος μεστὸν κεράμειον / κοτύλαισι μεγάλαις ἔγχεον ἐς σφέτερον δέμας οὐδένα κόσμον) che prevede la sostituzione del tràdito participio κεραμευομέναις col sostantivo κεράμειον (al quale riferire l’ attributo μεστόν), l’ emendamento del tràdito οὐδὲν ἄκοσμον (che ha funzione attributiva rispetto a δέμας) in οὐδένα κόσμον (che ha invece funzio-
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Per la base eolica realizzata da tribrachi vd. Parker 1997, 73s.; per la correptio epica in misure eoliche Ead. 1997, 91.
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ne avverbiale rispetto a ἔγχεον)137, e l’ espunzione delle parole successive («ἔρωτι βιαζόμεναι μέλανος οἴνου ἀκράτου sunt verba Scholiastae, sive Athenaei»). Dal canto suo, Dindorf 1835 ΙΙ, 568s. ricostruisce una sequenza di tetrametri anapestici catalettici ([…] ἄλλαι / ὑποπρεσβύτεραι γρᾶες Θασίου μέλανος μεστὸν 〈rll〉 / κεραμευομέναις κοτύλαις μεγάλαις σφέτερον δέμας οὐδένα κόσμον) che, rispetto a quella di Toup, di cui recepisce l’ emendamento οὐδένα κόσμον e l’ espunzione delle parole successive, contempla una lacuna dopo μεστόν (di cui resta dunque impregiudicato il sostantivo di riferimento), la conservazione del tràdito κεραμευομέναις e l’ espunzione di ἔγχεον ἐς. E in funzione di una scansione in tetrametri anapestici sono orientate le integrazioni proposte exempli gratia da Kaibel nella sua edizione del testo di Ateneo – dove viene peraltro recepita l’ integrazione 〈ὑπ᾽〉 (ἔρωτι) proposta, in alternativa a varie altre opzioni nello stesso metro, da Fritzsche 1836, 18 – e, con riferimento al testo di Ateneo edito da Kaibel, da Tucker 1920, 155s., il quale ricostruiva tre tetrametri anapestici trasponendo γρᾶες nell’ultimo, e correggendo κοτύλαις in κοτύλαισι e ἔγχεον ἐς in ἔβρεχον («innaffiavano [il loro corpo]»): ἀλλ᾽ αἳ 〈θ᾽〉 ὑποπρεσβύτεραι Θασίου μέλανος μεστὸν κοτύλαισι / κεραμευομέναις μεγάλαις ἔβρεχον σφέτερον δέμας οὐδένα κόσμον / 〈χαἰ〉 γρᾶες ἔρωτι βιαζόμεναι μέλανος 〈φρένας〉 οἴνου ἀκράτου. L’ integrazione 〈ὑπ᾽〉 (ἔρωτι) è stata accolta anche nella non meno problematica ricostruzione in dimetri anapestici esperita da Hermann 1842, 510 (… ἄλλαι 〈δ᾽〉 / ὑποπρεσβύτεραι γρᾶες ἀκράτου / Θασίου μέλανος μεστὸν κέραμον / ταμιευόμεναι κοτύλαις μεγάλαις / ἐνέχεον, 〈ὑπ᾽〉 ἔρωτι βιαζόμεναι / σφέτερον δέμας οὐδένα κόσμον), nella quale l’ intervento testuale più vistoso è rappresentato dalla sostituzione del tràdito κεραμευομέναις con κέραμον / ταμιευόμεναι138, e dall’ espunzione, già indicata da Toup, delle parole finali. L’ emendamento οὐδένα κόσμον, che accolgo a testo, era stato recepito già da Madvig, nell’ ambito di una ulteriore ricostruzione del testo in sequenze anapestiche (Madvig 1846, 676 = Id. 1887, 707: ἄλλαι 〈δ᾽〉 ὑποπρεσβύτεραι {γρᾶες} Θασίου μέλανος μεστὸν κέραμον θέμεναι κοτύλαις μεγάλαις †ἔγχεον ἐς σφέτερον δέμας οὐδένα κόσμον, ἔρωτι βιαζόμεναι {μέλανος οἴνου ἀκράτου}), nella quale gli interventi testuali più vistosi sono rappresentati dall’ espunzione di γρᾶες e dalla sostituzione del tràdito κεραμευομέναις con κέραμον θέμεναι: una ricostruzione ricordata poi in maniera imprecisa in Madvig 1871, 283, dove, nell’ intento di
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L’ emendamento di Toup, che ha avuto particolare fortuna, da ultimo è stato accolto anche da Henderson 2007, 284. Il tràdito οὐδὲν ἄκοσμον è invece conservato nel testo di Ateneo da Olson 2009, 324, che traduce: «full of dark Thasian (wine) their bodies, not at all indecorous» (cf. Olson 2020, 297). Anche Pellegrino 2015, 223 stampa il tràdito οὐδὲν ἄκοσμον, pur riproponendo nella traduzione la valenza avverbiale della locuzione οὐδένα κόσμον («senza alcun senso della misura»). Questa ricostruzione, che fa di μεστόν l’ attributo di κέραμον, e di ταμιευόμεναι un participio congiunto del soggetto, è recepita ad esempio da Bowie 1995, 117, che traduce «other and somewhat more elderly old women poured out a vessel full of red Thasian wine into their bodies without ceremony, serving themselves with large kotylai».
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sistemare il testo in tetrametri anapestici, l’ emendamento κέραμον θέμεναι è ripensato nella forma κεραμεῖον / θέμεναι («in codicibus est μεστὸν κεραμευομέναις κοτύλαις, apertissime conflato κεραμεῖον et participio»), probabilmente ispirata dal κεράμειον proposto da Toup, e il tràdito ἔγχεον ἐς, problematico ai fini della scansione anapestica, è rimpiazzato con ἔβρεχον, già peraltro suggerito, come si è visto, da Tucker 1920, 156. Tali interventi non risultano però risolutivi: «duobus anap. descriptis tertium miro errore ab ἔρωτι orsus» (Kassel–Austin PCG III 2, 204). Kock sembra considerare quella di Ateneo una parafrasi, più che una citazione, delle parole di Aristofane, e ricostruisce perciò due tetrametri anapestici (ἄλλαι δ᾽ ὑποπρεσβύτεραι {γρᾶες} Θασίου μέλανος πόθῳ οὐδένα κόσμον / κέραμον θέμεναι κοτύλαις μεγάλαις {ἔγχεον ἐς} σφέτερον δέμας οἴνου ἐμέστουν) in cui vengono espunti γρᾶες e ἔγχεον ἐς, vengono accolti i su citati emendamenti οὐδένα κόσμον per οὐδὲν ἄκοσμον e κέραμον θέμεναι per κεραμευομέναις, ma si interviene anche sui tràditi μεστόν, rimpiazzato da πόθῳ, e ἀκράτου, emendato con ἐμέστουν: «ἔρωτι βιαζόμεναι est glossema nominis πόθῳ, ἔγχεον ἐς verbi ἐμέστουν, ex quo μεστὸν remansit» (CAF I, 485). Con altrettanta libertà, una sequenza di dimetri anapestici con inserzione di un monometro (ἄλλαι 〈δ᾽〉 ὑποπρεσβύτεραι Θασίου / μέλανος μεστὸν κεραμευόμεναι / κοτύλαις μεγάλαις / ἐνέχεον ἐς 〈τὸ〉 σφέτερον δέμας οὐδ᾽ / ἕνα κόσμον ἔρωτι βιαζόμεναι / μελαν〈αιγίδ〉 ος οἴνου ἀκράτου) è ricostruita da Edmonds 1957, 672, che stampa ἄλλαι 〈δ᾽〉 in luogo del tràdito ἄλλαι, ἐνέχεον ἐς 〈τὸ〉 (σφέτερον δέμας)139 in luogo del tràdito ἔγχεον, e μελαν〈αιγίδ〉ος in luogo del tràdito μέλανος140. Kassel e Austin sembrano preferire la ricostruzione, proposta da Kaibel (ap. PCG III 2, 204s., ad l., «coll. Pac. 783sqq.»), di una sequenza dattilo–epitritica (ἄλλαι 〈δ᾽〉 ὑποπρεσβύτεραι γρᾶες Θασίου μέλανος με-/στὸν κέρας εὑρόμεναι κοτύλαις μεγάλαις / ἔγχεον ἐς σφέτερον δέπας οὐδένα κόσμον, / ἔρωτι βιαζόμεναι μέλανος / οἴνου ἀκράτου), nella quale gli ultimi due versi sono «fort. coniungendi addito post μέλανος vocabulo φρένας vel pro μέλανος substituto». Rispetto a quest’ ultima ricostruzione (in alternativa all’ emendamento κέρας εὑρόμεναι proposto da Kaibel, nel secondo verso così ricostruito, in luogo del tràdito κεραμευομέναις), Austin suggerisce l’opzione κέραμ〈ον κεραμευ〉σάμεναι141: κέραμον (di cui μεστόν sarebbe attributo) indicherebbe dunque il vaso d’ argilla che le vecchie beone avrebbero fatto plasma-
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Per Edmonds 1957, 672 n. 6, δέμας sarebbe qui aprosdoketon per δέπας: «the wine passing not into a δέπας but into a δέμας»: evidentemente raccogliendo la suggestione di Blaydes 1885, 184s. (che stampa δέπας in luogo del tràdito δέμας: congettura ritenuta peraltro «assai probabile» da Cassio 1974, 169 n. 3; ma cf. Hdt. I 212.2: κατιόντος τοῦ οἴνου ἐς τὸ σῶμα κτλ., citato, quasi ad litteram, da Ath. XIV 613b, su cui vd. infra, ad fr. 365, Interpretazione). Integrazione ispirata dal confronto con Plu. Quaest. Conv. VI 7.2 [Mor. 692e]: «or μελανόχροος cf. Anacreont. 52?». Sulla scia di Blaydes 1885, 185, che aveva già proposto la correzione del participio presente con la corrispondente forma participiale aoristica al nominativo.
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re (κεραμευσάμεναι) per potervi poi attingere il vino servendosi di grandi kotylai. In generale, in difesa di una forma mediale di participio femminile del verbo κεραμεύω risulta utile il confronto con il peculiare impiego dell’ aoristo medio del medesimo verbo in un celebre frammento della Tirannide di Ferecrate (fr. 152), in cui si ripropone lo stereotipo della vinositas delle donne, le quali, per gli uomini, hanno fatto intenzionalmente plasmare nell’ argilla coppette poco capienti, piatte e senza fondo (vv. 1s.: ἐκεραμεύσαντο τοῖς μὲν ἀνδράσιν ποτήρια / πλατέα κτλ.), e per sé, invece, calici panciuti, «profondi come navi da carico che trasportano vino (vv. 4s.: σφίσι δε 〈γ᾽〉 αὐταῖσιν βαθείας κύλικας ὥσπερ ὁλκάδας / οἰναγωγούς κτλ.)»: e appunto sulla base di Pherecr. fr. 152, Bergk (ap. Meineke FCG II 2, 1094) proponeva di emendare il tràdito κεραμευομέναις κοτύλαις μεγάλαις in κεραμευόμεναι κοτύλας μεγάλας: correzione accolta a testo da Blaydes 1885, 184. Ma se al participio si attribuisce valore verbale (riferendolo alle vecchie che hanno fatto appositamente fabbricare coppe grandi per le loro smisurate bevute), alla forma del presente sarà da preferire, come già suggerito dallo stesso Blaydes, quella dell’ aoristo142: donde la scelta di stampare qui a testo κεραμευσάμεναι κοτύλας μεγάλας. In alternativa, il tràdito κεραμευομέναις, costruito col dativo strumentale κοτύλαις μεγάλαις, sarà da interpretare come participio attributivo («coppe grandi, fatte d’ argilla»). Quanto alla problematica funzione attributiva di μεστόν, nella mia traduzione presuppongo l’ ellissi di un sostantivo atto a designare un (grande) contenitore di vino (ad es. κέραμον). L’ articolo, che conferisce di norma all’ attributo funzione sostantivale, può infatti talvolta essere obliterato: per restare all’ aggettivo μεστός, chiaro esempio ne è Diph. fr. 20.1 (ἔγχεον μεστήν· κτλ.) e forse anche Alex. fr. 59 (τρεῖς φιλοτησίας ἐγὼ / μεστὰς προπίνω κτλ.: vd. Arnott 1996, 183, ad l., e, per ulteriori esempi e bibliografia, 325, ad Alex. fr. 116.1)143. In alternativa, si potrà ipotizzare la presenza di un siffatto sostantivo nel precedente contesto per noi perduto. Interpretazione Il frammento fa riferimento al topico motivo comico della vinositas delle donne, ripetutamente attestato, specie nelle commedie ‘femminili’, in Aristofane (cf. e. g. Lys. 113–116, 193–208, 395, 463–466, Th. 393, Eccl. 131–133, 153–155, fr. 487; celebre soprattutto la scena di Th. 689–761, di cui serba memoria il vaso del Telefo di Würzburg [H 5697, che illustra in particolare i vv. 750–755]; e cf. anche Pl. 644s.) e negli altri commediografi dell’ archaia, della mesē, della nea e della palliata (cf. e. g. Pherecr. frr. 75–76, fr. 152, e anche frr. 183, 207; Theopomp. Com. frr. 41–42, con Farmer 2022, 137, e fr. 55; Epicr. fr. 3.1s.; Eub. frr. 42, 124; Alex. frr. 56, 225; Antiph. frr. 25, 58, 163; Aristopho fr. 13; Axionic. fr. 5; Henioch.
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Madvig 1846, 676 = Id. 1887, 707 annotava in proposito: «in participio κεραμευομέναις perspicue mendum est; neque enim cotylae tum ipsum, dum iis feminae illae utebantur, ex argilla fiebant». Così intende anche Henderson 2007, 285: «and others, some rather old bags, got a bottle of red Tasian».
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fr. 5.18; Xenarch. fr. 6; e cf. anche Pl.Com. fr. 188; Plaut. Pers. 170, Pseud. 221, Truc. 903ss.); donne che amano peraltro bere vino puro, non miscelato con acqua (cf. e. g. Ar. Lys. 195–197, 235s., Eccl. 227, 1123s., e anche Pherecr. fr. 75)144. Sulla maschera comica della vecchia beona, cf. soprattutto Ar. Nu. 555 (= Eup. Marikas test. i.5: che documenta il ricorso da parte di Eupoli, in una commedia identificata col Maricante dagli scolii [Σ (vet) Ar. Nu. 549b Holwerda; Σ (vet) Ar. Nu. 553 Holwerda = Eup. Marikas testt. ii–iii], al personaggio di una γραῦς μεθύση, generalmente identificata con la madre di Iperbolo: vd. Olson 2016, 127); Eccl. 877s., 972, 1021, 1086s.; Pherecr. fr. 76; Eub. fr. 80.4s.; Philyll. fr. 5; Theopomp. Com. fr. 80, con Farmer 2022, 212, ad l.; Alex. fr. 172.1s. (con Arnott 1996, 504, ad l.); Antiph. fr. 47; Dionys.Com. fr. 5; Xenarch. fr. 5; Men. Dysc. 858, Sam. 302s., fr. 412; Plaut. Asin. 799–802, Cist. 19, 127s., 149, 542, Curc. 96–140, 161s.; Ter. Andr. 228–233 (con Men. Perinth. fr. 4 Sandbach = fr. 4 Arnott); e, in generale, sui topoi (non solo comici) della vinositas e della akratoposia delle donne, in specie anziane, cf. Ath. X 440d (che menziona in proposito anche un epigramma di Faleco [App. Anth. I 117 Cougny =HE 2935-2937]), e vd. Oeri 1948, 13–18, 39–46; Henderson 1987b, 119s.; Bowie 1995, 117–120; Finnegan 1995, 121–131; Arnott 1996, 503s. (con passi e bibliografia ulteriori). Sul vino di Taso, verso il quale le donne nutrivano una speciale predilezione, vd. supra, ad Thesm. II fr. 334. 2 κεραμευσάμεναι Denominativo da κεραμεύς, il verbo κεραμεύειν significa propriamente «impastare qualcosa in argilla» o «fare il vasaio» (vd. Blümner 1879, 5), ma da Aristofane è impiegato, in Eccl. 252s., anche in senso metaforico, in riferimento alla cattiva gestione degli affari pubblici da parte del demagogo Cefalo (LGPN II, s. v. [5]; PAA 566650), proprietario di una fabbrica di ceramica (cf. Σ Eccl. 253 Regtuit, e vd. Taillardat 1965, 382s.; Sommerstein 1998, 161s., ad l.). Per la peculiare accezione che ha qui la forma mediale del participio femminile, vd. supra, ad Testo. E vd. anche la lamentela espressa dalla persona loquens di Epig. Ἡρῴνη [Herōinē, Eroina] fr. 4 per il fatto che ormai non si fabbricano più boccali
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L’ usanza di bere vino pretto era tendenzialmente stigmatizzata, e per ragioni etico–culturali (cf. e. g. Alc. fr. 72 V.) e per ragioni mediche (cf. fr. com. adesp. 101), ancorché non evitata in maniera assoluta (cf. e. g. Ar. Ach. 1229; Pl.Com. fr. 205.3s.; Alex. fr. 257.5; Clearch.Com. fr. 3; Men. fr. 401.1s., e vd. Arnott 1996, 722, ad Alex. fr. 257), talora attribuita agli schiavi (cf. e. g. Ar. Eq. 85, 87, 105), e comunque ammessa, seppure in quantità modeste, in occasione dei brindisi che, dopo il δεῖπνον, davano inizio al simposio (cf. e. g. Alex. fr. 246.2, e vd. Belardinelli 1998, 260s., ad Diod.Com. fr. 1.1). Sulle variabili proporzioni delle miscele di acqua e vino prescritte dalle norme della civiltà simposiale greca, vd. Arnott 1996, 650s., ad Alex. fr. 228.2, con passi e bibliografia; e sulla condanna dell’ aktratoposia, talvolta considerata ‘barbara’ (cf. Hdt. VI 84; Pl. Lg. 637e, e anche Anacr. PMG 356b.3 = fr. 33.9 Gentili), vd. in generale Lissarrague 1989, 6–9; Arnott 1996, 77s., ad Alex. fr. 9.3s.
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panciuti (οὐδὲ κεραμεύουσι νῦν τοὺς κανθάρους […] ἐκείνους τοὺς ἁδρούς), ma soltanto coppe basse ed esili, e quindi poco capienti per il vino. κοτύλας μεγάλας La varietà e contraddittorietà delle fonti in merito alla κοτύλη induce a ritenere che il termine, attestato già in Omero (Il. XXII 494, Od. XV 312, XVII 12), avesse, qui e altrove, l’ accezione generica di coppa, usata come vaso potorio, ma anche come recipiente per liquidi e alimenti in genere145. Gli archeologi identificano in genere la κοτύλη con una coppa profonda a due anse, molto simile allo σκύφος, rispetto al quale si differenzierebbe per il diverso orientamento delle anse (poste a livello dell’orlo e dunque orizzontali nella κοτύλη, e invece poste più in basso e dunque leggermente oblique nello σκύφος), presente con continuità e sin dai tempi del Tardo Geometrico a Corinto, e successivamente soprattutto in Attica e in Beozia (vd. Pottier 1926; Leonard 1922; Paine 1931, 294s.; Richter–Milne 1935, 26–28 e figg. 170–177; Banti 1965)146. 3 οὐδένα κόσμον Il tràdito οὐδὲν ἄκοσμον fu emendato da Toup con questo accusativo avverbiale sulla base del confronto con l’ impiego della medesima iunctura in Hdt. VIII 117.2, a proposito della morte che i persiani di Serse, in 145
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Ma, come nel caso di varie altre tipologie di vasi, nel linguaggio metrologico la κοτύλη era anche un’ unità di misura, corrispondente, per i liquidi, a sei ciati (κύαθοι), cioè all’ incirca a un quarto di litro (vd. Arnott 1996, 326 n. 1 con bibliografia, ad Alex. fr. 116.2). E al lessico comico di V–IV secolo appartengono composti come δικότυλος, τρικότυλος, τετρακότυλος, ἑπτακότυλος, atti a quantificare la capienza di recipienti per il vino (vd. Austin–Olson 2004, 254, ad Ar. Th. 743). Con lo σκύφος la κοτύλη è sostanzialmente identificata da Sparkes–Talcott 1970, 81 e n. 1, con il richiamo a Smith 1939, 7 n. 3. Sulle differenze tra σκύφος e κοτύλη e sulle confusioni terminologiche operate già dagli antichi tra i due tipi di vasi, vd. Batino 2002, 15, 19–22, con la bibliografia ivi discussa. Il maschile κότυλος, generalmente ritenuto una variante del femminile κοτύλη, è descritto in realtà da Ateneo come una coppa con una sola ansa (XI 478b: τὰ μόνωτα ποτήρια κότυλοι) o addirittura priva di anse, simile a un λουτήριον (478e: Διόδωρος δὲ τὸν παρά τισι κότυλον κοτύλην ὠνομακέναι τὸν ποιητήν· [Od. XV 312]. ὃν κύλικα μὲν οὐκ εἶναι, οὐ γὰρ ἔχειν ὦτα, παραπλήσιον δ’ ὑπάρχειν λουτηρίῳ βαθεῖ, ποτηρίου δ’ εἶδος εἶναι), di uso comune – a quanto attesta Diodoro nello scritto Contro Licofrone (fr. 76 Strecker = Glossarium Italioticum [Tarentinorum] 128 K.-A., cf. Kassel–Austin, PCG I, 317) – a Sicione e a Taranto (478 b: Διόδωρος δ’ ἐν τῷ πρὸς Λυκόφρονα παρὰ Σικυωνίοις καὶ Ταραντίνοις ἐπιπολάζειν φησὶ τὸ ἔκπωμα, εἶναι δ’ αὐτὸ λουτηρίῳ ἐοικὸς βαθεῖ. ἔχει δὲ καὶ οὖς ἐνιαχῇ). Cf. anche Poll. VI 96 (τὸ δὲ μόνωτον κοτυλίσκος ὠνομάζετο. καλοῦνται δὲ καὶ ἡδυπότιδες, λαβρώνιοι, δῖνοι, ᾠδοί, ῥυτά, σκύφοι, κότυλος) e VI 99 (ἔστι δέ τι καὶ ὁ κότυλος Διονυσιακὸν ἔκπωμα, ὥσπερ καὶ ὁ κοτυλίσκος) come pure Hsch. κ 3818 (κοτυλίσκος· […] τινὲς τὰ μόνωτα ποτήρια). In commedia, oltre a κότυλος (Ar. fr. 68; Crates fr. 29; Hermipp. fr. 29; Pl.Com. frr. 46.9, 48; Eub. fr. 71) e κοτύλη (vd. supra), sono attestati anche i diminutivi κοτυλίσκιον (Ar. Ach. 459) e κοτυλίσκη (Pherecr. fr. 75.4). Sul κότυλος, e sulla controversa questione della sua possibile identificazione con la κοτύλη, vd. Comentale 2017, 125s., ad Hermipp. fr. 29, Orth 2017, 417–420, ad Ar. fr. 68 e Perrone 2019, 153s., ad Crates fr. 29.
