Frauen: German Women Recall the Third Reich 9780813556420

From Publishers Weekly A vivid picture of Germany under the Nazis emerges from this collection of unsettling interviews

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English Pages 536 [376] Year 1993

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Frauen: German Women Recall the Third Reich
 9780813556420

Table of contents :
Prefazione
Introduzione
Una nota sulla lingua, la traduzione e la verità
Dieci volte madre, e tanto cibo in più (Frau Wilhelmine Körner)
Questione di destino (Frau Marianne Bauer)
Colpa retrospettiva (Frau Liselotte Gebhardt)
La lezione di storia (Frau Mathilde Mündt)
Un passato «esotico» (Frau Verena Groth)
Una visione cosmopolita del mondo (Frau Maria von Husen)
Solidarietà e sopravvivenza (Frau Charlotte [Lotte] Müller)
Prima, durante e dopo il bombardamento (Frau Ursula Maier)
L'ambiguità dell'inazione (Frau Martha Häusler)
Dall'imperatore a un buco fangoso (Frau Margarete [Greti] Sobiekowski)
Una modesta donna della resistenza (Mrs. Freya von Moltke).
Clero dissidente e azioni dissidenti (Frau Emmi Friedrich)
Un lavoro di una categoria a parte (Frau Anna Fest)
«Ero sola. E avevo contro la città intera» (Frau Doktor Margret Kresch)
La vita come un cabaret (Frau Christine [Tini] Schneider)
Una semplice questione d'amicizia (Frau Erna Wickerath)
Parlando del silenzio (Ms. Rita Kuhn)
Conclusione
Glossario
Ringraziamenti
Indice

Citation preview

Testimonianze fra cronaca e storia FASCISMO, NAZISMO E ANTIFASCISMO

« Frauen »

Alison Owings

«Frauen» Le donne tedesche raccontano il Terzo Reich

Mursia

Titolo originale dell'opera: Frauen: German Women Recali the Third Ketch Traduzione dall'americano di Massimo Birattari e Carlo Capararo

In memoria di Kenneth Brown Owings e Alice Case Roberts Owings

I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi. L'Editore potrà concedere a pagamento l'autorizzazione a riprodurre una porzione non superiore a un decimo del presente volume e comunque non eccedente le 75 pagine. L e richieste di riproduzione vanno inoltrate all'Associazione Italiana per i Diritti di Riproduzione delle Opere dell'Ingegno (A.I.D.R.O.), via delle Erbe, 2 - 20121 Milano - tel. e fax 02-809506.

© Copyright 1993 by Alison Owings © Copyright 1997 Gruppo Ugo Mursia Editore S.p.A. per l'edizione italiana Tutti i diritti riservati - Printed in Italy 4721/AC - Gruppo Ugo Mursia Editore S.p.A. - Via Tadino, 29 - Milano ISBN 88-425-2175-2 Anno 00 99 98 97

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PREFAZIONE

In una fresca sera d'inverno nel sud della Spagna, uscii dal vecchio cascinale che costituiva la mia residenza temporanea per fare quattro passi. Andavo a far visita alla mia vicina e padrona di casa, che mi aveva invitato a passare da lei per un bicchiere di dos años, vino spagnolo invecchiato due anni. Dopo aver lasciato il mio impiego a New York, ero andata fino in Spagna alla ricerca di un posto lontano, prezzi convenienti e quiete (insomma, per scrivere un romanzo), e per una serie di circostanze ero finita in un luogo tranquillo e incantevole che guardava sul Mediterraneo. Era una zona abitata da una comunità di anziani tedeschi. La mia padrona di casa si chiamava señora Marianne Popist, Frau Popist per gli abitanti dei più immediati dintorni. Come la maggior parte dei suoi vicini Frau Popist era una pensionata che godeva di un modesto benessere. Come loro aveva un aspetto convenzionale, salvo per l'acconciatura da Little Orphan Annie. Diversamente da loro, tuttavia, era dotata di una deliziosa esuberanza fanciullesca. Serrava gli occhi e parlava con entusiasmo di prodigi quali la fioritura dei mandorli o il dos años. Inoltre mi tempestava di consigli. Mi suggerì di alzare le braccia sopra la testa, qualora fossi stata nuda in piedi davanti a un uomo: quella postura avrebbe messo in risalto il seno. Mi suggerì anche di non bere il latte delle capre locali: non erano «arrivate in marcia fino a qui direttamente dal ministero della sanità». Non mi aveva mai fatto, né io me l'aspettavo, molte confidenze personali. Ma quella sera le mie previsioni si sarebbero dimostrate infondate e sarebbero stati gettati i semi per questo libro. La visita cominciò con la consueta giovialità davanti al fuoco allegro del camino. Sorseggiammo il dos años e chiacchierammo, presumibilmente dei soliti argomenti: vino, uomini e capre. Poiché Frau Popist parlava uno spagnolo persino più scarso del mio, assai modesto, e un inglese appena migliore, le nostre conversazioni erano in tedesco. Benché non fosse ciò che mi aspettavo per un intermezzo in Spagna, il tedesco mi andava bene: circa un decennio prima avevo trascorso un anno presso un'università in Germania, ed ero lieta di ricuperare la mia fluidità nel parlarlo. A un certo punto della serata Frau Popist accennò a una nuova vicina, una donna americana in vacanza che piaceva sia a me che a lei. Si chiamava Susan Spiegel. La stessa Susan aveva scambiato qualche parola in tedesco con Frau Popist e, avendo saputo che veniva da Amburgo, l'aveva sorpresa e deliziata col misterioso saluto tradizionale usato in quella città.1 Aveva spiegato che anche i suoi genitori erano originari di Amburgo, ma che se n'erano andati negli anni Trenta. Non aveva fatto nemmeno un'allusione al motivo della loro partenza, ma solo uno sciocco non l'avrebbe indovinato. 5

È chiaro che Frau Popist non era affatto così sciocca. Durante la nostra rievocazione affettuosa di quell'incontro, si riferì a Susan come a «eine Israeli». Aveva appena finito di pronunciare la frase che, senza bisogno di pensarci, avevo pronta la replica. Susan non è «un'israeliana», dissi. Be', ma capivo ciò che intendeva, mi disse. Benché non ci fosse dubbio che lo capissi, qualcosa dentro di me mi spingeva a polemizzare. Viene dal Missouri, dissi. Ja, ma... E americana, dissi. Può darsi che sia ebrea, ma questo... Frau Popist prese un respiro profondo e - ricordo esattamente la sua frase - disse: «Ich kann das Wort nicht aussprechen». [Non posso pronunciare quella parola.] «Jüdisch, Jüdin?» 2 ricordo che insistetti. Frau Popist esplose come una valvola. Da quando aveva visto quella povera gente portare la stella e aveva saputo cosa era stato di loro, non poteva pronunciare la parola. Toccò a me inspirare profondamente. Da quando ci eravamo conosciute Frau Popist aveva parlato poco del Terzo Reich. Una volta mi descrisse una corsa che aveva fatto in bicicletta fino a un ospedale quando era incinta di sette mesi, per scoprire se il suo primo figlio, che era molto malato, fosse ancora vivo. Mentre pedalava lungo la via, suonò l'allarme per un bombardamento. Strisciò a pancia a terra dentro un fosso, tirò la bicicletta sopra di sé, aspettò che finissero di cadere le bombe e che suonasse il segnale di via libera, quindi riprese a pedalare. Il suo bambino, Joachim, era vivo. Mi aveva colpito il modo casuale in cui aveva parlato di un episodio così drammatico, ma tutto questo non aveva risvegliato la mia curiosità. Ero immersa nel mio romanzo. D'altra parte, qualche parola scambiata con l'uomo che Frau Popist amava e con cui viveva, e che aveva passato parte della guerra in un U-Boot come meteorologo (per quel che mi ricordo il suo lavoro comprendeva la misurazione delle correnti) mi rese timorosa di sollevare discorsi sul Terzo Reich. In un momento di estrema ingenuità e fiducia gli avevo chiesto se avesse falsificato delle informazioni. La veemenza della sua risposta (Nein, per farla breve) e la sua tesi susseguente secondo cui non era stata la Germania a iniziare la guerra, mi dissuasero dal fare ulteriori domande tanto a lui quanto a lei. La sera dello scambio di battute sulla «Israeli», Frau Popist aprì il suo cuore spontaneamente. Mentre il meteorologo russava, lei riattizzò il fuoco, riempì di nuovo i piccoli boccali di ceramica che usava come bicchieri da vino e mi parlò della sua tardiva illuminazione sul Terzo Reich. Quando era giovane, lei e i suoi amici si dedicavano all'attività sportiva, mi disse, e si tenevano il più lontano possibile dalla «Politik» e da «Herr Hitler». Riuscì a mantenere le distanze fino a una notte nevosa del gennaio del 1942. Sposata, incinta di otto mesi, sola in casa, le capitò di guardare fuori da una finestra che dava sulla strada. Sotto di lei vide degli «israelia-

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ni» costretti a spalare la neve. Una donna era riuscita a spingere da un lato un mucchietto di torsoli di mela per sé. Frau Popist mise le mani a coppa per mostrarmi quanto fosse piccolo. Con la voce che cominciava a tremare, mi descrisse come un nazista in camicia bruna che passava in bicicletta notò i torsoli, li disperse rabbiosamente con un calcio e urlò alla donna delle oscenità. Solo in quel momento, disse Frau Popist, aprì davvero gli occhi e riconobbe la crudeltà del regime. La mia illuminazione arrivò anni dopo. Mi resi conto che la sera a casa di Frau Popist non era stata affatto un normale incontrò fra donne in cui si chiacchiera bevendo il caffè, un Kaffeeklatsch (o, nel nostro caso, un Weinklatsch). Non solo Frau Popist mi aveva parlato di una catastrofe dell'umanità che per metodo e dimensioni non aveva eguali nella memoria del mondo occidentale, ma me ne aveva parlato come testimone, come protagonista, come cittadina del Terzo Reich. Lei aveva fatto parte della realtà per cui i genitori di Susan se n'erano andati da Amburgo, per cui le bombe erano cadute sulla sua strada verso l'ospedale. I miei pensieri presero a correre veloci avanti e indietro. Pensai alla mia nasuta e irascibile padrona di casa di Friburgo, la città della Foresta Nera di cui avevo frequentato con grande entusiasmo l'università. Dopo aver menzionato l'ultima delle mie infrazioni, soleva dirmi che durante il Terzo Reich si poteva passeggiare ovunque la notte. Si poteva lasciare la porta aperta, Fräulein Owings, tanto le cose erano sicure. Senza la sicurezza verbale né il coraggio per affrontare questi argomenti, mi allontanavo imbarazzata. Neppure allora il mio interesse era stato risvegliato. Ero immersa nei miei studi, Sturm und Drang sui libri. Riemersero altri ricordi di Friburgo. Sul tram che prendevo per andare e tornare dalle lezioni, il bigliettaio aveva un uncino al posto di una mano. Nel centro della città, uomini senza gambe si destreggiavano lungo i marciapiedi su rozzi carrelli fatti a mano. Allora pagavo in fretta il biglietto al primo e con grazia mi toglievo dalla strada dei secondi. Adesso maledicevo la mia cieca pedanteria libresca e il mio imbarazzo, mentre le domande erompevano. Che cos'altro avrebbe avuto da dire la mia padrona di casa sul Terzo Reich? Che cosa le mogli di quegli uomini o le vedove dei loro vecchi commilitoni? Gli uomini, compresi i mutilati che camminavano o si spingevano a forza di braccia, non mi interessavano. «Eseguivo soltanto degli ordini» era una giustificazione che avevo sentito dire così spesso che respingevo in blocco gli uomini tedeschi, considerandoli come estranei brutali e disperati. Ma le donne non erano delle estranee. E certo non erano delle distruttrici o delle guerrafondaie, no? Forse che le donne non erano creatrici di vita e costruttrici di pace? In ogni caso questi erano i messaggi che turbinavano intorno a me nell'aria. Pareva che al loro nocciolo ci fosse l'ipotesi che la maggioranza delle donne fosse semplicemente migliore della maggioranza degli uomini. Non ero sicura che ciò fosse vero o, se era vero, del perché lo fosse. Ma se lo era, non avrebbe riguardato anche le donne tede7

sche? Fu la prima delle tante domande complicate che si imposero nel corso di questo lavoro. Un'altra domanda era più urgente. Qualcuno aveva ascoltato le voci delle donne tedesche della generazione di Frau Popist? D'accordo, il fatto di trascurare le donne fra i potenziali testimoni della storia non era senza precedenti. Ma l'importanza delle voci delle donne tedesche «ariane» era palese, anche per chi avesse soltanto le nozioni più superficiali sull'Olocausto. Che le donne fossero o no m i g l i o r i , che le loro testimonianze fornissero lezioni di valore e di introspezione in abbondanza, appariva ininfluente. Esse erano state là. C'era un modo rapido per scoprire se le loro voci erano state anche trascritte. Nel 1984, vivendo a San Francisco, mi feci coraggio e telefonai alla persona che sapevo il massimo esperto di storia della Germania nel nostro paese, il dottor Gordon A. Craig della Stanford University. Gli spiegai ciò che mi interessava e la mia idea appena abbozzata di tentare di riempire un vuoto, se c'era un vuoto da riempire. Mi invitò con modi cordiali a recarmi nel suo ufficio, a un'ora di macchina. Noleggiai un'automobile più robusta della mia, arrivai sudata per il nervosismo e gli errori di percorso, e venni salutata da un ometto vivace che si mise quasi immediatamente ad annotare titoli di libri e nomi di persone da contattare, mentre mi suggeriva dei possibili approcci per le domande più delicate. Chiedendomi se fossi tanto confusa da essermi lasciata sfuggire qualcosa, alla fine mormorai: «Cioè, lei pensa che sia una buona idea?». «Un'eccellente idea!» esclamò. E mi confermò che, in generale, le testimonianze di donne tedesche «medie» che erano state pubblicate, in inglese o in tedesco, erano poche. (Al momento in cui scrivo, quasi dieci anni più tardi, la situazione è pressoché la stessa.) Erano notizie stimolanti, inaspettatamente deludenti (non c'è nessuno che ascolta le donne « m e d i e » ? ) e che mi intimidivano. Come giornalista/scrittrice indipendente dotata della solita riserva limitata di tempo, denaro e risorse, avevo anche altre limitazioni. A differenza di molte persone che studiavano quel periodo, non ero né tedesca né ebrea. E fino a quando non ero andata all'università non avevo conosciuto, o per lo meno conosciuto consapevolmente, nemmeno un ebreo (tranne quello che doveva essere l'unico studente ebreo del mio liceo), né avevo conosciuto alcun tedesco. Né sapevo molto sulle catastrofi del Terzo Reich e dell'Olocausto, o sulla seconda guerra mondiale. Ma quando mi allettò (o si profilò) l'idea di scrivere questo libro, il mio mondo si era ampliato: mi era capitato di stringere amicizia con ebrei negli Stati Uniti e, per lo più nel periodo passato a Friburgo, con tedeschi in Germania. Dovrei far notare che i miei genitori si opposero con forza alla mia trasferta di studio in Germania. Le frivole circostanze che mi condussero dal tedesco del liceo al tedesco di Friburgo sono un'altra faccenda, ma il punto è, nell'opinione dei miei genitori, che la lingua era una cosa, la storia un'altra. Benché mio padre non avesse combattuto nella seconda guerra mondiale, aveva contribuito allo sforzo bellico lavorando alla Wright 8

Aircraft. Mia madre era piuttosto immemore della guerra, per quanto ne possa dire io. Ma come altri americani di quella generazione, i miei genitori sapevano da quale parte stavano e perché, contro chi combattevano e perché, e fecero in modo che lo sapessero anche i loro figli. A volte, quando parlo di questo progetto, i miei conoscenti ebrei (gli amici ne sanno di più) appaiono disorientati se osservo che i miei genitori sono stati «una sorta di antitedeschi» a causa della guerra. Perché? mi chiedono. Tu non sei ebrea, no? Per qualche motivo io divento quasi livida. Perché? Per ciò che i tedeschi hanno fatto agli ebrei, rispondo. E agli zingari, e agli handicappati, e agli omosessuali, e ai dissidenti, fra gli altri, aggiungo. E perché i soldati tedeschi uccisero, ferirono e terrorizzarono un gran numero di soldati americani che stavano combattendo contro Hitler. La Germania era la nostra nemica, sapete. Oh, è giusto, è la loro stupita replica. A quel punto, voglio aggiungere, non c'è bisogno di essere ebrei per avere in odio l'Olocausto o i nazisti. E, se si è ebrei, si potrebbe lasciare che dentro il proprio dolore e l'indignazione e la memoria ci sia posto anche per i ragazzi protestanti e cattolici di questo paese, giovanotti di campagna e ragazzini di città, che forse avevano altri progetti che non quello di morire combattendo contro Adolf Hitler, ma che comunque morirono, o rimasero mutilati, o impazzirono combattendo contro Adolf Hitler; allora ci si rende conto che c'è qualcosa come un nemico comune. Ero ridotta a un fascio di nervi scoperti. Credo che a causare quello stato fossero le letture di storie di singoli individui a cui mi dedicavo e che facevano parte della preparazione per un «viaggio di prova» in Germania che stavo cercando di organizzare, che dovevo organizzare. In quel periodo mi sentivo obbligata a fornire ogni possibile contributo alla decifrazione della malvagità. E mi sentivo sommersa da ciò che sapevo e da ciò che non sapevo. La massa di materiale scritto sul Terzo Reich e sull'Olocausto sembrava eccessiva perfino per un giovane campione di lettura rapida che vi dedicasse tutta la vita. Uno storico mi suggerì di non leggere nulla, ma di andare in Germania con occhi innocenti per ottenere delle impressioni più genuine. Per fortuna non accettai il suo consiglio; avrei scoperto in seguito che i miei occhi erano fin troppo innocenti. Grazie alla lista di letture proposta dal professor Craig, alle sue stesse opere e ai suggerimenti di molte altre persone, fui in grado di attenuare la mia ignoranza e di concentrare l'attenzione sul mio campo d'interesse. Seppi che alcuni ricercatori statunitensi ed europei, soprattutto donne, avevano scritto molto sul tema delle donne nel Terzo Reich. I loro studi, pubblicati sia prima che il mio interesse prendesse forma sia nel corso del mio lavoro, ebbero per me un valore inestimabile, così come l'incoraggiamento personale che essi diedero a una nuova venuta estranea all'ambiente accademico. Lessi dunque con interesse e gratitudine i lavori di Renate Bridenthal, Elke Fròhlich, Karin Hausen, Claudia Koonz, Jill Stephenson, e di Gerda Szepansky, che come me non era un'accademica. (Era rassicurante, inoltre, avere compagnia in un interesse talvolta difficile da spiegare.) Lessi anche alcuni reso9

conti sulla vita civile nel Terzo Reich. E, ovviamente, feci delle letture sull'Olocausto. Talvolta singoli fatti mi coglievano impreparata, mettendo in luce le lacune del mio sapere. Appresi che quando i nazisti andarono al potere, il 30 gennaio del 1933, gli ebrei costituivano meno dell'uno per cento della popolazione tedesca.' Appresi che la maggior parte dei soldati tedeschi non erano membri del Partito nazista. E poco alla volta ricavai un'impressione generale: gli effetti del Terzo Reich raggiunsero un'ampiezza, dal fatto di spezzare un'amicizia a quello di far tremare il mondo, e un'estensione, e una profondità che sono rimaste immutate. Le conseguenze psicologiche, economiche e politiche del periodo soprawiveranno senza dubbio al nostro secolo. Certamente sono sopravvissute a generazioni. Le mie letture evidenziarono anche che il Terzo Reich rimane senza eguale per ciò che fece quando restò confinato entro la Germania. Quale altro governo attuò una politica con cui si infliggevano forme tanto diverse di sofferenze crescenti, dall'insulto meschino alla barbarie sfrenata, al proprio prossimo inerme, per il solo fatto che fosse nato quello che era? Inoltre, era chiaro che il Terzo Reich aveva garantito la propria eredità. Per me non c'era alcun dubbio che i tedeschi che sostengono di «averne sentite abbastanza» non devono dar la colpa delle incessanti urla d'indignazione e dei continui tentativi di indagine a nessun altro che a se stessi, o ai loro compatrioti più anziani. Quell'eredità, notai, mostrava pochi segni di diminuzione, molti meno di esaurimento. Che cos'altro era il gran clamore intorno all'unificazione delle due Germanie se non una parte dell'eredità del Terzo Reich? Da quale eredità provenivano i simboli usati per profanare cimiteri e monumenti commemorativi ebraici nella Germania del 1992? Quale eredità evocavano le duemila aggressioni di quell'anno contro gli «stranieri» compiute dai «neonazisti»? (Paradossalmente, anche il Terzo Reich diede origine a un enorme afflusso di «stranieri» in cerca di asilo in Germania: la legge sulla libertà d'asilo fu scritta in risposta alla separazione dei territori tedeschi, che d'altra parte non sarebbero stati separati se non ci fosse stato un Terzo Reich.) E gli spaventosi resoconti dalla Bosnia non sono in parte collegati al Terzo Reich, in riferimento a vecchie fedeltà naziste e all'eco delle inumanità? Questo è ciò che fanno le eredità. Continuano a vivere, poiché non si può ancora rinunciare al loro fascino né comprendere il loro orrore. Nell'enorme eredità bibliografica del Terzo Reich, tuttavia, rimaneva un grosso buco: la voce di metà della popolazione tedesca. Pensai molto alle donne tedesche. E più ci pensavo, più mi sembravano simili alle americane. Il concetto di nemico comune tendeva a trasformarsi in quello di comunanza col nemico. Le donne tedesche che avevo conosciuto a Friburgo avrebbero potuto essere donne con cui ero cresciuta. Le figlie tedesche avrebbero potuto essere mie amiche. Alcune di loro erano mie amiche. Io stessa avrei potuto essere presa per tedesca. Certe volte lo fui.

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Ripensando alle giovani donne tedesche con cui avevo fatto amicizia, mi ricordai quanto erano diverse dagli stereotipi (alcune erano poco puntuali, altre disordinate), e che quasi nessuna aveva un padre che sopravvisse alla guerra. Le loro madri erano sopravvissute, questo lo ricordavo. Molte madri. Il puro dato statistico divenne sempre più sorprendente. Molte donne tedesche che erano state giovani per tutto il Terzo Reich erano ancora vive, e forse in migliori condizioni di salute rispetto alle loro controparti americane. Ricordai la mia prima escursione nella Foresta Nera. Una vecchia donna tedesca era già in cammino. Ma anche le nonne più robuste non vivono necessariamente un altro decennio. Misi da parte i libri, e il mio volume di appunti sui libri. Avevo letto quanto potevo e meno di quello che avrei voluto (una condizione del tutto normale nel giornalismo) e iniziai una gara contro il tempo. Usando ogni fonte e ogni potenziale intervistata che riuscii a mettere insieme (la madre di un impiegato di banca, la suocera della governante di una compagna di università, i contatti attraverso gli storici che mi condussero dalla moglie di un professore a una funzionaria nazista), scrissi a macchina, in un'era pre-computer, una lettera dopo l'altra, scusandomi per la mia grammatica, andai in posta, e aspettai. Nel frattempo, dopo essermi resa conto che l'area della baia di San Francisco in cui vivevo era un territorio fertile di interviste tedesche (un vicino mi prestò una copia dell'edizione tedesca dell'autobiografia di Albert Speer... con dedica autografa), feci interviste di prova vicino a casa. Per una ragione o per l'altra, sembravano rigide e poco produttive. Decisi di risparmiare le energie per la Madrepatria. Ma le «vere» donne tedesche avrebbero accettato di parlare, e per di più con una straniera? A dire il vero, credevo proprio di sì. Intanto, di solito era un intermediario che avvicinava le potenziali intervistate a nome mio. E c'era il fattore della vanità. Quante volte poteva capitare che una straniera venisse apposta a fare domande sulla loro vita? Infine, pensai, a molte persone anziane semplicemente piace la compagnia. Non avevo idea, invece, di cosa quelle donne avrebbero potuto raccontare dei loro dodici anni nel «Reich millenario». Nient'altro che aneddoti, preghiere e ricette dalla famosa triade di «Kinder, Kirche, Kuche» [bambini, chiesa, cucina]? O molto di più? Cosa avrebbero detto di sapere? Non avevano saputo? Sarebbero sembrate sincere? Ma, la cosa più importante, alla fine avrebbero parlato? Ja, risposero. Avrebbero di sicuro parlato. Di cinquanta donne contattate in tutto (nel corso degli anni), donne di tutte le possibili condizioni economiche, geografiche, sociali e politiche che riuscissi a immaginare, quasi tutte, alcune con riluttanza, la maggior parte con alacrità, dissero di sì. Un messaggio scritto in una calligrafia sottilissima iniziava: «Ich bin 1895 geboren...» [sono nata nel 1895]. Da cameriste meno anziane giunsero lettere di accettazione scritte a macchina. Le donne che dicevano di sì non erano solo eroine, oscure o celebrate, della

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resistenza. Dissero di sì delle iscritte al Partito nazista. Dissero di sì comuniste e anticomuniste. Hausfrauen [casalinghe] di tutte le tendenze politiche dissero di sì. Antisemite dissero di sì. Donne che si innamorarono di «mezzi ebrei» dissero di sì. Dissero di sì contesse. Dissero di sì contadine. Una ex addetta alla contraerea disse di sì. La vedova di guerra di un falegname richiamato disse di sì. La vedova di guerra di una SS disse di sì. Una donna che parlò con Hitler disse di sì. Donne che sostenevano di aver saputo ben poco dissero di sì. Donne che sostenevano di aver saputo molte cose dissero di sì. E disse di sì una ex guardia di un campo di concentramento. Mentre facevo le valigie per quello che sarebbe stato il primo di quattro viaggi, ci infilai anche l'ingenua e segreta speranza, per quanto intaccata fosse dalle mie letture, che le donne tedesche avrebbero fornito un senso collettivo di riflessione e di rimorso, e forse mi . avrebbero persuaso che dopo tutto non avevano sostenuto Adolf Hitler. Atterrai ad Amburgo e mi misi all'opera. Dopo pochi minuti dall'inizio della prima intervista la mia speranza era già storia. Alla fine della seconda le mie aspettative di un'omogeneità erano finite, e con loro la mia premessa. E alla conclusione della terza intervista capii che dovevo ripensare la mia agenda, e alla svelta. Avevo cominciato ad ascoltare le donne tedesche come singoli esseri umani, cioè a considerare «i tedeschi» all'opposto di come «i tedeschi» avevano considerato «gli ebrei». Non avevo altra scelta. Le donne non si allineavano sulla stessa fila. Né, notai, avevano intenzione di prendere la strada maestra che offrivo loro con tanta ingenuità, specialmente nella forma di domande particolarmente speranzose (per fare loro il viso migliore). Propose a suo marito di disertare dal suo reggimento? Pensò di abbandonare la Germania? Le donne mi guardavano come se fossi matta e reagivano di conseguenza. (In verità, tra il 1933 e il 1941 circa 35.000 tedeschi non ebrei lasciarono effettivamente la Germania.)4 Le donne non esaudivano nemmeno altri desideri: dicevano di aver saputo dei campi di concentramento. Invece avevo sottovalutato la disponibilità delle donne a raccontare. Alcune parlavano in maniera esitante, ma la maggioranza erompeva come geyser. Sembrava che aspettassero da decenni qualcuno che facesse loro delle domande. Oltre alle donne che ero venuta appositamente a intervistare, trovai ovunque altre donne ben disposte. Talvolta furono loro a trovarmi. Un giorno, avendo un'ora libera tra due interviste, feci una passeggiata nel popolare Grunewald [la Foresta Verde] e mi sedetti su una panchina. Come c'era da aspettarsi, due donne anziane si sedettero accanto a me. Tirai fuori una tavoletta di cioccolato (pare che in Germania ne trovi sempre in tasca) e ne offrii un quadretto a entrambe e, poco dopo, un altro. Come al solito, il mio accento stimolò domande come «Di dov'è?» e «Cosa fa in Germania?». A quel punto, il ghiaccio era rotto. Una donna disse che il suo defunto marito lavorava all'Opera e aveva molti amici ebrei e... Presi il suo 12

nome e l'indirizzo, ma poi non andai a trovarla. Non sarebbe mai finita. In alcuni casi la facilità della ricerca e il suo successo quantitativo erano entusiasmanti. In altri, niente lo era. Mentre correvo a cambiare programmi o soldi, o a comprare altre cassette o altre pile o altri libri essenziali per le letture di base, o mentre riscrivevo altre domande, o telefonavo, o cercavo di trovare una stanza o un ristorante economico con il dollaro che sprofondava viaggio dopo viaggio, o mentre mi tiravo goffamente la valigia per strade acciottolate perché non avevo i soldi per il taxi, o cercavo di trovare l'autobus, il treno, la metropolitana, la strada, il palazzo e infine, con un certo scompiglio, la porta, provai perfino rabbia. Un lavoro del genere non poteva farlo uno che stava più vicino che non in California (e più lontano dal rosso di un conto corrente)? Che ingrata. Avevo ricevuto due borse di studio per viaggiare in Germania Ovest, un'escursione gratuita in Germania Est, e stavo facendo quello che desideravo fare (anche se non esattamente come volevo farlo). La rabbia poteva semplicemente essere il riflesso dell'accumulo di emozioni generato da ciò che le donne dicevano. Non ci si può aspettare di immergersi nel Terzo Reich e venirne fuori col sorriso sulle labbra. (In realtà, lo humour nero era grandioso.) Quanto alla questione del perché le donne avevano deciso di parlare, la ragione pareva essere, almeno per molte di esse, una miscela di elementi disparati, che comprendevano di volta in volta il capriccio, la rabbia, la vergogna, l'orgoglio, l'autogiustificazione, l'idea di essere d'aiuto a una straniera o obbligate nei confronti di un'intermediaria, il bisogno di portare testimonianza, i ricordi repressi, la solitudine e, sì, la colpa. Le ragioni per cui parlavano proprio con me erano più evidenti. Io cercavo di essere amabile. Perché no? Ero riconoscente per il fatto che mi ricevevano, e quasi sempre con un'ospitalità così squisita che le descrizioni potevano durare pagine e pagine. Avevo scrupoli ad accettare? Qualche volta, all'inizio, come durante l'intervista con la ex guardia. Ma di solito no. Perché rischiare di offendere qualcuno che volevo si aprisse con me? (E a mie spese?) Per di più, all'inizio dell'intervista di solito avevo pochi indizi sul genere di persona che era seduta davanti a me. (E io chi ero? La dea della rettitudine?) Né l'aspetto fisico né l'arredamento della casa rivelavano le concezioni personali di una donna. Scoprii, però, che le rare case tedesche disordinate di solito indicavano un'oppositrice di Hitler. Poiché le donne sapevano di me e delle mie motivazioni tanto quanto io di loro (cioè poco), dicevo loro, fedelmente, che la mia formazione era giornalistica, che credevo fossero state trascurate come testimoni e che forse avevano qualcosa da dire. Talvolta la loro reazione dimostrava quanto fossero d'accordo con la mia tesi. «Mio marito,» disse una donna, ancora piccata, «non mi chiedeva mai niente.» Per quale altro motivo parlavano con me? Il fatto che fossi una donna come loro probabilmente era d'aiuto. Alcune cose non avevano bisogno di spiegazioni. Inoltre, la maggior parte delle donne si sentiva più sicura con un'altra donna, soprattutto quando un'intervista partiva di giorno e prose13

guiva fino alla sera e alla notte. Ed era di notte che alcune di loro diventavano davvero interessanti. Il vantaggio della comunanza di sesso, tuttavia, era nulla in confronto alla comunanza di lingua. Il mio tedesco ha un forte accento americano, è gergale, e trapuntato di errori madornali, ma è fluente. L'avevo considerato un semplice strumento a disposizione (gratis), un mezzo per trovarmi da sola con l'intervistata senza bisogno di un interprete. Ero preparata a un sorriso o due davanti ai miei errori e magari a qualche correzione timidamente proposta, dato che di solito i tedeschi sono molto incoraggianti verso chiunque cerchi di imparare la loro lingua. Non ero preparata al timore reverenziale. Come era successo a Friburgo, la gente era sbalordita che un'americana parlasse altro che l'inglese, e addirittura il tedesco. Le donne meno sofisticate mi trattavano come una celebrità locale, mostrandomi a parenti e vicini e, come se fossi un cane parlante, chiedendomi di esibirmi. Per accontentarle, uggiolavo qualche parola. Alcune donne erano effettivamente lusingate per essere l'oggetto dell'attenzione di una straniera. « E lei è qui a intervistare me,» disse una donna. «Du?» Come avevo indovinato, l'argomento non aveva importanza. La cosa che sembrava avere importanza era invece il fatto che nonostante fossi capace di parlare tedesco, non ero tedesca. Quella distanza in quell'intimità aiutava me a fare le domande e loro a rispondere. Recentemente una giovane tedesca disse una cosa su cui una donna anziana, una sopravvissuta, manifestò con fervore il suo accordo: una tedesca non avrebbe mai fatto le domande intenzionalmente ingenue (e forse non così intenzionalmente) che avevo posto io. E le donne non le avrebbero accettate. Anzi, forse non avrebbero nemmeno parlato con una tedesca, e soprattutto con una tedesca della stessa età dei loro figli. I loro figli erano noti per aver già fatto troppe domande. Ero una «estema» anche da un altro punto di vista. Oltre a non essere una di loro, non ero una di «loro». Solo una donna mi chiese se ero ebrea. Le altre presumibilmente pensarono che non lo fossi. Il risultato è, ne sono convinta, che molte donne mi dissero cose che non avrebbero mai detto a un'intervistatrice ebrea. Talvolta ebbi la sensazione che se avessi finto di essere d'accordo con i loro commenti antisemiti, o ne avessi fatti io stessa, o avessi espresso il rimpianto di non aver mai partecipato a un'adunata nazista, alcune donne si sarebbero svelate ancora di più. Ma non potevo mentire nel momento in cui chiedevo loro di non farlo. E si erano svelate abbastanza anche senza incoraggiamento. Nella mia condizione di «esterna» ammessa all'interno, affrontai la mia questione di quale fosse l'atteggiamento più appropriato da parte mia. Di solito cercavo di presentarmi come un foglio bianco, quello su cui scrive un giornalista giudiziario o un ricercatore di storia orale. Ogni tanto mi sembrava di indossare la maschera dell'archeologa, che annota e valuta con cura i reperti rimasti nel setaccio della memoria di una donna, pronta a gettarsi su un coccio inaspettatamente prezioso. Niente era d'aiuto quan14

do gli stereotipi si sgretolavano, e si rivelavano le complessità, le contraddizioni, le confessioni. Una donna parlò per ore e ore finché, verso mezzanotte, disse di essere stata iscritta al Partito nazista. Hmmm, dissi io. In altre circostanze, bruciavo dalla voglia di fare una certa domanda o un certo commento. Dentro di me, la giornalista mi metteva in guardia: non ci provare. Il resto protestava: sono sfinita, inorridita, questo è il mio progetto e dico quello che voglio. (Oppure: non ho intenzione di eseguire degli ordini.) Quando vinceva questa seconda parte di me, si accesero scambi di battute sempre rivelatori. Questi fuochi d'artificio furono pochi. Di solito ci comportavamo da signore, la moglie dello sconfitto, la figlia del vincitore, sedute a prendere un caffè e a parlare di ciò che era successo, o di come impedire che cose del genere accadessero ancora. Ci furono volte in cui gettai la maschera, grazie al cielo. Davanti a una donna che aveva nascosto per due anni un'amica ebrea non avevo bisogno di recitare. Altre volte, la maschera cadde da sola. Una donna per la quale ero preparata a non nutrire simpatia mi fece scoppiare in lacrime di pietà. Il registratore ha conservato il trambusto: tutte e due che tiriamo su col naso, io che cerco un fazzoletto di carta, il suo «Danke», il nostro duplice strombazzamento. In altre circostanze mi ritirai in una specie di mutismo. Un'ora dopo essere stata da un'attiva nazista, giunsi a casa di una antinazista, che eruppe in descrizioni di orrori e in salve di risentimento lungamente represse, esprimendosi quasi sempre con il ronzio di un dialetto furioso eppure sussurrato, mentre camminava avanti e indietro. Rinunciai a starle dietro col microfono. Rinunciai a farle altre domande. Stavo vacillando. Il mio pendolo correva all'impazzata. A notte fonda, passata la furia, quella donna mi mise delicatamente a letto sul divano del soggiorno accanto alla coppa di ottone battuto che aveva ricavato con le sue mani, disse allontanandosi in punta di piedi dalla stanza, da una granata americana inesplosa. Luccicava al chiaro di luna. La mia maschera era a brandelli. Sconcertanti in modo diverso erano le dolci nonnine. Chiacchieravamo in modo così confortevole, così gemutlich, in una lingua che parlavo sempre meglio, imparando frasi che ormai conoscono solo i vecchi tedeschi, come quella usata per scusarsi di dover andare in bagno. «Devo andare dove perfino il Kaiser deve andare a piedi,» annunciavo allegramente. Dovevo costringermi a ricordare che queste care nonnine che mi offrivano la terza fetta di Kuchen non erano sempre state necessariamente così care. La mia antica padrona di casa di Friburgo era un caso del genere. Feci un salto da lei, lei mi trattò come una figlia prodiga, sembrava confusa, e non offrì nulla dei suoi sentimenti di un tempo, a registratore acceso o spento. La maggior parte delle interviste furono con donne di quella che era la Germania Ovest. Che parlassero di loro spontanea volontà era evidente. Intervistai anche sette donne di quella che allora era la Germania Est, la ex Repubblica democratica tedesca. Furono le autorità a scegliere le persone e a organizzare tutto, e non mi permisero di andare in cerca di altre donne per conto mio. I miei tentativi da novellina di farlo alle spalle dei miei ospiti mi trasformarono in un rottame paranoico e rinunciai, non senza avere 15

avuto la prima intuizione diretta di come poteva essere stata la vita nel Terzo Reich. In Germania Est mi venne affidata una scorta che mi accompagnava in ogni città e da ogni intervistata. Insistetti, però, perché potessi parlare da sola con ogni donna. La scorta, un membro attivo del Partito comunista, assistette a gran parte dell'intervista con Frau Mùller, un'eroina del comunismo, cosa che mi stava bene. In tutti i casi, le esperienze delle donne durante l'era nazista superarono gran parte dei miei dubbi sull'opportunità di includerle, e non mi fecero sentire la necessità di cercare altre donne dopo il crollo del regime della Germania Est. Dopo aver intervistato donne di tutte le categorie di esperienza, formazione, ambiente e concezioni che potevo esaurire, e aver riconosciuto che non avevo le risorse per individuare donne di alcune altre categorie (ad esempio una donna che ammettesse di aver «denunciato» qualcuno), mi fermai. Nessuna donna, potrei notare, intende riflettere una certa percentuale di altre donne. E tutte le donne, nel loro insieme, non intendono raffigurare un quadro statisticamente preciso della Germania nazista. (Basti pensare che le donne che erano già vecchie durante il nazismo sono morte da tempo.) Di ritorno negli Stati Uniti, tra un viaggio e l'altro e dopo l'ultimo, feci il resto del lavoro per il libro. Avevo raccolto circa cento ore di nastri, provenienti da circa trentacinque interviste, senza contare le riprese successive, con circa cinquanta donne. (Come esperimento, talvolta intervistavo donne in piccoli gruppi. I risultati erano molto vivaci, ma si trasformavano spesso in un audio-incubo.) Una delle decisioni principali era pensare come procedere con i nastri. Se avessi potuto non badare a spese, li avrei fatti tutti trascrivere e tradurre, e avrei aspettato di avere cartelle perfettamente dattiloscritte di testi tedeschi e inglesi, insieme ai corrispondenti dischetti di computer. Si sviluppò un metodo più lento. Prima ascoltavo tutto, prendevo appunti, e decidevo chi doveva essere inclusa e chi no, e delle donne che venivano incluse quali parti dell'intervista andavano inserite e quali, irrilevanti ai fini di un quadro del Terzo Reich, no. Poi venne il gravoso compito di trascriverli. Alcune trascrizioni furono fatte da amici in Germania che si erano offerti di prendersi un nastro o due. Alcune le feci io, se la donna parlava un chiaro alto tedesco. Della maggioranza si occupò un meraviglioso gruppo in California, composto per lo più da donne tedesche e austriache, che era abbastanza interessato all'oggetto della ricerca da lavorare per il modesto compenso che potevo permettermi. Poiché non volevo perdermi nemmeno una delle parole che ero andata ad ascoltare con tanta fatica, fu quel gruppo a occuparsi di solito delle donne più difficili, quelle che parlavano in dialetto (cercai di accoppiare intervistata e trascrittrice a seconda della regione di provenienza) o che sussurravano, o masticavano qualcosa mentre parlavano, o dicevano cose che semplicemente non capivo. Con tutte le trascrizioni davanti a me, riascoltai i nastri scorrendo la copia, talvolta correggendo errori, talvolta sottolineando le parole enfatizzate, e talvolta fissando meravigliata parole che non sapevo fossero state 16

pronunciate. Poi, con la cura generata dalla necessità, tradussi tutto ciò che ritenevo pertinente. Se notavo buchi nelle informazioni, inviai richieste di chiarimento alle intervistate, o tornai a parlare con loro. Poi mi disposi a scrivere il capitolo di ciascuna donna. Avevo pensato a un libro impostato per argomenti, capitoli su «Le donne e l'antisemitismo» e così via, ma decisi di non farlo, anche perché uno dei punti centrali di questo libro è presentare le donne come singoli individui. Non volevo che si perdessero nel loro contesto. Dopo aver scritto i capitoli, o profili, li lasciai cuocere a fuoco lento, e poi li riscrissi. Negli interstizi di quella che era diventata un'impresa quasi decennale, mi computerizzai, feci domanda per altre borse di studio, mi tenni in contatto con le donne, lessi ancora, riscrissi ancora, e mi guadagnai da vivere scrivendo cose più rapide. E tra un viaggio e l'altro, mi sforzai in particolar modo di lottare contro la seduzione delle nonne. Lessi altri racconti in prima persona dell'Olocausto e vidi il maggior numero possibile di film legati all'Olocausto. Poi, con la testa piena di scene lette o viste di nazisti che inchiodavano con la baionetta un bambino a un muro, di padri di famiglia ebrei che perdevano il lavoro, di atroci esperimenti medici, del destino di studenti o di sacerdoti dissidenti, tornavo in Germania. Una volta decisi di avvicinarmi ai sopravvissuti come avevo fatto con le donne tedesche. (Che anche loro potessero essere considerate delle sopravvissute è un'altra questione.) Intervistai una coppia di sopravvissuti dei campi di concentramento, entrambi ebrei. Hans Hermann Hirschfeld e Inge Korach Hirschfeld erano cresciuti a Berlino e in seguito emigrarono a San Francisco. Il loro figlio mi disse che c'era un argomento tabù. Era Auschwitz. Sua madre temeva che gli incubi del marito potessero tornare. Gli Hirschfeld si sposarono nel 1941, a Berlino, mi dissero. Per l'obbligatoria cerimonia civile Herr Hirschfeld prese il tram alle sette del mattino per andare a prendere la madre e la suocera dall'altra parte della città, così potevano arrivare all'ufficio dei matrimoni entro le otto. Perché così presto? Per gli ebrei, l'ufficio dei matrimoni era aperto solo dalle otto alle nove del mattino. La coppia ricordava che il funzionario (di sicuro membro del Partito nazista) cercò di rendere le cose piacevoli. Spostò alcuni fiori dalla grande sala riservata ai matrimoni «ariani» alla stanzetta per gli ebrei. Più tardi ci fu il matrimonio religioso in una sinagoga, celebrato dal famoso e coraggioso rabbino Leo Baeck («più che un ebreo», secondo le parole dello sposo). Durante la cerimonia sentirono un continuo rumore di martellate. Appresero che mentre loro si stavano sposando, da un'altra parte del tempio gli operai stavano schiodando le panche. L'edificio stava per diventare un punto di raccolta per la deportazione nei campi di concentramento. Le donne «ariane» mi avevano raccontato molte storie di matrimoni. Nessuna comprendeva l'ascolto dei rumori della propria futura prigionia mentre pronunciavano i voti matrimoniali. Perfino i bombardamenti, di solito gli eventi più terrorizzanti che 17

avevano dovuto affrontare le donne «ariane», erano diversi per gli ebrei tedeschi che dovevano anch'essi vedersela con le bombe. L a signora Hirschfeld disse che era terribile sentire i bombardieri e desiderare che essi danneggiassero la sua patria. Si era sentita così tedesca. In un certo senso, portai con me gli Hirschfeld in Germania, in una Germania in gran parte paurosamente priva di ebrei. Portai con me anche amici che non sarebbero esistiti se fossero nati nei confini del Terzo Reich. E negli ultimi viaggi, mi caricai anche di pensieri particolarmente gravosi e di domande irritanti. C o m e si sarebbero comportate quelle donne «ariane» nella mia città natale? C o m e si sarebbero comportati i miei vicini di casa, la mia famiglia, come mi sarei comportata io in Germania durante il Terzo Reich? Non ero mai stata messa di fronte alle prove che dovettero affrontare le donne tedesche. Sedersi sulla strada di fronte alla Casa Bianca e gridare al presidente Johnson di interrompere i bombardamenti sul Vietnam, come avevo fatto io, richiedeva meno coraggio di quanto sarebbe servito a una donna tedesca per sussurrare a un estraneo che dubitava che la Germania avrebbe vinto la guerra. Pensai all'antisemitismo passato e presente nelle nazioni dei vincitori. Pensai che la parola antisemitismo si riferisce propriamente all'odio nei confronti non solo degli ebrei ma anche degli arabi. Pensai alle bizzarrie del comportamento umano. L a mia vecchia tracolla si era svuotata di deboli speranze e di domande temerarie, ma il suo nuovo carico la rendeva ben più pesante. Talvolta provavo un enorme desiderio di uno stacco mentale. C'era un solo posto in Germania che poteva offrirlo (nei limiti dei miei programmi, del mio budget e di un modello di comportamento relativamente modesto). Era un treno tedesco. I treni non mi collegavano solo alle varie città, mi separavano da Frauen. In certi giorni agognavo talmente separazioni simili che i treni diventavano quasi luoghi santi. Il benedetto Bahnhof scintillava come l'isola di un mito teutonico, raggiando delle promesse di favolose carrozze. Ah, erano allettanti c o m e Lorelei, promettevano sicurezza e conforto, mi chiamavano ai loro piccoli e comodi scompartimenti. Ah, la leggendaria affidabilità. Sapevo appena sprofondavo nelle loro imbottiture senza macchia che avremmo lasciato il Bahnhof in orario perfetto. Ben presto il finestrino avrebbe offerto delizie visive, scene scelte dalla Camera di commercio tedesca per il più bello dei cataloghi di viaggio: giardini, locande, vigneti, fiumi, castelli. Nessuna svastica, nessuna torretta di guardia in vista. Nessun Terzo Reich da vedere o a cui pensare: a cui pensare tutto il tempo. Mentre interi quartieri o lunghe ore mi separavano dalla stazione, morivo dalla voglia di salire in treno. Un pomeriggio fui particolarmente felice di lasciarmi cadere in uno scompartimento vuoto e assaporai la solitudine che, immaginavo, non sarebbe durata a lungo. Infatti, alle varie fermate salirono svariate persone. Erano tutte signore anziane. (Perché non vi prendete tutte un giorno di riposo?) Ci attenemmo alle solite abitudini. Si rispondeva di sì alla domanda se il posto era libero, tutte insieme sollevavamo il bagaglio della nuova venuta sulla reticella sopra il sedile, giungevano i ringraziamenti, seguivano

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i prego, tornavamo tutte a sedere, ci si lisciava la gonna, ed era tutto. Un'ulteriore conversazione era del tutto opzionale. Dopo essermi ripetuta in silenzio il mio nuovo mantra, Non-puoi-intervistarle-tutte (aveva sostituito quello precedente, Sbrigati-finché-sono-ancora-vive), stavo pensando agli affari miei. Era più che probabile che avessi frugato nella mia borsa alla ricerca del panino in più arraffato al buffet della colazione e stessi guardando fuori dal finestrino, masticando. Dato che non avevo quasi aperto bocca, il mio abbigliamento non rivelava la mia nazionalità e, sì, avrei potuto sembrare tedesca, probabilmente le altre donne non avevano idea che non lo fossi e non si accorsero più di tanto di me. Intanto, benché non si conoscessero, le altre avevano iniziato una conversazione. Mi persi l'inizio, ma poi udii una donna dire all'improvviso alla sua nuova vicina di posto: «Ma io non sapevo quello che succedeva nei campi. Lei sì?». Tornai a sprofondarmi nel sedile. Perché cercare uno stacco mentale, in Germania? Il Terzo Reich non è solo sotto la superficie o nel fondo della mente della gente. Per la generazione che lo visse, e per quelle che lo ereditarono (e stanno facendo ciò che vogliono delle sue lezioni sul razzismo e l'intolleranza), il Terzo Reich è ben presente e in piena luce nelle loro menti. Il Terzo Reich è la questione. E per quanto ho potuto determinare riguardo alle donne anziane che ricordavano il Terzo Reich come una parte del loro personale passato, le generalizzazioni finiscono qui.

NOTE 1 «Hummel, Hummel,» dice una persona. «Mors, Mors,» replica l'altra. (Hummel era un nomignolo attribuito agli uomini che trasportavano l'acqua in due secchi appesi a un bilanciere posato sulle spalle. Mors è un'espressione gergale per indicare il deretano. Secondo la tradizione, un tale gridò «Hummel, Hummel» a un portatore d'acqua che, per qualche ragione, si abbassò le brache, mostrò le natiche e rispose: «Mors, Mors».) 2 Sia jüdisch che Jüdin corrispondono alla parola italiana «ebrea», ma Jüdisch è aggettivo invariabile mentre Jüdin è sostantivo femminile. } Devo ringraziare Claudia Koonz per avermelo fatto rilevare per prima. 4 Cfr. David Schoenbaum, Hitler s Social Revolution, New York, Doubleday, 1966 (paperback , New York, Norton, 1980), p. XIII.

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INTRODUZIONE

Le protagoniste di questo libro, per il luogo e il tempo in cui nacquero, per quello che erano quando nacquero, e per il fatto di non essersene andate, vissero nel Terzo Reich per tutti i dodici anni del suo regime. Nella maggioranza dei casi il Terzo Reich coincise con la prima parte della loro vita adulta. Ci sono delle eccezioni: la più giovane di queste donne è nata nel 1927, la più anziana nel 1895. Ma quando Adolf Hitler andò al potere nel 1933, esse erano per la maggior parte adolescenti o poco più che ventenni. Quando scoppiò la guerra nel 1939, molte erano sposate. Prima della fine del 1945, quando la guerra era terminata e il Terzo Reich non esisteva più, quasi tutte erano madri o vedove o l'una e l'altra cosa insieme. Queste donne non solo avevano conosciuto il Terzo Reich dalle sue prime istanze camuffate fino alle macerie materiali e spirituali del suo crollo; esse erano il Terzo Reich. Loro erano le facce pulite destinate alle fotografie e ai manifesti di propaganda. Loro erano i cuori che dovevano battere per la Patria e le mani che dovevano cucinare e i corpi che dovevano procreare. L'utilizzo delle loro menti non veniva incoraggiato. Per il luogo e il tempo in cui nacquero, e per quello che erano quando nacquero, non importa quanto fossero diverse l'una dall'altra né quanto lo fossero le loro vicende, a queste donne accadde di occupare uno dei migliori punti d'osservazione per essere testimoni del Terzo Reich, il luogo in cui i nazisti fecero le prime spietate prove dei loro metodi: il fronte interno. Era sul fronte interno che certi negozi venivano chiusi e apparivano certi cartelli, che certe persone perdevano il lavoro e venivano proclamati certi slogan, che i bambini venivano separati gli uni dagli altri, e derisi, e picchiati. Quando sul fronte interno crebbe l'asprezza delle battaglie, con un aumento delle restrizioni contro gli ebrei tedeschi (e in misura inferiore contro i cristiani tedeschi che avevano qualcosa a che fare con i compatrioti ebrei) i punti d'osservazione delle testimoni divennero sempre più luoghi in cui si fondevano vicende private e politiche. Fino allo scoppio della guerra anche gli uomini tedeschi «ariani» furono testimoni sul fronte interno, ovviamente, benché fosse meno probabile che venissero coinvolti in uno degli obbiettivi più importanti del nazismo, la conquista dei bambini. Ma quando la guerra cominciò, quasi tutti gli uomini abbandonarono i loro posti d'osservazione. E mentre essi si avviavano verso una morte possibile, gli ebrei tedeschi rimasti si avviavano verso una morte quasi certa. Queste partenze tanto diverse - soldati che salivano sulle tradotte ed ebrei che venivano ammassati negli autocarri - avvenivano sempre sul fronte interno. Anche dopo che la guerra ebbe raggiunto il pieno della sua violenza, è probabile che la realtà di cui era testimone un tipico uomo tedesco fosse più 21

limitata di quella a cui assisteva una tipica donna tedesca. Certo, alle donne erano risparmiati le visioni, gli odori, il terrore e i pericoli della battaglia in prima linea e il gelo mortale della Russia, anche se i resoconti dei bombardamenti non sembrano meno terrificanti né le ultime settimane di guerra sul suolo tedesco meno rischiose per la vita. Ma neppure i soldati in prima linea combattevano ogni giorno, o vedevano necessariamente ogni giorno qualcun altro oltre ai propri camerati. E quando un soldato non era al fronte, a volte il suo mondo era più sicuro di quello di una donna. Forse questa è una storia apocrifa: un soldato tedesco è a casa in licenza; le sirene segnalano bombe in arrivo; sua moglie che, come al solito, si prepara a raggiungere il rifugio con i bambini, trova il marito rannicchiato in un angolo in preda al terrore. Il fronte, le dice, non era mai stato tanto vicino. Per gran parte delle donne lo era. E non c'erano solo le bombe. Le stelle di David appuntate sugli abiti erano visibili sul fronte interno a Berlino e non sulle spiagge della Normandia. Era nelle strade delle città tedesche, non nelle caserme o sui campi di battaglia che gli ebrei venivano trascinati fuori dalle loro case. Con ciò non s'intendono trascurare i campi d'annientamento o le aggressioni contro le comunità ebraiche al di fuori del territorio della Germania, anche se si potrebbe argomentare che i nazisti (o meglio, le SA e le SS) cercarono di tenere lontano tanto dai campi quanto dai pogrom la maggioranza dei soldati dell'esercito regolare. Si potrebbe sostenere anche che l'Olocausto prese le mosse da una politica - saranno i nazisti e il caso della nascita a decidere chi potrà prosperare e chi no, chi potrà vivere e chi no - che da principio fu sperimentata sul fronte intemo. All'inizio è probabile che nel resto del mondo le donne tedesche fossero considerate, se mai furono considerate, come strane fanatiche, agguerrite militanti con le trecce, comiche quanto l'uomo verso cui stendevano di scatto il braccio destro al di sopra dei grembiuli. In seguito, quando Adolf Hitler fu più noto come assassino che come buffone, e quando centinaia di migliaia di militari alleati erano mobilitati per porre fine al suo regime, le donne tedesche divennero le mogli del nemico. Erano le donne che obbedivano agli uomini che obbedivano agli ordini. Quando oramai le macabre conseguenze di quegli ordini erano universalmente note, si ha la sensazione che le donne tedesche siano state cancellate in fretta e volentieri dalla coscienza del mondo come prive di importanza per il passato, il presente e il futuro, e certamente per i non tedeschi. Che cosa potevano avere a che fare con noi le azioni e le inazioni di queste donne? E certo che esse formavano una comunità singolare. E condividevano l'unico privilegio che garantiva loro la vita e l'appartenenza a una tale comunità: non erano ebree, anzi possedevano, letteralmente, la tessera di «ariane», visto che le loro carte di identità erano prive della grande / stampata sui documenti degli ebrei tedeschi. Eppure, non era la loro una semplice questione di destino? Che cos'altro se non il destino garantì che le donne «ariane» non fossero scelte per la discriminazione e poi per l'annientamento? Che cos'altro se non il destino 22

garanti che esse non fossero arruolate come soldatesse, grazie alle opinioni di Hitler sul ruolo della donna? Che cos'altro se non il destino fece sì, inoltre, che per lo più con le sole proprie forze e con i figli a carico esse dovessero affrontare, fra le altre componenti della guerra, le bombe di rappresaglia e l'aggressione dei nemici? E che cos'altro se non il destino fece sì che dovessero affrontare prove di moralità, coraggio e intelligenza che furono risparmiate ad altre donne al di fuori del Terzo Reich? Ingrid Müller-Münch, una giornalista del dopoguerra che seguì per intero un lungo processo contro alcune secondine dei campi di concentramento (fra cui c'erano dei personaggi famosi per il loro sadismo come Hermine Ryan-Braunsteiner, già cittadina americana di Queens, New York) ha sollevato una questione particolarmente fastidiosa. «In tutti gli anni in cui mi sono occupata di questo processo, non ho potuto levarmi dalla mente un pensiero: come mi sarei comportata io a quel tempo,» soprattutto, scrisse, se avesse avuto lo stesso livello d'intelligenza delle guardie.1 Ma come si comportarono le donne tedesche davanti alle prove che il destino propose loro? Nell'insieme nient'affatto bene, stando allo straordinario libro di Claudia Koonz Donne del Terzo Reich. In esso l'autrice fa un'affermazione incontestabile: le donne tedesche nel loro insieme contribuirono in maniera vigorosa all'atroce successo del Terzo Reich.2 Tenendo viva la fiamma del nazismo, o acceso il focolare domestico, le donne tedesche permisero agli uomini di appiccare gli altri fuochi, quelli che bruciarono ghetti, fienili, nazioni e cadaveri. Perché le donne si comportarono in quel modo? Il «destino» è un capro espiatorio fin troppo facile. Ma se la colpa non è del destino, di chi è? Della genetica? Possiamo credere che milioni e milioni di individui, con radici spesso diverse, siano nati con una predisposizione genetica a modelli di comportamento che spaziano dall'inclinazione per l'ordine e la precisione a quella per la credulità e il pregiudizio fino a quella per l'odio e l'omicidio? E che dire del comportamento femminile in quanto tale? Che dire del supposto retaggio di beatitudine che fin quasi dall'eternità fluisce attraverso la linea di discendenza materna come lo strombazzato privilegio di nascita di ogni bambina che viene al mondo? Come mai la donna tedesca non si comportò da pacificatrice dell'umanità, da nutrice universale, secondo l'opinione che delle donne hanno molte persone di entrambi i sessi? Dea, costruttrice di nidi, Uberfrau, Lisistrata in attesa, perché la donna tedesca non fermò il nazismo? Gran parte della risposta non si trova nel destino comune, ma nella storia comune delle donne del Terzo Reich. Basta un breve sguardo su di essa per capire moltissime cose riguardo a eventi terribili. Nei primi decenni del ventesimo secolo, quando nacquero quasi tutte le protagoniste di queste pagine, la Germania stessa era una democrazia neonata, non più vecchia di due generazioni. Ma né le une né l'altra vennero alla luce affrancate dal vecchio mondo. Nel corso dei secoli, in Europa in generale e negli stati tedeschi in particolare, si era costituita una molti23

tudine di tradizioni e di assunti - alcuni lodevoli, altri odiosi - che contribuirono a preparare l'awento del miscuglio di contraddizioni che fu il Terzo Reich. L'eredità politica più notevole era data dall'idea di uno Stato di diritto, un «Rechtstaat», che prometteva una giustizia uguale per tutti. Il professor Rudolf von Thadden dell'università di Gottinga mi raccontò quella che, disse, per i bambini tedeschi più che una favoletta era una leggenda sul Rechtstaat. La notte, il sonno del re è turbato dal rumore di un mulino. Il re ordina al mugnaio di chiuderlo. Il mugnaio si rifiuta. Re e mugnaio portano il caso davanti a un giudice. Il giudice dà ragione al mugnaio. Il re, cittadino rispettoso della legge e fedele al Rechtstaat, accetta il verdetto. Gli scolari tedeschi crescono consapevoli di vivere in un paese giusto.3 Come ben sanno gli studiosi dell'Olocausto, questo duplice messaggio - viviamo in uno Stato giusto e abbiamo dei governanti che obbediscono alla legge - era altrettanto radicato negli ebrei quanto nei cristiani tedeschi. Le azioni di Herr Dr. Ludwig Bendix, un riformatore della legge, ne forniscono un esempio estremo. Nel 1935, essendo stato rilasciato da un campo di concentramento, Herr Dr. Bendix chiamò la polizia locale perché rimuovesse un adesivo antisemita dalla targhetta del suo appartamento. Dopo che, sorprendentemente, ciò fu fatto, egli inoltrò una protesta formale per un altro cartello antisemita. Ben presto i nazisti lo spedirono a Dachau. Vi passò due anni di sofferenze e venne di nuovo rilasciato. Al suo ritorno a casa, la fiducia di Herr Dr. Bendix nei fondamenti del sistema legislativo tedesco era ancora così integra che, ha scritto suo figlio, «preparò un promemoria contro il comandante del campo di concentramento di Dachau!» I figli vigilarono per intercettare la lettera di denuncia finché lui e sua moglie non furono al sicuro fuori dal paese del «Rechtstaat».4 Un altro concetto che resistette intatto ai rivolgimenti politici in Germania fu quello peculiare prussiano dell'attaccamento al dovere: uomini seri in uniforme, ufficiali o postini, che eseguono gli ordini. Lothar Hàusler, studioso di folklore e marito di una delle donne che ho intervistato, mi raccontò un aneddoto di famiglia che dimostra la vanagloria e la rigidità di una simile posa. Un suo bisnonno, nato nel 1810, faceva la guardia forestale dello Stato e portava con orgoglio la sua uniforme mentre ispezionava gli alberi nella sua giurisdizione. Un giorno si imbatté in una donna che tagliava l'erba del bosco per le sue capre. Era una pratica che lui stesso aveva vietato. La donna era sua moglie. «Alt!» urlò. «Qual è il suo nome?» domandò rivolgendosi a lei in modo formale. Sua moglie lo guardò stupefatta. «Sei diventato matto?» fu a quanto sembra la sua replica assai poco formale. «Sono io, tua moglie.» «Questo non fa differenza,» disse lui. «Ich bin im Dienst. [Sono in servizio].» Narra la leggenda della famiglia Hàusler che l'uomo, ligio al suo dovere, compilò un verbale annotando la data e il luogo del misfatto e l'ammenda prevista, e che consegnò il foglio alla moglie. Quando lei gli fece

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notare che non aveva denaro proprio, egli estrasse i soldi di tasca e diede alla moglie la cifra richiesta che ella gli restituì in silenzio. D senso del dovere e l'obbedienza agli ordini (all'interno del proprio amato e giusto paese) non era tuttavia una prerogativa degli «ariani». Molte fonti confermano il dolore e lo smarrimento degli ebrei tedeschi quando d'improvviso vennero trattati come se non fossero dei normali onesti cittadini. Come li si può criticare per non avere opposto una resistenza maggiore ai nazisti? A parte il fatto che era pressoché impossibile combattere una dittatura da sotto il suo stivale, gli ebrei non erano cresciuti, come altri tedeschi, preparati a credere nella leggendaria giustizia dei loro governanti e a obbedire agli ordini? E ha senso stupirsi per il fatto che tanti di loro restarono così a lungo nel Terzo Reich? Secondo innumerevoli resoconti c'è una ragione fondamentale: la Germania era la loro casa. Avrebbero dovuto rinunciare alla loro lingua, ai loro panorami e alla loro letteratura, per non parlare della patria, per non parlare del lavoro, a causa di pochi idioti che adesso erano al potere? Rinunciare a tutto ciò che era, benché incrinato, famigliare? Gli ebrei tedeschi razionalizzavano, si adattavano, speravano che ogni nuovo insulto fosse l'ultimo, e attendevano il ritorno del loro stile di vita normale, ordinato, tedesco. Pensai a un'amica che era tornata avvilita da un viaggio in Israele attorno al 1970. C'era un tale astio, mi disse, astio fra gli ebrei. Mi raccontò che siccome gli israeliani erano immigrati da ogni parte del mondo, avevano poche cose in comune. E a nessuno piacevano gli ebrei tedeschi. Gli ebrei tedeschi? Ripetei incredula. Perché? Erano di una pignoleria così irritante, mi rispose. Tutto il tempo a spazzare i loro vialetti e ad annaffiare i loro dannati fiori. Erano così assolutamente tedeschi. Un'altra idea fissa che i tedeschi di ogni ambiente ereditavano nell'ambito della politica aveva una sfumatura religiosa. Essa può essere ricondotta a Martin Lutero (il cui contributo all'antisemitismo, peraltro, non fu trascurabile). In poche parole, è l'idea che una parte del potere e dell'autorità discenda da Dio sui governanti della terra, in particolare sull'imperatore di Germania, il Kaiser. Quando l'imperatore diceva «Noi», il popolo sapeva che si riferiva a se stesso e a Dio. I capi che succedettero al Kaiser (e Führer significa proprio «duce», ovvero «capo») ereditarono quindi una supposta superiorità divina, per quanto inconscia. Un residuo dell'ideologia germanica laica finito in quella nazista era la nozione di «Romantik», nella realtà e nella finzione. Forse per controbilanciare la loro moralità ben strutturata (o ciò che passava per moralità), i tedeschi, come gli antichi greci, glorificavano gli eroi, che erano autorizzati a compiere ciò che i comuni mortali non potevano compiere. Le loro gesta eroiche potevano assumere varie forme: uccisioni di draghi, composizioni di poemi, cause nobili a cui dedicarsi, come quella di riportare di nuovo la «Germania sopra tutto». Sicuramente l'aspetto più ripugnante della dote ideologica lasciata in testamento dai vecchi stati tedeschi alla nuova nazione tedesca fu l'antisemitismo. C'è chi sostiene che il vento di antisemitismo che all'inizio del 25

ventesimo secolo investiva buona parte dell'Europa soffiava in Francia con altrettanta forza che in Germania, e che ciò che la Germania ebbe in più degli altri stati fu Adolf Hitler, oltre ai battaglioni di soldati e di funzionari dello Stato fiduciosi nella probità del loro governo, pronti a fare il loro dovere prendendo ordini, e a credere che il loro Führer avesse legami con un potere più alto. Altri sostengono che in Germania c'era già più antisemitismo che in altri paesi e che provare a farlo crescere era come gettare delle spore di funghi in una foresta umida pronta ad accoglierle. Ma nell'uno o nell'altro caso, le ragioni dell'antisemitismo in Europa rimangono materia di un dibattito tormentoso, fondato su una questione insolubile, una questione tanto sociologica quanto teologica: che cosa venne prima, la scelta degli antichi ebrei di vivere isolati come conseguenza del disprezzo che subivano a causa del loro credo (o della loro miscredenza), oppure il disprezzo verso gli ebrei come parziale conseguenza della loro vita isolata? Qualunque sia il seme dell'antisemitismo, non c'è dubbio che i tedeschi del ventesimo secolo, con la complicità di una schiera di sostenitori nel resto del continente, ne fecero maturare i frutti più amari. Benché nulla che io conosca sia paragonabile a questa eredità di antisemitismo, la dote ideologica della Germania comprendeva altre manifestazioni di oscurantismo. Una era la misoginia. Le pesanti limitazioni sociali cui da millenni era sottoposta la maggioranza delle donne in gran parte dei paesi europei, tra gli altri, erano particolarmente diffuse negli stati tedeschi. «Le speranze che le donne nutrirono durante l'illuminismo svanirono rapidamente nel diciannovesimo secolo, ed esse furono attaccate come esseri inferiori che non avevano alcun diritto di aspirare a una piena integrazione nella società,» scrive Gordon A. Craig. «Se l'analogia [con l'emancipazione degli ebrei] non può essere condotta oltre, è perché i tedeschi, che trovavano possibile concepire una società senza ebrei, non potevano facilmente immaginarne una senza donne. Con tutto ciò, l'aggressività di certa retorica antifemminista non era poi così diversa da quella utilizzata dagli antisemiti.» 5 Come afferma il professor Craig altrove, la situazione delle donne tedesche nel diciannovesimo secolo era «veramente deplorevole». 6 Oltre al fatto di non poter votare, a gran parte delle donne non era permesso entrare nelle organizzazioni politiche e nei sindacati, o contribuire alla gestione di alcuna istituzione di governo, o essere in condizioni di parità giuridica con i propri mariti, fratelli, figli maschi, Rechtstaat o no. Oltre tutto, almeno fino all'inizio del nuovo secolo, alla maggioranza delle ragazze tedesche veniva negata una buona istruzione superiore, poiché esistevano poche scuole a cui avessero accesso, in particolare accesso gratuito. E le menti delle giovani di famiglia ricca che frequentavano istituti privati venivano nutrite con «un insipido alimento», per usare le parole di Craig.7 Fino al 1908 le donne tedesche non potevano neppure iscriversi alle università. Nei primi, illuminati decenni del diciannovesimo secolo, poche donne fortunate e intelligenti avevano raggiunto una posizione eminente nell'ambiente letterario e/o come animatrici di salotti raffinati, dato che l'ambien26

te artistico era meno gretto di altri. Prima della fine del secolo, tuttavia, la Germania era regredita in modo così spaventoso che alcune donne socialiste o della classe media, fra le altre, diedero vita a delle associazioni con l'intento di rimediare a una quantità incredibile di palesi ingiustizie. Inoltre, scrittrici tedesche di varia tendenza portarono nelle case dei lettori sia la coscienza delle opportunità romantiche sia quella delle realtà toccanti dell'universo femminile.8 Gran parte degli uomini tedeschi non si sarebbe lasciata commuovere. Il famoso motto usato per descrivere le prospettive nella vita di una donna tedesca, «Kinder, Kirche, Kùche» [figli, chiesa, cucina], riassumeva la realtà. Fino alla Prima Guerra Mondiale, la schiavitù economica e sociale femminile continuò praticamente immutata. Prima della fine della guerra, le istituzioni che imponevano una tale schiavitù si erano estese fino a un punto di rottura. Negli anni Venti, quando quasi tutte le donne protagoniste di queste pagine stavano diventando adulte, la giovane democrazia tedesca subiva dei cambiamenti rapidi. In aggiunta alla vergogna che provavano molti tedeschi per la guerra persa, c'era la pretesa da parte dei vincitori del pagamento di ciò che i tedeschi (e non solo loro) consideravano e considerano tuttora debiti di guerra troppo onerosi. Ci furono delle ripercussioni incontrollabili e grottesche sull'economia. Invece dei portafogli la gente doveva letteralmente usare le carriole per trasportare il denaro quasi senza valore con cui faceva la spesa. Con l'inflazione che raggiungeva livelli inediti, arrivò una disoccupazione altrettanto spaventosa, mentre l'assistenza pubblica era insufficiente ad alleviare la miseria. La repubblica di Weimar, che governò la Germania dalla sconfitta del 1918 fino alla presa del potere da parte dei nazisti, divenne uno dei principali capri espiatori per i problemi del paese. (Naturalmente i capri espiatori tradizionali, gli ebrei, avevano «pugnalato la Germania alla schiena», come si usava dire, né aveva importanza che tanti soldati e ufficiali ebrei avessero combattuto la guerra, e con onore, per la loro patria.) In realtà la repubblica di Weimar promosse alcune riforme monetarie che diedero qualche risultato. Ma il crollo del mercato finanziario americano nel 1929 e la depressione che ne conseguì oltrepassarono rapidamente l'oceano e produssero effetti disastrosi in una nazione ancora prostrata dai debiti di guerra. I ricordi di quei tempi duri, per loro stesse o per gli altri, ricorrevano nei racconti delle donne che avevano raggiunto la maggiore età intorno al decennio precedente alla nascita del Terzo Reich, indipendentemente dalle loro idee politiche. Erano ricordi in cui abbondavano le immagini: panni non più stesi fuori di casa per paura che venissero rubati, un uomo sul tram schiantato dall'inedia. Quando la disperazione fu un fatto ordinario, tutte le famiglie, a parte quelle più facoltose, dovettero moderare i propri progetti. La situazione economica significava, specialmente per le ragazze, una diminuzione delle opportunità di studio, peraltro già irrisorie. Poiché l'istruzione pubblica gratuita finiva con la classe equivalente alla quarta elementare, molte famiglie non potevano o non volevano comprare i libri per tenere i loro figli, e 27

ancora meno le loro figlie, a scuola. Frau Emmi Friedrich, che veniva da una famiglia istruita, mi parlò del suo sgomento di fronte al livello di analfabetismo fra gli adulti del suo villaggio, e al livello d'educazione dei loro figli. Più di una donna mi raccontò che i genitori non erano più in grado di affrontare le spese per darle un'istruzione superiore, che per quanto rara era comunque possibile. Allora si sceglieva una strada più pratica ma decorosa: studiare in una scuola di economia domestica per signorine. Per altre giovani donne una tale scelta decorosa (o un tale insipido alimento) era assolutamente fuori portata. Esse venivano sfruttate come apprendiste o compivano un tirocinio (ancora oggi i tedeschi fanno un tirocinio formale per quasi ogni lavoro immaginabile) per diventare commesse o impiegate. Si può presumere che alla fine del loro turno le giovani donne tornassero a casa dai genitori o dal marito. Frau Lotte Elschner di Bochum mi disse che c'erano due sole cose che una donna poteva fare quando usciva dalla famiglia, a parte sposarsi: entrare in convento o diventare un'attrice. Non mi parve che volesse fare una battuta. Per molti tedeschi, donne e uomini, qualunque lavoro era preferibile a nessun lavoro e qualunque sistema politico era preferibile a quello in cui si faceva la fame. L'argomento più recente secondo cui le iniziative politiche della repubblica di Weimar stavano effettivamente migliorando la situazione economica all'inizio degli anni Trenta rende la pillola, nel ricordo, ancora più amara.9 Quando questa politica cominciò a dare i propri frutti, i nazisti erano al potere e se ne presero o se ne videro attribuire il merito. I nazisti si accreditarono anche il merito di altre realizzazioni di Weimar. I progetti della famosa Autobahn e dell'anno di «servizio di lavoro» per i giovani furono avviati nella repubblica di Weimar. Inoltre Weimar promosse, o rimise in moto, delle opportunità enormi per le donne tedesche. (In questo caso i nazisti lasciarono che a prendersi il merito, o le critiche, fosse la repubblica.) Alle donne che erano pronte ad accogliere i cambiamenti e in grado di affrontarli, Weimar diede una speranza di accesso alle realtà economiche, offrendo loro una fioritura di opportunità artistiche, politiche, educative e di lavoro. A partire dal 1919 le donne poterono finalmente votare, e lo fecero in grandissimo numero. Il movimento per i diritti delle donne, che la Prima Guerra Mondiale aveva ridotto al silenzio, riemerse, rinvigorito. Tutto sommato, Weimar significò un periodo di impetuosa libertà d'espressione. Le donne tedesche che ne avevano la possibilità o i mezzi seguirono le loro diverse muse, dalla vita notturna del cabaret a un istituto in cui studiare giurisprudenza. Un gruppo di donne che trasse un profitto notevole dalle nuove libertà e dalle nuove opportunità, afferma Claudia Koonz in Donne del Terzo Reich, furono le naziste. Sfruttando la tolleranza della repubblica, esse contribuirono alla costruzione del nascente Partito nazista, e più tardi criticarono ferocemente Weimar da quell'arena nazista dove alle loro voci sarebbe stata ben presto messa la sordina.10 A parte le donne naziste, solo una minoranza di tedesche poté, o volle, immergersi nell'invitante atmosfera in fermento della repubblica di Weimar. 28

Le altre si sentirono intimidite e straniate da quell'epoca, adatta forse alle donne di città, ma lontana dalla vita reale di una fattoria. Tutto sommato, figli, chiesa e cucina probabilmente erano di conforto. La libertà faceva paura, o sembrava non riguardarle. Quando Adolf Hider era ormai vicino al potere - una figura paterna per una generazione che aveva perso i propri padri nella Grande Guerra - 11 la maggior parte delle protagoniste del libro erano molto giovani. «Se ho votato per lui?» mi disse una di loro ripetendo la mia domanda e interrompendomi bruscamente con la sua risposta. «Non ero abbastanza grande per votare.» Come fece l'austriaco Hitler a diventare il Führer tedesco? Con una risposta provocatoria, il professor von Thadden mi disse che a volte si divertiva a immaginare il modo in cui il diavolo potrebbe prendere il potere nei vari stati. In Francia, disse, un coup d'état potrebbe essere accettabile, ma non in Germania. Negli Stati Uniti, suggerì, egli potrebbe ingraziarsi i votanti assumendo una facciata di ingenuità, o trovando il modo di portare il materialismo all'estremo. E nella Germania del 1933, disse, il diavolo doveva salvare le apparenze della legittimità del governo, delle procedure parlamentari, di un Rechtstaat, a dispetto di ciò che stava complottando dietro la scena. Il 30 gennaio 1933 il presidente della repubblica tedesca Paul von Hindenburg, assediato dalla propria senilità e dalle pressioni politiche, nominò Hitler cancelliere, legalmente. L'uomo che verrà paragonato al diavolo non ottenne solo la guida del governo della Germania, ma anche la possibilità di sfruttare le certezze tradizionali dei tedeschi, dal senso del dovere all'idea di un legame fra un nuovo Führer e Dio. Non era affatto poco. Hitler usò tutto questo per muoversi in fretta. Entro una settimana i nazisti licenziarono i funzionari pubblici ebrei. Fine del loro servizio. Provvisoriamente si fece Un'eccezione per quegli ebrei che avevano combattuto al fronte nella Prima Guerra Mondiale.12 Entro un mese i nazisti soppressero la libertà di stampa. Entro due mesi impiantarono il primo campo di concentramento per i primi internati, oppositori politici. Inoltre, promulgarono una legge che toglieva il potere legislativo al parlamento e lo consegnava a un gabinetto nazista. Essa fu chiamata, con un termine riduttivo, legge delega. E sancì la fine del Rechtstaat. All'inizio del terzo mese dall'avvento al potere, il primo giorno dell'aprile del 1933, i nazisti promossero un boicottaggio dei negozi di proprietà di ebrei. Poco dopo furono messi al bando tutti i partiti politici rivali e i sindacati. Nel giro di sei mesi, poi, mentre in superficie la Germania sembrava in preda a un'incredibile ondata di patriottismo, gran parte delle fondamenta democratiche dello Stato erano state soppiantate. Fin quasi dagli esordi il Terzo Reich invase la vita degli ebrei tedeschi 29

attraverso il controllo del loro lavoro, della loro istruzione, della loro residenza e del loro futuro imponendo limiti e minacciandone la soppressione. Contemporaneamente, gran parte della popolazione «ariana» cominciò a fare una vita che veniva considerata normale, nonostante l'intrusione, gradita o meno, dei nazisti. Le file di disoccupati e di affamati scomparivano. C'era sempre più gente che aveva un lavoro, e quindi da mangiare. I frequenti scontri di piazza fra comunisti e nazisti, quasi un emblema della repubblica di Weimar, ebbero termine. I comunisti erano dietro le sbarre o sotto terra. E così, secondo innumerevoli resoconti, la maggioranza della gente con dei soldi in tasca, del cibo nella pancia e la pace sul marciapiede di casa era più propensa a essere grata che a non esserlo. Le persone cominciavano a camminare a testa alta, di nuovo orgogliose di essere tedesche. E sembrava che il mondo ne desse loro conferma: il Führer riceveva altri capi di Stato. Per le donne e le ragazze «ariane» che avevano avuto una storia comune di scarsa stima e di mancanza di pari opportunità, un altro aspetto positivo del Terzo Reich era dato dalle organizzazioni «sociali» che aveva costituito, soprattutto la Lega delle giovani tedesche, il Bund deutscher Mädel (l'equivalente femminile della Gioventù hitleriana, la Hitlerjugend) e l'associazione delle donne adulte, la Frauenschaft. A sentir parlare le ex affiliate, quelle organizzazioni soddisfacevano un forte desiderio di avere qualcosa che fosse proprio per loro. Chi aveva fatto parte del BdM rievocava con gioia i piccoli lavori manuali e le canzoni e altre cose simili, e sembrava non ricordare i contenuti politici (ancor meno gli scopi) dell'organizzazione, né che l'adesione era pressoché obbligatoria. Frau Gerda Szepansky, autrice di due libri sulle donne nel Terzo Reich,13 mi disse che evitò il BdM finché le fu possibile, grazie a uno stratagemma che all'inizio funzionò: raccontava che i suoi genitori non potevano sostenere la spesa per l'uniforme. Un giorno fu obbligata a marciare comunque nella sfilata del BdM della sua scuola, ma in fondo, assieme a un'altra ragazza senza uniforme. Mi raccontò che la gente in strada lanciava urla e fischi di disapprovazione al loro indirizzo. Corse a casa e pianse. Le minoranze di ogni tipo non avevano vita facile nel Terzo Reich. E probabile, tuttavia, che la maggioranza dei tedeschi avesse un atteggiamento positivo verso il Reich, almeno nei primi anni. Perciò questi cittadini erano ancora più sensibili alle manipolazioni di Joseph Goebbels, il famigerato ministro della propaganda di Hitler. Il suo ministero pubblicizzava così bene gli aspetti «positivi» del nazismo che si raccontano storie su alcuni ebrei tedeschi che si fecero prendere dall'entusiasmo: bambini ebrei che volevano comprare delle bandierine con la svastica per la bicicletta; ebrei adulti che approvavano l'ordine che regnava nelle strade... mentre aspettavano che le aberrazioni dell'antisemitismo finissero. I propagandisti di Goebbels diedero vita anche ai più originali paradossi della Germania nazista. Notevole, fra questi, era la tesi secondo cui la Germania aveva bisogno di conquistare altro spazio vitale (Lebensraum) per la sua popolazione che si presumeva stipata, mentre allo stesso tempo 30

i nazisti tentavano di incrementare il basso tasso di natalità della nazione.14 Non c'è dubbio che Goebbels stesso sapesse usare le parole. Si dice che fosse un oratore elettrizzante; alcune delle sue invenzioni retoriche erano straordinarie. Gli slogan nazisti erano così efficaci che entravano a far parte della vita quotidiana, mi dissero Frau Martha e Herr Dr. Lothar Häusler. Un esempio è la sequenza di brevi sillabe scandite «Feind hört mit» [Il nemico ascolta]. L'apparizione di un bambino in una stanza in cui c'erano degli adulti poteva venir salutata con questa stessa frase. Il messaggio non era solo «Non parliamo di questo davanti a un bambino», ma anche che un bambino era un potenziale nemico. Come i genitori tedeschi impararono presto, i loro figli erano realmente incoraggiati a denunciare qualsiasi loro infrazione, e lo facevano, spesso in modo innocente. Cosa avete mangiato domenica a cena? chiede l'insegnante, che per obbligo o per volontà era probabilmente un membro del Partito. Se la risposta era arrosto di maiale e crauti e mele cotte, Mutter poteva avere dei problemi. Questo non era l'economico «Eintopf» [piatto unico] che il Führer chiedeva a tutte le brave Hausfrauen tedesche di preparare. Infine, è quasi impossibile dare una versione esagerata degli sforzi compiuti dagli artefici della terminologia nazista contro gli ebrei, e dei loro effetti. In breve, Juden- e Jüdisch- divennero i prefissi per ogni nefandezza. Le menti dei gentili subivano un processo graduale di avvelenamento, commentò una sopravvissuta all'Olocausto.15 Quanto fosse cronico quest'avvelenamento divenne chiaro in due incidenti accaduti circa quarantanni dopo il Terzo Reich. Frau Karma Rauhut mi parlò di una visita fatta con una vecchia amica a una galleria d'arte di Berlino negli anni Ottanta. Quando capitarono davanti a un gruppo di dipinti di tematica omosessuale, l'amica sbottò: «Judenkunst» [arte ebrea]. Tuttavia rimase sconcertata dal suo stesso commento, dato che non c'era niente di «ebreo» in quei quadri. Ma Frau Karma Rauhut sapeva ciò che la donna intendeva. Ogni tipo di arte che i nazisti disapprovavano veniva chiamata «arte ebrea». E di certo i nazisti avrebbero disapprovato dipinti di quel genere. Il secondo episodio mi fu riferito da un amico. A Monaco un'anziana donna, mentre della gente spingeva per salire su una vettura del tram, urlò: «Nur keine jüdische Hast!» [Niente fretta ebrea!]. Poi si coprì la bocca allarmata. Evidentemente si era resa conto dell'origine delle sue parole. Quanto alla propaganda femminile, all'inizio del Terzo Reich le donne «ariane» venivano magnificate come genitrici e come custodi del focolare domestico, ben lontano dalle scrivanie e dalle decisioni. Guai alle donne che volevano dedicarsi a lavori del tipo che offriva Weimar, che volevano diventare, o restare, legislatrici, avvocate, o dirigenti, o indipendenti nelle azioni e nelle opinioni, o avere semplicemente un lavoro così come l'avevano gli uomini. «Doppio stipendio» era per i nazisti un'espressione d'infamia. Non è necessario chiedersi quale fosse la metà della coppia da cui ci si aspettava che rinunciasse allo stipendio per il bene della più grande economia tedesca. 31

Col passare del tempo, soprattutto negli anni Quaranta, quando la guerra non progrediva secondo i desideri di Hitler, le donne tedesche vennero incoraggiate a estendere il dominio del loro focolare perfino a luoghi come le fabbriche di bombe. Hitler non riteneva, tuttavia, che le donne dovessero essere arruolate per questo lavoro più che per le linee del fronte. (C'è chi sostiene che il suo sessismo gli costò delle battaglie.) In mezzo alle contraddizioni, l'Uomo Tedesco riuscì in qualche modo a porre la Donna «Ariana» su un piedistallo, poi la circondò di premurose guardie armate, un po' come nella «custodia protettiva» accordata ai nemici dello Stato. Pare che la maggioranza delle donne tedesche non solo accettasse questa nobile forma di reclusione, ma che si arrampicasse essa stessa sul piedistallo. La prigionia sembrava più sicura del femminismo. E le nobili attenzioni, le prime della loro vita per alcune donne, erano lusinghiere. Questo cinico omaggio mascherava la verità. Le donne tedesche erano vittime di una tale misoginia, di un tale disprezzo per il loro acume intellettuale (nemmeno le donne naziste avevano accesso al «parlamento» nazista e ai vertici della loro organizzazione), da rendere evidente che se non fossero state generatrici di vita non sarebbe stata concessa loro nemmeno una posizione sociale di secondo piano. Dovevano considerarsi fortunate di avere l'utero. Le suore, che non potevano usare il loro, subivano un trattamento peggiore. Mentre il Reich procedeva nel proprio corso, le istituzioni democratiche come il voto, una stampa libera, dei processi imparziali erano andate perdute da così tanto tempo che probabilmente molte giovani donne non si rendevano conto di quello che avevano perso. Ma impararono presto che il loro piedistallo non era poi così facile da raggiungere. Dopo un intero turno di lavoro in una fabbrica di carri armati, dopo aver fatto la coda per la spesa, aver cucinato ed essersi prese cura dei figli, e averli trascinati nei rifugi antiaerei diverse volte ogni notte, doveva essere difficile tornare a immedesimarsi nel ruolo idealizzato di Madre e Genitrice che il nazismo assegnava loro. Ma il Fùhrer era sempre lì a dare un ultimo impulso, e a premiare con la Croce d'onore di madre le donne più feconde. Nel maggio del 1945, tuttavia, Hitler non c'era più, e nemmeno molti uomini, e non c'erano quasi più ebrei. E niente era più in ordine [in Ordnung]. In quella che fu chiamata «Stunde Nuli» [ora zero], le donne tedesche si ritrovarono circondate dalle macerie, dalla sconfitta, dalla fame, dalle urla di indignazione dei vincitori inorriditi, e dai film e dalle fotografie che documentavano le ragioni di quell'indignazione. Fu forse questo il momento di massima comunanza fra loro. Le donne di questo libro hanno avuto così tante cose in comune, in effetti, che c'è il rischio di trascurare le loro diversità, ugualmente importanti: differenti età, differenti città di residenza, differenti privilegi e privazioni, differenti scuole, amici, differenti lavori, amanti, genitori, differenti fedi, redditi, aspetti esteriori, preoccupazioni, idee politiche, e differenti visioni del mondo, o Weltanschauungen. Di conseguenza, durante il Terzo 32

Reich le donne tedesche vissero esperienze differenti e presero decisioni differenti. Molte differenze riflettevano semplicemente una caratteristica della loro nazione. Nel momento in cui Hitler andò al potere e molte di queste donne entravano nell'età adulta, la Germania non era la nazione omogenea che qualcuno sembra credere. Come poteva esserlo dopo meno di sessant'anni dall'unificazione? C'erano divisioni profonde e secolari. Le divisioni religiose erano fra le più profonde. A differenza che in altri grandi stati europei, in Germania, come conseguenza della Riforma e della Guerra dei Trent'anni, c'erano due religioni dominanti, due religioni che spesso avevano rapporti di diffidenza e di litigiosità, il protestantesimo e il cattolicesimo. Una delle molte ironie dolorose connesse al Terzo Reich è il fatto che i primi immigranti ebrei scelsero di stabilirsi negli stati tedeschi non solo a causa dei decreti che in molte zone concedevano loro residenza e protezione, ma anche (si può supporre) per la presenza delle due chiese cristiane. E probabile che in un villaggio a maggioranza protestante ci fossero poche famiglie cattoliche, e che in una città cattolica fossero pochi i protestanti. Benché si guardassero con diffidenza reciproca, solitamente le due comunità coesistevano. I coloni ebrei sapevano che non avrebbero costituito la sola minoranza religiosa del luogo. In realtà essi formavano una minoranza minuscola. A Berlino, patria di un terzo di tutti gli ebrei tedeschi, solo il quattro per cento della popolazione era costituita da ebrei.16 Il fatto che nel 1933 la popolazione ebrea tedesca fosse soprattutto urbana era una conseguenza della storia sociale della Germania, ma sottolinea anche un'altra differenza tra le donne tedesche. Era verosimile che una donna che viveva in città avesse dei vicini o degli amici ebrei, o almeno dei conoscenti. Mentre è probabile che una donna che viveva in campagna o in un villaggio conoscesse pochissimi ebrei e ne avesse ancora meno come vicini. Un'ulteriore diversità all'interno della popolazione tedesca traeva origine dalla divisione fra i ceti sociali ed economici, che era ampia e piuttosto inflessibile. Essa includeva apprendiste impoverite, un'aristocrazia di dimensioni stupefacenti, da favola, e il Volk nel mezzo. La popolazione tedesca era divisa anche nell'aspetto fisico. Lo stereotipo nazista di un popolo alto, robusto, biondo, uno stereotipo alimentato da Joseph Goebbels, che era piccolo, bruno e zoppo, era falso. I tedeschi avevano raggiunto l'unità soltanto nel 1871 ed erano i discendenti di varie tribù e di varie guerre, e differivano nei lineamenti, nell'altezza e nel colore dei capelli. Ovviamente gli «ariani» non costituivano l'unica varietà genetica in Germania. Ho sentito descrivere innumerevoli ebrei come alti, biondi e con gli occhi azzurri. Oltre al miscuglio dei tipi fisici c'era quello delle parlate. Oggi come allora i berlinesi non riescono a comprendere i bavaresi, e viceversa, a meno che gli uni e gli altri non possano, o non vogliano, rinunciare al loro dialetto e parlare alto tedesco. Le differenze nella parlata sottolineavano differenze nei modi di sentire. Una donna di Brema, nel nord della Germania, si lamentò con me del fatto che suo marito fosse, alla fin fine, un bava33

rese. Un'altra, originaria della Prussia, si lagnava di non riuscire ad avere risposte chiare da nessun renano. Un'abitante della Renania mi confidò che la ristrettezza mentale degli svevi di Stoccarda la esasperava. Questa forma di campanilismo fra regioni, che Hitler tentò in qualche modo di attenuare e di sostituire col nazionalismo (fu una delle sue imprese più straordinarie), si rifletteva nella politica. Prima che i nazisti si impossessassero di tutto il potere, i votanti potevano scegliere fra ben undici partiti, che rappresentavano l'estrema sinistra, l'estrema destra e le posizioni intermedie. Anche dopo l'avvento del nazismo, quando c'era ormai un solo partito, le differenze politiche di base erano sensibili. L a Germania meridionale, per esempio, era considerata più filonazista della Germania settentrionale. Una tedesca occidentale mi raccontò una barzelletta su Hitler che, disse, nella Prussia orientale non avrebbero mai osato raccontare. Dunque, pur con tutto ciò che le accomunava, le donne tedesche erano enormemente diverse fra loro. Sarebbe rassicurante pensare che non lo fossero, così come è rassicurante pensare a certi nazisti come a dei «mostri». Ma la biologia non fornisce scappatoie. Ogni donna è, o era, un essere umano unico. E d è come individui che le donne tedesche «ariane» offrono una visione - e un'immagine di fatto veritiera - delle azioni e delle inazioni che accompagnarono l'epoca breve ma interminabile del Terzo Reich. D a loro viene un ammonimento che mi strappò dalle illusioni che all'inizio avevo cullato, e me ne tenne lontana. Il defunto Reinhard Bendix, che era un soprawissuto nato a Berlino e un uomo saggio (e il figlio dell'uomo che voleva scrivere una lettera di protesta al comandante del campo di concentramento in cui era stato internato), mi disse in modo apparentemente casuale, con uno sguardo niente affatto accusatorio negli occhi scuri: «Spero proprio che il suo libro non faccia sentire gli americani soddisfatti di sé».

NOTE 1 Ingrid Müller-Münch, Die Frauen von Majdanek (Le donne di Majdanek), Reinbeck bei Hamburg, Rowohlt, 1982, p.12. 1 Ch. Claudia Koonz, Mothers in the Fatherland, New York, St. Martin's Press, 1987, pp. 5-7. Trad, it., Donne del Terzo Reich, Firenze, Giunti, 1996. ' Conversazione con Rudolf von Thadden a Gottinga, nel settembre del 1984. 4 Reinhard Bendix, From Berlin to Berkeley, New Brunswick, N.J., Transaction Books, 1986, pp. 171-172. ! Gordon A. Craig, The Germans, (I tedeschi), New York, Putnam, 1982, p.147. 6 Gordon A. Craig, Germany 1866-1945, New York, Oxford University Press, 1978, p. 207. Trad, it., Storia della Germania 1866-1945, Roma, Editori Riuniti, 1983, p. 222. ' Ibid., pp. 207-208. Trad. it. pp. 222-224. » Ibid., pp. 209-213. Trad. it. pp. 224-229. ' Conferenza tenuta dal professor J. J. Lee della University of Cork, in Irlanda, alla Stanford University nel 1986. 10 Koonz, Mothers in the Fatherland, pp. 21 -49.

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11 L'osservazione è di Fritz Stern in «National Socialism as Temptation», un capitolo pieno di simili intuizioni nel suo libro Dreams and Delusions, New York, Knopf, 1987, pp. 147 -191. 12 Cfr. Carolin Hilker-Siebenhaar (a cura di), Wegweiser durch das jüdische Berlin (Guida alla Berlino ebrea), Berlino, Nicolai Verlag, 1987, p.362. 13 Frauen leisten Widerstand (Le donne fanno resistenza) (1983) e Blitzmädel, Heldenmutter, Kriegerwitwe (Blitzmädel, madre d'eroe e vedova di guerra) (1986), entrambi editi da Fischer a Francoforte sul Meno. 14 Cfr. Jill Stephenson, «"Reichsbund der Kinderreichen": The League of Large Families in the Population Policy of Nazi Germany», European Studies Review 9 (1979), p. 367. 15 Alice Calder, nativa di Amburgo, nella trasmissione «Holocaust Survivor Interviews», una produzione dello Holocaust Oral History Project per una televisione via cavo, San Francisco, 29 aprile 1991. 16 Hilker-Siebenhaar, a cura di, Wegweiser durch Jüdische Berlin, cit., p. 361.

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UNA NOTA SULLA LINGUA, LA TRADUZIONE E LA VERITÀ

Le donne di queste pagine parlavano tedesco a vari livelli di correttezza formale, e io pure. Nei primi viaggi, la mia padronanza del tedesco era forzata. Nell'ultimo, il mio vocabolario e il mio accento erano talmente migliorati che venivo presa per tedesca. La maggiore facilità con la lingua non migliorò necessariamente la qualità delle interviste; almeno una donna fu più disponibile perché sentiva il bisogno di parlare in modo elementare. L'abilità linguistica da entrambe le parti aveva meno importanza, tuttavia, di un piccolo registratore, che usai in ogni intervista. Un paio di donne erano diffidenti nei suoi confronti, ma riuscii a convincerle che ne avevo bisogno. Così non andò perduta nemmeno una parola, se udibile, di quelle pronunciate da ciascuna donna. In alcuni casi una donna disse qualcosa di notevole a registratore spento. Se era breve, me lo appuntavo subito per essere certa che non lo citassi sbagliato. Se non era breve, ne facevo la parafrasi. Il tentativo di essere del tutto accurata fu messo alla prova durante la traduzione. Le donne più facili da tradurre erano quelle che parlavano alto tedesco. Anche in traduzione sembrano essenzialmente le stesse, credo. Le donne che parlavano un tedesco scorretto o in dialetto o facevano entrambe le cose rappresentavano una sfida più ardua. Piuttosto che «tradurre» gli errori, ho preferito rendere evidenti al lettore le caratteristiche individuali del loro modo di parlare. In alcune circostanze ho lasciato tra parentesi le espressioni tedesche che usavano. A parte l'eliminazione degli «uhm, diciamo, be', capisce» e di altri corpi estranei nelle frasi, talvolta ho avuto la tentazione di rifinire qualche citazione. Però non l'ho fatto. Con un aggeggio miracoloso come un registratore e con testimonianze così importanti (secondo me) come quelle che riguardano il Terzo Reich, ho pensato che non c'erano scuse per essere infedeli alla parola parlata. Ed è chiaro che queste donne non stavano scrivendo saggi, ma parlando. Di fronte alla scelta di quali parole o frasi usare per quelle tedesche, di solito ho optato per una traduzione letterale (soprattutto per le frasi pepate) piuttosto che per una letteraria. Il risultato può talvolta «suonare» tedesco, ma voglio che il lettore sia consapevole che la donna è tedesca. A questo fine, ho incluso almeno una parola caratteristica di ciascuna donna, anche qualcosa di elementare come ja, o una tipica formula per finire le frasi come nicht?. Quando mi sono trovata di fronte a parole particolarmente insolite o difficili, ho consultato un parlante nativo tedesco. Per quanto riguarda parole o frasi (di solito tedesche) usate spesso, invece di spiegarle o tradurle ogni volta che capitavano, le ho raccolte ordi37

natamente nel Glossario alla fine del volume. (Per i lettori senza nessuna conoscenza del tedesco: in tedesco i sostantivi si scrivono sempre in maiuscolo.) Quanto all'uso di parole tedesche più o meno note, il lettore schizzinoso potrebbe preoccuparsi perché non sono in corsivo, contrariamente alla prassi usuale. Questo avviene perché questo libro è in massima parte «parlato», e io temevo che una parola in corsivo potesse far supporre che chi parlava stesse sottolineando una parola quando invece non era così. Perciò, solo le parole veramente sottolineate da chi parla sono in corsivo. Quanto ai singoli profili, ho fatto di tutto perché nessuna donna venisse citata scorrettamente sia nel senso generale di quanto intendeva sia nelle singole parole usate. Un'eccezione all'accuratezza è l'ortografia di alcuni nomi propri. Quelli che non sono stata in grado di verificare sono stati trascritti foneticamente. A richiesta di una donna, ho cambiato i nomi delle persone che lei aveva messo in una luce sfavorevole. Queste pagine traboccano dei frutti di tre regole di base che ho elaborato riguardo alla precisione. Se una donna diceva qualcosa che la maggior parte dei lettori, me compresa, sapevano o davano per scontato che non fosse vera (per esempio che Hitler non sapeva cosa stava succedendo nei campi di concentramento), ho lasciato com'era. Se diceva qualcosa che non avevo modo di controllare personalmente perché era un'informazione privata (ciò che le aveva detto la madre cinquant'anni prima) o perché non avevo le risorse per controllare (se un fratello aveva combattuto in Francia), anche in questo caso ho lasciato com'era. Per varie ragioni, talvolta ho effettivamente inserito un «disse». Ma se una donna diceva qualcosa che il lettore medio poteva non sapere e che io potevo controllare o avevo controllato e si dimostrava che la donna si sbagliava, più o meno intenzionalmente, sono intervenuta nel testo o con una nota. Le ragioni per cui non ho semplicemente riportato le loro testimonianze senza contraddittorio, sia durante le interviste che nel libro, dipendono dalle donne in sé e dall'argomento. E probabile che lettori «alleati» siano meno disposti a prendere come oro colato le testimonianze di donne tedesche «ariane», rispetto a quanto farebbero con quelle di soldati americani che combatterono in Germania. Queste donne sono semplicemente sospette. Mi sembrava che i lettori avessero bisogno di una loro rappresentante. Ho cercato di rendere la mia presenza la meno ingombrante possibile, ma sono convinta che la mia totale assenza sarebbe stata fuorviante: nessuna donna stava discutendo con se stessa. E il lettore ha diritto di sapere se una donna si stava dibattendo con un argomento che aveva sollevato lei o se stava rispondendo a una domanda. Se fossi stata un'antropologa, una storica o una psicoanalista, le donne sarebbero state avvicinate, raccontate e/o analizzate diversamente.1 Ma io non lo sono, e così sono diverse le loro testimonianze. Infine, sono consapevole del fatto che devono esserci più esperti dei diversi aspetti del Terzo Reich e dell'Olocausto che di ogni altro argomento della storia contemporanea, e che io non sono un'esperta. Tuttavia, ho 38

cercato di fare del mio meglio per rispettare il lettore e mantenere queste pagine prive di errori, e accetto la responsabilità per tutti i casi in cui non ci sono riuscita.

NOTE 'Un esempio affascinante di un approccio analitico è «Gender and the Two World Wars» di Annemarie Tröger, un saggio incluso in Behind the Lines, New Haven, Yale University Press, 1987.

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DIECI VOLTE MADRE, E TANTO CIBO IN PIÙ (Frau Wilhelmine Körner)

Da bambina, Wilhelmine aveva un'amica che era nata con gambe di lunghezza leggermente diversa, e aveva difficoltà a camminare. «Le piaceva venire a passeggio con me, perché così poteva appoggiarsi.» Mentre la ragazza si reggeva a lei, Wilhelmine le zoppicava allegramente a fianco, per imitazione, finché sua madre non la fece smettere. Frau Körner narrava l'aneddoto con la stessa franchezza che riservava ad altri racconti della sua infanzia. La sua parlata ricordava in alcuni tratti il dialetto delle pianure della Germania nord-occidentale, che nelle brevi esclamazioni può sembrare quasi inglese («Zo vot?» suona come «So what?»), e rivelava una scarsa familiarità con la grammatica. Ma il modo in cui parlava non faceva distogliere l'attenzione da ciò che diceva. Una bambina che aiutava a camminare una ragazzina zoppa e si immedesimava nella sua condizione tanto da mettersi a camminare come lei aveva più probabilità di altri bambini di diventare un'adulta di un tipo particolare: quelli che aiutavano le vittime del nazismo. Frau Körner lo fece. Adulti di quel genere, tuttavia, di solito non ricevevano onoreficenze dal Partito nazista, né sposavano membri del Partito. Eppure a Frau Körner accaddero entrambe le cose. Frau Wilhelmine Körner aveva settantasei anni quando ci conoscemmo, e continuava a vivere in maniera del tutto non convenzionale. Trattava le limitazioni e gli ostacoli fisici con la stessa mancanza di riguardi che aveva dimostrato da piccola, e si riferiva tranquillamente a una figlia sovrappeso chiamandola «die Dicke» [quella grassa]. E si sollevava allegramente la gonna per farsi un'iniezione di insulina in una coscia grassoccia. Dal lato paterno della sua famiglia, mi disse, avevano tutti il diabete. La prima impressione che ebbi di Frau Körner - che a un angolo della strada agitava vigorosamente la mano in direzione del mio taxi - fu quella di una donna vivace in una città piuttosto squallida. Abita in un piccolo appartamento sopra un negozio di mobili a Würselen, fuori dalla città piuttosto cosmopolita di Aquisgrana, nella Germania occidentale. La mia seconda impressione fu che fosse di una generosità quasi maniacale, e forse non potesse fame a meno. Il suo appartamento è semplicemente ingombro, in parte di regali, e in parte di oggetti prodotti dalle sue dita in perenne movimento. Fiori all'uncinetto pesantemente profumati tappezzano la camera degli ospiti, traboccante di bambole spagnole e cuscini, coperte, e oggetti d'artigianato. In soggiorno è disposta su una parete una fila di cigni all'uncinetto con occhi mobili. Dozzine di fotografie di figli e nipoti coprono un'altra parete. Senza altra ragione che quella di mostrare le zone della 41

sua vita non in piena vista, Wilhelmine continuava ad aprire cassetti, vetrine, credenze, armadi, per portare alla luce tovaglie, camicie da notte, statuine, un piatto rotto con la scritta «Buon Compleanno», un'ampia provvista di liquori (che lei non beve), regali e altri regali ancora, parlandomi di ciascuno di essi. A un certo punto, mentre lei si avvicinava per dire qualcosa, io mi ritrassi bruscamente. «E l'aglio, vero?» chiese allegramente. «Ho mangiato una caramella, prima, ma non è servito a molto.» Dopo nemmeno un'ora che ci conoscevamo, mi offrì non solo vitto e alloggio, ma una tovaglia natalizia in poliestere, una candela decorativa, statuine in scatola, e due sacchetti di caramelle. Se Frau Wilhelmine Körner avesse voluto nascondere qualcosa, sarebbe stato difficile trovarlo in quella ricchissima cornucopia. Eppure doveva nascondere qualcuna delle sue emozioni. Di solito era una persona estremamente esuberante, ma verso la fine delle nostre conversazioni si guardò intorno, sospirò e disse che le cose non andavano bene come prima. «Na, es klappt nicht so wie vorher.» Prima, viveva con il marito e i loro dieci figli. Poi lui era morto, e anche uno dei figli. Altri cinque erano emigrati negli Stati Uniti. Frau Körner abita da sola. Nacque nel 1911 nella città di Oberhausen, nella zona industriale della Germania. Il padre e i due fratelli erano controllori ferroviari. Verso il 1919, quando la famiglia cominciò ad avvertire i devastanti contraccolpi della Prima Guerra Mondiale, lei fu mandata a vivere in Olanda presso alcuni parenti che avevano un ristorante. Ricordava con piacere quel periodo, ed esibiva il suo vocabolario olandese con le stesse simpatiche vanterie con cui si gloriava del suo frasario inglese (per lo più blande oscenità). Tornò in Germania entro un anno ma, come sarebbe stato chiaro durante la guerra, non dimenticò il popolo olandese. Da ragazza si innamorò di un ragazzo del vicinato, Heinrich Körner, che lavorava nelle cave di pietra e risultò essere il fratello della bambina che lei aveva aiutato a camminare. I genitori di Wilhelmine si opponevano strenuamente al matrimonio. Lei era cattolica, lui protestante. Fu Wilhelmine a convertirsi. Nel 1930, quando aveva diciannove anni, si sposarono in una chiesa protestante. (Vent'anni dopo, lei e cinque dei suoi figli si convertirono nuovamente, per ripicca: un sacerdote protestante aveva promesso al marito morente di far avere un bel vestito a una delle figlie, ma non aveva mai mantenuto la promessa.) Come ci si poteva aspettare, entrambe le famiglie degli sposi votavano per il Partito socialista. Cioè, i loro padri lo facevano, «da venticinque anni o anche di più. Ne sono sicura al cento per cento». Frau Körner non disse come votavano le madri, una volta che venne concesso loro il diritto di farlo. Anche lei «non aveva tempo per la politica», come disse ripetutamente. «Ma poi accadde tutto all'improvviso. Se uno aveva dieci figli, be', non ancora dieci ma un sacco lo stesso, uno doveva iscriversi al Partito [nazista]; è stato nel '33, nicht? Avevo già tre figli e ce n'era un altro in arrivo. Se i genitori "ricchi di figli" [kinderreiche] erano nel Partito, i figli avevano grandi possibilità di avanzamento. Crediti a lunga scadenza e tutto. Ja,

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cos'altro poteva fare mio marito? Ci iscrivemmo al partito, no? Non c'era nient'altro da fare. Ogni mese ricevevo trenta marchi per figlio da parte del governo di Hitler, e venti marchi dalla città di Oberhausen. Facevano cinquanta marchi al mese per figlio. Era un sacco di soldi. Certe volte avevo più "denaro per i figli" [Kindergeld] di quanto ne guadagnava mio marito.» Lei metteva tutti i soldi in libretti di risparmio separati per ciascuno di loro, invece che spenderli in «salsicce costose» come facevano alcune madri. (Dopo la guerra, disse, tutti i libretti di risparmio si ridussero a nulla.) Per la famiglia, il Kindergeld non era l'unica manna piovuta dal cielo, soprattutto quando ci fu la guerra e i beni vennero razionati. «Con molti figli, avevi anche molte tessere annonarie, nicht? E c'erano tessere per cucinare, tessere per la farina, tutte cose del genere.» Cosa pensò quando Hitler giunse al potere? «Non lo conoscevo. Avevo un sacco da fare con i bambini. Dicevo sempre che non avevo mai tempo. Per pensarci, nicht? Ja, spesso mi lamentavo. C'erano sempre raduni e raduni e raduni. Ne, cosa ci si guadagnava? La nostra "Dicke", una dei figli maggiori, quando andava a scuola dovette iscriversi al BdM [il Bund deutscher Mädel, la Lega delle ragazze tedesche]. Altrimenti non andava avanti. Non venivi promosso, non avevi nessun vantaggio, non avevi questo, non avevi quello. Dovevi essere nel BdM. Vedo ancora le nostre figlie che andavano in giro con quelle camicette e le gonnelline blu e le sciarpe nere.» Quando le chiesi cosa pensava dell'organizzazione in sé, disse che per lei era come le scout, o un'associazione di ginnastica o di canto. «Avevano le loro uniformi, nicht? E sfilavano per le strade. Non imparavano niente di dannoso.» Aggiunse che conosceva genitori che non volevano che i figli entrassero nel BdM o nella Hitlerjugend, specialmente per quanto riguardava parate e sfilate. «E allora il Partito e le SA trovavano sempre da ridire su qualcosa. Così i bambini non avevano nessun vantaggio. Ja, i bambini non potevano davvero progredire.» Dato che Herr Körner era membro del Partito, i suoi figli poterono ricevere un'istruzione molto migliore di quella che avrebbe potuto permettersi altrimenti. «Se andavi al liceo, i genitori dovevano pagare. E se eri nella NDSAP [il Partito nazista], era tutto pagato.» Anche lei si era iscritta al Partito? «No, mai. E nemmeno mia madre. Al contrario, un paio di volte ho ricevuto degli avvertimenti.» Quelle parole davano la stura a storie che ormai facevano parte delle tradizioni di famiglia. La maggior parte delle storie riguardava i lavoratori schiavi, prigionieri di guerra o il bottino umano dell'espansionismo nazista, che svolgevano duri lavori manuali in Germania, ricevevano magre razioni di cibo, e conducevano un'esistenza del tutto miserevole. Per rafforzare la loro miseria, il regime nazista li aveva inclusi nella categoria dei «nemici» e aveva proibito alla cittadinanza tedesca di avere relazioni amichevoli con loro. Alcuni lavoratori schiavi erano impegnati in opere edilizie proprio di fianco alla casa dei Körner, e attirarono l'attenzione soprattutto di Frau Körner e del figlio maggiore (oggi pilota americano). A lui toccava il compito di andare tutte 43

le mattine dal panettiere a prendere i panini freschi per la colazione. «Lo rivedo ancora mentre corre con la borsa di rete sulla schiena, piena di panini, e al di là del fosso lungo la strada stavano costruendo una nuova fognatura. E il nostro ragazzo tutte le volte aveva compassione di loro. E tirava sempre qualche panino nel fosso.» Aggiunse ridendo: «Se ne andava lungo la fila come un contadino che getta la semente». Una sorella di Wilhelmine, che era venuta a casa sua a trovarla, era così sconvolta al vedere i prigionieri che gelavano «con la barba piena di ghiaccioli» che tirò loro i dolci di Natale che aveva portato. Quel gesto condusse a un rimprovero da parte dei nazisti: anzi, a un altro rimprovero. Nel frattempo, Frau Wilhelmine Körner aveva già commesso il delitto di «füttern den Feind» [nutrire il nemico]. Quella frase era insultante, dato che il «nemico» veniva ulteriormente disumanizzato ed equiparato a un animale. Füttern può significare «foraggiare». Agli occhi di Frau Körner, tuttavia, il «nemico» erano semplicemente uomini sventurati. «Allora, là fuori faceva freddo. E ogni giorno preparavo una pentola di zuppa di latte per i bambini, nicht? Buona e bollente. Avevo tantissimo latte grazie alle tessere dei bambini. E poi ci buttavo dentro un intero panetto di burro, la pentola era piena, e un bel po' di zucchero perché lo zucchero è nutriente, nicht? E io abitavo di sopra. Mia suocera stava di sotto. In quel periodo avevo già perso la casa per i bombardamenti. E guardai fuori dalla finestra e feci cenno ai "bandolios" [così chiamava i lavoratori] che stavo mettendo qualcosa nell'ingresso. Avevano paura di saltare fuori dai fossi ma volevano mangiarla. Allora andai dal sorvegliante e gli dissi: "Senta, anche lei è sposato". Dissi: "Ho molti figli". Nel frattempo lui si era accorto di quello che avevo preparato, dato che stava al suo posto finché [i prigionieri] avevano finito. "E ho preparato una grossa pentola di zuppa di latte," gli dico. "Non posso dargliene un po' a quei poveretti? Non vorrà farmela buttare nel gabinetto?"» In un'altra versione disse di avergli chiesto di chiudere un occhio, dato che «mi fa male al cuore, non riesco a dormire tutta la notte se devo buttare via la zuppa e di fuori quegli uomini sono lì a congelarsi. «Mi guardò e disse [alzò la voce per imitarlo]: "Lei è una donna ostinata [ein hartnäckiges Weib], Faccia quello che vuole, ma io non ho visto niente". Allora riscaldai la zuppa, la misi nell'ingresso con un mestolo, non con tazze singole, e poi la indicai. Uno a uno, saltarono fuori dai fossi e presero un mestolo di zuppa...» qui Frau Körner emise un memorabile suono di risucchio, «finché la pentola non fu vuota. Un giorno, mio marito ricevette un biglietto dal Partito. Volevano che si presentasse all'ufficio del Partito. «E allora dissero: "Senta, sua moglie sta facendo proprio delle belle cose. Come può foraggiare i nostri nemici?" "Ja, be', non posso farci niente, non sono sempre a casa, non la vedo quando lo fa." Allora mio marito venne a casa, urlò contro di me [mi colpì con grande strepito], e disse: "Mi farai finire nella cucina del diavolo [nei guai] se continui a comportarti così. E io sono un membro del Partito". Doveva esserlo, nicht? "E cosa credi mi succederà quando mi prenderanno? Mi porteranno da qualche altra parte."» La scena si ripetè, per la strada e fuori. «Avevano così freddo,

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così freddo. Loro [i nazisti] vennero un paio di volte e dissero a mio marito: "Senta, Herr Körner, se sua moglie continua a farlo, ne? allora le arriverà un avvertimento".» A quanto pare lei non ne fu turbata. «Continuai a farlo. Sempre con qualcosa di diverso. Tornai dal panettiere, avevo due grosse pagnotte, lì sulla tavola. E davanti c'erano i lavoratori.» Quel giorno aveva sentito per caso alcuni di loro parlare olandese, e se ne era stupita. Parlò brevemente con loro, e toccò a loro stupirsi. Ovviamente, a quel punto era più che mai desiderosa di dare loro del cibo, ma c'era suo marito in casa. Siccome non poteva più lavorare in miniera, era diventato bigliettaio del tram, un posto nel servizio pubblico che aveva probabilmente ottenuto grazie al fatto di essere membro del Partito. Quel giorno «non faceva il primo turno, e si stava appena vestendo». Lei attese che andasse al lavoro, poi «preparai lo Schmalzbrot [pane spalmato di lardo] con sale sopra e grosse fette di pane e burro, e le avvolsi nella carta. Scesi da basso e volevo darle agli operai. Mio marito era proprio davanti alla porta d'ingresso. Pensavo che se ne fosse già andato. Era una cosa che gli facevo dietro le spalle. Proprio allora sentii il sorvegliante chiedere a mio marito: "Ha detto lei a quest'uomo di mettersi davanti alla sua porta? Non se ne va di sicuro. Ha detto che sua moglie ci porterà del pane"». Frau Körner risalì di corsa le scale. Herr Körner fece lo stesso. «Mio Dio, mio marito tornò indietro. "Dove vuoi farmi finire? Devo andare in galera?" Ma alla fine se ne fece una ragione. Gli dissi che ero [in parte] olandese e che avevo una sorella in Olanda... Gli dissi che mi rendeva così triste. Allora spiegò [alla guardia o al sorvegliante]: "Non c'è niente da fare con questa donna". Ho continuato a farlo. Sempre.» Una volta, il nemico fece qualcosa in cambio. Alcuni dei suoi figli stavano giocando accanto al «canale» che stavano costruendo quando una bambina, tentando di raggiungere i fratelli più grandi, cadde a testa in giù in una buca profonda. «Tutta la strada si mise a gridare: "La più bella dei figli della Körner è morta".» Un lavoratore «nemico» che Frau Körner aveva «foraggiato» saltò nella buca in cerca della bambina e la salvò. Per quanto coraggiosa e umanitaria fosse Frau Körner, le persone che, come aveva raccontato tanto a lungo, aveva nutrito erano «ariani», un «nemico» molto meno pericoloso da aiutare degli ebrei. Ma a quel punto, c'erano ancora ebrei a Oberhausen? Per la prima volta da quando aveva iniziato la sua storia, la sua voce si abbassò. «Ja. C'erano ebrei. Anzi, c'erano molti ebrei. Conoscevamo perfino un ebreo che non sapevamo fosse ebreo. Si chiamava Eichherz. Comprammo da lui i mobili quando ci sposammo. E mio marito andò dal dottore. Si chiamava dottor Flöss ed era nazista, un pezzo grosso [war ein höher Spiess], anche se non ricordo che carica aveva. E mio marito posò la giacca sulla sedia. Gli cadde dalla tasca il libretto [delle fatture], quello che si usava quando uno comprava i mobili e non poteva pagare tutto subito. Mio marito gli portava sempre i soldi finché non pagò il debito. E il dottore lo vide e disse [Frau Körner gridò

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per imitarlo]: "Cosa? Lei, che è membro del Partito, compra i mobili da un ebreo?" E lui non sapeva nemmeno che fosse ebreo.» Mi fece intendere che il marito non interruppe i pagamenti. Mi fece anche intendere che lei aveva sfidato il quasi-ordine di non fare spese nei negozi ebrei. «Uno comprava quello che gli piaceva. Dopo loro ti facevano impazzire. "Cosa?"» gridava. «"Hai comprato qualcosa in un negozio ebreo?" Come facevi a sapere chi era ebreo? Ora, uno sapeva che cos'era lui. Avevo sempre pensato che c'è una differenza come tra essere cattolici e protestanti. Lui è ebreo. Nicht?» Nelle ore e nelle sedute seguenti Frau Körner citò molte altre persone di cui sostenne di non aver saputo che fossero ebrei. Il caso che ricordava con maggior partecipazione era quello del «Hausarzt» [medico di famiglia] dei Körner. «Avevamo un Hausarzt, il dottor Stein. Non sapevamo che fosse ebreo. [Stein è di solito, ma non sempre, un cognome ebraico.] Mio Dio, ero furiosa, ah se non ero furiosa, quando un giorno andai in via del mercato e, dato che era ebreo... nudo, e aveva un cartello appeso al collo: "Io sono l'ebreo dottor Stein".» Cominciò a urlare. «Nudo come un verme, lo inseguivano in mezzo alla strada, con una frusta. L'ho visto io. Con un cartello al collo che diceva: "Ich bin ]ude Dr. Stein \ Ed era il nostro medico di famiglia.» Lui non aveva fatto niente? «Niente del tutto. Semplicemente avevano scoperto che era ebreo.» Continuò dicendo che molte persone correvano dietro di lui «per vedere cosa stava succedendo. Gli correvano dietro e guardavano. Cosa gli avrebbero fatto. Curiosi. Nein, nessuno lo aiutò. Loro si limitarono a spaventarlo e a urlargli: "Via gli ebrei, via questi maiali"». Quando le chiesi se lui l'avesse vista, rispose di no. «Allora tornai a casa e dissi a mia madre: "Nein, hanno fatto correre il dottor Stein nudo per la strada". Nudo, con un cartello che gli copriva la pancia e le vergogne: "Sono ebreo". Ecco cosa gli hanno fatto i porci nazisti. Davvero. «Avevamo un macellaio, ed era ebreo. Nemmeno lui sapevamo che fosse ebreo. Si chiamava Serfuss. Prendevamo sempre la carne da lui. Un giorno, mia madre voleva comprare la carne, e c'è una folla di persone fuori del negozio. Avrebbero colpito mia madre con una mazza. "Fai la spesa dagli ebrei, fai la spesa dagli ebrei. " Volevano cacciarla via. Mia madre che gridava, mia madre disse: "È da quando abito qui che compro la carne in questa bottega". Mia madre era molto, molto arrabbiata. Molto arrabbiata.» Quando le chiesi cosa accadde al dottor Stein, Frau Körner assunse un'espressione sconvolta. «Ja, lo portarono via. Lo portarono via. Fu terribile.» Fu penoso non poterlo aiutare? «Ci avrebbero picchiate a morte. Ci avrebbero picchiate a morte. Può starne sicura.» Sua madre era così disperata per il dottor Stein, disse, che si sarebbe messa a urlare «Pfui, pfui, pfui» (vergogna, vergogna) ai suoi torturatori. Lo fece? «Nein. Il mio Vati le avrebbe detto: "Presi insieme, impiccati insieme" [Mitgefange, mitgehangen]. Non immischiarti. Na, ecco come ci siamo passati, come semplici persone comuni.»

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Per essere una donna che avrebbe dovuto essere troppo impegnata con i figli e i lavori domestici per prestare attenzione al mondo attorno a lei, Frau Körner venne a conoscenza del triste destino di molte altre persone: per esempio, di un caso precoce di eutanasia imposto dai nazisti. «Nella casa dove abitavo viveva anche la sorella di mio cognato e lei aveva una figlia malata. Dimostrava quindici anni, ma ne aveva già diciannove. E stava a Essen, vicino a Oberhausen. Si chiamava Istituto Franz Hals [?] e ospitava ragazzi che erano un po'... La causa della sua malattia era stata una suppurazione dell'orecchio medio. Anni von Thiel. E andò prima all'Istituto Franz Hals. E poi all'epoca di Hitler, se avevi qualcosa, magari di ereditario, nicht? Ero di sotto con il mio secchiello del latte, arrivò il lattaio alla porta e presi il latte insieme a Frau von Thiel. E le arrivò una lettera da Essen. Anni era stata... trasferita, diciamo, a Krefeld, nicht? Aveva un'infiammazione ai polmoni. E [Frau von Thiel] si mise a urlare. Disse: "Mio Dio, guardi, l'hanno portata via da una settimana. Non potevano dirmelo prima? Avrei potuto andare a trovare Anni". E mio marito era a letto. Faceva il turno di notte in quel periodo, tornava a casa la mattina. Le dissi: "Aspetti, mi dia la lettera che la faccio vedere a mio marito". E andai in camera da letto da mio marito e gli dico: "Guarda cosa ha ricevuto Trautchen. Che [hanno portato] Anni a Krefeld". Mio marito disse: "Cosa?" Osservò di nuovo la lettera. "Non tornerà indietro. Li passano tutti nella camera a gas." «Perché loro, och, cosa crede? Era così. Quando le scrissero che l'avevano trasferita, sua figlia era già morta. E un paio di giorni più tardi ricevette un'altra lettera. Quando ci sarebbe stato il funerale. Mostrai anche quella a mio marito. Mio marito aveva un'aria così... "E successo quattro giorni fa. E sottoterra da quattro giorni." L'avevano uccisa col gas. Solo perché aveva una malattia.» Le chiesi come faceva suo marito a sapere cosa stava accadendo, e lei rispose: «Se lo poteva immaginare. C'era un uomo che non aveva voglia di lavorare. Ma non faceva male a nessuno, nicht? Vendeva sempre delle cartoline, porta a porta. A seconda dei periodi dell'anno, cartoline di Natale o di Pasqua o, per dire, biglietti di compleanno. Ed era pulito come più non si poteva [piekesauber]». Abitava con sua sorella, disse Frau Körner. «Quando tornava a casa, si lavava le mani, poi prendeva un asciugamano, si lavava, e si sedeva. E un bel giorno arrivano due poliziotti a casa di quella donna e dicono: "Abbiamo un certificato qui, eh, che suo fratello..." Gli presero la valigia. Lo misero in un istituto del genere e finì anche lui in una camera a gas. Un uomo che non avrebbe fatto male a una mosca.» Parlò anche di una persona che conosceva bene, un certo Herr Grünewald, la cui moglie era ebrea. «All'improvviso si venne a sapere che moglie e figli dovevano essere mandati via. Ja, anche lei fu mandata via, e non tornò più indietro. La mandarono in una camera a gas.» Venne a conoscenza anche di altre azioni disumane, anche se non portarono alla morte. Una sua compagna di scuola «aveva anche lei un figlio all'anno» e «non riceveva neanche un centesimo da Hitler, cioè dal gover47

no di Hitler, perché avevano tutti una malattia ereditaria. Dovevi essere sana, e anche i tuoi figli dovevano essere sani, in modo che potessero riprodursi i tuoi eredi e non quelli malati. Io ricevevo tutto quel denaro per i bambini e lei niente del tutto. Spesso mi diceva: "Non posso farci niente. Devo dar da mangiare ai miei figli proprio come te". Io rispondevo: "Neanch'io posso farci niente"». Frau Körner non seppe spiegare perché non venissero portati via anche quei bambini. Con così tanti figli, Frau Körner ottenne una Croce di madre? «Oh, ja,» rispose con un certo entusiasmo. «Prima ricevetti quella di bronzo. Poi ebbi altri due figli e presi quella d'argento, però dovetti restituire quella di bronzo. E quando ebbi il nono figlio, ricevetti quella d'oro e dovetti rendere quella d'argento.» Uno dei figli incorniciò la croce d'oro su un fondo di velluto. Ne fu orgogliosa? «Certo che ne ero orgogliosa. Eccome se ero orgogliosa. Quando ricevetti quella d'oro, e anche quella d'argento, ci fu una cerimonia in una scuola, dove le madri venivano invitate per un caffè e il dolce, nicht?» Non avrebbe voluto andare, disse. Perché? Proprio perché aveva così tanti figli da curare. «Poi mandarono qualcuno per sorvegliare i bambini e mi vennero a prendere in macchina.» La questione della Croce di madre poteva sembrare un brusco trapasso dopo tante storie d'orrore. Frau Körner, tuttavia, non interruppe il flusso della narrazione. Né sembrava collegare il regime all'origine di quegli orrori con quello che onorava la sua fertilità. Come molte famiglie tedesche durante la prima metà del Terzo Reich, i Körner vissero la loro vita separati dal Reich in sé. La loro era incentrata sulla famiglia e sulla casa. «Avevo un'incredibile mania della pulizia [Putzfimmel].» Mi raccontò che una volta suo marito portò a casa un collega, e quell'uomo disse che pensava che in famiglia ci fossero molti bambini (allora ce n'erano sette od otto), ma vedeva pochissimi indizi della loro presenza. Si domandava se avessero il permesso di muoversi. Frau Körner aveva «tovaglie inamidate qui», lì e dappertutto. «Facevo sembrare che non ci fossero così tanti bambini. Perché ero ambiziosa. Ambiziosa. Non volevo, così pensavo, che con tanti bambini, poveri come eravamo... Sono sempre stata orgogliosa.» Era anche fortunata. Herr Körner la aiutava molto, contrariamente a quanto accadeva in molte famiglie tedesche. «Era molto buono, molto buono.» Stravedeva per i suoi figli, il suo «Heiligtum» [le sue sante ricchezze], disse. Non gli rivelò che un uomo aveva sputato su uno dei loro figli perché aveva urtato per sbaglio un bidone della spazzatura. Lo avrebbe «picchiato fino a metterlo kaputt». (Effettivamente aveva picchiato un uomo che l'aveva insultata.) Dato che di solito lei aveva «il pancione» e faceva fatica a piegarsi, era lui che faceva il bagno settimanale ai figli più piccoli, due alla volta. Per fortuna che avevano trovato una casa col bagno! esclamò. Se era lei a lavarli, lui preparava da mangiare, per esempio una pila di frittelle di patate. «I miei figli lo ripetono ancora oggi: papà diceva sempre: "Adesso arriva qualcosa di delizioso che vi riempirà la pancia e non

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avrete bisogno di mangiare più per otto giorni".» Di lunedì, il suo giorno di riposo, le diceva di prendersi anche lei un giorno di pausa, di andare a riposarsi con una passeggiata nel parco, mentre lui badava ai bambini. Che cosa pensava degli ebrei un padre di famiglia così perbene, nonché membro del Partito? «Devo dire onestamente che in realtà mio marito aveva degli amici ebrei.» Con una risatina indicò allora la fotografia di un nipote il cui padre, americano, è ebreo. («Die Dicke» trova il ragazzino così carino che «se lo mangerebbe».) Herr Körner, disse, non avrebbe fatto obiezioni al fatto che sua figlia sposasse un ebreo ma «al massimo» avrebbe potuto dire: «Doveva proprio essere un ebreo?» Frau Körner disse poi che la preoccupava quello che lei definiva l'antisemitismo di un altro genero americano, parlò delle due amiche ebree di sua nonna, che lei chiamava zie, e concluse: «Be', noi non pensavamo davvero a quello che era un ebreo. "Zo vot?" [E con ciò?] dicevamo sempre». Citò anche il fatto che tra i prigionieri che posavano i tubi delle fogne lungo la strada, e che lei aiutava, c'erano anche ebrei polacchi. Quando io 10 misi in dubbio (mi sembrava difficile che ce l'avessero fatta ad arrivare così lontano), lei affermò: «Ja, lavoravano lì, era tutti perseguitati politici. E sapevo anche che c'erano molti ebrei fra loro». Una cosa che fece, disse, fu gettare loro di nascosto dei sigari, un articolo di valore sia per il consumo personale sia per il commercio. Ogni tanto qualcuno li regalava a suo marito, che li passava a lei con l'idea che lei 11 portasse a suo padre. Ma suo padre poteva comprarseli per conto suo, pensava Frau Körner. Così, mentre il marito dormiva, lei incartava con cura ogni sigaro e si metteva in attesa. «Ogni pomeriggio, davanti alla mia finestra, passavano i prigionieri con i fucili puntati contro di loro. Li portavano al lavoro e poi andavano a riprenderli, nicht?» Quando il grosso delle guardie se n'era andato, «aprivo appena la finestra, guardavo di sotto, e poi lanciavo un sigaro in mezzo al gruppo. Sapevano esattamente dove si apriva la finestra e lo prendevano al volo.» Qualche volta, disse, i sigari li comprava e faceva lo stesso. Non aveva mai pensato che avrebbe potuto fare qualcosa prima contro i nazisti? Come accadeva talvolta, rispose a un'altra domanda. «Avremmo dovuto lasciare le cose come stavano. Perché non potevano lasciare che gli ebrei fossero ebrei?» Aggiunse con rabbia: «Dovevano proprio essere //Partito? Avrebbero dovuto lasciare che ci fossero gli altri partiti, come la SDP e la CDU e la FDP, per come la vedo io».1 Si mise a urlare. «Avrebbero dovuto lasciare che ognuno avesse il suo Partito e [non ammazzare la gente].» Quando accennai al fatto che alcuni accusavano gli ebrei di avere delle colpe, lei rispose con sarcasmo. «Ja, hanno sempre detto così, nicht? Se uno vuole vendere qualcosa di caro o "schnappt" [articoli difettati e scontati], la gente dice subito: "Ja, ma non sarai un ebreo, vero?" Gli ebrei vogliono tutto, nicht?» Lei era d'accordo? «Ne. Io personalmente non ho mai... Senta, io mi sono sposata giovane...» Andò avanti a parlare della sua vita finché non le chiesi cosa c'entrava con gli ebrei. Lei non si offese. «Niente. Solo che non avevo tempo per la politica.»

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Frau Körner allevò il figlio ebreo del macellaio che aveva sposato una ragazza non ebrea conosciuta in negozio. Entrambi vennero deportati, lui in una «casa di lavoro». Le chiesi se intendeva un campo di concentramento, e lei rispose che non lo sapeva. «Mia madre diceva sempre che cose del genere non esistevano. Voglio dire, la gente che ci lavorava, nemmeno loro sapevano cosa stavano facendo. Seguivano la corrente. Quello che fanno gli altri, pensavano, dobbiamo farlo anche noi. Iscriverci al Partito, odiare gli ebrei, e così via, immagino. «Non potevi dire molto. Durante il nazismo non avevi nemmeno il permesso di avere una tua opinione, nicht? Come se si sapesse già che uno o l'altro si erano lamentati del Partito, nicht? Ne conoscevamo uno. Si lamentava. Jeschke. Mio marito conosceva suo figlio perché cantava in un coro con lui. Lo tenevano d'occhio da molto tempo. Era una spina nel fianco dei nazisti, nicht? Gli dicevano sempre: Comunista, ma non era comunista. I genitori erano co« perbene. Erano persone così perbene. E un giorno si sente in giro che hanno picchiato Jeschke. Nessuno sapeva dove. Nessuno sapeva come. È all'ospedale.» Disse che a riferirglielo era stata sua figlia Milli, che lavorava nelle cucine dell'ospedale. (O Frau Kömer si confondeva sulla data o sul fatto, o Milli era troppo piccola per lavorare.) Gli aggressori «gli avevano rovinato la spina dorsale e tutto. Mio marito andò a trovarlo e [Jeschke] gli disse che era stato aggredito per la strada. E disse a mio marito: "Hein, puoi prestarmi cinquanta marchi?" Noi non avevamo così tanti soldi, quello poteva... Mio marito disse: "Per cosa ti servono?" Allora gli spiegò che finché era all'ospedale non poteva avere le sigarette, niente da leggere, niente di niente. Mio marito gli diede cinquanta marchi, e così lui aveva i soldi, nicht? E allora fecero difficoltà a mio marito. Che aveva prestato dei soldi a questo comunista. Si vede che qualcuno nella stanza si era accorto di quello che era successo. Finì anche sul giornale, dopo. C'erano tre letti. Doveva esserci per forza qualcuno che aveva notato quello che aveva detto dei nazisti, nicht? E poi Milli torna a casa una sera e dice: "Papà, non devi più dare cinquanta marchi a Jeschke". Mio marito chiese: "Perché?" "E morto." Era morto.» Frau Körner apprese che un suo parente era stato quanto meno testimone del pestaggio. «È finito in un manicomio, dopo. Era chiaro che se l'era presa a cuore, si rimproverava tutto. Nessuno poteva provarlo, ma la sua cattiva coscienza... Non sono una che corre sempre in chiesa, ma ho sempre detto: ha avuto la sua punizione.» L'uomo che secondo lei impazzì era il genero del vecchio zio Julius che, come Jeschke, non pronunciava mai le parole «Heil Hitler!». Un mattino, lui e la moglie si alzarono e tirarono gli scuri. Tutta la finestra era stata dipinta di nero, tranne uno spazio a forma di svastica. Anche Frau Körner, dal canto suo, non salutava «mai con "Heil Hitler",» disse ad alta voce. «Perché era una cosa così stupida. Certe volte facevo una battuta. Se uno diceva "Heil Hitler!" io chiedevo: "Perché, è malato?"» (Heil significa Salute ed è anche l'imperativo del verbo curare.) Probabilmente la sua battuta non la faceva con gli estranei.

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Più Frau Kömer parlava, più i suoi ricordi assomigliavano alle sue abbondanti provviste. Talvolta sembrava che aprisse un cassetto dopo l'altro nella sua memoria e ne prendesse in mano il contenuto per un'ispezione. «Un giorno tornò a casa mio fratello, era sei anni maggiore di me, e disse: "Mio Dio, li buttavano fuori come maiali, prima li bastonavano, comunisti, anche, e quando non ce la facevano più a camminare, li infilavano in un vagone e li portavano chissà dove". Ma noi ne conoscevamo uno buono. Era nazista. Aveva un grado molto alto e morì. Non che gli avessero fatto qualcosa. Aveva avuto un funerale ufficiale. Un funerale meraviglioso. Andammo a vederlo. Uno spettacolare funerale nazista con la bandiera e tutto, e poi lo seppellirono. C'era il suo pugnale sulla tomba. Ma non quello vero, capisce, un pugnale di pietra.» Le chiesi perché era buono, e disse che quell'uomo, che secondo lei era un certo Theo Spickermann, intervenne presso Rudolf Hess per ottenere il permesso per un «matrimonio di guerra» tra un soldato al fronte e la fidanzata incinta. In maniera più significativa intervenne anche in un caso di aborto. Durante il nazismo, l'aborto per le donne «ariane» era severamente proibito. (All'altro capo dello spettro sociale nazista, tuttavia, era vero il contrario: le donne ebree imprigionate era costrette all'aborto.) Nel caso che ricordava Frau Körner, una sua conoscente «era incinta e non voleva il bambino, e abortì. La donna che praticò l'aborto era vecchia, si chiamava Esser. Poi andò da lei anche la cognata [incinta] e Frau Esser non voleva farlo. Le disse: "Non voglio farlo di mestiere. E solo che mi ha fatto compassione e l'ho aiutata". Allora lei andò a denunciare la donna. E fu messa in prigione e ci restò per sei o nove mesi». Quando lo venne a sapere, Herr Spickermann «scrisse alle più alte autorità che Frau Esser l'aveva fatto perché la donna [incinta] era molto malata e non poteva avere il bambino e tutto e adesso lei [Frau Esser] se ne sta in galera. La lasciarono andare. «A quell'epoca, quando dovevi avere un bambino e non lo volevi, si diceva sempre: "Meglio dieci sul cuscino che uno sulla coscienza" [Lieber zehn auf dem Kissen wie eins auf dem Gewissen]. Se aspettavi un bambino, dovevi averlo, e allora venivi elogiata, onorata, rispettata [gelobt, geehrt, geachtet].» Questo aveva avuto influenza su di lei? «Ne. Non volevo così tanti figli.» Disse di aver spiegato ai suoi figli che se andava a letto «con papà» subito dopo aver avuto il suo ciclo, avrebbe «tremato per quattro settimane, ripetendo: spero di avere di nuovo il mio ciclo, spero di avere di nuovo il mio ciclo. Dicevo: "Ero incinta prima di saperlo". Questo è il fatto. Non volevo così tanti figli». E nemmeno suo marito, disse. «Alcune volte ero già incinta di cinque mesi e ogni mese speravo ancora di avere il mio ciclo. Non dicevo niente finché mio marito si accorgeva da solo che c'era una nuova vita.» Rise. «Eravamo a letto, nicht? Eravamo allacciati e poi ci voltavamo, e allora la mia pancia premeva sulla sua schiena. Così lui diceva: "Da quanto tempo non hai le tue cose?" C'era già una nuova vita dentro di me. Ero troppo vigliacca per dire: "Du, sto aspettandone un altro"».

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Non sapendo che il controllo delle nascite era illegale, le chiesi se non potevano usare dei preservativi. «Ja, ja, potevo, potevo. Ma non riuscivi ad averne, nicht? Non fa bene al corpo, non fa bene al...» Un preservativo? «Vuole dire "die Pariser"? [I tedeschi chiamavano "parigini" i preservativi.] Ach, mio marito non riusciva a sopportarli.» Non disse che a causa della campagna nazista contro le pratiche contraccettive per gli «ariani», i preservativi non si trovavano molto facilmente, ma aveva il suo peso anche il costo elevato. «C'erano i soldi per comprarli?» chiese. «Mia madre tremava e pregava ogni volta che avevo di nuovo il pancione. Allora diceva: "Deve proprio succedere?" Oggi non capisco perché non volesse che ne avessi così tanti, dato che anche lei non era stata da meno.» Mentre la famiglia Körner si espandeva, lo stesso faceva il Terzo Reich, in parte, stando alle apparenze, proprio per fare spazio a tutti in nuovi bambini «ariani» come i suoi. Era una menzogna, naturalmente. La sola testimonianza di Frau Körner basta a dimostrare che i nazisti fecero di tutto per incoraggiare la nascita di bambini «ariani», ma, come si è già detto, lo fecero perché il tasso di natalità tedesco era particolarmente basso. Le truppe tedesche non invasero la Polonia per conquistarsi nuovo spazio per gli asili infantili. Cosa pensò quando incominciò la guerra? Frau Körner non aveva ricordi dei suoi sentimenti. «Mio marito disse: "Mio Dio, mio Dio, possiamo avvelenarci tutti. Perderemo la guerra". Diceva: "Quelli ci ammazzeranno". Mi spaventai tantissimo, nicht? Ma mentirei se dicessi che fu un brutto periodo. Non è vero. Be', per me, all'inizio, con le tessere annonarie, i medici e così via, non avevamo certo fame. In più, io ero industriosa. Lavoravo a maglia, cucivo. Ottenevo un po' di materiale da questo e un po' da quello, a i miei piccoli potevo fare questo e quello. Arrivava gente a chiedermi: "Può fare un paio di pantaloni per il nostro ragazzo, fare questo, fare quello?" Se un colletto era liso, tagliavo un pezzo e facevo un colletto nuovo, e sotto ci mettevo un pezzo di mussola. Ja, mi davano sempre qualcosa per questi lavori, nicht?» Disse che molte persone le chiesero anche le tessere annonarie. «"Non avrebbe un buono in più per il latte da darmi? Non ha un buono per lo zucchero?" Quelle non le vendevo. Le davo alla gente e basta.» Per i Körner il «brutto periodo» cominciò con i bombardamenti di ritorsione sulla Germania. «Tutto saltava per aria, tutti venivano feriti, vedevi le bombe che cadevano, vedevi i bombardieri, arrivavano i piloti, mein Gott.» Si abbandonò a questa descrizione quando le chiesi se aveva assistito alla Notte dei cristalli, che avvenne anni prima. Risultò che ne era stata testimone. Anzi, lei, il marito e il loro figlio maggiore andarono a guardare i danni. Quando osservai che si disse che la «Kristallnacht» era derivata dalla «furia del popolo», lei replicò: «Ja, ja». Aggiunsi che altri invece sostenevano che fossero stati i nazisti a organizzarla. «Anche questo è possibile,» disse «ma non lo credo.» La sua logica era la seguente: «Saccheggiarono un negozio di abbigliamento, vestiti da uomo e così via. Poi diedero fuoco alle case vicine, nicht? E scapparono via

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con la seta. Per cui non era semplicemente il Partito. Era gente comune ad averlo fatto». Quando dissi che secondo alcuni i tedeschi avevano saputo molte cose, lei mi interruppe. «Chiusero gli occhi, nicht?» Lei cosa ne pensa? «Secondo me, se davvero lo sapevano, e lo sapevano abbastanza, e [se] avessero tentato di fermarlo o di fare qualcosa, sarebbero stati uccisi di sicuro. Bastava un'osservazione stupida, e ti ammazzavano.» Sentì qualche voce riguardo alla sorte degli ebrei? Intendevo l'Olocausto. Lei no. «Alla fine gli ebrei prenderanno il potere e ci ammazzeranno tutti. Sentivi sempre cose del genere.» I timori più immediati dei Körner, tuttavia, venivano dal cielo. «Mio marito gridava: "Fuori! Fuori dal letto". Mi lasciava dormire il più possibile, perché sapeva che avevo bisogno di riposo, nicht? Un bambino al petto, un altro nella carrozzina. Quelli che si alzavano dovevano vestire gli altri. E allora mio marito mi faceva stare a letto fino all'ultimo minuto. Poi certe volte quando mi alzavo ero così sconvolta che invece di vestirmi mi svestivo, e mio marito mi diceva sempre: "Devi vestirti". Perché io ero come in trance. C'erano care persone nel rifugio, quando iniziava il rumore, cadevano le bombe, e allora la gente diceva: "Frau Körner non è ancora arrivata, presto, presto". Così venivano a cercarmi. Io arrivavo con la carrozzina, un bambino piccolo sopra, uno seduto e altri due dentro, arrivavo di corsa. Erano già lì ad aspettarmi, in tre, prendevano la carrozzina e via, dentro il rifugio.» Dov'era suo marito, che aveva un grande ruolo all'inizio della narrazione, ma alla fine era sparito? Nel 1943 fu chiamato alle armi. Anche se non fu mandato al fronte, ma a fare un lavoro amministrativo a Colonia, disse, lei era ugualmente sconvolta. All'incirca nello stesso periodo la loro casa venne bombardata, e andarono a vivere per un po' con la suocera, che era «davvero buona, più di mia madre. Mia suocera avrebbe donato perfino l'ultima cosa che aveva. Diceva dieci volte: "Sono piena", ma non era piena. Io facevo lo stesso». Disse che talvolta di pomeriggio si sentiva debole per mancanza di cibo. Quando i bombardamenti si infittirono, i Körner furono evacuati in una fattoria vicino a Schwäbisch Hall, nella Germania sud-occidentale. Herr Körner riuscì a ottenere una licenza per assicurarsi che fossero tutti insieme e al sicuro. Lui «non voleva che ci fosse un bambino qui e un altro là e un terzo da un'altra parte ancora» e diceva che «non voleva raschiare via da un muro i suoi bambini». Perfino in una lontana fattoria, Frau Körner trovò un nemico da aiutare. Questa volta era una ragazza russa prigioniera. «Le diedi un vestito che mi era piccolo. Avevo tessere per le scarpe, tessere per i vestiti. Lei aveva la taglia di mia figlia Mia. Andò a far la spesa con Mia e Mia le diceva di non aprir bocca. Comprarono le scarpe e Mia le diede alla piccola. Ora, era stata evacuata anche una tedesca. Era tremendamente gelosa e fece la spia. Mi denunciò all'amministratore in paese e disse che davo del cibo [alla ragazza russa]. Le diedi sempre del cibo.»