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ritirata ad Abido, si procurarono rimpinzandosi di cibo «oltre misura» (οὐδένα τε κόσμον ἐμπιπλάμενοι). E con valore avverbiale la iunctura è ben attestata ancora in Erodoto, tanto all’ accusativo (cf anche IX 65.1 [ἔφευγον οὐδένα κόσμον ἐς τὸ στρατόπεδον τὸ ἑωυτῶν], e 69.1 [οὐδένα κόσμον ταχθέντες] e 2 [ἐπειγομένους οὐδένα κόσμον]) quanto al dativo (cf. VIII 60 [ἐς τὸν Ἰσθμὸν παρέσονται οἱ βάρβαροι οὔτε προβήσονται ἑκαστέρω τῆς Ἀττικῆς, ἀπίασί τε οὐδενὶ κόσμῳ], IX 59.2 [οὔτε κόσμῳ οὐδενὶ κοσμηθέντες οὔτε τάξει]), in genere riferita a fughe disordinate o ad assalti condotti alla rinfusa, senza rispettare l’ ordine di schieramento; e un analogo impiego di questo dativo avverbiale è ben attestato anche in Tucidide: cf. II 52.2, III 108.3, VII 23.3, 40.3, 84.3. Toup ne ricorda inoltre l’ impiego nel finale del Simposio platonico, dove, nel descrivere il gran baccano provocato dai simposiasti, si sottolinea che, una volta sdraiatisi tutti, essi «furono indotti a bere moltissimo vino, senza più alcun senso della misura» (καὶ οὐκέτι ἐν κόσμῳ οὐδενὶ ἀναγκάζεσθαι πίνειν πάμπολυν οἶνον) (223b5s.). fr. 365 K.-A. (351 K.) ἤμουν ἄγριον βάρος, ἤπειγεν γάρ τοι μ᾽ oἶνος *** οὐ μείξας πῶμ᾽ Ἀχελῴῳ 1 HΜΟΥΝ P: ΕΜΟΥΝ N 2 ἤπειγεν post Papabasileios 1889, 196s. Cassio 1974, 167: ΗΓΕΙΡΕΝ P: ΗΤΕΙΡΕΝ N ΓΑΡ ΤΟΙ Μ᾽ ΟΙΝΟΣ ed. Basil.: ΤΑΡΟΙΝΟΣ NP 3 μείξας Cassio 1974, 167s. n. 4: ΜΕΙΖΑΣ NP ΠΟΜ N: ΠΟΜΑ P lac. inter 2 et 3 stat. Kassel et sensus et metri causa
provavo un violento conato di vomito (che mi saliva) dal profondo: mi opprimeva, infatti, il vino *** non avendo miscelato la bevanda (di vino) con l’ Acheloo Macr. Sat. V 18.4–12 (4) […] illud antiquo poeta teste monstrabo, hunc morem loquendi pervagatum fuisse, ut Acheloum pro quavis aqua dicerent. (5) Aristophanes vetus comicus in comoedia Cocalo (cotalo codd. praeter Τ, qui om.: Cocalo ed. Basil.) sic ait: ἤμουν — Ἀχελῴῳ. gravabar, inquit, vino cui aqua non fuisset admixta, id est mero. (6) cur autem sic loqui soliti sunt (sint P) Ephorus notissimus scriptor Historiarum libro secundo ostendit his verbis (FGrHist 70 F 20a): […] τὸν δὲ Ἀχελῷον μόνον πάντας ἀνθρώπους συμβέβηκεν τιμᾶν, οὐ τοῖς κοινοῖς ὀνόμασιν ἀντὶ τῶν ἰδίων 〈ὀνομάζοντες τοὺς ἄλλους ποταμούς, ἀλλὰ〉 (suppl. Jacoby) τοῦ Ἀχελῴου τὴν ἰδίαν ἐπωνυμίαν ἐπὶ τὸ κοινὸν μεταφέροντας. (7) τὸ μὲν γὰρ ὕδωρ ὅλως, ὅπερ ἐστὶν κοινὸν ὄνομα, ἀπὸ τῆς ἰδίας ἐκείνου προσηγορίας Ἀχελῷον καλοῦμεν […]. τούτου δὲ τοῦ ἀπορήματος οὐδὲν ἔχομεν αἰτιώτατον (αἰτιώτερον Willis) εἰπεῖν ἢ τοὺς ἐκ Δωδώνης
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χρησμούς· (8) σχεδὸν γὰρ ἐν ἅπασιν αὐτοῖς προστάττειν (-ΤΑΤΕΙΝ ΝP: corr. Schneidewin 1843, 468s.) ὁ θεὸς εἴωθεν Ἀχελῴῳ θύειν, ὥστε πολλοὶ νομίζοντες οὐ τὸν ποταμὸν τὸν διὰ τῆς Ἀκαρνανίας ῥέοντα, ἀλλὰ τὸ σύνολον ὕδωρ Ἀχελῷον ὑπὸ τοῦ χρησμοῦ καλεῖσθαι, μιμοῦνται τὰς τοῦ θεοῦ προσηγορίας. σημεῖον δὲ ὅτι πρὸς τὸ θεῖον ἀναφέροντες οὕτω λέγειν εἰώθαμεν· μάλιστα γὰρ τὸ ὕδωρ Ἀχελῷον προσαγορεύομεν ἐν τοῖς ὅρκοις καὶ ἐν ταῖς εὐχαῖς καὶ ἐν ταῖς θυσίαις, ἅπερ πάντα περὶ τοὺς θεούς». (9) potestne lucidius ostendi Acheloum a Graecis vetustissimis pro quacumque aqua dici solitum? […] ad quam rem etsi satis testium est, cum Aristophanis comici et Ephori historici verba prodiderimus, tamen ultra progrediemur. Didymus enim […] posita causa quam superius Ephorus dixit, alteram quoque adiecit verbis: (10) «ἄμεινον δὲ ἐκεῖνο λέγειν ὅτι διὰ τὸ πάντων τῶν ποταμῶν πρεσβύτατον εἶναι Ἀχελῷον τιμὴν ἀπονέμοντας αὐτῷ τοὺς ἀνθρώπους πάντα ἁπλῶς τὰ νάματα τῷ ἐκείνου ὀνόματι προσαγορεύειν. ὁ γοῦν Ἀκουσίλαος διὰ τῆς πρώτης ἱστορίας (Ἁγησίλαος vel Ἀγεσ. codd.: corr. Gronovius) διὰ τῆς πρώτης ἱστορίας δεδῆλωκεν ὅτι Ἀχελῷος πάντων τῶν ποταμῶν πρεσβύτατος. ἔφη γὰρ· […] (9 B 21 D.–K. = FGrHist 2 F 1 = fr. 1 Fowler)». (11) Licet abunde ista sufficiant ad probationem moris antiqui, quo ita loquendi usus fuit ut Achelous commune omnis aquae nomen haberetur, tamen his quoque etiam Euripidis […] addetur auctoritas, quam idem Didymus grammaticus in his libris quos τραγῳδουμένης λέξεως (Λέξ. τραγ. fr. 2, p. 85 Schmidt) scripsit posuit his verbis: (12) «Ἀχελῷον πᾶν ὕδωρ Εὐριπίδης φησὶν ἐν Ὑψιπύλῃ. λέγων γὰρ περὶ ὕδατος ὄντος σφόδρα πόρρω τῆς ᾽Ακαρνανίας, ἐν ᾗ ἐστιν ὁ ποταμὸς Ἀχελῷος, φησίν· […] (fr. 753 Kn.)». (4) […] mostrerò, con la testimonianza di un antico poeta, che era molto diffuso questo modo di dire per cui dicevano Acheloo (come nome comune) per (indicare) una qualunque acqua. (5) L’ antico poeta Aristofane nella commedia (intitolata) Cocalo dice così: «provavo — Acheloo». Io mi sentivo oppresso – dice – dal peso del vino cui non fosse mescolata dell’ acqua, cioè per il (vino) puro. (6) Perché siano soliti dire così lo spiega d’ altronde il notissimo scrittore Eforo, nel secondo libro delle Storie (FGrHist 70 F 20a), con queste parole: «[…] accade invece che l’ Acheloo è l’ unico fiume che tutti gli uomini venerano non 〈chiamando gli altri fiumi〉 con i nomi comuni anziché con quelli propri, 〈ma〉 trasferendo alla denominazione propria dell’ Acheloo il significato di nome comune. (7) Infatti l’ acqua, che è un nome comune, dal nome proprio di quel fiume noi la chiamiamo Acheloo […]. Di tale questione non possiamo addurre spiegazione più autorevole dell’ oracolo di Dodona: (8) giacché in quasi tutti i responsi il dio suole ordinare di sacrificare all’ Acheloo, di conseguenza molti, ritenendo che dall’ oracolo fosse chiamato Acheloo non il fiume che scorre attraverso l’ Acarnania ma tutta quanta l’ acqua, imitano le denominazioni usate dal dio. Ne è prova il fatto che impieghiamo questo modo di esprimerci riferendoci alla divinità: infatti chiamiamo l’ acqua Acheloo soprattutto nei giuramenti, nelle preghiere e nei sacrifici: tutte manifestazioni del culto divino». (9) Si può forse dimostrare più nitidamente che i Greci dei tempi più antichi erano soliti dire Acheloo in riferimento a qualunque acqua? […]. E a questo proposito, anche se ci sono sufficienti testimonianze, poiché abbiamo citato le parole del comico Aristofane e dello storico Eforo, andremo tuttavia oltre. Didimo infatti […] alla causa esposta da Eforo che abbiamo citato sopra aggiunse quest’ altra: (10) «È preferibile addurre come spiegazione la circostanza che gli uomini, come atto di omaggio nei confronti dell’ Acheloo per il fatto di essere il più antico di tutti i fiumi, chiamano tutte le correnti d’ acqua in generale con il nome di quello. Del resto, Acusilao nel primo libro della Storia ha dimostrato che l’ Acheloo è il più antico di tutti i fiumi. Dice infatti: […] (FGrHist 2 F 1 = 9 B 21 D.–K. = fr. 1 Fowler)». (11) Benché questo sia più che sufficiente per comprovare l’ antica consuetudine di adoperare il termine Acheloo come nome comune dell’ acqua, si dovrà tuttavia aggiungere l'autorevole testimonianza di Euripide […], che viene citata dal
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medesimo grammatico Didimo nella sua opera su La dizione tragica (Λέξ. Τραγ. fr. 2, p. 85 Schmidt): [12] «Euripide nell’ Ipsipile chiama Acheloo tutta l’ acqua. Infatti parlando di acqua molto distante dall’ Acarnania, la regione nella quale scorre il fiume Acheloo, dice: […] (fr. 753 Kn.)». Serv. auct. in Verg. Georg. I 8 (III 1, p. 132.18–20 Thilo–Hagen) sicut Orpheus docet (fr. inc. sed. 344 Kern), et Aristophanes comicus et Ephorus historicus (FGrHist 70 F 20c) tradunt, Ἀχελῷον generaliter […] omnem aquam veteres vocabant. Come insegna Orfeo (fr. inc. sed. 344 Kern), e tramandano il comico Aristofane e lo storico Eforo (FGrHist 70 F 20c), gli antichi chiamavano generalmente […] Acheloo ogni acqua.
Metro
Dimetri anapestici (l’ ultimo catalettico)
(rlrl) | llrl rlll ll|ll ***
llll | wwll Bibliografia Dindorf 1829, 90; Schneidewin 1845, 142s.; Cobet 1856, 192s.; Kock CAF I, 485; Papabasileios 1889, 197; Wessner 1928, 189.35–190.29; Courcelle 1948, 12; Dodds 1960, 142, 154; Taillardat 1965, 35; Rau 1967, 199; Murgia 1970, 189; Roux 1970–1972, 425s.; Cassio 1974, 164–166; Erbse 1977, 165–167; Kassel– Austin PCG III 2, 205; Marinone 1990, 236; D’ Alessio 2004, 22; Kouremenos– Parássoglou–Tsantsanoglou 2006, 258–260; Bernabé 2007, 249s.; Comparelli 2008, 186. Contesto di citazione Il frammento è citato all’ inizio della sezione dedicata alle imitazioni virgiliane dei poeti greci (V 18–22) – il secondo dei tre argomenti virgiliani delibati durante la mattina della terza giornata dei Saturnaliorum convivia di Macrobio – come esempio dell’uso metonimico del nome del fiume Acheloo per designare genericamente l’ acqua. La persona loquens (un non meglio identificato filosofo greco di nome Eustazio, per bocca di Postumiano) trae spunto dall’ immagine coniata da Virgilio in Georg. I 7–9, a proposito dell’ operato di Bacco, il quale, scoperta l’ uva, vi mescolò le «coppe Acheloe» (poculaque inventis Acheloia miscuit uvis, v. 9). Il tema viene sviluppato nell’ ambito di una digressione nel corso della quale, dopo aver citato, in 18.2, il passo virgiliano e poi, in 18.5, il frammento di Aristofane, in 18.6–10 si spiega la genesi della metonimia alla luce di una testimonianza di Eforo (FGrHist 70 F 20a). In tale contesto, si valorizza la peculiare sacralità di questo fiume rispetto a tutti gli altri corsi d’ acqua greci (vd. infra, ad Interpretazione), da ricondurre alla sua assai frequente menzione nei responsi oracolari di Dodona (cf. POxy. II 221 [= TM 60508] col. IX rr. 21–25; Σ [T] Il. XXI 194a1, V p. 166 Erbse1) e all’ autorità di ulteriori testimonianze, di Didimo (fr. °39a Coward-Prodi, da Schmidt accorpato alla testimonianza successiva e rubricato tra i frammenti della Λἐξις τραγική, ma che potrebbe provenire dal Περὶ διαφορᾶς λέξεων: vd. Montana 2020, 69) e di Acusilao di Argo (9 B 21
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D.-K. = FGrHist 2 F 1 = fr. 1 Fowler) relative al culto dall’ Acheloo, venerato come il più antico di tutti i fiumi. Si prosegue, quindi, in 18.11s., con la citazione di un frammento dell’ Ipsipile euripidea (vd. infra, ad Interpretazione), per la quale Macrobio dichiara nuovamente la dipendenza da Didimo (Λέξ. Τραγ. fr. 2, p. 85 Schmidt. Sulla presenza di Didimo in Macrobio vd. ora DiGiulio 2020, 90-93). Nel commentario virgiliano del Servio auctus, invece, la metonimia di Verg. Georg. I 8 è spiegata con un generico riferimento ad Aristofane e a Eforo (FGrHist 70 F 20c), cui si aggiunge la menzione di Orfeo (Orph. fr. inc. sed. 344 Kern = F 154 Bernabé)147. Testo In linea con Kassel–Austin, PCG III 2, 205 (seguiti da Henderson 2007, 284), ho recepito a testo la lacuna postulata tra il secondo e il terzo verso da Kassel per ragioni metriche («οἶνος / οὐ contra metrum») e di senso («sententia fuerit “(vinum) quod nimium potaveram”. poetae testimonium ipse Macrobius vel auctor eius breviasse videtur»), per quanto non la si direbbe strettamente necessaria, né per quel che riguarda il senso, che sembra a me sufficientemente perspicuo, né per quel che riguarda il metro, posto che, se di norma tra i dimetri all’ interno dei sistemi anapestici recitati148 non sono tollerati né lo iato né la brevis in longo, la possibile eccezione rappresentata da Aesch. Ag. 794s. – che pure ha indotto
147
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Con la grafia «[344] Kern» Kassel e Austin (PCG III 2, 205), sembrano recepire i dubbi espressi da Murgia (1970, 189) sul riferimento a Orfeo nel su citato passo del Servio auctus: la mancata menzione di Orfeo da parte di Macrobio indurrebbe a parere di Murgia a ritenere che anche la fonte di Servio (presumibilmente Donato) ascrivesse l’ espressione metonimica ai soli Aristofane ed Eforo («Servius [scil. il Servio vulgatus, III 1, p. 130.20 Thilo–Hagen] has chosen to quote only one of the two authors, and since we may assume that he knew that Orpheus was not an historian, we may reasonably assign the error Orpheus [scil. nel Servio auctus] to a scribe» [Murgia 1970, 189 n. 11]). In realtà, tutt’ altro che certa è qui la dipendenza di Macrobio dal Servio auctus, posto che in Macrobio si trovano citazioni di Didimo (che a sua volta cita Acusilao di Argo) e di Euripide che sono assenti nel Servio auctus. Una spia di questa indipendenza è forse anche nel dettato del Servio auctus o della sua fonte («sicut Orpheus docet, et Aristophanes comicus et Ephorus historicus tradunt»: qui l’ identità dello «storico» Eforo appare distinta e distante da quella di Orfeo), che sembra escludere l’ipotesi di una confusione tra i due autori, e suggerire anzi la provenienza dell’ informazione da due tradizioni distinte. E, d’ altronde, la presenza dell’ Acheloo come nome metonimico per l’ acqua in generale nel poema orfico commentato nel papiro di Derveni (vd. infra, ad v. 3) rende l’ ipotesi di Murgia «rather implausible» (D’ Alessio 2004, 22). Sulle fonti di Macrobio in Sat. V 18–22, e sul rapporto col Servio auctus, vd. Wessner 1928, 189.35–190.29; Courcelle 1948, 12; Marinone 1990, 236; Montana 2020, 68s. E, più in generale, sulle presenze orfiche in Servio, vd. Comparelli 2008 (in particolare, con riferimento a questo passo, 186). Le peculiarità dei sistemi in dimetri anapestici lirici e non lirici, nonché le problematiche talora connesse al loro riconoscimento, nelle commedie superstiti di Aristofane sono state scandagliate da Pretagostini 1976.
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Blomfield, seguito dalla quasi totalità degli editori, a postulare la lacuna di un verso tra il 794 e il 795 – rappresenterebbe un significativo precedente, ancorché relativo non, come nel caso del nostro frammento, al fenomeno della brevis in longo bensì a quello dello iato (in generale, sulla questione vd. Gentili–Lomiento 2003, 111, e in particolare sul passo dell’ Agamennone vd. da ultimo Medda 2017a, III, 8s.). La lacuna postulata da Kassel non è recepita a testo, ma segnalata in apparato, nell’ edizione di Macrobio curata da R. A. Kaster, in cui a ἤπειγεν γάρ τοι μ᾽ oἶνος è assegnato valore incidentale (– ἤπειγεν γάρ τοι μ᾽ oἶνος –). 2 ἤπειγεν La lezione ἤγειρεν tràdita da P (Paris. Gr. 6371), indipendentemente stampata a testo da Bergk (ap. Meineke, FCG III 2, 1094) rispetto all’assurdo ἤτειρεν della vulgata (da cui, sino all’ edizione di von Jan, Quedlinburg–Leipzig 1852, si leggeva il testo dei Saturnalia) e di N (Neap. V B 10), è stata messa in dubbio da Cassio 1974, il quale, a partire dallo scetticismo espresso da Kock (il quale annotava in proposito: «non excitat e somno nimia vini potio», CAF I, 485), rilevava che: a) «non è facile immaginare che qualcuno, dopo aver bevuto eccessivamente, si addormenti tranquillo svegliandosi poi per vomitare; anzi generalmente chi non si è liberato dal βάρος non riesce facilmente a prendere sonno» (1974, 165); b) ἤγειρεν … μ᾽ οἶνος non trova precisa corrispondenza nella parafrasi di Macrobio («gravabar, inquit, vino»), «proprio là dove sembra che questa si attenga più da vicino al testo greco»149. Cassio (ma già Papabasileios 1889, 197) ha proposto di sostituire ἤγειρεν con ἤπειγεν, poiché questo verbo era «normalmente usato per indicare il senso d’ oppressione causato da un peso fisico dal quale ci si deve assolutamente liberare». Tra gli esempi di atticisti o prosatori atticizzanti citati al riguardo da Cassio, degno di nota è in particolare Luc. Merc. Cond. [36] 18, dove ἐπείγω è usato in questa accezione proprio in riferimento al vino (πλέον τοῦ ἱκανοῦ ἐμπιὼν οἴνου λεπτοῦ καὶ δριμέος, πάλαι τῆς γαστρὸς ἐπειγούσης, πονηρῶς ἔχεις). Contra Kassel e Austin PCG III 2, 205 («non recte negans vinum vigilationi causam esse posse»), che menzionano e. g. la inquies nocturna descritta come effetto dell’ ubriachezza da Plin. XIV 142. Lo stato di veglia procurato dall’ insonnia è però cosa diversa dal risveglio procurato dal conato di vomito, cui questo frammento allude. In virtù di questa considerazione accolgo a
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Quest’ ultima considerazione aveva indotto già il Cobet a rigettare ἤγειρεν e a proporre un ἔτειρε («quod verbum ab huius loci ratione non est alienum et legitur apud Aristophanes et alibi [scil. in Lys. 959]», Cobet 1856, 192s.) che si trova in realtà stampato già nell’ edizione aristofanea del Brunck (1783, III 253), ma che, giusta la ricostruzione in anapesti resa sicura da P (vd. Schneidewin 1845, 142s.), è, come il κἄτειρε successivamente proposto da Dindorf (1829, 90), metricamente impossibile, ancorché non insoddisfacente (pace Cassio 1974, 166) per il senso (cf. Gal. Quod animi mores 3 [IV, p. 778 Kühn], dove, nell’ incipit della citazione di Od. XXI 293–298, il verbo τείρω, riferito al vino, sostituisce l’ omerico τρώω [cf. Helmreich–Marquardt–Müller 1891, 40]: οἶνός σε τείρει μελιηδής, ὅσ〈τε〉 καὶ ἄλλους / βλάπτει ὃς ἄν μιν χανδὸν ἕλῃ μηδ᾽ αἴσιμα πίνῃ κτλ.).