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Comunque, Frau Körner non venne punita. Diede da mangiare anche a un prigioniero francese che si chiamava Louis e faceva il bracciante alla fattoria. Lui e la russa erano amanti (una relazione che almeno tre nazioni avrebbero considerato verboten). Louis non riusciva a mangiare la zuppa preparata alla fattoria, acqua calda versata su pane secco e un cucchiaio di lardo. Così Frau Körner, che come al solito preparava la sua famosa zuppa di latte, si mise a nascondere la pentola in un posto dove Louis poteva servirsi da solo, cosa che faceva. Un giorno gli disse che non ne avrebbe più avuta, dato che non l'aveva nemmeno ringraziata. In campagna la guerra finì tranquillamente. Frau Körner e tutti i suoi figli erano sopravvissuti, ma lei non sapeva cosa fosse successo al marito. Non aveva sue notizie da sei mesi. E lui non sapeva che lei era di nuovo incinta, e mancavano pochi giorni al parto. I primi alleati ad arrivare erano francesi. Louis dimostrò di essere riconoscente per la zuppa di latte, dopo tutto, e raccontò ai soldati cosa aveva fatto Frau Körner. Q u a n d o se ne andarono otto giorni dopo, lasciarono alla famiglia un pacco di provviste. «Sapone, tutto. Biscotti. Avevamo tutto.» Quindi arrivarono gli americani, che «furono molto gentili con noi». Ma disse anche che «squarciarono i letti e le piume andavano da tutte le parti» e rovistarono l'ufficio del sindaco e stuprarono la figlia del sindaco. Un ufficiale americano, la cui nonna era di Berlino, parlava un ottimo tedesco. «Disse: "Penso che i tedeschi non amino i bambini", che i tedeschi avevano attraversato la Francia e inchiodato i bambini ai portoni delle chiese. Io non potevo crederci. E veramente impossibile. Posso credere a qualunque cosa, ma non a quella. H o sempre detto che i tedeschi amano i bambini.» Tuttora non crede che i tedeschi possano aver commesso atrocità simili nei confronti dei bambini. Frau Körner partorì la sua ultima figlia, Brigitte. «Gitta nacque alle quattro del mattino e quella sera alle sei mio marito era lì. L o stesso giorno.» Herr Körner non era andato in battaglia, ma all'ospedale. L a vecchia polvere della cava lo stava uccidendo. Poco dopo la fine della guerra i K ö m e r appresero che anche altri membri della famiglia avevano aiutato il «nemico». Una cugina aveva «nascosto un ebreo per due anni o due anni e mezzo nella soffitta» della sua casa vicino a Oberhausen. «Lui se ne andava persino in giro la notte, per prendere una boccata d'aria e muovere le gambe.» Frau Körner disse che l'uomo indossava gli abiti del marito della cugina, così se qualcuno l'avesse visto avrebbe pensato che fosse lui. «Almeno lui uscì vivo, ma il resto della famiglia fu uccisa. La madre, i fratelli. Si chiamava Kahn.» La cugina «in seguito venne perfino onorata». E anche Frau Körner lo fu. Uno dei suoi figli fu colpito da una malattia della pelle così grave che dovette portarlo da un medico in un'altra città. L'unica maniera di andarci era con il treno. Dato che i treni e i binari erano stati pesantemente danneggiati dalla guerra, il viaggio «andò avanti un pezzo alla volta», inframmezzato da lunghe attese sui marciapiedi delle

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stazioni. «All'improvviso un uomo mi tocca sulla spalla e con un incerto tedesco mi dice: "Lei non è la mamma con tanti bambini che abitava..." Risposi: "Sì, e lei chi è?" Adesso sono a Stoccarda, alla stazione, e quest'uomo mi riconosce. E mi dice: "Una bambina era caduta nel canale?"» Lui era quello che si era gettato per salvarla. «Mein Gott, l'uomo urlava. Urlava. Diceva: "Il bene che lei ha fatto". Ero l'unica tra tutte le donne tedesche... Volevano denunciarmi, perché l'avevo fatto. Avremmo dovuto farli correre, quegli scarafaggi. Non voglio farmi gli elogi da sola. Oggi sono felice di averlo fatto. Lo faccio ancora. Non ho molti soldi. Non ho soldi da parte. Dico sempre: ogni mese ricevo nuovi soldi che non ho fatto niente per avere. Nicht?» Scoppiò a ridere.

NOTE 'La SDP è il partito socialdemocratico, la CDU l'unione cristiano-democratica e la F D P il partito liberale.

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QUESTIONE DI DESTINO (Frau Marianne Bauer)

Lei lo conobbe nel luglio 1938, mentre entrambi erano in vacanza sull'isola tedesca di Sylt nel Mare del Nord. Negli anni passati, lei aveva trascorso le vacanze con la famiglia: i genitori e i tre fratelli. Ma siccome era cresciuta e abitava a Berlino, lontano da casa, per la prima volta andava in vacanza da sola. Erano stati i genitori a organizzare tutto. Lei aveva ventun anni. Era andata a Berlino a studiare, o meglio a ricamare altri punti per il quadretto a punto croce che costituiva l'educazione appropriata per la figlia di un industriale. A parte la scuola superiore, aveva passato un anno in un collegio dove «una imparava le cose di cui avrà sempre bisogno: cucinare, cucire. Oppure come comportarsi. Si veniva guidate per tutto il percorso obbligato». Alla scuola di Berlino «si imparavano varie professioni adatte alle donne». Disse che siccome suo padre si interessava di alimentazione, lei studiava alimentazione. Come potesse applicare le sue conoscenze non era in questione. Lei voleva studiare medicina, disse, e andare in Africa ad aiutare la gente, ma i genitori non vollero che si allontanasse così tanto dalla famiglia. In effetti, durante i suoi corsi di alimentazione a Berlino fecero in modo che abitasse presso alcuni parenti. E le trovarono anche una pensione modesta e pulita a Sylt. Ma non potevano organizzare a loro piacimento tutta l'isola. «Lì incontrai Peter.» Come successe? «Ja. Come successe?» Rise per un attimo. «In seguito lui mi raccontò di aver notato il mio modo di camminare, di muovermi. Che non camminavo come le altre ragazze, ma avevo una scioltezza particolare, che non aveva mai visto prima. E di sicuro lo infiammò il mio viso innocente, credo. E la pettinatura. Avevo una specie di pettinatura alla Gretel, con la treccia avvolta attorno alla testa, e credo che tutto l'insieme lo abbia commosso. Per come me l'ha descritto lui.» Rise di nuovo, come se fosse la ragazza che stava ricordando. «Poi mi resi conto che, ovunque andassi, lo vedevo sempre. E lui era un po' più vecchio di me.» Non avevano mai scambiato una parola. «Poi, un giorno, me ne stavo davanti a una libreria o a un negozio del genere e guardai dentro. Lui era seduto all'interno e mi guardò senza abbassare gli occhi. Per la prima volta lo vidi veramente. Per me, in quell'istante, è stata una questione di destino. Non si può dire altrimenti. È stato l'inizio di questa... di questa conoscenza più approfondita. E stato anche qualcosa, come posso dire? Qualcosa di irrevocabile.» 56

Il suo sguardo «era qualcosa di completamente nuovo. In qualche modo faceva persino male. Aveva una traccia di malinconia, però. Non riuscivo affatto a spiegare quel volto, ma aveva qualcosa a che fare con la compassione. Mi commosse all'istante. E quando faccio un'esperienza del genere, non posso semplicemente dire: be', è finita». Il loro rimase un contatto puramente visivo fino a un giorno sulla spiaggia. Marianne era seduta sulla sua grande sedia di bambù. Peter, che alloggiava nella casa estiva di una certa Frau Erichsen, nel vicino villaggio di Keitum, passò accanto con lei. «Lo vidi insieme a questa donna che non conoscevo, e avanzò verso di me. Poi entrambi raggiunsero la mia sedia da spiaggia e Frau Erichsen mi chiese se volevo farle visita. Le risposi di sì, l'avrei fatto volentieri, e questo fu l'inizio. Fu così che ci conoscemmo. Parlammo. Ero sempre molto timida, perché pensavo: Oh Dio, lui sa così tante cose e io in realtà così poche, anzi fondamentalmente non so niente del tutto. Lui aveva un'aria così adulta, mentre io ero ancora così sciocchina. «Poi cominciammo a vederci spesso. Andavamo avanti e indietro sulla passeggiata e di sera c'erano sempre concerti. Io stavo in una pensione molto semplice, che rispecchiava i desideri dei miei genitori, e Peter arrivava sempre in bicicletta da Keitum e mi accompagnava alla pensione e diceva: "Adesso è ora che tu vada a letto". E io gli chiedevo: "E tu cosa farai?" "Oh, darò un'occhiata in giro." Così era già mattina quando arrivava a Keitum, però sapeva che io ero al sicuro. C'è qualcosa di commovente, vero?» Seppe delle sue origini fin dal principio. «Mi disse di essere mezzo ebreo.» (Usò l'espressione ein Halbjude.) «Mi fece notare subito che avrebbero potuto esserci delle difficoltà. Ma per come ero io, una cosa del genere non mi faceva né caldo né freddo. E anche le difficoltà. Mi facevano infuriare. Gli dicevo: "Non devi preoccuparti per me. Non è un problema. Anzi, al contrario". Diventavo rabbiosa all'idea che potessero esserci delle difficoltà. Per me non aveva importanza. Ma per i miei genitori sì.» Alla fine dell'estate, Marianne tornò a Berlino per continuare a studiare alimentazione. Anche Peter tornò a Berlino; lavorava come disegnatore tecnico. L'idillio continuò. «Ci vedevamo spesso. Qualche volta mi portava in barca a vela, e così via.» Nell'autunno del 1938, le leggi naziste per la «purezza del sangue tedesco» che proibivano il matrimonio o i rapporti sessuali «tra ebrei e cittadini tedeschi» erano in vigore da tre anni. Peter Bauer era biondo e con gli occhi azzurri, aveva il cognome «ariano» del padre, nominalmente era cristiano ed era passato indenne (a quanto ne sapeva Marianne) attraverso i primi anni del Terzo Reich. Il padre, con cui lui non aveva niente a che fare e da cui la madre aveva divorziato da molti anni, non entrava nel quadro. La madre ebrea, a cui era molto legato, viveva anche lei a Berlino. A tempo debito, presentò la fidanzata alla madre. «Ci comprendemmo l'un l'altra. E ci piacemmo moltissimo, fin dall'inizio.» 57

Marianne Jung proveniva da quella che lei definiva una «casa cristiana» nel paese (lei lo chiamava villaggio) di Schalksmùhle, nella zona industriale della Ruhr. Herr Jung, che era rimasto vedovo, aveva una figlia sposata, Elsa (a cui Marianne si riferiva chiamandola «mia sorella»), che abitava nelle vicinanze. Con la seconda moglie ebbe tre figli e Marianne. Era, e non c'era bisogno di dirlo, «molto protetta». «Avevo una relazione del tutto amorevole [innig] con mio padre. Ci amavamo tantissimo, devo dire. Amavo moltissimo anche mia madre, ma lei rappresentava l'autorità, dato che doveva tenere sotto controllo quattro bambini. Per esempio, a tavola il mio posto era accanto a mio padre, e a me certe cose che mia madre voleva assolutamente che mangiassi non piacevano. È un dettaglio che mi viene in mente proprio in questo momento. Nel momento in cui mia madre faceva qualcosa e non guardava, mio padre scambiava velocemente i piatti, prendendosi il mio e mettendomi davanti il suo, vuoto.» A tavola non si parlava mai dell'attività che Herr Jung aveva iniziato e sviluppato, un'azienda elettrotecnica che occupava un intero edificio industriale. «In casa non si parlava mai degli affari. Non venivano mai nominati. So solo che nei primi tempi, quelli duri, quando mio padre si mise in proprio, mia madre si caricò di tutti i sacrifici e gli restò coraggiosamente a fianco. Quando certe volte gli venivano i rimorsi e diceva: "Devi privarti di così tante cose", lei gli ridava coraggio dicendo: "Sono felice di farlo, non è un peso per me". Lei era davvero presente accanto a lui. Ma più tardi, gli affari non venivano mai nominati. Praticamente non sapevo nulla di ciò che faceva mio padre. A scuola mi venne chiesto [dal maestro], come a tutti: "Cosa fa tuo padre?" Io non sapevo rispondere. Stavo ancora cercando di immaginarmi cosa fosse in effetti mio padre, quando qualcuno esclamò: "L'industriale! " Per me fu una benedizione che non toccasse a me rispondere. Ecco come stavano le cose. Anche di guadagni non si parlava mai, se avessimo tanti o pochi soldi. Non avevo quasi nemmeno la mancia.» Era un marco alla settimana. Se le sue amiche volevano andare a sedersi a un caffè, lei non poteva: alla fine della settimana doveva far vedere che quell'unico marco ce l'aveva ancora. « L o scopo non era quello di diventare avari. Era solo un modo di mostrare che non era una cosa ovvia avere denaro, che bisogna anche adoperarlo con attenzione, che bisogna risparmiare.» Una volta che ci furono i soldi, tuttavia, sua madre, che era appassionata di moda e aveva «un gusto eccellente», spendeva a piene mani per i vestiti della figlia. «Non mi negò mai niente né disse mai che una cosa era troppo cara. Con mio padre poteva capitare, ma con mia madre no. Se trovava qualcosa di bello per me, e a me piaceva, me lo comprava.» Il gusto eccellente si è mantenuto. Frau Bauer è l'immagine dell'eleganza: magra, ricca, ben pettinata. Con i suoi begli occhi, il trucco preciso, e il vestito poco appariscente, sarebbe stato difficile trovare qualcosa di più perfetto. L'unica pecca nel suo aspetto erano i capelli, grigi alla radice e neri alle punte, cosa su cui attirò subito la mia attenzione, dicendo che aveva deciso di non tingerli più. 58

Quando ci incontrammo, abitava da sola e con eleganza in un grande condominio moderno a Wuppertal, una città della Ruhr. Pesanti porte di vetro si aprivano su un salone splendido e luminoso con un piano a coda, quadri moderni e sculture antiche. Lucide brochure sistemate su uno sgabello la invitavano a vernici in gallerie straniere. Poneva dei limiti all'esibizionismo, e si rifiutava di possedere una Mercedes. Le pareva un'ostentazione. Le piaceva guidare la sua nuova Volkswagen. I suoi modi, contrariamente al suo aspetto, trasmettevano un'idea di tenera e malinconica intimità. Anche se a prima vista sembrava timida e insicura, tuttavia il suo atteggiamento invitava a un rapporto non formale. Pochi minuti dopo essere arrivate a casa sua, intraprese con discrezione una manovra di mutua conoscenza, bagnata dalla più raffinata delle bevande: una mezza bottiglia di champagne, versata in elaborati calici veneziani e accompagnata da tartine di varie forme. Gli scrupoli dovevano essersi placati, perché ben presto la conversazione divenne estremamente personale. Espresse il suo nervosismo all'idea di parlare con un'estranea dell'amore e del trauma della sua vita, e per di più in un registratore. In seguito mi rivelò che alla decisione di concedere un'intervista era giunta per sfidare un famigliare le cui obiezioni, alla superficie, si riducevano all'invito a non fidarsi degli americani. E quando si decise a parlare, lo fece sul serio: la prima volta per più di tre ore senza interruzione. In seguito si meravigliò guardando l'ora. Poi sfidò le convenzioni saltando oltre una barriera sociale che avrebbe potuto resistere per anni, se mai fosse caduta. Propose che usassimo fra noi il familiare du. Nessuna di queste sfide odierne, tuttavia, poteva reggere il confronto con quelle che aveva affrontato nei confronti di Peter Bauer. Il destino poteva aver stabilito che loro stessero insieme, ma i nazisti e i suoi genitori no. Herr e Frau Jung le ordinarono di tornarsene subito a casa da Berlino, studi di alimentazione o no. «Non ne avevo parlato nelle mie lettere. L'avevano scoperto in qualche modo.» Disse: «I miei genitori naturalmente si erano accorti che uscivo con Peter», ma non aveva idea di come avessero scoperto le sue origini. A quanto pare non voleva dire seccamente che erano stati i suoi parenti a raccontare di lui ai genitori. Era curiosa anche la sua spiegazione del motivo per cui non era stata lei stessa a dirlo ai genitori. «Non credevo che fosse importante. Per niente. «Ma poi vennero a sapere che ci vedevamo spesso e che la nostra era un'amicizia molto stretta. E di sicuro mio padre guardava in avanti. E chiaro. Forse prevedeva cosa avremmo dovuto affrontare e comprensibilmente voleva impedirlo.» Reagì all'ordine dei genitori come una brava figlia. Effettivamente tornò a casa. «Non ce l'avevo coi miei genitori, per quello che mi ricordo. Non ce l'avevo affatto. Ma allo stesso modo, era naturale che il mio legame con Peter sarebbe durato. 59

«Ci scrivemmo molte lettere. Lettere molto, molto lunghe. Era una specie di introduzione alla vita, si potrebbe dire. Attraverso quelle lettere entrai in contatto con molte cose. Anche con la letteratura. Certe volte lui componeva poesie e così via e si interessava di tutto e così mi scriveva di tutto. Per me tutto ciò aveva un grande significato.» Lui non indirizzava le lettere direttamente a lei, ma a Elsa che, insieme al marito, «si prendeva cura di me e conobbe anche Peter e lo aveva caro». Peter conobbe anche i fratelli maggiori di Marianne, Heinz e Siegfried. Quest'ultimo, che studiava a Berlino, arrivò a conoscerlo molto bene. E una volta Marianne, dopo aver trascorso una settimana a sciare in Austria con Elsa e una nipote, fece, durante il viaggio di ritorno a Schalksmühle, una deviazione a Heidelberg per incontrare Peter. E tutto questo rimase un segreto per i genitori? «Ja.» Fece un sospiro profondo. Sosteneva con forza che il fatto che Peter fosse mezzo ebreo non fosse la sola e nemmeno la maggiore obiezione dei genitori alla loro relazione. La ragione principale, insisteva, era l'affiliazione religiosa della sua famiglia. «Non appartenevamo a una chiesa ma a una congregazione [Versammlung] cristiana. Era molto rigida. A quell'epoca, c'era una grande differenza tra l'appartenere alla chiesa o a questa congregazione. Se uno era rigorosamente cristiano, o era devoto, allora era accettabile, ma se invece lo era per caso, allora non era desiderato.» Peter era «normale, voglio dire completamente cristiano», come si espresse lei. Ma in effetti lo era «per caso». Il fatto che la sua affiliazione non significasse un'appartenenza a una chiesa «aveva la sua importanza per i miei genitori, e non piccola. Era di sicuro altrettanto importante del fatto che fosse mezzo ebreo. Per di più, mio padre voleva che evitassi di avere qualunque amicizia maschile. Mi considerava ancora troppo giovane. Ero protetta e dovevo rimanere protetta, per quanto possibile. Anche questa era una ragione molto importante». I suoi genitori, disse, non erano antisemiti. All'inizio, non erano nemmeno antinazisti. Anche se di politica, come di affari e di soldi, in casa non si parlava troppo, «so per certo che mio padre, che in seguito naturalmente divenne l'esatto contrario, era favorevole a Hitler perché, grazie alla costruzione dell'Autobahn e così via, aveva tolto dalla strada i disoccupati. All'inizio, tutto sembrava positivo, o almeno molte cose lo parevano. So che mio padre lo diceva e noi eravamo d'accordo. Ma sull'argomento non facevamo lunghe discussioni». Disse che sarebbe stato fuori questione per i suoi genitori iscriversi al Partito nazista. Quando le chiesi se il padre dava un sostegno finanziario al Partito, come facevano altri industriali - è inconcepibile che non avesse beneficiato della presa del potere da parte dei nazisti - disse di non saperlo, ma anche se l'avesse fatto la questione non sarebbe stata discussa perché di soldi non si parlava mai. Prima di conoscere Peter, Marianne aveva avuto per conto suo due occasioni (a quanto ricordava) di scontro con il nazismo. Una riguardava 60

l'ordine di boicottaggio dei negozi ebrei. «Ero molto, molto furiosa. La polizia o quello che era [erano le camicie brune delle SA] si mettevano davanti e nessuno poteva più entrare. Cercai di entrare perché ero così furiosa. Conoscevo il proprietario, conoscevo quelle persone. Eravamo sempre andati lì. Naturalmente fui sospinta indietro.» Il secondo caso avvenne nel 1937. Era ancora alla scuola superiore, e faceva parte del Bund deutscher Mädel. «In realtà venivamo tutte reclutate nel BdM. [Quasi] tutte nella mia classe eravamo nel BdM. A quell'epoca non ci pensavo. Pensavo: se lo fanno tutti ed è l'abitudine, uno si adegua, nicht?» Un'altra abitudine per tutte quelle del suo ambiente era dare il difficile esame finale, l'Abitur. Ma lei ne aveva paura, soprattutto perché aveva difficoltà con la matematica, e continuava a rimandarlo. Nel 1937 i suoi genitori insistettero che lo desse. «Nella mia classe c'era una ragazza [ebrea] che mi piaceva molto e non ebbe il permesso di dare l'Abitur. Dovette lasciare la scuola. Fu allora che fui messa di fronte per la prima volta all'era di Hitler. Dissi subito: "Lascio [il BdM], Non vado avanti se succedono cose del genere".» Disse che anche altre volevano andarsene. «Eravamo tutte sconvolte. Allora mi dissero che non avrei potuto dare l'Abitur. Se davvero volevo andarmene, mi avrebbero proibito di sostenere l'esame. Ja. Ecco come stavano le cose.» Funzionò. «Allora presi l'Abitur e subito dopo me ne andai.» La minaccia era sufficiente, no? «Cosa dovevamo fare? Ci mancava così poco per finire.» Disse che non ricordava di aver parlato con i genitori di quella questione. E nemmeno sapeva cosa fosse accaduto alla ragazza ebrea, che era «particolarmente dotata e particolarmente apprezzata da tutte noi». Nel 1939 il governo nazista, che tacitamente proibiva la sua relazione con Peter, senza volerlo si trovò a patrocinarla ordinandole di lasciare la casa. Come altre giovani tedesche, doveva partecipare al programma dell'«anno di servizio» obbligatorio. Il servizio poteva comportare lavori manuali in una fattoria, in una fabbrica o in una casa. L'intervento di Elsa fu un'altra volta provvidenziale. «Mia sorella, che aveva sempre avuto a che fare con la nobiltà, saltò fuori con l'idea di mettere un annuncio suWAdelsblatt [Il giornale della nobiltà] perché potessi avere una posizione adeguata.» L'annuncio «diceva proprio così. Ricevetti lettere dalla piccola e dall'alta nobiltà. Era lavoro da poco, nicht? Nell'annuncio si diceva quello che sapevo fare, che avevo una conoscenza specifica dell'inglese e tutto quello che avevo fatto, l'istruzione scolastica e il resto. Dopo, non riuscivo nemmeno ad aprire la posta. Era troppa. Montagne di lettere, e non le aprii neanche». Scoppiò a ridere. «Fu questa Frau von Rex-Gröning, che aveva una tenuta [vicino alla città di Brema], a scrivere per prima. E scriveva in un modo così gentile e amichevole. Era un espresso, e dopo giunsero dozzine di telegrammi. Pensai, è di sicuro il destino. E decisi all'istante. Ma quel diluvio di posta, 61

be', non so per quanto tempo andò avanti.» Rise di nuovo. «In quella villa, il grosso del lavoro consisteva nel badare ai figli, cioè, ai due più giovani.» Entrambi avevano bisogno d'aiuto per i compiti, soprattutto in matematica. «Così dovevo studiare di nascosto matematica in camera mia, per poterli aiutare.» Nel frattempo lei e Peter, che avevano continuato a scriversi usando Elsa come corriere postale, adesso potevano scriversi direttamente. Organizzarono un altro appuntamento, a Brema. Deve essere stato eccitante, ammisi. «Ja,lo era.» Ogni appuntamento seguiva separazioni di mesi. Anche se il loro legame diventava sempre più stretto, continuava a restare segreto. Aveva promesso ai genitori che non lo avrebbe più visto? «Nein. Non ci avevano nemmeno pensato.» Credevano che fosse finito? «Penso di sì.» Alla fine dell'«anno di servizio», Marianne iniziò la penultima tappa della sua educazione, presso una scuola di lingue a Mannheim. Fece un corso intensivo di quattro mesi di inglese avanzato e ottenne un diploma. La sua vita sembrava così coccolata e «normale», a parte il suo intenso legame con Peter, che mi domandai se forse non si era accorta di tutto quello che stava succedendo nel Terzo Reich. «Me ne accorsi molto da vicino» replicò. «Devo dire che a quell'epoca ero perfettamente sveglia e notai esattamente quello che stava accadendo. Mi interessava tutto. Tutto.» Nel 1941, quando la Germania dichiarò guerra all'Unione Sovietica, tra gli uomini che vennero reclutati c'erano tutti e tre i fratelli di Marianne, e Peter. A un mezzo ebreo si poteva proibire di sposare una «pura tedesca», ma gli si poteva ordinare di combattere per la Germania. La storia d'amore continuò, attraverso le lettere e durante le licenze. Una di queste licenze, con appuntamento, fu a Berlino. Come fu? Questa volta, la sua risposta riguardava meno loro che il mondo attorno a loro. «Capisci, la situazione stava diventando sempre più critica. Era sempre più tesa. Era sempre più chiaro cosa volevano ottenere i nazisti. E a Berlino entrai in contatto con alcune persone della resistenza, ma solo per poco. Quasi nemmeno lo seppi, lo capii solo in seguito.» Quelle persone appartenevano a un gruppo della resistenza oggi ben noto che mandava informazioni segrete a Mosca per mezzo di un sistema di radiotrasmittenti. I nazisti scoprirono il gruppo nel 1942, lo soprannominarono la «Rote Kapelle» [l'Orchestra Rossa] e giustiziarono molti dei suoi capi. Il suo contatto con alcuni membri della Kapelle ebbe luogo durante una riunione alla quale furono invitati Peter e, per estensione, anche lei. Tra le persone che incontrò c'erano i due capi più in vista, Harold Schulze-Boysen e Arvid Harnack, entrambi appartenenti a importanti famiglie tedesche. C'era anche Sven Erichsen, il marito della donna presso la quale alloggiava Peter a Sylt. «Erano tutte persone che erano state selezionate, e anch'io lo ero. Frau Schulze-Boysen mi aveva conosciuto in prece-

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denza. Il [suo] nome non mi diceva niente. Era una donna estremamente interessante. Sapeva come la pensavo, altrimenti non sarei stata invitata. Ma più tardi esplose tutta la faccenda. Fu terribile quando seppi che erano stati tutti decapitati. Orribile. 1 Avevano anche la loro radiotrasmittente. Quella sera, l'atmosfera era molto tesa. Ci fu anche un discorso di un alto ufficiale del ministero dell'aviazione, un uomo straordinariamente attraente, senza pari. E anche sua moglie, erano persone eccezionali. Tutti gli esseri umani di quella cerchia.» Quali erano i legami di Peter con quel gruppo? «Non so se lavorasse con questa Rote Kapelle. Non saprei dirlo. Sono del tutto certa che non volesse tirarmi dentro. A quell'epoca ero relativamente giovane, e quelle persone erano più vecchie di me, e con un'educazione del tutto diversa. Fu solo quella sera che incontrai alcuni di loro. Ma l'organizzazione esisteva già. Ci furono degli accenni, ed era chiaro anche per me che era un gruppo della resistenza. Non ne conoscevo il nome e non sapevo cosa facevano. Ma c'era un pacco di giornali stranieri da loro che non si vedevano più da nessuna parte. E le conversazioni che si facevano. In alcuni momenti mi spaventai. Pensai che se una persona avesse detto una sola parola all'esterno, si sarebbero giocati la vita.» Lei e Peter furono fortunati. Se ci fosse stata una spia nel gruppo la sera in cui erano lì, anche loro sarebbero stati citati e arrestati. Lei sostenne che, nonostante quei legami, Peter non le disse «realmente» ciò che sapeva degli atti dei nazisti e di ciò che avevano in progetto. Stava cercando di proteggerla o non ne sapeva molto nemmeno lui? «Non ne sapeva molto nemmeno lui, non molto più di me. Come avrebbe potuto?» Da sua madre? Sua madre, disse, non era necessariamente più informata di Peter. E le voci che circolavano? Effettivamente filtravano, disse. Sulle camere a gas? «Ja. Quello che succedeva nei campi e tutto.» Si interruppe. «Adesso non so con esattezza cosa sapevo davvero allora. Uno sospettava semplicemente che stessero succedendo cose terribili. E non sapeva se [una cosa] era vera. Veniva messa in discussione e magari [si apprendeva] che non era vera per niente. Ma sarebbe avvenuto quando accadevano cose terribili.» Disse che lei e Peter avevano la sensazione che «si stesse svolgendo una storia del tutto incredibile e inimmaginabile. Tutte le persone con cui avevamo a che fare condividevano questo punto di vista. Spesso ci trovavamo con amici di Peter e si parlava di queste cose. Ma non riesco a ricordare i particolari». Chiesi se, quando lui venne inviato in Russia, era venuto a conoscenza dei massacri degli ebrei che vi si svolgevano. Rispose che non gliene aveva parlato. «Ma sono sicura che queste cose le sapeva. Se le avesse viste coi suoi occhi, forse me ne avrebbe parlato.» Aggiunse che suo fratello Siegfried, quando fu di stanza in Russia, vide un pogrom, o una parte di esso. In seguito mi scrisse (in una calligrafia che ricorda le impronte di un minuscolo uccello) di averglielo chiesto di nuovo e lui disse di aver visto persone sospinte in una cantina e «probabilmente da lì in fosse. Non lo sa con certezza». 63

In seguito Marianne si trovò per caso a incontrare anche un giovane soldato tedesco che sapeva più cose su ciò che avveniva in Unione Sovietica sotto il dominio nazista di quanto veniva comunicato alla popolazione tedesca. Verso il 1943 lei viveva e lavorava nella fattoria di un'amica in Baviera, e il soldato, in licenza, aveva fatto un'escursione in montagna. «Fu un incontro assolutamente straordinario, in un certo senso fatale. Anche lui mi parlò di quello.» «Quello» era la fucilazione, da parte dei tedeschi, di prigionieri di guerra. «Dopo quell'esperienza, si offriva sempre per azioni speciali [Sondereinsätze] per risparmiare gli altri. Padri di famiglia, per esempio. E poco tempo dopo, sentii che non era tornato da una di quelle azioni. Già allora mi sembrava che avesse la sensazione che non sarebbe sopravvissuto. Me lo disse perfino: "Non vivrò a lungo". E lo presi in parola.» Il soldato voleva rischiare la vita, disse Marianne, non solo perché aveva visto «cose tanto orrende», ma anche perché non poteva impedirle. Alla fattoria, inoltre, Marianne ebbe una visione precoce di una situazione che in altre epoche non avrebbe avuto gravi conseguenze, ma nel Terzo Reich poteva essere fatale. Alla scuola di lingue aveva fatto amicizia con una giovane donna che si chiamava Gisela (non era questo il suo vero nome). Quello che segue deriva in parte dal racconto di Marianne e in parte da quello del secondo marito di Gisela, che le sopravvisse. La fattoria, piccola e poco redditizia, in effetti apparteneva a Gisela, o l'avrebbe ereditata dal padre. Marianne l'aveva conosciuto e non le era piaciuto («era una specie di dominatore») ma lui e Gisela erano molto uniti, e in più, lui era maggiore dell'esercito, quasi sempre in Russia. «Rimasi con lei un anno, credo,» disse Marianne, «e la aiutai più che potevo. Facevamo il lavoro pesante, comprese cose che altrimenti facevano i braccianti. Però fu un periodo molto bello.» Ogni mattina, Gisela portava il latte al mercato. Insieme, le due giovani donne svolgevano lavori come togliere la corteccia dai tronchi d'albero. Alcuni uomini, compresi lavoratori forzati ucraini e un prigioniero di guerra polacco, avevano i compiti più pesanti. Nonostante le leggi naziste che proibivano qualunque rapporto che non fosse puramente utilitaristico con queste persone, Gisela e il polacco (lo chiameremo Stan) divennero amanti. «Voglio dire, lui era molto bello e, be'... Però io ero sbalordita, perché Gisela non si era mai interessata agli uomini e all'improvviso mi disse: "Guardalo, guarda come lavora", come tagliava gli alberi e cose del genere. L'osservazione mi fece riflettere.» Marianne non vide coi suoi occhi che l'inizio della storia d'amore, dato che aveva lasciato la fattoria, come programmato, per andare a studiare storia dell'arte a Monaco, l'ultimo punto del quadretto della sua educazione. Ma venne a sapere da un'amica comune che «la vita di Gisela era appesa a un filo». I compaesani, sapendo della storia d'amore «verboten» e delle sue possibili conseguenze, avevano raccomandato a Gisela di stare attenta. Ma qualcuno (non si scoprì mai chi) denunciò la coppia alla Gestapo. Come 64

l'informatore probabilmente sapeva, quell'atto avrebbe potuto costare la libertà o addirittura la vita agli amanti. La Gestapo arrivò per le indagini. Mentre Stan si nascondeva, la Gestapo interrogò i paesani e gli ucraini. Tutti dissero che di sicuro non c'era alcuna storia d'amore tra i due giovani, e che la denuncia doveva essere un equivoco. Evidentemente accettarono le spiegazioni. Gisela continuò a vivere e a lavorare nella fattoria fino al 1945 (quando tornò suo padre, e strinse una relazione con una donna dell'età della figlia). Anche la relazione di Gisela continuò. Nel 1946 restò incinta e sposò Stan - a prima vista solo a causa della gravidanza - ma in seguito non vissero felici. Dopo poco tempo, lei chiese il divorzio. Quanto alla sua vita e alla sua relazione verboten, Marianne stava ricavando il meglio da entrambe. A Monaco studiava l'arte che i nazisti approvavano e nascondeva i testi che essi avevano bandito. «In camera mia tenevo tutti i libri di Peter, quelli degli autori proibiti che io avevo sempre tenuto. Peter li aveva dati a me perché, be', naturalmente aveva preso delle cautele, per evitare che li trovassero da lui. E per me non era un problema. Altre persone mi portavano i loro libri. Gente di Monaco che aveva paura, per esempio.» Il suo gesto non era trascurabile. La scoperta dei libri avrebbe potuto condurla dritta in prigione o in campo di concentramento. La tappa di Monaco non fu lunga. Marianne fu, come si diceva, dienstverpflichtet., obbligata a prendere parte allo sforzo bellico. «Non potevo rimanere a Monaco. Non c'era nessuna giustificazione per studiare storia dell'arte a Monaco durante la guerra. Mio padre aveva una fabbrica a Lünen [vicino alla casa di famiglia a Schalksmühle], e speravamo che potessi andare lì. All'inizio sembrava possibile, ma poi arrivò la regola per cui non era permesso lavorare nella fabbrica dei genitori.» Le chiesi quanto era collegata l'azienda del padre con la guerra, e lei rispose di non saperlo. «Una volta probabilmente lo sapevo, ma devo essermelo scordata. Non so nemmeno che cosa produceva. Ma è assolutamente possibile che producessero qualcosa usato in guerra.» Possibile? Il contrario era quasi impossibile. Ma cosa vi si lavorava? In seguito disse che pensava che uno dei prodotti fossero interruttori elettrici. Marianne andò a lavorare a Lünen, ma in una fabbrica di alluminio che in quell'epoca era essenzialmente una fabbrica di armamenti. Lavorava in laboratorio e faceva analisi spettrografiche. All'incirca nello stesso periodo, Peter, che era stato arruolato nonostante fosse mezzo ebreo, fu congedato perché era mezzo ebreo. (Il suo caso non fu unico.) Sfruttando i legami con la ricca, amichevole e dissidente famiglia Erichsen in Norvegia, per la quale aveva lavorato in Germania nel campo delle vendite industriali, andò a Oslo a lavorare in un cantiere controllato da una compagnia tedesca che Marianne chiamò Nordag. Anche se la Norvegia era controllata dai nazisti, per i mezzi ebrei era un luogo molto più sicuro della Germania. L'anno era il 1942, la vita di Peter era abbastanza sistemata, ma quella di Marianne lo era sempre meno. L'Ortsgruppenleiter di Schalksmühle («un 65

nazista particolarmente fanatico» lo descrisse lei) era venuto presto a conoscenza della sua relazione con Peter, che attirò il suo interesse. E fu lui, ritenne Marianne, a informare la Gestapo. A Herr Jung fu ordinato di mettere in riga la figlia, altrimenti... «La pressione su mio padre e su di me continuava a crescere, perché sapevano che ero sempre in contatto con Peter. A quell'epoca, erano arrivati a minacciare di espropriare la fabbrica di mio padre, se quella faccenda non finiva. Per me fu un periodo molto, molto difficile, devo proprio dirlo, perché stavo causando terribili dolori e preoccupazioni a mio padre, e d'altra parte non volevo piantare in asso Peter.» Come facevano i nazisti a sapere che era ancora in contatto con Peter? «Ach, loro sapevano tutto. Semplicemente sapevano tutto, come la Gestapo più tardi. Sapevano tutto di quello che si diceva in giro.» Dopo aver lavorato a Lünen durante la settimana, «tornavo a casa ogni fine settimana. E sapevo che quella gente stava facendo terribili pressioni su mio padre. Mi raccontò tutto e avemmo lunghe conversazioni sull'argomento. Mio padre tentava e ritentava di rendermi cosciente di quei pericoli. Amavo moltissimo mio padre; pertanto era una situazione molto difficile per me». Era difficile, disse, anche perché erano entrambi dotati della stessa forza di volontà. Dopo che suo padre provava e riprovava a convincerla a rompere con Peter, «io lo scongiuravo a mia volta di capirmi, che non avevo scelta, che dovevo semplicemente stare al fianco di Peter. Cosa che di sicuro capiva. Credo che lo capisse. C'erano rischi così enormi, per tutti. «In più, ero esposta agli attacchi che colpivano la fabbrica di armamenti. Certe volte cadevano anche milleduecento bombe incendiarie in una notte e così non c'era mai un attimo di calma, né di giorno né di notte. Ormai ero un fascio di nervi. Di notte, quando partivano le sirene, non mi svegliavo nemmeno più, tanto ero esausta. Mi svegliavano i soldati e ci furono volte in cui letteralmente dovevo correre per salvarmi la vita fino alle cantine di un castello vicino alla fabbrica. Fu un periodo davvero orribile, non posso dire diversamente.» Eppure a Lünen si sentiva politicamente al sicuro. «In qualche modo, si sapeva sempre da che parte stavo. E persone con lo stesso orientamento finiscono sempre per trovarsi. C'è sempre qualcosa che lo rivela. Eravamo tutti contro Hitler. Non appartenevamo a un gruppo della resistenza. Era solo una situazione molto chiara. Pensavo, a quell'epoca, che si sarebbe trovata una soluzione. Non ce la facevo a continuare in quel modo.» Uno degli uomini degli Erichsen, allora in Germania, venne in suo soccorso. Lei gli chiese al telefono se avesse una soluzione. «Non sapevo cosa fare. Solo che non ce la facevo più a sopportarlo.» Disse che lui pensava che «la soluzione migliore fosse probabilmente andarmene, via dalla Germania. Secondo lui avrei dovuto tentare di raggiungere la Norvegia, questa Nordag, dove era Peter, se c'era una possibilità». C'era. Peter sapeva che il capo della fabbrica di alluminio dove lavorava lei era amico del capo della Nordag, dove lavorava lui. Peter fece in 66

modo che Marianne fosse inviata a Oslo a lavorare per la Nordag «per via dei bombardamenti e così via», disse lei. «Naturalmente, loro non sapevano l'altra ragione. «Allora ricevetti un regolare ordine di trasferimento, di quelli che ricevono i soldati, dato che c'era bisogno di me alla Nordag. Non si poteva fare altrimenti. Non è che si poteva dire: "Allora, adesso non sto più qui e vado in Norvegia". Così andai a Oslo.» Disse che i suoi genitori presero la notizia della sua partenza «con un peso, un grosso peso sul cuore. Fu un addio molto difficile». Gli Jung erano preoccupati non solo per il benessere della figlia. Tutti i tre figli maschi erano in guerra. Heinz combatté in Francia e in Russia, dove venne preso prigioniero. (Fu rilasciato nel 1948, «quasi morto di fame e molto malato».) Siegfried, quello che era amico di Peter e aveva visto almeno in parte un pogrom, fu in Russia dal 1941 al 1944, e ferito due volte, la seconda da un colpo che gli spappolò una gamba. Il figlio minore, Eberhard, non aveva ancora vent'anni quando fu mandato a combattere. «Fece gli esami finali e poi fu arruolato subito, senza nessuna esperienza. Preso dal banco di scuola.» Era l'unico dei figli interessato agli affari di famiglia, soprattutto dal punto di vista tecnico. «Ma Eberhard risultò disperso, in Jugoslavia. Non tornò mai. Fu un colpo molto, molto amaro per i miei genitori. Per tutti noi. Lo amavamo così tanto perché si faceva voler bene. Era così dolce e aveva un aspetto così dolce, era così tenero e... E semplicemente non sapemmo più niente di lui.» L'arrivo di Marianne in Norvegia suscitò l'interesse non solo di Peter. Anche la Gestapo in Norvegia era stata informata. Evidentemente, non era stata richiesta per un lavoro particolare. Un dirigente dell'azienda la voleva come segretaria, ma lei aveva imparato a stenografare solo in inglese, non in tedesco. Così fu sottoposta a nove settimane di addestramento in un laboratorio di analisi a Oslo e poi inviata nel laboratorio di un cantiere della Nordag nella Norvegia occidentale. Peter rimase a Oslo ma ogni tanto riusciva a farsi mandare per un viaggio d'ispezione nel cantiere dove lavorava lei. Lì incontrò altri spiriti affini. «Appresi che un gruppo di persone ostili a Hitler, norvegesi, indossava sempre qualcosa di rosso, un maglione rosso o una sciarpa rossa o cose del genere, per mostrare subito [che erano antinazisti], La prima cosa che feci furono un paio di calzettoni rossi a maglia e li portavo sempre. Nel laboratorio lavoravo assieme a norvegesi. Ero l'unica tedesca e avevo un bellissimo rapporto con loro e poi divenni amica di due tecnici tedeschi che avevano i miei stessi sentimenti.» Si mise a lavorare nel laboratorio e andò ad abitare nelle baracche degli operai, ma poco dopo scoppiò (letteralmente) un'altra crisi. «Tutto ciò che avevo lassù andò a fuoco, ed era davvero molto. Le baracche in cui abitavo si incendiarono. Non avevo più niente. Sentii le sirene, lasciai il laboratorio, indossando le mie cose più vecchie , un vecchio maglione e un vecchio paio di pantaloni, corsi lì e queste baracche erano in fiamme. Fu una sensazione sconvolgente, devo dire. Guardai e dissi: "Mio Dio, mancava solo questo". 67

Poi qualcuno dietro di me disse qualcosa e io gridai: "Mi lasci perdere". Ero molto audace allora, sai, e non avevo paura di niente. Allora lui venne davanti a me e disse: "Senta, lo sa o no con chi sta parlando?" Indossava un'uniforme, un'uniforme nera. Gli risposi: "Non lo so e nemmeno mi interessa saperlo". E allora disse: "Sono della Gestapo, sono il capo della Gestapo di qui". Allora io davvero... sentii qualcosa dentro di me, mi voltai e non dissi più niente. Ma quest'uomo non mi fece mai del male. Anzi, più tardi in un certo modo gli piacqui. Di sicuro sapeva qualcosa, ma non fece mai nulla per danneggiarmi, come invece avrebbe potuto. Fu questo di cui ebbi paura, dopo essermi lasciata andare contro di lui.» L'indagine sulle cause dell'incendio procurò altre brutte notizie. «La commissione stabilì che il fuoco era divampato nella mia stanza. Vollero dare la colpa di tutto a me, perché a quanto pare avevo messo una poltrona troppo vicina a una stufa elettrica o qualcosa del genere. Poi ci fu un processo. Be', fu una cosa terribile.» Decise di tornare a casa per un po'. «Non avevo altri vestiti oltre a quelli che avevo indosso. Pensai: E adesso cosa faccio? E ingenua com'ero, andai all'ufficio del personale e dissi: "Senta, signorina, vado in Germania. Devo andare a prendermi un po' di cose, quassù non c'è praticamente niente, perciò non potrebbe rilasciarmi un permesso?" E lo fece. Pensava che in qualche modo fossi sotto la protezione del capo o qualcosa del genere. Ma io non avevo nessuna autorizzazione, presi il permesso e andai in Germania. Ci rimasi otto settimane, poi ripresi una nave per tornare.» Non l'aveva detto a nessuno al cantiere? «No, a nessuno. Avevo pensato: Mio Dio, è così chiaro che ho perso tutte le mie cose e devo fare in modo di procurarmene delle altre. Non sapevo cosa stavo facendo. In più, non avevo secondi fini. Così, naturalmente avevo dei contatti, attraverso mia madre e la nostra sarta e così via, per cui potei avere altre cose. E con la mia valigia in mano, tornai in Norvegia.»Scoppiò a ridere. «Nessuno si era immaginato quello che avevo fatto. Alzarono le mani al cielo. "Ja. Dov'eri finita? Nessuno sapeva dov'eri. Una cosa del genere non è mai successa, quello che hai fatto. E non farti vedere dal dottor Zirnriegel."» Era il capo. «E il giorno dopo ebbi la notizia che dovevo andare dal dottor Zirnriegel. Ora, sapevo di essergli simpatica, fin dall'inizio. Per qualche ragione gli piacevo, e lo si capiva. Per cui andai. Lui era basso, una specie di Napoleone, e stava su una piattaforma dove era sistemata la sua scrivania, in posizione dominante, e io aprii la porta e rimasi lì e dissi: "Buongiorno". Alzò gli occhi e si comportò come se non mi avesse visto e continuò a scrivere. Io rimasi lì in piedi, e poi all'improvviso lui disse: "Sentiamo un po', Fräuleinjung, lei cosa crede che stiamo facendo qui?" "Be'," dissi, "cosa intende esattamente, Herr Zirnriegel?"» Imitava la voce del capo, che esprimeva tutta la sua furia. «"Lei se ne va in giro per la Germania per otto settimane e poi torna indietro? E nessuno ha idea di dove si trova? Ma cosa ha fatto prima di venire da noi?" Ho ancora quella scena davanti agli occhi, per quello la racconto così. Risposi: 68

"Studiavo storia dell'arte". "Ah, storia dell'arte, hm". Si era già calmato. "Ja, e cosa propone di fare adesso? Non ha più un tetto..." "Be'," dissi. "Mi piacerebbe molto non stare più in una baracca. Sarei molto più contenta di stare in albergo" - ero già andata a vederne uno - "e ho visto una stanza molto bella. Se ci si sdraia sul letto, c'è una magnifica vista delle montagne." Aveva un'aria così perplessa, mi guardò come se volesse dire che con me non c'era niente da fare. Non ci si può fare niente, nicht?» Scoppiò a ridere. «"Bene," disse. "Avrà quella stanza." Così ottenni la camera in quell'hotel. Era stupendo. Era stupendo. Ancora una volta c'era qualcosa di confortante e di buono in tutti. Non conoscevo comunque la paura in senso stretto, ma non era più solo triste e deprimente, nicht?» Quando le chiesi se era impossibile per Peter stare lì con lei quando arrivava al cantiere, rispose: «Assolutamente impossibile. Sarebbe stato del tutto impensabile». Le ragioni non avevano a che fare con le convenzioni sociali, ma con i nazisti. «La Gestapo era al corrente. Ja. Dovevamo evitare di farci vedere insieme. Quando lui era al cantiere e aveva qualcosa da fare lì, in qualche modo riuscivamo a incontrarci, ma dovevamo stare bene attenti a non farci scoprire. Voglio dire, in un modo o nell'altro lo si capiva lo stesso. Era nell'aria. Si imparava anche a valutare i pericoli.» Lei ne corse altri. «I norvegesi non avevano il permesso di tenere delle radio, per cui qualcuno la portava nella mia camera e lì ascoltavamo i notiziari inglesi. Succedevano un sacco di cose dove stavo. Non potrei dirlo diversamente. Poi in laboratorio avevamo un russo che cercavo sempre di aiutare un po', con del pane. Indossava... non saprei dire cosa, comunque cadeva a pezzi, e lui ricavava una specie di corda da quello che trovava e ci cuciva insieme le cose. Io gli procuravo un po' di filo. Era così in ordine, capisci. Lui mi voleva bene e io volevo bene a lui. Si chiamava Pjotr. Era vecchio. E in generale i norvegesi, che mi hanno sempre voluto bene, mi davano qualcosa, e da quel punto di vista è stato un periodo del tutto amabile. Certo, quando una è così cosciente del pericolo, impara ad apprezzare le cose e a metterle da parte.» Alla fine del 1944, disse, le donne tedesche che lavoravano in Norvegia vennero evacuate, probabilmente perché ci si aspettava l'arrivo dell'Armata Rossa, e tornarono nel «Reich». «Io fui tra le donne che ebbero il permesso di attraversare il confine con la Svezia. Naturalmente ero molto felice di poter tornare a casa da quella parte, attraverso la Svezia. Le altre furono trasportate su motoscafi veloci, ma le acque attorno alla Norvegia erano minate e il viaggio era molto pericoloso. E sapevo già che aspettavo un bambino, da Peter. Ja,» aggiunse, notando la mia espressione. Quale fu la sua prima reazione quando si accorse di essere incinta? «Era quello che volevo.» Quello che volevate tutti e due? «Quello che volevo io.» Più di lui? «Ja, ero io a volerlo. Perché il futuro stava diventando sempre più incer69

to e nessuno poteva sapere se ci saremmo rivisti ancora o cosa sarebbe successo. Le cose diventavano sempre più critiche.» Disse che anche lui voleva un bambino, «ma si accorgeva del pericolo. Mi mise in guardia e mi chiese se davvero ce la potevo fare con tutto, e io gli dissi sì, che ce la facevo». Disse che capì di essere incinta quando non le venne il ciclo, «e ne ero assolutamente sicura, voglio dire, lo si capisce, nicht? Alcune cose cambiano». Non era andata da un medico. «Era troppo pericoloso.» Mentre Peter restava per un po' in Norvegia, Marianne, incinta, rifornita per le necessità di viaggio dagli amici Erichsen, lasciò la Norvegia nel novembre 1944, in treno, diretta in Svezia, Danimarca, Germania. Lì dovette affrontare il ricongiungimento con gli ignari genitori, una guerra che infuriava in terra e in cielo, e un nuovo ordine di lavoro, in una fabbrica dell'aviazione ad Augusta, che era ovviamente un bersaglio dei bombardamenti. Fu l'ordine di lavoro a sconvolgerla di più. «Devo dire che quella cosa quasi mi spezzò in due, perché non sapevo cosa fare. E c'erano sempre bombardamenti. Be', era tutto un'assurdità. Davvero non avrei potuto farlo.» Peter decise di intervenire e, più o meno coscientemente, di mettere a rischio la sua vita per salvare quella di Marianne. In Norvegia «poteva contare su una specie di protezione» nonostante fosse mezzo ebreo. E «aveva un lavoro importante a Oslo e non si rinunciava facilmente a persone come lui». Adesso sarebbe tornato in Germania, dove la protezione che avrebbe avuto sarebbe stata pari a zero. Il suo lasciapassare non lo identificava come mezzo ebreo, disse lei. Ma la Gestapo sapeva che lo era. Come lo sapevano i suoi datori di lavoro della Nordag. E anche altri. Il piano di Peter era di andare a Berlino e fare in modo che Marianne non lavorasse dove la sua vita era in pericolo, ma fosse inviata in una fabbrica in un paese austriaco chiamato Egg. Perché a Egg? Perché era lì che era stata trasferita la fabbrica di suo padre. Chi la dirigeva? Suo cugino. Cosa fabbricava? «Interruttori, suppongo.» Che lavoro avrebbe dovuto svolgere? Non avrebbe avuto importanza. Peter tornò in Germania. «L'unica ragione di quel viaggio era il fatto che non voleva assolutamente che io andassi ad Augusta. Diceva: "Devo semplicemente farlo per te, fare in modo di mandarti a Egg". E questo lo condusse al suo destino. Altrimenti sarebbe probabilmente rimasto lassù, almeno all'inizio.» Mentre lui partiva per procurarle la sicurezza, lei la metteva allegramente in pericolo. Durante il viaggio per raggiungere i genitori, cambiò illegalmente valuta norvegese in valuta svedese, quindi in una banca di Copenhagen tentò di avere valuta danese. Quando un impiegato sospettoso cominciò a farle delle domande, lei riprese il suo denaro svedese e se ne andò. Fu fortunata, ma sempre imprudente. Fu un impiegato dell'albergo a cambiarle i soldi. La ragione per cui Marianne voleva valuta danese era che, anche nell'Europa del 1944, sconvolta dalla guerra, la ricerca di un abbigliamento adatto muoveva le sue azioni. Questa volta, voleva comprarsi un vestito 70

per nascondere ai genitori la gravidanza, che cominciava a essere evidente. Trovò quello che cercava. «Il vestito era adorabile, a piccoli scacchi bianchi e neri e con una giacca corta. La giacca serviva a nascondere un po' la pancia. E aveva bordi di velluto nero. Un vestito magico. E perfetto per lo scopo. Lo portai fino a Schalksmiihle.» I genitori la accolsero con grande calore. «Non dissi loro che aspettavo un bambino. Si sarebbero preoccupati alla follia. Erano comunque sempre troppo preoccupati per me.» La loro preoccupazione diminuì quando appresero che Peter a Berlino aveva avuto successo. «Si limitò a corrompere gli impiegati dell'ufficio di collocamento con il cibo che potevamo avere dalla Norvegia, al mercato nero in Danimarca e così via.» Così Marianne andò a Egg. Disse di essere incinta al cugino e alla moglie (si chiamavano Sòhnchen). Herr Sòhnchen le disse che non c'era bisogno che lavorasse alla fabbrica. «Io ci sarei andata, ma mio cugino pensava che non fosse affatto necessario.» Magari pensava che aveva già abbastanza da preoccuparsi; secondo la vedova, Frau Arnhild Sòhnchen,2 aveva sempre problemi con il prestanome che dirigeva la fabbrica, un nazista «al cento per cento» che lei chiamava anche «Oberbonzen» [alto papavero] che per qualunque ragione gli mandava delle SS in ufficio o faceva ispezioni di sorpresa. Dare lavoro a una cugina con una gravidanza sospetta non avrebbe certo semplificato le cose. Quanto a Frau Sòhnchen, che in vecchiaia sembrava l'immagine della nonnina delle fiabe, le sembrò naturale aiutare Marianne. Risultò che avevano anche molte cose in comune. Era cresciuta nella stessa congregazione religiosa (il cui ministro «non predicava troppo contro [il nazionalsocialismo]. Era molto cauto») e in un'atmosfera familiare in cui i primi successi economici di Hitler vennero considerati con favore. «Eravamo entusiasti. Ci sarebbe stato lavoro, e pace.» La stessa Frau Sòhnchen parlava con una certa approvazione di Hitler («un uomo amichevole») e di Goebbels (che aveva «una meravigliosa articolazione delle frasi»), mentre si riferiva alla generale montata di entusiasmo nei loro confronti come a «una malattia infettiva». Fu orientata verso un atteggiamento antinazista, disse, dalla reazione dei genitori e di altri membri della congregazione religiosa alla persecuzione degli ebrei. «Avevamo amici ebrei. I cristiani non possono non avere buoni rapporti con gli ebrei. Abitavamo con ebrei, io giocavo con ebrei, nella nostra zona c'erano sempre stati molti ebrei.» Citò anche la Bibbia dicendo: «Il popolo ebraico è uguale davanti ai miei occhi. Chi attacca loro, attacca me». Quando Marianne giunse a Egg, nessuno dei due Sòhnchen sembrava avesse nulla di buono da dire dei nazisti. (Herr Sòhnchen, disse la vedova, aveva dubbi ben prima di lei e sosteneva che nessun successo militare avrebbe saziato Hitler. «Non si riempirà mai la gola» era l'espressione che usava.) Quando anche Peter riuscì ad arrivare a Egg, per accertarsi che Marianne stava bene, i Sòhnchen ospitarono anche lui. Rimase all'incirca otto giorni, prima di riprendere il suo viaggio di ritorno verso la Norvegia.

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Marianne Bauer riassunse la storia. «Lo accompagnai al treno, e naturalmente lui voleva tornare a Oslo. A Berlino si presentò alla Nordag. Bisognava farlo per forza prima di tornare in Norvegia. Allora gli dissero: dacci il passaporto. Lo presero e se lo tennero. Non glielo ridiedero più.» Allora andò in una zona di Berlino dove aveva vissuto in precedenza, e raggiunse la casa in cui abitava. Lei non sapeva dire con certezza perché. Pensava che volesse «sapere cosa era accaduto a questo o a quello e dove erano finiti». La coppia a cui apparteneva o che amministrava la casa lo accolse amichevolmente, ma l'uomo, che era nelle SA o nelle SS, informò la polizia che Peter era lì. La polizia lo disse alla Gestapo. Quella notte «venne arrestato. Perché era mezzo ebreo». Fu condotto nel campo di concentramento di Oranienburg. Marianne insistette a dire che «il suo arresto non aveva niente a che fare con me». Avrebbe potuto essere connesso a un lavoro nella resistenza? Non lo sapeva. E i legami con la Nordag? «Non saprei dire se stavano cospirando. Non lo so. Nemmeno Peter sapeva quali collegamenti ci fossero. Sapeva solo che quando arrivò [alla sua vecchia casa di Berlino], quella gente informò la Gestapo. E lui venne arrestato quella stessa notte.» Disse che quelli della Nordag non gli avevano detto perché avevano trattenuto il suo passaporto. «Sapeva cosa significava. In quel momento, probabilmente sapeva anche cosa stava per succedergli. Di sicuro era abbastanza intelligente per capirlo. Ma non sapeva che il colpo di grazia sarebbe giunto da quella gente. Di sicuro non lo immaginava, altrimenti non sarebbe andato da loro.» Venne a sapere dell'arresto grazie alla madre di Peter. Ricordando i loro primi incontri, disse che una volta avevano celebrato tutti e tre il Natale insieme. «Aveva una stanza presso un insegnante di scuola superiore, un uomo anziano con la moglie, anche loro ebrei. Andammo lì e lei ci presentò. Avevano una splendida biblioteca che ammirai molto. E l'uomo disse: "Può prendere tutto quello che le piace, tutto quello che può usare. Lo prenda senza problemi". Gli dissi: "No, non potrei mai fare una cosa del genere". Ma lui aggiunse: "Non staremo qui a lungo". E la volta seguente che andammo lì, loro non c'erano più. Li avevano portati via. Allora la madre di Peter capì che era venuto il momento. Era ormai una questione di giorni. Entrò nella clandestinità.» Come faceva una donna ebrea che viveva in clandestinità a sapere che suo figlio era stato arrestato, e dove l'avevano portato? O era stato lui a comunicarglielo? E se era così, come? Marianne non lo sa. Ma in qualche modo fu stabilito un contatto. E in qualche modo sua madre trasmise il messaggio a Egg. «E poi non seppi più nulla.» Marianne rimase nascosta a Egg, alla fine prendendo una stanza nella casa vicina a quella dei Sohnchen, che erano «molto cari con me». Li vedeva ogni giorno e mangiava a casa loro. Ma erano «estremamente spaventati per me» e «quando venivano visitatori dalla Germania, io dovevo nascondermi subito. Non avevano il permesso di vedermi. Era troppo pericoloso». Tutti sorvegliavano, disse. «Poteva cambiare tutto in un giorno. Nessuno 72

poteva dire cosa sarebbe successo. Una volta arrivarono due persone. Mio cugino mi disse che stavano arrivando e tremava letteralmente, pensando che fossero della Gestapo e che mi avrebbero arrestato proprio all'ultimo minuto, nicht? Non era insolito che accadesse qualcosa del genere negli ultimi giorni. La tensione rimase altissima fino alla fine.» Anche se «tutto era in bilico», come si espresse lei, disse che non reagiva come gli altri. «Io ero la meno spaventata. Per tutto il tempo, sapevo quanto fossero brutte le cose e non sapevo nemmeno se Peter fosse ancora vivo. Tuttavia, dentro di me avevo una fiducia straordinaria e talvolta persino degli accessi di gioia che nemmeno io riuscivo a capire. Tuttora non riesco a capirli.» Si manteneva indaffarata. Prima di tutto, doveva farsi un nuovo guardaroba. Ancora una volta, il suo era andato distrutto. Questa volta il camion carico dei suoi vestiti e di tutte le sue cose era stato bombardato mentre era parcheggiato accanto a una stazione ferroviaria in Austria. «Per tutte le esigenze pratiche, avevo solo i vestiti che portavo addosso. Mi cucii a mano una gonna da un asciugamano. Qualcuno mi procurò un filato di lana e mi feci un vestito a maglia. Poi ricevetti un tessuto rosso e mi tagliai una camicetta e una gonna. Era tessuto da poco, ma io ero naturalmente molto orgogliosa e felice del risultato.» Per il bambino, faceva maglioncini a maglia. Mentre cuciva e sferruzzava, la guerra stava arrivando alla fine. All'improvviso i suoi movimenti divennero ancora più limitati. Disse che i tedeschi in Austria non avevano il permesso di partire, né di uscire dopo le sei di sera. «Stava cambiando tutto radicalmente. I tempi erano sconvolgenti.» Preoccupata del fatto che il travaglio potesse iniziare di notte e lei non potesse chiamare aiuto, si trasferì in una modesta «maternità» in un villaggio vicino. Era lì che le donne delle fattorie dei dintorni avevano i loro figli. Frau Sòhnchen le faceva visita di giorno e aveva programmato di aiutare la levatrice durante il travaglio. Il bambino era in ritardo. Marianne era ancora incinta quando la guerra finì. Il travaglio cominciò all'inizio di giugno. «Con me c'era Arnhild. Cominciò di mattina, credo. Rimase con me fino alla sera, poi dovette andarsene, e arrivarono le doglie. Ma io avevo fiducia. Pensavo: puoi farcela. Non sarà poi così brutto. Ma la notte fu brutta.» Quanto alla levatrice, «continuava ad addormentarsi, era così stanca». Scoppiò a ridere. «Ja. Oh, be'.» Il mattino dopo, Marianne partorì un bambino sano che chiamò Dorian. «In pace» disse. «Non sapevo ancora nulla di Peter. Non avevo nessuna notizia.» Poco dopo essere stato arrestato e inviato a Oranienburg, Peter Bauer era stato trasferito a Sachsenhausen. «Non ne parlava. Non voleva parlarne. Ma so che gli fecero molte cose. Non glielo chiesi mai direttamente. E il mio modo di fare. Ho sempre aspettato finché uno non me lo dice. Non gli ho mai chiesto: "Che cose terribili ti sono capitate o ti hanno fatto?" So solo 73

che fu terribile. Fu lui a dirlo. Che fu picchiato duramente e... e che fu un periodo molto brutto.» Poi gli alleati cominciarono ad avvicinarsi. Di solito, le guardie dei campi di concentramento nazisti reagivano in due modi all'avanzata alleata. O uccidevano i prigionieri rimasti e fuggivano, o li radunavano e li costringevano a lunghe marce forzate che erano quasi altrettanto fatali. A Peter Bauer e ai suoi debilitati compagni di prigionia toccò la seconda opzione. «Spinsero i prigionieri verso il Mar Baltico. Volevano in qualche modo raggiungere il Baltico, con le SS a fare la guardia. [I prigionieri] non avevano nessuna possibilità di dileguarsi o di fare qualunque cosa. Eravamo proprio alla fine, devi tenerlo presente. E durante la marcia lui crollò. Vide coi suoi occhi quanti prigionieri che erano crollati a terra erano stati uccisi dalle SS. Ma nessuno si accorse di lui, quando cadde in una grossa pozza d'acqua.» Poco dopo, le truppe inglesi, che probabilmente stavano inseguendo i tedeschi, avanzarono lungo la stessa strada. Furono loro a trovare Peter. «Aveva perso conoscenza. Lo raccolsero, lo portarono al loro ospedale da campo e si presero cura di lui.» Marianne disse di non ricordare quanto tempo rimase in ospedale, ma «deve essere stato un bel po' di tempo». Disse che c'era una fotografia di quel periodo, e «sarebbe stato difficile riconoscerlo, tanto era emaciato». Gli inglesi scoprirono di aver salvato la vita a un uomo che poteva aiutarli. Peter Bauer parlava inglese. Quando riacquistò le forze, si mise a lavorare per loro come interprete. Ma aveva anche una questione personale di cui occuparsi. Dopo il parto, Marianne portò Dorian con sé nella sua stanza a Egg. La sua vita era rallegrata dalla presenza del bambino, l'unico legame con l'amato disperso, e dalla dolcezza dei gestori della pensione. «Erano così cari. Trovarono un lettino in frantumi e l'uomo lo rimise a posto, inchiodandogli sopra assi di fortuna. E prendemmo un sacco e lo riempimmo di foglie, foglie secche. Era quello il materasso. Anche le donne delle fattorie facevano lo stesso. E Dorian ci dormiva benissimo. Frusciava sempre quando si muoveva.» Quanto a Peter, «non sapevo ancora niente. Niente di niente. Fino a una sera». Sapendo che Arnhild era andata a trovare degli amici nelle vicinanze, Marianne andò ad aspettarla alla stazione, spingendo la carrozzina. «Appena Arnhild scese dal treno, mi vide e disse: "Peter è vivo. E sta venendo qui". «Lasciai la carrozzina dov'era e mi gettai nel fosso e mi misi a piangere.» Rideva al ricordo. «Fu una specie di crollo, davvero. Ecco cosa fu.» Fece una pausa. «Non si può proprio descriverlo. Poi volli tornare a casa da sola. Non volevo che nessuno venisse con me, ero così eccitata. E andai tutte le sere alla stazione perché pensavo che Peter sarebbe arrivato con quel trenino. Ma non fu così. Naturalmente, ero in un mondo del tutto diverso. «Poi una sera, mentre ero seduta in camera mia, e Dorian se ne stava nel 74

suo lettino, ancora sveglio, sentii qualcuno chiamare da sotto: "Frau Jung abita qui?" Naturalmente, mi si fermò il cuore. Perché era la voce di Peter. "Dov'è?" E poi salì di corsa le scale, con indosso una specie di tuta da lavoro inglese e, ja, non si può descriverlo, questo incontro. Non si può proprio descriverlo.» Dopo un lungo silenzio Frau Bauer si mise a piangere. Poi «Peter guardò dentro [il lettino], e Dorian era un bambino così tondo, così perfetto. Lo dicevano tutti. E aveva un'aria così consapevole, anche se era così piccolo. Naturalmente Peter rimase incantato, nicht? Non riusciva a crederci». Fece una risata così tenera. «Era semplicemente troppo. Ja.» Che aspetto aveva Peter quando arrivò? le chiesi alla fine. «Stava bene. Bene. Aveva un'aria radiosa. Ed era un tipo così... così... Ho un ricordo del tutto fantastico: lui era abbagliante. Ci sposammo all'istante, a Egg. Arnhild riuscì perfino a prepararci un bel banchetto nuziale. Fu tutto così festoso.» Frau Marianne Bauer ricordava ben poco della cerimonia in sé, a parte che procedette tutto senza intoppi. «Vennero fatte delle domande a cui rispondemmo e non ci fu nessuna difficoltà.» Ricordava però che indossava l'abito che aveva acquistato a Copenhagen. Con la distruzione del Reich, non c'era modo che i suoi genitori venissero al matrimonio, e non riuscirono nemmeno ad avvisarli per telefono. Ma sapevano del bambino, o almeno della sua gravidanza. Dalla Norvegia, Marianne era riuscita a comunicare la notizia alla sorella, che alla fine lo disse a loro. Il passo successivo fu quello di raggiungere Schalksmuhle. I tre membri della nuova famiglia Bauer avevano a disposizione l'auto su cui era arrivato Peter. «Una grossa Mercedes su cui era scritto a grandi lettere Governo Militare Britannico. L'avevano lasciato passare da tutte le zone con quella macchina. Naturalmente, Peter aveva tutti i documenti necessari.» I suoi capi conoscevano la ragione del viaggio. «Ne erano terribilmente felici.» «Partimmo il mattino dopo. I francesi mi diedero un certificato di passaggio senza problemi, anche se trattenevano gli altri tedeschi. Non li lasciavano uscire dall'Austria. Ma io ricevetti subito quel certificato e potei partire.» Il certificato la qualificava come perseguitata dai nazisti. «Cambiò tutto all'improvviso. Tutto si ribaltò completamente.» Dopo aver abbandonato l'Austria, la famiglia si spostò da una zona all'altra grazie a quelle carte. «Poi, nel settore americano, passammo dagli stessi soldati da cui era passato Peter pochi giorni prima. Adesso tornava con moglie e figlio. Applaudirono e dissero: "E stata una cosa veloce". Non lo dimenticherò mai.» L'idillio continuò a Schalksmuhle, dove gli Jung ricevettero la coppia a braccia aperte. Peter allora posò sul tavolo il cesto con il bambino, coperto. «Tolse la coperta ed ecco che comparve Dorian. E sembrava appena uscito dal bagno e aveva queste guance rosse e i miei genitori si piegarono 75

sopra il cesto, e lui si mise a ridere. I miei genitori erano fuori di sé. Scoppiarono a piangere. Non riuscivano a dire né a fare nulla.» Peter divenne «molto, molto legato» ai suoi genitori, disse. «A pensarci, se uno avesse organizzato tutto, non avrebbe potuto organizzarlo così meravigliosamente. A me sembra un miracolo.» Anche la madre di Peter era sopravvissuta al Reich e alla guerra. E «poi visse con noi e si trovò benissimo». Nel 1947, i Bauer ebbero un altro maschio. Peter continuò a lavorare come interprete per gli inglesi, poi per un'industria che produceva lamiere. Suo padre «lo aiutò più che poteva», ma Peter voleva mettersi alla prova per conto suo, e lo fece. «Si capivano perfettamente.» Il matrimonio tra Marianne Jung e Peter Bauer durò fino alla morte di lui, nel 1978. Cosa avevano scoperto della sorveglianza a cui erano stato sottoposti da fidanzati, e degli eventi che avevano condotto all'arresto di Peter? Non fecero mai indagini, disse. Sapeva, mi disse in seguito, che tutto era cominciato quando qualcuno informò l'Ortsgruppenleiter di Schalksmiihle della loro relazione. Sapeva anche chi era quel qualcuno. Ma «preferiva non parlarne». Poscritto Q u a n d o ci conoscemmo, Marianne avvertiva palpabilmente la mancanza del marito, a nove anni dalla sua morte: si sforzava ancora di accettare quella perdita. Era chiaro altresì che cercava di comprendere e accettare la sua posizione nell'epoca che si era trovata ad attraversare. «Alla stazione ferroviaria, quando vedevo degli esseri umani, ebrei con la stella gialla, mi avvicinavo a loro, stavo con loro, cercavo di parlare con loro. Semplicemente per far capire che non facevo parte degli altri, che mi sentivo più vicina a loro. Naturalmente, penso ogni tanto, cosa succederebbe se una cosa del genere dovesse ripetersi oggi? Devi capire, uno cresce con queste cose. Prima, succede. Uno ne fa l'esperienza, ma non gli è affatto chiaro. Solo molto tempo dopo mi misi veramente in guardia. E ne sono divenuta molto consapevole dopo la morte di Peter. È una necessità. In un certo modo mi ha cambiato la vita. Ogni tanto penso a questa mia nuova consapevolezza e osservo le altre persone, cosa stanno facendo, come lo stanno facendo, se posso aiutarle, magari tendere la mano e così via. «E con la conoscenza di tutto quello che successe allora, con questa vigilanza e consapevolezza, probabilmente avrei dovuto comportarmi in un modo molto diverso. Probabilmente avrei dovuto fare qualcosa. Io, in prima persona. E oggi mi domando: l'avrei fatto anche se questo significava mettere a rischio la mia vita? Perché uno deve mettere in conto questa possibilità, se è veramente impegnato. «Talvolta mi accuso da sola, per non essermi impegnata con forza a scoprire cosa stava accadendo qui. Credo che se uno avesse davvero tentato di vederci chiaro, ci sarebbe stata una possibilità... Ma come ho detto, probabilmente ero troppo... Nel frattempo, molte cose sono nate dentro di me. Prima non era così.»

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NOTE 'Non fu decapitazione, ma qualcosa di più lento. I nazisti li uccisero con un nuovo metodo che avrebbero usato in seguito con altri membri della resistenza, come coloro che complottarono per uccidere Hitler: le vittime vennero appese per mezzo di filo di ferro a uncini da macello e soffocarono lentamente. 2 Intervistata nel 1987 a Berkeley in California.

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COLPA RETROSPETTIVA (Frau Liselotte Gebhardt)

In una lettera di quattro pagine scritte a mano, per lo più dedicata a questioni di salute - la sua, quella della sua famiglia, della sua città e del suo paese - Frau Liselotte Gebhardt mi scrisse: «Come vedo Berlino e la Germania? In cattive condizioni». Nel 1992, a ottantaquattro anni, aveva una visione più completa della storia della Germania di quanto non avesse alcuni anni prima, quando l'avevo conosciuta. Nella lettera non c'erano riferimenti specifici all'aumento delle aggressioni contro gli stranieri da parte di giovani di destra, che quell'autunno dominava le copertine dei settimanali tedeschi, che a loro volta collegavano in modo esplicito e con toni vivaci quelle aggressioni allo spettro del Terzo Reich. La sua visione era tanto più sconfortante perché anticipava quei fatti. «Molte cose mi ricordano,» scrisse, «la fine della repubblica di Weimar.» Sosteneva che le divisioni stavano diventando più profonde. Per molte persone le cose andavano sempre più declinando [bergab], specialmente per i giovani e per gli anziani, compresa lei. Sessant'anni prima, mentre la repubblica di Weimar stava per scomparire, viveva nella situazione esattamente opposta. Questa donna esile, dalla carnagione chiara, delicata nei lineamenti, nei gesti e talvolta nella maniera di esprimersi, era cresciuta in un ambiente «piuttosto d'élite», per usare le sue parole. Nata a Berlino nel 1908, Frau Liselotte Gebhardt era figlia unica di un «avvocato abbastanza importante» nel ministero delle finanze prussiano e di una donna raffinata, figlia di un agiato farmacista. Il nonno paterno, «capo cronista» di un importante quotidiano berlinese, vantava fra le sue amicizie con i letterati della Berlino del diciannovesimo secolo quella con il romanziere Theodore Fontane. Un suo ritratto, da lui stesso regalato, è appeso nell'appartamento di Frau Gebhardt, arredato con gusto squisito. Più o meno di fronte al ritratto c'è una collezione di porcellane di Meissen, oltre ad altri oggetti, come il cordone di broccato ornato di perle di un campanello per convocare la servitù (ormai ha soltanto una funzione decorativa, ma nella casa dei genitori lo si adoperava) e un tavolino intarsiato che Frau Gebhardt aveva predisposto con eleganza per il caffè e la conversazione. Come tocco dell'ultimo istante andò a prendere un centrino, per evitare che il mio registratore potesse graffiare la delicata superficie del legno. Un Sanyo posato su un merletto non era il solo contrasto visivo nella stanza. Da un tubo dell'impianto di riscaldamento pendeva un antico cherubino dorato. Occhiate di sfuggita alla cucina e al bagno rivelavano una lotta contro la loro forma e funzione. L'appartamento era in un maltenuto casamento del dopoguerra, nell'(allora) Berlino Est.

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Frau Liselotte Gebhardt manteneva uno stile di vita dignitoso non solo all'interno del suo appartamento a Berlino Est, ma anche, in un certo senso, all'interno del regime che governava la Germania orientale. Durante la nostra prima conversazione, nel maggio del 1985, mi fece l'elenco dettagliato delle organizzazioni, dei convegni, dei comitati e dei viaggi a cui aveva partecipato, soprattutto allo scopo di appoggiare la causa dei diritti delle donne e della pace nel mondo. Era iscritta al Partito liberale democratico, di cui aveva una grande stima, come se fosse un serio contendente dei comunisti al potere, il che non era. Cercando di vivere con dignità in un edificio squallido e cercando di fare un lavoro dignitoso all'interno di un regime logoro, Frau Gebhardt esprimeva una capacità di adattamento che aveva acquisito molto tempo prima. La sua scuola era stata il Terzo Reich. Ma sebbene avesse accettato le conseguenze di vivere sotto un regime comunista, non era riuscita a fare altrettanto con la vita passata sotto il regime nazista. «Non c'è alcuna ragione per provare un senso di colpa,» mi scrisse. «Non ci fu alcun episodio particolare. Non respinsi nessuno che avesse bisogno di consigli o di aiuto. Non mi trovai mai nella situazione di poter offrire il mio aiuto... La ragione del mio senso di colpa è un'altra. In quegli anni terribili [grauenvollen], io ero, dal lato umano, felice della mia vita. Mentre altre persone lottavano, soffrivano, morivano, io ero felice. Vivevo indisturbata, in condizioni finanziarie accettabili, amavo ed ero amata. Furono gli anni più belli della mia vita.» A dispetto di un'adolescenza economicamente privilegiata, che comprendeva una grande casa a Berlino e più tardi a Düsseldorf (dove suo padre lavorò per un certo tempo), oltre che scuole private e viaggi all'estero, quegli anni non furono così «belli» per lei. Si descrisse come il prototipo della povera piccola ragazza ricca, solitaria e corteggiata da pretendenti interessati più alla sua eredità e alla sua posizione sociale che non a lei. «Un funzionario statale non guadagnava poi così tanto, sicché era costretto a sposare una donna ricca,» disse. «E questo fu un po' anche il caso di mio padre.» Fin dall'infanzia Liselotte si era anche resa conto dei torti che le donne tedesche erano destinate a subire nel campo professionale. Attribuiva a una dottoressa, direttrice di un ospedale berlinese, il merito di aver salvato la vita di suo padre, dopo che era stato ferito gravemente ai polmoni da un colpo d'arma da fuoco nella Prima Guerra Mondiale. La dottoressa era stata chiamata a dirigere l'ospedale poiché gli uomini erano tutti al fronte. Ma quando la guerra finì venne licenziata perché «non all'altezza». Quell'episodio spinse Frau Gebhardt a studiare legge. Vi fu un altro aneddoto d'ospedale che la colpì da ragazzina. Un anno prima che suo padre fosse ferito, lei stessa venne ricoverata per un'appendicite. Mentre era in convalescenza, «l'insegnante di religione ebraica venne a trovarmi. Lo ricordo ancora. Ma ne so di più dai racconti di mia madre, nicht? Era considerato un grande onore». Frau Gebhardt raccontò l'aneddoto tutte e due le volte che la incontrai. Fu solo uno dei tanti riferimenti 79

che fece all'ampia cerchia di intime amicizie della sua famiglia con persone ebree. «Eravamo in rapporti davvero amichevoli con gli ebrei. E nel palazzo in cui abitavamo, a quel tempo eravamo (io non conoscevo nemmeno il significato dell'espressione) l'unica famiglia "ariana", cioè a dire cristiana.» Le famiglie «socializzavano fra loro» scambiandosi delle visite. C'era poi una zia che aveva sposato un ebreo. (L'uomo si convertì al cristianesimo e si mise a frequentare la chiesa molto più assiduamente della moglie.) «Grazie a Dio morì nel 1931,» disse Frau Gebhardt. Nonostante le ombre che si approssimavano, e quelle della sua solitudine, probabilmente l'ombra più grande nella giovinezza di Liselotte fu la miseria intorno a lei. « Q u i a Berlino era deprimente.» Accennò alla fame e alle risse di strada. «Direi che quel periodo gravò su di me come un fardello.» Disse anche (in un altro contesto): « È proprio duro [schlimm] essere tedeschi. Me ne resi conto da bambina, con la Prima Guerra Mondiale». Parlò poi di matrimoni spezzati e di persone cadute improvvisamente in miseria, in quella che chiamava spesso «la nostra cerchia». Prima del 1925, quando la sua famiglia si trasferì temporaneamente a Düsseldorf, il caos economico diffuso l'aveva ancor più convinta a intraprendere la carriera legale. «I "mezzi finanziari" erano andati persi, con l'inflazione. E poi si pensava che una donna ne avesse diritto [a una professione].» Dopo aver completato gli studi in una scuola sperimentale di Düsseldorf (tutte le insegnanti erano donne «di altissimo livello»), trascorse un altro anno in una «scuola femminile», poi fece un viaggio di cinque mesi in Inghilterra e uno della stessa durata in Francia. Una parte del viaggio in Francia comportava un soggiorno in campagna assieme a un gruppo di francesi che le chiesero se fosse vero che i tedeschi volevano di nuovo la guerra. Si sentì, disse, «cadere dalle nuvole». Nel 1930, quando tornò a Berlino per cominciare a studiare legge, iniziò a rendersi conto di ciò che stava succedendo. Ricordava scontri sanguinosi fra gruppi di studenti di destra, club di duellanti alla Mensur1 in particolare. Ricordava anche che l'università era luogo di dispute violente fra organizzazioni di destra e di sinistra, che i professori erano decisamente schierati da una o dall'altra parte, e che «cominciò a palesarsi l'antisemitismo». Le era rimasta impressa la popolarità di un professore di legge ebreo, Martin Wolf. Gli studenti affollavano l'aula per sentire le lezioni di quel professore dalla voce suadente, e cadevano in silenzio non appena cominciava a parlare. «Era ebreo, eppure l'aula era colma. Valeva la pena di ascoltarlo.» Già prima del 1932 i suoi genitori erano tornati ad abitare nella zona di Berlino, in un nuovo appartamento assai lussuoso a Potsdam, e suo padre aveva lasciato il posto di impiegato statale per intraprendere una propria attività privata. Intanto «Hitler si faceva avanti». Fece capolino anche nella sua «cerchia». « È lì che cominciarono a evidenziarsi posizioni differenti. Alcuni avevano una buona opinione di Hitler e della sua gente.» Ma aggiunse che la percentuale maggiore, compresi i suoi genitori, non l'aveva affatto. Una volta erano stati in vacanza vicino a Berchtesgaden e avevano deciso di 80

andare ad ascoltare un suo discorso. «Be', non è proprio possibile dar retta a questo imbianchino» fu il loro verdetto. Però era possibile parlarne, e lo si faceva, specialmente in casa a Potsdam. «Si cominciò nella cerchia dei conoscenti. E, ovviamente, se ne discuteva ai compleanni e durante le riunioni fra amici: si può accettare o no il nazismo?» Si corresse: «Cioè, meno fra noi ragazzi, anzi abbastanza di rado; più spesso quando si riunivano i genitori». Proseguì: «E a questo punto molte persone nel nostro ambiente cominciarono a commettere un grave errore. Non leggemmo mai il Mein Kampf. Lo trovavamo inaccettabile. E rifiutavamo gli scontri violenti tanto da parte della destra quanto della sinistra. Quanto a me, non conobbi nessuno, non entrai mai in contatto con dei comunisti. A malapena con dei socialdemocratici». E a malapena, aggiunse, con dei nazisti. Ma raccontò che, quando Hitler aveva già preso ü potere, suo padre seppe di «alcuni suoi colleghi di Düsseldorf che erano iscritti da tempo al Partito nazionale [socialista] tedesco». (Frau Gebhardt lo chiamò più volte Partito nazionale democratico.) Tuttavia suo padre era, dal punto di vista professionale, fuori dall'ingerenza dei nazisti. «Aveva giurato all'imperatore; aveva giurato all'epoca di Weimar; ma ora non c'era la necessità che giurasse di nuovo a Hitler, poiché lavorava in proprio.» Ad alcune persone nella «cerchia» dei suoi genitori Hitler piacque così tanto che si iscrissero al Partito nazista. Cominciò a instaurarsi una nuova dinamica sociale. «Continuammo a invitarli. Nei primi tempi si era tolleranti. Ricordo ancora che a certe feste di compleanno si cenava e si prendeva il caffè con loro, seduti alla stessa tavola.» Dopo cena «le conversazioni si svolgevano in stanze diverse. Una era riservata a conversazioni di quel tenore, e gran parte di loro erano là». A quei ricevimenti c'erano, fra gli ospiti dei suoi genitori, i loro amici ebrei. «Anche loro non si resero conto del pericolo.» Gli anni passavano e i suoi genitori continuavano a invitare nazisti ai ricevimenti. «Sapevamo, per esempio, che alcune [anziane] donne nubili avevano un atteggiamento particolarmente sgradevole. Deificavano Hitler. Erano come pazze. Davvero. Eppure continuammo a vederle; e anche alcune coppie sposate che i miei conoscevano, e con cui ci trovavamo in occasione di compleanni o di inviti.» Tuttavia i motivi degli inviti erano cambiati. «All'inizio non si tagliavano i ponti [con i nazisti] perché si era tolleranti e li si considerava pazzi. E in seguito non si tagliavano i ponti perché si aveva paura.» Pochi mesi dopo che i nazisti avevano preso il potere, Liselotte ebbe modo di farsi una prima idea dei loro programmi. Tornando con un amico da una gita dedicata allo sci, si ritrovò a Monaco, nel mezzo del boicottaggio dei negozi ebrei. «Eravamo entrambi furibondi,» disse, «ma non facemmo... Pensavamo: stiamone fuori. E naturalmente si cominciava - come posso dire? - a ringraziare Dio di non essere ebrei. Eppure continuavamo ad avere relazioni sociali con loro.» Quello stesso mese, infatti, sua madre

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partì per l'Italia, per un'escursione di storia dell'arte guidata da un professore ebreo. Per quanto riguarda i suoi studi, i tumulti causati dai nazisti all'università portarono a «scontri sempre più violenti» che bloccavano le lezioni per giorni interi. Ma la vita di Liselotte, cosi come quella di molti altri giovani tedeschi in quel periodo, non era fatta solo di politica. O, per usare le sue parole: «Devo aggiungere che, ovviamente, nel frattempo io avevo delle amicizie, avevo degli amori, avevo delle delusioni. E il ventinove di aprile conobbi il mio futuro marito». Era «più vecchio di me di tredici anni e mezzo. Parlava sei lingue». Quando le chiesi come si fossero conosciuti Frau Gebhardt fece una pausa, poi rispose: «Non proprio secondo le buone maniere borghesi». La sua voce assunse una cadenza vivace. Lei e tre suoi amici, cioè una ragazza «che si era appena sposata e non era molto felice» e il marito e la madre della ragazza, uscirono quel sabato pomeriggio per andare a Werder, una popolare località nei dintorni di Potsdam. «Quando gli alberi sono in fiore, ci si va a bere del vino.» Meta del gruppo era un «caffè concerto» dove «si facevano avanti degli sconosciuti» per ballare. Anche Liselotte fu avvicinata. «Ma non danzai mai. Risposi sempre nein, per quanto moderna fossi.» Il loro gruppo se ne stava ai bordi della pista da ballo, mentre l'orchestrina suonava. «Quando la musica finì, un uomo piccolo di statura venne verso di me e mi chiese di danzare. E io, guardandolo molto dall'alto in basso [non mi parve che Frau Gebhardt intendesse fare un gioco di parole], gli risposi: "No, grazie, non ballo". E un poco più distante, forse dietro una finestra, se ne stava un gentiluomo molto attraente. Solo. E quando la musica riprese, venne da me e mi chiese di ballare, e io risposi J a ! » Rise. «Dopo quel ballo mi domandò se poteva chiedermene un altro. E io gli risposi con insolenza (potevo essere davvero insolente): "Non lo so ancora".» Lui si tirò in disparte. « E il marito della mia amica mi disse in inglese: " È proprio beneducato". Chiaramente ne aveva fin sopra i capelli di stare da solo con tre donne. "Perché non gli chiedi di unirsi a noi più tardi?"» Il gruppo aveva in programma di cenare col padre di Liselotte a Potsdam. «Al che gli risposi: "Sei pazzo. Non posso portare a casa con noi un perfetto sconosciuto". In inglese. La musica ricominciò. E lui mi chiese un'altra volta di ballare. E ballammo. E poi mi parlò. In inglese.» Frau Gebhardt rise di nuovo. «Aveva sentito la nostra conversazione. Allora gli dissi: "Ha ascoltato ogni cosa?" E lui rispose: "Ja". Al che gli domandai: "Bene, verrà con noi o no?"» Rise di nuovo. « E venne con noi e si presentò. E lavorava nella stessa grande ditta - mi si sollevò il cuore - nella stessa grande ditta dove lavorava anche il cognato del nostro accompagnatore. Così trovammo un punto di contatto. «Più tardi tutti pensarono che io non fossi completamente sobria. Ma avevo bevuto solo un bicchiere. E lui venne a casa con noi, e poi si adirò con me, che avevo detto alla mia amica: "Controlla un po' che si comporti bene". Ma era molto gentile e molto ammodo [ordentlich]. E parlammo 82

e...» Frau Gebhardt mi scrisse: «Fin dal primo giorno sapevamo di essere fatti l'una per l'altro. Senza esagerazioni, e non solo nella visione deformata dalla nostalgia, fra noi c'era reciproca comprensione, stima, un grande amore come purtroppo non capita spesso. Ora non ero più sola». «Ma,» disse, «mi accorsi che c'era in ballo qualcosa. E c'era davvero: lui era ancora sposato. E per mia madre, quando tornò [dall'Italia], fu un gran brutto colpo.» Per farla breve, dato che Frau Gebhardt tendeva a dilungarsi troppo, da due anni lui era separato dalla moglie, una donna danese che aveva conosciuto quando lavorava in Danimarca. Non avevano figli. La moglie era disposta a divorziare, ma in cambio di una somma considerevole. Anche gli aspetti legali erano complicati. Il padre di Liselotte faceva difficoltà. Lei insistette. «Dicevo di aver finalmente trovato un uomo che amavo, eccetera. E mio padre ci aiutò moltissimo per la parte legale. Che costò tanto in termini di soldi, di tempo e di energie.» E che le costò un futuro da avvocato. «Nel '33 abbandonai gli studi. In parte perché non accettavo la situazione che c'era all'università, e stava già diventando chiaro che le donne non avrebbero avuto quasi nessuna possibilità di diventare avvocati.2 Un altro motivo era l'aspetto finanziario: il divorzio era costoso.» (La causa si concluse nel 1934.) Herr Gebhardt, il suo futuro marito, «non era completamente d'accordo sul fatto che abbandonassi gli studi. Ma io non avevo neppure le energie nervose per concentrarmi. Devo dire che, be', ci comprendevamo a vicenda in modo meraviglioso. Ringraziando Dio. Sotto tutti i punti di vista». Il loro incontro coincise pressoché esattamente con il rilevamento da parte di commercianti «ariani» dei negozi ebrei boicottati. Due o tre dei nuovi negozianti erano «bravi cittadini» della sua «cerchia». (Sulle vetrine dei negozi che presero ad amministrare c'erano ancora i nomi dei vecchi proprietari ebrei.) «Bisogna ricordare che tornavano a esserci delle opportunità di lavoro, e un po' più d'ordine.» Quando aggiunse che, in effetti, era contenta di non avere dovuto prendere una decisione su quell'argomento, le chiesi se non aveva mai pensato a cosa sarebbe successo se una notte avesse sentito bussare alla sua porta e... Mi interruppe: «Una perquisizione?» No, un'ebrea in cerca d'aiuto. «Non lo so. Devo dirlo onestamente. Non voglio affermare cose non vere. Non ce n'è lo scopo. Con la consapevolezza di oggi e dal mio punto di vista attuale non so se potrei guardarla in faccia e dire che l'avrei fatta entrare.» Aggiunse che «si era felici» di non dovere affrontare quei problemi. Su quei problemi, comunque, Liselotte rifletteva. Il fatto è che era cresciuta a Berlino insieme a molti ebrei, conosceva qualcosa della religione ebraica, e «mi tenevo occupata leggendo libri di autori ebrei». E «naturalmente si provava molta compassione. Erano persone che si conoscevano e si stimavano». Ma all'inizio del Terzo Reich, disse, non si pensava che fossero in pericolo, poiché non si pensava che Hitler fosse forte. Persone che lei conosceva sostenevano che Hitler «stava mandando in rovina l'eco-

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nomia. Che l'avrebbe portata su un binario morto. Che non era in grado di occuparsene. Eravamo ancora pieni di speranza che un simile regime non sarebbe durato». Nel 1934 la coppia di fidanzati cominciò pensare alla nuova casa in vista del matrimonio a luglio, e Hitler cominciò a pensare al putsch di Rohm in vista del consolidamento del suo potere a giugno. I due eventi si confusero. «Il nostro mobilio era in preparazione da un mastro carpentiere in una falegnameria di Berlino.» Era «un giovane che mi piaceva molto» e «che aveva una "simpatia" per Hitler». Avevano pagato metà del prezzo del mobilio quando ebbe luogo il putsch di Rohm. Evidentemente in coincidenza col succedersi degli avvenimenti, «mio padre disse: "È meglio controllare i mobili. Ho la sensazione che la sua bottega stia per fallire". E così andammo al negozio, e lui ci venne incontro nell'uniforme nera delle SS. Prima di allora non lo sapevamo. Ci disse che non aveva dormito per tre notti, e che aveva partecipato col suo plotone alle fucilazioni eseguite nell'accademia militare di Lichterfelde. Fu quello che ci disse. Era nazista al cento per cento ed era una SS. «Metà era stato pagato,» continuò Frau Gebhardt. «Come avremmo dovuto comportarci? Non avrei mai più dovuto mettere piede nel suo negozio, grazie a Dio. Ma non mi chieda come uscimmo da lì.» Insistetti per sapere che cosa avesse detto. «Niente del tutto,» mi rispose. «Cosa avremmo dovuto dire? Parlammo dei mobili. Che potevano essere consegnati. E troncammo la conversazione il più velocemente possibile. Fummo proprio codardi,» aggiunse. «Voglio dire, sicuramente lui vide il terrore sui nostri volti, ma noi non dicemmo nulla. Cosa avremmo dovuto dire? Avevamo paura. E poi... In quel momento io ero felice perché mio marito aveva ottenuto il divorzio, perché avremmo potuto sposarci. In un modo o nell'altro non ero nella situazione adatta per mettermi a fare l'oppositrice.» I Gebhardt si sposarono quando lei aveva ventisei anni e lui trentanove. Il primo anno di matrimonio fu «un periodo molto piacevole e spensierato». Frau Gebhardt accompagnò suo marito in viaggi d'affari in Scandinavia e nei Balcani. «Da lui imparai tanto, tantissimo. Innanzi tutto era di Amburgo. Che non è la Prussia, nicht? C'è una grande differenza.» Durante i viaggi «ampliai i miei orizzonti. Ma mi interessai troppo poco agli avvenimenti politici». Quando erano a casa a Berlino, facevano una vita d'amore e «piuttosto ritirata». A Herr Gebhardt non interessavano gli amici di Liselotte, anche perché erano molto più giovani di lui. Soprattutto gli uomini non erano affatto i benvenuti. «Mio marito non poteva sopportarli.» Viaggiava anche senza di lei, a volte per mesi. Herr Gebhardt era un agente di commercio e più tardi divenne vicedirettore del settore europeo per «una fra le più importanti aziende farmaceutiche». Frau Gebhardt la definì un'azienda chimica che si espanse durante il Terzo Reich e che dopo la guerra riprese

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l'attività nella Germania occidentale, ma si rifiutò di farne il nome, senza spiegare perché. Le chiesi se aveva prodotto gas. Mi rispose di no, e che non era la IG Farben.3 Nei periodi in cui suo marito era in viaggio, Liselotte se ne stava in casa, spesso malata. «Per parecchi anni soffrii di forti dolori.» (Aveva dei problemi all'addome e all'apparato genitale.) Per tenersi occupata vedeva delle amiche e leggeva libri di storia dell'arte. Quando erano assieme, i Gebhardt potevano usare le loro frequenti separazioni e i problemi di salute di lei per tenere i nazisti fuori dalla loro vita. «Avevamo sempre una buona scusa. Be', in qualche modo io non potevo accettarli. Esattamente come non avrei potuto accettare i comunisti, nicht? Devo dire anche questo. Il fatto è che pensavo che i comunisti fossero più che altro degli operai e non li conoscevo. Non che, come dire, li rifiutassi come persone. Ma non facevano parte del mio milieu. Inoltre conoscevo a malapena quelle zone di Berlino. Non che li si sottovalutasse, ma non si passava certo molto tempo con loro. Ecco qual era l'aspetto negativo, che non ci si interessava di queste cose.» Probabilmente Frau Gebhardt si ingannava in una certa misura anche sul reale impatto del Terzo Reich sul suo «milieu», o se ne era dimenticata. Durante il nostro primo incontro mi disse che l'impatto «fu molto graduale». Poco tempo dopo, tuttavia, ritrovò alcuni vecchi numeri dell'annuario della scuola che aveva frequentato a Düsseldorf. Andavano dal 1930, subito dopo che lei aveva lasciato la scuola, al 1934. «Ebbi uno shock. Attraverso gli annuari mi resi conto di quanto i contenuti scolastici fossero cambiati. Ciò mi infastidì moltissimo.» Nel 1930 si faceva riferimento a un'educazione «generale, liberale». Nel 1934 c'erano «soltanto richiami all'educazione nazionalsocialista: i temi per 1'Abitur, gli esami, la "fortuna" di andare in vacanza in una colonia nazionalsocialista, una diplomata che abbandona gli studi per essere attiva nel Bund deutscher Mädel». A quanto pare suo marito era più attento di lei. «Fu la prima persona che mi aprì davvero gli occhi» sui rapporti che si instaurarono rapidamente fra la grande industria e il regime nazista. «Mio marito non era nazista.» Disse che pochi fra i dirigenti della compagnia lo erano. Infatti, dei molti rappresentanti commerciali all'estero, «quelli nei paesi balcanici erano per la maggior parte ebrei. E adesso le dirò qualcosa di molto interessante». Mi raccontò che «questa grande società» tenne con sé quei rappresentanti ebrei fino al 1939. «Malgrado il nazismo.» E aggiunse: «Lo dico intenzionalmente, per sottolineare la complessità delle relazioni». Le cose divennero ancora più «complesse». Non soltanto i Gebhardt erano «in rapporti di stretta amicizia con un buon numero di questi rappresentanti [ebrei] e con le loro famiglie», che venivano spesso nella Germania nazista per questioni di lavoro (e che in apparenza costituivano il fulcro della circoscritta vita sociale dei Gebhardt), ma anche i dirigenti della misteriosa compagnia ne avevano un'alta opinione. Infatti, quando nel 1939 i nazisti diedero l'ordine che fossero licenziati, la compagnia fece prima qualcosa d'altro: «Rivolse loro un commiato formale» organizzando una 85

cena ufficiale «in un grande ristorante, un ottimo ristorante qui a Berlino». Quando il Terzo Reich era circa a metà del suo cammino, Liselotte si sottopose a un'operazione chirurgica (la eseguì una dottoressa che sarebbe ricomparsa più avanti nella sua vita) che le permise di avere dei figli. E rimase incinta. La zia che aveva sposato l'ebreo divenuto poi un fervente cristiano, la rimproverò: «Come si può pensare a fare dei figli di questi tempi?». Ma, mi disse Frau Gebhardt, «quello era il desiderio più ardente che avessi». (La zia rimase uccisa in un massiccio bombardamento su Berlino nel novembre del 1943.) Mentre Frau Gebhardt era incinta, gli ebrei tedeschi dovettero affrontare la «Kristallnacht». Lei, che allora viveva vicino al Grunewald, un quartiere esclusivo nella zona occidentale di Berlino, non ne fu testimone, ma vide più tardi alcuni dei negozi danneggiati. Finalmente parecchi amici ebrei della «cerchia» dei suoi genitori cominciarono a emigrare. «E al nostro piano, di fianco a noi, viveva una donna ebrea sola. Fece in modo che sua figlia [una ragazza di circa quattordici anni] lasciasse la Germania. Le costò molti soldi. E noi continuammo a frequentarla.» Nel febbraio del 1939 Frau Gebhardt diede alla luce una bambina. «Le prime settimane dopo la nascita di mia figlia furono i giorni più belli.» Quell'estate Herr Gebhardt andò in una stazione termale per la «cura» di un problema cardiaco. Lei e la bambina andarono con lui. «Avevo lasciato le chiavi alla nostra vicina ebrea perché mi annaffiasse le piante. E mio marito mi rimproverò: "Perché hai fatto una cosa del genere? Dabbasso sentiranno e si chiederanno chi abbia le chiavi dell'appartamento". Perché lui capiva più di me le implicazioni di un gesto come quello, nicht? Che cominciava a diventare pericoloso.» Frau Gebhardt definì il suo comportamento «avventato, questo è certo. Di chi ci si poteva fidare nel palazzo?» E aggiunse: «Non si voleva finire dritti nelle mani della Gestapo per un motivo del genere». Bastava lasciare che una donna ebrea annaffiasse le proprie piante? «Sì. Tuttavia io non me ne rendevo completamente conto. Non volevo credere al pericolo. In fondo, comportandomi così, anche nel caso della donna ebrea, sentivo di oppormi almeno un po'. Per fare un altro esempio, sugli scaffali della libreria lasciammo i libri di Thomas Mann, di Heinrich Mann, di Lion Feuchtwanger. E certo le SS o le SA non perquisirono mai la nostra casa, ma capitava che da noi venissero uomini del Partito, per l'oscuramento o per altri motivi, e [i libri] erano in bella mostra sugli scaffali. «Per me,» aggiunse, «era grande letteratura. E proprio non riuscivo a comprendere, pur sapendo che quei libri erano stati bruciati, non potevo credere che fosse un crimine leggerli.» Allo stesso modo considerava i suoi rapporti con la vicina ebrea: «Per me era una brava persona». Le due donne continuarono a intrattenere rapporti di buon vicinato. Ciò condusse a un nuovo incidente nell'estate successiva. A quel tempo la guerra era cominciata, così come le prime deportazioni degli ebrei dalla Germania. I rapporti fra ebrei e tedeschi erano sempre più verboten. «Ma io,» mi disse Frau Gebhardt, «mi sentivo sempre padro86

na delle mie azioni: posso fare ciò che voglio, pensavo. E talvolta non mi accorgevo del pericolo. Mia figlia... già camminava. E noi [Frau Gebhardt e la sua vicina] stavamo chiacchierando e le porte degli appartamenti erano aperte.» La bambina corse nell'appartamento della vicina e chiuse la porta. La serratura scattò. « A quel punto dovevamo cercare un uomo che aprisse la porta. La piccola era dentro. E la donna era un'ebrea. Ma io non ci pensai.» Lo fece Herr Gebhardt: rimproverò nuovamente sua moglie. Poco tempo dopo (probabilmente senza che ci fosse alcun nesso con l'incidente), alla vicina fu intimato di lasciare la casa. «Nel palazzo non se ne parlò, nicht?» Allora «sgomberò l'appartamento e regalò a mia figlia una piccola tazza da caffè». Fra lei e la vicina ci fu un commiato formale? « J a , » rispose piano Frau Gebhardt. «Ja. Suonò ancora una volta il nostro campanello e disse addio. Noi avevamo una cameriera, e ci salutammo di fronte a lei.» La donna «non entrò nell'appartamento, ma restò fuori dalla porta». Disse perché se ne andava? « L o si sapeva. Non aveva bisogno di spiegarlo.» Cosa disse Frau Gebhardt? « C h e mi dispiaceva terribilmente, e che speravo che in un modo o nell'altro se la sarebbe cavata.» In un'altra occasione, ricordando quell'incontro, mi disse: «Fu una sensazione terribile. Nicht? Ma non si poteva fare niente di più». Sul nastro registrato è ben udibile l'inspirazione con cui concluse la frase. La donna era «molto depressa. Ma, intendiamoci, non sempre si pensava che tutti gli ebrei sarebbero stati eliminati. Nicht? Poi la mia vicina trovò una stanza, e fu costretta a fare un lavoro coatto». Che lasciasse la Germania era fuori questione. «Non aveva denaro. Potè soltanto far espatriare sua figlia. Era per quello che ci eravamo trasferiti là. Sua figlia... dei parenti la portarono in Sud America.» La donna chiese aiuto finanziario ai Gebhardt? «Non avremmo potuto offrirglielo. Anche se avessimo voluto. Non ne avevamo la possibilità. Mio marito non guadagnava così tanto.» Il costo «era come minimo di cinquemila [e fino a] ottomila marchi,» disse. «E più tardi questa ebrea dovette indossare una fascia al braccio. La vidi solo una volta alla fermata dell'autobus. Ma non ci parlammo. Ci guardammo soltanto negli occhi.» Sarebbe stato pericoloso parlarle? « J a . Se le avessi rivolto la parola - alla fermata c'erano molte altre persone - sarei stata arrestata. Non era permesso [rivolgere la parola agli ebrei in pubblico].» Frau Gebhardt, che mi parlò della donna tutte e due le volte che ci incontrammo, mi disse che alla fermata dell'autobus «la donna fece solo un cenno col capo. Mi sarebbe piaciuto moltissimo andarle vicino, ma comunque non avrei potuto farlo: aveva la... la stella, nicht? La stella ebraica». Pensava che fosse sopravvissuta? «Non sopravvisse. Non sopravvisse.» 87

Quella donna non fu la sola vittima dell'Olocausto che Frau Gebhardt conobbe di persona. Un'altra fu un «anziano gentiluomo», un banchiere ebreo i cui beni furono sequestrati dai nazisti, e che in seguito il padre di Liselotte assunse privatamente. «Finché,» Frau Gebhardt fece una pausa, «i nazionalsocialisti andarono da mio padre e gli dissero: "Senta, così non va. Non può più farlo. O dovremo punirla". Ecco. Allora dovette licenziarlo. E credo che poco tempo dopo rimase senza soldi, e non espatriò, e probabilmente lo arrestarono.» Di nuovo inspirò lentamente dal naso. Intorno al 1940 vennero a sapere che il loro medico di famiglia, «un uomo che non aveva mai fatto del male a nessuno» e che era un amico d'infanzia dello zio ebreo di Frau Gebhardt, era stato portato a Buchenwald. «Due giorni dopo si gettò addosso alla recinzione elettrificata. Lo sapemmo poi.» Fu la zia a scoprirlo. Frau Gebhardt seppe anche delle deportazioni di persone a lei estranee. «Vicino alla nostra strada c'era un'[altra] strada, un po' fuori mano. Ed è lì che degli ebrei, sempre verso le cinque di mattina... A quell'epoca venivano già deportati. Andavano in queste sinagoghe e venivano portati via.» Succedeva tutto di notte, disse. «Non vedemmo mai nulla.» Ma se ne parlava? «Ja. Certo.» Nel 1940 Liselotte rimase incinta del suo secondo figlio. «Non fu proprio un "figlio voluto". Eravamo contenti che fosse in arrivo un altro bambino, ma avevamo anche paura. Perché nel '41 cominciarono le incursioni aeree.» Nel gennaio del 1941 partorì un maschietto in ospedale, dove fortunatamente tenne per sé le sue paure. «Quando fui di nuovo a casa, qualcuno... un vicino mi raccontò che un'altra donna che viveva nella zona aveva avuto un bambino e aveva detto: "Altra carne da cannone", e non era mai più tornata a casa.» La donna fu arrestata in ospedale. Frau Gebhardt, che mi raccontò questa storia per ben due volte, in un'occasione, dopo aver riferito l'episodio, fece una pausa e aggiunse: «Da allora in poi ce ne stemmo molto tranquilli e silenziosi». Ma se parlava poco, Liselotte poteva comunque ascoltare. Molte cose le apprendeva attraverso la «propaganda dei sussurri» durante le incursioni dei bombardieri che avvenivano due o tre volte per notte. A ogni sirena d'allarme portava i bambini giù per quattro piani di scale, oltre l'isolato, dentro il rifugio antiaereo. Lungo il tragitto, «per la strada, dove viveva qualche famiglia di ebrei, si sentiva dire: "Ha saputo? Li hanno presi questa notte". Oppure: "Li hanno presi"». La «propaganda dei sussurri» veniva diffusa anche dalle donne in fila per la spesa. Le informazioni venivano comunicate «con prudenza, spesso senza alcuna intonazione nella voce», in modo che chi parlava non rivelasse i propri sentimenti. In una lettera Frau Gebhardt descrisse se stessa come una persona che durante il Terzo Reich «non soltanto osservava, ma partecipava, anche se solo come una tessera del mosaico». In quegli stessi anni Herr Gebhardt continuò a fare viaggi d'affari. (A causa dell'età e dei problemi cardiaci non era stato arruolato.) Andò in Polonia e in Lettonia, ma non gliene parlò molto, mi disse Frau Gebhardt. 88

Lei sapeva che suo marito non le raccontava fatti di cui era venuto a conoscenza? «Nein, nein,» mi rispose. «Fra noi c'era davvero molta franchezza. Fra le mura domestiche parlavamo di tutto, anche del problema degli ebrei e della questione ebraica e così via. Ma non mi diceva tutto. Perché non poteva.» Quando suggerii che forse sapeva molte cose, per esempio sui campi di concentramento, Frau Gebhardt mi interruppe: «Sapeva più di quanto mi dicesse, ma allora avevo i bambini piccoli...» Dopo la guerra aveva trovato un resoconto scritto da suo marito in uno stile «non filonazista, ma prudente» che riguardava i territori occupati dalla Germania. Da ciò che lesse, capì che lui sapeva più di quanto le avesse detto su quello che i nazisti stavano facendo. Sui campi di concentramento? Anche sui campi. Quando era a casa, parlava dei loro amici ebrei stranieri (che, mi disse Frau Gebhardt, erano tutti emigrati) e della guerra, della sua sensazione che la Germania non avrebbe potuto vincerla. Ma non parlava degli stermini. Più tardi non fu più in grado di parlare di nulla. Nell'agosto del 1943, quando si intensificarono i bombardamenti su Berlino, Frau Gebhardt e i bambini furono evacuati dalla città. Andarono prima da una giovane donna, una ex dipendente a cui i Gebhardt avevano fornito aiuto «per una questione privata», una cosa «assai sgradevole, di cui i suoi genitori non sapevano niente». Poi, grazie a un'amica il cui marito era un giudice «molto nazista», trovarono ricovero in un piccolo albergo vicino a Breslavia, in Slesia, e vi rimasero fino al gennaio del 1945. Herr Gebhardt, spesso in Romania per gli affari della ditta, li andò a trovare due volte. Frau Gebhardt e alcune altre madri nella sua stessa situazione passavano una parte della giornata a lavorare in una fabbrica di conserve di verdura, che apparteneva anch'essa ai coniugi proprietari dell'albergo, ambedue nazisti. Un giorno la moglie «si infuriò» dopo aver sentito che in un campo di concentramento lì vicino, i prigionieri «cadevano come mosche. Che non avevano quasi niente da mangiare. E che crollavano nelle latrine e così via». La donna disse anche che suo marito «non doveva sapere che lei ce ne aveva parlato». Mentre Frau Gebhardt viveva in campagna, i suoi genitori stavano nella casa di Potsdam, e un piano sopra al loro abitava la famiglia del maggiore generale Henning von Tresckow, uno dei partecipanti al complotto del luglio 1944 per uccidere Hitler. (Quando seppe che Hitler era sopravvissuto, von Tresckow si suicidò, temendo - a quanto si dice - che i nazisti gli estorcessero con la tortura i nomi di altri cospiratori.) «Frau von Tresckow, quando le vicende di suo marito erano ormai state rese pubbliche, andava nella casa dei miei genitori per telefonare, poiché il suo apparecchio era sotto controllo. In seguito anche lei fu arrestata.» E in Romania fu arrestato Herr Gebhardt. Le truppe sovietiche, che quell'estate conquistarono il paese alleato della Germania, lo presero prigioniero insieme ad altri civili tedeschi, apparentemente senza alcun motivo, se non perché potevano farlo. Sei settimane più tardi Frau 89

Gebhardt seppe, da un fnessaggio che suo marito le fece giungere attraverso la Svezia, che era vivo. Poi, una mattina di gennaio del 1945, prima dell'alba, a lei e agli altri ospiti dell'albergo fu comunicato che entro tre ore sarebbero stati evacuati verso i territori occidentali della Germania. Fra i molti dettagli rievocati da Frau Gebhardt del viaggio straziante che affrontarono stipati su un carro agricolo, c'è la visione, attraverso la neve e il ghiaccio, «di una slitta che ci superava, con un carico di forse otto bambini e della loro madre morta. Non lo dimenticherò mai». Dopo tre giorni Frau Gebhardt raggiunse la città di Liegnitz (Legnica), oggi in territorio polacco. Lasciò le sue due valigie in custodia a casa di qualcuno, riuscì a salire su un treno con i bambini, e arrivò a Potsdam quella notte. Non ricevette l'accoglienza che si aspettava: suo padre «s'infuriò» perché aveva abbandonato i bagagli. «E mi rimandò indietro di nuovo, a Liegnitz.» Tornò indietro da sola, come le era stato ordinato. Nella confusione e nello scompiglio che ne seguirono, riuscì a risalire su un treno a Liegnitz solo passando attraverso un finestrino. Durante il viaggio verso Potsdam, «l'unica cosa di cui si parlava era la follia di una guerra ormai persa. E se ne parlava apertamente». Ancora adesso la sua voce esprimeva la sorpresa. Il dramma della follia continuò. Su ordine di suo padre, Liselotte lasciò nuovamente Potsdam con i due bambini, questa volta diretta verso la relativa sicurezza dello Schleswig-Holstein, nel nord della Germania. Là, «fummo trattati in modo orribile, come rifugiati; in sostanza venivamo presi a sputi e accolti con frasi come "Cosa volete qui?" e così via. E l'undici di marzo del 1945 ebbi una crisi di agorafobia [Platzangst], presi i bambini, presi i bagagli, e tornai a Potsdam». Suo padre si arrabbiò di nuovo, ma quella volta «con ragione»: due giorni dopo il loro arrivo, a metà di aprile, Potsdam subì il suo peggior bombardamento. «Finì all'altezza della nostra strada. Le bombe caddero nella via attigua alla nostra.» Mentre lei e la sua famiglia erano in un rifugio antiaereo, crollò il soffitto di quello adiacente e venti persone morirono. Suo padre e una giovane domestica, che erano rimasti in casa, uscirono e «videro solo la montagna di macerie. Mio padre pensava che fossimo morti. E poi noi venimmo fuori». Sua figlia, che allora aveva sei anni, se ne ricorda ancora. Fra le persone che guardavano estrarre i cadaveri c'era una SS. «E ci disse: "Come? Non siete ancora morti tutti?"» Frau Gebhardt smise per un momento di parlare. Durante le settimane successive, proseguendo nel racconto di Frau Gebhardt, la famiglia spese molte energie per procurarsi un ricovero, e altrettante per mettere in deposito o trasferire i mobili. Frau Gebhardt lodò l'intrepidezza dei suoi genitori e (come facevano spesso i tedeschi dell'est) il comportamento dei nuovi occupanti sovietici. Li descrisse come uomini che cercavano di agire con correttezza, che punivano chi fra i loro camerati si comportava da delinquente, e che dividevano il pane con i tedeschi. Le donne non temevano di essere stu... 90

Mi interruppe bruscamente: «Nein, nein. Loro poi...» e cambiò argomento. Ma la questione emerse di nuovo durante il nostro secondo incontro, che ebbe luogo nel mio albergo a Berlino Ovest. (Essendo una cittadina anziana, a Frau Gebhardt era consentita una certa libertà di movimento.) Lodò un'altra volta il comportamento delle truppe sovietiche, anche se ammetteva la possibilità che ci fosse stata qualche malefatta di soldati ubriachi, appartenenti a truppe che non sempre erano «1*élite». Le chiesi - ripeto alla lettera ciò che è registrato sul nastro - se dunque non sapeva di nessuna donna che affermasse... Frau Gebhardt mi interruppe: «Io stessa venni stuprata». Fu come se avesse completato la mia frase. «Glielo racconterò senza reticenze,» mi disse. «Ma per favore spenga il registratore.» Lo spensi. Nel gennaio del 1946 Frau Gebhardt seppe attraverso un'altra breve lettera che suo marito era vivo, in un campo di prigionia romeno. Per quanto riguarda il cibo, ne aveva «troppo poco per poter vivere, e troppo per poter morire,» come si usava dire. Ma si aspettava di venire rilasciato in primavera. Nel frattempo Frau Gebhardt aveva trovato i suoi appunti su ciò che i nazisti avevano fatto nei territori occupati, e aveva in animo di chiedergli maggiori informazioni al riguardo. Herr Gebhardt venne effettivamente rilasciato in primavera, ma mentre era in viaggio su un treno merci diretto in Germania, al confine fra la Romania e l'Ungheria, ebbe un grave colpo apoplettico. Le prime cure mediche gli furono prestate solo dieci giorni dopo, quando arrivò a Berlino. Aveva il lato destro del corpo paralizzato e aveva perso del tutto la capacità di parlare. Frau Gebhardt non scoprì mai quello che aveva fatto, o saputo. Probabilmente le informazioni custodite nella mente di suo marito erano l'ultima delle preoccupazioni di Frau Gebhardt. La sua casa e quella dei suoi genitori erano state distrutte. L'azienda di Herr Gebhardt non poteva dar loro alcun aiuto, e tanto meno poteva darne lui: all'inizio non era neanche in grado di mettersi seduto. Prima di Natale Frau Gebhardt era riuscita a fargli fare qualche passo, ma poi cominciò ad avere degli attacchi epilettici. Vivevano in subaffitto in due stanze ammobiliate nella zona sovietica di Berlino. A quel punto, la donna che un tempo era stata una figlia privilegiata comprese di avere tutte le responsabilità su di sé. «E in quel momento cominciai a rendermene conto: non avevo una laurea; avevo abbandonato gli studi; non avevo una professione; non ero niente. E ora dovevo mandare avanti una famiglia. Non mi chieda quali rimproveri mi feci; pensavo di dovermi mettere a fare la domestica a ore.» Il primo anno dopo la guerra, «vissi in uno stato di totale apatia, potrei dire. Non perché avevamo perso la guerra, ma per quello che avevamo fatto. Un po' alla volta dovevamo anche vedere i film sui campi di concentramento». I tedeschi erano obbligati a guardarli, «ma io stessa lo volevo. Volevo vedere, volevo sapere». Ma ciò che vide nei filmati, per le strade di una Berlino distrutta e dentro la sua stessa casa la rese «veramente dispe91

rata», disse. «Ero completamente... Non ebbi il mio ciclo per tre quarti dell'anno. Ero completamente... furibonda.» La dottoressa che l'aveva operata, dandole la possibilità di avere dei figli, le disse che i sovietici stavano mettendo in piedi un'organizzazione destinata ad aiutare le donne e i bambini, e le chiese se le sarebbe piaciuto avere un posto di lavoro pagato presso di essa. «Le gettai le braccia al collo.» Più tardi tentò di tornare nel suo vecchio quartiere di Berlino Ovest, ma gli inglesi che lo occupavano le dissero che siccome aveva vissuto nel settore sovietico non poteva. Nel frattempo scoprì che il suo nuovo lavoro le piaceva, e le piaceva la sensazione di stare facendo qualcosa di buono. Così rimase a Berlino Est. Nei nostri due incontri faccia a faccia avevamo parlato molto della divisione fra est e ovest, e delle restrizioni sugli spostamenti, due cose che lei difendeva, o dava l'impressione di difendere, anche se ammetteva che se fosse dipeso da lei avrebbe permesso ai giovani di viaggiare. (Quando le avevo chiesto se fosse d'accordo con le restrizioni, aveva risposto: «Devo essere d'accordo».) Il giorno in cui cadde il muro di Berlino, le telefonai. Con voce eccitata mi disse che immaginava dove fossero i suoi figli in quel preciso momento, poi esclamò: «A Berlino Ovestl» Quasi due anni dopo, quando viveva ancora a est pur essendo cittadina dell'ovest, mi scrisse diffusamente dei terribili e persistenti problemi fisici di cui soffriva in seguito a una caduta; era stata ricoverata per tre mesi e ora doveva pagare l'assistenza infermieristica a domicilio, che una volta era gratuita; e non poteva più permettersi il lusso di andare al cinema. Dava anche l'impressione di avere idee piuttosto cupe sulla politica. Pensava che ciò che c'era di buono nella Germania orientale, soprattutto in riferimento al suo interesse di lunga data per i diritti delle donne e per l'assistenza ai bambini, era stato completamente abbandonato. E insinuava che la divisione ci fosse ancora. «Siamo una sola Germania? Nein.» Nell'autunno successivo, nel 1992, mi scrisse di essere ancora a favore dell'unificazione, ma aggiungeva che non tutto era brutto nel vecchio sistema, soprattutto per le donne e per i bambini, e che per quanto riguardava la sua condotta personale non aveva nulla da rimproverarsi «né nel periodo nazista, né adesso». Scrisse che aveva sempre cercato, ora come allora, di comportarsi in modo corretto.

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NOTE 1 La Mensur era un duello alla sciabola, una prova di coraggio da affrontare per essere accolti nelle corporazioni di studenti delle università tedesche. I duellanti dovevano cercare di colpirsi alle guance o alla fronte, mentre gli occhi e il resto del corpo erano difesi da speciali protezioni. Gli sfregi sul volto di uno studente erano il segno indelebile della sua audacia [N. d. 7?]. 1 La sua supposizione, o informazione, si rivelò giusta. Nel 1936 Hider decretò che le donne non potessero più diventare avvocati né giudici. Cfr. Barbara Beuys, Familienleben in Deutschland (Vita familiare in Germania), Reinbek bei Hamburg, Rowohlt, 1984, p. 479. ' La I G Farben era una delle più importanti aziende chimiche tedesche. Oltre a contribuire alla produzione dello Zyklon-B, il gas usato nelle camere di sterminio, promosse alcuni degli orrendi esperimenti medici sui prigionieri dei lager e utilizzò gli internati di Auschwitz III come mano d'opera nella sua fabbrica di gomma sintetica [N. d. T],

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LA LEZIONE DI STORIA (Frau Mathilde Mündt)

Tempo fa, dopo che la Germania nazista era caduta e prima che cadesse l'Unione Sovietica, dozzine di anziane donne tedesche fecero per la prima volta un viaggio che avrebbero poi ripetuto con cadenza annuale, una sorta di ritorno sentimentale « a casa». L a loro meta, la cittadina termale di Bad Pyrmont, si trova ottanta chilometri circa a sud di Hannover e circa ottocento a ovest del luogo in cui, se avessero potuto, avrebbero preferito andare: la Prussia orientale, la loro vecchia patria. Ma a quelle esuli nostalgiche le autorità sovietiche proibivano l'accesso. L e donne non si recavano in pellegrinaggio fino a Bad Pyrmont per rilassarsi nei famosi bagni lenitivi e nelle sorgenti d'acqua calda delle terme, ma per immergersi in un'atmosfera riciclata, stracarica di storia della Prussia orientale. Si incontravano, mangiavano e dormivano nella «Sede della Società della Federazione della Prussia orientale», un grande edificio a pochi passi dai bagni di Bad Pyrmont. Lì riprendevano contatto con la loro vecchia patria, ne assaporavano il gusto, e presumibilmente la sognavano. L e giornate e le serate erano piene di discorsi, reminiscenze, indignazione e sentimentalismo. Ognuna delle camere da letto - più o meno venticinque - è dedicata a una diversa città della Prussia orientale, identificata dalle fotografie e dai disegni appesi alle pareti, e da una piccola targa sull'ingresso. Una donna bussò piano alla mia porta per chiedermi se poteva «visitare» la sua città natale. Il più tremendo e indimenticabile degli eventi nella vita di tutte quelle donne doveva essere stato l'abbandono della Prussia orientale o, meglio, la fuga da essa. Non c'è dubbio che le partenze, al di là del tributo emotivo che pretesero, avvennero in circostanze materiali spaventose. Nei primi mesi del 1945 faceva un freddo terribile. E a deciderne le date non furono delle tregue del maltempo, ma la cocciutaggine o il desiderio di vendetta o la stupidità dei comandanti nazisti locali, che spesso si rifiutavano fino all'ultimo istante di accordare alla gente il permesso di partire. Chiunque provasse ad andarsene in anticipo poteva essere arrestato e accusato di «disfattismo». Disfattismo equivaleva a tradimento. E tradimento equivaleva a morte. Con le autorizzazioni che giungevano così tardi, non meno di tre generazioni si gettarono in una fuga ancor più disperata, per centinaia e centinaia di chilometri, attraverso strade impraticabili che ben presto furono intasate da carri e carretti stracarichi, da cadaveri di cavalli e di esseri umani. Secondo numerosi resoconti, nel giro di pochi giorni non c'era pressoché nessuno che non fosse esausto, intirizzito e affamato. Gli aristocratici ben coperti e impellicciati che, pur con un certo stile, fuggivano

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freneticamente di castello in castello, grati per il servitore rimasto con loro e per la scorta di vini d'annata del barone, erano in una condizione migliore, ovviamente, come sempre era stato. Ma tutti indistintamente erano terrorizzati, poiché fuggivano un nemico comune, contro cui erano stati messi in guardia dall'incessante propaganda nazista: i soldati «subumani» dell'Armata Rossa, assetati di vendetta. Mentre dodici anni di regime nazista stavano per concludersi fra il gelo dell'inverno e le fiamme della guerra, a cui si aggiunse certo anche la spietatezza di molti soldati russi verso il popolo di chi li aveva invasi, molti tedeschi delle regioni orientali erano convinti che la colpa del loro esodo disonorevole ricadesse direttamente su Mosca. Quelli che dovettero sottomettersi alla fuga più lunga furono gli abitanti della Prussia orientale, spesso considerata la patria del più acceso nazionalismo tedesco proprio per la sua estrema lontananza dalla «vera» Germania. Ora che avevano avuto più di quattro decenni per riflettere, gli esuli prussiani era ancora convinti che a causare le loro sofferenze e la loro profonda nostalgia della patria fossero stati i russi e non piuttosto, diciamo, altri tedeschi? Che cosa avrebbero raccontato queste donne degli eventi che condussero al dolore senza fine della disfatta e dell'esilio? La sera che precedette la fine del raduno ascoltai con loro la voce registrata di un poeta della Prussia orientale e assistetti alla lettura di una tragedia ambientata nella Prussia orientale, la storia di una donna che preferì suicidarsi piuttosto che confidare ai corregionali ciò che le avevano fatto i soldati dell'Armata Rossa. Come finale del programma, ascoltammo, registrate su nastro, le campane di una chiesa della Prussia orientale. Mentre l'intera stanza si asciugava gli occhi, fui invitata a dire ciò che volevo. Preoccupata per il fatto di parlare per la prima volta in tedesco di fronte a un gruppo numeroso di persone, per di più angosciate, mi scusai per gli errori di grammatica che avrei commesso e dissi che mi interessava ascoltare ciò che le donne ricordavano del periodo compreso fra il 1930 e la fine della guerra. Ebbi l'accortezza di non usare parole troppo forti come «nazista» o «ebreo». Tuttavia, non più di sette donne, molte meno di quante mi aspettassi, date le tante manifestazioni di simpatia che avevo ricevuto durante il giorno, mi seguirono nella sala di lettura attigua. Presto fu chiaro che a causare un'affluenza così ridotta era la partecipazione di una certa Frau Mundt. Aveva una corporatura massiccia e i capelli rossastri, e il suo volto arrossato esprimeva l'aggressività di un mastino, accentuata da un paio d'occhiali che le scendevano sulla punta del naso. Fino a quella sera non l'avevo notata, e allora avevo avuto un moto di simpatia per il suo aspetto rude e mascolino, così poco adatto a una donna in un paese o in un mondo in cui alle donne si chiedeva soprattutto di esprimere femminilità. Di lei non sapevo assolutamente niente. Condusse me e le altre in biblioteca, e ci sedemmo tutte attorno a un grande tavolo. Le donne parlarono per un po' delle conseguenze della Prima Guerra Mondiale. Poi risuonò alta la voce di Frau Mundt.

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«Sette milioni di disoccupati in Germania, giusto?» Stava parlando dei dati sulla disoccupazione nel periodo in cui Hitler prese il potere. Un'altra donna ribatté: «Be', sei milioni, no?» 1 Frau Mundt disse che forse mi avrebbe dato una lezione di storia. Non aveva ancora finito di pronunciare queste parole che alcune sedie stridettero sul pavimento e le loro occupanti cominciarono ad andarsene. Nel giro di qualche minuto le potenziali intervistate si sarebbero ridotte a tre, compresa Frau Mundt. Quando mi resi conto che era la sua presenza a causare l'assenza delle altre, capii che stava svanendo il mio progetto di intervistare a turno ognuna delle donne rimaste. Benché avessi la tentazione di stabilire un certo ordine nelle interviste, oppure di terminare in fretta la seduta e cercare un campione più ampio di donne della Prussia orientale, dato che avevo fatto un lungo viaggio per incontrarle, decisi di lasciare che Frau Mundt dicesse tutto ciò che voleva. A quel punto sapevo di essermi imbattuta in un personaggio di cui probabilmente non avrei mai più incontrato l'uguale, almeno in un contesto così poco filtrato, per nulla ingentilito. La mia decisione si dimostrò corretta dal punto di vista giornalistico, ma angosciante da quello emotivo: Frau Mathilde Mundt odiava gli ebrei con tutte le sue forze. Frau Mundt è, o era, un'insegnante in pensione. Che cosa insegnasse, non lo disse né io mi preoccupai di domandarlo o di figurarmelo. Era nata nel 1923, non nella Prussia orientale, ma nella Germania nord-occidentale, a Leer, una cittadina a pochi chilometri dalla frontiera olandese. Si trasferì nella Prussia orientale durante la guerra, probabilmente sfollata fin là per sfuggire ai bombardamenti. (Un'ultima premessa: Mathilde Mundt mi pregò di non citarla con il suo vero nome. Se l'avessi usato, mi disse con una sonora risata, gli ebrei sarebbero venuti per catturarla.) Quando ci riunimmo nella sala di lettura, erano circa le otto e mezzo di sera. Verso le nove ebbe inizio la lezione di storia di Frau Mundt. «Nel 1919, dopo la Prima Guerra Mondiale,» stava dicendo, «ci fu il Diktat di Versailles.» Le era bastata una parola per mettere le carte in tavola. Il termine corretto è, naturalmente, il trattato [Vertag in tedesco] di Versailles. I nazisti (fra gli altri) usavano il termine spregiativo Diktat per denotarne il carattere d'imposizione. «Poi, nel 1922, arrivò quest'enorme inflazione,» continuò. «A ogni ora bisognava sborsare tutto quello che si era guadagnato in quel giorno. Miliardi, perfino migliaia di miliardi. Ho ancora delle note della spesa in una scatola. La mamma doveva affrettarsi a comprare una mezza pagnotta o qualcosa d'altro. C'era chi rubava la biancheria stesa ad asciugare, tanto erano poveri gli esseri umani. E spesso si uccideva solo per pochi marchi, per mangiare. «Poi, gradatamente, l'inflazione fu contenuta. Ma nessuno aveva denaro. Nessuno aveva lavoro. Fallivano i negozi alimentari. Fallivano le fabbriche. Nelle grandi città non c'era niente da mangiare, e poi le malattie e chissà cos'altro. La gente non poteva difendersi. Eravamo un Volk condannato alla distruzione.»

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Le altre donne rimaste convennero che quello era stato davvero un periodo infelice, ma Frau Mundt, sovrapponendo la sua voce alle loro, gridò: «A BERLINO, A BERLINO si stava così male. Il marito di una mia amica che adesso è morto ce lo raccontò tante volte: arrivarono gli ebrei». Si rivolse a me gesticolando. «Lei dovrebbe sapere ogni cosa, no? Venivano dall'est. E avevano quelle loro barbe, ed erano unti, sì?» Fece correre le mani giù per le guance, come per mostrare quale fosse l'aspetto di un volto unto. «Portavano una sorta di zaino e un cappello nero, e queste barbe nere. Da aver paura. Ed erano trasandati, completamente sudici e unti [schlidrig, ganz dreckig und schmierig] perché non avevano neanche principi igienici.» Una donna attraente, scura di carnagione ed elegante nell'acconciatura, si schiarì la gola. Da una signora d'aspetto così raffinato mi aspettavo qualche parola di dissenso scelta con cura. Disse: «Erano ebrei orientali, no?» «Ebrei orientali,» fece eco Frau Mundt prima di alzare di nuovo il tono della voce. «E tre mesi più tardi, che cosa vi immaginate? Passeggiavano calzando scarpe di cuoio verniciato, indossando splendidi vestiti, e ben presto possedevano un intero quartiere residenziale. Sfruttavano il bisogno delle persone e compravano ogni cosa per pochi spiccioli.» «Ja,» assentì l'altra donna, che più tardi seguì Frau Mundt nella richiesta di uno pseudonimo. (La chiameremo Frau Folgen.) Frau Mundt continuò: «E le persone a cui appartenevano le case, o le fattorie, o le fabbriche, si toglievano la vita per la disperazione». «Ha fatto bene a chiarirlo,» disse Frau Folgen. «E a Vienna c'era la stessa situazione,» tuonò Frau Mundt la cui foga, ora che aveva trovato un'alleata, era cresciuta ancora. «Ed ecco che arriva Adolf Hitler. Aveva fatto la guerra, i suoi genitori erano morti, ed era solo, giovane e non sposato.» Le altre donne, comprese alcune che presto se ne sarebbero andate, si gettarono tutte assieme a discutere di Hitler, che non era poi così giovane, che sua sorella Paula si occupava per lui della casa, che era molto religioso e che lavorava nell'edilizia perché non aveva nessuna istruzione. Quando mi fui ripresa un po' dai primi colpi di Frau Mundt, mi intromisi per chiedere se potevamo fare un passo indietro e parlare di come gli ebrei orientali potessero comprare interi quartieri residenziali se il denaro non aveva praticamente alcun valore. Mi rispose Frau Folgen: «Tutti loro avevano un po' di soldi». Frau Mundt fece un sospiro, poi disse: «Deve intenderlo in questo modo. In America è esattamente la stessa cosa. Ancora oggi nelle banche, nelle borse valori, nel mercato dei diamanti siedono gli ebrei. Anche a Bruxelles. E il mercato di diamanti più grande del mondo è a Gerusalemme. C'era una rete di rapporti che li legava. E succedeva che, se Nathan Tal dei Tali voleva acquistare un intero complesso residenziale, gli amici comuni venivano in suo soccorso. E all'improvviso erano pieni di soldi e contavano...». Intendeva dire che i soldi provenivano dai diamanti? 97

Frau Muncit rispose come se stesse parlando a un alunno molto lento ad apprendere: «Nein. Rapporti fra banche. Deve intenderlo in questo modo. Tutte queste banche avevano degli ebrei al vertice. I giudici più importanti nel ministero della giustizia erano ebrei. Se un tedesco portava in tribunale un ebreo, un commerciante di bestiame che lo aveva imbrogliato, il tedesco perdeva e l'ebreo vinceva. E questa è una vicenda reale, capitata a una famiglia. «Ora, Hitler era a Vienna e vedeva che gli ebrei si facevano avanti con tanta rapidità, senza lavorare. Grazie alle speculazioni. E perciò gli venne quest'idea. "Gli ebrei sono la nostra rovina," diceva. Ma all'origine c'erano quei fatti. Bisogna sapere riconoscere le cause, altrimenti non è possibile fare una cronaca veritiera.» Dal tavolo si levò un borbottio: alcune donne sostenevano che le merci dei negozi ebrei erano meno care. Frau Mundt affermò che in Germania i grandi magazzini erano «tornati in mano agli ebrei». Ne nominò parecchi, poi disse che «stavano di nuovo mettendo kaputt i negozi tedeschi». A quel punto le altre dissentirono con maggior decisione, mentre discutevano su quali grandi magazzini fossero o non fossero ebrei. «E ADESSO PER CONTINUARE,» urlò Frau Mundt quando tornò il silenzio. «Nel 1930 le banche falliscono. Scaduti d'un colpo tutti i crediti. Nessuno aveva più soldi. Tutti erano costretti ad abbandonare il focolare domestico. Ogni cosa portata via. Ogni giorno sempre più persone dovevano andare alla mensa dei poveri.» Guardò verso di me. «Sa che cosa significa? "Non ho più nulla." A quel punto arrivò la disoccupazione. Sette marchi, sette marchi alla settimana. Famiglie con due, con dieci figli o più, sette marchi.» A quell'accenno ai bambini le donne presero a parlare con animazione di quanto fossero numerose le famiglie della Prussia orientale. Dopo aver ascoltato un esempio dietro l'altro, Frau Mundt aveva sentito abbastanza. «Niente soldi, niente lavoro, niente pane,» disse interrompendo le altre. «Quanto alla mia famiglia, chiedevamo la carità. Fu davvero orribile ma dovemmo farlo. Non avevamo niente. E poi venne il 1931.» La sua voce assunse un tono elevato, come se stesse per descrivere un'apparizione celeste. «Alle elezioni sentimmo parlare per la prima volta del sistema di governo che rendeva la nostra esistenza così terribile. I miei genitori piansero molto. Come famiglia tedesca eravamo abbandonati a noi stessi. In Renania c'erano le truppe d'occupazione, i francesi, i belgi. Percorrevano i marciapiedi armati di fruste e i tedeschi dovevano spostarsi o venivano cacciati a frustate. Così andavano le cose dopo la Prima Guerra Mondiale, no? «E venne il 1932. Mio padre e mia madre presero la motocicletta, mia madre sul sellino posteriore, e andarono a sentire Adolf Hitler che teneva un grande discorso. La mattina dopo ci raccontarono quali fossero i suoi scopi, le sue idee, che cosa volesse fare in favore dei disoccupati. Mia madre versò lacrime di gioia. Ed entrambi pregarono perché il buon Dio concedesse tutti i voti a quest'uomo, così che potessimo sottrarci alla povertà. Non c'era nessun altro che lo prometteva e che sapeva come farlo. Poi venne il '33 e Hitler fu eletto...»