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testo l’ emendamento ἤπειγεν, paleograficamente ammissibile, non problematico sul piano del significato in questo contesto, ed effettivamente meglio rispecchiato dalla parafrasi gravabar… vino di Macrobio. 3 μείξας La grafia μείξας, d’ altronde confermata dal ΜΕΙΖΑΣ di N e P, è quella originaria rispetto al μίξας degli altri codici: vd. Meisterhans–Schwyzer 1900, 51 e 181 n. 1496. πῶμ᾽ È questa, rispetto alle lezioni di N e P, la corretta forma attica, qui, come in Eur. Hec. 392, dove il tràdito πόμ᾽ è stato emendato in πῶμ᾽ da Porson, il quale annota in proposito: «πόμ᾽ MSS. et edd. sed haec forma Atticis erat incognita. Quod hoc uno argumento satis probatur. Multa sunt loca in quibus metrum πῶμα flagitet; nullum, ubi πόμα postulet, pauca, ubi admittat» (1802, 27). Interpretazione Anche questo frammento, come il precedente, rinvia al tema comico della vinositas: qualcuno lamenta di aver provato un violento conato di vomito per aver consumato vino non miscelato con acqua, ma ovviamente non è possibile dire se la persona loquens sia una delle vecchie avvinazzate descritte nel frammento precedente. 1–2 ἤμουν ἄγριον βάρος Sul vomito potenzialmente indotto dall’ abuso di vino puro, particolarmente istruttivo è un frammento della Opora di Alessi (οἶνον πολὺν / οὐ κεκραμένον 〈σὺ〉 πίνεις μεστὸς ὢν κοὐκ ἐξεμεῖς, «molto vino / non mescolato tu continui a bere, pur essendo già pieno, e non lo vomiti?», fr. 169), in cui la persona loquens esprime stupore e/o ammirazione per la eccezionale tolleranza all’ alcol dell’ interlocutore, capace di assumere grandi quantità di vino puro – usanza in genere stigmatizzata (vd. supra, ad fr. 364, n. 144) – senza rigurgitarlo (vd. Arnott 1996, 500, ad l.). In Diod.Com. fr. 1, l’ emetismo è metaforicamente connesso al rischio che gli eccessi di vino possano far uscire di senno, letteralmente far «vomitare la ragione» (v. 3: τοὺς λογισμοὺς ἐξεμεῖ): secondo una convinzione assai diffusa già in età arcaica (cf. e. g. Od. XXI 293–302; Thgn. 497s.) e poi ricorrente in commedia (cf. e. g. Crobyl. fr. 3; Eub. fr. 93.10 e vd. Belardinelli 1998, 263s.), alla quale si possono forse ricondurre anche le parole con cui Ateneo (XIV 613b) parafrasa Hdt. I 212.2 (κατιόντος γοῦν τοῦ οἴνου ἐς τὸ σῶμα […] ἐπαναπλέει κακὰ ἔπεα καὶ μαινόμενα). 3 Ἀχελῴῳ «Acheloo» è qui, come in Ar. Lys. 381 (σὸν ἔργον, ὦχελῷε, «ora tocca a te, Acheloo», detto dalla Corifea delle Vecchie che stanno per rovesciare addosso ai Vecchi l’ acqua fredda dalle loro brocche), metonimia per «acqua», ben attestata nel linguaggio tragico: cf. e. g. Soph. fr. *5 R.2 (οἴνῳ γὰρ ἡμῖν Ἀχελῷος ἆρα νᾷ, «l’ Acheloo si bagna allora per noi di vino»); Eur. Andr. 166s. (Ermione intima ad Andromaca di ramazzare la sua casa versando con le sue mani acqua corrente da bacili d’ oro: ἐκ χρυσηλάτων / τευχέων χερὶ σπείρουσαν Ἀχελῴου δρόσον), Ba. 625 (per spegnere il fuoco attizzato da Dioniso alla tomba di sua madre, Penteo ordinava «ai servi di portare acqua», δμωσὶν Ἀχελῷον φέρειν), Hyps. fr. 753 Kn. (terminata la sticomitia con Anfiarao, la protagonista si rivolge al coro dichiarando: «mostrerò agli Argivi la corrente dell’ Acheloo», δείξω μὲν Ἀργείοισιν Ἀχελῴου
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ῥόον), e Achae. TrGF I 20 F 9.1 Sn. (μῶν Ἁχελῷος ἦν κεκραμένος πολύς;: primo dei tre versi di un frammento tratto dal dramma satiresco Etone in cui, come spiega il testimone [Ath. X 427c], la metonimia, riferita al bere, è impiegata da uno dei satiri «irritati perché costretti a bere vino allungato con molta acqua»). Nei due contesti aristofanei l’ immagine avrà dunque sapore paratragico: vd. Taillardat 1965, 35; Rau 1967, 199. A parere di Dodds 1960, 154 (ad Eur. Ba. 625), tale metonimia può risalire a un’ epoca in cui, secondo la teoria di Wilamowitz 1931–1932, I, 93, 219, l’ Acheloo – l’ odierno Aprospotamos, principale fiume della Grecia nord–occidentale, che separa l’ Acarnania dall’ Etolia e sfocia nel mar Ionio, allo sbocco del golfo di Corinto – era considerato il supremo e più antico dio dell’acqua, addirittura predecessore di Oceano, e come tale padre mitico delle ninfe, oltre che dei fiumi e dei corsi d’ acqua in genere (cf. Eur. Ba. 519s. e vd. Dodds 1960, 142 e Roux 1970–1972, 425s., ad l.). Tracce di tale primigenia funzione cosmogonica dell’ Acheloo saranno da ravvisare, a parere di D’ Alessio 2004, nella versione abrégée di Il. XXI 194–197, nella quale l’ atetesi o l’ omissione del v. 195 (da POxy. 221 [= TM 60508] col. IX rr. 3–5, ad Il. XXI 195, attribuita a Megacleide, grammatico ateniese di tardo IV 1 2 secolo a. C., da Σ (T) Il. XXI 195a –a , V p. 168 Erbse attribuita a Zenodoto) fa dell’Acheloo (e non di Oceano, come in Il. XIV 201, 246, 302 e in Hes. Th. 337–340, dove Acheloo è uno dei figli di Oceano) l’ origine di tutti i fiumi: in linea con una tradizione più antica che troverebbe riscontro almeno in PDerveni (= TM 65795) col. XXIII rr. 11s. (Orph. 16 F 3–4 Bernabé) oltre che interessanti paralleli in alcune cosmogonie del Vicino Oriente, come ad es. il poema di Enūma eliš, e alla quale si ricollegherebbero le su citate testimonianze di Eforo e di Acusilao restituite da Macrobio. Sull’ Acheloo come espressione metonimica per designare genericamente l’ acqua e sulla tradizione che ne fa, in alternativa a Oceano, il più grande e/o il più antico di tutti i fiumi, oltre alla rassegna delle fonti in Erbse 1977, 165–167, ad Σ (T) Il. XXI 194, 194a–b, vd., oltre al su citato D’ Alessio 2004, Kouremenos– Parássoglou–Tsantsanoglou 2006, 258–260 e Bernabé 2007, 249s., ad PDerveni col. XXIII rr. 11s., con ulteriori passi e ampia bibliografia.
fr. 366 K.-A. (352 K.) A
Zen. vulg. 6.47 (CPG I, 174) = Prov. Bodl. 949 (Cohn 1887 [= CPG Suppl. I], 55) χ ρ υ σ ò c ὁ Κ ο λ ο φ ώ ν ι ο ς· μέμνηται ταύτης Ἀριστοφάνης ἐν Κωκάλῳ. εἴρηται δὲ (μέμνηται — δὲ om. Prov. Bodl.) παρόσον οἱ Κολοφώνιοι τὸν κάλλιστον χρυσὸν ἐργάζεσθαι νομίζονται, καί †Ἡρόδοτος (Ἡρόπυθος Pertz 1848, 10 n. 33, FGrHist 448 F 2) δὲ (om. Prov. Bodl.) Κολοφώνιον καλεῖ τὸν ἄριστον χρυσόν. L’ o r o d i C o l o f o n e: si ricorda di questa (espressione) Aristofane nel Cocalo. Viene detta in quanto quelli di Colofone ritengono di lavorare l’ oro più bello, e †Erodoto chiama colofonio l’ oro migliore.
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Interpretazione La testimonianza di Zenobio fa riferimento all’ espressione proverbiale «oro colofonio», derivata dalla fama di Colofone come città aurifera (cf. Goebel 1915, 108). «In effetti Colofone era famosa, nell’ antichità, per la lavorazione dell’ oro (che probabilmente era disponibile anche per la vicinanza del fiume Pattolo, ricco di sabbia aurifera)»: Lelli 2007, 475 n. 603. Cf. l’ interpretamentum di Macar. 5.27 (CPG II, 181): «(l’ espressione) “oro colofonio” (è detta) delle eccellenze» (Κολοφώνιος χρυσός· ἐπὶ τῶν δοκιμωτάτων). fr. 367 K.-A. (12 Dem.) Phot. α 2051 (b, z) ἀ ν τ α ν α ι ρ ε ῖ 〈 ν ⟩ (-αίρει codd.: suppl. Reitzenstein)· οἷον οἱ πολλοὶ ἀνθυφελεῖ〈ν〉 (-εῖ codd.: suppl. Reitzenstein) λέγουσιν. Ἀριστοφάνης Κωκάλῳ (Κοκ. b, om. z). a n t a n a i r e i n («e l i m i n a r e»): come i più dicono anthyphelein («sopprimere»). Aristofane nel Cocalo.
Bibliografia
Schmid 1946, 221.
Contesto di citazione Il lemma di Fozio attesta che nel Cocalo Aristofane utilizzava il verbo ἀνταναιρεῖν in luogo del più comune ἀνθυφελεῖν: per il possibile significato dei due verbi nel contesto della commedia, vd. infra, ad Intepretazione. Interpretazione Del verbo ἀνταναιρέω, generalmente attestato, come il suo equivalente ἀνθυφελέω, in riferimento all’ atto del sottrarre, eliminare, decurtare (qualcosa in rapporto a qualcos’ altro: cf. e. g. Dem. 18.231 con Wankel 1976, II, ad l. [in particolare per la specifica implicazione dell’ avverbio ἀντί], e vd. LSJ, s.vv.), la Suda attesta l’esistenza di una forma media e di una forma passiva nell’accezione di «uccidere» (Sud. α 2611: ἀνταναιρεῖται: κτείνεται. καὶ ἀντανῃρέθη, ἀντεφονεύθη). E verosimilmente in considerazione di quest’ ultima accezione Schmid 1946, 221 e n. 11 ipotizzava che anche la forma attiva del verbo attestata nel Cocalo potesse riferirsi all’ atto di uccidere: nello specifico, all’ uccisione di Minosse, che a Camico fu assassinato al posto di Dedalo.
fr. 368 K.-A. Poll. III 86 (FS, A, BC) τὸ δ’ ἀργύριον καλεῖται καὶ χρήματα καὶ (χρῆμα τε καὶ Α) νόμισμα, ὥσπερ καὶ τὸ χρυσίον. ἀ ρ γ ύ ρ ι α δὲ κατὰ πλῆθος ἥκιστα λέγουσιν (πληθυντικῶς οὐ λέγ. C) oἱ Ἀττικοί, εἴρηται δ᾽ ἐν Κωκάλῳ (εἴρηται δέ που A) καὶ Νήσοις (fr. 412) Ἀριστοφάνους (ἀργύρια — Ἀρ. om. B, εἴρηται — Ἀρ. om. C, ἐν Κωκ.— Ἀρ. om. A).
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Il termine argyrion designa sia le ricchezze (in denaro) sia la (singola) moneta, come anche il (termine) chrysion. Gli Attici usano raramente a r g y r i a come plurale collettivo, ma la forma è impiegata da Aristofane nel Cocalo e nelle Isole (Nēsoi, fr. 412).
Bibliografia Olson 2016, 64; Torchio 2021, 56 n. 218, 60s. Contesto di citazione In III 86 (capitolo dedicato ai molteplici epiteti che qualificano il termine ἀργύριον, «moneta» per distinguere la moneta buona da quella contraffatta) Polluce attesta l’ impiego, nel Cocalo e nelle Isole di Aristofane, del sostantivo plurale ἀργύρια, nel significato collettivo di «denaro», raro nell’ attico rispetto al singolare ἀργύριον, che è invece ricorrente in questa accezione (cf. LSJ s. v. ἀργύριον [2]). Interpretazione Il raro impiego del plurale ἀργύρια in luogo del singolare ἀργύριον, come collettivo ha richiamato l’ attenzione di lessicografi e scoliasti: lo stesso Polluce vi fa riferimento anche in IX 89–90 (nel corso di una discussione su vari vocaboli che designano le monete), dove, a proposito di questo uso, ritenuto anomalo in attico, menziona, oltre alle Isole di Aristofane, gli Adulatori di Eupoli (fr. 162): τἀργύρια […] ἐπὶ τοῦ ἀργυρίου σπανίως ἄν τις εὕροι παρ’ αὐτοῖς, ἐγὼ δ’ εὗρον ἐν ταῖς Νήσοις Ἀριστοφάνους. εἰ δὲ ὑποπτεύεται τὸ δρᾶμα ὡς Ἀριστοφάνους 〈οὐ〉 (add. Casaubon) γνήσιον (ὡς Ἀρ. οὐ γν. Casaubon, ὡς οὐ γν. Bekker) ἀλλ’ οὔτι γε καὶ οἱ Κόλακες Εὐπόλιδος, ἐν οἷς εἶπε κτλ. («raramente si potrebbe trovare gli argyria [i danari] invece di l’argyrion [il danaro] presso di loro [scil. gli autori attici], sebbene io lo abbia trovato nelle Isole [fr. 412] di Aristofane. Ma qualora il dramma sia sospettato di non essere di autentica paternità aristofanea150, di certo non [si sospettano] così gli Adulatori di Eupoli, nei quali [l’ autore] disse etc.»). E a proposito dell’impiego del plurale di ἀργύριον, le Isole di Aristofane sono nuovamente menzionate da Poll. VII 103–104 nell’ ambito di un elenco di derivati dal sostantivo ἄργυρος: ἀργύριον τὸ νόμισμα· εἴρηται δὲ καὶ ἀργύρια ἐν Ἀριστοφάνους Νήσοις («argyrion è la moneta; è impiegato anche [il plurale] argyria nelle Isole di Aristofane»): un impiego attestato peraltro dall’ Antiatticista (α 62 [p. 79.20s. Bekker]) anche nel Cleofonte di Platone comico: ἀργύρια πληθυντικῶς, οὐχ ἑνικῶς. Πλάτων Κλεοφῶντι (fr. 63) («agryria al plurale, non al singolare. [Lo usa] Platone nel Cleofonte »). In Phryn. PS fr. *25 de Borries (ap. Σ [vet] Ar. Nu. 756a Holwerda) la forma plurale ἀργύρια è registrata come tipica della lingua della commedia: οὕτως ἡ γραφὴ ἀργυρίων πληθυντικῶς παρὰ Φρυνίχῳ κεῖται. ὅτι οἱ
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La paternità di questa commedia, unitamente a quella di tre ulteriori commedie generalmente attribuite ad Aristofane (Poiēsis, Nauagos e Niobos) è infatti assegnata alternativamente ad Archippo nell’ anonima biografia aristofanea (Proleg. de com. XXVIII 66s., p. 136 Koster = Ar. test. 1.59–61 = Ar. Nēs. test. ii = Archipp. test. 4 [cf. Proleg. de com. III 41, p. 9 Koster] dove si allude appunto alla natura ‘spuria’ di quattro commedie aristofanee, e vd. Miccolis 2017, 25–27, ad Archipp. test. 4). Sulla questione vd. ora Torchio 2021, 56 n. 218, 60s.
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κωμικοὶ πληθυντικῶς φασιν, οἱ δὲ ῥήτορες ἑνικῶς («In Frinico si trova la grafia così, argyriōn, al plurale. I poeti comici usano la parola al plurale, gli oratori al singolare»); cf. Et.magn. p. 137.28–31: ἰστέον ὅτι πᾶν νόμισμα, εἴτ’ ἐν χαλκῷ, εἴτ’ ἐν ἀργύρῳ, εἴτ’ ἐν χρυσῷ, εἰώθασιν ἀργύριον καλεῖν· καὶ οἱ μὲν ῥήτορες, ἑνικῶς· οἱ δὲ κωμικοὶ, ἀργύρια, πληθυντικῶς («Bisogna precisare che si usava definire argyrion ogni [tipo di] moneta, sia essa di bronzo, sia di argento sia di oro; e [che] gli oratori usano il singolare, laddove i poeti comici usano il plurale, argyria»). Diversa la funzione della forma plurale del sostantivo nella iunctura τοὺς θησαυρούς τ᾽ […] ἀργυρίων di Ar. Av. 599s.: «The plur. here vividly suggests the actual sight of the ‘treasure’» (Dunbar 1995, 399, ad l.). Un’ accezione collettiva, in riferimento a monete d’ argento, autentiche o contraffatte, ha anche il singolare ἀργύριον in Xen. Oec. 19.16, dove il termine compare contestualmente, con equivalente accezione, anche al plurale (καὶ περὶ ἀργυρίου ἐρώτων ἄν σε, πότερον καλὸν ἢ οὔ […] τὰ καλὰ καὶ τὰ κίβδηλα ἀργύρια). E in riferimento a monete di piccolo conio il singolare è documentato nelle Danaidi di Aristofane (fr. 273; cf. Sud. α 3789 = Synag. B α 2086 [= An.Bachm. p. 140.24] ~ Phot. α 2784 [= Phryn. PS fr. *258]). Sul termine ἀργύριον, comunemente detto della monetazione argentea (proprio come il collettivo χρυσίον è detto di quella aurea), vd. Olson 2016, 64, ad Eup. fr. 162.
fr. 369 K.-A. (353 K.) Hsch. ι 774 (cf. Σ Diog. epist. 34.2, p. 60 Schafstaedt) ἰ π ν ó ς ˙ (ἵπνος cod.: corr. Musurus) […] Ἀριστοφάνης δὲ (δὲ om. Σ Diog.) ἐν Κωκάλῳ (κολάκω cod.: corr. Musurus) καὶ (om. Σ Diog.) τὸν κοπρῶνα (τὸ κοπρόνα cod.: corr. Musurus) οὕτως εἶπεν. i p n o s: Aristofane nel Cocalo definì così anche la latrina. Poll. V 91 (FS, A, BC) ἑπέσθω δὲ τούτοις καὶ τὰ εἰς ἀπόπατον, εἰς ἀποσκευήν, εἰς εὐμάρειαν, εἰς ἄφοδον, εἰς λάσανα, εἰς κοπρῶνα (λάγονα AFB: λαγῶνα S). τὸν δὲ κοπρῶνα καὶ ἰπνὸν (ὕπνον FS) Ἀριστοφάνης καλεῖ (τὸν — καλεῖ om. B). A questi (vocaboli) si aggiungano anche le espressioni (andare) eis apopaton, eis aposkeuēn, eis eumareian, eis afodon, eis lasana, eis koprōna. Aristofane chiama la latrina anche ipnos.