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Le altre non riuscirono più a trattenersi e intervennero per dire che Hitler non aveva avuto abbastanza voti per vincere con le sue sole forze, che il feldmaresciallo Hindenburg l'aveva aiutato a prendere il potere e per spiegare come fossero andate in realtà le elezioni, finché Frau Mundt non potè più trattenersi a sua volta. «ORA D O B B I A M O PROSEGUIRE,» urlò. «Hitler introdusse questa nuova idea.» Si riferiva alle organizzazioni maschili e femminili della Hitlerjugend, di cui descrisse l'intera struttura. «Nel 1933,» continuò, «avevo dieci anni, e assieme a tutte le compagne di classe, con l'eccezione di una sola ragazza, decisi di entrare nel BdM. Due volte alla settimana ci riunivamo al pomeriggio per svolgere varie attività. Si cantava, si raccontavano favole, si facevano lavori manuali. Facevamo sport, danza, danze popolari, e andavamo al cinema a vedere dei film, all'epoca film culturali, ja? E devo dire che non mi spiaceva passare il tempo così.» «E quello che dicono tutte,» commentò Frau Folgen, «ma le ragazze del BdM non avevano la migliore reputazione...» Seguì una confusa discussione generale, durante la quale Frau Mundt si oppose con tutte le forze all'osservazione di Frau Folgen. Quando si udì alzarsi, inaspettata, un'altra voce, tornò la calma. Una donna dall'aspetto tranquillo, che indossava un lindo costume tradizionale della Prussia orientale (la chiameremo Frau Schmidt), disse in tono sommesso: «Mio padre perse il posto di sindaco nel nostro villaggio perché non volle iscriversi al Partito nazista. Disse che avrebbe ubbidito soltanto a Dio, non ad Adolf Hitler». Frau Mundt non le prestò nessuna attenzione. «Devo anche dire che quando si avvicinò la guerra fummo mobilitate per aiutare le persone anziane, per dare una mano nelle fattorie, nel tempo libero.» (In forza di una legge nazista, bisogna aggiungere.) «Venivano rafforzati gli insegnamenti ricevuti in famiglia. Se eri seduta in treno o sull'autobus e c'era una persona anziana in piedi, ti alzavi. Si mostrava rispetto per gli anziani. Inoltre si andava in chiesa tutti insieme. E anche noi lo facevamo, composte, in uniforme, ogni cosa pulita e in ordine, nicht? Ja. «Quanto ai miei genitori, avevamo un negozio [vendevano macchinari agricoli] che andava molto male. Nel '33, quando le fattorie vennero in parte espropriate, fu adottato un provvedimento che esentava dal pagamento dei debiti. Gli agricoltori che erano ancora molto deboli, intendo dal lato finanziario, non dovettero più lasciare le loro fattorie. Ricevettero prestiti a lungo termine e poterono continuare a lavorare la terra. Questa è la verità. E per loro le cose cominciarono ad andare meglio, poi migliorarono anche per noi. E, NON L'AVREMMO MAI P O T U T O IMMAGINARE...» Dopo aver alzato di nuovo il tono della voce, Frau Mundt fece una pausa come se stesse per fare un grande annuncio, catturando l'attenzione un po' vagante delle altre. «Nel 1935 mio padre comprò la sua prima automobile.» Le donne emisero mormorii non proprio entusiastici. «Inoltre,» disse Frau Mundt, «furono fatte leggi così severe che chiun99

que avesse commesso una rapina sarebbe stato fucilato. Nessuno si impossessava di cose che appartenevano ad altri.» L'affermazione non venne contestata. «Vicino a noi viveva un tale, un comunista. Niente a che vedere col fatto che fosse comunista, ma costui picchiava la moglie, picchiava i figli, in casa rompeva tutto. Oggi si direbbe che fu inviato in un campo di concentramento perché era comunista. No. Allora i campi di concentramento erano chiamati campi di lavoro. L'uomo fu mandato in uno di questi campi e dovette lavorare, e i soldi che gli sarebbero spettati andavano a sua moglie. "Non voglio neanche più rivederlo," diceva lei. Si comprò una cucina nuova e crebbe i suoi figli. «A quel tempo i campi di concentramento erano campi di lavoro, per bevitori, fannulloni, ladri e così via. Chiunque infrangesse la legge in modo più grave andava in prigione e chi uccideva finiva nel penitenziario di Stato. E quando c'erano le prove, allora c'era la pena capitale. Poi, gradatamente, nel 1938...» Queste notizie erano di una falsità madornale, ma l'unica a intervenire fu Frau Folgen, per parlare di un altro argomento. «Non si dimentichi delle regioni di cui riprendemmo il controllo, come la Renania,» disse. Frau Mundt, affabile, acconsentì: «Ja. Non ci era permesso di avere un esercito con più di centomila uomini. Tuttavia veniva effettuato un ricambio continuo, così che c'erano sempre centomila soldati in uniforme. Venivano addestrati rapidamente e rimandati a casa. Inoltre erano rimasti senza lavoro e quindi erano felici di avere almeno dei vestiti, provviste, un letto, e qualcosa da mangiare. E anche esercizio fisico». Prima di continuare descrisse di nuovo la scena dei tedeschi scacciati dai marciapiedi a frustate. «Improvvisamente i nostri soldati entrano a passo di marcia,» disse. «Vennero accolti con fiori. Gli altri se n'andarono, o se n'erano già andati, e i nostri entrarono marciando. Né dalla Francia, né dal Belgio, né dall'Inghilterra si levò un solo grido di protesta. Lasciarono che accadesse. Iniziò dalla Cecoslovacchia. Fu la prima, no?» «Non si dimentichi della Saar,» disse Frau Folgen. «Fu prima della Cecoslovacchia.» A quell'allusione alla Saar, un'altra regione contesa fra Francia e Germania (la cui popolazione votò a favore del ritorno sotto il governo tedesco nel 1935) Frau Mundt si mise immediatamente a cantare un motivo che Frau Folgen afferrò all'istante. Deutsch ist die Saar. Deutsch immerdar. Und Deutsch ist unser Fluss und Strand Und ewig Deutsch mein Heimatland. Mein Heimatland, Mein Heimatland. [Tedesca è la Saar. Tedesca per sempre. 100

E tedesco è il fiume e la sponda, E in eterno tedesca la mia patria. La mia patria, La mia patria.] Le due donne ricordavano ogni parola e ogni nota, compreso il trillo sull'ultima sillaba della seconda «Heimatland». Compiaciute per la loro esibizione, proseguirono con una rievocazione entusiastica del programma nazista della «Forza attraverso la gioia» [Kraft durch Freude], tramite il quale si organizzavano viaggi di gruppo a buon mercato per i cittadini tedeschi con un reddito basso. Anzi, per i cittadini «ariani» con un reddito basso. «Ora i lavoratori tedeschi potevano andare in vacanza,» disse Frau Mundt rivolgendosi a me. «Furono costruite delle navi. La Wilhelm Gustloff, la grande nave che fu affondata dai russi mentre portava i rifugiati dalla Prussia orientale a ovest, era una nave della Forza attraverso la gioia. E un'altra nave andò fino a Montevideo, no? E pensi che ci furono viaggi in Norvegia, ai fiordi, e si potè visitare quello splendido paese. Ci furono viaggi per Madeira e per - come si chiamava? - Tenerife, e anche viaggi per l'Inghilterra. MA NON FU DATO IL PERMESSO di avvicinarsi a più di dieci o quindici chilometri dalla costa inglese. Ai lavoratori inglesi, per cui le cose andavano ancora male, non era consentito di vedere il benessere a cui erano tornati i lavoratori tedeschi. Ecco la verità.» «La Forza attraverso la gioia diede la possibilità di viaggiare al Volk,» aggiunse Frau Folgen. «Alle persone con molti figli, ai poveri.» «Vede,» disse Frau Mundt, «un bracciante agricolo guadagnava forse cento o duecento marchi. E anche lui poteva permettersi questi viaggi, tanto erano economici. Era un privilegio davvero stupefacente.» Fu la loro insopportabile saccenteria a spingermi a intervenire. Chiunque poteva partecipare ai viaggi? Chiesi. «Chiunque poteva,» rispose Frau Mundt. «Chiunque.» Anche gli ebrei? Frau Mundt manifestò un problema d'udito. «Prego?» Gli ebrei. Anche loro partecipavano? «NEIN!» interloquì Frau Folgen. «Erano ricchi a sufficienza. Non ne avevano bisogno.» «Avevano abbastanza soldi,» la interruppe Frau Mundt che aveva recuperato le sue facoltà. «Viaggiavano comunque, in pesanti cappotti di pelliccia...» Di nuovo intervenne Frau Folgen. «Fu offerto un viaggio agli ebrei,» disse. «Perché vendessero i loro negozi e lasciassero la Germania.» Frau Mundt continuò: «Agli ebrei venne data una scelta. Potevano vendere tutto, portare tutto con sé, qualsiasi cosa volessero». Cercando di mantenere un tono di voce tranquillo dissi di aver letto che gli ebrei non volevano andarsene perché si consideravano tedeschi. Che, per esempio, parlavano in tedesco. 101

Frau Mundt rispose come se si rivolgesse a un allievo straordinariamente lento ad apprendere: «Ja. Ma erano poliglotti». Le donne passarono all'argomento ben più tragico degli ebrei tedeschi che non approfittarono delle opportunità di viaggio offerte dal Reich. «Per molto tempo non successe loro nulla,» disse Frau Mundt. «Fu solo alla fine, quando...» «Più tardi, quando ci fu un certo clima di cospirazione, na?» intervenne Frau Folgen. «Ja,ja,ja.» «Bene,» continuò Frau Folgen, «so che nel palazzo in cui c'era il nostro ufficio abitava un certo dottor Hirsch. Era un medico. Visse assolutamente indisturbato. Più tardi dovette portare addosso il distintivo. Mi sentii male per quell'uomo.» «Ja,» disse Frau Mundt. «Ja,» fece eco Frau Folgen. «Ma io non credo che lui, che in qualche luogo lui...» «Ach, stupidaggini,» disse Frau Mundt. Prese la parola Frau Schmidt. «Noi non facemmo nulla,» disse. «Nein,» confermò Frau Mundt. «Andavamo semplicemente a fare compere nei negozi,» disse Frau Schmidt. «Posso raccontare...» Frau Folgen era dell'opinione che un aneddoto sulla spesa, presumibilmente in negozi ebrei, non meritava attenzione, e sovrappose la sua voce a quella di Frau Schmidt. «Quest'uomo era un dottore, e per di più possedeva una grande fabbrica di mattoni. Era ricco.» Frau Mundt e Frau Schmidt convennero che doveva esserlo. Era un tema che riscuoteva successo e Frau Folgen lo sviluppò. «Tutti loro erano ricchi,» disse ridendo. «Non credo proprio di avere conosciuto un ebreo povero.» Frau Mundt sollevò le mani, le dita ben aperte. «Grossi anelli qui, diamanti.» Per rendere meglio l'idea si alzò in piedi e, fingendo di tenere un bastone da passeggio nelle mani incrostate di anelli immaginari, imitò una persona che si pavoneggia per la strada. «Oro! Oro!» gridarono le altre. Frau Mundt si rimise a sedere. «Erano pieni d'oro. Gli ebrei erano gente ricca. Qualche volta li guardavo in questo modo.» E spalancò gli occhi come si fa per sottolineare il valore di ciò che si vede. «Ja,» concluse. Dieci minuti dopo si era passati dal tema dell'Ebreo Ricco a quello del Tedesco Onesto. «Tutti erano onesti,» disse Frau Mundt. «Per prima cosa i giovani venivano educati a essere onesti. Puliti e onesti. E atletici.» «E disciplinati,» aggiunse Frau Folgen. « L A DISCIPLINA!» urlò Frau Mundt. «DI NOTTE, potevamo lasciare tutte le porte aperte. Nessuno sarebbe entrato. Si potevano lasciare fuori i panni stesi. Si poteva lasciare la macchina in strada con le chiavi 102

dentro. Nessuno sarebbe venuto a rubarla o a metterla kaputt. Niente.» C'era moltissima ubbidienza? Frau Mündt non colse l'ironia delle mie parole. «Ja. I bambini erano ubbidienti a scuola, erano ubbidienti con i loro genitori. Per tutto il tempo in cui andai a scuola si faceva canto, ma si dicevano anche le preghiere. Non era proibito. E quello che si dice oggi, ma non è vero. La verità bisogna dirla. Non che io fossi una fanatica della preghiera. «Inoltre, se in quel periodo eravamo felici, non è giusto farcene una colpa. I genitori avevano lavoro e denaro, ma non in eccesso. Poi fu fatta una legge che proibiva agli "sfaticati" di fare soldi. E aveva a che fare con gli ebrei.» Sfaticati? Dissi di non capire. «Mercanteggiamenti...» cominciò Frau Folgen. «Ja,» disse Frau Mündt. «Speculazioni, mercanteggiamenti, truffe.» Si piegò in avanti e, in tono premuroso, mi domandò: «Sa di che cosa si tratta?» Mentre accennavo di sì col capo, le due donne declamarono in coro: «Auf unrechtmässiger Weise [in modo illegale]», un'espressione tipica del vocabolario nazista. «E ciò non era permesso,» continuò Frau Mündt. «E con gli stessi mezzi fu eliminata la disoccupazione. In altre parole, tremila marchi era il massimo che un uomo, o una famiglia, poteva guadagnare. Non di più. Se superavi quella cifra, dovevi dare lavoro ad altri. Era un'ottima legge. E aveva anche un grande contenuto sociale.» Frau Folgen pareva ispirata. «Il termine "nazionalsocialismo": "nazionale", che è la parte più importante, e in più, "socialismo".» «Oggigiorno questo concetto è disprezzato,» disse Frau Mündt. «Ma io ho visto i giochi olimpici di Los Angeles e il nazionalismo che esibite voi americani. Nel 1936, quando le olimpiadi si svolsero qui, Lena Riefenstahl realizzò su di esse il primo film a colori della storia. E a noi non è permesso di vederlo. Il che è estremamente triste. Noi eravamo là, così entusiasti del nostro nazionalismo. È un crimine? Avevamo spirito nazionale e spirito sociale. L'iniziativa sociale era a vantaggio di coloro che si guadagnavano da vivere lavorando e anche dei deboli e degli ammalati, no?» Frau Mündt si lanciò in un lungo sermone sull'assistenza offerta dalle autorità naziste ai pazienti tubercolotici, ma un'impaziente Frau Folgen alla fine la interruppe. «Vorrei dire,» interloquì, «che chiunque usciva di carreggiata era trattato con durezza.» «Ja,» acconsentì Frau Mündt. «Senza dubbio. Chiunque si opponeva al regime veniva di conseguenza...» «Non direi "regime",» borbottò Frau Mündt. (Regime è un termine che richiama idee antinaziste.) «Be', d'accordo. Contro il governo.» Poi Frau Mündt riuscì a portare il discorso sui temi che preferiva: la disciplina, l'assenza di criminalità, i difetti altrui. «A rubare erano i polacchi,» disse. «I polacchi facevano di tutto.» 103

Esprimendo un'idea assai diffusa fra gli ex abitanti della Prussia orientale, le altre donne furono d'accordo nel definire i polacchi un popolo malvagio [ein schlimmes Volk], Una ragione importante dei sentimenti antipolacchi dei prussiani orientali è che, a seguito del trattato di Versailles, l'unico collegamento terrestre fra la Prussia orientale e il resto della Germania era costituito dal cosiddetto corridoio polacco, una striscia di terra di cui i polacchi avevano il controllo. Ogni volta che la Polonia decideva di chiudere il corridoio, gli abitanti della Prussia orientale si trovavano sostanzialmente isolati, mentre la loro economia, basata sull'esportazione di prodotti agricoli, entrava in crisi. La lezione di storia di Frau Mündt riprese. «Nel 1938 ci furono dei negoziati a Monaco. Ne uscimmo senza danni. Poi ci fu l'entrata [der Einmarsch] nei Sudeti, in Cecoslovacchia, in conformità del patto di Monaco. I tedeschi erano stati tanto vessati dai cechi, così come dai polacchi, anzi i cechi si comportarono in modo davvero ignobile e dopo la guerra fecero anche peggio: uccisero mezzo milione di tedeschi. Alcuni reporter americani hanno girato dei film su questi fatti, su come i tedeschi morivano per la strada, soldati tedeschi. Raccapricciante. L'ho visto una volta in televisione. Piansi e pregai Dio, no? Sappiamo poco di quegli avvenimenti terribili. A ogni modo, i Sudeti entrarono a fare parte del territorio tedesco. Poi venne occupata la Boemia, e la Slovacchia. L'ultimo pezzo di Cecoslovacchia si unì a noi volontariamente. Era già una sorta di comunità europea.» Nessuno contestò un solo fatto o una cifra. «E venne il turno della Polonia. Fin dal 1935 i polacchi avevano pubblicato una carta geografica che arrivava fino all'Elba, con tutti i nomi scritti nella loro lingua. [È stato stabilito che questa famosa mappa, un falso costruito allo scopo di convincere i tedeschi che la Polonia progettasse un'invasione, fu opera dei nazisti.] E i tedeschi erano perseguitati. In gran numero furono costretti a compiere una marcia forzata da una parte all'altra di Varsavia durante un'ondata di caldo. Quelli che non riuscivano a proseguire venivano abbattuti a fucilate. Uccisero sessantamila tedeschi. Poi Hitler parlò un giorno alla radio, io ascoltai quel discorso, e disse: "Noi non possiamo più permetterlo". Volevamo evitare la guerra a tutti i costi, ma i polacchi erano pieni d'odio contro tutti i tedeschi che risiedevano là e contro quelli che vivevano sul confine. I polacchi andarono anche a Schneider-Mühl, dove c'era una fabbrica da cui acquistavamo i macchinari agricoli. Andavano ogni giorno a Schneider-Mühl e uccidevano gli operai mentre si recavano al lavoro. Ricevevamo continuamente delle lettere che dicevano: "Questa settimana abbiamo perso altri venti o ventiquattro operai".» «In tempo di pace, la prego di notare,» mi disse Frau Folgen. «In tempo di pace,» fece eco Frau Mündt. «E poi scoppiò la guerra, nel '39, in agosto.» (Le sue affermazioni successive chiarirono che intendeva dire settembre, la data corretta.) «Era evidente che non si poteva più aspettare.» Quale fu la sua reazione alla notizia che la guerra era iniziata? «Di grandissimo allarme. Di grandissimo allarme. Mio padre disse che 104

era terribile, ma che dovevamo difenderci. E dovevamo portare aiuto ai tedeschi di là che soffrivano tanto. E così che la vedevamo noi: dovevamo andare in loro soccorso. I tedeschi in Polonia erano senza aiuto, indifesi, no? Poi arrivarono le cartoline precetto dall'ufficio postale, perfino di sera. Mobilitazione immediata per tutti, sia che uno fosse stato addestrato in marina o in fanteria, sulle tradotte o con i carri armati o a cavallo. Tutti dovettero partire. In una settimana, tutti gli uomini del villaggio.» Frau Folgen disse che suo marito aveva partecipato alla campagna in Polonia. «Mi raccontò che furono affrontati da soldati a cavallo-, cavalli contro i nostri carri armati. Diceva che usare quei mezzi era pura follia [Dummheit]. I polacchi non erano per niente preparati. Cosa immaginavano di dover affrontare?» Frau Mundt fu più sprezzante che mai. «Credevano di poter usare il loro assurdo esercito.» Fissò lo sguardo su di me. «Sa di che cosa si tratta? Cavalli. Hop hop hop, no? E noi eravamo di certo ben armati, no?» Dissi che, per quanto ne sapevo, i polacchi si stavano difendendo. «Storie,» disse Frau Folgen. «Pensavano di poter fare qualsiasi cosa, che l'Inghilterra e la Francia li avrebbero spalleggiati. Non sarebbero mai stati così impudenti...» Frau Schmidt trovò il coraggio di fare un annuncio: «Il russo è un altro tipo di persona, ma il polacco è un gran farabutto [ein grosser Lump]». «Ja,» confermò Frau Mundt. «Falso, maligno.» «I risultati si vedono adesso,» interloquì Frau Folgen. «Ai polacchi fu ceduto il territorio che era stato il granaio della Germania. E non sono in grado di utilizzarlo nemmeno per soddisfare il loro fabbisogno. Quanto a quel che riescono a produrre in campo alimentare, devono ringraziare i laboriosi tedeschi che sono rimasti là e che almeno in parte mandano avanti la baracca.» Che la Prussia orientale fosse il granaio della Germania [die Kornkammer Deutschland] è un argomento ricorrente fra i suoi ex abitanti, e che il Kornkammer cadde in rovina a causa dell'indolenza dei polacchi, benché sia falso, è un lamento ricorrente. In realtà la gran parte degli agricoltori del vecchio Kornkammer erano polacchi.2 Domandai a Frau Mundt se a quella situazione non potesse avere contribuito il sistema comunista. «Nein,» mi rispose. «Il polacco è fondamentalmente pigro.» «Pigro e ubriacone,» aggiunse Frau Folgen. «Uomini con la vodka,» disse Frau Mundt. «Tutti i giorni ubriachi. Si parla di faccende domestiche alla polacca quando si entra in una casa dove non c'è nessun ordine... Lei conosce il significato della parola ordine?» «Certo che lo conosco,» risposi. «Dove ci sono oggetti appoggiati ovunque e c'è sporcizia e il bucato è steso in giro eccetera. Questo significa faccende domestiche alla polacca.» (L'espressione polnische Wirtschaft, una delle preferite dai nazisti, si può anche tradurre come «economia alla polacca», e i nazisti se ne servivano per dipingere la Polonia come un paese nel caos. È un modo di dire che viene usato ancora oggi.) 105

Quando accennai al fatto che, per lo meno in una parte degli Stati Uniti, le donne polacco-americane sono considerate le casalinghe migliori e che si dice strofinino perfino il soffitto delle loro case, Frau Folgen commentò: «Probabilmente vengono dalla Polonia centrale». Poi, lei e le altre si tuffarono in un'animata discussione sulla sporcizia che regnava nel corridoio polacco, finché Frau Schmidt, alzandosi per dare la buonanotte, fece una battuta di commiato che pose fine all'argomento. «Alcuni polacchi sono molto devoti,» disse, e uscì dalla stanza. Stavano ormai per scoccare le undici. Frau Mundt, che ovviamente non si dispiaceva per la partenza di ogni potenziale antagonista, riassunse il suo ruolo davanti alla classe. «Ora, dove eravamo? Millenovecentotrentanove: il tre di settembre arriva un ultimatum da Inghilterra e Francia. Se non avessimo immediatamente interrotto ogni azione in Polonia e non ce ne fossimo andati, ci saremmo trovati in guerra. E evidente che era una dichiarazione di guerra, no? «Be', non potevamo fermarci a metà dei combattimenti. Concludemmo la guerra in diciotto giorni. Quelli fra la nostra gente che erano ancora vivi poterono far ritorno alle proprie case. I tedeschi che si trovavano in aree isolate ritornarono in Germania. Il resto del territorio fu occupato. Ciò significa che non occupammo la Polonia da soli. Noi entrammo da questo lato e - non bisogna dimenticarselo - da est vennero...» Lanciò uno sguardo d'intesa a Frau Folgen che ammiccò a sua volta. «I RUSSI!» esclamarono. «I russi erano altrettanto interessati alla Polonia,» disse Frau Mundt. «Loro volevano la terra. Noi volevamo soltanto che i nostri compatrioti non dovessero più soffrire. Volevamo solo che ci fosse restituito il corridoio. Be',» sospirò, «poi le cose si spinsero più in là. Fummo costretti a combattere a occidente. E qui Hitler commise un grosso errore. Una sera eravamo seduti ad ascoltare la radio quando sentimmo il segnale che annunciava un comunicato speciale del comandante dell'esercito. «Poi ci fu uno squillo di tromba, il segnale che indica l'ordine di arrestarsi. Mio padre cominciò a piangere e disse: "Ora la guerra è persa". Che cosa aveva fatto Hitler? Aveva lasciato i carri armati fermi dov'erano, permettendo agli inglesi, che erano in ritirata, di ritornare in Inghilterra con le navi. Sarebbe stato meglio se li avesse bloccati. La guerra sarebbe finita e noi l'avremmo vinta. Fu quello l'errore più grosso. «La settimana che precedette lo scoppio della guerra, nel 1939,» continuò, «ricevemmo le tessere annonarie. E fino agli ultimi giorni di guerra, il sistema funzionò a meraviglia. Non soffrimmo mai la fame.» Quanto alla popolazione ebrea rimasta, «anche gli ebrei ricevettero le tessere, certo. Ma sulle loro non c'era tanto quanto sulle nostre e a volte c'erano cose diverse. Non quello che avevamo noi, no? E gran parte delle cose che avevamo sulle nostre tessere annonarie le avevano anche sulle loro. Anzi no. Avevano le stesse tessere. Solo che dovevano usarle in orari diversi. Non era loro permesso di stare con i tedeschi. Lo so perché un mio

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zio aveva un negozio di formaggi a Leer. Gli ebrei potevano fare acquisti il venerdì sera». «Perché sabato è il loro sabbath,» disse Frau Folgen. Quando intervenni per esprimere «l'opinione» che il loro sabbath cominci il venerdì inoltrato, Frau Folgen replicò: «Prima del sabbath. Prima del loro sabbath avevano la possibilità di acquistare qualsiasi cosa».3 Allora perché - chiesi - gli ebrei non potevano fare acquisti assieme ai tedeschi? Mi corressi. Assieme agli altri tedeschi? Frau Mundt sospirò. «Ja. Questo non so dirglielo. Perché non con i tedeschi?» Nessuno parlò. Pareva, fino a quel momento, l'unica domanda senza una risposta. Dopo una lunga pausa, Frau Folgen passò a un argomento più agevole da affrontare, quello dei paesi che respinsero le navi cariche di profughi ebrei tedeschi. E da qui all'idea di Hitler di un'altra patria per gli ebrei. Frau Mundt sintetizzò: «Hitler voleva che gli ebrei emigrassero in Madagascar». Nel 1940 i nazisti avanzarono l'ipotesi di risolvere il «problema ebraico» facendo dell'isola africana una colonia ebrea sotto il governo di Heinrich Himmler. Disse Frau Folgen: «Quanto a ucciderli, era assolutamente...» Frau Mundt la interruppe con più prontezza del solito: «Neiiiiin. Hitler non voleva ucciderli». Si rivolse a me: «Ha mai sentito parlare di quell'idea?» Quando, con aria decisa, risposi di no, continuò a spiegarmi il progetto del Madagascar: «E un'isola meravigliosamente bella, con un clima stupendo e anche un suolo abbastanza fertile, no? E forse gli ebrei sarebbero stati disposti ad andarci, ma Francia e Inghilterra lo impedirono. E in questo contesto, a quel tempo mia madre mi dava sempre un pacchetto quando andavo a scuola. A volte c'era pancetta affumicata, a volte uova, a volte salsiccia, oltre che del pane e anche della verdura. Era per una famiglia ebrea, la famiglia Gans. Oggi posseggono una grande gioielleria sulla qual è la via più importante di New York? - sulla Fifth Avenue. Può chiedere informazioni laggiù.4 Al mattino facevo quindici chilometri in bicicletta per andare a scuola. E mia madre confezionava sempre una borsa piena e io dovevo consegnarla a questa famiglia. Allora suonavo il campanello. E non ero la sola. Moltissime persone lo facevano». «Erano brava gente?» chiese Frau Folgen. «Ja. E una volta la signora mi aprì la porta in accappatoio, e non vidi nient'altro che queste borse e sacchetti. Ricevevano sostegno in via privata, no?» Perché la madre di Frau Mundt lo faceva? Erano amici? «No, niente affatto,» rispose Frau Mundt. Frau Folgen le venne in soccorso. «Per compassione, no? Per amore verso il prossimo. Per il sentimento cristiano d'amore verso il prossimo.» Nella primavera del 1945 Frau Mundt lasciò la Prussia orientale (non 107

descrisse come) e ritornò dai suoi genitori nel villaggio natio ad attendere la fine della guerra con la famiglia. Non solo la opprimeva il ricordo, disse, dei bombardamenti «senza scopo» sulle città della Germania, ma anche quello del «numero tragicamente alto di traditori tedeschi». «Poi la guerra finì. Al nostro villaggio vennero dei soldati tedeschi che volevano difenderlo. Noi dicemmo: "Ragazzi, lasciate perdere. Mettetevi in salvo. Guardate là sopra di voi e vedrete i carri armati che stanno arrivando". Io stessa vidi i carri armati dal tetto con un cannocchiale. E vennero e [gridò più forte che mai] SPARARONO SU OGNI COSA, SPARARONO DOVE NON C'ERA NESSUNO A OPPORRE RESISTENZA. Buttarono giù la casa a colpi e...» Chi? Chi? «Gli americani,» disse. «E gli inglesi e i canadesi. Bum, bum, bum, bum, in mezzo alle case, da ogni lato. Poi i carri armati stettero immobili. Io e mia madre eravamo a casa, in un bunker di terra che aveva costruito mio padre. E lui era con gli altri, con mio fratello, con mia sorella, con i nostri prigionieri di guerra, in un altro bunker fuori del villaggio. Allora dissi a mia madre: "Dobbiamo uscire a vedere cosa stanno facendo", e uscii e shhhhhhhhh, uno mi sparò. Mani in alto, no? Io dissi: "Sì, va bene, ma non ho niente, non sparo, non faccio niente. Mia madre," dissi. "Devo andare a prendere mamma, no? Sì, tutto a posto." Parlavo l'inglese meglio di quanto non faccia oggi. Ma quando vidi come si comportavano, non pronunciai più una parola in inglese. Non parlo con voi se vi comportate in quel modo. «Il primo venne verso di me con una macchina da scrivere. Gli dissi: "Ehi, salve, che cosa sarebbe quella?" Dissi: "Pensavo che voleste liberarci da Hitler, non dalle macchine da scrivere". Mi disse di nasconderla nel fieno, ma io invece la nascosi fra due alveari. Nessuno osò entrare. Ci ronzavano intorno le api, no? Loro ne avevano paura. Alla sera ne venne uno che voleva chiedere la macchina da scrivere per un suo camerata. Gli dissi: "Camerata è già via con macchina da scrivere, altro camerata". La conservo ancora. «Ad ogni modo rubarono, saccheggiarono, violentarono le donne. Fu una cosa indescrivibile. Gli inglesi, i canadesi, e gli americani. Indescrivibile.» Frau Folgen, che aveva aspettato il suo turno, disse: «Allora io stavo a Meclemburgo [nel nord della Germania]. A noi non fecero nulla. Più tardi arrivarono i russi, e toccò anche a noi. E il comandante, un ebreo, odiava i tedeschi. Tuttavia devo dire che tenne a freno i suoi uomini». Chiesi bruscamente se sapevano delle camere a gas. Frau Mundt mi rispose con voce calma: «Oggi si dice che venivano bruciati degli esseri umani. Anche adesso gli esseri umani vengono bruciati. Vengono messi in un'urna che diventa una tomba molto piccola. In America è lo stesso». Né io né Frau Folgen dicemmo una parola. «E riguardo ad allora,» continuò Frau Mundt, «bisogna vederla in questo modo: nel nostro villaggio scoppiò la difterite, non c'era siero, non c'erano dottori che potessero dare aiuto. Uguale era il caso dei campi di 108

concentramento. Anche lì gli esseri umani avevano malattie. Difterite, tifo...» «E inoltre erano indeboliti,» disse Frau Folgen. «Erano indeboliti, no? E c'erano le incursioni dei bombardieri. Molti campi vennero bombardati e la gente rimaneva uccisa. Poi i corpi venivano bruciati.» «Ja,» disse Frau Folgen. «Dove avrebbero dovuto sotterrarli tutti?» Chiesi a Frau Mundt se intendeva dire che non ci furono camere a gas. «Non voglio negarlo completamente. Non voglio negarlo completamente. Ma come si fa ad affermare tutto a un tratto: "Avete gassato sei milioni di ebrei"? Da dove viene la cifra di sei milioni? Hanno tirato a indovinare. Ma in Europa non ce n'erano sei milioni. A malapena due milioni. E di loro è rimasta in vita ancora oggi una discendenza numerosa, che noi non abbiamo ucciso, no? Io non ho ucciso nessuno.» Cadde il silenzio. Frau Mundt lo ruppe aggiungendo che al liceo della sua zona era in programma una conferenza di Simon Wiesenthal, il cacciatore di nazisti, e che lei si era iscritta per porgli una domanda: da dove ricavava la cifra di sei milioni? Il suo proposito lasciò Frau Folgen a bocca aperta. Frau Mundt disse anche che c'era «una cosa che voleva sapere prima di morire». E cioè che cosa era successo nel campo di concentramento di Dachau. Disse che «c'è chi sostiene» che lì non fu costruita nessuna camera a gas, ma che intendeva recarsi di persona a Dachau per «chiedere alla gente del posto» se c'erano camere a gas nel campo.5 Pensando che forse Frau Mundt alla fin fine era rimasta colpita dall'ampia diffusione di inchieste giornalistiche, di film e di fotografie sulle atrocità commesse nei campi, le chiesi quale fu la sua reazione dopo la guerra, quando si rese conto di ciò che era successo. «Piangemmo almeno per due settimane. Almeno due settimane a piangere, un giorno dopo l'altro.» «Perché...» la incoraggiai. «Perché avevamo perso la guerra.»

NOTE Sei milioni è un dato più vicino alle statistiche ufficiali. Intervista col giornalista Peter von Zahn, Amburgo, agosto 1987. ì Le tessere annonarie per gli ebrei, su cui era stampata una /, avevano in realtà delle pesanti restrizioni riguardo a ciò che si poteva comprare e al periodo concesso per gli acquisti. D'altra parte, coloro che decidevano di andare a ritirarle in un centro di distribuzione correvano il rischio di cadere in una retata e di finire deportati in un campo di concentramento. Perciò molti ebrei preferivano entrare nella clandestinità e sottrarsi a questo pericoloso sistema di individuazione, e dovevano escogitare altri metodi per procurarsi il cibo. * Molto tempo dopo mi informai, seppure in maniera frettolosa: al centralinista di New York non risultavano in elenco gioiellerie Gans o Ganz sulla Fifth Avenue. 5 A Dachau fu installata una camera a gas (e si può visitare ancora oggi), ma secondo la documentazione che si può leggere sul luogo, non fu mai usata. Tuttavia i prigionieri venivano mandati in altri campi per essere gassati. E 31.591 prigionieri morirono a Dachau per altre cause. 1

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UN PASSATO «ESOTICO» (Frau Verena Groth)

Ci fu un periodo della sua vita, un solo periodo, in cui a Verena Groth piaceva spiccare tra la folla sentendosi semplicemente quello che era. Fu quando era giovane. Il senso di essere una celebrità le veniva dall'essere la figlia di uno stimato medico. Lei stessa ebbe il suo turno di fama infantile. Tra i tre e i dieci anni, si ruppe il braccio destro sei volte. «Mi trovavo piuttosto interessante. Tutti mi chiedevano: "Quante volte ti sei rotta il braccio?" e dal dottore questo li faceva balbettare tutti.» Dopo l'ultima frattura, uno specialista consigliò suo padre di ingessarla per sei mesi. Fecero così e quando finalmente venne tolto l'ultimo gesso, «mio padre e lo specialista se ne stavano in piedi a guardare la radiografia e trovavano straordinario il modo in cui l'osso era guarito; a parte il fatto che il braccio era storto, e lo è ancora. Non lo si direbbe, e non mi ha mai dato fastidio. Allora lo specialista disse a mio padre: "Ach, sa una cosa? Il braccio è storto, che cosa stupida, lo spezzeremo di nuovo e lo rimettiamo dritto". Allora mio padre rispose: "Mezza dozzina di volte è abbastanza, per mia moglie e per me. Se non dovesse trovare marito perché ha un braccio curvo, sarà meglio che resti zitella". Avevo dieci anni. Me lo ricordo come fosse oggi». Si abbandonò a una sonora risata. Verena Groth è una donna alta, cordiale, con grandi piedi, gran fumatrice, con voce, risata e tosse da fumatrice. Venne a prendermi alla stazione ferroviaria, a un'ora da Monaco, e mi guidò alla sua piccola Ford, che sembrava troppo piccola per ospitare anche lei da sola. Ben presto mi portò a fare un giro breve ed entusiastico del lago e delle colline vicine. Per professione Frau Groth fa l'architetto di paesaggi, con una concezione della botanica da ecologa. (Quando ci incontrammo aveva già lasciato la professione.) Il fatto di essersi attenuta con fermezza ad alcuni standard ecologici e a procedure contabili scrupolosamente oneste (mi raccontò indignata i tentativi di farla scendere a compromessi in entrambi i campi) le costò l'attività, disse. Sembrava generosa, e di mezzi modesti. Mentre eravamo dirette verso casa sua, prima di parlare seriamente di qualunque cosa, lei dimostrò la sua cordialità con l'umorismo, e la sua padronanza di un gergo tedesco allegro, oscuro e intraducibile. Si divertì a raccontare l'epoca in cui visse nel Liechtenstein. Quando «sua maestà» entrava nella banca, diceva, tutti gli altri affari si interrompevano. Sua maestà, comunque, stringeva la mano ai sudditi. Frau Groth raccontò di aver detto al padrone della serra in cui lavorava che non si sarebbe mai più lavata la mano così graziosamente toccata. Vivere nel Liechtenstein era come «vivere in un'operetta», disse ridendo. 110

Più tardi avrei appreso che dietro le storielle divertenti si accalcavano quelle tristi: ciò che accadde a suo padre, medico; perché era andata in Liechtenstein; e perché smise di piacerle l'idea di spiccare tra la folla. Quando raggiungemmo casa sua, una piccola casa in affitto dove viveva da sola - aveva divorziato molto tempo prima, e da allora le due figlie abitavano per conto loro - quasi tutto quello che c'era da vedere era il giardino rigoglioso. Ovunque traboccavano vasi e fiorivano alberi. In mezzo a quella natura esuberante c'era lo stagno delle ninfee che aveva costruito lei stessa, con un richiamo per le oche. Anche l'interno della casa era una specie di celebrazione del disordine della natura, ma era l'esterno a riflettere al meglio la sua personalità. E naturalmente lei amava starsene fuori, a inspirare il profumo dei fiori e il suo fumo. Un'amica delle piante che fumava una sigaretta dopo l'altra non era la più strana delle giustapposizioni. E non era l'unica della sua vita. Le opinioni politiche di Frau Groth non mostravano nessun indizio visibile di giustapposizioni. Il passato della Germania aveva acceso in lei una diffidenza incancellabile nei confronti del nazionalismo, e lei prestava un'attenzione costante a qualunque manifestazione di esso scorgesse in Germania o altrove. Quando ci incontrammo, i giornali tedeschi erano pieni di articoli sull'entusiasmo di molti americani per il colonnello Oliver North, un protagonista dello scandalo Iran/contras che allora infuriava. Nella sua cucina, mentre preparava il pranzo prima di sedersi a parlare nel registratore, Frau Groth era sbalordita sia da lui sia dalle reazioni che suscitava. Il modo in cui «der Olly», come lo chiamava lei, si era agganciato a un senso di patriottismo che a suo modo di vedere aveva catturato le emozioni piuttosto che la mente di così tante persone, le faceva venire in mente niente meno che il Terzo Reich. (Tra parentesi, non fu l'unica a paragonare l'isteria attorno a North a quella attorno a Hitler.) Nell'estate del 1992, l'allarme si era spostato di nuovo sulla sua patria. Mi mandò la copia di un articolo contro l'esplosione di violenza razzista e xenofoba che si era verificata in Germania, e in una lettera aggiunse: «Spesso mi vergogno di essere tedesca». Quando la intervistai, alcuni anni prima della comparsa dei giovani neonazisti degli anni Novanta, erano i vecchi nazisti del Trenta e del Quaranta a preoccuparla. Sosteneva che erano rimasti legati al Terzo Reich, e pensava di sapere perché. «Prima della guerra, molti non avevano nessuna carriera o non erano niente di speciale in sé. Poi fecero carriera in qualità di membri del Partito. E nel 1945, la carriera era finita e tornarono a essere cittadini come gli altri. Adesso loro si attaccano a quel periodo. Semplicemente non ammettono di aver sbagliato, o, per dirlo più accuratamente, di essere stati sedotti.» O come si espresse in cucina, prima del Terzo Reich non erano nessuno e dopo il Terzo Reich non erano nessuno, ma durante il Terzo Reich pensavano di essere dei pezzi grossi. Spuntò un'ulteriore metafora stizzita. «E adesso che gli si scrosta via la vernice [Und jetzt kratzt man denen am L a c k ] come è stata grattata via la vernice al signor

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Waldheim, loro si sentono solidali con lui.1 In quarantanni N O N H A N N O IMPARATO NIENTE. Restano stupidi come erano prima.» Era chiaro che l'impatto emotivo del Terzo Reich la colpì fortemente. «Oggi ho un rapporto molto tormentato con il concetto di Patria, per esempio. Durante la mia giovinezza era così esagerato [überstrapaziert] che io non ho più legami con esso. Mio padre, che si sentiva prima di tutto tedesco, non riuscì mai a capirlo. Mi dicevo: cercherò di far crescere i miei figli come bravi esseri umani, magari come bravi europei, ma di sicuro non come "bravi tedeschi". Mio fratello è canadese, ho uno zio brasiliano, l'altro è americano, un cugino era nato in Italia, mia madre veniva dalla Russia, ho parenti in Russia e in Polonia, noi siamo tedeschi ma abbiamo parenti anche in Inghilterra: come faccio a spiegare ai miei figli: "Deutschland, Deutschland über alles"? È ridicolo. Come faccio a dire che solo i tedeschi sono brave persone? È una cosa indegna di essere creduta. Ma alcuni restano attaccati proprio a quello. Davvero mi dispiace quando sento qualcuno dire che i tedeschi non hanno una vera coscienza storica. E assolutamente legato a questo distorto senso della nazionalità. Non si può scoparlo semplicemente sotto il tappeto. Sfortunatamente le masse sono fatte così. Dicono: "Non ne vogliamo più sentire parlare". È una cosa che mi fa sempre inorridire. «Naturalmente, nessuno si porta [da solo] la colpa sulle spalle. Lei non ha nessuna colpa 2 per quello che è successo in Vietnam. Però non si può nemmeno dire che non sapevamo niente,» continuò. «E accaduto davvero e in qualche modo bisogna accettarlo.» Frau Groth toccò anche la famosa «battaglia degli storici» che infuriava allora. Era il contrasto tra coloro (la maggior parte degli storici) che sostenevano che il Terzo Reich e l'Olocausto furono qualcosa di unico, e gli altri (una diffamata minoranza) che dicevano che dovessero essere visti nel contesto più vasto di altri regni del terrore. In apparente contrasto con il resto delle sue vedute liberali, lei stava dalla parte della minoranza. «Sul metro della storia, davvero non ricopre un gran ruolo, quando uno pensa alle Crociate. I cavalieri che andavano in Terrasanta non si comportavano sempre con una gran nobiltà. Uccisero e saccheggiarono per liberare Gerusalemme dagli infedeli. Le atrocità sono sempre capitate.» Fra cent'anni, disse, si sarebbe cominciato a considerare il Terzo Reich alla stessa stregua di come oggi viene giudicata la Guerra dei Trent'anni. «Ma viviamo in un'epoca in tutto è ancora così contemporaneo, e la cosa che davvero mi fa sempre orrore è l'antisemitismo che esiste ancora. E talmente indistruttibile [unausrottbar] in tante persone, che una non può non inorridire in continuazione. «Lo si nota, per esempio, in commenti del tutto ridicoli. Mi è appena capitato di nuovo. Ho fatto un giardino per un costruttore. E un mercante d'arte che proviene da uno degli Stati baltici che sono passati alla Russia. Mi ha mostrato i suoi quadri, e alcuni miei conoscenti, per i quali pure avevo progettato un giardino, collezionano quadri. Ho telefonato dicendo: "Chiamate Herr Levkovitz, vende dei bei quadri". Sono molto benestanti, e così lo chiamano. Lui parla un buon tedesco con un pesante accento orientale. Poi 112

[la moglie del collezionista] mi dice che le sarebbe piaciuto mettersi in contatto con lui ma non l'aveva ancora incontrato, e: "Mi dica, Frau Groth. E ebreo?" L'ha detto con una terribile aria di disapprovazione. "E ebreo?" Sono rimasta scioccata. E le ho risposto: "Perché, solo perché viene dall'est?" Non sono riuscita a toccare il punto centrale - che evidentemente l'antisemitismo ha ancora importanza - perché ero così scioccata. La gente non ci pensa molto, ma è proprio questa la cosa spaventosa. Che dentro c'è ancora. «Alcuni anni fa ero dalla parrucchiera e su una rivista c'era un articolo su Auschwitz. Lei venne da me, e io sapevo che suo padre durante il Terzo Reich era stato un membro del Partito piuttosto attivo, e mi dice: "Questo vuol dire sporcare casa propria. Scrivono ancora che ne sono morti sei milioni ad Auschwitz o nei campi di concentramento, ma non si sa nemmeno se erano sei milioni". Infuriata, gridai contro di lei e dissi: "E esattamente lo stesso se erano tre milioni, quattro milioni o trenta milioni o solo tre. Ognuno è troppo". Allora è stata zitta. Ma la cosa che mi aveva fatto inorridire era la tacita assunzione che io avessi la sua stessa opinione.» Frau Groth si accese un'altra sigaretta e subito si mise a parlare di aver visto poco prima, a Berlino, un poliziotto armato di mitra che sorvegliava un asilo ebraico, e altri poliziotti che scortavano il capo di un gruppo culturale ebraico. «Vivono ancora come se fossero chiusi in gabbia,» disse. «Lo trovo così terribile, come se dovessimo aspettarcelo, che proprio quei...» Si interruppe. «In qualche modo la cosa mi tocca. Dato che se accadesse, io sono mezzo ebrea.» Ed ecco perché non voleva spiccare in mezzo alla folla, semplicemente per essere quello che era. Verena Goldmann Groth, nata nel 1922, crebbe senza sapere nulla delle sue origini ebraiche. Non conosceva nemmeno bambini ebrei. Si considerava semplicemente una tipica scolara tedesca, che viveva felicemente a Stoccarda con il fratello e i genitori. Il matrimonio «non era troppo felice» (per ragioni che non mi disse), ma reggeva. Sua madre era mennonita. Il padre «che si sentiva prima di tutto tedesco» (un «super-tedesco», lo definì anche) era ebreo. Disse di aver letto un articolo sullo «sfortunato amore» degli ebrei per la Germania, sulla loro convinzione di essere tedeschi al centocinquanta per cento. Il padre era così. «La famiglia di mio padre viveva in Germania da cinquecento anni. Mio padre era medico, aveva ricevuto un'alta decorazione nella Prima Guerra Mondiale, e non riusciva a immaginare che potesse accadergli qualcosa.» Sua madre, disse, «apriva la bocca più di mio padre. Lei vide sempre le cose in un modo più realistico» di lui. In un certo periodo, Herr Dr. Rolf Goldmann deve essere stato considerato un cittadino fra i più eminenti di Stoccarda. Era primario della clinica dentistica dell'ospedale cittadino di Stoccarda ed era chirurgo specializzato in malattie della bocca e della mandibola. A quanto pare fu anche un buon padre, protettivo e ricco di insegnamenti, ignaro del mondo venturo, ma doppiamente consapevole di quello che lo circondava. Sua figlia ha solo 113

«vaghi, vaghissimi» ricordi infantili della famosa disoccupazione degli anni Venti. «Voglio dire, a me le cose andavano bene. Ma da bambino, uno non ci fa attenzione. Sembrava tutto scontato. Non vivevamo nel lusso, ma notavo che mio padre era incredibilmente acuto come insegnante. Era ancora primario, quindi doveva essere prima del '33, magari il '32 o il '31. E a scuola ci dissero che si poteva fare un giro in aeroplano sopra Stoccarda per dieci o quindici marchi, mi pare. Naturalmente era più di adesso, ma sempre poco. E andai a casa e dissi: "Vati, dammi dieci marchi, così posso volare sopra Stoccarda". Allora lui mi chiese: "Nella tua classe vengono tutti a volare?" "Nooo," risposi, "certo che no." "E perché no?" "Perché i loro genitori non hanno i soldi. " Quello mi era già chiaro. Allora lui disse: "Perciò non andrai nemmeno tu. Non devi credere che, siccome tuo padre è primario, puoi fare qualunque cosa". Lui era molto... non si può dire dispotico, ma quando diceva no era no. Lamentarsi o supplicare non serviva a niente. Probabilmente feci una faccia disperata, e lui disse: "Ma quando prenderai il diploma di liceo, ti regalerò un volo sopra le Alpi". A quell'epoca, era la cosa più grandiosa che si potesse immaginare. E poi arrivò la guerra. E niente. Mio fratello è indignato, ma io non ho mai preso un aereo.»' Un'altra ragione per cui Herr Dr. Goldmann doveva sentirsi al sicuro in quel mondo era che, dal punto di vista della religione, lui non era ebreo. «Già da due generazioni la sua famiglia si era convertita al cristianesimo. Lui era protestante. Suo fratello si era convertito di nuovo ed era diventato cattolico.» E anche la piccola Verena si considerava cristiana, proprio come i suoi genitori. Ma quando, a dieci anni, andò a trovare la nonna paterna, apprese qualcosa d'altro. «Mia nonna, cioè la mia nonna ebrea, era seduta al tavolo da cucito nella sua casa di Cannstatt [una parte di Stoccarda] e mi disse: "Sai una cosa? Qualche volta andiamo al cimitero, alla tomba dei tuoi bisnonni". Le dissi: "Ja, quando andiamo e perché non ci siamo mai andati prima? " Era la fine del '32, poco prima che Hitler salisse al potere. Disse: "Sono sepolti al cimitero ebraico". Completamente sbalordita, le chiesi: "E perché sono sepolti in un cimitero ebraico?" E lei rispose: "Erano ebrei, e anche noi siamo ebrei, dal punto di vista di Hitler, e tuo padre non si decide a dirtelo. Ma a un certo punto qualcuno doveva dirtelo, perché in poco tempo Hitler prenderà il potere e le cose per noi si metteranno molto male". «Mi resi conto solo più tardi che, anche da bambina, se qualcosa pesava su di me o se dovevo affrontare qualcosa, andavo subito in giardino. Andai nel giardino dei nonni. Mi rivedo ancora in piedi vicino alla palizzata, a guardare nel cortile di un collegio femminile. C'era la ricreazione e quelle ragazze senza problemi uscivano di corsa in cortile. E io me ne stavo alla palizzata con i miei dieci anni e pensavo: "Adesso la tua infanzia è finita". «Mi apparve con una chiarezza cristallina. Adesso sembra una vanteria [geschwollen], ma semplicemente seppi che tutto sarebbe stato diverso. È finita un'era. Adesso arrivano i tempi brutti.» Dato che suo padre era primario in un ospedale pubblico, i tempi brut114

ti arrivarono prestissimo. «Era l'aprile del 1933. Come pubblico funzionario, fu cacciato via immediatamente.» I Goldmann traslocarono in un appartamento più piccolo. «Avevamo abitato in un appartamento molto "nobile", e dopo non era più così nobile, ma non era nemmeno tanto male. E rimanemmo lì.» La ragione per cui restarono era semplice. Herr Dr. Goldmann non poteva immaginare di andarsene. Iniziò la pratica privata a Stoccarda come dentista e praticò anche la chirurgia maxillodentaria, che era il vero cuore della sua professione, la cosa che amava di più. «Fino al 1939 ebbe il suo studio. Poi gli venne fatta 1'"offerta" di continuare, ma solo per pazienti ebrei. Disse: "Non lo farò". Preferì smettere del tutto. Fu la prima volta che vidi piangere mio padre. Io facevo pratica in un giardino, il giardino dell'ospedale. Mi telefonò e mi disse: "Vieni nel mio studio, mi hanno portato via il mio diploma". Lo studio era a dieci minuti a piedi, e lasciai perdere tutto e corsi da lui. E alla scrivania vidi mio padre che singhiozzava come un bambino. Era così attaccato alla sua professione. Per lui fu una cosa terribile. Era sempre stato così alto e imponente, così "Sia lodato, ciò che rende forte" [Gelobt sei, was hart macht], e vederlo così...» La figlia aspirò il fumo della sigaretta. «Gelobt sei, was hart macht»? Quando più tardi le chiesi da dove veniva la frase, Frau Groth disse che non ne aveva idea. La sua reazione poteva esemplificare, anche se in maniera paradossale, il potere inconscio della propaganda nazista. La frase era uno slogan nazista usato per descrivere gli «ariani». In realtà, i nazisti la piegarono ai loro fini, dopo averla tolta da un'opera di Friedrich Nietzsche.4 Continuò a parlare del padre. «Mi ricordo perfettamente. Volevo confortarlo e dissi: "Prima o poi tutto questo finirà. Non sarà così per sempre". Era così scoraggiato. Lui pensò sempre che non sarebbe mai cambiato nulla.» Le sue reazioni, mi disse Frau Groth, facevano parte del suo «sfortunato amore per la Germania». Persone come suo padre «pensavano che senza la Germania non potevano vivere». Herr Dr. Goldmann aveva perso il coraggio, il lavoro e la casa ad opera dei nazisti, ma loro non potevano reclamare per sé il suo corpo. «Siccome era sposato con un'"ariana", non gli accadde nulla: non fu mandato ad Auschwitz.» Né lo furono i suoi genitori. Il padre era morto nel 1933. La madre «dovette portare una stella. Mio padre no, grazie al matrimonio "ariano". Era quello a fare la differenza.5 Se mia madre avesse divorziato da lui, sarebbe stato portato subito in un campo di concentramento. In quell'epoca, molti divorziarono. «Mia madre non avrebbe mai divorziato, anche se il loro era un matrimonio infelice; e soprattutto non dopo aver saputo che quella sarebbe stata la rovina del marito. Soprattutto non allora. Voglio dire, molti uomini mandavano le loro mogli in Inghilterra. So di alcuni che dicevano: divorzieremo prò forma e poi verrò a prenderti. E molti, d'accordo con le mogli, si separarono. Le mogli andarono con la parte ebraica, loro non riuscirono a sopportare le tensioni e si uccisero.» 115

Frau Groth disse che la madre non si trovò di fronte a pressioni dirette per convincerla a divorziare. «Naturalmente mia madre avrebbe potuto ottenere il divorzio con una semplice firma. Dipendeva tutto dalla metà "ariana". Se volevi, potevi. Era una ragione sufficiente per divorziare.» Quanto alle relazioni fondamentali tra i genitori, «non cambiarono. Andò avanti come prima. Ho detto "resterò con te nella buona e nella cattiva sorte", e questa è la cattiva sorte e si rimane insieme lo stesso. Per lei tutto questo era naturale». Disse che anche il fratello della madre aveva sposato una donna ebrea, e anche loro non divorziarono. «Quello fu decisamente un matrimonio felice. E non ci fu mai una discussione sull'argomento.» Frau Groth notò che molti «ariani» approfittarono della pressione (o dell'opportunità) non solo per divorziare, ma anche per liberarsi dei colleghi ebrei. «E chiaro, dopo è facile giudicare. Mio padre soffrì molto perché molti dei suoi colleghi e dei soci del suo circolo lo tagliarono fuori, non vollero più avere a che fare con lui, e lo buttarono fuori dalle loro organizzazioni. Fino al giorno della morte, non ebbe mai la forza di affrontare quei gesti. E quando "il fantasma svanì" [il Terzo Reich] e gli dissero che poteva tornare a iscriversi, disse: "Grazie, ma non ci tengo più".» «Ma, capisce, talvolta ripensai a quei fatti in seguito e ne parlai con mio padre, quando si lamentava che nessuno voleva più avere a che fare con lui. Gli dicevo: "Vati, pensaci. Se sono onesta, non posso dire con certezza che nelle stesse condizioni non mi sarei comportata allo stesso modo. Se da quello dipende il mantenimento del proprio lavoro o l'esistenza di una famiglia, non tutti nascono con la stoffa del martire. Non sono sicura se anch'io non mi sarei comportata da vigliacca, a causa della paura".» Durante il Terzo Reich, mentre gli adulti della sua famiglia dovevano adattarsi al loro destino, Verena Goldmann continuò a frequentare la scuola, una grossa scuola pubblica femminile. «Lo ero solo per metà, nicht?» Il comportamento delle altre ragazze nei suoi confronti non cambiò, disse, dopo la presa del potere da parte dei nazisti. «Non ci furono problemi con le mie compagne.» Sapevano che suo padre era ebreo? «Ja.» Il cognome era un indizio. «Anche se ci sono un mucchio di Goldmann "ariani".» Comunque, lei era unica nella sua categoria. «Ero davvero l'unica ragazza esotica tra settecento. E questo fu di sicuro un peso.» Disse che prima non si era mai sentita «esotica». «Prima del '33, no di sicuro. Andavo anche a casa delle altre mie compagne. Anche i genitori si comportarono sempre normalmente con me. Non pensai mai: adesso mi tratteranno male oppure i genitori diranno che non posso più andare a casa loro. Sono queste le cose che in seguito mi hanno fatto pensare che molte persone dentro di sé non dovevano proprio trovarsi a loro agio, che non dovevano trovare così naturale l'odio verso gli ebrei. Se fossero stati nazisti al duecento per cento, avrebbero proibito alle loro figlie di avere qualunque contatto privato con me. «Non ho nessun brutto ricordo, per esempio che [le altre ragazze] si tenessero a distanza da me. Rimasi sempre lì e fui fortunata. Sarebbe potuto andare in un altro modo. Però ero sempre separata. Le altre se ne andavano in giro con la loro uniforme perché erano nel BdM, questa organiz116

zazione delle ragazze. E siccome ero l'unica su settecento ragazze... a non farne parte, be', a dodici, tredici anni è molto duro.» Lei avrebbe voluto iscriversi? «Probabilmente sì.» Anche lei era vittima di quella che lei stessa definiva «una psicosi di massa»? «Ja, di sicuro. Almeno per non sentirmi messa in disparte. Mio padre non voleva lasciare la Germania, e così, per necessità, una doveva più o meno adattarsi. Derivava semplicemente da un'alternativa: o adattarsi in qualche modo per viverci in mezzo, o andarsene.» Partecipò alle sfilate naziste indispensabili. «Per il Primo Maggio o feste del genere, tutta la scuola veniva mandata e una si accodava. In quelle circostanze, per mettersi volontariamente da parte una avrebbe dovuto avere qualità sovrumane.» E lei sapeva sempre di più cosa significava essere «messe da parte». Un giorno, un insegnante «doveva dire qualcosa sugli ebrei, e non volle che lo sentissi. "E meglio davvero se te ne vai." Così me ne andai, naturalmente protestando. Sono sempre situazioni in cui uno si sente un paria. Tutte e trentacinque se ne rimanevano lì e io dovevo andarmene. Voglio dire, da una parte, come ho pensato in seguito, magari lui voleva solo proteggermi. Doveva trattare quell'argomento nella lezione di storia e non voleva urtare i miei sentimenti: perciò mi mandò fuori. Per cui, cosa era meglio?» All'età di quattordici anni decise di lasciare la scuola, come era consentito, per diventare giardiniera, una scelta professionale davvero molto insolita per una ragazza dell'epoca. Ricordava distintamente la reazione del padre. «Poco prima che morisse, io andai a Stoccarda e gli dissi: "Per quei tempi eri incredibilmente moderno. Quando ti ho detto che volevo fare la giardiniera, tu hai detto: "Ach, parlerò alla capo-infermiera dell'ospedale," era un ospedale cattolico con le suore, e "andrai nella serra dell'ospedale tre settimane durante le vacanze e vedrai se ti piace davvero". E io ci andai e mi piacque, ma a quell'epoca ero sempre la figlia del Doktor Goldmann e qualcosa di speciale e pensavo che sarebbe sempre stato così.» Aggiunse che disse al padre che era moderno anche per non avere insistito sul fatto che col giardinaggio non sarebbe mai diventata ricca. «Mi guardò negli occhi e disse: "Questa mi sembra una considerazione molto secondaria. Pensavo, dovresti avere una professione che farai quando sarai vecchia, e allora è molto più importante che ti piaccia, piuttosto che una in cui si guadagna molto ma non ti piace".» Durante il Terzo Reich continuò a piacerle molto imparare il suo mestiere. In realtà, deve essere stato una sorta di rifugio. Una difficoltà successiva, tuttavia, nel fatto di essere una mezzo ebrea aspirante giardiniera, era ottenere i documenti di apprendistato. Senza un apprendistato ufficiale non avrebbe potuto ricevere una certificazione. Niente certificazione, niente buon lavoro. Alla fine, un burocrate si lasciò commuovere. (Dopo la guerra, quel funzionario fu tra coloro che andarono in cerca di persone 117

come lei per richiederle «un "Persilschein" [un certificato di buona condotta; il riferimento ironico è al detersivo Persil] in cui si attestava che sulle loro vesti non c'erano "macchie marroni". Uno avrebbe dovuto dichiarare che ci avevano sempre trattato umanamente e correttamente, per cui non sarebbero stati classificati come nazisti. Avrei dovuto testimoniare quale nobile essere umano lui fosse». Firmò il documento, disse. In fondo lui era stato d'aiuto.) Quando lo stesso Herr Dr. Goldmann non potè più svolgere 0 lavoro che amava, anche lui finì per «gingillarsi», come si espresse la figlia, a fare il giardiniere. Ma la situazione del padre non era felice come la sua. «Fu assunto da alcuni giardinieri che conosceva da prima. Ma loro non erano molto cristiani. Non lo trattarono nemmeno molto nobilmente. E glielo fecero capire. Non c'era più Herr Doktor Tal dei Tali.» Anche se il ristretto mondo privato della giovane Verena era meno aspro, il Terzo Reich la costrinse a subire a un rito di passaggio sociologico tipico di quell'era. «Era così terribile per me, durante la gioventù. Quando conoscevo qualcuno, a un certo punto dovevo dirgli o dirle: "Senti, io sono mezza ariana". E allora non sapevo mai quale sarebbe stata la reazione. È strano, ma tutti reagivano in modo del tutto normale e dicevano: "E allora? Tu sei una ragazza simpatica e tutto il resto non ci interessa". Sono amici e amiche con cui ancor oggi ho rapporti amichevoli. Se dico loro: "Non avete idea di quanta importanza aveva allora per me", loro dicono: "Ti immagini le cose, era naturale". "Per tutti voi era straordinariamente naturale. Per me, a quell'epoca, non lo era." Quest'angoscia, che deriva dal Terzo Reich, che qualcuno potesse respingermi per via di questa sciocca discendenza [dieser blòden Abstammung] mi si è attaccata da quando ero bambina.» Mentre lei e suo padre curavano giardini diversi, la Germania iniziò la Seconda Guerra Mondiale. E facile trovare le tracce della guerra nelle pagine del suo album di fotografie, in sé un documento toccante in un modo quasi insopportabile degli anni della sua giovinezza. In un'istantanea c'è una giovanissima donna, con un'aria totalmente tedesca, insieme a un giovane molto attraente. Sono Verena e il suo fidanzato. Lui credeva nella guerra? «Ach, era uno studente di teologia. Non credeva nella guerra. Era proprio...» Si fermò e ricominciò. «Fu ucciso nel gennaio del 1945.» In un'altra fotografia, sono seduti su un tronco d'albero. Lei indossa un diradi. «Questa era in montagna. Un diradi non passerà mai di moda.» Lui è vestito in maniera sportiva e porta lo zaino. Sorridono entrambi, con una certa timidezza. Sul retro lei aveva scritto: «Zwei Glucklicke [due felici] durante un viaggio a Wendelstein nell'agosto del 1940». Ci trovammo di fronte la fotografia di un altro giovane uomo, l'amico di un amico, diretto in Polonia. E lui credeva nella guerra? «Lui aveva una specie di intuizione che non ce l'avrebbe fatta a tomare a casa. Ricordo ancora quando lo portai alla stazione, era così teso e così 118

strano. E nel giro di due settimane era morto. Per cui, in qualche modo l'aveva previsto. Lo sapeva per certo.» Voltò la pagina e trovò una piccola bandierina di carta con sopra una svastica, e restò confusa. Sembrava provenire da qualche Automobile club tedesco. «Voglio dire, dopo avevano svastiche dappertutto, invece dell'aquila.» Continuava a interrogarsi, dato che ricordava che lei non aveva accesso a una macchina, mentre la sua amica sì. Si accese la lampadina. « A C H ! Portavamo da qualche parte i veterani che non avevano una macchina, a fare una passeggiata. Ecco cos'era.» Aha, dissi io. Per la patria. «Per la patria,» ripetè. E dopo la fatica, un piccolo souvenir. Una volta Frau Groth aveva ricordi scritti di quell'epoca. «Nel 1981 trovai una scatola in cantina, che non ripulivo da un'eternità, e la scatola era piena solo di lettere che avevo scritto al mio fidanzato d'allora al fronte, e che lui aveva scritto a me.» Era lo studente di teologia morto nel gennaio del 1945. «Presi questa scatola, mi sedetti, e passai tutto un pomeriggio a rileggere quelle lettere. Alla fine le bruciai, perché, pensai, sono cose personali, e la mia vita amorosa di trenta, quarantanni fa non riguarda mia figlia. Poi pensai: cercavamo sempre di scherzarci sopra. Per esempio gli scrissi tutte le lettere mi vennero restituite dopo la sua morte - "Stanotte c'è stato un altro bombardamento. Parecchie case sono kaputt", come se fosse la cosa più naturale del mondo. E lui scriveva: "Adesso devo smettere di scrivere, i russi stanno attaccando," anche lui come se semplicemente ci fosse qualcuno che passava di lì. In altre parole, ciascuno cercava di non sconvolgere ulteriormente l'altro.» Inoltre, disse, «a quell'epoca tutto era così quotidiano che uno non riusciva più a considerarlo drammatico». Durante la guerra, lei per lo più «girovagò», come si espresse, tra varie serre, riuscendo a un certo punto a lavorare in Liechtenstein, con una certa libertà razziale, e per il resto del tempo in Germania. «A me il lavoro pratico piace, ma dopo cinque o sei anni di guerra avevo la sensazione che la mia anima si stesse inaridendo. Perciò mi misi a imparare poesie a memoria, e mentre innaffiavo le viole recitavo poesie che oggi mi sembrano totalmente stupide.» Una di quelle più famose era di Friedrich Hòlderlin, che lei trova peggio che stupida, e che era dedicata alla gioia di essere nei ranghi dei soldati che muoiono «per la patria». Lei innaffiava le viole, il padre ingoiava il suo orgoglio, ma cosa accadeva a sua nonna, Frau Goldmann senior? La famiglia era riuscita a portarla in un lontano villaggio (molto a est di Stoccarda) per proteggerla dai bombardamenti. Lì, con grande meraviglia di Verena, la nonna mantenne il suo aspetto da «signora» nelle condizioni più primitive. Le chiesi cosa accadeva quando fuori doveva portare la sua stella. «Non usciva più molto. Per la maggior parte del tempo stava a casa. E al villaggio non portava molto la stella. Lì non erano così... era anche molto lontano, ed era un villaggio svevo così tipico. Avevo sempre la sensazione che fossero di una razza del tutto diversa. In un qualche periodo, erano di sicuro siciliani o zingari che si erano insediati lì. È una popolazione completamente diversa - bassi, magri, neri di capelli. Avevano anche un dialetto diverso, e le loro

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case erano tutte dipinte a colori vivaci, e anche questo era notevole. Erano attaccati alla montagna come un villaggio italiano. E [gli abitanti] erano davvero molto tolleranti.» Disse di credere che contrariamente alle «persone mezzo istruite e agli intellettuali che considerano ogni passo e ogni frase e ogni gesto, quali cause potrebbero avere o no,» la gente di campagna con «un'educazione del cuore» non era «così fanatica in quell'epoca. Percepivano molto prima quello che c'era di falso». Gli abitanti del villaggio avevano reso più facile la vita di Frau Goldmann senior. Ma forse fu suo figlio a salvargliela. Frau Groth pensa che il padre «usò qualche genere di trucco» per evitare che la madre fosse deportata. Non sa che trucchi fossero, sa solo che funzionarono. (Frau Goldmann senior morì nel 1950.) Frau Groth disse che probabilmente a quell'epoca non si era resa conto del destino che l'attendeva. Lei però sapeva cosa stavano facendo nel fronte intemo i nazisti e i loro sostenitori, dato che era testimone della «frequenza quotidiana» dei commenti antisemiti. E sapeva che non avrebbe mai «osato dire qualcosa [contro i nazisti] ad alta voce sul tram». Sapeva anche di non dover esprimere la propria opinione con qualsiasi persona che non fosse di provata fiducia, e di non fare nulla di verboten. Sapeva dell'aperto incoraggiamento alla denuncia, e che coloro che denunciavano - adulti e bambini - erano spesso convinti di fare la cosa giusta. «Era una cosa sistematica. Era straordinario come, dal punto di vista psicologico, il nazionalsocialismo teneva perfettamente in mano il Volk. Era qualcosa di demoniaco, di diabolico, perché nessuno si fidava di nessuno.» E lei avrebbe potuto fare qualcosa contro il nazismo? «Io?» Fece una pausa. «Assolutamente no. Assolutamente no. Non avrei saputo cosa fare. Io personalmente non appresi nemmeno come fare resistenza. Fu proprio da quell'epoca che imparai che bisogna stare all'opposizione e resistere e aprire la bocca. Ma questo in una democrazia. E una democrazia con tutti i suoi difetti, e il nostro stupido governo ["con tutte quelle bottiglie vuote sedute lì", mi disse in seguito], sono ancora la migliore forma di stato. Almeno posso sempre scrivere una lettera al direttore.» Nell'opinione di Frau Groth, fu proprio la mancanza di fiducia che i nazisti diffusero tra la cittadinanza che condusse alla mancata conoscenza del destino delle vittime del nazismo. «Per molto tempo, non si seppe con troppa esattezza cosa stava accadendo. Non ci si fidava a parlare con qualcun altro, come in tutti gli stati totalitari, e in particolare proprio nel Terzo Reich. Uno non poteva fidarsi del suo vicino, perché se sentiva che ascoltavi una radio straniera, magari ti denunciava e arrivava la Gestapo a portarti via.» Come la maggior parte delle donne tedesche che ho intervistato, disse di sapere dell'esistenza dei campi di concentramento, ma non che cosa succedeva lì dentro. «Che ne morirono così tanti e delle camere a gas e di tutto il resto, non lo si seppe per molto tempo. Di sicuro fino alla fine della guerra. Che i prigionieri non venissero trattati con il guanto di velluto, 120

quello era chiaro. Ma quanto fosse orribile e come i prigionieri venissero picchiati o fucilati e in quali disumane condizioni loro vegetassero lì dentro, e le camere a gas, e che gli strappavano i denti d'oro, tutti questi orrori io li venni a sapere solo dopo la guerra.» Davvero seppe delle camere a gas solo dopo la guerra? «Lo appresi per la prima volta dopo la guerra.» Cos'altro aveva saputo, e quando, e come? «Ach, non lo so. Ma di sicuro fu verso la fine della guerra. Forse nel '44. Una volta qualcuno disse: "Con gli ebrei stanno facendo il sapone". Questo lo ricordo con esattezza. Da qualche parte sentii quell'osservazione. Dove, chi e quando, questo non lo so. Voglio dire che di queste cose si parlava come se covassero sotto la cenere, di nascosto. O "I paralumi sono fatti di pelle umana" o qualcosa del genere. Ma erano cose tanto al di là delle capacità di comprensione, così vicine al cannibalismo, per esempio, che uno semplicemente non voleva crederci. Anche con i campi di concentramento. Voglio dire, nessuno può venire a dirmi che non sapeva della loro esistenza. Il concetto di campo di concentramento fu ben noto fin dall'inizio. Quando all'improvviso le persone venivano prese e non c'erano più, nemmeno in prigione, e nessuno sapeva dov'erano; e non si trattava solo di ebrei, c'erano anche socialisti e comunisti, o cittadini fino a quel momento onorati o ministri, e all'improvviso sono spariti. Ma i dettagli di quello che succedeva, voglio dire, forse all'inizio uno si immaginava che fossero in un campo, simile a una grossa prigione, solo che non sono chiusi in cella, ma sono liberi di andare in giro. Ma che morivano di fame o... o... quelle crudeltà, uno non lo sapeva. E vero. Perché quelli che ne uscivano, se ne uscivano, naturalmente tenevano la bocca chiusa. Avevano paura di ritornarci.» Disse, a proposito del padre: «Non credo che lui sapesse qualcosa. E se l'avesse saputo, non ce l'avrebbe detto, per non metterci in pericolo». Frau Groth parlava con una furia speciale del modo in cui i nazisti influenzavano i giovani. «I loro buoni sentimenti, il loro entusiasmo, il loro idealismo, venivano assolutamente distorti. Venivano eccitati [e] mandati in guerra e gli riempivano la testa con idee come il fatto che sarebbero morti per una Germania più grande. Tutto per la Germania, tutto per la patria. Ecco perché ho un rapporto così tormentato con il concetto di patria e di nazione. Penso sempre: questa canzone l'abbiamo già sentita. Eppure ero così felice quando mi era consentito di farne parte. Avevo la sensazione che un giorno sarebbe finita e io finalmente sarei stata del tutto integrata. Ho sempre pensato che fosse solo un periodo determinato. Lo sconvolgimento venne in seguito, quando mi fu chiara l'immensità del pericolo. Se Hitler fosse rimasto al potere altri due anni, probabilmente anch'io sarei finita ad Auschwitz. Questa è la realtà. Avrebbe sistemato anche gli altri. Pensai: l'ho scampata per un pelo. Campo di concentramento. Dachau. Auschwitz.6 Ma a quali conclusioni idiote si arrivava! Mio padre, in qualunque circostanza, voleva restare in Germania. Il Terzo Reich patrocinava alcune speciali e stupide eccezioni. Se volevano assolutamente salvare qualcuno di 121

origine ebraica, si poteva iniziare un procedimento di "arianizzazione".» I Goldmann lo fecero. «Nell'autunno del 1944, mio padre disse: adesso tenteremo con l'"arianizzazione". E mia nonna, la chiamavamo sempre Madame Etiquette, era molto distinta. Viveva in un villaggio dove le case non avevano neanche il bagno e se ne andava in giro sempre con un vestito nero, colletto bianco e guanti e i bambini si inchinavano sempre o facevano la riverenza. Era una persona di rispetto. E allora firmò una dichiarazione in cui affermava che i suoi figli forse non discendevano dall'ebreo Berthold Goldmann, dato che aveva avuto una relazione con un industriale della Foresta Nera. Era uno spergiuro bello e buono. Ma per aiutare noi, lo firmò. Poi ricevemmo l'ordine di presentarci a Tubinga.» A Tubinga c'era un istituto in cui le persone di dubbia origine venivano esaminate «scientificamente» per determinare la loro razza. II gruppo che partì per Tubinga era composto da «mio padre, mio fratello, me, mia zia - la sorella di mio padre - e mio cugino. Mio cugino e mio fratello avevano un'aria terribilmente germanica: erano alti e biondi. Anche mio padre era molto imponente». Come aveva già raccontato, la zia era felicemente sposata a un cristiano. Anche lui insistette per andare a Tubinga. «Mio zio, lo zio "ariano", disse alla moglie: "Non ti lascerò sola. Verrò con te".» Questo zio «ariano», aggiunse Frau Groth, aveva un'aria terribilmente ebraica. «Raggiungemmo questo castello a Tubinga, e il professore avanzò di proposito verso questo zio e disse: "Buongiorno, Herr Dr. Goldmann". E mio zio disse: "Ha sbagliato, Herr Professor. Io sono la parte 'ariana' della famiglia". «E uno non poteva non scoppiare a ridere,» disse Frau Groth con la sua voce roca che vibrava per la comicità e l'oltraggio della storia. «Per poco non scoppiavamo [geplatzt]. Gli scienziati arrossirono. Le mostrerò una fotografia di mio padre. Assomigliava molto al Kaiser Guglielmo. Comunque, tutta la loro teoria fu ribaltata in quindici secondi. «Ci saltellarono intorno e ci misurarono - naso, orecchie, testa - e fecero i loro studi antropologici. Ma poi, grazie a Dio, finì la guerra.» Non riusciva a smettere di ridere. «Grazie a Dio, gli americani furono più veloci.» La fine del Terzo Reich ebbe un significato personale per Frau Verena Groth: poteva smettere di essere metà questo e metà quello e tornare a essere ciò a cui aspirava, una persona intera. «Quando la guerra finì, pensai: grazie a Dio i fantasmi sono svaniti. Avevo ventitré anni. E dal 1946 al 1948 andai all'università. Non avevo nessuna inibizione. Ne parlai con i miei compagni perché pensavo: adesso è tutto finito e grazie a Dio nessuno ti guarderà storto.» Come molti nella sua condizione, aveva diritto a varie forme di risarcimento. «In qualità di studente, dopo la guerra, avrei potuto tentare. L'espressione era "Perseguitato dal regime nazista". Si ottenevano privilegi.

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Altrimenti dovevi pagarti gli studi da sola. I miei compagni d'università con cui ne avevo parlato molto mi dicevano: "Sei matta? Vacci e come minimo ti danno l'esenzione dalle tasse". Già allora, dissi di no. Per non essere di nuovo esotica. Adesso ero tornata ad appartenere alle grandi masse e non volevo ricavare privilegi da un'epoca che ormai avevo alle spalle. Avrei rinunciato agli studi piuttosto che andare lì a dire: adesso è il mio turno, pagate per me.» Anche se quegli anni per lei scorrevano lisci, rimase sconvolta dalla giustizia degli alleati nei confronti degli ex nazisti. «Perseguirono i piccoli e lasciarono scappare i grossi. Ancora una volta, erano loro ad avere in mano le cariche più alte e più redditizie. Ai medici che avevano esercitato l'eutanasia non fu proibito di riprendere la professione. Ma qualche piccolo burocrate, quello lo sbattevano fuori. Davvero non lo capisco. Ma è un po' come con Oliver North. Ha violato la legge e se ne è uscito come un eroe americano. Uno si chiede: sta succedendo davvero? Dicono: che persona coraggiosa, che se ne infischia delle leggi per servire la nazione. H a dato soldi a quelli del Nicaragua, ma solo per combattere i soliti vecchi nemici, i comunisti. E qui è lo stesso. Ha fatto di tutto per combattere i soliti vecchi nemici, gli ebrei, o gli zingari, o chiunque altro. All'improvviso la legge non ha più significato.» Eppure, nella sua vita, fu felice di non essere finita né tra i nemici né tra le vittime. Il suo senso di sollievo durò meno di due decenni. «Negli anni Sessanta, in un'elezione politica, il Partito nazionale democratico, un discendente della NSDAP, prese il dieci per cento dei voti in Germania. Per poco non impazzivo. I nostri amici mi calmavano in continuazione e dicevano: "Tu ti immagini troppe cose". Io rispondevo sempre che non sarei sopravvissuta a una nuova edizione del Terzo Reich. Piuttosto mi sarei buttata nel lago. L o dissi a mio padre: "Prendo il mio zaino, vado in montagna e nemmeno mi volto quando arrivo in Austria. Mi lascerò indietro questa nazione come un incubo". «Pensavo: fino al 1933 ho vissuto un'infanzia pacifica e senza problemi, e poi dal 1945 all'inizio degli anni Sessanta ci sono stati periodi in cui non ho avvertito la paura. Ma per il resto, ho sempre avuto delle angosce sotto la superficie. Questo deriva dal periodo di cui tuttora non mi piace parlare.» Lei è, disse, «ipersensibile». «So con precisione chi conosce le mie origini e chi no. Ci rimugino sopra per anni prima di decidermi a dire qualcosa. Fa parte di me. I miei amici mi hanno detto che dovrei andare da uno psicoanalista, che ho un trauma. Gli rispondo: "Sono arrivata all'età di sessantacinque anni con questo trauma, e me lo tengo finché campo".» Le chiesi se aveva provato il bisogno di dire alla parrucchiera che aveva messo in dubbio le cifre dell'Olocausto che suo padre era ebreo. «Non sono mai stata capace di dirlo. Almeno fino a oggi. Solo pochissime persone lo sanno.» E i vicini? Come l'uomo amichevole che arrivò durante la nostra conversazione per darle del materiale da disegno che pensava potesse servirle? « Q u i non lo sa nessuno,» disse accendendosi un'altra sigaretta.

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Continuò: «Capisce, quando uno ha un rapporto diverso con la religione e la cultura ebraica, probabilmente è un fardello minore, ma se non se ne ha nessuno... I miei nonni erano già battezzati, io crebbi in una casa assolutamente cristiana, e all'improvviso una si ritrova in una casta con la quale non ha nessuna relazione. E una cosa che ti resta attaccata per il resto della vita. Per motivi idioti. Non riuscivo a parlarne nemmeno con le mie figlie. Non si immagina quante rincorse ho preso prima di riuscire a parlarne con loro. Pensavo sempre: "Adesso devi parlargliene". Poi mi si bloccava la gola e ancora una volta non ci riuscivo. «Fu lo stesso con mio genero, quando scoprii che stava in un circolo [un circolo studentesco che un tempo era nazionalistico]. La notte non riuscivo a dormire e pensavo: a mia figlia capiterà la stessa cosa che è capitata a me.» (Probabilmente Frau Groth si riferiva a ciò che le sarebbe potuto capitare.) «All'improvviso lui la mollerà dicendo: "Tu e le tue strane origini". Le dissi: "Devi parlare con lui e se non vuoi, lo farò io". "Ach," mi rispose, "non ha nessuna importanza." Allora le dissi: "Per te non ha importanza, ma per me sì. Non riesco ad avere nessun rapporto con lui se ho la fissazione che lui mi guarda storto". Fortunatamente lui reagì in un modo normalissimo [lei disse "stinknormal": normale da far schifo] e disse: "E allora?" Per cui, certe volte le paure me le immagino.» Disse che in seguito notò che le sue figlie ascoltavano le informazioni sul Terzo Reich «come se fosse una storia che non aveva più a che fare con loro. E le leggi [razziali] di Norimberga, non sono ancora riuscita a parlarne con loro. Ja, voi due siete ancora per un quarto "non ariane". Per loro questa non è una realtà. E tutte le volte che penso: Be', tutti questi particolari sul Terzo Reich, perché devo obbligarle a saperli, quando ormai non se ne cura più nessuno e non importano più a nessuno? E così si sono risparmiate tutti gli scismi e i fardelli che... che... che ho avuto io. E questa è stata la vera ragione». A quanto pare, Frau Groth non era l'unica a nutrire il desiderio di tenere nascosta la sua condizione «esotica». Mi parlò di una sera con il suo ex marito. «Per una assoluta coincidenza, conoscemmo tre coppie di cui una metà era "ariana". Spesso uscivamo insieme, ma ci crederà che mai nessuno si mise a parlare di quello? Ho sempre pensato: Nessuno si fida abbastanza per parlarne. Ognuno sa dell'altro, ma sente di non volere più essere qualcosa di esotico. «E una cosa così terribilmente difficile per me. Alcuni anni fa andai a Stoccarda a incontrare alcune vecchie compagne di scuola e loro dicevano: "Tu sei matta? Perché continui a considerarlo un peso? Pensa a quello che hanno fatto i cervelli ebrei in Germania, chiediti come mai qui non ci sono più premi Nobel". In primo luogo, gran parte di un'intera generazione fu uccisa. Un'intera generazione di giovani uomini fu praticamente cancellata, e tutti gli ebrei intelligenti o furono sterminati o emigrarono, e i premi Nobel li presero come americani. "E dovresti essere orgogliosa dell'eredità culturale dell'ebraismo." Quando sento o vedo Léonard Bernstein o sento Horowitz o tutti questi super-artisti, io li trovo affascinanti, straordinari, ma 124

semplicemente non arrivo a credere che dentro di me dovrei essere orgogliosa di appartenere anch'io, adesso, a questa casta. C'è un abisso così profondo tra noi, che non posso superarlo.» Né riesce a superare l'ansia che i vicini scoprano che lei è per metà ebrea. Ecco perché non è stato citato il suo paese, né il suo vero nome. «Verena Groth» è un nome che abbiamo inventato insieme. La sua angoscia di essere ciò che era, dov'era, e sulla situazione politica non fu mai troppo lontana dalla superficie quando parlammo, nell'estate del 1987. Ma, facendo un bilancio, lei era «felice di essere qui». Le piacevano «molti tedeschi, ma molti altri non riesco a soffrirli. Trovo orrendo il loro punto di vista. Ma ritengo che questo non abbia niente a che vedere con la nazionalità. Dappertutto ci sono stupidi e dappertutto persone piacevoli. Mi fa imbestialire questa mania di voler radunare tutti in un'unica categoria». Aggiunse che non le piaceva sentir dire «gli ebrei» più di quanto accadesse per «z tedeschi e gli americani. Mi dà sempre fastidio. Penso che in un certo modo il Terzo Reich abbia danneggiato il popolo tedesco. Adesso l'odio si sta rivolgendo verso i turchi». Disse: «Se dico "Fuori gli ebrei" o "Fuori i turchi", è sempre la solita pretesa di essere un'élite, di essere migliori degli altri». Era anche sconvolta dal modo in cui erano trattati gli «Asylanten». Allora la parola era piuttosto nuova. Nonostante le sue preoccupazioni, Frau Groth nutriva speranze sul futuro della Germania. Pensava che i giovani tedeschi erano più tolleranti. «Penso sempre che le cose andranno meglio quando la nostra generazione, la vecchia generazione, sarà morta. I più giovani faranno di meglio. Lo spero, almeno.» Cinque anni dopo, nella Germania riunificata del 1992, il mondo che circondava la Germania conosceva bene la parola «Asylanten», sia per il loro numero sia per gli attacchi dei neonazisti contro di loro e contro gli altri «stranieri», come i turchi tedeschi di cui si preoccupava lei. Il mondo conosceva anche gli attacchi contro i monumenti che ricordavano gli ebrei tedeschi, e che il simbolo che deturpava quei resti era la svastica. Frau Verena Groth non usava più la parola «speranza». La sua lettera, datata settembre 1992, aveva più a che fare con la preoccupazione. «Sono decenni che temo questa evoluzione. Il "trauma" di cui ridevano i miei amici. Emigrerei, se non fossi troppo vecchia.» Talvolta arrivava un pensiero a calmarla, mi scrisse. In caso di emergenza, se le cose si mettevano davvero male, poteva trovare un posticino da suo fratello, in Canada.

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NOTE 'L'ex presidente austriaco, nonché segretario generale dell'ONU, Kurt Waldheim smentì i rapporti pubblicati che affermavano il suo coinvolgimento nella deportazione degli ebrei. 2La parola tedesca per «colpa», Schuld, si può tradurre sia come «causa», «fallo», «peccato», «delitto», sia come «debito» o «obbligazione». 'Nel 1988 Frau Groth salì per la prima volta su un aereo, per andare a trovare suo fratello e la sua famiglia a Vancouver. Era estasiata, mi scrisse, non dal volo, ma da Vancouver, dove persone di origini così svariate vivevano insieme d'amore e d'accordo. "Proviene da «Der Wanderer», in Così parlò Zarathustra. Un grazie a Linda Wheeler. 'Un'altra ragione per cui né lui né Verena furono obbligati a portare la stella gialla fu probabilmente perché non erano «registrati» come ebrei praticanti. 6Questa paura era giustificata. Reinhard Heydrich, l'amministratore dei campi di concentramento, propose di inserire molti mezzo ebrei, «Mischlinge», nella stessa categoria degli ebrei «completi» che dovevano essere deportati e uccisi. Cfr. Wolfgang Benz, «Eine Besprechung mit anschliessendem Frühstuck», Süddeutsche Zeitung, 18-19 febbraio 1992.

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UNA VISIONE COSMOPOLITA DEL MONDO (Frau Maria von Husen)

Non fosse stato per la guerra e la follia, il ventesimo secolo sarebbero stati altri cento anni piacevoli nel solco della tradizione della famiglia von Husen. Quando le chiesi di descrivere il suo «Elternhaus» [una parola che indica la casa patema, ma sottintende le circostanze dell'infanzia], la ex contessa Maria-Carla von Husen risalì al quattordicesimo secolo. In pochi secondi, vorticarono davanti a me le epoche e i rami di diversi von Husen, dalla regina Cristina di Svezia che assegnava un'isola ad alcuni von Husen, all'azienda del nonno che esportava tabacco a Baltimora. Nonostante i periodi in cui furono «famiglie veramente potenti», quei rami in gran parte si erano estinti. Proprio come nei Buddenbrook di Thomas Mann, disse. Con la stessa precisione con cui aveva elencato i parenti e avrebbe nominato le amicizie altolocate («La mia più cara amica è una contessa Schenk von Stauffenberg,» mi scrisse nella sua prima lettera), avrebbe elencato anche le sue antipatie, alcune delle quale venivano espresse con disgustati arricciamenti di naso. Uno seguì il suo lamento per l'esistenza dei supermercati. Un altro sottolineava la notizia che i polacchi, totalmente privi di gusto, dopo aver trasformato il suo castello avito in una scuola agricola, avevano colorato gli stucchi decorativi, che erano sempre stati bianchi. Un arricciamento di naso toccò anche al «piccolo borghese filisteo» Adolf Hitler. Per non parlare della terribile tonalità di marrone che i nazisti avevano scelto per le loro uniformi. Quelle mosse venivano dal naso patrizio di una donna che per i capelli rosso-bruno tagliati alla paggetto e la figura formosa (e per la stanza da letto adorna di sete e di pizzi) ricordava una diva di Hollywood in pensione. Frau von Husen, tuttavia, guida anche una moto. E nella taverna, beve schnapps fino all'ultima goccia, in un colpo solo. Da molto tempo ha questi tratti da persona normale. Un amico comune disse che decenni prima, ogni volta che nella sua bancarella di frutta e verdura restava senza ciò che lei voleva e le proponeva di andare nell'orto a prenderlo, lei lo accompagnava sempre per aiutarlo. Dopo una vita piuttosto peripatetica, Frau von Husen piantò le radici nel paese di Uberlingen, nella Germania meridionale, dove aveva trascorso la giovinezza, ma rimpianse di esserci tornata. Il clima pessimo in ogni stagione, con il tormento del Fòhn, che sconvolge la sua costituzione delicata, non è di suo gradimento. Per cui viaggia molto: alla ricerca di climi più distensivi, alle terme, da parenti e vecchi amici. Ho ricavato tutto ciò non solo dai nostri incontri, ma anche dalla sua singolare corrispondenza, che si è protratta per anni, una miscela di spossatezza ed entusiasmo, nobili e nazisti, tedesco e inglese, leggende e politica, religione e razza, lamentele e

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preoccupazioni, e commoventi domande personali e saluti, in gran parte scritti a macchina su carta trasparente da posta aerea. La sua penna stilografica poi sottolineava parole per enfatizzarle e riempiva i bordi con aggiunte. Di persona e per posta, aveva così tante cose da dire da sembrare sul punto di esplodere. C'è da meravigliarsi che non sia mai successo. Frau von Husen non mi diede l'impressione di essere una persona capace di liberarsi dei traumi, e i suoi furono copiosi. La sua casa, un appartamento in un palazzo senza ascensore, modesto, comodo, moderno, riassume il minore di quei traumi: un totale rovesciamento di fortuna. Le belle stampe alle pareti del soggiorno forniscono l'unico indizio evidente di un passato opulento. Gli album delle fotografie ne aggiungono molti altri. Una notte fece scorrere le pagine quasi con negligenza, fino a una serie di scene ambientate nel vecchio castello della provincia orientale della Slesia. Un'armatura nell'atrio immenso, saloni sontuosi, un lungo tavolo apparecchiato per le feste natalizie (per la servitù). Le istantanee di un altro album mostravano Frau von Husen, quando era la giovane sposa del conte del castello. A prendere il sole sul prato del castello. In pose informali che rivelavano l'intima nobiltà. Il conte zio Ebert nel suo capanno di caccia. Il «guardacaccia» e il «vice-guardacaccia». Che eleganza, dissi. Frau von Husen replicò che lei aveva abitato lì solo un mese, in epoca di pace. Il suo dito si posò su quei volti e indicò chi era rimasto ucciso durante la guerra. Parlava con un tono uniforme, come faceva di solito in quei due giorni di colloqui. Dapprima pensai che quel tono fosse da attribuire al fatto che era stanca della vita, depressa, o semplicemente perché era una ex contessa. Ma in alcune occasioni la sua voce diveniva gonfia e incerta, apriva e chiudeva in continuazione il coperchio del suo portasigarette di porcellana e ottone, e quell'uniformità sembrava solo di facciata. La sua vita era iniziata sotto buoni auspici, come quella dei suoi genitori. Herr von Husen, che aveva sposato la sua colta cugina, anche lei una von Husen, studiava musica, prendeva lezioni di canto, componeva e «viveva con le sue sostanze». La coppia possedeva una grandiosa casa a Überlingen, che dava sul lago di Costanza. Frau von Husen senior si occupava della servitù, dei giardini, delle conserve, e diede alla luce due graziosi bambini, Maria e suo fratello. Ma con l'inflazione e la crisi degli anni Venti, «perdemmo tutta la nostra fortuna, tutto». Grazie a un amico, Herr von Husen trovò lavoro nella filiale berlinese della SKF, una grande industria di cuscinetti a sfera con la sede in Svezia. La casa di Überlingen fu sgombrata, e i mobili messi in un magazzino. Mentre Herr von Husen «cercava la sua strada» a Berlino, la moglie andò col figlio a Brema, la sua città natale, e Maria, che aveva circa nove anni (riuscì a evitare di dirmi quando era nata, ma si intuiva che doveva essere attorno al 1917), fu mandata in collegio. Le chiesi quale fosse l'umore a casa sua, e mi rispose: «Non avevamo più una casa». Verso il 1930, Herr von Husen aveva trovato la sua strada e portò la moglie in una casa appropriata a Berlino. Essendo «di natura una ragazza di città», prese a vivere una piacevole esistenza borghese, frequentando «i 128

migliori circoli femminili di Berlino» mentre i figli restarono a scuola a Brema. In quell'epoca, Maria si trovava di fronte un futuro molto limitato, anche nell'emancipata Germania di Weimar. Come le sue pari, da cui ci si aspettava che sovrintendessero alle proprietà del marito, frequentò un corso di economia domestica (in una scuola la cui sede era in un castello). Tuttavia desiderava diventare qualcosa di più di una Hausfrau, anche se di classe elevata. Voleva diventare medico. «Ma studiare medicina richiede molto tempo e mio padre non poteva pagarmi gli studi. Non potevo certo aspettarmi una cosa del genere.» Perciò tornò a Berlino e frequentò una scuola per segretarie. Se avesse combinato quell'istruzione all'interesse per le lingue straniere, avrebbe potuto trovare un posto da segretaria/interprete, che allora era un lavoro molto prestigioso per una donna. Il suo progetto venne frustrato dal demone familiare dei von Husen, l'instabilità emotiva di Frau von Husen senior. La malattia si era manifestata per la prima volta durante la Prima Guerra Mondiale, alla notizia che il marito era stato ferito gravemente, e poi, a distanza di qualche anno, c'erano stati degli attacchi periodici di depressione che diventavano un vero e proprio raptus. Una volta si tagliò le vene. All'inizio del 1932, la SKF annunciò che avrebbe trasferito gli uffici da Berlino a Schweinfurt, circa centocinquanta chilometri a est di Francoforte, perché fossero più vicini alle fabbriche. Herr von Husen doveva traslocare o rinunciare al lavoro. Non c'è bisogno di dire che Schweinfurt non era Berlino. Presto ci fu un altro raptus. Tuttavia l'intera famiglia traslocò e si riunì a Schweinfurt, nella speranza che l'attacco di follia della madre passasse. «Il giorno in cui mio padre tornò al lavoro, e mio fratello andò a scuola, io ero a casa da sola con lei, e lei si avvelenò. Si versò acido cloridrico nel tè.» Diffondendosi in dettagli lunghi e tortuosi, Maria von Husen rievocò i minuti, i giorni e i mesi che seguirono. Tra i particolari c'era il ritorno a casa dalla spesa nel giorno in cui la madre era stata sottoposta a un intervento chirurgico esplorativo: suo padre, che «era sempre molto calmo, molto riservato», era riverso sulla scrivania e piangeva così forte da essere scosso dal tremito. «Quando lo vidi così, il mio mondo andò in frantumi.» Lui aveva appreso che l'esofago della moglie era stato irrimediabilmente leso e che non sarebbe sopravvissuta. Però resistette, per quattro eterni mesi di rimorsi e di agonia. «Fu quello il vero trauma della mia vita. Niente, non la fuga dalla Slesia, la morte dei miei due mariti, la guerra con tutta la sua gamma di orrori e le bombe e così via, niente mi ha traumatizzato quanto la morte di mia madre.» Il Terzo Reich sopraggiunse l'anno seguente, a prima vista ben poco avvertito a casa von Husen. Maria andò in Inghilterra per migliorare l'inglese, per riprendersi e per sfuggire non ai nazisti ma ai ricordi. Dopo la morte della madre, «ebbi tutti i problemi di nervi possibili e immaginabili», comprese l'ulcera, la colite e la momentanea scomparsa del ciclo mestruale. I medici le consigliarono di andarsene, ma la sua partenza lasciò solo il padre, distrutto. «Forse un'altra figlia sarebbe rimasta con suo padre, avrebbe detto: dopo tutto, sei sconvolto anche tu, non ti lascerò solo. Ma io non

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ce la facevo più a resistere.» Mentre lei era in Inghilterra, si scambiarono molte lettere, ma non sul nuovo regime che governava la Germania. «Lui non si occupò mai di politica e non si iscrisse nemmeno al Partito.» La figlia disse che solo due tedeschi, alla SKF, si rifiutarono di farlo. Suo padre sosteneva di essere «troppo indipendente». Non aveva votato per Hitler, e nemmeno lei, che comunque era troppo giovane. Tuttavia il padre apprezzò alcune conseguenze della presa del potere di Hitler. «Era felice che regnasse di nuovo l'ordine, che la gente avesse di nuovo un lavoro, che l'economia andasse avanti, e che la Germania avesse riconquistato un certo rispetto.» Ma sulla nave che la riportava in Inghilterra da una gita in Olanda, ascoltò per caso alcune persone che «si lamentavano dei nazisti e della loro politica impossibile e di Hitler. Pensai: ma cosa vogliono queste persone? Di cosa stanno parlando? A casa è tutto "in Ordnung"». Essere furiosa era una cosa, curiosa un'altra. Era ancora in Inghilterra nel 1934, a frequentare i musei e a fare amicizie, quando i giornali londinesi sparavano titoli in prima pagina sull'assalto contro le SA e il loro capo, il vecchio amico e alleato di Hitler Ernst Rohm. «Li vedevo e pensavo: ma chi è questo Rohm?» In un'altra circostanza, durate le nostre conversazioni, Frau von Husen rivelò che a un certo punto era ben consapevole di quanto stava accadendo in Germania. «A Schweinfurt avevo un'amica ebrea, Ruth Dreifuss. Suo padre era un commerciante di bestiame ed era molto ricco. Lo arrestarono. La Gestapo. E lo portarono via. Poi andai da Ruth e da sua madre e loro erano terrorizzate e piangevano terribilmente. Era tutto così orrendo. Dissi: "Verrò ancora a trovarvi". "Ja, ma sta' attenta: è così pericoloso e noi non sappiamo cosa fare." Un giorno Papi venne da me e mi disse: "Senti, non va bene. Il Partito mi ha segnalato che hai un'amica ebrea qui e vai a trovarla. Se continui a fare così, metti in pericolo il mio lavoro. Mi dispiace terribilmente, ma non posso farci niente. Per favore, non andare più da lei". Così non ci andai più, perché non volevo danneggiare mio padre.» Mi disse che in seguito apprese da comuni amici che Herr Dreifuss era stato rilasciato e con la famiglia era emigrato negli Stati Uniti. Mentre Maria von Husen era a Londra (non era chiaro se prima o dopo il suo «caso Dreifuss»), suo padre si risposò. Betty era trent'anni più giovane di lui e proveniva da una famiglia di falegnami. Maria rifiutò di andare al matrimonio. Parlò a lungo delle sue obiezioni al matrimonio (che durò fino alla morte di Herr von Husen), delle suppliche di suo padre, dei tentativi di Betty di istruirsi ed educarsi. «Era entrata in un ambiente sociale molto più alto, questo è sicuro.» Quando Maria dovette tornare in Germania per guadagnarsi da vivere, trascurò Schweinfurt e i freschi sposi e si recò nella città della madre, Brema. Dopo «molta fatica», trovò un lavoro preso una ditta inglese di import-export, poi, grazie a conoscenze aristocratiche, ottenne un impiego migliore in una clinica otorinolaringoiatrica nella città termale di Bad Ems, in Renania. Il primario, che aveva bisogno di qualcuno che lo assistesse con i pazienti inglesi e francesi, era «un antinazista di prim'ordine» che parlava dell'«inizio della fine a cui stavamo andando incontro».

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Nel frattempo, anche lei, «un paio di volte», aveva visto Hitler e Goebbels. Non ne era rimasta particolarmente colpita, disse. «Ho sempre avuto l'impressione che fossero persone da poco che grazie al potere si erano fatti grandi. Perché le persone che sono davvero qualcuno non se ne vanno in giro a gridare come facevano loro.» Insistette su questo argomento. «Se uno ha davvero personalità e un certo livello culturale, non trova necessario andarsene in giro a tuonare e a picchiare con le mani. Solo i parvenu fanno cose del genere.» In più, disse, gran parte dei «parvenu» nazisti erano austriaci, e non solo austriaci, anche cattolici infedeli che erano diventati atei. «Sono i peggiori perché hanno sempre una cattiva coscienza e non riescono a liberarsene.» Di suo, Frau von Husen è una fedelissima cattolica romana. Durante una passeggiata nel centro medievale di Uberlingen, mi raccontò la biografia di tutti i santi delle cappelle laterali della sua chiesa. E non avanzava nessuna critica sull'atteggiamento della Chiesa nei riguardi del Terzo Reich. «Fecero quello che potevano, e non potevano fare di più. Se fossero stati provocatori, ci sarebbero stati omicidi e lotte feroci.» Quanto al famoso e famigerato Concordato, confutava la tesi generalmente sostenuta dagli storici che si trattasse del patto col diavolo della Chiesa cattolica. «Loro vi si attennero, i nazisti. Arrestarono alcuni preti e li misero in prigione, ma non fecero più di così.» Si sbagliava, e in una lettera successiva diceva di aver letto che in Austria e in Germania tremila sacerdoti erano stati deportati nei campi di concentramento. Nella stessa lettera scriveva che se non ci fosse stato il Concordato, i nazisti avrebbero occupato il Vaticano e deportato il papa.1 Ricordava di aver sentito parlare il già cattolico Goebbels, il ministro nazista della propaganda, in una sala di Breslavia. «Gridava come un ossesso. Parlava in modo fantastico. Era stato in un collegio gesuita a Bad Godesberg dove aveva studiato retorica. In retorica, i gesuiti sono davvero i migliori. E per il modo in cui parlava, quando uno se ne andava era convinto che avesse ragione. Dopo uno aveva modo di ripensarci e diceva no, no. Il Volk, naturalmente, gli andava dietro. Quelli vanno sempre dietro. Se salta fuori qualcuno e fa una gran cagnara si può star sicuri che il Volk gli andrà dietro, anche se non sanno perché. Ma se uno ha un certo livello di istruzione o di cultura o d'intelligenza, si domanda sempre perché, che cosa ha detto davvero, cosa significa tutto questo. Hitler mi dava l'impressione di essere un piccolo borghese filisteo. Faceva solo ridere.» E quanto all'attrazione sessuale dei nazisti che sbraitavano? Le donne pensavano che gli uomini in uniforme da SA erano attraenti? «Nein ! Nein ! È vero che certe volte gli uomini in uniforme fanno più impressione di quando sono in abiti civili. Per cui le donne guardano sempre gli uomini in uniforme. Sempre. Fossero della Luftwaffe o della marina, che erano anche più chic. Tutti gli uomini in uniforme erano molto chic, no? E le SS, che dovevano essere di una certa altezza e biondi e con gli occhi azzurri e dovevano dare una certa impressione, naturalmente erano uomini molto attraenti. Non si può dire altrimenti. Naturalmente le donne 131

li guardavano. Ma io non ho mai fatto parte di circoli in cui ci si preoccupava di cose simili.» Frau von Husen si preoccupò, fino a un certo punto, della «Kristallnacht». Disse spontaneamente che ne era stata testimone. «Lavoravo alla divisione tecnica della Opel AG di Rüsselheim, come segretaria, e abitavo a Wiesbaden. Avevo una bella stanza presso una famiglia molto simpatica e tutte le mattine prendevo il treno fino a Rüsselheim e tornavo indietro la sera. Quella sera avevo scritto una lettera e volevo andare a spedirla. E vidi una folla enorme per la strada, per la strada più elegante di Wiesbaden. E una via lunga e larga e con negozi molto eleganti. Appartenevano quasi tutti a ebrei. Le sinagoghe stavano bruciando. E dappertutto c'erano SA e una folla di persone e grida e pianti e venivano spinti e radunati tutti insieme. Lo vidi coi miei occhi! Una SA mi afferrò per il braccio e mi disse: "Fräulein, se ne vada. Qui non c'è niente per lei". E corsi a casa con la mia lettera e non la imbucai mai. Ero completamente sotto shock, ero completamente sotto shock. Il giorno dopo si sentiva, ja, che era stata la rabbia del Volk a far bruciare le sinagoghe. La rabbia del Volk si era scaricata spontaneamente contro gli ebrei. Ma non era la rabbia del Volk. Furono le SA a fare tutto. Io vidi le SA per le strade, radunavano gli ebrei, tiravano pietre contro le vetrine, devastavano i negozi, abbattevano tutto quello che c'era dentro e lo buttavano in mezzo alla strada. Salivano negli appartamenti, gettavano da basso i mobili, e portavano via gli ebrei. Era orribile. Uno pensava: "Per l'amor di Dio, cosa sta succedendo? Che tipo di governo è quello che abbiamo? È impossibile*. Non si possono fare cose del genere in un paese civile! " Ma poi cosa si doveva fare? Dopo tutto, io ero nella divisione tecnica della Opel AG. Loro producevano solo materiale militare. Avevamo dovuto giurare di non parlare e cose del genere. Costruivano carri armati e cose simili. Era tutta roba "segreta". Naturalmente, ero sotto shock. Ma quando una è molto giovane e non si interessa di politica, allora in un certo modo non si occupava più di tanto di cose del genere. Però pensavo: quello che fanno è inammissibile. Dal mio punto di vista uno poteva dire che la gente, be', doveva abbandonare la Germania. Si poteva prendere qualcosa con sé e il resto bisognava lasciarlo lì, e poi andarsene in America o in Inghilterra, da qualche parte. Ma non in questo modo. Perché quello era assolutamente barbaro. E naturalmente io ero già contraria a tutto quello... Be', tra un sacco di gente il Partito non era affatto popolare, in ogni modo.» Né lo fu la «Kristallnacht», secondo molti resoconti. Ma anche se fu il definitivo catalizzatore che convinse molti esitanti ebrei tedeschi a tentare di lasciare la Germania, potrebbe aver stimolato molti «ariani» a ricavare il massimo dal fatto di restare. Nella primavera del 1939, per esempio, Maria von Husen accettò l'invito a una serata nel palazzo di alcuni conoscenti. Lì conobbe il conte Ortwin von Pfeil und Klein-Ellguth, meglio noto come conte Ortwin Pfeil-Minutoli, per una parentela con l'aristocrazia napoletana. Frau von Husen lo definì «un aristocratico svedese che non prestava alcuna attenzione al Partito». Il conte Ortwin in Germania era anche uffi-

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ciale della riserva e una volta all'anno veniva richiamato per qualche settimana di servizio. Il resto del tempo lo trascorreva nel castello di famiglia nel villaggio slesiano di Friedersdorf. Nel giro di pochi mesi, Maria e Ortwin si fidanzarono. Progettarono di sposarsi in ottobre. L'aristocratico poteva aver messo da parte la politica, ma la politica non aveva messo da parte lui. Il 15 agosto, due settimane prima che la Germania dichiarasse guerra, ricevette un ordine di reclutamento. Maria era dai nonni a Brema, immersa nei preparativi di quello che doveva essere un matrimonio grandioso. «Poi ricevetti un telegramma. "Sono stato richiamato. Per cortesia vieni immediatamente."» Così fece. Il «matrimonio di guerra» fu «solo un matrimonio civile al castello. Poi dovette raggiungere le sue truppe.» Lei insistette perché fosse celebrato anche il matrimonio religioso. «Gli dissi che volevo sposarmi in chiesa e che non potevo aspettare fino a quando quella maledetta guerra non fosse finita.» Si risposarono durante una licenza di tre giorni. Il conte Ortwin combatté in Polonia, Francia e Unione Sovietica. Ma non rimase lontano quanto il resto dei soldati. Siccome la sua proprietà comprendeva foreste e terreni agricoli le cui produzioni erano considerate importanti per lo sforzo bellico e «il nutrimento del Volk», ottenne non solo le licenze militari, ma anche «licenze economiche» di un mese per controllare la proprietà. Quanto alla guerra, «lui era convinto che avremmo vinto. A Brema mio nonno mi disse [ne imitò l'accento]: "Mia cara, io non andrei in Slesia a sposarmi". "Perché no?" dissi io. "La cosa in cui si è ficcato quel tizio [Hitler] ci costerà la testa e la casa. Io non andrei a est." Era il nonno che conosceva il mondo e sapeva cosa si diceva all'estero. Qui non sapevamo niente. Tutta la stampa era censurata. Allo scoppio della guerra, ascoltare una radio straniera era un reato che portava in prigione. Naturalmente lo facevamo lo stesso, di nascosto. Io ho sempre ascoltato la BBC, che si riceveva benissimo». Anche il primario per cui aveva lavorato a Bad Ems la esortò a non andare in Slesia. Disse che la Germania si stava imbarcando in «una catastrofe». «Gli dissi: "Come è possibile? Non facciamo altro che vincere?"» Aggiunse: «Le persone razionali sapevano che non sarebbe mai potuta andare bene. Con gente come i nazisti. Venni interrogata tre volte dalla Gestapo». Frau von Husen riferì questa sconvolgente informazione allo stesso modo con cui comunicava altre notizie sorprendenti. Il suo tono era uniforme, il tempismo quello di un'attrice. Anche se non era affatto incline a gesticolare, la sua evidente agitazione, unita a quel tono di voce, dava in effetti forza teatrale a quanto affermava. Quanto agli interrogatori della Gestapo, il primo caso riguardava la sua amica inglese Jane [è uno pseudonimo], che era sposata a un avvocato di Monaco. «Monaco veniva sempre bombardata, e in più non avevano niente da mangiare», per cui Jane e la figlia passavano le estati al castello. «E Jane ascoltava sempre la BBC e non rimetteva mai la lancetta della radio su una stazione tedesca. Poi la mattina la servitù scendeva da basso e accendevano la radio perché volevano sentire un po' di musica e invece risuonavano i rintocchi del Big Ben e 133

io venni denunciata. Ero in Italia in quel periodo. La mia servitù, alcuni di loro, cioè, la governante, la bambinaia e un'inserviente di cucina andarono dall'Ortsgruppenleiter a dire che nel castello si ascoltavano radio straniere. Io non c'ero nemmeno. Ma dovetti tornare immediatamente. Perché mio marito era rimasto ucciso in battaglia.» Questa era la prima menzione diretta della sua morte. (In seguito mi scrisse che morì in Caucasia nel settembre 1942.) Le chiesi se avesse temuto che potesse capitargli qualcosa, ma lei mi rispose di no. «Per niente. Mai! Mai pensai che potesse capitare qualcosa a mio marito. Sbagliai completamente i miei calcoli.» Dopo aver esitato, disse: «Non riuscivo nemmeno a rendermene conto. Qualche mese dopo ricevetti la valigia di mio marito. Per un anno la tenni in una camera per gli ospiti e non la toccai nemmeno. Non ce la facevo. Dunque,» continuò, girando la pagina dell'album delle foto del castello, «questa è l'entrata, dalla parte della strada.» Quanto all'incidente con la Gestapo, tornando dall'Italia si fermò a Monaco, dove era ritornata Jane. «Mi diede qualcosa di nero in modo da non tornare in Slesia con i vestiti colorati, e presi un treno della notte. Quattordici giorni dopo il mio ritorno, dopo la celebrazione del servizio funebre per mio marito e tutto, ricevetti una telefonata dalla Kreisleitung [un distretto - letteralmente "cerchio" - nazista]. Un certo signor Greisler disse: "Frau Gräfin [signora contessa], Herr Kreisleiter [letteralmente, il signor Capo del cerchio] gradirebbe parlare con lei". Dissi: "Sono le otto del mattino". "Ja, sarà lì fra mezz'ora." Be', io non ero per niente pronta.» Bevve rapidamente una tazza di caffè, si rimise in sesto, e «poi arrivò questo Kreisleiter che era molto gentile, questo devo dirlo. Si scusò un centinaio di volte. Poi era terribilmente dispiaciuto di arrivare in una casa in lutto, ma doveva farlo. Dato che era stato consegnato un rapporto su di me che ascoltavo trasmissioni straniere. «A quel punto gli dissi: "Voglio dirle una cosa. Io non ero nemmeno qui. Ero in Italia. Ecco il mio passaporto, il permesso di viaggio e il permesso di ritorno". "Ja, lei è responsabile di quanto succede nella sua casa." Naturalmente si trattava di Jane. Era chiaro. E dissi: "Posso solo dirle che non sapevo nulla e che non ero qui nel periodo in questione". E lui ribatté: "Voglio dirle una cosa. Intanto, lei è in lutto per suo marito, caduto sul campo di battaglia. E in più le consiglierei di dare questo al suo avvocato. È stato messo sulla mia scrivania e come funzionario del Partito non potevo farlo sparire. Altrimenti l'avrei fatto". Così lo diedi all'avvocato di famiglia e se ne occupò lui. Come abbia fatto, non lo so.» Jane in seguito le procurò altri guai. «Erika [una domestica] venne da me e mi disse: "Contessa, c'è la polizia, però sono in borghese e vengono da Breslavia". "Cosa?" dissi. "In borghese e da Breslavia? Che macchina hanno?" "Una Mercedes nera." Pensai: "Ab. Allora è la Gestapo." Era la Gestapo, infatti. Entrò un uomo basso che indossava mollettiere attorno alle caviglie e aveva un aspetto assolutamente incredibile e si presentò: "Herr Tal dei Tali, polizia segreta. Vorremmo farle alcune domande su questioni che hanno a che fare con lo spionaggio". Dissi: "Ja, prego". L'altro, che aveva una

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macchina da scrivere, riportò ogni parola che dissi, e il primo raccolse la testimonianza. Disse: "Lei ha un'amica inglese". "Non è inglese," precisai. "Cioè lo è, ma è anche tedesca. Ha sposato un tedesco. Ha entrambi i passaporti." "Ja, è sospettata di essere una spia. Cosa sa di lei, cosa può dirci, e sa che suo marito comanda un campo di prigionieri inglesi? " «Io pesai con attenzione le parole e dissi: "Non ho idea di cosa stia dicendo. Lei non mi ha mai detto niente". Non sapevo di lettere trasmesse di nascosto in Inghilterra. Comunque, per farla breve, mi interrogò per un'ora e mezzo. Continuavo a dirmi: o te ne tiri fuori o ti portano via. E se ti portano via, buonanotte. Perché poi loro ti spremono fuori cose che non hai mai fatto, no? Con la costrizione e certi metodi che avevano. Alla fine quello disse: "Devo dirle che la sua testimonianza concorda con quella che hanno raccolto i nostri colleghi di Monaco, e la faccenda è chiusa". Poi se ne andarono. E poi giunse la terribile storia del tentativo di assassinare Hitler il 20 luglio 1944, e io avevo un amico» - indicò col dito la sua foto incorniciata - «che era aiutante nel primo gruppo aereo.» Mi raccontò che l'uomo, un certo colonnello Hans Bader che lei aveva conosciuto in un ospedale militare, dove era ricoverato per un crollo nervoso dovuto alla morte della moglie in un bombardamento, assomigliava moltissimo al conte Claus von Stauffenberg, l'uomo che aveva tentato di assassinare Hitler. In più, entrambi esibivano la stessa decorazione, che si portava al collo. «Allora venne [la Gestapo] e sostenevano che il conte von Stauffenberg era entrato e uscito da casa mia. Dissi: "Siete completamente in errore. Non era il conte Stauffenberg. Era il colonnello Bader che gli assomiglia molto e porta la stessa decorazione".» Aggiunse che se non le credevano potevano chiederlo al superiore del colonnello Bader. Loro se ne andarono. In più doveva lottare contro il suo principale assillo nazista, l'Ortsgruppenleiter del luogo con il quale, disse, «era una battaglia continua». Ma lui aveva trovato pane per i suoi denti. «Un giorno arrivò a dire che avrebbe voluto usare il piano nobile del castello per matrimoni e battesimi ufficiali del Partito.» Su «nobile» arricciò il naso in maniera particolarmente enfatica. «Gli dissi: "Senta, temo di non poterle dire niente. Deve prendere contatto con l'esecutore testamentario, il cugino del mio defunto marito. Il conte Cari-Friedrich von Pfeil und Klein-Ellguth, nella sua proprietà di Wildschùtz".» In quel caso l'ebbe vinta. Ma le loro scaramucce non erano finite. «Quando i russi si avvicinavano sempre più, tutti coloro che erano in accettabili condizioni fisiche venivano inviati in Prussia orientale a scavare fossati anti-carro. Allora l'Ortsgruppenleiter un giorno mi disse: "Contessa, anche lei verrà mandata a scavare fossi". Gli risposi: "Ah. Ma io ho un figlio sotto i sei anni".» (Era la prima menzione della sua esistenza.) «"La legge stabilisce",» continuò, «"che una madre con un figlio sotto i sei anni non può andare a scavare fossi." "Può lasciare il bambino ai contadini." Gli dissi: "Lo vedremo proprio". E tra me pensai: questo è un avvertimento.» Si affrettò a raggiungere un paese vicino dove c'era una clinica dell'aeronautica di cui conosceva il primario e la capo-infermiera. «Dissi: "Cari 135

miei, dovete aiutarmi. Il Partito ce l'ha con me".» Dopo che ebbe spiegato la situazione, loro chiamarono subito i responsabili di un istituto medico dell'aeronautica che era appena stato trasferito in un castello nei dintorni dopo che era stata bombardata la sua sede berlinese. «Mi assunsero immediatamente. E ricevetti un lasciapassare come aiutante della Luftwaffe. Il Partito non poteva più toccarmi.» Il suo lavoro consisteva nella traduzione di libri italiani e inglesi sulla medicina aeronautica e sui disturbi legati all'altitudine. «Naturalmente, lo fecero solo prò forma. Probabilmente non era un compito molto importante, perché quello che avevano bisogno di sapere lo sapevano già.» L'Ortsgruppenleiter era furioso. «Un altro giorno arrivò e disse: "Vengo a requisire il suo cavallo. Servirà ad altri scopi". "Voglio dirle una cosa," gli dissi. "Prima di tutto, il cavallo è molto vecchio. In secondo luogo, mi serve per andare a lavorare."» L'istituto distava circa cinque chilometri. «Mi disse: "Può andarci a piedi". "Senta, non lo farò. Mi rifiuto." Può vedere che razza di gente era. Lui era un contadino del villaggio. E prima del nazismo, era stato in prigione per sodomia. E loro certa gente la facevano Ortsgruppenleiter, tanto per fare un esempio.» Arricciò il naso. «Allora mi disse, parola per parola: "Si farà a piedi una strada del tutto diversa, se arrivano i russi".» Quell'affermazione era disfattista e proditoria. E la «signora contessa» colpì a fondo. Gli dissi: "Ah. Forse non ho capito bene. Devo ripetere quello che mi ha appena detto? O preferisce che tenga la bocca chiusa?" Non venne più a chiedermi il cavallo. Me lo tenni.» Ciò che aveva detto l'Ortsgruppenleiter, comunque, era ciò che Frau von Husen pensava da tempo. «I russi continuavano ad avvicinarsi. Naturalmente si vedeva benissimo che la guerra era perduta. Lo si sapeva di sicuro, dopo Stalingrado. Dopo che cadde, feci venire un trasportatore e avevo enormi casse e cesti, grandi cesti da viaggio come si usavano una volta, e bauli... E i piatti e i libri e l'argenteria e il corredo e tutto quello che apparteneva a me...» Si avventurò nella lista di principi con castello e parentele con gli Stauffenberg a cui scrisse, chiedendo di accogliere presso di loro le sue cose. Suo padre le scrisse che era pazza. Mandare la sua roba all'ovest, dove le stazioni ferroviarie venivano bombardate in continuazione, invece di lasciarle in Slesia dove di bombe non ne cadevano mai? Non era l'unico ad illudersi sulla sicurezza della Slesia. Nel 1943 il governo tedesco designò il suo castello come deposito per i tesori artistici di Berlino. «Dovetti svuotare tutti i saloni, mettere tutte le nostre cose in uno e lasciare gli altri a disposizione del sovrintendente di Berlino. Immagazzinò reperti dalla biblioteca statale, da gallerie, musei e collezioni private e poi fece sigillare tutto. Mi presi la testa fra le mani e pensai: "Ma che governo abbiamo? Mandano i tesori in Slesia? E io la mia roba la mando in Austria e in Baviera". Non ci si poteva credere. Anche la famiglia di mio marito era così ostinata. Avevo detto loro che potevo spedire altra roba. "Nein. Non spedirai niente. Questo è disfattismo e tu hai sempre avuto qualcosa contro la Slesia, fin dal principio. Noi resteremo qui, non si discute." Era così che parlavano.»

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Disse che l'unico modo per riuscire a spedire ciò che spedì fu con la menzogna: assicurò che stava obbedendo al testamento del marito, che aveva voluto lasciare qualcosa ad alcune persone. Non avrebbe potuto dire la verità? «Um Gottes Willen [per l'amor di Dio], sarebbe stato disfattismo. Bastava lasciarsi scappare una sillaba sul fatto che sarebbero arrivati i russi, ed era disfattismo. Saremmo stati fucilati all'istante.» Quando l'esercito russo arrivò a circa quaranta chilometri, Frau von Husen dovette fare i conti con un'altra forza: i profughi che scappavano davanti ai russi. Il suo castello si trovava su una delle strade principali sull'asse est-ovest percorse dai profughi. La destinazione del castello a deposito di opere d'arte significava che non poteva ospitare profughi (niente persone, solo quadri), ma lei aprì ugualmente le porte, mi disse. «Stavo già ospitando soldati tedeschi. Poi fu evacuata Breslavia e arrivò il grande flusso di profughi dall'Alta Slesia. Tutte le strade erano bloccate da carri, gente che spingeva carretti, biciclette, carrozzine, gente a piedi. Era una cosa agghiacciante. E c'erano venticinque gradi sotto zero. Era una follia. C'era gente che si era vista morire tra le braccia i bambini. I vecchi morivano, e venivano deposti nei fossi lungo la strada. Arrivò il ministro e disse: "Per l'amor di Dio, dove la seppelliremo tutta questa gente?" La terra ghiacciata era dura come la pietra. «Avevo buttato paglia dappertutto per i profughi così potevano dormire o sdraiarsi da qualche parte. Poi arrivarono i carri con gente molto a posto, il conte Garnier-Turava e altri. Dovetti metterli nelle camere degli ospiti. Il giorno dopo si lamentarono come dei matti perché dai loro carri era sparito tutto il possibile e l'immaginabile. Ja, non potevo farci niente. Era già iniziato il caos, no? E io impaccavo e impaccavo e impaccavo. Valigie dopo valigie e casse e bauli. E pensavo: magari il mio lasciapassare militare potrà funzionare. Ogni giorno andavo alla stazione. Ma non si poteva salire su nessun treno. C'era gente sul tetto dei vagoni, tra le carrozze, sui respingenti. Poi gli si gelavano le mani e cadevano per terra. Era del tutto impossibile salire su quei treni. Era agghiacciante. Mi dissi: "Non puoi fare una cosa del genere. Non ce la farai mai, e di sicuro non ce la farà Jürgen [suo figlio]". Poi pensai: "Allora cosa vuoi fare? Cosa vuoi fare?" Non potevo fuggire su un carro o sarei stata fucilata. Potevo scappare solo quando dava l'ordine l'Ortsgruppenleiter. E lui aspettava fino all'ultimo momento.» Fondamentalmente era sola. «Tutta la servitù era stata reclutata per la fabbrica di munizioni. Alla fine con me c'era solo Erika. Il maggiordomo era stato richiamato, ed era morto. Tutte le domestiche erano state reclutate in fabbriche militari.» Ma Frau von Husen si era preparata ad affrontare i russi. «Avevo una Waithers, la pistola della polizia, e mi ero esercitata con diligenza al tiro a segno con il nostro guardacaccia. Ero assolutamente decisa a non farmi prendere viva, io e mio figlio. Prima avrei ammazzato lui e poi mi sarei sparata. Era sicuro.» Un ufficiale tedesco in convalescenza, che lei aveva ospitato, venne in suo soccorso. «Mi disse: "Contessa, domani devo andare all'ospedale militare di Görlitz. Io preparerò i cavalli, lei prepari il carro, e faremo in modo 137

che lei e suo figlio ve ne andiate di qui. Prenderemo anche tutto quello che ha imballato e cercheremo di arrivare alla stazione di Görlitz e di usare lì il suo lasciapassare militare". E poi...» fece una pausa per accendersi una sigaretta, «il giorno dopo partimmo.» Il suo equipaggiamento da viaggio includeva pantaloni da cavallerizza, stivali, pelliccia e due pistole. «Görlitz non era troppo lontana, all'incirca quarantacinque chilometri, ma ci volle tutto il giorno per raggiungerla. Le strade principali erano completamente intasate dai carri dei profughi. Non si poteva andare né avanti né indietro. Per cui con i cavalli e il carro facemmo un lungo giro e arrivammo a Görlitz. Prima andammo alla stazione ferroviaria, e grazie al mio lasciapassare militare consegnai tutta la mia roba. Con me tenni solo Jürgen e due zaini e due pellicce e due valigie e qualcosa da mangiare. Mi ero preparata provviste che dovevano bastare per una settimana per tutti e due.» L'ufficiale portò lei e Jürgen a casa di sua zia a Görlitz per la notte. Frau von Husen sperava di partire il giorno dopo per Schweinfurt via Dresda. Ma quella notte, Dresda venne distrutta. «Non potevo andare a Berlino. Non potevo andare a Dresda. E non potevo tornare da dove ero venuta. Perciò pensai che, prima di tutto, dovevo lasciare la casa della zia. In circostanze del genere, non puoi restartene semplicemente seduta, e con un bambino piccolo.» Dato che, come previsto, l'ufficiale era andato all'ospedale, Frau von Husen si valse di un altro aiuto maschile. «Andai al Quattro Stagioni. Era l'hotel dove scendevamo sempre io e mio marito quando andavamo a Görlitz. Nell'hotel c'era una divisione delle Waffen-SS. Mi feci annunciare al generale. Dissi di essere la tal dei tali e di venire da così e così, e che non sapevo più cosa fare. Allora venni affidata a un maggiore e lui mi disse: "In primo luogo, lei e suo figlio dovete avere un posto dove stare. Farò liberare la stanza di uno dei miei uomini. Staranno in due in una stanza". Furono incredibilmente d'aiuto. In quell'epoca, le Waffen-SS non facevano altro che aiutare donne e bambini in fuga.» Quando le chiesi, con falsa ingenuità, come mai si prodigavano tanto per lei, rispose: «Probabilmente per via del mio nome». Arricciò rapidamente il naso. «Se fossi stata Frau Müller o Schulz o Schmidt, probabilmente avrebbero detto: "Buona donna, vada alla stazione e aspetti il prossimo treno". Faceva una certa differenza se uno aveva un nome importante, è ovvio. E poi mi guardarono e così via, no? In ogni caso, mi diedero la stanza. Poi mi fecero girare dappertutto e mi mandarono da un ufficiale di collegamento dell'aeronautica, l'ufficiale Ungewitter.» Il mio guscio di sospensione dell'incredulità si infranse e scoppiai a ridere, come fece anche lei. Ungewitter significa «brutto tempo». «Non dimenticherò mai il suo nome finché campo,» disse. «Comunque, la prima cosa che mi diede fu una saponetta, perché nessuno trovava più sapone in giro, a parte la Wehrmacht che aveva tutto. Poi disse: "Adesso ascolti, contessa. Domani un convoglio della Luftwaffe andrà a Praga". Dissi: "Ja, caro ufficiale, e io cosa ci faccio a Praga?"» L'ufficiale Ungewitter elencò itinerari alternativi che non erano più praticabili, compreso quello che conduceva a un campo profughi. Aveva appena visto dei soldati che caricavano a forza 138

donne e bambini su un treno diretto lì. La convinse che era più logico tentare di tornare in Germania via Praga che «andarsene da qualche altra parte via da quella maledetta Görlitz». Si decise: «Schön. Va bene». Così, nel febbraio del 1945, la contessa Maria-Carla von Pfeil-Minutoli e Jürgen von Pfeil-Minutoli, di anni quattro, salirono sul convoglio della Luftwaffe composto da dodici camion e diretto a Praga. «Il maggiore aveva arredato uno dei camion come un salotto. I giovani ufficiali salirono in cabina. E tutti bevevamo. Non facemmo altro che bere, per tutta la giornata. Quando ero all'hotel [di Görlitz] dove c'erano le SS, nell'ufficio del maggiore, tutti non facevano che bere cognac o whisky o schnapps e fumare sigarette, perché si sapeva che ormai era finita.» Diede un colpo sul coperchio del suo portasigarette. «O ne venivamo fuori vivi, o era finita.» Disse che quando il fumo e l'alcol nel «salotto» del maggiore cominciarono a farla stare male di stomaco, chiese se poteva passare davanti con «i suoi uomini in cabina,» e lui replicò: «Se questo la fa sentire meglio, vada subito». Nel suo racconto, si rivolgevano in maniera formale l'uno all'altra. Il giorno seguente, il gruppo raggiunse l'aeroporto di Praga. Dopo essersi lamentata che quella non poteva certo essere considerata Praga, ottenne un passaggio in città su un camion-cucina dell'esercito, e lungo la strada incontrò un altro servizievole ufficiale, che l'aiutò a trovare una camera in un albergo. I proprietari boemi dell'hotel si rifiutavano di darle lenzuola e asciugamani. «Già ti guardavano come se dicessero: sappiamo che presto sarà tutto finito e allora saremo noi a darvi la caccia.» Lei li comprendeva. «Avevamo occupato la Cecoslovacchia, ne avevamo fatto un protettorato. Gli avevamo fatto davvero un sacco di brutti scherzi. Comunque, questo brav'uomo andò a prendermi le lenzuola e gli asciugami e tutto quello che poteva. Mi procurò perfino del cibo. Passai le giornate a correre da un'organizzazione tedesca all'altra per vedere come potevo fare ad andarmene da Praga. Poi mi dissi: "Qui le cose si metteranno male molto presto, e allora sarà finita. Faranno fuori tutti i tedeschi". I polacchi e i boemi erano molto peggio dei russi, perché il loro odio era di un genere diverso.» I suoi sforzi vennero ricompensati. Grazie al lasciapassare militare riuscì a farsi ammettere su un treno speciale diretto a ovest, riservato al personale militare. «Sul treno c'era un ufficiale dell'aeronautica molto gentile. E tutti si preoccupavano moltissimo di Jürgen, lo prendevano in braccio e gli davano da mangiare. Ebbe delle caramelle e tutto e io non dovevo più preoccuparmi del bambino. Ma eravamo appena arrivati alla stazione di Norimberga, verso mezzanotte, che si scatenò un bombardamento a tappeto della RAF. Prima dovemmo scendere nel rifugio della stazione con i nostri bagagli e tutto. Dopo il bombardamento, andammo in un hotel al di là della strada. Era molto grande e chic. I vetri delle finestre erano tutti kaputt. Il portiere ci fece entrare. E come eravamo, con tutto addosso, ci buttammo sul letto, con il bambino fra di noi, e ci passammo la notte. O qualche ora. Il mattino dopo prendemmo il treno per Fürth. Se non avessi avuto quell'uomo, non sarei stata capace di salirci. Era orrendo quello che

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stava accadendo alla stazione. Masse di persone, tutte che lottavano per prendere un treno diretto a ovest. E c'era tanta di quella confusione dopo il bombardamento. Non può immaginare il numero di profughi e tutto il resto. Era assolutamente orribile.» Dopo che il nuovo ufficiale le disse addio, dovette cambiare un'altra volta treno e finì «in uno scompartimento dove c'erano solo soldati ungheresi che avevano combattuto dalla nostra parte con le uniformi tedesche. Era gente così tremenda. Quello scompartimento puzzava». E fuori piovevano bombe. «Naturalmente, il treno si fermava e dovevamo correre fuori e buttarci dietro il terrapieno. Lo facemmo due o tre volte. E ne avevo abbastanza. Presi Jiirgen, i miei due zaini, le valigie, tutte le mie cose e andai a piedi lungo la strada. Mi dicevo: "Se uno di questi bombardieri mi vede, allora, per favore, mandatemi in paradiso. Tanto ormai fa lo stesso". Be', in circostanze così estreme, non conta più niente. «Così me ne stavo in mezzo alla strada e il primo camion che passò era della SKF di Schweinfurt. Me ne stavo lì in mezzo e l'autista, furibondo, guardò fuori e disse: "Ehi! Guarda questi due! E un bambino! E [Frau von Husen ne imitò il dialetto] "Cara donna, da dove viene?" Dissi: "Vengo dalla Slesia e sono la figlia di Herr von Husen". "Mio Dio!" E lui scese e caricò tutto e ci lasciò sulla porta di casa.» Fu Betty a rispondere al campanello. Lei e tutti gli altri che arrivarono di corsa guardavano Maria come se fosse un fantasma, mi disse. Avevano sentito alla radio che l'esercito russo aveva occupato il suo paese, e credevano che non l'avrebbero mai più rivista. Apparve subito chiaro che nemmeno Schweinfurt poteva essere un posto sicuro. «Era terribile. Un bombardamento dopo l'altro. Si stava sempre in cantina. Si portavano sempre giù le cose come gioielli, documenti, l'essenziale, sempre su e giù, su e giù, e tra un bombardamento e l'altro si correva in città per cercare di comprare qualcosa da mangiare.» Un sabato mattina di aprile andò in una drogheria e sentì «un rumore incredibile, un sibilo, un fischio assurdo. Qualcuno mi afferrò per un braccio e mi disse: "Per l'amor di Dio! venga subito dentro! Questa è artiglieria"». Erano arrivati gli americani. Mi disse che avevano chiesto che Schweinfurt si proclamasse «città aperta», per evitare i bombardieri e l'artiglieria, ma «quell'idiota del Kreisleiter disse "Nein! " e il sindaco disse: "La città verrà difesa! " anche se non era rimasto nulla». Il solo fuoco d'artiglieria, disse, durò cinque giorni. «Stavano tutti in cantina. Di notte gli inglesi, di giorno gli americani, l'artiglieria in mezzo, e la contraerea e l'artiglieria tedesca alle spalle. Alla fine, non andai più nemmeno in cantina. Me ne stavo di sopra. Per me ormai era lo stesso. Mio padre era inorridito e mi rimproverava terribilmente e diceva: "Hai il dovere di restare viva per tuo figlio e devi andare in cantina". Gli rispondevo: "Se su questa casa arriva un colpo diretto, crolla tutto, anche la cantina. Moriamo tutti lo stesso".» Anche se Herr von Husen sapeva che la guerra era perduta (continual i

va a ribadire, disse la figlia, che stava sperimentando per la seconda volta la totale disfatta), non si limitava a nascondersi per evitare i bombardamenti. Doveva spostarsi in treno per raggiungere la città dove era stata trasferita la SKF. Quando i bombardamenti dei treni si fecero più frequenti, si spostava in bicicletta. «Erano più di trenta chilometri! E aveva già più di sessantanni!» Si lamentava perché non riusciva mai a finire il suo lavoro. «Era di ferro. Ferro. Io non ce l'avrei mai fatta.» La guerra finì con un'esplosione di silenzio. «Lo si capiva,» disse. «Jetzt ist Schluss [Adesso è finita].» Forse a causa del rumore continuo del Terzo Reich (prima i discorsi urlati e i raduni, poi bombe e cannonate) Frau von Husen disse che la cosa che ricordava più chiaramente dell'arrivo delle truppe alleate era il silenzio con cui marciavano. «I loro scarponi arrivavano fin qui,» disse indicando col dito la caviglia, «e avevano le stringhe. Erano silenziosi come gatti. I nostri stivali facevano un rumore terribile. I soldati tedeschi rimbombavano. Gli americani avevano suole di gomma. Camminavano così piano che non si sentiva niente.» A Schweinfurt gli americani requisirono una torre nella casa dei von Husen, il punto più alto della città. Nella torre misero una stazione radar. Disse che quando i soldati volevano una casa, di solito dicevano agli abitanti di andarsene entro un giorno, ma i von Husen ebbero il permesso di rimanere. Due «giovanissimi» soldati americani montavano una guardia improvvisata, lavorando e dormendo a turno. «Erano molto gentili e ci capivano benissimo. Io parlavo bene l'inglese e loro ci diedero un sacco di cose per i bambini. Cioccolato e biscotti e così via. Poi, un giorno, uno di loro arrivò con una copia di Stars and Stripes [il giornale militare americano] ed era fuori di sé. Era pallido come un cencio e disse [citò le sue parole in inglese]: "Guardi. Guardi". Ed era... Gli americani avevano scoperto e liberato i campi di concentramento. E avevano visto cosa era successo. Erano fuori di sé per l'orrore, tanto che, be', ormai l'atmosfera si era deteriorata, no? Divennero molto circospetti. Dissero che era una cosa spaventosa e come potevano accadere cose simili e se ne avevamo saputo qualcosa. Noi dicemmo che a quanto ne sapevamo qualcosa si sentiva e si poteva immaginarlo. C'erano delle voci. Ma non si era mai saputo con precisione. Era anche troppo pericoloso. Non si potevano fare domande, perché se uno lo faceva, sarebbe stato fucilato all'istante. E a chi si sarebbe dovuto... Be', io lo sapevo già. Sapevo che questi [posti] esistevano, dove prima avevano praticato l'eutanasia. Poi ci avevano rinunciato, perché la gente cominciava a ribellarsi. Allora costruirono i campi. Si sapeva di Dachau e Oranienburg. E si sapeva che in Polonia c'erano campi dove, be',» - fece una pausa - «eh, c'erano campi di sterminio. Ma come fossero e chi... E che gli ebrei venissero deportati, quello lo si vedeva. Semplicemente andavano a prenderli e li portavano via.» Ma, come emerse in seguito, si stava riferendo a ciò che aveva visto coi suoi occhi durante la «Kristallnacht». I giovani americani non furono soddisfatti della sua risposta. Ricordava la loro rabbia più chiaramente delle parole precise. «Dicevano: "Semplicemente questa è una cosa che non capiamo. Come è possibile che cose del

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genere avvengano in una nazione dove le persone sono esattamente come noi? Come è possibile che certe cose potessero accadere?"» Cosa rispose? «Ja, cosa, cosa dovevo dire? Naturalmente eravamo inorriditi. E dissi che» - si impappinò - «che quelle cose si sentivano in giro e venivano sussurrate rha non se ne era mai fatta l'esperienza diretta perché era troppo pericoloso. Se facevi domande, ti deportavano subito.» Dando a ogni sillaba un colpo al portasigarette, disse: «Non potevi aprire la bocca e dire una parola. O eri perduto». Gli americani non accettavano spiegazioni. «Erano davvero fuori di sé per l'orrore. Perché non capivano. Venivano da» - passò all'inglese - «Dio sa dove, dal Middle West o da qualche posto così.» Tornò al tedesco: «E poi si trovavano di fronte atrocità del genere.» Aggiunse in inglese: «Ovviamente questo mi fece stare malissimo. Ma cosa si poteva dire? Eravamo tedeschi. Ed era successo nella nostra... non nella nostra nazione perché tutti quei campi di sterminio erano in Polonia». Mentre nel soggiorno di Uberlingen si avvicinava la mezzanotte, Frau von Husen sembrava sempre più piena di energia: tirò fuori gli album delle fotografie - questo è il cocchiere con i figli del ministro - e di proposito o no, raccontò una storia straordinaria. Iniziò quando le chiesi cosa pensava il suo primo marito del Terzo Reich. Disse che anche lei avrebbe voluto saperlo, ma non ne parlavano mai perché a lui non interessava. Poi le chiesi se sapesse cosa pensava il marito dei pogrom contro gli ebrei, e lei cercò a vuoto nella sua memoria, finché non trovò un ricordo: lui era a Lublino, in Polonia, e aveva visto le SS che fucilavano un conte polacco e gettavano la moglie in strada. Lui «si sentì male e si preoccupò follemente» al pensiero che la stessa cosa potesse capitare a lei. «E il secondo [marito] vide una fucilazione di ebrei. Era comandante di un aeroporto in Ucraina o dove successe. Dove furono fucilati un incredibile numero di ebrei. Non c'era un campo, ma semplicemente, semplicemente li uccisero tutti. E lui scattò delle fotografie. Poi andò al quartier generale e si lamentò di quel disgustoso comportamento. Che era una situazione impossibile. Che era inaudito che i suoi soldati vedessero cose simili. E tutto quello che stava accadendo. Comunque, fu portato davanti a un tribunale militare. L'unica ragione per cui lo lasciarono andare, devo avere i documenti da qualche parte, era che lui era sempre stato un ufficiale irreprensibile e tutti i suoi soldati contavano su di lui.» Cosa era successo alle fotografie? «Le bruciai.» La ragione sembrava avere a che fare con il panico. Disse che si era imbattuta in quelle fotografie mentre ripuliva la scrivania del marito dopo la sua morte, ma lui gliele aveva mostrate prima. L'uomo, Karl Hiibschle, nella vita civile era professore. Si sposarono dopo la guerra, e nel 1950 morì per un attacco cardiaco. Fu causato, mi disse Frau von Husen, da una malattia che contrasse in un campo di prigionia in Francia nel quale, mi

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disse, due terzi dei prigionieri morirono di fame o di tifo. (I campi di prigionia francesi avevano la reputazione di essere luoghi infernali.) Quando morì, «ci fu un tremendo clamore» riguardo ai quattro figli di un matrimonio precedente. Lui non aveva lasciato un testamento. «Se qualcuno avesse trovato quelle fotografie da me, o... o... o... se fossi morta e avessi quelle foto da qualche parte, qualcuno avrebbe potuto pensare che avessi qualcosa a che fare con cose del genere.» Dunque nessun altro può più vedere ciò che lei vide, e ancora vede. «Era orribile. Dovevano togliersi tutti i vestiti e stare in piedi accanto alle fosse, che loro stessi avevano dovuto scavare. E poi, dopo un colpo alla nuca, venivano gettati dentro. E quando si completava uno strato, ne arrivava un altro. E poi se vedevano che qualcuno si muoveva, sparavano. Ja, non sono cose che un normale essere umano possa imparare ad accettare.» Aggiunse: «Di queste SS, giovanissime, molti impazzirono [durchgedreht]. Molti impazzirono. Non potevano resistere».2 Quando le chiesi se il marito aveva mostrato quelle foto ad altre persone, rispose di no. «Per lui la cosa era chiusa.» Tornò a indicare col dito le foto che aveva conservato: un'altra amica che aveva passato l'estate al castello. Cercando di ricondurla all'argomento, le dissi che doveva essere stato terribile per lui vedere ciò che aveva visto. «Ja! Protestò vigorosamente per quelle azioni indegne e che non si poteva pretendere che i suoi soldati fossero costretti ad assistere a scene del genere e che dovevano essere mandati da qualche altra parte e così via. Questa è Constanze quando era molto giovane e...» Non si può sapere se i sentimenti del marito o i suoi provenissero da un altro strato costruito per proteggersi, ma lei aveva citato per due volte le parole del marito, da cui risultava che era rimasto sconvolto non da ciò che aveva visto, ma dagli effetti che quelle azioni avevano avuto sui suoi uomini. Forse era tutto quello che lui poteva riferire al giudice. Le reazioni personali che Frau von Husen ebbe dopo la guerra riguardo all'Olocausto non rientravano in una categoria precisa. Non era mai andata a vedere un campo di concentramento, anche se Dachau è relativamente vicino. «Perché avrei dovuto andare a vedere? Per quale ragione?» Eppure si era comprata un televisore proprio per vedere la serie «Olocausto»,' anche se la televisione non le piace «perché mi rende nervosa». Fece arrivare anche il materiale integrativo fornito dal governo tedesco per accompagnare la serie. Disse che l'effetto complessivo fu «profondamente commovente [erschütternd], certo». «Voglio dirle una cosa,» aggiunse poco dopo. «Qualcosa si sentiva sempre. Dalle radio straniere o da voci che provenivano da persone vicine ai circoli della resistenza tedesca che in qualche modo erano informate. Si sentiva che c'era lo sterminio. C'erano installazioni per l'eutanasia. Per persone che erano "indegne".» Ma chiese: «Cosa si poteva fare? Che prove si potevano fornire? » Le domandai se avesse mai considerato, magari come fantasia, di entrare in un gruppo della resistenza. Disse che la resistenza era nelle mani di «gruppi addestrati a farla» e composti solo da uomini. 143

Quasi come surrogato, ripetè con gusto vecchi soprannomi e vecchi slogan antinazisti. Joseph Goebbels, che lei definiva «un mezzo diavolo», era noto come «"der nachgedunkelte Schrumpfgermane" [il teutone scurito e rattrappito]. Consideri l'espressione! La gente era impertinente. Spesso era anche spudorata. Nella Odeonsplatz di Monaco, di fronte alla sala dei martiri del nazionalsocialismo, scrissero: "Besser ein König von Gottes Gnaden als ein verkrachter Maler als Berchtesgaden"». [La traduzione, in cui si perde la rima, suona: «Meglio un re per grazia di Dio che un pittore fallito di Berchtesgaden».] Frau von Husen era di sicuro ben consapevole di come i nazisti potevano mettere le mani su una famiglia che non rispondesse agli ideali nazisti. Il fratello di sua madre, che negli anni Trenta lavorava per una compagnia di navigazione tedesca in Spagna, «tornò con una grave depressione. Una volta tentò di suicidarsi. Il tentativo dovette essere segnalato al ministero della sanità. E lui fu costretto alla sterilizzazione. Costretto alla sterilizzazione! Lo shock lo segnò per il resto della vita.4 Era un uomo molto attraente. E allora ti dicevano: c'è qualcosa che non va nella tua famiglia. Bisognava risalire per trovare l'origine, perché le famiglie con malattie ereditarie venivano diseredate. Era quella la legge [di successione nazista]». Disse che anche il suo albero genealogico venne controllato per via della storia di sua madre, ma fu stabilito che il problema di sua madre non era ereditario. «Deve essere stato un mutamento sopravvenuto con il matrimonio e i figli. Molte donne giungono a quella condizione.» Frau von Husen aveva scoperto dei fantasmi anche nella famiglia del conte Ortwin. Apprese che il padre di lui non era rimasto ucciso in un incidente di caccia, ma si era sparato, così come aveva fatto una cugina. Cominciò a osservare con attenzione il suo «strano» cognato. Era linguista e uomo d'affari, venne arruolato, e fu inviato nella Norvegia settentrionale, dove, a causa del buio, contrasse la «follia polare». «Cominciò ad avere di questi attacchi e a urlare contro il Führer, contro il Reich, contro la maledetta guerra e contro tutto. Lo mandarono subito in un'istituzione psichiatrica militare.» Il poveretto venne degradato, inviato a combattere, preso prigioniero dai francesi e infine rilasciato. Dal punto di vista psicologico non si riebbe più. Se i nazisti fossero venuti a conoscenza dei problemi mentali della famiglia del conte, la cui diagnosi secondo lei era schizofrenia, di sicuro li avrebbero spogliati dei loro possessi. Se lei li avesse conosciuti in anticipo, era sicura che non sarebbe diventata, come aveva scritto su una sua incantevole foto giovanile, Maria-Carla contessa Pfeil-Minutoli. Chiesi a Frau von Husen che giudizio dava di se stessa. «Vuole dire in relazione alla questione degli ebrei?» Sì. «Be', all'inizio lo giudicai impossibile, no? Dopo uno veniva a sapere che le persone venivano deportate e non tornavano mai indietro da quei campi.» Stava divagando apposta? O semplicemente il filo dei suoi pensie144

ri l'aveva condotta fuori strada? «Si aveva la sensazione,» stava dicendo, «che la vendetta avrebbe seguito le stesse impronte, no? Dopo tutto, perdemmo la guerra e ne pagammo il fio. E quanto! Perdemmo un terzo del nostro territorio, avevamo tutti i profughi, così tanti morti, le città bombardate.» Disse che uno dei migliori amici di suo padre era un avvocato municipale ebreo che dopo la guerra testimoniò che lei non era stata nazista. Disse che i suoi genitori «non avevano niente contro gli ebrei». Continuò: «Berlino era governata dagli ebrei prima dell'avvento del nazismo». Intendeva che gli ebrei avrebbero dovuto essere più «riservati» [zurùckgehaltend] ? «Non lo erano. Loro non sono riservati. Si impadroniscono di ogni cosa. Prima di tutto, avevano in mano le grandi banche, poi tutte le istituzioni della finanza. Molti di quelli che prestavano soldi erano ebrei. Poi c'erano moltissimi commercianti di bestiame, e loro davvero tosavano i contadini. Dunque, non erano sempre, eh...» Di nuovo si impappinò prima di trovare la parola. «Avevano le loro idiosincrasie.» Un altro balbettio condusse alla frase seguente. «E solo un popolo straniero [ein fremdes Volk] che vive in mezzo a un altro popolo. Ma non appartengono mai completamente all'altro popolo. Sono sempre qualcosa di straniero. Perché anche se non credono più al loro Geova e alla loro religione e trascurano i loro riti ebraici, sono dal punto di vista razziale uniti insieme. Il loro sangue ebraico trova sempre il modo di farsi sentire. Sempre. Anche se ci vogliono due generazioni, o tre. E esattamente la stessa cosa se una sposasse un negro.» Parlò di una donna tedesca che restò incinta da un americano che sembrava bianco ed ebbe un bambino nero: solo allora scoprì che suo marito era in parte nero. «E lo stesso con gli ebrei. Se una sola volta nella tua famiglia è entrato sangue ebreo,» disse, picchiettando sul coperchio del portasigarette a ogni sillaba, «si farà sempre sentire. La razza si mantiene per tutte le generazioni. E semplicemente un'altra razza. E una razza mediterranea.» Dovevo farle una domanda classica. Se un bambino ebreo cresce in una famiglia cattolica, le chiesi, come si comporterà? «Hanno certe idiosincrasie. Anche se sono educati in un modo diverso. E un tratto del carattere, un modo di essere. Loro sono semplicemente diversi. Sono diversi da noi.» Fece una pausa. «Pensano diversamente e hanno sentimenti diversi e sono diversi. Magari dipende dai loro duemila anni di storia [sic], quando vennero cacciati da Gerusalemme e si dispersero ai quattro venti. Hanno sempre vissuto più o meno come ospiti di altri popoli. Non hanno mai avuto una loro patria. E tuttavia sono rimasti insieme, no? Non sono stati assimilati.» (In una lettera molto più tarda si riferì a un libro sul conflitto arabo-israeliano, e aggiunse in inglese: «Si prova compassione per loro, sembra che non riescano a trovare una vera casa in questo mondo».) In concreto, come poteva comportarsi l'orfano ebreo da adulto? «Comparirebbe un certo grado di scissione, no? Un essere diviso. E sempre così. Per esempio, se una donna dell'Europa del nord sposasse uno

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spagnolo o un italiano. I figli sono sempre divisi. Sono razze completamente opposte. In altre parole, ci sono due anime in un petto.» Non accade lo stesso a ogni bambino? «No. Dipende dai genitori, da dove vengono.» Passò agli zingari, «perseguitati proprio come gli ebrei. Il sangue zingaro è sangue zingaro». E il «sangue ebreo» resta sangue ebreo. Chiesi a Frau von Husen come pensava che si potesse evitare l'antisemitismo. Rispose abbassando la voce in maniera inconsueta. «Sì, l'antisemitismo. Be'. Non esiste quasi più in Germania.» Era il 1985. Allora, non si poteva trovare nessun indizio di antisemitismo, o del Terzo Reich, a Uberlingen. Ma ciò che si poteva vedere era in parte il risultato degli sforzi di una cittadina impegnata, Maria von Husen. Disse, durante la mia visita, che corrispondeva con un professore del Yad Vashem Holocaust Memorial Institute di Gerusalemme. Le invia ritagli di giornali tedeschi «su avvenimenti che riguardano gli ebrei». Gli scrisse anche della relazione sbocciata a Uberlingen tra un sopravvissuto ebreo e la vedova antisemita dell'ex capo nazista del paese. (La vedova accusò Frau von Husen di essere una spia al servizio di Israele.) Come mai Frau von Husen aveva preso contatto col Yad Vashem? Perché aveva saputo che c'era un campo di concentramento a Uberlingen. Il sindaco non voleva assolutamente saperne di costruire un memoriale. Lei, insieme ad altre persone, era «furibonda» [stinkwütend] nei confronti del suo atteggiamento. Scrisse al Yad Vashem per avere notizie del campo, apprese che la maggior parte delle vittime erano prigionieri italiani, e andò con un gruppo del posto nella foresta attorno a Uberlingen per trovare i resti del campo, e in seguito aiutò a organizzare un servizio funebre sul posto e l'erezione di un cippo in memoria. Perché non scordarsi tutto, come voleva il sindaco? «Perché mi sembrava un'ingiustizia! Quella gente lavorò qui, soffrì qui, morì qui, morì di fame e privazioni e maltrattamenti, e poi non si dovrebbe...» Si interruppe. «Tutti gli altri campi di concentramento hanno un memoriale. Perché non doveva esserci a Uberlingen? Perché volevano nascondere [vertuscheln] che qui ce n'era uno? Era questo che mi faceva rabbia.» Nell'autunno del 1992 era di nuovo furiosa. Tra gli atti di violenza razzista che ferivano la maggioranza dei tedeschi, le minoranze che vi vivevano, e la reputazione della nazione, ce ne fu uno a Uberlingen. Il 23 ottobre alcuni «vandali», come li definì il New York Times, sfregiarono il memoriale con delle svastiche. Cinquanta lapidi del vicino cimitero furono rovinate. Frau von Husen era una dei molti tedeschi contrariati dal gran numero di immigranti che erano giunti in Germania dopo la riunificazione. Ma, almeno per lei, la successiva ondata di violenza contro di loro, e contro i luoghi legati alla memoria dell'Olocausto, esigeva una condanna a parte. In una lettera definì (in inglese) l'assalto di Uberlingen «una scandalosa devastazione». Più oltre continuava (in tedesco): «Qui le cose stanno andando 146

sempre peggio. Non passa giorno in cui non venga assaltata una casa di "Asylanten" o profanato un cimitero ebraico o distrutto il memoriale di un campo di concentramento. Sdno i neonazisti, e 0 governo non fa assolutamente niente contro di loro, a parte le chiacchiere». Il fatto che Frau von Husen, sia durante il Terzo Reich sia nella successiva reazione a esso, condannasse vari governi tedeschi e si prodigasse per erigere un memoriale che condannava l'epoca più infame della storia tedesca, è appropriato. Dentro di sé, non si considerava veramente tedesca. «Non fui mai molto nazionalista. Mail E ho sempre pensato più come un'europea che come una tedesca. Perché la Francia mi è sempre interessata altrettanto e così l'Italia e l'Inghilterra. Ho sempre pensato che in ogni popolo ci sono lati deboli e lati forti. In ogni popolo c'è un prò e un contro. Mia suocera mi rimproverava sempre: "Hai viaggiato troppo. Hai visto troppi altri popoli". Mi sono sempre sentita cosmopolita. Non so perché.»