Bibliografia Blümner 1912, 81–83; Thompson 1959, 101s.; Taillardat 1965, 486; Gil 1989, 86; Chadwick 1996, 165; Casolari 2003, 173; Olson 2016, 282–284; Caroli 2017, 416s. Contesto di citazione Esichio attesta che nel Cocalo aristofaneo il termine ἰπνός (ancorché glossato con sinonimi indicanti forni, lampade e utensili utilizzati in
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genere in rapporto a fonti di calore) fungeva da sinonimo di «latrina» (κοπρών, vocabolo impiegato da Aristofane in Th. 485: vd. infra, ad Interpretazione): tale accezione trova riscontro anche nella testimonianza di Polluce, il quale, dopo una digressione (V 86–90) sui termini che designano le voci e i versi degli esseri viventi (φωναὶ ζῷων), si sofferma sul lessico scatologico relativo al mondo umano e a quello animale. Donde l’ elenco di espressioni (in parte eufemistiche, vd. Caroli 2017, 416) che indicano l’ evacuazione del ventre. Ben attestate in commedia (vd. Ach. 81 εἰς ἀπόπατον ᾤχετο, Th. 485 εἰς τὸν κοπρῶν᾽, Eccl. 1059s. εἰς ἄφοδον … / ἐλθόντα; cf. Antiph. fr. 42.5 εἰς ἄφοδον ἐλθών), esse sono formate con vocaboli (ἀπόπατος, ἀποσκευή, ἄφοδος, λάσανα, κοπρών) che possono designare escrementi, contenitori, supporti e luoghi per la deiezione (ma vd. ora le opportune precisazioni di Olson 2023, 160s., ad Antiph. fr. 42.5). In coda all’ elenco, quasi incidentalmente, l’ attenzione del lessicografo ricade sull’ impiego aristofaneo di un altro termine, ἰπνός, schedato separatamente quale sinonimo di κοπρών. Interpretazione Il termine ἰπνός (forse anche ἱπνός, almeno in attico: cf. in IG I3 4B.15 hιπνε[ύεσθαι e vd. Threatte 1980, 503) designa generalmente un forno scoperto, posto al di sopra di un braciere, usato per cuocere il pane (cf. Hdt. V 92 η 2; Antiph. fr. 174.3s.), che poteva perciò essere denominato ἰπνίτης (cf. Timocl. fr. 35.2): vd. Blümner 1912, 81–83, o per arrostire noci (Diph.Siph. fr. 35 García Lázaro) o carne (Archestr. SH 177.4 [= 47 Olson–Sens]; cf. Sparkes 1962, 127; Sparkes–Talcott 1970, I, 234). Indicando dunque ogni instrumentum capace di generare calore, l’ accezione aristofanea del termine può spiegarsi solo in virtù di una possibile relazione sineddotica di caldaia come sinonimo di bagno. L’ impiego aristofaneo di ἰπνός come sinonimo di κοπρών, «latrina», documentato per il Cocalo da Esichio, e indirettamente confermato dalle espressioni idiomatiche citate da Polluce in riferimento all’ atto di «recarsi a defecare», pure generalmente ritenuto plausibile (vd., tra altri, Taillardat 1965, 486, e, più di recente, Gil 1989, 86, che con questo frammento pone in relazione il fr. 371, attestante l’ impiego, nel Cocalo, del termine στραγγουρία, che designa una patologia connessa a difficoltà di minzione: vd. infra, ad l.), è messo in dubbio da Chadwick 1996, 165, a parere del quale «Without any context it is impossible to judge this, but it seems prima facie unlikely», e da Casolari 2003, 173 con n. 12, la quale ritiene invece che nel Cocalo il termine venisse impiegato in riferimento al forno nel quale sarebbe stata riscaldata l’ acqua per il bagno che avrebbe ustionato Minosse (cf. fr. 359)151. 151
Henderson 1991, 191s. (cf. Sommerstein 1999, 202) censisce ἰπνός tra i sostantivi «more euphemistic» del lessico scatologico. Termine di paragone sono alcuni dei vocaboli riportati nel citato pinax di Polluce, come κοπρών, κοπρία e λαύρα, nessuno dei quali, a parere dello studioso, sarebbe inficiato da un «improper tone». Sfugge, tuttavia, la ragione per la quale Henderson uniformi poi all’ accezione (forse esclusivamente aristofanea) di ἰπνός quella del verbo ἰπνεύω, per il quale egli rinvia a un’ attestazione epigrafica in cui tale verbo non ha sicuramente il significato di «orinare», peraltro inedito nella letteratura greca conservata. Come nota Caroli 2017, 417, n. 239, «Henderson 1991,
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Ulteriori attestazioni aristofanee di ἰπνός (sulle quali vd. Robson 2006, 151–153) si trovano in V. 139, 837, Av. 437, dove il termine designa la cucina, in Pax 841, dove sembra indicare una lampada portatile (cf. Σ [vet Tr] 841a Holwerda λαμπτῆρας ἢ φανούς), e in Pl. 815, dove ὁ … ἰπνός … ἐλεφάντινος designerà forse una cucina decorata d’ avorio (cf. Σ [vet] 815a Chantry: ὁ δ᾽ ἰπνὸς· τὸ μαγειρεῖον ἢ ἡ καπνοδόχη, e vd. Sommerstein 2001, 188, ad l.). Analoga polisemia è documentabile per il termine λάσανα, che può indicare tanto il pitale quanto lo sgabello su cui sedersi per defecare, ma che è impiegato anche per designare utensili da cucina, in particolare i supporti a cui sospendere le pignatte da mettere sul fuoco (vd. Olson 2016, 282–284, ad Eup. fr. 240). Oltre che vere e proprie latrine, i κοπρῶνες potevano essere anche semplici vasi collocati presso la porta del cortile di casa (cf. Ar. Nu. 1385: θύραζε; Eub. fr. 52.3: ἐπὶ ταῖς θύραις, e vd. Thompson 1959, 101s.), che potevano essere svuotati nelle λαῦραι, le viuzze, adiacenti alle case private (cf. Ar. Pax 99s., dove Trigeo ordina a tutti di «murare nuovamente»152 τοὺς κοπρῶνας καὶ τὰς λαύρας, perché lo scarabeo stercorario non ne sia attratto, e per poi indignarsi nello scoprire che qualcuno ha violato le sue disposizioni in merito al defecare per strada: ἄνθρωπε τί δρᾷς, οὗτος ὁ χέζων / ἐν Πειραιεῖ παρὰ ταῖς πόρναις;, vv. 164s.; cf. Ach. 1170). Ne erano dotate alcune, ma non tutte le case ateniesi: cf. Ar. Eccl. 320–322, dove Blepiro, preoccupato di trovare un posto dove poter defecare al riparo da occhi indiscreti (ἀλλ᾽ ἐν καθαρῷ ποῦ ποῦ τις ἂν χέσας τύχοι;, v. 320: per il significato di ἐν καθαρῷ in questo contesto, vd. Ussher 1973, 122, ad l.), si rassicura considerando che di notte nessuno lo vedrà (ἦ πανταχοῦ τοι νυκτός ἐστιν ἐν καλῷ. / οὐ γάρ με νῦν χέζοντά γ᾽ οὐδεῖς ὄψεται, vv. 321s.), e soprattutto da Eub. fr. 52, dove la presenza di un κοπρών in ognuna delle case di Tebe è implicitamente descritta come peculiarità non ovvia; e vd. Hermann–Blümner 1882, 154; Owens 1983, 46s.; Ar. Th. 483–489, dove una donna adultera utilizza con suo marito il pretesto di una colica al ventre per poter uscire e raggiungere il suo amante, evidentemente al di fuori del cortile di casa; Thphr. Char. 14.5, dove lo ‘Sbadato’ che esce di casa nottetempo per defecare, rientrando per errore nel cortile della casa del vicino, si fa mordere dal cane di quello. Le latrine pubbliche erano un lusso sconosciuto in Atene sino all’ epoca dell’ impero romano (cf. Thompson–Wycherley 1972, 197): l’ offesa attribuita in Dem. 25.49 al sicofante Aristogitone nei confronti degli strateghi in carica, definiti indegni di
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192, accoglie alla n. 5 il suggerimento di Z. Stewart e collega l’ attestazione epigrafica di IG I3, 4 (B 1, 15 hιπνε[ύεσθαι]) al valore semantico di “relieve oneself ”. In realtà, la prescrizione epigrafica, incisa sulla metopa B dei cosiddetti ‘decreti dell’Hekatompedon’ del 485–484 a. C., non afferisce a divieti di minzione, ma colpisce i sacrificatori e i sacerdoti subalterni qualora “cuociano” le riserve di grano custodite in un non meglio definito οἴκημα» (vd. Sassu 2013, 101). In favore del tràdito καιναῖς πλίνθοσιν ἀνοικοδομεῖν (in luogo della correzione ἀποικοδομεῖν, proposta da Florent Chrestien e adottata in genere dagli editori) e per la valenza che ha qui l’ aggettivo καινός vd. Olson 1998, 87s., ad l.
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essere eletti persino come τῶν κοπρώνων ἐπιστάται, «is either a reference to a set of minor officials charged with keeping private facilities form becoming a public nuisance or a bit of inventive slander» (Olson 1998, 87, ad Ar. Pax 99s.).
fr. 370 K.-A. (354 K.) St.Byz. κ 161.9s. (RQPN) κ ο ρ ι ν θ ι ά ζ ο μ α ι (-άζειν Bothe) τὸ ἑταιρεῖν, ἀπὸ τῶν ἐν Κορίνθῳ ἑταιρῶν (ἑταίρων codd.: corr. Westermann), ἢ τὸ μαστροπεύειν (μαστρω. RPN). Ἀριστοφάνης ἐν Κωκάλῳ. k o r i n t h i a z o m a i: praticare la prostituzione, dalle etere di Corinto, o avviare alla prostituzione. Aristofane nel Cocalo.
Bibliografia Göbel 1915, 36–38; Taillardat 1965, 107; Salmon 1984, 398–400; Henderson 1991, 175; Arnott 1996, 717; Sommerstein 2001, 143; Orth 2009, 153; Id. 2015, 271s.; Tosi 2017, 432s. nr. 608; Bagordo 2018, 124–126. Interpretazione La duplice accezione di κορινθιάζομαι (nel senso di ἑταιρεῖν, «prostituirsi, praticare la prostituzione» [per cui cf. And. 1.100, Lys. 14.41, Aeschin. 1.13, 1.52, Phoenicid. fr. 4.2]) e di μαστροπεύειν, «fare il lenone (o la mezzana)» per cui cf. Xen. Smp. 4.57), attestata da Stefano di Bisanzio, è documentata, per la forma attiva del verbo, anche da Esichio (κ 3626 κορινθιάζειν· μαστροπεύειν, ἑταιρεῖν), laddove la glossa di Fozio implica un’ alternativa tra il primo dei due significati e un terzo significato, quello di ἑταίρας ἔχειν, «frequentare, avere rapporti con prostitute» (κ 969 κορινθιάζειν· ἑταιρεῖν ἢ ἑταίρας ἔχειν), per cui cf. Eur. Cyc. 500; Ar. Pax 440; Lys. 14.25. L’ unica accezione registrata nella paremiografia è invece la prima (cf. Macar. 5.18 [CPG II, 179] κορινθιάζειν· ἐπὶ τῶν πορνευομένων. ἀπὸ τῶν ἐν Κορίνθῳ ἑταιρῶν). Duplice o triplice possibilità di resa sussiste pertanto anche nel titolo di commedia Κορινθιαστής, attribuito a Filetero e a Polioco, che potrà designare un «prostituto», un «procacciatore di prostitute» o un «frequentatore di prostitute» (vd. Orth 2015, 271s., ad Polioch. Korinthiastēs; Bagordo 2018, 124–126, ad Ar. fr. dub. 928, dove però, rispetto all’ ipotesi che l’ espressione proverbiale οὐ παντὸς ἀνδρὸς εἰς Κόρινθον ἔσθ’ ὁ πλοῦς [«non è cosa da tutti la navigazione alla volta di Corinto»] sia connessa a quella fiorente ed esosa industria del piacere per cui Corinto era rinomata in tutta l’ antichità, vd. le opportune puntualizzazioni di Tosi 2017, 432s. nr. 608). In generale, sulla valenza sessuale del verbo, vd. Taillardat 1965, 107; Henderson 1991, 175 e n. 105; e sulla notorietà di Corinto come centro di prostituzione, evocata da Aristofane anche in Pl. 149–152 e proverbiale in tutta l’ antichità (cf. Str. VIII 6.20, XII 3.36, da cui deriva Eust. in Il. 290.23, Phot. ο 667 = Sud. ο 924 = Apostol. 13.60 [CPG II, 591]; Zen. Ath. I 27 = vulg. 5.37 [CPG I, 135], Diogenian. 7.16 [CPG I, 289], e cf. anche Hsch. ο 1799), vd. Göbel 1915, 36–38; Salmon 1984, 398–400; Arnott 1996, 717; Sommerstein 2001, 143 ad Ar. Pl. 149; Orth 2009, 153, ad Stratt. fr. 27.2s.
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Verbi in -ιάζω sono di norma coniati, per lo più dai comici, per riferirsi eufemisticamente (vd. Caroli 2017, 333–335) a comportamenti, abbigliamento, stili poetici e musicali o orientamenti politici tipici degli abitanti di specifiche località153.
fr. 371 K.-A. (355 K.) Poll. IV 187 (FS, Α) καὶ σ τ ρ α γ γ ο υ ρ ί α, ὡς Ἀριστοφάνης ἐν Κωκάλῳ (ἐν Κωκ. om. in spat. vac. A). anche la s t r a n g u r i a, come (dice) Aristofane nel Cocalo.
Bibliografia
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Southard 1971, 107–109; Rodríguez Alfageme 1981, 170.
Elenchiamo di seguito le forme verbali tra le più note: a) αἰγυπτιάζειν, riferito in genere ad atteggiamenti furfanteschi e fraudolenti (cf. Svet. Περὶ βλασφημιῶν 13, p. 62 Taillardat: αἰγυπτιάζειν τὸ πονηρεύεσθαι, κρητίζειν κτλ. ~ Ar.Byz. fr. 24.5; St.Byz. α 112.4s.: καὶ αἰγυπτιάζειν τὸ πανοῦργα καὶ δόλια καὶ ὕπουλα πράττειν): attestato per la prima volta in Cratin fr. 406 come sinonimo di πανουργεῖν e di κακοτροπεύεσθαι (Eust. in Od. 1484.28; cf. Phot. α 518 = Sud. αι 75 = Synag. B α 494 [= An.Bachm. p. 42.13] ~ Et.gen. B [Et.magn. p. 29.21]), poi in Ar. Th. 922 (ᾐγυπτιάζετε, glossato dallo scolio con ἐπανουργεῖτε), dove il verbo allude però, al contempo, anche allo scenario egizio ricreato nella parodia dell’ Elena da Parente ed Euripide: cf. v. 878 (cf. anche Hsch. α 1744: αἰγυπτιάζων· κακοτροπευόμενος, e vd. Zucker 1950, 155; Taillardat 1965, 229; Austin–Olson 2004, 292, ad Th. 922; Miccolis 2017, 155, ad Archipp. fr. 23.1, con ulteriori passi e bibliografia); b) βοιωτιάζειν, «parteggiare per i Beoti» (Xen. HG V 4.34: τῶν … Ἀθηναίων οἱ βοιωτιάζοντες; Aeschin. 3.139: τὴν τοῦ βοιωτιάζειν … αἰτίαν; fr. com. adesp. 875: βοιωτιάζειν ἔμαθες), ma anche, con τῇ φωνῇ, «parlare il dialetto beotico» (cf. Xen. An. III 1.26; analogamente, αἰγυπτιάζων τῇ φωνῇ = «parlare la lingua degli egizi» in Luc. Philops. [34] 31.23, Symp. [17] 18.8); c) δωριάζειν (Anacr. PMG 399 = fr. 115 Gentili: ἐκδῦσα κιθῶνα δωριάζειν, detto di donna che si abbiglia con una tunica di foggia dorica); d) ἐρετριάζειν (a proposito del quale la glossa di Hsch. ε 5745 recita: ἐρετριάζει· σκώπτει, ἢ παίζει); e) ἰταλιάζειν (che significa però, secondo Hsch. ι 80 e Phot. ι 256, ἐν Ἰταλίᾳ διατρίβειν, «trattenersi in Italia»); f) λακεδαιμονιάζειν (cf. Ar. fr. 97, sui cui possibili significati vd. Orth 2017, 534–536, ad l.); g) λεσβιάζειν (Ar. Ra. 1308: αὕτη ποθ’ ἡ Μοῦσ’ οὐκ ἐλεσβίαζεν, οὔ: sulla controversa interpretazione di questo verso [connessa anche alla sua incerta interpunzione, per la quale seguo qui De Simone 2008], ma che comunque presupporrà per il verbo in questione un double entendre musicale e osceno, vd. ora Bagordo 2017b, 93s., con la bibliografia ivi discussa); h) χιάζειν e σιφνιάζειν (entrambi in Ar. fr. dub. 930 χιάζων ἢ σιφνιάζων, «suonare secondo lo stile [enarmonico] in voga a Chio o a Sifno»: per l’ esegesi di questo frammento e il possibile double entendre musicale e osceno anche di questi due verbi, vd. Bagordo 2018, 128–132; e vd. anche Recchia 2017, il quale rivitalizza l'ipotesi di Hermann (1830, 128) secondo cui il frammento restituirebbe un contesto delle Nuvole I rielaborato poi nei vv. 969-971 delle Nuvole superstiti).
Κώκαλος (fr. 371)
269
Contesto di citazione Nell’ ambito di un lungo catalogo di nomi di malattie (IV 184–207), Polluce informa che Aristofane impiegava nel Cocalo il termine στραγγουρία. Interpretazione Il termine στραγγουρία, che designa la nota disfunzione urinaria (dettagliatamente descritta in Hp. Aff. 28 [VI, p. 240.5–14 Littré]), è impiegato da Aristofane anche in V. 810, dove il pitale appeso al chiodo è, per Filocleone, il suo φάρμακον στραγγουρίας; così, in Th. 616, il Parente, che cerca di sfuggire alla sorveglianza di Clistene allontanandosi col pretesto di dover urinare, prende tempo dichiarando di avere difficoltà di minzione (στραγγουριῶ). Il plurale στραγγουρίαι è attestato in una lista comica di malattie (fr. com. adesp. 910.2) citata dallo Stobeo (IV 44.81) a proposito di quelle sventure che – come recita il titolo del cap. 44 (ὅτι δεῖ γενναίως φέρειν τὰ προσπίπτοντα) – «bisogna sopportare nobilmente». In generale, sulla ritenzione urinaria e sulle sue attestazioni comiche vd. Southard 1971, 107–109; Rodríguez Alfageme 1981, 170. Sull’ indimostrabile legame arguito da Gil 1989, 86 tra questo termine e l’ ἰπνός del fr. 369 vd. supra, fr. 369, ad Interpretazione.
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Λήμνιαι (Lēmniai) (Lemnie)
Bibliografia Bergk ap. Meineke FCG II 2, 1096ss.; Kock CAF I, 486; Pascal 1911, 23; Schmid 1946, 194 n. 4; Geißler 1969 [1925], 55, xvis.; Gelzer 1970, 1413; Martin 1987; Ciriello 1989; Gil 1989, 86s.; Carrière 2000, 221; Ronconi 2005; Delneri 2006, 207–248; Henderson 2007, 287, 402–405; Id. 2011, 323s.; Zimmermann 2011a, 777; Sanchis Llopis 2013; Per ulteriore bibliografia relativa alla cronologia vd. infra, ad Datazione. Titolo e contenuto Le Lemnie, di cui si conservano venti frammenti (372–391), per un totale di circa 16 versi, ruotano intorno alle vicende mitiche delle donne di Lemno, che, colpevoli di aver trascurato il culto di Afrodite, furono rese maleodoranti dalla dea e perciò ripudiate dai mariti. Per vendetta, le donne sterminarono la popolazione maschile dell’ isola, con la sola eccezione del re Toante, messo in salvo dalla figlia Ipsipile, che lo fece segretamente fuggire per mare, assumendo poi il ruolo di regina154. In seguito, le Lemnie si unirono agli Argonauti di passaggio sull’ isola: a Giasone, in particolare, si legò Ipsipile, che, dopo la partenza dell’ eroe, fu costretta a fuggire dall’ isola per scampare alla condanna a morte comminatale dalle altre donne per aver risparmiato la vita a Toante155. La saga 154
155
Il massacro degli uomini di Lemno è noto come Λήμνιον κακόν, espressione (cristallizzatasi poi in ambito anche paremiografico: vd. Lelli 2007, 440s. n. 438) impiegata da Eschilo per identificare il più notevole tra i delitti femminili (Ch. 631–638) ed equivalente all’ espressione utilizzata da Erodoto (VI 138.4: ἀνὰ τὴν Ἑλλάδα τὰ σχέτλια ἔργα πάντα Λήμνια καλέεσθαι) in riferimento a un diverso e successivo eccidio perpetrato dai Pelasgi, i quali, scacciati da Atene e trasferitisi a Lemno, massacrarono le donne ateniesi rapite nel corso delle celebrazioni in onore di Artemide a Brauron e ridotte sull’ isola a concubine, assieme ai figli nati dall’ unione con queste ultime. L’ episodio è rievocato dallo storico nell’ ambito della ricostruzione degli antefatti della conquista di Lemno da parte di Milziade: per l’ impiego del mito lemnio ad Atene tra la fine del VI e il principio del V secolo a. C. vd. Dorati 2005. Il mito di Toante e di sua figlia Ipsipile è noto già nell’ Iliade, dove Lemno è detta «città del divino Toante» (XIV 230) e Ipsipile è nota come moglie di Giasone e madre di un unico figlio, di nome Euneo, re dell’ isola al tempo della guerra di Troia (VII 468s., XXI 41, XXIII 746). Pindaro (P. 4.449–457, con Σ P. 4.450a [II, p. 260.3 Drachmann]; cf. O. 4.30–41) colloca la tappa lemnia della spedizione argonautica sulla via del ritorno dalla Colchide: una disposizione degli avvenimenti documentata già nella seconda metà del VII secolo a. C. da un’ olpe etrusca in bucchero a rilievo, proveniente da Cerveteri (pubblicata da Rizzo–Martelli 1988–1989; cf. Lordkipanidzé 2002; Dognini 2003, 16–21), sulla quale Medea, con didascalia, è raffigurata tra gli Argonauti in visita a Lemno; e si confronti la versione di Mirsilo di Metimna, secondo cui sarebbe stata Medea, durante il viaggio di ritorno dalla Colchide, a causare, per gelosia, la maleolenza delle donne di Lemno (FGrHist 477 F 1a–c). Viceversa, nella versione – presumibilmente tradizionale – riflessa dalla diffusa narrazione di Apollonio Rodio (I 609–909, su cui
Λήμνιαι
271
mitica fu oggetto di perdute tragedie di Eschilo e di Sofocle. Il primo compose Lemnie o Lemnii, di cui restano due citazioni (frr. 123a–b R.), che trattavano probabilmente dell’ eccidio degli uomini di Lemno; da uno scolio ad Apollonio Rodio (I 769–773, p. 68 Wendel) apprendiamo, inoltre, che Eschilo ripercorreva nell’ Ipsipile le vicende connesse all’ approdo sull’ isola, a seguito di una tempesta, degli Argonauti, dapprima accolti dalle Lemnie in armi e sbarcati solo dopo aver giurato di unirsi alle donne. E, a stare al medesimo scolio, una versione analoga si ritrovava nelle perdute Lemnie o Lemniadi di Sofocle (frr. 384–389 R.2), di cui furono prodotte forse due stesure156. Il sequel della vicenda di Ipsipile fu trattato da Euripide nell’omonima tragedia ambientata nella città di Nemea157: qui l’eroina, ridotta in condizione servile, si dedica alle cure del piccolo Ofelte, figlio dei regnanti Licurgo ed Euridice, e accoglie, senza riconoscerli, i figli adulti Euneo e Toante (frr. 752d–e Kn.), ora sulle tracce della madre (T iiia, fr. 752c Kn.): nati a Lemno dall’ unione con Giasone, e affidati in tenera età alle cure paterne, erano stati infatti allevati da Orfeo in Tracia, per fare poi ritorno a Lemno col nonno Toante (fr. 759a.93–105 Kn. = vv. 1614–1626). A seguire, Ipsipile, che ha deposto Ofelte sul prato per indicare ad Anfiarao, portavoce dell’ armata argiva in marcia contro Tebe, una sorgente d’ acqua di fonte da offrire agli dèi (frr. 752h–k, 753 Kn.), determina la morte accidentale del bambino ucciso da una terribile serpe (frr. 753d–e, 754, 754a–b Kn.), ed è perciò condannata a morte dalla regina Euridice (fr. 757 Kn.): a sottrarla alla morte è Anfiarao, che celebra giochi funebri in onore di Ofelte (T iiia, fr. 757 Kn.), durante i quali si distinguono Euneo e Toante (T va–b Kn.). L’ ampio frammento papiraceo già citato restituisce la scena, prossima al finale, in cui madre e figli si ricongiungono (fr. 759a Kn.)158. L’ interesse per il mito delle Lemnie nel teatro tragico e comico è inoltre testimoniato dall’ Ipsipile di Cleeneto (TrGF I 84 F 1s. Sn.–Kn.), dalle Lemnie di Nicocare (su cui vd. Orth 2015, 83–95),
156 157
158
vd. infra), la permanenza a Lemno si colloca lungo il viaggio di andata degli Argonauti: sulla presenza del precedente pindarico nel racconto apolloniano, vd. Sbardella 2008; e per una dettagliata ricognizione delle fonti relative al mito di Ipsipile si vedano van Looy 2002, 155–161; Boner 2006; Masciadri 2008, 164–201. Vd. Giudice Rizzo 2002, 54s.; Radt TrGF IV, 336s.; Pickard–Cambridge DFA, 137 n. 267; Torrance 2013, 290; Lloyd–Jones 1996, 204; Caroli 2020, 56s. Cockle 1987, 21–39, calcola che l’ Ipsipile – tramandata per la gran parte da un papiro ossirinchita del II–III secolo d. C. (POxy. VI 852 [= TM 59851]) – contava 1.742 versi. In merito alla datazione della tragedia, un noto scolio aristofaneo ([vet] Ra. 53 Chantry) informa che essa fu portata in scena dopo il 412 a. C.; considerato che Euripide lasciò Atene per recarsi in Macedonia dopo il 408 a. C., è possibile datare l’ Ipsipile tra il 411 a. C. e il 408 o 407 a. C.: una collocazione cronologica compatibile con la struttura, l’ estensione e l’ analisi metrica della tragedia (vd. Bond 1963, 144; Cropp–Fick 1985, 80s.; Cropp 2004, 182). Per una più puntuale ricostruzione degli snodi della tragedia, vd., dopo Bond 1963, 7–20, van Looy 2002, 162–171; Cropp 2004, 170–176; Lomiento 2005, 57–64; Collard– Cropp 2008, 251–254.
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Aristophanes
Antifane (su cui vd. Olson 2022, 161–167) e Difilo e dalla Lemnia di Alessi; quanto alla Lemnomeda di Strattide, è possibile che la commedia combinasse il mito delle Lemnie e di Andromeda (sul punto vd. Orth 2009, 131s.). La più diffusa narrazione del mito lemnio (dalle origini del regime ginecocratico sino all’ approdo degli Argonauti sull’ isola e alla celebrazione della rinascita della natura in concomitanza con la fine della guerra tra i sessi159) è contenuta nel primo libro delle Argonautiche di Apollonio Rodio (vv. 609–909). Ma, già a partire dal IV secolo, la vicenda richiama l’ attenzione di storici (Asclep.Tragil. FGrHist 12 F 14, Herodor. FGrHist 31 F 6, Caucal. FGrHist 38 F 2, Myrsil. FGrHist 477 F 1a–c, Theolyt. FGrHist 478 F 3, Xenag. FGrHist 240 F 31, Asclep.Myrl. FGrHist 697 F 5) e mitografi (Ps.–Apollod. I 9.17). Nella letteratura latina le Lemniae di Sesto Turpilio (CTRF 3 111–113; Rychlewska 1971, 27–29) documentano la presenza del tema mitico nella palliata. Al legame tra Ipsipile e Giasone, richiamato da Properzio nel primo libro delle Elegie (15.17–20), Ovidio dedica la sesta epistola delle Eroidi. La versione euripidea è poi rivisitata da Stazio in un’ ampia sezione della Tebaide – la mora Nemaea – che si estende dal IV al VI libro del poema; sul segmento mitico che dal massacro degli uomini di Lemno conduce all’ incontro con gli Argonauti, con particolare attenzione al tema della pietà filiale di Ipsipile, si incentra l’ ampio racconto di Valerio Flacco (II 75–427). E l’ intera saga mitica, sino alle vicende che hanno per protagonisti i figli di Ipsipile, è ripercorsa in una Fabula di Igino (15). Venendo alla commedia aristofanea, da probabili resti del prologo (frr. 372– 374) si ricava che la trama poteva situarsi in un momento successivo alla strage degli uomini (fr. 374) e contestuale all’ arrivo e alla permanenza degli Argonauti sull’ isola (fr. 375). Un ruolo di primo piano avrà svolto la regina dell’ isola Ipsipile, che s’ innamorerà di Giasone, e non marginale sarà stata la figura della sua nutrice, Polisso (frr. 376–377). Le implicazioni oscene insite in espressioni che, nei frr. 379 e 382, designano «porte sbarrate» sembrano alludere a dinamiche conflittuali tra i due sessi. E portando sulla scena una comunità femminile che, in linea con la nota vicenda mitica drammatizzata, si mostra dapprima ostile e poi propensa all’ unione con gli uomini (così sembra suggerire il compiaciuto commento con cui, nel fr. 375, viene annunciato l’ arrivo di stranieri), Aristofane avrà valorizzato il consolidato topos comico della smodata libidine femminile (vd. Pascal 1911, 23, e, più di recente, Gil 1989, 87). Significative consonanze con la trama della Lisistrata riconosceva perciò Martin 1987, a parere del quale svariati sarebbero i punti di contatto tra il profilo drammaturgico di Ipsipile e quello di Lisistrata (uno specifico parallelo tra il fr. 379 e Lys. 247 individua Delneri 2006, 227: vd. infra, ad fr. 379). Nella commedia avrà trovato spazio anche la tematica religiosa, sviluppata con ogni verosimiglianza in rapporto al culto di particolari divinità femminili, greche
159
Sulla connessione tra il crimine compiuto dalle donne di Lemno e la cerimonia di ‘rinnovamento del fuoco’, descritta da Filostrato (Her. 53.5), si vedano Dumézil 1924, passim; Burkert 1970 (= Id. 1992, 35–56); Detienne 1975, 122–123; Bowie 1984.
Λήμνιαι
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e straniere: a suggerirlo, i riferimenti a divinità (Artemide e Bendis) e pratiche rituali femminili (connesse al culto di Artemide Brauronia) riconoscibili nei frr. 381, 384 e 386 (vd. infra, ad ll.). Alle Lemnie Ciriello 1989 ha proposto di attribuire un frammento anepigrafo trasmesso da un papiro comico (POxy. II 212 [= TM 59246] = CGFP *62 = fr. 592) in cui due interlocutrici, che affermano di esser state «oltraggiate» (ὑβριζόμεναι, v. 12), verosimilmente da persone di sesso maschile (τούτους, v. 14), s’ interrogano sui possibili rimedi al problema dell’ astinenza sessuale, e, dopo aver vagliato l’ eventualità di sopperire alla mancanza di uomini con l’ impiego del fallo di cuoio (τὸ σκύτινον, v. 17), optano per il ricorso a prestazioni sessuali da parte di servi (vv. 29s.). Tale ipotesi attributiva non sembra però basata su indizi più solidi rispetto a quelli su cui si fonda l’ ipotesi tradizionale, che riconduce il citato dialogo alle Tesmoforiazuse II (vd. infra ad frr. 332, 341)160: in favore dell’ opportunità di mantenere la collocazione tra le incertae fabulae, assegnata al frammento dagli ultimi editori aristofanei (PCG III 2, 313–315; Henderson 2007, 402–405; e vd. Henderson 2011, 323s.), si è espresso Ronconi 2005. Datazione 413–412 a. C.: Martin 1987, 103–105. Post 410 a. C.: Henderson 2007, 287. Post 409 a. C.: Gelzer 1970, 1413. 409–408 a. C.: Geißler 1969 [1925], 55, xvii; Carrière 2000, 221. 408 a. C.: Gil 1989, 86s. 408–406 a. C.: Murray 1933, 266. La detorsio dei vv. 32s. dell’Ifigenia fra i Tauri contenuta nel fr. 373 – nel quale si ribalta in chiave comica l’ etimologia del nome Toante (vd. fr. 373, ad Interpretazione) – consente di fissare per la commedia una data di rappresentazione successiva a quella della tragedia euripidea, portata in scena negli anni Dieci del V secolo a. C. (cf. Cropp 2000, 60–62; Kyriakou 2006, 39–41; Marshall 2009). Più difficile a dirsi è se le Lemnie fossero rappresentate nel medesimo torno d’ anni e, precisamente, appena prima della Lisistrata (vd. Martin 1987, 103–105) o se, viceversa, fossero ispirate e perciò successive all’ Ipsipile di Euripide sulla base di ipotetici richiami alla tragedia talora riconosciuti in alcuni frammenti comici (373, 374, 376) o della menzione di Lemnie e Ipsipile nel lessico di Arpocrazione (vd. infra, ad fr. 386). Un ulteriore elemento utile a datare la commedia potrebbe essere contenuto nel fr. 382, ove nel termine δορίαλλον (su cui vd. infra, ad loc.) si colga un’ allusione a Dorillo o Dorilao, menzionato nella vita euripidea di Satiro (F 6 fr. 39 col. XV.32 Schorn; cf. TrGF V 1, test. Kc 83 Kn.) tra i poeti tragici ai quali sarebbe stato (ingiustamente) equiparato Euripide, dai suoi concittadini.
160
Tale attribuzione è motivata essenzialmente da due considerazioni: a) il fallo di cuoio evocato nel v. 17 del frammento parrebbe trovare un corrispettivo nella menzione degli ὄλισβοι tra gli oggetti del corredo femminile elencati nel lungo catalogo pronunciato dall’ interlocutore A del fr. 332 delle Tesmoforiazuse II; b) il tragediografo Agatone, attorno al quale ruota l’ intera scena del travestimento del Parente nelle Tesmoforiazuse superstiti (vv. 101–265), è menzionato nel v. 35 del frammento anepigrafo e nel fr. 341 delle Tesmoforiazuse perdute.
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Aristophanes
test. i Proleg. de com. (M Rs Vat. 918) XXXa 15, p. 142 Koster (= Ar. test. 2a.19) Λήμνιαι (λίμνιαι Vat. 918: δέμνιαι Rs: λυσάνται Μ). Lemnie
Contesto di citazione Il titolo della commedia è menzionato nell’ Index Novati, su cui vd. supra, ad Eirēnē II, Titolo.
fr. 372 K.-A. (356 K.) Λῆμνος κυάμους τρέφουσα τακεροὺς καὶ καλούς τρέφουσα ACE: φέρουσα Dindorf
καὶ καλούς ACE: χἀπαλούς Meineke 1867, 161
Lemno, che nutre fave tenere e prelibate Ath. IX 366c–d (ACE) Ἀριστοφάνης […] ἐν Λημνίαις (ἐν Λ. om. CE) τὸ τακερὸν ἔταξεν ἐπὶ τοῦ τρυφεροῦ λέγων οὕτω (ἐπὶ τοῦ τρυφεροῦ ἔταξε λέγων CE)· Λῆμνος — καλούς. καὶ Φερεκράτης Κραπατάλλοις (Κραπ. om. CE)· τακεροὺς ποιῆσαι τοὺς ἐρεβίνθους αὐτόθι (fr. 89) (τακεροὺς ἐρεβίνθους CE). Aristofane ha impiegato l’ aggettivo takeros nel senso di ‘tenero’ quando ha detto nelle Lemnie: «Lemno — prelibate». E così anche Ferecrate nei Crapatali: «rendere teneri i ceci all’ istante» (fr. 89).
Metro
Trimetro giambico
llrl wlw|r llwl
Bibliografia Bergk ap. Meineke FCG II 2, 1098; Meineke 1867, 161; Dindorf 1835, 622; Kock CAF I, 486. Contesto di citazione Il frammento è tramandato da Ath. IX 366c a proposito di un quesito (quale autore abbia usato l’ aggettivo τακερός [scil. come attributo per un cibo]) posto da Ulpiano, in 366a, allorché, essendo stati serviti in tavola pezzi di prosciutto, qualcuno domanda se essi siano, appunto, «teneri» (τακεραί). Al quesito risponde un altro ‘deipnosofista’, Zoilo, osservando come l’ aggettivo gli risultasse usato da Aristofane nelle Lemnie, in riferimento a un cibo di cui si intenda esaltare τὸ τρυφερόν (che in questo contesto evocherà la «morbidezza» o la «delicatezza» di un prodotto alimentare: τρυφερός è detto ad esempio di mandorle tenere in Arist. fr. 277 Rose = 641.2 Gigon o di pesce dalla carne delicata in Orib. ΙΙ 58.5: vd. LSJ, s. v. I). La citazione di questo trimetro delle Lemnie è peraltro seguita da quella di un frammento dei Crapatali di Ferecrate (fr. 89) in
Λήμνιαι (fr. 372)
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cui τακερός è inequivocabilmente impiegato nell’ accezione di «tenero»: detto di ceci, resi teneri subito, evidentemente per effetto di una modalità di cottura che li rende rapidamente edibili, esso alluderà infatti «alla cottura tramite bollitura, che inumidisce il legume fino a ridurlo a una morbida poltiglia» (Franchini 2020, 36). Testo τρέφουσα Dindorf 1835, 622 proponeva φέρουσα, ma Kassel e Austin (PCG III 2, 207) citano giustamente, a sostegno della concorde lezione dei codici, Il. XI 741, dove sono menzionati i φάρμακα […] ὅσα τρέφει εὐρεῖα χθών. καὶ καλούς Contro la concorde lezione dei codici, Meineke 1867, 161 proponeva di leggere χἀπαλούς, ma «sine idonea causa» (Kock CAF I, 486): a difesa del testo tràdito Kassel–Austin menzionano Ar. Eq. 1171 (ἔτνος γε πίσινον εὔχρων καὶ καλόν), Nu. 190 ([βολβοί] μεγάλοι καὶ καλοί) e Lys. 1063 (τὰ κρέ᾽ ἔδεσθ᾽ ἁπαλὰ καὶ καλά), dove καλός è usato, in analoga associazione ad altro aggettivo, per esaltarne la prelibatezza o la buona qualità, in riferimento a pietanze o a prodotti alimentari. Interpretazione Come ipotizzava già Bergk (ap. Meineke FCG II 2, 1098) e Kock CAF I, 486, il frammento pare tratto dal prologo, in cui lo stile prologico euripideo doveva essere parodiato non soltanto mediante la rievocazione dell’ antefatto mitico (il massacro degli uomini a opera delle donne dell’ isola, di cui si trova traccia nel fr. 374), ma anche con la descrizione delle peculiarità geofisiche della località nella quale si svolge l’ azione161. Λῆμνος L’ isola di Lemno, il cui nome deriverebbe dalla μεγάλη θεός, oggetto di culto in quella sede e detta anche Λῆμνος (così St.Byz. λ 46.2s.; ma vd. infra, ad fr. 384), è definita in Il. XXIV 753 e h.Hom. III [Ap.] 36 ἀμιχθαλόεσσα, hapax omerico di etimologia e interpretazione controverse: tra le più accreditate, quella di «fumosa», probabilmente perché ritenuta la sede dei Cabiri, i mitici artigiani imparentati con Efesto, e quella di «inospitale», probabilmente proprio per le truci vicende connesse all’ eccidio perpetrato dalle donne lemnie (vd. Bettarini 2003). κυάμους τρέφουσα In pieno stile comico è – come osserva Delneri 2006, 213 – «l’ identificazione del paese in cui è ambientato il dramma con il luogo di produzione di una prelibatezza gastronomica». Al contempo, la iunctura κυάμους τρέφουσα sembra qui parodiare l’ impiego, nella poesia lirica e nella tragedia, di epiteti, composti con -τροφος, che connotano una località come prospera per gli uomini, deputata alla produzione di un determinato prodotto agricolo o all’ alle-
161
Analogamente a quanto accade in Th. 855s. che è citazione letterale del distico iniziale dell’ Elena di Euripide, seguita dalla ripresa dell’ incipitario λευκῆς del terzo verso, stravolto però, nella sua funzione: da attributo della neve da cui nascerebbe l’ Egitto ad attributo, kat’ antiphrasin, dell’ Egitto stesso (su questa peculiare operazione parodica, vd. Handley–Rea 1957, 23; Rau 1967, 58; Kamerbeek 1967, 78s.; Austin–Olson 2004, 280). È a partire forse da questa considerazione che Edmonds (1957, 675 n. c) azzarda l’ipotesi che questo frammento possa rappresentare il verso iniziale della commedia.
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vamento di una particolare specie animale: così, ad esempio, in Pi. O. 5.4 la città di Camarina è «nutrice di genti» (λαοτρόφος), in Bacchyl. 6.5 l’isola di Ceo è «nutrice 2 di viti» (ἀμπελοτρόφος), in Aesch. Pers. 763 (come già in Archil. fr. 227 W. ) l’ Asia è «nutrice di greggi» (μηλοτρόφος). Le fave (vicia faba), già note in Omero (cf. Il. XIII 589) nella duplice variante: quella dalla buccia nera, ma anche quella, oggi più diffusa, color crema (vd. André 1961, 35), sono menzionate da Aristofane soprattutto come cibo (cf. Lys. 537 e 690), ma anche come strumento per esprimere un voto (Av. 1022)162. In quest’ ultima accezione il termine è attestato anche in tragedia: interessante il caso del fr. 404 R.2 del Meleagro sofocleo (su cui vd. Forster 1952, 61), in cui si attribuisce agli Etoli la poco urbana abitudine, tipicamente attica, di sgranocchiare fave (vd. Garnsey 1999, 15). In quanto importante fonte di proteine, le fave rappresentavano un alimento fondamentale nella dieta povera delle antiche popolazioni del Mediterraneo, ancorché oggetto di un celeberrimo tabù pitagorico, in quanto ritenuto cibo sacro alle divinità dell’ oltretomba e caro ai defunti (cf. Arist. fr. 195 Rose = 157 Gigon; Luc. VH ΙΙ [14] 24, Gall. [22] 4.7 e vd. Sole 2004; e per un analogo tabù egiziano cf. Hdt. II 37.5 e vd. Lloyd 1976, 168–170). Unitamente ad altre tipologie di legumi, frutta e verdura, le fave erano pertanto anche un simbolo di povertà: Archestrato identifica esplicitamente ἐρέβινθοι, ἰσχάδες e κύαμοι come πτωχείης παράδειγμα κακῆς (SH 192.14s. [= fr. 60.14s. Olson–Sens], su cui vd. Olson–Sens 2000, 233s.); e in Alex. fr. 167.11 le fave figurano in un elenco asindetico di cibi che compongono il magro vitto di un’ intera famiglia (vd. Degani 1998, 220). Ma, come si evince da altre fonti (cf. Ephipp. fr. 13.2; Pl. R. 372c; Anaxandr. fr. 42.43), le fave erano anche impiegate nella preparazione di alcune specialità – crude (cf. Phan.Hist. fr. 43 Wehrli), bollite (cf. Timocl. fr. 23.3s., dove viene evocata la χύτρα in cui l’ oratore Telemaco di Acarne è solito cuocere le fave, delle quali doveva essere ghiotto: cf. anche Timocl. frr. 7.4 e 18.5s. e vd. Apostolakis 2019, 187 ad fr. 23.4), arrostite (cf. Alex. fr. 139) o trasformate in un passato (cf. Henioch. fr. 4.7) – a base di legumi, cereali e frutta fresca e secca. Unitamente, poi, a ulteriori leccornie, come focaccine, dolcetti al miele e uova sode, le fave erano parte integrante dei τραγήματα offerti a simposio come dessert (vd. Dalby 1996, 82; Id. 2003, 330; Arnott 1996, 494, ad Alex. fr. 168.2; Olson 1998, 224, ad Ar. Pax 771s.; Id. 2007, 301; Fisher 2000, 377). Sulle fave come elemento essenziale dell’alimentazione dei Greci, specie delle classi meno abbienti, vd. Olck 1897; Bond 162
Più ambigua l’ accezione dell’ hapax κυαμοτρώξ in Eq. 41, dove la descrizione del vecchio, rimbambito e scorbutico Demo, come «mangia–fave» e «sputa–sentenze» intenderà probabilmente evocare contestualmente tanto le sue rozze abitudini culinarie quanto la sua propensione all’ esercizio del diritto di voto in assemblea e nei tribunali: vd., tra altri, Neil 1901, 12, ad Eq. 41; Taillardat 1965, 395s. E vd. Thiel 1999 per la ripresa dell’ hapax nella iunctura κυαμοτρὼξ Ἀττικός posta in explicit di un trimetro giambico dell’ ekphrasis di Paolo Silenziario (Descr. S.Soph. 125): trimetro che, citato da Sud. κ 2578, è stato erroneamente considerato un frammento di commedia.