NOTE 'Per un'inoppugnabile dimostrazione della conoscenza da parte del Vaticano del programma di eutanasia nazista, si veda Gitta Sereny, Into That Darkness, New York, Vintage, 1983, pp. 60-76; trad, it. di Alfonso Bianchi, In quelle tenebre, Milano, Adelphi, 1975,1994. 2Nelle memorie di Helmuth von Moltke, Letters to Freya (si veda più avanti l'intervista a Freya von Moltke), si fa menzione di un'istituzione psichiatrica aperta durante la guerra, riservata a SS con turbe psichiche. 3 Lo sceneggiato televisivo americano, in cui nel dramma familiare si inseriscono spezzoni di repertorio, fu trasmesso in Germania in quattro sere consecutive nel 1979, suscitando un immenso interesse. Ringrazio Kathryn Kerns della Hoover Library. 4Per altre notizie sull'uso generalizzato della sterilizzazione obbligatoria (che divenne legge nel primo anno del dominio di Hitler), si veda il saggio di Gisela Bock in When Biology Became Destiny, a cura di Renate Bridenthal, Atina Grossmann e Marion Kaplan, New York, Monthly Review Press, New Feminist Library, 1984, pp. 271-296.

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SOLIDARIETÀ E SOPRAVVIVENZA (Frau Charlotte [Lotte] Müller)

«Quando le ragazze andarono alla fucilazione, chiesi a Maria la polacca, che era fra loro: "Dove sarai questa sera?" Tutte avevano i pacchi con le proprie cose. "Guarda in cielo l'Orsa Maggiore stasera. Io sarò là." "Come?" Rimasi lì immobile, proprio accanto al cancello dove le avevo parlato.» Maria e altre sette giovani prigioniere polacche del campo di concentramento di Ravensbrück avevano ricevuto l'ordine di presentarsi all'ufficio dell'amministrazione del campo quella sera. Era stato loro detto di portare anche le proprie cose. Poco più tardi Frau Lotte Müller e le sue compagne di prigionia seppero della sorte delle otto ragazze guardando dentro l'ufficio, non fra le stelle. «C'erano otto pacchi sul tavolo. Capimmo cos'era accaduto. Le avevano fucilate tutte.» Ravensbrück era il campo di concentramento nazista destinato in particolare alle donne. Lotte Müller vi entrò quando aveva quarantuno anni. Era accusata di «preparazione di alto tradimento», e i suoi documenti portavano la dicitura Rückkehr unerwünscht [ritorno indesiderato], un'espressione che equivaleva in pratica a una condanna a morte. A Ravensbrück la morte poteva sopraggiungere in molti modi. Si moriva non solo fucilati, ma anche di fame, o di freddo, o per malattia, soprattutto tubercolosi e tifo, o per le conseguenze di esperimenti medici raccapriccianti, o tentando di fuggire. Si stima che cinquantamila donne - cattoliche, ebree, protestanti, zingare, suore, comuniste, donne provenienti da ventitré paesi differenti - perirono nell'inferno di Ravensbrück, a un'ottantina di chilometri a nord di Berlino. Vi morivano anche dei neonati. Partoriti da donne arrivate da poco, da poco incinte, i piccoli di solito sopravvivevano per un periodo breve, e soccombevano spesso per «cause naturali» come il gelo e la fame, dato che le loro madri erano troppo intirizzite e malnutrite per poter offrire calore e latte. Altre detenute finivano di morire lontano da Ravensbrück. Fra i ricordi di Frau Müller c'era quello di un vagone carico di donne ormai ridotte a farneticanti scheletri impazziti, mandate a un altro campo per essere finite col gas. Anche dei bambini - orfani adottati da «madri» detenute che donavano loro cure e affetto - venivano portati altrove per essere gassati. Altre donne ancora, ricordava Frau Müller, erano deboli e malate al punto che giacevano quasi immobili sulla paglia, incrostate dei loro escrementi. La paglia veniva rimossa e cambiata come si fa con gli animali. Molte donne cominciavano la prigionia in condizioni fisiche e psicologiche relativamente buone. Poi dovevano far fronte, fra le altre privazioni, non solo a razioni sempre più scarse, ma talvolta, a causa del sovraffollamento, 148

perfino alla mancanza di una posata o di un piatto per mangiare il poco cibo che c'era. Il campo era destinato ad accogliere seimila detenute. A un certo punto ne ospitò almeno trentaseimila. La maggior parte delle prigioniere non aveva abiti pesanti, né una coperta calda, e a volte, sempre a causa del sovraffollamento, nessuna coperta del tutto. (I magazzini del campo erano stipati di quantità di merci rubate, ma esse erano destinate alle guardie, non ai detenuti.) Oltre a ciò, coloro che erano in grado di lavorare dovevano fare dei lavori molto, molto duri. Al chiuso, piedi nudi e sanguinanti pigiavano i pedali dei telai. All'aperto, ogni tipo di lavoro che spaccasse la schiena era la norma, qualunque tempo facesse. Poi c'erano i comandanti e le guardie delle SS, uomini e donne. Maltrattando le detenute, diceva Frau Müller, erano «meglio rispettati» dai loro pari. Con un tale stimolo pareva che ognuno cercasse di superare gli altri ordinando o eseguendo in base ai propri capricci atroci barbarie e atti quotidiani di crudeltà. Lotte Müller passò 1.095 giorni e notti a Ravensbriick. Se sopravvisse fu soprattutto per un motivo: le SS che amministravano il campo giudicavano la sua professione preziosa quanto bastava per desiderare che ella restasse in vita, sia pure a stento. Lotte Müller faceva l'idraulico. Era, infatti, a capo di una «squadra idraulica» formata da cinque donne. (In realtà solo tre di loro lavoravano, mentre le altre due erano così deboli e malate che Frau Müller le aveva introdotte di nascosto nel gruppo per salvar loro la vita.) La sua posizione non le evitava di essere picchiata e di subire altre punizioni. Ma le dava maggiore libertà di movimento rispetto ad altre prigioniere, consentendole di osservare molte più cose. Ciò che vide fare dai sorveglianti valeva quanto un'intera vita di nefandezze; ciò che vide fare da molte sue compagne di prigionia - sicuramente non da tutte valeva quanto un'intera vita di generosità. Se i suoi occhi erano ben aperti, le sue idee erano state fissate una volta per tutte molto tempo prima, a Berlino, la sua città natale. Il tribunale nazista che la mandò a Ravensbrück stabilì che fosse posta in «custodia protettiva», un'espressione cinica tanto allora quanto ora. Bisognava che fosse «rieducata», un termine più ridicolo che cinico. «Na, come potevano rieducarmi? Mi piacerebbe saperlo.» La rieducazione nazista non funzionò con Lotte Müller. Non avrebbe mai potuto funzionare. Lotte si era formata le proprie convinzioni quando era ancora una scolara. Tutto indica che non se ne scostò mai, nemmeno di un briciolo. Il suo maestro, la prima persona a cui diede ascolto, fu suo padre. Era un idraulico, faceva parte del sindacato dei metalmeccanici (il termine tedesco per idraulico, klempner, significa anche «lattoniere») ed era membro del Partito socialdemocratico. Herr Müller aveva ereditato le sue convinzioni politiche dal padre, anch'egli attivo nel movimento socialdemocratico. Nei primi anni di questo secolo i Müller - Lotte, suo padre, sua madre e sua sorella - erano una famiglia operaia berlinese che conduceva una vita 149

in sintonia con le proprie idee politiche. Abitavano in un appartamento per operai costruito dai socialdemocratici, facevano la spesa in una cooperativa socialdemocratica e mandavano le bambine in un asilo socialdemocratico. «Ovunque vi fossero socialdemocratici, mio padre era là,» aggiunse Frau Müller, sottolineando l'ultima parola con una nota da baritono. Parlava con una voce resa cavernosa dal fumo, e con un deciso accento berlinese (le G dure erano pronunciate come I cosicché Gott diventava Ioti), utilizzando una gran quantità di termini gergali, spesso crudi, e una grammatica modesta. Lotte Müller non era raffinata. (Dubito che qualcuno l'abbia mai chiamata Charlotte, pronunciando per esteso il suo nome di battesimo.) «Naturalmente mio padre sentì parlare di politica da mio nonno. Ed è ovvio che un operaio specializzato [Handwerker] non si iscrive al partito dove ci sono i padroni, ma sta con i lavoratori. E così mio padre era nel Partito socialdemocratico e nel sindacato, ed era un dirigente. Poi, a causa della sua attività politica, non ottenne più alcun impiego. Già allora, intorno al 1900, era sulla lista nera. Così divenne un lavoratore autonomo. «Aveva ascendente su di me. E io ero interessata al suo mestiere, anche da bambina. Dopo la scuola andavo nella sua officina. Prima dovevo fare i compiti e lui li controllava oppure chiacchierava con me. Poi mi parlava della natura mentre io dovevo reggere i lunghi tubi che saldava, o fare altre cose del genere. Ne discuteva con me, in un modo ancora adatto ai bambini. Ricordo per filo e per segno le massime che mi insegnava, e potrei ripeterle. Ed è lì con lui che ho imparato a odiare la polizia e a stare dalla parte dei lavoratori. «Andavo ancora a scuola e nei temi esprimevo queste idee, così l'insegnante scriveva sotto: "Dove hai letto queste cose?" "Ja, mio padre me le dice", e così e cosà. "Non lo trovo affatto giusto." Dovevo scrivere: "Mein Vaterland, mein Vaterland". Ja, se la nostra patria fosse stata per i poveri sarebbe stata una buona patria. Ma non lo era. Per i lavoratori non esisteva una patria del genere. Nella Prima Guerra Mondiale andarono tutti a combattere la guerra per i capitalisti. E questo che scrivevo nei miei temi.» Mi raccontò che un insegnante la prese da parte e le confidò di condividere le sue idee. Un altro la picchiò. «Ma mi difesi anch'io,» aggiunse. «Papà mi disse: "A scuola ti danno qualcosa da mangiare, perciò devi andarci. Io pure devo difendermi, ma contro i capitalisti". «Una volta mi portò dai capitalisti. Era stato invitato ad andare, una domenica sul presto, nella bellissima casa di un direttore d'azienda, e mi portò con lui. Naturalmente non potevo accompagnarlo di sopra; dovetti aspettarlo giù.» Lotte aveva più o meno dieci anni, la stessa età della figlia del direttore («das schicke Mädchen», la chiamò), che scese a giocare con lei finché non arrivò una governante che agguantò l'altra ragazzina e la condusse via. «Indossavo dei vestiti puliti,» disse Frau Müller ancora offesa, «ma forse i suoi erano più puliti o più graziosi. Può essere.» Fu una lezione efficace sulle differenze di classe. «Già allora iniziavi a rifletterci, nicht?» Lotte aveva solo sedici anni quando suo padre morì. Ma a quell'epoca Herr Müller le aveva insegnato sulla politica quanto bastava per farle 150

rischiare la vita, e sul mestiere di idraulico quanto bastava per salvargliela. Dopo la morte di suo padre Lotte continuò l'apprendistato da idraulico frequentando una scuola professionale, nonostante lo scherno dei ragazzi del vicinato e i desideri più convenzionali di sua madre. «Lei diceva che sarei dovuta diventare una "schicke Madame". Ma non fu mai accontentata.» Frau Müller rise e rischiò di soffocarsi. «Rimasi semplicemente quella che ero.» Quale che fosse il suo modo di essere, anche lei aveva bisogno di guadagnare dei soldi. Durante l'altalena finanziaria degli anni Venti Frau Müller, oltre a cercare di ottenere tutti i lavori da idraulico che poteva, imparò a suonare il violino e insegnò nelle prime classi di un conservatorio. «Nei periodi di bisogno era un'attività che mi permetteva di guadagnare un bel po' di soldi in più.» Una volta che era senza lavoro lesse su un cartello la pubblicità di un esame per istruttori di nuoto per bambini. Fece l'esame, lo passò, e nel 1928 trovò lavoro come «Schwimmeisterin» in una piscina pubblica. Lì entrò in contatto con una classe sociale che stava un gradino sopra a quella dei «lavoratori»: la classe degli «impiegati». Lotte estese a loro la sua approvazione. «Sono pur sempre dei lavoratori,» disse. «Non stanno meglio degli operai e vengono sfruttati tanto quanto loro, nicht? Questo è chiaro.» Quello stesso anno, Lotte Müller si iscrisse al Partito comunista. Se il suo entusiasmo di allora per il Partito era anche solo una frazione di quello che avrebbe avuto tanti anni più tardi, c'è da credere che Lotte suscitasse un'impressione notevole. Dalla fine della guerra, e probabilmente fino alla sua morte, abitò a Berlino Est. (Negli anni successivi al nostro incontro tentai senza successo di contattarla: può darsi che non abbia vissuto abbastanza per vedere il suo sogno rinnegato.) In un appartamento in cima a un vecchio edificio, dentro un piccolo soggiorno accogliente, invaso dal rumore del traffico stradale e di un parco-giochi, Lotte Müller regnava, circondata dal rispetto che si addice a una vecchia combattente qual era. I capelli bianchi e crespi divisi al centro e raccolti indietro con un filo colorato, gli occhi resi simili a lampadine da un paio di lenti spesse, Frau Müller, in successione, si fece beffe di un referto del dottore sul suo cancro, ridusse in poltiglia la piccola porzione completata di una coperta fatta a mano che teneva in grembo, gesticolò per ore con una sigaretta spenta in mano, rimbrottò la donna che la aiutava, respinse (o ignorò) quasi tutti i tentativi di interrompere i suoi racconti spesso incredibilmente tortuosi e rimase appassionata e salda nella sua ammirazione per il comunismo. Ogni volta che se ne faceva cenno, infatti, Frau Müller prorompeva in un canto operaio o nella declamazione di qualche verso. D'altra parte mostrava un odio altrettanto appassionato per l'antitesi del comunismo. «Io non vorrei vivete in un paese capitalista, perché allora dovrei di nuovo tollerare il sistema capitalista.» Ma nel suo libro nero il nazismo occupava un posto altrettanto importante. L'avvento dei nazisti al potere cambiò immediatamente la sua vita con 151

la messa fuori legge dei sindacati dei lavoratori, dei partiti d'opposizione, soprattutto quello comunista e quello socialdemocratico, e delle organizzazioni collegate, in cui Lotte Miiller aveva passato molti anni. «Furono tutte sciolte, e nessuno fece più domande.» L'intrusione dei nazisti nella sua vita riguardò anche la piscina in cui ancora lavorava. Lotte aveva, allora, trentatré anni. Il suo capo l'aveva assegnata al registratore di cassa e al reparto contabilità. «Poteva mettermi a lavorare ovunque e non voleva perdermi. In seguito avrei dovuto lavorare nell'ufficio amministrativo.» Ma la responsabilità globale della gestione della piscina fu affidata a una SS. «A volte erano proprio dei porci idioti [Machmal ganz dumme Schweine waren das]. Avevano la testa più dura del legno. Entrai e dissi: "Buon giorno a voi". Non dissi "Heil Hitler!". Tutto qui! Per questo fui licenziata. A causa del comunismo... be', loro definivano comunista qualsiasi cosa.» Ma perfino nel suo ambiente era possibile trovare dei fautori di Hitler. «Ja. Ne conobbi qualcuno. Lo facevano perché avevano paura e volevano lavorare, perché c'era una grande disoccupazione. Molti fra noi lavoratori cedettero. Succedeva.» Lei stessa vide Hitler, mi disse. Stava andando a far visita a sua madre. «Davanti al palazzo si vede uno scorcio del Wilhelmsplatz, ed era piena di donne.» («Weiber» disse Frau Miiller, usando un termine comune, ma che può anche assumere un significato spregiativo.) Abbassò ancora di più il tono della sua voce rauca e strozzata dal fumo per scimmiottare le donne che strillavano: «Vogliamo vedere il nostro Führer. Vogliamo vedere il nostro Führer». «Scesi [dal tram] e diedi un'occhiata a tutto quel traffico di donne. Erano innamorate pazze di Hitler. E la stessa mentalità che c'è nel calcio: l'intero stadio impazzisce. Ed eccole lì queste stupide donne tedesche. Se fossero zitelle, questo non lo so. Un eccesso di donne c'è sempre. E se ne stavano laggiù. "Vogliamo vedere il nostro Führer." Un ruggito, le dico, come a una partita di calcio. Comunque facevano un gran baccano. Questa era la mentalità di allora.» Secondo Frau Müller quella folla era composta da donne della classe media [Bürgerlichen] e non «da vere lavoratrici. Perché non riesco a figurarmi un'operaia della Siemens che dopo aver lavorato tutto il giorno, otto ore e più, prende posto sul Wilhelmsplatz e dice: "Vogliamo vedere il nostro Führer"». Poi Lotte proseguì per la sua strada, tanto poco impressionata quanto lo fu in seguito. Nella rievocazione dell'episodio non fece nemmeno un'allusione all'aspetto di Hitler. «Hitler disse che avrebbe tenuto il potere per mille anni. E le scimmie ci credevano. Ma non ce n'erano molte,» aggiunse. «Vuole che le dica come faccio a sapere esattamente quel che succedeva con il Führer? Mio cognato è un esperto maestro d'equitazione, e anche suo fratello lo era, e loro padre lavorava per lo zar, si occupava dei suoi cavalli. Per molto tempo vissero in Russia. Poi il fratello di mio cognato si prese cura dei cavalli di 152

Hindenburg [del presidente Paul Von Hindenburg], Bene. Ora Hindenburg se ne va e in quella casa con i cavalli arriva Hitler, che non sopportava i cavalli.» Frau Müller fece una pausa a effetto. «E nella casa tutti conoscevano Hitler personalmente.» Secondo loro, disse, «Hitler non era completamente normale. Quando c'era un litigio, si gettava per terra - mio cognato lo vide - e mordeva il tappeto». Dopo essersi gustata questa notazione, Frau Müller aggiunse: «Non beveva schnaps, solo acqua di seltz. Ma quando qualcosa andava storto, montava su tutte le furie. Ed era ciò di cui avevano bisogno i capitalisti, per mettere i lavoratori kaputt...» Nell'autunno del 1933, molti mesi dopo aver perso il suo lavoro alla piscina, Lotte Müller ottenne un nuovo impiego: cominciò a lavorare clandestinamente per il Partito comunista. «Quando fai dell'attività clandestina devi avere una certa aura,» disse. «Primo, bisogna odiare i capitalisti. Si deve sapere da quale parte si sta. Secondo, bisogna sentirsi a proprio agio dentro quest'odio. E fare quello che si deve fare. Mostrare il più amichevole dei sorrisi, e comportarsi in tutt'altro modo.» All'inizio svolse l'attività in Germania, ma presto dovette andarsene. «Il Partito mi disse: "Devi espatriare. A Colonia qualcuno ha cantato e ha fatto il tuo nome". Già lo sapevamo. Il Partito era ben organizzato. Passai il confine olandese a Essen e stetti in Olanda fino al 1936. Poi venni arrestata perché non avevamo documenti d'identità e fui scacciata in Belgio. In Belgio la situazione era migliore. Ricevetti una carta d'identità ma non un permesso di lavoro. Così dovevamo vivere grazie alla solidarietà dei lavoratori belgi, nicht? [I dirigenti del Partito] volevano utilizzarmi in Germania, ma poi venne fuori che laggiù ero ricercata.» Frau Müller continuò il suo racconto, accompagnata dal suono insistente di un orologio a cucù, che annunciava l'ora al di sopra del frastuono del traffico e del parco-giochi. Disse che l'attività clandestina in Olanda e in Belgio «per il nostro Partito» comportava la collaborazione fra colleghi che chiamava gli «emigranti». In generale si trattava di compiere «azioni illegali contro Hitler in Germania. Noi ci dedicavamo ai settori di Renania e Palatinato. Ai francesi erano affidate le aree più a sud, la Lorena eccetera, e i norvegesi si occupavano di tutto quassù. Ci si spartiva le varie attività». Aiutare i comunisti belgi, olandesi e norvegesi a raggiungere la Spagna per combattere nella guerra civile, disse, faceva parte dei suoi compiti. «Tutti loro passavano attraverso i miei elenchi. I lavoratori hanno vie d'accesso da un paese all'altro.» In Olanda «lavoratori amici» fornivano il cibo e un posto per dormire. «Ma non avevamo mai il becco di un quattrino. Per tre anni vissi senza un soldo in tasca.» Poi trovò una moneta da venticinque centesimi e decise di fare grandi spese. «Andai in un negozio per comprare qualcosa di speciale. Acquistai due panni di spugna per sei centesimi, di modo che mi avanzò ancora qualche soldo. Poi tornai a casa e li mostrai agli altri; mi dissero: "Avremmo potuto cucirli noi stessi". "No, non è questo il punto,"

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dissi io. "Il punto è che sono entrata in un negozio e ho comprato qualcosa." «A ogni modo, durante l'emigrazione raccoglievamo fondi per la nostra lotta. Prima di tutto per soddisfare i nostri bisogni, più o meno quanto bastava per procurarci un posto dove dormire; e poi scrivevamo articoli per il giornale. Io ne scrissi molti, anche per i giornali olandesi. «Raccoglievamo denaro per il nostro giornale clandestino Bandiera Rossa [Die Rote Fahne], fatto con carta molto sottile e stampato ad Anversa. A volte non c'erano i soldi per pagare il tipografo.» Allora Lotte andava da «gente belga di un certo nome», compreso un professore che offriva grossi contributi. «Con quei soldi non ci comprammo neanche un paio di scarpe. Li davamo ai nostri superiori, al segretario del Partito.» Frau Miiller sembrava particolarmente soddisfatta di due azioni. Raccontò che le «cellule» comuniste di uno stabilimento farmaceutico, per 10 più giovani belgi, rubarono i foglietti illustrativi da accludere alle bottiglie dei medicinali. Altri compagni stamparono il manifesto del Partito comunista sul retro dei fogli, e gli addetti belgi all'imballaggio li inserirono con la doppia informazione in ogni mille o più bottiglie da spedire in Germania. Altri lavoratori belgi compirono un'impresa simile con un settimanale tedesco che veniva spedito in Belgio. Rimossero le pagine interne e le sostituirono con le proprie. «Tutte le pagine interne erano piene di cose contro Hitler. I pacchi vennero scambiati alla stazione ferroviaria e la gente andava al chiosco e comprava il nostro giornale. Non era giusto? Gli articoli erano pieni di idealismo. E prima che ci si potesse rendere conto che era un altro giornale tutte le copie del chiosco erano state vendute. L'attività clandestina è questa. E i lavoratori si sentivano sempre nel giusto in una tale situazione, perché serviva a "intralciare" la guerra. «Se avremo una guerra, una nuova guerra, e noi non siamo per la guerra,» aggiunse, «tutto il mondo diverrà socialista. Il socialismo conquisterà 11 mondo.» Mentre Frau Mùller compiva le sue missioni nei Paesi Bassi, la Gestapo cercava di individuarla per mezzo di sua sorella, facendola pedinare. «Non sapevano dove fossi. Quando mia madre e mia sorella si trasferirono nella Prussia orientale per vivere con dei parenti, ogni volta che andavano a raccogliere mirtilli nel bosco, c'era là anche un uomo, travestito da donna, a vedere se fossi comparsa io. Questo faceva la Gestapo. Seguivano mia sorella ogni mattina mentre andava a lavorare alla Siemens in bicicletta. C'era sempre qualcuno in bicicletta che pedalava dietro di lei. Mi volevano a tutti i costi, nicht? E non mi presero.» Disse che non maltrattarono sua sorella. «Non maltrattarono nemmeno me, perché non mi catturarono. Se mi avessero preso mi avrebbero torturato. Conosco membri del Partito che subirono torture orribili.» Ma conobbe anche amici che furono torturati a morte, o uccisi senza indugio. «Le nostre ragazze ebree a Bruxelles. Ero insieme a loro nell'emigrazione. Finirono nelle camere a gas. Tolsero loro anche i bambini. Una venne fucilata a causa della sua attività contro l'esercito.» Ma prima la ragazza fu

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«versaut». [Il verbo versauen significa insudiciare o rovinare compiendo azioni oscene, in questo caso uno stupro.] «Era bella come un dipinto,» aggiunse la sua vecchia amica. «Tutte le SS abusarono di lei finché non fu quasi morta.» Negli anni in cui combatté contro Hitler in clandestinità Frau Muller non solo conservò il suo amore per il comunismo, ma anche per la Germania. «Il Partito aveva disposto che io lasciassi il paese. Se non fosse stato per questo non sarei partita. Osservavo la disciplina. Bisogna farlo. E non c'è niente di più bello che vivere in questi ambienti. Capisce? Deve intendere bene le mie parole. Non vorrei che poi qualcuno le fraintendesse. E nel nostro ambiente eravamo tutti ottimi compagni, anche se soffrivamo la fame o altro. C'era un tale entusiasmo! Eravamo legati alla nostra Heimat. Io ero libera. Avrei potuto sposarmi in Olanda o in Belgio. Avevo degli ammiratori. Può immaginare che quando si è giovani si hanno degli ammiratori. Ma io non volevo sposare uno straniero. Dicevo: "Rimango tedesca e non m'importa di come va a finire". Poi, quei bastardi... Vedevo che uno sposava una donna italiana, un altro un'indonesiana e così via. I matrimoni sono così differenti. Soltanto con un uomo tedesco io riesco a parlare e a lavorare. Solo con un tedesco potrei essere felice o fallire. Io resto tedesca e bastai» (Disse proprio «basta», in italiano.) Frau Miiller non si sposò mai. «Ma vissi con un uomo. E siccome non potevamo procurarci una casa, ce ne costruimmo una piccola. Lui era muratore, io gli diedi una mano e ci facemmo una bella casetta: una stanza e la cucina di sotto e la zona notte di sopra.» Non ebbero bambini, «per senso di responsabilità. Che cosa sarebbe successo poi, se avessi avuto un figlio? Sarebbe finito fra i ragazzi o fra le ragazze della Hitlerjugend. Su questo non c'era niente da fare. Vedevo quello che succedeva alle altre ragazze». Nella primavera del 1940, per Lotte Muller la vita da spirito libero in un mondo non libero finì. «I tedeschi invasero il Belgio. Hitler avrebbe conquistato il mondo intero se fosse stato possibile. Probabilmente sarebbe arrivato in America. Avrebbe messo nel sacco l'Inghilterra. Mise nel sacco la Francia.» La mattina del 27 ottobre, la Gestapo arrestò Frau Muller. L'agente incaricato del suo arresto era un berlinese. Lei gli disse: «Non sapevo come fare a tornare in Germania. Il viaggio è troppo caro. Meno male che siete venuti voi, così posso tornare gratis». Fu processata nel sobborgo berlinese di Moabit per una vecchia accusa che riguardava i suoi rapporti con un gruppo operaio comunista. «Fra noi emigrati nessuno tradì. Nessuno. La Gestapo non seppe mai chi fosse il nostro capo. Io lo sapevo. Perché fui l'unica che andò a casa sua. Se qualcuno avesse tradito io sarei stata la prima fra i membri del Partito a essere sospettata, nicht? Ed è una responsabilità pesante.» Rise con fare beffardo. Fu condannata a un anno e tre mesi di detenzione in carcere e scontò la pena. Il giorno del suo rilascio, nell'aprile del 1942, invece di riacquistare la libertà lei e altre donne furono ammanettate nel corridoio della prigione e messe su un treno per Ravensbruck. 155

Aveva già avuto notizie del campo. «Avevamo tutte paura. Nessuna di noi non ne aveva. Ma ci sono persone che non mostrano le loro paure. Io sono una di queste. Quando c'erano delle situazioni difficili io pensavo sempre a una via d'uscita e in un modo o nell'altro la trovavo, nicht? E quando più tardi ci ripensavo mi sentivo morire. Oppure, quando facevo attività clandestina, dopo aver eseguito il mio incarico dovevo mantenere il controllo della situazione per assicurarmi che tutto fosse in ordine. Poi mi prendeva il terrore per quello che sarebbe potuto succedere.» Ma sembrava che a Ravensbrùck il pericolo fosse perfino maggiore. «Vede, quando alla sera andavamo a dormire, non potevamo sapere se la mattina dopo ci saremmo svegliate. C'era la possibilità che avessero progettato qualcosa d'altro per tenerci sotto controllo. Potevano tirarci tutte giù dal letto e farci stare nude fuori dalla baracca d'inverno [per un appello all'aperto], una cosa che facevano spesso. Le SS avevano delle idee improvvise, e le portavano a termine.» I notevoli resti dei luoghi in cui le SS portavano a termine le loro idee sono stati trasformati in un monumento e in un museo, ma già la sola visione dell'area fornisce un impatto opprimente. Per esempio, in mostra fuori dall'ingresso del campo c'è un mastodontico rullo di calcestruzzo, più alto di una persona, largo almeno tre metri e mezzo, e che in teoria avrebbe dovuto essere tirato da un camion per livellare la strada. Frau Muller mi disse che lo tiravano quaranta o cinquanta ebree, sorvegliate da una guardia e dal suo cane. A sentire il suo racconto, pareva che a Ravensbriick non ci fosse niente di cui non avesse saputo, non avesse sentito o che non avesse visto lei stessa. Aveva un ricordo personale particolarmente vivido della crudeltà di una guardia, una donna. La squadra idraulica di Frau Muller era stata chiamata a eseguire delle riparazioni nel lavatoio attiguo allo «Strafblock» [la baracca di punizione], un luogo a buon diritto temuto. Quando il lavoro fu finito, sentirono un gran baccano dietro la porta dello Strafblock e le urla di una guardia delle SS che pronunciava orribili bestemmie. Il frastuono non diminuiva, e quando l'attesa divenne insopportabile Frau Miiller e la sua squadra aprirono la porta. La guardia, una certa Frau Lehmann, in preda a un'ira furibonda e con un'espressione disumana sul volto, stava picchiando le prigioniere con un bastone, colpendo a caso chiunque capitasse a tiro e poi infierendo su un gruppo che aveva cercato rifugio sotto i mobili rovesciati. « L e Weiber SS sapevano davvero come pestare una prigioniera. Quella stava picchiando le ragazze, il tavolo buttato a terra, le sedie kaputt e ogni cosa sparpagliata in giro e non lasciava che nessuna uscisse. Se ne stava là sulla porta, colpendo tutto intorno a lei col bastone. E noi la guardavamo senza dire una parola e lei si voltò e ci disse: "Ach, volete andare, non è vero? Anch'io devo dare qualcosa da bere al mio bambino. È ora".» Quindi la guardia appese il suo bastone e scortò l'inorridita squadra idraulica fuori dalla porta come se non fosse successo niente. «Doveva allattare il suo bambino,» continuò Frau Muller. «Quando se 156

ne fu andata dissi alle ragazze: "Deve avere latte inacidito nelle mammelle, quella Weib". E questa sarebbe una donna.» Frau Müller cadde in silenzio. «Successe davvero. Sono bestie, ecco cosa sono. E semplicemente incredibile che degli esseri umani possano essere fatti in questo modo. Lei, come donna, che cosa ne pensa?» Frau Müller aveva la sua risposta. «Volevano fare carriera, guadagnare più soldi. Oppure il loro ragazzo era una SS che faceva parte del plotone d'esecuzione. Avevano "la smania di mettersi in luce" [Geltungsbedürfnisse, una parola davvero ricercata per Frau Müller]. Erano così stupide che di più non si può,» aggiunse, tornando al suo consueto modo d'esprimersi. «S'immagini questo. Arriva una ragazza austriaca e entra nella baracca numero uno dall'altro lato della strada. Un'altra ragazza austriaca che era con noi se ne va, e dice: "Servus! " [E un'espressione informale di saluto in dialetto austriaco]. Quella [una guardia] comincia a urlarle contro e a picchiarla. "Qui non si parla francese" e così via. Se lo immagini! Bastonarla per aver detto "Servus! ". Io da dietro - ce ne stavamo tutte insieme in piedi con i piatti in mano perché non c'era più posto per mangiare al tavolo ruggii: "Servus è latino". Lei si girò per prendermi. Rimasi lì dov'ero e continuai a mangiare. E le altre ragazze mi protessero. Nel campo bastava un attimo perché esplodesse la violenza. Quella guardia aveva anche un cane, un pastore tedesco nero.» Tutte le guardie, disse Frau Müller, portavano con sé un bastone per picchiare i prigionieri e, per variare, un frustino. Lei stessa fu malmenata con particolare durezza senza alcun motivo. La comandante del reparto femminile delle SS di guardia al campo le aveva ordinato di trovarne una che la accompagnasse a riparare un rubinetto dell'acqua nel suo alloggio. Quando Frau Müller si presentò a un locale delle guardie per chiedere che qualcuno andasse con lei, una uscì e la picchiò. «Io continuavo a strillare: "Devo fare questo lavoro per Frau Aufseherin [la signora guardia]", senza fermarmi. E quella mi picchiava. Ma io non sentivo niente. So sopportare le botte, nicht? Può immaginare di che scorza sono fatta. Continuai a strillare senza smettere. Lei [la comandante delle guardie] deve avermi sentito.» In effetti c'erano atti di umanità da parte delle sorveglianti, mi disse, ma venivano puniti dal comandante del campo. «Avevamo due sorveglianti donne che finirono prigioniere con noi nel campo di concentramento. Consegnavano le lettere dei prigionieri alle famiglie o davano loro pane o qualcosa d'altro. Comunque, in un modo o nell'altro tennero contatti con noi prigionieri e fecero qualcosa contro gli ordini del campo. Così finirono "dentro".» Quando le chiesi se le guardie «normali» (che non compivano alcun gesto d'umanità di quel genere) avevano qualcosa contro le donne provenienti da un paese in particolare, immediatamente mi rispose: «Ja!» E aggiunse: «Più di tutto, le ebree. Le ebree e le polacche». E se una donna era sia ebrea che polacca? «Era anche peggio. E ancora peggio era per una comunista polacca. Quelle non arrivavano nemmeno al campo. Le uccidevano prima.

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«Ja, successe una cosa con delle ragazze polacche,» continuò, e mi raccontò una storia che pare quasi incredibile nelle cronache di Ravensbrùck. «Due belle ragazze polacche si innamorarono di due carcerieri, due SS, e naturalmente anche le due SS si innamorarono di loro. Ci sono ragazze polacche molto carine. Si sa. E noi sapevamo cosa stava succedendo, già lo sapevamo. Un bel giorno le due ragazze erano sparite. Come fossero riuscite a evadere nessuno lo sa con certezza, neppure oggi. Se indossando le uniformi delle SS o cosa. Le due SS innamorate andarono a prenderle, avevano preparato un aeroplano, e volarono via con loro, in Svizzera.» Laggiù, disse, si sposarono. La donna che assisteva Frau Mùller, notando forse la mia espressione di incredulità, intervenne. «Be',» disse, «sono tutti esseri umani. Posso capirlo.» Le ragazze polacche non se ne andarono a mani vuote, aggiunse Frau Mùller. Portarono con loro una lista con i nomi di altre prigioniere polacche di Ravensbrùck che erano «candidate alla morte». Venivano tenute prigioniere in una baracca speciale ed erano considerate detenute «Nacht und Nebel» [Notte e nebbia]. L'espressione - una cinica citazione da Goethe - si riferisce a un'ordinanza di Hitler. Essa stabiliva che gli individui che minacciavano la sicurezza della Germania sparissero senza lasciare traccia, nella notte e nella nebbia. Stando a Frau Mùller le giovani polacche evase, novelle spose delle SS, riuscirono ad arrivare fino al papa e gli consegnarono la lista. Grazie al suo interessamento, un istituto di carità cominciò a spedire merci destinate alle donne della lista Nacht und Nebel. «Poi i pacchi cominciarono ad arrivare. Tutti diventavano matti, come lei può immaginare.» Nei primi tempi, disse, le guardie pescavano in ognuno dei pacchi spediti alle prigioniere. «Rubavano. Sigarette, cioccolata. E il poco che restava finiva a loro [alle prigioniere]. Ora la cosa si fa interessante, posso ben dirglielo.» L'orologio a cucù batté di nuovo l'ora, come se assentisse. «Un pacco spedito dal papa. Mittente: il papa.» Il confuso racconto che seguì, pieno di frasi biascicate al punto da diventare inudibili, aveva a che fare con le guardie, con le punizioni che dovevano affrontare se manomettevano i pacchi chiusi col sigillo papale. Alla fine le guardie diedero alle prigioniere il permesso di aprire i loro pacchi e si limitarono a sorvegliarle mentre lo facevano. In un campo dove la fame era una realtà quotidiana (le razioni di un prigioniero comprendevano due pezzi di pane al giorno, una zuppa di rape talvolta marce, e un cucchiaio di marmellata alla settimana), quelle ricchezze commestibili e inviolate spedite dal papa erano stupefacenti. E venire a sapere quello che le guardie avevano preso fu altrettanto stupefacente. «Non riuscirono a tenere il becco chiuso, le nostre ragazze,» disse Frau Mùller. «È così che tutte noi lo scoprimmo.» Se fossero state applicate le regole del campo, la fuga d'amore che portò all'arrivo dei pacchi papali avrebbe potuto causare punizioni terribili per le altre prigioniere. Di fatto, uno dei molti mezzi di persuasione usati per scoraggiare i tentativi d'evasione delle detenute era la minaccia di ciò che 158

sarebbe successo alle loro compagne. Ma in questo caso l'amministrazione di Ravensbriick non fece nulla. Indiscutibilmente il comportamento delle due SS innamorate fu un'eccezione. Stando ai ricordi di Frau Müller, furono dawero pochi gli atti concreti di umanità compiuti dalle SS di entrambi i sessi o dagli amministratori del campo. Di conseguenza le prigioniere impararono ad aiutarsi fra di loro, per quanto rischioso potesse essere. Come riuscivano a farlo, o tentavano, o venivano punite per averci provato, è stato raccontato da Frau Müller in un libro sulle sue esperienze, Die Klemperkolonne in Ravensbrück/Erinnerungen des Häftlings Nr. 10787 (La Squadra Idraulica di Ravensbrück/Memorie della detenuta numero 10787).1 Pubblicato in Germania orientale, il libro fu tradotto in russo e vendette quasi duecentomila copie, mi disse Frau Müller. Benché la cifra appaia esagerata, l'accoglienza dovette essere entusiastica, dato che il libro non è solo un resoconto in prima persona della vita nel campo, ma anche un inno all'Unione Sovietica. In un capitolo si racconta delle prigioniere che contemplano in estasi una fotografia di Stalin in uniforme, introdotta di nascosto nel campo. Altri capitoli descrivono le azioni audaci - ed erano dawero audaci - compiute dalle donne della baracca dell'Armata Rossa; altri le incredibili punizioni che sopportarono. E tutto il libro è costellato di riferimenti alla valorosa Armata Rossa che verrà a liberarle. Se i lettori non avessero altre notizie, sarebbero indotti a credere che l'Armata Rossa combatté da sola contro Hitler. Fra parentesi, l'unico episodio di umanità delle SS che Frau Müller mi riferì (la fuga d'amore con le due ragazze polacche) non appare nel libro. Malgrado tutte le perplessità che si possono avere sul punto di vista poco obbiettivo di Frau Müller (o del suo editore), non vi è nessun dubbio che la sua capacità di sopravvivere a Ravensbriick era legata a ciò che lei chiamava la solidarietà con le altre prigioniere politiche comuniste. Come in altri campi di concentramento, i detenuti venivano divisi e identificati in base alla nazionalità, all'ambiente di provenienza o alla loro colpa: polacchi, omosessuali, ebrei, testimoni di Geova, belgi, criminali comuni, tedeschi e così via. Sulle loro uniformi a strisce i prigionieri portavano uno o più triangoli colorati e delle lettere che indicavano a quale categoria essi appartenessero e che cosa avessero fatto. Un triangolo verde voleva dire criminale comune. Un triangolo nero identificava chi lo portava come «antisociale». Quale che fosse la loro colpa fuori dal campo, a Ravensbrück le donne col triangolo verde o nero erano considerate come coloro che avrebbero denunciato una compagna di detenzione pur di guadagnarsi un favore da una guardia. «Sapevamo esattamente chi fossero. In gran parte erano tedesche. Cani merdosi. Dovevamo sopportarle, posso ben dirglielo.» Tuttavia Frau Müller mi disse anche che lei e le sue compagne cercarono di entrare in contatto con i triangoli neri e con i verdi. Si poteva aver bisogno dell'aiuto di chiunque. Il triangolo rosso significava aiuto in ogni caso, almeno per Lotte Müller. Il rosso era per i prigionieri politici. «Sulla manica sinistra della

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camicia e della giacca c'erano il triangolo rosso e il mio numero. Dovevo sempre identificarmi. A tre passi dalla guardia, non guardarla in faccia, guardare in basso e dire: "Detenuta in custodia protettiva. Müller, Charlotte". E poi il numero. 10787.» Il triangolo rosso permetteva alla detenuta numero 10787 di individuare potenziali alleate e permetteva loro di individuarla. Ma fra i triangoli rossi c'era anche rivalità. «Nel campo c'erano un sacco di socialiste che dicevano: "Non sarò mai comunista". Potrei perfino dire i loro nomi. E io mi facevo una risata, nicht? Che cosa volevano? In fin dei conti i socialdemocratici erano caduti in pezzi con l'arrivo di Hitler. Dicevano: "Aspettate che Hitler mandi a monte tutta l'economia, e lo farà, e allora noi socialdemocratici prenderemo in mano la situazione".» Le donne comuniste, suggeriva Frau Müller, non solo erano più in gamba fuori del campo, ma anche dentro formavano un gruppo più unito di ogni altro. «Eravamo cosi solidali. Ovunque fosse necessario, in qualsiasi situazione mi imbattessi, facevo sempre qualcosa per sviare l'attenzione delle guardie o qualcosa che sottraesse le detenute alle loro sofferenze.» Per lei solidarietà voleva dire anche forza. «Le donne più forti erano le politiche. Conoscevano il motivo della loro detenzione ed erano convinte che Hitler non sarebbe durato, che sarebbe venuto un altro governo e che sarebbe stato il governo che loro volevano.» Per quanto riguarda la forza data dalla religione, il suo giudizio era altrettanto inequivocabile. «Lei crede che il buon Dio2... Devo dire quello che penso, ja? e lei non deve pensare male di me che non ho fede nel buon Dio, perché conosco Darwin eccetera, e so che tutto si evolve. Chiunque abbia fede è giusto che l'abbia.» Frau Müller non concluse l'argomento che aveva cominciato, ma espose compiutamente l'altra idea che aveva della religione, cioè che la fede non era di nessun aiuto. «Nein, mai. Perché l'orrore era troppo. Diventavano mute. Diventavano passive. Ancora più passive.» L'effetto era lo stesso, disse, qualunque fosse la religione. «Le protestanti, completamente. Le cattoliche anche.» Quanto alle detenute ebree, «non erano tutte credenti le donne ebree, lo sa? Inoltre erano già emancipate in senso democratico, per così dire. Per quanto riguarda loro e il buon Dio, no... Con così tante cose terribili e così tanti giorni nel campo perdevano la loro fede. Trecentosessantacinque giorni all'anno e ogni giorno alzarsi e andare a dormire eccetera, nicht? Tutto questo annientava un essere umano. Le annientava. Il buon Dio non può essere d'aiuto. Questo non ha più niente a che fare con la Bibbia». Se una detenuta riusciva a conservare la propria fede, era meglio che la tenesse nascosta: le pratiche religiose erano proibite. «Andavi nel bunker per quel motivo, o ricevevi altre punizioni.» Il bunker era un inferno dentro l'inferno, una viscida cella sotterranea senza un letto né una latrina né luce. Ma molte donne non avevano paura di sfidare simili minacce. «Le polacche tenevano la propria messa fra di loro, nelle mattine della domenica. Seguivano una sorta di ritmo, quasi come se fossero in una chiesa. Una di loro si appostava fuori nel caso che si facesse vedere una delle SS. Così avrebbe potuto dare l'allarme, nicht? E allora si sarebbero messe a parlare d'altro. 160

Ja, la fede era importante per le polacche. Si dovrebbe permettere alle persone di professare la fede se sono credenti, nicht?» A dispetto della possibile punizione e dei suoi sentimenti verso la religione, una volta Frau Müller si espose per dare una mano a un gruppo di suore appena giunte al campo. Le era stato assegnato un lavoro nel bagno dove le suore erano state spogliate e costrette a lasciare gli abiti (che sarebbero stati messi in deposito) e le loro cose (che sarebbero state gettate via). Quando le suore furono condotte fuori (per essere insultate dalle SS e violate dal medico del campo), Frau Müller, vedendo che non c'era nessuno, afferrò dei rosari, un crocifisso e un libro di preghiere dal mucchio degli oggetti da buttare. Quella sera entrò di soppiatto nella «baracca degli arrivi» evitando la baracca delle veterane, di cui non si fidava, e chiese rapidamente alle suore chi fosse la «persona più importante» fra loro. «Quando la giovane donna si fece avanti, dissi: "Vieni con me nel bagno". Le diedi subito il du. Le dissi: "Puoi tenere la bocca chiusa? Devi promettermi sulla tua fede di non dire dove hai preso quello che ti sto per dare. Di' soltanto che si sono dimenticati di portarlo via". Avevo forse nove rosari e un breviario, bianco, piccolo. Le dissi: "Io l'ho profanato perché non sono una credente, ma a voi serve per pregare e siete contro Hitler. E siccome siete per la preghiera e contro Hitler, ho rubato questo crocefisso per voi". Poi lei voleva baciarmi la mano e fare chissà cosa; la faceva così lunga! In questo modo si saldò il fronte della solidarietà, e io avevo fatto ciò che ero tenuta a fare, in accordo con Thälmann.» Pareva che per Frau Müller il capo del Partito comunista tedesco Ernst Thälmann fosse di poco secondo a suo padre nella scala degli affetti. I sentimenti di solidarietà, comunicati a volte attraverso atti come quello di stabilire un contatto con gli occhi delle prigioniere condannate, aiutavano Frau Müller a resistere non solo alla miseria e al terrore in cui lei e le altre detenute vivevano, ma anche alle cose spaventose che vedeva. Nel suo libro parla di una detenuta, una zingara, che fuggi per un solo giorno. La descrizione delle sue condizioni quando, dopo una caccia all'uomo, le SS la riportarono indietro, picchiata a sangue, mentre si teneva gli intestini che le fuoriuscivano dal corpo nella sua ultima ora di vita, è una lettura quasi insopportabile. Frau Müller mi parlò anche di un altro orrendo ricordo, una deportazione alle quattro del mattino. «Dovetti alzarmi per vedere cosa stava succedendo. Caricarono tutte le ebree. Le portarono a Bergen-Belsen.» Le donne era state tutte rinchiuse nella «casa dei pazzi» di Ravensbriick, un luogo che in seguito Frau Müller definì una «clinica per i nervi». «Lì vivevano in una stanza piccola e stretta. Furono gassate con un centinaio d'altri esseri umani a Bergen-Belsen. Le loro cose tornarono indietro. "Klamotten [stracci]", come si dice. Ja. Nessuna sopravvisse.» Frau Müller fece una lunga pausa prima di riprendere a parlare. Quando lo fece, i suoi ricordi erano passati dagli adulti di Ravensbrück finiti nelle camere a gas ai bambini che subirono la stessa sorte. «Nessun essere umano può immaginarselo, che si debba dire addio a dei bambini a 161

cui si è voluto tanto bene.» Alcuni di loro non furono gassati, e anzi riuscirono a evitare le altre strade del campo che conducevano alla morte. «Alcuni sono ancora vivi, lo sappiamo.» Un uomo, a cui era stata uccisa la vera madre, invitò le sue «madri» di Ravensbrück ancora vive a prenderne il posto al suo matrimonio. Non c'era nessun elemento di riscatto nel racconto di un avvenimento accaduto durante un inverno al campo. Migliaia di donne e di bambini ungheresi erano stati ammassati in un tendone privo di riscaldamento, eretto per alleggerire il sovraffollamento. Le detenute, lasciate praticamente senza indumenti né cibo, congelavano. Morivano, e morivano, e morivano. Frau Müller fu chiamata a risolvere un gigantesco problema idraulico. «Tutto il campo era intasato. Erano le condutture principali dietro il campo che portavano al lago, dove finivano tutti i liquami. Pompavano l'acqua e l'ostruzione era sempre in un altro scarico. Era il poco che riuscivano a capire. Se non c'è acqua nell'ultimo canale di scolo, significa che l'ostacolo è più a monte. Per tre giorni o più nessuno di noi potè usare le latrine. Dovevamo fare i bisogni all'aperto. Io ricavai un buco nel terreno con un bastoncino, cosicché le nostre potevano... come fanno i contadini, nicht? Davanti a molte baracche pareva che ci fosse il piccolo cimitero di una chiesa. Piccole montagnole ovunque con un pezzetto di carta sopra, come lapidi. Si immagini quando passavano le SS, mentre le donne erano sedute lì perché dovevano andare di corpo, e le SS le vedevano mentre lo facevano. Si era perso ogni pudore. «Dunque, c'era questo tendone. Le latrine erano state costruite più in alto, dove entrava lo scarico. Avevano cinque latrine, e tutto finiva in un altro scarico. Era intasato. Pomparono lì; pomparono e pomparono. Era pazzesco. Le tubature non erano larghe. E rimasero lì le zingare che dovevano occuparsi dell'ostruzione. Ma non ce la fecero, e così vennero degli uomini dal campo vicino che pomparono, e pomparono e pomparono. Notte e giorno.» Finalmente, dopo giorni di pompaggio, «me ne stavo là e dissi: "Sta cominciando a scaricare. Arriva acqua dal basso. Qualcosa si sta muovendo". Ero lì sopra con le zingare, e aprimmo il condotto di scarico. Arrivò più acqua, sgorgava alla grande. Di colpo il canale era pieno. Dissi: "L'otturazione è qui". Lanciai un urlo agli uomini che vennero tutti su da noi. Poi facemmo defluire l'acqua e nello scarico rimase tutto quello che essa non si portò via. «Un uomo scese giù e ci disse: "C'è un maiale quaggiù, un maialino". Perché aveva un colorito chiaro. Che cosa avevano tirato fuori? Un maschietto, un bambino appena partorito. Da qualcuna delle ebree ungheresi del tendone, nicht? Non intendo dire che fosse gente cattiva, ma lì dentro erano tutte donne ebree ungheresi, e probabilmente fra loro c'era una madre incinta che aveva partorito il bambino e aveva detto: "Tanto sto per morire, e che ne sarà del bambino? Lo getterò qua dentro".» Nel suo libro Frau Müller descrive quest'episodio in modo assai meno rude (e molto più letterario) di quanto non fece parlandone con me. «Quale 162

tragedia si svolse in quel luogo,» scrisse, «senza che nessuno se ne avvedesse? Forse il bambino era nato morto? Morì poco dopo il parto, oppure fu sua madre, per sottrarlo all'agonia di una morte per fame, a ucciderlo?»3 Frau Müller mi disse che nessuno riuscì a scoprire chi fosse la madre. Con tutto quello di cui era stata testimone, e con tutto quello che aveva saputo, Frau Müller doveva aver sofferto di incubi terribili, suggerii. «Per niente,» replicò decisa. «Mai. Sa, io ho i nervi davvero saldi. Gli incubi li scaccio. Ma il mio cuore sanguina.» Il 28 aprile 1945 i nazisti diedero l'ordine che fosse evacuato chiunque si trovasse a Ravensbriick. L'ordine arrivò a tre anni esatti dal giorno in cui Lotte Müller era arrivata. Guardie e prigioniere lasciarono dunque il campo per affrontare una marcia forzata. Le guardie mantenevano le proprie funzioni e i loro atti di crudeltà continuarono. E continuarono i tentativi delle detenute di aiutarsi l'una con l'altra. Le ultime arrivate cercavano di soccorrere le donne più anziane e le più sfinite, a cui era stato dato il compito di trainare i carri carichi dei beni depredati dalle guardie. Finalmente riconobbero una jeep di soldati americani, e poco dopo degli ufficiali dell'amata Armata Rossa. «Dopo di che gridammo: "Siamo libere! Siamo libere!" Tutti uscivano dalle loro case. E le SS strisciarono via. Ficcarono le armi dentro i letti, le nascosero, e si diressero a ovest.» Frau Müller era convinta che fossero rimaste a ovest assieme a quelli che la pensavano come loro. Mi parlò di un dottore di Ravensbriick, uno «Schweinehund» [sporca canaglia] che faceva iniezioni mortali. Lei le chiamava col nome ironico di «Himmelfahrtsspritzen» [iniezioni per ascendere in paradiso]. Quel dottore e altri suoi degni colleghi «si adattarono» alla Germania occidentale, mi disse. Uno di loro mise in piedi uno studio pediatrico. «Questo è successo. E la gente ci porta i bambini e non sa che quegli individui facevano iniezioni mortali in un campo di concentramento.» La donna che aiutava Frau Müller prese la parola in difesa dei tedeschi che non avevano tutte quelle notizie su ciò che succedeva nei campi di concentramento. «Non tutti sapevano cosa stava succedendo,» disse. «Io vivevo al di là dell'Oder [il fiume Oder, che oggi segna il confine con la Polonia] e non ne sapevo assolutamente niente, finché non finii a Buchenwald. Fu come se mi fossi appena svegliata.» Da donna libera Frau Müller tornò immediatamente nella sua amata Berlino. La città era stata divisa in sezioni, ma non c'erano dubbi su quale fosse la sezione a cui lei apparteneva. Trovò lavoro nel «Comitato Centrale di Solidarietà Popolare». Andò a ovest per un'occasione speciale. Le autorità inglesi le chiesero di testimoniare in un processo contro le ex guardie di Ravensbrück. «Una mattina vennero a prendermi. Chiesi che mi lasciassero almeno avvertire mia madre.» Ciò fu fatto, ovviamente in stile mülleresco. «Le dissi: "Devo andare ad Amburgo per un processo". Quattro di noi volarono laggiù. Arrivammo in aereo.» Ad Amburgo rivide la sua aguzzina di un tempo, la 163

«Schweinehund» comandante delle guardie. Si chiamava, disse, Frau Binz. «Dovevo testimoniare quello che era successo veramente. Non inventare nulla e non aggiungere nulla. D giudice faceva le domande e chiedeva: "Ha qualcosa da dire su questo?" E io dicevo quello che avevo visto.» Le imputate assistevano alle udienze. «In seguito furono tutte condannate a morte. E impiccate.» Subito dopo Frau Mùller disse: «Può ottenere una copia [dei verbali] del processo dagli inglesi. Ma vogliono un sacco di soldi». Nei decenni seguenti Frau Mùller lavorò nel comitato esecutivo per la «Solidarietà Popolare» e come funzionario statale, in particolare per la polizia. C'è la possibilità che avesse avuto rapporti con la polizia segreta della Germania orientale, la famigerata Stasi? Non lo so. Per quanto ho potuto capire, per tutto il tempo che visse, Lotte Mùller non guardò mai indietro. Lei e i russi, mi disse, volevano soprattutto che «il cielo rimanga sereno. Non è una vita magnifica quando si lotta per una cosa del genere? Io l'ho fatto sempre, e sono contenta che sia stato così. Non mi aspetto niente di più dalla vita», aggiunse, come se fosse consapevole di stare per concludere un monologo. «Mi sono goduta la vita, anche se la parte personale è stata un po' sacrificata, nicht? Ma mi consolo dicendo che ho vissuto bene la mia vita di donna semplice. E non tutti possono dirlo.»

NOTE 1

Berlino Est, Dietz Verlag, 1981. A molti tedeschi, comprese persone atee come Frau Müller, viene naturale usare l'espressione «il buon Dio» (o, più precisamente, «il caro Dio» [der liebe Gott]), invece di dire semplicemente Gott. ' Müller, Die Klempnerkolonne, p. 184. 1

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PRIMA, DURANTE E DOPO IL BOMBARDAMENTO (Frau Ursula Maier)

Quando Frau Ursula Maier porta i nipotini a raccogliere bacche per svago, le torna in mente qualcosa di simile che faceva da bambina per sopravvivere. «Io e mia madre andavamo a raccattare patate. Sa, dopo che c'era stato il raccolto delle patate, si tornava nei campi con la zappa e si cercavano quelle rimaste. Oppure si spigolava il grano. Quando il campo era a maggese, si raccoglieva un fascio di spighe, [lo] si metteva su una carriola e poi lo si portava al mulino... e così per tutta l'estate.» Nonostante questi sforzi per fare economia, a un certo punto la povertà di Ursula e di sua madre fu tale che intervenne lo Stato. Madre e figlia vennero sfrattate dalla loro casa a Teuchern (una quarantina di chilometri a sudovest di Lipsia) e condotte a Dresda «a forza, davvero a forza, i mobili caricati su un camion e portati a Dresda, che lo volessimo o no. E quando arrivammo, i mobili [furono] messi in un deposito e per prima cosa andammo a vivere in un ricovero per senzatetto, mia madre e io». Eppure Frau Maier non diceva che la sua era stata un'infanzia povera, arm in tedesco. Usava invece l'aggettivo ärmlich, che suggerisce l'idea di qualcosa di meno aspro o di più discreto. Il suo vocabolario era ricco di altre espressioni misurate. Invece di schwanger (il modo più comune per dire «incinta») usava un'espressione più delicata e all'antica: in anderen Umständen (in stato interessante; letteralmente, «in circostanze differenti»). Ma è probabile che il suo modo di parlare avesse a che fare più con la geografia che con l'età. L'uso di un vocabolario antiquato è tipico degli abitanti della ex Germania orientale. Dopo essere stata portata a Dresda con la forza, ci restò per scelta. E nel dopoguerra divenne un membro attivo del Partito comunista della Germania orientale, il Partito di unità socialista. Frau Maier non me ne parlò, ma lo lessi sbirciando nelle note scritte su di lei dal funzionario comunista che mi scortava. Anche se non l'avessi fatto, tuttavia, altri aspetti del suo vocabolario mi avrebbero rivelato la sua posizione ideologica. Ma la politica non era la ragione principale che mi spingeva ad ascoltare i suoi ricordi. La ragione principale era, ovviamente, Dresda. Frau Maier vi aveva trascorso la notte del 13 febbraio 1945. Era stata testimone del bombardamento. E di tante altre cose. Molto tempo prima di diventare un'accesa sostenitrice del comunismo, Frau Maier era stata un'accesa sostenitrice del nazismo. La «colpa» fu, in un certo senso, della sua intelligenza. Nata nel 1923, cresciuta come una bambina «ärmlich», Ursula non poteva sperare di ricevere" dalla repubblica di Weimar nient'altro che l'istruzione sommaria di una scuola elementa165

re. Ma, come mi spiegò con modestia, «a causa dei miei risultati [scolastici] - accadeva molto di rado - alla fine della quarta classe andai alla scuola Bürger [per la classe media o per i borghesi]. Mi fu data la possibilità di frequentarla gratuitamente perché ero,» abbassò il tono della voce, «perché ero molto brava e perché mia madre non poteva racimolare i soldi della retta. In sostanza godetti di un privilegio speciale». Frequentando quella scuola, inoltre, «finii automaticamente nelle Jungmädels». Le Jungmädels (ragazze «ariane» dai dieci ai quattordici anni) formavano la sezione giovanile del Bund deutscher Mädel. «A quell'età, naturalmente, ancora non capivi. Io, infatti, ero piena d'orgoglio. Lo ammetto. Ja, anche per la giacca marrone.» Una camicia bianca e una gonna blu scuro completavano l'uniforme che Ursula ricevette gratis, ancora una volta grazie alle sue doti d'intelligenza e alla povertà di sua madre. Il fatto che Ursula entrasse a far parte delle Jungmädels non rifletteva l'orientamento politico che avrebbero scelto i suoi genitori. Suo padre, che era originario proprio di Dresda e che morì quando lei era molto piccola, era stato «un artista e un attore e le due cose contemporaneamente, un po' tutto insieme». Per fare un esempio, dipingeva un mazzo di rose davanti al pubblico, poi gettava le rose agli spettatori. La sua famiglia era più o meno schierata con i socialdemocratici ed «era piuttosto benestante», anche se la sua morte lasciò la vedova e la figlia praticamente senza un soldo. La madre di Ursula veniva da una famiglia di comunisti per nulla agiata, ma si unì ai socialdemocratici, facendo irritare suo fratello. «Allora ci fu una piccola... in realtà non ci fu una vera lite, non sviscerarono la questione apertamente. Ma mia madre desiderò sempre, come si usava dire, stare meglio.» Un socialista stava un gradino sopra a un comunista nella scala sociale. Nella Germania orientale postbellica la differenza non aveva più alcun significato. Quando ci incontrammo, Frau Maier viveva in un edificio di una «associazione di lavoratori» comunista. Aveva contribuito a costruirlo, mi disse, spendendoci seicento ore di lavoro manuale, e ora pagava trentanove marchi d'affitto al mese. L'ambiente del soggiorno era gradevole e accogliente, anche se l'odore e l'arredamento lo rendevano piuttosto soffocante. Pesanti tende color senape fiancheggiavano le finestre. Un'antiquata stufa di terracotta pareva fosse la sola fonte di riscaldamento. I soprammobili indicavano una propensione per gli oggetti infantili, come un polpo di filato rosso e - cosa non infrequente fra i tedeschi dell'est che avevano viaggiato - un samovar giocattolo. Frau Maier indossava una camicia blu alla cowboy. Era una donna molto cordiale, che aveva fatto la guida turistica a Dresda per più di trent'anni. Amava quel lavoro, mi disse, che considerava come un «passatempo retribuito», e si sentiva profondamente offesa dai turisti della Germania occidentale che pensavano ne avesse bisogno per integrare la pensione. Se aveva qualcosa di positivo da dire su cose o persone provenienti dall'ovest, non la disse a me. E non accettò (o forse non comprese) la mia tesi secondo cui molte persone che erano state filonaziste potessero ancora vivere nella sua nuova patria. Sosteneva che i tedeschi orientali che

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erano andati all'ovest (non spiegò in che modo), adesso scrivevano lettere di supplica chiedendo di tornare indietro. «Naturalmente sono dell'opinione che non debbano essere accettati. Se hanno tradito la DDR [Repubblica democratica tedesca] dovrebbero restarne lontano.» Non c'era dubbio che fosse più obbiettiva quando parlava del sistema politico che aveva scelto in gioventù. Perfino in un ricovero per senzatetto l'intelligenza della giovane Ursula non passò inosservata. «Così dovetti andare a scuola, e, grazie alle mie basi culturali, siccome non ero proprio la più stupida, nemmeno qui, ricevetti di nuovo un "posto gratuito". Era una "classe parallela" per "aspettative più alte". E dopo un po' ci procurammo un posticino dove vivere.» Era dentro un angusto edificio in un vicolo dietro la piazza del Mercato Vecchio, e per raggiungerlo bisognava arrampicarsi su una scala di legno stretta e ripida. «Poi mia madre trovò lavoro come cucitrice in una sartoria, e dopo qualche tempo, un paio di anni, andammo ad abitare in una casa più grande, per lo meno un po' più grande. E quando la guerra continuò e divenne "guerra totale", fu naturale che la ditta dove lavorava mia madre si mettesse a fare bombe al posto dei lavori di cucito. E poi mi resi conto che mia madre, o perché si ammalava spesso o per altri motivi, molte volte non andava a lavorare. Quando fui più matura, mi disse che lo faceva di proposito, ne? Un piccolo sabotaggio, ne? Che era la sua forma personale di lotta. Be', voglio dire, di commettere degli errori sul lavoro o qualcosa del genere... non si arrischiava a farlo.» Nonostante fosse preoccupata per la sua salute e non sapesse che le richieste di malattia fossero un modo per intralciare lo sforzo bellico, Ursula si accorse che sua madre non condivideva il suo entusiasmo per la guerra o per le iniziative precedenti dei nazisti, come la costruzione dell'Autobahn. «Con la sua realizzazione [i nazisti] si sbarazzarono della disoccupazione tutto d'un colpo. E ci fu una tale euforia, ja? Ma mi ricordo che a volte se ne discuteva: "Quando l'Autobahn sarà finita, la percorreranno i carri armati". Lo si sapeva già, negli ambienti vicini alla mia famiglia.» Sua madre le diceva che le cose «non apparivano così rosee». Ursula le prestava poca attenzione. Andava di proposito alle parate naziste dove, piena d'orgoglio, faceva il saluto gridando «Heil Hitler!». «Lo ammetto. Invece mia madre se ne tenne sempre lontana, e tutte le volte che ero con lei, mi trascinava in un vicolo laterale.» Frau Maier aveva una qualche idea di quanti fossero i cittadini di Dresda che condividevano il suo entusiasmo? La maggioranza, mi rispose. «A Dresda, sicuramente. Non c'è dubbio che Dresda sia, o sia stata, una città di funzionari statali [Beamtenstadt].» Ursula e sua madre si scontrarono soprattutto una volta. Fu poco dopo la morte del presidente Paul von Hindenburg, nell'agosto del 1934. Non importa che i nazisti avessero manipolato senza alcuna vergogna quell'uomo anziano per conquistare il potere. Quando morì gli fecero un funerale grandioso e cerimonie commemorative un po' ovunque. Una cerimonia si tenne nella cittadina di Ursula. «C'era una scalinata che conduceva alla

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chiesa di Teuchern. Mi rivedo ancora oggi. A volte mi sono chiesta come potevamo essere così "intruppati", e andare a quel corteo funebre, e io che avevo una specie di nastro da lutto sulla mia camicia bruna può immaginare quanto fossi fiera. Quando tornai a casa e lo raccontai a mia madre, lei mi disse: "Dovresti smetterla. Non posso più starti a sentire", e così via.» Ursula «fu promossa» dalle Jungmädels al Bund deutscher Mädel. «Allora si cantavano canzoni di lotta. Cantavamo: "Oggi la Germania ci appartiene, domani il mondo intero". E spesso la mamma si lamentava. Non mi era permesso di cantare questa canzone a casa.» Sua madre si arrabbiava anche «quando a volte tornavo a casa piena d'entusiasmo, o quando accendevo la radio che chiamavamo il "grugno di Goebbels"». Il nome ufficiale del piccolo apparecchio nero con cui si poteva ricevere soltanto la stazione nazista, e da cui spesso usciva la voce del ministro della propaganda Joseph Goebbels, era Volksempfänger [ricevitore del popolo]. Ma l'appellativo di Goebbelsschnauze [grugno di Goebbels] era piuttosto diffuso. Nel 1939 e nel 1940, le trasmissioni erano piene di annunci trionfali per le prime conquiste militari, e Ursula reagiva in modo prevedibile: «Guarda Mutti! Vittoria, vittoria, vittoria!» Ma «Mutti ogni volta spegneva la radio. Diceva che avevo sentito abbastanza. Che sarebbe andata a finire in modo orrendo». Questo mi diceva, ja? Ma naturalmente io non capivo. «Negli anni successivi, quando ero più matura, qualche volta gliene parlai. "Sbagliavi con me," le dicevo. "Perché non mi facevi sedere e mi dicevi esattamente questo e quest'altro? Oppure perché non me lo proibivi apertamente? Invece lasciavi che ci andassi." E lei mi rispondeva: "Non avrei mai potuto proibirtelo in modo esplicito". Mi avrebbero allontanato da mia madre se me l'avesse proibito. È così che andava, ja. Avrebbero detto che la bambina era dotata, ja? Mia madre poteva opporsi solo sulla base di "Non posso più stare a sentire. Mi dà il mal di testa" e così via.» Ursula rispettava la memoria di sua madre. «Mio padre era già morto e mia madre temeva per me come figlia. Cioè, probabilmente era inevitabile che le mancasse il coraggio, a differenza forse che in altre famiglie, dove c'era un padre che era contro i nazisti. In ogni caso non lo fece, o forse non poteva farlo, perché da quel punto di vista, probabilmente, la sua istruzione non era sufficiente per vedere ciò che accadeva. Nein, non voglio dire che non se ne accorgesse. Ma un timore dentro di lei le impediva di parlare.» Sua madre aveva un altro motivo per non arrischiarsi a parlare della sua avversione per il nazionalsocialismo: suo fratello Reinhold, il comunista, era stato arrestato. Accadde «verso il 1939 o il 1940» a Teuchern, da cui veniva la famiglia materna. «E naturalmente fu una cosa terribile per mia madre, e naturalmente lei divenne ancora più timorosa. Può immaginare.» Per quanto ne sa Frau Maier, Reinhold non venne arrestato perché era comunista, ma per aver provato a ricevere notizie da un'altra radio oltre che dal «grugno di Goebbels». «A quanto sembra lo sorpresero ad ascoltare una... allora la si chiamava radio nemica. C'era una specie di aggeggio con un dispositivo direzionale

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e altre cose del genere. E poi quelli si gettarono dentro la casa, sfondando la porta, e videro che l'apparecchio era sintonizzato su una stazione diversa. E allora lo portarono via. E poi stette in un campo di concentramento per molti anni, fino alla fine. A Buchenwald. Sopravvisse. Ma alla fine non era completamente a posto con la testa a causa di quello che aveva passato.» Frau Maier non sapeva se suo zio fosse stato denunciato da qualcuno. «So solo che fu davvero una cosa molto brutta.» Sospirò. All'inizio del Terzo Reich, durante il boicottaggio contro gli ebrei, anche lei e sua madre avevano sperimentato le conseguenze di un gesto di disubbidienza. Stavano passeggiando per una strada di negozi. «In una vetrina c'era in vendita un abito bianco. Era lì in esposizione ed era molto, molto a buon mercato. Non mi ricordo più quanto costasse, comunque mia madre disse: "Questo lo compriamo. Gli farò qualche modifica e tu avrai un completo bianco chic". Ma sulle vetrine era dipinta la scritta "Non comprate dagli ebrei" e altre cose simili. Io e mia madre entrammo insieme senza che ce lo impedissero. E quando uscimmo, fummo prese a sputi. «Ma mia madre ebbe il coraggio di farlo. " È mio dovere andare dove i prezzi sono più bassi," disse.» Di conseguenza, «ebbi il più chic degli abiti bianchi». In una lettera, Frau Maier mi scrisse che le persone che sputarono loro addosso erano «SA in uniforme bruna», o, come lei le definiva, «Nazi-faschisten». Eppure, quell'incidente non parve modificare il suo entusiasmo giovanile. Di certo non fu il solo inconveniente che capitò in famiglia. Mentre lo zio Reinhold era a Buchenwald, un cugino di Ursula, Walter (il figlio maggiore della sorella di sua madre), combatteva per la patria in Unione Sovietica. Probabilmente uscì di senno prima di Reinhold. «All'epoca era già sergente dell'esercito. A ogni modo questo Walter impazzì. Io non ne ebbi esperienza diretta, ma mia madre mi parlò della cosa.» La «cosa» cominciò mentre Walter era a casa in licenza ed era a tavola con dei parenti. «Poi, d'improvviso, durante il pasto cominciò a telefonare, e ad avere delle fantasie, e diceva cose strane, tanto che tutti lo fissavano... E lui... Ma in uno stato confusionale, ja?» Frau Maier mi scrisse che suo cugino teneva una mano vicino all'orecchio come se stesse ascoltando e parlando al telefono. «Le esperienze che aveva vissuto con i soldati l'avevano sconvolto. E quell'episodio chiarì che non tutto era in Ordnung come era stato fatto apparire.» Walter parlò «di fucilazioni e di tutto quanto. Ma veramente nel suo subconscio, per come me lo raccontò mia madre». Non sembrava che si rendesse conto di quello che faceva o diceva. «Allora fu messo in un manicomio e poi di colpo morì,» aggiunse. «Non posso dire con certezza che mio cugino sia stato ucciso», mi scrisse Frau Maier in risposta alla domanda che non ero stata capace di rivolgerle in precedenza. «So solo che i fascisti avevano degli istituti dove non si lasciava che le persone incurabili sopravvivessero a lungo. Non c'era alcun dubbio che mio cugino fosse malato.» In gioventù, Frau Ursula Maier ebbe un moto di ribellione non contro 169

il nazionalsocialismo, ma contro sua madre. Evidentemente per rendere una specie di omaggio a suo padre, prese lezioni di recitazione, di nascosto. Quando sua madre lo scoprì, quale che fosse la ragione, si infuriò. Ma Ursula, come awenne più tardi con il suo «passatempo retribuito», amava intrattenere le persone. Di attività teatrale non ce n'era più molta a Dresda, dopo lo scoppio della guerra, cosicché gli studenti e il loro insegnante andavano negli ospedali militari della zona (delle ex scuole) a recitare per i soldati feriti. Invece degli spettacoli fracassoni in stile hollywoodiano che ricevevano i militari americani, ai soldati tedeschi feriti venivano offerte rappresentazioni di poemi eroici che ne tenessero alto lo spirito combattivo. «Tutto» doveva essere «auf Nazistisch,» mi disse Frau Maier. Gli spettacoli erano dati, tuttavia, da ragazze come Ursula, che allora doveva avere circa sedici anni. Fra i feriti che beneficiavano delle rime, un giorno c'era un certo soldato Maier, che era proprio di Dresda. Le sue ferite erano abbastanza lievi: aveva subito l'asportazione parziale di due dita. Quando si fu ripreso, «naturalmente dovette far ritomo al fronte». Nell'estate del 1943, quattro anni dopo quell'incontro, i due si sposarono. Il matrimonio venne celebrato durante una licenza di Herr Maier dall'Unione Sovietica. Poi la coppia si trasferì nella «casa gigantesca» dei genitori di lui, a Dresda. Nella vita civile «mio marito lavorava per le ferrovie [Reichsbahn]. A quell'epoca lui faceva il controllore e mio suocero era un funzionario delle ferrovie. Quindi mio suocero era nel Partito. Un funzionario è di certo qualcosa, ja? E poi, quando mio marito venne a casa in licenza, una notte ci fu un'enorme scenata. Mio suocero credeva al cento per cento in ciò che diceva Hitler». Forse al duecento per cento, aggiunse. «Era tutto "giusto". E una notte mio marito fece un tale baccano che disse: "Padre, tu non hai la minima idea di ciò che succede là fuori, ja, tu non puoi nemmeno parlarne con me". Era davvero furioso, mio marito, e lo insultò anche, e insultò Hitler. Allora mio suocero disse: "Se non la smetti immediatamente. .. ", questo al suo stesso figlio, e allora io cominciai a chiarirmi le idee, cominciai a riflettere sulle cose, [su] ciò che stava succedendo, e mio suocero disse: "Se non la smetti, faccio intervenire la Gestapo". Disse questo al suo stesso figlio.» Dov'era sua suocera? C'era anche lei. «Voleva appianare le cose.» Che cosa disse? «Be', ovviamente si infuriò. "Cosa? Dovresti vergognarti. È il tuo ragazzo!" E mio marito se ne andò [dalla stanza] senza salutare.» Aveva detto: «Tutti voi non avete idea, ogni volta che [dite] vittoria, vittoria, vittoria. E intanto laggiù nelle trincee, non sapete niente di quello che succede, come crepano [verrecken] i soldati e come vengono fucilati [se] aprono bocca». «Mio marito voleva disertare. Ma sua madre lo supplicò. Gli disse: "Figlio mio, verrà fuori e ti troveranno".» Lui voleva nascondersi presso dei parenti in un'altra città, ma sua madre l'ebbe vinta. Quando la licenza finì, tornò al fronte. Il suo sfogo non si riferiva ai campi di concentramento (Frau Maier mi disse di aver pensato che fossero «campi di rieducazione») o alle fucilazio170

ni di civili. Si riferiva solamente «alla vita dei soldati, a quello che stavano passando». Nel gennaio successivo Frau Maier diede alla luce una bambina, Sabine. Un anno e un mese più tardi, gli alleati misero in scena il feroce bombardamento di Dresda. «Tutti noi eravamo convinti, in tutta Dresda, chiunque era convinto che non avrebbero mai attaccato qui. In primo luogo girava la voce che una sorella di Hitler vivesse [nei dintorni]. Era quello che si diceva.» Un'altra voce di cui Frau Maier affermava di avere solo un vago ricordo, era che «gli americani avessero investito un sacco di soldi in queste grandi fabbriche. Se ne parlava molto e tutti ci credevano». Un altro motivo per avere fiducia era che nell'autunno del 1944 erano state bombardate le case di un villaggio vicino, ma si era pensato che fosse stato fatto per errore. Dresda non fu un errore, almeno da un punto di vista logistico. Ciò che ancora ci si chiede è se l'attacco alleato sulla stupenda «città d'arte», che dava ricovero a così tanti civili, quando si era cosi vicini alla fine della guerra, fosse giustificato. (Frau Maier non sollevò mai la questione.) Le ragioni per cui Dresda venne bombardata sono chiare: era un centro di comunicazioni, dunque un obbiettivo militare. E, ovviamente, faceva parte del Terzo Reich. E il Terzo Reich aveva bombardato per primo il territorio di uno degli alleati, l'Inghilterra. Eppure i dirigenti locali e la cittadinanza di Dresda erano così sicuri che gli alleati non li avrebbero bombardati, mi disse Frau Maier, che in tutta la città non c'era un solo rifugio antiaereo pubblico. «Soltanto le cantine delle case. Da questo punto di vista, nessuna preparazione. Ci furono delle esercitazioni antiaeree, quelle le facemmo. Ma oltre a ciò, nessuno pensava... Proprio perché a Dresda la presunzione dei funzionari statali [Beamendiinkel] era tanta, e via dicendo. Da questo punto di vista, non c'era niente. E quando ci fu l'attacco, in un istante, le sirene non funzionarono. Non si sentì nemmeno una sirena.» La sera del 13 febbraio 1945, Frau Maier, che era di nuovo incinta, era in casa con i suoceri e Sabine. Dal «grugno di Goebbels» giunse l'annuncio che squadriglie di bombardieri si stavano avvicinando a Hannover e alla Sassonia. «Non lo prendemmo molto sul serio, comunque. Era capitato spesso che poi avessero cambiato rotta, e finiva lì.» Questa volta, però, «proprio mentre scoccavano le dieci, di colpo tutto divenne luminoso, nicht? Il cielo era luminoso e, voglio dire, se non fosse stato così orrendo, poiché era la fine, avresti potuto pensare che fosse un bel pezzo di teatro, con questi alberi di natale [i bengala], nicht? E tutto era illuminato a giorno. E ora ci si rendeva conto che sarebbe stata una cosa grave. Il frastuono era già cominciato». Sarebbe stato impossibile, disse, ricreare quel tipo di rumore, «una sorta di rombo soffocato». «Quando iniziò il frastuono, andammo in cantina. Si sentivano già le detonazioni, nicht? Gli scoppi. Giù di volata nella cantina. Ma non ci poteva essere un grande panico, dato che in casa non eravamo in tanti.» A 171

dividere con loro la cantina c'era un'altra famiglia, a quel tempo composta solo da una madre e da un bambino, che viveva in un'altra parte della casa. In cantina, come sempre, c'erano le valigie già fatte delle due famiglie, una carrozzina non usata e un paio di poltrone che Frau Maier aveva portato di sotto. «La cantina non era costruita come un bunker o altro, ja? Era una normale cantina, modificata per essere usata come rifugio antiaereo.» Né il soffitto né le pareti erano stati rinforzati, ma sul lato interno delle finestre erano state inserite delle pesanti imposte di ferro, «finestre di ferro» le chiamava lei, fissate su cardini. Può darsi che non ci fosse stato panico durante quella prima incursione, ma certo non ci si fece più alcuna illusione sulla sicurezza: la casa era situata quasi a ridosso della stazione centrale. Frau Maier udì «schianti e scoppi». La stessa cantina subì qualche danno. «Lo sentimmo soltanto. Poi, dopo che tutto si fu acquietato un poco, mio suocero sbirciò in giro [di sopra e all'esterno] e disse: "E tutto tranquillo. Ma sta bruciando, sta bruciando". Ci disse che nella casa non aveva preso fuoco niente, ma che molte finestre avevano i vetri rotti. Nella zona del soggiorno era tutto sottosopra, qualsiasi cosa non fosse stata fissata a terra. Tavoli e sedie erano sparsi ovunque.» Salirono tutti di sopra circa tre quarti d'ora dopo l'incursione. «Poi cominciammo a mettere in ordine, le cose più essenziali. Bene, la casa appariva... tutto gettato qua e là, ma non era bruciato niente. Solo sporcizia, e i vetri rotti delle finestre.» La prima cosa che fecero fu di riparare Sabine con alcune coperte, poiché ormai la fredda aria notturna di febbraio era dentro la casa tanto quanto fuori. «Poi cominciammo a inchiodare dei cartoni alle finestre, e poi d'improvviso sentimmo un altro ronzio e il suono dei motori. E ora naturalmente la paura era anche maggiore, è chiaro. Subito giù in cantina un'altra volta.» Di nuovo, gli apparecchi arrivarono troppo velocemente perché le sirene d'allarme potessero entrare in azione. «Stavamo ancora scendendo le scale della cantina, e già si udiva il boato. Era un boato continuo. Mi sedetti, mi misi la bambina in grembo e le misi davanti un altro cuscino. Improvvisamente, lo sentii da lontano, zzzzzzhhhhhhhhh, come se una bomba si stesse dirigendo proprio verso di noi. È questa l'impressione che mi diede. Fu come un sesto senso. Gettai istintivamente la bambina sul pavimento, cioè, il cuscino con la bambina sopra, e io sopra di lei. E già [la bomba] ruggiva. Eccome! «Dopo che il rumore fu passato, ci scrollammo lentamente di dosso la polvere.» Vide allora che il suo istinto aveva salvato la sua vita e quella di sua figlia. La forza della bomba aveva sollevato dai cardini una delle imposte di ferro e l'aveva scagliata attraverso la stanza. «Se fossi rimasta seduta, mi avrebbe colpito alla testa. Invece mi passò sopra e scivolò giù in verticale lungo la parete opposta. Fu un'esperienza,» concluse. «In seguito, dopo la seconda incursione, non ci muovemmo da lì fino all'alba. E poi andammo di sopra e vedemmo il "regalo": tutto era stato demolito.» 172

Compresa la casa e quasi tutto ciò che conteneva. «Mio suocero e mia suocera erano diventati immediatamente isterici tutti e due, e strillavano e, ja, devo dire che per me in quel momento era più importante mia madre.» Dimenticandosi dei suoceri in preda all'isterismo, Frau Maier prese in braccio la bambina che urlava e si diresse a piedi verso la casa di sua madre. «Avanzai con la bambina lungo i binari della ferrovia. Dall'altra parte, dove vivevamo, stava bruciando tutto. E arrivavano, si sentivano urla e confusione e così via, e passarono alcune persone avvolte in coperte e dissero: "Non potete attraversare, brucia tutto, non ce la farete". E le strade erano tutte così strette. Qualcuno passò e mi chiamò: "Non vada là, non vada là, non riuscirà a passare, e ci sono dei morti... ci sono un sacco di morti".» Nessuno sa quanti. La gente non morì soltanto, come è ovvio, per le bombe (che raserò al suolo circa tremilacinquecento ettari nella zona centrale di Dresda), ma anche a causa della tempesta di aria infuocata che si sviluppò in seguito. Le stime sul numero delle vittime variano fra le decine di migliaia e le centinaia di migliaia. Secondo una statistica autorevole, pubblicata in Germania orientale, circa trentacinquemila persone rimasero uccise.1 (Frau Maier mi disse che i corpi di novantamila persone, in gran parte estratti dalle macerie intorno alla zona del mercato vecchio, vennero accatastati e bruciati.) Circondata dal pandemonio, dagli incendi e dal fitto fumo, Frau Maier si fece strada superando alcuni cadaveri. Parlava come se fosse ancora sotto choc. «Poi proseguii, e avevo tutti i capelli impastati, e continuai a camminare lungo la ferrovia... verso ovest, dove viveva mia madre, e lei mi venne incontro sui binari. Aveva avuto la stessa idea, che non ci fosse altro modo per passare. Mi vide. Io non la vidi. Mia madre mi individuò grazie alle urla della bambina.» Dopo il sollievo per lo sbalorditivo ricongiungimento, sorse il problema di dove andare. Il fuoco aveva distrutto anche la casa della madre di Frau Maier. Decisero di ritornare alla cantina dei suoceri. Lungo la strada le due donne oltrepassarono un numero sempre crescente di cadaveri. «Erano dappertutto. Mi ricordo che [vidi] una specie di groviglio e che dissi a mia madre: "Guarda qui, che strano tronco d'albero". Lei mi disse: "Non è un... Guarda, sono degli esseri umani abbracciati insieme, carbonizzati".» Frau Maier guardò più da vicino. Sua madre aveva ragione. Quella figura era formata da «alcuni esseri umani, insieme, che probabilmente nel momento del pericolo... E poi si vedevano le gabbie toraciche, e si vedevano molti occhi e mani. Lo vidi io». Quando le chiesi quale fosse stato il suo primo pensiero, mi disse: «Era chiaro. La colpa era di Hitler. Il Terzo Reich era colpevole, o non sarebbe accaduto». Lei e sua madre riuscirono a fare ritorno alla cantina. «Ma i miei suoceri non c'erano più. Allora prendemmo la carrozzina e insieme la portammo su. E poi andammo nella direzione sbagliata. Poi fuori, verso la parte meridionale della città e quando fu mattina, mentre si faceva chiaro, allora vedemmo 173

tanta, tanta gente e la voce era che in via Mommsen ci fosse un centro di raccolta per i feriti.» Decisero di provare ad andare lì, ma, circondate dal fumo sempre più fitto, dalle distruzioni e dal caos, si misero a girare in tondo. «E io ero in stato interessante e ora attraverso il fumo non potevo più vederci. Dicevo: "Non vedo nulla". Non riuscivo a vedere niente, era tutto annebbiato. Poi, [quando] venne l'attacco delle undici, fummo più fortunate.» Durante l'incursione della mattina del quattordici febbraio, benché fossero all'aperto, «in un modo o nell'altro trovammo un riparo, ma non accadde nient'altro». Cioè, non accadde nient'altro dove si trovavano loro. Dopo l'attacco, continuarono a vagare e a perdersi, finché non ebbero un altro colpo di fortuna: si imbatterono in un autobus adibito all'evacuazione. Oltre a occuparsi dei morti, dei feriti e degli incendi, le autorità cittadine stavano spendendo una parte dei loro sforzi per cercare di far venire da altre città degli autobus con cui evacuare i sopravvissuti, dato che, a parte i pericoli, faceva anche freddo. «E il pomeriggio del quattordici febbraio fui caricata su un autobus con la bambina. Ma mia madre perse la testa. Ululava come una matta e diceva: "Non posso lasciare sola mia figlia, non vedete che non può vederci, e poi ha la bambina piccola, ed è anche in stato interessante..." In pratica avrebbero dovuto essere evacuati solo i bambini più piccoli con le loro madri, e non i più anziani. Ma mia madre era mezzo isterica e urlava così tanto che la lasciarono salire sull'autobus. D'altra parte era vero: io non riuscivo a vedere niente.» L'autobus era diretto a nord, al villaggio di Kummersdorf, a circa centoventi chilometri da Dresda. «Quella sera arrivammo al villaggio. Fummo subito riuniti in una locanda.» La gente del posto andò incontro ai rifugiati per offrire aiuto. «I bambini qua e là. E io e mia figlia, si figuri, per tutto il giorno non avevamo avuto niente da mangiare, se non qualche Zwieback o cose simili. Non avevo nemmeno potuto cambiarla. Faceva freddo. Decisi di lasciare perdere.» Quando alla fine andò a pulirla, «le feci le uscivano dal colletto. Ja. Poi [stendemmo] della paglia nella sala da ballo ed eravamo tutti... Era come un letto in paradiso. Ce ne stavamo lì, ormai tranquilli, ed eravamo sopravvissuti. Eravamo tutti molto riconoscenti». Nella famiglia di Ursula Maier, la sola persona che dal principio alla fine provò gli stessi sentimenti verso il Terzo Reich e il cui spirito rimase sostanzialmente immutato, fu sua madre. I nazisti non le erano mai piaciuti. E una volta che se ne furono andati, la sua maggiore preoccupazione rimase, così come era stato durante il loro dominio e prima di esso, il benessere di sua figlia (e adesso anche di sua nipote). Andò da una famiglia di contadini che viveva nei pressi del villaggio e si offrì di lavorare gratis in cambio di cibo e di un posto dove stare. La sua offerta venne accettata. Madre, figlia e nipote si trasferirono in uno spazio abitabile in cima a un fienile, a cui si accedeva con una scala. La sistemazione era buona, mi disse Frau Maier, ma gli ospiti sfruttavano sua madre. A quanto pare la famiglia di contadini sfruttava anche la gente di città che, come un po' ovunque in Germania, veniva a barattare i propri beni con qualcosa da mangiare. Avevano così

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tanta roba che «mancava solo un tappeto nella stalla della vacca,» disse Frau Maier, citando un detto molto popolare. In effetti possedevano una tale quantità di cose che la madre di Ursula si sentì incoraggiata a prendere l'iniziativa «quando arrivavano i mendicanti». Si dimostrò abile, peraltro, barattando una parte delle proprie riserve di cibo in cambio di altre cose. Per il genero, che non era ancora tornato dal fronte orientale, procurò un orologio da tasca. Frattanto, non appena si fu bene o male sistemata, Frau Maier ritornò alle rovine della casa dei suoceri, che però non c'erano. Allora fece quello che dappertutto in Germania la gente stava facendo: scrisse sul muro che era viva e dove viveva. Meno di un mese dopo, i suoceri si recarono a Kummersdorf e la trovarono. Portarono la notizia che lei, sua madre e la bambina erano state davvero fortunate a lasciare Dresda tanto presto. Raccontarono che tutti coloro che erano rimasti in città avevano vissuto per settimane in preda al panico. Frau Maier capì presto che lo stress psicologico che affliggeva i suoi suoceri, soprattutto il padre di suo marito, era meno incentrato sul futuro, sulla paura di un'altra incursione, di quanto non lo fosse sul passato, sui resoconti di ciò che i nazisti avevano fatto. «Morì nell'anno 1945 per Y angoscia che aveva dentro di sé, perché si era sbagliato tanto. Diceva anche: "Quel furfante [Lump] di Hitler. Come poteva?" Eccetera eccetera. Non pensava che fosse giusto ciò che era successo allora. Na? Morì alla fine del '45. Si vedeva... Giorno dopo giorno si rattrappiva sempre più, internamente. Non riuscì a superare la cosa. Semplicemente avvizzì piano piano.» Frau Maier fece una pausa. Sua moglie morì poco tempo dopo. Frau Maier mi scrisse: «Non riuscirono a superare il fatto di aver perso la casa, e di trovarsi improvvisamente davanti al nulla. Non ebbero il coraggio di cominciare tutto un'altra volta». Quando me ne parlò a voce, invece, non diede importanza alla distruzione della loro casa, ma unicamente alla distruzione della loro fede. Non si era mai sentita personalmente colpevole? «Individualmente, no. Al contrario, tutti dicevano: "Dovevamo, dovevamo". "Dovevamo" divenne la scusa. Non potevamo fare niente altro. Dovevamo.» E il suo quasi dissidente marito? Sopravvisse alla guerra, fu preso prigioniero dai sovietici, e fu rilasciato nel 1946. Una volta le disse, mi raccontò sua moglie, che durante la guerra «molti» soldati tedeschi passavano dalla parte dei sovietici. La sua visione del sistema sovietico restò positiva perfino dopo la prigionia. Raccontò che i prigionieri «non venivano trattati con guanti di velluto», e questo c'era da aspettarselo, ma che non venivano neppure picchiati o torturati. Da qualche parte lungo il suo percorso, tuttavia, dovette fare delle esperienze che lo segnarono. Frau Maier non entrò nei dettagli, ma mi accennò concisamente che quando ritornò era un uomo cambiato. Si riferiva al fatto che quando suo marito tornò in Germania, beveva molto e la tradiva di frequen-

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te. Frau Maier divorziò dal marito non molto tempo dopo il suo ritorno. A quell'epoca aveva già subito un altro genere di perdita. Nell'agosto del 1945 le era nato un figlio, ma «non potei essergli d'aiuto». Nel novembre dello stesso anno, il bambino morì. Per qualche tempo dopo la guerra, Frau Maier, come anche sua madre, non si interessò di politica. In maggio, mentre stava giocando con Sabine nella corte, giunsero alcuni soldati sovietici a cavallo. Frau Maier mi disse che, dato che la propaganda nazista ritraeva i russi come uomini «con il coltello fra i denti» che «avrebbero fatto strage di ogni cosa», era terrorizzata. Lanciò un urlo per chiamare sua madre, proprio mentre un soldato prendeva Sabine e la sistemava sul cavallo. «Non posso descrivere ciò che passai in quel momento. Adesso il soldato aveva la bambina; accarezzò il suo maglione, le diede qualcosa e me la restituì.» Il soldato russo vide la paura nei suoi occhi e le disse: «Nix gut, Nix gut». Dopo che se ne furono andati, Frau Maier rientrò in casa arrampicandosi sulla scala. I soldati tornarono e salirono anche loro in casa. «Quello che aveva preso Sabine mise una borsa sul tavolo e disse: "Tutto per bambino, tutto per bambino [Alles für Kind, Alles für Kind]". Ed era una mezza testa di maiale.» Frau Maier mi spiegò (ci volle una certa fatica) che era un regalo di benvenuto. Mi disse che con la testa fece della gelatina di carne [Sülze] che durò un mese. Dopo che ebbe accettato con gioia il dono, un altro soldato russo, che conosceva un po' più di tedesco, le parlò del suo compagno. «Mi disse che "aveva anche lui una moglie come te, e un bambino. E le SS presero il bambino, contro il muro. Il cervello di fuori". Questo fu ciò che mi disse.» Frau Maier fece un respiro profondo. «Vede, se penso a quello che avrebbe potuto fare alla mia bambina per vendicarsi... Sarebbe stato perfettamente possibile, ne? Al contrario, prima di ripartire abbracciarono la bambina e dissero: "Alles gut, wird alles gut [Andrà tutto bene] ". Adesso mi vengono le lacrime, se ci penso.» Fece una pausa. «Dunque, con i russi non ebbi nessuna esperienza negativa.» Accennò a un unico episodio di cui era a conoscenza riguardo a qualcosa di «negativo» fatto dai soldati russi: l'uccisione di un ragazzo, un fanatico della Hitlerjugend che sparava contro di loro. Non conosceva altri esempi di «abusi»? Frau Maier ripetè nein per nove volte.

NOTE 1 Cfr. Walter Weidauer, Inferno Dresden, Berlino [Est], Dietz Verlag, 1983, p. 205. Devo molti ringraziamenti a Agnes Peterson.

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L'AMBIGUITÀ DELL'INAZIONE (Frau Martha Häusler)

A circa un'ora da Francoforte, viaggiando in treno verso nord, si incontra la città di Marburgo, celebre per il suo splendido scenario, per l'università, la biblioteca e altri gioielli culturali vecchi di secoli, e perché vi lavorarono i fratelli Grimm, i famosi narratori di fiabe tedesche. Come ben sanno bambini spaventati e accigliati genitori di tutto il mondo, la gran parte delle favole non sono solo imbottite di ostacoli, ma anche di violenza e crudeltà, e generalmente finiscono dopo che un intrepido eroe ha salvato e conquistato l'eroina e il regno: il Reich, in tedesco. Nella Germania degli anni Venti erano in molti a credere che una nuova fiaba, su un nuovo Reich, fosse sul punto di cominciare. E una ragazza di Marburgo che doveva apparire perfetta nel ruolo di principessa teutonica della favola era Martha Fenner. Era alta, bionda e, a giudicare dalla bellezza straordinaria dei suoi settanta e ottant'anni, incredibilmente attraente. E anche lei faceva parte di quella schiera di giovani tedeschi attratti dall'apparenza eroica del movimento nazista. Per Martha e le sue compagne di classe l'esca cadde presto, intorno al 1928, quando aveva più o meno diciassette anni. «Andammo in un ufficio che qui veniva chiamato il "circolo per le donazioni". Precedette il Partito. Potevi offrire qualcosa, denaro o altro. Era già molto nazionalsocialista. Noi ragazze ci andavamo dritte a passo di marcia, piene d'entusiasmo. Io lo feci solo una volta, andai là e offrii tre marchi o giù di lì, che ne facessero qualcosa di buono.» Se in famiglia il suo gesto avesse suscitato entusiasmo o indifferenza, la sua condotta futura avrebbe potuto essere diversa. Ma non appena seppe della donazione, «mia madre, che era molto sveglia e attenta alla politica, mi chiarì le idee. Mi parlò dei tipi di pericoli che stavano per sopraggiungere, di come trovasse orribile tutto quanto. Già sospettava che ci sarebbe potuta essere una guerra. Mia madre teneva gli occhi e gli orecchi ben aperti». E in quanto all'iniziale entusiasmo di Martha per il nazionalsocialismo, «quell'episodio ne segnò la fine». La grande favola, tuttavia, era appena cominciata. Fra le famiglie che avrebbe toccato, c'era il piccolo e unito matriarcato retto da Frau Klara Fenner, una vedova della Prima Guerra Mondiale con due figli, Martha e Justus. Molti anni dopo il nostro primo incontro, Frau Häusler mi raccontò che suo padre era un uomo di legge a cui durante la guerra era stato dato l'incarico di giudicare i casi di diserzione. Egli prese a simpatizzare a tal punto con i giovani soldati terrorizzati, fuggiti dai campi di battaglia, da non essere capace di condannarli al carcere, e si rifiutò di continuare quel lavoro. Per punizione fu spedito al fronte, dove fu ucciso in battaglia. 177

La famiglia che lasciò sapeva bene quale fosse il possibile prezzo da pagare se ci si opponeva ai voleri dello Stato. Anche grazie ad ambedue i genitori, Frau Martha Häusler ha la coscienza pulita di chi sa di non essere stata una nazista. Ma quando cominciammo l'intervista, mi disse di non essere stata la «attiva antinazista» descrittami dall'americano che ci aveva messe in contatto. Rispondendo in maniera diretta alla mia prima, piuttosto ansiosa domanda, disse che l'espressione «attivo antinazista» andrebbe riferita a chi avesse nascosto un ebreo o fatto qualcosa di paragonabile. E lei, mi disse, non l'aveva fatto. Mascherai a stento il mio disappunto e continuai l'intervista. Alla fine Martha Häusler dimostrò di essere una persona forse meno coraggiosa di quanto mi avessero annunciato, ma più interessante. E facile giudicare, dal loro modo di reagire al nazismo, gli eroi o i criminali o perfino i simpatizzanti, ma non è facile giudicare una persona che rappresenta ciò che potremmo chiamare un problema universale di valutazione; una persona che si oppose al Terzo Reich più col cuore e il cervello che con la vita e l'azione; che scelse di non appoggiare più che di combattere il nazismo; che fu, insomma, una antinazista passiva. Frau Häusler vive ancora a Marburgo, in una casa luminosa e attraente che ha progettato lei stessa. La divide col secondo marito, Lothar Häusler, studioso di folklore e uomo serio ma dotato di un bizzarro senso dell'umorismo. Era subito evidente che gli Häusler fanno una vita agiata e colma di letture. La loro casa trabocca di buon gusto e di tante testimonianze del passato prospero della famiglia di lei, inclusi tesori quali un delizioso ovale a olio della sua incantevole madre, e ciò che rimane della collezione di antichi boccali da birra di suo padre. (Frau Häusler mi disse che la gran parte andò distrutta nelle prime settimane dopo la fine della guerra, quando i soldati americani delle truppe d'occupazione gettarono i boccali dalle finestre sul marciapiede, ovviamente dopo averli usati per bere.) La collezione di stampe della vecchia Marburgo di Herr Dr. Häusler copre le pareti di una stanza. Dappertutto ci sono libri, a migliaia, disposti ordinatamente sugli scaffali. I pavimenti di legno luccicano, il tè è di prima qualità, le lenzuola ben stirate sono di lino (Frau Häusler mi aveva invitato ad essere sua ospite prima dell'intervista), e le erbe aromatiche vengono coltivate con metodi naturali nell'orto del dottor Häusler. Fin dall'inizio mi fu anche chiaro che la vita della coppia conserva un raffinato stile all'antica, in tutto tranne che in politica. E la ragione sembra risiedere in gran parte nel Terzo Reich. L'antinazista passiva è diventata un'attiva antimilitarista e antinazionalista. Ma essere attiva negli anni Ottanta, diceva Frau Häusler, non è di maggior utilità che essere passiva negli anni Trenta e Quaranta. La libertà di protestare non ha cambiato niente. Mi elencò tutto ciò che aveva fatto, senza alcun risultato evidente, aggiunse, contro le armi nucleari. E non serve a niente provare orrore per la Germania dei primi anni Novanta, né tenersi costantemente informati. Eppure le lezioni del Terzo Reich permeano la visione del mondo degli 178

Häusler. Durante una prima ampia discussione, per esempio, accennarono di essere diffidenti verso il movimento dei Verdi tedeschi: non ne apprezzavano l'esaltazione dei prodotti «Made in Germany», in cui coglievano un'enfasi nazionalista. E quando cadde il muro di Berlino, gli Häusler rimasero inorriditi nel vedere dei loro connazionali che andavano in Germania orientale, riempivano le loro automobili di merci a buon mercato, perché fornite dal governo, e tornati a casa le esibivano soddisfatti. «Ci vergogniamo,» mi scrisse lei. Herr Dr. Häusler, dopo una vita spesa nell'insegnamento, nella realizzazione di programmi radiofonici e in una pacifica attività di protesta, disse che a un certo punto aveva rinunciato ed era andato in pensione per dedicarsi solo al suo giardino. Ma Frau Häusler continuava a scagliare invettive. Di solito alle lettere che mi scriveva allegava, accuratamente sottolineato, un articolo di giornale su qualche fatto che deplorava, dai bombardamenti statunitensi sull'Iraq alla politica della Germania occidentale verso quella orientale agli odiosi crimini dei neonazisti. A volte mi sembrava che non avesse mai avuto un momento di requie da quando il Terzo Reich era finito, o da quando era cominciato. Il primo episodio che pose Martha Fenner di fronte alla sua coscienza deve essere stato il boicottaggio nazista dei negozi di proprietà degli ebrei. Fu sua madre a farle da guida. «Andava sempre nei negozi ebrei, anche quando le SA stazionavano davanti all'ingresso per vedere chi entrasse. Una volta entrai con lei. Fuori c'erano alcune SA in uniforme. Mia madre mi dava davvero coraggio. «Da quel commerciante ebreo potevi acquistare aghi per cucire, stoffa, lana, forbici e così via. Era terribile vedere un negozio tanto grande completamente deserto. Il proprietario ci venne incontro, così riconoscente che qualcuno fosse entrato. In realtà mia madre non doveva comprare niente, ma voleva dimostrargli che avrebbe continuato a venire. Così acquistò due piccoli rocchetti di filo. E per l'entusiasmo e la gioia di avere un cliente, quest'uomo, Herr Blumenfeld, chiese: "Devo farglieli mandare a casa?" Ma naturalmente era triste, e lo disse.» Frau Fenner declinò l'offerta, mise il filo nella borsa e uscì con Martha. La presenza dei nazisti all'ingresso non ebbe conseguenze. «Probabilmente fummo molto fortunate. Sarebbero potute succedere tante cose. In realtà non successe nulla. Ci diedero soltanto una mezza occhiata e forse ci riconobbero, ma non presero nota dei nostri nomi. Ce n'era uno a ogni lato della porta: una cosa così stupida. Avevano ricevuto l'ordine di stare lì, e credo che non l'avessero preso molto sul serio.» Poco tempo dopo simili escursioni, quei negozi vennero chiusi. Si erano occupati del problema. Allora Frau Fenner seguì una sua regola personale: non comprare più nulla da negozianti nazisti. «Mia madre adorava la cioccolata e andava in un elegante negozietto dove avevano la migliore. E conversando con i proprietari lo capivi molto

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presto: erano nazisti. Così non ci andammo mai più. In un certo senso non fu tanto semplice, dato che a lei quella cioccolata piaceva davvero molto, ma non ci tornò più. Erano piccole cose del genere quelle che potevi fare. In realtà rinunciavi solo a qualcosa, ma non facevi nulla di attivo. Nulla.» Pensando al «nulla di attivo» chiesi cosa fosse successo alla famiglia proprietaria della merceria. Frau Hausler rispose parlando molto lentamente: «Se ne andarono, e credo che espatriarono in tempo. Negli Stati Uniti. Non ho saputo che siano stati uccisi». Mi disse che della sorte dei singoli si veniva a sapere dopo la guerra, quando un sopravvissuto scriveva ai vecchi amici. «Si facevano supposizioni su chi fosse ancora vivo e chi no. Ma ci volevano degli anni prima che si venisse a sapere cosa fosse successo davvero.» Frattanto lei stessa vide un po' di quello che accadeva nella sua città. «Una volta vidi con orrore - chi poteva mai essere? - un avvocato che da un giorno all'altro dovette mettersi a fare dei lavori stradali, gli scavi per i binari del tram. Lo vidi. Aveva aperto una buca profonda e vi stava dentro in piedi; l'aveva scavata col piccone. Di colpo lo riconobbi: era un signore elegante che incontravo per strada.» I nazisti perseguitarono anche un'amica di Martha, «un'insegnante di bene. Aveva tantissimi ginnastica a cui tutti volevano incredibilmente studenti. Era anche molto portata per la musica e suonava sempre al pianoforte begli accompagnamenti per gli esercizi; particolarmente belli. Metteva una scatoletta sul piano e noi buttavamo dentro i soldi per il corso di ginnastica. Lei non controllava mai per vedere se tutti pagassero: eravamo così tanti, non avrebbe potuto. La adoravamo. Poi, improvvisamente, giunse voce che fosse mezzo ebrea e che non potesse più dar lezioni. Da un giorno all'altro. «C'era qui un'altra maestra di ginnastica che insegnava a scuola ed era nazista. Fu lei a mettere in giro la voce. E la mia amica, che era sposata a un avvocato, si trasferì a Berlino e, per così dire, vi si nascose; in una grande città si poteva farlo con maggior facilità. Vivevano con due figlie piccole in un appartamento affittato nel centro di Berlino, e andai a trovarla molte volte. Nella sua stanza dava lezioni a me e a un'altra mia amica. Più tardi suo marito fu punito per aver sposato una mezza ebrea: fu mandato nelle Waffen SS, in quello che veniva chiamato un "reparto d'assalto in viaggio per il paradiso", da cui si supponeva che uno non tornasse, ma lui tornò.» Sano e salvo. Chiesi se potesse essere uno dei soldati delle Waffen SS sepolti nel cimitero di Bitburg. Disse di sì.1 A Marburgo l'umore prevalente era prò Hitler. Frau Hausler stimava che il 90 per cento dei suoi vicini fossero favorevoli e il 10 per cento contrari. «In strada non potevi dire niente. Avevamo quello che veniva chiamato lo "sguardo tedesco" [der deutsche Blick].» Me ne diede una dimostrazione guardando dietro di sé, a destra e a sinistra prima di parlare. Per la strada, mi disse, ci si abituava anche a tenere un atteggiamento di prudente attesa con le persone di cui non si conoscevano le idee politiche. «Se 180

erano ammiratori di Hitler, te ne accorgevi molto in fretta. Per esempio, incontrai per strada una vecchia compagna di scuola. Mi accorsi immediatamente che era diventata nazista, e da allora non ci parlammo più.» Disse che la compagna di classe probabilmente non l'aveva salutata con lo «Heil Hitler!» benché fosse obbligatorio. Più facilmente «aveva parlato con entusiasmo della guerra, "Si profila un'altra grande vittoria", e così via. «Era assai evidente chi fosse a favore [del nazismo]. Costoro lo dichiaravano apertamente e agivano allo stesso modo. Lo capivi dalle uniformi e dalle insegne. Ovviamente gli oppositori erano molto più silenziosi e tranquilli, e più nascosti. E difficile dire quanti ce ne fossero. Ma sono sicura che i sostenitori fossero in maggioranza.» Fra di essi Frau Häusler metteva «i semplici simpatizzanti, che non si sentivano offesi dal nazismo». Una volta anche lei rischiò di nuovo di essere catturata dalla forza d'attrazione del fenomeno nazista. Era per caso a Hannover nel giorno di un raduno a cui avrebbe partecipato Hitler, e le capitò di trovarsi dove passava il corteo d'automobili dei capi nazisti. Da una macchina scoperta Hitler faceva cenni di saluto verso la folla che lo acclamava eccitata. «Mi resi conto che, nonostante la mia ostilità, correvo il rischio di venire trascinata dalla folla di persone che urlavano con tanto entusiasmo e sollevavano le mani e gettavano fiori. E molto pericoloso stare in mezzo a una tale massa di gente. In un certo qual modo è affascinante. L'entusiasmo della folla può contagiarti. E pensi che forse sei tu a sbagliarti e gli altri hanno ragione. Si viene presi dal dubbio.» Le venne in mente un fenomeno d'attrazione simile. «Io sono un'antimilitarista molto convinta, ma quando sento una musica militare, chissà come, mi viene la pelle d'oca.» Fece una pausa. «E devo chiarire a me stessa che non voglio averci niente a che fare. E una cosa pericolosa.» Frau Häusler parlò anche (come ho notato nell'introduzione) della pericolosa forza di richiamo delle parole durante il Terzo Reich, ossia dfei nomi e delle espressioni costruiti con un'abilità diabolica e con abbondanza di allitterazioni, ed emanati dal ministero della propaganda di Joseph Goebbels. Un esempio era l'espressione gergale Kohlenklau, con le due K. Letteralmente significa «ladro di carbone», ma veniva usata per indicare una persona che sciupasse del prezioso combustibile. «Bastava che uno entrasse nella stanza riscaldata di una casa - le altre stanze erano al freddo - e lasciasse la porta aperta, perché qualcuno dicesse: "Kohlenklau, chiudi la porta".» Slogan e termini di questo tipo venivano ripetuti anche per la strada? «Oh, sempre, sempre. Tutti li conoscevano. Erano usati molto spesso.» «Ti bastava sentirli una volta per assimilarli,» aggiunse suo marito. «Goebbels era veramente un maestro in queste cose. E un normale essere umano difficilmente poteva difendersi di fronte a quest'abile azione psicologica, difficilmente riusciva a restarne immune.» Tuttavia né il richiamo della folla né le frasi ben costruite ebbero effetto su Frau Fenner, che continuò a opporsi ai nazisti alla sua maniera, cercando di ignorarne le direttive. Una imponeva di comperare una bandiera nazista. La nera svastica nel cerchio in campo rosso - meglio che la 181

bandiera fosse la più grande possibile - divenne una decorazione obbligatoria di molte case tedesche, specialmente di quelle che si affacciavano sulle vie in cui passavano le parate naziste. «Alla fine divenne molto difficile,» disse Frau Häusler. «Veniva sempre gente a domandare perché non avevi appeso la bandiera, per il compleanno di Hitler o per qualcosa d'altro. Rischiavi di finire in prigione. Non farlo era molto pericoloso. Veniva una persona dopo l'altra, suonavano il campanello e ti dicevano che non avevi ancora esposto la bandiera. Finalmente mia madre ne comprò una piccolissima. Si sarebbe dovuto appenderla a un'asta. Lei si limitò a lasciarla penzolare dal balcone, come un tappetino che si mette ai piedi del letto.» Il livello dell'eroismo materno potrebbe sembrare insignificante rispetto a quello mostrato da altri. Ma l'ammirazione della figlia, che con lei sopravvisse agli incubi di quel periodo, non vacillò mai. «Mia madre era una valorosa antinazista. Presi proprio da lei il mio atteggiamento. Non è una cosa che mi sono guadagnata da sola, ma grazie a mia madre. Era straordinariamente coraggiosa, e non sempre molto prudente, tanto che temevamo sul serio per lei. «Si oppose ai nazisti in modo costante. Avrebbe dovuto partecipare a certi incontri di associazioni naziste. Diceva sempre che, ach, non poteva, non poteva proprio andare a piedi così lontano. Era un po' fuori città e di sera faceva troppo buio e lei aveva paura. Scuse del genere. Poi venne a trovarci un orribile vicino, un Ortsgruppenleiter, e: "Se lei ha paura," le propose, "la accompagnerò io fin là e la riporterò a casa". "Per l'amor di Dio, ho più paura di lui che del buio," mi disse mia madre.» A quel ricordo Frau Häusler rise forte e con gusto. «Non ci andò nemmeno una volta.» Una sera i tentativi del sempre speranzoso Ortsgruppenleiter di portare Frau Fenner a uno degli incontri misero in pericolo le due donne. «Quest'uomo orrendo venne a casa nostra per convincerla ad andare con lui, e la nostra radio era sintonizzata su una stazione nemica. Mia madre tremava letteralmente per la paura che lui guardasse la radio e notasse la posizione dell'ago sul quadrante. Ma non lo fece, e non accadde nulla.» Se andare in negozi ebrei, esitare a far sventolare una bandiera o rifiutarsi di partecipare ai raduni nazisti aveva delle conseguenze non ben conosciute (ma tuttavia temute), non era affatto un mistero quale fosse la sorte di chi veniva sorpreso ad ascoltare le trasmissioni radiofoniche straniere verboten. L'insegnante di religione di Martha Häusler fu una delle persone sorprese ad ascoltarle. Era un'ebrea - a quel tempo Martha lo ignorava che si era convertita al cristianesimo. (La mia perplessità iniziale sul significato di una simile conversione spinse Frau Häusler a spiegare: «Razza ebraica, credo cristiano».) L'insegnante, «una donna di grande intelligenza», non solo dava lezioni di religione al liceo, ma teneva anche delle conferenze sul cristianesimo all'università di Giessen. « È probabile che trovasse difficile considerarsi ebrea. Per molti riacquistare la consapevolezza di essere ebrei era una sorpresa. Seppi più tardi che viveva con un'amica non 182

ebrea in un appartamento. Io non lo vidi mai, ma credo che fosse piuttosto grande, poiché affittavano a due o tre studentesse alcune stanze. Le studentesse si accorsero che le padrone di casa ascoltavano trasmissioni straniere alla radio, e lo riferirono a un loro professore dell'università [Herr Pfannenstiel]. Questo professore era un super-nazista, e si assicurò che le due, l'ebrea e la non ebrea, finissero in un carcere vicino. Quella che non era ebrea vi morì, non riuscì a sopportare la condanna. «[Poi], con mia grande sorpresa, a un tratto rividi la mia vecchia insegnante, per la strada. Andai verso di lei, la chiamai per nome, e volevo chiederle come stesse, e lei disse [Frau Häusler abbassò la voce fino a sussurrare]: "Vattene in fretta, vattene in fretta". Seppi poi che aveva solo poco tempo, un giorno o due, per procurarsi alcuni documenti prima di essere condotta in un campo di concentramento.» Fece una pausa. «A Theresienstadt». Un'altra pausa, più lunga. «Trovai veramente nobile da parte sua che non volesse mettermi in pericolo. A lei non poteva succedere niente di peggio, ma non voleva che accadesse qualcosa a nessun altro. Ja, se ci avessero viste insieme, probabilmente sarei finita con lei al campo.» Che fosse probabile si può discutere, ma senza dubbio quel pericolo c'era. E c'erano anche gli altri pericoli. Eppure Frau Fenner continuava a sintonizzarsi sulle radio nemiche. «Sempre, anche durante la guerra, ascoltava le trasmissioni straniere, una cosa che era assolutamente proibita. E aveva sempre paura che fuori della casa si potesse sentire quello che stavamo ascoltando. Io e mia madre eravamo del tutto a digiuno di nozioni tecniche e ci scervellavamo cercando di capire se qualcuno potesse installare un congegno sul muro per sentire dall'esterno che noi, dentro, ascoltavamo trasmissioni straniere. Non sapemmo mai se ci fosse o no questo rischio. Ma non successe nulla.» E attraverso le trasmissioni radiofoniche, «scoprimmo che molte delle cose che ci erano state raccontate non erano vere». È probabile che Frau Fenner manifestasse i suoi sentimenti antinazisti anche in altri modi. «Sicuramente, se una SS si fosse seduta accanto a lei sull'autobus o sul tram, si sarebbe alzata e se ne sarebbe andata. Di questo sono certa.» Frau Häusler temeva che sua madre esprimesse le sue opinioni più liberamente di quanto fosse prudente fare. Ma, anche a questo riguardo, non accadde mai nulla. Madre e figlia continuarono a vivere fra coraggio, esitazioni, fortuna e paura. Oltre a Marburgo, Frau Häusler aveva un altro punto d'osservazione privilegiato: Berlino. Benché tornasse spesso in visita a Marburgo, si trasferì a Berlino nella tarda primavera del 1933 e visse là per cinque anni. C'era andata per svolgere la professione di bibliotecaria. Immaginavo che fosse quello che voleva, ma molto tempo dopo mi disse che per fare la bibliotecaria aveva dovuto abbassare le sue mire piuttosto che alzarle. Quanto a Berlino, a conferma della sua reputazione, era una città «incredibilmente stimolante e vivace», che ci fossero o no i nazisti. Martha, allora ventitreenne, trovò lavoro in una sede periferica della biblioteca centrale di Berlino. Fra le prime cose che vide, una fu particolarmente angosciante per una giovane bibliotecaria: il rogo nazista dei libri. 183

«Di punto in bianco sentii dire che stavano per essere bruciati dei libri. E con alcune persone che conoscevo andai a vedere, se mai fosse vero. E vidi quel rogo gigantesco.» Libri di marxisti, di ebrei e di altri autori condannati, come Thomas Mann (che aveva una moglie ebrea), venivano distrutti, un volume dopo l'altro. «Continuavano a gettare i libri nel fuoco con grande entusiasmo. C'era moltissima gente entusiasta. Naturalmente quelli che lo trovavano orribile non ci andavano.» La dura morsa nazista sulla cultura tedesca spinse una cugina di Martha, una giovane studentessa di scultura, ad abbandonare la Germania. Quando le chiesi se lei stessa avesse considerato quella possibilità, Frau Hausler mi rispose: «No. Se devo essere onesta, no. Non avevo tutto quel coraggio, né tutta quella indipendenza». E non lasciò neppure il suo lavoro alla biblioteca di Berlino, benché il suo capo fosse, come ci si poteva aspettare, un membro del Partito nazista. «Non direi che fosse un sostenitore fanatico di Hitler, piuttosto un uomo infatuato per la razza nordica.» Era un seguace di un professore famoso in quegli anni, Herman Wirth, che si era dedicato anima e corpo allo studio delle tradizioni degli antichi popoli nordici, occupandosi di tutto, dai caratteri runici alle usanze arcaiche germaniche. Il direttore rimase stregato dalla sua nuova dipendente. «Era una cosa ridicola. Tutto quello che dicevo era straordinario e meraviglioso solo perché ero bionda. Ci portavamo sempre a casa dei libri che dovevamo leggere e discutere per poi consigliare i lettori. Siccome non potevamo leggere tutti i libri, ci dividevamo il lavoro e una volta alla settimana ci riunivamo e ognuno riferiva agli altri: questo è un libro adatto a persone di gusti semplici, e questo è un libro fantastico, scritto in uno stile difficile, e dovrebbe essere raccomandato solo a lettori esigenti, e così via. E quando ero io a dire che cosa avessi letto e che cosa ne pensassi, la sua reazione era: "Stupendo, ecco quello che significa avere davvero il dono di una sana sensibilità". «E in biblioteca indossavamo dei grembiuli bianchi. C'è sempre tanta polvere quando si lavora con i libri. Un grembiule è molto pratico. E dato che a Berlino avevo solo una stanza ammobiliata, mandavo la biancheria da lavare a casa, da mia madre. Lei era stufa di dover continuamente lavare e rispedire quei grembiuli bianchi. Perciò ne fece uno a strisce di colori vivaci, che manteneva un aspetto pulito più a lungo. Un giorno mi presentai indossandolo, e la reazione fu: "E ancora una volta questa la corretta sensibilità. Non lo sterile grembiule bianco, ma di nuovo la vigoria del colore". Anche quella volta avevo ragione io. «Ogni volta che, per qualsiasi motivo, volevamo il pomeriggio libero, ero io che andavo a chiederlo. Quasi sempre la risposta era sì. Solo per i miei capelli biondi. Ma un giorno quella storia finì.» Quel giorno venne anni dopo, nel 1938. Martha non era più una bibliotecaria nubile, ma una donna sposata (sposata al suo primo marito, un certo Herr Koch), con una bambina appena nata, Annette. «Stavo facendo una passeggiata in città con la bimba, che era dentro la carrozzina, e incontrai il direttore della biblioteca. Disse: "Ach, posso dare 184

un'occhiata?" E di sicuro immaginava che nella carro2zina ci fosse una creatura dalla bellezza perfetta, un bambino biondo e con gli occhi azzurri. Appena nata mia figlia aveva i capelli nerissimi e un aspetto come se venisse dalle steppe del Caucaso o da chissà dove. Tutto quello che il mio capo disse fu: " O h ! " » Frau Häusler rise. «Inorridito! "Oh! " Da allora non mi rivolse mai più la parola.» Rise di nuovo. «Fu la fine del suo entusiasmo. Probabilmente pensò che avessi sposato qualche straniero e non un uomo di pura razza tedesca, o qualcosa del genere.» Tra parentesi, Lothar Häusler, che Martha sposò molto tempo dopo la guerra, fu anch'egli vittima degli stereotipi razziali. Oggigiorno i coniugi Häusler formano una coppia insolitamente attraente quando passeggiano tenendosi per mano, ma da solo, negli anni Trenta, lui non poteva camminare sul marciapiede con la stessa tranquillità di lei. «Mi trattavano come se fossi ebreo. Ero basso, avevo il naso curvo. Avevo i capelli scuri, ricci e chissà cos'altro. A ogni modo avevo anche quello. Anche se non ero ebreo.» Raccontò che durante i giorni d'università a Marburgo, mentre stava salendo i gradini di un istituto, alcune SA in uniforme bloccarono l'ingresso urlandogli: «Fuori! Fuori gli ebrei!» Per sottrarsi a un simile trattamento, scappò. Nell'esercito tedesco. Fu mandato in Francia e in Russia, e fu ferito cinque volte. Il giorno che scoppiò la guerra, Martha fuggì da Berlino. «Quella mattina stavo andando a comperare qualcosa e lessi - c'erano ovunque degli enormi manifesti - che era stata dichiarata la guerra. Avevo una paura folle e pensavo che di punto in bianco cominciassero a cadere le bombe, cosa che avvenne un bel po' di tempo dopo. Presi la bambina e le cose più importanti e venni qui a Marburgo, dove viveva mia madre, perché pensavo che in una cittadina non poteva essere brutto come in una grande metropoli, ed era anche giusto.» Frau Fenner si rivelò più lungimirante che mai. «Ero seduta con mia madre e alla radio sentivamo discorsi pomposi sui cannoni al posto del burro. Subito mia madre disse: " È finita per noi. Non andrà bene. Non poteva succedere niente di peggio". Capì immediatamente che avremmo perso la guerra e che tipo di perdite ci sarebbero state per tutti. L o capì subito.» Le ansietà che la guerra causava alla famiglia si appuntarono immediatamente sull'arruolamento di Justus, il fratello di Martha. «Mio fratello doveva fare il soldato, anche contro i desideri della mamma. Non aveva scelta. Ma non dovette combattere, poiché era l'unico figlio maschio di un padre caduto in battaglia [nella Prima Guerra Mondiale]. L'ultimo maschio di una famiglia non veniva mandato al fronte. Anzi, Justus potè perfino frequentare l'università. Studiò medicina durante la guerra. Ma ebbe comunque dei problemi.» Un ufficiale inferiore si lagnò in caserma perché Justus non aveva appeso la sua biancheria in maniera sufficientemente ordinata. Justus replicò che con una guerra in corso quel rimprovero era assolutamente fuori luogo, e

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aggiunse: «Lei per me non è altro che un piccolo pezzo di merda». Quel commento costituiva un'offesa penalmente punibile. Justus fu chiamato a comparire davanti a un tribunale militare. Allora la famiglia, in preda al panico, «mobilitò chiunque fosse possibile» in aiuto, e trovò «un avvocato molto disponibile. Era nel Partito. Ma non era nazista. Capitava anche quello. E quest'avvocato assistette mio fratello». Justus fu rilasciato. Se gli furono risparmiate tanto la prigione che la prima linea, tuttavia Justus fu mandato in Francia e Russia. A un certo punto fu lui a dover fare l'ufficiale. Intanto, sul fronte interno di Marburgo, il matriarcato dei Fenner cresceva. Alla fine erano in quattro: Frau Fenner, la futura Frau Hausler, e due bambini, Annette e Justus (a cui fu dato il nome dello zio), nato nel 1944. La loro vita era fatta in parte di dura fatica e in parte di terrore. Comperare il latte era uno dei lavori pesanti. Frau Hausler mi disse che ci volevano almeno due ore ogni giorno: quarantacinque minuti per andare e tornare da dove lo si prendeva, e il resto del tempo ad aspettare. «Quando finalmente l'uomo che vendeva il latte arrivava, c'erano una cinquantina di donne lì ferme, con i loro piccoli barattoli. Il lattaio era così sadico che ne godeva. Vedeva noi tutte in piedi, impazienti di avere il latte, e si muoveva con grande lentezza rendendoci più nervose e costringendoci ad aspettare ancora più a lungo. Poi faceva degli scherzi. Alla fine avevamo il nostro goccio di latte. Era di un bel colore azzurrino, non bianco, e molto acquoso.» Talvolta Martha portava con sé Annette o il Piccolino. Verso la fine della guerra Annette non andava più a scuola: era stata chiusa, anche a causa dei bombardamenti. (L'effetto delle bombe su Annette si manifestò decenni dopo, un giorno che madre e figlia stavano passeggiando in montagna con altre persone. Un pilota di volo acrobatico - probabilmente per fare colpo su una ragazza - all'improvviso volò tanto basso che tutti si piegarono al suolo. Ma Annette sparì. «La trovammo rannicchiata in un fosso. Si era nascosta, terrorizzata. Una bambina di guerra.») Un vantaggio di vivere lontano dagli obiettivi principali dei bombardamenti, come nel caso della famiglia Fenner, era che cadevano meno bombe. Uno svantaggio era che c'erano meno rifugi antiaerei. Tutti avevano paura di non sapere dove cercare riparo, mi disse Frau Hausler. «Noi non potevamo fare altro che andare in cantina. E poteva essere uno dei posti peggiori, se si rimaneva intrappolati dalle macerie. Nell'ultimo anno, con mio figlio appena nato, rinunciai del tutto ad andare in cantina perché non volevo svegliarlo. Speravamo nella fortuna. Non volevo innervosire il bambino. Spesso di giorno andavamo nei boschi. Portavo la carrozzina e anche una bicicletta, nel caso che dovessi tornare a casa a prendere del cibo o dei pannolini puliti per il piccolo. Non riuscivamo a portare tutto in una volta. E ogni tanto scaldavo velocemente il latte o facevo la minestra. Appendevo il barattolo del latte alla canna della bicicletta e portavo il cibo caldo nei boschi.» Con la guerra arrivarono a Marburgo anche dei prigionieri. «Al deposito di carbone della zona fu assegnato un prigioniero di guer186

ra francese che portava il carbone ai clienti trascinandolo in un sacco. Non avevamo molto, ma potevamo dargli una mela o qualcosa d'altro. Non alla luce del sole, ovviamente. E c'è una cosa che ricordo con orrore. Vivevamo in una strada da cui si poteva osservare tutto. E ogni mattina verso le quattro, sentivo il rumore di passi, passi, passi. Erano prigionieri russi di un campo vicino che andavano a lavorare. Venivano condotti qui, alla nostra piccola stazione ferroviaria. Ogni mattina alle quattro mi svegliavo, mi alzavo e vedevo queste figure tristi passare, alcuni senza scarpe. D'inverno. C'era neve e ghiaccio. Ed erano completamente ridotti alla fame, con i vestiti completamente a brandelli. Ma non potevo dare loro nulla. C'erano sempre le guardie, soldati tedeschi. Non era possibile.» Frau Häusler aveva la sensazione che ricordi di questo tipo, così diversi da quelli che avevano i soldati, giocassero un ruolo importante nell'allontanare le donne tedesche dai loro uomini. «A casa fai delle esperienze molto pesanti, sconvolgenti, insolite. E quell'altro vive in Russia o in Francia o in prigionia da qualche parte, e fa esperienze a cui la donna si sente del tutto estranea. Poi, improvvisamente, lui torna. Certamente ricominciare a vivere insieme era molto difficile per tutti, e per molti era impossibile. La donna aveva imparato ad arrangiarsi e a cavarsela nelle situazioni d'emergenza e a proteggere i suoi bambini e a guadagnarsi i soldi e a procurarsi il cibo e persino a rubarlo, se non era in grado di trovare nient'altro da mangiare. Non poteva più tornare ad essere la moglie totalmente devota che fa solo ciò che vuole l'uomo.» Secondo Frau Häusler, la guerra ebbe un'influenza negativa anche sul suo primo matrimonio. «Forse meno a causa della mia indipendenza che della assoluta diversità delle esperienze fatte. Io sviluppai un atteggiamento sempre più ¿«//-nazionalsocialista. E mio marito, strano a dirsi, no. So che non prese parte agli aspetti peggiori della guerra. Non assistette ad alcuna azione efferata. Non partecipò a nessuna battaglia. Ebbe sempre da mangiare in abbondanza. Restò sempre un po',» fece una pausa, «in retroguardia. «Probabilmente suona come una cattiveria,» continuò esitante, «ma a volte avrei voluto... che avesse fatto l'esperienza di qualcosa di davvero orribile. Avrei voluto che l'avesse provata su di lui. Così che capisse veramente, che gliene restasse dentro un'impressione profonda, e non rimanesse in superficie. «Oh, portava a casa delle belle cose,» aggiunse con un certo sarcasmo. «Innanzi tutto qualcosa da mangiare, e anche dei vestiti. Sono certa che acquistasse tutto. Voglio dire, aveva uno stipendio da ufficiale e poteva permettersi di comperare della roba. Ma non lo trovavo molto giusto. Sul momento eravamo felici di avere qualcosa da mangiare, questo è ovvio. O anche di avere qualche indumento per i bambini. Ma io non potevo non pensare con orrore al fatto che avessimo invaso quei paesi, e che per di più portassimo loro via della roba.» Mi disse che comunque, quando suo marito era a casa in licenza, non emergevano grandi divergenze politiche fra loro. «Lui non era per niente nazista. Era il senso del dovere: "Tutti lo fanno e lo faccio anch'io".»

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I principali contrasti della coppia non erano politici ma personali, anche se quelli politici erano abbastanza grandi da coinvolgere quelli personali. «Non feci parte di nessuna organizzazione tranne che nel 1944, alla fine, quando decisi di divorziare da mio marito. Lui non voleva il divorzio. Io ero molto spaventata all'idea che potesse agire contro di me sfruttando motivi politici. E in quel caso mi sarei trovata senza niente in mano per dimostrare di aver fatto qualcosa per il Terzo Reich. Pensavo: "In nome di Dio, cosa posso fare per dar prova di qualcosa?" Così entrai nell'organizzazione di più basso livello che ci fosse... Era una specie di istituzione benefica.» L'organizzazione, mi confermò più tardi, era la Nationalsozialistische Volkwohlfahrt (NSV) [l'ente nazionalsocialista per la pubblica assistenza]. Riguardo alle procedure di adesione, Frau Häusler disse: «Si svolse tutto molto in fretta. Ora non so nemmeno se pagai qualcosa, ma mi trovai in mano una ricevuta». Qualsiasi altra cosa provasse quel suo gesto, si dimostrò comunque inutile nel suo caso. «Mio marito non tentò di far nulla contro di me per motivi politici. Quella ricevuta non mi servì. Ma non ne ero sicura, ed ero preoccupata per i bambini. Avevo paura di lui, non perché pensassi che fosse un nazista così convinto, ma che fosse furioso con me che volevo lasciarlo, al punto da spingersi a fare di tutto per danneggiarmi.» Verso la fine della guerra, con il divorzio ancora in sospeso, Martha fece un gesto nella direzione opposta. «Tre o quattro settimane prima che la guerra finisse, lui era a casa in licenza. E io sapevo, ero certa, come chiunque fosse in grado di ragionare, di osservare un po' le cose, che si era alla fine. Che avevamo perso la guerra o l'avremmo persa presto. E gli dissi: "Resta qui. Nasconditi qui. Non tornare". L'avrei nascosto.» Era un'offerta importante: sia il reato di diserzione che quello di nascondere un disertore erano considerati atti di tradimento. «Mi disse: "Non posso farlo" e se ne andò in bicicletta. Non c'erano più treni che viaggiassero, ovunque c'era il caos, e lui partì in bicicletta solo per poter raggiungere il suo reparto. Poi fu preso prigioniero. Non sapevo dove fosse. Avrebbe potuto restare qui, ma quel suo senso del dovere diceva: "No, non puoi. Vai avanti".» Che cosa pensò della sua proposta? Che fosse un tenero gesto femminile? Rise. «Non credo che lo trovasse tanto tenero, ma assolutamente impossibile. "Una donna non conosce i doveri di un uomo."» Mentre suo marito partiva dalla porta di casa verso i suoi doveri, soldati tedeschi «magri e macilenti» arrivavano dai loro doveri alla sua porta. «Suonavano il campanello e dicevano: "Prendeteci, abbiamo bisogno di un nascondiglio". Mia madre rispondeva: "No, non posso". Certo, alcuni di loro erano persone terrorizzate, che avevano affrontato esperienze terribili e sicuramente non l'avevano voluto. Era duro dire di no. Ma per motivi politici bisognava essere inflessibili, per mostrare che si era contro la guerra e contro i soldati, anche se si provava pena per i singoli individui. «E venne anche un mio cugino, la pecora nera della famiglia. Era una 188

SS. Una persona tanto cara, un parente ancora assolutamente fidato. Che certamente non aveva mai fatto niente di male, ma che era entusiasta di questa guerra. Aveva ricevuto delle medaglie d'oro, ed era un ufficiale delle SS. Venne da noi mentre stava scappando. Ci piaceva molto come persona: servizievole e affettuoso, premuroso e fedele, e lo lasciammo stare da noi per una notte. Poi mia madre gli disse: "Per quanto sia duro, devi andare via. Non possiamo tenerti qui". Dovette andarsene.» Una «persona tanto cara»? Senza altre informazioni né io né voi possiamo sapere in che modo suo cugino fosse «tanto caro». La guerra finì. «Ce ne stavamo seduti nella cantina di casa nostra. Per la prima volta non cadevano bombe d'aereo, ma colpi d'artiglieria. Il rumore degli spari sembrava molto vicino. Poi smise di colpo. E si sparse la voce che gli americani stavano entrando in città a passo di marcia. Poi li sentimmo. Non erano rumorosi come i nostri, che calzavano scarponi chiodati. Credo che gli americani usassero suole di gomma. Ma quando marciavano insieme a centinaia li sentivi lo stesso. Ci sarebbe piaciuto moltissimo salire di corsa e andare loro incontro con fiori o qualcosa di simile, ma avevamo troppa paura e non lo facemmo. Non eravamo certi della situazione; magari qualcuno ci avrebbe sparato.» Quando le chiesi quale fosse la prima impressione che ebbe dei soldati americani, fece un sospiro. «Avevano un aspetto molto sano. Ben nutriti e in salute, con le guance rosse. Ben vestiti, le uniformi ancora integre e nuove. Dal nostro punto di vista avevano un aspetto fantastico. Ach, a noi sembravano dèi. «Eravamo pazzi di gioia quando arrivarono gli americani. Certo non tutti erano felici. Noi lo eravamo, anche se più tardi fummo enormemente delusi per come ci trattarono e perché non vollero assolutamente sapere se uno era stato prò o contro. Ciò che gli americani fecero qui fu proprio una delusione, e la mia famiglia ne fu colpita in modo molto duro. Tanti, tanti nazisti si dileguarono senza avere nessun problema, ma noi fummo buttati fuori dalla nostra casa.» Fra il 1945 e il 1957 lei, i suoi figli e sua madre traslocarono ventuno volte. Le truppe americane gettarono fuori di casa non solo la sua famiglia, ma anche i loro beni. Oltre ai boccali da birra antichi, finirono a pezzi sul marciapiede, fra le altre cose, anche le porcellane di famiglia. bravate il nemico, dissi. «Ja. Spaccarono ogni cosa, e gettarono tutto fuori. Più tardi trovammo solo mucchi di rottami. Non era rimasto molto.» Tuttavia Frau Hàusler faceva una distinzione fra le truppe americane: i reparti di combattimento e quelli d'occupazione. «Quelli che arrivarono nei primissimi giorni facevano parte delle truppe combattenti e avevano visto qualcosa della guerra. Ma quelli che vennero più avanti, dagli Stati Uniti, non avevano visto niente del tutto. E molti di questi soldati giovanissimi volevano fare delle esperienze, come replicare un pezzetto di guerra, nicht? 189

Avere qualche avventura. Lo si può capire, ma quando ci sei dentro non è tanto simpatico. Un anziano camminava per la via. Lo presero a calci e lo gettarono oltre il recinto di un giardino. Cose di questo genere. «Alle pareti avevamo degli acquerelli autentici e altri quadri non incorniciati, e li riempirono di scritte. In cantina tenevamo delle bottiglie di succo di mela. Quando più tardi decidemmo di prenderne alcune, dopo che gli americani se n'erano andati, scoprimmo che se le erano scolate tutte e le avevano riempite d'urina. Oppure, nelle pentole di cucina trovammo carta igienica, carta igienica usata. E altre sciocche bravate di questo tipo.» Qualche momento dopo aggiunse che, pur ammettendo che quei comportamenti fossero comprensibili, «mi pareva che il comandante di zona avrebbe potuto prendersi un po' più di disturbo nel fare le distinzioni. Deludere dei vecchi non-nazisti era duro». Delusa o no che fosse, Martha fece domanda per un lavoro di segretaria nell'esercito americano, e lo ottenne. Là incontrò «un ufficiale ebreo molto gentile» che tentò di intervenire presso il suo comandante perché alla famiglia fosse permesso di tornare nella propria casa, ma senza successo. Il comandante aveva dei buoni motivi per nutrire dubbi: per le strade di Marburgo non si vedeva neppure l'ombra di un nazista. «Era estremamente imbarazzante. Non c'era più nessuno che avesse avuto un ruolo nel regime. Accadde molto velocemente. D'un tratto erano vestiti in maniera diversa, tutte le uniformi sparite, nemmeno un distintivo, ed erano stati tutti "costretti"... Il voltafaccia fu così rapido da apparire come una beffa. Non vidi mai niente di simile.» Dopo molti mesi passati quasi in vagabondaggio, alla famiglia fu permesso di tornare nella propria cantina, grazie all'intervento di «un americano molto gentile» che da poco era divenuto responsabile della casa. Più tardi, di nascosto, permise loro di dormire in soffitta, e infine di usare il bagno anziché un secchio. Frau Hausler non disse se il comportamento degli americani fosse influenzato in qualche modo da quello che sapevano o che avevano sentito sui campi di concentramento appena liberati, o se le avessero chiesto cosa sapesse dell'Olocausto. Ma io glielo chiesi, che cosa sapesse. L'argomento emerse durante la prima intervista e in molte altre negli anni successivi, anni in cui gli Hausler mi offrirono tanto amicizia quanto ospitalità. In effetti l'amicizia era uno dei motivi per cui sentivo l'obbligo di insistere con lei più di quanto feci con altre donne. Su sua proposta, ci rivolgevamo l'una all'altra usando il poco formale du\ non potevo farmi troppi scrupoli con una persona a cui davo il du. Un'altra ragione per insistere con lei era la sensazione che avesse passato un bel po' di tempo a struggersi in esami di coscienza, e in riflessioni sul Terzo Reich e sulla sua posizione nel Terzo Reich. Infine avevo semplicemente fiducia che provasse almeno a dire la verità. La mia fiducia si consolidò quando insieme ci imbattemmo in un piccolo episodio legato all'Olocausto. Gli Hausler mi avevano portato nella casa che usavano per le vacanze, una casa vecchia di duecentocinquanta anni nel 190

villaggio d'origine di Herr Häusler, fra i monti dell'Eifel. Un giorno, secondo una tipica abitudine tedesca, tutti noi, assieme a un cugino e a sua moglie, facemmo una lunga passeggiata nella vicina foresta. Lungo la strada, il cugino, un uomo in apparenza affabile, venne a camminare di proposito vicino a me e a Frau Häusler. Disse che voleva raccontarmi un fatto che gli era successo da soldato, durante la Seconda Guerra Mondiale. Dall'episodio nasceva una domanda a cui lui pensava che un americano potesse rispondere. Alla fine della guerra, esordì, nella Germania meridionale, reparti dell'esercito statunitense avevano catturato la sua unità. Il comandante americano ordinò ai soldati tedeschi di esumare i corpi sepolti in una enorme fossa, e di posarli uno a fianco dell'altro. (E probabile che gli americani volessero contare i cadaveri, tentare di identificarli, e risotterrarli.) Mentre continuavamo a passeggiare, l'uomo continuò a parlare. Di come si stava in piedi nel mucchio di cadaveri che arrivava fin sopra le ginocchia. Di un corpo da estrarre e della pelle che veniva via. Che era poi ciò che rendeva problematico spostarli, disse. Tiravi su un braccio e in mano non ti restava che la pelle. E accidenti, quanto puzzava. Quando andavi a dormire, dovevi lasciare i vestiti di fuori. Dall'inizio alla fine non spese una sola parola per chiedersi chi potessero essere le vittime, né come potessero essere morti. Né fece cenno all'inumanità che aveva condotto a quella fossa degli orrori, e neppure alle emozioni che aveva provato nell'eseguire un compito tanto orrendo. D'accordo, non avevo la minima idea di ciò che provasse dentro di sé. Ma in apparenza non sembrava che stesse nascondendo qualcosa. Sembrava semplicemente che non sentisse nulla. Poi venne al punto. I suoi amici la mettevano sul ridere e non gli credevano quando glielo raccontava, della pelle che si sfilava dalle braccia in quel modo. Avrei potuto informarmi su quale fosse il reparto americano a cui era stata affidata quella fossa, per aiutarlo a dimostrare che l'episodio era vero? La reazione di Frau Häusler fu identica alla mia. Rimanemmo inorridite tanto dal suo racconto, quanto dalla freddezza che aveva esibito. E con freddezza gli risposi, suggerendo che scrivesse al Pentagono. Quell'incidente ristabilì la mia fiducia in Frau Häusler (per me Martha, allora), e naturalmente rese più difficile insistere con lei sul tema dell'Olocausto. Ma insistetti. Tuttavia niente di ciò che disse cambiò nel corso degli anni: divenne solo più preciso. La prima volta in cui ci accostammo all'argomento riuscii ad aprirmi un varco chiedendole quale fosse la sua reazione quando incontrava una persona che sosteneva di non aver saputo «quello che stava succedendo». Mi rispose che chiunque leggesse un giornale avrebbe potuto dire cosa stava succedendo. Feci l'esempio di una donna di paese che affermasse di non aver avuto né il tempo, né i soldi, né la voglia di leggere un giornale. «Bisogna concederglielo,» disse. «Può essere vero. Inoltre credo che si debba distinguere. Sarei propensa a crederlo vero per molte persone, poiché c'erano tante cose che io stessa non conoscevo. Non sospettai mai 191

che ci fossero così tanti campi di concentramento. Pensavo che fossero due o tre. E se seppi qualche particolare sui campi di concentramento, fu solo per puro caso. «Durante il Terzo Reich abitavamo in una casa bifamigliare che apparteneva a mia madre. Noi ne occupavamo una metà, e nell'altra viveva il preside del liceo classico. Era decisamente un antinazista, e un sacco di amici antinazisti andavano a trovarlo. Un giorno venne da lui un tale che era stato rilasciato da un campo di concentramento, e raccontò alcune cose. Non molto, ma le sentimmo anche noi. Altrimenti non avrei saputo nulla delle crudeltà e degli orribili giochi che vi si svolgevano. Per esempio, quando c'era del pane, le SS prendevano i pezzi e li gettavano in aria e i prigionieri affamati dovevano afferrarli. Una cosa assolutamente umiliante, degradante. Questo è il genere di cose che venni a sapere.» Il vicino raccontò anche che il suo amico doveva essere stato incatenato a lungo, poiché si teneva in piedi e dormiva come se fosse ancora legato. Ospitando l'ex detenuto, quell'uomo si metteva in una posizione che lei definì «di un certo pericolo», e doveva essere cauto nello scegliere le persone a cui parlarne, per evitare di mettere in pericolo tanto se stesso quanto l'amico. (I nazisti proibivano agli ex detenuti di raccontare le loro esperienze nei campi.) Eppure, agli occhi di Frau Häusler il vicino non era del tutto una brava persona. «Era un uomo molto raffinato, che dava importanza al buon cibo e al modo di vivere,» come lei lo descrisse; gli mancava la bella vita d'anteguerra. Così, quando venne arruolato e fu messo di guarnigione «in un centro di raccolta da qualche parte in Francia», approfittò di tutti i lussi che se ne potevano ricavare. «Il suo comportamento mi fece infuriare. Dalla Francia spediva un'infinità di cose. Smisurati quantitativi di tabacco e di carne in scatola eccetera, e una magnifica lampada ebrea. Non lo trovavamo giusto. Avevano così tanta roba che ci chiesero di tenerne un po' nella nostra cantina.» Frau Häusler non pensava che il vicino rubasse quelle merci, ma che traesse vantaggio da una situazione terribile. «Probabilmente c'era la possibilità di comprare dai poveri ebrei ceste piene dei loro beni. Ma io non avrei comprato una lampada ebrea nemmeno se fosse costata cinque centesimi. Uno avrebbe dovuto pensare alla sua storia, no? Il mio vicino non era affatto ostile agli ebrei [Judengegner], e forse si potrebbe sostenere che quegli oggetti erano al sicuro con lui e che ne avrebbe avuto cura e che conosceva la loro storia. Si potrebbe sostenere.» Lei non poteva. Ma ribadì che se non avesse conosciuto quell'uomo, non avrebbe mai avuto notizie sui campi. «Perciò posso credere che molta gente sapesse poco o nulla.» Herr Häusler, che proprio in quel momento veniva a sedersi con noi, raccontò un episodio che confermava l'affermazione di sua moglie. Disse che durante la guerra lui e alcuni suoi commilitoni cercarono di informarsi sulla chiusura di una strada a Weimar, vicino al campo di concentramento di Buchenwald. Non avevano ancora raggiunto lo sbarramento quando delle guardie armate delle SS li scacciarono in modo perentorio. Se dei 192

soldati tedeschi in uniforme non potevano scoprire quello che stava succedendo, come potevano farlo dei semplici cittadini? Una possibilità era data dalle voci che circolavano, dalla cosiddetta propaganda dei sussurri. Interrogai Frau Häusler su quel fenomeno. Mi disse che «non era poi così frequente. Esisteva di sicuro. Ma di sicuro non sfiorava nemmeno la maggior parte delle persone. Non ci si prendeva neanche il rischio di dire certe cose. Avevi il terrore di dirlo a qualcuno che non conoscevi bene, di come avrebbe usato quelle notizie, se ti avesse denunciato dicendo: "E un disfattista, sta ostacolando la nostra vittoria"». Simili atti di «disfattismo» potevano condurre, e di fatto conducevano, in un campo di concentramento. Per la famiglia di Frau Häusler le trasmissioni radiofoniche proibite rimanevano la principale fonte d'informazione. Le chiesi se comprendessero notizie sulle camere a gas. «Questo non so dirlo con esattezza,» mormorò. «Non lo so. Non lo so.» Le chiesi quando lo seppe, e cosa. «Non vidi i trasporti,» disse. «E senza dubbio venni a conoscenza dei dettagli dopo la capitolazione.» Per «dettagli» intendeva le camere a gas? «Ja, sicuramente se ne era sentito parlare. Si pensava che fosse possibile tutto, ma che fosse proprio vero era quasi troppo orribile da credere. Solo più tardi, quando vedevi le fotografie, ci credevi davvero.» Provai a inchiodarla sull'epoca in cui aveva sentito quelle voci. Disse che doveva deludermi, ma proprio non lo sapeva. Di cosa, dunque, aveva avuto notizie precise? «Sapevo che gli ebrei venivano deportati. Prima vedemmo che dovevano mettersi a lavorare, avvocati eccetera, per la strada, a fare gli scavi per le rotaie del tram. E che non era una loro scelta,» aggiunse piano. «Lavoravano lì, un lavoro molto duro a cui non erano abituati e che li privava delle forze. E si sapeva che, dopo un certo tempo passato a fare quello, venivano portati via, in un campo. Non si poteva immaginare altro.» Sì, ma le voci, insistetti... «Ti può sembrare incredibile, ma non ne sentii molte prima della fine della guerra. C'era piuttosto una confusa sensazione di chissà quali tremende cose stessero accadendo. Ma non conoscevo i particolari.» I particolari? «Be', non sapevo dove fossero i campi di concentramento, quanti ce ne fossero, come fossero utilizzati. E sicuramente cominciarono a usare il gas ben prima che io ne sapessi qualcosa. Perfino prima che ne sentissi parlare,» mormorò. Disse anche che non era sicura di quando avesse sentito certe cose che adesso sapeva, se durante la guerra o dopo. Qualunque fossero le cose che aveva saputo durante la guerra, come aveva reagito? La sua unica risorsa, mi disse, era parlarne con gli amici, e soffrirne con loro. «Le cose erano già così avanti, che non potevi tentare niente senza 193

venire ucciso. Era già troppo tardi. Tutti noi ci svegliammo troppo tardi. Non sarebbe nemmeno servito, se venivi eliminata anche tu.» Mi disse che poiché le donne avevano la responsabilità degli anziani genitori e dei figli, erano le persone meno indipendenti e perciò le meno adatte a rischiare la vita. «Nel Terzo Reich l'uomo pensava: "Posso prendermi ogni rischio: c'è chi si cura dei miei figli". E la donna se ne curava. Ma le donne non potevano contare su un uomo che si occupasse dei figli. «Oltre tutto,» aggiunse, «c'era bisogno di tanto coraggio. E secondo me non tutti sono eroi. Credo che non ci si possa aspettare che ogni essere umano sia così coraggioso. E chiedere troppo.»