Λήμνιαι (fr. 373)
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1976; Arnott 1996, 486s., ad Alex. fr. 167.11; Garnsey 1998, 214–225; García Soler 2001, 67s.; Olson 2007, 93; Dalby 2003, 49s. E su entrambe le prerogative di questo alimento (prelibato ma al contempo fondamentale in una dieta povera) vd. ora Papachrysostomou 2021, 141 ad Ephipp. 13.2. τακερούς Come si è detto (vd. supra, ad Contesto di citazione), secondo il ‘deipnosofista’ Zoilo, cui si deve la citazione del frammento, Aristofane usava τακερός ἐπὶ τοῦ τρυφεροῦ, così come Ferecrate, nel fr. 89 citato subito dopo, lo usava in riferimento a ceci resi teneri subito da una rapida cottura. Anche Aristofane evidentemente, impiegava l’ aggettivo per descrivere le fave come «tenere»: «primaria notione τακερὸν (a verbo τήκεσθαι) dicitur quod quasi liquescit, adeo molle et tenerum» (Schweighäuser 1801–1807, V 8). Analogamente, εὐτακείς, «tenere», sono definite le lenticchie (οἱ φακοί) facili a cuocersi in Luc. Hermot. [70] 61. Peraltro, in ambito culinario, oltre che ai legumi, in commedia e nella letteratura medica l’ attributo è applicato a carni e a verdure, tenere per natura o rese tali dalla cottura: vd. Orth 2017, 56. καὶ καλούς L’ aggettivo, unito al nome di un prodotto (edibile in questo caso), assume la stessa funzione ‘pubblicitaria’ che ancora oggi, nel commercio di frutta e verdura, espleta l’ associazione di pregiate varietà a località rinomate per la loro coltivazione; e l’ aggettivo è peraltro usato anche per ‘promuovere’ località: «bella e buona» è, ad esempio, Nasso in Hdt. V 31.1 (καλή τε καὶ ἀγαθή). Sul valore ‘pubblicitario’ di καλός, vd. De Martino 2010.
fr. 373 K.-A. (357 K.) ἐνταῦθα 〈δ᾽〉 ἐτυράννευεν Ὑψιπύλης πατὴρ Θόας, βραδύτερος τῶν ἐν ἀνθρώποις δραμεῖν 1 ἐνταῦθα δ᾽ ἐτυράννευεν Bergk: ἐνταῦθ᾽ ἐτ. codd.: ἐνταῦθ᾽ ἐτυράννευέν ποθ᾽ Brunck ὑψιπύλης θ G: ὑψηπύλης F: ὑψιπήλης π 2 βραδύτερος codd.: -τατος Bergk: βράδιστος Brunck, probante Cobet 1858, 119 τῶν codd.: ὢν Bergk: γ᾽ ὢν Edmonds
Qui regnava il padre di Ipsipile, Toante, il più lento tra gli uomini nella corsa [Ammon.] Diff. 480 (θ[BCDAld]η[FG]π[NOP]) τύραννον οἱ ἀρχαῖοι καὶ ἐπὶ βασιλέως ἔτασσον. Ἡρόδοτος (I 6.1) ἐπὶ Κροίσου τυράννου δ᾽ ἐθνέων, καὶ προβὰς (I 26.1) τελευτήσαντος δ᾽ Ἀ〈λ〉υ〈άτ〉τεω διεδέξατο τὴν βασιλείην. καὶ Ἀριστοφάνης ἐν Λημνίαις (λιμν. θη)· ἐνταῦθ᾽ — δραμεῖν. ἔσθ᾽ ὅτε καὶ τὸν τύραννον βασιλέα ἔλεγον, ὡς Εὔπολις ἐν Δήμοις (δόμ. θη) ἐπὶ τοῦ Πεισιστράτου (fr. 137). Gli antichi utilizzavano il termine tyrannos («tirannno») anche in riferimento a un basileus («re»). Erodoto (I 6.1) per Creso (adotta l’ espressione) «tiranno dei popoli», e più avanti (I 26.1): «morto Aliatte, (Creso) ereditò il regno». Aristofane nelle Lemnie (dice): «qui — nella
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corsa». Accadeva anche che chiamassero basileus il tyrannos, come (fa) Eupoli nei Demi (a proposito) di Pisistrato (fr. 137).
Metro
Trimetri giambici
llwr llw|l rlwl wlwr l|lwl ll wl
Bibliografia Bergk ap. Meineke FCG II 2, 1098; Cobet 1858, 119; Dindorf 1869, 209; Brunck 1783, III 255; Kock CAF I, 486; Edmonds 1957, 674; Farmer 2017, 88–90. Contesto di citazione Il frammento è citato nel lessico dei sinonimi della lingua greca tramandato sotto il nome di Ammonio, assieme a Hdt. I 6.1 e I 26.1, e al fr. 137 dei Demi di Eupoli, a proposito dell’ impiego del termine τύραννος nel significato di «sovrano». Da una fonte comune sembra dipendere uno scolio al v. 61 degli Acarnesi (e la sua versione abregée in Sud. β 144), che però cita il solo frammento eupolideo, oltre a Pi. O. 1.23 (Σ [vet Tr] Ar. Ach. 61a Wilson: διαφορὰ δέ ἐστι πολλὴ βασιλέως καὶ τυράννου […] χρῶνται δὲ ἀ διαφόρως ἔνιοι τοῖς ὀνόμασιν· Ἱέρωνα μὲν γὰρ βασιλέα Πίνδαρος καλεῖ τὸν Συρακουσίων τύραννον, Εὔπολις δὲ ἐν Δήμοις εἰσάγει [εἰσφέρει Γ: καλεῖ Sud.] τὸν Πεισίστρατον βασιλέα, «esiste una notevole differenza tra un basileus [“sovrano”] e un tyrannos [“tiranno”] […] ma alcuni autori impiegano le parole indiscriminatamente. Pindaro, infatti, chiama Ierone, il tiranno di Siracusa, basileus, laddove Eupoli nei Demi presenta Pisistrato come basileus»); ma anche Sud. τ 1187 (τύραννος· οἱ πρὸ τῶν Τρωϊκῶν ποιηταὶ τοὺς βασιλεῖς τυράννους προσηγόρευον, ὀψέ ποτε τοῦδε τοῦ ὀνόματος εἰς τοὺς Ἕλληνας διαδοθέντος κατὰ τοὺς Ἀρχιλόχου χρόνους, καθάπερ Ἱππίας ὁ σοφιστής φησιν κτλ.: «tyrannos: i poeti precedenti alla guerra di Troia designavano i sovrani «tiranni» e successivamente questo termine [tyrannos] si diffuse tra i Greci ai tempi di Archiloco163, come dice Ippia il sofista»). Testo 1 La sistemazione del testo proposta da Bergk (ap. Meineke FCG II 2, 1098), con l’ enclitica δ᾽ integrata, metri causa e per evitare iato, tra ἐνταῦθα ed ἐτυράννευεν, è preferibile alla più pesante correzione ἐνταῦθ᾽ ἐτυράννευέν ποθ᾽ proposta da Brunck 1783, III, 255, anche perché, limitando la soluzione anapestica alla quinta sede, in corrispondenza del nome proprio ῾Υψιπύλης, rende questo trimetro più consentaneo a quello stile tragico che sembra essere qui riecheggiato (nel trimetro tragico l’ anapesto «in primo tantum pede et in nominibus propriis locum habet»: Dindorf 1869, 209; ma sull’ impiego dell’ anapesto nei trimetri della tragedia del V secolo vd. più dettagliatamente Descroix 1931, 196–202). 163
In realtà, nell’ Archiloco superstite τύραννος non è attestato; sono invece attestati due suoi derivati: τυραννίς (fr. 19.3 W.2) e τυραννίη (fr. 23.30 W.2), in buona parte ricostruito. Sul frammento eupolideo, vd. Olson 2017, 463s.
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2 βραδύτερος Conservo la forma tràdita del comparativo in quanto possibile aulicismo di ascendenza omerica, con effetto parodico (cf. Bonanno 1970, 754 n. 1, che rinvia a Od. XXI 372s.: πάντων … μνηστήρων … φέρτερος). Del resto, anche il superlativo βραδύτατος proposto da Bergk (ap. Meineke FCG II 2, 1098) e accolto da Kock CAF I, 486, da Kassel–Austin PCG III 2, 208, e da Henderson 2007, 286, lascia comunque problematica la costruzione con il successivo sintagma τῶν ἐν ἀνθρώποις, rispetto al più ovvio ἀνθρώπων, comunemente impiegato nel linguaggio comico per completare ed enfatizzare il senso del superlativo (cf., e. g., Ar. Nu. 110: ὦ φίλτατ’ ἀνθρώπων ἐμοί; 465: ζηλωτότατον βίον ἀνθρώπων; Pax 736s.: ἄριστος / κωμῳδοδιδάσκαλος ἀνθρώπων καὶ κλεινότατος; Ra. 1472: ὦ μιαρώτατ’ ἀνθρώπων; ed Eup. fr. 102.1: κράτιστος οὗτος ἐγένετ’ ἀνθρώπων λέγειν, dove, come in questo frammento, il superlativo è costruito con l’ infinito): donde la correzione proposta dallo stesso Bergk di τῶν in ὤν («che era il più lento a correre tra gli uomini»). Quest’ ultimo emendamento è adottato da Edmonds 1957, 674, che perfeziona la metrica con l’ inserzione di γ᾽ dopo βραδύτατος. La correzione βράδιστος proposta da Brunck (1783, III 255), che rende il verso privo di soluzioni, e dunque più affine a un trimetro tragico, «quia haec omnia e Tragedia παρῳδῆσθαι palam est» ha incontrato il consenso di Cobet 1858, 119. Interpretazione La coppia di trimetri sembra riconducibile a una sezione espositiva degli antefatti tipica del prologo: a suggerirlo, l’ imperfetto ἐτυράννευεν (su cui vd. infra) e l’ avverbio ἐνταῦθα, che in alcuni prologhi tragici ha una valenza enfatica (rafforzata da δή): cf. Soph. Tr. 37; Eur. Hipp. 38, IT 10. 1 ἐτυράννευεν Sull’ ampia semantica di τύραννος, e, più in particolare, su quella intercambiabilità con βασιλεύς segnalata nei testimonia del frammento aristofaneo come di quello eupolideo e documentata sino al V secolo a. C., vd. Parker 1998; Anderson 2005; Catenacci 2003; Id. 2012, 13–21; Telò 2007, 625 e n. 888, con ulteriore bibliografia. 2 Θόας, βραδύτερος Aristofane distorce qui in chiave comica i vv. 30–34 dell’ Ifigenia fra i Tauri ([…] Ταύρων χθόνα / οὗ γῆς ἀνάσσει βαρβάροισι βάρβαρος / Θόας, ὃς ὠκὺν πόδα τιθεὶς ἴσον πτεροῖς / ἐς τοὔνομ᾽ ἦλθε τόδε ποδωκείας χάριν, «[…] la terra dei Tauri, su cui regna, barbaro tra i barbari, Toante, il quale, muovendo le gambe veloci come fossero ali, prese il nome da questa sua rapidità dei piedi»): giocando sull’ omonimia tra il re dei Tauri e il re dell’ isola di Lemno e parodiando la paretimologia euripidea che riconduceva il nome del Toante taurico all’ aggettivo θόας164, il poeta comico attribuisce al Toante lemnio la caratteristica opposta della lentezza e realizza così un’etimologia onomastica e contrariis, che risulta tanto più comica in quanto riferita all’ omonimo sovrano lemnio costretto a fuggire per porsi in salvo dalla furia vendicatrice delle donne dell’ isola (su questo gioco paretimologico e sulla sua peculiare valenza nel contesto della 164
Forse in considerazione della funzione di «counterpart of Oenomaus» cui egli assolve nell’ economia del dramma (vd. O’ Brien 1988).
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parodia mitologica euripidea che avrà ispirato la trama delle Lemnie vd. Farmer 2017, 88–90). I giochi paretimologici su nomi propri di figure mitiche e personaggi storici, presenti già nell’ epica e nella giambografia165, sono diffusi nel teatro tragico, a cominciare da Eschilo: in Ag. 681–688 il nome di Elena è ricondotto alla radice ἑλ- di ἑλεῖν, in quanto responsabile della guerra troiana e pertanto ἑλένας, ἕλανδρος, ἑλέπτολις, «distruttrice di navi, uomini, città»; nello stesso dramma, ai vv. 1080s., il dio Apollo è apostrofato da Cassandra come ἀπόλλων ἐμός («mio distruttore»), in quanto divinità che per una seconda volta, dopo il dono forzato della profezia, le ha procurato rovina (ἀπώλεσας γὰρ οὐ μόλις τὸ δεύτερον, v. 1082; cf. vv. 1085s.); in Ch. 948 Dike, personificazione della Giustizia, assume tale nome in quanto Διὸς κόρη, «figlia di Zeus»; in Sept. 576–579 Anfiarao chiama Polinice «seminatore di molte discordie» (πολύς-νεῖκος), in quanto responsabile della guerra fratricida, sottolineando per due volte la parte finale del nome (δίς τ᾽ ἐν τελευτῇ τοὔνομ᾽ ἐνδατούμενος, / καλεῖ; cf. Soph. Ant. 110s.: Πολυνεῖκης / ἀρθεὶς νεικέων ἐξ ἀμφιλόγων; Eur. Ph. 636s.: ἀληθῶς δ᾽ ὄνομα Πολυνείκη πατήρ, ἔθετό σοι θείᾳ προνοίᾳ νεικέων ἐπώνυμον); in [Aesch.] Pr. 85s. Kratos ironizza sull’ inappropriatezza del nome assegnato dagli dèi a Prometeo, il quale, lungi dal «sapere prima» (προμανθάνειν), avrebbe all’ opposto bisogno del supporto di qualcuno che, dotato di preveggenza, gli indicasse come liberarsi dal castigo comminatogli da Zeus. Il teatro sofocleo offre esempi analoghi: in Aj. 430–433 il nome dello sventurato, folle e suicida Aiace è ricondotto al grido di dolore αἰαῖ e al verbo αἰάζειν, «gemere»; in OT 1032–1036 l’ origine del nome del protagonista (formato da οἰδεῖν, «gonfiarsi», e ποῦς, «piede») è ricondotta all’infermità contratta dall’eroe da bambino, quando il padre lo espose sul monte Citerone con i piedi perforati e legati insieme (cf. Ph. 25s.: σφυρῶν σιδηρᾶ κέντρα διαπείρας μέσον· ὄθεν νιν Ἑλλὰς ὠνόμαζεν Οἰδίπουν, «dopo avergli conficcato nelle caviglie dei chiodi di ferro: per questo l’ Ellade lo chiamava Edipo», con la parodia di Ar. Ra. 1189–1192 e la possibile ripresa comica di Anaxil. fr. 35, contemplata, tra altre ipotesi, da van Herwerden 1903, 116). Giochi paretimologici sono frequenti nel teatro euripideo: si rammenti il caso di Hel. 13s., dove Elena spiega che già nel nome di Teonoe,
165
Cf. e. g. Il. XXIV 402s., dove il nome di Astianatte viene ricondotto al suo potenziale destino di ἄστυ-ἄναξ, «signore della città»; Od. XIX 406–409, dove Autolico sceglie per il nipote il nome Odisseo perché πολλοῖσιν… ὀδυσσάμενος, «da molti odiato»; h.Hom. V [Ven.] 198s., dove il nome di Enea viene ricondotto all’ αἰνός, all’ angoscioso dolore (αἰνὸν … ἄχος) da cui la madre Afrodite è stata colpita unendosi al mortale Anchise; Hes. Th. 144s., dove il nome dei Ciclopi, dotati di un unico occhio circolare posto al centro della fronte, viene ricondotto appunto alla loro precipua caratteristica della monoftalmia; Op. 47s., dove il nome di Prometeo viene associato alle sue doti di previdenza e accortezza, che ne fanno un ἀγκυλομήτης, un uomo «dagli astuti pensieri»; 80s., dove si spiega che Pandora si chiama così perché è «colei a cui tutti gli dèi diedero un dono» o «colei che tutti gli dèi diedero come dono» (Πάντες Ὀλύμπια δώματ᾽ ἔχοντες / δῶρον ἐδώρησαν) agli uomini; e vd. Ferrante 1965.
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colei che ha θεὸς νοῦς, sono preannunciati i suoi poteri divinatori (καλοῦσιν αὐτὴν Θεονόην· τὰ θεῖα γὰρ / τά τ᾽ ὄντα καὶ μέλλοντα πάντ᾽ ἠπίστατο); in Ion 661–663 Xuto attribuisce al figlio il nome di Ιone per il fatto di averlo incontrato uscendo (ἐξιόντι) dal tempio; in Ba. 367s. il nome di Penteo (come quello di Apollo in Aesch. Ag. 1080s.) viene paronomasticamente connesso al πένθος, il «lutto» che la sua orrenda morte per mano della madre porterà nella casa di Cadmo (Πενθεὺς δ᾽ ὅπως μὴ πένθος εἰσοίσει δόμοις / τοῖς σοῖσι, Κάδμε). Nel frammento delle Lemnie la paretimologia del nome del re lemnio Toante può esser accostata a quelle su citate di Ione e di Teonoe (Eur. Ion 661–663 e Hel. 13s.), tipiche dei prologhi, in quanto funzionali a fornire informazioni su un personaggio del dramma o su un suo antenato utili allo sviluppo della trama, o degli epiloghi, dove, pronunciate dal deus ex machina, forniscono l’ aition del nome di una località, di una popolazione o di un culto. Emblematico, al riguardo, il finale dell’ Ifigenia fra i Tauri, in cui Atena etimologizza l’ epiteto Tauropola col quale Artemide sarà venerata a Halai, dove Oreste condusse per mare il simulacro della dea trafugato dalla terra dei Tauri, riconducendolo al verbo πολέω, «vagare» (vv. 1450–1457). Una distinzione tra questo genere di etimologie post eventum e i veri e propri nomina omina nelle tragedie di Euripide è operata da Wilson 1968, 67–71. Sulla predilezione euripidea per i giochi paronomastici, vd. Kannicht 1969, 21s., ad Hel. 13–15; Kambitsis 1972, 26s.; van Looy 1973; Silk 1974, 175 n. 11; Kraus 1998, 144. Analoga operazione parodica nei confronti delle paretimologie euripidee è realizzata da Aristofane nel fr. 342, tratto dalle perdute Tesmoforiazuse (vd. ad l.).
fr. 374 K.-A. (358 K.) τοὺς ἄνδρας ἀπεχρήσαντο τοὺς παιδοσπόρους τοὺς παιδοσπόρους in marg. Phot.
uccisero gli uomini, seminatori di figli Phot. α 2390 (z) (= Sud. α 3109 = Synag. B α 1755 [= An.Bachm. p. 120.1–4] = Et.magn. p. 124.26) ἀπεχρήσαντο· διεχρήσαντο, ἀπέκτειναν (δ., ἀπ. post παιδοσπόρους Et.magn.). Ἀριστοφάνης Λημνίαις (Λ. Ἀρ. Sud., Synag. B, Λ. om. Et.magn.)· τοὺς ἄνδρας — παιδοσπόρους apechrēsanto (uccisero): diechrēsanto, apekteinan. Aristofane nelle Lemnie: «uccisero — figli». Poll. IX 153 (FS, AΒCL) ἐπὶ τοῦ ἀναιρεῖν κτεῖναι, ἀποκτεῖναι, φονεῦσαι, ἀποσφάξαι, καθελεῖν, διαχρήσασθαι. ἐπὶ δὲ τούτου Ξενοφῶν (Cyr. IV 6.4) μὲν ἔφη κατειργάσατο τὸν λέοντα, Ἀριστοφάνης δέ· τοὺς ἄνδρας ἀπεχρήσαντο, Θουκυδίδης (I 126.11) δὲ ἀνεχρήσατο (ἐπὶ δὲ — ἀνεχρ. om. AB, Θουκ. — ἀνεχρ. om. FS).
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Aristophanes
del verbo ‘uccidere’ (sono sinonimi) kteinai, apokteinai, phoneusai, kathelein, diachrēsasthai. Per questo Senofonte (Cyr. IV 6.4) ha detto «uccise (kateirgasato) il leone», Aristofane «uccisero (apechrēsanto) gli uomini», Tucidide (I 126.11) «uccise (anechrēsato)».
Metro
Trimetro giambico
llwr llw|l llwl
Bibliografia
Breitenbach 1934, 65; Rau 1967, 211; Delneri 2006, 217s.