NOTE 1 Nell'aprile del 1985, Ronald Reagan, in visita ufficiale in Germania per il quarantesimo anniversario della liberazione del campo di concentramento di Buchenwald, visitò anche il cimitero di Bitburg, dove sono sepolti quarantanove ufficiali delle Waffen SS, scatenando una polemica infuocata soprattutto in Israele e negli Stati Uniti [N. d. T],

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DALL'IMPERATORE A UN BUCO FANGOSO (Frau Margarete [Greti] Sobiekowski)

Quando Greti era ragazzina, guardò l'imperatore pranzare. « L o vidi due volte a Breslavia. Andava sempre a caccia nella proprietà del principe della corona. E a Breslavia si fermava sempre all'istituto dei bambini ciechi. Era annesso al nostro collegio. Si fermava sempre a pranzo (crauti e carne affumicata) e diventava sempre un po' brillo. Allora stava con i bambini durante il caffè. Ordinava sempre un dolce slesiano che si chiama Streussel e che piaceva a tutti.» Rise. Tutto il suo collegio, «più di novanta ragazzine» e le loro suore, si presentava all'istituto per i bambini ciechi per vederlo. Che impressione faceva? «Era gentile. Ci salutava con la mano. Faceva davvero una buona impressione.» L'imperatore, il Kaiser Guglielmo II, indossava l'uniforme dei dragoni, disse. Rise di nuovo. «Erano tempi così meravigliosi. Oggi non c'è niente del genere.» Greti nacque nel 1895. Secondo lei, la vita cominciò ad andare a rotoli intorno al 1910. Nell'anno in cui parlammo aveva novant'anni, una voce roca e pochi denti, ma gli occhi brillanti e la mente acuta. Cioè, si comportava come se pensasse di essere acuta. Spesso parlava in un modo del tutto sconnesso. Poteva essere anche definita dispettosa, ostinata, diffidente, e senza alcun interesse per i moderni principi dell'igiene personale, per la disperazione della famiglia del figlio, presso la quale viveva. La loro casa era una scuola riattata in un villaggio isolato vicino al confine con il Belgio. Il villaggio si chiama Hohn, una parola che in tedesco significa «scherno», «beffa». Un nome che avrebbe potuto benissimo dargli lei. Greti era la maggiore di due figlie nate in una famiglia abbiente della città di Leobschùtz, nell'estremo lembo orientale della Germania, l'Alta Slesia, una terra considerata, almeno da Frau Sobiekowski, parte della Prussia. La ricchezza proveniva dalla parte della madre, il cui nonno possedeva «tre grandi proprietà». Nell'eredità, «a ciascuna di noi due ragazze toccavano centomila marchi in oro. Avremmo potuto vivere come "Dio in Francia". Qualche volta mio padre diceva: "Non devo preoccuparmi delle mie figlie. Hanno già abbastanza"». Il nonno di Greti aveva l'hobby della fotografia, che il padre di lei (suo genero) trasformò in un affare «molto grosso». In una notevole fotografia che risale ai «tempi meravigliosi», Greti, all'età di sei anni circa, sorride in posa e porta un enorme cappello di piume di struzzo. Una ragione per cui il negozio di fotografo ebbe tanto successo era che Leobschùtz era il quartier generale di uno squadrone di ussari. «Era una vera miniera d'oro, perché molti militari presero a frequentarlo. Nostro 195

padre talvolta doveva cambiare tre camicie [al giorno], madide di sudore per il via vai, tanto lavorava.» Aveva apprendisti e aiutanti, tra i quali non c'era però lei. «Non mi interessava affatto.» Aggiunse: «Un'impresa del genere porta con sé molti fastidi. Molti volevano sembrare molto più belli di quanto fossero in realtà e semplicemente non funzionava». Scoppiò a ridere come fece spesso durante i nostri incontri: un «ah ah ah» acuto e distinto, secco come la voce con cui raccontava. La famiglia viveva in una grande casa (la definì «wunderschön»), di cui si occupava una governante. La madre di Gred cuciva gli abiti della famiglia e dipingeva. Data l'immensità della casa, sette stanze per piano, una parte era stata affittata a una coppia sposata, Herr e Frau Kassel, che erano ebrei. I tempi meravigliosi di Greti si avviarono verso la fine quando la madre morì di polmonite. Greti disse che allora non si allontanò praticamente mai dal suo capezzale, e adesso «la tirerei fuori dalla tomba con le mie mani, se potessi». Aggiunse: «Adesso tutte le tombe laggiù sono in rovina. I polacchi fanno tutto kaputt». I sentimenti di Frau Sobiekowski nei confronti dei polacchi - uno dei tanti popoli di cui sparlò nelle ore e nei giorni seguenti - derivava in parte dal fatto che Leobschütz dopo la Seconda Guerra Mondiale era diventata parte della Polonia. Disse che non sapeva nemmeno qual era il suo nuovo nome, ma immaginava con sarcasmo che fosse «Leobschützski» (E Glubczyce.) Non fece mai nessun commento sulla radice del suo nome da sposata. «La nostra zona era la migliore area agricola della Germania. Adesso ci crescono solo cardi alti come un uomo. Dovrebbero lavorare. Sono troppo pigri.» La mia solita obiezione che quelle condizioni dipendessero dal sistema comunista provocò questa risposta: «L'ho sentito anch'io. Ma è sempre stato così». La madre di Greti morì all'età di trentun anni. «Mi sono lasciata tante di quelle cose alle spalle. Non vorrei ripetere la mia vita. Era così meraviglioso, i primi nove anni, quando lei era viva. Quando non si ha una madre, non si ha niente. Mio padre, lui era molto buono, ma mia sorella era malaticcia. Tutto l'amore che usciva da lui toccava a mia sorella. Mi sono sempre sentita un'orfana. Ero sospesa nell'aria.» Arrivò una prozia ad assumere un ruolo materno, ma dopo pochi anni Greti fu mandata in collegio a Breslavia. «Studiavo economia domestica e tedesco e tutto quello che c'era di collegato. Era molto bello.» Greti era ben consapevole del fatto che al di là del suo mondo privilegiato c'era la povertà. A Leobschütz «d'inverno cucinavamo per i poveri. Potevano ricevere un pasto caldo tutti i giorni. E nella scuola elementare c'era una grande cucina e cucinavano lì. Il Circolo delle donne della patria, si chiamava». (Era Frau Kassel, l'affittuaria ebrea, che lo organizzava.) «Si faceva molto per i poveri.» Disse che suo padre distribuiva pane e carbone gratis, e lei lo aiutava a scrivere la lista dei destinatari. A quell'epoca, gli unici uomini che Greti sembrava desiderare nella sua vita erano il padre, il nonno e il Kaiser. Quando le chiesi se era molto amato disse: «Ja, ooch», in un amalgama di slesiano e renano che significava «ach». Frau Sobiekowski, nonostante i tratti aristocratici degli anni dell'infanzia,

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alla fine della vita parlava in un modo estremamente popolare, sia per l'accento che per il vocabolario. Le chiesi degli amici maschi e disse: «Ooch, non ne abbiamo mai avuti. Non ci siamo mai interessate degli uomini. Mia zia una volta disse che facevo sempre una faccia scura: "Se continui così, non troverai mai un marito". Le dissi che non avevo bisogno di un marito. Non mi interessavano. Non mi sarei nemmeno sposata». Nella primavera del 1914 il suo mondo maschile si restrinse. Nel giro di un mese morirono sia il padre sia il nonno. Poi ci fu un avvenimento che illuminò la sua vita: l'inizio della Prima Guerra Mondiale. «C'era un tale entusiasmo! Tutti volevano andare a combattere. Anche mio cognato. Andava tutti i giorni a Breslavia solo per essere arruolato.» Perché la gente era tanto entusiasta? «Non lo so. Non riesco nemmeno a descriverlo. A quell'epoca avevamo un tale amore per la patria. Dipendeva dalla scuola. «Non può immaginarsi affatto come eravamo da bambini,» disse in un'altra occasione. «Ci saremmo lasciati fare a pezzi per la Germania. Era così a scuola. Quando avevo cinque anni, il primo anno di scuola, dovevo recitare una poesia che so ancora. "Il Kaiser è un uomo molto, molto caro. Abita a Berlino. E se non fosse tanto lontano da qui, andrei adesso a trovarlo."» Aggiunse che tanto amava la Germania quanto odiava i francesi. Durante la guerra, il mondo privato di Greti si ridusse ancora. «Mia zia morì e mia sorella aveva una relazione [con l'uomo che si era arruolato a Breslavia] e io me stavo lì da sola.» Alla festa di compleanno di un'altra zia conobbe Karl Sobiekowski, un insegnante di Berlino. Per gran parte della guerra fu di stanza a Costantinopoli (Istanbul), disse. Iniziarono a scriversi. Cosa le piaceva di lui? «Soprattutto era anstàndig.» La parola, che si potrebbe tradurre «decente», «decoroso», «affidabile», «conveniente» e che usava spesso anche in altre circostanze, suggerisce qualcuno su cui si possa contare. «Per me era quella la cosa più importante. E poi, molto gentile.» I Sobiekowski si sposarono nel 1921. Nel frattempo, entrambi erano stati testimoni degli sconvolgimenti politici ed economici del dopoguerra che avrebbero favorito l'ascesa del nazionalsocialismo. Frau Sobiekowski ricordava di aver visto soldati sconfitti che scendevano dal treno a Leobschiitz, e bande (di comunisti, disse) che li maltrattavano e strappavano loro le mostrine. Quando Karl Sobiekowski tornò per una breve visita a Berlino perché suo padre era morto, vide una situazione prossima all'anarchia. «Non c'era nessuno che voleva scavare la fossa [di suo padre]. E mio marito dovette andare all'ufficio del registro a denunciare il fatto e un proiettile gli trapassò il cappotto. Per le strade di Berlino c'erano vere e proprie battaglie.» Gli anni Venti erano un brutto periodo per essere un insegnante alle prime armi. I continui lamenti di Frau Sobiekowski per i problemi iniziali della carriera del marito erano confusi, ma a quanto pare fece molta fatica a trovare un posto dove insegnare, e soprattutto un buon posto. Una volta era stato mandato in un villaggio polacco in Slesia, anche se lui non parla197

va polacco, e aveva ottantacinque bambini a cui insegnare. Ma anche quell'impiego era finito. Nemmeno lei poteva essere molto d'aiuto. La spaventosa inflazione e la sconfitta della Germania posero fine ai suoi anni di gloria. «Riuscii a salvare solo seimila marchi. Niente di più. Era quello che avevo ricavato dalla vendita della casa. Tutto il resto andò perduto nella guerra. I nostri soldi erano in azioni delle Ferrovie dell'Anatolia. Era stato mio nonno a investirli lì e si ridussero a niente.» Nei suoi racconti del rovesciamento delle sue fortune non c'era traccia di autocommiserazione. La famiglia dovette rasentare l'estrema povertà. Disse che avevano vissuto per alcuni anni in un'abbazia e di aver ricevuto sussidi minimi. «Furono i tempi peggiori di tutti. Ero incinta del secondo figlio e non potevo mangiare margarina. E non potevamo permetterci di comprare il burro e dovevo sempre mangiare pane secco e poi due volte alla settimana facevo un po' di zuppa di patate senza nient'altro. Non c'era nient'altro.» Il secondo figlio, Bernhard, nacque più di due mesi prematuro e pesava un chilo e mezzo. «Non si poteva nemmeno guardarlo.» (Ricordò allegramente che la prima figlia, Käthe, sembrava «un uovo sodo pelato» alla nascita.) «Pensai: "Non diventerà mai grande".» Come fece a tenerlo in vita? «Mangiava per sei.» Disse che non poteva allattarlo molto, ma un dottore la aiutò a trovare gli ingredienti per avere un latte più nutriente. Nel 1928 Herr Sobiekowski ricevette l'offerta di un posto da maestro a Hohn. Disse che poiché erano cattolici doveva essere assegnato a un villaggio cattolico. Lo stipendio era misero, 335 marchi al mese, ma comprendeva l'alloggio (alcune stanze nell'edificio scolastico, sopra l'aula). Suo marito le disse che avrebbe accettato «solo per avere qualcosa da mangiare». Dopo essersi trasferiti dall'estremo lembo orientale all'estremo lembo occidentale della Germania, ciò che trovarono fu un povero villaggio, un buco fangoso. In tutto erano trecento abitanti. Apparve subito chiaro, disse, che il posto era rimasto libero perché nessun altro l'aveva voluto. «Non avrei mai voluto venire qui. Non mi piace nemmeno adesso. Sono una slesiana. Non riesco a descrivere l'odio che porto ai polacchi. Quella bella terra.» I terreni di Hohn non si potevano nemmeno confrontare. «Produceva così poco. Era tutto sassi.» La povertà della terra intorno a Hohn determinava la povertà dei suoi abitanti. Disse che la gente aveva così poco che un bambino se ne andava in giro con addosso la vecchia canottiera del padre, a cui la madre aveva attaccato delle calze aperte come maniche. «Qui la gente era così povera. Le strade di terra battuta, tutta la polvere sulle scarpe. Mi sono sempre lamentata perché avevano mandato mio marito in un letamaio simile. Non può immaginarsi i poveri. Divennero ricchi per la prima volta sotto Hitler. Investì molto nell'economia agricola. Quando arrivammo qui c'era un solo cavallo, e nei pascoli solo buoi. Ooch.» Quanto all'alloggio dei Sobiekowski, era rozzo, senza nulla di «moderno» come acqua calda corrente, riscaldamento centrale e nemmeno, probabilmente, bagno in casa. E la cantina era piena d'acqua. Ma la bambina con le piume di struzzo era diventata industriosa, oltre che feconda. In tutto avrebbe avuto cinque figli, tre maschi e due femmine, si prendeva cura di 198

loro, faceva praticamente tutti i lavori domestici (a mano), e lavorava un grande orto. « N o n ho mai comprato una verdura.» L o stipendio del marito bastava giusto per comprare altri cibi. « C o m e facevamo a risparmiare? Spendevamo ogni centesimo. Ma non abbiamo mai avuto debiti. Mai.» Tuttavia, «non potevamo permetterci niente, un viaggio o cose del genere. Non andammo mai in vacanza». Invidiava la sorella senza figli, che aveva sposato anche lei un maestro. « L o r o facevano molti viaggi per le vacanze. Ma io dovevo tirare su i bambini. Non andai da nessuna parte.» Frau Sobiekowski non si rese la vita più facile a Hohn stringendo qualche amicizia. «Ooch, era gente così stupida. Prima di tutto non li capivo neanche. Chiamavano le cose con altre parole. Dicevo solo: "Ja, ja". Mio marito faceva: "Stai sempre a dire ja, ja". "Cosa dovrei dire? Non li capisco." "Allora sta' zitta."» Dunque, non aveva amiche? «Nein, nein. Con loro non si poteva. Erano sotto il nostro livello. Su che cosa potevamo fare conversazione, comunque?» E «non avevo tempo» e «non volevo immischiarmi nei pettegolezzi del villaggio [Dorfklatsch]. Quello che faceva mio marito bastava e avanzava. D'inverno, quando avevano molto tempo libero, [i contadini] venivano di sera a parlare. E quando c'era uno, quello lì si lamentava di uno, e quando c'era l'altro, era lui a lamentarsi del primo. Certe volte erano urla. Mio marito mi diceva: "Tieni la bocca chiusa"». Herr Sobiekowski andava ben al di là dello stare a sentire. L a moglie descrisse lungamente il suo intervento in aiuto di bambini che avevano ferite infette che non venivano curate. In un caso, prese una bambina e la portò a farsi operare d'urgenza a un occhio, e pagò l'operazione con i risparmi della famiglia Sobiekowski. « N o n c'è stata una sola casa a cui non sia stato d'aiuto. Però di ringraziamenti non ne abbiamo mai sentiti.» Mentre Hohn viveva i suoi drammi locali, i nazionalsocialisti stavano preparando i loro. Nelle elezioni del 1930, disse, quasi tutti a Hohn votarono «nero», per il partito cattolico di centro. Ma quattro scelsero i nazionalsocialisti. E uno votò comunista. Disse che quando si seppero i risultati, la gente si domandava chi avesse votato per i nazisti, e alla fine pensarono che fosse la fanatica del villaggio (una donna che sarebbe riapparsa nella vita di Frau Sobiekowski), il fratello e i genitori. «Non scoprimmo mai [all'inizio] chi aveva votato comunista. L a bambina dei Bergrath venne da noi e disse che era stato sicuramente Herr Hasselmann. Ma poi saltò fuori che era la vecchia Frau Rommel, che non c'era più con la testa, che era cattolica e aveva messo un segno sulla K, pensando che volesse dire Katholisch mentre in realtà voleva dire Kommunist.» Nel 1933, simili equivoci erano fuori questione. Hohn poteva sembrare l'ultimo posto al mondo che uno volesse trovare o potesse desiderare. Ma il nazionalsocialismo lo trovò. In realtà, gli abitanti di Hohn avrebbero potuto pensare che fosse il primo governo che si preoccupasse di loro. E grazie ai ricordi di Frau Sobiekowski, Hohn mostra anche i dilemmi che il Terzo Reich pose alla gente comune che poteva non essere entusiasticamente nazista. Vivere sotto il nazionalsocialismo in una grande città o in una cittadina era un conto, in un villaggio un altro.

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Una questione era la scelta di entrare nel Partito. I pubblici funzionari, compresi i maestri, dovevano iscriversi al Partito oppure perdevano il posto, ma per anni Herr Sobiekowski esitò. Poi il responsabile distrettuale del Partito venne da lui per consegnargli una lista di detti nazisti da recitare ogni mattina prima dell'inizio delle lezioni. Al loro posto, «mio marito diceva sempre una preghiera». A Herr Sobiekowski fu ordinato anche di non insegnare religione. «Mio marito continuò a farlo. Gli dicevo che se qualcuno lo denunciava, finiva in un KZ. Ja, sarebbe successo proprio quello. Ma qui avevamo un responsabile caro e amichevole. Sarebbe bastato che un bambino dicesse: "A scuola diciamo sempre le preghiere" o qualcosa del genere. Nessuno disse niente. E mio marito continuò a farlo. "Vedi," diceva, "il buon Dio mi protegge".» Scoppiò a ridere. «Bisognava tenere la bocca chiusa. Chiunque dicesse qualcosa contro, [il Partito] sarebbe venuto a saperlo. Molte notti la preoccupazione mi teneva sveglia. Mio marito era il tipo [da dire qualcosa contro di esso].» A quanto pare Herr Sobiekowski nutriva le stesse preoccupazioni riguardo alla moglie. «Mio marito diceva sempre: "Tieni la bocca chiusa e sta' tranquilla. Lasciagli fare quello che vogliono. Tanto non possiamo cambiare niente comunque".» Lei ripetè quelle frasi, con leggere variazioni, almeno altre due volte. Una volta citò queste parole del marito: «Un giorno ti faranno fuori». Un'altra volta lasciò intendere che lei esprimeva la sua opinione lo stesso. «Lasciali fare. Non potevo farne a meno. Che facessero di noi quello che gli pareva.» A dispetto delle esitazioni dei genitori, Käthe e Bernhard si iscrissero con entusiasmo alla Hitlerjugend. Lo stesso fecero «tutti i giovani», disse Frau Sobiekowski. «Andarono tutti nella Hitlerjugend. E i contadini furono riorganizzati. Capisce, [Hitler] sapeva cosa voleva dire organizzare. Perfettamente. Non c'era nessuno bravo come lui. Quanto al resto, lui non era male. Secondo me aveva in mente qualcosa di totalmente diverso. Lui in sé non era così male... Effettivamente c'era la disoccupazione. Non c'era niente. Ed era tutto kaputt.» Verso il 1936, Herr Sobiekowski dovette affrontare un'altra prova. Adolf Hitler stava arrivando in città. Cioè, avrebbe partecipato a una parata nella città di Gmünd. Non solo ci andavano i pompieri di Hohn con il loro camion, ma vendevano i posti sul camion alla cittadinanza. «C'erano alcuni posti liberi e qualcuno andò a chiedere a mio marito se gli sarebbe piaciuto andare. Lui disse di no, che non poteva per via della scuola. Se avesse voluto sarebbe potuto andare. Era felice di avere una scusa. Per un'occasione del genere, avrebbe potuto benissimo chiudere la scuola.» Suo figlio, in effetti, lo protesse. «Il nostro Bernhard era così per Hitler. E disse: "Oh, Mutti, andiamo, andiamo". E io andai con lui.» Il gruppo di Hohn prese posizione su un ponte su un canale. «Hitler ci passò accanto molto lentamente. Avrei potuto strappargli via il cappello. Lui non aveva paura.» Che tipo di impressione faceva? «Capisce, non ero molto interessata. Ma era un uomo attraente [hübscher]. Questo bisogna dirlo.» Quando passò di lì, disse, «tutti gridarono "Heil Hitler! ". Sembravano impazzi-

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ti. Glielo dico io». Insistette a dire che lei non gridò con loro. «Dovevo assicurarmi che mantenessimo il nostro equilibrio, in quella circostanza. Poi andammo a prendere un caffè.» Sempre nel 1936, Herr Sobiekowski ricevette una citazione per giustificare il fatto che non fosse iscritto al Partito. La moglie disse che le chiese: «Perché dovrei farlo? Sono contro Hitler». Un pomeriggio, verso le tre, suonò il campanello. Erano due maestri di villaggi vicini che Herr Sobiekowski conosceva. «Avevano lo stesso pezzo di carta. Dicevano: "Cosa dobbiamo fare? Cosa dobbiamo fare?" Poi il più giovane disse: "Dirò che per me è troppo caro. Tre marchi al mese è troppo caro per me. Lo scrivo e glielo mando. Poi sentiamo cosa dicono e decideremo il da farsi". Fece così e due giorni dopo io andai con mio marito a Münstereifel [il paese vicino dove c'era il mercato] e andammo in banca.» C'era anche il maestro più giovane. «"Karl," disse, "iscriviti a quella vecchia merda del Partito. Io sono già stato trasferito." Avevano spedito quel poveretto fuori dal villaggio per farlo andare in un posto dove doveva, Dio sa cos'altro, andare a prendere l'acqua. Gli avevano dato quel lavoro tremendo. Solo perché aveva scritto che l'iscrizione era troppo cara.» Fece la sua solita risata. «Poi da mio marito arrivò l'altro [maestro] e disse: "Cosa dobbiamo fare?" "Ja," disse mio marito, "non possiamo fare nient'altro o ci capiterà la stessa cosa. Ma aggiungerò che sui miei alunni voglio mano libera." Rispose così e dovette iscriversi al Partito. E il libretto del Partito venne convalidato fino al 1933. Facevano cose del genere. Come se fosse stato membro del Partito fin dal '33.» In Alta Slesia il marito di sua sorella, anche lui maestro e veterano di guerra (aveva perso un occhio quando il suo aeroplano era stato abbattuto), aveva anche lui problemi col Partito, nel momento in cui voleva farsi promuovere a direttore. Si era iscritto al Partito come gli avevano ordinato e aveva appeso un quadro di Hitler come gli avevano ordinato, però aveva appeso anche un crocifisso. E non aveva figli. «Gli chiesero perfino perché non aveva figli. Mia sorella andò da due ginecologi. E loro lo cancellarono dalla lista. Se non aveva figli, non aveva bisogno di diventare direttore e cose del genere. Era terribile.» Disse che siccome «aveva avuto un tale scontro con il Partito, si offrì volontario per andare a combattere. Solo per stare un po' tranquillo dopo quell'interminabile avanti e indietro». Era «psicologicamente kaputt». (Fu assegnato a un corriere aereo tra la Germania e la Crimea, e sopravvisse a stento alla sua seconda guerra.) Anche Herr Sobiekowski apprese che l'iscrizione al Partito nazista non bastava a tenere il Partito nazista fuori dalla sua vita. Fu perseguitato perché non era abbonato al quotidiano locale nazista, il Westdeutsche Beobachter, e fu costretto a cedere. «Allora ci abbonammo, ma lo buttavamo sempre via. Non l'abbiamo mai aperto.» Frau Sobiekowski non leggeva molto comunque, a quanto pare. Non aveva letteralmente tempo. «Sveglia ogni mattina alle cinque e mezzo, anche prima della guerra. E magari andavo a letto alle due di notte.» Disse che durante il giorno cucinava, lavava la biancheria, curava i bambini e l'orto, 201

e la sera «dovevo cucire e rammendare» e stirare e preparare da mangiare per il giorno dopo. Di sabato ogni tanto veniva una donna ad aiutarla per le pulizie, ma Herr Sobiekowski criticava il suo modo di fare la polvere e la faceva rifare alla moglie. «In casa lui non mi aiutava per niente, anche se sapeva come si faceva. Sapeva pelare le patate con la destra e con la sinistra. Ma diceva che apposta si era sposato, così non doveva più fare niente.» Aggiunse: «Diceva sempre: "Se dovessi morire e tornare di nuovo sulla terra, non vorrei sposare nessun'altra che te". Allora gli rispondevo: "Io ne ho abbastanza. Non mi sposerò mai più". Lo credeva anche lui.» Lui passava le serate a leggere. « E poi diceva: "Questo è un bel libro. Dovresti leggerlo". Ja, magari ne leggevo sei pagine, e poi lui faceva: "Senti, non potresti sbucciarmi un paio di mele?" Dovevo alzarmi e sbucciargli le mele. Mi sedevo di nuovo, e c'era qualcosa d'altro. Gli dicevo: "Senti, due, tre pagine, cosa vuoi che combini? E meglio che me ne torni in cucina a fare il mio lavoro".» Diceva che suo marito era «buono, ma strano» ed «egoista», tuttavia disse che il suo era «un matrimonio d'amore». Per il compleanno «ricevevo un regalo, ma era sempre qualcosa di utile. Una nuova pentola. Un secchio per il carbone». Quando scoppiai a ridere sentendo del secchio, si mise sulla difensiva e disse che allora la gente non aveva le stesse aspettative di oggi. Frau Sobiekowski poteva essere indaffarata fino allo sfinimento come Hausfrau e Mutter (una volta disse che non era mai sola un minuto), ma il Partito avvicinò anche lei. In quanto moglie di un funzionario pubblico, avrebbe dovuto iscriversi alla Frauenschaft. «Cercai di evitarlo. Vennero da me e mi dissero: "Oh, per favore". Io mi comportavo da stupida. Dissi di no. Avevo quattro figli a cui badare e non potevo. E poi mio marito disse che noi [sic] dovevamo iscriverci alla Frauenschaft. Altrimenti sarebbe successo qualcosa d'altro.» Si iscrisse. Ogni giovedì un gruppo di donne del posto si riuniva per due ore in una classe vuota, che, come sottolineò Frau Sobiekowski, lei doveva riscaldare. Di solito le donne facevano calze a maglia per i poveri o si portavano la roba da riparare. A loro piaceva andarvi. «Sentivano sempre qualcosa di nuovo, nicht?» Una volta partecipò a una riunione della Frauenschaft in un altro villaggio. Sul tavolo, davanti a ogni tazza, c'era un ritratto di Hitler. «Era una fotografia così bella. Sembrava così attraente in quella foto.» Se la portò a casa. Dopo un certo numero di riunioni del giovedì pomeriggio, Herr Sobiekowski le suggerì di rendere quegli incontri un po' più festosi, cantando qualcosa o preparando qualche dolce. «Feci così e ricevetti un rimprovero. Avrei dovuto chiedere il permesso.»Mezzo secolo dopo, Frau Sobiekowski era ancora immensamente irritata. Risultò che alle donne era piaciuto talmente quel pomeriggio di festa che avevano commesso l'errore di parlarne, e la notizia giunse alla responsabile locale della Frauenschaft grazie alla fanatica di Hohn, la donna che aveva votato per Hitler nel 1930. (La stessa donna gridò contro i Sobiekowski perché avevano detto «buongiorno» invece di «Heil Hitler!» mentre andavano a messa.) E lei voleva a tutti i costi diventare la responsabile della Frauenschaft di Hohn. Il sinda202

co le disse di no, dato che il gruppo aveva bisogno di qualcuno che almeno sapesse scrivere (bene) e facesse fare le cose. Frau Sobiekowski avrebbe potuto essere nominata responsabile. Non molto tempo dopo, Frau Sobiekowski ricevette la visita di un funzionario della Frauenschaft che portava una lettera anonima. Diceva che i Sobiekowski non erano veri sostenitori di Hitler e la sezione di Hohn della Frauenschaft aveva bisogno di una responsabile che lo fosse. Il funzionario le chiese se riconoscesse la scrittura. «"OOCH!" dissi. "E di quella là. La riconosco."»1 Hohn era relativamente lontana da ciò che stava accadendo agli ebrei tedeschi, perché, secondo Frau Sobiekowski, non ce n'era neanche uno. Ma a Münstereifel ce n'erano. I Sobiekowski si trovarono lì per caso la sera del 9 novembre 1938. «All'improvviso arrivò una macchina dalla porta da cui si entra, ci fu un gran gridare e saltarono fuori queste SA, tutta gente delle SA. E all'improvviso, c'era un negozio ebreo, non mi ricordo il nome, e vedemmo le pallottole volare attraverso la vetrina e mio marito disse: "Vieni, vieni, non dobbiamo immischiarci". Questo fu l'inizio... Bruciarono le sinagoghe. A casa a Leobschiitz la bruciarono. Era una cosa così grande e così bella. Un tempio meraviglioso, favoloso. Grande. Dieci torri e tutto.» Lei non era mai entrata, ma sua sorella «era nel coro di una chiesa che aveva cantato lì per un matrimonio. E ci raccontò com'era. Gli uomini se ne stavano seduti lì tutti con un cilindro». Frau Sobiekowski rise. Quando le chiesi che reazione aveva avuto alla «Kristallnacht», lei fece una pausa. «Eravamo furiosi. Voglio dire, c'era sempre quella libertà. Professione di fede.» Allora ricordò con gioia una scena della sua infanzia. Durante i preparativi di una festa ebraica, Frau Kassel preparava biscotti tondi e dava a lei i ritagli di pasta avanzata. Fu in pratica l'unico ricordo positivo di Frau Sobiekowski nei riguardi di qualunque cosa o persona ebrea. Alla lista delle persone che maltrattò - polacchi, comunisti, francesi, abitanti di Hohn - devono essere aggiunti gli ebrei. La prima e durevole cattiva impressione derivò da Herr Kassel, un avvocato. «Non potevo sopportarlo. Era così scuro e aveva una faccia così lunga e gli occhi, sa, così scaltri. E così che mi sono sempre immaginata il diavolo. Mancavano solo le corna. Ma con me era molto gentile, non posso dire altrimenti. Anche sua moglie. Ma lui ci fece arrabbiare.» Sosteneva che Herr Kassel aveva frodato suo padre non pagando qualcosa che doveva, mentre l'affitto era rimasto ridicolo. «Glielo dico io, che scherzi che ci ha fatto, quel tipo. Mio nonno diceva: "Pagherò io tutto l'affitto, per tutto il tempo, ma quello lì buttatelo fuori". E lui [Herr Kassel] diceva: "Ho un padrone di casa così buono. Non traslocherò mai da questa casa".» Quando le chiesi perché secondo lei Hitler aveva tutta quella rabbia nei confronti degli ebrei, Frau Sobiekowski rispose: «Le dirò una cosa. Gli ebrei erano in colpa, per quello che è successo. A casa [a Leobschütz] avevamo una popolazione di quattordicimila abitanti e di loro trecento erano ebrei. Ed erano solo uomini d'affari, grossi capitalisti e avvocati. 203

Tutte cose in cui uno non doveva lavorare. C'erano tre fabbriche tessili. I proprietari erano tre ebrei, tre fratelli.» Descrisse una complicata lavorazione che aveva a che fare con la produzione di scialli. I lavoratori dovevano «legare i fili in un nodo, almeno cinque volte e da entrambi i lati. E per quello prendevano venticinque centesimi». Disse che la paga di una sua conoscente per ricamare una grande tovaglia e dodici tovaglioli erano solo quindici marchi. «Sarei rimasta a letto piuttosto che lavorare per loro. «A casa c'era molta rabbia contro di loro. Truffavano la gente.» Quando le chiesi se aveva avuto solo brutte esperienze con gli ebrei, lei disse di no, poi raccontò della visita insieme al marito da un sarto da uomo a Leobschütz, «l'ebreo Boehm». (Le chiesi se suo marito diceva davvero: «Vado dall'ebreo Boehm», e rispose: «Era l'unico negozio grande».) Il cristiano Sobiekowski aveva solo il vecchio cappotto invernale di suo padre, vecchio e sgualcito, ma pochi soldi per comprarne uno nuovo. Insieme, gli sposi avevano risparmiato trenta marchi. «Allora lui disse: "Vado a chiedere all'ebreo Boehm se per caso ha qualche cappotto che aveva scartato". E allora andò lì e gli chiese se non aveva qualche cappotto che aveva scartato, dato che lui non poteva permettersi di più, e la situazione era così e così.» Herr Boehm propose a Herr Sobiekowski di provare un cappotto particolarmente bello. Herr Sobiekowski protestò. Herr Boehm insistette. «Gli [vendette] il cappotto. Le dico che era un bellissimo cappotto. Lo portò almeno dieci anni, e lo pagò solo trenta marchi.» Quando Herr Sobiekowski guadagnò denaro extra dando lezioni a un reparto militare, tornò al negozio di Herr Boehm per comprare altri vestiti. Del gesto dei trenta marchi di Herr Boehm, lei disse: «Lo faceva per procurarsi clienti. Però lui era uno perbene». Assolutamente non perbene era «l'ebreo Bitomski», che vendeva «scarpe tremende. Il negozio fallì, ma poi gli ebrei lo aiutarono a tirarsi su e lui riaprì il negozio con il nome della moglie. Gli ebrei si aiutano l'un con l'altro, sempre. Ma nella nostra classe per due, tre anni avevamo una ragazza ebrea [Jüdin], Era irreprensibile, quella ragazza. Il fratello fu ucciso nella Prima Guerra Mondiale. Ottenne perfino la Croce di ferro. Era l'ebreo Goldmann.» Parlò dell'«ebreo Hachs», un commerciante di bestiame. Quando lui e la moglie diventarono vecchi, vendettero la loro casa e si ritirarono in un ospizio per anziani e vissero lì per tutto il Terzo Reich e anche dopo. «A loro non fecero nulla.» Come è possibile? «Tutto è possibile» disse con una risata. «Ma lo so io. Può contarci, quello che le dico è vero.» Disse anche: «A Münstereifel furono uccisi molti ebrei. Un'amica di mia figlia, Müller, all'inizio era nella Hitlerjugend, nel BdM e poi scoprirono che sua madre era di origini ebraiche e dovette uscire [dal BdM] ed era così sconvolta, perché le piaceva così tanto. Ja, e quelle due [madre e figlia Müller], io non lo vidi, ma le caricarono in macchina e le portarono via. E la madre, Frau Müller, e la figlia saltarono giù dalle macchine. E poi si rifugiarono in un convento e lavoravano in cucina e si salvarono». 204

Descrisse le «macchine» come «le macchine scoperte che usavano per trasportare la gente, per essere gassate o quello che era. Non lo so. All'inizio di quelle cose non sapevamo niente. Della faccenda del gas [Vergaserei]. Sentivamo sempre che andavano in un KZ, ma pensavamo che fossero prigionieri lì». Prima delle deportazioni, i nazisti isolarono gli ebrei rendendoli politicamente appestati, come senza volerlo rivelò Frau Sobiekowski. Un giorno, a Münstereifel, lei e il marito incontrarono per caso «"l'ebreo Nathan". E parlavamo ancora con lui e tutto e più tardi Karl disse: "Finirò nella merda se ci hanno fotografati"». Fece la sua solita risata. «Ma non successe.» Nominò anche, come fecero molte donne, degli ebrei tedeschi che erano fuggiti per tempo. E disse che se gli ebrei si fossero accorti che Hitler era così «fanatico su quell'argomento», avrebbero potuto «farsi da parte» e andare in America o in Inghilterra, come fecero molti a Münstereifel. I Müller avrebbero potuto andarsene, disse. Fece capire che avrebbe preferito che l'avessero fatto. Frau Müller era così «vivace». A un certo punto, dopo la guerra, questa «Judenfrau» ritornò a Münstereifel, e un giorno andò dal macellaio a comprare l'arrosto. Quando toccò a lei, «quello non le piaceva e nein, non le piaceva quel pezzo, e ci volle un quarto d'ora per trovare il pezzo che le andava bene. Se il macellaio avesse fatto lo stesso con tutti i clienti, dove saremmo arrivati? Io sarei stata molto quieta se fossi stata un'ebrea che era scampata a tutto quel teatro, mein Gott. Capisce, gli ebrei sono così». Magari Frau Müller voleva dimostrare qualcosa al macellaio? Frau Sobiekowski rise e ripetè che gli ebrei sono «vivaci». Quando le chiesi che cosa avrebbe fatto nei confronti degli ebrei se avesse avuto lei il potere al posto di Hitler, Frau Sobiekowski, come altre donne, reagì dapprima deridendo l'idea di un potere del genere. Poi, come altre donne, accennò appena alle cose che avrebbe potuto fare, prima di cambiare argomento. «Prima di tutto, avrei lasciato in pace la gente così poteva fare quello che voleva. Era terribile. Non avevamo più una volontà per conto nostro. Un paio di volte mio marito disse che ne aveva la nausea.» Quando la incalzai, disse: «Non avrei mai avuto il potere, per cui non posso nemmeno considerare l'idea». Rise. «Sono troppo stupida per quello. Capisce, sono troppo buona. Preferisco dare che ricevere.» Quando scoppiò la Seconda Guerra Mondiale, Frau Sobiekowski fu assai meno entusiasta che nell'analoga circostanza precedente. «Mi domando perché Hitler l'abbia cominciata,» mi disse. «Non eravamo per niente pronti.» Cosa avrebbe potuto dire a Hitler l'imperatore, il Kaiser Guglielmo? «Si sarebbe stupito. Hitler era un semplice caporale. Non sapeva niente su come si vince una guerra. E non lasciò che il nostro popolo facesse quello che voleva. Gli dicemmo per molto tempo di finirla. M a lui non lo fece.» All'inizio, Bernhard Sobiekowski era fanaticamente favorevole alla guerra. Quasi sicuramente suo padre non lo era, e la sua distanza dai nazisti sembrava crescere sempre di più. Era diventato una «pecora nera» nella 205

comunità degli insegnanti, disse Frau Sobiekowski. Si manifestarono anche contrasti familiari. Dopo il liceo Bernhard avrebbe dovuto andare a «una scuola di addestramento retta dai nazionalsocialisti». Herr Sobiekowski si rifiutò strenuamente di lasciarlo andare. Ma Bernhard si arruolò subito come volontario. Quando le chiesi se c'erano state discussioni familiari su questa scelta, la madre mi disse di no. «Non c'era motivo. Tanto l'avrebbero preso ugualmente. Alla fine li presero tutti.» Quando la guerra si estese all'Unione Sovietica, «due giovani» giunsero a casa Sobiekowski per dare la notizia al loro maestro. Lei disse che Herr Sobiekowski commentò: «"Siamo finiti, mamma. Abbiamo perso la guerra". Ecco cosa disse. E il giovane che glielo aveva detto allora gridò: " E lei che è un maestro dice queste cose! Dovrebbe andare in un campo di concentramento".» Il commento estremamente arrischiato di Herr Sobiekowski, ammesso che l'abbia pronunciato davvero, a quanto pare non ebbe conseguenze. Ma i suoi sentimenti erano ormai abbastanza noti da suscitare un atto di vendetta da parte dei nazisti. All'età di circa quarantacinque anni, Herr Sobiekowski fu arruolato. Dietro quella decisione c'era il locale Ortsgruppenleiter, anche lui maestro. Quando giunse la cartolina precetto, Greti era incinta del suo quinto figlio, Heinz. Era furibonda per il comportamento dei nazisti nei confronti del marito. « L o fecero solo perché lui non ballava alla musica del Partito.» Un po' della sua rabbia si scaricò sulla sua «bella» fotografia di Hitler. «Quando mio marito venne arruolato, la presi, la strappai e la bruciai.» Riferì che la vecchia che ogni tanto la aiutava nelle pulizie le chiese: «Oh, dov'è la sua bella foto di Hitler? Era così bella». (Ricordo, anche se non c'è nelle registrazioni, che Frau Sobiekowski mi disse di aver comunicato alla donna quello che aveva fatto, raccontò al marito di averglielo detto, e lui la rimproverò per l'imprudenza.) Herr Sobiekowski, come gli era stato ordinato, partì per il fronte, ma non andò in prima linea. Doveva lavorare alla costruzione di un muro lungo la frontiera francese. «Prese tanto di quel freddo che si ammalò. Reclutavano la gente e non avevano posto per alloggiarli e ripararli. Dormivano su panche e nelle scuderie.» Heinz nacque mentre lui era lontano. Il quinto figlio «ariano» portò con sé l'onoreficenza nazista per la fecondità. Frau Sobiekowski ricevette una Croce di madre in bronzo. Il fatto di essere stata decorata dalla stessa istituzione che aveva punitivamente arruolato il marito evidentemente non la disturbò più di tanto. Si tenne la medaglia, anzi, la tirò fuori e me la fece vedere. Ben presto avrebbe avuto altre croci da portare. Mentre il figlio più piccolo era ancora un lattante, il figlio maggiore fu ferito in battaglia. Una granata spappolò una mano di Bernhard. Frau Sobiekowski disse che il medico voleva amputargliela, ma uno specialista gliela rimise insieme tanto bene «con fili d'argento» che in seguito Bernhard «potè di nuovo avvitare le viti più piccole». Ricordava di aver fatto una passeggiata con lui mentre era a casa in licenza. Lui portava i guanti soprattutto per proteggere quella mano, e fu affrontato da un tenente che gli domandò furiosamente: 206

«Perché un caporale porta i guanti?» In seguito Bernhard fu inviato sul fronte russo. Nonostante la ferita alla mano e tutte le altre cose che doveva aver sperimentato, continuava a essere accanitamente favorevole alla guerra. «Diceva: "Ti dirò questo. Quando a Hitler saranno rimasti solo due uomini, uno di loro sarà Bernhard". Era così entusiasta. Poi diceva: "Vado in Russia a combattere per la Slesia".» Come mai Bernhard era tanto entusiasta di Hitler? Sua madre disse sotto voce: «Non lo so». Disse che il suo più grande desiderio era andare in Inghilterra. (Stupidamente pensai che intendesse come turista. Nein, precisò. Come soldato.) In Russia, dove a quanto pare i normali combattimenti non gli bastavano, Bernhard si offrì volontario per un commando speciale. Fu addestrato in una squadra di nove soldati, disse, per «affumicare i bunker russi» con lunghe aste. «Ja. E poi ci arrivò la notizia: "Disperso".» Si interruppe per un'insolita lunga pausa. «Ci aveva mandato una cornice per fotografie. Il loro commando aveva fatto una baracca di rami. E ogni volta che se ne andavano, i russi la mettevano kaputt. Allora catturarono tre russi e dissero loro: "Vi lasceremo qui se ci assicurate che loro non ci mettano tutto kaputt. E divideremo anche il nostro cibo con voi". Le cose andarono così bene che lui diceva: "Eravamo come fratelli". E quello con un rasoio ricavò una cornice da una quercia. Così bella, glielo dico io.» L'aveva data a Bernhard come regalo di ringraziamento, disse lei. Ce l'ha ancora. La guerra arrivava a casa Sobiekowski anche in altri modi. Käthe, che era talmente entusiasta del BdM da esserne diventata una comandante, era in Cecoslovacchia a occuparsi dei bambini tedeschi mandati lì per sfuggire alle bombe. «Le piaceva molto.» Poi Herr Sobiekowski fu rimandato a casa, malato a causa della privazioni che aveva subito. Morì nel 1947, come diretta conseguenza di esse. Sua moglie ne era convinta. Quando tornò, le bombe cominciarono a cadere su Hohn e nei dintorni. Frau Sobiekowski definì i bombardamenti «costanti». Ad aumentare le preoccupazioni sue e del marito c'era il fatto che il loro figlio Peter era così eccitato quando i bombardieri nemici sorvolavano il villaggio che correva fuori per vederli. «Era una cosa tremenda. Voleva sempre uscire a vederli e Karl aveva paura che gli capitasse qualcosa e gli correva dietro.» Frau Sobiekowski sosteneva che una volta, mentre era a pattinare coi bambini durante la guerra, un caccia inglese sparò a un bambino. Sosteneva anche che gli inglesi lanciavano caramelle avvelenate e bambole e portapenne esplosivi, proprio per attirare e fare del male ai bambini tedeschi. Disse che la figlia di una donna che conosceva perse tre dita per aver aperto un portapenne. Nessuno dei miei tentativi di mettere in discussione la logica di quelle azioni la fece vacillare. (Nemmeno i tentativi di trovare delle prove a sostegno delle sue affermazioni ebbero successo.) I Sobiekowski avevano un altro problema a Hohn. L'esercito tedesco requisì la scuola, a parte due stanze per la famiglia, per alloggiare soldati. 207

Era Frau Sobiekowski, naturalmente, che doveva condividere la cucina con loro e organizzare la famiglia sulla base delle loro esigenze. Parlò più volte dei disagi legati alla presenza dei soldati. Però si sentiva davvero al sicuro. «Nessuno ci avrebbe mai fatto niente né ci avrebbe attaccato né niente. C'era veramente ordine.» Eppure il ricordo più chiaro di quel tempo, disse, era «la fame. Fame dappertutto. Dovevo sacrificarmi per i figli. Non c'era abbastanza pane. Di solito avevamo bisogno di due pagnotte al giorno». I contadini non li aiutavano, disse. Mi disse che era abituata a comprare da loro due o tre litri di latte al giorno e un chilo di burro alla settimana. Ma i contadini avevano trovato clienti più disperati o più vantaggiosi: gli abitanti delle città. «Mio marito aveva una pleurite doppia e il dottore gli aveva prescritto, sulla tessera annonaria, un quarto di latte al giorno. E loro dicevano: "Non vale la pena, per un quarto di litro". Ecco come facevano.» I bombardamenti rendevano più difficile anche andare nei negozi di alimentari. «Potevamo andare a comprare la carne solo alle cinque del mattino, fino al massimo le cinque e mezzo o le sei, a Münstereifel.» La situazione peggiorò. Per aumentare le dosi di grassi rispetto alle minuscole razioni, tutta la famiglia andava nei boschi a raccogliere faggine. «Era una cosa noiosa e faticosa» e faceva freddo perché le ghiande erano cadute dagli alberi. «Con venticinque chili si otteneva un buono che valeva per mezzo chilo di margarina. Peter si lamentava sempre. Non gli piaceva. Ma Brigitte riusciva a raccoglierle con tutte e due le mani. E poi a casa mio marito doveva controllarle tutte, perché se c'era un buco non le accettavano.» Aggiunse che oggi le persone che vanno al supermercato e vedono tutte le qualità di burro e di margarina non possono capire com'erano le cose allora. «Sa cosa penso? Oggi i giovani dovrebbero passare una giornata, una sola, come quelle, così capiscono come stavano le cose. Non sanno niente. Quegli stupidi ragazzacci [Fratzen] sono nati dopo la guerra e hanno trovato tutto facile.» In mezzo alle bombe e alle altre miserie giunse la notizia che c'era stato un tentativo di assassinare Hitler. «A molti dispiacque. Ne saremmo venuti fuori più velocemente. Ma lui era così protetto, non c'era niente da fare. E quei poveretti vennero tutti impiccati.» Disse di Hitler: «Era uno stupido. Faceva quello che volevano gli altri. A dirigere la guerra è stato un disastro. Dopo tutto era solo un caporale.» «Sprofondò tutto il Volk nell'infelicità,» aggiunse. Dal suo punto di vista, verso la fine della guerra si mise tutto a peggiorare allo stesso tempo. E da tutta la Germania, la gente di città faceva la fila per venire a Hohn e vendere utensili domestici in cambio di cibo. Sulla loro scia i nazisti vennero di nuovo a bussare alla porta dei Sobiekowski. «Se non fossimo stati così perbene e avessimo aperto bocca, metà del villaggio sarebbe finito in un KZ. Una sera suonò il campanello uno della Geheimpolizei [la Gestapo]. Mi chiese se c'era mio marito. Voleva parlare con lui. E io lo feci entrare in soggiorno e dalla cucina li sentivo parlare e 208

parlare. Pensavo: "Buon Dio, non più pace. Succederà qualcosa d'altro". Mio marito avrebbe dovuto fare da informatore. E avrebbe dovuto far sapere alla Geheimpolizei quando arrivava una donna di Colonia a vendere tutto. Si era portata perfino la vasca da bagno. Veniva due o tre volte alla settimana. Mio marito doveva dirglielo, così loro potevano prenderla. E lui disse: "Non lo farò. Devo abitare con questa gente". Loro volevano sapere tutto. E poi l'uomo se ne andò, ma quella donna la arrestarono lo stesso.» Poi i Sobiekowski appresero che la loro figlia Käthe era stata trasferita in Germania, per essere addestrata a manovrare i proiettori per individuare gli aerei alleati. In poco tempo comandò tre batterie. Sopravvisse a due bombardamenti a tappeto sulla città di Wesel nella Ruhr, ma «in una notte perse sessanta ragazze». Frau Sobiekowski disse che nessun Volk a parte i tedeschi avrebbe potuto farcela a sopravvivere a quella guerra. Parlò di un'inglese che sosteneva di essere stata bombardata due volte. Frau Sobiekowski le disse che non aveva idea di cosa fosse una «guerra di bombe», che un atteggiamento del genere era «ridicolo», che (in Inghilterra) «avevano avuto una città kaputt, ma tutto il resto non era kaputt». E Londra? «Londra non era un granché.» Non era «un granché»? Le bombe tedesche uccisero circa 65.000 civili inglesi, molti dei quali a Londra. 2 «Avrebbero dovuto buttare molte più bombe,» aggiunse Frau Sobiekowski. Quando le chiesi perché, rispose: «Perché ci hanno rovinato. Sparare a bambini che pattinavano sul ghiaccio. Quella non è guerra. E poi le bambole e l'altra roba. Un tedesco non avrebbe mai fatto una cosa simile. Così subdola e malvagia». E camuffare da docce le camere a gas? «Non potevamo fare niente per quello, nicht?» Dopo un incerto silenzio, aggiunsi che le prime bombe caddero sull'Inghilterra, non sulla Germania. «Non so,» disse. Le chiesi se aveva «qualcosa di personale contro gli inglesi». «No, per niente. Ero solo furiosa contro i polacchi.» Una furia simile l'aveva solo, a quanto pare, contro l'ultimo gruppo della sua lista. Le SS. Perché negli ultimi mesi della guerra, mentre si ritiravano dall'Europa che avevano devastato, anche le SS cercarono rifugio, o meglio se lo presero, nella scuola. «Le SS erano terribili. Avevo paura di loro. Non chiedevano neanche e andavano in cantina a prendere il carbone, che si poteva avere solo con le tessere. Ma non potevamo dir niente.» E rubavano il cibo dei Sobiekowski, compresa l'intera razione di carne per la settimana. Frau Sobiekowski si lamentò perfino con il capo delle SS. Lui rispose con sarcasmo: «Non posso certo guardare in ogni bocca per vedere se ci sono tracce di carne». Magari se l'era mangiata proprio lui, pensò. Una volta che le SS portarono un'oca che avevano preso da qualche parte, gliela fecero cucinare, e non ne diedero nemmeno un boccone ai Sobiekowski. «E loro avevano tutto. L'ho visto io.» E avevano la sfrontatezza di rubare le patate

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dei Sobiekowski e di fargliele arrostire. Però la margarina ce la misero loro, disse. Non l'avevano presa dalla riserva che i Sobiekowski si erano procurati con le faggine. Poi arrivarono altre truppe di fanteria, e furono sistemate anche loro nell'aula. Venivano «dall'ultima impresa sulle Ardenne. Ma erano perbene, quelli della fanteria. Non erano SS». Frau Sobiekowski disse che i soldati, esausti, avevano all'incirca quindici anni ed erano molto affamati. Le SS non si lasciarono commuovere. «Voglio dire, avevano tutto, potevano dare qualcosa a quei ragazzi. Nein, quei Grosskotzkerle [grossi tizi da vomito], loro se la passavano bene. Vino e tutto. Potevano avere tutto, tutto dalla Francia. «Una volta feci un po' di zuppa di patate e Karl mi disse: "Da' il resto ai ragazzi, non hanno niente neanche loro". Glielo dico io, come se la sono leccata fino all'ultimo quel po' di zuppa. E mentre me ne stavo tornando di sopra con la pentola vuota, questo tizio delle SS salta fuori e dice [lei alzò la voce]: "Cosa ci fa qui lei?" " H o dato a quei poveretti un po' di zuppa," gli rispondo. "Loro ne hanno a sufficienza." "Ja, acqua con tre foglie di cavolo dentro. Ecco il loro pasto." Questo gli dissi. Poi Karl mi sgridò. Diceva che avevo fatto una gaffe.» Per Gred Sobiekowski, le ultime settimane di guerra furono quasi intollerabili. «Certe volte dicevo che sarebbe stato meglio essere morti. Non c'era più nessuna gioia di vivere. Tutti nella scuola, questo branco di soldati, ooch.» E costanti bombardamenti. Una volta la famiglia restò in cantina per due settimane di seguito. Disse che non avevano più l'elettricità dal novembre 1944, e nemmeno candele, ma «i soldati ci diedero i loro mozziconi e mio marito li fuse per fare candele». Poi venne la notizia che Hitler era morto. «Dicevamo che era un bene che se ne fosse andato. Spesso pensavo che si sarebbe ammazzato o avvelenato. Mi faceva diventare matta quando parlava così tanto della guerra e della pace. Perché non se n'era andato al fronte a combattere? Guglielmo e gli altri erano al fronte.» Q u a n d o le suggerii che forse Hitler non era molto coraggioso, lei disse: « E r a austriaco, non tedesco. Hitler. Ah! Che gente stupida, prendersi un austriaco come capo». Alla fine, gli americani trovarono anche Hohn. Disse ridendo: «Starò zitta su quello che hanno fatto a noi. Ci hanno derubati come nessun altro. Si sono presi tutte le cose di valore». Incluse, disse, la radio di famiglia e la collezione di francobolli di suo marito. Gli americani nominarono anche Herr Sobiekowski sindaco provvisorio. Dato che lui parlava francese, come faceva uno degli americani, era quella la lingua che usavano per comunicare. Disse anche che gli americani avevano paura dei tedeschi. «Avrebbe dovuto vedere i carri armati che avevano. Nel nostro orto ce n'erano due. Erano dappertutto. Nessuno camminava davanti a loro. Non erano come i nostri [soldati], I nostri andavano davanti, loro si mettevano sopra. Quello è amor di patria, capisce.» Come si inseriva l'Olocausto in questo amore? Tanto per risvegliarle la memoria, mostrai a Frau Sobiekowski le fotografie di un libro intitolato 210

Frauen unter Hakenkreuz (Donne sotto la svastica).5 Dopo alcune scene di sorridenti gruppi di giovani, arrivammo a quelle di donne ebree nude sull'orlo di una fossa comune. Quando le chiesi se fossero state diffuse dopo la guerra, rispose di no. «Non le ho mai viste. Non penso nemmeno che siano vere.» Non crede che queste fotografie siano autentiche? «Non credo che sia tutto vero. E propaganda.» Fece una risatina. Di chi? «Non posso giudicare. Non lo so. Non l'ho nemmeno sentito.» Mi ripetè che lei e gli altri pensavano che i nazisti punissero la gente mettendola in campi di concentramento, ma non uccidendola. Qual era stata la sua reazione quando apprese cosa era successo? «Naturalmente li condannammo. Anche gli ebrei hanno il diritto di vivere, nicht?» Dopo una lunga pausa affermò: «Ma lei può star sicura che i russi non erano niente di meglio». Stava parlando dei soldati russi che stuprarono le donne tedesche. E disse che sapeva di un soldato americano che aveva stuprato una ragazzina. Cosa provava a essere tedesca, sapendo che il popolo tedesco aveva edificato i campi di concentramento? «La cosa terribile era che non si poteva farci niente. Sotto Hitler eravamo del tutto privi di potere. Non si poteva nemmeno esprimere un pensiero libero, per l'amor di Dio.» Ma si sente meno orgogliosa di essere tedesca? «Ooch, io sono prussiana.»

NOTE 1 Frau Sobiekowski disse che alcune persone di H o h n videro in seguito quella donna a Berlino, mentre correva dietro le truppe americane e gridava: «Se trovate Hitler, voglio che gli rompiate tutte le ossa». La donna era ancora viva quando andai a H o h n ma disse a un membro della famiglia Sobiekowski che non aveva tempo per parlare con me. Aveva qualche problema con il tetto. 2 R. Ernest e Trevor N. Dupuy, The Encyclopedia ofMilitary History, New York, Harper and Row, 1970, p. 1198. Ringrazio Linda Wheeler per avermi ricordato che le bombe alleate uccisero, secondo le stime, 600.000 tedeschi, in massima parte civili. ' Miinchen, Deutscher Taschenbuch Verlag, 1985.

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UNA MODESTA DONNA DELLA RESISTENZA (Mrs. Freya von Moltke)

Non ci sono dubbi su quale sia stata la parte da cui si schierò Freya von Moltke durante il Terzo Reich. Il nome di Kreisau, sua vecchia residenza, appartiene al vocabolario della resistenza antinazista. Il villaggio rurale di Kreisau si trova nel territorio che era allora la provincia orientale tedesca di Slesia e che ora fa parte della Polonia. Per secoli gli abitanti più eminenti di Kreisau furono senza dubbio i von Moltke. Vivevano nei pressi del villaggio, nel palazzo Moltke, e controllavano migliaia di acri di terre coltivate e di foresta. Ma durante il Terzo Reich la proprietà assunse un ruolo che andava ben oltre l'agricoltura e la cura dei boschi: dentro le sue mura circa venticinque anime offese lavoravano all'impresa altamente sediziosa di progettare, sulla carta, un nuovo governo per una Germania sconfitta. Sedizioso era considerato il fatto che agissero nella convinzione che la Germania sarebbe stata sconfitta. Il gruppo non si dette mai un nome. Ci pensarono, quando lo scoprirono, i nazisti. Abili com'erano nei giochi di parole e nelle allitterazioni, inventarono il «Kreisauer Kreis» [circolo di Kreisau]. A quel tempo il nome di Kreisau non era nulla in confronto al nome dei von Moltke. Esso rappresentava per i tedeschi ciò che per gli americani rappresentano i nomi di Washington, Grant e Eisenhower; non i presidenti, ma i generali. H feldmaresciallo Helmuth von Moltke era l'eroe militare della Prussia del diciannovesimo secolo. Il suo discendente più diretto, nonché erede del titolo, era il conte Helmuth James von Moltke, suo pronipote. Freya Deichmann, la donna che doveva diventare sua moglie, era, per usare le sue parole, una «figlia di semplici borghesi». Ma è una definizione tanto modesta da risultare inesatta. Freya Deichmann veniva da una delle famiglie più importanti di Colonia, e il matrimonio dei suoi genitori aveva significato una fusione fra banchieri e finanzieri. Prima di perdere la maggior parte delle loro sostanze nella depressione all'inizio degli anni Trenta, i Deichmann possedevano case magnifiche e altri segni esteriori di ricchezza, come una carrozza con lacchè in livrea.1 Come i Deichmann, anche i von Moltke si erano impoveriti. Nell'autunno del 1929 la situazione finanziaria della tenuta di Kreisau era così critica che il vecchio Herr von Moltke richiamò a casa Helmuth, il maggiore dei suoi figli, per cercare di salvarla. Helmuth, allora studente di legge ventiduenne, tornò, e da Kreisau si mantenne in contatto epistolare con Freya, una studentessa universitaria di diciannove anni. I due giovani si erano conosciuti quell'estate in Austria, in una «magnifica località di villeggiatura dove una donna austriaca riuniva i suoi amici. Erano tutti antinazisti, e rimasero tali». L'ospite, mi riferì Mrs. von Moltke, aveva «radici ebree». 212

(Non mi disse che la donna e suo marito erano Eugenie e Hermann Schwarzwald, impegnati in campo sociale e legati a molti artisti e intellettuali del mondo di lingua tedesca.)2 La corrispondenza da e per Kreisau durò due anni, che «sembrarono dieci», mi disse Mrs. von Moltke. Helmuth ebbe altre storie d'amore «di sicuro. Io, nessuna», aggiunse ridendo. Non pareva che la coppia fosse destinata a sposarsi. «Lui aveva una visione molto scettica della vita. "Non mi sposerò e non desidero dei figli," diceva sempre. E io replicavo: "Chi sta parlando di matrimonio? Io no". Ma lui continuava a ripeterlo. Gli dissi: "Smettila. Non ho intenzione di mettere in piedi un matrimonio a vent'anni".» I suoi progetti erano di studiare legge e di vedere il mondo. Poi, nel 1931, ricevette «la singolare lettera [der merkwürdige Brief] in cui mi diceva che adesso doveva sposarmi. Sua madre era tornata in Sudafrica e lui doveva sposarsi per prendersi cura dei fratelli più piccoli e della sorella».3 Non era una proposta molto lusinghiera, Freya von Moltke ne convenne, «ma era comunque molto gentile. E lui disse: "Va bene". E io dissi: "Va bene, lo voglio anch'io"». Mrs. von Moltke rise. «Questo fu tutto.» Si sposarono quell'anno. «A ogni modo la cosa più importante era vivere con lui, sicché naturalmente mi trasferii in Slesia. I miei parenti furono sorpresi che andassi così lontano, così a est, ma capirono che era quello che volevo. Dunque andai in quello strano altro mondo, che è il modo in cui i tedeschi occidentali consideravano le regioni orientali della Germania. Per quanto mi riguarda fu la cosa più importante della mia vita. In me non c'è proprio niente della donna emancipata, ma ho sempre vissuto una vita straordinariamente emancipata. Ebbi la fortuna di entrare a far parte di una famiglia in cui gli uomini non erano dispotici e totalitari, come succedeva nella maggior parte delle case tedesche. Le donne avevano gli stessi diritti. Ciò valeva per mia suocera, per mia cognata e per me.» A detta di tutti la loro fu un'unione stupenda. «Alcuni matrimoni vengono decisi in paradiso. Non c'è nient'altro da pensare. Funzionano in modo favoloso. Io ho avuto sicuramente un matrimonio di questo tipo. Non fu mai comodo o facile, dato che facevamo una vita faticosa. Non c'era denaro, non c'era niente laggiù, dovevamo lavorare, eravamo poveri. Ma furono sempre cose di importanza secondaria. Al giorno d'oggi la vita che facevamo non verrebbe definita comoda. Ma era così bella. La campagna, l'energia della famiglia, le attività interessanti, le altre care persone di laggiù. Tutto ciò mi rendeva felice. «Dubito che lei troverà molte donne che abbiano vissuto una felicità simile. Questo è l'aspetto straordinario della nostra esistenza. Quando capita di avere una cosa tanto magnifica, non dura. Era un dono enorme. Poi ci fu il nulla. E non fu molto piacevole.» Per Freya von Moltke «il nulla» significava la morte di suo marito. I nazisti lo uccisero nel gennaio del 1945. Nel gennaio di quarantanni dopo, apparentemente senza alcun rapporto con quella data, tre generazioni della famiglia dei von Moltke e dei loro 213

amici si riunirono in una vecchia casa rivestita in legno nel Vermont orientale. La casa dava su un tranquillo paesaggio della Nuova Inghilterra: campi coperti di neve e staccionate. Freya von Moltke ne era la proprietaria. Si era trasferita negli Stati Uniti per stare con un'amica, non per voltare le spalle alla Germania. Ma una volta venuta vi era rimasta. Il panorama appariva tanto più immobile se paragonato al dolce trambusto da fine stagione natalizia che regnava dentro la casa. Asta von Moltke Henssel, l'amata cognata di Freya von Moltke venuta in visita da Berlino col marito, diceva che la casa del Vermont - certamente non un modello dell'ordinata vita familiare tedesca - le ricordava piacevolmente la vita a Kreisau. C'era sempre «viel los» [un gran movimento]. Il «viel los» era evidente soprattutto nel grande soggiorno al piano terreno, che conteneva un albero di Natale decorato in stile tedesco con mele e biscotti, un ampio tavolo rotondo a cui quella sera avrebbero mangiato dieci persone, e una varietà di comodi posti dove sedersi in mezzo ai resti dei pacchi natalizi. Una nipote e una sua amica, sedute nelle poltrone imbottite, leggevano. Un nipotino più piccolo entrava e usciva trotterellando. Da un'altra stanza giungeva il suono di un flauto. Un orologio batteva le ore, membri della famiglia partivano e tornavano dalle passeggiate nei dintorni, di tanto in tanto squillava il telefono. Freya von Moltke teneva agevolmente tutto sotto controllo. Aveva un aspetto che colpiva piacevolmente. Alta, gli occhi azzurri e la carnagione scura, un profilo che si conservava grazioso, era magra al punto che i parenti insistevano perché mangiasse di più. Aveva modi schietti e non affettati. Sedemmo su un divano antico, davanti a un vassoio con del tè alle erbe e dello Stollen, un tipico dolce natalizio, fatto in casa. Ancora prima che cominciasse a parlare della sua giovinezza, risultava chiaro dall'ambiente che la circondava e dal suo modo di comportarsi che Mrs. Freya von Moltke non viveva nel passato. Ma che attingeva da esso. «Mi nutro ancora delle azioni di resistenza che compimmo. Per me è qualcosa di completamente vivo. Non tanto l'orrendo nazismo, ma i nostri sforzi contro di esso. La mia vita ha raggiunto il punto più alto con mio marito e nel periodo in cui ci opponemmo al nazismo.» Mi disse che suo marito era stato «un uomo assolutamente eccezionale». Le capitava spesso di pensare a lui? La sua risposta, due minuti dopo l'inizio dell'intervista, fu: «Non c'è giorno in cui io non pensi a mio marito». Avevo immaginato, mentre raggiungevo la sua casa, preoccupata per le dimensioni sempre più piccole degli aerei su cui mi imbarcavo, di incontrare una donna piena di coraggio e dignità, e così era stato. Ma non ero pronta a incontrare una donna innamorata. La morte di Helmuth von Moltke fu presagita il 30 gennaio 1933, il giorno in cui Hitler venne nominato cancelliere. «Era da noi a colazione un magistrato distrettuale socialdemocratico che mio marito conosceva bene. Disse: "Ach, ora i nazisti hanno preso il potere. E molto meglio. Che entrino pure in carica. E allora si amministreranno male, come ogni altro partito che stia al governo".

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«Allora mio marito disse: "Tu sei pazzo] [Du bist wahnsinnig!] Tu non hai idea di quale orribile catastrofe, di quale giorno tremendo sia questo. Tu non riesci a vederlo". E lo disse a quell'uomo il 30 di gennaio. «Mio marito era un'eccezione. E per questo che nella mia vita lui ha continuato a essere così importante. Mi fidavo completamente della sua guida. Certo io avevo su di lui una grande influenza. Mi ascoltava, mi interpellava. E a volte aveva degli ideali tanto elevati che gli dicevo: "Non essere così folle". Non è come se io fossi subordinata a lui. È difficile da descrivere, ma ciò che intendo dire è che un buon matrimonio è fatto così.» Da novelli sposi i von Moltke si stabilirono a Berlino, lui lavorando come avvocato praticante, lei studiando legge. Più tardi Freya abbandonò gli studi per poi riprenderli e ottenere la laurea «in fretta e male» presso «l'eccellente università Humboldt di Berlino». Aggiunse di usare il suo titolo solo quando scriveva una lettera di referenze per qualcuno. All'inizio del mese in cui quel conoscente socialdemocratico era venuto a colazione, Freya von Moltke ebbe una visione fugace di quello che stava per avvenire in Germania. Era andata con un'amica a vedere la prima di un film in un teatro di Berlino ma, essendo arrivata tardi, dovette attendere nell'oscurità dell'ingresso che venisse accesa una luce prima di essere condotta nella sala. «Accanto a me stava un uomo, proprio al mio fianco, e io vidi i suoi occhi [soltanto]. Era buio. Quegli occhi erano terribili, spaventosamente inquieti. Pensai: "Chi c'è vicino a me? Che occhi sono quelli?" Poi la luce si accese e [vidi che] era Hitler.» Hitler e il suo entourage erano seduti proprio di fianco a lei. Le sembrò di vedere, mi disse, «degli animali selvaggi». Prima della fine di quel mese, gli «animali selvaggi» sarebbero stati al potere. Ben presto lei e suo marito divennero sempre più turbati per «il trattamento riservato agli ebrei e a coloro che Hitler considerava inferiori. Erano esseri umani come noi e il modo in cui venivano trattati era in contraddizione con ciò che pensavamo significasse il mondo civile. Trovavamo che fosse un tradimento contro l'umanità, per quello che sull'umanità ci era stato insegnato. E avevamo dei legami personali con degli ebrei. Per molti tedeschi non era così. Per loro tutto ciò di cui sentivano parlare era,» fece una pausa, «teoria. Per noi era la nostra stessa pelle. Allora è facile opporsi». Eppure, mi disse, l'antisemitismo virulento non era la norma. «Alla maggioranza della popolazione tedesca l'antisemitismo crasso non piaceva. Erano antisemiti. Ma erano contrari alla rozzezza. Molte donne erano contrarie. Ma naturalmente avevano paura. Che cosa dovremmo fare per opporci? È questo, vede? Che cosa dovremmo fare per opporci?» Dare una risposta a questa domanda dovette diventare sempre più difficile. Mrs. von Moltke fece riferimento a una delle primissime misure prese dai nazisti, approvata nel marzo del '33. Fu chiamata legge delega [Ermächtigungsgesetz]. «Grazie a essa, i nazisti furono autorizzati a eliminare i diritti fondamentali. Potevi essere imprigionato senza vedere un giudice che si curasse del rispetto dei diritti. Mio marito mi disse: "Questa è la fine dello Stato di diritto".» Lo Stato di diritto [Rechtsstat] era per i 215

tedeschi ciò che la Dichiarazione dei diritti del cittadino è per gli americani. «Poi ci furono questi assassinii orribili, nel 1934, delle SA, e gli intrighi. [Si riferiva al putsch di Rohm]. Era così ovvio che fosse tutto assolutamente illegale. La gente non aveva più i diritti di cui aveva goduto fin dalla nascita. I nazisti stabilivano ciò che era legale e ciò che non lo era. E la gente non se ne rendeva conto.» Ovviamente Helmuth von Moltke non si limitò a rendersene conto. «Fin dal primo momento volle fare qualcosa contro i nazisti. Prestare aiuto.» Una delle sue prime reazioni al nazismo fu di aiutare gli amici ebrei a emigrare. «Mio marito glielo ripeteva continuamente. "Via! Via! L'Olanda non è abbastanza lontana," diceva a quelli che conoscevamo. "I nazisti faranno tutto ciò che vorranno. Lontano! Via! Io vi aiuterò." Aiutò molti ad andarsene. In Inghilterra, in America.» Le accuse di mancanza di patriottismo mosse più tardi ai von Moltke erano giuste, mi disse. «La nostra intera esistenza non fu affatto nazionalistica, ma ebbe molto più a che fare con i principi. Non facemmo mai nulla per motivi nazionalistici. E ci veniva rinfacciato: "Questa gente, non sono patrioti". No. Non lo eravamo.» Ma chi erano i von Moltke? Lo storico e diplomatico americano George Kennan definì Helmuth von Moltke «la più grande personalità, dal punto di vista morale, e la più liberale e illuminata negli ideali» che incontrò su «ambedue i fronti nella Seconda Guerra Mondiale». 4 Non è esagerato affermare che von Moltke mise in pratica quegli ideali facendo tutto ciò che era in suo potere per salvare la vita di tutte le vittime del nazismo che potè, dai suoi amici ebrei tedeschi ai prigionieri di guerra stranieri. Considerata la reputazione di suo marito, è comprensibile che il racconto di Freya von Moltke sia meno incentrato sulla sua vita che non su quella della coppia. Ma si commetterebbe uno sbaglio se si sottovalutasse la sua personalità. Soltanto negli anni Ottanta, mentre cominciava un processo di riassetto della storia internazionale, ella affrontò ripetutamente l'interesse del pubblico con garbo e intelligenza. Rinunciò a ogni pretesa sulla proprietà terriera di Kreisau, anche per non mettere in discussione le nuove frontiere della Polonia. E più tardi, durante una conferenza tenuta a un'organizzazione ebraica dai sopravvissuti del gruppo di resistenza degli studenti di Monaco noto come la Rosa Bianca (Mrs. von Moltke è a capo della sezione americana della fondazione omonima), fu lei che si alzò per sostenere che di fronte agli orrori perpetuati dal nazionalsocialismo i resistenti costituivano delle piccole minoranze. «Tutto quello che possiamo fare è essere modesti,» disse.5 In un certo modo era ciò che lei era sempre stata: una donna modesta. Che durante il Terzo Reich i von Moltke si rendessero conto delle ingiustizie e intervenissero su di esse entro i limiti della legalità, era un fatto. Ma in che modo? E dove? Sia dal racconto di Freya che dalle lettere di Helmuth pubblicate, è chiaro che Kreisau era il luogo a cui si sentivano emotivamente legati. Lui aveva esercitato la professione d'avvocato nella zona, mi disse Mrs. von Moltke, ma una volta che i nazisti furono al pote216

re trovò difficile agire nel modo in cui avrebbe voluto. La Slesia era un ambiente troppo provinciale e il suo nome era troppo conosciuto per garantirgli una sufficiente riservatezza. Così andò a Berlino, a cinque ore di viaggio, per lavorare dove, per usare le parole di lei, «quello che si faceva non era così visibile». Ma tanto a Berlino quanto a Kreisau, mentre gli anni e i decreti passavano, Helmuth provava un'angoscia straziante. Mrs. von Moltke mi disse che egli tentò di contrastare i nazisti in tutti i modi possibili, intercedendo, per esempio, in favore degli imprenditori ebrei a cui i nazisti avevano espropriato le aziende, ma che si sentiva schiacciato dall'atmosfera generale e dal proprio pessimismo. Anche per «prendere un po' d'aria,» come mi disse sua moglie, andava spesso in Inghilterra, dove aveva delle conoscenze, oltre che, naturalmente, le sue radici britanniche da parte materna. Inoltre approfittò di quei periodi per prendere una laurea inglese in legge. Ma fece più di questo. Si impegnò in atti di tradimento di cui Mrs. von Moltke non fece menzione. Egli fu, nell'estate del 1939, uno dei molti tedeschi che ottennero di incontrare i governanti britannici, compresi il primo ministro Neville Chamberlain e Winston Churchill, allora Lord dell'ammiragliato, cioè ministro della marina militare, per avvertirli del progettato attacco di Hitler alla Polonia. E tentò di informare gli inglesi e, attraverso i suoi contatti con dei giornalisti d'oltreoceano, gli americani, delle altre iniziative dei nazisti. Tornato in Germania, prevedendo che la guerra fosse ormai inevitabile, cercò un lavoro che lo liberasse dall'obbligo di combattere per Hitler, ma che gli desse allo stesso tempo il potere di agire dietro le quinte. Lo trovò presso l'alto comando delle forze armate tedesche, come consigliere legale dell'ufficio degli affari esteri dei servizi segreti militari (l'Abwehr, un centro di opposizione al nazismo). Dopo lo scoppio delle ostilità una parte della sua strategia consistette nel convincere i nazisti che il rispetto delle norme del diritto internazionale anche in tempo di guerra sarebbe stato d'aiuto più che d'intralcio per il Terzo Reich.6 Il suo libro postumo, Letters to Freya, contiene i resoconti delle difficoltà angosciose, dei fallimenti, della disperazione crescente per le situazioni di cui veniva a conoscenza e che non poteva minimamente modificare, e dei successi che a fatica riusciva a strappare (come la revoca di un ordine che imponeva che i prigionieri di guerra fossero incatenati). A un certo punto, mi raccontò Mrs. von Moltke, seppe che in Olanda, a Bruxelles e in Francia i nazisti stavano «obliterando» i prigionieri. «Lavorò molto, molto duramente contro la fucilazione degli ostaggi, perché non venissero uccise delle persone innocenti. Andò perfino in quei paesi a parlare con le SS. Diceva loro: "Non serve a nulla. Provoca soltanto la popolazione. E del tutto controproducente". Helmuth agiva sempre partendo da questa posizione: non che ciò che facevano era orrendo, ma che non portava loro alcun vantaggio.» Egli trovava sorprendente il fatto di ottenere un successo simile con le SS, mi disse Mrs. von Moltke. Per lei quei successi non erano una sorpresa. «I nazisti rispettavano i grandi eroi delle guerre tedesche, come questo 217

generale von Moltke. Per loro era un nome importante. Mio marito era l'erede più diretto di quel nome, e ciò li impressionava. Perciò lui poteva intraprendere delle iniziative che un altro non avrebbe potuto. Fu, in effetti, quello che mi dissero quando lo misero fra gli esponenti della resistenza da destinare al patibolo. Himmler permise che mi fosse detto esplicitamente, attraverso mio cognato che aveva tentato di salvarlo: "Adesso non possiamo più avere riguardi per il suo nome". Il che significa che avevano dei riguardi. Anche [Helmuth] lo sapeva. "Sono in una posizione migliore," mi diceva.» Una parte della sua azione contro i nazisti consisteva nel compiere «il massimo sforzo» per scoprire ciò che stavano facendo. Mrs. von Moltke accennò a una delle sue lettere più lunghe, in cui scriveva di quanto fosse difficile riuscire a sapere quello che stava succedendo in mancanza di telefoni, posta e messaggeri sicuri (se fossero stati catturati, avrebbero potuto essere torturati), e di come i nazisti tentassero di mascherare la verità all'opinione pubblica tedesca.7 Grazie ai contatti che aveva a Monaco, venne a sapere dei volantini antinazisti scritti e distribuiti dalla Rosa Bianca nel 1942 e nel 1943. Durante il già menzionato incontro dei sopravvissuti della Rosa Bianca, Mrs. von Moltke raccontò, quasi incidentalmente, che egli riuscì a procurarsi delle copie dei volantini, a portarli in Svezia e da lì a farli passare illegalmente in Inghilterra. Qui vennero ristampati a centinaia di migliaia e quindi lanciati sulla Germania con gli aeroplani. Grazie al suo impegno e ai suoi contatti Helmuth von Moltke scoprì dove venivano effettivamente deportati gli ebrei tedeschi. Come si deduce da un gruppo di lettere del 1941, sembra che in seguito egli usò ogni briciola dell'energia e del prestigio di cui disponeva per provare a cambiare la situazione. In realtà i tentativi che fece durante una riunione ministeriale nel novembre del 1941 ebbero successo, ma solo per pochi giorni.8 Inoltre scrisse a sua moglie, mi riferì lei stessa, di un ufficiale tedesco «che è tornato dalla Russia passando dalla Polonia, e che racconta cose così orribili che si fa fatica a crederle vere. Ma si dice che lo siano». Quell'uomo, disse Mrs. von Moltke, stava descrivendo Auschwitz. Anche suo fratello Hans le raccontò degli orrori di Auschwitz, dopo che vi fu mandato per reclutare dei lavoratori italiani. «Dunque,» aggiunse, «saperlo non era impossibile.» Helmuth compiva la maggior parte delle sue imprese dalla base di lavoro a Berlino, mentre lei stava a Kreisau, addossandosi sempre più il peso della conduzione della tenuta agricola. Nelle sue lettere, che spesso ardono di frustrazione e di pena, egli accenna a quel lavoro, all'ansia per il fatto che lei stesse facendo troppo, e alle «deliziose» riunioni a Berlino e a Kreisau. «Mi addossò sempre una buona dose di responsabilità e mi considerò sempre una sua collaboratrice. C'è questa enorme corrispondenza, dato che vivevamo spesso separati. Lettere quotidiane spedite e ricevute. Le conservo ancora tutte.' Le lettere che mi scriveva mio marito erano quelle pericolose, ma lui le imbucava nelle cassette pubbliche, così che potevano venire controllate soltanto a Kreisau. Conoscevamo il postino e l'impiegata dell'uf-

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ficio postale, e ce ne fidavamo ciecamente. Naturalmente qualcuno avrebbe potuto dire: "Dobbiamo aprire le lettere di von Moltke", ma non capitò mai. E c'era sempre più caos. I nazisti non erano poi così favolosi. E io scrivevo solo cose assolutamente banali, sulle mucche e i bambini, i visitatori, i raccolti e così via.» Aggiunse, comunque, che suo marito sosteneva di «vivere» grazie alle sue lettere. «Nessuna lettera ieri, ma due oggi, grazie a Dio,» le scrisse una volta. Nella conduzione della proprietà di Kreisau, con una forza lavoro di sessanta persone, il suo ruolo era quello di intermediaria fra suo marito e l'amministratore della fattoria. «Helmuth mi diceva sempre: "Devi imparare ogni cosa, perché io non vivrò a lungo". Me lo diceva ridendo, ma parlava seriamente. Mi disse: "Ci sarà una rivoluzione e mi impiccheranno a quest'albero". Io gli rispondevo: "Non dire queste cose orribili". Ma nella parte più profonda del mio essere sentivo che era vero. E pensavo: "Non ancora, per amor di Dio".» Helmuth e Freya von Moltke ebbero ampie opportunità di emigrare. Nel 1934 e nel 1937, per esempio, fecero visita ad alcuni parenti di Helmuth in Sudafrica (suo nonno era un noto giudice liberale), ma non esitarono mai a far ritorno in Germania. «Forse io sottovalutavo il pericolo. Ma mio marito non voleva stare via, perché era il primogenito e dirigeva l'azienda agricola. Inoltre era sempre più desideroso di opporsi ai nazisti.» Desiderava anche avere dei figli. Nei primi anni di matrimonio aveva continuato a non volerne «perché riteneva la vita tanto dura e i pericoli tanto grandi. Ma io non mi arresi». Gli fece cambiare idea, mi disse, convincendolo che la vita significa anche accettazione. Ebbero due maschi, Caspar e Conrad, nati nel 1937 e nel 1941. Il circolo di Kreisau fu concepito nel 1940. Per i suoi componenti esso faceva da contrappunto spirituale alla guerra. «Non appena cominciò la guerra Helmuth disse che la Germania non avrebbe vinto. La sua disperazione raggiunse il culmine quando la Francia venne conquistata e sembrava che i nazisti sarebbero arrivati in Inghilterra. Furono mesi spaventosi per lui. E in quei mesi spaventosi decise gli incontri. Pensava: "Se non faccio qualcosa adesso, non riuscirò a resistere".» In un certo senso il circolo di Kreisau non era altro che un gruppo di intellettuali: pensatori delle più diverse provenienze uniti nel tentativo di progettare un futuro di pace e di giustizia per la Germania. Benché allora (e anche dopo la guerra) si imputasse al gruppo di accostarsi al massacro da una torre d'avorio, nel Terzo Reich nemmeno le torri d'avorio erano luoghi inviolabili. Prepararsi a una sconfitta del nazismo era quasi altrettanto proibito quanto provocarla. Coloro che facevano parte del circolo di Kreisau erano consapevoli di commettere un tradimento e sapevano che la loro probabile punizione era la morte. Le prime flebili tracce del circolo apparvero nel 1940, in una lettera di Helmuth von Moltke a sua moglie. Da Berlino le scrisse di avere appena conosciuto due persone e che «fra noi ci comprendiamo in modo straordinario». I nuovi amici, una coppia sposata, vivevano in una piccola casa a 219

Berlino, e si sarebbero veduti spesso con lui, scriveva Helmuth. Erano Peter e Marion Yorck von Wartenburg. I due uomini avevano altre cose in comune oltre alle idee politiche: anche Peter Yorck era conte, e discendente di un famoso generale tedesco. Freya von Moltke rievocò a toni vivaci la prima visita che fece con suo marito a casa degli Yorck; ricordava perfino che mangiarono della carne di manzo cucinata in modo magnifico dalla domestica. Marion Yorck, da parte sua, ricordava la deliziosa energia e l'entusiasmo della giovane Freya. Non c'erano grandi manifestazioni di aperto affetto fra i von Moltke, mi disse, e ipotizzava che ciò avesse a che fare con le origini in parte britanniche di Helmuth.10 «Dunque cominciò con un'amicizia,» disse Freya von Moltke. «Poi iniziarono a cercare di arruolare altre persone. Helmuth si rivolse ai socialdemocratici che aveva conosciuto...» L'orientamento generale del gruppo era quello di andare avanti «nell'ipotesi che prima o poi si sarebbe giunti a una conclusione», anche se nel 1940 non sembrava che un tale ottimismo fosse giustificato. La sensazione che i nazisti avrebbero dominato tutta l'Europa pervadeva il gruppo. «Mio marito la considerava una catastrofe maggiore che se ci fossero stati i comunisti. Devo dire anche questo. Lui aveva sempre pensato che i comunisti lottassero per una rivoluzione legittima, mentre quella dei nazisti era una controrivoluzione, una miserabile controrivoluzione che non aveva nulla da offrire all'umanità. Nient'altro che un esagerato nazionalismo, un narcisismo che uccideva tutto ciò che l'Europa rappresentava. «Ci fu un lungo periodo durante il quale mio marito dubitò che qualcuno potesse fare qualcosa per opporsi. I nazisti avevano una forza schiacciante, non solo forza materiale, ma potere sul popolo tedesco. Non c'è nessun dubbio che gran parte dei tedeschi fossero nazisti. O simpatizzanti [Mitläufer], Non volevano, o non potevano vedere, quello che succedeva realmente. Il disprezzo per gli esseri umani insito nel sistema nazista, che trattava le persone come pecore e mentiva loro e le manipolava, unito ai miglioramenti materiali, faceva sì che i tedeschi avessero realmente la sensazione che fosse un regime formidabile. E se qualcosa non era formidabile, avevano la sensazione di non poterla cambiare, ma desideravano piuttosto guardare altrove. E al loro opposto, mio marito, pessimista e davvero disperato, e che tuttavia non voleva ancora andarsene, perché pensava: "Devo fare qualcosa. Per esserci quando sarà tutto finito. C'è il pericolo che le cose si spingano oltre. Non me ne andrò. Non devo andarmene".» La sua concentrazione era così intensa, mi disse Mrs. von Moltke, che all'inizio pareva che non sarebbe stato capace di ricavarne nulla, ma «Helmuth ottenne successi sempre maggiori». Per coloro che ne facevano parte, il circolo di Kreisau doveva essere un ricostituente. Le prime riunioni, più ristrette, si tennero con circospezione nella casa degli Yorck a Berlino. «Nessuno dava importanza al fatto che poche persone si incontrassero di sera per parlare. Le riunioni più grandi si tennero a Kreisau.» Fu fatto un grande sforzo, mi disse, per inserire nel 220

gruppo persone con idee diverse. «Coloro che si opponevano al regime e che avevano punti di vista differenti erano molto più pronti a cercare di vincere i propri pregiudizi, dato che volevano mettersi al servizio di uno stesso scopo.» Disse che del circolo non faceva parte nemmeno un comunista, ma che c'erano socialisti e capitalisti, e, in rappresentanza di altri due gruppi importanti, protestanti e cattolici. «C'è questa considerevole spaccatura della controriforma fra i cattolici e i protestanti. Bisognava farli incontrare. Poi si affrontava la situazione. Lentamente le questioni si componevano e c'erano quelli che conducevano le discussioni preliminari e poi tutto veniva discusso a fondo in gruppi più numerosi.» Nelle discussioni, disse, ci si spostava in maniera sistematica di argomento in argomento. «Dalla costruzione dello Stato alla scuola, all'economia agricola, all'economia in generale, alla politica estera.» Leggendo Letters to Freya si coglie il senso della cura laboriosa con cui i partecipanti venivano avvicinati, scelti e incoraggiati a collaborare, e della cura con cui veniva studiata ogni bozza di ogni documento. L'azione intensa e vana di cui si componeva il lavoro del circolo di Kreisau avrebbe potuto produrre una nuova costituzione per la Germania. Mrs. von Moltke mi disse che non solo i partecipanti non dettero nessun nome al gruppo, ma che «non compariva nemmeno la parola resistenza. Erano semplicemente un gruppo di persone che facevano progetti per il futuro». Quanto all'appellativo nazista di Kreisauer Kreis, ella lo definì «un nome molto appropriato, davvero. E un nome eccellente». La prima riunione del gruppo a Kreisau ebbe luogo nel maggio del 1942, intorno alla Pentecoste. Vi parteciparono una dozzina di persone. Gli ospiti dormirono nel castello (un edificio grande e massiccio; niente a che vedere con i castelli delle fiabe) che la famiglia aveva rinunciato a usare per tutta la durata dell'anno a causa del costo eccessivo del riscaldamento. Durante le sedute di lavoro, tenute in un altro edificio sulla proprietà, spazioso ma più piccolo, i partecipanti erano guidati dalla cautela e sostenuti dalla convinzione. «Durante questo periodo ci sentivamo elevati spiritualmente come mai prima. Non so neanche spiegarlo. Tutti noi avevamo la sensazione di stare facendo ciò che dovevamo, che non si potesse fare altrimenti. Succeda quel che succeda. In questo senso eravamo assolutamente devoti [glàubig]. Non è che uno credesse che Maria in persona sia assunta in cielo. Ma noi tutti avevamo essenzialmente un atteggiamento devoto. E naturalmente mio marito lo faceva perché diceva che la sua fede cristiana lo esigeva.» Altri oppositori del nazismo non condividevano l'entusiasmo del gruppo di Kreisau per il loro lavoro. «Molte persone venivano a dire: "Noi dobbiamo uccidere Hitler, e ci è del tutto indifferente ciò che voi pensate al di là di questo fatto. [Il vostro piano] è troppo teorico. Non funzionerà".» Mrs. von Moltke disse che credeva ci fosse spazio per la teoria tanto quanto per l'assassinio. Benché lei e suo marito lavorassero sulla prima, egli aveva sicuramente preso in considerazione il secondo. All'inizio della guerra, mi raccontò Mrs. von Moltke, aveva spedito un messaggio a Claus von 221

Stauffenberg, l'ufficiale dell'esercito tedesco che nell'estate del 1944 avrebbe tentato di uccidere Hitler. Nel messaggio Helmuth gli chiedeva, per usare le parole di sua moglie, «se volesse impegnarsi in azioni concrete contro Hitler». La risposta che ricevette da Stauffenberg fu: prima dobbiamo vincere la guerra, poi ci libereremo della peste bruna. «Ovviamente era un approccio completamente sbagliato,» mi disse Mrs. von Moltke, «ma mio marito discusse anche con parecchie persone della possibilità di togliere di mezzo Hitler.» Questa affermazione contraddice l'opinione comune secondo cui Helmuth von Moltke si opponeva all'assassinio a causa del suo credo religioso. È una contraddizione, tuttavia, che deve essere temperata. Mrs. von Moltke sosteneva che, nonostante suo marito «non fosse poi così contrario all'uccisione di Hitler», aveva ciò che lei definì «degli scrupoli» al riguardo. (Quanto a lei, mi disse, non aveva «alcuno scrupolo».) «Non è che lo considerasse del tutto "impossibile",» aggiunse, «ma rifletteva sempre su come si sarebbe potuto fare, se si sarebbe potuto fare. E giunse alla ferma convinzione che Stauffenberg e i suoi amici non avrebbero potuto portare a termine l'impresa con successo. «Helmuth diceva: "Voi non avete nessuno in grado di farlo bene. E comunque non servirà. Le cose si sono spinte troppo oltre, e in modo così orribile. Non potete cambiare nulla. Dobbiamo lasciare questo compito agli alleati, che lo vogliate o no". Diceva: "Siamo dei dilettanti. Non ci riusciremo".» Mrs. von Moltke mi disse che egli temeva anche che un tentativo fallito sarebbe costato la vita a persone di cui c'era bisogno per governare la Germania nel dopoguerra. Un'altra considerazione riguardo all'uccisione di Hitler era che la sua sola morte poteva non essere sufficiente. «Pensavano che, oltre a Hider, fosse necessario eliminare anche Goebbels, Himmler e Gòring, o non si sarebbero mai liberati del regime. E Stauffenberg attese più e più volte l'occasione in cui avrebbe potuto colpire almeno anche Himmler. E ciò non fu possibile. «Rimane da chiedersi, a posteriori, se non sarebbe stato meglio per i tedeschi tentare comunque qualcosa. È quello che pensavano gli Stauffenberg [Claus e suo fratello Berthold], Essi decisero che si doveva tentare senza preoccuparsi di come sarebbe finita. Se non lo si fosse fatto, per l'onore della Germania sarebbe stato ancora peggio.» La questione dell'«onore», mi disse, metteva gli ufficiali coinvolti di fronte a dubbi insolubili. «Dovevano venire a patti con il giuramento che avevano prestato, decidere se potevano romperlo, complicati dilemmi del genere. I tedeschi sono così. Si pongono domande simili all'infinito.» Per Helmuth von Moltke la scelta era più facile: opporsi ai nazisti col sotterfugio quando era in servizio, e prepararsi alla loro sconfitta quando era fuori servizio. Il lavoro del circolo proseguì. Anche se dopo la guerra i documenti di Kreisau non furono mai utilizzati, alla fine vennero stampati. Li avevo letti prima di incontrarmi con Freya von Moltke, e in un certo senso li avevo trovati tanto notevoli quanto, in qualche modo, ingenui. Ma c'erano due punti che mi avevano infastidito. Uno riguardava l'elezione di quello che 222

sarebbe dovuto essere il corpo parlamentare: avere almeno ventisette anni ed essere di sesso maschile erano fra i requisiti previsti per i candidati. «Sì, anch'io ne rimasi colpita,» mi disse Mrs. von Moltke. «Qualcuno me lo fece notare e io replicai che non era vero. Non ci credevo, perché so che mio marito non la pensava a quel modo.» Attribuì l'errore, come evidentemente lo considerava, alla fretta con cui i documenti erano stati raccolti per essere pubblicati. E mi disse di avere riletto di recente una lettera in cui suo marito, parlando di quella che sarebbe stata la carica di presidente, scriveva der Vorsitzende, al maschile, ma poi si scusava e affermava di intendere der o die, aggiungendo all'articolo maschile quello femminile. «Mio marito non è fatto a quel modo,» aggiunse. Il secondo punto riguardava la religione. Veniva posta una grande enfasi sul cristianesimo «come base per il rinnovamento morale e spirituale del nostro popolo». Le «due chiese cristiane» avrebbero avuto un ruolo cruciale nel «formare la vita pubblica». La domanda si imponeva: che ne era del giudaismo? Mrs. von Moltke rispose che l'enfasi posta sulla chiesa cattolica e su quella protestante aveva a che fare con la loro spaccatura. Ciò non significava escludere gli ebrei o le altre minoranze, come i testimoni di Geova, che i nazisti avevano scelto di perseguitare. «La tolleranza,» disse, «era più importante di tutto il resto. «Nei cinquant'anni che precedettero il nazismo la religione ebraica non giocava un grande ruolo, non quello che gioca al giorno d'oggi,» aggiunse. «Non conoscevamo nemmeno un ebreo che fosse devoto alla legge mosaica. Non pensavamo affatto che fosse una questione religiosa. Noi non eravamo antisemiti, ma in sostanza non facevamo distinzioni fra noi e gli ebrei.» Inoltre, mi disse, i documenti non erano nella loro forma definitiva. «Eravamo disposti a cambiare molte cose.» Lei stessa comprese più tardi cosa fosse una «comunità religiosa ebraica». «Pensai: "Guarda, è una religione". Non l'avevo mai considerata da quel lato.» Nel gruppo di Kreisau si sapeva poco del giudaismo, ma non della politica. Nello stesso villaggio di Kreisau i von Moltke trattavano le vecchie conoscenze con nuova cautela. «Naturalmente erano, chi più chi meno, nazisti. Alcuni erano nel Partito, altri no. Ma certo erano favorevoli. E non capivano perché noi non lo fossimo, perché ci opponessimo.» Lo sapevano? «Che non fossimo nazisti era del tutto palese. Non sapevano che facessimo un'opposizione attiva, ma sapevano che non eravamo favorevoli.» L'indizio maggiore era il prescritto saluto nazista. «Se salutavamo noi per primi, dicevamo sempre "Buon giorno!", non "Heil Hitler!". Allora i cattivi rispondevano "Heil Hitler! ". Ma se loro dicevano "Heil Hider! " per primi e allora noi rispondevamo "Buon giorno!", era un grande affronto. Non sempre ci comportavamo così. Qualche volta dicevamo "Heil Hider" anche noi. Non valeva la pena di correre grossi rischi solo per non averlo detto.» Alla prudenza per strada faceva eco quella osservata nelle pause di colazione durante le riunioni del circolo. «Mio marito diceva che non dove223

vamo mai inserire nulla di politico nelle preghiere.» Era particolarmente inquieto per la presenza di una giovane cameriera di cui era noto il convinto nazionalismo. «Era una brava ragazza, fedele. E dopo il 20 di giugno [il giorno del fallito attentato a Hitler, nel 1944] andò a denunciarci.» La ragazza, mi disse Mrs. von Moltke, testimoniò che «da noi c'erano sempre dei visitatori e che ciò sicuramente non aveva a che fare con cose corrette. Poi lei, sua madre e la sua famiglia dissero: "Se i nostri soldati devono morire perché queste persone sono contro i nazisti, bisogna che le denunciamo alla svelta". Ed è comprensibile che la gente la pensasse così. Se ci fossimo sbarazzati prima dei nazisti, sarebbero morti meno soldati. Essi morivano perché i nazisti avevano cominciato la guerra. Ma la gente non arrivava a pensarlo. Era tutto terribilmente complicato». Ma aggiunse che i membri del circolo di Kreisau non avevano paura. «Vivevamo con la sensazione di fare ciò che era giusto. Ed era una sensazione molto più forte. È proprio vero: non avevamo paura.» Per ogni tedesco che si opponeva al nazismo l'esigenza di fare ciò che si riteneva fosse giusto era spesso temperata dal desiderio di fare ciò che si sperava fosse sicuro. Freya von Moltke affrontò i propri personali dubbi di valutazione non soltanto per le vie di Kreisau, ma anche fuori dal villaggio, alla distanza di una breve passeggiata. Lì, un gruppo di braccianti provenienti da un vicino «campo di lavoro» (il gradino più basso nella scala dei campi di concentramento) rinforzava gli argini di un fiume. Mrs. von Moltke mi disse che all'inizio il compito era stato affidato a degli operai tedeschi. Più tardi vennero a lavorarvi, sotto stretta sorveglianza armata, dei prigionieri di guerra russi, poi dei detenuti ebrei. «Li vedevamo sempre e non potevamo fare nulla per loro. Non potevamo dargli niente. Mai. Nemmeno passargli del pane.» Tuttavia sua cognata Asta von Moltke Henssel, che pressata da Helmuth aveva lasciato Berlino e i suoi pericoli del tempo di guerra per vivere a Kreisau, più tardi mi disse che le due donne talvolta lasciavano cadere «accidentalmente» del pane o dell'altro cibo mentre passavano. Freya von Moltke mi disse che gli sforzi contro il nazismo che lei e suo marito stavano già facendo li rendevano particolarmente circospetti. Ma aveva un'ammirazione senza pari per gli antinazisti che non lo furono altrettanto. «C'era della gente... furono tutti uccisi. C'era il famoso Paul Schneider, un pastore protestante. Dalla sua cella nel campo di concentramento urlò senza sosta: " È tutto un orrendo crimine". Allora gli tapparono la bocca. E infine lo uccisero. Urlò fino alla morte. Ci sono persone favolose.» Secondo lei «salvarono lo spirito tedesco». Sosteneva che ora queste persone vengono screditate. «Oggigiorno il movimento della resistenza non è amato in Germania, fra il Volk. La gente dice: "Non avete combinato nulla. Non siete migliori di noi".» 11 Freya von Moltke riteneva inoltre che le azioni dei suoi due fratelli e di lei stessa, di tutti loro, disse, fossero state influenzate più dall'apertura mentale e dalle idee progressiste di sua madre che dalla nostalgia per il Kaiser di suo padre, assai più conservatore. 224

Mi raccontò che il maggiore dei suoi fratelli, Cari, scappò in Olanda e poi in Svizzera per sfuggire ai nazisti e «falsificò passaporti e si diede da fare per quanto potè, ma poco». Hans, l'altro suo fratello, fu mandato in Italia come rappresentante del governo per l'industria chimica tedesca. «Hans fece uri enorme opera di sabotaggio e rischiò molto. Era sfrontato. Benché fosse giovane era un autorevole uomo d'affari. E a Roma assisteva sempre agli incontri in cui veniva discussa la situazione militare, nell'ultima parte della guerra. Gli uomini dell'esercito tedesco riferirono che un certo ponte era stato bombardato ma che ora era stato riparato. Lui uscì, e fuori stava un suo amico italiano, e lui gli disse che era stato riparato. Il giorno dopo il ponte era kaputt.12 «Dunque lui rischiò qualcosa. Ma non gli successe niente. I miei fratelli odiavano veramente i nazisti, e reagirono in modi diversi. Forse anch'io sarei stata un'antinazista, ma non posso immaginarmi senza mio marito. Non credo che ne avrei avuto il coraggio. Non mi attribuisca un ruolo troppo grande.» Lei se ne attribuì uno ancora minore. «Io sostengo che non uno di coloro che sopravvissero in Germania è senza colpa. Una simile persona non esiste. Simile gente non esiste. Le persone che passarono indenni attraverso il nazismo e che sono ancora vive, che non hanno perso la vita a causa della loro opposizione, dovettero tutte fare dei compromessi prima o dopo. E fra loro metto anche me stessa.» Anche Helmuth von Moltke, che voleva vivere per vedere una nuova Germania, fece dei compromessi, ma non sufficienti a salvargli la vita. Nell'autunno del 1943, grazie a un suo contatto nella Luftwaffe, venne a sapere che una spia della Gestapo, spacciandosi per un sovversivo, aveva partecipato di recente a un «salotto» di antinazisti, e che la Gestapo stava per arrestare tutti coloro che egli aveva visto e di cui aveva fatto il nome. (Questa spia, apparentemente un dottore, era l'ospite di una frequentatrice abituale del salotto, Elisabeth von Thadden, che egli, dopo avere ingannato, denunciò, e che venne perciò giustiziata.)13 E stato scritto che lo stesso von Moltke partecipasse spesso a quegli incontri, sebbene non quella sera, ma Mrs. von Moltke sostenne (in una lettera scrittami in inglese) che egli «non frequentava il salotto». E proseguiva: «Helmuth ebbe sempre il timore che la gente non facesse altro che parlare, mettendo inutilmente in pericolo se stessa. Questo è precisamente ciò che accadde a quel gruppo». Avendo saputo della prevista retata della Gestapo, von Moltke avvertì il suo amico e collega Otto Kiep, che a sua volta avvertì gli altri. Ma nel gennaio del 1944, malgrado gli avvertimenti, i partecipanti furono arrestati.14 E fu arrestato anche Helmuth von Moltke. Nella lettera che mi scrisse, anni dopo il nostro incontro, Mrs. von Moltke citò la circostanza che decise il suo destino: «Helmuth venne arrestato perché Otto Kiep, sotto pressione, fece il suo nome». Poco dopo l'arresto Freya ricevette la strana telefonata di un amico. «Ci volle un bel po' di tempo prima che capissi. Mi chiamò una mattina a Krei225

sau e mi disse: "Helmuth è in viaggio". Io dissi: "Oh? Dove è andato?" o qualcosa del genere. E lui: "Già, non si sa quando potrà tornare". Allora cominciò a diventarmi chiaro: era stato arrestato.» In termini tecnici Helmuth non era stato arrestato, ma posto in «custodia protettiva». Era comunque dietro le sbarre. Affidati i bambini alle cure di sua cognata, Mrs. von Moltke partì immediatamente per Berlino. Durante il viaggio pensò a un modo per ottenere il diritto di fare visita a Helmuth. «Al carcere dissi che la nostra azienda era importante per lo sforzo bellico [le "aziende" che producevano cibo erano davvero considerate "importanti per lo sforzo bellico"], che senza la sua decisione io non potevo fare niente e che dovevo parlargli. E mi diedero il permesso.» Pochi giorni dopo, un pesante bombardamento nei pressi del carcere spinse i nazisti a spostare i detenuti in un'altra prigione, a un'ora di viaggio, vicino al campo di concentramento femminile di Ravensbruck. Mrs. von Moltke mi disse che era la ex caserma di una scuola di polizia. Si recò dunque là e ottenne il permesso per delle visite mensili. Le visite erano lunghe e quasi private. «Nell'edificio in cui entravo c'erano un ufficio e un'angusta stanza, e nell'angolo una panca, un tavolo e una SS, anzi nemmeno quella, ma una SA. Io e mio marito ci sedevamo dietro di lei. Trascorrevamo due ore assieme e mio marito portava con sé un pentolino e chiedeva: "Mia moglie presto sarà in viaggio; può farle un po' di tè?" E quell'uomo faceva il tè e noi ce ne stavamo seduti, e parlavamo.» Che suo marito fosse in una «posizione privilegiata», come lei la definiva, divenne ancora più chiaro durante un'altra visita. Quando lei arrivò, venne destinata loro una stanza privata per l'incontro. Ma il tragitto per raggiungerla fu caratterizzato dalla prudenza. «Mentre salivamo le scale mio marito mi fece segno di cominciare a parlare e di fare in modo che l'uomo nell'angolo mi sentisse. Discutevamo dei bambini e della fattoria, cose di cui per altro eravamo molto felici di parlare. Ma mai di questioni politiche. Lui mi diede alcune raccomandazioni per delle persone, che non tornassero in Germania o sarebbero stati arrestati immediatamente. Naturalmente ci si diceva anche questo tipo di cose.» Mrs. von Moltke mi disse di avere trasmesso le raccomandazioni a un uomo che disponeva di un passaggio sicuro fra la Germania e la Svizzera. Quando le domandai del suo umore durante le visite, mi rispose: «Oh, ero felice di vederlo. Il mio umore era buono». Anche l'umore di Helmuth lo era, aggiunse. Fra una visita e l'altra, come sempre, si scrivevano. Le lettere di lui le arrivavano senza problemi, anche se «un po' censurate. Poi mi fu detto che erano troppo lunghe, che non avrebbe dovuto scrivermi così tanto. Ma non censurarono le mie lettere. E furono sempre follemente interessati a ciò che scrivevo. Sorprendente quanto fossero interessati. Anche nelle lettere parlavo soprattutto della fattoria, naturalmente. Loro leggevano tutto. E furono sempre molto amichevoli con me, questi uomini». Quegli uomini facevano parte di un'organizzazione dal potere diabolico, la SD (Sicherheitsdienst), il servizio segreto delle SS. Una volta il 226

loro «amichevole» interesse per i von Moltke prese una piega curiosa. Un giorno, giungendo al carcere per una visita programmata, Mrs. von Moltke venne salutata sulla porta da un agente che aveva evidentemente letto le sue ultime lettere. «Oh, contessa von Moltke!» disse. «Sono così dispiaciuto che lei abbia quel problema con le sue oche.» Freya raccontò l'episodio a suo marito. «Dissi a Helmuth: "Questa è proprio gente amichevole". "A parte il fatto che ti strappano via le unghie," replicò lui.» Il fatto che lui stesso non fu torturato costituiva un lusso raro. In effetti egli ebbe un soggiorno relativamente confortevole nel carcere vicino a Ravensbruck. I von Moltke coltivarono perfino la speranza che egli potesse essere rilasciato quell'autunno. Era un segno positivo che dal suo ufficio agli affari esteri dei servizi segreti militari avessero cominciato a mandargli dei documenti di lavoro da completare. «Mentre lui era in carcere non pensavo che sarebbe finita male.» Ma un avvenimento di quell'estate decise il suo destino. Una delle tante grottesche ironie dell'era nazista è il fatto che Helmuth von Moltke sia conosciuto oggi soprattutto per la sua unica iniziativa importante contro i nazisti che non condusse a nulla, la creazione del circolo di Kreisau, e che il suo destino venne determinato non dalle molte azioni che intraprese contro di loro ma da quella che sconfessò, l'attentato alla vita di Hitler nel 1944. Più la situazione dentro e fuori la Germania peggiorava e la guerra si espandeva, più prendeva forza fra alcuni tedeschi un desiderio crescente di liberarsi di Hitler. Ma a questa proporzione diretta se ne contrapponeva una inversa: quanta più gente voleva uccidere Hitler, tante meno possibilità Hider concedeva loro. Ossessionato dalla paura (e con ragione, visti i precedenti falliti tentativi di ucciderlo), egli si faceva vedere raramente in pubblico; e in privato erano sempre meno le persone che potevano awicinarglisi. Come osservò Freya von Moltke, la natura stessa di una dittatura rende «estremamente difficile» liberarsi di un dittatore. Nell'estate del 1944 Hitler era visibile di persona solo a una piccola e intima cerchia di gente fidata. Di questa cerchia faceva parte anche il tenente colonnello Claus von Stauffenberg. Il 20 luglio del 1944, mentre Helmuth von Moltke era prigioniero dei nazisti, von Stauffenberg si recò a una riunione a cui partecipava anche Hitler, piazzò la sua valigetta che conteneva una bomba a tempo sotto il tavolo, vicino a Hitler, e lasciò la stanza con un pretesto. È bene far notare a chi non abbia familiarità con questa storia che a von Stauffenberg, per le ferite subite in battaglia, mancavano un occhio, una mano e due dita dell'altra mano, e che presumibilmente non sarebbe stato in grado di estrarre velocemente un'arma da fuoco. E anche presumibile che egli non volesse diventare un martire. Per riassumere la sequenza familiare degli eventi successivi, la bomba esplose, ma Hitler rimase soltanto ferito. La sua collera, tuttavia, fu senza freni. Delle migliaia di persone messe a morte, uno fra i primi fu lo stesso von Stauffenberg. Un congiurato importante che di lì a poco venne condanna227

to alla pena capitale fu Peter Yorck, non solo cugino di von Stauffenberg, ma anche intimo amico di Helmuth von Moltke e fondatore assieme a lui del circolo di Kreisau. L'esecuzione di Yorck, come quella di molti altri, fu raccapricciante. La sua vedova, Marion, così come Freya, sua amica per tutta la vita, non si risposò mai. L'attentato fu fatale anche a Helmuth von Moltke. Benché asserisse di non avere neppure saputo della cospirazione, un'asserzione che la sua vedova mi confermò con forza, egli conosceva certamente i cospiratori. Ella seppe dell'attentato da un giornale mentre era a Kreisau, e si rese conto di essere stata molto vicina a esserne implicata. Nei mesi precedenti le avevano fatto visita alcuni degli uomini coinvolti. «Furono molto gentili, ma non mi parlarono di ciò che stavano per fare. Sarebbe stato troppo pericoloso, per loro e per me. Non si poteva sapere se io sarei stata arrestata o se la cosa sarebbe venuta fuori, capisce? Quando troppi sanno, è sempre una faccenda molto pericolosa.» Fece visita a suo marito a Ravensbrùck ai primi di agosto. «Non sapevano ancora che lui conosceva così bene quella gente, che era un amico delle persone coinvolte.» Ma egli temeva che il legame sarebbe stato scoperto e di non essere in grado di comunicarle per iscritto quello che stava succedendo. Così elaborò un codice. «Quaranta acri devono essere mietuti senza indugio,» mi disse Mrs. von Moltke, significava «non c'è speranza». «Venti acri devono essere mietuti» significava «ho una possibilità, ma promette male». Infine, «Se non ti scrivo niente sugli acri, non hanno scoperto nulla.» I legami d'amicizia di Helmuth von Moltke furono scoperti nel corso dei processi ai congiurati. (Sua moglie ignorava quale effetto avesse avuto la testimonianza della giovane cameriera di Kreisau.) I nazisti «naturalmente si infuriarono, quando si resero conto che era già in mano loro». Mrs. von Moltke mi disse di non sapere in che modo fosse emerso il suo nome. «E certo che non venne denunciato. Ma se stai subendo un processo in condizioni terribili, qualcosa dici.» A Kreisau arrivò una lettera: venti acri dovevano essere mietuti. II 29 di settembre suo marito venne trasferito in una prigione di Berlino per essere processato dall'infame tribunale del popolo. Le lettere smisero di arrivare. «Dopo un mese senza avere nessuna notizia andai a Ravensbrùck e portai con me poche cose: un abito, delle magliette. E mi diedero immediatamente tutti i suoi vestiti, tutte le cose che aveva là.» Le fu detto che aveva fatto bene a venire, che «lui è appena andato a Berlino e ha bisogno di un vestito». Allora si recò a Berlino, alla prigione che le era stata indicata. L'uomo chiamato «der Lange» [quello alto (misurava un metro e novantotto)] non era là. Siccome un altro bombardamento aveva distrutto tutte le celle, era stato trasferito nel carcere Tegel di Berlino. «E non solo lui era lì, ma c'era anche il nostro amico Poelchau, il cappellano del carcere.» Il nome di Harald Poelchau illumina il volto di chiunque l'abbia conosciuto. Attivo nella resistenza, e anzi membro del circolo di Kreisau, egli divenne non solo un intermediario fra i prigionieri e le loro famiglie, ma

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anche un compagno spirituale dei detenuti condannati a morte per essersi opposti ai nazisti. Era a lui che essi rivolgevano le loro ultime parole. «Non avrei dovuto chiamarlo, ma lo feci e gli dissi: "Helmuth è lì". E lui mi disse: "Vieni domani sul presto, nel mio orario di visita". Così andai là alla mattina presto e ottenni un appuntamento, e vidi Helmuth all'ingresso.. Era nell'uniforme a strisce dei campi di concentramento.» Mrs. von Moltke mi disse che più tardi ottenne dal tribunale del popolo il permesso di fargli visita. «Lo vidi poche volte. Era sempre una cosa molto breve, con il direttore del carcere nella stessa stanza. Ma era comunque un incontro.» Talvolta lei e la moglie di un altro detenuto sedevano fuori dall'ingresso della prigione aspettando di entrare, e chiacchieravano. L'altra coppia sosteneva che bisognava essere ottimisti, che gli uomini sarebbero sopravvissuti. Suo marito non era d'accordo. «Helmuth diceva sempre: "È una questione che dobbiamo lasciare aperta. Può andare in questo o in quel modo, ma non si può affermare semplicemente che soprawiveremo in ogni caso. Non possiamo saperlo". E noi vivevamo in questa maniera. «Qualcosa avrebbe potuto salvarlo. Alcuni si salvarono. Pensavamo che forse potevano sopraggiungere gli alleati. Forse i russi sarebbero arrivati presto. Una bomba sarebbe potuta cadere dentro la prigione e lui avrebbe potuto scappare. Ma a questo non credetti mai. Lui era gigantesco. [Non per la stazza, ma in altezza]. Non sarebbe mai stato capace di nascondersi. Avrebbero riconosciuto immediatamente che era lui.» Poiché a Tegel Helmuth era in una posizione molto più precaria che non a Ravensbriick, le visite di Freya non furono più incontri dai toni pacati, intesi a far passare il tempo fino al suo rilascio, ma missioni urgenti collegate alla preparazione della sua difesa al processo e al salvataggio della sua vita e a quella di altri. «Lasciavo sempre i bambini ad Asta e quindi andavo a Berlino e facevo ogni tentativo e portavo cibo e mi procuravo il permesso per le visite e tentavo di riferire agli altri quale potesse essere la loro linea difensiva. Allora dovevo andare in altre prigioni, dove erano detenuti gli altri, con cui lui fu poi giustiziato, e tentavo di introdurre delle informazioni di nascosto.» Suo marito voleva che lei facesse questo? «Qualcuno doveva farlo,» mi rispose. «E io ci finii dentro. Avevamo anche delle donne che portavano dei panini, e c'erano dei biglietti nei panini... Tutto ciò fa parte del mondo delle prigioni,» aggiunse ridendo. Ma Freya von Moltke non aveva bisogno di affidarsi alle comunicazioni per mezzo dei panini, dato che aveva il suo uomo di fiducia. «Alla prigione il buon Poelchau faceva sempre entrare le mie lettere, lettere giornaliere che venivano portate dentro e fatte uscire. Fino alla fine. Per quattro mesi Poelchau fece questo.» Un giorno suo marito le assegnò una missione particolarmente difficile. Pensava che se fosse riuscito a parlare con il vice di Heinrich Himmler, il capo della Gestapo Heinrich Müller, forse l'avrebbe convinto di non avere avuto nulla a che fare con il complotto per assassinare Hitler. Freya doveva recarsi nel quartier generale della Gestapo a Berlino, situato in un grande edificio 229

minaccioso, incontrare Miiller, e persuaderlo a incontrarsi col marito. «Fu una cosa spaventosa. Andai lassù, dentro questo "palazzo". Attesi in un'anticamera e poi fui condotta da Herr Miiller. Gli dissi: "Non è per nulla vero quello che si racconta riguardo a mio marito. Lei deve parlargli". Mi comportai, naturalmente, come se non sapessi nulla. E ovvio. Non so se lui mi credette o se volle credermi.» In ogni caso la risposta di Miiller fu: «Lo farò con piacere». Ma egli volle dirle anche qualcosa d'altro. «Mi disse che "suo marito ha fatto delle cose dissennate e più avanti le racconterò tutto al riguardo e lei ci capirà". Ecco come mi parlò. Io ero fuori di me, e gli risposi: "Le dirò questo, generale Miiller. Io crescerò i miei figli perché rispettino loro padre". Questo è ciò che gli dissi. E allora lui [Mrs. von Moltke fece l'imitazione di Miiller]: "Spero che lo faccia, spero che lo faccia". Tutto questo lo impressionò. Ach, e così mi salvai l'anima.» Miiller, disse, era un tipico membro della gerarchia nazista, che criticava suo marito ma lodava lei. «E per me quella fu sempre una cosa mostruosa.» Il loro incontro non era ancora finito. «Miiller fu così cortese che mi inseguì nel corridoio e mi disse: "Quando tutto sarà finito..." (Ciò significava quando mio marito fosse morto) "Allora torni da noi. Noi non siamo affatto come lei pensa. Torni da noi". «Se lo immagini! Offrivano denaro, sostentamento, a molte mogli perché rispettavano davvero il coraggio che esse dimostravano opponendosi a loro. Volevano conquistarle e soprattutto fare dei loro figli dei nazisti. Era gente sorprendente, vero? Avevano l'idea di una élite, di una élite nazista. E noi eravamo persone che avrebbero conquistato volentieri. Proprio perché eravamo come eravamo. I nazisti erano fatti così. Completamente diversi dai comunisti. Perché i comunisti odiavano le vecchie classi, no? E noi facevamo parte delle vecchie classi e i nazisti lo trovavano magnifico. Io no. Io ero una figlia di semplici borghesi. Ma naturalmente la famiglia von Moltke godeva di una considerazione diversa.» L'incontro fra Helmuth von Moltke e Heinrich Müller ebbe luogo al quartier generale della Gestapo. «Non servì. Müller non lo capì. È difficile capire mio marito. È una persona assolutamente atipica. Era un uomo a sé stante.» La dura prova affrontata nel tentativo di salvare la vita di suo marito spazzò via gran parte dell'ottimismo di Freya. «Fu tremendo, se ci penso di nuovo. Non c'era niente che funzionasse, niente che desse frutti, niente del tutto. Avevo sempre questa sensazione: non funziona, non funziona, si sta mettendo male.» Per di più un altro grosso problema si presentò letteralmente sulla porta di casa a Kreisau. Mentre il 1944 volgeva al termine l'esercito russo si muoveva rapido verso ovest, preceduto da un imponente e primitivo sistema d'allarme: un enorme numero di civili tedeschi che fuggivano in preda al panico. In previsione dell'arrivo dei russi il governo nazista aveva fatto evacuare le donne incinte, e fra esse Asta, la sorella di Helmuth von Moltke, negli

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ospedali militari della Germania occidentale. Asta partì da Kreisau dopo che Freya era ritornata temporaneamente da Berlino, proprio mentre cominciavano ad arrivare i rifugiati. «Qualcuno doveva restare. C'era una confusione tremenda. Non sempre potevi andartene a Berlino.» Un'altra terribile beffa stava per abbattersi su di lei. L'avanzata dell'esercito russo, che provocò la fuga precipitosa e spaventata a cui ella sentiva di dover far fronte a Kreisau, fu la stessa forza che decise il destino finale di suo marito a Berlino. «Il ministro della giustizia doveva firmare ogni sentenza di morte prima che venisse eseguita,» mi disse, con voce sempre calma. «Venimmo a sapere che [il ministro] sarebbe rimasto fuori Berlino per quattro settimane. Ma i russi avanzavano verso ovest con un tale impeto che i nazisti furono presi dal panico.» Il ministro della giustizia fu richiamato a Berlino «e firmò dieci condanne a morte. Fra di esse c'era quella di mio marito. Fu una cosa così... così inaspettata». Non c'era modo di sapere quando la sentenza sarebbe stata eseguita. «Fra me pensavo: "Non posso andare a Berlino un'altra volta. Devo semplicemente affidare al futuro qualunque cosa accada". C'erano delle persone che andavano a Berlino e che gli avrebbero detto che non sarei potuta stare con lui, che non sarei potuta venire finché qualcosa non si fosse sistemato. Era decisamente troppo pericoloso lasciare i bambini là da soli. Lui mi scrisse in risposta che sì, era assolutamente giusto, dovevo continuare a tenere gli occhi aperti e vedere come si evolvevano le cose.» Alla fine Freya si sentì in grado di lasciare i bambini al sicuro a Kreisau, e andò a Berlino. Quando arrivò si rifugiò nella casa di Poelchau, rimanendo nascosta non per proteggere se stessa, ma il pastore. Egli continuò a gestire il traffico illegale di lettere fra la coppia, allora nel tredicesimo anno di matrimonio. Nel gennaio del 1945, un pomeriggio, «il caro Poelchau, il pastore, arrivò a casa, e io ero lì seduta e gli stavo scrivendo una lettera per il giorno dopo, capisce. Tornò a casa al pomeriggio verso le tre, e aveva celebrato il funerale di, oh, non so di chi. Fuori c'erano anche dei suoi amici, e aveva fatto questo funerale a qualcuno. E io gli chiesi: "Com'è andata?" In modo assolutamente cordiale, riguardo al funerale. E allora lui me lo disse. «Non mi ero accorta di nulla, per così dire. In quel momento lui era già morto.» La voce di Freya von Moltke si abbassò fino a diventare quasi impercettibile. «Tornò a casa alle tre: "Alle due Helmuth ha perso la vita".» Dal groviglio di sentimenti emergeva un pensiero. di ciò che aveva fatto. «Lui stesso non era neppure tanto orgoglioso Non so se verrà mai riconosciuto quello che facemmo, o che lo facemmo. Lui non sapeva nemmeno se più tardi ciò sarebbe stato apprezzato, come sarebbe stato giudicato. Non ne aveva la minima idea. Morì disprezzato e senza sapere se quello che aveva fatto avesse prodotto qualche effetto.» Egli sapeva che una delle sue iniziative più importanti non ne aveva prodotti. Stando ad alcuni documenti di grande interesse dell'ufficio per i servizi strategici degli Stati Uniti, di cui la CIA autorizzò la pubblicazione 231

nel 1990 (e che furono alla base di un articolo nell'edizione dell'ottobre 1992 dei Vierteljahrshefte fiir Zeitgeschichte [quaderni trimestrali di storia contemporanea] dell'istituto storico di Monaco), von Moltke aveva un nome in codice negli Stati Uniti, «Herman». Egli offrì all'ufficio per i servizi strategici un «piano segreto Herman» per coordinare con le truppe alleate gli sforzi della resistenza in Germania. L'ufficio dedicò molto tempo a raccogliere le opinioni scritte degli esperti (alcuni dei quali erano assai sospettosi sui moventi di «Herman»), poi glielo respinsero. Dopo l'uccisione di suo marito Freya von Moltke ritornò a Kreisau, e dai suoi figli. «Il più piccolo non capì nulla e il più grande capì tutto. Fu una delle ore più brutte della mia vita quando dovetti dirgli che suo padre era morto. «Ma poi ebbi un enorme sollievo. Due giorni dopo, al mattino, lui venne nella mia stanza e mi trovò nel letto, e stavo piangendo. E mi disse: "Piangi? Perché piangi?" E io risposi: "Adesso va bene". E lui disse: "Ancora per papi?" Questo mi consolò enormemente, che dopo tutto un bambino non potesse comprendere. Ancora per suo padre? Grazie a Dio non capisce cosa è accaduto, dissi a me stessa.» Rise. «Me lo vedo ancora lì davanti. «Le donne che hanno perso i mariti nell'orrenda guerra, anche qui, in questo paese, hanno passato esperienze ben peggiori della mia. Per loro fu orribile: gli uomini partirono per la guerra e non tornarono mai più. Molte donne persero dei mariti che odiavano Hitler e che tuttavia furono uccisi. E amaro. Ma per me, è valsa la pena di tutto. Pensavo: "Lui ha realizzato la propria vita". E lo fece. Sicuramente. «Quando si parla con me per un bel po',» mi disse, «si capisce che una persona vive tutta una vita attraverso un'esperienza simile. Quando lui fu ucciso io avevo due bambini deliziosi, due figli diletti. Pensavo: "Ecco. Questo basta per una vita intera".»

NOTE 1 Notizie tratte da «Der Ordinare», un ritratto di Hans Deichmann, fratello di Mrs. von Moltke, «The New Yorker», 4 giugno 1990, pp. 50,55. 2 Ibid., p. 54. 1 Frau Dorothy von Moltke, una sudafricana di origini scozzesi, aveva intenzione di fare una lunga visita ai suoi genitori. " George F. Kennan, Memoirs 1923 -1930, Boston, Little, Brown, 1967, pp. 121 -122. Citato in Helmut von Moltke, Letters to Freya 1939 -1943, New York, Knopf, 1990, p. 4. ' Discorso alla Hillel Foundation, Berkeley, California, 4 marzo 1990. ' Cfr. Barbara Beuys, Vergessi uns Nicht/Menschen im Widerstand 1933 -1943 (Non dimenticatevi di noi/Uomini della resistenza 1933 • 1945), Reinbek bei Hamburg, Rowohlt, 1987, p. 415. ' La lettera, del 1943, pubblicata in Letters to Freya ma non destinata a lei, venne parzialmente mandata a memoria da un preoccupato latore e comunicata a voce al suo destinatario in Inghilterra. ' Cfr. Von Moltke, Letters to Freya, p. 15. Per altro il dicastero per cui lavorava von Moltke non fu invitato a partecipare alla riunione successiva, in cui fu decisa la «soluzione finale». ' Ovviamente esse costituirono il materiale per il libro Letters to Freya. ,D Conversazione con Marion Yorck, maggio 1985, Berlino.

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11 Sembra che la situazione sia in continua evoluzione, almeno fra i tedeschi più giovani. Freya von Moltke fece quel commento nel 1985. Nel 1992, alla fondazione Hillel a Berkeley, Franz Josef Müller, presidente della fondazione della Rosa Bianca, disse che la sua organizzazione non riusciva a far fronte ai continui inviti che riceveva dalle scuole della Germania occidentale per parlare della resistenza antinazista, ma notava che i tedeschi orientali disprezzavano le gesta di quelli che definivano «antifascisti», e non provavano per loro alcun interesse. 12 Per una visione più completa dell'opera di Hans Deichmann nella resistenza, si veda «Der Ordinäre», pp. 47-77. 13 Per saperne di più sul disastroso crollo del gruppo, si veda Irmgard von der Lühe, Eine Frau im Widerstand, Elisabeth Thadden und das Dritte Reich (Una donna nella resistenza, Elisabeth von Thadden e il Terzo Reich), Freiburg im Breisgau, Herderbucherei, 1980. Devo ringraziare il nipote di Elisabeth von Thadden, Dr. Rudolf von Thadden, per avermi fatto omaggio del libro e delle sue intuizioni. 14 Anche Otto Kiep fu fra coloro che vennero giustiziati in seguito alla delazione.