Contesto di citazione Si deve a Fozio l’ attribuzione alle Lemnie aristofanee di questo verso, che è citato in relazione al significato dell’ aoristo ἀπεχρήσαντο, glossato con διεχρήσαντο e ἀπέκτειναν («uccisero»). Polluce si limita invece a citare, come aristofanea, l’ espressione τοὺς ἄνδρας ἀπεχρήσαντο a proposito di ἀποχράομαι come sinonimo di «uccidere» (cf. l’ analoga sequenza sinonimica di VIII 74). Ed è verosimile che anche la glossa di Esichio α 6120 (ἀπεχρήσαντο· ἀπέκτειναν) dipenda da questo verso delle Lemnie. La forma ἀπεχρήσαντο è peraltro attestata nei codici, come varia lectio di διεχρήσαντο, nel passo tucidideo citato di seguito da Polluce a proposito dell’ altro sinonimo ἀναχράομαι: passo per il quale il lessicografo registra invece (erroneamente) il singolare ἀνεχρήσατο (ἀνεχρήσαντο in Phot. α 1902 = Sud. α 2365 = Synag. B α 1334 [= An.Bachm. p. 92.22s.]). Interpretazione L’ impiego dell’ indicativo aoristo parrebbe suggerire che la persona loquens stia esponendo, verosimilmente nel prologo, l’ antefatto della vicenda da cui prende le mosse l’ azione della commedia, che in tal caso presupporrebbe l’ avvenuto eccidio degli uomini da parte delle donne dell’ isola. Il riferimento più antico alla strage compiuta dalle Lemnie è quello di Pi. P. 4, che ricorda l’ unione degli Argonauti «col popolo lemnio di donne assassine di uomini» (v. 252: Λαμνιᾶν τ᾽ ἔθνει γυναικῶν ἀνδροφόνων)166. 166
L’ epiteto ἀνδροφόνος, di ascendenza omerica (cf. Il. IV 441 [epiteto di Ares], XVIII 317 [riferito alle mani sterminatrici di Achille], XXIV 724 [epiteto di Ettore]; Od. I 261 [detto di veleno per frecce]), nel lessico giuridico passa a designare comunemente l’ omicida (vd. LSJ s. v. II). Ben attestato nella mesē e nella nea come vocabolo genericamente ingiurioso (cf. Amphis fr. 30.8 [detto di pescivendoli]; Philippid. fr. 5.3 [detto dell’ etera Gnatena]; Men. Dysc. 481 [con ἀνδροφόνα θηρία Cnemone apostrofa quanti bussano alla sua porta]; nonché il titolo Ἀνδροφόνος tramandato per una commedia di Filemone e per una di Batone: vd. Papachrysostomou 2016, 200s., ad Amph. fr. 30.6–8, e Hartwig 2022, 112s., ad Philippid. fr. 5.3), esso si riferisce, come già in Omero, non soltanto all’ uccisione dei mariti perpetrata dalle donne di Lemno, ma, più in generale, alla strage di tutto il γένος maschile dell’isola (cf. Ap. R. I 616–618, Ps.–Apollod. I 9.17, e vd. Braswell 1988, 348). Illustrando l’ aition dell’ espressione Λημνία κακά (vd. supra, ad Introduzione), Erodoto parla invece specificamente di uccisione di mariti (cf. VI 138.4: αἱ γυναῖκες τοὺς […] ἄνδρας σφετέρους ἀποκτείνασαι). In Euripide sono valorizzati entrambi gli aspetti: nell’ Ipsipile la protagonista rievoca con i figli ritrovati le vicende della strage commessa dalle donne che «come Gorgoni ammazzarono i mariti nei loro
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τοὺς παιδοσπόρους L’ epiteto, composto a partire da παῖς («figlio») e da σπείρω («seminare»), è un hapax di stampo tragico (vd. Rau 1967, 211; Breitenbach 1934, 65), che, come in Eur. Hec. 886s. (vd. n. 166), evoca qui l’ idea di un crimine collettivo che ha determinato l’ estinzione dell’ intera stirpe degli uomini. E raro è anche il verbo παιδοσπορέω, elencato da Polluce (V 92) tra i verbi che designano l’atto sessuale nel mondo umano come nel mondo animale, e forse conio platonico, impiegato in Phd. 250e, non, però, in riferimento alla procreazione (come invece in Ael. NA VIII 17), ma più probabilmente alla dispersione del seme nei rapporti omosessuali (cf. Hermias, In Platonis Phaedrum Scholia III, p. 189.9 Lucarini– Moreschini e vd. Velardi 2006, 204s. n. 153, con ulteriore bibliografia). Analoghi i composti θηλύσπορος (vd. [Aesch.] Pr. 855, dove Prometeo preconizza l’ arrivo ad Argo delle Danaidi, «stirpe femminile» generata dalle fanciulle in fuga dalle nozze consanguinee con i cugini) e μανόσπορος («seminato poco fittamente» in Aesch. fr. 113a.1 R.: cf. Thphr. CP III 21.5 μανόσπορος; HP VIII 6.2 μανοσπορέω). Più comune il composto ὁμόσπορος, «nato dallo stesso seme», attestato in tragedia, dopo h.Hom II [Cer.] 85 e Pi. N. 5.43, tanto come aggettivo quanto come sostantivo. Si confrontino al riguardo Aesch. Sept. 820 (βασιλέοιν δ᾽ ὁμοσπόροιν: detto dei due re fratelli, Eteocle e Polinice; cf. 932 e Ag. 1509), Ch. 242 (τῆς τυθείσης νηλεῶς ὁμοσπόρου: detto da Elettra della sorella Ifigenia spietatamente immolata); Soph. Tr. 212s. (βοᾶτε τὰν ὁμόσπορον / Ἄρτεμιν Ὀρτυγίαν: detto dal coro in riferimento ad Artemide Ortigia, sorella di Apollo), OT 260 (ἔχων δὲ λέκτρα καὶ γυναῖχ᾽ ὁμόσπορον) e 459s. (τοῦ πατρὸς / ὁμόσπορός τε καὶ φονεύς), detto di Giocasta, fecondata dallo stesso seme del marito Laio e del figlio Edipo, assassino del padre, 2 e fr. **442.3 R. (Φοίβου τῆς … ὁμοσπόρο[υ: detto di Artemide); Eur. Med. 596 (τέκνοισι τοῖς ἐμοῖς ὁμοσπόρους: detto da Giasone dei potenziali fratelli dei figli avuti con Medea), IT 611s. (τοιοῦτος εἴη τῶν ἐμῶν ὁμοσπόρων / ὅσπερ λέλειπται: detto da Ifigenia dei suoi fratelli, in particolare di quell’ Oreste che ha appena scoperto essere ancora vivo) e 695s. (παῖδας ἐξ ἐμῆς ὁμοσπόρου / κτησάμενος: detto da Oreste di Ifigenia, cf. Or. 658), [Ba. 1092] σύγγονοι … ὁμόσποροι (detto delle sorelle di Agave), e cf. anche il monologo di Prassitea nell’Eretteo, dove il termine è impiegato in riferimento a due delle tre figlie, sorelle della figlia destinata al sacrificio (δύω ὁμοσπόρω, fr. 360.36 Kn.). Per la commedia cf. Antiph. fr. 19.1s. (Μακαρεὺς ἔρωτι τῶν ὁμοσπόρων μιᾶς / πληγείς: detto di Macareo, innamoratosi della sorella Canace). Una peculiarità del composto aristofaneo rispetto agli altri su elencati composti in -σπόρος è rappresentata dal suo valore attivo: in tal senso, come osserva Delneri 2006, 218, l’ epiteto potrebbe contaminare anche il «classico letti» (fr. 759a.77s. Kn. = vv. 1598s.: οἶά τε Γοργάδες ἐν λέκτροις / ἔκανον εὐνέτας), laddove nell’ Ecuba la protagonista ricorda ad Agamennone che le donne di Lemno «depopolarono completamente l’ isola dei suoi uomini» (v. 887: Λῆμνον ἄρδην ἀρσένων ἐξῴκισαν): esempio, addotto assieme a quello delle Danaidi (v. 886), assassine dei loro cugini figli di Egitto, di come l’ estrema violenza femminile minacci l’ intera ‘razza’ degli uomini (vd. Battezzato 2018, 190).
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ma raro» (Collard 1975, 271) παιδογόνος di Eur. Supp. 629, detto di Zeus che genera Epafo unendosi a Io.
fr. 375 K.-A. (359 K.) ἀνδρῶν ἐπακτῶν πᾶσα γαργαίρει στοά ἐπακτῶν Σ Ar. E, Sud.: om. Σ Ar. Γ πᾶσα γαργαίρει στοά olim Bergk ap. Meineke FCG II 2, 1099: πᾶσα γάργαιρ᾽ ἑστία Σ Ar., Sud.: πᾶσ᾽ ἐγάργαιρ᾽ ἑστία Toup 1790, III, 200: πᾶσα γάργαρ᾽ ἑστία Bergk.
di eroi stranieri brulica ogni portico Σ (vet) (EΓ) Ar. Ach. 3a(i).4s. Wilson = Sud. ψ 22.15–17 (IV, p. 840.9s. Adler) καὶ τὰ γάργαρα δὲ ἐπὶ πλήθους ἐτίθετο, ὡς ἐν Λημνίαις (Λίμναις codd.: corr. Küster)· ἀνδρῶν — ἑστία. Cf. Σ (Tr) (Lh) Ar. Ach. 3c.7s. Wilson: ἔστι δὲ καὶ ἐν Λίμναις ἀνδρῶν ἐπακτῶν πᾶσα γάργαρ᾽ ἑστία. Ε (il neutro plurale) ta gargara veniva impiegato in riferimento a una folla, come nelle Lemnie: «di eroi — casa».
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Bibliografia Toup 1790, III 200; Dindorf 1835, 622; Bergk ap. Meineke FCG II 2, 1099; Id. ap. Meineke FCG ed. min., 297; Kock CAF I, 487. Contesto di citazione Il frammento è citato in due dei quattro scolii dedicati al composto ψαμμακοσιογάργαρα, impiegato nel v. 3 degli Acarnesi da Diceopoli (Σ [vet] Ach. 3a(i)–(ii)–3b, [Tr] 3c Wilson), in riferimento al numero infinito («pari ai granelli di sabbia») di dolori da lui provati (assieme a qualche evento gioioso) nelle cirostanze rievocate nei versi immediatamente successivi. Tali scolii risalgono almeno in parte alla medesima fonte di Hsch. ψ 59 (ψαμμακοσιογάργαρα· πολλὰ ἀναρίθμητα, ἀπὸ τῆς ψάμμου καὶ τῶν γαργάρων: «psammakosiogargara: molti, innumerevoli, da psammos, “sabbia”, e gargara, “folla”») e di Macr. V 20.11–13 (su cui vd. infra, ad Interpretazione), e confluiscono in un lungo lemma della Suda (ψ 22). Tutti concordano nello spiegare il termine, scomponibile nei tre elementi costitutivi (i sostantivi ψάμμος e γάργαρα e il suffisso numerale -κοσιος /-κοσια), in riferimento a entità innumerevoli, infinite e perciò non definibili (Σ [vet] 3a[i]: οἷον πολλὰ καὶ ἀναρίθμητα; Σ [vet] 3b: εἴρηται δὲ ἀντὶ τοῦ ἄφατα καὶ ἀναρίθμητα; cf. Σ [vet] 3a[ii]). Il corredo di passi letterari richiamati dagli scolii non è omogeneo. In Σ (vet) Ach. 3a(i) si citano, prima del frammento delle Lemnie, un frammento di Eupoli (fr. 308: ἀριθμεῖν θεατὰς ψαμμακοσίους lkl, in cui ψαμμακόσιος è impiegato in riferimento agli spettatori innumerevoli come granelli di sabbia [su
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questo epiteto, mai attestato altrove in età classica, se non come primo elemento del su citato composto aristofaneo, vd. Olson 2016, 487]), e successivamente frammenti di Aristomene (fr. 1) e di Sofrone (fr. 29), nonché un passo tragico adespoto (442 Kn.–Sn.) e Il. XX 157. In Σ (vet) Ach. 3a(ii) sono ricordati invece il primo verso del responso offerto dall’ oracolo delfico a Creso (52 Parke–Wormell, riportato per esteso da Hdt. I 47.3) e, di seguito, Eup. fr. 308, Il. XX 157 e Cratin. fr. 321. In Σ (vet) Ach. 3b figura invece il solo Cratin. fr. 321 (su questi passi vd. infra, ad Testo e ad Interpretazione) e in Σ (Tr) Ach. 3c, prima del frammento delle Lemnie, sono citati Eup fr. 308 e Aristomen. fr. 1. Testo γαργαίρει στοά Il testo stampato da Kassel–Austin e qui riprodotto recepisce la correzione prospettata ma al contempo rigettata («olim correxeram») da Bergk (ap. Meineke FCG II 2, 1099), il quale, dopo aver ipotizzato (sulla base del confronto con Cratin. fr. 321: ἀνδρῶν ἀρίστων πᾶσα γαργαίρει πόλις, citato dagli altri due scholia vetera167) di emendare il testo tràdito in πᾶσα γαργαίρει στοά ovvero πᾶσα γαργαίρει πόλις, ha poi optato per la paradosis documentata dallo scolio tricliniano168: scelta operata nell’ intento di recuperare al frammento aristofaneo quel sostantivo γάργαρα che, in ragione delle successive citazioni di Aristomen. fr. 1 e fr. trag. adesp. 442 Kn.–Sn. (su cui vd. infra, ad Interpretazione), parrebbe essere l’ oggetto principale dell’ interesse dell’ annotazione scoliastica in cui il frammento è citato; per quanto, in verità, la citazione di Sophr. fr. 29 non pertenga al medesimo sostantivo bensì alla forma verbale ad esso connessa (ἐγάργαιρεν). L’ emendamento di Toup 1790, III, 200, che restituisce l’ imperfetto, è accolto da Dindorf 1835, 622, ma respinto da Bergk, a parere del quale Aristofane avrà reso visibile sulla scena l’ approdo degli Argonauti sull’ isola.
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Σ (vet) Ar. Ach. 3a(ii), nella forma ἀνδρῶν ἀρίστων γαργαίρει πόλις, e 3b, nella forma ἀνδρῶν κρατίστων πᾶσα μάρμαιρε πόλις: ma in favore della paradosis di 3a(ii), che è peraltro quella accolta a testo da Kassel e Austin, vd. Olson–Seaberg 2018, 67s., anche con riferimento alla preferenza per il presente γαργαίρει in luogo di una forma di imperfetto, proposta da alcuni sulla base di Σ (vet) Ar. Ach. 3b. Bergk ipotizzava peraltro l’ omissione, da parte dello scoliaste, di una forma verbale come δέδεκται, «è accolta» (ap. Meineke FCG II 2, 1099; nell’ editio minor [ap. Meineke FCG ed. min., 297] si limita alla constatazione che «deest autem verbum»), che sarebbe caduta nella citazione analogamente a quanto accade, all’ interno del medesimo contesto, per Aristomen. fr. 1, citato in forma più completa rispetto allo scolio da Macr. Sat. V 20.12 (ἔνδον γὰρ ἡμῖν ἐστιν ἀνδρῶν γάργαρα). La sistemazione del testo scelta per questo frammento delle Lemnie da Bergk (ἀνδρῶν ἐπακτῶν πᾶσα γάργαρ᾽ ἑστία) è stata recepita da Bothe 1844, 107 e da Kock CAF I, 487. Anche Blaydes mantiene l’ἐστία dei codici e negli Adversaria all’edizione di Kock (Blaydes 1890–1896, II, 63) precisa: «ἑστία (vel ἡ στέγη)» (per questa seconda opzione cf. ἐν τῇ στέγῃ in Eup. fr. 375, con Olson 2014, 105, ad l.).
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Interpretazione Come riteneva già Kock CAF I, 487, in questo frammento gli «uomini stranieri» saranno verosimilmente gli Argonauti introdottisi a Lemno e poi unitisi alle donne dell’ isola. πᾶσα senza articolo determinativo l’ attributo πᾶς è da intendersi per lo più nel senso di «ogni» (vd. LSJ, s. v. A.III); per quanto talvolta l’ articolo risulti omesso anche quando πᾶς significa «l’ intero», ed è dunque equivalente a ὅλος (per restare alla commedia, cf. e. g. Cratin. fr. 246.2; Hermipp. fr. 77.9): significato che anche in questo frammento non può essere escluso. ἀνδρῶν ἐπακτῶν L’ aggettivo ἐπακτός, derivato da ἐπάγω, è detto di cose, di persone o di entità astratte che vengano introdotte dall’ esterno: ad esempio merci importate (Th. VI 20.4) o un giuramento imposto dalla parte avversaria (Lys. or. 91 fr. 204 Carey). Il termine è attestato, in tragedia, come ricercato sinonimo del più comune ξένος, specie in relazione a eserciti di stranieri alleati o di mercenari: cf. Aesch. Sept. 583; Soph. Tr. 259, OC 1525. In Aj. 1296 ἐπακτός è definito il cognato Tieste con cui Erope è stata colta in flagrante adulterio dal marito Atreo. In Eur. Ion 592 l’ aggettivo è detto dal protagonista di se stesso nella replica a Xuto, che intende adottarlo e condurlo con sé ad Atene come proprio figlio per sottrarlo al duplice male della povertà e delle umili origini (vv. 576–581): Ione teme infatti che in questo modo incorrerà in un altro duplice male, ossia l’ essere figlio di uno straniero e figlio illegittimo (πατρὸς τ᾽ ἐπακτοῦ καὐτὸς ὢν νοθαγενής). γαργαίρει Il verbo – per il quale in Σ (vet) Ar. Ach. 3a(i), oltre a Cratin. fr. 321, è citato Sophr. fr. 29 (τῶν δὲ χαλκωμάτων καὶ τῶν ἀργυρωμάτων ἐγάργαιρεν ἁ οἰκία [nella ricostruzione di Blomfileld 1826, 343 accolta da Kassel e Austin]), detto di una casa piena di recipienti di bronzo e di argento – evoca l’ idea del pullulare di una massa di persone o di oggetti, anche in movimento: cf. Tim. PMG 791.96 (πόντος … ἐγάργαιρε σώμασιν, detto del mare brulicante di cadaveri durante la battaglia navale) e le glosse esichiane γ 166 (γαργαίρειν· λάμπειν, πληθῦναι, κινεῖσθαι, σπαίρειν) ed ε 1246 (ἐκάρκαιρεν· ἐπλήθυεν). In Σ (vet) Ach. 3a(i) si ricorda altresì che l’ immagine omerica di Il. XX 157 (κάρκαιρε δὲ γαῖα πόδεσσι) è riferita al gran movimento prodotto sulla terra dai numerosi piedi del granchio. Tra le attestazioni del connesso sostantivo neutro plurale γάργαρα registrate dallo scoliaste – che cita Aristomen. fr. 1 (ἔνδον γὰρ ἡμῖν ἐστιν ἀνδρῶν γάργαρα, dove γάργαρα è detto di un assembramento di uomini radunati verosimilmente all’ interno di una casa; vd. Orth 2015, 45) e, per la tragedia, il fr. adesp. 442 Kn.–Sn. (χρημάτων τε γάργαρα) – spicca il riferimento ad Alc.Com. fr. 19.3 (ὁρῶ δ᾽ ἄνωθεν γάργαρ᾽ ἀνθρώπων κύκλῳ: per la parodia di Eur. Or. 866–868 e 871 riconoscibile in questo passo della Tragicommedia di Alceo Comico, vd. Orth 2013, 91), citato da Macrobio (Sat. V 20.11), prima del frammento di Aristomene, a proposito di Gargara, città della Troade menzionata in Verg. Georg. I 103, situata ai piedi dell’ omonima vetta della Misia, e rinomata per la sua fertilità: donde l’ impiego del termine per esprimere una moltitudine immensa (unde haec Gargara tanta frugum copia erant ut qui magnum cuiusque rei numerum vellet exprimere pro multitudine immensa ‘Gargara’ nominaret). In realtà, il termine non discende
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– come assume Macrobio – dal nome del monte Gargaro, ma ha piuttosto una matrice onomatopeica (così Chantraine DELG e Frisk GEW, s. v. γάργαρα, con paralleli in altre lingue) che evoca il vociare di una massa brulicante: cf. Hsch. γ 171 γαργαρίς· θόρυβος, e vd. Tichy 1983, 270s. fr. 376 K.-A. (360 K.) ἀλλ᾽ ἀρτίως κατέλιπον αὐτὴν σμωμένην ἐν τῇ πυέλῳ 1 κατέλιπον A: καταλιπὼν FS τῇ πύλῳ A: καὶ πύελος C
σμωμένην FS: σμώμενος A
2 ἐν τῇ πυέλῳ FS: ἐν
ma proprio ora l’ ho lasciata che si strofinava nella vasca da bagno Poll. VII 166 (FS, A, C) εἰκότως δ᾽ ἂν βαλανείῳ προσάγοιτο καὶ τὸ ἐν ταῖς Λημνίαις ὑπ᾽ αὐτοῦ εἰρημένον· ἀλλ᾽ — ἐν τῇ πυέλῳ (εἰκ. — σμωμένην om. C). a ragione si potrebbe ricondurre al bagno anche la frase detta da lui (scil. Aristofane) nelle Lemnie: «ma — nella vasca da bagno».
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Bibliografia 221.