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CLERO DISSIDENTE E AZIONI DISSIDENTI (Frau Emmi Friedrich)

Frau Emmi Friedrich pareva, fin dalla prima occhiata, il tipo di donna nel cui grembo si sarebbe gettato quasi ogni fanciullo smarrito. Aveva brillanti occhi azzurri e una risata argentina, ed era piuttosto piccola e - un tavolino da caffè gioiosamente carico me ne fece intuire la ragione - piuttosto tozza. Indossava un'allegra gonna bianca e blu e una camicetta bianca. Ed era il prodotto di un ambiente famigliare felice. Un ambiente felice e agiato. «Mio padre veniva da un'antica famiglia di agricoltori e mia madre, se vuole, da una famiglia colta. Fra i suoi antenati c'era un numero preponderante di teologi, dottori, avvocati. Nel corso del tempo ci sono stati molti pastori nel Meclemburgo [una regione tedesca a nord di Berlino] che venivano tutti dalla famiglia di mia madre. E mio padre era un vero patriota tedesco. Si rammaricava sempre che non ci fosse più l'imperatore.» Frau Friedrich cominciò a ridacchiare. «E rapportava sempre tutto al Kaiser. In vecchiaia - ne ridevamo ogni volta - era ancora così preso da quel tempo antico che non diceva mai "imperatore". Parlava soltanto di "Sua Maestà", perfino con i miei bambini.» Frau Friedrich stava ancora ridacchiando e, come era solita fare quando era particolarmente allegra, si stringeva le braccia paffute sui fianchi come se fossero un mantice, gonfiandosi d'aria. Quando lei e i suoi fratelli erano piccoli, continuò, il padre faceva sempre imparare loro delle canzoni e dei versi patriottici come «Sta la mia Prussia sì grandiosa e fiera, che il mio amore per lei non conosce frontiera». Mi raccontò che lei e uno dei suoi fratelli credevano che il padre si riferisse a un'alta torre di legno che sosteneva le linee elettriche e che loro si divertivano a scalare. Era l'unica cosa «sì grandiosa e fiera» che conoscessero. Non si resero conto che il padre intendeva qualcosa di completamente diverso finché la madre non espresse dei dubbi sulla loro richiesta di andare alla «nostra Prussia». Mentre finiva di raccontare la storia, Frau Emmi Friedrich quasi scoppiava per il divertimento. Le immagini vivide erano frequenti nei suoi ricordi, ma poche suscitavano un sorriso, molte meno una risata. Se è vero che le persone sviluppano una personalità altruistica a causa, in parte, di una figura parentale dotata di forte senso morale,1 per Emmi quella figura deve essere stata sua madre. Non aveva opinioni politiche, mi disse sua figlia, «proprio nessuna. Mia madre era una donna profondamente devota. Valutava sempre tutto sulla base dei suoi precetti cristiani. E perciò durante la guerra aiutò davvero molti di coloro che, stando alla teologia nazista, non si era tenuti ad aiutare. E questo per il suo cristianesimo, perché essi erano il suo "prossimo". E si deve offrire aiuto al prossi234

mo che ne ha bisogno. Quindi per lei era lo stesso se ciò riguardava un ebreo, un francese o un prigioniero di guerra russo». Emmi era la maggiore di sei figli, tre femmine e tre maschi. (Tutti raggiunsero l'età adulta tranne uno: il più grande dei maschi morì di poliomielite a otto anni.) Era nata nel 1914 nella cittadina di Parchim, nel Meclemburgo, ed era sostanzialmente cresciuta in un'oasi di agi culturali e materiali in mezzo a una popolazione rurale impoverita e in gran parte illetterata. Non bisognava dare la colpa del nazionalsocialismo a questa gente, suggerì. «Non deve dimenticare una cosa: nelle case di campagna, credo che quasi nessuno possedesse una radio. I miei genitori ebbero per la prima volta l'elettricità nel '23. Fino ad allora non c'era stato assolutamente niente. E poi, nel Meclemburgo, l'istruzione era pietosa. Tutti in un'unica aula. Tutti gli scolari. [Considerando il ceto della sua famiglia, tuttavia, è presumibile che Emmi abbia frequentato una scuola privata femminile.] E dopo il '45 venivano sempre distribuiti dei volantini, oggi c'è lo zucchero, oggi c'è il burro, e tutti potevano andare a prenderne un po'. E quando arrivava questo pezzo di carta non erano pochi nel villaggio quelli che dicevano: "Facciamolo leggere a lui, che ci riesce senza balbettare". Nel villaggio si leggevano dei libri molto di rado, per la semplice ragione che l'istruzione della gente non era all'altezza. Non c'era alcun interesse per la letteratura, la poesia e via dicendo, nicht? A quel tempo andare alla scuola superiore era un'eccezione. La terra era molto povera. I nostri contadini non erano fra i più ricchi. A ogni modo, andarci era difficile.» Che la colpa del nazionalsocialismo non si dovesse dare nemmeno a lei, Frau Friedrich non si limitò a suggerirlo: nel 1933 aveva solo diciotto anni. «Non potevamo votare fino a ventun anni. E quando li compii non mi fu più chiesto di farlo. Dunque, quando si dice continuamente che la nostra generazione è colpevole dell'avvento del fascismo... [la colpa è di] quelli che erano più vecchi.» Per di più i dirigenti politici della Germania «cambiavano in continuazione. Ach du lieber Gott! Nessuno veniva preso sul serio. Prima c'era Hindenburg, poi quello, poi quello. Così che quando arrivò Hitler tutti credettero - be', non proprio tutti - che sarebbe finita altrettanto in fretta». Quando le chiesi se avesse conosciuto degli ebrei in quegli anni precedenti al nazismo, mi rispose che due delle sue compagne di classe erano ebree. «Vede, per noi la parola "ebreo" non significava niente di più che un'altra religione. Se ci penso, eravamo quasi tutti protestanti. E a scuola avevamo queste due ragazze ebree e un'altra che era cattolica. E lei ci era più estranea delle ebree, per il semplice fatto che noi eravamo molto più orientate verso Lutero e la Riforma. Che gli ebrei approvassero l'intero Antico Testamento, proprio come facevamo noi, e che non vedessero in Gesù Cristo il figlio di Dio, ma un profeta, in realtà ci sembrava più credibile del nostro stesso credo. Perciò li accettavamo. Sapevamo cosa ci separava dai cattolici.» Frau Friedrich fece una delle sue risate. «E davvero non riuscii mai ad accettare... l'intera faccenda hitleriana della razza. Perché ne conoscevo [di ebrei], e alcuni di loro avevano mogli tedesche. Non solo

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avevano mogli tedesche, avevano nonne tedesche. Oppure erano battezzati e tutto il resto. Io lo dicevo sempre, non sono affatto una razza in sé e per sé. E sembrano proprio uguali a noi. Com'è che questa è una razza?» Anni prima di preoccuparsi di queste questioni, Emmi era stata preoccupata per il suo futuro. «Quando finii la scuola eravamo nel periodo della grande disoccupazione. E molte professioni erano precluse alle donne. Si diceva che nessuna donna poteva avere un impiego finché a quel posto aspirava un uomo con una famiglia da mantenere. A me sarebbe piaciuto tantissimo fare la bibliotecaria o vendere libri o qualcosa del genere.» L'ingiustizia del sistema le bruciava ancora. Era «incredibile,» disse. «Prima andavi a scuola e poi dovevi mollare tutto. Mio padre trovava che non ci fosse niente di male. Mi diceva: "Impara ad amministrare bene la casa, perché un giorno o l'altro ti sposerai e potrà esserti sempre utile". Ecco.» Era una storia ben nota a molte giovani donne tedesche istruite (e quindi benestanti) della sua generazione: ora che i tempi sono più duri, scordati della carriera per cui ti sei impegnata durante la liberale repubblica di Weimar e trovati un «lavoro da donna». Grazie ai «rapporti di famiglia» con i proprietari di una grande tenuta, Emmi divenne apprendista cuoca. «Adesso sperimentavo qualcosa di nuovo. Prima avevamo la nostra bella casa nella fattoria [Hof]. Mio nonno era avvocato, sindaco della città di Parchim. Diciamolo, in realtà eravamo sempre stati fra i cittadini più in vista. E adesso ero un'apprendista cuoca e le cose andavano nel modo esattamente opposto. Adesso facevo la conoscenza di un'umanità che veniva trattata come il peggiore dei rifiuti. Ed è lì che in un certo modo si è rivelata la mia coscienza sociale. Ci veniva detto: "Non desideriamo affatto che abbiate dei rapporti con i lavoratori". E noi pensavamo: "Perché no? Che genere di persone sono?" E andavamo a cercarli e scoprivamo che a loro modo erano molto più onesti dei nostri gentiluomini di campagna che nascondevano tutto dietro a un sorriso.» Criticare qualcuno e comportarsi amichevolmente qualche giorno dopo «era un comportamento davvero estraneo a un lavoratore», mi disse Frau Friedrich. Lei e le altre apprendiste di buona famiglia mangiavano con i proprietari della tenuta. «E quando alla sera avevamo finito il lavoro, ci era concesso di passare una mezz'ora a socializzare con loro.» Il tono di sarcasmo con cui ne parlava aveva qualcosa di costruito. «Poi feci un'esperienza che mi mandò terribilmente in collera. Apparecchiavo la tavola per la cena. E il figlio più giovane del proprietario aveva un ospite venuto dalla città.» Dalla sala da pranzo, attraverso una porta aperta sul corridoio, Emmi ascoltò per caso i due che parlavano. «Sentii il figlio del proprietario dire all'ospite: "Ascoltami, se hai bisogno di una ragazza vai alle baracche delle mietitrici. Se non riesci a trovare il modo di tirartene fuori [per aver messo incinta la ragazza], ti costerà diciassette marchi al mese. Ma non fare pasticci con l'apprendista cuoca di mia moglie, perché ti costerebbe molti soldi".» Secondo la legge allora in vigore, mi disse Frau Friedrich, il mantenimento di un figlio si basava sulla classe sociale della madre. Una madre 236

istruita aveva il diritto di allevare il suo bambino in modo adeguato e poteva esigere più soldi dal padre. «Dunque il divertimento costava cinquanta marchi, ma nelle baracche delle spigolatrici c'erano le polacche. E fu questo che mi fece infuriare. Avevo sempre pensato che chiunque avesse un'educazione perbene e indossasse un abito perbene fosse anche una persona perbene.» Raccontò l'episodio alla cuoca, che in precedenza l'aveva messa in guardia sulla famiglia. «La cuoca mi disse: "Finalmente ti entrerà in testa che tipo di gente sia questa". E andò così. Improvvisamente drizzi gli orecchi. Molti mi hanno detto: "Tu non vieni di certo da una famiglia di lavoratori. Come mai, allora, ti sei messa a lavorare in campo sociale e ad aiutare quelli che non possono farcela da soli, spesso a causa di un'educazione inadeguata, perché vi sono stati costretti, eccetera eccetera?" E io rispondevo: "Perché l'ho sperimentato".» Se la visione del mondo e il vocabolario di Frau Friedrich appaiono fuori dell'ordinario, è perché il luogo in cui scelse di vivere dopo la guerra fu Berlino Est. Abitava, quando la incontrai, in un appartamento di un vecchio edificio i cui corridoi avevano quell'aspetto squallido tipico di Berlino Est, come se gli operai addetti alla manutenzione fossero sempre in sciopero. Ma il suo appartamento era grazioso e ben tenuto, con soffitti alti, una grande stufa di mattonelle per il riscaldamento, e vecchi mobili di famiglia un po' troppo ingombranti per le dimensioni dei locali. Sembrava che Frau Friedrich fosse una piccola celebrità fra i tedeschi orientali. Alcune sue frasi suonavano come parti di un discorso pronunciato di frequente, e forse lo erano. E se spesso parlava in termini di valutazione della propria vita, ciò dipendeva in parte dal fatto che un anno prima le era stato diagnosticato un cancro non operabile alla spina dorsale. Si stava sottoponendo a un trattamento di radioterapia, disse, poi cambiò argomento. Ma mi raccontò che il cancro e l'età le avevano fatto decidere di esaminare i tanti documenti relativi al Terzo Reich di cui era in possesso, e di donarli a un'organizzazione disposta ad acquisirli. Fra i documenti c'era un volantino verboten su cui erano stampate le parole di Martin Niemòller, il famoso pastore che contribuì a fondare la «Chiesa Confessionale», la congregazione protestante che si oppose al nazismo. Martin Niemòller fu la guida spirituale di Frau Friedrich. Ma fu solo una delle persone che le fecero aprire gli occhi durante il Terzo Reich. Proprio mentre la repubblica di Weimar stava crollando, Emmi stava concludendo i suoi due anni di apprendistato, una specie di schiavitù a contratto tipica di quei tempi. «Il tirocinio, come in modo tanto appropriato lo si definiva allora, era "pan per focaccia": io non dovevo pagare per nulla e a me non veniva pagato nulla. In compenso mi era permesso di alzarmi alle cinque di mattina e a volte non si finiva prima delle dieci di sera. D'estate c'era la cottura del pane e d'inverno la macellazione.» E nel frattempo arrivarono i nazisti. «Scatenarono un enorme entusiasmo fra i ragazzi e le ragazze. Negli ambienti operai e dove l'industria era più forte, cioè nelle grandi città, c'era già un Partito comunista. Anche il 237

Partito socialdemocratico, che tendeva piuttosto a sinistra, aveva, diciamo, un certo ascendente opposto, che però da noi [nel Meclemburgo] era minimo. I ragazzi [della Hitlerjugend] trovavano fantastico andare in campagna di domenica e montare le tende e stare assieme.» La sorte e il futuro di Emmi apparivano considerevolmente meno entusiasmanti. Terminato l'apprendistato affrontò l'esame finale, lo superò, ricevette il certificato richiesto e trovò lavoro presso la famiglia di un ecclesiastico della zona come «Haustochter» [figlia di casa] o domestica tuttofare: era cameriera, cuoca e ragazza alla pari. Lavorava per dieci, dodici ore al giorno, riceveva vitto e alloggio, e solo «sette marchi al mese per le spese personali». Frau Friedrich s'interruppe, ancora offesa. Aveva comunque una pausa di lavoro settimanale. Ogni sabato mattina accompagnava in città la moglie del pastore a fare compére al mercato. (Emmi doveva comunque tornare a casa presto per preparare il pranzo.) La passeggiata comprendeva la sosta in una «simpatica» pasticceria per un caffè e una fetta di torta. Lì Frau Pastor comprava anche la sua scorta settimanale di dolci. «Un giorno ci andammo e trovammo una SA davanti alla porta che ci avvertì [di non entrare], che era un negozio ebreo. E proseguimmo lungo la via ed era ovunque lo stesso. Ovunque c'era gente davanti ai negozi che avvertiva che non si poteva entrare. Fu il primo boicottaggio antiebreo.» Frau Friedrich mi disse che la trovò una cosa «incredibile», ma che lei e la moglie del pastore non entrarono nel negozio. «In un modo o nell'altro aveva a che fare con la paura.» La settimana successiva il negozio era chiuso. «Pochi giorni dopo, delle SA in uniforme bruna andarono in giro per il paese e perquisirono alcune case. Erano le abitazioni dei lavoratori della tenuta. Girava voce che alcuni di loro propendessero per i socialdemocratici.» Mi disse che presumibilmente le camicie brune stavano cercando letteratura socialdemocratica o cose simili. «E sa, una persona giovane ha un senso molto forte della giustizia. Trovavo che anche questo fosse incredibile, che entrassero nelle case come se nulla fosse e frugassero dappertutto semplicemente perché avevano addosso le loro uniformi brune. E gli altri se ne stavano là davanti e non permettevano a nessuno di entrare.» Un mese più tardi, nell'aprile del 1933, i nazisti strinsero ancora di più il cappio intorno alla stampa, a chi scriveva e a chi leggeva, affidando alle fiamme le opere di autori divenuti da poco verboten. «Mio nonno era di idee molto democratiche. Mi disse: "Figliola, vai alla libreria".» Ne fece l'imitazione indicando col dito lo stesso bel mobile di quercia che era ora nel suo appartamento. «Dietro la prima fila di libri ce n'era una seconda. Il nonno mi disse: "Puoi tirare fuori quei libri qualche volta. Leggili. E potrai giudicare se ciò che hanno bruciato è degno o no di appartenere alla letteratura tedesca. C'è Thomas Mann, c'è Friedrich Mann, c'è soprattutto [Friedrich] Heine".» Leggevano specialmente quest'ultimo. «"E viviamo in uno Stato che fa bruciare questa gente," aggiunse il nonno.» Frau Friedrich mi raccontò che egli era andato in pensione prima del tempo piuttosto che permettere ai nazisti di licenziarlo. Ma non menzionò il fatto che avrebbe potuto perdere ben più del lavoro se fossero stati scoperti i suoi libri.

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Nel febbraio del 1934 Emmi ne aveva avuto abbastanza di essere una «figlia di casa» con sette marchi al mese per le spese personali. Si trasferì a Berlino per studiare da infermiera (una delle poche professioni a cui le donne avevano accesso) presso un ospedale luterano nel quartiere di Grunewald. Gli occhi le si aprirono ancora di più. Entrò a far parte, assieme ad altre allieve infermiere, di quella che chiamò la «organizzazione dei diaconi luterani», e ciò comportava la partecipazione a dibattiti sulla Bibbia con un pastore designato a quest'incarico. Ma a Emmi non piaceva la sua linea di pensiero, vicina alle posizioni dei «cristiani tedeschi» (prò nazisti). «E non lontano, nella chiesa del villaggio di Dahlem, stava Niemòller. Mi ricordo ancora del giorno in cui dissi alle altre: "Sapete una cosa? Andremo da Niemòller". E ci andammo, vestite con le nostre uniformi da infermiere, e chiedemmo di parlargli, e gli esponemmo [i nostri dubbi].» Discussero della sua interpretazione di alcuni passi biblici mettendoli a confronto con i sermoni del Terzo Reich. «Così, alla successiva ora di studio della Bibbia [tenuta dall'altro pastore], ci alzammo all'improvviso e dicemmo quello che avevamo pensato al riguardo: "E perché non è così? E non potrebbe essere così?" E non gli causammo altro che problemi.» Rise. «Sapevo che Niemòller aveva già subito delle minacce, e tornammo ancora a Dahlem e io gli dissi che qualche volta eravamo preoccupati per lui. E a quel punto lui disse... Stava sempre leggermente curvo, anche allora. Me lo vedo ancora davanti, in quella postura, che mi dice: "Infermiera Emmi, devo ripetere le parole di Lutero: 'Io mi fermo qui. Non posso fare altrimenti. Che Dio m'aiuti"'. Non potrò mai dimenticarlo. E questo accadde due anni prima che fosse arrestato. «Appartenevo al suo circolo,» affermò Frau Friedrich, «e scrissi delle lettere a coloro che [vi] appartenevano.» Eppure mi disse anche che fra i membri della «Chiesa confessionale» ci si conosceva in volto ma non per nome. Disse che nel volantino di cui era stata in possesso Niemòller citava il primo comandamento, "Non avrai altro Dio all'infuori di me", e ammoniva che i nazisti stavano facendo di Hitler un dio. (Nel 1937 Niemòller venne arrestato, messo in prigione, rilasciato, arrestato di nuovo, e spedito in un campo di concentramento. Le truppe alleate lo liberarono a Dachau nel 1945.) Nello stesso periodo in cui scoprì Niemòller, Frau Friedrich ricevette quella che per lei fu forse la prima lezione su ciò che significava interferire con la dottrina del Terzo Reich. «Avevo una capo infermiera che era la zia di un consigliere personale di Hitler. Il nome del giovanotto era Kurt Gerdisch.2 Io non lo incontrai mai, ma la nostra capo infermiera era non poco orgogliosa di suo nipote. Ja. E mentre si beveva un caffè devo aver detto qualcosa in modo casuale; be', dissi che mio padre non aveva una grande opinione di questo villan rifatto [Hitler]. Lei mi condusse nella sua stanza e mi disse che avrei fatto bene a stare attenta alle mie affermazioni. Che lei, per esempio, era la zia di Kurt Gerdisch che era il consigliere personale di Hitler. Fu quella la prima volta in cui mi resi conto che bisognava essere piuttosto prudenti. E poi venne questo famoso 30 giugno 1934, la rivolta di 239

Rohm, quando Hitler fece uccidere un gruppo di suoi sostenitori che in qualche modo non volevano che le cose andassero esattamente come lui aveva progettato. «Era sabato. Quel giorno mi era stato assegnato il turno di notte. Avevamo un dottore che si chiamava dottor Heineke. Ho saputo che si suicidò, ma molto tempo dopo. E costui era anche il dottore delle guardie del corpo di Hitler.» (La prima divisione corazzata delle SS, denominata Liebstandarte-SS Adolf Hitler, non si limitava a proteggere Hitler. Era una specie di piccolo esercito di terroristi, e partecipò attivamente al putsch di Rohm.) «Quella sera d'estate,» continuò Frau Friedrich, «il dottore fu convocato dalle guardie del corpo, nella parte occidentale di Berlino. Ritornò intorno alle cinque del mattino, pallido come un cadavere, si scosse e disse: "Una tazza di caffè molto forte, per favore". Gli posai il caffè accanto e lui allora pronunciò una sola frase: "Lei sa quant'è terribile dover confermare la morte di più di cento esseri umani?"» Frau Friedrich fece una pausa. «Io non dissi nulla. Lui non disse nulla. E più tardi mormorò soltanto [Frau Friedrich parlò rapidamente, imitando il dottore]: "Mi dica, che cosa ho detto?" Era stato solo uno sfogo. «E il giorno dopo andai a Dahlem ad ascoltare Niemòller e per la strada c'erano SS dappertutto. Dappertutto. Non potevi fare cento metri senza sentire la stessa frase: "Muoversi prego, non fate gruppo. Muoversi prego, non fate gruppo". [Ketne Haufen bilden (Non formate un mucchio).] Si aveva come una sensazione d'irrealtà. Benché all'inizio non sapessimo che cosa fosse successo.» Emmi continuò per la sua strada e si fermò da un'amica, una vecchia compagna di classe che viveva proprio accanto al quartier generale della Liebstandarte-SS. L'amica le raccontò che «alla sera sono venute delle SS a ordinarci di chiudere le finestre e di non guardare fuori. E per tutta la notte abbiamo sentito continuamente degli spari, e ogni tanto un urlo». Lei «era rimasta seduta lì a tremare, senza sapere che cosa stesse succedendo. Fu il trenta di giugno. E da allora in poi io non potei più provare alcuna simpatia per loro. Per me era così orribile che si vivesse in uno Stato in cui si poteva semplicemente ammazzare la gente. E mio padre stesso era un membro della NSDAP». Mi disse che egli apparteneva allo Stahlhelm [gli Elmetti d'acciaio], un'organizzazione nazionalistica costituita in gran parte da veterani della Prima Guerra Mondiale che volevano il ritorno della monarchia in Germania. Il capo dello Stahlhelm era Franz Steldte che, così si espresse Frau Friedrich, «trasferì» i suoi membri nel Partito. «E mio padre non ebbe quel tanto di coraggio per dire: "Io voglio uscirne".» Secondo un'altra versione, alla fine del 1933 Hitler incorporò lo Stahlhelm nelle SA nel tentativo di ridurre l'opposizione. Fu una mossa impopolare fra i membri di entrambe le organizzazioni.3 Suo padre, disse Frau Friedrich, decise di restare nel Partito per il benessere dei propri figli. «Ma mise sempre in guardia i miei fratelli da un ardore eccessivo, perché non si lasciassero trasportare dagli avvenimenti, ma piuttosto studiassero di più. Poi, tempo dopo, spararono anche al 240

proprietario di una tenuta nei dintorni e lo uccisero. E in seguito mio padre diceva sempre: "Se anche una sola persona è stata uccisa senza una sentenza giudiziaria, si tratta di un assassinio".» Nell'anno seguente, il 1935, la vita privata di Emmi fu toccata da un altro avvenimento pubblico, la promulgazione delle leggi di Norimberga sulla razza. Una delle persone che si trovarono a dover fare i conti con le disposizioni emanate era la sua nuova amica del cuore, Anneliese Tack, della ben nota famiglia Tack proprietaria dei calzaturifici omonimi. Si erano incontrate alla scuola per infermiere. Anneliese era figlia di un padre ebreo, caduto combattendo nella Prima Guerra Mondiale, e di una madre «ariana». Nonostante la madre si fosse risposata con un uomo «ariano», l'ebreo che era morto per la sua «patria» adesso metteva in pericolo la vita di sua figlia per il semplice fatto di essere ebreo. Anneliese emigrò. Frau Friedrich si ricordava di un'altra amica mezzo ebrea che fece lo stesso. Ma la persona di cui aveva il ricordo più preciso era un giovane dottore di nome Max Arnold Mairovski (come lei lo pronunciò. La grafia usata è un'ipotesi). «Suo padre era professore di dermatologia a [l'università di] Colonia. E lui lavorava nel nostro ospedale e voleva specializzarsi in neurochirurgia. Poi sopraggiunsero le leggi di Norimberga. La sua famiglia rientrava completamente nei loro termini. Il padre veniva da una famiglia ebrea. La madre veniva da una famiglia ebrea. Il fatto che fossero o non fossero battezzati non aveva alcuna importanza. Aveva una sorella che tempo prima era entrata in un convento in Italia, e più tardi, quando i nazisti lo rastrellarono, venne arrestata. Morì in un campo di concentramento tedesco. E tutta la famiglia, il Professor Mairovski, sua moglie, i suoi due figli, la famiglia di Max, lasciò la Germania nel 1937.» La loro destinazione immediata fu l'Inghilterra. Prima della partenza Max Arnold Mairovski scrisse una formale lettera d'addio a Emmi Friedrich. Quando espressi il mio interesse per la lettera, Frau Friedrich la recuperò in pochi secondi e me la lesse ad alta voce con la cura che avrebbe potuto dedicare a una poesia di Heine. La prosa tedesca di Max Arnold Mairovski era di struggente bellezza. Il quattro agosto 1936 egli scrisse alla «Stimatissima infermiera Emmi» ringraziandola «di cuore per il grande sostegno che lei mi ha dato in un periodo in cui la maggioranza girava le spalle». Riconosceva che «dopo che i fondamenti di vita che consideravo i soli per me degni sono stati alla fine distrutti... alla mia famiglia io sono necessario oggi più di quanto sia mai stato». La sua vita sarebbe stata «senza dividendi» ma «costruita sull'attesa del momento in cui la Patria avrebbe di nuovo avuto bisogno di coloro che sono pronti a esserle fedeli... nonostante tutto. Una volta fu chiesto a Pitagora come ci si dovrebbe comportare nei confronti di una Patria ingrata. Come nei confronti della propria madre, fu la sua risposta». Dall'Inghilterra la famiglia Mairovski si trasferì in Tennessee. Frau Friedrich mi disse di aver saputo da un amico comune che a Nashville c'era un giovane neurochirurgo di nome Mairovski. «E sa,» mi disse, «il destino di queste persone contribuì al fatto che io non sarei mai stata capace di sposare un uomo che fosse implicato in questo

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sistema. Ormai non ce n'era più la possibilità.» Le chiesi se in precedenza il suo atteggiamento fosse stato meno drastico. «Nein, nein,» mi rispose. «Giudicavo inaccettabile quello che le SS \_sic\ fecero con le perquisizioni delle case e il boicottaggio antiebreo. Ma,» aggiunse esitando, «a quel tempo avrei sposato un uomo che mi piaceva perfino se fosse stato iscritto [al Partito nazista]. Se fosse stato capace di spiegarmelo, ja.» Incontrò l'uomo che avrebbe effettivamente sposato nel 1938, in una tenuta nel Meclemburgo dove lui lavorava. Herr Friedrich, lungi dall'essere un nazista, aveva fatto parte dei «Giovani socialisti», e non «faceva alcuna concessione» al nazionalsocialismo. Frau Friedrich disse di avergli chiesto spesso che cosa avesse fatto e che cosa stesse facendo a quel riguardo, ma che lui non le rispondeva. «Non voleva opprimermi, e non lo volevano neppure le persone che lui conosceva bene e che avevano i suoi stessi sentimenti.» Aveva intenzione di parlargliene in seguito, mi disse. Nello stesso anno in cui conobbe un brav'uomo, Emmi conobbe anche una donna «molto, molto brava» che la assunse come infermiera. Cosi, un anno dopo aver perso a causa dei nazisti due persone a lei vicine - Max Mairovski aveva lasciato la Germania e il pastore Niemòller era stato arrestato - ella li sostituì, in pratica, con un marito antinazista e con una datrice di lavoro che lo era almeno altrettanto. Frau Dr. Briefert era la moglie di un uomo che in precedenza era stato sposato a una zia di Frau Friedrich. E lei pensava che anche quel minimo di «rapporto famigliare» fosse rassicurante in un tempo in cui, disse, le infermiere pagate dal governo dovevano essere nazionalsocialiste. L'infermiera Emmi chiese a Frau Doktor di poter lavorare con lei nel suo studio privato: Frau Doktor acconsentì. «E così fu.» (Le due donne restarono vicine fino alla morte della dottoressa, nel 1984.) «Cominciai a lavorare con lei nel '38 e nel '39 scoppiò la guerra. E in seguito venivano dei pazienti a raccontarci cose orribili. Uno [un civile] venne e ci disse: "Potreste mettermi in malattia per un paio di giorni, per favore? Non posso più sopportare di sentirlo". "Bene," dicemmo noi, "cos'è che non sopporta più di sentire?" E allora ci disse che lavorava vicino [al carcere di] Plòtzensee, e che sentiva sempre il tintinnio di una campanella. E ogni volta che lo sentiva qualcuno veniva decapitato. E non poteva più sopportare di sentirlo. Non avremmo potuto metterlo in malattia per un paio di giorni? E quella fu la prima volta che ne sentii parlare.» Frau Friedrich disse di ignorare come quell'uomo avesse saputo che il tintinnio della campanella nel carcere significava una decapitazione, ma che egli era certo «che non erano pochi» quelli che venivano decapitati. Poiché all'inizio era piuttosto incredula riguardo alle quelle affermazioni, chiese a una paziente (una donna a cui fu poi reso omaggio per la sua attività nella resistenza) di aiutarla a verificarle. Questa donna le disse che lei e suo marito erano vicini al cappellano di Plòtzensee Harald Poelchau4 e che gli avrebbero chiesto di ricevere «l'infermiera Emmi» così che potesse parlargliene. «Andai dal pastore Poelchau e gli raccontai il fatto, e lui si limitò a scuotere la testa e disse: "Purtroppo è vero".»

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Frau Friedrich fece una lunga pausa prima di riprendere a parlare. «Molti ebrei risiedevano ancora qui a Berlino. E in precedenza Frau Dr. Briefert aveva avuto molti pazienti ebrei. Ciò accadeva per il semplice fatto che essi abitavano [nel vicinato].» Lo studio della dottoressa era sulla Chausseestrasse, nel centro di Berlino, a est della linea lungo la quale sarebbe stato innalzato il muro. Frau Friedrich proseguì raccontando che gli ebrei dovevano mettere delle stelle di David sulle porte delle loro case «così che quando le SS facevano le retate avevano un compito terribilmente facile. E a quel tempo gli ebrei non potevano rivolgersi a un normale studio medico, ma dovevano andare da uno dei loro. E qui non potevano camminare su certe strade, e non potevano viaggiare sui tram a certe ore e comunque non potevano sedersi, dovevano stare in piedi, e avevano tessere di razionamento diverse. Be', era proprio orrendo. E non potevano andare al cinema e non potevano andare a teatro e in seguito non poterono tenere animali, niente pappagalli e niente cani. Era tutto verboten. E ora avevamo questi pazienti ebrei. Non potevamo scrivere ricette per nessuno di loro». Ma, mi disse, lei e Frau Dr. Briefert avevano i loro medicinali, tenuti in serbo in una cassettiera che si estendeva lungo tutta una parete. «Li chiamavamo campioni per i medici. Le ditte farmaceutiche venivano a offrire i loro prodotti più recenti, medicine e pillole, in modo che Frau Doktor li potesse ordinare. Avevamo farmaci per il cuore, per la circolazione, per la cistifellea, cose per il fegato e per i reni. E ora cominciammo a distribuire questi medicinali ai nostri vecchi pazienti ebrei e a portarglieli. Usavamo sempre un segnale.» Me ne diede una dimostrazione battendo con le nocche sul bracciolo della sedia: due colpi, una pausa, altri tre colpi. «E a quel punto loro sapevano che eravamo noi. Ma erano terrorizzati e noi ci limitavamo a passare loro le medicine. Inoltre falsificavamo le ricette. Frau Doktor mi diceva: "Dunque, adesso compilerò questa ricetta per lei. O per chi potrei scriverla?"» La donna che conosceva Poelchau le aiutava ad attuare il piano. «Si faceva fare più di una ricetta per cose che non aveva mai avuto e consegnava anche le medicine.» Ma quando se ne andava, aveva talvolta «la brutta sensazione» che qualcuno sulle scale l'avesse vista e potesse denunciarla. Anche Frau Friedrich ebbe i suoi momenti di grande panico. Herr Friedrich era lontano a combattere nell'artiglieria navale, ed Emmi viveva da sola in due stanze che comunicavano con i locali dello studio medico. Talvolta il campanello suonava di notte. Lei si sentiva «male come un cane, perché avrebbe potuto essere qualcuno che ti aveva notato. A volte era una persona che non sapeva che Frau Doktor non viveva lì e che aveva disperatamente bisogno di un dottore». Un giorno entrò nello studio medico una donna che Frau Dr. Briefert e l'infermiera Emmi conoscevano, e fece una breve dichiarazione: «Frau Doktor, io nascondevo un ebreo». Frau Dr. Briefert rispose: «Ja?» in un modo che nel racconto di Frau Friedrich significava «Già, e allora?» La donna continuò: «È morto. Che cosa ne faccio del corpo?» La morte, dovuta a malattia (Frau Friedrich accennò al fatto che Frau 243

Dr. Briefert aveva fornito le medicine a quell'uomo), era avvenuta in uno degli appartamenti di un edificio a pochi passi dalla clinica. «Adesso erano tutti in pericolo. Sa che cosa fecero? Durante un'incursione aerea lo portarono fuori e lo sistemarono in qualche modo sulle scale. C'erano sempre dei bombardamenti.» Gli altri abitanti, di ritorno dal rifugio, dovevano credere che quello sconosciuto avesse cercato riparo nell'edificio durante il bombardamento, e che fosse morto. «Fu allora che mi resi conto per la prima volta di quanto pericoloso fosse nascondere della gente. Fino ad allora pensavi: "Ach Gott, è solo..." Si citavano sempre quelli che andavano sott'acqua con gli "U-Boote", nicht? E a volte pensavi: "Ach Gott, probabilmente loro se la vedono molto più brutta". E poi mi accorsi di quanto pericoloso potesse essere. E loro non potevano dire che quell'uomo era morto. Davvero sarebbero stati portati via quella mattina, in un campo di concentramento o quello che era.» Di fatto alcuni aspetti della vita di ogni giorno rimasero normali, disse Frau Friedrich, ma non nelle località più piccole. Un esempio calzante è quello del saluto nazista, lo «Heil Hitler!». « Q u i a Berlino potevi ancora entrare e uscire con un "Buon giorno" e così via. Ma se a Parchim non facevi il saluto, lo si notava. Mi ricordo che, a casa, mia sorella doveva andare a ritirare qualcosa dal fabbro. Entrò nella fucina e disse: "Heil Hitler! " e il fabbro le chiese in Plattdeutsch [dialetto] se si fosse rimbambita.» Sua sorella l'aveva detto solo per cautelarsi? «Ja, ja. Non conosceva le opinioni del fabbro e a scuola era una cosa così ovvia, e lei aveva partecipato al programma di "lavoro obbligatorio". Non era indispensabile sollevare il braccio,» aggiunse, «bastava il saluto. Faceva semplicemente parte della routine quotidiana il fatto di non farsi notare. E uno non desiderava farsi notare.» A Parchim venivano notati perfino i commenti più innocenti. Quello che segue è un esempio perfetto di come i civili tedeschi venivano tenuti in riga. «Da noi c'era una negoziante che gestiva un'attività mista, un negozio che era per metà libreria e per metà edicola. E quando scoppiò la guerra con l'Unione Sovietica l'inverno fu spaventosamente freddo. I soldati non erano assolutamente preparati e perciò non avevano un abbigliamento adatto. E qualcuno entrò nel negozio e parlò, be', dei nostri soldati, ecco. E lei [la negoziante] disse che pensava sempre a quei poveri soldati. E qualcuno che sosteneva Hitler la sentì e la denunciò al comando di zona. Di conseguenza le fu ordinato di recarsi a quel comando. E ogni giorno per quattro settimane dovette presentarsi al comando e pronunciare la frase: "Non i nostri poveri soldati. I nostri prodi soldati. Heil Hitler! " » Frau Friedrich rise. Mi diede anche un esempio di come i soldati tedeschi venivano tenuti in riga. L'esempio coinvolgeva suo marito. Herr Friedrich era tornato al fronte da una licenza. Mentre era in un gruppo di persone apparentemente fidate, gli fu domandato che cosa pensasse della guerra. Lui rispose, mi disse Frau Friedrich, che sarebbe emerso che il sistema sovietico aveva i suoi lati positi-

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vi e non era esattamente come lo dipingevano i nazisti. Un uomo che faceva parte del gruppo lo denunciò quella notte stessa. «Mio marito fu portato in Germania su un battello speciale e comparve davanti a un giudice militare. Per "aver minato la sicurezza dello Stato e del Popolo", tre anni di prigione. Se la cavò bene, dati i tempi. Se fosse successo due anni più tardi, dopo Stalingrado, le cose sarebbero andate probabilmente molto peggio.» Dopo aver saputo della sentenza Herr Friedrich tentò un'altra volta di nascondere la verità a sua moglie, che era sul punto di dare alla luce il loro primo bambino. «Mi aveva scritto soltanto: "Se non riceverai mie notizie per molto tempo, non preoccuparti. Probabilmente andrò a fare un addestramento speciale, dove non mi sarà permesso di scrivere". E io ero una tale stupida che ci credetti.» Poco dopo la nascita della loro figlia le capitò di incontrare un professore che sia lei sia suo marito conoscevano. «Mi chiese: "Dov'è suo marito adesso?" E io risposi: "Ja, sta partecipando a un programma speciale di istruzione e non posso mettermi in contatto con lui". E quello mi guardò in un modo così particolare che pensai: "Perché mi guarda con quell'aria strana?"» Herr Friedrich non rimase a lungo in prigione. «Dopo tre quarti d'anno abbondanti Hitler fece pubblicare un decreto che stabiliva che sarebbe andato al fronte chiunque fosse sotto un certo [limite di condanna]. E quanto al resto della pena da scontare, si sarebbe deciso dopo la guerra.» Più tardi, mentre Herr Friedrich era tornato a combattere, fu emanato un altro decreto per cui anche le infermiere che non erano incinte o non avevano molti figli dovevano essere spedite al fronte, negli ospedali militari. «Nel gennaio del 1943 seppi che dovevo presentarmi alla visita, nel corso della quale dissi: "Credo di essere incinta". Al che il dottore urlò: "O una è incinta o non lo è. Una lo sa! " Io dissi che non avevo il mio ciclo e che mio marito era stato a casa in licenza e che credevo di esserlo.» Lo era. Rimase a Berlino, continuando a lavorare per Frau Dr. Briefert e i suoi pazienti, e contro i nazisti. «In realtà non era resistenza politica. In realtà derivava solo da ragioni puramente umanitarie. C'erano ragioni umanitarie che separavano alcuni dal sistema e c'erano ragioni umanitarie per cui noi li aiutavamo, ma nessun motivo politico in quanto tale.» Nel pieno della guerra Frau Friedrich incontrò ancora un'altra personalità antinazista, la scultrice e pittrice Käthe Kollwitz. Era sposata a un dottore con cui Frau Dr. Briefert aveva rapporti di lavoro. L'incontro avvenne quando l'infermiera Emmi andò nell'ufficio del dottor Kurt Kollwitz per ritirare la cartella di un paziente. Frau Friedrich sapeva che come artista Käthe Kollwitz era verboten, ma non conosceva molto di lei, tranne che aveva scolpito un monumento ai caduti della Prima Guerra Mondiale e che fra i caduti c'era suo figlio. «Era un freddo giorno di gennaio e suo marito non c'era e dovetti aspettare. E allora Käthe Kollwitz mi domandò: "Anche lei ha dei parenti al fronte?" Io risposi: "Ja. Mio marito. I miei fratelli. Mio padre". Lei mi disse soltanto, molto dolcemente: "Oh povera bambina". E io le chiesi se anche lei aveva dei parenti [al fronte]. Le dissi che sapevo di suo figlio Peter 245

nella Prima Guerra Mondiale. Aveva anche un nipote che era stato chiamato Peter in onore del padre caduto. E anche lui era stato ucciso. Nella campagna di Polonia. E mi disse [riguardo alla morte di suo figlio] che mai nella sua vita era riuscita ad accettarla. E probabilmente non l'avrebbe accettata mai. Perché era lei che lo aveva convinto ad arruolarsi volontario per combattere. E quattordici giorni dopo non era più vivo. E mi disse di aver avuto degli attacchi di depressione così terribili e di essersi isolata così tanto che perfino il suo matrimonio era stato messo a repentaglio.» A tempo debito, Frau Emmi Friedrich ricevette il suo conto dal fronte. «I miei due fratelli morirono nel 1943, in guerra. E mio marito, messo in prigione per motivi politici, fu poi spedito sul fronte orientale con i rinforzi, e finì disperso in battaglia. Non avemmo sue notizie per molto tempo. Le ultime arrivarono nel marzo del 1945. E dopo di quelle, nient'altro.» L'unico maschio della famiglia a sopravvivere fu suo padre, l'Elmetto d'acciaio devoto al Kaiser. Verso la fine della guerra Frau Friedrich lasciò Berlino (senza dubbio prendendo parte all'evacuazione delle donne e dei bambini dalla città) e ritornò in Meclemburgo. Era là quando le truppe sovietiche ebbero definitivamente la meglio. A differenza delle donne provenienti da altre regioni orientali della Germania, per non parlare di Berlino, Frau Friedrich non pronunciò una sola parola sugli stupri o i saccheggi o gli assassinii compiuti dai soldati sovietici. Parlò invece di un ufficiale russo che le chiese di usare la sua esperienza in campo medico per aiutare a prevenire un'epidemia di febbre tifoide che minacciava i villaggi vicini. Frau Friedrich accettò. Mi disse che i suoi suoceri si fecero vivi dall'ovest e le proposero di andare a vivere con loro, così che la famiglia potesse stare insieme. Si offrirono anche di darle una mano nella cura dei bambini in modo che fosse libera di lavorare. «Ja, davvero avrei dovuto lasciare i miei villaggi nei guai?» Sospirò. «Non potevo farlo. Non potevo farlo. C'era bisogno di me.» Decise che era lì dove si trovava il luogo in cui avrebbe potuto «compiere il proprio dovere». Frau Emmi Friedrich rimase nella Germania orientale. Nel 1948 le fu chiesto di lavorare in campo sociale per il nuovo dipartimento «Madri e figli» del ministero della sanità. Siccome quando era infermiera aveva saputo che molte giovani donne non sposate, dopo essere rimaste incinte, tentavano di suicidarsi (i nazisti vietavano alle donne «ariane» di abortire), colse l'occasione per uniformare il trattamento dei figli legittimi e di quelli illegittimi. (Mi disse che secondo la vecchia legislazione tedesca, e per tutto il periodo nazista, se una donna aveva un figlio prima del matrimonio e lo dava in adozione doveva dirlo al futuro marito, ma se questi aveva procreato un figlio non era tenuto a dirlo a lei.) «Questa, mi dissi, è una cosa per cui ti puoi impegnare e fare propaganda e puoi spezzare questo monopolio per cui solo una certa classe ha la possibilità di dare ai suoi figli un'educazione superiore, come io ho sperimentato. E perché non il figlio dotato di un lavoratore?» A quanto pare Frau Friedrich restò una fedele del nuovo sistema poli246

tico per tutta la vita. Fu persino attiva nell'insignificante partito d'opposizione della Repubblica democratica tedesca. Ma, nel suo nuovo paese ateo, mantenne la propria fede cristiana? «Ja, professo la mia fede cristiana adesso come allora. Per me, tutto ciò che faccio trae origine dal fondamento del mio credo.» Disse di aver discusso del cristianesimo anche con Dietrich Bonhoeffer, un altro eminente teologo protestante che si oppose al nazismo. (Morì in un campo di concentramento pochi giorni prima della fine della guerra.) «Egli mi disse: "Essere un cristiano in realtà non significa nient'altro che essere lì per gli altri". E fin da quando ero piccola io ho dovuto sempre essere lì per gli altri. I miei fratelli erano di nove o dieci anni più giovani di me. Essendo la maggiore dovevi sempre essere lì per i più piccoli. Ebbene, quando vieni da una famiglia così grande, e poi c'è la fattoria, ci sono sempre dei doveri. Si comincia dando da mangiare ai pulcini e alle galline, ma in una maniera o nell'altra ti devi sempre rendere utile. E il mio modo di essere era interamente così, il che di conseguenza mi portò a diventare un'infermiera e poi, ancora più tardi, un'operatrice sociale. Sempre per quest'esigenza di voler essere lì per gli altri dove c'è bisogno d'aiuto, e di poter dare aiuto finché ti viene chiesto.»

NOTE 1 Per un'affascinante esplorazione di quest'argomento, si veda Samuel P. Oliner e Pearl M. Oliner, The Altruistic Personality: Rescuers of Jews in Nazi Europe, New York, The Free Press, 1988. 2 La grafia del suo nome, e di quelli che verranno citati successivamente, è un'ipotesi. Frau Friedrich non rispose mai alle mie successive richieste di chiarimenti riguardo (fra l'altro) ai nomi delle persone che aveva menzionato. ' Cfr. Louis L. Snyder, Encyclopedia of the Third Reich (Enciclopedia del Terzo Reich), New York, McGraw-Hill, 1976; New York, Paragon House, 1980, p. 331. ' Per altre notizie sulla notevole figura di Harald Poelchau, si veda l'intervista con Freya von Moltke.

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UN LAVORO DI UNA CATEGORIA A PARTE (Frau Anna Fest)

I ricordi d'infanzia di Anna Fest, come li raccontava lei, non erano niente di straordinario: la solita tragedia, seguita dalla soprawivenza economica. Nata nel 1920 in un villaggio della Germania centrale di circa quattrocento abitanti, la maggior parte dei quali contadini e manovali con le loro famiglie, aveva due anni quando suo padre rimase ucciso in un incidente ferroviario. A seguito della sua morte, la madre ricevette una piccola indennità annuale che contribuiva al sostentamento suo, di Anna e della sorellina appena nata, Erika. Inoltre riprese la sua attività di cucitrice. Delle elezioni del 1933 che portarono Hitler al potere, l'allora tredicenne Anna Kupfer ricordava che ci fu una sola scheda nulla nel suo villaggio. Tutti sapevano di quel voto, disse, anche se ignoravano di chi fosse. Disse che le elezioni in sé non le avevano fatto una grande impressione, ma ricorda che dopo l'avvento al potere dei nazisti l'indennità della famiglia aumentò. Sua madre «ovviamente» si iscrisse alla Frauenschaft, e grazie alla sua «buona istruzione»1 ebbe la responsabilità della cassa. A casa, Anna non trovava un «entusiasmo incondizionato» per il nazismo. Se sua madre diceva che Goebbels non avrebbe dovuto parlare con tanta sicumera, qualcun altro le diceva di stare zitta, poi qualcun altro ancora diceva: «Questi nazisti al duecento per cento ci faranno andare kaputt». Lo zio di Anna, che era iscritto al Partito socialdemocratico, i nazisti non li poteva vedere. I discorsi su di loro rimbalzavano attorno alla casa. A metà degli anni Trenta Frau Kupfer decise di trasferire la sua famiglia in un paese più grande dove avrebbe potuto guadagnare più soldi. Era in particolare una «cucitrice di bianco» [Weiss-Näherin], la qual cosa significava che andava nelle case private a cucire biancheria di valore. Il lavoro, disse la figlia, consisteva nel «cucire i pizzi e fare ricami su elegante biancheria da signora». La cittadina nella quale scelse di mettere a frutto più vantaggiosamente le sue mani esperte era Sonnenfeld, nella Germania centro-settentrionale. Lì Anna si iscrisse al Bund deutscher Mädel. «Lo trovavo molto piacevole. Cantavamo canzoni popolari, c'era un gruppo sportivo. E ancora oggi, anche se mi sforzo non riesco a ricordare una diretta istruzione politica. Ho cercato di ricordare qualcosa del genere. Non c'era niente. Ci piaceva così tanto, comunque.» Dal punto di vista dei Kupfer, i migliori successi del nazismo furono la fine della disoccupazione e l'aumento dell'indennità per la famiglia. Frau Fest disse che non riusciva a capire come facevano gli altri tedeschi a nega248

re il loro entusiasmo iniziale. «Perché non lo ammettono?» sussurrò. «In tanti erano entusiasti. Tutti noi eravamo più o meno entusiasti.» Continuò: «Eravamo giovani. Parlavano direttamente a noi. Non è tanto difficile indurre sentimenti patriottici in un giovane e riempirlo di entusiasmo. Perché dopo uno non dovrebbe ammetterlo?» Nel corso degli anni seguenti del Terzo Reich e della guerra, sua madre ed Erika condussero una vita relativamente normale. Anna, però, nell'ultima parte di quel periodo divenne guardia in un campo di concentramento. Frau Fest adesso vive con il marito, Otto, un dipendente delle poste in pensione, nel minuscolo villaggio di Wackersdorf, a una quindicina di chilometri da Sonnenfeld. I loro figli, una femmina e due maschi, vivono da molto tempo per conto loro. (Su richiesta di Frau Fest, i nomi della famiglia e dei luoghi, oltre ad alcuni particolari, sono stati modificati.) I Fest possiedono una tipica casa tedesca, che a prima vista è quasi sommersa dal giardino di fronte. Dentro, anche i mobili sono tipicamente tedeschi, nello stile del dopoguerra. Regnano la pulizia e il decoro, insieme ad alcuni tocchi che rivelano l'orgoglio della casa (su un tavolo lucido, un grande vaso di rose che provengono dal giardino; una credenza che mostra la cristalleria). A giudicare da quanto si deduce dal vicinato, si direbbe che i Fest siano una famiglia operaia in una strada di impiegati, e che abbiano quella sensazione. Nei confronti di una vicina, Frau Dr. Diener, una psicologa in pensione, i Fest si comportavano con evidente deferenza. Frau Dr. Diener, che ci aveva messi in contatto, non sapeva praticamente nulla di Frau Fest a parte il fatto che era estremamente amichevole con tutti, faceva l'aiuto-infermiera ed era stata una guardia. Sorprendentemente, questo fatto era a conoscenza di tutto il vicinato. Ma perché lei aveva risposto di sì quando Frau Dr. Diener le aveva chiesto se voleva parlarne con un'estranea? Era abituata a discutere del suo passato? Si sentiva la coscienza a posto, più o meno a ragione? Un ricordo confuso? Un bisogno di confessare? In seguito capii all'improvviso che forse era semplicemente perché voleva far piacere a Frau Dr. Diener. Frau Fest probabilmente mi vide arrivare per il vialetto. E probabilmente si chiese come mai ci mettevo tanto prima di bussare. L'emozione di trovarsi per la prima volta davanti alla porta di una ex guardia di un campo di concentramento è difficile da descrivere. Finalmente alzai la mano. La donna che mi aprì era corpulenta e grigia di capelli e portava un'uniforme bianca su cui era appuntata una medaglia di servizio della Croce Rossa. Frau Anna Fest ed io ci stringemmo la mano e ci presentammo. L'intervista doveva svolgersi tra i suoi turni di assistenza a una donna anziana immobilizzata a letto. Il viso di Frau Fest mostrava segni di bellezza ed era privo di trucco. Aveva anche un'espressione preoccupata, in contrasto con la fama che aveva nel vicinato. La ragione era chiara. Contrariamente a una della mie supposizioni, lei non era affatto abituata a parlare del suo passato. Era la 249

prima volta, disse, che avrebbe parlato liberamente di quell'argomento con qualcuno che non faceva parte della sua famiglia. Ci sedemmo in soggiorno, e ci dibattemmo per alcuni minuti in un chiacchiericcio difficile e sforzato. Doveva essere chiaro ad entrambe che eravamo a disagio. Finalmente Frau Fest propose di prendere «un bicchierino di vino» [ein Gläschen Wein], D'accordo, dissi. Quel momento segnò la trasformazione. Lei saltò su, evidentemente sollevata di poter fare qualcosa a cui era abituata, offrire un rinfresco a un'ospite; io mi rilassai vedendo che lei era più rilassata, e grazie anche a un ottimo vino del luogo riuscimmo a cominciare. Frau Fest ripercorse gli anni al villaggio, il trasloco a Sonnenfeld, e arrivò alla dichiarazione di guerra della Germania. A quell'epoca aveva diciannove anni. Ebbe la notizia al lavoro, l'industria farmaceutica Behringwerke, che aveva legami indiretti con l'apparato militare. Dall'altoparlante venne l'ordine a tutti i dipendenti di radunarsi nel cortile interno per un annuncio del direttore. «Disse che a partire da una certa ora eravamo in guerra, che le nostre truppe erano entrate in Polonia e così via. Non c'era nessun entusiasmo. Molte donne piansero. Sapevano solo che gli uomini sarebbero partiti. Forse c'era qualcuno che disse sì, è giusto così, e poteva esserci qualcuno un po' più interessato alla politica in grado di capire cosa sarebbe successo. Ma noi no, quelle cose non ci interessavano.» Oltre al lavoro nel laboratorio della fabbrica, che riguardava alcune ricerche per un vaccino contro il tifo, Frau Fest dovette subito partecipare allo sforzo bellico. Sotto l'egida della Croce Rossa, a cui era affiliata sin dal 1936, fu mandata alla stazione per occuparsi delle truppe quando si fermavano le tradotte. Lì, alcune donne distribuivano caffè, zuppa e cose del genere, mentre lei, alquanto sbigottita, pare, era assegnata a un'unità medica. «Se ci ripenso, devo dire onestamente che quando scoppiò la guerra eravamo un po' sorpresi e inconsapevoli [überrascht und überrumpelt]. consapevolezza Una si trovava semplicemente in mezzo. Non raggiungevi la che ti permetteva di pensare in maniera diversa.» Il fidanzato di Frau Fest, Otto, fu mandato sul fronte occidentale. Molti altri uomini di entrambe le famiglie vennero arruolati. «Era chiaro che avremmo avuto paura. Succede a qualunque madre. Succede a qualunque donna. E quando continuavano a ripetere di essere coraggiose, e arrivavano le prime notizie tragiche...» La frase sfumò nel silenzio. «Capisce, a un certo punto non vuoi più essere coraggiosa. Vuoi che ti lascino piangere. Allora dentro sei terribilmente triste, ma non puoi rischiare di mostrarlo fuori. È terribile. Della famiglia di mio padre vennero richiamati sei fratelli e quattro furono uccisi. Non ci si riprende mai dal buio che viene dopo.» Siccome faceva doppio servizio sul fronte interno, Frau Fest si lamentò con sua madre, dicendo che era esausta e voleva almeno avere la domenica libera. Sua madre, disse, rispose che Otto era al fronte, per cui Anna non 250

sarebbe andata da nessuna parte la domenica. E se tutti cedevano, non si sarebbe fatto più niente. Così in lei si riaccese il «senso del dovere, forse stupido,» e ripresero vigore le massime «sii coraggiosa» e «non piangere», e continuò così. Nel 1940, dopo più di un anno di servizio attivo, Otto Fest ebbe la sua prima licenza. Lui e Anna la sfruttarono per sposarsi. La coppia ricevette dallo Stato il regalo canonico per i nuovi sposi «ariani», una copia di Mein Kampf. Ridacchiando, Frau Fest disse che ce l'ha ancora e vorrebbe trovare il tempo per leggerlo, ma non ne ha. Quanto agli sposini, Frau Fest entrò nella Frauenschaft e Otto tornò al fronte. «Probabilmente la guerra ebbe conseguenze del tutto diverse sulle donne e sugli uomini,» disse. Le donne furono «costrette ad essere autosufficienti e dovevano lottare sul serio, e gli uomini erano via». La sua immersione nell'autosufficienza la fece diventare una delle molte donne tedesche per le quali, nel dopoguerra, il matrimonio divenne un campo di battaglia. Come altre donne, osservò che il fenomeno andava al di là della sua situazione individuale. «Dal punto di vista degli uomini, noi eravamo diventate troppo autosufficienti. Eravamo diventate quello per cui si lotta anche oggi. Emancipate. E comunque io ero sempre stata una a cui non era facile dare ordini e avevo sempre difeso la mia personalità. Quando mio marito tornò dalla guerra, le cose furono subito molto difficili.» Mentre Otto era al fronte, un altro fronte raggiunse Anna. Durante un bombardamento il suo laboratorio venne colpito. Lei non fu ferita dalle bombe, ma mentre aiutava a sgombrare le macerie si ferì gravemente una mano, che ebbe una paralisi momentanea. Lei non poteva più prendere in mano una provetta. La Behringwerke le affidò un lavoro meno qualificato: confezionare i pacchi di siero. Mi disse che una recente pubblicazione di un gruppo di storici locali affermava che altrove la Behringwerke aveva condotto esperimenti medici su uomini. «Qui, naturalmente, nessuno di noi ne sapeva niente.» Secondo quella pubblicazione, la Behringwerke (che nel 1929 era diventata una divisione della IG Farben) condusse esperimenti medici su prigionieri a Buchenwald. A causa di tali esperimenti, in cui i prigionieri ricevevano alti dosaggi di siero o di agenti patogeni, soprattutto del tifo, morirono più di seicento persone.2 Frau Fest disse che se adesso si chiedevano alla Behringwerke, uno dei grandi successi dell'industria tedesca del dopoguerra, notizie del suo passato, si sbatteva «contro un muro. Solo silenzio. Nient'altro». Nell'autunno del 1944, i nazisti chiamarono la Germania al «totaler Kriegseinsatz» [mobilitazione totale]. Frau Fest disse che ogni ditta era obbligata a cedere una certa percentuale di dipendenti per la mobilitazione. Lei, che a causa della sua mano irrigidita era relegata fra «quelli di cui potevano fare a meno», fu messa a disposizione. Disse che la Behringwerke la inviò al locale ufficio del lavoro, che a sua volta la mandò all'ufficio del lavoro della vicina cittadina di Allendorf. Lì le venne assegnato il suo lavoro nella mobilitazione totale. Le disse251

ro che era stata «arruolata per sorvegliare la forza lavoro straniera». Mi disse che ebbe l'impressione che avrebbe dovuto controllare il loro lavoro in una fabbrica ed essere d'aiuto in qualunque modo possibile. Era, aggiunse, «così stupida». «Poi con altre dieci o dodici donne, anche loro scelte per quel lavoro, ci mandarono in un impianto industriale, dissero, per essere addestrate. Invece arrivammo a Ravensbrück.» Lì, le donne avrebbero ricevuto due settimane di «addestramento», e molti ricordi brucianti. Le sopravvissute del campo di concentramento femminile di Ravensbrück (si veda l'intervista con Frau Lotte Müller) lo consideravano un inferno. Anna Fest, che allora aveva ventiquattro anni, disse che le giovani donne del suo gruppo erano del tutto inconsapevoli della destinazione e sul treno che le portava lì «si divertirono incredibilmente». «Eravamo delle sciocche, da quelle ragazzine che eravamo, no?» Poi chiesero a un passeggero, un civile della zona, dove dovevano scendere. «Lui disse: "Come, non sapete dove state andando?" e ce lo disse, e fu, naturalmente, un terribile shock.» Eppure, mi disse, anche quando vide la scritta «Campo di concentramento di Ravensbrück», fraintese. «Credevo che fosse un impianto industriale. E pensavamo che saremmo state istruite sulle procedure di lavoro che poi avremmo spiegato ai lavoratori stranieri. Non si parlava assolutamente di quello...» Si interruppe. «Arrivammo al cancello del campo, e vedemmo come quelle donne venivano portate dentro e fuori e le guardie stavano lì e vedemmo già un calcio e qualche volta ceffoni sulle orecchie, e cominciammo a lamentarci. Una delle guardie disse: "Avanti, lamentatevi pure. Non ho niente in contrario. Ma se volete finire dentro anche voi, sono affari vostri. Io vi consiglierei di tenere la bocca chiusa". «Per me fu uno shock così forte. Anche adesso praticamente mi fa impazzire. Se ci penso, potrei scoppiare in lacrime davanti a lei. Una cosa cos\ fürchterlich [spaventosa]. Erano esseri umani e avrebbero dovuto essere trattate come esseri umani.» Il secondo anno che ci incontrammo mi raccontò un incidente simile che l'aveva fatta «inorridire terribilmente». Stava mangiando con il suo gruppo a un tavolo che dava sull'ingresso del campo quando arrivò un gruppo di prigioniere dalla Polonia. Furono i guardiani maschi delle SS a «riceverle». Un guardiano «andò in mezzo a loro e si mise a picchiare una donna. Io saltai su. Una guardia che mi stava accanto mi rimise seduta e disse: "È chiaro che sei stanca di vivere. Sta' seduta se ci riesci e guarda da un'altra parte. Non hai idea di quante come te si sono ribellate e si sono ritrovate dall'altra parte, come detenute". Naturalmente non dissi più nulla». Frau Fest e le altre guardie in addestramento erano tenute in un gruppo rigidamente regolato, disse; venne loro ordinato di «preoccuparci meno che potevamo. Non potevamo entrare nel campo vero e proprio, ma dovevamo stare fuori dal cancello. E poi venivamo addestrate a osservare le persone da sorvegliare, per accertarsi che nessuna scappasse e così via». Frau Fest disse anche che venne a conoscenza delle cose peggiori che 252

accadevano lì dentro, anche se non le vide coi suoi occhi. Poiché ero andata in visita a Ravensbriick, dissi che avevo saputo che «le ceneri» venivano gettate nel lago vicino. Frau Fest rispose che un pomeriggio lei e un'altra donna erano andate in canoa sul lago, che doveva aver notato qualcosa, si rimproverò chiedendosi come poteva aver notato alcunché, e concluse che se lo facevano, probabilmente buttavano le ceneri di notte. Nessuna di noi disse da dove provenivano «le ceneri». Durante le due settimane dell'addestramento, Frau Fest e le sue giovani colleghe vennero fatte entrare nelle SS e ricevettero uniformi da SS. Alla fine delle due settimane, il gruppo usufruì di una licenza. «Ero così felice quando tornai a casa. Allora mia madre vide che indossavo un'uniforme delle SS. Disse: "Bambina mia, mi farai morire". Era vero. Era piuttosto instabile di nervi e ne fu terribilmente sconvolta. In quel periodo le venne un cancro allo stomaco. Furono le cose sconvolgenti che si teneva dentro.» Frau Fest apprese presto che dopo tutto non sarebbe stata assegnata a Ravensbriick, ma ad uno dei quattordici «campi di lavoro» specializzati nella produzione di munizioni, vicino ad Allendorf. I campi erano sotto la giurisdizione di Buchenwald.3 La metà circa dei «campi di lavoro» avevano lavoratori pagati. Gli altri, compreso il suo, si adattavano alla definizione universale di campo di concentramento. Frau Fest descrisse il suo campo (e il terzo anno in cui ci incontrammo ne disegnò la pianta per chiarire la disposizione) come un grande complesso mimetizzato con aree separate e isolate, fra le quali c'era una fabbrica sotterranea di munizioni con il proprio sistema di sicurezza. Si giungeva alla fabbrica vera e propria attraversando un cancello che dava su un'area «enormemente grande» e poi oltre «un'imponente recinzione». L'area della fabbrica a cui fu assegnata era ulteriormente cintata. Le baracche dei prigionieri erano nella foresta, come quelle delle guardie. Anche se la maggior parte dei prigionieri erano donne, c'erano anche alcuni uomini che, disse, facevano il lavoro più pesante, così come c'erano guardiani maschi delle SS che pattugliavano il perimetro esterno del campo. Mi disse che tutta l'installazione era così mimetizzata che i piloti alleati non riuscirono mai ad individuarla. Herr Fest, che alla fine degli anni Cinquanta girò attorno al campo mentre veniva trasformato in una zona industriale e residenziale, disse che le ciminiere erano più alte delle cime degli alberi. Quando c'era un bombardamento, disse, venivano ritirate e il fumo era deviato in condotti sotterranei e disperso nella foresta. Disse anche che tutti gli edifici, in maggioranza di un solo piano, erano ricoperti di terra su cui erano stati piantati cespugli e sterpaglia per mimetizzarli. Frau Fest mi disse che la sua relativa buona sorte, che l'aveva condotta ad Allendorf invece che a Ravensbruck, era accresciuta dal genere di donne che doveva sorvegliare. Dalla prima volta che le nominò e ogni volta in seguito, la sua voce e il suo viso rivelavano timore e soggezione. Le donne erano ebree ungheresi. «Ebbi la fortuna di vedermi assegnare una piccola squadra di [circa dieci] 253

donne molto intelligenti. Ero sola con loro. E al di fuori dell'area centrale del campo, potevamo fare quello che volevamo, nessuno ci controllava.» Disse che il suo lavoro comprendeva quello che era considerato «un giorno lavorativo del tutto normale». Si alzava verso le cinque del mattino e di solito tornava alla sua baracca verso le sei di sera. Ogni giorno era più o meno lo stesso. «La mattina, dovevo andare al cancello. Loro uscivano e io dovevo riceverle, per così dire. Per segnare che tot donne andavano con me agli impianti.» (Il turno di lavoro delle detenute iniziava alle otto, disse.) «Lo stesso accadeva la sera, quando tornavamo.» Disse che non le fu mai permesso di entrare nella parte interna del campo, dove le detenute dormivano e mangiavano. Durante le ore di lavoro, disse, stava in fabbrica con il suo gruppo. «Controllavo cosa faceva ogni donna e parlavo con loro. Parlavano tutte tedesco. Per quel lavoro si potevano usare solo donne intelligenti. Talvolta facevo qualche domanda, come fai a fare così eccetera, e,» sussurrò, «qualche volta riuscivo ad aiutarle un pochino. Anche se una cosa del genere non era proprio permessa.» Disse che le prigioniere avevano una pausa di un quarto d'ora per la colazione e di mezz'ora per il pranzo. La sera, le accompagnava al cancello delle loro baracche e tornava alla sua, dove «di fatto ero confinata». Qualche sera faceva una passeggiata con altre guardie e, raramente, andava al cinema nel villaggio vicino. Ma di solito se ne stava nella sua cuccetta, a scrivere o a leggere. C'erano anche meno problemi, disse. «Se volevamo uscire, dovevamo avere un salvacondotto scritto e se volevamo andare a casa un permesso di licenza. Se avevo tempo, andavo a casa a Sonnenfeld. E poiché ero una delle poche che abitava lì, facevo qualche spesa per il campo. Ricordo, per esempio, di aver comprato qualcosa per Natale, tutti i possibili ingredienti per i dolci, e di aver messo da parte qualcosa per mia madre e mia suocera, così anche loro potevano fare qualche dolce natalizio. E comprai matite e cose del genere per me, e poi le prigioniere cucinarono e fecero decorazioni natalizie.» Il paradosso andava perfino oltre il fatto che detenute ebree di un campo di concentramento facessero decorazioni per il Natale: uno dei più comuni simboli natalizi tedeschi, che le detenute probabilmente fecero con le loro mani, è una stella a sei punte. Quanto al lavoro in fabbrica ad Allendorf, a quanto pare né Frau Fest né le detenute sapevano esattamente cosa stavano facendo. «Erano pezzi separati di un "programma speciale" che in seguito mandavano da qualche altra parte dove veniva montato tutto. Era tenuto così segreto. L'intero complesso era tenuto così segreto. Persino la gente che abitava nella zona non sapeva dov'era.» In seguito disse che il lavoro includeva «esperimenti con la polvere da sparo, la costruzione di una nuova arma, non so». Il tragitto insieme alle detenute avanti e indietro dalle baracche alla fabbrica durava dai venti ai trenta minuti e si snodava nel bosco. Frau Fest ne parlava come se ne serbasse un ricordo piacevole. «Finché eravamo in vista del campo,» disse con una leggera risata, «facevamo le brave, marciavamo bene in fila. Poi c'era un po' più di libertà e si poteva parlare e si stava

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bene, da sole. Se ci fossero state due o tre guardie, una non avrebbe mai saputo cosa avrebbero fatto le altre, se magari ti denunciavano perché avevi parlato con le prigioniere, o se finivi a parlare di cose riservate.» Davvero poteva essere denunciata solo perché parlava con loro? «Be', non per parlare, ma se discutevi cose riservate oppure, come capitava certe volte a me, quando tornavo a casa e mia madre faceva un dolce o qualcosa e mi diceva: "Su, portatene via un pezzo", e allora arrivavo la mattina con la mia borsa con dentro il dolce per me. E quando non eravamo più in vista, lo dividevo per darne un pezzo a ognuna di loro. O mi portavo dietro qualche paio di calze o, una volta, un maglione, cosa che naturalmente non avrei mai potuto fare. Sarei stata punita all'istante se fosse saltato fuori.» Il suo compito era accertarsi che «nessuna di loro, in qualche modo, be', scappasse o così». Se qualcuna effettivamente cercava di fuggire, lei doveva «fare rapporto immediatamente». Insistette che non aveva un'arma. «Nein. Nein, nein, nein, nein. Nein, per l'amor di Dio. Quella sarebbe stata l'ultima cosa.» Frau Fest aggiunse che era terrorizzata dalle armi da fuoco. E nemmeno, rispose dopo un'altra domanda specifica, aveva un cane o un bastone. Niente. Disse che comunque aveva dei dubbi che qualunque donna potesse tentare di scappare. «Sapevano tutte, probabilmente con certezza, che non avrebbero potuto tornare in Ungheria. L'Ungheria, be', l'Ungheria era occupata, no?» E scappare semplicemente dal campo? «Sarebbe stata una cosa senza senso. Bastava essere appena intelligenti per sapere che in quanto donne non ce l'avrebbero fatta da sole. Non potevano sperare di ricevere un qualche aiuto dai tedeschi. E se anche le condizioni di vita nel campo fossero state doppiamente peggiori, una sapeva che le maggiori possibilità di sopravvivere erano lì. «È possibilissimo,» aggiunse, «che quelle donne, il gruppo che conoscevo io, nell'insieme donne molto intelligenti, potessero avere magari una visione più politica e generale della mia. Io allora non avevo niente del genere. Da dove avrei potuto ricavarla? Avevo imparato solo cosa era giusto e cosa era ingiusto, ma niente più di quello.» La tesi che lei era svantaggiata dalla sua formazione riemerse a riguardo dei tedeschi antinazisti. «Una persona semplice non poteva avere una visione d'insieme. Come quando ne parlo con Frau Dr. Diener, lei ha una visione d'insieme del tutto diversa sull'intera questione. Il suo giro di conoscenze era più, diciamo... erano persone più influenti. E loro potevano dire che stava per accadere questo e quello. Noi non avevamo nessuno del genere.» Frau Fest sottintendeva anche che il suo modesto retroterra culturale la faceva sentire peggio proprio perché doveva sorvegliare donne che sentiva superiori a lei per istruzione e classe sociale. Fece un sospiro profondo. La situazione era «molto, molto difficile» per lei, disse. «Immagini di avere, come avevo io, un gruppo di persone. E tra loro c'era una dottoressa. E tra loro c'erano teologhe. E c'erano scienziate e donne che erano abituate a 255

governare una grande casa, e mogli di professori eccetera, che ci raccontavano le cose che avevano a casa e come erano abituate a vivere. Potevo parlare con loro perché erano sole con me. Era molto deprimente per noi, dovere in qualche modo sorvegliare donne del genere. Era un'estrema degradazione. «Non si pensava nemmeno a come si evolvevano le cose. Si cercava di fare il meglio che si poteva giorno per giorno. Pensavo sempre: "Non puoi rendere le cose più brutte del necessario a queste donne. Stanno già male abbastanza". E poi piangevano e continuavano a sperare che arrivasse qualcosa per posta ma non ne arrivava mai. E quando una donna è sola e non sa dove sono gli altri membri della sua famiglia, e quando arrivavano nuove prigioniere a loro chiedevano subito notizie dei parenti: "Hai visto questo 0 quella o hai qualche idea", tutto questo ti opprimeva molto, senza discussione. Ero sempre molto felice quando potevo andare a casa a parlare di questo con mia madre e sfogarmi a piangere. Era davvero un gran peso per 1 miei nervi.» Frau Fest disse che se avesse dovuto lavorare all'interno del campo vero e proprio o insieme a un'altra guardia che avrebbe potuto denunciare le sue trasgressioni, di sicuro non ce l'avrebbe fatta. Anzi, aveva ottenuto proprio quel compito, mi disse, perché il comandante del campo aveva notato quanto fosse sconvolta «per tutto». Mi disse che era lui a darle ogni tanto un attimo di tregua mandandola in città a fare provviste. Quando le chiesi come cambiassero le detenute, Frau Fest rispose parlando delle condizioni psichiche, non di quelle fisiche. «Sera dopo sera, quando una doveva tornarsene alle baracche insieme a innumerevoli altri esseri umani e non sapeva cosa era successo ai suoi familiari che erano a casa e così via, e spesso piangevano e dicevano che ai bambini poteva accadere qualunque cosa e tutto, è chiaro che c'erano dei cambiamenti. E molte cose pesavano tantissimo su di noi come su di loro, perché ti sentivi impotente. Non potevi fare assolutamente niente. Cosa potevi fare? Mio marito era militare di carriera, e allora si pensava che avremmo vinto la guerra, e se io mi lamentavo e venivo punita, le cose sarebbero diventate impossibili per mio marito. Sarebbe stato congedato e, in più, con infamia.» La preoccupazione per la carriera militare del marito, disse, era anche una delle ragioni principali per cui aveva tenuto la bocca chiusa a Ravensbruck. Secondo un libro pubblicato in seguito su Allendorf, le donne ungheresi avevano più di una ragione per essere così preoccupate del destino dei loro familiari. Quelle donne venivano da Auschwitz. Erano state caricate su carri bestiame sigillati in Ungheria, avevano sopportato il viaggio fino ad Auschwitz, avevano sopportato alcuni mesi di vita ad Auschwitz, compresi gli esami fisici in cui i soldati controllavano loro la vagina in cerca di oggetti di valore. Avevano sopportato anche un esame da parte del famigerato dottor Josef Mengele.4 Un migliaio di donne sane erano state «selezionate», caricate di nuovo su carri bestiame e mandate ad Allendorf. Quando le donne arrivarono tre giorni dopo, erano ancora tutte vive. Era l'agosto del 1944. 256

Anna Fest arrivò il mese successivo. Come mi confermò, le condizioni di vita nel campo erano tollerabili, ma il trattamento che le guardie riservavano alle detenute variava enormemente. Lei disse, in realtà, che la maggioranza delle guardie erano a posto, ma che c'erano delle eccezioni, quindi parlò in maniera meno favorevole del gruppo nell'insieme. Quando le chiesi come consideravano il loro lavoro, rispose che per la maggior parte delle guardie era semplicemente un lavoro. Accigliandosi, aggiunse che per molto tempo la turbò il fatto che le autorità non avessero selezionato persone più «adatte per carattere». Molte guardie erano «persone scomode che non avevano lavorato bene» nel loro incarico precedente. «In parte erano semplicemente primitive, ed era questa la cosa brutta. «E quando una si lusingava di essere qualcosa di speciale, allora dicevo: "Senti, questo non lo puoi fare, non è giusto comportarsi con le persone in quel modo, e molte di loro sono più intelligenti di te", la risposta era: "A te non interessa", e finiva lì.» Frau Fest disse che se «una si azzardava a camminare per qualche passo accanto a un'altra», invece che in fila indiana, una guardia si metteva a gridarle di rimettersi subito in fila. «Mi sembrava una cosa così insensata.» Quando ricordava le conversazioni con le colleghe, Frau Fest usava la forma familiare con il du, e in seguito confermò che «usavamo tutte il du tra di noi». Disse che le prigioniere usavano con le guardie la forma di rispetto Sie e si rivolgevano a loro dicendo «Signora guardia» [Frau Aufseherin], «Lo trovavo molto buffo. Io non usavo il du con loro. Non ce la facevo. Usavo il Sie.» Ma molte altre guardie «usavano il du, e le guardavano dall'alto in basso». E a parte il modo di parlare, come si comportavano le guardie? Le risposte di Frau Fest erano circospette. Disse che una donna portava sempre un bastone, e anche se non la vide mai picchiare nessuno, «io l'avrei trovato fastidioso». Disse anche che non c'erano «veri maltrattamenti», a parte un calcio o un pugno, che peraltro disse di non aver mai visto coi suoi occhi, anche se glielo avevano riferito. L'assenza di «veri maltrattamenti», disse, «dipendeva più o meno dal capo, una persona anziana, molto gentile, che aveva la responsabilità di tutto quanto. Avevo la sensazione che non fosse esattamente piacevole per lui, che l'avessero mandato lì e cercasse di fare il meglio che poteva. Ripeteva sempre: "Trattate la gente come esseri umani". Ma lui non poteva essere sempre dappertutto». E il cibo? Frau Fest disse che non era né buono né cattivo, che c'erano molte zuppe o piatti unici [Eintopf] oltre a pane, formaggio, salsiccia e talvolta margarina. Disse che le detenute non venivano fatte morire di fame. Cure mediche? Descrisse l'infermeria del campo in termini quasi piacevoli, dicendo che la conosceva «bene, perché lì venivamo curate anche noi». Disse che era diretta da due prigioniere che erano dottoresse, assistite da due detenute infermiere. Si facevano esperimenti medici sulle detenute? «Nein nein, nein nein. Non nei campi di lavoro più piccoli. Quegli esperimenti li facevano di sicuro nei campi più grandi. Mauthausen. Ravensbruck. E tutti quelli. Per non 257

dimenticare BuchenwalcL Non avevo nessuna idea di cosa specificamente avvenisse [nei campi più grandi]. C'era così tanta gente che non ne sapeva niente.» Allendorf, disse in seguito, era «nicht das Schlimmste» [non il peggiore] . Altri campi «devono essere stati orribili». Ma quanto era brutto Allendorf? Molto peggio di come lo descrisse all'inizio lei. La seconda volta che ci incontrammo, un anno dopo, mi disse che un gruppo di giovani aveva fatto ricerche su Allendorf e aveva trovato le prove che le punizioni delle detenute includevano pestaggi e privazioni di cibo. Nel terzo incontro, dopo un altro anno, fu lei stessa a rivelare altre cose. «Una volta ho visto che una era stata picchiata. Le parlai e le chiesi: "Che cosa le è successo?" Disse che era inciampata e caduta. Naturalmente non le credetti. Era del tutto evidente. Non avrebbe potuto dire nient'altro. Probabilmente era spaventata.» Una persona di cui non avere paura, secondo Frau Fest, era il già citato comandante del campo, «con il quale andavo d'accordo e che era molto umano». Continuò: «Lui faceva di tutto per assicurarsi che la gente avesse abbastanza da mangiare e tutto e anche che quelle che volevano leggere avessero dei libri ogni tanto. E qualche volta andavo a Sonnenfeld a comprare matite colorate, così loro potevano disegnare. Ma quelle erano piccole cose che non avevano molto peso, in confronto al resto, voglio dire». Pareva che i ricordi la rendessero reattiva e la irritassero, tanto da stimolarla a raccontare cose di cui non aveva parlato specificamente prima. Mi raccontò che il lavoro principale delle prigioniere era quello estremamente difficile e pericoloso di mettere l'esplosivo nelle bombe (nelle granate, come le chiamava lei). «Le prigioniere dovevano fare il lavoro più duro, dove nessuno avrebbe mai voluto stare. Per un certo periodo andai con loro, per due o tre settimane, dove venivano riempite le granate. In [quel breve periodo] mi vennero i capelli rossi, la mia pelle e tutto era completamente arancione. Di sicuro all'inizio era spiacevole; poi si abituavano all'odore. Ma non si considerava affatto che le prigioniere lavoravano lì settimana dopo settimana e magari per anni.» (Anni no: il campo funzionò per meno di un anno.) «Avevano tutte i capelli rossi, le mani rosse, tutto era rosso, tutta la loro biancheria era rossa. Non riuscivano a togliere quel colore nemmeno facendo bollire i vestiti. Era dappertutto. Gli stagni dove finivano gli scarichi, era tutto rosso.» Ammise che quella polvere doveva essere finita anche nei polmoni delle detenute. Questo le spaventava? «È probabile. Nessuna diceva niente. E probabilmente era molto pericoloso lavorare lì. Dovevano togliersi le scarpe. Non si poteva entrare con scarpe con chiodi di ferro, solo con scarpe di legno. A ripensarci, anche questo era un segno che c'erano esplosivi.» Per come lo spiegò Frau Fest, le detenute si trovavano di fronte file di granate vuote, piazzate su carrelli, poi riempivano le granate con un polve258

roso liquido rosso-arancione che veniva da un tubo sospeso sopra la fila di granate. (Secondo altri resoconti, le granate pesavano diciassette o diciotto chili l'una, e ogni detenuta doveva maneggiarne centinaia ogni giorno.)5 Quando le granate erano piene, le donne spingevano avanti i carrelli. Dunque era questa, dopo tre anni, la sua storia di ciò che facevano le prigioniere nella fabbrica. Avevo capito male? Avevano fatto anche qualcosa d'altro o «solo quello»? «Solo quello,» ripetè. Pochi minuti dopo, disse di aver lavorato «per un bel po'» con le detenute nella lavanderia del campo. Pareva che lei, e loro, venissero spostate dove servivano. Se Frau Fest non avesse sollevato lei stessa la questione degli esplosivi, sarebbe stato il momento di chiederglielo. Il gruppo di studio che aveva citato pubblicò in seguito un libro sul campo di Allendorf, Die Arbeitssklaven der Dynamit Nobel (I lavoratori schiavi della Dinamite Nobel). Il titolo fa riferimento a una delle aziende proprietarie della fabbrica, Dynamit-Aktien Gesellschaft, o DAG, in precedenza Alfred Nobel & C. Come chiarisce il libro, a quell'epoca la DAG era la principale industria tedesca di esplosivi, e il «campo di lavoro»/fabbrica di munizioni di Allendorf era di fondamentale importanza per il regime nazista. Il libro, che iniziò come progetto per una ricerca scolastica, includeva i risultati di estese indagini sui campi di Allendorf e le testimonianze di alcune detenute. Alla prima lettura, il libro dipingeva un quadro molto diverso, e ben peggiore, di quello descritto da Frau Fest. Elencava esempi su esempi di cibo inadeguato, di cure mediche «rozze e primitive» e - non diversamente dal racconto di Frau Fest - di condizioni di lavoro terribili e pericolose. (Affermava che tra gli esplosivi con cui le donne riempivano le granate c'era anche il tritolo.) Il libro era particolarmente critico nei confronti della cinquantina di sorveglianti donne del campo dove lavorò Frau Fest. Portava alla luce atti di meschinità, malvagità e impostura. Nominava anche una decina di guardie, tra le quali non c'era Frau Fest, che erano particolarmente crudeli o si erano arruolate volontariamente nelle SS. Non potevo fare altro che sottoporle queste nuove informazioni. Prima di fare questo, riesaminai le prove di valore generale fornite dal libro tenendo presente la collocazione spaziale e temporale di Frau Fest, e confrontai i dati di fatto forniti dal libro e dai suoi racconti. Dai primi risultati emergeva che, fino a un certo punto, sia il libro sia lei potevano essere nel giusto. Frau Fest arrivò ad Allendorf solo un mese dopo la sua apertura e vi rimase all'incirca tre mesi prima di essere trasferita in un altro campo. Il libro in effetti affermava che nei primi mesi ad Allendorf, le prigioniere trovarono la quantità di cibo «sufficiente», e citava un'affermazione secondo la quale nei primi due mesi i pasti erano «piuttosto nutrienti». In seguito le detenute vennero ridotte a una dieta da fame. E probabile che ad Allendorf, come in altri campi, la situazione si deteriorasse rapidamente nel 1945, e che alcuni o molti degli orrori a cui si alludeva nel libro fossero accaduti dopo la sua partenza. (Quando le truppe americane arrivarono alla fine di marzo del 1945, «probabilmente 259

fecero appena in tempo,» disse lei.) Era anche possibile che poiché Frau Fest non era ammessa dentro le baracche delle prigioniere e dunque non vedeva dove dormivano, dove mangiavano e le aree dei servizi igienici, si fosse persa molto. Quanto ai particolari, per quello che potevo stabilire, lei e il libro concordavano sostanzialmente in quasi tutti i casi. Per esempio, riguardo al comandante del campo particolarmente «umano», il libro asseriva che le ex detenute attribuivano all'uomo in questione, l'SS-Hauptscharfiihrer Arthur Wuttke, «una certa umanità». Quando chiesi a Frau Fest se qualche detenuta era morta ad Allendorf, lei disse di no, a quanto ne sapeva lei. Era un'asserzione difficile da credere, ma Die Arbeitssklaven non la smentiva. Citando la documentazione della Croce Rossa, affermava che «con poche eccezioni, tutte le donne ungheresi sopravvissero al lavoro schiavistico di Allendorf». Bisogna notare che io già sapevo, sin dalla prima intervista con Frau Fest, ciò che un tribunale alleato postbellico aveva deciso nel suo caso, e quella sentenza aveva influenzato il mio giudizio su di lei. Eppure, perfino la pratica giornalistica di cercare prove e smentite mi faceva sentire, dolorosamente, come uno che geme «Non può essere vero» quando un parente viene accusato di crimini di guerra. Forse è per questo che mi sentii obbligata a incalzare Frau Fest su quanto affermava quel libro. Non volevo rivelarle però quale testo aveva stimolato le mie domande. Volevo che lei si aprisse, non che si chiudesse. Per cui usai i dati forniti dal libro, ma non rivelai la sua esistenza. Anche se forse poteva sapere o indovinare da dove avevo tratto quelle informazioni, lei non me lo chiese mai. Nella nostra ultima intervista formale iniziai, come sempre, con le domande più facili. Dimostrò di essere d'accordo con il libro riguardo all'età delle detenute (la media era di ventisei anni) e in disaccordo sul loro numero. Lei supponeva «almeno trecento», molto meno del migliaio di cui parlava Die Arbeitssklaven. Stando al libro, tra le guardie particolarmente inumane ne spiccavano tre. La peggiore era Kate H., il capo della sezione femminile delle guardie [Oberaufseherin]. (Inesplicabilmente l'indignazione degli autori, di cui il libro era pregno, si fermava al momento di fornire i cognomi delle guardie.) Kàte H., che aveva mano libera all'interno dell'area dove vivevano le detenute, secondo una testimonianza svegliò una donna con un pugno sull'orecchio, e picchiava le prigioniere malate per costringerle a lavorare. «Kàte Hoem,» confermò subito Frau Fest. Disse di aver sentito le accuse contro di lei solo dopo la fine della guerra, ma che Kàte H., che fisicamente aveva «un ottimo aspetto», aveva l'atteggiamento tipico di chi «guarda dall'alto in basso». «Era già piuttosto vanitosa e ci faceva capire che noi eravamo poca cosa, e dovevano obbedire a quello che diceva lei.» Frau Fest ed io passammo in rassegna un punto dopo l'altro. Quando finimmo, e dopo un mio ulteriore controllo della sua testimonianza rispetto al libro, avevo trovato un caso specifico di disaccordo. Die Arbeitssklaven citava una donna che sosteneva che «da quattro a sei» guardie donna, e due anziani uomini delle SS, «erano accompagnate da cani quando ci portava260

no attraverso la foresta». Frau Fest aveva insistito, ripetutamente, che ad Allendorf nessuna guardia aveva un cane. «Nemmeno una.» Ma restavano due grosse contraddizioni più generali. Una riguardava l'infermeria e il trattamento dei malati. Il libro sosteneva che non ci fu un medico fino a dicembre, mentre Frau Fest aveva parlato di prigioniere dottoresse che fornivano assistenza medica. (E possibile che le detenute non fossero medici laureati.) La seconda contraddizione riguardava il trattamento delle detenute da parte delle guardie. Quale che fosse la ragione, le critiche di Frau Fest erano piuttosto caute e riferite a individui specifici. Die Arbeitssklaven tende ad accomunarle nella condanna. In un passo diceva che numerose testimonianze delle detenute «sostanziano i procedimenti ufficiali secondo i quali, con poche eccezioni, le sorveglianti delle SS erano considerate donne brutali che rafforzavano il regime fascista del KZ». Nessuna delle eccezioni veniva citata per nome. All'inizio del 1945, Anna Fest fu trasferita in un altro «campo di lavoro» per la produzione di munizioni. Si trattava di Sömmerda, vicino alla Selva di Turingia nella Germania orientale. Lì non era responsabile di un gruppo particolare, ma insieme alle altre guardie doveva sorvegliare circa duecento detenute, anche loro ebree ungheresi. L'unica cosa migliore di Sömmerda, disse, era che il lavoro era più pulito. Le detenute nella fabbrica del campo avevano a che fare solo con pallottole da carabina, «e quello era molto più piacevole». Più piacevole? «Ja. Tra virgolette.» Per le guardie, tuttavia, la posizione di Sömmerda era «in qualche modo più difficile». Per portare avanti e indietro le detenute bisognava attraversare non un bosco, ma la cittadina di Sömmerda. «Ce n'erano molte con noi, e la gente continuava a insultarci.» I tedeschi insultavano le guardie? «Ja, ja. E cercavano in continuazione di passare di nascosto qualcosa a loro, pane o salsiccia o quello che era. Era una buona idea guardare dall'altra parte e lasciar fare. Altrimenti si rischiava di essere attaccate dai tedeschi. È successo.» Mi disse che le guardie che avevano impedito alla popolazione locale di passare cibo alle detenute e avevano minacciato di mandarli in galera, in seguito «se la videro brutta» e avevano paura di andare da sole in paese quando faceva buio. Disse che la rabbia dei tedeschi del luogo nei confronti delle guardie, nell'insieme, era così grande che le sorveglianti non potevano andare in città in uniforme durante i turni di riposo. Gente per la strada - vecchi, donne, bambini - aveva gridato: «Siete il peggio del peggio» [Ihr seid ja schlimmer als schlimm]. Era chiaro, mi disse, che le detenute avevano fame. «Perché non avremmo dovuto dar loro qualcosa? Naturalmente, dal mio punto di vista, non pensavamo che avremmo perso la guerra.» 261

Non era l'unica sua illusione a resistere saldamente ancora nei primi mesi del 1945. A quanti anni, le chiesi, durante l'adolescenza, cominciò a capire che il regime nazista non era necessariamente così «buono» come pensava? Con imbarazzo palpabile mi rispose che accadde ben dopo l'adolescenza. Accadde mentre era a Sömmerda, il terzo campo di concentramento in cui era stata. Per di più non aprì gli occhi da sola. Fu un ufficiale delle Waffen-SS a farglieli aprire. Disse che siccome era l'unica guardia donna di Sömmerda che sapesse giocare a scacchi, e poiché aveva una terribile nostalgia di casa, l'ufficiale, un ex professore di matematica austriaco, giocava spesso a scacchi con lei. Entrambi giocavano anche con il comandante del campo. Una volta, quando il comandante era uscito dalla stanza, l'ufficiale non si trattenne più davanti alla sua ingenuità. «Non so cosa si aspetta,» così Frau Fest citò le sue parole. «Davvero si è messa in testa che vinceremo la guerra?» Continuò a lungo, disse lei, elencando «questo e quello e tutto» e finì dicendo: «Ci pensi. Faccia due più due». In una versione successiva della storia c'era anche il comandante nella stanza, e sorrideva. «Naturalmente si conoscevano benissimo, e probabilmente sapevano tutto. Eravamo solo noi tonti [wir Doofen] a non sapere che la guerra era bell'e perduta.» L'ufficiale delle Waffen-SS «mi aprì gli occhi su molte altre cose. Era la prima volta che avevo dei dubbi». La prima voltai Aveva pensato che quello che avveniva ad Allendorf fosse normale? Era normale, ripetè. «Era semplicemente la guerra e i nostri uomini al fronte avevano bisogno di munizioni. E se loro non ne avevano, non avrebbero potuto sparare e gli altri sì. Per noi, era una cosa naturale, per strano che possa sembrare adesso. Ma ad Allendorf non ebbi un minuto di dubbio.» E le condizioni delle detenute? Anche quelle erano naturali? «Ja, non toccava a noi giudicare e non potevamo farci niente.» Quello che l'aveva convinta del tutto, disse, era la spiegazione sovente ripetuta che le detenute «non erano state arrestate dai tedeschi, ma sostanzialmente il governo ungherese aveva venduto le prigioniere alla Germania, e ogni mese la Germania pagava al governo ungherese una certa somma per ciascuna di loro». Aggiunse che a quell'epoca giovani come lei non avevano le informazioni, la visione generale, «forse nemmeno l'interesse» per sapere cosa stava accadendo veramente. Risultò che ciò che stava accadendo veramente a quell'epoca nella vita di Frau Fest era qualcosa di più, e di diverso, di quello che aveva detto. Solo a metà dell'ultima intervista mi raccontò la storia, e solo a causa di una domanda innocente. Quando prima le avevo chiesto perché era stata trasferita, lei rispose che di solito le singole guardie venivano trasferite da un campo all'altro, come era accaduto a lei, secondo varie necessità. Adesso le chiesi se nel suo caso c'era una ragione speciale. Si sentì all'improv262

viso, e logicamente, a disagio. La sua risposta fu breve. «Ja. La conosco.» Una pausa si trasformò in un'attesa. Alla fine: posso chiedergliela? «Può chiedermela.» Ci fu un'altra pausa. «L'ho detta anche a mio marito e ai miei figli.» Continuai ad aspettare, sconcertata. Poi venne la risposta. «Conobbi una giovane donna molto, molto bella, lì ad Allendorf. Era di Berlino. Passavamo molto tempo insieme. Veniva anche a casa con me, perché non poteva tornare a Berlino. Quando avevo tempo libero, facevamo sempre in modo di stare insieme. E per Frau Hoern, la cosa puzzava. Non le piaceva, non la sopportava, e allora andò a fare rapporto e a dire che eravamo due lesbiche.» Il rapporto giunse al campo da cui dipendeva Allendorf, Buchenwald. «Allora andai dal nostro capo, Herr Wuttke, e gli dissi che la situazione era quella e che Käte Hoern diceva quest'altro, e cosa potevo fare contro una cosa del genere?» Lui le disse che c'era una sola cosa da fare. Andare lei stessa a Buchenwald, con il permesso di viaggio che le avrebbe rilasciato, e chiedere di vedere il procedimento disciplinare avviato contro di lei. «Lo feci, e loro mi scrissero una lettera piuttosto sprezzante. Dicevano che l'unico modo di finire questa faccenda era che Frau Oschlivsky o come si chiamava - per di più, lei aveva un cognome che suonava polacco - stesse ad Allendorf e Frau Fest andasse a Sömmerda. "Cosi questa cosa si rompe una volta per tutte e noi terremo d'occhio Frau Fest."» «Devo dirglielo sinceramente: quando arrivò quella lamentela,» disse, «io non avevo idea di cosa fosse. Non conoscevo né l'espressione né l'esistenza di quella relazione. Non avevo mai saputo che ci fosse una cosa del genere, una relazione tra donna e donna.» Però sapeva di uomini con uomini... «Nein. Neanche quello. Niente.» Lei era davvero una ragazza di campagna, dissi. «Proprio così. Una "kleine Doofi mit Plüschohren" [una tontolina con le orecchie di peluche]. Chiesi a Herr Wuttke: "Ma cosa vuol dire esattamente?" "Bambina, davvero non lo sai?" Gli risposi di no, e per favore me lo spieghi. E me lo spiegò.» L'SS-Hauptscharfiihrer Wuttke non solo spiegò l'omosessualità a Frau Fest: si assunse anche l'incarico di dirle che quell'incidente era solo colpa sua. Non avrebbe dovuto prendere in quel modo le distanze dagli uomini di Allendorf. «Gli dissi: "Herr Wuttke, lasci che le dica una cosa. Io sono, dopo tutto, sposata. E mio marito è un soldato al fronte. Per cui cosa vorrebbe dire? Dovrei mettermi con quei primitivi dei suoi sorveglianti o con qualche altro uomo, solo per evitare che qualcuno mi accusi di qualcosa d'altro? Non può chiedermi questo". E lui rispose: "Loro la tengono d'occhio, e quando sarà là [a Sömmerda], può succedere di nuovo lo stesso. Cerchi di stabilire almeno un'amicizia con qualche uomo".» Poi le diede una lettera di presentazione per il comandante di Sömmer263

da, che lui conosceva, in cui gli chiedeva «di prendersi cura di me». «E questa è la ragione,» concluse, «per cui mi invitavano a giocare a scacchi. Di modo che non mi succedesse di nuovo una cosa del genere.» Frau Fest mi lesse nel pensiero. «E una cosa,» disse, «di cui uno con un'intelligenza normale non si capacita.» L'incarico a Sömmerda si rivelò piuttosto breve. E per Frau Fest finì con un trauma molto maggiore di quello con cui era cominciato. All'inizio della primavera del 1945, poco tempo dopo il suo arrivo, giunse l'ordine dal quartier generale di impacchettare tutto, evacuare i detenuti, e dirigersi a est, a piedi. Mentre guardie e detenute cominciarono a impaccare insieme i loro fagotti, l'ufficiale scacchista delle Waffen-SS prese da parte Frau Fest. «Mi disse: "Ma lei è davvero così tonta? A cosa sta pensando? Cerchi di arrivare a casa. Vada da sua zia e si faccia dare degli abiti civili e da lì vada a casa. Salti su un treno, o si faccia a piedi tutta la strada, per quel che me ne importa. E matta a marciare insieme a questo gruppo?" E io risposi: "Be', mio marito, dopo tutto, è militare di carriera in servizio attivo e se dopo salta fuori e lui perde la sua..." e lui mi interruppe dicendo: "La sua posizione la perde comunque e non resterà in servizio attivo per molto. Appena la guerra sarà finita, non avremo più soldati in servizio attivo". Io non gli credetti.» Sospirò. «Ho sempre creduto [al governo]. Era tutto in Ordnung, e, non so.» Nemmeno quelle marce con le prigioniere attraverso la Turingia le avevano fatto cambiare idea? «Per niente. Dicevo sempre: "Come fa la gente a dire cose simili? Dobbiamo credere e dobbiamo resistere. Cosa avremmo altrimenti? Non abbiamo niente del tutto se non resistiamo".» Così Anna Fest, che una volta si era definita «una a cui non era facile dare ordini», partì, secondo gli ordini, con le altre. La loro prima sosta fu in un altro campo, dove si unirono a loro altre duecento persone tra guardie e prigionieri, uomini e donne. Lungo la strada il suo amico ufficiale (che venne a trovarla dopo la guerra) e il comandante di Sömmerda presero il volo. La marcia, che doveva finire vicino a Pilsen, in Cecoslovacchia, a centocinquanta chilometri di distanza, continuò verso est, e verso l'Armata Rossa. Nella prima intervista Frau Fest aveva descritto quell'esperienza con accenti d'orrore. Una delle maggior difficoltà era che il Reich che crollava non forniva praticamente più cibo. «Era terribile. Non ricevemmo più niente né per noi né per i prigionieri.» Disse: «Eri fortunata se riuscivi a trovare un pezzo di pane». In Cecoslovacchia, dove disse di sentirsi più una prigioniera che una guardia, la gente tirava pietre e sputava addosso ai tedeschi. Mi disse che le prigioniere si mettevano in mezzo e dicevano: «Non fatelo, sono state buone con noi». Insistette a dire che era vero, e disse anche che quando la gente del luogo cucinò un pentolone di patate per le prigioniere, queste ne rubarono qualcuna per lei e per altre guardie. 264

La marcia era «decisamente peggio» dei campi, disse. La voce si abbassò, e si mise a vibrare di emozione. «Era la cosa peggiore che si potesse immaginare. Voglio dire, la gente cadeva per lo sfinimento mentre camminava. Semplicemente restavano stese nei fossi lungo la strada. Non ce la facevano a fare un altro passo. Ognuno... Non so se sia possibile immaginarselo senza averlo sperimentato. Ognuno che brancolava in avanti e... e... aveva solo l'impulso più elementare di mettere semplicemente un piede davanti all'altro, di stare con il gruppo e non rimanere indietro... di non restare indietro da solo, steso in un fosso. Poi nel frattempo arrivarono i... i bombardamenti. Una volta facemmo un breve tratto in treno e poi ci fecero scendere: "Presto, presto, fuori", e poi andammo in un campo aperto e ci buttammo per terra. E allora ci fu il bombardamento. Poi le mitragliatrici che sparavano [nel gruppo], e allora eri felice se non ti prendevi una pallottola. Quella vicino a te è per terra e... E quando sperimenti una cosa del genere, i feriti stesi a terra e nessun essere umano che può davvero aiutarli e nessuno ha nemmeno la volontà di aiutare gli altri, ma ognuno semplicemente... cerca di salvare la pelle e di andarsene via tutto intero. E una cosa così orribile, che normalmente uno non può nemmeno immaginarselo. E quello che, se una è una donna... quello che soprattutto è tremendo, lì accanto a te c'è uno che è stato colpito. È lì per terra, mutilato eccetera eccetera e devi vedere cose del genere e stai male e vomiti e dall'altra parte qualcuno grida aiuto, e tu devi aiutarlo. E poi suona il fischietto e significa che bisogna rimettersi insieme e in fila e quelle persone sono lì per terra e non puoi fare niente per aiutarle. E devi rimetterti in fila e loro urlano e poi sei di nuovo in fila e poi c'è un altro bombardamento e le bombe cominciano a cadere su persone indifese. Sono esperienze che non si possono dimenticare. Sono esperienze così incisive [einschneidende] che uno non potrà mai liberarsene.» E lei non se ne era liberata, il giorno che ne parlammo. Il pomeriggio seguente Frau Fest, che disse di aver dovuto prendere un sonnifero la sera prima, aggiunse altri particolari. Per restare fedeli all'emozione della sua rievocazione, e a spese dell'immediata chiarezza, le sue parole sono state lasciate praticamente come sono uscite dalla sua bocca. «Lungo la strada dovetti vedere molte fucilazioni e venni anche rimproverata da alcune persone e poi ricevetti pesanti ammonizioni. In pratica mi fu detto: sopporta, perché noi non abbiamo nessun riguardo per te e se ti metti al loro stesso livello, ti confronti con loro, allora puoi marciare con loro. E io non capivo, dato che quella era gente vecchia e malata. Per quello che mi riguardava, si poteva lasciarli lì stesi sul ciglio della strada. C'erano villaggi dappertutto e di sicuro c'erano persone che forse potevano venire a prenderli e aiutarli. Non si doveva vagare intorno, per non dire che strisciavamo mezzi morti di fame. Capisce, tutto quel tempo fu così terribile, la gente che proprio non ce la faceva più, che era così indebolita che cadeva a terra. E allora lì c'erano alcuni che non erano nemmeno dei nostri, ma molti si unirono a noi lì, anche uomini, tutti in fila indiana, tutti grottescamente verso est. E fra di loro qualcuno aveva le 265

pistole e continuava semplicemente a premere il grilletto. Era così terribile.» Chi «continuava a premere il grilletto»? «Gli uomini. Alcuni di loro. Me lo ricordo ancora. Ci mettevamo sempre insieme, e chiudevamo gli occhi. E quando poi partiva il colpo, uno distoglieva automaticamente lo sguardo e non riusciva assolutamente a guardare. Era brutto a un tale punto che non so se lei possa capire. Era così orrendo. Che una donna dovesse accettare una cosa del genere. E non era una cosa sola, ma parecchie: la fame, i bombardamenti, e anche quello.» Risultò che si riferiva in particolare a un uomo, che era fra le «innumerevoli» persone che «si aggregarono a noi» mentre la marcia cominciò a somigliare a «un verme che avanzava». L'uomo era un ufficiale, disse, l'unico rimasto con loro, dato che tutti gli altri si erano «più o meno dimessi». Gli atti dell'ufficiale finalmente ne provocarono uno da parte di Frau Fest. Disse che durante una pausa di riposo si avvicinò a lui. «Risalii fino alla testa della colonna e lui stava lì in mezzo ad alcune persone. I prigionieri erano seduti sul ciglio della strada. Lo sentirono tutti. Lo feci senza nessun riguardo per me. Dissi che era una cosa inaudita, che non aveva senso, e lui doveva accorgersi che erano tutti così impotenti e di sicuro avrebbe dovuto risparmiarli, se nella sua coscienza c'era spazio per quello. E allora lui rispose che dovevo lasciar perdere i miei stupidi sentimenti, che era totalmente ridicolo. Loro erano la feccia della società e uno in più o in meno non aveva importanza e comunque non gli importava, e che aveva una pallottola anche per me. E via dicendo, nello stesso stile. Così gli dissi: "Allora lo faccia subito. Ci provi. Tanto ne ho avuto abbastanza. Tanto uno più o uno meno non conta. Vedo solo che viene compiuta un'ingiustizia e avrei pensato che lei avesse almeno un po' di moralità e non fosse marcito a tal punto da fare una cosa del genere". «E dissi: "E per finire, per dirla tutta, lei è un ufficiale e ha prestato il suo giuramento da ufficiale e non so se allo stesso tempo ha giurato di sparare a persone inermi". Poi dissi: "Loro sono persone inermi". E continuai: "Dato che sono così deboli, e lei dice che sono i rifiuti della società, come fa lei a giudicare che sono rifiuti? Per esempio, so che tra le nostre donne ce ne sono molte che dal punto di vista dell'intelligenza, in confronto a lei, la lasciano molto indietro. E come fa lei, davanti a queste povere anime avvizzite, a dire che sono la feccia? Uno magari potrebbe dire piuttosto che è lei la feccia". «Dopo le altre mi dissero: "Menschenskind! ["Buon Gesù!" potrebbe essere un'esclamazione equivalente]. Sei diventata completamente matta? Hai avuto così tanto coraggio a dire cose del genere!" Dissi che dato che c'ero, ormai dovevo farlo. Non ce la facevo a tenere la bocca chiusa. E devo anche dire che a qualcosa servì. Per due giorni fu tutto tranquillo. Non sentii più niente. Non si poteva neanche vedere costa stava succedendo. Io restai in fondo alla colonna perché pensavo che così non mi avrebbe visto. Togliersi di torno per stare lontana dal pericolo. E le donne, le nostre prigioniere, dicevano sempre: "Frau Fest, venga a mettersi in mezzo a noi così lui non la vedrà per niente".» 266

Il terzo giorno fu un bombardamento a suggellare per sempre il cessate il fuoco dell'ufficiale. «Restò ucciso. Credo proprio che nessuno mosse un dito per salvarlo. Non credo che fossi l'unica a non accettare quello che faceva. Ce n'erano molti. Io ero stata semplicemente l'unica che aveva avuto il coraggio di dire qualcosa.» Disse che le persone che lui aveva ucciso durante la marcia assommavano a «cinque, sei, di sicuro. Altrimenti non sarei stata così sconvolta. Forse avrei fatto in modo di farlo parlare con me anche se fossero state due, ma avrei pensato: be', magari si è comportato così perché si è spaventato o qualcosa del genere. Ma così non ce la facevo più a sopportarlo. Si era tutto accumulato dentro di me e non riuscivo più ad arginarlo. Non potevo fare nient'altro». Quando quell'uomo morì, Frau Fest provò «prima di tutto, sollievo. Secondo, come dissi ad alcune mie colleghe, "Niente resta impunito"». All'epoca della morte dell'ufficiale, la marcia era vicina alla fine. Ma la sua meta restava indefinita. «Oggi, quando ci ripenso, mi rendo conto che non c'era nessuna meta. Semplicemente eravamo partiti, e di fatto andavamo incontro ai russi. Tutta la cosa era così folle. Marciare senza senso, senza meta, solo verso est. Non era rimasto più nessuno che potesse dire facciamo questo o quello. Dopo, è stata quasi una liberazione. Incrociammo le linee russe. I russi arrivarono con i loro carri armati, ci circondarono, quasi ci passarono sopra, poi tirarono fuori le prigioniere che erano nei fienili, poi "Potete andare" e loro si dispersero in tutte le direzioni.» In assenza di alternative, anche le guardie alla fine si dispersero. Frau Fest disse di aver vagato per le linee russe con la sua divisa da SS senza essere praticamente fermata. (Non aveva più giacca e cappello, le parti dell'uniforme con le mostrine delle SS, ma portava semplicemente la gonna e il maglione grigio.) Alla fine giunse alla conclusione che era venuto il momento di tornare indietro. Dopo essersi riunita con altre sei o sette donne nella sua stessa situazione, si diresse con loro a ovest, se era possibile attraverso le foreste, stando in guardia dai soldati russi e nascondendosi quando se ne avvicinava qualcuno. Poi, «stupidamente», entrarono in una città occupata dai russi. Era Karlsbad, nella Cecoslovacchia nord-occidentale. Furono immediatamente arrestate e trattenute per alcuni giorni. Però ricevettero del cibo, sottolineò. Ogni tanto qualcuna veniva portata via per essere interrogata, da «una donna russa in uniforme». Poi, «un giorno», un ufficiale disse loro che potevano andare. Frau Fest disse che le donne lo fissavano senza capire finché disse: «Andate a casa! Andate a casa!». Era più facile dirlo che farlo. Perfino uscire dalla città era difficile, dato che Karlsbad era piena di profughi, e con russi e cecoslovacchi che sparavano ancora. Tuttavia, lei e altre due donne riuscirono a partire insieme. Si imbatterono in una squadra dell'esercito tedesco e i soldati diedero loro alcuni vestiti. Poi, proseguendo, alla fine inciamparono nell'aiuto più inaspettato: un avamposto americano. Frau Fest disse che le donne si avvicinarono con molte esitazioni, 267

mentre gli uomini agitavano le mani e uno gridò: «Venite qui». Lo fecero. «Uno ci chiese da dove venivamo, e uno di loro parlava benissimo il tedesco, e noi ci aprimmo un po', e uno disse: "Mio Dio, guardate," lo capivamo un po', "sembrate morte di fame".» I soldati diedero loro tutto il cibo che avevano, che consisteva in alcuni biscotti. «Molto pochi,» disse Frau Fest, aggiungendo, in un atto di passata deferenza, «ma erano molto buoni. E probabilmente è stato meglio così. Altrimenti avremmo mangiato troppo.» Gli americani assunsero un vero e proprio ruolo di protettori. Decisero perfino di nascondere le «ospiti» al loro ufficiale. «Uno disse: "State qui. Più tardi monteremo una tenda e potrete dormirci dentro. Non dovete avere paura di niente. Nessuno vi farà niente". Perché avevamo ancora paura.» Il soldato disse alle donne di stare nella tenda e stare zitte quando venivano distribuite le razioni serali. Disse che ci sarebbe stato cibo in abbondanza, che dopo la partenza di quelli che consegnavano le razioni avrebbero cucinato un pasto per conto loro e avrebbero dato alle donne molte cose da mangiare. Frau Fest disse con una risatina che, quando arrivarono le razioni, le donne nella tenda erano silenziose come topolini. Gli americani si comportarono bene come promesso. Un soldato, che doveva tornarsene a casa la settimana seguente, si offrì perfino di imbucare una lettera di Frau Fest a Otto, che allora era prigioniero di guerra negli Stati Uniti. Il mattino seguente, gli americani diedero alle loro ospiti altro cibo e le rimisero in cammino. Frau Fest disse che le donne avevano detto loro di essere state guardie, ma a quanto pareva non faceva nessuna differenza. A causa del pericolo di essere catturate da occupanti meno amichevoli, le donne camminarono in prevalenza nei boschi, di notte. Frau Fest disse che durante la marcia verso est aveva tentato di sopprimere perfino il pensiero di casa. «Nessuno sapeva se sarebbe mai tornato a casa o come riuscire a tornare a casa. Non ci si poteva abbandonare a pensieri simili, perché erano insopportabili. Si passava semplicemente da un istante al successivo.» Lei ce la fece a tornare a casa, da una madre che la riconobbe a fatica. Anna Fest disse che pesava circa trentacinque chili. A quell'epoca, la guerra era finita da mesi. «Arrivai qui libera, e poi andai a registrarmi. Dovevo farlo per ottenere le tessere per le razioni di cibo.» Disse che si registrò all'ufficio di collocamento tedesco, dove le consigliarono di registrarsi anche presso il controspionaggio americano (CIC). «Avevo le migliori intenzioni e niente da nascondere. Perché non mi sarei dovuta registrare? Allora andai al CIC e mi registrai anche lì.» Disse che la procedura comprendeva anche la comunicazione di «tutti i particolari» su quello che aveva fatto e dove. Sei settimane dopo venne arrestata. Alcuni membri delle forze di occupazione americane vennero in macchina a casa sua, le dissero di mettere in valigia qualcosa e di preparar268

si in mezz'ora. «Fu allora che cominciò. Ti senti così impotente, quando tre o quattro poliziotti militari armati ti si mettono davanti. Hai paura e basta. Piansi terribilmente. Mia madre era completamente fuori di sé e disse: "Non potete farlo. Si è registrata come volevate voi". Poi mi disse: "Se solo fossi andata da qualche altra parte e ti fossi nascosta". Ma quella mi sembrava una cosa insensata, perché non mi sentivo colpevole.» Frau Fest mi disse che non le spiegarono mai il motivo dell'arresto e che non ricevette nulla di scritto. «Era così che andava, con tutti. Non davano nessuna spiegazione.» Il suo tono di voce aveva il significato di una scrollata di spalle. «Senza essere interrogati né niente, arrivavamo e incontravamo vari conoscenti. "Come mai sei qui?" "Mein Gott, perché ero nella Frauenschaft," o un uomo diceva: "Ero nelle SA"...» Frau Fest, naturalmente, era nelle SS. Anche se disse che quella era una ragione sufficiente per essere arrestata comunque, lei pensava che gli alleati si interessarono presto di lei perché qualcuno l'aveva denunciata. «C'era una quantità di tedeschi molto, molto cattivi che denunciavano qualcun altro per ottenere qualche vantaggio. Questo in verità mi deprimeva ancor più del fatto di essere arrestata.» Era certa che a denunciarla era stata una sua ex collega di Allendorf, una povera anima persa, «primitiva» e psicologicamente instabile, come la descrisse lei, che aveva vissuto per un po' da lei e da sua madre, la quale «era finita in un sacco di problemi» per lei. Frau Fest disse che a quella donna era stato detto, appena era stata arrestata, che sarebbe uscita prima se faceva altri nomi. E lei fece quello di Anna Fest. Nelle settimane che seguirono l'arresto, Frau Fest fu trasferita in diversi campi prima di essere portata nel campo di internamento di Ludwigsburg per esservi processata. Nel frattempo veniva interrogata. Parlò di «esperienze molto, molto brutte». «Entrambi gli ufficiali che raccolsero le nostre testimonianze erano ebrei tedeschi emigrati in America. Devono aver visto terribili aggressioni, ne sono sicura. Ma la cosa terribile era che gli uomini tedeschi dovevano guardare. Fu un'esperienza orribile, orribile.» Quando la incalzai perché si spiegasse, Frau Fest, evidentemente sconvolta, cercò di cambiare argomento. Ammise dapprima solo di essere stata malmenata, e disse che quell'argomento era troppo difficile per lei. Stava parlando dei due ufficiali? Disse di sì, e inspirò profondamente. «So ancora i loro nomi. Uno era Schmidt, l'altro Rosenstein. Uno fu arrestato, per qualche ragione, l'altro rimase ucciso in un incidente. Sono morti tutti e due. Me lo disse più tardi un americano, quando venne fuori nelle udienze. E poi venimmo portati con camion...» La interruppi di nuovo. Venne violentata? «Nein. Nein, quello no. Davvero, quello no. Solo, be', violenza fisica e colpi eccetera.» Dopo un altro respiro, continuò dicendo che c'era anche altro, ma non poteva parlarne. Un anno dopo, continuamente bloccandosi e ripartendo, con una voce rapida e tremante, riprese il racconto. Disse che fu portata in una piccola 269

baracca. Dentro c'erano i due ufficiali e due cani lupo. Un ufficiale urlava domande e accuse contro di lei. Se lei non rispondeva «come voleva lui, lui mi dava un calcio nella schiena e l'altro mi colpiva» con il pugno. I cani servivano a evitare che lei scappasse. Evidentemente la questione più spinosa riguardava il fatto che lei fosse armata o no. «Continuavano a ripetere che dovevamo essere armate, che avevamo pistole o cose del genere. Ma noi non avevamo armi, nessuna di noi.» La poveretta «primitiva» aveva testimoniato appena prima di lei, però, e durante l'interrogatorio era crollata e aveva sostenuto (per essere lasciata in pace, secondo Frau Fest) di avere una pistola. «Io non avevo la pistola. Non potevo dire, solo perché così forse mi lasciavano in pace, sì, avevamo le pistole. Sarebbe successo lo stesso alla persona che andò a testimoniare dopo di me.» Tuttavia, disse, anche altre donne crollarono e aggiunsero le loro false confessioni alla prima. Quello che definiva «la parte peggiore», però, era il fatto che durante questa procedura la porta della baracca veniva lasciata aperta così che i tedeschi che stavano fuori, in attesa di essere interrogati, dovevano vedere e sentire tutto. «Deve essere stato terribile per loro. Quando entrai io, molti di loro stavano lì con le lacrime che gli scorrevano sulle guance. Cosa avrebbero potuto fare? Non potevano farci niente.» Disse che verso la fine degli interrogatori una donna tedesca, responsabile della zona dove stavano le detenute fece e appese un grosso cartello con la scritta «Attenzione! Malattie contagiose». «Dopo non fummo più interrogate. Gli americani, non mi riferisco certo a lei personalmente, a quell'epoca avevano una paura folle delle malattie contagiose.» Contagiose o no, lei e le altre furono portate in un altro campo per altre sei settimane. Sua madre, che conosceva i suoi movimenti grazie ad alcune detenute che erano state rilasciate, andò a trovarla ma non le fu permesso alcun contatto. Frau Fest fu trasferita di nuovo, per alcune settimane, a Dachau. Lì lei e le altre si trovarono di fronte le internate che erano state radunate perché indicassero chi le aveva tormentate. Anche se sosteneva la sua innocenza, descrisse quell'esperienza come terrorizzante. «Eravamo interrogate su un palcoscenico illuminato. Dovevamo camminare avanti e indietro, con i proiettori puntati su di noi. E giù, nel buio, c'era la gente che ci osservava.» In seguito le accusatrici andarono lungo un corridoio «dove c'era una porta con una feritoia, e loro guardavano dentro per vedere se ci riconoscevano, se qualcuna di noi aveva fatto qualcosa. Molte furono portate fuori. Non so cosa accadde a ciascuna di loro». Frau Fest disse che lei non fu portata fuori. La maggioranza delle sue compagne di prigionia di Dachau, disse, erano state o guardie o membri della Frauenschaft. Ma c'era una detenuta che stava in una categoria tutta per sé. 270

«Con noi c'era anche Frau Koch. La conobbi.» Use Koch, la moglie del comandante di Buchenwald, divenne tristemente nota per l'agghiacciante hobby che le veniva attribuito, di collezionare paralumi fatti di pelle di ebrei. Frau Fest disse che la Koch, da detenuta, veniva portata dove voleva, e si teneva in disparte per iniziativa sia delle altre sia sua. «Ogni tanto parlavo con lei, ma era molto, molto chiusa. Non diceva niente del tutto. Ammetteva tutto quello che sostenevano contro di lei.» Si riteneva che avesse ammesso più di quanto avesse fatto davvero, disse Frau Fest, per liberarsi di quelli che la interrogavano. Ma «quello che c'era di vero era brutto abbastanza per il mio modo di pensare. La vidi prima nel campo di Ludwigsburg. Era nella nostra stessa zona ma in una stanza separata, e non doveva farsi vedere ogni mattina per la conta. Quando avanzava per il corridoio, avevo sempre la sensazione... Come faccio a descrivere la mia prima impressione? Come se fosse una bestia da preda che strisciava nell'ombra. Non camminava mai al centro del corridoio. Era sempre contro il muro, e se arrivava qualcun'altra, saltava velocemente nella sua stanza. In più, era un po' "unheimlich" [lugubre]. Si sapeva chi era.» Frau Fest disse che l'opinione delle altre detenute nei riguardi di Frau Koch era la stessa. «Non c'erano altri contatti con lei al di fuori di "Buongiorno" e "Come sta?" e "Non vuole venire con noi a leggere qualcosa?". Avevamo anche un coro e cantavamo. Lei non voleva partecipare a niente del genere. Si chiudeva in se stessa, sempre di più. L'avevamo incontrata a metà cammino e pensavamo di riuscire a tirarla fuori dal suo isolamento. Ma non fu possibile.» Finalmente riuscii a dar sfogo a una domanda. Perché provare? «Be', in qualche modo anche lei, alla fine, era una donna... E ti faceva star male quando se ne andava in giro di soppiatto e non stava mai con le altre. Pensavamo che era già terribile per noi essere chiuse dentro e quando una persona è del tutto isolata, be', quello è davvero terribile. Poi, be', da quello che si sapeva di lei, c'era anche un po' di...» Frau Fest trovò finalmente la parola che cercava. Era «disprezzo. Lei non poteva essere una persona buona,» aggiunse. «Ma ce n'erano molte che non erano buone, e in un certo senso bisognava accettarle, dato che erano lì. In un altro senso, ti facevano sentire male, cosi pensavi di dover cercare di rendere la vita un po' più facile». Fra le altre detenute di Ludwigsburg c'era Kàte Hoern, a cui Frau Fest non tentò di rendere la vita più facile. La Oberaufseherin fu condannata a sette anni di lavori forzati.6 Poco dopo la tappa a Dachau, Frau Fest ebbe un crollo nervoso. Non ne parlò (con me). Quando si riprese venne rimandata al campo di Ludwigsburg ad aspettare il processo. La lunga attesa tra l'arresto e il processo, disse realisticamente, dipendeva dalla difficoltà degli alleati di creare un'amministrazione giudiziaria e dall'esigenza dei procuratori di familiarizzarsi con le varie organizzazioni e 271

categorie di lavoro del Terzo Reich. In più, disse, nella sua qualità di SS lei era nel Gruppo 1, il più sospetto di tutti, e non sarebbe stata processata se non dopo gli imputati dei gruppi meno sospetti. Nel suo caso, scelse di difendersi da sola. «Mi dissi: "Nessun altro può dire meglio di me come stavano veramente le cose". E in quel periodo me le ricordavo bene.» Si preparò consultandosi quasi giornalmente per tre mesi con un giudice americano assegnato al suo gruppo. «Esaminò tutto con me, cos'era questo e cos'era quello. Lavorammo insieme molto, molto bene. E fu lui che esaminò il mio caso. Avevo la sensazione che fosse, be', deve avere avuto dei pregiudizi, ma non era pieno d'odio come altri. Potevo raccontargli cose che altrimenti non avrei saputo dire.» Nel frattempo Herr Fest, tornato a casa libero (e orgoglioso dello slang americano che aveva imparato come prigioniero di guerra), era anche lui impegnato nella difesa della moglie. Cercò ex detenute che testimoniassero a suo favore. Molte erano ancora ad Allendorf o nei dintorni. In parte per riprendersi, in parte per comparire come testimoni d'accusa. I Fest mi riferirono che le donne interpellate dissero al marito che avrebbero dato volentieri aiuto ma «la loro organizzazione» (non meglio specificata) proibiva di testimoniare a vantaggio di qualcuno. Potevano farlo solo contro. Il marito riuscì a far firmare ad alcune ex guardie una deposizione in cui si affermava che Frau Fest aveva agito con umanità, ma, come disse lei con un sospiro,«quelle erano semplicemente le colleghe» e il documento «naturalmente non ebbe lo stesso effetto che se fosse venuto da una detenuta». Herr Fest aveva anche ottenuto ed esibito alle autorità alleate un certificato di fondamentale importanza rilasciato dalla Behringwerke. Affermava che Frau Fest era stata «dienstverpflichtet» [chiamata obbligatoriamente al servizio] ad Allendorf. In altre parole, non si era offerta volontaria. Frau Fest definì il documento «incredibilmente importante», perché «gli americani avevano pensato che tutte noi fossimo andate di nostra spontanea volontà». Aggiunse che «non riusciva davvero a comprendere» perché mai una dovesse offrirsi volontaria per un lavoro del genere, ma qualcuno doveva averlo fatto, altrimenti un documento del genere non sarebbe stato necessario. Grazie a quel documento, il caso di Frau Fest fu uno dei primi del Gruppo 1 a essere esaminato. Non riuscì ad avere detenute che testimoniassero a sua difesa, ma ebbe un ex capo. Il suo responsabile alla Behringwerke andò a Ludwigsburg e confermò che era stata inviata ad Allendorf non per sua volontà, e lui «era una persona perbene» [ein anständiger Mensch], Nel 1947, prima di conoscere la sentenza, Frau Fest fu inviata in un campo a Darmstadt. (Il trasferimento pare dipendesse da questioni geografiche o giurisdizionali tra le forze di occupazione.) Lì, dopo una nuova udienza, nella quale tornò a difendersi da sola, venne assolta. Disse che i giudici «si scusarono e dissero che fondamentalmente l'intera faccenda era automatica». In seguito lei e il marito, che aveva avuto il permesso di stare con lei, furono «condotti per le strade da due soldati 272

americani con le baionette inastate». Scoppiò a ridere. «Sorridevamo tra noi. Loro dicevano che lo facevano perché gli ordini erano quelli.» Non restò libera a lungo. Quell'estate fu riportata a Darmstadt per quelle che, disse, erano ragioni non specificate. Ricordava vividamente e con emozione le circostanze del suo definitivo rilascio e del ritorno a casa. Senza preavviso e senza che lo sperasse, le cose «accaddero molto velocemente. Fui chiamata nell'ufficio per un controllo dei miei documenti personali. E la persona che c'era mi disse che pensava che sarei stata liberata nel giro di due o tre giorni». Due giorni dopo le dissero di andare di nuovo in ufficio. «Di rado si pensava a qualcosa di buono. Immaginai che avrebbero ritirato quello che avevano detto.» Invece le comunicarono di fare la valigia perché sarebbe stata rilasciata il giorno dopo, il 28 agosto 1947. Ricordava la data anche perché era il giorno del compleanno della sorella. «Restai lì come se avessi piantato le radici sul pavimento e non dissi assolutamente nulla. Non so come ho fatto a tornare alle baracche. So solo che quando mi ritrovai lì mi gettai sul letto e piansi orribilmente e le altre non riuscivano a immaginarsi cos'era successo finché non arrivò un'altra donna e disse che andavamo a casa.» Frau Fest era rimasta in prigione per più di due anni. Il giorno dopo lei e le altre donne entrarono in uno strano e libero mondo civile. «Ci accompagnarono perfino alla stazione e non in grossi camion, ma su una normalissima macchina. E ci comprarono i biglietti e prendemmo posto sul treno e nessuno ci sorvegliava e non fummo chiuse dentro. Sostanzialmente potevamo fare o lasciar succedere quello che volevamo, ma avevamo paura. Non eravamo nemmeno più capaci di muoverci liberamente sul treno e magari camminare lungo il corridoio. Non osavamo tanto. Restammo sedute, così, mentre un paio piangevano disperatamente.» Quando giunsero alla stazione più vicina a casa, verso le nove di sera, le donne scesero dal treno, ma non avevano idea di cosa fare dopo. La voce di Frau Fest divenne un sussurro. «Pensai: "Non c'è nessuno che ti dica dove andare o cosa fare o almeno come cominciare? Come fai ad andare a casa?"» Una del loro gruppo propose di cercare un autobus. Per la sorpresa di Frau Fest, «c'era davvero un autobus e chiedemmo se potevamo salire, ma non avevamo soldi. Allora l'autista disse: "E queste da dove saltano fuori? Da dove vi hanno fatto uscire? " Dicemmo che venivamo dal campo d'internamento di Darmstadt e ci sarebbe piaciuto molto arrivare a casa». L'autista le lasciò salire. «Mentre l'autobus andava per la sua strada, tutta la gente si voltava a guardarci. Dal nostro punto di vista, erano tutti vestiti così bene e trovavano naturale starsene lì seduti sull'autobus. Noi una cosa del genere non riuscivamo nemmeno a immaginarla.» Frau Fest arrivò alla sua casa di Sonnenfeld a tarda sera, e suonò il campanello. «Mio marito sbirciò dalla finestra e io dissi [sussurrò di nuovo]: "Otto, sono io". Lui chiuse la finestra è poi si sentì un tremendo rumore per le scale e poi per prima cosa lui, naturalmente, mi abbracciò e poi mi chiese: "Ma come hai fatto ad arrivare fin qui?" e "Cosa è successo? Ma prima vieni di sopra", e lui mi portò di sopra in braccio. Ero una piuma, non ero grassa come adesso. Nel frattempo si erano svegliate anche mia 273

suocera e mia cognata e "Hai fame? Non vuoi qualcosa da mangiare, prima?" "E senti, oggi è il compleanno di Erika e..."» Frau Fest era di nuovo a casa, quasi travolta dall'abbraccio della sua famiglia. Ma era per sua madre, che abitava a una quindicina di chilometri di distanza, che era preoccupata. Siccome era impossibile telefonare e trovare un mezzo di trasporto, il mattino dopo si mise in cammino, assieme a Otto, per andare a trovarla. «E allora partii per andare da mia madre...» Frau Fest smise di parlare. Dopo un tempo insolitamente lungo, passato a raccogliersi, continuò. «Ja. E allora venne il cattivo risveglio. Mio marito mi disse che mia madre non viveva più.» Frau Fest cominciò a piangere. Rovistai tra le mie cose e trovai un fazzoletto di carta. Lei mi ringraziò prima di asciugarsi gli occhi e il naso. Finì la sua storia tra le lacrime. «Venne operata, le fecero l'anestesia, e non si risvegliò più. In realtà, fu una morte dolce. Ma capisce, tra di noi, era come se avessimo lasciato le cose in sospeso.» Frau Fest si riprese. «Ja. Ecco, grosso modo, quello che successe. E alla fine riuscimmo a costruire qualcosa e oggi i nostri figli non capiscono perché preferiamo non occuparci di politica, ma preferiamo goderci un po' di quello che abbiamo realizzato, e stare tranquilli. Uno semplicemente ha sperimentato troppe cose.» Come conseguenza del suo rilascio nel 1947, a Frau Fest fu detto di consegnare i suoi numerosi documenti legali alle autorità cittadine e di riregistrarsi. Lo fece. Anni dopo ricevette un'inaspettata comunicazione giudiziaria nella quale «quasi si scusavano del fatto che mi avevano incarcerato per due anni per niente e dicevano che avevo diritto a un risarcimento». Per di più, aggiunse, ciò che le era capitato le dava il diritto di entrare nella categoria dei prigionieri di guerra. Poi venne convocata al municipio di Sonnenfeld dove le furono consegnati trecento marchi come «indennità di prigioniero di guerra». Con quei soldi i Fest comprarono una credenza nuova per l'ingresso. Alla fine del nostro ultimo incontro, anche la mia mente era troppo fiaccata perché potessi chiederle qualcosa di specifico. Allora domandai a Frau Fest se aveva qualcosa da aggiungere. Ce l'aveva. «Capisce,» disse, «quando ci ripenso, con il senno di poi, per tutto quel periodo una aveva davvero "una tavola molto spessa davanti agli occhi". Erano così tante le cose che uno proprio non vedeva. Ancora oggi, quando mia figlia mi domanda: "Mutti, com'era davvero, allora? Avevate qualche rapporto con persone ebree?" Le avevamo, ma non ci era mai venuto in mente che lo fossero. Per esempio, avevo una collega al lavoro, alla Behringwerke, che era per metà ebrea, e a quell'epoca veniva aggredita. C'erano molti che la evitavano. E io dicevo sempre: "Cosa succede? Perché fanno così?" Passavo a prenderla la mattina e andavamo sempre al lavoro insieme, stavamo sedute vicine a pranzo, e di solito parlavamo tra noi.

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«Dopo, quando mi avevano portato via, lei venne a casa nostra e disse a mio marito: "Herr Fest, io vorrei testimoniare a favore di sua moglie, per come si è comportata con me allora". Io davvero non ci vedevo niente di straordinario. Anche mio marito aveva conoscenti ebrei, e, be', non ci si pensava affatto. «Non potevamo assolutamente capire quale differenza dovesse esserci,» aveva detto in precedenza. «Per esempio, a casa ci piaceva mangiare capretto e agnello, e quella carne la si trovava solo dagli ebrei. C'era un negozio ebreo nel nostro villaggio e due nel villaggio vicino, e gli ebrei venivano a portarci la carne e noi prendevamo il pane azzimo da loro, e lo trovavamo perfettamente in Ordnung. E in seguito dovevamo pensare che loro fossero nemici o qualcosa del genere? L'immagine che dipingevano degli ebrei non era giusta. Questo di sicuro ci faceva pensare.» Quanto alle azioni antisemite, «semplicemente non riuscivamo a capirle. Erano negozi dove andavamo a fare la spesa e conoscevamo quella gente. Che ragione c'era? Avrei potuto anche dire va bene, tutti voi che indossate un costume popolare diverso dal nostro siete diversi da noi e noi vi sconvolgeremo la vita.» Le chiesi se non aveva mai sentito il commento che erano gli ebrei ad avere le loro colpe. Frau Fest disse di no, ma aggiunse: «Si diceva che alcuni uomini d'affari ebrei frodavano gli altri. Ma da noi c'è un detto: Il peggiore è l'"ebreo bianco".» L'«ebreo bianco» è un cristiano.

NOTE 1

«Schulbildung» di base, equivalente grosso modo alla media inferiore. Braukessel & Presslufthammer. Abriss einer Industriegeschichte (Tino da birra e martello pneumatico. Abbozzo di una storia industriale), Marburg, Geschichtswerkstatt Marburg, 1985, p. 28. 3 Cfr. Bernd Klewitz, Die Arbeitssklaven der Dynamit Nobel (I lavoratori schiavi della Dinamite Nobel), Schalksmühle, Engelbrecht Verlag, 1986, pp. 9 e 119. 'Ibid., p. 212. ' Ibtd., p. 225. l Ibid.,p. 222. 2

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«ERO SOLA. E AVEVO CONTRO LA CITTÀ INTERA» (Frau Doktor Margret Kresch)

La donna che mi rivolgeva vigorosi gesti di saluto dalla banchina della stazione di Riedlingen, un villaggio fuori mano nelle regioni agricole della Germania meridionale, aveva il colorito bruno di chi ha vissuto in campagna, e indossava un grande cappello di paglia, una camicetta bianca, una lunga gonna e un paio di sandali. Perfino a cinquanta metri di distanza, mentre se ne stava lì sola, qualcosa nel suo abbigliamento e nella sua energia suggeriva che sarebbe stata sola anche in mezzo a una folla di gente. Ed era la verità. Andavo a farle visita proprio per ascoltare la sua storia di un tempo in cui era stata sola. Da più vicino, la settantanovenne Frau Dr. Margret Kresch mostrava un bel viso stagionato, un gran naso arcuato e occhi grandi e brillanti. La camicetta era di lino inamidato, un tocco signorile e una prova ulteriore che il suo mondo si estendeva oltre i confini di un villaggio di campagna. Ma non c'era tempo per altre considerazioni. Dopo un altro minuto viaggiavamo veloci sulla sua macchina oltrepassando colline, compiendo svolte, poi risalendo un viale in fondo al quale ci fermammo. Entro un altro minuto Dior, il suo grosso cane, abbaiava di gioia e ci saltava addosso, e Frau Dr. Kresch attraversava a grandi passi il prato per dirigersi a un recinto di filo di ferro in cui c'erano delle galline esotiche del Kenya. Quando vi entrò, le galline si misero a starnazzare e a svolazzare in giro, Dior continuò ad abbaiare, una grande lingua bagnata mi leccò da dietro sul collo, io aggiunsi un grido a quella cacofonia, feci un salto, mi girai e vidi un affettuosissimo cavallo. Frau Dr. Kresch emerse dal recinto con due uova maculate in mano. «Per colazione,» mi disse sorridendo. In mezzo a quel gradevole pandemonio mi sorse il sospetto che non solo Frau Dr. Kresch stesse sola, ma che celebrasse la sua solitudine. Quel pomeriggio, facemmo un breve giro della casa. E un bell'edificio, moderno e ricolmo di oggetti ricordo, che si eleva in splendida solitudine fra campi di cereali. Frau Dr. Kresch l'aveva fatto costruire dopo la guerra per sé, la sua famiglia e per la sua attività di medico. Nonostante avesse passato la maggior parte dei clienti a un figlio che abita vicino, mi disse, aveva ancora in cura qualche vecchio paziente. La sua specialità è l'omeopatia. Fu solo una delle discipline che praticò durante il Terzo Reich. Per parlare di questo, passammo gran parte di quel giorno e del successivo seduti sulla sua terrazza. Lontano dal serraglio l'ambiente era pieno di pace, poche le interruzioni: un amico sofferente telefonò in cerca di conforto, e due soldati con le divise smaglianti fecero la loro comparsa per sistemare i danni che le manovre militari avevano causato ai campi. Frau Dr. Kresch uscì con loro e ritornò sorridente. Aveva chiesto a quale reparto 276

appartenessero, visto che le loro uniformi erano così eleganti e di buon taglio. «Siamo francesi,» le avevano risposto. Benché fossi ansiosa di sentirla parlare del tempo in cui era stata sola, ero almeno altrettanto curiosa riguardo a lei personalmente. Avevo imparato che a chi non avesse sperimentato la compassione accadeva raramente di trovarsi da solo per una causa nobile, e che la compassione compariva raramente in chi non avesse provato a mettere in discussione lo status quo. Frau Dr. Kresch si adatta a questo modello. Ben presto, mi disse, cominciò ad avere i primi dubbi sulla sua fede cattolica. «Da bambina mi opponevo alla religione convenzionale. E a quattordici anni abbandonai l'istruzione religiosa. C'era, in tutto quanto, troppa ipocrita devozione.» Non soltanto uno dei suoi zii era il diacono cattolico, ma ella aveva anche una zia particolarmente devota. «Le resistetti sempre. Per me era troppo cattolica. Era la mia madrina, la più giovane delle sorelle di mia madre, e mi portava sempre in vacanza con sé. Lo trovavo orribile. Nei primi anni di studio mi dava trenta marchi al mese, qualche volta sessanta. Ma non era molto, ovviamente. Dovevo comunque lavorare tanto.» Davvero lo fece? Fin quasi dall'istante in cui ci eravamo sedute a parlare Frau Dr. Kresch aveva lasciato cadere nel discorso i migliori nomi di Germania (mentre, in un contrappunto populista, schiacciava una quantità di mosche). Ipotizzai perciò che anche il suo fosse un nome noto, e che rivelasse una certa agiatezza. Aveva citato un figlioccio sposato a una von Weizsäcker, alcuni Stauffenberg fra i suoi vecchi pazienti, gli illustri antenati francesi di una nuora. C'era poi una sfilza di giudici e dottori i cui nomi non significavano niente per me, ma di cui lei cantò le lodi come amici dei tempi dell'università e che ancora oggi stimava. Sopra tutte spiccava la menzione del suo vicino, Ernst Jünger, il famoso e controverso scrittore allora poco più che novantenne, un uomo che Frau Dr. Kresch conosceva da decenni, un uomo che aveva fatto di lei un personaggio letterario,1 un uomo sposato a una donna di cui mi tessè le lodi. Di lui c'erano dappertutto fotografie con dedica. Frau Dr. Kresch reagì con un misto di sorpresa e delusione quando seppe che conoscevo poco altro su Jünger oltre al fatto che conquistò la sua prima fama di scrittore esaltando la nobiltà della battaglia. (Di fatto, grazie all'eloquente glorificazione delle sue esperienze nella Prima Guerra Mondiale, che spinsero altri scrittori a seguire il suo esempio, è verosimile che egli abbia alimentato il desiderio per la guerra nella successiva generazione di giovani tedeschi.)2 L'evidente ed esagerata ammirazione di Frau Dr. Kresch per la gente famosa assumeva un qualche rilievo per un motivo: specialmente durante il Terzo Reich, gli eroi e le eroine erano importanti. E delle eroine faceva parte anche il curioso amalgama che è Margret Kresch. Gli «anni di studio» di cui parlava riguardavano i corsi di medicina. Iniziò a frequentarli nel 1932, a Friburgo. Fu lì che la ventiquattrenne Margret Links incontrò il suo futuro marito, Konrad Kresch, un linguista che si era specializzato in lingue antiche. Veniva da Riedlingen, che era e 277

rimaneva, nell'opinione di Frau Dr. Kresch, «la provincia più profonda». Konrad insegnava nel liceo locale, ma aveva rinunciato a tentare di far nascere qualche interesse nei suoi apatici allievi e aveva deciso di diventare medico. La decisione di diventare anche lei medico obbligava Margret a fare una serie di lavori part-time. Insegnava, fra l'altro, anatomia agli studenti più giovani, sezionando cadaveri. «A Friburgo c'era una quantità di professori ebrei,» aggiunse. «Finché ci furono loro, noi non ottenemmo alcun assistentato. Io e una mia amica insieme facemmo una sola assistenza dopo l'esame di Stato. Perché i professori ebrei prendevano per lo più assistenti ebrei, nicht?» Le chiesi se lo facevano per aiutarli. «No,» mi rispose, «non per aiutarli, ma perché attribuivano loro una maggior intelligenza.» In seguito mostrò di essere d'accordo con i professori. «In generale gli ebrei sono più intelligenti di noi,» disse. Perché lo pensava? «Credo che attraverso queste migliaia di anni di tradizione e anche grazie alla Bibbia essi vedano molto meglio le relazioni.» Aggiunse che «avviene lo stesso» nell'educazione dei musulmani, che imparano delle parti del Corano a memoria. Infine, incalzata, disse di ritenere che gli ebrei avessero «un'altra mentalità» poiché per secoli avevano dovuto combattere per sopravvivere, ma di non sapere se ciò dipendesse necessariamente da una questione genetica. «A causa di questa mentalità, a causa di questa vita in cui bisognava proteggere se stessi, alcune qualità acquistarono maggior forza di quanta ne avessero fra i popoli che potevano vivere nella pace e nella tranquillità.» Se tali qualità venissero apprese o piuttosto ereditate era «difficile da dire». Secondo lei «l'educazione giocava un grande ruolo». Ma «entrava in gioco anche un dono naturale». Alla fine abbandonammo la questione a questo punto. Quando Hitler andò al potere, Margret, Konrad e i loro amici facevano già parte di quello che lei chiamò un gruppo della resistenza. Erano «Anthroposophen», seguaci del pedagogista di idee riformatrici Rudolf Steiner. Margret e Konrad erano gli unici studenti, mentre gli altri affiliati avevano già intrapreso una carriera, per lo più come insegnanti o avvocati. Per come lo descrisse, il gruppo aveva fini spirituali piuttosto che materiali. Ma di ciò ai nazisti importava poco o nulla. «Nel '33 fummo tutti arrestati.» Stavano tenendo un convegno in un castello della zona. «A conclusione del convegno [sulla giustizia romana e su quella tedesca] ci fu un ricevimento con... Erano tutti dei tali idealisti, con ballo di minuetti e un certo pathos, nicht?» Frau Dr. Kresch rise. «Improvvisamente sentimmo: "Fermi tutti. Il castello è circondato dalle SS". [Intendeva dire le SA, come precisò in seguito.] Tutte le carte vennero sequestrate. Ogni cosa venne sequestrata, ciò che per otto giorni avevamo scritto. Poi presero nota di tutti i nomi. A ogni modo fu brutto.» Disse che il convegno era puramente accademico, «ma quelle erano tutte persone di cui i nazisti sospettavano già in precedenza. Nessuno era nel Partito. Più tardi lavorai come assistente alla clinica per le malattie mentali e il mio professore mi ripeteva in continuazione: "La prego, vada almeno al..." dove si andava di domenica, in uno di quei loro circoli. Mi 278

disse che riceveva costantemente lamentele perché una delle sue assistenti non era in nessuno di questi circoli nazisti, nicht?» Nicht? Questa espressione, che letteralmente significa «No?» (abbreviazione di Nicht wahr? [Non è vero?]), si rivelò un interrogativo frequente per Frau Dr. Kresch. In genere il consenso è implicito, e lo era in particolare nel suo caso. A ogni Nicht? la sua voce saliva di un tono e i suoi sguardi divenivano particolarmente diretti. Era difficile esimersi quanto meno dall'obbligo di annuire. Dopo che le SA circondarono il castello, continuò, «girò la voce che fosse stato, per così dire, un bordello. Ja! Nicht? Nicht? Era brutto, nicht? Non potevi assolutamente difenderti». Delle SA disse: «Vennero tutte dentro e dovemmo mostrare i nostri documenti d'identità e fummo chiusi in una stanza. Perquisirono tutte le altre stanze e presero tutto ciò che vollero. Poi girò la voce che avessero scoperto un covo di cospiratori». E sul comportamento delle SA disse: «Credo che fosse molto imbarazzante per loro, poiché noi eravamo tutti della zona. C'era anche il figlio del preside del liceo. E la figlia. Penso che fosse estremamente imbarazzante. Ma fu lo stesso con le sinagoghe. Non potevano fare altrimenti, nicht? Avevano ricevuto l'ordine di andarci». Proseguì: «E c'era anche un'ebrea. Un'avvocata. Che tempo dopo si tolse la vita. Molto tempo dopo, quando correva il rischio di essere deportata. Molti si tolsero la vita». Frau Dr. Kresch insistette che l'azione delle SA non l'aveva spaventata. «Al contrario. Io ero andata là soltanto in prova. Konrad era un socio.» Ma a un certo punto nel bel mezzo dell'azione, quando i soci le chiesero se volesse iscriversi formalmente o rimanere «in prova», «io dissi: "Voglio diventare socia adesso". E lo feci. [A Konrad] e a me non successe nulla, tranne il fatto che presero nota dei nostri nomi. Ma noi non avevamo un impiego pubblico. Eravamo ancora solo degli studenti. Ma tutti gli altri furono licenziati. Tutti. Tutti. Tutti. Tutti». Il gruppo rimase attivo? «Eccome! Eccome!» In che modo? «Non era un gruppo della resistenza nel senso che cospirassero contro Hitler, ma era un gruppo che cercava in modo spirituale e cristiano di portare avanti i propri scopi e quindi di essere un caposaldo contro i nazisti.» Mentre parlavamo il sole estivo si abbassava, le mosche si infittivano e Frau Dr. Kresch si mise a intervallare con regolarità i suoi ricordi con i colpi secchi dello scacciamosche. Più tardi nel 1933, mi disse, lei e Konrad si trasferirono a Vienna e poi a Monaco per continuare gli studi. (Era comune che gli studenti si spostassero da un'università all'altra.) Margret superò gli esami di medicina ed entrò a far parte di un'organizzazione professionale che, disse, era obbligatoria per lei e lo era stata anche per i medici ebrei. «Nel 1933 vennero tutti buttati fuori. Ne facevano parte dei dottori ebrei molto famosi.» Riteneva vergognoso che dei gruppi di medici si prestassero a quel comando che, disse, non proveniva dal loro ordine professionale. «Era un comando che veniva dall'alto. E poi al caduceo, il 279

nostro simbolo distintivo, fu sostituita la svastica. Poi assunsero il controllo di tutto. Inoltre molti dottori accettarono la cosa di buon grado. Dopo tutto molti dottori erano per l'eutanasia, nicht? Lo dicevano loro stessi: "Sono esistenze indegne".» Frau Dr. Kresch disse di capire perché Hitler avesse ottenuto il consenso iniziale che ebbe. «La disoccupazione era molto peggiore di quanto non sia oggi. Allora, la fame era grande. Allora, i giovani erano per la strada. Allora, molti artisti non avevano nemmeno un pezzo di pane, e giravano per le strade come vagabondi, nicht? Allora, era un periodo molto brutto. E poi arrivò qualcuno che disse: "Io vi aiuterò. Venite tutti quanti! Avrete lavoro, avrete pane". Avrete, nicht? Ci credettero anche t r o p p o . » Nel 1938, due anni dopo il matrimonio, i Kresch si trasferirono a Riedlingen per avviare un'attività medica in comune. Siccome evitavano i nazisti, mi disse, ci rimisero il sostegno finanziario che altri medici ricevevano, come i rimborsi dell'assicurazione pubblica. Nonostante ciò riuscirono a cavarsela benissimo. Poi venne la guerra. Herr Dr. Kresch venne arruolato quasi immediatamente come medico dell'esercito. Frau Dr. Kresch continuò a lavorare e ben presto si trovò a dirigere «un'attività gigantesca. Cominciavamo alla mattina verso le otto e ci fermavamo la sera alle undici o a mezzanotte o all'una». Ogni giorno c'erano dai 150 ai 160 pazienti, mi disse. «Era brutto.» Facevano parte del suo personale anche cinque suore, tutte appartenenti a un ordine sfrattato dal suo convento da parte di un nazista locale. Le suore non solo lavoravano per lei, ma vivevano anche nella sua famiglia in continua crescita. I Kresch ebbero il loro primo figlio nel 1937, e dopo di lui quasi uno ogni anno: il quinto nacque nel 1942. Margret ospitò anche un'amica la cui casa era stata bombardata e i suoi tre bambini. Inoltre, quando uno dei fratelli di Frau Dr. Kresch (un pilota della Luftwaffe), la loro sorella che gli stava facendo visita e due dei tre figli di quest'ultima morirono in un bombardamento, venne preso in casa anche il bambino sopravvissuto. Verso la fine della guerra la famiglia Kresch contava diciotto persone, compresi otto bambini sotto i sette anni. Una suora lavorava esclusivamente come «Kindergärtnerin», un'altra in casa, le altre tre nel laboratorio. Lo studio medico, che consisteva in due sale per le visite, un grande laboratorio, una stanza per i raggi X e la sala d'aspetto, occupava uno dei tre piani di un grande edificio. L'abitazione occupava il resto: una zona comune di soggiorno su un piano, e le stanze da letto per i bambini e le suore nella mansarda. C'era anche una cantina. Negli ultimi giorni di guerra essa servì a nascondere parecchi ufficiali e soldati tedeschi che avevano rifiutato l'ordine di far saltare i ponti della zona. «Le SS li cercarono dappertutto, ma non nella nostra cantina. Poi tutti gli uomini che furono considerati disertori vennero impiccati. Brutto!» Uno svantaggio della casa, per gli scopi di Frau Dr. Kresch, era la sua posizione. Non solo era vicino al centro del paese («Riedlingen era molto trasparente, come il vetro di una finestra,» mi disse), ma era proprio accan280

to all'ufficio postale. E il direttore dell'ufficio postale era l'Ortsgruppenleiter. Ma neppure questo riuscì a intimidirla. «Facevo proprio delle brutte cose. Vede, se uno fosse stato coraggioso avrebbe potuto fare della resistenza. Nella nostra sala d'aspetto dovevamo appendere una targa, una nuova ogni settimana. Sopra c'era una massima del Partito, come un detto della Bibbia. Venne l'Ortsgruppenleiter a portarci la massima e mi disse che dovevo appenderla nella sala d'aspetto. E io dissi: "Questa è la legge}"» Si poteva percepire la forza nella sua voce. «Lui disse: "Non è la legge, ma ce lo aspettiamo da lei". Io dissi: "Non lo farò. Non appendo i detti della Bibbia e non appenderò nemmeno i detti del Partito. Oltre tutto io non sono affatto nazista". Poi lui venne di nuovo e mi disse che dovevo fornire una ragione. Le suore avevano una paura terribile che accadesse qualcosa a tutti noi. Ma non accadde nulla. Davvero non era la legge, quindi loro non potevano fare niente. Se fosse stata la legge, io non avrei potuto farci niente. Quindi, in un certo senso, potevi ostentare un po' di malumore. Per questo, non succedeva nulla. Ti consideravano non proprio come uno dei loro.» Un altro atto di resistenza legale ferì più da vicino le suscettibilità dei nazisti. «Quando avevi cinque figli ricevevi la Croce d'onore di madre, nicht? Dai nazisti. Una sorta di segno di distinzione. E io gliela mandai indietro.» Rise di nuovo. «Dissi che non mi sarei lasciata premiare. Non partorivo i miei figli per Hitler. Ma era brutto da dire.» I nazisti si irritarono anche per il modo in cui ella trattò una dottoressa russa che era stata portata con la forza in Germania per lavorare in una fabbrica. Il fastidio non era dovuto al fatto che Frau Dr. Kresch le desse ricovero e un lavoro (in casa), ma che la trattasse con umanità. «Lei mangiava con noi. Questo era brutto, nicht? Non potevi far mangiare un russo alla tua tavola.» Ma la violazione che le diede la peggior reputazione, a causa dell'odio del Terzo Reich verso la religione, fu di aver dato lavoro e ricovero a cinque suore. Quando le chiesi se avesse avuto paura a opporsi ai nazisti nei modi che mi aveva descritto fino a quel momento, mi rispose: «Le mie suore molto più di me. Perché loro erano comunque sospette. Solo per l'abito che portavano. Loro correvano un pericolo molto maggiore». La prova che ai nazisti non piaceva il suo atteggiamento divenne presto manifesta. «Mi denunciarono con l'accusa di guarire per suggestione religiosa,» mi disse, in apparenza più stupita che arrabbiata. Oltre ai pazienti che venivano da lei, «di notte facevamo anche visite a domicilio, le suore e io. Se qualcuno era in punto di morte, passavamo a chiamare il prete. E anche questo era proibito, o comunque non ben accetto. E dissero che eravamo impegnate in pratiche da guaritrici! Nicht? Ah ah ah». In qualche modo Frau Dr. Kresch venne prosciolta dall'accusa. In apparenza lo studio medico Kresch copriva una gamma di discipline, con specializzazioni in omeopatia e neurologia. Ma Margret Kresch era specializzata anche in un altro campo. In un regime ossessionato dall'idea di purificare la «razza superiore» dalle «esistenze indegne», 281

ella contribuì a salvare delle persone che i nazisti avrebbero assassinato. Le sue azioni erano doppiamente audaci. Da un lato curava dei pazienti da cui probabilmente altri medici si sarebbero tenuti alla larga, persone che soffrivano di gravi deficienze fisiche o mentali, o che avevano certe malattie contagiose. Dall'altro lato non li denunciava alle autorità, come avrebbe richiesto la legge nazista. Nonostante fosse ovvio che facendosi beffe della legge nazista ella metteva in grave pericolo se stessa (e la sua famiglia), aveva imparato che, se non l'avesse fatto, per i suoi pazienti ciò avrebbe significato la morte. La persona da cui lo aveva saputo era uno dei suoi professori di medicina, «un uomo meraviglioso» che soffriva egli stesso di depressione reattiva. Era l'esasperato direttore della clinica per le malattie nervose di Friburgo. «Quando si rese conto di quello che succedeva ai ricoverati ne rimandò molti a casa.» Quello che succedeva, come è ben documentato, era che le «esistenze indegne» venivano estinte. Ciò di cui Frau Dr. Kresch ebbe notizia a Friburgo, lo osservò a Riedlingen. «Gli autobus passavano accanto alla nostra casa. Erano degli autobus giganteschi con le tende sui finestrini. Da qui andavano sulle Alpi, dove [c'era] l'istituto, dove si diceva che ti facevano fare la doccia. E poi entrava... il gas.» Disse che il gas era Zyklon-B, lo stesso usato per le uccisioni di massa nei campi di sterminio. Ma per il tempo e le circostanze che descrisse, è più probabile che in questo caso i nazisti uccidessero con un gas più «primitivo», il monossido di carbonio. 3 «Se in una famiglia c'era una persona malata di mente e qualcuno l'avesse portata in una clinica psichiatrica, l'avrebbero tenuto lì forse per un paio di mesi, e poi l'avrebbero caricato su un grande autobus e mandato in un istituto per essere gassato. Era qua vicino, a quaranta chilometri. Noi lo sapevamo. Lo sapevamo dal nostro professore. Sapevamo che non si voleva che i malati di mente vivessero.» Frau Dr. Kresch pensava che nella sua zona si fosse cominciato a uccidere col gas nel 1940, e riteneva che molta gente del luogo ne fosse informata. «Dopo tutto vedevano gli autocarri [o gli autobus] che passavano con i finestrini oscurati. E quando le persone uscivano dalle strutture in cui erano ospitati, urlavano. Si sapeva che a loro stava per succedere qualcosa, nicht? Loro non volevano, loro...» Frau Dr. Kresch si perse in balbettii e ricominciò da capo: «Era così. Qui da noi c'erano degli istituti gestiti da ordini religiosi, di suore, per bambini debilitati. Bambini ritardati. Portarono via anche tutti loro». Mi disse che la verità arrivava alle famiglie delle vittime. «Lo sapevano. In giro se ne parlava. In un modo o nell'altro queste famiglie sveve avevano sempre un congiunto malato di mente da qualche parte. E quando i casi di morte si accumulavano e si diceva: "E morto di tifo, è morto di tubercolosi", o di quello che era, avevi sempre dei sospetti.» Entro il 1943, disse, dopo che le uccisioni erano ormai ben note alla gente della zona, «agirono con maggior segretezza. I malati di mente venivano uccisi nelle stesse cliniche. Con una semplice iniezione, nicht? O lasciandoli morire, nicht?» Aveva tentato di diffondere notizie su ciò che sapeva? 282

«Nein. Neiiiiiinn. Era strettamente... Nessuno poteva parlarne. Veniva mantenuto il più stretto segreto. Ma a dieci chilometri da qui c'era, c'è ancora, una struttura psichiatrica. La dirigeva una donna, una nazista folle. Faceva le iniezioni alla gente con le sue stesse mani. C'erano tante, tante, tante sorelle [suore] che erano mie pazienti. E per questo che io ne so qualcosa. Ma era proprio quello il motivo per cui è assolutamente possibile che le persone che affermano di non aver saputo niente delle camere a gas e dei forni di Auschwitz dicano la verità. Era tenuto così segreto che uno veniva arrestato solo per averne parlato, nicht?» Più tardi tornò a ribadire questo concetto, anche se con qualche modifica. «Ogni cosa, ogni cosa che aveva a che fare con le SS e con tutti questi campi della morte, anche riguardo ai malati di mente, veniva trattata come il più alto dei segreti. Certo alcune persone lo sapevano, quelli che avevano qualcosa a che farci. Ma mi chiedo se, eh,» fece una pausa, «vede, mi chiedo se perfino le mogli di queste persone che dirigevano i campi di concentramento ne fossero a conoscenza, e in che misura. Mengele, che è stato ricercato per tutto il mondo, doveva essere una persona tanto cara. Dolce e, nicht? Nicht? Che avesse amici ovunque e... Questa è storia. I modi di essere esteriore [e interiore]... spesso non sembrano adattarsi affatto.» Lei non aveva nessun dubbio sull'opportunità di starsene zitta, mi disse. «Era già pienamente sufficiente che stessi vicino alle persone che avevano malattie congenite. Dicevo loro: "Non potete andare da un altro dottore. Dovete restare qui. Cioè, non vi denuncerò alle autorità". Ma non potevi dire: "Se verrete denunciati sarete gassati".» Frau Dr. Kresch mi aveva parlato di un nazista di cui si fidava, un uomo che si era iscritto al Partito molto presto, e perciò aveva accumulato una notevole dose di autorevolezza. Avrebbe potuto discutere con lui delle uccisioni? «Maaaaai l'avrei fatto. Non si poteva farlo. Uno non poteva raccontare a un altro quello che sapeva, perché l'avrebbe fatto sapere anche a lui. L'avrebbe esasperato con quelle notizie, nicht? Tutte le cose che sapevo, quello che mi disse mio marito, le tenevo completamente segrete, tranne che in famiglia o con le persone più fidate. E come me tutti gli altri. Lei non può minimamente immaginarselo. Era... Uno pensava che ci fossero microfoni dappertutto, e gente che ascoltava. Erano tempi terribili.» Ricordava la storia di due sorelle, una delle quali era stata sua paziente. Quest'ultima era sconvolta per il fatto che a sua sorella e non a lei spettasse l'eredità della fattoria di famiglia, e «riferì alle autorità che quella che stava per ereditare la fattoria andava male a scuola perché era debole di mente, nicht? Fu sterilizzata, a causa della denuncia. E le fu tolta la fattoria, a causa della denuncia. Poi la sorella che l'aveva denunciata si prese la fattoria. E poi s'impiccò. Dopo la guerra». Frau Dr. Kresch affermò anche che i contadini di Riedlingen e del circondario non avrebbero fatto «assolutamente niente» riguardo all'uccisione dei loro parenti affetti da deficienze fisiche o mentali. Una ragione importante era la povertà. «Molti agricoltori erano felici di liberarsi di 283

gente a cui avrebbero dovuto cedere metà della loro fattoria. Se avevano un figlio malato di mente e dovevano metterlo in un istituto, dovevano spendere dei soldi per lui. E se il figlio moriva, non dovevano più pagare. E lui non poteva comunque aiutarli, nicht? In questo senso i contadini ragionavano in maniera molto pratica. Molti contadini, molte persone, erano felici quando si sbarazzavano di qualcuno che era pericoloso. Poiché spesso [i malati di mente] erano pericolosi. Potevano delirare o altro, nicht?» A un certo punto le chiesi se prima della fine della guerra avesse saputo dello sterminio su larga scala. «Ja, lo sapevamo,» mi rispose. « Q u e s t o lo sapevamo con precisione. L o vedevamo qui. C'era una comunità ebraica. Vedevamo gli ebrei in fila, portati via, in un istituto sulle Alpi, e poi più lontano.» Insistette a dire che questo accadeva nel 1940 o nel 1941, troppo presto rispetto alla «soluzione finale». Ciò mi spinse a indagare oltre, domandandole se sapeva che la gente sarebbe stata uccisa. «No. A quel tempo questo non si sapeva.» Q u a n d o le dissi che era ciò che intendevo, insistette che non pensava che la gente fosse destinata a essere uccisa, ma che andasse a Theresienstadt, la cosiddetta nuova città ebrea. Q u a n d o , dunque, aveva saputo dell'Olocausto? « N o n prima della fine della guerra, penso. Era tenuto molto segreto.» L e dissi che molti americani non credevano a questo fatto. « N o n avremmo potuto saperlo,» mi interruppe. « E r a tenuto così segreto. Noi sapevamo dei campi di concentramento. Sapevamo di casi terribili, ma se mai qualcuno ne fosse uscito non avrebbe potuto dire una parola, nicht? E da Auschwitz non uscì nessuno che potesse dire qualcosa.» Fra parentesi Frau Dr. Kresch mi disse di non avere visto nessun film o documentario che avesse una qualsiasi relazione con l'Olocausto fino al 1985. Quell'anno, dopo che una sorella si era trasferita a Hannover, le due donne andarono a visitare il museo e il sito del campo di concentramento di Bergen-Belsen, nei pressi della città. Nel frattempo, durante il Terzo Reich, sempre più vittime designate di Auschwitz o delle letali stazioni di sosta poste lungo la sua via trovavano la strada per lo studio medico di Frau Dr. Kresch. Si era sparsa la voce che la dottoressa li avrebbe curati e non li avrebbe denunciati alle autorità. Inoltre, a causa della sua preparazione come neuroioga e del fatto che usasse lo shock terapico, fra la gente che percorreva grandi distanze per venire da lei cresceva il numero degli schizofrenici. «Facevo loro iniezioni di insulina. Allora perdevano coscienza. In seguito iniettavo dello zucchero ed essi rinvenivano e avevano perso le loro folli idee, nicht? 4 Se questi pazienti fossero andati in una clinica sarebbero stati immediatamente portati via e gassati. A loro non era permesso vivere. E neanche ai bambini storpi e ai malati di tubercolosi e di tutti i mali incurabili.» Il modo più sicuro di proteggere gli schizofrenici era di andare da loro invece di farli venire allo studio. «Eseguivo il trattamento a domicilio. N e avevo un paio. Ciò era, ovviamente, molto pericoloso, nicht? Facevo le iniezioni qui, in paese. Se la cavarono. Ecco perché veniva così tanta gente, perché sapevano che qui c'erano delle suore, che non consegnavamo la

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gente al ministero della sanità. Non davamo allo Stato notizie su di loro.» C'era un ordine che glielo imponeva? «"Lo imponeva," già, ma nessuno poteva fornire prove contro di me. Potevo dire di non essermi resa conto di nulla. Che avevo pensato che fosse un malanno passeggero, che non la consideravo una malattia mentale. Non era poi così brutto. La cosa brutta era quando uno era convinto che la gente dovesse andare dalle autorità, e quindi contribuiva a far sì che ciò accadesse. Nicht?» Mentre Frau Dr. Kresch curava il suo esercito di civili tedeschi sul fronte interno, Herr Dr. Kresch curava i soldati tedeschi sui fronti di battaglia. In Russia, anch'egli venne a sapere della morte di innocenti. «La prima volta che mio marito tornò in licenza dalla Russia mi disse di aver visto cose orribili, e che non saremmo rimasti in Germania, se fosse tornato vivo dalla guerra.» Quello che aveva visto erano «fucilazioni. Vide dei russi che furono abbattuti dentro le loro tombe. Russi ed ebrei. Che vennero allineati e... che poi la Wehrmacht dovette marciare accanto a loro». Frau Dr. Kresch disse che erano state le SS a eseguire le fucilazioni. Ciò non gli aveva fatto desiderare di abbandonare il suo posto? «Nein. Credo che non l'avrebbe fatto, per senso di cameratismo verso gli altri. Era un medico della truppa ed era responsabile per molti. Anche se amava tantissimo i russi. Mi raccontava sempre di quanto fossero istruiti.» La guerra contro i russi reclamò la vita di colui che li ammirava. Herr Dr. Kresch morì di tifo. «Perché non aveva abbastanza vaccino per tutti. E non vaccinò se stesso.» Frau Dr. Kresch si interruppe. «Lui era...» si interruppe di nuovo, per un attimo, «meraviglioso.» Parlò più in fretta. «Mio figlio è come lui.» Le chiesi come avesse saputo quello che era successo. «Mi scrisse il cappellano. E uno dei suoi amici che tornò mi scrisse dall'ospedale da campo: morì come un santo. Quando arrivò il vaccino lui era già stato infettato, ma non lo sapeva, poiché il periodo d'incubazione è di quattordici giorni. Così lo inoculò a se stesso quando era già infettato. E fu una doppia infezione. Ja. E...» Frau Dr. Kresch si allontanò in tutta fretta, dicendo che doveva lavarsi le mani. Konrad Kresch morì nell'aprile del 1942. La sua vedova aveva trentatré anni. Quell'ottobre, diede alla luce il loro quinto figlio, un maschio. Più tardi, parlando dei suoi figli, mi disse che solo tre di loro, due maschi e una femmina, avevano raggiunto l'età adulta. «Uno dei miei figli morì di difterite quando aveva tre anni. Uunico bambino fra tutte le persone che curammo, l'unico di tutti i miei pazienti e dei bambini che morì di difterite fu il mio figlio piccolo. Quello che era nato dopo la morte di mio marito.» Frau Dr. Kresch non si risposò mai. «Non si può sapere cosa sarebbe stato meglio. Ma io avevo molte persone care che aiutarono me e i bambini.» Anche, forse, perché suo marito non era un uomo facile da sostituire? 285

«Anche questo. Nein nein, nein nein. E qui avevo il mio lavoro, che mi piaceva moltissimo. E, nicht?» Frau Dr. Kresch continuò a fare quel lavoro e a mettere il bastone fra le ruote ai nazisti. (La nascita del bambino orfano del padre, il suo quinto figlio, le valse la Croce di madre che ella restituì.) Non era sola nelle sue battaglie, tuttavia. Aveva parecchi «angeli custodi», come lei li definì. E i due più attivi erano nazisti. Uno, un certo Dr. Reinhart Gmelin, era l'uomo a cui aveva già accennato quando mi aveva detto che non gli avrebbe mai parlato delle uccisioni col gas. Era «il dottore che aveva la più alta carica in tutta quanta la nostra zona, una persona meravigliosa [che] possedeva il distintivo d'oro del Partito». L'onorificenza, consegnata di solito da Hitler in persona, spettava a chi era stato membro del Partito nazista fin dai primi tempi. Il dottor Gmelin si era iscritto nel 1923, mi disse Margret Kresch. «Era una brava persona, un idealista. Dopo tutto nel Partito c'erano anche molti idealisti.» Mi disse che Gmelin si era iscritto perché pensava che i nazisti avrebbero risolto il problema della disoccupazione. Divenne, mi disse, «il dottore più in vista del Partito». Se era una persona così meravigliosa, perché non si dimise quando il problema della disoccupazione fu «risolto»? «Poteva aiutare molta più gente restando nel Partito, nicht?» In effetti «protesse la mia vita durante la guerra». Egli sapeva «che i dottori di rango inferiore cercavano in tutti i modi di danneggiarmi. Mi portarono via la macchina. Per tutta la guerra viaggiai a cavallo per il mio lavoro». Capitò che il suo più irriducibile nemico fosse un ex compagno di classe del marito. «Stava con le SS, un certo conte von Ziegel. [È uno pseudonimo: più tardi Frau Dr. Kresch mi chiese di non rivelarne il nome.] Aveva un castello qui in zona. Si diceva perfino che avesse gettato suo fratello da una finestra per ottenere l'intera proprietà, ja. Ed era un dottore. Ed era un dottore delle SS. Ed era un dottore delle SS ad Auschwitz. Credo che fu ucciso dopo la guerra, prima di essere condotto a Norimberga. E controllava questa zona e in particolare cercava di tendermi degli agguati. Prestava una grande attenzione a quello che facevano le mie suore, a quello che facevo io, nicht? Ed era estremamente malvagio. Perciò mio marito temeva per me e scrisse al dottor Gmelin, a lui che aveva il distintivo d'oro del Partito, che il dottor von Ziegel mi stava creando un sacco di difficoltà, che non mi accordava la benzina e che mi aveva portato via la macchina. Ed era la stessa persona che aveva buttato le mie suore fuori dal loro convento e lo aveva requisito per farne un ospedale da campo o qualcosa del genere. Allora questo dottor Gmelin scrisse a mio marito una lettera molto gentile: "Caro Dr. Kresch, lei può mettersi completamente l'animo in pace". Lui mi conosceva, sapeva quanto duramente lavorassi, ed era assai felice che io avessi con me le suore, perché altrimenti non avrei potuto fare così tanto lavoro. E mio marito poteva rassicurarsi completamente poiché egli mi avrebbe protetto contro gli impedimenti

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del Partito e delle SS. Lo scrisse lui, il più importante medico del Partito! «Scrisse questa lettera in marzo o all'inizio dell'aprile del '42, e il quattro di aprile mio marito morì. Poi la lettera ritornò assieme a tutte le sue cose. Dopo la guerra spedii la lettera a Stoccarda per discolpare il Dr. Gmelin, per mostrare che cosa il Dr. Gmelin avesse fatto anche contro il Partito, nicht? Questo lo aiutò molto.» L'altro protettore nazista di Frau Dr. Kresch? Era l'Ortsgruppenleiter di Riedlingen, colui che le aveva chiesto di esporre i detti nazisti nella sala d'aspetto. Capitò che la sua famiglia conoscesse bene quella sala d'aspetto priva di slogan. «Aveva tre o quattro figli ed erano miei pazienti. Era un vantaggio in più. «Me lo diceva sempre quando la Gestapo tornava di nuovo a chiedergli di me. Me lo diceva sempre. Verso la fine della guerra mi disse che adesso dovevo starmene tranquilla, che lui non poteva fare più nulla, dato che quelli erano così prevenuti contro di me. Adesso dovevo farmi molto, molto piccola.» Ma quell'uomo la aiutò davvero? «Credo proprio di sì. Credo che fosse un onesto mediatore. E poi i medici erano di gran lunga troppo pochi. Avevano bisogno anche di me.» Perché le diceva che la Gestapo... «Per diversi motivi,» disse interrompendomi. «Primo, perché rifiutavo la Croce di madre. Secondo, perché non appendevo questi detti. Terzo, perché avevo le suore. Quarto, perché ero stata denunciata come guaritrice. E, di cos'altro dovevo rispondere?» Di ben altro, in realtà. Senza contare i sotterfugi ancora sconosciuti che usava per proteggere i malati di mente, Frau Dr. Kresch aveva avuto rapporti d'amicizia con alcuni membri della famiglia di Claus von Stauffenberg, l'ufficiale che tentò di assassinare Hitler. Il cugino di suo fratello, Franz Schenk von Stauffenberg, era un paziente regolare che lei visitava due volte al mese. Una nuora era sua amica. (Frau Dr. Kresch aggiunse che la donna, Camilla, era nipote del miliardario e filantropo americano Pierpoint Morgan. In realtà era una bisnipote di Morgan.) 5 «Quando ci fu l'attentato, Camilla mi chiamò e mi disse: "Margret, credo che ci arresteranno tutti. Potrei lasciare la bicicletta da te?" Poi mi disse: "Stai attenta, c'è stato uno scatto nel telefono". Significa che ci stavano ascoltando, nicht?» Frau Dr. Kresch mi disse che non la disturbava più di tanto il fatto di essere spiata. «Non potevano fare niente. Non eravamo dei cospiratori.» Dopo il fallimento dell'attentato i suoi amici erano «molto giù». Avevano tutti sperato «che ci saremmo liberati grazie alle nostre stesse forze, non perché ci conquistavano i russi o gli inglesi. Ma perché avevamo fatto qualcosa noi stessi». Mentre si avvicinava il crepuscolo e il nome di Stauffenberg aleggiava ancora nell'aria, chiesi a Frau Dr. Kresch notizie sul suo ambiente d'origine. Mi rispose che la sua era una famiglia «molto semplice». Suo padre era calzolaio, il maggiore dei quattordici figli di una coppia di tessitori di lino. 287

Aveva una bottega a Celle, nel nord della Germania, e fabbricava anche scarpe ortopediche e stivali da equitazione; era il presidente del consorzio regionale dei ciabattini, e il «Re dei tiratori» del locale club del fucile. Era un uomo arguto con la barba rossa, e sua figlia ne parlava con affetto. Sua madre era una degli otto figli di una coppia di contadini. (L'ambiente d'origine di Konrad Kresch era simile al suo, mi disse. La sua era stata una famiglia di contadini e di birrai.) «Venivamo dal popolo.» I Links ebbero sei figli. Margret, la maggiore, nacque nel 1908. Fu la prima persona della famiglia ad andare all'università. Per una ragazza che veniva da un tale ambiente, frequentare non soltanto l'università ma addirittura i corsi di medicina era un fatto straordinario. Volendo sapere quale fosse stata l'influenza esercitata su di lei dai genitori, le domandai che genere di idee politiche avessero. «Ah ah!» mi rispose. «Mio padre era nazista.» Non era ancora passato un secondo, che si corresse: «Ovvero, non un nazista, ma stava con le SA». Le camicie brune delle SA erano, in ogni caso, nazisti. Disse di non aver mai visto suo padre in divisa tranne che in una fotografia e di non sapere quando si era iscritto né che cosa aveva fatto. «Le SA erano più simili a un club ricreativo, nicht? Qualcosa come un club del fucile, nicht? A casa a Celle.» Aggiunse di non aver mai sentito suo padre pronunciare parole antisemite, e che anzi aiutò i figli dei calzolai ebrei. Mi disse anche che durante il Terzo Reich lei e suo padre non discussero delle reciproche opinioni politiche, perché lui sarebbe rimasto sconvolto dalle sue. A casa non si parlava «mai» della politica in sé (e Margret se ne andò di casa nel 1928), così che non conosceva le opinioni di sua madre. «Era una donna cattolica e molto convenzionale. Sempre un po' al di sopra della sua posizione nella società per quanto riguarda l'educazione dei suoi figli.» Attribuiva proprio a sua madre il merito del suo stesso interesse per la medicina, che «richiede sensibilità soprannaturale e intuito», qualità che, secondo lei, sua madre possedeva. (Aggiunse che anche coloro che praticano le medicine alternative in Oriente posseggono queste qualità e che sua madre doveva aver avuto «un po' di sangue orientale», dato che lei stessa aveva un nipote che sembrava cinese.) Per quello che riguarda la sua educazione, «sono sempre stata molto individualista. Tutti i miei fratelli e le mie sorelle lo sono. Ognuno di loro è una persona fatta a modo suo». Lei e i suoi fratelli avevano più o meno la stessa opinione del Terzo Reich? «Credo di no,» rispose, col tono di chi ritiene chiuso l'argomento. Mi disse che, quanto a lei, non le era mai piaciuto nulla del Terzo Reich. «Fin dall'inizio ero proprio furibonda nei riguardi di Hitler personalmente. Nei riguardi di questa primitività. E sono sicura di aver previsto tutto quello che stava per succedere, nicht? Ja. Assolutamente sicura. Dal profondo dell'anima.» E continuò: «Non fui mai d'accordo con nulla. Non feci mai una concessione. Ciò è sicuramente notevole. Non feci mai la più piccola concessione». Fin dall'inizio lei e Konrad Kresch furono «assolutamente» della stessa

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opinione politica antinazista. «Ogni volta che c'era un corteo mio marito e io andavamo in montagna. Ci dava moltissimo sui nervi.» Per la strada aveva la sensazione, in qualunque città, di far parte di una minoranza? «Ja, ja. Assolutamente. Bisognava essere molto prudenti; per esempio quando mio marito e io non sollevavamo il braccio durante i cortei, o non salutavamo nel modo corretto [dicendo "Heil Hitler! "].» Mi disse che allo «Heil Hitler!» di qualcuno rispondeva col saluto bavarese «Grùss Gott!». Rise a quel ricordo. Le organizzazioni naziste per le ragazze attrassero molte ammiratrici, ma non lei. «Per me era grottesco. Ach, queste dame con le ghirlande nei capelli.» E riguardo alla Frauenschaft? «Oh, nein, orribile.» L'interesse che soffocava tutto il resto, al di fuori della famiglia, per lei era stato e rimaneva la medicina. Per diventare medico si fece strada «letteralmente a pugni». Se per sua madre la medicina era una cosa dell'altro mondo, per suo padre era una cosa fuori dal mondo. Si oppose ai suoi studi perché non poteva pagarli. Prima del 1930, «aveva perso quasi tutto nella depressione». E siccome Margret non era andata bene agli esami finali del liceo, non ottenne alcuna borsa di studio. Così, mentre si preparava all'esame governativo per l'ammissione alla facoltà di medicina, andò a lavorare, dando lezioni d'inglese, facendo la bibliotecaria, guadagnando soldi ovunque potè. Poi, non solo passò l'esame, ma fu l'unica a ottenere un «uno», il voto più alto. La sua impresa fu considerata così esemplare che ella ottenne immediatamente una borsa di studio. La reazione dei suoi genitori? Mi disse che non ne furono impressionati. Era una cosa scontata che lei andasse bene: doveva andare bene. In sei anni di studio presso varie università, Margret ricevette deroghe sul pagamento delle tasse scolastiche ovunque andò, oltre al piccolo stipendio dalla zia cattolica «troppo devota». Molto tempo dopo la zia le avrebbe dato anche una memorabile lezione d'audacia. Nel 1942 un Gauleiter [governatore federale nazista] tenne un discorso davanti a un'assemblea di circa tremila insegnanti cattolici, fra cui la zia, che insegnava lingue. «Il Gauleiter parlò contro i sacramenti e contro i preti e così via. Lei si alzò e disse: "Io questo non lo tollero". Nicht? L'unica fra tremila insegnanti! Coraggiosa, già. «Fu immediatamente licenziata dalla sua scuola. Immediatamente. Poi dovette andare a Berlino, da Lammers, il ministro della cultura.» (Hans Lammers non era ministro della cultura, ma capo della cancelleria del Reich e stretto consigliere legale di Hitler.)6 «Lei gli riferì ciò che aveva detto il Gauleiter, e [Lammers] disse che non era giusto. E che lei avrebbe dovuto tentare di farsi reintegrare. Mia zia rispose: "Questo non lo farò". Perché se la prossima volta si fosse alzata, le sarebbe accaduto qualcosa di molto peggio.» La zia si mise a riposo in anticipo, con solo metà della pensione. Un altro rischio che Frau Dr. Kresch corse durante il Terzo Reich fu quello di esprimere le proprie idee, per lo più in privato. Alcune conversa289

zioni le teneva con i suoi pazienti, soprattutto con i vecchi contadini che andavano da lei in cerca di un rimedio per i reumatismi. Disse che molti di loro appoggiavano Hitler perché Hitler blandiva gli agricoltori, ma «c'erano anche quelli che non erano per lui. Per cui Hitler veniva subito dopo il diavolo». Tutti i contadini con cui si confidò si dimostrarono degni di fiducia, mi disse. Un collega medico non si dimostrò tale. Era un chirurgo a cui Frau Dr. Kresch mandava dei pazienti e per il quale a volte faceva degli esami radiologici. Era il «direttore sanitario dell'ospedale [e anche] un alto ufficiale medico. Era anche un nazista». Mi disse che «chiunque» lo sapeva. «Ma mi fidavo ancora di lui. Avevo fiducia nell'uomo, nicht? Pensavo: "Abbiamo sempre lavorato insieme". Ce n'erano molto pochi di noi dottori. «All'inizio del 1945, uscivamo insieme dall'ospedale e io dissi: "Le cose vanno così male: se solo potessi uccidere Hitler. La guerra deve finire. E noi la perderemo". Poi, lungo la strada, lui mi disse: "Potrei farti mettere in un campo di concentramento ora per quello che hai detto". Questo era brutto. Venendo da qualcuno che pensavo mi avrebbe appoggiato. Da allora in poi lo odiai. Provavo disprezzo per lui. Pensavo: "Sei un maiale", nicht?» Ma lei che cosa gli disse? «Penso di avergli detto: "Potresti farlo, ma non lo farai". Qualcosa del genere. Non potevo... Dissi davvero quelle cose, nicht? Molti esseri umani trovarono la morte per simili accuse. Anche molto meno gravi.» Una settimana dell'estate del 1943 Frau Dr. Kresch, allora una vedova con cinque figli piccoli, si prese quella che lei definì «una licenza», la sua prima vacanza in molto tempo. Alle sue spalle c'erano già alcune prove di prudenza e di coraggio, altre erano anni davanti a lei, e una, quella che mi aveva condotto a Riedlingen, era a pochi giorni di distanza. Andò da sola in un luogo tranquillo e isolato fra le montagne, nell'estremo sud della Germania. «Era un rifugio che apparteneva al Club alpino tedesco, dove mangiavano le guide del Club alpino e dove passavano la notte le persone che facevano escursioni in montagna. Era un edificio molto grazioso. La Casa Kölner. Stava sopra i duemila metri e confinava direttamente con la Svizzera.» Fra gli ospiti c'era una giovane che, come Frau Dr. Kresch, era stata attratta dalla posizione del rifugio, ma per altre ragioni che non il paesaggio. Sperava di fuggire in Svizzera. Si chiamava Hildegard Dannenbaum, veniva da Berlino, ed era ebrea. I suoi documenti non riportavano il suo vero nome né vi era stampigliata la / di ]ude. Era identificata come Eva Puppel, infermiera, nata in Germania da madre argentina e padre tedesco, e, seppure per difetto, «ariana». Doveva essere una finzione dolorosa: la sua era da secoli una famiglia di ebrei tedeschi. Frau Dr. Kresch riassunse: «I suoi genitori e i suoi due fratelli vennero gassati, uccisi, dai nazisti. Non è orribile? Una famiglia che si era stabilita in Vestfalia da trecento anni e che, capisce, si sentiva più tedesca di moltissimi tedeschi». 290

Mi disse che l'unica sorella di Hildegard aveva trovato il modo di raggiungere l'Inghilterra, ma i suoi genitori non avevano cercato di emigrare fino al 1939. Tentarono poi di andare in Canada, dove c'erano dei parenti che avevano la cittadinanza, ma il governo canadese, disse Frau Dr. Kresch, non voleva altri ebrei. «In ogni caso i Dannenbaum non riuscirono a ottenere i visti per l'immigrazione.» Non solo Margret Kresch e Hildegard Dannenbaum si erano recate alla Casa Kölner nella stessa settimana; finirono per dividere la stessa stanza. Ognuna di loro aveva prenotato una camera privata, ognuna avendo i suoi buoni motivi per tener cara la propria riservatezza. Subito dopo l'arrivo, tuttavia, seppero che avrebbero avuto una compagna di stanza. «Ma io non sapevo chi fosse Hilde. [Una] sera verso le undici o le dodici una ragazza giovane entrò [nella stanza] per dormire nel secondo letto. Pensai: "Strano, una ragazza tanto giovane che arriva così tardi la notte. Che cosa farà?"» Frau Dr. Kresch calcolò che la sua compagna di stanza avesse quindici o sedici anni. No, mi disse Hildegard Dannenbaum Lawrence, ne aveva circa venti. A New York, nell'estate del 1986, mi parlò di quell'incontro. Sapevo poco di lei e della sua storia, non essendo ancora stata a Riedlingen. Sapevo, però, che il nostro appuntamento a pranzo era programmato in modo da precedere una seduta di chemioterapia a Manhattan. Suo marito la stava accompagnando in macchina in città dalla loro casa vicino alla costa del New Jersey. Attendevo i Lawrence fuori da un ristorante del Greenwich Village, ma non mi accorsi del loro arrivo. Poi, una donna dall'aspetto molto più giovanile di quanto mi aspettassi mi salutò con un sorriso e si presentò. A dispetto delle due enormi sciagure che avevano segnato la sua vita, era incantevole: aveva dei begli occhi e una bella pelle. Indossava abiti semplici, compreso un berretto lavorato a maglia che non si tolse mai. Appariva debole, ma era ancora affascinante. Al termine del pranzo Mr. Lawrence ci lasciò con discrezione per fare due passi, e Hildegard Dannenbaum Lawrence mi raccontò la sua versione di ciò che era successo dentro la Casa Kölner e nei suoi paraggi. Ci eravamo accordate per una conversazione informale, senza registratore. Più tardi, in una lettera e in un lungo colloquio telefonico, ella corresse i ricordi talora errati sia miei sia di Frau Dr. Kresch. Hildegard Dannenbaum aveva vissuto in clandestinità a Berlino, nel quartiere alla moda di Grunewald, in «una casa molto bella» che apparteneva alla coppia separata di un matrimonio misto. Un'amica di famiglia dei Dannenbaum, Tante Puppie, come Hildegard la chiamava, aveva arrangiato le cose. Tante Puppie [zia Bambolina] non poteva nasconderla nella propria abitazione, ma era un'amica di gioventù della moglie cristiana della coppia, dai tempi in cui giocavano insieme a tennis. Il marito ebreo, un medico, viveva nel suo ufficio nel centro di Berlino, ma ogni giorno tornava a casa per il pranzo, il che lo aiutava a dimostrare ai nazisti di essere ancora sposato a una «ariana». Era tutto ciò che gli restava per sottrarsi alla

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deportazione. Ignorava che Hildegard fosse ebrea e che si stesse nascondendo. Pensava che fosse cristiana e che facesse la domestica. «Pulivo la casa e ricevevo un sacco di offese verbali,» mi scrisse. «Ero alla mercé di quella donna. Mi fece capire che veniva da una famiglia aristocratica caduta in povertà.»7 Per mantenersi, la padrona di casa affittava delle stanze, e Tante Puppie la pagava «generosamente» in contanti e in tessere annonarie per proteggere Hildegard. Ma Tante Puppie stava anche dietro al tentativo di fare entrare Hildegard in Svizzera. «Avevo falsi documenti d'identità che mi erano stati dati da un'amica di Tante Puppie, una donna di nome Isabella Puppel,» mi scrisse. La donna era nata in Argentina, ma sua figlia Eva era nata in Germania. «Mi diede la patente di guida di sua figlia, che specificava che era infermiera e tedesca. In Germania la patente richiedeva una foto, e qualcuno ci mise una mia istantanea con un timbro ufficiale. La madre di Eva Puppel mi diede il permesso di usare i documenti non appena sua figlia fosse stata "über die Grenze" [oltre il confine] con le sue due bambine. Isabella Puppel era stata sposata a un nazista tedesco che doveva essere ricco. Era stata molto infelice a causa delle opinioni politiche del marito e aveva divorziato da lui. In qualche modo riuscì a lasciare la Germania attraverso la Svizzera, poi la Spagna, per il Sud America all'inizio del 1943.» Quando i Puppel furono oltre il confine, Hildegard si mise in moto per andarsene a sua volta. Doveva prendere un treno per la Casa Kölner, scelta per la posizione conveniente, dove come copertura aveva prenotato un soggiorno di una settimana. In realtà progettava di rimanerci solo per poco tempo. Una certa sera doveva incontrarsi con un certo bovaro che doveva guidarla al di là del confine in Svizzera. L'attuazione del piano, nel racconto che me ne fece Frau Dr. Kresch, cominciò in modo terrorizzante già sul treno. «Hildegard mi disse che durante il viaggio da Berlino alla Casa Kölner alcune SS le fecero continuamente delle proposte. Lei... lei era assolutamente bella. È ancora bella, ma da ragazza era straordinariamente bella, nicht? Straordinariamente bella e straordinariamente amabile. Era una sorta di amabilità che si irradiava da dentro.» Senza dubbio essa celava del terrore. «La gente le faceva dei complimenti e anche delle offerte molto volgari. Brutto. E poi questa paura di venir scoperta, che era molto peggiore della mia.» La paura si era probabilmente intensificata dopo che Hildegard aveva saputo, o meglio non aveva saputo, dove fossero i suoi genitori. «Seppe che i suoi erano stati arrestati. E io, io lo trovo così ridicolo: tutta questa gente che oggi dice che non sapeva nulla. Non è davvero credibile.» La sua supposta origine argentino-tedesca le si adattava, mi disse Frau Dr. Kresch. «Sembrava proprio che Hildegard venisse da un paese del sud.» Ma più evidente di tutto il resto era «la sua grande amabilità [Liebenswürdigkeit]. Aveva un fascino speciale, anche da ragazza, nicht? Lo ha ancora».8 Hildegard Dannenbaum raggiunse la Casa Kölner senza che la sua identità venisse scoperta. La prospettiva di dover dividere la stanza con qual292

cuno le causò paura piuttosto che fastidio, poiché aveva motivo di temere gli sconosciuti. Tuttavia non intendeva fermarsi a lungo. A pochi passi dal rifugio c'era il confine. Attraversarlo, però, non era facile. Un problema, mi disse, era quello di sapere quando lo avevi attraversato, e quale confine fosse. In quella zona, chiamata Drei-eck [Tre angoli], si incontravano le frontiere della Germania, della Svizzera e dell'Austria. Un altro problema era quello di evitare le guardie svizzere di confine, che spesso rispedivano in Germania i profughi disperati. Nel giorno stabilito Hildegard Dannenbaum lasciò la Casa Kölner in cerca dell'uomo che doveva farle da guida. Lo trovò dopo una lunga camminata, ma egli le disse che non poteva aiutarla, dopo tutto. Non poteva lasciare le sue mucche per tutto quel tempo. Scossa, e consapevole di non poter trovare da sola la strada per il confine, Hildegard intraprese il lungo cammino per ritornare al rifugio. Quando finalmente lo raggiunse, a tarda notte, tutte le luci erano accese a causa della sua scomparsa. Si scusò in ogni modo e andò nella sua camera. Lei e la sua nuova compagna di stanza si erano già parlate, ma soltanto un poco. Quella notte, mi raccontò Hildegard Lawrence, Margret Kresch le chiese che cosa facesse. Rispose che era un'infermiera. «Allora abbiamo molto di cui parlare,» replicò Frau Dr. Kresch, essendo un medico. Hildegard, che di medicina non sapeva nulla, le disse di essere esausta e di non sentirsela proprio di parlare, ma quella Frau Dr. Kresch replicò: «Sciocchezze! Non si è mai troppo stanchi per parlare di medicina». Hildegard Lawrence mi disse che fu presa dal panico, ma riuscì comunque a essere evasiva. Quella conversazione la turbò a tal punto, mi disse, che voleva tornare a Berlino prima che la sua copertura saltasse. Ma siccome si supponeva che rimanesse per una settimana, pensò di dover restare piuttosto che far sorgere dei sospetti partendo in anticipo. Frau Dr. Kresch mi disse che non aveva alcun ricordo di quella conversazione, ma le suonava plausibile. «Può darsi, può darsi,» disse. Il giorno seguente accadde qualcosa che entrambe le donne ricordavano con chiarezza, anche se in modo un po' diverso. La versione di Frau Dr. Kresch: «Sedevamo insieme in sala da pranzo. C'era anche questa ragazza. E queste guide alpine facevano dei discorsi orribili, sugli ebrei, che bisognava impiccarli e così via, nicht? E io diventai così furiosa e, eh, mi alzai e dissi che a questo tavolo non l'avrei tollerato, che era inaudito che parlassero a quel modo e... Ja, allora non dissero più niente, le guide alpine. Non avevano detto altro che cose brutte sugli ebrei, che Hitler aveva ragione a sterminarli eccetera...» Dissero proprio «sterminarli»? «Ja, era già il '43; oppure mandarli via, nicht? E io ne fui davvero molto sconvolta.» Nel ricordo scritto di Hildegard Lawrence, al tavolo c'erano delle donne più anziane, non delle guide alpine. «Parlavano della "Kristall Nacht" [«c] e degli ebrei che venivano trascinati per le strade e picchiati, e che se lo meritavano proprio.» Mentre quelle parlavano lei si sentiva diventare 293

sempre più pallida. E ricordava Frau Dr. Kresch dire che nonostante lei stessa non avesse alcun amico ebreo - un'affermazione fatta per difendersi, secondo Hildegard Lawrence - aveva conosciuto molti medici ebrei meravigliosi, e che gli ebrei erano certamente degli esseri umani. Soprattutto ricordava che Frau Dr. Kresch era stata la sola persona ad alzare la voce. «Non c'era alcuna umanità nei cuori di quella gente, a parte Frau Dr. Kresch,» mi scrisse. Prima di quella sera Hildegard Dannenbaum aveva trascorso un decennio guardata come un essere subumano nella Germania nazista, sapeva che i suoi genitori e i suoi fratelli erano stati catturati dai nazisti, aveva appreso di essere intrappolata in Germania e aveva appena dovuto sopportare l'antisemitismo dei suoi compagni di tavolo. Avrebbe voluto morire. Non appena la cena fu terminata, tornò nella sua stanza e si gettò sul letto. Frau Fr. Kresch, rientrando in camera, le chiese se stesse soffrendo di «Liebeskummer» [pene d'amore]. Hildegard Dannenbaum rispose che no, non stava soffrendo di mal d'amore. Ma dato che Frau Kresch era un medico, poteva darle qualcosa per porre fine alla sua vita, per favore? Mi disse che Frau Dr. Kresch rispose che non le avrebbe dato qualcosa per porre fine alla sua vita, ma avrebbe provato ad aiutarla a vivere. Che ne pensa? chiesi a Frau Dr. Kresch. «Può darsi, può darsi.» Ecco come lei ricordava l'incontro nella stanza. «Quella sera la ragazza mi parlò. Mi disse che aveva sentito ciò che io avevo detto e che si fidava di me. Che era un'ebrea. E stava tentando di attraversare il confine. E per questo motivo era tornata così tardi la notte. E che non poteva dirlo a una sola persona. In quei giorni i militari pattugliavano il confine con i loro grossi cani, pastori tedeschi. Era del tutto impossibile. Alcuni ufficiali francesi e inglesi erano appena scappati da un campo e avevano attraversato il confine, e questo è il motivo per cui era sorvegliato così strettamente. Non funzionava. Così Hildegard non poteva oltrepassare il confine. E allora io le dissi: "Ach, andrò dal prete". «Andai dal prete cattolico. Ma all'epoca era tutto così difficile: il prete non sapeva se lo stessi mettendo alla prova o no, nicht? In ogni caso gli dissi che avevo cinque suore in casa e nello studio, così che si fidasse di me. Ma. Era molto difficile, nicht?» Pensava che lui stesso fosse del tutto d'accordo con Hitler? «Nessuno poteva escluderlo. Ce n'erano alcuni che erano d'accordo con Hitler, che erano contro gli ebrei a causa della religione. Ma questo non potevo saperlo.» In breve, il prete si rifiutò di aiutarla. Le diede però un suggerimento. «Mi mandò da due guide alpine, dicendo che forse una guida alpina ci avrebbe aiutato, se gli avessimo dato sufficiente denaro. E io ci andai. Ma quell'uomo... Fui davvero fortunata a cavarmela. "Se lei continua a parlare," mi disse immediatamente, "potrei denunciarla. E lei verrebbe messa in un campo di concentramento". Perché avevo voluto provare a chiedergli di accompagnare qualcuno oltre il confine.» La guida, mi disse, era austriaca,

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dato che il percorso in questione apparteneva al territorio austriaco. «Doveva portare Hildegard dall'Austria alla Svizzera. Era un passo. Un passo. Li pregai di accompagnare qualcuno oltre il confine. Ma non feci il nome di Hildegard, né dissi che si trattava di un'ebrea. Tutto ciò che dissi fu che si trattava di qualcuno che ne aveva bisogno, nicht?» Dove, dunque, poteva andare Hildegard Dannenbaum? A Riedlingen? «Hildegard? Da noi? Sarebbe stato assolutamente impossibile! Non c'era nemmeno da chiederselo. L'avrei nascosta volentieri, ma...» Frau Dr. Kresch s'interruppe. «All'epoca, nel 1943, in un rifugio tanto piccolo, sarebbe stata una cosa di una difficoltà folle. Avevo cinque bambini piccoli. Ero sola. E avevo contro la città intera. Veniva in continuazione della gente a interrogarmi.» E aggiunse: «Hildegard sarebbe stata molto meno al sicuro qui che a Berlino, nicht?» Hildegard Dannenbaum Lawrence mi disse che sentiva di non avere altra scelta. Doveva tornare a Berlino e continuare a vivere in clandestinità, ma ora l'avrebbe fatto dando importanza alla vita, così come insisteva Frau Dr. Kresch. Ricordava le sue parole: «Se ti arrendi, questo è proprio ciò che loro vogliono. Dunque non puoi arrenderti». Hildegard Lawrence, concludendo il suo racconto mentre suo marito tornava al tavolo, mi disse che Margret Kresch le diede un'enorme quantità di coraggio per sopravvivere. Con quel coraggio, tornò a Berlino. A un certo p u n t o la casa a Grunewald fu bombardata. Allora, per alcuni mesi, «vissi da sola nel seminterrato con alcune delle pareti che erano esposte all'aperto». In seguito, «un ben noto medico» e la sua compagna la nascosero nella loro casa nel quartiere berlinese di Lichterfelde. «Dopo che un bombardamento ci buttò fuori anche da lì, lui e la sua compagna si trasferirono in un bungalow estivo di una sola stanza. Dormii su un tappeto arrotolato sotto il tetto.» Disse che era un'intercapedine che raggiungeva arrampicandosi su una scala. Durante una conversazione telefonica ricapitolò con tono sommesso gli anni in cui visse nascosta: «Ho attraversato l'inferno». Frau Dr. Kresch continuò il suo racconto: «In seguito non avemmo più alcuna notizia una dell'altra. Hildegard tornò indietro. Le spedivo sempre del pane eccetera, ma senza l'indirizzo del mittente. Voglio dire, spedivo a Berlino tutto ciò di cui potevamo fare a meno e non sapevo nemmeno se lei ricevesse qualcosa. Dopo tutto, non potevi domandare. Lei non poteva ringraziarmi e io non potevo scriverle. Lei era... Lei proprio non esisteva, nicht?» Frau Dr. Kresch mi disse di aver spedito i pacchi a Berlino, a un intermediario di cui Hildegard le aveva dato l'indirizzo. Quando le accennai questo fatto, Hildegard Lawrence mi disse di non aver mai ricevuto alcun pacco, cosa di cui feci cenno, con una certa titubanza, in una lettera a Frau Dr. Kresch, che mi rispose di essere molto dispiaciuta per il fatto che i pacchi non fossero arrivati, dato che aveva regolarmente spedito articoli quali il pane, che era anche caro, e scarpe usate ma buone. Fu quello che riferii a Mrs. Lawrence. Si scoprì che non si era mai incontrata con l'intermediario, che peraltro aveva lasciato il paese, e che non era mai andata a

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quell'indirizzo. Tante Puppie glielo aveva dato solo nell'eventualità che la Gestapo l'avesse arrestata e avesse preteso di sapere dove abitava, cosicché non mettesse in pericolo nessun altro. (Hildegard diede l'indirizzo a Frau Dr. Kresch perché era il solo che aveva.) Siccome fino al 1992 Frau Dr. Kresch ignorava che Hildegard Lawrence non aveva mai ricevuto i pacchi, fino ad allora Hildegard Lawrence ignorava che Frau Dr. Kresch glieli aveva spediti. Ma, rivolgendosi a lei in modo formale, le scrisse per ringraziarla «anche se non ne fui mai la destinataria». Frau Dr. Kresch aveva dato a Hildegard il nome della famiglia di un dottore. «Passai da loro,» scrisse lei. «Mi diedero del cibo da portare a casa, ma erano così spaventati per il fatto che fossi lì che non ci tornai più.» Disse che molta gente si comportava nello stesso modo. Il coraggio trasmessole alla Casa Kölner doveva durare per altri due anni di regime nazista. Per tutto quel tempo Frau Dr. Kresch non ebbe la più pallida idea se la donna che aveva incoraggiato a vivere ci fosse almeno riuscita, pacchi o non pacchi. «Ma, il primo pacco che ricevemmo noi come famiglia dopo la guerra,» [«un pacco con del caffè e le cose più meravigliose,» aggiunse. E che sembrava un ringraziamento per quelli che lei aveva spedito a Berlino] «veniva da Hildegard, da New York. E allora seppi che ce l'aveva fatta.»

NOTE 1 Frau Dr. Kresch afferma di impersonare Ulma in Besuch auf Godenholm (Visita a Godenholm), scritta nel 1952. E' una novella allegorica dalla fitta trama che racconta il viaggio spirituale di due uomini che nel dopo guerra cercano di armonizzare le contraddizioni della vita. Ulma è un personaggio minore ma fondamentale, la cui naturalezza fisica, non autocosciente, è così pura che ella innalza la propria fisicità a un livello spirituale, nella tradizione delle eroine tedesche. Cfr. Ernst Jünger, Werke, Vol. 9, «Erzälhende Schriften I», Stoccarda, Ernst Klett Verlag, senza data, pp. 311 369. Devo ringraziare Rita Kuhn che con la sua istruzione classica mi ha fornito chiarimenti in proposito. 2

Cfr. Gordon A. Craig, Germany 1866 -1945, pp. 492-493; trad. it. pp. 330-533. Ringrazio qui Agnes Peterson. Altre notizie si possono trovare in Ernst Klee, Euthanasie im NS Staat (Eutanasia nello Stato nazionalsocialista), Francoforte, S. Fischer, 1983. 4 II trattamento con lo shock insulinico era allora relativamente nuovo, ma comune per l'epoca. Venne poi sostituito dall'elettroshock, che è considerato meno dannoso per il corpo e permette al medico un maggior controllo. (Nell'Europa orientale, tuttavia, lo shock insulinico fu utilizzato molto più a lungo, dato che spesso non era possibile controllare l'elettricità.) ' Cfr. Gerd Wunder, Die Schenken von Stauffenberg, Stoccarda, Müller-Gräff, 1972, p. 486. Devo di nuovo dei ringraziamenti a Linda Wheeler. ' Lammers era considerato «un burocrate privo di fantasia». Dr. Louis L. Snyder, Encyclopedia ofthe Third Reich, New York, Paragon House, 1989, p. 204. ' Lettera dell'aprile 1992. 8 1 Lawrence fecero visita a Frau Dr. Kresch negli anni Ottanta. Furono felicissimi di vederla, mi dissero, ma rimasero terrorizzati davanti all'arretratezza della regione e stupiti che lei fosse rimasta. 3

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LA VITA COME UN CABARET (Frau Christine [Tini] Schneider)

Può darsi che Frau Tini Schneider mi abbia detto tutto. Certamente sembrava che ne avesse l'intenzione. Perfino al telefono mi chiese di andarla a trovare il più presto possibile, dato che rifletteva sempre più sul Terzo Reich e che c'era tantissimo di cui parlare. Uno spiritello turbinante di donna aprì la porta dell'appartamento, mancò poco che mi trascinasse dentro, propose quasi immediatamente che ci dessimo il du (benché sia una vecchia amica di un amico, l'etichetta non l'avrebbe consentito), mi prese per mano, mi condusse a visitare ogni piccolo, elaborato locale del suo appartamento, compresa una cucina alla cui parete erano appese un paio di mammelle di ceramica rossa, mi mise seduta a bere il caffè, si accese una sigaretta, fornì dettagli terrificanti e intimi sul comportamento di quel furfante del suo defunto marito, di cui ancora piange la morte, e proseguì parlando delle vicende private di altre persone, fra cui un uomo che durante il Terzo Reich aveva accettato come proprio il figlio di una relazione adulterina di sua moglie pur sapendo che il padre era un ebreo che aveva abbandonato la Germania. Fra una cosa e l'altra Tini (accettò di essere chiamata Frau Schneider per non più di un minuto) parlò in particolare delle sue esperienze personali nel Terzo Reich. Cioè, non proprio in particolare: non si curava affatto delle date, per esempio 1933 o 1945. Il trionfante sottinteso era che la sua vita era stata estranea al Terzo Reich tanto quanto il Terzo Reich aveva pesato sulla sua vita. Era chiaro che si curava poco anche dei nomi e dei luoghi. Guazzabugli di citazioni, tutte fatte con voci differenti (nessun «lui disse, lei disse» per Tini) spaziavano in flussi di coscienza da un decennio all'altro, da un dialetto all'altro. Benché viva a Stoccarda, Tini è nativa di Colonia (il nostro comune amico mi disse di considerarla l'epitome del «temperamento renano») e gradisce il dialetto di sua madre, ma non ne disdegna altri che imitava con gusto. Aveva anche una passione evidente per le frasi colorite e arcane, e parlava più in fretta di quanto si immagini che una lingua possa muoversi. E, in aggiunta a certe mie preoccupazioni d'acustica, non solo non parlava in modo preciso, ma non è nemmeno preciso dire che parlasse. Piuttosto, inscenò per due giorni uno spettacolo fatto di frenetici, concitati, anacronistici voli narrativi costellati di incongruenze e pantomime. Raramente Tini rimaneva seduta e ferma, o anche soltanto seduta. Camminava, marciava, recitava; cantando, gridando, indignandosi, gesticolando e, soprattutto, sussurrando. Da tutto ciò che mi disse, o parve dirmi, sembrava che per Tini Schneider il Terzo Reich non fosse stato pubblico e scandito a voce alta, ma per lo più privato e silenzioso... e che fosse rimasto tale. Aguzzai le orecchie, ampli 297

ficai il microfono, tentai di seguirla, tentai anche di affidarmi ai suoi movimenti per ricavare il succo dei discorsi, eppure una parte di ciò che Tini mi disse semplicemente svanì.1 Di tanto in tanto, quando l'alternativa era quella di impazzire per la confusione, la interrompevo. Ma, come ogni attrice compresa dal suo ruolo, al centro della scena nel teatro del suo salotto, Tini Schneider non accoglieva bene le distrazioni. Poche volte accadde che ogni sua parola echeggiasse chiara, e quasi sempre quando imitava un nazista. (Devo ammettere che in seguito fui contenta che ne avesse conosciuto qualcuno.) Ma nonostante la gran parte della sua testimonianza fosse molto vicina a un oscuro, ingarbugliato intrico di suoni, non c'era alcun dubbio che la fatica di recuperarli e di metterli in un certo ordine doveva essere fatta. Allora gli esempi di Tini Schneider degli oltraggi umilianti e degli episodi di non comune bontà nel Terzo Reich parlano da soli. Guastandomi il desiderio di cominciare dall'inizio, la cosa che Tini Schneider non menzionò mai fu la sua nascita. (Tuttavia seppi dal nostro comune amico che era nata nel 1915.) Quello che mi disse fu che tre settimane dopo suo padre morì. Fu ucciso in Francia, al fronte. Gli sopravvissero la moglie, una figlia di tre anni e la piccola Tini. Uomo d'affari indipendente, egli lasciò alla sua vedova pochissimo denaro e un grosso desiderio: che le sue figlie fossero «padrone, non serve». Sua moglie prese a cuore quel desiderio. Consapevole di potere a malapena mantenere le bambine con la miseria che riceveva come vedova di guerra, decise di aprire un negozio di tessuti. I fratelli del suo defunto marito, anch'essi uomini d'affari orgogliosi della propria indipendenza, diedero le loro firme per garanzia aggiuntiva. La madre di Tini lavorava tutto il giorno nel negozietto e in più imparava il mestiere di sarta. La sera confezionava degli abiti che poi vendeva, così da avere una fonte di reddito supplementare. Dopo circa cinque anni gli affari andavano bene abbastanza da permetterle di non dover più passare le serate a cucire, ma di assumere tre lavoranti. Potè perfino concedersi il lusso di mandare le bambine a frequentare una scuola privata cattolica. Negli anni Venti la famiglia prese in affitto il terzo piano di una casa che apparteneva a un'anziana coppia di ebrei, i Menkel. Gli stessi Menkel abitavano al secondo piano e gestivano la loro attività - una bottega di macelleria con annesso ufficio sul retro - al piano terreno. La loro unica figlia era sposata e viveva altrove. Che la famiglia dei Menkel e la sua fossero intime, Tini non lo disse mai. I suoi racconti sì. Una sera, mentre era a cena dai Menkel, sua madre accennò a quanto le mancassero le serate che era solita passare ai concerti e a teatro con suo marito. Tini, che avrebbe dovuto avere più o meno sei anni, o era presente ed è dotata di una memoria stupefacente, o ha ascoltato da sua madre il racconto particolareggiato dell'episodio, o ha usato la sua immaginazione. Ricreando il dialogo fra i Menkel e sua madre, Tini usò il pronome formale. «Allora Herr Menkel disse: "Ach no, lei non è obbligata [a stare a casa] ". "Ja," disse lei, "cosa posso fare, Herr Menkel? Non posso certo lasciare le 298

bambine da sole." "Non c'è problema. Se lei vuole andare a teatro o a un concerto, ci lasci le bambine. Dormono da noi e quando torna gliele riportiamo. " E poi io mi ricordo che con mia sorella ci svegliammo alla mattina e mia sorella era sdraiata fra braccia ebree [Judenarmen] a destra e io ero sdraiata fra braccia ebree a sinistra. Quando lei [la loro madre] tornò a casa dopo lo spettacolo e bussò piano alla porta, lei [Frau Menkel] si alzò e disse: "Lasciamo dormire le bambine".» Dopo aver sussurrato la frase di Frau Menkel, Tini alzò la voce. «Avremmo dovuto odiare quella gente perché erano ebrei? Io mi chiedo, l'umanità non ha mai fatto esperienze simili? E quando veniva Natale - loro celebravano un Natale completamente diverso dal nostro - la domestica metteva decorazioni dappertutto. Mamma stava in negozio fino all'ultimo minuto e distribuiva i regali [alle dipendenti]. E poi [i Menkel] dicevano che ora noi dovevamo andare alla messa mattutina e che quando saremmo tornate sarebbero stati distribuiti i regali. La mamma con le due bimbe piccole al gelo in chiesa per la messa mattutina. E quando tornavamo, lì nella nicchia c'era l'albero di Natale illuminato....» Più tardi, descrivendo un'altra volta la stessa scena, disse che l'albero «era pieno di luci, che mio padre aveva costruito con le sue mani. Lì l'ebreo, lì l'ebrea». Anche se Tini non mi disse mai in quale delle due case avessero luogo questi quadretti natalizi, in ambedue le rievocazioni Frau Menkel interveniva prima che i regali venissero aperti per far recitare alle bambine una poesia, secondo la tradizione cristiana tedesca. «Allora la Jiidin diceva: "Prima la recita delle poesie natalizie". Erano piuttosto lunghe. E noi dicevamo le poesie. Tu, era... A volte mi chiedo. Come si può pensare che io odiassi gli ebrei e dicessi uccideteli? C'era un club sportivo. Lui era un nipote dei Menkel. Bruno fu il mio primo grande amore. Io fui il suo primo grande amore. E siccome era il più bravo in ginnastica ricevette la corona di vincitore. Di sopra c'erano le stanze da letto. Indossavo un vestitino [così piccolo]. In seguito lo indossò la mia bambola. Io fiera di Bruno. Aveva la corona di vincitore. Quanti anni avevamo? Diciamo dodici. E lui venne a casa. Aveva le chiavi di casa. Io no. E lui doveva entrare nella porta, io nella porta. E allora mi disse: "Davvero sei fiera di me?" E mi diede un bacio. Io nella stanza di noi ragazze, inciampai in mia sorella, non dormii per tutta la notte, dovevo scrivere un tema di francese, non lo feci. Era il mio primo bacio. E lui partì già nel 1927, per l'America. E a casa per Capodanno [facevamo dei piccoli lavori a mano]. Io feci solo delle rose e delle piccole barche. E allora lui mi disse: "Ha un significato". E io gli dissi: "Che cosa? Che tipo di significato?" Lui disse: "Sto per emigrare. Fra poco uccideranno gli ebrei". Gli dico: "Bruno, che cosa faranno?" Negli ambienti degli ebrei se ne parlava già molto di più che nei nostri.» Nei suoi ricordi sconnessi Tini tornò ripetutamente alla famiglia Menkel. «Questo ebreo là nella casa dove vivevamo aveva fatto anche la Prima Guerra Mondiale. Vedo ancora le sue cicatrici e dove era stato colpito. Ja, quando eravamo bambini se ne parlava sempre. Che avevamo perso la guerra. E poi mia madre alla fine si rese conto che poteva davvero anda299

re di nuovo ai concerti e a teatro come era abituata con papà, dato che loro curavano le sue bambine. Non posso dire niente. Proprio commercianti in gamba. Erano proprio in gamba.» Intorno al 1926, dopo dieci anni di vedovanza, la madre di Tini si risposò. Nel 1928 diede alla luce un bambino, un maschio che fu chiamato Hubert. Tini si riferiva al patrigno chiamandolo «Vater» [babbo], ma mi parlò poco di lui. La sua attenzione, tanto allora quanto cinquant'anni dopo, si focalizzava sul fratellino, «mein Brüderchen». A tre mesi Hubert fu colpito da «convulsioni cerebrali», come Tini le definì. A sei anni andò a scuola, ma «non funzionò, non capiva». Allora fu mandato a una scuola per bambini ritardati. Dalle date risulta che Hubert finì nei pubblici registri come affetto da difficoltà d'apprendimento un anno dopo la presa del potere da parte dei nazisti. Tini non lo notò esplicitamente, anche se nel suo vorticoso monologo accennò a ciò che significava. «Prima i bambini ebrei che non erano adatti alla vita, poi anche i nostri, andavano in un istituto.» Era un istituto cattolico (o lo era stato) e si trovava a Essen, non lontano da Colonia. Tini mi disse che la famiglia andava a trovare Hubert molto spesso. Non mi disse se tentarono di portarlo a casa. Un giorno Tini (allora diciannovenne) si accorse che Hubert era stato messo in isolamento. «E [dissi] a mia madre: "Chiedi al dottore perché è in isolamento". Ma lei non voleva...» (I mormorii che seguirono concernevano le paure della madre riguardo all'handicap del bambino.) «Allora lo chiesi io e il dottore mi disse: "Ja, i polmoni non sono del tutto a posto".» Lei, mi disse, non gli credette affatto. «[Hubert] era già in isolamento da un bel po' di tempo. E poi il babbo morì in un incidente.» (Non raccontò altro in proposito, ma a una mia domanda rispose che l'anno era il 1935.) «E gli portai la notizia che il babbo era morto. Troppo devoti non lo eravamo, ma credenti sì. E lui volle sapere chi avrebbe fatto la bara, chi avrebbe portato la croce, dove sarebbe stato seppellito. Capiva ogni cosa. E i nazisti erano già al timone. Già si era vissuta quest'esperienza con i bambini ebrei, anche il fatto che venivano portati a Theresienstadt.» Tini si mise a urlare. «NESSUNO PUÒ' VENIRMI A DIRE CHE NON NE SAPEVA NULLA. Domandai al mio vicino più stretto, che era ebreo: "Dove sono allora?" «La gente attuava la politica dello struzzo. Dall'altra parte la campagna d'odio contro gli ebrei era tale che si diceva che venivano dalla Polonia e che non avevano niente e che un bel giorno avevano una catena di negozi qui. Io ero in un club sportivo e poi ci fu una delle riunioni mensili e alla fine la nostra presidentessa ci disse: "Ja, devo fare un annuncio. Chiudiamo. L'intera squadra femminile sarà trasferita nel BdM". E io dissi: "Ma senza di me". "Come senza di te? Sei nata per comandare nel BdM". "Nein," dissi io. "Nein." È vero, avevo proprio una certa attitudine al comando. Non lo nego. E poi fui derisa pubblicamente e mia madre tremava e "perché non vorresti?" Nein! E poi mi mandarono a chiamare. Come mai non ero nel BdM? Nein. No, dissi, conosco qual è il modo di pensare. Io sono cattoli300

ca e rimango cattolica. Non collaborerò. Non rinnego Dio per il BdM. Ed è questo che ci viene chiesto. Non lo farò. Ja, e così fui "proscritta" [una sorta di scomunica civile].» E probabile che Tini stesse descrivendo la sua situazione in modo accurato, ma la posizione antireligiosa di base del nazionalsocialismo si manifestava in maniere differenti a seconda dei luoghi e dei capi, e a livello nazionale non c'era alcuna «richiesta» che le ragazze del BdM rinnegassero Dio; o per lo meno nessuna delle altre donne me ne accennò. Le reminiscenze appassionate e sempre più sussurrate di Tini continuarono. «Molte amiche ebree: "Ehi, Tini, puoi aiutarci? Tini, puoi darci una mano?" Dicevo: "Ci proverò". Ma la cosa si spinse sempre più in là. E poi venne la questione del "servizio obbligatorio". Mia madre disse: "Ho bisogno di lei nel negozio e ne ho passate abbastanza nella Prima Guerra Mondiale". Perciò mi fu dato il permesso di restare a casa. E perciò potevo aiutare un sacco di gente. Davo loro della stoffa, tessere annonarie per i vestiti. Stavo davvero sempre con un piede in prigione, in una certa misura. Ebbi fortuna. E poi andai a Essen...» A quel punto, sapendo che Essen significava una visita a Hubert, la interruppi per chiederle quando, dato che avrebbe potuto riferirsi a una data qualunque. Dopo aver calcolato che l'anno era 0 1939 o il 1940, Tini riprese il discorso nel punto esatto in cui l'aveva lasciato. «... e volevo andare al reparto, dal piccolo, e l'infermiera del reparto fu chiamata al telefono e io rimasi sola nella stanza con il mio fratellino. All'improvviso nella stanza accanto a noi sentii delle urla. Urla di un bambino. Urla di dolore. Il piccolo alzò gli occhi, mi guardò: "Starò molto tranquillo". E allora abbassai la maniglia della porta e lì giaceva un bambino, aveva forse dieci anni, nel letto. E il suo cranio era stato scoperchiato e il cervello si stava versando fuori. Da un corpo vivo. «Chiusi di nuovo la porta. Mi sedetti sul letto. In quel momento entrò l'infermiera e mi chiese: "Perché è così pallida? Che cosa ha fatto?" Le dissi: "Sono andata a vedere per le grida. Perché questo? E solo un bambino. E il mio fratellino, il mio Hubert, dicono che ha qualcosa che non va ai polmoni". "D'accordo," mi disse. "Venga fuori con me. Devo dirle una cosa. Ja, abbiamo avuto un'ispezione qui, delle SS. Hanno stabilito che il suo fratellino è un malato incurabile." «"No," dissi, "lui non è incurabile. E qualche anno indietro con l'intelligenza." Dissi: "Puoi fare conversazione con lui. Mi ha appena detto che è molto buono, [ma che] viene continuamente messo nella camicia di forza. Dovrei portarlo a casa". "Non posso portarti a casa." "Sarò anche molto buono. Non voglio essere cattivo mai più." Gli dico: "Hubert, non posso portarti a casa. Devi stare qui ancora per un po'". E poi [l'infermiera] mi disse che si sarebbero occupati di lui. Io dico: "Occupati, che cosa significa?" Che questi bambini malati incurabili vengono messi in autocarri "a gas" e attraversano la città e i genitori ricevono un avviso: "deceduto all'improvviso per un'infezione".» Il racconto di Tini sollevava molte questioni, ma mi parvero tutte super301

flue, poiché quello che descriveva era credibile. In seguito mi parlò dell'altro bambino come di un ebreo. Può darsi che fosse una sua supposizione, o che glielo avesse detto l'infermiera. Tini entrò in confidenza con quest'infermiera, presumibilmente una suora. (Quando ne parlava la chiamava «Schwester» che significa «infermiera» o «suora» o, letteralmente, «sorella».) «Spesso parlavamo della nostra educazione alla scuola del convento. E lei mi capiva e io la capivo. E poi tutto a un tratto le condizioni [di Hubert] peggiorarono in modo tanto grave. Era una cosa fisica? Era una cosa mentale? Non lo so. Ma poi una domenica mattina ero sotto una grandine di bombe fra Colonia ed Essen. Pensavo che non ce l'avrei fatta a uscire viva dal treno. Ce la feci. E andai là e lui giaceva nel suo lettino e gli sporgeva un piede. E allora dissi: "Infermiera, il piede è completamente nero. Cosa sta succedendo al bambino?" "Ja, deve morire." Dico: "Hanno dato qualcosa al bambino?" "Nein, Frau Schneider, glielo giuro." Aveva davvero qualche cosa che non andava nei polmoni. All'ultimo era molto debole. Poi mi guardò e mi disse: "Indossi un vestito così bello; è nuovo?" Era di un grigiazzurro, una tonalità che portava la mamma. "Ne, ce l'ho da un bel po' di tempo." E dissi all'infermiera: "Non vado a casa. Chiamerò mia madre. Resto qua". Poi, verso le due o le tre, lui si distese e io accesi la piccola lampada e lui disse: "Adesso devo morire. E si schiuderà il paradiso e ci sarà lì il babbo. Auf Wiedersehen". Con chiaro discernimento. Si rigirò ed era morto.» Tini restò in silenzio per parecchi secondi. «Alla fine l'infermiera mi disse soltanto: "Ringrazi Dio in ginocchio, che l'ha visto morire. Quante madri, quanti fratelli e sorelle non vedono morire il loro parente più stretto". Ma io dico, con le mie stesse mani avrei ucciso chiunque avesse ucciso quel bambino. Io dico, non puoi fare questo.» Cominciò a urlare. «NON PUOI farlo quadrare con la tua coscienza. Perché gli ebrei di Colonia a est del Reno venivano portati via sui carri bestiame e non hai mai più loro notizie, mai più una parola? La gente non può dire, oggi, noi non lo sapevamo. Lo si vedeva. Dove finivano allora gli esseri umani? Ed ecco che oggi si vuole perfino rivedere la pena all'ergastolo: è diventato così vecchio, non vivrà ancora per molto in ogni caso. Ma non può dire che era solo il boia di un boia. Se tu [mi dici], quel tale mi ha turbato, quindi uccidilo, io ti direi che non sei normale. Che non voglio averci niente a che fare. Poiché, che cosa poteva farci il bambino? Era nato sano,» Tini riprese a urlare, «e a tre mesi ebbe le convulsioni nella vasca da bagno. Per molto tempo ebbe degli spasmi, ma poi fu di nuovo lui. Potevo parlargli. Potevo fargli ricordare le cose. Non aveva una malattia incurabile. Volevano toglierli di mezzo; per loro erano troppi. Io allora ero anche giovane, non ero vecchia. E quando vidi il bambino ebreo nella stanza accanto, lei era furiosa che avessi capito. Che cosa pensi, se un dottore in ispezione avesse visto com'era scossa.» Chiesi a Tini se aveva raccontato a qualcuno del bambino nella stanza accanto. Non mi lasciò quasi finire la domanda. «Oddio, negli ambienti più ristretti. Lo dissi a mia madre una volta. [Sussurro non udibile.] "Dai, non essere così sconvolta, è successo, è finito." So, da degli ebrei, di una fami302

glia con tre bambini che avevano dalla nascita qualcosa di simile ai piedi valghi. Quando penso che non uno di loro è vivo perché, perché... quelli erano reati fisici. Non c'era alcuna ragione di uccidere qualcuno. Serviva soltanto a togliere di mezzo gli ebrei. Volevano rifilarci una razza pura.» Aveva ricominciato a urlare. «Che cos'era? All'epoca erano gli uomini di sangue nobile. Un uomo biondo, con gli occhi azzurri, deve generare figli così. Dammi retta, ciò di cui parlavano erano Quatsch [scemenze], E le grandi masse ci credevano. Avresti dovuto avere quell'aspetto, avresti dovuto essere fatto in quel modo. Un'intera nazione avrebbe dovuto essere incarnata in quel modo. Ma uno cosa può farci se ha la pelle scura? Non può farci niente. Però sono così felice di averlo visto morire, davvero. Davvero ne sono felice. H o potuto perfino tenerlo fra la braccia. Posso proprio dire che è morto di morte naturale. E una cosa che ho osservato. Perché in un modo così veloce e inaspettato, questo non lo so. Ma è comunque meglio che se l'avessero ucciso.» Più o meno nello stesso periodo in cui Hubert fu mandato all'istituto, Tini fu coinvolta in un altro dramma umano. Al suo centro c'era ancora una persona a lei vicina e che i nazisti volevano morta. Herr Menkel. Il famigerato giornale antisemita Der Stürmer cominciò ad «attaccarlo», come disse Tini. (Perché Der Stürmer scelse Herr Menkel come bersaglio delle sue diffamazioni, non è chiaro.) Il giornale sosteneva, continuò, che «era un lurido ebreo zotico [Judenlümmel] che molestava tutte le donne e le ragazze. Il che non era vero. Lui non lo faceva. C'era scritto nel giornale. Che era uno sfruttatore di prostitute, che nessuna donna era al sicuro da lui. L'ebreo nelle cui braccia avevamo dormito! C'era sullo Stürmer». Forse, senza volerlo, Tini aveva avuto un ruolo sia nell'accusa mossa a Herr Menkel sia nel «crimine» imputatogli. Un vicino di casa nazista potrebbe essersi ricordato che le piccole sorelle «ariane» talvolta passavano la notte dai Menkel e quindi potrebbe averlo denunciato. Ci si può a malapena immaginare quanto Herr Menkel dovette sentirsi sconvolto dalle accuse dello Stürmer, non solo a causa della loro falsità, ma della loro pericolosità. «Non capiva. E tutta la gente con cui erano stati buoni, a cui avevano dato aiuto finanziario, e non era poca, li assalì. Der Stürmer diede di lui un'immagine perversa. Molestava le donne "ariane". E questo non ebbe la forza di superarlo.» La storia, che Tini citò due volte, continuava. «Ero nell'appartamento di sopra con la mamma. All'epoca non ero sposata. E poi sotto di noi sentii un tonfo nell'appartamento. Corro giù di sotto. Dico a mia madre: "Mamma, vieni subito, deve essere successo qualcosa dai Menkel". Lui era lì, fra la stufa elettrica e la credenza, e aveva avuto un collasso. Allora chiamammo subito un dottore. Tutto ciò che potè fare fu confermare la morte.» Più tardi Tini mi disse che la causa della morte era stata un attacco di cuore. «Gli si ostruì un'arteria cardiaca ed era morto. Crollò semplicemente. Ci ho pensato così spesso. Ti svegliavi. "Mamma? No, oh sì, ja, siamo nel letto dei Menkel." E lui ci teneva finché era l'ora di alzarsi.» Si interruppe. «Ja, chiedilo a qualcuno. Perché si uccidevano gli ebrei?»

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Quando la morte di Herr Menkel venne confermata, «per qualche ragione non riuscivo a sopportare i loro pianti, le loro grida, che non sapessero cosa fare adesso. Tornai a casa quella sera. Avevano un ingresso molto grande e passai dal portone. So che quando un ebreo muore tutti gli specchi vengono coperti. Poi tutti gli ebrei si riuniscono. C'erano ancora un sacco di ebrei. Allora pensai, finirà molto presto, non sarà lungo, sta già per finire. Furono appesi tutti gli specchi, tutto ciò che luccicava fu appeso. E io lo so, lei me lo disse una volta: l'odio è di noi cristiani. E vero. Avevo un'amica, erano mobilieri. Vado da loro strillando, chiedo a Herr [?], a cosa serve una cassa che sta là? Gli ebrei non vengono seppelliti in una bara lussuosa come noi, ma in una cassa tenuta insieme con la colla. Non con i chiodi, con la colla. E c'è un piccolo cuscino che lui aveva sotto la testa. «E vidi attraverso una fessura della porta come si alternavano a pregare e a piangere, e poi, quando un ebreo muore, quando vai al Creatore, hai del sale e un sacchetto di denaro sotto il cuscino. Ma quando vedi il Cristo, lapidalo e forse potrai acquistarti libero accesso col denaro. Questo era il senso della faccenda, ma può darsi che mi sbagli. È molto diverso da ciò che facciamo noi.» Le idee di Tini sulle usanze funebri ebraiche erano discutibili, ma non lo era il suo tono di partecipazione. «E la sorella di mia madre,» continuò, «lo adorava. Prima, quando c'erano queste festività religiose, andava con loro a ballare. E quando ci facevano visita, nonostante il cibo kosher. Che significa che non mangiavano mai carne di maiale. E a lui la carne di maiale piaceva così tanto.» Come se fosse di nuovo nella cucina dei Menkel, Tini parlò di piatti separati, lavati separatamente. «E tutti i venerdì c'erano gnocchi di matzoh [pane azzimo] e poi venivano accese le candele. Osservavano il sabbath. Noi vivevamo come dei furfantelli. A ogni modo si seppe che Moritz, Moritz era il suo nome, era morto. E allora loro dissero che noi saremmo andati alla sua sepoltura. Per loro era lo stesso. Tutti parteciparono.» Il corteo funebre, di cui Tini fece la rappresentazione ma a cui non mi disse di aver partecipato, andò dalla casa dei Menkel al cimitero ebraico. «E poi i nazisti si misero in mezzo. Poi filmarono. Tutta la cerimonia di sepoltura.» La madre di Tini non partecipò al funerale, per paura. «Poi mia madre disse: "Credete che abbiano filmato tutto per lasciarvi in pace? Voglio dire, cosa pensate che succederà adesso?" Di quello a loro non importava; ne era valsa la pena. E dovettero pensare almeno una volta a quando passammo la notte là.» Che cosa accadde in seguito? «In seguito non accadde nulla. Der Sturmer scrisse che lo sfruttatore di prostitute era morto eccetera, e che gli "ariani" avrebbero dovuto vergognarsi di aver aiutato a seppellire un ebreo. A loro non importava.» E aggiunse: «La cosa importante era che non li avevano arrestati». Quando le chiesi che cosa fosse successo a Frau Menkel, Tini mi rispose in modo tipicamente ellittico. «Aveva un genero e una figlia... I parenti, come ti ho detto, erano nati tutti con questi piedi valghi, ed erano tutti molto simpatici, gente che lavorava sodo. E poi avevano tutti questo naso

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incurvato, be', si vedeva che erano ebrei. E [i nazisti] li avevano nel mirino. Malati incurabili, storpi e cose simili. Che era la cosa peggiore, quando quelli con dei mali ereditari... Per loro era tutto incurabile. Hitler voleva una razza pura. A lui interessavano soltanto le masse di "Sigfridi". Non potevi essere basso. Alto. Non potevi avere un aspetto romeno [da zingaro]. Dunque Herr Feuerstein, il genero di questa donna ebrea [Frau Menkel], era anche lui ebreo. E veniva da Lipsia. Un uomo molto simpatico. E la figlia, una tipica donna ebrea: capelli neri, occhi neri, naso incurvato, gambe un po' curve, aveva...» Gambe curveì «Gli ebrei [avevano] le gambe curve.» Tini si alzò in piedi e mi fece la dimostrazione di una camminata a ginocchia larghe. «Camminavano in questo modo. Gli ebrei camminavano sempre in questo modo. A gambe curve. Preferendo puntare i piedi verso l'interno. Non tutti gli ebrei. Il maggiore stava ben dritto. Completamente dritto. Lui e mia sorella [si trovavano] bene. Ma gli altri...» Dove aveva preso l'idea che gli ebrei abbiano le gambe curve? «Con l'osservazione,» mi rispose. «Facci caso. Camminano tutti come...» Insistetti: non conoscevo neanche un ebreo con le gambe curve. «Be', loro hanno giusto un po' certe caratteristiche. Hanno sempre le orecchie leggermente sporgenti. E Herr Feuerstein diceva che bisognerebbe avere le proprie finanze in ordine...» A quanto pare la conclusione era che Frau Menkel aveva le proprie finanze in ordine e che emigrò in Inghilterra. Ma grazie a una qualche «clausola» conservò la proprietà della casa in cui aveva vissuto, così come quella di un'altra casa, nonché il diritto di riscuotere l'affitto di entrambe. «Quasi tutti avevano qualche proprietà. Erano commercianti che lavoravano sodo, ecco cos'erano. E così Frau Menkel, la [moglie] dell'ebreo che era morto, voleva tornare una volta all'anno, per riscuotere l'affitto. Poteva, in parte, portare con sé il denaro oppure investirlo. Poi un giorno venne. Le cose stavano peggiorando al punto che era pericoloso riceverla. Avevamo trovato una specie di uscita di sicurezza lì da noi: c'era da scavalcare una finestra. Lei arrivò e disse: "Deutschland, Deutschland, über alles". «"Frau Menkel," le disse mia madre, "sta dicendo Deutschland, Deutschland, über alles?" "Be'," rispose lei, "forse voi tutti vi immaginate che quando emigriamo andiamo a fare una vita ordinata? Ci viene assegnata una stanza e cose del genere. In realtà qui è ancora tutto più in ordine che in ogni altro posto."» Le visite annuali all'ordinata Germania finirono di colpo, e la famiglia Menkel rimase in Inghilterra. Tini mi fece intendere che Frau Menkel morì là di cause naturali prima che la guerra finisse. (Dopo la guerra, su richiesta della madre, uno zio di Tini acquistò dagli eredi dei Menkel la casa in cui vivevano.) Per quanto riguarda i rapporti fra le due famiglie, sembra che la relazione più stretta fosse quella fra la madre di Tini e Frau Menkel. Nei ricor-

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di di Tini le due donne continuarono a rivolgersi l'una all'altra in modo formale, come era corretto che facesse sua madre in segno di deferenza verso la più anziana Frau Menkel. Quest'ultima esercitava un ascendente sulla madre di Tini, a volte in modi insoliti. Tini disse che sua madre «naturalmente subiva delle pressioni» perché si iscrivesse alla Frauenschaft. Per ragioni economiche sarebbe stato saggio iscriversi, mi disse, poiché gli affari del negozio stavano attraversando un periodo difficile, ma sua madre resisteva. Allora «fu la stessa Frau Menkel, la nostra ebrea, che le disse: "Lo faccia, si iscriva alla Frauenschaft". Lei [la madre di Tini] disse: "Lei dice che dovrei [iscrivermi] alla Frauenschaft?" Per gli affari. Avrebbe ottenuto un maggior numero di commissioni. "Lei è ancora giovane," le disse Frau Menkel». La madre di Tini si iscrisse. La sua adesione fu senza dubbio all'origine di un singolare incidente che vide le due donne protagoniste. Tini non ricordava la data, ma l'anno era probabilmente il 1935 o il 1936, dopo che erano morti sia Herr Menkel sia il patrigno di Tini. A quell'epoca le due donne condividevano l'indirizzo, la condizione di vedove, la celebrazione del Natale e qualche pasto kosher, e ciò che si potrebbe chiamare un certo pragmatismo ecumenico. «Poi venne il Primo Maggio, la festa nazionale,» disse Tini. «E [i nazisti] le proposero [a sua madre] un contratto per otto bandiere rosse. Doveva cucirle, e con una svastica sopra. Adesso ascoltami con attenzione. Era un contratto gigantesco. Ci faceva comodo. Gli affari non andavano bene. Niente soldi. Ciò che compravamo a credito, dovevo andare a prenderlo io. A volte... Ja, le diedero il materiale. Le svastiche erano su feltro bianco. Ora bisognava cucirle. Frau Menkel disse [a Tini e a sua sorella]: "Su, adesso andate a letto. A dormire". Era sera. Il giorno dopo le bandiere dovevano venire appese. Tutte le strade sarebbero state addobbate di bandiere. Frau Menkel rimase alzata finché mia madre non ebbe finito il lavoro. Per tutta la notte. Fece il caffè, chiacchierò con mia madre, tirò fuori il pane. Mia madre cuciva e cuciva e orlava. E spuntò il mattino. Tutte e due stanche morte. Noi uscimmo dai nostri letti. "Non avete dormito?" "No, ma le bandiere sono pronte." Venne qualcuno del Partito e le appese.» La domenica successiva, mentre andava in chiesa, Tini diede un'occhiata da vicino alle svastiche che sventolavano. In chiesa sussurrò a sua sorella: «Buon Dio, nostra madre ha cucito le svastiche all'incontrano». «Nessuno di loro notò che erano girate dall'altra parte. Ma c'era vento e le bandiere ondeggiavano, lei ebbe il denaro, e la persona che fu più felice per tutto quanto fu Frau Menkel, la Jüdin. Per favore. Lo chiedo a te. Se questa non è una vita, io non so.» Dopo lo scoppio della guerra, mi disse Tini, dei giovani dell'Alta Slesia vennero arruolati e mandati in Renania per difenderla da un possibile attacco degli inglesi. Tre soldati vennero alloggiati con Tini e sua madre. Tini mi parlò a lungo anche di quella relazione e delle premure e della preoccupazione di sua madre per i soldati, che non erano abituati al freddo umido 306

della regione. Le chiesi se i soldati fossero ansiosi ed entusiasti di combattere. «Non credevano nella vittoria,» mi rispose, e aggiunse che odiavano l'addestramento. «Li disgustava.» Una mattina se n'erano andati, lasciando una nota che diceva che erano stati mandati sul fronte occidentale. Due di loro morirono là. La madre di Tini ne soffrì moltissimo. Circa nello stesso periodo, poco dopo lo scoppio della guerra, Tini incontrò il suo futuro marito, un certo Konrad Schneider. Come ho già accennato e per come lei continuò a descriverlo, pareva che quest'uomo fosse dotato di un fascino così grande da dargli la sensazione che esso non dovesse tener conto di alcun obbligo di decenza. Lui e Tini si erano adocchiati a vicenda una sera a un ballo a Colonia. L'orchestra suonava dei valzer. Lui era austriaco, lei restò incantata, e danzarono fino all'alba. Tini, canticchiando e piroettando nel suo salotto mentre parlava, mi disse che Konrad sapeva condurre magnificamente. Lui le disse che non aveva mai conosciuto una ragazza tedesca che ballasse così bene. Aveva già un'innamorata. Quando la storia d'amore cominciò, Tini lavorava nella bottega di sua madre. Si può immaginare che compisse il suo lavoro con alacrità, ma c'era una cosa che non le piaceva. «L'eterno saluto di "Heil Hitler". Non potevi più dire un normale "Guten Tag". Appena non pronunciavi il saluto [a Hitler], "Che cosa succede?" Nicht? Quando compravano delle cose nel nostro negozio. "Heil Hitler". Pensavo: "Ehi, che cosa c'entra Hitler quando stai comprando qualcosa"?» Ma Tini si fece un'idea delle conseguenze di un mancato saluto. Un suo amico stava pulendo l'automobile quando un Ortsgruppenleiter lo salutò con un sonoro «Heil Hitler!». Il giovane «non riuscì a far uscire dalle labbra le parole "Heil Hider! "»; borbottò invece un «Buon giorno». I nazisti gli requisirono la macchina il giorno seguente. I problemi di Konrad con i nazisti erano altri. Quando conobbe Tini, lavorava come disegnatore tecnico nel centro di Colonia e veniva trattato male (mi disse lei) perché era considerato uno straniero. «Il suo capo era un cane nazista [ein Nazihund] e aveva una donna, bionda. Se non lo era, si tingeva. Era una nostra cliente. Aveva delle tessere annonarie e così prendeva filo per rammendare e filo per cucire e così via. Mettevamo il timbro. A ogni modo, Konrad passò a trovarmi in bicicletta durante la sua pausa per il pranzo.» Tini disse che se ne stava appoggiato al manubrio a scambiare qualche parola con lei. «E questa bestia ci vide. Lui [il cane nazista] entrò nell'ufficio e lo insultò. "Sudicio austriaco" eccetera.» Che egli fosse austriaco era già abbastanza riprovevole, presumibilmente. Peggio era che non fosse un soldato. Lo avevano chiamato alle armi, mi disse Tini, ma era stato giudicato inabile al servizio a causa di una vecchia operazione ai reni. Diventati amanti, i due giovani presero in affitto stanze separate. (Confermando quella che era la morale sociale dell'epoca, assai lontana dalla morale nazista, Tini mi disse che vivere assieme sarebbe stato fuori questione.) Decisero poi di sposarsi e andarono in Austria perché Tini conoscesse la famiglia di lui. Mi disse che erano tutti, 307

dai genitori ai fratelli e alle sorelle, allineati alla stazione per darle il benvenuto. E tutti portavano addosso la svastica. «Che cos'è questo?» si chiese lei. Più tardi lo chiese a loro. Le risposero, mi disse imitando l'accento austriaco, che siccome veniva dal «Vecchio Reich» pensavano che forse era nel Partito o nel BdM, e perciò volevano «uniformarsi a lei». «"Schwachsinn!" [Che imbecillità!] dissi io. Ecco come andò.» Si sposarono nel 1940. Come regalo di matrimonio ricevettero, fra gli altri, quello standard dello Stato, una copia del Mein Kampf. Lo aveva letto? «Certo che sì. C'era perfino una dedica: Alla coppia di sposi nel novembre 1940. Dentro c'era tutto: come egli andò a Vienna e disse a se stesso che conosceva gli ebrei e che dovevano essere annientati. Ja, ragazza mia, io non so altro. Perché gli inglesi... E questo è l'altro modo in cui vedo la cosa. Neppure gli altri sono così completamente senza colpe.» Tini ritornò sul tema della responsabilità internazionale più di una volta. «E allora mi chiedo sempre, perché i paesi stranieri [das Ausland] non tolsero di mezzo Hitler? Se tu leggi un libro su Roma, a un comandante generale romano che era un buono a nulla servivano un calice di vino avvelenato ed era fuori dal gioco. In Inghilterra continuava a esserci disoccupazione, c'era in America, c'era in Austria e ovunque. Ma perché non lo tolsero di mezzo? Noi ci provammo un po' di volte. "La divina provvidenza," come diceva lui [Hitler], "lo protesse." Avevano bisogno di lui? All'estero avevano bisogno di lui, sapendo che avrebbe iniziato una guerra? È una cosa che proprio non comprendo. Tutti voi avevate avuto la possibilità di bloccare l'intera faccenda. Chiunque leggesse il Mein Kampf...» Tini citò parecchie volte il libro e insistette di averlo letto tutto. «Mi affascinò tantissimo.» Quando le chiesi se anche suo marito avesse letto il Mein Kampf, «Certo che lo lesse,» mi rispose. «Voglio dire, lui aveva persino, fino a un certo limite, ja, potevi presumere, sì, sì. Direi senza dubbio che egli era moltissimo a favore del nazionalsoc...» La voce calò fino a spegnersi del tutto. Cosa? Era un membro del Partito? «Questo non lo era. No, no.» Di nuovo pronunciò delle parole inudibili, poi la voce ritornò. Konrad voleva diventare un cittadino tedesco, mi disse Tini. «Io non volevo. Gli dicevo: "Perderemo la guerra, e poi?"» Fece una pausa. «Sai, avevo sempre un po' l'impressione che lui "girasse la bandiera secondo il vento". Lo conoscevano anche nella cerchia dei miei amici... I nostri amici erano persone bravissime... Molti di loro mi dicevano: "Bene, tu sei cordialmente invitata. Ma per favore non portare tuo marito". Lui la metteva in politica. "Non riusciamo a dormire la notte a causa..." Avevano opinioni politiche differenti dalle sue; non potevano sopportarlo. Lui tentava sempre di convincere la gente che era giusto, ciò che i nazionalsocialisti... ma era una fatica inutile. Non uccise nessuno, ma...» La sua voce svanì lentamente. Tini era così fedele alla sua memoria che continuava a tentare di dare di lui la migliore immagine possibile. «Non riusciva a pensare con sufficiente 308

obbiettività,» mi disse. Sostenne che non era antisemita. Le chiesi perché, allora, gli piaceva il nazionalsocialismo. Mi rispose di non saperlo, ma che forse era stato influenzato da una «Machtrausch» [delirio di potere] presa dai film. Una sera tardi, «intorno al 1941», lei e Konrad ebbero la casa bombardata. Quale che fosse il motivo, non vivevano con la madre di Tini, né cercarono rifugio da lei. Tini mi parlò delle conseguenze del bombardamento in maniera così sconnessa che se ne ricava piuttosto uno stato d'animo che non qualcosa di fondato. Una cliente del negozio che era «una dirigente della Frauenschaft» aveva offerto loro rifugio. «Ci aveva detto che se non avessimo più avuto un posto dove vivere avremmo dovuto chiedere lì. Se volevamo una stanza o una stanza e mezzo. Io ero incinta a quell'epoca. E dovevo... da qualche parte si doveva stare. Così quella sera andammo là, verso le undici e mezzo. Questa dirigente della Frauenschaft aveva una relazione con un uomo della Gestapo, sposato; e una parola tira l'altra, sulla guerra, e sulla vittoria e la sconfitta, e riguardo a ciò lei era convinta al cento per cento, era anche nazista al cento per cento, che avremmo vinto. E all'improvviso si alzò e disse a mio marito: "Le voglio dire una cosa. Lei dovrebbe vergognarsi di se stesso in quanto straniero, in quanto austriaco, di non essere al fronte. Lei è un imboscato, se mai ne ho visto uno". «Immaginati. Appena sposati. Io innamorata pazza. E qualcuno attacca tuo marito. Una donna lo chiama imboscato. Gli altri erano tutti sul fronte occidentale, lo ammetto. E allora le dissi: "E PERCHE? E perché, Fräulein Brost? Perché dovrebbe arruolarsi volontariamente? Primo, ha avuto un'operazione ai reni ed è stato dichiarato inabile al servizio. Per cosa?» Non so se Tini lo avesse fatto allora, ma ora stava urlando. «"Per Hitler? Dovrebbe forse farsi sparare su due piedi? No. " Così ci agitammo terribilmente e allora mio marito mi disse: "Adesso stai molto, molto calma, rifletti, con i tuoi aborti, ogni volta, o per un bombardamento o perché ti agiti".» Tini, che non ebbe mai figli, mi disse che durante la guerra rimase incinta tre volte, e ogni volta ebbe un aborto spontaneo. E ogni volta dovette lottare non soltanto col proprio dolore, come quando si sgravò del feto in un gabinetto, ma anche con i nazisti, dovendo provare loro, se le avessero chiesto spiegazioni, che aveva avuto davvero un aborto spontaneo e non uno procurato. Tini mi disse, continuando a raccontare le conseguenze del suo sfogo, che lei e Konrad lasciarono l'appartamento della donna della Frauenschaft e che «andammo ad abitare da altri amici. La mattina seguente ero nel negozio di mia madre. Improvvisamente la porta si aprì. Io ero nel retro, in ufficio. "Heil Hitler! Lei ha una figlia, una certa Frau Schneider, è così?" "Ja, ce l'ho." "Dunque, dov'è?" Nel frattempo io ascoltavo quello che stava succedendo. Venni fuori. Dissi: "Eccola". Tira fuori le manette e dice: "Lei deve venire con me nell'ufficio del comandante. È in arresto". "Che cosa? Io?" Mia madre [Tini ne imitò il sussurro], "Non finirà mai?" "Mamma, calmati. Su, stai tranquilla, andrà tutto bene." Dunque, dal comandante regionale, della Gestapo. Il Gauleiter. "Entri"». Tini, con un tono di voce appena intelligibile, aggiunse: «Mia cugina era segretaria del sindaco. E mi

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disse: "Ehi, che cosa hai fatto?" Già, che cosa avevo fatto? "Tini, non uscirai mai di qui. Non ne uscirai affatto." «"VENGA DENTRO,"» sputò l'ordine Tini. «Erano in dieci o dodici seduti a un lungo tavolo. Tutti in alta uniforme. SA e SS. "Si sieda."» Ora la sua imitazione divenne una raffica di bisbigli. «"Che cosa ha detto l'altra notte?" Uno che conosceva bene la nostra famiglia prese a guardarmi in un modo così imbarazzato. Era già più anziano. Che cosa avevo detto? «"L'altra notte, in casa della famiglia Brost, in casa della dirigente della Frauenschaft, che cosa ha detto? Riguardo a Hitler, che suo marito avrebbe..." Io dico: "E vero. Perché dovrebbe farsi sparare? Perché? Per cosa?" Buon Dio, l'amico di famiglia mi guarda e... "Lei direbbe queste cose oggi?" Io dico: "È ovvio che le direi di nuovo oggi, e sono cose vere. E bisogna smetterla una buona volta. Riguardo a uno straniero. L'Austria è tornata alla patria. Lui non è uno straniero. Ve lo chiedo ancora, perché dovrebbe arruolarsi volontariamente? L'hanno chiamato, non è abile. Dovrebbero lasciarci in pace una buona volta". «L'ottanta per cento era contro di me, a eccezione di quello [che conosceva] la nostra famiglia e la nostra sorte. Uno, la mamma vedova. Due, il babbo ucciso in un incidente. E poi il bambino. Bastava e avanzava. Ja. Poi si consultarono fra loro. Dove dovevano mettermi adesso, nicht? Finché l'uomo della Gestapo che mi appoggiava disse: "Signori, ascoltatemi. Che cosa ha fatto in fin dei conti? Si è sposata giovane. Ha difeso suo marito. In fin dei conti non ha fatto niente di male. E inoltre non possiamo pretendere questo da sua madre. La famiglia ha sofferto abbastanza". Poi, consultazione. Tolte le manette. Tornai da mia madre. Il negozio chiuso. Nessuno sa dov'è. "Sì," mi dice uno. "L'ho vista. Andava in chiesa."» Tini recitò la scena seguente con toni drammatici, più a gesti che a parole: il ritrovamento della madre in chiesa, a pregare; e la sua disperazione che si tramutava in gioia. Dei mormorii fra le due donne nella chiesa resta solo qualche frammento: sua madre che la supplica per piacere di non fare di nuovo una cosa del genere e Tini che risponde di non poterlo promettere. Poi, non si sa bene dove, entra in scena Konrad. Egli dice a Tini: «Be', questa cosa è successa proprio per colpa tua. Non avresti dovuto dire niente». Prima e durante il matrimonio, in anni in cui il Reich rese la vita sempre più precaria agli ebrei rimasti in Germania, Tini, per come descrisse sommariamente le sue attività, spese una buona quantità di tempo e di fatica a sgambettare per Colonia tentando di preservare l'integrità di vite minacciate. Forse «sgambettare» non è il verbo corretto, ma riflette il suo modo di esprimersi sia a parole che con la recitazione. Uno sforzo continuo veniva dedicato a una certa Frau Kaufmann, che viveva in quella che Tini chiamava un «Judenhaus» [«casa ebrea» o «casa di ebrei», a seconda di chi stia parlando]. È presumibile che fosse un edificio di appartamenti dove si erano trasferite delle famiglie ebree dopo essere 310

state sfrattate dalle loro case a causa di un'ordinanza o di necessità finanziarie; oppure era un edificio che non era stato ancora requisito dai nazisti per gli «ariani». Si può supporre che Frau Kaufmann, come quasi tutti gli ebrei tedeschi, subisse restrizioni sempre maggiori non solo per quanto riguarda l'alloggio, ma anche il cibo, il vestiario e ogni altra cosa. E se gli altri tedeschi, le donne di città in particolare, potevano agevolmente andarsene in campagna a barattare ciò che possedevano con ciò di cui avevano bisogno, per gli ebrei non era altrettanto facile. La paura, il coprifuoco e la duplice vergogna per la stella gialla cucita sugli abiti e per la proibizione di usare quasi tutti i mezzi pubblici li tenevano in casa. Tini, stando a come mi descrisse la faccenda, interveniva nella veste di intermediaria, dedicandosi a uno scambio di merci complesso e assolutamente illegale (comprendeva l'uso della sua tessera annonaria per gli indumenti) per aiutare Frau Kaufmann, i suoi famigliari e amici. Il tema dei commerci illegali si rivelò attraverso una piccola esplosione di informazioni. «Lo stesso mio cognato era nelle SS.» Willi, questo il nome, aveva sposato sua sorella, che d'altra parte, mi rivelò Tini, una volta aveva alluso in tono sprezzante a «questi ebrei». Aveva partecipato ai funerali di Moritz Menkel? «Per favore, ti prego,» mi schernì Tini. Come mai le due sorelle erano così diverse? «Tu hai diversi geni nel corpo,» rispose. Le attività di Tini misero in imbarazzo Willi. «Mio cognato chiamò mia madre e... "Tua figlia, lei va in una certa casa. Ci [porta] tuttora del caffè in grani e quella è un Judenhaus e ci sono sempre scambi di roba là e se questa faccenda non cessa, lei finirà dove le spetta." Il mio cognato. Il mio cognato. E quella era la sola cosa che lei [Frau Kaufmann] mi chiedeva con insistenza ogni fine settimana.» Tini abbassò la voce. «"Puoi procurarmi un po' di caffè? Non me ne è rimasto più un chicco." Così, io ero già... Dovevo fare attenzione. C'erano quattro piani; solo ebrei.» Mi fece un abbozzo dell'intrigo usando sussurri di frasi che si sentivano appena. «Dovevo dare a Frau Kaufmann la mia tessera annonaria per i vestiti. Aveva bisogno di pochi punti, non so. Doveva [nasconderla] nella cintola. La tessera per i vestiti. Con le firme. Altrimenti non era valida. Annoto i punti, un certo numero. Potevi ancora comprare qualche articolo di merceria. Non c'era molto cibo. "Ja, Frau Kaufmann, gliene porterò un po'." "Stai attenta." "Ja, certo." "Verrai sabato mattina?" Un po' di caffè. Potevi procurartelo dall'Olanda, al confine. Oddio, Oddio. Dico a mia madre: "Se devo prendere del caffè, devo partire adesso". Squilla il telefono. È mio cognato. Ahi ahi ahi.» Willi, un nazista, ha una voce molto chiara. «Di' soltanto a tua figlia che oggi non dovrebbe andare in quella casa, dato che noi stiamo per fare un'irruzione di polizia nella casa di fronte e chiunque uscirà verrà arrestato immediatamente.» Tini montò in bicicletta e partì per la casa di Frau Kaufmann. Leggendo fra le righe, o meglio fra le frasi, diviene chiaro che i suoi ricordi riguardano avvenimenti diversi e che Tini era riuscita a raggiungere il confine olandese e a procurarsi altro caffè - probabilmente tanto per commerciar311

lo quanto per berlo - che teneva nascosto nel maglione mentre si precipitava alla casa. Una componente di maggior pericolo nel sistema di baratto, e anche la ragione per cui Tini era partita così in fretta, era il recupero della tessera annonaria che aveva prestato a Frau Kaufmann. Se le SS avessero trovato la tessera a casa di quest'ultima, sia lei che Tini sarebbero finite nei guai. Ancora una volta il racconto si ridusse a dei sussurri, con il volume che diminuiva man mano che la casa si avvicinava. «Lascio lì la bicicletta. Mi guardo in giro. Su per le scale. La porta si apre. Dico: "Frau Kaufmann". Avevo bussato immediatamente. "Devo entrare adesso." Dico: "Frau Kaufmann, molto, molto in fretta, prima che le dica qualsiasi altra cosa, devo avere la mia tessera per i vestiti". "Te la do subito. Che c'è?" "Senta, siate tutti prudenti, nascondetevi dalle SS. La polizia sta per fare un'irruzione nella casa di fronte. Abbiamo saputo che degli ariani comprano ancora qui dagli ebrei della roba che non si trova da nessun'altra parte." Glielo dissi chiaro. Poi, io fuori dalla porta principale. Ora possono venire. Ho la tessera. Me la infilai nelle mutandine. La mia tessera per i vestiti. Era come un lasciapassare. Nessuno mi venne dietro. Ach, posso dirti che mi batteva forte il cuore.» Fu la sola volta in cui Tini accennò a una sua paura. Ad accrescere il pericolo delle sue azioni c'era il fatto che le relazioni sociali fra «ariani» ed ebrei erano verboten da anni. E nel 1942, quando Tini pensava che fossero accaduti quegli avvenimenti, lei e Frau Kaufmann mettevano in pericolo se stesse e si compromettevano a vicenda per il semplice fatto di incontrarsi, senza contare i commerci illeciti che facevano. Tini mi parlò anche del suo impegno in qualche sotterfugio che aveva a che fare con le tessere annonarie assegnate a chi aveva perso la casa nei bombardamenti. Il suo scopo era quello di procurare a sua madre o altri clienti o delle merci. «Stavo con un piede in prigione. Ma avevo affidato quel compito a me stessa. [Lei] ci aveva fatto superare la Prima Guerra Mondiale, e io le avrei fatto superare la Seconda. Non importa a quale costo. Le chiesi se sua madre era sempre stata contro il nazionalsocialismo. «Sempre,» mi rispose. E più tardi aggiunse che sua madre «non capiva i fondamenti religiosi» della campagna contro gli ebrei. «Diceva sempre: "Si deve poter parlare di ogni cosa".» Mentre la guerra infuriava sopra e attorno a lei, si ha l'impressione che Tini divorasse i giorni e le notti di Colonia con passione, sdegno e gli occhi ben aperti. «E le truppe continuavano ad avvicinarsi sempre più. E gli ebrei diventavano sempre meno. «Ho anche verificato che venivano deportati. Succedeva sulla riva destra del Reno. Se si guardava con attenzione dalla riva sinistra, lo si vedeva. C'erano le carrozze dei treni. Passavano giù in basso, lungo il Reno. E io mi precipitavo al di là del ponte e vedevo come li caricavano tutti sopra. E non una sola persona ritornò. Non uno di loro ritornò. Niente, di loro non si seppe più niente. Come se fossero stati ingoiati dalla terra.» La sua voce, prima dura, si addolcì. «E loro non avevano fatto niente a nessuno. Io

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questo non lo capisco. Anche oggi io non lo capisco.» Quella visione contribuì senza dubbio al coinvolgimento di Tini in un progetto molto pericoloso. Negli ultimi mesi del 1944, quando le deportazioni erano spietate, Tini diede una mano a nascondere e a nutrire «quattro o cinque» conoscenti ebrei. Avevano lavorato alla Ford Motors di Colonia, mi disse. (Incidentalmente, a un certo punto Tini mi raccontò di essere stata spesso criticata perché non si era unita a quello che chiamava il «movimento clandestino», dato che aveva letto il Mein Kampf. «"No," dico io. "Ero ancora troppo giovane per unirmi al movimento clandestino." "Ja, come spia. Avresti dovuto fare qualcosa."» Sembrava che Tini avesse la sensazione di non aver fatto nulla.) Ella parlò dell'episodio in modo così sconnesso che ancora una volta fu l'impressione generale a prevalere; vedeva così tanto con gli occhi della sua mente che le parole erano superflue. «Allora, da un'amica, era ben oltre gli ottanta, avevano i pavimenti di parquet. Ci prendemmo cura degli ebrei e li nascondemmo lì sotto. Poi aprivamo il parquet per passare giù del cibo.» Pungolata dalle mie continue insistenze Tini elaborò il suo racconto, almeno un po'. Poiché la casa era nel cuore di Colonia, i suoi amici avevano costruito il nascondiglio con estrema prudenza e in assoluto silenzio. «Lo sfondamento fu fatto usando dei sacchi come schermo acustico, così nessuno poteva sentire i lavori e nessuno poteva essere scoperto a portare cibo direttamente alla cantina. Non permettevamo a nessuno di vedere che... Finché qualcuno da qualche parte notò che c'era in ballo qualcosa, e naturalmente noi rimanemmo di stucco.» Quel qualcuno era «nel vicinato». Che cosa fece? «Ci disse: "Figlioli, state attenti. Finirete nella cucina del diavolo".» Ma era alla cantina di un angelo che gli amici volevano arrivare. Dopo aver sollevato un buon numero di assi del parquet, perforarono il pavimento e costruirono una botola sotto cui c'era la cantina, o una sua parte separata dalla cantina vera e propria. Quando non veniva usata la botola il parquet veniva rimesso a posto e il salotto dell'ottuagenaria assumeva un aspetto perfettamente normale. «Facevamo tutto quanto di notte. Degli amici predisposero la cantina, anche con il mangiare. Tutti gli amici si occupavano del cibo. Molto ce lo si procurava trafficando con i contadini. Naturalmente anche con privazioni personali, o vendite.» Tini mi disse che non era molta la gente coinvolta nel progetto, poiché le persone nascoste temevano di essere scoperte. E riguardo a Konrad? Sapeva degli ebrei nella cantina? «No, lui non lo sapeva.» Quelle persone vissero nella cantina, giorno e notte, per nove mesi, mi disse Tini. «Avevano tanta paura» non solo di venire scoperti, ma anche di venire bombardati. «Non potevano andare al rifugio.» La protezione che offriva la cantina era appena maggiore di quella offerta dalla fortuna. E a Colonia, dove i pesanti bombardamenti distrussero il novanta per cento del centro cittadino, la fortuna non durava a lungo. Tini descrisse le incursioni aeree e i combattimenti dentro la città come se stessero entrambi accadendo in quell'istante. Dopo che la sua casa fu bombardata, «andammo in 313

un ricovero d'emergenza proprio sul Reno e avevamo giusto finito la nostra misera cena di Natale. E poi ci fu un allarme importante e poi arrivò una squadriglia di americani sopra di noi e [attaccò i ponti]. Restammo immobili. E poi, quando gettarono le bombe sui ponti, le case si sollevarono, di modo che ogni momento pensavi che stessero per crollare. E il peggio era passato, il resto finì nel terreno. «Ragazzi, l'ultimo ponte era andato. Così la via di fuga si era totalmente interrotta. Nessuno poteva andarsene. Poi mamma. La responsabilità verso nostra madre. Restiamo qui, non possiamo fuggire via dal fronte. Mamma, dove possiamo andare? «E poi un altro giorno. Ci si rese conto che gli americani continuavano ad avvicinarsi e allora noi tutti dovevamo andarcene. Via tutti [come aveva ordinato Goebbels]. Molti abitanti di Colonia rimangono. Non farò un solo passo per allontanarmi dal fronte. Se dobbiamo morire, allora lo faremo a casa nostra. Sappiamo qual è il nostro posto. E allora Goebbels disse: "Quanto alla popolazione di Colonia, faremo i conti con loro dopo la guerra". E io dissi: "Mamma, quello spera addirittura di arrivare alla fine della guerra vivo". Non puoi immaginarti com'era. Poi gli americani si spinsero fino a Colonia. L'esercito tedesco stava sull'altro lato. Moltissimi [soldati] fuggirono. E gli americani sparavano ai tedeschi e i tedeschi agli americani, dove c'erano di nuovo dei tedeschi. Così molti tedeschi furono uccisi perché non volevano lasciare Colonia, perché non sapevano dove andare. Non te lo puoi proprio immaginare. Non te lo puoi immaginare. Era così terribile.» Mi raccontò che dopo uno «spaventoso» bombardamento, una zia (quella a cui piaceva andare a ballare con i Menkel) andò a cercare suo figlio Fritz, cugino di Tini, che era venuto a casa in licenza dal fronte orientale. La donna prese con sé un nipotino, nipote di Fritz, e puntò verso la zona della città che era stata appena bombardata. I morti erano ammucchiati uno sopra l'altro. Il bambino si guardò in giro. «E poi, quando vide una mano stesa, disse: "Nonna. È lo zio Fritz. È il suo anello di matrimonio".» Quando alla fine la guerra terminò, non una bomba aveva attraversato il parquet della casa nel centro di Colonia. «Tutti gli ebrei sopravvissero, quelli che nascondemmo.» Tini mi disse che non appena arrivarono le truppe americane il marito di una sua amica, che «parlava un inglese eccellente», fu assunto da un comandante americano per fare da interprete. (Lo status militare dell'uomo non è chiaro.) «E lui disse loro che un certo numero di ebrei erano nascosti là e che noi li avevamo tenuti in vita e chiese loro dove dovesse andare quella gente adesso. Erano fisicamente e mentalmente allo stremo.» Tini, tuttavia, continuò a comportarsi come prima. Poco tempo dopo la capitolazione vide per la strada una donna «che sembrava così magra e depressa. Dissi, devo parlare con quella donna; forse posso fare qualche cosa; ho delle buone conoscenze. Così la portai da me e le cucinai qualcosa; lei già tremava tanto, e i suoi occhi, le lacrime sgorgavano, così indebolita, finché potemmo parlarci». La donna portò con sé suo figlio. «Quella prima sera si riunirono nella mia casa e parlarono per l'intera notte. E il 314

modo in cui erano passati attraverso la rete dei nazisti era davvero notevole.» La donna era ebrea. Suo figlio era mezzo ebreo. Era affezionato a lei e amareggiato con suo padre che, cedendo alle pressioni, aveva divorziato per non perdere il suo agognato posto di insegnante di belle arti. Ma come succedeva spesso nella Germania nazista, le cose non erano così semplici. Il figlio aveva affrontato il padre accusandolo di essere un codardo, ma a quanto pare non era insensibile alle sue spiegazioni e ai suoi tentativi di aiutare la famiglia. «Ma, ma,» disse Tini. «"Angst im Nacken, Angst im Nacken."» [l'espressione, la cui traduzione letterale sarebbe «angoscia nel collo», si riferisce a una paura opprimente che si sente dietro il collo e che riguarda qualcosa che non è ancora arrivato.] «Ehi, era la tua vita. Potevi anche venire deportato.» Tini si mise a parlare in modo disordinato di pressioni, tradimenti, e di un fratello della donna che era emigrato negli Stati Uniti e aveva passato un periodo molto difficile a cercare lavoro e aiuto. E aggiunse: «Che è sempre la mia grande rabbia contro gli altri. Nemmeno voi li accoglievate». Alla fine Tini trattò da amici anche i soldati americani. «Vennero dove vivevamo. La cosa che non fecero mai, non misero mai giù le loro armi. Si diceva sempre che gli americani erano codardi. No, come? Non sapevano che cosa gli avremmo fatto.» Ma in che modo lei (e anche Konrad, che, mi disse, era invidioso dei suoi tentativi di aiutare tutti) comunicava con i soldati? Attraverso gli altri suoi nuovi amici, la madre e il figlio. «Gli ebrei parlavano un inglese eccellente.» Chiesi a Tini in maniera diretta se aveva saputo che la gente nei campi veniva gassata. «Eh, ja. Questo lo si sapeva. Era filtrato. Ed esattamente...» Deviò su qualcosa che aveva a che fare con le tessere annonarie per i vestiti, quindi riprese il discorso. «Sapevo che venivano deportati. Che si chiamava Theresienstadt e che era detto gassamento.» In che modo si veniva a sapere che... «Non lo so,» mi interruppe. «Una persona o un'altra. E c'erano sempre dei messaggeri, che dicevano, adesso tocca a quel quartiere, oppure a quell'altro quartiere, nicht? Sapevamo solo di questo speciale Auschwitz e di Theresienstadt; i dettagli non li conoscevamo. Ma quando sapevamo che se ne stavano li o che adesso dovevano salire su questi vagoni, questi carri bestiame, ja, e poi dove? Ja, a una gita di vacanza non stanno andando, ne? E non riapparvero mai. E ti dico, erano quelli che avevano qualcosa di sbagliato dal punto di vista fisico o psicologico, erano quelli che avevano raggiunto una certa età.» Dopo un'altra digressione Tini fece un'imitazione sarcastica dei suoi contemporanei. «Ja, che cosa dovevamo fare? Che cosa?» Cambiò di nuovo discorso e poi continuò: «Le grandi masse sono stupide. Guarda la storia. C'è sempre un pifferaio magico. Ooooh,» fischiò. «Ed escono da tutti i buchi. Ooooooh.» La nota era più acuta. «E se continua la disoccupazione nella 315

Ruhr... Cominciò così. Eravamo tutti disoccupati. E questo fu l'appiglio per Hitler». Dopo un'ultima digressione mi disse: «Io non so, erano gli altri che stavano tutti sognando o ero io sola che ero completamente sveglia? Non so. Nessun ebreo mi ha molestato. Erano così fantastici».

NOTE 1 Devo dei ringraziamenti particolari a Petra Gampper per la caparbietà con cui ha cavato dai nastri registrati ogni sillaba che era possibile trascrivere.

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UNA SEMPLICE QUESTIONE D'AMICIZIA (Frau Erna Wickerath)

A un isolato dai negozi del Kurfùrstendamm, il viale di Berlino celebre per l'attività frenetica che lo percorre, si eleva la facciata art nouveau di quello che un tempo doveva essere un elegante palazzo d'appartamenti. Attraverso il suo ingresso alto e scalfito, al di là della tromba delle scale e di una porta posteriore, si raggiunge un grande cortile interno - un giardino pubblico tranquillo e nascosto. Al suo centro, invisibile dalla strada, sorge un altro edificio d'appartamenti, noto ai berlinesi come una «casa giardino». Oltre il suo ingresso vecchio e scalfito, al di là delle biciclette parcheggiate nel buio vestibolo, in cima a quattro rampe di una scala a chiocciola, si apre la porta di un appartamento arredato in modo semplice. Vi abita, da cinquantanni, Erna Wickerath. Nata a Berlino nel 1909, Frau Wickerath non ha mai lasciato la città, come testimoniano il suo accento e il suo orgoglio di berlinese. «Bin eine Berlinerin,» mi disse più di una volta. Inoltre, grazie a una vita spesa in lavori pesanti e mal pagati - dall'infanzia fino ai sessant'anni - le si adatta la definizione tedesca di «lavoratrice». Non è stato facile, mi disse senza enfasi. Adesso che riceve la pensione dal governo le sue condizioni finanziarie sono un po' migliorate. Potrebbe permettersi di «fare un viaggio da qualche parte per una volta». Frau Wickerath non spende molti soldi per curare il suo aspetto. La prima volta che ci incontrammo portava i capelli dritti e lisci, con la frangia, e indossava un abito da casa largo e semplice. Ma gli occhi le si illuminavano come quelli di un folletto e il suo sorriso era pronto. I vuoti lasciati da alcuni denti tolti di recente e non ancora rimpiazzati dal suo dentista le davano un certo imbarazzo. A volte celava la bocca in un mezzo sorriso. Oltre a essere una berlinese e una lavoratrice, Frau Wickerath appartiene a una categoria più rara. Nel vocabolario della coscienza del dopo Olocausto, la si definisce una «gentile proba», cioè una non ebrea che durante il Terzo Reich ha salvato la vita di un ebreo. E sottinteso che una tale rettitudine comporta il fatto di non aver agito per alcun vantaggio materiale, oltre al fatto di aver messo a rischio la propria vita. Di solito un gentile probo offrì cibo e ospitalità per periodi di tempo variabili a seconda delle circostanze. Frau Wickerath fornì a una donna di nome Hildegard Naumann tanto cibo quanto ospitalità per più di due anni. È ovvio che offrire un aiuto del genere fosse pericoloso in sé. Ma negli anni in cui lo offrì Erna Wickerath, dal 1943 al 1945, un periodo contrassegnato da estese retate e grandi massacri di ebrei, era quasi un suicidio. Questa è la descrizione che ne dà uno scrittore: «Non ci poteva essere niente di più miracoloso che la sopravvivenza di un ebreo a Berlino negli 317

ultimi anni della Seconda Guerra Mondiale».1 Nel caso di Frau Wickerath, inoltre, il pericolo era molteplice: i suoi vicini erano nazisti. In quegli anni, poi, per quasi tutti i berlinesi crebbero le sofferenze. C'era scarsità di cibo, di acqua, di combustibile da riscaldamento, di vestiario, di alloggi. Ma non c'era affatto scarsità di nazisti, sempre vigili a osservare dove uno andasse e cosa dicesse; né c'era scarsità di bombardamenti aerei. Come mostrano le fotografie e i documentari filmati, Berlino era sempre meno abitabile. Eppure, quando si ascolta Frau Wickerath che parla di ciò che fece, sembra che i pericoli non avessero peso e che le privazioni personali fossero irrilevanti. Frau Naumann era la sua cara amica. L'amicizia non si sviluppò sulla base di qualche evidente punto che accomunasse le due donne, dato che di certo non c'era nulla del genere. Di fatto, se Hitler non fosse andato al potere, le strade di Erna Wickerath (allora Erna Krzemieniewski) e di Hildegard Naumann probabilmente non si sarebbero mai incrociate. Furono i nazisti a offrire loro un'occasione di amicizia. Si conobbero nell'estate del 1935, sulla spiaggia di un lago berlinese. Avevano entrambe ventisei anni. Frau Wickerath, parlando con voce acuta nel suo Berlinerisch rapido e chiaro, mi descrisse la scena come se fosse successa cinque minuti e non cinquantanni prima. «Eravamo andati tutti a nuotare. Con mio marito e altri, anche se allora non ero sposata, facevamo una compagnia: molti giovani uomini e solo due o tre donne. E lei seduta là sola sembrava così triste. Vidi che era ebrea, un'"ebrea autentica". Ne aveva proprio l'aspetto. Pensai: "Dio, se ne sta lì seduta tutta sola. Può venire a divertirsi con noi e possiamo nuotare assieme e così via". E poi si sviluppò un'amicizia. Lei venne a trovarmi e poco tempo dopo facemmo un viaggio in bicicletta. Era il '36. Andammo persino in Italia e in Svizzera. Non portammo le biciclette in Italia perché ci sarebbe costato mille marchi e una cifra del genere non l'avevamo. In realtà lei aveva... Be', suo padre era giudice, ma era morto. Aveva ancora la madre e una sorella, ma non viveva con loro.» Benché Frau Wickerath parlasse con uno stile piatto, i suoi discorsi erano così poco lineari, con una frase o un concetto che spesso finivano solo dopo molte divagazioni, che temetti di essermi lasciata sfuggire una sottigliezza. Intendeva dire, le domandai, che al lago si era avvicinata a quella donna semplicemente perché le sembrava ebrea? «Ja, natürlich. Solo perché mi faceva sentire dispiaciuta per lei. E comunque noi non eravamo contro gli ebrei o simili. Non c'era odio in noi. Nemmeno a casa. Dei miei fratelli, uno rimase disoccupato sette anni e l'altro quattro e non si iscrissero al Partito. Furono moltissimi a iscriversi ed è per questo che diventò così grande, proprio perché non c'era lavoro. E molti si iscrissero per l'entusiasmo, no? E in seguito alcuni se ne restarono, be', in silenzio. Ecco come andava allora. Ma noi avevamo poco a che fare con simile gente. Anch'io rimasi senza lavoro, per un anno intero. In precedenza avevo lavorato in una fabbrica di confezioni. Comunque, volevo raccontarle della mia amica. Dunque, non feci altro che andare da lei e invi318

tarla, dato che era seduta là da sola e probabilmente vedeva che noi... Può darsi anche che si fosse seduta nelle vicinanze per questo motivo.» Le chiesi se fosse già a conoscenza del fatto che... Frau Wickerath mi interruppe prima che avessi spiegato a cosa mi riferissi. «Ja, è ovvio. Era già cominciato. Non che fossero perseguitati in modo così diretto, ma nel '35, sì, era cominciato. Sapevamo già...» fece una pausa e riprese a parlare con un filo di voce, «che molta gente era contro gli ebrei. E che avevano un altro credo religioso. Ma lei non era una donna devota.» All'improvviso Frau Wickerath proruppe in una risata cordiale e vivace, una risata apparentemente nervosa con cui avrebbe punteggiato spesso le sue frasi. «Lei non era affatto devota. Ma era un'intellettuale.» In seguito Frau Wickerath mi disse che «la mia amica [meine Freundin]» conosceva l'inglese, il francese e il latino, avendo ricevuto «una buona educazione». E aggiunse: «I genitori erano ricchi». Era un nesso appropriato. Nella Germania dei primi decenni del ventesimo secolo un'educazione superiore era riservata quasi esclusivamente ai benestanti. Non era solo una questione di soldi, ma anche di tempo. I figli che andavano a scuola non potevano lavorare a tempo pieno per aiutare la famiglia. Un'educazione di questo genere non faceva parte delle prospettive di cittadini tedeschi poveri come i fratelli e le sorelle Krzemieniewski. Hilde Naumann aveva usato la sua istruzione per diventare bibliotecaria. Ma una delle prime leggi emanate dai nazisti le troncò la carriera. Gli impieghi pubblici erano riservati agli «ariani». «In seguito non riuscì a ottenere un posto. Poi lavorò in un negozio di mobili, poi qui, poi là. E più tardi dovette lavorare in una fabbrica, per la guerra.» Nel ricordo di Frau Wickerath, non appena Hitler andò al potere nacquero nuove opportunità di lavoro, ma tutte legate all'industria del riarmo. Una delle ditte che cercava operai era la Siemens, l'azienda elettrica di dimensioni smisurate. Nonostante l'evidenza dei legami della Siemens con l'industria militare, la prospettiva allettante di un impiego rese felice Erna. Venne assunta per un corso preparatorio all'assemblaggio di componenti elettrici. (Ottenne la qualifica per il corso, mi disse, perché aveva «occhi molto buoni».) Sembrava ancora a disagio per il solo fatto di essersi avvicinata alla Siemens. «Mi dissi, fai la domanda così per lo meno avrai un lavoro. Eravamo poveri. Eravamo molto poveri, in realtà. Da piccoli consegnavamo i giornali, li mettevamo davanti alle porte alle cinque del mattino. E io andavo anche in campagna, a lavorare per gli agricoltori.» Rise di nuovo. «Ja, ja, ne passammo tante. Da povera gente...» si corresse, «da persone povere, se ne passano tante in ogni caso.» La famiglia Krzemieniewski - nonna, genitori, quattro figli, più i parenti acquisiti successivamente - era molto unita, e lo è ancora oggi. Una chiara situazione d'armonia è quella che intercorre fra Erna Wickerath e sua sorella minore, una vedova di nome Elsa Blisse con cui vive e che si unì a noi per l'intervista, considerandola evidentemente una cosa ovvia. Frau Blisse ebbe i propri traumi del tempo di guerra, comprese le torture che i 319

nazisti inflissero a suo marito e lo stupro che lei subì da un soldato russo. È una donna di corporatura massiccia e di modi delicati; ha gli occhi tristi e qualche problema alle gambe. Le lunghe rampe di scale devono essere un tormento per lei. Benché le due sorelle rivelassero personalità diverse, ognuna completava e faceva eco alle frasi dell'altra con naturalezza, come se avessero proprio le stesse idee. A quanto pare questo valeva anche per i loro genitori. Il che significava, disse Frau Wickerath, che non erano per nulla favorevoli a Hider. Suo padre votò sempre per la SPD, il Partito socialdemocratico. Lei ne parlava come del «Partito dei lavoratori». Era anche contro l'aristocrazia, mi riferì sua figlia con un sorriso timido, come se avesse detto qualcosa di irriverente. Ma non era contro gli ebrei. «Per nulla. Al contrario. Comprava da loro, faceva affari, commerciava con loro. No, nostro padre non era per nulla contro gli ebrei.» Era chiaro dal tono in cui me ne parlava che Frau Wickerath adorava suo padre. Per un periodo Herr Krzemieniewski lavorò nell'azienda del gas di Berlino, per pochi soldi, mi disse. «Ma mio padre faceva un sacco di cose. Era anche musicista. Suonava d'inverno, prima di avere il posto nell'azienda municipale e quando non era ancora sposato né altro. E d'estate andava ovunque. Poi voleva emigrare in America, per evitare di andare nell'esercito. Restò in servizio solo un anno, dato che sua madre era anziana. A quel punto non poteva più andare in America. Lavorò anche in un ufficio. Poteva fare qualsiasi cosa.» L'abbraccio della cerchia dei Krzemieniewski e dei loro amici si aprì immediatamente per accogliere Hilde Naumann. «Veniva sempre a trovare me e i miei conoscenti. Li conobbe tutti, il mio futuro marito e tutti gli altri, poiché eravamo molto appassonati di sport. Mio marito giocava a pallone elastico. Eravamo una specie di compagnia. Eravamo un gruppo, no? Eravamo giovani. A ogni modo, nacque un'amicizia. Lei fece visita a mia sorella e una volta la accompagnai a far visita a mia suocera.» A sua volta Hilde Naumann portò la nuova amica Erna a conoscere i suoi parenti. Era trascorso forse un mese dall'inizio della loro amicizia quando i nazisti emanarono le leggi di Norimberga sulla razza, che vietavano, fra l'altro, i rapporti di quel genere. Frau Wickerath sapeva, mi disse, che «uno non avrebbe più dovuto frequentare degli ebrei». Quale fu la sua reazione? «Volevamo emigrare tutte e due, più tardi, in Canada.» Il fatto che lei sapesse così poco sul Canada, che «non rappresentava nemmeno un'idea per me», non importava. «Ach, pensavo, può darsi che mio marito ci seguirà laggiù, o qualcosa del genere, poiché il periodo nazista... Pensavo, via. Io non ero per nulla favorevole al nazismo. Molti se ne andavano, e anche lei voleva farlo. Ma non ci riuscì, dato che ormai non poteva uscire dal paese.» Le chiesi se Frau Naumann era conscia del pericolo in cui la metteva per il solo fatto di stare con lei. «Questo lo sapeva, lo sapeva,» mi rispose. «Tutte e due stavamo in guardia, questo è ovvio.» La cautela caratterizzò anche il viaggio in bicicletta che cementò la loro amicizia. «La conoscevo

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già da un anno intero. E anch'io,» rise, «ero pronta all'avventura. Dicemmo, d'accordo, faremo un viaggio insieme.» All'epoca, mi disse, i tedeschi non potevano portare fuori dal paese più di dieci marchi. Ma Hilde Naumann riuscì a procurarsi novantacinque marchi per ciascuna di loro. «Probabilmente grazie a delle conoscenze che aveva, non lo so. Ma comunque novantacinque marchi non era una grande cifra.» La scarsità di soldi non fu l'unico ostacolo che le due donne dovettero affrontare. In Germania, i viaggiatori che volevano passare la notte in una città dovevano registrarsi alla polizia locale. «Quando veniva l'ora di trovare un posto dove fermarsi, ero sempre io che andavo alla polizia. Lei non si fidava. La polizia era già... be', anche se non erano tutti ^cx Hitler, tuttavia i nazisti avevano costretto un sacco di poliziotti a dimettersi e li avevano sostituiti con i loro uomini. Conoscevo un poliziotto a cui era stato chiesto di iscriversi al Partito e che non l'aveva fatto e venne licenziato.» Frau Wickerath disse che anche quando entrava in una stazione di polizia non salutò mai una volta con lo «Heil Hitler!» che pure era obbligatorio. Né, a sua detta, seguiva con assiduità le altre direttive dei nazisti. «Quando ero tenuta ad appendere una bandiera con la svastica, tiravo giù le imposte. Dicevo: "Cosa volete da me? Io lavoro; non guardo né a destra né a sinistra". Venivano a chiedermi perché non mettevo fuori la bandiera, perché non "sventolavo", nicht?» E durante le parate naziste, «ci defilavamo un po', dall'altro lato della strada o qualcosa del genere, nicht? Poiché... voglio dire, lei aveva un autentico aspetto ebreo». Le chiesi che cosa intendesse per autentico aspetto ebreo. «Be',» mi rispose Frau Wickerath, «gli occhi. Erano in molti ad avere quell'aspetto. Ma non tutti. Molti erano biondi. C'era anche questo.» Frau Blisse disse di credere che gli ebrei fossero un'altra razza. E aggiunse: «Quando lasciarono la Galizia e vollero venire qui a Berlino, in un modo o nell'altro dovettero pagare. Non fu permesso loro di imparare una professione ed è il motivo per cui divennero tutti banchieri e persone istruite. Non permisero loro di imparare un mestiere». Frau Wickerath, che era uscita dalla stanza durante questa breve discussione sulla razza, a un certo punto disse soltanto: «Be', se lei l'avesse vista per la strada, avrebbe detto che era di discendenza ebrea». Tornando al viaggio in bicicletta, mi raccontò che dopo che si erano registrate alla polizia, «ero io che andavo a cercare il posto in cui ci saremmo fermate. E lei conosceva il latino eccetera e mi dava sempre spiegazioni sulle chiese e sulle decorazioni e su ogni altra cosa; e le iscrizioni in latino: cosa significavano e tutto quanto. Così,» fece una risata allegra, «ci compensavamo a vicenda». Che tipo di donna era Hilde Naumann? «Che tipo di donna?» Evidentemente non preparata a una domanda di quel genere, Frau Wickerath la ripetè, ci pensò un po', e alla fine replicò con parole di lode. «Una donna semplice. Non era a favore dei ricchi, era piuttosto, be', dalla parte della gente più povera.» La vecchia amica si interruppe di nuovo, come se volesse assicurarsi di essersi espressa bene. «Ja,» concluse. 321

«L'opulenza e tutto il resto, nella casa dei suoi, non le piaceva. È per questo che se ne andò, a ventun anni. C'erano sempre riunioni mondane eccetera. E a lei non piacevano per niente. Se ne andò di casa già prima dell'avvento di Hider. Ecco perché si sentiva a suo agio quando era con noi.» La loro amicizia era stata fissata in alcune istantanee. Frau Wickerath, dopo essersi allontanata per un minuto (perdendosi così le considerazioni di sua sorella sulla razza) tornò con un pugno di foto in mano. In una delle fotografie si vedeva la «compagnia» di amici sulla spiaggia. All'estrema sinistra di un gruppo di giovani in costume da bagno c'è Hilde Naumann. Tiene lo sguardo basso. Frau Wickerath si accigliò. «Ha abbassato la testa. Forse di proposito, sa? Di proposito.» Guardò più da vicino. « Q u i non sembra tanto a suo agio,» disse, e rise come per giustificarsi. «Ecco. Qui sorride!» Frau Wickerath aveva trovato un'altra foto: quattordici persone alla festa di matrimonio di Frau Blisse. E l'immagine di un gruppo di persone indiscutibilmente allegre e niente affatto eleganti: una nonna panciuta, un ragazzino coi denti sporgenti, e tutt'e due felici quanto si può esserlo. In piedi dietro alla coppia nuziale (Frau Blisse, una sposa massiccia in un abito a fiori, sorride al fianco di un uomo dal volto felice) c'è una fila di parenti e di invitati. All'estrema sinistra si vede Hilde Naumann. È una giovane attraente, dai capelli neri, che sorride verso la macchina fotografica. Di fianco a lei, altrettanto sorridente, c'è la sua amica Erna Wickerath. « Q u i può vederla molto chiaramente,» mi disse. All'altro lato di Frau Wickerath, diviso da lei da un'altra persona, c'è Herr Wickerath, con lo sguardo rivolto al soffitto. Frau Blisse osservò a lungo la foto del giorno del suo matrimonio. Avrebbe parlato della cerimonia, di suo marito, dei suoi progetti? «Aveva dei magnifici capelli folti,» disse. Alcuni momenti del passato potevano venire fissati nella pellicola o nel ricordo, ma la realtà pubblica e privata in cui avevano luogo, così come l'ampio scenario in cui si intersecavano, stavano cambiando in fretta. Nel 1937 Frau Wickerath, ormai sposata, diede alla luce il suo unico figlio, Peter. (Oggi è ingegnere, ed è l'orgoglio di sua madre.) Dopo la sua nascita, Erna tentò ripetutamente di lasciare il lavoro alla Siemens, un'iniziativa condivisa da suo marito. Ma, mi disse, una direttiva nazista stabiliva che le donne dovessero continuare a lavorare a meno che non avessero due bambini piccoli. Continuò quindi a lavorare. Il bambino stava nel Kindergarten della Siemens, dove «si trovava abbastanza bene». Allo scoppio della guerra Herr Wickerath fu arruolato quasi subito. «Lui non la pensava a quel modo. Nessuno di loro. Purtroppo tantissimi [della loro «compagnia» di giovani sportivi] morirono in guerra. Tantissimi. Erano buoni amici. Ja.» Frau Wickerath appariva indicibilmente triste. Le deportazioni degli ebrei colpivano la sua vita personale in maniera quasi altrettanto acuta di quanto faceva la guerra. Sia lei che Hilde Naumann ne erano a conoscenza. «Nel 1942 lei mi raccontò che i nazisti ne arrestavano moltissimi, anche prima. Aveva già la sua capsula [di veleno] e aveva uno zaino pronto per quando fosse stata arrestata, così che ci avreb322

be messo tutto il proprio bagaglio, mi disse. E io le dissi: "Sai cosa, Hilde? Se si arriva a questo punto, tu vieni da me. E poi vedremo come va, nicht?" Non fu lei a chiedermelo.» La loro amicizia fu messa alla prova l'anno successivo. «Sua madre viveva in Niimbergstrasse, e anche la sua tata. A ogni modo, a casa avevano del personale. Una tata, una domestica e una governante, credo. Nel frattempo la tata era diventata vecchia e cieca. Viveva ancora con la madre di Hilde. Veniva dalla Prussia orientale. Avevano anche una balia. Erano ricchi.» Dopo che il padre di Hilde morì (prima dell'avvento di Hitler), sua madre si trasferì in una casa più piccola. «Un paio di volte [Hilde] mi portò da lei, e da suo cugino. Conobbi anche sua sorella. E successe che, un giorno prima di venirmi a trovare, mi disse che sua sorella era stata portata via. Non tornò più. E io le dissi di nuovo: "Allora vieni. Se si arriva a quello, tu vieni da me".» Hilde Naumann andò ad abitare con Erna Wickerath e con suo figlio Peter nel gennaio del 1943. Per quanto strano, la clandestinità le diede una maggiore libertà. Hilde Naumann smise di portare la stella. E come molta gente che preferì ad altri rischi quello di una vita clandestina, aveva la sensazione di poter camminare con una certa sicurezza per la strada, protetta dall'anonimato. Ma quella pausa di tranquillità, comunque fosse, non durò a lungo. Ben presto venne a sapere che sua madre aveva scelto un'altra via per sottrarsi ai nazisti. Il resoconto di Frau Wickerath fu conciso in modo straziante. «Sua madre si tolse la vita. Aveva del veleno. Quando fossero arrivati a quello, quando avessero voluto portarla via, avrebbe ingerito la capsula di veleno. E fece proprio questo e morì. [Hilde] andò a trovarla e lei era ancora calda.» Quasi immediatamente dopo aver visto sua madre, Hildegard Naumann vide la sua vecchia tata. Non sappiamo chi delle due riferì all'altra ciò che era successo, ma sappiamo che quella «ariana», anziana e cieca, sia che sapesse già, sia che fosse venuta a conoscenza in quel momento della morte della signora presso cui aveva prestato servizio per tanti anni, offrì alla giovane donna di cui un tempo si era presa cura un ultimo, tempestivo gesto di protezione: la avvertì del fatto che la Gestapo la stava cercando. Non conosciamo il turbine di pensieri che attraversarono la mente di Hilde Naumann in quei momenti, ma sappiamo ciò che fece. Senza avere il tempo di piangere sua madre, né di seppellirla, né di portar via un oggetto che le ricordasse la sua infanzia prima che i nazisti lo confiscassero, Hilde tornò fuggendo al suo nascondiglio. L'appartamento di Erna Wickerath doveva essere il solo posto al mondo in cui si sentiva completamente al sicuro. Ciò che per Hilde Naumann significava sicurezza, significava pericolo non solo per Erna, ma anche per suo figlio, che aveva allora sei anni. Frau Wickerath lo riconobbe: «Sapevo che era pericoloso. Vedevamo già, dopo tutto, il modo in cui venivano portati via gli ebrei. Li conoscevamo. Andavamo a comprare le uova da uno che chiamavamo "l'ebreo delle uova". 323

Vedevamo il modo in cui li portavano via». Disse che succedeva di giorno. «Dovevano arrampicarsi [sui camion] e se non erano abbastanza rapidi, be', li aiutavano.» La gente urlava mentre veniva portata via? «Nein, niente affatto,» disse. «Erano molto silenziosi.» Era pienamente consapevole del fatto che ciò che i nazisti facevano ai suoi vicini ebrei, avrebbero potuto farlo anche a lei. «Se fossero venuti qui, se fossi stata portata a un campo, non sarei più ricomparsa. Natürlich, sapevo che era verboten.» Frau Wickerath si passò l'indice sul collo. «Pena di morte.» Eppure, quando le chiesi se pensava spesso al pericolo, mi rispose: «Ach Gott, be', io, io...» e si perse in balbettii finché non riuscì a trovare una definizione appropriata. «Vede, uno lavorava. Non so. Non ero per niente preoccupata del pericolo. Ma devo dire che non sono una persona che si spaventa tanto facilmente...» «Soprattutto,» la interruppe Frau Blisse, «eravamo giovani.» Frau Wickerath le fece eco: «Eravamo giovani. Ed eravamo contrari». Nonostante sapessero che Hilde Naumann ed Erna Wickerath avevano rischiato la vita, sembrava che le sorelle non avessero saputo delle camere a gas. Domandai in modo diretto se a quel tempo fossero a conoscenza del destino che attendeva coloro che erano stati portati via. Tutt'e due mi risposero di no. Quando chiesi se Hilde Naumann sapesse che lei stessa avrebbe potuto essere uccisa in un campo, Frau Blisse mi rispose: «Certo che lo sapeva, alla fine». («Alla fine», tuttavia, poteva voler dire dopo la guerra, quando la liberazione dei campi di sterminio e l'esistenza dei forni e delle camere a gas erano ampiamente noti.) Frau Wickerath interloquì: «Se l'avessero acciuffata [geschnappt] qua, avrebbero potuto ucciderla, nicht? Non lo so». Ma quando le chiesi se Frau Naumann sapeva che gli ebrei venivano deportati nei campi di sterminio, mi rispose: «No, non credo. Non credo che ne sapesse nulla». Al che intervenne Frau Blisse: «Dove vivevo, una volta Frau Koch mi disse: "Non torneremo. Ci uccideranno tutti"». «Ja, ja,» la interruppe Frau Wickerath. «Che non sarebbe tornata. Quello sì.» «Alcuni lo sapevano già, ciò che era in serbo per loro,» disse Frau Blisse. «Forse lo sapeva anche lei,» ammise Frau Wickerath. «Non ne ho idea.» «È ovvio,» aggiunse Frau Blisse. «Quando venivano portati via, venivano mandati a lavorare, nutriti in modo terribile...» E dunque, a quanto sembrava, fin dall'inizio si era riferita a una morte causata dalle privazioni e non dal gas. Frau Wickerath l'aveva interrotta di nuovo. «L'unico era Theresienstadt. Lì ci tenevano la gente anziana. Lì molta gente rimase viva. Non li ga...» si impuntò, «gassavano così tanto. Portavano via anche persone di altre religioni. E anch'esse finivano nei campi di concentramento esattamente allo stesso modo, non soltanto gli ebrei. Mio fratello...» Frau Wickerath si imbarcò in una confusa digressione che comunque alla fine si ricol324

legava al tema. Suo fratello faceva l'elettricista, un lavoro che lo aiutò a evitare la prima linea. Dopo aver lavorato alla Siemens, mi raccontò Erna, fu assegnato al complesso di Peenemünde, con Wernher von Braun,2 e poi a un campo di lavoro, il lager Dora. Essendogli stata affidata la responsabilità dell'installazione e della manutenzione dell'impianto elettrico del campo, aveva alle sue dipendenze gruppi di otto prigionieri per ogni turno. Poiché si sentiva in pena per loro, che erano sfiniti (di solito al gruppo non veniva concessa più di un'ora di sonno alla volta a causa degli allarmi aerei, e perfino durante quel poco tempo venivano sorvegliati «dalle SS che saltellavano intorno»), egli approntò un letto nel piccolo locale in cui c'erano i comandi dell'impianto. Sulla porta appese un cartello: Pericolo di Morte. Severamente Vietato l'Ingresso. Là dentro, i prigionieri che gli venivano assegnati («Per lui era lo stesso se si trattava di un ebreo o di chiunque altro») potevano prendersi a turno un paio di ore di riposo, senza essere infastiditi dalle SS. «Ricevette moltissimi inviti dopo la guerra,» rifletté Frau Wickerath, «e non volle niente,» concluse. Poi riprese l'argomento precedente come se si fosse concessa solo un momento di pausa per fare un inciso. «E molti morivano. E venivano ficcati nei forni. Quelli che non potevano lavorare e via dicendo. Avevano dei forni enormi. Mio fratello vide anche questo, ja. Li ficcavano dentro. Jawohl. Lui mi diceva tutto perché sapeva che non ne avrei parlato, che non l'avrei raccontato a nessuno.» Frau Wickerath ipotizzava che suo fratello le avesse fatto quelle confidenze verso la fine del 1944. E lei gli confidò che stava dando nascondiglio a Hilde. «I miei due fratelli lo sapevano. Anche mia suocera lo sapeva. Anche mio marito. Naturalmente tutti loro lo sapevano.» Erano d'accordo? «Be', certo che erano d'accordo. Naturalmente non erano contrari. Ma avevano anche paura. Questo è chiaro. Se mio marito fosse stato qui, non avrebbe fatto obiezioni. Nessuno le avrebbe fatte. Nemmeno tuo marito,» disse rivolgendosi a sua sorella. «Mio marito, tutti lo sapevano,» replicò lei. «Una volta lo portarono via,» disse Frau Wickerath. «Raccontaglielo.» «Ach,» disse Frau Blisse, che sembrava a disagio. «Fu tanto tempo fa.» «Tanto tempo fa, ja,» ripetè Frau Wickerath. «I nazisti lo fecero stare in piedi per un paio di giorni sotto l'acqua. Poi fu mandato in ospedale. Loro in realtà...» «Lo portarono semplicemente via con loro, lo arrestarono per la strada,» disse Frau Blisse. Cominciò a piangere silenziosamente. «Poi arrivarono da qualche parte e poi, non so. Fecero loro ogni possibile cosa.» Sembrava che il ricordo la torturasse.3 Frau Wickerath, notando l'angoscia di sua sorella, riprese in mano la situazione con prontezza, raccontandomi che anche suo marito era stato catturato da alcuni nazisti prima che Hitler andasse al potere, ma che si liberò da solo. Un'altra volta, mi disse, lo presero e lo picchiarono finché non divenne «krumm» [curvo]. Cominciò a parlarmi di un conoscente che 325

era stato portato in uno scantinato, quando Frau Blisse la interruppe per ricordarle di tornare a Hilde. «Ach! Ovviamente è più importante,» rispose Frau Wickerath. «Lei può davvero tralasciare tutto il resto,» aggiunse come per giustificarsi. Mi fu difficile non cedere alla commozione. «Uno non si ricorda di tutto,» continuò. «Ma era un periodo in cui si dovevano tenere gli occhi aperti. E noi li tenemmo aperti. Non tutti lo fecero. Molti sostenevano, e sostengono ancora, di non aver visto niente e di non aver saputo niente.» Come reagisce di fronte a gente simile? «Chiarisco loro le idee. E a volte abbiamo una vera baruffa. Jawohl. Alcuni sono favorevoli ancora oggi, non se ne sono neppure allontanati. C'è ancora qualcuno così. Non proprio favorevoli, diciamo, ma trovavano quel periodo nient'affatto brutto, poiché avevano una posizione elevata e non se la passavano male eccetera. Ja, molti andavano dietro al denaro.» Frau Wickerath tirò le somme: « È sbalorditivo». Quando Hilde Naumann entrò a far parte stabilmente della famiglia Wickerath, si dovette fare qualche piccolo aggiustamento. «Lei veniva sempre da me prima. Poi venne e semplicemente ci rimase. Anche i conoscenti che venivano a trovarmi - ognuno di noi provava sentimenti diversi, nicht? - potevano vedere e sapere che era una Jùdin. Ma quando venne a vivere con me, io dovevo lavorare, e siccome avevo il ragazzo, il bambino, otto ore di lavoro e poi la spesa e tutto il resto, passavano dodici ore prima che tornassi a casa.» Disse anche: «Non avevo tanto tempo per riflettere». La frase accese un barlume nella mia memoria. Altre donne mi avevano detto la stessa cosa, quasi parola per parola. Ma Frau Wickerath pronunciò la frase per non dare troppo peso al proprio coraggio. Altre donne la pronunciarono essenzialmente per difendersi. Una componente importante dei rischi che si assunse Frau Wickerath coinvolgeva suo figlio Peter. Era evidente che anche lui avrebbe potuto essere ucciso (o, come minimo, sottratto a sua madre) se i nazisti fossero venuti a sapere che Frau Naumann si nascondeva a casa loro. Nel tentativo di non fare scoprire la verità ai nazisti, Frau Wickerath fece in modo di nasconderla anche a Peter. «Al mattino lei era sempre nell'altra stanza. D'inverno faceva molto freddo. La stanza era un po' riscaldata. Per il riscaldamento usavamo il carbone. Non avevamo molto durante la guerra e dovevamo superare dei periodi duri.» Frau Wickerath, dopo aver dormito nella fredda stanza da letto con Peter, al mattino presto lo portava nel soggiorno più caldo. «Vestivo il mio bambino vicino alla stufa calda; lui era assonnato e io lo distraevo così che non vedesse che c'era qualcuno che dormiva nel letto o che era lì sdraiato. Non volevo che lui sapesse, perché lei sa come sono i bambini. Aveva sei anni. Era proprio un bambino. Poi, alla fine della guerra, ne aveva otto, e in un modo o nell'altro avrebbe potuto lasciarsi sfuggire qualcosa. Voglio dire, senza nessuna volontà di far del male. Ma quando lei era lì di sera, o quando venivamo a casa, o era lì di

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domenica, be', allora era solo Tante Hilde [zia Hilde] che stava da noi. Questo non aveva importanza. Solo non volevamo che lui vedesse che Hilde viveva o dormiva da noi. E lei non poteva farsi vedere troppo. Quando c'erano i bombardamenti aerei, che divennero sempre peggio, lei andava nel rifugio antiaereo pubblico.» Per proteggere ancora di più Frau Naumann, i Wickerath e i loro amici le diedero il divertente nome in codice di «Otto otto», nel caso che inavvertitamente qualcuno, compreso Peter, sentisse parlare di lei. La situazione peggiorò, tanto per Berlino quanto per la famiglia Wickerath-Naumann. Frau Wickerath disse tutto con una sola frase: «Poi la mia casa fu bombardata e portai Hilde qui con me». Il bombardamento fece molte vittime, mi disse, comprese tre persone nell'edificio in cui viveva. Se non avesse seguito il suo istinto, anche lei e Peter avrebbero potuto morire. «Non sempre andavo giù [nel rifugio] quando c'era un allarme. Quando quel giorno suonò la sirena, mi dissi: "Oggi ho la sensazione che sia meglio andar giù". Avevo già i miei documenti in una borsa. Eravamo giù da meno di cinque minuti quando successe. La casa era kaputt. Voglio dire, non completamente andata, ma kaputt.» Inoltre lei e Peter si sedettero in fondo al rifugio invece che vicino all'entrata, come facevano di solito. «Altrimenti saremmo stati uccisi.» Il nuovo appartamento che fu assegnato a Frau Wickerath dal governo nazista era stato occupato in precedenza da inquilini ebrei. E così, per una delle tante ironie che riempiono gli archivi del Terzo Reich, lo sarebbe stato di nuovo. Il governo comunicò a Frau Wickerath che era tenuta a ospitare anche un inquilino a pagamento. (I nazisti non sapevano dei vari parenti e amici a cui lei già dava rifugio, una volta perfino sette in una stanza.) Erna riuscì a trovare un inquilino di cui si poteva fidare, una giovane donna. «Non era favorevole. Lo sapeva, ja, ma non mi avrebbe tradito.» Ciò che in queste due frasi Frau Wickerath lascia sottinteso è chiaro: nel primo caso si tratta del regime nazista e nel secondo della presenza clandestina di Frau Naumann. «A ogni modo era già più dalla parte dei lavoratori,» aggiunse. «Credo perfino che fosse comunista. Anche i comunisti aiutavano le persone e le nascondevano. Ja, i lavoratori. Direi invece che talvolta erano gli intellettuali a tirarsi indietro. Non c'è dubbio che si tirarono indietro. Voglio dire, Hitler non ce l'avrebbe mai fatta. E poi dicono che la colpa è dei lavoratori.» Frau Wickerath rise con amarezza. Nel nuovo appartamento della «casa giardino» Frau Naumann o dormiva nella stessa stanza di Frau Wickerath, o «nella stanza della cameriera, dato che c'era il bambino. Andava bene per dormirci. Qualche volta ho avuto qui degli ospiti di mio figlio, in effetti, anche uno "di buona famiglia". E ne è rimasto soddisfatto. Non era poi così piccola, la stanza. Non c'era dentro niente; solo una vecchia scrivania. Ach, lei fu contenta di avere una stanza». La porta del locale è di fronte all'ingresso dell'appartamento. Frau Wickerath mi fece notare la praticità della posizione: Hilde poteva uscire di 327

casa velocemente durante i bombardamenti. Su mia richiesta (con un insolito accenno di esitazione) aprì la porta per farmi vedere la stanza. Era di circa tre metri per due, con armadi a muro e un bel soffitto alto come nel resto dell'appartamento. Naturalmente adesso veniva usata, fra l'altro, come ripostiglio. Sopra le nostre teste si incrociavano le corde con il bucato steso. Era questa, a quanto pare, la ragione per cui Frau Wickerath aveva esitato a mostrarmi quello che considerava, ovviamente, un luogo sacro. Tornate nel piccolo soggiorno (che, come più tardi scoprii, era la stanza da letto di Frau Blisse) Frau Wickerath continuò parlandomi di Peter, che fino alla fine della guerra non seppe mai che Tante Hilde dormiva da loro ogni notte. Ma il fatto di dover nascondere a Peter la condizione di Frau Naumann costituiva una preoccupazione abbastanza secondaria. Quella primaria era di non rivelare la sua presenza ai vicini. «Dovevo stare in guardia. Sotto di me abitava un dottore che era nel Partito. Non so se fosse un nazista convinto. Nel palazzo mio figlio era molto benvoluto. E a volte [il dottore] gli dava qualcosa in regalo, come un pezzetto di cioccolata. Probabilmente gli piacevano molto i bambini. Non ne aveva di suoi. Ma ovviamente non doveva saperlo, nicht? Questo è chiaro. Non ci si fidava di nessuno. Voglio dire, è probabile che ce ne fossero alcuni che non erano fatti a quel modo...» Mentre diceva «a quel modo» Frau Wickerath, come turbata, si diede dei colpetti sulla parte superiore del braccio sinistro. Era in quella posizione che si indossava la fascia con la svastica. Aggiunse che siccome aveva poco tempo per i vicini, aveva anche pochi contatti con loro. Tuttavia, sia lei che Hilde erano ben consapevoli del fatto che fra loro c'erano dei nazisti. Questo pensiero dovette farle ricordare che i pericoli posti da vicini di quel genere erano reali. Infatti mi raccontò immediatamente di ciò che aveva sentito nella latteria vicina, dove «la lattaia [die Milchfrau] mi disse che un anziano, un ebreo, un uomo di religione ebraica diciamo, non voglio proprio dire ebreo, nicht?» Frau Wickerath fece una corta risata prima di riprendere a parlare. «Quest'uomo le disse: "Hanno portato via i miei nipotini". Se lo immagini. Bambini di cinque e sei anni. Senza genitori, senza nulla. Lei [la lattaia] era così sconvolta. Perse la vita nel bombardamento. In quel palazzo vicino, dove ne morirono così tanti.» Fu lo stesso bombardamento che distrusse il vecchio appartamento di Frau Wickerath. Per le due donne erano particolarmente pericolose le incursioni notturne. Frau Naumann non poteva rischiare di farsi vedere da Peter o dai vicini curiosi. Così, al primo suono della sirena dell'allarme che precedeva l'allarme vero e proprio, si precipitava fuori e poi nel rifugio antiaereo pubblico. «Nessuno le fece mai niente là.» Nel frattempo, sempre in fretta ma con un po' più di agio, Frau Wickerath preparava Peter per scendere nel rifugio annesso al palazzo. Lei e Frau Naumann avevano stabilito anche le modalità del rientro a casa. Peter doveva tornare per primo e mettersi a letto subito, in modo che dormisse quando arrivava Hilde. Di giorno Frau Naumann doveva pensare a come passare il tempo, e dove. A volte, quando Frau Wickerath aveva una giornata libera, le due 328

amiche uscivano insieme. «Andavamo a Werder, a raccogliere un po' di frutta. Ma si vedeva molto che lei era ebrea. Bisognava essere prudenti. «Aveva una cugina, lise, che viveva al numero 24 da qualche parte a Schòneberg. Ci andai anch'io. Era una dottoressa. Mi dispiaceva anche per lei. Ma non ne potevo ospitare due. Era troppo pericoloso e inoltre non avevo tanti soldi. E lei non aveva nessuno, amica mia. E non sapevamo affatto come stavano andando le cose e che si finiva coll'andare a morire, in quei campi. Non lo sapevamo proprio. Forse nemmeno la mia amica. Non so.» In altre parole, pareva che Frau Wickerath stesse dicendo che si sentiva ancora male per non aver potuto nascondere la cugina. Frau Naumann passava la maggior parte delle giornate nell'appartamento dei Wickerath, spesso leggendo, oppure «faceva un po' di pulizie», oppure si avventurava fuori. Frau Wickerath le aveva lasciato una chiave perché andasse e venisse a suo piacimento, o a suo rischio. «Aveva un'amica da cui andava nella parte orientale di Berlino. Aveva dei conoscenti, dove andava di giorno. E qui, cenavamo. Preparavamo sempre in anticipo. A volte lei preparava e poi mangiava, a mezzogiorno eccetera. Quando arrivavo io, lei aveva già cucinato e allora non dovevamo fare altro che mangiare.» Mangiare cosa? Frau Wickerath non ne accennò parlando di se stessa, ma era frequente che le madri facessero la fame per poter dare da mangiare ai propri figli. Lei mi raccontò che una volta non ebbe niente per due giorni tranne che degli spinaci. «Avevo una tale nausea. Non avevamo pane, niente, fino alla mia prossima tessera annonaria. Barattavo sempre qualcosa [con del cibo]. Passammo dei brutti periodi. Be', sono finiti. In compenso stiamo sempre meglio.» Sembrava in imbarazzo per essersi lamentata, e fece una delle sue risate. Ma Frau Blisse intervenne per sottolineare il valore di quello che sua sorella aveva fatto per Hilde Naumann. «Doveva procurarsi il doppio del cibo per loro due.» Non era un'impresa da poco. In effetti una sopravvissuta ebrea che visse a Berlino nello stesso periodo in cui Frau Naumann viveva con Erna Wickerath, 4 mi disse di essere rimasta impressionata dal fatto che Frau Wickerath aveva nascosto la sua amica, ma perplessa sentendo che l'aveva nutrita. Le tessere annonarie, che imponevano dei sacrifici notevoli perfino alle persone a cui erano destinate, fornivano in pratica il solo modo - a parte il mercato nero e il baratto di teiere con farina - per comprare del cibo. E Hilde Naumann, i cui soldi erano finiti e che era evidentemente esclusa dal sistema delle tessere annonarie, non era in grado di procurarsi nemmeno un boccone. Subito dopo il pasto serale, Peter veniva messo a letto. Spesso, più tardi, qualcuno della vasta cerchia di conoscenti di Frau Wickerath passava a farle visita. Di cosa si discuteva? Di politica. «Naturalmente. Eravamo oppositori. Eravamo oppositori dei nazisti.» Uno degli argomenti di cui probabilmente si discusse a quelle tavolate serali di amici nel luglio del 1944, fu l'attentato a Hitler. Frau Wickerath mi disse che stava camminando per la strada quando gli onnipresenti altoparlanti nazisti diedero la notizia dell'attentato. «Io l'ho sentito. La gente 329

passava e diceva: "Peccato che non sia morto. Peccato che sia scoppiata solo vicino a lui". Voglio dire, un sacco di gente. In pubblico.» Abbassò la voce. «Rimasi sbigottita.» E, cercando come al solito di essere precisa, aggiunse: «Può darsi che mi fossi trovata fra quelli che non erano tanto favorevoli». Negli ultimi mesi di guerra la situazione alimentare per Frau Wickerath da disperata divenne quasi principesca. Suo marito, che allora era soldato ormai da più di cinque anni e che era stato mandato in Danimarca, approntò un canale per il cibo. «Mi procurò delle uova, e così riuscivamo a vivere. Mi mandava prosciutto e ogni altra cosa, o me li facevo portare dalla Danimarca, dove lui lo comprava. Ma dovevo mandargli i soldi. Dovevo farmeli prestare. Gli mandai duemila marchi. Che per me erano un sacco di soldi. Andavo a chiederli ovunque. Credo di essermeli fatti prestare anche da te,» disse rivolta a sua sorella. «Ho restituito tutto, un po' alla volta, nicht?» Una volta che le preoccupazioni per il cibo furono relegate in posizione secondaria, al primo posto rimase solo il pericolo. Hilde Naumann ne riceveva una sofferenza acuta. «Aveva i nervi piuttosto scossi. Era passata attraverso ogni genere di cose. Sua madre morta, sua sorella portata via. E tutto quanto, a ogni modo. Era sull'orlo del collasso nervoso. Ma eravamo ancora giovani. Riesci a sopportare un sacco di cose allora.» Frau Naumann ci riuscì. Continuò perfino ad affrontare il rischio delle escursioni diurne fuori dall'appartamento. Per quanto riguarda l'eventualità di essere arrestata, dentro o fuori del suo rifugio, aveva un progetto: seguire l'esempio di sua madre. «Se fosse stata catturata, in quel caso aveva una pillola di veleno, nicht?» disse Frau Wickerath. «L'avrebbe usata.» Un elemento che accresceva la paura di Hilde Naumann, e forse anche uno dei motivi delle sue escursioni, aveva una causa molto vicina. Il palazzo che le dava rifugio non ospitava solo un buon numero di nazisti, ma anche una SS che abitava su un'altra scala. «Stava attento a tutto, osservava ogni cosa,» ricordò Frau Wickerath. «E la mia amica si spaventò. Io pensavo: "Che fare? Che fare?"» Le possibilità erano poche. Se Frau Naumann continuava a comportarsi come prima, la SS, o qualcun altro, poteva notarla mentre correva verso il rifugio antiaereo pubblico durante un bombardamento, e chiedersi, fra l'altro, perché non andasse nel rifugio annesso al palazzo. Naturalmente Frau Naumann poteva restare nell'appartamento e venire uccisa dagli alleati invece che dai nazisti. «Gli attacchi aerei diventavano sempre più pesanti e lei non poteva stare nella piccola stanza quando c'erano le incursioni. Avrebbe potuto essere colpita o altro. Questa è la cosa brutta.» E i rifugi pubblici nei dintorni non erano completamente sicuri. Oltre al pericolo di essere notati o riconosciuti, ce n'era un altro che riguardava tutti senza discriminazioni: una bomba che colpisse in pieno il rifugio. «Gli attacchi erano terribili. Erano davvero terribili,» mi disse Frau Wickerath. «Qui sul Kurfurstendamm c'era un rifugio pubblico, e lei per caso non ci andò, e vi morirono duecento persone. L'intero edificio fu distrutto. Andai là più tardi quella notte, con mio figlio, per vedere. Non riuscimmo più a dormire.»