Bergk ap. Meineke FCG II 2, 1100; Bothe 1844, 108; Delneri 2006,
Contesto di citazione Il frammento è citato da Polluce in una sezione dedicata al lessico dei bagni (166–168), in relazione al possibile impiego del termine πύελος come sinonimo di βαλανεῖον. Interpretazione Queste parole sarebbero pronunciate, a parere di Bergk (ap. Meineke FCG II 2, 1100), da un servo di Ipsipile, alla quale si riferirebbe il pronome αὐτήν: cf. Bothe 1844, 108, che cita il parallelo latino di Plaut. Cas. 790 (ego quo me ipsa misit), dove il determinativo femminile è impiegato dalla serva Pardalisca in riferimento alla padrona Cleustrata. Kaibel (ap. Kassel–Austin PCG III 2, 209) ipotizzava invece che la persona loquens fosse la nutrice della regina. Delneri 2006, 221 inserisce questo trimetro nel contesto di un resoconto, fatto sulla scena da un servo, delle operazioni di abluzione compiute nell’ interno della casa dalla sua padrona (probabilmente Ipsipile). Giusta questa ricostruzione, tali operazioni, necessarie per contrastare la mitica dysosmia e propedeutiche all’ unione sessuale (con Giasone), avranno potuto parodiare rituali di loutrophoria nuziale analoghi a
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quelli che si svolgono ad esempio in Pax 843–847, dove Trigeo ordina al Servo di lavare Opora e di preparare il letto nuziale in vista della celebrazione delle nozze con lei (cf. v. 868, dove il Servo, rientrato in scena, annuncia: ἡ παῖς λέλουται; cf. anche Lys. 378; Men. Sam. 713, 729; e vd. Ginouvès 1962, 265–282; Oakley–Sinos 1993, 15s. figg. 11–13). 1 ἀλλ᾽ ἀρτίως κατέλιπον αὐτήν Ιl tenore del verso sembra paratragico, come suggerisce il confronto con passi di Sofocle (cf. Ant. 491s.: ἔσω γὰρ εἶδον ἀρτίως / λυσσῶσαν αὐτὴν οὐδ᾽ ἐπήβολον φρενῶν, detto da Creonte di Ismene) e di Euripide (cf. Hipp. 907s.: ἣν ἀρτίως ἔλειπον, ἢ φάος τόδε / οὔπω χρόνος παλαιὸς εἰσεδέρκετο, detto da Ippolito quando scopre che Fedra si è appena tolta la vita). σμωμένην Il verbo σμάω, «strofinare», è qui impiegato nella forma mediale, attestata anche nel fr. 146 della Maltace di Antifane, a stare alla testimonianza di Clemente Alessandrino nel Pedagogo (III 7.2), il commediografo ironizza sull’ inconcludente civetteria delle donne mediante l’ accumulazione di forme mediali di verbi che designano canoniche operazioni di toilette di una donna che «si lava» (v. 3 ῥύπτεται), «si pettina» (v. 4 κτενίζεται), «si sfrega» (τρίβεται) e ancora «si lava» (σμῆται). In Hdt. IV 73 la forma media di σμάω è impiegata in riferimento all’ atto dell’ insaponarsi il capo, cui seguiva l’ atto del risciacquo (reso con la forma media di ἐκπλύνω), eseguito dagli Sciti dopo le operazioni connesse alla sepoltura dei loro defunti. Il termine σμῆμα (come σμῆγμα) designava un tipo di sapone ricavato da argilla: mediante opportuno strofinamento con una spugna, esso fungeva da emulsionante delle sostanze grasse e, in particolare, dell’ olio con cui gli atleti si cospargevano prima della lotta, o, più semplicemente, da detergente per le mani in occasione di un pasto (cf., e. g., Antiph. fr. 134; Philox.Lyr. PMG 836b.1–3) ed era comunque immancabile nella toilette di ogni donna. Si confrontino, al riguardo, Theoc. 15.30, dove una serva porta dello σμᾶμα per la toilette della sua padrona, e Plu. Demetr. 27, dove si narra di come il governatore di Atene avesse fatto acquistare saponi (σμῆγμα) per le sue cortigiane con una somma di denaro che aveva percepito dagli Ateniesi (vd. Ginouvès 1962, 142s.). 2 ἐν τῷ πυέλῳ Il termine πύελος è attestato già in Omero (Od. XIX 553) in riferimento al trogolo in cui le oche beccano il grano, ma nel V secolo a. C. designa propriamente la «tinozza» o la «vasca» da bagno (Crates Com. fr. 17.5; Ar. Eq. 1060, V. 141, Pax 843, Th. 562, fr. 6; Eup. fr. 272.1; Hp. Acut. 18 [II, p. 3 366.3 Littré]; cf. Hermipp.Hist. FGrHist 1026 F 83, Timae. FGrHist 566 F 50; IG I 426.149 [con Amyx 1958, 252–254], e vd. Ginouvès 1962, 47s.; Olson 1998, 234; Id. 2016, 406, ad Eup. fr. 272.1; Orth 2017, 64).
Λήμνιαι (fr. 377)
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fr. 377 K.-A. (362 K.) ἦ καρδιώττεις; ἀλλὰ πῶς χρῆσται ποιεῖν; ἦ καρδιώττεις; Dobree 1833, 254: ἡ καρδία τε τις Brunck: ἡ καρδίω τε τίς Sud. SGFM: ἡ (ex r ἠ) καρδίωταί τις Phot.: om. Sud. A
Davvero hai mal di stomaco? Ma come si dovrà fare? r
Phot. (z) s. v. χρή (= Sud. χ 471 [A SGFM]) r χρή […] χρῇ […] χρῆν […] λέγουσι δέ ποτε καὶ χρήσται (καὶ χρῆσθαι Sud. A F: κεχρῆσθαι Phot.) ἀντὶ τοῦ δεῖ […]. Ἀριστοφάνης Λημνίαις· ἡ — ποιεῖν. chrē […] chrēi […] chrēn […] dicono talvolta anche chrēstai invece di dei […]. Aristofane nelle Lemnie: «Davvero — fare».
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Bibliografia 2006, 224.
Brunck 1783, III, 255; Dobree 1833, 254; Kaehler 1901, 10; Delneri
Contesto di citazione L’ interpretamentum del lemma del Fozio zavordense e della Suda comprende, oltre al passo delle Lemnie, altri tre frammenti comici e una citazione dall’ Eutifrone di Platone, exempla accomunati dalla presenza della forma χρή. Discussa l’ accentazione della forma in relazione all'equivalenza tra χρή e δεῖ e tra χρῇ e δέῃ (χρή∙ ὀξυτόνως τὸ [Olson] δεῖ. χρῇ δὲ περισπωμένως, τὸ ὑποτακτικόν, σημαίνει τὸ δέῃ, forma, quest’ultima, per la quale è citato Eup. fr. 11: ἐγὼ τελῶ τὸν μισθὸν ὅντιν’ ἂν χρῇ), viene poi indicata la forma perispomena dell'imperfetto, χρῆν, equivalente a ἔδει, e di seguito considerata l’ equivalenza χρήσται (sic) = δεῖ, per la quale sono citati, nell’ ordine, il fr. 108 di Ferecrate e il passo aristofaneo di nostra pertinenza. Nella sezione conclusiva sono quindi prese in considerazione le forme χρῇς (χρῇς δὲ τὸ χρῄζεις, καὶ δέῃ) e χρείη (χρείη δὲ τὸ δέοι) e sono richiamati, per la prima, Cratin. fr. 134 (νῦν γὰρ δή σοι πάρα μὲν θεσμοί / τῶν ἡμετέρων, πάρα δ’ ἄλλ’ ὅ τι χρῆς) e, per la seconda, Pl. Euthyphr. 4c (πευσόμενον τοῦ ἐξηγητοῦ ὅτι χρείη ποιεῖν). Sulla possibile differenza di 'focalizzazione' tra χρή e δεἲ vd. Olson 2017, 218, ad Eup. fr. 11. Testo ἦ καρδιώττεις Di fronte alle lezioni dei testimoni, che per la prima parte del verso non danno alcun senso, Brunck 1783, III, 255 ha proposto ἡ καρδία τε τις. La soluzione migliore, adottata da Kassel e Austin, sembra quella prospettata da Dobree 1833, 254. Interpretazione A parere di Kaibel (ap. Kassel–Austin PCG III 2, 212), anche queste parole, come quelle del fr. 376, saranno state pronunciate dal personaggio
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della Nutrice, che si rivolgerà ora direttamente alla sua regina Ipsipile. L’ eroina le avrà forse confessato d’ esser preda di una passione amorosa, quella per Giasone, che le procura un malessere fisico comicamente descritto come «mal di stomaco». La situazione scenica è affine al confronto tra Fedra e Nutrice nell’ Ippolito di Euripide (vv. 199–448). Giusta una siffatta ricostruzione, ci troveremmo dinanzi alla probabile parodia di figure tragiche tra le più emblematiche del teatro tragico del V secolo (euripideo e non), quali sono le nutrici e i pedagoghi (su tali figure, vd. i lavori di Capomacchia 1999, Castrucci 2017 e Castellaneta 2019). Il personaggio femminile della Nutrice assolve del resto a un ruolo fondamentale nella versione del mito di Ipsipile fornita da Apollonio Rodio (I 667–696): l’ anziana Polisso (su cui vd. Albiani 1995, 291s.) svolge infatti la funzione di mediazione nei rapporti tra le donne di Lemno e gli Argonauti (vd. infra, ad fr. 378). Una funzione analoga a quella assolta dalla nutrice in Valerio Flacco (II 316–325), dove peraltro il personaggio viene descritto alla stregua di una veggente, e in Igino (Fab. 15.2). καρδιώττεις Il verbo è un tecnicismo della lingua medica; nella forma con doppio sigma, ricorre nel corpus ippocratico (cf. Progn. 24 [II, p. 184.15 Littré]; Morb. II 66 [VII, p. 100.10 Littré]) e descrive il dolore alla bocca dello stomaco (cf. Gal. Alim.facult. ΙΙ 24 [VI, p. 604.14s. Kühn]; Aët. Iatr. IX 1.16) o i conati di vomito collegati al ciclo mestruale o alla gravidanza o al parto (cf. e. g. Mul. I 3 [VIII, p. 22.15 Littré], I 4 [VIII, p. 26.12], I 34 [VIII, p. 80.3 Littré], I 36 [VIII, p. 86.5 Littré], I 38 [p. 92.17 Littré]). In Arist. Pr. 873b il verbo è riferito al bruciore di stomaco che, provocato da una miscela di vino troppo annacquata, produce conati di vomito; nei lessicografi è collegato alla nausea (τὸ ναυτιᾶν: cf. Eust. in Od. 1508.53, che dipende da Ael.Dion. κ 12, e Hsch. κ 800) o ai morsi della fame: in questo significato, equivalente a βουλιμιᾶν è attestato in Epich. fr. 204 (cf. Phot. κ 182 = Sud. κ 371). ἀλλὰ πῶς χρῆσται ποιεῖν; Su questa forma verbale al futuro dell’ espressione impersonale χρή, prodotta dalla contrazione di χρὴ con ἔσται, e sulle sue ulteriori occorrenze comiche e tragiche vd. Franchini 2020, 84, ad Pherecr. fr. 108; per quanto l'equivalenza esplicitamente sancita nella testimonianza lessicografica tra χρῆσται e δεῖ, tanto a proposito del frammento ferecrateo quanto a proposito di questo frammento aristofaneo, induca ad assegnare in ambo i casi al verbo servile il valore di presente. Contro l’ ipotesi, prospettata da Kaehler 1901, 10, dell’ antilabé in questo punto del verso, vd. Delneri 2006, 224.
fr. 378 K.-A. (361. 826 K.) ἕως νεαλής ἐστιν αὐτὴν τὴν ἀκμήν pc
νεαλής z : νεᾶλης g, z
ac
αὐτὴν g, z: αὐτὴ Bothe: αὕτη dubitanter Kock
finché è di fresca data, nel pieno vigore
Λήμνιαι (fr. 378)
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Phot. ν 66 (g, z) νεαλής (νεαλῆς g)· ἐκτείνεται τὸ α. Ἀριστοφάνης Λημνίαις· ἕως — ἀκμήν. Μένανδρος (fr. 559). nealēs: si allunga l’ alpha. Aristofane nelle Lemnie: «finché — vigore». Menandro (fr. 559). Phryn. PS p. 90.9–13 de Borries νεαλές· παρὰ τὸ ἁλές, ὃ σημαίνει τὸ ἀθρόον, τὸ νεωστὶ γεγενημένον καὶ συνενηνεγμένον (συνηγμ. Bekker). τὸ γὰρ συνελθεῖν καὶ συναλισθῆναι ταὐτόν. Ἀριστοφάνης τὸ νεαλές (-ής corr. de Borries, ἐπὶ τοῦ νέου καὶ ἀκμάζοντος τέθεικε add. Bergk). neales: con riferimento a ciò che è riunito insieme, da intendersi come ciò che è ammassato, qualcosa che è stato creato e assemblato di recente. Infatti il synelthein («radunarsi») e il synalisthēnai («raccogliersi insieme») sono la stessa cosa. Aristofane (ha impiegato) il (termine) neales.
Metro
Trimetro giambico
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Bibliografia
Bothe 1844, 108; Kock CAF I, 487; Delneri 2006, 225s.
Contesto di citazione Dal lemma foziano che cita il frammento specificando che l’ alpha di νεαλής è lunga si ricava anche che il termine è attestato in Menandro. Sul significato del termine, glossato nella forma neutra νεαλές, si sofferma invece Frinico, che si limita a registrarne genericamente l’ impiego da parte di Aristofane (a meno di non ipotizzare, con Bergk, la caduta delle parole con cui l’Atticista ne precisava l’ accezione) e ne fornisce un’ etimologia isolata rispetto alle due ulteriori generalmente fornite dai grammatici antichi: sulla questione vd. infra, ad Interpretazione. Testo αὐτὴν τὴν ἀκμήν Bothe 1844, 108 proponeva di leggere αὐτὴ τὴν ἀκμήν e, sulla base della equivalenza αὐτή = hera postulata nel fr. 376 (vd. ad l.), ipotizzava che il determinativo si riferisse parimenti a Ipsipile. Kock CAF I, 487 suggeriva invece, sia pur dubitativamente, il dimostrativo αὕτη: nel qual caso la persona loquens si riferirebbe a un personaggio femminile presente in scena. Interpretazione Queste parole saranno state pronunciate, a parere di Kaibel (ap. Kassel–Austin PCG III 2, 210), dalla regina Ipsipile. Delneri 2006, 225s. non esclude tuttavia che la persona loquens possa essere l’anziana nutrice Polisso. Come nelle Argonautiche di Apollonio Rodio (I 667–696), la vecchia si pronunciava forse in favore dell’ apertura delle donne lemnie nei confronti degli uomini stranieri, invitandole a godere dei piaceri della giovinezza, al fine di evitare un’ odiosa vecchiaia priva di prole. Sull’ analogo appello della protagonista in Lys. 591–597, vd. Tammaro 1995, 173. νεαλής Documentatoci per la prima volta in questo frammento di Aristofane, dove parrebbe riferirsi a persona «di giovane età», l’ epiteto è ricondotto a etimologie differenti e possiede svariate accezioni. Diversamente dall’ Atticista Frinico
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(vd. supra, ad Contesto di citazione), grammatici e lessicografi vi riconoscono in genere un composto formatosi a partire da νέος e ἁλίσκομαι (donde la quantità lunga dell’ alpha registrata da Phot. ν 66 per questo frammento di Aristofane e per Men. fr. 559), che talora riconducono esplicitamente all’ ambito ittico, e dunque alla metafora del pesce appena pescato, oppure, ma in via subordinata, a partire da νέος e ἅλς, all’ idea di una pietanza da poco salata (sostanzialmente sovrapponibili, in tal senso, le glosse di νεαλής: cf. e. g. Harp. ν 6 [p. 212.3 Dindorf]: […] ὁ νεωστὶ ἑαλωκὼς οὕτως ἐλέγετο κατὰ μεταφορὰν τὴν ἀπὸ τῶν ἰχθύων; Hsch. ν 174 νεωστὶ ἁλοὺς; Phot. ν 67 = Sud. ν 104: […] κυρίως ὁ νεωστὶ ἑαλωκὼς ἰχθύς· λέγεται δὲ καὶ ὁ νεωστὶ ἁλισθείς; [cf. Et. Magn. p. 599.10] e cf. anche [Ammon.] Diff. 332: […] νεαλὲς δὲ τὸ νεωστὶ ἑαλωκός, οἷον ἰχθύς· δύναται δὲ καὶ τὸ νεωστὶ ἁλὶ πεπασμένον). Esso designa perciò alimenti «freschi» (ad es. carne: cf. Gal. Alim. facult. I 18 [VI, p. 528 Kühn]; latte: cf. Nic. Al. 364 [dove però i codici migliori tramandano il sinonimo νεαρόν]; formaggio: cf. Gal. Comp.Med.loc. V 1 [XII, p. 808 Kühn], dove peraltro ὁ νεαλὴς τυρὸς è connesso alla sua recente salatura: τουτέστιν ὁ νεωστὶ τοὺς ἅλας προσειληφώς), ma anche cadaveri ancora ‘freschi’ di persone morte da poco (cf. Luc. Nec. [38] 15), o un uomo da poco tempo incarcerato (cf. Dem. 25.61, menzionato, a proposito del significato dell’ epiteto, nel su citato lemma di Arpocrazione e in quello corrispondente dell’ Antiatticista, ν 6 [p. 109.14s. Bekker]: νεαλής· ἀντὶ τοῦ νεωστὶ εἰς τὸ δεσμωτήριον ἀπηγμένος). Ampiamente impiegato nel lessico militare in riferimento a soldati o a cavalli ‘freschi’, cioè non affaticatisi nella battaglia, e a truppe di riserva (cf. e. g. Xen. Cyr. VIII 6.17; Plb. III 73.5; Plu. Ant. 39.8; App. Bell. Civ. 1.7.58 [citato, con Plb. fr. 62 B.–W., nel summenzionato lemma ν 104 della Suda]), Mithr. 168, Celt. (fr.) 9, il termine ha peraltro ulteriori accezioni traslate: in Pl. Pol. 265b lo Straniero invita Socrate il giovane a intraprendere per prima la più lunga delle due ‘strade’ del ragionamento, più facile da percorrere a mente più ‘fresca’ (τὴν μακροτέραν πρότερον ἴωμεν· νεαλέστεροι γὰρ ὄντες ῥᾷον αὐτὴν πορευσόμεθα); in Luc. Merc.Cond. 26 l’ epiteto è detto di chi riesce ad arrivare ‘più fresco’ e in anticipo a casa del nobile mecenate romano, sottraendo così l’ agognato pasto all’ intellettuale sopraggiunto in ritardo e trafelato (ἀλλ’ ἤν τις ἄλλος ἐπεισέλθῃ νεαλέστερος, εἰς τοὐπίσω σύ); in Alex. 16, di quei ricchi che vanno in pellegrinaggio a casa del falso profeta Alessandro di Abonutico ‘freschi freschi’, ossia ignari e ingenuamente attratti dalla finzione da quello inscenata (τινες τῶν πλουσίων ἀφίκοιντο νεαλέστεροι); in Plu. Quaest. Conv. IV 4.3 [Mor. 669a]) νεαλής è detto di un ‘rinnovato’ appetito. Su etimologie e accezioni del termine vd. Lobeck 1820, 375*; Chantraine DELG, s. v.
Λήμνιαι (fr. 379)
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fr. 379 K.-A. (369 K.) μόχλωσον τὴν θύραν μόχλωσον FS, AΒC: μόχλος L: μόχλευσον dubitanter Edmonds 1957, 678 n. 5
spranga la porta Poll. X 25 (FS, AΒCL) καὶ ἀπὸ μὲν τῶν μοχλῶν τὸ μόχλωσον (μόχλος L) τὴν θύραν ἐν Λημνίαις Ἀριστοφάνους. e, dalle spranghe, nelle Lemnie di Aristofane (si dice): «spranga la porta».
Metro
Sequenza giambica o trocaica
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Bibliografia Edmonds 1957, 678 n. 5; Martin 1987, 103; Delneri 2006, 227; Henderson 2007, 289. Contesto di citazione Il frammento, citato da Polluce all’ interno di una sezione dedicata al lessico delle porte e dei loro σκεύη (X 22–27) a proposito di μοχλός, «sbarra», «palo» o «spranga» della porta, è preceduto dalla menzione di Cratin. fr. 42, a proposito delle παραστάδες, gli «stipiti» (vd. Bianchi 2016, 258–262) e di Ar. fr. 10, a proposito di ὀπή, «foro» (della porta?: vd. Orth 2017, 79–81). Testo μόχλωσον Derivato da μοχλός, questo imperativo aoristo è riconducibile a un μοχλόω non altrimenti attestato. La correzione proposta dubitativamente in nota da Edmonds 1957, 678 n. 5 (ma non recepita a testo né nella traduzione) è ispirata dalla ricorrenza di μοχλεύω in Ar. Lys. 428–432: rivolgendosi ai due servi con cui il Probulo concorda di forzare da ambo i lati la porta dei Propilei dietro cui le donne si sono asserragliate (οὐχ ὑποβαλόντες τοὺς μοχλοὺς ὑπὸ τὰς πύλας / ἐντεῦθεν ἐκμοχλεύσετ᾽; ἐνθενδὶ δ᾽ ἐγὼ / ξυνεκμοχλεύσω), la protagonista compare qui spontaneamente sulla porta, che si è intanto aperta, e argomenta che non è più necessario forzarla con i pali (μηδὲν ἐκμοχλεύετε· / ἐξέρχομαι γὰρ αὐτομάτη. τί δεῖ μοχλῶν; οὐ γὰρ μοχλῶν δεῖ μᾶλλον ἢ νοῦ καὶ φρενῶν). Sulla non casuale ripetizione di μοχλός e dei suoi deriv