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Erna Wickerath decise infine di allargare la rete di sicurezza, con un piccolo imbroglio. Andò a casa di una donna, «una buona collega e amica», che viveva fuori dal centro pesantemente bombardato di Berlino. Le disse che un'amica aveva bisogno di un posto dove stare. «Dissi: "Sai, la sua casa è stata bombardata e non ha nessuno". Non le dissi affatto che era ebrea. Anche se sapevo che non era favorevole al regime. Le dissi: "Puoi ospitarla solo per poche settimane, finché non trova una sua sistemazione o qualche altro posto dove stare? E una mia amica", e così via. Più tardi lei si rese conto di quello che stava succedendo. Ma nemmeno allora mi disse di no.» Frau Wickerath si concesse una bella, lunga risata. «Ma mi disse: "Erna, se l'avessi conosciuta prima e l'avessi vista, avrei avuto paura". La paura! Molti avevano paura. Molti avrebbero anche offerto aiuto, ma avevano paura. Tanta paura. «Dovemmo dirle [alla collega] la cruda verità,» aggiunse. (L'espressione tedesca, tradotta letteralmente, recita: «Dovemmo versarle vino puro».) «Poiché Hilde era rimasta là più a lungo di quanto avessi detto: "Due o tre settimane al massimo".» Presto Hilde Naumann potè dormire di nuovo in una situazione di relativa sicurezza. E «io le portavo del cibo, in modo che avesse qualcosa da mangiare. Tornava qui di giorno. Era solo per darle un rifugio per la notte». Quella sistemazione durò «cinque, sei settimane, prima della fine della guerra». Hilde Naumann sopravvisse al Terzo Reich e alla guerra. Di sua iniziativa Frau Wickerath non spese una sola parola sul primo incontro fra lei e Hilde dopo la fine della guerra. Quando mi resi conto che le mie prime domande tendenziose non conducevano da nessuna parte (desideravo ardentemente una scena di abbracci lacrimosi), alla fine glielo chiesi in modo diretto. Che cosa accadde quando loro due si videro di nuovo? «Eravamo tutte e due contente di essercela cavata,» mi rispose. Frustrata, insistetti. Hilde la abbracciò? Oppure... «Ach, be',» mi interruppe Frau Wickerath. «A quei tempi non ci si sbaciucchiava troppo, come si usa oggi. L'hanno copiato dai russi. La prima volta che lo vidi fu con Krusciov, quel modo di baciarsi sulle guance. Adesso lo fanno anche qui. Ma allora di solito non succedeva. Tranne che con i diplomatici o ovunque lo facessero.» Dovetti rinunciare, e riconoscere ancora una. volta che a salvare la vita di Hilde Naumann non fu un sentimentalismo esuberante ma uno schietto decoro. Frau Wickerath alla fine confermò che «la mia amica» si sentiva più tranquilla. «La tortura era finita,» aggiunse Frau Blisse. Come i suoi amici, presto Hilde Naumann dovette affrontare nuovi rischi. Può darsi che alcuni li avesse visti arrivare; ma uno non lo vide. In molte città tedesche la guerra finì in un'esplosione di silenzio. Ma a Berlino il fragore dei combattimenti copriva il segnale della resa. Gli ultimi difensori del Reich sparavano ai russi vittoriosi, che sparavano a loro volta. 331

I civili si gettavano nelle cantine per evitare i rimbalzi dei proiettili dei cecchini. Per le donne, al pericolo di incappare in una pallottola, si univa quello di incappare in qualche soldato predone e di essere stuprate. Nessuna meraviglia che Frau Wickerath non ricordasse un'esplosione di pace. Prima ancora, ricordava un'altra presenza strabocchevole per le strade di Berlino: quella dei soldati tedeschi feriti. Da una spiaggia berlinese nel '35 a una via della città nel '45, il suo modo di reagire alla sofferenza non era cambiato. «Uno di loro aveva perso una gamba, tutto quanto insanguinato qui, e l'altro aveva un braccio ferito e l'altro aveva una qualche ferita nella gamba, ma riusciva bene o male a saltellare o forse aveva ricevuto delle cure migliori. Dissi a quello che... dove era tutto insanguinato, che aveva la febbre e anche tanta sete, di mettermi il braccio sulle spalle e di lasciare che lo portassi al tram per Westkreuz, dove voleva andare. A ogni modo, avevo delle uova. [Non fece cenno al fatto che allora le uova valevano come l'oro.] Le uova erano crude, in un bicchiere, e lui aveva una tale sete e niente da bere e io sbattei un paio di uova per lui, parecchie uova, e era così contento di avere qualcosa di liquido. Aveva una febbre altissima, nicht? E andai con lui a Westkreuz e là c'erano delle infermiere che portavano i feriti a Spandau. I russi non erano ancora arrivati. E sa, pregavamo sempre, anzi non pregavamo, ma speravamo che gli "Amis" arrivassero per primi a Berlino. Gli americani. Volevamo gli americani qui. Anche se eravamo lavoratori e più dalla parte dei lavoratori. Ma ne avevamo sentite tante sui russi. Viste e sentite, ja? E anch'io ci credevo molto. E inoltre ne ebbi parecchie esperienze. Be',» fece una pausa, «anche loro non avevano niente da mangiare.» In un certo senso, il giudizio che diede dei soldati tedeschi che si comportarono da furfanti era lo stesso: ricordava le loro malefatte, e poi trovava subito una giustificazione nel contesto generale. «I soldati rubarono molte biciclette. I nostri soldati, nicht? Io non avevo niente. Non importa. Anche loro volevano salvarsi la vita.» Un ufficiale tedesco tentò di prenderle la bicicletta (verso la fine della guerra una bicicletta era un prezioso mezzo di trasporto) e le ordinò di appoggiarla contro il muro. «Mi mossi come se volessi metterla di lato. E mi allontanai appena un po'. Ci saltai su e via. Non mi inseguirono.» Al termine della guerra Frau Wickerath era in ansia, fra l'altro, per suo padre (sua madre era morta da tempo) che viveva alla periferia di Berlino in una piccola casa vicino a un bosco. Lei e Hilde Naumann erano solite prendere un tram per andare a fargli visita, finché il rischio che Hilde fosse riconosciuta come ebrea divenne troppo grande. Durante una pausa nei bombardamenti di granate che continuavano anche dopo la resa, Frau Wickerath e Frau Blisse, con Peter, riuscirono ad arrivare da Herr Krzemieniewski. Lo trovarono incolume, ma corsero il rischio di essere violentate. Mentre passeggiavano nei boschi della zona si imbatterono in parecchi carri armati russi. Tornarono di volata dal padre. «Ci disse: "Voi due, andate subito in casa. Nascondetevi. Ma Peter può restare fuori". Ai bambini non facevano niente. In effetti erano molto buoni con i bambini. Non si può

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dire altrimenti. A dire il vero qualche volta stupravano delle bambine, delle ragazze appena un po' più grandi. Ma erano davvero buoni con i bambini.» I russi, come previsto, si fecero presto vivi. «Mio padre e Peter andarono alla porta. Mio padre uscì semplicemente col bambino.» In un modo o nell'altro Herr Krzemieniewski riuscì a tenere i russi di fuori. «Per tutta la notte strisciarono intorno alla casa, ma non entrarono. Rimasi sveglia fino al mattino. Mia sorella dormiva, mio padre anche. Il mio Peter anche. Io non potevo. Ero così sconvolta e avevo un udito così fino (adesso non ci sento più così bene) e per tutta la notte strisciarono intorno alla casa. Non videro nessuna donna e andarono da qualche altra parte dove stuprarono tutte le donne.» Nelle settimane e nei mesi seguenti, in accordo con le sue aspettative sul comportamento umano, Frau Wickerath conobbe degli uomini russi, nel bene e nel male, come individui. Lei e sua sorella si imbatterono in un giovane soldato solo, che «voleva parlare, e veniva dall'Ucraina». Per comunicare si inginocchiarono e disegnarono figure e lettere sul terreno. Erna decise che era molto buono [ganz gut] e riuscì a convincere sua sorella che potevano indicargli dove viveva loro padre, così che sarebbe andato a proteggerli. E lui lo fece. Parlava anche quel tanto di tedesco sufficiente a spiegare loro quali fossero le sue idee politiche. Disse: «Stalin Schwein [porco]. Hitler Schwein». Inoltre mise in guardia le sorelle da un ufficiale russo che era un altro Schwein. L'ufficiale attirava le donne nella sua casa con la promessa di un po' di burro. Poiché la carenza di cibo nel dopoguerra era anche peggiore che durante la guerra, Frau Wickerath ci andò, con altre tre donne. «Ci offrì del burro. Be', non se ne trovava dappertutto. E non avevamo niente da mangiare. Ne avvolsi un po' in un pacco, e me lo misi nel reggipetto, per il mio bambino e per il babbo.» Rise. «Eravamo in quattro. Lui non fece niente. Se fossi stata sola... Ach, poi volevo andarmene da lì.» Dopo che il loro giovane protettore se ne fu andato, la situazione da Herr Krzemieniewski peggiorò. «In seguito venne un altro russo, uno di grado più elevato. E tutti noi dovemmo andarcene di casa. Fummo depredati. Poi mi portarono via anche quel che mi era ancora rimasto. La mia valigia per i rifugi antiaerei. Dopodiché non avevo proprio più niente. Solo quello che portavo addosso. Oggi ci si ride sopra, ma allora non era tanto divertente.» Un altro episodio che ebbe luogo nella casa di suo padre deve essere stato, in effetti, terrificante. Frau Wickerath me ne parlò, come sua abitudine, senza enfasi. «Vennero i russi: anche mia sorella fu violentata, e io feci in modo di sembrare vecchia e tenni vicino a me il mio Peter e probabilmente non mi notarono. Avevano abbastanza donne nei dintorni. Questo fu l'episodio peggiore per noi. Ja, questo fu il peggiore.» Anche Hilde Naumann, come molte altre donne ebree che erano sopravvissute al nazismo, corse il rischio di essere violentata dai liberatori, ma a quanto pare non lo fu. (Una sopravvissuta ebrea, che aveva vissuto in clandestinità con sua madre, raccontò che quest'ultima tentò freneticamente di evitare lo stupro mostrando a un soldato dell'Armata Rossa le loro carte d'identità ebree, ma senza alcun risultato: l'uomo non era in grado di leggere il tedesco.)5 333

Nel frattempo, l'amicizia che si era forgiata nelle difficoltà ed era stata messa alla prova in modo traumatico rimaneva salda. Invece di evitare i nazisti, le due donne evitavano i sovietici. Frau Wickerath rievocò con allegria un'altra escursione che fece insieme a Hilde per raccogliere della frutta, e durante la quale finirono accidentalmente in un accampamento dell'esercito sovietico. «Io dissi: "Dobbiamo stare molto, molto tranquille, come se non ce ne importi nulla". Lo facemmo con molta noncuranza, ma dentro di noi tremavamo. Probabilmente la cosa peggiore che potessero farci era che ci stuprassero. A ogni modo, attraversammo l'accampamento in modo davvero sfacciato, e non ci fecero nulla.» Un'altra volta gironzolarono nella zona americana finché non si resero conto che era troppo tardi per tornare a casa prima del coprifuoco delle ventuno. Dopo che nessuno volle aprire loro la porta e farle entrare per passare la notte, trovarono finalmente una tettoia sotto cui dormire. Nei pressi c'erano dei soldati americani. Quella volta fu Hilde a prendere contatto con le autorità. «La mia amica conosceva l'inglese, nicht? Alla perfezione. Parlò con loro e quelli vegliarono su di noi. Il giorno dopo ce ne andammo.» Le avventure comuni e i comuni pericoli delle due amiche continuarono, mentre facevano quello che potevano per procurarsi del cibo. (Frau Wickerath lo rubava con gioia alle truppe russe di occupazione, per cui provava meno simpatia che per le truppe combattenti.) L'alloggio non era un problema. L'appartamento di Frau Wickerath era intatto, anche se pieno. Hilde Naumann trovò un proprio posto dove stare, e «venne a trovarmi tutto il tempo». Sopravvisse per poco meno di un anno alla pace. Una sera dell'aprile del 1946, mentre camminava sola per una via di Berlino, una macchina alleata in pattugliamento la investì. Frau Wickerath mi parlò di quegli eventi con una tristezza che permeava ogni parola. «Lei portava gli occhiali ed era così... Probabilmente era tardi. Era ancora tutto buio. A quell'epoca l'illuminazione stradale non era ancora stata ripristinata. Era scesa dal marciapiede, dato che per terra c'era di tutto.» Aggiunse: «Probabilmente non vide nemmeno la macchina. Una macchina alleata». Poiché la polizia non le disse altro, dedusse che fosse americana. Pensava anche che Hilde stesse andando a far visita a quello che da molto tempo era il suo ragazzo, un soldato tedesco tornato dal fronte. Si erano conosciuti nella vecchia «compagnia» degli amici di Erna appassionati di sport. Frau Wickerath pensava che progettassero di sposarsi. Dei medici tedeschi la portarono in ospedale. Là morì. «Passata indenne attraverso l'intera guerra,» disse Frau Blisse. «Ja, ja,» disse Frau Wickerath. «In seguito noi due eravamo...» S'interruppe di colpo. «Una settimana prima della sua morte, lei venne qui. Era sabato, o forse domenica, e a quell'epoca c'era una tale confusione ovunque, e lei mi disse: "Quasi mi investivano". "Be'," dissi io, "dovrò fare una colletta per comprare una corona di fiori per il tuo funerale. Me l'immagino già." Nicht? Stavo solo scherzando. Non parlavo affatto sul serio. E nel giro di una settimana la investirono.» Frau Wickerath fece un'altra pausa, come se 334

cercasse di pensare a cosa poteva dire. «Poiché lei era così... distratta.» Frau Wickerath seppe la notizia da uno dei medici, che era il marito di una vecchia compagna di scuola. Le disse che l'avevano messa su una barella e portata all'ospedale di Westend. «Poi lui, io ero calma, mi raccontò tutto, con esattezza. Dopo un'ora e mezzo...» Frau Wickerath si arrestò e ricominciò. «Aveva una commozione cerebrale. Dopo un'ora e mezzo era morta.» Hilde Naumann fu seppellita nel cimitero ebraico berlinese di Weissensee. Frau Wickerath mi disse che al funerale parteciparono «quattro o sei» persone, compresi lei e il ragazzo di Hilde. «Per molto tempo non riuscii a farmene una ragione [Ich abh' das lange nicht verkraftet].» Rimase in silenzio per parecchi secondi. Alla fine disse una sola parola: «Ja». La ripetè molte volte. Frau Wickerath riempì i decenni seguenti con il duro lavoro. Citò molti impieghi, e il tempo che dedicò a ognuno di essi. Cinque anni a tagliare modelli di abiti maschili, due anni e mezzo come inserviente d'ospedale. «Una volta lavorai in una ditta di confezioni da donna, e mi piaceva un sacco. Ma dovevamo lavorare in fretta. Tutto preciso al minuto e al secondo. Non è stata una vita piacevole.» A volte faceva due lavori contemporaneamente. A sessant'anni puliva le case. «Non era affatto così semplice guadagnare qualcosa.» Il matrimonio non rese la sua vita più facile. «Sono stata con mio marito per ventisette anni, compresi quelli prima del matrimonio. Ma...» Frau Wickerath si bloccò, come per prendere coraggio. «Nella situazione che c'era, gli uomini non tornarono, tre milioni di uomini non fecero più ritorno. E le donne erano lì. Mio marito era anche piacente.» Si fermò di nuovo. «E io non stetti attenta. Ma non viveva con lei. Ora abita da un'altra parte. Dal '57.» Suo figlio aveva vent'anni quando suo marito la lasciò. Erna non si risposò. «Mio figlio non aveva ancora finito gli studi, vede. Pagavamo tutto di tasca nostra. Non c'erano borse di studio eccetera, o tutte le cose che hanno oggi. Dovevamo pagare di tasca nostra, scuola e tutto. Poi lui è diventato ingegnere. Volevo che - era intelligente, nicht? - che diventasse qualcosa. E poi non sai a chi "attaccarti" in seguito. A tuo figlio o a tuo marito, un secondo marito. È sempre una cosa così bella quando si hanno dei figli.» Mi disse che, quando aveva cinquantacinque anni, aveva preso in considerazione l'idea di accettare la proposta di matrimonio di un insegnante cinquantasettenne, ma che decise di non sposarlo. «Pensavo sempre: "Ach, ora che stai diventando così vecchia", nicht?» Mi chiedevo cosa pensasse di quando era stata così giovane. Non si era mai pentita di tenere nascosta la sua amica? «Nein. In caso contrario non l'avrei fatto. Non ci pensavo proprio,» aggiunse. «Ero responsabile di quello che facevo, nicht?» Rise. «Non me ne preoccupavo. Potevo riderne. La stupidità merita di venir punita, nicht?» Ma fu molto coraggiosa, le dissi. 335

«Lo crede? Ach, bene.» Si perse nella ricerca di una spiegazione. «Passammo momenti belli e momenti brutti. Fin da bambini, nicht? Di certo non eravamo viziati. E lavoravamo. E quando si lavora come ho lavorato io, non si ha tanto tempo per riflettere.» Il motivo per cui qualcun altro, a parte gli anziani sopravvissuti della vecchia «compagnia», conosce ciò che fece Frau Wickerath, è che anni fa (lei non ha idea di quanti) il governo tedesco chiese a chiunque avesse nascosto un ebreo di comunicarlo entro una certa data. «Io non diedi tanto valore alla cosa. Mi registrai nelle ultime settimane, prima che finisse. Pensai: "Ach Gott, mi registro per amore della mia città. Proprio per Berlino". Bin eine Berliner. Perché i berlinesi non erano tutti così cattivi. Non era vero che veniva tutto da Berlino. Non eravamo per niente così favorevoli a Hitler. «E una conoscente della zia [di Hilde], che era sposata a un dottore ebreo,» disse Frau Wickerath, «insistette molto perché andassi a dichiarare che avevo nascosto una donna ebrea. Pensai: "Be', dunque non tutti i tedeschi erano cattivi". Ce ne furono molti che offrirono il loro aiuto, nicht?»

NOTE 1

Leonard Gross, The Last Jews of Berlin, New York, Simon and Schuster, 1982, nota dell'autore. Nella base di Peenemünde, sulla costa del Mar Baltico, f u r o n o progettate e costruite, fra l'altro, le b o m b e a razzo V-l e V-2 [N. d.T.]. 1 Secondo u n libro che venne alla luce d o p o l'intervista e che comprendeva alcune brevi osservazioni delle due sorelle, Frau Blisse raccontò che suo marito se n e stava in una piazza cittadina quand o le SS la circondarono in una retata e p o r t a r o n o via tutti gli uomini. Egli fu gettato in una cantina, interrogato e picchiato. In seguito dovette stare per otto giorni fermo contro un muro, prima di essere finalmente portato in u n ospedale. Cfr. H a n s Wienicke, in Schon damals fingen viele an zu schweigen (Già allora molti cominciarono a restare in silenzio), Berlino, Bezirksverordnetenversammlung von Charlottenburg [letteralmente, «rappresentanza dell'assemblea circoscrizionale» di Charlottenburg], 1986. 1

4

Si tratta di Rita Kuhn, la protagonista del prossimo capitolo. Inge Deutschkron nel film documentario del 1992 Befreier und Befreiter (Liberatori e liberati) di Heike Sander. Per una visione interessante e personale sulle reazioni di una famiglia ebrea di fronte all'ascesa del Terzo Reich, si veda il libro autobiografico di Inge Deutschkron Ich trug den gelben Stern (Portavo la Stella gialla), Colonia, Verlag Wissenschaft u n d Politik, 1978; Monaco, Deutscher Taschenbuch Verlag, 1985. 5

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PARLANDO DEL SILENZIO (Ms. Rita Kuhn)

«Sono una medievalista,» mi dice Ms. Kuhn quasi con ironia. «La mia tesi di dottorato è sul Graal.» Dopo avere conseguito laurea e specializzazione sui classici greci e latini alla Cornell, fece un salto in avanti di qualche secolo e ottenne il Ph.D. in letteratura comparata presso la University of California a Berkeley. Nella sua tesi mise a confronto il Parzival di Wolfram von Eschenbach con il Perceval di Chrétien de Troyes, poi, proprio alla fine, inserì delle pagine classiche di Virgilio e Ovidio. «Mi divertii davvero a lavorarci.» Da allora si è dibattuta fra il piacere accademico di continuare a scrivere dei passati millenni e l'intenso dolore emotivo di «fare qualcosa della mia storia». Aveva letto moltissima buona letteratura sull'Olocausto, mi disse, e moltissima cattiva. «E così facile cadere nel banale.» Rita Kuhn, come tutte le altre donne di questo libro, visse gli anni del Terzo Reich in Germania. Diversamente da loro, tuttavia, ella crebbe considerandosi ebrea. I nazisti fecero altrettanto, almeno fino a un certo punto. Il punto era la madre «ariana» di Rita. Nell'autunno del 1933, quando aveva cinque anni e mezzo e stava giusto per iniziare il suo primo anno di scuola (Rita è anche la più giovane delle protagoniste di queste pagine) non era certa di quale fosse la sua religione, ma sapeva che il suo mondo non era più quello che era stato. «Mio padre mi disse: "Fai attenzione agli uomini con le uniformi brune". Disse: "Stai in silenzio, non attirare l'attenzione su di te, non guardarli e continua diritta per la tua strada". Possibilmente con gli occhi rivolti a terra. Per me fu il primo segnale che c'era qualcosa fuori posto. Non sono nemmeno sicura di avere saputo perché dovessi fare attenzione agli uomini in uniforme bruna. Credo che mio padre mi abbia detto che a loro non piacevano gli ebrei. Non ricordo... E da quel giorno in poi fu proprio come se dovessi essere invisibile, praticamente. «A scuola, dopo poche settimane, l'insegnante dovette chiedere a tutta la classe chi era ebreo. Girai lo sguardo per l'aula ma nessuno alzò la mano. E ricordo che non ero proprio sicura se fossi ebrea. Non era mai stata una cosa cosciente per me. Voglio dire, andavo alla sinagoga, ma non sapevo davvero chiaramente se ero ebrea o non ebrea. E alzai la mano perché,» rise, «sapevo di avere qualche cosa a che vedere con il fatto di essere ebrea. Andai a casa e domandai a mio padre: "Che cos'è successo, papà? Sono ebrea io?" E lui rispose: "Sì, lo sei".» Rita gli chiese se avrebbe dovuto alzare la mano. «E mio padre mi disse di sì.» Ms. Kuhn non ricorda alcuna manifestazione di antisemitismo rivolta a lei o a suo fratello Hans, di due anni più giovane, prima che i nazisti andassero al potere; ma sa che nel quartiere di Charlottenburg, dove i Kuhn abitavano, 337

i bambini ci misero poco a imparare dai genitori il disprezzo per gli ebrei. «Ricordo che nella strada in cui vivevamo dei ragazzini ci deridevano. Ci riempivano di insulti. E a mio fratello sono rimaste impresse perfino alcune delle frasi con cui lo canzonavano. Un giorno lo chiamavano "sporco ebreo" e il giorno dopo giocavano con lui [e lo chiamavano con un soprannome affettuoso], E mi ricordo di un episodio, quando... non potevo avere più di sei anni o giù di lì... quando i ragazzini in strada, specialmente maschi... Anch'io giocavo con i bambini per la strada, ma un giorno dei ragazzini mi costrinsero a... a dire qualcosa in ebraico. Tutto quello che sapevo in ebraico era ciò che chiamiamo lo Shemà, che recitavamo solo in occasioni speciali. E qualche preghiera che sentivo dire da mio padre per i giorni delle Grandi Feste. Ne conoscevo alcune. E non volevo dirle. Non bisognava pronunciarle invano. Minacciarono di picchiarmi se non l'avessi fatto e mi misero alle strette. Così recitai lo Shemà. E forse mezza preghiera. E mi lasciarono in pace. In quel preciso momento seppi che la mia vita era cambiata.» La vita di suo padre era già cambiata nel gennaio del 1933. «Perse tutto. Nell'istante in cui Hitler prese il potere. Gli ebrei che avevano qualcosa a che fare col denaro furono i primi. «Perse il lavoro, e credo che gli confiscarono tutto ciò che aveva. Probabilmente ogni suo risparmio, ogni proprietà, non ne ho idea. Tutto quello che ricordo è che era proprio disperato. Per quattro anni non ebbe alcun lavoro. Andava letteralmente a mendicare.» Ms. Kuhn ricordava suo padre che tornava a casa giorno dopo giorno «scoraggiato e disperato. Non riusciva a trovare un lavoro e non riusciva nemmeno a trovare qualcuno che gli offrisse un aiuto finanziario». Herr Fritz Kuhn aveva svolto un'attività che era una via di mezzo fra quella di bancario e di agente di cambio, mi disse sua figlia. «Ero troppo piccola per sapere esattamente ciò che faceva», eccetto che lavorava in una banca che aveva dei rapporti con la «Borse». Sapeva anche che ci fu un periodo, negli anni Venti, in cui «era stato un uomo molto ricco. Aveva due automobili e un autista. Possedeva una Pierce Arrow americana e una piccola sportiva francese in cui fece la corte a mia madre». Sua madre, luterana, veniva da una famiglia che era «tutta di classe lavoratrice. E questa fu una delle ragioni per cui la famiglia di mio padre non voleva che lui la sposasse». Rise. «Aspettò quattro anni per lei, combatté e superò l'opposizione di tutta la sua famiglia.» E per quanto riguarda la famiglia di sua madre? «Oh, con loro andava tutto bene, credo. Non penso che ci fosse un grammo di pregiudizio in quella famiglia, nelle persone di cui ho un ricordo.» Alla base delle obiezioni della famiglia di suo padre c'erano motivi religiosi o di snobismo? Soprattutto di snobismo, ritiene Ms. Kuhn. «Volevano che lui sposasse una ricca ragazza ebrea.» Sposò invece Frieda Kruger, figlia di bottegai, nel 1926. Erano proprietari di un «negozio di saponi» in cui si vendevano prodotti di lavanderia e si stiravano le lenzuola. Come testimonia la fotografia del matrimonio, i soli membri della famiglia di Fritz Kuhn che parteciparono alla cerimonia furono i suoi genitori. «Poi, dopo che arrivarono a conoscere mia madre, per loro divenne "Friedl" o "Friedlchen".»

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Lo stile costoso con cui venne celebrato lo sposalizio non durò a lungo. Ms. Kuhn ritiene che suo padre non fosse molto bravo come uomo d'affari. Perse gran parte dei suoi soldi nel crollo della borsa del 1929. Tuttavia riuscì a conservare il posto in banca. La famiglia conduceva una vita modesta; vivevano con la madre di Herr Kuhn nel suo appartamento. Nel 1929, lo stesso anno in cui crollò la borsa, nacque Hans. Qualche tempo dopo, probabilmente prima dell'avvento del nazismo (Ms. Kuhn non ne è certa), si trasferirono in una casa tutta loro, un umido seminterrato. «In effetti fu lì che mia madre contrasse la TBC.» Frieda Kuhn fu ricoverata in ospedale e subì una tracheotomia d'urgenza. Per qualche tempo si pensò che fosse sul punto di morire. Anche se Ms. Kuhn non me lo disse mai, una volta che in Germania i nazisti ebbero preso il potere la salute di sua madre divenne importante per la famiglia non soltanto per ragioni d'affetto. La sua condizione di coniuge «ariana» della coppia preservava suo marito da una deportazione sicura e i suoi figli da una probabile. Ella garantì anche, seppure involontariamente, che sua figlia entrasse a far parte di due mondi, diventando sia una testimone «tedesca» sia una sopravvissuta ebrea. I nazisti classificarono Rita e Hans Kuhn come «Geltungsjuden», il che significa che li «consideravano» ebrei. Ciò era dovuto al fatto che Frau Kuhn, che «come cristiana non era una gran praticante», quando si era sposata aveva abbracciato la religione di suo marito, e che i suoi figli venivano cresciuti come ebrei. Inoltre, secondo Ms. Kuhn, i nazisti avevano idee così maschiliste che ritenevano i figli di padre ebreo più ebrei dei figli di madre ebrea, all'opposto della tradizionale legge ebraica. Se i piccoli Kuhn non fossero stati cresciuti come ebrei, è probabile che avrebbero affrontato meno restrizioni. In termini generali tutti i figli di coppie miste, compresi Rita e Hans Kuhn, venivano classificati come «Mischlinge» [meticci]. Rita Kuhn è un miscuglio sotto molti punti di vista. E una medievalista che vive in California, a Berkeley, e insegna lettura e scrittura come assistente alla Berkeley High School. Appare giovane per essere una sopravvissuta. È decisamente graziosa: ha capelli grigi e fini, un trucco impercettibile, lineamenti delicati, e porta alle orecchie un paio di ciondoli d'argento che le danno quell'aspetto un po' hippy così tipico di Berkeley. Benché sia una persona seria, è dotata di un malizioso senso dell'umorismo. Mi raccontò che a Berlino, poco dopo la caduta del Terzo Reich, qualcuno organizzò una scuola per studenti come lei, a cui non era stato concesso di portare a termine gli studi liceali. La scuola, mi disse, scoppiando a ridere alla traduzione inglese del nome, fu chiamata «Scuola Superiore per Ibridi». Anche il suo appartamento ha un aspetto ibrido: gatti, piante, piccoli manufatti costruiti dai suoi quattro figli ai tempi della scuola (ha divorziato dal loro padre), una menorah e una gran quantità di classici tedeschi rilegati lo fanno assomigliare all'abitazione di uno studente diplomato. Parla l'inglese da così tanto tempo, con un misto di accento britannico («cahn't») e di gergo americano («you know»), che decidemmo di adottarlo per l'intervista. Sembrava una scelta appropriata per una persona

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che ha provato sentimenti assai contrastanti verso la sua lingua madre. Per lei e per la sua famiglia il trauma del Terzo Reich era stato così grande che fino a pochi anni fa Ms. Kuhn non voleva «avere assolutamente nulla a che fare con i tedeschi. Non mi fidavo di loro e non volevo sentir parlare la loro lingua,» mi disse. «Ho rinnegato le mie origini, la mia cultura. [Ma adesso] sono molto orgogliosa di essere tedesca, da un punto di vista culturale, intellettuale. Sento un'affinità molto forte.» Fece una mezza risata, come le capitava spesso, di solito davanti a qualcosa di troppo assurdo per essere vero. «La Germania ha prodotto un sacco di cose buone.» Le sue idee contrastano con quelle di altri sopravvissuti e di una parte degli ebrei americani che non hanno mai vissuto in Germania. «Io prendo le difese dei tedeschi. Quando la gente dice che loro... io sostengo che si debba fare una distinzione fra tedeschi e nazisti. Insisto molto su ciò.» Mi disse di aver perso tutti i suoi amici e quasi tutta la famiglia di suo padre nell'Olocausto, e di non avere «alcuna ragione» per difendere i tedeschi. «Ma voglio essere giusta.» (Spinta da questo desiderio di imparzialità, e a dispetto di alcuni eminenti rappresentanti maschili della comunità ebraica della baia di San Francisco, Ms. Kuhn ritornò a Berlino nel 1988, in occasione del cinquantesimo anniversario della «Kristallnacht», con l'espresso proposito di parlare agli studenti delle scuole superiori berlinesi della sua vita durante il Terzo Reich. L'attenta accoglienza che ricevettero le sue parole fu «incredibile», mi disse.) Nei primi giorni del Terzo Reich Rita continuò a frequentare una normale scuola pubblica. «Non ricordo particolari manifestazioni di antisemitismo a scuola, nessuna molestia.» Ma un giorno Fràulein Opitz, la sua maestra, fece un annuncio. «Ci disse che chiunque di noi fosse interessata a entrare nel BdM...» Ms. Kuhn rise. «Alzai la mano. Voglio dire, chi non desidera fare parte di un gruppo? E lei mi dice: "Bene, Rita, vieni su da me dopo la lezione". E mi parlò e mi disse che non potevo entrare nel BdM. Ecco.» Quale era stato l'atteggiamento di Fràulein Opitz mentre le parlava? «Fu molto gentile. Fu molto comprensiva. Credo che sia questo il motivo per cui ricordo il suo nome. Tentò di spiegarmi nel modo più garbato possibile che non potevo.» E la reazione di Rita? «Delusa, suppongo,» mi rispose, ridendo appena. «Non riuscivo a capire che cosa non andasse in me.» Non molto tempo dopo, il preside chiese a Herr Kuhn il favore di ritirare i suoi figli dalla scuola: non voleva bambini ebrei lì dentro. Rita e Hans andarono allora a una scuola ebrea, ben prima che fosse un ordine ufficiale a decretarlo. Perché i Kuhn, tanto simili ad altre famiglie che emigrarono presto, non lo fecero a loro volta, è una domanda a cui Ms. Kuhn non sa rispondere. «Credo che mio padre fiutasse il pericolo.» Per quanto ne sa, il solo motivo per cui suo padre non tentò di far espatriare la famiglia era il fatto che sua madre, la nonna di Rita, fosse viva. (Morì a Berlino nel 1936.) E nei primi anni del Terzo Reich i Kuhn in sostanza riuscivano a tirare avanti. Rita aveva 340

da mangiare a sufficienza, grazie all'aiuto della famiglia e di un'organizzazione ebrea di assistenza. E c'era qualcuno che le confezionava i vestiti. Ma la situazione globale, specialmente il fatto che ogni giorno suo padre tornasse a casa scoraggiato, contribuiva ad accrescere la tensione emotiva. «Mi ricordo di un incidente. E impresso in modo indelebile. Mio padre adorava mia madre, come una santa, aveva una vera venerazione per lei. Almeno questo è il mio ricordo. Usava sempre parole tenere quando parlava di lei. "Die gute Mama". "Unser Mama". E l'unico incidente che io ricordi, e deve essere successo molto, molto presto dopo l'ascesa di Hitler al potere, dato che me ne ricordo. Vedo davanti a me la stanza in cui ebbe luogo.» Fu nell'appartamento umido in cui Frau Kuhn si ammalò. «Non potevo avere più di cinque anni all'epoca, quando fui testimone di un litigio fra loro. Una discussione, una discussione molto aspra... Fu su una questione di razzismo, con mio padre che accusava la famiglia di mia madre di essere antisemita e di tentare di influenzarla o forse di convincerla, non 10 so, a lasciarlo; e con mia madre che difendeva la sua famiglia, che gli diceva: "Loro non hanno niente contro di te perché sei ebreo". E poi l'attenzione si focalizzò sulla sorella di mia madre, o su qualcun altro, non su tutta la famiglia. "A tua sorella non piaccio perché sono ebreo," o forse era il figlio. Me la ricordo quella discussione. Penso che sia successo dopo che Hitler andò al potere, quando si incoraggiavano i gentili a lasciare i propri partner ebrei.» Poi «ricordo che mio padre le diede una spinta, e che lei cadde, contro un armadio. Questo lo ricordo». La famiglia «aveva solo una stanza. E mio padre aveva già perso il lavoro. Era proprio pazzesco, stava diventando pazzesco, capisce. Cosa stava succedendo?» Su ordine del dottore di Frau Kuhn la famiglia lasciò l'umido seminterrato per trasferirsi poche case più in là, in un appartamento costruito sopra 11 livello del terreno. Non molto tempo dopo i nazisti promulgarono le leggi di Norimberga sulla cittadinanza e la razza; le persone che si registrarono come ebree, cosa che i Kuhn fecero, ottennero uno stato di cittadinanza differente da quello degli «ariani». Questi ultimi erano adesso «Reichsbürger» [cittadini del Reich], mentre gli ebrei divennero «Staatsangehörige» [in sostanza, sudditi dello Stato].1 Dal punto di vista di Rita ciò significava che gli ebrei tedeschi come lei semplicemente non erano più protetti dalla legge, e che «chiunque volesse, poteva farci del male». Nel 1937 lo Staatsangehöriger Herr Kuhn ottenne un lavoro. Fu assunto nell'organizzazione preposta all'amministrazione della comunità ebraica locale, la Jüdische Gemeinde. «Aiutò un gran numero di ebrei a lasciare la Germania. Ma capisce, stavano accadendo cose dappertutto.» Uno degli avvenimenti principali dell'anno successivo fu la «Kristallnacht». Rita aveva dieci anni. Rammentava che, come suo solito, stava andando a piedi verso la scuola, distante forse quattordici isolati, e che passò accanto alle vetrine rotte dei negozi. D'un tratto s'imbattè in alcuni compagni di classe che le dissero che la loro sinagoga andava a fuoco. Rita si rivolse ai passanti: «La nostra sinagoga sta bruciando!» Quelli distolsero lo sguardo da lei, come se provassero «vergogna e imbarazzo». Non dissero

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niente. (Nelle sue memorie Ms. Kuhn vuole esplorare il tema del silenzio. Era tornata a Berlino, fra l'altro, anche per non rimanere in silenzio.) Qualche tempo dopo la «Kristallnacht», ma Ms. Kuhn non ne è sicura, suo cugino - il nipote di sua madre - entrò nella Hitlerjugend. «Eravamo cresciuti insieme. Da bambini eravamo molto uniti. Lui era quasi come un fratello per me. E fui molto delusa quando si iscrisse.» Oltretutto «avevamo delle discussioni al riguardo. Non mi ricordo quello che gli dicevo, ma ricordo che discussi con lui di Hitler. Gli dissi: "Come puoi prenderti una cotta per quest'uomo? Non sai cosa sta facendo?" E lui: "Be', ma è la persona giusta per il paese. E la persona giusta per il popolo tedesco. Ha preso in mano l'economia". E bla bla bla.» Ms. Kuhn mi disse che «mio cugino non credeva che a noi sarebbe capitato niente di veramente brutto. Ricordo che ne discutevo con lui, e mia madre... rivolgendosi a me più tardi: "Non farlo più. Non parlargli più". Cose di questo tipo. "Perché no?" le chiesi. "Perché non puoi fidarti di lui"». Sua madre le disse anche di non parlarne con la zia, perché anche se non era favorevole a Hitler, avrebbe difeso suo figlio. Ms. Kuhn strinse le spalle in un gesto di disgusto sottolineato da un «Uuuuh!». Un'altra storia di crepe famigliari legate alla «razza» stava interessando il ramo paterno. Ne era coinvolta la donna che Rita chiamava Tante lise, una cugina di suo padre. Sposò un conte, mi raccontò Ms. Kuhn con aria piuttosto divertita. «Era la contessa von Rohde.» La sua avvenenza era tale che fu ritratta su alcune riviste come una delle «quattro donne più belle del mondo. Rappresentava la Germania,» mi disse sorridendo. «Sa, bionda, occhi azzurri, tipo Greta Garbo. Dunque, sposò questo conte senza dirgli che era ebrea. E andarono a uno di questi avvenimenti, a un ballo. Un gentiluomo disse al conte: "Sua moglie, è così bella, è davvero difficile credere che sia ebrea".» Ms. Kuhn cominciò a ridere. «E il conte esclamò: "Che cosa?" Tornò a casa e glielo rinfacciò. All'epoca avevano un bambino di due anni. E il giorno dopo divorziò da lei.»2 Nel 1939 Herr Kuhn, di cui la figlia ricordava «con vivezza» il modo in cui aveva fatto uscire molti ebrei dalla Germania, tentò di garantire la sicurezza dei suoi figli attraverso il cristianesimo. «La sola cosa che fece mio padre, io avevo dodici anni, mio fratello dieci, volle che fossimo battezzati. Io mi rifiutai. Mi opposi in tutti i modi... "No," gli dissi. "Sono ebrea e voglio morire ebrea". Comunque. La sua volontà prevalse. Scuola domenicale. Fui battezzata.» Mi disse che era una mossa troppo tardiva per poter essere di qualsiasi aiuto. C'è un altro episodio del 1939 di cui Ms. Kuhn conserva il ricordo. Lei e suo padre stettero ad ascoltare con paura crescente il suono di pesanti stivali che salivano le scale. A ogni passo la paura aumentava. Poi, dei colpi alla loro porta. Era un poliziotto venuto a portar via la radio. A partire da quell'anno gli ebrei non potevano più tenerne. E nemmeno le macchine fotografiche, mi disse. Scoppiò la guerra. La possibilità di lasciare la Germania divenne ancora più remota. 342

Nell'anno successivo il cappio attorno alla loro esistenza si strinse ulteriormente. Sulle tessere annonarie i beni a cui la famiglia Kuhn aveva diritto vennero dimezzati. Ricevettero l'ordine di lasciare la loro casa. Adesso agli ebrei era proibito vivere in un'abitazione di proprietà di un «tedesco». I Kuhn si trasferirono in un appartamento spazioso, che era stato però suddiviso, dentro un edificio che apparteneva a un ebreo americano. L'edificio era situato ad appena poche porte dalla casa e dal negozio dei parenti di Frau Kuhn, e di fronte a un ufficio distaccato della Gestapo. L'inquilina che una volta aveva occupato l'intero appartamento era una donna ebrea di circa ottantacinque anni. A Rita sembrava una strega. «Una persona molto strana, non parlava mai con nessuno, tranne che con gli uccelli.» La donna aveva stipato il contenuto di tutta la casa nell'unica stanza in cui ora viveva, e dava da mangiare agli uccelli sul balcone. In una parte dell'appartamento ceduta in subaffitto viveva un'antinazista «ariana» di nome Frau Schmidt. Ms. Kuhn me ne parlò come di «un gioiello di persona» e come di una delle dozzine di donne tedesche che aiutarono lei e la sua famiglia. Frau Schmidt non era particolarmente attraente, ma «era una persona così affettuosa,» mi disse ridendo. Mentre Herr Schmidt era al fronte a combattere, Frau Schmidt concedeva il suo affetto a un gran numero di giovani uomini. I Kuhn traslocarono in tre stanze in un'altra zona dell'appartamento. Rita, suo fratello e suo padre dormivano in una camera, e sua madre da sola in un'altra, a causa della tubercolosi. (Anni dopo i nazisti ordinarono loro di lasciare una stanza, ed essi ubbidirono.) A dispetto di una certa strettezza, e della cucina in comune, i Kuhn si resero conto che ora, per una volta, avevano a disposizione uno spazio maggiore che nella loro casa precedente. Nel frattempo erano cominciati i bombardamenti su Berlino. Durante le incursioni aeree gli abitanti dell'edificio di quattro piani, quasi tutti «ariani», correvano giù dalle scale e si rifugiavano tutti insieme nella cantina rinforzata. Herr Kuhn si perdette i bombardamenti diurni: nel 1941 fu arruolato per il lavoro coatto e assegnato a una stazione ferroviaria di Berlino. Sempre in quell'anno sia a lui che ai suoi figli fu ordinato di portare la stella. «Fra parentesi, l'ho conservata.» Rita Kuhn mi passò un pezzo di stoffa gialla su cui era scritto Jude.' Si trattava in realtà di due pezzi di stoffa. Sua madre aveva cucito la stella su una fodera. Ciò la rendeva più resistente ai lavaggi, mi disse Ms. Kuhn. Inoltre poteva essere appuntata per la fodera, e rimossa [illegalmente] con maggior facilità. Mi disse di ricordarsi che portava la stella mentre camminava con sua madre, che, essendo «ariana», non la indossava. Ricordava che sua madre veniva insultata e chiamata puttana. Mi disse anche, durante una delle molte conversazioni che avemmo, che quando era da sola e portava la stella non fu mai molestata. «La gente appariva addolorata e imbarazzata e distoglieva lo sguardo.» Ancora il silenzio. Più o meno nello stesso periodo in cui i Kuhn ricevettero le loro stelle, dirimpetto a loro venne ad abitare una nuova vicina: si chiamava Frau Burger, aveva una figlia e faceva parte della Gestapo. In effetti Frau Burger 343

era «molto, molto» altolocata nella Gestapo. Poco dopo il trasloco dei Burger, ci fu un'incursione aerea. Ancora una volta tutti corsero alla cantina. «Ma quando la donna della Gestapo... vide la stella, le tre stelle, disse che non voleva stare nella stessa stanza con degli ebrei. E così ci cacciò fuori. Durante un'incursione. Attorno a noi cadevano le bombe. E lei voleva che uscissimo. Fui presa dal panico. Non capivo più niente. Mi misi a urlare. Non so cosa dissi. "Non voglio uscire. Ho paura a uscire." E questa donna, la moglie di un medico, mi prese, mi mise le braccia attorno alle spalle e mi condusse [in una stanza attigua] e mi consolò. E andava tutto bene nella piccola stanza. Mi sentivo al sicuro lì. Mai pensai di morire nelle incursioni aeree. Mai.» Mi disse che per la moglie del dottore «dichiarare la propria lealtà [verso un bambino ebreo] di fronte a una donna della Gestapo non era una cosa prudente da fare». Alla fine Frau Burger, una «donna misteriosa, piena di contraddizioni», venne a sapere «delle nostre vicende e si rese conto che mia madre era "ariana"» e «prese a benvolerci. Le piacevamo. Pensava che fossimo» - Ms. Kuhn si interruppe e si mise a ridere in modo leggermente isterico - «degli "ebrei buoni"». Frau Burger disse a Herr Kuhn: «Se tutti gli ebrei fossero come lei, non avremmo nessun motivo per odiarli o per perseguitarli». A quanto pare i Kuhn erano gli unici ebrei che Frau Burger aveva incontrato. «Altrimenti, gli ebrei erano una cosa astratta» per lei. Le famiglie divennero così intime, in effetti, che «io ebbi una discussione anche con lei». Ms. Kuhn rise. «Eravamo sedute nel salotto [di Frau Schmidt], nell'appartamento. Mia madre, lei e io, per il tè o qualcosa del genere. [Frau Burger, come tutti del resto, aveva un debole per Frau Schmidt e andava spesso a farle visita.] Le dissi: "Come può credere nel Fuhrer e in quello che sta facendo?" Mia madre era semplicemente... sconvolta, sa. Se ne stava lì seduta in silenzio» e, aggiunse più tardi Ms. Kuhn ridendo, «sempre più pallida». Nel 1942 anche Rita fu arruolata per il lavoro coatto. All'inizio lavorò in una fabbrica di munizioni, dalle sette di mattina alle sei di sera. Anche lì, mi disse, la gente sembrava provare imbarazzo per la sua stella. Ricordava che con quell'orario, e vari bombardamenti ogni notte, si sentiva stanca, ma anche indifferente a tutto. «La gente era anestetizzata. Credo che fosse questo. Io lo ero. Quando penso a ciò che passammo... E una cosa che ti succede. Ma so che quando fui arrestata... Panico.» Rita fu arrestata due volte. La prima volta accadde il 27 febbraio 1943. Joseph Goebbels volle fare un regalo di compleanno a Hitler: rendere Berlino «Judenrein» [«depurata» dagli ebrei]. Per farlo, organizzò la famigerata Fabrikaktion [azione nelle fabbriche]. Settemila ebrei che ancora lavoravano a Berlino vennero arrestati, compresa Rita Kuhn. Ricordava che le sette erano passate da dieci minuti. «Tutto d'un colpo l'intera zona era piena di SS che rastrellavano i lavoratori ebrei. [Urlavano: "Juden raus!" Fuori gli ebrei!, mi disse in seguito.] Ero sola allora. Ecco. Quando ci caricarono sui camion, e chiusero i teloni, e partimmo, so che dopo un po' fui presa dal panico. Dissi alla signora accanto a me: "Stanno per far saltare in aria il camion". "No che non lo faranno. Nel bel mezzo 344

della città?" mi disse lei.» Dopo aver imitato il sussurro della donna, Ms. Kuhn rise un poco. «Così mi calmai e un momento dopo mi ricordo che ci fecero scendere. Vedo ancora la scena. Ai nostri lati due file di SS. E noi che per raggiungere questo edificio [dobbiamo] passarci in mezzo. E non pensavo al fatto che sarei passata fra le SS, che sarei andata dove dovevo andare. Ero calma, sa? Passai in mezzo a loro camminando. E una volta dentro vidi altra gente... Mi sentii meglio allora. E da quel momento in poi non mi curai più di quello che mi succedeva. Davvero non me ne curai più. Ero indifferente a tutto. Sapevo che se dovevo morire era destino che morissi... Avevi bisogno di questa difesa interna, di questa armatura da indossare. Penso che fosse vero per moltissima gente.» Aggiunse: «Ero in ansia solo per i miei genitori. Anche perché non sapevo che cosa fosse successo loro. Perché eravamo separati. E per mia madre in particolare. Ero preoccupata per loro, e mi chiedevo se li avrei ritrovati, se mai ne fossi uscita. Cosa sarebbe successo se non li avessi più rivisti, capisce. Ciò che più mi preoccupava era come si sarebbero sentiti.» Mi disse che fra le donne dentro l'edificio, che erano state separate dagli uomini, «si sentiva una vera solidarietà» e che presero a parlare fra di loro e a liberarsi di tutti i gioielli e dei soldi, gettandoli nella tazza del gabinetto. «Non volevano dare nulla ai nazisti, alle SS.» Rita aveva poco altro oltre al biglietto della metropolitana, e per qualche ragione decise di conservarlo. Lei e le altre donne furono tenute nell'edificio per tutto il giorno e fino a notte. Verso le dieci di sera fu detto loro di allinearsi. Si diede inizio a un «procedimento di selezione,» come Ms. Kuhn lo chiamò. «Tutte le persone andavano a sinistra, o a destra. La gran parte andava a sinistra.» Fece una pausa. «Che significava al campo. «C'erano file di SS, a dei tavoli, che esaminavano i documenti. E gran parte della gente andava a sinistra... E quando venne il mio turno, c'era una ragazza davanti a me, ed esaminarono i suoi documenti e [una SS] le fece delle domande e le disse di andare a destra. Fu rilasciata. Quando fu il mio turno, non pensavo che sarebbe successo due volte.» Rise appena. «Così diedi il mio nome e risposi a tutte le domande che mi fecero, e credo che mi domandarono di mia madre. "Ist sie arish?" [E ariana?] mi chiesero.» Dai documenti risultava che ambedue i suoi genitori erano ebrei. Ma il nominativo di sua madre non includeva il secondo nome Sara, che i nazisti insistevano dovesse stare su tutte le carte d'identità delle donne ebree. Le SS continuarono il loro interrogatorio. «"Wohnst du mit ihr?" [Abiti con lei?] "Ja, ich wohne mit hir". E, "mh, a destra, puoi andare a casa". E io non gli credetti. Rimasi lì. "GEHEN SIE NACH HAUS! SCHNELL!" [Se ne vada a casa! Svelta!]» Ms. Kuhn rise di nuovo. «E me ne andai, e non ero molto felice. Non ero molto felice. Me lo ricordo. Ero davvero rattristata.» Fuori vide la ragazza che era davanti a lei nella fila. Se ne stava semplicemente lì. «Le dissi: "Dove siamo?" E non ne avevamo la minima idea. In quei giorni Berlino era buia. Non c'era una luce in nessun posto. Tutto oscurato. Vagammo a piedi e trovammo una stazione dell'U-Bahn [la metropolitana] e io andai là... Non avevo mangiato niente per tutto il giorno. Non 345

eravamo autorizzati a portare con noi il cibo per il pranzo, niente. Non avevo nemmeno fame. E così andai a casa. Lei doveva fare un'altra strada, io andai per la mia. E non lo dimenticherò mai; era sera tardi, erano quasi le undici di sera. La gente sulla metropolitana. Li guardai. Dormivano, [o] se ne stavano lì seduti. Mi sentii come se fossi in un altro mondo. E da quel momento in poi provai la sensazione... Non so cosa fosse... Se solo voi sapeste quello che sta accadendo, pensavo. Li guardavo e dicevo [a me stessa]: "Come potete essere così indifferenti? Come potete andarvene per la vostra strada? Quando ci sono migliaia e migliaia di persone che vengono mandate a morire?" E in quel salone le persone erano migliaia. Davvero, migliaia.» Lei sapeva che erano destinate a morte certa? «Oh sì, sì.» Se non a una morte immediata, aggiunse, comunque a una morte finale. Interrogata in modo più stringente, mi disse: «Non è che sapessimo proprio quello che stava succedendo. Sapevamo che gli ebrei morivano per malattia, per fame». Ma «non sapemmo dei forni crematori e delle fucilazioni... fino a dopo la guerra». Quando le telefonai per ricontrollare una parte della sua testimonianza, le feci ancora delle domande su questo argomento e le chiesi se non avesse saputo delle camere a gas. «Assolutamente no,» mi rispose. In un discorso che tenne durante un raduno di protesta contro le violazioni dei diritti umani da parte dei serbi, Ms. Kuhn disse: «Non fu che nel 1945, dopo aver visto la liberazione del campo di concentramento di Buchenwald su uno schermo cinematografico e aver appreso degli altri campi di morte, che seppi che molti membri della mia famiglia e tutti quegli amici che erano spariti dopo il 1942 non sarebbero mai più tornati». Quanto alla propria sorte nel giorno del suo arresto, «sapevo che se fossi stata portata via ero destinata a non tornare,» mormorò, «e non avrei più rivisto i miei genitori. Ero davvero preparata a morire. Ricordo questa precisa sensazione. Provavo quasi una sorta di superiorità». Nel viaggio in metropolitana, mi disse, probabilmente nascose la stella. «Avevo paura,» disse ridendo, «che sarebbero venuti a prendermi di nuovo. La mia solita fortuna! «Poi alla fine riuscii ad arrivare a casa. E... erano le undici di sera. Suonai il campanello. Mio padre non rispose alla porta. Nemmeno mia madre.» Fece una pausa. «O mio fratello.» Quel giorno, seppe più tardi, erano venuti i nazisti a portar via l'anziana donna che parlava agli uccelli. Così, quando Rita suonò il campanello, la famiglia era in casa, terrorizzata, sicura che i nazisti fossero tornati per portar via anche loro. Finalmente Frau Schmidt aprì la porta e invece dei nazisti vide Rita. Quando suo padre, sopraffatto da un misto di sollievo e di gioia, le venne incontro, le crollò fra le braccia. Una settimana più tardi, mentre la Fabrikaktion continuava, i nazisti arrestarono Herr Kuhn e tutti e due i suoi figli. «Eravamo a casa. Era sabato. E mia madre andò a prendere le tessere annonarie... Andò alla scuola dove solitamente le prendeva... E tornò indietro per dirci che dovevamo andare a prenderle di persona. Così mio padre capì che avevano fatto un 346

errore quando mi avevano rilasciato. E che avevano mangiato la foglia, oppure avevano riesaminato i documenti. Disse: "E così". Ci disse: "Mettetevi un doppio strato di vestiti". Mio padre era un uomo molto strano, un uomo molto difficile. Ma ci fu un momento in cui fu forte. Andava in crisi molto facilmente, rabbia e tutto il resto, si lamentava di questo e di quello. Ma, accidenti, era così calmo allora.» Si assicurò che i suoi figli fossero più che ben coperti e quindi li portò dove venivano consegnate le tessere annonarie. «Fummo i primi ad arrivare nella scuola; ci isolarono in una stanza e chiusero a chiave la porta dietro di noi. «E allora mio padre seppe, per certo, che aveva avuto ragione. Poi aspettammo e aspettammo, e alla fine arrivò altra gente dalla strada.» Una era «una nostra buona amica», una specie di loro subaffittuaria, la vedova di un «ariano», da cui aveva avuto due figli che (a differenza di Hans e Rita) non erano mai stati registrati come ebrei. «Ben presto l'intera stanza si riempì.» Un uomo si presentò volontariamente. Era uno degli amici «tedeschi» di suo padre. «Ecco un altro esempio di un tedesco... che dichiarava la propria lealtà verso un ebreo. Si fece strada a spinte fra le SS, raggiunse di forza l'apertura nella porta, sbirciò all'interno e ci disse: "Salve". E ci portò qualcosa, o voleva portarci qualcosa.» Ms. Kuhn mi disse che quell'uomo avrebbe potuto essere punito per la sua azione, ma non lo fu. «Nel 1943, ho proprio la sensazione che i tedeschi non fossero più così sicuri... Alla radio urlavano che erano destinati alla vittoria. Ma non penso che nel profondo avessero davvero questa sensazione. E così dovevano stare un po' più attenti a ciò che facevano, perché sapevano che si sarebbe potuto tenerne conto. A un certo punto Rita sentì «una donna all'esterno che gridava, che voleva i suoi figli, e non voleva soltanto vederli, ma "voglio stare con loro, voglio andare con loro". E io sentivo tutto quello... Non riconobbi nemmeno la voce. Ma mio padre disse: "Questa è Mutti, la nostra Mutti"». Non la lasciarono entrare. Quando si fu radunata abbastanza gente per un trasporto, furono condotti fuori. «Poi fummo caricati su un camion.» Mentre venivano caricati, Rita vide sua madre. «Se ne stava lì. E noi eravamo sul camion. Ed eccola lì, in attesa. C'erano anche le figlie di questa nostra amica, a guardare. Non dimenticherò mai il volto di mia madre. Bianco. E pietrificato. In quel momento era già completamente svuotata. Voglio dire, non era più in grado di dirci niente. Riuscì a stento a farci un cenno con la mano. Niente.» Una delle figlie della loro amica ebrea svenne. Sua madre dal camion lanciò un urlo verso di lei e tentò di muoversi in avanti. «Eravamo proprio sul bordo dell'apertura, e vidi che ai nostri due lati c'erano delle SS. Vidi questa SS giovanissima, col fucile in spalla. Guardai la sua faccia. [Era] commosso, in un certo qual modo. Sembrava imbarazzato. Sembrava addolorato. C'erano tante lacrime mentre ce ne andavamo. Dimenticai la mia famiglia. Capisce,» mi disse, con una mezza risata, «era davvero commosso. E,» rise ancora una volta, in modo soffocato, «sentivo il desiderio di mettergli una mano sulla spalla. Fu la cosa più pazzesca. Era pazzesco. Voglio dire, era così giovane. Ovviamente si sentiva a disagio. C'era la

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madre che gridava perché sua figlia era svenuta, e c'era questa giovane SS. Credo avesse le lacrime agli occhi, in realtà.» I camion partirono. Erano del tipo militare, con teloni «a tenda» sul fondo, tenuti chiusi in modo che la gente in strada non potesse vedere all'interno. «Tentavano di nascondere quanto più potevano.» I camion arrivarono in un centro di raccolta sulla Rosenstrasse. Donne e uomini vennero separati. «Entrai in una stanza in cui c'erano soltanto donne, forse quattro o cinque, sdraiate su materassi di paglia, ed erano state lì tutta la settimana. Ricordo che tre di loro non parlavano nemmeno. Né a me né a nessuno. Erano già come... Non so cosa sia successo loro.» Alla fine una donna le rivolse la parola. Le raccontò di ciò che stava accadendo all'esterno, fin da domenica, il 28 febbraio, il giorno dopo i primi arresti di massa. Come è ben documentato, gli arresti, che coinvolsero per lo più mariti ebrei di donne «ariane», spinsero queste ultime a inscenare una protesta imponente all'esterno del centro della Rosenstrasse. Il numero e l'audacia delle donne crescevano di ora in ora, giorno dopo giorno, anche di notte; gridavano: «Vogliamo i nostri mariti». Fu loro ordinato di disperdersi. Si rifiutarono. Altri tedeschi si unirono alla protesta. I nazisti puntarono le mitragliatrici sulla folla. Le dimostranti rifiutarono ancora di muoversi. I nazisti non spararono. La folla cresceva. La dimostrazione, unica nel Terzo Reich, durò per parecchi giorni. La donna che se ne stava sul materasso di paglia aveva sentito i canti delle dimostranti così come le SS che stavano dentro il centro. Raccontò a Rita che una SS era entrata nella stanza dove era lei e, riferendosi alle donne che urlavano, le aveva detto: «Queste sono le nostre donne tedesche. Ne siamo orgogliosi». L'uomo ammirava il loro senso di «deutsche Treue» [lealtà tedesca]. (Hans Kuhn corroborò la storia: una SS aveva detto la stessa cosa nella sua stanza.) La donna sul materasso era stata anche testimone di un'altra scena. Una delle prigioniere era la moglie ebrea di un «ariano». Il marito e il figlio, che era stato cresciuto come un gentile, andarono al centro per chiedere sue notizie. Le SS verificarono il caso e dissero che l'ebrea sarebbe stata libera di andarsene se i due l'avessero portata a casa con loro. Quelli si rifiutarono di farlo. Le SS si infuriarono a tal punto da urlare al marito e al figlio «ariani» che erano «Schweine» [dei porci] e da dire loro: «Fuori di qui. Non siete degni di essere tedeschi». Rita passò tutta la notte nella Rosenstrasse. Ci fu un bombardamento. Ai prigionieri non fu permesso di cercare rifugio. II mattino successivo Rita lo trascorse in gran parte standosene in fila e mostrando i propri documenti. Come nel precedente centro di raccolta, i nazisti «furono sempre molto civili con me. Niente affatto ostili. Solo molto ufficiali. Cortesi, quasi. Era molto strano». Quello che accadde poi, «è una gran nebbia». Ms. Kuhn sa che il 6 di marzo lei e suo fratello vennero rilasciati. Ma perfino ora ignora se suo padre fu lasciato libero quello stesso giorno o il successivo. Ricorda però che quando uscì all'aperto un uomo dall'altra parte della strada le fece una specie di gesto di vittoria. Ed è certa che senza la protesta delle donne «aria-

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ne» (di cui a quanto pare sua madre non aveva saputo) lei, suo fratello e suo padre sarebbero stati deportati. La vita a casa continuò, a suo modo. Una «ariana» occupò la stanza della donna che parlava agli uccelli. Lei pure entrò in amicizia con la famiglia Kuhn, ed «era terribilmente carina». Ed era una prostituta. Portava i suoi clienti, soldati tedeschi e SS, a casa con lei. Dopo Rosenstrasse, Rita e suo padre continuarono a portare la stella, ma Hans si rifiutò. Aveva capelli biondi e occhi azzurri («non sembravamo affatto degli ebrei,» mi disse sua sorella) e non venne fermato, nemmeno dalle guardie dell'ufficio periferico della Gestapo, che dovevano averlo riconosciuto. (La teoria di Ms. Kuhn è che essi lo lasciassero andare per la sua strada perché sapevano che il cugino della Hitlerjugend era adesso un soldato che combatteva sul fronte orientale.) Ma Frau Burger della Gestapo sapeva certamente che Hans era ebreo, e senza la stella. Che cosa fece? Lo portò al cinema. Vi andò anche Frau Schmidt. Rita Kuhn aveva dimenticato l'episodio. Ma Hans no. Una volta «liberi», Rita e suo padre ripresero il lavoro coatto, impiegati ambedue in scali ferroviari. Rita faceva «diverse cose, per lo più attività all'aperto». Ricordava in modo particolare un lavoro che dovette fare in un periodo di tempo freddo: pulire la superficie esterna dei «finestrini molto, molto sporchi» delle tradotte militari che tornavano dal fronte orientale, trasportando una scala per tutta la lunghezza dei treni. A volte lavorava sotto le carrozze; le oliava. Con lei lavoravano dei tedeschi «normali», ma anche francesi, spagnoli e ucraini sottoposti al lavoro coatto, soprattutto donne. Mi disse che solo le ucraine avevano degli atteggiamenti di antisemitismo nei suoi confronti. Nel frattempo Herr Kuhn caricava e scaricava treni merci. Era il solo ebreo fra colleghi «ariani» più anziani di lui, e le sue esperienze con loro, mi disse sua figlia, furono «tutte positive». Tutti gli uomini rubavano burro e formaggio dai treni. «Una volta qualcuno si accorse che mio padre aveva rubato del formaggio. Si poteva sentire l'odore, tanto per dirne una. E uno dei suoi compagni di lavoro lo difese e lo tirò fuori dai guai.» In un'altra occasione Herr Kuhn stava tornando a casa dopo il lavoro su una vettura del tram surriscaldata e stipata di gente, con del formaggio fissato sotto la giacca e la stella sopra di essa. Ben presto i passeggeri indietreggiarono a una tale distanza da lui che poté persino sedersi, una cosa che solitamente non era permessa agli ebrei. Suo padre, mi disse Ms. Kuhn, pensò che la gente provasse repulsione per il «fetido ebreo», ma poi si rese conto che ciò di cui sentivano l'odore non era la sua persona ma il formaggio che si stava sciogliendo. Nella famiglia Kuhn questa è considerata una storia molto divertente. In confronto a quello che stava per succedere, lo era. Verso la fine della guerra i russi circondarono Berlino. «I colpi d'artiglieria erano continui. Vivemmo in cantina per dieci giorni interi.» Dopo un certo tempo ci furono delle pause nei bombardamenti, poi delle pause regolari, durante le quali «andavamo a fare compere. Per lo meno avevamo un panificio [vicino]». Durante una pausa Frau Burger andò a prendere il 349

pane, e Rita e suo padre andarono di sopra a prendere qualcosa nell'appartamento. «Mentre eravamo di sopra sentimmo questo suono tremendo, un sibilo. Una bomba. Eravamo nel soggiorno e mio padre disse: "Su, andiamo nel corridoio, lontano dalle finestre". E la bomba cadde molto, molto vicino. Era quella che chiamavano lo "Stalinorgel" [organo di Stalin], Aveva una potenza esplosiva molto alta e faceva un enorme rumore... Tremò l'intero edificio. Scendemmo dabbasso e poi ci fu di nuovo silenzio. E mio padre mi disse: "Puppchen [bambolina]," mi chiamava sempre Puppchen, "perché non vai a prenderci un po' di pane?" Io dissi: "Va bene". Così uscii, e non appena arrivavo all'angolo [dovevo girare] a sinistra e poi ancora a sinistra e c'era il panificio. E arrivai all'angolo ed era cambiato tutto. Non riuscivo a riconoscere... Pensai di essere in un'altra città. Ogni cosa sembrava molto, molto poco famigliare. Gli alberi avevano perso le foglie. E gli edifici sui due lati erano... fori piccoli, fori grossi, l'intera zona semplicemente devastata. Pensai: "Che strano, che cosa è successo?"» Rise. «Ma papà mi aveva detto di prendere il pane, dovevo prendere il pane. E continuai a camminare, e guardai gli alberi, e vidi dei brandelli di vestiti sui rami. Ben presto, mentre mi avvicinavo al panificio, vidi brandelli di carne umana. Erano ovunque, dappertutto. Sugli alberi, sui balconi, brandelli di vestiti, brandelli di carne umana... Per poco non caddi addosso a una donna; giaceva lì sulla strada, morta, senza le gambe. Non riuscivo a trovare il panificio. E continuai a camminare e superai una casa e sentivo della gente che si lamentava, gridava. E arrivai dove pensavo che ci fosse il panificio, e c'era soltanto un grosso buco. Di sicuro era dove era caduta la bomba, e la gente non aveva avuto il tempo di mettersi al riparo. «Così tornai a casa; niente pane. E avevo fatto amicizia con la figlia di questa donna della Gestapo; effettivamente eravamo amiche. Specialmente durante quei dieci giorni ci eravamo avvicinate veramente. E lei disse che sua madre non era tornata dal panificio. Allora immaginammo che doveva essere là. Ma nessuno voleva andare a vedere. In mezzo ai morti o ai feriti... Così mio nonno, che era un veterano della Prima Guerra Mondiale, si offrì volontario di andare a cercarla. Chiese alla figlia come fosse vestita.» Ma non la trovò. «Ora, noi pensiamo che morì là. L'unico altro motivo della sua sparizione potrebbe essere che fuggì con le SS e che visse nascosta. Se lo fece, non si mise mai in contatto con sua figlia.» A dare credito a quest'ipotesi era una snervante esperienza vissuta dopo la fine della guerra. Tutti e quattro i Kuhn erano sopravvissuti, ma vennero a sapere che i nazisti avevano creduto che non lo fossero. «Dopo la guerra mio padre stava camminando per la strada per andare al lavoro e sentì chiamare il suo nome. Riconobbe l'uomo con cui aveva lavorato nella Jiidische Gemeinde. Vestiva un'uniforme americana, di maggiore. E quest'uomo non poteva credere che era mio padre quello che vedeva. Gli disse: "Sei vivo?" E lui rispose: "Sì, sono qui, sono io". E quello gli disse: "E la tua famiglia?" E mio padre: "La mia famiglia più stretta, mia moglie e i miei figli, sono sopravvissuti. Ma ho perso tutti gli altri

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parenti. Dodici," contò. Aveva una famiglia molto piccola, fortunatamente... Ricordo zii e zie che non tornarono più. "Eppure," disse [l'uomo in uniforme], "non posso ancora crederci. Vengo adesso dal quartier generale della Gestapo", che era proprio dalle parti della Rosenstrasse. "Guardare i fascicoli degli ebrei berlinesi e scoprire che cosa ne è stato è il mio lavoro. E ho fatto passare tutti i fascicoli e mi sono imbattuto nel tuo nome. Kuhn, Fritz. Rita. Hans. E proprio di traverso sul fascicolo c'era [la parola] Erledict."» Il termine significa in sostanza «pratica sbrigata», e indicava che la famiglia era deceduta. «Così, quando quell'uomo vide mio padre, naturalmente... Lui ci raccontò l'incidente e non ci pensammo più. Ma mi tornò alla mente in un giorno di sole in California, mentre camminavo, andavo a far compere in drogheria. Percepivo, capisce, che magnifica giornata, che stupenda vita fosse. E tutto a un tratto,» Ms. Kuhn fece una specie di risata, «mi ricordai di quanto c'ero andata vicino, a non essere qui. Ricordo questo e che pensai: "Chi poteva aver messo quel timbro?" Non penso che fu un errore... La mia teoria è, o che fu fatto nella Rosenstrasse, mentre noi eravamo là, a nostra protezione, per evitare che non ci succedesse di nuovo qualcosa di simile; oppure che, e sarebbe stata la cosa più bizzarra, e non c'è alcun modo in cui io possa mai provarlo, fu fatto da [Frau Burger]. «Era molto altolocata nella Gestapo. E aveva una predilezione per mia madre. Le piaceva anche mio padre. E quando fummo arrestati, forse fece proprio questo. Mise quel timbro sul nostro fascicolo.» Nel maggio del 1945, subito dopo la presunta morte di Frau Burger, truppe russe presero il controllo del quartiere. Fu ordinato agli abitanti del palazzo in cui vivevano i Kuhn di radunarsi in un locale al piano terreno. Ubbidirono. Il gruppo, che comprendeva gli inquilini dell'ampio appartamento condiviso, cioè i quattro componenti della famiglia Kuhn, l'affezionata donna «ariana» (Frau Schmidt) e la prostituta, e, dall'appartamento di fronte, la figlia di Frau Burger, forse non costituiva l'insieme più eterogeneo di tedeschi, quel giorno, ma probabilmente arrivava molto vicino a esserlo. All'epoca in cui il gruppo si riunì gli stupri di donne tedesche, sia «ariane» che ebree, dilagavano. Rita aveva diciassette anni. «Eravamo tutti seduti lì, e ci nascondevamo il volto, con dei fazzoletti. Avevamo sentito di storie come quella. E aspettavamo. E tre ufficiali russi entrarono nella stanza. Credo che fossero ufficiali. E fecero scorrere lo sguardo su tutti, e mi guardarono. E vennero verso di me.» Ms. Kuhn fece una mezza risata. «E lei [la prostituta] lo vide. Si chiamava Lydia. Vide che venivano verso di me, e si avvicinò a loro e disse [Ms. Kuhn fece un gesto d'invito con l'indice]: "Andiamo". E li prese tutti e tre con sé. E tutti e tre la seguirono. Ecco, questo fece un'altra donna tedesca.» Nel racconto che Rita Kuhn mi fece delle sue esperienze nel Terzo Reich, uno dei temi ricorrenti è quello delle donne tedesche «ariane» che in 351

svariate occasioni la aiutarono a sopravvivere. Ne facevano parte la moglie del dottore nel rifugio antiaereo, le sconosciute della protesta sulla Rosenstrasse, forse Frau Burger, e certamente Lydia la prostituta. E soprattutto ne faceva parte Frau Frieda Kuhn. Molto tempo dopo, Hans scrisse a sua sorella una lettera sul ruolo avuto dalla madre. (I Kuhn progettavano di emigrare tutti negli Stati Uniti, ma dopo che Rita ottenne per prima il permesso e partì nel 1948, aspettandosi che la famiglia la seguisse, Frau Kuhn fu colpita dal morbo di Parkinson e non potè muoversi. Suo marito restò con lei. E anche Hans decise di restare. Divenne un poliziotto di Berlino.) Questa è una parte della lettera di Hans, nella traduzione che me ne fece Ms. Kuhn: « E vero al di là di ogni dubbio che noi dobbiamo la nostra sopravvivenza alla mamma. Ciò non dovrebbe svilire né la sua memoria né la sua dignità, ma io do per scontato e non considero un merito speciale il fatto che non ci si separi dalle persone che si amano, in tempi di crisi». Egli proseguiva: «Non era una questione di sacrificio per la mamma restare al nostro fianco. Noi davamo alla sua vita significato e scopo, e questa non è una cosa da cui ci si separa facilmente. E tutto qui». Una volta Ms. Kuhn e io ci incontrammo subito dopo che avevo partecipato a un seminario dedicato alle idee degli storici revisionisti sull'Olocausto.'1 Le opinioni in questione non concernevano la messa in discussione dei fatti dell'Olocausto, ma l'esortazione a non considerarlo come l'unico eccidio di massa della storia. Ms. Kuhn mi disse che secondo lei si corre un pericolo a sostenere l'unicità dell'Olocausto. «Se è una mostruosità irripetibile nella storia, allora non ci si deve preoccupare.» Ma aggiunse: «L'unicità del massacro degli ebrei sta nel fatto che fu un genocidio, un genocidio pianificato. E se gli alleati non avessero sconfitto Hitler, egli lo avrebbe esteso a tutto il mondo. Desiderava con tutte le sue forze l'estinzione del popolo ebreo. Voglio dire, questo è l'aspetto unico.» Un altro fatto spaventoso, mi disse, è «che Hitler risvegliò qualcosa che non era solo dei tedeschi. Ci furono i collaborazionisti». Ms. Kuhn parlò dei pogrom e dei massacri in Russia e Polonia «molto prima di Hitler». E per quanto concerne il Terzo Reich, alcuni sopravvissuti di Auschwitz le avevano raccontato che «talvolta gli ucraini erano più crudeli e più perversi delle SS». Uno degli esempi di cui aveva sentito parlare riguardava degli ucraini che caricarono dei prigionieri, destinati (crede) a Dachau, in vagoni per il carbone le cui pareti erano inclinate ad angolo acuto come in una lunga V. Data la forma dei vagoni, era inevitabile che la gente scivolasse letteralmente verso il fondo, sulla testa di altra gente. Durante il lungo viaggio coloro che stavano sotto soffocavano lentamente, mentre coloro che stavano sopra lottavano disperatamente per rimanervi. Quando il convoglio arrivò a destinazione, scortato dagli ucraini, le SS che lo scaricarono «erano inorriditi». Ms. Kuhn citò gli ucraini di Treblinka, che pare fossero particolarmente spietati, e i polacchi che massacrarono gli ebrei che tornavano dai campi di sterminio. « E ci furono i collaborazionisti francesi,» aggiunse. Disse che per lei la cosa spaventosa è che «poteva succedere in Ameri352

ca. Se non avessimo avuto il governo che abbiamo». Se si poteva affermare che le donne tedesche avevano dovuto affrontare una grande prova e per la maggior parte avevano fallito, che cosa si può dire delle donne americane, se avessero dovuto affrontarla? Mi rispose che lei respinge l'affermazione di alcuni sopravvissuti secondo cui «c'è un Hitler in ciascuno di noi», poiché lui era un «assassino sistematico». Ma se uno dovesse dire che c'è «del male in ognuno di noi, allora sì». Mi disse di credere che «Hider risvegliò qualcosa che non è dei tedeschi in particolare. Voglio dire, in tutto il mondo c'è pregiudizio. C'è fanatismo, intolleranza verso gli altri... Voglio dire, in sostanza questo fa parte della natura umana».

NOTE 1 II già segnalato Wegweiser durch das jüdische Berlin, cita le leggi, compresa la clausola che stabiliva che il Reichsbürger aveva «sangue tedesco» ed era il «solo a godere» di «pieni diritti politici» a norma di legge (p. 363). 2 La ex contessa venne deportata al campo di concentramento di Theresienstadt ma sopravvisse. Poco dopo la liberazione contrasse un'infezione, le fu fatta una puntura con un ago sporco e morì di setticemia. } L'appellativo femminile Jüdin non veniva stampato sulla stella, cosicché le ragazze e le donne ebree perdevano la loro identità sessuale oltre a quella individuale. 4 II seminario, intitolato «Riscrivendo il fascismo tedesco», fu tenuto alla University of California, a Berkeley, nel marzo 1988.

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CONCLUSIONE

Ben prima della fine delle interviste, sono costretta a dirlo, mi sentivo quasi immobilizzata dalla tristezza. Avrei tanto desiderato che una manciata di uomini carichi d'odio fossero stati presi sul serio e dissuasi, o rinchiusi, o avessero trovato un buon lavoro e donne che li amavano, o uomini, o che, in qualche momento iniziale, tedeschi e non tedeschi si fossero impicciati, immischiati, intromessi in cose che, discutibilmente, non erano affari loro, e che di conseguenza circa quaranta milioni di persone, o nate in Europa (o nell'Asia occidentale e in Africa settentrionale) o mandate a combattere per ciò che era stato scatenato da quella manciata di uomini, fossero morte di morte naturale. Avrei desiderato così tanto che questo libro non avesse motivo per essere stato scritto. Dato che quella causa c'è stata, tuttavia, è opportuno volgerci a guardare ciò che abbiamo appena visto, sia nelle parole stampate sia con gli occhi della mente, e cercare di esaminarlo senza battere ciglio. Sappiamo che nessuno di noi capirà fino in fondo perché accadde ciò che accadde, perché quella manciata di uomini (allevati dall'infanzia all'adolescenza all'età adulta essenzialmente da donne) si caricò di tanto odio, e perché il loro odio fu così contagioso. In mancanza di questa comprensione, cerchiamo le risposte nelle prove che si sono accumulate davanti a noi. A prima vista, potrebbe sembrare che tutto ciò che abbiamo sono le tessere femminili nel puzzle del Terzo Reich, tessere che vorticano, si beffano dei tentativi di incastrarle in un quadro più ampio o di attribuire loro un qualche significato. Forse perché sono rimasta tanto a lungo con queste donne, negli occhi della mia mente è emersa una specie di ritratto di gruppo. Per me, è estremamente rivelatore. Vedo donne degli ambienti più disparati, donne in gran parte nel pieno della gioventù, della salute, della nobiltà d'animo, a cui viene incontro la salda determinazione del nazionalsocialismo, sostenuta a sua volta dalla salda determinazione delle tradizioni tedesche. Vedo alcune donne che abbracciano il nazionalsocialismo, altre che ondeggiano nella sua ombra e poi cadono, e altre che nemmeno incespicano. Vedo le donne gioire, dubitare, lottare e tremare. Le vedo inspirare idealismo ed esalare ostilità, e il contrario. Le vedo farsi le proprie opinioni e vedo le loro opinioni create da qualcun altro al posto loro. Guardano al mondo esterno per scorgere una reazione e osservano il mondo esterno mentre rende omaggio ad Adolf Hitler inviando i diplomatici ad incontrarlo e gli atleti a gareggiare sotto la bandiera con la svastica. Vedo un numero sorprendente di famiglie che si dividono e si uniscono, si uniscono e si dividono. Le vite di quelle donne si espandono e si contraggono. Vedo le donne far fronte, o no, a dosi sempre più massicce di propaganda, ai bambini, a ordini e anco-

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ra ordini, a bombe, sempre più bombe, a cattiva volontà e buone intenzioni, ad atomi di rispettabilità e ammassi di codardia (loro e altrui),alla paura che passa dalla tensione al terrore, alla morte, a nuove morti, alla reticenza, all'opportunismo, al puro coraggio. Vedo il privilegio e l'istruzione formale passare in secondo piano rispetto alle lezioni di onestà e giustizia apprese in casa. Vedo le donne affrontare le conseguenze quotidiane del Terzo Reich con impudenza o disperazione, esitazione o speranza o umorismo, con pregiudizi, con contraddizioni, con vergogna, con i primi rifiuti e i ripensamenti, e con i paraocchi. Poi, vedo molte delle donne apprendere, gradualmente o all'improvviso, che sono state usate, e da chi, e riguardo a cosa, e le vedo fare un passo avanti o un passo indietro rispetto alla possibilità di saperne di più. Noto che quelle che si opposero e rischiarono la vita non ricavano nessun piacere dalla loro preveggenza, anzi sono divenute le più severe critiche di se stesse. E noto talvolta anche il fenomeno opposto. Alcune tessere del puzzle formano ciò che sembra un distorto ballo di discolpa danzato sul passato di quelle donne e della loro nazione. Non tutte le mosse sono false, se ci atteniamo alle loro parole. Alcune avevano davvero buone intenzioni. Alcune sentirono davvero il richiamo dell'idealismo. Dopo la presa del potere da parte dei nazisti ci fu davvero più cibo e più lavoro e meno disordini politici per le strade. E la vita tornò davvero a sembrare normale, con picnic, passeggiate, feste di compleanno e incontri romantici. Tutto ciò che le donne intendevano per «politica» davvero si rifiutava di accoglierle, non lo aveva mai fatto. (In quale sfera di diretta influenza sulla nazione erano mai state ammesse?) Quanto all'antisemitismo, alcune donne davvero non avevano mai conosciuto bene un ebreo. Alcune donne si sentirono davvero impotenti davanti alla poderosa macchina della cinica propaganda antisemita. Ed effettivamente l'antisemitismo era diffuso anche prima dell'avvento del nazismo. (Da dove veniva l'«ebreo delle uova», l'«Eierjude» di Erna Wickerath? O era una semplice figura retorica, come «l'ebreo Boehm» di Greti Sobiekowski?) La scena era occupata dai salti più disperati di alcune ballerine. C'era davvero un'alta percentuale di ebrei nelle carriere più attraenti. Probabilmente alcuni uomini d'affari ebrei avevano effettivamente truffato alcuni clienti: proprio come facevano altri uomini d'affari tedeschi, dicevano coloro che non avevano bisogno di saltare. Gli atti antisemiti dei nazisti potevano davvero essere visti come una fase transitoria. (Di sicuro lo credettero alcuni ebrei tedeschi.) E loro non li volevano uccidere: volevano semplicemente ridurre il loro potere, limitarli... Una cosa che le donne non dissero direttamente era che quando sparirono grossi gruppi di ebrei, essi da tempo non erano più così visibili (anche se non così invisibili come da tempo erano gli zingari). Gli ebrei erano fuori dalle scuole «tedesche». Fuori dalle case, dagli uffici, dagli ospedali «tedeschi». Dai palazzi «tedeschi». Dai negozi in alcune ore. Dai cinema. Dai tram. Dalle strade. E quando cominciarono a scomparire dalle strade, davvero non c'era 355

modo di scoprire dove fossero finiti (a meno di voler mettere in pericolo se stessi). C'era davvero motivo di avere paura. Mentre si accumulavano gli atti e gli anni del Terzo Reich, mentre gli occhi si aprivano e le frontiere si chiudevano, c'erano molte, molte ragioni per avere paura. Le naziste fino al midollo, come abbiamo visto, passavano quasi tutto lo spettacolo dietro le quinte, annebbiando gli specchi dei camerini con le esalazioni dei loro alibi. Guardano, e non vedono nulla. Le vere naziste sanno che non sono flessibili come le altre, che se non si attaccano a ciò che erano abituate a credere, si spezzeranno. Un aspetto particolarmente impressionante del ballo della discolpa è notare quante donne, perfino le vecchie naziste, si attaccavano all'unico compagno di danza che avrebbe potuto forse assicurare loro la salvezza: lo Hausjude [l'ebreo di casa]. Il ben noto e disprezzato fenomeno si riferisce a un ebreo che un non ebreo può dire di aver conosciuto e apprezzato, così dimostrando di non essere antisemita. Ero ignara dell'esistenza di così tanti fantasmi di Hausjuden: nel volto di un negoziante, nella visita di un maestro al bambino malato, nei ricordi dei vicini. Il salto verso la salvezza consiste non solo nel conoscere uno Hausjude, ma anche nel sapere che lo Hausjude è fuggito in tempo. Perfino Mathilde Mundt raccontò di aver portato del cibo a una famiglia ebrea che, sosteneva, in seguito visse nella più grandiosa ricchezza a New York. Così anche lei riesce a dormire. Lo Hausjude che riuscì a fuggire e a prosperare in America divenne il primo santo patrono della Germania postbellica. Il ballo comprende anche umilianti cadute sul sedere. Alcune donne avevano bisogno di puntualizzare che loro personalmente non assassinarono o, per dirla ancora più rudemente, non spinsero personalmente il loro Hausjude in un forno. Così tanti tedeschi devono aver fatto simili commenti che ne è nata un'espressione: «Io non ho mai torto un capello a un ebreo». (Ho sentito questa espressione o le sue equivalenti più di una volta.) Un paio di donne hanno voluto anche sottolineare che «gli ebrei» sono tornati e si trovano bene in Germania. Si vedono ancora in televisione, possiedono ancora grandi magazzini. Anche il rifiorire della comunità ebraica in Germania, come i racconti dei successi degli ebrei nel mondo, possono fornire un'ulteriore salvezza psicologica. Dimostra che non li hanno ammazzati tutti, in fondo. Ho visto anche, come finale del ballo, che molte donne si rimproveravano. Molte si rammaricavano che quando aprirono gli occhi, secondo l'agenda nazista era troppo tardi per fare qualcosa. Una donna della Germania Est (la cui intervista non è stata inclusa nel libro) si criticava specificamente per essere stata «dumm». Molte donne ricordavano un particolare ebreo di cui avevano indovinato la morte, o ne erano venute a conoscenza. A meno che non venissi raggirata in continuazione, le donne ne sembravano ancora colpite. Rifiutavano anche, perfino come congettura, la possibilità di un intervento, soprattutto verso la fine. Molte donne più del previsto parlarono di codardia. La parte cinica dentro di me talvolta considerava la codardia 356

come un alibi inattaccabile quasi come gli altri due che vorticavano nel puzzle, l'ignoranza e la paura. Cosa potevano fare, nella ragnatela del Terzo Reich, donne verosimilmente terrorizzate, disinformate, disorganizzate per fermare Hitler e la sua guerra? Eppure, quasi tutte le donne volevano che Hider e la sua guerra si fermassero, almeno negli ultimi anni. Ma quanto agli atti precedenti contro vicini e colleghi, avevano voluto e provato a fermarli? (In verità, talvolta i nazisti annunciavano nuove misure restrittive contro gli ebrei solo sui giornali ebraici, per evitare di diffondere quelle notizie tra il pubblico tedesco.) Oppure quegli atti, e le reazioni che avevano provato loro, erano stati rimossi? Rimozione. Questa parola giustifica un quadro tutto per sé. In Germania è una questione intricata, complicata. In verità, la parola rimozione [Verdrängung] è divenuta così nota tra la generazione alla quale viene più frequentemente applicata che molte donne ne parlavano come di una compagna psicologica, per esempio nella frase «Forse io "verdrängte" [rimuovevo] quello che accadeva». Forse la migliore spiegazione può essere trovata nella tesi, spesso citata, di due sociologi tedeschi, Alexander e Margarete Mitscherlich, nel loro libro dedicato alla «incapacità di piangere». Per esemplificare la tesi in termini non specialistici, subito dopo le tensioni e i terrori della guerra, i tedeschi si trovarono di fronte una serie di circostanze emotivamente sconvolgenti. Le bombe avevano ridotto la nazione a un cumulo di macerie. Molti avevano perduto la casa e tutto quello che conteneva. Il loro governo era stato costretto alla seconda resa incondizionata nel giro di trent'anni. Molti uomini che avevano conosciuto e amato erano morti, per una causa ammantata di «idealismo» nella quale molte persone (soprattutto i giovani impressionabili) avevano creduto ciecamente. Nel momento in cui fu perduta, si dimostrò anche riprovevole. Una reazione prevedibile sarebbe stato un esorcismo di massa, che ciascuno avrebbe potuto trovare negli studi degli psichiatri, nell'alcolismo, in atti di espiazione, o semplicemente piangendo e parlandone. Invece, come disse Margarete Mitscherlich in una successiva edizione del libro, seguì l'«immobilizzazione psicologica della società tedesca del dopoguerra». 1 1 tedeschi scelsero di implodere nella rimozione. Furono aiutati in quest'opera, è perfino ovvio dirlo, dalle straordinarie difficoltà materiali: il caos postbellico in cui trovare ogni giorno il cibo per sopravvivere era qualcosa di più difficile, secondo molti tedeschi, della guerra stessa. Il celebre slogan «Se pensi che la guerra è brutta, aspetta la pace» si dimostrò vero soprattutto nelle aree urbane. (Nel 1946, circa il settantacinque per cento dei bambini di Berlino era denutrito.) Ritengo che i tedeschi, e molte tedesche incontrate in queste pagine, siano state aiutate nella rimozione da un altro fatto evidente. Le vittime non c'erano più. Molti tedeschi, specialmente donne, ancora sul fronte interno, dovettero vedere le vittime nei documentari girati dagli alleati, ma non di persona. Gli occhi accusatori dello Hausjude non seguivano una donna a casa. E lontani dagli occhi erano non solo le vittime ma i luoghi ad esse associati. Gran parte della Germania urbana, dove molte delle vittime 357

erano vissute, avevano lavorato, avevano pregato, era irriconoscibile. Anche il passare del tempo favorì la rimozione. Per fare un esempio estremo, se una donna vedeva i vicini ebrei trascinati via dalla Gestapo, in seguito avrebbe potuto confortarsi dicendo che non avrebbe potuto fermare la Gestapo; poi, avrebbe desiderato non averli visti; poi, non li aveva visti proprio; poi, è difficile ricordare, e infine, non si ricorda proprio. E possibile, secondo me, che quella convinzione sia talmente bramata che una macchina della verità non registrerebbe alcun segno di menzogna. Il fenomeno, come possono confermare psicologi di tutto il mondo, non è solo tedesco. La Verdrängung (oltre ai soldi alleati) deve anche aver accelerato la celebre ricostruzione tedesca del dopoguerra: deve aver fatto sgombrare più rapidamente le strade, mescolato più rapidamente la malta, fatto appendere prima le tendine. Le case nuove contengono pochi ricordi del passato. Mentre si chiude il nostro quadro mentale e si è vista l'estensione della rimozione, rimane la questione connessa: quella della verità. Posso dirlo subito: ho creduto alla maggior parte delle donne per la maggior parte del tempo. Questo vale anche per ciò che non volevo credere o prevedevo di credere, incluso il fatto che Anna Fest, la guardia del campo di concentramento, non era antisemita. Credo anche che la paura contasse per quasi tutte quelle vite. Non credo che tutte le donne mi abbiamo confidato i loro ricordi più angosciosi, o non li abbiano rimossi, o non si fossero dimenticate altre cose (comprese le cose «buone»), o che le donne non abbiano tentato talvolta, come probabilmente farebbero quasi tutti, di mettere nella luce migliore le loro azioni e inazioni. Ma credo che la maggior parte delle donne pensassero che quello che dicevano era vero. Forse credevo loro perché avrebbero potuto rifiutare l'intervista, o per via del linguaggio del loro corpo, o perché così tanto di quello che dicevano suonava vero, o in termini generali veniva confermato dai libri e dai racconti dei sopravvissuti che avevo letto o sentito o visto al cinema e in televisione.2 Forse credevo alle donne perché spesso si preoccupavano della precisione, di cosa era accaduto e quando, di cosa avevano saputo e quando. E forse si sbagliavano o io sono stata ingannata. Appresi che la mia stessa memoria era imprecisa almeno riguardo a tre interviste. I nastri mi corressero, confermando così la mia fiducia nei registratori rispetto alle persone con carta e matita. Anche grazie alle mie sviste, preferisco pensare in termini di «verità» delle donne e verità, piuttosto che di Verità. Dov'è la «verità»/verità/Verità riguardo alla risposta alla domanda che molti non tedeschi (tra i quali non ci sono io) ritengono la più importante: cosa sapevano le donne tedesche del genocidio? A parte il mio punto di vista che a questa domanda è necessario dare risposte individuali, a causa delle grandi differenze tra le vite delle varie donne, ci sono ragioni per credere alle donne che dicevano di non sapere cosa avveniva nei campi. Una è che ammettevano di sapere che i campi esistevano. Un'altra è che i nazisti fecero ogni sforzo per impedire che le informazioni su quanto avveniva nei campi giungessero al pubblico tedesco. Gli sforzi iniziarono con le minacce nei confronti dei detenuti rilasciati nei

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primi anni del regime, e finirono con la scelta di costruire i campi destinati allo sterminio fuori dei confini della Germania e di uccidere i prigionieri costretti a partecipare alle operazioni delle camere a gas e dei forni. Un'altra ragione per credere alle donne è la testimonianza di persone di cui abbiamo motivo di fidarci, come i soldati americani. Molti hanno dichiarato di non sapere cosa accadeva nei campi fino a poco tempo prima dell'ora della loro macabra liberazione. Un veterano che entrò tra i primi a Dachau ricordava: «La gente usciva da quegli edifici paurosamente emaciata e voleva abbracciarci, stringerci, e noi continuavamo a dire di no». I soldati videro le uniformi a righe e dedussero che i prigionieri fossero criminali.3 Altre persone a cui abbiamo motivo di credere sono i sopravvissuti ebrei. Perché così tanti sopravvissuti e famiglie di sopravvissuti parlavano degli ebrei tedeschi che con timore, ma con toccante innocenza, seguivano gli ordini di impacchettare i loro vestiti per un trasferimento in un qualche «campo di lavoro» all'«est»? Perché fu così efficace l'agghiacciante sotterfugio nazista di portare gli internati a fare una «doccia» nella camera a gas? Non era solo intimidazione: molti ci credevano ancora. E anche ad Auschwitz alcuni (di cui conosco la testimonianza) ci credevano. Una donna testimoniò: «Anche se sono stata ad Auschwitz, non sapevo delle camere a gas. Se lo immagina?»4 Un altro sopravvissuto di Auschwitz mi disse che quando nel 1942 si trovava in un campo di lavoro, un ebreo entrò nella sua baracca e disse che altrove gli ebrei venivano uccisi con il gas, e lui non gli credette.5 Quel dialogo non è unico negli annali delle testimonianze dell'Olocausto. E Rita Kuhn disse di non saperlo. E Freya von Moltke parlò delle difficoltà di suo marito (che pure faceva parte dell'alto comando tedesco) di scoprire cosa stava accadendo. Ma lui lo scoprì. Ci sono anche ragioni per non credere alle donne che dicevano di non sapere. L'apparato delle uccisioni era così grande che dovevano esserci per forza dei buchi. Tini Schneider disse di saperlo, anche perché gli ebrei non tornavano indietro. Margret Kresch sapeva dell'assassinio di innocenti «ariani». Lo stesso vale per Wilhelmine Körner. Se trapelavano le notizie di omicidi singoli (anche se commessi vicino a casa) di sventurati malati mentali, non dovevano diffondersi notizie di omicidi di massa? Si diffusero, in un certo senso. Ma a quanto pare non attraverso le proibitissime radio straniere: a quanto ne so, nemmeno la BBC e le altre stazioni erano molto informate. Invece le notizie di genocidi trapelarono grazie a testimoni, sopravvissuti o soldati, a cui la gente credeva o no. Oppure si diffondevano grazie alle voci (una fonte di informazioni, vere e false, che sfuggiva alla severa censura del Reich) alle quali, di nuovo, la gente credeva oppure no. Una voce era che i nazisti potevano ascoltare tutto quello che si diceva in casa grazie al telefono, anche quando non lo si usava. (Per sicurezza, alcune persone coprivano l'apparecchio con il copriteiera.) Una voce diceva che dopo la guerra tutte le coppie senza figli sarebbero state costrette a divorziare. Un'altra che da qualche parte i nazisti stavano uccidendo gli ebrei con il gas. Non so chi ascoltava quella voce, o quel resoconto, o chi ci credeva, tanto meno chi si azzardava a ripeterlo. Credo però che alcuni ebrei ci 359

avrebbero creduto e altri no, e che alcuni gentili ci avrebbero creduto e altri no. Entrambi i gruppi avevano di sicuro le loro ragioni. Come ho già detto, però, il fatto che le donne tedesche sapessero o meno della «soluzione finale» non è, per me, l'elemento più importante della loro testimonianza. Per me, le parti più importanti riguardano ciò che accadde molto prima, nelle fasi della vita personale che i comuni mortali possono comprendere. Di sicuro è tanto più facile condannare ciò che gli altri fecero ad Auschwitz negli anni Quaranta che condannare quello che si è fatto a casa propria nei Trenta. Di sicuro è facile biasimare le atrocità che vengono perpetrate (mentre scrivo) in Bosnia, come una giovane madre stuprata da quattro serbi che subisce in silenzio, quindi chiede di poter allattare il bambino che piange al suo fianco, e in risposta uno dei serbi taglia la testa al bambino e gliela porge.6 Chi non griderebbe di fronte a simili abomini? Ma chi sta cercando di fermarli? Chi è disposto a morire per fermarli? Sul fronte interno della mia nazione, e più facile biasimare le atrocità che avvengono in Bosnia che dare più di un dollaro e uno sguardo e una parola smozzicata a uno degli infiniti senza casa che incontro quando mi avventuro non molto lontano da casa mia. Ci sono vari livelli di atrocità, e varie reazioni ad esse. Cosi, qual è stata la reazione delle donne tedesche all'avvento, al periodo centrale, alla fine, alle conseguenze dell'abominevole Terzo Reich? Al livello fondamentale, si può dire, della frazione a cui è stato chiesto di parlare e della maggioranza che non è stata interpellata, che hanno dovuto affrontare una terribile prova di moralità, di coraggio, di intelligenza, e che in gran parte non l'hanno superata. Per superarla sarebbe stato loro richiesto come minimo di avere meno fiducia, meno pregiudizi, meno fanatismo, meno nazionalismo, e più coraggio, intuito, voglia di ribellarsi e, forse, più potere. Ma in realtà loro sono degli individui (almeno, spero che siano emerse come tali) e non è possibile avvicinarsi a lungo a un altro individuo senza fare confronti con il proprio carattere. Forse perché ero letteralmente vicina a loro, le donne tedesche stimolarono dentro di me la domanda: cosa avrebbero fatto le donne americane, o quelle di altre nazioni, se avessero dovuto affrontare una prova simile? E una domanda, per inciso, che nessuna donna tedesca mi ha mai posto. Stare in Germania faceva sentire più vicina quella prova. Talvolta scene, suoni, l'aspetto di una strada antica, mi facevano pensare «Io sono qui», e sentivo una terribile potenza. Poi venne il momento a Berlino Est a cui ho alluso nella Prefazione. Nel 1985, mentre ero nell'ufficio di un amichevole funzionario del consolato americano, a cui stavo raccontando che forse sarei tornata a intervistare altre donne di nascosto, senza l'approvazione governativa, lui si mise a scrivere qualcosa su un foglio di carta. Che maleducato, pensai. Poi mi passò il foglietto. Diceva: «Tutto quello che sta dicendo viene ascoltato da microfoni». Poi si riprese indietro il foglietto. Quello e due altri incidenti dello stesso tenore non stimolarono il coraggio nella mia anima. La paura di essere arrestata, presa in trappola, mi fece quasi venire la nausea.

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Parlando solo per le donne americane, tuttora mi piace pensare che loro, che noi, come gruppo, avremmo svolto quella prova molto meglio delle donne tedesche. Non posso credere che sarebbe stato per una più benigna dotazione genetica. Contrariamente a molte delle donne tedesche, non credo che il comportamento di una popolazione sia determinato dal «sangue», sia esso «sangue tedesco» o «sangue zingaro», «sangue nero» o «sangue bianco», «sangue mongolo» o «sangue ebreo». Penso che le donne americane avrebbero fatto meglio perché il destino le aveva fatte nascere in una democrazia (per quanto imperfetta) di libero arbitrio regolato dalle leggi, libera educazione, libera stampa, e con una sostanziale accettazione, magari a denti stretti, della natura eterogenea del suo popolo; e non le aveva fatte nascere nella Germania dei primi decenni del Novecento. Di questo pensiero, nella sua forma sostanziale, sono debitrice al compianto Reinhard Bendix, la persona che mi disse di sperare che questo libro non facesse sentire gli americani troppo soddisfatti di sé. Perché dovrebbero? Come dimostrano tutte le donne di queste pagine, il Terzo Reich fu allo stesso tempo più semplice e più complesso di quanto potrebbe sembrare perché fu creato da un gruppo di singoli esseri umani. Per di più, non ha ciascun essere umano potenzialità e manchevolezze che possono restare incolte o essere coltivate e sfruttate? Ecco perché, alla fine, trovo difficile giudicare le donne tedesche, sia come gruppo sia come individui. Non posso sostenere di non volerlo fare. Chi non vuole giudicare i tedeschi del Terzo Reich? Ma io non c'ero. In tutto ciò che dissero le donne, spero che la loro esperienza sia servita a dimostrare che è utile e degno considerare le testimonianze femminili. Ho parlato solo con una cinquantina di donne, e talvolta penso a coloro la cui testimonianza è ancora disponibile e a quelle che invece non possono più essere ascoltate. Forse dovrei ribadire che riconosco di aver semplicemente guardato negli occhi le esponenti per lo più sconosciute di un sesso trascurato per ottenere informazioni, e di aver prestato scarsa attenzione ai giganteschi effetti di una depressione economica internazionale, o alle conseguenze finanziarie e militari del trattato di Versailles, fra le altre forze significative che trascinarono al potere i nazisti. Ma, di nuovo, immaginavo che quello fosse stato già fatto. Infine, le parole delle donne tedesche implicano, per la mia mente tormentata, un ammonimento sfaccettato. Può essere semplicistico, ma è nondimeno un ammonimento. Ed è che siamo tutti ben avvertiti di prendere sul serio e di tenere affilate e in buono stato le nostre libertà educative e pacifiste, in particolar modo l'istruzione pubblica e la libera stampa. E che ogni persona di buona volontà non può allegramente sprofondare nella propria vita privata, ma deve essere abbastanza attenta e coraggiosa da intromettersi e farsi valere nell'istante in cui scorge l'ingiustizia e l'intolleranza, per non parlare del dispotismo.

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È che l'ignoranza, l'inazione e gli stereotipi di qualunque genere fanno di sicuro risparmiare tempo, ma alla lunga crollano, e rivelano normali vecchi esseri umani, che hanno molto più in comune in quanto esseri umani (per esempio il fatto di non aver scelto dove, quando e da chi nascere) che come membri di qualunque gruppo. E che dobbiamo attraversare le frontiere superficiali e conoscerci l'un l'altro come esseri umani singoli. E ricordare che, in qualità di esseri umani singoli, siamo tutti legati gli uni agli altri.

NOTE ' Die Unfähigkeit zu Trauern, München, R. Piper & Co. Verlag, 1967. La citazione viene dall'edizione 1985, p. 368. 1 Una fonte essenziale è stata l'illuminante serie settimanale, trasmessa da una televisione via cavo, dello Holocaust Oral History Project di San Francisco. ' Paul Parks, ex soldato del genio, citato dal «New York Times», 3 giugno 1988. 4 Marika Frank Abrams, citata in Sylvia Rothchild (a cura di), Voices from the Holocaust, New York, New American Library, 1981, p. 190. ' Conversazione con Hans Hirschfeld a San Francisco, 1988. ' «The New York Times», 13 dicembre 1992.

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GLOSSARIO

I nomi e le parole che seguono compaiono almeno una volta nelle interviste, e in molti casi vengono spiegati solo in questo glossario. Abitur - Esame finale della scuola media superiore. Poiché serviva per accedere agli studi universitari, gli studenti che affrontavano questa prova venivano per lo più da famiglie relativamente istruite e/o benestanti. Arbeitsdienst - Servizio di lavoro. E il programma per il lavoro, all'inizio volontario, ma che divenne ben presto obbligatorio, che i nazisti istituirono per i giovani tedeschi. In realtà, il servizio di lavoro volontario per i giovani era un progetto della repubblica di Weimar. Ariano - I nazisti usavano questo termine per designare gli individui che appartenevano a una presunta stirpe nordica, non corrotta da «sangue ebreo» o «slavo», da cui sarebbe disceso il popolo tedesco. Il termine non ha alcuna validità come categoria etnologica. Bund, deutscher Mädel (o BdM) - Lega delle ragazze tedesche, la sezione femminile della Gioventù Hitleriana (HJ). (Vedi Hiderjugend). Tanto l'adesione al BdM quanto quella alla HJ erano praticamente obbligatorie per i giovani tedeschi «ariani». In superficie, le attività del BdM e della HJ erano paragonabili a quelle dei boy scout. In realtà, tuttavia, nelle due organizzazioni prevalevano gli aspetti politici e di indottrinamento nazista, anche se non sempre i loro membri e i dirigenti di basso livello se ne rendevano conto. I manuali della Lega delle ragazze (e gli storici) confermano che le canzoni e gli slogan del BdM avevano un carattere politico, e che le ragazze del BdM venivano incoraggiate a pensare in un certo modo, a diventare un certo tipo di madri e a essere fedeli al governo nazista che aveva istituito l'organizzazione. La dissimulazione funzionò: alcune donne anziane potrebbero allarmarsi riscoprendo ciò che un tempo cantavano e leggevano. Concordato - Trattato stipulato fra Hitler e il Vaticano. Firmato il 20 luglio 1933, a meno di sei mesi dall'inizio del regime nazista, il concordato fu un enorme successo per Hitler, in termini di prestigio internazionale e di politica interna. Lo scopo presunto del concordato era quello di proteggere i cattolici e il cattolicesimo nel Terzo Reich, ma è molto dubbio che Hitler intendesse rispettarlo, e infatti non lo rispettò (almeno non completamente). Corridoio polacco - La parte di territorio polacco che collegava (o separava) il grosso della Germania alla (o dalla) Prussia orientale. Nacque per una 363

clausola del trattato di Versailles. La reputazione che si fece la Polonia chiudendo il Corridoio in risposta a situazioni politiche contingenti, e il conseguente isolamento degli abitanti della Prussia orientale nonché il blocco dell'esportazione dei loro prodotti, fu una ragione importante dei sentimenti antipolacchi degli abitanti delle regioni orientali della Germania, e soprattutto dei prussiani orientali. Frau, Fräulein - Frau significa «donna», «moglie», e, come titolo di cortesia premesso al cognome, «signora». Fräulein, letteralmente «piccola donna», significa «donna nubile», o «signorina». In tedesco, come titolo di cortesia, Frau si usa tanto per le donne sposate quanto per le nubili. Fräulein si usa per le ragazze. Il momento in cui una ragazza esce dal ruolo di «Fräulein» ed entra in quello di «Frau» è assai soggettivo e variabile. Frauenschaft - Corpo delle ausiliarie del Partito nazista. Le donne adulte erano incoraggiate a iscriversi a quest'associazione, soprattutto le mogli dei membri del Partito, ma l'adesione non era obbligatoria. Anche la Frauenschaft aveva una facciata innocente, quella di un'organizzazione con scopi civici e sociali. Gestapo - Polizia segreta. La parola è un'abbreviazione di Geheime Staatspolizei. Era un'organizzazione indipendente, spietata, fedele a Hitler. Hitlerjugend (o HJ) - Gioventù Hitleriana. L'organizzazione nazista per i ragazzi. Aderirvi era praticamente obbligatorio. Talvolta il termine includeva anche il BdM (vedi), che di fatto ne faceva parte, più che esserne autonomo. «Kristallnacht» («Notte dei cristalli») - La notte di terrore organizzata dai nazisti contro gli ebrei tedeschi, il 9 novembre 1938. Bande di nazisti devastarono, bruciarono e/o saccheggiarono negozi e case ebree, e le sinagoghe; e maltrattarono o arrestarono molti ebrei. Se l'espressione «notte dei cristalli» suona cinicamente festosa, è perché lo era: l'hanno coniata i nazisti. 1 1 nazisti la chiamavano perfino «RezcAikristallnacht», come se avesse un imprimatur del governo (che di fatto aveva), mentre sostenevano che fosse il risultato di uno scoppio di violenza spontanea del Volk infuriato. Fra alcuni sopravvissuti e fra alcuni gruppi di ebrei, per la notte del 9 novembre 1938 è stato adottato il nome di «Pogrom di novembre». (Poiché quando feci le interviste lo ignoravo, e poiché cercavo di usare espressioni che le donne conoscessero, ho sempre detto «Kristallnacht».) KZ - Campo di concentramento. E la sigla di Konzentrationslager, un termine generico per indicare diversi tipi di campi di concentramento. Essi vanno dal più micidiale, il Vernichtungslager [campo di sterminio] a quello chiamato col nome eufemistico di Arbeitslager [campo di lavoro]. La sigla ufficiale che designava un campo di concentramento era KL.

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Na - «Be'» o «Ecco». Parola amorfa che può essere usata all'inizio o alla fine di una frase, oppure da sola. Ne? Nichi? - Giusto? Queste espressioni tipiche della Germania centrale e settentrionale, vengono usate solo come domanda, e richiedono un consenso implicito. NSDAP - Partito nazista. Sta per Nationalsozialistische Deutsche Arbeiter Partei, «Partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi». Ortsgruppenleiter - Capo nazista locale (o «dirigente di gruppo locale».) Per quanto ne so, questa carica - che spesso dava un potere considerevole - era sempre tenuta da un uomo. Putsch di Rohm - «Notte dei lunghi coltelli» o «Purga di sangue». Temendo che le SA (vedi sotto) stessero diventando troppo indipendenti e potenti, Hitler organizzò una feroce azione omicida contro i suoi vecchi alleati e sostenitori. La notte del 30 giugno 1934 vennero uccisi circa duecento uomini, compreso Ernst Rohm, capo delle SA e vecchio amico di Hitler. SA - Truppe d'assalto o camicie brune. Le iniziali stanno per Sturmabteilung. Ne facevano parte i primi squadristi del Partito nazista, utilizzati per il servizio d'ordine ai raduni. SS - Chiamate SS anche in italiano. Indossavano l'uniforme nera. Le iniziali stanno per Schutzstaffel, che si può tradurre «squadra di protezione» o «guardie di protezione». La parola élite ricorre spesso nella descrizione delle SS, che da principio furono le guardie del corpo di Hitler, e che poi divennero una sorta di esercito specializzato di assassini. Le SS dirigevano i campi di concentramento. Theresienstadt, Tereztn - Il cosiddetto campo di concentramento ebreo modello, costruito nei dintorni di Praga, che alla fine si dimostrò tanto micidiale quanto altri campi. Volk - Popolo. Usato spesso per «das deutsche Volk» [il popolo tedesco], denota una massa «ariana» unificata.

NOTE ' Devo ringraziare Rita Kuhn per avermi fornito questa informazione.

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Questa traduzione italiana di frauen riproduce integralmente i testi e gli apparati introduttivi e finali dell'edizione originale americana, e diciassette delle ventisette interviste in essa raccolte. Tranne Frau Charlotte Muller, Ms. Freya von Moltke e Ms. Rita Kuhn, le donne intervistate vengono citate con uno pseudonimo.

Tabella di corrispondenza nomi-pseudonimi 1 2 3 4

Haferkamp Karlsruhen Otting Mündt Groth von Lingen Müller Kretzschmar Brixius Sasowski von Moltke Heinrich Fest Blersch Weihs Dubnack Kuhn

5

6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17

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Körner Bauer Gebhardt Mündt (già pseudonimo) Groth (già pseudonimo) von Husen Müller (resta nome vero) Maier Häusler Sobiekowski von Moltke (resta nome vero) Friedrich Fest (già pseudonimo) Kresch Schneider Wickerath Kuhn (resta nome vero)

RINGRAZIAMENTI

Ach, quanto ho aspettato di poter scrivere queste righe. E quale contraddizione rappresentano. Come ho potuto sentirmi tanto sola per buona parte del tempo in cui ho lavorato su questo libro, quando una tale quantità di persone - amici, conoscenti, colleglli e sconosciuti - mi ha offerto aiuto? Senza di loro non ce l'avrei fatta. Ma prima di citare i loro nomi, devo tornare indietro nel tempo per porgere la dovuta stima alla mia prima insegnante di tedesco, Marie Wolfe della Conestoga High School di Berwyn, che con energia teneva le lezioni del primo anno di tedesco in tedesco. Tornando con un balzo alle persone a portata di mano, vengo a un altro insegnante, la cui disponibilità nei miei confronti è ancor più sbalorditiva dato che non sono mai stata sua allieva. E Gordon A. Craig della Stanford University. Fu il professor Craig a cui per primo mi rivolsi per avere un'opinione sul progetto di fare questo libro, e il cui responso immediato ed entusiastico mi lanciò; fu lui che mi suggerì una prima lista di letture e le idee su come sollevare certe questioni; lui che mi offrì volontariamente la prima lista di amici tedeschi con cui mettermi in contatto («un po' troppo densa di professori», mi scrisse, nella sua bella calligrafia); lui che mi aiutò a trovare il modo di amministrare la valanga di materiale che avevo; e fu lui che divenne la mia ancora di salvezza accademica e il miglior motivatore. I miei amici sanno a chi mi riferisco quando parlo del «mio sacro mentore». C'è poi la straordinaria Agnes Peterson, direttrice delle sezioni dedicate all'Europa centrale e occidentale della Hoover Institution Library di Stanford. Oltre ad avermi messo a parte di anni di utili riflessioni, Agnes si assicurò che io fossi a conoscenza dei nuovi libri e manoscritti concernenti il mio campo d'interesse. E, parlando tedesco dalla nascita, avendo conosciuto bene l'epoca del Terzo Reich e avendola studiata da allora, ha una conoscenza della lingua, della vita e della storia tedesca che, mi resi conto, ne facevano la perfetta lettrice della prima stesura. Accettando questo ruolo con alacrità (ma rifiutando ostinatamente un compenso), ha letto quasi ogni parola del manoscritto e mi ha tolto un enorme fardello di ansia dal cuore. Non potrò mai ringraziarla adeguatamente. Debbo anche enorme gratitudine a Linda Wheeler della Hoover Library, che mi ha aiutato nelle ricerche. Venti volte o forse più, quando perdevo la speranza di riuscire a trovare qualche piccola informazione (l'origine di una frase, i dettagli di un bombardamento) nella mia modesta biblioteca, ho approfittato della generosa offerta di Linda di cercare ogni cosa. Linda l'ha fatto con spirito accademico e buonumore. Un filo della rete stesa dal professor Craig mi portò a un consigliere 367

d'eccezione, il defunto Reinhard Bendix, della University of California a Berkeley. Da principio - con mia disperazione - assai poco entusiasta dei miei progetti, continuò a fare pressioni su di me finché non furono soddisfatti i suoi criteri. Mi aiutò anche nella ricerca delle donne da intervistare e mi offrì le sue visioni preziose e personali su quella che era la vita nel Terzo Reich per un giovane uomo che non aveva saputo di essere ebreo. Grazie a lui questo lavoro è migliore. A Renate Bridenthal del Brooklyn College (e a Nancy Lane per avermela indicata) debbo molti ringraziamenti. Non solo il suo lavoro è stato utile per il mio, ma lei stessa è stata prodiga di incitamenti verso una nuova venuta estranea all'ambiente accademico qual ero. Ha offerto, inoltre, critiche amichevoli, fraterni suggerimenti, e, cosa non meno importante, contatti. Ringrazio Claudia Koonz, la cui opera è divenuta una delle mie pietre di paragone, e che non solo mi ha offerto suggerimenti di letture e la sua saggezza, ma anche il suo incoraggiamento. E ringrazio un altro membro di quel magnifico circolo di studiose di storia, Marion Kaplan. Una studiosa che mi ha fatto pervenire il suo aiuto iniziale per posta è Jill Stephenson, della University of Edinburgh. Le innumerevoli strade che mi hanno condotto dalle Frauen hanno coinvolto molte persone, fra cui americani in Germania e tedeschi in America. Prima di tutto, devo un grazie speciale a Herbert Paas. Oltre a coloro che ho già citato, vorrei ringraziare Suzanne Lipsett, Annegret Ogden, il defunto Milton Mayer, Frances Goldin, Walter Thabit, Brigitte Petty, Jackie Baker Plötz e Jürgen Plötz, Hedwig Dost Sasowski, Sylvia Erdmann, la famiglia Thurauf e la serie di berlinesi, da Ilse Beck, a Gerhard Schönberger, a Frau Ehmann, a Martine Vogt, che mi hanno condotto all'amata Frau Wickerath. In una categoria correlata, ho un debito particolare per gli amici che con generoso entusiasmo si sono offerti di trascrivere alcuni nastri registrati. Tausendmal Dank a Hedi Göpfert di Bad Tölz per aver trascritto il bavarese altrimenti impenetrabile e a Hildegard Ibing di Amburgo. Entrambe mi hanno aiutato in molti altri modi, Hedi fornendomi in pratica un servizio di ritagli sul Terzo Reich dai giornali tedeschi, Hildegard procurandomi vitto, alloggio e Gemütlichkeit durante i miei soggiorni ad Amburgo. La ricerca di altri trascrittori mi ha condotto a un'organizzazione a cui non mi sarei avvicinata se non mi fosse stato imposto di farlo, e che voglio qui ringraziare per l'aiuto e l'incoraggiamento inaspettati: lo Holocaust Center of Northern California, a San Francisco. Altri ringraziamenti spettano a Joel Neuberg, e soprattutto a Lani Silver oltre che a Karen Amital dell'Orai History Project. E per me fonte di enorme orgoglio il fatto che considerino prezioso il mio lavoro. Attraverso lo Holocaust Center, ho scovato un valoroso manipolo di trascrittori volontari, a cui devo dei ringraziamenti a parte. Essi sono Rita Kuhn, lei stessa una sopravvissuta (e l'ultima donna intervistata), Stephan Nobbe del Goethe Institute, e Britta Reinert del Consolato tedesco di San 368

Francisco. A completare l'opera dei volontari sono state delle persone che senza dubbio hanno lavorato più per loro interesse culturale e per gentilezza che non per il compenso che ho offerto loro. Vielen Dank a Hannelore Stein, Petra Gampper, Sigrid Novikoff, Diedre Kennedy, John Salomon e, in cima alla lista, l'inestimabile Nina Tatjana Helgren. Un'altra componente di un progetto tanto vasto è stata quella del finanziamento. Per questo, sono grata alle persone che mi hanno fornito delle idee e hanno scritto lettere di referenze per borse di studio, specialmente Gordon Craig, Lucy Komisar, Hans Wiesmann, Bill Raferty, Lee Townsend, Hartmut Lehmann, il reverendo Douglas Huneke, Mike Kesselman, Fred Rosenbaum e Susan Brownmiller. A Susan spettano dei ringraziamenti a parte per l'aiuto che mi ha fornito negli anni, nei mille modi in cui una scrittrice può aiutarne un'altra, come lei ha fatto. Tre degli sforzi fatti per ottenere dei finanziamenti hanno portato dei frutti. Così, ringrazio ancora il Consolato tedesco di San Francisco, in particolare Friedrich Conrad, la ex Repubblica democratica tedesca per le sistemazioni di viaggio (quantunque soggette a molti divieti), e l'American Council in Germania, che mi ha concesso una borsa di studio «John J. McCloy». Un apprezzamento speciale spetta a Don Shanor della Columbia University, e a Karen Furey dell'American Council in Germania per la sua instancabile intraprendenza. Quando ho iniziato a organizzare la stesura del libro e a scrivere bozze di introduzione e di interviste (non sapendo che erano bozze, ovviamente), talvolta le ho passate a colleghi fidati e ad amici scrittori. Non mi stancherò mai di ringraziare Mary Brown per aver letto così tante versioni della prefazione e per il suo interesse costante fin dall'inizio. Desidero anche ringraziare le persone che, oltre ad altre già citate, hanno dedicato il loro tempo alla lettura delle bozze, e a me la loro saggezza e/o i loro benvenuti scoppi d'entusiasmo. Esse comprendono Kathy Dickson, Suzanne Simpson, Rainer Baum, Eli Evans, Ellen Hoffman, Charles Kuralt, John Weitz, Ella Leffland e Richard Hunt. Un esercito di altre persone mi ha offerto aiuti di vario tipo negli Stati Uniti e in Germania. In Germania, oltre a coloro che ho già citato e i cui contributi spaziano in quasi tutte le categorie, desidero ringraziare gli amburghesi Marian Dönhoff, Marianne Popist, Sybil Schönfeldt, Herta Schöning, Marianne Grothe e Peter von Zahn. Neil'allora Berlino Ovest, sono grata a Ursula Goldschmidt, Karin Hausen, Asta e Karl-Heinz Henssel, Marie Herzfeld, Elizabeth e Gunther Langer (attraverso Friederike Brause a Salobreña, in Spagna), Marianne Wagner, Myra Warhaftig, Marion Yorck von Wartenburg e Gerda Szepanski. Fra gli abitanti dell'ex Berlino Est, desidero ringraziare Edith Anderson (nel cui appartamento ho aspirato boccate benvenute di «frische Luft») e la mia guida/assistente designata, Wolfgang Thormeyer, che ha sopportato stoicamente le mie punzecchiature. (Wo sind Sie jetzt, Herr Thormeyer?). A Bochum, i miei ringraziamenti vanno a Annegret Hilsinger-Reinhardt e Horst Hilsinger, e a Lotte

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Elschner. A Gottinga, dove ho passato una delle serate più illuminanti della mia vita, devo ringraziare il professor Rudolf e Wiebke von Thadden. Grazie a Elke Fròhlich, a Ingrid Kinzel-Amuzer e a Mary Sue Packer a Monaco; e a Hermann e Dorothea Katzenstein a Friburgo. Negli Stati Uniti, molti ringraziamenti sono destinati ad abitanti della baia di San Francisco: alla defunta Dieta Muench, a Leah Garchik, Gerry Feldman, Willa Baum, Nadine Joseph e Matthias Stein. Per avermi fornito ritagli e libri, grazie a Gerry Garchik e a Milt Moskowitz. Per l'assistenza al mio computer e per la pazienza, grazie a Jack Curley. Grazie a Bob Hirschfeld, e soprattutto ai suoi genitori, Inge e Hans Herman Hirschfeld di San Francisco, per avermi permesso di accedere a una parte dei loro ricordi angosciosi, in modo che potessi tenere meglio in mente i sentimenti di chi fu colpito nel modo più crudele dal Terzo Reich. Molte persone mi hanno fornito preziose forme di aiuto da altre zone del paese e del mondo, e li ringrazio: Fritz Stern, Thomas Behrendt, Ann Jones, Sibylla Zinsser, Claudine Pachnicke, Eileen Max, Jeff Masson, Elizabeth Midgley, Wolf von Eckhardt e il defunto e assai rimpianto Hughes Rudd. Anch'egli non dimenticò mai il Terzo Reich, poiché fece di tutto per porvi termine. Grazie al principe degli intervistatori, Studs Turkel, per il suo interesse esuberante e per una deliziosa colazione durante la quale ho appreso che usavamo una stessa tecnica segreta nelle interviste. Anche se la mia gratitudine per le donne che ho intervistato potrebbe essere evidente, desidero ringraziarle qui per avermi dato, quale che sia la ragione, un poco di se stesse. Mi spiace che non tutte le loro interviste siano state incluse nel libro. Ma coloro che desiderano sentire le loro parole, possono farlo negli archivi della Hoover Library alla Stanford University. I miei agenti, Sydelle Kramer e Frances Goldin, conoscono bene i ringraziamenti che faccio a entrambi. E di grande aiuto apprezzare e aver fiducia nella propria agenzia. Ed è d'aiuto apprezzare e aver fiducia nel proprio editore. E stata una gioia lavorare con la Rutgers University Press e la sua squadra compatta di magnifici professionisti. Desidero ringraziare innanzitutto la mia straordinaria editor, Leslie Mitchner. Ella non solo ha reso questo libro migliore, ma, per quanto sia difficile crederlo, più breve. È l'editor che ogni scrittore sogna, e che io ho avuto. Sono anche molto grata alla caporedattrice della casa editrice, Marilyn Campbell, alla redattrice, Willa Speiser, e alla correttrice di bozze, Adaya Henis. Infine, mai prima d'ora mi sono resa conto di quanto siano fondati i ringraziamenti che vanno ai famigliari. A mio fratello e a mia sorella, Warren e Michelle, vanno i miei ringraziamenti per la loro dolcezza. Ai miei amatissimi genitori, di cui tanto sento la mancanza, e che in qualche modo mi hanno incoraggiato tanto a scrivere quanto a ridere, due cose che in questi anni mi sono state molto utili, ho dedicato questo libro. Al reveren370

do William Perdue, e alla defunta Ann Perdue, per il loro energico affetto, vanno ulteriori ringraziamenti. Soprattutto, ringrazio la persona che ha vissuto più da vicino le separazioni, le angosce e i tempi lunghissimi che questo libro ha imposto; che mi ha aiutato a pensare e a ripensare, agendo sia come una cassa armonica per le mie idee sia come un angelico avvocato del diavolo; che non mi ha mai proposto di rinunciare e che mi ha aiutato in molti modi a continuare. Questa persona è il mio uomo, Jonathan Perdue.

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INDICE

Prefazione Note, 19. Introduzione Note, 34. Una nota sulla lingua, la traduzione e la verità Note, 39. Dieci volte madre, e tanto cibo in più (Frau Wilhelmine Körner) Note, 55. Questione di destino (Frau Marianne Bauer) Note, 77. Colpa retrospettiva (Frau Liselotte Gebhardt) Note, 93. La lezione di storia (Frau Mathilde Mündt) Note, 109. Un passato «esotico» (Frau Verena Groth) Note, 126. Una visione cosmopolita del mondo (Frau Maria von Husen). Note, 147. Solidarietà e sopravvivenza (Frau Charlotte [Lotte] Müller). . Note, 164. Prima, durante e dopo il bombardamento (Frau Ursula Maier) Note, 176. L'ambiguità dell'inazione (Frau Martha Häusler) Note, 194. Dall'imperatore a un buco fangoso (Frau Margarete [Greti] Sobiekowski) Note, 211. Una modesta donna della resistenza (Mrs. Freya von Moltke). Note, 232.

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Clero dissidente e azioni dissidenti (Frau Emmi Friedrich) . . pag. 234 Note, 247. Un lavoro di una categoria a parte (Frau Anna Fest) Note, 275.

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La vita come un cabaret (Frau Christine [Tini] Schneider) . . Note, 316.

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Una semplice questione d'amicizia (Frau Erna Wickerath) . . Note, 336.

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317

Parlando del silenzio (Ms. Rita Kuhn) Note, 353.

»

337

Conclusione

»

354

Glossario

»

363

Ringraziamenti

»

367

«Ero sola. E avevo contro la città intera» (Frau Doktor Margret Kresch) Note, 296.

Note, 362.

STAMPATO PER C O N T O DEL G R U P P O UGO M U R S I A EDITORE S . P . A . DAL CONSORZIO A R T I G I A N O « L . V . G . » AZZATE ( V A R E S E )